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JOHN SAUL L'INCUBO DELLA LUNA D'AGOSTO (Second Child, 1990) Per Helen, Alison e Marya 1 Quando, poco prima dell'alba, Polly MacIver si svegliò, non ebbe il minimo presentimento di essere in procinto di morire. Mentre la sua mente nuotava pigramente nella marea in riflusso del sonno, si trovò a ridere silenziosamente al ricordo del sogno che l'aveva appena destata. Nel sogno la sua casa era piena di gente riunita a festeggiare il Giorno del Ringraziamento. Tom era sdraiato sul pavimento, il corpo massiccio allungato davanti al caminetto, intento a studiare una scacchiera sulla quale Teri era evidentemente riuscita a intrappolargli la regina; Teri stava seduta sul tappeto a gambe incrociate, sogghignando impudentemente di fronte alle difficoltà del padre. Molte altre persone si aggiravano per il soggiorno — in effetti, ben più di quante Polly avesse mai pensato che la stanza potesse contenere. Il sogno, tuttavia, aveva avuto una propria logica e non era parso poi tanto importante quanta gente, estranea o conosciuta, fosse arrivata: il locale sembrava espandersi magicamente per accoglierla. Si era trattato di un'occasione felice e piena di allegria, finché lei non si era recata in cucina per sorvegliare la cottura del cibo. Lì la attendeva il disastro. La temperatura del forno doveva essere troppo alta, perché dai lati dello sportello filtravano volute di fumo; chinandosi a controllare i danni, però, non si era preoccupata, visto che la stessa identica cosa le era accaduta sin troppe volte in precedenza. Per Polly, cucinare rappresentava un'arte che non era mai riuscita a padroneggiare neppure approssimativamente. Come prevedibile, una volta aperto il forno, un fumo denso aveva invaso la cucina per poi riversarsi nella piccola sala da pranzo e in soggiorno, dove i colpi di tosse degli ospiti e l'urlo impaziente di sua figlia l'avevano infine svegliata. Il ricordo del sogno cominciò a sbiadire e Polly si stiracchiò languidamente, girandosi quindi per andarsi a rannicchiare contro il tepore del corpo di Tom. All'esterno stava addensandosi un temporale estivo e, proprio mentre era sul punto di lasciarsi nuovamente scivolare nel sonno, un fulmine squarciò il grigiore dell'alba, immediatamente seguito da un tuono che la fece sobbalzare. Completamente sveglia, si mise seduta sul letto, an-
sando per lo spavento. Istantaneamente fu colta da un accesso di tosse, i polmoni pieni di fumo. Spalancò gli occhi, terrorizzata: il fumo era reale, non un residuo del sogno. Un secondo dopo, udì il crepitare delle fiamme. Polly afferrò il marito per una spalla e lo scosse violentemente. «Tom! Tom!» Con quella che le parve un'angosciosa lentezza, lui si girò, borbottò e tentò di prenderla fra le braccia, ma lei si divincolò e iniziò ad armeggiare con la lampada sul comodino in cerca dell'interruttore. La luce non si accese. «Tom!» gridò, la voce resa stridula dal panico che la stava sopraffacendo. «Svegliati! La casa sta bruciando!» Immediatamente, lui balzò in piedi e indossò l'accappatoio. Polly, vestita solo di una leggera camicia da notte di nylon, corse alla porta e si aggrappò alla maniglia, ritraendo subito la mano al contatto con il metallo incandescente. «Teri!» singhiozzò, la voce che si incrinava nel nominare la figlia. «Oh, Dio, Tom! Dobbiamo portarla fuori di qui!» Ma suo marito la stava già spingendo da parte. Avvolto in una coperta di lana presa dal letto, ne usò un angolo per proteggersi dal calore della maniglia e socchiuse la porta di qualche centimetro. Dalla fessura, il fumo si riversò nella stanza, una nuvola torrida e acre che li afferrò con dita rabbiose, cercando di trascinarli nella propria morsa soffocante. Sepolta nei recessi del corpo informe del fumo stava l'anima ardente del fuoco. Polly si ritrasse istintivamente dal mostro che le aveva invaso la casa e, quando Tom parlò, le sue frasi concitate parvero echeggiare debolmente da una grande distanza. «Vado a prendere Teri. Scappa dalla finestra!» Paralizzata dal terrore, lei vide il battente aprirsi; un attimo dopo, suo marito era scomparso tra le fauci della belva. La porta si chiuse di scatto. Polly desiderò andare con lui, seguire Tom tra le fiamme a cercare la loro figlia: senza riflettere, si incamminò per uscire sul corridoio, ma le parole del marito presero a risuonarle nella mente. «Scappa dalla finestra!» Con un gemito di impotenza, si trascinò attraverso la camera da letto e aprì la finestra. Respirò una lunga boccata d'aria fresca, quindi guardò giù.
Cinque metri più in basso si stendeva il vialetto di cemento che congiungeva la strada al garage sul retro dell'edificio. Non esistevano sporgenze né alberi, neppure un pluviale cui afferrarsi. Se avesse saltato, si sarebbe sicuramente fratturata le gambe. Si girò nuovamente in direzione della porta. Era già al centro della stanza ormai piena di fumo, quando il suo piede incontrò qualcosa di morbido. Il copriletto, che giaceva in un mucchio ai piedi del letto. Polly lo raccolse e se lo avvolse attorno al corpo, poi, come aveva fatto Tom qualche minuto prima, si servì di uno degli angoli per riparare le dita dal calore della maniglia. Respirando lentamente e filtrando il fumo attraverso la spessa imbottitura della trapunta, si riempì d'aria i polmoni. Finalmente, lottando con la paura che minacciava di prendere il sopravvento, aprì il battente. Le fiamme nel corridoio, risucchiando istantaneamente l'aria proveniente dalla finestra, si innalzarono di fronte a lei, il loro crepitio che si andava trasformando in un tremendo ruggito. Il tempo sembrò rallentare ogni singolo secondo che si protraeva in un'eternità. Le lingue di fuoco avanzarono verso di lei e Polly fu incapace di ritrarsi, presa nella paralizzante morsa del panico. Avvertì il calore bruciarle il viso, percepì addirittura il formarsi delle vesciche sulla pelle esposta. Udì un suono strano, come lo sfrigolio dell'olio in una padella bollente, e istintivamente si toccò i capelli. La sua capigliatura era scomparsa, divorata dalle fiamme, e lei rimase a fissarne attonita i residui inceneriti sulle punte delle dita. Ciò che fino a qualche attimo prima era stata una folta massa di capelli biondo scuro era ora ridotta a un qualcosa di vagamente oleoso sulla pelle piagata della sua mano. La sua mente cominciò a chiudersi, rifiutando quella vista, negando il tremendo calore che la stava annichilendo. Polly barcollò all'indietro, la trapunta che le si impigliava ai piedi come se avesse formato un'alleanza con il fuoco per distruggerla. Vagamente, quasi provenisse da un punto impossibilmente lontano oltre i confini della casa, udì la voce di Tom che chiamava Teri. Risuonarono poi deboli colpi, come se lui stesse percuotendo ripetutamente una porta. Quindi, più nulla. Nulla se non il sibilo delle fiamme che danzavano davanti a lei, ipnotizzandola.
Scivolando e inciampando, Polly si allontanò dalla furia dell'incendio. Urtò contro qualcosa di duro e inamovibile e, benché i suoi occhi rimanessero fissi sull'inferno che stava invadendo la camera da letto, tastò dietro di sé. E incontrò il vuoto. Il panico la afferrò nuovamente: all'improvviso, lo spazio familiare della propria stanza parve svanire, lasciandola sola con le fiamme divoranti. Lentamente, radunando le informazioni pezzo per pezzo, si accorse di aver raggiunto la finestra aperta. Piangendo si sedette sul davanzale e spostò le gambe all'esterno, prima la destra e quindi la sinistra. Infine riuscì a voltare le spalle al fuoco. Aggrappata all'intelaiatura della finestra, fissò per un attimo il grigiore dell'alba, poi lasciò scivolare il proprio sguardo verso il cemento sottostante. Si fece coraggio e, tenendosi stretta alla trapunta, si lasciò scivolare dal davanzale. Proprio all'inizio della caduta, un angolo della trapunta ancora all'interno della camera da letto rimase impigliato a qualcosa. Polly avvertì lo strattone e, irrazionalmente, si trovò a riflettere su che genere di ostacolo avesse incontrato. La manopola del calorifero? Un chiodo allentato sullo zoccolo del pavimento? Stava precipitando! Di colpo si rese conto che, nel momento in cui era scivolata fuori del riparo del copriletto, si era capovolta. Le sue dita cercarono di abbarbicarsi al tessuto, che le sgusciò di mano come fosse rivestito d'olio. Piombò verso il basso a capofitto, iniziando a sollevare le braccia per proteggersi dall'impatto soltanto quando il suo cranio stava ormai urtando contro il cemento del vialetto. Non sentì niente, assolutamente nessun dolore. Ci furono unicamente una momentanea sensazione di sorpresa e un lieve scricchiolio all'interno del collo quando le vertebre si frantumarono, tranciandole il midollo spinale. Non erano trascorsi più di tre minuti dal momento in cui si era svegliata ridendo fra sé al ricordo del sogno. Ora non avrebbe più riso. Polly MacIver era morta. Teri MacIver giaceva come inchiodata sul prato di fronte a casa, una
mano stretta sul bavero del leggero accappatoio estivo con tutto il pudore dei suoi quasi quindici anni. Teneva gli occhi fissi sulle lingue di fuoco che ormai avviluppavano la villetta in cui aveva vissuto per gli ultimi dieci anni. Era un vecchio edificio, costruito mezzo secolo prima, quando San Fernando era ancora una cittadina agricola nell'omonima vallata californiana. Interamente in legno, la casa aveva sfidato a lungo il sole e le sue travi, essiccandosi, erano divenute in potenza sempre più infiammabili; quella notte, una volta scoccata la scintilla, l'incendio si era sviluppato con una rapidità che aveva lasciato attonita Teri. Da un minuto all'altro, la villetta era stata letteralmente inghiottita dalle fiamme. La ragazzina era solo vagamente consapevole di quanto stesse accadendo attorno a lei. In lontananza, una sirena urlava, il rumore sempre più forte, ma lei la udiva a malapena: la sua mente era invasa dal crepitio delle fiamme e dagli scricchiolii dell'intonacatura esterna che si arricciava su se stessa e cadeva dalla struttura dell'edificio, aprendo fessure all'aria fresca che andava ad alimentare la furia dell'incendio. I suoi genitori... Dov'erano? Ce l'avevano fatta a fuggire? Costringendosi a staccare lo sguardo da quell'inferno stranamente ipnotico, esaminò i dintorni. Lungo l'isolato, qualcuno stava correndo verso di lei, ma la figura non era altro che un'ombra alla luce dell'alba. In quel momento, alcune voci cominciarono a penetrare la sua consapevolezza: gente che gridava, chiedendo cosa fosse successo. Infine, al di sopra del crepitio del fuoco e dei richiami dei vicini, udì un urlo. Veniva dalla casa e non sembrava soffocato dal rumore delle pareti che stavano ormai crollando. Quel suono acuto riscosse Teri dalla paralisi, spingendola a precipitarsi sul vialetto, gli occhi sbarrati sulla finestra della camera dei genitori al primo piano. Vide sua madre, una sagoma scura contro i bagliori delle fiamme. Era avvolta in qualcosa, una coperta, o forse il copriletto. Rimase a osservare la mamma sporgere le gambe dal davanzale e, un attimo dopo, saltare giù... per capovolgersi in aria quando la trapunta le si strinse attorno alle caviglie. Per un momento, sua madre parve rimanere appesa, sospesa a mezz'aria. Nella gola di Teri si formò un grido, che si strozzò un secondo più tardi mentre sua madre scivolava fuori della coperta e piombava a capofitto sul selciato sottostante. Aveva davvero udito il rumore della sua testa che colpiva il cemento o
se lo era soltanto immaginato? La ragazzina cominciò a correre, ma, come se i suoi piedi fossero imprigionati nel fango, le sembrò di impiegare un'eternità per raggiungere il punto in cui la madre giaceva rannicchiata e immobile, un braccio proteso quasi intendesse toccare la figlia, quasi volesse aggrapparsi alla vita anche da morta. «Ma... mamma?» balbettò Teri, sfiorandola con mano incerta. Poi, la sua voce crebbe in un lamento d'angoscia. «Mamma!» Non ottenne risposta. Consapevole del rumore di passi affrettati lungo il vialetto, si gettò sul corpo di Polly, cullandole la testa in grembo, accarezzando là guancia ustionata della donna che solo qualche ora prima aveva fatto altrettanto con lei nell'augurarle la buonanotte. «No!» gemette fra le lacrime. «Oh, no! Per favore, Signore, non permettere che la mamma muoia!» Nel momento stesso in cui mormorava queste parole, tuttavia, qualcosa dentro di lei le andava ripetendo che era troppo tardi, che sua madre se n'era già andata. Avvertì il tocco gentile di mani sulle spalle e lentamente alzò lo sguardo su Lucy Barrow, che abitava al di là della strada. «È morta», esclamò Teri con voce spezzata. Quell'ammissione parve dar libero sfogo all'ondata di emozioni fino ad allora trattenute: coprendosi il viso con le mani, iniziò a singhiozzare, il corpo scosso da sussulti. Lucy, annichilita di fronte al cadavere piagato e contorto di Polly MacIver, fece rialzare con dolcezza la ragazzina e cominciò a condurla via. «Tuo padre...» bisbigliò. «Dov'è tuo padre? È riuscito a uscire?» Teri allontanò le mani dal viso, gli occhi spaventati e inquieti. Fu sul punto di parlare, ma prima che le parole le scaturissero di bocca si udì uno schianto violento, immediatamente seguito da un crollo. Lucy Barrow afferrò saldamente il braccio di Teri e la trascinò lungo il vialetto proprio mentre il tetto della casa precipitava e le fiamme si innalzavano di colpo verso il cielo. Tre automezzi dei vigili del fuoco intasavano la strada davanti all'abitazione dei MacIver e un intrico di tubi si snodava sul marciapiede a partire dall'idrante situato sull'angolo. Un'ambulanza aveva portato via il cadavere di Polly già da un'ora, ma un numero sempre maggiore di vicini era arrivato, alcuni a fissare a bocca aperta e con orrore le rovine fumanti della casa, altri a indicare con morbosa attrazione il punto esatto in cui la madre di Teri era morta in seguito alla caduta. Gli ultimi a sopraggiungere guarda-
vano il vialetto per qualche secondo, tentando di visualizzare il cadavere e immaginando, con un brivido, il panico che Polly doveva aver sperimentato al momento della morte. Si era resa conto, perlomeno, che la figlia era sopravvissuta? No, naturalmente no. Chi scuoteva la testa con tristezza, chi emetteva mormoni di simpatia. Infine, l'attenzione della folla si spostò sui resti carbonizzati del disastro: le travi portanti erano per lo più in piedi, mentre parte del primo piano era rimasta intatta anche dopo il crollo del tetto. Ora, con la luce del sole che metteva in brusco risalto quelle rovine, l'edificio assomigliava a uno scheletro annerito ed essiccato. Teri, che aveva trascorso le ultime ore seduta in silenzio nel soggiorno dei Barrow, incapace di staccare gli occhi dallo spettacolo dell'incendio, apparve infine sulla veranda. Accanto a lei, Lucy si aggirava con aria protettiva, la voce tremante mentre cercava di convincerla a rientrare. «Non posso», bisbigliò la ragazzina. «Devo trovare mio padre. Lui... Lui è...» Non riuscì a terminare la frase, ma il suo sguardo tornò alla devastazione al di là della strada. Lucy Barrow si morse inconsciamente il labbro, quasi intendesse prendere su di sé parte del dolore di Teri. «Potrebbe essersi salvato», azzardò, con un tono che smentiva le parole. Teri non rispose e si avviò verso il marciapiede, ancora avvolta nell'accappatoio che indossava quando era sfuggita alle fiamme. Un silenzio innaturale cadde su tutta la via, i mormorii degli astanti si spensero mentre lei avanzava decisa fra la folla, che si spartì muta per lasciarla passare. Finalmente la ragazza giunse nel giardino di quella che era stata la sua casa; rimase immobile, fissando il legno carbonizzato della struttura e i mattoni anneriti del comignolo ancora intero. Mosse un passo incerto verso i resti della veranda, quindi avvertì il tocco di una mano decisa sul braccio. «Non può entrare, signorina.» Lei si sentì mancare il respiro, ma si girò a guardare i compassionevoli occhi grigi di uno dei vigili del fuoco. «M... mio padre», iniziò a dire. «Ora ci andremo noi», le assicurò l'uomo. «Se è là dentro, lo troveremo.» Muta, Teri osservò due pompieri farsi strada con cautela fra le rovine, vestiti con spessi giacconi imbottiti e con le mani protette da guanti. La porta d'ingresso era stata abbattuta e, all'interno, risultava chiaramente vi-
sibile la base delle scale. Gli uomini cominciarono a salire, saggiando ogni gradino per assicurarsi che reggesse il loro peso; dopo quella che parve un'eternità, raggiunsero infine il piano superiore. Si aggirarono per la casa, visibili dapprima a una finestra, poi a un'altra; successivamente scomparvero alla vista di Teri spostandosi, evidentemente, verso il retro dell'edificio, in direzione della sua stanza. Dieci minuti dopo, il pompiere dagli occhi gentili emerse dalla porta d'ingresso e le si avvicinò. «Mi dispiace», disse, la voce resa rauca dal ricordo dei resti carbonizzati di Tom MacIver, che aveva rinvenuto di fronte alla porta ancora chiusa della camera di Teri. «Stava cercando di portarla fuori. Non sapeva che lei era già all'esterno.» La sua grande mano si soffermò un poco sulla sua spalla, quindi l'uomo di voltò e iniziò a impartire ordini affinché il cadavere di Tom venisse rimosso. Teri rimase dove si trovava, gli occhi inchiodati sulla casa come se fosse incerta della veridicità di quanto le era stato appena rivelato. Infine, la voce di Lucy Barrow penetrò la folla dei suoi pensieri. «Dobbiamo chiamare qualcuno che si occupi di te. Bisogna mettersi in contatto con la tua famiglia.» Teri voltò le spalle ai detriti fumanti, fissando Lucy con sguardo vacuo. Per un attimo, la donna non fu certa di essere stata udita, ma alla fine la ragazzina rispose. «Mio padre», ansimò. «Per favore, è possibile chiamare mio padre?» Mio Dio, pensò Lucy, non ha capito. Non riesce a capacitarsi di quanto è accaduto. Abbracciò Teri e la tenne stretta. «Oh, tesoro», le sussurrò, «non ce l'ha fatta a uscire. Questo è ciò che ti ha spiegato il vigile del fuoco. Io... mi dispiace», concluse, meditando sulla tragica inadeguatezza delle parole. «Mi dispiace terribilmente.» Teri restò immobile fra le sue braccia per qualche secondo, poi si scostò, scuotendo il capo. «N... non lui», affermò. «Dobbiamo chiamare il mio vero padre.» Si divincolò dalla stretta protettiva di Lucy, lo sguardo nuovamente sulla casa, dove tre uomini erano già al lavoro per recuperare il corpo di Tom MacIver. «Lui era il mio patrigno. Mi ha adottata quando avevo solo quattro anni. Ora dobbiamo metterci in contatto con il mio vero padre.» 2
I raggi del sole invadevano la stanza. Non appena aprì gli occhi, Melissa Holloway provò un acuto senso di colpa: ancora una volta aveva dormito troppo. Cominciò a gettare da parte le lenzuola, poi ricordò. Quel giorno aveva tutti i diritti di attardarsi a letto. Oggi, questo e tutti gli altri peccati veniali di cui cadeva vittima ogni giorno della sua vita sarebbero stati perdonati. Perché oggi era il suo compleanno. E non un compleanno qualsiasi, per di più. Oggi compiva tredici anni e per lei iniziava una nuova era. Finalmente terminato il lunghissimo periodo dell'infanzia, era diventata un'adolescente. Ripiombò sul cuscino, si stiracchiò voluttuosamente e cercò di sentire la differenza fra la Melissa di oggi e la Melissa che aveva sopportato tutte le altre giornate della propria esistenza. Non provò nulla, assolutamente nessuna differenza. Il suo benessere si affievolì leggermente, ma subito decise che non importava se non riusciva ancora ad avvertire il minimo mutamento. Sarebbe sopraggiunto in seguito. Ciò che contava era il fatto che esisteva una differenza. Si mise a sedere ed esaminò la grande stanza in cui aveva trascorso ogni estate da quando era nata. Ora avrebbe dovuto cambiare, stabilì. Non assomigliava affatto alla camera di un'adolescente, era in tutto e per tutto quella di una bambina, con gli scaffali lungo le pareti zeppi di bambole e animali di stoffa, per non parlare di alcuni fra i suoi giocattoli preferiti di quando era piccolissima, tuttora conservati negli angoli. Vicino al caminetto stava l'enorme casa delle bambole vittoriana, che doveva assolutamente sparire. Dopotutto, le case delle bambole erano roba da bambine. Si accigliò, domandandosi se almeno su quest'ultimo punto fosse lecito scendere a un compromesso. In effetti, non si trattava di una casetta qualsiasi: era molto grande (al punto che, fino a pochi anni prima, poteva letteralmente entrarci) e arredata con miniature perfette di mobili vittoriani. «Cosa ne pensi, D'Arcy?» chiese ad alta voce. «Non credi che dovremmo tenerla almeno per un po'?» Di colpo si portò le mani alla bocca, rammentando la promessa fatta a suo padre: una settimana prima, Melissa aveva giurato che oggi avrebbe rinunciato a D'Arcy. In fondo, le amiche che esistevano soltanto nella fantasia erano un'altra cosa da bambini; quando crescevi, lasciavi gli amici immaginari per quelli veri. Se non che, nella sua mente, D'Arcy non era per nulla immaginaria, ma quasi reale quanto lei stessa. Viveva lì, nel solaio a Secret Cove, e non
si trasferiva mai in città quando la famiglia tornava nell'appartamento di Manhattan per la restante parte dell'anno. Naturalmente, fatta eccezione per Melissa, D'Arcy non aveva molte altre persone con cui parlare — solo Cora Peterson, la domestica — ma non sembrava curarsene affatto. Melissa aveva sempre pensato che l'amica dovesse sentirsi sola quando la casa di Secret Cove chiudeva per l'inverno, ma anni prima, durante una delle loro interminabili chiacchierate nel cuore della notte, D'Arcy le aveva dichiarato di trovarsi a proprio agio senza nessuno intorno. In effetti, quando la sera prima si era vista costretta a confessarle di aver promesso di smettere di rivolgerle la parola, l'amica si era immediatamente dimostrata d'accordo. «Ma non smetterò certo di pensare a te», l'aveva rassicurata Melissa. D'Arcy era rimasta in silenzio, ma lei aveva nutrito la certezza che la sua amica avesse capito perfettamente cosa intendeva. Questa era la caratteristica migliore di D'Arcy: era l'unica a comprendere Melissa, invariabilmente. La ragazzina sospirò: sarebbe stato duro rinunciare a D'Arcy, ben più duro che rinunciare alla casa delle bambole. Beh, forse poteva mentire un pochino, per esempio tenendo la casa delle bambole e fingendo di parlare con le minuscole figure in legno che la popolavano, mentre in realtà si stava rivolgendo all'amica. Peccato che, se anche fosse riuscita a ingannare i genitori e Cora, lei stessa non avrebbe potuto ignorare le proprie menzogne. «Ecco cosa farò», disse, involontariamente parlando ancora ad alta voce. «Ti regalerò la casa delle bambole. La trasferirò in soffitta e verrò di tanto in tanto a vederla. Se poi, quando arrivo, tu sei lì, non sarà certo colpa mia, non ti pare?» In lontananza, nei recessi della propria immaginazione, fu certa di avere udito la risata sommessa di D'Arcy. Alzatasi dal letto, si diresse alla finestra. Era una mattinata calda (persino nel Maine, a luglio non faceva freddo), con un cielo terso e privo di nuvole. Tag, il nipote quattordicenne di Cora, aveva già finito di tosare il prato e Melissa assaporò il profumo dell'erba appena tagliata. Il giardino si estendeva fino alla spiaggia, a una cinquantina di metri di distanza, dove quella mattina le onde della baia erano lievi. Gli occhi della ragazzina perlustrarono l'insenatura. Era proprio come la preferiva: assolutamente deserta, con pochissime persone molto più a sud, intente ad abbronzarsi sulla sabbia di fronte al Cove Club. Tra il punto in
cui sorgeva casa sua e il club, appollaiato sulla punta meridionale della baia, c'erano soltanto altre cinque ville, nessuna grande quanto quella degli Holloway, ma tutte circondate da prati e giardini ben tenuti. Dato che la maggior parte degli altri ragazzi soleva trascorrere le giornate al club, Melissa poteva pensare alla spiaggia come a un territorio quasi esclusivamente suo. Si vestì in fretta, indossando un paio di jeans appena lavati e una maglietta che aveva convinto Tag a regalarle, quindi scese dabbasso in cerca del padre. Per prima cosa, decise, sarebbero andati a fare una lunga passeggiata sulla spiaggia; avrebbero puntato verso nord, lontano dal club, e forse si sarebbero cimentati nella scalata della punta rocciosa che divideva Secret Cove dall'insenatura successiva. Qualche minuto dopo, quando discese le scale, aveva già elaborato più progetti per la giornata di quanti lei e il papà avrebbero potuto portare a termine. A ogni modo, le sarebbe andata bene qualunque cosa avessero finito per fare; ciò che davvero contava era che oggi si celebrava il suo compleanno e, per quanto importanti fossero i suoi affari, papà avrebbe trascorso la giornata con lei, anche se la mamma lo riteneva un atteggiamento infantile. Melissa sorrise al ricordo della conversazione che aveva ascoltato di nascosto la domenica precedente, prima che suo padre tornasse a New York per tre giorni. «Compirà tredici anni, Charles», aveva esclamato sua madre. «Non è più una bambina e sicuramente non rimarrà ferita se non ritorni fino a venerdì sera.» Lei aveva trattenuto il fiato, in attesa della risposta di papà, senza respiro finché non, ebbe udito le sue parole. «È la sua festa e non importa quanti anni compie. Ci sarò. Lei ci conta.» La conversazione era proseguita, ma Melissa non vi aveva più prestato attenzione perché sapeva che, una volta presa una decisione, suo padre non avrebbe cambiato idea. Ciò significava che oggi lo avrebbe avuto tutto per sé, che oggi papà sarebbe stato pronto a fare qualunque cosa lei avesse chiesto, anche se si fosse trattato soltanto di sdraiarsi sulla spiaggia a inventare storie sulla forma delle nuvole. In effetti, era esattamente ciò che avevano fatto l'anno prima, con il risultato che, a cena, la mamma l'aveva fissata come se fosse pazza. Persino dopo dodici mesi rammentava ancora la voce arrabbiata di sua madre: «Bene, oggi sei davvero riuscita a sprecare il tempo prezioso di tuo padre, non è vero? È stato proprio sconsiderato da parte tua costringerlo a venire fin qui solo per fare il medesimo niente cui
ti dedichi ogni giorno». Melissa, ferita, si era sentita salire le lacrime agli occhi, ma suo padre era subito intervenuto a difenderla. «Pensavo che non avere nulla da fare fosse esattamente il motivo del mio rientro qui», aveva dichiarato. «E se Melissa sì è divertita quanto me, direi che la giornata ha rasentato la perfezione.» Con la coda dell'occhio, la ragazzina aveva notato che la madre stringeva stizzosamente le labbra, senza aggiungere altro. Il giorno successivo, però, dopo che il papà era tornato in città... Allontanò con fermezza quel pensiero dalla propria mente. Quest'anno sarebbe stato diverso. Trovò suo padre in cucina con Cora. «Sei pronta ad assaggiare la mia speciale cialda al cioccolato e mirtilli?» esclamò sorridendole. Cora fece una smorfia di disapprovazione. «Giuro su Dio, non so dove abbia preso l'idea di una porcheria simile! Di sicuro, io non mi sono mai sognata di darla da mangiare a lei quand'era un ragazzo...» «Ne vuoi una?» la interruppe Charles, strizzando l'occhio all'anziana domestica che, osservando il tavolo zeppo delle stoviglie sporcate dal proprio datore di lavoro, emise un sospiro di rassegnazione. «Beh, suppongo che una soltanto non mi farà male.» «Va' a cercare Tag», suggerì Charles a Melissa. «Digli che il giorno del tuo compleanno non gli è consentito fare altro che bighellonare.» La ragazzina si avviò verso la porta di servizio, bloccandosi però allo squillo del telefono e rimanendo a osservare Cora che andava a rispondere. Un attimo dopo, il viso pallido e le mani tremanti, la donna si rivolse a Charles. «Si tratta di Polly», spiegò con voce rotta e gli occhi improvvisamente pieni di lacrime. «Lei... lei e il marito... è scoppiato un incendio...» Si lasciò cadere su uno sgabello mentre Charles le prendeva di mano il ricevitore. Melissa, accanto alla porta, cercò di interpretare i frammenti di frase che il padre stava pronunciando. Quando infine riappese, anche lui era pallido come Cora. «Mi dispiace, tesoro», le disse con voce gentile, ma soffocata dall'emozione. «Dovrò prendere il primo volo per Los Angeles.» Sua figlia lo guardò attonita. «Polly e Tom MacIver sono morti», proseguì lui. «Questa mattina è scoppiato un incendio nella loro casa.» «Teri», ansimò Cora fissandolo. «Che ne è stato di lei?»
Charles chiuse gli occhi per qualche secondo e si passò la mano sulla fronte come se fosse stato colto da un'improvvisa emicrania. Infine assentì con il capo. «Sta bene», affermò. «È riuscita a uscire. A quanto ho capito, Tom non sapeva che fosse già all'esterno e ha cercato di salvarla. Polly è precipitata nel tentativo di calarsi da una finestra.» «Mio Dio», bisbigliò la domestica. Benché avesse udito perfettamente, Melissa prese a scuotere la testa. «Ma... ma è il mio compleanno...» Suo padre la abbracciò, stringendola a sé. «Lo so, tesoro», le sussurrò all'orecchio. «Ricordo la mia promessa, ma non posso fare diversamente. Sono anche il papà di Teri e devo andare da lei. Non ha nessun altro, riesci a capirlo?» Per un momento lei rimase perfettamente immobile, quindi assentì. Mentre Charles la lasciava andare, accennò un vago sorriso. «Quando torni, porterai Teri a vivere con noi?» Suo padre esitò, incerto su cosa la ragazzina stesse pensando. «Suppongo sia necessario, non trovi?» le chiese. «È mia figlia e non dispone di un altro posto in cui vivere. E anche se lo avesse, non credi che abbia il diritto di abitare qui?» Melissa tacque, cercando di vagliare le proprie emozioni. Ovviamente era dispiaciuta per quanto era accaduto alla madre e al patrigno di Teri, ma non li aveva mai conosciuti e non sapeva assolutamente nulla sul loro conto. Come, del resto, ignorava tutto di Teri tranne due cose. Era nata proprio in questa casa. Ed era la sua sorellastra. Una sorellastra equivaleva quasi a una sorella e, da tempo immemorabile, lei desiderava una sorella più di ogni altra cosa al mondo. Questo era in realtà il ruolo che aveva assegnato a D'Arcy, solo che non si trattava di una persona vera. Teri MacIver era reale. Il sorriso incerto di Melissa si allargò leggermente. «Va bene, papà», dichiarò. «Sono terribilmente spiacente per quanto è accaduto, ma sto per avere qualcosa che ho sempre desiderato. Sto per avere una sorella, non è così?» Charles si morse le labbra, gli occhi pieni di lacrime. «Sì», rispose. «Suppongo proprio di sì.» Melissa galleggiava sulla schiena, agitando i piedi quel tanto che bastava
a mantenerla in superficie e godendo del calore del sole sul viso. Teneva gli occhi chiusi e distingueva soltanto un alone rossastro dietro le palpebre. Stava concentrandosi al massimo, tentando inutilmente di focalizzarsi sui colori in movimento che percepiva, ma smise quando una nuvola oscurò il sole. Aprì gli occhi, guardò il cielo, quindi si girò nell'acqua. A qualche metro di distanza, anche Tag galleggiava sul dorso a occhi chiusi. Il più silenziosamente possibile, la ragazzina alzò un braccio, preparandosi a spruzzargli il viso lentigginoso; era quasi pronta a colpire, quando lui si animò di scatto, capovolgendosi e sollevando una cascata d'acqua che inondò Melissa e le fece bruciare gli occhi. «Presa!» urlò il ragazzo, mettendosi immediatamente a nuotare verso la riva. Lei lo inseguì, riuscendo ad afferrargli la caviglia e tirandolo sott'acqua, scalciando e spostandosi nel contempo per sfuggire alla sua stretta. La lotta proseguì per un poco, finché entrambi non cessarono nel medesimo istante per percorrere a nuoto gli ultimi metri fino alla spiaggia. Ridendo e boccheggiando, Melissa crollò sulla sabbia mentre Blackie, il grosso labrador che apparteneva a Tag solo formalmente, le si gettò addosso, leccandola con affetto. «Giù!» gridò lei infine. Il cane, ubbidiente, si accucciò, appoggiandole l'enorme testa sul grembo; la ragazzina lo grattò dietro le orecchie e volse lo sguardo su Tag, sdraiato a poca distanza. «Come te la immagini?» Lui capì immediatamente la domanda. «Vuoi forse dire che ti stai chiedendo se le piacerai?» Melissa arrossì. «Forse», ammise, «ma mi domando anche che aspetto ha.» Tag le rivolse un sorriso astuto. «Vuoi vedere qualche sua fotografia?» Lei lo fissò allibita. Per quasi tutto il giorno, sin da quando suo padre si era recato all'aeroporto, loro due avevano parlato di Teri e finora Tag si era ben guardato dal menzionare l'esistenza di fotografie. «Significa che ne hai?» Il sorriso del ragazzo si allargò. «Certo. Ogni anno sua madre ne spediva una alla nonna, che le conserva in un cassetto.» Melissa si alzò in piedi. «Come mai non me l'hai mai detto?» «Perché non me l'hai mai chiesto?» la stuzzicò lui, raccogliendo l'asciugamano e mettendoselo attorno al collo. «Supponi forse che sappia leggerti il pensiero?» Con Blackie al séguito, attraversarono la spiaggia e risalirono il prato fi-
no alla casetta dietro la piscina coperta dove Cora Peterson aveva trascorso ogni estate da mezzo secolo a quella parte. Erano quasi di fronte alla porta, quando la ragazzina udì la voce della madre che la chiamava dal primo piano della villa. «Melissa! Dove stai andando?» Lei si immobilizzò, il cervello freneticamente in cerca di una scusa. «La piscina!» gridò di rimando. «Siamo coperti di sale!» «Non potete fare una doccia?» rispose Phyllis Holloway. «Sai bene che Tag non dovrebbe usare la piscina.» Melissa arrossì per l'imbarazzo. Sua madre era perfettamente in grado di vedere che lui stava proprio lì accanto! E perché Tag non avrebbe dovuto metter piede in piscina? Poi si ricordò che, comunque, non avevano progettato di nuotare. «D'accordo», esclamò. Iniziò a voltarsi, ma ancora una volta la voce brusca della madre lacerò la quiete del pomeriggio. «Ti voglio a casa entro cinque minuti!» «Sì, mamma.» Affrettò il passo, raggiungendo Tag proprio mentre scompariva dietro l'angolo della piscina. Benché lui evitasse ogni commento, Melissa poteva leggergli in viso che aveva ascoltato quel dialogo parola per parola. «Se vogliamo, possiamo andare in piscina», propose. «Papà ce lo permette.» «Sicuro», ribatté cupo il ragazzo. «Così, quando avremo finito, lei mi costringerà a svuotarla e a pulirla.» Alzò gli occhi al cielo sdegnosamente. «Noi servi non ci laviamo troppo, lo sai.» Melissa arrossì nuovamente. Avrebbe voluto negare che quello fosse il senso del divieto di sua madre, ma a che scopo? Si trattava esattamente di quanto aveva inteso sottolineare ed entrambi lo sapevano benissimo. «Tu e Cora non siete domestici», osservò. «Anche per me Cora è una nonna.» Tag fece una smorfia. «Evita di dire a tua madre una cosa del genere.» Sulla soglia della casetta, tutti e due si guardarono istintivamente alle spalle: da dove si trovavano, la finestra della camera di Phyllis era invisibile. Sentendosi come cospiratori, scivolarono all'interno. «Sono nel cassetto del tavolino», dichiarò Tag. Gettò a terra l'asciugamano ed entrò in un soggiorno modestamente ammobiliato con un divano logoro e un paio di poltroncine malconce. Un attimo dopo porse un album a Melissa. Lei rimase a fissarne la copertina di plastica, sentendosi stranamente esitante all'idea di guardare dentro. Infine aprì il volume ed esaminò la prima fotografia.
Si trattava dell'istantanea di una bambina molto piccola, di non più di due anni, aggrappata alla mano di un uomo fuori campo: vestita con un abitino azzurro, i suoi capelli biondissimi erano legati da un ampio nastro con un fiocco su un lato. Non sembrava molto diversa da qualsiasi bambina e Melissa, sentendosi improvvisamente meglio, sfogliò rapidamente l'album fino all'ultima fotografia. Le si strinse il cuore. Fissò l'immagine di una ragazza alta e snella i cui capelli, tagliati corti come prescriveva la moda per mettere in risalto i tratti perfetti, erano impercettibilmente più scuri rispetto a quando era bambina. I suoi lineamenti apparivano eleganti e delicati, mentre gli occhi azzurri e ben distanziati sembravano guardare Melissa con una sicurezza di sé che la ragazzina non aveva mai conosciuto. Quasi animati di volontà propria, i suoi occhi si spostarono dalla foto allo specchio sopra il caminetto. In silenzio, cominciò a paragonare le proprie fattezze a quelle della ragazza dell'album. Cercò di convincersi che i suoi capelli, di un castano insignificante, le pendevano lisci sulla schiena solo perché era appena rientrata da una nuotata, ma sapeva che non era vero: per quanto se li spazzolasse, sembravano invariabilmente restii a diventare lucidi e mossi. Anche il viso era irrimediabilmente insignificante, con un naso un po' troppo vistoso e gli occhi scuri, quasi privi di ciglia, troppo ravvicinati. Per non parlare del suo aspetto paffutello, che lei era assolutamente certa, qualunque cosa le dicesse suo padre, non fosse un residuo di rotondità infantile che avrebbe perso entro breve. Lei... è bellissima, non credi?» riuscì a malapena a balbettare. Tag assentì. «La nonna sostiene che è identica a sua madre.» Gli occhi di Melissa tornarono alla fotografia. La studiò attentamente e cominciò a pensare che, dopotutto, forse la situazione non si sarebbe rivelata così brutta: benché non avesse immaginato che Teri fosse tanto bella, era evidente che sapeva anche come vestirsi e pettinarsi. Su Teri, gli abiti risultavano perfetti. Su di sé, sembrava sempre che fossero stati comprati per qualcun altro. Forse Teri avrebbe potuto insegnarle come scegliere una pettinatura e vestiti adatti. Inoltre, rammentò a se stessa, a prescindere da quanto fosse bella, lei rimaneva sempre sua sorella.
E se Teri non l'avesse trovata simpatica? Allontanò quel pensiero dalla mente e restituì l'album a Tag. «Io... sarà meglio che torni a casa. La mamma ha detto...» Prima che potesse terminare la frase, si udì bussare insistentemente alla porta, che subito si aprì davanti a una Phyllis Holloway furente. «Che cosa stai facendo qui dentro, Melissa?» chiese la donna in tono perentorio. «Io... Tag mi stava mostrando una cosa...» «Davvero?» La sua occhiata accusatrice si spostò sul ragazzo. «Non mi piace che tu porti qui mia figlia. Ne parlerò con Cora.» Senza attendere una risposta, prese Melissa per un braccio e la sospinse fuori. «Cosa devo fare con te?» esclamò mentre la riconduceva alla villa. «So che Tag è tuo amico e non ho certo nulla da obiettare. Ma devi tenere a mente che lui è anche un domestico ed esistono dei limiti.» «Ma mamma...» Di punto in bianco, Phyllis lasciò andare il braccio della figlia e le sorrise. «Niente ma», dichiarò. «Non credo che dovremmo litigare il giorno del tuo compleanno. Tra l'altro, devi prepararti per la tua festa.» Melissa guardò incredula la madre. «Quale festa?» chiese. «Non ne ho organizzata nessuna.» «Io, però, sì», annunciò la donna. «E credimi, non è stato facile allestire un ricevimento adeguato all'ultimo minuto. Tuttavia, sapevo quanto eri rimasta delusa per la partenza di tuo padre, quindi ho spiegato la situazione alle madri dei tuoi amici...» Phyllis continuò a chiacchierare in merito agli inviti, ma la ragazzina smise di ascoltarla. Con grande sconforto aveva capito che cosa aveva fatto la madre. Il Cove Club. Phyllis aveva telefonato alle amiche del club insistendo affinché mandassero i loro figli alla villa per la festa di compleanno. E, naturalmente, dopo aver appreso l'accaduto e il motivo della partenza improvvisa del papà, tutte si erano sentite spiacenti per Melissa e avevano deciso che doveva senz'altro festeggiare in compagnia. Sarebbero sicuramente venuti tutti, ma avrebbero fatto esattamente come al Cove Club. Avrebbero conversato fra loro, ignorandola. «Sarà fantastico, tesoro», udì la madre affermare mentre entravano in casa. «Puoi indossare il tuo abito d'organza rosa. Ho persino assunto un
disc jockey, in modo che tutti possano ballare. Ti divertirai un mondo. In fin dei conti, ora sei un'adolescente ed è venuto il momento di imparare a stare fra la gente. Quale occasione migliore del giorno del tuo compleanno per incominciare?» Benché si sentisse già un po' male, Melissa era conscia dell'inutilità di qualsiasi discussione con sua madre. In silenzio, salì nella propria camera e iniziò a prepararsi per la festa. Melissa lanciò un'occhiata all'orologio mentre fuggiva a nascondersi nella piccola toilette sotto le scale, chiudendo a chiave la porta. Erano solo le quattro, e ciò significava che la festa sarebbe proseguita per ore: il disc jockey non era ancora arrivato e i camerieri del club avevano appena iniziato ad allestire il buffet sul patio attorno alla piscina. Eppure le sembrava che il pomeriggio durasse ormai da un'eternità. Perlomeno si era risparmiata l'umiliazione di indossare l'abito di organza rosa scelto per lei dalla mamma. Se lo era già infilato, pronta per scendere dabbasso, quando aveva udito arrivare una macchina davanti alla casa e spiato la Porsche nera che Brett Van Arsdale aveva ricevuto in dono due settimane prima per il suo sedicesimo compleanno. Nell'auto erano assiepate sei persone e, mentre cercavano di districarsi l'una dall'altra, lei aveva visto com'erano vestite. Completi bianchi da tennis. Le magliette dei ragazzi erano ancora fradice di sudore e a Melissa fu chiaro che erano venuti direttamente dal club, senza neppure preoccuparsi di andare prima a cambiare abito. Allo squillo del campanello, immediatamente seguito dalla voce di sua madre che le intimava di scendere, Melissa si era tolta il vestito per mettersi un paio di pantaloni corti e una blusa, che, si accorse armeggiando con i bottoni, le andava bene l'estate precedente, ma ora era diventata troppo stretta. Infilati i piedi nelle scarpe da tennis e avviatasi verso il piano inferiore, era stata costretta a fermarsi per allacciare le stringhe e, chinandosi, aveva perso l'equilibrio e rischiato di cadere lungo gli ultimi dieci gradini. Quando aveva alzato lo sguardo, i ragazzi erano già nell'ingresso e la fissavano muti. Fra loro c'era Jeff Barnstable, per il quale Melissa nutriva una cotta segreta da due estati a quella parte. Di fianco a lui (tenendolo per mano) stava Ellen Stevens. «Abbiamo già giocato a tennis», aveva dichiarato quest'ultima, guardan-
dole intenzionalmente le scarpe. «Adesso pensavamo di fare una nuotata.» Senza attendere una risposta, il gruppo si era diretto in piscina, in cerca dei costumi da bagno nelle cabine. Quando, dopo essersi cambiata, Melissa li aveva raggiunti, era in pieno svolgimento una partita di pallanuoto. Lei era rimasta in silenzio sul bordo della vasca, aspettando che qualcuno la invitasse a unirsi a loro. Nessuno lo aveva fatto. Qualche minuto dopo, sua madre era uscita a guardare e le aveva chiesto perché non stesse giocando; lei aveva insistito che non ne aveva voglia. Ma era evidente che la mamma sapeva la verità. Le ultime due ore si erano svolte più o meno nel medesimo modo. Ora, Melissa si domandò quanto a lungo sarebbe potuta rimanere nella toilette. Entro breve tempo, ne era certa, sua madre sarebbe venuta a cercarla. Improvvisamente vide muoversi la maniglia, le scosse impazienti subito seguite dalla voce di Ellen Stevens: «Beh, non è una seccatura? Prima dobbiamo venire qui per mostrarci compassionevoli e adesso non si può neppure usare il bagno». «Andiamo di sopra», rispose Cyndi Miller. «Forse riuscirò a trovare uno dei rossetti di Melissa.» Il bagno echeggiò della risata di Ellen. «Melissa? Se anche ne possedesse uno, sarebbe di un colore tremendo. Perché invece non ce la battiamo?» «Non possiamo», obiettò Cyndi. «Mia madre ha detto che dobbiamo rimanere almeno fino alle nove, non importa quanto sia noioso. Altrimenti sarà costretta ad ascoltare le lamentele della signora Holloway su quanto siamo stati villani nei confronti del suo tesoro di figliola.» Di colpo Melissa ne ebbe abbastanza. Aprì la porta e fissò le due ragazze, sforzandosi di non piangere. «Non siete obbligate a restare», mormorò. «Non ho mai desiderato che veniste.» Le due, più vecchie di lei di circa un anno, si guardarono. Infine fu Cyndi a parlare. «Non avresti dovuto stare nascosta lì dentro ad ascoltarci.» Melissa fu sul punto di perdere il controllo: non aveva fatto niente, non aveva spiato. Loro erano là fuori, intente a parlare di lei! Perché doveva essere colpa sua? Poi vide sua madre scendere le scale e fermarsi a osservarla. «Qualcosa non va?» chiese. Lei iniziò a scuotere la testa, ma era ormai troppo tardi. «Penso sia meglio che torniamo a casa, signora Holloway», affermò El-
len Stevens come se stesse cercando di trovare un modo gentile per risolvere la situazione. «Melissa ha appena sostenuto di non volerci qui.» Notando l'ira gelida che lampeggiava negli occhi della madre, la ragazzina corse a rifugiarsi nella propria stanza, dove si gettò sul letto, il corpo scosso dai sussulti, i pugni che percuotevano il cuscino per la frustrazione. Ben presto, però, i singhiozzi diminuirono e la sua rabbia nei confronti di Cyndi, Ellen e gli altri cessò completamente. Dopotutto non era colpa loro: non avevano certo desiderato venire più di quanto lei stessa non li avesse richiesti. In effetti, non si sarebbero presentati, se solo sua madre non avesse telefonato ai loro genitori pregandoli di mandarli. Di conseguenza, la rabbia si dissipò per essere sostituita dalla paura. Dopo quanto era accaduto quel pomeriggio, infatti, era certa che quella sera, dopo che Cora fosse andata a casa per la notte, sua madre sarebbe venuta a cercarla. Si sarebbe presentata da lei per una delle sue piccole «chiacchierate». 3 Charles Holloway provò la medesima sensazione di vago disorientamento che lo assaliva sempre quando arrivava a Los Angeles. Parte della sua confusione era provocata dal fatto che tutte le strade sembravano scorrere da nord a sud, persino quando si intersecavano ad angolo retto. Alla fine, però, era riuscito a distaccarsi nel considerevole caos suburbano della San Fernando Valley e circa un'ora e mezzo dopo aver lasciato l'aeroporto a bordo della macchina a noleggio svoltò nel quartiere in cui avevano vissuto i MacIver. Vedeva questa parte della valle per la prima volta, ma capì immediatamente perché avesse attratto Polly. In quella zona, le case davano un'impressione di permanenza, con i cortili punteggiati di grandi alberi e i giardini evidentemente tenuti con cura da decenni. Da nessuna parte si notava il verde troppo vivace dei tappeti erbosi appena impiantati o le recinzioni vistose e ricercate che separavano le proprietà negli insediamenti più recenti. No, quest'area possedeva un'aria stabile, una certa solidità medioborghese che doveva essere piaciuta molto a Polly. A lui, naturalmente, sembrava solo monotona, una versione californiana di tutte le cittadine dell'est che gli erano sempre parse indicibilmente noiose, ma dalle quali Polly era stata attratta come il ferro da una calamita.
«Perlomeno sono vere», lei aveva continuato a ripetergli nei primi mesi del loro matrimonio, quando ancora speravano che potesse funzionare. «Non sopporto l'idea di allevare dei bambini a Manhattan, e Secret Cove è un ambiente così pazzescamente ristretto!» In un certo senso Charles aveva capito cosa intendesse. Entrambi erano cresciuti con uno stile di vita enormemente diverso da quello della maggior parte della gente. Lui si era semplicemente limitato ad accettarlo e, sposata Polly, aveva dato per scontato che lo stesso valesse anche per lei. Ma la verità, aveva presto scoperto, era che Polly si sentiva in conflitto con la ricchezza e la posizione sociale che le derivavano per nascita. Non che i Porter fossero ricchi quanto gli Holloway, non lo erano mai stati neppure in passato. Né avevano mai condiviso il medesimo punto di vista degli Holloway e del resto della «Gente di Secret Cove» (come essi stessi fieramente si denominavano, con tanto di virgolette), benché all'epoca del matrimonio Charles non se ne fosse ancora accorto. Oh, sapeva benissimo che Polly si era iscritta a Berkeley mentre tutti loro avevano preferito Harvard, Yale, Bennington e Vassar, ma non si era reso conto di quanto lei fosse rimasta influenzata dalla Costa Occidentale fino a molto tempo dopo le loro nozze. «Se non ti piaceva il modo in cui viviamo, perché mi hai sposato?» le aveva chiesto dopo il divorzio. «Santo cielo, Charles, sapevamo di doverci sposare dal giorno in cui siamo nati! Pensavo davvero che fosse giusto! Dopo Berkeley, però, tutto questo mi è sembrato così irreale! Intendo dire che una persona come Lenore Van Arsdale non solo ignora cosa sta succedendo al di fuori di Secret Cove, ma non gliene importa un bel niente!» Lui era rimasto a bocca aperta. «Lenore è la tua migliore amica! Siete cresciute assieme!» Polly aveva sorriso con sarcasmo. «Lo so. Tuttavia ho trascorso parecchio tempo lontano da lei, da te e da Secret Cove. Non posso passare la vita organizzando feste che costano tre volte tanto la somma di denaro raccolta per qualunque iniziativa di beneficenza attragga l'attenzione della «Gente» di anno in anno. Non posso continuare a spendere montagne di soldi per i vestiti quando so bene quante persone riescano a malapena a coprirsi.» «E allora cosa intendi fare?» aveva infine ironizzato lui. «Dare via tutto?» Con suo immenso stupore, era esattamente quello che Polly voleva e a-
veva puntualmente fatto. Dopo il divorzio, lei aveva istituito una fondazione, nominato un consiglio d'amministrazione che non includeva un solo membro della «Gente di Secret Cove» e destinato a esso ogni sua proprietà. Nessuno era stato in grado di fermarla: i suoi genitori erano morti in un incidente sciistico tre anni prima e Charles, benché inizialmente avesse preso in considerazione l'ipotesi di contenderle la custodia della piccola Teri, si era infine deciso a lasciar perdere. Polly si era sempre dimostrata un'ottima madre e lui aveva preferito permetterle di allevare la bambina come meglio riteneva piuttosto che sottoporre Teri agli effetti negativi di una lunghissima battaglia legale. In realtà, si era addirittura trovato d'accordo con l'adozione dopo che la sua ex moglie si era trasferita in California in seguito al matrimonio con Tom MacIver, un docente universitario come lei. Non molto tempo dopo il divorzio, si era risposato con Phyllis, che in precedenza era stata la bambinaia di Teri. Nonostante non appartenesse all'ambiente dorato di Secret Cove, la sua seconda moglie ne aveva perlomeno rispettato i valori, e il matrimonio, benché assai lontano dalla perfezione, gli aveva consentito di proseguire nello stile di vita in cui era nato e sperava di morire. A soli pochi mesi dalle nozze, Phyllis gli aveva regalato una figlia, che aveva rapidamente riempito il vuoto lasciato da Teri. Per tutti loro, le cose erano andate nel migliore dei modi. Ora, però, esaminando i resti carbonizzati della casa dei MacIver, Charles fu consapevole che tutto era nuovamente cambiato. Teri stava per essere spostata al capo opposto del Paese e collocata in un ambiente estraneo, pieno di gente sconosciuta. E lui sospettava che Polly non avesse mai preparato la figlia al genere di vita che si conduceva all'est. Del resto, perché avrebbe dovuto? Voltò le spalle all'ammasso di detriti e attraversò la strada in direzione della casa il cui indirizzo aveva scarabocchiato quella stessa mattina su un pezzo di carta. Si trattava di una costruzione per nulla differente dalle altre del quartiere: una piccola struttura in legno, modesta ma dall'aria abbastanza agiata. Salendo la breve rampa di scale fino alla veranda, si ritrovò a chiedersi se sarebbe bruciata con la medesima rapidità della villetta di Polly. Sospettava di sì. Charles premette il pulsante del campanello e udì un lieve trillo risuonare all'interno; un attimo dopo la porta si socchiuse e una donna grassottella lo osservò dallo spiraglio. «Signora Barrow? Sono Charles Holloway, il
padre di Teri.» Subito il battente si aprì completamente. «Signor Holloway», sussurrò Lucy Barrow, il sollievo evidente nella voce. «Grazie a Dio! Non so davvero cosa dire. È stato così orribile e quando Teri mi ha pregata di chiamarla...» Si interruppe e rimase immobile per qualche secondo, la sua confusione rivelata dall'agitarsi febbrile delle mani. «Io... Beh, temo che nessuno di noi abbia mai saputo della sua esistenza. Capisce, Polly e Tom non ne hanno mai parlato...» Tacque ancora una volta. Charles la prese per un braccio, guidandola gentilmente verso il soggiorno. «Non importa, signora Barrow. Comprendo benissimo cosa dovete aver pensato. E...» Quando oltrepassò la soglia le parole gli morirono in gola. Vide Teri raggomitolata in un angolo del divano, il leggero accappatoio avvolto strettamente attorno al corpo snello. La ragazzina aveva gli occhi, spalancati e incerti, fissi su di lui e sembrava trattenere il respiro, come se fosse rimasta in attesa di verificare se davvero sarebbe venuto a prenderla. Per un lungo istante nessuno dei due aprì bocca, quindi Teri si alzò in piedi, esitante. Quando infine parlò, la sua voce era rauca, indizio che aveva trascorso la maggior parte del giorno piangendo. «P... papà?» Soffocato dall'emozione, Charles attraversò la stanza in tre rapidi passi e abbracciò la figlia. Sulle prime lei si irrigidì, ma poi parve rilassarsi, il viso appoggiato al suo petto. Lui le accarezzò goffamente i capelli, quindi le sollevò il mento per poterla guardare. «Va tutto bene, Teri», bisbigliò. «Sono qui, non sei sola. Ora, tutto andrà meglio.» La tenne di nuovo stretta al petto e, per quanto non la vedesse più in viso, gli parve di percepire un lieve sorriso. Fino a quel momento doveva essersi sentita totalmente sola al mondo. Sola e terrorizzata. Melissa era seduta al tavolino situato fra le due ampie finestre di camera sua, giocherellando con la cena che Cora le aveva portato un'ora prima. Per quanto si fosse sforzata, non era riuscita a mangiarne più di metà e anche quel poco le pesava come il piombo sul fondo dello stomaco. Guardò sconsolata il piatto, desiderando di poter racimolare l'appetito necessario a finire il cibo; Cora le aveva preparato le sue pietanze preferite, inoltre avrebbe dovuto essere affamata, visto che aveva praticamente digiunato per tutto il giorno. Udì il rumore di passi nel corridoio e raccolse rapidamente coltello e
forchetta, certa che si trattasse di sua madre venuta a sorvegliarla. Era Cora, invece, e Melissa si rilassò per poi arrossire immediatamente quando la domestica guardò il piatto quasi pieno. «Io... mi dispiace, Cora», si scusò, «ma stasera non ho molto appetito.» «Non ti preoccupare, Missy», rispose la donna, usando il nomignolo che Phyllis Holloway aveva proibito da tempo. «Mangia quello che ti senti e conserva un po' di spazio per questa.» Depose sul tavolino una grossa fetta di torta al cioccolato, assentendo soddisfatta nel vedere il sorriso che spezzava la tristezza della ragazzina. «A mio modo di vedere», proseguì, «quello che è accaduto alla festa non è poi una tragedia. Nessuno di quei ragazzi avrebbe apprezzato la mia torta quanto te e ora ne abbiamo avanzata un bel po'. Domani, tu e Tag potrete ingozzarvi per tutto il giorno.» Abbandonando i resti della bistecca, Melissa prese la forchetta e la immerse nella soffice fetta di dolce. Proprio mentre stava per mettersi in bocca il primo pezzetto, sua madre apparve sulla soglia. «E allora, Melissa?» esordì Phyllis. «Non ti ho forse insegnato che il dessert non si tocca finché non si è terminata la cena?» Ubbidiente, la ragazzina depose la forchetta. «Io... credo di essere troppo piena, Cora», mormorò, implorando con lo sguardo la domestica di non discutere con la mamma. «Ne mangerò un poco domani.» Cora, evitando accuratamente di guardare la padrona, raccolse i piatti e uscì dalla stanza. Senza una parola, Phyllis la seguì, richiudendosi con forza la porta alle spalle. Melissa, nuovamente sola, si sdraiò sul letto in attesa dell'inevitabile. Prese un libro, ma si ritrovò a fissare sempre la medesima pagina, registrando con gli occhi i caratteri stampati senza però riuscire ad assorbire il senso delle parole. Trascorsero inesorabilmente i minuti, finché il suono della voce di Cora che chiamava Blackie non segnalò che la donna stava ritornando nella propria casetta per la notte. Subito dopo la porta della sua camera si aprì ancora una volta ed entrò sua madre. Senza una parola andò a chiudere le finestre, poi si voltò a fronteggiare la figlia. «Come osi?» esclamò, la voce tremante per l'indignazione trattenuta per tutto il pomeriggio. «Non c'è proprio nulla che ti importi? È mai possibile che tu non riesca ad apprezzare tutti gli sforzi che faccio per te?» Melissa si rannicchiò sul letto, le ginocchia premute difensivamente contro il petto. Gli occhi fissi sulla madre, con la mente cominciò a rivolgersi a D'Arcy.
Che colpa ne ho, D'Arcy? Non ho fatto niente di male a nessuno. Perché mia mamma non capisce che loro mi disprezzano? «Il tuo vestito, Melissa», sbottò Phyllis improvvisamente. «Dov'è?» La ragazzina rimase in silenzio per un secondo, ma, all'avanzare minaccioso della madre, si costrinse a parlare con la gola stretta. «Nell'armadio», bisbigliò. Gli occhi ridotti a due fessure, Phyllis aprì il battente con tanta violenza da farlo sbattere rumorosamente contro il muro. Il vestito rosa d'organza giaceva spiegazzato sul fondo, dove era caduto dopo essere scivolato dall'appendiabiti sul quale Melissa lo aveva sistemato in tutta fretta qualche ora prima. La donna lo raccolse e si voltò verso la figlia. «È questo il modo in cui tratti i tuoi vestiti?» chiese. Afferrò l'abito con entrambe le mani e diede uno strattone; il rumore della stoffa che si strappava fece sobbalzare la ragazzina. Quindi, come riportata in vita dalla brutalità del gesto di Phyllis, Melissa balzò giù dal letto e si precipitò verso di lei. «No!» gridò. «Non stracciarmi il vestito!» Sporse un braccio in direzione dell'abito, ma la madre la schiaffeggiò con violenza. Boccheggiando, Melissa barcollò verso il letto. Mentre la donna la seguiva, il vestito stretto in una mano e l'altra serrata in un pugno, si raggomitolò contro la testiera. Aiutami! invocò silenziosamente all'indirizzo della stanza. Per favore, D'Arcy, aiutami. Impediscile di picchiarmi! All'ulteriore avanzare della madre, i suoi occhi esplorarono freneticamente la camera, come se cercasse un nascondiglio o qualcuno che le venisse in aiuto. Infine, in un angolo, vide l'ombra familiare. Dapprima a malapena distinguibile, la forma evanescente assunse rapidamente i contorni di una ragazza e si mosse in direzione del letto senza fare alcun rumore. Fermala, pregò in silenzio quella strana figura che solo lei poteva vedere. Oh, per favore, dille che non ho fatto niente! Non permettere che mi punisca! E D'Arcy fu di fianco a lei, bisbigliando piano, direttamente nella sua mente. Dormi, Melissa. Ora sono qui e mi prenderò cura di te. Pensa solo a dormire... Nel momento in cui sua madre giunse a lato del letto, la ragazzina avvertì il calore delle braccia di D'Arcy che la circondavano cullandola. Chiuse gli occhi e ascoltò soltanto la voce musicale dell'amica che le mormorava parole dolci; le esclamazioni furiose della madre svanirono in lontananza e
la confortevole oscurità del sonno cominciò a chiudersi attorno a lei. Si fece trasportare dal torpore, lasciando D'Arcy sola ad assorbire l'ira materna. La mano di Phyllis si chiuse attorno al polso di Melissa e la trascinò a sedere. «Perché non dovrei strapparti il vestito? Sei stata tu a pagarlo? Te ne prendi forse cura? Lo indosserai mai? Naturalmente no!» Dopo aver scosso la figlia, gettandola contro i cuscini, lacerò metodicamente l'abito in due, quindi staccò le cuciture delle maniche, scagliandogliele in faccia. «Non so più che fare con te!» gridò, fissandola. «Sai quanto è stato difficile ottenere che quei ragazzi venissero qui? Pensi forse che ne fossero contenti? E come mi dimostri la tua gratitudine? Insultandoli, ecco come!» La sua mano si serrò nuovamente sulla spalla di Melissa, scuotendola con furia. La ragazzina cadde di lato ma non emise il minimo suono e neppure cercò di alzare le braccia per proteggersi dal furore della madre. I suoi occhi fissavano il vuoto mentre la donna la scrollava violentemente, mandandola ripetutamente a sbattere contro la testiera. La ragazzina rimase muta, senza pronunciare una parola né gridare per il dolore al collo e alla testa ogni volta che rimbalzava contro la superficie rigida. Il suo sguardo rimase sbarrato e vacuo anche quando finalmente la rabbia della madre si esaurì. Ansimando per lo sforzo, Phyllis la lasciò andare, facendola ricadere sul letto, quindi afferrò i pezzi strappati dell'abito rosa e glieli agitò davanti al viso. «Entro domattina», concluse in tono basso e minaccioso, «mi aspetto che il vestito sia ricucito e riposto nuovamente nell'armadio.» Guardandola con astio, si voltò e uscì dalla stanza a rapidi passi. Non appena la porta si fu richiusa, Melissa si diresse al tavolino. Inclinando la testa in modo bizzarro, si osservò allo specchio sovrastante con occhi vacui e inespressivi. La sua immagine riflessa sembrava in qualche modo differente, il viso più affilato, ogni traccia di rotondità sparita e i tratti addolciti. Con movimento incerto, si toccò i capelli, spingendoli all'indietro, poi si sfiorò le orecchie, che ancora bruciavano per i colpi della madre. Infine, volgendo le spalle allo specchio, raccolse i pezzi del vestito e si diresse alla porta. Spente le luci della camera, si inoltrò nell'oscurità del corridoio; sostò in ascolto, ma la casa era immersa nel silenzio. Portando con sé l'abito rovinato, procedette fino alla ripida rampa di scale che conduceva in soffitta. Si fermò una seconda volta, quindi iniziò a salire con cautela finché non giunse al piano superiore. Aprì la porta del solaio e se la richiuse alle spalle. Il locale era comple-
tamente buio, rischiarato unicamente dai deboli raggi lunari che filtravano dal lucernario sul soffitto. Ma Melissa si mosse con disinvoltura nell'oscurità, facendosi strada fra le cataste di scatoloni, i vecchi bauli e i mobili accantonati nel corso degli anni. Inconsapevole di quanto la circondava, si diresse a una stanzetta seminascosta sotto lo spiovente del tetto, che ospitava un divano logoro, una cassettiera e un tavolino con una lampada a olio. Deposto per un attimo il vestito sul divano, Melissa accese un fiammifero e mise in funzione la lampada. Il minuscolo locale brillò di una tenue luce arancione. Dalla cassettiera estrasse un'antiquata scatola di legno piena di aghi, ditali, spilli e filo, quindi si sedette sul divano e scelse con cura una matassina la cui sfumatura si avvicinasse al colore dell'abito. Infilato l'ago con dita esperte, iniziò a lavorare. Con mosse rapide cominciò a ricucire la manica destra alla spalla del vestito, i punti brevi e regolari. Completamente assorta, lavorò silenziosamente e senza sosta alla luce tremolante della lampada a olio. Le ore passarono, ma né le sue dita né le sue braccia parvero sentire la stanchezza. Perché non fu Melissa a cucire per interminabili ore. Non lei, ma un'altra ragazzina, che continuò ad applicarsi nella quiete notturna finché non spuntarono i primi raggi di sole. Solo allora, portato a termine il suo compito, si concesse di dormire. Cora Peterson si svegliò puntualmente alle cinque e mezzo del mattino come ogni altro giorno della sua vita. Si vestì, quindi rifece il letto, guardando di tanto in tanto con apprensione fuori della finestra, osservando al di là del cortile i vetri chiusi della camera di Melissa. Per un attimo meditò di venir meno alla propria quotidiana routine per andare direttamente alla villa a controllare se la ragazzina stesse bene. La sera prima, quando non era riuscita a finire la cena, non le era certo parsa in forma: quella poverina aveva i nervi tesi come corde di violino e il viso terribilmente patito. Forse si era trattato semplicemente di stanchezza, si disse la donna, e non aveva aperto la finestra prima di andare a letto per semplice sbadataggine. Dopotutto, quell'estate non si era ancora verificato alcun problema, quindi la domestica decise di non preoccuparsi. Diede un'ultima aggiustata al letto e bussò alla porta di Tag prima di
scendere dabbasso a preparare la colazione. Naturalmente le sarebbe stato molto più semplice servirsi della grande cucina della villa, ma la seconda signora Holloway (pensava tuttora a Phyllis in questo modo, persino dopo così tanti anni) aveva stabilito le proprie regole, una delle quali prevedeva che il personale si preparasse il cibo a parte. «Il personale», sbuffò fra sé, sbattendo una mezza dozzina d'uova. Come se ci fossero un sacco di cameriere, inservienti e magari persino un maggiordomo. In effetti, era stato così fino a due generazioni prima, ma persino lei, a settantatré anni, si ricordava a malapena di quei tempi. Ora usufruivano soltanto di un intervento settimanale da parte di un'impresa di pulizie, mentre la gestione giornaliera della villa gravava unicamente sulle sue spalle. Non che lei si lamentasse: dopotutto si era presa cura di Charles Holloway sin da quando era nato e avrebbe continuato a badare a lui e alle sue figlie finché avesse avuto respiro. Pensare a Charles le riportò alla mente Polly e per un attimo Cora si sentì sull'orlo delle lacrime. Tuttavia non sarebbe servito a nulla e, se c'era una cosa di cui andava fiera, quella era proprio il suo senso pratico. No, non doveva soffermarsi su Polly, bensì cominciare a riflettere sul ritorno a casa di Teri. Bisognava sceglierle una camera, forse il grande locale soleggiato che guardava a nord-est, con una splendida veduta della baia. Rimase un attimo a meditare. Cosa le stava passando per la mente? Quella che tra poco sarebbe tornata a Secret Cove non era più una bambina, ma un'adolescente. Di certo avrebbe voluto decidere personalmente quale camera scegliere. Il corso dei suoi pensieri venne interrotto quando Tag, vestito unicamente di un paio di jeans logori e tagliati alle ginocchia, entrò in cucina con piglio deciso e si lasciò cadere scompostamente su una sedia. Cora osservò il suo abbigliamento con aria maliziosa. «Progetti forse di prenderti un altro giorno di libertà?» gli chiese. Il ragazzo scosse la testa. «Andrò a lavorare nell'orto. La signora Holloway non mi vedrà neppure.» La domestica borbottò e depose il piatto della colazione davanti al nipote, chiedendosi (e non per la prima volta) da chi avesse preso il suo carattere. Sicuramente non dal proprio figlio, che aveva trascorso praticamente ogni giorno della sua giovinezza cercando di evitare qualsiasi incarico lei gli assegnasse. E nemmeno dalla madre, che, per quanto Cora ne sapeva, aveva passato quasi tutto il tempo nel bar dove Kirk Peterson l'aveva cono-
sciuta. I due se n'erano andati quando Tag era ancora un neonato, lasciandolo da lei «per un paio di settimane». Le settimane erano divenute mesi, poi anni, e di conseguenza lei lo aveva allevato da sola, lieta di scoprire che il nipote si stava rivelando esattamente ciò che il figlio non era mai stato. Lavorava sodo, non se la prendeva con gli altri e guardava al mondo con uno stato d'animo solare che Cora riteneva si fosse inventato da sé, visto che non l'aveva ereditato da nessuna parte. Ora, sedendosi a tavola, la donna guardò nuovamente quei jeans malconci. «Beh, se lei ti ordina di metterti un paio di pantaloni decenti e una camicia, non dire che non ti avevo avvisato.» Il ragazzo sorrise furbescamente. «Dai, nonna! Credi davvero che la signora H si farebbe vedere nell'orto? Scommetto che non sa neppure dov'è!» Cora inarcò le sopracciglia. Pensò che avrebbe dovuto tenergli un sermone circa il rispetto per i propri datori di lavoro, ma cambiò parere. In fin dei conti, Tag aveva ragione. Da quando si era sposata con Charles Holloway, Phyllis Martin aveva accuratamente evitato qualsiasi cosa le rammentasse le sue umili origini: una fattoria in Pennsylvania, per l'esattezza. E una fattoria, secondo Cora, non era altro che un orto smisurato, quindi l'altezzosa e potente signora Holloway di certo non si sarebbe fatta vedere nei paraggi. «D'accordo, ma se lei ti scopre vestito così, non lamentarti di non essere stato avvertito.» «Te lo prometto», dichiarò Tag, deponendo i piatti nel lavandino e cominciando a lavarli. Dopo un rapido abbraccio al nipote, la donna si diresse alla villa per dare inizio alla propria giornata lavorativa. Attraversando il prato, però, notò ancora una volta le finestre chiuse nella camera di Melissa; entrata in casa, non passò nemmeno dalla cucina, ma salì direttamente al primo piano e penetrò nella camera della ragazzina senza far rumore. Come aveva temuto, il letto era vuoto. Lentamente, la domestica imboccò le scale della soffitta e, giunta in cima, sostò a riprendere fiato. Una volta all'interno, aggirò gli scatoloni sparsi per il locale, si diresse alla cameretta e aprì la porta. Melissa era raggomitolata sul divano polveroso, profondamente addormentata. «Oh, bambina», bisbigliò la donna. «Lo hai fatto di nuovo!» Si chinò sulla figuretta rannicchiata e cercò di svegliarla dolcemente, attenta a non spaventarla. La ragazzina aprì gli occhi e per un attimo le sorrise, poi, accorgendosi di dove si trovava, la sua espressione cambiò di colpo.
Si alzò a sedere col fiato mozzo, guardandosi attorno, infine si rivolse a Gora, il viso pallido per la paura. «Non dirlo alla mamma», la supplicò, «per favore!» L'anziana domestica le prese la mano. «Andiamo, Missy, sai bene che devo farlo. Se hai ricominciato a camminare nel sonno, è giusto che ne sia informata. Potresti farti male.» «Ma è la prima volta in tutta l'estate!» implorò Melissa. «Ti prometto che non lo farò più. Per piacere, non dirglielo!» Cora la aiutò ad alzarsi. «Beh, ora ti riporto nel tuo letto e al resto penseremo più tardi, va bene?» La ragazzina si morse il labbro, ma assentì con il capo e si lasciò ricondurre in camera; qualche minuto dopo la donna le stava già rimboccando le coperte. «Ora dormi per un altro paio d'ore. Riposati e non ti preoccupare. Non hai nessuna colpa di quanto è accaduto e tua madre non ti rimprovererà. Vuole solo aiutarti.» La baciò sulla fronte e, prima di andarsene, aprì le finestre per lasciare entrare la fresca aria mattutina. Quando fu sola, Melissa giacque nel letto cercando di ricordare cosa fosse successo la notte precedente. A poco a poco, ogni avvenimento le tornò alla memoria. La mamma, arrabbiata, era venuta in camera sua; in effetti, nella sua furia le aveva strappato l'abito rosa per poi schiaffeggiarla. Dopo di che, i ricordi cessavano di colpo. Perché D'Arcy era arrivata ad aiutarla, come faceva sempre quando sua madre infieriva su di lei. Rimase a letto ancora qualche minuto, pensando al vestito, quindi si diresse all'armadio, esitando un attimo prima di aprire il battente. L'abito era appeso in perfetto ordine. Melissa lo fissò. Si era forse ingannata? La mamma non si era per nulla fatta viva? Aveva immaginato tutto? Infine, con mani tremanti, sfilò il vestito dall'appendiabiti. Esponendo il rovescio del tessuto, esaminò attentamente le cuciture. Alcune apparivano perfettamente normali, ma altre (quelle delle maniche e del corpetto) erano diverse. I punti erano piccoli e perfetti, mentre il filo aveva una tonalità leggermente differente dal colore della stoffa. La ragazzina sorrise guardando in direzione del soffitto. «Grazie, D'Arcy», mormorò. «Grazie per averlo ricucito al mio posto.»
4 «Per amor del cielo, Cora, cosa stai facendo?» La voce dura di Phyllis Holloway fece sobbalzare la domestica, che lasciò cadere il coltello nel lavandino. I suoi occhi si diressero automaticamente all'orologio sul muro: erano solo le nove e mezzo, una buona mezz'ora prima che la signora Holloway facesse la sua solita comparsa in cucina. La donna si girò a fronteggiare la propria datrice di lavoro. «Pensavo di preparare una torta di mele», spiegò. «Lei sa quanto Melissa ami i miei dolci.» Phyllis strinse le labbra in una fessura. «Dopo il comportamento di ieri, dubito meriti un premio, non ti pare?» Cora, consapevole che la domanda era puramente retorica, rimase in silenzio. «Inoltre, oggi hai ben altro da fare che non le torte, non è così?» proseguì Phyllis. La domestica passò rapidamente in esame i compiti già assolti fino a quel momento: Melissa aveva terminato la colazione e i suoi piatti erano stati lavati, il caffè della signora Holloway era pronto nella camera da letto padronale, mentre dabbasso il caos creato dalla festa era scomparso e ogni stanza riluceva. Infine le parve di aver capito. «Stavo aspettando prima di passare l'aspirapolvere», spiegò. «Non volevo disturbarla.» «E stato molto assennato da parte tua», rispose Phyllis, addolcendosi impercettibilmente. «Ma io mi riferivo a Teri. Mi sembra che dovremmo iniziare a prepararle la stanza.» Nell'accorgersi che le sarebbe stata risparmiata una delle prediche della padrona in merito a qualche dettaglio accidentalmente trascurato, Cora si sentì invadere da un'ondata di sollievo. «Ci avevo già riflettuto», affermò. «Pensavo che forse la stanza d'angolo nell'ala est...» La sua voce si spense davanti all'espressione malevola negli occhi dell'altra. «L'ala est?» ripeté Phyllis. «Ma quella è la zona riservata agli ospiti, con la veduta della baia! Niente affatto, è meglio la camera accanto a quella di Melissa.» La domestica la guardò con aria interrogativa: la stanza di Melissa si trovava all'angolo dell'ala sud e di fianco non c'era nulla, tranne la cameretta della bambinaia, comunicante tramite il bagno. «Mah, non saprei», cominciò. «È terribilmente piccola...» Phyllis non la lasciò finire. «Ora saliamo a dare un'occhiata.» «Sì, signora», mormorò Cora. Asciugatasi le mani in uno strofinaccio, la
seguì attraverso la dispensa e la sala da pranzo fino al vasto atrio; al piano superiore voltarono a destra ed entrarono nell'angusto locale adiacente alla camera spaziosa di Melissa. L'anziana domestica si guardò attorno con aria incerta: la stanza era ammobiliata spartanamente con un piccolo divanoletto, un vecchio scrittoio appoggiato alla parete, un tavolo sotto l'unica finestra e un'antiquata sedia a dondolo. Il pavimento di legno era coperto da un logoro tappeto orientale che, come Cora ben sapeva, aveva originariamente adornato una delle camere degli ospiti per poi essere trasferito lì una volta giudicato troppo liso. Tranne che per l'alloggio di un domestico. «È... beh, è piuttosto piccola, non le sembra?» chiese, pentendosi immediatamente quando gli occhi di Phyllis la fissarono con impazienza. «Un tempo questa era la mia stanza», ricordò gelida alla domestica. «Non rammento di essermi mai lamentata delle sue dimensioni.» Se per questo, non ci sei rimasta molto, si disse cupamente Cora. Quando parlò, badò a mantenere un tono neutro. «Stavo solo pensando che per un'adolescente, con tutti i vestiti e gli oggetti vari, dovremmo forse cercare qualcosa di più grande.» Ancora una volta Phyllis la investì: «Non essere sciocca! Stamattina ho parlato con il signor Holloway, il quale mi ha riferito che Teri non possiede più nulla. È riuscita a stento a uscire viva dalla casa. Quindi, non ti pare stupido sistemarla in una stanza enorme con gli armadi e i cassetti vuoti? Inoltre è opportuno tener conto dell'ambiente da cui proviene. Dobbiamo farla sentire a proprio agio, e cosa proverebbe nel ritrovarsi in una camera delle dimensioni di tutta la casa in cui è cresciuta?» «Si può fare molto per rendere questo locale più allegro», proseguì. «In effetti, credo che in un certo senso tu abbia ragione. Ho sempre odiato questi mobili, ma sono certa che in solaio ci sia qualcosa di meglio da portare giù. Chiama Tag, così andremo di sopra a dare un'occhiata.» Venti minuti dopo, con Tag e Melissa alle calcagna, Phyllis guidò Cora in soffitta. Aprì la porta, oltrepassò la soglia e si bloccò di colpo. Illuminate da una striscia di sole, una serie di impronte risaltavano nette sullo spesso strato di polvere che copriva il pavimento. La signora Holloway le fissò, quindi si voltò verso la figlia. «Melissa, hai qualcosa da dire?» La ragazzina, gli occhi sbarrati per la paura, guardò immediatamente Cora in una silenziosa richiesta d'aiuto. «Questa notte hai camminato nuovamente nel sonno?» domandò Phyllis.
Melissa si morse le labbra, ma rimase muta; infine fu la domestica a rispondere. «Era solo scossa per la festa di ieri», suggerì. «In fondo, si tratta della prima volta in tutta l'estate...» Lo sguardò della padrona si incupì. «Davvero? Oppure nessuno me ne ha mai parlato prima?» continuò rivolgendosi alla figlia, il tono di voce neutro. «Dimmi, Melissa, è davvero la prima volta da quando siamo qui?» Lo stomaco stretto per l'angoscia, la ragazzina desiderò che il padre fosse lì a darle una mano. Cosa doveva dire? Come mai con sua madre non sembrava mai esistere una risposta giusta? Tuttavia sapeva di non dover fornire una spiegazione. «Io... non lo so, mamma», mormorò. «Non ricordo neppure di averlo fatto.» Phyllis emise un profondo sospiro e si girò verso Cora. «Molto bene», affermò. «Se lei non ricorda, forse tu puoi spiegarmi l'accaduto.» Il più succintamente possibile, la domestica riferì l'episodio. «Ma stava benissimo», concluse. «È semplicemente andata nella stanzetta là in fondo, quella direttamente sopra la sua camera da letto. Quando l'ho trovata, dormiva sodo.» Lo sguardo di Phyllis si spostò nuovamente su Melissa. «Voglio che tu ti guardi attorno», dichiarò, gli occhi fissi sulla figlia benché le parole fossero dirette a Cora. «Vedi se puoi trovare qualcosa che a Teri piacerebbe. Per quanto mi riguarda, temo di dover fare una chiacchierata con Melissa.» Afferrata la ragazzina per un braccio, la sospinse giù per le scale e lungo il corridoio in direzione della sua camera. Un attimo dopo, udendo il rumore della porta che si chiudeva, Tag guardò la nonna con espressione incerta. «Cosa succederà ora? Che cosa intende fare a Melissa?» Cora tacque per qualche secondo, quindi scosse il capo. «Non lo so», rispose. «Proprio non lo so.» Nella stanza di Melissa, Phyllis chiuse la porta e fissò lo sguardo sulla figlia, in piedi accanto al caminetto, addossata al muro con le mani dietro la schiena. La donna non aprì bocca, limitandosi a esaminarla finché, le guance scarlatte per la vergogna, la ragazzina non abbassò gli occhi. A quel punto si diresse all'armadio e spalancò il battente: il vestito d'organza rosa era appeso ordinatamente all'interno. Phyllis lo prese e si spostò davanti alla finestra, dove cominciò a ispezionare accuratamente le cuciture. Infine riportò la propria attenzione sulla figlia.
«Davvero un buon lavoro», commentò. Melissa si rilassò impercettibilmente, continuando a guardare la madre con espressione circospetta. «Sei stata tu?» La ragazzina esitò, poi scosse la testa. «Se non l'hai fatto tu», reagì Phyllis con voce ingannevolmente controllata, «allora chi è stato?» La domanda parve rimanere sospesa a lungo nell'aria, mentre Melissa si scervellava per trovare una spiegazione che fosse in grado di soddisfare la madre. Alla fine, però, decise di dire semplicemente la verità. «D... è stata D'Arcy», balbettò, in un bisbiglio a malapena percettibile. Gli occhi di Phyllis si ridussero a due fessure. «Chi?» «D'Arcy. Non sono molto brava a cucire, così lei è venuta ad aiutarmi.» Le dita di Phyllis si strinsero sul tessuto leggero; per un terribile istante Melissa fu certa che lo avrebbe strappato di nuovo, ma la madre si limitò a gettare l'abito sul letto. «Ma D'Arcy non esiste, vero?» esclamò la donna, alzando la voce. La ragazzina si rannicchiò contro la parete scuotendo il capo. Phyllis attraversò la stanza a grandi passi e afferrò la figlia per le spalle, conficcandole le dita nella carne finché Melissa non fu sul punto di urlare per il dolore, quindi parlò in un sibilo furioso. «Ne abbiamo ripetutamente discusso. D'Arcy non esiste. Te la sei soltanto inventata, lo capisci?» Troppo terrorizzata per rispondere, Melissa assentì con la testa. «Ormai hai tredici anni», proseguì la madre senza allentare la stretta. «Sei di gran lunga troppo grande per immaginarti persone che vivono solo nella tua fantasia. E sei anche sufficientemente adulta per iniziare ad assumerti la responsabilità dei tuoi atti. Mi capisci?» Ancora una volta, la ragazzina fece un cenno d'assenso. «Perché hai camminato nel sonno?» Melissa avrebbe desiderato dire nuovamente la verità, spiegare che D'Arcy le era venuta in aiuto, portandola evidentemente con sé in soffitta per ricucire l'abito mentre lei dormiva. In realtà, però, ricordava soltanto che l'amica era arrivata in suo soccorso, dopo di che tutto era vuoto fino al momento in cui Cora l'aveva svegliata quella mattina. Tuttavia, ora sapeva perlomeno cosa la mamma voleva sentirsi dire. «Io... ero agitata a causa di quanto è accaduto alla festa. Quando sono scossa, cammino nel sonno.» La stretta della madre si allentò, lasciandole le spalle indolenzite. «E perché la festa ti aveva innervosita?» La ragazzina chiuse gli occhi in cerca della risposta appropriata. «Perché
sono stata scortese con tutti. Era una festa magnifica e io l'ho rovinata. È stata colpa mia, mamma.» Finalmente le mani di Phyllis si ritrassero dalle spalle della figlia e la sua espressione si addolcì in un sorriso. «È vero», commentò, «sei responsabile di quanto è successo ed è stata la tua cattiva coscienza a farti camminare nel sonno.» Melissa assentì passivamente, quindi guardò la donna con aria supplichevole. «Va tutto bene ora?» chiese. Sul viso di Phyllis il sorriso rimase inalterato, ma vi comparve una nota gelida che rinnovò il terrore della ragazzina. «Vedremo», disse la donna. «Vedremo che cosa succederà durante il resto della giornata.» Poco dopo mezzogiorno Phyllis arrestò la Mercedes nel pacheggio del Cove Club e abbassò lo schermo parasole per esaminare il trucco e i capelli nello specchietto. Una ciocca biondo chiaro era sfuggita dalla crocchia sulla nuca e lei se la riassestò con cura, aggiungendo infine un tocco di rossetto alle labbra. Scese dall'auto, rispose all'amichevole saluto dell'inserviente con un secco cenno del capo ed entrò nel club, sostando come sempre per un attimo ad ammirare la veduta dell'oceano davanti all'enorme vetrata panoramica che occupava l'intera parete orientale dell'edificio. Si guardò attorno nervosamente per poi subito rimproverarsi di essere ancora una volta caduta preda della sensazione di disagio che, persino dopo tredici anni, le derivava dal trovarsi in un ambiente di cui non riusciva del tutto a sentirsi parte. Gettò un'occhiata agli specchi che rivestivano le grandi colonne di sostegno e si tranquillizzò nel constatare di essere vestita in modo impeccabile: l'abito verde smeraldo era in seta pura, al pari della blusa color crema che lo completava. Le calze in tessuto operato, all'ultima moda, non mostravano traccia di smagliature e le scarpe, benché scomode, si adattavano magnificamente. All'avvicinarsi del maître, Phyllis si produsse in un sorriso sufficientemente freddo da mantenerlo cortesemente al suo posto. «Spero di non essere la prima», osservò. «Detesto rimanere seduta da sola.» «Nient'affatto», rispose André. «Le altre signore hanno appena ordinato le loro bibite.» L'uomo si voltò, guidandola nella sala da pranzo dove, in un angolo sul fondo, gli altri tre membri del comitato sociale del club si erano già accomodati al tavolo di Lenore Van Arsdale. Phyllis si sentì gelare il sangue. Tutte e tre indossavano tute da ginnastica e scarpe da tennis, senza nep-
pure un filo di trucco sul viso. Mentre André le teneva scostata la sedia, Lenore le sorrise amichevolmente, ma lei fu certa di notare nei suoi occhi un'ombra di divertimento. «Mi dispiace molto», si scusò la signora Van Arsdale. «Avrei dovuto avvertirti che questa mattina avevamo progettato di giocare a tennis ed eravamo vestite di conseguenza. A ogni modo, hai un aspetto splendido! Io non avrei mai il coraggio di portare un colore simile a quest'ora del giorno: riservo sempre gli abiti vivaci per le feste in grande stile, quando voglio essere sicura che Harry riesca a rintracciarmi!» Phyllis si sentì avvampare per l'umiliazione e sperò che il rossore non si notasse sotto il trucco. Dunque avevano giocato a tennis, ma si erano ben guardate dall'invitarla. E fino a che punto la riteneva stupida Lenore, permettendosi di insinuare velatamente che il suo abbigliamento era fuori luogo? Perché non avrebbe dovuto indossare quel vestito all'ora di pranzo? Eppure, sbirciandosi attorno nervosamente, si accorse che l'altra aveva ragione: tutte le donne presenti portavano gonne di cotone e costosi golf sportivi in soffici tonalità pastello. Come aveva potuto essere tanto idiota? All'ultima riunione... Di colpo si ricordò: in occasione della scorsa riunione, tutte le altre erano in procinto di recarsi a un cocktail. Cui lei non era stata invitata. Si riscosse dai propri pensieri quando Kay Fielding le toccò un braccio e si accorse di non aver udito una sola parola di quanto la donna le aveva detto. «Sono spiacente», si giustificò. «Temo di essermi distratta.» «Non posso certo rimproverarti», dichiarò l'altra in tono comprensivo. «Dopo quanto è accaduto...» Phyllis arrossì nuovamente. «Non so dirvi quanto mi dispiaccia», affermò. «Non riesco a immaginare cosa sia preso a Melissa. Suppongo si sia trattato della delusione per la partenza del padre. Comunque, mi ha pregato di porgere le sue scuse a tutti.» Il sorriso di Kay vacillò. «Scuse? Per che cosa?» Phyllis deglutì. «La... festa di ieri. Ho paura che Melissa si sia comportata in modo abominevole, ma mi preme sappiate che ne abbiamo discusso a lungo.» Lenore Van Arsdale si lasciò andare a una risata squillante. «Oh, santo cielo, Phyllis! Si è mai vista una festa di compleanno di un bambino senza un disastro? Chi può rimproverare Melissa se si sentiva scossa? Tutti noi siamo perfettamente al corrente di quanto voglia bene a suo padre!» L'e-
spressione improvvisamente seria, si chinò in avanti e abbassò la voce. «Kay stava parlando della povera Polly. È semplicemente spaventoso! Come possono accadere tragedie simili?» Tutti gli occhi si fissarono di colpo su Phyllis, che si rese conto di come, una volta tanto, le altre volessero ascoltare quanto aveva da dire. Facendo del proprio meglio per ricordare ogni singola parola della telefonata di Charles, descrisse l'incidente. Quando ebbe terminato, Lenore Van Arsdale si appoggiò allo schienale con un profondo sospiro. «È orribile», dichiarò. «Grazie a Dio, perlomeno Teri è riuscita a salvarsi. Che sarà di lei ora?» Gli sguardi si concentrarono nuovamente su Phyllis. «Verrà a vivere con noi, naturalmente. Dopotutto, è la figlia di Charles! Dove altro dovrebbe andare?» Le dita curatissime di Kay Fielding giocherellarono con la forchetta. «Stavamo solo chiedendoci... beh, siamo tutti al corrente di...» La sua voce si smorzò per un attimo mentre cercava le parole adatte. «... Dei problemi di Melissa. È sempre stata così ipersensibile!» Phyllis si sentì le guance avampare, ma si costrinse a sorridere. «In realtà, penso che le farà bene la compagnia di Teri. Talvolta sono portata a credere che la maggior parte dei problemi di Melissa derivino dal fatto di essere figlia unica.» «Forse hai ragione», rispose Kay, benché il suo tono indicasse chiaramente il contrario. Quindi si illuminò. «Di certo, Teri possiede i geni giusti. Dopotutto è per metà Holloway e per l'altra metà Porter. Impossibile trovare di meglio, non è vero?» Eleanor Stevens parlò per la prima volta. «Polly non la pensava sicuramente così», commentò maliziosamente. «Ma vi rendete conto? Ha dato via fino all'ultimo centesimo! Probabilmente i suoi genitori si stanno ancora rivoltando nella tomba.» Scosse la testa con aria comprensiva. «Pensate solo alle cose che quella bambina avrebbe dovuto avere, ma che sua madre le ha negato. Polly doveva proprio essere pazza!» Lenore Van Arsdale le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «È stata tutta colpa di Berkeley. Se avesse frequentato un'università decente, sarebbe rimasta la stessa. Per anni è stata la mia migliore amica e posso giurarvi che in lei non c'era niente di sbagliato finché non è andata in California. Quando è tornata, non era più la medesima persona.» «Beh», interloquì Kay Fielding in tono vivace, «perlomeno riavremo Teri con noi in tempo per consentirle una buona partenza nella vita.»
La conversazione proseguì, ma Phyllis smise di ascoltare, la mente occupata in frenetiche riflessioni. Fino a qualche attimo prima, benché non ne avesse fatto cenno con nessuno, si era chiesta come diavolo sarebbe finita con Teri MacIver in casa. Era già abbastanza brutto doversi occupare di una sola adolescente, soprattutto se difficile come Melissa, ma due? La prospettiva era stata quasi più di quanto potesse sopportare. Invece, adesso aveva capito, esisteva un'altra faccia della medaglia: queste donne (che non le avevano mai permesso di scordare neppure per un minuto di non essere veramente una di loro) erano ovviamente pronte ad accettare di nuovo Teri MacIver nel gruppo, nonostante non la vedessero da più di tredici anni. Teri, ne era certa, sarebbe stata invitata a tutte le feste dalle quali Melissa era esclusa e, di conseguenza, lei avrebbe avuto l'opportunità di organizzare ricevimenti alla villa per ricambiare l'ospitalità concessa alla figliastra. Sì, forse Teri le avrebbe infine fornito la chiave dell'effettivo ingresso nell'ambiente di Secret Cove, quella che le era sempre stata negata. E non era giusto. Come non era giusto che lei fosse stata obbligata a vivere con la consapevolezza che, se Polly avesse fatto ritorno, queste donne l'avrebbero riammessa nella loro cerchia senza la minima esitazione. Come se Polly Porter fosse stata per Charles la buona moglie che lei stessa, appunto, era. In cuor suo, però, Phyllis sapeva che si trattava di una menzogna: Polly non era stata affatto quell'eccentrica che tutti ricordavano. Talvolta, anzi, le sarebbe piaciuto raccontare a quelle signore snob come fossero veramente andate le cose finché la prima moglie di Charles viveva ancora a Maplecrest. Persino oggi il ricordo continuava a bruciarle dolorosamente. E ricordava una sera in particolare. Alla villa era in programma una festa e Phyllis, benché non rientrasse nelle sue mansioni, si era occupata dell'organizzazione, studiando il menu con Cora fino nei minimi dettagli, ordinando i fiori al villaggio e assicurandosi che tutto fosse perfetto. Per tutto il giorno, dal canto suo, Polly, in jeans e maglietta sbiaditi, se n'era rimasta sul divano in biblioteca a leggere poesie. Poesie, per amor del cielo! Un'ora prima dell'inizio della festa, quando Charles le aveva suggerito che era tempo di andare a vestirsi, lei si era limitata ad alzare gli occhi dal libro con aria indifferente. «Forse eviterò di farmi vedere», aveva affermato. «È sempre la stessa gente noiosa, che sa solo chiacchierare a vuoto.»
Phyllis, che per caso si trovava in biblioteca, aveva notato l'espressione ferita di Charles. In quel momento, lui l'aveva guardata, ma nel suo sguardo non vi era imbarazzo perché era stata testimone involontaria della risposta della moglie. Si era trattato di una muta richiesta di comprensione. E lei aveva capito. Capito che Charles aveva bisogno di una compagna che si dedicasse volentieri all'unico genere di vita che lui avesse mai sperimentato. Bisogno di una padrona di casa in grado di intrattenere i suoi soci in affari senza mostrarsi sopraffatta dalla noia. Bisogno di una donna disposta a comprendere che la fortuna degli Holloway andava apprezzata e coltivata, non derisa. Bisogno di lei, non di Polly. Ma nessuna di loro, non una delle donne che erano state amiche d'infanzia di Polly, lo aveva mai capito. Polly sarebbe sempre rimasta Polly, una di loro, e lei sarebbe rimasta in eterno Phyllis l'estranea. Ora, però, con l'arrivo di Teri, le cose sarebbero potute finalmente cambiare. Quando il comitato iniziò a discutere il progetto finale per la festa in costume che tradizionalmente segnava la metà della stagione a Secret Cove, Phyllis cercò di prestare attenzione pur non partecipando attivamente al dibattito. La sua mente, infatti, era occupata quasi per intero dai preparativi per l'arrivo di Teri. Forse aveva avuto torto nell'optare per la cameretta attigua a quella di Melissa. Meglio scegliere qualcosa di più spazioso. Sarebbe stato un errore non accogliere adeguatamente questa seconda inattesa figlia. Si prefisse di parlarne nuovamente con Cora non appena tornata a casa. No, era preferibile chiamarla subito: dopo pranzo, intendeva attardarsi al club per un poco, godendosi un paio di martini sul bordo della piscina. Scusandosi, si alzò dal tavolo per dirigersi al telefono. Non appena si fu allontanata, Lenore Van Arsdale si sporse in avanti, la voce bassa. «Mio Dio», mormorò, «riuscite a immaginare cosa penserà adesso Polly? Non solo Phyllis è riuscita a mettere le mani su suo marito, ma ora si è presa anche sua figlia!» «Quello che non capisco», aggiunse Kay Fielding, «è come faccia Charles a rimanere con quella donna. Il modo in cui lo tratta...» «Il motivo è Melissa», rispose Eleanor Stevens. «Charles è sempre stato una persona perbene e non riesco a immaginarmelo nell'atto di abbandonare la figlia in balia di Phyllis.»
«Ma non sarebbe costretto a farlo!» protestò Kay. «Non esiste tribunale al mondo che gli negherebbe la custodia!» «Naturalmente no», convenne Eleanor, «ma non è questo il punto. La verità è che Phyllis si opporrebbe strenuamente e Melissa si troverebbe nel bel mezzo della contesa. Conoscendo la seconda signora Holloway, sono certa che trascinerebbe avanti la causa per anni, anche sapendo che finirebbe per perdere. Charles non sarebbe disposto a far subire a Melissa un trauma del genere e non posso certo biasimarlo.» «Che debba rimanere legato a Phyllis, però», sospirò Kay, «mi sembra tanto ingiusto. Tra l'altro, non giova neppure a Melissa. Vivere con quella donna farebbe impazzire chiunque, e la poverina diventa ogni giorno più strana. Sarebbe un miracolo se...» Tacque di colpo nel ricevere un calcio sotto il tavolo e, girata la testa, si accorse di Phyllis, irrigidita alle sue spalle. Cinque minuti dopo, al volante della Mercedes, Phyllis diede sfogo alla propria rabbia premendo a tavoletta l'acceleratore. Con un grande stridio di pneumatici si allontanò a tutta velocità dal parcheggio e imboccò la strada costiera, abbassando il finestrino per lasciare entrare l'aria. Le parole di Kay Fielding le bruciavano ancora nella mente: «... La poverina diventa ogni giorno più strana». Nulla da stupirsi se aveva incontrato tanti problemi nell'inserirsi nel mondo di Secret Cove, visto che tutti pensavano che sua figlia avesse qualcosa che non andava! Del resto, perché non avrebbero dovuto? Sin dalla nascita, Melissa era stata diversa dagli altri bambini di Secret Cove e, soprattutto, non aveva mostrato la minima somiglianza con Teri. Nei pochi mesi in cui si era occupata di lei in qualità di bambinaia, Teri si era rivelata una piccina modello. Bionda e con gli occhi azzurri, non aveva mai fatto un solo capriccio, ma, al contrario, sorrideva felice a chiunque le si avvicinasse; sempre intenta a guardarsi attorno, gioiosa ed espansiva, cercava perennemente il contatto con tutti. Tutto il contrario di Melissa, che sembrava trascorrere la maggior parte del tempo piangendo, tranne quando suo padre la prendeva in braccio. Terribilmente timida, si era sempre rifiutata di giocare sulla spiaggia con gli altri bambini, preferendo di gran lunga rimanere da sola. Chiusa in se stessa, caratterizzata da un comportamento bizzarro, aveva reso la propria madre lo zimbello della comunità. Sin dal giorno in cui era nata, rifletté Phyllis, Melissa le aveva impedito
di entrare a far parte della «Gente di Secret Cove». Non era giusto. Le cose non erano affatto andate come lei aveva previsto. Avendo preso il posto di Polly come moglie di Charles e madre di sua figlia, sarebbe stato solo equo se avesse anche occupato il suo stesso ruolo in seno alla «Gente». Ma non era mai accaduto. Ora, però, con il ritorno di Teri, le si sarebbe presentata una seconda occasione, se Melissa non gliel'avesse rovinata. Silenziosamente, Phyllis pregò che Teri non fosse cambiata, che fosse tuttora perfetta come la ricordava. Nella propria camera al Red Lion Inn, Charles Holloway spense il televisore e controllò la sveglia sul comodino; erano le undici e mezzo e la suoneria lo avrebbe svegliato alle sei. Tentò di sprimacciare il cuscino durissimo che sembrava essere divenuto una caratteristica di tutti gli alberghi moderni, quindi prese il romanzo poliziesco che leggeva ormai da un mese prima di addormentarsi. Finora aveva di poco oltrepassato le cento pagine, il che significava che non gli era mai capitato di soffrire d'insonnia, ma sospettava che quella notte sarebbe riuscito a totalizzarne perlomeno altre venticinque. Beh, ancora qualche giorno e sarebbe tornato a casa. Dopo un paio di paragrafi venne distratto da un rumore soffocato proveniente dalla stanza attigua; rimase in ascolto per un attimo, poi si diresse alla porta interna. A distanza ravvicinata, capì di cosa si trattava. Teri stava piangendo. Indossata la vestaglia, aprì il battente ed entrò nell'altra camera. Le luci erano spente, ma alla tenue luminosità della propria lampada da comodino scorse la figlia raggomitolata sul letto, le braccia strette attorno al cuscino. Avvicinatosi, si sedette e le posò una mano sulla spalla. «Teri? Tesoro, stai bene?» Lei si girò sulla schiena e lo fissò con occhi umidi. «Mi... mi dispiace», si giustificò. «Mi sentivo sola. Non volevo svegliarti.» «Infatti non mi hai svegliato. Avresti dovuto venire da me.» «Avevo paura di disturbarti. In fin dei conti, hai già dovuto venire fin qui e...» Le si spezzò la voce, soffocata da un singhiozzo. Charles la prese fra le braccia e cominciò a cullarla. «Non è affatto un disturbo, non devi neppure pensarlo. Sono tuo padre e ti voglio bene.» Sentì che Teri si irrigidiva per poi scostarsi in modo da poterlo guardare in viso. «Davvero?» domandò con voce incerta.
«Ma certo.» «Non... non è quello che diceva la mamma.» Charles si accigliò. «Cosa significa?» Teri represse un altro singhiozzo. «Lei... lei sosteneva che ora tu vuoi bene soltanto a Melissa. Mi spiegava che quello era il motivo per cui non mi hai mai spedito una lettera o un regalo a Natale e per il mio compleanno.» Charles si sentì gelare. Era possibile? Davvero Polly poteva aver detto cose simili? Erano menzogne! «Tesoro, di che stai parlando?» chiese. «Ti ho mandato una quantità di lettere e non mi sono mai scordato del tuo compleanno né di Natale. Ti ho inviato un regalo tutti gli anni. Non li hai mai ricevuti?» Lei scosse la testa. «Io... non ero neppure sicura che saresti venuto a prendermi.» «Oh, Dio», gemette Charles, tenendola stretta. «Nessuna meraviglia che stessi piangendo. Dovevi essere terrorizzata.» «Non... non sei obbligato a portarmi a casa se non lo desideri», mormorò Teri. «Posso rimanere qui. Ho degli amici, troverò un lavoro...» Lui le premette gentilmente una mano sulla bocca per interrompere quel flusso di parole. «Non voglio nemmeno sentirne parlare», dichiarò, provando un'improvvisa ondata di rabbia nei confronti dell'ex moglie. Spezzare ogni legame con il passato era una cosa, ma cercare di allontanare la figlia da lui rappresentava un atto imperdonabile. Niente di che stupirsi se Teri non gli aveva mai scritto: era convinta che lui non volesse neppure sentirne parlare! «Ora ascoltami», dichiarò, facendo del proprio meglio per non lasciar trasparire l'ira nel tono di voce. «Non so perché tua madre ti abbia detto cose del genere, ma non sono vere. Non ho mai smesso di volerti bene né di pensare a te. Sei mia figlia e lo sei sempre stata. Mi sei mancata ogni singolo giorno da quando sei partita e il non poterti vedere mi ha pesato immensamente. Per quanto riguarda le lettere e i regali, non riesco a immaginare il motivo per cui tua madre te li abbia tenuti nascosti. Lo scorso Natale ti ho mandato una bellissima collana di perle rosa, per esempio. Quando eri piccola, ti ho coperta di giocattoli, vestiti, ogni sorta di cose. Non devi pensare di essere rimasta sola. Hai ancora un padre e, adesso, anche una matrigna e una sorella.» Teri si sedette di colpo, appoggiandosi alla testiera e guardando nervosamente Charles. «Una sorella», bisbigliò. «Che aspetto ha?» Lui sorrise nell'oscurità. «Ti piacerà. Ieri ha compiuto tredici anni ed è la
bambina più dolce che tu possa incontrare. In effetti, mi ha pregato di dirti quanto le dispiaccia per l'accaduto e che ha sempre desiderato tantissimo una sorella. Ora il suo sogno si è avverato.» «Ma... se non le piacessi?» Charles le prese gentilmente la mano. «Certo che le piacerai. E lei ti vorrà bene quanto me.» Parlarono ancora per qualche minuto, finché Teri non si fu calmata completamente; infine il padre le rimboccò le coperte e le diede il bacio della buonanotte. «E ricordati», concluse, «se ti senti di nuovo sola, vieni nella mia camera e svegliami.» Quando Charles se ne fu andato, chiudendosi la porta alle spalle, Teri rimase immobile al buio, immersa nei propri pensieri. Pensò alla mamma. Al patrigno. E al suo vero padre. In un certo senso, quella notte non era diversa da tutte quelle in cui era giaciuta sveglia nel letto cercando di capire perché la mamma avesse abbandonato il suo vero papà. Le era sempre parso che tutto fosse perfetto, all'epoca in cui avevano vissuto insieme nell'enorme casa in riva al mare. Naturalmente, ora le riusciva difficile ricordare: era così piccola al momento del divorzio! Tuttavia, anche se aveva trascorso la maggior parte della propria esistenza lontano da Secret Cove, dentro di sé continuava a ritenere quel luogo la sua vera casa. E ora stava per farvi ritorno. Se solo sua madre fosse stata con lei! Allora sì, tutto sarebbe tornato come quando era piccina! La sua vita sarebbe stata perfetta... Si costrinse a smettere di fantasticare, di crogiolarsi in desideri impossibili. Cercò di dormire, ma si accorse di non avere sonno. Infine si decise ad accendere la lampada sul comodino e, scesa da letto, andò all'armadio, dove frugò in una tasca dell'accappatoio. Quando tornò sotto le coperte, stringeva in mano l'unica cosa che aveva portato con sé fuggendo dalla casa in fiamme. La espose alla luce, esaminandola attentamente. Si trattava di un filo di perle rosa. Lo fissò a lungo, sfiorando le piccole superfici levigate e appoggiandosele contro la guancia. Un'ora dopo, quando infine si addormentò, teneva ancora stretta la collana.
5 «Teri? Atterreremo fra venti minuti.» Lei sbatté le palpebre, poi aprì gli occhi stiracchiandosi nel sedile di prima classe del DC-9. Aveva la gola secca e, per quanto fosse consapevole di essersi addormentata subito dopo il cambio d'aereo a Chicago, le sembrò di essere sveglia da un'eternità: gli occhi le bruciavano e tutte le giunture del suo corpo erano indolenzite. Suo padre le sorrise come se sapesse esattamente come si sentiva. «Detesto i voli notturni», commentò infatti. «Soprattutto quelli diretti a est in estate. Sali a bordo quando è ancora chiaro, atterri di mattina, ma hai l'impressione che la notte non ci sia mai stata. Perché non vai a lavarti il viso? Ti sentirai meglio.» Teri assentì e percorse lo stretto corridoio in direzione della minuscola toilette, portando con sé la borsa che papà le aveva regalato il giorno prima. Una volta all'interno, si spruzzò le guance con l'acqua fredda e cercò di pettinarsi. Guardando la propria immagine allo specchio, rabbrividì: gli occhi gonfi e l'abbronzatura, che sembrava essere svanita nel corso delle ultime ore, la facevano apparire smunta, come se fosse reduce da una lunga malattia. Armeggiò con la cerniera della borsetta in cerca del rossetto, si applicò un tocco di colore alle labbra, quindi si esaminò nuovamente. Parte del gonfiore era già scomparsa e il suo aspetto non sembrava terribile come qualche minuto prima. Stabilendo di avere ormai fatto del proprio meglio, ritornò nella cabina e sorseggiò il succo d'arancia che il padre aveva ordinato per lei nel frattempo. Infine sollevò la tendina e guardò fuori. Stavano scendendo rapidamente. Quando l'aereo virò in vista dell'atterraggio, scorse un'incredibile panorama della costa del Maine, una serie di scoscese scogliere occasionalmente interrotte da insenature e da rare strisce di sabbia. Frugò nella memoria, tentando di rammentare qualche sensazione di familiarità. Ma non trovò nulla: quella veduta le era totalmente estranea. «Continuo a pensare che dovrei ricordarmene», disse, rivolta al padre. Charles sorrise forzatamente. «Mi sorprenderebbe il contrario», osservò. «Quando sei partita non avevi ancora tre anni e, per di più, avete viaggiato in auto.» Lei scosse la testa. «Però rammento qualcosa, anche se non molto. Un grande prato e una spiaggia.»
Suo padre rise. «Beh, Secret Cove è piena di prati e, in effetti, abbiamo una spiaggia.» Poi, accorgendosi che Teri estraeva dalla borsetta uno specchietto e si esaminava per l'ennesima volta il viso, fu certo di capire cosa le stesse passando per la mente. «Smettila di preoccuparti. Nessuno è al meglio del proprio aspetto dopo una notte di volo.» «Ma... e se non piacessi a Phyllis e Melissa?» «Quante volte devo ripeterti che non avrai alcun problema? Ieri Phyllis mi ha detto che ti stanno preparando una camera, anzi, due, in modo che tu possa scegliere. A quanto pare, poi, negli ultimi giorni Melissa non ha parlato d'altro che dell'arrivo di sua sorella.» Teri non seppe se credergli o meno, benché avesse tentato disperatamente di convincersi che tutto sarebbe andato bene, che suo padre la voleva davvero con sé e non l'avrebbe mandata via. Tuttavia l'aveva già abbandonata una volta, tanto tempo prima, quando lei era quasi troppo piccola per ricordare. E se avesse di nuovo deciso di disfarsene? Che cosa le avrebbe riservato il futuro? Melissa osservò l'aereo toccare terra e percorrere la pista verso il terminal. Inconsciamente, le sue dita andarono alla manica del golf bianco che teneva legato attorno al collo e cominciarono a torcere nervosamente il tessuto. «Per amor del cielo!» esclamò Phyllis bruscamente. «Non agitarti. Non puoi lasciar stare quel povero golf? Quando siamo uscite da casa era perfettamente pulito, e guardalo adesso!» Immediatamente lei infilò le mani nelle tasche dei pantaloni corti, poi le ritrasse. «E se non le piaccio?» domandò. La madre strinse le labbra. «Beh, non ne vedo il motivo. Se solo ti sforzassi, tutti ti apprezzerebbero. Se invece non provi neppure, non puoi certo aspettarti di avere un sacco di amici.» Melissa si pentì di averlo chiesto. Sempre più irrequieta, fece per passarsi le dita fra i capelli, quindi ricordò il solito ritornello della mamma: «Come puoi aspettarti di avere dei bei capelli se li tratti in quel modo?» Finalmente scorse il padre dirigersi verso di lei e scattò in avanti, gettandogli le braccia al collo mentre lui la baciava sulle guance. «Ti sono mancato?» le domandò e lei assentì vigorosamente. Charles si liberò gentilmente della sua stretta e si girò verso la ragazza in piedi lì accanto. «Questa è tua sorella, tesoro.»
Guardando Teri per la prima volta, Melissa trattenne il respiro. Le parve che fosse ancora più bella che in fotografia: aveva gli occhi azzurro intenso e i suoi capelli, pettinati all'indietro, sembravano appena lavati. Indossava una maglietta bianca e un paio di pantaloncini kaki molto simili a quelli che portava lei stessa, ma su Teri i vestiti facevano il medesimo effetto dei capi delle modelle sulle riviste. «C... ciao», balbettò incerta, sentendosi persino più goffa del solito in presenza della sorellastra. «Il meno che tu possa fare è darle un bacio», la incitò Phyllis, sospingendola. Melissa si rese conto di arrossire e mosse un passo verso Teri, ma quest'ultima, evidentemente avvertendo il suo imbarazzo, le accennò un breve sorriso. «Forse faresti meglio a evitarlo», dichiarò. «Sono tutta sporca.» «Be', di certo non lo sembri», osservò Phyllis, oltrepassando la figlia per abbracciarla. «Ti ricordi di me? Mi prendevo cura di te quand'eri piccolissima.» Strinse a sé Teri e abbassò la voce. «Siamo tutti terribilmente spiacenti per l'accaduto. Dev'essere spaventoso per te.» La ragazza accettò l'abbraccio della matrigna, ma rimase in silenzio. La pausa di disagio venne infine spezzata da Charles. «Perché non ce ne andiamo?» chiese, afferrando la sacca. «Dov'è la macchina?» «Nel parcheggio», rispose Phyllis. «Tu e Melissa potreste occuparvi di portarla di fronte all'uscita mentre io aiuto Teri a recuperare i bagagli.» «Io... non ne ho», mormorò lei. «Possiedo solo ciò che papà mi ha comprato. Il resto...» La sua voce si spense e subito Phyllis le circondò le spalle con aria comprensiva. «Non ti preoccupare. A Secret Cove abbiamo una quantità di ottimi negozi e domani inizieremo a procurarti un nuovo guardaroba.» Melissa si affiancò al padre e lo prese per mano, ma si ritrovò a sbirciare indietro in direzione della sorellastra ogni due o tre secondi. Infine Charles le strizzò l'occhio. «Che ne pensi?» «È... è così bella», bisbigliò. Lui le strinse la mano. «Non quanto te, tesoro.» Vicino alla rassicurante forza del papà, Melissa sentì svanire parte della tensione accumulata nel corso degli ultimi giorni con la madre. Finalmente era tornato e, almeno per poco, lei sarebbe stata al sicuro. Ora, con l'arrivo di Teri, forse la mamma avrebbe evitato di dimostrarsi troppo dura; in definitiva, poteva anche darsi che la sorellastra le offrisse lo stesso genere di protezione garantitale dal padre.
Mentre la Mercedes si allontanava dall'autostrada per puntare verso Secret Cove, Teri guardò fuori del finestrino posteriore in cerca di dettagli almeno vagamente familiari. Attraversando il piccolo villaggio dai magnifici negozi, tutti costruiti nel secolo precedente o accuratamente progettati in modo da sembrare tali, non notò nulla che le ridestasse il minimo ricordo. Ma quanto vide la lasciò affascinata. A differenza dalle strade della San Fernando Valley, che si stendevano per chilometri in mezzo a un caos sconfinato di supermercati e ristoranti fast food, la via principale di Secret Cove scaturiva da un bosco per snodarsi lungo quello che a lei parve una specie di parco. Tutti i negozi erano adornati con vasi di fiori alle finestre e possedevano un giardino: evidentemente, un tempo erano stati case private, perfettamente conservate dietro i cancelletti neri di ferro. «È magnifico», esclamò, rivolta a Melissa. «È sempre stato così?» La ragazzina assentì. «Nessuno vive più nel villaggio. Tutte le abitazioni dei residenti stabili si trovano nella parte occidentale. Esistono un sacco di regolamenti circa la conservazione della zona: la società storica provvede a far sì che nessuno cambi nulla.» Ridacchiò sommessamente. «Cora — la nostra domestica — sostiene che stanno cercando di trasformare l'intera città in un museo, ma Tag obietta che non ha importanza, visto che quasi tutti gli abitanti sono comunque dei fossili.» Teri inclinò il capo. «Chi è Tag?» «Il nipote di Cora. Vive con lei da quando i suoi genitori se ne sono andati, scaricandolo alla nonna. Ti sembra possibile?» L'altra scosse la testa. «Che aspetto ha? È carino?» Dal sedile anteriore, Phillis si intromise nella conversazione. «È un ragazzino molto comune, che lavora alla villa. Suppongo che, quando sarà cresciuto, sposerà una delle ragazze del luogo.» «No», interloquì Melissa. «Andrà all'università e diventerà un architetto.» La donna le lanciò un'occhiata ostile. «Ma davvero? E come pagherà gli studi?» La ragazzina scrollò le spalle. «Io... immagino che lavorerà o si sforzerà di ottenere una borsa di studio. Del resto, non tutti frequentano Harvard, Yale e posti del genere.» «La gente che conta sì», sbottò Phyllis. «E tu, Teri? Hai già pensato all'università?»
«Credo che sarei andata all'Università Statale della California, ma adesso...» La voce le si incrinò e tutti si resero conto che qualsiasi progetto avesse cullato era finito in cenere qualche giorno prima. «Beh, abbiamo un sacco di tempo per pensarci», aggiunse Phyllis frettolosamente. «Sarà molto divertente cercare una scuola per te. Ai primi di settembre, Eleanor Stevens porterà Ellen a Vassar tanto per dare un'occhiata. Potremmo andare con loro.» Charles guardò la moglie di sbieco. «Su, Phyllis, dalle un po' di respiro. Ha davanti a sé ancora due anni di liceo.» «Non è mai troppo presto per pianificare il futuro», reagì la donna. «È molto difficile accedere alle scuole veramente valide e certamente non potrà nuocerle iniziare a stabilire qualche conoscenza fin da ora.» Teri si rivolse nuovamente alla sorella. «E tu che scuola frequenti?» «Il Liceo per Signorine Priscilla Preston. Io lo detesto, ma la mamma sostiene che devo andarci perché ci va tutta la gente giusta. È vecchissimo e un po' sinistro, senza contare che vige una disciplina molto rigida e gli insegnanti sono severissimi.» «È una scuola eccellente, Melissa, e dovresti essere grata per questa scelta.» La ragazzina alzò gli occhi al cielo e, quando si accorse che Teri le stava rivolgendo un sorriso di complicità, decise che le cose avrebbero funzionato. In quel momento l'auto oltrepassò la cancellata d'ingresso di Maplecrest e cominciò a percorrere il lungo viale che conduceva da Cove Road alla villa. Lo sguardo di Teri si concentrò nuovamente sul paesaggio. Quando emersero degli alberi, la ragazza trattenne il respiro. E finalmente qualcosa le scattò nella memoria. Non avrebbe saputo dire se si trattasse delle dimensioni della casa, della sua forma, o semplicemente della vastità del prato antistante, ma qualcosa le era familiare. L'edificio torreggiava dinnanzi a loro, un'enorme struttura ricoperta in legno con un'ampia veranda frontale sulla quale si affacciavano le portefinestre del piano terra. Al centro della costruzione spiccava un grande portone e, guardandolo, Teri ricordò di colpo come si presentasse l'interno. Un immenso ingresso (o, perlomeno, tale le era parso quando era piccola) con una scalinata che, dopo la prima rampa, si biforcava fino allo spazioso pianerottolo del piano superiore. Poi... Poi più nulla, perché non riusciva a rammentare altro. Charles arrestò la macchina sul vialetto di ghiaia di fronte alla villa e Te-
ri scese, esitante, osservando la facciata di Maplecrest. «È talmente grande», bisbigliò, le parole a malapena intelligibili. «È un vero e proprio palazzo!» «Beh, è comoda», dichiarò Phyllis con il medesimo tono di leggera sufficienza che usava di solito quando mostrava la villa a chi vi entrava per la prima volta. «Ma non si tratta di certo di un palazzo. Assolutamente nessuno può più permettersi una cosa del genere. Sono stati tutti trasformati in istituti o centri religiosi.» La porta si aprì e Cora, con un grembiule pulito allacciato in vita, si precipitò fuori. Oltrepassandola con un impercettibile cenno del capo, Phyllis marciò sdegnosamente verso l'ingresso mentre Tag, che aveva seguito la nonna, rimase in attesa sulla veranda. La domestica scese gli scalini in tutta fretta. «Teri, ma sei davvero tu? Oh, santo cielo, guardatela!» La abbracciò con trasporto, stringendosela all'ampio seno, quindi la tenne a una certa distanza per osservarla meglio. «Così cresciuta sei il ritratto sputato di tua madre!» Poi, udendo le proprie parole, si incupì. «Oh, cara, è tutto tanto orribile e io me ne sto qui a comportarmi come se fossi venuta per una visita.» Con un angolo del grembiule si asciugò gli occhi pieni di lacrime. «Io... beh, non so proprio cosa dire. Sicuramente stai pensando che sono davvero una vecchia stupida. Probabilmente non ti ricordi neppure di me, vero?» Teri scosse la testa. «In verità, non rammento quasi nulla. È passato tanto tempo. In un certo senso, però, tutto ha un'aria familiare.» «Tua madre ti deve aver mostrato qualche fotografia della casa», suggerì Charles. Lei assentì. «Ma è diverso. È quasi come se l'avessi sognata.» «Lo avrai fatto di certo», affermò Cora. «Dopotutto sei nata qui. Certe cose non si dimenticano mai. Ora ti presento mio nipote.» Si girò. «Tag? Vieni a salutare Teri.» Il ragazzo scese lentamente le scale e protese la mano. «Salve.» «Ciao», rispose lei, sorridendogli. Si udì un vigoroso abbaiare e Teri si voltò a guardare il grosso labrador che avanzava a balzi sul prato, la coda che si agitava furiosamente. «Vieni, Blackie!» gridò Melissa. «Coraggio!» Il cane si precipitò dalla ragazzina e si alzò sulle zampe posteriori, quasi sommergendola con la sua mole e leccandole gioiosamente il viso. Ridendo, Melissa gli grattò le orecchie, quindi lo spinse giù. «Questa è Teri», disse, girandosi verso la sorellastra. «Vuoi stringerle la mano, Blackie?»
Invece di porgere la zampa, il labrador si rannicchiò contro le gambe di Melissa, emettendo un basso e prolungato ringhio. «Blackie!» lo sgridò lei. «È questo il modo di trattare una nuova amica?» Poi sorrise a Teri. «Coraggio, lasciati annusare la mano. È spaventato.» La ragazza mosse un passo esitante e sporse una mano con riluttanza. Ma il cane scappò via, scomparendo oltre la cima della collinetta che separava il prato dalla spiaggia. «Blackie!» lo chiamò Melissa. «Torna subito qui!» «Non importa», dichiarò Teri. «Lascialo andare.» La ragazzina si strinse nelle spalle. «Vieni», esclamò. «Voglio mostrarti la tua stanza.» Al seguito della sorella, Teri entrò nella villa, ma si bloccò non appena ebbe oltrepassata la soglia. Tutto era esattamente come se lo era aspettato: la stanza rivestita in legno dipinto di bianco, le porte-finestre ai lati della scalinata che si aprivano sulla terrazza posteriore. Sopra le scale, inserito nel soffitto un piano più in alto, si stagliava un lucernario a cupola le cui vetrate istoriate mandavano un arcobaleno di colori a rifrangersi sul pavimento di marmo bianco. «Me lo ricordo», bisbigliò. «Rammento la scalinata da quando ero bambina. Mi sembrava immensa.» Rise sommessamente. «Del resto, lo è sul serio, non credi?» Melissa assentì. «Mi piaceva moltissimo lasciarmi scivolare lungo il corrimano. Cora ripeteva sempre che mi sarei uccisa, la mamma sosteneva che non era signorile, ma io lo facevo lo stesso. Vuoi provare?» Teri alzò lo sguardo sulla balaustra di noce levigato che, dal piano superiore, si incurvava verso il basso, quindi scosse la testa. «Penso che Cora abbia ragione. Probabilmente finirei per cadere e rompermi l'osso del collo.» «Ma no!» protestò la ragazzina. «È divertente. Ci proveremo domani.» Salirono le scale girando verso destra, dove la rampa si divideva in due, e giunsero sul ballatoio del primo piano. «Puoi scegliere fra due stanze», spiegò Melissa. «Una dovrebbe essere una camera per gli ospiti, ma la mamma dice che se ti piace è tua. Da questa parte.» Guidò Teri verso l'angolo est della casa e aprì la porta su un locale vasto e arioso, con due finestre affacciate sullo splendido panorama della baia e dell'oceano, mentre una terza guardava sulla terrazza che univa le due ali
posteriori della villa. «Ma la mia stanza è proprio dalla parte opposta della terrazza», dichiarò la ragazzina. «Questa, però, è più grande e possiede un bagno privato.» «Dov'è l'altra camera?» domandò Teri. Il sorriso di Melissa si smorzò leggermente. «È molto più piccola di questa e la vista non è altrettanto bella.» «Beh, posso almeno darle un'occhiata?» La sorella minore la condusse sull'altro lato della casa e sostò di fronte alla porta della cameretta che sua madre aveva inizialmente scelto per Teri. «È... beh, si può a malapena definire una stanza», avvertì. Aprì il battente e lasciò entrare la ragazza per prima. La cameretta era stata pulita scrupolosamente: Melissa stessa aveva aiutato Cora a sfregare ogni superficie fino a farla brillare e in soffitta avevano trovato qualche mobile migliore dei precedenti. La piccola cassettiera era stata sostituita con un comò elegantemente intagliato che Tag aveva scoperto in un remoto angolo del solaio, mentre, in sostituzione del divano-letto, faceva ora bella mostra di sé un letto antico. La sedia a dondolo era rimasta al proprio posto, ma i cuscini erano stati ricoperti con una stoffa nuova dal vivace disegno floreale. «Se decidi che questa stanza ti piace di più, scommetto che potremmo ritappezzare le pareti», osservò la ragazzina. Colpita dal tono speranzoso della sorellastra, Teri si girò verso di lei. «Cos'ha di speciale questa stanza?» chiese. «Non è neppure lontanamente spaziosa quanto l'altra né altrettanto carina.» «Lo so», sospirò Melissa. «Se fossi nei tuoi panni, avrei preso la mia decisione in un minuto. Ma guarda.» Si diresse al piccolo bagno che superava l'alloggio della bambinaia dall'altra camera e aprì la porta. «Ecco, da qui puoi entrare nella mia stanza senza passare dal corridoio. Di conseguenza, se optassi per questa sistemazione, potremmo sgattaiolare avanti e indietro senza che papà e mamma se ne accorgano.» Teri esaminò il bagno: benché fosse piccolo a confronto con gli altri locali di Maplecrest, era pur sempre assai più ampio di quello che aveva diviso con i genitori in California. E la camera per cui Melissa si era appena scusata era comunque più spaziosa di quella che aveva occupato a casa sua. No, si corresse silenziosamente. Adesso è questa la mia casa. Si spostò verso la seconda porta del bagno, quella che conduceva alla stanza della sorellastra, e di colpo ebbe un secondo lampo di riconosci-
mento. «Coraggio, entra», la sollecitò Melissa. Lentamente, socchiuse il battente. Non appena ebbe oltrepassato la soglia, ne fu assolutamente certa. Quella era stata la sua camera. Tutto le parve familiare, nonostante non vi avesse più messo piede da quando aveva meno di tre anni. Persino l'odore sembrava ridestarle antiche sensazioni: calore, sicurezza, braccia che la cullavano e visi sorridenti. Sì, lì aveva trascorso la prima infanzia. Esitò, turbata da quelle emozioni. La stanza nell'altra ala era molto più grande e luminosa. Ma quello era il settore riservato agli ospiti. Persone che rimanevano qualche giorno, forse anche un paio di settimane, per poi ripartire. Lei, però, non se ne sarebbe andata. Questa era di nuovo casa sua e non intendeva sentirsi un'ospite. E, naturalmente, c'era Melissa. Che in quel momento la stava osservando ansiosamente, in attesa di conoscere la sua decisione. Infine sorrise. «Penso tu abbia ragione. Prenderò questa. L'altra è troppo grande e passerei il mio tempo a guardare dalla parte opposta della terrazza, chiedendomi che cosa stai facendo e desiderando di poter parlare con te. Sarà molto più divertente stare vicine.» Melissa guardò quella splendida ragazza sorridente e, d'impulso, le gettò le braccia al collo. «So che quanto è accaduto è davvero terribile», mormorò. «Ma sono così felice che tu sia qui! Mi sono sempre sentita molto sola e ora non lo sono più.» Teri esitò un attimo, quindi ricambiò l'abbraccio. Ma benché le sue labbra sorridessero con calore, gli occhi (se qualcuno li avesse notati) tradivano una freddezza sconcertante. 6 Brett Van Arsdale osservò la palla compiere un arco verso l'alto e attese fino all'ultimo secondo prima di scattare con il braccio proteso e la mano stretta a pugno. Esattamente al momento giusto rispedì la palla oltre la rete
e nella sabbia fra Kent Fielding e Cyndi Miller, che si lanciarono un'occhiata accusatrice. Entrambi parlarono nel medesimo istante. «Perché non l'hai presa?» «Stava arrivando proprio da te!» «Abbiamo vinto!» sbraitò gioiosamente Jeff Barnstable, compagno di gioco di Brett. «Qualcuno vuole cimentarsi in una sfida tra ragazzi e ragazze?» «Datemi un po' di respiro», borbottò Ellen Stevens. «Jeff, due anni fa, quando noi tutte eravamo più forti di voialtri, tu non volevi mai giocare!» «E con ciò?» replicò lui, sogghignando impudentemente. «Le cose cambiano e bisogna adattarsi, cara mia.» Ellen si lasciò cadere sull'asciugamano da spiaggia. «Sai cosa ti dico?» esclamò, stiracchiandosi languidamente nell'applicarsi un nuovo strato di crema solare e avvertendo su di sé lo sguardo ammirato di Jeff. «Dopo pranzo faremo una partita a tennis e Cyndi e io ci misureremo con te e Kent in un doppio.» Il ragazzo grugnì, sedendosi accanto a lei. «Pensi che sia scemo? Non ho nessuna intenzione di permettere che tutto il club ti veda battermi.» Ellen inarcò le sopracciglia. «Invece va benissimo se tutti guardano mentre voi ragazzi ci distruggete a pallavolo. Ogni tanto sei davvero uno squallido maschilista.» Jeff afferrò una manciata di sabbia e lei si scostò ridendo. Un attimo dopo, lui se la fece scivolare fra le dita. «Ehi», disse a nessuno in particolare, «qualcuno di voi si è già imbattuto in Teri?» Cyndi Miller scosse la testa. «È strano, visto che si trova qui ormai da due giorni. Avremmo dovuto incontrarla sulla spiaggia.» «Forse è matta come Melissa», dichiarò Marshall Bradford ridacchiando. «Dato che ha un paio d'anni di più, probabilmente la devono tenere chiusa in soffitta.» Ellen Stevens fece una smorfia. «La mamma continua a ripetermi che dovrei telefonarle, ma come si aspetta che mi comporti? Che la inviti qui senza Melissa?» «E perché no?» obiettò Cyndi. «In fin dei conti, a Melissa non importa niente di noi. L'altro giorno ci ha praticamente buttato fuori a calci dalla sua festa di compleanno.» «Sai che festa!» borbottò Brett. «Una partita di pallanuoto e qualche tartina di Cora Peterson con crackers e burro d'arachidi. Proprio una cosa in grande stile. Avremmo potuto...» tacque di colpo, fissando un punto a una certa distanza.
Jeff Barnstable seguì lo sguardo dell'amico, quindi prese a gomitate Ellen Stevens, che si era sdraiata sulla schiena. «Indovina chi sta camminando lungo la spiaggia? Melissa e una ragazza che deve per forza essere Teri MacIver.» Lei emise un gemito esagerato. «Non è possibile fare qualcosa contro l'inquinamento, da queste parti?» Jeff ridacchiò, ma quando le due sorelle si fecero più vicine le diede un'altra gomitata. «Se vuoi proprio saperlo, Teri non assomiglia molto a un mucchio di catrame.» «Non mi sembrava di aver chiesto la tua opinione», rispose Ellen. Ciononostante, si mise a sedere e sbatté le palpebre all'intensa luce del sole. Un attimo dopo, quando le sue pupille si furono adattate, scorse la figura di Melissa, un po' troppo grassottella, con i capelli di un ispido color castano spioventi sulle spalle. Ma accanto a lei avanzava una seconda persona e il contrasto fra le due fece sbarrare gli occhi a Ellen, perché Teri, il corpo perfetto inguainato in un costume da bagno un po' troppo stretto che esponeva gran parte della sua pelle al sole, rappresentava l'esatto opposto della sorellastra. I capelli biondi pettinati all'indietro possedevano quel tipo di lucentezza naturale che Ellen stessa aveva invano cercato di riprodurre con l'ausilio di artifici vari. L'abbronzatura, un'intensa tonalità bronzo splendidamente sottolineata dal costume nero, era assolutamente uniforme ed Ellen si ritrovò a guardare automaticamente le strisce pallide all'interno delle proprie cosce. «La classica californiana», commentò, accorgendosi di avere usato un tono acido. Sbirciò gli amici, constatando che tutti — persino Cyndi Miller — stavano fissando Teri a bocca aperta. «Ma andiamo! Non è poi tanto fantastica.» «Oh, certo che lo è», esclamò Brett Van Arsdale. «Affronta la realtà, Ellen», aggiunse senza staccare gli occhi da Teri, «ti fa sembrare cibo per cani.» «Sei davvero volgare!» scattò lei. «Sei tu, piuttosto, quello che fa venire in mente i cani. Hai la lingua penzoloni e stai praticamente sbavando. E tutto perché indossa un costume di un paio di taglie troppo piccolo! Quando ti deciderai a crescere?» «Credo mi sia appena successo», sospirò lui. «Come posso fare per conoscerla?» «Non ti è venuto il sospetto che potresti semplicemente andare da lei e dirle ciao?» chiese Ellen, irritata.
«L'avrei fatto se solo tu non fossi stata tanto odiosa con Melissa l'altro giorno.» «Io?!» gridò lei. «E cos'ho fatto?» «Ma piantala! Ho sentito quello che tu e Cyndi dicevate sul suo conto e purtroppo vi ha udite anche lei.» «Beh, se tutto d'un tratto sei diventato pazzo per Melissa, perché non le vai a chiedere di presentarti a sua sorella?» «E perché no?» affermò Brett, senza però minimamente accennare ad alzarsi dall'asciugamano che divideva con Kent Fielding. «Dai, deciditi!» lo stuzzicò quest'ultimo, dandogli una spinta. «Vai a chiacchierare con Melissa! Per prima cosa puoi spiegarle quanto siamo dispiaciuti per quella sua schifosa festa di compleanno, poi le confidi di avere i bollori per sua sorella.» «Oh, santo cielo», gemette Brett. «Volete lasciarmi in pace?» «E in quale altro modo vuoi riuscire a conoscerla?» chiese Jeff. Il ragazzo scrollò le spalle. «Di sicuro non intendo provarci con voialtri fra i piedi. A ogni modo, prima o poi si farà vedere al club.» Cyndi Miller represse una risata. «Certo, assieme alla signora Holloway e a Melissa. Scordatene, Brett, non arriverai a Teri senza rimanere invischiato anche con Melissa.» Voltò le spalle alle due ragazze, che nel frattempo si erano fermate a una cinquantina di metri di distanza e stavano bisbigliando fra loro. «Del resto, chi se ne frega? Scommetto che è matta come la sorella.» «Ma non li conosci?» domandò Teri, la testa inclinata verso il gruppo di adolescenti sdraiati al sole nei pressi della rete di pallavolo. Melissa si morse il labbro. Sapeva che la sorellastra voleva fare amicizia con loro, ma il doloroso ricordo della festa di compleanno era ancora vivo nella sua memoria. «Sì, li conosco», ammise infine. «Ma ciò non significa che mi piacciano. Sono soltanto i classici ragazzi snob di Secret Cove.» L'altra improvvisamente si accigliò. «Noi siamo membri del club, vero?» «Certo, ma...» «Ma cosa?» si accalorò Teri. «Hai trascorso qui ogni estate della tua vita. Dopo tutto questo tempo, non sono ancora amici tuoi?» La ragazzina scosse il capo. «No. Io... temo di non piacere a nessuno di loro.» Abbassò lo sguardo, incapace di guardare la sorellastra. «E questo che cosa significa?» chiese Teri. «Perché non dovrebbero tro-
varti simpatica?» Melissa si strinse nelle spalle, desiderando ardentemente di non essere mai venuta sulla spiaggia. Del resto, negli ultimi due giorni, entrambe si erano limitate a rimanere accanto alla piscina e quella mattina, quando Teri aveva proposto di fare una passeggiata sulla spiaggia, lei non si era sentita di confessare che non voleva perché temeva di imbattersi nei ragazzi del club. Con uno sforzo riportò lo sguardo sul viso di Teri e si accorse che non mostrava traccia di quella terribile espressione di superiorità che tutti gli altri le riservavano. «Perché no, ecco tutto.» Teri lanciò nuovamente un'occhiata al gruppo sdraiato sugli asciugamani e capì di colpo. Anche da dove si trovava, poteva notare che si assomigliavano: tutti biondi, le femmine snelle e i maschi muscolosi e con le spalle larghe. Erano il tipo di ragazzi che aveva talvolta incontrato anche dalle sue parti, quando lei e gli amici prendevano l'autobus fino a Beverly Hills tanto per guardarsi attorno. Era sempre stata in grado di riconoscere i coetanei che abitavano lì: assolutamente identici fra loro, facevano acquisti a Rodeo Drive e trascorrevano le estati sui bordi delle piscine e giocando a tennis nelle tenute dei genitori. Se poi si degnavano di guardare lei e gli amici, cosa che non succedeva praticamente mai, Teri capiva immediatamente ciò che stavano pensando: voi non appartenete a questo mondo, perché non ve ne tornate a casa? Ciononostante, sbirciando per l'ennesima volta in direzione del gruppo sulla spiaggia, fu certa che perlomeno uno di loro la stesse guardando in modo diverso, con l'espressione di chi desidera fare conoscenza. A meno che non stesse semplicemente fissando il costume da bagno un po' troppo succinto che ieri aveva scoperto nello spogliatoio della piscina. Era il più alto, forse al di sopra del metro e ottanta, e quando sorrise a uno degli amici lei notò le profonde fossette sulle sue guance. «Chi è?» chiese alla sorella. Melissa non ebbe neppure bisogno di voltarsi verso il gruppo per capire a chi si riferisse Teri: doveva per forza trattarsi del ragazzo per il quale lei nutriva una cotta segreta da due estati a quella parte. «Jeff Barnstable», rispose subito. «Non è adorabile? Mi piacciono i suoi capelli ricci e ha degli occhi incredibili.» La sorellastra la guardò con aria attenta. «Sei attratta da lui, non è vero?» Benché Melissa si affrettasse a scuotere la testa, il suo rossore improvvi-
so la tradì. «In un certo senso, forse sono cotta di lui», ammise infine, per poi emettere un profondo sospiro. «Ma Jeff non si è neppure accorto della mia esistenza.» Teri le strinse affettuosamente la mano. «Non ti preoccupare. Scommetto che, se solo riusciamo ad attirare la sua attenzione, ti noterà. Tra l'altro», aggiunse, «non stavo parlando di lui. Chi è il tizio più alto?» «Brett Van Arsdale.» «Che tipo è?» Melissa, sollevata all'idea che la sorellastra non fosse interessata a Jeff, scrollò le spalle in un gesto indifferente. «Non lo so. Suppongo sia un ragazzo a posto.» Si avviò lungo la spiaggia. «Vieni! Se li ignori, probabilmente ci lasceranno in pace.» L'una di fianco all'altra, si incamminarono sul bordo dell'acqua, i piedi sfiorati dalla schiuma delle onde a intervalli regolari. Teri poteva sentire gli occhi del gruppo che spiavano il loro passaggio, ma evitò di sollevare lo sguardo. Dopo qualche decina di metri propose a Melissa: «Perché non nuotiamo un po'? Ho caldo e sono tutta sudata». Senza attendere una risposta, si precipitò in acqua, correndo finché non fu immersa fino alle ginocchia per poi tuffarsi in un'onda. Il gelo improvviso la paralizzò per un istante, ma ben presto si riscosse e, dopo qualche bracciata, rimase a galleggiare sul dorso. «Muoviti!» gridò alla sorellastra. Melissa esitò, quindi entrò in acqua e si bloccò dopo pochi passi. «È fredda!» esclamò. Teri rise. «Non è fredda, è gelida! Dai, vieni! Se io ce l'ho fatta, puoi riuscirci anche tu. Non è poi così male, una volta che sei tutta intorpidita!» Udendo la risata di Teri, la ragazzina provò una fitta di pena; subito dopo, però, si accorse che non stava ridendo di lei, ma con lei. Dopo avere inspirato profondamente, si tappò il naso con le dita e si immerse nell'acqua, ma solo per balzare immediatamente in superficie, urlando per il freddo. «È l'unica maniera in cui riesco a farlo», spiegò a Teri un attimo dopo, nuotando lentamente verso di lei con Blackie al fianco. Infine, entrambe galleggiarono sul dorso l'una accanto all'altra, il calore del sole sui visi che compensava a fatica la temperatura rigida dell'oceano. Dopo qualche minuto, Melissa lasciò cadere i piedi verso il fondo, agitandoli per mantenersi in superficie: benché fossero in acqua da poco, si erano già spinte a circa trenta metri dalla riva. «Meglio tornare indietro. La marea ci sta spingendo al largo.» Teri si guardò attorno. «Vai pure, se vuoi. Io preferisco rimanere ancora
un po'.» La ragazzina esitò: la riteneva forse una fifona? Poi, però, si sentì sollecitare gentilmente. «Davvero, precedimi pure sulla spiaggia. Starò benissimo.» «D'accordo, ma avvicinati di più alla riva, va bene? Se la marea ti trascina fuori dalla baia...» «In tal caso annegherò», concluse allegramente l'altra. Con due vigorose bracciate raggiunse Melissa e la superò, rallentando per aspettarla; quando entrambe si trovarono a pochi metri dalla sabbia, si fermò. «Va bene così?» Melissa assentì, uscì dall'acqua e si lasciò cadere, ancora tremante, sulla spiaggia assolata. Un attimo dopo, Blackie la raggiunse e si scosse violentemente, spruzzandola di acqua gelida. La ragazzina rimase a osservare Teri, che galleggiava nuovamente sul dorso, finché un gruppo di piccoli trampolieri non attirò la sua attenzione. Quando Blackie scattò all'inseguimento, si divertì a osservarlo mentre tentava disperatamente di acciuffare gli uccelli, che si alzavano in volo al suo avvicinarsi per poi planare nuovamente al suolo non appena fuori della sua portata. La contemplazione di quel buffo spettacolo fu bruscamente interrotta da un grido atterrito. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!» Melissa balzò in piedi ed esaminò freneticamente la superficie dell'acqua, scorgendo Teri, una cinquantina di metri al largo, che agitava le braccia in aria. Istintivamente corse verso la riva, ma fu preceduta da Brett Van Arsdale, che si era già tuffato al salvataggio; con poche bracciate potenti, in meno di un minuto aveva raggiunto la ragazza in difficoltà. A quel punto, Melissa corse a unirsi al gruppo che si era radunato sulla riva: ogni diffidenza nei confronti degli altri ormai dimenticata. In un batter d'occhio, tutto era finito: Brett, un braccio attorno al torace di Teri, stava procedendo goffamente sul dorso, ma, dopo pochi metri, lei gli disse qualcosa e il ragazzo la lasciò andare. Fianco a fianco, ritornarono sulla spiaggia, dove Teri, tremante, piombò di colpo a sedere, immediatamente circondata dalla piccola folla di adolescenti. «Stai bene?» le domandò Ellen Stevens. Ansimando, lei assentì. «Mi sento davvero un'idiota», riuscì infine a dire. Kent Fielding le si inginocchiò accanto. «Cos'è successo?» «Mi sono spinta troppo al largo. Melissa mi aveva avvertito, ma temo di non averle dato retta. La marea ha cominciato a trascinarmi e sono stata
presa dal panico.» Alzò lo sguardo su Brett Van Arsdale, in piedi a poca distanza. «Grazie. Ero talmente spaventata! Non so cosa avrei fatto se tu non fossi venuto ad aiutarmi.» Lui sorrise. «Non è niente», dichiarò, porgendole la mano. «Sono Brett Van Arsdale.» «Teri MacIver, la sorellastra di Melissa.» A quel punto, anche gli altri cominciarono a presentarsi e ben presto Teri si trovò nel mezzo del gruppo, raccontando nei particolari la propria disavventura. «Stavo galleggiando a occhi chiusi e mi ero quasi addormentata. Quando ho deciso di guardarmi attorno per controllare dove mi trovavo, mi sono accorta di quanto ero arrivata al largo e mi sono fatta prendere dal panico. È stato veramente stupido da parte mia mettermi a urlare in quel modo, visto che non ero sul punto di annegare.» «Forse non lo eri», osservò Brett, «ma se la marea ti avesse spinta fuori della baia, ti saresti trovata in guai seri. Là in fondo le onde sono molto alte e, se ti portano verso sud, non ci sono altro che scogli. L'estate scorsa, un tizio che stava facendo surf è stato gettato sulle rocce da un'ondata e si è scorticato tutto il torace. Non è rimasto ucciso per pura fortuna.» «Ma dai!» protestò lei. «Non ero per niente vicina al promontorio. Mi sono semplicemente spaventata. Mi... mi dispiace molto di averti costretto a nuotare fin là.» Il ragazzo arrossì. «Non importa, davvero!» «Ti assicuro che non sta mentendo», malignò Kent Fielding. «Dal modo in cui parlava di te, ci eravamo tutti convinti che avrebbe tentato di annegarti lui stesso, pur di poterti salvare.» Brett gemette. «Vuoi star zitto?» esclamò, il rossore ancor più vistoso. «Gesù, penserà che sono una specie di cretino!» «Perché, non lo sei?» lo stuzzicò Cyndi Miller, scostandosi velocemente quando lui le gettò una manciata di sabbia. Rimasta a osservare, Melissa notò che Teri sembrava essere entrata istantaneamente a far parte del gruppo, chiacchierando con tutti e adeguandosi subito ai loro modi scherzosi. Infine, dato che gli altri l'avevano chiaramente messa in disparte, si incamminò lungo la spiaggia con Blackie alle calcagna. Dieci minuti dopo, Teri, seduta fra Brett ed Ellen Stevens, si guardò attorno. «Dov'è Melissa? Era qui un minuto fa.» «Chi se ne frega?» rispose qualcuno. Accigliata, lei si rivolse a Brett. «Cos'è che non va in Melissa? Come
mai non piace a nessuno?» Lui arrossì ed evitò di guardarla. Fu Ellen Stevens a rispondere, la voce colma di disprezzo. «Oh, andiamo, ma l'hai guardata bene? Ha perlomeno dieci chili di troppo e un aspetto assolutamente spaventoso. Quei capelli, poi! Se li lava mai? Inoltre, è un impiastro. Sa a malapena nuotare e a tennis è un disastro. Non ha mai niente da dire. Tutti pensano che sia matta.» «Per non parlare di sua madre!» sbuffò Cyndi Miller. Immediatamente, nella testa di Teri risuonò un campanello d'allarme. «Che cosa c'è di strano in Phyllis?» L'altra inarcò le sopracciglia in un'espressione da adulta. «Suppongo che in lei non ci sia niente di sbagliato», dichiarò, in una imitazione quasi perfetta del tono della propria madre. «Se ti piace quel genere di persona, perlomeno. Ma non è una di noi e non lo sarà mai.» «Intendi dire perché non è cresciuta qui?» domandò Teri, certa di aver già capito perfettamente. «Non è cresciuta da nessuna parte», rispose Ellen. «La mamma sostiene che nessuno sa da dove venga e che tipo di famiglia abbia.» Con il tono di voce sommesso che sua madre usava quando era sul punto di fare un'osservazione tagliente, proseguì: «Inoltre, cerca continuamente di insinuarsi nel nostro giro, proprio come fosse una di noi!» Teri si alzò in piedi, riflettendo furiosamente su tutto quanto aveva udito negli ultimi minuti. «È meglio che vada», dichiarò. Si incamminò in direzione della casa degli Holloway, ma si voltò al richiamo di Brett. «Perché non vieni al club oggi pomeriggio? Forse giocheremo qualche partita a tennis.» «Ci penserò.» Quindi si affrettò lungo la spiaggia. Poco dopo, trovò Melissa seduta sulla sabbia, intenta a fissare il mare, con Blackie al fianco. All'avvicinarsi di Teri, il grosso cane ringhiò sommessamente; la ragazzina alzò lo sguardo, ma rimase in silenzio, tornando a concentrarsi sulla distesa d'acqua. «Sei arrabbiata con me?» chiese la sorella. Melissa scosse il capo. «Sì che lo sei. Sei furiosa perché mi sono fermata a parlare con quei ragazzi, vero?» L'altra scrollò le spalle, senza negare. Teri le si sedette accanto. «Non sono poi così male. Certo, hanno un atteggiamento un po' snob, ma guarda come vivono. Sono tutti ricchi.» L'e-
vidente nota di invidia nella sua voce spinse Melissa a guardarla. «Probabilmente ti troveranno simpatica», affermò in tono ferito. «Sei così carina e simile a loro. Ti inserisci perfettamente nel gruppo.» «Non lo so», sospirò Teri. «Ho ricavato l'impressione che per loro conti soltanto da che ambiente provieni e chi sono i tuoi genitori. E io vengo dalla California.» Melissa riuscì finalmente ad accennare un sorriso. «Non è vero. Tu sei nata qui, esattamente come i tuoi genitori, quindi sei una di loro.» «Anche tu, se per questo.» La ragazzina scosse la testa e trasse un profondo respiro, come se fosse in procinto di confidare qualcosa che avrebbe preferito tacere. «Che c'è?» la sollecitò Teri. «La mamma. Non piace a nessuno. Continua a tentare di accattivarseli, ma non ci riesce. Tutti sparlano alle sue spalle e la prendono in giro, esattamente come fanno con me.» «Scommetto che smetterebbero se tu non facessi capire che ti ferisce. Fingi di non sentire, proprio come io ho fatto finta di annegare.» Melissa la guardò a bocca aperta. «Vuoi dire che non correvi alcun pericolo?» Sulle labbra di Teri comparve un sorriso astuto. «Certo che no. Nuoto come un pesce. Ma non esiste modo migliore per conoscere i ragazzi sulla spiaggia che permettere loro di salvarti. Così ho fatto in modo che Brett accorresse in mio aiuto.» «Ma... è come mentire, non è vero?» «E con ciò? Volevo conoscerlo e ci sono riuscita. Se funziona, fallo.» La ragazzina evitò di rispondere, preferendo riflettere sulle parole della sorella. Se funziona, fallo. Sembrava molto semplice e, a quanto pareva, per Teri lo era. In fin dei conti, le erano bastati solo pochi minuti per fare amicizia con tutti i ragazzi con i quali lei stessa era cresciuta senza però riuscire mai a inserirsi. Perché non provare a fare altrettanto? Tuttavia, conosceva già la risposta: anche se avesse saputo come comportarsi, non ci sarebbe comunque riuscita. Per quanto si fosse sforzata, avrebbe combinato un pasticcio, e tutti l'avrebbero derisa per l'ennesima volta. Meglio non tentare neppure.
Quella sera, al calar del crepuscolo, Teri e il resto della famiglia erano riuniti nella biblioteca. Solo Phyllis guardava la televisione, mentre lei sfogliava una vecchia rivista e Melissa giocava a scacchi con il padre. Entrambi erano assorbiti dalla partita, evidentemente dimentichi di qualunque cosa si svolgesse attorno a loro. Teri si guardò attorno e di colpo le pareti parvero chiudersi attorno a lei: era lì ormai da due giorni e non aveva quasi mai lasciato il perimetro della villa, tranne che per la passeggiata sulla spiaggia di quella mattina. Rammentò le parole di Brett Van Arsdale, quando l'aveva invitata al club. Naturalmente non ci era andata. Benché Melissa le avesse suggerito di accettare, Phyllis si era mostrata dubbiosa: era ancora in lutto per la morte dei genitori, che cosa avrebbe pensato la gente? Beh, ma che cosa ci sarebbe stato da ridire? E quanto tempo le sarebbe toccato aspettare prima di ricominciare a vivere? Volevano forse che trascorresse l'intera esistenza pensando al passato? Era disposta a scommettere che se fosse stata Melissa a voler andare al club, Phyllis non si sarebbe opposta. Improvvisamente si convinse che, se non fosse uscita da quella casa, sarebbe impazzita. «Credo che andrò a fare una passeggiata sulla spiaggia», annunciò, alzandosi in piedi. Phyllis distolse la propria attenzione dal televisore. «Non fare il bagno, però. Di notte può essere molto pericoloso.» «Vuoi che venga con te?» chiese Melissa, sollevando lo sguardo dalla scacchiera. Lei scosse la testa. «Preferisco rimanere da sola per un poco. Non starò via a lungo.» Qualche minuto dopo, mentre camminava sulla sabbia, vide brillare in distanza le luci del Cove Club. Udì anche una fievole eco di musica, un rock duro che non aveva più ascoltato da quando era partita dalla California. Attratta dall'animazione, accelerò il passo. Quando giunse nei pressi del club, si fermò esitante. Al termine della spiaggia sorgeva una doccia all'aperto, con il cartello «RISERVATA AI MEMBRI E AGLI OSPITI»; da quel punto si dipartiva un'intricata rete di viottoli in mattoni che, snodandosi attraverso un giardino curatissimo, conduceva a una terrazza con piscina. Sul fondo, una gradinata risaliva il promontorio fino all'edificio del club, appollaiato sulla cima. Persino a quella distanza, Teri poteva scorgere all'interno la gente che ballava. Imboccò il sentiero lastricato, ignorando il segnale «VIETATO L'AC-
CESSO». Dopotutto, suo padre era un membro e, qualora non lo fosse stato, lei aveva ricevuto un invito da Brett Van Arsdale. Giunta sulla terrazza, però, si accorse improvvisamente che non era deserta come aveva creduto: allungate sulle sedie a sdraio, tre persone stavano chiacchierando sottovoce. Sentendosi di colpo un'intrusa, Teri si nascose all'ombra di un gruppo di pini. Sul punto di sgattaiolare nuovamente in direzione della spiaggia, udì un frammento di conversazione. «Ti ripeto che non verrà.» Lei si bloccò, riconoscendo la voce di Jeff Barnstable. «Perché no?» rispose Brett Van Arsdale. «A causa della signora Holloway», interloquì Ellen Stevens. «Se inviti Teri al falò sulla spiaggia, puoi scommettere che quella donna le farà portare con sé anche Melissa.» Teri rimase impietrita. Stavano parlando di lei? Muovendosi con cautela, avanzò fra gli alberi. «Che cosa ci sarebbe di male, se viene anche lei?» chiese Brett. «È del tutto innocua.» «È proprio questo il punto!» dichiarò Ellen. «Passa il tempo seduta a fissarti. Tra l'altro, è un vero maiale: mangerebbe tutto il cibo senza darti neppure la possibilità di avvicinarti.» «Andiamo!» obiettò Jeff. «D'accordo, non è perfetta. E con questo?» «Non mi interessa se sia perfetta o meno», sbuffò la ragazza. «Non è una di noi. Non è come sua sorella.» La conversazione proseguì, ma Teri aveva ascoltato abbastanza. Ritornò verso casa, continuando a rimuginare su quanto aveva appena udito. Dunque non sarebbe stata invitata al falò solo perché Melissa non era gradita. Non era giusto. Perché avrebbe dovuto restare esclusa solo a causa della sorellastra? Dopotutto, Melissa aveva già tutto quello che poteva desiderare. Quello che un tempo era stato suo. Melissa possedeva casa sua, persino la sua vecchia stanza. E anche suo padre. Si vide passare davanti agli occhi un'immagine di Charles e Melissa chini sulla scacchiera, concentrati unicamente l'uno sull'altra. In un gioco di cui lei non aveva fatto parte. E ora la sorellastra stava per impedirle di fare amicizia con i ragazzi as-
sieme ai quali le sarebbe spettato crescere. No, decise avvicinandosi alla villa, era un'ingiustizia. Ma soprattutto non era affatto il modo in cui le cose sarebbero dovute andare. Sicuramente, lei non le aveva pianificate in questo senso. 7 L'orologio della biblioteca cominciò a battere l'ora e Phyllis alzò lo sguardo sulla partita a scacchi che si stava svolgendo da più di due ore. Le sue labbra si strinsero in una smorfia di disapprovazione: come era possibile che il marito e la figlia se ne stessero lì seduti, ora dopo ora, a fissare una manciata di sagome sulla scacchiera? Senza pronunciare parola o riscuotersi un attimo, per di più. Si alzò dalla poltrona e si diresse al tavolo, oscurando il terreno di gioco con la propria ombra. «Sono le dieci», dichiarò. «Devi andare a letto.» Melissa guardò prima il padre, poi la mamma. «Mi concedi ancora qualche minuto, per favore? L'ho quasi battuto.» Phyllis scosse il capo. «Conosci le regole, cara. Hai bisogno di riposare.» «Ma mi mancano solo tre mosse! Guarda, devo solo fare arretrare il re del papà in quell'angolo...» La sua voce si spense quando il padre depose il pezzo sulla scacchiera. «Va bene, tesoro, mi arrendo. Quando non c'è speranza, perché prolungare l'agonia?» Si appoggiò allo schienale e indirizzò alla figlia un sorriso di sbieco. «Comincio a chiedermi se davvero sia stata una buona idea insegnarti a giocare. Da quanto tempo non riesco a batterti?» Melissa iniziò a rimettere ogni pedina al proprio posto. «Stasera ce l'hai quasi fatta. Avresti potuto intrappolarmi la regina almeno un'ora fa.» «Come?» La ragazzina mosse i pezzi sulla scacchiera, ricreando a mente le posizioni esistenti sedici mosse prima, ma la voce della madre la bloccò. «Non se ne parla neppure!» ordinò. «Non mi sembra affatto il caso che tu replichi l'intera partita. Rimarresti sveglia tutta la notte!» Melissa lanciò un'altra occhiata speranzosa in direzione del padre, ma quando lui fece un cenno di diniego sospirò delusa. Dieci minuti dopo era già a letto, appoggiata alla testiera con un libro sulla ginocchia. Un soffio d'aria fresca entrava dalle finestre aperte e la
notte risuonava del canto dei grilli, che sovrastava il rumore delle onde sulla spiaggia. Si addossò ai cuscini e cominciò a leggere; qualche minuto dopo, però, quando la porta si aprì, cercò di nascondere il libro sotto le coperte. Si rilassò alla vista del padre, che si sedette sul letto e diede un'occhiata alla copertina. «Ancora la tua storia preferita? Quante volte l'hai già letta?» «Non lo so, dieci, credo. Mi piace da morire. Sono arrivata al punto in cui Anne si tinge per sbaglio i capelli di verde.» Charles sorrise, rammentando l'attenzione rapita della figlia quando le aveva letto quel racconto per la prima volta, circa quattro anni prima. «È mortificata come sempre?» «Pensa che non avrà più il coraggio di uscire dalla propria stanza.» Accennò una risata, che si spense quasi subito. «È proprio il genere di cosa che potrebbe capitare a me», confessò, distogliendo lo sguardo. «Ogni volta che finisce nei pasticci senza averne alcuna colpa, mi sembra di leggere la mia storia. Forse è per questo che mi piace tanto.» Lui si chinò a baciarla. «Mi pare che tra te e Anne esista una bella differenza. Innanzitutto, tu non sei orfana e poi non hai mai dovuto prenderti cura di due gemelli.» «È vero», esclamò lei ridendo, «ma mi sento comunque molto simile. Hai presente come si sforza sempre di fare la cosa giusta, ma continua a sbagliare? È quello che mi succede di continuo.» Sospirò. «Vorrei tanto assomigliare a Teri, che è così bella e va d'accordo con tutti! Come oggi: non conosceva neppure gli altri ragazzi, ma si è messa a chiacchierare come se fossero amici da sempre. Io, invece, li conosco da quando sono nata, eppure non so mai cosa dire, con il risultato che ridono di me.» «Ti stai forse paragonando ad Anne, quando si convince che Gilbert Blythe si prende gioco di lei?» la stuzzicò Charles. «Io non ho un ragazzo del cuore. Tra l'altro, Anne ha perlomeno un'amica intima, mentre io...» Prima che potesse dire altro, il padre la fece tacere mettendole un dito sulle labbra. «Ora hai Teri, ricordatelo. Credo che diventerà la migliore amica che tu possa desiderare.» Melissa si sentì improvvisamente stupida. «Mi dispiace. Temo di essermi lasciata trascinare dall'autocompatimento.» «Allora smettila. Sei una ragazzina molto, molto fortunata e dovresti tener conto dei tuoi privilegi. Anzi», aggiunse, strizzandole l'occhio, «se li conti come si deve, può darsi che ti aiutino a battermi a tennis domani mat-
tina.» La baciò di nuovo, quindi si diresse alla porta. «Vuoi che lasci la luce accesa?» Scuotendo la testa, la ragazzina depose il libro sul comodino. Quando i suoi occhi si furono abituati all'oscurità, cominciò a distinguere le ombre create sul soffitto dall'immenso acero oltre la finestra. Da piccola, il loro movimento l'aveva spesso spaventata, ma ora lo trovava piacevole e cercava di immaginarsele come piccole creature che giocavano allegramente nella sua stanza mentre lei dormiva. Era sul punto di scivolare nel sonno quando udì un rumore di passi nel corridoio. I passi della mamma. Trattenne il respiro, sperando che non si fermasse, che quella sera non entrasse nella sua camera. All'aprirsi della porta, capì che le sue preghiere non avrebbero ottenuto risposta. Rimase immobile, sforzandosi di respirare al ritmo lento e costante del sonno, ma un attimo dopo sentì la mano della madre sulla propria spalla. «Melissa, so che non stai ancora dormendo.» Lei aprì gli occhi. La sagoma della mamma torreggiava contro i vetri della finestra. «Oggi sei stata cattiva», dichiarò la donna. La ragazzina cercò affannosamente di ricordare cosa avesse fatto per renderla furiosa. E si rivolse silenziosamente a D'Arcy. Che cos'ho fatto? Perché è arrabbiata con me? «Sei stata nuovamente villana con i tuoi amici», affermò Phyllis, quasi avesse udito la muta domanda. «Loro hanno salvato Teri e tutto quello che hai saputo fare è stato andartene.» Melissa sentì un nodo di paura stringerle lo stomaco. Non era successo niente del genere! Le cose non si erano affatto svolte in questo modo! I ragazzi non le avevano neppure rivolto la parola, si erano accorti solo di sua sorella! Si stava ripetendo la medesima situazione del giorno del suo compleanno: a sua madre non sarebbe importato nulla di quanto lei poteva dire, tanto aveva già deciso come si erano svolti i fatti. Di conseguenza tacque, rassegnata, limitandosi a fissare la figura che incombeva su di lei, in attesa di ciò che sarebbe seguito. E poi, tra le mani della mamma, vide le cinghie. «N... no», balbettò. «P... per piacere, non legarmi.» Assolutamente impassibile, la madre intonò una strana cantilena, come se si stesse rivolgendo a un neonato. «Ma è necessario. Ti sei comportata male e quando sei cattiva cammini nel sonno. Dammi la mano.»
Melissa, ricacciando il grido di protesta che le saliva in gola, cercò di sollevare il braccio per obbedire all'ordine, ma i suoi muscoli si rifiutarono di assecondarla. «La mano!» scattò Phyllis, afferrando la figlia e scuotendola con tanta violenza da causarle un dolore lancinante alla spalla. «Come puoi essere tanto idiota?» Sopraffatta dal dolore, la ragazzina invocò nuovamente aiuto e questa volta udì la risposta silenziosa di D'Arcy, bisbigliata da un punto imprecisato fra le ombre notturne. Dormi, Melissa. Ora sono qui e tu puoi prendere sonno. Nell'ascoltare quelle parole, lei si abbandonò all'oscurità che aveva cominciato ad addensarsi tutt'attorno, lasciando l'amica a sottoporsi a qualunque punizione la madre avesse impartito. Phyllis aveva già sollevato la mano, pronta a colpire nuovamente, quando la figlia si rilassò di colpo sul materasso, porgendo le braccia senza più opporre resistenza. La donna assicurò le spesse strisce di pelle ai polsi di Melissa, quindi si spostò ai piedi del letto per legarle le caviglie; infine collegò i quattro capi al telaio e coprì la ragazzina con il lenzuolo. «È una notte calda», disse con voce improvvisamente gentile. «Non avrai bisogno della coperta. Dormi bene.» Chinatasi, sfiorò con le labbra la fronte della figlia, poi uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. Nel letto, Melissa dormiva, nonostante i suoi occhi fossero aperti per consentire a D'Arcy di osservare le ombre che giocavano silenziosamente sulle pareti. Evitando la spiaggia, Teri ritornò a Maplecrest percorrendo lentamente il sentiero che si snodava nel bosco fra una proprietà e l'altra. Sostò di fronte a ogni casa, esaminandone i contorni al chiarore lunare: quasi tutte erano punteggiate da finestre illuminate e lei scivolò attraverso vaste distese di prati ben curati per sbirciare con curiosità le pareti rivestite in legno e gli enormi lampadari che sembravano caratteristici di ogni edificio. Nulla, in quelle residenze, le ricordò la San Fernando Valley e la villetta in cui era cresciuta. Tutto, però, le risultò stranamente familiare, come se fosse appena tornata da un viaggio in terra straniera. Questo, capì, era il luogo cui apparteneva.
Quando infine giunse a Maplecrest e cominciò ad aggirare la piscina per dirigersi all'ingresso, udì di colpo un sommesso ringhiare nell'oscurità. Per un attimo rimase paralizzata, guardandosi attorno, quindi scorse un'ombra scura. «Blackie», mormorò fra sé, seccata per la morsa di panico di cui era caduta vittima qualche secondo prima. All'avvicinarsi del cane, gli tirò un violento calcio, provando un brivido di soddisfazione quando il labrador guaì per il dolore e balzò via. Un minuto dopo sentì un richiamo proveniente da un punto a qualche metro di distanza. «Blackie? Blackie!» Il cane, accucciato sospettosamente a terra fuori portata da un altro calcio, girò il muso verso il suono della voce ed emise un forte latrato. Subito, Tag emerse dall'ombra e si avviò sul sentiero, per bloccarsi immediatamente alla vista di Teri. Con il pelo ritto, il cane si appoggiò alle gambe del padrone, ricominciando a ringhiare; il ragazzo si chinò ad accarezzarlo e l'animale guai quando le sue dita sfiorarono il punto in cui era stato colpito. «Che diavolo sta succedendo?» chiese, gli occhi fissi su Teri. «Lo hai preso a calci?» «Perché avrei dovuto farlo?» «Beh, di sicuro gli è successo qualcosa. Sento che è gonfio.» Lei scrollò le spalle con impazienza. «E se anche fosse? Mi stava ringhiando.» «Accidenti, ma è quello che deve fare!» protestò Tag. «Sta proteggendo la proprietà.» «Avrebbe potuto mordermi. Inoltre, di notte dovresti tenerlo sotto chiave. Se aggredisse qualcuno, potremmo venire denunciati.» «Non è mai saltato addosso a nessuno. Si limita ad abbaiare e non ha mai morso una persona in vita sua.» «Con me si è comportato esattamente come se volesse assalirmi», replicò Teri. «Se non prendi provvedimenti, ne parlerò con Phyllis.» Muto, il ragazzo prese Blackie per il collare e lo condusse verso la casa della nonna. La sua mente era in subbuglio: dal primo momento in cui aveva visto Teri, Blackie le si era dimostrato ostile, cercando addirittura di starle lontano. Doveva per forza esserci un motivo; aveva imparato da tempo che i cani avevano sempre ottime ragioni per comportarsi in questo modo. Si voltò, ma Teri se n'era andata. «D'accordo, piccolo», disse al labrador,
lasciandolo libero. «Finisci di fare quello che devi. Ma stai alla larga da Teri, hai capito? Non vogliamo che parli di te alla signora Holloway, vero?» Sollevato al pensiero che, almeno per quella notte, Blackie non si sarebbe più messo nei guai, si diresse verso casa. Teri lanciò un'occhiata alle scale posteriori che conducevano direttamente dalla cucina al piano superiore, poi si avviò nella direzione opposta, passando dalla dispensa e dalla sala da pranzo nell'enorme ingresso, dove salì la scalinata principale. Il corridoio era immerso nel buio, fatta eccezione per una fioca lampadina all'imbocco del pianerottolo. Si fermò un attimo in ascolto, ma la casa era assolutamente silenziosa. All'idea che tutti dormissero già, provò una fitta di rabbia: suo padre non avrebbe potuto aspettarla? Evidentemente no. Se però fosse stata Melissa a rimanere fuori sulla spiaggia... Allontanò il pensiero e si diresse alla propria stanza, senza accendere la luce finché non si fu richiusa la porta alle spalle. Cominciò a svestirsi, ma si bloccò nell'udire un rumore. Un sommesso singhiozzare che sembrava provenire dalla soffitta sopra la sua testa. Esitò un momento, poi riprese a spogliarsi. Ancora lo stesso suono, attutito ma chiaramente percepibile. Accigliata, Teri indossò l'accappatoio datole da Phyllis e uscì in corridoio; quando i suoi occhi si furono abituati alla luce della luna che entrava a fiotti dall'enorme lucernario, si avvicinò alla porta d'accesso alle scale della soffitta. Dopo un attimo d'incertezza aprì il battente. Sopra di lei, il solaio era un abisso buio. Trattenendo involontariamente il respiro, salì i gradini. Trovato a tentoni l'interruttore, accese la lampadina appesa alle travi nel centro del locale. Represse a stento un urlo alla vista di una bianca figura spettrale aleggiante nell'oscurità del sottotetto. Un attimo dopo riprese fiato nell'accorgersi di cosa si trattava: un vecchio manichino da sarta, avvolto in un abito altrettanto antiquato. Dopo una pausa per riprendere coraggio, attraversò la soffitta in direzione della zona sovrastante la propria camera. Laggiù, ricavata da un lato del solaio, scoprì una stanzetta arredata con un divano e una cassettiera.
Guardandosi attorno, Teri ebbe la strana sensazione che, per quanto nessuno vi abitasse più, quel luogo non fosse del tutto abbandonato. Stupita, cominciò ad aprire i cassetti del mobile. Trovò soltanto una scatola da cucito, che conteneva ancora aghi e filo, forbici e ditali. In quel momento, ancora una volta, udì i singhiozzi sommessi. Ora, però, sembravano provenire dal piano inferiore, proprio sotto i suoi piedi. Attese immobile finché il suono non si ripeté. Lasciando la stanzetta in direzione delle scale, contò attentamente i propri passi. Infine, rivolta un'ultima occhiata al manichino vestito di bianco, spense la luce e tornò di sotto. Sempre contando i passi, procedette lungo il corridoio verso la fonte del suono, ma la sua avanzata venne interrotta da un ostacolo. La porta della camera di Melissa. Lentamente, Teri girò la maniglia. La stanza era chiusa a chiave. Entrata nella propria camera, andò in bagno e premette l'orecchio contro la porta di comunicazione. Qualche attimo dopo le giunse quello strano rumore. Un singhiozzo represso, simile a quello di un bambino che non voglia farsi sentire mentre piange. Socchiuse il battente e bisbigliò attraverso la fessura. «Melissa?» Nessuna risposta. Mosse un passo nella stanza: i raggi lunari che filtravano dalle finestre aperte proiettavano una striscia argentea sul letto. Dalla soglia, Teri poté scorgere la sorellastra sdraiata sulla schiena, gli occhi aperti. «Melissa, stai bene?» Di nuovo non ottenne risposta. Perplessa, la ragazza si mosse con cautela in direzione del letto finché non riuscì a vedere in viso la sorella. Alla luce notturna, la sua carnagione aveva assunto un pallore cadaverico, con i tratti privi di espressione e gli occhi sbarrati verso il soffitto. Teri rabbrividì, convinta che Melissa fosse morta. Poi notò che il suo petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare. Si azzardò a toccarla, scrollandola leggermente per una spalla. «Svegliati», sussurrò. La ragazzina non si mosse.
Arretrando di un passo, Teri si domandò se non fosse il caso di correre a chiamare il padre, ma improvvisamente vide qualcosa. Sembrava una cinghia, sporgente al di sotto del lenzuolo che copriva Melissa, un'estremità saldamente assicurata al telaio del letto. Rimase a fissarla attonita, quindi, con mani leggermente tremanti, sollevò il lenzuolo dal corpo della sorella. E vide che i polsi e le caviglie di Melissa erano legati. Per un attimo provò il bisogno di liberarla, di sciogliere le cinghie che la tenevano avvinta al letto, ma cambiò parere quando le riecheggiarono nella mente le parole dei ragazzi sulla spiaggia, quel pomeriggio. «Tutti pensano che sia matta...» Era dunque vero? Questo era il motivo per cui Melissa veniva immobilizzata durante la notte? Dopo averla ricoperta con cura, Teri si affrettò in bagno e chiuse la porta di comunicazione. Tornata nella propria stanza, giacque a lungo sveglia, riflettendo su quanto aveva scoperto. E un'idea cominciò a prendere forma nella sua mente. Il sogno di Teri possedeva la perfetta, cristallina limpidezza di un pomeriggio autunnale. In esso, si svegliò prima dell'alba, lontano da Maplecrest: era nuovamente nella villetta di San Fernando, la casa in cui aveva trascorso quasi tutta l'esistenza, fatta eccezione per i primi tre anni di vita. Il ronzio della sveglia da viaggio, mai usata in precedenza, turbava a stento la quiete notturna, ma lei si affrettò a spegnerla, rimanendo in ascolto. Tutto taceva. Solo il lieve russare del patrigno turbava il silenzio dell'alba incipiente. Scese dal letto, si infilò l'accappatoio e lasciò vagare lo sguardo per la cameretta. Infine, infilata una mano in tasca per accertarsi di avere con sé la collana di perle speditale a Natale dal padre, scese silenziosamente le scale, evitando accuratamente il quarto gradino a partire dal fondo, quello che scricchiolava sempre alla minima pressione. Ai piedi delle scale si fermò di nuovo, ascoltando attentamente, ma la quiete era ancora assoluta. Da lì, in effetti, non udiva neppure Tom MacIver russare. Attraversò la sala da pranzo e la cucina fino alla veranda di servizio, dove la lavatrice e l'asciugatrice stavano fianco a fianco in cima alle scale della cantina. Muovendosi rapidamente nonostante il buio, scese nel labo-
ratorio del patrigno. C'era legno ovunque, in parte già pronto per essere assemblato in una scaffalatura in fase di costruzione, in parte ormai ridotto in frammenti ammucchiati contro le pareti in cemento della stanza sotterranea. Giunse infine davanti alla caldaia e, armeggiando nell'oscurità, trovò ciò che stava cercando. Una pila di stracci, che quel pomeriggio aveva accuratamente intriso di olio di semi di lino. Li depose sul pavimento, accanto a una catasta di legna. Quindi prese un fiammifero dalla scatola che il patrigno teneva sul banco da lavoro e lo accese. Accostò la fiamma agli stracci. Un secondo dopo l'olio, assorbito dalle fibre di cotone, prese fuoco, incendiandosi con una rapidità che la fece balzare all'indietro. Affascinata, rimase qualche attimo a fissare quello spettacolo poi spense il fiammifero e lo gettò via. Quando le fiamme si innalzarono, estendendosi al legno, Teri salì in fretta le scale fino alla veranda di servizio, ma invece di uscire in giardino rientrò in casa. Restò in attesa ai piedi delle scale principali, aspettando che l'incendio si sviluppasse, avvolgendo tutto l'edificio. Parve trascorrere un'eternità, ma finalmente udì un crepitio in cantina e cominciò a sentire l'odore delle prime volute di fumo che filtravano dal pavimento. Nonostante tutto, continuò ad attardarsi. Infine, il pavimento della sala da pranzo divenne incandescente e apparvero numerose lingue di fuoco, che si estesero velocemente. Il crepitio si trasformò in un ruggito e, non appena le fiamme ebbero raggiunto il soggiorno, Teri scattò verso la porta d'ingresso. Un momento dopo era in giardino, l'accappatoio stretto attorno al corpo. Si voltò a guardare mentre l'incendio divorava il piano terra e iniziava a strisciare verso l'alto. Tutt'attorno, le luci si accesero nelle case dei vicini, ma lei se ne accorse a stento, troppo impegnata a osservare l'avanzata delle fiamme. Finalmente udì l'urlo della mamma, immediatamente soffocato dal rumore di quell'inferno, e si spostò sul vialetto laterale per poter vedere la finestra della camera da letto dei genitori. Sua madre era là, seduta sul davanzale, le gambe ondeggianti nel vuoto. Poi saltò, ma la coperta in cui era avvolta si impigliò in qualche ostacolo.
Precipitò e la sua testa andò a sbattere sul cemento. Urlando, Teri corse verso di lei, inginocchiandosi al suo fianco per prenderla fra le braccia. Questa volta, però, la mamma non era morta. Questa volta la fissava con un terribile sguardo d'accusa, mentre le sue labbra formavano le temute parole. «Perché? Perché lo hai fatto?» Teri si infuriò. Non doveva finire così! Sua madre doveva morire! Non era previsto che sopravvivesse! L'ira cresceva dentro di lei come un mostro; alzò un pugno e lo calò sul viso della mamma. E si svegliò percuotendo il cuscino dove, solo un attimo prima, c'era la testa di Polly. Giacque immobile per alcuni minuti, sforzandosi di sfuggire alla morsa del sogno, finché il battito martellante del cuore non fu lentamente tornato al proprio ritmo normale. A poco a poco, la realtà si insinuò di nuovo nella sua mente. Non si trovava sul vialetto a San Fernando, bensì a letto a Maplecrest, dove brillava il sole e si udivano le onde lambire la spiaggia. Sua madre era morta e nessuno aveva scoperto che cosa fosse realmente accaduto. Si sentì al sicuro. Un'ora dopo si svegliò nuovamente, non perché il sogno si fosse ripetuto, ma a causa di un grido proveniente dall'esterno. Scese dal letto e andò alla finestra: sul campo da tennis di fianco alla piscina suo padre era impegnato in una partita. Con Melissa. Per un attimo fu colta da un accesso della medesima rabbia che aveva sperimentato nel sogno. Papà avrebbe dovuto giocare con lei, non con la sorellastra. Ecco il modo in cui aveva progettato le cose. Per anni aveva fantasticato sul proprio ritorno a casa, sulla grande villa in riva all'oceano, sulla camera spaziosa che avrebbe avuto e su tutti gli altri privilegi cui sua madre aveva rinunciato. E certamente non aveva previsto di condividerli con una sorellastra, soprattutto non con colei che si era presa la casa, il padre e tutto quanto sarebbe spettato di diritto alla primogenita. La sua mente tornò alla strana scena della notte precedente nella stanza
di Melissa e all'idea che aveva cominciato ad accarezzare appena prima di addormentarsi. Allontanatasi dalla finestra, aprì la porta del bagno ed entrò nella camera della sorella. Si guardò attorno senza sapere esattamente che cosa cercare, ma con l'assoluta certezza che lì dentro ci fosse qualcosa di utile. Cominciò a ispezionare i cassetti di un mobiletto addossato alla parete. In quello di mezzo trovò una scatola nera e seppe ancor prima di aprirla cosa vi avrebbe scoperto: un filo di perle rosa. Identico al proprio. Fu assalita da un'altra ondata d'ira. Anche Melissa aveva ricevuto in dono la collana, nonostante avesse due anni meno di lei. Rimise la scatola dove l'aveva trovata e finì di esaminare i cassetti. Niente. Frugò ovunque finché, sotto un mucchietto di calze, non si imbatté in quanto stava cercando. Un piccolo diario in pelle nera, con le iniziali di Melissa incise in oro sulla copertina. Teri lo aprì e cominciò a far scorrere velocemente le pagine. Tutte le annotazioni sembravano scritte sotto forma di lettere indirizzate a qualcuno che si chiamava D'Arcy. Ma se davvero si trattava di una corrispondenza con un'amica, perché riportarla in un diario? Era forse un nome attribuito al libriccino stesso? Nel momento in cui iniziò a leggere, capì la verità. D'Arcy, ne era sicura, non esisteva affatto. Sembrava piuttosto un frutto della fantasia di Melissa. Un'amica immaginaria. Esaminò in fretta alcune pagine qua e là: il contenuto era in massima parte illeggibile, scarabocchiato in una calligrafia bizzarra che sarebbe potuta appartenere a una bambina di cinque anni. A quanto riuscì a decifrare, comunque, appariva evidente che D'Arcy, perlomeno per sua sorella, era divenuta reale: «... voglio ringraziarti per essere venuta in mio aiuto. La mamma era davvero furiosa e non so che cosa avrei fatto senza di te... «... spero che ieri sera la mamma non ti abbia fatto troppo male. Non ho la minima idea del motivo per cui era tanto arrabbiata con me, ma immagino che tu lo sia venuta a sapere. Ti ha picchiata? Odio il pensiero che infierisca su di te. Se fossi al tuo posto, credo che morirei...»
Teri stava ancora leggendo, nel tentativo di capire il significato di quelle frasi, quando udì aprirsi la porta. Lasciò cadere il diario nel cassetto proprio nel momento in cui Cora Peterson iniziò a scusarsi. «Oh, mi dispiace! Pensavo...» Il suo tono cambiò di colpo nell'accorgersi che la persona nella stanza non era affatto Melissa. «Teri! Cosa stai facendo qui dentro?» Dopo un attimo di frenetica riflessione, lei afferrò un paio di calze dal cassetto. Giratasi, sorrise alla domestica. «Ho finito le calze», spiegò. «Sono entrata qui per prenderne a prestito un paio da Melissa.» Atteggiò il viso in un'espressione ansiosa. «Non le spiacerà, vero?» Gli occhi di Cora, fino a poco prima sospettosi, si schiarirono. «Certo che no», esclamò. «Parlerò con tuo padre. Mi sembra sia ora che tu ti dedichi a qualche acquisto. Non puoi continuare a indossare sempre gli stessi vestiti, non ti pare?» Teri represse un sospiro di sollievo e sorrise grata all'anziana domestica. «Lo faresti davvero? Detesto dover chiedere a chi è già stato tanto gentile con me...» «Non pensare neppure una cosa simile!» si indignò la donna. «Tu appartieni a questa famiglia come tutti gli altri e devi avere ciò che ti serve.» Detto questo, Cora iniziò a rifare il letto, chiacchierando mentre si affaccendava. Ma la ragazza aveva smesso di ascoltare, immersa nelle proprie riflessioni circa le ultime parole della domestica. «Devi avere ciò che ti serve...» E lo avrò, si disse Teri qualche minuto dopo, rientrando nella propria camera. Avrò tutto ciò che mi serve e tutto ciò che voglio. 8 «Guarda! Non è la gonna più fantastica che tu abbia mai visto?» Attraverso la vetrina, Melissa osservò la gonna bianca di cotone con un motivo floreale azzurro nella medesima sfumatura degli occhi di Teri. Fino a quel momento, era perlomeno la sesta che sarebbe stata perfetta addosso alla sorella e non avevano ancora finito il giro dei negozi del villaggio. Era circa un'ora che vagavano di vetrina in vetrina e quasi ovunque ave-
vano visto qualcosa (una gonna, come in quel caso, oppure una camicetta, un golf o un paio di scarpe) che sembrava invocare di essere provato da Teri. Fino a quel momento, però, la sua sorellastra aveva saputo resistere all'impulso di entrare a comprare. «Non riesco a fare a meno di preoccuparmi per il loro prezzo», aveva spiegato. «In California trascorrevo spesso intere giornate nel centro commerciale, fingendo di potermi permettere qualsiasi cosa vedessi.» «Ora è così», rispose Melissa, prendendola per mano e sospingendola verso l'ingresso. «Non hai sentito quello che ha detto la mamma? Devi comprare i vestiti, non guardarli con la bava alla bocca! Vieni.» Appena entrate nel negozio, la proprietaria, una donna sulla trentina dell'aspetto raffinato, si alzò dalla sedia e andò loro incontro. «Melissa!» esclamò. «Mi stavo chiedendo quando saresti arrivata. Tua madre mi ha telefonato per avvertirmi di addebitarle qualsiasi cosa tu voglia.» Le strizzò l'occhio con aria cospiratrice. «Stai ancora approfittando del tuo compleanno?» Lei arrossì e scosse il capo. «Non si tratta di me, ma di mia sorella. Beh, non proprio, siamo sorellastre. Le presento Teri MacIver.» Quindi si girò verso Teri. «Questa è Polly Corcoran, ma tutti la chiamano Corky.» La ragazza tese la mano sorridendo. «Molto lieta di conoscerla.» Gli occhi di Corky Corcoran brillarono. «Beh, è davvero impossibile non capire di chi tu sia figlia, lo sai?» Di colpo, la sua espressione si fece triste. «Ho sempre voluto molto bene a tua madre. Mi dispiace moltissimo di quanto è accaduto.» Seria, Teri abbassò gli occhi sul pavimento e assentì lievemente con il capo. «Grazie», mormorò. «Anch'io riesco a stento a crederci. Senza papà...» La sua voce si spense e calò un silenzio imbarazzato finché Corky non si riscosse, assumendo un atteggiamento vivace. «Bene, non siamo qui per soffermarci sui nostri dolori, non è vero?» dichiarò, rabbrividendo alla falsa allegria della propria voce, ma decisa a non far sentire Teri ancor più a disagio di quanto non fosse già. «Hai visto qualcosa che ti piace in vetrina?» «La gonna bianca con i fiori azzurri.» Il sorriso della donna si accentuò. «Perfetta! Stavo giusto pensando a quel genere dì modello per te.» Con sguardo esperto esaminò la figura della ragazza. «Taglia quaranta?» Al cenno d'assenso di Teri, sparì nel retrobottega. In assenza della proprietaria, Teri si guardò attorno. L'ambiente era arre-
dato come un soggiorno, più che come un negozio, con pochissimi capi in esposizione, adagiati casualmente sugli schienali delle poltroncine o drappeggiati su manichini discretamente collocati negli angoli. Si trattava di un genere di boutique che aveva visto altre volte, ma oggi non era costretta ad ammirarla dall'esterno. Provò un brivido di gioiosa trepidazione mentre aspettava che Corky tornasse con la gonna. Cinque minuti dopo, la donna riapparve, le braccia cariche di capi d'abbigliamento. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto provare un abbinamento con un paio di bluse e magliette», affermò, sparpagliando la merce su un tavolo di mogano. Gli occhi di Teri si fissarono immediatamente su una camicetta di seta dal colore perfettamente intonato ai fiori della gonna. Accorgendosene, Corky assentì con aria d'approvazione. «Ero certa che ti sarebbe piaciuta.» Indicò un camerino nascosto dietro un paravento orientale e, quando la ragazza fu entrata, rivolse la propria attenzione a Melissa. «E tu? Mi sono appena arrivati alcuni capi autunnali dai colori che ti si addicono molto.» La ragazzina esitò, rammentando le parole della madre appena prima che uscissero di casa. «Cerca di tener presente che non stai andando a fare acquisti per te. Tu hai già fin troppi vestiti — Dio sa se tuo padre non ti compri più di quanto tu possa indossare — quindi oggi è il turno di Teri. E per carità del cielo», aveva aggiunto, «non tentare di convincere tua sorella a comprare quella roba trasandata che a te piace tanto. Con il suo aspetto, lei può permettersi di scegliere quei magnifici colori che a te danno l'aria di una persona ammalata.» Ora, quelle parole ancora brucianti nella sua mente, per quanto cercasse di convincersi che la mamma non aveva inteso ferirla deliberatamente, scosse la testa. «Non credo sia il caso», mormorò. Prima che Corky potesse insistere oltre, Teri emerse dal camerino. «Ebbene?» le chiese. «Che ne pensi? Non lo trovi splendido?» Melissa osservò la sorellastra facendo del proprio meglio per ignorare l'invidia che sentiva crescere prepotente dentro di sé. Quando, però, le scorse sul viso un'espressione ansiosa, ogni riserva scomparve: in fondo, non era colpa sua se qualunque vestito sembrava adattarsi alla sua figura come se fosse stato realizzato appositamente per lei. La camicetta, in una sfumatura d'azzurro che le faceva apparire i capelli ancora più biondi, aveva maniche lunghe e polsini molto stretti, mentre il corpetto le aderiva al busto con il giusto grado di morbidezza per sottolineare i contorni senza però rivelare troppo; la gonna le ricadeva elegantemente appena sotto il ginocchio. Nell'insieme, il risultato era davvero perfetto.
«Sei magnifica», mormorò. «Quanto costano?» domandò Teri. Corky sorrise. «La gonna solo centosessanta dollari, mentre la camicetta è un po' più cara.» Con gli occhi spalancati, la ragazza lanciò uno sguardo nervoso alla sorellastra. «Ossia?» chiese con voce malferma. «Duecentocinquanta. Si tratta di seta, dopotutto.» Teri si rivolse nuovamente a Melissa. «È troppo, vero?» La nota supplichevole risultò evidente. La ragazzina si girò verso Corky. «Posso telefonare alla mamma per sentire se è d'accordo?» «Fai pure, ma ho già parlato con tua madre e lei ha affermato che potete acquistare qualsiasi cosa vi piaccia. E se esiste qualcuno perfettamente al corrente dei prezzi dei vestiti di questi tempi», aggiunse la donna, «quella è di sicuro la signora Holloway.» «In tal caso li prendo», dichiarò Teri con espressione sollevata, dirigendosi subito a ispezionare un'altra camicetta. Mezz'ora dopo uscirono dal negozio con tre gonne, cinque camicette e un golf ordinatamente riposti nei raffinati sacchetti con il marchio di Corky inciso in oro. «Torniamo nell'altro posto», suggerì Teri una volta sul marciapiede. «Quello che vende abiti sportivi. Questa roba è stupenda, ma ho bisogno anche di un completo da tennis e di indumenti da indossare al club durante il giorno.» «Intendi dire Cose da gioco?» domandò Melissa. La sorella assentì. «In vetrina avevano dei costumi da bagno fantastici.» In capo a qualche minuto, Teri era nuovamente in un camerino, intenta a provare pantaloni corti, magliette e tenute sportive. Quando ebbe terminato, sul banco era ammucchiata una pila di abiti, tutti del medesimo tipo prediletto dai ragazzi di Secret Cove. L'impiegato finì di compilare il conto, quindi alzò lo sguardo. «È tutto?» La ragazza fu sul punto di assentire, poi cambiò parere notando che Melissa stava fissando rapita una tuta rosso intenso con una striscia nera lungo i pantaloni ripetuta in diagonale sulla parte superiore. «Perché non la provi?» la sollecitò. Arrossendo, la ragazzina scosse il capo. «Non mi starebbe bene.» «Come fai a saperlo? È impossibile stabilirlo prima di averla indossata.» Senza attendere una risposta, si rivolse al commesso. «Avete la sua ta-
glia?» L'uomo esaminò Melissa con aria dubbiosa. «Francamente non lo so. La signorina ha una figura che non corrisponde alle taglie standard, comunque vado a dare un'occhiata.» Poco dopo fece ritorno dal retro con una tuta fra le mani. «Veda se questa è della sua misura.» Due minuti più tardi Melissa uscì dal camerino e si guardò malinconicamente allo specchio: ai propri occhi, i pantaloni erano un po' troppo stretti e la maglietta di una taglia troppo grande. Quanto al colore, che le era parso tanto bello in vetrina, addosso a lei sembrava conferire una sfumatura giallastra alla sua carnagione. «Oh, Dio», gemette, voltando le spalle allo specchio. «Mi chiedo perché insisto a provarci.» «Ti sta benissimo», dichiarò Teri. «Se solo riusciamo a trovare una taglia più piccola per la maglietta, sarà assolutamente perfetta.» «Non è vero», protestò la ragazzina. «Ma guardami! Mi dà l'aria di una persona ammalata!» «Niente affatto. E poi ti ricordi cosa ha detto tua madre? Non devi comprare cose trasandate.» «Se è per questo, non devo comprare niente del tutto. Ho già abbastanza vestiti.» «Forse è così, ma non sono adatti a te.» Melissa assunse un'espressione ferita e la sorellastra si scusò immediatamente. «Non intendevo insinuare che sono brutti. Li trovo solo poco eleganti. Non hai notato come si vestono gli altri ragazzi?» Si girò verso un tavolo zeppo di magliette, selezionandone una giallo oro e un'altra verde mela. «Dovresti portare queste.» La ragazzina le paragonò mentalmente alle tonalità scure che era solita scegliere: per quanto si sforzasse, non riusciva a vedersi con colori tanto sgargianti. «Prova questa», la esortò Teri, porgendole la maglietta verde assieme a un paio di pantaloncini bianchi. «Mentre ti cambi, vedrò se hanno la parte superiore della tuta in una misura più piccola.» Poco dopo, Melissa si contemplò nuovamente allo specchio. La maglietta le pendeva addosso, mentre i pantaloni corti erano tesi al massimo sui fianchi, facendola apparire ancora più grassottella di quanto già non fosse. Leggendoglielo in viso, Teri si rivolse al commesso. «Non avete un modello più adatto alla sua figura?» Venti minuti più tardi, nonostante le obiezioni della sorella, Teri aveva aggiunto al mucchio che giaceva sul banco un paio di pantaloncini bianchi, due magliette, un costume da bagno rosso e la tuta.
«Posso addebitarli?» chiese. «Sono Teri MacIver, la figlia del signor Holloway.» 11 commesso sorrise. «Naturalmente. La signora ci ha telefonato stamattina per avvertirci di lasciarvi acquistare qualunque cosa vi fosse piaciuta.» Teri fissò il cumulo di abiti, quindi posò lo sguardo su un completo da tennis. Infine, accorgendosi che Melissa strabuzzava gli occhi nel leggere l'ammontare del conto, scosse la testa. «Suppongo basti così.» L'uomo compilò una nota spese e gliela porse per la firma. Lei studiò il totale: assieme a quanto aveva comprato da Corky, la cifra superava i tremila dollari. Per una frazione di secondo, pensò ai miseri duecento dollari che le era stato concesso di spendere in vestiti l'anno precedente. Ormai era acqua passata, si disse, accantonando il ricordo. Con una sensazione di intenso piacere, firmò il foglio consegnatole dal commesso. Phyllis Holloway scrutò il marito, gli occhi lampeggianti di rabbia. «Non è proprio per questo che paghiamo i nostri legali?» Charles si tolse gli occhiali che usava per leggere e si massaggiò la radice del naso, in parte per tentare di alleviare l'emicrania che andava crescendo di pari passo con il litigio e in parte per concedersi un attimo di respiro. Infine sospirò, si rimise gli occhiali e raccolse dalla scrivania un fascio di documenti. «Ti ho già spiegato che si tratta di una questione molto semplice di cui posso occuparmi di persona. Potrei benissimo mettermi in contatto con uno studio legale di Los Angeles, ma perché dovrei prendermi la briga? Dopotutto sono un avvocato.» «Oh, andiamo!» sbuffò Phyllis. «Non hai esercitato la professione un singolo giorno in tutta la tua vita!» Charles serrò le mascelle, domandandosi (e non per la prima volta) perché continuasse a convivere con quella donna. Non riusciva neppure a ricordare quando lei gli avesse rivolto una parola affettuosa nel corso degli ultimi anni, perlomeno nell'intimità. In pubblico, naturalmente, Phyllis era il ritratto della moglie innamorata: si guardava bene dall'allontanarsi dal suo fianco e non lasciava mai trascorrere una serata in società senza sottolineare con chiunque quanto fosse meraviglioso il proprio marito. Tutta una commedia, visto che a casa lo degnava a malapena di uno sguardo e apriva bocca unicamente per lamentarsi, se non dell'inefficienza di Cora o dell'inadeguatezza di Melissa, del suo comportamento.
Ma era sempre stata così? Sinceramente non lo sapeva, dato che, quando l'aveva conosciuta, nel momento in cui il rapporto con Polly si stava già deteriorando, gli era parsa perfetta. Allegra e vivace, non assomigliava affatto alle ragazze con cui era cresciuto, sicuramente non alla prima moglie. Mentre Polly aveva posseduto una naturale riservatezza, Phyllis era sembrata uno spirito libero, in adorazione di sua figlia, ma sempre pronta a trovare il tempo per chiacchierare con lui. Dopo il divorzio, restare assieme era parsa la cosa più naturale del mondo a entrambi, desiderosi di condividere il dolore per la perdita di Teri. Quando infine Phyllis era rimasta incinta, lui era stato felicissimo di sposarla e tutto si era svolto nel migliore dei modi fino alla nascita di Melissa. A quel punto, il cambiamento. In effetti, il mutamento si era verificato nel preciso momento in cui lei aveva visto per la prima volta la propria figlia. Aveva guardato quel visino incorniciato dal primo accenno di capelli scuri e i suoi occhi si erano riempiti di lacrime. «Doveva essere bionda», gli aveva detto. «La volevo identica a Teri.» Charles aveva preso in braccio la neonata, cullandosela al petto e baciandola sulla fronte. «Non può essere come Teri», aveva protestato. «Lei era la figlia di Polly. Missy è la nostra.» Phyllis non aveva aggiunto altro, perlomeno non direttamente. Nel corso degli anni, però, lui si era sempre reso conto che, per la moglie, Melissa non si avvicinava neppure vagamente all'ideale rappresentato da Teri. Né, a quanto pareva, lui aveva soddisfatto le sue aspettative in qualità di marito. D'altro canto, quasi dall'istante in cui l'aveva sposata, Phyllis era diventata diversa. La sua effervescenza era svanita e ora Charles si chiedeva spesso se fosse davvero esistita o se lui l'avesse semplicemente immaginata. Nell'arco di un anno la sua seconda moglie si era trasformata da graziosa, se non proprio bella, infermiera di Filadelfia in una versione, almeno ai propri occhi, di donna dell'alta società. La «Gente di Secret Cove». Faceva acquisti in tutti i negozi giusti e indossava gli abiti appropriati. A New York, dove risiedevano per la maggior parte dell'anno, frequentava i ristoranti più esclusivi e faceva parte dei comitati di beneficenza più in vista.
O meglio, quando veniva invitata a parteciparvi, il che accadeva, per quanto non sarebbe mai stato disposto a rivelarlo, soltanto dopo che lui stesso scambiava quattro parole in privato con i mariti delle altre dame benefiche. Eppure, nonostante portasse gli abiti giusti e andasse nei luoghi giusti, non era mai riuscita a inserirsi. Charles, ovviamente, sapeva bene il perché: nel mondo della «Gente di Secret Cove» era semplicemente impossibile introdursi. Bisognava appartenervi dalla nascita. E questo non era il caso di Phyllis. Ma lei non aveva mai cessato gli sforzi per trovarvi posto, per diventare una donna identica alla sua prima moglie. Né aveva mai capito che uno dei motivi per cui lui l'aveva sposata risiedeva proprio nel fatto che non era Polly. Nonostante tutto, il matrimonio era durato perché lui aveva da tempo deciso di essere disposto a tollerare qualsiasi grado d'infelicità pur di avere accanto Melissa. E, agli occhi di Charles, la figlia era perfetta. Se possedeva qualche difetto, lui non lo notava o preferiva lasciar correre. La timidezza quasi penosa di Melissa gliela rendeva ancora più cara e, per quanto lo riguardava, se lei non si trovava a proprio agio con gli altri ragazzi della «Gente», non esisteva ragione di preoccuparsi. Al contrario di ciò che pensava la moglie, era convinto che sua figlia non perdesse molto: sicuramente avrebbe imparato molto di più dai libri che divorava che non dalle chiacchiere oziose di un gruppo di adolescenti snob e presuntuosi. Di conseguenza, sopportava quel matrimonio malriuscito per non rischiare di perdere Melissa come era già accaduto con Teri. Ma talvolta (come oggi) non si rivelava un'impresa semplice. «È una tale mancanza di riguardo da parte tua!» udì Phyllis lagnarsi. «Dopodomani siamo stati invitati a cena dagli Stevens e adesso pretendi che annulli l'impegno all'ultimo minuto solo perché ti sei ostinato a voler andare in California.» «Non occorre che li avverta», osservò lui. «Non si tratta di un'occasione formale e sai benissimo che Eleanor tiene sempre di riserva accompagnatori extra. Non so dove li trovi, ma casa sua ne è piena.» Gli occhi della donna lampeggiarono di rabbia. «E così non ti interessa con chi esco a cena?»
Charles percepì un movimento all'esterno e vide dalla finestra Teri e Melissa sul vialetto, le braccia piene di sacchetti. «Senti», sbottò, «non possiamo parlarne in un altro momento? Stanno arrivando le ragazze e...» «No, non possiamo!» urlò Phyllis. «Come osi? Lo sai quanto ho dovuto penare per ricevere quell'invito? Hai idea di chi verrà dagli Stevens? Il governatore, ecco chi! E io non intendo andarci da sola o al braccio di uno degli arredatori effeminati di Eleanor! Se avessi immaginato che razza di guaio...» Improvvisamente Charles ne ebbe abbastanza. Picchiò il pugno sul tavolo e fissò la moglie con astio. «Ora basta! Ne ho abbastanza!» esclamò. «Se ci troviamo in questa situazione, la colpa non è mia! Non avevo progettato che Teri venisse a vivere con noi, ma adesso è qui e il minimo che entrambi possiamo fare è affrontare la cosa nel modo migliore. E, in caso tu ancora non lo sappia, non sono solo suo padre, bensì anche l'amministratore del suo patrimonio.» «Patrimonio!» sbuffò lei con disprezzo. «Mio Dio, tutti sanno benissimo che Polly ha dato via ciò che possedeva fino all'ultimo centesimo. Che cos'è rimasto da amministrare?» «In effetti, più di quanto tu non creda. Tom aveva stipulato un'assicurazione sulla vita e la casa stessa valeva circa un quarto di milione di dollari.» Le labbra di Phyllis si contrassero in una smorfia di derisione. «Con quella cifra, in California ti compri soltanto un buco in un ghetto, non ti pare?» Sfinito dalla discussione, Charles scosse il capo. «D'accordo, fai ciò che vuoi. Vai alla cena da sola o con qualcun altro, oppure non andarci addirittura. Io ho dei doveri nei confronti di Teri e intendo assolverli, quindi smettila. Non mi interessa cosa pensi. Domani prendo il primo volo per Los Angeles.» Lei aprì la bocca per rispondere, ma cambiò idea accorgendosi dell'espressione sul viso del marito. Sapeva che esisteva un punto al di là del quale era opportuno non insistere. Tuttavia, l'idea di essere costretta a presentarsi dagli Stevens da sola, consapevole degli sguardi di tutti e, soprattutto, delle discussioni sottovoce se davvero Charles fosse partito per affari o se invece avesse preferito rimanere a casa... Avrebbero addirittura potuto pensare che si fosse trovato un'altra donna e si stesse preparando a lasciarla. No, meglio evitare di farsi vedere che rischiare di incorrere negli inevi-
tabili pettegolezzi. In silenzio, voltò le spalle al marito e uscì dalla stanza, senza accorgersi del sollievo negli occhi di Charles. Ai piedi delle scale, Teri udì le ultime battute del litigio fra il padre e la matrigna e si sentì assalire da un'ondata di rabbia. Dei doveri? Era tutto qui quello che rappresentava per il papà? Qualcuno con cui era obbligato ad avere a che fare? Poi si accorse dello sguardo di Melissa e della sua voce, dolce e comprensiva. «Non intendeva dire una cosa simile. Era solo una lite con la mamma. Succede... molto spesso.» La ragazza controllò a fatica la propria ira e, quando si voltò verso la sorellastra, le mostrò un viso rigato di lacrime. «Non importa», sussurrò. «Spero solo che un giorno impari ad amarmi come te, ecco tutto.» D'impulso, Melissa lasciò cadere i sacchetti e le gettò le braccia al collo. «Sarà così», promise. «So che accadrà. Ti vorrà bene quanto te ne voglio io.» Teri accettò l'abbraccio in silenzio. «Non capisco perché, in giornate come queste, non andiamo al club», osservò Phyllis. Era quasi metà pomeriggio e lei sedeva sui bordi della piscina sotto un ombrellone. A qualche metro di distanza, Charles era adagiato su una sedia a sdraio, leggendo il Wall Street Journal del giorno prima; Teri prendeva il sole, mentre Melissa nuotava avanti e indietro nel vano tentativo di eliminare quei chili in eccesso che le impedivano di fare bella figura nel suo nuovo costume da bagno. In realtà non avrebbe voluto indossarlo, ma Teri aveva insistito che le stava bene e, quando era finalmente riuscita a trovare il coraggio per uscire dalla cabina, sua madre aveva espresso il proprio assenso. «È bello vederti una volta tanto con un indumento colorato. Certo che, se solo potessi perdere qualche chilo...» «Va benissimo così com'è», l'aveva interrotta Charles, ma il commento aveva ormai colpito nel segno e, da quel momento, la ragazzina era rimasta in acqua nel valoroso tentativo di raggiungere le cinquanta vasche. «Mi hai sentito, Charles?» chiese Phyllis. Lui annuì distrattamente. «A che scopo? La nostra piscina è grande quasi quanto quella del club ed è certamente meno affollata.»
«Ma i nostri amici sono tutti là. Non vediamo mai nessuno.» «Se vuoi andare, fai pure. Per quanto mi riguarda, non me la sento di affrontare quella folla.» Il telefono squillò e lui si alzò per rispondere, ma Phyllis lo fermò. «Lascia che ci pensi Cora. Dio sa se ormai non sta diventando sempre meno efficiente. Credo sia necessario mettersi nell'ordine di idee di assumere qualcun'altra, Charles. So che tu...» La frase rimase sospesa nell'aria, quando la domestica emerse dalla porta di servizio. «È per lei, signora Holloway. La signora Van Arsdale.» Immediatamente, Phyllis si affrettò all'apparecchio. «Sì, Lenore?» «Ciao.» La voce dell'altra donna possedeva una distaccata nota di sicurezza in se stessa che lei non era mai stata in grado di riprodurre fedelmente. «È accaduta una cosa spaventosa e spero tu mi perdoni.» Phyllis trattenne il respiro, certa di essere sul punto di sentirsi dire che era stata sostituita all'interno del comitato sociale. «Suppongo tu sappia che per domani sera Brett ha invitato gli amici per un falò sulla spiaggia, vero?» Lei serrò le labbra: no, nessuno si era degnato di informarla. «Ma certo», rispose in tono forzatamente indifferente. «Credo di averne sentito parlare da una delle ragazze.» «Ecco, ho appena scoperto che in qualche modo il nome di Melissa è stato tralasciato dall'elenco degli invitati. So che il preavviso è molto breve, ma spero che accetti di venire. Naturalmente, a Brett piacerebbe avere anche Teri.» Di colpo, Phyllis capì: Lenore non stava affatto invitando Melissa. Bensì Teri. Aveva appena conosciuto gli altri ragazzi, eppure la stavano già includendo nel gruppo. Quasi involontariamente guardò fuori della finestra. Teri, seduta, stava ascoltando Melissa che era accovacciata ai suoi piedi come un cucciolo troppo cresciuto, i capelli ancora fradici che le pendevano disordinatamente sulla schiena. Dio mio, si disse, perché non riesce neppure a imparare a stare seduta come una persona normale? Deve proprio accucciarsi alla maniera dei contadini? Nulla di che stupirsi se i ragazzi di Secret Cove non la volevano intorno. «Sono certa che entrambe saranno felicissime di partecipare», esclamò nel ricevitore. «Ed è davvero gentile da parte tua estendere l'invito anche a
Teri.» «Non vedo l'ora di rivederla», rispose l'altra. «A quanto mi hanno detto, è identica a Polly.» Chiacchierarono ancora per qualche minuto, finché Lenore non riappese, adducendo a pretesto altre telefonate urgenti da fare. Phyllis si ritrovò nuovamente a guardare alla finestra. Erano ancora assieme, fianco a fianco. La figlia che aveva sempre voluto e quella che in realtà aveva. Ora, però, miracolosamente, Teri era tornata a casa da lei e forse le cose sarebbero finalmente andate come aveva sempre sperato. A meno che Melissa non rovinasse tutto anche a Teri, esattamente nello stesso modo in cui aveva rovinato tutto a lei. Uscì sul patio assolato e sorrise alle due ragazze. «Avete appena ricevuto un invito per domani sera», annunciò loro. Charles depose il giornale. «Che succede?» «Brett ha organizzato un falò sulla spiaggia e Lenore vuole che partecipino tutte e due.» Il viso di Teri si illuminò, per rabbuiarsi subito alle successive parole del padre. «Non è un po' troppo presto per lei partecipare alle feste?» domandò in tono preoccupato. La ragazza cercò disperatamente qualcosa da dire, un argomento per obiettare, ma la matrigna le venne in aiuto. «A quanto pare, Lenore Van Arsdale non è della stessa opinione. E neppure io. Teri non ricaverà alcun beneficio dal rimanersene qui seduta con noi. Deve incominciare a trovarsi degli amici.» Gli occhi di Teri si fissarono sul padre, che parve rimuginare la questione per un'eternità prima di assentire. «Beh, suppongo non le possa nuocere.» Poi si voltò verso Melissa. «E tu cosa ne pensi, Missy? Ti sembra una prospettiva divertente?» La ragazzina si morse il labbro, rammentando la festa di compleanno. Al falò avrebbe incontrato gli stessi ragazzi di allora. Gli stessi che ieri l'avevano completamente ignorata sulla spiaggia. «Non... non lo so», balbettò infine, restia a rivelare ai genitori i propri pensieri. «Io... beh» Charles, avvertendo il nervosismo della figlia, le sorrise con aria incoraggiante. «Se non vuoi andare, basta che tu lo dica. Il fatto che qualcuno ti inviti non significa automaticamente che tu debba partecipare.»
«In... in effetti, preferirei stare a casa.» «In tal caso rimarrai qui», stabilì lui, tornando a immergersi nel giornale e, di conseguenza, non notando lo sguardo irritato della moglie. «Forse cambierà idea», commentò Phyllis, gli occhi fissi su Melissa. Benché Charles, assorto nella lettura, non si accorgesse che la figlia minore sussultava a quelle parole, a Teri non sfuggì. 9 Quella sera Melissa sedette silenziosa a tavola, fissando il cibo sul proprio piatto, tentando di costringersi a mangiarlo. Continuava ad avvertire gli occhi della mamma su di sé e, nonostante non avesse più accennato alla festa sulla spiaggia, la sua rabbia aleggiava ancora su di lei come una nuvola di tempesta, rendendole impossibile cenare. Sapeva, tuttavia, di doverlo fare: in caso contrario, sua madre l'avrebbe costretta a rimanere a tavola per ore e a subire una predica sulle cattive maniere e sui sentimenti feriti di Cora, che aveva lavorato sodo per preparare il pasto che lei rifiutava. Affondò la forchetta nella bistecca, che sembrava diventare di minuto in minuto più grande, ne tagliò un pezzetto e se lo mise in bocca. La sua gola parve chiudersi e, per un attimo, ebbe paura di non riuscire a inghiottire; per fortuna, il boccone andò giù e lei fu in grado di proseguire quel penoso rituale. Si guardò attorno furtivamente: tutti gli altri avevano già terminato e suo padre, deposte le posate, si stava pulendo le labbra con il tovagliolo. Sorridendole, scostò la sedia di qualche centimetro. «Che ne dite di andare al cinema?» chiese. Istintivamente, gli occhi di Melissa si spostarono sulla mamma e, per una frazione di secondo, le parve che forse la serata si sarebbe conclusa bene. In quel momento, però, lo sguardo di Phyllis incrociò il suo e la ragazzina capì di non essere stata affatto perdonata. Ma perché ne faceva un enorme problema? Nessuno voleva che lei andasse a quel falò, era Teri la vera invitata. Per quale motivo, dunque, sua sorella non poteva andarci da sola? I suoi pensieri vennero interrotti dalla voce della madre. Udendo le sue parole, Melissa si sentì lo stomaco stretto da un gelido nodo di terrore. «Perché non ci vai Teri?» suggerì al marito. «Voi due non avete ancora avuto il tempo di stare un po' assieme per conto vostro e penso sarebbe carino se io e mia figlia avessimo la serata tutta per noi.»
Gli occhi della ragazzina cercarono ansiosamente quelli del padre. «Posso venire anch'io?» lo supplicò. «Ti prego.» Prima che Charles potesse aprire bocca, Phyllis s'intromise. «Melissa, ti stai dimostrando davvero molto egoista. Continui a monopolizzare tuo padre senza curarti del fatto che è anche il papà di Teri. Inoltre», aggiunse, la durezza dello sguardo che negava le sue parole e il suo sorriso, «noi due ci divertiremo un sacco.» Melissa avrebbe voluto opporsi, implorare, ma sapeva che ciò sarebbe servito unicamente a peggiorare la situazione. Una volta che papà e Teri fossero usciti... Si sforzò di non pensarci, costringendosi invece a terminare il cibo. «Tra l'altro», udì la madre proseguire, pronunciando una frase che aveva già sentito ripetere all'infinito, «non hai finito di cenare e conosci le regole. Si mangia tutto quanto sta nel piatto, che ci piaccia o meno. Non puoi aspettarti di venire invitata nelle residenze più eleganti se ti dimostri scortese nei confronti di chi ti ospita.» Facendo del proprio meglio per ascoltarla, Melissa si dedicò nuovamente alla bistecca, tagliandola in pezzi piccolissimi che trangugiò a fatica. Quando suo padre si chinò a baciarla prima di recarsi al cinema con Teri, si sentì prossima alle lacrime, ma si trattenne al mormorio delle sue parole. «La mamma ha ragione, tesoro. So che è difficile mangiare quando non si ha fame, ma è poco educato lasciare la cena nel piatto.» Lei fu presa dal desiderio di gettargli le braccia al collo, supplicandolo di portarla con sé, tuttavia capì che sarebbe stato un grave errore. Sua madre aveva deciso di tenerla a casa e opporsi non sarebbe servito a nulla. Anzi, avrebbe peggiorato le cose. Venti minuti dopo, sotto lo sguardo attento della mamma, riuscì finalmente a terminare la cena. Attorno a lei, la tavola era ancora apparecchiata: era compito suo portare i piatti sporchi in cucina e aiutare Cora a rigovernare. Silenziosamente, per timore che qualsiasi osservazione facesse infuriare la madre, si alzò in piedi. «Cosa si dice?» chiese immediatamente Phyllis. La ragazzina si raggelò, quindi rammentò la formula appropriata. «P... Posso alzarmi?» La donna assentì bruscamente e Melissa, sollevata, iniziò a raccogliere i piatti. Un attimo più tardi entrò in cucina, dove Cora, che aveva già lavato pentole e stoviglie varie, glieli prese di mano. «Sospetto che la cena non
sia stata di tuo gradimento, vero?» «Andava benissimo. Solo che non avevo molta fame.» «Capita», sospirò la domestica, dirigendosi verso il lavandino. «Ci sono giorni in cui il solo pensiero del cibo mi fa star male. Sono convinta che non bisognerebbe sforzarsi di mangiare quando non si ha appetito.» Melissa afferrò uno strofinaccio e cominciò ad asciugare l'argenteria; lanciò uno sguardo speranzoso alla lavastoviglie, ma evitò accuratamente di suggerire che venisse usata. In serate come quelle, quando la mamma intendeva punirla, l'uso della macchina era rigorosamente vietato anche a Cora. «Deve imparare a lavorare», aveva dichiarato Phyllis più di una volta. «Non voglio in casa una bambina viziata.» La ragazzina aveva iniziato ad asciugare l'ultimo piatto quando la porta si aprì con violenza, andando a sbattere rumorosamente contro il muro. Melissa sobbalzò mentre il piatto le scivolava di mano infrangendosi sul pavimento. Lo spavento la impietrì. Cora emise un gemito soffocato e guardò Phyllis, che, dalla soglia, stava fissando gelida la figlia. «Va tutto bene, cara», esclamò la domestica, chinandosi a raccogliere i cocci. «Può succedere a chiunque.» «Fermati, Cora!» Il tono della padrona, benché sommesso, possedeva una nota autoritaria che fece drizzare la domestica di colpo. «L'unico modo in cui Melissa imparerà a non essere maldestra consiste nell'assumersi la responsabilità dei guai che combina.» La donna anziana esitò un attimo, quasi fosse incerta sul da farsi, e Phyllis la apostrofò nuovamente. «Per stasera è abbastanza, Cora. Del resto si occuperà Melissa. Puoi andare.» Senza una parola, ben sapendo di non potersi neppure azzardare a contraddire la propria datrice di lavoro, la domestica si tolse il grembiule e lo appese a un gancio dietro la porta. Un istante più tardi Melissa, il cuore che le martellava per la paura, era sola con la madre. Phyllis continuò a fissarla freddamente. «Temo che sarà necessaria una delle nostre chiacchierate», dichiarò infine, dopo una pausa che alla ragazzina parve eterna. «Pulisci il pavimento, poi aspettami nella tua camera.» Gli occhi appannati dalle lacrime, Melissa iniziò a raccogliere i frammenti del piatto. Lavorò con tutta la lentezza consentitale dal timore di una ricomparsa della madre, ma giunse infine il momento in cui tutto fu in ordine. Non poteva rimandare oltre. Salì infine nella propria stanza e attese l'arrivo della madre.
Quando Phyllis entrò, per prima cosa Melissa le guardò le mani. Erano vuote. Poi, però, ne capì il motivo: se sua madre intendeva legarla al letto non l'avrebbe fatto ora, ma più tardi, quando papà si fosse addormentato. La donna chiuse la porta e vi si addossò, osservando la piccola che si rannicchiava sul letto come una codarda. Odiava persino pensarci, ma sua figlia era esattamente questo. Una codarda. Se soltanto avesse posseduto un po' di carattere! Ma Melissa non ne aveva mai dimostrato, né lo avrebbe mai avuto. Come minimo, però, poteva imparare a comportarsi decentemente e a smettere di causare imbarazzo alla propria madre. «Alzati!» le intimò. Melissa ubbidì. Phyllis esaminò con disgusto gli abiti della figlia. Quella sera, Teri si era presentata a tavola con uno dei completi appena acquistati, ma Melissa indossava ancora i medesimi jeans corti del pomeriggio con una maglietta tanto sbiadita da rendere difficile indovinarne il colore originario. «Dove sono i vestiti che Teri ha scelto per te?» chiese con voce ingannevolmente soave, mentre sentiva crescere dentro di sé la rabbia che la assaliva ogni qualvolta posava lo sguardo sulla figlia. «Ne... nell'armadio», bisbigliò la ragazzina. «Non riesco a sentirti. Parla in modo intelligibile.» «Nell'armadio», ripeté lei, la gola stretta dal panico. «Perché a cena non li avevi addosso?» «Io... non mi stanno bene. Non sono adatti a me.» Le narici di Phyllis fremettero. «Niente fa bella figura su di te. Come mai, a tuo parere?» A quelle parole, Melissa si sgomentò, ma sapeva di dover rispondere. «Sono... sono troppo grassa.» «E?...» la sollecitò la madre. «E non sto dritta come dovrei», concluse la ragazzina, costringendosi a ripetere l'orribile catechismo di cui la mamma l'aveva imbevuta da tempo immemorabile. Gli occhi della donna trafissero la figlia tremante. «E di chi è la colpa?» Melissa, muta, abbassò lo sguardo e Phyllis mosse un passo verso di lei, facendola arretrare verso il letto. «Di chi?»
«Mia.» La risposta le uscì di gola come il gemito di un uccellino morente. «È colpa mia, mamma», proseguì, con la solita formula che infine le scaturiva come un torrente. «Mangio troppo e soltanto i cibi sbagliati, trascorro troppo tempo fra i libri quando dovrei giocare con gli altri ragazzi e frequentare il club.» «E perché non lo fai?» la incalzò la madre. «Perché non ti comporti come gli altri ragazzi? Perché devo sempre vergognarmi di te?» «Non... non lo so!» esclamò la ragazzina, quasi sopraffatta dal pianto, desiderosa unicamente di gettarsi sul letto, rannicchiarsi su se stessa ed escludere il mondo. Ma non poteva. Non ancora. Doveva rimanere al proprio posto, fronteggiare la mamma e non permettere che le sue parole la ferissero. Aiutami, gridò mentalmente, Aiutami, D'Arcy. Non lasciarmi sola, ti prego... «Prendi dall'armadio i tuoi vestiti nuovi, Melissa.» Sempre invocando silenziosamente l'amica, lei ubbidì e, seguendo le istruzioni materne, depose gli abiti sul letto. «Indossa i pantaloncini bianchi e la maglietta verde.» Con il cuore in gola, la ragazzina si affrettò a eseguire. «Ora guardati allo specchio.» Melissa esitò. Sapeva già che effetto facessero addosso a lei, visto che li aveva provati nel negozio e, una seconda volta, appena tornata a casa. Qualsiasi cosa gli altri dicessero, le stavano male. I colori vivaci le davano un aspetto ridicolo e il taglio aderente la ingrossava. «Guardati!» ordinò Phyllis. Avanzò veloce verso la figlia, afferrandola per le spalle; scuotendola violentemente, la sospinse poi davanti allo specchio. «Datti un'occhiata!» gridò. Quando le unghie della mamma le penetrarono nella carne e il dolore le mozzò il respiro, Melissa udì di colpo il bisbigliare della voce di D'Arcy. Va tutto bene. Sono qui, ora puoi dormire. In quel momento, nello specchio, vide riflessa l'immagine dell'amica, gli occhi gentili e sorridenti. D'Arcy si sporse verso di lei, le toccò una guancia con dita delicate e le asciugò le lacrime. La familiare oscurità si addensò immediatamente attorno a lei, mentre le risuonavano nella mente le ultime frasi di conforto dell'amica, prima che il
buio l'avvolgesse. Ora sono qui. Dormi. Mi prenderò cura di te, di tutto quanto. Phyllis sentì il corpo della figlia rilassarsi lievemente e allentò la stretta sulle sue spalle. «Ebbene?» insisté. «Dimmi cosa vedi.» Melissa tacque, suscitando nuovamente la sua furia. «Guardati!» urlò la donna in tono stridulo, ricominciando a scuoterla con forza. La testa della ragazzina ondeggiò avanti e indietro, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. «Sei orribile!» sibilò Phyllis. «Sei brutta, grassa e neppure te ne preoccupi! Santo Dio, come puoi essere mia figlia?» Gettò brutalmente la ragazzina su una sedia ed estrasse un paio di forbici da un cassetto; un attimo dopo, cominciò a tagliarle furiosamente i capelli. A poco a poco, mentre Melissa rimaneva stranamente impassibile, le ciocche caddero finché la sua capigliatura non fu ridotta a una zazzera irregolare. «Ecco!» sbottò la donna. «Guarda! Non è meglio? Così ti piace di più?» Melissa continuò a tacere e la madre, il corpo tremante per l'ira e la frustrazione, si chinò improvvisamente su di lei. «Rispondimi!» urlò. «Perché non parli?» Melissa rimase in silenzio, seduta immobile, gli occhi fissi sullo specchio. «Va bene», concesse Phyllis, prendendola nuovamente per le spalle. «Se non vuoi parlare con me, nessuno ti costringe. Ti consiglio, però, di ascoltarmi con molta attenzione. Non mi interessa se hai deciso di trascorrere tutta la vita da sola, ma non tollererò oltre la tua villania nei confronti delle mie amiche e dei loro figli. Mi capisci?» La ragazzina non parve neppure averla sentita. Sua madre intensificò la stretta. «So che mi stai ascoltando, dal momento che non sei sorda. Quindi sentimi bene. Non permetterò che tu rovini l'esistenza di Teri come hai fatto con la tua e cerchi di fare con la mia. Di conseguenza, che tu lo desideri o meno, domani sera parteciperai al falò. La signora Van Arsdale si è dimostrata molto gentile nell'invitarti e tu non la insulterai rifiutandoti di presenziare. Al contrario, sarai amichevole ed educata e non farai nulla che possa mettermi in imbarazzo. Ora dimmi se hai capito.» Melissa rimase silenziosa e inerte. «D'accordo», ringhiò Phyllis. «Se vuoi rendere le cose difficili, a me sta bene.» La sollevò di peso e la trascinò di fronte all'armadio, aprì un'anta e
la spinse all'interno, richiudendo il mobile a chiave. «Ti suggerisco di rifletterci sopra», gridò attraverso il battente. «Tornerò fra un'ora. Forse, a quel punto, avrai deciso di comportarti come ti ho sempre insegnato.» In procinto di uscire dalla stanza, lo sguardo le cadde sui jeans e la maglietta che giacevano ancora sul pavimento dove la figlia li aveva lasciati. Afferrate nuovamente le forbici, li tagliò a pezzi e gettò i frammenti sul letto. Finalmente, sfogate infine la frustrazione e l'ira, lasciò la camera. Erano quasi le dieci di sera quando Teri e Charles fecero ritorno dal cinema. Al pianterreno era accesa soltanto la luce nell'ingresso e, di sopra, trovarono Phyllis a letto, immersa nella lettura. Al loro arrivo, lei depose la rivista e sorrise alla figliastra. «Com'era il film?» «Fantastico. Proiettavano una pellicola dell'orrore e non mi sono mai spaventata tanto in vita mia. Perlomeno, però, io sono rimasta in sala, papà è dovuto uscire nell'atrio.» Charles sorrise di sbieco. «Temo che le mutilazioni con il machete non siano il mio genere. Teri, invece, ne è stata entusiasta.» «In tal caso, sono felice di non aver permesso a Melissa di venire», osservò la donna. «Avrebbe avuto incubi per un mese.» «Sta già dormendo?» chiese il marito, controllando l'orologio. Phyllis assentì. «Abbiamo fatto una bella chiacchierata, poi abbiamo deciso di andare a letto presto. È in camera da circa un'ora.» I tre conversarono per qualche minuto, quindi Teri baciò il padre e la matrigna e si recò nella propria stanza. Sostò davanti alla specchiera dell'armadio, ammirando per l'ennesima volta i vestiti nuovi, poi se li tolse e li appese ordinatamente. Indossato l'accappatoio, si trasferì in bagno per lavarsi i denti. Proprio nel momento in cui si accingeva ad aprire il rubinetto, udì la voce di Melissa. «Cosa farò ora, D'Arcy? Che dirà la mamma? Di sicuro, si arrabbierà di nuovo con me.» Avvicinatasi alla porta di comunicazione, Teri vi accostò l'orecchio e rimase in ascolto. Poteva ancora sentire la voce della sorellastra, ma le parole erano divenute indistinte, come se stesse piangendo. La ragazza si mise a riflettere: forse sarebbe stato opportuno fingere di non avere ascoltato nulla e andarsene semplicemente a letto. Eppure aveva udito distintamente il nome di D'Arcy, lo stesso che aveva visto quella mattina nel diario di Melissa. Era possibile che la sorellastra
pensasse davvero di parlare con qualcuno? Presa una decisione, girò la maniglia ed entrò nell'altra camera. Melissa era seduta in penombra e si fissava allo specchio. All'improvviso fiotto di luce proveniente dal bagno, si girò con gli occhi sbarrati. «Cosa fai già a casa?» domandò alla sorella maggiore. «Non dovevi andare al cinema?» Teri si accigliò. «Sono le dieci passate. Il film è finito da un pezzo.» La ragazzina si stupì. «Avevo l'impressione che fossi appena uscita. O meglio, da non più di un'ora, comunque.» La sorella avanzò di qualche passo nella stanza e rimase sbalordita vedendo più da vicino l'aspetto di Melissa. Con una mossa veloce, accese la luce. Emise un grido strozzato alla vista dei suoi capelli. «Cos'è successo? Cos'hai fatto ai capelli?» Gli occhi pieni di lacrime, l'altra balbettò: «Non... non lo so. Credo li abbia tagliati D'Arcy». Di colpo tesa, Melissa spostò lo sguardo sulla porta, quindi, una volta certa che fosse chiusa, parve rilassarsi un poco. «Mi... mi prometti che non ne parli con nessuno?» Teri assentì prontamente, in preda a un brivido di eccitazione. «È... una mia amica. Talvolta viene ad aiutarmi.» La ragazza si accigliò. Ma che diavolo stava dicendo? «Cosa significa? Da dove viene? Vive qui vicino?» «N... non esattamente. Lei... beh, è una specie di amica immaginaria, capisci?» «Certo, da bambina ne avevo una anch'io. Si chiamava Caroline e fingevo che fosse la mia cameriera. Faceva tutto ciò che le chiedevo, tutto quello che io odiavo fare. Mi bastava immaginare di essere lei ed era come se un'altra lavorasse al posto mio.» Melissa assentì con entusiasmo. «D'Arcy è esattamente un'amica di questo tipo. Quando ho paura di qualcosa, lei viene ad aiutarmi.» Tornò a guardarsi brevemente allo specchio. «Guarda, però, che guaio ha combinato stasera. Mi ha tagliato i capelli. La mamma si infurierà.» La mente di Teri si arrovellò freneticamente finché non riuscì a far affiorare una serie di immagini. Quello stesso pomeriggio ai bordi della piscina, quando Phyllis aveva dichiarato che lei e Melissa avrebbero discusso del falò «più tardi». La sorella, anche se solo per un istante, aveva assunto un'espressione
sgomenta. A cena, quando la matrigna aveva suggerito una serata in casa, da sola con la figlia. Ancora una volta, gli occhi di Melissa si erano riempiti di panico. Chi l'aveva spaventata quella sera era la madre. Gesù, è così che reagisce? si chiese la ragazza. Quando sua madre comincia a inveire contro di lei, finge di essere qualcun'altra? A quel punto, però, rammentò un aspetto diverso del problema. La notte precedente aveva trovato Melissa legata al letto, gli occhi aperti. Benché fosse sveglia, non aveva reagito quando lei le aveva rivolto la parola. E adesso la sorellastra credeva che lei non fosse andata al cinema. Non ricorda, pensò Teri. Non riesce assolutamente a rammentare l'accaduto. Le sorrise gentilmente. «Sai cosa facciamo? Ora prendo pettine e forbici e vediamo se posso sistemarti un po' i capelli. E se domani Phyllis si arrabbia, le diremo che li ho tagliati io. Se la facciamo apparire una mia idea, non potrà infuriarsi con te, non ti pare?» «Sei davvero disposta a fare questo per me?» La ragazza la abbracciò. «Ma certo. Sono tua sorella, dopotutto. A cosa servono, se no, le sorelle?» Subito dopo, con pettine e forbici, cominciò a lavorare con cura sulla capigliatura malconcia, tentando di pareggiare le ciocche. Melissa la osservò nello specchio, lo sguardo adorante, per poi accigliarsi quando Teri ebbe finito. «Cosa diranno domani sera i ragazzi del club?» domandò. «Quando mi vedranno così, si metteranno a ridere.» Teri inclinò il capo. «Pensavo che non saresti venuta al falò.» La ragazzina rimase a lungo in silenzio, infine sospirò. «Ho cambiato idea. Sono stata costretta a farlo. D'Arcy ha paura del buio e la mamma non l'avrebbe lasciata uscire dall'armadio finché io non avessi acconsentito.» Venti minuti più tardi, quando si infilò sotto le coperte, Teri era certa di aver capito perfettamente chi fosse D'Arcy. Ciò che ancora non sapeva era il modo in cui sfruttare l'amica immaginaria della sorellastra. Ma lo avrebbe senz'altro trovato. Dopotutto, quando erano usciti dal cinema, la prima cosa che suo padre aveva detto era stata: «Mi sarebbe piaciuto portare anche Melissa perché
lei adora questo genere di film. La spaventano a morte, ma la entusiasmano ugualmente». Melissa. Perfino quando era da solo con lei, papà pensava unicamente alla sorellastra. Scivolando nel sonno, Teri si rese conto di odiare quella ragazzina quasi quanto aveva detestato la madre e il patrigno. Sbarazzarsi di loro non si era rivelato difficile. E liberarsi di Melissa sarebbe stato ancora più semplice. D'Arcy l'avrebbe aiutata, ora che sapeva chi era e da dove veniva. Non era una persona, non esisteva affatto. Se non nella mente della sorellastra. Ma sarebbe bastato. Finché Melissa la riteneva reale, sarebbe stato più che sufficiente. 10 «Papà?» Era il pomeriggio successivo e Charles Holloway, in procinto di recarsi all'aeroporto di Portland, sollevò lo sguardo verso la cima della scalinata, da dove Melissa lo stava guardando con aria incerta. «Devi proprio partire?» Lui protese le braccia sorridendo e la figlia corse giù per i gradini, precipitandosi contro il suo petto. «Non voglio che tu vada via», gli bisbigliò all'orecchio. «Per favore, non puoi incaricare qualcun altro di occuparsi di questo lavoro, di qualunque cosa si tratti?» Charles si liberò delicatamente dalla stretta della ragazzina. «Magari potessi, ma è un compito che spetta a me. Riguarda Teri, devo firmare una quantità di documenti. Se non parto oggi, la cosa si trascinerebbe in eterno e, prima o poi, sarei comunque costretto ad andare. Tu non vuoi che accada, vero?» Con un sospiro, Melissa scosse la testa, scostandosi dal padre non appena lui le accarezzò i capelli corti. «Ehi», protestò Charles, «dove stai andando?» «Ti faccio ridere così conciata.» «Nient'affatto. Al contrario, mi piaci con i capelli corti. Ti fanno sembrare ancor più carina.» Lei lo fissò, chiedendosi se stesse dicendo la verità, ma nei suoi occhi vide soltanto il medesimo calore di sempre. «Ti piacciono sul serio? Non
lo dici soltanto per farmi sentire meglio?» «Sai bene che non ti mentirei. Se assomigliassero a un covone di paglia, te lo farei notare.» Inclinò il capo, gli occhi socchiusi in un atteggiamento critico. «In effetti», aggiunse in tono canzonatorio, «se li decolorassi, potrebbero realmente ricordare un covone di paglia.» Scansò lo scherzoso colpo della figlia, quindi la abbracciò di nuovo. «Ti porterò una sorpresa, d'accordo?» «Che cosa?» domandò lei. «Se te lo dicessi, che sorpresa sarebbe?» Improvvisamente, dalla cima delle scale, giunse un'altra voce. «E a me?» chiese Teri. «Avrò un regalo anch'io?» Charles, continuando a tenere stretta Melissa, le sorrise. «Certamente. Non vuoi venire a salutare il tuo papà?» La ragazza cominciò a scendere con fare esitante, quasi timido. «Io... non intendevo disturbarvi», mormorò. Lui strinse a sé anche l'altra figlia. «Come potresti? Ho due ragazze e due braccia. Funziona perfettamente, non credi?» Quindi assunse un tono più serio. «Bada a Melissa finché non sarò tornato, va bene?» Teri gli sorrise. «Certo. Ci divertiremo tanto che non si accorgerà neppure della tua assenza.» «Magnifico.» Le diede una rapida stretta, quindi si rivolse alla più piccola. «Starai benissimo. E io non rimarrò via che un paio di giorni, d'accordo?» Melissa assentì senza aprire bocca. Forse ha ragione, si disse qualche minuto dopo, quando il padre fu scomparso in fondo al vialetto d'accesso. Con Teri qui a casa, forse andrà tutto bene. Al calare dell'oscurità, seduta sulla sabbia che andava rapidamente raffreddandosi, la schiena appoggiata a un tronco nei pressi del grande fuoco sulla spiaggia sottostante il Cove Club, Melissa decise di essere contenta di aver cambiato idea. La serata non si era rivelata neppure lontanamente terribile come se l'era immaginata: per essere onesti, si era addirittura divertita. I primi minuti, ovviamente, erano stati i peggiori e lei aveva provato l'irresistibile impulso di tornare immediatamente a Maplecrest. Tuttavia, come se avesse percepito il suo improvviso panico, Teri l'aveva presa per mano. «Vieni. Andrà tutto bene, ma smetti di preoccuparti.» Sua sorella aveva avuto ragione. Se qualcuno si era accorto che gli abiti
non le stavano bene, non era stata fatta parola, e Jeff Barnstable aveva addirittura dichiarato di trovare carina la sua pettinatura. «Avresti dovuto tagliarti i capelli molto tempo fa», aveva affermato. «Sembrava sempre che tu cercassi di nasconderti.» Lentamente, con il procedere della festa, era riuscita ad abbassare la guardia e a partecipare perfino a una partita di pallavolo. Quando avevano cominciato a formare le squadre, era stata certa di venire scelta per ultima, ma Teri aveva suggerito di dividersi semplicemente in due gruppi a piacere. Unica regola, quando una squadra guadagnava un punto, chi lo aveva segnato doveva ritirarsi. Melissa ridacchiò fra sé ricordando l'esito: dopo un'ora in cui tutti i giocatori più in gamba avevano fatto del loro meglio per non segnare, erano rimasti in campo solo lei e Jerry Chalmer. Gli altri si erano raccolti sui bordi, tifando per l'ultimo membro della squadra, e per quasi dieci minuti si era sviluppata una lotta accanita solo per riuscire a completare un servizio. Alla fine, quando lei aveva a stento lanciato la palla oltre la rete e Jerry (che si era rivelato perfino più goffo) l'aveva mancata completamente, tutti, loro due inclusi, erano scoppiati a ridere così forte da scordarsi chi avesse vinto. Quando aveva chiesto a Teri dove avesse imparato quelle regole, lei le aveva strizzato l'occhio. «Le ho inventate. A ogni modo, non è stato buffo vedere tutti quanti sforzarsi di giocare male?» Ora, mentre l'oscurità si addensava e Jeff Barnstable gettava un altro ceppo sul fuoco, Teri si sedette accanto a lei. «Non è divertente? Abbiamo tutta la spiaggia per noi. In California sarebbe stata piena zeppa.» Dalla parte opposta del falò, Brett Van Arsdale le sorrise. «Cosa ti fa pensare che la spiaggia sia tutta nostra?» La ragazza lo fissò. «Non c'è nessuno tranne noi.» Lui sbarrò stranamente gli occhi alla incerta luce del fuoco. «Credi davvero?» rispose, la voce di colpo bassa. «Forse, invece, qui attorno qualcuno ci osserva.» Involontariamente, Teri rabbrividì e guardò in giro. «Ma andiamo! Stai cercando di spaventarmi. E se hai intenzione di raccontare la storia del maniaco con l'uncino, sappi che l'ho già ascoltata un milione di volte.» «Non ne dubito», rispose Brett. «Ma scommetto che non hai mai sentito quella del fantasma di Secret Cove.» Lei assunse un'espressione sospettosa. «Oh, dai!...» «Raccontagliela», esclamò Ellen Stevens. Poi si girò verso Teri. «È dav-
vero sinistra. Coraggio, Brett, vogliamo sentirla!» Il silenzio calò su tutto il gruppo e il ragazzo, la voce appena percepibile, tanto da costringere gli altri alla massima attenzione, cominciò a narrare. «Era la sera del Ballo della Luna d'Agosto. Il club era appena stato costruito e tutti sarebbero intervenuti. Perlomeno, tutti tranne i domestici. Una di loro, però, si stava accingendo ad andarci.» Attorno al fuoco, gli adolescenti si addossarono l'uno all'altro mentre Brett, in tono pieno di mistero, proseguiva il racconto... Erano quasi le otto e la ragazza osservò la propria immagine riflessa alla luce tremolante della lampada a olio sul tavolino accanto al letto. Quella sera era bellissima: l'abito bianco al quale aveva lavorato per mesi le stava benissimo e, con le maniche lunghe dai polsini di pizzo e le quindici file di trine sul corpetto, sembrava quasi un vestito da sposa. In effetti, avrebbe dovuto esserlo se lei non avesse ritenuto di cattivo augurio indossare per le nozze il medesimo abito della propria prima, grande festa. Tuttavia non avrebbe mai potuto permettersi un secondo vestito come quello... Ma certo che le sarebbe stato possibile. Dopo il matrimonio con Joshua, avrebbe potuto permettersi qualsiasi cosa desiderasse. Di sicuro lui le avrebbe comperato il tessuto per cucirsi un abito da sposa anche più bello di quello. I suoi occhi si posarono sull'anulare della mano sinistra, sull'anello d'oro con un unico, perfetto diamante che lui le aveva segretamente regalato tre mesi prima. «Non lo diremo a nessuno», le aveva mormorato. «Manterremo il segreto fino al ballo. Allora ne avrò già parlato con i miei genitori e tutto sarà sistemato.» E quella notte, la notte del ballo, avrebbero dato l'annuncio. Lei sarebbe stata al suo fianco mentre Joshua spiegava agli amici di essere innamorato e di volerla sposare. La ragazza sapeva che tutti sarebbero rimasti allibiti. Vedendoli tanto felici, però, si sarebbero raccolti attorno a lei e l'avrebbero accettata tra di loro. Controllò l'abito per l'ultima volta, quindi spense la lampada e lasciò la propria stanzetta nella soffitta della villa, scendendo velocemente le scale di servizio. Stava per scivolare fuori dalla porta, quando udì la voce brusca
della cuoca. «Dove credi di andare?» Quelle parole la raggelarono per un attimo, poi si voltò a fronteggiare la donna per la quale lavorava sin dall'età di quattordici anni. «Al ballo», dichiarò. La cuoca la guardò con aria sprezzante. «E che cosa ti fa pensare che lasceranno entrare la gente come te in un posto simile?» La ragazza sorrise serena. «Lo faranno, visto che sono stata invitata.» «Se fossi in te, non darei troppo peso a ciò che dicono i ragazzi. Sosterrebbero qualsiasi cosa, pur di portarsi a...» «Non Joshua!» gridò lei, il viso scarlatto per l'imbarazzo all'insinuazione della donna. «Lui non è una persona del genere!» Si precipitò fuori della porta prima che l'altra potesse aggiungere ulteriori commenti e si affrettò attraverso il prato in direzione della spiaggia, reggendo fra le mani le scarpette da ballo che le erano costate una settimana di stipendio. Sollevò la lunga gonna per non macchiarne l'orlo e avanzò verso le vivaci luci gialle che brillavano alle finestre del club appena costruito sul promontorio della baia. Giunse infine all'inizio del viale che conduceva all'edificio e sostò per infilarsi le scarpe. Attese qualche minuto perché era lì che Joshua aveva promesso di venirle incontro. Avrebbero fatto il loro ingresso assieme e tutti si sarebbero resi conto della situazione prima che lui desse l'annuncio. Aveva ripassato mentalmente la scena infinite volte: Joshua, alto e bello nell'abito da sera, un braccio protettivo attorno alle sue spalle, il viso attraente dall'espressione ferma mentre spiegava agli amici di aver deciso di sposarla. Si era addirittura immaginata la disapprovazione negli occhi dei presenti prima che si accorgessero di quanto loro due si amassero. Una volta capito, però, ogni obiezione sarebbe svanita e tutti l'avrebbero accolta a braccia aperte. La ragazza rabbrividì alla brezza fredda, quindi si guardò nuovamente attorno in cerca del fidanzato. Controllò l'orologio riposto nella borsetta ornata di perline e vide che erano ormai le otto e mezzo. Era in ritardo. Forse la stava aspettando lassù, di fronte all'ingresso del club. Risalì il vialetto, reggendo con attenzione la gonna perché non sfiorasse il selciato polveroso. Raggiunta infine la cima, si fermò a riprendere fiato. Ora, attraverso le vetrate, poteva scorgere le coppie che ballavano. Tutte le donne indossavano abiti meravigliosi e gli splendidi gioielli che portavano
al collo e alle orecchie brillavano alla luce a gas di una bellezza quasi innaturale. E poi, volteggiante ai margini della folla, le braccia attorno alle spalle di una ragazza dalla pelle candida in un abito color smeraldo, vide Joshua. Stava sorridendo alla compagna, che sembrava ridere a qualcosa che lui aveva detto. Quindi alzò lo sguardo e la notò al di là della finestra. Immediatamente smise di ballare. Lei si affrettò alla porta, ben sapendo che l'avrebbe trovato sulla soglia ad attenderla. Spinse il battente ed entrò nell'edificio, quindi attraversò l'atrio e si diresse verso le enormi porte d'accesso all'immensa sala da pranzo che ospitava il ballo. Joshua, ancora al fianco della ragazza con l'abito verde, la stava fissando. A poco a poco, anche le altre coppie smisero di danzare e cominciarono a voltarsi verso di lei. Perplessa, la ragazza si arrestò. Perché Joshua non le veniva incontro? Come mai rimaneva lì impietrito con quello sguardo... Di colpo capì. Aveva gli occhi spaventati. Come se non si fosse aspettato di vederla. Non ne aveva affatto parlato ai genitori. Ora poteva udire i mormorii dei presenti e, qua e là, il risuonare di una risata. Istintivamente, avanzò verso il fidanzato. Quasi per miracolo, lui prese vita e si mosse nella sua direzione. Un attimo dopo era accanto a lei e la afferrava per un braccio. Infine aprì bocca. «Dobbiamo parlare», dichiarò a bassa voce. «In cucina.» Stringendole il polso in una morsa, la condusse attraverso la sala, aggirando la folla che sembrava ritrarsi per farli passare. In un attimo furono nelle cucine, dove cuoco e camerieri, tutti in uniforme, la osservarono con curiosità. «Che... che succede?» mormorò la ragazza. «Qualcosa non va?» Joshua si umettò nervosamente le labbra, evitando il suo sguardo. «Non posso sposarti», le spiegò infine. «Ho parlato con mio padre, che ha giurato di diseredarmi.» Lei boccheggiò. Non poteva accadere una cosa simile, era impossibile. «Devo riavere subito l'anello», proseguì lui, tentando di toglierglielo dal dito.
Ma il cerchietto d'oro non veniva via. Ritirata di scatto la mano, la ragazza provò a sfilarselo. «È tutto qui?» chiese. «Si tratta solo di una questione di soldi? Avevi detto di amarmi. Mi avevi promesso...» Le parole le morirono in gola, soffocate dalle lacrime. Si sforzò ancora di togliersi l'anello, che però sembrava divenuto parte integrante del dito. Joshua, gli occhi improvvisamente gelidi, stava già voltandole le spalle. «D'accordo», concluse, come se parlasse a un bambino. «Perché ora non te ne vai? Verrò a prendere l'anello domani.» Poi sparì nella sala da pranzo, senza neppure rivolgerle uno sguardo. Lei rimase impietrita, fissando la porta dalla quale il suo amato era uscito. Per lui era stato facile: non aveva mai provato alcun sentimento, mai! Riprovò a togliersi l'anello, ma invano. Doveva levarselo dal dito, le sembrava che bruciasse! Doveva eliminarlo. Si guardò freneticamente attorno finché non lo vide. Su un grande tagliere a qualche metro da lei era appoggiato un coltello da macellaio. Con un grido strozzato, la ragazza lo afferrò con la destra, deponendo nel contempo la sinistra sul tagliere. La lama si sollevò nell'aria, rimase sospesa per un solo secondo, quindi si abbatté. Il polso sinistro tranciato di netto, lei restò un attimo immobile sul posto, la mano amputata sul ripiano di legno, il sangue che si riversava dal moncherino. Quando una delle inservienti iniziò a urlare, lasciò cadere il coltello sul pavimento e raccolse la mano tagliata. Subito dopo entrò nella sala da ballo. Le danze erano ricominciate, ma la ragazza si fece strada fra le coppie, scrutando la folla finché non scorse Joshua. Si bloccò, in attesa che lui si voltasse. Quando infine la vide, i suoi occhi si dilatarono allo spettacolo dell'abito inzuppato di sangue. La ragazza gli gettò allora la mano recisa, l'odioso anello ancora al dito, costringendolo ad arretrare. La mano lo colpì al petto, poi cadde al suolo, lasciandogli una macchia scarlatta sulla camicia bianca. Mentre la sala si riempiva di grida, la ragazza scappò dileguandosi nella notte.
Per lei, il ballo era finito... La voce di Brett si affievolì e per parecchi secondi nessuno aprì bocca. Fu Teri a interrompere il silenzio. «Che cosa le accadde dopo?» Il ragazzo scrollò le spalle. «Non si sa. Non è stata più vista. E neppure la sua mano, se per questo. Quando il panico fu cessato, lei e la mano erano scomparse. Tuttavia, si dice che sia ancora qui attorno, che talvolta cammini sulla spiaggia o fra i boschi in cerca della mano. Dovrebbe ritornare proprio quest'anno.» Teri sorrise. «Tornare? Ma se hai appena affermato che non se n'è mai andata.» «Ma quest'anno è speciale. Il Cove Club è stato aperto esattamente un secolo fa. Quest'estate si celebra il centenario del Ballo della Luna d'Agosto.» «E allora? Che cosa ci si attende che accada?» Brett si sporse in avanti, la voce di nuovo sommessa. «Che torni a vendicarsi.» Lei scrutò gli altri ragazzi, cercando di capire se ci credessero o meno. «Che cosa dovrebbe fare? E poi, chi era? Come si chiamava?» «D'Arcy. D'Arcy Malloy. Faceva la cameriera in casa vostra.» «D'Arcy?» ripeté incredula Teri. Si voltò verso Melissa, che, assolutamente immobile, stava fissando il fuoco. «Ma non è il nome della tua amica?» La ragazzina girò il capo, guardandola con occhi feriti. «Non avresti dovuto dirlo», esclamò con voce tremante. Poi, prima che la sorella potesse replicare, balzò in piedi e fuggì lungo la spiaggia, scomparendo nell'oscurità. Ellen Stevens si rivolse a Teri. «Che vuol dire 'sua amica'?» Dopo un attimo di silenzio, lei incurvò le labbra in un sorriso appena accennato. «Melissa ha un'amica immaginaria. Me ne ha parlato la notte scorsa. Si chiama D'Arcy.» 11 Melissa arrancò lungo la spiaggia, decisa a non cedere ai singhiozzi che le salivano in gola. Infine, quando il falò fu soltanto un puntino luminoso in lontananza, si sedette sulla sabbia fissando l'oceano. Non è successo niente di grave, si disse. Che c'era di male se Teri aveva
parlato a tutti della sua amica? Era stata lei stessa a comportarsi da stupida. Se solo si fosse soffermata a riflettere per un attimo ci avrebbe riso sopra, oppure avrebbe reso più interessante la storia di Brett sostenendo che l'amica era davvero il fantasma. Del resto, in una certa misura, si trattava della pura verità: aveva pensato a D'Arcy Malloy sin da quando, da piccola, le era stata raccontata la sua vicenda e si era persino spinta in soffitta a visitare la cameretta dove la sfortunata ragazza doveva sicuramente aver vissuto. In seguito, crescendo e trovando sempre più difficile fare amicizia con gli altri ragazzi, aveva iniziato a parlare con D'Arcy e a immaginare che lei le rispondesse. Tranne che, ovviamente, la sua amica non era la vera D'Arcy, ma un parto della sua fantasia, una ragazzina della sua stessa età. Qualcuno con cui poteva parlare di tutto ciò che non si sentiva di confidare a nessun altro. Ora però, dato che era stata tanto ottusa da fuggire dal falò, tutti l'avrebbero ritenuta matta. Perché lo aveva fatto? Perché non si era limitata a scherzarci sopra? Dopotutto, quando lei e Jerry Chalmers erano rimasti per ultimi sul campo di pallavolo, aveva pensato che quella partita fosse buffa, esattamente come il resto del gruppo. Non avevano riso alle sue spalle, bensì per un gioco divertente di cui, una volta tanto, era stata parte. Adesso aveva rovinato tutto comportandosi nuovamente da stupida. Avrebbe soltanto dovuto stare allo scherzo, inventando qualche storia. Poteva per esempio dichiarare di sapere su chi D'Arcy si sarebbe vendicata al Ballo della Luna d'Agosto. Oppure, ancora meglio, rivelare che D'Arcy aveva trovato la propria mano e si preparava a lasciarla sul letto della vittima designata la notte prima del ballo. Il singhiozzo che aveva minacciato di sopraffarla solo qualche minuto prima si trasformò in una risata sommessa, quindi in un sospiro. Se i ragazzi avessero riso di lei, la colpa sarebbe stata sua, non di Teri. E ormai non poteva più farci nulla. Alzandosi per tornare a casa, desiderò che D'Arcy fosse una persona vera. In quel caso... Cercò di accantonare il pensiero, ma si trovò a ridacchiare di nuovo. Come si sarebbe comportata la gente se avesse visto sul serio D'Arcy? Naturalmente, però, non sarebbe mai accaduto, visto che D'Arcy non esisteva se non nella sua mente. Nei pressi di casa si fermò: le luci della biblioteca erano accese e si ve-
deva distintamente la mamma seduta davanti al televisore. Se fosse entrata dalla porta principale, Phyllis l'avrebbe udita e sarebbe iniziato un fuoco di fila di domande. «Perché sei qui così presto?» «Perché Teri non è con te?» «È finito il falò?» Si guardò alle spalle. In lontananza, il fuoco era ancora più luminoso: qualcuno doveva averlo alimentato con nuovi ciocchi e, persino da lì, era possibile scorgere le sagome degli altri ragazzi seduti sulla spiaggia. Anche la mamma li avrebbe visti e l'interrogatorio avrebbe assunto una piega peggiore. «Cos'hai combinato? Sei stata di nuovo villana con i tuoi amici? Hai fatto qualcosa di stupido?» «Allora?» Arretrò lentamente dalla facciata principale, quindi aggirò l'edificio, celandosi fra le ombre. Il retro della villa era buio e lei si rilassò. Se solo fosse riuscita a sgattaiolare dalla porta di servizio senza che sua madre se ne accorgesse... Di colpo, una grossa sagoma le balzò addosso dall'oscurità. Un secondo dopo, il labrador si sollevò sulle zampe posteriori scodinzolando furiosamente e le leccò gioiosamente il viso. «Blackie!» esclamò Melissa, facendo del proprio meglio per tenere la voce bassa. «Vuoi stare giù?» Il cane obbedì e lei si chinò ad accarezzarlo per qualche minuto. «D'accordo», bisbigliò guardando nervosamente in direzione della casa per accertarsi che non si fosse accesa nessuna luce. «Adesso vai. Mi hai sentito? Vai!» La ragazzina si avviò verso la porta e l'animale, dopo un attimo di esitazione, la seguì. «No! Non puoi entrare!» Cercò a tentoni la chiave che Cora teneva nascosta nel grande vaso di terracotta a destra dell'ingresso, la trovò e la infilò nella serratura. Il battente si aprì con uno scatto rumoroso, che raggelò Melissa. Infine, non udendo alcuna reazione, scivolò furtivamente all'interno. Immediatamente, Blackie cominciò a grattare la porta, uggiolando di disappunto. Lei pregò mentalmente che non si mettesse ad abbaiare. E in quel preciso momento il cane lanciò un potente ululato.
In tutta fretta, Melissa riaprì la porta e lo afferrò per il collare, trascinandolo dentro. «Va bene, puoi entrare, ma devi rimanere tranquillo e non puoi trascorrere qui tutta la notte.» Il grosso labrador inclinò la testa e la guardò come se avesse capito ogni singola parola. La mano ancora stretta sul collare di Blackie, la ragazzina attraversò velocemente la cucina in direzione delle scale di servizio. Qualche minuto dopo era finalmente al sicuro nella propria stanza. Solo allora lasciò libero il cane, che prontamente balzò sul letto e si accucciò sui cuscini. Lei si accigliò. «Non è abbastanza grave che tu sia riuscito a venire fin qui? Se sporchi tutto il letto, la mamma ci ucciderà.» La coda di Blackie sbatté allegramente contro la testiera. Senza minimamente accennare a scendere a terra, l'animale si rotolò sulla schiena, le zampe all'aria, e la guardò con i grandi occhi scuri, invitandola a grattarlo sul ventre. Fingendo una grande esasperazione, lei gli sedette accanto e iniziò a coccolarlo. In quel momento, dalla finestra aperta, udì la voce di Tag. «Blackie! Blackie, vieni qui!» Il cane scese istantaneamente dal letto e corse alla finestra, posando le zampe anteriori sul davanzale e abbaiando a tutta forza. Melissa si precipitò a fermarlo. «No!» ordinò in tono deciso, tentando di bloccargli il muso con una mano. A un nuovo richiamo del padrone, tuttavia, il labrador si divincolò e riprese a latrare. «Tag!» invocò la ragazzina con il tono di voce più alto che osò assumere. «È quassù! Smettila di chiamarlo!» Ma di colpo, alle propxie spalle, udì sopraggiungere la madre. «Melissa! Cosa sta succedendo?» Phyllis tacque subito alla vista di Blackie, che si era accucciato ai piedi della figlia e stava ora ringhiando minacciosamente. Istintivamente, arretrò di qualche passo, ma i suoi occhi lampeggiarono d'ira. «Cosa fa quel cane qui dentro?» domandò imperiosamente. «Mi... mi dispiace, mamma», balbettò lei. «Io... lui... quando ho aperto la porta, è... beh, ecco... è entrato.» Gli occhi della donna si ridussero a due fessure. «Entrato? I cani non ti arrivano in casa di loro iniziativa. Sono le persone che li lasciano entrare.» «Lo faccio uscire», si affrettò ad assicurare la ragazzina. «Subito.» Afferrato nuovamente l'animale per il collare, tentò di oltrepassare la madre, che, però, la prese saldamente per un braccio.
«E perché, poi, sei a casa?» chiese. «Come mai non sei al falò con i tuoi amici?» «Io... non mi sentivo bene», mentì la ragazzina. «Ma stai abbastanza bene da portarti il cane in camera per giocare, vero?» Messa alle strette, Melissa assentì con aria depressa. «S... sì.» Con espressione furente, Phyllis la sospinse giù per le scale di servizio, osservandola in silenzio mentre apriva la porta della cucina e faceva uscire il cane in giardino. Quando la ragazzina accennò a risalire al piano superiore, la bloccò con un gesto imperioso. «Guarda!» le intimò. Melissa abbassò lo sguardo sul pavimento che la madre le stava indicando e si sentì morire. Sul linoleum, dalla porta della cucina fino ai piedi delle scale, spiccavano nette le impronte fangose di Blackie. Boccheggiando, la ragazzina si esaminò la camicetta. Anche quella era coperta di macchie scure. Lanciò un'occhiata intimorita alla madre. «Pulisci il pavimento», ordinò la donna con un tono che non lasciava spazio a repliche. «E nel frattempo rifletti sul motivo per cui te ne sei andata così presto dalla festa. Non intendo più sentirti ripetere che ti sei sentita male, visto che si vede benissimo che si tratta di una bugia. Voglio che tu mi dica la verità, così potrò decidere quali provvedimenti adottare.» Phyllis uscì a grandi passi dalla cucina. Questa volta, mentre riempiva un secchio di acqua e detersivo ed estraeva uno straccio dal ripostiglio delle scope, Melissa non soffocò i singhiozzi che le salivano in gola. Ripulendo il pavimento dalle tracce del passaggio di Blackie, era consapevole che quella rappresentava la parte migliore di quanto le sarebbe accaduto nel corso della notte. Il peggio si sarebbe verificato di sopra, nella propria stanza, dove avrebbe trovato la madre ad attenderla. Dal mare soffiava una brezza fredda, ravvivando le fiamme languenti del falò, simili a dita arancioni che si protendevano nell'oscurità in cerca di qualcosa con cui alimentarsi. Teri, ora seduta accanto a Brett Van Arsdale che le aveva circondato le spalle con un braccio, stava fissando quel bagliore. L'immagine di un altro fuoco le scaturì brevemente dalla memoria e, per alcuni secondi, udì nuovamente il ruggito dell'incendio e le urla di
sua madre. Rabbrividì lievemente e allontanò il ricordo, rannicchiandosi contro Brett. Infine, quando la luna cominciò a calare all'orizzonte, controllò l'orologio. Era quasi mezzanotte. «Forse è meglio che vada a casa», dichiarò, alzandosi con riluttanza. «Vuoi che ti accompagni?» le chiese lui. «Non devi disturbarti.» «Non si sa mai... Non vorrai che D'Arcy ti sorprenda da sola di notte, vero?» Lei tacque finché non si furono avviati, mano nella mano, lungo la spiaggia. «Nessuno crede sul serio a quella storia, presumo.» «A quale parte?» «Beh, tutta.» «Non so se qualcuno pensa davvero che D'Arcy si aggiri ancora», rispose Brett ridendo sommessamente. «Tranne Melissa.» Quindi tornò serio. «In realtà, la storia è in larga misura vera. I miei bisnonni erano al ballo quando si verificò l'episodio. A quei tempi, moltissime persone tenevano un diario e tutte scrissero la stessa cosa. Almeno cinquanta ospiti del club furono testimoni dell'accaduto.» «Forse se lo sono inventato.» «Cosa intendi dire?» «Beh, mi sembra possibile che si siano accordati nel creare una storia di fantasmi. Forse hanno trovato l'idea divertente.» Brett rise. «Faresti meglio a venire a casa mia, prima o poi, e dare un'occhiata ai ritratti. Dopo un solo sguardo al mio bisnonno capirai che quell'uomo non si è mai inventato alcunché in tutta la sua vita. Era un avvocato e un membro influente della chiesa che frequentiamo a New York. La nonna sostiene di non aver mai visto ridere una sola volta i propri genitori. Inoltre, sono certo che, se lo chiedi a tuo padre, ti racconterà la medesima versione.» Teri scrollò le spalle. «Ammesso che sia vero, dubito che qualcuno possa credere che il fantasma aleggi ancora. Si tratta soltanto di una vecchia storia, non ti pare? E scommetto che è sempre stato un altro a vederla.» Si voltò a guardarlo in viso. «Per esempio, tu l'hai mai vista? È successo a qualcuno che conosci?» «No, ma che significa? Un sacco di gente ha visto D'Arcy.» «Citami un nome.»
Brett la fissò un attimo, quindi scoppiò a ridere. «Non riesco a crederci! Stiamo davvero litigando a causa di uno spettro? Si tratta solo di una storia!» Erano ormai quasi giunti a Maplecrest, completamente al buio tranne una finestra illuminata nella camera da letto padronale al primo piano. «Vuoi entrare a bere una Coca?» Il ragazzo assentì. «Sicuro. Così, dopo, puoi accompagnarmi a casa perché D'Arcy non mi acchiappi, quindi ti faccio da scorta io e trascorriamo tutta la notte andando avanti e indietro.» «Scordatene. Ti offro una Coca e poi torni a casa da solo. Se ti imbatti nel fantasma, peggio per te.» Si avviarono lungo il prato per fermarsi di colpo al suono di un cupo ringhiare nell'oscurità. «Cosa diavolo è?» si innervosì Brett. «È solo Blackie, quello stupido. Blackie, vattene via!» Si chinò a raccogliere un ramoscello e lo gettò nella direzione da cui proveniva il ringhiare. Il cane iniziò ad abbaiare, lacerando la quiete notturna. Un attimo dopo, dal piano superiore, udirono la voce di Phyllis Holloway. «Tag! Porta dentro quell'animale! Non intendo permettere che disturbi il vicinato per tutta la notte!» A disagio, Brett lanciò un'occhiata a Teri. «Credo che rinuncerò alla Coca. La tua matrigna sembra notevolmente irritata.» «Va tutto bene», protestò lei. «Tu le piaci molto.» Tuttavia il ragazzo scosse il capo. «Meglio lasciar perdere. È molto tardi.» Phyllis inveì nuovamente e, in distanza, Tag cominciò a chiamare il cane. Dopo un ultimo latrato a Teri e Brett, Blackie scomparve dietro l'angolo della villa. Un attimo dopo, sulla veranda, il ragazzo diede un rapido bacio a Teri prima di incamminarsi verso casa. Una volta sola, lei entrò e si diresse verso la cucina in cerca di una bibita. Quando aprì la porta, il pungente odore del disinfettante le invase le narici e, accesa la luce, si accorse che il pavimento era ancora umido, come se qualcuno l'avesse appena lavato. Cora? Impossibile: la domestica se ne andava sempre subito dopo cena. Prese una Coca-Cola dal frigorifero e tornò sui propri passi, salendo la scalinata principale fino al piano superiore. Giunta sul pianerottolo, udì il richiamo di Phyllis.
«Teri? Sei tu, cara?» Notando che la porta della camera da letto padronale era socchiusa, la ragazza bussò piano. «Entra», la invitò la matrigna. Aperto il battente, Teri la vide a letto, una rivista appoggiata in grembo. «Vieni a sederti accanto a me e raccontami tutto», la esortò la donna. Un quarto d'ora più tardi, Phyllis sorrise gioiosa. «Sono davvero felice che tu ti sia divertita molto», commentò, prendendola per mano. «Suppongo sia scortese da parte mia, considerato l'accaduto, ma voglio tu sappia quanto sono contenta di averti di nuovo qui. Ho sempre pensato che il tuo posto fosse Maplecrest. Sei... beh, talvolta mi è capitato di desiderare che tu fossi mia figlia. Non è terribile?» Teri le sorrise con affetto. «Per niente. Tu, però, hai già Melissa.» Il sorriso della donna svanì di colpo. «In effetti è così, ma Melissa non è come te. Oh, non intendo insinuare che la amo meno per questo motivo, però lei non possiede la tua capacità di... socializzare. Faccio del mio meglio, naturalmente, ma talvolta non sono sicura che badi davvero alle cose che contano. Stasera, per esempio», proseguì in tono reso brusco dal disappunto, «cosa devono aver pensato di lei gli altri ragazzi quando se n'è andata dalla festa solo perché 'non si sentiva bene'? A tutti capitano momenti di malessere, ma non si abbandona una festa solo perché...» La frase rimase in sospeso quando notò l'espressione stranamente incerta sul viso della figliastra. «È per questo che ha lasciato il falò, vero?» Teri, in preda all'eccitazione nell'intravedere un'opportunità, si passò nervosamente la lingua sulle labbra come se fosse riluttante a pronunciarsi, infine si decise. «È stata... la storia del fantasma. Brett ci stava raccontando di D'Arcy e Melissa si è spaventata.» Phyllis gemette rumorosamente. «Stai davvero dicendomi che è scappata a causa di una stupida storia di spettri?» «Beh, era piuttosto agghiacciante. A ogni modo, nessuno ci ha badato troppo.» Abbassò studiatamente lo sguardo. «Suppongo, però, che sarei dovuta venire via con lei, tanto per accertarmi che stesse bene.» «Non essere sciocca», reagì la matrigna, bruciando di rabbia per l'infantilismo della figlia. «L'unico modo in cui Melissa potrà imparare qualcosa è attraverso un buon esempio.» Sorrise a Teri con orgoglio. «E non riesco a pensare a un modello migliore di te. Del resto, non esiste un motivo al mondo per cui avresti dovuto lasciare che l'immaturità di tua sorella ti rovinasse una bella serata.»
«Allora non sei arrabbiata con me?» chiese la ragazza, guardandola timidamente. «Arrabbiata con te? È semplicemente ridicolo! Non ne sarei mai capace.» Le porse la guancia. «Ora dammi un bacio e vai a dormire.» Qualche minuto dopo, nel bagno fra le due stanze, Teri appoggiò l'orecchio alla porta di Melissa. Non udendo nulla, socchiuse il battente e si insinuò nella camera della sorella. Melissa giaceva di nuovo sulla schiena, gli occhi sbarrati e fissi al soffitto. Dopo essere rimasta un poco a osservarla, la ragazza le parlò con voce quasi impercettibile. «Melissa?» Silenzio. «Melissa, sei sveglia?» Nessuna risposta. Teri scostò il lenzuolo e vide le cinghie che la assicuravano al letto per i polsi e le caviglie. Dopo una breve esitazione, improvvisamente le venne un'idea. «D'Arcy?» Gli occhi della ragazzina si posarono su di lei. «D'Arcy, puoi sentirmi?» Seguì un attimo di pausa, poi le labbra di Melissa si mossero. «Sì, ti ascolto.» Udendo quella voce, Teri si sentì percorrere da un brivido: apparteneva alla sorella, eppure suonava in qualche modo diversa, piatta, priva di intonazione. Non poté fare a meno di pensare che sembrava la voce di una persona morta. «Sai chi sono?» La testa di Melissa si inclinò, quindi giunse di nuovo lo strano timbro di D'Arcy. «Sei Teri. Melissa mi ha parlato di te.» «Davvero?» chiese lei, improvvisamente tesa. «E che cosa ti ha detto?» La sorellastra sorrise lievemente. «Che ti vuole molto bene.» Teri si rilassò. «Vuoi spiegarmi chi sei?» Un istante di silenzio, poi: «L'amica di Melissa». «Dove vivi?» «Di sopra.» La ragazza guardò in su, il cuore che accelerava il battito. «In tal caso, cosa fai qui?»
«Melissa aveva bisogno di me.» «Perché?» «Per proteggerla da sua madre. Quando si arrabbia con lei, vengo in suo aiuto.» Teri rifletté sulla risposta, quindi parlò nuovamente. «Ma che cosa accade a Melissa? Dove va?» «Dorme.» «E tu? Non desideri riposare?» D'Arcy scosse il capo. «Non posso. Quando Melissa è legata, devo vegliare su di lei.» Ancora una volta, la ragazza si soffermò a meditare. Infine, con grande cautela, cominciò a sciogliere i lacci dalle caviglie della sorellastra, ripetendo l'operazione con i polsi. «Ecco», esclamò. «Ora puoi tornare di sopra.» Ma gli occhi di Melissa si erano già chiusi e il suo respiro aveva acquisito il ritmo lento del sonno. Le labbra piegate in un sorriso maligno, Teri la ricoprì con il lenzuolo. Subito dopo se ne andò in silenzio, lasciandola sola nell'oscurità. Sola e libera dalle cinghie... 12 Il falò si era ridotto a un mucchio di carboni ardenti e la brezza marina si era fatta umida e gelida. Sulla spiaggia aleggiavano banchi di nebbia ed Ellen Stevens, guardandosi attorno, rabbrividì leggermente. «Andiamo a casa», suggerì a Cyndi Miller. Di fronte a loro, il viso appena distinguibile alla luce rossastra delle ceneri, Kent Fielding sogghignò sinistro. «Spaventate?» Cyndi scosse la testa. Ciononostante, quando la brezza cessò e la nebbia si fece più fitta, sentì aumentare il proprio nervosismo. Che stupidaggine! Era cresciuta qui e non aveva mai avuto paura di rimanere sulla spiaggia di notte. Per tutta la vita era corsa avanti e indietro fra la propria casa e quelle degli amici attraversando il bosco senza il minimo ripensamento. Stasera, però, tutto le appariva in qualche modo diverso. Colpa della storia di fantasmi. E pensare che non si trattava certo della prima volta che la sentiva. In effetti, lei ed Ellen ne avevano parlato proprio il giorno prima.
Ma allora, quando avevano discusso dello spettro di D'Arcy, erano sdraiate al sole ai bordi della piscina del club, circondate dagli amici. Adesso, invece, era notte, la nebbia si stava addensando e improvvisamente ogni cosa sembrava diversa. Ripetendo a se stessa che si stava comportando da idiota, si alzò con fare deciso e chiuse la lampo del leggero giubbotto che si era infilata poco prima. «Perché dovrei aver paura?» chiese, soprattutto per udire il suono della propria voce. «A causa di D'Arcy», dichiarò Kent, il sogghigno ancora più ampio. «Guarda un po' in giro! È proprio il genere di notte che lei ama. Può sgattaiolare nella nebbia in cerca della propria mano insanguinata senza farsi scorgere da nessuno.» La sua voce si abbassò, diventando più minacciosa. «In effetti, potrebbe benissimo scivolarti alle spalle, afferrarti...» Cyndi si sentì accapponare la pelle sul collo, come se qualcuno si trovasse davvero dietro di lei, ma si rifiutò di dare a Kent la soddisfazione di voltarsi a guardare. «... Per il collo...» proseguì il ragazzo. Di colpo, lei si accorse che dita forti le avevano circondato la gola. Lanciò un urlo, si divincolò, quindi girò su se stessa proprio nel momento in cui Jeff Barnstable scoppiava a ridere. «Te l'ho fatta!» Il viso congestionato, Cyndi fissò furiosa Ellen Stevens. «Tu lo sapevi?» L'amica, incapace di mantenersi seria, assentì. «Mi dispiace», disse infine, «ma era uno scherzo troppo bello per rovinarlo. Avresti dovuto vederti mentre guardavi Kent, che continuava a parlare mentre Jeff avanzava verso di te...» Improvvisamente, anche Cyndi si mise a ridere. «Beh, se davvero D'Arcy è qui attorno, non verrà certo a cercare noi», osservò, gli occhi su Kent e Jeff. «Dopotutto ce l'ha con i ragazzi, non è vero?» Si rivolse a Ellen. «Sei pronta?» «Siete sicure di non voler essere accompagnate a casa?» domandò Kent. Cyndi gli lanciò un'occhiata maliziosa. «Preferisco che D'Arcy mi dia la caccia, piuttosto che dover lottare con te per farti tenere le mani a posto.» Lasciando i due amici a gettare sabbia sugli ultimi carboni ardenti, le ragazze si avviarono lungo la spiaggia. In capo a qualche secondo, si trovarono immerse nella fitta nebbia. Cyndi rabbrividì nuovamente e si avvicinò a Ellen. «Non... non sono sicura che questa passeggiata mi piaccia», ammise in tono sommesso per e-
vitare che Jeff e Kent potessero ancora udirla. «Ma dai! Era soltanto una storia di fantasmi e tutti sanno che gli spettri non esistono!» Eppure, anche lei sbirciò nella densa nube grigia che aveva ormai ricoperto tutti i dintorni e provò una vaga sensazione di paura. Che idiozia, si disse. I fantasmi sono un prodotto della fantasia! Ma che altro poteva esserci là fuori, celato nella nebbia, in attesa del loro passaggio? «Andiamo via dalla spiaggia», esclamò ad alta voce. «Nel bosco la visibilità è sempre maggiore.» Svoltarono a sinistra e, dopo pochi passi, Cyndi si accorse di avere immerso i piedi nell'acqua. «Cosa...» sbottò, quindi scosse la testa, capendo ciò che era accaduto. «Abbiamo girato su noi stesse», dichiarò, prendendo per mano l'amica. «Vieni!» Voltarono le spalle all'oceano e si incamminarono nuovamente sulla sabbia. Persino il lieve sciacquio delle onde era stranamente attutito dal fitto ammasso di vapori nerastri. Cyndi si ritrovò a sforzarsi allo spasimo di penetrare con lo sguardo quella coltre, ma non riuscì a vedere nulla. Incontrò un ostacolo sul terreno e inciampò, perdendo quasi l'equilibrio. «Stai bene?» le bisbigliò Ellen. «Sì, certo. Penso di aver trovato i gradini che segnano il confine tra le proprietà dei Fielding e dei Chalmers. Come mai non ti sei portata una torcia elettrica?» «E chi pensava di averne bisogno? Ieri notte non c'era la minima traccia di nebbia.» Salirono gli scalini di legno fino a una macchia di pini e, come Cyndi aveva sperato, notarono che la foschia cominciava a essere meno fitta. Ora potevano distinguere le sagome dei tronchi, anche se le cime degli alberi sembravano perdersi nel nulla. «È tutto così sinistro, vero?» sussurrò Ellen. «È come se attorno a noi non ci fosse più niente.» Proseguirono frettolosamente finché, a pochi metri sulla destra, non scorsero la villa dei Chalmers. Mentre si fermavano a osservarla, la casa svanì improvvisamente in un banco di nebbia, quasi fosse stata inghiottita. Cyndi ansimò. «Vieni!» mormorò in tono concitato. «Andiamo a casa tua!» Arrancarono in salita per un altro tratto, ma per quanto si spingessero
nell'entroterra, la nebbia sembrava soltanto diventare più densa. E poi, come il gelido respiro dei morti viventi, la brezza ricominciò a soffiare. Ormai era quasi buio pesto. Qualcosa toccò la guancia di Ellen, che gridò per la paura e si bloccò di botto, con il risultato che Cyndi andò a sbattere contro di lei. «Che succede? Perché ti sei fermata?» «Q... qualcosa mi ha sfiorato il viso», rispose l'altra, sporgendo timidamente una mano per esplorare lo spazio circostante. Un attimo dopo, avvertì i morbidi aculei di un ramo di pino. «Era solo un ramoscello», bisbigliò. Riprese a camminare per immobilizzarsi subito. Di fronte a sé, in un punto imprecisato nella foschia, aveva visto qualcosa. Indistinta, quasi priva di forma, era a malapena discernibile. Ma, indubbiamente, era là. «G... guarda!» sussurrò, afferrando l'amica per una mano e spingendola in avanti. «Che cosa?» chiese Cyndi, ora al suo fianco. «Che cosa hai visto?» Ellen si sforzò di distinguere la sagoma nella nebbia scura. Dove un secondo prima le era parso di intravedere qualcosa, sembrava non esserci più nulla. Il suo cuore si calmò un poco. «Non... non lo so. Ho creduto...» Con l'improvviso dissiparsi del banco di fronte a loro, sentì rafforzarsi la stretta della mano di Cyndi. Sul sentiero, una strana figura sembrava librarsi a qualche centimetro da terra. Una forma bianca, senza un contorno definito. «Oh, Dio! Ellen! Che cos'è?» «Non... non ne ho idea», balbettò l'altra, la voce tremante di paura. Un istante più tardi, a seguito di un nuovo addensarsi della nebbia, la sconcertante apparizione svanì. Cyndi, le dita intrecciate a quelle di Ellen tanto saldamente da provare dolore, fu scossa da brividi. «Che... che facciamo? Dobbiamo tornare sulla spiaggia?» L'amica iniziò ad assentire, poi ricordò che, laggiù, la visibilità era praticamente nulla. «No. An... andiamo avanti. Forse non è niente.» Ma, mentre riprendevano nuovamente a procedere nel freddo umido della notte, lei stessa non riusciva a credere alle proprie parole.
Il bosco invisibile attorno a loro era diventato improvvisamente irto di minacce: ovunque, sentivano scricchiolii di sterpi secchi e il respiro pesante di creature nascoste nel buio. Continuarono ad avanzare, incerte su dove si trovassero, ma troppo atterrite per fermarsi. Infine, alle loro spalle, udirono un suono, molto più forte degli altri e del tutto diverso. Un gemito, rauco e pieno d'angoscia, che le paralizzò sul posto. «Che... che cos'è?» alitò a stento Ellen. «Non lo so!» frignò Cyndi, le parole soffocate dai singhiozzi. Lentamente, Ellen si girò, costringendosi a guardare nell'oscurità del bosco. Il vento acquistò vigore e, ancora una volta, il tessuto impalpabile della nebbia si squarciò. Dietro di loro, in piedi sul sentiero, si ergeva la forma distinta di una ragazza in abito bianco da ballo e con il viso velato. Senza muoversi, la figura si limitò a fissarle. Quindi alzò un braccio e puntò il dito nella loro direzione. Dopo aver osservato per un attimo quell'apparizione, Ellen fu presa dal panico: con un urlo si girò e fuggì lungo il sentiero, ignorando i rami di pino che le sferzavano il viso e i viticci che minacciavano di attorcigliarsi attorno ai suoi piedi. A brevissima distanza, lottando per raggiungerla, anche Cyndi Miller scappò dall'agghiacciante spettro emerso dalla nebbia. Jeff Barnstable e Kent Fielding stavano percorrendo l'ampio prato di fronte alla villa di quest'ultimo quando udirono l'urlo di Ellen. Per un momento, nessuno dei due fu in grado di capire da dove provenisse, ma ben presto Kent si mise a correre. «Dietro la casa!» gridò a Jeff. Entrambi si precipitarono attraverso la nebbia con Kent alla guida, dato che i suoi piedi avevano tanta familiarità con l'ambiente circostante da rendere superflua la necessità di vedere il percorso. Sul retro della villa, la foschia fu resa di color grigio pallido dall'improvviso accendersi delle luci sulla veranda. Owen Fielding, in vestaglia di flanella, aprì la porta-finestra del soggiorno. «Kent? Sei tu?» «Sono qui, papà», esclamò lui mentre Jeff gli si affiancava. «Qualcuno ha urlato.» Proprio in quel momento, Ellen Stevens e Cyndi Miller, entrambe in la-
crime, salirono barcollando gli scalini della veranda e corsero verso il signor Fielding. «Ellen?» si stupì Owen, mentre le ragazze si aggrappavano a lui. «Cyndi? Che cos'è accaduto? Eravate voi a urlare?» Cyndi, recuperando il respiro quel tanto che bastava per parlare, assentì. «Noi... abbiamo visto qualcosa là fuori», boccheggiò. «Nel bosco.» Avvicinatisi alle ragazze, Kent e Jeff le osservarono sospettosamente. «Che cosa?» chiese il primo, scambiando un'occhiata d'intesa con l'amico, un sorriso ironico già aleggiante agli angoli della bocca. Cyndi li fissò, cominciando a provare un'ombra di dubbio alla vista della tuta bianca da ginnastica che Jeff indossava. Invece di rispondere alla domanda di Kent, chiese a propria volta: «Eravate voi laggiù nel bosco?» Il sorriso di Kent si smorzò lievemente. «Siamo appena arrivati dalla spiaggia. Dovevamo spegnere il fuoco, non ricordi?» Il respiro finalmente normale, Ellen si rivolse al signor Fielding. «Abbiamo visto qualcosa fra gli alberi.» Spostò lo sguardo sull'amica come per implorare aiuto. «Sembrava uno spettro» proseguì, le parole parevano insensate ora che si trovava al sicuro sulla veranda della villa, la nebbia e l'oscurità tenute a distanza dalle luci. «E assomigliava...» «Assomigliava a D'Arcy!» esplose Cyndi con voce decisa e spavalda, sfidando lo sguardo beffardo di Kent. «Ma certo», ribatté lui in tono derisorio. «Stiamo sulla spiaggia tutta la sera e ci raccontiamo una storia di fantasmi. Quando è scesa la nebbia e la luna è scomparsa, voi due eravate già tanto spaventate che avreste scambiato per uno spettro anche un cespuglio.» «Non è vero!» si indignò Cyndi, rivolgendosi a Ellen. «Diglielo tu! Spiega cosa abbiamo visto!» «Sembrava... una ragazza. Quando è apparsa per la prima volta era davanti a noi, ma non eravamo realmente sicure di cosa fosse, dato che continuava a scomparire nella nebbia. Così abbiamo proseguito finché non abbiamo udito un suono alle nostre spalle.» «Si trattava di un gemito, un lamento», la interruppe l'amica. «Davvero agghiacciante.» Ellen proseguì, guardando l'incredulo terzetto. «E quando ci siamo girate, era là. Una ragazza con un abito bianco e un velo sul viso.» «Ci stava fissando», aggiunse Cyndi, rabbrividendo al ricordo. «E poi... e poi ha puntato un dito verso di noi.» Distolse gli occhi dalla smorfia scettica di Kent per alzarli sul signor
Fielding. «È vero! È andata proprio così! Lei ci crede?» Owen, un braccio tuttora attorno alle spalle di Ellen, si sporse a darle una stretta rassicurante. «Beh, credo senz'altro che voi siate convinte di aver visto una cosa del genere. Prima di spaventarci a morte, però, perché non entriamo a berci una cioccolata? Dopo vi accompagnerò a casa in auto.» Come si aspettava, le ragazze non obiettarono all'offerta, benché entrambe abitassero a poche centinaia di metri di distanza. «E voi non venite?» domandò al figlio e all'amico. Kent esitò, guardando Jeff, quindi scosse il capo. «Io... penso sia meglio dare un'occhiata qua attorno.» Owen Fielding ridacchiò. «Divertitevi», dichiarò. «Non rimanete fuori tutta la notte e state attenti», aggiunse con una smorfia maliziosa prima di chiudere la porta-finestra. «Le ragazze potrebbero aver ragione. Se D'Arcy è là fuori, forse sta cercando proprio voi.» Mezz'ora dopo, con una nebbia tanto fitta da non poter distinguere le loro mani davanti al viso, i due fecero ritorno. Non avevano visto né udito nulla. Eppure, mentre si affrettavano verso le luci della veranda, entrambi provavano la sconcertante sensazione che qualcuno — qualcuno che loro non avevano potuto vedere né sentire — li avesse osservati. La mattina seguente, Phyllis Holloway si svegliò alle sei e mezzo, si spostò dall'intensa lama di luce che si riversava dalla finestra e aprì gli occhi. Aveva sognato di trovarsi al Ballo della Luna d'Agosto, ammirando con orgoglio la figlia (la ragazza più bella della sala) mentre danzava con Brett Van Arsdale. Tutte le donne che conosceva da anni, coloro che avevano reso la sua vita un tormento con le perenni offese deliberate e le umiliazioni ancor più dolorose per la loro sottigliezza, erano radunate attorno a lei, complimentandosi per la bellezza della figlia e pendendo dalle sue labbra. Nel sogno, sua figlia era Teri MacIver. Si attardò a letto, aggrappandosi al conforto che quelle immagini le fornivano e rammentando la conversazione avuta con la figliastra la sera precedente. Si era trattato del genere di dialogo che ogni madre sogna di avere con la propria figlia. Quello che con Melissa le era stato negato, rifletté con amarezza. Sospirando, scostò il lenzuolo di seta e scese dal letto, indossando la ve-
staglia prima di dirigersi verso la stanza della figlia. Sostò fuori della porta della camera di Teri, poi bussò piano nella vana speranza che la ragazza la invitasse a entrare, consentendole così di rimandare per qualche minuto l'incontro con Melissa. Quando, però, non ottenne risposta, si diresse alla porta successiva, dando un colpetto negligente al battente di mogano prima di fare il proprio ingresso. Si bloccò sulla soglia, immediatamente accigliata. Melissa era immersa in un sonno profondo e giaceva su un fianco, il braccio destro infilato sotto il cuscino. Con espressione cupa, la donna attraversò a grandi passi la stanza e scostò il lenzuolo che copriva la figlia. I legacci (le cinghie di pelle e le cinture di nylon che lei stessa aveva saldamente assicurato alle membra della ragazzina la notte precedente) erano sparsi in disordine sul materasso. «Melissa?» esclamò Phyllis. «Melissa?» La ragazzina si mosse, quindi si girò, coprendosi la testa con il cuscino. La madre glielo tolse dalle braccia, gettandolo a terra, e la afferrò bruscamente per le spalle, scuotendola. Spaventata, Melissa balzò a sedere, gli occhi sbarrati. Riconoscendo la mamma, si rannicchiò automaticamente contro la testiera del letto. «Guarda!» intimò Phyllis, indicando le cinghie. La ragazzina guardò sbalordita il materasso e, subito dopo, la madre. «Non le ho tolte io», si giustificò. «Non avrei potuto. Io...» «E allora chi è stato?» domandò la donna, la voce pericolosamente stridula. Melissa si ritrasse, sollevando le ginocchia contro il petto. «Ti ho chiesto chi è stato! Sto aspettando una risposta!» Gli occhi della ragazzina perlustrarono affannosamente la stanza come se cercassero una via d'uscita, ma non trovarono nulla. «D... D'Arcy», balbettò, per poi desiderare immediatamente di poter ritirare il nome proibito. Ma era ormai troppo tardi. «D'Arcy?» ripeté Phyllis, scagliandole addosso la parola come un missile. «Pensavo che l'avessi fatta finita con quest'idiozia.» Melissa deglutì, cercando di liberarsi dal nodo che le stava soffocando la gola. «S... sì, mamma», bisbigliò. «E allora chi è stato? Chi ti ha liberato dalle cinghie?» Il corpo scosso dai tremiti, Melissa scosse il capo con aria smarrita. La donna si fece più vicina al letto, chinandosi in avanti e incombendo
sulla figlia. Nel momento in cui alzava una mano per colpirla, la voce di Cora lo bloccò. «Oh, mi dispiace, signora», mormorò l'anziana domestica. «Non sapevo che si fosse già alzata.» Phyllis si girò di scatto verso la porta. «Davvero? E così sei stata tu a slegare Melissa per poi sgattaiolare qui alla mattina presto per rimettere tutto a posto?» Cora arretrò di un passo, quasi fosse stata colpita fisicamente da quell'accusa. «Oh, no, signora», sussurrò. «Non lo farei mai. Io...» «Ah, è così», la interruppe bruscamente Phyllis, la voce trasudante sarcasmo. «In tal caso, sarebbe certo la prima volta che ubbidisci ai miei ordini. Giuro che non capisco perché Charles insista a tenerti qui.» Attraversò la stanza a passo di marcia, mentre Cora si affrettava a scostarsi. «Ne riparleremo più tardi», concluse oltrepassando la domestica. Alcuni minuti più tardi, mentre si accingeva a versarsi una tazza di caffè al tavolo apparecchiato per la colazione, sobbalzò al suono della voce di Teri. «Qualcosa non va, Phyllis?» Voltatasi di scatto, sorrise alla vista della figliastra che la osservava con aria preoccupata. Il solo fatto di guardare Teri, già vestita con un paio di pantaloni kaki e una maglietta bianca, parve far sfumare un po' della sua rabbia. «Oh, si tratta solo di Cora», rispose. «Ieri notte è entrata nella camera di Melissa e...» Si interruppe di colpo. Teri spalancò gli occhi e si coprì la bocca con una mano. «Mio Dio, ti riferisci alle cinghie, vero?» Confusa, la donna rimase un attimo a fissarla. «Beh... beh, sì», ammise infine. «Ma non è stata Cora a toglierle. Sono stata io.» Phyllis si lasciò cadere lentamente su una sedia. «Tu? Temo di non capire.» Arrossendo lievemente, la ragazza abbassò lo sguardo. «Io... sono entrata per augurare la buonanotte a Melissa e mi è sembrato stesse tanto scomoda, tutta legata in quel modo. Beh, insomma, mi faceva pena, così l'ho liberata dalle cinghie.» Per un istante la matrigna si incupì, poi la sua espressione si rischiarò di colpo e le parole brusche che aveva già sulla punta della lingua le morirono in gola. «Capisco», si limitò a mormorare.
«Se ho fatto qualcosa di sbagliato, mi dispiace», aggiunse Teri, la voce sommessa e gli occhi inchiodati al pavimento. «Non era mia intenzione. È solo che... che mi è parsa così infelice.» Gli ultimi residui di rabbia che andavano svanendo di fronte all'evidente contrizione della figliastra, Phyllis sporse le braccia per stringerla a sé. «Non hai fatto assolutamente nulla di male, naturalmente. Tu non potevi sapere a cosa servissero quelle cinghie e cercavi solo di aiutare tua sorella.» Teri si illuminò. «Non sei arrabbiata con me?» «Certo che no», la rassicurò la donna. Sospirò, prese la tazza di caffè e ne bevve un sorso prima di proseguire. «Solo che... beh, Melissa ha qualche problema. Talvolta cammina nel sonno, soprattutto quando è agitata, e temo che ieri sera lo fosse moltissimo. Di conseguenza, per la sua sicurezza, sono costretta a legarla.» La ragazza ansimò. «Allora avrei potuto nuocerle! Se lo avessi saputo, non l'avrei mai fatto!» Phyllis le accarezzò affettuosamente una mano. «Non ti preoccupare. A quanto pare è rimasta tranquillamente nel proprio letto, quindi non ne è derivato alcun danno.» Si alzò in piedi, il sorriso svanito. «Suppongo sia meglio che parli con Cora. Dal momento che ho accusato lei dell'accaduto, se non mostro di esserne dispiaciuta è probabile che mandi in fumo la nostra cena.» Detto ciò, la donna si diresse in cucina. Rimasta sola, Teri si versò una tazza di caffè e guardò allegramente alla finestra la mattinata stupenda. Il sole brillava in un cielo del tutto privo di nuvole e ogni traccia della nebbia della sera precedente era completamente scomparsa. La ragazza sorrise fra sé e si chiese se fosse troppo presto per telefonare a Cyndi Miller o a Ellen Stevens. Non vedeva l'ora di sentirsi raccontare ciò che era accaduto dopo che se n'era andata dalla spiaggia. 13 Bang! La racchetta da tennis di Melissa colpì la palla e, per la prima volta quella mattina, la ragazzina udì il rumore pieno indicante che l'aveva finalmente presa nel punto giusto. La palla oltrepassò la rete e lei trattenne il fiato mentre suo padre arretrava, vibrava un dritto...
... e mancava l'obiettivo! La palla gli passò sopra la testa e improvvisamente Melissa ebbe paura che finisse fuori campo, ma proprio allora iniziò a cadere, fermandosi qualche centimetro entro la riga. «Bel colpo!» la lodò Charles. Arrossendo di gioia, lei tornò alla propria posizione di servizio e lanciò in aria un'altra palla. Fu troppo lenta per una frazione di secondo e la mandò in rete. A quel punto, si accorse che papà si spostava in avanti, preparandosi per il lancio molto facile in cui era solita esibirsi al secondo servizio. Già sapendo come comportarsi, attese che lui fosse pronto. Melissa stava vincendo per 40 a 15 e, sebbene avesse la certezza che il padre mancasse volutamente una quantità di palle semplici, lui lo faceva così bene che non era ancora riuscita a coglierlo in fallo. Questa volta, però, con un po' di fortuna si sarebbe davvero guadagnata il punto. Gettò in aria la seconda palla, ma, invece di colpirla lentamente e di mandarla nel mezzo del campo avversario, impresse alla racchetta tutta la propria forza. Bang! La centrò di nuovo nel punto giusto, proiettandola oltre il padre con una traiettoria dritta e bassa che si concluse all'interno della linea di fondo. Charles la fissò sorpreso per un attimo, quindi sorrise. «Immaginavo che prima o poi avresti corso il rischio. Solo che non mi aspettavo lo facessi proprio ora.» Eccitata per la vittoria, Melissa si mosse verso il fondo del proprio campo, allargò i piedi e attese il primo servizio del padre. Un istante dopo la palla sorvolò la rete e lei si accorse troppo tardi che il papà le aveva giocato il medesimo scherzo subito all'inizio: invece di ricorrere al suo solito tiro radente e veloce, aveva fatto percorrere alla palla un arco alto e corto. La ragazzina cominciò a correre in avanti, ma calcolò male la distanza e mancò completamente il colpo. «Santo cielo, Melissa», le giunse la voce della mamma dal campo adiacente. «Come hai potuto sbagliare un tiro semplice come quello?» Lei rimase paralizzata, il viso paonazzo per l'imbarazzo. Perché non erano rimasti a casa come al solito, si chiese, a giocare sul loro campo da tennis privato? Là, perlomeno, nessuno avrebbe udito sua madre che la criticava. Naturalmente, tuttavia, conosceva bene la risposta: sua madre aveva deciso di giocare anche lei e aveva insistito affinché l'intera famiglia si spo-
stasse al club. «Ma è impossibile trovare un campo libero di domenica!» aveva protestato Melissa. Phyllis aveva scosso la testa. «Ho telefonato all'inizio della settimana per prenotarne due stamattina. Tu puoi giocare con tuo padre, io con Teri, poi ci scambiamo. Sarà divertente.» Fino ad allora, con gran sorpresa della ragazzina, le cose non erano andate poi così male come si era aspettata. In principio aveva nutrito la certezza che tutti la osservassero ma in seguito, quando non aveva udito nessuna risata per aver mancato quattro servizi consecutivi, si era finalmente guardata attorno. Nessuno la stava guardando. In effetti, le pochissime persone presenti tenevano tutte gli occhi puntati su Teri e, dopo aver lanciato qualche occhiata all'altro campo, Melissa capì il perché. Sua sorella, stupenda nel completo da tennis nuovo, era ovviamente un'esperta del gioco. E Melissa sospettò che stesse rendendo la vita dura alla madre almeno quanto papà stava facendo con lei. Adesso, però, terminata la partita, Phyllis era intenta a osservarla. Immediatamente assalita da un'ondata di insicurezza, la ragazzina prese posizione per il secondo servizio del padre. E lo mancò di nuovo. Sei servizi più tardi era tutto finito. Benché fosse riuscita a intercettare almeno due tiri di Charles, l'essere scrutata dalla madre l'aveva resa tanto nervosa da farle sprecare entrambi i colpi, uno in rete e l'altro addirittura oltre lo steccato, dove la palla era rimbalzata fra i tavolini della terrazza. «Che ti è successo?» le chiese il padre, aggirando la rete. «Stavi andando così bene.» Lei scrollò le spalle. «Ho perso la concentrazione», rispose, restia ad ammettere che era stato lo sguardo critico della madre a mandare in frantumi ogni sua sicurezza. Lui le sorrise. «È più difficile quando si viene osservati», affermò, abbassando la voce. «Ma non ti preoccupare. Nessuno gioca bene a tennis per l'intera durata di una partita.» Melissa ridacchiò. «Scommetto che Teri ci riesce. Anzi, scommetto che può batterti in tutti i set.» Charles guardò la figlia con esagerata indignazione. «E tu scommetteresti contro tuo padre? Questo è tradimento!»
«Avanti, provaci!» rise lei. «Cerca di batterla!» «E tu», si intromise Phyllis, «puoi provare a battere me.» Melissa si sentì mancare il respiro. Nonostante il suo primo impulso fosse quello di dichiararsi troppo stanca, cambiò immediatamente parere. Per tutta la settimana (dalla sera del falò, in effetti) le cose erano andate meglio e lei era certa di saperne il motivo. Teri l'aveva protetta. Il giorno dopo la festa alla spiaggia si era rivelato il peggiore, perché al mattino presto Cyndi Miller aveva telefonato a Teri per raccontarle di aver visto lo spettro. Quando la sorella glielo aveva riferito, per un orribile momento lei era stata afferrata dal panico, certa di aver nuovamente camminato nel sonno. Teri, però, aveva insistito che non doveva preoccuparsi. «Anche se fossi davvero stata tu, nessuno crede che Cyndi ed Ellen si siano imbattute in qualcuno. E noi diremo a Phyllis che è accaduto prima che io rientrassi a casa, così penserà che tu fossi ancora legata al letto.» Impulsivamente, Melissa le aveva gettato le braccia al collo. «Sul serio faresti una cosa simile per me? Sei sicura?» «Naturalmente», aveva risposto lei. «Sono tua sorella, no? Sono certa che tu ti comporteresti nello stesso modo con me, non è vero?» La ragazzina aveva assentito, ma non si era sentita del tutto sicura che la cosa avrebbe funzionato. Tuttavia, quando la madre era stata messa al corrente della storia, Teri aveva mantenuto la parola. «Ma è impossibile che sia stata Melissa!» aveva esclamato. «Cyndi ed Ellen se ne sono andate qualche istante dopo di me, quindi deve essere accaduto quando tu e io stavamo chiacchierando. Tra l'altro, sono rimasta sveglia a leggere a letto per almeno un'ora e, se Melissa fosse uscita dalla stanza, l'avrei sicuramente sentita. Sarebbe dovuta passare davanti alla mia porta, c'è un'asse che scricchiola.» Con sollievo della ragazzina, la madre aveva accettato quella spiegazione. Da quel momento, convinta che non avesse camminato nel sonno, le aveva addirittura permesso di dormire slegata. Tuttavia, se sua madre si fosse arrabbiata con lei ora, con papà in procinto di tornare in città quella sera stessa... Di colpo si riscosse dalle proprie riflessioni, costringendosi a sorridere. «D'accordo», dichiarò. «A te il primo servizio.» «Non essere stupida», la rimbeccò Phyllis. «Lo deciderà il palleggio.» La donna effettuò un tiro dritto, che Melissa riuscì a ritornare; quando la
palla le arrivò nuovamente di fronte, la rimandò senza difficoltà oltre la rete. Al terzo tiro, però, sua madre si spostò di lato e, con un colpo violento, fece volare la palla oltre di lei prima ancora che si accorgesse che stava arrivando. «Il servizio è mio», annunciò Phyllis. Venti minuti dopo, con il primo set ormai concluso e il secondo a 3-0, Melissa si sentì salire agli occhi lacrime di frustrazione. Fino a quel momento non era ancora riuscita a segnare un singolo punto e, più la tortura si prolungava, peggiori si facevano le cose. Sul campo accanto Teri e papà ce la stavano mettendo tutta. Charles, completamente assorbito nello sforzo di tener testa alla figlia, non si era neppure accorto di quanto stava accadendo lì accanto. Ora, mentre Phyllis si apprestava a servire, Melissa lasciò vagare lo sguardo sull'altro campo: Teri, che giocava sotto rete, stava scagliando la palla verso il padre che, la maglietta chiazzata da vistose tracce di sudore, si affannava a correre avanti e indietro, facendo del proprio meglio per replicare ai suoi tiri. Improvvisamente la ragazzina udì il secco schiocco della racchetta della madre contro la palla e riportò di scatto la propria attenzione sul campo. Ma era ormai troppo tardi: proprio nel momento in cui si voltava, la palla rimbalzò di fronte a lei per poi piombarle in pieno petto con forza sufficiente a farla gridare di dolore. Subito le arrivò la voce della madre, dura e stridente. «Insomma, Melissa! Se non intendi concentrarti sul gioco, davvero non capisco perché tu abbia voluto fare questa partita. Non è molto divertente per il tuo avversario, te ne rendi conto?» Le emozioni della ragazzina, trattenute così a lungo, esplosero istantaneamente. «Sapevi benissimo che non ero pronta!» urlò, mentre lacrime di risentimento cominciavano a rigarle le guance. «E, se è per questo, non è divertente neppure per me! Tutto quello che faccio è rincorrere le palle per te!» Sull'altro campo, Charles ignorò il tiro di Teri, girandosi in direzione della figlia minore in tempo per vederla deporre la racchetta su una panchina e precipitarsi fuori del terreno di gioco, la testa bassa e le spalle curve. «Melissa?» la chiamò, iniziando a seguirla. «Oh, santo cielo, Charles!» esplose Phyllis, la voce che lacerava bruscamente l'aria mattutina. «Lasciala andare! L'unico modo in cui imparerà a essere sportiva sarà accettando di perdere con buona grazia. Di certo, pe-
rò, non ne sarà mai capace finché tu continuerai a lasciarla vincere e a coccolarla ogni volta che si mette a piangere.» La mascella rigida, lui uscì dal campo, ignorando l'osservazione della moglie. Ma in quel momento Teri parlò. «Papà? Non finiamo la partita?» Lui esitò, voltandosi a guardare la figlia minore, in piedi accanto alla rete, gli occhi colmi di delusione. Rimase indeciso per un istante, quindi soppresse un sospiro, ben sapendo che, se avesse lasciato perdere la partita con Teri per andare a cercare Melissa, ciò avrebbe solo significato un litigio con Phyllis più tardi. Una volta tanto, Melissa avrebbe dovuto badare a se stessa. La mano stretta sulla racchetta, si rimise in posizione mentre la moglie si sedeva in panchina a guardare. Tag afferrò il machete con entrambe le mani, lo sollevò come fosse una mazza da baseball e vibrò un fendente. La lama lampeggiò alla luce del sole, poi colpì il tronco dell'edera che aderiva alla facciata orientale della villa, quasi tranciandolo prima di perdere impeto e rimanere saldamente infissa. Il ragazzo grugnì, scosse l'attrezzo e riuscì a liberarlo, lasciandolo cadere a terra. Si fermò a riprendere fiato: lavorava incessantemente da quasi due ore, ma sembrava che sul muro rimanesse tanta edera quanta ne aveva trovata quando si era accinto a quel compito. Eppure, spostando lo sguardo sul mucchio di viticci che giacevano sul prato, si rese conto che doveva pur aver fatto qualche progresso. Era forse possibile che quell'edera raddoppiasse la propria massa mentre veniva strappata dalla casa? Si asciugò il sudore dalla fronte con la manica della camicia, quindi riprese il machete. Un attimo dopo, con un altro colpo della grossa lama finì di tagliare la fitta ramificazione principale del rampicante. A quel punto iniziava la parte divertente del lavoro. Aggrappandosi al tronco con ambedue le mani, cominciò a strapparlo dal muro, sentendo la pianta perdere a poco a poco la propria presa sui mattoni. Il gioco cui si stava dedicando era semplice: il concetto era quello di vedere quanta edera sarebbe riuscito a sradicare prima che cedesse e gli crollasse addosso. Mezz'ora prima, lavorando con attenzione, aveva allentato tutte le ramificazioni, fatta eccezione per alcuni viticci che ancora aderivano testardamente alle fessure all'altezza del solaio; quando l'intera porzione di sempreverde gli era piombata sulla testa, era rimasto completamente sommer-
so. Blackie, sorpreso per l'improvvisa scomparsa del padrone, aveva cominciato ad abbaiare furiosamente, per poi scavare nell'intrico, penetrandovi come se intendesse salvarlo. Alla fine, lui aveva dovuto trascorrere più tempo a liberare il cane di quanto gliene fosse occorso per uscire dal groviglio. Diede un altro strattone esplorativo al tronco. All'altezza del primo piano si biforcava e la parte più spessa si estendeva sulla destra; se fosse riuscito a smuoverla dal muro, il suo stesso peso l'avrebbe fatta crollare al suolo. Proprio mentre si accingeva ad attuare il suo proposito, Blackie prese ad abbaiare e a correre per il prato agitando la coda. Lasciata l'edera, Tag si voltò a guardarlo. Un istante dopo Melissa apparve alla fine del sentiero che conduceva al club attraverso il bosco, tenendo la testa china e le mani nelle tasche dei calzoncini. Non appena il labrador accennò a balzarle addosso festoso, la ragazzina estrasse le mani dalle tasche e lo scostò. «Smettila!» Tag la udì esclamare con voce tremante. «Melissa? Ehi, Melissa!» Lei alzò lo sguardo per un attimo, poi gli girò le spalle. Accigliato, il ragazzo si affrettò lungo il prato e la raggiunse. «Ehi, qualcosa non va?» Dapprima lei rimase immobile, quindi sollevò il viso. Tag si accorse subito che aveva pianto. «Stai bene?» La ragazzina tirò su con il naso, poi si chinò ad accarezzare Blackie che si stava sfregando contro le sue gambe. «Suppongo di sì», rispose infine sospirando. Tag inclinò il capo mettendosi le mani sui fianchi. Per lui, Melissa era stata come una sorella sin dal giorno in cui era nata e non era mai stata capace di tenergli nascosti i propri sentimenti. «Se stai bene, allora come mai piangi?» «Non sto piangendo», rispose lei. «Ma lo stavi facendo un minuto fa. Che è accaduto?» Di fronte all'esitazione della ragazzina, le si fece più vicino. «Sarà meglio che tu me lo dica subito, visto che continuerò a tormentarti finché non lo saprò.» Quasi involontariamente, un'ombra di sorriso le spuntò agli angoli della bocca. «Invece non puoi. Devi strappare l'edera dal muro. In caso contrario, potrei anche fare la spia con la mamma.» «Ma certo. E io potrei saltare sulla luna.» Lasciandosi sfuggire una risata, Melissa cominciò a incamminarsi di
fianco a lui in direzione della casa. Quando giunsero al groviglio d'edera accatastata ai piedi della facciata orientale, aveva già finito di raccontargli ciò che era accaduto al club. «So di non poterla battere», concluse con un sospiro, «ma perché deve sempre farmi fare la figura della stupida?» Perché è meschina in modo pazzesco, pensò Tag, decidendo di tenere per sé quel giudizio. Poi, mentre lo sguardo gli cadeva sul machete, gli venne un'idea. «Vuoi darle una battuta?» chiese. Perplessa, la ragazzina si accigliò. «Cosa intendi dire?» «Forse dovresti provare a fare come me. Talvolta, quando mi arrabbio moltissimo con qualcuno, comincio a menar colpi con il machete fingendo di avere di fronte la persona che mi ha fatto infuriare.» Le porse l'attrezzo e indicò il mucchio d'edera. «Devo comunque tagliarla a pezzi per trasportarla. Prova.» Lei lo guardò per qualche secondo, cercando di stabilire se fosse serio, quindi afferrò il machete con la destra, quasi perdendo la presa quando il ragazzo lo lasciò andare. «Attenta», la avvertì lui. «Se te lo fai cadere su un piede, puoi dire addio a tutte le dita.» Melissa lo impugnò con entrambe le mani, lanciando un'occhiata al cumulo di edera sul terreno. «Che cosa dovrei fare?» domandò. «Mi sento così stupida.» «Con chi sei arrabbiata?» «Con... con la mamma.» Tag inclinò il capo in direzione del rampicante. «E allora fingi che sia lei.» La ragazzina fissò l'edera, chiedendosi come fosse possibile immaginarsi una cosa del genere. Subito fu colta da un'ispirazione. Si raffigurò i viticci come capelli. Capelli umani. Di sua madre. Di colpo, la furia che aveva tenuto sotto controllo tornando a casa dal club esplose dentro di lei. «Ti odio!» sbottò, sollevando il machete al di sopra della testa. Un secondo dopo, mentre la lama si abbatteva sul mucchio, immaginò di colpire la madre. Vibrò un secondo fendente, sentendo che la diga costruita per contenere la propria rabbia iniziava a crollare. L'ira si scatenò come un torrente lungo
le sue braccia fino al pesante machete: continuò a colpire, avanzando di un passo per volta mentre il cumulo di rampicanti si disintegrava sotto il suo attacco. Concentrata sull'opera di distruzione, alzando e abbassando sistematicamente le braccia prese a vedere e a udire la madre. Che ridicolizzava i suoi vestiti, criticava la sua figura, correggeva il suo comportamento. In piedi di fianco al suo letto, le odiate cinghie in mano. Melissa continuò a tranciare quelle detestate immagini. Poi, improvvisamente com'era scaturita, la rabbia svanì. Lasciò cadere il machete e rimase a osservare ansimante la devastazione ai propri piedi. A quel punto sentì la voce di Tag. «Va meglio?» Sbattendo le palpebre, si voltò a guardarlo. Le braccia le dolevano per lo sforzo ed era fradicia di sudore. Ma stava molto meglio. Sul suo viso comparve un sogghigno. «È pazzesco», mormorò. Tacque per un attimo. «Ma è stato bello. Davvero bello.» Un'ora più tardi, terminata la partita con Teri, che in quel momento era di nuovo impegnata in un confronto (questa volta con Brett Van Arsdale), Charles si lasciò cadere su una poltroncina della terrazza, sorseggiando la bibita che Phyllis aveva ordinato per lui. «Suppongo di non essere più giovane come un tempo», osservò, riprendendo fiato. «Chiunque le abbia insegnato a giocare a tennis ha fatto davvero un buon lavoro.» La moglie, osservando Teri palleggiare con Brett, sorrise estatica. «È una magnifica ragazza, vero? Non trovi bello essere finalmente in grado di trascorrere una domenica mattina al club, mentre nostra figlia gioca con gli amici?» Gli occhi ridotti a due fessure, lui rispose in tono duro: «In caso tu l'abbia scordato, nostra figlia è scappata a casa in lacrime, grazie a te. Perlomeno una volta ogni tanto potresti concederle un po' di respiro». Il sorriso morì sulle labbra di Phyllis. «Sto solo cercando di fare quello che è giusto per lei», ribatté bruscamente. «Di certo, tu non la aiuti lasciandola sempre vincere.» Si interruppe un attimo per agitare una mano in segno di saluto in direzione di Kay Fielding, che fece un cenno con il capo e riportò immediatamente la propria attenzione sul marito. «Non è stupi-
da», riprese. «Sa esattamente cosa stai facendo e questo non fa altro che minare ulteriormente la sua fiducia in se stessa.» Charles bevve un altro sorso, riflettendo sulle parole della moglie. Aveva forse ragione? Lui stava davvero viziando la figlia? Probabilmente sì: d'estate, dopotutto, riusciva a vederla soltanto durante i fine settimana e anche quando si trovavano in città era spesso tanto occupato da poterle dedicare soltanto un'ora o due al giorno. Rammentava ancora quello che Burt Andrews gli aveva detto due anni prima, nel periodo in cui Melissa aveva cominciato a camminare nel sonno per la prima volta. Quando, quella mattina, Cora l'aveva trovata profondamente addormentata nella cameretta in soffitta, senza alcuna nozione di come vi fosse arrivata, lui e Phyllis non avevano avuto la più pallida idea sul da farsi. Quando infine si erano risolti a telefonare al loro medico in città, questi aveva immediatamente raccomandato uno psichiatra di Portland. E Andrews, se non altro, aveva perlomeno alleviato le loro preoccupazioni. Il sonnambulismo, aveva spiegato, non costituiva di per sé un problema terribilmente serio; di conseguenza, si era limitato a consigliare una lievissima forma di contenimento, giusto qualcosa di abbastanza resistente da svegliare la bambina quando accennava a scendere dal letto. In massima parte, però, i suggerimenti di Andrews erano stati indirizzati a Charles stesso. «Deve fare attenzione, signor Holloway. Tutti i padri manifestano la tendenza a viziare le figlie e, dal momento che lei ha dovuto affidare Teri alla madre, nel suo caso l'impulso a mostrarsi troppo indulgente nei confronti di Melissa sarà fortissimo. Si tratta semplicemente di una manifestazione del senso di colpa.» «Ma io non mi sento affatto in colpa», aveva protestato lui. «Ho rinunciato a Teri perché era la soluzione migliore per lei. Se mi fossi opposto, sarebbe stata trascinata da un tribunale all'altro per chissà quanto tempo.» «Non lo metto in dubbio», lo aveva interrotto il dottore. «Sono certo che lei abbia operato la scelta giusta. I sensi di colpa, però, non hanno sempre un fondamento razionale e, per quanto lei abbia agito logicamente, dovrà comunque fare attenzione a non viziare sua figlia per compensare l'inconscia sensazione di aver abbandonato Teri. Melissa e sua moglie si troverebbero in una situazione difficile, perché Phyllis verrebbe relegata al ruolo di colei che punisce, mentre sua figlia ricaverebbe messaggi contrastanti dai genitori, rimanendo confusa. E dalla confusione...» Andrews aveva lasciato la frase ih sospeso, ma Charles si era perfettamente reso conto del
sottinteso. Di qualsiasi natura fossero i problemi di Melissa, le loro radici giacevano dentro di lui. Probabilmente il dottore aveva avuto ragione, rifletté ora, eppure... «Proprio non capisco in che modo umiliarla in pubblico le sarà d'aiuto», cominciò. Prima che potesse proseguire, però, Phyllis lo interruppe. «Io, invece, non capisco a che giovi lavare i propri panni sporchi al club», dichiarò con voce aspra. Charles fissò con freddezza la moglie e, quando parlò, il suo tono indicava chiaramente che la discussione si era spinta troppo oltre. «E allora evitalo. Se non riesci a costringerti a permettere che Melissa si diverta un po' con una semplice partita di tennis, non giocare con lei!» Furiosa, la donna serrò le mascelle ma non ribatté e, per la mezz'ora successiva, i due rimasero seduti al tavolo, salutando gli amici di passaggio e conversando brevemente con Marty e Paula Barnstable. Fra loro, non scambiarono neppure una parola. «Sei pronta per tornare a casa?» chiese Charles a Teri quando, perso l'incontro con Brett, lei li raggiunse. La ragazza inarcò le sopracciglia. «Credevo saremmo rimasti qui a pranzo.» Lui le sorrise con aria comprensiva. «Lo so, ma non credi sarebbe opportuno andare a controllare come sta tua sorella?» Phyllis si agitò sulla poltroncina, girando impercettibilmente la testa verso il marito. «Perché non vai tu?» suggerì. «Teri e io possiamo restare al club. Può darsi che tu riesca a convincere Melissa a tornare qui con te.» «No», tagliò corto lui in un tono che non ammetteva repliche. «Non riesco proprio a immaginare come possa desiderare di farsi rivedere al club e non so certo darle torto. Quindi, se hai finito la tua bibita...» Firmò il conto e si alzò. Dapprima sul punto di ricominciare a litigare, lei cambiò improvvisamente opinione, facendo del proprio meglio per sorridere alla figliastra. «Quando tuo padre prende una decisione», osservò, celando a stento il risentimento, «non serve a nulla provare a obiettare.» Ignorando il commento, Charles si avviò a grandi passi lungo la terrazza, mentre Teri si affannava a seguirlo. Phyllis, internamente schiumando di rabbia, procedette lentamente dietro di loro, prendendosela deliberatamente comoda. Dieci minuti più tardi, quando stavano ormai salendo il lieve pendio che
conduceva dalla spiaggia al prato della villa, la donna si bloccò di colpo. Davanti alla casa, Melissa e Tag erano impegnati in uno scherzoso incontro di lotta libera, con Blackie che cercava in tutti i modi di aggregarsi. «Melissa!» esclamò Phyllis in tono tanto sferzante da costringere immediatamente in piedi la ragazzina. «Quante volte ti ho detto che sei troppo grande per questo genere di cose? Ormai sei un'adolescente e mi aspetto che ti comporti come tale!» Avanzò attraverso il prato in direzione della figlia, ma subito il labrador si frappose ringhiando. La donna si arrestò di botto fissando con astio il cane, quindi indirizzò la propria rabbia verso Tag. «Questa è l'ultima volta che te lo ripeto. Se non sei capace di tenere sotto controllo quell'animale, me ne sbarazzerò al più presto. E per quanto ti riguarda, signorina», aggiunse all'indirizzo di Melissa, esaminando le macchie d'erba sui suoi vestiti bianchi, «esigo che tu salga subito a ripulirti. Gli abiti che indossi sono nuovi e rimarrei sorpresa se non fossero ormai definitivamente rovinati.» La gioia derivante dal gioco con Tag evaporata come rugiada al sole, Melissa si voltò, precipitandosi dentro casa. «Molto bene, Phyllis», commentò asciutto Charles prima di affrettarsi a raggiungere la figlia minore. «Di questo passo, la dovremo riportare dal dottor Andrews prima della fine dell'estate.» 14 Teri si agitava irrequieta nel proprio letto. Benché tenesse un libro sulle ginocchia, non cercava nemmeno di concentrarsi sulle pagine, ma continuava a replicare mentalmente la scena verificatasi dopo cena, quando papà era partito per tornare in città fino al fine settimana successivo. Ancora una volta, lei era rimasta silenziosamente da parte mentre Charles stringeva a sé Melissa, le bisbigliava all'orecchio, faceva progetti per il proprio ritorno. Infine, dopo aver lanciato un'occhiata all'orologio, si era voltato verso di lei, dandole una rapida stretta. «Ti prenderai cura di Melissa al posto mio?» le aveva chiesto. Prendersi cura di Melissa! Ma per chi l'aveva presa, per una baby sitter? Non era già abbastanza che la sorellastra si fosse messa a fare i capricci al club, rovinando il pranzo a tutti? Tuttavia, aveva regalato al padre il più dolce dei sorrisi, promettendo di badare a quell'impiastro. «Ci divertiremo moltissimo», aveva dichiarato. «Forse le darò addirittura qualche lezione di tennis.»
Quello, rifletté ora, sarebbe stato un vero brivido. Poteva già immaginarsi, in piedi nel bel mezzo del loro campo privato, a lanciare a Melissa una palla più facile dell'altra e a incoraggiarla costantemente, fingendo di ignorare la sua goffaggine. «Brava! Stai andando molto meglio!» «Bel colpo! Questa volta me l'hai fatta!» La sola idea le faceva venire voglia di vomitare. Ma poteva farcela, anzi l'avrebbe fatto, se ci fosse stata costretta. Purché Melissa continuasse a ritenerla la propria migliore amica. Quando poi la sorellastra si fosse accorta della verità, ammesso che ci riuscisse, sarebbe stato troppo tardi. Di gran lunga troppo tardi. Si spostò nel letto angusto, l'anca dolorante a causa del materasso duro, e fu assalita da un'immagine di Melissa, sdraiata nel letto enorme della spaziosa stanza accanto alla propria. La mia camera, pensò, nella mia casa, con mio padre. Ma non per molto. Si alzò e indossò l'accappatoio, dirigendosi verso la finestra aperta. All'esterno, un leggero velo di nebbia stava salendo dal mare, nulla più di vaghe spirali di bruma aleggianti attorno alle cime degli alberi, ma sufficienti a sfocarne i contorni in modo da farli apparire sinistri e spettrali. Un clima adatto a D'Arcy, rifletté Teri. Proprio il genere di notte in cui un fantasma vagherebbe sulla spiaggia. Le sue meditazioni vennero interrotte da un uggiolio quasi impercettibile, seguito da un raschiare attutito. Blackie. Il cane stava sicuramente cercando di entrare nuovamente in casa dalla porta di servizio. Forse sarebbe dovuta andare ad aprirgli, per condurlo di sopra e lasciarlo sgattaiolare nella camera di Melissa. E domani mattina... Le balzò alla mente un'altra soluzione. La esaminò per alcuni secondi, valutandone ogni aspetto. Avrebbe funzionato. Si diresse al mobile accanto all'armadio e cercò a tastoni nel primo cassetto finché le sue mani non si strinsero attorno al filo di perle che il papà le aveva spedito per Natale, le perle identiche a quelle che Melissa conservava nella propria camera. Infilata la collana nella tasca dell'accappatoio,
entrò nel bagno, rimanendo in ascolto dietro la porta di comunicazione. Socchiuse il battente e sbirciò nella stanza della sorella. Sì. Tutto sarebbe andato per il meglio. Ancora una volta, Phyllis non aveva legato Melissa, che giaceva su un fianco, la testa sprofondata nel cuscino. Teri udì il ritmo regolare del suo respiro e, soddisfatta, tornò nella propria camera, chiudendo a chiave la porta del bagno dietro di sé. Accese la lampada sul comodino, quindi aprì la porta che dava sul corridoio, sostando nuovamente in ascolto. La casa era silenziosa. La ragazza scivolò fuori della stanza e, con estrema cautela, inserì la chiave nella serratura, sobbalzando al rumoroso scatto del meccanismo. L'unica illuminazione proveniva dalla lampadina posta in cima alle scale, ma lei si mosse con disinvoltura nella semioscurità, giungendo ai piedi dei gradini in qualche secondo per poi raggiungere rapidamente la cucina. Ora l'uggiolio di Blackie era forte, mentre il rumore delle unghie che raschiavano il battente sembrava stranamente amplificato. Teri avanzò verso la porta e i guaiti del cane crebbero in intensità al suono dei passi. Quando però lei aprì il battente, il labrador emise un ringhio cupo. «Blackie, sono io. Non vuoi entrare?» Con la coda bassa, il cane arretrò, continuando a ringhiare. La ragazza uscì sulla veranda e si chinò protendendo una mano. Dopo un attimo di esitazione, Blackie allungò il collo per annusarle sospettosamente le dita. «Bravo», bisbigliò lei. «Lo vedi? Sono solo io. Non devi aver paura.» Cercò di avvicinarsi all'animale, che arretrò ulteriormente. Per un attimo Teri prese in considerazione l'ipotesi di afferrarlo per il collare, ma cambiò subito parere: se le fosse sfuggito, precipitandosi nel bosco o sulla spiaggia, non l'avrebbe più trovato. Le venne un'idea. «Aspetta», mormorò. «Stai qui.» Incerto, gli occhi fissi su di lei, Blackie si accucciò. La ragazza rientrò in cucina e ispezionò gli armadietti finché non scoprì una scatola di biscotti per cani; ne prese uno e tornò fuori. Il labrodor era esattamente dove l'aveva lasciato. «Ecco qui. Lo vuoi?» L'animale protese il muso ed emise un uggiolio di richiesta, ma quando lei tese la mano si allontanò ancora, scendendo i gradini e fermandosi sul
prato a qualche metro di distanza. «Coraggio, non ti interessa il biscotto? Non vedi cos'ho per te?» Questa volta, quando lei si avvicinò, Blackie rimase fermo, sollevando la testa per afferrare il dolcetto. Porgendoglielo con la sinistra, Teri strinse saldamente il collare con la destra. «Bene. Sei un cane molto bravo.» Masticando gioiosamente, l'animale agitò la coda. Con la mano libera, Teri sfilò la spessa cintura dell'accappatoio. Mentre il labrador leccava le ultime briciole rimaste a terra, lei gli passò la cintura attorno al collo, rilasciando la presa sul collare. Blackie guardò in su con espressione d'ansiosa attesa, sperando in un altro biscotto. E la ragazza, con uno strattone improvviso, gli strinse il cordone alla gola. Sentendosi mancare il respiro, l'animale sbarrò gli occhi e cercò di liberarsi dal nodo scorsoio, ma Teri si drizzò, sollevandolo parzialmente da terra. Blackie agitò disperatamente le zampe, scalciando in cerca di un appoggio su cui fare leva e digrignando i denti; gli arti posteriori, che ancora toccavano il terreno, rasparono disperatamente il prato nello sforzo di sfuggire al supplizio, ma persero anche la poca forza residua quando la torturatrice cominciò a imprimere violenti strappi alla cintura. La lotta proseguì, sinistramente silenziosa nell'oscurità della notte nebbiosa, e per un attimo Teri si sentì sul punto di perdere la presa. Ma in quel momento, con un colpo secco, la battaglia terminò all'improvviso. Il corpo di Blackie, trenta chili di ossa e muscoli in preda agli spasimi, si afflosciò istantaneamente: il collo si era spezzato, tranciando il midollo spinale. La ragazza mantenne la stretta sulla cintura per qualche secondo ancora, finché non fu certa che il cane fosse morto. Poi, in parte sorreggendo e in parte trascinando il cadavere del labrador, rientrò in casa e salì le scale di servizio. Dapprima Melissa non capì la natura del rumore, né da quanto tempo ne fosse divenuta consapevole. Era seduta da sola in una stanza bianca e anonima, una stanza che sembrava tanto immensa da poter a malapena distinguere le pareti che la circondavano. Talvolta, invece, quegli stessi muri parevano premere su di lei così da vicino da ricavarne una terrificante sensa-
zione di soffocamento. Ignorava il motivo per cui si trovava lì ed era incapace di stabilire da quanto tempo vi fosse rinchiusa. Sapeva, tuttavia, che doveva trattarsi di una punizione, una pena che le veniva richiesto di patire per un crimine che neppure ricordava di aver commesso. La stanza era silenziosa, al punto tale che gli unici suoni percepibili erano quelli del suo stesso respiro e del ritmico battito del suo cuore. Le sembrava di essere seduta in quel silenzio da un'eternità, ma a un certo punto era iniziato il rumore. Ora capiva di cosa si trattasse. Erano passi. Passi che risuonavano in modo sinistro. E Melissa seppe con certezza che chiunque stava per entrare nella stanza veniva per farle del male. Lo sconosciuto non l'avrebbe oltrepassata, diretto altrove, ma si sarebbe fermato. E lei avrebbe dovuto aspettare. Aspettare che la porta si aprisse. Il rumore sordo dei passi crebbe d'intensità e, d'un tratto, le pareti cominciarono a muoversi verso di lei, minacciando di schiacciarla. Si guardò attorno in cerca di una via d'uscita, ma non c'era nulla. Del resto, anche se fosse esistito il modo di fuggire, tutto ciò che l'attendeva all'esterno era l'essere terrificante i cui passi sinistri si andavano facendo ancor più vicini. Le pareti si chiusero ulteriormente attorno a lei e Melissa cominciò a colpirle, spingendole indietro con tutte le proprie forze. Si svegliò di soprassalto e per un attimo non capì dove si trovasse. Poi, mentre i residui del sogno svanivano dalla sua mente, la stanza iniziò a prendere forma. La propria camera. Era a casa, a letto e... legata. Si sentì morire. Dopo che si era addormentata, la mamma era tornata a mettere le cinghie? Dentro di lei si ingigantì il panico che sempre la assaliva alla vista degli odiati legami e, silenziosamente, prese a chiamare D'Arcy. Mentre invocava l'amica, i suoi muscoli si contrassero automaticamente contro le cinghie. E le gambe si mossero. Non era affatto assicurata al letto.
Al contrario, era semplicemente rimasta avviluppata nelle lenzuola con un braccio imprigionato contro il fianco. Giratasi sulla schiena, cominciò ad allontanare il tessuto dal proprio corpo finché, con un calcio, non riuscì a liberarsene del tutto. Si mise seduta per poter ricomporre le lenzuola. E udì nuovamente quel rumore di passi. Chiari e distinti, echeggiavano nel silenzio notturno. Melissa si raggelò. Per un attimo fu certa che si trattasse della mamma: doveva averla svegliata gridando nel sonno. Un tonfo sordo, quindi i passi ripresero. Ma non nel corridoio. Di sopra. In soffitta. La ragazzina trattenne inconsciamente il fiato, in attesa di udire ancora quel suono. E così fu. Una, due, tre volte. Quindi il silenzio. Qualche secondo dopo accadde di nuovo. Tre passi distinti, poi più nulla. D'Arcy. A quell'ipotesi, Melissa riprese a respirare. Ma non poteva essere lei: D'Arcy non era reale, bensì un prodotto della sua immaginazione. Oppure no? Ancora una volta i passi risuonarono sul soffitto e Melissa si alzò, indossò l'accappatoio e prese una torcia elettrica dal cassetto della scrivania. Socchiuse la porta e sbirciò nel corridoio. Per tutta la sua lunghezza, porte chiuse si guardavano vacuamente l'un l'altra. Melissa sgattaiolò fuori della stanza, lasciando il battente aperto. Si diresse lentamente verso le scale che conducevano in soffitta, ma esitò prima di salire. E se la mamma si fosse svegliata e avesse sentito il suono dei passi? E se l'avesse scoperta in soffitta nel cuore della notte? Questa volta, però, sarebbe stato diverso: ora non stava camminando nel sonno ed era cosciente di quanto stava facendo. Guardò la familiare rampa di scale lungo la quale era salita e scesa in centinaia di occasioni, e improvvisamente le parve più ripida. Più ripida e più oscura, innalzantesi verso ciò che le apparve come un buco nero. Accese la torcia elettrica, il cui fascio di luce, tuttavia, penetrava a mala-
pena quel buio. Eppure, nonostante l'oscurità sentiva che le sinistre ombre soprastanti tentavano di allungarsi verso di lei, invitandola a salire. Con un respiro profondo, Melissa si avviò. Arrivata in cima, mosse un passo all'interno della soffitta; sostò in ascolto, ma i secondi passarono senza che le giungesse il minimo suono. Premette l'interruttore, accendendo la nuda lampadina che costituiva l'unica fonte di luce lassù. Immediatamente, nei più lontani recessi del locale, il buio si fece ancor più profondo. Poi, come se provenisse da una grande distanza, udì un debole suono, simile a una risata soffocata. Fu assalita da un'ondata di panico. C'era davvero qualcuno lì dentro? Infine capì. Teri. Non poteva essere che la sorella, intenta a prendersi gioco di lei. Ogni timore svanito, la ragazzina ridacchiò, ottenendo come unica risposta l'eco della propria voce. «Teri?» bisbigliò allora. «Andiamo, lo so che sei tu!» Seguì una pausa di silenzio, quindi la strana risatina si ripercosse nuovamente tra le mura del solaio. Melissa rimase immobile, in ascolto, cercando di stabilire da dove venisse. «Teri, dove sei?» Cominciò a proiettare la luce tutt'attorno, certa che prima o poi il fascio luminoso sarebbe caduto sulla sorellastra. Un attimo dopo, mentre lo dirigeva nell'angolo più distante, quello che sovrastava la propria camera, una figura emerse dall'oscurità. Una figura vestita di bianco, con il viso velato. E accanto a quell'apparizione, appeso a una trave con una corda bianca, pendeva il corpo senza vita di Blackie. Anche da dove si trovava, lei poté distinguere gli occhi sporgenti e la testa grottescamente inclinata del cane, scorgeva la sua lingua gonfia fra le mascelle spalancate. E attorno al collo del labrador vide qualcos'altro, qualcosa che le fece gelare il sangue. Una collana di perle. Le perle che papà le aveva regalato a Natale. Melissa rimase paralizzata, gli occhi fissi sulle sfere che brillavano lie-
vemente, mentre la sua mente si sforzava di accettare il loro significato. Mosse alcuni passi in avanti, restringendo il proprio campo visivo finché il filo di perle cancellò tutto il resto. Sporse la mano, le sfiorò con le dita, quindi le afferrò, sfilandole dal collo del cane. Un secondo dopo, un urlo le eruppe dalla gola, lacerando il silenzio della soffitta. Sopraffatta dal panico, si precipitò verso la porta, lasciando la luce accesa mentre sfrecciava giù per le scale; raggiunto il corridoio al piano inferiore, girò l'angolo e irruppe nella camera da letto dei genitori. Subito, la lampada di un comodino si accese e sua madre balzò a sedere sul letto, guardandola allibita. «Melissa, ma cosa...» «È Blackie», la interruppe lei, in lacrime. «L'ho visto, mamma! L'ho visto!» Gli ultimi residui di sonno ormai sfumati, Phyllis si sporse verso la vestaglia. «Si può sapere che cosa succede? Se hai lasciato entrare quell'animale in casa...» «Ma non sono stata io!» gridò Melissa, scossa dai singhiozzi. Con il volto bagnato delle lacrime corse istintivamente verso la madre in cerca di rifugio. Invece di prenderla fra le braccia, Phyllis la afferrò saldamente per i polsi e la costrinse a sedere sul bordo del letto. «Non ho la più pallida idea di cosa tu stia dicendo. Smettila di piangere e spiegami che cosa non va!» Con un tremendo sforzo di volontà, Melissa represse il gemito che le saliva in gola. «Di... di sopra», balbettò. «Sta di sopra. È... è morto, mamma.» Phyllis la fissò esasperata. «Continuo a non capire di che diavolo stai parlando!» «Blackie! Non faccio altro che ripetertelo. È in soffitta... morto!» A poco a poco, in modo frammentario, cercò di spiegare l'accaduto alla madre, ma già, mentre si sforzava di raccontare quanto aveva visto, capì di non essere creduta. Alla fine, infatti, Phyllis scosse la testa. «Melissa, sai bene cosa penso di quello che inventi.» «Non sto inventando niente, mamma», esclamò lei in tono supplichevole, porgendole il filo di perle. «Le ho trovate di sopra.» La donna osservò la collana. «Le tue perle? E perché dovrebbero stare in soffitta?» «Era... erano attorno al collo di Blackie», balbettò nuovamente la ragazzina, quasi sopraffatta dal pianto. «Se non mi credi, vai su a guardare!»
Phyllis si alzò di scatto. «Certo», disse, prendendola per un braccio e trascinandola via dal letto. «Ci andremo entrambe. E...», aggiunse con voce minacciosa, «spero per il tuo bene che tu non ti sia inventata tutto.» Sospinse la figlia fuori della camera e lungo il corridoio. Dopo qualche metro, Melissa si arrestò di colpo alla vista di Teri, in pigiama e accappatoio, di fronte alla porta della sua stanza. La ragazza inclinò la testa e aggrottò le sopracciglia con aria preoccupata. «Qualcosa non va? Poco fa mi è sembrato di sentire un urlo.» Melissa si asciugò le lacrime e assentì. «È... è Blackie...» cominciò, ma la madre non le permise di proseguire. «A quanto pare, pensa di aver visto quello stupido cane lassù, assieme a una specie di spettro. Sono stupidaggini, ovviamente, ma insiste che io vada a controllare.» Teri sbarrò gli occhi. «Posso venire anch'io?» Phyllis esitò, poi sorrise cupamente. «Perché no?» Qualche secondo dopo, con la figliastra al seguito, la donna salì le scale del solaio. Melissa, ancora troppo terrorizzata per tornare in quel sottotetto buio, rimase nel corridoio del primo piano. Quasi immediatamente udì la madre rivolgersi a Teri. «Beh, ecco qui lo spettro!» Alzando la voce, chiamò quindi: «Melissa, vieni su!» La ragazzina esitò e Phyllis esclamò bruscamente: «Mi hai sentito? Ti ho detto di venire qui!» La ragazzina si avviò sui gradini, già certa che fosse accaduto qualcosa, che la sorella e la mamma non avessero visto ciò che aveva scorto lei. «Guarda», esordì la donna quando lei si affacciò sulla soglia. «È questo che hai visto?» Gli occhi di Melissa seguirono il dito puntato della madre: gelide ondate di apprensione la colsero di fronte al vecchio manichino da sarta. Quello in cui lei e Teri si erano imbattute solo pochi giorni prima. Quello che ancora indossava un consunto abito bianco da ballo. Quello che doveva esserle sembrato una figura spettrale celata fra le ombre. Con il petto stretto in una morsa di paura, la ragazzina ispezionò i dintorni in cerca di una traccia di Blackie. «Guardati attorno attentamente», le ordinò Phyllis. «Dov'era esattamente il cane?» Melissa cercò di inghiottire il nodo che le si era fermato in gola. «Laggiù», mormorò. «Proprio accanto al manichino.» Afferrata la figlia per la mano, la donna si fece strada sul pavimento ingombro di mobili finché non giunsero a qualche centimetro dal manichino.
«Ebbene» domandò. «Ora lo vedi?» La ragazzina scosse la testa. «Tu, però, hai affermato che era qui.» Lei assentì. «E adesso non c'è più.» Quando Melissa evitò di rispondere, Phyllis le diede uno strattone. «Non c'è, vero?» «N... no, mamma.» «E non c'è neppure un fantasma velato, vero?» insisté la madre. «N... no.» «E allora cos'è successo?» chiese la donna in tono condiscendente, come se si stesse rivolgendo a una bambina di cinque anni. «Non... non lo so», bisbigliò Melissa, gli occhi che si aggiravano per la soffitta in cerca di qualcosa, qualsiasi particolare in grado di dimostrare quanto aveva visto. «Bene, visto che non sembra tu sappia cosa possa essere accaduto», proseguì Phyllis, dirigendosi verso le scale, «forse è meglio che te lo spieghi io. Hai fatto un brutto sogno, ecco tutto.» «Ma non era un sogno», insisté Melissa, lo sguardo istintivamente fisso su Teri per implorare aiuto. «Ho udito un rumore di passi proveniente da qui e sono salita a verificare di che cosa si trattasse. Ho... ho pensato fossi tu. Che mi stessi facendo uno scherzo.» La sorella scosse il capo. «Non ero certo io. Stavo dormendo. Mi sono svegliata sentendoti urlare.» «Ma...» «Niente ma», tagliò corto sua madre. «Ora hai constatato che qui non c'è nulla. Se davvero sei salita quassù poco fa e sei convinta di aver visto ciò che mi hai raccontato, allora stavi nuovamente camminando nel sonno.» Quell'affermazione colpì profondamente Melissa. Che la mamma avesse ragione? Era possibile che le cose fossero andate sul serio così, che avesse sognato tutto? Le sembrava assurdo. Ancora una volta, fissò le perle che stringeva nella mano. «Ma ho trovato queste...» cominciò. La madre le impedì di proseguire. «Le hai portate con te nella speranza di convincermi che stavi dicendo la verità. Ma non funzionerà. Adesso torni a letto e ci resterai.» A quelle parole la ragazzina rabbrividì, certa di sapere esattamente cosa la mamma stesse intendendo. Quando furono tornate al piano inferiore, i
suoi timori vennero confermati dalle frasi successive di Phyllis. «Perché non vai in cucina, Teri?» suggerì infatti. «Metti a bollire un po' di latte per una cioccolata, ti raggiungerò subito.» Si interruppe un attimo, gli occhi sulla figlia. «Non appena avrò sistemato Melissa a letto», concluse. Tuttavia, invece di accompagnare la ragazzina nella sua camera, la mandò da sola. Dopo un paio di minuti, quando infine entrò nella stanza di Melissa, teneva in mano le cinghie. «Non piacciono neppure a me», commentò, iniziando ad assicurarle ai polsi e alle caviglie della piccola, «ma non so che altro fare. Non puoi aggirarti per casa di notte, non credi?» La ragazzina non rispose: nel momento in cui aveva scorto gli odiati strumenti di tortura, aveva chiamato D'Arcy perché venisse ad aiutarla. E l'amica era accorsa, invitandola immediatamente ad addormentarsi mentre lei sarebbe rimasta sveglia a sopportare il terrore della costrizione. Mezz'ora più tardi, Teri augurò la buonanotte alla matrigna con un bacio e tornò nella propria camera. Attese finché non udì chiudersi la porta della stanza da letto di Phyllis, quindi fece scattare la serratura del bagno, entrò e si fermò in ascolto di fronte alla porta di comunicazione con la camera della sorella. Non udì nulla. Infine socchiuse il battente e scivolò nell'oscurità. A piedi nudi, senza produrre il minimo rumore, si accostò al letto e guardò in viso Melissa. La ragazzina giaceva sulla schiena, gli occhi sbarrati e fissi al soffitto. «Melissa? Sei sveglia?» Nessuna risposta. Nel buio, Teri sorrise, le labbra incurvate in un'espressione di intensa crudeltà. «Penseranno che sei pazza», sussurrò. «Tutti lo crederanno e ti faranno rinchiudere.» Ridendo fra sé, tornò nella propria stanza, scivolando immediatamente in un sonno profondo e privo di sogni. 15 Teri si svegliò un secondo prima che l'allarme della sveglia scattasse e la disattivò prima che il suo ronzio turbasse il silenzio. Controllò le lancette luminose: erano le quattro e mezzo e il cielo era ancora scuro. Rimase a letto per alcuni minuti, ascoltando i suoni notturni, ma non udì nulla fuori
dell'ordinario; solo i richiami dei grilli e delle rane contro lo sfondo delle onde che lambivano la spiaggia. La casa era immersa nella quiete. Scivolò fuori delle lenzuola, indossò l'accappatoio e si diresse alla finestra. Al di là della piscina, la casetta di Cora Peterson era soltanto un'ombra contro la scura massa del bosco ai cui margini sorgeva. Sgattaiolò poi in bagno, dove rimase un attimo in ascolto alla porta di comunicazione. Tuttavia, Melissa non rappresentava un problema: ci sarebbero volute almeno un paio d'ore prima che Phyllis la liberasse dalle cinghie. E tutto ciò che le serviva erano alcuni minuti. Tornata nella propria stanza, si vestì in fretta, armeggiando con i bottoni nell'oscurità; infine trovò le scarpe da ginnastica, nel punto esatto in cui le aveva messe la sera prima, di fianco al comodino. Le infilò e allacciò le stringhe. Avanzò piano in direzione della porta, sostando nuovamente in ascolto prima di aprirla, ma la casa era immota e silenziosa come una tomba. Con un lieve sorriso di soddisfazione, spalancò il battente e lo richiuse alle proprie spalle. Attraversò il pianerottolo, oltrepassò la stanza della matrigna e girò a destra verso l'ala degli ospiti. Al termine del corridoio giunse ai piedi delle scale di servizio. A quel punto, accecata dall'oscurità totale, si mosse unicamente sulla base del ricordo della salita precedente, quando aveva trasportato in soffitta il cadavere di Blackie. Allora, con la luna alta nel cielo, aveva usufruito della luce del lucernario per distinguere i gradini, mentre ora doveva proceder e a tentoni, contando attentamente gli scalini. Se fosse inciampata... Accantonò il pensiero. Fino a quel momento, tutto era andato alla perfezione. L'unica situazione pericolosa si era verificata quando Melissa, invece di fuggire urlando dal solaio alla vista del corpo del cane, si era fermata a sfilargli le perle dal collo. Lei non lo aveva previsto. Aveva dato per scontato che lo spettacolo del cadavere penzolante fosse sufficiente a provocarle un attacco isterico. Invece, la sorellastra si era spinta in avanti, quasi non potesse a credere ai propri occhi. E poi aveva preso la collana. Nascosta dietro uno scatolone a pochi metri di distanza, lei era stata sul
punto di farsi prendere dal panico, ma si era subito ripresa. Quando Melissa era corsa giù per le scale, aveva slegato il cadavere del labrador, lo aveva nascosto in un baule e si era affrettata al piano inferiore. In quel momento, sua sorella si trovava già nella camera della madre, intenta a farfugliare tutta la storia, e lei si era insinuata nel corridoio senza farsi notare. Entrata nella stanza di Melissa attraverso la porta del bagno, aveva trovato le perle esattamente dove le aveva scoperte qualche giorno prima. Con largo anticipo sulle mosse successive di Phyllis e della sorellastra, le aveva nascoste nella propria scrivania. Tutto aveva funzionato a meraviglia. Giunse in cima alle scale e spalancò il battente. I cardini cigolarono in segno di protesta, raggelandola, finché non si ricordò di essere sull'altro lato della casa. Nessuno avrebbe potuto udire quel rumore. Cominciò ad attraversare la soffitta, avanzando a tentoni, fino al baule in cui era nascosto il cadavere di Blackie. Lo aprì, trascinò sul pavimento il corpo del cane e richiuse il coperchio. Cinque minuti dopo, gravata dal peso dell'animale, emerse nella cucina. Uscita dalla porta di servizio, percorse il prato; ora, all'orizzonte era visibile un lieve accenno di luce, mentre il cielo notturno andava perdendo il color dell'inchiostro. Respirando a fondo, le braccia indolenzite dal peso, si avviò lungo il patio che costeggiava la piscina. E si irrigidì di colpo. Da un punto imprecisato nell'oscurità, degli occhi la stavano osservando. Ma era impossibile! La casa era immersa nel buio, tutti stavano dormendo! Si voltò a esaminare la facciata: le finestre erano scure e tutto sembrava tranquillo. Ma proprio allora, mentre stava per girare di nuovo le spalle, colse un movimento impercettibile. In soffitta. Aveva davvero intravisto qualcuno alla finestrella della camera in solaio? Si fermò a riflettere, lo sguardo rivolto verso l'alto, infine decise di essersi sbagliata: nessuno la stava spiando da lassù. Era al sicuro. Esaminò attentamente la casa di Cora prima di attraversare il prato in direzione della vecchia serra dietro il garage. «A cosa serve?» aveva domandato a Melissa pochi giorni prima, quando
si erano imbattute nella piccola costruzione malandata durante un giro per la proprietà. «È il luogo dove i giardinieri facevano crescere i fiori. Piantavano ì semi nei vasi al coperto e trasferivano in giardino i fiori già sbocciati. Da anni non lo usa più nessuno.» «Perché non la abbattono?» aveva chiesto lei, osservando le pareti cadenti. «Sembra che stia per crollare.» «Ed è vero. Ma ogni volta che papà dichiara di volerla far cadere al suolo, mamma risponde che intende usarla per qualcosa. Una volta avrebbe dovuto trasformarla in uno studio per dipingere, un'altra in un laboratorio di ceramiche, ma in realtà non si decide mai. In effetti, neppure si avvicina alla serra.» E questo era il motivo per cui Teri l'aveva scelta. Lasciato cadere al suolo il corpo di Blackie, aprì la porta. All'interno, esattamente come ricordava per aver sbirciato attraverso i vetri, le travi del pavimento erano sconnesse. Impiegò un solo istante a sollevarne tre. Tornata fuori, afferrò per l'ultima volta il cadavere del cane e lo trasportò nella serra. Meno di un minuto dopo era tutto finito: le travi si trovavano nuovamente al loro posto e il locale pericolante era esattamente come l'aveva trovato. Tranne che adesso celava il corpo di Blackie sotto il pavimento. Va tutto bene, sussurrò la voce di D'Arcy. Ora me ne vado e tu puoi svegliarti. Melissa si ridestò lentamente, dapprima sbattendo le palpebre e infine aprendo gli occhi nel momento in cui Phyllis la liberava dall'ultima cinghia che ancora la assicurava al letto. Alla vista dei legami avvertì la morsa del panico, ma poi si rese conto che la notte era finita. I raggi del sole si riversavano dalla finestra. «Che ore sono?» chiese. La madre inarcò lievemente le sopracciglia. «E così hai finalmente deciso di parlarmi?» La ragazzina la guardò con occhi inespressivi. «Per favore, Melissa, perché devi sempre comportarti in questo modo?» «In che modo, mamma?» domandò lei in tono circospetto. Era possibile che avesse già fatto qualcosa di male quella mattina? Ma se si era svegliata da un secondo! Poi le tornò alla mente la scena della sera precedente in soffitta. Sua madre era ancora arrabbiata per quello? Non era affatto giusto. Lei aveva visto Blackie lassù e...
La voce dura di Phyllis interruppe i suoi pensieri. «Pensi che non me ne accorga? Non riesci a ingannarmi, signorina. So benissimo che sei sempre sveglia quando arrivo.» Sveglia? Ma di che cosa stava parlando la mamma? «Io stavo dormendo», iniziò. La donna la zittì con uno sguardo inviperito. «Non mentirmi, Melissa. So che detesti le cinghie, ma le uso per il tuo bene. Come credi mi senta quando vengo da te al mattino e tu ti limiti a fissare il soffitto per poi fingere di dormire mentre inizio a slegarti? Se non vuoi augurarmi il buongiorno, a me sta bene, ma non insultare la mia intelligenza simulando di essere addormentata.» La ragazzina capì di colpo. Non era lei a esser stata sveglia quando la mamma era entrata. Era D'Arcy, che aveva vegliato per consentirle di dormire tutta la notte. Rabbrividì, chiedendosi come facesse l'amica a sopportarlo, rammentando il panico suscitato in lei dalla vista delle cinghie fra le mani della madre. D'Arcy, invece, sembrava non curarsene affatto. «Mi... mi dispiace, mamma», mormorò. «È solo che... forse non ero ancora del tutto sveglia.» Phyllis, lievemente ammorbidita dalle scuse della figlia, assentì. «Va bene. Sono quasi le otto. Teri e io abbiamo già fatto colazione e stiamo per andare al club.» Un attimo dopo, la donna uscì dalla stanza. Melissa si diresse in bagno e fece la doccia; poco più tardi, mentre stava indossando i suoi jeans preferiti, udì la voce di Tag provenire dalla finestra aperta. «Blackie! Vieni, piccolo! Coraggio, Blackie!» Lei si sentì il cuore in gola. Dopotutto doveva essersi sbagliata. Se Tag stava chiamando il cane... Ma subito rammentò le perle. Immediatamente, i suoi occhi si spostarono sul comodino, dove le aveva lasciate la notte precedente. Erano ancora là, esattamente dove erano state messe. Si infilò una maglietta e corse alla finestra. Tag stava camminando sui margini del prato al confine con il bosco, chiamando il cane ogni pochi metri. Lei rimase a osservarlo per qualche minuto, la gola stretta alla prospettiva di ciò che avrebbe dovuto fare. Calzati i sandali, si affrettò al piano inferiore. Cora, tutta sola nella cucina, le sorrise, indicandole con un gesto del capo un bicchiere di succo d'arancia su un ripiano. «Tua mamma e Teri sono già uscite. Ti ho conservato
un po' di spremuta e la pancetta è al caldo nel forno. Posso prepararti delle uova.» Melissa declinò l'offerta e la domestica la guardò con aria interrogativa. «Qualcosa non va, tesoro? Sembri...» «Blackie se n'è andato, vero?» Cora trattenne il respiro. «Beh, non sono del tutto certa che si possa affermare una cosa simile, ma...» «Ma non c'è più, non è così?» insisté la ragazzina, leggendo la verità nell'espressione della donna. «La notte scorsa non è rientrato in casa», ammise Cora. «Tuttavia, come ho detto a Tag stamattina, è abbastanza normale per un cane. Basta l'odore di una femmina in calore e ci si può aspettare...» La frase rimase in sospeso quando Melissa sfrecciò fuori dalla porta di servizio, correndo verso l'amico. «Tag! Tag!» Il ragazzo stava per inoltrarsi nel bosco, ma il richiamo lo bloccò. Si voltò a guardare Melissa, che in un secondo fu al suo fianco. «Non c'è più, vero?» chiese lei con il fiato corto. Tag si accigliò. «Come fai a saperlo?» La ragazzina esitò, ricordando l'espressione sul viso della madre quando le aveva spiegato di aver visto il cadavere del cane pendere da una trave del solaio. Anche lui l'avrebbe fissata in quel modo? «Io... io l'ho visto ieri notte. O meglio, credo di averlo visto.» «Cosa vuol dire, credi di averlo visto?» «Che non ne sono sicura. La mamma sostiene che si è trattato di un incubo, oppure che mi sono inventata tutto. Ma non è vero.» Lentamente gli raccontò l'intero episodio, iniziando da quando si era svegliata al rumore dei passi in soffitta. Quando ebbe finito, il viso del ragazzo si era incupito. «E quando tua madre ti ha fatto salire non c'era più niente?» Lei scosse il capo. «Solo uno stupido, vecchio manichino con un abito bianco.» «I manichini non camminano», osservò Tag. «Forse dovremmo andare a vedere se riusciamo a trovare qualcosa.» La ragazzina sbarrò gli occhi. «Lo credi davvero?» «Perché no? In fin dei conti, è il solaio di casa tua. La mamma ti ha forse ordinato di non tornarci?» Melissa fece un cenno di diniego e i due si avviarono verso la villa. Venti minuti dopo la loro ricerca si era conclusa.
Il manichino era ancora in soffitta, ma non rimaneva alcuna traccia del cane. «A questo punto, penso possa essersi trattato davvero di un sogno», commentò Tag mentre tornavano dabbasso. «Non è vero!» insisté lei. «Non stavo affatto sognando, e nemmeno camminavo nel sonno. So benissimo cos'ho visto! E allora, come spieghi le perle? Erano attorno al collo di Blackie!» «Ehi, calmati!» protestò l'amico. «Non ti stavo accusando di mentire. Volevo solo dire che... beh, in effetti, talvolta ti capita di camminare nel sonno. Forse... forse hai portato la collana di sopra con te.» «Nient'affatto! Ti ripeto che so cos'è successo.» Il ragazzo fece un passo indietro. «D'accordo», dichiarò, alzando la voce davanti alla rabbia della ragazzina. «Allora spiegami tu che diavolo è accaduto! Cos'hai fatto, l'hai ucciso tu?» Melissa rimase a bocca aperta. «Io... io...» Non riuscì ad aggiungere altro: di colpo si era resa conto che quanto Tag aveva appena affermato corrispondeva esattamente a ciò che lei stessa si era sforzata fino a quel momento di tener sepolto in un angolo della mente. Blackie aveva avuto al collo la sua collana. Se non gliel'aveva infilata lei, allora chi era stato? Nessun altro sapeva dove lei la tenesse. Era possibile che davvero avesse camminato nuovamente nel sonno? Che avesse fatto una cosa del genere e non se lo ricordasse neppure? I passi. Come spiegare, allora, il rumore dei passi? E se non li avesse affatto uditi? Se fossero stati soltanto parte del sogno? Improvvisamente le parve di avere la testa ovattata. Nulla aveva più senso: era divenuta incapace di stabilire cosa fosse reale e cosa, invece, rappresentasse il frutto della propria immaginazione. Si sentì in procinto di impazzire. Gli occhi gonfi di lacrime, fu quasi sopraffatta dai singhiozzi. «Tu... pensi sul serio che potrei averlo ucciso?» chiese infine con voce tremante. Tag emise un gemito. «Ma andiamo! Come posso pensare una cosa simile? L'ho detto soltanto perché ti stavi comportando come se fossi furiosa con me. È ovvio che non l'hai ucciso! Perché avresti dovuto?» «Ma se non l'ho fatto, allora dov'è? Dov'è, Tag?» ripeté. «E se l'avessi ucciso e non me ne ricordassi?» Senza attendere una risposta, Melissa fuggì nella propria stanza, sbatten-
do la porta dietro di sé. Teri era allungata su una sedia a sdraio, gli occhi chiusi per proteggersi dall'intensa luminosità del sole mattutino. Si sentiva bene. Aveva giocato una partita a tennis con Phyllis, facendo in modo di lasciarla vincere, poi aveva seccamente battuto Ellen Stevens. Dopo, aveva fatto un tuffo in piscina e quindi era rimasta sdraiata sulla terrazza, godendosi il calore estivo e il mormorio delle voci tutt'attorno. Un'ombra le cadde sul viso e, quando aprì gli occhi, scorse una silhouette scura che torreggiava sopra di lei; incapace di capire di chi potesse trattarsi, stava per mettersi a sedere quando venne colpita da uno scroscio di acqua fredda sulle gambe. Boccheggiando, balzò dalla sedia e si trovò di fronte Brett Van Arsdale, che sogghignava sul bordo della piscina. «Mi sembrava che stessi bruciando, così ho deciso di metterti un po' di condimento.» «Ma davvero? E che ne dici di questo?» Con una spinta, lo gettò in acqua, poi si tuffò a propria volta; afferratolo per le spalle mentre riaffiorava, lo costrinse nuovamente sotto la superficie e guizzò via per evitare di essere acchiappata. Lui la raggiunse a metà della piscina e Teri ebbe a malapena il tempo di prendere una boccata d'aria prima che il ragazzo la sospingesse giù. Lottò per un attimo, si liberò e prese a nuotare, uscendo dalla vasca prima che Brett la riagguantasse. Ora che lui fu risalito sul bordo, Teri si stava già asciugando con il telo che uno degli inservienti le aveva porto nell'istante in cui aveva rimesso piede sulla terrazza. Una volta terminato, lo gettò all'amico, quindi tornò a distendersi sulla sdraio. Un attimo dopo, Brett si lasciò cadere accanto a lei. «Hai intenzione di venire al ballo della settimana prossima?» le chiese. «Che ballo?» «La festa in costume. Si tiene sabato prossimo e se non hai già in progetto di andarci con un altro...» Lasciò la frase in sospeso, mentre Teri gli sorrideva maliziosamente. «Intendi dire che vuoi che io venga con te?» Brett arrossì. «Se lo desideri.» La ragazza stava per accettare l'invito, poi esitò. E Melissa? Le avrebbero permesso di partecipare anche se nessuno avesse invitato la sorellastra? Lanciò un'occhiata in direzione del tavolino dove la matrigna stava chiacchierando con la signora Van Arsdale. Dopo quanto era accaduto quella mattina, sospettava che a Phyllis non sarebbe importato molto se la figlia
ci andava o meno. E papà? Ricordò per l'ennesima volta le sue parole. «Prenditi cura di Melissa al posto mio, d'accordo?» In quel momento, una nuova idea cominciò a prendere forma nella sua mente. «Sembra divertente», osservò, sorridendo a Brett. Quindi atteggiò il viso in un'espressione preoccupata. «Ma... e Melissa?» 11 sorriso raggiante sulle labbra del ragazzo si incrinò. «Melissa?» ripeté. «Ma che c'entra?» Lei abbassò gli occhi con ritrosia. «Beh, sarebbe piuttosto meschino da parte mia venire senza di lei, non credi? In effetti, sono appena arrivata e non conosco quasi nessuno. Come pensi si sentirebbe se uscissi con te mentre lei non viene invitata?» Brett si passò nervosamente la lingua sulle labbra. «E cosa dovrei farci? Trovare un cavaliere anche per lei?» Teri sollevò lo sguardo. Il viso che sembrava il perfetto ritratto della sorpresa. «Davvero? Lo faresti sul serio?» Lui inghiottì a vuoto. In che pasticcio si era andato a cacciare? Fra i suoi amici, chi diavolo avrebbe voluto farsi vedere in giro con Melissa Holloway? «Io... non lo so», borbottò tentando di evitare di compromettersi. Il sorriso della ragazza svanì. «In questo caso, non vedo proprio come potrei venire. Non credo sia giusto lasciarla a casa da sola.» Poi, come se ci avesse appena pensato, si illuminò. «Che ne diresti di Jeff Barnstable?» Brett la fissò. «Jeff? Come mai ti è venuto in mente lui?» Teri esitò, quindi abbassò la voce. «Se ti confido un segreto, mi prometti di non parlarne con nessuno?» Lui assentì. «Melissa ha una cotta per Jeff», proseguì Teri. «Se riesci a convincerlo a invitarla, allora verrò con te.» «E se non ce la faccio?» Lei scrollò le spalle. «Sono sicura che troverai il modo.» Un'ora dopo Brett scoprì Jeff Barnstable sdraiato su un telo sulla spiaggia di fronte alla casa di Kent Fielding, con su le cuffiette e una rivista in grembo. Accanto a lui, Kent era steso sullo stomaco, chiaramente addormentato. Lasciandosi cadere sulla sabbia di fianco all'amico, Brett alzò al massimo il volume del registratore portatile; all'improvvisa esplosione di suono nelle orecchie, Jeff sobbalzò, poi fissò il nuovo venuto. «Ehi, amico, perché diavolo hai fatto una cosa simile?» «Devo parlarti. Ho un problema.»
«Melissa?» ululò Jeff quando Brett ebbe finito di spiegargli il genere di favore di cui aveva bisogno. «Toglitelo dalla testa! Credi sul serio che chiederò un appuntamento a Melissa Holloway? Ma ti sembro pazzo?» «Andiamo! Non è poi così terribile. Cosa mi dici di quella tua cugina con cui mi hai costretto a uscire l'anno scorso?» Jeff roteò gli occhi. «Non è la stessa cosa. Perlomeno mia cugina è umana.» «A malapena», contrattaccò Brett. «Del resto, cos'ha Melissa di tanto spaventoso? L'altra sera al falò non si è comportata poi così male.» «Ma certo! Finché non si è spaventata e non è corsa a casa dalla mammina. Se però», aggiunse con voce improvvisamente sorniona, «sei disposto a fare un patto...» «Che genere di patto?» chiese Brett con aria sospettosa. «La Porsche. Lasciami guidare la tua Porsche sabato sera e tutta la domenica e io potrei ripensarci.» Il ragazzo esitò: possedeva quella macchina da soli sei mesi e finora non aveva mai permesso a nessuno di guidarla. Ma poi, all'improvviso, gli balzò alla mente l'immagine di Teri. Gli stava sorridendo e nei suoi occhi... «D'accordo», dichiarò, accettando prima che Jeff potesse cambiare parere. «Telefoneremo alle ragazze oggi pomeriggio, va bene?» L'altro, che era stato quasi certo di un rifiuto da parte dell'amico, tentennò. Quindi si vide al volante dell'auto sportiva nera, lanciato lungo la strada che si snodava in una serie di curve a gomito per tutta la costa. Tutto sommato, avrebbe potuto sopportare Melissa per un paio d'ore, decise. E forse sarebbe addirittura riuscito a escogitare il modo di corrompere qualcuno degli altri ragazzi perché, di tanto in tanto, gliela togliessero di torno. «D'accordo», concluse. «La inviterò.» Kent Fielding si girò e si mise a sedere, sbattendo le palpebre al sole. «Inoltre, potresti anche avere un colpo di fortuna», suggerì, ammiccando a Jeff. «Sabato sera ti potrebbe capitare di non sentirti bene, non è così?» I due si guardarono per un attimo, poi scoppiarono a ridere nell'immaginarsi l'espressione sul viso di Melissa se il suo cavaliere l'avesse mollata all'ultimo momento. 16 «È perfetto», esclamò Teri, esaminando eccitata il vestito appena scoper-
to su uno scaffale in fondo al negozio di rigattiere gestito dalla Società Storica. «Non ti piace da morire?» Melissa si accigliò nello sforzo di vedere l'abito con gli occhi della sorella, ma a lei continuava ad apparire esattamente ciò che era: un vecchio vestito per un ballo universitario con la vita sottolineata da piegoline e le maniche a sbuffo. La gonna di satin era macchiata e aveva l'orlo parzialmente strappato; sopra il satin era stato cucito uno strato di tulle che un tempo doveva aver fluttuato attorno all'abito come una nuvola, ma che ora pendeva floscio e lacerato in più punti. Anni prima era stato rosa e adesso, terribilmente sbiadito, aveva una tinta vagamente assomigliante al color pesca, per di più assai poco uniforme. Gli occhi della ragazzina si spostarono dal vestito alla sorellastra. «È orribile», affermò. «Nient'affatto», protestò Teri. «Lasciamelo provare.» Senza attendere una risposta, scomparve dietro una tenda che celava un camerino e Melissa tornò a esaminare i mucchi di abiti usati in cerca di qualcosa che potesse passare per un costume. Non era ancora certa di voler davvero partecipare al ballo. In effetti, quando Jeff Barnstable aveva telefonato lunedì pomeriggio, si era sentita assolutamente sicura che intendesse farle uno scherzo e gli aveva risposto che lo avrebbe richiamato. Quando però ne aveva parlato con Teri, lei aveva insistito che l'invito era serio. «Abbiamo un appuntamento a quattro», le aveva spiegato. «Tu e Jeff, io e Brett.» La ragazzina le aveva lanciato un'occhiata sospettosa. «Di chi è stata l'idea?» «Non lo so. Ne abbiamo discusso stamattina al club e lo abbiamo deciso tutti insieme.» Mentre Melissa continuava a esitare, Phyllis era uscita sulla terrazza dove loro due stavano prendendo il sole. «Deciso cosa?» aveva chiesto. Prima che fosse possibile impedirglielo, Teri le aveva parlato dell'invito. «Ci andrai di sicuro», era stata la sua conclusione. «È un'occasione assolutamente perfetta per il tuo primo appuntamento.» «Ma io non...» «Non voglio sentire una sola parola», aveva tagliato corto la madre e, nonostante avesse continuato a sorridere, la sua voce si era caricata di una sfumatura tagliente intesa ad avvertirla che non sarebbe stata tollerata la minima discussione. «Dopotutto, quest'anno faccio parte anch'io del comitato organizzatore. Che effetto farebbe l'assenza di mia figlia? Teri ti aiute-
rà a trovare un costume adatto e, fra l'altro, i preparativi ti offriranno l'opportunità di pensare a qualcosa di diverso da quel cane.» Melissa aveva taciuto, certa che qualunque cosa si fosse azzardata a dire su Blackie avrebbe soltanto fatto infuriare la mamma. Del resto, cosa poteva aggiungere in proposito? Lei e Tag avevano cercato ovunque, ispezionando il bosco e lanciando richiami, ma non avevano scorto il minimo indizio del suo passaggio. E lei si era sentita sempre più confusa: se davvero aveva visto il suo cadavere in soffitta, perché i resti erano scomparsi? Era possibile che, in definitiva, si fosse trattato soltanto di un sogno? Si era sul serio immaginata tutto, svegliandosi nel momento in cui aveva urlato? Non aveva osato parlarne con nessuno, fatta eccezione per Teri, ma anche lei non era stata in grado di trovare una spiegazione. «Probabilmente è scappato», aveva concluso, per poi aggiungere con un pizzico di malizia: «O forse lo ha preso D'Arcy.» D'Arcy. Da allora, Melissa aveva continuato a pensarci. La sua amica che faceva del male a Blackie? Ma come avrebbe potuto? D'Arcy esisteva solo nella sua mente. Oppure no? E se fosse realmente esistita? Fu scossa da un brivido e sobbalzò al tocco di una mano sulla sua spalla. Giratasi di colpo, si trovò di fronte Teri, vestita con il vecchio abito da ballo rosa, che la osservava con curiosità. «Ehi, che ti succede?» «N... niente», balbettò la ragazzina. «Non ti sei accorta che ti stavo chiamando? Non riesco a chiudere questa stupida cerniera lampo.» Con dita tremanti, Melissa la aiutò e la sorella si lasciò ammirare. «Una volta sistemato l'orlo, metteremo un sacco di strass e perline sulla gonna, quindi costruiremo una bacchetta magica in modo che io possa impersonare la madrina delle fate. Sarà perfetto.» Melissa la guardò perplessa. «E quelle macchie?» «Chi ci baderà? Si tratta di una festa in costume. Tutti staranno scavando alla ricerca di vecchi vestiti.» Teri ridacchiò. «Scommetto che almeno metà degli intervenuti finiranno per assomigliare ai loro nonni. Adesso vediamo di trovare qualcosa per te.» Svanì nuovamente nel camerino, uscendone qualche minuto dopo con l'abito ripiegato su un braccio. Assieme, cominciarono a cercare fra i capi smessi un costume per Melissa, ma Teri
continuò a obiettare a qualunque scelta della sorella. «Non ti andrebbe bene, non vedi? Dovremmo allentare tutte le cuciture.» «Sta andando in pezzi! Non vorrai che l'abito ti cada di dosso nel bel mezzo della festa, vero?» «È tremendamente grande! Non ce la faremmo mai a restringerlo in tempo.» La ragazzina scoprì infine un antiquato smoking completo di cappello a cilindro, a quanto pareva in una taglia da adolescente. «Che ne pensi di questo?» chiese speranzosa. «Potrei fingermi un mago, oppure Charlie Chaplin.» Per l'ennesima volta, tuttavia, la sorella scosse il capo. «Non è adatto. Ci serve qualcosa di veramente spettacolare.» Si guardò attorno in cerca di un angolo non ancora ispezionato, ma avevano ormai guardato dappertutto. «Perché non andiamo a prenderci una Coca?» suggerì. «Forse, se smettiamo di frugare come pazze, ci verrà un'idea.» Melissa lanciò un'ultima, bramosa occhiata allo smoking. Era certa che le sarebbe andato bene, e se avessero realizzato una mantellina... «No», decretò Teri, come se le avesse letto nel pensiero. «Ti ripeto che non è adatto a te. Del resto, se non riusciamo a escogitare niente di meglio, possiamo sempre tornare a comprarlo.» La ragazzina riappese l'abito e seguì la sorellastra verso l'uscita del negozio. Mentre oltrepassava un espositore pieno di bigiotteria antica, uno scintillio attrasse la sua attenzione: era una vecchia tiara, sormontata da un giglio e completamente ricoperta di strass. «Guarda!» gridò. «La tua corona!» Teri la fissò, quindi scosse la testa. «È perfetta», ammise, «ma sarà senz'altro carissima.» «Signora Bennett?» Melissa chiamò la direttrice, che venne a mostrare loro la tiara. «Quanto costa?» La donna controllò il cartellino con il prezzo. «Settantacinque dollari. È un pezzo d'antiquariato.» La depose sul capo di Teri, che si voltò a guardarsi allo specchio appeso alla parete opposta, poi se la tolse sospirando. «È davvero magnifica, ma non posso permettermela.» «La prendiamo», tagliò corto Melissa proprio mentre la signora Bennett stava per riporla nuovamente nell'espositore. Teri si rivolse con aria incerta alla sorellastra. «Non possiamo», mormorò. «Non ho più soldi.» «Ma io sì», rispose la ragazzina sorridendo. Teri guardò allibita il rotolo di banconote che Melissa stava estraendo
dal portafoglio. «Ma dove diavolo le hai prese?» «Sono le mie mance. Tutto quello che compro sono libri tascabili e papà mi regala soldi praticamente ogni fine settimana, anche se non li spendo mai. Tu paghi l'abito e io ti offro la tiara.» «Ma...» «Voglio farlo. Renderà perfetto il tuo costume. Per favore, non impedirmelo.» Teri sorrise e lasciò che la signora Bennett incartasse la tiara. Mezz'ora dopo, quando le due ragazze stavano per uscire dall'emporio, la porta si aprì per lasciar entrare Brett Van Arsdale e Kent Fielding. Alla vista di Teri, Brett sorrise raggiante. «Ehi, eccoti qui. Proprio la persona che stavo cercando.» «Io?» Il ragazzo assentì. «Il papà di Kent ci permette di usare la sua barca per tutto il pomeriggio. Pensavo che forse ti sarebbe piaciuto venire con noi.» Teri lanciò una rapida occhiata a Melissa, che sembrava improvvisamente assorta nell'esame di una serie di riviste. «Chi ci sarà?» chiese. «Tutti. Noi due, Jeff, Ellen e forse anche Cyndi con un paio di amici. Allora, ti interessa?» Lei si rivolse alla sorellastra. «Che ne pensi? Dovremmo accettare?» Melissa, le guance in fiamme, fu certa che Brett non aveva affatto inteso includerla nell'invito. «Io... non so.. Se vuoi andare...» «Ma certo che lo desidero! Che tipo di barca è?» chiese al ragazzo. «A vela?» Lui assentì. «Niente di speciale, solo un undici metri.» Involontariamente, spostò lo sguardo su Melissa. «Se non vuole venire...» cominciò. Ma Teri gli impedì di proseguire. «E perché mai? A che ora è fissato l'appuntamento?» Brett guardò Kent, quindi scrollò le spalle. «Non saprei... facciamo alle due?» Accordatisi sull'ora, Teri e Melissa uscirono dall'emporio e si avviarono verso casa. Non appena furono scomparse dietro l'angolo, Kent fissò furente l'amico. «Bella mossa, Van Arsdale. Adesso ci troveremo sullo stomaco Melissa per tutto il pomeriggio.» «E cosa avrei dovuto fare? Era lì in piedi che ci ascoltava! Comunque, dove sta il problema? Non sei obbligato a tenerle compagnia.» Poi, colto da un pensiero improvviso, represse a stento una risatina. «Gesù, ne varrà
la pena solo per godersi la faccia di Jeff quando la vedrà arrivare. Penserà che l'abbiamo fatto apposta.» Kent roteò gli occhi. «Ti sei preso una bella sbandata per Teri, vero? Finora l'hai invitata fuori due volte e in entrambi i casi lei si è portata appresso Melissa. Ma cosa sono, gemelle siamesi?» «Che altro dovrebbe fare?» ribatté Brett. «È appena arrivata qui e ha già più amici della sorellastra. Sta solo cercando di essere gentile con lei, ecco tutto.» «Così, secondo te, anche tutti noialtri dovremmo sopportarla? Merda, ancora un po' e cercherai di convincere me a farle da cavaliere.» Brett gli diede un amichevole pugno sulla spalla. «Chi lo sa?» lo stuzzicò. «Potresti innamorarti di lei.» Schivò velocemente il colpo di Kent, quindi si precipitò fuori della porta. Quando l'amico lo raggiunse, però, cominciò a chiedersi seriamente cosa stesse succedendo. Teri sarebbe mai uscita con lui senza insistere per portare anche la sorella? Beh, avrebbe aspettato fino a dopo il ballo di sabato. In fin dei conti, lei non poteva continuare a insistere perché le trovasse accompagnatori per Melissa se nessuno ne voleva sapere. Eppure, proprio questa era una delle caratteristiche di Teri che gli piaceva di più: si preoccupava sempre dei sentimenti altrui. Persino nel caso di persone cui nessun altro badava, come Melissa Holloway. Sogghignando, si girò verso Kent. «È molto carina, vero?» «Chi?» «Teri», rispose Brett. «Sai una cosa? Penso sia la ragazza più dolce che abbia mai conosciuto.» Melissa rallentò il passo quando giunsero in prossimità del porticciolo, annidato sottovento sul lato del promontorio che costituiva il confine meridionale della baia. «Forse rimarrò qui», suggerì alla sorella, esaminando nervosamente le onde schiumose che agitavano l'oceano al di là dell'insenatura. «E se mi viene il mal di mare?» «Perché mai dovrebbe succederti?» obiettò Teri, benché rammentasse perfettamente una conversazione della settimana precedente, quando entrambe avevano trascorso qualche tempo sdraiate sulla spiaggia a osservare una regata di piccoli scafi. «Come mai non abbiamo una barca?» aveva chiesto. Melissa si era mes-
sa a ridere. «Perché papà e io soffriamo di mal di mare. Per il mio decimo compleanno mi ha portata a pescare ed entrambi siamo stati male da morire. Francamente, sarò felice di non rimettere piede su una barca per il resto della mia vita.» Ora, dilatando gli occhi come se avesse appena ricordato quelle parole, Teri rivolse alla sorellastra uno sguardo dì scusa. «Oh, Dio, me n'ero scordata!» Poi si illuminò. «Del resto, si trattava di tanto tempo fa. Starai benissimo, ne sono sicura. E poi guarda l'acqua! Il mare è assolutamente piatto, non ti darà fastidio.» Melissa alzò gli occhi al cielo. «Mi sento male solo a pensarci.» Giunte infine sul pontile, la ragazzina si bloccò. «Ti arrabbieresti molto se io non venissi?» chiese con voce ansiosa. «No, naturalmente. Se me ne fossi ricordata prima, non avrei accettato l'invito. Ma cosa diremo a Phyllis?» «Forse non sarà necessario parlargliene. Potrei aspettare qui finché non torni, così non saprà mai la verità.» Teri scosse la testa. «Lo scoprirebbe. Oggi pomeriggio viene al club e sai com'è fatta: ripeterà a tutti che siamo entrambe sullo yacht dei Fielding, comportandosi come fosse chissà che. Se qualcuno le spiffera che tu non sei a bordo...» Melissa gemette, rendendosi conto che la sorella aveva ragione. Poteva già udire la mamma sibilarle inviperita quant'era stata villana ad accettare un invito per poi non presentarsi. E quella sera, una volta salita nella propria camera... Dopotutto, pensò, Teri poteva anche non sbagliarsi: se si fosse concentrata al massimo, rimanendo all'aria fresca, forse non si sarebbe affatto sentita male. Al contrario, se avesse preferito rimanere a terra, tutti l'avrebbero ritenuta una fifona. «Hai ragione», affermò, cercando di imprimere una nota fiduciosa alla propria voce. «Perché gli altri ragazzi dovrebbero apprezzarmi se evito sempre i loro passatempi preferiti?» Teri le strinse un braccio con aria rassicurante. «Brava. Vedrai, andrà tutto bene. Sarà divertente.» In fondo al pontile trovarono la barca, lo Zargon, e tutti gli altri già a bordo. Salite a loro volta sullo scafo, scesero nel pozzetto mentre Jeff e Brett mollavano gli ormeggi e Kent avviava il motore. Teri lo guardò incerta. «Pensavo si navigasse a vela.» «È così, ma il vento non ci consente di uscire dal porto senza usare l'entrobordo. Alzeremo le vele una volta fuori dalla baia.»
«Sto aprendo le lattine di Coca», gridò Ellen Stevens da sottocoperta, «chi ne vuole una?» «Vengo ad aiutarti!» esclamò Teri, abbassando la testa prima di infilarsi sulla scaletta. Un attimo dopo riemerse con le bibite, le passò in giro e porse l'ultima a Melissa, che scosse il capo. «Faresti meglio a berla», insisté la ragazza. «Ti servirà per tenere lo stomaco sotto controllo.» Kent spostò lo sguardo su Melissa. «Oh, no», gemette. «Non mi dirai che soffri il mal di mare, vero?» «Anni fa», rispose Teri, mentre il viso della sorellastra diventava scarlatto. «È stata male soltanto una volta, quand'era piccola. Andrà tutto bene.» «Sarà meglio per lei», ribatté brusco il ragazzo. «Papà potrebbe uccidermi se si mettesse a vomitare dappertutto.» Gli occhi gonfi di lacrime, Melissa si morse le labbra, ma si costrinse a rimanere calma. Per evitare problemi, doveva solo stare immobile e tenere gli occhi sulla costa. Tuttavia, accettò la Coca che Teri le offriva con un sorriso incoraggiante. Kent portò la barca nel mezzo della baia, spense il motore e segnalò a Brett di innalzare la vela maestra; un minuto dopo, Jeff Barnstable cominciò a issare il fiocco, mentre Ellen e Cyndi si occupavano delle cime. Completata l'operazione, Kent virò: le vele si gonfiarono di colpo e la barca si inclinò di lato. Melissa, colta alla sprovvista dal repentino movimento dello scafo, fece quasi cadere la Coca, ma riuscì ad acchiappare la lattina prima che si rovesciasse sul ponte. «Magnifico!» sospirò Teri quando acquistarono velocità. «Non ti piace da morire?» Melissa, irrigidita nel pozzetto e aggrappata al bordo con tanta forza da farsi dolere le dita, si costrinse a distogliere lo sguardo dalla spiaggia per spostarlo alla sorella, che si era sdraiata sul lato opposto della barca, i capelli al vento e il viso proteso verso il sole. «Rilassati!» esclamò Teri. «Goditi la crociera!» Mentre navigavano verso nord, l'unico rumore proveniva dalle onde che si infrangevano dolcemente contro la prua. Ellen Stevens e Cyndi Miller risalirono sul ponte e si allungarono sulle lucenti assi di teak, mentre Brett si lasciò cadere di fianco a Teri. «Che ne pensi? Ti piace?» «È fantastico! Dove stiamo andando?» Lui scrollò le spalle. «Non lo so. Tu dove vorresti dirigerti?» La ragazza fissò il mare aperto. «Possiamo andare al largo?»
«Certo. Ehi, Kent, mi lasci il timone?» L'amico gli cedette il posto e Brett assunse il comando. «Pronti alla virata!» gridò e subito Jeff mollò la scotta di babordo del fiocco e la porse a Melissa. «Sai cosa fare?» chiese. Quando lei scosse la testa, Jeff alzò gli occhi al cielo. «Limitati a reggerla e lasciala andare solo quando Brett dice 'virata di prua', d'accordo?» Senza attendere una risposta, si spostò a dritta e afferrò l'altra scotta. «Virata di prua!» esclamò Brett, girando il timone. Melissa mollò la scotta e il fiocco si agitò al vento. Un secondo più tardi Jeff alzò la scotta, tendendo nuovamente il fiocco mentre la maestra cambiava direzione e la barca virava sul lato opposto, la prua puntata verso il mare aperto. Cinque minuti dopo uscirono dalla baia. Quasi immediatamente le onde aumentarono e lo scafo cominciò a oscillare. Reggendosi alle sagole, Ellen e Cyndi lasciarono il ponte per assestarsi nel pozzetto. Melissa sentì i primi accenni di nausea e bevve una lunga sorsata di Coca, ma il liquido dolce non le fu di alcun aiuto. No, si disse, non starò male. Brett assestò la virata e la barca acquistò velocità; il vento si intensificò e apparvero i primi cavalloni. La ragazzina guardò nervosamente in direzione di Teri, che però sembrava assolutamente insensibile alle oscillazioni dello scafo. La nausea andava peggiorando e Melissa osò infine rivolgersi a Brett. «For... forse sarebbe meglio tornare indietro. Credo di non sentirmi molto bene.» «Vai sottocoperta», le suggerì lui. «Sdraiati per qualche minuto. Ti sentirai subito meglio.» Lei esitò: l'ultima volta che aveva sofferto il mal di mare, quando era andata a pesca con papà, il capitano le aveva consigliato di rimanere sul ponte. «È molto meglio», aveva detto. «I capogiri sono meno forti se vedi dove stai andando.» Mentre rifletteva, Brett le rivolse nuovamente la parola: «Vuoi andar sotto? Se devi proprio vomitare, perlomeno giù c'è un bagno». Melissa si alzò in piedi, quasi perse l'equilibrio per il beccheggio e si afferrò al corrimano vicino al boccaporto. Scese la scaletta fino alla cabina e sprofondò sul divano. La nausea andava trasformandosi in un acuto dolore. Due minuti dopo fu certa che sarebbe stata male. Tentò di precipitarsi a prua, in direzione del bagno, ma un'improvvisa inclinazione a babordo la
fece scivolare. Quando cadde in ginocchio, il mal di mare la colpì a tutta forza. Cercò di lottare contro il vomito che le saliva alla gola, ma era troppo tardi. Scossa dai conati, aprì la bocca e riversò sul pavimento un fiotto di bile. «Oh, Gesù», udì qualcuno esclamare alle sue spalle. Con il mento sporco, guardò indietro e scorse Jeff Barnstable che la fissava con un'espressione di assoluto disgusto. Si sentì morire: di tutte le persone che si trovavano a bordo, perché proprio Jeff doveva vederla in quella situazione? Ora non l'avrebbe più accompagnata al ballo, nemmeno per sogno! Probabilmente non avrebbe neppure voluto vederla per il resto dei suoi giorni! E poi, dietro di lui, le giunse la voce furente di Kent Fielding. «Ma perché diavolo hai dovuto farlo proprio qui?» ruggì, per poi voltarsi. «Torniamo indietro», disse all'amico. «Quel piccolo impiastro sta vomitando l'anima senza neanche avere il buon senso di andare in bagno.» Quando la nausea accennò a calmarsi, Melissa si alzò in piedi a fatica e cercò qualcosa con cui ripulire il disastro sul pavimento. Trovò un rotolo di carta nella cambusa e si rimise in ginocchio, accingendosi allo sgradevole compito, ma l'odore del vomito le riempì le narici, sopraffacendola e provocandole un nuovo attacco di conati. Questa volta rigettò sulla maglietta e i pantaloni bianchi che aveva indossato espressamente per la crociera. Singhiozzando per l'umiliazione, si costrinse a eliminare ogni traccia di sporco sul pavimento, facendo del proprio meglio per assorbirlo con la carta. Mezz'ora dopo approdarono al pontile. Melissa era rimasta sottocoperta finché aveva potuto, ma infine fu costretta e riemergerne; con le gambe molli, risalì la scaletta e uscì sul ponte. Erano tutti lì, in piedi a fissarla. Dopo un lungo silenzio, Kent Fielding le rivolse la parola. «Perché diavolo sei voluta venire? Se sapevi di soffrire il mal di mare, per quale motivo non te ne sei rimasta a casa? Tanto per cominciare, nessuno di noi aveva avuto intenzione di invitarti!» Melissa si sentì salire le lacrime agli occhi, ma fu la rabbia a prendere il sopravvento. Non era stata lei a insistere per aggregarsi, anzi aveva addirittura cercato di tirarsi indietro. Pensavano forse che fosse stata male di proposito? Scese dalla barca e si avviò lungo il pontile, ma poi si girò di scatto.
«Vi odio!» urlò ai sei ragazzi che la osservavano. «Vi odio tutti e spero che moriate!» Quindi, sopraffatta dal pianto, corse via e cominciò ad arrancare sulla spiaggia in direzione di casa. Per un attimo, solo un attimo, desiderò voltarsi e spiegare, perlomeno a Jeff, che non aveva veramente inteso pronunciare quelle terribili parole. Ma non ne fu capace, perché l'umiliazione le bruciava ancora troppo. Se si fosse girata, avrebbe potuto scorgere il sorriso sulle labbra di Teri. Il sorriso che le avrebbe rivelato come si fosse comportata esattamente nel modo che la sorella aveva sperato. 17 Phyllis Holloway lanciò un'occhiata all'orologio sulla scrivania del marito. Erano appena passate le tre ed entro mezz'ora doveva presentarsi al club per una riunione del comitato; in altre parole, le rimaneva soltanto il tempo di pettinarsi e dare un rapido ritocco al trucco. Guardò il resoconto delle spese di Cora, le labbra strette per la stizza alla vista degli scarabocchi pressoché illeggibili della domestica. Il meno che quella donna avrebbe potuto fare sarebbe stato scrivere le varie voci sul registro in modo abbastanza chiaro da consentire a una persona normale di leggerle! Era già sufficientemente penoso essere costretta a esaminarle settimanalmente per mezza giornata, ma il fatto di dover decifrare ogni singola parola rendeva quel compito quasi intollerabile. E, naturalmente, nessuno la aiutava. Non riusciva neppure a ricordare quante volte aveva parlato a Charles delle trasandate note spese di Cora, ma la sua reazione era sempre la stessa: «Ma perché, poi, la costringi a tenere un registro? Cora si è occupata degli acquisti per la mia famiglia da prima che io nascessi. Mio padre ha sempre dichiarato di fidarsi di lei più che del proprio avvocato». «Davvero?» gli aveva risposto seccamente Phyllis la prima volta in cui si era discusso della necessità di verificare le spese della domestica. «Beh, non posso certo affermare di esserne sorpresa. Sono sempre rimasta sbalordita nel constatare quanta gente si lasci derubare dal personale di servizio. Quando lavoravo a...» Si era interrotta di colpo perché, persino con il marito, faceva del proprio meglio per evitare di addentrarsi nei dettagli riguardanti il periodo precedente il matrimonio. «Si tratta di una questione di principio», aveva insistito. «Se i domestici sanno di non essere tenuti
sotto controllo, se ne approfittano immediatamente. Non che non lo facciano comunque. Detesto pensare a quanto del nostro cibo scompare ogni settimana in casa di Cora.» Charles si era limitato a scrollare le spalle. «Che importa? Anche se ci rubasse tutto quello che lei e Tag mangiano — e non è così — non vedo perché agitarsi. Se però ti fa sentire meglio, chiedile pure di tenere un registro, basta che tu non pretenda di farlo controllare a me. Mi sembrerebbe di domandare un resoconto delle spese a mia madre!» Quando, più di dieci anni prima, aveva consegnato il libro mastro alla domestica, spiegandole come compilarlo, Phyllis aveva scorto il risentimento nei suoi occhi. Tuttavia, Cora si era ben guardata dal sollevare obiezioni, ma, al contrario, lo aveva quotidianamente aggiornato con diligenza, presentandoglielo ogni mercoledì per la verifica settimanale. Da allora, Phyllis aveva dovuto trascorrere la maggior parte del giorno accertandosi che le ricevute corrispondessero alle cifre scribacchiate nel registro e addirittura controllando di persona che quanto Cora aveva acquistato si trovasse veramente in casa. Assai raramente le era accaduto di scoprire qualche irregolarità (e, in ogni caso, sempre insignificante), ma nutriva l'assoluta certezza che solo la sua fatica del mercoledì mantenesse onesta l'anziana domestica. Sospirando, chiuse il libro mastro e guardò fuori della finestra. Oltre il campo da tennis, ai margini del prato, Tag stava uscendo dal bosco. Accigliata, Phyllis fissò immediatamente la siepe che gli aveva specificamente detto di potare proprio quella mattina: anche da dove si trovava, poteva notare la crescita irregolare sulla cima del biancospino che divideva la loro proprietà da quella dei vicini. Irritata, prese il telefono e premette il pulsante di comunicazione interna. «Cora, vieni immediatamente nello studio del signor Holloway.» Depose il ricevitore sulla forcella e cominciò a tamburellare impazientemente le dita sul ripiano della scrivania finché la domestica non fece un affannoso ingresso mezzo minuto più tardi. «Sì, signora?» esordì Cora, guardando a disagio la padrona. Era sicura che i conti quadrassero perfettamente, visto che la sera precedente era rimasta alzata fino a mezzanotte per controllarli. «Cosa sta facendo Tag?» domandò imperiosamente Phyllis, spostando di nuovo lo sguardo verso la finestra, dove il ragazzo era ancora visibile, intento a spostarsi lentamente lungo il perimetro del campo da tennis. Le dita della domestica tormentarono nervosamente il bordo del grem-
biule. «Sta cercando Blackie, signora», ammise. Phyllis la fissò con occhi gelidi. «E la siepe? Dobbiamo forse accontentarci di lasciare che la proprietà si trasformi in una giungla mentre Tag dà la caccia a un animale fuggitivo?» Cora serrò le mascelle e sostenne apertamente lo sguardo della padrona. «Lui non crede che il cane sia scappato, signora. Pensa che gli sia successo qualcosa.» «Successo qualcosa?» le fece eco Phyllis. «Si può sapere cosa crede sia accaduto?» La domestica esitò. «Non... non mi piace dirlo, signora.» «Che cosa? Beh, meglio ti decida che 'ti piace dirlo'. Allora? Ha preferito credere alla storia di Melissa circa lo spettro in soffitta?» «No, signora. Pensa... ecco, pensa che Teri possa aver fatto qualcosa al cane.» Phyllis rimase a bocca aperta. «Teri? Ma che diavolo...» «Una sera l'ha vista prendere a calci Blackie. Stava tornando a casa e...» «Ora basta, Cora! Ignoro cosa possa aver spinto Tag a insinuare una cosa del genere. Teri MacIver è una fra le ragazze più gentili che abbia mai conosciuto e non sopporterò un'accusa...» Venne bruscamente interrotta dallo sbattere della porta d'ingresso e dal rumore di passi in corsa lungo il vestibolo. Uscita dallo studio con Cora al seguito, scorse la figlia che saliva le scale a precipizio. «Melissa!» chiamò in tono duro. La ragazzina si bloccò, ma evitò di voltarsi. «Quante volte ti ho ripetuto di non...» Le parole le morirono in gola alla vista della macchia scura sui pantaloni bianchi. «Melissa, girati!» Per un attimo la figlia non si mosse, quindi accennò un passo sul gradino successivo. «Mi hai sentita?» chiese Phyllis bruscamente. «Ti ho detto di girarti e pretendo che tu mi obbedisca!» Facendo del proprio meglio per soffocare un singhiozzo, la ragazzina si voltò a fronteggiarla. Phyllis fissò attonita le chiazze di vomito che le macchiavano i vestiti. «Cosa mai...» iniziò, ma Melissa scoppiò in lacrime. «Ho avuto un attacco di mal di mare», spiegò piangendo. «Io non volevo andarci, ma tutti mi hanno spinta a farlo, così li ho accontentati. Ho vomitato sulla barca dei Fielding e...» Nuovamente sopraffatta dall'umiliazione, fuggì in cima alle scale. «Povera bambina», mormorò Cora, cominciando a seguirla. «Sarà meglio che vada da lei.» «Non farai niente del genere, invece!» esplose Phyllis, fermandola dove
si trovava. «Sono capacissima di badare a mia figlia da sola. L'ultima cosa di cui ora ha bisogno è di essere coccolata da te.» Stava per proseguire, ma la porta di ingresso si aprì nuovamente per lasciar entrare Teri. «Melissa è già qui?» esordì. «Ho cercato di raggiungerla, ma...» «È di sopra», le rispose Phyllis, quindi aggiunse: «Teri, tesoro, Cora ha qualcosa da dirti». La ragazza si girò verso la domestica, la cui carnagione già rubiconda era diventata rossa come una barbabietola. «Per favore, signora», supplicò, ricominciando a tormentare l'orlo del grembiule. «Non volevo che lei...» Phyllis la ridusse al silenzio con un'occhiata. «Secondo Cora, Tag pensa che tu abbia fatto qualcosa al suo cane.» Per un'infinitesimale frazione di secondo, gli occhi di Teri si spostarono sull'anziana domestica, ma subito si riprese. «Che cosa?» esclamò, come fosse incapace di credere di avere udito bene le parole della matrigna. Phyllis, l'espressione indurita in una gelida maschera di rabbia, si rivolse a Cora. «Spiegaglielo!» ordinò. «Riferiscile ciò che hai raccontato a me!» Dopo aver respirato a fondo, la domestica guardò la ragazza. E improvvisamente ricordò quella mattina di due settimane prima, subito dopo che Teri era arrivata a Maplecrest, quando l'aveva scoperta nella camera di Melissa, in cerca di un paio di calze pulite. Lo stesso atteggiamento di allora (nulla su cui avrebbe potuto puntare un dito accusatore, solo una certa aria furtiva) era adesso evidente nell'espressione della ragazza. «È convinto che tu abbia fatto qualcosa di male al cane», disse con voce sicura. «Mi ha riferito di averti vista una sera mentre lo prendevi a calci.» «E tu gli credi?» chiese Teri, in tono carico di un'incredulità che l'anziana donna si trovò quasi propensa a ritenere genuina. La ragazza si voltò verso Phyllis, gli occhi lucidi di lacrime. «Tu non ci credi, vero? Non avrei potuto... Blackie mi piaceva! Io...» La matrigna protese le braccia e Teri affondò il capo sul suo petto. «Va tutto bene, tesoro», mormorò Phyllis. «Certo che non ci credo, esattamente come chiunque altro.» Con voce nuovamente indurita, rivolse lo sguardo su Cora. «Non intendo più sentire una singola parola sull'argomento. Sarà meglio tu avverta Tag che è ora che si rimetta al lavoro e accetti il fatto che talvolta i cani scappano. E se non riesci a convincerlo, forse è opportuno che tu rifletta se tu e tuo nipote volete continuare a rimanere qui. Non vedo come si possa tollerare di tenerti in questa casa se Tag comincerà a diffondere pettegolezzi sul conto della nostra figliastra.»
Il viso di colpo pallidissimo, Cora temette che le gambe le cedessero; dopo aver respirato a fondo, assentì velocemente. «Sì, signora», rispose in un sussurro quasi impercettibile. «Parlerò con lui.» Giratasi, si affrettò fuori, lasciando Phyllis e Teri da sole. Asciugandosi le lacrime, la ragazza indirizzò alla matrigna uno sguardo implorante. «Tu non gli credi, vero?» «Non essere sciocca. Ti pare possibile che io ritenga un servitore più degno di fede di te? Tra l'altro, penso di conoscerti molto meglio di Tag e non riesco a immaginare che tu possa nuocere a chicchessia.» Il tono di Phyllis cambiò e i suoi occhi si spostarono in direzione delle scale, dove poco prima Melissa era fuggita. «E adesso raccontami cos'è accaduto sulla barca.» Teri scosse tristemente la testa. «È stato terribile. È colpa mia, sai? Lei non voleva venire e io...» La matrigna la interruppe con un cenno della mano. «È molto generoso da parte tua, cara, ma non esiste alcun bisogno di accampare scuse per Melissa. Limitati a spiegarmi cos'è successo.» Lentamente, quasi con riluttanza, la ragazza le riferì tutta la storia. «Non so perché sia scesa sottocoperta», concluse. «Se fosse rimasta sul ponte, si sarebbe sentita meglio.» Ma Phyllis si era già girata, tremando di rabbia. Ora, per colpa dello stomaco debole di sua figlia, avrebbe dovuto rinunciare alla riunione del comitato. Poteva già raffigurarsi l'espressione condiscendente di Kay Fielding nel momento in cui avesse tentato di scusarsi per il disastro combinato da Melissa sulla sua barca. Beh, questa era davvero l'ultima volta che quella guastafeste si rendeva ridicola in pubblico! Con furia crescente di secondo in secondo, si precipitò su per le scale. Rabbrividendo per l'eccitazione, Teri la seguì in silenzio. Melissa era seduta sul water nel bagno che divideva con la sorella, la testa piegata fin quasi sulle ginocchia. L'odore rancido del suo stesso vomito le invadeva le narici e il suo corpo era scosso dai singhiozzi. Perché era salita sulla barca? Sapeva cosa sarebbe accaduto, ne era certa fin dal principio. E tutto si era puntualmente svolto come si aspettava. Soltanto il ricordo dell'episodio parve scatenare nuovamente la nausea e la piccola si inginocchiò sul pavimento, la testa sopra la tazza, mentre ricominciavano i conati. Quando l'acqua del water diventò marrone per la Coca che aveva bevuto, sporse un braccio e mise in funzione lo sciac-
quone. Fu colta da un ennesimo conato, ma questa volta le colò sul mento solo un filo di saliva dal sapore ripugnante. Proprio in quell'attimo, udì la voce della madre. Phyllis scuoteva violentemente la maniglia della porta. «Melissa! Apri la porta e fammi entrare!» Lei tossì, sputò nella tazza e sollevò il capo. «Lasciami stare», gemette. All'esterno, Phyllis strinse le labbra e ricominciò a bussare con forza. «Mi hai sentito? Ti ho detto di aprire!» Afferrò nuovamente la maniglia con tanta veemenza da scuotere il battente sui cardini. «Sto bene», rispose la ragazzina. «Vai via, voglio stare in pace!» Infuriata alle parole della figlia, la donna si rivolse a Teri. «Tu hai una chiave di questa porta, vero?» le domandò. La ragazza esitò. Perché Phyllis non si limitava a entrare dall'altra parte? Nel momento stesso in cui si poneva quell'interrogativo, però, seppe con certezza quale fosse la risposta: la matrigna era tanto furente da aver perso la ragione. Si affrettò nella propria stanza e, qualche attimo dopo, le porse in silenzio la chiave. Phyllis, le mani tremanti per la rabbia, armeggiò per alcuni secondi, quindi riuscì a far scattare la serratura. Spalancò la porta e si trovò davanti la figlia, accucciata sul pavimento, intenta a fissarla con le mani strette sullo stomaco. «Alzati!» ordinò. Chinatasi di colpo, la afferrò per un braccio e la trascinò in piedi. «Mio Dio, ma guardati!» sibilò. Melissa tentò di ritrarsi, ma la madre le torse il braccio, costringendola a girarsi verso lo specchio. La ragazzina rimase a fissare la propria immagine: occhi rossi e gonfi, la camicia sporca di vomito, i capelli incollati alla testa per il sudore che aveva accompagnato la nausea. «Come hai potuto fare una cosa simile?» esplose Phyllis. «Se sapevi che ti saresti sentita male, perché sei salita su quella barca?» Melissa sbarrò gli occhi per la paura. «Io non volevo...» iniziò. Ma sua madre le strinse il braccio con tale ferocia da trasformare le parole in un gemito di dolore. «Non volevi?» le fece eco con voce rauca e irridente. «E allora perché l'hai fatto?» «Io... Teri aveva detto...» «Piantala!» urlò la donna in tono stridulo. «Non tentare di dare la colpa a Teri! Non sono disposta a sopportarlo! Hai capito bene? Non accetto di sentirti accusare qualcun altro per i tuoi fallimenti!» Melissa boccheggiò sotto la stretta delle dita materne, poi avvertì una fit-
ta acutissima mentre Phyllis la faceva girare su se stessa. «Guardati i vestiti! Sono definitivamente rovinati! Togliteli!» Afferrata la camicetta della figlia con entrambe le mani, diede uno strattone al tessuto, staccando i bottoni che si sparpagliarono a terra. Con una spinta, fece poi voltare nuovamente la ragazzina e gliela strappò di dosso, gettandola in un angolo. «Ora levati quei pantaloni», ordinò, lasciando improvvisamente andare Melissa per dirigersi ad aprire il rubinetto della doccia. «Mi hai sentito?» urlò, accorgendosi che la figlia, inchiodata al pavimento, non si muoveva. Teri, che era rimasta in piedi sulla soglia osservando muta la scena, avanzò di un passo, ma la matrigna scosse la testa. «Non aiutarla!» esclamò. «Deve imparare ad assumersi la responsabilità dei suoi atti.» Le mani lungo i fianchi, la ragazza tornò immediatamente indietro. Quando lo scroscio d'acqua della doccia diventò bollente, il bagno cominciò a riempirsi di vapore. Phyllis esaminò inviperita la figlia recalcitrante. «Togliti quei pantaloni!» ripeté, la voce incrinata dalla rabbia. Con un gesto assente, Melissa armeggiò con l'allacciatura finché i calzoni non caddero al suolo; liberati i piedi, si tolse le mutandine. «Entra nelle doccia», le intimò la madre. Lei fissò la nuvola di vapore torrido che ne usciva. «È... è bollente», gemette. Phyllis ignorò la sua flebile protesta, la prese nuovamente per un braccio e glielo torse dietro la schiena. «Ti ho detto di entrare nella doccia!» gridò, spingendola in avanti. La ragazzina cercò di aggrapparsi alla cabina, ma la madre le fece perdere la presa con uno strattone, afferrandola poi per i capelli e tirandole la testa all'indietro. «No!» urlò Melissa. «Per favore, mamma, no!» Fu come se la donna non l'avesse neppure udita: la ragazzina fissò a occhi sbarrati il vapore, mentre Phyllis la costringeva sotto il getto. Poi, mentalmente, urlò una seconda volta. D'Arcy! D'Arcy, aiutami! Immediatamente, in mezzo al vapore, scorse un viso sorridente e udì la voce dell'amica. Va tutto bene, Melissa. Sono qui. Ora puoi dormire. Lei si lasciò avvolgere dalla confortante oscurità e ascoltò solo le parole dolci di D'Arcy. Ecco, così... dormi... dormi... Un attimo dopo, quando Phyllis sospinse la testa della figlia sotto l'acqua bollente, si accorse che la ragazzina si rilassava di colpo. «Rimani lì», le ordinò. Prese una spugna ruvida e una saponetta e cominciò a strofinarle
furiosamente la pelle. Melissa rimase immobile, dimentica di tutto, persa nello strano sonno in cui aveva trovato rifugio. Teri, che stava ancora osservando il macabro spettacolo dalla soglia, si accorse del cambiamento sul viso della sorellastra, notò il subitaneo rilassarsi dei suoi tratti e gli occhi bizzarramente vacui. Infine, mentre la matrigna continuava nel supplizio, si allontanò. Sorrise fra sé mentre scendeva le scale per trascorrere il resto del pomeriggio sdraiata al sole sui bordi della piscina. Era stato divertente guardare Phyllis che torturava Melissa. Quasi quanto farlo di persona. 18 «Che cosa ne pensi?» chiese Teri. Era sabato pomeriggio e si trovava nella camera di Melissa, intenta a esaminarsi con occhio critico alla specchiera dell'armadio. Avevano passato la maggior parte della mattinata cucendo gli strass al tulle dell'abito da ballo rosa (sembravano centinaia, portati espressamente da papà la sera prima, quand'era tornato a Maplecrest da New York) e ora, con il riversarsi del sole dalla finestra, l'intero vestito luccicava con una miriade di colori. «È favoloso», mormorò la ragazzina. «Metti anche la tiara.» Teri prese il diadema e se lo depose con cura sul capo, quindi afferrò la «bacchetta magica», un pezzo di legno ricavato da una vecchia scopa che Cora aveva trovato nello sgabuzzino, ricoperto di nastro rosa e sormontato da un puntale d'argento, una decorazione dell'albero natalizio offerta da Phyllis quale contributo al costume. «Ebbene?» chiese la ragazza, piroettando davanti allo specchio e toccando la spalla della sorellastra con la «bacchetta.» «È perfetto», rispose lei sorridendo. «Sarai la ragazza più bella della festa.» «Chi?» domandò il padre dalla soglia. Melissa si girò. «Guarda!» esclamò orgogliosamente. «Non è magnifica?» Charles emise un leggero fischio d'ammirazione. «La tiara è davvero stupenda. Da dove viene?» «Dal robivecchi», gli rispose Teri. «Me l'ha comprata Melissa. Io le avevo detto di non farlo, ma...»
«Ma è fantastica», la interruppe la ragazzina. «Senza la tiara, è solo un vecchio vestito. Nessuno capirebbe chi stai impersonando.» Il signor Holloway inclinò la testa. «Dunque, ora sappiamo che lei sarà la madrina delle fate. E tu?» Il sorriso di Melissa svanì. «Non... non credo verrò al ballo.» Lui si accigliò. «Che intendi dire? Perché no?» Come poteva spiegarglielo? Doveva forse dirgli di esser certa che quella sera Jeff Barnstable non si sarebbe fatto vivo? Perché avrebbe dovuto, dopo quanto era successo mercoledì pomeriggio sulla barca dei Fielding? Persino ora continuava a provare un profondo imbarazzo. Negli ultimi due giorni era rimasta a casa, restia a rischiare le occhiate di tutti coloro in cui si fosse imbattuta. Poteva immaginarsi l'atteggiamento dei ragazzi del club: avrebbero cominciato a ridere, piegandosi in avanti con le dita in gola, emettendo rumori simili ai conati e fingendo di vomitare. «Ma non lo faranno!» aveva insistito Teri quando lei le aveva spiegato il motivo per cui non intendeva andare al club e neppure sulla spiaggia. «Non è stata colpa tua se ti sei sentita male! Perché dovrebbero ridere di te?» Melissa non era stata in grado di risponderle. In che modo avrebbe potuto farglielo capire? Teri era bella, piaceva a tutti e nessuno si sognava di prenderla in giro. Lei non poteva sapere come si sentiva nell'accorgersi che la gente parlava alle sue spalle, prendendosi gioco di lei. Se non le era mai successo, non poteva sapere cosa provava. «È... è solo che preferisco non andare», disse ora al padre. «Non posso restare a casa? Per piacere!» Charles scrollò lievemente le spalle in un gesto incerto. «Beh, credo sarebbe opportuno vedere che cosa ne pensa tua madre. Dopotutto, hai ormai detto a Jeff Barnstable che saresti andata con lui.» «E infatti ci andrà di sicuro», dichiarò Phyllis dalla soglia, rivolgendo un'occhiata minacciosa alla figlia. «Non ci sarà qualche problema, vero?» Sotto lo sguardo gelido della mamma, la ragazzina si sentì improvvisamente debole. «Ma non ho niente da indossare!» si giustificò. La donna ignorò l'obiezione. «Sono certa che Teri riuscirà a trovarti qualcosa», concluse. La ragazza assentì, togliendosi la tiara e cominciando ad aprire la cerniera lampo dell'abito. «Aiutami a sfilarmi il vestito», disse alla sorella, «poi andremo in soffitta. Lassù devono esserci un sacco di belle cose.»
Dentro di sé, però, aveva già scelto da tempo il costume che Melissa avrebbe indossato quella sera. Qualche minuto dopo, mentre Teri apriva la strada verso il solaio, Melissa si ritrovò a esitare. Nella propria mente, si vedeva ancora con sin troppa chiarezza salire quelle stesse scale per poi scorgere Blackie con una corda al collo, penzolante da una trave. Ma si era trattato solo di un sogno, non di un episodio reale. Per tutta la settimana aveva continuato a ripeterselo, cercando di convincere se stessa che non era accaduto davvero. Ma quell'immagine era tanto vivida... E Blackie non era ricomparso. Persino Tag aveva infine deciso di rinunciare a cercarlo. «Non so cosa gli sia capitato», le aveva detto ieri. «Dopotutto, suppongo che tua madre possa avere ragione. Dev'essere semplicemente scappato.» Le sue fantasticherie vennero improvvisamente interrotte dalla voce di Teri. «Coraggio, vieni!» Quindi, sorridendo gentilmente come se avesse capito cosa stesse passando per la mente della sorella, la prese per mano. «Va tutto bene. Ti ricordi quando siamo salite quassù l'altro giorno? Abbiamo trovato soltanto un mucchio di roba vecchia.» Melissa respirò a fondo, poi si costrinse a respingere ogni timore. Teri aveva ragione: era soltanto una soffitta e non conteneva nulla di cui aver paura. Teri aprì la porta ed entrò, subito seguita da Melissa, che si guardò attorno e si rilassò immediatamente. Ora, con la luce del sole che si riversava dalle finestrelle, il solaio non era più spaventoso come di notte, quando l'unica lampadina lo lasciava in gran parte preda di ombre apparentemente senza fine. Adesso, solo gli angoli più remoti erano ancora bui, senza però possedere quell'agghiacciante, terribile oscurità. Melissa accennò una risatina di sollievo, che tuttavia le morì sulle labbra alla vista dell'abito sul manichino. Anche quello, però, alla soffusa luce del giorno, appariva semplicemente ciò che era: un capo d'abbigliamento smesso da tempo, posto sul manichino per qualche modifica e quindi dimenticato. «Da dove cominciamo?» chiese a Teri. La ragazza sembrava perplessa. «Tu sai cosa c'è nei bauli?» «Di tutto», rispose lei. «Si tratta per lo più di attrezzature invernali, nel caso si decida di trascorrere qui il Natale... trapunte, coperte, cose del genere, insomma.» Cominciò ad aggirarsi nell'enorme locale, osservando i
mobili vecchi e fermandosi di tanto in tanto per mostrare qualcosa alla sorellastra. «Papà continua a minacciare di volersi sbarazzare di questo ciarpame», spiegò, guardando un antiquato divano il cui logoro rivestimento aveva ormai ceduto, rivelando le molle arrugginite. «Sostiene che, se continuiamo a portare roba di sopra, la casa finirà per crollare. Questa era di mia nonna», dichiarò, indicando una poltrona malandata. «Papà dice che lei la mise quassù quando aveva la sua età e, ogni volta che il nonno voleva disfarsene, affermava di avere dei progetti per utilizzarla di nuovo.» Si mise a ridere, toccando con cautela il tessuto che si sbriciolò sotto le sue dita. «Sempre secondo papà, questi progetti durarono finché non morì. Dopo di allora, il nonno non volle più gettarla via per timore di ciò che avrebbe detto la nonna quando l'avrebbe incontrata nell'aldilà.» Teri scosse il capo. «Ma ci sono talmente tante cose! Scommetto che valgono un sacco di soldi.» Melissa scrollò le spalle, spostando lo sguardo verso l'angolo nei pressi del manichino. «Diamo un'occhiata laggiù», suggerì. «Penso che in quei bauli ci siano una quantità di vecchi oggetti.» Avvicinatasi, armeggiò con la serratura del più vicino, riuscendo infine ad aprirlo; di colpo si udì uno scalpiccio e, un attimo dopo, un topo sfrecciò all'esterno, scomparendo in una fessura tra due assi del pavimento. La ragazzina balzò indietro, si riprese dallo spavento, poi scosse il baule: quando fu certa che non ne sarebbe emerso nessun altro animaletto, cominciò a ispezionare gli scomparti. Fatta eccezione per qualche paio di scarpe dalla pelle tanto secca che aveva cominciato a squamarsi, il baule era vuoto. Il secondo fruttò un altro topo e una collezione di tovaglie di lino ingiallite e devastate dai buchi. Il terzo, al contrario, si rivelò pieno e, una volta apertolo, entrambe le ragazze rimasero a lungo in silenzio a fissarne il contenuto. «È sconcertante», osservò infine Teri. «Sembra che qualcuno sia tornato da un viaggio e non si sia mai curato di vuotarlo.» Melissa sbarrò gli occhi. «La prozia Dahlia!» esclamò. «Scommetto che era suo!» «Chi è la prozia Dahlia?» «La sorella della nonna, credo. Papà mi ha raccontato che era una persona molto bizzarra. Questa roba dev'essere sua. Partì per una crociera e scomparve nel nulla. Nessuno riuscì mai a scoprire cosa le fosse accaduto.»
Le labbra di Teri si incurvarono in un sorriso sarcastico. «Ma dai! Nessuno scompare senza lasciare tracce.» «La prozia Dahlia sì», insisté la ragazzina. «Tutti pensano che possa essersi gettata in mare. A ogni modo, sono sicura che questo fosse il suo bagaglio. Probabilmente lo hanno rispedito qui, ma nessuno lo ha mai disfatto.» Ambedue cominciarono a ispezionare il contenuto: numerosi abiti stile Anni Trenta, camicette di seta, giacche, un cappotto e parecchie paia di pantaloni. Nei cassettini che costituivano metà del baule, scoprirono un assortimento di biancheria intima, calze di seta, vestaglie e scarpe. Melissa estrasse uno dei vestiti e lo protese di fronte a sé. Teri ridacchiò. «Nessuna meraviglia che si sia suicidata», commentò, guardando il cumulo di tessuto che giaceva ai piedi della sorellastra. «Doveva essere alta più di un metro e ottanta!» La ragazzina sospirò delusa, ben sapendo che adattarle quegli abiti si sarebbe rivelata un'impresa disperata. Poi, all'improvviso, si accorse che Teri stava fissando pensierosa qualcosa alle sue spalle. Voltatasi, vide il vecchio abito bianco sul manichino e capì cosa aveva in mente la sorella. «Quello?» sussurrò. «E perché no? Potresti impersonare D'Arcy.» Melissa tentò di capire se Teri stesse scherzando. «Io non potrei mai...» cominciò a protestare. «Per quale motivo?» la interruppe la sorellastra. Subito dopo cominciò a sbottonare con cautela il vestito sulla schiena, sfilandolo poi dal manichino. «Sarà divertente. Dopo quanto è accaduto al falò, inoltre, potrai dimostrare agli altri ragazzi di non avere paura di D'Arcy. E non diremo a nes...» Tacque di colpo, accorgendosi che Melissa, gli occhi sbarrati, stava fissando le assi del pavimento fino a un attimo prima coperte dall'orlo del vestito. Accigliata, seguì il suo sguardo. Vicino alla base del manichino giaceva una logora striscia di pelle. A un'estremità, assicurata a un anello di metallo, era appesa una medaglietta di plastica, con una singola parola incisa in bianco sullo sfondo blu. BLACKIE. Tremando, Melissa raccolse il collare, quindi alzò lo sguardo sulla sorella. «Avevo ragione», mormorò. «L'ho visto davvero quassù.» Teri rimase muta per qualche minuto, quindi passò all'attacco. «E cosa
ne hai fatto del cane?» La ragazzina si sentì quasi mancare. «Fatto?» ripeté attonita. «Certo. Ma non capisci? Se davvero è stato qui e tu lo hai visto, devi per forza avergli fatto qualcosa.» Melissa scosse lentamente il capo. «N... no», balbettò. «Io... non...» Teri le prese di mano il collare. «Non ho detto che tu lo abbia fatto apposta», affermò. Quindi, come se ci avesse appena pensato, parlò di nuovo, apparentemente cercando di formulare un'ipotesi. «Forse... forse non sei stata tu. Può darsi si sia trattato di D'Arcy.» «D'Arcy?» «Per forza. Tu lo sai, non è vero, che viene da te alla sera per aiutarti quando tua madre ti lega al letto?» La ragazzina cercò di inghiottire il nodo di panico che le stava salendo alla gola e assentì a malapena. «Beh, forse è arrivata anche quella notte. Magari ti ha fatta dormire e si è occupata di Blackie. Quando poi ti sei svegliata, hai ricordato almeno parte dell'accaduto e sei salita a controllare.» «Ma io ho scorto...» «Forse non hai visto nulla. Ti sei semplicemente ricordata di ciò che ha fatto D'Arcy.» Melissa era scossa da un violento tremito, la mente in subbuglio nel tentativo di affrontare la teoria di Teri. Era davvero possibile? La sua amica poteva essere stata capace di una cosa simile? Non lo sapeva. «Che cosa devo fare?» mormorò, fissando gli occhi atterriti sulla ragazza. «Se la mamma lo scopre...» Teri la prese per mano. «Non accadrà. Se è stata D'Arcy, la colpa non è tua, non ti pare? Di conseguenza, ci comporteremo come se non fosse successo niente. Ci sbarazzeremo del collare e non ne parleremo ad anima viva.» La ragazzina ricacciò le lacrime che minacciavano di sopraffarla. «E tu faresti una cosa del genere per me?» sussurrò. «Non lo racconterai alla mamma?» L'altra sorrise. «No, naturalmente. Perché dovrei?» Prendendo con sé il vestito, guidò Melissa giù per le scale. Charles controllò l'orologio. Erano quasi le sette, ciò significava che sarebbero arrivati con almeno mezz'ora di ritardo al buffet organizzato dai Barnstable prima del ballo. Non che la cosa avesse veramente importanza:
d'estate, nessuno faceva gran caso se ci si presentava tardi alle cene in piedi. Si osservò allo specchio, sistemando la fascia nera dello smoking che aveva infine acconsentito a indossare. «Non ho la minima intenzione di mettermi in costume», aveva dichiarato in risposta ai tentativi di Phyllis di convincerlo a travestirsi da George Washington. «Userò il mio smoking e mi farò passare per un cameriere, ma mi rifiuto di spingermi oltre.» Phyllis, ben conscia di non dover insistere, aveva mentalmente cambiato marcia, optando per un costume da maschietta degli Anni Venti: non sarebbe stato elaborato quanto l'abito da sera che aveva originariamente scelto, ma perlomeno non sarebbe apparso fuori posto di fianco allo smoking del marito. Ora, udendo il suo sospiro d'impazienza e vedendolo sbirciare l'orologio per l'ennesima volta, controllò il proprio trucco e si alzò dal mobile da toilette. «Pronta», annunciò. «Non avremo più di quaranta minuti di ritardo, il che è ottimo.» Sorrise gioiosa. «Andiamo a dare un'occhiata alle ragazze?» Assieme si diressero verso la camera di Melissa, ma, proprio mentre stavano per entrare, Teri sgusciò fuori, richiudendosi la porta alle spalle. «Non potete vedere Melissa», spiegò. «Abbiamo architettato una sorpresa e vogliamo che il suo costume resti un mistero per tutti fino al momento del ballo.» Charles inarcò le sopracciglia. «Beh, questo renderà la festa più interessante», commentò. «Ma come intendete organizzarvi? Quando arriveranno Jeff e Brett si metterà addosso una coperta?» «Naturalmente, loro la vedranno», replicò la ragazza, girando su se stessa per mostrare il proprio abito al padre e alla matrigna. «Ebbene?» «Sei adorabile, tesoro», affermò Phyllis, chinandosi a baciarla su una guancia. «Sarai la regina del ballo.» Charles sorrise orgoglioso alla figlia maggiore. «E io penso che l'idea della madrina delle fate sia fantastica», aggiunse. «Sei davvero insostituibile per Melissa. Senza di te... beh», si interruppe un attimo, improvvisamente imbarazzato «... ho i miei forti sospetti che non sarebbe neppure venuta alla festa.» Lanciò un'occhiata nervosa alla porta chiusa. «Come sta?» «Benissimo. Ora andate dai Barnstable, così finiremo di prepararci.» I due adulti iniziarono a scendere le scale, ma Charles si girò di colpo. «Ho lasciato la macchina fotografica sul tavolo nell'ingresso. Non dimenticarti di fare qualche foto. Questo è il primo appuntamento di Melissa e...» «Lo so», rispose immediatamente Teri. «Me lo hai già detto tre volte. Non me ne scorderò.» Con un cenno di saluto, rientrò nella camera di Me-
lissa. La ragazzina, in slip e maglietta, stava osservando dubbiosa il vestito steso sul letto. «E se non mi va bene?» domandò. «Lo adatteremo perfettamente», la rassicurò la sorella. «E adesso guarda cos'ho trovato dal robivecchi», esclamò, aprendo una scatola che si era rifiutata di lasciar toccare a Melissa sin da quando l'aveva portata a casa dal villaggio quel pomeriggio. Infilatavi una mano, ne estrasse una lunga parrucca bionda. «E ho trovato anche il trucco adatto. Ora indossa il vestito. I ragazzi saranno qui entro un'ora.» Melissa si alzò e Teri le fece scivolare l'abito sopra la testa, reggendole poi le maniche per agevolarle i movimenti; infine, iniziò ad abbottonarglielo sulla schiena. Era un po' troppo grande, ma non esageratamente quanto il vestito che Melissa aveva trovato nel vecchio baule. La ragazza tentò di inginocchiarsi, ma cambiò idea, accorgendosi che la stoffa rosa della sua gonna si stava stropicciando. «Sali sullo sgabello», suggerì alla sorellastra. «Non posso chinarmi sul pavimento e devo fissarti l'orlo.» Melissa ubbidì. «E se si allenta?» «Non succederà. Abbiamo un sacco di spille da balia e questa gonna ha talmente tante balze che nessuno si accorgerebbe se cedesse un pochino. Resta ferma.» Cominciò a lavorare, ripiegando l'orlo di qualche centimetro e assicurandolo con un'ordinata fila di spille. Dopo un quarto d'ora si raddrizzò e mosse un passo all'indietro, esaminando attentamente il risultato. «Girati», esclamò. Diede alcuni ritocchi, poi disse a Melissa di scendere dallo sgabello. L'orlo, quasi perfettamente dritto, arrivava a un centimetro dal pavimento. «Ora occupiamoci della parte posteriore.» Teri ripiegò il tessuto, puntandolo accuratamente per evitare rigonfiamenti. «Va abbastanza bene», dichiarò infine. «Vediamo come ti sta.» Con un passo esitante, Melissa si diresse allo specchio. La lunghezza era giusta, ma il corpetto era molto abbondante e la manica sinistra continuava a scivolarle lungo la spalla. «Oh, Dio», gemette. «È spaventoso, vero?» «Beh, non è ancora il massimo, ma lasciami fare. Mettiamo qualche calza nel reggiseno!»
La ragazzina la fissò attonita. «Non possiamo...» iniziò a protestare. «Ma certo, invece! E perché no? Dove sta il problema? D'Arcy doveva avere perlomeno diciott'anni, mentre tu ne hai solo tredici.» Andò alla cassettiera e ne estrasse due paia di calze bianche, porgendole a Melissa. «Coraggio, prova!» Sentendosi stupida, lei si imbottì il reggiseno, quindi tornò a guardarsi allo specchio. Con sua grande sorpresa, il petto sembrava essersi sviluppato e, persino osservando a distanza ravvicinata, le piegoline del corpetto nascondevano completamente le calze. Ma c'era anche qualcos'altro, qualcosa che non riusciva a definire con precisione. Si sentiva diversa. Indirizzò a Teri un sorrisino malizioso. «Tu lo avevi mai fatto? Voglio dire prima di...» «Ma certo. Ho iniziato quando avevo dodici anni e tutti i ragazzi pensavano che possedessi i seni più grandi che avessero mai visto. Tranne che li avevo così solo ogni tanto. I maschi sono talmente stupidi... non si accorgono mai di niente. Forza, ora passiamo al trucco!» Melissa si sedette davanti allo specchio. «Che cosa vuoi fare?» Teri le sorrise. «Renderti carina. Ti renderò bella come dev'esserlo stata D'Arcy.» Si mise all'opera, applicando uno strato di fondotinta e aggiungendo un tocco di colore, dapprima sugli zigomi, sottolineandoli con cura in modo da farli risaltare, quindi sugli occhi, ombreggiandoli e allargandone i contorni con una matita. Mentre Melissa osservava la propria immagine riflessa, un nuovo viso cominciò lentamente a emergere. Era ancora lo stesso, eppure appariva in qualche modo cambiato: i suoi tratti sembravano aver assunto una nitidezza di cui prima erano stati privi. E si sentiva diversa anche dentro. Mentre assisteva al delinearsi di quell'immagine inedita, cominciò a percepire le crescita di uno strano senso di sicurezza interiore. Infine capì cosa stava accadendo. Non sono più io, pensò. Sto trasformandomi in qualcun'altra. Una persona... graziosa! Rimase perfettamente immobile, osando a malapena muoversi mentre la sorella lavorava. Alla fine, dopo quella che le parve un'eternità, Teri mosse un passo indietro. Lei si fissò allo specchio, quasi incapace di respirare. «È... è sconcertan-
te», bisbigliò poi. «Non mi sento neppure me stessa. Mi sembra di essere... un'altra.» «Deve essere così. Proprio questo è il bello del trucco e dei costumi: ti fanno diventare chiunque tu desideri. Intendo dire...» Suonò il campanello e la ragazza lanciò uno sguardo all'orologio sul comodino. «Oh, Dio, sono già le otto passate! Sono arrivati i ragazzi.» Porse la parrucca a Melissa. «Mettitela mentre vado ad aprire, poi torno a pettinarti.» Si precipitò fuori della stanza, lasciandola con la parrucca tra le mani, ancora intenta a esaminarsi allo specchio. A fissare il viso che non era il suo, ma possedeva qualcosa di familiare. Accennò a infilarsi la parrucca, quindi esitò, improvvisamente assalita da uno strano pensiero: una volta coperti i propri veri capelli, la trasformazione sarebbe stata completa. Le ultime vestigia del suo io sarebbero scomparse, e lei avrebbe assunto la personalità di un'altra. Di chi? Di D'Arcy? Ma l'amica non era reale, si ripeté per l'ennesima volta. Esisteva solo in una vecchia storia e nella sua stessa immaginazione. Con un profondo respiro, si sistemò la parrucca, lasciandosi ricadere sulle spalle i lunghi capelli biondi. Ora, lo specchio rifletteva il viso di un'estranea. Un'estranea familiare, però, che lei conosceva già. Prese la spazzola e cominciò a passarla delicatamente sulla chioma dorata. E di minuto in minuto avvertì che la personalità riflessa nello specchio, la personalità che non era la sua, andava guadagnando forza dentro di lei... Teri aprì la porta e sorrise a Brett Van Arsdale, che indossava un costume nero da torero con ornamenti rosa quasi perfettamente in tinta con il suo abito da madrina delle fate. «Come hai fatto a saperlo?» gli chiese. «Qualcuno ti ha messo al corrente di come mi sarei vestita?» Lui inclinò la testa. «Forse possiedo facoltà extrasensoriali.» La ragazza alzò gli occhi al cielo, quindi, accorgendosi della Porsche priva di passeggeri sul vialetto, tornò di colpo seria. «Dov'è Jeff?» Per un istante le parve di scorgere nello sguardo di Brett un'espressione colpevole. Subito, però, lui si riprese e scrollò le spalle. «Si è sentito male», rispose. «Mi ha telefonato un'ora fa per avvertirmi che stava vomitan-
do come un matto.» «Se ti stai inventando...» Il ragazzo protese le mani in un gesto di protesta. «Ehi, è forse colpa mia se Jeff non sta bene? L'ho convinto io a invitare Melissa, non ti ricordi? Questi erano i patti: se facevo in modo che lui accompagnasse tua sorella, tu saresti venuta con me. Che cosa posso farci se lui si è ammalato? Non posso mica obbligarlo a venire, non ti sembra?» Teri rifletté freneticamente. Come convincere Melissa a partecipare al ballo ora che Jeff si era dato malato? Poteva già immaginarsi i torrenti di lacrime lungo quelle stupide guance! Si sarebbe probabilmente buttata sul letto in preda a un attacco di nervi. Proprio allora, mentre si stava arrovellando, le balzò alla mente la risposta ai propri interrogativi. Tutto si sarebbe svolto esattamente come nella storia. Si rivolse a Brett. «Fammi un favore, d'accordo? Le spiegherò che si è verificato un contrattempo e che Jeff ci aspetta direttamente al club. Se non ricorro a una bugia, lei non verrà.» Lui fece una smorfia. «E con questo? Nessuno se ne curerà.» «Tu credi?» ribatté Teri con un sorriso ambiguo. «Considerato il suo travestimento, stai pur certo che nessuno vorrebbe perdersi la sua apparizione al ballo. Aspettami qui.» Si affrettò su per le scale verso la stanza della sorellastra, già intenta a mettere a punto i dettagli della frottola che stava per raccontarle. Tuttavia, quando entrò, la camera era vuota. Ispezionò rapidamente tutto il piano, poi guardò in soffitta: Melissa sembrava essere svanita dalla faccia della terra. Delusa, scese infine dabbasso, dove Brett la stava aspettando davanti alla porta. «Se n'è andata», gli spiegò. «Deve averci sentiti ed è scappata.» «Scappata?» le fece eco il ragazzo. «E dove?» «Chi lo sa? Tu la conosci: quando qualcosa la sconvolge, preferisce fuggire.» «Già», assentì lui, di nuovo sorridente mentre conduceva Teri verso la Porsche. «Forse questa volta avremo fortuna. Può darsi che non torni.» La ragazza tacque, ma, nel momento in cui la macchina si avviava lungo il vialetto, volse lo sguardo alla casa. E, come la notte in cui aveva trasportato il corpo di Blackie nella serra, credette di scorgere un movimento dietro una finestra della soffitta. Quando aveva controllato lassù, però, di Melissa non c'era neppure l'ombra.
O si era sbagliata? 19 Jeff Barnstable, sdraiato sulla schiena, stava fissando il soffitto. Il televisore era acceso, ma lui non se ne accorgeva neppure, concentrato com'era sulla musica rock che gli giungeva direttamente nelle orecchie dalle cuffie del registratore. Il suo piede destro si muoveva ritmicamente, percuotendo una batteria immaginaria. L'ultima nota si dissolse, il nastro finì e Jeff si sporse a prenderne un altro, controllò l'etichetta, quindi lo gettò nuovamente sul comodino. Alzandosi, si diresse alla finestra e rimase a fissare il crepuscolo incipiente: in lontananza, le luci del Cove Club stavano cominciando a brillare vivide sulla cima del promontorio. Corrugò la fronte nell'immaginarsi gli amici che danzavano alla musica dell'orchestra. Ciononostante, quando quella mattina si era svegliato con la prospettiva di accompagnare Melissa Holloway alla festa, la sola idea gli aveva fatto venire la nausea e, nel momento in cui aveva infine deciso di seguire il consiglio di Ken Fielding di fingere di sentirsi male, non era neppure più tanto certo che si trattasse di una bugia. Adesso però, un'ora dopo la scadenza fissata per l'appuntamento con Melissa, stava benissimo. Dopotutto, forse si sarebbe cambiato per andare alla festa. Ormai era troppo tardi per presentarsi a casa di Melissa: conoscendola, sarebbe stata nel bel mezzo di una crisi di pianto e non avrebbe più voluto essere accompagnata al ballo in ogni caso. Ridacchiò, immaginandosi alla porta di Maplecrest, tutto vestito a festa, magari addirittura con un mazzo di fiori del giardino della mamma. Lei sarebbe stata là, gli occhi rossi e gonfi, a fissarlo incredula; probabilmente gli avrebbe sbattuto la porta in faccia, offrendogli così l'opportunità di assumersi il merito di aver perlomeno tentato di portarla al ballo. E se invece l'avesse trovata seduta ad aspettarlo? A quel punto non gli sarebbe rimasta nessuna scusa per sottrarsi. Il sommesso mormorio della festa dei genitori, in corso al piano inferiore, crebbe improvvisamente d'intensità con l'aprirsi della porta della sua stanza. Si voltò e vide la madre, la schiena appoggiata al battente e il viso atteggiato nell'espressione di disapprovazione che lei adottava sempre quando lo sorprendeva a fare qualcosa di male. «Ti senti meglio?» domandò Paula Barnstable, la voce piatta, ma gli oc-
chi che tradivano l'irritazione. Jeff si avviò nuovamente verso il letto, facendo il possibile per sembrare indisposto. «Io... io avevo bisogno di un po' d'aria fresca», balbettò. «Mi sembra», enunciò lentamente la donna, «che forse tu abbia anche bisogno di dare una rinfrescatina alle buone maniere.» Il ragazzino piombò a sedere sul materasso. «Non mi sento molto bene...» iniziò. La madre non gli permise di finire la frase. «Suppongo avrei dovuto capire che stavi architettando qualcosa quando oggi pomeriggio sostenevi di stare male. Non è da te mancare a una festa, non è vero?» Jeff la guardò a disagio, ma preferì tacere. «Come credi mi sia sentita quando Phyllis Holloway mi ha detto quanto fosse stato gentile da parte tua invitare Melissa al ballo? A parte il fatto che non ne sapevo assolutamente nulla, ero anche consapevole che tu te ne stavi quassù 'ammalato'.» L'ultima parola uscì dalle sue labbra come una frustata e il ragazzo si ritrasse involontariamente, conscio di essere nei guai. «Ma stavo davvero male», tentò di giustificarsi. «Non voglio neppure ascoltarti, Jeff. Preferisco ignorare i motivi che ti hanno spinto a questo e non intendo sentire scuse. Mi interessa soltanto sapere se è vero. Hai invitato sul serio Melissa al ballo?» «S... sì, ma...» «E allora ci andrai», intimò la madre. «Non riesco a immaginare perché tu ti sia offerto di accompagnarla, ma, dal momento che l'hai fatto, manterrai l'impegno. Tralasciando l'ovvia considerazione che in quella poverina non esiste nulla di tanto grave che non possa essere curato semplicemente sottraendola al pugno di ferro di sua madre, qui si tratta essenzialmente di una questione di buone maniere.» La sua voce calò di tono, sintomo sicuro che era arrabbiata. «Non si invita una persona quando non si ha la minima intenzione di rispettare l'impegno, Jeff. Non è soltanto villano, ma soprattutto crudele e, a prescindere da quanto tu o chiunque altro possiate pensare di Melissa o di Phyllis, non hai alcun diritto di mostrarti crudele con lei.» «Ma...» Paula scosse la testa. «Niente ma. Se avessi saputo che questa sera avevi un appuntamento, avrei chiamato il medico nel pomeriggio. Se poi fosse emerso che stavi sufficientemente male da richiederlo, avrei telefonato personalmente agli Holloway per spiegare la situazione. Ma ora», proseguì, abbassando ulteriormente la voce, «se ti senti davvero poco bene, mi
dispiace per te, perché ti alzerai da quel letto, ti vestirai e andrai a prendere Melissa, la accompagnerai al ballo e non ti allontanerai mai dal suo fianco. In caso tu intenda rifiutarti, credimi, trascorrerai un'estate molto solitaria, perché per te non ci saranno più feste, giornate al club e giochi sulla spiaggia. Te ne rimarrai seduto qui a riflettere su cosa significhi mancare alla propria parola.» Senza attendere una risposta, la donna voltò le spalle al figlio e uscì dalla stanza, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé. Per alcuni istanti, Jeff restò seduto sul letto come paralizzato, mentre le parole della madre gli echeggiavano nella mente. Avrebbe dovuto immaginare che lei lo avrebbe colto in fallo: era stato uno stupido anche solo a pensare di poterla fare franca. Sospirando, si diresse all'armadio. Ormai era troppo tardi per improvvisare un costume: avrebbe indossato una giacca sportiva, cercando di farla funzionare ugualmente. Poteva già figurarsi le risate di Ken Fielding quando lo avrebbe visto arrivare con Melissa al braccio. Mentre finiva di vestirsi, però, fu assalito da un pensiero meno tetro: aveva fatto un patto con Brett Van Arsdale e, se rispettava la sua parte, anche l'amico si sarebbe visto costretto a onorare l'accordo. Fermandosi lungo il tragitto verso la porta d'ingresso per prosciugare un bicchiere quasi pieno d'aperitivo che qualcuno aveva abbandonato su un tavolino, si avviò sul sentiero che conduceva al club per farsi consegnare la Porsche da Brett. Cora sollevò il pesante vassoio di tramezzini, ancora ricoperto dalla pellicola trasparente, e uscì dalla cucina procedendo a ritroso. Una volta nella sala da pranzo, lo aggiunse agli altri tre già disposti sul grande tavolo di quercia che Tag aveva provveduto ad allungare in tutta la sua estensione. Si fermò un attimo a riprendere il respiro, quindi cominciò a disporre l'argenteria nel complicato schema a mezzaluna su cui la padrona insisteva sempre (e ispezionava puntualmente per accertarsi che fosse stato eseguito alla perfezione). Per un attimo desiderò di avere accettato l'offerta di un aiuto da parte del nipote, ma subito si disse di aver preso la decisione giusta: Tag lavorava già abbastanza sodo tutta la settimana anche senza costringerlo a trascorrere il sabato sera nei preparativi per un party cui non avrebbe neppure potuto partecipare. Lanciò un'occhiata alle porte-finestre della terrazza, rammentando a se stessa di accendere le luci prima di tornare in cucina; stava per iniziare a piegare i tovaglioli, quando le parve di udire un rumore proveniente dal
piano superiore. Si fermò, gli occhi automaticamente fissi all'insù come se potesse vedere attraverso il soffitto. Quando il suono si fece udire di nuovo, la donna si accigliò. La casa era deserta: i padroni se n'erano andati da molto tempo e così pure la Porsche di Brett Van Arsdale, che aveva scorto imboccare il vialetto appena prima di iniziare ad allestire il buffet per il party che gli Holloway avevano deciso di dare dopo il ballo. L'intero edificio avrebbe dovuto essere vuoto. Incupendosi ulteriormente nell'udire quel debole rumore per la terza volta, la domestica abbandonò i tovaglioli, si spostò nell'ingresso e cominciò a salire le scale. Giunta sul pianerottolo del primo piano, si fermò in ascolto e, puntualmente, le giunse nuovamente quel suono. Proveniva dalla soffitta. Subito fu certa di conoscere la risposta: doveva essere Tag, che approfittava dell'assenza della signora Holloway per ispezionare il solaio in cerca del cane scomparso. «Continuo a pensare che debba essere lassù», le aveva detto proprio quel pomeriggio. «Se Melissa sostiene di averlo visto, io le credo.» Cora aveva fatto del proprio meglio per dissuaderlo, parlandogli diffusamente della tendenza al sonnambulismo di Melissa. «Non intendo affatto affermare che abbia mentito», aveva concluso, «ma talvolta fa sogni tanto vividi da crederli reali.» A quanto pareva, però, non era riuscita a convincere il nipote. Ora, mentre il rumore echeggiava di nuovo al piano superiore (a quella distanza ormai lo riconosceva per un distinto suono di passi), la donna si diresse alle scale che conducevano in soffitta. In cima alla rampa trovò la porta socchiusa, ma la luce spenta. Cosa stava facendo Tag? Ispezionava il locale al buio? Ormai era quasi notte e perfino le finestre risultavano praticamente indistinguibili all'oscurità. «Tag?» chiamò. Poi, quando i suoi occhi si abituarono alle tenebre, scorse un lieve barlume di luce giallastra filtrare da un'estremità del solaio. Le labbra strette in un'espressione seccata, la domestica accese la luce e attraversò la soffitta. Il cono luminoso proiettato dalla singola lampadina svanì rapidamente con il suo avanzare, ma il bagliore di fronte a lei era ancora visibile. Sembrava provenire dalla cameretta dove aveva trovato un paio di volte Melissa, addormentata sul divano letto che costituiva quasi l'unico pezzo d'arredamento. Infine fu davanti alla porta dell'angusta stanzetta, socchiusa co-
me quella del solaio stesso. Spinse il battente, aspettandosi di vedere Tag voltarsi di colpo con espressione colpevole. Invece scorse una figura dal lungo abito bianco, intenta a fissare alla finestra l'oscurità notturna che si andava rapidamente addensando. Cora boccheggiò, portandosi automaticamente una mano al petto per calmare le palpitazioni causate da quella strana visione. La figura si voltò e, per un istante, la domestica si sentì cedere la gambe. Al bagliore intermittente di una lampada a petrolio le apparve un viso — un viso pallido come la morte — incorniciato da lunghi capelli biondi che arrivavano quasi alla vita di quell'essere sinistro. Istintivamente, la donna cercò di sostenersi appoggiandosi allo stipite della porta. Un attimo dopo, quando lo spettro prese la lampada e si mosse verso di lei, riconobbe quel volto. «Melissa?» La figura si fermò, il capo inclinato. «Cosa diavolo stai facendo?» «Sto andando al ballo», rispose infine la ragazzina. Cora rimase perplessa nel notare qualcosa di bizzarro nella sua voce: non che non fosse quella di Melissa, però era diversa dal solito. «Il ballo?» le fece eco. «Ma i ragazzi non erano passati a prendervi un'ora fa? Ho sentito la macchina...» «Non ero pronta, ma ora è venuto il momento.» La ragazzina avanzò nuovamente verso di lei e la domestica si ritrasse istintivamente, sconcertata dalla strana nota nella sua voce. Melissa la oltrepassò, ma, invece di dirigersi alla porta della soffitta, avanzò nella direzione opposta, verso le scale di servizio ormai da tempo in disuso. Cora la seguì da vicino, osservandola scendere la ripida rampa di gradini che conducevano in cucina. «Sul serio stai bene?» le chiese quando furono giunte al piano inferiore. La ragazzina era in piedi, assolutamente immobile, intenta a esaminare ciò che la circondava con un'espressione assurdamente attonita. Alle parole della domestica, si girò sorridendo, ma, di nuovo, il sorriso non era esattamente quello di Melissa, proprio come la voce. «Mi sento benissimo. Non è una notte perfetta?» Cora le si avvicinò. «Qualcosa non va», dichiarò. «Non mi sembri a posto. E come diavolo ti sei conciata? Mio Dio, sei pallida come uno spettro...»
Di colpo capì: si trattava di un travestimento per la festa in costume! Melissa aveva scelto di impersonare D'Arcy! Mentre tutta la tensione svaniva, la domestica rise sommessamente. «Beh, sei davvero uno spettacolo! Nel vederti così, sono quasi svenuta sul posto! Santo cielo, spero che nessuno ti scorga sulla spiaggia. Terrorizzeresti chiunque.» Si protese per stringerla a sé, ma, invece di accettare l'abbraccio, la ragazzina si diresse alla porta. «Non farlo», mormorò. «Spiegazzerai il mio magnifico abito nuovo.» Deposta su un armadietto la lampada a petrolio, sorrise nuovamente all'anziana donna, quindi uscì nella notte. Cora, allibita alla sue ultime parole, si affrettò ad affacciarsi alla porta. Abito nuovo? Ma di cosa stava parlando? Quel vestito era vecchissimo. E la sua voce, poi! Non assomigliava affatto a quella di Melissa. Le era parsa più adulta e bizzarramente priva di intonazione. Preoccupata, sbirciò nell'oscurità: Melissa, già ai margini del prato, era praticamente scomparsa alla vista. Ormai si scorgeva soltanto un indistinto fluttuare bianco sullo sfondo delle tenebre. La domestica esitò, incerta sul da farsi. Era forse il caso di telefonare alla signora Holloway dai Barnstable? Accantonò immediatamente l'idea, ben sapendo quale sarebbe stata la reazione della padrona nel vedersi allontanata da una festa solo perché sua figlia si stava comportando in modo strano. Si sarebbe infuriata, facendola pagare non solo a lei, ma anche a Melissa. Del resto, forse non c'era nulla di sbagliato nell'atteggiamento della piccola. Magari Melissa stava semplicemente esercitando la propria immaginazione, sforzandosi di agire come doveva aver fatto D'Arcy la notte in cui si era recata al ballo del club. Cora esaminò mentalmente i dettagli della leggenda che aveva udito per la prima volta quasi cinquant'anni prima, quando era giunta a Secret Cove. Se era proprio vero che D'Arcy Malloy aveva vissuto in quella stessa casa, allora la stanzetta in soffitta doveva essere stata la sua. E si raccontava avesse diciassette o diciott'anni all'epoca di quel tragico episodio di un secolo fa. La domestica sorrise nel rammentare il viso di Melissa. Con quel trucco bizzarro, il trucco che aveva conferito uno sconcertante aspetto spettrale, sarebbe in effetti potuta passare per una diciassettenne.
E anche la voce aveva assunto un tono più maturo. Certo, questa era la spiegazione. Melissa, presa dallo spirito del costume, stava recitando il ruolo di D'Arcy oltre a indossarne l'abito. E con ottimi risultati, si disse la donna, riaccingendosi al lavoro. È davvero riuscita a trarmi in inganno: per un minuto, avrei giurato che fosse sul serio D'Arcy. Jeff Barnstable girò la chiavetta dell'accensione e ascoltò il potente motore della Porsche prendere vita, quindi innestò la marcia e mollò il freno a mano. Rilasciata la frizione, premette il piede sull'acceleratore e i pneumatici emisero un gratificante stridore nel perdere per un istante la trazione. L'auto balzò in avanti, guadagnando rapidamente velocità sul viale che conduceva alla strada statale. Il ragazzo procedeva a quasi ottanta all'ora, quando giunse alla stretta curva di accesso alla striscia d'asfalto che costeggiava la baia; nel momento in cui cominciò a sterzare, tutte e quattro le ruote slittarono improvvisamente sulla sede stradale. Subito corresse la posizione del volante e i pneumatici riacquistarono la presa sul terreno. Rallentò nell'avvicinarsi alla statale, quindi svoltò sulla panoramica che si snodava lungo la baia fino al villaggio. Percorse una curva a gomito, spinse al massimo il motore sul rettilineo, infine rallentò nuovamente per imboccare il lungo viale d'accesso alla proprietà degli Holloway. Meno di due minuti dopo aver lasciato il club, arrestò l'auto di fronte alla villa, salì di corsa i gradini della veranda e suonò il campanello. Non ottenendo risposta, suonò una seconda volta, poi udì la voce attutita di Cora Peterson che chiamava dall'interno. «Un attimo di pazienza, sto arrivando!» Finalmente la porta venne socchiusa, la domestica sbirciò fuori, aprì del tutto il battente, ma rimase in silenzio. «Melissa è qui?» chiese allora Jeff. «Sono venuto a prenderla.» La donna fece una smorfia. «A prenderla?» ripeté. «Beh, sei un pochino in ritardo, non ti sembra?» Il ragazzo si sentì avvampare le guance e sperò che non si notasse alla luce della veranda. «Per... per prepararmi ho impiegato più tempo del previsto e dopo ho dovuto farmi dare la macchina da Brett.» Gli occhi di Cora si spostarono sulla Porsche. «E da quando hai l'età giusta per guidare?» domandò. «Ho il foglio verde. E comunque tutti i ragazzi guidano, qui attorno. La polizia non ci bada.»
«Forse no, finché non ti acchiappano», replicò la domestica. «A ogni modo, non credo abbia importanza, visto che Melissa se n'è andata.» «Andata? Cosa vuol dire?» «È uscita cinque o dieci minuti fa, vestita in costume.» Guardò Jeff con aria sospettosa. «Non si comportava come se si aspettasse di venire accompagnata.» Il ragazzo deglutì nervosamente, chiedendosi se fosse il caso di provare a raggiungerla. Se fosse arrivata al club senza di lui... Ma non tutto era perduto. Quando era uscito di casa, la festa della mamma non era ancora terminata e solo alcuni ospiti avevano cominciato a trasferirsi al club. Rimaneva un po' di tempo per risalire in macchina e andare a cercare Melissa. «Da che parte si è diretta?» domandò. Cora scrollò le spalle. «Come faccio a saperlo? Suppongo abbia preso la strada del bosco. Dubito abbia preferito passare dalla spiaggia, rischiando di sporcarsi il vestito.» «D'accordo», concluse Jeff, scendendo i gradini. «La troverò.» Lasciando la porta aperta, la domestica uscì sulla veranda. «Per prima cosa, vai a restituire quell'auto. Non voglio che la mia piccola giri con un principiante che non ha ancora imparato a guidare.» «So il fatto mio», ribatté il ragazzo, infilandosi dietro il volante della Porsche. Mise in moto, eseguì una lenta retromarcia, quindi, tanto per esibirsi, pigiò sull'acceleratore sollevando un'ondata di ghiaia con le ruote posteriori. Ridendo alla vista di Cora che agitava uh pugno nella sua direzione, sfrecciò lungo il vialetto alla volta della strada principale. Melissa, gli occhi sbarrati e fissi, procedeva attraverso il bosco, la gonna sollevata in modo da non sporcare l'orlo dell'abito. Ora, la strana sensazione che aveva cominciato ad assalirla quando aveva indossato il vestito (e che si era rafforzata mentre Teri modificava il suo viso con il trucco) si era saldamente impadronita di lei. Non era assolutamente più Melissa. La ragazzina stava dormendo in qualche punto della profondità del suo essere e, adesso, era D'Arcy a dirigersi al ballo. Tutto le appariva strano. Aveva a malapena riconosciuto Cora e, quando era scesa in cucina, ogni cosa le era sembrata diversa, un po' consumata dal tempo. La ghiacciaia era scomparsa e, al suo posto, aveva visto un bizzarro scatolone bianco di metallo. Anche l'illuminazione le era parsa diffe-
rente, più intensa di quanto ricordasse. Era stata lieta di uscire dalla casa per rifugiarsi nella familiare oscurità esterna, imboccando immediatamente la strada nel bosco. Lì, tutto era esattamente come se lo rammentava: il sentiero soffice e spugnoso sotto i piedi, ogni curva e deviazione identica a come era sempre stata. Proprio allora, attraverso gli alberi, intravide la sagoma del Cove Club. Al pari della cucina qualche minuto prima, le sue luci erano assai più vivide del consueto. Continuò ad avanzare, arrivando a una svolta che le era conosciuta: il sentiero aveva una biforcazione, sovrastata dalla strada. Fissò incerta la deviazione per qualche tempo, senza avere la minima idea di dove potesse condurre. Se fosse risalita sulla strada, però, il club si sarebbe trovato a non più di tre minuti di cammino. Jeff rallentò, sterzando nell'ultima curva prima del breve rettilineo che portava sulla strada costiera. Improvvisamente, alla luce dei fari, gli apparve una figura vestita di bianco che camminava sul ciglio. Per un istante gli balzò alla mente la storia di D'Arcy, ma subito si rese conto che doveva trattarsi di Melissa, diretta al club. Ridusse la velocità al minimo, aspettandosi di vederla voltarsi da un momento all'altro; quando invece si accorse che lei continuava a guardare dritto davanti a sé, gli venne un'idea. Se avesse spento le luci, avanzando inosservato, e poi si fosse di colpo accanito sul clacson... Spenti i fari, rallentò ulteriormente finché il motore non fu quasi silenzioso. Infine, a meno di tre metri dalla pallida figura sul bordo della strada, premette con forza sul clacson, riaccendendo immediatamente le luci mentre la ragazzina sobbalzava e si girava di colpo. Jeff boccheggiò. Non era affatto Melissa. Al suo posto, vide un volto spettrale che lo fissava, un viso incorniciato da capelli biondi lunghi fino alla vita. Il ricordo della storia sul fantasma lo assalì nuovamente e, senza riflettere, premette l'acceleratore a tavoletta, facendo ruggire il potente motore. L'auto scattò in avanti, le ruote urlanti sull'asfalto, e Jeff smise di guardare la strada di fronte a sé per inchiodare gli occhi sullo specchietto retrovisore. La grottesca figura in bianco era ancora là dietro, sempre intenta a fissarlo. Il ragazzo distolse l'attenzione dall'immagine riflessa e rimase impietrito
dall'orrore nell'accorgersi che il guardrail della strada costiera si ingigantiva sul parabrezza, a meno di una ventina di metri da lui. Un urlo di terrore gli salì alla gola, il suo piede lasciò l'acceleratore per schiacciare a fondo il pedale del freno. Di nuovo, i pneumatici stridettero mentre le ruote si bloccavano di colpo, facendo sbandare la macchina. Un attimo dopo la Porsche urtò con violenza il guardrail metallico, svellendolo dai piloni di cemento. L'auto superò il bordo del promontorio, parve librarsi nell'aria per un solo, angoscioso secondo, quindi precipitò verso il basso. Nella caduta si capovolse e per un terribile attimo Jeff rimase a guardare le rocce che sembravano venirgli incontro a tutta velocità. Al momento della collisione, il ragazzo si sentì il parabrezza esplodergli sul viso... Melissa, ridestata improvvisamente dal suono del clacson, fissò la Porsche che frantumava il parapetto e scompariva oltre il promontorio. Per un istante rimase impietrita, senza capire dove si trovasse o come vi fosse arrivata. L'ultima cosa che riusciva a ricordare era di trovarsi nella propria camera, mentre si infilava la parrucca davanti allo specchio. E fissava un viso che non le apparteneva. Ora, però, finalmente tornata in sé, sapeva di chi fosse quel volto. Di D'Arcy. Quella sera, una volta indossati il vestito e la parrucca, a trucco ultimato, l'amica era venuta spontaneamente da lei. E, appena arrivata, l'aveva fatta addormentare. Melissa osservò intorpidita i resti accartocciati del parapetto, sforzandosi di rammentare cosa fosse accaduto. Ma la sua mente era vuota, fatta eccezione per lo schianto che l'aveva svegliata e per l'immagine della macchina che la oltrepassava a tutta velocità. Un'automobile nera. Come quella di Brett Van Arsdale. Con un gemito strozzato, si sollevò la gonna e corse fino al luogo del disastro. Attonita, rimase a scrutare l'oscurità sottostante: sulle rocce, appena fuori portata dell'infrangersi delle onde, poteva a malapena distinguere i rottami della macchina. Incapace di trattenere un grido d'orrore, si voltò mettendosi a correre verso le vivide luci del Cove Club.
20 Phyllis sostò nei pressi della piscina, alzando lo sguardo sull'edificio del club vivacemente illuminato in cima al promontorio. Le era dispiaciuto molto andarsene presto dalla festa dei Barnstable, ma alla fine non era stata capace di resistere all'impulso di trasferirsi lì per accertarsi che tutti i suoi accurati progetti avessero funzionato. Ora, mentre le note della musica si diffondevano dalle finestre aperte e riempivano di dolce melodia la tiepida serata estiva, cominciò a rilassarsi. L'orchestra era finalmente arrivata e si notavano già alcune coppie in costume danzare sulla pista. «Guarda», disse a Charles, prendendolo sottobraccio. «Vedi quei lampioncini giapponesi? Sono stata io a farli mettere su ogni singola lampadina dei lampadari. E guarda che luce!» Il marito sorrise, in parte per l'arcobaleno di colori che sfolgorava sul soffitto bianco della sala da pranzo, in parte per l'evidente gioia di Phyllis davanti all'effetto luminoso da lei creato. Fino a quel momento, perlomeno, sembrava che il ballo si sarebbe rivelato un successo. «Non stiamo qui fuori», disse, muovendo un passo in avanti. «Entriamo.» Condusse la moglie su per le scale della terrazza, ma all'improvviso sentì le sue dita stringergli il braccio. La guardò con aria interrogativa. «Continuo ad avere una strana sensazione», spiegò lei, esitando sulla soglia del club. «Non riesco ad allontanare l'orribile presentimento che qualcosa andrà male.» «È normale, ma si tratta solo dei tuoi nervi. Del resto, anche se non tutto fosse perfetto, ormai non puoi farci più nulla. Qualsiasi cosa accada, inoltre, non potrà mai essere peggio dell'anno in cui la festa fu organizzata da Eleanor Stevens.» Phyllis gemette. «Non ricordarmelo.» «Ma certo che te lo ricordo», rispose lui, scoppiando a ridere fragorosamente. «Cosa potrebbe esserci di peggio del crollo dell'intero tavolo dei rinfreschi? Soprattutto quando il personale al completo ti aveva avvertito che sarebbe successo? Eleanor poteva prendersela solo con se stessa, e devo dire che l'espressione sulla sua faccia ha fatto sì che valesse la pena di patire quel disastro.» Quasi a prescindere dalla propria volontà, lei si ritrovò a unirsi alla risata del marito. Poteva ancora vedere Eleanor fissare inorridita quel caos, quindi guardarsi attorno in cerca di qualcuno su cui far ricadere la colpa. O-
vunque posasse gli occhi, però, gli invitati sembravano capaci unicamente di esaminarsi allibiti i costumi rovinati. Infine, nel silenzio totale caduto sulla sala, si era udita la voce del marito di Eleanor: «È questa la tua idea di sfondare con una festa, tesoro?» La poveretta, rimasta senza parole forse per la prima volta in vita sua, era fuggita dal club e non si era fatta più vedere per un'intera settimana. «Hai ragione», ammise Phyllis. «Niente potrebbe essere peggio di quello.» Con Charles al fianco, entrò nell'edificio, porgendo lo scialle alla guardarobiera. Infine, con un ultimo brivido di ansia, oltrepassò i battenti della sala da ballo. Subito ispezionò rapidamente l'allestimento. Una serie di tavolini erano stati disposti lungo il perimetro del locale, ciascuno decorato con un perfetto bouquet di rose e tre alte candele; sul lato destro troneggiavano i tavoli con gli antipasti, mentre poco più in là era allestito il bar, fronteggiato da un banco che offriva solo bibite analcoliche. La sala era già quasi piena e Phyllis sorrise osservando la quantità di figure in costume che volteggiavano sulla pista: c'erano angeli e diavoli, tre conigli, parecchi vagabondi e persino uno spaventapasseri, che proprio in quel momento stava perdendo un po' di paglia dalla gamba sinistra dei pantaloni. Al centro della folla, intenta a danzare con Brett Van Arsdale, scorse Teri e strinse nuovamente il braccio del marito. «Eccola», bisbigliò. «Te lo avevo detto che sarebbe stata la più bella in assoluto.» Charles guardò la figlia maggiore muoversi con grazia al ritmo del valzer suonato dall'orchestra e concluse che la moglie aveva davvero ragione. L'abito rosa, che solo qualche ora prima appariva logoro e malandato, adesso sfavillava per effetto degli strass, che coglievano ogni raggio di luce emessa dai lampadari per poi rifletterla in un arcobaleno in cui la ragazza era immersa mentre piroettava sulla pista. Accorgendosi improvvisamente della presenza del padre e della matrigna, Teri smise di ballare e si affrettò verso di loro, gli occhi brillanti quasi quanto il vestito. «Non è tutto splendido, papà?» esclamò. «Non sei fiero di Phyllis?» Il sorriso dell'uomo si allargò. «Ma niente di tutto questo è magnifico come te», rispose, esaminando nuovamente la sala. «Dov'è tua sorella? Non so quanto potrò ancora resistere senza vedere la grande sorpresa.» Gli occhi della ragazza persero parte del loro luccichio. «Non... non è ancora arrivata», balbettò. Phyllis si accigliò di colpo. «Ma Jeff non doveva venire a prenderla as-
sieme a Brett?» Teri rifletté freneticamente: se la matrigna ignorava che Jeff aveva tentato di piantare in asso Melissa... «E lo ha fatto», affermò con voce che non tradiva minimamente la menzogna. «Solo che lei non era pronta, così noi siamo venuti prima e Jeff è tornato a prelevarla con l'auto di Brett.» «Jeff?» si incupì Charles. «Ma è ancora troppo giovane per avere la patente!» La ragazza atteggiò il viso a una maschera di preoccupazione. «Davvero? Io... se soltanto l'avessi saputo...» «Invece non lo sapevi», la rassicurò immediatamente Phyllis. «Sono certa che andrà tutto bene. Non sono neppure due chilometri da qui alla villa e Jeff sarà prudente.» Si voltò verso il marito. «Del resto, visto che se n'è già andato, non c'è più nulla da fare, non ti sembra? Probabilmente staranno ormai per arrivare.» Lui non parve affatto convinto. «Penso farei meglio a telefonare...» cominciò. Ma la moglie lo prese per mano, trascinandolo verso la pista. «Io, invece, credo faresti meglio a ballare con me. Se non arrivano entro cinque o dieci minuti, allora inizieremo a preoccuparci.» Gli scivolò fra le braccia e, dopo una breve esitazione, Charles la fece volteggiare tra la folla. Cinque minuti dopo, mentre le ultime note della musica svanivano e il clamore delle voci si alzava nuovamente attorno a lei, Phyllis gli sorrise. «Ce l'ho fatta!» sussurrò in modo che solo il marito potesse udirla. «Mi hai sentito? Persino Eleanor Stevens ha dovuto ammettere che questo è il più bel ballo di mezza estate mai organizzato al club. E la festa della Luna d'Agosto sarà anche migliore. Ci ho già riflettuto e penso che quest'anno lascerò perdere tutti i colori autunnali. Sono un tale luogo comune e...» Smise di colpo di parlare, accorgendosi che il ronzio delle voci in sottofondo era cessato; si guardò attorno per scoprire cosa avesse distratto gli invitati dalla loro conversazione e per un attimo non notò nulla. Infine, rendendosi conto che tutti fissavano la porta, si voltò. E boccheggiò. In piedi sulla soglia stava una figura bizzarra vestita di bianco. Phyllis la osservò con sguardo inespressivo, ricavando l'impressione che assomigliasse a uno spettro emerso dal passato. Si trattava di una ragazza che indossava un abito bianco fuori moda, con lunghi capelli biondi che le nascondevano parzialmente il viso. Quel poco del volto rimasto visibile, però, era mortalmente pallido e rigato di lacrime. Infine, mentre il fiato le si
mozzava in gola, la donna riconobbe quel vestito. Lo aveva visto solo una settimana prima, su un manichino nella propria soffitta. E ora era addosso a sua figlia, che restava assolutamente immobile sulla soglia, fissandola con occhi pieni di lacrime. Phyllis si sentì morire. Aveva avuto ragione: finora tutto si era svolto in modo troppo perfetto, tutto stava procedendo troppo liscio. Avrebbe dovuto capire sin dal principio quale fosse la fonte del brutto presentimento che l'aveva assalita poco prima. Melissa. Ancora una volta sua figlia l'avrebbe umiliata, e proprio nell'unica circostanza che aveva sperato costituisse il proprio momento di gloria. Strinse con forza il braccio del marito e parlò con voce divenuta un impercettibile sibilo che emergeva a fatica dai denti stretti. «Fai qualcosa!» gli intimò. «Non puoi...» Ma era ormai troppo tardi. Melissa si animò di colpo, mettendosi a correre tra la gente che era rimasta attonita a fissarla e ora si ritraeva al suo passaggio quasi temesse persino di venire sfiorata. Ignorando la madre, la piccola si gettò fra le braccia del papà. «Missy?» mormorò Charles. «Tesoro, che cos'è successo?» «U... una macchina», balbettò lei, guardandolo in viso con aria implorante. «È uscita di strada», proseguì con voce tremante, sforzandosi di ricacciare i singhiozzi. «Non è stata colpa mia! Non ho fatto niente...» Le sue parole furono improvvisamente soffocate da una crescente ondata di esclamazioni, quindi la folla degli invitati cominciò a muoversi precipitosamente verso la porta. «Che macchina?» domandò Charles. Melissa, sconvolta, deglutì. «Un'auto nera.... come quella di Brett.» Phyllis sussultò. «Brett?» ripeté. «Ma tu non eri...» Il marito la interruppe bruscamente. «Non ora», interloquì in tono tanto pressante da ridurla al silenzio. «Cerchiamo di scoprire cos'è accaduto.» Tenendo la figlia stretta per mano, voltò le spalle alla moglie e avanzò fra la gente in direzione dell'uscita. La scena al di sopra della spiaggia rocciosa su cui giaceva la macchina fracassata di Brett Van Arsdale possedeva una nota surreale. Numerose auto con i fari accesi erano allineate sul bordo della strada e sembrava essere in pieno svolgimento un grottesco balletto di individui stranamente abbi-
gliati. Gli ospiti della festa, infatti, ancora in costume, si spostavano da un punto all'altro, bisbigliandosi a vicenda le ultime notizie prima di procedere oltre, serpeggiando dentro e fuori dalle bizzarre pozze di luce create dai fanali dei veicoli. Melissa, momentaneamente a occhi asciutti, si stringeva al padre, che le aveva circondato le spalle con un braccio in gesto protettivo. «Non Jeff», sussurrò. «Non può essere lui... Era la macchina di Brett...» La voce le morì in gola mentre si sforzava di accettare l'accaduto. Non era vero, non poteva esserlo. Jeff era l'ultima persona cui avrebbe desiderato nuocere. Tentando di reprimere i singhiozzi, si rannicchiò ancor più contro il padre. Dal club era stato portato sul posto un riflettore, collegato tramite un lunghissimo intrico di cavi alla cabina elettrica più vicina. La sua potente lampada alogena gettava un violento fascio di luce bianca sulla spiaggia, dove sette persone stavano lavorando freneticamente per estrarre Jeff Barnstable dai rottami della Porsche. «Vado giù», dichiarò Charles, ritirando la mano dalla stretta della figlia. «No!» protestò lei. «Per favore, non lasciarmi sola!» «Ma non sei sola. Tua madre e Teri sono qui con te. Starai bene.» Prima che Melissa potesse aggiungere altro, si allontanò velocemente, cominciando a scendere lungo il ripido pendio del promontorio sul medesimo sentiero percorso pochi minuti prima dai poliziotti e dagli infermieri dell'ambulanza; giunto infine ai piedi della scoscesa scogliera, si fece strada con cautela attraverso l'intrico di pozze d'acqua, finché non arrivò accanto all'auto contorta. Uno degli agenti alzò lo sguardo e lo salutò con un cenno del capo. Charles lo riconobbe solo un attimo dopo, quando il viso dell'uomo entrò nel fascio di luce proiettato dal riflettore: Tom Mallory era cresciuto a Secret Cove, arruolandosi nella polizia appena terminato il liceo. «Com'è la situazione?» gli chiese. «Ce la farà?» Mallory scosse la testa. «Stiamo ancora lavorando, signor Holloway, ma le sue condizioni non sembrano buone. Ha il torace molto danneggiato e si pensa che probabilmente si sia spezzato anche la spina dorsale.» Charles distolse gli occhi dall'agente. Un uomo munito di una fiamma ossidrica era inginocchiato di fianco alla portiera del posto di guida, intento a tagliare la lamiera accartocciata il più rapidamente possibile. La marea stava alzandosi e, proprio in quel momento, un'ondata si infranse sulle rocce, riversando sulla terraferma una cascata d'acqua spumeggiante che imprigionò momentaneamente il tetto dell'auto. Charles si sentì stringere il cuore udendo un suono smorzato proveniente
dall'interno della Porsche. «Gesù», mormorò, «non mi direte che è cosciente, vero?» «Non ne siamo certi», rispose Mallory. «Forse lo è, ma a malapena. Si è lamentato un paio di volte, però ignoriamo se abbia sentito quanto gli abbiamo detto.» La voce dell'agente si fece cupa. «Se non riescono a tirarlo fuori entro qualche minuto, sarà troppo tardi. La marea sta salendo rapidamente.» «Perché non spostiamo la macchina?» «Abbiamo già provveduto in questo senso, signor Holloway. Un carro attrezzi è in arrivo, ma non siamo certi che serva a qualcosa. Quello di cui avremmo davvero bisogno è una gru per sollevare i rottami verticalmente.» «Allora fatela venire», esclamò Charles, usando inconsapevolmente un tono che indicava chiaramente all'altro la sua intenzione di venire immediatamente obbedito. L'agente sbuffò con impazienza. «Crede che non ci abbiamo provato? La gru più vicina, però, si trova a oltre trenta chilometri da qui. La stanno comunque portando, ma arriverà troppo tardi. O lo estraggono dall'auto nei prossimi dieci minuti, oppure...» Sollevò le spalle in un gesto di impotenza. In quel momento uno degli infermieri lo chiamò con urgenza. «Mallory, adesso è senz'altro cosciente. Penso stia cercando di comunicarci qualcosa.» Il poliziotto si spostò rapidamente di fianco ai rottami, chinandosi in modo da avvicinare la testa al finestrino. Alle sue spalle, incurante dell'acqua che gli bagnava i piedi, anche Charles si accucciò. «Jeff?» mormorò. «Sono io... sono...» Mallory lo mise a tacere con un'occhiata. «Andrà tutto bene, figliolo», affermò con voce bassa e calma, senza la minima traccia della tensione evidente fino a pochi secondi prima, mentre discuteva con Holloway. «Ti tireremo fuori, Jeff. Rimani tranquillo e ti porteremo via di qui fra qualche minuto.» Il ragazzo sbatté le palpebre, quindi aprì gli occhi e, per quanto il suo viso fosse in ombra, Charles ebbe l'immediata e incrollabile impressione che sapesse già di essere in procinto di morire. Lo sguardo di Jeff si posò per un istante su li lui, poi tornò sul poliziotto. Un'altra ondata eruppe dal mare, allagando la spiaggia rocciosa. Charles si sentì invadere da una sensazione frustrante di impotenza quando l'acqua
entrò nella macchina, alzandosi pericolosamente, minacciando di sommergere il naso e la bocca del ferito, prima di ritirarsi improvvisamente. Dopo il riflusso dell'onda, Tom Mallory asciugò delicatamente il viso di Jeff con un fazzoletto. Aperti nuovamente gli occhi, il ragazzo mosse le labbra ed entrambi gli uomini si sporsero in avanti. Per un secondo non vi fu che silenzio. Quindi, con l'arrivo di una nuova ondata, una sola parola uscì dalla bocca di Jeff Barnstable. «D'Arcy...» Parve quasi un sospiro, e Charles credette (o immaginò) di vedere il ragazzo rabbrividire lievemente. L'acqua salì di colpo, invadendo i rottami e ricoprendo completamente il viso del malcapitato. Charles si ritrovò a trattenere il respiro assieme a Jeff, preparandosi a udire l'accesso di tosse che avrebbe devastato quel corpo già spezzato non appena l'acqua avesse receduto. Quando infine l'auto si svuotò, non ne provenne alcun rumore e per parecchi, interminabili secondi i due uomini fissarono muti gli occhi spenti del ragazzo. «È morto», mormorò Tom Mallory, infilando un braccio nel finestrino per abbassargli le palpebre. Drizzatosi in piedi e impartito l'ordine di cessare le operazioni con la fiamma ossidrica, l'agente si avviò a passi lenti verso la base del promontorio. Prima di risalire il pendio, però, si voltò a fronteggiare Charles. «Ha sentito cos'ha detto?» Lui esitò, poi assentì con riluttanza. «D'Arcy.» «D'Arcy», ripeté il poliziotto. «Qualche idea su cosa intendesse?» «Penso di sì. Vorrei tanto non fosse così, ma credo di aver capito.» Sentendosi di colpo intorpidito, seguì Mallory fino alla strada, dove lo attendeva la famiglia. Guardò subito Melissa, in piedi nel punto esatto in cui l'aveva lasciata. «Coraggio, tesoro», sussurrò, abbracciandola e tenendola stretta per un attimo. «Ti porto a casa.» Mentre conduceva la figlia lontano dalla folla improvvisamente ammutolita, un urlo lacerò il silenzio della notte. Paula Barnstable aveva appena appreso che il proprio unico figlio era morto ed era stata informata della sua ultima parola. «D'Arcy.» Teri MacIver, che era rimasta quieta ad ascoltare e osservare tutto quan-
to era accaduto dal momento in cui Melissa aveva fatto la propria inattesa comparsa nella sala da ballo meno di un quarto d'ora prima, sorrise impercettibilmente fra sé. L'estremo messaggio di Jeff, ne era certa, sarebbe bastato. Aveva ormai notato come la gente stesse cominciando a guardare la sorella. Tutti sapevano che D'Arcy non esisteva. C'era soltanto Melissa Holloway. E proprio lei sarebbe stata ritenuta responsabile della morte di Jeff Barnstable. Il sorriso di Teri si allargò nell'oscurità, ma nessuno se ne accorse. Però, stranamente, lei ebbe di nuovo la bizzarra sensazione di essere osservata. Si girò, ispezionando le tenebre attorno a sé. Non c'era assolutamente nessuno. Eppure, quell'impressione di occhi invisibili che spiassero dentro di lei continuava a persistere. Con un brivido, si allontanò in fretta dalla scogliera sull'oceano. 21 «È convinto che sia pazza.» La voce di Phyllis, resa instabile da incrinature che riflettevano chiaramente lo stato in rapido deterioramento dei suoi nervi, ruppe il silenzio piombato nella biblioteca degli Holloway subito dopo l'uscita di Tom Mallory. Erano ormai le undici passate e il poliziotto si era trattenuto lì per oltre un'ora, ricapitolando con estenuante ripetitività il frammentario racconto di Melissa. Phyllis aveva ascoltato in silenzio, ma solo dopo aver obiettato all'arrivo dell'agente che la figlia non avrebbe detto nulla finché non fosse sopraggiunto l'avvocato di famiglia. «Non lo ritengo affatto necessario», si era opposto Charles. «A parte il fatto che si dà il caso che io sia un legale...» «Specializzato in diritto societario», lo aveva bruscamente interrotto lei. Il marito, però, l'aveva semplicemente ignorata. «... il punto della questione è che Melissa non si trovava a bordo dell'auto. L'agente Mallory vuole soltanto che lei gli spieghi quanto ha visto.» La ragazzina aveva fatto del proprio meglio, ma, al termine del suo resoconto dell'episodio, nessuno ne seppe molto più di prima. «Tutto quello
che riesco a ricordare è di aver udito il suono di un clacson. Mi sono girata e la macchina mi ha superata a tutta velocità, finendo oltre il parapetto.» «Ma tu cosa stavi facendo laggiù?» aveva domandato Phyllis. Melissa indossava ancora il vecchio vestito bianco, ma il suo viso era stato ripulito dal trucco che le aveva conferito un pallore mortale. Si era agitata a disagio nella propria sedia, gli occhi fissi al pavimento. «Non lo so», aveva sussurrato. «Non lo sai?» si era meravigliata la madre. Melissa aveva scosso il capo con aria infelice. «Ero nella mia camera a prepararmi per la festa, ho infilato la parrucca e...» La sua voce si era spenta, mentre una lacrima le rigava una guancia. «È come se mi fossi addormentata. Non ricordo più nulla fino al momento in cui Jeff ha suonato il clacson.» Ora, dopo che Mallory se n'era andato, Phyllis fissò irosamente la figlia. «Stavi di nuovo camminando nel sonno, vero?» Quando lei non rispose, insisté in tono duro: «Vero?» Melissa volse lo sguardo verso il padre, implorando il suo aiuto. «Perché per stasera non lasciamo perdere?» suggerì Charles, lanciando deliberatamente un'occhiata all'orologio. «Dopo quanto ha passato, non puoi aspettarti...» «Passato?» esclamò Phyllis con voce stridula. «Lei? E Jeff Barnstable allora? Mia figlia decide di vestirsi con quello», si inceppò per un attimo, guardando con astio l'abito bianco, «quello straccio, se ne va a passeggio e lo spaventa a morte! Perché?» chiese, voltandosi di colpo verso la ragazzina e chinandosi fino a trovarsi a pochi centimetri dal suo viso. «Cosa ti è preso? Come hai potuto farmi questo?» «Io...» cominciò Melissa, ma fu subito sopraffatta dalla paura e dalla confusione e si coprì il viso con le mani. «Ora basta, Phyllis!» sbottò Charles. «Smetti di tormentarla! Per amor del cielo, non riesci a pensare a qualcun altro oltre a te stessa una volta tanto? E Melissa? E Paula Barnstable, che ha perso l'unico figlio?» La donna si girò di scatto, gli occhi colmi di furia. «Certo, Jeff è morto! E potrebbe essere stato ucciso da nostra figlia! Ti è tanto difficile afferrare un fatto così elementare? Non ha nessuna importanza quanto è accaduto laggiù, ma solo ciò che ne penserà la gente. E adesso ti dico io cos'è successo!» Abbassando improvvisamente la voce, iniziò a pronunciare ogni parola con chiarezza esagerata, come se si stesse rivolgendo a un bambino di tre anni. «Jeff ha creduto di vedere D'Arcy ed è rimasto atterrito al pun-
to da uscire di strada. E Melissa, nostra figlia, era camuffata da spettro! Lo capisci? Sono sufficientemente chiara? Saremo fortunati se, da queste parti, qualcuno avrà voglia di parlare ancora con noi!» Charles, le vene della fronte in rilievo, sollevò una mano. «Basta!» ruggì. «Non credi che Melissa stia abbastanza male anche senza venire accusata dalla propria madre di...» Si trattenne dal terminare la frase, tacendo nello sforzo di controllare l'ira che provava nei confronti della moglie. «Adesso andiamo a dormire», annunciò infine. «Per stasera non intendo più udire una sola parola sull'argomento.» Fissò la donna con insistenza. «È chiaro?» Phyllis aprì la bocca per un istante, quindi la richiuse, le labbra ridotte a una linea sottilissima e le narici frementi per la rabbia a malapena contenuta. Presa Melissa per mano, la fece alzare dalla sedia e cominciò a condurla fuori dalla stanza. «Dove stai andando?» le domandò subito il marito. «A metterla a letto», rispose lei in tono gelido. «Non è quello che volevi?» Senza attendere una risposta, si rivolse a Teri, che era rimasta seduta accanto al caminetto, ascoltando in silenzio il litigio fra il padre e la matrigna. «Credo di aver bisogno d'aiuto.» Immediatamente la ragazza la seguì fuori della biblioteca. Dieci minuti dopo, mentre la madre e la sorellastra la osservavano, Melissa lottò per liberare le braccia dalle maniche del vestito. Teri si mosse per darle una mano, ma venne subito bloccata da Phyllis. «Lascia che lo faccia da sola. Non può continuare per tutta la vita ad aspettarsi che gli altri lavorino al posto suo. A tredici anni, il minimo che ci si possa attendere da lei è che sappia svestirsi per conto proprio!» La ragazzina armeggiò con i bottoncini di madreperla dei polsini e finalmente riuscì a slacciarli; liberate le braccia, l'abito cadde sul pavimento. Phyllis lo guardò con disgusto, quindi si volse verso Teri. «Tesoro, ti dispiacerebbe sbarazzartene?» Lei lo raccolse. «Cosa devo farne?» «Non mi importa affatto, basta che nessuno di noi lo veda mai più. Mettilo nel bidone della spazzatura, così Cora lo brucerà domattina.» Teri esitò, parve sul punto di parlare, poi evidentemente cambiò idea, uscendo dalla stanza con il vestito. Quando furono sole, la donna si girò verso Melissa. «Mettiti il pigiama e infilati a letto. Tornerò fra un attimo.» La ragazzina fissò la madre con occhi sgranati, un gelido nodo di paura
che già le stringeva lo stomaco. «Dove stai andando?» Phyllis le sorrise freddamente. «A prendere le cinghie, naturalmente.» «Ma...» «Poco fa non hai forse dichiarato di aver camminato nel sonno?» «No!» protestò lei. «Non ho dormito! Io...» Tacque di colpo. Come poteva spiegare alla mamma quanto era accaduto? Riusciva già a figurarsi la sua espressione se avesse cercato di spiegarle ciò che aveva provato mentre si preparava per il ballo. Quando le era parso di trasformarsi in qualcun'altra. «Chi?» avrebbe domandato sua madre. E se solo si fosse azzardata a nominare D'Arcy... Accantonò istantaneamente quel pensiero. Il furore della mamma sarebbe divenuto inarrestabile e le cinghie avrebbero rappresentato il meno di quanto le sarebbe capitato. «Forse ho davvero camminato nel sonno», bisbigliò con voce praticamente impercettibile. «Cosa? Non ti ho sentito.» Melissa si costrinse a guardare la madre e a ripetere la stessa frase. «Forse ho davvero camminato nel sonno.» «E come vi poniamo rimedio?» la sollecitò Phyllis, in tono implacabile quanto gli occhi. La piccola tentò di ighiottire il nodo in gola che minacciava di soffocarla. «Le... le cinghie», mormorò infine. «Esatto, le cinghie», le fece eco la donna. «E sarebbe molto più semplice se tu accettassi l'idea che vanno usate per il tuo bene. Ora vai a letto, torno subito.» Uscì dalla stanza mentre la figlia si accingeva a indossare il pigiama; quando tornò, reggeva fra le braccia gli odiati lacci di pelle e nylon. Quando iniziò ad assicurarli al letto, però, Charles apparve sulla soglia. «Sono venuto ad augurarti la...» esordì, ma le parole gli morirono sulle labbra nel vedere la moglie. «Gesù Cristo, Phyllis, cosa stai facendo?» Lei alzò lo sguardo sul marito. «La lego, ovviamente. Non possiamo permettere che vaghi per la casa nel sonno, non ti pare?» «Beh, non ho certo la minima intenzione di permettere che tu indulga in simili barbarie», ribatté lui con voce dura. «Ti avevo già detto che quella roba non andava usata, e facevo sul serio.» Phyllis si raggelò. «È solo per stanotte.» «Né stanotte né mai. Non voglio che mia figlia venga legata.»
«Ma il dottor Andrews ha sostenuto...» «Non consultiamo Burt Andrews da mesi e soprattutto non gli abbiamo parlato stanotte.» Si avvicinò al letto e accarezzò affettuosamente la guancia della figlia. «Va tutto bene, tesoro. Non temere, non accadrà nulla.» La guardò negli occhi e si incupì, riconoscendo quanto vi scorgeva: terrore. Ma anche qualcos'altro. Sembravano stranamente vacui, come se la piccola si fosse tanto ritirata in se stessa per paura delle cinghie da non essere neppure consapevole della sua presenza. Spostò lo sguardo sulla moglie. «Ti servi abitualmente di questo metodo?» chiese. Phyllis boccheggiò. «No, naturalmente, non fino a stasera. Perché mai avrei dovuto?» L'espressione di Charles si indurì. «Non lo so, ma augurati che io non scopra che mi stai mentendo.» Tornò a rivolgere la propria attenzione su Melissa, che ora lo stava fissando ansiosamente, senza mostrare traccia di quella bizzarra vacuità. «Stai bene, Missy?» Lei assentì. «Sei già stata legata in precedenza? Quest'estate, voglio dire.» La ragazzina esitò, ma, proprio nel momento in cui stava per rispondere, si accorse che la madre le stava lanciando un'occhiata furiosa al di sopra della spalla del padre. E domani sera lui sarebbe ripartito fino al fine settimana successivo. Con il cuore che le martellava in petto, scosse la testa. «No, papà», sussurrò. «Non... non sapevo neppure che quelle cinghie esistessero ancora.» Charles la strinse a sé. «E da stasera», le rassicurò, «non le avremo più, te lo prometto.» Si rivolse alla moglie in tono che non ammetteva repliche. «Voglio che tu te ne liberi immediatamente. Augura la buonanotte a Melissa e porta quella roba fuori da questa casa. Subito.» A denti stretti per reprimere l'ira, Phyllis afferrò le cinghie e uscì in silenzio dalla camera della figlia. Qualche minuto più tardi, le strisce di pelle vennero sepolte sul fondo di un baule di legno pieno di coperte nello spogliatoio di Charles. La donna sapeva bene che quello era l'ultimo posto in cui lui avrebbe controllato. Teri era in piedi dietro la porta del bagno comunicante con la camera della sorella. Attraverso il pesante battente poteva udire lo smorzato mormorio della voce del padre intento a consolare Melissa; quando infine si
accorse che Charles le stava augurando la buonanotte, tornò in fretta nella propria stanza, infilandosi a letto in attesa, dopo aver lasciato socchiusa la porta sul corridoio. Entro un minuto, papà sarebbe entrato a salutare anche lei. Dopo qualche secondo udì i suoi passi all'esterno. Aspettò di vedere apparire il suo viso sulla soglia. Invece, un'ombra passò oltre e i passi svanirono mentre lui svoltava nell'ala opposta della casa, diretto verso la camera da letto padronale. Quando calò il silenzio, Teri rimase a fissare il soffitto, in preda a una rabbia crescente. Al ballo era stata perfetta: tutti al club l'avevano giudicata la più bella della festa. Aveva addirittura scorto l'orgoglio negli occhi paterni mentre ballava con Brett al centro della pista. Ma poi era comparsa Melissa, il viso rigato di lacrime, e lei, Teri, era stata istantaneamente dimenticata. Da quel momento, suo padre non si era mai allontanato dal fianco della sorellastra, coccolandola, abbracciandola e baciandola. Amandola. E ignorando lei come se non esistesse neppure. Più ci pensava, maggiore diventava la sua ira. Nel proprio letto, Melissa giaceva completamente sveglia, cercando ancora una volta di capire cosa fosse accaduto quella notte. Lasciò scatenare l'immaginazione e, dopo un poco, tutto cominciò ad acquistare un senso. Aveva indossato un abito che sicuramente era appartenuto a D'Arcy. Fino a quel momento non ne era stata certa, ma ora non nutriva più alcun dubbio. Forse si trattava addirittura del vestito che lei aveva portato la fatidica sera in cui il fidanzato l'aveva respinta. Ma no, non era possibile: quell'abito sarebbe stato interamente ricoperto da macchie di sangue. E, tra l'altro, dopo il ballo al club D'Arcy non era stata più rivista. Di colpo capì. Il vestito sul manichino era destinato alle nozze. Non presentava ombra di macchie. Era polveroso, ingiallito dal tempo, ma le aveva dato la sensazione di non essere quasi mai stato indossato.
Ecco perché D'Arcy era venuta da lei, benché non stesse dormendo. L'amica sapeva dove lei fosse diretta e aveva voluto portare quel magnifico abito (quello del proprio matrimonio) almeno una volta. Melissa scese dal letto e si diresse alla finestra. La notte era limpida e la luna troneggiava alta nel cielo; l'oceano brillava di luce argentea e la schiuma della risacca sulla spiaggia emanava una strana fosforescenza. Poteva quasi immaginarsi di vedere D'Arcy là fuori persino ora, una figura pallida e smarrita contro la luminosità spettrale delle acque mosse. Cosa le era veramente accaduto, quella sera? Finora non aveva mai creduto sul serio all'esistenza di D'Arcy, se non nella propria fantasia. L'aveva semplicemente inventata, servendosene per affrontare il mondo quando le cose si facevano tanto dolorose da desiderare la fuga. E fino a quel giorno D'Arcy era venuta solo dopo esser stata chiamata. Stasera, però, lei non l'aveva affatto invocata. Questa volta l'amica era emersa dal nulla. Insinuandosi dentro di lei. Assumendo il controllo. La ragazzina rabbrividì nonostante la notte fosse tiepida. Era mai possibile? Davvero D'Arcy era arrivata a prendere possesso di lei? In questo caso, qual era il senso? La storia udita sulla spiaggia prese a scorrerle nella mente. Era vera? D'Arcy era realmente tornata a cento anni dalla propria scomparsa? Le sue riflessioni vennero interrotte da un rumore. Proveniente dal piano superiore. Il suono si ripeté e Melissa capì di cosa si trattasse. Un singhiozzo, che filtrava dalla stanzetta nel solaio, direttamente sopra la sua. In preda a una sensazione di gelo, cercò di decidere cosa fare. In realtà, però, sapeva di non avere scelta. Doveva salire a controllare se D'Arcy fosse veramente lassù. Con il cuore che le martellava il petto, infilò la vestaglia e si diresse alla porta dopo aver preso la torcia elettrica. Rimase un attimo in ascolto, ma, a parte il suono smorzato in soffitta, la casa era assolutamente silenziosa. Percorse rapidamente il corridoio fino alle scale che conducevano di sopra. A quel punto accese la torcia e proiettò il cono di luce verso le tenebre che incombevano su di lei. Dall'oscurità emerse una figura vestita di bianco, il viso velato e le brac-
cia nascoste dietro la schiena. L'urlo che stava per prorompere dalla gola di Melissa si trasformò in un gemito di terrore quando lo spettro sollevò il braccio destro. Un istante dopo, mentre l'essere esplodeva in una risata folle, un oggetto volò verso la ragazzina, rimbalzando sui gradini e atterrando infine ai suoi piedi. Lei rimase a fissarlo a occhi sbarrati. Era una mano, lucida e rossa per effetto del sangue fresco che la ricopriva. Invasa dalla nausea, Melissa si girò di scatto e fuggì lungo il corridoio verso la camera da letto dei genitori. Entrata a precipizio, si rifugiò immediatamente dal padre, scossa da singhiozzi di terrore che le toglievano il respiro. Charles, subito sveglio, accese la luce e guardò il viso cadaverico della figlia. «Missy! Che è successo? Cos'è che non va?» Nell'altro letto, Phyllis si mosse e si mise a ridere. Quando vide Melissa aggrappata al marito, si incupì di colpo. «Ma andiamo, Melissa», cominciò, ma Charles la fece tacere con un'occhiata. «Che c'è, tesoro?» chiese nuovamente. «D... D'Arcy», balbettò lei con voce tremante. «Io... papà, l'ho vista! Mi... mi ha gettato addosso la mano!» Tacque improvvisamente, sopraffatta dal pianto, e lui la tenne stretta, cullandosela al petto. «No, cara, si è trattato solo di un incubo. Hai fatto un brutto sogno.» «Non era un sogno!» insisté lei. «Papà, l'ho vista davvero!» Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole, però, si rese conto che rispecchiavano quasi letteralmente quanto aveva detto alla mamma la notte in cui Blackie era scomparso. Istintivamente spostò lo sguardo su Phyllis e si sentì morire. Il viso della madre era una maschera di rabbia. Poi udì nuovamente la voce carezzevole del padre. «Certo che l'hai vista, tesoro. Ciò che ci appare in sogno sembra sempre reale, ma non significa che esista davvero.» Si sporse verso il comodino ed estrasse un fazzoletto di carta dalla scatola che teneva lì a portata di mano, quindi le asciugò delicatamente le lacrime. «Ora ti accompagno a lavarti il viso e a bere un bicchiere d'acqua.» Mentre la moglie lo guardava con aperta disapprovazione, scese dal letto e condusse la figlia in bagno. Come il padre cominciò a passarle sulle guance la salvietta umida, Melissa sentì svanire il terrore che l'aveva attanagliata fino a qualche momen-
to prima e iniziò a rilassarsi un pochino. Quando, però, terminò di asciugarsi, lanciò un'occhiata furtiva in direzione della porta. «La mamma è furiosa con me», sussurrò. «Lei... lei pensa che abbia inventato tutto.» «Bene, se lo fa si sbaglia», la rassicurò Charles. «Un incubo può essere una fra le esperienze in assoluto più spaventose e, se sei atterrita, hai tutti i diritti di venire nella nostra camera.» Le porse un bicchiere d'acqua, attese che avesse finito di bere, quindi parlò di nuovo. «E ora che ne dici di venire con me a dare uno sguardo alle scale della soffitta per vedere cosa riusciamo a trovare?» Melissa assentì e seguì il padre fuori dalla stanza. Un attimo dopo furono ai piedi dei gradini: le luci del corridoio erano accese e le ombre in cima alle scale del tutto scomparse. La ragazzina fissò il pavimento dove poco prima era caduta la mano insanguinata. Non c'era più nulla. Nessuna traccia. Si accigliò. Com'era possibile? Davvero si era immaginata tutto? Le era parso tanto reale, così orribilmente reale. Si chinò, passando le punte delle dita sul legno macchiato di scuro ed esaminandosele attentamente, incerta se augurarsi di trovarvi tracce di sangue o meno. Fatta eccezione per un po' di polvere, i polpastrelli erano puliti. «Vuoi salire a controllare la soffitta?» le chiese Charles. Lei scosse la testa. «Io... suppongo di essermi sbagliata», mormorò. «Era talmente reale, papà. Ero certa di non averlo solo sognato.» Circondandole le spalle con un braccio, il padre la accompagnò nella sua stanza e le rimboccò le coperte. «Vuoi che lasci accesa la luce?» le chiese infine. «No, grazie. Non ho paura del buio.» «D'accordo. Dormi bene e, in caso facessi un altro brutto sogno, non esitare a svegliarmi.» Spense la luce, chiuse la porta e tornò nella propria camera. Phyllis, ancora seduta sul letto a braccia conserte, iniziò a parlare nel preciso istante in cui lui comparve sulla soglia. «Ha avuto un altro attacco di sonnambulismo. Se mi avessi lasciato usare le cinghie...» Charles le indirizzò un'occhiata feroce. «Quei maledetti arnesi non sono la soluzione del problema. La terrorizzano talmente da essere diventati parte del problema stesso! Domani intendo telefonare al dottor Andrews. Vo-
glio che parli con Melissa.» «Oh, perfetto!» sibilò la donna. «L'intera città pensa già che sia pazza e tu completi l'opera mandandola da quello psichiatra!» «Per amor del cielo, Phyllis!» esplose lui. «Nelle ultime due settimane ne ha passate parecchie, non credi? Ha dovuto abituarsi all'arrivo di Teri e stasera ha visto morire un ragazzo! È sotto choc e deve sentirsi confusa e spaventata. Legarla al letto, però, non è affatto una risposta e non farà male a nessuno consultarsi nuovamente con Burt Andrews...» «E io allora?» replicò lei alzando la voce. «Pensi che per me sia stato facile? L'unica cosa buona di quest'estate è stata Teri! Si è dimostrata un angelo nei miei confronti e anche con Melissa. E cosa fa sua sorella? Si veste come uno spettro — che a quanto pare ritiene reale — e se ne va a spaventare letteralmente a morte il figlio di nostri amici! Non è pazza! Sa esattamente quello che fa e si comporta così solo per mettermi in imbarazzo! Beh, non intendo sopportarlo. Credimi, io...» Cessata di colpo la filippica, Phyllis fissò Charles allibita e sconvolta. Per la prima volta da quando si erano sposati, il marito le aveva dato uno schiaffo. Nascondendosi il viso fra le mani, cominciò a piangere. Lui, ugualmente allibito dal proprio gesto, rimase un attimo pietrificato, quindi le voltò le spalle. «Suppongo che non avrei dovuto farlo», affermò in tono sinistramente mite infilandosi a letto. «Ma, francamente, te lo sei meritato.» Spense la luce e si girò sul fianco, mostrando la schiena alla moglie in lacrime. Teri, che era rimasta in ascolto nel corridoio, sgattaiolò via e tornò nella propria camera, dove aprì l'ultimo cassetto del comò e ne estrasse un oggetto avvolto in un fazzoletto. Portatolo con sé in bagno, si accertò che la porta di comunicazione con la stanza di Melissa fosse chiusa a chiave, quindi lo depose nel lavandino. Si trattava della mano del manichino abbandonato in soffitta. Mentre la ripuliva dalla salsa di pomodoro che vi aveva versato a mo' di sangue, la ragazza la esaminò attentamente. Una delle dita era scheggiata, mentre un'altra si era incrinata cadendo giù dalle scale. Ma il trucco aveva funzionato alla perfezione. Melissa, proprio come la notte in cui aveva trovato Blackie appeso a una trave, si era immediatamente precipitata nella camera dei genitori, lasciandole tutto il tempo di
togliersi il vestito, infilarlo in un baule, ripulire qualche goccia di salsa di pomodoro dai gradini e rientrare nella propria stanza, in attesa di «svegliarsi» alle sue urla. Al contrario, erano stati il padre e la matrigna a gridare, e lei aveva ascoltato ogni parola della loro lite. Uno psichiatra. Sorrise al pensiero di quanto lo specialista avrebbe detto quando Melissa avesse finito di parlargli di D'Arcy. Con un po' di fortuna, l'avrebbe fatta rinchiudere immediatamente. Asciugata la mano, tornò in soffitta e la fissò nuovamente sul manichino, poi scivolò per l'ennesima volta nella propria camera. Nello spegnere la luce, diede un'occhiata alla finestra. Oltre la terrazza e la piscina, si scorgeva la casetta di Cora Peterson. E a una finestra del primo piano, fiocamente illuminata dalla luna, notò una figura. Tag. Teri si accigliò, chiedendosi da quanto tempo fosse là. E quanto avesse visto. 22 Burt Andrews si appoggiò allo schienale della poltrona del proprio studio, lasciando vagare lo sguardo sul calendario dove l'abituale partita a golf del martedì mattina era stata cancellata con un tratto di penna per venire sostituita dal nome «Holloway». Domenica mattina, quando Charles gli aveva telefonato, lui si era sforzato di rinviare l'appuntamento fino alla settimana successiva, quando uno dei suoi pazienti regolari aveva disdetto una seduta, ma Holloway aveva continuato a insistere finché non si era visto costretto a rinunciare, se pur con riluttanza, al proprio sport preferito. Ora, mentre lo ascoltava spiegare l'accaduto, si concentrò su Melissa, seduta in silenzio fra i genitori con le mani in grembo e la testa china. Finora non aveva aperto bocca e lui era certo di saperne il motivo. Phyllis. Benché quella donna avesse fatto del proprio meglio per far credere che il benessere della figlia fosse la sua unica preoccupazione, non era riuscita a dargliela a bere. Ciò che veramente la turbava, ne era sicuro, non risiedeva affatto nei problemi di Melissa, ma in quanto i suoi amici di Secret Cove potevano pensare dello stato mentale della bambina. «D'accordo», dis-
se, sporgendosi nuovamente in avanti sulla scrivania, «penso di aver afferrato la situazione. Adesso è ora che parli con Melissa da sola.» Charles si alzò immediatamente in piedi, ma ad Andrews non sfuggì il barlume di apprensione comparso negli occhi di sua moglie e prese mentalmente nota di cercare di scoprire durante il colloquio con la ragazzina cosa stesse realmente accadendo fra madre e figlia. Poi, velocemente com'era apparsa, quella strana espressione furtiva svanì dal viso di Phyllis, che si alzò a propria volta. «Rimarremo nella sala d'aspetto, tesoro», esclamò, chinandosi a baciare la guancia della figlia. Il dottor Andrews rimase esteriormente impassibile nel notare che Melissa si ritraeva inconsciamente dalle labbra materne e non aprì bocca finché i due adulti non furono usciti. Non appena la porta si fu richiusa, però, tornò ad appoggiarsi allo schienale, sorridendo alla ragazzina con fare incoraggiante. «A quanto pare, non è stata l'estate più bella della storia», esordì. «Vanno molto male le cose tra te e tua madre?» Dopo un attimo di esitazione, lei assentì. «Sem... sembra che sia arrabbiata con me tutto il tempo. Qualunque cosa io faccia, è sempre uno sbaglio.» Le si riempirono gli occhi di lacrime, ma le ricacciò, decisa a non cedere al pianto. Lo psichiatra le sorrise. «Talvolta non desideri di poter scomparire?» Melissa alzò di colpo lo sguardo. Come faceva il dottor Andrews a saperlo? Poi si rammentò l'ultima volta che lo aveva incontrato, quasi due anni prima. All'inizio non le era piaciuto affatto: la barba gli nascondeva il viso, e questo le aveva dato l'impressione di parlare con qualcuno che non poteva vedere. Tuttavia, quando aveva imparato a conoscerlo e a capire che non avrebbe riso di lei in nessun caso, aveva cominciato ad apprezzarlo. In effetti, ora che si trovava lì, si stava rendendo conto di avere davvero voglia di parlare con lui. Fatta eccezione per D'Arcy, il dottore era praticamente l'unica persona con cui non avesse paura di confidarsi. Assentì. «Desidererei che non fossimo venuti qui a trascorrere l'estate», spiegò. «La città mi piace molto di più.» «Perché là hai molti amici?» Lei scrollò le spalle. «Più che a Secret Cove, a ogni modo.» «Che mi dici di D'Arcy?» Melissa si agitò sulla sedia, gli occhi leggermente rabbuiati. «Che... che cosa dovrei dire?» Il dottor Andrews inclinò il capo. «Beh, da queste parti è sempre stata la tua migliore amica, non è vero?»
«Ma... ma non è una persona vera. L'ho inventata io.» «E se non fosse così?» suggerì lo psichiatra, inarcando lievemente le sopracciglia. «E se esistesse davvero?» Lei si oscurò. «Ma è impossibile. Voglio dire, a parte in quella storia di fantasmi...» Lasciò la frase in sospeso nel ricordare l'apparizione in cima alle scale della soffitta. «Non mi sto riferendo alla leggenda», spiegò lui, appoggiando gli avambracci sulla scrivania. «Mi sembra che D'Arcy possa essere qualcosa di più di un semplice prodotto della tua fantasia. Forse è qualcuno che viene in tuo aiuto quando le cose diventano così brutte da farti desiderare di scomparire.» Ora fu Melissa a inarcare le sopracciglia. «Si riferisce a quando la mamma si infuria con me per qualche motivo?» Lo psichiatra avvertì un fremito d'eccitazione, perché nella voce della bambina era evidente una particolare nota che gli indicava di aver quasi colpito nel segno. «Che cosa accade quando tua madre si infuria con te?» chiese, deliberatamente ripetendo la frase di Melissa. Lei si passò nervosamente la lingua sulle labbra. «Talvolta... ecco, talvolta arriva D'Arcy e mi lascia dormire. Quando poi mi sveglio, è tutto finito.» Il medico assentì. «Capisco.» Prese una penna dalla scrivania e cominciò a giocherellare distrattamente. «E se tuo padre è a casa, durante i fine settimana? La mamma si arrabbia lo stesso con te?» La piccola guardò involontariamente in direzione della porta, quindi scosse la testa. «Quando c'è lui va molto meglio», ammise. Il dottor Andrews assunse un'espressione quasi assente, come se quelle parole avessero avuto scarsa importanza, poi sorrise. «Ti piacerebbe sottoporti a un esperimento?» Lei lo fissò circospetta. «Che genere di esperimento?» «Cosa ne diresti di venire ipnotizzata?» Melissa sgranò gli occhi spaventata. «Sarebbe esattamente come dormire», la rassicurò lui. «Come quando viene D'Arcy. Questa volta, però, sarei io a farti addormentare.» «Perché?» domandò la ragazzina con aria apprensiva. Il dottor Andrews rifletté attentamente sulla risposta. Non intendeva atterrirla, ma neppure mentirle. «Ecco», spiegò infine. «Mi piacerebbe scoprire cosa succede quando ti metti a dormire, e il modo più semplice per farlo sarebbe poter parlare con D'Arcy.» Melissa rimase a lungo in silenzio, quindi chiese con voce tremante:
«Farà male?» Il medico rise di gusto. «Assolutamente no. In effetti, potrebbe anche non funzionare. In caso contrario, invece, ti sembrerebbe di essere addormentata senza esserlo sul serio.» Melissa parve ancora riluttante. «Se riesce a parlare con D'Arcy, mi riferirà cosa le ha detto?» «Naturalmente.» Lo psichiatra le spiegò diffusamente in che modo si accingeva a ipnotizzarla e infine lei acconsentì. «Devo osservare un pendolo o qualcosa del genere?» «No. Limitati ad ascoltare le mie parole e cerca di concentrarti unicamente sul suono della mia voce. Io parlerò e tu ti sentirai assalire dalla sonnolenza. Ti accorgerai che le palpebre diventano pesanti e avrai voglia di chiuderle. Anche gambe e braccia diventeranno pesanti, al punto che non sarai capace di sollevarle. Avrai sempre più sonno, più sonno, ti addormenterai...» Continuò a mormorare finché lei non chiuse gli occhi. «Melissa, mi senti?» chiese a quel punto. «Sì.» «Apri gli occhi.» Lei obbedì, immobile sulla sedia con lo sguardo fisso. «Alza il braccio destro.» Il braccio della ragazzina si sollevò all'altezza della spalla, rimanendo così fisso da far pensare che fosse tenuto sospeso da fili attaccati al soffitto. Lo psichiatra continuò a parlare in un sommesso mormorio; quando fu del tutto certo che lei si trovasse in un profondo stato di trance ipnotico, le ordinò di abbassare il braccio. «Ora voglio che tu dorma, in modo che io possa discorrere con D'Arcy», proseguì. Melissa si rilassò sulla sedia. «D'Arcy?» chiamò il dottor Andrews a bassa voce. «D'Arcy, mi senti?» Melissa non manifestò la minima reazione. Il medico tentò ancora di far emergere la seconda personalità che, ne era praticamente certo, risiedeva dentro la bambina. «Ho bisogno di parlare con te», insistette. «Devo parlarti di Melissa. Non vuoi chiacchierare con me?» Di nuovo nessuna reazione, neppure un barlume di movimento degli occhi. Eppure, da quanto la bambina gli aveva detto, era sicuro che nei recessi del suo subconscio esistesse la personalità «D'Arcy», se solo fosse riu-
scito a raggiungerla. Riesaminò mentalmente le proprie cognizioni circa il fenomeno delle personalità multiple, ove un singolo individuo frammenta letteralmente i vari aspetti dell'io in entità separate, ciascuna delle quali reagisce al mondo esterno in maniera specifica. Se non si era sbagliato, allora D'Arcy (la personalità demandata a trattare con l'incessante antagonismo e ostilità di Phyllis Holloway nei confronti della figlia) poteva anche non vedere il motivo di emergere in quel momento. Inoltre, se avesse temuto che venire scoperta conducesse a un danno per Melissa, raggiungerla poteva rivelarsi alquanto difficile. Infine decise di ricorrere a una tattica diversa. «Melissa, mi senti?» «Sì.» «Voglio che tu parli con D'Arcy al posto mio. Sei in grado di farlo?» Dopo un attimo di silenzio, la ragazzina pronunciò una sola parola. «No.» Il dottor Andrews si accigliò. Ne era stato tanto certo. «Perché no? Come mai non puoi comunicare con lei?» «Perché lei non c'è.» Il medico rimase allibito. «Dov'è. Lo sai?» Melissa esitò, quindi mormorò: «Sì». «Dimmi dove si trova.» Una lunga pausa. «È... è a casa... in soffitta.» Lui tentò di sondarla ulteriormente, ma non approdò a nulla. A quanto pareva, la personalità di D'Arcy era sepolta a tale profondità che Melissa riusciva a entrarvi in contatto solo in condizioni di stress. Con il tempo, però, le cose sarebbero potute cambiare. A meno che non si sbagliasse completamente e D'Arcy non esistesse affatto. Cinque minuti dopo la ragazzina sbatté le palpebre, aprì gli occhi e inclinò la testa. «Quando cominciamo?» domandò subito. Lo psichiatra le sorrise. «Abbiamo già cominciato», rispose. «Anzi, in effetti abbiamo già finito.» Lei rimase sbalordita. «Davvero? E come mai non ricordo niente?» «Tanto per cominciare, non è successo molto. Ho cercato di comunicare con D'Arcy, ma credo che lei non si fidi ancora di me. Non ha voluto parlarmi.» La ragazzina parve ritirarsi sulla sedia. «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiese in tono ansioso. «No, assolutamente no», si affrettò a rassicurarla lui. «È solo che ci vor-
rà un po' di tempo, ecco tutto. Tu, però, potresti farmi un favore.» Melissa lo guardò con aria interrogativa. «Quando le parli, dovresti spiegarle che può dialogare con me.» «Ma se lei non vuole...» Il dottor Andrews scrollò le spalle. «In questo caso, nessuno la costringe.» Si appoggiò allo schienale della poltrona. «In città, parli mai con D'Arcy?» La ragazzina rimase assolutamente sconcertata. «E come potrei?» si stupì. «Lei vive qui.» Lo psichiatra assentì. A Secret Cove, pensò, tuo padre è assente per quasi tutta la settimana e tu rimani sola con la mamma, ed è per questo che hai bisogno di D'Arcy. Chinatosi, premette un pulsante e, un attimo dopo, Charles e Phyllis Holloway entrarono nello studio. «Per oggi abbiamo finito», disse a Melissa. «Parlerò qualche minuto con i tuoi genitori, poi potrai tornare a casa.» La ragazzina guardò immediatamente la madre, ma non aprì bocca e si diresse velocemente in sala d'aspetto. Una volta solo con la coppia, il dottor Andrews sorrise con aria incoraggiante. «Bene, credo esista qualche problema, ma niente di cui sia impossibile occuparsi. Nel corso delle ultime settimane, la bambina è stata sottoposta a uno stress notevole.» «Tutti noi siamo stati sotto stress, dottore...» lo interruppe Phyllis. Il medico la fece tacere con un gesto della mano. «Sono perfettamente d'accordo. A questo punto, però, non sono del tutto certo di quanto sta succedendo a Melissa. Ho un paio di teorie, che vorrei verificare parlando di nuovo con lei.» «Teorie?» si indignò la donna. «E di che tipo?» Andrews sospirò, costringendosi a sorridere. «Temo di non essere in grado di formularle finché non avrò approfondito la situazione. Non voglio crearvi preoccupazioni per ora prive di fondamento.» «E cosa dovremmo fare, allora?» si ostinò Phyllis. «Se continua a camminare nel sonno...» «Non sono affatto sicuro che sia affetta da sonnambulismo», ribatté lui. «Intendo esplorare numerose ipotesi. Per ora, la soluzione migliore consiste nel lasciarla tranquilla. Tutta la tensione subita l'ha seriamente provata.» Fissò lo sguardo sulla donna. «Le consenta di essere semplicemente se stessa. Cerchi di non sottoporla a pressioni eccessive.» Lei assunse un'espressione dura. «Non faccio niente di simile! Mi limito
a fornirle una guida, ossia a svolgere il mio compito, visto che sono sua madre. Voglio soltanto che si inserisca nella cerchia dei suoi amici. Tuttavia, dopo il modo in cui si è comportata e le cose che pensa di vedere...» «Io e Melissa discuteremo anche di questo», concluse il dottor Andrews, alzandosi in piedi e dirigendosi alla porta. «Ma le ripeto che al momento la cosa migliore da farsi è essere pazienti con lei. Sta attraversando una quantità di cambiamenti. Alla sua età...» Phyllis si irrigidì. «Per lei è facile a dirsi, dottore. Ma noialtri? E Teri? E io? Forse... ecco, forse dovremmo mandar via Melissa per un po', non crede?» Charles, allibito alla proposta della moglie, rimase muto a fissarla. Fu lo psichiatra a parlare. «Può darsi sia il caso di discuterne più avanti», dichiarò. «Ma adesso non vedo come possa servire a qualcosa, se non a farla sentire più insicura di quanto non sia già ora. Al contrario, signora Holloway, le consiglio vivamente di farle capire che la ama e la apprezza per quello che è. Se sua figlia si comporta in un modo che la disturba, cerchi di non mostrare il suo disappunto. Melissa ha molta paura, soprattutto di lei. Desidera la sua approvazione, ma non sa come ottenerla, quindi è di fondamentale importanza che lei le dimostri il suo affetto. Pensa di poterci riuscire?» Phyllis sorrise a labbra strette. «Sa benissimo che le voglio bene», replicò secca. «Come sa che voglio soltanto il meglio per lei. Tuttavia, non credo nel lasciare che i bambini crescano disordinatamente. Sono convinta che vadano educati. Farò per Melissa ciò che deve essere fatto.» Senza attendere una risposta, uscì a grandi passi dallo studio. Charles esitò sulla soglia, quindi porse la mano ad Andrews. «Le parlerò», promise. «Sono consapevole che tende a essere ipercritica nei confronti di nostra figlia, ma saprò gestire la situazione. Se sarà il caso, mi prenderò un periodo di ferie.» Lo psichiatra assentì. «La ritengo una buona idea. La questione, però, non è se lei riesce a gestire l'atteggiamento di sua moglie nei confronti della bambina. La questione è se Melissa può farcela.» Teri mosse un passo indietro e si esaminò allo specchio. L'abito che aveva scelto per il funerale di Jeff era blu, con un'alta cintura rossa non tanto vivace da poter sollevare critiche. Aveva trovato anche un paio di orecchini in tinta con la cintura, ma si era decisa a non usarli: entro un paio di mesi, però, quando si sarebbe trasferita in città con la famiglia, quegli o-
recchini avrebbero completato a meraviglia il vestito. In effetti, se fosse riuscita a procurarsi una collana del medesimo colore... I suoi pensieri vennero interrotti dal suono di voci smorzate; dopo un'ultima occhiata soddisfatta allo specchio, uscì in fretta dalla propria camera. Ora le voci erano più distinte, e lei capì da dove provenivano. La stanza dei genitori, dove il padre e la matrigna si stavano a loro volta preparando per il funerale. Sbirciò la porta chiusa di Melissa, quindi si mosse rapidamente, sostando a sfilarsi le scarpe dai tacchi alti che ticchettavano rumorosamente sul pavimento di legno. Proprio in quel momento le voci tacquero. Con le scarpe in mano, la ragazza avanzò lungo il corridoio fino alla camera da letto padronale; al di là del battente, avrebbe potuto udire chiaramente la lite. All'interno, Charles stava fissando l'immagine della moglie riflessa dallo specchio, mentre la donna impartiva gli ultimi tocchi al trucco. «È questo che vuoi» esplose con voce carica di rabbia. «Che la rinchiudiamo da qualche parte?» «Naturalmente no!» scattò lei, sporgendosi in avanti per applicarsi il mascara alle ciglia. «Non intendo affatto 'rinchiuderla', come tu sembri voler credere. Tuttavia, se ha bisogno di riposo, non vedo il motivo per cui non potremmo trovarle un bel posto dove andare. Un campeggio estivo, per esempio, o qualcosa del genere. «Un campeggio estivo!» ruggì lui. «Ma di che diavolo stai parlando? Se fa già fatica ad adattarsi a ragazzi che conosce da tempo, come accidenti pensi si sentirà nell'essere improvvisamente gettata in mezzo a un mucchio di estranei?» «Insomma, Charles!» Phyllis buttò lo spazzolino del mascara su un piccolo vassoio e si voltò a fronteggiare il marito. «Mi pare soltanto che dovremmo pensare anche a Teri. Non credi ne risentirà, se saremo costretti a trascorrere tutto il nostro tempo a provvedere ai capricci di Melissa? Se consideri quello che ha passato...» «Così ora si tratta di Teri, vero?» la interruppe lui. «Vediamo un po'; finora hai dichiarato di voler mandar via nostra figlia per il suo stesso bene e per quello di Teri. Che cosa mi dici di te? Sarebbe molto più semplice, non è così? Potresti passare ancora più tempo di quanto tu già non faccia sdraiata ai bordi della piscina del club nello sforzo di fare colpo su tutte quelle stronze che, fosse per loro, non ti direbbero nemmeno che ora è!» Tremante di rabbia, Phyllis si alzò in piedi. «Come osi? Come ti permet-
ti di parlare in questo modo delle mie amiche? Lenore Van Arsdale è una fra le persone più raffinate...» «Lenore Van Arsdale è una snob pazzesca, e tu dovresti essere la prima ad accorgertene, visto che non ti rivolgerebbe neppure la parola, se solo potesse evitarlo. Cristo, qualche volta penso che Polly avesse ragione. L'unica cosa che sembra contare da queste parti è 'inserirsi' fra la 'gente giusta'. E nessuno che si occupi di un granché, poi! La maggior parte di loro spreca la vita vantandosi dei successi degli avi e spendendo i soldi ereditati. Pochissimi sarebbero capaci di svolgere un vero lavoro, se proprio dovessero farlo.» «E tu allora?» replicò lei. «Cosa ti fa credere di essere diverso?» Lui sbuffò con aria derisoria. «E chi dice che lo sono? Non sono nemmeno un vero avvocato e ho frequentato la facoltà di legge solo perché era una tradizione dei maschi della famiglia Holloway. E cosa ho concluso? Ho escogitato qualche stratagemma per evitare a me stesso e ai miei amici di pagare le tasse dovute.» Gli sfuggì dalle labbra una risata sarcastica. «Che vita grandiosa, vero? E questa è l'esistenza che sei fermamente decisa a far condurre a Melissa? Francamente, credo che nostra figlia starebbe molto meglio se, una volta cresciuta, sposasse Tag Peterson piuttosto che uno dei marmocchi viziati allevati dai nostri amici.» Phyllis si fece livida. «Voglio solo il meglio per lei», sibilò. «Le abbiamo dato tutto! E come mi ringrazia? Umiliandomi! Mettendomi in imbarazzo davanti alle mie amiche! Adesso, poi, architetta una bravata che si conclude con la morte di un ragazzo e sostiene di non ricordarsi cosa sia successo. Forse sarebbe davvero il caso di rinchiuderla! Forse è realmente pazza!» Per un istante Charles fu certo che l'avrebbe schiaffeggiata, proprio come il sabato sera, ma riuscì faticosamente a controllarsi. «Questo è ciò che vuoi, vero?» osservò con voce improvvisamente priva d'emozione. «Ora che Teri è qui, desideri che nostra figlia scompaia.» Phyllis fremette. «Ti sbagli, Teri non ha nulla a che vedere con...» «Oh, non annoiarmi con queste scuse! Non sono stupido, sai? Per te, Melissa è sempre stata solo un rimpiazzo di Teri. Quando Polly se l'è portata via, sospetto tu sia rimasta ferita anche più di me. Sin dalla sua nascita, io ho amato Melissa per quello che era, mentre tu sei soltanto riuscita a sforzarti di trasformarla in un'altra Teri.» «Non è vero...» «È così, invece. E, ora che Teri è tornata, non sai più cosa fartene di tua
figlia, vero? Hai ottenuto la casa, il marito e gli amici di Polly e ora hai anche sua figlia. A questo punto, a che ti serve la tua?» Charles si diresse verso la porta, quindi si voltò nuovamente. «Ma non te lo permetterò, Phyllis. Non manderò via Melissa, né ti consentirò più di renderle la vita un inferno. Lascia che sia soltanto se stessa! Se non lo fai, giuro che sarai tu a dovertene andare, non lei.» Nel tempo che impiegò ad aprire la porta e uscire dalla stanza, Teri aveva già percorso metà della scalinata. Aveva udito abbastanza: Phyllis era ormai convinta. E presto lo sarebbe stato anche il padre. «Sei sicura di farcela?» chiese Charles a Melissa venti minuti dopo. «Se non te la senti, nessuno ti costringe a venire. Sono certo che gli altri capiranno.» Per un attimo la ragazzina fu tentata di cogliere l'occasione per non partecipare al funerale di Jeff, ma, nel momento in cui apriva la bocca per rispondere, ricordò le parole della madre un'ora prima: «Presenzierai alla cerimonia funebre e ti comporterai come si deve. Rimanere a casa equivarrebbe ad ammettere che sabato sera sapevi cosa stavi facendo. È già abbastanza penoso che tutti ti reputino pazza, ma se pensassero che hai ucciso quel ragazzo deliberatamente, nessuno di noi potrebbe più camminare a testa alta da queste parti!» Mentre la madre la fissava minacciosamente dietro le spalle del padre, Melissa inghiottì le parole che le erano salite alle labbra e si limitò ad assentire. «Voglio esserci anch'io», mormorò. Jeff mi... mi è sempre piaciuto.» Un'ora più tardi, però, seduta nella piccola chiesa episcopale finanziata in massima parte dagli iscritti al Cove Club, desiderò ardentemente di non essere venuta. Dal momento in cui aveva fatto il proprio ingresso nella cappella con il padre al fianco, le era parso che tutti la osservassero, le tenessero gli occhi addosso, accusandola in silenzio. Aveva tentato di ignorarli, compostamente seduta nel banco fra papà e Teri, lo sguardo incollato alla raccolta degli inni che il sacrestano le aveva dato all'ingresso. Ora, però, mentre il sacerdote terminava l'elogio funebre e dava inizio alla preghiera finale, alzò la testa e si guardò attorno a disagio. I partecipanti alla cerimonia stavano per lo più a capo chino, ma qua e là
scorse occhi che la fissavano. Cyndi Miller la stava palesemente osservando, ma distolse subito lo sguardo quando si accorse che lei aveva girato la testa. Ellen Stevens, al contrario, le indirizzò un'occhiata colma di risentimento, e questa volta fu Melissa a sottrarsi a quell'espressione d'accusa. Non ho fatto niente, si ripeté per l'ennesima volta. Stavo solo camminando lungo la strada. Oppure no? Continuava a non ricordare nulla dal momento in cui si era infilata la parrucca fino al suono lacerante del clacson della Porsche. E se fosse stata D'Arcy? Doveva cancellare quel dubbio dalla propria mente, doveva smettere di pensarci, se no sarebbe impazzita. A meno che non fosse già fuori di senno. Eppure non le sembrava di esser pazza, perlomeno per la maggior parte del tempo. Emerse improvvisamente dalle proprie fantasticherie, perché Teri le stava dando una leggera gomitata. Le persone davanti a lei erano già in piedi e si spostavano lentamente lungo la navata laterale per dirigersi verso la bara, aperta sul catafalco. Melissa fu invasa da un'ondata di panico. Doveva proprio farlo? Doveva guardare il viso di Jeff? Sentendosi stordita, si alzò a propria volta. Non guarderò, si disse. Andrò fino al feretro, ma chiuderò gli occhi passandoci accanto. Si spostò di lato, seguendo il padre sulla navata, e avvertì una nuova fitta di panico accorgendosi che molta gente si accodava alle sue spalle. Si guardò freneticamente attorno in cerca di una via di fuga, ma le porte laterali erano chiuse e custodite da un inserviente, e non poteva sopportare l'idea di sgattaiolare in un banco vuoto per scappare lungo la navata centrale. Ormai era giunta nei pressi della bara e poteva udire la gente di fronte a sé sospirare mesta o mormorare un sommesso addio al defunto. Infine fu di fianco al feretro. Invece di chiudere gli occhi come aveva giurato di fare, fissò il viso di Jeff Barnstable. Non sembrava affatto morto. La sua espressione era tranquilla, quasi stesse semplicemente dormendo.
Istintivamente, Melissa sporse un braccio e gli sfiorò gentilmente una guancia. La carne era dura e fredda come il marmo. Le mancò il fiato e il panico a stento trattenuto esplose di colpo. «Nooooo», gemette. «Non volevo... io non...» Le lacrime la sopraffecero e si prese il viso fra le mani. Immediatamente, il padre le circondò le spalle con un braccio e la condusse velocemente via, facendosi strada tra la folla. La folla che la stava fissando. E bisbigliava. Riusciva quasi a udire le loro accuse. «No!» gridò «Non sono stata io! È stata D'Arcy! Lei ha fatto questo! Un attimo dopo si ritrovò fuori della chiesa, alla luce accecante del pomeriggio estivo. Sbatté le palpebre e alzò lo sguardo verso il padre, che la stava osservando con occhi comprensivi, accarezzandole i capelli. Poi scorse la mamma. Nonostante Phyllis rimanesse in silenzio, Melissa rabbrividì nel percepire la furia che emanava dalle sottilissime fessure che erano i suoi occhi. Atterrita dalla muta ira della madre, la piccola non notò il sorrisetto di soddisfazione sulle labbra di Teri. Mentre il padre la sospingeva gentilmente verso la macchina, Melissa si sentì invadere da un'ondata di impotenza. L'ho fatto di nuovo, si disse. Questa volta la mamma non mi perdonerà mai. 23 «Non riesco a capacitarmi di come possa aver fatto una cosa simile», si lamentò Phyllis. Erano arrivati a casa un'ora prima e, dopo una telefonata al dottor Andrews, Charles era andato al villaggio per procurarsi un sedativo. Adesso Melissa era a letto in camera sua, dove il padre era rimasto con lei finché la medicina non aveva fatto effetto. Quando la figlia si era infine addormentata, tornato dabbasso, aveva trovato la moglie, il viso indurito dalla rabbia, che camminava incessantemente avanti e indietro nella biblioteca, mentre Teri, ancora con l'abito del funerale, stava appollaiata nervosamente su una sedia. «Non ne sono affatto sorpreso», rispose. «Francamente, non capisco perché abbia voluto venire, considerato come si sentiva.»
«È intervenuta», ribatté Phyllis, «perché sapeva che era la cosa giusta da fare. Tutto sarebbe andato bene, se solo fosse riuscita a controllarsi. Ma esibirsi in una scena del genere...» Lasciò in sospeso la frase, scuotendo sconsolata la testa. Poi, dopo un'occhiata all'orologio, sospirò pesantemente e parve ricomporsi. «Suppongo sia meglio muoversi. La tumulazione dovrebbe essere terminata e...» «Muoversi?» Charles la fissò allibito, quasi incapace di credere alle proprie orecchie. «Non mi dirai che stai seriamente suggerendo di andare al ricevimento, vero?» Phyllis sostenne il suo sguardo per un attimo, quindi si girò rapidamente. «Ma certo, e l'ultima cosa di cui ho bisogno ora è litigare con te. Che altro potremmo fare? Dopo la prestazione di Melissa al servizio funebre, come minimo dobbiamo provare a scusarci per lei. Non hai notato l'espressione di Paula?» Charles strinse i denti. «Non mi importa un accidente di Paula Barnstable, né di tutti gli altri. In questo momento mi preoccupo soltanto di mia figlia. Se pensi abbia intenzione di lasciarla sola proprio adesso...» «Non sarà necessario», lo interruppe la moglie. «Teri si è offerta di rimanere con lei.» Charles spostò la propria attenzione sulla figlia maggiore, che gli sorrise con aria comprensiva. «Credo davvero che Phyllis abbia ragione, papà. Ho notato il modo in cui diverse persone guardavano Melissa. Se nessuno di noi partecipa al ricevimento, faremmo apparire la situazione anche peggiore, non ti pare?» Lui assunse un'espressione perplessa. «Non è accaduto nulla, se non che Melissa si è agitata molto», iniziò, per poi accigliarsi nell'accorgersi della rapida occhiata che Teri e Phyllis si stavano scambiando. «C'è qualcosa di cui non sono al corrente?» Teri si agitò sulla sedia, come se fosse riluttante a parlare. «Ecco, i ragazzi stanno mormorando sul conto di Melissa», spiegò infine, evitando deliberatamente lo sguardo del padre. «Loro... beh, alcuni di loro pensano che sia un po'...» esitò un attimo, quasi stesse cercando le parole adatte «... insomma, pensano sia piuttosto strana.». «Vuoi dire che la ritengono pazza», dichiarò lui senza troppe cerimonie. «So come sono fatti i ragazzi, visto che un tempo anch'io lo sono stato.» «Non intendevo esattamente questo», si affrettò a replicare lei. «Ma... beh, credo che Phyllis abbia ragione. Non sarebbe meglio se tu andassi a spiegare che Melissa era solo sconvolta, ma che ora sta bene? Secondo me,
se nessuno di noi si fa vedere, per lei sarà ancora peggio, non ti sembra? Tutti penseranno che abbiamo avuto paura di lasciarla da sola.» Nuovamente sul punto di protestare, Charles cambiò idea. Quanto era accaduto al servizio funebre si riduceva al semplice fatto che Melissa era scoppiata a piangere. Se avesse permesso a se stesso di reagire sproporzionatamente in prospettiva avrebbe anche potuto peggiorare la situazione. In effetti, riusciva quasi a sentire i discorsi dei ragazzi: «Hanno dovuto portarla a casa e chiuderla sottochiave. Era talmente isterica che non sono potuti nemmeno uscire». «Sapevo che era strana, ma al funerale ha dato davvero i numeri. Sono stati costretti a metterle la camicia di forza.» Assolutamente falso, naturalmente, ma ciò non avrebbe fermato le chiacchiere dei ragazzi. Se lui e Phyllis fossero andati al ricevimento a spiegare la situazione, forse avrebbero messo un freno ai pettegolezzi peggiori. «D'accordo», accondiscese infine, non del tutto certo di aver preso la decisione giusta, ma restio ad affrontare un'ulteriore litigio con la moglie. «Ci andremo.» Si avvicinò alla figlia maggiore e la strinse un attimo a sé. «Sei certa di voler rimanere con Melissa?» Teri atteggiò le labbra a un sorriso triste. «Non... non mi piacciono le celebrazioni funebri. Preferisco stare con mia sorella.» Dieci minuti più tardi, dopo essere salito un'ultima volta a sorvegliare la figlia minore e averla trovata profondamente addormentata, Charles si affrettò verso la macchina, dove Phyllis lo stava aspettando con impazienza. Dalla veranda, Teri li salutò con la mano. Venti minuti dopo, Cora bussò alla porta della camera di Teri e socchiuse il battente. «Sto andando al villaggio», annunciò. «Voglio preparare una crostata al limone per Melissa e mi servono un paio di ingredienti.» La ragazza sollevò lo sguardo dalla rivista che teneva in grembo. «E allora?» La domestica strinse le labbra nel percepire la chiara nota di insolenza. «Volevo solo chiederti se avevi bisogno di qualcosa.» Poi, accorgendosi che Teri indossava ancora l'abito usato per il funerale, scosse la testa con disapprovazione. «Rovinerai quel vestito, standotene sdraiata in quel modo. È di lino, sai?» «Se si sciupa, ne comprerò un altro», rispose lei con un'alzata di spalle. «Non siamo poveri.» Cora trasse un profondo respiro, cercando di combattere la tentazione
crescente di impartire una lezione sul valore del denaro. Nel corso delle ultime settimane aveva osservato Teri con attenzione ed era giunta alla conclusione che la figlia di Polly non era affatto quella che fingeva di essere. In effetti, aveva deciso che quella ragazza non le piaceva molto. Era certa che fosse stata lei a far scegliere a Melissa il costume di D'Arcy per il ballo, con quel magnifico esito che ne era scaturito. E, nonostante tutte le sue espressioni di simpatia per la sorellastra, lei aveva la netta sensazione che in realtà godesse dell'infelicità della ragazzina. «Bene», concluse ora, «fai come ti pare. Sarò di ritorno entro un'ora.» Qualche minuto più tardi, quando la macchina della domestica si fu allontanata lungo il viale, Teri si alzò e si svestì, lasciando cadere l'abito in un mucchio disordinato sul pavimento. Indossò poi il costume da bagno e si avviò verso la piscina; stava per tuffarsi in acqua quando vide Tag. Era in piedi a una ventina di metri da lei, con la testa stranamente inclinata, intento a fissare qualcosa. La serra. Teri si bloccò di colpo, riflettendo freneticamente. Infine, lasciato cadere l'asciugamano su una sedia lì vicino, attraversò il prato. «Qualcosa non va?» chiese. «Cosa stai guardando?» Tag le lanciò un'occhiata, annusando l'aria. «Non senti un odore strano?» Lei inalò a fondo e le sue narici si riempirono di un fetore rancido. «È orribile!» esclamò. «Da dove viene?» «Dalla serra, penso», rispose lui, cominciando ad avanzare. Teri gli si affiancò ed entrambi si avvicinarono alla costruzione cadente dietro al garage. L'odore peggiorava a ogni passo. «Gesù», sbottò Tag rabbrividendo. «Sembra che qualcuno sia morto dentro...» Tacque di colpo nell'udire le proprie parole. «Oh, mio Dio», mormorò piano. Corse in avanti e spalancò la porta, arretrando di riflesso di fronte al nugolo di mosche che ronzò fuori della serra; un attimo dopo, però, si riprese ed entrò, trattenendo il respiro per sfuggire al tanfo di putrefazione. Fatta eccezione per una pala arrugginita, il locale era vuoto, ma il ragazzo, ispezionando il pavimento, si accorse delle assi mosse. Chinatosi, ne sollevò una. Come guardò nella nicchia sotto il pavimento, fu preso dai conati: il corpo di Blackie, gonfio di gas e brulicante di vermi biancastri, era a malapena riconoscibile, ma, nonostante la putrefazione avanzata, lui capì immediatamente di cosa si trattasse. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «È Blackie...» ansimò, voltandosi così rapidamente che Teri non ebbe il tempo di celare il sorriso maligno salitole alle labbra nell'osservarlo mentre
scopriva il cadavere del suo cane. Alla vista di quella smorfia crudele, Tag arretrò attonito. «Tu!» bisbigliò. «Allora avevo ragione!» «Non essere stupido», reagì lei, fissandolo con disprezzo. «Perché mai avrei dovuto uccidere quell'animale? Non capisci? È stata Melissa!» Il ragazzo scosse la testa. «Non avrebbe mai potuto farlo, perché lo amava anche più di me.» Con la mente in subbuglio, si ricordò di colpo di quando, sabato notte, si era svegliato e aveva guardato alla finestra: Teri si stava aggirando per la casa. Una luce si era accesa, per poi spegnersi e ricomparire qualche minuto dopo. A quel punto, l'aveva vista spostarsi dalla sua stanza al bagno che divideva con Melissa. «Che cosa stai combinando» esplose. «Che cosa stai tramando contro Melissa?» E in quel momento capì. «Eri tu», mormorò. «Tu eri lo spettro che Melissa ha visto in soffitta sabato notte. E hai anche ucciso Blackie.» Con gli occhi pieni di odio, Teri si gettò improvvisamente contro di lui, spingendolo all'indietro. Tag barcollò sotto la forza dell'urto, agitò freneticamente le braccia per mantenere l'equilibrio, ma cadde. Protese il braccio sinistro dietro di sé per attutire il colpo, ma la mano si infilò nella fessura lasciata dalla trave rimossa e affondò nel cadavere in decomposizione. Tentò di rotolare su se stesso per liberarsi, ma era ormai troppo tardi. Teri, gli occhi vitrei dall'ira, afferrò la pala appoggiata alla parete, la strinse con entrambe le mani e la sollevò in aria. Un istante dopo la vibrò con violenza sul viso del ragazzo. Quando l'attrezzo gli fratturò il setto nasale, Tag avvertì una fitta di dolore lancinante e istintivamente cercò di schivare il colpo successivo. Ma fu troppo lento. La pala gli si abbatté sul cranio. Dopo un breve sussulto, giacque immobile. Ansimando, Teri fissò il corpo riverso sul pavimento. Non aveva avuto intenzione di ucciderlo, si disse. Se solo Tag avesse accettato la frottola che era stata Melissa ad ammazzare il cane, tutto sarebbe finito bene. Tuttavia si era ricordato dell'episodio di sabato notte e aveva intuito la verità. Era stata costretta a eliminarlo. Lui non le aveva lasciato scelta. Istintivamente esaminò i dintorni della serra, ma non vide nessuno. Del resto, perché mai avrebbe dovuto? Erano tutti a casa dei Barnstable, salvo Cora e Melissa. Cora non sarebbe tornata per almeno altri quaranta minuti. E Melissa era in camera sua, profondamente addormentata. Addormentata.
Ripetendo fra sé quella parola, seppe come comportarsi. Inginocchiatasi, toccò il collo di Tag. Dapprima non avvertì nulla, ma poi si accorse di una debole pulsazione. Quindi non era morto, dopotutto. Non ancora, perlomeno. Lo girò sulla schiena e lo guardò in viso: il sangue gli scorreva copioso dal naso frantumato e gli occhi erano chiusi. Ora poteva udire il suo respiro, un rantolo irregolare inframmezzato da colpi di tosse a causa dell'emorragia che minacciava di soffocarlo. Lasciandolo dove si trovava, corse a casa e si precipitò in soffitta, estraendo il vecchio abito bianco dal baule in cui lo aveva nascosto. Lo mise sotto il braccio e tornò fuori dirigendosi per prima cosa nel garage, dove venivano conservati gli attrezzi da giardinaggio. Là, appoggiato al muro, stava il machete che aveva visto usare da Tag per sradicare l'edera dalla facciata della villa. Sorridendo fra sé, lo prese. Di nuovo nella serra, sollevò le altre assi e fece rotolare il ragazzo svenuto finché il suo corpo inerte non scivolò sul cadavere in putrefazione del cane. Infine alzò il machete e, senza un attimo di esitazione, abbatté l'enorme lama sul cranio di Tag, squarciandoglielo. Liberato l'attrezzo con uno strattone, vibrò altri due fendenti sul corpo martoriato, quindi depose l'arma. Servendosi del vecchio vestito bianco come di uno straccio, ripulì accuratamente il pavimento dal sangue, poi, per intridere meglio il tessuto, ne prelevò dell'altro assorbendolo dal cadavere di Tag. Alzatasi in piedi, scosse il vestito e sorrise soddisfatta nel vedere le macchie rosse che lo ricoprivano sul davanti dal corpetto fino all'orlo. Piegò con cura l'abito e lo mise da parte mentre rimetteva le assi al loro posto. Sopra il pavimento si librava già uno sciame di mosche, alcune delle quali cominciarono a insinuarsi nelle fessure per cibarsi dei resti sottostanti. Ora che il corpo di Tag ricopriva quello di Blackie, però, il fetore sembrava essersi attenuato. Con il vestito fra le mani, Teri tornò alla villa e salì nuovamente in soffitta per riporlo nel suo nascondiglio. Cora entrò in cucina e guardò l'orologio: era stata fuori poco più di un'ora, ma le rimaneva ancora un sacco di tempo per preparare la torta a Melissa e mettere in forno l'arrosto per la cena degli Holloway, prima di andare a casa a occuparsi del pasto di Tag. Estrasse la spesa dalla borsa, mise ne-
gli armadietti tutto ciò che non doveva usare subito e, sul punto di dedicarsi alla crostata, si accorse che né il nipote né Teri si erano fatti vivi per salutarla, per non parlare di darle una mano con i sacchetti degli acquisti. Non che si aspettasse una simile cortesia da parte di Teri, naturalmente. Rammentò che Tag le aveva detto qualcosa circa la sua intenzione di andare nuovamente in cerca di Blackie, ma Teri? Era mai possibile che fosse uscita, lasciando Melissa da sola? Dalla soglia della cucina chiamò ad alta voce: «C'è nessuno in casa?» Dopo un attimo di silenzio udì la risposta della ragazza. «Sono in biblioteca.» Con un sospiro di sollievo, la domestica si avviò in quella direzione. Teri, con addosso un paio di jeans e una maglietta, era sdraiata sul divano di pelle a guardare la televisione, i piedi calzati in scarpe da ginnastica adagiati su un bracciolo. «Non posso credere che tua madre non ti abbia insegnato a non mettere le scarpe sui divani», commentò Cora. La ragazza la ignorò. «Va tutto bene?» riprese la donna. «Ma certo. E perché non dovrebbe?» fu la risposta. «Beh, avresti anche potuto venire ad aiutarmi con la spesa.» Teri scrollò le spalle. «Non ti ho sentita rientrare. Tra l'altro, la cosa non mi riguarda.» Irritata, la domestica evitò di ribattere, uscì dalla stanza e salì le scale, praticamente certa che la ragazza non si sarebbe accorta né curata di qualsiasi cosa potesse essere capitata a Melissa. La piccola, per fortuna, era ancora raggomitolata nel letto, profondamente addormentata. Sentendosi meglio, Cora tornò in cucina a preparare la torta. Venti minuti dopo, con la crostata in un forno e l'arrosto nell'altro, uscì dalla porta di servizio e si diresse a casa attraversando il prato. Appena entrata, chiamò subito il nipote, ma non ottenne risposta. «Tag?» insisté. «Dove sei?» Lanciò un'occhiata all'orologio: erano le sei passate, e lui non rientrava mai in ritardo. Andò in cucina in cerca di un biglietto, ma non trovò nulla. Perplessa, fece ritorno alla villa e si precipitò immediatamente nella biblioteca. «Hai visto Tag?» Con aria riluttante, Teri distolse gli occhi dallo schermo. «Perché? Era in casa?» «Se lo sapessi, non te lo chiederei, non ti pare?» reagì Cora con asprezza. «Siccome non è a casa, mi chiedevo se tu non lo avessi notato qui at-
torno.» La ragazza scosse il capo. «Forse è andato a trovare qualche suo amico», suggerì. «Mi aveva detto che intendeva cercare Blackie...» iniziò la donna, lasciando in sospeso la frase nell'accorgersi che Teri stava alzando gli occhi al cielo con aria spazientita. «E la sua migliore amica è Melissa», proseguì un attimo dopo. «Pensavo soltanto che potesse essere passato a controllare come stava, ecco tutto.» Teri emise un vistoso gemito. «Se la sua migliore amica è Melissa, allora è anche più stupido di quanto credessi.» Il viso rubicondo della domestica si fece livido. «Alcune persone», dichiarò sostenuta, «non sono certo gentili come si fingono, vero?» La ragazza sorrise con esagerata dolcezza. «E alcune persone», ribatté, imitando deliberatamente il tono di Cora, «potrebbero non lavorare più qui, se non imparano a mostrare un po' di rispetto verso i loro superiori.» Le due si fissarono a lungo, ma fu la donna più anziana a distogliere infine lo sguardo. Giratasi di scatto, uscì dalla stanza, sbattendo la porta alle proprie spalle. Teri, divertita dall'ira impotente della domestica, si concentrò nuovamente sul televisore. Melissa si svegliò all'una di notte, la mente ancora annebbiata dai sedativi che aveva preso quel pomeriggio. Per qualche istante si sentì confusa, poi ricordò tutto. Era andata al funerale di Jeff, avvertendo su di sé gli sguardi degli intervenuti. Quando aveva guardato dentro la bara e lo aveva toccato... Rabbrividì a quel ricordo, stringendo istintivamente le coperte intorno al corpo. Andava tutto bene, si disse. Era a casa, nel proprio letto, e la mamma questa volta non l'aveva legata. Non era successo nulla di male. Girandosi, si accorse di non poter muovere le gambe e i piedi. Per un secondo provò una fitta di panico: sua madre era venuta a metterle le cinghie? Ma le mani erano libere! Doveva trattarsi soltanto delle lenzuola. Cercò di scalciare via le coperte, che scivolarono di lato, ma i piedi erano ancora impigliati in qualcosa. Accese la luce e si sedette sul letto.
E vide il vestito, attorcigliato alle caviglie. L'abito di D'Arcy. Quello che aveva indossato sabato sera, quando Jeff Barnstable era morto. E ora, nel giorno del suo funerale, era di nuovo lì, nel letto, attorno alle proprie gambe. Coperto di macchie. Rosse come il sangue. Boccheggiò, il cuore che le martellava in petto. Non poteva essere vero. Si trattava di un altro sogno. Doveva essere così. Chiuse gli occhi, poi li riaprì nella vana speranza che il vestito fosse scomparso. Ma era ancora avvolto attorno ai piedi e le maniche sembravano addirittura essersi estese durante quel brevissimo intervallo. Un gemito le sfuggì dalle labbra e subito si premette una mano sulla bocca. In quel momento si aprì la porta del bagno e Teri, in vestaglia, fece il proprio ingresso. «Melissa!» esclamò. «Stai...» Tacque di colpo alla vista dell'abito insanguinato. «Oh, mio Dio», mormorò. «Cos'hai fatto questa volta?» La ragazzina, a occhi sbarrati, si rannicchiò contro la testiera, riuscendo finalmente a liberarsi le gambe. «N... niente», bisbigliò, in un tono che rifletteva chiaramente la disperazione. «Mi sono svegliata, ho sentito qualcosa in fondo al letto e...» Distolse lo sguardo dal vestito per lanciare alla sorellastra un'occhiata implorante. «Teri, che cosa ci fa qui?» La ragazza raccolse l'abito e, reggendolo con circospezione, si girò verso Melissa. «Non ricordi?» «R... ricordare?» balbettò lei. «Che cosa?» Teri scosse tristemente la testa. «Oh, Dio. Pensavo fossi sveglia, ma evidentemente non lo eri, vero?» La bambina fu presa dal panico. Non era possibile che avesse di nuovo camminato nel sonno! «Di cosa stai parlando?» supplicò. «Ho dormito fino a qualche minuto fa.» Teri lasciò cadere il vestito, si sedette sul letto e la prese per mano. «Sei uscita», spiegò con una nota quasi affannosa nella voce. «Devi ricordarti bene. Devi!» Allibita, Melissa si limitò a fissarla. «È stato, non saprei, circa un'ora fa. Tag era fuori sul prato e ti chiamava. Mi sono svegliata e gli ho detto che stavi dormendo, ma proprio in quel
momento sei apparsa sulla porta di servizio.» La ragazza spostò per un attimo gli occhi sull'abito, quindi riprese a parlare. «Ho pensato che indossassi l'accappatoio, quello bianco di spugna. Invece... invece...» La sua voce si spense. «Dove l'hai trovato?» chiese infine. Nonostante il calore estivo, Melissa rabbrividì. «Non lo so», gemette. «Credevo non fosse più in casa, che te ne fossi sbarazzata tu.» «Infatti», mentì Teri. «L'avevo gettato nella spazzatura. Pensavo fosse ormai sparito, visto che stamattina sono venuti a prelevare i rifiuti.» La ragazzina inghiottì a vuoto. Se sua sorella se n'era liberata, come... Sentì la mente vacillare. Non era possibile, doveva per forza essere un incubo. Niente di tutto ciò poteva essere veramente accaduto. «Sei andata via con Tag», proseguì Teri. «Ero convinta che foste diretti a cercare Blackie.» «No», sussurrò Melissa, coprendosi le orecchie nel tentativo di non udire le parole della sorellastra. «Dormivo! Non sono andata da nessuna parte!» «Ma ti ho vista!» insistette Teri. «Se avessi saputo che stavi camminando nel sonno, ti avrei fermata. Invece ero convinta che fossi sveglia. Qualsiasi cosa sia accaduta, è anche colpa mia.» «Accaduta? Che cosa...» «Mi riferisco al sangue», spiegò la ragazza. «Non può essere comparso dal nulla.» La ragazzina si seppellì il viso fra le mani, cercando di costringersi a ridestarsi da quell'incubo. Tuttavia, quando sollevò di nuovo lo sguardo, la sorella era ancora seduta sul bordo del suo letto. «Do... dove?» bisbigliò. «Dove siamo andati Tag e io?» «Non lo so. Vi siete avviati dietro il garage.» «Ma lì non c'è niente. Solo la vecchia serra.» Teri si alzò. «Credo sia meglio dare un'occhiata. Dov'è la tua torcia elettrica?» Melissa scosse il capo. «No, non voglio. Io...» «Dobbiamo farlo!» la sollecitò la ragazza. «È necessario scoprire che cos'hai combinato. Non capisci? Se è successo qualcosa...» «No!» gemette di nuovo Melissa. «Non avrei potuto...» «Ma devi aver fatto qualcosa! Coraggio, andiamo!» esclamò Teri. Sospinse la sorellastra fuori del letto e l'aiutò a indossare l'accappatoio, quindi spense la luce dopo aver preso la torcia elettrica dal cassetto del comodino. Silenziosamente, aprì la strada fino al piano superiore e poi all'esterno della casa, cercando d'istinto di celarsi nell'ombra mentre costeg-
giavano la piscina. In pochi secondi giunsero davanti alla serra. «Oh, Dio!» sussurrò annusando l'aria. «Puzza come se ci fosse un cadavere!» Melissa sbarrò gli occhi e fu colta dai brividi, ma, quando la sorellastra aprì la porta e mosse un passo all'interno, la seguì quasi in preda a uno stato di trance. Richiuso il battente alle loro spalle, Teri accese la torcia e fece scorrere il fascio di luce tutt'attorno. Finché non illuminò il machete, la lama ancora luccicante di sangue. Melissa boccheggiò. «Co... cosa ci fa qui? Tag lo tiene nel garage.» Teri indirizzò il cono luminoso sul pavimento, dov'erano evidenti numerose macchie di sangue. «Guarda», disse a bassa voce. «Qui le assi sono state smosse.» Inginocchiatasi, ne sollevò una, illuminando con la torcia lo spazio sottostante. Melissa sentì un urlo salirle alla gola nel vedere il cadavere riverso di Tag, la testa squarciata e i vermi già brulicanti sul tessuto cerebrale. Prima che potesse gridare, però, Teri le mise una mano sulla bocca. «Non fiatare! Se qualcuno ti sente, non potrò fare più niente per te. Capiranno ciò che è accaduto e ti manderanno via.» L'urlo si smorzò sostituito da uno straziante singhiozzo. Era tutto troppo assurdo: Tag non poteva essere morto. Si trattava per forza di un incubo orribile, e presto si sarebbe svegliata. Avrebbe aperto gli occhi nella propria stanza e tutto sarebbe finito bene. Si aggrappò alla sorellastra, sopraffatta dal pianto. «Non intendevo fare nulla di male», mormorò fra le lacrime. «Non è stata colpa mia. Non avrei mai ucciso Tag. Non avrei potuto nuocergli in alcun modo...» Teri, sorridendo nell'oscurità, le accarezzò affettuosamente i capelli. «È tutto a posto», la rassicurò in tono sommesso. «Sono qui con te e non permetterò che ti succeda qualcosa. Escogiterò una soluzione, vedrai. Penserò io a tirarti fuori da questo pasticcio. Tra l'altro», aggiunse con voce ancora più bassa, «non sei stata davvero tu a fare questo, non è vero?» Attonita, Melissa fissò la sorella. «Ma non capisci?» proseguì lei. «Non sei affatto stata tu. Questa è opera di D'Arcy.» E di colpo la mente confusa della piccola afferrò la situazione. Improvvisamente tutto le fu chiaro. D'Arcy era tornata, era arrivata mentre lei dormiva.
Prendendo possesso del suo corpo. E questa volta l'amica di cui lei si era sempre fidata aveva ucciso Tag. Nuovamente colta da un accesso di singhiozzi angosciati, si lasciò andare fra le braccia di Teri. Nonostante tutto, le cose si sarebbero aggiustate. Teri era con lei e avrebbe trovato il modo di aiutarla. Teri l'avrebbe salvata. 24 Cora si agitò inquieta nella poltrona e, un attimo dopo, aprì gli occhi. Dapprima si sentì disorientata, poi si rese conto di dove si trovava: era rimasta alzata ad aspettare il ritorno di Tag, ma doveva essersi assopita. Il libro che stava leggendo giaceva aperto sul suo grembo e il piccolo soggiorno era illuminato soltanto dalla lampada a stelo che lei aveva acceso al calar della sera. Completamente irrigidita, tutte le giunture doloranti per le ore trascorse lì seduta, cominciò lentamente a stiracchiarsi mentre le ultime tracce di sonno svanivano. Infine controllò l'orologio. Quasi l'una del mattino. Doveva aver dormito per circa quattro ore. Si trascinò faticosamente in piedi e si avviò verso le scale, ma si fermò dopo qualche passo. La casa aveva l'aria deserta. Fu praticamente certa che il nipote non fosse ancora tornato. Il nodo d'apprensione ingigantitosi dentro di lei per tutta la sera si trasformò ora in paura: Tag non era mai rimasto fuori tanto a lungo e di certo non era mai svanito fino a quell'ora senza dirle nulla. Se poi fosse arrivato a casa e l'avesse vista in poltrona, sicuramente l'avrebbe svegliata. Forse no, cercò di rassicurarsi, rifiutandosi di cedere al panico che si stava già furtivamente insinuando ai margini della sua mente. Forse mi ha visto e ha semplicemente deciso di lasciarmi dormire. Salì gli scalini tenendosi una mano premuta contro l'anca sinistra, che ad ogni movimento scatenava un'acuta fitta di dolore lungo tutta la gamba, fino alle dita del piede. Magari, rifletté, era arrivato il momento di trasferirsi al piano inferiore. Poteva trasformare la minuscola sala da pranzo (che lei e Tag usavano comunque) in una camera da letto e farla finita una volta per tutte con le scale. Non che, ovviamente, avrebbe potuto evitarle alla villa...
Giunta sul pianerottolo armeggiò con l'interruttore, ma, anche prima di venire momentaneamente accecata dalla luce, seppe con certezza che il nipote non era di sopra. La porta della sua stanza era aperta, esattamente come qualche ora prima, quando era salita a controllare. Ciononostante, ispezionò la camera e il bagno. Tornò giù, dirigendosi automaticamente in cucina, dove mise un pentolino d'acqua sulla stufa per prepararsi un caffè. In attesa che bollisse, cercò di decidere il da farsi. Il suo primo impulso era quello di dirigersi alla villa e svegliare il signor Charles. In tal caso, però, si sarebbe svegliata anche Phyllis e Cora poteva già vedere lo sguardo della padrona e udire le sue parole. «Ci hai disturbato solo perché Tag non è rientrato a casa? Santo cielo, mi risulta difficile concepire come tu possa essere tanto scriteriata! Ho trascorso una giornata terribile...» E così via, finché il signor Charles non avesse indossato la vestaglia e non fosse sceso dabbasso. Ma domani Phyllis sarebbe stata ancora furiosa per il sonno interrotto e non si sarebbe limitata a sfogarsi su di lei. Se la sarebbe presa anche con Melissa. No, per parlare con il signor Charles era meglio attendere fino alla mattina. Perché non rivolgersi alla polizia, allora? La donna quasi sorrise nell'immaginarsi la loro risposta. Avrebbero certamente pensato che stesse diventando un po' matta, per denunciare la scomparsa di un adolescente che mancava da casa da poche ore soltanto. E forse non avrebbero avuto neppure torto: probabilmente non c'era davvero nulla di cui preoccuparsi. Dopotutto, quante volte il padre di Tag era rimasto fuori notti intere quando aveva l'età di suo figlio? Non poteva nemmeno ricordarsene, tanto spesso era accaduto. E normalmente rientrava a casa — se lo faceva — tanto ubriaco da non reggersi in piedi. L'acqua cominciò a bollire e Cora la versò in una tazza dove aveva già posto un cucchiaino di caffè istantaneo. Forse tutto si riduceva al fatto che Tag stava crescendo, si disse. Probabilmente aveva semplicemente deciso che era ora di divertirsi un po'. Ma per quanto tentasse di convincersi che questa era l'unica spiegazione, continuava a non crederci. Tag non era affatto come suo padre e mai lo era stato.
Presa con sé la tazza bollente, tornò in soggiorno. Completamente sola in casa per la prima volta in quasi quindici anni, avvertì una strana sensazione. Si sentì sola. Sola e vulnerabile. Si guardò attorno a disagio: i rettangoli neri delle finestre sembravano ricambiare il suo sguardo e la donna si sentì improvvisamente osservata da occhi malevoli al di là dei vetri. Appoggiata la tazza sul tavolino, si spostò da una finestra all'altra, chiudendo le tende. Si sedette nuovamente in poltrona e riprese il libro. Se fosse riuscita a concentrarsi nella lettura, forse le preoccupazioni le avrebbero dato tregua. Quando però tentò di focalizzare l'attenzione sulle parole, divenne soltanto sempre più consapevole della propria solitudine. E provò anche la sinistra sensazione che, all'esterno della casa, qualcosa non andasse. Cercò di rassicurarsi ripetendo che si stava lasciando trascinare dalla propria immaginazione, ma più si sforzava di ignorare il disagio, più forte esso diventava. «Sei una vecchia stupida», borbottò infine tra sé, alzandosi in piedi per l'ennesima volta. «Ti sei agitata per niente e adesso stai addirittura spaventandoti a morte, inventandoti cose inesistenti.» Nonostante quello sfogo, però, andò alla porta, accese la luce e uscì sul portico. L'oscurità notturna la investì, parve addirittura chiudersi attorno a lei e l'inquietudine della donna si ingigantì. L'istinto le suggerì di tornare in casa e chiudere a chiave la porta, ma la ragione le impose di ricacciare ogni paura. Se qualcosa non andava, bisbigliò una voce dentro di lei, quasi sicuramente riguardava Tag. Si allontanò dal portico e dalla vivida pozza di luce gettata dalla lampada di fianco all'ingresso. Teri osservò Melissa alla fievole luce lunare che si riversava dalla soglia della serra: stava fissando il cadavere nella cavità sotto il pavimento, ma aveva smesso di piangere e sembrava invasa da una calma innaturale, dal momento in cui aveva mormorato una sommessa supplica affinché D'Arcy venisse ad aiutarla. Improvvisamente la ragazza capì. Si era ripetuto lo stesso fenomeno in cui si era imbattuta quando aveva trovato la sorellastra legata al letto, gli occhi vacui e sbarrati rivolti al soffitto. La personalità di Melissa aveva la-
sciato il posto all'«amica» inventata per potersi proteggere dalla realtà. Assolutamente perfetto. Anche più di quanto lei avesse sperato. Si accese una luce — quella del portico di Cora — e Teri spense di colpo la torcia elettrica, ritirandosi nell'oscurità della serra. Un attimo dopo vide il contorno di una figura stagliarsi contro la facciata della casetta della domestica. Cora, ancora sveglia in attesa del nipote. Se fosse venuta da quella parte... Ma la donna si avviò nella direzione opposta, girando dietro l'edificio. «Pulisci il machete, Melissa», bisbigliò la ragazza. La piccola rimase dove si trovava, del tutto immobile, come se non l'avesse udita affatto. Allora Teri si ricordò. «D'Arcy?» chiamò piano. La testa della sorellastra si mosse e i suoi strani occhi vuoti si fissarono su di lei. «Vuoi aiutare Melissa, vero? Non è per questo che sei qui?» La bambina assentì lentamente. «In tal caso, pulisci il machete», sussurrò di nuovo la ragazza. «Prendilo e togli il sangue dalla lama.» Ubbidiente, Melissa afferrò l'arma e cominciò ad asciugare le chiazze rossastre con un vecchio straccio che giaceva in un angolo del pavimento. «Molto bene», proseguì Teri. «Ora getta lo straccio nella cavità.» Muovendosi come un automa, la piccola buttò il pezzo di tessuto sopra il cadavere di Tag. «Ora aiutami a rimettere a posto le assi.» La ragazza sollevò un'estremità della tavola di legno più vicina e la spostò sulla nicchia; al capo opposto, Melissa ripeté silenziosamente i suoi movimenti. Pochi secondi dopo il buco nel pavimento era scomparso e il machete era nuovamente appoggiato alla parete della serra. «Ora devi tornare a casa, D'Arcy.» Teri esaminò il portico della casa di Cora, ma la domestica non era in vista. «Devi portare Melissa nella sua stanza e metterla a letto.» Senza una parola, la ragazzina assentì nuovamente. «Passa sul retro dello spogliatoio della piscina, così, se qualcuno ti vede, sarà impossibile stabilire da dove vieni.» Scrutò un'altra volta nel buio in cerca di eventuali tracce di Cora, poi spinse gentilmente la sorellastra attraverso la porta. Melissa, lo sguardo fisso davanti a sé, si avviò subito nella direzione indicatale. Dopo un'ultima occhiata alla serra, anche Teri si affrettò all'esterno, te-
nendosi celata nell'ombra finché non fu giunta sulla veranda della villa, dove si insinuò furtivamente, richiudendo a chiave la porta-finestra alle proprie spalle. Cora terminò il giro della casa senza aver notato nulla. Sul punto di rientrare, la sua attenzione fu destata da un accenno di movimento nei pressi della piscina. Si riparò gli occhi dal bagliore della lampada del portico, quindi spense l'interruttore; un attimo dopo, quando la sua vista si fu abituata all'oscurità, la figura accanto alla piscina acquistò chiarezza. Una sagoma vestita di bianco, che si muoveva verso la porta di servizio della villa. La domestica ansimò nel ricordare istintivamente tutte le storie udite sul conto di D'Arcy. Subito dopo, però, la ragione prevalse e, con essa, la certezza di sapere chi fosse quella bizzarra apparizione. Lasciando il portico al buio, scese rapidamente i gradini e attraversò il prato, rallentando nell'avvicinarsi alla pallida figura. Ora che la vedeva bene, si rese conto di aver avuto ragione. Si trattava di Melissa, incamminata verso la villa a occhi sbarrati, con le braccia che penzolavano inerti lungo i fianchi. In movimento, ma profondamente addormentata. Immediatamente, la donna rammentò le istruzioni ricevute quando la piccola aveva manifestato i primi segni di sonnambulismo. «Il dottore sostiene che è molto importante non spaventarla», le aveva spiegato Charles. «Probabilmente non accadrà mai, ma, se ti capitasse di avere a che fare con lei in questo stato, cerca di non svegliarla. Se lei si svegliasse comunque, dille che va tutto bene, raccontale cos'è successo e riportala a letto. Tuttavia, dovresti essere in grado di rimetterla sotto le coperte mentre lei continua a dormire. Limitati a parlarle sottovoce, cercando di guidarla nella sua camera.» Dopo aver respirato a fondo, Cora si affiancò alla piccola e la prese gentilmente per un braccio. «Va tutto bene, tesoro», sussurrò. «Ora ti accompagno a letto.» Adeguò il passo all'andatura sonnolenta di Melissa, arrestandola con dolcezza davanti alla porta di servizio mentre estraeva la chiave dalla tasca. Guidandola all'interno, sporse istintivamente una mano verso l'interruttore, ma si fermò appena in tempo, rendendosi conto che la luce improvvisa avrebbe certamente svegliato e spaventato la ragazzina. Al buio, condusse Melissa attraverso la cucina e la dispensa, a proprio
agio nello spostarsi per la casa come se fosse pieno giorno. «Bravissima», la incoraggiò. «Ora passiamo in sala da pranzo, poi saliamo le scale.» Aggirarono il tavolo da pranzo, si spinsero nell'ingresso e iniziarono a salire gli scalini. Sul pianerottolo del primo piano, Melissa si fermò, quindi si avviò nella direzione opposta a quella della propria stanza. Perplessa, Cora inarcò le sopracciglia, ma subito capì. La soffitta. Come aveva già fatto molte volte in precedenza nel sonno, Melissa si stava dirigendo verso la cameretta nel sottotetto. «No, tesoro, stanotte no.» Le si parò davanti per bloccarle la strada e la ragazzina si arrestò, fissandola con occhi inespressivi. Poi, mentre la domestica la faceva girare su se stessa con gentilezza, assunse un'espressione interrogativa. «Va tutto bene», la rassicurò nuovamente la donna. «Sei al sicuro qui dentro. Adesso non potrà più accadere nulla di male.» Le labbra di Melissa si mossero, mormorando un'unica parola a malapena percettibile. «Sicuro?» «Ma certo», rispose Cora. «Sei assolutamente al sicuro. Tua madre dorme e nessuno sa che cos'è successo.» Con un sospiro la ragazzina chiuse gli occhi. Per un istante rimase perfettamente immobile, quindi le ginocchia le cedettero e si accasciò sul pavimento. Istantaneamente sollevò le palpebre e quando guardò verso Cora, alla fioca luce notturna, l'anziana donna poté scorgere il panico nei suoi occhi. «C... Cora?» balbettò Melissa. Si guardò attorno come un animaletto inseguito da un predatore. Dapprima si sentì completamente disorientata, poi un ricordo si affacciò alla sua mente. L'impressione di trovarsi nella serra, di guardare in un buco nel pavimento e di scorgere... Represse un singhiozzo nel rammentare anche il resto. Ma che cos'era successo? Perché era sdraiata in corridoio? Perché Cora le stava accanto? Come era arrivata fino a lì? Fissò muta la domestica. «Va tutto bene, cara», la tranquillizzò la donna, porgendole una mano per aiutarla a rimettersi in piedi. Vedeva distintamente quanto Melissa fosse atterrita. Se solo avesse continuato a dormire per qualche minuto ancora, sarebbe riuscita a ricondurla a letto.
«Do... dove... come ho fatto a finire qui?» «Zitta, bambina mia», mormorò Cora, il cervello freneticamente al lavoro per trovare il modo di impedirle di spaventarsi ancora di più. «Non preoccuparti. Non riuscivo a dormire, così ho pensato di prendere un bicchiere di latte caldo. Ma ci crederesti? L'avevo finito. Sono venuta alla villa per prenderne un po' e ti ho sentito camminare per il corridoio.» Si costrinse a ridere. «Dio sa se non facevi tanto baccano da svegliare i morti. Tua madre, però, non se n'è accorta e quindi è tutto a posto. Basterà che ti accompagni a letto. O forse, se preferisci, puoi scendere in cucina con me a bere anche tu un po' di latte.» Sapeva benissimo di blaterare insensatezze e che anche Melissa avrebbe potuto rendersene conto, se solo ci avesse pensato, ma non fu neppure certa che lei l'avesse udita. I suoi occhi spaventati avevano assunto un'aria perplessa, come se stesse ancora cercando di immaginare cosa potesse essere accaduto. «Stavi nuovamente camminando nel sonno, tesoro», le spiegò allora, sospingendola affettuosamente verso camera sua. «Penso che fossi diretta in soffitta. A ogni modo, non importa, visto che ti ho fermata in tempo. Ora devi solo tornare a letto.» Erano ormai giunte di fronte alla porta della stanza e, di colpo, Melissa si irrigidì. Il vestito. Lei e Teri avevano lasciato l'abito macchiato di sangue là dentro, sul pavimento. Se Cora l'avesse visto... Ignara, la domestica spinse il battente e accese la luce. Immediatamente, gli occhi della ragazzina si posarono sul punto in cui la sorellastra aveva gettato il vestito. Non c'era più. Intontita, permise a Cora di guidarla all'interno e di sfilarle la vestaglia. A stento consapevole di quanto stava succedendo, la mente ancora in preda alla confusione, si lasciò mettere a letto e avvertì vagamente che la donna le rimboccava le coperte. «Ecco», udì la domestica mormorare, «adesso sei al sicuro fra le lenzuola.» Sentì le sue labbra sfiorarle una guancia e una delicata carezza sulla fronte. «Torna a dormire», la sollecitò Cora. «Ora è tutto finito.» Qualche istante dopo, rimasta sola, Melissa si alzò e andò alla finestra. All'esterno, a malapena visibile, poteva scorgere un angolo della serra sporgere da dietro il garage. Era davvero stata là fuori? Oppure si era trattato di un sogno?
No, il ricordo era troppo vivido, troppo reale. Lei e Teri... Teri. Anche sua sorella era venuta nella serra. Doveva esser stata lei a nascondere il vestito. Ma rimaneva ancora un vuoto nella sua memoria, dal momento in cui aveva visto l'orrendo spettacolo sotto il pavimento e aveva fatto appello a D'Arcy perché l'aiutasse, fino a quando si era svegliata nel corridoio di casa. Ogni traccia di quel periodo era scomparsa, svanita come se non fosse esistito affatto. Allontanatasi dalla finestra, sgattaiolò in bagno e bussò piano alla porta di comunicazione con la stanza della sorella; non ottenendo risposta, girò la maniglia e socchiuse il battente. Alla fioca luce della luna riuscì a stento a distinguere la sagoma sdraiata a letto, coperta solo da un lenzuolo. Con fare esitante, quasi timidamente, la ragazzina avanzò fino alla figura dormiente. «Teri?» bisbigliò. «Sei sveglia?» La sorellastra non reagì. Quando Melissa le toccò la spalla, Teri emise un gemito soffocato e si girò, voltandole la schiena. La piccola sentì il cuore accelerare i battiti: come era possibile che sua sorella si fosse addormentata così in fretta? Solo pochi minuti prima erano entrambe nella serra... A meno che... Trattenendo il respiro, la scosse con forza. «Teri, svegliati!» La ragazza balzò a sedere, sbatté ripetutamente le palpebre, infine guardò Melissa tenendo gli occhi semichiusi. «Sei tu?» chiese con voce impastata dal sonno. «Che ore sono?» «Non lo so.» «Ma che cosa stai facendo qui? Perché non sei a letto?» La ragazzina rimase attonita. «Il... il vestito», balbettò. «Che ne hai fatto?» La sorella maggiore le rivolse un'occhiata interrogativa. «Quale vestito? Di cosa stai parlando?» Melissa si sentì afferrare dalla morsa gelida del panico. Era assurdo! Non poteva essersi trattato di un sogno, era assolutamente impossibile! «L'abito bianco», mormorò. «Quello sul manichino, che ho indossato al ballo. Stanotte era in camera mia!» Accigliata, Teri scosse la testa. «Ma è ridicolo!» esclamò. «L'ho buttato
via quella sera stessa, dopo che ti abbiamo riportata a casa.» «Invece non è così», insisté la piccola. «Non ricordi? L'hai visto stanotte, prima che andassimo nella serra.» La ragazza si incupì. «Non capisco cosa stai dicendo. Quando mai saremmo andate nella serra?» Gli occhi di Melissa si riempirono di lacrime. «Poco fa. Noi... abbiamo trovato Tag. D... D'Arcy gli ha fatto qualcosa...» «Senti, non ho la più pallida idea di cosa tu stia raccontando. Prova a spiegarmi cos'è successo.» Melissa fece del proprio meglio per riferire tutto quanto, ricacciando i singhiozzi che minacciavano di soffocarla. «Dopo la scoperta del corpo di Tag», concluse, «non riesco a ricordare altro. So... so soltanto di essermi svegliata in corridoio. Cora mi ha detto che stavo salendo in soffitta.» Sbuffando, Teri si accasciò sul cuscino. «Oh, santo cielo, ma perché non cresci una buona volta?» Melissa si ritrasse. «Ma...» «Si è trattato solo di un incubo!» dichiarò la sorellastra. «Non è ovvio? Hai fatto un brutto sogno, ti sei messa a camminare nel sonno e Cora ti ha trovata!» «Non è stato un incubo!» insisté lei. «Tu eri con me!» «Non sono andata da nessuna parte, Melissa. Mi sono coricata poco dopo le dieci e ho dormito da quel preciso momento.» La ragazza contrasse le labbra in un sorriso sprezzante. «Se non riesci nemmeno a capire quando stai sognando, forse sei davvero pazza come sostengono i ragazzi. Ora torna a letto e lasciami dormire, d'accordo?» Senza attendere una risposta, spense la luce e le girò nuovamente le spalle, tirandosi il lenzuolo sopra la testa. Quando Melissa se ne fu andata, però, si scoprì e si premette le mani sulla bocca. L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era che sua sorella la sentisse ridere. 25 «Missy ? Tesoro, è ora di alzarsi.» Charles Holloway scosse gentilmente la figlia finché non ebbe aperto gli occhi, per richiuderli immediatamente contro l'abbagliante sole mattutino che entrava a fiotti dalle finestre. «Che ore sono, papà?»
«Quasi le nove, cara», rispose lui, sedendosi sul letto e prendendole una mano. «Devo tornare in città, ma non volevo partire senza averti salutata.» Melissa udì a malapena le sue parole perché, una volta completamente sveglia, il ricordo della notte precedente le era balzato alla mente. Invasa da un'ondata di panico, si mise a sedere e cinse il collo del padre con le braccia. «No», lo supplicò. «Non andartene, per favore.» Charles la strinse a sé per un attimo, ma poi si sciolse dal suo abbraccio. «Ehi, è soltanto per oggi! Devo occuparmi di un paio di cose, ma sarò di ritorno stasera.» Le sorrise con aria incoraggiante. «Si tratta solo di poche ore. Volerò in città, parteciperò a una colazione di lavoro e tornerò subito indietro. Se non mi muovo immediatamente, perderò l'aereo. D'accordo?» La ragazzina si irrigidì, la mente ancora invasa dalle orribili immagini della notte precedente. Avrebbe voluto spiegare l'accaduto al papà, pregarlo di andare subito con lei nella serra a guardare sotto le assi. Ma poi ricordò la sera in cui aveva trovato Blackie in soffitta e, non molto tempo dopo, quando D'Arcy le aveva lanciato la mano dalla cima delle scale. In entrambi i casi, dopo che lei aveva insistito affinché uno o l'altro dei suoi genitori andasse a controllare, non era rimasto nulla da vedere. E il ricordo dei due avvenimenti era vivido quanto quello del cadavere di Tag al debole chiarore lunare che filtrava dalla porta della serra. Poteva davvero essersi trattato solo di un incubo? Doveva per forza essere così, visto che la prima cosa che ricordava, dopo aver visto la carneficina nella cavità, era di essersi svegliata all'interno della casa. A pochi metri dalla propria camera. E rammentava ancora le parole di Cora. «Stavi nuovamente camminando nel sonno, tesoro. Penso che fossi diretta in soffitta.» La domestica si trovava al piano inferiore per pura combinazione. E se invece fosse stata all'esterno, l'avrebbe forse vista rientrare? Doveva essere stato un incubo. «Non starai via tutta la notte, vero?» chiese con voce tremante. «No, naturalmente», la rassicurò Charles. «Ho assicurato al dottor Andrews che avrei trascorso più tempo qui a Maplecrest solo per stare con te, e dicevo sul serio. Purtroppo, però, non posso evitare questo impegno. Lo capisci, vero?» Melissa riuscì ad assentire, ma, non appena il padre si alzò, si aggrappò
alla sua mano. «Io... ho avuto un altro incubo», mormorò. Lui esitò, quindi si sedette di nuovo sul letto. «Ancora?» «Tag era morto», spiegò la ragazzina, gli occhi lucidi di lacrime. «Era...» Charles la abbracciò nuovamente, cullandosela al petto. «Zitta», le bisbigliò. «Si trattava solo di un sogno, Missy. Sono certo che Tag sta benissimo...» Ansimando, lei si scostò dal padre, gli occhi improvvisamente circospetti. «Perché, non è qui?» L'uomo si pentì di non aver riflettuto prima di aprire bocca. «È andato da qualche parte ieri pomeriggio», ammise con riluttanza, «e non è ancora tornato.» Melissa si lasciò sfuggire un gemito febbrile. «E... e se...» iniziò, ma il padre la fece tacere mettendole un dito sulle labbra. «Ora smetti di angosciarti. Hai avuto un incubo, ecco tutto. Ieri, al funerale di Jeff, eri davvero sconvolta, ricordi? Vorrei tanto non averti permesso di vederlo. Guardare i morti è un'abitudine barbara e non capisco perché la gente si ostini a farlo. Rammento ancora gli incubi di cui ho sofferto quando avevo la tua età e mi hanno costretto a rimanere accanto alla bara di mia nonna. Per tutta la settimana successiva mi sono svegliato ogni notte, certo di averla vista. Era morta, ma aveva gli occhi aperti e mi fissava. Si limitava a osservarmi, come se le avessi fatto qualcosa. Lo stesso sta accadendo ora a te: ieri hai guardato il corpo di Jeff Barnstable e, nel sogno, lo hai trasformato in quello di Tag. Ma non c'è nulla di vero, tesoro.» Fissò la figlia negli occhi e abbassò lievemente la voce. «Devi cominciare a capire la differenza fra sogno e realtà. Alcuni sogni possono possedere un significato, ma ciò non li rende concreti.» Alzatosi nuovamente in piedi, le sorrise con affetto. «Perché oggi non rimani a letto e te la prendi comoda? Quando poi tornerò a casa, io e te trascorreremo la serata insieme, da soli. Andremo a cena fuori e magari anche al cinema. Che ne dici, non è un'idea allettante?» Melissa assentì automaticamente benché avesse udito appena le sue parole. Se Tag era scomparso... No, si ripeté per l'ennesima volta, è stato solo un incubo. Ma per quanto si sforzasse disperatamente di convincersi, era certa che la verità fosse un'altra. Un'ora dopo, ancora a letto, la ragazzina udì il familiare scricchiolio sul-
la ghiaia del viale mentre Cora faceva marcia indietro con la macchina per recarsi al villaggio. Poco prima la domestica le aveva portato la colazione, ma il vassoio giaceva intatto sul comodino. Quando le aveva chiesto notizie di Tag, la donna si era affannata ad assicurarle che il nipote sarebbe rientrato da un momento all'altro, ma era apparso evidente che lei stessa non ci credeva. Nel momento in cui Melissa aveva cominciato a parlarle del sogno, poi, Cora si era decisamente rifiutata di ascoltarla. «Non voglio neppure sentirti», aveva affermato. «Dovresti dimenticare i brutti sogni. Se lasci che ti sconvolgano, gli incubi non smetteranno di tornare. Sono come diavoli, ecco tutto.» Si era poi profusa in una quantità di chiacchiere, ma Melissa aveva smesso di ascoltarla. Non riusciva a costringersi a distogliere la mente dalle orribili immagini della notte precedente. Ora, con la madre e la sorellastra da tempo al club a giocare a tennis e la casa completamente vuota, scese infine dal letto, indossò un paio di jeans e la sua maglietta preferita (quella che le aveva regalato Tag) e infilò i piedi nelle logore scarpe da ginnastica. Nonostante non ne avesse voglia, trangugiò il bicchiere di succo d'arancia portatole da Cora e si avviò con il vassoio al piano inferiore. La villa, silenziosa in modo quasi sinistro, era pervasa da un'opprimente aria d'abbandono che le fece desiderare di correre all'esterno. Iniziò invece a lavare i piatti, ma, nel momento in cui apriva il rubinetto del lavandino, capì improvvisamente di non poter resistere oltre. Doveva andare nella serra a controllare personalmente. Perlomeno avrebbe finalmente saputo se gli eventi della notte scorsa erano stati solo frutto di un incubo, liberandosi così dalle terribili angosce che l'avevano afferrata sin dall'attimo in cui si era svegliata. Ma se non si fosse trattato di un sogno... Accantonò immediatamente il pensiero. Abbandonati i piatti sporchi nel lavandino, aprì la porta di servizio e uscì sotto il sole, ma neppure il calore mattutino fu in grado di penetrare il gelido nodo di paura che le attanagliava lo stomaco. Prese ad aggirare la piscina, ripercorrendo inconsciamente l'itinerario seguito la notte precedente, mentre era in preda al sonno cui D'Arcy l'aveva consegnata. Giunta infine di fronte alla serra, fu assalita da un'ondata di trepidazione nell'osservare la porta malandata. Si sentì tremare le gambe e per un istante fu sul punto di tornare indietro, ma capì di non poterlo fare.
Doveva sapere. Si costrinse ad avanzare e sospinse il battente: la prima cosa che vide fu il machete, dalla lama scintillante ai raggi del sole. Continuò a fissarlo, quasi potesse farlo scomparire con la sola forza di volontà, riportandolo al suo posto abituale contro il muro del garage. Ma il coltello rimase dove si trovava, accusandola in silenzio. E poi si accorse dell'odore. Le esalazioni dolciastre e nauseanti della carne in decomposizione le assalirono le narici, riempiendole i polmoni e facendole balzare alla mente le terrificanti immagini con rinnovata chiarezza. Con mani tremanti sollevò una delle assi. La sua ragione vacillò alla vista di quanto si celava là sotto. Il cadavere di Tag era coperto di mosche, una palpitante massa nera di insetti intenti a nutrirsi che sciamò immediatamente verso l'alto non appena il pavimento fu scoperchiato. E sotto le mosche comparvero i vermi, brulicanti sugli squarci aperti nel corpo dell'amico. In preda ai conati davanti quella macabra visione, Melissa vomitò, ma non era conscia di ciò che capitava al suo corpo, perché la sua mente, spinta ormai ai limiti della resistenza, stava infine cominciando ad andare a pezzi. Silenziosamente chiamò aiuto, invocò l'unica amica che non l'aveva mai abbandonata né respinta. Aiutami, D'Arcy. Per favore, aiutami... Improvvisamente sentì addensarsi la familiare oscurità, mentre lo spettacolo agghiacciante che non poteva più sopportare di vedere svaniva a poco a poco. Dormire. Doveva dormire. E questa volta sperava di non svegliarsi mai più. Questa volta voleva precipitare nell'abisso nero e rimanervi, sommersa per sempre nella soffice tenebra del sonno consolatorc Nessuno era lì ad assistere al cambiamento di Melissa, nessuno fu testimone della strana trasformazione avvenuta con l'emergere della personalità di D'Arcy, sopraggiunta per la prima volta alla luce del giorno. I suoi occhi, solo un attimo prima chiusi davanti a quell'orrore, si aprirono e rimasero a fissare quasi con curiosità la carneficina sotto il pavimento. Le parole di Teri, che nella sua memoria erano state pronunciate solo pochi minuti prima, echeggiarono ora nella sua mente. «... non sei stata davvero tu a fare questo, non è così?» Perché si trovava lì?
Era tornata a casa. Per mettere a letto Melissa. Ma qualcuno l'aveva mandata via. Qualcuno aveva cominciato a parlare, Melissa aveva udito e si era svegliata. E adesso era di nuovo nella serra, Teri se n'era andata e, in qualche modo, si era fatto giorno. Osservò di nuovo il cadavere nella cavità. Era stata Melissa a causare quello scempio? Lo ignorava. Del resto, non aveva mai saputo perché Melissa fosse nei guai, ma solo che, quando veniva punita, spettava a lei prendersene cura. E se Melissa aveva fatto una cosa simile, sicuramente sarebbe stata castigata. D'Arcy non aveva dubbi su cosa ciò significasse. Voltò le spalle al buco nel pavimento e si incamminò lentamente verso la casa. Ignorando i piatti sporchi nel lavandino, attraversò la cucina fino alle vecchie scale di servizio e salì al primo piano. Uscita dalla porta all'estremità dell'ala degli ospiti, percorse il corridoio fino alla camera da letto padronale, vi entrò e andò direttamente al baule di legno nello spogliatoio del papà di Melissa. Proprio sul fondo, sotto una pila di golf, trovò ciò che stava cercando. Si recò infine nella stanza dell'amica e scostò le coperte dal letto. Cominciò ad assicurare le cinghie all'intelaiatura e, quando ebbe terminato, si tolse i vestiti e infilò il pigiama. Salita sul letto, allungò le gambe e iniziò a legarsi le caviglie con le strisce di pelle. Infine si servì della mano destra per imprigionarsi il polso sinistro. Tenendo saldamente in mano l'ultima cinghia, quella che non poteva avvolgersi attorno al braccio, giacque finalmente sulla schiena. Ancora una volta avrebbe sopportato il castigo di Melissa. Tom Mallory si picchiettò inconsapevolmente la matita sui denti mentre esaminava la denuncia presentata da Cora Peterson. Infine spostò lo sguardo dal foglio di carta alla donna, seduta nervosamente sulla sedia al di là della scrivania. «Se si fosse trattato di chiunque altro», commentò quasi con riluttanza, «avrei detto che, per almeno ventiquattr'ore ancora, è prematuro prendere iniziative. Nel caso di Tag, però, non saprei...» Sospirò, appoggiandosi allo schienale e intrecciando le dita sullo stomaco. «Sono
portato a essere d'accordo con lei. In questa città, Tag non ha mai creato il minimo problema e, sin da quando era ancora un nanerottolo, ha sempre dimostrato di essere più adulto di gran parte dei miei uomini qui al posto di polizia.» Per la prima volta dalla scomparsa del nipote, Cora sentì allentarsi, se pur leggermente, la tensione che provava. «Allora lo cercherà?» chiese ansiosamente. Mallory assentì. «Ordinerò che vengano fatte copie della sua fotografia e metterò i ragazzi in stato d'allerta.» Esaminò l'istantanea che la donna aveva portato con sé: Tag sorrideva felice, ostentando il berretto da baseball che lui stesso gli aveva regalato l'estate precedente. Il poliziotto scosse tristemente il capo. «Non riesco proprio a immaginare chi possa desiderare di far del male a Tag», rifletté, quasi parlando fra sé. «Non esiste una sola anima qua attorno cui quel ragazzo non piaccia.» «Ecco perché non riesco a capacitarmi», affermò Cora. «Quando ieri sono venuta al villaggio, lui era nel bel mezzo delle sue incombenze quotidiane. Al mio ritorno, si era semplicemente dissolto nel nulla.» «Che ne è stato del suo cane? È mai riapparso?» La donna fece un cenno di diniego. «È una cosa diversa, però. I cani scappano.» «Credo che la prima cosa da fare sia controllare i boschi attorno alla baia e forse anche quel promontorio roccioso a nord. Se Tag era alla ricerca del cane, potrebbe aver avuto un incidente. Se ha tentato di scalare quelle rocce...» Lasciò subito in sospeso la frase nell'accorgersi che ogni traccia di colore era scomparsa dal viso normalmente rubicondo della donna. «Non lo avrebbe mai fatto», replicò lei. «Sa bene quanto possano essere pericolosi quei dirupi. Mio nipote...» «Non si allarmi, la prego, signora Peterson. Non ho dato per scontato che gli sia accaduto qualcosa di male. Ritengo, però, ci si possa augurare che sia solo scivolato, magari fratturandosi una gamba. In questo caso andrà tutto bene. Lo troveremo senz'altro.» Tuttavia Cora, non del tutto convinta, prese ad agitarsi sulla sedia: c'era ancora qualcosa, che non aveva esposto nella denuncia né spiegato a Mallory, ma che la stava rodendo dalla sera prima. Per tutta la notte, mentre era rimasta sveglia in attesa del ritorno di Tag, aveva continuato a pensare a Teri MacIver. Ora, però, le sembrava... ecco, estremamente sleale parlare alla polizia della figlia di Charles Holloway. Mallory, avvertendo il suo improvviso disagio, si sporse nuovamente in
avanti. «C'è forse qualcos'altro, signora Peterson?» Tratto un profondo respiro, Cora si decise. «Veramente sì», ammise. «Io... beh, detesto farne menzione, ma... Si tratta di Teri, Teri MacIver.» L'uomo assentì. «Una bella ragazza. Assomiglia molto a sua madre.» «Di sicuro non si comporta come Polly», osservò seccamente la domestica. Ora che aveva infine introdotto l'argomento, le parole le uscirono di bocca come un torrente. «Niente è più stato lo stesso da quando lei è arrivata a Maplecrest. Oh, davanti agli altri sembra la dolcezza in persona e finge di essere la migliore amica di Melissa! Io però non ci credo e neppure Blackie ci era cascato!» «Blackie?» le fece eco Mallory. La donna annuì vigorosamente. «Nell'istante esatto in cui l'ha vista, è arretrato subito davanti a lei. Oh, Teri ha cercato di rabbonirlo, ma lui le ha sempre ringhiato. I cani percepiscono la natura delle persone, sa? Se un cane non ama qualcuno...» Accorgendosi di aver cominciato a divagare, tagliò corto. «A ogni modo, Tag l'ha sorpresa a prendere a calci Blackie. E da quando quella ragazza è arrivata, i problemi di Melissa sembrano peggiorare di giorno in giorno. Gli incubi, il sonnambulismo...» Scosse la testa con aria desolata. «Non posso impedirmi di pensare che Teri le stia facendo qualcosa. Io...» Il poliziotto protese il palmo della mano. «Aspetti un momento» la interruppe. «Mi sta dicendo che Melissa cammina nel sonno?» Cora rimase confusa. Non aveva avuto intenzione di menzionare quel particolare, proprio per niente. Ora che se lo era lasciato scappare, però, non poteva più rimangiarselo. Assentì con riluttanza. Mallory si accigliò vistosamente. «E come mai sabato sera nessuno ne ha parlato?» chiese. «Non potrebbe essere questo il motivo per cui Melissa non ricordava di essere uscita di casa? E perché si trovava su quella strada quando Jeff Barnstable ha avuto l'incidente?» La donna lo guardò incerta. «Non saprei», rispose. Tornò con la mente a quella sera, quando Melissa, in costume, era passata per la cucina prima di dirigersi al club. Ripensandoci, i suoi occhi le erano parsi davvero strani. In effetti, aveva notato il medesimo, sconcertante sguardo vacuo della notte scorsa. «Riflettendoci bene», riprese, «quella sera sembrava un po' bizzarra, si comportava in modo curioso. Avevo creduto che stesse semplicemente impersonando qualcun'altra, come si fa quando si indossa una maschera.» «D'accordo», concluse il poliziotto. «Ecco cos'ho intenzione di fare. Da-
rò istruzioni ai miei uomini di cominciare a guardare attorno, ma intendo anche venire a Maplecrest di persona. Semplicemente per parlare alla famiglia, scoprire quando hanno visto Tag per l'ultima volta e così via.» E scoprire inoltre cos'ha esattamente Melissa Holloway, aggiunse fra sé. Sabato notte, non uno di loro aveva accennato al sonnambulismo della ragazzina. Al contrario, tutti (in particolar modo Phyllis) si erano affannati a insistere che lo choc derivante dall'incidente aveva semplicemente provocato una perdita di memoria. Ma se si trattava di qualcos'altro... Era mai possibile che Melissa avesse causato la disgrazia, invece di esserne stata una semplice testimone? Non lo sapeva, ma aveva intenzione di appurarlo. Quando Phyllis e Teri fecero ritorno dal club era quasi mezzogiorno. Non appena entrata in casa, la donna si diresse in cucina, assumendo subito un'espressione furibonda nell'accorgersi che Cora aveva appena iniziato a preparare il pranzo. «Insomma!» esclamò. «Ti avevo detto che saremmo rientrate a mezzogiorno e che volevo trovare il pasto pronto! Se non riesci a eseguire la più semplice...» «Ho quasi finito», la interruppe la domestica, estraendo dal frigorifero un piatto di melone già affettato. «Non mi ci vorranno più di dieci minuti. Sono dovuta andare al villaggio per denunciare la scomparsa di Tag alla polizia.» Phyllis alzò gli occhi al soffitto. «Ma se manca da meno di ventiquattr'ore! È un adolescente, santo cielo! Sai benissimo come sono fatti i ragazzi.» «Non Tag», dichiarò Cora, voltandosi a fronteggiare la padrona. «E Tom Mallory è d'accordo con me. Anzi», aggiunse, sentendo crescere dentro di sé un raro accesso di maligna soddisfazione nello spostare lo sguardo su Teri, entrata in cucina al seguito della matrigna, «sta per venire qui a parlare con voi.» Continuò a fissare la ragazza, ma non fu in grado di scorgere in lei alcuna reazione. «Vuole sapere...» Ma subito si trattenne: perché farle conoscere in anticipo le domande della polizia? «Ecco, vuole scambiare quattro parole con tutti.» Phyllis scrollò le spalle con noncuranza. «È certamente il benvenuto», commentò, «ma cosa potremmo dirgli di utile? Nessuno di noi ha la minima idea di dove sia Tag.» «Forse», insinuò Cora, gli occhi sempre su Teri. «O forse sì.» Questa volta fu quasi certa di notare un lampo d'apprensione sul viso della ragaz-
za, che però riuscì quasi subito a mascherare i propri veri sentimenti con un caldo sorriso. «Dov'è Melissa? Si è alzata?» La domestica scosse il capo. «Suo padre le ha detto che poteva rimanere a letto e suppongo abbia seguito il suo consiglio. Non l'ho più vista da quando le ho portato di sopra il vassoio con la colazione.» Indicò i piatti nel lavandino. «Qualcuno», aggiunse intenzionalmente, «mi dà una mano a tenere pulita questa casa, perlomeno.» Ma Teri stava uscendo dalla cucina. «Vado di sopra a controllare se è sveglia.» Una volta al primo piano, bussò alla porta della camera della sorella, quindi entrò. Melissa era a letto, gli occhi sbarrati fissi al soffitto. Poi, la ragazza vide le cinghie. Accigliata, si accostò al letto e, dallo sguardo della ragazzina, capì immediatamente di trovarsi di fronte a D'Arcy. «D'Arcy?» bisbigliò. «Sei tu?» Gli occhi di Melissa si spostarono sulla sorellastra. «È andata nella serra, vero?» La ragazzina annuì in modo quasi impercettibile. «Sai cos'è accaduto?» Silenzio. Proprio in quel momento, dalla finestra aperta, giunse il rumore di pneumatici sulla ghiaia. Teri corse ad affacciarsi. Un veicolo bianco e nero del corpo di polizia stava risalendo il viale, per scomparire un attimo dopo andandosi a fermare davanti alla villa. La ragazza rifletté freneticamente. Doveva assolutamente scoprire ciò che D'Arcy ricordava e quanto sapeva di quello che era accaduto nella serra. Dopo avere accertato la situazione, doveva assolutamente volgere le cognizioni di D'Arcy contro Melissa. Tornò in fretta accanto al letto e guardò nuovamente gli strani occhi vuoti della sorellastra. «Vuoi aiutare Melissa, non é vero?» Ancora quel movimento del capo a stento riconoscibile. Lavorando rapidamente, Teri cominciò a sciogliere le cinghie dai polsi e dalle caviglie della ragazzina. Infine, afferratala per un braccio, la sospinse in piedi. «Coraggio!» esclamò. «Se davvero vuoi aiutare Melissa, so come puoi fare.» Qualche secondo più tardi, in soffitta, le infilò il vestito bianco.
«Devi spiegare cos'hai fatto», mormorò. «In caso contrario, tutti daranno la colpa a Melissa. Tu non vuoi che accada una cosa simile, vero?» Il capo di Melissa fece un lieve cenno di negazione. «Allora sai come comportarti», sussurrò dolcemente Teri, allacciando l'ultimo bottone sul dorso dell'abito. «Devi sopportare il castigo, così Melissa sarà salva.» Udendo il richiamo di Phyllis in fondo alle scale, estrasse la parrucca dal nascondiglio sul fondo del baule. Deponendola sul capo di Melissa, sorrise fra sé. «Aspetta», concluse. «Tu aspetta qui finché non vengo a prenderti.» Lasciando la sorellastra muta e immobile in soffitta, la ragazza si precipitò giù per le scale. 26 «Ci vorrà ancora molto?» chiese Teri, seduta in biblioteca accanto alla matrigna, tormentando nervosamente con un'unghia una fessura nella pelle del divano. Tom Mallory alzò lo sguardo dal quadernetto degli appunti. Nel corso dell'ultima mezz'ora, mentre parlava con Phyllis Holloway e Teri MacIver, aveva stentato a decidere quale delle due gli fosse più antipatica. La donna era stata a malapena civile, sottolineando con la massima evidenza come ritenesse quella visita un'invasione nella propria vita privata. «Non riesco davvero a capire perché lei insista a volerci interrogare», aveva dichiarato dopo averlo fatto attendere in biblioteca per più di dieci minuti prima di fare la sua comparsa. «Oggi ho moltissime cose di cui occuparmi.» «Non le ruberò certo troppo tempo, signora», aveva ribattuto lui. «Il problema, però, è che Tag Peterson è scomparso.» Con aria scettica, Phyllis si era affrettata a domandare: «Non crede che Cora stia reagendo in modo sproporzionato? In fondo, manca da meno di ventiquattr'ore.» «Mi vengono in mente parecchi ragazzi per i quali non mi preoccuperei, se fossero svaniti da un giorno o due. Tag, però, non è uno di quelli, signora Holloway. Ora, se lei potesse sforzarsi di dirmi quando lo ha visto per l'ultima volta...» La donna aveva alzato le spalle. «Ecco, non saprei proprio, tenente.» «Sergente», l'aveva corretta automaticamente Mallory.
«Sergente», aveva ripetuto lei, come se la parola le risultasse sgradevole. «A ogni modo, non sono certa di poter stabilire quando l'ho notato qui attorno per l'ultima volta. Si aggira sempre sullo sfondo, capisce? Lo paghiamo per incaricarsi delle incombenze più svariate, ma, naturalmente, è Cora a essere responsabile per lui, non noialtri.» «Possibile che non riesca a ricordare quando l'ha visto di recente, signora Holloway?» Un profondo sospiro. «Beh, suppongo sia stato ieri, dopo il funerale. Mi sembra di rammentare che stesse occupandosi del prato, ma nonne sono sicura. Ieri», aveva concluso in tono tagliente, «è stata una giornata difficile per tutti noi.» Un attimo dopo era arrivata Teri MacIver, che, alla medesima domanda, si era limitata a scrollare le spalle. «Non posso dirlo con certezza.» Aveva fatto una pausa, quindi si era accigliata come se cercasse di ricordare qualcosa. «In effetti, quando papà e Phyllis sono usciti, io sono rimasta quasi sempre qui in biblioteca, ma mi pare di averlo sentito chiamare Melissa.» «Melissa?» le aveva fatto eco la matrigna. «Ma se era in camera sua, profondamente addormentata!» «Ecco, siccome non l'ho visto potrei anche sbagliarmi, ma sarei quasi disposta a giurare che stesse chiamando mia sorella. Ho pensato che lei si fosse messa a chiacchierare alla finestra, o qualcosa del genere.» Cora Peterson, che era rimasta ad ascoltare sulla soglia, aveva lanciato a Teri un'occhiata sospettosa. «Mi sembra che avresti anche potuto controllare, sapendo che Melissa stava poco bene.» «A proposito, dov'è la bambina?» si era intromesso Mallory, rivolgendo alla domestica uno sguardo chiaramente indicante che poteva benissimo condurre l'interrogatorio da solo. «Sta dormendo», aveva risposto Phyllis un po' troppo in fretta, dandogli la netta impressione di non desiderare che lui parlasse con la figlia. Accorgendosi dell'errore, aveva fatto del proprio meglio per riparare. «Ieri ha avuto una brutta giornata. Temo che al funerale di Jeff Barnstable si sia lasciata prendere da un po' di isterismo. Il medico ha raccomandato di concederle molto riposo.» «Ma non è ammalata, vero?» «Ec... ecco, no, non esattamente», aveva balbettato la donna. «Quindi, se non le dispiace, vorrei che la svegliasse, signora Holloway. Non la tratterrò più di un minuto o due, ma, se davvero ha parlato con Tag, ho bisogno di sapere cosa si sono detti.»
Dopo un breve tentennamento, come se stesse vagliando le proprie possibilità, Phyllis era uscita dalla stanza. Da quel preciso istante, l'atteggiamento di Teri era drasticamente cambiato. «Non vedo il motivo di tutto questo affanno», si era lamentata. «D'accordo, Tag se n'è andato. E con ciò? I ragazzi scappano spesso di casa, non le pare? Tra l'altro, lui non aveva amici qui. Tutto quello che faceva era falciare l'erba o potare le siepi e, se per questo, neppure troppo bene. Probabilmente gli è venuto a noia.» «Senti un po', signorina...» aveva reagito Cora, subito zittita da un cenno del poliziotto. «Cerchiamo di stare calmi, d'accordo?» Era stato a quel punto che la ragazza lo aveva fissato con occhi carichi d'ira, pretendendo di sapere quanto a lungo sarebbe ancora durato il colloquio. «Devono arrivare due miei amici per fare una nuotata in piscina.» «Oggi?» si indignò la domestica. «Mi sembra che potresti usare un po' di riguardo per i sentimenti di tua sorella.» Teri le sorrise con esagerata dolcezza. «Può darsi che io abbia ritenuto che potesse farle piacere la compagnia.» «E può darsi che tu non ci abbia pensato affatto», borbottò Cora. Prima che potesse proseguire, però, Phyllis comparve sulla soglia. «Non è nella sua camera.» «Ma deve esserci!» esclamò la ragazza, il sorriso insolente immediatamente sostituito da un'espressione di profonda preoccupazione. «Sono appena stata di sopra e dormiva come un sasso...» Lasciò in sospeso la frase portandosi una mano alla bocca, per poi lasciarla velocemente ricadere in grembo. «Non capisco», reagì la matrigna. «L'hai vista, vero?» «S... sì», rispose Teri. Quindi, quasi stesse esprimendo ad alta voce un pensiero appena creatosi nella sua mente, aggiunse: «Ma... ecco, ieri notte è venuta nella mia stanza per spiegarmi che aveva camminato nel sonno.» Si rivolse alla domestica. «Mi ha detto che tu l'hai trovata mentre stava per salire in soffitta.» Cora si passò nervosamente la lingua sulle labbra, riflettendo affannosamente. «Sì, è vero, ma cosa...» «Forse lo ha fatto di nuovo», suggerì la ragazza guardando Phyllis. «Non sarebbe la prima volta, non ti pare?» Gli occhi della donna rivelarono tutta la sua rabbia alla prospettiva che i problemi della figlia stessero per essere dati in pasto al pubblico. Cora, perlomeno, non aveva mai parlato di Melissa con gli estranei. Ora, invece,
Phyllis si sentì vacillare nell'immaginare ciò che quel poliziotto avrebbe potuto dire nel propagare la storia. «La bambina è matta come un cavallo! Vaga per la casa nel cuore della notte, ha le allucinazioni e chissà che altro. Avrebbero dovuto rinchiuderla da anni!» E non avrebbe detto che la verità, rifletté tetra. Il modo in cui Burt Andrews aveva semplicemente ignorato il suo suggerimento di allontanarla la rendeva furiosa. Se solo le avesse dato retta (e Charles con lui), ora Melissa non si sarebbe neppure trovata nei paraggi. «Io... ecco... suppongo...» balbettò. «Perché non saliamo a cercarla, signora Holloway?» propose Mallory, prendendola con fermezza per un braccio e guidandola nell'atrio. Meno di un minuto dopo, i quattro erano radunati ai piedi delle scale della soffitta. «Ma è ridicolo!» protestò Phyllis. «Siamo in pieno giorno! Lei non ha mai...» Le sue parole furono soffocate da un rumore proveniente dall'alto. Un passo, subito seguito da un altro. E poi, mentre tutti loro guardavano in su, la porta del solaio si aprì e una figura si stagliò sulla soglia. Era Melissa, vestita di bianco, con gli occhi vitrei. Un attimo più tardi la ragazzina mosse lievemente la testa e li fissò con quello sguardo vuoto. «Sono stata io», dichiarò con voce atona. «Non è stata colpa sua. L'ho fatto io.» Quando iniziò a scendere i gradini e la luce cadde sulle pieghe del tessuto bianco, i quattro scorsero per la prima volta le macchie di sangue. Dal corpetto fino all'orlo, l'abito era coperto di chiazze bruno rossastre. In preda all'orrore, Phyllis boccheggiò sconvolta e si aggrappò istintivamente alla spalla di Teri. Cora, gli occhi inchiodati alla grottesca figura che scendeva le scale, si sentì cedere le ginocchia e sarebbe crollata a terra se Tom Mallory non l'avesse prontamente sostenuta. Teri MacIver si limitò a sorridere dentro di sé. «Continuo a non capire perché Teri abbia voluto che venissi anch'io», osservò Kent Fielding. I due ragazzi erano sulla spiaggia, diretti alla villa degli Holloway. «Sei tu quello che le piace.» Brett Van Arsdale rivolse all'amico un sorriso malizioso. «Forse ha deciso di affibbiarti a Melissa», rispose. Subito, però, si fece serio nel ricordar-
si di Jeff Barnstable. «Cosa credi sia veramente successo l'altra notte?» domandò. «Com'è possibile che Melissa abbia percorso tutta quella strada senza neppure rendersene conto?» Kent scrollò le spalle. «E pazza, ecco perché.» Quindi fu assalito da un pensiero. «Ehi, rammenti la sera del falò, quando Cyndi ed Ellen hanno sostenuto di aver visto D'Arcy che si aggirava nel bosco?» Brett annuì. «Ci ho pensato anch'io, ma Melissa sembrava così spaventata mentre raccontavo la storia.» «Già, però se l'è presa parecchio quando Teri ha spifferato che lei era convinta di essere amica di D'Arcy. Caro mio, questa faccenda è davvero troppo assurda. Forse è scappata a casa, si è messa quel vestito e ha cominciato ad andare in giro tentando di spaventare la gente.» «Beh, se lo ha fatto, ha funzionato di sicuro. O forse Ellen e Cyndi non mentivano e hanno sul serio visto D'Arcy.» Kent guardò Brett con la coda dell'occhio. «Ma andiamo! Nessuno crede a quella vecchia storia. Dopo quello che è accaduto a Jeff, poi, sai benissimo che dev'essere per forza stata Melissa a spaventare le ragazze.» «Non credi che finalmente si accorgeranno che è pazza e la metteranno sotto chiave?» rifletté Brett. «Anche se in quel momento lei non era in sé, aveva un aspetto tanto terrificante che non si può certo dar torto a Jeff se è finito fuori strada. Merda, io stesso avrei perso il controllo!» Voltarono le spalle alla spiaggia e cominciarono a salire verso Maplecrest. «Sei sicuro di voler venire?» chiese Brett, lanciando il proprio asciugamano contro Kent e arretrando rapidamente per evitare una ritorsione. «E se Melissa si prende una cotta per te come è capitato con Jeff?» La fronte dell'amico si increspò in una smorfia cupa. «Gesù, Brett, questa è un'insinuazione pesante! Qualsiasi cosa sia successa, non posso credere che lei intendesse sul serio che Jeff...» La voce gli morì in gola nel notare una strana figura uscire dalla porta di servizio della casa degli Holloway. «Cristo santo!» mormorò. «Che diavolo sta capitando?» Allibito dal repentino cambiamento di tono dell'amico, Brett si girò a guardare. Anche da dove si trovava, capì immediatamente che quell'essere vestito di bianco, i lunghi capelli sciolti sulla schiena, era Melissa. «Che accidenti sta facendo?» bisbigliò. «Si è rimessa quello stupido costume!» Entrambi affrettarono il passo, attraversando il prato in direzione della villa, ma si bloccarono di colpo nell'accorgersi che la ragazzina non era so-
la. Dietro di lei, intenti a osservarla in silenzio, avanzavano Tom Mallory e Phyllis Holloway, mentre alle loro spalle stavano uscendo all'aperto anche Cora Peterson e Teri MacIver. I due rimasero impietriti sul posto, incerti sul da farsi. In quel momento Kent scorse le macchie sul vestito e diede di gomito a Brett. «Guarda là», sussurrò. «Sembra sangue.» Tom Mallory fu il primo a individuarli e subito si staccò da Phyllis per precipitarsi verso di loro. «Andatevene», intimò a bassa voce, ma con una nota d'autorità chiaramente percepibile. «Immediatamente. Non dite una parola e non muovetevi in fretta. Arretrate con calma.» I ragazzi si guardarono l'un l'altro; Brett aprì la bocca, ma poi cambiò idea. Preso Kent per un braccio, si spostò a ritroso dal bizzarro spettacolo di Melissa, che non sembrava affatto essersi accorta della loro presenza e procedeva in direzione della piscina. Mallory, scordata del tutto l'esistenza dei due intrusi, si portò nuovamente al fianco di Phyllis. «Cosa facciamo?» mormorò Kent mentre la stravagante processione, attraversata la terrazza, svoltava per seguire Melissa. «Quello che è certo è che non ho la minima intenzione di andarmene», rispose Brett. «Qualsiasi cosa stia succedendo, intendo vederla.» Ripresero ad avanzare, rimanendo ben distanziati dal gruppo, ma senza perderlo di vista. «Ha un aspetto sconcertante», bisbigliò Brett un attimo dopo, quando la ragazzina, il passo lento e solenne, prese la strada del garage. «Sembra in stato di sonnambulismo.» Infine Melissa si fermò davanti alla vecchia serra, rimase immobile per un istante, quindi aprì la porta. Non appena il battente fu spalancato, un fetore ripugnante emanò dall'interno del locale, dove un nugolo di mosche ronzava nell'aria. Benché gli altri si ritraessero istintivamente da quel lezzo, la ragazzina parve non accorgersene affatto. Senza esitare, andò dentro. E protese la mano destra. Puntando l'indice direttamente sulle assi allentate. «Laggiù», disse. La parola sembrò aleggiare nell'atmosfera finché Tom Mallory non si riscosse. Entrato a propria volta, si inginocchiò e sollevò una trave. «Mio Dio», mormorò, chiudendo brevemente gli occhi davanti al cadavere straziato di Tag, riverso nella cavità sotto il pavimento. Sostò qualche
secondo per riprendere la padronanza di sé, poi si alzò in piedi. Ignorando Phyllis e Teri, si avvicinò a Cora e le cinse le spalle con un braccio. «È Tag», disse piano. «Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto.» Giratosi di colpo, si incamminò verso la villa, già intento a organizzare mentalmente la squadra investigativa. Non che, ovviamente, fossero necessarie indagini minuziose. Melissa, dopotutto, aveva ormai confessato. 27 Burt Andrews parcheggiò la BMW davanti a Maplecrest, infilandola in uno stretto spazio fra un'ambulanza e una macchina della polizia. Le autopattuglie bianche e nere erano tre, in più vi era un assortimento di altri veicoli che spaziavano da una Volkswagen sporca con un adesivo STAMPA sul parabrezza a una Rolls-Royce Corniche decappottabile con una targa personalizzata di New York che segnalava semplicemente LENORE. Sceso dall'auto, il medico salì in fretta i gradini, varcò la porta aperta e sostò nell'ingresso. Per un attimo, nonostante il numero di macchine all'esterno, ebbe la sconcertante impressione che la casa fosse vuota, poi vide un gruppo di persone sulla terrazza e alcuni uomini sul prato confinante con il bosco. Da dove si trovava, sembrava che metà della popolazione di Secret Cove si fosse già radunata sul posto. Stava per uscire dalla portafinestra, quando una voce proveniente dalla cima delle scale lo bloccò. «Dottor Andrews?» Guardando in su, scorse una donna bionda e alta, vestita con una camicetta bianca e una gonna di cotone di colore vivace; nonostante quanto era accaduto in quella casa, suggeriva un'impressione di perfetto controllo. Scese rapidamente le scale, gli porse la mano. «Sono Lenore Van Arsdale, un'amica degli Holloway.» Il dottor Andrews contraccambiò brevemente la stretta, quindi volse automaticamente gli occhi verso il primo piano. «Dov'è la famiglia?» «Phyllis si trova nella propria stanza», rispose Lenore Van Arsdale. «Teri è con lei e Melissa sta qui dabbasso in biblioteca assieme al dottor Chandler. Volevano portarla via, ma, quando Teri mi ha parlato di lei, ho suggerito che aspettassero.» Le sopracciglia dello psichiatra si sollevarono di una frazione di centimetro, un gesto che non sfuggì alla donna. «Godo della reputazione di essere una persona indomita», gli spiegò con un lieve sorriso. «E oggi ho de-
ciso di servirmene.» La sua espressione tornò seria. «A quanto pare, Melissa è in stato di choc. Dubito abbia la più pallida idea di quanto sia accaduto, o addirittura di dove si trovi. Ho ritenuto non avesse senso condurla altrove prima del suo arrivo.» Lo psichiatra assentì, avviandosi verso la biblioteca, e Lenore gli si mise al fianco. «E Charles?» domandò lui. «Qualcuno è riuscito a trovarlo?» «È già in viaggio», rispose la donna. «È la prima persona cui ho telefonato. Ha noleggiato un aereo all'aeroporto di La Guardia e mi ha chiamato poco fa da Portland. Ora sta percorrendo l'ultimo tratto in macchina.» «Come sta Phyllis?» Davanti alla porta della biblioteca, Andrews si girò a guardare in viso Lenore. Per un brevissimo istante credette di notare nei suoi occhi un barlume di esitazione, ma subito lei scosse il capo. «È sconvolta, naturalmente», affermò. «Tuttavia, ho la sensazione che ciò che la turba di più non riguardi affatto quanto è successo qui. Lei... ecco, continua a chiedere cosa ne penserà la gente.» La sua voce acquistò una nota di gelida disapprovazione. «Temo che il suo principale cruccio sia la possibilità di venire distrutta socialmente. Del resto, è sempre stata mia opinione che non si sia mai curata molto di Melissa, né di chiunque altro.» Questa volta il medico inarcò vistosamente le sopracciglia. «Non la stima troppo, vero?» «Non mi è mai piaciuta e non mi piacerà mai. Mi comporto civilmente con lei perché sono cresciuta con Charles e mi dispiace per lui. Esattamente come sono dispiaciuta per Melissa.» Emise un profondo sospiro. «Forse... forse noi tutti avremmo potuto fare di più. Eravamo al corrente delle pressioni che Phyllis esercitava sulla bambina...» «Almeno per ora, cerchiamo di non colpevolizzare nessuno, signora Van Arsdale», la interruppe il medico. «Finché non sapremo cos'è accaduto, perlomeno.» «Purtroppo lo sappiamo», ribatté lei. «A quanto pare, Melissa ha confessato.» Il dottor Andrews scrollò le spalle. «Ma non mi ha appena detto che sembra non rendersi conto di quanto sta succedendo?» Per un secondo soltanto, la fredda facciata di Lenore Van Arsdale parve incrinarsi, per poi ricomporsi immediatamente. «Lei ha ragione, naturalmente.» Una pausa. «Posso offrirle qualcosa?» «No, grazie. Penso sia meglio che vada a dare un'occhiata a Melissa.» La donna si attardò un momento, quasi si aspettasse di accompagnare lo
psichiatra in biblioteca, quindi si allontanò. Andrews entrò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle. Melissa, ancora vestita con l'abito macchiato di sangue, era seduta rigidamente sul bordo del divano, le mani in grembo e gli occhi fissi sul caminetto. Fritz Chandler, un uomo sulla cinquantina, leggermente sovrappeso, che Burt Andrews conosceva ormai da oltre dieci anni, si alzò faticosamente dalla poltrona all'ingresso del collega. «Burt», esordì, abbassando automaticamente la voce al livello che usava abitualmente durante il proprio giro di visite alla clinica locale, «lasciati dire che sono veramente felice di vederti. Osservandole gli occhi, avrei giurato che fosse in stato di choc, ma non manifesta nessun altro sintomo. Battito cardiaco, pressione sanguigna, riflessi, è tutto normale, però non ha ancora pronunciato una parola. Quando sono arrivato qui era fuori, accanto a quella maledetta serra, come se stesse aspettando un autobus. Gesù...» e distolse lo sguardo dalla ragazzina per fissarlo su Andrews. «Sei stato laggiù?» Lo psichiatra scosse il capo. «Beh, amico mio, è davvero una carneficina. Non si tratta soltanto del giovane Peterson, che ha il cranio praticamente spaccato in due da un colpo di machete. C'è anche il cadavere di un cane, rimasto a marcire al caldo per circa una settimana, per quanto ho potuto stabilire.» Tornò a guardare Melissa. «E lei se ne stava là in piedi, come se non si accorgesse di nulla.» «Cos'è successo quando l'avete portata qui?» domandò Andrews. «Qualche problema?» «Nessuno. Mi è bastato dirle cosa fare. So che può sentirmi e capire le mie parole, ma non ha letteralmente aperto bocca.» «D'accordo. Diamole un'altra occhiata.» Si inginocchiò davanti a Melissa, che non mostrò il minimo cenno di averlo visto e continuò a fissare il caminetto con viso inespressivo. «Melissa? Sono io, il dottor Andrews. Mi senti?» Silenzio. Il medico le prese il polso destro e controllò il battito cardiaco. Si era aspettato che la sua pelle fosse fredda e leggermente umida, ma, al contrario, appariva perfettamente normale. Tranne che la ragazzina sembrava assolutamente inconsapevole del suo tocco. Come Chandler gli aveva anticipato, le pulsazioni erano del tutto normali. La esaminò rapidamente, verificando l'esistenza dei sintomi che il collega si era atteso di trovare, ma, come gli era stato spiegato, non ne riscontrò
nessuno. Non fosse stato per lo sguardo vuoto, il mutismo e la totale immobilità, Melissa gli sarebbe parsa in ottime condizioni. Tuttavia, cominciò ad accorgersi nell'esaminare più attentamente il suo viso, che qualcos'altro era cambiato. Sapeva di guardare il volto di Melissa, i cui tratti erano ovviamente riconoscibili, eppure, in un modo sottile che non riusciva a determinare, le sue sembianze erano mutate. Infine capì. Non stava affatto guardando Melissa. «D'Arcy?» chiamò. «D'Arcy, mi senti?» La testa della ragazzina si mosse e i suoi occhi lo fissarono senza rivelare alcun segno di riconoscimento. «Sono il dottor Andrews, un amico di Melissa. Ti ha mai parlato di me?» Qualcosa cambiò nello sguardo della ragazzina. Lo psichiatra fu quasi certo di notare un'ombra di sorriso agli angoli delle sue labbra. Ma lei ancora non parlò. «Dov'è Melissa, D'Arcy? Posso scambiare quattro chiacchiere con lei?» Per un attimo, la ragazzina si limitò a fissarlo. Infine, molto lentamente, scosse la testa e mormorò una sola parola: «Addormentata». «Melissa dorme?» domandò Andrews. Un cenno di assenso. «Puoi svegliarla?» La ragazzina scosse nuovamente il capo. «Non vuole svegliarsi. Non vuole svegliarsi mai più.» Il medico la prese per mano e si sporse in avanti. «E tu sai il perché?» Lei sorrise. «Ha paura. Ha fatto qualcosa di male e teme di venire punita.» La porta della biblioteca si aprì di colpo e Charles Holloway entrò a grandi passi. Quando vide la figlia sul divano con il vestito insanguinato, si bloccò istantaneamente, il viso pallidissimo. «M... Melissa?» bisbigliò. Nel momento in cui accennò ad avvicinarsi, il dottor Andrews si alzò in fretta e lo fermò con un cenno della mano. «Non cerchi di parlare con lei, Charles. Devo prima spiegarle qualcosa.» Deciso a ignorare l'ammonimento dello psichiatra, Charles Holloway lo spinse da parte ma, notato il viso di Melissa, si fermò una seconda volta: anche lui si era accorto del cambiamento nei suoi lineamenti. Fissò la figlia per un attimo, poi si rivolse a Burt Andrews. «Che cosa
succede?» chiese. «Sembra... sembra diversa.» «È diversa», gli spiegò gentilmente lui. «Questa non è Melissa, bensì D'Arcy.» Gli occhi di Charles si spalancarono per lo choc. «D'Arcy?» ripeté. «Che diavolo sta cercando di dirmi? D'Arcy non esiste.» «Invece sì», dichiarò lo psichiatra. «È un'altra personalità di cui Melissa si serve per proteggere se stessa, ed è proprio quella che sta vedendo ora. D'Arcy sostiene che Melissa si è addormentata e non vuole svegliarsi.» Sentendo che le gambe minacciavano improvvisamente di cedergli, Charles si accasciò su una poltrona. «Che... che cosa significa?» domandò, nonostante provasse la sinistra sensazione di averlo già capito. «Significa che abbiamo davanti a noi un sacco di lavoro», affermò il dottor Andrews, mettendo una mano sulla spalla di quell'uomo sconvolto in un gesto di comprensione. «In qualche modo, dovrò trovare un mezzo per raggiungere Melissa. Se però lei non vuole essere raggiunta...» Tacque, lasciando le parole sospese nell'aria. Cora Peterson si mosse sul letto e si sollevò a sedere. Elsie Conners, che si era precipitata lì dalla residenza dei Fielding non appena avuta notizia dell'accaduto, balzò dalla sedia vicino alla finestra e le andò accanto. «Mettiti tranquilla, Cora», la esortò, usando il tono di voce riservato abitualmente per ridurre all'ordine il figlio dei padroni. «Il medico ha detto che devi restare a letto.» «Non ho la minima intenzione di farlo, Elsie», ribatté lei, posando i piedi sul pavimento e alzandosi, mentre si lisciava automaticamente le pieghe del vestito. «Ho perso entrambi i genitori e un marito senza cadere a pezzi e non credo che Tag vorrebbe che cominciassi a crollare proprio ora.» «Ma il dottore...» «I medici non sanno sempre tutto. Se vuoi aiutarmi, bene, ma se invece hai intenzione di continuare su questo tono, allora è meglio che te ne torni subito dai Fielding.» Andò nel bagno che divideva con il nipote e prese la spazzola, ma, quando lo sguardo le cadde sul completo da toilette di Tag (quello che lei stessa gli aveva regalato il Natale precedente, con le iniziali incise), sentì un singhiozzo salirle prepotentemente alla gola. Nemmeno per sogno, si disse. Tenendo saldamente sotto controllo le proprie emozioni, si passò la spazzola sui capelli e si lavò rapidamente il viso. L'acqua fredda le diede sollievo e, una volta terminato, trasse un profondo respiro. Da un'ora a quella parte, mentre giaceva a letto tentando di
resistere agli effetti del sedativo somministratole dal dottor Chandler, non aveva fatto che riflettere. E più pensava, più si convinceva che qualcosa era terribilmente sbagliato. Si era ripetutamente sforzata di immaginare Melissa nell'atto di uccidere Tag, ma, per quante congetture elaborasse sulle circostanze del delitto, proprio non riusciva a crederci. Non aveva ancora visto il corpo del nipote, dato che qualcuno si era premurato di allontanarla dalla serra non appena Tom Mallory l'aveva informata della macabra scoperta sotto le assi del pavimento. Ora, però, sapeva di doverlo fare, a prescindere dal dolore che ne avrebbe ricavato. Doveva controllare con i propri occhi come era stato ridotto, vedere di persona le ferite inflittegli. Decidere se Melissa sarebbe stata in grado di commettere quel gesto. Cominciò a scendere le scale, con un'Elsie Conners agitatissima alle spalle. «Cora, dove stai andando? Non c'è motivo che tu...» «Vado a vedere mio nipote», dichiarò lei. Alla sola idea, la domestica dei Fielding boccheggiò per l'orrore, ma Cora la zittì con un'occhiata. «Non discutere con me. So cosa sto facendo. C'è altro cui pensare, oltre a Tag. C'è anche Melissa.» «Melissa!» sbottò Elsie, la voce tremante per l'indignazione. «Ma, Cora, sei uscita di senno? La piccola Holloway ha ucciso Tag! Cosa ti passa per la testa? Preoccuparti per lei? Fosse per me...» «Ma non è questo il caso», tagliò corto Cora. «E grazie a Dio non dipende da te.» Aprì la porta d'ingresso, bloccandosi di colpo quando fu assalita dal ricordo della notte precedente. Melissa, che camminava nel sonno. Proveniente da... La serra? Era possibile. La donna si morse il labbro pensierosa, ricapitolando ogni dettaglio. Melissa indossava l'accappatoio. Di spugna bianca. Senza alcuna traccia di macchie. Oggi, invece, la bambina aveva addosso il vecchio abito custodito in soffitta, coperto di sangue. L'anziana domestica scese decisa gli scalini del portico e cominciò a farsi strada fra le persone radunate sul prato. Molti le rivolsero parole di sim-
patia, ma lei non si fermò a rispondere; infine, dopo quella che le parve un'eternità, sebbene non avesse impiegato più di un minuto, giunse davanti alla serra. Sulla soglia era stata portata una barella e, proprio in quel momento, quattro uomini stavano emergendo dal cadente edificio con il corpo di Tag, pietosamente coperto da un telo di plastica opaca. Per un attimo la determinazione di Cora si indebolì, ma ben presto la donna drizzò la schiena e si fece avanti. Dietro i quattro, ora intenti a deporre il cadavere sulla barella, comparve Tom Mallory, che, scorgendola, si bloccò sorpreso. «Cora, non c'è ragione di...» «Voglio vederlo, Tom», affermò lei con voce ferma. «Voglio vedere mio nipote.» Il poliziotto si agitò a disagio. «Non c'è alcuna ragione perché lei si sottoponga a un'esperienza simile, Cora.» «Io ho le mie ragioni, Tom. Voglio vederlo.» Mallory esitò, esaminando il viso della donna in cerca di qualche indizio d'isterismo, ma quello sguardo era fermo ed egli avvertì la risolutezza che ne emanava. «D'accordo», accondiscese, facendo un cenno all'uomo che si trovava all'estremità anteriore della barella. Mentre Cora si avvicinava, l'infermiere scostò il telo, esponendo il viso di Tag. La donna parve barcollare alla vista del naso frantumato e del cranio spaccato, ma ancora una volta riuscì a ritrovare la padronanza di sé. «Va bene», sussurrò, distogliendo rapidamente gli occhi. «Cos'è accaduto, Tom?» chiese poi. Mallory scosse il capo. «Cora, non deve...» «Me lo dica, Tom.» Con un sospiro, il poliziotto estrasse il quadernetto degli appunti dalla tasca posteriore dei pantaloni; sfogliate in fretta le pagine, trovò le informazioni che stava cercando. «Verrà eseguita un'autopsia, naturalmente, ma sembra che sia stato colpito prima in faccia. Il naso si è rotto, causando una copiosa emorragia che non si sarebbe verificata se Tag fosse già stato morto. A quanto pare, è rimasto per un breve periodo sul pavimento, quindi lei gli ha aperto il cranio con il machete.» «Chi?» domandò la donna. «Chi lo ha colpito?» Mallory la fissò attonito. «Melissa», rispose. «Melissa Holloway.» «No», dichiarò Cora con un cenno di diniego. «Non ci credo.» «Eppure lei ha udito la sua confessione. Non c'è alcun dubbio. Quando esamineremo il machete, sono certo che vi troveremo le sue impronte.»
Fece per posarle una mano sulla spalla, ma la domestica si ritrasse. «Non mi interessa che cos'ha detto né quanto troverete», gli rispose decisa. «Conosco Melissa da quando è nata. Tag era il suo migliore amico e lei non gli avrebbe mai fatto una cosa simile. Non avrebbe potuto, Tom. Quella bambina non possiede un briciolo di malvagità.» Giratasi, si avviò verso la villa, continuando a ignorare i presenti, che ora la guardavano scossi e increduli. Entrò in casa nel preciso istante in cui Melissa veniva accompagnata dabbasso, dopo che il padre l'aveva portata in camera a cambiarsi. Ora, tolto il vestito bianco orribilmente macchiato, era avvolta nell'accappatoio che indossava la notte precedente, quando Cora l'aveva scoperta accanto alla piscina. In silenzio, la domestica la osservò scendere le scale, esaminando la vestaglia di spugna in cerca di tracce di sangue. Assolutamente niente. Solo qualche accenno di polvere o sporcizia, che avrebbero potuto però provenire da qualsiasi posto. Non appena la ragazzina fu ai piedi della scalinata, Cora si precipitò ad abbracciarla. «Va tutto bene, tesoro», le mormorò. «So che non hai fatto del male a Tag e non permetterò che ti puniscano.» Quindi, accorgendosi della strana inerzia della bambina, si scostò e la guardò in viso. Gli occhi vuoti di D'Arcy la fissarono di rimando. «Santo Dio», ansimò la donna, voltandosi verso Charles con le guance rigate di lacrime. «Cos'ha? Che cosa le hanno fatto?» Lui le circondò le spalle con un braccio. «Non le hanno fatto niente, Cora. Ha... ha avuto una specie di crollo nervoso.» «Ma... ma non è colpevole di nulla», insisté l'anziana domestica. Gli occhi arrossati dal pianto, Charles la strinse a sé. «Va tutto bene, Cora», riuscì a malapena a sussurrare. «La stanno portando in ospedale. Non le accadrà nulla di male. Cercheranno di guarirla.» Nel frattempo Melissa era rimasta assolutamente immobile, lo sguardo vacuo e fisso, il viso privo di espressione. I due medici, uno per parte, la condussero verso l'uscita senza incontrare la minima resistenza, ma improvvisamente, mentre un infermiere apriva il portello dell'ambulanza, lei si volse a guardare il padre. Il suo viso si contrasse come se la ragazzina fosse in preda a una sorta di conflitto interiore, e infine, accompagnata da un'esplosione di lacrime, dalle sue labbra uscì una singola parola. «Perle.» Tutti i presenti la fissarono in silenzio, ma Charles capì. «La collana», spiegò. «Vuole la sua collana.»
Precipitatosi su per le scale, andò nella camera della figlia, aprì il cassetto dove lei conservava il suo regalo di Natale e frugò con foga fra le magliette finché non l'ebbe trovato. Un attimo dopo era di nuovo al piano inferiore. Con estrema dolcezza assicurò il filo di perle al collo della bambina, la baciò sulla guancia, quindi si rivolse a bassa voce a Burt Andrews. «Le piacciono moltissimo», gli disse. «In ospedale, gliele lasceranno tenere?» Lo psichiatra esitò, quindi assentì. «Ci penserò io», affermò. «È un buon segno che le abbia chieste.» Charles lo guardò senza capire. «Questa volta è stata Melissa a parlare», proseguì il medico. «Non si è accorto del cambiamento sul suo viso? Desiderava tanto quelle perle da essere disposta a svegliarsi, pur di ottenerle. E se si è svegliata una volta, troveremo il modo di ridestarla ancora.» Mentre la figlia veniva condotta fuori della casa e verso l'ambulanza in attesa, tuttavia, Charles fu colto alla sprovvista da un pensiero sconsolato. Perché? Perché svegliarla, dopotutto? Perché non lasciarla dormire? Nel rendersi conto che avrebbe anche potuto non vedere più la sua bambina, un singhiozzo gli salì alla gola. Era quasi mezzanotte e Maplecrest era immersa nel silenzio. Cora aveva fatto ritorno da tempo nella propria casetta vicino alla piscina, rifiutando l'offerta di Charles di trascorrere la notte alla villa. «Non mi aspetto di dormire», aveva dichiarato, «ma perlomeno sarò a casa mia e potrò sentire Tag attorno a me.» Quindi aveva guardato Charles con occhi umidi di pianto. «Non so davvero cosa farò senza di lui. Non ricordo di aver mai vissuto prima in una casa vuota. Tuttavia, suppongo che mi abituerò. Una persona si adatta a tutto, se proprio deve.» Infine lo aveva preso per mano. «Non si preoccupi per Melissa. Nel profondo del cuore, so che non ha fatto niente a Tag. Gli voleva bene quanto me.» Charles non aveva tentato di ribattere, non sapendo ancora come spiegarle l'accaduto. Lui stesso non era ancora riuscito a capacitarsi pienamente della situazione. Che dentro Melissa potesse essere esistito un secondo individuo, una personalità completamente separata, era una realtà che quasi superava la sua comprensione. «Dubito che saremo mai in grado di capire esattamente quanto è successo», aveva affermato Andrews dopo che l'ambulanza era partita con Melissa a bordo. «Al momento, sembra che la personalità di D'Arcy abbia as-
sunto il pieno controllo e, finché non riuscirò a entrare nuovamente in contatto con Melissa, non potrò neppure iniziare a tentare un processo di integrazione fra le due. Forse, però, potrei scoprire nuovi elementi su ciò che è accaduto a sua figlia nel corso degli anni. Può darsi che D'Arcy sappia cose di cui Melissa non è affatto consapevole, e se solo sarò capace di convincerla a fidarsi di me e a parlarmi... beh, adesso non è il momento di discutere di questo, vero?» Alla fine, Maplecrest si era svuotata completamente: terminato il lavoro degli investigatori e cessata la curiosità dei vicini, erano rimasti soltanto loro tre. E ora, a mezzanotte, Phyllis e Charles erano andati a letto. Teri MacIver era l'unica ancora alzata. Rimasta sola, si era aggirata senza sosta per le stanze buie, come se vi entrasse per la prima volta. Perché adesso, quella notte, finalmente sparita Melissa, Maplecrest le apparteneva interamente. Si soffermò al piano inferiore, rimandando il momento cui maggiormente anelava. Infine non riuscì ad attendere oltre. Salite le scale in silenzio, sostò fuori della porta chiusa della camera da letto dei genitori per accertarsi che non fossero ancora svegli. Non udì alcun rumore. Si spostò sull'altro lato della casa, ma invece di fermarsi davanti alla propria stanza la oltrepassò, entrando in quella della sorellastra. Una volta all'interno, chiuse la porta dietro di sé e accese la luce. Il vestito insanguinato, che solo qualche ora prima giaceva sul pavimento, abbandonato nel punto in cui era stato tolto di dosso a Melissa, era scomparso. Cora doveva averlo buttato via. O forse lo aveva preso la polizia per verificare che il sangue fosse realmente di Tag. Non che importasse molto. Ormai Melissa non c'era più e l'abito non sarebbe servito ulteriormente. Dopotutto, aveva conseguito lo scopo voluto. La ragazza si sdraiò sul letto, allungandosi in quella vastità sontuosa, e cominciò a visualizzare i cambiamenti che avrebbe apportato alla stanza. Tutte le cose appartenute alla sorellastra sarebbero finite in soffitta e l'intero arredamento rifatto da capo a fondo. Guardò con disgusto la carta da parati: forse ne avrebbe scelta una di seta. Dopo aver visto alcune fotografie di pareti rivestite di seta, ogni volta che era rimasta sveglia nella
propria cameretta in California fantasticando su Maplecrest, si era immaginata di possedere una stanza in quella villa esattamente uguale all'illustrazione della rivista: in seta verde smeraldo con i bordi bianchi. La sola prospettiva la fece sorridere. Sprofondò ancor più nel soffice materasso e si sentì assalire da una confortevole sonnolenza. Fissò un'ultima volta il soffitto, raffigurandosi la cameretta in solaio, annidata nel sottotetto. «Grazie, D'Arcy», esclamò, ridacchiando fra sé. «Mi sei stata di grande aiuto.» Qualche minuto dopo, mentre scivolava nel sonno, le giunse all'orecchio un rumore indistinto. Forse è D'Arcy, si disse. Forse anche lei sta ridendo. 28 Era il classico pomeriggio splendido che i membri del Cove Club si attendevano come un loro diritto nel giorno del Ballo della Luna d'Agosto. Per tutto luglio e gran parte del mese successivo, una calura opprimente si era abbattuta sulla costa e il ritmo delle attività quotidiane si era fatto strascicato. Quasi tutte le mattine i campi da tennis venivano abbandonati entro le nove, mentre i pochi coraggiosi che osavano sfidare il sole si radunavano nei pressi della piscina, riparandosi sotto le esigue zone d'ombra offerte dagli ombrelloni dei tavolini. Ogni giorno veniva allestito il buffet all'ora di pranzo, ma, con l'aumentare della temperatura, erano sempre più numerosi i soci che preferivano rimanere al fresco nelle loro case, lasciando intatto il cibo preparato al club. Solo nel tardo pemeriggio i membri del club si avventuravano all'esterno per sedersi sulla terrazza, sorseggiando bibite e giurando solennemente che il clima stava cambiando e che, in capo a un anno, il Maine si sarebbe trasformato in Miami. Tuttavia, verso la fine del mese, l'ondata di calore era finalmente terminata e quel giorno (il sabato precedente l'inizio di settembre) il tempo era splendido. Il cielo era terso, una cupola azzurra che sembrava isolare la baia dal mondo esterno, e persino l'umidità pareva essersi presa una giornata di ferie. Una brezza rinfrescante spirava dall'oceano e un brivido di eccitazione aveva sostituito l'inerzia delle ultime otto settimane. La tragedia di Melissa Holloway stava sbiadendo per ridursi semplicemente all'evento principale che aveva contrassegnato quell'estate. I Barnstable se n'erano andati: una settimana dopo il funerale, Paula aveva insistito per mettere in vendita la villa. Benché si trattasse della prima casa in
oltre tre generazioni a rendersi disponibile agli «estranei», nessuno l'aveva ancora acquistata e si stava già parlando di trasformarla in un museo storico. «Chi la comprerebbe?» aveva chiesto Lenore Van Arsdale a Eleanor Stevens solo un paio di settimane prima. «In fondo, sulla Costa Orientale, tutti sanno che siamo incrociati fra noi fino al limite della degenerazione. Siamo diventati un anacronismo.» «Non possiamo essere poi tanto degenerati, se siamo ancora in grado di usare parole del genere», aveva osservato Eleanor, lasciandosi però andare a un sospiro di rassegnazione. «Ma suppongo tu abbia ragione. A questo punto, chi vorrebbe venire qui ad ascoltarci rammentare i bei tempi andati di tre generazioni orsono?» Kay Fielding aveva emesso una risatina cupa. «Riuscite a immaginare i discorsi della gente fra cinquant'anni? 'Oh, loro! Hanno comprato la casa dei Barnstable subito dopo la terribile faccenda di Melissa Holloway. Forse l'anno prossimo li accetteremo nel club!'» Tutte erano scoppiate a ridere, per quanto sapessero che si trattava della pura verità e che, in privato, la maggior parte dei membri del club aveva iniziato a prendere in considerazione l'idea di trascorrere le estati altrove. Quell'anno si era verificata una lacerazione nel tessuto delle loro vite e, piuttosto che ricucirlo, tutti stavano semplicemente pensando di sostituirlo con qualcosa di nuovo. Tuttavia, quel giorno una sensazione di normalità aveva lentamente cominciato a riaffacciarsi e l'atmosfera era elettrica alla prospettiva del ballo. Per tutta la giornata i camioncini dei fioristi erano andati avanti e indietro, le porte della sala da pranzo erano rimaste rigorosamente chiuse e le tende alle finestre tirate. Il tema della festa, noto unicamente al comitato organizzatore, era avvolto dalla segretezza più assoluta, per quanto praticamente tutti avessero fatto del loro meglio per estorcerlo a chi ne era al corrente. Quella mattina presto era arrivato un grosso camion privo di insegne e una squadra di uomini aveva lavorato incessantemente, mostrandosi però assolutamente restia a rispondere a qualsiasi domanda. Ora, sdraiata ai bordi della piscina con Brett Van Arsdale e alcuni amici, Teri stava ancora cercando di indovinarlo. Guardò il camion, ancora parcheggiato di fianco all'edificio del club, e gemette esasperata. «Ma tua madre non ti ha detto proprio niente?» chiese a Brett perlomeno per la terza volta nel corso delle ultime ore. «Hai visto cosa indossava?» «Come faccio a saperlo?» rispose lui senza neppure girare la testa nella
sua direzione. «Perché non lo domandi a Phyllis?» La ragazza alzò gli occhi al cielo. «Ci ho provato ogni giorno da un mese a questa parte, ma si rifiuta di pronunciare una sola parola. Ho addirittura tentato di farmi suggerire un colore adatto per l'abito, ma mi ha detto di vestirmi come preferisco.» Brett ridacchiò. «Scommetto che a Melissa non avrebbe risposto così.» Il sorriso subito svanito, lei si accigliò. «Non è un commento gentile da parte tua. Non è colpa sua se si è ammalata.» Sin dal giorno in cui Melissa era stata portata via, Teri l'aveva puntigliosamente difesa da ogni attacco, insistendo che, qualunque cosa fosse accaduta, era ingiusto addossargliene la responsabilità. «Chiunque può avere un esaurimento nervoso», aveva costantemente ripetuto. E benché non ne avesse mostrato il minimo segno, si era goduta fino in fondo l'ammirazione ricevuta per la propria lealtà nei confronti della sorellastra, che conosceva da poche settimane soltanto. «Se le cose stanno davvero in questo modo», reagì Brett, dando voce a un'ipotesi che da settimane veniva sussurrata in tutta la baia. «Intendo dire che può darsi che stia fingendo per non finire in prigione per il resto della sua vita.» «Ma è una stupidaggine! Se tu la vedessi...» «Lo so», si intromise Kent Fielding, citando quanto aveva udito perlomeno una dozzina di volte. «Non dice una parola e si limita a stare seduta, fissando il nulla.» Rabbrividì esageratamente. «Mi fa venire in mente uno zombie.» «Beh, almeno non dobbiamo più preoccuparci di D'Arcy», ridacchiò Cyndi Miller. «Se è occupata a possedere Melissa, non potrà darci fastidio stanotte.» «Oh, per favore!» si lagnò Teri. «Non possiamo parlare di qualcos'altro? Andiamo, Brett, facciamo una nuotata!» Si alzò dalla sedia a sdraio e si avviò verso la spiaggia. Il ragazzo la seguì, prendendola per mano non appena raggiunsero l'arenile. «Sono solo chiacchiere», si scusò. «Nessuno ci dà veramente peso.» «È un atteggiamento meschino», borbottò lei. «D'accordo», rispose Brett con un'alzata di spalle. «Ma non tutti sono gentili come te. Intendo dire che, per quanto Melissa fosse diventata strana, sei sempre rimasta dalla sua parte.» «E lo farò sempre. È mia sorella e le vorrò bene comunque, a prescindere da cosa possa aver fatto. Ora, però, non possiamo lasciar perdere?» Ritirata la mano, corse lungo la spiaggia fino all'acqua, ignorando il gelido
impatto contro la pelle. Infine si tuffò in un'onda, riemerse e si girò sul dorso. «Coraggio, fifone!» gridò al ragazzo, che era rimasto sulla sabbia. «È fantastico!» «Ma è fredda!» urlò Brett di rimando. Subito dopo, però, inspirò a fondo, si fece coraggio e si immerse a propria volta. Nuotò in immersione verso di lei finché non gli mancò il fiato, quindi sbucò in superficie. Teri, in preda al riso, era a venti metri di distanza. Con bracciate potenti e regolari, lui cercò nuovamente di raggiungerla, ma la ragazza si dimostrò una nuotatrice ben più forte di quanto non avesse pensato: gli ci vollero quasi cinque minuti per riuscire ad affiancarla. Infine, giunto accanto a lei, si limitò a mantenersi a galla. «Ehi», ansimò, «che cos'è successo? Quando sei arrivata qui, sapevi a malapena nuotare. Ricordi il primo giorno? Sono dovuto venire a salvarti.» Di fronte al sogghigno di Teri, però, fu colto da un'improvvisa intuizione. «Oppure hai solo fatto finta?» Lei piegò le labbra in un sorriso enigmatico. «Suppongo non lo saprai mai.» Poi, mentre Brett tentava scherzosamente di afferrarla, si scostò con un colpo di reni e iniziò a dirigersi verso la spiaggia. Phyllis, vestita con un paio di pantaloncini corti e una camicetta bianca (chiazzati qua e là di vernice), mosse un passo all'indietro ed esaminò lo striscione, finalmente pronto per essere appeso sopra il podio dell'orchestra, in un angolo della sala da pranzo. Si passò una mano fra i capelli, ricordandosi troppo tardi di avere le dita sporche di pittura fresca. Accortasi del sorriso comparso sul viso di Lenore Van Arsdale, invece di avvertire un'ondata di umiliazione, ridacchiò con una punta di rammarico. «Forse farei meglio a telefonare al parrucchiere per avvertirlo di predisporre una scorta di solvente.» Con sua stessa sorpresa, Lenore si ritrovò a unirsi alla risata di Phyllis. Tre mesi prima, ne era certa, la seconda signora Holloway non avrebbe neppure fatto la propria comparsa in quella stanza, oppure si sarebbe presentata con un abito formale per impartire agli uomini ordini imperiosi. Nel corso degli ultimi tre giorni, al contrario, era rimasta lì con tutti gli altri, lavorando sodo per decorare il locale esattamente come lo avevano progettato per quella sera. Per l'intero giorno precedente e quella stessa mattina si era diligentemente dedicata allo striscione, decisa a eseguire alla perfezione ogni lettera, in un rosso brillante con il bordo color oro. «Mio padre dipingeva insegne», aveva spiegato dopo essersi offerta di incari-
carsi personalmente di quel compito. «Sin da quando frequentavo l'asilo, mi ha insegnato tutto ciò che sapeva. Al liceo, mentre le altre ragazze si cercavano un impiego come cameriere, io realizzavo insegne. Non mi piaceva affatto, ma ero piuttosto brava.» Le altre donne si erano guardate l'un l'altra stupefatte perché, dopo ben quindici anni, quella era la prima volta che venivano messe al corrente della professione esercitata dal padre di Phyllis. «Si occupava di pubblicità», era il massimo che avesse mai detto, per poi cambiare rapidamente argomento. Negli ultimi tempi, del resto, Phyllis era cambiata parecchio. I giorni successivi al ricovero di Melissa in ospedale, si era fatta a malapena vedere, passando il proprio tempo chiusa in casa e uscendone soltanto per recarsi alla clinica a far visita alla figlia. Una settimana più tardi, però (dopo che Teri aveva raccontato a Brett che la matrigna rimaneva ore e ore a rimuginare nella biblioteca con le tende tirate), Lenore si era infine impietosita e aveva deciso di andare a parlarle. «Non so cosa fare», aveva ammesso Phyllis con riluttanza. «Sono consapevole che tutti mi ritengono responsabile perché sono stata troppo dura con Melissa, ma...» La sua voce si era spenta, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Di fronte a questa manifestazione di sincerità, il vecchio astio di Lenore si era dissolto. «Sciocchezze», aveva ribattuto, benché dentro di sé fosse convinta che si trattasse della pura verità. «Credo tu abbia fatto del tuo meglio. Nessuno può addossarti la colpa di quanto è accaduto. Se continui a rimanertene seduta qui al buio per tutta la vita, sprecherai la tua esistenza e non sarai mai in grado di aiutare tua figlia o chiunque altro. Ora vestiti e andiamo a pranzo assieme.» «Non posso!» aveva protestato Phyllis. «Non riuscirei ad affrontare la gente! Cosa dirò? Tutti mi fisseranno!» «Di certo lo faranno se cerchi di trasformarti in un'eremita», aveva risposto Lenore. «Coraggio, vieni!» Dopo averla condotta al piano superiore, aveva scelto per lei un due pezzi marrone e una camicetta molto semplice. «Mettiti questo. Non è vistoso, ma, d'altro canto, se indossi qualcosa di nero o blu scuro, sembrerai in lutto.» «Mi pare di esserlo», aveva sussurrato Phyllis. «E invece non lo sei. Tutta la città sa cosa è successo e che Melissa non è morta, quindi non puoi comportarti come se lo fosse. Servirebbe soltanto
a rendere le cose peggiori di quanto non siano.» «Suppongo tu abbia ragione. Anche Teri ha continuato a ripetermi le stesse cose, solo che non sapevo come comportarmi.» Per la prima volta da quand'era diventata adulta, Lenore aveva parlato letteralmente senza pensare. «Sono assolutamente d'accordo con la tua figliastra. Guardiamo in faccia la realtà, Phyllis: tu non hai mai saputo come comportarti. Hai trascorso dieci interi anni fingendo di essere ciò che non sei e non ha funzionato. Perché non provi a smetterla e non ti limiti a essere semplicemente te stessa?» Nel corso delle ultime settimane, sembrava essere accaduto proprio questo: Phyllis aveva ricominciato a frequentare il club, sempre più spesso in compagnia di Teri, e invece di tentare di imporsi all'interno di qualunque gruppo si trovasse nei dintorni, di norma aveva preferito scegliersi un luogo a parte. Inevitabilmente, erano stati gli altri ad accostarsi a lei per scambiare quattro chiacchiere, dapprima solo in ossequio al rigido senso del dovere che caratterizzava la «Gente del Cove Club», ma in seguito perché si erano accorti del cambiamento di Phyllis. Era diventata più tranquilla, sembrava più incline ad ascoltare e, a un certo punto, aveva cessato di disperarsi. Pareva addolcita. Forse, avevano deciso i frequentatori di Secret Cove, dalla tragedia di Melissa era scaturito almeno qualcosa di buono. Ora, impartite le ultime istruzioni agli operai, le due donne emersero dalla sala da pranzo proprio mentre Teri si stava avvicinando alla porta. «Ti ho colta in flagrante!» esclamò Phyllis. «Pensavi di dare un'occhiata di nascosto, vero?» La ragazza sogghignò. «Non puoi rimproverarmi per averci provato.» «Invece potrei, ma non lo farò», rispose la matrigna. «Andiamo, se no arriveremo dal parrucchiere in ritardo.» Si rivolse a Lenore. «Che ne dici di trovarci direttamente là? Charles sta per recarsi in ospedale e ho qualcosa da dargli per Melissa.» Il viso dell'altra si addolcì in un'espressione di simpatia. «Come sta? Si è verificato qualche cambiamento?» Phyllis sorrise con aria rassegnata. «Vorrei tanto fosse così, ma il dottor Andrews sembra convinto che ci vorrà molto tempo.» Lenore scosse tristemente il capo. «Se c'è qualcosa che posso fare...» «Magari! Purtroppo, invece, pare non si possa fare niente. Del resto, chissà, forse è meglio che rimanga in questo stato. So che si tratta di un'af-
fermazione terribile, ma, se riesce a migliorare, che ne sarà di lei? Dovrà affrontare...» La voce le mancò, ma subito raddrizzò le spalle. «Suppongo non serva a nulla discuterne, vero? Dopotutto, devo pensare anche a Teri. E tu», aggiunse all'indirizzo della figliastra, «hai ancora un sacco di cose da fare, se non vuoi che Brett finisca per andare al ballo da solo.» «Oh, no, non succederà», le assicurò lei. «Se c'è qualcosa in cui eccello, quella è la tempestività.» Entrambe salutarono Lenore e se ne andarono. La signora Van Arsdale le osservò scomparire alla vista: era notevole, rifletté, come matrigna e figliastra si intendessero. Per ciascuna di loro, l'altra sembrava aver sostituito la persona che avevano perso quell'estate, ed entrambe ne avevano ricavato un miglioramento. In fin dei conti, forse lei e le sue amiche erano state decisamente troppo dure con Phyllis negli ultimi anni. In effetti, poteva anche darsi che non avesse esercitato eccessive pressioni su Melissa. Forse quella bambina aveva sempre celato in sé la follia e Phyllis si era semplicemente sforzata il più possibile di mantenerla sotto controllo. Doveva essere stato tremendo per lei, durante tutti quegli anni, avere a che fare con una figlia il cui contatto con la realtà era stato tanto tenue. Sì, decise Lenore salendo sulla Comiche, tutto era probabilmente finito nell'unico modo possibile. In definitiva, Phyllis aveva ragione. Forse sarebbe stato meglio per Melissa non ricordare affatto l'accaduto, rimanere semplicemente nel proprio mondo di fantasia e lasciare che le altrui ferite si rimarginassero, perlomeno in parte. Mentre camminavano lungo la spiaggia in direzione di Maplecrest, Teri prese per mano la matrigna. «Come va?» chiese. «Stai bene?» Phyllis rimase un attimo silenziosa, ma infine sorrise. «Sì, sto bene», la rassicurò. «E avevi proprio ragione: faranno qualsiasi cosa per te finché sono convinte che tu abbia bisogno d'aiuto. Per tutti questi anni mi sono sforzata di essere come loro, con il risultato di venire trattata come spazzatura. Ora, invece, faccio e dico quello che voglio e tutto mi viene perdonato. Sembra quasi abbiano deciso che sono una santa.» «Perché, non lo sei?» ribatté la ragazza in tono perfettamente innocente. «Davvero non riesco a capacitarmi di come tu abbia potuto resistere per tutto questo tempo, con Melissa che diventava sempre più strana e tu che cercavi disperatamente di aiutarla. Per te dev'essere stato molto peggio che non per lei. Dopotutto, lei non era consapevole della propria follia.»
«In realtà, neppure io lo ero», osservò Phyllis, per poi iniziare a parlare a ruota libera. Era così facile comunicare con Teri, che sembrava capire sempre i suoi sentimenti. Soprattutto nei confronti di Melissa. Dopo il ricovero della figlia, non aveva saputo che fare. Si era sentita certa che tutta la città sparlasse di lei e aveva desiderato soltanto nascondersi. Poi, però, Teri le era venuta in soccorso, spiegandole che non doveva considerarsi colpevole dell'accaduto. «Tu ignoravi la gravità della situazione», aveva insistito. «Esattamente al pari di chiunque altro. Dunque, chi può biasimarti?» «Tutti lo stanno facendo. Hanno sempre pensato che fossi troppo dura con Melissa.» Teri aveva alzato le spalle. «In tal caso, di' loro proprio questo. Spiega di aver capito che la colpa è stata tua. Vedrai cosa succede!» Con immensa sorpresa di Phyllis, aveva funzionato davvero. Le era bastato racimolare qualche lacrima a beneficio di Lenore Van Arsdale e immediatamente una donna che l'aveva snobbata per più di dieci anni si era trasformata nella sua migliore amica. E tutti gli altri (persone che lei aveva sempre considerato molto intelligenti) avevano reagito nello stesso modo. Sorrise fra sé. Tutti quegli anni, quando Melissa l'aveva umiliata di fronte a chiunque... e ora, con la figlia finalmente tolta di mezzo, stava infine ottenendo il riconoscimento che meritava. Come, del resto, meritava il genere di figlia che aveva trovato in Teri MacIver. La sua vita stava alla fine diventando esattamente come l'aveva pianificata quel lontano giorno del proprio arrivo a Maplecrest, quando aveva riconosciuto in Teri la bambina perfetta che aveva sempre desiderato. Adesso loro due erano di nuovo assieme e la sua esistenza aveva imboccato il corso voluto. Strinse affettuosamente la mano della figliastra, cancellando Melissa dalla propria mente. In definitiva, tutti stavano meglio da quando lei non c'era più. Charles Holloway giunse di fronte alla Clinica Harborview e salutò con un cenno del capo il guardiano, che premette il pulsante di apertura del cancello. Su entrambi i lati dell'ingresso un'alta palizzata, discretamente nascosta da cespugli ornamentali, si perdeva in distanza. La recinzione cir-
condava completamente la vasta estensione del parco in cui sorgeva la clinica, ma Charles, dirigendosi in auto verso l'edificio che ospitava i malati mentali, non provava la minima sensazione di trovarsi in una prigione. Al contrario, la clinica continuava ad assomigliare esattamente alla tenuta che era stata un tempo; benché gli fossero stati mostrati i sistemi di sicurezza installati quando la proprietà era stata convertita in una casa di cura per disturbi mentali, tutto era così ben celato che persino ora non riusciva a notarli. Parcheggiò la Mercedes davanti all'edificio principale e salì in fretta i gradini. L'addetta alla ricezione, seduta a una piccola scrivania antica nell'ingresso, gli porse il benvenuto con un sorriso. «Possiamo sempre contare su di lei, vero?» esordì. Charles annuì in risposta all'osservazione della ragazza, ma subito spostò lo sguardo verso la sala di soggiorno. Nel capire cosa lui stesse cercando, la segretaria si rannuvolò. «Non ancora», spiegò. «Hanno provato a riportarla qui stamattina, ma si è comportata nello stesso modo di sempre. Sembra sentirsi più al sicuro nella propria stanza.» Lui sentì svanire dentro di sé la flebile speranza cullata per tutto il giorno, ma si costrinse a sorridere. «Beh, forse andrà meglio domani.» Salì al primo piano, dove un'infermiera sedeva a un'altra scrivania (praticamente identica a quella situata dabbasso) posta ad angolo retto rispetto alla parete. «Entri pure, signor Holloway», lo invitò la donna. Charles imboccò il corridoio ovest, fermandosi davanti alla terza camera sulla sinistra. Sbirciò attraverso lo spioncino sul battente e, come sempre, scorse Melissa su una sedia accanto alla finestra, le mani in grembo e lo sguardo fisso davanti a sé. Perso nel vuoto. No, si disse lui girando la maniglia e muovendo qualche passo all'interno, sono sicuro che vede qualcosa. Sta osservando immagini che esistono solo nella sua mente e che non riesce a decifrare. Quando le capirà, però, starà bene di nuovo. «Melissa?» esclamò, accostando un'altra sedia a quella della figlia. «Missy, sono io. Mi senti?» La ragazzina non manifestò la minima reazione. Fu come se non avesse udito le sue parole, non fosse neppure consapevole della sua presenza. «Ciò non significa necessariamente che lei non la senta», gli aveva assi-
curato Andrews la settimana precedente. «La personalità di Melissa esiste ancora, anche se noi non la percepiamo.» Si era concesso una pausa, sforzandosi di evocare un sorriso. «Potremo assimilare il suo stato a un gioco di nascondino. Sua figlia non può essere vista né sentita, ma è in qualche punto nelle vicinanze e potrebbe benissimo essere in grado di udire. Deve tener presente che stiamo parlando di una bambina molto spaventata, ed è possibile che sia tanto atterrita da ciò che potrebbe capitarle da desiderare semplicemente di non mostrarsi.» «Ma D'Arcy sostiene che dorme, vero?» aveva chiesto Charles. «Certo, ma può darsi che D'Arcy non conosca tutta la verità, proprio come Melissa. Sua figlia era al corrente dell'esistenza di D'Arcy, ma ignorava ciò che la presunta amica provasse. Di conseguenza, dobbiamo supporre che per D'Arcy sia lo stesso.» «D'Arcy è stata in grado di spiegarle cosa è accaduto?» Lo psichiatra aveva scosso la testa. «Come le ho detto, è molto probabile che non lo sappia. Tutto quello che mi sento di affermare con certezza è che sta proteggendo Melissa, o perlomeno è convinta di farlo.» Charles aveva impiegato parecchie settimane semplicemente per accettare la realtà della duplice personalità di Melissa e, benché alla fine fosse riuscito ad adattarvisi quanto bastava per discutere di D'Arcy con Andrews, era stato incapace di costringersi a parlare con quella ragazza strana e silenziosa che sembrava essersi appropriata del corpo di sua figlia. Di conseguenza, durante le sue visite quotidiane, si sedeva accanto a Melissa, stringendole una mano inerte, parlandole in tono sommesso, talvolta raccontandole qualcosa di sé, ma più spesso rammentando il passato, evocando i bei momenti trascorsi assieme. Quel giorno rimase con lei per circa un'ora, quindi controllò l'orologio. «Adesso devo andare», spiegò con rammarico. «A casa è una serata speciale. Tua madre ha impiegato un sacco di tempo ad allestire il club per l'occasione, e non mi ha neppure confidato quale sia il tema della festa. Dall'espressione del suo viso in questi ultimi giorni, però, scommetto che si tratta di qualcosa di molto particolare.» Si sporse in avanti, prendendo entrambe le mani della ragazzina nelle proprie. «Vorrei tanto ci fossi anche tu», mormorò. «Ricordi cosa ti avevo promesso? L'estate in cui avessi compiuto i tredici anni, ti avrei portata al Ballo della Luna d'Agosto e avrei aperto le danze con te.» Per una frazione di secondo un barlume di interesse parve brillare negli occhi di Melissa e Charles sentì il cuore accelerare i battiti. «Missy?» chie-
se. «Missy, mi hai udito?» Tuttavia, quella scintilla svanì rapidamente com'era apparsa. Con riluttanza, lui si alzò in piedi. Dopo averla baciata sulla fronte, uscì dalla stanza, ma anche dopo essersi richiuso la porta alle spalle, l'immagine di quella brevissima, strana luce nello sguardo non lo abbandonò. D'impulso si voltò e lanciò un'occhiata attraverso lo spioncino nel battente. Melissa era rimasta nella medesima posizione, fissando nel vuoto. Poi, proprio mentre lui stava per girarsi di nuovo, la sua mano destra si sollevò e prese ad accarezzare dolcemente il filo di perle attorno al collo. Gli occhi di Charles si riempirono di lacrime: di colpo si era ricordato delle parole della figlia quando, a Natale, aveva aperto l'astuccio contenente la collana. «La indosserò al Ballo della Luna d'Agosto», aveva sussurrato. E invece non ci sarebbe andata. Non quella sera. Forse mai più. Asciugandosi le tracce di pianto, Charles si allontanò. 29 Teri cinse più strettamente il collo di Brett Van Arsdale e appoggiò la testa contro il suo petto. A occhi chiusi, si lasciò avvolgere dalla melodia dell'ultimo brano della serata. Attorno a lei, altre coppie ballavano lentamente, come se, rallentando i propri passi, potessero prolungare quella notte perfetta. Si era davvero trattato di una festa magnifica, sin da quando le porte della sala da pranzo erano state aperte alle otto e mezzo precise. A quell'ora, la maggior parte dei membri del club si erano già radunati nel vasto ingresso e quando Phyllis Holloway e Lenore Van Arsdale si erano infine fatte avanti per schiudere gli enormi battenti di mogano la folla aveva inconsciamente trattenuto il respiro. Tutti erano rimasti a bocca aperta davanti a una ricostruzione praticamente perfetta della sala da pranzo come doveva essere apparsa un secolo prima. Contro le pareti erano stati collocati pannelli temporanei, rivestiti di carta da parati rossa quanto più simile possibile all'originale. I grandi lampadari a goccia (mai sostituiti nel corso di cento anni) erano stati dorati per l'occasione e muniti di nuove lampadine che imitavano l'ondeggiare delle fiammelle a petrolio originarie. Lungo i muri, montati sui pannelli, c'erano veri lumi a gas, la cui luce
conferiva alla stanza una luminescenza che sembrava spazzare via il passare del tempo. Piante in vaso riempivano ogni angolo del locale e sul podio dell'orchestra non esistevano microfoni: quella sera, i musicisti avrebbero suonato senza amplificazione. Appena sopra il palco, lo striscione dipinto tanto coscienziosamente da Phyllis annunciava il tema del ballo. IL CERCHIO SI CHIUDE RITORNO ALLE NOSTRE ORIGINI E, in effetti, l'intera serata aveva dato a tutti l'impressione che l'attuale secolo non fosse mai iniziato. Phyllis aveva pensato a tutto: ogni donna aveva un carnet di ballo legato al polso con un nastro di velluto, mentre la musica apparteneva a un'altra era (l'orchestra era stata munita di spartiti ingialliti, ripescati in ogni soffitta di Secret Cove). Alle pareti erano esposti sbiaditi dagherrotipi, ma chiunque fosse intervenuto, cent'anni orsono, al primo Ballo della Luna d'Agosto aveva un discendente alla festa di quella sera. Dopo aver assorbito lo spettacolo, Brett aveva condotto Teri sulla pista da ballo e, tenendola stretta a sé, le aveva bisbigliato all'orecchio: «È quasi sinistro. Non pensi che anche D'Arcy potrebbe farsi viva?» La ragazza era stata scossa da un brivido. Ripresasi rapidamente, fin dall'inizio del ballo le era parso che il medesimo pensiero dovesse essersi affacciato alla mente di molti altri, perché di tanto in tanto notava qualcuno sbirciare furtivamente in direzione della porta, quindi arrossire lievemente nel rendersi conto di quanto stava facendo. Con il trascorrere del tempo, tuttavia, la folla si era rilassata e ora, allo svanire delle ultime note del valzer finale, nella stanza scoppiò un applauso collettivo. Gli ospiti cominciarono ad avviarsi verso l'uscita, fermandosi a congratularsi con Phyllis e Lenore per il successo della serata. Phyllis ascoltò rapita i complimenti, le parole di elogio assai più dolci di quanto potesse essersi rivelata la musica stessa. Alla fine, anche Teri e Brett, le dita intrecciate, si avvicinarono alla porta. La ragazza si protese a baciare la guancia della matrigna. «È stato perfetto, mamma», mormorò. Phyllis, gli occhi di colpo umidi nell'udire la figliastra pronunciare per la prima volta quella parola, si chiese se non si fosse trattato di un lapsus.
Ma Teri le stava sorridendo. «È quello che provo», le spiegò. «Mi sento come se tu fossi sempre stata mia madre. Penso che tu sia perfetta per me come il ballo lo è stato per tutti gli altri.» Abbracciandola con il cuore gonfio d'orgoglio, la donna sussurrò: «Per me è esattamente la stessa cosa. Sei la figlia che ho sempre desiderato. E ora sono riuscita ad averti». Qualche minuto dopo i due ragazzi uscirono nella notte, tiepida e fragrante come se il tempo avesse cospirato con Phyllis per rendere magnifica quella sera. Quando Brett accennò a dirigersi verso il parcheggio, Teri lo bloccò. «Andiamo a piedi», suggerì. «Torniamo a casa come devono avere fatto tutti quella prima notte.» Scesi i gradini fino alla spiaggia, lei sostò per sfilarsi le scarpe prima di mettere i piedi sulla sabbia. La luna era alta nel cielo, il mare luccicante di riflessi argentei, e i due si presero nuovamente per mano. Teri sospirò. «Non è stato fantastico? Talvolta desidererei aver vissuto a quei tempi, quando tutti avevano moltissime persone di servizio e le ville erano piene di ospiti per l'intera estate. Non pensi che sarebbe stato divertente?» Brett tacque, ma le passò un braccio attorno alla vita e la tenne stretta. Camminarono in silenzio fino a Maplecrest e, una volta sulla veranda, lui la baciò. «Perché non mi inviti a entrare?» sussurrò. «I tuoi sono a casa mia e non torneranno almeno per un paio d'ore.» Senza rispondere, Teri lo baciò di nuovo, quindi indietreggiò scuotendo la testa, un lieve sorriso aleggiante agli angoli della bocca. «Non stanotte. È il secolo scorso, non ricordi? Le ragazze perbene non facevano certe cose.» Prima che lui potesse protestare, si sottrasse al suo abbraccio e sgattaiolò attraverso la porta, chiudendosela alle spalle. Le luci nell'ingresso erano state lasciate accese e lei si fermò per un attimo, la schiena addossata al battente. Si sentiva a casa. Con il trascorrere dei giorni, il passato era andato via via annidandosi nei più lontani recessi della sua memoria, finché adesso riusciva quasi a credere di non essersene mai andata da lì, di non essere mai stata sottratta al lusso disinvolto di quelle immense stanze per crescere negli angusti spazi della villetta di San Fernando. Improvvisamente, del tutto incontrollabile, le balzò alla mente una immagine dell'incendio che aveva rappresentato il primo passo verso il suo
ritorno a Maplecrest. Senza volerlo rabbrividì, poi scacciò con fermezza quel ricordo, rinchiudendolo assieme a tutte le altre tracce residue delle azioni commesse. Niente di tutto ciò era reale, si disse. Adesso l'unica realtà consisteva nel suo ritorno nella casa che le apparteneva di diritto, fra le persone che la amavano. O, perlomeno, che amavano l'apparenza tanto meticolosamente costruita e accuratamente esibita al mondo. Sospirò soddisfatta, si tolse il leggerissimo scialle di seta comperato espressamente per il ballo e salì la scalinata fino al piano superiore. Entrata nella propria camera all'estremità del corridoio, appese lo scialle nell'armadio, poi si sedette davanti allo specchio per ammirare ancora una volta la stanza. Era esattamente come se l'era sempre immaginata, ogni indizio della presenza della sorellastra finalmente eliminato. Cora aveva impacchettato e riposto in solaio le cose di Melissa e a quel punto erano intervenuti i decoratori (gli stessi che, al club, erano riusciti a far scorrere il tempo a ritroso). Avevano fatto lo stesso anche per lei, regalandole la camera sognata sin da bambina, quella che ancora adesso, svegliandosi ogni mattina, le comunicava un lieve brivido d'eccitazione. Le pareti erano rivestite in seta color smeraldo, proprio come le aveva desiderate, e lo stesso tessuto luminescente era drappeggiato attorno all'enorme letto a baldacchino che lei e Phyllis avevano trovato da un antiquario di Portland. La cassettiera di Melissa era sparita, confinata nella stanzetta in soffitta (si era trattato di un suo colpo di genio, trasferire il mobile della sorella in quella che Melissa aveva considerato la camera di D'Arcy). Al suo posto stava ora un armadio intagliato a mano, mentre due comodini nel medesimo stile affiancavano il letto. Come aveva sempre sognato. Stava ancora godendosi quello spettacolo allo specchio quando udì i primi deboli rumori provenire dal piano di sopra. Si accigliò leggermente, poi decise di non badarci. Il suono doveva sicuramente esser stato provocato da un ramo che aveva sfiorato il muro della casa. Di nuovo. Un gemito soffocato. Come se qualcuno stesse piangendo.
Mentre il cuore accelerava i battiti, Teri si incupì. In quel momento, però, i singhiozzi a malapena percettibili cessarono e la casa tornò silenziosa. Finché non iniziarono i passi. Li udì distintamente echeggiare sul soffitto con un ritmo lento e solenne. Pensò di sentire una porta aprirsi, per poi richiudersi con uno scatto sommesso. Quindi, ancora silenzio. Rimase in ascolto con la pelle accapponata e la lieve peluria sul collo che iniziava a drizzarsi. Stava immaginandosi tutto. La villa era deserta, lo sapeva per certo! Aveva visto le luci accese nel soggiorno di Cora, era addirittura riuscita a scorgere l'anziana domestica sonnecchiare sulla poltrona! Non appena cominciò a rilassarsi, i passi risuonarono nuovamente. Ora provenivano da quello stesso piano e procedevano lentamente lungo il corridoio, verso la sua camera. Ansimando, si precipitò alla porta, girò la chiave nella serratura e tornò a sedersi davanti allo specchio. Il rumore dei passi crebbe finché Teri non avvertì una presenza dietro la porta chiusa. Il cuore le martellava furiosamente in petto e le gelide dita del panico la stavano ormai afferrando. Tentò disperatamente di convincersi che non stava accadendo nulla, che si trattava soltanto di uno scherzo dell'immaginazione, analogo a quelli che lei stessa aveva escogitato per Melissa quando aveva voluto farle credere cose inesistenti. Di colpo, la saracinesca che aveva calato sui propri ricordi andò in frantumi e tutte le immagini di quanto aveva fatto in passato si riversarono fuori, incombendo su di lei, riempiendola di orrore. Era così che sarebbe stato il resto della sua vita? Queste terribili visioni della propria colpa che le balzavano addosso, uscendo furtivamente dal loro nascondiglio per venirla a tormentare? Voltò le spalle alla porta, ma le immagini nella sua mente la seguirono, prendendosi gioco di lei. Chiuse gli occhi per un istante, ma subito, udendo il rumore della chiave che girava nella serratura, li riaprì e rimase a fissare terrorizzata lo specchio. Dietro di lei, la porta chiusa fino a un attimo prima, la porta che lei stessa aveva sbarrato, era leggermente aperta. Tremando di paura, ma incapace di resistere, si girò.
Sotto il suo sguardo annichililo, i cardini gemettero e il battente si spalancò. Sulla soglia si ergeva una figura vestita di bianco, il viso velato, intenta a fissarla. Benché Teri non riuscisse a distinguerne le fattezze sotto il velo, la sua mente atterrita ne ricostruì i tratti. I lineamenti di Polly MacIver. Il viso contorto in una maschera di morte mentre giaceva sul selciato dopo essere precipitata dal primo piano. I lineamenti di Tom MacIver. La carne del volto corrosa dalle fiamme, le orbite vuote che la guardavano con aria d'accusa. I lineamenti di Tag Peterson. Un sanguinolento pullulare di vermi. Anche Tag era celato dietro il velo e Teri scorse chiaramente i suoi occhi, che la osservavano come se potesse vedere dentro di lei. Era stata costretta a ucciderlo, non aveva avuto scelta! Aveva intuito il suo piano e si accingeva a fermarla. Persino i lineamenti di Jeff Barnstable. Pure lui era lì, e ora, in quel tremendo momento di chiarezza in cui tutte le sue vittime erano sorte dal regno dei morti per affrontarla, lei capì di avere ucciso Jeff esattamente come gli altri. Non con la medesima, fredda deliberazione, forse, ma in sostanza la responsabilità di quanto gli era accaduto ricadeva su di lei. E infine fu certa di riconoscere Melissa Holloway, che la guardava quasi con compassione attraverso la spessa trama del velo. Melissa, che lei aveva odiato per anni ancora prima di incontrarla. Melissa, che lei era infine riuscita a esiliare dalla sua casa e dalla sua vita. Poté vedere tutti loro nella figura velata, e mentre le gelide mani della sua stessa colpa la ghermivano, Teri seppe che avrebbe fatto qualunque cosa quell'apparizione avesse preteso da lei. La figura sollevò il braccio sinistro, puntandoglielo contro in un gesto d'accusa. Ma, al termine di quel braccio, la mano non c'era. Solo un moncherino, la cui carne e i tendini si erano ritratti dalle ossa tranciate, cosicché lei si trovò a guardare un bianco e luccicante frammento di scheletro. La ragazza si alzò, sapendo ormai cosa doveva fare, e seguì la raccapricciante apparizione che, voltatasi, prese a guidarla fuori della stanza. Nella propria camera alla clinica Harborview, Melissa si svegliò lentamente nel letto. Anche prima di aprire gli occhi, sentì di non essere a Maplecrest. No, si trovava da qualche altra parte.
Un ospedale. Era ricoverata in un ospedale, dove l'avevano portata dopo... Con l'improvviso schiudersi della diga dei ricordi, balzò a sedere sul materasso. I frammenti del suo passato si accavallarono l'uno sull'altro, lottando per catturare la sua attenzione. Alcuni erano familiari, familiari e orribili. L'immagine di Tag, il cui corpo mutilato giaceva sotto il pavimento della serra. Blackie, un filo di perle attorno al collo, penzolante da una trave in soffitta. Alcuni erano strani. Una visione di se stessa sotto la doccia, mentre l'acqua bollente si riversava sulla sua pelle e la mamma la strofinava con violenza, inveendo contro di lei. Sdraiata a letto per interminabili notti, le cinghie che le ferivano i polsi e le caviglie. Teri, il viso incombente su di lei nell'oscurità, intenta a parlarle. No, non con lei. Con D'Arcy. Parlava con D'Arcy... Di colpo ricordò la sera del ballo in costume, ma questa volta in ogni minimo particolare. Rammentò di avere indossato la parrucca e di essere salita in soffitta, di essere scesa dalle scale di servizio e di aver attraversato la cucina, stranamente poco familiare. Anche il sentiero nel bosco sembrava in qualche modo diverso. Tutti i vuoti nella sua memoria furono improvvisamente colmati, e per un attimo una grande paura si impadronì di lei. Istintivamente chiamò D'Arcy. Ma non ottenne risposta. Perché D'Arcy se n'era andata. No, non esattamente. Piuttosto, D'Arcy era divenuta una parte di lei, aggiungendo infine i propri ricordi ai suoi. Melissa rimase immobile sul letto, guardandosi attorno. La stanza non le parve estranea, anzi, si accorse di conoscerne ogni dettaglio, fino alle più lievi irregolarità della carta da parati. Eppure, nel contempo, era come se non l'avesse mai vista prima.
Il suo sguardo si spostò sul tavolino da notte e sul filo di perle che vi giaceva. Le prese, e accarezzò con le dita quelle superfici così ben note. Ma qualcosa non andava. Una delle perle (la terza a partire da un'estremità della collana) avrebbe dovuto possedere una leggera imperfezione, un minuscolo rigonfiamento a stento percettibile. Accigliata, le esaminò più da vicino, ispezionando anche il fermaglio. Il fermaglio d'oro su cui erano incise le sue iniziali in lettere tanto microscopiche da risultare quasi illeggibili. Se lo avvicinò agli occhi, sforzandosi di leggere, cercando la sigla M J H Trovò invece tre lettere diverse. TEM Teresa Elaine MacIver. Impossibile! Quelle erano le sue perle! Papà gliele aveva regalate lo scorso... Di colpo ricordò. Quella era la collana che aveva tolto a Blackie la sera in cui l'aveva trovato impiccato in soffitta. Rimase a lungo assolutamente immobile, cercando di afferrare il significato di quanto aveva letto sul fermaglio. I ricordi (tutti, i suoi e quelli di D'Arcy) cominciarono a collegarsi e ad assumere una forma logica. Infine, mentre le lacrime le scorrevano lungo le guance (più per compassione delle persone innocenti che erano morte, piuttosto che per se stessa), premette il pulsante che avrebbe fatto accorrere l'infermiere del turno di notte. Gli Holloway entrarono in casa e Phyllis, d'impulso, gettò le braccia al collo del marito, stringendolo a sé. «Non è stato meraviglioso?» chiese. «Come avrebbe potuto essere più perfetto di così?» Sarebbe stato perfetto, pensò Charles, se solo ci fosse stata anche Melissa. Stanotte, tuttavia, non avrebbe sciupato la felicità della moglie con la propria tristezza: le avrebbe lasciato godere il suo attimo di gloria, consentendole di crogiolarsi nella gioia del successo. Domani sarebbe giunto anche per lei il momento di ricominciare ad affrontare la realtà. Lui sapeva che la moglie continuava a evitarla, era sin troppo consapevole delle scuse cui Phyllis ricorreva per sottrarsi alle visite alla clinica. Ma Melissa era ancora sua figlia e lei aveva delle responsabilità nei suoi
confronti, per quanto queste responsabilità potessero sembrarle sgradevoli. Come se avesse intuito i suoi pensieri, Phyllis si scostò da lui e smise di sorridere. «Non potresti togliertela dalla mente almeno per una sera?» domandò. Charles scosse la testa. «Mi dispiace, ma non ci riesco. Mi ha fatto molto male non averla con noi alla festa. L'aveva aspettata per così tanto tempo...» La donna sbuffò con impazienza. «Non sa neppure di averla persa! Il dottor Andrews sostiene...» Lui protese la mano in un gesto conciliante. «Non stanotte. Non intendevo sollevare l'argomento. Perché non vai a salutare Teri? La luce in camera sua è ancora accesa e, in effetti, dubito che stia già dormendo. Anzi, falla venire dabbasso a bere qualcosa con noi.» L'irritazione immediatamente dimenticata, Phyllis salì in fretta le scale. Nel preciso momento in cui raggiunse il pianerottolo, però, si rese conto che qualcosa al piano di sopra non andava. Lassù c'era un'atmosfera strana. «Charles?» chiamò. «Charles, vieni su!» Lui la raggiunse subito e la trovò intenta a fissare il pavimento, dove una serie di chiazze rosso scuro spiccavano sul legno lucido. Si accigliò, accorgendosi che provenivano dalla stanza della figlia. Con la moglie al seguito, si precipitò lungo il corridoio. «Teri? Teri, stai bene?» La camera era vuota, ma proprio al centro, in un mucchio informe di tessuto verde acceso, giaceva l'abito che la ragazza aveva indossato al ballo. Charles rimase un attimo a guardarlo in preda alla confusione, quindi si diresse a grandi passi verso il bagno. Deserto. Tornato velocemente in corridoio, cominciò a seguire le tracce di sangue nella direzione opposta. Phyllis, il respiro già affannoso, si mosse con passo incerto dietro di lui. Giunsero ai piedi delle scale che conducevano in soffitta. La porta era aperta e Charles, con la moglie aggrappata al braccio, fissò l'oscurità sovrastante. Infine dopo aver respirato a fondo, accennò a salire, ma Phyllis lo trattenne. «No», bisbigliò. «Non... non voglio.» «Dobbiamo», rispose lui a denti stretti. «Se lei è lassù...» Lasciò la frase a metà, sospesa nell'aria, e cominciò a salire.
Arrivò in cima, tenendo saldamente la mano della moglie, quasi trascinandola con sé. Poi, quando Phyllis fu al suo fianco sul pianerottolo, sporse il braccio nelle tenebre e accese la luce. Entrambi la videro nel medesimo istante. A qualche metro di distanza, Teri, vestita con l'abito bianco pieno di sangue che Melissa aveva indossato il giorno in cui aveva condotto la polizia al corpo massacrato di Tag Peterson, pendeva da una trave, una spessa corda annodata attorno al collo. Il suo abito riluceva di rosso sotto la cruda luminosità della lampadina. Ai piedi della ragazza si era formata una pozza di sangue. Il braccio sinistro terminava in un moncherino che stava ancora sgocciolando. Sul pavimento, proprio sotto il corpo senza vita di Teri, brillava la lama di un coltello da macellaio. Phyllis fissò quel viso contorto dagli occhi sporgenti e accusatori, dalle labbra contratte in un sorriso di morte, quindi, con un urlo, si accasciò al suolo, squassata dai singhiozzi. Charles, dapprima impietrito di fronte a quello spettacolo raccapricciante, si sentì assalire dai conati ma riuscì a mantenere il controllo. Voltatosi, scese le scale a precipizio e raggiunse di corsa il telefono situato nella camera da letto padronale. Afferrato il ricevitore con una mano e accesa la luce sul comodino con l'altra, compose il numero delle chiamate d'emergenza. E rimase paralizzato. Il ricevitore ripiombò sulla forcella mentre i suoi occhi si inchiodavano attoniti sull'oggetto che giaceva sul cuscino. Era la mano tagliata di Teri. Nelle dita fradice di sangue stava racchiuso il filo di perle. Le perle, si rese lentamente conto, che aveva giurato di non avere mai ricevuto. Stava ancora fissandole, cercando di capire il loro significato, quando il telefono al suo fianco squillò rumorosamente. Tentò di ignorarlo, di escludere dalla propria mente quel suono insistente mentre si sforzava di comprendere quanto aveva visto nel corso degli ultimi minuti. Ma l'apparecchio continuò a squillare, finché non si decise a rispondere. «Pronto?» disse con voce tanto tremante da risultare quasi inintelligibile. Dopo una breve pausa, un sussurro tremante quasi come il suo si fece udire all'altro capo della linea.
«Papà? Sono Melissa.» Epilogo Melissa si sentì percorrere da un brivido, ma non fu certa se si trattasse di paura o di ansiosa attesa. Benché la figlia non avesse detto nulla, Charles Holloway ne avvertì l'improvviso disagio e, dal posto di guida della Mercedes, volse la testa a guardarla. «Non è troppo tardi per cambiare idea, tesoro. Non esiste alcun motivo per cui si debba per forza farlo.» Lei scosse il capo. «Ci sono una quantità di motivi, invece, papà. Non possiamo limitarci a fingere che qui non sia mai accaduto nulla.» Erano trascorsi cinque anni dall'ultima volta in cui entrambi avevano messo piede a Secret Cove, e quando Melissa aveva suggerito al padre di partecipare al Ballo della Luna d'Agosto di quell'estate, la sua prima reazione era stata un deciso rifiuto. «Non riesco a capire perché tu voglia andarci, né posso immaginare una sola ragione al mondo che mi convinca a venire», aveva dichiarato. Ma lei si era accontentata di rivolgergli un sorrisino malizioso. «E se io ti invitassi?» Così, ora si trovavano di nuovo a Secret Cove. Cora era rimasta a New York, scrollando la testa con aria afflitta quando era stata messa al corrente della loro destinazione. «Non fa per me», aveva affermato. «Se voi due intendete sollevare tutti quei ricordi, non credo di potervelo impedire. Io, però, ho dovuto sopportare la mia parte di dolore, ed è interamente legato a quel posto.» I suoi vecchi occhi si erano fissati su Charles. «E anche a lei quel luogo non ha mai portato molta felicità.» Ma Melissa era stata irremovibile. «Voglio andare a vedere», aveva insistito, cercando di trovare le parole adatte per esprimere i propri sentimenti nei confronti di Secret Cove e di se stessa. «Non desidero affatto tornare a vivere a Maplecrest, anzi, dubito di volerci trascorrere anche solo una notte. Ma voglio esser certa di poterci andare. Per troppo tempo sono fuggita da troppe cose e non intendo continuare a farlo. Inoltre», aveva aggiunto, «che voi ci crediate o meno, ho ancora voglia di partecipare al Ballo della Luna d'Agosto. Quindi, papà, devi venire con me, perché mi hai promesso di riservarmi il primo e l'ultimo ballo, ricordi?» Di conseguenza, adesso erano sul punto di entrare nel villaggio per la prima volta da quella terribile estate di cinque anni prima. Charles sollevò il sopracciglio destro di una frazione di millimetro. «Per
anni, entrambi siamo riusciti a fingere che non fosse successo niente», osservò. «Perché, allora, non proseguire così?» Melissa si sporse a stringergli affettuosamente una mano. «Se non vuoi venire, nessuno ti costringe. Tu puoi rimanere al villaggio e io andrò da sola. Darò un'occhiata a Maplecrest e parteciperò al ballo, mentre tu te ne starai seduto in un bar ad annegare nell'acol i tuoi guai.» Lui assunse un'espressione esageratamente addolorata. «Non ho mai fatto una cosa simile e lo sai benissimo.» «Neavresti avuto il diritto», rispose lei. «Come tu abbia potuto rimanere sposato con la mamma per così tanti anni...» Si interruppe di colpo. Ne avevano parlato troppe volte per sollevare di nuovo l'argomento. Phyllis costituiva ancora un soggetto sufficientemente doloroso da far sì che entrambi osassero raramente menzionarla. Ora, attraversando il villaggio, Melissa si guardò attorno con curiosità. «Non cambia mai, vero?» commentò. Charles scosse la testa. «È sempre stata la sua maggiore attrattiva. Qualcosa su cui contare in un mondo in costante trasformazione.» Cinque minuti dopo si fermarono di fronte a Maplecrest, ma nessuno dei due accennò a scendere dall'auto. Rimasero seduti in silenzio a fissare la casa dove ambedue avevano trascorso ogni estate della loro vita sino a pochi anni prima. A differenza del villaggio, però, Maplecrest era cambiata. Possedeva ormai quell'aria di abbandono caratteristica di tutti gli edifici disabitati, un aspetto che andava al di là della vernice scrostata e del giardino non curato. L'intera struttura emanava un alone di solitudine, come se fosse consapevole che nessuno desiderava più abitarvi. Infine padre e figlia scesero dalla macchina ed entrarono nella villa, vagando muti attraverso le stanze poco arieggiate i cui mobili erano stati da tempo coperti con teli, ciascuno perso nei propri ricordi. Dopo un poco, Melissa salì al primo piano per vedere la camera che era stata sua. Ma non le apparteneva più. I mobili scelti da Teri erano ancora là, e nulla le parve familiare. Il che, decise, le stava bene: se mai fosse tornata a Maplecrest, perlomeno non si sarebbe sentita perseguitata da quella stanza e il passato non le sarebbe sembrato tanto vicino da minacciare di sopraffarla. Gli oggetti della sua infanzia erano spariti, riposti in qualche angolo della soffitta, ne aveva la certezza. Forse, un giorno o l'altro, sarebbe nuovamente tornata e li avrebbe cercati. Non oggi, però. Oggi era sufficiente sapere di potersi aggirare per quella casa senza pro-
vare timore e brutti presentimenti. I ricordi sopravvivevano, ma il passato era morto e sepolto. Alle otto e mezzo di quella sera, Charles parcheggiò la Mercedes di fronte al Cove Club e si affrettò ad andare ad aprire la portiera alla figlia. Numerose persone erano radunate nell'atrio davanti alle porte della sala da pranzo, chiacchierando tranquillamente fra loro. Nel riconoscere Charles e Melissa Holloway, tutti tacquero di colpo. Nel corso degli ultimi cinque anni, Charles non era cambiato molto: i suoi capelli si erano ingrigiti alle tempie e profonde rughe solcavano la sua fronte. Melissa, al contrario, aveva subito una profonda trasformazione dall'ultima volta in cui quelle persone l'avevano vista. Adesso era alta come il padre, con una figura sottile ed elegante, ogni traccia di rotondità infantile definitivamente sparita. Il suo viso possedeva una bellezza enigmatica, dagli zigomi alti e la mascella ben delineata. Erano i suoi occhi, però, a richiamare maggiormente l'attenzione: grandi e scuri, risplendevano di curiosità e buonumore, rivelando nel contempo una profondità e una saggezza ben superiori alla sua età. Quella sera, vestita con un abito rosso scuro che si adattava perfettamente alla sua carnagione e sottolineava con sapienza il suo corpo, avvertì su di sé gli sguardi dei presenti. Che la fissavano, ma non ridevano di lei. Sentì la mano del padre stringerle il braccio. «Stai bene?» le chiese con voce così bassa da poter essere udito solo dalla figlia. «Benissimo», rispose Melissa sorridendo. Un'ora più tardi, seppe di sentirsi davvero magnificamente. Nei primi minuti seguiti al loro ingresso nella sala da ballo, quando sulla folla era caduto il silenzio che entrambi si erano aspettati, aveva nutrito qualche dubbio. Decisa a non arretrare davanti a quella massa di visi sorpresi, si era tuttavia fatta avanti con la mano protesa e un caldo sorriso. E tutto era andato per il meglio. In quel momento, mentre iniziavano le prime note di un valzer lento, percepì una presenza alle proprie spalle e si girò, trovandosi a guardare Brett Van Arsdale, ancora più bello, ora che aveva ventun anni, di quanto non fosse stato qualche tempo prima. Il ragazzo le sorrise con aria incerta, quindi le rivolse la parola con voce leggermente tremante. Prova la stessa sensazione che provavo io una volta, rifletté lei. Non sa neppure se avrò
voglia di rispondergli. Quando lui la invitò timidamente a ballare, però, Melissa assentì immediatamente, insinuandosi con grazia fra le sue braccia. Guidandola fra le altre coppie, per un poco Brett non aprì bocca, quindi si scostò leggermente da lei in modo da poterla guardare negli occhi. «Non so come dirti quanto mi dispiace», esordì con voce ancora tremante. «E non solo a me. In realtà, tutti si vergognano per il modo in cui ti abbiamo trattata. Mi rendo conto che è troppo tardi per rimediare, ma...» Lei gli premette un dito sulle labbra. «Non è troppo tardi e so come si sentono gli altri. Per tutta la sera l'ho letto negli occhi di ognuno. Non è necessario parlarne, comunque. Il passato è passato e i fantasmi se ne sono andati.» Il ragazzo rimase un attimo in silenzio, poi inclinò il capo. «Mi spiegheresti una cosa?» domandò. Melissa sorrise maliziosamente. «Forse. Di che cosa si tratta?» Brett esitò, infine pronunciò le parole che aveva in mente da cinque lunghi anni. «Riguarda D'Arcy. Pensi... ecco, pensi che esistesse davvero?» Ora fu lei a tacere a lungo. Infine assentì. «Per me era così. Lei era parte di me. E alla fine credo sia divenuta reale anche per Teri.» «Ma Teri si è suicidata.» «Può darsi», rispose Melissa in tono solenne. «O forse no. Forse è stata uccisa da D'Arcy.» Continuarono a danzare, lasciandosi avvolgere dalla musica. Quando il ballo fu terminato, mentre si allontanavano lentamente dalla pista, Brett le rivolse un'altra domanda. «E tua madre? Che ne è stato di lei?» Melissa rabbrividì, ma subito si riprese. «Non lo so», rispose con voce ferma. «E neppure voglio saperlo.» Ed era vero: finalmente, quella sera, le ultime vestigia del passato erano realmente alle sue spalle. A oltre duemila chilometri di distanza, in una tenuta sulle colline a ovest di Los Angeles, Phyllis Holloway sedeva nervosamente sul bordo di una sedia, osservando la giovane donna intenta a leggere le sue referenze. Quando infine l'altra alzò lo sguardo sorridendo, Phyllis emise un silenzioso sospiro di sollievo. Era andata bene. «Sembra davvero che tutti siano stati felici del suo lavoro, signora Holloway. Penso che lei sia esattamente la persona che stavamo cercando. Vogliamo andare di sopra, in modo che io possa presentarle la nostra bambina?»
Il cuore di Phyllis palpitò per l'eccitazione. Due ore prima, nel momento stesso in cui aveva messo piede lì dentro, si era sentita a proprio agio nella proprietà. Molto spaziosa, occupava circa un ettaro di terreno sulla sommità delle colline, con una veduta panoramica di Los Angeles su un versante e la distesa della San Fernando Valley sull'altro. C'erano una piscina olimpionica e due campi da tennis, oltre a un giardino splendidamente curato che le ricordava casa sua. Casa sua. Solo che Secret Cove e Maplecrest non le appartenevano più, non sarebbero mai più stati la sua casa. Era stata costretta a promettere di non tornare sulla Costa Orientale per il resto dei suoi giorni, in cambio della promessa di Charles di non denunciarla per maltrattamento di minore. Come se avesse infierito su Melissa! Il solo pensiero le faceva tuttora ribollire il sangue. Tutto quello che aveva cercato di fare era stato insegnare a Melissa a comportarsi correttamente. E cosa ne aveva ricavato? Neppure un accenno della gratitudine cui avrebbe avuto diritto. Al contrario, era stata cacciata dalla sua casa come fosse stata una serva, ridotta ad accettare il divorzio ricavandone una somma a malapena sufficiente a garantirle un anno di sopravvivenza e obbligata a non rivedere mai più la figlia. Ma per fortuna era un'esperta nell'arte di mantenersi a galla e questo lavoro alle dipendenze di un avvocato di mezza età e della sua giovane moglie le sembrava perfetto. Le sarebbero state assegnate un paio di stanze al primo piano, proprio accanto alla camera della bambina, e avrebbe vissuto come un membro della famiglia. E più avanti, quando inevitabilmente il matrimonio sarebbe fallito... Accantonò quel pensiero nel momento in cui la donna (come si chiamava? Emily!) aprì la porta della cameretta. Subito si udì un balbettio sommesso provenire dalla culla situata accanto alla finestra e Phyllis attraversò la stanza a grandi passi, chinandosi a guardare la neonata che sarebbe stata affidata alle sue cure. Un paio di occhi scuri, grandi e seri, la fissarono dalla culla. Il visino era quasi perfettamente rotondo, con una profonda fossetta sul mento. «Oh, ma sei la bimba più deliziosa che io abbia mai visto», cinguettò Phyllis, sollevando la piccina fra le braccia e stringendola a sé. Immediatamente la neonata cominciò a piangere ed Emily si precipitò da lei, ma Phyllis, invece di consegnargliela, si voltò scuotendo la testa. «No,
no. Deve abituarsi a essere tenuta in braccio da una persona che non è sua madre. Del resto, piangere di tanto in tanto non fa male ai bambini. Anzi, è perfettamente naturale.» Spostò lo sguardo sulla piccola singhiozzante, stringendola ancor più al petto. «Ma andrà tutto bene, vero? Mi vorrai bene quanto te ne voglio io e ben presto sarà come se tu fossi mia figlia.» Per un attimo la neonata continuò a piangere, e poi, come se avesse avvertito un pericolo invisibile, si fece silenziosa . Ma i suoi occhi, ora circospetti, rimasero fissi su Phyllis. Lei sorrise alla giovane madre nervosa, che stava ancora gironzolando a un paio di metri di distanza. «Vede?» esclamò. «Andrà tutto bene. Non dovrà preoccuparsi di nulla. La tratterò come se fosse la mia bambina.» Tacque per un paio di secondi, infine parlò nuovamente, con voce a stento percettibile, quasi fra sé. «Certo, la tratterò proprio come se fosse la mia seconda figlia.» FINE