LOIS McMASTER BUJOLD L'INCANTESIMO DELLO SPIRITO (The Hallowed Hunt, 2005) 1 Il principe era morto. Poiché il re non lo ...
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LOIS McMASTER BUJOLD L'INCANTESIMO DELLO SPIRITO (The Hallowed Hunt, 2005) 1 Il principe era morto. Poiché il re non lo era, nessuna sconveniente smorfia di soddisfazione osò balenare sui volti delle guardie al portone del castello. Al massimo, pensò Ingrey, un furtivo sollievo. Ma anch'esso scomparve mentre lasciavano entrare i cavalieri del suo seguito, in un clangore di zoccoli, sotto l'ingresso a volta dello stretto cortile. Sapevano chi era lui... e, di conseguenza, chi l'aveva mandato. Sotto la sua casacca c'era uno strato di sudore molliccio, nell'uggiosa umidità di quel mattino d'autunno. La nebbia s'incanalava tra i muri imbiancati a calce, per stagnare sul lastrico consunto del castello di Boar's Head, un vecchio maniero da tempo usato come tenuta di caccia. Il corriere partito da lì aveva galoppato due giorni per portare la notizia alla corte del sacro re, a Easthome. Ingrey e i suoi uomini, benché fossero equipaggiati assai più pesantemente, avevano impiegato solo poco di più per compiere il tragitto inverso. Mentre uno stalliere del castello accorreva a prendere il suo cavallo per le briglie, Ingrey smontò di sella e si aggiustò meglio il fodero della spada, lasciando indugiare un istante le dita nel freddo, rassicurante contatto con l'elsa. L'ultimo maestro di palazzo del principe Boleso, il cavalier Ulkra, sbucò da un angolo del torrione dalla cui cima aveva osservato l'avvicinarsi dei cavalieri sulla lunga salita. Robusto, solitamente impassibile, ora aveva il fiato mozzo per la fretta e non nascondeva l'apprensione. S'inchinò. «Lord Ingrey. Benvenuto. Volete rifocillarvi?» «Non ne ho bisogno. Ma provvedete a dare da mangiare e da bere ai miei uomini.» Gli indicò la mezza dozzina di cavalieri che l'aveva accompagnato; l'ufficiale del drappello, il tenente Gesca, lo ringraziò con un cenno del capo. Ulkra affidò lui e i suoi commilitoni alle cure dei servi del castello. Ingrey seguì Ulkra sulla breve scalinata del massiccio edificio principale. «Che cosa avete fatto in questi giorni?» Ulkra rispose, abbassando la voce: «Ho atteso istruzioni». Gli gettò u-
n'occhiata cauta, a disagio; gli uomini al servizio di Boleso non erano noti per il loro spirito d'iniziativa. Aggiunse: «Be', abbiamo spostato il corpo in una stanza fredda. Non potevamo lasciarlo dov'era. E abbiamo messo al sicuro la prigioniera». Ingrey si domandò quale ordine gli convenisse seguire in quella poco piacevole ispezione. «Vedrò prima il corpo», decise. «Sì, mio signore. Da questa parte. Abbiamo sgomberato una delle dispense sotterranee.» Attraversarono un salone pieno di echi, con un grande camino di arenaria in cui il fuoco era quasi spento. Le braci che rosseggiavano sotto lo strato di cenere non avevano neppure dissipato la tetra umidità dell'aria. Un ispido cervocane, occupato a rosicchiare un osso nell'ombra accanto al camino, accolse il loro passaggio con un ringhio. I due uomini scesero la scala di mattoni che portava alle cucine, dove un cuoco e alcune sguattere rimasero in silenzio e cercarono di farsi notare il meno possibile; quindi un'altra breve rampa li portò in un freddo scantinato che prendeva luce da due piccole finestre, situate vicino al soffitto di pietra. Una delle dispense era stata completamente sgomberata, a parte due cavalletti che sorreggevano un tavolaccio sul quale giaceva una figura immobile, coperta da un lenzuolo. Automaticamente Ingrey si segnò, toccandosi la fronte, la bocca, l'ombelico, i genitali e il cuore, dove la sua mano restò posata con le dita aperte: un punto teologico per ciascuno dei Cinque Dei. Figlia-Bastardo-Madre-Padre-Figlio... Dove eravate tutti Voi quando è successo? Mentre Ingrey aspettava di adattare gli occhi alla penombra, Ulkra deglutì e domandò: «Il sacro re... come ha preso la notizia?» «È difficile dirlo», restò nel vago Ingrey, con diplomazia. «A mandarmi qui è stato il Guardasigilli, Lord Hetwar.» «Naturalmente.» Nelle reazioni del maestro di palazzo, Ingrey non riusciva a leggere molto, a parte l'ovvio sollievo di affidare le proprie responsabilità nelle mani di qualcun altro. Con gesti goffi, Ulkra tolse il lenzuolo che copriva il suo defunto padrone. Alla vista del corpo, Ingrey corrugò le sopracciglia. Il principe Boleso kin Stagthorne era il più giovane degli eredi... o meglio, si corresse subito Ingrey, dei figli del sacro re. Che fosse troppo giovane per morire era evidente: aveva raggiunto la maturità fisica solo da pochi anni. Alto e robusto, mascherava la mascella pronunciata, tipica della sua famiglia, con una barbetta castana sagomata. I capelli, anch'essi scuri, erano spettinati e imbrattati di sangue. Svuotato dell'esplosiva energia
che un tempo lo animava, il suo volto aveva perso ogni attrattiva, al punto che Ingrey si chiese come avesse potuto giudicarlo un bell'uomo. Tastò il cranio in cerca della ferita. Le ferite. L'osso fratturato sotto il cuoio capelluto cedette alla pressione delle sue dita in corrispondenza di due profonde lacerazioni orlate di croste nere. «Quale arma ha fatto questo?» «La mazza ferrata del principe. Era accanto al sostegno della sua armatura, in camera da letto.» «Un evento decisamente... inatteso. Anche per lui, si direbbe.» Con aria cupa, Ingrey rifletté sul destino dei principi. Durante la sua breve vita, a detta di Hetwar, Boleso era stato alternativamente coccolato e ignorato, sia dai genitori sia dalla servitù, mentre l'arroganza tipica della sua dinastia lo portava a bramare onori, fama e trionfi. Quell'arroganza - o era soltanto una forma d'insicurezza? - era degenerata in qualcosa di soverchiante, privo di controllo e di equilibrio. E chi perde l'equilibrio... cade. Il principe indossava una tunica aperta di lana ricamata, con gli orli di pelliccia. Era sporca di sangue; doveva averla addosso anche al momento della morte. Niente biancheria intima. Sulla pelle cerea non si vedevano altre ferite. Dicendo che aspettava istruzioni, il maestro di palazzo aveva usato un eufemismo, rifletté Ingrey. Era evidente che i seguaci del principe erano rimasti talmente sconvolti da non azzardarsi neppure a lavare il cadavere o a cambiargli l'abito. In alcuni punti del corpo di Boleso c'era sporcizia... No, non sporcizia... Ingrey passò un dito su un tratto di pelle gelida e osservò stancamente la macchia di colore che gli era rimasta sul polpastrello, qualcosa di azzurro e di giallastro, con una tonalità verdognola dove i due colori si univano. Resti di cibo, o pittura, o qualche polvere colorata? Anche sugli orli della tunica c'erano vaghe tracce di quella sostanza. Il giovane si raddrizzò; il suo sguardo cadde su quello che aveva dapprima creduto un fagotto di pelliccia gettato al suolo presso il muro. Andò a osservarlo più da vicino. Era un leopardo morto. Un leopardo femmina, si corresse quando ebbe girato l'animale a pancia in alto. Il pelo era fine e morbido, gradevole al tatto. Ingrey toccò le orecchie tonde e fredde, i baffi irrigiditi, il disegno di macchie scure sulla schiena dorata. Sollevò una delle pesanti zampe per esaminare i polpastrelli duri come il cuoio e gli spessi artigli d'avorio, che erano stati tagliati. Intorno al collo c'era un cordone di seta rossa, annodato molto stretto; uno dei capi appariva rozzamente reciso. Ingrey si sentì riz-
zare i peli dietro la nuca, ma si affrettò a reprimere quella reazione. Si girò verso Ulkra. L'uomo lo stava guardando con espressione neutra, indecifrabile. «Questo non è un animale delle nostre foreste. Da dove viene?» Ulkra si schiarì la gola. «Il principe l'aveva avuto da certi mercanti darthacani. Intendeva costruire un serraglio, qui al castello. O forse addestrarlo per la caccia. Così aveva detto.» «Questo quando è successo?» «Poche settimane fa. Giusto prima che la sua signora sorella si fermasse qui.» Ingrey palpeggiò il cordone rosso, inarcando le sopracciglia. Con un cenno del capo indicò il corpo dell'animale. «E com'è morto?» «L'abbiamo trovato impiccato a una trave, nella camera da letto del principe. Quando noi... ehm... siamo entrati.» Ingrey sedette sui talloni. Iniziava a capire perché nessun Divino del Tempio fosse stato chiamato a occuparsi dei riti funebri; le macchie di colore, il cordone rosso, la trave di quercia, tutto faceva pensare a un animale non semplicemente ucciso, bensì sacrificato, e a qualcuno esperto nelle antiche eresie, nella magia proibita delle foreste. Il Guardasigilli di corte ne era al corrente, quando aveva deciso d'inviare lui? Se lo era, non l'aveva dato a vedere. «Chi l'ha impiccato?» domandò Ingrey. Col sollievo di chi dice una verità per nulla scomoda, Ulkra rispose: «Io non ero presente. Non saprei dirlo. Quando abbiamo portato dentro la ragazza era vivo, legato al guinzaglio nel suo angolo, tranquillamente accovacciato. Dopo che siamo usciti, nessuno di noi ha visto o udito nient'altro. Finché non ci sono state le grida». «Quali grida?» «Be'... quelle della ragazza.» «Che cosa gridava? O erano...» Ingrey evitò di dire soltanto grida. Aveva il sospetto che Ulkra sarebbe stato fin troppo lieto di finire la frase per lui. «Quali sono state le sue parole?» «Chiamava aiuto.» Ingrey si alzò e volse le spalle alla carcassa maculata. I suoi stivali di cuoio scricchiolarono nel silenzio della stanza quando tornò verso Ulkra. «E voi... siete accorsi?» Ulkra distolse lo sguardo. «Avevamo l'ordine di non disturbare il riposo del principe, mio signore.» «Chi ha udito quelle grida? Voi e...?»
«Io e le due guardie del corpo del principe, alle quali era stato ordinato di provvedere ai piaceri del loro signore.» «Tre uomini forti, pronti a tutto per proteggere il principe. E vi trovavate... dove?» La faccia di Ulkra avrebbe potuto essere scolpita nella roccia. «Nel corridoio. Accanto alla sua porta.» «Dunque eravate a pochi metri da lui quando è stato assassinato, eppure non avete fatto nulla.» «Non osavamo, mio signore. Perché lui non ha chiamato. E del resto le urla... sono cessate. Abbiamo pensato che la ragazza... ehm... si fosse concessa. Era entrata di sua volontà.» Di sua volontà? O perché non aveva altra scelta? «Non stiamo parlando di una serva qualsiasi, bensì di una dama di compagnia della signora sorella del principe Boleso, una giovane donna di rango, inviata al servizio della principessa dai suoi parenti, i Badgerbank, nientemeno.» «È stata la stessa principessa Fara a cedere quella giovane donna al fratello, mio signore. E lei sembrava convinta.» Costretta era la parola che Ingrey aveva sentito usare nei pettegolezzi. «E ciò ha fatto della ragazza una dipendente di questo casato. Non è così?» Ulkra curvò le spalle. «Persino una sguattera avrebbe diritto a una maggiore protezione da parte della sua padrona... considerati i precedenti del principe.» «Qualsiasi Lord che abbia bevuto un po' troppo può colpire un servo e dosare male la forza», disse testardamente Ulkra. Il suo era il tono di chi aveva già detto quelle parole. Quante volte si era ripetuto quella scusa, nel cuore della notte, negli ultimi sei mesi? Proprio un tragico incidente che aveva causato la morte di un servo era il motivo per cui il principe era stato esiliato in quel remoto castello. La sua nota passione per la caccia non la rendeva certo una misura molto punitiva, tuttavia era un buon compromesso tra il Tempio e il Guardasigilli di corte: una pena troppo leggera per un crimine, ma troppo severa per un semplice incidente. Ingrey, che aveva esaminato la scena il mattino seguente per conto di Lord Hetwar, prima che tutto fosse ripulito, non l'aveva giudicato né l'uno né l'altro. «Qualsiasi Lord non scuoierebbe né farebbe a pezzi la sua vittima, Ulkra. C'era ben più di uno stato di ubriachezza dietro quell'atto selvaggio. Era pazzia, lo sapevamo tutti.» Ma quando il re e i suoi cortigiani avevano lasciato che il principe alterasse le loro capacità di giudizio facendo appel-
lo alla loro lealtà, non alla loro comprensione per il suo carattere impulsivo, bensì alle necessità politiche e alla reputazione del suo alto casato, il massacro era stato insabbiato. Boleso avrebbe dovuto fare ritorno a corte dopo altri sei mesi, doverosamente pentito, o almeno fingendosi tale. Nel frattempo Fara, partita dalla dimora del conte suo marito per recarsi al capezzale del padre malato, aveva fatto sosta al castello di Boar's Head, col risultato che la sua attraente supponeva Ingrey - dama di compagnia era finita sotto gli occhi del principe, annoiato e in cerca di distrazioni. Subito dopo il loro arrivo alla dimora del re, a Easthome, i cortigiani al seguito della principessa avevano fatto circolare pettegolezzi sulla faccenda, e appena il giorno successivo era giunto un corriere con la notizia della morte del principe. Secondo quei pettegolezzi, la fanciulla si era sottomessa alla lussuria del principe per paura delle conseguenze, ma qualcuno malignava che in fondo non avesse faticato a mettere su un piatto della bilancia la propria virtù e sull'altro i propri interessi. Se l'aveva fatto per interesse, rifletté Ingrey, doveva essere accaduto qualcosa di molto strano in quella stanza perché la giovane mettesse mano a una mazza ferrata. Fece un sospiro. «Accompagnatemi nella camera da letto del principe.» L'appartamento privato di Boleso si trovava nel maschio del castello, all'ultimo piano. Il corridoio esterno era breve e poco illuminato. Ingrey immaginò gli uomini del principe riuniti lì al lume di candela, rigidi e imbarazzati, nell'attesa che all'interno le grida della ragazza cessassero. Strinse i denti; tuttavia la sua ostilità verso di loro si spense quando notò che la massiccia porta di legno poteva essere chiusa dall'interno con una robusta sbarra di legno e una serratura di ferro. I mobili erano pochi, nello stile semplice di una tipica tenuta di caccia: un letto matrimoniale, due cassepanche intarsiate e, in un angolo, un sostegno che reggeva la seconda migliore armatura del principe. Sul pavimento in assi di pino c'erano alcuni tappeti, uno dei quali aveva una macchia scura. Lo scarno arredamento lasciava abbastanza spazio per difendersi da un'aggressione, cercando di sfuggire ai colpi. Sulla destra del sostegno dell'armatura si aprivano due strette finestre, nel cui telaio erano fissati vetri di forma circolare. Ingrey ne aprì una verso l'interno, spalancò all'esterno le imposte di legno e lasciò vagare lo sguardo sulla verde distesa di boschi alla base dell'altura rocciosa. Il territorio, velato di banchi di nebbia e scintillante di piccoli torrenti, digradava verso
un ampio fondovalle in parte coltivato. Laggiù un pittoresco villaggio sembrava arginare un'altra ondata di alberi verdi; era senza dubbio la fonte del cibo del personale di servizio e della legna da ardere che occorreva al castello. Un luogo che raccontava di una vita semplice e rustica. La finestra era troppo alta sul selciato per potersi lanciare, e saltare fino al muro più vicino in cerca di un appiglio sembrava abbastanza improbabile, anche per un uomo piuttosto magro da riuscire a sgattaiolare fuori. A maggior ragione al buio e sotto la pioggia, cercare di fuggire dalla finestra significava morte certa. L'armatura era più vicina al letto rispetto alla finestra, e assai meglio raggiungibile per le mani di un uomo alla disperata ricerca di qualcosa con cui difendersi. Ma la corta ascia da battaglia, col manico fasciato in filo di rame e intarsiato d'oro, era ancora appesa al sostegno. La mazza ferrata giaceva sul letto disfatto, tra le lenzuola; aveva un'estremità di ferro a forma di zampa di felino, con tozzi artigli ricurvi sporchi di sangue. Uno sguardo agli artigli consentì a Ingrey di stabilire che la loro forma corrispondeva alle ferite sul cranio della vittima. L'arma doveva essere stata vibrata a due mani, con tutta la forza che il terrore poteva scatenare. Ma era pur sempre la forza di una donna. Dopo il primo colpo, il principe - stordito? folle di rabbia? - doveva avere continuato ad avanzare. Il secondo colpo era stato più forte. Ingrey andò avanti e indietro nella stanza, esaminando tutto con attenzione; poi alzò lo sguardo verso le travi del soffitto, mentre Ulkra, con le mani unite dietro la schiena, si spostava per non essergli d'ostacolo. L'altro pezzo del cordone rosso che aveva visto al collo del leopardo pendeva da una trave situata esattamente sopra il letto. Ingrey vi salì, estrasse il coltello dal fodero, si protese verso la trave e tagliò il nodo. Quindi arrotolò il cordone e se lo mise in tasca. Dopo essere sceso dal letto, si rivolse a Ulkra: «Boleso sarà sepolto a Easthome. Incaricate qualcuno di lavare bene il corpo, comprese le ferite, e di chiuderlo in una cassa piena di sale per il trasporto. Trovate un carro adatto, con una pariglia di cavalli... anzi meglio due pariglie, visto il fango che c'è sulle strade, e con un conducente che sappia il fatto suo. Come scorta, dietro il carro, prenderò le due guardie del principe; la loro inettitudine non potrà più nuocergli, adesso. Fate pulire questa stanza, chiudete il castello e affidatelo a un custode. Poi riporterete in città il resto del personale e gli oggetti di valore». Percorse la camera con un ultimo sguardo. Non c'era altro... «Bruciate il corpo del leopardo e gettate via le ceneri.»
Ulkra deglutì e annuì. «Quando volete ripartire, mio signore? Pensate di trascorrere la notte qui?» Era il caso che lui e la prigioniera viaggiassero con la lenta carovana dei carri, o conveniva piuttosto precederli? Ingrey sentiva il bisogno di andarsene al più presto da quel luogo, che gli dava la spiacevole impressione di essere spiato da sguardi furtivi; tuttavia in quei pomeriggi autunnali c'era poca luce e metà della giornata era già trascorsa. «Prima di decidere voglio parlare con la prigioniera. Accompagnatemi da lei.» Una breve rampa di scale li condusse in un corridoio privo di finestre, però asciutto. Quelle non erano le prigioni, ma neppure le stanze degli ospiti. Dall'odore doveva trattarsi dei magazzini, il che rivelava una chiara incertezza da parte delle guardie circa il trattamento da riservare alla prigioniera. Ulkra bussò a una porta e annunciò: «Mia signora? Avete una visita». Tolse il catenaccio e aprì. Ingrey varcò la soglia. Nel buio si accesero due occhi fosforescenti, come quelli di un grosso felino nel folto di una foresta sussurrante. Ingrey fece un passo indietro e portò una mano alla spada; la lama era uscita per metà dal fodero, quando il suo gomito sbatté contro il montante della porta e una fitta di dolore gli saettò dalla spalla alla punta delle dita. Si scostò per avere abbastanza spazio per estrarre l'arma e colpire. Ulkra gli afferrò convulsamente l'avambraccio e lo guardò, sbalordito. Ingrey si girò subito, perché il maestro di palazzo non si accorgesse che stava tremando. La sua prima preoccupazione fu di placare il violento impulso che gli aveva percorso le ossa, mentre imprecava tra sé contro la propria eredità. Non ne veniva colto così di sorpresa da... da molto tempo. Io ti rinnego, lupo interiore. Non ti lascerò spazio. Quindi rinfoderò la lama con fermezza, aprì lentamente le dita, lasciò l'elsa e posò la mano aperta sulla coscia, sul gambale di cuoio. Osservò di nuovo la piccola stanza, stavolta costringendosi a vedere solo la realtà. Nell'ombra la figura spettrale di una giovane donna si stava alzando da un pagliericcio in un angolo del pavimento. Accanto al giaciglio, coperto da una spessa trapunta imbottita, c'erano un vassoio con una caraffa, un vaso da notte e altri oggetti di prima necessità. Era un luogo attrezzato per trattenere, non per punire. Non ancora. Ingrey si umettò le labbra secche. «Non riesco a vedervi in questa penombra.» E di ciò che ho visto non mi fido. «Venite alla luce.» La figura sollevò il mento, scosse di lato i capelli scuri e fece qualche passo avanti. Indossava un lungo abito di lino giallo, ricamato con motivi
floreali sui bordi degli orli e sulla scollatura. Pur non essendo un abbigliamento da cortigiana, era senza dubbio adeguato a una giovane donna di alto rango. Alla luce proveniente dal corridoio, i suoi capelli neri assumevano sfumature rossastre. Gli occhi azzurri, grandi e luminosi, non avevano bisogno di alzarsi per incontrare quelli di Ingrey: lui era di statura media, con una corporatura massiccia, mentre la fanciulla era piuttosto alta. Occhi azzurri, con un riflesso d'ambra, ma iridi cerchiate di un colore più scuro. Non verdi e fosforescenti. Non... Ulkra gli gettò una cauta occhiata in tralice e si schiarì la gola, poi li presentò con la stessa formalità che avrebbe usato a una cena di gala nel salone del castello. «Lady Ijada, questi è Lord Ingrey kin Wolfcliff, l'inviato del Guardasigilli Lord Hetwar. È venuto a prendervi in custodia. Lord Ingrey, questa è Lady Ijada dy Castos, kin Badgerbank da parte di madre.» Il giovane sbatté le palpebre. Hetwar l'aveva nominata solo come «Lady Ijada, una parente minore dei Badgerbank». Che i Cinque Dei ci aiutino. «Il suo deve essere un patronimico ibrano.» «Chalionese», lo corresse pacatamente lei. «Mio padre era un Lord appartenente all'Ordine del Figlio, capitano in una fortezza templare nelle marche occidentali del Dominio, quando ero bambina. Aveva sposato una Lady del Dominio, del kin Badgerbank.» «E i vostri genitori sono... morti?» azzardò Ingrey. Lei reclinò il capo con un'espressione di fredda ironia. «Se non fosse così, sarei stata protetta meglio.» Non appariva disperata e non sembrava avere pianto, almeno di recente. Non era scarmigliata o in disordine. Dopo quattro giorni in quella stanza, con la sola compagnia dei propri pensieri, era perfettamente padrona di sé, a parte una certa rigidezza nella voce, una vaga nota di paura o di rabbia. Ingrey girò lo sguardo nel piccolo locale spoglio, quindi si volse a Ulkra. «Accompagnateci dove si possa sedere e parlare. Un posto appartato. Alla luce.» «Uh... mmh...» Dopo avere riflettuto un istante, Ulkra fece loro cenno di seguirlo. Non aveva esitato, notò Ingrey, a voltare le spalle alla ragazza; evidentemente la prigioniera non aveva lottato, né aveva morso o graffiato i suoi carcerieri. Ora camminava con andatura ferma. Alla fine del corridoio successivo, il maestro di palazzo indicò una finestra che si apriva sul retro del maschio. «Qui può andare, mio signore?» «Sì.» Ingrey esitò, mentre Lady Ijada spostava graziosamente la veste di lato e sedeva su una panca lucida. Gli conveniva trattenere Ulkra per avere
maggiore collaborazione, oppure congedarlo per favorire un colloquio più franco? C'era qualche possibilità che la ragazza diventasse di nuovo violenta? Poi gli balenò un'immagine di Ulkra, nel corridoio esattamente sopra quello, mentre aspettava che le grida cessassero. «Tornate pure alle vostre faccende, cavalier Ulkra. Avrò bisogno di voi soltanto tra una mezz'ora.» Il maestro di palazzo gettò uno sguardo accigliato alla fanciulla, tuttavia si accomiatò, dopo un lieve inchino. Gli uomini di Boleso, rifletté Ingrey, non avevano l'abitudine di discutere gli ordini ricevuti o di suggerire la propria opinione. O forse chi mostrava quella tendenza era stato incoraggiato ad andarsene, in un modo o nell'altro. Quelli erano i sopravvissuti. Relitti. Rifiuti. Un po' goffamente, perché la scarsa larghezza del sedile li costringeva a una vicinanza eccessiva per un colloquio di quel genere, Ingrey sedette accanto a Lady Ijada. Quando aveva ipotizzato che fosse attraente, non aveva del tutto indovinato: la fanciulla era molto di più, era... luminosa. A meno che Boleso fosse stato cieco oltre che pazzo, il suo aspetto doveva averlo colpito nell'istante stesso in cui l'aveva vista. Fronte ampia, naso dritto, mento perfetto... Un livido le scuriva una guancia, e ne aveva altri anche sul collo elegante, un insieme di piccole chiazze rosate e violacee. Ingrey alzò delicatamente una mano per verificare un sospetto che gli era venuto, e lei s'irrigidì un istante, ma poi restò immobile sotto il suo tocco morbido. Le mani di Boleso erano un po' più larghe delle sue, a quanto pareva. La pelle di Lady Ijada era calda sotto le sue dita, affascinante, conturbante. D'un tratto una nebbia rossa sembrò offuscargli la vista; le mani di Ingrey, chiuse intorno al collo di lei, si strinsero... Subito le ritrasse, con un ansito cui fece eco quello della ragazza, e le abbassò sulle ginocchia. Che cosa sta succedendo...? Per mascherare la propria confusione, l'uomo si affrettò a dire: «Io sono un ufficiale del Guardasigilli reale. Ho l'incarico di riferire a lui tutto ciò che vedo e sento. Voi dovete dirmi ciò che è accaduto, senza alterare la verità. Cominciate dall'inizio». Lei si appoggiò all'indietro e lo stupore nel suo sguardo lasciò il posto a una vigile preoccupazione. Ingrey sentì il suo odore; né profumo né sangue, bensì semplice odore di donna. Di fronte a quegli occhi scrutatori, si domandò per la prima volta quale aspetto - e quale odore - avesse lui per la fanciulla. La barba di tre giorni, la stanchezza che gli si leggeva sul viso, la puzza di cavallo, di sudore e di cuoio... Inoltre le stava davanti armato di
spada e di pugnale, con tutta la minacciosa autorità dei suoi doveri. Perché la ragazza non si ritraeva? «Da quale inizio?» gli domandò. Ingrey la fissò un istante, perplesso e con l'aria ottusa. «Dal vostro arrivo qui a Boar's Head, suppongo.» Ce n'era un altro? Doveva ricordarsi di tornare a quella domanda. Lady Ijada deglutì, si ricompose e cominciò: «La principessa Fara era dovuta partire in fretta per la dimora di suo padre, con soltanto un piccolo seguito, e lungo la strada si è sentita male. Nulla di insolito: il suo ciclo mensile le porta sempre forti emicranie e, se non riesce a riposare bene finché non le passano, può cadere in uno stato di grave prostrazione. Dunque abbiamo cambiato strada con l'idea di fermarci qui, perché era il posto più vicino, e inoltre la principessa desiderava far visita a suo fratello, che non vedeva da qualche anno. Credo lo ricordasse più giovane, diverso, con meno... problemi». Quanto tatto! Ingrey non seppe decidere se quel giro di parole celasse accorta diplomazia o freddo sarcasmo. È prudenza, stabilì poi, vista l'espressione cauta della giovane. Non stava cercando di fare la spiritosa. «Siamo stati ricevuti bene, così come c'era da aspettarsi, anzi questo castello si è rivelato più accogliente di quanto credessimo.» «Voi avevate già incontrato il principe Boleso?» «No. La principessa Fara mi aveva preso con sé solo da pochi mesi. Era stato il mio patrigno a farmi entrare al suo servizio. Aveva detto...» Tacque. Poi riprese: «All'inizio tutto sembrava normale. Voglio dire, per una tenuta di caccia. Le giornate erano tranquille, perché il principe invitava le guardie della principessa a caccia con lui. La sera il principe Boleso e i suoi uomini erano alquanto rumorosi e bevevano molto, ma la principessa non partecipava, perché era costretta a stare a letto, nella sua camera. Un giorno mi ha chiesto di scendere a pregare i commensali di non fare tutto quel chiasso, ma essi non mi hanno dato ascolto. Si divertivano a scatenare i cani contro un cinghiale selvatico che avevano catturato vivo, nel cortile sotto le finestre della principessa, e facevano scommesse. Il guardacaccia di Boleso era disperato per le ferite che i suoi cani stavano ricevendo. Io avrei desiderato che ci fosse con noi il conte Horseriver... Li avrebbe fatti smettere con poche parole. Ha una lingua tagliente, quando vuole. Ci siamo trattenuti qui tre giorni, finché la principessa non è stata in grado di rimettersi in viaggio». «Il principe Boleso vi corteggiava?»
Le labbra di lei si strinsero. «No, a quanto posso dire. Aveva modi ugualmente sgradevoli con tutte le dame di compagnia di sua sorella. Io non ho saputo nulla delle sue... attenzioni nei miei confronti, se così posso chiamarle, fino al mattino della partenza.» Deglutì di nuovo, poi riprese: «Soltanto allora la mia signora... la principessa Fara mi ha comunicato che io sarei dovuta rimanere. Mi ha detto che forse non era una scelta entusiasmante per me, ma che non mi avrebbe arrecato nessun danno e che alla fine mi sarebbe stato dato un buon marito. Io l'ho pregata di non lasciarmi qui. Lei non ha voluto incontrare il mio sguardo; ha detto che era una sistemazione non peggiore di altre, anzi migliore di molte, e che mi conveniva pensare al mio futuro. Ha aggiunto che, da parte di una donna, significava dimostrare lo stesso tipo di fedeltà dovuto da un uomo al suo principe. Ho replicato che non credevo che un uomo... be', temo di avere detto qualcosa di non troppo educato, e lei si è rifiutata di proseguire il colloquio. È ripartita col suo seguito e io sono stata lasciata qui. Non ho voluto supplicarla nel cortile, o aggrapparmi al suo cavallo, per timore che gli uomini del principe mi schernissero». Incrociò le braccia al petto, come per stringere a sé la dignità che le restava. «Mi sono detta che... che forse aveva ragione. Che non sarebbe stato un destino peggiore di qualsiasi altro. Boleso non era brutto, né deforme, né vecchio. Né malato.» Ingrey non poté fare a meno di confrontarsi con quelle unità di misura. Se non altro, poteva supporre di non rientrare nelle categorie da lei menzionate. Benché ce ne fossero altre. Contaminato, gli balenò alla mente. «Solo più tardi mi sono resa cento di quanto fosse diventato anormale, quando era troppo tardi.» «Che cosa è accaduto?» «Al tramonto mi hanno condotto nella sua camera. Lui mi stava aspettando; indossava una tunica, ma sotto non aveva niente. Il suo corpo era cosparso di simboli disegnati con guado, zafferano e robbia; simboli arcani, come quelli che si possono ancora vedere incisi sulle antiche fondamenta di pietra, o nelle foreste dove una volta c'erano i templi. Lui aveva un leopardo legato in un angolo, drogato. Ha detto... è venuto fuori che... non era affatto invaghito di me, dopotutto. Benché intendesse privarmi della verginità, non gli interessava neppure il sesso. Voleva una vergine per un rito che aveva... scoperto, o inventato, non ne sono sicura, mi sembrava molto confuso su questo... Io ero l'unica possibile, perché le altre due dame di compagnia di sua sorella erano l'una sposata e l'altra vedova. Ho cercato
di dissuaderlo, gli ho detto che era un'eresia, un peccato contro le leggi dei suoi stessi padri. Ho minacciato di fuggire e di raccontarlo a tutti. Il principe ha replicato che mi avrebbe fatto inseguire dai suoi cani, che mi avrebbero sbranato come avevano fatto col cinghiale. Allora gli ho detto che sarei andata dal Divino del Tempio, al villaggio, ma lui ha ribattuto che quell'uomo era solo un Accolito, oltre che un codardo, e che in ogni caso avrebbe fatto uccidere tutti coloro coi quali avrei parlato. Compreso l'Accolito. Il principe non aveva paura del Tempio, perché era di proprietà del kin Stagthorne e lui poteva comprare i Divini per pochi soldi. «Il rito aveva lo scopo di catturare lo spirito del leopardo, come si narra che potessero fare i guerrieri degli antichi kin. Io ho detto che al giorno d'oggi queste cose non funzionano più, ma Boleso mi ha rivelato che l'aveva già fatto in passato, più di una volta... e che avrebbe catturato tutti gli spiriti degli animali dei più grandi kin. Era convinto che ciò gli avrebbe dato un potere di qualche genere sul Dominio.» Stupito, Ingrey disse: «I guerrieri del Vecchio Dominio prendevano un unico spirito animale per sé, uno solo in tutta la vita. E anche così rischiavano la follia, la sciagura, se non peggio». Come anch'io so bene, mio malgrado. La voce vellutata di Lady Ijada si fece rapida, ansante: «Boleso ha fatto passare il guinzaglio del leopardo sopra la trave e l'ha impiccato. Poi mi ha colpito, mi ha gettato sul letto e mi ha aggredito. Ho cercato di lottare. Lui mormorava qualcosa sottovoce, un incantesimo o imprecazioni deliranti o entrambe le cose, non lo so. Sentivo che era vero che l'aveva già fatto altre volte. La sua mente era un caos, Boleso gemeva e uggiolava. Il leopardo, che si contorceva agonizzante, appeso alla corda, l'ha distratto colpendolo con una zampata, e io ne ho approfittato per rotolare via. Avrei voluto fuggire, ma non sapevo dove; la porta era chiusa e la chiave era nella tasca del principe». «Avete chiamato aiuto?» «Credo di sì. Non sono molto sicura di ricordare bene quei momenti, ma penso di avere gridato. La finestra era aperta, ma fuori si vedeva solo la boscaglia che si perdeva nel buio. Allora ho pregato lo spirito del Figlio, affinché uscisse dall'oscurità della notte per soccorrermi.» Ingrey non poté fare a meno di pensare che, in una circostanza simile, Lady Ijada avrebbe dovuto invocare la Figlia della Primavera, protettrice della verginità. Gli sembrava strano che una donna chiamasse invece il Figlio dell'Autunno. Anche se questa è la sua stagione. Il Signore dell'Au-
tunno era il protettore dei giovani uomini, del raccolto, della caccia, del cameratismo... e della guerra. Anche delle armi da guerra? «E a quel punto, voltandovi, vi siete trovata quasi tra le mani la mazza ferrata», disse Ingrey. Gli occhi azzurri della fanciulla si spalancarono. «Come lo sapete?» «Ho visto la camera.» «Oh.» Lady Ijada si umettò le labbra. «Gli ho sferrato un colpo. Lui è venuto verso di me, o... o forse stava vacillando. Ho vibrato la mazza una seconda volta e a quel punto Boleso si è fermato ed è caduto. Non era ancora morto... Il suo corpo sussultava. L'ho frugato in cerca della chiave, e sono quasi svenuta; sono caduta sul pavimento e la vista mi si è oscurata. Io... lui... alla fine sono riuscita ad aprire la porta e ho chiamato dentro i suoi uomini.» «Come hanno reagito? Con rabbia?» «Erano più spaventati che arrabbiati, penso. Hanno discusso a lungo, incolpandosi l'un l'altro, accusando me e tutti quelli che venivano loro in mente. Anche lo stesso Boleso. Ci hanno messo un'eternità prima di decidere di chiudermi in una stanza e inviare un messo a corte.» «Voi che cosa avete fatto?» «Sono rimasta seduta sul pavimento, per lo più. Mi sentivo male. Essi mi hanno fatto domande, anche stupide. Siete stata voi a ucciderlo? Credevano che si fosse colpito da solo con quella mazza? È stato un sollievo quando mi hanno rinchiuso nella cella. Credo che Ulkra non abbia neppure notato che avrei potuto sbarrare la porta dall'interno.» Ingrey rifletté un momento. Con il tono più neutro che poté, chiese: «Il principe ha portato a termine la violenza sessuale?» Lei alzò il viso e nei suoi occhi balenò un lampo. «No.» Nella sua voce risuonava una nota di verità, unita a un'espressione di feroce trionfo. In quella situazione disperata, abbandonata da tutti coloro che avrebbero dovuto proteggerla, aveva scoperto che non era necessario sottomettersi fino in fondo. Una lezione importante. Una lezione pericolosa. Sempre con voce piatta, Ingrey domandò: «Boleso ha completato il suo rito?» Stavolta la giovane ebbe un'esitazione. «Non lo so. Non sono sicura di... ciò che voleva fare.» Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, strette in grembo. «Ora che cosa succederà? Il cavalier Ulkra ha detto che voi mi prenderete in consegna. Dove mi porterete?» «A Easthome.»
«Bene», disse lei con inaspettato fervore. «Là il Tempio mi aiuterà sicuramente.» «Non temete il processo?» «Processo? Io mi difenderò. Sono stata trascinata in questo orrore!» «È possibile che ad alcune persone potenti non interessi la vostra opinione», osservò Ingrey con voce sempre inespressiva. «Riflettete. Voi non potete dimostrare che ci sia stato un tentativo di violenza carnale, per esempio. Una mezza dozzina di uomini può invece testimoniare che siete andata in camera di Boleso di vostra volontà.» «Piuttosto che fuggire nei boschi e farmi sbranare dalle bestie selvatiche, sì, sono andata di mia volontà. Piuttosto che portare la rovina e forse la morte su chiunque avesse cercato di aiutarmi, sì, sono andata di mia volontà.» Fissò l'interlocutore, improvvisamente sorpresa. «Voi non mi credete?» «Oh, sì.» Oh, sì. «Ma non sono io il vostro giudice.» Lady Ijada si accigliò; i suoi denti candidi premettero sul labbro inferiore, pallido. Ma si riprese subito, raddrizzò la schiena e disse: «In ogni caso, anche se la violenza non ha avuto testimoni, si trattava di un rito illegale. Tutti hanno visto il leopardo. Hanno visto i simboli arcani sul corpo del principe. Non sono parole, bensì cose materiali che ogni uomo può toccare con mano». Non più. Innocente o no, era comunque un'ingenua. Ingrey non aveva dubbi. Lady Ijada, non avete idea delle forze che vi trovate contro. Si udirono dei passi avvicinarsi lungo il corridoio. Ingrey si voltò e vide arrivare Ulkra, con la sua andatura ondeggiante. «Avete bisogno di qualcosa, mio signore?» domandò nervosamente il maestro di palazzo. Di essere in qualunque luogo eccetto qui e di fare qualsiasi cosa eccetto questa. Per oltre due giorni Ingrey non era sceso di sella. Decise che era troppo sfinito per cavalcare anche per una sola lega. Boleso non aveva nessuna fretta di correre al proprio funerale e affrontare il giudizio divino. E lui aveva ancora meno fretta di accompagnare quella ragazza dannatamente ingenua al giudizio terreno. Lady Ijada non aveva ancora capito di che cosa avrebbe dovuto avere paura. Anzi, che i Cinque Dei la aiutassero, sembrava non avere paura di niente. «Mi date la vostra parola che non cercherete di scappare, se farò allentare la sorveglianza?» le domandò. «Naturalmente», rispose lei, quasi stupita che ci fosse bisogno di chie-
derlo. Ingrey si volse al maestro di palazzo e disse: «Sistematela in una camera adatta. Restituitele le sue cose e trovate una cameriera decente, se in questo maniero ce n'è una, che si occupi di lei e la aiuti a fare i bagagli. Partiremo per Easthome col corpo di Boleso domattina, alle prime luci». «Sì, mio signore», disse Ulkra con aria sollevata. Dopo avere riflettuto un istante, Ingrey aggiunse: «Qualcuno è fuggito da questo castello, dopo la morte di Boleso?» «No, mio signore. Perché lo domandate?» Ingrey fece un gesto vago, come a dire che non c'era nessuna ragione di cui valesse la pena parlare. Ulkra non chiese altro. Ingrey si alzò lentamente in piedi. Aveva l'impressione che le sue ossa scricchiolassero più forte del cuoio umido degli stivali. Lady Ijada lo ringraziò con un breve inchino e si allontanò assieme al maestro di palazzo. Mentre girava l'angolo verso le scale, si voltò a mezzo per guardarlo un'ultima volta, con espressione seria e fiduciosa. Il suo compito era condurla a Easthome. Niente di più. Nelle mani di... di chi non avrebbe avuto nessuna simpatia per lei. Le sue dita si strinsero sull'elsa della spada, poi si riaprirono. Niente di più. 2 Il convoglio - tale era ormai diventato - uscì dall'androne del castello sotto una coltre di nebbia, umida e greve. Ingrey aveva fatto salire a cavallo una dozzina di armigeri di Boleso, disponendoli metà davanti e metà al seguito di quello che poteva essere caritatevolmente descritto come un carro agricolo per il trasporto del letame. Sopra c'era un cassone oblungo di assi frettolosamente inchiodate, nel quale il corpo del principe riposava in un gelido letto di sale marino, solitamente usato per conservare la cacciagione. Nel mesto tentativo di dare al cigolante veicolo un aspetto più dignitoso, il cavalier Ulkra aveva coperto la bara con uno stendardo e messo quattro gagliardetti listati a lutto agli angoli del pianale, in luogo dei drappeggi funebri, che difficilmente sarebbero sopravvissuti alle insidie delle strade locali. Qualsiasi orpello gli armigeri avessero indossato per adeguare le loro uniformi a quella triste occasione, risultava invisibile nella grigia foschia mattutina. Ingrey era più preoccupato per la resistenza delle pessime corde vegetali che assicuravano la bara.
Il conducente assoldato da Ulkra era un carrettiere del villaggio, proprietario sia del carro sia delle due pariglie di cavalli da tiro. L'uomo guidò con mano ferma i suoi quattro animali giù per i pericolosi tornanti del sentiero; sua moglie, seduta a cassetta con lui, manovrava a denti stretti e con estrema energia la lunga leva del freno, che nei tratti di strada più inclinati faceva stridere gli assali in modo allarmante. Era una donna matura, di aspetto robusto, e Ingrey l'aveva inclusa nel gruppo perché gli era parsa una sorvegliante più adatta della giovane e timorosa serva che Ulkra aveva inizialmente assegnato alla prigioniera. Per ogni eventualità, inoltre, la donna sarebbe stata spalleggiata dal marito. Ingrey si fidava della disciplina dei propri uomini, ma non aveva dimenticato il catenaccio interno della cella provvisoria di Lady Ijada, e non era affatto sicuro che lasciarle la possibilità di chiudersi dentro fosse stata una semplice svista da parte di Ulkra, come aveva supposto la fanciulla. La prigioniera viaggiava in sella a una giumenta di sua proprietà. Ingrey non sapeva se a fornirle l'animale fosse stata la sua famiglia o la scuderia del conte Horseriver, comunque si trattava di una bella giumenta marrone, agile nei movimenti. Sbuffava e caracollava con vivacità, girando di continuo le orecchie a ogni rumore. Se la fanciulla le avesse affondato i talloni nei fianchi per fuggire al galoppo attraverso la campagna, non sarebbe stato facile raggiungerla. Lady Ijada non mostrava tuttavia nessuna intenzione del genere; si teneva in sella con atteggiamento rilassato, usando le redini solo ogni tanto, per non lasciarsi sorpassare dagli altri. Indossava un abito da cavallerizza adatto a una nobildonna durante una partita di caccia: giacca marrone con ampi ricami dai riflessi dorati e lucidi stivali il cui orlo ripiegato spariva sotto il bordo della robusta gonna-pantalone da sella. I suoi capelli neri erano severamente riuniti in un concio dietro la nuca. La sciarpa color crema nascondeva i lividi viola lasciati dalle dita di Boleso. Ingrey non aveva nessuna voglia di fare conversazione con lei, perciò si era limitato a salutarla con un cortese cenno del capo e si era portato subito alla testa della colonna. Per un po' cavalcò in silenzio. Lo sgocciolio dell'acqua dai rami degli alberi nel sottobosco e la gorgogliante melodia dei ruscelli che tagliavano il percorso, tra piccole cascate e tronchi caduti, erano rumori che lui assorbiva assai più del tintinnare di finimenti, del cigolio delle ruote del carro e del calpestio di zoccoli alle sue spalle. Percorsero un'ultima curva in discesa, quindi il percorso si fece pianeggiante e i viaggiatori emersero dal sottobosco in un inatteso mare di luce. Il sole stava sorgendo dalle creste dei monti a oriente, spandendo riflessi
dorati sui banchi di nebbia, e il pendio opposto della valle era di un verde abbagliante. Soltanto una spirale di fumo, prodotta forse dal forno di una carbonaia, indicava una presenza umana nell'infinita distesa di boschi a sud del villaggio e degli orti. Quello spettacolo non rasserenò affatto l'umore di Ingrey, che continuò a fissare accigliato il terreno fangoso. Poco più avanti fece spostare il cavallo sul ciglio della strada e gli fece rallentare il passo, per controllare che il resto del convoglio transitasse senza incidenti. Fu così che, quasi senza accorgersene, si trovò a cavalcare al fianco di Lady Ijada. La giovane si guardava attorno con l'aria di apprezzare il panorama; i suoi occhi erano colmi di riflessi dorati in quella luce intensa. «Come sono verdi di vita le colline! Amo queste foreste, a metà strada tra il caldo delle pianure e la gelida roccia sulle vette dei monti.» «È una terra dura e pericolosa», commentò Ingrey. «Ma le strade miglioreranno quando saremo più giù, nel fondovalle.» Lei considerò la sua espressione accigliata inclinando il capo. «Questa regione non vi piace? La mia terra natale è molto più spoglia; si trova nelle marche occidentali, dove le montagne sono assai meno elevate.» Esitò. «Il mio patrigno la pensa come voi sulle foreste come questa... ma è un uomo di città, un artigiano al servizio del Tempio di Badgerbridge, e preferisce gli alberi sotto forma di ponti, travi, mobili per le case.» Poi fece una smorfia e la luce nei suoi occhi si spense. «Era così felice per me, quando una delle mie zie Badgerbank mi ha procurato un posto in una dimora prestigiosa come quella degli Horseriver. E ora ecco come sono ridotta.» «Pensava che vi sareste trovata un marito di alto rango, facendo parte del seguito della principessa?» «Qualcosa del genere. Doveva essere la mia grande possibilità.» Scrollò le spalle. «Da allora ho dovuto imparare che i nobili sono interessati alla virtù di una donna assai più dei giovani squattrinati del popolo. Avrei dovuto prevedere...» S'incupì un poco. «Avrei dovuto prevedere che qualche arrogante seduttore avrebbe approfittato del suo alto rango. Ma a cogliermi davvero di sorpresa è stata quella magia eretica, quella pazzia.» Per la prima volta Ingrey si chiese se il possibile marito cui Ijada mirava fosse proprio il conte Horseriver. Il nobiluomo era sposato da quattro anni con la figlia del sacro re, la quale non gli aveva ancora dato un figlio. Dietro quel ritardo c'era qualcosa di più della semplice sfortuna? Forse la principessa aveva avuto un ottimo motivo per liberarsi della sua dama di compagnia alla prima occasione... e, se fosse stata abbastanza gelosa della bella
rivale, la principessa Fara avrebbe potuto cercare di proposito un destino sgradevole per lei. Possibile che la principessa fosse stata al corrente dei nefasti progetti del fratello? A parte la violenza carnale, intendo. «Da quale inizio?» aveva domandato Ijada il giorno prima, quando lui le aveva chiesto di raccontare l'accaduto. Come se ce ne fossero dozzine tra cui scegliere. «Che cosa pensate del conte Horseriver?» domandò Ingrey con voce neutra. Il conte era un ricco proprietario terriero, discendente di un antico kin, ma al momento il suo potere più concreto stava nel fatto che era uno dei tredici Grandi Elettori, i nobili il cui voto poteva confermare il diritto al trono del prossimo sacro re. Tuttavia le preoccupazioni politiche sembravano lontane dall'orizzonte di Lady Ijada, per quanto avesse una mentalità pratica. Le sue labbra si erano piegate in una smorfia pensosa. Non contrariata, notò Ingrey, né velata d'imbarazzo. «Non ne sono sicura. È uno strano... uomo. Stavo quasi per dire ragazzo. Ma in effetti non lo si può definire giovanile. Suppongo che sia anche per il grigio prematuro dei suoi capelli. Ha un'intelligenza molto acuta, che talvolta mette a disagio. E non lo si può neppure definire un tipo allegro o espansivo; spesso se ne sta in silenzio per giorni interi, come perduto nei suoi pensieri, e nessuno osa parlargli, neppure la principessa. Inizialmente pensavo che fosse dovuto alle sue piccole... sapete, deformità, la colonna vertebrale e il volto dalla forma strana. Ma sembra che non gli importi nulla del suo corpo. Certo non gli impedisce di fare ciò che vuole. Voi lo conoscete bene?» «Non ho mai avuto occasione d'incontrarlo da quando siamo diventati adulti», rispose Ingrey. «Sono suo parente di sangue, da parte della sua defunta madre. L'ho incontrato alcune volte quando eravamo bambini.» Ricordava Lord Wencel kin Horseriver come un ragazzino piccolo e goffo, con una boccuccia umida, apparentemente lento di comprendonio. Forse la timidezza lo rendeva una compagnia poco divertente per i coetanei, ma a quel tempo Ingrey non era molto comprensivo verso un cugino più piccolo che stava troppo sulle sue, perciò non aveva mai fatto niente per incoraggiare la sua amicizia. Fortunatamente, ora che rievocava il ricordo, non aveva neppure fatto niente per tormentarlo. «Suo padre e il mio sono morti a pochi mesi l'uno dall'altro.» Tuttavia il vecchio conte Horseriver se n'era andato in silenzio e senza soffrire, colpito da un infarto. Non nel fiore degli anni, abbaiando e ringhiando, dopo che le sue urla febbrili erano echeggiate nei corridoi del ca-
stello come se uscissero dalle profondità della terra... Ingrey strinse i denti e scacciò con rabbia quel ricordo. Lei gli gettò uno sguardo. «E vostro padre che uomo era?» «Era il castellano di Birchgrove, sotto il vecchio conte Kasgut kin Wolfcliff.» E io non lo sono. L'avrebbe notato da sola, intelligente com'era, o avrebbe supposto che lui fosse soltanto uno dei figli minori? «Birchgrove controlla la valle del Birchbeck, dove il fiume sfocia nel Lure.» Il che non era precisamente una risposta alla domanda di Lady Ijada. Come erano arrivati a quell'argomento sgradevole? Il tono di lei, si rese conto, era stato neutro, proprio come il suo quando le aveva fatto la domanda su Horseriver. «Sì, questo me l'ha detto il cavalier Ulkra», disse la giovane, guardando avanti tra le orecchie del suo cavallo. «Mi ha detto anche che vostro padre è morto per il morso di un lupo idrofobo, dal quale aveva cercato di estrarre lo spirito, e che ciò ha dato uno spirito di lupo anche a voi; ma poi si è scoperto che tale spirito era storpio, cosicché ha ottenuto solo di farvi ammalare. E la vostra vita e la vostra mente non sono state più le stesse, motivo per cui è stato vostro zio a succedere nel comando di Birchgrove al vostro posto. Più tardi la vostra famiglia vi ha mandato in pellegrinaggio, e finalmente siete guarito. Non vi nascondo di essermi chiesta se tutto ciò sia vero, e perché mai vostro padre abbia commesso un atto così sconsiderato.» Solo quando ebbe finito di parlare, in tono frettoloso e imbarazzato, Lady Ijada si voltò verso di lui per scrutare la sua reazione, con sguardo ansioso. Il cavallo di Ingrey sbuffò e scosse la testa nel sentirgli strattonare le redini. Lui le allentò subito, e un istante dopo si accorse di avere anche stretto i denti. Infine borbottò: «Ulkra è un pettegolo. Questo è un difetto». «Ha paura di voi.» «Non abbastanza, evidentemente.» Ingrey spronò avanti il cavallo e finse d'ispezionare il convoglio, poi tornò alla testa della colonna. Da solo. Ijada lo guardò mentre le passava accanto e parve sul punto di rivolgergli la parola, ma lui la ignorò. Condurre il convoglio fuori del sentiero fangoso della vallata lo distrasse abbastanza da calmarlo, o quantomeno sostituì il suo malumore con pensieri irritanti di altro genere. Lungo un pendio scosceso, dove gli zoccoli dei cavalli da tiro non facevano presa, il carro cominciò a slittare di lato, verso un crepaccio. La moglie del conducente chiamò aiuto, terrorizzata. Ingrey balzò giù dal cavallo e organizzò subito i più affidabili tra gli armi-
geri, finché il veicolo non fu puntellato, quindi faticosamente spinto e tirato a braccia lontano dal precipizio. A metà di quello sforzo sfiancante, Ingrey dovette fermarsi a riprendere fiato; aveva una spalla mezza slogata e gli indumenti di pelle imbrattati di fango. Fu quasi tentato di lasciar rotolare il carro giù per la scarpata; lo immaginò che rimbalzava e andava in pezzi tra i massi, mentre il corpo nudo di Boleso volava verso la distruzione in una pioggia di sale. Ma il veicolo si sarebbe trascinato dietro anche i quattro volonterosi cavalli, che non meritavano di seguire il destino del principe. Inoltre, visto che lo stesso Ingrey si trovava tra le ruote e il precipizio, avrebbe rischiato anch'egli di finire travolto e schiacciato. In quel caso sarebbe stato il suo corpo a essere riportato a corte per le onoranze funebri, invece di quello del principe Boleso. Tale grottesca ipotesi riuscì a strappargli un sogghigno; quando infine poté risalire a cavallo, Ingrey era tornato di umore sereno, se non allegro. A mezzogiorno si fermarono in una radura poco lontano dalla strada, nei pressi di una sorgente che nasceva in mezzo alle rovine di un antico edificio. I suoi uomini aprirono gli involti del pane e della carne fredda forniti dal cuoco del castello, ma Ingrey, dopo avere calcolato le distanze e le ore di luce, era più preoccupato per i cavalli. I quattro animali da tiro erano sudati e incrostati di fango, così incaricò i dodici armigeri di Boleso di assistere il carrettiere nel compito di ripulirli e farli mangiare. Il territorio più scosceso e disagevole era ormai alle loro spalle; dopo un po' di riposo, i cavalli sarebbero riusciti a proseguire fino al tramonto. Per quell'ora, Ingrey contava di raggiungere la città templare di Reedmere, procurarsi un carro migliore e rimandare indietro il vecchio trabiccolo prelevato al villaggio. Ciò che gli occorreva era anzi qualcosa di principesco, si corresse Ingrey, benché il carico da loro trasportato non meritasse più di un carro per il letame. Decise che, quando fossero stati più vicini a Easthome, avrebbe mandato avanti una staffetta per chiedere ai parenti di Boleso di far venire incontro al convoglio un carro funebre vero e proprio. Anzi, forse la cosa migliore era far partire subito la staffetta. Si lavò le mani nel ruscello e accettò la pagnotta imbottita di carne affumicata che gli portò Gesca, il suo tenente. Mentre masticava, si guardò attorno in cerca della prigioniera e della sua attendente. La moglie del carrettiere era occupata a scaricare cestelli di cibo dal carro; Lady Ijada stava passeggiando sul limitare della radura, e lui pensò che, con quel vestito,
avrebbe potuto dileguarsi in un istante tra la vegetazione e le ombre del sottobosco. Mentre sedeva su un tronco caduto, la vide invece chinarsi tra le rovine corrose accanto al corso d'acqua, raccogliere qualcosa e poi venire verso di lui. «Guardate», disse la ragazza porgendogli una pietra grigia e lucida. Ingrey la osservò; su una faccia della pietra era scolpito un disegno a spirale. «È lo stesso simbolo che Boleso si era disegnato addosso. Con una tinta rossa, intorno all'ombelico. L'avete visto?» «No», confessò Ingrey. «Il cadavere era già stato lavato.» «Ah.» Lady Ijada fece una smorfia di delusione. «Be', il disegno c'era.» «Io non dubito della vostra parola.» Ma altri certamente lo faranno. Non le era ancora sorto quel dubbio? La giovane si voltò a guardare la radura e disse: «Secondo voi questo posto era un tempio della foresta, una volta?» «È molto probabile.» Ingrey seguì lo sguardo di lei ed esaminò gli alberi. Dei più grossi restavano soltanto i ceppi. Sacri o profani che fossero gli scopi dei costruttori di quell'antico edificio, dalle macerie non si capiva molto; inoltre dovevano essere passati dei boscaioli, che avevano lasciato intatti solo gli alberi più giovani. «La sorgente farebbe pensare a un tempio. Questo luogo è stato depredato e abbandonato molto tempo fa, e chissà quanti viandanti si sono fermati qui, da allora.» Forse l'abbattimento dell'edificio risaliva alla guerra darthacano-quintariana, quando tra i kin delle foreste dilagavano le eresie. Erano eventi di quattro secoli addietro, l'epoca in cui Audar il Grande aveva dapprima invaso e poi ingrandito il Dominio. «Mi chiedo come fossero in realtà quelle antiche cerimonie», mormorò la fanciulla. «I Divini disprezzano i sacrifici di animali, ma a dire il vero... quand'ero bambina, alla fortezza templare di mio padre, sono andata alcune volte con... con un'amica ai riti autunnali della gente delle paludi. Il popolo dell'acquitrino non è della stessa razza degli antichi dominiani, e non parla neppure la stessa lingua, ma io riuscivo quasi a immaginare di vivere a quei tempi. Era più che altro una festa campestre, dove si ballava e si mangiava carne arrostita sui fuochi. Ma loro cantavano certe canzoni ed eseguivano piccoli riti sugli animali prima di macellarli; in definitiva, che differenza fa se noi preghiamo dopo, di fronte al cibo già cucinato e portato in tavola?» Si strinse nelle spalle. «Questo almeno era ciò che diceva la mia amica. Il Divino del forte non era d'accordo con lei, ma a dire il vero
quei due discutevano su tutto. Credo che la mia amica si divertisse a battibeccare con lui.» Non era però sul menu delle feste campestri che i Divini quintariani avevano sollevato obiezioni, perché non era solo cibo ciò che gli antichi dominiani prendevano dagli animali sacrificati. I maghi tribali usavano contaminare le anime dei Lord combattenti con gli spettri di animali, per rendere fieri gli spiriti dei loro capi... fieri, ma inadatti a presentarsi agli dei, al termine delle loro vite. Tuttavia Ingrey dubitava che quella giovane donna avesse avuto il permesso di assistere a feste in cui accadeva qualcosa di più del consumo di carne arrosto. «Si dice che gli uomini delle paludi si dipingano col sangue.» «Be', è vero», rispose pensosamente lei. «O almeno è vero che si divertono a impiastricciarsi di sangue a vicenda, ridendo e scherzando. È una cosa buffonesca e un po' selvaggia, ma non ci ho mai visto nulla di maligno. Naturalmente quella tribù non faceva sacrifici umani.» Scrutò la radura come se cercasse gli spettri di qualche orribile uccisione avvenuta lì. «Proprio così», confermò seccamente Ingrey. «Era questo il punto dolente nel dissidio tra i darthacani-quintariani e gli antichi dominiani.» Perché entrambe le parti adoravano gli stessi Cinque Dei. «Perciò quando Audar, il cosiddetto Grande, ammazzò quattromila prigionieri di guerra del Vecchio Dominio, a Campo del Sangue, si dice che non pregò affatto. Ciò ne fece un atto di guerra tipicamente quintariano, non un'eresia. Cioè un crimine di altro genere, ma non un sacrificio umano. È uno dei tanti sottili argomenti delle discussioni teologiche.» Quel massacro di un'intera generazione di giovani guerrieri-spirito aveva spezzato la schiena al Vecchio Dominio, che si era piegato agli invasori orientali. Nei successivi centocinquant'anni il territorio del Nuovo Dominio, le cerimonie e le usanze sociali erano stati ridisegnati e conformati ai modelli darthacani, finché il Dominio di Audar il Grande non si era frammentato a causa dei sanguinosi dissidi tra i suoi molto meno grandi discendenti. Il quintarianesimo ortodosso era però sopravvissuto ai regnanti che l'avevano inaugurato. Le pratiche legate ai sacrifici animali e le canzoni magiche delle tribù della foresta erano scomparse, dimenticate dal rinnovato Dominio; ne rimaneva traccia solo nelle superstizioni rurali, nelle filastrocche per bambini e in certe macabre storie di fantasmi. O meglio... non completamente dimenticate, non da tutti. Padre, che cosa ti passava per la testa? Perché hai voluto caricarmi sulle spalle questa bestiale eresia? Cosa stavi cercando di fare? Erano vecchie, dolorose do-
mande senza risposta... Ingrey le scacciò dalla mente. «Suppongo che oggi siamo tutti nuovi dominiani, ormai», osservò Ijada. Si toccò i capelli neri, tipicamente darthacani, e fece un cenno col capo a indicare quelli di lui. «Ogni kin dominiano sopravvissuto fino a oggi ha antenati darthacani. Bastardi, sia la gente comune sia i nobili. Così noi abbiamo ereditato i peccati di Audar e quelli delle tribù. Per quanto ne so, il mio padre chalionese aveva sangue darthacano. I nobili di quella terra sono un gran meticciato, come diceva sempre lui, per quanto esibiscano i propri alberi genealogici.» Ingrey masticò il pane e inghiottì, senza replicare. «Quando vostro padre vi ha dato il suo lupo, in che modo...» cominciò a domandare Ijada. «Sarà meglio che mangiate qualcosa», la interruppe lui, con la bocca piena di arrosto freddo. «Ci aspetta una lunga cavalcata.» Si alzò e si allontanò, dirigendosi verso il carro. Non voleva altro cibo, ma ne aveva abbastanza di quelle chiacchiere. Cercò una mela non troppo piena di vermi e s'incamminò lentamente tra gli uomini. Durante il resto della sosta, rimase dalla parte opposta della radura rispetto a Lady Ijada. Mentre il convoglio proseguiva, quel pomeriggio, le pendici rocciose delle colline si addolcirono e divennero più frequenti i piccoli borghi di campagna, circondati da campi sempre più estesi. Il sole si era abbassato a sfiorare le cime degli alberi quando i viaggiatori furono costretti a una sosta fuori programma: un torrente di montagna, quasi in secca quando Ingrey era passato di lì due giorni prima, era stato improvvisamente gonfiato dalle piogge; ora le sue acque fangose interrompevano il sentiero. Ingrey fermò il cavallo ed esaminò il problema. Il carro con la cassa di Boleso non era di legno secco e leggero, perciò le probabilità che galleggiasse via trascinandosi dietro i cavalli erano scarse. D'altra parte, pur restando con le ruote a contatto col suolo, la forza della corrente avrebbe potuto farlo ribaltare. Mise quattro uomini a cavallo intorno al veicolo, ciascuno con una corda legata a un angolo, per mantenerlo stabile durante la traversata del torrente; quando furono pronti, fece segno al carrettiere di avanzare con tutta la velocità che poteva ottenere dalle due stanche pariglie. Dopo pochi passi i cavalli si trovarono con l'acqua all'altezza della pancia, poi ancora più in alto, e il carro iniziò a spostarsi di lato traballando pericolosamente. Ma i quattro cavalieri ce la misero tutta per stabilizzarlo, e in breve giunsero sani e salvi sull'altra sponda. Solo allora Ingrey
fece cenno a Lady Ijada di precederlo nel guado. Mentre la seguiva, il suo sguardo si levò a controllare che il carro fosse al sicuro. Ma in quello stesso istante la giumenta marrone mise uno zoccolo in fallo e si rovesciò; Lady Ijada fu trascinata via dal torrente così in fretta che non riuscì neppure a gridare. Ingrey la vide sparire tra i gorghi e imprecò, spronando avanti il proprio cavallo. Girò la testa freneticamente, in cerca di una massa di capelli neri o un pezzo di giubba color bronzo nell'acqua impetuosa... Senza dubbio i vestiti pesanti della ragazza si erano subito inzuppati, trascinandola sotto... laggiù! La corrente gelida gli arrivava alle ginocchia quando Ingrey incitò il cavallo ad avanzare sul fondale insidioso verso valle. I capelli neri balenarono in mezzo a tre rocce lisce, intorno alle quali l'acqua ribolliva veloce; il cavallo di Ingrey riuscì a tenersi in equilibrio e a balzare avanti in risposta ai suoi energici colpi di tallone, e accorciò la distanza. Un braccio annaspò su una roccia, la mano fece presa... «Tenetevi forte!» gridò Ingrey. «Sto arrivando da voi...!» Due braccia. Lady Ijada si issò sulla roccia col busto, sguazzando e contorcendosi. Ancor prima che Ingrey fosse arrivato alla sua altezza, in sella al cavallo che sbuffava come un mantice, la fanciulla era in piedi, grondante e col fiato mozzo. Con la coda dell'occhio, lui vide la giumenta marrone riguadagnare la riva un po' più a valle, vacillare nel fango e poi galoppare via nel bosco. Ingrey sibilò un'imprecazione e fece segno ai suoi uomini d'inseguirla. Non poté voltarsi a guardare se l'ordine veniva eseguito, perché ormai si trovava a un braccio di distanza da Lady Ijada. Si piegò verso di lei e la giovane donna si protese... Una nebbia rossa lo avvolse all'improvviso, offuscandogli la vista. Con una mano stretta a un braccio di lei, Ingrey precipitò di testa tra le onde, trascinando la fanciulla giù dalla sua roccia con tutto il proprio peso. L'uomo si agitò, con la bocca piena di liquido fangoso, e sentì la ragazza contorcersi sotto di lui, schiacciata dal suo corpo contro il fondale. Annegala... La stava tenendo sotto. Non riusciva a vedere niente. Una parte lontana della sua mente gli gridava: Che cosa stai facendo, razza d'idiota? Ma un'altra lo costringeva a tenerla sotto... La velocità del torrente gli fece sbattere la testa contro qualcosa di duro, e schizzi di scintille verdi scacciarono la nebbia rossa. I suoi pensieri fuggirono.
Riprese i sensi prima di soffocare, in preda al panico. Il vento fresco gli sfiorava la faccia. In qualche modo riuscì a tenere la testa a galla, respirando abbastanza aria da tossirla fuori assieme all'acqua. Cercò di muovere le braccia, ma le sentiva deboli e pesanti, come impastoiate nell'olio. «Smettete di lottare con me!» gli gridò in un orecchio la voce di Lady Ijada. Qualcosa che gli cingeva il collo si strinse; dopo qualche istante di stordimento, Ingrey si accorse che era un braccio della ragazza. Doveva salvarla, annegarla, salvarla... Lei sa nuotare. Quando lo comprese smise di agitarsi, come scioccato. Anche lui sapeva nuotare, bene o male. Una volta era sopravvissuto a un naufragio, anche se in effetti era rimasto sempre aggrappato a oggetti galleggianti. Ora l'unica cosa che galleggiava accanto a lui sembrava essere Lady Ijada; ma il peso della spada e degli abiti inzuppati rischiava di trascinarli sotto... I piedi di Ingrey toccarono qualcosa. La corrente li spinse in un'ansa più tranquilla, dove la riva era piatta; poi fu lei a trascinare lui all'asciutto. L'uomo si liberò dal braccio della ragazza infilato sotto il suo e, procedendo a quattro zampe, salì tra le erbacce e i sassi. Da una ciocca di capelli gli cadevano sul viso gocce rosa, sempre più tendenti al rosso. Se le tolse dagli occhi e si guardò attorno; in quel punto il sottobosco era fitto, intricato. Non gli sembrava che il torrente li avesse portati molto a valle, ma da lì non riusciva a vedere i suoi uomini, né il carro, né il guado. E stava tremando per lo shock causato dal colpo alla testa. La fanciulla si alzò, grondando acqua dalle vesti, e barcollò avanti con una mano protesa. A quella vista Ingrey lanciò un grido, un gemito roco e inarticolato, e indietreggiò fino ad aggrapparsi a un albero, un po' per non cadere e un po' per frapporlo tra loro due. «Non mi toccate!» «Che cosa? Lord Ingrey, voi perdete sangue...» «Non avvicinatevi a me!» «Lord Ingrey, se soltanto voleste...» «Il mio lupo cerca di uccidervi! Si è scatenato! State lontana!» Lei si fermò e rimase a fissarlo. Dai suoi capelli sciolti cadevano gocce silenziose che finivano nell'erba, con un ritmo ipnotico come quello di uno strano orologio ad acqua. «Tre volte», ansimò l'uomo con voce roca. «Questa è stata la terza volta. Non vi siete accorta che cercavo di annegarvi, poco fa? E prima ci avevo già provato altre due volte. La prima volta che vi ho visto, quando ho estratto la spada, avevo tutte le intenzioni di trafiggervi lì, su due piedi. Poi,
quando eravate seduta, per poco non vi ho strangolato.» Lady Ijada era pallida, attenta e pensierosa. Non stava fuggendo gridando di terrore. Lui desiderò che lo facesse, gridando oppure no, non gli importava. Purché si allontanasse da lui... «Fuggite!» Invece, con folle imprudenza, la fanciulla si appoggiò al tronco di un albero e iniziò a togliersi gli stivali inzuppati. Solo quando ebbe svuotato l'acqua anche dal secondo, disse: «Non era il vostro lupo». A Ingrey doleva la testa; il colpo contro la roccia era stato violento. La nausea lo avvertì che stava per vomitare tutta l'acqua bevuta. Non comprese le parole di lei. «Che cosa?» «Non era il vostro lupo.» La ragazza posò il secondo stivale accanto all'altro e aggiunse con voce piatta: «Io posso sentire l'odore del vostro lupo, in un certo senso. Non l'odore vero, in realtà, ma non so in quale altro modo descriverlo». «Io... ho cercato di uccidervi!» «Non è stato il vostro lupo. Anzi non siete stato voi. È stato l'altro odore. Tutte e tre le volte.» Lui la guardò a occhi spalancati, incapace di parlare. «Lord Ingrey... non vi siete neppure chiesto dove sia finito lo spirito del leopardo di Boleso.» Stavolta lui si accorse di avere spalancato anche la bocca, con aria stupida. «È venuto da me.» Gli occhi azzurri lo fissavano attenti, con serietà. «Io... sto... scusatemi», disse Ingrey con un filo di voce. «Devo vomitare.» Si appartò dietro lo snello albero cui era appoggiato, per quanto scarsa fosse l'intimità che gli offriva. Gli sarebbe piaciuto poter dire che le contrazioni gastriche gli davano una scusa per restare solo coi propri pensieri e metterne insieme due che avessero un senso; invece i suoi pensieri sembravano rimasti da qualche parte sul fondo del torrente, trascinati via, annegati. Quando ebbe finito di liberarsi di tutto il fango che gli era entrato nello stomaco, si sentiva confuso come prima. Girò dall'altra parte dell'albero e trovò Lady Ijada che strizzava con calma la sua giubba da cavallerizza. Allora rimase in silenzio e sedette con un tonfo umido su un tronco coperto di muschio. Era muschio bagnato, ma Ingrey era decisamente più bagnato; l'acqua gli schizzava fuori delle cuciture degli stivali.
La giovane non appariva molto diversa ai suoi occhi. Be', certo, era bagnata come un pulcino e ridotta piuttosto male, ma il sole continuava ad accarezzarla con una luce speciale, come se fosse il suo amante. Nella sua ombra Ingrey non vedeva nessuna forma felina. E non sentiva nessun odore a parte quello che lui stesso aveva addosso, una sgradevole miscela di cuoio umido, sporcizia, unto e sudore di cavallo. «Non sono certa che Boleso volesse proprio questo», continuò lei nello stesso tono piatto di poco prima, come se non ci fosse stata l'interruzione delle sue disgustose contrazioni gastriche. «Lo spirito che aveva strappato al leopardo è giunto a me quando ho toccato il suo corpo morente, in cerca della chiave che aveva in una tasca. Gli altri animali erano legati a lui e se ne stavano andando con lui; li aveva dentro di sé da molto tempo. Forse quell'ultimo rito non era stato portato a termine. Lo spirito del leopardo era molto spaventato, frenetico. È penetrato nel fondo della mia mente e si è nascosto, ma io riuscivo a sentirlo. «Non sapevo cosa fare, né cosa lui avrebbe potuto fare. Gli uomini di Boleso sono degli sciocchi. Io non ho parlato di questo, e loro non mi hanno chiesto nulla al riguardo.» «La vostra difesa... questa potrebbe essere la vostra difesa», osservò Ingrey annuendo. «A uccidere il principe è stato lo spirito del leopardo, nella sua frenesia bestiale. Non voi. Voi eravate posseduta. Si è trattato di un incidente.» Lei sbatté le palpebre. «No», obiettò in tono ragionevole. «Ve l'ho appena detto: lo spirito del leopardo è venuto a me soltanto dopo, quando Boleso giaceva moribondo.» «Sì, ma voi potreste raccontare il contrario. Non c'è niente che possa smentirvi.» Ijada fece un'espressione contrariata, quasi offesa. Dovremo tornare su questo discorso, credo. Ingrey agitò debolmente una mano. «Va bene. E poi...?» «Quella notte, nella mia cella, ho fatto sogni molto vividi. Foreste calde, verdi radure. Ruzzolavo nell'erba dorata con altri giovani leopardi, morbidi e maculati ma coi denti aguzzi. E strani uomini. Reti, gabbie, catene, collari. Un viaggio su una nave, poi su un carro. Altri uomini, alcuni crudeli, altri gentili. La solitudine. Non c'erano parole in quei sogni; erano tutte sensazioni, lampi di immagini, odori pungenti. Un torrente di odori, un nuovo continente di odori. «Dapprima ho pensato che sarei impazzita, ma poi mi sono tranquillizza-
ta. Quella stanza chiusa era come una gabbia, in un certo senso. Uomini sgarbati o cordiali mi portavano il cibo e facevano pulizia. Era una cosa familiare. Rassicurante. «La seconda notte ho sognato di nuovo i sogni del leopardo. Ma stavolta...» La sua voce s'incrinò leggermente. «Stavolta c'era una Presenza. Non vedevo niente nella profonda oscurità della foresta, ma gli odori erano meravigliosi, più di qualsiasi profumo da me conosciuto. Mi dicevano tutto della foresta, dei prati e dell'autunno. Mele e vino, carne arrosto, erbe aromatiche e l'aria frizzante della sera. Sentivo persino l'odore delle stelle del cielo e gridavo per la loro bellezza. Lo spirito del leopardo saltellava, estatico, come un cane che desse il bentornato al padrone, o una gatta che si strusciasse sulle caviglie della padrona. Faceva le fusa ed emetteva mugolii di piacere. «Dopo quel sogno, lo spirito del leopardo mi è parso rasserenato. Non più spaventato o selvaggio. Si limitava a... stare lì, soddisfatto, in attesa. No, più che soddisfatto: gioioso. Non so che cosa stesse aspettando.» «Una Presenza», le fece eco Ingrey. «Era... pensate che fosse... un dio? E che sia venuto a voi nel buio?» Poteva dubitarne? Luminosa: lui l'aveva definita così, con una percezione che andava oltre l'aspetto estetico. Neppure in quei primi, confusi istanti aveva scambiato la sua luminosità per semplice bellezza fisica. Il viso di lei s'incupì all'improvviso. A denti stretti, Ijada rispose: «Non era venuto da me. Era venuto per quel maledetto felino. Io avevo pianto per il desiderio che venisse da me, ma non è stato così». La sua voce si smorzò. «Forse non poteva. Io non sono una santa, fatta per ricevere un dio dentro di me.» Ingrey scavava nel muschio con dita nervose. Il taglio alla testa aveva finalmente smesso di far gocciolare sangue sulle sopracciglia. «È stato anche detto... benché non dai Divini quintariani, che gli antichi dominiani usavano gli spiriti degli animali per comunicare con gli dei.» La mascella della giovane si strinse di nuovo. Nei suoi occhi brillò una luce così feroce che Ingrey si ritrasse un poco. Solo allora, e solo per quel breve istante, vide quanto terrore lei avesse nascosto - nascosto fin dall'inizio - sotto quella superficie controllata. «Ingrey, dannazione a voi, dovete dirmelo, dovete parlare, altrimenti impazzirò... Come siete entrato in contatto col vostro lupo?» La sua non era oziosa curiosità, nata da qualche pettegolezzo; era un disperato bisogno di sapere. Che cosa non avrebbe dato lui stesso, nella con-
fusione che l'aveva sommerso tanto tempo prima, per un mentore esperto che gli dicesse come andare avanti? O anche per un compagno confuso quanto lui, ma che condividesse la sua esperienza invece di negarla e di chiamarlo «demente», «contaminato» o «dannato»? Tutte quelle cose che lui non aveva mai potuto spiegare, neppure a un ascoltatore comprensivo, lei le aveva appena sperimentate. Aveva ancora l'impressione di tirare su dal pozzo della memoria un secchio di ricordi, con una corda che gli bruciava le mani. Strinse i denti e disse: «Avevo quattordici anni quando sono stato portato alla cerimonia, senza preavviso e senza che mi fossero date istruzioni su ciò che stava succedendo. Da diversi giorni, o da settimane, mio padre era disperato per un motivo che non aveva voluto confidare a nessuno. Aveva corrotto un mago del Tempio per officiare il rito. Non so chi avesse catturato i lupi, né come. Il mago si è reso irreperibile subito dopo... o per paura di avere sbagliato tutto, o perché ci aveva tradito deliberatamente, non l'ho mai saputo. E allora ero troppo sconvolto per mettermi a indagare». «Un mago?» domandò Ijada, appoggiata a un ramo dell'albero. «Io non ho visto maghi in compagnia di Boleso. A meno che non ce ne fosse uno nascosto da qualche parte. E non mi è parso che lui stesso fosse posseduto da un demonio, anche se... be', questa è una cosa che nessuno è in grado di capire, fuorché un veggente o un mago.» «No, il Tempio avrebbe...» Ingrey esitò. «Se Boleso fosse stato posseduto da un demonio già a Easthome, qualche sensitivo del Tempio avrebbe percepito qualcosa. Ma se il demonio fosse entrato in lui di recente, dopo il suo esilio... qui non avrebbe incontrato nessuno capace di accorgersene.» Tuttavia Ingrey era certo che, qualunque cosa fosse degenerata nella mente di Boleso, era accaduto prima che il principe facesse a pezzi il suo servo. «Non riesco a immaginare quali poteri gli avrebbe dato quel rito», disse Ijada. «Ora io conosco cose che non ho mai visto coi miei occhi; sembra che il leopardo mi abbia dato una specie di conoscenza, o di percezione, ma...» Strinse i pugni, frustrata. «Non è una cosa che si possa spiegare a parole. Perché il vostro lupo non vi aiuta a capirlo?» Perché ho fatto ogni sforzo, negli ultimi dieci o dodici anni, per schiacciarlo dentro di me, accecarlo, annientarlo. E mi ero illuso di essere al sicuro, finché le vostre domande non mi hanno spaventato ancora più del lupo che ho dentro. «Avete detto che c'era una cosa, un altro... odore, non io o il mio lupo. Una terza cosa.» Lei lo guardò con aria infelice, aggrottando le sopracciglia come alla va-
na ricerca di una descrizione che non aveva corrispondenze nel linguaggio umano. «È come se io potessi sentire l'odore delle anime. O forse è il leopardo a sentirlo, e lo trasferisce a me. Posso percepire l'odore di Ulkra e capire che non ho motivo di temerlo. Ma ci sono uomini, tra questi armigeri... dai quali so che devo stare lontana. La vostra anima sembra doppia: voi e qualcosa che sta sotto, qualcosa di oscuro e antico e muschioso. Non si muove.» «Il mio lupo?» Ma il suo lupo era un animale giovane. «Io... forse. Ma c'è anche un terzo odore. È legato intorno a voi come un viticcio parassita, pulsante sangue, che ha insinuato tentacoli e radici dentro il vostro spirito per alimentarsi. Lui sussurra. Credo sia un incantesimo o un sortilegio.» Ingrey restò a lungo in silenzio, cercando di esaminarsi. Com'era possibile che Ijada capisse che cos'era ciò che percepiva in lui? Il suo spiritolupo era sicuramente una sorta di parassita. «È ancora dentro di me?» «Sì.» Lui s'irrigidì un poco. «Allora, se non starò più che attento, potrei cercare di uccidervi ancora.» «Forse.» Ijada strinse le palpebre, e le sue narici si mossero come in cerca di una sensazione che non aveva a che fare coi sensi corporei. Un tentativo inutile, come cercare di vedere con le dita o sentire il sapore con le orecchie. «Finché quella cosa non verrà sradicata da voi.» Ingrey abbassò la voce. «Perché non fuggite? Dovreste farlo.» «Non capite? Io devo andare al Tempio, a Easthome. Devo cercare aiuto. E voi mi state portando là con la massima velocità possibile.» «I Divini non sono stati molto d'aiuto a me», disse amaramente Ingrey. «Altrimenti non sarei ancora così contaminato. Per anni ho consultato teologi, maghi, persino santi. Ho viaggiato fino a Darthaca per parlare con un santo del Bastardo di cui si diceva che potesse scacciare i demoni dall'anima degli uomini e distruggere i maghi malvagi; neppure lui è riuscito a liberarmi dal mio spirito-lupo. Mi ha detto che il motivo è che lo spirito appartiene a questo mondo, non all'altro; neppure il Bastardo, che comanda legioni di demoni e può convocarli o scacciarli a Suo piacimento, ha potere su questa bestia. E se neppure i santi possono aiutarci, rivolgersi alle autorità del Tempio è inutile... anzi peggio: è pericoloso. A Easthome, il Tempio è uno strumento dei nobili. E, a quanto pare, voi avete offeso i più potenti.» Lei lo fissò intensamente. «Chi ha messo questo sortilegio dentro di voi?
Potrebbe trattarsi di una persona potente?» Ingrey aprì la bocca, poi la richiuse. Infine disse: «Non ne sono sicuro, non saprei dirlo. È una cosa che mi scivola via dalla mente. Se qualcuno non me lo ricorda, tra un episodio e il successivo dimentico persino di avere dentro di me qualcosa che cerca di uccidervi. Un momento di distrazione da parte mia potrebbe esservi fatale!» «Allora m'incaricherò io di ricordarvelo», replicò Ijada. «Dovrebbe essere facile, ora che entrambi lo sappiamo.» Mentre lui apriva la bocca per obiettare, si udì un rumore di fronde a breve distanza da loro. Un uomo chiamò: «Lord Ingrey?» E un altro: «Ho sentito delle voci verso il fiume... da quella parte!» «Stanno arrivando.» Ingrey si alzò, vacillò stordito e levò una mano con fare supplichevole. «Prima che ci trovino... fuggite!» «In queste condizioni?» ribatté lei indignata, mostrandogli le sue vesti inzuppate e i piedi scalzi. «Sono bagnata fino all'osso, senza denaro, senza armi, senza aiuto. Dovrei correre via nei boschi... e poi? Farmi mangiare da un orso? No. Boleso proveniva da Easthome; è là che si trova la sorgente di questo maleficio. Non andrò da nessun'altra parte.» «Qualcuno laggiù cercherà di ammazzarvi per chiudervi la bocca. Ci ha già provato. Potrebbe uccidere anche me.» «Allora sarà meglio che non andiate a raccontare in giro questa storia.» «Io non vado a raccontare in giro...» cominciò lui offeso, ma gli uomini che li stavano cercando sbucarono dal sottobosco. Erano due dei suoi, a cavallo. Adesso era lui che voleva parlare con lei ma non poteva farlo. «Mio signore!» esclamò allegramente il tenente Gesca. «L'avete salvata!» Visto che Lady Ijada non correggeva quell'interpretazione dei fatti, neppure Ingrey se ne preoccupò. Evitando lo sguardo della fanciulla, s'incamminò verso i soccorritori. 3 Quando Ingrey e la sua prigioniera si riunirono al resto del gruppo in attesa oltre il torrente, il sole era sceso dietro le cime degli alberi. Una luce arancione stagnava nell'intreccio dei rami mentre i due indossavano abiti asciutti e montavano sui loro cavalli, ormai recuperati. Sotto la striscia di stoffa avvolta intorno alla fronte, Ingrey avvertiva pulsazioni di dolore; la spalla gli si era irrigidita, ma lui non considerò nemmeno l'ipotesi di pro-
seguire il viaggio sul carro, seduto sulla bara di Boleso. Il convoglio uscì dalla vallata boscosa e proseguì tra le ombre del crepuscolo. Dai campi spogli e dai fossati si levava una fredda nebbia. Ingrey stava per ordinare ai cavalieri di accendere qualche torcia per vedere la strada, quando scorse un bagliore lontano, che si rivelò essere una fila di lanterne oscillanti. Poco dopo si avvicinò un rumore di zoccoli al trotto e una voce allegra gridò: «Ehilà!» Quello che venne a fermarsi sulla strada davanti a loro era il cavaliere mandato avanti da Ingrey la mattina, per chiedere uomini e materiali alle autorità di Reedmere. Costui aveva portato con sé non soltanto numerosi servi del Tempio muniti di lampade, ma anche quattro cavalli freschi e un carro decente e ben attrezzato. Ingrey lo elogiò con calore; quindi fu compiuto il trasbordo e il convoglio riprese il viaggio a un ritmo più rapido. Reedmere non era un villaggio, bensì una cittadina di parecchie migliaia di abitanti che fungeva da centro amministrativo regionale. Il tempio, situato nella piazza principale, era molto spazioso, ma costruito nel vecchio stile rurale: un edificio di legno a cinque lati, fittamente decorato con sculture a motivi floreali, immagini di piante e animali domestici e scene ispirate alle vite dei santi. Il tetto originale in stuoie di paglia era stato sostituito da moderne tegole di legno. La bara di Boleso fu sistemata per la notte nel salone. Lo zelante Lord Divino di Reedmere, assistito dai suoi siniscalchi del consiglio cittadino, si affrettò a far montare paramenti funebri intorno al feretro e organizzò una veglia di preghiera. Il coro del teatro locale, formato da un gruppo di volontari in livrea, intonò canti funebri, mentre i maggiorenti della città sfilavano dinanzi alla bara per presentare i loro rispetti al defunto. Ingrey prese nota del loro disappunto per il fatto che il coperchio fosse già stato inchiodato. Poi addusse come scusa la ferita alla testa per evitare di partecipare alle cerimonie. Gli edifici di proprietà del Tempio erano un insieme di abitazioni civili recentemente riadattate a nuovi usi. La residenza del Divino si trovava in un palazzo che ospitava anche l'ufficio notarile del Tempio; la biblioteca e lo scriptorium dividevano lo stesso tetto con la scuola femminile della Figlia della Primavera; l'infermeria, dedicata alla Madre dell'Estate, occupava tutto il retro della farmacia cittadina. Ingrey vide la sua prigioniera presa in custodia e portata via da alcune inservienti del Tempio dal volto severo. Diede alcune monete al carrettiere di Reedmere per i suoi servigi, pagò il carrettiere del villaggio da cui erano partiti e sua moglie, accertandosi che trovassero un letto nelle stalle del Tempio; poi si assicurò che i
suoi uomini fossero alloggiati nella locanda più vicina e i loro cavalli portati nella scuderia pubblica, e finalmente poté andare all'infermeria per farsi curare la ferita al capo. Con sollievo scoprì che la Devota della Madre di servizio nelle ore serali non era soltanto una levatrice o una tuttofare di campagna. La donna esibiva infatti su una spalla dell'uniforme verde l'emblema di una scuola infermieristica; dopo avere acceso alcune candele di cera, gli lavò la testa con un sapone disinfettante e iniziò a cucirgli la cute con mani esperte. Seduto su una panca, lo sguardo fisso sulle ginocchia dell'infermiera, cercando di non sussultare ogni volta che lei infilava l'ago o tirava il filo, Ingrey domandò: «Ditemi, qui a Reedmere ci sono maghi del Tempio? O magari santi minori, o... non so, qualche studioso di dottrina?» Lei rise. «Oh, non qui, mio signore! Tre anni fa un inquisitore del Tempio mandato dall'Ordine del Padre ha portato con sé un mago, per indagare su una donna del posto accusata di magia demoniaca, ma non hanno trovato niente. L'inquisitore ha dato una severa strigliata agli accusatori della donna e li ha condannati a pagare le sue spese di viaggio. Devo dire però che il mago non era l'uomo che mi sarei aspettata... Si trattava di un vecchio rimbambito con la toga bianca del Bastardo, capace solo di lamentarsi per essere stato costretto a viaggiare d'inverno su queste strade. Ma alla scuola della Madre che io ho frequentato da ragazza c'era un santo minore...» A quel ricordo sospirò. «Mi piacerebbe avere la metà delle sue capacità, sia come vista sacra sia come guaritrice. Quanto agli studiosi, Maraya, che dirige la scuola femminile, è la migliore che ci sia in città, a parte forse il Lord Divino.» Ingrey ne fu deluso, ma non sorpreso. Comunque doveva trovare qualcuno, mago o santo o veggente, che confermasse o smentisse le inquietanti rivelazioni di Lady Ijada. E al più presto. «Ecco fatto», disse la Devota in tono soddisfatto, dando un colpetto al suo ultimo nodo. Ingrey riuscì a trasformare il gemito in un grugnito. Il rumore delle forbici ribadì che quella piccola tortura era finita e, con una certa difficoltà, l'uomo si tirò in piedi. Alla porta posteriore dell'ambulatorio si udirono voci e passi; l'infermiera della Madre si voltò. Entrarono due inservienti del Tempio, un siniscalco, Lady Ijada e il tenente Gesca. Le inservienti tenevano in braccio lenzuola e coperte. «Che cosa significa?» chiese la Devota, scrutando sospettosamente Lady Ijada.
Rispose il siniscalco: «Col vostro permesso, Devota, questa donna si sistemerà qui per la notte, visto che nella vostra infermeria non ci sono ricoverati. Le inservienti divideranno la stanza con lei e io dormirò fuori della porta. Quest'uomo», e indicò il tenente di Ingrey, «manderà una sentinella a controllare di tanto in tanto». La Devota non parve affatto compiaciuta di quella prospettiva; le due inservienti-guardiane erano ancora più scure in volto. Ingrey si guardò attorno. Il locale era abbastanza pulito, certo, ma... «Qui?» Lady Ijada inarcò ironicamente le sopracciglia. «Per vostro ordine mi viene risparmiata la prigione cittadina, e di ciò vi sono grata. L'unica stanza di cui dispone il Divino è riservata a voi. La locanda è piena dei vostri uomini e nel salone del tempio ci sono gli armigeri di Boleso. Svolgeranno la veglia funebre dormendo della grossa, suppongo, visto che alcuni sono ubriachi. E per qualche ragione nessuna donna di Reedmere si è offerta di accogliermi nella sua casa. Perciò non mi resta che accettare l'ospitalità della Dea.» Il suo sorriso era tirato. «Ah», disse Ingrey dopo un momento. «Capisco.» La gente comune, che conosceva il principe Boleso solo per il suo nobile rango, non poteva certo considerarla un'eroina. Anche chi stentava a vedere in lei una pericolosa omicida sentiva che offrirle assistenza significava passare per traditori agli occhi dei benpensanti, fedeli alla patria e alla famiglia reale. E più ci avvicineremo a Easthome, peggio andranno le cose. Non potendo offrirle una soluzione migliore, Ingrey si limitò ad augurarle la buonanotte con un cenno del capo, quindi lasciò che la Devota lo accompagnasse alla porta. «Cercate di farvi una buona nottata di sonno, mio signore», disse la donna, alzandosi in punta di piedi per dare un'ultima occhiata soddisfatta al suo lavoro di cucito. «Con quel bernoccolo in testa, dovrei prescrivervi di stare a letto un giorno o due.» «Ahimè, i miei doveri non me lo consentono.» La ringraziò con un rigido inchino e attraversò la piazza, per rispettare almeno la prima parte della sua prescrizione. Il Divino aveva finito di pregare per l'anima di Boleso e stava aspettando Ingrey. Volle parlare di altri riti funebri che intendeva officiare l'indomani, infine gli chiese quali novità ci fossero nella capitale. Era preoccupato per la salute cagionevole del sacro re. Ingrey, che da quattro giorni non aveva notizie, si tenne molto nel vago. Il Lord Divino di Reedmere era evidente-
mente un onesto pastore di anime, salda guida del Tempio locale, ma non sembrava né istruito né particolarmente intelligente. Non era un uomo cui poter confidare la delicata situazione spirituale di Lady Ijada. O la mia. Gli ricordò con fermezza che l'indomani lo attendeva un viaggio impegnativo, gli fece notare la sua testa ferita e andò a chiudersi nella camera da letto che gli avevano assegnato. Era una stanza piccola e accogliente al secondo piano. Ingrey aprì la finestra all'aria fredda della notte solo per dare uno sguardo alla piazza sottostante, dove fioche lampade a olio ardevano appese a ganci di ferro, in fila; quindi alzò gli occhi al cielo gremito di stelle. Infine richiuse la finestra e indossò la camicia da notte del Divino lasciata sul letto per lui. Fu molto cauto nel posare sul cuscino la testa ferita. Ma i dolori e le preoccupazioni non lo tennero sveglio a lungo. Ingrey sognò i lupi... Pensava che l'ora più buia della notte sarebbe stata quella scelta per la cerimonia, invece suo padre lo convocò nel salone del castello a metà pomeriggio. Nelle nicchie dei muri erano accese costose candele di cera d'api, la cui calda luce rosata lottava contro il grigiore. Lord Ingalef kin Wolfcliff appariva calmo, anche se stanco per la tensione che lo tormentava in quei giorni, e accolse il figlio con un rassicurante cenno del capo e uno dei suoi rari, fugaci sorrisi. Il giovane Ingrey aveva la gola stretta per l'eccitazione nervosa e la paura. Il mago del Tempio, Cumril, che gli avevano presentato la sera prima, era già pronto e indossava soltanto un cercine intorno ai fianchi. Sulla sua pelle nuda erano dipinti simboli arcani. A Ingrey era apparso vecchio in quell'occasione, ma rivedendolo ora, mentre sognava la scena coi suoi occhi da adulto, si accorse che in realtà Cumril era nel fiore degli anni. Col senno di poi, nel sogno, Ingrey scrutò il suo volto alla ricerca di un'espressione che ne rivelasse le intenzioni: aveva premeditato un vero e proprio tradimento? O era soltanto fuori di testa, uno stupido e sfortunato incompetente? La preoccupazione che gli lesse negli occhi avrebbe potuto indicare entrambe le cose... o nessuna. Poi lo sguardo del giovane Ingrey si spostò sugli animali, bellissimi e pericolosi; da quel momento gli fu difficile prestare attenzione al resto. Il canuto cacciatore che li teneva al guinzaglio sarebbe poi morto d'idrofobia tre giorni prima di suo padre. Il lupo adulto era grosso, selvaggio, poderoso. Sotto la pelliccia grigia,
segnata da vecchie cicatrici e tagli recenti, guizzavano i muscoli. Aveva sangue incrostato su alcune lievi ferite; era nervoso e mugolava, opponendo resistenza alla corda del cacciatore. Ardeva di febbre, benché nessuno dei presenti lo sapesse. Di lì a pochi giorni avrebbe cominciato a sbavare, rivelando la malattia, ma in quel momento cercava soltanto di leccarsi le labbra aride, ostacolato dalla museruola che gli imprigionava le fauci, e il suo respiro era simile a un grugnito. Il lupo giovane, poco più di un cucciolo, balzava via a ogni tentativo di avvicinamento dell'adulto, graffiando il pavimento di legno con gli artigli. Il cacciatore lo giudicava un animale codardo, ma in seguito Ingrey si sarebbe convinto che si comportava così perché percepiva il pericolo del contagio. Per il resto sembrava fin troppo docile, attento come un cane ben addestrato. Aveva una pelliccia fitta, scura e lucida, e limpidi occhi grigi; all'arrivo di Ingrey, gli si era avvicinato per annusarlo e guardarlo da sotto, con evidente adorazione. Al ragazzino era subito piaciuto molto; aveva una gran voglia di accarezzarlo. Il mago ordinò a Ingrey e a suo padre di spogliarsi a torso nudo e d'inginocchiarsi sul pavimento, l'uno di fronte all'altro, a pochi passi di distanza. Canticchiò alcune frasi nell'antica lingua del Dominio, pronunciandole con cura e controllandone l'esatta dizione su un foglio di carta spiegazzato che aveva estratto dalla cintura. Le parole sembravano galleggiare follemente sul limite della capacità di comprensione di Ingrey. A un cenno di Cumril, il cacciatore trascinò il lupo adulto tra le braccia di Lord Ingalef, che lo strinse con forza per non farsi graffiare. Nel fare questo, l'uomo aveva lasciato andare il guinzaglio del lupo giovane, che corse subito da Ingrey; questi iniziò ad accarezzarlo, mentre il cucciolo gli leccava la faccia. Le sue mani affondavano nella liscia peluria e godevano del caldo contatto. L'animale guaiva con entusiasmo e cercava di lavargli le orecchie; la sua lingua faceva il solletico a Ingrey, che rideva mentre cercava di placare quelle effusioni. Il mago mormorò qualche parola rivolto alla lama del suo coltello sacrificale, quindi lo consegnò a Lord Ingalef e si ritrasse svelto, per evitare che il lupo riuscisse ad azzannarlo nonostante la museruola. L'animale lottava per divincolarsi e Lord Ingalef doveva ricorrere a tutta la propria forza per tenerlo fermo; nei suoi continui scatti, il lupo finì per strofinare con forza la testa sul petto dell'uomo, e un'ultima violenta contorsione bastò a far scivolare via la museruola. Lord Ingalef allentò la presa e la bestia gli azzannò l'avambraccio sinistro, ringhiando furiosamente e dilaniando a fon-
do la carne. Con un'imprecazione l'uomo si riprese e reagì d'istinto; il coltello si avventò più volte contro il pelo grigio. Un fiotto di sangue inondò il pavimento. Il ringhio tacque, le zanne si aprirono e il grosso animale si afflosciò; dopo qualche sussulto, giacque immobile. Lord Ingalef si raddrizzò e spinse via la carcassa ansimando. Il coltello rimbalzò al suolo. «Oh», disse spalancando gli occhi. «Ha funzionato. Mi sento come... Ho una strana sensazione...» Cumril lo guardava preoccupato. Il cacciatore si chinò a legare una corda intorno al braccio del ferito, per fermare il sangue. «Mio signore, non dovreste...?» cominciò Cumril. Lord Ingalef scosse energicamente il capo e mosse la mano sana in un gesto che significava prosegui! «Ha funzionato! Vai avanti!» Il mago raccolse da un cuscino un secondo coltello sacrificale, anch'esso lucido come appena forgiato, e si avvicinò cantilenando altre parole arcane. Mise l'arma in mano a Ingrey e attese. Il ragazzo la impugnò con una smorfia e guardò negli occhi il lupo giovane. Io non voglio ucciderti. Sei troppo bello. Voglio tenerti. Le fauci del cucciolo si aprirono, rivelando i piccoli denti aguzzi, e Cumril ci soffiò dentro, ma l'animale si limitò a tirare fuori la lingua e a leccare Ingrey. Il naso umido sfiorò la mano che impugnava il coltello e il ragazzo sentì di avere gli occhi umidi; il lupetto si accovacciò tra le sue ginocchia, alzò la testa e guardò il suo carnefice con completa fiducia. Ingrey non se la sentiva di fargli male, d'infliggergli un tormento non necessario con colpi goffi e ripetuti. Con una mano gli tastò il collo, sfiorandogli i muscoli lisci in cerca del pulsare di un'arteria. Il salone era avvolto in un grigiore nebuloso. Il lupo non si mosse quando l'arma affilata gli si appoggiò al collo. Ingrey trattenne il fiato e poi colpì con tutta la propria forza; sentì la carne cedere, vide il sangue caldo schizzargli sulle mani e bagnare la pelliccia. Il corpo dell'animale si afflosciò tra le sue braccia. Un flusso nero gli sommerse la mente come un torrente di sangue. Vite di lupi, un'esistenza dopo l'altra, capanne e incendi, castelli e battaglie, cavalli e scuderie, acciaio e fuoco, caccia. Ancora episodi di caccia, inseguimenti e prede, uccisioni, ma sempre assieme ad altri uomini. Mai con un branco di lupi. Episodi che risalivano al passato e poi a un passato più remoto, quando ancora non esisteva neppure il fuoco, nelle immense foreste dove la neve brillava candida sotto la luna. Cose accadute moltissimi anni
prima, secoli, millenni... Gli occhi del giovane si rovesciarono all'indietro. Grida allarmate, la voce di suo padre: «Qualcosa è andato storto! Dannazione a te, Cumril, prendilo!» «Sta tremando come una foglia... Si è morso la lingua, mio signore...» Un balzo in avanti nello spazio e nel tempo: ora il suo lupo era legato... no, lui era legato... con cordoni di seta rossa che gli si arrotolavano al corpo come tentacoli inferociti. Il suo lupo li azzannò coi denti affilati, morse e strappò, ma le corde ricrescevano con rapidità spaventosa. Gli avvolsero la testa e strinsero dolorosamente. Voci sconosciute invasero il suo delirio. Voci irritanti. Il suo lupo fuggì. Il ricordo di quei sogni frenetici scivolò via come acqua. «Non può essere addormentato. I suoi occhi sono semiaperti. Mi sembrano lucidi.» «No, non svegliarlo! So io che cosa bisogna fare: quando sono così bisogna riportarli a letto con dolcezza, altrimenti c'è il rischio che diventino violenti, o qualcosa del genere.» «Io non ho nessuna intenzione di toccarlo, finché ha in mano quella spada!» «E allora che cos'altro vuoi fare?» «Fai un po' più di luce, donna. Oh, grazie ai Cinque Dei, questo che sta arrivando è uno dei suoi uomini.» Una pausa, poi: «Lord Ingrey? Lord Ingrey?» La luce delle candele raddoppiò, raddoppiò ancora. Ingrey sbatté le palpebre ansimando ed emerse dall'incoscienza. Aveva un mal di testa terrificante. Era in piedi. All'improvviso fu pienamente cosciente. Si trovava di nuovo nell'infermeria del Tempio, ammesso che la stanza sul retro della farmacia meritasse quel nome. Indossava la camicia da notte del Divino, mezza infilata dentro i pantaloni, ma aveva i piedi scalzi posati sul pavimento di legno. Nella mano destra stringeva la sua spada. Era attorniato da un siniscalco, una delle guardiane assegnate a Ijada e l'uomo che Gesca aveva messo di guardia per la notte. Be', non esattamente attorniato: i primi due stavano schiacciati contro il muro e lo guardavano con occhi spalancati dal terrore, mentre il terzo era presso la porta posteriore. «Ora sono...» Tacque. Deglutì e si umettò le labbra. «Ora sono sveglio.» Che cosa sta succedendo? Come sono arrivato qui? Evidentemente aveva camminato nel sonno. Sapeva che alcuni lo facevano, anche se a lui non era mai capitato. Ma non aveva semplicemente
vagabondato nel buio: si era in parte vestito, aveva preso la spada ed era uscito sulle scale in silenzio, non visto; giunto al pianterreno, aveva aperto la porta d'ingresso - che senza dubbio era stata chiusa, dunque aveva usato la chiave -, quindi aveva attraversato la piazza fino all'edificio della farmacia. Dove dorme Lady Ijada. Per i Cinque Dei, volevo assalirla nel sonno. La porta della camera da letto era chiusa... in quel momento. Inorridito, Ingrey guardò la spada. La lama era pulita e scintillante. Nessuna macchia di sangue. Non ancora. Il soldato di guardia, tenendo d'occhio la sua arma, venne accanto a lui e gli toccò la spalla sinistra. «Vi sentite bene, mio signore?» «Ho mal di testa», mugolò Ingrey. «La pozione medicinale della Devota mi ha fatto fare strani sogni. Sono stordito. Scusatemi se...» «Posso... ehm... accompagnarvi a letto, mio signore?» «Sì», disse Ingrey con gratitudine. «Sì, per favore.» Quelle parole, che usava di rado, gli uscirono un po' forzate. Ora stava tremando. E non solo per il freddo. Lasciò che l'armigero lo conducesse fuori, intorno all'edificio e attraverso la piazza buia e silenziosa. Quando furono nella casa del Divino, una serva insonnolita, che senza dubbio aveva continuato a dormire mentre lui era uscito, si destò e corse nell'atrio, allarmata dal loro ingresso. Ingrey le ripeté la scusa della pozione della Devota, che la sua espressione stordita rendeva abbastanza plausibile, e salì in camera. L'armigero lo aiutò ad andare a letto, gli rimboccò premurosamente le coperte, infine uscì in punta di piedi e chiuse la porta. Ingrey attese che i passi dell'uomo si allontanassero nella piazza prima di scivolare fuori delle coltri. Cercò a tentoni il suo acciarino, accese una candela e si sforzò di non imprecare quando il sego fuso gli gocciolò sulle mani tremanti. Seduto sul letto, attese di schiarirsi le idee, quindi si alzò ed esaminò la stanza. La serratura si poteva chiudere a chiave dall'interno e dall'esterno; ciò significava che, se avesse avuto un altro attacco di sonnambulismo, l'avrebbe aperta e sarebbe uscito con la massima facilità. Per impedire a se stesso di uscire poteva gettare fuori la chiave - dalla finestra, o da sotto la porta -, ma l'indomani sarebbe stato costretto a fornire improbabili spiegazioni o a raccontare astute bugie. E in quel momento si sentiva tutt'altro che astuto. La soluzione migliore, dopo i fatti di quella notte, sarebbe stata far rimanere l'armigero fuori della porta, di guardia; ma ormai l'aveva congedato. Alla fine ripose la spada e il coltello in una cassa-
panca contenente biancheria di ricambio e piazzò in precario equilibrio sopra il coperchio tutti gli oggetti potenzialmente rumorosi che riuscì a trovare, compresa la bacinella dell'acqua per i lavacri. Poi spense la candela, tornò a letto e si contorse per un po'; quindi tornò ad alzarsi per cercare nella sua borsa da sella un pezzo di corda. Se ne legò un capo a una caviglia e l'altro intorno a una gamba del letto. Infine tornò goffamente a infilarsi tra le coltri. Aveva male alla gola e la spalla che si era mezzo lussata spingendo il carro continuava a dolergli come un carbone ardente sotto la pelle. Si girò di fianco, poi sulla pancia; diede involontariamente uno strattone che gli fece spellare la caviglia e gli strappò un grugnito. Be', almeno la corda funzionava. Dovette rimettersi di nuovo supino e, nell'oscurità, guardò verso il soffitto. Gli sembrava di avere gli occhi pieni di sabbia. Meglio questo che quel dannato sogno. Erano mesi che non gli succedeva di sognare il lupo, anche se ora gli rimaneva nella memoria solo qualche immagine. Dunque aveva più di un motivo per temere l'arrivo del sonno. Come sono finito in questa situazione? Solo una settimana prima era un uomo felice, o quantomeno tranquillo, libero dalle preoccupazioni. Aveva una comoda camera nel palazzo di Lord Hetwar, un cameriere personale, abiti, armi e cavalli forniti gratuitamente dal suo datore di lavoro e una paga sufficiente a soddisfare ogni necessità. Meglio ancora, si era guadagnato una solida reputazione alle dipendenze del Lord Guardasigilli, che aveva fin troppi scribacchini e uomini d'azione, ma pochissimi assistenti ai quali affidare incarichi insoliti e delicati, da portare a termine con discrezione. Come emissario di Hetwar, Ingrey doveva viaggiare molto, a volte limitandosi a contattare personaggi importanti, altre riferendo a voce proposte, informazioni, persino velate minacce. Non si considerava particolarmente onesto e retto, forse perché aveva già perduto troppe cose per bearsi della stima propria e altrui. L'indifferenza gli andava bene quanto l'integrità, e talvolta era anche meglio per servire gli interessi di Hetwar. La sua maggiore ricompensa era poter soddisfare le sue curiosità. All'inferno, tre giorni prima era un uomo senza problemi. Quello di riportare alla capitale il corpo di Boleso e la donna che l'aveva ucciso gli era parso un incarico poco entusiasmante, ma ampiamente alla portata delle sue capacità di funzionario esperto e avveduto. Mai avrebbe immaginato di tornare alle prese con il lupo che giaceva dentro di lui, o qualcosa di peggio.
La corda gli morse nuovamente la caviglia. La sua mano destra si strinse come se impugnasse la spada. Che sia maledetta quella ragazza-leopardo! Se fosse rimasta ferma sotto Boleso come ogni sgualdrina capace di fare i propri interessi, pensando solo al braccialetto o al bel vestito con cui sarebbe stata indubbiamente ricompensata, quel terribile disastro non sarebbe accaduto. E ora Ingrey non si sarebbe trovato lì, con una fila di punti incrostati di sangue ricamata tra i capelli e metà dei muscoli del corpo che gli dolevano, legato al letto in attesa di un'alba grigia come il piombo. Domandandosi se fosse ancora sano di mente. 4 Il mattino seguente partirono da Reedmere più tardi di quanto Ingrey avrebbe desiderato, perché il Lord Divino insisté per officiare una cerimonia con altri cori quando fu il momento di caricare la bara di Boleso sul nuovo carro. Il veicolo, almeno, era decoroso: molto ben costruito, con drappi sobri per mascherare i colori vivaci e, per quanto possibile, l'odore di birra che lo impregnava. I sei cavalli aggiogati erano animali dal pelo fulvo, con i quarti posteriori massicci, gli zoccoli larghi, le criniere ornate di nastri neri e arancione e le code intrecciate. Le campanelle dei loro lucidi finimenti erano state riempite di stoffa, dettaglio che Ingrey, al quale doleva ancora la testa per il colpo del giorno prima, non mancò di apprezzare. In confronto al carico che dovevano trainare di solito, rifletté, quelle tre pariglie avrebbero portato il carro di Boleso attraverso acquitrini e alture impervie come fosse un giocattolo. Il tenente Gesca sbatté le palpebre nel vedere da vicino la faccia di Ingrey quando lo aiutò a montare in sella, ma intercettò il suo sguardo fulminante e si tenne in bocca ogni commento. Ingrey si era rasato. Gli avevano riconsegnato la sua uniforme di pelle asciutta, ammorbidita e lucidata. Ma non aveva potuto fare nulla per gli occhi cerchiati, iniettati di sangue, né per il colorito grigiastro del viso gonfio. Strinse i denti, si sistemò in arcioni, con tutto il corpo dolorante, e sopportò la lentezza della processione fino alla porta della città, in mezzo al rumore dei canti e dei campanacci e alle zaffate d'incenso con cui Reedmere giudicava doveroso accomiatarsi dalla nobile salma. Ingrey attese che la città fosse fuori vista alle loro spalle, quindi fece cenno al nuovo conducente di mettere gli animali a un trotto più veloce. I cavalli sembravano gli unici membri del convoglio a essere di buonumore, energici e ben riposati, con l'aria di considerare il viaggio una
sana sgroppata. Lady Ijada era impeccabile come il mattino precedente, con un completo da equitazione ancora più elegante, grigio e azzurro, dagli orli ricamati in argento. Era evidente che lei aveva dormito tutta la notte. Ingrey oscillò tra il risentimento e il sollievo, mentre il suo mal di testa andava placandosi. Dopo un'ora, grazie alla mattinata calda e soleggiata, cominciò a sentirsi meglio. Quasi umano. Quel pensiero sarcastico gli strappò una smorfia. Quindi Ingrey cavalcò avanti e indietro per controllare la colonna in marcia. La nuova sorvegliante di Ijada, un'inserviente del Tempio di mezza età assoldata a Reedmere, viaggiava sul carro. Era piuttosto circospetta con la giovane donna a lei affidata, più ostile della rude moglie del carrettiere di Boar's Head, la quale aveva conosciuto Boleso. E sembrava ancora più prudente e sospettosa verso Ingrey. Lui si chiese se la donna avesse riferito a Ijada del suo episodio di sonnambulismo. Anche i soldati di Boleso apparivano nervosi, mentre si avvicinavano a Easthome e alla punizione, qualunque fosse, che avrebbe potuto attenderli per non essere riusciti a tenere in vita il loro principe nel suo lontano esilio. Alcuni di loro guardavano con aria fosca e risentita la vittima-assassina di Boleso, tanto che Ingrey risolse di proibire loro di bere e di avvicinare la prigioniera finché egli non avesse potuto consegnarli tutti quanti, compreso il loro defunto principe, a qualcun altro. La sera prima aveva mandato avanti un messo del Tempio, affinché informasse il Guardasigilli Hetwar sull'itinerario previsto del convoglio. Se Hetwar avesse delegato a lui tutte le decisioni sulla faccenda, si disse Ingrey, Boleso sarebbe stato trasferito nella tomba a tempo di record. Pur senza mai passare al galoppo, viaggiavano a un'andatura stabile e sostenuta in un territorio che si faceva più accogliente, con strade più larghe e in condizioni migliori. Strette strisce di pascoli chiuse tra foreste selvagge si alternavano a collinette verdeggianti circondate da vasti campi coltivati. L'occhio poteva ora scorgere più di una fattoria alla volta, verso l'orizzonte. Iniziarono a incrociare altri viaggiatori, non solo carri da contadini, ma anche cavalieri ben vestiti e piccoli commercianti con muli carichi di mercanzia, che si affrettavano a scostarsi e a cedere il passo. L'unica eccezione fu un branco di grossi maiali neri, incontrato in un bosco di querce. L'allevatore e il suo garzone, che non si aspettavano certo di trovare una processione reale sul proprio percorso, persero il controllo delle bestie, e i soldati di Boleso, a metà tra il divertimento e l'irritazione, dovettero partecipare ai loro sforzi per sgombrare la strada, gridando, imprecando
e usando le spade per allontanare i maiali a piattonate. Ingrey studiò le proprie reazioni; quelle prede grufolanti non sembravano attirarlo o eccitarlo in modo sospetto, il che era tranquillizzante. In sella al suo cavallo, assisté in cupo silenzio finché i suini non furono dirottati nel folto sottobosco. Anche Lady Ijada, notò, attendeva placidamente controllando bene la propria cavalcatura, sebbene avesse una strana espressione pensosa. Quel giorno Ingrey non cercò di parlare con lei durante il viaggio. Aveva ordinato a un paio delle sue guardie di non allontanarsi troppo dalla fanciulla, finché era in sella, e la sorvegliante si occupò doverosamente di lei durante le soste per far riposare i cavalli. Ma lo sguardo di Ingrey tornava di continuo sulla giovane donna. E fin troppo spesso incrociò quello di lei che lo fissava, ma non accigliato o intimorito, anzi piuttosto preoccupato. Come se fosse lei responsabile di lui. Ciò gli diede la fastidiosa impressione che loro due fossero legati insieme da un guinzaglio, come due cani dello stesso padrone. Lo sforzo per evitare di guardarla e di parlarle sembrava costargli energia e attenzione, e finì per lasciarlo esausto. Al termine di una giornata lunga e faticosa, giunsero nella libera città reale di Red Dike. Lo speciale status che la città vantava non la rendeva soggetta né al conte locale, né al Lord Divino del Tempio; a governarla era un consiglio cittadino sottoposto alla legge del re. Purtroppo ciò non significava che le cerimonie fossero meno lunghe e ampollose che altrove, e per qualche tempo Ingrey fu intrappolato tra i maggiorenti del luogo mentre facevano trasferire la bara di Boleso nel tempio - costruito in pietra, in stile darthacano, coi cinque lati arrotondati e col tetto a cupola - per la notte. Non essendo una città di piccole dimensioni, tuttavia, Red Dike vantava ben tre locande, e il mattino Ingrey aveva pensato bene di ordinare ai suoi esploratori di prenotare alcune camere. La locanda più centrale si rivelò la più decente. Ingrey scortò personalmente Lady Ijada e la sua serva al primo piano, dove c'era la camera da letto con annesso un salotto privato che il suo messo aveva fatto riservare a lui. La ispezionò rapidamente; le finestre che si aprivano sulla strada erano strette e non potevano essere raggiunte facilmente dall'esterno. La sbarra del catenaccio era in solida quercia. Bene. Estrasse da una tasca le chiavi della stanza e le consegnò a Lady Ijada. La sorvegliante lo scrutò aggrottando la fronte, incuriosita, ma non osò fare domande. «Tenete la porta ben chiusa tutta la notte», disse Ingrey a Lady Ijada.
«Col catenaccio.» Lei inarcò un poco le sopracciglia e girò lo sguardo nella stanza tranquilla. «C'è qualcosa di particolare da temere, qui?» Niente, a parte ciò che portiamo con noi. «Io ho camminato nel sonno, ieri notte», confessò Ingrey vincendo la riluttanza. «Ero arrivato fuori della vostra porta, prima che mi svegliassero.» Ijada annuì lentamente e gli rivolse un altro di quegli sguardi. Lui si sforzò di non stringere i denti e disse: «Troverò una camera per me in una delle altre locande. So che mi avete dato la vostra parola, ma voglio che rimaniate chiusa qui, fuori vista. Se volete mangiare in camera, chiederò che vi portino la cena». La fanciulla disse solo: «Grazie, Lord Ingrey». Lui la salutò con un cenno del capo e uscì. Scese al pianterreno e si fermò nella cucina a dare istruzioni per la cena della prigioniera. Nel salone di mescita trovò uno dei suoi cavalieri che beveva birra; c'erano anche due soldati di Boleso seduti al bancone. Ingrey si rivolse a questi ultimi: «Voi siete alloggiati qui?» «Ci hanno sistemato dappertutto, mio signore», rispose uno dei due. «Abbiamo riempito le altre locande.» «Meglio qui che arrotolati in una coperta sul pavimento del tempio», commentò il cavaliere di Ingrey. «Oh, sì», disse il primo, e bevve un lungo sorso. Il suo corpulente commilitone grugnì quello che poteva essere un assenso. Un rumore improvviso e un gridolino indussero Ingrey a scostare la tenda dell'ingresso della locanda, che dava sulla strada. Un carro scoperto tirato da due cavalli sudati si era fermato proprio lì davanti, nella semioscurità, dopo che una delle ruote anteriori aveva abbandonato l'assale per andarsene a rotolare tra i sassi, lasciando il veicolo pericolosamente inclinato. La sua lanterna, fissata a un palo, faceva oscillare selvaggiamente le ombre. La voce di una donna disse bruscamente: «Non importa, cara. La riparerà Bernan. È per questo che...» «Che mi avete fatto portare la cassetta degli utensili, sì», finì stancamente la frase una voce maschile, dal retro del carro. «Ci penso io. Voi andate pure.» Il servo saltò giù e andò a sistemare una scaletta presso la parte anteriore del veicolo, quindi, assieme a una serva, aiutò a scendere una donna bassa e grassoccia, avvolta in un ampio mantello da viaggio. Ingrey tornò dentro, pensando che difficilmente dei viaggiatori arrivati
così tardi avrebbero trovato un alloggio a Red Dike, quella sera. Il soldato corpulento vuotò il proprio boccale, ruttò e chiese al locandiere dove fosse l'orinatoio. Fu indirizzato nel cortile esterno e girò intorno a Ingrey per andare alla porta. La viaggiatrice grassoccia era appena entrata, mentre alle sue spalle la serva si stava chinando a raccogliere qualcosa, borbottando e bloccando l'uscita. Il voluminoso mantello da viaggio della padrona era sporco e malconcio: doveva aver visto giorni migliori. Il soldato corpulento imprecò nel vedersi la strada sbarrata e grugnì: «Togliti dai piedi, grassa scrofa». Un: «Ehi!» d'indignazione uscì dall'ombra del cappuccio, che la donna gettò indietro per alzare lo sguardo verso l'individuo. Non era né giovane né vecchia, ma aveva un aspetto matronale; i suoi capelli ricci color sabbia sfuggivano alle trecce creando una feroce aureola intorno al volto, arrossato dall'ira, o dal freddo della sera, o da entrambi. Ingrey, che assisteva alla scena da dietro le spalle dell'uomo, si fece attento. I soldati di Boleso non erano tipi che la gente del popolo potesse sfidare impunemente. Tuttavia quella donna poco prudente sembrava non badare affatto alla spada e alla cotta di maglia dell'armigero, e neppure al suo fisico colossale o al fatto che era mezzo ubriaco. La donna sganciò la fibbia sotto il mento e lasciò cadere il mantello; indossava la tunica verde della Madre. Non era grassa: era incinta, senza dubbio quasi al termine della gravidanza. Se costei era una levatrice dell'Ordine della Madre, presto avrebbe avuto bisogno dei propri stessi servigi, pensò divertito Ingrey. La donna alzò una mano sopra il grembo rigonfio, si toccò qualcosa sulla spalla sinistra e si schiarì rumorosamente la gola. «Le vedi queste, ragazzo? O sei troppo ubriaco per metterle a fuoco?» «Cos'è che dovrei vedere?» replicò il soldato, per nulla impressionato dal trovarsi davanti una levatrice e ancor meno dal fatto che fosse gravida. Lei seguì lo sguardo dell'uomo fino alla stoffa verde sulla propria spalla e contrasse la bocca in una smorfia seccata. «Oh, dannazione. Hergi...» Si voltò verso la serva, ancora china sul pavimento. «Mi sono cadute ancora. Spero di non averle perse per la strada...» «Lei ho qui io, mia signora», disse la serva indaffarata. «Ecco, ve le riattacco. Un'altra volta.» Si rialzò; aveva raccolto non una, bensì due spille da cui pendevano le trecce della Scuola del Tempio e, stringendosi la lingua tra i denti, le ap-
puntò sulla tunica da cui si erano staccate. La prima era quella verde scuro, giallo paglierino e oro delle Divine curatrici dell'Ordine della Madre; la seconda era quella bianca, crema e argento delle Divine maghe dell'Ordine del Bastardo. La prima spilla indusse il soldato di Boleso, se non a un maggiore rispetto, almeno a moderare la propria sprezzante indifferenza. Ma fu la vista della seconda a fargli defluire il sangue dal viso. Le labbra di Ingrey si curvarono nel primo sorriso della giornata. Diede un colpetto su una spalla dell'uomo e gli disse: «Meglio che tu chieda scusa alla signora Erudita. E che ti tolga di mezzo». Il militare si accigliò. «Questi non sono affari vostri!» Evidentemente il sangue gli era defluito anche dal cervello. Chi non vuole ammettere un errore è destinato a ripeterlo. Prudentemente Ingrey indietreggiò di qualche passo nello stretto spazio davanti al bancone, anche perché così avrebbe avuto una visuale migliore di ciò che stava par succedere. «Non ho tempo da sprecare con te», disse la maga. «Se insisti a comportarti come in un porcile, un porco sarai, finché non avrai imparato le buone maniere.» E mosse una mano in direzione dell'uomo. Ingrey represse l'impulso di chinarsi; non fu affatto sorpreso quando vide il soldato cadere a quattro zampe e la sua imprecazione trasformarsi in un grugnito. La maga sbuffò, raccolse le proprie cose e gli girò attorno. La sua serva scosse il capo, prese una borsa di cuoio e il mantello della padrona le tenne dietro. Ingrey rivolse alla maga un cortese inchino, ignorando i patetici sbuffi dell'individuo che annusava il pavimento dietro di lui. Gli altri due uomini, con aria preoccupata, si erano affrettati a lasciare più spazio libero davanti al bancone. «Scusate se vi disturbo, Erudita», disse educatamente Ingrey. «Durerà a lungo la vostra salutare lezione? Ve lo domando solo perché domani quell'uomo dovrà essere in grado di stare in sella.» La donna si voltò a guardarlo, con le ciocche di capelli biondi che fluttuavano in ogni direzione. «È uno dei vostri?» «Non proprio. Tuttavia, sebbene io non sia responsabile del suo comportamento, sono responsabile del suo arrivo a destinazione.» «Oh, be', se è così lo rimetterò in piedi prima di andarmene. In ogni caso l'illusione si dissolverà in poche ore. Nel frattempo scoraggerà altri dall'ubriacarsi quanto lui. Ma adesso ho molta fretta. Questa sera è arrivato un importante convoglio qui a Red Dike, con la salma del principe Boleso, di cui si dice che sia stato assassinato. Voi l'avete visto? Sto cercando il suo
comandante.» Ingrey s'inchinò di nuovo. «L'avete trovato. Ingrey kin Wolfcliff, al servizio vostro e della vostra Dea, Erudita.» Lei lo guardò per un lungo, inquietante momento. «Dunque siete voi», disse infine. «Bene. Quella giovane donna, Ijada dy Castos... Sapete che cosa ne è stato di lei?» «È in mia custodia.» «Ah!» Lo sguardo della maga si accese. «Dove?» «Il suo alloggio è in questa locanda. Al piano di sopra.» La serva sospirò di sollievo. La maga le indirizzò uno sguardo allegro, trionfante, e mormorò: «La terza volta: significa che l'incantesimo funziona. Te l'avevo detto, no?» «Questa città ha solo tre locande», puntualizzò la serva. Ingrey domandò speranzoso: «Forse voi siete stata mandata dal Tempio per prenderla nelle vostre mani?» E toglierla dalle mie? «Non... esattamente, no. Ma devo vederla.» Ingrey esitò. «Che cos'è lei per voi?» E voi per lei? «Una vecchia amica, se si ricorda di me. Io sono l'Erudita Hallana. Ho saputo della situazione in cui si trova quando al mio seminario, a Suttleaf, è giunta la notizia della morte del principe. Cioè dall'assassinio del principe, e del fatto che fosse proprio lei l'accusata. Così ho immaginato che fosse in una brutta situazione.» Continuava a guardare Ingrey in modo un po' sconcertante. «Eravamo sicuri che il convoglio sarebbe passato da questa città, ma temevo che avrei dovuto inseguirlo ancora oltre.» Il seminario dell'Ordine della Madre a Suttleaf, una cittadina venticinque miglia a sud di Red Dike, era ben conosciuto nella regione, poiché addestrava curatori e altri specialisti della guarigione... Probabilmente la Devota che aveva medicato la testa di Ingrey la sera precedente aveva studiato là. Ingrey avrebbe potuto setacciare le tre contee circostanti alla ricerca di un mago del Tempio senza nemmeno pensare di cercarlo a Suttleaf. Invece era stata quella donna a trovare lui... Possibile che avesse percepito il suo lupo? Era stato un mago del Tempio a gettarglielo dentro, e un Divino del Tempio gli aveva insegnato a tenerlo a freno. Possibile che questa donna fosse stata mandata - da chi o da che cosa, Ingrey non osava pensarlo - per aiutare Ijada a tenere a freno il suo leopardo? La presenza per ora incomprensibile della maga poteva non essere una coincidenza. Quel pensiero gli fece rizzare i peli dietro il collo; tra le varie ipotesi, avrebbe preferito credere che fosse un caso fortuito.
Ingrey trasse un lungo respiro e disse: «Credo che Lady Ijada abbia pochi amici, al momento. Sarà felice di vedervi. Posso scortarvi di sopra, Erudita?» La donna gli concesse un breve cenno d'assenso. «Sì, vi prego, Lord Ingrey.» La precedette nel corridoio e le indicò le scale, sulla sinistra. Dietro di loro, il soldato ridotto a suino era ancora a quattro zampe sul pavimento e muoveva qua e là il capo, grugnendo. «Mio signore, che cosa dobbiamo fare di lui?» domandò l'altro militare, innervosito. Ingrey si voltò un istante a osservare la scena. «Sorveglialo. Bada che non morda nessuno, finché la sua piccola lezione non sarà finita.» L'uomo spostò lo sguardo sulla maga che si allontanava e deglutì. «Sì, mio signore. Ehm... nient'altro?» «Potresti dargli un po' di pastone di crusca e ghiande.» La maga, prima di salire seguita dalla serva, gettò un'occhiata dietro di sé, con una mano sulla ringhiera, e la sua bocca ebbe un fremito. Poi si avviò su per le scale. Ingrey le tenne dietro. Con sua soddisfazione, trovò ben chiusa la porta che dava accesso al salotto di Lady Ijada. Bussò. «Chi è?» domandò la voce di lei. «Ingrey.» Una breve pausa. «Siete sveglio?» Lui fece una risatina. «Sì. C'è una visita per voi.» Dopo qualche istante di silenzio, si udirono il clinc della chiave nella serratura e lo scorrere del catenaccio che veniva tolto. La sorvegliante aprì la porta e sbatté le palpebre, stupita, quando la maga e la sua serva entrarono senza esitare. Ingrey le seguì. Lady Ijada era dall'altra parte della stanza e per un poco fissò la visitatrice senza parlare. «Ijada?» disse la maga, anche lei un po' sorpresa. «Parola mia, bambina, quanto sei cresciuta!» Poi il viso di Ijada s'illuminò di una gioia così improvvisa che Ingrey dovette sorridere, «Hallana!» esclamò e corse avanti. Le due si abbracciarono strillando di gioia. Alla fine Lady Ijada si scostò, con le mani sulle spalle della donna più bassa. «Come sei arrivata qui?» «La notizia delle tue disavventure è giunta al seminario della Madre, a
Suttleaf. Io ora insegno là, sai? E poi ci sono stati i sogni, naturalmente.» «Come mai sei finita laggiù? Devi raccontarmi tutto ciò che è successo da... oh, Lord Ingrey.» Ijada si voltò verso di lui, con occhi brillanti per l'eccitazione. «Questa è la mia amica di cui vi ho parlato. Era missionaria curatrice al forte di mio padre, nelle marche occidentali, oltre che studiosa dell'Ordine del Bastardo. Perseguiva entrambe le vocazioni: apprendere la saggezza popolare della gente delle paludi dalle loro canzoni e fare il possibile per curare le loro malattie, allo scopo di inviarli al forte e agli insegnamenti quintariani del nostro Divino. Quand'era più giovane, naturalmente. E io... io ero la più invadente e curiosa delle bambine. Hallana, non ho mai capito come facevi a sopportarmi tutto il giorno, ma ti adoravo per questo.» «Be', a parte il fatto che non ero immune dal desiderio di essere adorata... cosa che m'induceva, e m'induce tuttora, a riflettere sugli dei... tu sapevi renderti piuttosto utile. Non avevi paura delle paludi, dei boschi, degli animali e della gente degli acquitrini. E non t'importava di sporcarti le mani, riempiendoti di fango e di graffi.» Ijada rise. «Ogni tanto ripenso ancora a quando tu e quel dannato presuntuoso del Divino, l'Erudito Oswin, discutevate di teologia a mensa, dopo pranzo... A volte lui finiva per inferocirsi al punto che si alzava e se ne andava a lunghi passi. Mi sarei preoccupata per la sua digestione, se non fossi stata così giovane e distratta dalle mie cose. Poveretto, così magro e irritabile...» La maga sorrise. «Arrabbiarsi un po' gli faceva bene. Oswin era il tipico servo del Padre, sempre preoccupato di capire esattamente le regole per adattarvisi. O di adattare le regole in modo che lui potesse adattarvisi meglio. Era quando glielo facevo notare che s'irritava.» «Oh, ma guardati... Su, ora devi metterti a sedere...» Lady Ijada e la serva Hergi unirono le loro forze per trovare la sedia migliore, imbottirla di cuscini e condurvi l'Erudita Hallana. Lei sedette, grata, con un sospiro rumoroso, e si massaggiò con cautela l'addome gonfio. La serva si affrettò ad avvicinare uno sgabello per farle posare le gambe. Lady Ijada girò verso l'amica una delle sedie del tavolo e Ingrey andò a sedersi davanti alla finestra. La sorvegliante si tenne in disparte, cauta e rispettosa. «Le due discipline che avete studiato sono una combinazione molto insolita, Erudita», disse Ingrey accennando col capo alle spille appuntate sulla spalla della donna, che penzolavano e stavano per staccarsi di nuovo. «Oh, sì. È accaduto per caso, o almeno credo che fosse un caso.» Halla-
na scrollò le spalle e fece cadere le spille; la sua serva sospirò e le rimise a posto, senza commenti. «Avevo iniziato come curatrice, seguendo le orme di mia madre e di mia nonna. Il mio apprendistato era quasi finito e avevo cominciato a lavorare all'ospedale del Tempio di Helmharbor. Avevo ricevuto l'incarico di occuparmi di un mago morente.» Fece una pausa e lanciò uno sguardo scrutatore a Ingrey. «Voi che cosa sapete di come si diventa maghi del Tempio, Lord Ingrey? O maghi illegali?» Lui inarcò le sopracciglia e rispose: «Una persona viene posseduta da un demone del disordine che in qualche modo è sfuggito alla sorveglianza del Bastardo ed è entrato nel mondo materiale. Il mago... o la maga», aggiunse in fretta, «lo accoglie nella propria anima e lo accudisce. In cambio, il demone cede i suoi poteri all'ospite. L'acquisizione di un demone fa di una persona un mago più di quanto l'acquisto di un cavallo ne farebbe un cavaliere, o così mi è stato insegnato». «Esatto.» Hallana confermò con un cenno del capo. «Questo ovviamente non basta a farne un buon cavaliere. L'arte va imparata. Be', ciò che non molti sanno è che talvolta i maghi lasciano in eredità il proprio demone all'Ordine, per passarlo alle nuove generazioni con tutto ciò che esso ha imparato. Questo perché se il mago, o la maga, non riconsegna il proprio demone agli dei, esso schizza via sul più vicino essere vivente capace di sostentarlo nel mondo materiale. Non sorridete, è già successo. Ma se l'operazione è condotta nel modo giusto, un demone addestrato può essere introdotto nel successore prescelto, senza fargli a pezzi l'anima nel procedimento.» Ijada si era piegata in avanti ad ascoltare, affascinata, con le mani strette in grembo. «Sai, non ho mai pensato di chiederti come fossi diventata ciò che eri. Lo davo per scontato.» «Avevi dieci anni. A quell'età tutte le cose del mondo sono ugualmente misteriose.» Hallana si spostò sulla sedia, non senza difficoltà, evidentemente in cerca di una posizione più comoda. «L'Ordine del Bastardo di Helmharbor aveva addestrato un Divino, un giovane molto studioso, per ricevere il demone del maestro. Tutto sembrava andare secondo il programma. Il vecchio mago... parola mia, quanto era malridotto quel poveretto... ha esalato l'ultimo respiro abbastanza serenamente, tutto considerato. Il suo successore gli teneva la mano e pregava. E invece quello stupido demone è balzato dritto dentro di me. Nessuno se l'aspettava, meno di tutti l'irritatissimo giovane Divino. Era livido. Io ero disperata. Come avrei potuto praticare l'arte della curatrice, mentre ero posseduta da un demone del
disordine? Per un po' di tempo le ho provate tutte per liberarmene... persino un viaggio per consultare un santo di cui si diceva che sapesse esercitare i poteri del Bastardo sopra i Suoi elementali dispersi.» «A Darthaca?» domandò Ingrey. La maga inarcò un sopracciglio. «Come lo sapete?» «Ho soltanto indovinato.» Hallana espresse la propria opinione su quel soltanto con una smorfia eloquente. «Be', in ogni modo il santo e io abbiamo celebrato il rito. Ma il dio non ha voluto riprendersi il Suo demone!» «Darthaca», mormorò cupo Ingrey. «Penso che fosse lo stesso individuo che anch'io ho consultato, una volta. Decisamente inutile.» «Davvero?» Di nuovo lei lo scrutò, incuriosita. «Be', visto che mi trovavo a cavalcare quel demone, era necessario che imparassi il modo migliore, se non volevo che fosse lui a cavalcare me. Perciò ho iniziato daccapo l'apprendistato al quinto dio. Quando ho deciso di trasferirmi nella zona di confine ero in un periodo difficile, volevo ritirarmi a una vita semplice per qualche tempo e cercare di nuovo un senso per la vocazione che avevo perduto. Ah, Ijada, mi è dispiaciuto molto, più tardi, per la morte di tuo padre. Era un uomo nobile in tutti i sensi.» Lady Ijada chinò il capo e un'ombra attraversò il suo viso. «C'era un motivo se il nostro forte aveva mura robuste. I clan erano litigiosi e stupidi, e lui è stato così poco prudente da uscire a cavallo per cercare di farli ragionare quando gli animi erano troppo accesi... Io avevo visto solo il lato migliore della gente delle paludi, la loro gentilezza. Gli uomini sono uomini dappertutto.» «Che cosa avete fatto tu e la signora tua madre, dopo la morte di tuo padre?» «Lei è tornata dai suoi parenti... dai miei parenti, nel nord del Dominio. Un anno dopo si è risposata... con un altro uomo del Tempio, ma non un soldato. Suo fratello la prendeva in giro per questo. Lei non lo amava quanto aveva amato mio padre. Tuttavia il mio patrigno le voleva bene e avrebbero potuto essere felici insieme. Invece lei... lei è morta.» Ijada tacque, gettò uno sguardo alla pancia dell'Erudita Hallana e si mordicchiò un labbro. «Io sono anche una curatrice», le ricordò l'amica. «È morta di parto?» «Quattro giorni dopo. Le è venuta la febbre.» La sorvegliante, che stava ascoltando con fin troppo interesse, si segnò, mossa a simpatia. Poi colse un'occhiata di Ingrey e tornò ad assumere un'a-
ria indifferente. «Mmh», riprese Hallana. «Mi chiedo se... no, non importa. E il piccolo...» «Il mio fratellastro? È sopravvissuto. Il mio patrigno lo amava molto. È stato per lui che si è risposato molto presto.» Era la prima volta che Ingrey veniva a sapere che Ijada aveva ancora qualche parente vivo. Non mi è venuto in mente di domandarglielo. «E così ti sei ritrovata a vivere con... persone che non avresti mai pensato», mormorò l'Erudita Hallana. «E viceversa. Stavi bene con quella nuova famiglia?» Ijada scrollò le spalle. «Non sono persone malvagie. La mia matrigna è buona col mio fratellastro.» «E questa matrigna è... di quanti anni più anziana di te?» Un sorriso amaro piegò la bocca di Ijada. «Tre.» Hallana sbuffò. «Così, quando per te è venuta l'occasione di lasciare quella casa, lei ti ha detto addio senza troppo dispiacere.» «Be', non poteva fare diversamente. Del resto è stata la moglie di mio zio, Lady Badgerbank, a trovarmi un posto presso la principessa Fara. Pensava che la famiglia del mio patrigno fosse di rango troppo basso e che io dovessi lasciarla prima di abituarmi a quel genere di vita poco raffinato.» Stavolta lo sbuffo di Hallana fu più caustico. Pur essendo una Devota Erudita, ricordò Ingrey, non si era presentata come kin qualcosa. «Ma Hallana, curatrice o no, non capisco come tu possa sentirti sicura portando un demone e un bambino insieme», disse Ijada. «Credevo che i demoni fossero terribilmente pericolosi durante la gravidanza.» «Lo sono.» L'Erudita sorrise. «Il disordine fluisce dai demoni per loro stessa natura. È la fonte del loro potere sulla materia. La gestazione di un bambino, nella quale la materia cresce a costituire un'anima del tutto nuova, è la più complessa forma di ordine conosciuta, a parte gli dei. Considerato tutto ciò che può andare storto in questo procedimento anche senza un demone, è fondamentale tenere separate le due cose. E difficile. La difficoltà è il motivo per cui certi Divini cercano di dissuadere le maghe dal diventare madri, o le donne dal cercare poteri magici prima di essere anziane. Be', alcuni di essi sono degli sciocchi troppo sicuri di sé, ma questo è un altro discorso. Le ragioni contrarie hanno una loro validità, in effetti, ma io non vedo perché dovrei fermare la mia vita per le teorie di altri. I rischi che corro non sono maggiori né differenti da quelli di ogni altra donna, se le mie capacità li tengono sotto controllo. Esiste il pericolo che il
mio demone passi nel bambino approfittando di una mia perdita di controllo, durante il parto. Ma solitamente un infante è già abbastanza demoniaco di suo. Il segreto per tenerlo al sicuro sta nel... come potrei dire, condividere il disordine in eccesso. Liberando in continuazione piccole quantità di caos, io mantengo il mio demone passivo e il mio bambino al sicuro.» Un dolce sorriso materno le illuminò il viso. «La cosa, ahimè, sta mettendo un po' in difficoltà i componenti della mia famiglia, in questi mesi. Al confine del seminario ho un piccolo rifugio, dove mi sono trasferita.» «Oh, non soffri di solitudine?» «Per nulla. Il mio caro marito porta gli altri nostri due figli a farmi visita ogni giorno. E alcune sere viene senza i bambini. Inoltre mi sto mettendo in pari coi miei studi e con le mie letture... e ciò rende il mio isolamento molto gradevole. Sarei persino tentata di ripetere l'esperienza, ma immagino che avere una dozzina di figli sarebbe un errore, e comunque credo che mio marito direbbe basta assai prima.» La serva Hergi, che stava ferma e zitta accanto alla padrona, si lasciò sfuggire una risatina assai poco servile. «Sapete, la cosa non è molto diversa dall'autodisciplina mentale che ogni mago del Tempio deve curare. Utilizzare solo il disordine senza cercare d'invertire il flusso della sua natura, ma rivolgendolo a una buona causa... Ci vogliono calma e attenzione, non bisogna mai cedere alla tentazione di prendere scorciatoie. È stato questo a salvare la mia vocazione... quando un brillante logico mi ha fatto notare che la chirurgia distrugge per guarire. E io ho compreso come usare correttamente i poteri che mi avevano spinto nella direzione che il mio cuore anelava. Ne ero talmente entusiasta che l'ho sposato.» Ijada rise. «Sono così felice per te! Meriti tutto ciò che c'è di buono.» «Ah, be', ciò che meritiamo lo sa solo il Padre, nell'equilibrio della Sua giustizia.» L'espressione della maga tornò seria. «Ma ora dimmi, mia cara, che cos'è successo in quel castello?» 5 La risata di Ijada si spense bruscamente. Ingrey si alzò senza fare rumore e mandò la sorvegliante ad avvertire il locandiere che facesse portare la cena in camera. Questo anche per fare in modo che la donna non rimanesse ad ascoltare discorsi che non dovevano interessarle. Lei parve delusa, ma non osò disobbedire.
Poi Ingrey tornò a sedersi in silenzio, per non disturbare il resoconto di Lady Ijada all'amica che, ormai gli era chiaro, si trovava lì per motivi più sottili del semplice affetto. Prestò attenzione a eventuali contraddizioni, ma quello che Ijada disse all'Erudita Hallana fu ciò che aveva riferito a lui, anche se stavolta il resoconto fu più ordinato e privo di omissioni. La giovane parlò più diffusamente delle sue soffocanti paure; l'espressione di Hallana si fece intenta, poi rigida come la pietra nel sentirla parlare dei sogni del leopardo. La fanciulla proseguì fino alla disavventura del giorno prima durante il guado del torrente, quindi esitò e guardò Ingrey. «Credo che il seguito possa riferirlo meglio Lord Ingrey.» Seduto davanti alla finestra, lui esitò, imbarazzato. Per un istante gli parve che la nebbia rossa tornasse e le sue mani si contrassero sui braccioli. Era sgradevolmente consapevole di avere abbassato la guardia, nell'ingiustificata convinzione che la maga potesse proteggere se stessa e Ijada. Ma le maghe non erano immuni alle lame d'acciaio, se colte da vicino e di sorpresa. Lui era da solo con le due donne ed era armato. E ora i suoi segreti più imbarazzanti venivano svelati... Mormorò: «Ho cercato di annegarla. Per tre volte ho tentato di ucciderla, ed è una cosa che non desideravo affatto. Lei pensa che sia qualche incantesimo, o una maledizione». La maga si mordicchiò un labbro pensierosa e fece un lungo sospiro. Poi si appoggiò all'indietro, chiuse gli occhi e il suo viso rimase immobile. Quando riaprì gli occhi, la sua espressione era enigmatica. «Nessun mago ha posto incantesimi su di voi. Non avete nessun legame esterno... nessuno spirito emana da voi o verso di voi. Non ci sono elementali del quinto dio dentro la vostra anima. Però c'è qualcos'altro. Sembra molto oscuro.» Lui distolse lo sguardo. «Lo so. È il mio lupo.» «Se quello è un lupo, io sono la regina di Darthaca.» «È sempre stato un lupo strano. Ed è legato.» «Uh. Posso toccarvi?» «Non sono certo che io... che sia prudente per voi.» Le sopracciglia di Hallana s'inarcarono e Ingrey, sporco e non rasato, si rese conto di avere la faccia di un brigante di strada. «Su questo non voglio discutere», replicò la maga. «Ijada, tu che cosa vedi in lui?» «Se si tratta di vedere, non vedo nulla», rispose la ragazza, a disagio. «È come se il mio leopardo sentisse un odore e io lo... subodorassi? Sono sensazioni non familiari, che mi vengono come trasmesse in un'altra forma.
C'è una cosa-lupo scura, capisci... almeno odora di scuro, come foglie marce e ceneri di fuoco spente e ombre della foresta... e c'è una terza cosa. Sussurra intorno a lui come un rumore. Ha un sentore strano. Acido.» Hallana girò la testa da una parte e dall'altra. «Io vedo la sua anima con gli occhi della mia. Vedo la cosa scura. Non vedo e non sento la terza cosa. Però non appartiene al Bastardo, ne sono certa; non è una cosa venuta dal mondo spirituale governato dagli dei. Tuttavia... l'anima di lui ha strane circonvoluzioni. Ma un vetro tanto trasparente che l'occhio non riesce a distinguerlo può essere toccato con le dita. Devo arrischiarmi a toccarlo più a fondo.» «Non lo fate!» esclamò Ingrey, spaventato. «Signora, dovete proprio...?» mormorò la serva, col viso contratto per la preoccupazione. «Nelle vostre condizioni?» Le labbra di Hallana si mossero in quello che avrebbe potuto essere un dannazione, dannazione, dannazione. «Fatemi pensare.» Bussarono alla porta. La sorvegliante era tornata, seguita da alcuni inservienti della locanda con vassoi di cibo e dall'uomo che Hallana aveva chiamato Bernan, il quale portava una grande cesta. Era un tipo ossuto, di mezza età, dallo sguardo sveglio. La sua casacca di pelle verde recava segni di bruciature, come quella di un fabbro. Lasciò entrare i camerieri annusando con piacere i vassoi che gli passavano. L'odore della carne in agrodolce e dello stufato di cipolle che usciva da sotto i coperchi fumanti ricordò a Ingrey che era molto affamato e stanco. Hallana s'illuminò in viso. «Meglio così. Mangiamo, poi ci penseremo.» Gli inservienti della locanda apparecchiarono la tavola nel salotto, ma poi la maga li mandò via, dicendo che preferiva essere servita dai propri servitori. Chinandosi verso Ingrey, sussurrò: «Data la situazione, non voglio estranei attorno». Lui era della stessa opinione e rispedì giù la sorvegliante a cenare nella sala comune, dicendole di restarvi finché non l'avesse fatta chiamare. La donna non riuscì a mascherare la propria curiosità e se ne andò con una certa riluttanza. Bernan riferì a Hallana che aveva lasciato i cavalli alla scuderia del Tempio, dove gli era stato promesso che il carro sarebbe stato riparato, quindi era andato a chiedere un alloggio per la notte a una certa curatrice della Madre di servizio a Red Dike, evidentemente una ex studentessa di Suttleaf. Ingrey, che non aveva affatto in programma di cenare lì, si trovò così seduto a tavola con le due donne. Il servo porse loro una bacinella per lavarsi le mani e la maga intonò una breve preghiera di ringraziamento.
Hergi annodò un tovagliolo ampio quanto un lenzuolo al collo della sua padrona e la aiutò a mangiare, mostrandosi solerte nel fermare bicchieri traballanti, caraffe ondeggianti e cucchiai di stufato che stavano andando fuori bersaglio, spesso con buon tempismo, anche se purtroppo non sempre. «Bevete il vostro vino», raccomandò Hallana. «Tra mezz'ora diventerà acido. Io dovrò andarmene di qui prima che il locandiere scopra che cos'è successo alla sua birra. Be', neppure il suo campionario di cimici, scarafaggi e pidocchi sopravvivrà al mio passaggio, perciò mi auguro che sarà considerato un baratto accettabile. Se restassi più a lungo, finirebbero per rimetterci anche i sorci, povere bestie.» Lady Ijada sembrava affamata quanto Ingrey e la conversazione per qualche tempo languì. A riaprirla fu Hallana con un'improvvisa domanda sull'origine del lupo da cui era afflitto Ingrey. Lui si sentì contrarre lo stomaco, nonostante la fame, e le diede una spiegazione più completa di quella che aveva confidato a Ijada, basandosi sul ricordo, peraltro ormai confuso, di quegli eventi lontani. Le due donne ascoltarono rapite. Ingrey era infastidito dal fatto che ad ascoltarlo ci fossero anche Bernan, seduto a mangiare sopra la cesta, e Hergi, che pure in piedi accanto alla padrona trovava il modo di mettersi qualcosa in bocca. Tuttavia, se una maga del Tempio li aveva presi al proprio servizio, dovevano sapere che cos'era la discrezione. «Vostro padre aveva già mostrato interesse per la magia animale dei nostri antenati del Vecchio Dominio?» domandò Hallana quando Ingrey ebbe finito di descrivere il rito. «No, che io sappia», rispose lui. «Quel suo interesse mi è parso molto improvviso.» «Perché tentare un rito del genere proprio allora?» domandò Ijada. Ingrey si strinse nelle spalle. «Tutti coloro che lo sapevano sonò morti o si sono resi irreperibili. Quando mi sono ripreso abbastanza da fare domande, non c'era più nessuno.» La sua mente fuggì dai ricordi di quelle oscure, dolorose settimane. Certe cose era meglio dimenticarle. Hallana masticò, deglutì e chiese: «Come avete imparato a legare il vostro lupo?» Anche questo preferirei averlo scordato. Ingrey si massaggiò il collo, senza rilassarne affatto la tensione. «L'antica legge di Audar, secondo cui le persone possedute da spettri di animali dovevano essere bruciate vive, a Birchbeck non veniva più applicata a memoria d'uomo. Il nostro Divino, che mi conosceva da sempre, era ansioso soltanto di non essere coinvolto. In conclusione, l'inquisitore del Tempio mandato a esaminare il caso ha
decretato che, non essendo io il colpevole del crimine, che mi era stato imposto da persone alla cui autorità avevo dovuto obbedire, punirmi sarebbe stato come tagliare una mano a chi aveva subito un furto. Così mi è stata risparmiata la vita e sono stato ufficialmente perdonato.» Ijada aveva ascoltato con molta attenzione, con le labbra aperte come sul punto di parlare; invece si limitò a scuotere il capo. Ingrey le fece un cenno d'intesa e continuò: «Tuttavia non sono rimasto molto padrone di me stesso. A volte ero lucido, ma in altre occasioni... poi non riuscivo a ricordare bene ciò che avevo fatto. Perciò il nostro Divino ha cercato di curarmi». «Come?» domandò la maga. «Prima con la preghiera, naturalmente. Poi coi riti, quelli antichi, che è riuscito a trovare. Altri credo li abbia inventati di sana pianta. Nessuno ha funzionato. Allora è passato alle esortazioni, alle letture e ai sermoni, facendo a turno per giorni e giorni coi suoi Accoliti. Questa è stata la parte più stancante. Alla fine abbiamo tentato di scacciare il lupo con la forza.» «'Abbiamo'?» Hallana inarcò un sopracciglio. «Non è stato fatto... contro la mia volontà. A quel punto ero alla disperazione.» «Mmh, sì, posso...» La donna strinse le labbra e rifletté a lungo. «Quale forma avevano quei riti anti-lupo?» «Abbiamo tentato tutto ciò che si poteva escogitare senza farmi troppo male: il digiuno, le percosse, il fuoco e la minaccia del fuoco, l'acqua. Il lupo non è stato scacciato, ma almeno io ho appreso un certo autocontrollo e i miei periodi di confusione si sono accorciati.» «In quelle condizioni, immagino che abbiate imparato in fretta.» Il tono ironico di Hallana mise Ingrey sulla difensiva. «Si può dire che la cosa stesse funzionando. Comunque erano meglio le immersioni nel Birchbeck piuttosto che ascoltare sermoni giorno e notte. Il nostro Divino si è impegnato molto in quel duro programma; era l'unica cosa che potesse fare per mio padre, dal momento che sentiva di avere mancato verso di lui.» Ingrey bevve un sorso di vino. «Dopo alcuni mesi ha diagnosticato che stavo abbastanza bene per poter viaggiare. Il castello di Birchgrove, nel frattempo, era stato affidato a mio zio. Sono stato mandato in pellegrinaggio, nella speranza che trovassi una cura migliore. A me non è dispiaciuto, perché, sebbene ogni speranza si rivelasse inutile, sono cresciuto e sono diventato adulto, mi sono liberato dei miei custodi e la ricerca si è trasformata in ulteriori peregrinazioni. Quando restavo senza soldi, mi adattavo a
fare lavori di ogni genere.» Qualsiasi cosa gli era parsa meglio che rivolgere di nuovo i propri passi verso casa. Poi... un giorno tutto era cambiato. «Ho incontrato Lord Hetwar mentre era in missione presso il re di Darthaca.» Ingrey pensò che non fosse il caso di raccontare i suoi disperati stratagemmi per entrare in contatto col Guardasigilli. «Era curioso di sapere come mai un giovane di buona famiglia del Dominio lavorasse per degli stranieri così lontano da casa, perciò gli ho raccontato la mia storia. Lui non si è lasciato impressionare dal mio lupo e mi ha offerto un ingaggio provvisorio tra le sue guardie, durante il viaggio di ritorno in patria. Per strada si sono verificati alcuni incidenti che mi hanno dato l'occasione di rendermi utile, e Lord Hetwar ha voluto prendermi con sé in pianta stabile. Da allora ho potuto fare carriera alle sue dipendenze.» Ingrey non seppe celare un'espressione orgogliosa. «Grazie soltanto ai miei meriti.» Si servì una fetta di carne speziata, intingendo nella salsa agrodolce l'ottimo pane della locanda. Ijada aveva già smesso di mangiare da qualche minuto e sedeva con espressione seria, immersa nei propri pensieri, passando un dito lungo l'orlo del boccale di vino ormai vuoto. Quando alzò il viso e incrociò lo sguardo di Ingrey, lui le rivolse un leggero sorriso. Hallana allontanò con un gesto Hergi, che cercava di farle mangiare un'altra mela cotta, e la serva le tolse il tovagliolo pieno di macchie e lo mise via. La maga guardò Ingrey. «Ora vi sentite meglio?» «Sì», confessò lui con riluttanza. «Avete un'idea di chi possa avervi messo al collo questo giogo?» «No. Mi riesce difficile pensarci. Ciò mi preoccupa ancor più del fatto che io non ne senta la presenza, tra un accesso e l'altro. Sto cominciando a diffidare di tutto quello che c'è nella mia mente. Cercare quella cosa è come sforzarsi di vedere ciò che ho dietro la testa.» Esitò, controllando i nervi. «Potete togliermi questa maledizione, Erudita?» Lei sospirò, incerta, mentre il servo seduto dietro Ingrey le comunicava con gesti allarmati di lasciar perdere e Hergi protestava borbottando. «L'unica cosa che posso fare adesso con una certa sicurezza è aumentare il disordine nel vostro spirito. Non so se ciò potrà distruggere o indebolire la presa di quella strana cosa che Ijada annusa dentro di voi. Non oso tentare niente di più complicato. Se non fossi gravida, ci proverei... be', non importa. Sì, sì, Bernan, ti ho visto. Smettila di agitarti tanto», aggiunse rivolgendosi al servo nervoso. «Se non provocherò disordine in Lord Ingrey, qui potrei ammazzare dei sorci, e a me piacciono i sorci.» Ingrey si passò una mano sul viso stanco. «Sono disposto a lasciarvi ten-
tare, ma... prima legatemi saldamente.» Hallana inarcò le sopracciglia. «Lo credete necessario?» «Prudente.» I servi della maga, almeno loro, sembravano decisamente favorevoli alla prudenza in ogni sua forma. Mentre Ingrey deponeva il fodero della spada e il pugnale presso la porta, Bernan aprì quella che si rivelò una cassetta degli attrezzi ben fornita e ne estrasse due segmenti di catena lunghi un paio di braccia. Dopo essersi consultato con Ingrey, gliene avvolse uno alle caviglie, fissandolo con un solido ribattino. Lui incrociò i polsi, se li fece assicurare allo stesso modo e saggiò la solidità dei legami, contorcendosi e sforzandoli. Sembravano reggere bene. Poi andò a sedersi a terra davanti alla finestra, con le spalle appoggiate alla sedia, e Bernan gli unì polsi e caviglie con un altro ribattino. In quella posizione, con le ginocchia sollevate fin quasi alle orecchie, Ingrey si sentì uno stupido. Il suo pubblico appariva abbastanza divertito, ma nessuno criticò quelle precauzioni. L'Erudita Hallana si alzò e venne verso di lui. Ijada si tenne in disparte, con espressione ansiosa, mentre Hergi andava a sedersi al lato opposto della stanza. Hallana si tirò su le maniche e incrociò le dita, stirando le mani sino a far schioccare le articolazioni. «Molto bene», commentò con un tono professionale che una sfumatura sarcastica rese vagamente sinistro. «Ditemi se così vi faccio male...» E posò un palmo caldo sulla fronte di Ingrey. Il senso di tepore che la mano gli trasmetteva fu piacevole per i primi secondi e lui si rilassò, ma poi il tocco diventò sgradevolmente caldo. Una nebbia snervante offuscò la vista di Ingrey; all'improvviso il calore gli ruggì nella mente come quello della fucina di un fabbro e lui cominciò a vedere doppio. La seconda immagine si separò dalla prima, alterandosi in modo strano. La stanza era ancora presente nei suoi sensi fisici. Ma in parallelo esisteva anche un altro luogo. Nel quale... Nel quale Ingrey era nudo. In corrispondenza del cuore la sua pelle si arrossò e si gonfiò. Il bubbone esplose. Dalla lacerazione sbucò un tentacolo, no, una vena, che cominciò ad allungarsi e ad attorcigliarsi a lui. Un'altra vena gli scaturì dalla fronte e Ingrey la vide contorcersi come una serpe, sfocata per la vicinanza. Una terza uscì dall'ombelico, un'altra ancora dallo scroto. Dalle loro estremità aperte sgorgava sangue. D'un tratto anche la lingua si trasformò in una grossa vena carnosa, che emerse dalla bocca come una lunga proboscide da cui gorgogliavano misteriose parole.
Nella stanza reale il suo corpo sussultò e si divincolò, lottando contro le catene con energia crescente. Ogni tanto i suoi occhi si rovesciavano all'indietro, ma Ingrey riusciva ancora a vedere l'Erudita Hallana, piegata verso di lui. D'un tratto spalancò la bocca, che si trasformò orribilmente emettendo un ululato bestiale, e la donna fece un passo indietro. Tra le mani di lei, separate di una spanna, iniziò a pulsare un fuoco violaceo, ruggente, che volteggiò verso Ingrey e gli entrò nella bocca irta di zanne. La lunga vena che era diventata la sua lingua si contorse in una sorta di agonia e il gorgoglio incomprensibile si acutizzò in un sibilo; la protuberanza sembrava divorare il calore. Le altre quattro vene-tentacoli, sempre più agitate, gli frustavano il corpo spargendo sangue ovunque. Nelle sue narici entrava un acuto odore metallico, il pavimento di legno era inzuppato di liquido rosso sul quale Ingrey scivolava di continuo, nei suoi furibondi sforzi per liberarsi dalle catene. Aveva i capelli appiccicati alla faccia e il pene in erezione spasmodica, gonfio di sangue. Rotolò di lato e, con una serie di scatti convulsi, cercò di spostarsi verso il muro dove aveva lasciato il fodero con la spada. Ijada era caduta in ginocchio, con le mani sulla bocca e gli occhi sbarrati. Poi nella stanza parallela, quella non materiale, apparve il leopardo femmina... La sua pelliccia era morbida come seta e sotto di essa guizzavano muscoli vigorosi. Le zanne erano di candido avorio, gli occhi luminosi come ambra. Si gettò sulle vene che guizzavano nell'aria, come avrebbe fatto un gattino giocando con pezzi di spago, cercando di schiacciarle con gli artigli e di morderle. Le vene presero a colpire il leopardo come fruste impregnate di acido, lasciando lunghe bruciature sull'elegante pelliccia maculata. Il leopardo ringhiò, un suono basso che vibrò nell'aria e penetrò fino al cuore di Ingrey. Da qualche parte dentro di lui si levò in risposta un ruggito feroce. La sua mascella iniziò ad allungarsi orribilmente... No, no! Io ti rinnego, lupo interiore! Ingrey strinse i denti per opporsi alla trasformazione, per lottare contro il lupo, contro i tentacoli, contro il proprio stesso corpo e la propria mente. Tuttavia continuò a rotolare verso la spada. Combatti... uccidi... qualcosa... tutto... D'un tratto le catene, sottoposte a un simile sforzo, cedettero nel punto più debole e un anello si aprì di schianto. I polsi e le caviglie non erano più legati insieme. Il corpo di Ingrey si raddrizzò, quindi fu libero d'inarcarsi e di rotolare più vicino al muro. La spada era a portata di mano. I piedi di
una persona o due in preda al panico lo calpestarono. Le sue mani, quelle reali, erano lorde di sangue, ma nel frattempo una strana cosa rossa cercava di uscire dal suo corpo. Ancora più inorridito, Ingrey si accorse che le catene ai polsi non erano abbastanza strette e cominciavano a scivolargli via dalle mani, deformate dalle continue contorsioni. Se fosse riuscito a liberare la destra e a raggiungere la spada... sicuramente nessuno sarebbe uscito vivo dalla stanza. Forse neppure lui stesso. Per prima cosa avrebbe mozzato la testa al servo, con un solo colpo; quindi si sarebbe gettato sulle donne urlanti. Ijada era già in ginocchio, come in attesa del boia, coi capelli che le ricadevano sul viso. L'altra, con quel ventre gravido che invogliava ad affondarvi l'arma... Ingrey cercò di allontanare quell'immagine, di respingerla. Gridò il suo rifiuto, con tanta forza che lo stomaco gli si contrasse: Aiutali, salvala, trattienimi, lupo interiore! Allontana da me... allontana da me... La sua mandibola si allungò, i denti diventarono candidi pugnali acuminati. Ingrey cominciò ad azzannare le vene-tentacoli, come un lupo che scuote furiosamente un coniglio per spezzargli la schiena. Il sangue caldo gli riempì la bocca e lui sentì il dolore dei suoi stessi morsi. Morse, strappò, tirò fuori dal proprio corpo quelle orribili vene, con le loro radici sanguinolente. Poi non rimase più nulla dentro di lui; la cosa era a terra e sussultava come una maligna creatura degli abissi marini trascinata fuori dell'acqua. Ingrey la scalciò coi piedi nudi, dai quali spuntavano artigli. Il leopardo femmina continuava ad aggredire e a mordere la gorgogliante cosa rossa sul pavimento. Ancora per un poco essa si contorse, viva, agonizzante. Poi giacque. In quello stesso istante la visione parallela svanì, o forse tornò a fondersi con la stanza reale e ogni cosa s'immerse dentro l'altra: il leopardo femmina dentro Ijada, il lupo dentro di lui. Ingrey si accasciò sfinito. Stava immobile presso la porta, con le caviglie ancora incatenate ma le mani libere, sanguinanti. Bernan era in piedi accanto a lui, pallido come un cencio e scosso da tremiti, con un piede di porco tra le mani. Ci fu un drammatico momento di silenzio. «Bene», esclamò Hallana, con un tono che si sforzava di essere vivace. «Cerchiamo di non fare più cose di questo genere...» Dalle scale e dal corridoio si avvicinò un tramestio di passi e un pugno
vigoroso bussò alla porta con urgenza. Uno dei soldati di Ingrey chiamò allarmato: «Ehi, voi! C'è qualcuno lì dentro? Lord Ingrey!» «Era lui a gridare in quel modo!» disse la voce spaventata della sorvegliante di Ijada. «Oh, presto, buttate giù la porta!» Arrivò un altro uomo. «Se spaccate la porta, dovrete ripagarmela! Ehi, lì dentro! Aprite!» Ingrey si massaggiò la mandibola, una normale mandibola umana, e gracchiò: «Sto bene!» Hallana ansimava un poco e lo guardava con gli occhi spalancati. «Sì», disse ad alta voce. «Lord Ingrey... è inciampato e ha rovesciato il tavolo. Ora c'è un po' di disordine. Ci, pensiamo noi, non preoccupatevi.» «Non mi sembra che stiate molto bene, Lord Ingrey.» Lui deglutì, si schiarì la gola e cercò di parlare con voce normale. «Tra poco scenderò al piano di sotto. La serva della Divina si occuperà del... del... disordine. Voi andate pure.» «Provvederemo noi alle sue contusioni», aggiunse Hallana. Un silenzio perplesso, uno scambio di parole soffocate; poi i passi si allontanarono. Un unico sospiro di sollievo unì i presenti, eccetto Bernan, che brandiva ancora il piede di porco. Ingrey restò disteso sulle tavole del pavimento, sentendosi come se tutte le sue ossa fossero ridotte in poltiglia. Aveva nausea. Dopo qualche istante alzò le mani e la catena tintinnò penzolando dal polso sinistro. Il destro, imbrattato di sangue, era libero. Ingrey lo guardò, fissando con aria ottusa la pelle escoriata e dolorante. Dalla sgradevole sensazione che gli arrivava dalla testa, comprese che il suo furioso agitarsi gli aveva procurato altri bernoccoli. Di questo passo finirò per ammazzarmi prima di arrivare a Easthome, che Lady Ijada mi sopravviva o no. Ijada... Ingrey si girò, ansimando preoccupato. Bernan emise un mugolio di avvertimento e alzò di più la sbarra d'acciaio. Ijada era ancora in ginocchio a un paio di passi da lui, molto pallida, con gli occhi spalancati. «No, Bernan», disse. «Ora sta bene. È tutto finito.» «Ho visto un uomo afflitto da epilessia», disse Hallana con voce piatta. «Questa sicuramente non era la stessa cosa.» Sì avvicinò a Ingrey e gli girò attorno, abbassando lo sguardo su di lui oltre la curva della pancia. Tenendo d'occhio il piede di porco, Ingrey si girò di più, con cautela, per vedere meglio Ijada. Il movimento gli diede un capogiro e il gemito che gli uscì di bocca fu piuttosto simile a un grugnito. Ijada non sembrava ancora
in grado di rimettersi in piedi. Sedeva come priva di energia, puntellandosi al pavimento con le mani. Intercettò il suo sguardo, trasse un lungo respiro e raddrizzò le spalle. «Io sto bene», disse, anche se nessuno gliel'aveva chiesto. Tutti gli sguardi erano stati attratti dallo spettacolo assai più interessante offerto da Ingrey. Hallana si voltò a guardare l'amica. «E tu che cosa hai provato?» «Sono caduta in ginocchio. Ero ancora nel mio corpo, in questa stanza, ma nello stesso tempo mi sono trovata all'improvviso nel corpo del leopardo. Nel corpo spirituale del leopardo. Non l'ho scambiato per un vero corpo di carne. Eppure... oh, quanto era forte! Una cosa straordinaria. I miei sensi erano terribilmente acuti: potevo vedere tutto! Ma ero muta... no, non proprio muta. Senza parole. Eravamo in un altro luogo, un luogo molto ampio... non ne scorgevo bene i confini. E voi», guardò Ingrey, «eravate lì, davanti a me. Il vostro corpo stava emettendo orribili tentacoli scarlatti. Sembravano parte di voi, però vi attaccavano. Io mi ci sono avventata per morderli e staccarveli di dosso, ma quelle cose mi bruciavano la bocca. Poi voi avete iniziato a trasformarvi in un lupo, o un uomo-lupo, uno strano ibrido... come se il vostro corpo non andasse d'accordo con la mente. Alla fine la vostra testa è diventata una testa di lupo e anch'essa ha preso ad azzannare quelle orribili cose sanguinanti.» Gli gettò un'occhiata in tralice, come affascinata. Ingrey si domandò - ma non osò chiederlo alla giovane donna - se nella visione lui le fosse apparso con almeno un perizoma o un panno intorno ai fianchi. La selvaggia erezione del suo membro si stava placando soltanto adesso, per la stanchezza e il dolore. «Quando tra tutti e due siamo riusciti a strapparvi fuori del corpo quei tentacoli ustionanti, ho potuto vedere che erano in realtà una cosa sola. Per un istante mi è parsa una massa di serpenti che si stessero accoppiando in una buca. Poi l'entità è caduta, immobile, ed è scomparsa; quindi mi sono ritrovata di nuovo qui. In questo corpo.» La fanciulla alzò una mano delicata e la guardò, quasi si aspettasse di vedere un artiglio di felino. «Se era questo che accadeva ai guerrieri stregati del Vecchio Dominio... credo di cominciare a capire perché lo desiderassero tanto. A parte quella cosa coi tentacoli sanguinanti. Ma, nonostante tutto, noi... abbiamo vinto.» L'emozione che le dilatava gli occhi, comprese Ingrey, era un'eccitata meraviglia. Ijada si volse a Hallana. «Tu hai visto il mio leopardo? E l'essere coi tentacoli? E la testa di lupo?» «No.» Hallana s'incupì, frustrata. «I vostri spiriti erano molto agitati, ma
per affermare questo non ho certo bisogno della seconda vista. Pensate di poter tornare nel luogo dove siete stati? A vostro piacimento?» Ingrey fece per scuotere la testa e sentì che il cervello gli ballava tra le orecchie. «No!» borbottò. «Io non ne sono sicura», disse Ijada. «È stato il leopardo a portarmi là; non ci sono andata da sola. E non era esattamente un là. Noi eravamo ancora qui.» L'espressione di Hallana si fece, se possibile, ancora più attenta. «Avete percepito la presenza di uno degli dei, in quello spazio?» «No», rispose Ijada. «Di nessuno. C'è stato un momento in cui non ne ero sicura, ma dopo il sogno del leopardo... no. L'avrei saputo, se Lui ci fosse stato.» Nonostante il nervosismo, un sorriso si disegnò sulle sue labbra. Il sorriso non era per lui, Ingrey lo sapeva. Provò il desiderio di strisciare verso di lei. No, quella sarebbe stata una sciocchezza da ogni punto di vista. Hallana si stirò le spalle, cosa che ebbe un effetto allarmante data la circonferenza del suo grembo, e sorrise. «Bernan, aiuta Lord Ingrey ad alzarsi. Levagli quelle catene.» «Ne siete sicura, Erudita?» domandò il servo, dubbioso. Gettò uno sguardo alla spada di Ingrey, che ora giaceva al suolo in un angolo. Evidentemente l'aveva scaraventata laggiù con un calcio per metterla fuori portata, mentre si preparava a usare il piede di porco. «Lord Ingrey, che cosa ne pensate? Avevate ragione a chiedere di essere legato.» «Non credo di... riuscire a muovermi.» Il pavimento di quercia era duro e freddo, ma, visto quanto continuava a girargli la testa, Ingrey giudicava molto preferibile la posizione orizzontale. Tuttavia fu sollevato dai due servi, che in qualche modo riuscirono a farlo sedere sulla sedia abbandonata dalla Divina. Bernan usò un martello per sfilare i ribattini; Hergi, borbottando tra sé, prese un catino d'acqua, sapone, asciugamani e una cassetta di cuoio che si era portata dietro, che risultò piena di strumenti e medicinali. Fu lei a cucire con mani esperte le ferite di Ingrey, le vecchie e le nuove, sotto il controllo della Divina, e lui comprese che la maga aveva ovviamente portato con sé la sua levatrice di fiducia, viste le sue condizioni. Si domandò se Hergi fosse sposata col fabbro, sempre che fosse quello il mestiere di Bernan. Ijada si tirò in piedi, raggiunse la sua sedia e osservò con interesse le operazioni mediche di Hergi, mordicchiandosi un labbro ogni volta che la
vedeva affondare l'ago nella carne. I pezzi di epidermide semistaccati sul dorso delle mani di Ingrey furono cuciti e poi coperti con bende di lino bianco, le altre lacerazioni disinfettate e fasciate. Le mani non gli facevano male quanto la muscolatura della schiena e dei fianchi; o forse ogni dolore gli serviva come distrazione dal successivo. Ingrey si domandò se gli convenisse togliersi gli stivali finché aveva qualcuno ad aiutarlo, per non rischiare di doverseli tagliare via, se le caviglie si fossero gonfiate. Erano ottimi stivali e gli sarebbe dispiaciuto perderli. Le catene avevano lasciato segni profondi sul cuoio. «In quel luogo avete trovato voi stessi», disse Hallana. «Non era reale», mugolò Ingrey. «Mmh, be', sì. Ma quando eravate in quello... ehm... stato... che cosa percepivate di me, se percepivate qualcosa?» «Dalle vostre mani scaturiva un fuoco colorato. Mi entrava in bocca. Questo ha scatenato la frenesia della vena che mi è uscita dalla bocca, poi la stessa cosa è successa alle altre vene, tutte parti di una sola entità, suppongo. È stato come se il vostro fuoco la facesse schizzare fuori del suo nascondiglio.» Si passò la lingua nell'interno della bocca, per assicurarsi che l'orrenda deformazione fosse scomparsa. Poi si accorse, a disagio, di avere la parte inferiore del viso coperta di bava. Fece per asciugarla col bendaggio del polso destro, ma Hergi, che non voleva vedere rovinato il proprio lavoro, gli fermò il braccio, lo guardò con disapprovazione e gli consegnò un pezzo di stoffa umida. Ingrey si ripulì, cercando di non pensare a suo padre. «La lingua è il segno del Bastardo e nel nostro corpo rappresenta la bocca, il punto a lui dedicato», disse Hallana. Come la fronte per la Sorella, l'ombelico per la Madre, i genitali per il Padre e il cuore per il Fratello. «Le vene della maledizione, o i tentacoli, o qualunque cosa fossero, sembravano scaturire dai miei cinque punti teologici.» «Indubbiamente significa qualcosa. Mi domando che cosa. Può darsi che ci siano dei manoscritti riguardanti le usanze del Vecchio Dominio che facciano un po' di luce su questo enigma. Quando tornerò a Suttleaf cercherò nella nostra biblioteca, anche se temo che contenga per lo più trattati di medicina. I darthacani quintariani che ci hanno conquistato erano più interessati a distruggere le antiche tradizioni che a prenderne nota e a tramandarle. Era come se cercassero di togliere i poteri ancestrali della foresta dalla portata di tutti, persino dalla propria. E non sono certa che avesse-
ro tutti i torti.» «Quando ero nel leopardo... quando ero il leopardo, ho visto immagini fantomatiche», disse Ijada. «Ma poi ne sono rimasta tagliata fuori.» Nella sua voce c'era una nota di rimpianto. «Io invece non ho visto niente», disse la maga, tamburellando con le dita sulla superficie più vicina, che in quel caso era il suo stesso addome. «Cioè, a parte gli sforzi di Lord Ingrey per liberarsi da catene che avrebbero tenuto fermo anche un cavallo. Se gli antichi guerrieri posseduti da uno spirito animale avevano una forza simile, non mi stupisco che fossero tanto richiesti.» Se anche quei guerrieri avevano sofferto i dolori che ora tormentavano lui, Ingrey si chiedeva invece con quale coraggio i kin della foresta accettassero di pagare un tale prezzo. Avrebbe voluto domandare se davvero aveva fatto tutto quello sconquasso, ma si sentiva troppo imbarazzato. «Se ci fosse stato qualcosa da vedere, io l'avrei visto», continuò Hallana, esasperata. «Maledizione, maledizione! Cerchiamo di riflettere.» Dopo un istante guardò Ingrey, stringendo le palpebre. «Voi dite che la cosa se n'è andata. Be', visto che non siamo in grado di capire che cosa fosse... potete almeno ricordare chi l'ha messa dentro di voi?» Ingrey si piegò in avanti, sfregandosi gli occhi doloranti. Immaginava di averli rossi di sangue. «Prima vorrei togliermi questi stivali.» A un cenno di Hallana, Bernan si chinò davanti a lui e lo aiutò a levarli. Come sospettava, aveva le caviglie gonfie e arrossate; le guardò accigliato. «Io non ho mai sentito la presenza di quella maledizione, finché non ho conosciuto Lady Ijada. Per quanto ne so, potevo averla dentro di me da giorni, o da mesi, o da anni. Dapprima ero convinto che si trattasse soltanto del mio lupo. Se non fosse stato per ciò che mi ha detto Lady Ijada e... ciò che è successo poco fa, sarei ancora della stessa opinione. E di quell'opinione sarei rimasto anche se fossi riuscito a ucciderla.» Hallana si succhiò il labbro inferiore. «Pensateci bene. Una compulsione a uccidere la vostra prigioniera: è probabile che vi sia stata trasmessa nel periodo intercorso tra la morte di Boleso e il momento della vostra partenza da Easthome per il castello di Boar's Head. Prima di allora non c'era motivo perché qualcuno ve la lanciasse, e dopo non ci sarebbe stato il tempo. Chi avete avvicinato in quel periodo?» Formulata così, la domanda era inquietante. «Non molta gente. Sono stato chiamato nell'ufficio di Lord Hetwar, quel pomeriggio. Il corriere si trovava ancora lì. Dunque: Hetwar, il segretario di Hetwar, il principe Rigild,
il siniscalco reale conte Badgerbank, Wencel kin Horseriver, Lord Alca kin Otterbine, i fratelli kin Boarford... ho parlato brevemente con costoro, dopo che Lord Hetwar mi ha dato la notizia e le istruzioni del caso.» «Quali erano?» «Prelevare la salma di Boleso, prendere in custodia la sua assassina e...» Ingrey esitò, «prevenire eventuali chiacchiere sulla sua morte.» «Che cosa significa?» domandò Lady Ijada, assai perplessa. «Far sparire tutte le prove del comportamento deviante di Boleso.» Compresa la sua vittima principale? «Che cosa? Ma non siete un ufficiale al servizio della giustizia reale?» s'indignò Ijada. «Per la precisione, sono un esecutore di ordini al servizio del Guardasigilli Hetwar.» Dopo un momento Ingrey aggiunse, in tono cauto: «Il compito del Guardasigilli Hetwar è comunque servire al meglio gli interessi del Dominio e della casa reale». Ijada tacque, preoccupata, aggrottando le sopracciglia. La maga del Tempio si stuzzicava un labbro con un dito. Lei almeno non sembrava sotto shock. Ma quando parlò di nuovo fu chiaro che i suoi pensieri avevano seguito un'altra strada: «Nessuno spirito può esistere nel mondo della materia senza che un essere fatto di materia gli offra un supporto. Gli incantesimi vengono effettuati dai maghi attraverso i loro demoni, i quali sono necessari ma da soli non avrebbero possibilità di agire. L'attività del demone deve essere supportata dal corpo fisico del mago. Ma il vostro incantesimo, o maledizione, veniva sostenuto da voi. Io sospetto... mmh, potrebbe essere una sorta di parassita magico. L'incantesimo è stato introdotto in voi in qualche modo, e da quel momento è stato il vostro corpo a mantenerlo in vita. Se questa strana magia ha qualche somiglianza con la mia, essa funziona per inerzia, diciamo, come l'acqua che scende da una collina. Non crea nulla, ma si limita a sfruttare le capacità del suo ospite». A quelle parole Ingrey avvertì una sensazione profonda, viscerale; ma non era qualcosa che volesse confidare alla presenza di Ijada. Tutti gli uomini, chi più e chi meno, erano capaci di uccidere su ordine dei propri superiori, anche se spesso l'unico incantesimo di cui avevano bisogno era una borsa piena di monete. Lui aveva montato di guardia innumerevoli volte, pronto a estrarre la spada in difesa del suo signore: in definitiva questa non era forse la stessa cosa? Lo era?
«Ma...» Le belle labbra di Ijada si strinsero in una smorfia pensierosa. «Il Guardasigilli Hetwar deve avere centinaia di spadaccini, soldati, bravacci. Con voi cavalca una mezza dozzina di guardie. Il... responsabile, chiunque sia, avrebbe potuto mettere la maledizione dentro uno di loro. Perché è stato mandato da me l'unico uomo di Easthome del quale si sa che ospita uno spirito animale?» Un lampo di luce - intuito? soddisfazione? - si accese per un istante negli occhi di Hallana, ma lei non disse nulla. Restò seduta e s'inclinò leggermente all'indietro, forse perché piegarsi in avanti non le era facile. «È nota a molti l'afflizione del vostro spirito?» domandò. Ingrey si strinse nelle spalle. «Come pettegolezzo la cosa è circolata, sì. Variamente interpretata. La mia reputazione risulta utile a Hetwar: sono visto come un uomo al quale non è prudente sbarrare la strada.» E che nessuno invita volentieri alla propria tavola, né tantomeno presenta alle donne della sua famiglia. Be', ormai ci sono abituato. Ijada spalancò gli occhi. «Voi siete stato scelto perché si desse la colpa della mia morte al vostro lupo! Hetwar vi ha scelto. Di conseguenza è lui l'artefice della maledizione!» Ingrey non volle dare peso a quel sospetto. «Non necessariamente. Lord Hetwar era a colloquio con altri da qualche ora, prima che arrivassi io. Chiunque, tra i presenti, potrebbe avere suggerito il mio nome.» Ma la parte che avrebbe dovuto giocare il suo lupo gli parve decisamente plausibile; lui stesso era stato propenso a incolpare il lupo dei suoi primi tentativi di aggressione alla prigioniera. Sarebbe stato accusato d'incapacità di controllo. E presumendo che fosse sopravvissuto al tentativo di uccidere Lady Ijada... Ripensò all'incidente del giorno prima, durante il quale per poco non era annegato assieme a lei. In un modo o nell'altro la vittima e l'uomo scelto per eliminarla sarebbero stati ridotti al silenzio per sempre. Due intuizioni estremamente sgradevoli si accesero nella mente di Ingrey. La prima fu che lui stava tuttora conducendo Lady Ijada verso una probabile condanna a morte; annegarla nel torrente durante il viaggio non sarebbe stato molto diverso dall'avvelenarla o dallo strangolarla più tardi nella sua cella, e persino più pietoso degli orrori di un processo farsesco seguito dall'impiccagione. La seconda fu che un nemico sconosciuto e molto potente sarebbe stato decisamente irritato, quando lui e Ijada fossero giunti vivi a Easthome. 6
Ingrey si svegliò da un sogno febbrile, che ricordava solo vagamente. Sbatté le palpebre nella luce grigia che filtrava dai vetri sporchi della stanzetta privata all'ultimo piano della locanda. Era l'alba. L'ora di rimettersi in viaggio. Ogni movimento causava dolori nei muscoli che utilizzava, anzi in tutto il corpo, e ciò lo costrinse a rinunciare a mettersi seduto. Ma anche restare disteso supino non gli portò nessun sollievo. Girò la testa, volgendo la nuca al camino quasi spento, e guardò la pila di stoviglie che aveva sistemato davanti alla porta. Era ancora in piedi: buon segno. Le bende ai polsi e alla mano destra, benché intrise di sangue rappreso, erano ancora a posto. Aprì e chiuse le dita e fu assalito dai ricordi della sera precedente. Per quanto allucinante, quello non era stato un sogno. Rievocare l'accaduto lo riempì di pensieri così ansiosi che sentì una stretta allo stomaco. Con un grugnito scese dal letto, vacillò un poco e andò presso un treppiede che sosteneva un catino. Usando solo la mano sinistra, si spruzzò acqua fredda sul viso, senza trarne il minimo giovamento. Poi indossò i pantaloni, sedette sul bordo del letto e cercò d'infilarsi gli stivali. Le caviglie erano così gonfie che non vollero saperne di entrare. Sconfortato, lasciò cadere gli stivali e tornò a sdraiarsi con cautela sulle coltri sfatte. I pensieri, nella sua testa, avevano lasciato il posto a un incomprensibile mormorio di voci. Per oltre mezza clessidra, a giudicare dallo spostamento delle ombre sul muro, rimase disteso senza fare altro che ruminare un truce risentimento verso quegli inutili stivali. I cardini cigolarono; il frastuono delle stoviglie che rovinavano al suolo fu seguito dalle imprecazioni stupefatte del tenente Gesca. Ingrey gettò un'occhiata alla porta. Grugnendo tra i denti, Gesca si fece strada tra le caraffe e i piatti. Era già vestito per il viaggio, con l'uniforme di pelle, gli stivali, il tabarro blu degli uomini di Hetwar e l'aspetto militaresco adeguato al loro importante incarico. Rasata di fresco, la sua faccia appariva garbata e simpatica, coi capelli biondi ben pettinati all'indietro. L'aspetto di Ingrey gli fece balenare negli occhi una luce allarmata. «Mio signore...» «Ah, Gesca.» Quando gli echi delle stoviglie smisero di rotolargli nella testa, Ingrey borbottò: «Come sta il maiale, stamattina? Tutto bene?» L'altro annuì, ma era evidentemente poco entusiasta di trovare il suo superiore ancora a letto. «L'allucinazione gli è passata verso mezzanotte. L'abbiamo mandato a dormire.»
«Accertatevi che non gli salti in mente di seccare un'altra volta l'Erudita Hallana.» «Credo che non sarà un problema.» Lo sguardo preoccupato di Gesca stava prendendo atto delle sue contusioni e delle bende. «Lord Ingrey... che cosa vi è successo ieri sera?» Lui esitò. «Voi che cosa avete sentito dire?» «Corre voce che eravate chiuso qui dentro con quella maga da un paio d'ore, quando all'improvviso c'è stato un gran trambusto... grugniti, tonfi così forti da staccare pezzi d'intonaco dal soffitto sottostante, grida. Sembrava che qui stessero ammazzando qualcuno.» Quasi... «Più tardi la maga e la sua serva sono andate via come niente fosse e voi siete uscito zoppicando, senza parlare con nessuno.» Ingrey ripensò alla scusa rifilata da Hallana a coloro che avevano bussato. Non poteva smentirla. «Sì. Stavo affettando della carne e avevo... un coltello in mano, quando sono inciampato nella sedia.» No, Hallana non aveva detto sedia. «Ho rovesciato il tavolo. E nella caduta mi sono anche tagliato una mano.» Gesca corrugò la fronte, come se cercasse d'immaginare da quale catastrofico ruzzolone potessero derivare tutte le escoriazioni di Ingrey, bendate e non bendate. «Siamo quasi pronti a caricare la roba sul carro e metterci in viaggio. Il Divino di Red Dike aspetta solo di benedire la bara del principe Boleso. Voi siete in grado di stare in sella? Dopo il vostro...» Esitò, poi si corresse: «I vostri incidenti». Sono ridotto così male? «Avete consegnato alla messaggera del Tempio la mia lettera per Lord Hetwar?» «Sì. È partita alle prime luci.» «Allora... dite agli uomini di restare nei loro alloggi. Devo aspettare istruzioni. Meglio non muoverci di qui; ci prenderemo un giorno di pausa per far riposare i cavalli.» Gesca annuì, ma dalla sua espressione era chiaro che si stava chiedendo perché Ingrey avesse spinto alla massima andatura uomini e cavalli nei due giorni precedenti, per perdere ora tutto il tempo che avevano guadagnato. Raccolse le stoviglie, le mise nella bacinella dell'acqua, gettò un'altra occhiata divertita al suo superiore e uscì. Ingrey aveva scritto la sua ultima lettera a Hetwar la sera precedente, subito dopo l'arrivo, riferendogli che si accingevano a pernottare a Red Dike e chiedendo che gli fosse mandato incontro personale esperto nelle ceri-
monie funebri, con le attrezzature adeguate. Nella lettera, dunque, non aveva fatto nessun cenno all'arrivo della maga e al loro colloquio. Non aveva neppure parlato dell'incidente al guado, né aggiunto commenti sulla prigioniera. Il disagio per avere mancato al proprio dovere, tacendo molti particolari al Guardasigilli, si scontrava ora con la paura che albergava nel suo cuore. Paura e rabbia. Chi e come mi ha scagliato addosso quella grottesca maledizione? Perché hanno fatto di me uno strumento inconsapevole? Potrebbe succedere ancora? La rabbia alimentava la paura e, in uno snervante circolo vizioso, la paura incrementava la rabbia, stringendogli la gola e facendogli pulsare le tempie. Disteso sul letto, Ingrey cercò di richiamare la disciplina mentale che l'aveva aiutato a sopportare le sacre torture del Divino, da ragazzo, a Birchgrove. Lentamente costrinse i muscoli doloranti a rilassarsi, l'uno dopo l'altro. La sera prima il suo lupo si era liberato. Lui l'aveva liberato. Adesso era di nuovo sotto controllo? E se non lo era... che cosa sarebbe accaduto? A parte i dolori in ogni parte del corpo, la sua mente non gli sembrava diversa rispetto a qualunque altra mattina degli ultimi anni. L'impulso di prolungare la permanenza a Red Dike era dovuto a un'oscura premonizione o alla paura? Era semplice prudenza evitare di avvicinarsi ulteriormente a Easthome, visto che non sapeva che cosa stesse succedendo in città? Le sue condizioni fisiche gli fornivano una buona scusa per quella sosta. Ma era una mossa per consentirgli di riflettere o piuttosto la cieca esitazione di un codardo? I suoi pensieri giravano in circolo. Alcuni colpi alla porta interruppero la spirale della sua inquietudine e la secca voce di una donna domandò: «Lord Ingrey? Ho bisogno di vedervi». «Signora Hergi. Entrate.» Con qualche istante di ritardo, Ingrey si rese conto di essere a torso nudo. Ma la donna era probabilmente una Devota dell'Ordine della Madre, non una ragazza facile ai rossori. Tuttavia avrebbe voluto, per cortesia, accoglierla almeno da seduto. Avrebbe voluto. «Mmh.» Le labbra della donna si strinsero quando venne accanto al letto e lo guardò con occhio esperto e distaccato. «Il tenente Gesca non ha esagerato. Be', non c'è niente da fare: dovete alzarvi. La signora Erudita desidera vedere la prigioniera prima di andarsene, e io voglio che si metta in cammino verso casa al più presto. È stato già abbastanza difficile arrivare qui; ho paura del viaggio di ritorno. Ora vediamo... Oh, pover'uomo. Lasciate che mi occupi io di voi. Iniziamo con questo...»
La donna depose la sua valigetta di cuoio accanto al treppiede del catino, ne estrasse una bottiglia quadrangolare di vetro azzurro e la stappò. Riempì un cucchiaio di legno con un liquido dall'aria sinistra e, mentre Ingrey si alzava faticosamente su un gomito e domandava: «Che cos'è?» glielo mise in bocca. Il sapore era pessimo e lui bevve solo per non sputare, sotto lo sguardo fermo di lei. «È un decotto di corteccia di salice, succo di papavero, spirito di vino e altre cosucce utili.» La donna lo guardò da capo a piedi. Storse la bocca e gliene somministrò un altro cucchiaio. Poi annuì tra sé e tappò la bottiglia. «Così dovrebbe bastare.» Ingrey mandò giù la medicina come fosse bile. «È ripugnante.» «Ah, tra poco cambierete idea, ve l'assicuro. Ora vediamo che effetto hanno avuto le mie cure di ieri sera.» Con efficienza gli tolse le bende, applicò nuovi balsami e bende pulite, disinfettò le escoriazioni al cuoio capelluto con qualcosa che pungeva, quindi lo pettinò, gli lavò il torace e gli rasò la barba, allontanando le sue mani con qualche schiaffetto quando Ingrey protestava di essere in grado di radersi da solo. «Ora non dovete rovinare o bagnare queste bende, mio signore. E smettetela di lottare così; non ho tempo da perdere con voi.» Ingrey non era stato vestito da una donna fin da quando aveva sei anni. Tuttavia i dolori stavano sparendo ed era una sensazione deliziosa, perciò smise di opporsi. Si rese conto che la buona volontà con cui Hergi si occupava delle sue condizioni non aveva nulla a che vedere con lui. «L'Erudita Hallana sta bene? Dopo ieri sera?» domandò con cautela. «Il bambino ha cambiato posizione. Potrebbe mancare un giorno, oppure una settimana, ma tra qui e Suttleaf ci sono venticinque leghe di strada pessima e io voglio che arrivi a casa sana e salva. Ora datemi retta, Lord Ingrey: non fate niente che la trattenga ancora qui. Qualunque cosa voglia da voi, dateglielo senza discutere, per favore», si raccomandò. E sbuffò con aria severa. «Sì, signora», rispose umilmente Ingrey. Dopo un po' aggiunse: «Il vostro decotto sembra efficace. Posso tenere la bottiglia?» «No.» La donna gli esaminò le caviglie. «Gli stivali non vi entrano, vero? Avete altre calzature? Sì? Bene.» Frugò nelle borse da sella di Ingrey, trovò un paio di consunte pantofole di pelle e gliele mise ai piedi. «Ora potete alzarvi, coraggio.» Mentre Hergi lo tirava per le braccia, l'agonia di poco prima sembrava piacevolmente lontana, come una brutta notizia giunta da un'altra terra. In-
grey si lasciò spingere alla porta. L'Erudita Hallana lo stava aspettando nel salone della locanda, all'altra estremità della strada principale di Red Dike. Guardò i suoi bendaggi e disse cortesemente: «Spero che stamattina stiate meglio, Lord Ingrey». «Sì, grazie. La vostra medicina mi ha aiutato. Anche se non è stata la più saporita delle colazioni.» Le sorrise, con un'aria che a lui stesso parve alquanto stordita. «Ah, lo immaginavo.» Hallana guardò Hergi. «E quanti cucchiai...?» L'altra alzò due dita. Ingrey non capì se il sopracciglio inarcato della Divina indicasse critica o approvazione, perché la serva si limitò a scrollare le spalle. Ingrey seguì di nuovo le due donne al piano superiore. Furono fatti entrare nel salotto, senza nessun entusiasmo, dalla donna incaricata di sorvegliare Ijada. Lui si guardò attorno in cerca di tracce degli eventi della sera prima, ma non vide nulla, a parte vaghe tracce di sangue sul pavimento. Nel sentire le loro voci, Ijada uscì subito dalla camera da letto. Era già abbigliata per il viaggio, con lo stesso abito da equitazione grigio e azzurro del giorno precedente, a parte gli stivali, sostituiti da due scarpe leggere. Ingrey la scrutò, a disagio; lei gli restituì un'espressione seria e pensierosa. Sempre più imbarazzato, l'uomo acuì le proprie percezioni per capire che cosa stesse pensando. Quel mattino non gli sembrava tanto diversa, solo più energica, animata da un'intensità che la rendeva più attenta e vivace. Emanava un odore caldo, simile a quello provocato dal sole sull'erba secca. D'impulso si protese ad annusarlo meglio... uno sforzo inutile, perché non era qualcosa che si trovava nell'aria. Anche Hallana aveva una sorta di aura particolare intorno a sé, una sollecitudine forse originata dalla sua gravidanza e qualcosa che ricordava l'odore dell'aria dopo un fulmine, che Ingrey attribuì al demone pacificato dentro di lei. Le altre due donne, Hergi e la sorvegliante, al loro confronto apparivano scialbe e insignificanti, come fatte di carta. L'Erudita Hallana abbracciò Ijada e le mise in mano una lettera. «Io devo partire subito, altrimenti non arriverò a casa prima che cali la notte», le disse. «Ma avrei preferito poter venire con te. Questa situazione è molto preoccupante, se si considera...» Si voltò verso Ingrey, il quale annuì, intuendo che alludeva alla sua maledizione. «Ciò che è successo basterebbe a farne una questione di competenza del Tempio, anche senza... be', non importa. Che i Cinque Dei proteggano il tuo viaggio. Questa lettera è per il
maestro del mio ordine, a Easthome: gli chiedo d'interessarsi al tuo caso. Con un po' di fortuna potrà starti vicino, mentre io sono costretta a lasciarti.» Quindi si rivolse a Ingrey: «Confido in voi, mio signore, perché questa missiva giunga a destinazione. E non in altre mani». Lui allargò le braccia per indicare che avrebbe fatto il possibile, e quel gesto un po' ambiguo fece stringere le labbra di Hallana. Quale agente di Hetwar, Ingrey sapeva bene come aprire e copiare una lettera senza lasciare tracce e non dubitava che la donna lo giudicasse in grado di compiere quei lavoretti da spia. Tuttavia il dio delle spie era il Bastardo; chi poteva dire quali trucchi conoscessero le sue maghe? E comunque, a quale dei due sacri Ordini di cui Hallana faceva parte aveva indirizzato la lettera? In ogni caso, i sensi di Ingrey non gli permisero di capire se in quell'oggetto ci fosse un incantesimo protettivo. «Erudita...» La voce di Ijada era improvvisamente flebile e incerta. Erudita, non cara Hallana, notò Ingrey. Hergi stava già per accompagnare fuori la sua padrona e si accigliò seccata quando la Divina tornò indietro. «No... non importa. Non è niente. Sciocchezze.» «Lascialo giudicare a me.» Hallana si mise a sedere e inclinò la testa, con aria incoraggiante. «Stanotte ho fatto un sogno molto strano.» Ijada andò avanti e indietro, nervosa, poi sedette accanto alla finestra. «Uno nuovo.» «Strano in che modo?» «Insolitamente vivido. Dopo essermi svegliata lo ricordavo alla perfezione, mentre di solito gli altri sogni mi sfuggono subito dalla mente.» «Continua.» Il volto di Hallana sembrava scolpito nel marmo, tanto era fisso e concentrato. «È stato breve. Soltanto una visione. Mi è parso di vedere una sorta di... non so. Lo spettro della morte, sotto forma di uno stallone. Nero come il carbone, di un nero senza riflessi. Galoppava, ma molto lentamente. Le sue narici erano rosse e ardenti e fumavano; la coda e la criniera erano in fiamme. Dai suoi zoccoli scaturivano scintille, che incenerivano tutto ciò che toccavano. Si lasciava alle spalle una nuvola di cenere. Il suo cavaliere era nero come lui.» «Mmh. Questo cavaliere era uomo o donna?» Ijada corrugò la fronte. «Ho l'impressione che non sia la domanda giusta. Le gambe del cavaliere si curvavano dentro i fianchi del cavallo fino a diventarne le costole, come se i due corpi fossero una cosa sola. Nella mano sinistra stringeva un guinzaglio, all'estremità del quale galoppava un
grosso lupo.» Hallana inarcò le sopracciglia e non seppe trattenersi dal gettare un'occhiata a Ingrey. «Hai riconosciuto quel... ehm... particolare lupo?» «Non ne sono sicura. Forse. La sua pelliccia era grigio scuro, proprio come...» La sua voce tremò, poi tornò ferma. «Nel sogno, comunque, ho avuto l'impressione che mi fosse familiare.» Per un breve istante i suoi occhi azzurri si spostarono su Ingrey e la fanciulla si scurì in viso, con immenso sconforto di lui. «Stavolta però era completamente lupo. Aveva un collare irto di punte acuminate, ma rivoltato al contrario, con le punte all'interno. E perdeva sangue dalle zampe, trasformando la cenere su cui correva in una fanghiglia nera. Poi la nuvola d'ombra e di cenere mi è arrivata addosso, mozzandomi il respiro, e non ho visto altro.» L'Erudita Hallana si mordicchiò le labbra. «Un sogno davvero vivido, bambina, parola mia. Dovrò rifletterci.» «Pensi che abbia un significato? O è stato solo una reazione a tutto ciò...» Indicò la stanza, alludendo evidentemente ai bizzarri fatti della sera prima. Poi gettò uno sguardo in tralice a Ingrey. «I sogni significativi possono essere profezie, avvertimenti o direttive», disse Hallana in tono leggermente didascalico. «Non hai avuto l'impressione che fosse una di queste cose?» «No. Come ho detto è stato molto breve, per quanto intenso.» «Che cosa hai provato? Non dopo esserti svegliata, ma durante il sogno. Hai avuto paura?» «Non esattamente paura. O almeno non per me stessa. Ero furiosa, piuttosto. Frustrata. Come se avessi voluto raggiungere il cavaliere, ma mi venisse impedito.» Ci fu una pausa di silenzio. Poi Ijada si azzardò a domandare: «Erudita... Che cosa devo fare?» Hallana aveva un'espressione distante, ma si costrinse a sorridere. «Be'... pregare non fa mai male.» «Non mi sembra una vera risposta.» «Nel tuo caso potrebbe esserlo. Non ci sono certezze.» Ijada si sfregò la fronte, come se le facesse male. «Non sono sicura di voler fare altri sogni simili.» Anche Ingrey avrebbe voluto supplicare: Erudita, che cosa devo fare? Tuttavia quale consiglio avrebbe potuto dargli la maga? Quello di starsene fermo dove si trovava? Easthome sarebbe venuta a cercarlo, con tutto ciò che comportava. Proseguire il viaggio come era suo preciso dovere? Certo
una Divina del Tempio non si sarebbe sbilanciata a suggerirgli il contrario. Fuggire, oppure far fuggire Lady Ijada? Ma dove poteva mandarla? Le aveva già offerto di dileguarsi nel bosco e lei era stata così lucida da rifiutare. E se Ingrey le avesse organizzato una fuga più pratica e fattibile? Una fuga durante la notte, con tutte le precauzioni necessarie perché a lui non fosse attribuita nessuna colpa? Ma come e da chi procurarsi tutto il necessario, un cavallo, rifornimenti, denaro? Devo pensare bene a questi dettagli. Oppure poteva affidarla alla sua amica, alla maga... e mandarla in segreto a Suttleaf? Senza dubbio, se la ragazza avesse potuto trovare rifugio laggiù, l'Erudita Hallana glielo avrebbe già offerto. Ingrey strangolò con un colpo di tosse la domanda che avrebbe voluto fare, deluso che la donna li lasciasse senza null'altro che il suggerimento di pregare. Hergi aiutò la padrona ad alzarsi dalla sedia. «Fai buon viaggio, Erudita», disse Ijada. Il sorriso le riuscì un po' storto. «Non mi piace pensare che ti sia strapazzata troppo per colpa mia.» «Non lo faccio per te, cara», rispose Hallana in tono assente. «O almeno, non solo per te. Questa situazione è molto più complessa di quanto potessi prevedere. Ho bisogno del consiglio del mio caro Oswin: lui ha una mentalità molto logica.» «Oswin?» domandò Ijada. «Mio marito.» «Aspetta», disse Ijada con gli occhi spalancati per lo stupore. «Non... non quell'Oswin? Il nostro Oswin? L'Erudito Oswin che abitava al forte? Quel tipo segaligno e verboso, tutto braccia e gambe, con il collo di un fenicottero che cerca d'inghiottire una rana?» «Proprio lui.» Hallana non sembrò prendersela per quella descrizione poco lusinghiera. Le sue labbra serie si addolcirono. «Con gli anni è migliorato, te l'assicuro. Da giovane era piuttosto scorbutico. E io, be', anch'io credo di essere più accomodante di prima.» «Di tutte le novità più strabilianti, questa... Stento a crederci! Voi due non facevate altro che litigare!» «Solo su argomenti teologici, perché la cosa importava a entrambi», precisò Hallana. «Be'... per lo più su argomenti teologici.» Storse la bocca, come se stesse rievocando un vecchio ricordo. «Quella passione ci ha portato ad altre passioni. Quando sono tornata nel Dominio lui è venuto con me, poiché il suo mandato laggiù era giunto al termine. Io gli dicevo che voleva sempre avere l'ultima parola... Ci sta ancora provando. Ora fa l'insegnante, sai. Discutere gli piace sempre, è una cosa di cui ha bisogno. E
io sarei crudele a negarglielo.» «Il signor Erudito ha una gran parlantina», confermò Hergi. «E non mi piace pensare a ciò che mi direbbe se non vi riportassi subito a casa sana e salva, come gli ho promesso.» «Sì, sì, Hergi, d'accordo.» Con un sorriso, la maga si affidò di nuovo alle solerti cure della serva. Quest'ultima si affrettò a condurla alla porta e, di sfuggita, concesse a Ingrey un cenno di approvazione, presumibilmente perché aveva evitato di farle perdere tempo con altre domande. Mentre Lady Ijada guardava l'amica andarsene, lui la scrutò. Il suo bel viso era addolorato, preoccupato. La ragazza intercettò il suo sguardo e cercò di sorridergli; stranamente confortato, Ingrey le restituì il sorriso. «Oh», disse Ijada, coprendosi la bocca con una mano. «Oh cosa?» le chiese lui, perplesso. «Voi riuscite a sorridere!» Dal suo tono si sarebbe detto che fosse un miracolo inatteso, non meno che se Ingrey avesse spalancato due ali e preso il volo. Curiosamente lui s'immaginò capace di farlo. Il lupo alato. Ma che cosa sto pensando? Scosse la testa per scacciare quella fantasia e l'unico risultato fu uno sgradevole capogiro. Forse era un bene che Hergi si fosse portata via la bottiglia azzurra. Ijada andò alla finestra per guardare la strada e Ingrey la seguì. I due assistettero alle operazioni di Hergi per caricare la padrona sul carro, ormai riparato, sotto gli occhi ansiosi di Bernan. Poi l'uomo, carrettiere o fabbro che fosse, fece schioccare le redini sul dorso dei due cavalli e il veicolo si avviò sull'acciottolato, per poi sparire al primo incrocio. Nella camera la sorvegliante di Ijada si teneva occupata togliendo biancheria da una valigia, preparata per il viaggio prima che Ingrey ordinasse di prolungare la sosta. Nella posizione in cui l'uomo si trovava, vicinissimo a Ijada, proprio dietro di lei, mentre guardava fuori da sopra una sua spalla, fu quasi tentato di posarle una mano alla base del collo, dove la chioma della giovane, racchiusa in una retina, lasciava scoperta la pelle candida. Il suo respiro faceva fremere alcuni capelli proprio in quel punto. Ijada non si scostò; al contrario, girò la testa per incontrare lo sguardo di Ingrey. Non c'era timore in lei, né ripugnanza; solo un'espressione intensa, indagatrice. Eppure Lady Ijada aveva visto non solo l'orribile entità coi tentacoli, ma anche il suo lupo. Dunque la sua corruzione spirituale e la sua violenza non erano soltanto una cosa appresa da un racconto, bensì un'esperienza diretta, fatti innegabili. Lei non può ignorarli. Perché non si ritrae da me?
D'un tratto, però, quei pensieri si capovolsero: che cosa pensava lui del felino della ragazza? L'aveva visto, in quella realtà parallela, chiaramente come lei aveva visto il lupo emergere dal suo corpo. Secondo la logica, la corruzione di Ijada era analoga alla sua. Tuttavia pareva che la notte prima lei fosse stata visitata da un dio, il quale l'aveva sfiorata di passaggio col Suo mantello, esaltando il suo spirito. Tutte le teorie teologiche dei Divini del Tempio, che avevano fatto ronzare le orecchie stanche e disinteressate di Ingrey, sembravano evaporate sotto lo sguardo spietato di un Essere immane, che li sovrastava da oltre i limiti della ragione. La bestia segreta di lei era gloriosamente bella. Il terrore nasceva oggi da una dimensione diversa e insospettata, di cui Ingrey non aveva mai fiutato l'esistenza. «Lord Ingrey», disse la fanciulla, a voce bassa ma con un tono che gli fece rimescolare il sangue nelle vene. «Vorrei seguire il consiglio dell'Erudita Hallana e andare al tempio a pregare.» Lanciò uno sguardo cauto alla sorvegliante. «In privato.» Gli ingranaggi della mente di Ingrey tornarono a girare. Sarebbe stato del tutto ineccepibile che lui conducesse la prigioniera al tempio senza la guardiana. A quell'ora doveva essere quasi deserto ed essi avrebbero potuto conversare indisturbati. «Nessuno si meraviglierà, signora, se vi scorterò agli altari degli dei perché vi affidiate alla loro pietà.» Lei storse la bocca. «Alla loro giustizia, diciamo. È più il mio caso.» Ingrey indietreggiò e fece un cenno d'assenso. Disse alla sorvegliante che, se aveva altro da fare, avrebbe potuto ritenersi libera nell'ora seguente, quindi seguì Ijada fuori del salotto. Quando uscirono dalla locanda e giunsero in strada, la fanciulla lo prese a braccetto e si concentrò su come posava i piedi sui ciottoli umidi e scivolosi, senza guardarlo. Poco dopo svoltarono nella piazza del tempio, un edificio solido e maestoso, costruito con la pietra grigia locale nello stile tipico dei discendenti diretti di Audar il Grande, prima che i conquistatori darthacani dimostrassero di essere capaci di razziare le loro stesse città in una serie di sanguinose guerre civili. Oltrepassarono il cancello di ferro e, attraversato il tranquillo cortile chiuso da un imponente portico, entrarono nell'anticamera. In contrasto con la luce del mattino, l'interno era immerso in una fresca penombra, tagliata dai raggi di sole che scendevano obliqui dalle alte finestre circolari. Nella cappella della Madre tre o quattro persone erano in ginocchio o distese bocconi dinanzi all'altare. Il braccio di Ijada s'irrigidì un istante contro quello di Ingrey; lui seguì il suo sguardo oltre l'arcata della cappella del Padre e vide la bara di Boleso, sistemata su due cavalletti e coperta da un
drappo ricamato. Di guardia c'erano due uomini della milizia cittadina di Red Dike. Sia la cappella della Figlia sia quella del Figlio erano vuote a quell'ora; Ijada si diresse verso la seconda. La giovane s'inginocchiò con eleganza flessuosa di fronte all'altare. Ingrey la imitò con molta meno grazia e sedette sui talloni. Il pavimento era gelido. Nel silenzio che stagnava tra gli antichi mosaici, Ijada alzò gli occhi al cielo. Stava pensando a quali preghiere recitare? «Che cosa credete che accadrà quando sarete a Easthome?» chiese sottovoce Ingrey. «Che cosa avete pensato di fare?» Lei lo guardò in tralice, senza voltare la testa. A voce altrettanto bassa rispose: «Mi aspetto di essere interrogata dai giudici del re o dagli inquisitori del Tempio, o da entrambi. Credo che gli inquisitori del Tempio si occuperanno senz'altro con interesse del mio caso, visto ciò che è accaduto ultimamente e dopo che avranno letto la lettera dell'Erudita Hallana. Mi propongo di dire loro l'esatta verità, perché la verità è la mia difesa più sicura». Un sorriso amaro le curvò le labbra. «Inoltre è più facile da ricordare, a quanto si dice.» Ingrey fece un lungo sospiro. «Come immaginate che sia Easthome, al giorno d'oggi?» «Be'... non ci sono mai stata, ma ho sempre pensato che sia una bellissima città. La corte del re deve essere splendida; la principessa Fara mi ha parlato dei moli sul fiume, delle vetrerie d'arte, della grande Scuola del Tempio... e del Collegio Reale. Ci sono giardini e palazzi, eleganti sartorie, botteghe dì stampatori, di orefici e di artigiani di ogni genere. Ci sono giocolieri e saltimbanchi che danno spettacolo durante le festività religiose, e anche privatamente nelle dimore dei ricchi.» Ingrey ci provò ancora: «Non avete mai visto uno stormo di avvoltoi che girano intorno alla carcassa di una bestia grossa e pericolosa, un toro o un orso, non ancora morta? Quasi tutti si tengono indietro, in attesa, ma i più affamati osano avanzare e colpire col becco, per poi ritrarsi. Mentre le ore si susseguono lente, ne arrivano altri da più lontano per partecipare alla veglia, timorosi della bestia agonizzante ma ancor più di perdersi qualche boccone della sua carne, quando alla fine tutti le si getteranno addosso per smembrarla». Lei piegò le labbra in una smorfia di disgusto e si voltò a guardarlo, con una domanda negli occhi: Perché mi dite questo? «Oggi Easthome è qualcosa di simile», mormorò lui con voce ancor più bassa. «Ditemi, Lady Ijada, chi pensate che sarà il prossimo sacro re?»
Lei sbatté le palpebre. «Be', suppongo... il principe maresciallo Biast.» Era il fratello maggiore, e più sano di mente, del principe Boleso, che in quel periodo si stava facendo valere, con l'assistenza dei consiglieri militari di suo padre, al confine nord-ovest. «È ciò che pensavano tutti, prima che il sacro re, già indebolito dalla malattia, fosse colpito dalla paralisi che gli ha tolto il bene dell'intelletto. Se fosse rimasto lucido ancora per qualche anno, benché infermo, Hetwar pensa che avrebbe infine abdicato a favore di Biast per garantirgli il trono. Oppure, se il vecchio fosse morto all'improvviso, Biast avrebbe potuto sfruttare il momento e farsi incoronare subito, prima che l'opposizione radunasse le proprie forze. Pochi avrebbero immaginato che il re diventasse una specie di cadavere vivente. Ma il peggio è che la cosa dura ormai da molti mesi, dando modo tanto ai suoi alleati quanto ai suoi avversari di portare avanti progetti, manovre e intrighi, facendo cadere in tentazione persone di ogni genere. Il kin Stagthorne detiene il trono da ben cinque generazioni e non pochi altri kin sono convinti che sia ormai il loro turno.» «E allora chi, se non Biast?» «Se il sacro re dovesse morire stanotte, neppure Hetwar è in grado di prevedere chi sarebbe eletto la settimana prossima. E se non lo sa Hetwar, dubito che altri siano in grado di fare pronostici. Tuttavia, considerati certi accordi segreti e le voci che circolavano fino a qualche giorno fa, Hetwar si era convinto che Boleso sarebbe stato un candidato a sorpresa.» Ijada inarcò le sopracciglia. «Non avrei saputo immaginarne uno peggiore!» «Sarebbe stato un re stupido... e manovrabile. L'ideale, dunque, dal punto di vista di alcuni personaggi. Penso che costoro non avessero capito la pericolosità della sua natura deviante, e si sarebbero pentiti amaramente di averlo scelto. E tutto ciò prima che mi rendessi conto che a questo intrigo velenoso si era aggiunta anche la magia.» Ingrey si accigliò. Hetwar aveva saputo che Boleso ricorreva a pratiche blasfeme? «Il Guardasigilli era così preoccupato che tempo fa mi ha incaricato di consegnare alcune centinaia di migliaia di corone all'Arcidivino di Montefiume, per assicurarsi che avrebbe votato per Biast. Sua Santità si è affrettato ad accettare, ma l'ha ringraziato dell'offerta in termini piuttosto ambigui, a mio avviso.» «Il Guardasigilli ha comprato un Arcidivino?» Ingrey fece una smorfia nel constatare l'ingenuità della ragazza. «L'unico aspetto strano di quella transazione è che è stata affidata a me. Di solito Hetwar mi usa per portare le sue minacce agli avversari politici. In questo
sono bravo. Trovo divertente soprattutto quando qualcuno cerca di comprarmi, oppure replica con altre minacce. Uno dei miei pochi piaceri è condurre costoro in un'imboscata e poi guardarli in faccia quando capiscono di essere stati giocati. Nel caso dell'Arcidivino il messaggio era doppio, poiché Hetwar voleva anche metterlo sotto pressione. È un giochetto che gli riesce bene, quando sfrutta la mia reputazione in questo modo.» «Il Guardasigilli ha fiducia in voi?» «A volte. Altre volte no.» Come in questa circostanza. «Sa che sono curioso di natura e ogni tanto mi rivela notizie molto riservate. Ma io non gli faccio pressioni. Altrimenti non mi direbbe nulla.» Ingrey trasse un profondo sospiro. «Dunque, visto che sembrate non prendere sul serio i miei avvertimenti, permettetemi di essere più chiaro. Uccidendo il principe, a Boar's Head, voi non avete soltanto difeso la vostra virtù. Non avete soltanto provocato un grave danno alla casa reale. Non avete soltanto trasformato la morte del secondogenito del re in uno scandalo per il suo kin. Voi avete sconvolto un complotto politico che era già costato centinaia di migliaia di corone e mesi di preparativi segreti. Un piano che comprende l'uso di magia illegale della peggior specie. Dalla maledizione che mi è stata messa addosso bisogna dedurre che a Easthome c'è un uomo, o un gruppo, assai potente che non vuole che voi sbandierate ai quattro venti la verità su Boleso. Il loro tentativo di uccidervi in modo sottile non ha avuto successo. Prevedo che il prossimo tentativo sarà meno sottile. O forse già v'immaginate mentre vi ergete fiera dinanzi a un giudice o a un inquisitore onesto e probo quanto voi? Può darsi che uomini simili esistano, non lo so. Ma vi garantisco che v'imbatterete in persone di ben altro genere.» Con la coda dell'occhio vide che le sue parole ottenevano soltanto di farle stringere i denti. «Mi sento... pieno di rabbia», riprese Ingrey dopo un po'. «Mi rifiuto di avere una parte in tutto ciò. Posso organizzare la vostra fuga, coi piedi asciutti, stavolta, con un po' di denaro e senza che dobbiate affrontare orsi affamati. Stanotte stessa, se volete.» Ecco, l'aveva detto, rischiando di mettere in pericolo la propria carriera. Mentre il silenzio si prolungava, restò con lo sguardo fisso sul pavimento. Ijada replicò con voce bassa e vibrante: «Una soluzione conveniente per voi. Dopo esservi astutamente scagionato per la mia fuga, non dovrete opporvi a nessuno, non dovrete dire sgradevoli verità e potrete lavarvi le mani di tutto, tornando alla vita che facevate prima». Ingrey si voltò di scatto. Il viso della ragazza era pallido. «Difficile»,
sussurrò lui. «Oggi ho anch'io un bersaglio dipinto sulla schiena.» Le sue labbra si piegarono in un sogghigno, uno di quelli che solitamente inducevano gli altri a indietreggiare. «Questo vi diverte?» Ingrey ci pensò. «Danneggia i miei interessi, in ogni caso.» Ijada tamburellò con le unghie su una pietra del pavimento. Il ticchettio parve quello di artigli lontani. «Questo per quanto riguarda l'alta politica. Ma per la teologia?» «Che cosa?» «Io mi sono sentita sfiorare da un dio, Ingrey! Perché?» Lui fece per rispondere, ma poi rimase in silenzio. Nello stesso tono fiero, la fanciulla continuò: «Per tutta la vita ho pregato, e per tutta la vita mi è stata negata una risposta. Avevo quasi finito per non credere più negli dei, o se ci credevo era solo per maledire la loro indifferenza. Essi hanno abbandonato mio padre, che li aveva sempre serviti con lealtà. Hanno abbandonato mia madre, o forse non avevano il potere di salvarla, cosa altrettanto grave se non peggiore. Se un dio è venuto a me, certo non è venuto per me! In tutti i vostri calcoli, questo a quanto ammonta?» «La politica di corte è la cosa più lontana dagli dei che io conosca», disse lentamente Ingrey. «Se voi andrete a Easthome, andrete verso la morte. Il martirio può essere glorioso, ma suicidarsi è un peccato.» «E voi verso che cosa andate, Lord Ingrey?» «Io ho Lord Hetwar che mi proteggerà.» Credo. «Voi non avrete nessuno.» «Non è possibile che tutti i Divini del Tempio, a Easthome, siano venali. Inoltre ho il kin di mia madre!» «Il Conte Badgerbank era presente al colloquio in cui si è deciso di mandare me. Siete proprio sicura che fosse lì per fare i vostri interessi? Io no.» Ijada allontanò da lui l'orlo della gonna. «Ora pregherò per avere una guida», annunciò. «Abbiate la cortesia di non disturbarmi.» Si distese in avanti nella posizione di supplica più profonda, bocconi sul pavimento, con le braccia allargate e il viso girato dall'altra parte. Ingrey si sdraiò sulla schiena e guardò il soffitto a cupola, irritato, confuso e di nuovo pieno di dolori. L'effetto della pozione di Hergi stava finendo. I suoi pensieri giravano in cerchio, frustrati. Poi cercò di provare comprensione per lei, ma non ci riuscì. Chiuse gli occhi, sopraffatto dalla
stanchezza. Dopo qualche tempo la voce di Ijada lo riscosse. Il tono era sferzante. «State pregando o dormendo? E in ogni caso, avete finito?» Ingrey sbatté le palpebre e la vide incombere su di lui, in piedi. Si era appisolato, evidentemente, perché non l'aveva sentita muoversi. «Sono a vostra disposizione, signora.» Fece per alzarsi ma si fermò subito, reprimendo un gemito, e cercò di riprendere fiato. «Ah, be', le vostre condizioni non mi sorprendono. Avete dato un'occhiata, ieri sera, a come avete ridotto quelle povere catene?» La giovane donna gli tese una mano, esasperata. Curioso di saggiare la sua forza, lui le afferrò il polso con entrambe le mani. Ijada si piegò all'indietro come un marinaio che desse di piglio alla fune di un verricello, e Ingrey si ritrovò in piedi. Mentre uscivano dal portico sotto il sole autunnale, l'uomo domandò: «Quali indicazioni avete ricevuto, signora, con tutte le vostre preghiere?» Lei si morse un labbro. «Nessuna. Ma i miei pensieri sono meno disordinati; un po' di meditazione ha avuto un buon effetto, se non altro.» Lo sguardo che gli gettò in tralice era enigmatico. «Meno disordinati, sì. È solo che... non posso fare a meno di pensare che...» Ingrey annuì con aria incoraggiante. Infine lei sbottò: «Non riesco ancora a capacitarmi che Hallana abbia sposato Osivin!» Trovarono la sorvegliante di Ijada nel salone della locanda. Era seduta a un tavolo d'angolo col tenente Gesca, piegati l'una verso l'altro a chiacchierare sottovoce davanti a piatti sporchi in cui restavano solo briciole di pane, croste di formaggio e bucce di mela. La camminata sotto il sole aveva rimesso un po' in sesto la muscolatura di Ingrey, che si diresse verso di loro senza più zoppicare. I due lo videro arrivare e tacquero. «Gesca...» Ingrey, ricordando che non aveva ancora fatto colazione, indicò col capo le stoviglie. «Com'è la cucina qui?» «Il formaggio è ottimo. Ma state lontano dalla birra... sembra che sia diventata acida.» Ijada spalancò gli occhi, ma non disse nulla. «Ah. Grazie dell'avvertimento.» Ingrey allungò una mano per afferrare dell'ultimo rimasuglio di una pagnotta. «Di che cosa stavate chiacchierando, se posso chiederlo?» La sorvegliante assunse un'aria spaventata, ma Gesca rispose in tono tra
l'indifferente e il provocatorio: «Le stavo raccontando le vostre imprese». «Le imprese di Lord Ingrey?» disse Ijada. «Sono molte?» Ingrey alzò gli occhi al cielo. Gesca lo prese per un incoraggiamento e sogghignò. «Le ho raccontato di quando la carovana di Hetwar è stata attaccata da quei banditi, nella foresta di Aldenna, mentre da Darthaca tornavamo in patria. E di come voi abbiate meritato la riconoscenza del Guardasigilli e siate stato assunto alle sue dipendenze. Anche se, a dire il vero, lo dovete alle parole elogiative che ho usato nel fare il mio rapporto al nostro signore.» «Davvero?» esclamò Ingrey, cercando di capire se Gesca si stesse mangiando le parole perché era nervoso. E per quale motivo lo fosse. «Eravamo un drappello numeroso e ben armato», continuò Gesca, rivolto alle due donne. «Però quella banda di fuorilegge si era stabilita da tempo nella foresta e ormai ammontava a oltre duecento uomini, tra cui non pochi disertori dell'esercito, sbandati e gente fuggita di galera. Erano diventati la piaga della regione. Probabilmente a invogliarli ad assalirci è stato il sospetto che stessimo scortando una grossa somma di denaro. Io ero su un carro assieme a Lord Ingrey quando ci sono piombati addosso. Ma non ci hanno messo molto ad accorgersi del loro errore. Non avevo mai visto un uomo lottare in modo tanto stupefacente.» «Non sono un bravo spadaccino», si schermì Ingrey. «Ma quelli erano dei buoni a nulla.» «Non ho detto 'bravo', ho detto 'stupefacente'. Io ho visto in azione grandi spadaccini, e voi non lo siete, così come non lo sono io. Ma lo strano modo in cui lottavate... e dico 'strano' perché non avrebbe dovuto funzionare, invece... Quando è stato chiaro che nessuno avrebbe potuto abbattervi finché avevate spazio per manovrare la spada, un furfante gigantesco come un orso vi è balzato addosso. Io ero a una dozzina di passi e avevo il mio daffare per restare vivo, ma ciò che ho visto... Voi avete lanciato in aria la spada, avete afferrato quel colosso per la testa e gli avete spezzato il collo, poi avete ripreso al volo la spada mentre ricadeva e vi siete voltato, in tempo per trafiggere il cuore al bandito che vi stava aggredendo alle spalle. Il tutto in pochi, rapidissimi movimenti.» Ingrey non aveva nessun ricordo di quell'episodio, benché ricordasse la battaglia, naturalmente, o almeno l'inizio e la fine. «Gesca, voi avete una bella faccia; avreste successo con le donne anche se raccontaste loro la semplice verità, qualche volta.» «Ah, se le sparassi grosse solo per sedurre le donne, racconterei le mie
imprese. Invece ricordo benissimo ciò che è accaduto. A quel punto gli altri banditi si sono voltati e sono fuggiti nella foresta. Voi però avete raggiunto il più lento e...» Gesca tacque e Ingrey d'improvviso ne comprese il motivo: non voleva impressionare le due donne con immagini troppo cruente. Lui era tornato in sé mentre dava metodicamente il colpo di grazia ai feriti. Aveva il braccio destro arrossato fino al gomito e l'odore del sangue nelle narici. Gesca, pallido in viso, l'aveva afferrato per una spalla, gridando: Ingrey! Per le lacrime del Padre, risparmiatene qualcuno per l'impiccagione! Lui aveva... no, non dimenticato l'episodio. Aveva impedito a se stesso di riaprire quella pagina della sua memoria. Gesca mascherò l'esitazione bevendo un sorso di birra. Troppo tardi ricordò che era acida, ma stoicamente la buttò giù lo stesso. Poi si asciugò le labbra, con una smorfia. «È stato quella sera che ho raccomandato a Hetwar di assumervi in pianta stabile. L'ho fatto per puro egoismo: volevo essere certo che non vi avrei mai trovato nel campo avverso, in battaglia.» E gli sorrise, ma non con gli occhi. Il sorriso di Ingrey fu altrettanto tirato. Facciamo il sottile, Gesca? Non è da te. Che cosa stai cercando di dirmi? Il dolore alla testa per il colpo ricevuto il giorno prima stava tornando. Ingrey decise di rientrare alla sua locanda e di mangiare là. Affidò la prigioniera alla sorvegliante, raccomandò alle due donne di chiudere bene la porta e se ne andò. 7 Dopo avere mangiato qualcosa nella sala comune della sua locanda, Ingrey salì in camera e si gettò di nuovo sul letto. Era trascorso un giorno e mezzo da quando la Devota di Reedmere gli aveva prescritto il riposo per il trauma alla testa; dentro di sé le chiese umilmente scusa. Tuttavia, nonostante la stanchezza, mentre il pomeriggio si faceva più caldo, non riuscì a addormentarsi. Pensare a come organizzare in segreto una fuga notturna non sarebbe servito a nulla, se Jiada si rifiutava di ammettere che era la sua unica ragionevole possibilità di salvezza. La ragazza doveva essere persuasa. Se il suo animale interiore fosse stato scoperto, l'avrebbero messa al rogo? Ingrey immaginò le fiamme che lambivano il suo corpo flessuoso come carezze infernali, appiccando il fuoco alla veste oleata fatta indossare ai condannati per abbreviare la loro agonia. La immaginò che pendeva dal ramo
di una quercia sacra, impiccata a una corda di canapa, in un'insensata parodia dei sacrifici del Vecchio Dominio. Oppure il boia le avrebbe concesso l'onore di una corda di seta, come per il suo leopardo, per rispetto al rango del suo kin? Anche se in realtà le antiche tribù, non disponendo della seta, usavano lucide corde di lino per impiccare i nobili, come gli era stato raccontato. Pensa a qualcos'altro. Invece i suoi pensieri continuarono a indugiare su visioni morbose. All'inizio quei sacrifici umani volontari del Vecchio Dominio avevano soltanto lo scopo di mandare messaggeri agli dei. Corrieri umani che, in drammatiche situazioni di necessità, si offrivano di portare le suppliche della gente direttamente in cielo, quando le semplici preghiere dette col cuore o con le labbra sembravano salire nel vuoto e svanire in un immenso silenzio. Come le mie oggi. Ma poi, sotto le secolari pressioni nemiche ai confini orientali, le difficoltà delle tribù erano cresciute e con esse le loro paure. Erano state perse battaglie e ceduti territori, la miseria aumentava e le capacità di giudizio vacillavano; in quei giorni disperati la qualità aveva lasciato il posto alla quantità e i sacri volontari erano sempre più difficili da trovare. I loro ranghi erano stati rimpinguati con corrieri divini non proprio volontari, e alla fine con soldati catturati, inservienti rapiti dagli accampamenti nemici o peggio. Dai rami degli alberi sacri pendevano frutti orripilanti. Anche bambini, aveva sentito dire Ingrey; «piccoli martiri», come li definivano le sanguinose parabole preferite dai Divini quintariani. Bambini nemici. Quale mente obnubilata affiderebbe le proprie suppliche a un bambino folle di terrore? Alla fine i maghi tribali del Vecchio Dominio dovevano essersi domandati quale genere di preghiere quelle legioni di sventurati potessero portare agli dei, nei loro cuori di vittime piangenti. Pensa a qualcosa di utile, maledizione! Le fredde parole che Ijada gli aveva rivolto nel tempio continuavano a tormentarlo come se il letto fosse pieno di cimici. Voi non dovrete opporvi a nessuno, non dovrete dire sgradevoli verità... Per i Cinque Dei, che cosa pensava quella sciocca ragazza? Quale potere immaginava che lui avesse a Easthome? Ingrey non viveva, piuttosto veniva lasciato vivere, grazie alla mano protettrice di Hetwar. Sapeva che quella protezione faceva di lui un uomo temibile, ma anche i soldati di Hetwar che risiedevano in città erano temuti: avevano un'aura di pericolosità quasi ultraterrena e decisamente utile. Nella rete di potere tessuta da Hetwar, Ingrey era senza dubbio uno dei personaggi minori. Non aveva mai distribuito favori, perciò non aveva nessuno cui appellarsi. Le
sue possibilità di aiutare Ijada si sarebbero ridotte a zero quando il convoglio fosse entrato tra le mura della città. Si accorse che quei pensieri gli stavano portando un pessimismo sempre maggiore e nessuna intuizione utile. Alla fine si assopì. Non fu un sonno molto riposante, ma almeno pose termine a quel nervoso, sgradevole rimuginare. Ingrey si svegliò quando il sole di quella lunga giornata autunnale stava per tramontare, e fece ritorno alla locanda di Ijada per invitarla alle preghiere della sera. Lei inarcò un sopracciglio e mormorò: «D'un tratto siete diventato un uomo pio». Poi però, nel vedere la sua espressione sofferente, mise da parte l'ironia e lo accompagnò di nuovo al tempio. Quando furono in ginocchio dinanzi all'altare del Fratello - le cappelle della Madre e della Figlia erano ancora piene di postulanti - Ingrey parlò sottovoce: «Ascoltate. Stasera devo decidere se domani prolungheremo la sosta o ci rimetteremo in viaggio. Voi non potete lasciarvi trascinare al naufragio senza gettare a riva una corda. Se non ci provate, finirete per trovarvela al collo, una corda, e non mi piace immaginarvi impiccata assieme al vostro leopardo. Credo che entrambi ne abbiate avuto abbastanza di pendere appesi a una trave». «Ingrey, riflettete», rispose la fanciulla a voce altrettanto bassa. «Anche presumendo che io riesca a fuggire senza che nessuno mi veda, dove potrei andare? Il kin di mia madre non mi accoglierebbe, né sarebbe disposto a nascondermi. Il mio povero patrigno... non ha la possibilità di contrastare nemici potenti, e la sua casa sarebbe il primo posto dove andrebbero a cercarmi. In altre città una donna sola, per di più forestiera, darebbe troppo nell'occhio e inoltre sarebbe un facile bersaglio per tutti i manigoldi.» Era evidente che ci aveva pensato. Ingrey fece un profondo respiro. «E se io venissi con voi?» Seguì un lungo silenzio. Gettandole uno sguardo in tralice, lui vide che si era immobilizzata, con gli occhi spalancati e fissi davanti a sé. «Voi fareste questo? Lascereste i vostri colleghi e i vostri doveri?» Ingrey strinse i denti. «Forse.» «Ma dove potremmo andare? Neppure il vostro kin ci accoglierebbe, immagino.» «Non posso neppure pensare di tornare a Birchgrove, per nessuna ragione. No. Dovremmo comunque lasciare il Dominio, attraversare il confine. Andare nella Lega Alviana, forse... addentrandoci nei Cantoni lungo le
montagne settentrionali. O a Darthaca. Io so parlare e scrivere darthacano, almeno.» «Io no. Sarei il vostro muto... che cosa? Peso morto, serva, animale domestico, scaldaletto?» Ingrey arrossì. «Potremmo fingere che siate mia sorella. Sono disposto a giurare di rispettarvi come se foste tale. Non vi toccherei.» «Mi sento davvero lusingata.» Le labbra di Ijada si strinsero in una linea dura. Lui tacque. Si sentiva come un uomo che, attraversando un fiume congelato, inizia a udire i primi scricchiolii del ghiaccio sotto i suoi piedi. Come pensa che dovrei prendere un commento del genere? «L'ibrano era la lingua di vostro padre, presumo. La parlate?» «Un poco. E voi?» «Un poco. Potremmo andare nella penisola, allora. A Chalion, oppure a Ibra, o a Brajar. Là non sareste affatto muta.» Ingrey aveva inoltre sentito dire che c'era sempre lavoro per chi sapesse usare la spada, nelle interminabili guerre di confine con gli eretici principati di Quadrene, sulla costa... Inoltre si facevano poche domande ai volontari stranieri, purché si convertissero ai Cinque. La giovane fece un lungo sospiro. «Oggi pomeriggio ho pensato a ciò che ha detto Hallana.» «A che cosa in particolare? Ha parlato molto. Fiumi di chiacchiere.» «Riflettete sui suoi silenzi, allora.» Suonava come uno degli aforismi preferiti di Hetwar, sui quali Ingrey era solito ironizzare. «È stata anche in silenzio?» «Ha detto che mi era venuta a cercare... in un momento di grande disagio, forse pericolo, per se stessa, badate bene... per due ragioni. Perché aveva appreso la notizia... e per i suoi sogni, naturalmente. Solo Hallana avrebbe menzionato la seconda ragione come se fosse quella che l'aveva spinta davvero a decidere di partire. Era lecito che io facessi brutti sogni, incubi anche peggiori della mia vita da sveglia, come risultato della stanchezza, della paura e del regalo che Boleso ha messo dentro di me.» Ijada si umettò le labbra. «Ma perché Hallana avrebbe dovuto sognare di me e delle mie disavventure? Lei è una donna del Tempio fin nel midollo, non un'eretica, anche se cerca una sua strada. Vi ha parlato di quei sogni?» «No. Né io ho pensato di chiederglielo.» «Hallana ha fatto molte domande, e soltanto guardandoci ha appreso qualcosa, non so che cosa. Tuttavia non mi ha indicato nessuna possibile
via d'uscita, in un senso o in un altro. Anche questo è un silenzio. Tutto ciò che mi ha dato, in definitiva, è questa lettera.» Ijada si toccò la stoffa ricamata della giacca da cavallerizza sulla parte sinistra del petto e Ingrey ebbe l'impressione di sentire il rumore della carta sotto, in una tasca interna. «Si aspetta che io la recapiti, come se fosse l'unica soluzione che mi ha offerto. E invece dovrei gettarla via per una chimerica fuga in esilio con... con un uomo conosciuto solo quattro giorni fa?» Tacque un istante. «E soprattutto come vostra sorella minore, che i Cinque Dei mi risparmino!» Ingrey non capì perché si fosse offesa, ma certo quello era chiaramente un rifiuto. Con voce grave disse: «Allora domani proseguiremo il viaggio verso Easthome, con la bara di Boleso». Il che gli avrebbe lasciato ancora tre giorni per pensare a qualche altra argomentazione, o a qualche altro piano, durante le sue notti insonni. Ammesso che riesca a pensare. Nel crepuscolo sempre più scuro, la scortò alla locanda dove Ijada alloggiava e l'affidò di nuovo alla sorvegliante. La donna aveva uno sguardo evidentemente sospettoso, ma non fece nessun commento. Tornando in strada, Ingrey si chiese se avrebbe dovuto riflettere sui silenzi di Ijada. Certo non erano stati pochi. Mentre si avvicinava all'ingresso della sua locanda, un uomo emerse dalla penombra del muro dove si era appostato. Ingrey portò una mano all'impugnatura della spada, ma si rilassò non appena la figura fu illuminata dai riflessi gialli della lanterna sopra la porta. Era Gesca, il quale lo salutò con un cenno del capo. «Facciamo quattro passi, Ingrey. Ho bisogno di parlarvi in privato.» Ingrey inarcò le sopracciglia, ma non si oppose. I due proseguirono sull'acciottolato, svoltarono nella prima traversa e poco dopo giunsero nella piazza su cui si apriva una delle porte della città. Al centro della piazza c'era un pozzo coperto da un'ampia tettoia, al riparo della quale trovavano posto alcune robuste panche di legno; fu lì che andarono a sedersi. Gesca attese l'allontanarsi di un servo che portava sulle spalle un palo con agganciati due secchi colmi d'acqua. Lì accanto una coppia si affrettava verso casa; la donna teneva una lanterna, mentre l'uomo aveva sulle spalle un bambino che si reggeva afferrandogli i capelli con le piccole mani, senza nessun riguardo e ridendo delle sue proteste. L'uomo esaminò con cautela i due militari armati di spada, si tranquillizzò notando la loro aria rilassata e proseguì accanto alla compagna. I loro passi svanirono in lontananza. Gesca non aveva ancora aperto bocca. Tamburellava nervosamente con le dita su un ginocchio e il suo silenzio si prolungava. «Avete qualche pro-
blema con la truppa?» domandò alla fine Ingrey. «O si tratta degli uomini di Boleso? Insomma, che cosa c'è?» «Uh!» Gesca raddrizzò le spalle. «Forse dovreste essere voi a dirmelo.» Esitò ancora, si mordicchiò il labbro inferiore, poi domandò bruscamente: «Vi siete innamorato di quella dannata femmina, Ingrey?» Lui s'irrigidì. «Perché mai pensate una simile sciocchezza?» «Perché la penso?» replicò l'altro con aperto sarcasmo. «Be', vediamo. Che cosa può avermela suggerita? Forse il modo in cui vi appartate a parlare con lei non appena ne avete l'occasione? O magari l'impeto con cui vi siete tuffato come un pazzo in un torrente in piena per salvarla? Oppure non sarà il fatto che siete stato sorpreso mezzo nudo mentre cercavate di scivolare nella sua camera in piena notte? O è lo sguardo famelico con cui la fissate quando pensate che nessuno vi stia osservando? O i cerchi scuri da malato d'amore che avete intorno agli occhi? Capisco che soltanto Ingrey kin Wolfcliff arderebbe di passione per una donna capace di ammazzare i propri amanti, ma per voi questo dovrebbe essere un deterrente, non un motivo di lussuria!» Gesca sbuffò. «Avete un'impressione del tutto sbagliata dell'accaduto», ribatté freddamente Ingrey. Per un attimo fu raggelato dall'orribile pensiero che anche altri avessero lo stesso sospetto. Una simile interpretazione dei fatti da parte della gente, inoltre, si sarebbe adattata fin troppo bene all'assassinio di Lady Ijada, se la maledizione fosse riuscita a indurlo a ucciderla. Poi però gli si mozzò il fiato al pensiero ancora più preoccupante che Gesca, in realtà, avesse visto giusto... No. No. «C'è stato un solo amante.» «Che cosa?» «Quello che lei ha ammazzato.» Dopo un momento Ingrey aggiunse: «Certo bisogna ammettere che, anche se la sua vittima è soltanto una, vale per mille». Per un poco tacque, accigliato. «In ogni caso, lei non è attratta da me, perciò i vostri timori sono infondati.» «Non è così. Lei vi trova un uomo molto attraente, benché di carattere cupo.» «Come fate a sapere questo?» Ingrey ripensò in fretta a ciò che era accaduto negli ultimi giorni... quando mai Gesca aveva parlato con la prigioniera? «La ragazza ne ha parlato con la sua sorvegliante, oppure è stata quest'ultima a farle domande. È piuttosto ciarliera costei, se uno sa prenderla per il verso giusto. Molte donne che servono la Madre diventano così.» «Con me la sorvegliante non apre bocca.»
«Perché voi le fate paura. Io no. Almeno al vostro confronto. Molto utile, dal mio punto di vista. Avete mai sentito due donne quando parlano degli uomini? Noi siamo dei fanfaroni buoni solo a scambiarci le nostre vanterie, ma le donne... preferirei essere sezionato vivo da un anatomista della Madre, piuttosto che ascoltare due femmine che parlano di me quando pensano che nessuno le senta.» Gesca finse di rabbrividire. Ingrey dovette fare uno sforzo per non domandare: Che cos'altro ha detto Lady Ijada di me? La prigioniera, rifletté, doveva pur ingannare il tempo in qualche modo quand'era chiusa in camera con quella campagnola; le chiacchiere di poco conto potevano proteggere i segreti meglio del silenzio stesso. Alla fine gettò lì un blando: «C'è qualcos'altro che dovrei sapere?» «Oh, sì.» Gesca passò a un'imitazione in falsetto della voce femminile: «Sapete, mia cara, quell'uomo ha un sorriso davvero devastante». Il sorriso di Gesca, notò Ingrey, era un ghigno diabolico. Evidentemente le ombre della sera non erano ancora abbastanza fitte, perché anche il tenente vide il sorriso stampato sul volto di Ingrey, si accigliò e alzò un dito ammonitore. «Ascoltate, Ingrey, non voglio vedervi commettere una sciocchezza pericolosa», disse in tono serio. «Voi avete un futuro al servizio di Hetwar, un futuro molto più promettente del mio, e non è solo il vostro casato che può spingervi avanti. Io un giorno potrò forse diventare capitano delle sue guardie. Voi siete un uomo istruito e parlate due lingue. Hetwar vi tratta da pari... non di rango, ma d'intelletto... e voi gli rispondete con lo stesso tono. A volte, ascoltandovi parlare, mi sento girare la testa. Io non voglio neppure percorrere le strade cui siete destinato voi; certe cose mi confondono, preferisco restare nel mio piccolo. Ma soprattutto... non vorrei essere io l'ufficiale mandato ad arrestarvi.» Ingrey si rilassò. «Più che giusto.» «Bene.» «Domattina riprenderemo il viaggio.» «Ottimo.» «Se riuscirò a infilarmi gli stivali.» «Verrò ad aiutarvi.» E rimanderò a Reedmere quella sorvegliante troppo curiosa, spiona e pettegola. La sostituirò con un'altra. O con nessuna. Le chiacchiere femminili erano già abbastanza seccanti, ma che cosa sarebbe successo se la donna avesse fatto circolare i suoi pettegolezzi su ciò che aveva visto accadere durante la visita di Hallana? E se si fossero già diffuse voci incontrollate?
I due uomini si alzarono e tornarono indietro lungo le strade poco illuminate. Alla porta della locanda, Ingrey si fermò per salutare Gesca, il quale proseguì a passi svelti. Lui restò a guardarlo mentre si allontanava. E così Gesca mi tiene d'occhio. Ma perché? Semplice curiosità? Interesse per le attività sessuali altrui? Sincero interesse, come aveva lasciato intendere? Cameratismo e preoccupazione? Pettegolezzi sulle mie bizzarrie, eh? Ingrey rifletté che, pur dichiarandosi uomo semplice e illetterato, Gesca era stato assai abile nel dipingergli la situazione. Il suo discorso aveva forse uno stile diretto e poco raffinato, però aveva presentato le osservazioni in modo logico ed efficace. Se Hetwar aveva fatto in modo di ricevere un rapporto da Gesca oltre al suo, cosa che sarebbe stata tipica di lui... allora i silenzi e le reticenze di quello di Ingrey dovevano apparirgli fin troppo eloquenti. A denti stretti, represse un'imprecazione ed entrò nella locanda. Il giorno successivo, durante il viaggio, le campagne e i boschi che l'autunno riempiva di colori caldi passarono inosservati all'attenzione di Ingrey, che era invece fin troppo consapevole della presenza di Ijada. La fanciulla viaggiava a fianco del carro per non allontanarsi troppo dalla sua nuova sorvegliante, una giovane e timida Devota dell'Ordine della Sorella che il Divino di Red Dike aveva distolto dalle sue mansioni di maestra per affidarle quell'insolito incarico. Quando erano montati a cavallo, Ijada gli aveva sorriso e Ingrey era stato sul punto di fare altrettanto, ma proprio allora gli erano tornate in mente le parole sarcastiche di Gesca e la sua bocca si paralizzò in una specie di sogghigno distorto. A disagio, si era affrettato a spronare il cavallo per allontanarsi, prima che gli venisse uno spasmo ai muscoli facciali. Si chiedeva quale pazzia si fosse impadronita della sua lingua il pomeriggio precedente, nel tempio. Era naturale che Ijada avesse rifiutato di fuggire, anche con la prospettiva del cappio, assieme a un uomo che aveva cercato di ammazzarla... quante volte, tre? quattro? Che razza di scelta era quella per una ragazza? Rifletti! Era il caso di offrirle una scorta diversa, della quale lei potesse fidarsi? Ma dove trovarne una adatta? L'idea di rapirla e di gettarla di traverso sulla groppa del cavallo, per fuggire con lei, lo portò a elucubrazioni ancora più inutili. Conosceva la velocità e la ferocia che il suo lupo poteva dargli; che cos'era in grado di fare il leopardo che aveva dentro di sé Ijada? La ragazza aveva già ammazzato Boleso, un uomo più alto e robusto di lui, benché l'avesse colto di sorpresa. Quell'atto
di violenza aveva sorpreso anche lei, a quanto Ingrey aveva capito. Se Ijada avesse voluto fargli resistenza... e se lui... e se lei... Ma le immagini che gli si affacciavano alla mente furono incrinate dal ricordo di un altro avvertimento di Gesca: Per voi questo dovrebbe essere un deterrente, non un motivo di lussuria! E la sua preoccupazione aumentò. Nossignore, non mi sto certo innamorando di lei, Gesca, possano marcire i tuoi occhi curiosi. E non è neppure lussuria. Niente affatto. Nulla che Ingrey non avesse sotto controllo, comunque. Trascorse il resto della giornata evitando di sorriderle, di guardarla, di cavalcare vicino a lei, evitando di parlarle e di mostrare in qualsiasi modo che faceva caso alla sua esistenza. Il suo umore doveva essere abbastanza trasparente, perché Gesca gli si avvicinò con l'aria di volergli dire qualcosa, lo guardò in faccia, quindi cambiò idea e andò prudentemente a prendere posizione all'estremità opposta della colonna. Nessun altro lo avvicinò; gli uomini di Boleso sembravano innervositi dal suo sguardo. Ai pochi ordini che diede, tutti si affrettarono a obbedire. Quel mattino erano partiti tardi, avevano dovuto mettere spesso i cavalli al passo e il viaggio era stato più lento del previsto. Come risultato, verso il tramonto furono costretti a fermarsi a Middletown, un piccolo borgo poco attrezzato per accogliere i viaggiatori, benché più vicino a Easthome di quanto Ingrey desiderasse. Non ebbe nessuno scrupolo nel mandare gli uomini di Boleso a pernottare nella stalla del rustico tempio locale, mentre lui requisì l'unica piccola locanda per sé, la sua prigioniera, la sorvegliante e la mezza dozzina di cavalieri di Hetwar. Quella sera non ci sarebbero state visite al tempio per confabulare in privato. Decise però che il giorno seguente avrebbero pernottato in una cittadina più grande. E la notte successiva... be', di notti successive ormai non ne rimanevano molte. Visto che Gesca preferiva stendere il suo sacco a pelo in cucina, davanti al camino, subito dopo cena Ingrey portò in camera le sue ossa ancora doloranti e dormì da solo. Il mattino seguente Ingrey calcolò che quel giorno avrebbero dovuto coprire una distanza più breve, perciò non costrinse il convoglio a partire troppo di buon'ora. Era seduto nella piccola sala comune della locanda e stava facendo colazione con pane un po' raffermo e tè alle erbe, quando
Lady Ijada scese al pianterreno seguita dalla sua nuova sorvegliante. Ingrey riuscì a restituirle il cenno di saluto senza inopportune contrazioni dei muscoli facciali. «Era comoda la vostra camera?» s'informò con neutra cortesia, consapevole della vicinanza dei due soldati che finivano di mangiare a uno dei rustici tavoli in fondo al locale. «Abbastanza.» Negli occhi della fanciulla c'era uno sguardo serio e scrutatore, ma sempre meglio che insospettire i curiosi con un sorriso. Per un attimo Ingrey fu tentato di domandarle se avesse fatto sogni rivelatori, ma anche quello era un argomento del tutto fuori questione, in pubblico. Forse più tardi si sarebbe arrischiato a cavalcare qualche minuto al suo fianco; Ijada si era già dimostrata capace di conversare sottovoce e senza voltarsi dalla sua parte, per non dare nessuna informazione a chi li stesse guardando. Un rumore di zoccoli e un tintinnio di finimenti nel cortile li indussero a girarsi verso la porta. «Ehi, di casa!» chiamò una voce roca, e il locandiere uscì senza esitare incontro ai nuovi clienti, fermandosi solo per mandare la serva ad avvisare il ragazzo della stalla di prendersi cura dei loro cavalli. Nell'udire quella voce Ijada ebbe un sussulto e si affrettò a uscire a sua volta. Ingrey si prese il tempo di finire il boccale di tè, quindi la seguì, portando di riflesso la mano destra all'impugnatura della spada. Sotto il porticato si fermò alle spalle della giovane, che osservava con grande stupore i nuovi arrivati. Quattro uomini, tutti ben armati, stavano smontando da cavallo. Uno era chiaramente un servo e due indossavano la livrea di un casato nobiliare, mentre il quarto... Ingrey restò senza fiato per la sorpresa e, quando riprese a respirare, in lui s'insinuò un senso di sgomento. Il viaggiatore che ancora indugiava in sella con le redini tra le mani guantate, in attesa dello stalliere, era il conte elettore Wencel kin Horseriver in persona. Era giovane e snello; indossava una tunica dai bordi in filo d'oro e sopra un giaccone di pelle color vinaccia. L'ampio colletto del giaccone, in pelliccia di martora, aveva lo scopo di mascherare le sue anomalie fisiche. I capelli biondi, tra i quali già s'insinuavano ciocche grigie, erano lunghi fino alle spalle e spettinati per la cavalcata. Aveva un volto lungo e magro, con un'ampia fronte troppo sporgente, ma la bruttezza dei lineamenti era in parte riscattata dagli occhi, azzurri e penetranti, che all'apparire di Ingrey si erano subito fissati su di lui. La comparsa del conte in quello sperduto borgo di campagna era già di per sé inspiegabile,
ma lo sgomento di Ingrey era dovuto ad altro... Intorno a Wencel c'era un odore che non era proprio un odore; inoltre l'uomo aveva una specie di ombra, benché si trovasse in pieno sole, una strana aura che lo faceva apparire in qualche modo più presente di quanto lo fosse chiunque altro. L'odore era acidulo come quello dell'urina, ma caldo, con un tono dolciastro che ricordava la paglia; giunse alla mente di Ingrey senza passare per le sue narici. Ha in corpo uno spirito animale. Anche lui. E io non me ne sono mai accorto. Ingrey si voltò verso Ijada. Anche il viso della fanciulla era teso per lo stupore. L'ha sentito... l'ha annusato? L'ha visto? Sembra una novità inattesa anche per lei. Che sia una cosa recente? Quella sorta di percezione extrasensoriale aveva tuttavia tre facce: anche Wencel era rimasto immobile, ancora in sella, col capo inclinato da una parte e gli occhi spalancati; dopo aver considerato un poco Ingrey, il suo sguardo balzò su Ijada. Per un attimo aprì la bocca, sbalordito, poi la richiuse, ma non seppe reprimere un sorrisetto contorto. Dei tre, il primo a riprendersi fu il conte. «Bene, bene, bene», mormorò. Rivolse a Ingrey un cenno di saluto, portandosi alla fronte due dita guantate, quindi posò la mano sul cuore e accennò un piccolo inchino a Lady Ijada. «Quanto è strano incontrarvi qui, tutti e due. Non avevo una sorpresa simile da... più tempo di quanto posso ricordare.» Il locandiere si lanciò in una litania di benvenuto, ma fu subito intercettato, dopo un cenno del capo di Wencel, da una delle sue guardie, che lo condusse in disparte, presumibilmente per spiegargli che cosa si attendeva dalla sua umile casa quell'illustre ospite. Come imponevano le buone maniere, Ingrey si avvicinò alla testa del cavallo di Wencel, sebbene non avesse nessuna voglia di accostarsi al conte, e lo prese per le briglie. L'animale sbuffò e tentò di spostarsi di lato, ma lui lo trattenne con mano ferma. Il dorso del cavallo era bagnato di sudore per la galoppata mattutina; sul pelame marrone del petto e intorno alle froge si vedevano tracce di bava. Qualunque motivo l'abbia portato qui, Wencel non ha perso tempo. Il conte abbassò lo sguardo su Ingrey e trasse un respiro profondo. «Tu sei proprio l'uomo che volevo vedere, cugino. Lord Hetwar si è impietosito per la tua avversione alle cerimonie funebri, così ripetutamente espresse nei tuoi peraltro assai laconici messaggi. Perciò mi è stato chiesto di venire a occuparmi del corteo del mio defunto cognato. Un dovere di famiglia, vi-
sto che sono l'unico parente non prostrato dal dolore, o costretto a letto da una malattia, o bloccato dal fango su qualche strada lontana dalla civiltà. Dietro di me è partito un convoglio di becchini equipaggiato con tutto il necessario, che ci raggiungerà a Oxmeade. È là che avevo calcolato d'incontrarti, dopo avere appreso del tuo ultimo cambio di percorso.» Ingrey si umettò le labbra aride e disse: «Sarà un vero sollievo». «Lo immaginavo.» Il conte spostò lo sguardo su Ijada e abbandonò il suo tono leggermente sardonico. «Lady Ijada, non so dirvi quanto mi dispiace per l'accaduto... per ciò che vi è stato fatto. Se a Boar's Head ci fossi stato anch'io, vi assicuro che l'avrei impedito.» Ijada gli rivolse un leggero inchino, per indicare che apprezzava quelle parole ma che avrebbe apprezzato assai di più i fatti. «Anche a me è dispiaciuto che non ci foste voi a Boar's Head. Non avevo nessun desiderio di macchiarmi le mani di sangue nobile, né... di sopportarne le conseguenze.» «Già...» Wencel si schiarì la gola. «Pare che avremo da discutere molte più cose di quanto pensassi.» Rivolse a Ingrey un sorriso secco e smontò di sella. Dopo essere diventato adulto, Wencel era rimasto circa un palmo più basso del cugino; eppure, per ragioni che a Ingrey erano poco chiare, la gente lo giudicava più alto di quanto fosse in realtà. Sottovoce aggiunse: «Cose strane e segrete, visto che hai deciso di non farne cenno nei tuoi rapporti al Guardasigilli. Qualcuno potrebbe rimproverarti per questo. Stai certo che io non sono uno di loro». Wencel mormorò alcune istruzioni alle sue guardie; Ingrey consegnò le redini del cavallo al servo del conte e il garzone della locanda condusse gli uomini della scorta sul retro dell'edificio. «Dove possiamo parlare?» domandò Wencel. «In privato.» «Nella sala comune?» propose Ingrey, indicando la porta con un cenno del capo. Il conte scrollò le spalle. «Fammi strada.» Ingrey avrebbe preferito seguirlo, ma si rassegnò a precederlo. Con la coda dell'occhio vide che Wencel offriva galantemente il braccio a Lady Ijada, gesto che lei preferì evitare grazie all'espediente di sollevarsi l'orlo della gonna con entrambe le mani mentre saliva le scale, passandogli davanti. «Uscite», disse Ingrey ai due uomini di Hetwar che stavano facendo colazione, i quali erano scattati in piedi alla vista del conte. «Prendete le vostre scodelle e finite di mangiare fuori. Fate in modo che nessuno ci distur-
bi.» E chiuse la porta dietro di loro, lasciando fuori anche la sorvegliante con la sua espressione confusa. Dopo un'occhiata indifferente all'arredamento rustico del locale, Wencel s'infilò i guanti nella cintura, sedette su una panca e fece segno a Ingrey e a Lady Ijada di accomodarsi di fronte a lui. Le sue mani si unirono sulla consunta superficie di legno, immobili ma non rilassate. Ingrey non aveva idea del genere di animale che Wencel portava dentro di sé. Naturalmente non aveva avuto una chiara percezione neppure di quello di Ijada, finché il suo lupo non si era liberato di nuovo. Neppure in quel momento, se non avesse visto il corpo e lo spirito del leopardo in lotta contro i tentacoli della propria maledizione, sarebbe riuscito a dare un nome all'inquietante, selvaggia presenza dentro di lei. Ma per Ingrey l'interrogativo più inquietante era: Quando? Aveva visto Wencel soltanto due volte dopo il ritorno dal suo esilio darthacano, avvenuto quattro anni prima. Soltanto in seguito il conte si era sposato con la principessa Fara, quindi aveva condotto la moglie nelle terre della sua ricca famiglia lungo il corso inferiore del fiume Lure, a duecento leghe da Easthome. La prima volta che il novello sposo era tornato nella capitale, per la festa invernale del Giorno del Padre, tre anni addietro, Ingrey si trovava in missione nei Cantoni per conto di Hetwar. In occasione della visita successiva, aveva visto il cugino solo nel corso di una riunione nella sala del trono, quando il principe Biast aveva ricevuto la lancia di maresciallo e il gagliardetto dalle mani di suo padre. Tuttavia Wencel era stato occupato con la cerimonia e Ingrey non aveva potuto lasciare il seguito di Hetwar. Si erano trovati faccia a faccia, ma solo per un istante. Il conte aveva salutato il suo cugino diseredato e disonorato con un cortese cenno del capo, senza nessun segno di avversione, ma più tardi non l'aveva fatto cercare. Ingrey aveva trovato Wencel molto migliorato rispetto all'insignificante ragazzino che rammentava e si era detto che il matrimonio e il fardello del rango appena ereditato ne avevano fatto un uomo maturo, dotato di una peculiare serietà. C'era qualcosa di strano sotto quella serietà, già allora? L'ultima volta che si erano incontrati era stato nell'ufficio di Hetwar, una settimana prima. In quell'occasione Wencel si era tenuto in disparte, come se non volesse farsi notare in mezzo a quel gruppo di personaggi più anziani e severi... Era a disagio, o così Ingrey aveva supposto notando che evitava il suo sguardo. Aveva detto sì e no due parole, o forse neppure quelle. Wencel stava parlando a Ijada con espressione addolorata. «La mia si-
gnora moglie vi ha fatto un grave torto, Ijada, e a rivoltarsi contro di lei è stata sicuramente la giustizia divina. Dapprima mi ha mentito, dicendomi che eravate rimasta con Boleso per vostra volontà, finché il corriere arrivato dal castello di Boar's Head non ha portato la tragica notizia. Giuro che non le ho mai dato motivo di essere gelosa. Sarei arrabbiato con lei più di quanto sono, se il fatto di avervi tradito in quel modo non fosse già di per sé una punizione anche per lei. Ora non fa altro che piangere e io... io non so bene che cosa mi resti da fare, per dirimere questo pasticcio e salvare l'onore della mia casa.» Solo al termine del discorso raddrizzò la testa. Lo sguardo intenso con cui fissava Ijada non era dovuto esclusivamente alla presenza empatica del leopardo dentro di lei, pensò Ingrey. Credo che la principessa Fara avesse i suoi buoni motivi per essere gelosa, contrariamente a quanto afferma Wencel. Quattro anni di matrimonio e ancora nessun erede per la prestigiosa casa degli Horseriver. Tale mancanza celava la fine della passione, il fallimento del matrimonio, una qualche forma d'impotenza? Erano nate da lì le paure della moglie, giustificate o no? «Neppure io so che cosa possiate fare», rispose Ijada. Ingrey non capiva se il suo contegno celasse rabbia oppure paura. La osservò; il suo profilo era decisamente privo di espressione. All'improvviso fu ansioso di sapere con esattezza che cosa avesse visto Ijada guardando Wencel. Quest'ultimo inclinò la testa, pensieroso e accigliato. «In ogni modo, che cos'è? Certo non un tasso. Potrei supporre una lince.» Ijada alzò il mento. «Un leopardo.» Wencel spalancò gli occhi per la sorpresa. «Non sarà il... Ma dove può esserselo procurato quello sciocco di Boleso... e perché... mia signora, credo che fareste meglio a riferirmi tutto ciò che è accaduto al castello di Boar's Head.» La giovane donna guardò Ingrey, il quale fece un lento cenno d'assenso. Wencel era coinvolto nella faccenda quanto ciascuno di loro, evidentemente, e sembrava avere la fiducia di Hetwar. Perciò... Hetwar sa della bestia di Wencel, oppure no? Ijada fece un resoconto molto succinto degli eventi di quella fatidica notte, veritiero per quanto Ingrey ne sapesse, ma senza quasi accennare ai propri sentimenti né ai propri pensieri ed evitando di avanzare ipotesi e di dare interpretazioni personali. La sua voce era piatta, come se stesse raccontando fatti accaduti a un'altra. Wencel, che aveva ascoltato con la massima attenzione senza fare commenti, si voltò a scrutare Ingrey. «E allora dov'era il mago?»
«Che cosa?» Il conte indicò Ijada. «Queste cose non accadono spontaneamente. Deve esserci stato un mago. Fuorilegge, senza dubbio, se era un dilettante di riti proibiti come quel balordo di Boleso.» «La mia impressione, basata sulla testimonianza di Lady Ijada, è che Boleso stesso abbia eseguito il rito.» «Eravamo soli nella camera da letto, certo», intervenne Ijada. «Se mi è capitato d'incontrare una persona simile nella dimora di Boleso, non l'ho riconosciuto come un mago.» Wencel si grattò distrattamente la nuca. «Mmh. Forse. Tuttavia... Boleso non può avere imparato il rito da solo. Aveva preso molti animali, avete detto? Oh, per gli dei, che idiota! In effetti... no. Se il suo mentore non era con lui, deve essere stato là di recente. Oppure era nascosto, magari nella stanza accanto. O forse è fuggito.» «Mi sono chiesto se Boleso avesse dei complici», ammise Ingrey. «Ma il cavalier Ulkra ha dichiarato che nessun servo è sparito dal castello dopo la morte del principe. E Lord Hetwar non mi avrebbe mai inviato ad arrestare un individuo dai poteri tanto pericolosi senza l'aiuto del Tempio.» Sì, Ingrey avrebbe potuto scontrarsi con qualcosa di assai meno innocuo di comprensibili tentazioni erotiche. ... Come per esempio una maledizione? E se la sua compulsione omicida non fosse giunta assieme a lui da Easthome? Cercò di non mostrarsi colpito dall'idea. «Hetwar non poteva sospettare la realtà degli avvenimenti.» Ma allora perché il Guardasigilli gli aveva raccomandato la massima discrezione? Semplice accortezza politica? «Il rapporto che Hetwar ha ricevuto subito dopo quella tragica notte era confuso e ingarbugliato, te l'assicuro», disse Wencel, aggrottando la fronte. «Di leopardi non si parlava affatto, e neppure di altre cose, te lo posso garantire. Eppure... mi sarebbe piaciuto che tu arrestassi il mago, chiunque fosse.» Il suo sguardo tornò su Ijada. «Se non altro, la confessione di un simile soggetto avrebbe aiutato una Lady della mia casa, che è mio dovere proteggere.» Ingrey storse la bocca. «Dubito che ora sarei qui, vivo e sano di mente, se avessi sorpreso quell'uomo.» «Già, è innegabile», concesse Wencel. «Ma tu, più di ogni altro, avresti dovuto sapere che andava cercato.» Che la maledizione avesse annebbiato il raziocinio di Ingrey? O era stato il suo disgusto per l'intera faccenda? Si appoggiò allo schienale della pan-
ca, poi, non avendo altri elementi a sua difesa, contrattaccò con un argomento diverso: «Tu quale mago hai incontrato? E quando?» Le sopracciglia color sabbia di Wencel s'inarcarono. «Non lo immagini?» «No. Non ho sentito la tua... differenza, nell'ufficio di Hetwar. Neppure alla nomina di Biast, la volta precedente che ti ho incontrato.» «Davvero? Non potevo capire se fossi riuscito a nasconderti la mia afflizione, o se tu fossi stato semplicemente molto discreto. Te ne sarei stato grato, in quel caso.» «Non l'ho percepita», ripeté Ingrey, e fu sul punto di aggiungere: Il mio lupo era legato, ma così avrebbe indirettamente confessato che adesso non lo era. E non aveva ancora idea del comportamento che gli conveniva tenere con Wencel. «Ciò mi conforta. Bene. È accaduto nello stesso periodo in cui è successo anche a te, ovvero al tempo della morte di tuo padre... o forse dovrei dire di quella di mia madre.» Notando l'espressione perplessa di Ijada, s'interruppe per spiegarle: «Mia madre era sorella del padre di Ingrey. Questo fa di me per metà un Wolfcliff, anche se nelle generazioni precedenti alla nostra sono state molte le donne della casa Horseriver a sposarsi nel suo clan. Mi occorrerebbero carta e penna per mostrarvi tutte le complicate ramificazioni della nostra parentela». «Sapevo che siete parenti, ma non immaginavo tanto stretti.» «Stretti e in modo ingarbugliato. Da molto tempo sospetto che tutte le tragedie che ci sono accadute siano collegate.» «Io sapevo che mia zia era morta durante i mesi della mia malattia, ma non mi sono mai fermato a pensare che lei e mio padre erano deceduti nello stesso periodo. Nessuno mi ha mai detto di che cosa fosse morta; ho immaginato che fosse stato per una di quelle misteriose malattie che colpiscono le donne di mezza età», fece Ingrey. «No. È stato un incidente. Stranamente tempestivo.» Ingrey esitò. «Parli di tragedie collegate... Tu hai incontrato il mago che ha messo l'animale dentro di te? È stato Cumril anche nel tuo caso?» Wencel scosse il capo. «Qualunque cosa mi sia stata fatta, è successo mentre dormivo. E se pensi che quello non sia stato il risveglio più sconvolgente della mia vita...» «Non ti ha fatto ammalare, né portato sull'orlo della follia?» «Non così gravemente come è accaduto a te, direi. Nel tuo caso c'è stato qualcosa di sbagliato. Voglio dire, a parte la cosa orribile che è successa a
tuo padre.» «Perché non mi hai mai detto niente? Il mio caso non era un segreto. Mi avrebbe aiutato sapere che non ero solo!» «Ingrey, avevo tredici anni ed ero terrorizzato! Se avessero scoperto che anch'io avevo subito la stessa cosa, mi avrebbero fatto ciò che stavano facendo a te! Non credo che avrei potuto sopravvivere; non sono mai stato robusto e atletico come te. Il pensiero delle torture che avevi sopportato tu mi spaventava. Ero certo che la mia unica speranza fosse nascondere tutto, a qualunque costo. Quando poi mi sono accorto di essere rimasto sano di mente, ho ripreso coraggio, ma ormai tu eri stato mandato via, esiliato dal Dominio a opera del tuo imbarazzato zio. A quel punto, come avrei potuto comunicare con te? Una lettera? Sarebbe stata certamente intercettata e letta, o da chi sorvegliava te, o da chi sorvegliava me.» Aveva il respiro accelerato; fece uno sforzo per riportare la voce sotto controllo. «È strano ritrovarci oggi in questa situazione. Potrebbero bruciarci insieme, sai. Legati allo stesso palo.» «Non me», obiettò Ingrey, e imprecò contro il tremito che sentì nella propria voce. «Io ho ricevuto una dispensa speciale dal Tempio.» «Autorità in grado di offrirti la grazia potrebbero anche ritirarla», ribatté cupamente Wencel. «C'è anche la possibilità che a quel palo leghino Ijada e me. Non per una relazione amorosa, come temeva mia moglie, bensì per un rapporto diverso ma altrettanto illecito.» Ijada fissò Wencel con una nuova espressione, tesa; corrugò le sopracciglia mentre catalogava sotto un'etichetta inaspettata un uomo che credeva di conoscere e che ora scopriva di non avere conosciuto affatto. Come sto facendo io? Wencel guardò le bende di Ingrey. «Che cos'è successo alle tue mani?» «Sono inciampato in un tavolo e mi sono tagliato cadendo sopra un coltello», rispose Ingrey con tutta l'indifferenza possibile. Con la coda dell'occhio vide l'espressione incuriosita di Ijada e pregò che lei non aggiungesse particolari alla sua spiegazione. Non ancora, almeno. La giovane domandò invece al conte: «Che animale è il vostro? Lo sapete?» Wencel si strinse nelle spalle. «Ho sempre pensato che fosse un cavallo, visti gli interessi della mia famiglia. Mi sembrava sensato, se pure c'è qualcosa di sensato in questa faccenda.» Fece un lungo sospiro e i suoi occhi azzurri tornarono ad alzarsi verso i loro. «Da secoli non ci sono più guerrieri-spirito nel Dominio, a meno che qualcuno non sia rimasto nasco-
sto in qualche zona remota. Ora ce ne sono tre nuovi, non solo nella stessa generazione, ma persino nella stessa stanza. Ingrey e io... ho sempre sospettato che ci fosse un collegamento tra i nostri casi. Ma voi, Lady Ijada... non capisco. Voi non entrate nello schema. Ingrey, vorrei esortarti a cercare quel mago scomparso da Boar's Head. Forse dare la caccia a un testimone così importante ritarderà il processo contro Ijada.» «Sarebbe una buona cosa», ammise subito Ingrey. Wencel posò le mani sul tavolo, a disagio. «Ora ciascuno di noi è alla mercé degli altri due. Io pensavo che il mio segreto fosse sempre stato al sicuro con te, Ingrey, ma ora scopro che semplicemente lo ignoravi. Sono stato solo per molto tempo. È dura per me apprendere la verità così tardi.» Ingrey annuì, accigliato. Wencel raddrizzò le spalle, stirandole come se gli dolessero. «Bene. Ora devo darmi una rinfrescata e porgere il mio ultimo saluto ai resti del mio defunto cognato. A proposito, in che stato di conservazione è la salma?» «È ricoperta di sale», rispose Ingrey. «Ne avevano molto al castello di Boar's Head, per la cacciagione.» Un sogghigno amaro balenò un istante sul volto di Wencel. «È proprio da te autorizzare un trattamento simile.» «Però non l'ho fatto spellare e ripulire dalle viscere, dunque mi aspetto che la conservazione non sia perfetta.» «È un bene che il clima si sia raffreddato, allora. Ma sarà meglio evitare altri ritardi.» Wencel sospirò di nuovo, piantò le mani sul tavolo e si alzò stancamente. Per un istante l'ombra che aveva nello spirito sembrò allungarsi a colpire Ingrey, poi tornò a essere un uomo stanco, che la vita aveva schiacciato troppo presto con fardelli gravosi. «Dovremo parlare ancora.» Il conte uscì sotto la veranda e i suoi uomini balzarono in piedi per scortarlo al tempio del paese. Sulla soglia della locanda, Ingrey toccò un braccio di Ijada. Lei si voltò, stringendo le labbra. «Che cosa pensate dell'animale di Wencel?» le domandò a bassa voce. «Per citare l'Erudita Hallana, se fosse un cavallo, io sarei la regina di Darthaca», mormorò la fanciulla. Levò uno sguardo calmo e attento a incontrare quello di lui. «Il vostro lupo non ha l'aria di un lupo e il suo cavallo non sembra un cavallo. Ma ciò che posso dire, Ingrey, è che tra loro si somigliano molto.» 8
Ingrey tornò al piano superiore e riempì le borse da sella, quindi andò a cercare Gesca. Non trovò più lo scarno bagaglio del tenente appeso a un gancio nella sala comune, perciò uscì nelle strade piene di fango di Middletown, che aveva già ribattezzato Città Melmosa, e si diresse al piccolo tempio di legno, nella speranza di trovarlo là. Cercò di ricordare in quale della mezza dozzina di stalle del paese Gesca avesse fatto ricoverare i loro cavalli e il resto dell'equipaggiamento, ma lo sforzo mentale si rivelò superfluo, perché di lì a poco lo vide sotto l'ampio porticato del tempio. Stava parlando col conte Horseriver, o meglio lo stava ascoltando. Gesca si accorse dell'arrivo di Ingrey, sbatté le palpebre ma non aprì bocca. Wencel si limitò a un cenno di saluto, poi gli domandò: «Ingrey, dove sono il cavalier Ulkra e gli altri dipendenti di Boleso? Sono ancora al castello o vi stanno seguendo?» «Ci stanno seguendo, o almeno così ho ordinato. Non so a quale velocità. Ulkra non può aspettarsi di essere accolto con molta cordialità a Easthome.» «Ho capito. Se andassi loro incontro, potrei scoprire che hanno preso un'altra strada e rischierei di arrivare alla capitale dopo di loro.» Fece un sospiro. «Il mio cavallo ha bisogno di un po' di riposo. Cerca di organizzare le cose per partire di qui a mezzogiorno, se non ti spiace. Così potremo essere a Oxmeade prima che sia buio.» «Certo, mio signore», rispose formalmente Ingrey. Con uno sguardo d'intesa delegò l'istruzione a Gesca, che non sembrava molto entusiasta. Subito dopo Wencel li salutò con un cenno ed entrò nel tempio. «Allora, che cosa aveva da dirti il conte Horseriver?» domandò Ingrey sottovoce, mentre s'incamminava assieme al tenente. «Non è un uomo felice. Non oso pensare quanto sarebbe fosca la situazione se fosse stato davvero affezionato al principe suo cognato. Ma è chiaro che, in ogni caso, questa storia non gli piace affatto.» «Questo l'avevo capito.» «Però è un uomo di grande valore, a suo modo. Voglio dire, nonostante il suo aspetto. L'avevo già notato al tempo del suo matrimonio con la principessa Fara.» «In che senso?» «Be', non che abbia fatto qualcosa di speciale. Solo che non ha fatto...» «Che cosa non ha fatto?» Gesca contrasse le labbra. «È difficile da spiegare... Non ha mai fatto un errore, non si è mostrato mai nervoso, né prima né dopo... e non ha bevuto
niente. Destava un'impressione notevole. Un uomo formidabile, è questa l'espressione che mi è venuta in mente allora. In un certo senso mi ricordava voi, se ciò che conta è il cervello e non le chiacchiere.» Gesca esitò e, forse per prudenza, non volle addentrarsi oltre nella palude dei paragoni. «Siamo cugini di primo grado», osservò pacatamente Ingrey. «Proprio così, mio signore.» Gesca gli gettò uno sguardo in tralice. «È molto interessato all'Erudita Hallana.» Ingrey sogghignò. Be', era inevitabile. Prima della fine della giornata Wencel avrebbe affrontato con lui l'argomento, ne era sicuro. Il Divino del Tempio di Middletown era un giovane Accolito; aveva rischiato un attacco di panico quando era stato informato, con solo mezza giornata di preavviso, dell'arrivo del corteo con la salma del principe. Tuttavia, qualunque cerimonia il conte Horseriver fosse stato mandato a officiare, fu subito chiaro che non sarebbe avvenuta lì. La carovana lasciò il paese con una silenziosa efficienza che Ingrey non avrebbe osato criticare neppure in uno dei suoi peggiori momenti di malumore. Dentro di sé applaudì al lavoro del personale del luogo e lasciò al pallido Accolito una mancia sostanziosa per risarcirlo del suo spavento. Middletown non era ancora scomparsa alle loro spalle quando Wencel fece affiancare il suo destriero alla cavalcatura di Ingrey e mormorò: «Portati in testa alla colonna, al mio fianco. Ho bisogno di parlarti». «Come vuoi.» Ingrey mise il cavallo al trotto con un colpetto delle ginocchia; più avanti, mentre passava accanto al carro di Ijada, le rivolse quello che sperava fosse un rassicurante cenno del capo. Wencel la salutò invece con un sorriso che a Ingrey parve piuttosto ambiguo. Quando furono in testa alla comitiva, il conte si voltò a controllare che fossero fuori portata d'orecchio, quindi domandò: «Dove hai trovato quel carro da birra?» «A Reedmere.» «Ah. Almeno un elemento del suo funerale incontra i gusti del povero Boleso. A Easthome hanno preparato un carro funebre reale in argento massiccio, che dovrebbe venirci incontro a Oxmeade. Mi auguro che non sfondi qualche ponte col suo peso, lungo la strada.» «È una speranza che condivido.» Ingrey trattenne a stento una smorfia seccata. «Il mio personale di servizio mi aspetta a Oxmeade per provvedere alla mia sistemazione, stanotte. E alla tua, se ti unirai a me. Ti consiglio di far-
lo: se altra gente di corte arriverà là prima di noi, non si troverà un alloggio neppure a pagarlo a peso d'oro.» «Ti ringrazio», disse Ingrey con convinzione. Durante certi viaggi poco fortunati, ricordava di avere visto cortigiani e ufficiali contendersi furiosamente le camere disponibili nelle locande, e in qualche caso arrivare quasi a sfidarsi a duello. Il personale di servizio di Wencel aveva certo riservato i migliori alloggi disponibili in paese. «Parlami di questa Erudita Hallana, Ingrey», disse improvvisamente il conte. Se non altro non lo stava rimproverando per non avergliela ancora menzionata. Ingrey si domandò se dovesse sentirsi sollevato. «Mi è parso che fosse proprio ciò che dichiarava di essere: un'amica di Lady Ijada. L'ha conosciuta da bambina. È una curatrice dell'Ordine del Figlio e a quel tempo risiedeva in un forte delle marche occidentali... Il padre di Ijada era un Lord Devoto, il suo capitano.» «So qualcosa di Lord dy Castos, sì. Ijada mi ha parlato di lui. Ma la mia memoria ha notato una coincidenza: un mago con qualche collegamento con Lady Ijada (e con la sua nuova afflizione) sparisce da Boar's Head; qualche giorno dopo, una maga... in compagnia di un uomo che potrebbe a sua volta essere un mago... anch'essi più o meno collegati a Lady Ijada, le fanno visita a Red Dike. C'erano due maghi o soltanto una?» Ingrey scosse il capo. «Non riesco a immaginare che l'Erudita Hallana sia stata al castello di Boar's Head senza che nessuno la notasse. È una che non passa inosservata. Inoltre è visibilmente incinta, il che a mio avviso le creerebbe gravi difficoltà nell'eventuale uso del suo demone in questo periodo. Abita in una specie di eremo a Suttleaf, per stare più tranquilla. Ammetto che le mie prove sono indirette, ma credo che Boleso fosse già molto addentro nei suoi disastrosi esperimenti quando ha ucciso quel suo servo in modo ripugnante, sei mesi fa. E ciò fa pensare che il suo amico mago sia qualcuno di Easthome o dei dintorni.» Wencel sembrava dubbioso. «È sempre un errore prendere le apparenze per verità e viceversa», osservò Ingrey. «Quella Divina consacrata a due dei è una donna molto particolare, ma per chi l'ha conosciuta è impossibile credere che sia stata la marionetta di Boleso. Non è possibile. Tra l'altro non è una sciocca.» Wencel inclinò la testa. Sembrava convinto almeno di quel punto. «Supponiamo che sia stata lei a manovrare lui come un burattino, allora.» «Ancora meno probabile», replicò Ingrey contrariato. «No... non direi.»
Wencel sospirò. «In tal caso dovrò limitarmi a congetture più semplici. Qui abbiamo due maghi distinti. Ma... distinti come? Quello di Boleso potrebbe essere fuggito, dopo quella notte sciagurata? Possibile che fosse in combutta con lei?» Un'idea sgradevole. Ingrey cercò di contemplare l'ipotesi che, per assurdo, la maledizione da cui era stato invaso a Easthome gli fosse arrivata da Hallana. «La successione temporale delle cose... No, è impossibile.» Wencel grugnì, sconsolato, guardando avanti tra le orecchie del suo cavallo. «Ho saputo che l'Erudita Divina ha scritto una lettera. L'hai letta?» Che tu sia maledetto, Gesca. E maledetta quella sorvegliante pettegola. Che cos'altro aveva scoperto Wencel? «Non era una cosa che mi riguardasse. L'ha data direttamente a Lady Ijada. Sigillata.» Wencel fece un gesto eloquente e osservò: «Sono certo che tu sei un esperto di buste sigillate». «Per la corrispondenza ordinaria, sì. Ma quella proviene da una maga del Tempio. Non so che cosa potrebbe accadere alla lettera, o a me, se cercassi di aprirla. Forse una bella fiammata.» Lasciò decidere a Wencel se si riferisse alla lettera o a sé stesso. «Anche passandola a Hetwar, ci sarebbe un problema: come minimo avrebbe bisogno di un altro mago del Tempio per aprirla. E persino il Guardasigilli esiterebbe a corrompere uno di loro per fargli aprire una lettera indirizzata al capo del suo ordine.» «Un mago fuorilegge, allora.» Wencel notò l'espressione cupa di Ingrey e protestò: «Be', tu dovresti sapere se Hetwar ha modo di contattarne uno, nel caso in cui... ne avesse bisogno». «Se questa moltiplicazione di maghi ipotetici andrà avanti, dovremo cominciare a impiccarli alle travi del soffitto come prosciutti per avere più spazio», borbottò Ingrey. Ma in effetti c'era anche la sua strana maledizione di cui tenere conto. Wencel annuì, a disagio, e per un po' tacque. Quindi riprese in tono discorsivo: «In ogni caso, non è che tu sia un esperto della menzogna, cugino. Devi ringraziare il cielo che nessuno abbia voluto farti domande sulla faccenda. Non vorrei che avessi un'opinione esagerata della tua abilità nel dissimulare». La sua voce si fece più dura. «Che cos'è successo realmente in quella stanza al castello di Boar's Head?» «Se avessi qualcosa di più da riferire, sarebbe mio dovere riferirlo per primo a Lord Hetwar.» Le sopracciglia di Wencel s'inarcarono. «Oh, davvero? Per primo, ma... non ancora, vero? Ho letto i messaggi che hai inviato a Hetwar. La quanti-
tà di dettagli omessi in quei rapporti è notevole. Leopardi. Maghi. E poi il tuo comportamento strano. L'incidente durante il quale per poco non siete annegati. Il tuo romantico tenente Gesca ha persino pensato che ti fossi innamorato... Tutte cose che, per quanto ciò sia comprensibile, mancano dai tuoi resoconti.» Ingrey arrossì. «Le lettere possono finire in chissà quali mani... non sempre amichevoli.» E gli lanciò un'occhiata eloquente. Wencel aprì la bocca, ma la richiuse subito. Per qualche istante badò al proprio cavallo, mentre lui e Ingrey si separavano per aggirare un pantano. Quando furono di nuovo fianco a fianco, il conte disse: «Scusami se ti sembro troppo ansioso, ma io ho molto da perdere». Con falsa allegria, Ingrey rispose: «Io invece ho già perso tutto, conte elettore». Wencel si batté un pugno sul petto, a indicare che aveva incassato la frecciata. Poi aggiunse con calma: «C'è ancora una moglie». Stavolta fu Ingrey a tacere, a disagio. Che quello di Wencel fosse stato un matrimonio combinato - e fino ad allora senza frutti - non significava che fosse anche senza amore. Da parte di entrambi. Il comportamento della principessa Fara ai danni della sua dama di compagnia rivelava una gelosia cocente, che non poteva essere il prodotto di un'annoiata indifferenza. E l'ambita figlia del re doveva essere sembrata un dono caduto dal cielo per un giovane che conduceva una vita tanto schiva e riservata, nonostante il suo nobile rango. Wencel riprese con voce meno cupa: «D'altra parte, finire al rogo è una morte dolorosa. Non te la auguro. Penso che questo mago mancante potrebbe essere una minaccia tanto per me quanto per te: sa molte cose che non dovrebbe sapere. Noi dovremmo innanzitutto scovarlo. Se poi dimostrerà di non sapere niente di... ehm... pericoloso, sarò felice di consegnarlo a Hetwar». E se invece il mago si fosse rivelato pericoloso per lui, Wencel che cosa avrebbe proposto di farne? E, per i Cinque Dei, come? «Lasciando da parte i miei doveri... questo non è un arresto che io sia autorizzato a eseguire, né a titolo personale né con mezzi più ufficiali.» «E se i mezzi li avessi? Ottenere per primo certe conoscenze non ti attira?» «A quale scopo?» «Sopravvivenza.» «Io sto sopravvivendo.»
«Finora. Ma il fatto che il Tempio ti abbia concesso una dispensa speciale per il tuo lupo dipendeva, in parte, da una garanzia di sicurezza che ormai è stata infranta.» Ingrey gli gettò un'occhiata cauta. «Tu credi?» Le labbra di Wencel abbozzarono un sorriso. «Avrei potuto dedurlo semplicemente dal fatto che hai percepito l'animale dentro di me. Ma non è stato necessario: è una cosa che sono in grado di vedere. La tua bestia giace tranquilla in te, probabilmente per lunga abitudine, tuttavia niente più la trattiene, se non il fatto che tu non la chiami allo scoperto. Prima o poi qualche sensitivo del Tempio lo noterà, o tu commetterai un errore che lo rivelerà.» La sua voce si fece bassa e intensa. «Non è necessario che ti tagli la mano perché hai paura del tuo pugno. Ci sono delle alternative, Ingrey.» «Come lo sai?» Stavolta l'esitazione di Wencel fu più lunga. «La biblioteca del castello di Horseriver è piuttosto notevole», cominciò a spiegare. «Parecchi miei antenati Horseriver collezionavano testi di antica saggezza popolare; almeno uno di loro era un insigne studioso. Ci sono documenti che non esistono da nessun'altra parte, ne sono certo, alcuni dei quali vecchi di secoli. Scritti che, all'epoca di Audar, gli uomini del Tempio non avrebbero esitato a bruciare. I più stupefacenti resoconti di testimoni oculari... Te ne illustrerò qualcuno, quando avremo tempo. C'è abbastanza materiale da invogliare un ragazzo amante della lettura a perdercirsi, e in seguito... a leggere quei testi come se la sua vita dipendesse da loro.» Il suo sguardo cercò Ingrey. «Tu proteggi la tua realtà tenendoti lontano da qualsiasi forma di conoscenza pericolosa. Io proteggo la mia cercandola. Chi di noi credi abbia i mezzi migliori per continuare a farlo, oggi?» Ingrey si lasciò sfuggire un sospiro. «Mi stai dando un sacco di cose a cui pensare, Wencel.» «Pensaci, allora. Ma non voltare ancora le spalle alla conoscenza, ti prego.» E sottovoce aggiunse: «Non voltare le spalle a me». Questo no. Non oserei farlo. Ingrey si accomiatò dal conte e andò a occuparsi del convoglio. Poco più tardi giunsero a un guado tra due rive rocciose. Per fortuna il corso d'acqua non era impetuoso come quello che per poco non aveva provocato una tragedia qualche giorno prima, e Ingrey diresse le operazioni senza problemi. Una lega più avanti, il carro rischiò d'impantanarsi in un tratto fangoso, quindi il cavallo di uno degli uomini perse un ferro e co-
minciò a zoppicare. Mezza clessidra dopo, quando si erano fermati per abbeverare i cavalli, due delle ex guardie di Boleso iniziarono a litigare per una vecchia questione personale che d'improvviso aveva ripreso fuoco. Le minacce di Ingrey spensero l'alterco, ma non risolsero il dissidio, e lui rimandò al lavoro i due coi denti stretti per la preoccupazione; fortunatamente essi scambiarono il suo atteggiamento per una minaccia di ciò che avrebbe fatto loro se non avessero rigato dritto. Rimontando in sella, Ingrey aveva il volto più inespressivo che mai. Wencel, doveva ammetterlo, aveva trascinato la sua mente nel caos. La conversazione col conte gli aveva lasciato l'acuta impressione che entrambi vagassero nel buio, agitando invano la spada contro bersagli nascosti. Entrambi confidandosi segreti e nascondendosene altri, tra finte e parate... allo stesso modo? No, credo che Wencel stia nascondendo di più. Tuttavia, a essere onesti, Wencel aveva anche rivelato di più. Fino a poco prima Ingrey era convinto che la sua strana maledizione fosse il suo problema più pressante. L'idea che la biblioteca di Wencel contenesse qualche nozione sull'argomento era senza dubbio eccitante. Ora inoltre poteva confidare di avere un alleato cui appoggiarsi. Ma gli sorse anche il sospetto di aver trovato il suo nemico sconosciuto. Altrimenti, perché Wencel sembrava considerare i maghi illegali come un inconveniente minore, facilmente risolvibile? Ingrey guardò verso la testa del convoglio, dove cavalcava il conte, di nuovo fuori portata d'orecchio e occupato a interrogare uno degli uomini di Boleso. Quest'ultimo era un individuo corpulento, ma teneva le spalle curve come se cercasse di rendersi piccolo e insignificante. Wencel aveva agitato più di un'esca dinanzi al suo naso, ma ad attirarlo non erano tanto i misteri nuovi quanto quelli vecchi, che ancora destavano in lui antiche paure. Che cosa sa Wencel di mio padre e di sua madre che io non ho mai saputo? Oxmeade aveva più abitanti di Red Dike, ma il convoglio che trasportava la salma di Boleso fu ricevuto nel pomeriggio presso il grande tempio di pietra senza troppe cerimonie, perché, a quanto pareva, il paese era occupatissimo coi preparativi per gli eventi ancora più importanti dell'indomani. Ingrey fu molto sollevato di poter consegnare la responsabilità della salma e delle guardie di Boar's Head a Wencel, il quale a sua volta lasciò tutto nelle mani del suo zelante personale di servizio, a un gruppo di Divini del Tempio di Easthome e a un formidabile esercito di becchini e impiega-
ti. Inoltre Ingrey apprese con sollievo che la principessa Fara e il suo maestro di palazzo non erano venuti assieme a quella gente e avrebbero atteso il loro arrivo nella capitale. Non era ancora il crepuscolo quando, assieme ai suoi cavalieri e alla prigioniera, rimontò in sella e seguì Wencel lungo le strade spazzate dal vento. Mentre passavano al limitare di una piazza gremita di gente, Wencel tirò le redini del cavallo; Ingrey si fermò accanto a lui. C'era un mercato anche a quell'ora tarda, presumibilmente per le necessità dei cortigiani e dei loro servi, che già iniziavano ad arrivare per accompagnare Boleso nell'ultima tappa del suo ritorno a casa. Dapprima Ingrey non capì che cosa avesse attratto l'attenzione del conte, ma seguì il suo sguardo oltre le bancarelle e vide che in un angolo c'era un violinista, col berretto posato al suolo dinanzi ai suoi piedi. L'uomo era vestito meglio dei soliti suonatori ambulanti e il suo strumento riversava nell'aria della sera una strana melodia malinconica. Dopo un poco Wencel osservò: «Questa è una canzone molto antica. Mi chiedo se lui stesso sappia quanto. La suona... quasi nel modo giusto». Il conte restò a guardare finché la canzone non giunse al termine. Il suo viso aveva un'espressione inconsueta, tesa ma priva di rabbia o di paura, come quella di un uomo sul punto di scoppiare in lacrime per la tragica perdita di una persona cara. Poi Wencel scacciò l'emozione e spronò il cavallo, abbandonando la piazza senza voltarsi né mandare qualcuno a gettare una moneta nel berretto del violinista, benché questi avesse seguito i cavalieri con uno sguardo speranzoso. Giunsero infine alla villetta che Wencel aveva provveduto ad affittare o a chiedere in prestito, parte di una fila di edifici simili nel quartiere più ricco. Il portone d'ingresso era ornato con artistiche piastre d'ottone e c'erano vasi da fiori alle finestre. Ingrey consegnò il cavallo a Gesca e si gettò in spalla le borse da sella; entrando vide che Lady Ijada e la giovane sorvegliante venivano accompagnate su per le scale da una cameriera. Dalla cordialità di quest'ultima comprese che conosceva già Lady Ijada. Evidentemente almeno una parte del personale di servizio degli Horseriver considerava la colpevolezza della giovane tutt'altro che dimostrata. Prima di andare a occuparsi dei messaggi pervenuti in sua assenza, Wencel mormorò a Ingrey: «Ceneremo tra un'ora, tu, Ijada e io. Potrebbe essere la nostra ultima occasione per parlare in privato». Ingrey annuì. Fu condotto in una cameretta all'ultimo piano, dove lo aspettava un cati-
no d'acqua calda. Doveva essere l'alloggio di uno dei servi della ricca famiglia che aveva messo a disposizione l'edificio e gli offriva una gradevole intimità. La servitù degli Horseriver dormiva probabilmente in una casupola nei dintorni, e forse Gesca e gli altri cavalieri erano stati sistemati in una stalla. Ingrey si augurò che il cuoco avesse almeno preparato qualcosa di decente anche per loro. Si lavò con rude efficienza. I suoi abiti di ricambio erano troppo pochi per creare problemi di scelta: aveva portato con sé un minimo di biancheria e roba adatta a un viaggio a cavallo, non a una cena di gala. Mentre si vestiva, continuava a gettare lo sguardo al letto, ma temeva che, se si fosse sdraiato, non sarebbe più riuscito ad alzarsi. Perciò si affrettò a scendere, con l'idea di dare un'occhiata alla casa e alla strada e forse di cercare Gesca, se la stalla era nelle vicinanze. Al piano di sotto udì la voce di Wencel e si fermò, voltandosi a guardare nel corridoio. Il conte stava parlando alla sorvegliante di Ijada, che lo ascoltava con timida attenzione, a occhi spalancati. Nell'udire i passi di Ingrey, si voltò e gli sorrise. «Puoi andare», disse alla sorvegliante, la quale s'inchinò e sparì in quella che doveva essere la camera di Ijada. Wencel raggiunse Ingrey sul pianerottolo e gli fece segno di scendere con lui; ma non disse altro e, quando furono al pianterreno, dedicò l'attenzione a un impiegato che lo aspettava. Ingrey uscì tra le ombre della sera e fece il giro dell'edificio. Tornato al portone d'ingresso, decise che era quasi l'ora di cena e chiese a un servo dove sarebbe stata servita. Fu indirizzato a una stanza del secondo piano, sul retro. Non era la sala da pranzo della casa, bensì un semplice salottino, le cui finestre si aprivano su un orticello in fondo al quale c'erano un pollaio e una conigliera. La porta era molto spessa e isolava bene i rumori. Il piccolo tavolo rotondo era stato apparecchiato per tre. Ijada arrivò scortata da una cameriera, la quale s'inchinò a Ingrey e si congedò. Indossava uno scialle di lana ricamata color paglia e un abito di lino grigio abbottonato fino al mento. Dava un'impressione di ostentata modestia con quel colletto così alto, di pizzo bianco, anche se c'era da supporre che l'avesse scelto per nascondere i lividi verdastri alla gola. Wencel, che entrò subito dopo, scintillava nell'abbondante luce dei candelabri: portava un abito assai più ricco di quello con cui era arrivato. E più pulito. Ingrey si accorse, a disagio, che il vestito che aveva tirato fuori dalla borsa da sella emanava odore di umido. A un cenno di Wencel, Ingrey ricordò le buone maniere di corte e si af-
frettò a scostare la sedia di Ijada, poi quella del conte, prima di sedersi a sua volta. Erano equidistanti l'uno dall'altro, disposti a triangolo. I camerieri vennero subito a mettere in tavola alcuni vassoi coperti, quindi si ritirarono con discrezione. La cena si presentava assai appetitosa, anche se piuttosto rustica: gnocchi in salsa verde, fagioli al pepe, mele cotte, stufato di gallo selvatico e tre caraffe di vini differenti. «Ah!» approvò Wencel sollevando l'ultimo coperchio. «Anche un prosciutto. A te l'onore di tagliarlo, Lord Ingrey.» Ijada sbatté le palpebre stancamente. Ingrey restituì al conte un sorriso affaticato e tagliò alcune fette, poi impugnò il mestolo e s'incaricò di distribuire gli gnocchi agli altri due. Prima di iniziare a mangiare, abbassò le mani sotto il tavolo e tirò le maniche sui polsi, per nascondere meglio le bende. Quindi attese di vedere dove il conte avrebbe condotto la conversazione; tuttavia l'altro manteneva il silenzio, perciò tutti e tre si dedicarono alla cena. Alla fine Wencel si pulì le labbra e disse: «Non ho mai saputo nulla, se non riassunti di seconda mano, su ciò che è accaduto a Birchgrove quando tuo padre è morto e tu sei stato... be', hai capito. Riassunti molto confusi, devo aggiungere. E di certo incompleti. Te la senti di farmi un resoconto esauriente?» Ingrey si era preparato ad altre domande su Hallana e per un istante quella richiesta lo lasciò sconcertato. Per anni aveva tenuto quei ricordi sepolti nella memoria, e ora si trovava a riesumarli per la terza volta nell'ultima settimana. Tuttavia gli sembrava che ogni volta la storia fosse più facile da raccontare, come se certi dettagli stessero andando lentamente ciascuno al proprio posto, anche nella sua mente. Wencel continuò a mangiare e ascoltò il racconto, serio e concentrato. «Il tuo lupo è diverso da quello di tuo padre», osservò quando Ingrey fece una pausa, dopo avere descritto meglio che poteva l'animalesco tumulto di cui era stato vittima nelle sue settimane di delirio. «E il cacciatore di tuo padre come ha trattato la cosa?» «Non lo so. È morto prima che io mi riprendessi abbastanza da poter fare domande.» «Uh. Da quanto mi è stato riferito», continuò Wencel, con un'enfasi significativa su quella parola, «non si trattava del lupo che in origine si era deciso di assegnare a te. Sembra infatti che il lupo idrofobo avesse ucciso la sua compagna il giorno prima del rito e che il nuovo animale sia stato trovato quella notte, accovacciato fuori della gabbia del lupo malato.»
«Allora tu hai saputo più di quanto è stato raccontato a me. Immagino possa essere vero.» Wencel prese a tamburellare col cucchiaio sul bordo del piatto, con un ritmo sempre più nervoso; poi si accorse di ciò che stava facendo e s'interruppe. Ingrey si schiarì la voce e domandò: «Tua madre ti ha detto qualcosa sul tuo cavallo? Quel mattino, quando ti sei risvegliato diverso». «No. È morta proprio quel mattino.» «Non d'idrofobia!» «No. Tuttavia mi sono fatto alcune domande, da allora. È morta cadendo da cavallo.» Ingrey si mordicchiò un labbro. Ijada spalancò gli occhi. «Anche il cavallo ha perso la vita in seguito all'incidente», continuò Wencel. «Si era spezzato una zampa. Lo stalliere gli ha tagliato la gola... o così è stato detto. Quando ho iniziato a pormi domande in merito, tempo dopo, lei era ormai sepolta e il cavallo era stato macellato e mangiato. Ho meditato sulla tomba di mia madre, ma non ho percepito nessuna aura. Nessun fantasma, nessuna risposta. La sua morte, di pochi mesi successiva a quella di mio padre, è stata una tragedia per me. Non ero insensibile alle affinità tra il mio caso e il tuo, Ingrey. Tuttavia, se anche i due fratelli Wolfcliff, ovvero tuo padre e mia madre, avevano elaborato insieme un piano, un'idea, nessuno di essi si era confidato con me.» «A meno che tra loro non ci fosse un conflitto», suggerì pensosamente Ijada, spostando lo sguardo dall'uno all'altro. «Come due castelli sulle sponde opposte del Lure che cercano di erigere mura più alte di quelle del rivale.» Wencel allargò le mani a indicare che accettava anche quell'ipotesi, benché non sembrasse molto convinto. «In tutto questo tempo, Wencel, qualche teoria devi averla sviluppata», disse Ingrey. L'altro scrollò le spalle. «Teorie, congetture, fantasie, nulla di più. Non so quante notti sono stato sveglio a farmi domande, fino a stancarmi e a non poterne più.» Ingrey ripulì i rimasugli dello stufato dal piatto, poi domandò a bassa voce: «Perché non hai cercato di parlarmi prima, allora?» «Eri andato a Darthaca. Esilio permanente, per quanto ne sapevo. Poi i tuoi parenti hanno perduto ogni traccia di te. Avresti potuto essere morto, visto che nessuno aveva prove del contrario.»
«Sì, ma in seguito? Dopo il mio ritorno?» «Sembrava che tu avessi raggiunto una certa tranquillità, sotto la protezione di Hetwar. Eri più al sicuro, grazie alla tua dispensa, di quanto lo fossi io col mio segreto. Ti invidiavo per questo. Mi avresti forse ringraziato se fossi venuto a sconvolgere di nuovo la tua vita coi dubbi e coi cattivi pensieri?» «Forse no», concesse Ingrey, sia pure con riluttanza. Qualcuno bussò due volte alla spessa porta della stanza. Ijada ebbe un sussulto; Wencel si limitò a dire: «Entrate!» Il suo impiegato mise dentro la testa e mormorò in tono di scusa: «Il messaggio che stavate aspettando è arrivato, mio signore». «Ah, bene. Grazie.» Wencel spinse indietro la sedia e si alzò. «Scusatemi. Tornerò tra qualche istante. Continuate, prego», aggiunse indicando i vassoi. Non appena fu uscito, alcuni servi vennero a prelevare i piatti sporchi, misero in tavola alcuni vassoi coperti e altre caraffe d'acqua e di vino, quindi uscirono in silenzio dopo essersi inchinati. Ingrey e Ijada rimasero soli. Le loro esplorazioni sotto i coperchi rivelarono tartine, frutta e dolciumi misti che fecero brillare gli occhi di Ijada. I due assaggiarono con piacere le leccornie dall'aspetto più appetitoso. Ingrey gettò un'occhiata alla porta chiusa e domandò: «Secondo voi la principessa Fara è a conoscenza dell'animale di Wencel?» Ijada studiò un dolcetto di marzapane e lo mangiò, prima di rispondere. La sua espressione perplessa non sembrava dovuta al cibo. «Ciò spiegherebbe certe cose che non ho mai capito di entrambi. Il loro rapporto mi è sempre parso strano, anche se non mi aspetto che un matrimonio tra due persone così altolocate sia come quello dei miei genitori. Benché Wencel non sia un bell'uomo, credo che Fara abbia sempre voluto che fosse innamorato di lei. O che mostrasse nei suoi confronti modi più affettuosi e premurosi.» «Non è affettuoso?» «Oh, è sempre educato, da quanto ho visto io. Cortese e distaccato. Non ho mai capito perché lei sembri guardarlo con una sfumatura di timore, dal momento che Wencel non ha mai alzato la voce, né tantomeno le mani, contro di lei. Ma se quella di Fara fosse paura per lui, anziché di lui, forse la cosa si spiegherebbe.» «E Wencel non è innamorato di lei?» L'espressione della fanciulla si fece ancora più concentrata. «Difficile
dirlo. Spesso è di umore cupo, distante e silenzioso, per giorni e giorni. Certe volte, quando al castello di Horseriver giungevano visitatori, l'ho visto riprendere vita e allora c'erano conversazioni e buonumore... e si rivelava estremamente erudito. Tuttavia ha parlato più in una serata qui, con voi, di quanto io l'abbia visto parlare con sua moglie durante i pasti. Ma del resto... voi lo interessate in modo diverso da lei.» Il suo sguardo si allontanò da Ingrey, il quale comprese che stava cercando di controllare le proprie reazioni. Così come ora lo interessi tu, pensò. «Ha pochissimo tempo per decidere come uscire dai guai che può causargli questa sgradevole faccenda. Forse ciò spiega le pressioni che ci sta facendo. Perché ci sta facendo pressioni, non vi sembra?» Almeno, Ingrey si sentiva pressato. «Oh, sì.» Ijada rifletté un momento. «Il suo potrebbe anche essere uno sfogo troppo a lungo represso. Con chi potrebbe parlarne, a parte noi? È preoccupato, sì, ma anche... non lo so. Eccitato? No, qualcosa di più sottile e strano. Certo felice non è la parola giusta.» Le sue labbra si piegarono in una smorfia. «No, infatti», confermò seccamente Ingrey. La porta si aprì; Wencel entrò e tornò a sedersi con un gesto di scusa. «Le vostre faccende stanno andando bene?» domandò Ijada. «Abbastanza. Se finora non te l'ho ancora detto, Ingrey, lascia che mi congratuli per la rapidità con cui hai concluso la tua missione. Purtroppo sembra che io non potrò emularti per quanto riguarda la mia parte. Penso che ti manderò avanti con Lady Ijada, domani, visto che la sua presenza nel corteo sarà... come dire... fuori luogo, se esso si trasformerà in una processione funebre. A passo di lumaca per tutta la strada che ancora ci separa da Easthome, che gli dei abbiano pietà di me.» «Dove sarò portata, nella capitale?» domandò Ijada, un po' tesa. «Non è ancora stato deciso. Forse lo saprò domattina. Non in un posto sgradevole, se potrò fare a modo mio.» Wencel la scrutò con gli occhi socchiusi. Ingrey li stava guardando entrambi e si azzardò a protendere i propri sensi oltre la vista. «Voi due siete diversi. Il tuo animale è molto più oscuro, Wencel. O qualcosa del genere. Il suo felino mi fa pensare a una forma su uno sfondo illuminato, mentre il tuo... è molto meno nitido.» Fuori delle sue capacità di percezione. «Già, penso anch'io che il suo leopardo sia in buona forma», disse Wencel, con un sorriso che voleva essere rassicurante per Ijada. «Ha un potere
fresco e puro. Una guerriera del Vecchio Dominio sarebbe orgogliosa di portarlo, se ci fosse ancora un clan come quello dei Leopardtree.» «Ma io non sono una guerriera», obiettò Ijada, perplessa. «Le donne del Vecchio Dominio erano solite prendere dentro di sé animali sacri. Non lo sapevate?» «No.» Negli occhi di lei si accese un vivo interesse. «È vero?» «Sì, ma di rado come guerriere, benché alcune fossero chiamate così. In certe tribù erano impiegate come portabandiera ed erano stimate più di qualsiasi altra donna. Ma c'era anche un'altra opzione... un altro tipo di animale sacro, che le donne prendevano più spesso. O meglio, più spesso degli uomini. In effetti era una scelta piuttosto rara.» «A quale tipo di animale sacro vi riferite?» domandò Ijada. Le labbra di Wencel si piegarono in un sorriso non molto allegro. «I guerrieri del Dominio venivano forgiati mandando dentro un uomo l'anima di un animale sacrificato. Ma succedeva una cosa alquanto diversa quando l'anima dell'animale sacrificato veniva mandata dentro un altro animale.» Ijada rimase sbalordita. «Volete dire che Boleso stava tentando di... oh, no!» «Non ho ancora capito bene che cosa volesse ottenere Boleso; tuttavia, se intendeva eseguire quell'antico rito magico, l'ha fatto nel modo sbagliato. L'animale veniva sacrificato al termine della sua vita e mandato nel corpo di un altro animale, giovane, della stessa razza e dello stesso sesso. E con lui venivano trasferite tutte le esperienze e l'addestramento. A sua volta il secondo animale, al termine della sua vita, veniva sacrificato e mandato nel corpo di un terzo animale, che poi sarebbe finito dentro un quarto, e così via. Fino ad accumulare un'enorme densità di vite. Finché, dopo sei o dieci generazioni... l'ultimo diventava qualcosa che non era più un animale.» «Un... superanimale? Un semidio?» azzardò Ijada. Wencel allargò le mani. «In un qualche modo oscuro, forse sì. Secondo alcuni è questo che sono gli dei... Tutte le vite del mondo affluiscono in loro attraverso la porta della morte. Noi ci accumuliamo dentro di loro. Tuttavia gli dei sono qualcosa di molto più strano, perché continuano ad assorbire senza distruggere nulla e diventano sempre più se stessi a ogni aggiunta. I superanimali sacri erano una cosa differente.» «Quanto tempo occorreva per ottenerne uno?» domandò Ingrey. Il cuore gli batteva più veloce e il suo respiro stava accelerando. Fu certo che lo stesso stava accadendo anche a Wencel. Perché all'improvviso questa fia-
ba per bambini mi ha spaventato? Persino il suo sangue sembrava ringhiare. «Decenni, intere vite, talvolta secoli. Avevano un valore altissimo perché, essendo animali, potevano essere domati e addestrati, e col tempo potevano assumere una strana forma d'intelligenza; arrivavano persino a comprendere la lingua degli uomini. Tuttavia quelle creature soffrivano di continue tensioni interne, dovute non solo al miscuglio di essenze vitali. Quando un uomo o una donna del Dominio prendeva uno dei superanimali dentro la propria anima, diventava molto più di un guerriero. Diventava più potente e più pericoloso. Poche delle più antiche e migliori creature di quel genere sono sopravvissute all'invasione di Audar. Molte sono state sacrificate prematuramente, allo scopo di preservarle in altri corpi e metterle al riparo dalle truppe darthacane. Gli uomini del Tempio al servizio di Audar erano ansiosi di macellarle ovunque le trovassero, per paura di ciò che potevano diventare. O di ciò che potevano far diventare noi.» «Maghi?» domandò Ijada con un filo di voce. «Maghi del Dominio? È questo che Boleso stava cercando di diventare?» Wencel alzò una mano. «Non facciamo confusione coi termini. Un mago - autorizzato, oppure fuorilegge se non soggetto alla disciplina del Tempio - è posseduto da un elementale del disordine e del caos, sacro al Bastardo; la magia che tale essere offre è perciò veicolata entro canali di distruzione. Demoni di questo genere si trovano nella zona di equilibrio tra il mondo della materia e il mondo dello spirito. Anche le antiche tribù avevano maghi simili, con le loro tradizioni di disciplina sotto il Dio Bianco. «I superanimali sacri, invece, erano di questo mondo; non appartenevano agli dei, né partecipavano dei loro poteri. Inoltre non erano votati alla distruzione. Erano pure creature del Dominio. Benché la loro magia fosse solo nell'ambito della mente e dello spirito, essi potevano anche influire sul corpo governato da quello spirito. Gli sciamani potenziati da uno spirito animale avevano una tradizione diversa da quella dei maghi tribali e non erano sempre loro alleati, neanche quando facevano parte dello stesso clan. Quella è stata una delle molte divisioni che ci hanno indebolito all'arrivo dei conquistatori darthacani.» Wencel aveva lo sguardo distante mentre rievocava quegli eventi remoti. Ijada fissava ora l'uno ora l'altro dei due uomini e si lasciò sfuggire un: «Oh!» Ingrey era sbiancato in volto. Era come se i muri della sua fortezza gli stessero crollando intorno, scossi dagli urti di Wencel.
No. No. Sono sciocchezze, controsensi, vecchie storie per bambini, uno scherzo indegno che Wencel mi sta facendo per vedere fino a che punto posso bermi queste bugie. Infine domandò: «Come?» «Com'è arrivato a te questo lupo sapiente, vuoi dire?» Wencel si strinse nelle spalle. «Anche a me piacerebbe scoprirlo. Quando il Grande Audar» - pronunciò l'appellativo «Grande» con evidente sarcasmo - «ha inferto il colpo fatale al Dominio, a Campo del Sangue, dove è stato depredato il tempio di Boscosacro, neppure lui è riuscito a massacrare tutti. Alcuni guerrieri-spirito e alcuni sciamani non erano presenti al rito, a causa di ritardi o per puro caso. Costoro sono scampati al massacro.» Ijada sedette più eretta, fissandolo con occhi accesi. Wencel notò l'interesse del proprio pubblico e continuò: «Neppure le feroci persecuzioni che si sono susseguite per un secolo e mezzo hanno spazzato via certe conoscenze. Qui e là esse sono sopravvissute, benché assai poche in forma scritta come nei libri della biblioteca del castello di Horseriver... libri raccolti da alcuni miei antenati, i quali hanno cercato e trovato quelle informazioni da qualche parte. In certe regioni remote, nei villaggi di montagna, nei borghi sperduti, nei Cantoni che si erano liberati in breve tempo dal giogo darthacano... le tradizioni orali, se non addirittura le pratiche vere e proprie, sono rimaste in vita. A volte trasmesse da una generazione all'altra come segreti di famiglia, a volte presenti nei riti dei villaggi... sempre però intorbidite e modificate dall'ignoranza. Ciò che Audar non è riuscito a fare, in realtà, l'ha fatto il tempo, che lentamente cancella tutto. Confesso che non mi aspettavo che qualcosa fosse sopravvissuto all'erosione dei secoli. Invece sembra proprio che di quelle creature ne siano rimaste almeno... due». I suoi occhi azzurri si fissarono in quelli di Ingrey. Quest'ultimo aveva l'impressione che i propri pensieri fossero artigli conficcati nella gabbia del cranio. Riuscì appena a rispondergli con un verso inarticolato. «Se può consolarti, ciò spiega il lungo delirio di cui sei stato vittima», gli disse Wencel. «Il tuo lupo era un'intrusione nella tua anima molto più potente di quella causata dalle semplici creature di tuo padre o di Ijada. La presenza di un essere vecchio quattrocento anni può sembrare impossibile. Quante generazioni di lupi l'hanno formato? Eppure...» Lo guardò, stavolta a disagio. «Non posso pensarla diversamente. I guerrieri-spirito dominavano i propri animali con poco sforzo, perché le bestie comuni venivano soggiogate in fretta dalla mente umana, più potente. Nel Vecchio Dominio, se tu fossi stato destinato ad avere in dono un superanimale, avresti ricevu-
to la preparazione e l'aiuto di altri come te. Non saresti rimasto solo a cercare la tua strada, abbandonato alla paura, ai dubbi e al rischio di diventare pazzo. Non c'è da meravigliarsi che tu abbia reagito mutilando te stesso.» «Io sono mutilato?» mormorò Ingrey. E quale spaventosa creatura sarei, se così non fosse? «Oh, sì.» Con voce roca, Ijada domandò a Wencel: «E voi?» Il conte allargò le braccia. «Meno. Ma anch'io ho il mio fardello.» Quanto meno, Wencel? Tuttavia Ingrey era più colpito del pensiero di avere trovato in lui uno specchio che dal sospetto di avere scoperto l'origine della propria maledizione. Wencel continuò a rivolgersi a lui: «In ogni modo, la tua ignoranza è stata molto utile. Se il Tempio avesse sospettato che genere di animale porti dentro di te, non ti avrebbe dato facilmente la sua dispensa». «Non è stato tanto facile ottenerla», borbottò Ingrey. Wencel esitò, come vagliando un altro pensiero. «Già. Dominare un superanimale non deve essere stata un'impresa da poco.» La sua bocca si piegò in un sorriso cauto e rispettoso. Gettò uno sguardo alle candele che si consumavano sul candelabro al centro della tavola. «Si è fatto tardi. Domani il dovere ci desterà all'alba. Dobbiamo separarci per qualche tempo, però ti prego, Ingrey... non fare nulla che possa attirare l'attenzione su di te finché non potremo vederci di nuovo.» Ingrey osava appena respirare. «Credevo che il mio lupo fosse soltanto una fonte di violenza, rabbia, morte, distruzione. Che cos'altro posso... che cosa potrei fare?» «Questa sarà la prossima lezione. Vieni da me quando anch'io sarò a Easthome. Nel frattempo, se ci tieni alla vita, proteggi i tuoi segreti... e i miei.» Wencel si alzò con aria stanca. Poi accompagnò Ingrey e Ijada alla porta, come a sottolineare che tanto la cena quanto le rivelazioni erano terminate, almeno per quella sera. Ingrey, che aveva un groppo allo stomaco, non poté che esserne lieto. 9 Il letto cigolò nel silenzio che avvolgeva la casa, quando Ingrey si mise a sedere e strinse le braccia attorno alle ginocchia. L'introspezione era un esercizio che di solito evitava, sapendo ciò che avrebbe dovuto affrontare. Ma quella notte decise di spingere le proprie percezioni all'interno di sé.
Passò oltre uno strato di paura generalizzata, simile a una nebbia fin troppo familiare. Spinse da parte gli aggrovigliati tentacoli degli autoinganni, che ostacolavano la sua visione. Non aveva più tempo né pazienza per quelle cose. Una volta si era raffigurato il suo lupo come una sorta di cisti dietro l'ombelico, un organo in più, senza nessuna funzione. La cisti, il lupo, ora non si trovava più lì. E non era nemmeno nel suo cuore o nella sua mente, anche se frugarsi nella mente gli sembrava come cercare di guardarsi la nuca. L'animale era libero, dunque. Perciò dove...? È nel mio sangue, comprese. Non in una parte, bensì in ogni parte del corpo. Anzi non era dentro di lui: era lui. Non lo si poteva eliminare come avrebbe potuto fare con una mano, mozzandola, o con un occhio, strappandolo. No, un rozzo intervento di chirurgia non era la risposta che cercava. Gli venne in mente una possibile ragione per cui le tribù primitive praticavano i loro caratteristici sacrifici di sangue, il cui significato si perdeva nelle profondità del tempo persino per loro. Gli abitanti delle paludi erano nemici da sempre del Vecchio Dominio; avevano affrontato in battaglia i guerrieri delle foreste e gli sciamani potenziati da spiriti animali, avevano razziato le loro terre per epoche immemorabili, catturando prigionieri, probabilmente anche prigionieri troppo pericolosi per tenerli in ceppi. Quegli antichi riti sanguinari avevano forse uno scopo più oscuro e più pratico? Possibile che quella separazione fisica, lo svuotamento del corpo di tutto il sangue, creasse anche una separazione spirituale, quella del peccato dall'anima? Il rifiuto, ecco ciò che sembrava attenderlo alla fine di quel lungo percorso esistenziale, di quella discesa in un abisso di sangue. Più per una sorta di fredda curiosità che spinto da altre emozioni, Ingrey frugò nelle borse da sella e ne estrasse un rotolo di corda; lo depose assieme al coltello sulla coperta, accanto a sé, e nella luce della candela alzò gli occhi alle travi nell'ombra del soffitto. Sì, sarebbe stato facile compiere il sacrificio supremo. Legarsi le caviglie, issarsi fino a infilare i piedi nel cappio, restare appeso a testa in giù. E accostare alla gola la lama affilata come un rasoio. Poi avrebbe lasciato uscire il lupo in un rivolo scarlatto, mettendo fine a quell'innaturale convivenza. Sarebbe stato libero da qualunque stregoneria con un ultimo, deciso no. Io posso rifiutare il potere oscuro. Facendo un passo in un'oscurità ancora più totale. Era quello il modo di lasciare che la sua anima, rifiutata dagli dei, sva-
nisse in silenzio nell'oblio, come si diceva che facessero i fantasmi condannati alla dannazione? Non sembrava un destino tanto spaventoso. Oppure, se aveva capito male il meccanismo del rito, al suo spirito si sarebbero aggiunte forze sconosciute che l'avrebbero mutato in... qualcos'altro? Qualcosa di ancora inimmaginabile? Wencel conosceva la risposta? Tutte le invitanti allusioni che il conte aveva fatto, tutte le sue esche erano una chiara indicazione di ciò che pensava di Ingrey e di se stesso. Ai suoi occhi io sono una preda. Vuole vedermi correre. Ma poteva ancora negare a Wencel il piacere della caccia. Ingrey si mise in piedi sul letto, allungò le mani fino alle travi, infilò la corda in una fessura tra queste e il soffitto, tornò a sedersi e la lasciò oscillare nell'ombra. La strinse tra le dita. La sua mente era fredda e distaccata mentre contemplava la corda, ma la mano tremava. Tutto quel sangue avrebbe inondato il pavimento e il mattino seguente un servo inorridito avrebbe dovuto asciugarlo. Oppure sarebbe filtrato giù tra un'asse e l'altra, gocciolando dal soffitto nella camera di qualcun altro? Avrebbe annunciato l'accaduto cadendo nel buio sopra un cuscino, o su un volto addormentato? Sta piovendo? C'è una fessura nel tetto? Finché la prima luce dell'alba non avrebbe rivelato il drammatico colore di quella pioggia. Sarebbero risuonate grida di orrore? Per caso la camera sotto la sua era quella di Lady Jiada? Ingrey cercò di ricostruire mentalmente la posizione dei corridoi e della stanza in cui aveva visto entrare la sorvegliante. Forse. Non aveva molta importanza, comunque. Restò immobile a lungo, concedendosi appena di respirare, in equilibrio nel silenzio della notte. No. Il suo sangue anelava la vicinanza di Ijada, ma non in quel modo. Ripensò al piccolo miracolo del suo sorriso. Non il solito educato e un po' nervoso incurvarsi delle labbra che molte donne gli concedevano, che non arrivava agli occhi; anzi sembrava che Ijada riuscisse a sorridergli soltanto con gli occhi, senza timore. Senza una repulsione nascosta, persino con una sfumatura di piacere, che Ingrey trovava attraente in modo insopportabile. Il suo lupo aveva caratteristiche non meno pericolose per lei di quanto lo erano per altre donne, che lui non aveva osato toccare; dunque nemmeno Ijada era al sicuro con lui, oppure... no, lei era decisamente qualcos'altro. Era a sua volta pericolosa per lui.
Quel pensiero ebbe un effetto strano sui suoi sentimenti. Ingrey considerava trite e ridicole certe metafore dei poeti; il suo cuore non si gonfiava, non gli balzava fuori dal petto, né tantomeno danzava. Batteva come al solito, magari un po' più in fretta. Avrebbe potuto rimbecillirsi al punto di bearsi di sensazioni simili? Non sarebbe stato affatto piacevole. Per niente. Ciò che lui provava nelle tenebre dei suoi sogni non era quello che altri uomini dicevano di trovare piacevole, nell'impeto dell'erotismo e della passione; di ciò era sempre stato consapevole. Scostò la mano dalla corda e strinse il pugno. Allora, se non voglio causare a Ijada un risveglio tinto di rosso, che cosa devo fare? Era giunto alla fine della strada dei no. Non poteva proseguire il cammino senza affogare nel proprio sangue. Ho tre scelte, pensò. Immergersi nella palude rossa e non uscirne più, stagnare nel torpore e nell'immobilità come prima, benché fosse certo che l'inerzia degli eventi e le iniziative di Wencel non gli avrebbero permesso di restare a lungo in quella paralisi, oppure... poteva voltarsi con decisione e dirigersi dalla parte opposta. Ma che cosa significa? I miei pensieri sono forse degenerati al livello delle sciocchezze sdolcinate dei poeti? La camera era così silenziosa che Ingrey poteva udire il sussurro del proprio sangue nelle orecchie, simile all'ansito di un animale. Poteva smettere d'ingannare se stesso e iniziare a ingannare gli altri? Vagliò alcune frasi, quasi assaporandole sulla lingua. No, voi vi sbagliate, tutti voi, il Tempio, la Corte, la gente della strada. Vi siete sempre sbagliati. Io non sono... non sono... Che cosa? Sarebbero questi i soli termini in cui riesco a pensare, questi «no» gridati? Ah, l'abitudine. Tuttavia, se mi volto e mi dirigo dalla parte opposta, non so verso che cosa mi condurrà la strada. Né dove finisca. O chi potrò incontrarvi. Questo dubbio lo turbò più del coltello e della corda e del sangue che colava al suolo. Anche se sarei sorpreso d'incontrare su quella strada tenebre più scure di quelle che ho dentro. Si alzò, rinfoderò il coltello e mise via la corda. Poi si spogliò e s'infilò tra le lenzuola. Erano vecchie, lise e rammendate, però pulite; la gente che abitava in quella casa doveva essere ricca se persino i servi avevano simili comodità. Non so dove sto andando. Ma sono stanco di dove sono stato finora.
All'alba, dopo un breve colloquio con Wencel su argomenti pratici, Ingrey si rimise in viaggio assieme alla prigioniera. I cavalieri di Hetwar che li scortavano erano soddisfatti di essersi liberati della salma del principe, della dozzina di guardie scontrose al suo servizio e dei loro bagagli. Ingrey aveva inoltre rimandato a casa l'ultima Devota guardiana e l'aveva sostituita con una donna di mezza età prelevata tra il personale di servizio degli Horseriver, la quale cavalcava a pelo dietro le spalle di Gesca. Così ridimensionato, il gruppo risalì la valle di Oxmeade lungo una strada tortuosa che serpeggiava nella fertile campagna appartenente al conte di Stagthorne. Prendendo esempio da Wencel Horseriver, Ingrey si portò alla testa del drappello e, senza preamboli, chiese a Ijada di cavalcare al suo fianco. Era consapevole che lo sguardo di Gesca gli stava appiccicato alla schiena, perciò attese di essere a una certa distanza dalle orecchie curiose del tenente. Quel mattino Ijada era insolitamente pallida e aveva un'ombra grigia intorno agli occhi. Il sorriso con cui gli aveva restituito il cenno di saluto era stato teso e fugace. Stava finalmente iniziando a capire che si dirigeva dritta in una, trappola? E che era troppo tardi per uscirne? «Non possiamo continuare a fingere di poter fare a meno di un piano», le disse con fermezza. «Voi avete rifiutato il mio. Ne avete uno migliore?» «Squagliarsela non è la mia idea di piano.» La fanciulla gli rivolse uno sguardo di sfida. «E da quando io è diventato noi?» Ingrey strinse le labbra. Dal primo istante che ti ho visto, che i Cinque Dei mi aiutino! «Nella stanza al primo piano di quella taverna, a Red Dike», rispose invece. Lei gli concesse un cenno d'assenso. «Noi condividiamo un certo problema, se si esclude la vostra situazione legale... signora Leoparda», continuò Ingrey. «Oh, temo che quella non sarà esclusa, signor Lupo.» Suo malgrado lui sorrise. Provò una sensazione strana. Sorrideva davvero così di rado? «Il conte Horseriver ha promesso che farà il possibile per aiutarvi. Stamattina mi ha detto che nella capitale sarete alloggiata in una casa di sua proprietà, coi suoi servi intorno a voi. Meglio di una cella in riva al fiume. Segno che, se farete una brutta fine, non avverrà subito, o almeno credo. Forse passerà un po' di tempo.» «Vuole tenermi vicina a lui», disse Ijada pensierosa. «Su richiesta di Wencel, Lord Hetwar ha incaricato me di fungere da vo-
stro guardiano, nella stessa casa.» Ingrey sorvolò sulla gioia che aveva provato nell'apprendere la notizia. «A giudicare dalla nota che il suo corriere mi ha recapitato, Hetwar è felice di tenervi fuori vista per qualche giorno.» Ijada lo guardò. «Wencel desidera tenerci vicini. Perché?» «Secondo me...» Ingrey esitò, incerto. «Secondo me non si sente molto al sicuro, in questi giorni. Tra il funerale, lo stato di prostrazione di sua moglie, le responsabilità che aveva già a causa della malattia del sacro re e... la Madre ce ne scampi, ma sembra ormai probabile, l'avvicinarsi delle elezioni. Bias e il suo seguito arriveranno a Easthome e certo il principe cercherà di tirare il cognato dalla propria parte. Dietro tutto questo c'è il tragico segreto di Wencel, e chissà quanti altri, vecchi e nuovi. Se riuscirà a tenere sotto controllo due pedine di questo rompicapo, ovvero noi, finché non troverà il tempo di occuparsene... tanto di guadagnato. Per lui. Quanto a me, non ho intenzione di aspettare senza fare nulla.» «Che cosa volete dire?» «Ho riflettuto sulla situazione. Se, come sospetto, più di un gruppo di potere a Easthome preferirebbe spazzare questo scandalo sotto il tappeto piuttosto che portarlo in tribunale, la cosa sarebbe forse accettabile. Il vostro kin potrebbe appellarsi alle antiche leggi e offrire un prezzo per il sangue del principe Boleso.» Ijada aspirò a fondo, con le sopracciglia inarcate per la sorpresa. «E al Tempio non dispiacerebbe che i suoi inquisitori fossero privati della possibilità d'intervenire in un caso tanto rilevante?» «Se i Lord più importanti del kin Stagthorne e del kin Badgerbank fossero d'accordo, i Divini dell'Ordine del Padre non avrebbero scelta. Qui però è lecito avere qualche dubbio, perché il re non è nelle condizioni di considerare nessuna proposta; quando sono partito da Easthome, Hetwar non sapeva neppure se il vecchio avesse capito che Boleso era morto. Biast, quando arriverà, sarà ancora poco informato e inoltre avrà tutt'altro per la testa. Nelle ultime settimane il Tribunale di Easthome non ha potuto occuparsi molto del proprio lavoro ordinario, e ci sarà ancora parecchia confusione prima che la situazione si normalizzi. Tuttavia il conte elettore Badgerbank è una personalità influente. Se si convincesse a proteggervi, per tutelare l'onore del suo casato, e se a persuaderlo contribuisse Wencel, l'accordo di cui ho parlato sarebbe più probabile.» «Il prezzo del sangue di un principe non sarà una somma da poco. Ben oltre i mezzi del mio povero patrigno.»
«Dovrà uscire dalle casse dei Badgerbank. Forse Wencel potrà fare pressioni in tal senso.» «Non avete mai conosciuto il conte Badgerbank? Non credo che abbia fama di essere generoso.» «Uhm...» Ingrey esitò, quindi rispose onestamente: «No, non ce l'ha». Alzò lo sguardo a controllare l'altezza del sole, nel vento tiepido del mattino. «Ma se il denaro si potesse trovare altrove...» «Svendendo terre sottocosto?» «... credo che sarebbe più facile convincerlo a mettere in gioco il suo nome. Le terre della vostra eredità... quanto sono estese?» Ijada fece una smorfia, poco convinta. «Trenta leghe da est a ovest, ai piedi delle Vette dei Corvi, e venti leghe da nord a sud, fino allo spartiacque al confine coi Cantoni.» Ingrey sbatté le palpebre, sorpreso. «È un territorio più vasto di quanto mi avevate lasciato intendere. Una foresta tanto grande ha molto valore, per la caccia, il legname, il carbone, il mangime per i maiali, forse qualche risorsa mineraria sfruttabile... Voi possedete quasi il prezzo del sangue di un principe, direi! Quanti paesi e villaggi ci sono? E quante persone che pagano i tributi, secondo il censimento?» «Nessuna. Non in quella terra. Nessuno ci va a caccia, nessuno ci mette piede.» L'improvvisa tensione nella voce della fanciulla fece voltare Ingrey. «Perché no?» Lei scrollò le spalle, cercando di mostrarsi indifferente, ma senza riuscirci. «È una terra maledetta. Voci nei boschi, fantasmi... Li chiamano Boschi Feriti e infatti gli alberi sembrano sofferenti. Chi ci passa viene assalito da incubi di sangue e morte, dicono.» «Chiacchiere», sbuffò Ingrey. «Io ci sono stata», rispose Ijada in tono serio. «Dopo la morte di mia madre, quando è stato chiarito che la zona era di mia proprietà. Volevo accertarmi di persona, visto che ne avevo il diritto. Il guardaboschi era riluttante a scortarmi, ma io ho insistito; la mia cameriera e gli stallieri del mio patrigno erano terrorizzati. Abbiamo cavalcato tutto il giorno, quindi ci siamo accampati. La maggior parte del territorio è impraticabile, tutto rocce, scarpate, caverne, macigni e gole buie. Al centro c'è un largo pianoro dove crescono grandi querce secolari. È la parte più oscura, più stregata, dove si dice sorgesse un tempio del Vecchio Dominio. Una leggenda locale narra che sia il perduto Campo del Sangue, ma altre due zone delle con-
tee lungo le pendici delle Vette dei Corvi si contendono quel dubbio onore.» «Molti antichi templi sono diventati campi e orti, col passare dei secoli.» «Non quello. Abbiamo trascorso la notte là, anche se la mia scorta era contraria. E in effetti abbiamo fatto dei sogni. Gli stallieri hanno sognato di essere sbranati da animali e si sono svegliati urlando; la mia cameriera ha sognato di annegare nel sangue. Il mattino hanno insistito perché ce ne andassimo.» Ingrey rifletté su quelle parole, poi pensò a ciò che Ijada non aveva detto. «E voi non avete sognato?» La giovane esitò tanto a lungo che Ingrey fu tentato di ripeterle la domanda, tuttavia si trattenne. La sua pazienza fu infine ricompensata quando lei mormorò: «Tutti abbiamo sognato. Mi è servito un po' di tempo per capire che i miei sogni erano stati differenti». Il silenzio, si disse Ingrey, aveva un potere particolare. Attese ancora. Ijada lo guardò a occhi socchiusi, come valutando la sua soglia di tolleranza ad altri dettagli inquietanti. Poi continuò, in un modo che a lui parve un po' tortuoso: «Avete mai visto un elemosiniere circondato da mendicanti affamati? Avete notato come essi lo intrappolano in una specie di gorgo, deboli e sparuti ma resi temibili dal numero, avidi, frenetici? Da mangiare! Dacci qualcosa! Abbiamo fame! Tuttavia più si dà loro, più quelli vogliono. E quando l'elemosiniere ha dato tutto, ancora non è abbastanza. Potrebbero farlo a pezzi con le unghie e divorarlo senza ancora essere soddisfatti». Ingrey rispose con un cenno d'assenso, chiedendosi dove volesse arrivare. «Nel mio sogno... tra gli alberi sbucavano alcuni uomini e venivano verso di me. Uomini insanguinati, alcuni dei quali senza testa, nelle armature arrugginite del Vecchio Dominio. Altri avevano in capo teschi di animali, decorati con pietre colorate, oppure maschere di pelo: cavalli e orsi, cervi e lupi, tassi, lontre, linci, buoi e non so cos'altro. Esseri senza volto, confusi, orribili. Si affollavano intorno a me come se fossi la loro padrona, la regina di un esercito di accattoni venuta a distribuire qualcosa che essi anelavano. Io non capivo la loro lingua e il loro aspetto mi sbalordiva. Non avevo paura, anche se si aggrappavano alle mie vesti con mani insanguinate, finché non sono stata ricoperta di sangue anch'io. Volevano qualcosa da me. Non riuscivo a capire che cosa, però sapevo che apparteneva a loro.» «Un incubo», commentò Ingrey, col tono più distaccato che poté.
«Io non avevo paura di loro. Anzi mi hanno spezzato il cuore.» «Avevano un aspetto così penoso?» «No. Voglio dire... non esattamente. Tuttavia mi sono aperta le costole, ho infilato una mano nel mio petto, ne ho strappato il cuore e l'ho offerto a colui che mi sembrava il loro capo. Era uno di quelli decapitati. La sua testa, ancora chiusa nell'elmo, gli penzolava dalla cintura dorata; inoltre aveva una bandiera strettamente arrotolata all'asta. Costui si è inchinato, ha preso il mio cuore e l'ha deposto su una lastra di pietra, quindi ha sfoderato una spada spezzata e l'ha tagliato in due. Una metà l'ha restituita a me, con modi molto rispettosi. Poi ha infilato l'altra sulla punta dell'asta della bandiera e tutti hanno gridato in coro. Non ho capito se fosse una supplica agli dei, un sacrificio o un gesto di riscatto, finché...» Tacque e deglutì. Poi riprese: «Finché Wencel non ha detto quella parola, ieri sera. Portabandiera. Gli eventi di questi ultimi tempi mi avevano fatto quasi dimenticare il sogno, ma nel sentire quella parola mi è tornato in mente con una violenza tale da stordirmi. Non credo che vi siate accorto di quanto sono stata vicina a perdere i sensi». «Io... no. Mi sembravate soltanto molto interessata.» Lei annuì con sollievo. «Bene.» «E dunque che cosa avete capito del sogno?» «Ho pensato... suppongo... credo che quei guerrieri mi abbiano eletto loro portabandiera, quella notte.» Ijada tolse la mano destra dalle redini e se la posò sulla parte sinistra del petto, aperta, nel gesto sacro. «E poi mi è venuto in mente che il cuore è il simbolo del Figlio dell'Autunno. Il simbolo del coraggio. Della lealtà. Dell'amore.» Ingrey aveva cercato di restare coi piedi per terra, ancorato ai ragionamenti politici e ai piani pratici e concreti. Ora invece si trovava di nuovo spinto oltre il confine spettrale dell'irrealtà. «È stato soltanto un sogno. Quanto tempo è trascorso da allora?» «Alcuni mesi. Gli altri non vedevano l'ora di smontare il campo e galoppare via, il mattino seguente. Ma io me ne sono andata lentamente, continuando a guardarmi indietro.» «Che cosa avete visto?» «Nulla.» Ijada corrugò le sopracciglia, come se ricordasse un dolore. «Nulla, a parte gli alberi. Gli altri avevano paura di quella terra, io invece mi sentivo legata a essa. Desideravo tornare nei boschi, anche da sola se nessuno avesse voluto scortarmi, e cercare di capire. Tuttavia, prima di poterlo fare, sono stata mandata nella dimora del conte Horseriver e... be'.»
Fissò su di lui uno sguardo intenso. «Comunque i Boschi Feriti non possono essere venduti.» «Si può sempre cercare un acquirente all'oscuro delle superstizioni locali.» Lei scosse la testa. «Voi non capite.» «Che cosa? La terra non è forse intestata a voi?» «Non è così semplice.» «È gravata da qualche ipoteca?» «No. Né lo sarà mai. Come potrei riscattarla?» La fanciulla rise senza ilarità. «Nel mio futuro non c'è nessun ricco matrimonio, anzi probabilmente nessun matrimonio del tutto. E non ho prospettive ereditarie di nessun genere.» «Ma se io potrò salvarvi la vita, Lady Ijada...» «Voi non capite. Che i Cinque Dei mi aiutino, io non capisco. Tuttavia... quegli spiriti hanno posto i boschi sotto la mia responsabilità. Non potrò liberarmi di questa responsabilità, finché i miei uomini non saranno... pagati.» «Pagati? Che tipo di denaro possono desiderare gli spettri? O le allucinazioni, se tali erano», aggiunse Ingrey, senza nascondere il proprio scetticismo. Ijada fece una smorfia, frustrata, e con un secco gesto della mano mise da parte ogni dubbio. «Non lo so. In ogni caso essi volevano qualcosa.» «Allora dovrò trovare un altro modo», mugolò Ingrey. Oppure ritornare sull'argomento più tardi. Stavolta fu Ijada a guardarlo con aria pensierosa. «E voi quale piano avete escogitato per trovare la causa della vostra maledizione?» «Ancora nessuno», ammise lui. «Anche se, dopo... ehm... dopo Red Dike, sono certo che una cosa del genere non mi potrà più essere scagliata addosso senza che me ne accorga. E che opponga resistenza.» Piccato nel vedere lo sguardo dubbioso di lei, aggiunse con fermezza: «Starò in guardia e sarò pronto a reagire». «Mi sono chiesta... Siete davvero sicuro che fossi io il vero bersaglio? Forse, invece di fare di voi uno strumento per distruggere me, si voleva che io distruggessi voi. Avete offeso qualcuno?» Ingrey aggrottò la fronte a quella sgradevole prospettiva. «Molti uomini. Fa parte del mio lavoro. Ma ho sempre pensato che un nemico mi manderebbe un sicario prezzolato.» «Credete che un comune sicario sarebbe disposto ad affrontarvi?»
Ingrey fece una smorfia. «Il mandante non dovrebbe fare altro che alzare il prezzo.» Anche le labbra di Ijada si piegarono in una smorfia. «Forse il vostro nemico sconosciuto è avaro, allora. Il prezzo per far uccidere un guerrierolupo potrebbe essere troppo alto per lui.» L'uomo ridacchiò. «La mia reputazione non corrisponde alle capacità della mia spada, temo. A un nemico basterebbe mandare abbastanza uomini, o farmi colpire alle spalle nel buio. Ci vorrebbe poco. Una persona sola non è difficile da uccidere, per quanto si vanti del contrario.» «Proprio così», mormorò lei accigliata, e Ingrey maledisse la propria lingua incauta. Dopo un istante Ijada aggiunse: «La domanda però rimane valida. Che cosa sarebbe successo a voi se la maledizione avesse funzionato come doveva?» Lui si strinse nelle spalle. «Sarei caduto in disgrazia. Hetwar mi avrebbe cacciato, o forse fatto impiccare. Se foste annegata nel fiume, sarebbe passato per un incidente, è vero. Parecchi individui avrebbero tirato un sospiro di sollievo, ma non sarebbero certo venuti a ringraziarmi.» «Però avreste perduto la vostra importanza, nella capitale.» «Io non sono importante nella capitale. Sono soltanto uno degli uomini che Hetwar ha voluto prendere accanto a sé.» «Hetwar è stato molto caritatevole ad assumervi.» Ingrey aprì la bocca e subito la richiuse. «Mmh.» «La prima volta che ho percepito l'animale di Wencel, mi è sorto il sospetto che fosse lui la fonte della vostra maledizione. E me ne sono convinta ancora di più quando ci ha parlato del suo segreto. È stato come se ci stesse confidando di essere uno sciamano.» Anche tu l'hai pensato? Ingrey rifletté che Ijada non aveva conosciuto Wencel quand'era un bambino gracile e timido. Forse ciò la induceva a sopravvalutarlo? O era lui a sottovalutare il cugino? La giovane continuò: «In questo caso, però, non capisco perché ci abbia lasciato uscire vivi dalla sua casa». «Ucciderci sarebbe stato troppo rozzo», replicò Ingrey. «Un sicario è sempre testimone di se stesso, mentre la maledizione non avrebbe lasciato nessun testimone. Chi mi ha lanciato l'incantesimo, che sia stato Wencel o no, desidera una maggiore sottigliezza. O almeno credo.» Si accigliò, non molto convinto. «Non è mai stato un uomo facile, ma questo nuovo Wencel mi spaventa a morte.»
«Be', non è l'effetto che fa a me.» Ingrey si sentì mozzare il fiato ripensando a quanto era stato vicino a darsi la morte con le proprie mani neppure dodici ore prima. Sarebbe stata una morte abbastanza sottile da non destare sospetti sotto il tetto di Wencel? Però stavolta non c'era una maledizione, Avrei fatto tutto da solo. Dopo che Wencel mi aveva spinto a chiamare il mio lupo... «Ora che cos'è che vi fa sogghignare?» domandò Ijada. «Niente.» Lei sbuffò, esasperata. «Oh, certo.» Dopo avere cavalcato in silenzio per qualche minuto, la ragazza riprese: «Io voglio sapere cos'altro sa Wencel di Campo del Sangue, o di Boscosacro, come l'ha chiamato lui. Se è davvero uno studioso del Vecchio Dominio, come dice. Cercate di fargli qualche domanda... quando... gli parlerete di nuovo. Ma non raccontategli del mio sogno». Ingrey annuì. «Avete mai parlato con lui della vostra eredità?» «Mai.» «E con la principessa Fara?» Ijada esitò. «Solo in termini di valore, o meglio di mancanza di valore, della zona.» Ingrey tamburellò con le dita sulla sella. «Deve essere stato soltanto un sogno. Le anime vengono prese dagli dei al momento della morte, sia che l'abbiano trovata al vostro Campo del Sangue sia in un'altra battaglia del Vecchio Dominio. Ogni spirito separatosi dal corpo a quell'epoca e rifiutato dagli dei si è sciolto nell'oblio da secoli, così mi hanno insegnato i Divini. Quattrocento anni sono troppi perché uno spettro sopravviva intatto.» «Io ho visto ciò che ho visto.» Il tono di Ijada non accettava né respingeva le razionalizzazioni. «Forse è l'effetto che la presenza di spiriti animali fa all'anima degli uomini», continuò Ingrey, in vena di congetture. «Invece della dissoluzione, li attende un freddo e silenzioso tormento eterno. Intrappolati tra la materia e lo spirito. Alle prese con tutte le pene della morte e privi delle gioie della vita...» Deglutì, spaventato da un simile scenario. Lo sguardo di Ijada si fece lontano, perso sulla strada spazzata dal vento. «Io spero di no. Quei guerrieri erano feriti e tormentati, ma mi è sembrato che trovassero gioia in me.» Tornò a guardare Ingrey e agli angoli dei suoi occhi si formarono piccole rughe. «Un attimo fa avete detto che era solo un sogno, ma ora lo prendete per vero e ci vedete il vostro destino. Non potete credere a entrambe le interpretazioni, anche se saltare da un'ipotesi
all'altra vi diverte.» Sorpreso dall'osservazione, Ingrey non riuscì a mantenere l'espressione accigliata, ma riuscì a trattenere il sorriso. «Allora voi che cosa pensate che fosse quel sogno?» Ijada rispose calma: «Penso... che, se potessi tornare là adesso, lo scoprirei». Abbassò le palpebre e guardò Ingrey come se lo stesse soppesando. «E penso che lo scoprireste anche voi.» Furono interrotti da un nutrito gruppo di viaggiatori che stava avanzando verso di loro, gente alle dipendenze del kin di Boleso diretta a Oxmeade per preparare il funerale del principe. Ingrey fece segno ai propri uomini di spostarsi su un lato della strada e scrutò il gruppo in arrivo in cerca di facce conosciute. Ne vide alcune e scambiò brevi saluti e cenni del capo. C'era anche personale di servizio dei Boarford e i due conti fratelli con le loro mogli, in un elegante carro riscaldato. Poco più avanti i cavalieri di Ingrey dovettero farsi ancora da parte per dare spazio a un convoglio di gente del Tempio, Lord Devoti e Divini di entrambi i sessi, a cavallo e riccamente vestiti. Quando ebbero di nuovo la strada libera, Ingrey si trovò affiancato da Gesca, che lo guardò con espressione sospettosa. Lui spronò il cavallo e condusse il gruppo a un'andatura più rapida. 10 Nel tardo pomeriggio oltrepassarono la dorsale delle basse colline a nord-est della capitale. Davanti a loro si estendevano la città e la vasta pianura del meridione, tagliata dalle anse argentine del fiume Stork, che si assottigliava in lontananza fino a perdersi nella foschia autunnale. Alcune barche e zattere mercantili navigavano laboriosamente verso monte o si lasciavano portare dalla corrente verso le fredde acque del mare, lontano ottanta leghe. Ingrey tirò le redini per avvicinarsi al cavallo di Ijada, che si era alzata in piedi sulle staffe per contemplare il panorama. Studiando la sua espressione, notò che era in parte affascinata e in parte timorosa. Forse Easthome era la più grande metropoli che la giovane avesse visto, anche se c'era una dozzina di città darthacane che la eclissavano e la capitale di quel regno era almeno sei volte più estesa. «La città è divisa in due parti: la Città del Tempio, o città alta, e la Città del Re, o città bassa. Quella alta, là sulle colline, ospita il tempio, il palazzo dell'Arcidivino e tutti gli uffici degli ordini sacri. In quella bassa ci sono
i magazzini e i quartieri mercantili. Da qui possiamo vedere i moli, dove le fognature sboccano nello Stork. Il palazzo del sacro re e la maggior parte delle dimore dei Lord e dei loro kin sono dalla parte opposta rispetto ai moli.» Ingrey abbassò il braccio, dopo averle indicato dove guardare. «Nell'antichità Easthome era costituita da due villaggi appartenenti a tribù diverse, una su ciascuna riva dell'affluente orientale. Le due parti hanno continuato a combattere con grandi spargimenti di sangue fino al tempo del nipote di Audar, il quale ha deciso di edificare qui la sua capitale e ha spazzato via ogni divisione edificando ponti ovunque. Oggi quell'affluente è a malapena rintracciabile, tanto ci hanno costruito sopra. E nessuno si farebbe ammazzare per impadronirsi della sponda di una fognatura. Queste sono parole di Hetwar; me le ha dette come se fossero una parabola, ma non sono sicuro di capire dove stia la morale.» Il gruppo discese lungo la strada che portava alla porta orientale delle mura, sul lato della Città del Re. I bastioni erano poderosi e proteggevano un labirinto di strade che serpeggiava tra caseggiati piuttosto alti, di mattoni crudi o intonacati di bianco. Le finestre, incassate nei muri massicci, avevano lastre di ottimo vetro. I tetti di tegole avevano sostituito da tempo quelli di assi e di stuoie, troppo pericolosi in caso d'incendi, a causa dei quali era morta più gente che nelle guerre. Anche le mura venivano continuamente rafforzate e migliorate, benché i nuovi edifici costruiti troppo vicino, sia all'interno sia all'esterno, ne compromettessero l'efficacia. Poco più tardi i viaggiatori giunsero in una strada tortuosa, nel quartiere dei mercanti, e si fermarono davanti a una stretta casa di mattoni che faceva parte di un lungo isolato di costruzioni affiancate, differenti in altezza e in aspetto. Ingrey si domandò se Horseriver possedesse l'intero isolato. Sicuramente il matrimonio con la principessa Fara gli aveva portato in dote grandi proprietà immobiliari, da cui riscuoteva sostanziosi affitti. Quella casa non era elegante e spaziosa come la villa in cui avevano alloggiato la notte precedente a Oxmeade, tuttavia sembrava dignitosa e tranquilla. Ingrey smontò e affidò il proprio cavallo e quello di Ijada alle cure di Gesca. «Riferisci a Lord Hetwar che gli farò rapporto non appena avrò controllato la sistemazione della prigioniera. E di' al mio servo Tesko, se lo trovi sobrio, che venga a portarmi tutto ciò di cui potrò avere bisogno nei prossimi giorni. Abiti e biancheria innanzitutto.» Ingrey si massaggiò il collo dolorante, con una smorfia. La sua giubba di pelle puzzava di cavallo e di fango, e le escoriazioni alla testa gli dolevano. Ijada, che si guardava attor-
no mentre si sfilava i guanti, appariva linda e fresca come prima del viaggio. Il portiere della casa li fece entrare; la sorvegliante e una cameriera scortarono Ijada su per le scale, seguite dal figlio del portiere, carico del bagaglio della giovane donna. Ingrey posò al suolo le borse da sella ed esaminò l'atrio, stretto e lungo. Il portiere gli si avvicinò con aria nervosa. «Il ragazzo tornerà giù tra poco per condurvi nella vostra camera, mio signore.» Ingrey grugnì un assenso. «Non c'è fretta. Se la sorveglianza di questa casa è mia responsabilità, sarà meglio che dia un'occhiata in giro.» Ed entrò nella stanza più vicina. La casa era piuttosto semplice. La cantina era adibita a magazzino; al pianterreno c'erano la cucina, con annessa una stanza da lavoro in cui trovavano posto le brande della cuoca e della sguattera, una sala da pranzo, un salotto e un cubicolo sotto la prima rampa di scale, dove il portiere poteva sedersi a sorvegliare l'ingresso. Ingrey sporse fuori la testa dalla porta sul retro, che dava in un cortile con un pozzo coperto e la latrina. Il primo piano comprendeva quello che sembrava uno studio e due camere da letto. Al secondo piano Ingrey passò davanti a una stanza chiusa, dalla quale proveniva un mormorio di voci femminili: quelle di Ijada e della sua sorvegliante. Il terzo e ultimo piano era diviso in stanze più piccole per la servitù. Mentre ridiscendeva, Ingrey vide il figlio del portiere che portava le sue borse da sella in una delle camere da letto del primo piano. L'arredamento era scarno: un letto a una piazza, un treppiede che sorreggeva un catino, una sedia e un cassettone consunto. C'era da chiedersi se qualcuno avesse portato via i mobili migliori, dopo che il corriere degli Horseriver era venuto a far sgomberare chiunque avesse abitato lì fino al giorno prima. Un leggero rumore di passi oltre il soffitto e lo scricchiolio di quello che poteva essere un letto informarono Ingrey che la camera di Ijada era direttamente sopra la sua. Quella vicinanza era rassicurante, ma allo stesso tempo lo innervosiva. Non appena udì i passi della giovane scendere le scale, si avviò verso la porta. Quando aprì, Ijada stava alzando una mano per bussare. Nell'altra teneva la lettera dell'Erudita Hallana, ormai un po' sgualcita. La sua sorvegliante o forse era meglio chiamarla la spia di Wencel? - le stava alle calcagna e controllava ogni suo movimento con aria sospettosa. «Lord Ingrey, l'Erudita Hallana ha incaricato voi di recapitare questa»,
disse la ragazza in tono formale. «Vi dispiace provvedere?» I suoi occhi tranquilli sembravano volergli ricordare le parole della maga: Confido in voi, mio signore, perché questa missiva giunga a destinazione. E non in altre mani. Ingrey la prese ed esaminò l'indirizzo. «Voi sapete chi sia questo...» rilesse il nome, «questo Erudito Lewko?» «No. Ma se Hallana si fida di lui deve essere un uomo onesto. E non uno sciocco.» Che cosa significa? Hallana si è fidata anche di me. Inoltre un uomo del Tempio che non fosse né disonesto né sciocco poteva benissimo non dimostrarsi amico di chi non aveva fede negli dei. Tuttavia Ingrey era assai incuriosito da ciò che Hallana gli aveva detto e dai fatti accaduti a Red Dike. L'unica soluzione, a parte quella di aprire furtivamente la busta, era essere presente quando fosse stata aperta. Se l'avesse consegnata mentre si recava all'ufficio di Hetwar, poi avrebbe evitato di doverla nascondere al suo superiore e di dovergli fornire spiegazioni. Hetwar non avrebbe potuto rimproverargli nulla. E, se interrogato, Ingrey avrebbe potuto fingere di essersi sentito obbligato a consegnarla, atto virtuoso che Hetwar doveva aspettarsi da un proprio dipendente. «Sì, provvederò io a consegnarla.» Ijada annuì, senza staccare lo sguardo dal suo, e Ingrey si domandò se gli leggesse nella mente quei pensieri contorti, o se lo giudicasse degno di fiducia così come aveva fatto Hallana. Poi aggiunse: «Restate in camera, sarete più al sicuro. E chiudete la porta dall'interno. Se avrete bisogno di qualsiasi cosa, presumo che la servitù di questa casa potrà accontentarvi». Spostò lo sguardo sulla donna incaricata di sorvegliarla, la quale gli rivolse un inchino circospetto. «Non so se Lord Hetwar avrà bisogno di me questa sera, perciò cenate pure quando vorrete. Io rientrerò non appena potrò.» Si mise la lettera in tasca, salutò con un cortese inchino e scese le scale. Aveva bisogno di un bagno, abiti puliti e cibo caldo nello stomaco, in quell'ordine; ma avrebbe dovuto aspettare. Lasciò al portiere alcune istruzioni per Tesko, nel caso in cui il servo fosse arrivato prima del suo ritorno, e uscì. Gli odori familiari e l'aspetto della gente erano un balsamo tranquillizzante per il suo inconscio. S'incamminò lungo le strade di ciottoli della Città del Re, oltrepassò il corso d'acqua semisotterrato e, quando fu ai piedi della collina, imboccò una ripida salita che portava nella zona del tem-
pio. Due svolte e dieci minuti di faticosa ascesa lo condussero alla base di una stretta scalinata che girava intorno a una torre e a due case, nella città alta. Nell'angolo più buio si apriva un piccolo tempio dedicato al protettore della città, con due candele accese sistemate in due profonde nicchie ornate di fiori. Automaticamente, passandoci davanti, Ingrey si segnò le cinque parti del corpo. Quindi sbucò in una zona più aperta, illuminata dalle ultime luci del giorno, e svoltò a destra. Un altro breve tratto lo portò nella piazza principale, davanti al tempio. Salì sotto il colonnato anteriore ed entrò nell'edificio sacro. Il cortile centrale era aperto al cielo; al centro il fuoco sacro ardeva tranquillamente in un braciere. Oltre un'arcata, in una delle cinque grandi sale che lo circondavano, Ingrey vide che stava iniziando una cerimonia; doveva trattarsi di un funerale, se quello posto davanti all'altare del Padre e circondato da gente vestita a lutto era un catafalco. Di lì a pochi giorni anche la salma del principe Boleso sarebbe stata al centro di un rito simile, ma molto più grandioso. Sul lato opposto del cortile, gli Accoliti stallieri stavano togliendo da un recinto i loro animali sacri per il piccolo miracolo della scelta. Ogni bestia, tenuta al guinzaglio da un uomo vestito coi colori del proprio ordine, sarebbe stata condotta dinanzi alla bara; in base alle sue reazioni, il Divino avrebbe compreso da quale dio era stata presa l'anima del defunto. Ciò avrebbe determinato non solo il genere di preghiere che i parenti avrebbero dovuto recitare, ma anche a quale dio consegnare le offerte in denaro. Ingrey era portato a considerare la scena con cinismo, tuttavia gli era capitato anche di assistere a risultati chiaramente inattesi per tutte le parti in causa. Una donna abbigliata nel verde della Madre teneva appollaiato su una spalla un grosso uccello, che gracchiava innervosito. Una fanciulla vestita con l'azzurro della Figlia stringeva con forza sotto un braccio una gallina dalle piume tinte dello stesso colore. Un enorme cane grigio, avvolto in una nuvola di peli, stava accovacciato accanto a un anziano stalliere dell'Ordine del Padre, vestito di grigio. Un giovane che esibiva il rosso e il marrone del Figlio conduceva un puledro marrone, dal pelame ben spazzolato, che roteava gli occhi. Il quadrupede scalciava e si dibatteva, minacciando di far cadere lo stalliere, e dopo un istante Ingrey ne comprese il motivo. A lenti passi dietro gli altri animali stava arrivando il più grande orso bianco che lui avesse mai visto. Il bestione era alto come un pony, ma largo il doppio, con occhi del colore dell'urina congelata e altrettanto ine-
spressivi. Il suo stalliere, vestito con la tunica bianca del Bastardo, lo seguiva reggendo a due mani una lunga catena; aveva un'espressione terrorizzata e spostava continuamente lo sguardo dall'orso a un corpulento individuo che lo seguiva mormorando parole d'incoraggiamento. Costui era impressionante quasi quanto l'orso; aveva spalle larghe come un armadio, capelli rossi legati in una lunga coda e ornati da grandi fibbie, e bracciali d'argento che gli tintinnavano ai polsi. Nei suoi luminosi occhi azzurri c'era un'espressione divertita che Ingrey non sapeva se attribuire a un'ironica intelligenza o a una crudele imbecillità. I suoi abiti, giubba, calzoni e un ampio mantello, erano di fattura semplice, ma vivacizzati da strisce di broccato di diversi colori. Sui suoi stivali spiccavano disegni dai riflessi argentei, così come anche sul fodero della spada, costellato di gemme grezze, e su quello dell'accetta da combattimento che portava dietro la schiena, appesa a una bandoliera. A breve distanza c'era un altro individuo abbigliato nello stesso modo, ma più basso e snello, che osservava la scena appoggiato a una colonna. Alcuni stallieri lo stavano guardando con aria supplichevole, come se volessero indurlo a fare un'offerta; ma lui li ignorava completamente. Ingrey smise d'interessarsi a costoro quando vide avvicinarsi una donna anziana, vestita coi colori bianco e crema del Bastardo. I capelli, riuniti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra, rivelavano che si trattava di una Divina. Stava frettolosamente portando da qualche parte una pila di abiti ben piegati; mentre gli passava davanti, Ingrey tese una mano a sfiorarle un braccio. La donna si voltò a guardarlo senza nessuna simpatia. «Scusatemi, Divina. Ho una lettera per l'Erudito Lewko e mi è stato raccomandato di consegnarla nelle sue mani.» L'espressione di lei cambiò subito e si fece, se non proprio amichevole, assai più interessata. Lo squadrò da capo a piedi, come se fosse un corriere appena arrivato da un lungo viaggio a cavallo, impressione che a Ingrey parve fin troppo esatta. «Venite con me, allora», disse la donna e cambiò bruscamente direzione. Benché le gambe di Ingrey fossero più lunghe, per starle dietro dovette allungare il passo. La Divina lo condusse oltre un'arcata seminascosta, su e giù per alcune brevi rampe di scale, intorno al retro del tempio e lungo una strada che passava di fronte al palazzo dell'Arcidivino. Una stretta discesa li portò all'ingresso del cortile di un edificio a due piani; dopo essere entrati da una porta di servizio, proseguirono su per una scala a chiocciola. Ingrey inizia-
va a capire perché la donna non si fosse limitata a indicargli la direzione. All'ultimo piano oltrepassarono numerose stanze ben illuminate che dovevano essere uffici, a giudicare dalle teste chine sui tavoli colmi di documenti e dal fruscio delle penne. La Divina bussò all'ultima porta della fila, l'unica chiusa, e dall'interno la voce pacata di un uomo rispose: «Entrate». La stanza in cui Ingrey fu introdotto non era molto vasta, o forse era un'impressione dovuta al fatto che c'era poco spazio libero. Le pareti erano tappezzate di scaffali pieni di libri, e altri documenti di ogni genere ricoprivano due lunghi tavoli. Soprammobili e oggetti vari, tra cui persino una sella, occupavano il resto dello spazio. L'uomo seduto a uno dei tavoli, all'estremità più vicina alla finestra, aveva alzato uno sguardo un po' miope dai fogli che stava consultando; alla vista di Ingrey, inarcò un sopracciglio. Anche lui indossava il bianco del Bastardo, ma la sua tunica era lisa e spiegazzata, senza nessun simbolo del suo rango. Era di mezza età, magro, forse un po' più alto della media, ben rasato e con capelli corti color sale e pepe. Ingrey l'avrebbe scambiato per un impiegato al servizio di qualche personaggio importante, se la Divina non si fosse portata una mano alle labbra, inchinandosi rispettosamente prima di parlare. «Erudito, quest'uomo ha una lettera per voi.» Si volse a Ingrey. «Il vostro nome, signore?» «Ingrey kin Wolfcliff.» Sul viso di lei non apparve nessuna espressione; invece le sopracciglia dell'uomo s'inarcarono ancora di più. «Grazie, Marda», disse, congedandola con un impercettibile cenno del capo. Lei si toccò nuovamente le labbra e uscì, chiudendo la porta con cura. «L'Erudita Hallana mi ha incaricato di consegnarvi questa lettera», disse Ingrey. Si avvicinò al tavolo e la depose sui fogli. L'Erudito Lewko raddrizzò le spalle, visibilmente interessato. «Hallana! Non sarà una brutta notizia, voglio sperare?» «No... cioè... lei era in ottima salute, quando ci siamo visti.» Lewko scrutò la lettera, senza toccarla. «Ci sono problemi?» Ingrey rifletté sulla risposta. «Hallana non mi ha mostrato il contenuto della lettera. Ma suppongo di sì.» Lewko sospirò. «Purché non si tratti di un altro orso bianco. Non credo che mi farebbe un regalo simile, ma il solo pensiero mi fa rabbrividire.» Ingrey era divertito dal suo tono. «Poco fa ho visto un orso bianco, nel
cortile del tempio. Un bestione... ehm... impressionante.» «'Terrorizzante' è il termine che userei. Alcuni stallieri si sono dati malati, ieri. Che il Bastardo ci aiuti, stanno davvero cercando di usarlo in un funerale?» «Così mi è parso.» «Avremmo dovuto dire al principe: 'Tante grazie' e poi chiuderlo in gabbia. Da qualche parte nella campagna.» «Com'è arrivato qui?» «In barca. È stata una sorpresa.» «Era una barca grande, immagino.» Lewko sorrise e d'un tratto sembrò molto più giovane. «L'ho vista ieri, ormeggiata a un molo giù alla Città del Re. Non è neppure lontanamente grande quanto quella che avrei usato io.» Si passò una mano tra i capelli. «L'orso è un regalo, o forse un pagamento, portato da quel principe rosso di capelli da non so che isola congelata dei mari del sud. Dico 'principe' per non dire 'pirata'. Si chiama Jokol, soprannominato dal suo fedele equipaggio Jokol Spaccateste, come mi è stato riferito. Io non credo che gli orsi bianchi si possano addomesticare, tuttavia sembra che lui se lo sia preso come animaletto da compagnia quando era un cucciolo, il che ci obbliga ad apprezzare il sacrificio che compie nel separarsene. Non riesco a immaginare che razza di viaggio sia stato; dicono di avere trovato burrasca dall'inizio alla fine. Secondo me quel Jokol è un pazzoide. Però ha portato anche molti lingotti d'argento per il mantenimento dell'orso e ciò ha convinto i Divini del Tempio che non era il caso di rifiutare il dono, o pagamento che sia.» «Pagamento per che cosa?» «Lo Spaccateste vuole un Divino per portarselo tra i ghiacci della sua isola al posto dell'orso. È una bella missione ecumenica che qualsiasi Divino sarebbe lieto di accollarsi. Sono già stati richiesti dei volontari. Due volte. Se quando il principe riprenderà il mare non se ne sarà presentato neppure uno, il Tempio nominerà qualcuno. Una persona non più gradita da queste parti, immagino.» Il suo sorriso si allargò. «Non avendo sedotto la moglie o l'amante di qualche alto papavero, dubito che sceglieranno me. Oh, be'.» Sospirò ancora e prese la lettera. Si chinò a guardare il sigillo. Subito il buonumore abbandonò Ingrey, che si fece attento. Il suo sangue - quel sangue - sembrava agitarsi come un vortice. Lewko non portava la treccia tipica dei maghi né puzzava di demoni, tuttavia una maga del Tempio lo riteneva superiore a sé... Forse perché i maghi erano soliti affidarsi a
lui per i problemi più complicati? Lewko posò una mano sul sigillo. I suoi occhi si chiusero un istante e qualcosa avvampò intorno a lui. Non era nulla che Ingrey potesse vedere con gli occhi o annusare col naso, tuttavia gli fece rizzare i peli sulla nuca. Si accorse che una fitta di paura gli stringeva lo stomaco. Era una sensazione che aveva già provato al termine del suo inutile pellegrinaggio a Darthaca, quando si era trovato alla presenza di un individuo dall'aspetto ordinario che, tranquillamente seduto, aveva lasciato che un dio penetrasse nel mondo materiale attraverso di sé. Lewko non è un mago. È un santo, o un santo minore. E sapeva chi era Ingrey. Tutto, compreso lo stato dell'ufficio, faceva pensare che Lewko si trovasse al tempio da anni, tuttavia Ingrey non l'aveva mai visto. O almeno mai notato. Certo non in compagnia dei Divini più importanti del Tempio, che frequentavano il Lord Guardasigilli e la corte del re e che lui aveva ben presenti nell'archivio della memoria. Lewko alzò lo sguardo. Non c'era più nessun divertimento nei suoi occhi. «Voi siete l'uomo del Guardasigilli Hetwar, no?» domandò. Ingrey annuì. «Questa lettera è stata aperta.» «Non da me, Erudito.» «Da chi, allora?» Ingrey esaminò le possibilità. La busta era passata da Hallana a Ijada, quindi a lui. Poteva averla aperta Ijada? No, sicuramente no. Forse non l'aveva tenuta sempre con sé? Doveva essere rimasta nella tasca interna dove lei l'aveva messa a Red Dike... fino alla sera prima, in occasione della cena a tre nella casa requisita dal conte Horseriver. E Wencel aveva lasciato la tavola quando era stato informato dell'arrivo di un messaggio urgente... già. Sarebbe stato facile per Wencel intimidire e allontanare la sorvegliante dal bagaglio di Ijada, ma era possibile che avesse osato adoperare la propria abilità di sciamano per ingannare il mago cui era indirizzata la busta? Però Lewko non è un mago, dunque Wencel non può avere avuto quella preoccupazione. Ingrey cercò di prendere tempo. «Senza prove, ogni nome che potrei fare sarebbe una calunnia, Erudito.» Lo sguardo di Lewko si era fatto sgradevolmente penetrante, ma con sollievo di Ingrey tornò a posarsi sulla busta. «Be', vediamo», mormorò il santo e la aprì con uno strappo, facendo schizzare schegge di ceralacca. Lesse con attenzione per qualche minuto, poi scosse il capo e si alzò per accostarsi di più alla finestra. Un paio di volte girò il foglio, coperto di fitta
scrittura in corsivo. A un certo punto si rivolse a Ingrey e domandò perplesso: «La frase rompere il suo incanto significa qualcosa per voi?» «Incanto... ehm... potrebbe essere catene?» ipotizzò lui. Lewko s'illuminò in viso. «Ah! Sì, può essere. Così ha più senso.» Continuò a leggere. «O forse no...» Lewko finì la lettera e ricominciò daccapo, corrugando le sopracciglia. Agitò vagamente una mano verso una parete. «Credo ci sia uno sgabello da campo sotto quei libri. Accomodatevi, Lord Ingrey.» Quando lui ebbe liberato lo sgabello pieghevole dai libri e si fu messo a sedere, Lewko alzò ancora lo sguardo. «Compatisco la spia che ha dovuto decifrare questa roba», commentò. «È in codice?» «No. È la calligrafia di Hallana. Ha scritto in fretta, suppongo. Per capirla occorre pratica... e vi garantisco che io ce l'ho. Be', ho faticato di più per ottenere meno. Non a causa di Hallana: lei si esprime in modo molto conciso. Uno dei suoi scomodi talenti. Quel suo sorriso esitante nasconde la durezza di un caimano. Bisogna ringraziare Oswin per averle addolcito il carattere.» «Voi la conoscete bene?» domando Ingrey. Mi piacerebbe sapere perché una come lei scriva a te, tra tutti i funzionari del Tempio che ci sono a Easthome. Lewko arrotolò la lettera e la batté leggermente sull'orlo del tavolo. «Mi è stato affidato l'incarico di farle da maestro, molti anni fa, quando è divenuta inaspettatamente una maga.» Senza dubbio occorreva un mago per insegnare a una maga. Di conseguenza... di conseguenza... Come una pietra sull'acqua, la mente di Ingrey saltò due domande per arrivare a una terza: «Come può un uomo smettere di essere un mago? Senza riportare danni?» Il compito che si era assunto l'antico conquistatore darthacano era distruggere i maghi illegali, di cui si diceva che si opponessero con furia demoniaca all'amputazione dei propri poteri; ma l'Erudito Lewko certo non era mai stato uno di quei rinnegati. «È possibile rinunciare al dono.» L'uomo fece un sorriso tra il divertito e il nostalgico. «Purché si compia tale scelta quando si è ancora in tempo.» «Non è una menomazione?» «Non ho detto che sia facile. Anzi...» La sua voce si abbassò. «Occorre un miracolo.» Che cos'era quell'uomo? «Io presto servizio qui a Easthome da quattro anni. È sorprendente che non ci siamo mai incontrati.»
«Infatti è accaduto. In un certo senso. Conosco bene il vostro caso, Lord Ingrey.» Lui s'irrigidì, soprattutto per la scelta delle parole: caso. «Eravate voi il mago del Tempio mandato a Birchgrove per esaminarmi?» Corrugò le sopracciglia. «Mi sembra di non avervi mai visto, ma i miei ricordi di quel periodo sono confusi.» «No, quello era un altro. A quel tempo sono stato coinvolto in modo assai meno diretto. L'inquirente mi ha portato una scatola di cenere, proveniente dal vostro castello, perché fosse ritrasformata in una lettera di confessione.» Ingrey corrugò la fronte. «Non è qualcosa che Hallana definirebbe un lavoro maledettamente difficile, anche per i maghi del Tempio? Il caos trasformato in ordine?» «Proprio così. Mi è occorso un mese di lavoro e forse ha abbreviato di un anno la durata della mia vocazione. Per di più con un risultato molto scarso, con mia grande irritazione. Voi che cosa ricordate dell'Erudito Cumril, il giovane mago del Tempio che vostro padre ha corrotto?» Ingrey s'irrigidì ancor di più. «Da una conoscenza durata un'ora, durante la cena, più un quarto d'ora di rituale, non posso ricordare molto. Dedicava la sua attenzione a mio padre. Io ero, diciamo così, il frutto di un ripensamento.» Il suo tono s'indurì. «E voi come sapete chi è stato a corrompere chi?» «Era chiaro. Meno chiaro era il come. Non per denaro e neppure con le minacce, credo. C'era un motivo... Cumril s'illudeva di fare una cosa buona, o almeno eroica, che invece è andata terribilmente storta.» «Come potete sapere che cosa aveva nel cuore, quando non sapete neppure ciò che aveva nella mente?» «Oh, quella parte non ho dovuto immaginarla. Era nella sua lettera, quando ho finito di riassemblarla. Tre pagine in cui descriveva il senso di colpa e il rimorso. E quasi nessun dettaglio utile che non conoscessimo già.» Lewko fece una smorfia. «Se Cumril ha scritto quella confessione, chi l'ha bruciata?» domandò Ingrey. «Posso soltanto avanzare un'ipotesi.» Lewko si appoggiò allo schienale della sedia e guardò Ingrey dritto negli occhi. «Ma è un'ipotesi di cui sono più sicuro che di altre cose di cui ho le prove materiali. Voi capite la differenza tra un mago che cavalca il proprio demone e un mago che ne è cavalcato?»
«Ne ha parlato Hallana. Mi è parsa piuttosto sottile.» «Non vista dall'interno. La differenza è molto chiara. Quella tra un uomo che usa un potere per i propri scopi e un potere che usa un uomo per i suoi... talvolta può sembrare più piccola di una zampa di una formica, lo so. Io stesso ho ballato pericolosamente vicino a quella linea, una volta. La mia opinione è che, dopo la tragedia che ha lasciato vostro padre morto e voi... be', come siete, Cumril è stato sopraffatto dal suo demone. Se sia stata la disperazione a renderlo più debole, o se fosse già stato sopraffatto fin da prima, non posso saperlo. Ma sono convinto che la stesura di quella confessione sia stata l'ultimo atto della sua vita. E bruciarla è stato il primo atto della vita del demone.» Ingrey aprì la bocca, poi la richiuse. Aveva sempre immaginato Cumril nei panni del traditore. Lo metteva a disagio pensare che anche quel giovane mago fosse stato, in qualche modo bizzarro, tradito. «Perciò, vedete, il destino di Cumril riguarda me», riprese a bassa voce Lewko. «Peggio, ferisce me. E temo di non poter guardare in faccia voi senza che il ricordo mi assalga.» «Il Tempio non ha mai scoperto se sia vivo o morto?» «No. Cinque anni fa dai Cantoni è giunto un rapporto che poteva essere opera sua, ma da allora ogni traccia è stata perduta.» La bocca di Ingrey stava per dare forma alla parola chi... ma poi la cambiò: «Che cosa siete voi?» Lewko allargò le braccia. «Soltanto un semplice supervisore del Tempio, oggi.» Supervisore di che cosa? Forse di tutti i maghi del Tempio presenti nel Dominio? La parola semplice non doveva essere altro che un eufemismo. Quest'uomo può essere molto pericoloso per me, si disse Ingrey. Sa già troppe cose. E ne avrebbe apprese altre, sfortunatamente, perché guardò la lettera e chiese a Ingrey di raccontargli ciò che era accaduto a Red Dike. Lui non ne fu sorpreso; ci voleva poco a immaginare che Hallana avesse descritto la scena. Lo accontentò, onestamente e senza nascondere nulla, ma nel modo più sintetico che poté. Ogni parola, ogni dettaglio avrebbero potuto innescare un fiume di domande, invece il resoconto parve soddisfare il Divino, che per il momento evitò d'interrogarlo sul suo lupo e su come riuscisse a tenerlo a freno. «Lord Ingrey, chi pensate che vi abbia gettato addosso quella compul-
sione omicida, quella maledizione coi tentacoli rossi?» «Vorrei tanto saperlo.» «Be', allora siamo in due.» «Mi fa piacere», replicò Ingrey, e fu sorpreso nell'accorgersi che era vero. Poi Lewko domandò: «Che cosa pensate di questa Lady Ijada?» Ingrey deglutì; la sua mente volteggiò verso il suolo come un uccello colpito in volo. Mi ha chiesto che cosa penso di lei, non che cosa provo per lei, si disse con fermezza. «Non c'è dubbio che sia stata lei a spaccare la testa a Boleso. E non c'è dubbio che lui se lo sia meritato.» Quella lapidaria osservazione fu seguita dal silenzio. Ingrey si domandò se Lewko si rendesse conto del significato del silenzio. «Il mio Lord Hetwar non è entusiasta dell'idea che ci siano scandali postumi. Credo che le complicazioni gli piacciano ancor meno che a voi», disse. Dopo un'altra pausa, aggiunse: «Ijada sopporta bene lo spirito della femmina di leopardo. Senza traumi». Per i Cinque Dei, devo dire qualcosa per proteggerla. «Credo che sia più toccata dagli dei di quanto pensi lei stessa.» Questo provocò una reazione: Lewko si alzò, con espressione improvvisamente fredda e attenta. «Come lo sapete?» Ingrey tenne testa al suo sguardo. «Nello stesso modo in cui so che voi siete un santo. Lo percepisco nel sangue.» Aveva risposto in tono duro e pensò che forse aveva oltrepassato il segno. Invece Lewko si limitò a sedersi. «Davvero?» «Non sono del tutto uno sciocco, Erudito.» «Io non penso affatto che siate uno sciocco, Lord Ingrey.» Lewko tamburellò con le dita sulla lettera per qualche istante, poi rialzò lo sguardo. «Sì. Credo che farò come mi ha chiesto Hallana ed esaminerò quella giovane donna. Dov'è stata incarcerata?» «Più alloggiata che incarcerata, finora.» Ingrey gli diede l'indirizzo della casa nel quartiere dei mercanti. «Quando dovrà rispondere alle accuse che le vengono rivolte?» «Suppongo non prima della fine del funerale di Boleso, visto che è ormai in corso. Ne saprò di più dopo avere parlato col Guardasigilli Hetwar. Devo recarmi da lui proprio ora.» Ingrey diede una leggera enfasi all'ultima parola; voleva uscire di lì prima che le domande di Lewko si facessero più insistenti. Si alzò. «Cercherò di venire domani», disse l'altro, senza trattenerlo.
«Grazie. Vi aspetto, allora.» Ingrey gli rivolse un inchino e uscì, senza avere l'aria di scappare come un coniglio, o così sperava. Solo quando ebbe chiuso la porta dietro di sé, lasciò uscire il fiato. Quel Lewko poteva essere un alleato oppure un nemico? Gli tornarono in mente le parole con cui Wencel si era congedato: Se ci tieni alla vita, proteggi i tuoi segreti... e i miei. Era un consiglio o una minaccia? Se non altro era riuscito a evitare qualsiasi accenno a Horseriver. Nella lettera non poteva comparire il suo nome: Wencel era arrivato a complicargli la vita soltanto il giorno dopo la partenza di Hallana, grazie al cielo. Ma l'indomani che cosa sarebbe accaduto? E che cosa sarebbe accaduto di lì a mezz'ora, quando avrebbe dovuto fare un rapporto dettagliato a Hetwar su tutti gli avvenimenti degli ultimi giorni? Horseriver. Hallana. Gesca. Ora Lewko. Ingrey stava iniziando a perdere traccia di ciò che aveva taciuto all'uno o all'altro. Non appena si fu orientato, ripercorse la scorciatoia verso il tempio, tenendo deliberatamente un passo lento e fermo. Soltanto allora lo colpì il pensiero che, consegnando la lettera di Hallana a Lewko, senza bisogno di essere spinto da incantesimi o maledizioni, aveva in un certo senso consegnato anche se stesso. 11 Mentre Ingrey percorreva il corridoio che sboccava nel cortile del tempio, più avanti echeggiarono delle grida. Accelerò il passo, ma la sua curiosità si mutò in allarme quando udì un gemito agonizzante. Altre voci urlarono e imprecarono. Con una mano sull'elsa della spada, Ingrey irruppe di corsa nel vasto spazio aperto, guardandosi attorno per capire che cosa stesse succedendo. Fuori dell'arcata che conduceva alla cappella del Padre era esplosa un'agitazione insolita. Al centro della scena c'era il grande orso bianco, che stringeva tra i denti il piede di un uomo anziano svenuto o morto, vestito come un ricco mercante. La belva grugniva e scuoteva la testa, scrollando il corpo del poveretto come una bambola di stracci. Aggrappato con entrambe le mani all'estremità della catena fissata al suo collare, l'Accolito stalliere, incapace di trattenerlo, veniva trascinato. Alcuni degli individui vestiti a lutto che partecipavano ai riti nelle cappelle più vicine erano corsi fuori, gridando consigli e avvertimenti concitati. Il terrorizzato stalliere si avvicinò di più all'orso e sbraitò, con voce stri-
dula per lo spavento: «Lascialo! Lascialo!» Poi mollò la catena per afferrare il corpo dell'uomo e cominciò a tirare, per liberarlo dalle zanne dell'orso. Quest'ultimo menò una zampata contro lo stalliere, il quale strillò di nuovo e si strinse un braccio con l'altra mano, cadendo all'indietro. La manica della sua tunica era lacera e insanguinata. Ingrey sfoderò la spada e corse avanti, andando a fermarsi di fronte al bestione inferocito. Con la coda dell'occhio vide il principe Jokol, trattenuto a forza da un compagno che l'aveva afferrato da dietro. Il corpulento individuo dai capelli rossi stava cercando di divincolarsi per avanzare verso di lui. «No, no, no!» gridava angosciato. «Fafa lui crede che a lui offerta carne. Lui poverino innocente, tu non fa lui male!» Ingrey, incredulo, si rese conto che il poverino era riferito all'orso bianco... L'animale mollò la preda e si alzò... si alzò... si alzò ancora, finché non fu completamente eretto. Ingrey spalancò gli occhi nel vederlo incombere su di sé, a zanne spalancate, ringhiante, con le possenti zampe anteriori munite di artigli d'avorio... Intorno a lui tutto rallentò e le sue percezioni diventarono molto più acute nell'oscura esultanza del lupo che emergeva alla superficie, come pompato fuori dal suo cuore nella parte più attiva del cervello. Il chiasso nel cortile scemò in un mormorio lontano. La spada che impugnava sembrava improvvisamente senza peso. La lama si alzò, poi iniziò a spostarsi all'indietro come per prepararsi a colpire. La mente di Ingrey immaginò la punta d'acciaio che affondava nel cuore dell'orso, dentro e fuori, prima che quello potesse reagire, prigioniero dell'altra, più lenta dimensione temporale. Fu allora che sentì, più che vedere, una luce ultraterrena accendersi intorno al corpo dell'orso, come se la sua pelliccia fosse uno specchio che rifletteva le torce del cortile. La strana bellezza di quella luce lo confuse e gli abbacinò lo sguardo. Le sue percezioni, potenziate, si protesero verso essa nel disperato tentativo di afferrare qualcosa di divino, e all'improvviso la sua mente fu dentro quella dell'orso. Ingrey vide se stesso, rimpicciolito: la doppia immagine di un uomo in giubba di pelle, armato di spada, sovrapposto a un grosso lupo scuro circondato da un'aura nebulosa. Mentre il suo cuore cercava di afferrare la luce divina, anche i sensi dell'orso si protesero verso i suoi e, per un istante, si completò uno strano cerchio a tre. Una Voce mormorò ridendo nella sua testa, non alle sue orecchie: «Vedo che il cucciolo di mio Fratello è cresciuto. Bene. Continua così...» In-
grey ebbe l'impressione che il proprio spirito esplodesse sotto la pressione di quelle parole. Per un momento i confusi, primitivi ricordi dell'orso diventarono suoi. Il recente tragitto dalla stalla al cortile del Padre, in fila con gli altri animali. L'irritante presenza dello stalliere che puzzava di paura, mentre le rassicurazioni dell'umano a lui familiare, col suo odore e con la sua voce, gli trasmettevano una parziale calma in quello sconosciuto mondo di pietra. Il ronzio corale di voci indistinte. La vaga comprensione di movimenti, posizioni, fino all'insorgere della brama di cibo e degli automatismi della caccia. Poi la confusione e il dolore, quando il piccolo bipede che lo teneva al guinzaglio l'aveva frustato sul muso con l'estremità della catena. La rabbia rossa che era salita come una marea, mentre l'orso stringeva la carne dell'uomo tra i denti e tutto in lui si protendeva verso Colui che lo chiamava... Colui che era, confusamente, ovunque e da nessuna parte... Il mostruoso bestione grugnì di dolore e di rabbia, ergendosi minaccioso come una valanga sopra la testa di Ingrey. Lui ebbe l'impressione di penetrare nelle sue budella, nel suo petto, nel suo cranio, e gridò una sola parola: «Giù!» L'ordine saettò in avanti come un masso lanciato da una catapulta. La sua spada disegnò nell'aria un rapido arco argenteo. La grossa testa bianca si abbassò con essa, sempre più giù, finché l'orso non fu accovacciato al suolo, con la mandibola premuta sulle pietre lisce. Dal basso i suoi occhi gialli fissarono Ingrey con ottuso stupore, intimoriti, domati. Ingrey si guardò attorno e vide che lo stalliere si stava trascinando via carponi, con una manica della tunica inzuppata di sangue. L'artiglio aveva stracciato l'abito anche su un fianco, ma per fortuna dell'uomo non aveva colpito la carne, altrimenti l'avrebbe sbudellato. La rabbia dell'orso ribolliva ancora nella testa di Ingrey, che lasciò cadere rumorosamente la spada e a lunghi passi si avvicinò allo stalliere; lo afferrò per la tunica e lo tirò in piedi, contro il braciere del fuoco sacro. L'uomo era alto quanto lui e aveva le spalle larghe, tuttavia fu sollevato come se non avesse peso. Ingrey lo fece piegare all'indietro sui carboni ardenti. I piedi dello stalliere cercarono il contatto col suolo, senza riuscirci, e il calore del fuoco sulla nuca lo fece strillare di spavento. «Quanto vi siete fatti pagare per andare contro la volontà del dio? Chi ha osato commettere quest'atto esecrabile?» ringhiò Ingrey sulla faccia dello stalliere. La sua voce, bassa ma vibrante, echeggiò nel silenzio che era calato tra le mura di pietra.
«Io-io-io-io... mi dispiace!» squittì il poveretto. «Arpan ha detto... Arpan ha detto che non c'era niente di male...» «Costui sta mentendo!» intervenne lo stalliere con la livrea del Padre, avanzando verso di loro. Il peloso cane grigio che si tirava dietro emise un guaito di protesta e tese il guinzaglio con tutta la propria forza, per tenersi il più lontano possibile dall'orso bianco. L'altro stalliere, faccia a faccia con Ingrey, ansimò un paio di volte e gridò: «Va bene, confesso! Non... non... non...» Non che cosa? Con uno sforzo Ingrey si raddrizzò, aprì le mani e lasciò cadere l'individuo, il quale piegò le ginocchia e rotolò alla base del treppiede, gemendo. «Nij, razza d'idiota!» gridò lo stalliere del Padre. «Chiudi quella bocca!» «Non ho potuto farci niente!» cercò di giustificarsi lo stalliere del Bastardo. «Lui ha qualcosa di terribile negli occhi, nella voce...» «Allora fareste meglio ad ascoltarlo tutti e due», disse qualcuno in tono sprezzante, poco più indietro. Ingrey si voltò e vide arrivare Lewko, un po' ansimante per la camminata. L'erudito guardava la scena a denti stretti, esasperato. Ingrey deglutì e cercò di calmarsi, consapevole che il suo cuore stava battendo troppo rapidamente. Le luci, le ombre, i colori, i suoni, tutto gli graffiava i sensi; le persone intorno a lui apparivano avvolte da aloni fiammeggianti. Lentamente iniziò a rendersi conto che molta gente lo guardava sbalordita, a occhi spalancati: almeno una trentina di partecipanti alla cerimonia funebre, il Divino che la officiava, cinque Accoliti stallieri, il principe Jokol, il suo non meno truculento compare e ora anche l'Erudito Lewko, l'unico a non sembrare affatto confuso. Ho lasciato che il mio lupo emergesse, rifletté, ancora stordito. Davanti a quaranta testimoni. In mezzo al cortile del tempio di Easthome. Almeno pare che ciò abbia divertito il Dio Bianco... «Erudito, Erudito, per pietà, aiutatemi...» mugolò lo stalliere ferito, trascinandosi ai piedi di Lewko per aggrapparsi alla sua tunica. L'espressione dello studioso si addolcì un poco. Dieci o dodici individui iniziarono a parlare tutti insieme, chi accusando qualcuno di corruzione e imbrogli, chi accampando scuse o replicando con minacce. I presenti si divisero subito in due fazioni opposte; dai frammenti che giunsero alle orecchie di Ingrey, gli parve che in gioco ci fosse l'eredità del defunto, ma subito tra i parenti vennero fuori anche altre rivalità e vecchi rancori. Il Divino che aveva condotto la cerimonia fece qualche de-
bole tentativo di riportare l'ordine sia tra costoro sia tra i suoi cinque sottoposti; poi, falliti entrambi gli obiettivi, si voltò verso un bersaglio più facile. Andò a lunghi passi davanti al principe Jokol, indicò l'orso con un dito tremante e sbottò: «Portate quella bestia fuori di qui. Andatevene subito da questo tempio! E non tornate più!» Il colosso dai capelli rossi sembrava sul punto di mettersi a piangere. «Ma voi promesso a me un Divino! Devo avere uno! Se io non porta uno a nostra isola, mia bella Breiga lei non sposa più con me!» Ingrey decise d'intervenire, mettendo nella sua voce tutta l'autorità con cui il Guardasigilli Hetwar avrebbe spalleggiato la sua spada più pericolosa... e forse qualcosa in più. «Il Tempio di Easthome vi assegnerà un missionario in cambio dei vostri lingotti d'argento, principe. O forse la vostra offerta non è già stata accettata?» domandò, spostando uno sguardo di pietra sull'imbarazzato Divino. L'Erudito Lewko, con un tono così calmo da sembrare fuori posto in quello scenario, dichiarò: «Il Tempio sistemerà la situazione, principe, non appena avremo messo un po' di ordine qui dentro. Sembra che il vostro bravo orso sia stato vittima di una disdicevole macchinazione. Nel frattempo vi dispiace riportare Fafa sulla vostra nave, per sicurezza?» A bassa voce aggiunse, rivolto a Ingrey: «Vi sarei molto obbligato, mio signore, se li accompagnaste, per accertarvi che qualche ragazzino non venga divorato lungo la strada». A lui non dispiacque la possibilità di andarsene di lì. «Certamente, Erudito.» Lewko fece un cenno col capo a qualcosa che Ingrey aveva addosso. «E prendetevi cura di quel polso.» Ingrey seguì il suo sguardo. La fasciatura al polso destro stava perdendo un po' di sangue. La piccola ferita gli si era riaperta mentre intimidiva lo stalliere, evidentemente. Non gli doleva affatto. Nel voltarsi vide due fieri occhi azzurri puntati su di lui. Jokol lo fissava, con la testa piegata di lato per prestare orecchio a ciò che gli sussurrava concitato il suo compatriota dai capelli neri. Poi si raddrizzò e rivolse a Lewko un cenno d'assenso, che si estese anche a Ingrey. «Sì. Questo piace noi, eh Ottovin?» Rifilò all'amico una gomitata nelle costole che avrebbe abbattuto un uomo di corporatura normale e si avvicinò al suo orso. Raccolse la catena. «Tu viene, Fafa.» Il bestione mugolò e si agitò, ma rimase accovacciato al suolo. Lewko posò una mano su una spalla di Ingrey e gli suggerì sottovoce:
«Lasciatelo alzare adesso, amico mio. Credo che ora sia più calmo». «Io...» Ingrey andò a raccogliere la spada e la rinfoderò. L'orso sbuffò, premette il grosso naso nero sui suoi stivali e levò uno sguardo supplichevole. Lui deglutì e cercò di assumere un tono fermo. «In piedi, tu.» Non ci fu nessun risultato. L'animale gemette. Ingrey cercò in un profondo, profondissimo pozzo dentro di sé e ne trasse fuori un'altra parola, una parola che aveva un peso, tanto sonora da far vibrare le ossa. «Alzati.» Il bestione sembrò riaversi. Guardò il suo padrone, il quale si chinò ad accarezzargli il pelo del collo, mormorando parole dolci in una lingua che Ingrey non aveva mai udito. L'orso bianco si rizzò in piedi e gli sfregò il muso sui calzoni ricamati, bagnandoli di saliva. Jokol si rivolse a Ingrey. «Tu viene, caro amico di me, tu amico di Fafa!» ruggì stringendogli energicamente una mano. «Permetti tu che io offro bere.» Diede uno strattone alla catena, quindi lanciò uno sguardo alla gente che continuava a litigare nel vasto cortile, grugnì qualcosa in tono sprezzante e s'incamminò verso l'uscita. Ottovin lo seguì, con la faccia contratta in una smorfia, e Ingrey si affrettò ad affiancarli, tenendo Jokol tra sé e l'orso. Il bizzarro drappello uscì dal tempio, lasciando l'Erudito Lewko impegnato ad arringare la piccola folla. Ingrey lo udì proclamare: «... allora deve essere stato uno scherzo della luce». Mentre si voltava indietro un'ultima volta, intercettò uno sguardo del santo diretto a lui e lo vide formulare con le labbra la parola Domani. Non gli parve una promessa troppo rassicurante. Lui ha qualcosa di terribile negli occhi, nella voce... Un dolore dietro una scapola fece sospirare Ingrey, che si rese conto che i suoi acciacchi si erano riacutizzati. Ma il ronzio che aveva nelle orecchie era nuovo, così come il dolore che sentiva in gola. I suoi ricordi tornarono ai vecchi tormenti patiti a Birchgrove. A quando la testa gli veniva cacciata sott'acqua, sulla riva del Birchbeck, finché i suoi polmoni non pulsavano di dolore rosso. In quel gelo senza respiro non era possibile neanche urlare. Tra tutte quelle prove l'immersione si era rivelata la più efficace e coloro che si occupavano di lui l'avevano ripetuta spesso, finché Ingrey non aveva riacquistato la lucidità. La capacità di sopportazione nata dal suo silenzio, cupa e sorprendente in un ragazzino tanto giovane, era stata plasmata e forgiata in quelle fredde acque. Era diventato più duro dei suoi aguzzini, più forte della paura della morte. Scacciò quei ricordi dolorosi e condusse gli isolani verso i moli nella
zona meridionale della Città del Re, scegliendo le strade meno frequentate. Le preoccupazioni di Lewko si dimostrarono fondate quando intorno a loro iniziarono a formarsi code di bambini eccitati. Jokol rideva e li incoraggiava, invece Ingrey cercava di scacciarli. I suoi sensi si stavano placando e così anche le pulsazioni. Jokol e Ottovin parlavano nel loro dialetto, gettandogli frequenti occhiate. A un certo punto Jokol si accostò a Ingrey e gli disse: «Io ringrazia te di aiuto con povero Fafa, Lord... Lord Ingriry... Lord Ingorry?» «Ingrey.» Il principe si scusò sorridendo. «Io è molto stupido in lingua di te. Io imparo dopo, molto presto.» «Parli il dominiano abbastanza bene», replicò diplomaticamente lui. «Il mio darthacano è assai meno fluente e non capisco affatto la tua lingua.» «Ah, darthacano.» Jokol scrollò le spalle. «Essa è lingua difficile.» Si accigliò un poco. «Tu sa scrivere?» «Sì.» «Questo è buono. Io non sa.» Sospirò tristemente. «Tutte penne si rompe, dentro queste.» E alzò una mano per fargliela esaminare. Ingrey annuì: non si poteva dubitarne. Proseguendo al passo con l'orso bianco, giunsero infine alla porta della Città del Re che si apriva sulla lunga banchina, dalla quale sporgevano molti moli di legno. Sul cielo ancora luminoso della sera si stagliavano dozzine di alberi oscillanti, irti di pennoni. Le imbarcazioni da fiume erano per la maggior parte rozze, a fondo piatto, tuttavia c'erano anche molte navi a vela adatte alla navigazione in alto mare, risalite fin lì dall'estuario dello Stork. Erano navi che non si recavano più a monte di Easthome, dove il territorio collinoso sempre più impervio dava origine a rapide che soltanto le zattere trainate da buoi potevano superare. La nave di Jokol, ormeggiata a uno dei moli, era diversa da qualunque altra. Raggiungeva a malapena i dodici metri di lunghezza ed era assai larga al centro, con la prua e la poppa così affilate che, se non fosse stato per il timone, avrebbero potuto essere intercambiabili. Aveva una ventina di fori per i remi, un unico albero e soltanto il ponte di coperta. Passeggeri ed equipaggio restavano dunque esposti al maltempo durante la navigazione, anche se in quel momento una tenda era tesa sopra la metà posteriore. Era una nave abbastanza grande in confronto alle imbarcazioni fluviali, ma Ingrey la giudicò stupidamente piccola per il mare aperto. E ancor più piccola parve quando l'orso salì a bordo, annusando ovunque, per poi an-
dare ad accovacciarsi al centro, in quello che doveva essere il suo posto abituale. Lo scafo ondeggiò sotto il suo peso, mentre Jokol agganciava la catena all'albero. Ottovin, con un sorriso ansioso, indicò a Ingrey la tavola che fungeva da passerella e lo seguì sul ponte. Nella penombra del crepuscolo, la luce delle lampade accese sotto la tenda sembrava invitante. A Ingrey tornarono in mente le barchette che lui e suo padre facevano galleggiare sul Birchbeck durante la Festa del Sole, in tempi migliori, prima che i lupi si mangiassero il loro mondo. L'equipaggio che aveva accolto il principe e, con assai meno entusiasmo, l'orso bianco era composto da almeno due dozzine di uomini, quasi tutti giovani e molto robusti, anche se meno alti del loro capo. Anch'essi portavano i capelli riuniti in una lunga coda o in una treccia, eccetto uno che li aveva rasati a zero, forse perché stava cercando di liberarsi dai pidocchi. Vestivano abiti robusti e ben confezionati e, a giudicare dalle armi sistemate lungo la fiancata sotto i fori dei remi, avevano spesso occasione di battersi. Erano commercianti, mercenari, pirati? Chi andava per mare non aveva mai un solo mestiere. Ingrey non dubitava che facessero un po' di tutto, fuorché pescare. Portato a destinazione l'orso, Ingrey avrebbe preferito andarsene subito; tuttavia, poiché era un dipendente di Hetwar, pensò che prima avrebbe fatto meglio a bere qualcosa col principe Jokol, per non rischiare di offenderlo e danneggiare in qualche modo gli interessi del Guardasigilli. Si augurò che la cosa fosse breve. Jokol gli fece segno di raggiungerlo sotto la tenda, in uno spazio largo circa quanto una stanza. Il tessuto era lana, impermeabilizzata con grasso così maleodorante che lui faticò a nascondere una smorfia. C'erano due lunghi tavoli sorretti da cavalletti e uno più corto dove il suo ospite lo invitò ad accomodarsi. Jokol e Ottovin sedettero ai suoi lati, sulla panca, mentre gli altri s'indaffaravano a mettere in tavola il necessario per la cena. Un giovane biondo, con una barba simile a un ampio alone attorno alla parte inferiore del volto, s'inchinò ai tre e distribuì boccali e ciotole di legno. Sopraggiunse poi un marinaio con una grossa giara, dalla quale versò un liquido giallastro, prima all'ospite, poi al principe e quindi a Ottovin. Era una specie di birra, da cui si alzava un vapore caldo. Ottovin, che con la lingua dominiana se la cavava meglio del principe, spiegò a Ingrey, con abbondanza di gesti esplicativi, che conteneva latte e sangue. E magari anche urina, diagnosticò lui dopo averne assaggiato un sorso. Se il verso emesso da Ottovin era un nitrito, era probabile che almeno uno di quei li-
quidi provenisse da un cavallo. Ingrey decise che avrebbe bevuto il boccale per cortesia e poi si sarebbe accomiatato, dopo aver fatto capire diplomaticamente che aveva il dovere di recarsi dal Guardasigilli. A un'estremità della tenda, oltre un drappo semiaperto, era però in funzione la cucina di bordo e l'odore di carne alla griglia gli fece venire l'acquolina in bocca. «Noi mangiare presto, molto», gli assicurò Jokol, col sorriso del padrone di casa ansioso di piacere. Ingrey avrebbe comunque dovuto cenare prima o poi; recarsi a colloquio da Hetwar con lo stomaco pieno soltanto di quella birra maleodorante non era la cosa migliore che potesse fare. Perciò annuì e Jokol gli mollò una pacca sulla schiena, sorridendo. L'espressione del principe cambiò quando si accorse del sangue secco che imbrattava il polso destro di Ingrey. Subito afferrò un marinaio per una manica e gli mormorò un ordine; pochi minuti dopo uno degli uomini più anziani arrivò con una bacinella, un panno pulito e un fagotto. Costui chiese a Ottovin di lasciargli il posto e fece cenno a Ingrey di lasciargli esaminare il polso. Dopo avere tolto il bendaggio insanguinato, l'uomo fece una smorfia nel vedere le condizioni della ferita. Ottovin, che era rimasto a guardare, emise un sibilo e disse a Jokol qualcosa che gli fece latrare una risata. Il principe ebbe la premura di sostenere il boccale alle labbra di Ingrey mentre l'uomo dai capelli grigi puliva e cuciva la ferita. Bere gli fu d'aiuto; ma al termine della medicazione, quando l'uomo gli fasciò la mano e poi se ne andò con un inchino, Ingrey dovette lottare con l'impulso di posare la faccia sul tavolo e mettersi a dormire, tanto si sentiva stordito. Era chiaro che non sarebbe andato da nessuna parte, almeno non subito. Com'era stato promesso, il cibo arrivò presto e fu abbondante. Per fortuna non includeva pesce secco, formaggio o altre repellenti razioni da marinai, notoriamente invase da vermi o irrancidite. Il cuoco di bordo aveva appena fatto la spesa nei mercati della città; nelle case di Easthome, anche in quelle meno benestanti, le massaie avevano sane tradizioni culinarie, perciò sulla tavola di Jokol apparvero pietanze migliori di quanto Ingrey si sarebbe aspettato. In ogni caso prestò attenzione al marinaio incaricato di mescere la birra quando il livello dei boccali scendeva sotto la metà, cosicché riuscì a scacciarlo almeno alcune volte. Era ormai notte inoltrata quando l'allegra compagnia iniziò a maledire il cuoco, che continuava ottusamente a portare ih tavola altre vivande. Ingrey aveva sperato che il tempo e il cibo solido contribuissero a schiarirgli la testa, ma quella birra doveva essere piuttosto forte, perché si accorse di esse-
re troppo alticcio per potersi presentare al palazzo del Guardasigilli. Le lampade a olio illuminavano facce sudate, bocche allegre piene di denti marci e barbe cosparse di briciole. A un certo punto ci fu un gran vociare e uno degli uomini si alzò per presentare una petizione al principe, il quale dapprima ridacchiò e scosse il capo, quindi incaricò Ottovin di soddisfare la richiesta. «Tutti vuole che uno racconta», mormorò Jokol a Ingrey, mentre Ottovin si alzava e levava le braccia per ottenere silenzio, sottolineando il momento con un formidabile rutto. «Molti raccontano loro anche, stanotte.» Ci fu un altro giro di birra. Ingrey sentì che aveva un odore diverso e la sorseggiò con cautela; stavolta sapeva di aghi di pino e olio da lampade, ma i marinai di Jokol parvero non farci caso. Ottovin si lanciò in un lungo discorso nella lingua della sua isola, cambiando spesso tono per mimare la voce di una donna che parlava in modo impertinente e quelle di altri personaggi dall'accento truce e ringhioso. Ingrey credette di riconoscere molte parole e si convinse che, pronuncia a parte, quel dialetto aveva una chiara parentela col dominiano. «Storia che lui dice è storia di Yetta e di sue tre vacche», gli spiegò sottovoce Jokol. «È sua storia che preferisce.» «Puoi tradurmela?» mormorò Ingrey. «Ah, io non sa.» «È troppo difficile?» Jokol fece un'espressione confusa e imprevedibilmente arrossì. «Troppo sporca.» «Che cosa? Vuoi dire che non hai ancora imparato le nostre parolacce?» Jokol si appoggiò all'indietro e incrociò le gambe, sogghignando come se Ingrey avesse detto una battuta divertente. Lui cercò di bere altri sorsi di quella specie di birra. Poco dopo i presenti scoppiarono a ridere, mentre Ottovin allargava le braccia per indicare che non c'era altro da aggiungere e si rimetteva a sedere. I marinai si scambiarono altri commenti divertiti, poi rinnovarono le loro richieste a Jokol, che alla fine cedette alle insistenze e si alzò. Quasi subito le voci della gente radunata sotto il tendone si spensero e il silenzio si fece così completo che Ingrey poté udire lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Il corpulento individuo assunse un'espressione solenne e iniziò a raccontare con una strana cadenza, che sembrava avere la metrica e il ritmo dei versi di una poesia. Ingrey fu colpito da quella sua imprevedibile capacità, ma il suo sbalordimento fu anche maggiore quando si rese conto che Jokol
stava narrando in forma poetica, improvvisata al momento, i fatti appena accaduti nel cortile del tempio. Non potevano esserci dubbi, perché molte parole erano abbastanza comprensibili e nella narrazione ricorrevano spesso il nome di Ingrey e quello dell'orso Fafa. Anche i nomi degli dei erano riconoscibili. Ingrey ebbe un'ulteriore conferma dal modo in cui i presenti si voltavano a guardarlo nel corso della recita. Più perplesso che mai, si chiese quale fosse la natura della mente di Jokol, che aveva giudicato rozza e che ora invece si dimostrava in grado di trasformare dopo poche ore un evento drammatico in una sorta di poema epico. Quando Jokol ebbe concluso, i presenti non reagirono con applausi e risate come dopo il racconto di Ottovin, bensì con un silenzio rispettoso, quasi intimorito. Alcuni fecero commenti sottovoce e dal loro tono pacato Ingrey ebbe l'impressione che stessero valutando l'esibizione con meditato interesse. Jokol stavolta fece un sorriso timido, quando si rimise a sedere e agguantò il suo boccale di birra. A quel punto la riunione si frammentò in diversi capannelli. Qualcuno continuò a bere, qualcun altro a mangiare, ma in breve tempo quasi tutti srotolarono i propri giacigli e si sdraiarono a dormire in ogni angolo libero del ponte di coperta. Poco dopo molti stavano già russando, per nulla disturbati dai rumori e dalle voci dei compagni ancora svegli. Ingrey si domandò se quella gente fosse capace di addormentarsi anche col mare in burrasca. Ottovin, da bravo vicecomandante, evitò situazioni pericolose vietando con fermezza a cinque o sei ubriachi di fare il tiro a segno con l'accetta contro un barile vuoto. Jokol si stirò le spalle, buttò giù un altro sorso di birra per schiarisi la gola e sorrise a Ingrey con un'espressione incuriosita, che quest'ultimo ricambiò. «Domani di sera io racconta a essi mia storia, di come conosco e amo mia bella Breiga. Questa storia io racconta, o nessuna. Tu che è giovane come me, io credo, Lord Ingrey, tu ama una femmina?» Lui sbatté le palpebre. Esitò, poi si decise a dire: «Sì. Sì, anch'io amo una femmina». Sentirsi uscire di bocca quelle parole lo riempì di ottuso stupore. Depose il boccale. Sia dannato questo piscio di cavallo. «Ah! Questa è buona cosa. Tu uomo felice! Ma... tu non sorride. Forse femmina non restituire tuo amore?» «Io... ehm... non lo so. Il fatto è che abbiamo altri guai.» Jokol inarcò le sopracciglia. «Genitori di essa non volere?» azzardò in tono comprensivo.
«No, non è questo. È che... lei... c'è il rischio che il Tribunale la condanni a morte.» Jokol raddrizzò la testa e si fece serio. «No! Perché questo?» Doveva essere lo stordimento dovuto all'alcol a fargli apparire quel bizzarro uomo del sud come un confidente riservato, un amico fraterno degno di ascoltare le più intime paure del suo cuore. E forse... forse il mattino seguente nessuno di loro avrebbe ricordato ciò che si erano detti. «Hai sentito parlare della morte del principe Boleso, il figlio del sacro re?» «Oh, sì.» «Lei gli ha spaccato il cranio con la sua stessa mazza da guerra.» Quelle parole gli parvero poco esplicative, perciò aggiunse: «Lui stava cercando di violentarla». Entrare nei particolari gli parve troppo complicato, per il momento. Jokol sibilò tra i denti. «Questa è storia brutta», commentò. «Lei sembra che è femmina buona, forte. Mia bella Breiga con suo fratello Ottovin, loro ucciso due ladri che venuti per rubare cavalli, in posto di loro padre. Ottovin lui era piccolo, quei giorni.» Dunque sono fratelli. «E poi che cos'è successo?» «Be', successo che io chiesto lei di sposare me.» Jokol sogghignò. «Loro cavalli era miei. Parenti di ladri aveva chiesto prezzo di sangue per morte di essi. Io ha dato lei anche prezzo, per fare contento padre di lei.» E gettò un'occhiata benevola a Ottovin, che si era già allontanato dalla tavola e stava russando sonoramente, avvolto in una coperta sudicia. «La giustizia non è così semplice nel Dominio», sospirò Ingrey. «E il prezzo di sangue che può essere chiesto dai parenti di un principe assassinato è superiore alle mie possibilità.» Jokol lo guardò con interesse. «Tu non è un padrone di terre, Lord Ingorry?» «No. Io ho soltanto la mia spada.» Ingrey piegò il polso destro per controllarne la mobilità. «Non ho altre ricchezze.» «Io pensa che tu ha una cosa ancora, Ingorry.» Jokol si batté un dito su una tempia. «Io buono orecchio. Io sa cosa ascoltato, quando mio Fafa ha inchinato davanti a tu.» Ingrey s'irrigidì. Il suo primo, spaventato impulso di negare tutto gli morì tra le labbra sotto lo sguardo scrutatore di Jokol, tuttavia doveva scoraggiare altre pericolose chiacchiere sull'argomento. «Questo», disse, portandosi un dito alle labbra e poi la mano aperta sul cuore, a indicare che non osava neppure parlarne ad alta voce, «deve restare un segreto, altrimenti il
Tempio mi farà scacciare come un bandito.» Jokol non replicò; raddrizzò le spalle e parve riflettere, come se stesse digerendo quelle parole. I pensieri fluidi di Ingrey si stavano ora rimescolando e salivano in superficie nuove preoccupazioni. Jokol non aveva mostrato nessuna repulsione nell'accennare alla reazione intimidita dell'orso, anzi rivelava interesse e curiosità; tuttavia nessuno sarebbe stato tanto sciocco da ignorare la presenza di una stregoneria arcana e illegale. «La voce con cui ho parlato al tuo orso... Avevi mai sentito qualcosa di simile?» gli domandò Ingrey. «Oh, si», rispose Jokol. «Dove?» L'altro scrollò le spalle. «Giorno che io chiedo a donna-che-canta, a margine di foresta, di dare fortuna a mio viaggio. Lei parla con sua voce strana, uguale a tua.» La rivelazione scivolò nella testa di Ingrey senza che lui sapesse darle nessun significato. Donna-che-canta... Lei parla con voce strana, uguale a tua... Jokol sembrava impermeabile alla paura dell'arcano. In lui non si avvertiva nessun odore di demone, nessuno spirito animale, né maledizioni o stregonerie che lo invadessero come parassiti maligni. Guardava Ingrey con una cordialità che qualcuno, commettendo un errore mortale, avrebbe potuto scambiare per ottusità bovina. Dalla parte anteriore del ponte, oltre il drappo verticale della tenda, giunsero un tonfo e un clangore di catene, seguiti da un grido strozzato. «Fafa essere solo lui che non dorme, durante suo turno di guardia», mormorò Jokol in tono soddisfatto. Si alzò e cercò di svegliare Ottovin toccandogli una spalla con uno stivale, ma l'altro bofonchiò qualcosa e non si mosse. Poi si accorse che Ingrey si stava alzando a sua volta e allungò una mano ad afferrarlo per un braccio. «Grazie, ma non ho bisogno di... auh!» ansimò lui. Il ponte ondeggiava sotto i suoi piedi come in un mare in tempesta, sebbene la tenda fosse immobile e non spirasse un alito di vento. Le fiammelle delle lampade a olio ardevano basse. Jokol continuò a sorridere e non mollò il braccio di Ingrey, mentre lo guidava oltre il drappo. Trovarono Fafa che annusava l'aria e tendeva la catena verso un uomo, un estraneo salito abusivamente a bordo, immobilizzato contro la murata dell'imbarcazione dov'era andato a cadere. Jokol mormorò qualche parola rassicurante all'orso, che non parve molto convinto ma alla fine accettò di tornare ad accucciarsi accanto all'albero.
Stavolta fu il rollio della nave a far barcollare Ingrey, che si aggrappò al braccio di Jokol. «Lord Ingrey», disse la voce di Gesca. Il soldato si tirò in piedi e uscì dall'ombra. Nella debole luce delle lampade, il suo volto barbuto era alquanto pallido quando gettò un'occhiata nervosa all'orso. «Siete ancora qui?» «Oh! Gesca!» esclamò Ingrey. «Non dovevate cercare di salire a bordo. Quel grande animale bianco non è una vacca.» Ridacchiò della propria spiritosaggine e fece qualche passo verso la murata. «Sì, sono ancora qui. Ma stavo per andare da Hewwar. Hetwar, sì.» «Lord Hetwar è andato a letto», lo informò Gesca, ritrovando la dignità e un tono piuttosto gelido. «Mi ha incaricato di venirvi a cercare e, dopo avervi trovato, d'informarvi che dovrete recarvi subito a colloquio da lui, domani mattina.» «Ah», mugolò Ingrey, annuendo. All'inferno. «Allora sarà meglio che vada a dormire. Ne ho bisogno.» «Se riuscirete a trovare la strada di casa», disse Gesca. «Il tuo dubbio è offensivo. Ho il senso dell'orientamento di un piccione viaggiatore.» «Questo essere amico tuo?» gli domandò Jokol. «Più o meno», annuì Ingrey. In realtà ne dubitava, ma Jokol sembrò prenderlo in parola e lo consegnò al suo tenente. «Non c'è bisogno che tu mi sorregga, amico Jokol. Ho ancora tutte e due le gambe. Osi forse negarlo?» «Lord Ingorry, io ringrazio tu per tua compagnia. E altre cose. Uomo che capace di bere fino dopo che mio equipaggio è rotolato sotto di tavoli, essere sempre grande benvenuto su mia nave. Io spero di rivedere te, in questa città di Easthome.» «Tu... sì, anch'io. Salutami con affetto il simpatico amico Fafa.» Ingrey cercò di richiamare alla mente una formula più educata con cui accomiatarsi da un principe, ma Gesca lo stava tirando verso la passerella. L'asse steso tra la murata e il molo si rivelò una vera e propria sfida, poiché oscillava a ritmo coi movimenti della nave ed era largo poco più di mezzo metro. Dopo avere considerato il problema, Ingrey lo risolse affrontando il passaggio a quattro zampe. Quando fu riuscito a superare l'abisso senza precipitare nello Stork, rotolò sul molo e si mise a sedere, con un sorriso trionfante. «Visto?» disse a Gesca. «Non sono ubriaco come credevate. Jokol è un perfetto padrone di casa e serve agli ospiti soltanto piscio
di cavallo a basso contenuto alcolico.» Gesca grugnì un assenso e lo tirò in piedi a forza, poi si mise un suo braccio intorno alle spalle. «Grande. Raccontatelo al Guardasigilli, domani. Ora muoviamoci, voglio andarmene a letto.» Ingrey era adesso un po' più sobrio, benché le gambe non gli rispondessero molto, così poté concentrarsi per mettere un piede davanti all'altro quando s'incamminarono nelle stradicciole buie della Città del Re. «Vi ho cercato in tutta la città», borbottò Gesca. «Alla casa-prigione mi hanno detto che eravate andato al tempio. Al tempio mi hanno detto che avevate arrestato e portato via un pirata.» «Non esattamente un pirata. Un poeta», lo corresse lui. L'altro si voltò a guardarlo. Anche al buio, Ingrey comprese che il tenente si stava chiedendo se fosse rimbecillito. «Tre dipendenti del Tempio mi hanno giurato che avevate lanciato un incantesimo su un enorme orso bianco. Un altro ha detto che era un miracolo del Bastardo, un altro ancora era sicuro che non fosse successo nulla di straordinario.» Ingrey ripensò alla Voce che aveva sentito nella testa e rabbrividì. «Lo sapete quali sciocchezze è capace d'inventarsi la gente.» Si accorse che le gambe gli rispondevano meglio, perciò tolse il braccio da sopra le spalle di Gesca. Comunque, in assenza di un orso inferocito durante una cerimonia funebre, gli sembrava improbabile che l'allucinazione uditiva si verificasse ancora. In quel momento nella sua testa non c'erano voci divine e gli unici animali nelle vicinanze erano topi e pipistrelli. «Non siate ingenuo, Gesca. Non crederete davvero che io potrei dire fermati e che... ehm... ma cosa...?» Ingrey si accorse all'improvviso che stava camminando da solo. Si voltò. Gesca era rimasto in mezzo alla strada, immobile, come congelato nella fioca luce di una lanterna lontana. Qualcosa nello stomaco di Ingrey si strinse in un nodo freddo. «Gesca! Non è divertente!» Tornò indietro, irritato. «Smettetela.» Gli batté un dito sul petto. L'uomo oscillò leggermente, ma non si mosse. Ingrey alzò la mano bendata, tremante, e lo afferrò per il bavero. «Vi state prendendo gioco di me?» Soltanto gli occhi di Gesca, spalancati per l'orrore, si mossero, girandosi impercettibilmente verso di lui. Oppure fu soltanto una sua impressione? Ingrey si leccò le labbra e fece un passo indietro. Gli sembrava di avere in gola qualcosa che bloccava la voce; dovette tossire due o tre volte prima di ritrovarla. «Muovetevi.»
La paralisi s'interruppe. Gesca ansimò, vacillò fino ad appoggiarsi al muro della casa più vicina e sfoderò la spada. I due uomini si fissarono in un silenzio teso. Ingrey si accorse di essere ritornato completamente sobrio. Alzò le mani e fece segno a Gesca di stare calmo. Lentamente l'altro rinfoderò la spada. Dopo un poco disse, con voce spessa: «La casa-prigione è giusto dietro l'angolo. Tesko vi aspetta per aiutarvi ad andare a letto. Pensate di farcela?» Ingrey deglutì. Dovette fare uno sforzo per mantenere la voce ferma. «Credo di sì.» «Bene. Bene.» Gesca indietreggiò lungo il muro, poi si voltò e si dileguò tra le ombre, continuando a guardarsi nervosamente alle spalle. A denti stretti, osando a malapena respirare, Ingrey s'incamminò in direzione opposta e girò l'angolo. Una lanterna accesa davanti al portone della casa, poco più avanti, lo guidò a destinazione. 12 Ingrey non dovette bussare fino a svegliare tutta la casa: dopo il suo primo, leggero colpo il portiere accorse ad aprire, in camicia da notte e con una coperta sulle spalle. La fermezza con cui l'uomo richiuse il portone gli notificò che quella doveva essere la sua ultima levataccia della notte; poi infilò una candela in una bottiglia e la accese. Ingrey la afferrò mormorando un ringraziamento e si avviò su per le scale. Al primo piano era già acceso un piccolo candelabro e altra luce proveniva da una lampada posta su un tavolino, nel corridoio. Accanto a esso sedeva in terra Lady Ijada, avvolta in una veste di stoffa scura. La giovane alzò la fronte dalle ginocchia quando lui entrò nel corridoio, urtando leggermente con la spada lo stipite di legno. «Siete vivo!» disse con voce impastata, sfregandosi gli occhi. Ingrey sbatté le palpebre nella penombra, stupito. L'ultima volta che una donna aveva atteso preoccupata il suo ritorno era stato... oltre il confine della sua memoria. La sorvegliante non era lì, e neppure Tesko, il servo. «Dovrei non esserlo?» «È venuto Gesca, più di tre ore fa, e ha detto che non eravate stato da Lord Hetwar.» «È vero. Sono dovuto andare con un'altra persona.» «Ho immaginato che vi fossero capitate le cose più impensabili.» «Comprendevano un orso bianco di trecento chili e un pirata poeta?»
«No...» «Allora non erano le cose più impensabili.» Lei corrugò le sopracciglia, quindi si alzò e fece per andare verso le scale. Evidentemente l'alito di Ingrey aveva raggiunto le sue narici. Agitò una mano per disperdere l'odore e fece una smorfia. «Siete ubriaco?» «Dal mio punto di vista, sì. Anche se posso camminare, parlare e preoccuparmi per come mi alzerò dal letto domattina. Ho trascorso la sera con venticinque uomini provenienti dalle isole meridionali e un orso bianco, sulla loro barca. Mi hanno rimpinzato di cibo e di quella che insistevano a chiamare birra. Avete visto Tesko?» Ijada fece un cenno verso la porta della camera, chiusa. «Ha portato qui le vostre cose. Credo si sia addormentato mentre vi aspettava.» «Non mi sorprende.» «E la mia lettera? Non sarà andata perduta, voglio sperare.» Oh. Era la preoccupazione per la lettera che l'aveva indotta ad aspettarlo. «Consegnata al destinatario.» Ingrey si grattò il mento. «Quanto a ciò che potrà fare per voi un uomo come Lewko, non so immaginarlo. Si veste come un impiegatucolo del Tempio, ma non è uno come gli altri.» «Giorni fa avete parlato del genere di uomo del Tempio che secondo voi avrebbe potuto occuparsi del mio caso. Che uomo è? Onesto o disonesto?» «Io... dubito che sia uno che si lascia corrompere. Ma ciò non significa che starà dalla vostra parte.» Ingrey esitò. «È un uomo toccato dagli dei.» Ijada reclinò il capo. «Anche voi sembrate un po' toccato dagli dei, in questo momento.» Ingrey s'irrigidì. «Perché dite questo?» Lei alzò una mano nella luce palpitante della lampada, come per sfiorargli il viso. «Una volta ho visto uno degli uomini di mio padre trascinato via dal suo cavallo. Non è rimasto ferito, ma quando si è rialzato era molto scosso. Voi avete la faccia più composta, non sporca di sangue e di polvere, tuttavia i vostri occhi sono come i suoi. Un po' selvaggi.» Ingrey sperò che avvicinasse di più la mano, invece la vide ricadere. «Ho avuto una serata piuttosto strana. Al tempio è successo qualcosa. Comunque Lewko verrà domattina per vedere voi. E me. Temo di essere nei guai.» «Allora venite qui e parlatemene.» La fanciulla lo invitò a sedere accanto a sé sugli scalini. I suoi grandi occhi scuri erano di nuovo inquieti. Ingrey le fece un resoconto di ciò che gli era accaduto con l'orso e col suo dio nel cortile del tempio, facendola restare senza fiato un paio di volte
e strappandole anche una risata, che lo colse di sorpresa. Poi Ijada ascoltò con interesse la descrizione di Jokol, della sua barca e del poema che aveva recitato. «Dapprima ho pensato che ciò che mi era accaduto con Fafa fosse opera del Dio Bianco», disse Ingrey. «Nella sua ira contro quegli stallieri disonesti. Ma poco fa, mentre Gesca mi accompagnava qui, è successo di nuovo. Ho parlato con la Voce Selvaggia. Non so se a farlo sia stato io o il mio lupo. Per i Cinque Dei, non so neppure dove finisca io e inizi lui. Il lupo non aveva mai parlato così, prima. Non aveva parlato mai, per niente.» «La gente delle paludi dice che le canzoni della saggezza erano magiche, una volta, molto tempo fa.» «O molto lontano da qui.» La donna-che-canta, ai margini della foresta... «Ma questo è successo a me, oggi, in una circostanza in cui stavo rischiando la vita. Mi chiedo che cosa sappia Wencel di questi poteri. Li possiede anche lui? Perché non li ha usati su di noi? A proposito, credo che abbia trafugato e letto la vostra lettera, mentre eravamo a cena con lui. L'Erudito Lewko ha detto che era stata aperta.» Ijada restò senza fiato. «Oh! Che cosa diceva la lettera?» «Io non l'ho letta, ma suppongo che descrivesse i fatti accaduti quella sera a Red Dike, con alcuni particolari. Perciò, a giudicare dal tempo in cui Wencel è rimasto assente da tavola, credo che abbia appreso della mia maledizione, della quale avevo evitato di parlargli. Secondo voi c'è stato un cambiamento nei suoi discorsi, da quel momento in poi?» Ijada si accigliò. «Se mai si è fatto più comunicativo. Nella speranza di indurci a una maggiore franchezza?» Lui si strinse nelle spalle. «Forse.» «Ingrey...» «Mmh?» «Che cosa sapete voi delle portabandiera?» «Non molto più di quello che so degli sciamani. Ho letto alcuni resoconti darthacani di battaglie contro i vecchi dominiani. I guerrieri-spirito, anzi tutti i kin dei guerrieri, hanno combattuto fieramente per difendere il proprio modo di vita. Se un portabandiera si rifiutava di ritirarsi, allora i guerrieri lottavano fino all'ultimo intorno a lui (o a lei, se Wencel ha detto il vero). Proprio per tale ragione i soldati di Audar cercavano sempre di abbattere le bandiere. Si dice che uno dei compiti dei portabandiera fosse quello di tagliare la gola ai compagni feriti troppo gravemente per sopravvivere. Era considerata una morte onorevole; il guerriero ferito, se aveva ancora la
forza di parlare, era tenuto a benedire il portabandiera e a ringraziare la sua lama.» Ijada rabbrividì. «Non conoscevo questo particolare.» Lo sguardo di lei si perse in lontananza, in pensieri che Ingrey non poté immaginare. Forse il sogno ai Boschi Feriti? Ma guerrieri morti da tempo non potevano esigere un servizio così macabro dalla loro portabandiera. Ijada disse: «Cercate di capire che cosa sa Wencel, quando avrete occasione di chiedergli qualcosa di più su Boscosacro». «Mmh. Quello è un altro incontro di cui non sarò molto entusiasta. Non credo che Wencel mi farà i complimenti, quando saprà dello spettacolo che ho dato questa sera. Ho attirato l'attenzione del Tempio in modo molto serio. E ho paura di Lewko.» «Perché? È un amico di Hallana, un suo ex maestro, del quale si fida.» «Oh, sono sicuro che potrebbe essere un buon amico. Ma anche un implacabile nemico. Ancora non so da che parte potrebbe schierarsi.» O forse era lui ad avere pregiudizi contro la gente del Tempio? Non riusciva a scacciare il ricordo dei Divini, a Birchgrove, che per fargli ritrovare la ragione l'avevano torturato senza pietà. Da allora aveva imparato come tracciare una linea tra amici e nemici. Ijada lo guardò con impazienza. «E voi da che parte pensate di essere schierato?» I pensieri di Ingrey si bloccarono. «Non lo so. Mi sento racchiuso tra muri che si allontanano quando cerco di toccarli. Sto correndo in cerchio.» Rialzò lo sguardo sul volto di lei e si sentì arrossire. Le pupille della ragazza erano dilatate nella penombra, come se lo volessero divorare. Ingrey avrebbe potuto precipitare dentro il pozzo di quello sguardo. In lei la bellezza fisica era unita allo strano, selvaggio fascino del suo spirito di leopardo. Ma più all'interno... c'era anche qualcos'altro. Fu tentato di afferrare quella parte di lei, come se fosse terribilmente importante... «La parte dalla quale sono schierato siete voi. Non siete sola.» «Allora non lo siete neppure voi», mormorò lei. Oh. Né il tempo né il suo cuore si erano fermati, questo era certo, eppure per un istante Ingrey fluttuò come sospeso a grande altezza, senza cadere. Senza peso. «Dolce logica.» Chiudere il breve spazio tra le loro bocche fu questione di un istante. Gli occhi di lei si spalancarono. Le labbra di Ijada erano morbide come lui aveva immaginato, ardenti come la luce del sole. Il primo tocco fu casto, esitante, tuttavia il corpo di
Ingrey fu scosso violentemente fino all'inguine e le sue mani tremarono. Le fermò passando la destra intorno alla vita di Ijada e l'altra dietro la nuca, con le dita affondate nei suoi capelli. Un braccio caldo scivolò sulle sue spalle e la mano gli premette sulla schiena, attirandolo. L'altra mano strinse il suo polso sinistro. Le labbra di lei si aprirono. Un'ondata di desiderio seguì il primo fremito nei lombi di Ingrey, svegliando in lui la consapevolezza del tempo trascorso dall'ultima volta che aveva tenuto una donna in quel modo... No, non aveva mai tenuto una donna in quel modo. All'improvviso il bacio che era stato casto diventò appassionato. Lui le esplorò la bocca con avidità disperata, mentre Ijada si stringeva con forza contro il suo corpo. I loro respiri si sincronizzarono; i loro cuori iniziarono a battere all'unisono. E d'un tratto furono protesi l'uno attraverso l'altra... Un bacio magico non era più soltanto un romantico modo di dire. Anzi in quel caso non fu affatto romantico; fu terrificante quanto imprevisto. Ijada rantolò, Ingrey prese ad ansimare e si separarono, benché le loro mani fossero ancora unite; non con passione, ora, bensì con la disperazione di due persone che stessero annegando. Gli occhi di lei erano ancora più grandi di prima, con le pupille simili a dischi neri tanto larghi da lasciare solo una sottile linea d'iride dorata. «Che cosa stai... tu...» cominciò, mentre Ingrey continuava a respirare a fatica. «Che cosa hai fatto?» Ijada lo lasciò con una mano e se la posò sul petto, come per afferrarsi il cuore. «Che cos'è successo?» «Non lo so. Io non ho mai... sentito...» Un pavimento di legno cigolò; risuonarono dei passi e il rumore di un catenaccio, quindi la porta della camera di Ingrey si aprì. Ijada si strinse le braccia al petto come se avesse freddo e sussurrò un'imprecazione. Lui ebbe appena il tempo di farle l'occhiolino, cui lei rispose con un sorriso, prima che Tesko uscisse in corridoio. «Mio signore?» domandò. «Ho sentito delle voci...» Sbatté le palpebre, sorpreso nel vederli seduti sulle scale. Ijada si alzò, raccolse la candela, scoccò a Ingrey uno sguardo di bruciante intensità e salì al piano di sopra. Per un attimo Ingrey si trastullò con la tentazione di estrarre la spada e mozzare il capo al suo servo; ma purtroppo non c'era abbastanza spazio per eseguire una decapitazione decente. Con un sospiro scacciò la fantasia e si alzò. Tesko, forse consapevole di essere intervenuto nel momento sbagliato, si
scostò con un cauto inchino e lo seguì in camera. Il giovane, che zoppicava a causa di una malformazione a un piede, era stato assegnato al servizio di Ingrey quando questi aveva iniziato a lavorare per Hetwar. A quel tempo Tesko era ancora all'oscuro dei doveri di un domestico e di ciò che poteva succedere a chi sgarrava. Abituato a fare tutto da solo, Ingrey l'aveva trattato con indifferente indulgenza, aiutandolo così a superare in fretta il timore che la sua reputazione di spietato esecutore induceva negli altri. Tuttavia poco più tardi, quando l'aveva sorpreso a rubare, gli aveva rimesso in corpo quel timore con una punizione molto severa. Da allora gli altri servi di Hetwar avevano fatto il possibile per insegnare a Tesko la buona condotta, perché, se fosse stato cacciato, al servizio di Ingrey sarebbe finito uno di loro. Ingrey lasciò che il ragazzo gli sfilasse gli stivali, si servì del vaso da notte, gli diede alcune istruzioni per l'indomani e andò a letto. Ma scoprì di non avere più sonno. Era troppo eccitato per addormentarsi, troppo ubriaco per riflettere in modo sensato, troppo stanco per alzarsi. Il sangue gli sibilava nelle vene, gli ringhiava nelle orecchie. Era intensamente consapevole di ogni piccolo rumore proveniente dall'alto. Il respiro di Ijada era ancora sincronizzato col suo? Cercò di non pensare alla struggente ipotesi che anche lei fosse attenta a ogni piccolo rumore proveniente dal basso... Entrambi erano senza dubbio scivolati verso quel momento d'intimità giorno dopo giorno, e ora Ingrey si sentiva accoppiato con lei come se fossero due cani da caccia legati l'uno all'altro per essere addestrati. Ma allora chi è il cacciatore? Chi la preda? Il pesante tintinnio di quel legame gli echeggiava nelle ossa: catene più sottili di una ragnatela e più forti dell'acciaio. Lui non aveva bisogno di udire il cigolio quando Ijada si girava nel letto. Sapeva dov'era così come sapeva dove si trovava lui, nel buio. Tese una mano di lato e immaginò di toccarla. Tutto ciò è illusione. Sto diventando pazzo per il desiderio non contraccambiato. Però non gli era affatto parso che lei non contraccambiasse, oppure si era sbagliato? Un sorriso ebete gli stirò le labbra. Infine si addormentò e il mattino seguente Tesko fu costretto a tirarlo fuori delle lenzuola e quasi gettarlo giù dal letto per svegliarlo. Il nervosismo del servo tradiva una paura a cavallo tra il pericolo di trattare con un Ingrey mezzo addormentato e il pericolo di disobbedirgli; lui sputò il ca-
tarro che gli impastava la lingua e gli assicurò che disobbedirgli sarebbe stato peggio. Rizzarsi a sedere fu difficile ma alla fine ci riuscì. Per non compromettere il nuovo bendaggio, lasciò che Tesko lo aiutasse a lavarsi, a radersi e a vestirsi. Si accigliò quando vide che la ferita al polso destro aveva perso altro sangue, tuttavia decise che si sarebbe medicato più tardi. Quella al polso sinistro non era bendata, perché il giorno prima aveva notato che stava guarendo meglio e l'aveva lasciata scoperta, anche se intorno al tenero tessuto cicatriziale c'erano brutti lividi verdastri. Le maniche del suo abito da città - grigio scuro e grigio chiaro - li coprivano del tutto. Con la spada al fianco, il pugnale e gli stivali puliti era presentabile, se si ignoravano il pallore del volto e gli occhi iniettati di sangue. Il pane puzzava di muffa; Ingrey non lo toccò, limitandosi a bere un boccale di tè, poi scese al pianterreno cercando di non far risuonare i tacchi degli stivali sulle assi del pavimento. Gettò un'occhiata verso il secondo piano. Ijada dorme ancora. Bene. Nella fredda umidità esterna c'era appena abbastanza luce per vedere dove metteva i piedi. Quando arrivò dalla parte opposta della Città del Re la testa gli doleva ancora, ma la passeggiata gli aveva schiarito le idee. I pallidi colori dell'aurora si stavano spargendo nel cielo. La facciata del massiccio palazzo di Hetwar, appena ripulita dalla fuliggine e dallo sterco di piccione, era di un giallo pallido come il burro. Il portiere notturno riconobbe Ingrey attraverso lo spioncino largo un palmo e gli aprì una stretta porta ritagliata nel massiccio portone di quercia. Lui rifiutò l'offerta di mandare un paggio per farlo annunciare e salì le scale verso lo studio privato del Guardasigilli. La servitù era già in piedi e si muoveva in silenzio; apriva le tende, riattizzava il fuoco nei camini e portava secchi d'acqua calda. Ingrey rallentò il passo, sorpreso, quando girato un angolo vide Lord Symark, portabandiera del principe maresciallo Biast, appoggiato alla parete fuori dello studio di Hetwar. I due si salutarono con un cenno del capo. «Il principe è qui?» gli domandò Ingrey a bassa voce. «Sì.» «Quando siete arrivati?» «Siamo entrati dalla porta della Città del Re un paio d'ore fa. Il principe ha lasciato i veicoli coi suoi bagagli a Newtemple. La strada era un pantano; abbiamo cavalcato tutta la notte.» Symark si massaggiò una spalla e tolse un po' di fango secco dall'orlo della giubba.
«Siete voi, Ingrey?» chiamò dall'interno la voce di Hetwar. «Entrate.» Symark inarcò enfaticamente un sopracciglio. Ingrey entrò. Seduto dietro la sua scrivania, Hetwar gli fece segno di chiudere la porta. Ingrey rivolse un inchino al principe maresciallo, che occupava la poltrona più grande dello studio, quindi s'inchinò anche al Guardasigilli. Entrambi gli risposero con un cenno del capo e lui rimase con le mani dietro la schiena, in rispettosa attesa. Biast era infangato e stanco quanto il suo portabandiera. Pur non essendo alto e robusto come suo fratello Boleso, aveva la corporatura atletica, i capelli castani e la mascella pronunciata degli Stagthorne, con la barba accuratamente rasata. I suoi occhi erano però più limpidi e, se anche condivideva il carattere iracondo e voluttuoso del fratello, sapeva tenerlo meglio sotto controllo. Biast era stato nominato erede ufficiale soltanto tre anni addietro, dopo che il più anziano dei fratelli Stagthorne, Byza, era morto di malattia. Prima che i doveri ereditari cadessero così pesantemente su di lui, era stato indirizzato alla carriera militare, le cui durezze gli avevano lasciato poco tempo per dedicarsi alla diplomazia di corte come Byza, oppure alle donne e ai divertimenti come Boleso. Hetwar era già abbigliato per la giornata, non con la sua solita sobria semplicità bensì con un ricco abito da lutto, su cui risaltavano le collane della sua carica. C'era dunque da supporre che intendesse partire per unirsi al funerale di Boleso nell'ultimo tratto verso Easthome, quel pomeriggio. Era un uomo di mezza età, statura media e corporatura media. I piaceri del cibo e della carne non erano tra i suoi vizi, per quanto a corte fosse circondato da fin troppe occasioni e opportunità. Ingrey fu colpito dal pensiero che l'Erudito Lewko aveva gli stessi modi ingannevolmente modesti, dietro cui si celavano capacità a prima vista impensabili. Ciò che il Guardasigilli e il principe maresciallo non avevano era l'odore di ultraterreno che negli ultimi tempi i sensi di Ingrey erano diventati esperti nel percepire. Non che quella mancanza lo mettesse maggiormente a proprio agio; i poteri magici a volte funzionavano, altre volte no, mentre il potere politico funzionava sempre e i due uomini seduti in quella stanza ne erano pervasi. Hetwar si passò una mano tra i radi capelli e lo guardò con severità. «Era ora che vi faceste vedere.» «Sì, signore», disse lui in tono neutro. L'altro inarcò un sopracciglio e lo guardò meglio. «Dove siete stato ieri sera?»
«Voi che cosa avete saputo finora, signore?» Hetwar incurvò leggermente le labbra di fronte a quella cauta risposta. «Stamattina uno dei miei servi mi ha fatto un resoconto tanto straordinario quanto ingarbugliato. Voglio sperare che non abbiate davvero lanciato un incantesimo su un gigantesco orso bianco, nel cortile del tempio. Che cos'è successo in realtà?» «Ero uscito di casa per venire qui e sono passato dal tempio per una breve commissione. Un Accolito ha perduto il controllo di un animale sacro, il quale l'ha ferito. Quando il Tempio ha restituito la bestia a colui che l'aveva donata, l'Erudito Lewko mi ha chiesto di accompagnarlo attraverso la città, per motivi di sicurezza, e io ho eseguito.» Al nome di Lewko negli occhi di Hetwar si era acceso un lampo. Dunque lo conosce, mentre io ignoravo chi fosse. Ingrey continuò: «Il proprietario dell'orso, un certo Jokol, ha dichiarato di essere un principe delle isole meridionali, perciò mi è parso poco diplomatico rifiutare l'invito a cena a bordo della sua nave, quando ha insistito. La birra di quei meridionali si è rivelata micidiale e le loro chiacchiere interminabili. Quando Gesca è venuto a salvarmi, era troppo tardi per presentarmi da voi». Biast sbuffò con aria divertita e Ingrey comprese che aveva indovinato il motivo delle sue occhiaie e della faccia tirata. Non gli dispiacque: meglio che si dicesse in giro che si dava ai bagordi, piuttosto che del fatto che sprigionava sprazzi di magia illegale, incontrollabile, se non peggio. «L'Erudito Lewko era presente all'incidente con l'orso; vi suggerisco di considerarlo l'unico testimone affidabile», aggiunse. «È molto qualificato.» «Così ho sentito dire, signore.» L'unica reazione di Hetwar fu togliere le mani dal tavolo. Dopo qualche istante corrugò le sopracciglia e disse: «Lasciamo perdere ciò che è successo ieri sera. Mi è stato riferito che il vostro viaggio con la salma del principe Boleso è stato più agitato di quanto apparisse dai vostri rapporti». Ingrey inclinò il capo. «Che cosa dicevano le lettere di Gesca?» «Le lettere di Gesca?» «Sì, non ha fatto rapporto a voi?» «Mi ha fatto rapporto ieri sera.» «Non prima?» «No. Perché?» «Ho sospettato che scrivesse rapporti e ho supposto che li mandasse a
voi.» «L'avete visto coi vostri occhi?» «No», ammise Ingrey. Il Guardasigilli fece una smorfia perplessa. Ingrey trasse un profondo respiro e disse: «Durante il viaggio sono successe alcune cose di cui neppure Gesca è a conoscenza». «Per esempio?» «Eravate al corrente, signore, che il principe Boleso stava facendo esperimenti con spiriti magici? Sacrifici di animali?» Biast apparve molto sorpreso dalla notizia. Hetwar sogghignò e disse: «Il cavalier Ulkra mi ha riferito certi pettegolezzi. Lasciare in ozio un uomo giovane dotato di tanta energia può essere stato un errore. Confido che voi abbiate rimosso ogni traccia inopportuna, come vi avevo chiesto. Non serve a nulla criticare i divertimenti privati di una persona ormai defunta». «Non erano semplici pettegolezzi. Erano tentativi seri e coronati dal successo, benché mal controllati e mal consigliati; hanno ridotto il povero principe in uno stato mentale che potrei definire soltanto di violenta follia. Il che mi ha indotto a domandarmi, per ovvie ragioni, da quanto tempo la cosa andasse avanti. È lecito sospettare che, a un certo punto, il principe abbia ricevuto l'aiuto di un mago fuorilegge. Lady Ijada ha testimoniato che il principe Boleso aveva una sua complicata teoria, seconda la quale il rito avrebbe dovuto fornirgli un potere arcano sopra i kin del Dominio. La notte che ha cercato di usarle violenza, il principe aveva impiccato un leopardo; la ragazza l'ha ucciso nel disperato tentativo di difendersi.» Hetwar gettò uno sguardo preoccupato a Biast, che si era raddrizzato sulla poltrona e ascoltava con aria cupa. «Lady Ijada ha testimoniato? Confido che voi abbiate raccolto altri elementi.» «Io ho visto il leopardo, la corda usata per impiccarlo, le tracce di pittura sul corpo del principe Boleso e la camera in cui tutto ciò è avvenuto. Ulkra e parecchi altri tra il personale del principe possono confermarlo. Io credo a Lady Ijada senza riserve. Le ho creduto fin dall'inizio, ma in seguito è successa un'altra cosa che ha confermato le mie convinzioni.» Hetwar aprì una mano, invitandolo a proseguire. La sua espressione era tutt'altro che felice. «Ho constatato... è risultato evidente che...» Dirlo era più difficile di quanto Ingrey si aspettasse. «Qualcuno, a Easthome o altrove, ha escogitato un complotto per uccidere la mia prigioniera. Non saprei dire chi, né perché.» Gettò un breve sguardo a Biast, il quale appariva sbalordito. «Mi
è chiaro soltanto il modo.» «E chi era il sicario?» «Io.» Hetwar sbatté le palpebre. «Ingrey...» disse in tono di avvertimento. «Dopo quattro tentativi falliti di togliere la vita alla mia prigioniera, mi è stato rivelato, grazie all'aiuto di una maga del Tempio da noi incontrata a Red Dike, l'Erudita Hallana (che tra l'altro è stata allieva dell'Erudito Lewko), che una compulsione o una maledizione era stata gettata su di me con l'uso della magia. Hallana ha detto che non era comune magia demoniaca, né qualcosa collegato ai poteri del Dio Bianco.» Hetwar lo squadrò da capo a piedi. «Cercate di capirmi, Ingrey, io non... o non ancora... non vi accuso di tentato omicidio, però non riesco a capire come una giovane donna sia potuta sopravvivere, se aggredita da voi.» Ingrey sogghignò. «Per esempio perché sa nuotare, oltre a possedere altre capacità. Poi, a Red Dike, la maga ha distrutto la maledizione, per fortuna di tutti noi.» Era tutto ciò che poteva arrischiarsi a dire, per il momento; ed era abbastanza vicino alla verità. «Il fatto è estremamente peculiare, dal mio punto di vista.» «Gesca non mi ha fatto sapere nulla», borbottò Hetwar. Con voce calma e piatta, Ingrey disse: «Sono decisamente infuriato per essere stato usato in questo modo». Sperava che il suo tono esprimesse una contrarietà civilmente trattenuta, ma nel sentire un fremito che gli saliva dal ventre, tanto forte da fargli tremare le mani, si rese conto che l'espressione «infuriato» era più veritiera di quanto avesse creduto. Biast commentò con un grugnito la strana discordanza tra parole e atteggiamento, mentre Hetwar, che lo osservava con attenzione, s'irrigidì. «Mi sono chiesto se non siate stato voi, signore», aggiunse Ingrey nello stesso tono assolutamente inespressivo. «No, Ingrey.» Gli occhi dell'altro si spalancarono. Le sue mani, posate sulla scrivania, non si mossero verso l'elsa del suo spadino cerimoniale. Ingrey poté vedere la sua tensione nel trattenere il movimento. Per quattro anni aveva visto Hetwar distribuire menzogne e verità come gli faceva più comodo. Poteva credergli adesso? Sentiva una sgradevole pressione nella testa. Il Guardasigilli era un cospiratore, uno strumento come lui, o era all'oscuro di tutto? D'un tratto si disse che non aveva senso tirare a indovinare. «Ditemi la verità!»
«Non sono stato io!» Il silenzio cadde con la forza di una lama di accetta. Biast era come schiacciato contro lo schienale della poltrona. Maledizione, forse avrei dovuto mordermi la lingua. «Mi fa piacere saperlo, signore», replicò in tono tranquillo, assumendo deliberatamente una posa rilassata. Cambia discorso, adesso. «Come sta il sacro re?» Il silenzio si prolungò un po' troppo, mentre Hetwar lo fissava. Il Guardasigilli distolse lo sguardo da lui solo per un breve istante, come per segnalare a Biast che a quella domanda avrebbe dovuto rispondere lui. Il principe aveva ancora gli occhi spalancati per lo stupore. Si schiarì la voce e disse: «Sono passato a fare visita a mio padre, prima di venire qui. Sta peggio di quanto immaginassi. Mi ha riconosciuto, ma parla con difficoltà ed è giallo in viso, molto debole. Si è addormentato quasi subito». Si accigliò. «Ha la pelle simile a carta. Lui ha sempre... non è mai stato...» Tacque, accorgendosi di avere la voce roca. «Suppongo che entrambi dobbiate valutare l'eventualità di un'elezione imminente», disse cautamente Ingrey. Hetwar annuì. Biast lo imitò, sia pure con riluttanza. Negli occhi del principe maresciallo c'era un malcelato allarme; lo sguardo che gettò al Guardasigilli sembrava chiedere se quel comportamento così poco rispettoso fosse normale da parte del famigerato spadaccino-lupo al suo servizio. Tuttavia l'espressione di Hetwar lasciava trapelare ben poco. Ingrey disse: «C'è motivo di sospettare che gli esperimenti proibiti di Boleso fossero mirati a ottenere il trono, al momento della scelta del nuovo sacro re». «Ma lui è il figlio più giovane!» obiettò Biast. «Cioè... era.» «La situazione poteva essere modificata. Se effettuato con l'uso di mezzi magici, il vostro assassinio sarebbe potuto passare per un incidente. Come io ho constatato sulla mia pelle.» Ora Hetwar aveva l'aria di riflettere con estrema concentrazione. Infine mormorò: «Non si può negare che molti più voti di quanto si crede possano essere comprati e venduti. Mi chiedo dove stia il marcio...» «Quali dubbi possono esserci ancora sulla successione del principe maresciallo?» domandò Ingrey a Hetwar, con un lieve cenno del capo a Biast. «Se il sacro re dovesse spirare mentre la maggior parte dei nobili venuti per il funerale di Boleso è ancora qui, mi sembra che l'elezione potrebbe avere luogo molto rapidamente.»
Hetwar scrollò le spalle. «Gli Hawkmoor e tutta la loro fazione orientale si stanno preparando a questo momento da molto tempo, come ben sappiamo. Sono trascorse quattordici generazioni da quando il loro kin ha perduto il trono, ma non hanno abbandonato il sogno di tornare al potere. Non sono ancora riusciti, secondo me, ad assicurarsi i voti necessari; tuttavia, considerando quanti sono gli incerti... se è vero che Boleso era riuscito a riunirli intorno a sé, costoro sono ora a disposizione di qualcun altro.» «Pensate che questi indecisi propenderebbero per suo fratello?» Ingrey guardò Biast, che sembrava ancora occupato a digerire, senza nessun piacere, l'idea di avere rischiato di cadere vittima di un fratricidio. «Forse no», borbottò Hetwar pensieroso. «Quelli del kin Foxbriar, pur sapendo che il loro signore non può vincere, sanno certamente di poter pesare in modo decisivo a favore di qualcun altro. Se gli elettori fallissero ripetutamente nel dare un esito chiaro e netto, la parola potrebbe passare alle armi.» Biast aveva un'espressione tutt'altro che felice e, a quel pensiero, la sua mano destra si strinse sull'impugnatura della spada. Il gesto non sfuggì a Hetwar, che alzò una mano per indurlo alla calma. Ingrey osservò: «Anche se il principe Biast non rischiasse di essere oggetto di un attentato, ritengo che una maledizione capace di costringere all'omicidio potrebbe essere segretamente usata anche per costringere qualcuno a cambiare il proprio voto». Hetwar si fece ancora più attento e teso. «Sì», disse con voce fredda, senza muoversi. «Ingrey, voi potete percepire la presenza di questo genere di maledizioni?» «Ora posso, sì.» «Mmh.» Il Guardasigilli lo scrutò con interesse nuovo. E così mi sono salvato, agli occhi di Hetwar. Forse. Il suo superiore si concesse un grugnito e agitò una mano. «Ero convinto che la corruzione, la coercizione, l'omicidio e il doppio gioco fossero tutto ciò con cui abbiamo a che fare.» Il suo sguardo tornò ad alzarsi verso Ingrey e una nuova idea gli fece stringere gli occhi. «Chi sospettate che abbia fatto ricorso a questa magia illegale? A parte me», aggiunse sarcastico. Ingrey gli rispose con un'educata scrollata di spalle e uno sguardo di scusa. Di scusa, ma non intimidito. Se ci tieni alla vita, proteggi i tuoi segreti... e i miei. «Non ho ancora nessuna prova. Tuttavia è stato commesso un atto riprovevole.» Hetwar sorrise. «La vostra propensione agli eufemismi non vi ha abban-
donato, vedo. Questa è una faccenda che riguarda il Tempio, come sapete.» Ingrey annuì, con aria infelice. Avrebbe voluto che il mago - ma continuava a pensare a lui nei termini più specifici di stregone o di sciamano che aveva scagliato la maledizione su di lui venisse scoperto e punito. Non era altrettanto sicuro che lui stesso non sarebbe stato coinvolto nella faccenda, tuttavia sapere che Hetwar lo proteggeva come un solido muro lo rassicurava molto. Poteva solo pregare di non avere danneggiato troppo quel muro, mettendolo alla prova. Dunque, se Hetwar non era in combutta con l'individuo che desiderava la morte di Ijada, c'era la possibilità di appellarsi a lui per ottenere giustizia? In ogni modo, quando mai gli sarebbe capitata ancora l'occasione di essere a tu per tu con Biast? Fece un profondo respiro e disse: «Resta ancora la questione di Lady Ijada. Se voi desiderate stendere un velo sulla follia e sulle azioni blasfeme di Boleso, un processo è l'ultima cosa che vi serve. Vi converrebbe chiedere agli inquisitori un verdetto di autodifesa, o meglio ancora di morte per cause accidentali, e lasciarla libera». «Ma ha ammazzato mio fratello», esclamò Biast, piuttosto indignato. «Allora potreste concederle di pagare un doveroso prezzo per il sangue, diciamo, alla maniera del Vecchio Dominio... Una cifra non proibitiva», aggiunse, con cautela. «Per salvare tanto l'onore quanto la discrezione.» «Non credo che sarebbe un buon precedente per la casa reale», obiettò Hetwar. «Tanto varrebbe dichiarare aperta la caccia agli Stagthorne, o a tutti i Lord. C'erano solide ragioni quando l'Ordine del Padre ha eliminato quelle vecchie usanze: i ricchi potevano permettersi di uccidere i poveri senza troppe conseguenze.» «Ma non lo fanno anche oggi?» Hetwar gli indirizzò un grugnito di avvertimento. «È senza dubbio preferibile che sia condannata a morte, nel modo più rapido e indolore possibile. Forse col veleno invece della corda o della pira, o magari decapitandola a fil di spada.» E io sono uno spadaccino. «In questa faccenda c'è dell'altro; non è ancora tutto... chiarito.» Ingrey non avrebbe voluto giocare quella carta, ma la loro espressione fredda lo spaventava. Aveva seminato idee nelle loro menti; forse avrebbe dovuto dar loro il tempo di germinare. Ma in gioco c'è la sua vita, dunque perché dovrei avere paura di parlare? «Credo che Lady Ijada sia toccata dagli dei. Se la perseguite, lo farete a vostro rischio.»
Biast sbuffò. «Un'assassina? Ne dubito. Se fosse così, gli dei avrebbero inviato qualcuno in sua difesa.» Ingrey trattenne il respiro, altrimenti gli sarebbe uscito di bocca come quello di un uomo colpito da un pugno allo stomaco. Sembra proprio che l'abbiano fatto. Non è un granché come protettore; forse gli dei avrebbero potuto fare di meglio... Ma le parole che pronunciò furono altre: «Da quando, signori miei, il sacro regno è diventato così materialistico? Un tempo queste erano faccende sacre. Come possiamo trattare la cosa come un affare tra mercanti? Quand'è successo che i guerrieri giurati agli dei sono diventati sensali di cavalli?» Quelle parole irritarono Hetwar, che si raddrizzò sulla poltrona, esasperato. «Io faccio uso dei doni che gli dei mi hanno elargito, compresi la ragione e la capacità di giudicare. È mio compito farlo. Servo il Dominio da prima che voi nasceste, Ingrey. Non c'è mai stata un'età dell'oro. È stata sempre quella del ferro.» «Gli dei non hanno altre mani che le nostre, in questo mondo. Se li deludiamo, a chi possono rivolgersi?» «Ingrey, calmatevi!» Biast si stava sfregando la fronte, come se gli dolesse. «Chiudiamola qui. Se voglio prendere parte alla processione, dovrò andare a fare un bagno e a cambiarmi d'abito.» Si alzò e si massaggiò le reni, con una smorfia. Anche Hetwar si alzò. «Giusto, principe maresciallo. Anch'io dovrò salire a cavallo.» Si rivolse a Ingrey, seccato. «Riprenderemo la conversazione quando avrete recuperato un atteggiamento più riflessivo, Ingrey. Nel frattempo non parlate a nessuno di questi argomenti.» «L'Erudito Lewko desidera interrogarmi.» Hetwar fece un sospiro. «Lewko, già. Un uomo poco disposto a collaborare, a quanto mi risulta.» «Io sto sfidando il Tempio a mio rischio.» «Ah, sì? Questa è bella. Credevo che voi sfidaste la gente per puro capriccio.» Ingrey non avrebbe saputo dire per quanto restarono a guardarsi negli occhi. Alla fine il primo a raggiungere la porta fu Biast. Hetwar lo seguì doverosamente e fece cenno a Ingrey di fare altrettanto. «Sarà meglio che non mentiate con Lewko. Più tardi parlerò con lui, poi ci rivedremo. Non sgocciolate sui miei tappeti.»
Ingrey abbassò lo sguardo e subito si afferrò il polso destro con l'altra mano. Il bendaggio era inzuppato di sangue. «Che cosa vi è successo? No... me lo direte più tardi. Raggiungetemi alla cerimonia funebre. Vestito nel modo opportuno», ordinò Hetwar. «Signore.» Ingrey gli rivolse un inchino, mentre l'altro si allontanava. Symark, che stava gironzolando per il corridoio esaminando la tappezzeria, si affrettò a seguire il principe. Dunque Hetwar si era convinto che la situazione era alquanto complicata e, prima di parlare di nuovo con lui, voleva riflettere. Ingrey non lo trovò molto rassicurante. A Easthome era già iniziata un'altra mattinata di lavoro. Le strade erano piene di passanti quando Ingrey uscì dal palazzo del Guardasigilli. Ijada doveva essere ormai sveglia, se lo sentiva. Sveglia e, per il momento, ancora lontana dal doversi preoccupare troppo. Rifiutandosi di cedere alla paura, i suoi piedi trovarono il proprio passo, un passo lento. Era possibile che le sue nuove, strane capacità di percezione funzionassero anche in senso opposto? Avrebbe dovuto domandarlo a lei. Stancamente s'incamminò verso la casa-prigione. 13 Ingrey si annunciò al portiere e fu fatto entrare. Nell'atrio alzò lo sguardo; Ijada era di sopra, presumibilmente, chiusa in camera con la sorvegliante in obbedienza alle istruzioni. D'un tratto fu assalito dal pensiero che, se i servi di Horseriver e uno spadaccino alquanto malridotto erano sufficienti a impedire la fuga di una ragazza inerme, sarebbero valsi a poco per respingere un attacco dall'esterno. Lui avrebbe potuto fermare e ricacciare indietro un nemico o due, forse anche di più; ma se qualcuno molto deciso e potente avesse mandato abbastanza uomini... Quanto a un attacco più sottile, ultraterreno... il risultato sarebbe stato meno scontato. La sua Voce Selvaggia poteva essere una buona difesa? Il mormorio di strani poteri che si sentiva nel sangue lo innervosiva. Il conte Horseriver sembrava conoscere meglio di lui le sue nuove capacità e i loro limiti. La sua ambigua promessa di una sorta di addestramento lo lasciava perplesso. Il portiere gli consegnò un pezzo di carta piegato in quattro. «Un messaggero del Tempio ha portato questo per voi, mio signore.» Ingrey ruppe il sigillo; si trattava di una breve nota dell'Erudito Lewko,
vergata con una calligrafia nitida e precisa: Pare che oggi sarò troppo occupato con quella faccenda di disciplina interna del Tempio che voi avete aiutato a scoprire ieri. Cosa di cui vi ringrazio. Verrò a visitare voi e Lady Ijada domani, dopo il rito funebre del principe. Ingrey poteva capire che il Tempio volesse sanare quel caso di corruzione tra gli Accoliti prima di una cerimonia ufficiale; eppure sentiva trapelare dal messaggio una cauta preoccupazione. Provò un misto di sollievo e disappunto. Lewko lo innervosiva, però non conosceva nessun altro cui chiedere spiegazioni sulla Voce che aveva sentito nella testa la sera prima, nel cortile del tempio. Segretamente sperava che Lewko gli assicurasse che si era trattato di un'allucinazione, anche se l'ipotesi gli sembrava sempre più lontana. Ingrey salì nella propria camera e si fece aiutare da Tesko a cambiare il bendaggio al polso, poi gli consegnò l'abito da città per far lavare il polsino sporco di sangue. I punti della recente cucitura erano intatti, ma negli spazi tra l'uno e l'altro la carne non si era rimarginata. Il fatto che la ferita non guarisse cominciava a preoccuparlo. Il sanguinamento poteva essere tranquillamente spiegato con la sua trascuratezza e le fatiche degli ultimi giorni, tuttavia Ingrey sentiva affiorare il sospetto che si trattasse di sacre offerte di sangue. E se una piccola magia esige un piccolo sacrificio, quanto sangue mi costerebbe una grande? Il letto era assai invitante, perciò si sdraiò. Il pensiero del cibo gli dava ancora la nausea, ma forse il sonno l'avrebbe aiutato a sentirsi meglio. Tuttavia la sua mente prese a vagabondare. Ingrey aveva supposto fin dall'inizio che il movente del misterioso individuo che voleva la morte di Ijada fosse politico, oppure la vendetta per ciò che lei aveva fatto a Boleso. Forse tali ipotesi erano una conseguenza dell'essere stato a lungo alle dipendenze di Hetwar. Ma il tentativo di allargare il proprio punto di vista servì solo a farlo sentire più confuso e stupido. Ogni giorno ne so sempre meno. Quale sarebbe stata la fine di quella spirale discendente, un misero futuro come idiota del villaggio? Fu un sollievo quando la sua stanca immaginazione sfumò nel sonno. Si svegliò più tardi di quanto avrebbe voluto, assetato ma con l'impressione di avere finalmente pagato al proprio corpo un debito che negli ultimi giorni era diventato pesante. D'impulso ordinò a Tesko di far servire la cena a lui e alla prigioniera nel salotto al pianterreno. Indossò un abito nero, si pettinò, constatò che il profumo di lavanda era finito e si ripromise di
mandare il servo ad acquistarne altro, poi si lavò i denti e si fece la barba per la seconda volta nella stessa giornata. Quando scese, accarezzandosi il mento con un sospiro, stava ormai scendendo la sera. Entrando nel salotto, scoprì che Ijada era già lì, vestita con un abito del colore del grano maturo che, nella luce tremula delle candele, aveva riflessi dorati. La giovane si voltò ad accoglierlo con un sorriso che scoprì i denti, di un candore abbagliante. Ingrey non si gettò su di lei come un animale affamato, perché quell'impulso fu subito represso dalla presenza della sorvegliante, in piedi accanto a lei, con le mani dietro la schiena e le labbra serrate in un'espressione poco cordiale. Contrariato, lui notò che il tavolo era stato apparecchiato per tre. Evidentemente i servi degli Horseriver erano spie del conte e obbedivano ai suoi ordini. Cacciarli via tutti, compresa la sorvegliante, avrebbe soltanto aperto la strada a pericoli sconosciuti. Quali che fossero le sue alleanze, ancora incerte e mutevoli, era necessario che Ingrey tutelasse la propria reputazione e quella di Ijada, altrimenti avrebbe rischiato di essere sostituito e destinato ad altri incarichi. Tuttavia si concesse un sorriso, poi si azzardò anche a prendere una mano della fanciulla e a portarsela alle labbra, con gesto formale. Il profumo della sua pelle ebbe l'effetto di eccitare una sensibilità di altro genere e la femminilità di lei, così vicina, gli mozzò il fiato. L'impercettibile gesto di risposta con cui le unghie della ragazza affondarono nella sua mano fu l'unico modo in cui lei poté comunicargli: Anch'io provo la stessa cosa. Invece il sorriso di Ijada continuava a esprimere solo una formale cortesia, mentre lui la aiutava a sedersi e un servo entrava con la cena. «È la prima volta, Lord Ingrey, che vi vedo senza l'uniforme», disse la ragazza, con un tono che sembrava di approvazione. Lui toccò la fine stoffa nera della giacca. «Lady Hetwar si accerta che gli ufficiali di suo marito non facciano fare brutta figura al suo casato.» «Ha buon gusto, allora.» «Ci costringe a servirci dal suo sarto.» Ingrey versò vino nei boccali, senza trascurare quello della sorvegliante, e bevve un sorso. «Mmh... buono.» Nella sua testa si affastellavano le emozioni più diverse: il desiderio erotico, la preoccupazione per la situazione politica in cui era invischiato, il ricordo del bacio mistico della sera prima. Si portò alla bocca una forchettata di verdura cotta, cercando di non sporcarsi con la salsa. «L'Erudito Lewko non si è fatto vedere.»
«Ah, già. Ha mandato un biglietto. Pensa che potrà venire domani, dopo il funerale.» «Ci sono altre notizie del vostro orso bianco? O del vostro pirata?» «No, e mi auguro di non riceverne. Lord Hetwar non è stato molto entusiasta nell'apprendere dove ho trascorso la serata di ieri, invece di recarmi da lui.» «Com'è andato il vostro colloquio col Guardasigilli?» Ingrey inclinò la testa. «Come credete che sia stato?» Anche tu riesci a sentire dove sono e che cosa provo, così come io sento te? Ijada rispose con un leggero cenno d'assenso. «Teso, immagino, e con almeno un... imprevisto.» Lo fissò con uno sguardo che sembrava penetrargli sotto la pelle. Poi gettò un'occhiata alla sorvegliante, la quale masticava e ascoltava. «Proprio così.» Ingrey trasse un profondo respiro. «Credo che il Lord Guardasigilli Hetwar sia un uomo sincero. Le sue preoccupazioni, tuttavia, sono di natura politica. Nel suo ufficio c'era il principe maresciallo Biast, cosa che non mi aspettavo. Al principe non è piaciuta la prospettiva di un prezzo per il sangue di Boleso, ma almeno ho avuto la possibilità di fargli presente l'opportunità di tale soluzione.» La fanciulla spinse su un lato del piatto, con la forchetta, alcuni gambi poco cotti. «Credo che la politica non interessi molto agli dei. Non quanto le anime, almeno. Osservate le anime, Lord Ingrey, se volete capire il Loro pensiero.» E guardò in alto, pensierosa. Consapevole dell'attenzione della sorvegliante, Ingrey spostò il discorso su ciò che Ijada aveva fatto quel giorno. Lei gli raccontò di alcune interessanti ricette trovate in un vecchio libro di cucina, evidentemente l'unica cosa da leggere che c'era in casa. Poi la conversazione languì. Non era la serata che Ingrey si era augurato, ma almeno si trovavano nella stessa stanza. Ed erano vivi. Udirono bussare al portone d'ingresso; ci fu lo scalpiccio del portiere che andava ad aprire, poi alcune voci. Ingrey s'irrigidì, consapevole di aver lasciato la spada in camera e di essere armato solo del pugnale alla cintura, ma si rilassò quando riconobbe la voce di Wencel. Si alzò giusto mentre il conte elettore entrava nel salotto. Anche la sorvegliante si alzò, inchinandosi con aria apprensiva. «Ingrey, Lady Ijada», li salutò Wencel con un cenno del capo. Indossava un elegante abito da corte, un po' spiegazzato, e sembrava esausto. L'oscurità dentro di lui era in quiete, come ottenebrata o soppressa. Guardò le se-
die intorno alla tavola. «Vi prego di scusarci», disse alla sorvegliante. «Prendete pure il vostro piatto.» La donna s'inchinò ancora e lasciò la stanza. Non ci fu bisogno che Wencel le dicesse di chiudere la porta dietro di sé. «Avete mangiato?» domandò educatamente Ijada. «Qualcosa. Gradirei un po' di vino.» La giovane lo versò dalla caraffa e il conte prese il boccale e sedette, guardandoli. «State bene, signora? Il mio personale si occupa delle vostre necessità?» «Sì, grazie. Di quelle materiali, se non altro. Ciò che mi manca sono le notizie.» Wencel bevve un sorso. «Non ci sono notizie, o almeno notizie che vi riguardino. La salma di Boleso è arrivata a Templetown, dove resterà questa notte. Domani a quest'ora l'intero carnevale sarà finalmente terminato», commentò con una smorfia. E inizierà il processo di Ijada? «Ci ho riflettuto, Wencel...» Ingrey spiegò di nuovo la sua proposta sul prezzo del sangue. «Se vuoi davvero tutelare l'onorabilità del tuo casato, cugino, potrebbe essere la strada giusta. Purché gli Stagthorne e i Badgerbank si lascino persuadere. E ti faccio notare che tu sei nella posizione di ottenerlo.» Wencel inarcò un sopracciglio. «Vedo che non sei un carceriere imparziale.» «Se tu volessi un carceriere del genere, sono certo che avresti potuto trovarne uno», rispose secco Ingrey. Wencel alzò il boccale in un brindisi ironico e bevve. Dopo un istante aggiunse: «A proposito di carcere, se non sono stato ancora incarcerato per sacrilegio, devo supporre che tu abbia mantenuto i nostri segreti». «Ho sempre tenuto il tuo nome fuori di ogni conversazione, sì. Quanto ai miei segreti, non so fino a che punto ci sia riuscito. Purtroppo ho attirato l'attenzione del Tempio. Hai saputo di quell'orso bianco?» Wencel storse le labbra. «Oggi, dietro la bara di Boleso, c'erano poca costernazione e molti pettegolezzi, sì. Ciò che ho sentito era contraddittorio, confuso e ambiguo. Sono stato l'unico a capire che cosa c'era dietro quegli eventi. Mi congratulo per la tua scoperta; non immaginavo che avresti imparato a usare il tuo potere così presto.» «Il mio lupo non aveva mai parlato così.» «Le grandi bestie non parlano. La vocalità deve venire dall'uomo. L'intero è una cosa diversa dalle singole parti; queste si alterano l'una con l'altra
quando emergono.» Ingrey soppesò a lungo quella dichiarazione, ma la trovò troppo vaga. Per il momento decise di non parlare dell'altra Voce. Wencel riprese: «Inoltre fino a oggi il tuo lupo era legato. Separato da te, pur essendo dentro di te. Né il Tempio né io ci lasciamo fuorviare da questo, stai tranquillo. È il fatto che si sia liberato a rappresentare un mistero per me». Wencel inarcò le sopracciglia come a chiedere una spiegazione. Ingrey ignorò l'invito. «Che cos'altro lui... io... noi potremmo fare?» «La Voce Selvaggia è un potere realmente grande e sottile, più vicino di quanto tu creda al cuore di questa faccenda.» «Dal momento che non so quasi nulla, questa osservazione non mi serve a molto, Wencel.» L'altro scrollò le spalle. «In realtà gli sciamani della foresta avevano altri poteri. Visioni che non ingannavano, guarigione delle ferite corporee o mentali, della febbre e delle malattie del sangue. A volte potevano seguire uomini caduti nelle più profonde oscurità della mente e riportarli fuori. Altre volte facevano il contrario: spingere una vittima dentro quelle oscurità, o togliere la salute, anche fino alla morte. C'erano negromanti con poteri letali.» Scagliano anche maledizioni? si domandò Ingrey. «Grandi poteri», continuò lentamente Wencel. «Tuttavia, anche nei giorni di gloria del Vecchio Dominio, non abbastanza grandi. Soverchiati dal numero, gli sciamani e i guerrieri-spirito sono stati schiacciati dai loro implacabili nemici. Che ti sia di lezione, Ingrey: noi siamo troppo soli in questa storia. Il segreto è la nostra unica misura protettiva.» Ijada si schiarì la gola e osservò: «Si dice che Audar il Grande abbia sconfitto i maghi del Dominio soltanto con le spade, nel suo ultimo attacco. Le spade e il coraggio». Wencel sbuffò. «Bugie darthacane. Audar aveva radunato tutti i santi e gli stregoni che Darthaca poteva mettere insieme. E solo il tradimento degli stessi dei ha condotto alla nostra sconfitta a Boscosacro.» Ingrey proseguì nella direzione aperta da Ijada: «Nella tua biblioteca al castello di Horseriver ci sono resoconti differenti dalle cronache darthacane sui fatti che hanno portato agli scontri di Campo del Sangue?» Le labbra di Wencel si piegarono in un sorriso. «C'è abbastanza per convincere chiunque che quanto insegnano in questi tempi degenerati è pura invenzione.» «Tuttavia Audar ha vinto, a dispetto dei riti malefici tentati dal Vecchio
Dominio. Su questo non c'è dubbio.» Wencel tornò ad accigliarsi. «Non malefici. Direi piuttosto che si è cercato di resistere in ogni modo, per quanto disperato. Il Dominio era in grave difficoltà. Nelle generazioni precedenti i darthacani ci avevano rubato metà delle nostre terre; i nostri giovani più promettenti trovavano la morte contro truppe darthacane numericamente superiori.» «I resoconti militari che ho letto io affermano che l'esercito di Audar era meglio organizzato, addestrato e guidato, e sostenuto dal sistema di approvvigionamento più efficiente che si fosse mai visto», disse Ingrey. «I darthacani costruivano strade nella foresta, man mano che avanzavano.» «Costruivano strade, sì, ma piombavano sulle nostre tribù come un'epidemia distruttiva. Muniti delle risorse che erano state nostre, potevano mandare avanti truppe contro le quali il solo coraggio non bastava. In quei giorni il sacro re, l'ultimo servo consacrato del nostro popolo, che tra l'altro era uno dei miei antenati Horseriver, ha radunato tutti gli sciamani e i kin che è riuscito a raggiungere. Insieme hanno deciso di officiare un grande rito, per rendere i loro guerrieri-spirito potentissimi, invincibili, capaci di affrontare in battaglia i darthacani e respingerli per sempre oltre il fiume Lure. Gli antichi canti che hanno composto per ottenere quegli effetti sarebbero dovuti durare tre giorni; tutte le loro voci si sarebbero unite in un canto di straordinaria maestà, nel rito più grande che si fosse mai visto. Un canto che avrebbe attratto in sé la forza della foresta stessa.» Ijada, che ascoltava con attenzione, mormorò: «Ma allora che cosa è andato storto?» Wencel scosse il capo e rispose: «Il rito avrebbe funzionato se Audar, con l'aiuto dei suoi maghi e degli dei, non fosse arrivato troppo presto. In una marcia forzata senza precedenti, ha attraversato colline e foreste e, invece di aspettare l'alba per far riposare i suoi uomini almeno qualche ora, ha attaccato in piena notte. Era la notte del secondo giorno del grande rito e i nostri erano ancora impreparati e vulnerabili, con gli sciamani dei kin esausti per lo sforzo. Il re aveva già ottenuto l'effetto per sé, ma i guerrieri non ancora». «E i vostri... i nostri hanno combattuto?» domandò Ijada. «Oh, fieramente. Ma Audar aveva riunito un esercito tre volte più numeroso. Io... nessuno pensava che avrebbe potuto trovare tanti uomini in così poco tempo e spostarli tanto in fretta.» «Tuttavia guerrieri che potevano essere guariti con la magia dovevano essere difficili da sconfiggere. Com'è accaduto?»
«Quando i corpi vengono sepolti in una fossa e tutte le teste in una fossa distante mezza lega, anche i guerrieri aiutati dalla magia muoiono. Alla fine. Essi hanno ucciso il nostro sacro re, il centro dell'incantesimo, fin dall'inizio, anche se non l'hanno decapitato, a quanto mi risulta. Gli hanno spezzato le gambe e le braccia, l'hanno gettato nella prima fossa e hanno ammucchiato sopra di lui i corpi decapitati dei suoi compagni. Il re ha impiegato ore a morire... soffocato, annegato nel sangue dei suoi amati uomini.» Gli occhi di Wencel ebbero un lampo nella luce delle candele. «Dopo la battaglia, gli uomini di Audar hanno lavorato tutta la notte e il giorno successivo, imbrattati di sangue fino alla cima dei capelli e inorriditi da ciò che facevano. Alcuni non ne potevano più di mozzare teste, si sono seduti e hanno pianto, sgomenti. I vincitori hanno massacrato tutti coloro che si trovavano nella zona di Boscosacro, sia che facessero resistenza sia che si arrendessero: sciamani, guerrieri-spirito, innocenti che avevano seguito le truppe per stare vicino ai familiari, comprese le donne e i bambini. Non hanno voluto correre rischi. Hanno abbattuto ogni costruzione, ammazzato tutti gli animali, tagliato e bruciato l'Albero del Sacrificio. Il figlio più anziano, erede del sacro re, è stato decapitato per ultimo, il terzo giorno, dopo essere stato costretto ad assistere alla carneficina. Quando nel luogo sacro non è rimasto nessun essere vivente eccetto gli alberi, i darthacani si sono ritirati e hanno proibito l'accesso alla zona. Come se volessero seppellire i propri peccati assieme a noi. Poi sono cadute le piogge e le nevicate di molti inverni e chi aveva partecipato a quegli eventi è morto; Boscosacro è stato dimenticato assieme a tutti gli atti di coraggio accaduti laggiù.» Ingrey si accorse di avere trattenuto il respiro per il coinvolgimento emotivo. Che cos'altro sapeva Wencel che valesse la pena di indurlo a rivelare? «Si dice che Audar fosse infuriato perché le tribù avevano infranto i trattati di non aggressione, e che deprecasse la necessità di quel massacro. Ha fatto ricchi doni al Tempio per ottenere il perdono per la propria anima.» «Al suo Tempio!» sbuffò Wencel. «Audar ha incassato con la mano sinistra ciò che aveva donato con la destra. E il trattato che ne è seguito è stato imposto, dunque non era un trattato, bensì un furto. Gli abusi darthacani sono stati interminabili e i loro accordi null'altro che imbrogli utili solo a loro.» «Non lo so», disse pensosamente Ingrey. «Dalle antiche cronache è abbastanza chiaro che i darthacani all'inizio non intendevano conquistare il
Dominio. L'hanno fatto nel corso di due generazioni. Ogni volta che stabilivano dei confini, si trovavano a doverli difendere; i nostri kin tribali senza legge li attaccavano ai confini, finché i darthacani non decidevano di avanzare e conquistare nuovi territori e tutto ricominciava daccapo.» «Tu sei per metà un darthacano, Ingrey», disse Wencel. Il suo tono era sempre discorsivo, ma un po' più secco. «La maggior parte di noi lo è, oggi.» «Sì. Lo so.» «Ma alcuni kin guerrieri hanno mantenuto i propri confini», disse Ijada guardando Wencel. Le sue mani erano strettamente unite in grembo. «Quei nostri antenati hanno combattuto ancora. E alla fine hanno vinto. Il Dominio è rinato.» Wencel grugnì. «L'Impero di Audar è caduto per la stupidità e i litigi dei suoi nipoti, non perché nel Dominio fosse rimasto qualcosa di valido. Ciò che è rinato, un secolo e mezzo dopo, era una brutta copia del Vecchio Dominio, vuota della sua antica bellezza, modellata sullo stampo dell'ortodossia darthacano-quintariana. Gli uomini che hanno ricreato quella parodia del sacro trono pensavano di avere ricostruito qualcosa, ma erano troppo ignoranti per capire che cosa avevano perduto. Il tempo glorioso della libertà, il tempo delle foreste era finito, fatto a pezzi dalle strade e dai mulini, con le foreste tagliate per produrre legname, sepolte dalle pietre dei templi di Audar. Centocinquant'anni di lacrime e di sangue si erano conclusi, ma non ne era scaturito niente. Essi esultavano ottusamente, i nuovi Lord dei kin, i grandi conti elettori - e gli Arcidivini elettori, che farsa! -, tuttavia il trono di cui erano orgogliosi conteneva soltanto il deretano di uno sciocco. Avrebbero dovuto piangere sulle ceneri di quel fuoco che loro stessi avevano spento del tutto.» Wencel parve accorgersi che gli altri due lo guardavano sbigottiti. «Bene! La lezione di oggi è finita, ragazzi.» Fece un sospiro. «Sto diventando morboso. È stata una giornata sgradevole e troppo lunga. Dovrei andare a casa.» Strinse le labbra. «Dalla mia signora moglie.» «Come sta reagendo al lutto?» domandò Ijada con voce controllata. «Non bene», ammise Wencel. Improvvisamente Ingrey si domandò quanta pressione negativa ai danni di Ijada potesse giungere da quella direzione. La principessa Fara era una di quegli Stagthorne che avrebbero potuto preferire una condanna a morte, invece del denaro, per sentirsi le mani pulite dalle responsabilità avute nella vicenda. E Fara era capace di farsi ascoltare non solo da Wencel, ma an-
che da suo fratello Biast. Il conte spinse indietro la sedia, si strinse il naso tra due dita e si alzò. Aveva gli occhi cerchiati, notò Ingrey. Occhi troppo vecchi per la sua faccia. Ingrey attese che uscisse, poi si affrettò a raggiungere la porta e la chiuse prima che la sorvegliante rientrasse. Quando tornò a sedersi, Ijada era accigliata. «Mi domando quali siano i sogni di Wencel», disse lentamente la giovane. «Mmh?» Lei tamburellò con due dita sul bordo del tavolo. «Non parla di Campo del Sangue come uno che ne abbia letto. Ne parla come se l'avesse visto.» «Come l'hai visto tu... è questo che pensi? Però in un tempo diverso.» «Il mio sogno era nel tempo presente, credo. Perché lui dovrebbe avere sognato il passato? Perché dovrebbe essere lui a sognare dei miei uomini?» Ingrey notò l'aggettivo possessivo, forse pronunciato inconsciamente. «Sembra pensare che siano... fossero... i suoi uomini.» Esitò. «Suo padre era noto per la sua passione per la storia. E così anche suo nonno, credo, da ciò che mi hanno raccontato mio padre e mia zia. Da bambino le passioni dei suoi antenati non gli interessavano, che io sappia, dunque devono averlo attratto quando ha studiato i loro scritti, negli anni seguenti. Deve aver cercato accanitamente di capire che cosa gli fosse successo.» Dopo qualche istante aggiunse: «Non hai più sognato i Boschi Feriti, da quando sei stata là?» Ijada scosse il capo. «Non ce n'è stato... nessun bisogno. La cosa, qualunque fosse, era stata fatta. Non avevo la necessità di farla due volte. Da allora nulla è cambiato.» Lo guardò negli occhi. «Finché non sei arrivato tu, voglio dire.» Ora che erano finalmente soli, benché per poco, Ingrey era combattuto tra il desiderio e la paura di baciarla ancora. Che cos'altro avrebbe potuto rivelargli un nuovo contatto con le sue labbra? La sua mano bendata si spostò su quella di lei e la strinse; la bocca di Ijada si piegò in un fugace sorriso. Poi la fanciulla s'incupì. «Sciamani dei kin, guerrieri-spirito. Portabandiera. Boscosacro. Perché questi simboli del Vecchio Dominio dovrebbero essere resuscitati qui oggi? Noi tre siamo legati: tu e Wencel dallo stesso sangue e da una vecchia tragedia, lui e io da... da fatti più recenti, tu e io da...» Fece un sospiro. «Dovremmo cercare di scoprirlo.» «Dovremmo cercare di restare vivi, Ijada!»
«Non sono sicura che restare vivi sia la cosa più importante», replicò lei con calma. Ingrey le tenne stretta la mano sul tavolo, nonostante il dolore al polso. «Non fantasticare troppo!» «Perché no? Pensi che fantasticare sia solo compito tuo?» Ijada inarcò le sopracciglia, divertita. Poi si sporse in avanti e lui s'irrigidì, a metà tra la gioia e la paura, quando le loro labbra si toccarono. Soltanto carne contro carne, stavolta, solo un contatto caldo. Prima che Ingrey potesse lasciarsi andare, la porta fu aperta. La sorvegliante entrò e li guardò entrambi, con espressione seria. Di malavoglia lui lasciò la mano di Ijada e si ritrasse. Era consapevole di avere il respiro accelerato. La sorvegliante accennò un inchino. «Vi chiedo scusa, mio signore. Il conte mi ha ordinato di restare vicino alla mia signora.» «Gli sono grata per le sue premure», disse Ijada, con una voce così inespressiva che neppure Ingrey capì se fosse sincera. Bevve un sorso e depose il boccale. «Dobbiamo ritirarci in quella noiosa camera?» «Sempre che non vi dispiaccia, mia signora, questo è ciò che ha detto il conte.» Dietro l'ottusa deferenza della donna, Ingrey percepì un disagio reale. I poteri secolari di un conte elettore erano tali da sopraffare i suoi servi, ma era possibile che avvertissero in lui - o che avessero visto - qualcosa di più? «Forse è bene ritirarci presto», concesse con una certa riluttanza. «Domattina dovrò partecipare con Lord Hetwar alla cerimonia funebre.» Ijada annuì e si alzò. «Vi sarò grata se poi passerete da me e mi racconterete che cos'è successo.» «Certamente, Lady Ijada.» Ingrey attese che la ragazza uscisse dal salotto. Fu solo nella sua fantasia sovreccitata che la stanza parve diventare più buia per la sua assenza. 14 La piazza del tempio era già affollata di cortigiani e altre persone vestite a lutto quando Ingrey arrivò, a metà della mattina. Notò subito che un po' in disparte stazionavano alcuni soldati di Gesca, segno che Lord Hetwar era già lì. Accorciò il passo e si fece strada coi gomiti nella calca. Coloro che lo riconobbero gli diedero subito strada. Il cielo era di un luminoso azzurro autunnale e lui sospirò di sollievo
quando poté passare nell'ombra del porticato. Il suo migliore abito da corte era di stoffa pesante e un po' troppo calda, mentre il soprabito senza maniche gli oscillava intorno ai fianchi e tendeva a ingarbugliarsi con l'elsa della spada. La galleria lo condusse nel cortile interno del tempio, anch'esso inondato di sole, al centro del quale il fuoco sacro ardeva sul tripode principale. Sulla destra c'era Lady Hetwar con il più anziano dei suoi figli e il tenente Gesca; Ingrey s'incamminò in quella direzione e la salutò con un inchino. La donna gli sorrise, approvò il suo abbigliamento con un cenno del capo e si spostò per fargli spazio tra sé e Gesca. Il tenente gli gettò un'occhiata in tralice, ma non lasciò trapelare la tensione del loro ultimo incontro e lui si augurò che tenesse per sé lo strano incidente accaduto due sere prima. Oltre il tripode, Ingrey notò anche il cavalier Ulkra e alcuni dei dipendenti di maggiore importanza del principe Boleso; il personale esiliato aveva dunque fatto ritorno a Easthome, secondo i suoi ordini. Ulkra gli rivolse un rispettoso cenno del capo, ma gli altri, soprattutto le guardie che avevano scortato il carro della salma, evitarono il suo sguardo; Ingrey non capì se per semplice antipatia o perché la sua presenza li innervosiva. Da un corridoio laterale provenne un coro ben eseguito, dal tono mesto. A passi lenti gli Accoliti cantori fecero il loro ingresso nel cortile, in cinque file di cinque, ciascun quintetto abbigliato in un diverso colore: blu, verde, rosso, grigio e bianco. Li seguiva, accigliato e solenne, l'Arcidivino di Easthome. Dietro di lui sei alti Lord portavano a spalla il feretro del principe. Erano il Guardasigilli Hetwar, i due fratelli del kin Boarford e tre conti elettori. Il corpo di Boleso era abbigliato con una candida uniforme principesca che sembrava un po' rigonfia; Ingrey comprese che doveva essere stata imbottita di erbe profumate. Soltanto il suo volto era esposto, così roseo da far pensare che fosse stato molto truccato. Un funerale tanto ritardato rispetto al momento della morte avrebbe richiesto una bara chiusa, ma la scomparsa di un personaggio di quell'importanza politica richiedeva testimoni - e più ce n'erano, meglio era - per prevenire l'eventuale futura comparsa di sosia del principe, messi in campo da qualche fazione decisa a intorbidire le acque. Il feretro era seguito dai principali personaggi in lutto. Il principe maresciallo Biast, splendidamente vestito ma col volto stanco, era tallonato dal suo portabandiera Symark, che sorreggeva lo stendardo dell'erede al trono, chiuso intorno all'asta da nastri neri. Alla sua sinistra il conte Horseriver
teneva a braccetto la principessa Fara, vestita con un completo scuro molto severo, coi capelli bruni tirati all'indietro e priva di gioielli e nastri, mortalmente pallida in viso. La principessa non era alta quanto i suoi fratelli e in lei la mascella pronunciata degli Stagthorne era più morbida; non la si poteva definire una bellezza, ma era la figlia del re e la sua presenza incuteva rispetto. Quel giorno appariva abbattuta e sofferente. Lo spirito di cavallo di Horseriver era tanto represso che Ingrey poteva avvertirlo appena come una semplice ombra di malumore. Devo farmi dire da Wencel come ci riesce. Cominciava a capire perché era sempre riuscito a celare il proprio segreto, ma si chiese a quale prezzo. Ingrey fu lieto di vedere che il sacro re non era stato prelevato dal letto e messo su qualche scranno per presenziare al funerale del figlio. Sarebbe stato troppo vedere una salma al seguito di un'altra. Quindi seguì Lady Hetwar, che si era messa in scia alla processione mentre questa entrava nella cappella del Figlio dell'Autunno. Il vasto locale si riempì in fretta e molta gente rimase nel cortile, a guardare attraverso l'arcata. Gli alti Lord deposero la bara davanti all'altare del Figlio, il coro passò a un diverso canto funebre e l'Arcidivino Fritine si fece avanti per celebrare la cerimonia dell'estremo saluto a Boleso. Ingrey allargò saldamente i piedi al suolo, unì le mani dietro la schiena e si preparò a sopportare le elegie. Con suo sollievo, quasi tutti gli oratori tennero discorsi brevi e formali, evitando qualsiasi allusione alle imbarazzanti circostanze della morte del principe. Anche Hetwar si limitò a poche frasi banali sulla sua giovane vita così tragicamente breve. Dal cortile sopraggiunse uno scalpiccio di artigli e zoccoli e la gente si allargò per far passare una fila di animali sacri. Tre dei cinque Accoliti stallieri che li conducevano non erano gli stessi della cerimonia finita nel caos due sere prima. Fafa, il poderoso orso bianco, era stato sostituito da un mite gatto candido, portato in braccio da una donna abbigliata nel bianco del Bastardo. Il ragazzo che teneva per le redini la giumenta color rame era però lo stesso e, pur mentre teneva un occhio sul proprio animale e l'altro sull'Arcidivino, un'oscura premonizione lo fece voltare di scatto verso Ingrey. Nel riconoscerlo sbarrò gli occhi con aria spaventata. Con estrema circospezione ogni animale fu fatto fermare davanti alla bara, per avere un indizio su come l'anima di Boleso fosse stata accettata da ciascun dio. Nessuno si aspettava un segno troppo favorevole dalla gallina blu della Figlia della Primavera, né dall'uccello verde della Madre dell'Estate; ma la tensione salì quando fu portata la giumenta color rame. La rea-
zione della bestia fu però ambigua, o inesistente, così come accadde al peloso cane grigio e al gatto bianco. Gli stallieri erano preoccupati. Biast aveva una smorfia cupa dipinta sul volto e Fara sembrava sul punto di scoppiare a piangere. Bisognava dunque credere che l'anima di Boleso fosse dannata, rifiutata dal Figlio dell'Autunno, scartata persino dal Bastardo e destinata a vagare fino a svanire nel nulla come un fantasma? Oppure, evitata dagli spiriti degli animali a lui sacrificati, sarebbe rimasta tra il mondo della materia e l'aldilà in un perpetuo, gelido tormento, come Ingrey aveva detto a Ijada qualche giorno prima? L'Arcidivino invitò Biast, Hetwar e l'Erudito Lewko - talmente confuso in mezzo ad altri personaggi vestiti in modo dimesso che Ingrey non l'aveva neppure notato - ad avvicinarsi a lui per una consultazione a bassa voce. Quindi gli stallieri condussero di nuovo i cinque animali davanti alla bara. All'improvviso il caldo e la tensione presero allo stomaco Ingrey; la vasta cappella ondeggiò e si confuse nei suoi occhi. La mano destra gli faceva male. Cercando di non farsi notare, si spostò accanto a una parete e si appoggiò con le spalle alla pietra fredda. Non servì a molto. Mentre la giumenta dal pelame ramato avanzava nuovamente, lui rovesciò gli occhi nelle orbite e si afflosciò al suolo, con l'unico rumore del fodero che sbatteva sulle piastrelle. Un attimo dopo, con sua grande sorpresa, si trovò in piedi nell'altro luogo, quel posto senza confini in cui era già entrato al momento di combattere contro la maledizione. Solo che adesso non sembrava un combattimento il compito al quale era chiamato. Indossava ancora l'abito da corte, il suo corpo aveva sempre sembianze umane... Da un sentiero ombreggiato da profumati alberi autunnali uscì un giovane coi capelli rossi. Era alto, indossava pantaloni e giubba da caccia e aveva a tracolla arco e faretra. I suoi occhi erano luminosi, pieni di riflessi come un ruscello di bosco, e una nuvola di lentiggini rendeva ancora più allegro il sorriso della sua bocca generosa. La sua fronte era incoronata di foglie autunnali, brune foglie di quercia, rosse foglie d'acero, gialle foglie di olmo; camminava a lunghi passi, fischiettando una canzoncina che rallegrò lo spirito di Ingrey. Da un banco di nebbia corse fuori un grande lupo grigio, che si accostò al giovane con aria amichevole, facendo penzolare la lingua di lato. Il poderoso animale si accovacciò ai suoi piedi, gli leccò una caviglia e rotolò a
pancia all'aria, lasciando che il ragazzo dai capelli rossi gli accarezzasse il pelo fulvo dell'addome. Anche l'animale sembrava ridere. Intorno alla gola aveva un collare di foglie d'autunno identico alla corona del giovane, che infine si alzò e si guardò attorno. In quel momento, a passi felpati ed eleganti, apparve un leopardo dalle macchie gialle. Accanto a lui camminava Ijada, con espressione stupefatta. Il collo del leopardo era cinto da una ghirlanda di foglie rosse e gialle, che s'intrecciavano intorno alla catena con cui la giovane donna lo teneva al guinzaglio, ma non si capiva se fosse lei a condurlo con sé oppure il contrario. Ijada portava l'abito giallo sporco di sangue che Ingrey le aveva visto la prima volta, quello che aveva indossato durante la terribile notte della morte di Boleso; però le macchie di sangue erano fresche, rosse come una collana di rubini sul suo petto. L'espressione di lei, non appena vide il ragazzo, si fece dapprima sgomenta e poi terrorizzata. Il leopardo si strusciò contro il giovane e anche contro il lupo, facendolo quasi cadere, e le sue fusa risuonarono come una melodia. Il giovane fece un gesto e Ingrey e Ijada si voltarono. Di fronte a loro c'era il principe Boleso, paralizzato e agonizzante. Anch'egli appariva come la notte della sua morte: indossava una corta tunica e aveva pennellate di colore sulla pelle cerea. L'abbinamento di quei colori dava le vertigini a Ingrey: cozzavano tra loro, gli facevano pensare a qualcuno che cercasse di comunicare con lui in una lingua sconosciuta, o a un bambino ancora incapace di scrivere che scarabocchiasse segni privi di senso, nel tentativo d'imitare la calligrafia di un adulto. Agli occhi di Ingrey la pelle di Boleso sembrava trasparente. Sotto le sue costole una macchia scura roteava, latrava e spalancava le zanne, grugnendo e gemendo. Era allo stesso tempo un cinghiale e un lupo e un cane, un cervo e un tasso e una volpe. Un esperimento precedente? C'era del potere, sì, ma soprattutto una confusione bestiale e sacrilega. Ingrey ricordò la descrizione di Ijada: La sua mente era un caos, gemeva e uggiolava. Il dio disse a bassa voce: «Egli non può entrare nel mio regno con quelle bestie». Ijada si fece avanti, alzando le mani in atto di supplica. «Che cosa vuoi che facciamo, mio signore?» Gli occhi del dio li guardarono entrambi. «Liberatelo, se è ciò che desiderate, affinché possa entrare.» «Tu ci chiedi di decidere il destino di un altro?» domandò lei, senza fiato. «Non quello della sua vita, ma quello della sua eternità?»
Il Figlio dell'Autunno inclinò la testa. «Tu hai già scelto una volta per lui, non è così?» Ijada aprì la bocca ma non disse nulla, intimorita o sopraffatta. Anche Ingrey avrebbe dovuto sentire quel timore, o così si disse. Avrebbe dovuto cadere in ginocchio. Invece era stizzito e contrariato. Invidiava l'ardore di Ijada, anche se per un altro verso gli dava fastidio. Aveva l'impressione di vedere il sole attraverso un foro in una tenda, mentre lei vedeva l'intero mondo. Ma se i miei occhi fossero più aperti, questa Luce non mi accecherebbe? «Tu vorresti... saresti disposto ad accogliere costui nel Tuo paradiso, mio signore?» domandò Ingrey, stupito e quasi offeso. «Egli ha ucciso, e non per difendere la propria vita, bensì per malvagità e per follia. Ha cercato di rubare un potere che non gli apparteneva. Se ho visto giusto, ha complottato per eliminare suo fratello. Avrebbe violentato Ijada, se ci fosse riuscito, e continuato a fare del male!» Il Figlio alzò una mano. A Ingrey e Ijada parve luminosa come se il sole d'autunno riflesso in un ruscello illuminasse l'ombra. «La mia grazia scorre su di voi come un fiume, Lord-lupo. Dovrei forse distribuire il perdono e la condanna nell'esatta misura in cui gli esseri umani lo meritano, come con un contagocce? Voi sareste in grado di stare immersi nell'acqua pura fino alla vita e distribuirla con un cucchiaino a chi sta morendo di sete su una terra arida?» Ingrey tacque, pieno di vergogna, ma Ijada alzò la testa e disse con fermezza: «No, mio signore, per quanto mi concerne. Offrigli il fiume. Tuffalo nel fragore delle Tue cascate. Ciò che lui guadagna non fa perdere nulla a me, così come ciò che lui perderebbe non mi darebbe nessuna gioia». Il dio le rivolse un sorriso smagliante. Sul volto di lei scesero lacrime simili a colate d'argento. Simili a una benedizione. «Non è giusto», mormorò Ingrey. «Non è giusto verso tutti coloro che... hanno cercato di comportarsi bene...» «Ah, ma io non sono il Dio delle Giustizia», disse il Figlio. «Voi due preferite recarvi al cospetto di mio Padre?» Ingrey deglutì nervosamente, incapace di capire se sarebbe accaduto davvero nel caso in cui avesse detto sì, o se fosse soltanto una domanda retorica. «Che sia Jiada a scegliere, allora. Io mi astengo.» «Ahimè, ti viene chiesto di più che restare in disparte senza agire, Lordlupo.» Il dio indicò Boleso. «Egli non può entrare nei miei giardini con quegli spiriti mutilati. Cacciali via da lui, Ingrey.»
Questi guardò attraverso le sbarre delle costole di Boleso. «Liberarli da quella gabbia?» «Se preferisci questa metafora, sì.» Le sopracciglia ramate del dio s'incresparono, ma nei suoi occhi balenò un lampo divertito. Il lupo e il leopardo si erano seduti sull'erba ai piedi del dio e fissavano Ingrey senza battere le palpebre. Lui deglutì. «In che modo?» «Chiamali fuori.» «Io... non capisco.» «Come facevano i tuoi antenati coi loro compagni, negli ultimi riti purificatori del Vecchio Dominio. Non sai come farlo? Mentre lavavano e preparavano i corpi dei defunti per la sepoltura, gli sciamani dei kin si occupavano anche dei loro spiriti. Li aiutavano, che fossero semplici guerrierispirito oppure grandi maghi, a oltrepassare le nostre porte al termine della vita, e si aspettavano di essere aiutati a loro volta. Una catena di mani unite, di voci unite, che ripuliva le anime per farle affluire nel fiume senza fine.» La voce del dio si addolcì. «Chiama fuori le mie infelici creature, Ingrey kin Wolfcliff. Canta per il loro riposo.» Ingrey si voltò verso Boleso. Gli occhi del principe erano spalancati, supplichevoli. Immagino che spalancati e supplichevoli fossero anche gli occhi di Ijada, quella notte. Che pietà hai avuto tu per lei, mio odioso principe? Inoltre io non so come si fa a cantare. Lo sguardo di Ijada era su di lui, ora. Ingrey lo vide pieno di fiducia e di speranza. Io non ho molta pietà da distribuire, mia signora. Dovrò prenderne un po' in prestito da te. Fece un lungo respiro e frugò dentro di sé, più in profondità di quanto si fosse mai spinto. Devo cercare la semplicità. Mosse una mano con fare imperioso e ordinò: «Vieni!» Il primo spirito animale scivolò fuori del corpo di Boleso, si agitò selvaggiamente in cerca di una direzione da prendere e volò via. Ingrey guardò il dio. «Dov'è andato...?» Un gesto delle dita radiose lo rassicurò. «Non preoccuparti. Prosegui.» L'una dopo l'altra le forme scure abbandonarono Boleso e si allontanarono nella notte. O nel giorno. O qualunque cosa fosse. Ingrey pensò che fossero andate in una zona fuori del tempo. Alla fine rimase soltanto il principe, sempre silenzioso e assente, ma libero da spiriti estranei. Ora il dio dai capelli rossi era a cavallo della puledra dal pelame ramato.
Tese una mano al principe, il quale vacillò, col volto contratto da una timorosa incertezza. Ijada trattenne il respiro. Poi Boleso si lasciò aiutare a salire in groppa alla puledra, dietro il dio. Sul suo volto era dipinta una profonda meraviglia, vacua e stordita. «Credo che la sua anima sia ancora lontana dalla guarigione, mio signore», commentò Ingrey, un po' scettico. «Ah, ma dove stiamo andando c'è chi sa curare le anime», rispose il dio e rise. «Mio signore», lo fermò Ingrey, mentre faceva girare il cavallo. «Sì?» «Se ogni sciamano dei kin aiuta a trasmigrare lo spirito di chi muore prima di lui...» Deglutì. «Che cosa succede a chi resta per ultimo?» Il Signore dell'Autunno gli rivolse uno sguardo enigmatico. Allungò una mano verso di lui e gli sfiorò la fronte con un dito luminoso. Per un istante Ingrey pensò che non avrebbe avuto nessuna risposta. Poi il dio mormorò: «Lo scopriremo». Quindi toccò i fianchi della giumenta coi talloni e scomparve. Ingrey sbatté le palpebre. Era disteso sul pavimento e sopra di lui c'era la cupola della cappella del Figlio, oltre a un cerchio di facce che lo stavano guardando: Gesca, una preoccupata Lady Hetwar e alcuni uomini che non conosceva. «Che cos'è successo?» mormorò. «Siete svenuto», rispose Gesca, accigliato. «No... che cos'è successo alla salma del defunto? Avete visto?» «Il Signore dell'Autunno ha preso il principe Boleso», disse Lady Hetwar, indicando dietro di sé. «Quella bella cavallina rossa ha annusato tutta la bara... È stato un segno molto chiaro. Con sollievo di tutti.» «Già. Metà degli uomini che conosco aveva scommesso che sarebbe andato al Bastardo», aggiunse Gesca con sarcasmo. Lady Hetwar gli lanciò uno sguardo severo. «Non è un argomento su cui scommettere, Gesca.» «Sì, mia signora», disse il tenente, cancellando doverosamente il sogghigno dalla faccia. Ingrey si tirò a sedere contro il muro. Quel movimento bastò a fargli girare la testa, tanto che dovette chiudere gli occhi qualche istante. Durante la visione si era sentito torpido, incorporeo; ora invece ondate di brividi s'irradiavano dall'ombelico, ma non erano fredde. Era come se il suo corpo
avesse sperimentato uno shock negato invece alla sua mente. Lady Hetwar si piegò verso di lui e gli posò una mano sulla fronte, con gesto materno. «Siete malato, Lord Ingrey? Mi sembra che abbiate la febbre.» «Io...» Stava per negare fermamente, ma ci ripensò. L'unica cosa che desiderava era scomparire da quella scena imbarazzante. «Temo di sì, mia signora. Vi prego di scusarmi e di porgere le mie scuse al vostro signor marito.» Devo trovare Ijada. Si alzò vacillando e iniziò ad allontanarsi lungo il muro. Dopo qualche passo si volse e disse: «Non vorrei vomitare la colazione sul pavimento del tempio, proprio durante la cerimonia». «Già, lo spero», replicò Lady Hetwar. «Andate, presto. Gesca, dategli una mano.» Attese che il tenente lo sorreggesse per un braccio, poi si volse verso suo figlio. Intorno all'altare il coro stava ancora cantando, ma nel frattempo si era schierato per guidare la processione all'esterno e la gente cominciava a mettersi in fila. Ingrey fu lieto che quelle manovre gli offrissero un po' di copertura. In mezzo alla folla scorse l'Erudito Lewko che si voltava dalla sua parte come per cercarlo con lo sguardo, ma Ingrey fece finta di non averlo visto. Si tenne accanto al muro, anche per potersi appoggiare con una mano, e guadagnò l'uscita. Quando lui e Gesca furono sotto il porticato esterno, si accorse che l'altro non voleva mollarlo. «Lasciatemi, per favore», grugnì, scrollandosi la sua mano di dosso. «Ma, Ingrey, Lady Hetwar ha detto...» Non ebbe bisogno di ricorrere alla Voce Selvaggia: il suo sguardo bruciante fu più che sufficiente per Gesca, che rimase immobile, con aria confusa, mentre Ingrey si allontanava nella piazza affollata. Giunto sulla scalinata che portava alla Città del Re, scese i gradini tre alla volta, rischiando di rompersi l'osso del collo. Prese a correre sulle lastre di pietra che nascondevano il corso dell'affluente interrato. Quando bussò alla porta della casa-prigione, col fiato corto, ciò che aveva fatto credere a Lady Hetwar rischiava di diventare la verità, perché il suo stomaco era sconvolto non meno dei polmoni. Il portiere dovette affrettarsi a togliersi di mezzo non appena gli ebbe aperto, per non essere travolto. «Lady Ijada... dov'è?» Ancor prima che l'uomo aprisse bocca, un rapido scalpiccio sulle scale gli diede la risposta. Ijada stava scendendo di corsa, con la sorvegliante che la inseguiva gridando: «Lady, non dovete fare così... Tornate di sopra e mettetevi a letto...»
Ingrey alzò le mani a stringere quelle di lei. «Avete visto...» «Ho visto...» «Venite!» La condusse in salotto. «Lasciateci soli!» ordinò agli altri, voltandosi a mezzo. Il portiere, suo figlio, la sorvegliante e una serva si arrestarono di botto, paralizzati dal suo tono. Ingrey sbatté la porta dietro di sé. La stretta delle loro mani lasciò subito il posto a un abbraccio, in cui c'era poca passione romantica e molto spavento. Ingrey non avrebbe saputo dire chi di loro tremasse di più. «Che cos'hai visto?» «Ho visto lui, Ingrey. L'ho visto e sentito. Non è stato un sogno, né una fantasia a occhi aperti, bensì una visione nitida e chiara.» Lo spinse indietro per guardarlo in volto. «E ho visto te.» La sua espressione si fece stupita. «Eri faccia a faccia con un dio e non ti facevi nessun problema a discutere con Lui!» Lo prese per le spalle. «Ingrey!» «Si è portato via Boleso...» «Ho visto! Oh, per grazia del Figlio, mi è stato tolto il peso della colpa!» Le lacrime scorrevano sul suo volto di carne, così come lui le aveva viste nel sogno. «Devo anche ringraziare te, Ingrey, per questo miracolo...» disse, e gli baciò le guance sudate con le sue labbra fresche, bagnandolo di lacrime. Lui si scostò un poco, imbarazzato. «Io non faccio questo genere di cose. Non succedono a uno come me.» Ijada lo fissò. «Invece ti succedono piuttosto spesso, direi.» «No! Sì... oh, per gli dei! Mi sento come se fossi diventato una specie di parafulmine in mezzo a un temporale. Miracoli... Devo stare alla larga dai miracoli. In questo funerale, invece di finire sui bersagli giusti, sono caduti su di me. Io non voglio... non posso...» Lei gli strinse la mano destra. Abbassò lo sguardo. «Oh!» Il bendaggio era di nuovo intriso di sangue. Senza dire altro, Ijada andò ad aprire i cassetti di un armadio e trovò una pezza di lino. «Vieni, siediti.» Lo condusse al tavolo, strappò una striscia di tessuto e gli cambiò la fasciatura. Entrambi avevano ormai smesso di ansimare. Lei non aveva corso attraverso mezza città, ma Ingrey non aveva bisogno di chiederle perché fosse rimasta senza fiato. «Dovresti farti vedere da un medico», disse la fanciulla, stringendo il nodo. «Questa ferita non mi piace.» «Non posso darti torto.» Ijada si piegò in avanti e gli scostò una ciocca di capelli sudati dalla
fronte. Il suo sguardo lo scrutò un poco, in cerca di qualcosa che lui non comprese. Poi la sua espressione si addolcì. «Ho massacrato Boleso...» «No, l'hai semplicemente ucciso.» «... eppure, grazie a te, non ho ostacolato il cammino della sua anima verso gli dei. Non è una cosa da poco.» «Se lo dici tu.» Ingrey pensò che per lei era valsa la pena di farlo. Se l'aveva resa più serena, tanto gli bastava. Ijada e il Figlio. «È andata così, comunque. Questo è ciò che siamo stati chiamati a ottenere: l'immeritata redenzione di Boleso. Abbiamo fatto la volontà degli dei; ora è tutto finito e siamo alle prese col nostro destino.» Le labbra di Ijada si piegarono all'insù. «Questo è tipico di te, Ingrey. Vedere sempre il lato peggiore.» «Qualcuno deve essere realistico, in tutta questa follia!» Lei inarcò le sopracciglia. Stava ridendo di lui. «Vedere tutto nero non è il massimo del realismo. Anche gli altri colori sono reali. E anche la mia redenzione è stata immeritata.» Invece di rallegrarsi e dissetarsi alla calda sorgente del sorriso di Ijada, Ingrey assunse un'espressione offesa. La fanciulla tornò seria e osservò: «Ingrey! Se un'anima intrappolata nel mondo dal peso di quegli spiriti animali fa soffrire gli dei, al punto che per liberarla Essi devono servirsi di strumenti come noi, che cosa devono provocare quattromila di quelle anime?» «Stai parlando dei Boschi Feriti? Del tuo sogno?» «Io non credo che abbiamo finito. Credo che non abbiamo ancora cominciato!» Ingrey si umettò le labbra. Non faticava a capire gli impulsi di lei, però sentiva che si trattava di una missione proibitiva. Se liberare una sola anima era stata un'esperienza tanto sconvolgente... «E non cominceremo neppure, se io sarò messo al rogo e tu impiccata. Non dico che tu abbia torto, ma prima occupiamoci delle cose più immediate.» Ijada scosse il capo con appassionata energia. «Ancora non capisco che cosa ci si aspetta da me. Ma ho visto che cosa si può chiedere a te. Se il tuo lupo ha fatto di te un vero sciamano, l'ultimo del Vecchio Dominio... e la voce del dio ha detto che è così... allora tu sei la loro ultima speranza. La purificazione! Gli uomini caduti a Campo del Sangue non sono mai stati purificati, mai liberati. Noi dobbiamo andare là.» Mentre parlava si agitava sulla sedia, come se fosse tentata di balzare in piedi per correre fuori e farsi tutta la strada a piedi.
Ingrey continuò a stringerle le mani, come se prima di tutto volesse tenerla ferma dov'era. «Devo farti notare che alcuni impedimenti ci trattengono qui. Tu sei stata arrestata e andrai sotto processo, mentre io sono il funzionario preposto alla tua sorveglianza.» «Qualche giorno fa ti sei offerto di farmi scappare. Ora so dove dobbiamo andare! Non capisci?» I suoi occhi emettevano lampi. «E poi che cosa succederebbe? Saremmo inseguiti e riportati indietro, forse prima di aver potuto fare qualcosa, e la tua situazione sarebbe peggiore di quella attuale. Senza contare che non mi avresti più accanto a te. Prima cerchiamo di risolvere i nostri problemi qui a Easthome, poi penseremo ad andare laggiù. Se i tuoi uomini ti hanno atteso per secoli, possono aspettare ancora un po'.» «Possono?» La fronte di lei si aggrottò. «Ne sei certo? E come?» «Dobbiamo concentrarci su un problema alla volta. Prima il più urgente.» La giovane si portò una mano al cuore e disse: «Io sento che il più urgente è questo». Ingrey strinse i denti. Il fatto che Ijada fosse appassionata, bellissima, adorabile e toccata dagli dei non significava che avesse sempre ragione. Più che toccata dagli dei. Redenta da un intervento miracoloso. Non c'era da stupirsi che ora sembrasse illuminata da una luce ultraterrena. Lui avrebbe potuto fondersi di fronte a quell'irradiazione. Tuttavia era stata redenta solo nell'anima. Il crimine che aveva commesso costringeva il suo corpo a restare alla mercé della legge e della politica di Easthome. Qualunque fosse il dovere di Ingrey, non era quello di seguirla in un'evidente follia. Trasse un lungo respiro. «Io non ho fatto il tuo sogno dei Boschi Feriti, ho solo la tua descrizione... indubbiamente vivida. I fantasmi si dissolvono col tempo, anche quelli costretti a restare accanto alle proprie povere ossa. Perché quelli non l'hanno fatto? Credi davvero che siano rimasti laggiù a nutrirsi soltanto dei loro corpi putrefatti per quattro secoli?» La sua voleva essere una battuta di spirito, ma Ijada la prese con molta serietà. «Credo di sì. O qualcosa del genere. Qualcosa di vivo li sostiene nel mondo della materia. Ricordi ciò che ha detto Wencel sul grande rito che Audar ha interrotto?» «Non mi fido di nulla di ciò che ha detto Wencel.» Ijada lo guardò perplessa. «È tuo cugino.» Ingrey non capì se lo considerava un argomento contro o a favore del
conte. La ragazza continuò: «Io non so che cosa pensare di Wencel, ma quel racconto mi è sembrato veritiero. Me lo sento nelle ossa. Un grande rito ha legato quegli spiriti al Dominio, per dare loro energia finché non avessero conquistato la vittoria». Un'espressione rapita e inquietante le passò sul viso. «Ma essi non hanno ottenuto quella vittoria, giusto? E il Dominio che è rinato, alla fine, non era quello che avevano conosciuto, bensì qualcosa di nuovo. Wencel ha detto che è stato un tradimento, anche se io la penso diversamente. In ogni caso non era più il loro mondo.» Qualcuno bussò alla porta d'ingresso della casa, facendo sobbalzare Ingrey. Si udirono i passi del portiere, quindi una voce disse qualcosa in tono insistente, che dal salotto i due non riuscirono a comprendere. Ingrey strinse i denti, irritato dall'interruzione. Che cos'altro c'è adesso? 15 Una mano bussò alla porta e subito la aprì, mentre dall'atrio il portiere implorava: «... no, Erudito, non potete disturbarli! Il Lord ha ordinato di...» Lewko entrò e chiuse fuori con fermezza il portiere e le sue suppliche agitate. Indossava la veste candida del suo ordine, più pulita e stirata di quella che era solito portare nel disordine del suo ufficio, ma anch'essa priva di qualunque contrassegno. Tra la folla al tempio Ingrey aveva stentato a vederlo, tuttavia Lewko non poteva essere passato inosservato per le strade della città, visto che, per tenergli dietro, doveva aver corso e sudato sotto il sole pomeridiano. Era rosso in viso e dovette fare una pausa per riprendere fiato; anche in quelle condizioni, comunque, lo sguardo con cui scrutò Ingrey e Ijada era penetrante, serio e preoccupato. «Io sono solo un santo minore», disse infine, segnandosi. La sua mano destra indugiò sul cuore. «Ma ciò che ho visto era fin troppo chiaro.» Ingrey deglutì. «Quanti altri hanno visto, secondo voi?» «Che io sappia, ero l'unico Veggente tra i partecipanti alla cerimonia.» Lewko inclinò la testa. «Voi non la pensate così?» Wencel. Se l'accaduto era risultato visibile a Lewko, Ingrey era del parere che non fosse sfuggito neppure al conte. «Non ne sono sicuro.» Lewko storse il naso con espressione dubbiosa. Ijada tossicchiò: «Ingrey...?» «Ah, scusatemi.» Si affrettò ad alzarsi per fare le presentazioni. «Lady Ijada, questi è l'Erudito Lewko. A ciascuno di voi ho già parlato... ehm...
brevemente dell'altro. Erudito Lewko, prego, volete accomodarvi?» Gli offrì una sedia, mentre l'uomo rivolgeva un inchino alla giovane. «Vi aspettavamo.» «Temo di non poter dire lo stesso di voi, Ingrey», sospirò Lewko sedendosi. Si asciugò il sudore dalla fronte col dorso di una mano. «Mi riferisco a ciò che avete appena fatto al tempio. Non mi sarei mai aspettato una cosa simile.» Ingrey annuì e fece una smorfia, mentre si sedeva su un'altra sedia, accanto a Ijada. «Neppure io. Non sapevo di poter... non volevo affatto... Ma voi che cosa avete visto?» Non intendeva sapere da che visuale l'Erudito avesse assistito alla scena, ma questi aveva capito benissimo il senso della domanda. Lewko prese fiato. «Alla prima presentazione degli animali davanti alla bara del principe, temevo che il risultato sarebbe stato ambiguo. È una cosa che cerchiamo sempre di evitare, perché per i parenti può essere dolorosa. Disastrosa, in questo caso. Gli Accoliti stallieri hanno l'ordine di... ehm... amplificare le reazioni degli animali, tanto per essere franchi. Amplificare, badate bene, non provocare o alterare. Temo però che l'abitudine abbia portato qualcuno di loro fuori strada, causando episodi come il tentativo di frode dell'altro giorno. Frode reale, come la nostra inchiesta ha poi rivelato. Nessuno degli ordini ha accolto con piacere la constatazione che ci sono Accoliti che chiedono bustarelle per alterare la scelta del dio, spesso con l'aggravante delle minacce. I corrotti proliferano, quando non s'interviene per punirli.» «Non temono l'ira degli dei?» domandò Ijada. «Anche l'ira degli dei richiede un minimo d'intervento umano per manifestarsi.» Lewko si volse a Ingrey. «Un buon esempio d'intervento divino mediato attraverso l'uomo è ciò che avete fatto voi l'altra sera, Lord Ingrey. Mai avevo visto una cospirazione rivelarsi in tutta la sua portata e tradursi in una serie di confessioni scritte, con tanta rapidità.» «Lieto di esservi stato utile», borbottò Ingrey. Esitò, poi aggiunse: «Questa mattina è stata la seconda volta. Voglio dire, il mio secondo intervento in tre giorni. Ora l'orso bianco mi sembra un preludio... Il vostro dio era lì, dentro quel dannato bestione». «Proprio come Egli doveva fare per il miracolo di un funerale, se fosse stato un vero miracolo.» «Ho sentito una voce nella testa, mentre fronteggiavo l'orso.» Lewko s'irrigidì. «Che cosa ha detto? Riuscite a ricordarlo con precisio-
ne?» «È difficile che lo dimentichi. Vedo che il cucciolo di mio Fratello è cresciuto. Bene. Continua così. Poi ha riso.» Ingrey si accigliò, seccato. «Non mi è parso molto in vena di aiutarmi. Anzi mi ha spaventato. Forse avrei dovuto spaventarmi anche di più.» Lewko si appoggiò allo schienale della sedia, mordicchiandosi un labbro. «C'era il vostro dio nell'orso? Che cosa pensate?» insisté Ingrey. «Oh.» L'altro agitò una mano. «Questo è certo. I segni della sacra presenza del Bastardo sono inequivocabili, per coloro che Lo conoscono. Le grida, le zuffe, la gente che corre... Mancava solo che scoppiasse qualche incendio, e sono propenso a credere che anche questo sarebbe successo, se voi foste rimasto là ancora un po'.» Aggiunse in tono consolatorio: «Comunque la ferita riportata dall'Accolito guarirà in pochi giorni. Non ha osato lamentarsi della sua punizione». Ijada inarcò le sopracciglia. Ingrey si schiarì la gola. «Invece questa mattina non era il vostro dio.» «No. E forse è stata una fortuna. Era il Figlio dell'Autunno? Io ho visto solo delle vibrazioni presso il muro quando voi siete caduto e ho sentito una presenza, simile a una fiamma arancione, quando la giumenta ha finalmente segnato la salma.» Lewko fece una pausa. «Non ho visto il dio coi miei occhi, come sapete.» «Lo apprendo soltanto ora», sospirò Ingrey. «C'era anche Lady Ijada. Nella mia visione.» Lewko si voltò di scatto verso la giovane. Ingrey continuò: «Come potrà confermarvi, è stata lei a... il miracolo l'ha ottenuto lei, credo.» Non io. «Avete condiviso la visione?» si stupì Lewko. «Raccontatemi!» Ijada annuì e scrutò l'interlocutore un istante, come per decidere se poteva fidarsi di lui; attese per vedere se Ingrey avesse qualcosa da dire, poi cominciò: «Ne sono stata colta di sorpresa. Ero in camera mia, qui, al piano di sopra. Mi sentivo strana e accaldata e all'improvviso ho perso il contatto col mondo. La mia sorvegliante mi ha visto svenire al suolo e mi ha portato sul letto. La volta precedente, a Red Dike, ero più consapevole della realtà concreta intorno al mio corpo. Invece stavolta... ero completamente parte della visione. La prima persona che mi è apparsa è stato Ingrey, vestito con l'abito che indossa ora... un abito che però non gli avevo mai visto». Fece una pausa e osservò il suo abbigliamento con l'aria di voler fa-
re qualche altra osservazione, ma poi scosse il capo e riprese: «Accanto a lui camminava il suo lupo; era grosso, grigio scuro, molto bello. Io invece avevo legato un polso al guinzaglio del mio leopardo, che mi trascinava avanti. Subito dopo il dio è sopraggiunto da un sentiero tra gli alberi...» Con modi pacati la fanciulla raccontò la scena, osservata dal suo punto di vista. La sua voce tremò leggermente solo quando citò le parole del dio. Per quello che Ingrey poteva ricordare, Ijada doveva avere condiviso anche certi effetti strani, come l'impressione che la voce del dio scivolasse sulla mente come una fila di lettere di fuoco freddo. Poi distolse lo sguardo, imbarazzato, quando lei citò con precisione le parole che lui aveva pronunciato. Ijada aveva gli occhi umidi mentre concludeva: «... e Ingrey gli ha chiesto che cosa succederà all'ultimo sciamano, se non ci sarà più nessuno a liberare il suo spirito, ma il dio non ha risposto. Ho avuto l'impressione che neppure Lui lo sapesse». Lewko posò i gomiti sul tavolo e si sfregò gli occhi. «Complicazioni», mormorò con aria afflitta. «Ora ricordo perché ho sempre avuto un po' di paura aprendo le lettere di Hallana.» «Questo, secondo voi, può influire sul caso di Lady Ijada?» domandò Ingrey. «Voglio dire, se lei ritenesse opportuno menzionare l'episodio? Come stanno andando i preparativi per il processo? Ve lo chiedo perché penso... cioè... suppongo che voi siate ben informato.» Non poteva pensare altrimenti, data la sottile somiglianza tra l'atteggiamento di Lewko e quello di Hetwar. «Oh, sì. I pettegolezzi del Tempio sono peggiori di quelli di corte, ve l'assicuro.» Lewko si strinse un labbro tra i denti. «Mi risulta che l'Ordine del Padre abbia nominato cinque giudici per l'inchiesta preliminare.» La notizia era piuttosto significativa. Casi di minore importanza potevano essere affidati a tre giudici, o anche a uno solo, oppure persino a un semplice Accolito che stava ancora imparando il mestiere. «Sapete qualcosa di queste persone? Sono degli esperti?» domandò Ingrey. O dei bastardi corrotti? Lewko inarcò un sopracciglio. «Si tratta di uomini di nobili natali, esperti in casi che suscitano grande clamore. Persone serie. È probabile che comincino a interrogare i testimoni assai presto, fin da domani.» «Uh», esclamò Ingrey. «Ho visto che alla cerimonia c'era il cavalier Ulkra. Tutto il personale di Boar's Head deve essere arrivato con lui. Nulla dovrebbe ritardare l'inchiesta, dunque. Chiameranno a testimoniare anche
me?» «Visto che non eravate là il giorno della morte del principe, può darsi di no. Avreste qualcosa da dire?» «Forse... no. Non ne sono sicuro. Quei giurati hanno qualche esperienza di avvenimenti ultraterreni?» Lewko grugnì, appoggiandosi allo schienale. «A dire il vero, questo è sempre stato un problema.» Ijada, che seguiva la conversazione con aria cupa, domandò: «Perché?» Lui parve soppesarla con lo sguardo. «Buona parte degli eventi ultraterreni... o comunque di quelli sacri consiste in esperienze interiori. Essendo tali, le testimonianze sono molto opinabili. Gli esseri umani mentono; ingannano se stessi o gli altri. C'è chi viene spaventato, o corrotto, o si autoconvince di avere visto cose che non ha visto. Gli esseri umani, diciamo la verità, sono un branco di pazzi e bastardi. Ogni giudice impara subito che, se riesce a scartare fin dall'inizio tutti i testimoni di tal genere, non solo risparmia tempo e fatica, ma può avvicinarsi alla verità dei fatti. Perciò la giustizia non è certo ansiosa di esaminare chi, come voi, afferma di avere avuto delle visioni. Di regola, almeno tre sensitivi del Tempio devono garantire non solo per il testimone, ma anche l'uno per l'altro.» «Voi siete un sensitivo del Tempio, no?» disse Ijada. «Io sono soltanto un sensitivo.» «Ce ne sono tre in questa stanza!» «Mmh. Sensitivi, forse, però senza i requisiti di essere del Tempio e di avere una buona reputazione, temo.» Lewko li fissò con sguardo spietatamente pratico. Ingrey pensò che Hallana sarebbe potuta essere un altro testimone valido. Tuttavia in quel momento sarebbe stato difficile convocarla. Anche se, qualora fosse occorsa una tattica per guadagnare tempo, mandare qualcuno a cercarla a Suttleaf poteva essere una buona scelta. Per ora tenne da parte quell'idea. Ijada si accarezzò la fronte e chiese con calma: «Voi non ci credete, Erudito?» Lewko strinse le labbra. «Sì, sì, vi credo, che il Bastardo mi aiuti. Però credervi a titolo personale e avere prove sufficienti per un tribunale sono due cose diverse.» «A titolo personale?» ripeté Ingrey. «Non state parlando a nome del Tempio?» L'Erudito alzò una mano. «Io faccio parte del Tempio e mi occupo
dell'amministrazione della fede. Oltre a ciò sono anche tra le persone toccate dal dio, abbastanza per non desiderare una dose maggiore di tale dono. Non so se il fatto che le mie capacità sono saltuarie e incostanti dipenda da un mio difetto nel ricevere o da un Suo nel trasmettere.» Fece un sospiro. «Il vostro superiore, Hetwar, non ha mai voluto capirlo. Mi tormenta per avere aiuto in imprese difficili e si irrita quando sono costretto a rifiutarmi. I maghi del mio ordine sono a sua disposizione, ma gli dei no.» «Voi riuscite a dirgli di no?» domandò Ingrey, impressionato. «Spesso.» Lewko sogghignò. «Quanto ai santi maggiori... nessuno può dare loro ordini. Il saggio uomo del Tempio li segue e aspetta di vedere che cosa succede.» Lewko aveva un'aria pensierosa. Ingrey si chiese quali esperienze avesse avuto in proposito; non dubitava che fossero state toccanti. «Io non ho nulla di simile a un santo», disse. «Nemmeno io», aggiunse Ijada con fervore. «Eppure...» Lewko la guardò. «Avete detto bene: 'Eppure'. Voi siete entrambi toccati dagli dei in modo più potente di quanto dovreste, considerato quanto siete padroni della vostra normale forza di volontà. È la negazione della propria volontà a dare agli dei lo spazio per entrare nel mondo degli uomini, attraverso i santi. La leggenda che ancora si narra sul fatto che i guerrierispirito del Vecchio Dominio fossero più aperti agli dei e che mediassero la loro grazia, così come oggi fanno per noi gli animali nelle cerimonie funebri, mi appare all'improvviso molto più credibile.» Ciò significa che rischio di vedere revocata la mia dispensa ufficiale, come ha detto Wencel? Ingrey decise di porre la domanda in modo indiretto: «Lady Ijada non è più responsabile per avere ricevuto lo spirito di un leopardo di quanto lo sia io per avere ricevuto quello di un lupo. Le è stato imposto da altri contro la sua volontà. Non le si può garantire una dispensa simile alla mia? Non avrebbe senso salvarla da un'accusa che comporta l'impiccagione per lasciargliene addosso un'altra per la quale è prevista la condanna al rogo». «Una domanda interessante», commentò Lewko. «Il Guardasigilli Hetwar che cosa ne dice?» «Non ho ancora parlato a Lord Hetwar dello spirito del leopardo.» Lewko inarcò le sopracciglia. «Non gli piacciono le complicazioni», spiegò Ingrey con scarsa convinzione. «A quale gioco state giocando, Lord Ingrey?»
«Non ne avrei parlato neanche a voi, se la lettera di Hallana non mi avesse forzato la mano.» «Avreste potuto... cercare di smarrirla durante il viaggio», osservò Lewko, per nulla ironico. «Ci ho pensato», confessò Ingrey. «Ma mi sembrava un espediente temporaneo.» Quindi aggiunse: «Potrei fare a voi la stessa domanda. Perdonatemi, Erudito, ma pare che il vostro rispetto per le regole sia stranamente elastico». Lewko allargò le mani e agitò le dita. «Si dice che il pollice sia sacro al Bastardo perché è il dito che Egli ha posato sulla bilancia della giustizia per farla pendere dalla propria parte. In questa battuta di spirito c'è più verità che umorismo. Ogni regola è stata inventata dopo qualche disastro; il mio Ordine ha un intero arsenale di regole accumulate in questo modo, Lord Ingrey. Ci riforniamo di armi secondo le necessità del momento.» Ciò rendeva Lewko imprevedibile sia come alleato sia come nemico, rifletté Ingrey, a disagio. Ijada alzò lo sguardo quando udì bussare al portone d'ingresso. L'improvviso timore che Wencel capitasse lì proprio allora, anche lui come Lewko deciso a parlare degli eventi del mattino, fece trattenere il fiato a Ingrey; tuttavia, a giudicare dal borbottio inquisitore del portiere, non poteva trattarsi del conte. Poco dopo l'uomo mise dentro la testa e annunciò a Ingrey: «C'è un messaggero che cerca l'Erudito Lewko, mio signore». «Fallo passare.» Entrò un uomo di mezza età, un po' curvo, con una barbetta sale e pepe, che indossava la livrea del personale del principe Boleso. Un servo, a giudicare dalla frettolosa goffaggine con cui si levò il cappello, rivolgendo a Lewko un mezzo inchino. «Perdonatemi, Erudito, è necessario che vi parli con urgenza di...» In quel momento il suo sguardo cadde su Ingrey e l'uomo sbarrò le palpebre per la sorpresa. La sua frase s'interruppe con un roco: «Oh!» Dapprima Ingrey gli restituì uno sguardo inespressivo. Poi sentì il sangue ribollire nella testa, ma ci mise un po' a capire di avere percepito l'odore di un demone, quel singolare odore di pioggia e fulmini, addosso al nuovo venuto. Che fosse uno dei maghi di Lewko travestito, venuto a fare rapporto al suo superiore? No, perché l'espressione di Lewko era quella di chi non conosce affatto l'uomo che ha davanti. Però l'Erudito si era irrigidito. Anche lui sente l'odore di un demone. Fu la voce, più dell'aspetto, a far scattare il ricordo; la mente di Ingrey
strappò via la barba e undici anni dalla faccia dell'individuo. «Tu!» L'uomo ansimò. Ingrey si alzò così bruscamente che la sedia si rovesciò. L'altro si ritrasse, lanciò un grido, girò su se stesso e fuggì nell'atrio, sbattendo la porta dietro di sé. «Ingrey, che cosa...?» cominciò Ijada. «È Cumril!» rispose lui, correndogli dietro. Prima che Ingrey avesse aperto entrambe le porte e fosse uscito in strada, l'altro era già sparito dietro la curva, ma l'eco dei suoi passi e i volti sbalorditi di alcuni passanti gli indicarono la direzione. Gettò indietro il mantello, portò mano alla spada e si gettò all'inseguimento. Oltrepassò la curva giusto in tempo per vedere Cumril che volgeva dietro di sé uno sguardo spaventato e si precipitava in una traversa. Ingrey accelerò ancora. Il suo vigore giovanile e la sua rabbia avrebbero avuto la meglio sull'età più avanzata e sullo spavento di Cumril? Quell'uomo è un mago. Per i Cinque Dei, che cosa posso fargli se anche riesco a prenderlo? Strinse i denti e mise da parte la domanda, mentre la distanza tra lui e il fuggiasco si accorciava. Cumril stava per girare un altro angolo quando Ingrey lo raggiunse e lo agguantò saldamente per il bavero. Con uno strattone lo trascinò di lato, sino a farlo sbattere con un tonfo contro il muro della casa più vicina, poi lo tenne inchiodato lì con tutto il peso del proprio corpo. Cumril era senza fiato. Agitò le braccia, tentando di richiamare l'attenzione dei passanti. «Aiutatemi, questo malfattore mi aggredisce...» ansimò con voce rotta. «Coraggio, lanciami un incantesimo!» ringhiò Ingrey scrollandolo violentemente. Maghi e sciamani, aveva detto Wencel, erano sempre stati rivali nella conquista del potere. Con quel poco di raziocinio che la furia gli lasciava, si domandò chi fosse il più forte, e se l'interrogativo stesse per avere risposta. «Non oso farlo! Lui uscirebbe e mi farebbe ancora suo schiavo!» Quella risposta inattesa ebbe l'effetto d'indurre Ingrey a una pausa di riflessione. Allentò un poco la stretta alla gola di Cumril, per lasciarlo respirare. «Che cosa hai detto?» «Il demone mi prenderebbe di nuovo, se cercassi di chiamarlo fuori», rantolò l'altro. «Voi non... non... non dovete avere paura di me, mio signore.» «Sulla tomba di mio padre, stai pur certo che non ce l'ho.»
Cumril deglutì, gettando sguardi a destra e a sinistra. «Lo so.» La stretta di Ingrey si allentò ancora. «Perché sei qui?» «Ho seguito il Divino. Dal tempio. L'ho visto tra la folla. Volevo... stavo cercando di... avevo intenzione di parlare con lui. Non sapevo che avrei trovato voi.» Ingrey si fece indietro, con una smorfia scettica. «Ah, sì? Be', non ho niente in contrario che tu gli parli. Vieni con me, dunque.» Tenendolo prudentemente per un braccio, lo riportò alla casa-prigione. Cumril era pallido e scosso, ma mentre camminava riprese il controllo di sé e, quando Ingrey lo spinse di nuovo nell'atrio e poi oltre la soglia del salotto, si era riavuto abbastanza da lanciargli un'occhiata risentita. Mentre la porta veniva richiusa alle sue spalle, si aggiustò meglio il mantello e fronteggiò Lewko tenendosi eretto. «Erudito, sappiate che io... io... io...» Lewko lo scrutò con attenzione. Gli indicò la sedia prima occupata da Ingrey, che Ijada aveva raddrizzato. «Sedetevi. Voi siete Cumril, è così?» «Sì, Benedetto.» L'uomo sedette. Ijada fece altrettanto, mentre Ingrey incrociò le braccia e si appoggiò alla parete più vicina. Lewko posò il palmo di una mano sulla fronte di Cumril. Ingrey non riuscì a capire che cosa passasse tra i due, ma l'individuo si rilassò e l'odore del suo demone si fece più debole. Il suo respiro rallentò e, dall'espressione degli occhi, parve che si fosse liberato di un peso invisibile. «Fai davvero parte del casato del principe Boleso?» domandò Ingrey indicando la sua livrea. L'altro rimise a fuoco lo sguardo su di lui. «Sì. Cioè... ne facevo parte. Lui... lui... lui mi aveva assunto come suo attendente personale.» «Dunque eri tu il mago fuorilegge che l'aiutava nei suoi rituali proibiti. Avevamo supposto che ce ne fosse uno. Però non ti ho mai visto al castello di Boar's Head.» «Sì. Ho fatto il necessario affinché voi... non mi vedeste mai.» Cumril deglutì. «Il cavalier Ulkra e il resto del personale sono arrivati qui ieri sera. Io non avevo altro modo di lasciare Boar's Head se non assieme a loro, perciò sono giunto a Easthome contemporaneamente. Non potevo arrivare prima.» Quest'ultima frase sembrava rivolta a Lewko. «Tra gli altri dipendenti di Boleso, qualcuno sapeva chi sei in realtà?» lo incalzò Ingrey. «Nessuno. Soltanto il principe. Io... il mio demone insisteva per la segretezza. È stata una delle poche volte che la sua volontà ha avuto la meglio su quella di Boleso.»
«Cumril, forse dovreste iniziare dal principio», lo interruppe pacatamente Lewko. Il mago curvò le spalle. «Quale principio?» «Il momento in cui è stata bruciata una certa confessione scritta.» Cumril s'irrigidì. «Come lo sapete?» «L'ho ricostruita dalle sue ceneri, per l'inchiesta. Con grande difficoltà.» «Difficoltà... Volete dire che ci siete riuscito?» Nello sguardo intimorito di Cumril s'insinuò una luce di ammirazione professionale. Lewko alzò un dito. «L'ipotesi che ho avanzato è che, con la distruzione di quel documento, voi abbiate perduto il controllo del vostro potere.» Cumril annuì. «È proprio ciò che è accaduto, Benedetto. È stato l'inizio della mia... della mia schiavitù.» «Ah.» Un fugace sorriso di soddisfazione sfiorò le labbra di Lewko. Cumril continuò: «Non dico che sia stato l'inizio del mio incubo, perché prima avevo avuto incubi ancora più neri. Tuttavia il mio demone, dopo il disastro di Birchgrove, ha approfittato della mia disperazione per emergere e ha preso il controllo del mio corpo e della mia mente. Io... noi... lui è fuggito col mio corpo, che era lieto di possedere, così noi abbiamo iniziato una strana esistenza. In esilio. Come sempre, la sua prima preoccupazione era stare lontano dallo sguardo del Tempio; poi cercava di procurarsi tutti i piaceri materiali che desiderava. E non sempre io li avrei definiti 'piaceri'. Il mese in cui ha deciso di fare esperimenti col dolore è stato il peggiore». Un brivido lo scosse. «Ma anche quello è passato... è passato... è passato come ogni altro capriccio. Per fortuna. Vi assicuro che aveva la mentalità di uno scorpione. Quando Boleso ci ha trovato e ci ha costretto a passare al suo servizio, il demone ha iniziato ad annoiarsi e ciò l'ha reso ribelle, tuttavia non ha voluto contrariare il principe. Sapeva come fare ciò che gli pareva.» Lewko si umettò le labbra e si piegò in avanti. «Come avete fatto a riprendere il controllo? È una cosa che accade raramente, quando il demone di un mago riesce a sottometterlo.» Cumril annuì e guardò Ijada con un certo timore. «È stata lei.» La giovane restò a bocca aperta. «Che cosa?» «La notte in cui Boleso è morto, io ero nella camera attigua. Per assisterlo nell'incantesimo del leopardo. Nella parete c'era un piccolo orifizio, da cui si poteva vedere e ascoltare.» Ijada lo fissava con espressione rigida. Cumril parve imbarazzato, come se gli occhi di lei lo accusassero di avere spiato una scena di sesso. La ma-
no destra di Ingrey, che sfiorava distrattamente la spada, si chiuse di scatto sull'elsa. L'uomo si schiarì la gola, scrollò le spalle e riprese: «Boleso credeva che gli spiriti animali che aveva preso dentro di sé l'avrebbero aiutato a ottenere il favore di tutti i kin. Lui era... ehm... convinto che il leopardo fosse l'animale del vostro kin, Lady Ijada, per via della discendenza chalionese di vostro padre. Intendeva usarlo per legare a sé la vostra mente, la vostra volontà, e fare di voi la sua fedele amante. Questo solo in parte per lascivia: voleva soprattutto mettere alla prova i propri poteri, prima di utilizzarli sulla scena politica. Inoltre, poiché sospettava di tutti, desiderava usare quello stesso ferreo controllo per assicurarsi la fedeltà di qualsiasi altra donna cui avrebbe permesso di avvicinarsi alla sua persona». «Ora capisco perché non si è mai preso il disturbo di farmi un minimo di corte», osservò Ijada. «Impadronirsi della volontà di altri esseri umani è un peccato grave, blasfemo», disse Lewko. «Il libero arbitrio è sacro anche per gli dei.» «Dunque lo spirito del leopardo doveva entrare in Lady Ijada?» domandò Ingrey, perplesso. «Sei stato tu a metterlo dentro di lei?» Come quando mi hai dato il lupo? «No!» Cumril iniziò ad ansimare. Poi ritrovò il controllo. «Boleso l'ha preso dentro di sé, o meglio l'aveva appena preso quando la Lady ha lottato per divincolarsi ed è riuscita a scendere dal letto. Poi... è accaduto qualcosa che nessuno poteva controllare. Non so con quale coraggio, lei ha preso la mazza ferrata e l'ha colpito. Solo che la morte... la morte apre la porta del regno degli dei. È successo tutto all'improvviso, in un attimo; io stavo ancora lavorando sul leopardo quando l'anima di Boleso ha abbandonato il suo corpo e il dio... lo shock... il mio demone... L'anima di Boleso ha lottato selvaggiamente, ma ormai poteva solo avanzare o ritirarsi dalla Presenza. «Lo spirito del leopardo, così male ancorato, gli è stato strappato via e gettato... no, è stato chiamato dentro la Lady. Ho sentito come una musica di corno in un'alba lontana; il mio cuore sembrava bruciare in quella melodia. È stato allora che il mio demone mi ha lasciato, urlando di terrore, ed è fuggito nell'unica direzione possibile: dentro di me, a una profondità enorme. Io lo sento ancora lì.» L'uomo si toccò il petto. «Ma non so per quanto ci rimarrà. Così mi sono ritrovato libero. Ho pianto fino a restare privo di forze.» Anche in quel momento piangeva, in modo quieto, dondolandosi sulla sedia.
Lewko fece un sospiro e si grattò la nuca. Ingrey, sempre accanto al muro, grugnì: «Mi piacerebbe sapere certe cose accadute prima, Cumril». L'altro parve ancora più spaventato e a disagio, ma chinò docilmente il capo. Ingrey cercò di nascondere l'eccitazione. Finalmente qualche verità. Osservò quel misero esemplare di mago. Forse qualche verità. «Come hai conosciuto mio padre?» «È stato Lord Ingalef a venirmi a cercare, mio signore.» Ingrey si accigliò. Lewko fece segno a Cumril di continuare. «Sua sorella, Lady Horseriver, era venuta a fargli visita per chiedere il suo aiuto. Lui mi ha detto che era molto spaventata. A quanto gli aveva raccontato, il figlio di lei, Wencel, era stato posseduto da uno spirito malvagio del Vecchio Dominio.» Lewko trasalì. «Wencel Horseriver?» Ingrey si lasciò sfuggire un'imprecazione. In una sola frase, un intero mazzo di nuove carte si era aperto sul tavolo, evidentemente anche davanti a Lewko. «Aspetta... questa possessione si era verificata prima della morte della madre di Wencel? Non dopo?» «Prima, come ho detto. Lei ha affermato che risaliva al tempo della morte di suo marito, il padre di Wencel, quattro o cinque mesi addietro. Da allora il bambino era cambiato, era diventato strano.» Dunque Wencel aveva mentito, rifletté Ingrey. Oppure stava mentendo Cumril. O mentivano entrambi. L'unica certezza era che almeno uno di loro non diceva la verità. «Continua.» «Lord Ingalef e sua sorella hanno studiato un piano per salvare il figlio di lei. Lady Horseriver non voleva rivolgersi al Tempio, anche per paura che, se quelli non fossero riusciti a liberarlo dalla possessione, lo mettessero al rogo.» Cumril deglutì. «Perciò ha deciso di combattere la magia del Vecchio Dominio usando la magia del Vecchio Dominio.» Ingrey non poteva darle torto, visto che i maghi del Tempio non erano mai riusciti a liberarlo dal suo lupo. Era comprensibile che la gente non si fidasse di loro per pratiche di quel genere e preferisse qualcuno che, in caso di fallimento, non avrebbe arso vivo il posseduto. Corrugò le sopracciglia. «Nessuno meglio di me sa quanto è andato storto il loro piano! Il lupo idrofobo che hanno utilizzato ha morso mio padre... ma è successo per caso o perché qualcuno l'ha voluto?» «Io... io... ancora oggi non lo so. Il cacciatore mi ha parlato, sul letto di
morte. La sua voce era quasi incomprensibile, ma sono sicuro che lui non era stato corrotto da nessuno. Non sapeva che i suoi animali fossero malati, altrimenti lui stesso non li avrebbe maneggiati con tanta imprudenza!» Ijada ascoltava, incuriosita. «Dov'era il giovane Wencel mentre tutto ciò succedeva a Birchgrove?» «Sua madre l'aveva lasciato al castello di Horseriver, a quanto mi risulta. Voleva tenergli nascosto ciò che stava facendo, finché non fosse riuscita a trovare aiuto.» Ciò implicava che... «Lady Horseriver aveva motivo di temere che il bambino stesso le facesse del male?» domandò Ingrey. Cumril esitò, poi chinò di nuovo la testa. «Sì.» Dunque... se a un uomo poteva essere lanciata una maledizione per indurlo a ucciderne un altro, come il parassita dai tentacoli rossi di Ingrey, doveva essere anche più facile gettarla su un animale... per esempio un cavallo. La morte di Lady Horseriver, sbalzata dalla sua cavalcatura, era stata davvero un incidente? Ma come? Ora sospetto Wencel di avere ammazzato la propria stessa madre? Ingrey sentiva il sangue pulsare nelle tempie. Gli stava venendo l'emicrania. Tuttavia ciò rispondeva finalmente al perché gli fosse stato imposto un lupo. Un fatale miscuglio di amore familiare, buone intenzioni ed errori di giudizio... più la malvagia stregoneria di qualcuno? Oppure anche quell'ultima cosa era l'ennesimo intervento finito male? Il nemico invisibile aveva voluto uccidere Lord Ingalef, oppure difenderlo uccidendo i suoi animali? «Il mio lupo... Che cosa puoi dirmi del mio lupo, quello arrivato così misteriosamente?» Cumril si strinse nelle spalle. «Quando i suoi effetti su di voi si sono rivelati tanto disastrosi, ho pensato che non dipendesse tanto dal lupo imposto a voi, quanto da un intervento di altro genere, dall'esterno.» Possibile che fosse stato Wencel? Aveva una presa invisibile su di me? Qualcosa che potesse colpirmi anche da lontano, a Birchgrove? Ingrey cambiò posizione contro il muro, perché gli doleva di nuovo una spalla. Ijada notò il suo movimento e si accigliò, preoccupata. Lewko si stava massaggiando il naso, con gli occhi chiusi. «Lord Ingrey. Lady Ijada. Voi avete visto il conte Horseriver ultimamente, e non solo coi vostri occhi mortali. Che cosa ne pensate di questa accusa?» «Anche voi l'avete visto», osservò cauto Ingrey. «Vi siete fatto un'opinione?» Lewko sospirò, seccato. Ingrey ebbe l'impressione che stesse per dire:
L'ho chiesto prima io! Invece l'Erudito si controllò e rispose: «Il suo spirito mi è parso oscuro, ma non più di quello di tanto uomini che affrontano abitualmente la morte, o che uccidono. Ho pensato che forse avrei dovuto temere per lui o per chi gli stava accanto, ma nulla di questo genere!» «Ingrey...» intervenne Ijada. Dal suo tono si capiva perfettamente la domanda: Non dovremmo dire tutto? Wencel aveva detto bene: quando il Tempio cominciava ad annusare qualcosa, doveva andare sino in fondo; il silenzio assoluto sarebbe stato l'unico modo di prevenire un'indagine. Inoltre Ingrey e Ijada avrebbero dovuto trovare e interrogare Cumril prima dell'intervento di un'autorità del Tempio. Ingrey si chiese cupamente in quante altre cose Wencel avesse visto giusto. «Il conte Horseriver ha in sé uno spirito animale, è vero. Io non sono in grado di dire se sia buono o malvagio. Avevo supposto che fosse stato Cumril a imporglielo, come parte dello stesso complotto che aveva imposto il lupo a me, invece sembra che non sia andata così.» «No, no», mormorò Cumril, agitandosi sulla sedia. «Non sono stato io.» «Ieri non me ne avete parlato», disse Lewko a Ingrey, con voce improvvisamente piatta. «No, non ve ne ho parlato», rispose lui nello stesso tono. Lewko riassunse: «Dunque abbiamo accuse durissime, una fonte discutibile, neppure uno straccio di prova materiale e il terzo uomo più potente del regno. Quali altre belle notizie mi porterà la giornata? No, non rispondete. Vi prego». Le confessioni di Cumril, tuttavia, non avevano molto senso per Ingrey. Perché imporre lo spirito di un animale in un bambino per salvarne un altro? Chi poteva guadagnarci dall'avere gli eredi di due casati entrambi posseduti? La sua impressione di avere finalmente scoperto verità sepolte stava vacillando. «Il fatto di trasformare mio padre e me in guerrieri-spirito... in che modo poteva salvare Wencel?» «Lady Horseriver non me l'ha detto.» «Che cosa? E tu non gliel'hai domandato? Mi sembra strano che un mago addestrato alla disciplina del Tempio abbia gettato via tutto con un calcio, semplicemente perché glielo chiedeva una donna.» Cumril tenne lo sguardo sul pavimento e mugolò, con molta riluttanza: «Lei era toccata da un dio. Molto... molto profondamente». Un nuovo pensiero raggelò Ingrey. Se l'imposizione di uno spirito animale aveva separato un uomo dagli dei, come nel caso di Boleso, che cos'era successo all'anima di Lord Ingalef? Il funerale di suo padre era avve-
nuto molto tempo prima che Ingrey si riprendesse abbastanza da domandarne notizia. Nessuno gli aveva detto che suo padre fosse stato rifiutato dagli dei. Però nessuno mi ha neppure detto il contrario. Lord Ingalef era stato sepolto non solo nella terra, ma anche nel silenzio. Deve essere stato rifiutato dagli dei. A Birchgrove non c'era nessuno sciamano per liberarlo dal suo animale. Oh. Un momento. Uno c'era, almeno potenzialmente. Ingrey si sentì fermare il cuore. Avrei potuto salvarlo...? Scacciò quel dubbio intollerabile e guardò Cumril cercando di non detestarlo troppo. Il silenzio di Lewko era assai meno rivelatore. I loro sguardi s'incontrarono, o piuttosto si scontrarono. Ingrey iniziava a sospettare di non essere l'unico tra i presenti che preferiva raccogliere informazioni da tutti e distribuirle al minor numero di persone possibile. D'un tratto l'Erudito si alzò. «Sarà meglio che ora veniate al tempio con me, Cumril, finché non potrò provvedere in altro modo alla vostra protezione. Parleremo ancora di questo argomento.» La precisazione in privato rimase implicita. Cumril assentì con un cenno del capo e si alzò a sua volta. Ingrey strinse i denti. Protezione da che cosa? Dal pericolo che il demone di Cumril cercasse ancora di possederlo? Da Wencel? Da altri inquisitori del Tempio? Da Ingrey Wolfcliff? Da me, certo, e soprattutto dalle mie domande. Il pastore scortò la pecorella alla porta. Prima di uscire Lewko promise o avvertì - Ingrey e Ijada che si sarebbero rivisti presto. Ora che tutti sembravano ufficialmente usciti dal conclave, la sorvegliante riprese servizio e scortò di nuovo la prigioniera nella sua stanza. Ijada, scura in volto e assorta nei suoi pensieri, non oppose resistenza. Ingrey salì due scalini alla volta e andò nella sua camera, dove si cambiò l'abito da cortigiano con qualcosa di più comodo, che non gli ostacolasse l'uso della spada. Aveva una visita da fare, senza tardare oltre. 16 Le ultime luci del giorno stavano svanendo quando Ingrey s'incamminò nelle strade affollate della Città del Re. Passò davanti al vecchio Tempio degli Uomini del Fiume, che serviva la popolazione del quartiere portuale, girò intorno al municipio e attraversò la piazza del mercato. Quasi tutte le bancarelle erano chiuse e solo pochi ambulanti continuavano a gridare ai passanti i pregi delle proprie merci esposte: frutta e verdura ormai un po'
avvizzite, oggetti in pelle e in cuoio, pile d'indumenti nuovi o usati. Ingrey imboccò la salita che portava al quartiere delle grandi dimore, presso il palazzo reale, allungando deliberatamente la strada per evitare la casa di Hetwar, nei dintorni della quale avrebbe potuto essere visto da gente che lo conosceva. La casa di città del conte elettore Horseriver era un dono di nozze del re alla principessa Fara. Aveva la facciata di pietra decorata con lo stallone rampante degli Stagthorne; sopra il portone d'ingresso era esposta la bandiera raffigurante il cavallo in corsa sulle acque del Lure, a indicare che il padrone si trovava in casa. Però non in quel momento, come Ingrey venne subito a sapere dagli uscieri in livrea. Il conte, la principessa e il loro seguito non erano ancora rientrati dopo la cerimonia funebre e il successivo rinfresco al palazzo del sacro re. Ingrey lasciò credere al portiere che avesse un importante messaggio del Guardasigilli Hetwar, si fece scortare nello studio di Wencel, dove gli fu offerto un boccale di vino, e rimase ad attenderlo. Mise da parte il vino senza toccarlo e per un poco si aggirò nella stanza. Il sole pomeridiano dipingeva strisce di luce sugli spessi tappeti. Gli scaffali semivuoti ospitavano tomi polverosi che avevano l'aria di essere stati ereditati insieme con la casa. Lo scrittoio pesantemente intarsiato era lucido, ma privo di lettere arrivate o in partenza, e l'unico cassetto che sembrava promettente si rivelò chiuso. Ingrey decise che era meglio così, soprattutto quando sentì avvicinarsi dei passi in corridoio e il conte aprì la porta. Il colloquio si preannunciava già difficile senza bisogno di farsi sorprendere a leggere la corrispondenza. Anche se dubitava che una sua eventuale scorrettezza avrebbe sorpreso il padrone di casa. Il conte portava ancora il sobrio abito che aveva indossato alla cerimonia funebre. Entrò, richiuse la porta con un gomito e si tolse il mantello. Poi lo ripiegò su un braccio e attraversò lo studio girando alla larga da Ingrey, come se non si fidasse ad avvicinarsi prima di avere compreso perché si trovasse lì. Gettò il mantello su una poltrona e sedette su un angolo dello scrittoio, immobile ma non rilassato, senza tuttavia rivelare nessuna emozione particolare. Scrutò l'ospite con sguardo pensieroso e infine mormorò: «Bene, bene, bene». Ingrey prese posizione accanto allo scaffale più vicino, a braccia conserte. «Allora, tu che cosa hai visto?» «La porta delle mie percezioni era chiusa, come sempre quando devo evitare il pericolo di entrare in contatto coi Veggenti del Tempio. Ma non
ne avevo troppo bisogno; ho capito ugualmente che cos'è successo. Il Signore dell'Autunno non avrebbe potuto accogliere Boleso, posseduto com'era da spiriti animali, invece l'ha accolto. Dunque qualcuno ha liberato il principe da quegli spiriti. Tra i presenti c'erano soltanto due persone che avrebbero potuto farlo, e so di non essere stato io. Vedo perciò che tu sai controllare molto meglio il tuo potere, signor sciamano.» Il suo leggero inchino non era del tutto ironico. «Se Fara l'avesse saputo e fosse stata in grado di capire che cos'era successo, sono certo che ti avrebbe ringraziato, Lord-lupo.» Ingrey gli restituì un inchino altrettanto ambiguo, sull'orlo dell'ironia. «Pare che, dopotutto, tu non sia la mia unica fonte di apprendimento, Lord-cavallo.» «Oh, hai davvero ottimi nuovi amici... finché non ti tradiranno. Se gli dei giocano con te, cugino, è per i Loro scopi, non per i tuoi.» «Tuttavia sembra che mi sia data la possibilità di salvare molti, oltre a Boleso. Potrei salvare te dal tuo fardello, liberarti dal rischio di finire al rogo nel cortile del Tempio. Che ne diresti se cercassi di liberarti dal tuo spirito equino?» Era una falsa offerta: Ingrey sentiva che Wencel avrebbe preferito vedersi strappato dalla propria stessa pelle. Il conte curvò le labbra. «Ahimè, c'è una difficoltà: io non sono morto. Le anime ancorate alla materia non cedono gli spiriti loro compagni, più di quanto tu possa strapparmi via il mio stesso corpo.» Ingrey non sapeva che cosa Wencel leggesse nella sua espressione, ma poi il conte aggiunse: «Non mi credi? Provaci, allora». Ingrey si umettò le labbra, socchiuse gli occhi e s'immerse dentro di sé. Gli mancava la spinta dell'ispirazione del dio, tuttavia, pur essendo al suo secondo tentativo, sentì subito di padroneggiare il proprio potere. Si protese verso l'ombra attorcigliata in fondo all'anima di Wencel, alzò una mano e disse con voce profonda: «Vieni». Fu come cercare di spostare un macigno. La forma oscura si scosse un poco, ma non cedette. Wencel inarcò le sopracciglia, sorpreso, e trattenne il respiro. «Potente», ammise. «Ma non abbastanza», concesse di rimando Ingrey. «No.» «Allora neanche tu puoi ripulire me.» «Non finché sei vivo, no.» Ingrey sentì che il suo complicato barcamenarsi tra il Tempio e Wencel si stava facendo pericoloso. Se non avesse compiuto una scelta prima di
vedersi negata la possibilità di farlo, avrebbe rischiato di perdere entrambi gli appoggi. Avere un nemico potente e un alleato potente era sicuramente meglio che avere due nemici offesi. Ma chi sarebbe stato l'uno e chi l'altro? Fece un sospiro. «Oggi pomeriggio ho incontrato una vecchia conoscenza. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata.» Wencel annuì per incoraggiarlo a raccontare. «Cumril. Ti ricordi di lui?» L'altro storse il naso, come a un cattivo odore. «Ah.» «Il caso ha voluto che confessasse di essere proprio lui l'uomo che stai cercando. Ricordi quando mi hai detto di essere certo che Boleso avesse costretto un mago fuorilegge a collaborare con lui? Era Cumril. Non l'ho incontrato a Boar's Head solo perché mi ha visto per tempo e ha fatto in modo di evitarmi.» Gli occhi di Wencel scintillavano d'interesse. «Non è stato affatto un caso. I maghi illegali sono pochi, dato che il Tempio fa il possibile per perseguirli. Senza dubbio Boleso aveva già sentito parlare di lui; l'avrà fatto cercare in segreto.» Esitò. «Deve essere stata una chiacchierata interessante. Cumril ne è uscito intero?» «Per il momento.» «Dove si trova adesso?» «Non te lo so dire.» Non con precisione. «Inizio a essere stanco delle tue divagazioni, Ingrey. È stata una giornata faticosa.» «Va bene, vengo al punto. Ho una domanda per te, Wencel. Perché hai cercato di indurmi a uccidere Ijada?» Non era un colpo tirato completamente alla cieca, tuttavia trattenne il fiato nell'attesa di vedere quale bersaglio avesse trovato. Wencel rimase immobile, a parte un breve lampo negli occhi. «Chi ti ha suggerito questa idea? Cumril? Non è il più credibile degli accusatori.» «Non è stato lui.» Ingrey citò le parole di Wencel: «'C'erano soltanto due persone che avrebbero potuto farlo, e so di non essere stato io'». Dopo un istante aggiunse: «Perciò ora non mi resta che scoprire come hai fatto a creare quella maledizione. Sospetto con la negromanzia». Wencel lasciò che il silenzio si prolungasse, dando l'impressione di non sapere quale risposta scegliere. «In un certo senso sì.» Poi sospirò e raddrizzò le spalle, come se fosse giunto a una spiacevole decisione. «Non lo definirei un errore, perché, se la cosa avesse funzionato, la mia situazione sarebbe risultata enormemente semplificata. Potrei definirla una mossa fal-
sa, viste le sue peculiari conseguenze. Ti faccio notare, comunque, che io non sto giocando contro di te.» «Sì, però mi chiedo contro chi.» Ingrey si scostò dallo scaffale e girò intorno a Wencel in un ampio semicerchio. «Dapprima ho pensato che fosse una manovra politica di corridoio.» «Lo è solo indirettamente.» Ingrey tenne sotto controllo il fremito che sentiva nelle viscere. Cercò di schiarirsi la mente, respirando con forza. «Che cosa sta succedendo qui, Wencel?» «Tu cosa credi che debba succedere?» «Io credo che farai di tutto pur di proteggere i tuoi segreti.» Il conte inclinò la testa. «Una volta era ciò che facevo.» Abbassò la voce. «Non che fosse divertente, credimi.» Il corpo di Ingrey era come una molla pronta a scattare. La sua mano destra sfiorò il fodero del coltello. Il gesto non sfuggì agli occhi di Wencel. «E se io ripulissi la tua anima nel caro vecchio modo?» replicò Ingrey con voce altrettanto bassa. «Quali che siano i tuoi poteri, dubito che sopravvivrebbero se ti mozzassi la testa e la gettassi nello Stork.» Wencel accolse la minaccia inarcando appena un sopracciglio. Poi scosse il capo, con aria di rimprovero, e disse: «Non immagini quanto rimpiangeresti una simile sciocchezza. Se volessi liberare il mondo dalla mia presenza, non sarebbe così che potresti riuscirci... mio caro erede». Ingrey sbatté le palpebre, stupefatto. «Io non ho nessun titolo per ereditare alcunché dagli Horseriver.» «Dal punto di vista legale, no. Non oggi. Tuttavia, secondo le leggi che vigevano nel Vecchio Dominio, i cugini venivano subito dopo i discendenti della linea diretta padre-figlio. E poiché sembra che questo mio corpo non sia in grado di far generare un figlio a Fara, tu sarai mio erede se vivrai dopo la mia morte. Non lo dico con particolare soddisfazione, né tantomeno è una mia scelta, stanne pur certo. È l'incantesimo che ti adotta.» La conversazione aveva preso una piega del tutto imprevista. Wencel aveva replicato alle accuse di Ingrey con un argomento che lo coglieva impreparato e lo lasciava stordito. «L'incantesimo? Che cosa vuoi dire?» «Ricordi quando ti ho parlato di come venivano formati gli sciamani, accumulando spiriti animali l'uno sopra l'altro? Qualcosa di molto simile veniva fatto anche con gli spiriti degli uomini, a quell'epoca.» «Oh, per gli dei! Wencel, non sarà un'altra delle tue fiabe della buonanotte?»
«Questa ti terrà sveglio, te l'assicuro.» Il conte lo guardò con serietà. «La mia anima è stata trasmessa di padre in figlio lungo sedici generazioni di Horseriver, in una catena interrotta solo quando, per mancanza di un discendente diretto, è passata a un fratello o a un nipote. È stata un'eredità dura e infelice. La morte di questo corpo di carne non mi farà abbandonare il mondo materiale, ma mi trasferirà nel corpo del mio parente maschio più vicino. Cioè tu, al momento. Noi siamo consanguinei non solo per parte di mia madre, tua zia, ma anche lungo la discendenza dei Wolfcliff.» E piegò la bocca in un sogghigno poco allegro. Ingrey cercò di immaginarlo: non un superanimale, bensì un superuomo? E se gli spiriti delle bestie ammucchiati l'uno sull'altro si mescolavano trasformandosi in qualcosa di più potente, ultraterreno... quale bizzarro essere poteva diventare un uomo in cui fossero contenute molte anime? «Mi hai raccontato un sacco di frottole, Wencel. Perché dovrei credere a questa storia?» Ingrey si era avvicinato al tavolo, come un pesce attirato dall'esca. Per girarsi verso di lui, Wencel inclinò la testa sul cordone dorato di una spallina e nei suoi occhi balenò quello che a Ingrey parve un incomprensibile miscuglio di emozioni: rabbia e disprezzo, crudeltà e sofferenza, curiosità e antipatia. «Vuoi che te lo faccia vedere? Sarebbe il giusto modo di punire la tua presunzione, credo.» «Sì, Wencel», mormorò Ingrey. «Vediamo la verità. Per una volta.» «Poiché me lo domandi così ansiosamente...» Il conte si girò finché non si trovarono faccia a faccia e gli prese la testa tra le mani. «Io sono l'ultimo sacro re del Dominio. O Vecchio Dominio, come lo chiamano ora per distinguerlo dalla buffonata odierna.» L'angolo del tavolo arrestò l'indietreggiare di Ingrey. «Avevi detto che l'ultimo sacro re è morto a Campo del Sangue.» «Non è morto del tutto. Oppure è morto molte volte, dipende da come guardi la cosa.» Le dita del conte cercarono le tempie di Ingrey e le accarezzarono in lenti circoli, mentre continuava: «Ero giovane, ero l'erede del mio nobile clan e cacciavo sulle rive erbose del Lure ancor prima che Audar si sbavasse addosso il latte della balia. I darthacani minacciavano la tribù del mio kin, sciamavano sulle nostre terre, abbattevano le foreste, mandavano missionari per distruggere i nostri templi e poi soldati per riportare a casa i cadaveri dei missionari. La mia gente combatteva e moriva. Ho visto morire mio padre, il mio sacro re». Le parole di Wencel risvegliavano immagini nella mente di Ingrey, im-
magini troppo dettagliate per essere miraggi o allucinazioni. La sua è una Voce Selvaggia; mi fa ricordare ciò che non ho mai visto. Foreste vergini, verdi vallate, palizzate di tronchi intorno a villaggi di capanne, spirali di fumo che sbucavano da semplici fori nei tetti di paglia. Cavalieri dagli elmi di cuoio che uscivano dai cancelli per andare in battaglia, o tornavano feriti, con le armi lorde di sangue nell'aria gelida. Voci esauste nella nebbia invernale, che parlavano in una lingua sconosciuta, simile nella cadenza a quella di Jokol, il principe poeta. «Poi sono stato eletto re per acclamazione; ero diventato il capo di un popolo duro e avevo figli che mi spalleggiavano. Essi hanno fatto di me la loro torcia e io ardevo per loro, mentre intorno a noi si addensavano tenebre ostili. I nostri cuori erano caldi. Ma gli dei hanno rifiutato i nostri sacrifici e ci hanno voltato le spalle.» Un giovane abbronzato, ansioso ma risoluto, nudo e dipinto di simboli sacri, stava in piedi sul ramo di una quercia alla luce palpitante delle torce. Aveva una corda di lino legata intorno al collo e perdeva sangue da una serie di tagli sul petto e sugli arti. Alzò le braccia e parlò rivolto al cielo, con voce vibrante. Poi cadde in avanti come se si tuffasse nel fiume da una roccia. Prima che toccasse il suolo, la sua caduta fu bruscamente interrotta dalla corda... Gli occhi dilatati di Wencel emettevano lampi. Era uno dei principi, inviato agli dei come messaggero del suo sacro re...? Ingrey ebbe l'impressione di essere capovolto a testa in giù finché il cervello non gli si fu riempito di sangue. La visione scomparve, sull'onda di parole che qualcuno cantava in tono di comando. «Abbiamo impregnato Boscosacro di un incantesimo d'invincibilità e io, in quanto sacro re, ne ero il fulcro.» Le voci cantavano in coro nella notte, come un vento caldo e vibrante tra le chiome degli alberi secolari; qualcosa di atavico e feroce nel loro tono diede a Ingrey la pelle d'oca. «Tuttavia non potevamo rischiare la vita del re in battaglia, perché, se io fossi caduto, l'incantesimo si sarebbe spezzato e tutti coloro che erano legati a esso sarebbero stati perduti all'istante. Perciò il mio primogenito...» Un giovane biondo, barbuto, dal volto fermo e un po' accigliato. C'era qualcosa nei suoi lineamenti che ricordava l'altro, quello che si era sacrificato gettandosi dal ramo della quercia. Fratelli? Cugini? «... e io ci siamo legati nello spirito, affinché la mia anima e il fulcro dell'incantesimo fossero trasmessi lungo la nostra discendenza, da me a lui e quindi ai suoi successori, qualunque cosa fosse accaduta ai nostri corpi.
L'incantesimo sarebbe rimasto saldo nei secoli, finché la vittoria non ci avesse arriso.» Wencel fece una pausa. «Cominci a vedere le conseguenze di tutto ciò?» Ingrey emise un lieve rumore tra le labbra aperte, un gemito strozzato. L'altro si spostò per rimanere di fronte a lui. Ingrey non si ritrasse e continuò a fissarlo, mentre i loro respiri si mescolavano. «Le truppe di Audar mi hanno catturato poco dopo l'inizio della battaglia. Mi hanno spezzato le ossa, mi hanno avvolto nello stendardo reale e mi hanno gettato nella prima delle fosse che avevano scavato. Hanno iniziato a mozzare le teste ai caduti quando gli scontri erano ancora in corso. Sono morto con la bocca piena di sangue e di polvere...» Un puzzo improvviso fece rantolare Ingrey, come se gli fosse penetrato in gola un misto di sangue e urina. «... e mi sono risvegliato nel corpo del mio figlio primogenito, che da quel momento è stato contemporaneamente uomo e ragazzo. Prigioniero. I nostri occhi erano sbarrati per l'orrore. Alla fine l'accetta si è abbattuta sul nostro collo, gradita come il bacio di un'amante. Ho pensato che fosse tutto finito. La disfatta era amara più di qualunque veleno...» Ingrey si sentì costretto a piegarsi in avanti, fino a posare una guancia su un ceppo. Con la coda dell'occhio vide un individuo barbuto sollevare a due mani un'accetta, emettendo un grugnito. Balenò un arco argenteo e risuonò un colpo secco quando le vertebre del suo collo si spezzarono. «... Poi mi sono svegliato nel corpo del mio secondogenito, a qualche lega di distanza, presso il confine. Era sfuggito al massacro di Campo del Sangue assieme a pochi superstiti, ma la sua mente era impreparata a ricevere il mio spirito e quello del mio primogenito. Ho dovuto lottare per prendere il controllo dei suoi occhi, della sua voce, delle sue gambe. Per un po' siamo stati come pazzi, tutti e tre, intrappolati nel suo cranio. Alla fine ho potuto disporre del suo corpo e da allora ho iniziato a raccogliere truppe nel tentativo di riconquistare il Dominio.» Ingrey deglutì e cercò di controllare la voce, se non altro per avere la conferma di essere ancora padrone della propria mente. «Ho sentito raccontare di quel principe Horseriver, credo. Era un famoso guerriero. Ha combattuto per vent'anni nelle paludi, finché non è stato sconfitto e ucciso.» «Sconfitto, sì. Ucciso... ah. Il figlio di mio figlio aveva diciannove anni quando ho preso il suo corpo. A quell'epoca Boscosacro era abbandonato e privo di vita...»
Sopra una piatta distesa di fango nero sorgeva un labirinto di alberi scheletrici, privi di foglie, avvolti da una nebbia gelida. Gli alberi erano contorti, pieni di cisti da cui colavano dense gocce di resina, come pus da occhi malati. «... I kin dei guerrieri un tempo uniti dall'incantesimo di quel luogo erano morti, in battaglia o di vecchiaia, anche i pochi sfuggiti all'ultimo massacro. Eccetto uno.» Gli occhi di Wencel, fissi in quelli di Ingrey, erano pieni di visioni che attiravano la mente in un gorgo di sogni. Visioni che non ingannano, gli aveva detto Wencel un giorno. Ma anche lui sapeva come mentire con la verità, con la verità e i silenzi calcolati. Io credo a ciò che ho visto. Ma che cos'è ciò che non ho visto? «La resistenza si è indebolita. Ci sono state troppe morti in rapida successione tra gli Horseriver esiliati che appartenevano al kin di sangue reale. Mi sono ritrovato intrappolato nel corpo di un figlio inutile e, nella mia impazienza, l'ho rovinato. Ci hanno trattato da pazzi. Sono occorsi trent'anni e un'altra morte prima che tornassi a essere un capo, ma nessun kin voleva più combattere per noi. Allora mi sono dedicato alla politica, nel tentativo di cambiare il Dominio dall'interno. Ho accumulato denaro e potere, ho imparato a piegare gli uomini quando non potevo spezzarli. Ho cercato qualche falla nella casa reale darthacana e mi sono impegnato ad allargarla.» Le visioni stavano svanendo, come se la passione, fiaccata dall'età, lasciasse dietro di sé soltanto pallidi fantasmi impotenti. «Quello era il conte Horseriver che viene ricordato come 'il creatore di re', vero?» domandò Ingrey. «Eri tu?» «Sì. E suo figlio, e il figlio di suo figlio. Precipitavo da un corpo all'altro, ammucchiando molte altre anime dentro la mia. Tuttavia i miei discendenti non erano più volontari che si sacrificavano a me. Gli dei, si dice, accumulano anime senza distruggerle; la mia esperienza è la prova, se mai ce n'era bisogno, che io non sono un dio. Se le menti che invadevo non esplodevano nella follia, era perché una sola doveva dominare. E non c'erano dubbi su quale potesse essere. «Per centocinquant'anni ho lottato, studiato piani, continuato a morire e consumato come un cannibale le anime dei miei discendenti. È venuto persino un glorioso momento in cui ho creduto di essere vicino al successo e di poter rinnovare il Dominio. Ma il kin dei nuovi re non aveva l'antica forza della terra e il potere della foresta, e non mi sono liberato dal mio ci-
clico tormento. La mia guerra era finita, ma non vinta. «Così ha avuto inizio quella serie di conti Horseriver misogini e stravaganti, che si tenevano appartati...» «Non puoi liberarti dall'incantesimo?» sussurrò Ingrey. «In qualche modo?» Il volto di Wencel si contrasse. «Credi che non ci abbia provato?» sbottò. Ingrey sbatté le palpebre. «Hai bisogno di un miracolo, credo.» «Oh, gli dei mi hanno tormentato a lungo.» La smorfia di Wencel si fece crudele. «Continuano a farlo ancora oggi. Essi mi vogliono, Ingrey, ma io non voglio loro.» Ingrey dovette fare uno sforzo per ritrovare una voce udibile. «Che cos'è che vuoi, allora?» L'espressione di Wencel si fece lontana, come se il suo dolore si fosse ormai indurito come una pietra. «Che cosa voglio? Ho voluto molte cose, nel corso dei secoli. Ma ora i miei desideri sono diventati quelli semplici di un vecchio che ha soltanto i propri ricordi. Voglio riavere la mia prima moglie. Voglio i miei figli com'erano nel mattino della loro vita...» La visione ritornò, immersa in una luce che colpiva per la sua serenità. Un uomo, una donna sorridente e alcuni ragazzi che tenevano per le redini i loro cavalli, sulla sponda del fiume Lure. Stavano guardando incantati una famiglia di aironi che volava in un cielo dorato dai dolci riflessi dell'aurora. Per un istante gli occhi di Horseriver gridarono: Che tu sia maledetto per avermi fatto ricordare questo! Quell'ora in cui era lentamente annegato nella disperazione e nel sangue aveva portato con sé agonizzanti ricordi di cose perdute. Le sue dita premute sulle tempie di Ingrey tremavano, così rigide e dure da fargli male. «Io rivoglio il mio mondo.» Ah, questa immagine non me l'hai trasmessa per calcolo. Ti è sfuggita. Ingrey si umettò le labbra e disse: «Non puoi riaverlo. Nessuno può». La scena bucolica in riva al fiume scomparve dalla sua mente, senza che nulla la sostituisse eccetto la realtà che aveva davanti. Ingrey comprese che le visioni erano finite. «Lo so. Neppure tutti gli dei messi insieme potrebbero fare il miracolo di realizzare questo mio desiderio», mormorò Wencel. «Temi davvero che gli dei ti distruggano?» Di nuovo quel sorriso inquietante. «Non è un timore. È una preghiera.» «Allora forse... temi la loro punizione? Pensi che getteranno la tua anima
nell'eterno tormento?» Wencel si piegò verso di lui e gli sussurrò in un orecchio: «Questo lo sanno soltanto loro». Quindi, con grande sollievo di Ingrey, gli tolse le mani dalle tempie. Fece un passo indietro e scrutò il suo viso. «Ma saprai tutto, prima o poi, se avrai la sfortuna di finire dentro di me anche tu.» Ingrey li avrebbe considerati i deliri di un pazzo, se non fosse stato per le immagini che Wencel gli aveva proiettato nella mente. Qualunque fosse la verità che era venuto per fargli sputare, non era quella. Si sentiva confuso. Senza dubbio Wencel poteva capirlo dal modo in cui stava appoggiato al tavolo, aggrappato al bordo per mascherare il tremito del corpo. Tuttavia non era incredulo... anche se avrebbe preferito esserlo. Cercò possibili falle nel racconto. Ce n'erano alcune, tra cui la più vistosa riguardava l'esercito di spettri ai Boschi Feriti del quale gli aveva parlato Ijada. Come poteva Wencel piangere sugli avvenimenti di Campo del Sangue e non dire una parola sui suoi commilitoni abbandonati alla loro maledizione? Inoltre il conte aveva ammesso di essere l'autore della maledizione ai danni di Ijada, visto che non poteva più negarlo; però non aveva spiegato il perché. Quei due silenzi erano collegati? Bussarono alla porta dello studio e i due uomini sussultarono. «Che cosa c'è?» sbottò il conte, con un tono secco che non invitava a entrare. «Mio signore, la signora è pronta per uscire e chiede se desiderate raggiungerla», rispose la voce rispettosa di un anziano servo. Wencel strinse le labbra, seccato, tuttavia replicò: «Dille che vengo subito». Attese che i passi del servo si allontanassero, poi si rivolse a Ingrey: «Dobbiamo andare a far visita a suo padre. Sarà una serata poco divertente. Tu e io parleremo ancora di questa faccenda, più tardi». «Anch'io desidero chiarire alcuni punti», disse Ingrey. Wencel lo scrutò con espressione cauta. «Cerca di tenere presente che nella nostra situazione non c'è nulla di reciproco. Se la mia morte sarebbe un disastro per te, la tua non lo sarebbe per me.» «Allora perché non mi uccidi qui, subito?» Nonostante la sua abilità con le armi, Ingrey non dubitava che Wencel potesse riuscirci. In qualche modo. «Ci sarebbero conseguenze che devo ancora vagliare. Per ora, se io dovessi morire, potrei passare dentro di te, dunque mi servi vivo. Se tu morissi, non potrei mettere al tuo posto nessuno altrettanto conveniente. Forse il tuo cugino che vive a Birchgrove, ma non ne sono certo. A meno che tu non abbia parenti darthacani dei quali non so nulla.»
«Io... non ne ho, a quanto mi risulta. Stai dicendo che non sai chi sia il tuo erede, dopo di me?» «La questione non è mai stata sotto il mio controllo. Tu avresti potuto morire a Darthaca. Fara avrebbe potuto concepire un figlio.» Wencel storse la bocca. «Altri parenti più lontani possono nascere o morire. Ho imparato da decenni a non angustiarmi per cose che solo il tempo può decidere.» Per qualche istante andò avanti e indietro nello studio, come per liberarsi della tensione con l'attività fisica. A Ingrey sarebbe piaciuto poter fare lo stesso. Giunto per la seconda volta alla porta, Wencel si voltò e disse: «Pare che saremo legati l'uno all'altro per un po', volenti o nolenti. Che cosa ne diresti di entrare al mio servizio?» Ingrey esitò. Aveva mille domande alle quali Wencel e soltanto Wencel avrebbe potuto rispondere. Una più stretta vicinanza gli avrebbe forse dato modo di scoprire qualcosa di più. Inoltre se rifiuto quanto mi resterà da vivere? Decise di mostrarsi cauto. «Io devo molto a Lord Hetwar. Non posso lasciare la sua casa alla leggera e non credo che lui accetterebbe facilmente di fare a meno di me.» Wencel scrollò le spalle. «E se gliene parlassi io? Sono certo che non rifiuterebbe un favore al consorte della principessa Fara.» Già, ma forse potrei convincere Hetwar a rifiutare, o a rimandare la decisione. «Se Hetwar sarà d'accordo, va bene.» «Apprezzo la tua fedeltà. Non posso dargli torto se ci tiene a conservare un dipendente tanto leale.» «Devo ammettere che stranamente la tua offerta m'interessa.» Wencel, con un freddo sorriso, prese atto dei possibili significati di quella risposta ambigua. «Non ne dubito.» Sospirò e aprì la porta, a indicare che l'incontro era finito. Ingrey lo seguì. «Dimmi un'ultima cosa per stasera», gli chiese mentre uscivano. Il conte Horseriver inarcò un sopracciglio, incuriosito. «Che cosa ne è stato di Wencel, il ragazzino che conoscevo un tempo?» L'altro si toccò la fronte. «I suoi ricordi esistono ancora, persi in un mare di altri.» «Ma lui non c'è più? È stato distrutto?» Il conte scrollò le spalle. «Che cosa ne è stato del quattordicenne Ingrey, allora, se non fosse lì dentro», indicò la testa del cugino, «come nelle pagine di un libro? Entrambi sono stati vittima di un comune nemico. Se c'è una cosa che ho cominciato a odiare più degli dei è il tempo.» Gli indicò le
scale e s'incamminò dalla parte opposta. «Arrivederci. Vieni a cercarmi domani, se vuoi.» Nelle argomentazioni di Wencel c'era qualcosa che gli sembrava terribilmente sbagliato, ma nel suo stato confusionale Ingrey non riuscì a capire che cosa. Poco dopo, ritrovatosi in strada, sbatté le palpebre nei raggi del sole al tramonto; per qualche motivo lo sorprendeva che Easthome fosse ancora tale e quale a prima. Quasi avesse dovuto sgretolarsi in polvere durante la breve eternità che lui aveva trascorso in quella casa. O dovrei essere io in polvere? Domande senza risposta. Silenzi. Verità ignorate. Se si era dichiarato stanco di sopportare il peso del tempo, perché all'improvviso Wencel era tanto ansioso di agire? Che cosa l'aveva spinto fuori del suo lungo isolamento, di nuovo alla ribalta nella scena politica? Ingrey vedeva in lui un uomo sotto pressione, silenziosamente furioso. Scosse il capo per scacciare il dolore alle tempie e s'incamminò verso il palazzo del Guardasigilli. 17 Era a metà strada quando la reazione lo colpì, facendogli tremare le ginocchia come fossero di burro. Una lunga sporgenza sul muro di un edificio poteva fungere da panchina; Ingrey vi si sedette, con le mani sulle cosce e la schiena appoggiata ai mattoni ancora caldi. Sbatté le palpebre e respirò profondamente per scacciare la nebbia dalla testa. Si sentiva come dopo una delle emersioni del suo lupo interiore, come se fosse rotolato di nuovo dentro la corrente temporale da cui era uscito per un poco. Come se fosse ricaduto sulla terra dopo avere sognato di volare. Solo che stavolta era stata la sua mente, non il suo corpo, ad ascendere in quello stato in cui le risposte affluivano senza bisogno di pensare, in una disperata danza per la sopravvivenza. Una nobildonna di passaggio si fermò un istante, colpita dal modo in cui Ingrey stringeva i denti, ondeggiando avanti e indietro. Poi si rese conto che era un uomo giovane e robusto, per di più armato, e si allontanò senza azzardarsi a chiedere se stesse male. Lentamente il tremito che l'aveva assalito si smorzò e la mente gli si schiarì. Il racconto di Wencel è tutto vero. Per i Cinque Dei. Il racconto di Horseriver, si corresse subito. Era difficile dire quanti anni avesse vissuto il povero Wencel in quel corpo, un tempo gracile e un po'
deforme. Il suo secondo pensiero fu impregnato d'invidia. Vivere per sempre! Com'era possibile non raggiungere la felicità, con tanto tempo per correggere i propri errori e imparare a comportarsi nel modo giusto? Accumulando ricchezza, potere e conoscenza? Poi l'invidia lasciò il posto alla riflessione. Horseriver aveva fatto pagare un prezzo terribile ai propri discendenti per le molte vite che gli avevano dato e l'incantesimo non gli lasciava aperta nessuna via di fuga da quell'orrore. Finire al rogo è una morte dolorosa. Non te la auguro, gli aveva detto il conte, e Ingrey aveva pensato che stesse scherzando. Col senno di poi, era invece l'osservazione di uno che ne aveva avuto esperienza diretta. La certezza di risorgere in un altro corpo aveva fatto di lui un guerriero più coraggioso in battaglia? In effetti molti antenati di Wencel erano... o meglio, Horseriver era morto molte volte in modo tutt'altro che pacifico. Oppure il ricordo di quanto fosse doloroso morire in battaglia rendeva un uomo più vile? Ingrey aveva appena condiviso con Horseriver un paio di quelle morti cruente e, ripensandoci, gli veniva la nausea. Nella sua mente affiorò un vago ricordo di altre scene simili, appena intraviste, e l'orrore gli strappò una smorfia. Il peso del sacrificio che la sopravvivenza di Horseriver era costata ai suoi discendenti non gli sembrava meno doloroso. Ingrey non aveva ancora avuto figli, anzi stentava a considerare quella possibilità; tuttavia il pensiero di averne uno gli ispirava un senso di dolcezza e di protezione. Forse in lui c'erano ancora emozioni rimaste dai momenti più sereni dell'infanzia. Grazie a Lord Ingalef, suo padre, poteva capire che cosa significasse avere dei figli. Che cosa doveva aver provato Horseriver quando guardava i propri discendenti maschi crescere, l'uno dopo l'altro, già conoscendo il loro destino? Aveva detto loro qualcosa? Li aveva avvertiti, o preparati a ciò che sarebbe piombato su di loro, come aveva appena fatto con Ingrey? Oppure li aveva aggrediti all'improvviso col suo spirito? A quale età? Faceva qualche differenza per Horseriver rubare il corpo a un bambino sorpreso e spaventato o a un uomo dalla mente già adulta e matura, magari con moglie e figli? Comunque fosse, Horseriver aveva avuto il tempo di fare le esperienze più diverse. Ma impadronirsi dei loro corpi e delle loro mogli era stato il meno. Dov'erano finite tutte le anime di quei figli cannibalizzati dal suo incantesimo? In un unico blocco con le altre, digerite ma non ancora distrutte... Se
così era, l'incantesimo non aveva rubato loro soltanto la vita, ma anche l'eternità. E lui le portava avanti con sé una generazione dopo l'altra, un secolo dopo l'altro, ammucchiandole, mescolandole. Chissà se Horseriver aveva mai scelto di uccidere un figlio o un discendente particolarmente amato, prima di essere costretto a rubare il suo spirito e a trascinarlo in quell'orrore? Il pensiero diede a Ingrey un brivido ancora più sgradevole degli altri. Credo che l'abbia fatto, forse più di una volta. In quattro secoli di passaggi da un corpo all'altro, visto anche che un guerriero come Horseriver viveva esistenze alquanto più brevi del comune, le variazioni sul tema dovevano essere state molte. Pericoloso, potente, magico, immortale... e pazzo. O quasi. I modi volubili di Horseriver assumevano un nuovo aspetto, in quella luce. I periodi in cui si era isolato dagli altri e il suo attuale, improvviso ritorno in attività destavano ancora molta perplessità in Ingrey, che per spiegarli non poteva più ricorrere alle normali motivazioni dei normali esseri umani. Tuttavia, pur se non capiva Horseriver, ora sapeva perché fin dall'inizio avesse provato un'istintiva diffidenza verso di lui. Osservate le anime, Lord Ingrey, gli aveva detto Ijada. Proprio così. Quante altre anime avrebbero dovuto aggiungersi al gruppo prima che Horseriver perdesse la salute mentale che gli era rimasta e la sua pazzia diventasse visibile a tutti? Agli occhi degli altri il suo comportamento doveva essere diventato una specie di tara di famiglia: una successione di eredi Horseriver sempre più stravaganti a ogni generazione. Un'altra anima dovrebbe bastare, credo. Il trasferimento successivo sarebbe stato diverso, se Ingrey fosse vissuto abbastanza da riceverlo dentro di sé. Il suo lupo avrebbe fatto la differenza. Ma non necessariamente in meglio. No. Non in meglio. Dopo il periodo in cui aveva ricevuto il suo lupo, quella giornata, iniziata guardando un dio negli occhi e finita con le terribili visioni di Horseriver, era stata la più sconvolgente della sua vita. Ora non desiderava altro che tornare a casa e riferire le novità a Ijada. Casa? Lo stretto edificio di quella strada periferica non era certo una casa per lui. Tuttavia, dovunque lei si trovi, quello è il posto in cui voglio essere anch'io. Nel caos e nel tumulto del campo di battaglia, lo stendardo tenuto alto fuori della mischia era il punto d'incontro per i dispersi, il luogo dove riorganizzarsi, dove trovare un compagno fidato col quale mettersi schiena contro schiena e affrontare ancora il nemico.
E lei deve essere messa al corrente di questo rischio di trasformazione. Era oltremodo inquietante rendersi conto che la terribile eredità di Horseriver gli pendeva sulla testa da anni, senza che lui l'avesse mai saputo. Il momento in cui il suo corpo gli sarebbe stato rubato dipendeva solo dalla volontà di Horseriver. Il conte avrebbe potuto decidere di tagliarsi la gola e trasferirsi nel corpo di Ingrey non appena gli fosse parso conveniente. E nessuno... o meglio nessuno a parte Ijada, in tutto il Dominio, avrebbe potuto notare che la sua personalità era cambiata. Notare, ma non necessariamente capire; e le bugie di Horseriver, dette con la voce di Ingrey, sarebbero state senza dubbio convincenti. Si alzò dal muro con uno sforzo e s'incamminò lungo la strada, cercando di non barcollare come un ubriaco. Muoversi lo aiutò a rimettere a posto lo stomaco e a schiarirsi meglio le idee. Davanti alla facciata di pietra gialla del palazzo di Hetwar, che era stato per lui una casa negli ultimi quattro anni, rallentò il passo. Prima di lasciare Horseriver, una paura improvvisa gli aveva dato l'impulso di correre dal suo protettore; ora invece non era affatto sicuro di volergli parlare del conte, né sapeva che cosa avrebbe potuto dirgli. Ma il Guardasigilli gli aveva chiesto di passare dall'ufficio e il suo dovere era informarsi se c'erano ordini per lui. Entrò nell'atrio. Il portiere lo avvertì: «Il mio signore è in riunione». Ingrey fu tentato di andarsene, ma la prudenza lo fermò. «Fagli sapere che sono arrivato e che sono a sua disposizione.» Il portiere mandò al piano di sopra un paggio, che fece subito ritorno. «Il mio signore vi prega di raggiungerlo nel suo ufficio, Lord Ingrey.» Lui annuì, si avviò su per l'ampia scalinata e svoltò nel corridoio del primo piano. Girò intorno a una serva che stava accendendo i candelabri a muro, nella penombra del crepuscolo. Bussò alla porta dell'ufficio e dall'interno la voce di Hetwar disse: «Entrate». Ingrey oltrepassò la soglia e rimase sorpreso: seduti intorno alla scrivania del Guardasigilli c'erano il principe maresciallo Biast, l'Erudito Lewko e l'Arcidivino elettore di Easthome in persona, Fritine kin Boarford. In piedi accanto a uno scaffale, il tenente Gesca aveva l'atteggiamento rigido del militare costretto a fare un rapporto molto sgradevole ai propri superiori. Cinque paia di occhi si voltarono verso Ingrey. «Bene», disse Hetwar. «Stavamo giusto parlando di voi, Ingrey. Vi siete ripreso dall'indisposizione di questa mattina?» La sua espressione era decisamente ironica. Ingrey esaminò e scartò l'una dopo l'altra diverse possibili risposte; decise che non era necessario re-
plicare, chinò rispettosamente il capo rivolto al suo superiore e girò uno sguardo assai poco entusiasta sui presenti. L'Arcidivino Fritine era lo zio dei due conti gemelli, un membro della precedente generazione dei Boarford dedicatosi al servizio del Tempio perché troppi fratelli più anziani gli chiudevano ogni possibilità di ereditare le terre del suo kin. Aveva ormai alle spalle una lunga carriera senza infamia e senza lode e, se la sua posizione gli aveva permesso di favorire i parenti, si era tuttavia accertato che costoro restituissero i favori al Tempio con gli interessi. Era stato trasferito al tempio della capitale sette anni prima, per meriti di anzianità. Secondo l'opinione di Ingrey, Fritine e Hetwar si sopportavano a vicenda senza difficoltà, poiché erano entrambi uomini pratici. Grazie a loro la Città del Re e la Città del Tempio lavoravano spesso in buona armonia... spesso, ma non sempre. In quel periodo tra i due c'era una certa tensione, presumibilmente dovuta all'imminenza delle elezioni. Hetwar catalogava il voto di Fritine tra gli incerti e ciò non lo rendeva affatto felice, dal momento che l'Arcidivino controllava i kin da parte di sua madre, ovvero gli Hawkmoor e i Foxbriar. Quanto a Fritine, aveva addotto la scusa che il Tempio doveva fungere da mediatore per evitare di schierarsi con qualcuno, almeno fino a quel momento. Senza dubbio la sua posizione incerta gli tornava utile. Ingrey non era mai stato sicuro che l'Arcidivino tollerasse il suo lupo. La dispensa era stata firmata dal suo predecessore e negli ultimi dieci anni Ingrey aveva conservato con grande cura quel documento, tuttora chiuso nella sua stanza privata al piano superiore di quello stesso palazzo. Non aveva mai capito se il disgusto di Fritine per la magia fosse di origine teologica oppure personale, perché l'anziano religioso sembrava impermeabile a quel genere di misticismo, al pari di Hetwar. Perciò mi domando che cosa pensi di Lewko. Quest'ultimo si stava mordicchiando un'unghia e guardava Ingrey con inquietante attenzione. Lui lo salutò con un educato cenno del capo e aspettò che qualcuno aprisse bocca. Chiunque, ma non io. Per i Cinque Dei, sono ancora troppo stordito per un colloquio con questi pericolosi individui. Fu l'Arcidivino ad aprire il dialogo: «L'Erudito Lewko ci ha riferito che questa mattina, al tempio, voi avete avuto l'esperienza di un miracolo». Ingrey si chiese che cosa avrebbe detto Fritine se lui avesse risposto: No, io l'ho fatto, il miracolo. Non ne avevo nessuna voglia, ma gli dei mi han-
no gentilmente pregato di farlo. Invece disse: «Nulla che io possa provare in un tribunale, eminenza. O così mi è stato detto». Lewko si agitò, a disagio sotto il suo sguardo inespressivo. «Io ero presente», disse l'Arcidivino con voce pacata. «Lo so, eminenza.» «Non ho visto niente.» Nella sua espressione si leggevano sospetto e preoccupazione, ma sembrava prevalere la preoccupazione. Ingrey allargò le braccia. Meglio lasciare che fossero loro a rivelare per primi ciò che pensavano. Il principe maresciallo Biast disse in tono speranzoso: «Si potrebbe sostenere che, se il Figlio dell'Autunno ha preso l'anima di Boleso, è già una buona prova contro l'accusa che qualcuno abbia influenzato gli spiriti degli animali, come afferma Cumril». «Si potrebbe sostenere qualunque cosa», replicò cordialmente Ingrey. «E se Cumril venisse trovato a faccia in giù nello Stork domani mattina, nessuno potrebbe più obbligarlo a ritrattare l'accusa. Certo non io.» L'Arcidivino fece una smorfia, come se non apprezzasse molto quella previsione. A meno che non l'avesse interpretata come una minaccia. O una controminaccia. Ingrey era tuttavia abbastanza certo che nessuno desse molto peso alle parole di Cumril. «Ciò non accadrà», disse l'Arcidivino. «Cumril è sotto sorveglianza. La giustizia farà il proprio corso.» «Bene. Allora, in qualsiasi modo l'anima di Boleso sia stata salvata, almeno quell'individuo avrà ciò che si merita.» Stavolta fu Biast a fare una smorfia. «Ditemi una cosa, Lord Ingrey», intervenne Hetwar con voce ferma. «Quando vi siete accorto che Lady Ijada era stata infettata dallo spirito di un animale?» «Il primo giorno dopo la nostra partenza da Boar's Head.» «E non avete pensato che fosse necessario riferirmi un fatto di tale portata?» Gesca, che in piedi dall'altra parte della stanza stava facendo del suo meglio per rendersi invisibile, deglutì a fatica. Allora a chi mandavi i tuoi rapporti, Gesca, se non a Hetwar? Al conte Horseriver, a giudicare dalla curiosa precisione con cui aveva intercettato Ingrey e Ijada lungo la strada. Se era così, Gesca avrebbe riferito a Horseriver anche la presente conversazione? Ingrey rispose: «Alla prima occasione ho affidato la questione al Tem-
pio, nella persona dell'Erudita Hallana. La quale mi ha subito mandato dall'Erudito Lewko». In un certo senso. «Io attendevo la sua guida, essendo questa con ogni evidenza una materia di pertinenza del Tempio, ma purtroppo c'è stato il ritardo dovuto alla crisi dell'orso bianco. Quando poi ho avuto un'altra occasione di parlare con lui, oggi pomeriggio, l'Erudito era piuttosto occupato con altre faccende.» Altre faccende? O la stessa faccenda, vista da un'altra angolazione? Chi, a parte gli dei, vedeva oltre tutti gli angoli nello stesso tempo? Era un pensiero nuovo e inquietante. Be', meglio deviare la responsabilità sul santo, che ascoltava le risposte di Ingrey con un certo apprezzamento, e vedere se qualcuno osasse rimproverare lui. Non Hetwar, che s'incupì e lasciò cadere l'argomento. «Così sembra. Della ragazza ci occuperemo a tempo debito. Alle nostre orecchie è giunta un'accusa più urgente: che cosa ne pensate delle parole di Cumril, secondo il quale anche Wencel kin Horseriver ospiterebbe uno spirito animale?» Ingrey trasse un lungo respiro. «Un'accusa tanto grave merita senza dubbio una seria indagine da parte del Tempio.» «E questa indagine che cosa scoprirebbe?» Fino a che punto Horseriver aveva il potere di nascondersi? Certamente più di quanto ne era capace Ingrey. «Immagino che ciò dipenderebbe dalla competenza degli inquirenti, signore.» «Ingrey!» Il tono di avvertimento di Hetwar, quello speciale, a denti stretti, fece voltare Gesca e Biast. «Quell'uomo è un conte elettore e noi siamo prossimi a un'elezione. Io ero convinto che fosse un forte sostenitore dell'erede legittimo.» Nel dire legittimo guardò Biast, il quale lo ringraziò con un cenno del capo. Fritine sbatté le palpebre, ma non disse niente. Hetwar continuò: «Se non fosse più così, io devo saperlo! Non posso rischiare di perdere il suo appoggio facendolo arrestare in un periodo tanto delicato». Ingrey replicò pacato: «Be', allora la soluzione è semplice. Aspettate che abbia espresso il proprio voto, prima di arrestarlo». Biast aveva l'aria di chi ha masticato un verme. Hetwar sembrava valutare la proposta con serietà. Fritine invece era inespressivo e Ingrey si chiese a chi avesse promesso il proprio voto. Le possibilità che Cumril facesse conoscenza con le acque dello Stork si erano improvvisamente impennate? Dovrebbe importarmi qualcosa? Ingrey sospirò. Forse. Era giunto alla fosca conclusione che in quella stanza non c'era nessuno di cui potesse fidarsi, se avesse voluto svelare tutto di
Horseriver. Io voglio Ijada. Unì le mani dietro la schiena. Ora tocca a me. «Eminenza, voi siete sia un teologo sia un Grande Elettore. Ci sono cose che conoscete certo meglio di altri. Potete dirmi... qual è l'esatta differenza teologica tra il sacro regno del Vecchio Dominio e la sua forma rinnovata sotto l'ortodossia quintariana?» Hetwar lo fissò con una faccia su cui era scritto: Nel nome dei Cinque Dei, dove vuoi andare a parare con questa domanda, Ingrey? Tuttavia si appoggiò allo schienale della poltrona e annuì rivolto a Fritine, come a dire che, a quel punto, anche lui era curioso di sapere che cosa significasse quella storia. Fritine tamburellò con le dita sul bracciolo della poltrona. «Anticamente il sacro re veniva eletto dai kin delle tredici tribù più forti. Oggi a eleggerlo sono otto kin, quelli degli otto casati nobiliari, più cinque Grandi Elettori del Tempio. Secondo l'uso darthacano, si dà una certa priorità ai diritti di sangue e alla primogenitura, ma nulla garantisce che un principe di sangue reale ottenga i voti dei tredici Grandi Elettori. Poiché un tempo l'elezione del sacro re era spesso causa di guerre tra le tribù, il fatto che oggi a decidere siano i casati nobiliari e il Tempio ci ha portato una pace durevole, ringraziando gli dei.» Lo sguardo che il religioso rivolse a Biast sembrava suggerire: E speriamo che continui così. «Non è una risposta politica quella che desideravo, eminenza», disse Ingrey. «Ai vecchi tempi, il sacro re era sempre un guerriero-spirito oppure uno... uno sciamano?» Suo malgrado dovette domandarsi fino a che punto fosse pericoloso pronunciare quella parola. Lewko si raddrizzò sulla poltrona, con un lampo d'interesse nello sguardo, e disse: «Io ho saputo una cosa del genere. Si pensa che gli antichi sacri re fossero il fulcro di molti riti intertribali; forse più magici che religiosi, a dire il vero». Ingrey cercò d'immaginare che cosa ci fosse di magico nei recenti sacri re, ma non ci riuscì. Non avevano neppure alcunché di religioso, del resto. «Dunque quell'antico potere... è scomparso nei re odierni.» «Sì?» disse Lewko. Ingrey non capì se il tono leggermente interrogativo intendesse confermare la sua affermazione o incoraggiarlo a continuare il discorso. «Allora... che cosa resta? Che cos'è che rende sacri i sacri re, al giorno d'oggi?» Le sopracciglia dell'Arcidivino s'inarcarono. «La benedizione dei Cinque Dei.»
«Perdonatemi, eminenza, ma io ricevo la benedizione dei Cinque Dei ogni volta che assisto a un servizio religioso. Ma ciò non mi rende sacro.» «Vero», mormorò Hetwar, con voce quasi inudibile. Ingrey lo ignorò e insisté: «C'è qualcos'altro in loro, a parte questa benedizione e il pio desiderio che governino bene?» L'Arcidivino allargò le braccia. «Ci sono le preghiere. I cinque Arcidivini elettori pregano per essere guidati nel loro voto e tutti chiedono un segno ai propri dei.» Ingrey pensava piuttosto di essere stato lui a trasmettere un paio di quei segni, fin troppo evidenti. Ma non si era certo sentito un messaggero degli dei. «Che cos'altro? Quali altri cambiamenti? Deve esserci qualcosa di più.» La tensione percepibile nella sua voce tradiva troppa urgenza; Ingrey cercò di controllarsi. Bisognava ammettere che ben cinque kin del Vecchio Dominio mancavano ormai da tempo: tre si erano estinti e due avevano perso ogni importanza. Chi poteva affermare che i cinque uomini del Tempio da cui erano stati sostituiti fossero meno rappresentativi della volontà del popolo? Inoltre il procedimento elettorale del Vecchio Dominio aveva pur sempre condotto al potere Horseriver, un re-mago, facendone un essere fuori dell'ordinario. E lui non ha mai smesso di essere tale, no? Possibile che l'attuale dinastia regnante fosse vuota proprio perché Horseriver, tenendosi in disparte con la propria immortalità, l'aveva privata di quella magia che lui solo avrebbe potuto restituirle? Biast, che aveva continuato ad agitarsi sulla poltrona, disse: «Se l'accusa contro Wencel è vera, sono molto preoccupato per la sicurezza di mia sorella». Ingrey non nutriva nessuna simpatia per Fara, dopo ciò che lei aveva fatto a Ijada; tuttavia, visto l'incidente stranamente tempestivo in seguito al quale sua zia, la madre del povero Wencel, era deceduta mentre indagava su ciò che era accaduto a suo figlio, non poté che comprendere le paure di Biast. «I vostri timori mi sembrano fondati, signore.» A quell'affermazione Hetwar si alzò. Ingrey aggiunse: «C'è un'altra cosa, signor Guardasigilli. Il conte Horseriver ha recentemente accennato al fatto che desidera avermi al proprio servizio. Vi prego, se ve lo chiederà, di dirgli che non intendete fare a meno di me. Io non me la sento di esprimergli un rifiuto diretto; non voglio che mi consideri un nemico». Hetwar corrugò le sopracciglia, mentre rifletteva contrariato su quell'ulteriore complicazione. L'Arcidivino si voltò e chiese: «Due uomini forniti
di uno spirito animale nella stessa casa? Perché il conte vi desidera con sé?» «La risposta è evidente anche a voi, eminenza, ne sono certo», replicò Ingrey. «Il conte al momento è soltanto accusato, non imprigionato.» Fritine si voltò dall'altra parte. «Lewko...?» L'Erudito allargò le braccia. «Dovrò esaminarlo molto da vicino. Con l'aiuto degli dei, che io non posso costringere.» Fritine, accigliato, si rivolse di nuovo a Ingrey: «Devo esortarvi a parlare più chiaramente, Lord Ingrey». Lui scrollò le spalle. «Pensate a ciò che mi state chiedendo, eminenza. Se volete che testimoni sull'ultraterreno e sul magico, non potete scegliere una cosa e scartare il resto. Dovete prendere tutto o niente. E io dubito che voi siate pronto ad accettarmi come una sorta di messaggero degli dei, che porta ordini per voi.» Mentre Fritine soppesava le implicazioni di quelle parole, Ingrey continuò: «Quanto al conte Horseriver, lui fa perno sul fatto che siamo cugini. Se n'è ricordato alquanto in ritardo, devo dire». Era vero, in un certo senso. Biast disse indignato: «Voi lascereste mia sorella senza protezione, in una casa dove voi stesso avete paura di recarvi?» La sua fronte si corrugò ancora di più. «Voi siete fedele a Lord Hetwar, non è così?» Lui non mi ha mai tradito. Finora. Ingrey s'inchinò, con fare un po' ambiguo. Biast riprese: «Ma se l'accusa è vera, chi meglio di voi potrebbe proteggere mia sorella da un atto sacrilego che suo marito potrebbe commettere, o portarla in salvo fuori se in quella casa corresse pericolo? Inoltre potreste osservare, informarci...» «Spiare?» suggerì Fritine con aria interessata. «Potrebbe farlo, Hetwar? Che cosa ne pensate?» Ingrey inarcò un sopracciglio. «Signori, vorreste che io facessi un falso giuramento di fedeltà?» domandò con voce morbida. «Ingrey, smettetela», sbottò Hetwar. «Il vostro umorismo sepolcrale non si addice alla nostra situazione.» «Era umorismo?» borbottò Biast. «Venendo da lui, sì.» «Mi chiedo come abbiate potuto sopportarlo.» «Lo stile provocatorio di Lord Ingrey ci è venuto utile. Ogni tanto. Lui percorre una sua strada contorta e riporta indietro cose che nessuno avrebbe mai sospettato di vedere. Non ho mai capito se sia un dono o una male-
dizione.» Hetwar si appoggiò allo schienale e guardò Ingrey con intensità. «Voi potreste farlo?» Ingrey esitò. Ciò avrebbe ufficializzato quello che stava ormai facendo da qualche giorno: far giocare i suoi nemici l'uno contro l'altro, mentre lui cercava disperatamente di raccogliere frammenti che si riunissero in uno schema comprensibile. Tenendo per sé ciò che scopriva. Avrebbe potuto rifiutarsi. Avrebbe potuto. «Ammetto che anch'io desidero sapere qualcosa di più del conte Horseriver», disse infine, lentamente. Si volse a Biast. «Ma perché all'improvviso pensate che vostra sorella sia in pericolo, quando negli ultimi quattro anni non avete detto niente?» Biast parve un po' imbarazzato. «In questi anni non ho potuto occuparmi molto di lei. Dopo il suo matrimonio ci siamo scritti spesso, ma incontrati una sola volta. Supponevo che fosse soddisfatta di ciò che mio padre aveva disposto per lei, e che non le occorresse altro. Io avevo i miei doveri. Lei mi ha parlato... o meglio, io le ho chiesto di parlare con me... soltanto ieri. E dunque soltanto ieri mi ha rivelato che il suo matrimonio non è affatto felice.» «Che cosa vi ha detto?» domandò Hetwar. «Non aveva affatto l'intenzione di causare danni a qualcuno, a Boar's Head. Sapeva che Boleso era diventato violento e inaffidabile, sì, ma sperava che lui e... ehm... Lady Ijada avrebbero finito per trovarsi bene insieme, col tempo. Che la ragazza potesse calmarlo. Fara soffre per il fatto di non poter avere bambini, anche se, devo dire, non mi è chiaro se dipenda da lei. Pensava che suo marito avesse messo gli occhi sulla sua nuova dama di compagnia, perché era stato lui a farla entrare nella loro casa.» Questa è nuova, pensò Ingrey. Ijada era convinta che fosse stata sua zia Badgerbank... Ma chi aveva indotto la zia a proporla come dama di compagnia? Possibile che Horseriver avesse meditato di concepire un erede da mettere tra sé e Ingrey? Oppure voleva tenere Ijada accanto a sé per altri motivi? Altri motivi, sì, comincio a pensarlo. Non si sarebbe dato da fare senza ragione, anche se le sue ragioni non sono quelle della gente comune. «Lady Ijada sostiene che il conte non le ha mai fatto proposte inopportune», disse Ingrey. «Vi garantisco che non è così ingenua da non riconoscerle, per quanto velate, e il conte in materia non ha comportamenti incerti, da adolescente. Se avesse voluto sedurla, l'avrebbe fatto in modo chiaro e comprensibile. Io sono dell'opinione che la principessa Fara abbia una
pesante responsabilità negli eventi che si sono succeduti. Anche se devo dire che Boleso si era spinto troppo oltre sul suo cammino oscuro ed è stato meglio che qualcuno l'abbia fermato, prima che portasse a compimento i suoi foschi progetti.» Colse uno sguardo di avvertimento di Hetwar e si rivolse al fratello di Boleso: «Anche se naturalmente mi dispiace molto che sia stato fermato in modo così crudele». Il principe maresciallo gli concesse un mmh. Ma il tono non era di disaccordo. L'Arcidivino si schiarì la gola e prese la parola. «Vorrei osservare, Lord Ingrey, che da quanto avete riferito all'Erudito Lewko... e da certi altri indizi, sembra che il vostro spirito-lupo non sia più trattenuto. Questa è una violazione della dispensa che avete ricevuto.» A Ingrey parve che il suo tono blando non contenesse minacce, né paura, ma soltanto una sottile pressione. Bene. Sapeva come reagire alle semplici pressioni. «Non è stato per mia volontà, eminenza.» Era un'affermazione impossibile da verificare. «L'incidente è avvenuto quando l'Erudita Hallana mi ha tolto la maledizione. Così, in un certo senso, è successo per un'azione del Tempio.» Sì, meglio scaricare la responsabilità sugli assenti. «Anche se non posso dire che sia accaduto per volontà degli dei, è comunque vero che due dei hanno subito approfittato del fatto.» C'era stato un lieve fremito sui lineamenti di Fritine? Ingrey si concesse un sospiro. «Ora anche voi desiderate farne uso, mettendomi di guardia alla principessa Fara. Sarebbe grave affidare una simile responsabilità a un uomo di cui non vi fidate. Oppure vi proponete di utilizzarmi finché vi torno utile e poi di mandarmi sotto processo? Vorrei sperare di no.» Fritine annusò quelle parole per un poco, prima di decidere come doveva prenderle. «Io direi che vi conviene continuare a rendervi utile. Non lo pensate anche voi?» Hetwar si agitò nervosamente a quello scambio polemico. Non che lui fosse meno cinico, tuttavia era sempre ricorso a modi più diplomatici per manovrare Ingrey, cortesia che quest'ultimo apprezzava perché più sottile. «Dato che la mettete in termini così chiari, accetto di essere la vostra spia», disse Ingrey, notando con la coda dell'occhio che Hetwar sogghignava. «E guardia del corpo della principessa.» Detto ciò rivolse a Biast un breve inchino, che lui ebbe il buonsenso di restituirgli. «Questo ci porta a considerare la posizione della prigioniera», disse Hetwar. «Se Horseriver è sospetto, lo è anche la sua iniziativa di fornire un
alloggio a Lady Ijada. È il momento di trasferirla in un luogo più sicuro.» Ingrey s'irrigidì. Stavano pensando di togliere Lady Ijada dalla sua sorveglianza? In tono cauto disse: «Ciò non otterrebbe l'effetto di rivelare prematuramente i vostri sospetti al conte Horseriver?» «Niente affatto», rispose l'Arcidivino. «È un cambiamento inevitabile, ora che abbiamo smesso di occuparci del funerale.» «A me sembra che il suo alloggio attuale sia adeguato», obiettò Ingrey. «Lei non ha nessun desiderio di tentare la fuga, poiché si affida alla giustizia del Tempio. Inoltre, come ho già detto, non è un'ingenua», aggiunse per contrastare Fritine. «Sì, ma voi non potete sorvegliare due luoghi allo stesso tempo», replicò Biast con logica ineccepibile. Hetwar, accorgendosi finalmente dell'improvvisa tensione di Ingrey, alzò una mano. «Di questo possiamo discutere più tardi. Vi ringrazio per esservi mostrato accomodante in questa difficile situazione, Lord Ingrey. Quando pensate di potervi trasferire a casa del conte Horseriver?» «Stasera?» suggerì Biast. No! Devo vedere Ijada! «Sembrerebbe strano se mi presentassi a casa sua prima che lui sia venuto qui a chiedervi di lasciarmi passare al suo servizio, Lord Hetwar. Inoltre sarebbe meglio che voi non vi lasciaste persuadere troppo facilmente. A parte ciò, ho bisogno di una buona nottata di sonno.» L'ultima scusa non era meno valida delle precedenti. «Vorrei che mia sorella fosse protetta fin da ora», obiettò Biast. «Forse potreste farle una visita voi stesso, per questa sera.» «Io non ho nessun potere sovrumano da usare contro Horseriver!» Dunque cominci a credere che mandarmi al rogo non ti farebbe comodo? Bene. «Non c'è un mago del Tempio da mettere provvisoriamente di guardia?» «Gli unici che ritengo adatti sono fuori città per altre mansioni», disse Lewko. «Ne farò richiamare alcuni con urgenza, non appena possibile.» Fritine annuì. «Tranquillizzatevi, principe», disse Hetwar a Biast, che stava per sollevare un'altra obiezione. «Credo che per stanotte non ci si debba aspettare nessuna iniziativa allarmante.» Si alzò, sospirò stancamente e girò intorno alla scrivania. «Ingrey, venite, vi accompagno fuori.» Ingrey salutò i potenti personaggi riuniti e non trascurò di rivolgere un cenno a Gesca, giusto per dargli qualcosa di cui preoccuparsi. Se era Gesca la spia, come avrebbe reagito Horseriver quando gli fosse giunto il reso-
conto di quel colloquio? Doveva avere già previsto le accuse di Cumril. Be', almeno Gesca gli avrebbe rivelato che tali accuse non erano arrivate per bocca di Ingrey. Sì, lasciamo che Gesca faccia il suo lavoro, per ora. Seguendo le sue tracce, vedrò se è collegato a chi penso. Ingrey chiuse la porta e seguì Hetwar sul tappeto del corridoio, ben oltre il raggio d'ascolto di quelli rimasti nell'ufficio. «Mio signore?» Hetwar si voltò verso di lui alla luce di un candelabro, che lo faceva sembrare ancora più accigliato. «Fino a oggi ero convinto che Horseriver, in vista dell'imminente elezione, avrebbe parteggiato per suo cognato. Ora sono costretto a sospettare che, al pari di Boleso, abbia progetti molto più egoistici.» «A parte il suo incomprensibile interesse per Lady Ijada, recentemente ha fatto qualcosa di particolare?» «Diciamo piuttosto che si può vedere sotto una nuova luce ciò che ha fatto in tempi non tanto recenti.» Hetwar si sfregò la fronte e socchiuse le palpebre. «Quando farete la guardia del corpo alla principessa Fara, tenete gli occhi aperti in cerca di qualcosa che testimoni un... come dire... insano interesse personale da parte di Horseriver per il sacro trono.» «Sono abbastanza sicuro che a Horseriver non interessi il mero potere politico», replicò Ingrey. «Questo non mi rassicura. Non dopo che un certo Lord-lupo ha pronunciato le parole sacro re e sciamano nella stessa frase. So benissimo che avete lasciato alcune cose non dette, là dentro.» «Le speculazioni troppo azzardate sono pericolose.» «Proprio così. Io voglio fatti. Non voglio perdere un prezioso alleato a causa di false accuse, così come non ho intenzione di abbassare la guardia contro un pericoloso nemico.» «La mia curiosità in merito è grande quanto la vostra, mio signore.» «Bene.» Hetwar gli diede una pacca su una spalla. «Andate, allora, e rifatevi pure del sonno arretrato. Avete la faccia di un cadavere nella bara. Siete sicuro che gli eventi di questa mattina non siano accaduti perché avevate la febbre?» «L'avrei preferito. L'Erudito Lewko ha parlato di ciò che gli ho raccontato?» «La vostra cosiddetta visione? Oh, sì, e non è stato un resoconto divertente.» Hetwar esitò. «Sebbene Biast ne abbia tratto un certo conforto, o così mi è parso.» «Voi ci avete creduto?»
Il Guardasigilli inclinò il capo. «E voi?» «Oh, io sì», mormorò Ingrey. Hetwar rimase immobile qualche istante fissandolo negli occhi con intensità, poi abbassò lo sguardo, a disagio. «Mi dispiace di essermi perso quella scena. Che cosa vi siete detti, voi e il dio?» «Noi... abbiamo discusso.» Le labbra del Guardasigilli si piegarono in un sorriso amaro. «Chissà perché non mi sorprende. Possano gli dei proteggervi. Forse Essi riusciranno a ottenere da voi più risposte di quelle che io riesco a farvi uscire di bocca.» Si voltò per tornare indietro. «Mio signore», disse Ingrey d'impulso. Hetwar si fermò. «Sì?» «Se... ehm...» Ingrey deglutì. «Un favore. Se per caso mio cugino Wencel Horseriver dovesse morire, nei prossimi tempi, vi prego di farmi portare davanti a una commissione d'inchiesta del Tempio. Composta dai migliori maghi che Lewko possa mettere insieme per esaminarmi.» Hetwar lo scrutò, turbato. Fece per parlare, ma esitò. Infine disse: «Immagino che stiate parlando sul serio». «Sì, signore. Vorrei anzi che mi giuraste che lo farete.» «Vi aspettate davvero che faccia una cosa simile?» «Vi prego, giuratelo.» «D'accordo... ve lo giuro.» «Bene.» Ingrey s'inchinò e si allontanò in fretta. Hetwar non lo richiamò. Dopo averlo seguito con lo sguardo, si limitò a mormorare un'imprecazione tra i denti, che Ingrey udì mentre svoltava per imboccare la scalinata. 18 Quando il portiere fece entrare Ingrey nell'atrio della casa-prigione, Ijada era seduta in fondo alle scale, con le braccia strette al petto, ancora più tesa e impaziente dell'ultima volta. La sua sorvegliante sedeva qualche gradino più in alto, con aria contrariata. Ijada balzò in piedi, scrutando la faccia di Ingrey alla ricerca di qualcosa che lui non capì; qualunque cosa fosse sembrò trovarlo, perché gli andò subito incontro. L'afferrò per un braccio, lo trascinò nel salotto del pianterreno e chiuse la porta in faccia alla sorvegliante. «Che cosa significa ciò che ho visto poco fa?» gli domandò. «Che cosa
ti è successo?» «Vuoi dire che... hai visto qualcosa anche tu?» «Visioni, Ingrey. Visioni terribili. Non degli dei, te l'assicuro. Eri uscito da poco quando mi sono sentita come sopraffatta. Mi si piegavano le ginocchia. Il mondo intorno a me non è svanito tutto insieme, stavolta, ma le immagini che ho visto erano più nitide di qualsiasi ricordo. Quasi come allucinazioni, Ingrey. Ho visto Campo del Sangue, ho visto i miei uomini! Non feriti e malridotti come nel mio sogno ai Boschi Feriti, bensì com'erano prima!» Fece una pausa. «Coi colori di guerra.» «Hai sentito la presenza di Wencel? Hai udito la sua voce, l'hai visto?» «No, non... non proprio lui. Quelle visioni erano nella tua mente, credo. È così?» «Sì. Immagini dei tempi antichi, vero? Il Vecchio Dominio, il massacro di Campo del Sangue.» Lei rabbrividì e si portò una mano al collo; dai ricordi di Ingrey uscì l'orribile vibrazione dell'ascia che gli spaccava le vertebre cervicali. Anche lei l'ha sentito. «Perché tu e io condividiamo queste cose? Che cos'è successo tra noi?» gli domandò. «Le immagini, le visioni... è stato Horseriver a metterle dentro di me. Lui non è soltanto un guerriero-spirito come te, non è soltanto uno sciamano come me. È qualcosa di più. È perduto fuori del suo tempo, terribile nei suoi poteri e nel suo dolore. Lui pensa di essere... dichiara di essere... un sacro re.» «Ma il re è il vecchio Lord Stagthorne, fin da prima che io nascessi... Come possono essercene due?» «Temo che questo sia un mistero di cui non ho ancora afferrato il nocciolo. Ero andato a casa di Horseriver col proposito di tirargli fuori la verità a tutti i costi, invece è stato lui a costringermi a vederla...» Ingrey condusse la fanciulla al tavolo e la fece sedere; poi sedette di fronte a lei, stringendole le mani, e le riferì ogni particolare del suo sconvolgente colloquio con il conte. Ijada aveva captato soltanto le visioni, non il contesto cui si riferivano, e Ingrey rifletté che doveva avere trascorso le ultime ore in preda a un terribile smarrimento: anche ora, mentre il significato di ciò che aveva visto le veniva chiarito, aveva gli occhi dilatati ed era scossa da tremiti. «Horseriver afferma che io sono il prossimo erede, il prossimo ospite della sua anima, e che sarò privato del possesso del mio corpo a opera del
suo incantesimo, senza che né lui né io possiamo farci niente. Non so da quanto tempo sono il prossimo della lista. Una volta doveva esserci tra noi qualche altro cugino che in seguito è morto, ma... ma può darsi che le cose stiano così fin dalla morte di mio padre. E questo fa nascere altre domande senza risposta su ciò che mio padre avesse inteso fare col rituale del lupo.» «L'altro mio sogno, quello del cavaliere infuocato e del lupo che correva nella cenere... Eravate voi! Eravate voi due.» «Tu credi? Forse...» «Ingrey, io ho riconosciuto Boscosacro, ho riconosciuto i miei uomini. Sono legata a loro quanto lo sono a te, anche se non so come. E se Wencel ha detto la verità, anche lui è legato a loro.» «Il racconto di Wencel è pieno di buchi, ma su questo punto non ha mentito», disse Ingrey con sicurezza. «Il legame è al centro di tutta la vicenda.» «Allora il cerchio è completo. Tu sei legato a me, io ai miei fantasmi, loro a Wencel e quest'ultimo, a quanto pare, a te. Che Wencel stia cercando di realizzare una grande magia che comprende tutti noi?» «Non ne sono sicuro. Questa non è tutta opera di Wencel. Per fare un esempio, la scelta del suo erede mistico non dipende da lui, altrimenti avrebbe senza dubbio cercato qualcuno più conveniente di me. Ciò ha senso, perché l'incantesimo è stato pensato per funzionare nel caos della battaglia, quando sia il re sia il suo erede sarebbero potuti morire in un breve intervallo di tempo l'uno dall'altro... come infatti è accaduto a Campo del Sangue, più o meno. Il trasferimento deve avvenire all'insaputa di entrambi gli individui. Perciò questa parte dell'incantesimo deve essere legata agli spiriti dei guerrieri morti dei Boschi Feriti. È come se l'intero Vecchio Dominio, o ciò che resta dei suoi kin, scegliesse il suo erede attraverso Wencel.» A Ingrey sembrava che ci fosse un'enigmatica, spaventosa validità in quella deduzione. Ijada strinse le palpebre. «Allora sarà necessario andare a Campo del Sangue tutti e tre? E se fosse così, una volta arrivati che cosa dovremmo fare?» «Ma chi - uomo, spirito o dio - ci sta spingendo verso quella destinazione?» mormorò Ingrey. Si appoggiò allo schienale, turbato. «L'incantesimo è incentrato su alcune persone e soltanto quelle, gli Horseriver e i guerrieri defunti, e funziona da sedici generazioni. Tu... tu ci sei entrata dall'esterno. E l'incantesimo ora si è esteso a reclamare me. I suoi limiti non sono più quelli di prima. Limiti tra la vita e la morte, la materia e lo spirito. L'eredi-
tarietà tra consanguinei. Il Dominio e le terre esterne. Cambiamenti... forse, per la prima volta da secoli, stanno intervenendo dei cambiamenti.» Ijada si passò una mano sulla fronte corrugata. «Che cosa c'entro io in tutto ciò? Metà dentro e metà fuori. Da quale parte sto? Io sono viva, loro sono morti; io sono una donna, loro sono uomini... per la maggior parte, almeno. Il mio leopardo non è neppure un animale del Dominio! Stamattina io non ho fatto nulla per l'anima di Boleso; mi sono limitata a stare lì, stupidamente, a bocca aperta. Sei tu quello che cercano, Ingrey, sei tu che puoi liberare quelle anime dagli spiriti animali contenuti in esse!» Lo sguardo di lei sembrava divorarlo. «Una porta in un muro è allo stesso tempo un ingresso e un'uscita», disse lentamente Ingrey. «Tu hai una discendenza significativa da parte di padre. E Wencel aveva indubbiamente un motivo per volerti in casa sua. Non sono stati forse gli spettri a scegliere te, fra tutte le persone che dormivano nei boschi quella notte?» Ijada esitò. Poi raddrizzò le spalle e rispose: «Sì». «Bene. Di conseguenza...» Di conseguenza cosa? Il cervello esausto di Ingrey non gli fornì una risposta. «Dopo le visioni sono venute fuori altre cose. Wencel insiste per tenermi più vicino a sé, a quanto pare. Vuole indurmi ad accettare un posto nel suo casato. Più che indurmi, direi costringermi.» Quella nuova preoccupazione fece incupire ulteriormente Ijada. Ingrey continuò: «Invece di proteggermi, Hetwar vuole che io accetti il posto e faccia la spia per lui. Cumril ha espresso il sospetto che Wencel porti in sé uno spirito animale, benché Hetwar e il Tempio ancora non abbiano idea di che cos'altro ci sia dentro di lui. Io non gliel'ho detto. Non so bene quali conseguenze potrebbero derivare da una rivelazione del genere, né che cosa farebbe Wencel se i suoi oscuri segreti venissero rivelati. Io stesso potrei rimanere coinvolto nella faccenda. Purtroppo però il principe Biast ha paura che Wencel possa fare del male a sua sorella, perciò vuole che io faccia da guardia del corpo alla principessa Fara». Scosse il capo con una smorfia. «I timori di Biast potrebbero non essere del tutto ingiustificati», disse lentamente Ijada. «Io non voglio certo che le mie disgrazie causino la morte di altri Stagthorne.» «Non hai capito. Se passerò al servizio degli Horseriver, il Tempio incaricherà qualcun altro della tua sorveglianza. Forse ti faranno chiudere in una prigione alla quale io non avrò facile accesso. O dalla quale non potrai
fuggire.» Il volto di lei s'irrigidì. «Questo non deve accadere... non devo finire in una prigione, quando tutto ciò sarà finito. Quando sarà il momento di andare.» «Quando sarà finito che cosa?» Ijada fece un gesto di frustrazione. «Questo. Qualsiasi cosa sia. Quando il dio troverà ciò che sta cercando. Non lo senti, Ingrey?» «Sento qualcosa, sì, ma non lo capisco. Non mi è chiaro.» «A che cosa mira Wencel?» Ingrey scosse il capo. «Sono sempre meno certo che stia mirando a qualcosa, a parte difendere i suoi vecchi segreti. Ha la testa talmente piena di emozioni che, per il momento, sembra non prestare attenzione alla realtà. Non che ciò lo renda meno pericoloso. Di che cosa ha paura? Non può essere ucciso, perciò finire al rogo non dovrebbe preoccuparlo né fermarlo.» Se fosse stato imprigionato, alla peggio sarebbe potuto fuggire dandosi la morte, anche se l'avessero sorvegliato attentamente. Ingrey rifletté che non poteva rischiare che Wencel fosse gettato in una cella. Le labbra di Ijada si curvarono in una smorfia perplessa. «Ma come ha fatto il conte a superare i propri funerali, in tutti questi anni, se la sua anima non è mai stata accolta dagli dei?» Ingrey tacque, tendendo l'orecchio ai rumori esterni. Poi scosse il capo e rispose: «Poiché si trasferiva nel corpo del suo erede più diretto, di solito spettava a lui stesso, al suo nuovo se stesso, occuparsi del rito funebre. Non dubito che, con gli anni, sia diventato un esperto nel fare in modo che tutto si svolgesse come desiderava. E se non ha potuto occuparsi di tutte le esequie... be', capita spesso che l'anima di qualche defunto non risulti accettata da nessun dio». La stranezza della cosa tornò a colpire sgradevolmente l'immaginazione di Ingrey. Come si era sentito Horseriver nel vedere il proprio corpo precedente composto in una bara e sepolto, al termine di ogni sua vita? Che cosa poteva aver provato ogni volta che era entrato nel corpo di un erede diretto, diventando il figlio di se stesso? Ijada annuì cupamente, con l'aria di essersi posta gli stessi interrogativi. Tamburellò con le dita sul tavolo. «Se il Tempio volesse intervenire sul suo incantesimo, che cosa potrebbe fare per distruggerlo?» «Non so dirtelo. Forse non potrebbe fare nulla, a meno che non accada un miracolo.» «Gli dei sono già coinvolti in questa situazione. Senza che il Tempio ci
sia ancora entrato.» «Così pare», sospirò Ingrey. «Allora che cosa dobbiamo fare?» Lui si massaggiò un lato del collo, che gli doleva. «Aspettare, direi. Senza prendere altre iniziative. Io mi trasferirò a casa Horseriver e farò la spia. Ma non solo per conto di Hetwar. Forse troverò qualcosa che m'illumini meglio sulla situazione. Un pezzo mancante.» «Con quale pericolo per te?» Ingrey si strinse nelle spalle. La giovane non sembrava per niente soddisfatta. «Ho l'impressione che in questa pausa d'inattività stia accadendo qualcosa di terribile.» «Quale pausa?» grugnì Ingrey. «Questi giorni disgraziati mi hanno ridotto a pezzi.» Ijada agitò le mani, esasperata. «Mentre io mi consumo rinchiusa in questa casa!» Lui si piegò in avanti, esitò un attimo, poi la baciò. Lei non si ritrasse. Stavolta non ci fu nessuno shock improvviso, nessun cambiamento nel modo in cui Ingrey la percepiva, forse perché la presenza di Ijada non era mai svanita dopo il loro primo bacio. Lui poteva avvertirla come la corrente di un ruscello che scorresse tra loro. L'eccitazione nel suo corpo era diventata stanchezza, il piacere del contatto delle labbra di Ijada annegava in un disperato disagio. Lei gli rispose non per passione o amore, gli parve, bensì per cieca fiducia. Non tanto nelle sue capacità, quanto semplicemente in ciò che Ingrey era. Lupo compreso. Il suo cuore si scaldò per la meraviglia e un tremito lo scosse. Ijada si trasse indietro e gli scostò i capelli dalla fronte, un po' sorridente e un po' preoccupata. «Hai mangiato?» domandò in tono pratico. «Non ultimamente.» «Sembri così debole. Forse dovresti.» «Hetwar mi ha dato lo stesso consiglio.» «Allora lo seguirai.» Ijada si alzò. «Vado in cucina a chiedere che si diano da fare.» Ingrey si premette sulla fronte una mano di lei, riluttante a lasciarla andare. Quindi la fanciulla andò alla porta. Prima di uscire si voltò a mezzo. «Ingrey...» «Mmh?» Lui rialzò la fronte dalle braccia incrociate sul tavolo, dov'era caduta.
«Se Wencel è davvero un mistico sacro re e tu sei il suo erede... la cosa come ti fa sentire?» Terrorizzato, per lo più. «Non molto bene.» «Uh.» Ijada scosse il capo e uscì. Il mattino successivo Ingrey si svegliò più tardi di quanto desiderasse; invece i suoi nuovi ordini arrivarono prima di quanto gli sarebbe piaciuto, portati da Gesca. Si vestì in fretta e, mentre ancora si stava allacciando la cintura da cui pendeva il fodero del pugnale, scese le scale per incontrare il mattiniero tenente, che l'aspettava nell'atrio. Gesca attese che il portiere fosse tornato in cucina a parlare con suo figlio, quindi si accostò a Ingrey e gli disse sottovoce: «Siete atteso alla dimora del conte Horseriver». «Così presto? Hanno deciso in fretta. E la mia prigioniera?» «Sono stato incaricato di sostituirvi come suo sorvegliante.» Ingrey s'irrigidì. «Incaricato da chi? Lord Hetwar o l'Arcidivino?» «Da Lord Hetwar e dall'Arcidivino.» «Stanno pensando di trasferirla altrove?» «Nessuno me ne ha ancora parlato.» Ingrey socchiuse le palpebre e lo scrutò. Gesca sembrava nervoso. «E a chi dovrete fare rapporto, dopo la riunione di ieri sera a casa di Hetwar?» «Perché dovrei fare rapporto a qualcuno?» Ingrey lo prese per un braccio e mormorò, fissandolo dritto negli occhi: «Potete anche ammettere che finora avete riferito al conte Horseriver. Se il conte vuole che io lo serva come ho servito Hetwar, ben presto sarò al corrente delle sue attività più riservate». Gesca aprì la bocca come per parlare, invece si limitò a scuotere il capo. «Non siate sciocco, Gesca. Ho sempre saputo che gli mandavate rapporti scritti.» Era un colpo alla cieca, ma Ingrey vide che l'altro deglutiva nervosamente e capì di avere colto nel segno. «Come avete fatto a... Pensavo che non ci fosse niente di male! Lui era un alleato di Lord Hetwar! Ero certo di fare un piacere a un amico del mio signore.» «Eravate anche certo che sareste stato ben ricompensato.» «Be'... io non sono un uomo ricco. E il conte non è avaro.» Gesca inarcò le sopracciglia, perplesso. «Ma come ve ne siete accorto? Avrei giurato che non sapeste nulla.» «L'ho capito dall'arrivo stranamente tempestivo del conte a Middletown.
Oltre ad altri particolari.» «Oh.» Gesca curvò le spalle e fece una smorfia. Era a disagio per essersi lasciato convincere a tradire la fiducia di Hetwar, oppure soltanto per essere stato scoperto? «Vi siete messo su una strada pericolosa, eh? Concedere favori rende l'uomo vulnerabile, non meno che chiederne.» Ingrey allargò la bocca in un sogghigno vagamente lupesco, per corroborare l'impressione della propria invulnerabilità nella mente dell'altro. «Avete intenzione di denunciarmi?» domandò Gesca con un filo di voce. «Vi ho forse accusato di qualcosa?» «Non è una risposta. Non da parte di uno come voi.» «Già.» Ingrey sospirò. «Se andaste voi stesso a confessare a Hetwar, invece di aspettare che qualcuno vi accusi, potreste cavarvela con un rimprovero invece di perdere il posto. A Hetwar non importa tanto che i suoi uomini siano onesti, quanto conoscere i limiti della loro onestà. Suppongo che ciò lo rassicuri, in un certo senso.» «Quali sono i limiti della vostra onestà? E come possono rassicurare Hetwar?» «Ciascuno di noi aiuta l'altro a stare sempre in guardia.» Ingrey contemplò l'interlocutore con aria calcolatrice. «Be', potrebbero esserci guardiani peggiori.» «E prigioniere di aspetto peggiore.» Ingrey abbassò la voce in tono minaccioso: «Tratterete Lady Ijada con la massima cortesia, Gesca. Altrimenti l'ira di Hetwar, del Tempio, di Horseriver e di tutti gli dei sarà l'ultima delle vostre preoccupazioni». Il tenente sbatté le palpebre sotto il suo sguardo truce. «Andiamo, Ingrey. Io non sono un mostro!» «Ma io sì», grugnì Ingrey. «Chiaro?» Gesca osava a malapena respirare. «Chiarissimo.» «Bene.» Ingrey gli lasciò il braccio e si allontanò; sebbene non l'avesse stretto con forza, Gesca si massaggiò il gomito con una smorfia di dolore, come se avesse riportato qualche escoriazione. Ingrey tornò in fretta al secondo piano e ordinò a Tesko di preparare la sua roba e trasferirla a casa Horseriver. Poi ripassò mentalmente la conversazione della sera prima e cercò di capire che effetto potesse avere fatto a Horseriver quando Gesca glielo aveva riferito. Sarebbe stato stupido illudersi che il conte non avrebbe comunque finito per scoprire tutto; in ogni modo dubitava che Horseriver si fosse adirato nell'apprendere che Ingrey
gli era stato assegnato come spia. A interessarlo assai di più doveva essere il fatto che aveva tenuto ben nascosto il più oscuro dei suoi segreti. Di conseguenza Ingrey decise che i piccoli tradimenti di Gesca gli tornavano utili. Mentre Tesko scendeva al pianterreno carico di borse e fagotti, Ingrey andò a bussare alla porta di Ijada. Fu lieto di sentire il solido rumore del catenaccio, prima che la porta si aprisse a rivelare lo sguardo sospettoso della sorvegliante. «Lady Ijada è già alzata?» Ijada fece scostare la donna, aprì la porta e uscì nel corridoio, con espressione interrogativa. «Che cosa succede?» «Mi è appena arrivato l'ordine di prendere servizio a casa Horseriver. Gesca prenderà il mio posto come tuo sorvegliante, per qualche tempo.» Il volto di lei si schiarì nell'udire quel nome. «Non va così male, allora.» «Forse. Cercherò di venire a parlare con te non appena... ehm... saprò qualcosa di nuovo.» Lei annuì. Aveva l'aria pensierosa, più che preoccupata, anche se Ingrey non riusciva a capire che cosa la aiutasse a rimanere tanto tranquilla. Eppure Ijada non conosceva più risposte di lui, anzi aveva un vero talento per trovare domande inquietanti. Un talento di cui Ingrey sentiva di avere in un certo senso bisogno. Le strinse le mani, non potendo baciarla di fronte alla sorvegliante. La strana corrente che sembrava fluire tra loro continuò a unirli in quel breve contatto. «Se ti trasferiranno da qualche altra parte, io lo saprò.» Ijada annuì ancora, quindi lo lasciò. «E io starò in ascolto di ciò che potrà arrivare da te.» Ingrey le rivolse un accenno di inchino e si costrinse ad allontanarsi da lei. Attraversò di nuovo la Città del Re lungo la strada percorsa il giorno precedente, stavolta seguito da un ansante Tesko carico delle sue cose. Il portiere di Horseriver doveva avere già ricevuto istruzioni al riguardo, perché li fece subito accompagnare di sopra da un paggio. Quella assegnata a Ingrey non era una delle stanze della servitù nel sottotetto, bensì una graziosa camera del terzo piano riservata agli ospiti di rango, alla quale era annessa un'alcova per l'attendente. Ingrey lasciò Tesko a sistemare i suoi abiti e uscì per dare un'occhiata alla sua nuova dimora. Aveva molti altri effetti personali al palazzo di Hetwar e si chiese che cosa avrebbe pensato
il conte se non li avesse mandati a prelevare. Mentre passava davanti a uno spazioso salotto al primo piano, arredato con mobili in legno di betulla riccamente intarsiati, Ingrey vi scorse la principessa Fara assieme a una delle sue dame di compagnia. Quest'ultima sedeva a un tavolino da ricamo, occupata in un lavoro di cucito. Fara era in piedi davanti a una finestra, con una mano stretta a una delle tende; guardava fuori con aria pensosa, nel giardino illuminato dal sole del mattino. Il severo abito grigio che indossava si addiceva alla sua figura, solida e piuttosto tozza. Col passare degli anni avrebbe assunto un massiccio aspetto matronale, pensò Ingrey. Il suo volto spigoloso era pallido. Il rumore dei passi di Ingrey la fece voltare verso la porta. «Lord Ingrey... siete voi?» «Vostra altezza reale.» Ingrey s'inchinò e, nel rialzarsi, portò una mano al cuore, accennando senza completarlo il segno dei Cinque. Lei lo scrutò accigliata. «Mio fratello, il principe Biast, ieri sera mi ha detto che siete entrato al servizio del conte mio marito.» «Al suo e... ehm... al vostro.» «Sì, me l'ha detto.» Fara si voltò verso la dama. «Per favore, Carmel. Lasciate aperta la porta.» La dama si alzò, s'inchinò e uscì, passando accanto a Ingrey. Fara gli fece segno di avvicinarsi e lo scrutò con attenzione mentre lui la raggiungeva davanti alla finestra. «Mio fratello dice che voi mi proteggerete.» Mantenendo con cura un tono neutro e pacato, Ingrey domandò: «Voi sentite di avere bisogno di essere protetta?» La nobildonna fece un gesto vago. «Biast ha detto che un odioso sospetto è caduto su mio marito. Voi che cosa ne pensate?» «Ecco... voi non siete in grado di dire se quel sospetto corrisponde al vero, altezza?» Fara scosse il capo, ma il gesto non sembrava un diniego. Poi alzò il suo lungo mento verso di lui. «E voi siete in grado?» «La presenza di uno spirito animale come il mio non è tale da corrompere un uomo. O così ritengo di poter affermare. La dispensa concessa a me ne è una tacita conferma. Voi non avete mai sospettato la presenza di qualcosa di ultraterreno nel vostro consorte, da quando lo conoscete?» Le spesse sopracciglia nere della donna si contrassero, dandole un'espressione incerta e infelice. «No... sì. Non lo so. È sempre stato strano, fin dall'inizio, ma pensavo che fosse soltanto di umore poco allegro. Ho cercato di alleggerire il suo spirito e talvolta... talvolta mi è parso di riuscirci,
ma poi lui ricadeva nel suo umore fosco. Ho pregato la Madre per avere una guida e ho... ho cercato di essere una buona moglie, come il Tempio insegna.» La sua voce tremò, ma non si ruppe in pianto. La sua espressione s'incupì. «Poi un giorno ha portato nella nostra casa quella ragazza.» «Lady Ijada? E voi... lei non vi è mai piaciuta, nemmeno all'inizio?» «Oh, all'inizio...» Fara scrollò le spalle, irritata. «All'inizio suppongo di sì. Ma Wencel... mio marito, voglio dire, si occupava di lei.» «E lei come reagiva? Voi gliene avete parlato?» «Oh, lei fingeva di riderci sopra. Io non ci trovavo niente da ridere. Osservavo mio marito, osservavo lei... non avevo mai visto Wencel guardare una donna due volte da quando ci eravamo sposati, e neppure prima, a dire il vero. Lei invece... Lui la guardava.» Ingrey le domandò che cosa pensasse dei fatti accaduti a Boar's Head, benché non ce ne fosse realmente bisogno. Di fronte a lui non c'era un intelletto acuto, o un intuito sottile, o poteri nascosti, bensì solo un ottuso stupore. Intorno alla principessa Fara non aleggiava neppure una traccia di oscurità ultraterrena. Wencel non aveva ritenuto opportuno usare nessun incantesimo sulla moglie, evidentemente. Perché? Ma la mente di Fara procedeva in un'altra direzione. «L'accusa di Biast...» mormorò. Il suo sguardo assunse una luce dura. «Potrebbe essere vera, immagino. Anche guardando voi, per esempio, non riesco a capire nulla. Se nascondete davvero un lupo dentro di voi, è invisibile come i peccati di chiunque altro. Inoltre ciò spiegherebbe... molte cose.» Trasse un lungo sospiro e domandò bruscamente: «Voi come avete fatto a ottenere la vostra dispensa?» Ingrey inarcò le sopracciglia. «Suppongo di essermi imbattuto in un inquisitore del Tempio particolarmente caritatevole. Si è lasciato intenerire dalla vista di un orfano malato. E alla fine ho dato prova di saper controllare la mia afflizione in un modo giudicato soddisfacente dai miei esaminatori. Non abbastanza soddisfacente, tuttavia, da poter tenere un castello nelle mie giovani mani. In seguito... in seguito è stato Lord Hetwar ad aiutarmi.» «Se mio marito controlla il proprio animale così bene che neppure io mi sono accorta della sua esistenza, non è già una prova sufficiente del fatto che anch'egli merita il perdono?» domandò lei, con una nota di supplica nella voce. Ingrey si umettò le labbra. «Dovreste chiederlo all'Arcidivino. Sono decisioni che non spettano a me.» Fara si stava ponendo il problema di come
proteggere il marito? Poteva Wencel superare l'esame di una commissione del Tempio, come quella che aveva tentennato così a lungo sul caso dei Wolfcliff? Horseriver aveva molte più cose da nascondere, ma anche molto più potere con cui affrontare un'inchiesta. Se l'avesse desiderato. Forse il timore di vedersi strappare la maschera dietro cui si era nascosto tanto a lungo l'avrebbe spinto a tentare qualche iniziativa. In effetti chiunque si sarebbe aspettato che quell'eventualità esigesse tutta la sua attenzione. A meno che Horseriver non stia perseguendo qualche altro scopo, con urgenza ancora maggiore. Ma quale? Per qualche ragione personale, Fara trovava assai probabile, oltre che allarmante, che l'accusa mossa a Wencel fosse vera, adesso che le era stata riferita. Aveva lo sguardo di una donna intenta a mettere insieme, sempre più in fretta, le ultime tessere di un mosaico che l'aveva a lungo lasciata perplessa. Era spaventata, sì, per suo marito e per se stessa. «Perché non ponete queste domande al vostro consorte?» le propose Ingrey. «Ieri notte non è venuto nelle mie stanze.» Fara si passò una mano sugli occhi. Erano arrossati, forse perché li sfregava troppo. «Non è venuto spesso, ultimamente. Il principe Biast mio fratello mi ha chiesto di non dirgli nulla, ma io non so...» «Il signor conte sa già che gli è stata rivolta un'accusa. Se gli parlate, non violerete i segreti di nessuno.» Lei lo guardò timidamente. «Siete dunque già tanto in confidenza con lui?» «Sono suo cugino, il suo consanguineo più vicino.» Per ora. «Il desiderio del conte di avere accanto a sé dei parenti stretti non trova molta soddisfazione, nella crisi attuale.» Farà si stava tormentando le mani. «Se è così, sarò lieta della vostra vicinanza.» Questo è da vedere. Purtroppo Ingrey non poteva dar voce alla propria disapprovazione per come Fara aveva trattato la sua dama di compagnia e nello stesso tempo guadagnarsi la sua fiducia e la sua confidenza. D'un tratto s'irrigidì; i suoi sensi misero a fuoco l'avvicinarsi di una persona ancora prima che si udissero passi in corridoio. Poi dalla soglia provenne un colpetto di tosse. «Lord Ingrey», disse Wencel in tono cordiale. «Mi hanno informato del vostro arrivo.» Lui gli rivolse un breve inchino. «Mio signore.»
«Spero che abbiate trovato la camera di vostro gradimento.» «Sì, grazie, Tesko pensa che abbiamo fatto un passo avanti nella scala sociale.» «Me lo auguro.» Il leggero inchino con cui Wencel salutò la consorte fu alquanto distaccato. «Appartatevi un momento con me, Ingrey, se non vi spiace. Signora, vi prego, vogliate scusarci.» Il cenno del capo con cui Fara gli rispose fu altrettanto freddo. Solo una certa rigidità del corpo tradiva le sue emozioni confuse. Ingrey seguì il padrone di casa lungo il corridoio fino al suo studio. Entrarono e il conte chiuse la porta, mentre Ingrey girava su se stesso per non dargli le spalle. Wencel aveva avuto tutto il tempo di preparare un attacco magico, se ne avesse avuto l'intenzione; invece si limitò a indicargli una poltrona e andò a sedersi su un angolo della scrivania. Poi lo scrutò con gli occhi stretti, facendo oscillare una gamba. «Hetwar non si è fatto pregare molto per lasciarti andare», osservò. «Gesca ti ha detto il motivo?» «Oh, sì.» «Biast è preoccupato per sua sorella. Invece Fara sogna di salvarti, o almeno credo. Non riesco a capire come tu sia riuscito a farti amare da lei.» «Neppure io.» Horseriver sogghignò e, con un gesto nervoso, si scostò dal viso una lunga ciocca dei capelli biondi striati di grigio. «Immagino che la sua governante abbia lasciato che troppi poeti di corte le riempissero la testa di sciocchezze romantiche, prima del matrimonio. Io ho seppellito dozzine di mogli e da un pezzo non permetto più a me stesso di affezionarmi a qualcuna. Non so spiegare bene con che occhi vedo oggi le donne come lei. È uno dei sottili orrori della mia condizione.» «Come baciare un cadavere?» «Come essere il cadavere che viene baciato.» «Sembra che Fara non la pensi così su di te.» Il conte scrollò le spalle. «Per qualche motivo ormai poco importante... l'abitudine, forse... ho dato inizio a questo matrimonio con l'idea di generare un figlio, di conseguenza il corpo che occupo deve essersi scaldato un po' più del solito. D'altra parte è un corpo ancora giovane e credo che il buon Wencel sarebbe stato abbastanza lieto di questa principessa.» Che Horseriver lasciasse tornare in superficie quell'anima parzialmente digerita, quando si prendeva il disturbo di fare l'amore con la sua sposa? Chissà come restava confusa Fara, quando l'eccitato amante della notte lasciava il posto allo sconosciuto dall'umore cupo accanto al quale si sve-
gliava il mattino seguente... Horseriver era in grado di chiamare altre anime in superficie, quando doveva occuparsi di altri compiti? In tal caso era comprensibile che la principessa finisse per perdere il senno, nel tentativo di seguire gli sbalzi di umore del suo sposo. Sembrava che Wencel si stesse concedendo un'altra delle sue parentesi di cordialità, qualunque ne fosse lo scopo. Ingrey decise di cogliere la palla al balzo. «Perché hai fatto arrivare nella tua casa Lady Ijada? A giudicare dalle conseguenze, lo si direbbe un errore.» Wencel fece una smorfia. «Forse. Col senno di poi.» «Fara ha pensato che fosse per mettere al mondo un altro Horseriver.» «Così pare. Come ho detto, Fara è romantica.» «Se lo scopo non era quello, allora... per i Boschi Feriti? Naturalmente non sto parlando del valore della proprietà terriera ereditata da Ijada.» Dare informazioni era contrario alle abitudini di Ingrey, tuttavia doveva spingere l'altro a rispondere. «Lei mi ha parlato di un certo sogno circa quella località.» «Ah, sì», borbottò cupamente Wencel. «Dunque sei al corrente. Me l'ero chiesto.» «Ne ha parlato anche con te?» «No, ma io l'ho sognato con lei, anche se da un diverso punto di vista. Devi capire che non è stato soltanto un sogno; è stato un avvenimento. Anche agendo come strumento degli dei, non poteva agitare le acque senza che qualche onda raggiungesse me.» Wencel sospirò. «Mi ha posto dinanzi a un grande enigma. L'ho fatta arrivare nella mia casa per osservarla, ma non ho scoperto nulla d'insolito. Se gli dei intendevano usarla come esca, io non ho abboccato. Senza dubbio lei si è legata all'incantesimo durante quella notte trascorsa a Boscosacro, tuttavia è rimasta priva di percezioni e di poteri come qualsiasi altra ragazza ignorante.» «Fino a quella notte a Boar's Head.» «Proprio così.» «Gli dei volevano che ciò accadesse? Compresa la morte di Boleso?» Wencel respirò a fondo, assorto. «Resistere agli dei è in qualche modo come giocare una partita contro un avversario che può vedere parecchie mosse più avanti di te. Ma neppure gli dei possono vedere infinitamente avanti. Il nostro libero arbitrio offusca la loro visione, benché abbiano occhi più acuti dei nostri. Più che fare piani, gli dei si prendono dei vantaggi.» «Allora perché mi hai mandato ad ammazzarla? Semplice prudenza?»
Ingrey mantenne un tono distratto, come se la risposta fosse di secondaria importanza. «Semplice non proprio. Dopo avere ucciso Boleso, lei era sicuramente destinata alla forca. Una vergine innocente impiccata a una corda sacra è il più perfetto esempio di messaggero sacrificale del Vecchio Dominio inviato agli dei che sia mai esistito. La morte apre le porte verso gli dei. La sua morte in quella forma spalancherebbe agli dei l'intero Boscosacro, che è stato sprangato contro di Loro per quattro secoli.» «Ma la sua morte per mano mia non avrebbe ottenuto lo stesso effetto? Qual è la differenza?» Wencel scrollò le spalle. Scivolò giù dall'angolo della scrivania e si voltò dall'altra parte. «A meno che...» continuò a ragionare Ingrey, «quella maledizione potesse fare di più oltre a causare la sua morte.» Wencel tornò a girarsi verso di lui; il suo volto aveva un'espressione ironica che mascherava l'ira. Ingrey la prese per una conferma che la sua ipotesi avesse colpito in un punto sensibile. Il conte spiegò: «Avrebbe legato la sua anima alla tua, impedendole di andare altrove, finché non fosse svanita nel nulla. Sarebbe rimasta anche lei inchiodata qui come le anime di Boscosacro, fuori della portata degli dei. Era una variante di un vecchio incantesimo; ho perso molto sangue per farlo, ma avevo la necessità di agire in fretta.» «Affascinante.» Ingrey non riuscì a mascherare l'asprezza della propria voce. «Fuori della portata degli dei sarebbe rimasta anche la mia anima.» Wencel allargò le braccia come a suggerire: Che cosa avrei dovuto fare? «Tuttavia avrei potuto risparmiarmi lo sforzo, perché il suo spirito di leopardo avrebbe portato allo stesso risultato, se nessuno glielo avesse tolto prima della morte. Solo che non sapevo che lei lo aveva. Un punto a favore dei miei avversari, devo ammetterlo. Ancora non capisco se gli dei e io siamo finiti in quella posizione di stallo per le nostre mosse e contromosse, o se siamo stati tutti vittime dell'idiozia di Boleso, oppure se c'è qualche altra ragione nascosta.» Fece una pausa. «Non era certo nei miei piani che la ragazza venisse posseduta dallo spirito di un leopardo e rimanesse in vita. Eppure è successo.» Lo sguardo di Wencel adesso era freddo; Ingrey comprese di non essere l'unico a scavare in cerca di risposte. Un momento... Wencel stava forse dicendo che il flusso di comunicazione tra la coscienza di Ingrey e quella di Ijada era opera sua? Vedendolo silenzioso, il conte aggiunse: «Pensi di esserti innamorato di
lei, cugino? O che lei sia innamorata di te? Ahimè, devo distruggere questa romantica illusione. Sai, ero convinto che tu... almeno tu, se non lei... fossi più cinico». Ingrey era sul punto di abboccare all'esca, saltarci sopra e ingoiare tutto, compreso l'amo. Tuttavia ricordava come le sottili argomentazioni di Wencel l'avessero quasi indotto a tagliarsi la gola da solo, non molto tempo prima. Quest'uomo non ha bisogno della magia per manovrarmi come vuole. Il peculiare legame tra Ingrey e Ijada poteva anche essere un effetto secondario della maledizione lanciatagli da Wencel, ma quest'ultimo non lo controllava più. E a lui non piace ciò che non può controllare, non quando è così vicino a ciò che più gli sta a cuore. Qualunque cosa fosse. Tra Ijada e me c'è molto più di quello che ci hai messo tu, cugino. Ingrey mosse una mano come a scacciare l'argomento. «Sia come sia. Ora io sono al tuo servizio. Quali compiti hai per me, mio signore?» Wencel non sembrava troppo convinto della sua acquiescenza, ma non volle insistere. «In effetti non ho ancora avuto il tempo di esaminare le possibilità.» «Nonostante la tua inventiva?» «Sì, ammetto di essere quasi divino in questo. Forse ti regalerò un cavallo.» «Hetwar mi risparmiava quella spesa. Cavalcavo i suoi quando era necessario, e lui li nutriva, che fosse necessario o no.» «Oh, il cavallo sarebbe mantenuto a mie spese. Che tu abbia un mezzo di trasporto adeguato gioverà all'immagine del mio casato.» Ingrey non poté fare a meno di pensare all'ultima moglie-madre di Horseriver e al suo cosiddetto incidente mortale col cavallo, tuttavia si limitò a dire: «In tal caso ti ringrazio, mio signore». «Per questa mattina pensa a sistemarti nel tuo nuovo alloggio. Più tardi, nel pomeriggio, andremo insieme nella scuderia.» «Sono a tua disposizione, cugino.» La bocca di Wencel si piegò in un sorrisetto ironico. «Ci conto.» Ingrey lo prese per un commiato e uscì. Qualunque cosa il conte avesse in mente, badava bene a non farne trapelare il minimo indizio. Ma senza dubbio era fermamente risoluto a raggiungere uno scopo preciso. E se mirava a impadronirsi del sacro trono, come temeva Hetwar, non era certo per qualcuno dei motivi che Hetwar avrebbe potuto immaginare. Né posso immaginarlo io. Ingrey scosse il capo. Nelle ore successive a-
vrebbe avuto molto su cui riflettere. 19 Dopo un'attenta ispezione che gli occupò l'intera mattinata, Ingrey si familiarizzò con ogni angolo della dimora degli Horseriver, ma non ne ricavò nulla. Wencel si era trasferito nella capitale poche settimane prima per occuparsi della salute del sacro re, in continuo peggioramento, e Fara l'aveva seguito poco più tardi, dopo il suo fatale soggiorno a Boar's Head. La nobile coppia non aveva mai abitato molto nella casa di città. Non c'erano vecchi segreti sepolti lì; Ingrey era certo che avrebbe potuto scoprire ben altro al castello di Horseriver. Ma la tenuta del conte si trovava a duecento leghe di distanza, a metà del corso del Lure, e difficilmente Wencel e consorte vi avrebbero fatto ritorno prima che l'intera faccenda fosse conclusa. Come aveva promesso, il conte Horseriver quel pomeriggio condusse Ingrey alla sua scuderia, un edificio in pietra situato poco più in basso, sul versante della collina. La maggior parte dei cavalli dei grandi kin veniva tenuta fuori delle mura cittadine, in pascoli recintati lungo lo Stork, oltre le vetrerie e le concerie. Il casato degli Horseriver non faceva eccezione, tuttavia alcuni cavalli restavano alloggiati in scuderie più vicine, a disposizione dei Lord e delle Lady, e gli stallieri si occupavano anche delle cavalcature riservate ai corrieri. Come si conveniva al rango di un conte, la scuderia era bella e pulita, con un corridoio centrale pavimentato in pietre multicolori, gli stalli in tavole di quercia scolpite e le ringhiere in ferro decorate con foglie bronzee. Ingrey notò che c'era anche la giumenta marrone usata giorni addietro da Ijada e davanti al suo stallo rallentò il passo. Accorgendosi che l'animale era molto nervoso, evitò di avvicinarsi, per non rischiare di essere colpito da un calcio. «Questa giumenta la conosco... immaginavo che fosse di tua proprietà.» «Sì», rispose distrattamente Wencel. «Fara l'ha portata con sé quando ha lasciato la nostra tenuta, ma era troppo vivace per lei, perciò l'ha fatta montare a qualcun'altra.» Wencel si fermò davanti a uno stallo sul lato opposto del corridoio e chiamò il cavallo, un castrone dal pelo grigio, per farlo avvicinare. Gli accarezzò il muso. L'animale mosse la testa sbuffando e, quando vide Ingrey, si ritrasse. «Si chiama Lupo», disse il conte in tono piatto. «L'hanno battezzato così per il suo colore, ma ora si potrebbe pensare che fosse scritto nel suo destino. E chi sono io per oppormi al destino? È tuo.»
Il castrone era senza dubbio un bell'animale, elegante e muscoloso, con un mantello ben lucidato dagli stallieri del conte. Ingrey lo giudicò capace di ottime prestazioni. Era difficile capire lì per lì se nascondesse qualcosa di poco chiaro, magari qualche maledizione. Wencel lo considerava forse il prezzo per comprare la sua complicità? Probabilmente, pensò Ingrey. «Ti ringrazio, mio signore», disse in tono altrettanto piatto. «Ti va di provarlo?» «Più tardi, forse. Non ho l'abito adatto.» Da quando aveva imparato a convivere col proprio lupo, a Birchgrove, Ingrey era costretto a prestare una certa cura ai cavalli che doveva usare. Preferiva fare conoscenza con loro in privato, in uno spazio chiuso in cui l'animale si abituasse a essere toccato da lui. A volte non era facile vincere la diffidenza. Quel castrone gli dava l'impressione che sarebbero occorsi tempo e fatica prima di poterlo montare. «Ah. Peccato.» A due stalli di distanza un movimento non esattamente equino attrasse lo sguardo di Ingrey. Corrugando le sopracciglia, andò a guardare nello scomparto e ciò che vide gli strappò una smorfia di sorpresa: un grosso cervo dalle corna ramificate stava brucando la biada. L'animale sbuffò e si spostò di lato, disturbato dalla sua comparsa. Poi balzò avanti e incornò la parte bassa del divisorio, due volte, con tonfi così forti da far agitare i cavalli nelle vicinanze. «Credo che la tua presenza lo disturbi», commentò Wencel in tono divertito. Il cervo si ritirò nella parte più lontana dello stallo, senza abbassare la testa verso il secchio della biada. I suoi liquidi occhi scuri fissavano con odio i due uomini. Ingrey rifletté che doveva essere in cattività da tempo, perché la sua reazione nervosa era stata molto breve. I cervi catturati da poco potevano arrivare a uccidersi, se non li s'impastoiava bene, nella loro frenesia di liberarsi e fuggire. «Che cosa pensi di fare con questo animale?» domandò Ingrey, nel tono più leggero che poté. «Aspetti l'occasione di metterlo allo spiedo? Un regalo per il banchetto del futuro re?» Oppure qualcosa di più oscuro e ultraterreno? Wencel storse le labbra, scrutando l'erbivoro nervoso. «Quando uno gioca contro avversari dalla vista lunga come i miei, gli conviene avere più di un piano. Comunque la sua fine più probabile è lo spiedo. Vieni, torniamo a casa.»
Horseriver uscì dalla scuderia senza neppure guardarsi attorno. Ingrey gli domandò: «Vai ancora a cavallo ogni giorno, come quando eri bambino? Ricordo che a quel tempo ti piacevano molto i cavalli di tuo padre». Era una delle poche cose di cui il giovane Wencel, quel ragazzino timido e un po' tardo, parlava con interesse. «Mi piacevano?» borbottò il conte distrattamente. «Temo di provare per loro ancora meno interesse che per le donne, ormai. Durano poco e io mi sono stancato di mandarli al macello.» Ingrey non trovò altro da dire e lo seguì in silenzio su per la collina. Cercò di capire se ci fosse razionalità nella follia di Wencel, oppure il contrario. Il modo in cui aveva deciso di togliere la vita a Ijada e l'indifferenza con cui aveva poi giudicato inutile e abbandonato il tentativo erano troppo razionali perché Ingrey dubitasse della sua sincerità quando ne parlava. La stessa tattica che usava contro gli dei, per quanto casuale, doveva avere già funzionato in passato. Probabilmente aveva ragione a sostenere che Ijada era stata un'esca degli dei. Ciò doveva essere bastato per innescare in lui una nervosa malvagità. Se diceva il vero, da quattrocento anni gli dei gli davano la caccia e lui cercava di eluderli. Forse gli dei avrebbero fatto meglio ad aspettarlo al varco in qualche snodo delicato del percorso e fino ad allora lasciargli fare tutto il male che voleva. La strana intensità nei modi di Wencel, quando si erano incontrati sulla strada per Easthome, trovava ora una spiegazione: quell'uomo doveva essere capace di pensare in cinque modi diversi allo stesso tempo. Sì, ma lo stesso possono fare i suoi nemici. Poi un'altra inquietante ipotesi assalì Ingrey: forse non era stata Ijada l'esca di quel fatidico incontro. Forse ero io. E Wencel mi ha ingoiato con tutto il resto, compreso l'amo. Il giorno seguente la principessa Fara fu chiamata a testimoniare davanti alla commissione incaricata dell'inchiesta sulla morte del principe Boleso. La prima reazione di Fara fu di rabbiosa indignazione: possibile che qualcuno osasse convocare la figlia del sacro re dinanzi a dei giudici, come se fosse una donna comune? Ingrey decise che a farla trincerare in quell'atteggiamento di orgoglio offeso erano in realtà le sue segrete paure. Ma qualche sottile ingegno - Hetwar, senza dubbio - aveva pensato di farle recapitare l'irritante invito dal principe maresciallo Biast. Poiché questi aveva tutto l'interesse a far emergere la verità, o quantomeno non era interessato a difendere le iniziative stupide e improduttive del Tempio, la sua ca-
pacità di persuasione ebbe la meglio sulle proteste della sorella. Fu così che Ingrey si trovò ad attraversare la Città del Tempio assieme a una piccola processione di cui facevano parte anche il principe maresciallo, il suo portabandiera Symark, che conduceva per le redini il cavallo della principessa Fara, due dame di compagnia della nobildonna che erano state a Boar's Head e due paggi in livrea. Nel cortile principale del tempio, Symark fu mandato a chiedere in quale edificio fossero riuniti i giudici e Fara abbandonò il fratello per andare a pregare qualche minuto nella cappella della Madre, accompagnata dalle due dame. Ingrey non avrebbe saputo dire se desiderasse davvero invocare la dea, che in passato aveva decisamente ignorato le sue preghiere, oppure volesse soltanto stare un po' da sola per farsi sbollire la rabbia. In ogni caso, lui era ancora nel cortile accanto a Biast quando una figura possente uscì dalla cappella della Figlia. «Ingorry!» Il principe Jokol agitò allegramente una mano e accelerò il passo verso il treppiede del fuoco sacro, presso il quale Ingrey e gli altri stavano aspettando. Il robusto isolano era come al solito seguito dal fedele Ottovin, e Ingrey si domandò se il giovane avesse avuto dalla sorella l'ordine di accertarsi che il suo promesso sposo facesse ritorno in patria senza cacciarsi in qualche guaio, o in qualche postribolo. Anche stavolta i due indossavano abiti coloratissimi, ma in più Jokol esibiva un grande nastro azzurro annodato intorno al bicipite sinistro, segno che era andato a chiedere una grazia alla Figlia della Primavera. «Jokol! Come mai sei ancora in città?» «Eh!» Il massiccio individuo allargò le braccia. «Io ancora aspetta mio Divino che loro promesso, ma loro sempre manda noi via. Oggi io cerca di essere visto da capo, da Arcidivino, invece di stupidi scrivani che continua a dire di andare via e tornare dopo.» «E per essere più sicuro che ti diano un appuntamento hai pregato la dea?» Ingrey indicò il nastro azzurro. Jokol si diede una pacca sul bicipite e rise. «Forse meglio che io faceva questo! Andare da capo di grande capo, eh?» Ingrey pensava che il protettore naturale di Jokol fosse il Figlio dell'Autunno, oppure, considerati i fatti recenti, il Bastardo. Non che pregare il Dio dei Disastri fosse la via più sicura. «Ma la Figlia della Primavera non è la tua solita patrona, vero?» «Oh, sì, invece. Lei benedice me molto. Oggi io ha pregato lei con can-
zone di poesia.» «Credevo che il dio della poesia fosse il Bastardo.» «Oh, lui anche, sì, per canzoni di ubriachi e per grandi ballate dove mura crollano e tutto brucia, sì, e poesie che fanno rizzare tuoi capelli. Questo bene!» Jokol agitò le mani per mimare orribili tragedie adatte alla poesia epica. «Ma non oggi. Oggi io voluto fare bella canzone a mia bella Breiga, per dire lei quanto io manca lei qui, in questa città di pietra.» Dietro di lui, Ottovin alzò gli occhi al cielo. Ingrey lo interpretò per una critica al fatto che il principe componesse canzoni su sua sorella, non alla canzone in sé. Poi ricordò che, oltre a essere la dea della verginità femminile, la Figlia era associata anche all'apprendimento dei giovani, all'ordine civile e, sì, alla poesia lirica. Biast stava osservando Jokol; sembrava impressionato da quelle predisposizioni poetiche in un individuo tanto corpulento. «Ingrey, costui è per caso il proprietario di quel famoso orso bianco?» domandò. Anche se detestava richiamare alla mente l'esistenza di quell'animale, Ingrey ricordò i suoi doveri sociali. «Scusatemi, altezza. Permettetemi di presentarvi il principe Jokol di Arfrastpekka e il suo attendente Ottovin. Jokol, questi è sua altezza il principe maresciallo Biast. Il figlio del sacro re», aggiunse, nel caso in cui lo straniero avesse bisogno di qualche informazione in più sulle personalità politiche di Easthome. Ma Jokol non era così ignorante. Rivolse il segno dei Cinque e un misurato inchino del capo al principe Biast, il quale gli restituì lo stesso saluto; un opportuno atto diplomatico tra due potenti principi che, pur non intrattenendo al momento nessun rapporto formale, consideravano tuttavia l'eventualità come possibile e forse vantaggiosa per entrambi. La scena fu interrotta dal ritorno di Symark, che portava con sé un Accolito in saio grigio. Ora che si era assicurato una guida nel dedalo di edifici di pertinenza del Tempio, Biast si accomiatò e andò a recuperare la sorella nella cappella della Madre. Jokol, che aveva a sua volta una certa fretta, si rivolse a Ingrey: «Io deve cercare molto di vedere questo uomo Arcidivino. Forse questa è cosa lunga, così meglio che io va, eh?» «Aspetta», lo fermò Ingrey. «È un'altra la persona che fa al caso tuo. In un edificio a due strade di distanza da qui, al primo piano... no, c'è un modo migliore.» Fece pochi passi e afferrò per una manica un ragazzo vestito col saio bianco del Bastardo, che stava seguendo una fila di persone diretta dall'altra parte del cortile. «Tu sai come si arriva all'ufficio dell'Erudito
Lewko?» gli domandò. Il ragazzo sbatté le palpebre perplesso, poi annuì. «Questo è un principe straniero. Devi portarlo da lui.» Ingrey gli indicò Jokol, che li osservava divertito. «Riferisci all'Erudito che Lord Ingrey gli manda una complicazione da aggiungere a quelle che già colleziona.» «Questo Lewko lui aiuta me a vedere Arcidivino?» domandò Jokol speranzoso. «O ti aiuterà, oppure provvederà lui stesso a farti assegnare il Divino che desideri. Tu minaccialo di regalargli Fafa: ciò lo spronerà a darti una mano.» Ingrey sogghignò; per il dio degli scherzi quella trovata doveva essere meglio di una preghiera. «Lui è uomo potente in Tempio?» «È potente per quanto riguarda un dio al quale non piacciono gli scrivani.» Jokol annuì, illuminandosi in viso. «Molto buono. Ringrazio te, Ingorry.» E si allontanò col ragazzo, seguito da un perplesso Ottovin. Ingrey ebbe l'impressione di udire una risata, lì accanto; ma non era stato Symark, a giudicare dalla sua espressione corrucciata. Uno scherzo dell'acustica del cortile, forse. Scosse il capo per liberarsi di ogni altro pensiero e assunse un contegno dignitoso mentre Biast faceva ritorno con le signore. Il principe si guardò attorno nel vasto cortile e tornò a fissare Ingrey con uno sguardo incerto e penetrante. Lui non poté non pensare che tutti loro erano stati lì due giorni prima, in occasione del funerale di Boleso. Forse Biast si chiedeva se dovesse credere a ciò che aveva dichiarato Ingrey, ossia che avesse agito come uno sciamano e ripulito l'anima del suo defunto fratello. Oppure, ipotesi non meno inquietante, Biast ci aveva creduto e ora si domandava quali conseguenze potessero derivare da una cosa del genere? Ingrey, Biast, Fara e gli altri si mossero, condotti dall'Accolito col saio grigio, che li guidò in un labirinto di piccoli edifici in cui lavoravano scrivani e altri dipendenti dei vari ordini sacri. C'erano costruzioni nuove e altre in via di ristrutturazione. Oltrepassarono due palazzi alquanto malridotti ma pieni di gente, che un tempo erano stati abitazioni private di potenti kin e ora ospitavano l'infermeria della Madre e l'ospedale dell'Ordine del Bastardo. I porticati esterni echeggiavano dei passi dei medici e degli Accoliti in saio verde, mentre nei tranquilli giardini prendevano il sole i pazienti in convalescenza e i loro accompagnatori.
Nella strada successiva giunsero a un grande edificio a due piani, costruito con la stessa pietra gialla del palazzo di Hetwar, che ospitava la biblioteca e le sale del consiglio dell'Ordine del Padre. La scalinata che girava intorno all'atrio li portò al primo piano, dove un breve corridoio sfociava in una vasta sala dalle pareti in pannelli di legno. La commissione d'inchiesta era già al lavoro, a quanto sembrava, perché due persone che Ingrey ricordava di avere visto a Boar's Head stavano uscendo in quel momento, con l'aria un po' scossa ma sollevata. Nel riconoscere il principe maresciallo e la principessa, si affrettarono a scostarsi, salutandoli col segno dei Cinque. Biast rispose educatamente con un cenno del capo, invece Fara li ignorò, irrigidita in un'espressione offesa. La prima persona che incontrarono non appena entrati nell'aula fu il cavalier Ulkra; nel vederlo la principessa storse il naso in una smorfia sprezzante. Da parte sua Ulkra s'inchinò, palesemente a disagio. Sul lato opposto alla porta c'era un lungo tavolo dietro il quale sedevano cinque uomini, che davano le spalle a una fila di finestre coperte da lunghi tendaggi appena mossi dal vento. Due di loro indossavano toghe grigie e nere, con mantelline rosse che li qualificavano come Divini dell'Ordine del Padre; gli altri tre invece avevano toghe nere e collane da cui pendeva il medaglione con lo stemma dei giudici del Tribunale Reale. A un tavolino sulla sinistra c'era una scrivana che, con una lunga penna d'oca, registrava domande e risposte su fogli di pergamena. Ai lati erano allineate numerose panche per il pubblico. Dietro la scrivana, su un seggio rialzato, sedeva un altro Divino, un individuo dai capelli grigi in toga nera, la cui mantellina rossa era arricchita da uno spesso cordone dorato. Ingrey comprese che si trattava di un Erudito specializzato in giurisprudenza. Un consulente degli inquisitori? I giudici si alzarono e rivolsero un inchino al principe maresciallo e alla principessa. Due Devoti furono mandati a prendere due seggi imbottiti per gli Stagthorne. Mentre erano in corso tali preparativi, Ingrey si spostò sulla destra dell'aula per avvicinarsi a Ulkra, il quale deglutì nervosamente ma rispose al suo saluto. «Siete già stato interrogato?» gli domandò sottovoce Ingrey. «Non ancora. Sarò il prossimo.» Lo guardò un istante. «E intendete dire la verità o mentire?» Ulkra si leccò le labbra. «Che cosa pensate che Lord Hetwar preferirebbe?» Era così poco informato da credere che Ingrey fosse ancora al servizio
del Guardasigilli? Oppure era tanto sagace da intuire che il suo passaggio alle dipendenze di Horseriver era solo un'apparenza? «Se fossi in voi, mi preoccuperei di ciò che desidera il futuro signore di Hetwar.» Fece un cenno del capo verso Biast. «Il principe non è ancora entrato nel mondo dell'alta politica, ma non manca molto.» «Si potrebbe presumere che lui desideri proteggere la sorella da ogni genere di biasimo e di colpa», disse Ulkra con un filo di voce. «Si potrebbe presumere», annuì Ingrey. «Tuttavia, per precauzione, sarebbe meglio accertarsene.» Detto ciò fece un cenno al principe Biast, che proprio in quel momento li stava guardando. Incuriosito, il principe si avvicinò. «Sì, Ingrey?» «Vostra altezza reale, il qui presente cavalier Ulkra non riesce a decidere se voi preferite che dica alla commissione l'esatta verità, oppure se gli convenga mascherarla per risparmiare qualche cruccio a vostra sorella.» «Ssh! Ingrey!» sibilò furioso Ulkra, gettando uno sguardo impaurito verso il tavolo dei giudici. Biast aggrottò le sopracciglia, perplesso. Poi disse, in tono cauto: «Ho promesso a mia sorella che qui non sarebbe stata messa in imbarazzo, ma nessun uomo oserebbe violare il giuramento e nascondere la verità ai giudici e agli dei... anche se c'è modo e modo di dire la verità». «Infatti. Ma voi iniziate ufficialmente oggi a stabilire come dovrà comportarsi in futuro la vostra corte, altezza. Se scoraggiate gli uomini dal confessare verità poco gradevoli in vostra presenza, poi dovrete affinare molto la vostra capacità di leggere dietro la cortina di mezze verità che gli altri vi racconteranno per timore di dispiacervi, per tutti i giorni del vostro regno.» Ingrey aveva mantenuto un tono discorsivo per mostrare che, qualunque fosse, la scelta di Biast gli sarebbe stata del tutto indifferente. Il principe storse le labbra. «Che cosa ha detto Hetwar di voi? Che vi divertite a sfidare chi vi assume al proprio servizio?» «Chi io scelgo di servire. A Hetwar ciò non dispiace. Ma Hetwar non è uno sciocco.» «Vero.» Biast strinse le palpebre. Poi sorprese piacevolmente Ingrey voltandosi verso Ulkra e mormorando in tono deciso: «Dite l'esatta verità». Dopo una pausa aggiunse con un sospiro: «Se a Fara piacerà poco, me la vedrò io con lei». Ulkra, a occhi spalancati, s'inchinò e si allontanò, presumibilmente per evitare che Ingrey lo trascinasse in qualche altro guaio. I seggi imbottiti arrivarono. Ingrey rivolse a Biast un leggero inchino, sincero anche se leg-
germente ironico, che il principe gli restituì con altrettanta ironia; quindi andò a prendere posto dietro i seggi. Da lì poteva tenere d'occhio l'intera sala e la porta. Una futile speculazione gli attraversò la mente: se Boleso avesse avuto un amico con abbastanza spina dorsale da opporsi a lui in certi momenti critici, si sarebbe messo ugualmente sulla strada contorta che l'aveva portato alla morte? Boleso era sempre stato il più vizioso degli eredi al trono. Forse niente avrebbe potuto salvarlo da qualche tragico errore. Dopo essersi brevemente consultati sottovoce, i giudici chiamarono a deporre il cavalier Ulkra, che prestò giuramento e poi rimase in piedi dinanzi a loro, con le mani unite dietro la schiena e i piedi ben allargati al suolo, in posa militaresca. Le domande si concentrarono solo su alcuni punti chiave; evidentemente la commissione aveva già acquisito le informazioni più generali sui fatti di Boar's Head. Per quanto Ingrey poté stabilire, Ulkra disse la verità sulla catena di eventi che si era conclusa con la morte di Boleso, di buona parte dei quali era stato testimone oculare. Non tralasciò né il leopardo, né i suoi sospetti sulle precedenti «bizzarrie» del principe, anche se cercò di minimizzare la propria complicità protestando che era suo dovere mostrarsi discreto ed essere fedele al padrone. No, non aveva mai sospettato che l'attendente personale di Boleso fosse il mago fuorilegge Cumril. (Dunque i giudici avevano saputo della presenza di Cumril. Da Lewko?) A un certo punto l'anziano Divino seduto in disparte mandò in silenzio un biglietto ai giudici, i quali lo lessero e poi fecero all'ex maestro di palazzo un paio di domande piuttosto precise. La truce scena del sacrificio di Ijada nella camera da letto di Boleso si dipinse abbastanza chiaramente attraverso la deposizione di Ulkra, benché questi tendesse a mettere in eccessivo risalto il fatto che lui si trovava all'esterno e aveva ricevuto l'ordine di non entrare. Dall'espressione tesa che comparve sul viso di Fara, Ingrey si convinse che era la prima volta che la principessa udiva un resoconto delle conseguenze cui la sua dama di compagnia era andata incontro, dopo che lei l'aveva abbandonata al castello. Fara cercò di non mostrarsi emozionata o imbarazzata, tuttavia la sua faccia sembrava scolpita nel legno. Bene. Quando Ulkra fu congedato e uscì dall'aula con tutta la velocità cui poteva decentemente ricorrere, i giudici chiamarono Fara. Ingrey, recitando la propria parte di cortigiano, la aiutò ad alzarsi dal seggio e colse l'occasione per sussurrarle a un orecchio: «Se mentirete, io lo capirò».
Lei lo guardò freddamente. «Dovrebbe importarmi?» replicò. «Volete davvero mettermi in mano una simile arma, altezza?» Lei esitò. «No.» «Bene. Ora sì che ragionate come una principessa.» Nello sguardo di Fara balenò un lampo di stupore, mentre Ingrey le stringeva un braccio con fare incoraggiante prima di lasciarla andare. E poi, per un momento, ebbe un'espressione pensosa, come se dinanzi a lei si fosse aperta una nuova strada che fino ad allora non aveva visto. I giudici posero domande brevi e cortesi, a metà tra le necessità della legge e la prudenza. La versione dei fatti che lei riportò fu, come quella di Ulkra, ammorbidita dal suo punto di vista; le motivazioni relative alla gelosia furono in gran parte tralasciate, cosa che Ingrey non poté che apprezzare. Ma gli elementi più rilevanti della vicenda, ovvero il fatto che la richiesta di lasciare Ijada a Boar's Head era venuta da Boleso e che Fara aveva acconsentito senza consultarsi con nessuno, oltre al fatto che Ijada non era una seduttrice e non aveva obbedito volentieri, emersero tra le righe con una certa evidenza. La principessa fu ringraziata con diplomatica cortesia e, quando si voltò per tornare a sedersi, nei suoi occhi c'era un vago sollievo. Dopo di lei anche le due dame di compagnia prestarono giuramento e risposero a diverse domande, rivelando alcuni piccoli incidenti dei quali Fara non era stata testimone e che rivelarono aspetti poco edificanti della personalità di Boleso. Biast appariva alquanto a disagio, ma non fece nessun tentativo d'interferire con le testimonianze, benché senza dubbio i giudici si erano resi conto della sua espressione accigliata. L'Erudito dai capelli grigi, notò Ingrey, gettava ogni tanto occhiate scrutatrici in direzione di Biast. Era difficile capire se il cipiglio e l'umore del principe stessero influenzando lui e i suoi colleghi, inducendoli a non mettere troppo in risalto i difetti di Boleso; tuttavia l'Erudito aveva l'aria di un uomo che ascolta con attenzione per arrivare a capire e far emergere soprattutto la verità. Ingrey si augurò che l'idea di un prezzo del sangue iniziasse ad apparire una soluzione plausibile a quei personaggi. Al termine della seduta ci fu un fruscio di stoffe quando tutti si alzarono per lasciare l'aula. Ingrey chiamò uno dei due paggi e gli ordinò di andare a occuparsi del cavallo della principessa. «Sì, mio signore», rispose il ragazzo e si affrettò a uscire prima degli altri. La sua voce squillante aveva fatto alzare lo sguardo all'Erudito seduto in disparte, il quale corrugò le sopracciglia e disse qualcosa a uno dei giudici. Quest'ultimo si voltò a guar-
dare coloro che stavano uscendo e chiamò: «Lord Ingrey! Vi dispiacerebbe restare un momento?» Nonostante il tono educato, si trattava di un ordine, non di un semplice invito. Ingrey gli rispose con un cenno d'assenso, poi si accorse che Biast, fino ad allora occupato a scortare la sorella verso la porta, si era voltato per capire che cosa stesse succedendo e lo guardava con aria interrogativa. «Vi raggiungerò tra poco, mio signore», si affrettò a dirgli Ingrey. Biast inarcò un sopracciglio come per comunicargli che intendeva conferire con lui più tardi, quindi seguì la sorella all'esterno. Ingrey andò davanti al tavolo dei giudici, assunse una posa non dissimile da quella di Ulkra e attese, cercando di non rivelare il disagio che provava. Non si aspettava che volessero interrogare anche lui, né quel giorno né mai. L'Erudito si era portato accanto ai suoi colleghi e lo stava esaminando attentamente, a braccia conserte. Aveva un naso aquilino, che assieme al mento sfuggente gli conferiva l'espressione di un fenicottero nell'acqua, a caccia di pesci e rane. «A quanto ho saputo, Lord Ingrey, al funerale del principe Boleso voi avete fatto un'esperienza assai pertinente alla nostra inchiesta.» Ingrey capì che aveva parlato con Lewko. Si domandò che cosa avesse riferito il Divino del Bastardo a quell'Erudito del Padre. I due ordini non erano certo noti per la loro capacità di collaborazione. «Sono svenuto per il caldo. Qualunque altra cosa non è tale da essere ammessa come testimonianza in un processo, a mio avviso.» L'uomo contrasse le labbra e, con sorpresa di Ingrey, annuì. Ma poi aggiunse: «Questo non è un processo, bensì un'indagine preliminare. Avrete notato che non vi è stato chiesto di prestare giuramento». Dunque la cosa aveva qualche altro significato legale? Dal cenno di assenso che un paio di giudici rivolsero al collega, c'era da pensare di sì. La scrivana, infatti, aveva deposto la penna d'oca come se non avesse intenzione di annotare altro e lo osservava con interesse. Era evidente che gli stavano parlando in via non ufficiale. Ingrey non era sicuro che ciò gli desse qualche garanzia in più. «Siete mai svenuto per il caldo, prima d'ora?» gli domandò uno dei due giudici del Tribunale Reale. «Be'... no.» «Vi prego, descriveteci la vostra visione», lo esortò l'Erudito. Ingrey esitò. Se avesse rifiutato, quale genere di pressione avrebbero po-
tuto fare su di lui? Avevano la facoltà di costringerlo a testimoniare sotto giuramento, e in quel caso rifiutarsi di rispondere avrebbe potuto causare conseguenze pericolose. Decise che parlare era la via migliore. «Mi sono trovato fuori del mio corpo, assieme a Lady Ijada e all'anima di Boleso, non ancora accettata dagli dei. Eravamo in un luogo boscoso, privo di confini. Io potevo vedere attraverso il corpo di Boleso. Era pieno di altre anime... spiriti di animali sacrificati, che si torcevano l'uno intorno all'altro in un caos doloroso. Poi è apparso il Signore dell'Autunno.» Si umettò le labbra e mantenne un tono piatto. «Il dio mi ha chiesto di togliere da Boleso quegli spiriti animali. Lady Ijada ha appoggiato la richiesta. Poi il dio ha preso l'anima di Boleso e se n'è andato. Mi sono risvegliato sul pavimento del tempio.» Ecco. Non troppo male. Era stato sincero, tuttavia aveva lasciato fuori un certo numero di complicazioni. «Come avete fatto?» domandò l'Erudito dai capelli grigi, incuriosito. «Come avete costretto gli spiriti a uscire dal corpo?» «È stato solo un sogno, Erudito. Non ci si aspetta che le cose abbiano un senso, nei sogni.» «Nonostante ciò, vorrei saperlo.» «Mi è stata... donata una voce.» Ingrey si augurò che non fosse necessario spiegare in che modo o da chi. «La Voce Selvaggia? Come la voce che avevate usato contro l'orso inferocito due giorni prima?» Due dei giudici dietro il tavolo alzarono di scatto la testa a quelle parole. Maledizione. «L'ho sentita chiamare così.» «Potete usarla ancora?» Ingrey dovette reprimere l'impulso di usarla proprio in quel momento: paralizzare tutti i presenti e fuggire dall'aula. O comprimere il proprio lupo, stranamente esteso, in una minuscola palla invisibile sotto il cuore. Sciocco, loro non possono vederlo comunque. «Non saprei dirlo.» «Restiamo ai fatti», continuò l'Erudito in tono indagatore. «Lady Ijada è imputata di essere stata invasa dallo spirito di un leopardo morto. Secondo la tradizione religiosa del Tempio, che la vostra visione del defunto principe sembra confermare, essere invasa in quel modo da uno spirito tiene separata dagli dei l'anima di una persona.» «L'anima di una persona morta», lo corresse cautamente Ingrey. Perché lui e Ijada avevano in sé spiriti animali, tuttavia gli dei avevano parlato a entrambi. Non a Boleso, però. Per un istante fu tentato di spiegare in che modo gli sciamani del Vecchio Dominio ripulivano l'anima dei loro com-
pagni defunti, ma poi ci ripensò. Non aveva nessuna intenzione di rivelare com'era giunto in possesso dell'informazione. «Penso che abbiate ragione. La mia domanda, dunque, è questa: se Lady Ijada venisse impiccata al termine del processo, potreste voi, Lord Ingrey, rimuovere lo spirito animale dalla sua anima così come avete fatto col principe Boleso?» Ingrey s'irrigidì. La prima immagine che gli roteò nella mente fu quella, inviatagli da Wencel, di Ijada nelle vesti di messaggera sacrificale del Vecchio Dominio, che apriva Boscosacro agli dei. Wencel pensava che quella soluzione fosse resa impossibile dal fatto che Ijada era invasa da uno spirito animale. Tuttavia sarebbe divenuta possibile se lui, Ingrey, fosse riuscito a togliere di mezzo lo spirito. E potrei farlo. Nel nome dei Cinque Dei - che fossero maledetti tutti e cinque, dal primo all'ultimo - era dunque quello il piano del Tempio? È per questo che ci avete fatto venire qui? Nei suoi pensieri regnava il caos. Cercò di prendere tempo. «Perché me lo domandate, Erudito?» «È un delicato problema teologico che mi piacerebbe molto chiarire. L'esecuzione, secondo la legge, è una punizione inflitta al corpo per crimini commessi nel mondo materiale. La questione della salvezza o dell'allontanamento di un'anima dagli dei non deve essere collegata alla sentenza del tribunale, perché l'allontanamento di un'anima dagli dei è un peccato odioso e ricadrebbe sulle autorità che hanno il dovere di emettere la sentenza. Un'esecuzione che implichi tale illecito allontanamento va respinta. L'esecuzione non potrebbe essere effettuata.» Dopo una pausa, l'Erudito aggiunse con sollecitudine: «Avete inteso la mia argomentazione, signore?» Ingrey l'aveva intesa. Le sue mani, unite dietro la schiena, erano strette allo spasimo. Se io ammettessi di essere in grado di ripulire la sua anima, ciò li autorizzerebbe a impiccare il suo corpo senza rimorsi. Se invece avesse detto che non poteva... avrebbe mentito. Ma che cos'altro gli restava? Mormorò: «Era soltanto...» S'interruppe, si schiarì la gola e costrinse la voce ad assumere un volume normale. «Era soltanto un sogno, Erudito. Voi lo rendete troppo determinante.» Una calda voce autunnale disse, a metà tra le sue orecchie e la sua mente: Se tu neghi me e te stesso dinanzi a questo piccolo consesso, fratello lupo, che cosa farai dinanzi a uno più grande? Ingrey non avrebbe saputo dire se fosse impallidito, sebbene un'espressione allarmata fosse apparsa all'improvviso negli occhi dei giudici che lo fissavano. Dovette fare uno sforzo notevole per restare saldo sulle gambe.
Afflosciarsi al suolo proprio in quel momento sarebbe stato disastroso. «Mmh», borbottò l'Erudito. «Tuttavia è un punto importante.» «Che cosa ne dite, allora, se io lo semplificassi per voi? Diciamo così: se io non avessi questa capacità, la risposta sarebbe quella che voi avete dato. Se invece l'avessi... mi rifiuterei di usarla.» Ingoiatevi questa. «E noi non potremmo costringervi a farne uso?» Il tono dell'Erudito non sembrava minaccioso, bensì soltanto curioso. Le labbra di Ingrey si contrassero in un sogghigno che non aveva nulla, assolutamente nulla a che fare col divertimento. Alcuni degli uomini seduti dinanzi a lui fecero istintivamente per ritrarsi. «Potreste provarci», mormorò. Viste le circostanze - viste quelle circostanze, se si fosse cioè trovato di fronte al cadavere di Ijada tirato giù da una forca -, era disposto a scoprire che cosa il suo lupo fosse davvero capace di fare. Finché non avessero messo un cappio al collo anche a lui. «Mmh.» L'Erudito in mantellina rossa si grattò il mento. La sua espressione, stranamente, sembrava più soddisfatta che allarmata. «Molto interessante.» Guardò i colleghi seduti. «Voi avete altre domande?» Il più anziano dei cinque giudici, palesemente a disagio, borbottò: «Non... non ora. Vi ringrazio, Erudito, per il vostro... ehm... sempre stimolante intervento». «Sì», mormorò un altro. «Voi non mancate mai di segnalare disdicevoli complicazioni cui nessun altro aveva pensato.» Un cenno del capo e un sorriso rivelarono che l'Erudito aveva accolto l'osservazione più come un complimento che come una lamentela, nonostante il tono. «Bene. Vi sono grato per la vostra pazienza, Lord Ingrey.» Era un chiaro congedo e Ingrey ne fu sollevato. Salutò i presenti e uscì, cercando di non apparire troppo frettoloso. Nel corridoio fuori dell'aula si concesse un profondo sospiro, ma prima ancora di avere il tempo di congratularsi con se stesso per l'esito del colloquio udì dei passi dietro di sé. Si voltò e vide che il Divino dai capelli grigi l'aveva seguito. L'uomo, alto e magro, gli rivolse il segno dei Cinque, con gesti svelti e precisi che non volevano essere né troppo bigotti né appena accennati. Ingrey rispose con un cenno del capo; poi si rese conto di avere posato la mano destra sull'elsa della spada, pensò che il gesto poteva essere interpretato come un minaccioso avvertimento e la ritrasse, imbarazzato per quella reazione istintiva. «Posso fare qualcosa per voi, Erudito?» Affogarti nelle acque del porto, magari? «Vi prego di scusarmi, Lord Ingrey, ma non ho avuto la cortesia di pre-
sentarmi a voi prima del colloquio, come sarebbe stato mio dovere. Sono l'Erudito Oswin, di Suttleaf.» Ingrey sbatté le palpebre. La sua mente, per un attimo congelata, ripartì in una direzione imprevista. «Oswin, il marito di Hallana?» Il Divino sorrise, un po' imbarazzato dal riconoscimento tardivo. «Di tutti i miei titoli quello è il più vero, temo. Sì, sono il marito di Hallana, per scontare i miei peccati. Lei mi ha parlato del vostro incontro a Red Dike.» «Come sta vostra moglie?» «Bene. Sono felice di poter dire che ha partorito una bambina. E prego la Signora della Primavera che la faccia crescere simile a sua madre piuttosto che a me, altrimenti avrà molto di cui lamentarsi quando avrà la mia età.» «Mi fa piacere che il parto sia andato bene. L'Erudita Hallana mi aveva un po' preoccupato.» Per più di un motivo. Ingrey si toccò la mano ancora bendata e ripensò al modo in cui aveva recuperato la spada nella follia scarlatta di quella stanza a Red Dike. «Se aveste avuto modo di conoscerla meglio, non vi sareste preoccupato.» «Davvero?» «Vi avrebbe terrorizzato, come fa con tutti. Ma in qualche modo si riesce a sopravviverle. È stata lei a insistere affinché venissi qui, sapete? Mi ha praticamente buttato giù dal letto. Cosa che molte donne tendono a fare ai loro poveri mariti dopo la nascita di un figlio, ma per ragioni ben diverse.» «Voi avete parlato con l'Erudito Lewko?» «Sì, ieri sera, dopo il mio arrivo in città. Abbiamo parlato a lungo.» Ingrey cercò di dare la giusta forma a una domanda: «E con quale incarico Hallana vi ha mandato qui?» Gli venne il sospetto che le allarmanti argomentazioni teologiche avanzate da Oswin poco prima, nell'aula, tendessero a impedire l'esecuzione di Ijada, invece che ad accelerarla. «Be'... ehm... è un po' difficile rispondere.» «Perché?» Per la prima volta Oswin esitò. Poi prese Ingrey per un braccio e lo condusse via lungo il corridoio, fuori portata d'orecchio dalla sala delle udienze, dove un paio di servi del castello di Boar's Head stava entrando assieme a un Devoto in tunica grigia. Giunto sull'ampio pianerottolo della scalinata, Oswin si appoggiò al parapetto e guardò pensosamente giù, nell'atrio. Ingrey assunse la stessa posa e attese. Quando l'Erudito riprese a parlare, la sua voce aveva un tono strano, dif-
fidente. «Voi siete un uomo che ha molta esperienza nel campo del soprannaturale e in quello religioso, a quanto ho capito. Gli dei vi appaiono in sogni a occhi aperti e vi parlano faccia a faccia.» «Non è affatto...» cominciò Ingrey, ma si fermò. Negare ancora? «Be'... in un certo senso sì. Ho avuto molte esperienze bizzarre, ultimamente. Cose che ora si affollano dentro di me. Ma che non mi rendono sordo.» Oswin sospirò. «Non riesco a immaginare come si possa essere sordi di fronte a tutto ciò. Dovete capirmi; non ho mai avuto un'esperienza diretta di contatto col divino in tutta la vita, anche se ho sempre cercato di servire il mio dio nel modo che mi sembrava migliore, con le capacità di cui disponevo. La sola eccezione è stata Hallana: lei è l'unico miracolo in cui mi sia imbattuto. È una donna che gli dei sembrano avere riempito di talenti. Sono arrivato persino al punto di accusarla di essersi impossessata delle doti che avrebbero dovuto essere date a me. E lei mi ha accusato di averla sposata solo per riequilibrare la media dei talenti che mi mancavano. Gli dei animano i suoi sogni come farfalle in un giardino. Io invece non sogno mai nulla di più interessante che entrare nudo nel mio vecchio seminario, oppure arrivare in ritardo a un esame che non sapevo di avere, o cose del genere.» «A sostenere un esame o a farlo fare ad altri come insegnante?» domandò Ingrey, incuriosito. «A volte l'uno, a volte l'altro.» Oswin corrugò la fronte. «E poi ci sono i sogni in cui mi aggiro in una casa che sta cadendo a pezzi e non ho utensili per ripararla... be', cose di questo tipo.» Fece un altro lungo sospiro e si ricompose. «Giorni fa, dopo la nascita di nostra figlia, sono tornato a dividere il letto coniugale con Hallana e abbiamo condiviso anche un sogno significativo. Io mi sono svegliato gridando di paura. Lei invece era piuttosto allegra; ha detto che il sogno significava che dovevamo recarci subito a Easthome. Le ho chiesto se fosse impazzita: non era ancora in grado di alzarsi dal letto! Perciò le ho detto che sarei andato da solo. Hallana ha replicato che poteva sistemare un giaciglio sul carro e riposarsi lungo la strada. Abbiamo discusso tutto il giorno. La notte successiva il sogno è ritornato. Al risveglio mia moglie ha dichiarato che stavo creando troppe difficoltà, io ho replicato che lei aveva dei doveri verso i nostri figli e che non poteva abbandonarli né portarli con sé, per non metterli in pericolo. Così alla fine ha ceduto e io ho tirato un sospiro di sollievo. Quel pomeriggio stesso sono partito, a cavallo. Avevo già percorso oltre dieci leghe quando ho capito di essere stato astutamente raggirato.»
«In che senso?» «Se ci fossimo separati, non avrei più potuto seccarla con le mie argomentazioni. Né fermarla. Non ho il minimo dubbio che in questo stesso momento Hallana sia lungo la strada, a non più di una giornata di viaggio da qui. Mi chiedo se abbia portato con sé i bambini; è un pensiero che mi dà i brividi. Se la vedete arrivare in città, lei o i suoi fedeli servi, prima che la veda io, ditele che sono alloggiato alla Locanda degli Iris, di fronte all'infermeria della Madre.» «Pensate che... ehm... si sia messa in viaggio con gli stessi due che erano con lei a Red Dike?» «Oh, sì. Bernan e Hergi. Quelli non la lasciano mai. Bernan è stato uno dei suoi primi successi come maga curatrice, sapete. Hergi l'ha portato da lei che era quasi in agonia per colpa dei calcoli renali, sul punto di suicidarsi per il dolore insopportabile. Hallana ha sbriciolato i calcoli all'interno del suo corpo e lui li ha espulsi subito; il giorno seguente Bernan stava benissimo ed era ai suoi piedi per la riconoscenza. Quei due la seguirebbero in qualunque follia.» Oswin sbuffò. «Io riesco a mettere in parole le argomentazioni più convincenti, nel nome del Padre, eppure tutto il mio intelletto e la mia istruzione non riescono a smuovere la gente come fa lei... semplicemente standosene lì e respirando. Non è giusto!» Il suo tono voleva essere disgustato, invece sembrava quasi adorante. «Il sogno», gli ricordò Ingrey. «Scusatemi. Di solito non sono così lamentoso. Forse ciò spiega qualcosa sulla mia Hallana... Ne ho parlato con l'Erudito Lewko e ora ne parlo con voi. Nel sogno c'erano cinque persone: Hallana, io, Lewko e due giovani che non avevo mai visto. Fino a oggi. Il principe Biast era uno di loro. Per poco non sono caduto dal seggio quando è entrato in aula e mi hanno riferito chi fosse. L'altro era uno straniero, un gigante dai lunghi capelli rossi, che parlava con un accento a me sconosciuto.» «Ah», commentò Ingrey. «Deve trattarsi del principe Jokol, non c'è dubbio. Ditegli che mi saluti tanto il suo Fafa, quando lo vedrete. Ma potreste incontrarlo anche qui al tempio; giusto poco fa l'ho mandato nello studio di Lewko. Forse è ancora da lui.» Oswin spalancò gli occhi e parve sul punto di correre subito a cercarlo, ma poi scosse il capo e riprese: «Nel sogno... io sono un uomo abituato a parlare in pubblico, eppure non mi è facile descriverlo. Tutti e cinque eravamo toccati dagli dei. Anzi di più: gli dei ci indossavano come se i nostri corpi fossero i loro abiti. Avevamo l'impressione di andare in pèzzi...»
Gli dei mi hanno tormentato a lungo, aveva detto Horseriver. Continuano a farlo ancora oggi. «Be', dovreste capire che cosa significhi. C'erano altri nel sogno?» Ijada o io, per esempio? Oswin scosse il capo. «Solo cinque persone. Finora. Sembra che il sogno non sia finito e ciò sta disturbando molto me e Hallana. Io vorrei addormentarmi per saperne di più, ma ne ho anche paura. Ormai soffro d'insonnia. Hallana è sicuramente ansiosa di gettarsi a capofitto in questa strada buia, ma io preferirei seguire un solido marciapiede.» Ingrey sorrise alla metafora. «Poco tempo fa un uomo, che ha più esperienza riguardo agli dei di quanta io possa immaginare, mi ha detto che il motivo per cui Essi non ci mostrano la strada più chiaramente è che non la conoscono neppure loro. Devo ancora capire se ciò sia rassicurante oppure il contrario. Comunque potrebbe indicare che gli dei non ci tormentano soltanto per il gusto di farlo.» Oswin tamburellò con le dita sulla ringhiera della scalinata. «Hallana e io abbiamo discusso l'argomento... le capacità di preveggenza degli dei. Stiamo parlando degli dei. Se c'è qualcuno che conosce il futuro, sono Loro.» «Forse non lo conosce nessuno», replicò Ingrey. L'espressione di Oswin era quella di un uomo costretto a mandare giù una medicina amara e di cui dubita molto. «Andrò da Lewko, allora. Forse quel Jokol sa qualcosa di più.» «Ne dubito, comunque buona fortuna.» «Spero che ci rivedremo presto.» «Niente può stupirmi, in questi giorni.» «Dove posso cercarvi? Lewko mi ha detto che siete stato assegnato come spia presso il conte Horseriver, che sembra alquanto coinvolto in questo enigma.» Ingrey fece un grugnito. «Immagino sia una fortuna che Horseriver sappia già che devo spiarlo, vista la facilità con cui circolano i segreti altrui.» Oswin scosse il capo con energia. «I vostri segreti non circolano. O meglio circolano tra un numero molto ristretto d'interessati. Anche Lewko ha fatto un sogno, a quanto dice.» Anche lui coinvolto, sì. «State alla larga da Horseriver, nei prossimi tempi. È un uomo pericoloso. Se volete vedermi, mandate un messaggio alla sua residenza, ma senza scrivere nulla d'importante: sarà sicuramente intercettato e letto da occhi ostili, prima che giunga a me.» Oswin annuì, preoccupato. Scesero insieme la scalinata e uscirono in
strada. Poi Ingrey salutò il Divino e s'incamminò a passi svelti giù per la collina, verso la Città del Re. 20 Ingrey non fu troppo sorpreso quando, dopo avere oltrepassato il fiume semisotterrato ai confini della città bassa, vide in fondo a una traversa il tendone di un carro che non gli era nuovo. Il veicolo era fermo e bloccava l'intera larghezza della strada. I due cavalli da tiro, impolverati e sudati per il viaggio, aspettavano a testa china, approfittando della sosta per riposare. Seduto a cassetta, Bernan aveva lasciato le redini e parlava con Hergi, che gli stava appoggiata a una spalla. L'Erudita Hallana si era affacciata all'apertura anteriore del tendone, sostenuto da una struttura di vimini, e riparandosi gli occhi con una mano cercava di capire se la strada fosse troppo stretta per consentire il passaggio del veicolo. Benché avesse il sole negli occhi, Hergi fu la prima a riconoscere Ingrey, che si stava avvicinando. «Guardate chi c'è!» Hallana socchiuse le palpebre e s'illuminò in viso. «Ah! Lord Ingrey! Che combinazione!» Mollò una pacca sulla schiena di Bernan. «Che cosa ti avevo detto? Questa è la strada giusta.» Il servo annuì di malavoglia, tra il soddisfatto e l'esasperato, quindi assieme a Hergi aiutò la padrona a passare sul predellino e a scendere a terra davanti a Ingrey. Hallana aveva abbandonato le vesti larghe usate durante la gravidanza; indossava un robusto abito da viaggio in lino bianco, stretto alla vita da una cintura, e un mantello impermeabile verde. Non portava più le trecce e, coi capelli tirati indietro e annodati in un concio, appariva ancora più grassottella. All'interno del carro coperto non sembrava ci fossero bambini. Ingrey la salutò con un educato mezzo inchino, al quale lei rispose con un gesto di benedizione, anche se il suo segno dei Cinque fu così vago e affrettato da risultare quasi irriconoscibile. «Mi fa piacere trovarvi qui», gli disse. «Sto cercando Ijada.» «E in che modo pensavate di trovarla?» non poté fare a meno di domandare Ingrey. Che la donna avesse già riacquistato il controllo dei propri poteri? «Di solito, in questi casi, mi aggiro qui e là finché non succede qualcosa.»
«Un sistema un po' strano, direi. E inefficiente.» «Parlate come Oswin. Lui avrebbe tracciato una griglia sopra la mappa della città e poi avrebbe esplorato ogni settore girando a spirale verso il centro. Incontrando voi, io ho fatto molto più in fretta.» Ingrey cercò di capire la logica di quel ragionamento, ma ci rinunciò subito. «A proposito dell'Erudito Oswin, alloggia alla Locanda degli Iris, di fronte all'infermeria della Madre, sulla collina del Tempio. Mi ha chiesto di comunicarvelo, se vi avessi incontrato in città.» Bernan accolse l'informazione con un grugnito. «Oh!» si compiacque Hallana. «Vi siete già visti?» «Gli avevate detto che sareste rimasta a casa. Non vi sorprende sentirmi dire che lui vi aspetta?» «Oswin può essere alquanto indigesto a volte, ma non è stupido. Sapevo benissimo che alla fine avrebbe capito che l'avrei seguito.» «Il signor Erudito non avrà piacere di questo», osservò Bernan, a disagio. «E la sua lingua può essere molto tagliente, quando è irritato.» «Sopravvivrai, come sempre», lo rassicurò Hallana. Si rivolse a Ingrey e la sua voce tornò seria. «Vi ha parlato del nostro sogno?» «Soltanto un accenno.» «E Ijada? Dove l'hanno rinchiusa?» I passanti sembravano gente comune occupata nelle proprie faccende, tuttavia Ingrey non voleva correre rischi. «È più prudente che nessuno ci veda parlare.» Hallana indicò col capo il tendone del carro; Ingrey annuì. La seguì nell'interno in penombra, scavalcando alcuni fagotti, e si mise a sedere su una cassetta di legno, dopo avere sistemato goffamente la spada accanto a sé. Hallana si accovacciò a gambe incrociate sopra alcune coperte ripiegate e lo guardò con aria di attesa. «Ijada è alloggiata in una casa privata, non distante dai moli», disse Ingrey a bassa voce. «Per il momento il suo sorvegliante è il tenente Gesca, un uomo del Guardasigilli Hetwar. Ma la casa appartiene al conte Horseriver. I servi sono spie del conte, e anche della discrezione di Gesca non c'è da fidarsi. Voi non potete presentarvi a loro e aspettarvi che vi lascino vedere la ragazza. Cercate di convincere Lewko a portarvi là sotto falso nome, nelle vesti di una collega o di una curatrice incaricata di esaminare la prigioniera. Ciò vi offrirà una scusa per allontanare i servi e la sorvegliante e parlare in privato con Ijada.» Hallana strinse le palpebre. «Interessante. Dunque il marito di Fara non è
affatto amico di Ijada... o forse ha mire personali verso di lei? Oppure il problema è quella smorfiosa della principessa?» «Fara è una fonte di problemi, tuttavia l'interesse del marito per la sua ex dama di compagnia non è semplicemente sessuale, come lei sospettava. Wencel ha dei poteri segreti e degli scopi ancora sconosciuti. Hetwar mi ha appena assegnato al suo servizio col compito di spiarlo e di capire quali siano tali scopi. E io vorrei evitare d'intorbidire le acque più di quanto lo siano già.» «Pensate che il conte sia pericoloso?» «Sì.» «Per voi?» Hallana inarcò le sopracciglia. Ingrey si mordicchiò un labbro. «Il Tempio sospetta che ospiti dentro di sé uno spirito animale. Come il mio. In un certo senso è vero... ma non è tutto.» Esitò. «La maledizione che abbiamo annientato a Red Dike... era lui l'artefice.» L'Erudita trattenne il respiro. «Perché non l'hanno arrestato? Voi non l'avete accusato?» «No!» esclamò bruscamente Ingrey. Hallana gli rivolse uno sguardo interrogativo e l'uomo spiegò: «Prima di tutto non saprei quali prove portare a suo carico; inoltre un arresto prematuro potrebbe causare un disastro». Per me, almeno. La donna lo scrutò con un mezzo sorriso. «Oh, andiamo, Lord Ingrey, a me potete dire qualcosa di più.» Era tentato di farlo. «Il fatto è che... stanno succedendo cose che per il momento... non so bene. Ho l'impressione di girare in cerchio, nell'attesa che succeda qualcosa.» «Oh.» Una luce di comprensione illuminò lo sguardo di Hallana. «Siete a questo stadio. Lo conosco bene.» Dopo un istante aggiunse: «Le mie condoglianze». Ingrey si passò una mano tra i capelli; il gesto gli fece toccare punti di sutura alla cute, ormai pronti per essere tolti. «Sono in ritardo; devo raggiungere il principe Biast e la principessa Fara. Vostro marito era presente alle prime fasi dell'inchiesta, stamattina, e potrà riferirvi più di quanto sappia io. Anche Lewko sa qualcosa della situazione. Mi chiedo...» Esitò un istante. «Mi chiedo se posso fidarmi di voi.» La donna inclinò la testa, seria in viso. «Suppongo che non intenda essere un insulto.» Ingrey scosse il capo. «Mi sono impantanato in un mucchio di menzo-
gne, mezze verità e strani racconti. La cosa legalmente più giusta e più ovvia, cioè arrestare subito Wencel, potrebbe essere la meno opportuna, anche se non so spiegarvi il perché. La situazione è molto fluida, come se gli stessi dei stessero trattenendo il fiato. Sta per succedere qualcosa.» «Che cosa?» «Se lo sapessi, se solo lo sapessi...» Ingrey si accorse di avere la voce roca per la tensione e tacque. «Ssh, non dite altro», lo placò Hallana, col tono che avrebbe adoperato con un cavallo troppo nervoso. «Potete fidarvi di me, se non altro per la mia capacità di procedere con cautela, parlare poco, ascoltare e attendere?» «Potreste farlo?» «Finché i miei dei non me lo impediscono.» «I vostri dei. Non i vostri superiori del Tempio.» «E ciò che ho detto.» Ingrey annuì e trasse un respiro. «Domandate a Ijada, allora. È l'unica alla quale ho sempre detto tutto. Gli altri sanno solo frammenti, brandelli di verità. Lei e io siamo legati in questa storia più che da...» la sua voce inciampò, «più che dal solo affetto. Abbiamo condiviso due visioni a occhi aperti. Lei potrà dirvi di più.» «Bene. Allora mi recherò da Ijada con discrezione, come avete raccomandato.» «Non sono sicuro che gli dei perseguano gli stessi scopi che stanno a cuore a me. Ma sono assolutamente certo che Wencel e gli dei non vogliono la stessa cosa.» Corrugò le sopracciglia. «Oswin ha detto che voi avevate l'impressione di andare in pezzi, nel vostro sogno. Non ho capito perché.» «Neppure noi.» «Gli dei vogliono usarci per distruggere?» Ingrey si chiese perché Hallana non avesse portato i propri figli. Per viaggiare più rapidamente e senza problemi? Oppure per non rischiare la vita? La loro vita. Non la sua. «Forse», rispose lei con voce piatta. «Non mi state rassicurando, Erudita.» Il sorriso con cui Hallana gli rispose poteva sembrare enigmatico, ma a Ingrey parve piuttosto sarcastico. La salutò con lo stesso spirito e, uscendo dal tendone, si accertò che nessun estraneo avesse origliato. Poi si voltò e aggiunse: «Se andate subito da Lewko potreste trovare vostro marito ancora là. E forse anche un isolano dai capelli rossi la cui lingua è stata lubrificata dalla Signora della Primavera... o dalla pessima birra della sua terra».
«Ah!» esclamò Hallana con entusiasmo. «Questa è una parte del mio sogno che non ho nulla in contrario a considerare profetica. E costui è dolce come mi è sembrato?» «Uh... non credo che userei quella parola», rispose Ingrey sogghignando. Scese dal carro, scivolò via tra la fiancata e il muro e imboccò una scorciatoia in direzione della dimora degli Horseriver. Il portiere lo fece entrare e mormorò: «La mia padrona e il principe maresciallo vi aspettano nel salotto di betulla, Lord Ingrey». Lui annuì e salì subito al primo piano. Il salotto era quello in cui aveva incontrato Fara il primo giorno di servizio. Forse i suoi colori pastello e la sobrietà dei mobili erano un balsamo per i nervi sensibili della nobildonna. La trovò in compagnia del principe Biast e di Symark, che conversavano servendosi da un vassoio di tartine al formaggio. Fara sedeva sul divano, reclinata all'indietro, con una delle sue dame di compagnia che le premeva un panno umido sulla fronte. Nell'aria c'era un denso odore di lavanda. Sentendo entrare Ingrey, la principessa si raddrizzò, con espressione preoccupata. Era pallida, con un alone grigiastro intorno agli occhi, e lui ricordò che Ijada gli aveva accennato alle ricorrenti emicranie di cui soffriva. «Lord Ingrey.» Biast gli fece cortesemente segno di sedersi. «Quell'Erudito vi ha trattenuto a lungo.» Lui si limitò a confermare con un cenno; non desiderava affatto parlare di Hallana. Fara non era incline ai lunghi preamboli diplomatici. «Che cosa vi ha domandato? Ha voluto sapere qualcosa di me?» «Non mi ha chiesto nulla di voi, mia signora, né di quanto è accaduto a Boar's Head», la rassicurò Ingrey. La principessa si appoggiò di nuovo alla spalliera, con evidente sollievo. «Le sue domande sono state soprattutto...» esitò, «d'interesse teologico.» Biast non parve condividere il sollievo della sorella; la sua espressione rimase preoccupata. «Tali domande riguardavano nostro fratello?» «Solo indirettamente, mio signore.» Non c'era nessun motivo di non essere franco con Biast, anche se Ingrey non intendeva lasciare intuire a nessuno i suoi rapporti personali con Oswin. «Voleva sapere se sarei in grado di ripulire l'anima di Lady Ijada dallo spirito del leopardo, dopo la sua morte, come sembra che io abbia fatto col principe. Gli ho risposto che non lo so.»
Biast sfregò la suola di uno stivale sul tappeto, poi sembrò rendersi conto di quel tic nervoso e si fermò. Quando rialzò lo sguardo la sua voce era più pacata. «Avete davvero visto il dio? Faccia a faccia?» «Mi è apparso nelle spoglie di un giovane di grande bellezza. Non ho avuto l'impressione che...» Ingrey fece una pausa, incapace di trovare le parole. «Avete mai visto le ombre di animali che i bambini si divertono a proiettare sul muro, muovendo le mani davanti a una lanterna? L'ombra non è la mano, bensì soltanto un'illusione creata dalla mano. Il giovane era qualcosa del genere. Ho avuto l'impressione che il dio fosse un essere di forma talmente estranea che vedendolo sarei come... andato in pezzi. Perciò mi ha mostrato una sua proiezione.» «Vi ha dato qualche istruzione per... per me?» Il tono tra il diffidente e lo speranzoso di Biast tolse ogni sfumatura comica dalla domanda. Il principe lanciò un'occhiata alla sorella e aggiunse: «O per qualcuno di noi?» «No, mio signore. Sentite il bisogno di ricevere istruzioni dall'alto?» Biast fece una risata nervosa. «Sto cercando qualche certezza in tempi molto incerti, immagino.» «Allora la cercate nel posto sbagliato», replicò Ingrey seccamente. «Gli dei non mi hanno dato altro che accenni, enigmi e assurdi controsensi. Quanto alla mia visione, se così posso chiamarla, riguardava il funerale di Boleso. In quel momento il dio si stava occupando soltanto della sua anima. Quando verrà la nostra ora spero che potremo ottenere la stessa attenzione.» Fara, che si stringeva le ginocchia tra le mani con un nervosismo simile a quello del fratello, alzò gli occhi. La ruga verticale tra le sue sopracciglia si fece più profonda, mentre considerava quell'oscura consolazione come un bambino che si è scottato osserva il fuoco. «Ieri sera ho parlato a lungo con l'Erudito Lewko», disse Biast. Guardò la sorella. «Fara, sul serio, non hai un bell'aspetto. Non credi che faresti meglio a sdraiarti qualche ora?» La dama di compagnia annuì, approvando l'idea. «Potremmo chiudere le tende della vostra camera, mia signora, per farvi riposare al buio.» «Sì, sarà meglio.» Fara si piegò in avanti e per un po' rimase così, fissandosi i piedi, prima di permettere alla donna di aiutarla ad alzarsi. Anche Biast si alzò. Ingrey scelse quel momento per puntare al proprio scopo, mostrandosi premuroso. «Mi dispiace vedervi così prostrata, altezza. Ma se gli inquisitori opteranno per un verdetto di autodifesa, non ci sarà più bisogno che vi
stanchiate andando a testimoniare.» «Farò ciò che sarà necessario fare», replicò freddamente lei. Tuttavia diede l'impressione che veder cadere le accuse contro Lady Ijada fosse una conclusione preferibile. Gli rivolse un educato cenno del capo, che subito però la costrinse a portarsi una mano a una tempia. Lo sguardo che Biast gettò a Ingrey era più sereno e quest'ultimo si domandò se fosse possibile rimuovere il peso delle accuse dalle spalle di Ijada un pezzo per volta, anziché in modo più repentino e drammatico. Se ci fosse riuscito, tanto meglio. Tuttavia non gli sfuggì il parallelo tra i propri metodi e quelli altrettanto obliqui di Wencel. Biast seguì la sorella fuori della porta, la lasciò andare con la dama di compagnia e controllò i due lati del corridoio, quindi rientrò nel salotto e chiuse bene la porta. Il suo sguardo pensieroso parve soppesare Symark e Ingrey, come per valutare il pericolo che il secondo avrebbe potuto rappresentare se il suo lupo si fosse scatenato e le capacità di difesa del suo portabandiera. Ingrey era abituato a quella diffidenza da parte di chi non lo conosceva; non perse tempo a spiegare che tali possibilità di difesa erano prossime allo zero, se lui fosse stato davvero ciò che la gente temeva. «Come ho detto, ho parlato con Lewko», esordì Biast. Sedette di nuovo al tavolo, vicino al vassoio, e con un gesto invitò Ingrey a fare altrettanto. «L'Ordine del Bastardo, rappresentato per l'occasione da Lewko e da un paio di potenti maghi del Tempio, ha interrogato Cumril a lungo e su molti particolari.» «Bene. Spero che gli abbiano tenuto i piedi sui carboni ardenti.» «Qualcosa del genere. Immagino che non abbiano avuto bisogno di fare pressioni tali da indurre il suo demone a scatenarsi. La paura di tale eventualità, mi ha assicurato Lewko, era di per sé peggiore di qualunque tortura fisica.» Si strinse nelle spalle con aria dubbiosa. «È assai probabile.» «Se lo dite voi.» Biast si appoggiò allo schienale. «Ciò che più mi ha addolorato è stata un'affermazione di Cumril secondo la quale mio fratello avrebbe progettato di assassinarmi, come avete detto anche voi. Come l'avete saputo?» Dunque era per questo che aveva mandato via Fara; voleva la massima discrezione su un argomento tanto delicato. Ingrey si strinse nelle spalle. «Non posso affermare di averne avuto la certezza. Ci sono prove che Boleso mirasse a impadronirsi del trono e ciò significa che voi sareste dovuto morire, avendo la precedenza su di lui nella linea di successione.»
«Sì, ma non se i Grandi Elettori...» Biast s'interruppe, mordicchiandosi un labbro. Ingrey colse l'occasione per puntualizzare una cosa: «Dunque sembra proprio che Lady Jiada abbia salvato la vita a voi, oltre che a se stessa. E ha salvato l'anima di vostro fratello dal macchiarsi di un grave peccato. O l'ha salvata il suo dio, attraverso di lei». Biast rifletté per digerire il concetto, a disagio. Poi riprese: «Non riesco a capire che cosa ho fatto per meritarmi l'odio di mio fratello». «Credo che fosse ormai preda della follia, verso la fine. A mio parere sono state le febbrili fantasie di Boleso, non le vostre azioni, a indirizzare il suo comportamento.» «Non avevo capito che lui era tanto... perduto. Quando si è verificato quello sgradevole incidente col suo servo, ho scritto a mio padre che intendevo tornare a casa, ma lui mi ha ordinato di restare al mio posto. Sottomettere un castello di confine, ribelle ma poco rifornito, e alcune bande di predoni mi sembra ora un'esperienza assai poco importante rispetto a ciò che avrei potuto apprendere nello stesso periodo a Easthome. Suppongo che mio padre volesse tenermi lontano da quello scandalo.» O forse proteggerlo da peggiori e più sottili manovre? Era possibile che la crisi di confine che aveva tenuto lontano Biast fosse stata creata ad arte da altri personaggi politici? C'era lo zampino di Horseriver in quella faccenda? Biast sospirò. «Nel caso migliore, mi sarei aspettato di ricevere la corona dalle stesse mani di mio padre, quando l'età l'avesse indotto ad abdicare, così com'è accaduto ad altri regnanti del kin Stagthorne prima di me. Lui aveva progettato di ottenere l'elezione e l'incoronazione di mio fratello maggiore Byza, che però tre anni fa è morto. Ora dovrò prendere la corona con le mie mani, oppure lasciarla cadere.» «Byza è morto per una malattia improvvisa e fulminante, vero?» All'epoca Ingrey era assente da Easthome, in missione per conto di Hetwar a Low Port, e non aveva partecipato al funerale reale. Biast aveva ricevuto la bandiera di principe maresciallo, che era appartenuta al fratello maggiore, solo poche settimane più tardi. Che Boleso si fosse basato su quel precedente con eccessiva sicurezza? «Tetano.» Biast rabbrividì al ricordo. «In quei giorni io ero al seguito di Byza al cantiere navale presso Helmharbor. Si stavano attrezzando alcune navi da crociera. Il tetano si è portato via diversi uomini. I Cinque Dei hanno voluto risparmiarmi, ma da allora mi è rimasta un'avversione per il
capezzale dei moribondi. Non ho il coraggio di affrontare un altro evento simile. Prego cinque volte al giorno perché mio padre si riprenda.» Ingrey aveva visto coi propri occhi il sacro re alcune settimane addietro, giusto prima che il malore lo colpisse. Già allora era cianotico, con le guance scavate e la pancia molto gonfia. Si muoveva poco e non riusciva ad articolare bene le parole. «Credo sia un'altra, ormai, la benedizione che dovremmo invocare su vostro padre.» Biast tenne gli occhi bassi; non riuscì a dargli torto. «L'accusa contro Boleso, se non è soltanto una calunnia di Cumril, m'induce a chiedermi di chi mi posso fidare.» Il suo sguardo tornò su Ingrey, che ne fu un po' imbarazzato. «Credo che dobbiate misurare ciascuno secondo le sue ambizioni.» «Ciò presuppone una capacità di valutazione che non posso vantare. Voi vi siete già fatto un'idea di mio cognato?» «Non... ehm... completamente.» «È un uomo pericoloso quanto Boleso?» «È più... intelligente.» Ingrey avrebbe potuto affermarlo anche dello stesso Biast, ne era convinto. «Non lo dico per offendere vostro fratello, sia chiaro», aggiunse, ricordando che con personaggi di quel livello era bene usare molto tatto. Biast fece una smorfia. «Se non altro, dunque, possiamo dire che quest'uomo non è pazzo.» Ingrey preferì commentare l'affermazione col silenzio. «Tuttavia di qualcuno bisogna pur fidarsi.» «Io non mi fido di nessuno», volle precisare Ingrey. «Neppure degli dei?» «Di Loro meno che mai.» «Mmh.» Biast si massaggiò il collo. «Be', i doveri regali che incombono su di me non mi entusiasmano, ma date le circostanze non sono affatto incline a lasciare che qualcuno passi sul mio cadavere per sottrarmeli.» «Ottimo proposito, mio signore», commentò Ingrey. Symark, che aveva ascoltato a braccia conserte, si alzò e andò alla finestra, probabilmente per controllare l'altezza del sole; tornando indietro rivolse un'occhiata interrogativa al suo signore. Biast si passò una mano tra i capelli, con un gesto che Ingrey giudicò inconsapevolmente copiato da Hetwar. «Avete qualche altro consiglio per me, Lord Ingrey?»
Lui era soltanto un paio d'anni più anziano di Biast; sicuramente non era l'età a rendere autorevole la sua opinione agli occhi del principe. «In tutte le questioni politiche siete già ben consigliato da Hetwar, altezza.» «E negli altri campi?» Ingrey esitò. «Circa la politica del Tempio, Fritine è il più informato, ma guardatevi dalla sua propensione a favorire il proprio kin. Per le questioni... ehm... teologiche pratiche, appoggiatevi a Lewko.» Biast parve rimuginare sulle inquietanti implicazioni dell'aggettivo pratiche. «Perché?» Ingrey alzò una mano e col pollice toccò un dito dopo l'altro, dall'indice al mignolo. «Perché il pollice può toccare tutte le altre dita.» Quelle parole gli uscirono di bocca senza che lui capisse da dove gli fossero venute, tanto che per un attimo rimase sbalordito, senza fiato. Anche Biast parve leggervi un significato che andava oltre la semplice apparenza e rivolse a Ingrey uno sguardo penetrante. «Lo terrò in mente. Vegliate su mia sorella.» «Ai vostri ordini, altezza.» Biast annuì, fece segno a Symark di precederlo alla porta e uscì. Ingrey fece un giro esplorativo e trovò Fara nella sua stanza, assistita dalle dame di compagnia. Il conte era uscito per recarsi al palazzo del sacro re. Se ne poteva dedurre che era stato attirato da qualcosa di più importante delle notizie di prima mano sull'inchiesta? Non c'era da stupirsi se non aveva accompagnato la moglie davanti ai giudici: Wencel evitava il Tempio ogni volta che ne aveva la possibilità. Qualunque cosa stesse architettando, però, era ormai in continuo contatto col suocero da qualche settimana e Ingrey non poteva evitare di chiedersi che cosa accadesse durante quegli incontri. Tuttavia esitava a seguirlo là. Per il momento. Decise che la situazione richiedeva più l'uso del cervello che quello della spada; se avesse continuato a trascurare il proprio corpo, anche le capacità di raziocinio ne avrebbero risentito. Perciò scese nella cucina del conte, dove si fece servire un pasto e colse alcuni borbottii della servitù, che, per quanto velati e indiretti, potevano essere interpretati come lamentele. Dopo avere mangiato andò a cercare Tesko, lo redarguì e gli ordinò di restituire agli sguatteri il denaro che aveva vinto ai dadi. Quindi si fece aiutare a togliere i punti di sutura alla testa e a cambiare il bendaggio alla mano con cui maneggiava la spada. La lunga ferita irregolare sembrava chiusa, ma in modo così precario che sarebbe bastato pochissimo per riaprirla. Quando
Tesko ebbe finito di stringere i nodi della benda, Ingrey la tastò con una smorfia. Maledizione, a quest'ora dovrebbe essere già guarita. Ingrey si distese sul letto a meditare, mentre si addensava il crepuscolo autunnale. Il lutto della principessa si chiudeva come un mesto tendaggio su quella giornata di sgradevoli esperienze sociali, che aveva visto anche il passaggio di Ingrey dal servizio di Hetwar alle mansioni di spia e di scorta fasulla per la nobildonna. Se il conte Horseriver l'avesse mandato in missione fuori città, come avrebbe potuto vegliare su Fara, per accontentare il principe, e nello stesso tempo proteggere Ijada? Sarebbe riuscito ad affidare la missione a uno degli uomini di Hetwar e a restare in città per spiare Horseriver? Quell'eventualità era gravida di complicazioni potenzialmente disastrose. Passare alle dipendenze del conte cominciava a sembrargli il modo peggiore per affrontare la situazione. Imprecò contro Hetwar che glielo aveva imposto. Avrebbe avuto la forza di sfidare Horseriver, se fossero giunti a un faccia a faccia? Ciascuno di loro disponeva di poteri ultraterreni. Horseriver aveva più pratica, ma ciò lo rendeva più forte? E che cosa significava essere forte in quella dimensione vuota in cui le visioni prendevano strane forme? Quanto a ciò, c'era da chiedersi in che modo si potesse fare esperienza. Il furore lupesco di Ingrey in battaglia non era una dote affidabile, inoltre si scatenava soltanto nei momenti di pericolo mortale. E la sua Voce Selvaggia... si poteva resistere alla sua forza d'imposizione? Respingerla? Ignorarla? Durava nel tempo o svaniva progressivamente, come la magia usata da Hallana per «trasformare» in maiale quel soldato a Red Dike? Ingrey non riusciva a immaginare chi potesse offrirsi volontario per fare esperimenti di quel genere. Quanto è vecchio il mio lupo? si ritrovò a domandarsi. Cautamente volse le proprie percezioni all'interno e ancora una volta ebbe l'impressione di cercare di guardare i propri stessi occhi. Le anime di lupo accumulate sembravano essersi fuse in una massa compatta, come se i loro confini fossero permeabili. I lupi diventavano il Lupo, in un modo che i conti Horseriver non erano riusciti a ottenere nella tormentata discesa di quell'anima cannibale attraverso generazioni di consanguinei umani. Ingrey setacciò le frammentarie memorie animali che erano giunte a lui sia nella prima, terribile iniziazione, sia nei sogni successivi. I punti di vista erano strani; gli odori venivano ricordati meglio delle immagini. Un povero villaggio agricolo del presente si distingueva a stento da una grande comunità boschiva
dei tempi remoti. All'improvviso emerse un ricordo più dettagliato: i denti di un cucciolo di lupo che cercavano di masticare un oggetto di cuoio, una corazza quasi più grande di lui. Il castigo che gli era stato inflitto quando era stato sorpreso non aveva intaccato il piacere che ne aveva tratto. L'armatura era quasi nuova; il lupo l'aveva trascinata in un angolo di una stanza buia e fumosa. Aveva una forma elaborata col petto ornato da una testa di lupo con le fauci aperte, incisa a fuoco nel cuoio. Il mio lupo è vecchio almeno quanto il Vecchio Dominio. Vecchio quanto il cavallo di Wencel? Di più, senza dubbio, perché il suo lupo si era reincarnato per oltre quattrocento anni. Parte del tempo l'aveva trascorsa nei Cantoni, a giudicare dalle immagini di picchi nevosi rimaste nella sua mente. Un lungo periodo felice, molte vite di lupi addomesticati in qualche piccolo borgo sperduto nelle valli, dove le stagioni e le generazioni scorrevano immutabili. Solo gli incidenti e le malattie potevano avere accorciato quelle esistenze, mentre gli spiriti di lupo si accumulavano lentamente. Ma ciò suggeriva che Qualcuno, capace di vivere a sua volta molto a lungo, avesse manipolato tali possibilità. Doveva averle manipolate. Ingrey si disse che, se mai avesse rivisto un dio, glielo avrebbe chiesto. Potrei chiederglielo adesso. Potrei pregare. Non aveva nessun desiderio di farlo. Pregare era come mettere le mani nel fuoco del tripode sacro, al tempio, e lasciarle lì. Parlare con gli dei era stato assai più facile un tempo, quando sembrava che non ci fosse il rischio che rispondessero. Restando sempre disteso sul letto, frugò dentro di sé alla ricerca del flusso di empatia con Ijada. Il senso di quiete proveniente da lei lo tranquillizzò subito. In quel momento la fanciulla non stava soffrendo, né era affaticata o turbata, a parte la noia e la tensione. Ciò non significava che fosse al sicuro: le piccole comodità della casa-prigione erano ingannevoli e precarie. Horseriver aveva detto che quel loro legame era un residuo della sua maledizione omicida. Forse era vero: forse dal male scaturiva anche qualcosa di buono, ogni tanto. Ingrey doveva escogitare il modo di rivederla presto, in segreto. O di comunicare. Era possibile rendere più espressiva quella sottile percezione empatica? Un impulso mentale per il sì, due impulsi per il no. Be', forse non proprio così, comunque doveva esserci qualcosa. Le sue elucubrazioni furono interrotte da un paggio, che bussò alla porta e gli chiese di presentarsi subito dal conte. Ingrey prese la spada, s'infilò la
lunga giubba da cortigiano e scese nell'atrio del palazzo, dove trovò Horseriver. Era appena rientrato e si stava preparando a uscire di nuovo. Il conte finì di dare istruzioni sottovoce a uno stalliere dall'aria ansiosa, quindi salutò Ingrey con un educato cenno del capo. «Posso chiedervi dove vi state recando, mio signore?» «Al palazzo del sacro re.» «Non venite appunto da lì?» Wencel annuì. «Ormai ci siamo. Credo che il sacro re non passerà la notte. La sua pelle ha quel particolare pallore...» Si passò una mano sul viso. «Ha il tipico aspetto cereo che indica l'approssimarsi della morte, nei malati come lui.» Horseriver doveva avere avuto esperienza diretta dell'aspetto di cui parlava, anche in prima persona. I servi andarono a cercare Fara e i due rimasero soli nell'atrio. Ingrey disse a bassa voce: «Devo sospettare che abbiate usato mezzi ultraterreni per ucciderlo?» Wencel scosse il capo, apparentemente per nulla offeso. «La morte gli pende sul capo senza bisogno che la si provochi. Una volta, molto tempo fa, avrei potuto cercare di anticiparla, o di ritardarla. Ora invece mi limito ad aspettare. Una manciata di ore, o di giorni, ed è fatta.» Emise un lungo, quieto sospiro. La morte, una vecchia conoscente, non disturbava Wencel; tuttavia a Ingrey la languida stanchezza del conte sembrava una maschera. In lui c'era la tensione di un'attesa che si rivelava soltanto quando i suoi occhi si spostavano verso le scale in cerca di Fara. Alla fine la principessa apparve, pallida e fredda, vestita di nero. Ingrey prese una lanterna e li precedette lungo le strade semibuie della Città del Re. Era l'unico membro del personale chiamato a quell'incarico. L'aria della sera odorava di fumo e di nebbia - prima di mezzanotte il selciato sarebbe stato sdrucciolevole per la rugiada -, anche se le stelle campeggiavano in un cielo senza nubi. Wencel teneva la moglie a braccetto, con una fredda cortesia che doveva essere una sua antica abitudine. Ingrey estese i propri sensi, tutti i propri sensi, ma non percepì nessuna minaccia tra le ombre. Nessuna. Le uniche minacce siamo noi. Wencel e io. Decine di torce infilate in supporti di bronzo illuminavano di palpitanti bagliori l'ingresso del palazzo del sacro re. Soltanto l'appellativo «sacro» richiamava alla mente le antiche, possenti costruzioni di travi dal tetto di paglia, dal momento che il massiccio palazzo di pietra era stato costruito nello stile darthacano più recente. Le guardie si affrettarono a spalancare le
porte borchiate, inchinandosi profondamente all'avvicinarsi della principessa e del suo sposo. Le sentinelle sembravano vagamente mortificate al pensiero che le loro picche e le loro spade fossero incapaci di proteggere il loro signore dal nemico che lo minacciava quella notte. Benché fossero ancora lontani dalla camera da letto reale, i servi parlavano a bassa voce mentre scortavano i nuovi venuti lungo i freddi corridoi in penombra. Sopra di loro, i candelabri appesi a intervalli regolari strappavano riflessi morbidi ai pavimenti di legno lucidato a cera. Ingrey si fermò a deporre la lanterna, poi seguì il conte e la principessa su per la scalinata. 21 La camera da letto del sacro re era meno affollata di quanto Ingrey immaginasse. Un medico in toga verde e il suo Accolito sedevano al capezzale del morente, in silenzio, con l'aria depressa di chi ha visto tutti i propri sforzi risultare vani. Un Divino in saio grigio era in piedi in un angolo, un po' impaziente nell'attesa del momento fatidico in cui ci sarebbe stato bisogno del suo intervento. Nella stanza accanto, lontano dagli occhi - e grazie al cielo anche dalle orecchie -, un coro di cinque voci bianche del Tempio cantava inni sacri. Le voci iniziavano a farsi roche per la stanchezza; forse qualcuno dei cantori si stava chiedendo che cosa aspettassero gli dei e porre fine all'agonia del sovrano. Ingrey si fermò ai piedi del letto e guardò il re. Non era stato appesantito da intrusioni di spiriti estranei, come lui e Wencel; non era uno sciamano, né un mago, né un santo. Era semplicemente un uomo, anche se fisicamente molto diverso dal giovane di cui parlava Hetwar rivisitando i suoi ricordi d'infanzia, l'erede Stagthorne che aveva ricevuto lo stendardo di principe maresciallo dalle mani di suo padre, per andare a conquistare trionfi e onori in una guerra di confine ormai quasi dimenticata contro Darthaca. Quando Ingrey era tornato nel Dominio per entrare al servizio di Hetwar, il re era ancora un uomo vigoroso, nonostante i capelli bianchi e il peso delle sofferenze patite nel corso della sua vita. Gli ultimi mesi di malattia l'avevano invece consumato, come se gli dei volessero fargli assumere l'aspetto più adeguato a chi muore di vecchiaia. Ora stava dormendo il suo ultimo sonno. Ingrey sperò che Fara avesse già detto a suo padre tutto ciò che intendeva dirgli, perché sembrava chiaro che non avrebbe avuto un'altra occasione. La pelle incartapecorita, un tempo giallastra, aveva il colore cereo che Horseriver aveva associato alla
morte. Il respiro era faticoso, così esitante che ogni pausa attirava lo sguardo dei presenti, finché essi non udivano nuovamente il lieve soffio roco e i loro occhi si spostavano altrove. Fara era cinerea ma composta; si fece il segno dei Cinque, depose un bacio formale sulla fronte sudata del re e si trasse indietro. Il Divino osò posarle su una spalla una mano consolatrice, mormorando: «Ha avuto una buona vita, mia signora. Non abbiate timore». Lo sguardo con cui Fara gli replicò era vuoto sia di timore sia di consolazione, del tutto inespressivo. Ingrey fu sorpreso che non ringhiasse all'uomo di stare al proprio posto; se a lui avessero detto una simile banalità davanti al letto di morte di suo padre, sarebbe stato tentato di percuotere l'incauto. La donna invece gli domandò: «Dov'è mio fratello Biast? Dovrebbe essere qui. Anche l'Arcidivino». «È stato qui a lungo, mia signora, fino a poco fa. Tornerà presto. Mi aspetto che assieme a lui vengano anche Lord Hetwar e l'Arcidivino.» Fara annuì e si scostò da lui. Il Divino tenne la mano a mezz'aria, come per offrirle un'altra carezza consolatoria; poi per fortuna ci ripensò e lasciò la principessa alla sua mestizia. Horseriver aveva assistito alla scena con le mani unite dietro la schiena e i piedi saldamente allargati, perfetta immagine del signore e protettore della sua sposa. Il suo volto era composto come esigevano le circostanze. Fu solo Ingrey a notare che sembrava teso come un gatto davanti all'ingresso della tana di un topo. Che cos'altro sarebbe dovuto accadere in quella stanza oltre alla morte ormai da tempo attesa di un uomo anziano, pur trattandosi di un re? Horseriver si trovava nella capitale da settimane. Che cosa stava aspettando, a parte la fine di quell'agonia? E se la sua presenza lì era tanto importante per i suoi piani, quanto l'aveva irritato doversi allontanare per organizzare il funerale di Boleso? In questa stanza ci sono due sacri re. Com'è possibile? Era la stessa domanda che aveva rivolto a Hetwar e alla quale non aveva ricevuto una risposta soddisfacente. Che cos'era che rendeva sacro un re? Ingrey sospettava che Horseriver lo sapesse. All'improvviso si accorse che lo spirito di cavallo del conte non era più costretto in un grumo immobile, bensì sembrava fluttuare attraverso il suo corpo e cavalcare il fiume del suo sangue. Tuttavia era calmo... no, piuttosto in una situazione di equilibrio. In quel momento tanto la tensione di Horseriver quanto la sua pazienza sembravano addirittura sovrumane. Ingrey sentiva anche il proprio sangue pulsare con impeto. Si sarebbe
aspettato che l'accumularsi delle sue vite di lupo e quello delle vite di cavallo di Horseriver avrebbero reso quel cavallo la quintessenza del cavallo e quel lupo la quintessenza del lupo; invece sembrava che non fosse così. Era come se le due creature, crescendo e addensandosi, convergessero verso un centro comune. Si somigliano molto, aveva detto Ijada. Proprio così. I cantori giunsero alla conclusione dell'inno e tacquero. Si udì uno scalpiccio; l'Accolito della Madre era stato mandato in fondo al corridoio ad aspettare l'arrivo del principe Biast. Il Divino si spostò all'altro lato della camera da letto e si versò un bicchiere d'acqua. Dal letto giunse un respiro più lungo, dopo il quale ci fu silenzio. Il viso di Fara s'irrigidì; i suoi occhi erano vitrei di lacrime che non caddero. Horseriver avanzò solo per consegnarle un fazzoletto, che lei afferrò con un gesto spasmodico. Il conte mormorò qualcosa. La principessa non disse nulla. D'un tratto Horseriver indietreggiò di un passo, si alzò in punta di piedi e allargò le braccia, come un falconiere che richiamasse il suo uccello da preda. Con gli occhi fissi sul volto esangue del defunto, Ingrey protese le proprie percezioni. Non vide nessuna anima uscire dal corpo, come si diceva che succedesse ai santi. Comprese tuttavia che un'essenza di qualche genere se n'era allontanata, perché avvertì il passaggio di qualcosa che lo sfiorò come un'onda di profumo portato da una corrente d'aria. Sorpreso, si rese conto che aveva già avuto la stessa esperienza altre volte, e subito dopo riuscì a identificare una presenza più vasta, che gli fece rizzare i capelli. Ma si trattava di Qualcuno che non badava a lui e che se ne andò senza lasciare tempo ai suoi occhi di cogliere il minimo dettaglio anomalo. Il misterioso odore invece rimase, fresco e complesso come quello di un bosco in primavera: acqua, pini, muschio, terra umida, luce solare e... una risata aveva un odore? Ingrey ne fu scaldato ed eccitato, mentre girava la testa per seguirlo e le sue narici si allargavano nel vano tentativo d'identificarlo. Lo aspirò a pieni polmoni, sbalordito. Che cosa avrebbe dovuto fare? Gettare da parte la principessa? Spingere via Horseriver? Non poteva estrarre la spada per colpire quell'odore di bosco, sferzando l'aria come un pazzo. Inoltre non sembrava esserci malvagità in esso. Pericolo sì, potere sì. Gloria sì. Ingrey si era voltato in tempo per cogliere l'istante in cui l'odore aveva colpito Horseriver. Il conte vacillò leggermente, come se su un braccio proteso del falconiere fosse atterrata una grande aquila; poi chiuse gli oc-
chi, ritrasse le braccia ed emise un sospiro soddisfatto. Quando riaprì gli occhi, erano colmi di luce. Sacro fuoco, pensò Ingrey. Così presto! Che cos'è successo? Sicuramente Horseriver non poteva avere... no, non aveva raccolto al volo l'anima del re per aggiungerla all'oscura mandria che già aveva in sé. Perplesso, Ingrey si voltò per mormorare a Wencel: «Hai rubato una benedizione agli dei...?» Il sorrisetto del conte ebbe l'effetto di rincuorarlo. «Questo... questa cosa non è stata opera degli dei», gli rispose in un sussurro, indicando l'aria intorno a loro. «L'abbiamo fatta noi. Appartiene a questo posto. Mi è stata tolta duecentocinquanta anni fa. E ora mi ritorna. Per un poco.» Il Divino del Padre, inconsapevole di tutto ciò, si era affrettato ad accostarsi al letto, dove il medico stava eseguendo il suo esame finale. I due confabularono in tono grave. Poi il Divino praticò il segno dei Cinque sulla salma del re e su se stesso, quindi iniziò a intonare una breve preghiera. Dunque era così. Wencel aveva detto un'altra bugia, o mezza verità; Ingrey non riusciva più a esserne sorpreso. Non c'erano stati due sacri re in quella stanza; c'erano stati due mezzi re, ciascuno privo di qualcosa che i suoi antenati avevano avuto, ciascuno d'ostacolo alla piena realizzazione dell'altro. Ora ce n'era uno solo, con tutti i poteri di un antico re. Ingrey tremò sotto il terribile peso del sorriso del suo sovrano. «Prima le cose necessarie», disse sottovoce Wencel. Si leccò un pollice e toccò la fronte di Ingrey. Lui fece un passo indietro, ma ormai era troppo tardi. Sentì lo snap con cui la sua connessione con Ijada si spezzava, come una cosa fisica, e faticò a trattenere un grido di dolore e di rabbia. Non aveva ancora ripreso fiato quando la connessione si ristabilì, ma, anziché con Ijada, percepì inorridito un contatto con Horseriver. La volontà di quest'ultimo montò il crescente panico di Ingrey come un cavaliere esperto avrebbe montato un puledro selvatico. La sensazione lo sopraffece, oscurandogli la vista e facendogli piegare le ginocchia. Horseriver, con le sopracciglia aggrottate, studiò il suo volto e annuì soddisfatto. «Sì... Così dovrebbe andare bene.» Fara si voltò a guardare il marito. Aveva gli occhi spalancati e tratteneva il fiato. Ingrey pensò che, se la donna aveva avvertito anche solo un decimo della potenza dell'incantesimo, non c'era da stupirsi del suo sbigottimento. Horseriver si leccò ancora il pollice e le toccò la fronte; poi la abbracciò, premendo una tempia su quella di lei con un gesto che chiunque avrebbe interpretato come affettuoso conforto. Quando la lasciò, gli occhi
di Fara avevano una luce vitrea, fissa. Ingrey si domandò se anche i suoi fossero così. Con un braccio intorno alla vita della moglie, come per sostenerla, il conte si rivolse al Divino del Padre: «Quando mio cognato arriverà, ditegli che ho portato la principessa a casa per farla stendere a letto. Temo che questo dolore le abbia causato una delle sue emicranie debilitanti». Il Divino, all'improvviso molto attento e deferente, chinò il capo. «Come vostra eccellenza ordina. Mia signora, vi porgo le mie condoglianze per la tragica perdita. Siate certa che l'anima di vostro padre è ormai nata in un mondo migliore.» Horseriver fece una smorfia. «Tutti gli uomini nascono impregnati della propria stessa morte. L'occhio esperto può vederla avvicinarsi dentro di loro giorno per giorno.» Il Divino esitò, sgradevolmente colpito dalla metafora, ma replicò: «Non sono sicuro che...» Horseriver alzò una mano e l'uomo si zittì all'istante. «Pace. Dite al principe maresciallo che ci vedremo domattina. Sul tardi, forse. Lui può dare inizio ai preparativi del funerale, se vuole.» «Sì, mio signore.» Il Divino s'inchinò. Dall'altra parte del letto il medico fece lo stesso. «Ingrey...» Horseriver si volse a lui e sulle labbra gli apparve un inquietante sorriso. La sua voce si abbassò in un tono che vibrò nelle ossa di Ingrey. «Seguitemi.» Furioso, affascinato e sgomento, Ingrey s'inchinò e seguì il suo padrone. Horseriver condusse la moglie e Ingrey a passi svelti lungo i corridoi poco illuminati del palazzo reale. Un altro gesto di comando, accompagnato dalla parola «pace», fece sì che le guardie all'ingresso li salutassero senza avvicinarsi né fare domande. Uscirono nella strada buia, dove già si addensava una nebbia fredda. Mentre stavano svoltando il primo angolo, Ingrey si girò e vide una processione di lanterne oscillanti avvicinarsi al palazzo. Alcune voci attraversarono la nebbia: Biast si stava recando al capezzale di suo padre con un gruppo di personaggi altolocati. Ingrey riconobbe la voce di Hetwar che rispondeva a un'osservazione del principe maresciallo. Si chiese se avesse con sé l'anello col sigillo reale che era suo compito custodire, assieme al martello d'argento con cui l'avrebbe infranto accanto al letto. Ingrey, Horseriver e Fara non avevano lanterne, erano vestiti di nero e
camminavano senza fare rumore. Ingrey dubitava che qualcuno dell'altro gruppo li avesse visti. Si avviarono giù per la collina; poco più avanti non svoltarono verso la dimora degli Horseriver come Ingrey si aspettava, bensì proseguirono finché dal buio non emerse il profilo della scuderia. Il portone era aperto e nell'interno impregnato di odori di equini brillavano alcune lanterne appese alle travi. Uno stalliere che si stava scaldando accanto al fuoco si affrettò ad accorrere e s'inchinò al conte. «Tutto è pronto, mio signore. Gli abiti sono nella stanza degli attrezzi.» «Bene. Aspetta qui.» Horseriver invitò Fara e Ingrey a precederlo nel passaggio tra gli stalli; quest'ultimo notò che il cavallo di Horseriver e quello grigio di nome Lupo erano già sellati e avevano capienti borse da sella allacciate sul dorso. Anche una giumenta baia era stata preparata nello stesso modo. Mentre passavano davanti allo stallo del cervo, l'animale sbuffò e scosse le corna, battendo nervosamente gli zoccoli anteriori sulla paglia. Horseriver indicò una lanterna a Ingrey, che la raccolse, quindi li fece entrare nella stanza degli attrezzi. Dal muro pendevano numerose selle ben lucidate e finimenti di bella fattura. Sulle panche c'erano tre pile di vestiti. Ingrey riconobbe i propri abiti da equitazione e i propri stivali. Accanto c'erano vesti femminili in un ricco tessuto scuro, con orli e ricami in filo d'oro. Horseriver li indicò. «Cambiatevi», disse. «Indossate la biancheria pesante e i guanti. Dovremo cavalcare, stanotte.» Con volto impassibile, Fara lasciò cadere al suolo il mantello. «Avrò bisogno di aiuto coi bottoni, mio signore», disse. «Ah, sì.» Horseriver sorrise e con dita esperte slacciò i bottoni di perla sulla schiena dell'abito di velluto della moglie. Ingrey si tolse la divisa da cortigiano, la camicia ricamata e le scarpe da città, quindi indossò gli indumenti pesanti e la giubba di pelle ancor prima che le eleganti sottovesti di Fara cadessero intorno alle caviglie nude di lei. Non gli passò neppure per la testa che nessuno di loro fosse imbarazzato per l'inattesa intimità. L'esaltazione, lo stupore e lo spavento non lasciavano spazio a emozioni meno forti. Infilò gli stivali e si alzò, quindi allacciò il cinturone, da cui pendevano il coltello e il fodero della spada. Il suo sacrilego signore era ancora occupato con le complicazioni degli abiti della moglie. Mentre il conte alzava le braccia per aiutare Fara a infilarsi la giacca, Ingrey colse il luccichio di un nuovo fodero di cuoio alla sua cintura. Un fodero nuovo per un nuovo pugnale? Senza farsi notare, indietreggiò fino a
uscire dalla stanza degli attrezzi. Sarebbe riuscito a sfidare l'ipnotica forza di volontà del conte? Concepire il desiderio di resistergli significava che tale possibilità fosse reale? O forse sarebbe bastato agire senza pensare? Ijada, che cosa ti sta succedendo ora che non mi senti più? Gli era impossibile intuirlo come prima. Senza dubbio Horseriver aveva progettato con cura quella mossa. Ora, con Ingrey sotto il suo controllo, intendeva dare l'assalto alla casa-prigione? Ingrey continuò a indietreggiare fino allo stallo del cervo e aprì lo sportello. Aveva le dita intorpidite. «Vai!» sussurrò. L'animale balzò a destra e a sinistra; sbuffò col rumore secco di una lastra di ghiaccio che si spezza, poi barcollò fuori dello stallo scalpitando sul pavimento di mattonelle colorate. Non appena si fu orientato, galoppò via e scomparve nel buio della città, veloce come un'allucinazione. Ingrey s'irrigidì vedendo Horseriver mettere fuori la testa dalla stanza degli attrezzi, accigliato. «Resta lì!» sbottò il conte, e lui fu costretto a obbedire. Era ancora fermo ad aspettare e a lottare... non tanto per muoversi, quanto per trovare la volontà di muoversi, quando il conte tornò fuori della stanza. Aveva indossato anche lui abiti da equitazione in pelle e stivali, e conduceva Fara tenendola per un gomito. Guardò lo stallo vuoto e, con delusione di Ingrey, si limitò a sogghignare aspramente. «Sei quasi riuscito a farmi preoccupare», disse passandogli accanto. «È stata una buona mossa; il cervo avrebbe potuto colpirmi. Forse dovrei legarti, eh?» Quindi condusse Fara verso lo stallo in cui la giumenta marrone di Ijada si agitava nervosamente. «Ho paura di questa bestia, mio signore», balbettò Fara. «Tra poco non l'avrai più, te lo prometto», ribatté lui. Dalla sua posizione Ingrey poteva vedere ben poco oltre lo sportello chiuso, a parte le orecchie palpitanti della giumenta, la nuca del conte e i capelli scuri di Fara; tuttavia udì un fruscio che poteva essere quello di un pugnale estratto dal fodero di cuoio. Il conte mormorò una strana cantilena, con parole arcane il cui suono fece rizzare i capelli di Ingrey e gli accelerò follemente i battiti del cuore. Poi si udì una successione di suoni: un colpo contro la carne, una specie di grugnito agonizzante, uno strattone a una corda che scosse le pareti dello stallo e il tonfo pesante di un grosso corpo che si abbatteva al suolo, seguito da alcuni movimenti convulsi sulla paglia. Infine ci fu silenzio. Le due teste si mossero e lo sportello fu aperto. Fara si appoggiava a Horseriver, tremando vistosamente. Se anche il sangue era schizzato sul
suo abito da cavallerizza, nell'ombra non si vedeva nulla. «Che cosa mi hai fatto...?» gemette la donna. Dentro di lei i sensi di sciamano di Ingrey percepirono un'ombra, grossa ma spaventata, che si agitava come un animale in trappola. «Ssh!» la placò Horseriver. Le toccò ancora la fronte col pollice e gli occhi di Fara tornarono vitrei. Anche l'ombra-cavallo si calmò, benché sembrasse più impastoiata che quieta. «Andrà tutto bene. Adesso venite con me.» Lo stalliere riapparve, con aria apprensiva. «Mio signore. Che cos'è stato?» «Porta fuori i cavalli.» I tre animali sellati furono condotti nel cortile anteriore della scuderia. Lo stalliere e Horseriver aiutarono Fara a salire in groppa alla giumenta baia, controllarono i finimenti, le infilarono gli stivali nelle staffe, le tirarono giù l'orlo della veste e le misero le redini nelle mani guantate e tremanti. «Monta», ordinò il conte a Ingrey, gettandogli le redini del castrone grigio. Lui obbedì, benché l'animale si agitasse e scalpitasse, muovendo la testa su e giù. Horseriver si voltò a guardarlo e disse ancora una volta: «Pace!» in tono un po' irritato. Subito il cavallo si calmò. Il conte chiuse la porta della scuderia, quindi montò in sella a sua volta e si fece consegnare le redini dallo stalliere, che gli aveva tenuto fermo il cavallo. Poi si piegò a toccargli la fronte. «Vai a casa. Dormi. Dimentica.» Gli occhi dello stalliere diventarono vacui. L'uomo si voltò e se ne andò sbadigliando. Horseriver alzò una mano e rivolse un gesto imperioso a Ingrey e a Fara. «Seguitemi.» Fece girare il cavallo e si allontanò al trotto nella nebbia. Gli zoccoli risuonavano sui ciottoli scivolosi, strappando echi dai muri delle case, mentre i tre avanzavano nelle strade silenziose della Città del Re. Stavano attraversando la piazza del mercato, vuota a quell'ora, quando Horseriver si piegò di lato, con una mano sullo stomaco, e vomitò. Sputò anche qualcosa di scuro e umido. Passando dopo di lui, Ingrey sentì un odore non di bile, bensì di sangue. Forse la sua Voce Selvaggia lo fa sanguinare, come succede a me. In modo più discreto, a quanto pareva. Quanta parte del prezioso tesoro delle sue vene aveva speso per mettere la maledizione omicida dentro di lui? Le sentinelle di guardia alla porta sud-est delle mura li lasciarono uscire dalla città obbedendo a un semplice ordine. Horseriver non ebbe bisogno
neppure della sua Voce Selvaggia per ottenere la loro sollecitudine quando lo salutarono con profondi inchini. Una volta fuori, sulla strada provinciale in terra battuta, il conte mise il cavallo a un trotto sostenuto e al primo incrocio guidò il gruppetto verso la riva dello Stork. Dal profilo delle colline alle loro spalle si era levata una grande luna giallastra, che proiettava lunghe ombre sulla strada davanti a loro. Dove ci sta portando? Che cosa vuole da noi? E una volta giunti a destinazione, qualunque sia, che cosa ci ordinerà di fare? La frustrazione per non avere potuto mandare un messaggio a qualcuno fece digrignare i denti a Ingrey. Sparire così... Cercò d'immaginare che cosa avrebbe fatto la gente l'indomani. Il caos che avevano lasciato alla scuderia, con una giumenta uccisa, tre cavalli e il cervo scomparsi e i loro vestiti abbandonati sul pavimento... Avevano lasciato Easthome in fretta e senza ostacoli, certo, ma non in segreto. La sicurezza di Fara esigeva che il principe Biast li facesse inseguire. Dunque Horseriver, qualunque cosa abbia progettato, è sicuro di arrivare a destinazione prima che le guardie ci raggiungano. Dovrei cercare di farlo rallentare? Ingrey aveva ricevuto l'incarico di spiare Horseriver e proteggere Fara. Sino a quel momento la prima parte stava andando bene, in un certo senso, ma la seconda era un disastro, benché lui fosse ancora vicino alla principessa. Cercare di far assalire Horseriver dal cervo era stato un tentativo finito male. La paura che il conte volesse usare la moglie in qualche bizzarro sacrificio di sangue non aveva fondamento: nel suo attuale stato di ospite di uno spirito-cavallo, Fara non poteva essere inviata agli dei come latrice di una supplica. A dire il vero non poteva neppure prima, non essendo vergine. Del resto Ingrey non credeva che Horseriver volesse comunicare qualcosa agli dei, a parte la sua sfida blasfema alla Loro volontà. Ma dov'erano. Essi in quella notte d'inspiegabili avvenimenti? Cervi per gli Stagthorne. Cavalli per gli Horseriver. Fara era una Horseriver per matrimonio, per quanto insoddisfacente si fosse rivelata quell'unione, e nell'albero genealogico degli Stagthorne c'era stata una sposa Horseriver ogni due o tre generazioni. Il kin del conte e quello del sacro re si erano intrecciati in modo complicato, si disse Ingrey. Il portabandiera del sacro re era di solito un parente stretto. Symark era cugino di secondo grado di Biast e, prima di passare al suo servizio, era stato il portabandiera di suo fratello maggiore, Byza. L'ultimo portabandiera del sacro re era morto per cause naturali sei mesi prima e il vecchio aveva rinunciato a sostituirlo... forse perché sentiva la morte ormai vicina e
non voleva confondere il suo erede scegliendo a chi assegnare un ruolo tanto delicato? Oppure la nomina era stata bloccata da Horseriver per qualche oscura ragione? Un sacro re aveva bisogno di un portabandiera del proprio sangue, a garanzia che si trattava di un uomo d'onore. O di una portabandiera? Ingrey gettò un'occhiata a Fara, che stava aggrappata al pomo della sella, pallida in viso. Aveva fama di saper cavalcare bene. Quella notte la sua resistenza sarebbe stata messa a dura prova. Hetwar l'avrebbe redarguito severamente. Ammesso che Ingrey sopravvivesse. Era sicuro che il Guardasigilli avrebbe incolpato lui di ciò che stava accadendo. Inoltre, se lui e Fara fossero tornati vivi alla capitale, i giudici incaricati di processare Ijada avrebbero avuto interessanti enigmi da cui districarsi. Tutti i precedenti di casi simili, per ciò che riguardava Ijada e il suo leopardo, sarebbero stati applicati necessariamente anche alla principessa e alla giumenta che ora viveva in lei. Credo che io potrei fare qualcosa in proposito. E se non potessi, scommetto che Oswin ci riuscirebbe. Presso la riva dello Stork deviarono verso nord, sulla strada che seguiva il fiume. I riflessi della luna sulle acque palpitavano nei varchi tra gli alberi. Ingrey poteva udire il fruscio della corrente che scorreva veloce, mescolato al sussurro del vento che strappava ai rami turbini di foglie secche. Con le ginocchia incitò Lupo e si affiancò allo stallone di Horseriver. «Mio signore, dove stiamo andando?» L'altro si volse un momento e i suoi denti candidi scintillarono nell'oscurità. «Non lo immagini?» A nord. Sarebbero potuti andare in esilio nei Cantoni, ma l'ipotesi gli sembrava improbabile. Dopo due giorni di viaggio al trotto veloce sarebbero giunti alle Vette dei Corvi... Ingrey disse: «I Boschi Feriti. Campo del Sangue». «Proprio così, mio caro lupo: Boscosacro.» Ingrey attese, ma Horseriver non aggiunse nessuna spiegazione. Poco dopo accelerò ancora l'andatura e gli altri due cavalli sbuffarono, affrettandosi a mantenere il passo. Il raziocinio di Ingrey funzionava ancora, a quanto pareva. Erano le sue emozioni che erano cadute sotto il dominio di Horseriver. Che strana maledizione... no, non era un semplice sortilegio. Nulla di simile al parassita magico che lui aveva contrastato e sconfitto a Red Dike. Si trattava di un'altra cosa, antica e pesante, forte. Più antica dello stesso Horseriver? Non sembrava maligna di per sé, anche se qualunque cosa finiva per diventare
malvagia tra le mani di quell'individuo. Il terribile carisma dei re... Gli uomini si affollavano intorno a loro, attratti dal desiderio di qualcosa che non era una mera ricompensa materiale. Il fascino dell'eroismo e la feroce bellezza della battaglia potevano avere soltanto la morte come ricompensa, eppure gli uomini si riunivano sotto gli stendardi dei re. A sedurli bastava la promessa della gloria che avrebbero conquistato al loro servizio? Horseriver non aveva messo insieme da solo il regno che possedeva secoli prima. L'aveva ricevuto in eredità... Tempo immemorabile era un'espressione fin troppo vera per una società che non sapeva scrivere per legare gli anni alla memoria degli uomini, tuttavia i kin tribali erano vissuti in quella terra per un tempo tanto lungo che sembravano più antichi della stessa foresta. Qualunque fosse la magia che usavano, si era protratta per molto, molto tempo. Gli uomini degli antichi kin tribali erano stati, per loro stessa ammissione, una schiatta di testardi, arroganti e sanguinari, capaci di uccidere per futili motivi. Per ridurli all'obbedienza doveva essere occorso qualcosa di potente come il sortilegio che stava usando Horseriver. Nei loro ultimi giorni a unirli era certamente bastata la paura di Audar, ma la paura li aveva anche fatti agitare e dividere come foglie in una tempesta. Quanta energia aveva posseduto Horseriver, e quanta ne aveva spesa per portarli a Boscosacro e costringerli a compiere il grande rito? Se quello di oggi era l'ultimo respiro di una magia reale ormai morente, che cosa doveva essere stata ai tempi della sua massima potenza? La luna inondava di luce i banchi di nebbia. Il sacro re alzò un braccio e con un gesto perentorio incitò gli altri due a seguirlo al galoppo, sulla striscia chiara della strada in riva al fiume. Gli occhi di Ingrey si riempirono di lacrime nel vento freddo, saturo di umidità. Ma il suo cavallo procedeva senza sforzo e lui gettò indietro la testa e aprì la bocca, come se volesse bere la notte. Alle sue spalle lasciava il fallimento, davanti aveva forse la rovina; eppure in quell'ora d'argento si sentiva glorioso. 22 Prima che la luna fosse allo zenit, i cavalli vacillavano esausti. Avevano oltrepassato di molte leghe il punto in cui un corriere reale si sarebbe fermato a cambiare cavalcatura; Ingrey cominciava a chiedersi se Horseriver volesse sfinire a morte quelle povere bestie, quando finalmente lo vide ral-
lentare. Pochi minuti dopo l'uomo indicò un sentiero, lo imboccò e condusse gli altri due verso un casolare di campagna seminascosto tra gli alberi, vicino al fiume. Una lanterna appesa a un gancio spandeva bagliori giallastri nel silenzio lunare. In un recinto c'erano tre cavalli; poco lontano un uomo sonnecchiava avvolto in una coperta. Sentendoli arrivare si alzò, venne a scambiare qualche parola sottovoce col conte, poi iniziò a trasferire le loro borse da sella sui cavalli freschi. Horseriver concesse a Ingrey e a Fara un po' di tempo per mangiare pane e formaggio e bere un sorso di birra, prima di rimontare in sella e riprendere il viaggio. Fara era pallida e stanca, ma la volontà del sacro re le diede la forza di stringere i denti, tenersi in sella e lanciare il cavallo al galoppo. Ingrey iniziava a sentire la mancanza di sonno e la stanchezza quando si fermarono a un'altra fattoria, ancora più a nord, dietro una collina che la rendeva invisibile a chi transitava sulla strada del fiume. Fino a quel momento non avevano incrociato altri viaggiatori e si erano lasciati alle spalle numerosi borghi addormentati, mentre il corso dello Stork si faceva sempre più sottile. Fara cadde di sella tra le braccia del marito, che la stava aiutando a scendere. «Tua moglie non ce la fa più, mio signore. Ha bisogno di riposo», disse Ingrey. «Sta benissimo. Anche tu e io siamo stanchi. Comunque non preoccuparti: faremo una sosta qui.» Una pausa già prevista, evidentemente, perché dalla fattoria uscì una ragazza vestita di stracci che si prese cura di Fara e la condusse in casa. Anche lì c'era un servo, in attesa di occuparsi dei loro cavalli, e Horseriver lo seguì mentre ricoverava gli animali in una piccola stalla coperta dove ce n'erano altri tre. Il conte li esaminò e commentò il loro aspetto con un grugnito di approvazione. Non si trattava di cavalli da carico, bensì di costosi purosangue da sella, senza dubbio portati lì dalle scuderie del conte. Ingrey era ormai certo che il viaggio fosse stato pianificato da tempo. Chi li avesse inseguiti si sarebbe fermato a fare domande nelle locande e nelle stalle dei villaggi attraversati dalla strada del fiume, aspettandosi che i fuggiaschi avessero fatto sosta e cambiato le cavalcature in quei luoghi, come qualsiasi viaggiatore che andasse di fretta. Ma non avrebbe trovato né testimoni, né tracce, né cavalli lasciati da loro. Inoltre fermarsi a interrogare la gente lungo il corso dello Stork sino al confine settentrionale sarebbe costato tempo prezioso agli inseguitori, anche se avessero avuto tutte
le risorse del principe maresciallo e di Hetwar. Senza contare che le strade in uscita da Easthome nelle varie direzioni ammontavano a una dozzina ed essi avrebbero dovuto seguirle tutte. Fino a che punto posso oppormi a questa maledizione reale? si domandò Ingrey, sull'orlo della disperazione. Ammesso che fosse ancora in grado di ricorrere a tutta la propria astuzia e alla propria forza di volontà. Uscire dal raggio d'ascolto della voce di Wencel avrebbe spezzato quel guscio di calma fittizia in cui gli sembrava di fluttuare? Il potere del conte sarebbe vacillato se qualcosa avesse dirottato altrove la sua attenzione? Ingrey aveva fame di quell'attenzione, come un cane avido di ricevere un osso dal padrone, come un bambino che desidera ardentemente un sorriso del padre. Sentire in sé quell'obbedienza canina gli faceva digrignare i denti per la rabbia, e il pensiero che fosse Horseriver a godere di un affetto filiale che suo padre, Lord Ingalef, non aveva avuto il tempo di ricevere gli fece ribollire il sangue. Ma fu soltanto un attimo, perché subito il suo cuore tornò a protendersi verso Horseriver come se questi fosse un focolare in una notte gelida. Lo seguì fino al casolare e sedette accanto a lui, sul bordo della veranda, poi lasciò dondolare le gambe doloranti e guardò la vallata che scendeva verso il fiume, percorsa da banchi di nebbia sotto la luna. Il servo uscì dalla cucina con un vassoio di pane e prosciutto e una brocca di vino. In quella regione doveva esserci stata una buona vendemmia quell'anno, perché il vino era ricco e corposo. La vicinanza del suo padrone dava a Ingrey una sorta di ubriachezza emotiva, una stanca serenità in cui aveva l'impressione che avrebbe potuto alzarsi e andarsene, se solo avesse voluto. Bevve un altro bicchiere. «È un bel posto, signore», disse indicando col capo il freddo paesaggio notturno. Wencel contrasse la bocca in uno strano sorriso. «Ho visto fin troppi boschi sotto la luna», disse. Dopo un momento aggiunse: «Goditelo finché puoi». Parole di un'ambiguità inquietante, pensò Ingrey. «Perché viaggiamo con tanta fretta? Quali nemici dobbiamo precedere? Inseguitori da Easthome?» «Proprio così.» Wencel si stirò la schiena. «Il tempo stringe. Grazie all'abitudine del kin Stagthorne di nominare i figli del sacro re come unici candidati all'elezione finché il padre ancora è in vita, sono trascorsi centoventi anni dall'ultimo passaggio dei poteri regali da un kin a un altro kin. Lo sforzo di creare le condizioni politiche per un altro interregno del gene-
re mi sembra troppo difficile per me, oggi. Devo approfittare dell'opportunità che mi si sta presentando.» I suoi denti si scoprirono in un sogghigno. «O morire nel tentativo è una frase che non mi si applica.» Dunque i sospetti di Hetwar sembravano trovare conferma. Ciò che Horseriver voleva era un'elezione in cui Biast, l'erede designato, non fosse l'unico candidato, perciò il conte aveva manipolato i Grandi Elettori. Programmando anche l'accidentale dipartita dei suoi possibili rivali? «Quindi fai tutto ciò per essere di nuovo il sacro re?» Horseriver sbuffò. «Io sono il sacro re. Non ho bisogno di sentirmelo confermare da altri.» Tuttavia di qualcosa aveva bisogno; qualche pezzo mancante, staccatosi dall'anima del vecchio re Stagthorne mentre lasciava il corpo, oppure... un antico incantesimo, o un elemento che apparteneva al Vecchio Dominio, comunque una cosa di natura non politica. «Sacro re di nome e di fatto, dunque. Pubblicamente eletto e acclamato.» «Se io ambissi al titolo di re di questa miserabile terra, Ingrey, avrei potuto prendermelo anni fa», replicò pacatamente Horseriver. «Con un corpo migliore di questo, per di più.» Io ho un corpo migliore, non poté fare a meno di pensare Ingrey. Però, se l'elezione fosse stata davvero il principale interesse di Wencel, avrebbero dovuto rimanere nella capitale, non allontanarsene. Dunque Horseriver voleva qualcos'altro, qualcosa di più. Qualcosa di diverso. Ingrey doveva lottare per mantenere la mente chiara contro la nebbia della stanchezza, il vino bevuto a stomaco vuoto e il potere psichico del conte. «Se non vuoi vincere l'elezione, cos'è che vuoi?» «Ritardarla.» Ingrey sbatté le palpebre. «Ed è questo che otterrai fuggendo?» «Proprio così. L'assenza di un conte elettore...» Horseriver si toccò il petto, «da sola non sarebbe sufficiente, ma Biast si allarmerà per la scomparsa di Fara alla vigilia del funerale del loro padre, non appena ne verrà informato. Ho progettato anche altri diversivi. Le procure multiple che ho lasciato a favore di candidati diversi daranno molto di cui discutere per parecchi giorni, quando verranno fuori.» Il suo fugace sorriso non sembrava troppo divertito. Ingrey non seppe che cosa rispondere, anche se il termine interregno gli roteava nella mente, gravido di un significato elusivo. Nella palude che stavano diventando i suoi pensieri balenò all'improvviso una domanda più chiara: «A che cosa doveva servirti quel cervo?»
«Come? Non l'hai capito?» «Ho pensato che volessi sacrificarlo e farlo entrare in tua moglie per fare di lei una guerriera-spirito, oppure usarlo per portare via qualcosa dall'anima di suo padre. Invece per lei hai scelto una giumenta.» «Quando giochi contro gli dei, a volte una mossa inattesa funziona meglio di piani preparati da tempo. Neppure Essi possono ostacolare con successo i cambiamenti improvvisi. Quel cervo era una grande bestia e sarebbe dovuto diventare ancora più grande; avevo accumulato dentro di lui quattro vite. Ma la morte del sacro re è avvenuta prima che fosse pronto. Non so se gli dei siano riusciti a ritardare la prima cosa o ad anticipare la seconda.» «Tu vuoi trasformare Fara in... una sciamana? Lei o qualcun altro?» «Qualcuno. Ancora non ho deciso chi. Se non fosse stato per il tuo atto sconsiderato, avrei potuto utilizzare il cervo. Ma anche il tuo lupo può essermi utile, sebbene sia, come dire, domato. È più forte. Migliore.» Ingrey riuscì a non scodinzolare per il compiacimento, anche se gli costò un certo sforzo. Migliore per chi? La sua mente esausta cercò di mettere insieme alcuni pezzi. Uno sciamano, una portabandiera, un sacro re e il terreno magico di Boscosacro. E il sangue, senza dubbio. Doveva esserci del sangue là, da qualche parte. Sommando tutto si otteneva... che cosa? Non semplici scopi materiali, senza dubbio. Che cosa stava cercando Wencel, se persino gli dei si spingevano a invadere il mondo fisico per impedirlo? A che cosa aspirava, oltre alla sua sfolgorante regalità? Che cosa c'era di più grande di un re? Wencel aveva aspirazioni che andavano oltre la materia? Nel lontano passato i Quattro erano diventati Cinque; potevano questi diventare Sei? «Che cosa vuoi diventare, allora? Un dio? Un semidio?» Wencel bevve un altro sorso di vino. «Ah, i giovani! Così ambiziosi! Tu stesso hai visto un dio, o così affermi. Vai a letto, Ingrey. Stai sragionando.» «Che cosa, allora?» insisté lui testardamente, anche se fu costretto ad alzarsi. «Te l'ho detto ciò che voglio. L'hai dimenticato.» Io rivoglio il mio mondo, gli aveva gridato in faccia Wencel, disperato. Ingrey non l'aveva dimenticato; probabilmente non avrebbe potuto dimenticarlo neppure volendo. «No. Ma quello non puoi riaverlo.» «Proprio così. Vai a dormire. Domattina ci rimetteremo in viaggio.» Ingrey barcollò nella casa colonica e trovò il giaciglio che era stato pre-
parato per lui; si distese e restò a fissare il buio, benché fosse stanco. Senza dubbio il suo asservimento a Horseriver non era assoluto, altrimenti non l'avrebbe irritato tanto. Il potere regale di Wencel lo racchiudeva come un'armatura troppo stretta. Anche così, tuttavia, Ingrey sentiva quel potere come il calore di una fornace aperta davanti alla sua faccia. Addosso a un guerriero come tanti altri del Vecchio Dominio, la regalità sarebbe stata come un manto di luce. Lui si chiese come potesse essere nel passato quando veniva posta sulle spalle di un uomo dalla personalità fuori dell'ordinario, quando l'anima si fondeva alla sacra fiducia che emanava da lui in un perfetto flusso di potere. Una Voce di quel genere poteva far camminare le montagne. La sua mente scacciò la visione. I suoi doveri - penetrare i segreti di Horseriver e difendere Fara - lo tenevano incollato al suo rapitore, che lo volesse o no. Forse un tentativo di fuga era prematuro. Meglio fingersi acquiescente, pazientare e attendere il momento propizio? Ciò significava confidare nel comportamento che la ragione e le sue attuali conoscenze gli suggerivano di tenere. O avrebbe dovuto pregare? Ingrey non pregava prima di addormentarsi da quando era bambino. Ma il sonno portava i sogni, e nei sogni talvolta apparivano gli dei. E parlavano. I suoi sogni non erano un palcoscenico su cui Essi recitavano, come accadeva a Hallana, tuttavia Ingrey sentì nascere la speranza che gli facessero visita e lo consigliassero. Se pure Ingrey sognò qualcosa, tuttavia, il mattino seguente non lo ricordava. Fu svegliato senza troppi complimenti dallo stalliere, che lo scrollò per una spalla. Accanto a lui c'erano una bacinella d'acqua fredda e una ciotola con pane e rape bollite. Wencel fece rimontare in sella lui e Fara poco più tardi. Salendo di quota, il territorio si faceva sempre meno coltivabile e più disabitato. Viaggiando di giorno avevano però modo di osservare meglio la zona e d'incontrare traffico sulla strada: carri da trasporto, gente a cavallo, bestie da soma, greggi di pecore, vacche e maiali. Invece di galoppare come la sera prima, Wencel teneva la sua cavalcatura al trotto, rallentando al passo sulle salite o dove la strada era in cattive condizioni. Nonostante ciò, era chiaro che aveva calcolato di poter tenere la massima velocità consentita da quel genere di percorso. Poco dopo mezzogiorno un'altra vecchia fattoria lontano dalla strada fornì loro un pasto caldo e un cambio di cavalli.
Ingrey aveva tenuto d'occhio Fara. Ciò che aveva dovuto sopportare il giorno prima, a cominciare dall'inchiesta e proseguendo poi con la dolorosa veglia al palazzo reale, culminata con la morte di suo padre, per finire col rapimento e con la durissima cavalcata nella notte, avrebbe devastato qualsiasi donna e la maggior parte degli uomini. C'era dunque da sospettare che il suo spirito animale le stesse dando una forza fisica eccezionale, senza dubbio sorprendente anche per lei stessa. Quanto alla forza mentale... forse ne aveva sempre avuta più di quanto Ingrey credesse. Visto l'effetto che il potere di Wencel aveva su di lui, c'era da domandarsi quale potesse essere sulle donne. Ingrey cercò di osservare come Fara reagiva alle parole e alla vicinanza del marito. Sembrava stordita, quasi ipnotizzata, e ogni volta che si voltava a guardare suo marito socchiudeva le labbra come per un inconscio desiderio sessuale. Ma non ne era felice. Lei possedeva già tutto ciò che le altre donne desideravano, tuttavia... qualcosa non le piaceva affatto. In risposta ai suoi sguardi, Wencel non le offriva niente oltre a un freddo distacco, quasi che Fara fosse una giumenta dalle dubbie qualità che non era valsa la pena di comprare. E sotto i suoi occhi sprezzanti la principessa sembrava appassire. Non la si poteva definire una donna intelligente o di carattere, tuttavia era stata una moglie devota, incapace di tradire. Aveva sopportato per anni l'infedeltà che percepiva in Wencel, fino alle conseguenze più disastrose. Era davvero la sua marionetta, come lui sembrava credere? E Ingrey lo era? Guardò dentro se stesso. Il suo lupo e lui non erano separabili finché fosse stato in vita, tuttavia gli parve che la parte non umana della sua personalità fosse più appagata, sotto l'incantesimo di Horseriver, della parte razionale. La parte che pensava razionalmente restava più libera. Un tempo Ingrey aveva incatenato il lupo, quando era stato più giovane e spaventato e sconvolto. Se il sacro re aveva messo il guinzaglio al suo lupo, ora controllava davvero tutto ciò che restava di lui? Sta cercando di fare più in fretta possibile. Perciò dovrei cercare di ritardarlo. Horseriver rimise il cavallo al passo, voltandosi a guardare a sinistra. Alla fine deviò verso il fiume lungo una stradicciola secondaria e i cavalli scesero una lunga scarpata sotto le chiome dei pini. La terra molle lasciò il posto a un fondo sassoso e più avanti trovarono, invece di uno dei ponti di legno comuni sul corso superiore dello Stork, un semplice guado. Le Vette dei Corvi lo alimentavano con sorgenti generose. L'acqua non era torbida come nella zona dove aveva viaggiato il carro con la salma di Boleso, però
il fiume era largo e profondo e le recenti piogge autunnali non avevano reso il guado più praticabile. Dopo avere studiato rapidamente il punto più adatto, il conte incitò il cavallo a entrare nel fiume. Fara lo seguì obbediente. Se non mi fermo a pensare... D'impulso Ingrey spronò il cavallo nella corrente, a monte rispetto a quello di Fara, avanzò finché l'acqua non arrivò alla pancia dei due animali e iniziò a sollevarli dal fondale, quindi fece scartare il cavallo addosso a quello di lei. Entrambi gli animali inciamparono e la corrente li rovesciò di lato. Ingrey aveva già sfilato gli stivali dalle staffe. Si spinse via dalla sella, mentre i suoi occhi si riempivano di schizzi, e afferrò la principessa passandole un braccio intorno alla cintura. Lei aveva ancora uno stivale incastrato nella staffa. Il suo cavallo avrebbe potuto trascinarsela dietro fino alla riva opposta, ma il peso di Ingrey la strappò via. Il grido di Fara si trasformò in un gorgoglio quando la corrente la tirò con la testa sott'acqua. Horseriver si voltò di scatto e tutto ciò che vide fu Ingrey che riportava la donna in superficie, mentre entrambi venivano trascinati verso valle. «Fermatevi!» gridò il conte. Ingrey si contorse in risposta all'ordine, ma se anche quella voce stregata poteva comandare gli uomini e le bestie, non aveva nessun effetto sulla corrente di un fiume. L'acqua era fredda, tuttavia non gelida, e stavolta Ingrey prestò attenzione a non sbattere la testa contro qualche roccia sporgente. A differenza della volta precedente, però, scoprì subito che la sua compagna non sapeva nuotare. La tenne stretta con tutte le forze e cercò di non ingoiare troppa acqua quando lei lo montò come un cavallo e, nel terrore di annegare, continuò a tenerlo sott'acqua, ignorando i suoi sforzi per tornare a galla. Per fortuna Ingrey riuscì a trattenere il fiato finché la sua testa non riemerse. Per ben tre volte toccò il fondale coi piedi e ogni volta si spinse verso il centro del fiume, dove la corrente era più rapida. Poi, dopo un paio di anse, il corso d'acqua si fece più largo e lento e i due si trovarono in una rientranza dove anche i piedi di Fara poterono toccare il fondo. Annaspando e scivolando nel fango, raggiunsero la riva. Ancora prima di essere risalito all'asciutto, Ingrey esaminò la zona. Avevano oltrepassato una fitta distesa di cespugli spinosi, lasciandosi dietro la zona degli affioramenti rocciosi dove le acque erano poco profonde ma molto impetuose, e ora si trovavano tra le canne e i salici piangenti. Wencel avrebbe impiegato un po' per raggiungerli, soprattutto se si fosse fer-
mato a recuperare i loro cavalli per legarli da qualche parte. Ingrey aveva un'idea abbastanza chiara del ritardo che quel diversivo avrebbe causato e si augurò di poterlo aggravare ulteriormente. Fara tossì. Col viso cinereo per il freddo e scossa da brividi, si aggrappava a un braccio di Ingrey. Sembrava sconvolta e sull'orlo delle lacrime, ma con sollievo di Ingrey non si mise a piangere. «Voi mi avete salvato!» ansimò la principessa. Ingrey non aveva intenzione di perdere tempo con frasi di circostanza. «Era mio dovere, altezza», disse comunque. «Inoltre temo di avere la mia parte di colpa. Ho fatto in modo che il mio cavallo inciampasse addosso al vostro.» «Io ho creduto... ho creduto che stessimo per annegare.» Ci siamo andati vicino. «No, mia signora.» «Volete dire che...» La donna esitò, fissandolo a occhi spalancati. «Siamo scappati?» Ingrey trasse un lungo respiro e lo lasciò uscire lentamente. La distanza tra loro e il sacro re era maggiore, forse sufficiente... ma non del tutto. Il senso della presenza di Wencel, che aveva sostituito quello della presenza di Ijada, era ancora percepibile. Se lo sentiva dentro. Il conte era irritato e stava cercando di agire in fretta, da qualche parte più a monte. Ma non era preoccupato. «Scappare no, non credo sia possibile. Ma potremmo riuscire a fargli perdere tempo.» «A quale scopo?» «Qualcuno deve averci inseguito. Alla vostra ricerca. Forse con più rapidità di quanto vostro marito crede. Il principe Biast sarà molto preoccupato per la vostra sicurezza», disse Ingrey. Il conte doveva avere calcolato che nessuno li avrebbe inseguiti fino al giorno successivo, ma Ijada si era certamente accorta subito che qualcosa non andava. Avrebbe pensato che Ingrey fosse stato ucciso? Si sarebbe affrettata a mettersi in contatto con qualcuno? Lewko, oppure Hallana? Gesca avrebbe accolto la sua richiesta di vederlo a quell'ora di notte? In precedenza lui si era sentito un po' in colpa per avere intimidito Gesca sul comportamento da tenere con Ijada; ora gli dispiaceva di non avergli suscitato un timore maggiore. Che i Cinque Dei la aiutino. Lei e tutti noi. Ma se Essi sono interessati come sembravano, perché non intervengono, quei maledetti? Fara si spostò al sole, tremante, con gli abiti inzuppati di fango e i capelli ridotti a miseri grovigli scuri appiccicati alla faccia e al collo. Ingrey non
era in condizioni migliori e a ogni movimento piccoli getti d'acqua gli schizzavano fuori dagli stivali. Si tolse il cinturone con le armi, si sfilò la giubba di pelle e cercò di strizzarla, senza molto successo. «Dove mi sta portando Wencel?» domandò Fara con voce debole. «Lo sapete?» «A Boscosacro, dove c'è Campo del Sangue. O i Boschi Feriti, come volete chiamarli.» «I boschi di Ijada? La terra che ha ereditato?» La donna sbatté le palpebre, stupita. «Dunque lo sta facendo per lei?» «Al contrario. Ciò che vostro marito desidera sono i Boschi Feriti, non chi li ha ereditati. Sono antichi. Antichi e maledetti.» Il volto di Fara, per un attimo rassicurato, tornò a esprimere allarme. «Perché? Perché mi ha trascinato lontano dal letto di morte dì mio padre? Quali malvagità ha in mente? Perché mi ha coinvolto in questa... in questa...» Si guardò attorno stringendosi le mani al petto, come se volesse strappare fuori del proprio cuore qualcosa che la tormentava. Ingrey la prese per i polsi e cercò di calmarla. «Non fate così, altezza. Io non so che cosa vuole da voi. Ijada pensava che io fossi destinato a liberare i fantasmi dei Boschi Feriti dai loro spiriti animali, come ho fatto col principe Boleso. Se questo è ciò che vostro marito vuole da me, non so perché non si sia limitato a chiedermelo. Non mi sarebbe parsa una richiesta sacrilega.» Lei lo guardò con ansia. «Voi potete estirpare da me questo orribile animale? Come avete fatto con mio fratello? Subito?» «Non finché siete in vita. Gli sciamani del Vecchio Dominio ripulivano le anime dei loro guerrieri solo dopo la morte.» «Allora cercate di non morire prima di me», disse lentamente lei. «Non so se potrò. Non so che cosa succederà.» Il volto di Fara s'irrigidì. «Io posso fare in modo che ciò accada subito.» «No, altezza!» Ingrey le strinse più forte i polsi. «Non siamo ancora a tal punto. Però vi giuro che, se vedremo la morte incombere su di noi, farò in modo di liberare la vostra anima.» Fara lo fissò con bruciante intensità. «Va bene. Forse», disse. Ingrey la lasciò e lei si passò le mani sul viso, scossa da un tremito. Non era affatto da escludere che Wencel intendesse usare Fara come messaggera sacrificale per gli dei, pensò Ingrey. Gli sarebbe bastato ucciderla e poi obbligare lui a ripulirne l'anima. Era per questo che Wencel l'aveva portato con sé? Aveva senso una simile ipotesi? Non molto, ma fino a
quel momento c'era ben poco che avesse senso ai suoi occhi. «Allora voi non potete ripulire neppure l'anima di Wencel, finché è vivo», disse Fara pensierosa. «Vostro marito non è semplicemente infestato da un solo spirito animale, come voi. Lui è... posseduto, credo sia la parola migliore, da un'anima, o una concatenazione di... be', a quanto dichiara lui stesso, nel suo corpo c'è l'anima dell'ultimo sacro re del Vecchio Dominio.» È più di una semplice dichiarazione. «Un'anima antica, tenuta in vita fino a oggi da un grande incantesimo fatto a Campo del Sangue.» «Pensate che sia diventato pazzo?» domandò lei a bassa voce. «Sì», annuì Ingrey, ma con riluttanza aggiunse: «Tuttavia non mente. Non su questo punto». Fara lo fissò a lungo. Lui si aspettava che gli chiedesse: Non è che voi avete le allucinazioni? Sarebbe stato incapace di rispondere. Invece la principessa disse: «Quando lui è cambiato, io l'ho sentito. È cambiato ieri sera, dopo la morte di mio padre». «Sì. Ha reclamato la sua regalità, o la parte di essa che gli mancava. Ora lui è... be', non sono sicuro di che cosa sia. Però sta correndo contro il tempo.» Lei scosse il capo. «Wencel ha sempre ignorato il tempo. Era persino irritante, in questo.» «La cosa dentro il corpo di vostro marito non è Wencel. Io devo ricordarlo a me stesso di continuo.» Fara si massaggiò le tempie. «La vostra testa vi preoccupa?» domandò Ingrey cautamente. «No. È molto strano.» Come avrebbero potuto farlo ritardare ulteriormente? Separandosi per rendere la sua ricerca più lunga? Un discreto stratagemma; Ingrey poteva gettarsi di nuovo nel fiume, che era immune all'incantesimo del sacro re, e farsi portare a valle per qualche lega prima che Wencel lo trovasse. Cercò di ricordare se avessero oltrepassato qualche cascata più a sud. Ma poi decise di non farlo; non poteva lasciare sola quella donna, inzuppata e tremante, in attesa che il mostro sacrilego che aveva sposato la trovasse. «Il principe maresciallo Biast mi ha ordinato di proteggervi. Non possiamo separarci.» Lei annuì con gratitudine. «Vi prego di non lasciarmi, Lord Ingrey!» «Vostro marito ci cercherà lungo la riva. Meglio spostarsi nel bosco.» Anche se non sarebbe bastato per sfuggire a Horseriver: Ingrey poteva
già sentire la sua forza mentale che li stava localizzando e si stringeva sempre più. Tuttavia doveva ammettere di nutrire una selvaggia curiosità su Campo del Sangue. Voleva vederlo. Aveva bisogno di vederlo. E la via più rapida era lasciare che Horseriver lo portasse là. Non troppo presto, però. Forse il conte aveva già, in lui e in Fara, tutto ciò che gli serviva, ma Ingrey non credeva di avere ancora tutto ciò che serviva a lui. Aveva bisogno di Ijada. Non poteva dubitarne. Forse Horseriver li aveva separati perché anch'egli lo sapeva. Confida negli dei... Essi provvederanno? Improbabile. All'improvviso si chiese se per gli dei fosse difficile avere fiducia in lui, così come era difficile per lui avere fede in Loro, e per un istante sentì l'urgenza di mostrare che cosa avrebbero dovuto fare per guadagnare la sua fiducia. Qualunque fosse l'espressione che aveva dato una luce disumana ai suoi occhi, indusse Fara a indietreggiare di un passo. «Io vi seguirò», gli disse con voce fioca. Ripresero ad avanzare tra i cespugli, scavalcando tronchi di alberi caduti, poi su per gli argini naturali che le piene avevano scavato intorno al corso del fiume. Più in alto attraversarono un prato fitto di cardi, i cui fiori lasciarono uno strato di lanugine bianca sui loro abiti bagnati. Nell'ombra del sottobosco si trovarono alle prese con rami spinosi e grandi ragnatele che si appiccicavano ai loro visi, costringendoli a sputacchiare disgustati. Quella camminata aveva se non altro l'effetto di riscaldarli, visto che non erano troppo stanchi. Ma non passò molto che tra la vegetazione si udì il rumore di un grosso animale che si avvicinava. In quella zona non c'era nessun pericolo peggiore di quello dal quale stavano fuggendo, tuttavia anche insidie di minore entità avrebbero potuto rivelarsi drammatiche. Ingrey s'irrigidì, con una mano sull'elsa della spada, e Fara gli si strinse accanto, finché i cespugli non si aprirono e ne emerse il conte, in groppa al suo cavallo. Horseriver commentò con un grugnito la loro presenza lì, più lontano dal fiume di quanto evidentemente si aspettava, ma nella sua espressione c'era più sollievo che rabbia. Subito ogni desiderio di fuggire evaporò dal cuore di Ingrey, scacciato dal calore della sua regale vicinanza. «Ti ringrazio per aver salvato la mia sposa», disse il conte. «Signore.» Ingrey s'inchinò. «Il mio cavallo è inciampato», disse Fara, senza che le fosse stato chiesto nulla. «Per poco non sono annegata. Lord Ingrey mi ha aiutato a restare a galla.»
Ingrey evitò di aggiungere: E la principessa mi ha aiutato a restare sott'acqua. Era questione di punti di vista, si disse. Il suo punto di vista era stato quello subacqueo. «Sì, ho visto», disse Wencel. Non tutto, altrimenti non mi ringrazieresti con tanta sincerità. Lo sguardo di Wencel era penetrante, ma non sospettoso. «Aiutala», disse il conte, facendo segno a Fara di avvicinarsi; Ingrey unì le mani per fare da staffa allo stivale fangoso della principessa, che salì in groppa dietro il marito. Il cavallo tornò sui propri passi, nel sottobosco, aprendosi la strada tra i cespugli e le ragnatele, e Ingrey lo seguì stancamente verso il guado. Occorse più di un'ora prima che i loro abiti fossero abbastanza asciutti e i tre potessero rimettersi in cammino verso il punto della strada in cui Horseriver aveva lasciato gli altri cavalli, a mezza lega dal fiume. Giunti là scoprirono, con soddisfazione di Ingrey, che il cavallo di Fara si era lesionato un tendine nella caduta. Wencel gli tolse i finimenti e lo lasciò libero, ordinò di mettere le borse da sella sul cavallo di Ingrey e fece salire nuovamente Fara dietro di sé. Quindi i tre ripresero il viaggio verso ovest, a una velocità assai ridotta. Quattro ore perse, dunque, forse qualcosa di più, prima di arrivare al successivo luogo di sosta. Non era abbastanza. Però è un inizio. Ingrey aggiunse altre due ore al suo calcolo quando uscirono di strada per un sentiero che li portò a un piccolo e misero casolare che meritava a stento il nome di fattoria. Una palizzata mezza marcia forniva un disturbo, più che un ostacolo, alle volpi che si rifornivano nel pollaio. Il sole stava calando. Horseriver scrutò i suoi ultimi bagliori gialli oltre le cime degli alberi e corrugò la fronte. «Per stasera non possiamo andare oltre. La luna si leverà solo dopo mezzanotte», grugnì con una smorfia scontenta. «E non potremo ripartire verso il prossimo cambio di cavalli prima dell'alba, se non vogliamo smarrirci tra queste montagne, dove non c'è nessun sentiero. Abbiamo perso un'intera giornata di viaggio. Be', ora riposatevi, ne avete bisogno.» Wencel era del tutto indifferente all'aspetto miserabile della casa, che fece inorridire la principessa. Il conte andò a controllare i cavalli del cambio. Fara fu ancora più disgustata dalla donna, magra e dai denti marci, che si offrì di aiutarla a togliersi le vesti ancora umide, parlando in un dialetto quasi incomprensibile; chiese a Ingrey di mandarla via e di darle una mano lui stesso. Più tardi, dopo avere mangiato, Ingrey si stese a dormire davanti
alla porta, arrotolato in una coperta, cosa che Fara scambiò per devozione protettiva da cortigiano. Lui non perse tempo a spiegarle che non se la sentiva di usare il giaciglio infestato dalle cimici che gli era stato preparato nella stanza accanto. Se Wencel andò a dormire, lui non si curò di scoprire dove. Nonostante le scomodità del pernottamento, Ingrey e Fara si svegliarono tardi il mattino successivo; a minare le loro energie era stato più lo scoramento che la fatica fisica. Senza fretta, ma anche senza inutili perdite di tempo, Wencel li condusse lungo una strada, in alcuni tratti non più larga di un sentiero, che scorreva parallela alle Vette dei Corvi, sulla loro destra. Le Vette dei Corvi erano monti scoscesi, ma non troppo elevati; la neve, prematura o tardiva che fosse, non indugiava mai a lungo sulle loro pendici verdi e marroni, benché qui e là ampie distese di roccia liscia dessero l'impressione del ghiaccio, sotto i raggi del sole. I loro fianchi irregolari erano tagliati a colpi di accetta, pieni di gole, burroni e piccole valli nascoste. L'autunno aveva striato il loro manto verde di bruno e di giallo, con qualche occasionale chiazza rossa come una ferita di spada, tuttavia prevalevano le tinte scure dei pini e degli abeti. Dietro le prime file di alture, negli occasionali varchi tra le vette, se ne scorgevano altre più lontane che sfumavano nella foschia azzurra del cielo, all'apparenza irraggiungibili come i confini di un mondo misterioso. Ingrey si domandò come avesse mai fatto Audar il Grande a scendere con un esercito a marce forzate attraverso quel territorio impervio. Il suo rispetto per gli antichi darthacani crebbe, nonostante tutto. Anche se Audar non governava grazie a un sortilegio, come i sacri re contro cui combatteva, doveva essere stato un condottiero dotato di grande carisma. Ora si stavano addentrando nella terra dei Badgerbank; Ingrey se ne rese conto quando cambiarono strada per aggirare la cittadina di Badgerbridge, in una fertile valle che penetrava fra le montagne come una verde punta di lancia. Il fumo dei camini si levava da tutto l'abitato e da piccoli borghi situati più in alto. Lui si domandò dove fosse la ricca dimora dei parenti di Ijada. Il tempio, una costruzione di legno a cinque lati, era visibile anche da una certa distanza, a contatto con le mura della città. Per qualche lega poterono seguire una comoda strada, fino al ponte che attraversava il fiume poco più a nord della città. Sotto le arcate passavano lenti barconi da carico spinti da equipaggi di uomini e ragazzi muniti di lunghi pali. Sulla strada c'erano numerosi carri trainati da buoi, file di muli
carichi di sacchi e greggi dirette alle zone di pianura dove avrebbero svernato. Horseriver mantenne un'andatura molto svelta, procedendo al galoppo ovunque il terreno lo consentisse; superato il ponte uscì di strada e piegò a ovest, dirigendosi verso il bosco su un sentiero a malapena visibile. Finché il cammino fu facilmente percorribile Horseriver continuò a spronare il cavallo, seguendo il percorso del sole; ma quando ogni traccia di sentiero scomparve dovette rallentare. I cavalli faticavano tra le rocce e i cespugli e sulle scarpate scivolavano spesso. Alla fine i tre viaggiatori trovarono una vecchia strada sterrata ancora libera dalla vegetazione, salirono sulla dorsale di un'alta collina e scesero in una valle nascosta, immersa nel silenzio. Non c'erano fattorie o baracche ad attenderli, ma solo un piccolo accampamento. Due servi si alzarono nel vederli arrivare e corsero a occuparsi dei cavalli. Tra gli alberi erano impastoiati i soliti tre destinati al cambio: robusti animali da soma stavolta, invece degli agili purosangue che il conte aveva preferito per il viaggio su strada. Fara, esausta, scese di sella con le sue ultime forze e guardò costernata i giacigli che li aspettavano, semplici stuoie e vecchie coperte arrotolate sotto gli abeti, ancora peggiori di ciò che avevano avuto la notte precedente. Se la donna aveva partecipato alle battute di caccia reali, Ingrey non dubitava che le sue giornate si fossero concluse in eleganti tende di seta, fornite di ogni comodità e con molte cameriere pronte a servirla. Lì invece tutto era stato sacrificato alla velocità e all'efficienza. Stiamo viaggiando leggeri e non ci tratteniamo un minuto di troppo in nessun posto. «L'hai portato?» domandò Horseriver al servo più anziano. L'uomo si segnò rispettosamente, chinando la testa. «Sì, mio signore.» «Tiralo fuori.» «Subito, mio signore.» L'uomo lasciò i cavalli all'altro servo e andò a chinarsi su un mucchio d'involti. Horseriver, Fara e Ingrey lo seguirono. L'uomo raccolse dal suolo un palo lungo circa due metri, intorno alla metà superiore del quale era strettamente arrotolata quella che sembrava una bandiera di tessuto ingiallito dal tempo, protetta da un panno di iuta chiuso da alcuni lacci. Horseriver sospirò soddisfatto quando la vide e mise subito il palo in verticale; poi posò la fronte contro il tessuto e chiuse gli occhi per qualche istante. Ingrey accompagnò Fara a uno dei giacigli arrotolati e la aiutò a distenderlo sull'erba. La donna sedette e si voltò a guardare il marito con aria stanca e perplessa, mentre i due servi si allontanavano per occuparsi dei
cavalli. «Che cos'è, signore?» domandò Ingrey indicando la bandiera. Qualunque cosa fosse, gli faceva rizzare i capelli. Horseriver sorrise senza allegria. «Il vero re deve avere il suo sacro stendardo, Ingrey.» «Non sarà per caso la bandiera che avevate a Campo del Sangue, eh?» «No. Quella è stata stracciata e seppellita col mio corpo. Questa mi ha seguito in battaglia più tardi, quando ero re soltanto di nome e, assieme ai pochi kin che mi erano rimasti fedeli, attaccavo le guarnigioni di Audar lungo gli acquitrini di confine. È stata arrotolata e chiusa così come la vedi dopo la mia ultima morte in battaglia. In seguito è stata conservata da colui che doveva essere il mio erede. Mi dava poca gioia guardarla, tuttavia ero contento di averla con me. L'ho nascosta in una soffitta al castello di Horseriver, dove è rimasta per trecento anni, in attesa di tempi migliori. E oggi eccola qui.» Horseriver la appoggiò con cura al tronco di un grosso pino, quindi srotolò il proprio giaciglio e vi si sedette a gambe incrociate. Ingrey preparò il suo, a pochi passi da quello della principessa, e si voltò di nuovo a guardare la bandiera. «Mi dà un senso di... ha qualcosa di ultraterreno, signore.» Gli dava i brividi, a dire la verità. Horseriver si umettò le labbra con aria soddisfatta. «Bene, mio saggio lupo. Intuitivo come sei, penso tu abbia già capito qual è l'altra funzione di un portabandiera, non è così?» «Eh?» esclamò Ingrey. Quando Wencel non era occupato a spaventarlo o a ingannarlo, riusciva senza difficoltà a farlo sentire uno stupido, rifletté cupamente. «Mi chiedo come tu sia riuscito a ripulire Boleso: non deve essere stato tanto semplice», ironizzò Horseriver. «Comincio a stancarmi di farti aprire gli occhi su ogni minimo dettaglio, sai?» Gettò un'occhiata a Fara come per accertarsi che stesse ascoltando; ciò lasciò perplesso Ingrey, perché fino a quel momento il conte aveva ignorato la presenza di lei, eccetto quando era indispensabile o quando aveva un ordine da darle. «Tu mi hai detto che i portabandiera avevano il compito di tagliare la gola ai compagni feriti per abbreviare la loro agonia», disse Ingrey. Inviare i loro spiriti agli dei senza farli soffrire oltre il necessario. I loro spiriti. Un momento... Horseriver lo guardava. «Metti insieme queste cose. L'anima di un guerriero ucciso doveva essere ripulita dallo spirito che era stato suo compagno
in vita, prima di andare dagli dei. Ma un guerriero di solito moriva sul campo di battaglia, dove non c'era il tempo di officiare i riti appropriati, e talvolta neppure di portare via il corpo. Spesso persino i feriti dovevano essere abbandonati. Nulla di uno spirito può esistere nel mondo materiale, se non ha un essere vivente che lo contenga. So che ti è stato insegnato. Se l'anima di un guerriero non poteva essere liberata, c'era il rischio che andasse perduta, perciò il compito di un portabandiera era quello di legarla a sé e portarla via, al sicuro, dove lo sciamano del suo kin avrebbe potuto ripulirla e liberarla. O al limite uno sciamano qualsiasi.» «Per i Cinque Dei», mormorò Ingrey. «Non mi meraviglia che i portabandiera fossero difesi tanto strenuamente dai loro compagni.» Il legame che Wencel aveva creato tra Ijada e lui era una variante di quell'antica pratica? «Erano difesi perché solo grazie al loro intervento le anime dei morti avrebbero potuto proseguire il viaggio nel regno degli dei. Perciò ogni combattente di rango elevato, che avesse dentro di sé uno spirito animale, era seguito da un portabandiera. Ora, il portabandiera del sacro re...» Horseriver fece una pausa per riprendere fiato, quindi continuò: «Il portabandiera aveva questo dovere verso l'anima del sacro re, se dentro di lui c'era l'animale del suo kin. Non tutti i re eletti l'avevano, poiché era una caratteristica che serviva soprattutto in tempi agitati e pericolosi. Tuttavia, che il suo signore contenesse uno spirito animale o no, il portabandiera aveva anche un altro sacro compito, non limitato all'eventualità che il suo signore morisse in una battaglia finita male. Anche se, ovviamente, quando il sacro re veniva ucciso quella era comunque una battaglia finita male. Dammi un po' d'acqua». Wencel aveva le labbra aride e teneva gli occhi bassi, con le spalle curve. Ingrey vide che assieme agli altri fagotti era stato portato anche un otre in pelle di capra. Andò a prenderlo e lo consegnò al conte, il quale gettò indietro la testa e bevve il liquido, indifferente al suo sapore animale. Poi fece un sospiro e posò una mano al suolo per sostenersi, come se raccontare le antiche usanze lo stesse facendo lentamente afflosciare. «Era dovere del portabandiera reale, dopo la morte del suo signore, catturare e trattenere l'anima del sacro re dentro di sé, fino al momento di trasferirla nell'erede designato. Così quella grande magia del Dominio veniva passata di generazione in generazione, dai tempi più lontani e dimenticati... fino a oggi.» «Lord Stagthorne, l'ultimo re, non aveva nessun portabandiera quando è
morto, tre giorni fa», osservò d'un tratto Ingrey. «Sei stato tu a fare in modo che non l'avesse?» «È stato uno dei preparativi necessari, benché non sufficienti, sì», mormorò Wencel. «Se ora avesse dovuto verificarsi il vero interregno, ben altre cose sarebbero accadute, per caso o niente affatto per caso, te l'assicuro.» Fece una smorfia, riprese fiato e continuò: «Il portabandiera reale, per tradizione e per profonda necessità, aveva certe doti. Lui, o lei...» e gettò un rapido sguardo a Fara, «era in genere dello stesso kin, dello stesso sangue nobile, anche se non sempre era l'erede. Veniva prescelto dal re, addestrato al compito dallo sciamano reale (o dallo stesso re, se era uno sciamano) e approvato dai guerrieri-spirito del kin riuniti in assemblea. Dunque qui abbiamo tutto ciò che occorre, anche se in miniatura, per farne uno. Sebbene manchino le cerimonie e le formalità. Non coi canti, bensì nel silenzio, l'ultima portabandiera del Vecchio Dominio cavalca al fianco del suo amato signore». Lo sguardo che gettò a Fara era freddo e ironico. Lei aveva i denti stretti e fece per dire qualcosa, ma Wencel alzò una mano e le sue labbra si mossero in una Voce senza voce. Stavolta Ingrey poté avvertire la presenza della maledizione chiusa intorno a Fara, come un bavaglio annodato dalla sua stessa rabbiosa paura. Le labbra della donna si chiusero, ma i suoi occhi bruciavano. «A quale scopo?» mormorò Ingrey. Perché lui non ci dà queste notizie senza un motivo, ne sono certo. Anzi si rese conto che Horseriver lo stava istruendo da giorni. Wencel si piegò in avanti, esitò, poi si tirò in piedi con un grugnito sofferente. Girò la testa e sputò un po' di sangue tra l'erba. Il suo odore ferroso giunse alle narici di Ingrey. Il conte guardò la radura immersa nel crepuscolo e i due servi che, terminato il loro lavoro coi cavalli, si avvicinavano timidamente. «Dobbiamo fare un falò, suppongo. Spero che abbiano portato il necessario. A quale scopo? Lo vedrai presto.» «Posso aspettarmi di sopravvivere?» domandò Ingrey e guardò Fara. Tutti e due? Le labbra di Wencel si curvarono in un fugace sorriso. «Puoi aspettartelo.» E si allontanò tra le ombre profumate di resina. Ingrey non comprese se quelle parole fossero una supposizione o una promessa. Il mattino seguente fu svegliato nel buio antelucano da Horseriver, che
aveva gettato legna sul fuoco e lo stava ravvivando. Tutti e tre avevano dormito vestiti e sembrava che i due servi sarebbero rimasti a smontare il campo e occuparsi dei cavalli utilizzati il giorno prima, cosicché Ingrey e Fara non ebbero da fare nient'altro che infilarsi gli stivali, scaldare sul fuoco un po' d'acqua con cui lavarsi la faccia e mandare giù qualche boccone di formaggio e pane raffermo. I tozzi e irsuti cavalli da soma erano già sellati; Ingrey notò che avevano molto meno carico degli altri. Nelle borse da sella non c'erano abiti e biancheria di ricambio, neppure per Fara, ma soltanto un po' di biada; anche le coperte e i giacigli erano stati messi in disparte dai servi assieme a tutto il resto. Le implicazioni di quella novità inattesa non gli piacquero affatto, anche se preferì non parlarne per non allarmare la principessa. Attraverso la nebbia che si era levata dalla foresta, fitta come uno strato di nuvole, filtrava poca luce. Fara tremava di freddo nell'aria umida, mentre Ingrey la aiutava a salire su un piccolo castrone nero. Horseriver legò alla meglio il palo della sua bandiera in orizzontale, lungo un fianco del cavallo, fissandolo a una staffa. Poi montò e, con un cenno del capo, li incitò a mettersi in viaggio; poco prima aveva ordinato loro di non aprire bocca e non fare rumori inutili. Ingrey si voltò a guardare i due servi. Il più anziano stava sull'attenti, con aria preoccupata, mentre l'altro si era già sdraiato dentro uno dei giacigli per concedersi qualche ora di sonno. Horseriver li guidò a un passo tra due colline, dapprima lungo una strada sterrata, poi seguendo un angusto sentiero. Ingrey, in retroguardia, continuava a chinarsi per evitare i rami spogli, che graffiavano la sua giubba di pelle come artigli mentre il sentiero si stringeva sempre più. Gli zoccoli dei cavalli affondavano tra le foglie marce e slittavano nella fanghiglia nera tra le radici, schiacciando fungosità da cui emanava un odore malsano. Il sole fece capolino tra la nebbia e i tronchi chiari delle betulle furono finalmente visibili anche a qualche metro dal muso dei cavalli. Sciami di tafani neri cominciarono a ronzare intorno ai tre viaggiatori, che li accolsero con qualche imprecazione, mentre le loro cavalcature non potevano fare altro che cercare di scacciarli sbuffando e agitando furiosamente la coda. Quando Horseriver li precedette su per un canalone che terminava in un vicolo cieco tra le rocce, Ingrey si rese conto che, se un tempo il conte era stato pratico della zona, il paesaggio era ormai cambiato fino a diventare irriconoscibile. Da quanti secoli...? Tornarono indietro e risalirono per un altro percorso. Horseriver procedeva con lentezza ma senza mai fermarsi. Dopo molte
ore trascorse tra gli alberi, col sole alto, l'uomo decise infine di fermarsi in una radura per mangiare, bere e far riposare i cavalli. Le foglie che si staccavano dagli alberi fluttuavano in capricciose spirali verso un laghetto. Non tutte avevano già abbandonato i rami e la zona oltre il bosco di betulle era ancora mascherata da un sipario verde. Horseriver salì su un dosso e scrutò il panorama per qualche minuto. Ciò che vide parve soddisfarlo, perché tornò indietro e ordinò agli altri due di rimontare in sella. Siamo nelle terre di Ijada, comprese Ingrey. Non sapeva bene dove avessero oltrepassato il confine della proprietà; forse nell'ultimo posto in cui si erano accampati. Lo scenario si rivestì ai suoi occhi di un nuovo interesse, tanto che per un po' Ingrey dimenticò persino i fastidiosi tafani. «Territorio aperto» non era la definizione che si addiceva meglio a quella zona, che appariva ingombra di rocce, tronchi spezzati, buche e ostacoli di ogni genere. Un panorama che le intemperie non sembravano essere riuscite a spianare e addolcire col passare del tempo. Si, è la terra di Ijada. Frugò dentro di sé in cerca di lei, come una lingua che sondasse la cavità ferita di un dente mancante. Tutto ciò che trovò fu la calda infezione di Horseriver. Soli, anche se insieme, sembrava dirgli la taciturna processione di alberi. Dimenticati dagli dei. Il sole stava scendendo verso l'orizzonte quando risalirono per un altro canalone, svoltarono a sinistra e si trovarono all'improvviso su una dorsale. Tirarono le redini dei cavalli e scrutarono il panorama. Una corona di alture ondulate abbracciava una valle chiusa da pareti scoscese, larga un paio di leghe. Il fondo era piatto come la superficie di un lago. Sul lato più vicino, sotto di loro c'era una fascia di erbe ingiallite e di canne, cresciute in un acquitrino ora quasi prosciugato. Oltre il canneto c'erano alcune querce contorte, come sentinelle di guardia a un bosco fitto e scuro. Sebbene in quella stagione gli alberi non fossero molto frondosi, tuttavia i raggi del sole ormai basso non riuscivano a illuminare l'intreccio di rami e tronchi, che agli occhi di Ingrey restava buio e impenetrabile. Anche da lì aveva l'impressione che il bosco fosse un regno di miasmi e odori pestilenziali che sarebbe stato meglio evitare. Storse il naso, disgustato, e in quel momento si accorse che Horseriver lo stava guardando. «Lo senti, vero?» domandò il conte, come se si trattasse di una cosa di poco conto. «Sì.» Che cosa? Cosa dovrei sentire? Se Ingrey avesse avuto una criniera, pensò, i peli gli si sarebbero drizzati lungo tutta la schiena.
Horseriver smontò e prese l'asta della bandiera. Per un po' guardò senza nessun compiacimento sua moglie, che gli restituì lo sguardo sbattendo le palpebre con aria spaventata e subito abbassò gli occhi, rabbrividendo. Horseriver sbuffò e scosse il capo, come se non avesse nessun sentimento da offrirle, neppure il disprezzo. Si avvicinò a Ingrey e gli consegnò il palo. «Porta tu la bandiera; non voglio che mi cada nel fango e si sporchi.» La staffa sinistra di Ingrey aveva una sporgenza a forma di tazza per il fondo della lancia. Lui vi infilò l'estremità inferiore dell'asta e prese le redini con la mano destra. Il suo cavallo era ormai troppo stanco per provocare guai. Horseriver rimontò in sella, fece girare la sua cavalcatura e fece segno agli altri due di seguirlo. Discesero dalla dorsale delle colline lungo un percorso a zig zag tra la vegetazione spoglia. Sul fondo della valle Ingrey fu costretto a smontare, restituì la bandiera a Horseriver, estrasse la spada e iniziò ad aprire un sentiero tra i cespugli, irti di spine lunghe e acuminate come fauci affamate. Mentre procedeva, alcune gli graffiarono la giubba facendogli sanguinare un polso e una spalla. Oltre i rovi, quando giunsero sulla riva dell'acquitrino disseccato, anche Horseriver smontò e finalmente dispiegò la bandiera. I vecchi lacci si spezzarono ancora prima che il suo coltello li tagliasse e lo strato protettivo di iuta andò in pezzi mentre lui lo svolgeva. Sotto di esso apparve un tessuto di seta ricamata. La bandiera recava lo stemma del suo kin: uno stallone bianco al galoppo in campo verde, sopra tre linee ondulate. Ricamati in grigio e più piccoli sullo sfondo, per dare l'impressione della distanza, altri stalloni sembravano sfumare nella nebbia. Stavolta Horseriver incaricò Fara di portare il vessillo e mormorò alcune parole sottovoce in una lingua sconosciuta; d'un tratto Ingrey sentì che tra i due prendeva forma qualcosa di nuovo, una sorta di corrente oscura. Fara raddrizzò le spalle e alzò il mento, rigida e resa muta dall'incantesimo; i suoi occhi erano stagni colmi di un terrore senza nome. Horseriver consegnò a Ingrey le briglie del proprio cavallo e prese quelle del piccolo castrone nero su cui montava Fara. Da lì in poi fu lui ad aprire la strada in un percorso serpeggiante tra le alte erbacce gialle dell'acquitrino, e Ingrey non impiegò molto a comprendere il motivo: ovunque c'erano piccole distese di sabbie mobili nerastre, ingannevolmente coperte di erba, che sarebbero state mortali per i cavalli. Prestò molta attenzione a far passare la propria cavalcatura e quella del conte esattamente sul percorso del cavallo di testa. Nonostante l'umidità, nell'aria stagnava ancora il calore del
giorno. Ma ben presto le ombre dei boschi, che col calare del sole si allungavano, vennero a incontrarli. Quando vi entrarono un freddo improvviso li avvolse e il fiato che esalavano diventò una pallida nebbia grigia. Mentre si avvicinavano alle querce che coprivano la vallata, il nome di Boschi Feriti iniziò a risultare più comprensibile a Ingrey. Gli alberi erano antichi e poderosi, tuttavia sembravano colpiti da una malattia. Le foglie non erano verdi e rigide come c'era da aspettarsi anche in quella stagione, bensì scure, vizze e piene di buchi. Rami e tronchi erano assai più contorti di quelli di normali querce, pieni di rigonfiamenti e protuberanze nere simili a tumori. Da un albero uscì un guerriero. Non da sotto l'albero, né da dietro: sbucò dal solido tronco come se la corteccia fosse stata una tenda subito ricaduta al proprio posto. La sua armatura di cuoio rinforzato era marcia e corrosa dagli anni. Dall'asta della sua lancia, cui si appoggiava come un vecchio al bastone, penzolava la pelle di un animale non identificabile. Aveva la barba incrostata di sangue secco e sul corpo mostrava le ferite che avevano causato la sua morte: un orecchio staccato, uno squarcio sul petto, una mano mozzata che gli pendeva dalla cintura, legata con uno straccio. L'elmo di ferro arrugginito era semicoperto da una pelle di tasso completa di testa, in cui campeggiavano due feroci occhietti disseccati, e la coda bianca e nera oscillava mentre l'individuo si voltava a guardare l'uno dopo l'altro i tre che aveva dinanzi. Soltanto allora Ingrey si rese conto che durante l'attraversamento dell'acquitrino erano passati dal mondo che lui conosceva in un altro, dove gli esseri spettrali erano realtà. La somiglianza con un territorio selvatico del mondo della materia era soltanto una maschera superficiale. Anche Fara era entrata nella visione; continuava a tenersi eretta e rigida, pallida in viso, ma dai suoi occhi colava lento un rivolo liquido. Ingrey decise di non attirare l'attenzione di Horseriver su quel particolare, per non indurlo a privare la donna delle lacrime, così come l'aveva privata della voce. Il guerriero si fermò; con il moncherino, da cui sbucava un osso spezzato, si fece il segno dei Cinque, toccandosi la fronte, la bocca, l'addome, l'inguine e il cuore, benché non avesse dita da allargare sul petto. «Sacro signore, alfine siete giunto», disse a Horseriver. La sua voce era un fruscio di frasche agitate dal vento. «Da molto tempo stiamo aspettando.» Il volto di Horseriver sarebbe potuto essere una maschera di legno, ma nei suoi occhi c'era una notte senza fine. «Sì», rispose.
23 La zoppicante sentinella fece loro strada, appoggiandosi alla lancia come a un bastone da invalido. Horseriver continuava a condurre il cavallo di Fara. Lei reggeva l'asta verticalmente e i ritmici scossoni del cavallo e i tremiti della sua mano erano tutto ciò che faceva oscillare la bandiera, sul fondo di quella valle morta dove non spirava un alito di vento. I cavalli che Ingrey si tirava dietro per le briglie, resi stranamente docili dalla paura, lo seguivano senza opporre resistenza, ruotando gli occhi da una parte e dall'altra. Tuttavia Ingrey non sopportava più di avere le mani occupate, perciò prima di uscire del tutto dall'acquitrino lasciò andare i due quadrupedi, che tornarono indietro di qualche passo finché non trovarono un po' di erba non ancora avvizzita e iniziarono a brucare, forse troppo stanchi per allontanarsi di più. Ingrey continuò a seguire la bandiera del sacro re. Mentre stavano per entrare nel bosco, altri spettri uscirono dai tronchi degli alberi. Erano malconci quanto la sentinella, se non peggio; per la maggior parte si trattava di individui decapitati, che portavano con sé la propria testa tenendola sottobraccio, o appesa alla cintura per i capelli, oppure in borse fatte di corde o di stracci. Per Ingrey non fu facile abituarsi ai loro dettagli più orripilanti e focalizzare l'attenzione anche sulle armi e sugli ornamenti, dai quali si capiva a quali kin fossero appartenuti in vita. Guarda le cose che indosso; in base a esse mi riconoscerai, dicevano in silenzio i ricami sui cinturoni, i disegni sui pettorali, le pellicce di animali la cui forza i guerrieri avevano sperato di ereditare. Tutti avevano qualcosa di unico e personale: bracciali, medaglioni, anelli, fibbie e calzari con cui erano partiti per la battaglia. La mia sposa ha fatto questo, mia sorella, mia figlia, mia madre. Guarda quanto è bello, guarda questo portafortuna. Io sono stato amato, un tempo. Un guerriero alto, la cui testa oscillava in precario equilibrio sopra il collo tagliato solo a metà e incrostato di sangue, s'incamminò al fianco di Ingrey. Aveva sulle spalle una folta pelle di lupo e lo guardava con grande meraviglia, come se Ingrey fosse stato lo spettro e lui l'uomo vivo. L'individuo allungò una mano verso di lui; dapprima Ingrey si ritrasse di scatto, ma poi strinse i denti e si lasciò toccare la faccia. Fu una sensazione a metà tra un contatto di aria e uno di carne solida e gli lasciò un brivido liquido sulla pelle. Altri guerrieri avvolti in pellicce di lupo si radunarono intorno a Ingrey. Tra essi c'era anche una donna, robusta e dai capelli grigi, che portava un
vestito ormai lacero ma riccamente ornato con strisce e orli di pelliccia, oltre a un bracciale da cui pendevano piccole teste di lupo d'argento. Alcuni di costoro potrebbero essere miei antenati, si disse Ingrey, e non soltanto del ramo Wolfcliff, poiché da parte dei suoi bisnonni gli era giunto il sangue di una dozzina di altri kin. Se il pensiero di essere penetrato in un cimitero l'aveva innervosito, ora l'idea che quegli spettri fossero eccitati dalla sua presenza perché vedevano in lui un diretto discendente lo stava facendo rabbrividire. Che i Cinque Dei mi aiutino, mi aiutino, mi aiutino... a fare che cosa? Lo stupore aumentò ulteriormente quando alla processione si unirono sei o sette individui dai capelli neri che indossavano il tipico tabarro degli arcieri darthacani dei tempi di Audar. Costoro girarono alla larga da Horseriver e si accodarono a Ingrey come una scorta. Gli altri spettri non parvero affatto disturbati dalla loro presenza; uniti nella morte da quattro secoli, forse avevano stretto un loro trattato di pace, da guerrieri. Ingrey sapeva che Audar aveva portato via tutti i suoi morti, per non doverli seppellire in quella terra maledetta, lontano dai loro parenti e dai loro dei; tuttavia la battaglia si era svolta su un vasto territorio, in parte di notte: nulla di sorprendente se qualcuno era stato dimenticato lì. I guerrieri seguivano la bandiera del re con aria cupa, come se fossero in lutto, mormorando suppliche agli dei. Con la scomparsa del sole la vallata era immersa in un grigiore privo di ombre, ma il cielo conservava ancora una luce pallida, sul cui sfondo i rami delle querce s'intrecciavano come una rete nera. Horseriver sembrava diretto verso la zona centrale del bosco, ma non seguiva una linea retta; era come se stesse cercando qualcosa. Quando mormorò enfaticamente: «Ah!» Ingrey comprese che l'aveva trovata. Il tetto di rami si era aperto, rivelando il cielo sopra un lungo tumulo, intorno al quale non crescevano alberi. Horseriver si fermò lì accanto, aiutò Fara a smontare di sella e salì con lei fino al centro del tumulo. Fu lì che piantò l'asta della bandiera. Lasciato libero, il cavallo di Fara trottò subito via nervosamente e sparì tra gli alberi, evitando di toccare gli strani spettri che si affollavano intorno. Ingrey si accorse che quei lugubri personaggi erano qualche migliaio. Cercò di contarli in modo almeno approssimato, ma continuavano ad arrivarne e ben presto rinunciò al tentativo. Anche la capacità di mantenere la calma, in uno scenario che sembrava fatto apposta per minare la ragione di un uomo, cominciava a sfuggirgli di mano. Horseriver si chinò sul tumulo, strappò alcuni ciuffi d'erba e immerse le
dita nel terriccio scuro. «Questa è la fossa dove sono stato sepolto, assieme a molti altri», disse a Ingrey in tono discorsivo. «Anche se, in realtà, io non ho versato una sola goccia di sangue qui a Boscosacro. Audar ha prestato attenzione a questo dettaglio. Ma ora sarà corretto.» Si rialzò. «Tutto sarà corretto», disse con enfasi agli spettri, che si agitarono nervosamente. Lontano, ai margini della folla, altri continuavano ad arrivare. I pochi che avevano ancora la testa allungavano il collo per vedere meglio. Sembrava che quasi tutti parlottassero tra loro, tuttavia le voci giungevano confuse a Ingrey, come se lui fosse sott'acqua e cercasse di ascoltare qualcuno che si trovava sulla riva. Si toccò la benda sporca intorno al palmo della mano destra, poco più di uno straccio, però utile per proteggere dagli urti la carne ancora tenera. La ferita non sanguinava. Non ancora. Si schiarì la gola, con qualche difficoltà. «Signore, che cosa siamo venuti a fare qui?» Horseriver sorrise appena. «A porre fine a questa faccenda, Ingrey. Se tu farai il tuo dovere e la mia portabandiera farà il suo.» «Non sarebbe meglio che tu ci dica come, allora?» «Sì», sospirò Horseriver. «È tempo di farlo.» Alzò gli occhi al cielo. «Senza sole, né luna, né stelle come testimoni, in un'ora che non è né giorno né notte; quale momento potrebbe essere più adatto? I preparativi sono stati lunghi, difficili e lunghi, ma la conclusione... ah, la conclusione sarà semplice e rapida.» Estrasse dal fodero il coltello, lo stesso che aveva usato per sgozzare la giumenta di Ijada. Ingrey s'irrigidì. Carisma reale o no, se Horseriver avesse rivolto l'arma su Fara, lui avrebbe cercato di... Ingrey fece per portare la mano destra all'elsa della spada, ma scoprì che il braccio era pesantissimo, paralizzato. Il suo cuore iniziò ad accelerare, in preda al panico per quell'ostacolo inatteso. Horseriver, invece, mise l'impugnatura del coltello in mano a Fara, che la strinse senza energia; quindi conficcò meglio nel terreno l'asta della bandiera, perché restasse in verticale. «Sarebbe opportuno che lo facesse stando in ginocchio, credo», borbottò. «Le donne sono deboli.» Si voltò di nuovo verso Ingrey. «Fara», disse indicando la donna, nei cui occhi si era accesa una selvaggia luce nera, «tra poco mi taglierà la gola. Come mia portabandiera tratterrà qui, per qualche breve istante, la mia regalità e la mia anima. Tu avrai così il tempo, prima che lei perda la presa, di ripulirla dal mio spirito di cavallo. Se non ci riuscirai, ti ricadrà addosso la piena, ma ahimè non unica, esperienza di diventare il mio erede. Che cosa accadrà poi non posso prevederlo, ma sono abbastanza sicuro che non
sarà niente di buono per te. E sarà una cosa definitiva. Perciò cerca di non fallire, mio sciamano reale.» Ingrey ebbe una contrazione violenta allo stomaco. «Credevo che tu non potessi morire. Avevi detto che l'incantesimo tiene il tuo spirito legato al mondo.» «Guardati attorno, Ingrey. Gli alberi e tutti gli esseri viventi di Boscosacro sono legati alle anime dei miei guerrieri e li sostengono nel mondo materiale. Costoro», indicò con un ampio gesto gli spettri riuniti, «creano la sacra regalità che li lega a me. Il mio spirito di cavallo», si toccò il petto, «ovvero il mio potere di sciamano, lega tutti loro agli alberi. Io ti ho detto che il sacro re è il fulcro dell'invincibilità, come ricorderai. Se tagli il legame in un punto qualsiasi, il circolo si spezza. Questo è il legame che tu puoi raggiungere.» E tu no? No... lui non poteva. Horseriver era legato al proprio incantesimo come una chiave nella serratura. «È questo ciò che intendi fare, allora? Un elaborato suicidio?» disse Ingrey indignato. Cercò ancora di muoversi, di mettere in moto il proprio corpo, ma non ottenne che un fremito. «Suppongo che lo si possa definire così.» «Quante persone hai ucciso per arrivare a questo?» Con la stessa indifferenza con cui hai cercato di costringere me a uccidere Ijada. «Non tante quanto credi. La gente muore anche di morte naturale.» Horseriver storse le labbra. «E dire che preferirei morire, piuttosto che rifare daccapo tutto ciò che ho fatto, è abbastanza vicino alla verità.» Ingrey era confuso. «Ciò romperà l'incantesimo.» «È un tutto unico. Sì.» «Allora che cosa ne sarà di costoro?» Ingrey indicò gli spettri. «Andranno a raggiungere gli dei?» «Gli dei, Ingrey? Qui non ci sono dei.» È vero, comprese lui. Era quello che l'aveva tanto innervosito mentre scendevano nella valle? La rete dell'incantesimo, alimentato dalla volontà del re sacrilego, escludeva gli dei. Li aveva tenuti fuori per secoli, a quanto sembrava. La guerra di Horseriver con gli dei era rimasta in stallo per tutti quei secoli, mentre gli spettri legati all'incantesimo diventavano alla fine i suoi ostaggi. Horseriver fece inginocchiare Fara e s'inginocchiò a sua volta davanti a lei. Le prese la mano armata di coltello, se la posò sulla spalla destra e baciò le sue nocche bianche. Un lampo si accese nella memoria di Ingrey: il suo lupo che gli leccava un orecchio prima che lui gli tagliasse la gola.
Lo scioglimento di quell'incantesimo contorto e la redenzione di Campo del Sangue, troppo a lungo rimandata, non sembravano peccati degni di nota, a parte il suicidio di Wencel. Eppure i Cinque Dei si erano opposti a tutto ciò e Ingrey non riusciva a capire il perché. Non ancora, almeno. I Divini dicevano che le anime, una volta libere dalle costrizioni del mondo materiale, anelavano agli dei come amanti, eccetto quelle che voltavano loro le spalle e sceglievano una lenta e solitaria dissoluzione. E gli dei ricambiavano tali sentimenti. Ma lì non c'era nessun patto suicida tra Horseriver e i suoi guerrieri-spirito. Anche mentre la sua fortezza crollava, lui voleva portare con sé nella morte i suoi ostaggi immortali: una vendetta eterna, una morte oltre la morte, un totale rifiuto. «Tu rimarrai separato dagli dei? Aspetta... voi tutti rimarrete separati dagli dei?» «Fai troppe domande.» No, non ne faccio abbastanza. E in quel momento a Ingrey ne venne in mente un'altra: Ijada gli aveva detto di avere donato metà del proprio cuore a quegli spettri, che ora la tenevano lì con loro, in qualche modo. Che cosa sarebbe successo alla parte di anima che lei aveva impegnato, quando quei guerrieri perduti fossero andati in fumo? Poteva vivere una donna senza metà del proprio cuore? «Aspetta», disse Ingrey e fece un passo avanti. «Aspetta!» Tra gli spiriti ci fu una reazione visibile, come se ondeggiassero per una scossa di terremoto. Fara alzò lo sguardo, ansimante. «E chiacchieri troppo», aggiunse Horseriver. Afferrò la mano di Fara e attirò la lama contro la propria gola in un movimento semicircolare, squarciandosela da un orecchio all'altro. Per alcuni istanti interminabili il sangue schizzò dalle arterie recise, mentre Horseriver guardava avanti con assoluta calma. Poi aprì le labbra in un sospiro e si abbatté al suolo, sfuggendo alle mani di Fara. Lei afferrò l'asta della bandiera per impedire che gli cadesse sopra e spalancò la bocca in un grido muto. Il mondo della magia si separò da quello della materia e Ingrey si ritrovò a vedere doppio, così com'era successo a Red Dike. Il corpo di Wencel giaceva sul tumulo a faccia in giù e Fara stava china sopra esso, semisvenuta, dopo aver lasciato cadere il coltello insanguinato. Ma d'un tratto su di loro comparve un'immagine scura che li fece scostare, ansanti e spaventati. Era un cavallo, uno stallone nero come il carbone, le cui narici rosseggiavano come se respirasse fuoco. Scintille arancioni schizzavano dalla sua
criniera ondeggiante e dalla coda. La bestia colpì con gli zoccoli anteriori la dura terra del tumulo, lasciandovi impronte fiammeggianti che prima di spegnersi bruciarono l'erba. Sulla sua groppa cavalcava un'ombra di forma umana, le cui gambe si curvavano dentro le costole del cavallo e si fondevano con esse. Quel potere antico e brutale non aveva nulla di simile all'aura debole e vacillante apparsa sul corpo di Boleso. Io non so che cosa fare con questo spirito. E questa volta non ho nessun dio al mio fianco. Nel ventre di Ingrey vibrò un moto di frenesia. Il grido di terrore divenne un ringhio di sfida. Balzò fuori del proprio corpo irrigidito e, sbalordito, atterrò su quattro zampe coi grossi artigli affondati nell'erba, completando una trasformazione da uomo in lupo che la volta precedente era riuscito a compiere soltanto a metà. Lo stallone nitrì. Ingrey contrasse le labbra, scoprendo le lunghe zanne, e ringhiò di nuovo. Sentiva in bocca e nel naso odori forti, alcuni strani, sconosciuti, acri come quello del pelo bruciato. Lo stallone scese dal tumulo e gli girò attorno, lasciando al suolo orme da cui si alzavano fiammelle rosse. Se perdo questo combattimento, ciò che ritornerà dentro il mio corpo non sarò io. Sarebbe stato Horseriver, reincarnato in un consanguineo una volta di più. Con quella posta in palio, non c'era da stupirsi se Wencel non gli aveva tolto l'incantesimo con cui lo legava a sé. E sia. A sua volta girò intorno allo stallone, a testa bassa, arruffando il pelo sul collo, con le zampe ben piantate nel terreno umido. Le foglie cadute crepitavano come fossero reali e l'intensità dell'odore che emanavano lo stordiva. Lo stallone girò su se stesso e scalciò con le zampe posteriori. Ingrey balzò via, ma troppo tardi. Uno zoccolo lo colpì con un poderoso tunc su un fianco e lui rotolò al suolo con un guaito. Il respiro successivo gli causò una fitta di dolore. Come poteva un'illusione non essere capace di respirare? Ingrey avrebbe dovuto stare implacabilmente all'erta come in un duello con la spada, con la differenza che ora doveva affrontare quattro armi, non una soltanto. Come si può ammazzare un cavallo coi denti? Cercò di ricordare i combattimenti di cani cui aveva assistito e le cacce al cinghiale nel momento in cui si arrivava addosso alla preda. Azzannalo dove puoi. Prese lo slancio e si gettò contro l'addome del cavallo, spalancando la mascella a un'angolazione goffa. Riuscì a infliggere al nemico una lacera-
zione lunga e sottile, quindi evitò per miracolo un calcio. Aveva provocato una perdita di sangue... no, non era sangue, bensì un fluido nerastro amaro come l'inchiostro, che gli bruciava la bocca come quello della maledizione dai tentacoli rossi. Anzi peggio. Le sue gengive reagirono emettendo a loro volta una specie di schiuma aspra e dolorosa, che non aveva nulla a che fare con la saliva. Gli spettri si affollarono intorno a loro come se stessero assistendo a un combattimento tra due animali nei recinti dove si facevano scommesse. Su quale animale avrebbero puntato? Per quale facevano il tifo? Ma non avevano più nulla da giocarsi, neppure le loro vite, e la sorte delle loro anime sarebbe stata decisa da qualcun altro. Che Horseriver cercasse di separarsi per sempre dagli dei era biasimevole, ma neppure gli dei potevano impedire a un essere umano di voltare loro le spalle per l'eternità. Era il fatto che la sua volontà sovrastasse quella degli spettri e decidesse per tutti a costituire il più vile dei peccati. Ijada scoppierebbe a piangere, pensò Ingrey mentre evitava un morso dello stallone, che aveva improvvisamente girato il lungo collo nero verso di lui. Cinque armi. Devo guardarmi da cinque armi. Non sta andando bene. Ingrey era troppo piccolo, troppo leggero rispetto al cavallo. I lupi andavano a cacciare prede di quella stazza in branco, non da soli. Da chi posso avere un aiuto? Con la coda dell'occhio vide la parte umana di se stesso, che ancora barcollava in piedi all'estremità del tumulo. Stolto. Idiota. Figlio inutile. Tutto o niente, allora. Tutto. Assorbì tutta la forza che poté dal suo corpo umano, con furia. La forma bipede vacillò ancora e si afflosciò come un sacco vuoto su un mucchio di foglie. Ogni movimento nella radura rallentò e le percezioni di Ingrey si fecero più vive. Il suo corpo di lupo diventò allo stesso tempo più denso come il passato e più leggero come il futuro. Sì, io conosco questo stato. Ho già viaggiato su questa strada. D'un tratto divenne più grosso, circa metà delle dimensioni del cavallo, che fece un passo indietro, spaventato. Ma lentamente, così lentamente che sembrava nuotare nell'olio. Ingrey prese la mira, calcolò la distanza e l'arco del balzo. Le forze prese in prestito non potevano durare molto. Non c'è tempo. Ora. Scattò avanti e affondò i denti nella gola del cavallo, scuotendo selvaggiamente la testa. Il cavallo, che non poteva certo essere scosso come un coniglio aggredito da un cane, cadde sotto il suo peso; qualcosa si spezzò con un rumore secco, mentre un fiotto nerastro gli usciva dal collo. Gli
spettri si affrettarono a scostarsi, come per evitare gli schizzi di liquame. La bestia che Ingrey stava azzannando cessò di muoversi. Poi si sciolse e colò via dalla sua bocca come burro marcio esposto al fuoco. Lui sputacchiò e si trasse indietro. La cosa-cavallo divenne informe, un mucchietto scuro, una macchia che il suolo assorbì come inchiostro. Scomparve. Libero dallo spirito dell'oscuro stallone, Wencel si rialzò. Il suo aspetto fisico era tornato in apparenza normale, ma il suo volto... «È una fortuna che io non abbia mai dovuto usare quel cavallo», disse con una delle sue bocche. «Non avrei avuto la forza di dominarlo.» Un'altra bocca sogghignò. «Sei un bravo cane, Ingrey.» Lui indietreggiò, sbigottito. In ogni parte della testa di Horseriver si alternavano strane facce, che emergevano e scomparivano come cadaveri in un fiume turbinoso. Quelle che si susseguivano a caso, sempre nuove e differenti, erano le fattezze di tutti i conti Horseriver ai quali il primo aveva rubato il corpo e la vita nel corso di oltre quattro secoli. Uomini giovani e anziani, irritati e tristi, glabri, barbuti, attraenti, sfregiati. Anche il giovane Wencel fece la sue breve comparsa, una faccia di bambino che guardò Ingrey come per chiedergli perdono, anche se quest'ultimo non riuscì a capire per quale motivo. Il suo corpo stava subendo una serie di trasformazioni analoghe. Dissolte le sue vesti, sulla pelle nuda apparivano tagli, squarci, lividi e ferite spaventose. Tutto l'elenco delle offese che quegli Horseriver avevano ricevuto in vita. Le più orribili erano le ustioni, gonfie e arrossate di piaghe purulente. Il loro puzzo ripugnante giunse alle narici sensibili del lupo e Ingrey tossì disgustato, affrettandosi a scostarsi. Quello era Horseriver rovesciato, con l'interno rivolto verso l'esterno. Era ciò che Horseriver era stato dietro la sua maschera ironica, il suo ingegno brillante, i suoi accessi di rabbia, la sua cupa indifferenza. Ogni ora e ogni giorno, ogni estate e ogni inverno di quei lunghi anni dolorosi e insensati. Gli occhi erano la cosa peggiore. Ingrey girò lungo il limitare della piccola radura, tenendosi a distanza dal tumulo e dalla massa degli spiriti Horseriver, finché non giunse accanto al corpo umano che lui stesso aveva abbandonato. Lo innervosì vederlo così pallido, apparentemente morto come tutti gli spettri senza testa ancora affollati lì attorno. Lo annusò, lo toccò con una zampa e guaì ansiosamente, ma il corpo non si mosse. Respirava? Non riusciva a capirlo. Nello stato di lupo non aveva voce... e di conseguenza neppure la Voce Selvaggia. Una parte non secondaria delle sue doti sembrava tagliata fuori. Avrebbe
avuto difficoltà a rientrare nel proprio corpo? Per i Cinque Dei, e se non ci riuscissi? Horseriver aveva pianificato anche quello? Privato del suo lupo e della maggior parte della sua anima, il corpo di Ingrey era una casa vuota, abbandonata, disponibile per qualunque spirito vagabondo volesse andare ad abitarla. Se la liberazione dal suo cavallo interiore non si fosse realizzata, Horseriver avrebbe avuto quelle spoglie mortali in cui trasferirsi, senza le complicazioni che in passato potevano avergli procurato qualche scrupolo morale. Ingrey guardò l'essere agonizzante che era stato il conte. No, quell'uomo non stava facendo la fine che più lo soddisfaceva, eppure avrebbe potuto continuare la sua catena di trasferimenti. E, a giudicare dal pacato silenzio con cui guardava Ingrey, lo sapeva. Ingrey ebbe un fremito e toccò nuovamente il proprio corpo con una zampa. Non ci fu nessuna reazione. Dal bosco giunsero un nitrito e uno scalpiccio di zoccoli in avvicinamento e Ingrey si voltò di scatto. Che lo stallone infernale si fosse rianimato? No... quello era un cavallo vero. Nel rumore di zoccoli sul terreno umido c'era qualcosa di solido che lo stallone d'ombra non aveva. Ancora invisibile da lì, il cavallo si fermò; ci fu un lieve stormire di fronde, seguito da uno scalpiccio di piedi in corsa, rapidi e leggeri. Gli spettri si scostarono, lasciando un corridoio aperto, e molti di loro alzarono una mano in segno di saluto. Altri si segnarono toccandosi le cinque parti del corpo. Ingrey-lupo annusò l'aria con improvvisa eccitazione. Io conosco questo profumo, caldo come il sole sull'erba secca dell'estate... Nel varco lasciato aperto dagli spettri apparve Ijada. Indossava la sua giubba da equitazione marrone scuro, chiazzata di sudore, e una veste sporca di fango; il tutto era pieno di strappi, come se avesse galoppato attraverso una distesa di rovi. Ciocche di capelli si appiccicavano al volto arrossato. Si fermò di colpo e il suo ansito divenne un grido; poi si avvicinò più lentamente al punto in cui giaceva il corpo di Ingrey e cadde in ginocchio accanto a esso, pallida e tremante. «No, oh, no...» Girò il corpo supino e si tirò la testa in grembo, guardando sgomenta quel volto immobile dalle labbra esangui. «Troppo tardi!» Non può vedermi, comprese Ingrey-lupo. Non può vedere nessuno di noi. A parte l'assai concreta principessa Fara, ancora accasciata accanto al cadavere sgozzato di Wencel. Ijada gettò alla coppia un rapido sguardo stupito, strinse i denti e abbassò di nuovo gli occhi su Ingrey. «Oh, mio amato...» Si chinò sul volto di lui e lo baciò sulle labbra. In-
grey-lupo si muoveva intorno a lei, frustrato perché non poteva sentire il contatto delle sue labbra morbide. Freneticamente le toccò un braccio con una zampa, quindi le leccò la faccia. Ijada trattenne il fiato, portò una mano alla guancia e si guardò attorno. Aveva avvertito un inquietante fremito gelido, com'era accaduto a lui toccando la mano dello spettro? Ingrey le leccò un orecchio e la giovane lasciò uscire il fiato in un sospiro che sarebbe potuto essere una risata, in altre circostanze. Compose meglio il corpo umano di Ingrey, lo tastò - oh, se solo potessi sentire questo contatto - e corrugò le sopracciglia. «Ingrey, che cosa ti hanno fatto...?» Sul suo corpo non c'erano ferite, né lesioni o fratture, ma la mano destra era insanguinata e c'era sangue anche sulla giubba di pelle. L'espressione di Ijada s'incupì ancora di più mentre si portava al petto quella mano. Se solo potessi muovere le dita... «O forse dovrei domandare che cosa hai fatto a te stesso?» aggiunse lei sottovoce. «Hai tentato qualcosa di coraggioso e folle, non è così?» Si voltò ancora a guardare Fara e il corpo del defunto marito di lei. Horseriver sbuffò, strappando a Ingrey un grugnito di stupore. Il volto che il conte aveva in quel momento osservava Ijada con espressione tra il perplesso e il disgustato. «Continui a comparire in posti dove nessuno ti aveva invitato, eh ragazza?» disse rivolto all'aria, o forse a Ingrey. Ijada in ogni caso non poteva udirlo. «Sei sempre all'oscuro di tutto, eppure ciò non ti ferma, vero? Assaggia il tradimento degli dei, allora. Io l'ho avuto come cena per secoli.» Quindi si voltò verso gli spettri riuniti. «Siete ancora tutti qui», disse. Ora quegli occhi terribili erano distaccati, implacabilmente calmi. «Ma non per molto, ve lo giuro, miei prodi.» Gli sguardi che ricevette in cambio da quelle figure di un'altra epoca non erano amichevoli, pensò Ingrey, bensì sospettosi e delusi. Tra gli spiriti aleggiava un vago lucore e lui comprese che stavano già iniziando a svanire. L'anima di un uomo ucciso da poco, se non giungeva subito agli dei attraverso la porta della morte, poteva essere redenta durante il rito sacro del funerale, com'era successo a quella di Boleso. Tuttavia, se restava separata dagli dei per troppo tempo, la cosa finiva per diventare irrevocabile e l'anima, dopo essere stata rifiutata da Loro, si autocondannava a svanire. Quel periodo d'incertezza era già durato, per costoro, non giorni o mesi, bensì secoli. Ora che il loro legame coi Boschi Feriti era spezzato, si chiese Ingrey, quanto potevano resistere? Ore? Minuti? Ijada fece per alzarsi e avvicinarsi a Fara, ma ebbe un sussulto e cadde a
sedere sull'erba. Si portò una mano al seno sinistro, poi alla fronte, e il suo viso si contrasse in un'espressione sorpresa e sofferente. I guaiti di Ingrey raddoppiarono. La folla di spettri si aprì nuovamente e un guerriero alto e imponente avanzò a lunghi passi. Indossava una grande cintura d'oro e teneva in pugno l'asta a punta di lancia di uno stendardo verde, bianco e azzurro. Aveva la testa mozza e la portava appesa al cinturone per le trecce grigie. La sua faccia rugosa contemplò Horseriver, il quale sussultò per la sorpresa nel riconoscerla e alzò una mano, lasciandola però ricadere, come rinunciando a restituirgli un saluto che, in effetti, non gli era stato rivolto. Il guerriero posò un ginocchio al suolo accanto a Ijada, la guardò con aria preoccupata e le toccò una spalla. Ingrey continuava a muoversi ansiosamente intorno alla giovane donna, col muso lupesco all'altezza della faccia del guerriero. Questi lo guardò in silenzio con aria interrogativa. Ijada curvò le spalle; la mano insanguinata di Ingrey le sfuggì dalle dita e le ricadde in grembo. «Oh!» mormorò con voce addolorata. Era pallidissima, quasi grigia in viso, e quando Ingreylupo le leccò una guancia non ebbe nessuna reazione. Lui si scostò, quindi si alzò sulle zampe posteriori, posando una di quelle anteriori su una spalla del guerriero per non perdere l'equilibrio, e annusò l'aria. L'uomo s'irrigidì per sostenerlo. C'era qualcosa lassù, conficcato sulla punta di lancia della bandiera. Un cuore pulsante... no, la metà di un cuore. Ma il suo battito stava rallentando. Costui si è inchinato, ha preso il mio cuore e l'ha deposto su una lastra di pietra, quindi ha sfoderato una spada spezzata e l'ha tagliato in due, aveva detto Ijada. Una metà l'ha restituita a me, con modi molto rispettosi. Poi ha infilato l'altra sulla punta dell'asta della bandiera e tutti hanno gridato in coro. Non ho capito se fosse una supplica agli dei, un sacrificio o un gesto di riscatto... Tutte e tre le cose, pensò Ingrey. Tutte e tre. Non aveva la minima idea di ciò che significassero le sue azioni in quel territorio soprannaturale. Tuttavia, sebbene mancassero del supporto della sua voce, non erano prive di potere. Lui non era privo di potere. Ho abbattuto il cavallo di Horseriver, che è scomparso. Forse posso fare anche qualcos'altro. Era chiaro che Horseriver lo credeva ormai inutile, esaurito, così com'era esaurito il suo compito. Forse intendeva lasciarlo lì, incapace di rientrare nel proprio corpo, destinato a morire in quel luogo quando gli spettri e tutta la loro magia si fossero sciolti. E lasciato a se stesso, ridotto
a uno spirito-lupo solo e abbandonato, probabilmente quello sarebbe stato il suo destino. Ma io non sono solo, giusto? Non più. L'ha detto lei, perciò deve essere vero. La voce della verità. Come mai sono giunto ad amare la verità sopra ogni altra cosa? «Dovrò morire d'amore, dunque?» mormorò Ijada, china sul petto di Ingrey. «Ho sempre pensato che fosse un modo di dire. Morire insieme? No! Mio Signore dell'Autunno, in questa Tua stagione, aiutaci...!» Qui non ci sono dei. Ma lui c'era. Tenta qualcos'altro. Tenta qualsiasi cosa. Forse il capitano degli spettri aveva qualche potere; dopotutto portava una bandiera, il sacro simbolo del Vecchio Dominio che parlava di salvezza oltre la morte. Ingrey guaì, balzò qui e là intorno all'uomo, gli graffiò uno stivale con una zampa, poi si accucciò e premette più volte il lungo muso contro il fodero appeso alla sua cintura dorata, dalla parte opposta della testa recisa. Avrebbe capito che cosa lo stava supplicando di fare? L'uomo si girò per consentire alla propria testa di guardare il lupo e inarcò le sopracciglia grigie per la sorpresa. Si tirò in piedi e sguainò una spada spezzata. Sì! Ingrey gli toccò la mano col muso e si voltò, mordendosi un fianco. L'uomo non poteva annuire, ma gli rivolse un mezzo inchino. Tornò a inginocchiarsi e lui si rovesciò sul dorso agitando ridicolmente le zampe in aria, esponendo l'addome. Se questo può salvarla... La spada spezzata gli entrò nel petto in un lungo fendente orizzontale. Ijada non mi aveva detto quanto fa male! Ingrey soffocò un guaito di dolore e l'impulso di rotolare via. La mano spettrale entrò nello squarcio del suo petto di lupo e ne uscì gocciolante di sangue. La lama affilata tagliò un oggetto scivoloso sul palmo del guerriero, il quale poi gettò qualcosa verso il cielo. Il pugno insanguinato si abbassò ancora una volta, si ritrasse e Ingrey si accorse di poter respirare di nuovo quando lo squarcio si richiuse in una lunga linea rossa. Il suo corpo di lupo balzò di nuovo sulle zampe. In alto, sulla punta della lancia, pulsava un cuore intero. Ijada trasse un lungo respiro e rialzò la testa, guardandosi attorno. I suoi occhi incontrarono quelli del lupo fantasma e, nel riconoscerlo, si spalancarono. «Tu sei qui!» Poi vide la folla di spettri che si agitavano nell'assistere a quella strana operazione. «Tutti voi siete qui! Voi!» Si alzò, rivolse un inchino al portabandiera e si fece il segno dei Cinque. «Ti cercavo, mio signore, ma non potevo vederti.» Lo spettro s'inchinò rispettosamente a sua volta. Ijada allungò una mano
sul collo del lupo, arruffando il suo pelo folto. Ingrey si contorse di piacere sotto quella carezza. Lei abbassò lo sguardo - non troppo, poiché la grossa testa del lupo le arrivava quasi al petto - e domandò: «Come hai potuto separarti così dal tuo corpo? Che cosa sta succedendo qui?» Si voltò a guardare la piccola radura e vide Horseriver e le sue molte facce. «Oh!» Fece un passo indietro, poi raddrizzò le spalle. «Dunque è questo il tuo aspetto, quando esci alla luce del sole. Che cosa stai facendo sulla mia terra?» Horseriver aveva assunto un'espressione indifferente, ma a quelle parole avvampò di rabbia. «La tua terra? Questo è Boscosacro!» «Lo so», replicò freddamente Ijada. «Mi è stato lasciato in eredità. E tu non hai più niente da fare qui, no?» La forma di Horseriver s'irrigidì e la bocca dalla piega ironica mormorò: «Infatti noi ce ne andiamo. Peccato che tu non ti godrai a lungo la tua eredità». La bocca si torse in un sorriso sgradevole, al quale Ingrey rispose con un ringhio. La mano di Ijada si strinse sulla sua pelliccia. «E questi?» Ijada indicò il maresciallo dalla cintura d'oro e gli altri spettri. «Io sono il loro sacro re. Dovranno seguirmi.» «Nell'oblio?» domandò lei indignata. «Dovranno morire due volte per te? Che razza di re sei?» «Io non ti devo niente. Non devo giustificarmi con te.» «A loro devi tutto!» Horseriver non poteva realmente voltarsi dall'altra parte, con le facce che continuavano a emergere ovunque intorno alla sua testa, tuttavia le diede le spalle. «Ciò che è fatto è fatto. È stato deciso molto tempo fa.» «Non è ancora deciso nulla.» Horseriver si girò di nuovo e sbottò: «Essi mi seguiranno nelle tenebre e gli dei che ci hanno rifiutato saranno a loro volta rifiutati. Oblio e vendetta. Essi mi hanno reso così e tu non puoi disfarmi». «Io non posso...» Ijada esitò, poi fece un cenno al maresciallo guerriero che li stava ascoltando, appoggiato all'asta della bandiera. Gli indicò il tumulo dove giaceva il corpo di Wencel, accanto al quale Fara li guardava in silenzio. «Tu sei morto, credo. La morte pone fine alla regalità, assieme a tutto ciò che la vita accumula nel mondo materiale. Noi torniamo agli dei nudi, uguali l'uno all'altro come alla nascita, ma le nostre anime sono ciò che le abbiamo fatte diventare. Poi il consesso dei kin elegge un altro re.» Guardò gli spettri con aria di sfida. «Voi non volete farlo?» Tra gli spiriti corsero mormorii imbarazzati. Il maresciallo aveva una
strana espressione, un misto di tristezza e gioia sacrilega. Ingrey intuì solo allora che quell'uomo doveva essere il primo portabandiera reale del kin Horseriver, morto a Campo del Sangue a fianco del sacro re. Il suo corpo doveva essere senza dubbio sepolto nella stessa fossa, perché Horseriver aveva detto che la sua bandiera era stata stracciata e gettata sopra di lui. E quel guerriero non l'avrebbe mai lasciata finché avesse avuto vita. Il portabandiera del sacro re aveva avuto il compito di ricevere dentro di sé lo spirito del sovrano, per portarlo a qualche futuro raduno dei kin e cederlo al successivo re eletto... se il grande incantesimo non fosse stato interrotto, dando così origine a un futuro diverso e imprevedibile. «Tu sei morto», insisté Ijada. «Questo è un raduno dei kin del Vecchio Dominio, l'ultimo di tutti i tempi. Essi possono eleggere un altro re, uno che non li tradirà dopo la morte.» Horseriver sbuffò. «Non ci saranno altri sacri re.» I mormorii degli spettri si fecero ancora più nervosi e dilagarono come un incendio. Il maresciallo guerriero si alzò e salutò Ijada con un segno dei Cinque più antico ed elaborato. Le sue labbra spettrali si curvarono in un sorriso. Lasciò andare l'asta della bandiera; la fanciulla fu svelta a farsi avanti prima che cadesse al suolo e la impugnò. Un momento, pensò Ingrey. Noi viventi non possiamo toccare le loro cose; le nostre dita dovrebbero passarci attraverso come nell'acqua... Ijada afferrò l'asta della bandiera con entrambe le mani e la scosse. Sopra di lei il vessillo si svolse e sventolò, benché non spirasse un alito di vento. La testa di lupo dei Wolfcliff ricamata sullo stendardo si stagliò contro lo sfondo del cielo, nera in campo rosso. Ingrey sbatté le palpebre dei suoi occhi umani e si alzò, stupefatto. Era di nuovo nel proprio corpo e ciò gli dava una sensazione straordinaria. Aspirò l'aria a pieni polmoni. Il suo lupo era scomparso... No. Si portò una mano al cuore. È ancora qui. Ululava gioiosamente nelle sue vene. E c'era qualcosa di più... Un legame si era formato tra lui e Horseriver: il flusso che aveva unito lui e Ijada, prima di essere troncato, lo collegava ancora al sacro re. Una tensione sembrava vibrare attraverso quel contatto, un potere che stava aumentando. La forza che li univa era sensibile, solida. Horseriver prese Fara per le spalle e la tirò in piedi, costringendola a impugnare l'asta della bandiera. «Reggila!» La principessa lo guardò terrorizzata e obbedì, come se la sua vita dipendesse da quello. Radicata su quel tumulo di morti e di peccati, la potenza del vecchio re era grande. Ingrey si umettò le labbra, tossicchiò, quindi parlò con la sua Voce Sel-
vaggia: «Tu che cosa hai da dire, Fara?» Poté sentire l'incantesimo di silenzio lanciatole da Horseriver sciogliersi intorno al corpo di lei come una patina di metallo che fondeva ed evaporava nell'aria. Fara trasse un profondo respiro. Horseriver si voltò a guardarla e sulla sua testa riemerse, per la prima volta completa, la faccia di Wencel. Allungò una mano verso la donna. «Fara...?» La giovane voce suonò tremula. «Moglie mia...?» Fara vacillò indietro, come colpita da una freccia. Chiuse gli occhi con una smorfia di dolore. Quando li riaprì, guardò Ijada, Ingrey e la folla di spettri dinanzi a sé. «Io ho cercato di essere una buona moglie per te», mormorò. «Tu non hai mai cercato di essere un marito.» Quindi abbassò al suolo la bandiera, grigia e sporca come uno straccio, posò un piede sull'asta e la spezzò in due. 24 Horseriver fece un passo indietro. Metà delle facce che continuavano ad apparire sulla sua testa erano contorte dalla rabbia. Altre rivelavano ironica rassegnazione o disgusto, e un paio triste consapevolezza e dignitosa sopportazione. Portò le mani ai fianchi; il flusso che lo univa a Ingrey si spense come una fiammella sotto la pioggia. I suoi molti occhi palpitanti di violente emozioni scrutarono Ingrey e parvero farsi quasi tutti freddi e amari. Quest'ultimo dovette appoggiarsi all'asta della bandiera di Ijada per non cadere. L'immensa energia della regalità di Horseriver non se n'era andata, non esattamente; sembrava essersi dispersa e arrivare a lui da tutti i lati, non più da una sola direzione. Poi ci fu un attimo d'immobilità, di silenziosa esitazione, e il flusso diretto verso il re s'invertì, diventando una pressione che fluiva all'esterno. Inoltre a Ingrey giunse una paura imprecisabile, differente da tutto ciò che aveva provato in quelle ore piene di novità sconvolgenti. Horseriver disse: «Ti accorgerai che un sacro re è qualcosa di diverso, visto dall'interno. La mia vendetta sarà così raddoppiata. E l'oblio... nessuno potrà togliermelo». La sua voce si spense in un sospiro. Sebbene il conte non si muovesse dal suo tumulo sepolcrale, si fece più lontano e silenzioso, come un cadavere visto sott'acqua. Privo dei propri poteri - il grande stallone e la sacra regalità - era ormai solo uno spettro fra i tanti, eccetto che per la sua sgradevole molteplicità, una densità in più che stagnava intorno a lui. Sì, anche lui è uno degli spettri di Campo del
Sangue, morto su questo terreno sacro e maledetto, pensò Ingrey. Non è nulla di più e non può diventare nulla di meno. Ma io che cosa sono diventato? Poteva avvertire la mistica regalità prendere posto sopra, dentro, attraverso di sé. Tuttavia non lo faceva sentire gonfio di orgoglio e traboccante di potere. Lo faceva sentire come se tutto il sangue gli fosse stato risucchiato fuori. Si accorse che Ijada e Fara lo stavano guardando a bocca aperta, con lo stesso timore misto a desiderio fisico che Horseriver aveva ispirato. Sguardi simili avrebbero dovuto lusingare un uomo, senza dubbio. Invece Ingrey si sentì come se le due donne meditassero di mangiarlo vivo. Ma più di Ijada e Fara, ad allarmarlo adesso erano gli spettri. Gli si affollavano attorno come affascinati, tendevano le mani, lo toccavano con liquide carezze che rubavano calore alla sua pelle. Nella loro urgenza di avvicinarsi stavano perdendo ogni controllo, si accalcavano, salivano persino l'uno sopra l'altro, stringendosi sempre più attorno a lui. Mendicanti affamati. Nulla di spirituale può esistere nel mondo materiale, senza un essere materiale che lo sostenga. La vecchia regola echeggiò nel caos delle sue emozioni. Quattromila spiriti ancora maledetti sciamavano sul terreno di Campo del Sangue, ma non era più quel luogo a sostenerli. Adesso erano tutti collegati con... Lui. «Ijada...» La sua voce era un gemito. «Non posso sostenerli tutti. Non ho abbastanza energia da offrire!» Il suo corpo stava diventando più freddo, sempre più freddo, mentre gli spettri lo toccavano. Si protese ad afferrare una mano di Ijada, come un uomo sul punto di annegare, e per qualche istante un calore vivo, il calore di lei, gli restituì forza. Ma poi anche la fanciulla ansimò, indebolita dal risucchio infernale dell'insaziabile fame degli spettri. Ci priveranno di tutto il nostro calore vitale, ci congeleranno. E quando i loro corpi non avessero avuto più calore da dare, Ingrey e Ijada sarebbero stati abbandonati al suolo, a putrefarsi e a disseccare, con tutte le altre anime condannate all'abbandono eterno, disperate e dimenticate. «Ijada... lasciami!» Ingrey cercò di allontanare la mano di lei. «No!» La giovane lo strinse ancora più forte. «Devi andartene! Prendi Fara e fuggite di qui, oltre l'acquitrino, presto! Gli spettri ci consumeranno entrambi, se resti qui!»
«No, Ingrey! Non è questo che bisogna fare. Tu devi ripulirli come hai ripulito Boleso, affinché possano giungere agli dei. Tu puoi farlo, è per questo che sei stato fatto!» «Non posso! Ce ne sono troppi, non posso farcela... e poi qui non ci sono dei!» «Essi attendono alla porta!» «Che cosa?» «Attendono alla porta delle spine! Aspettano che il padrone del regno li lasci entrare. Audar ha maledetto e sigillato questo territorio e Horseriver l'ha tenuto per secoli inaccessibile agli dei, nella sua rabbiosa disperazione; ma ora i vecchi re se ne sono andati e il nuovo re è stato acclamato.» «Io sono soltanto un re di ombre e di spettri, un re dei morti.» E tra poco raggiungerò i miei sudditi. «Apri il tuo regno ai Cinque. Cinque mortali li guideranno attraverso il territorio, ma tu devi permettere che Essi entrino... devi invitarli.» Tremando come una foglia, la giovane donna vacillò sotto la pressione della folla di spettri e la sua voce si fece stridula: «Ingrrrreyyy, fai presto!» Spaventato e confuso, lui si protese in cerca di percezioni esterne. Sì, poteva sentire i confini del suo regno di luce circondati dal buio, un cerchio irregolare che conteneva buona parte della vallata, saturo di tutti gli antichi peccati di quel luogo. Si estendeva oltre l'acquitrino, fino alla distesa di rovi. Solo in quel momento si rese conto che il suo primo atto come ultimo sciamano vivente del Vecchio Dominio, quella sera, era passato inosservato: Ingrey aveva sfoderato la spada per aprirsi una strada in quella muraglia di spine, sfondando i confini di Campo del Sangue. Fuori della porta che lui aveva aperto attendeva una Presenza multipla, impaziente come i postulanti nel giorno delle udienze reali. Come li si poteva invitare? Di solito erano necessari inni e preghiere, canti e invocazioni di profonda bellezza e di grande complessità, e musici, studiosi, soldati, Divini. Invece Essi dovranno accontentarsi di me. E sia pure. «Entrate», mormorò Ingrey con voce rotta. Posso fare di meglio. «Venite!» L'eco parve spaccare in due la notte e un brivido scosse i quattromila spettri come un'onda attraverso le canne in riva a un lago. Ingrey si preparò a sopportare il loro assalto, benché sentisse l'energia sfuggirgli da ogni poro del corpo. Invece gli spettri si scostarono dai due umani, tenuti a freno nella loro avidità di calore dalla stupefacente novità di un'improvvisa speranza.
Sembrò trascorrere un'eternità prima che rumori estranei penetrassero l'oscurità dei boschi e un'oscillante luce arancione si avvicinasse tra gli alberi. Un fruscio di piante, alcuni tonfi, una voce che imprecava, poi un inizio di discussione subito messo a tacere da un ordine secco di Hallana: «Vai di là! Da quella parte, Oswin, a sinistra!» Quella che agli occhi di Ingrey apparve come la più sorprendente fila di viaggiatori sbucò nella piccola radura. L'Erudito Oswin precedeva il gruppo in sella a una barcollante giumenta, con sua moglie, seduta dietro di lui, che gli stava aggrappata addosso e agitava una mano a indicargli la direzione. In groppa a un cavallo non meno stanco li seguiva il principe Biast, che alla vista di tutti quegli spettri era impallidito e aveva spalancato la bocca per lo stupore. Dietro di lui cavalcava l'Erudito Lewko e in coda al gruppo veniva il principe Jokol, che reggeva una torcia. Gli abiti un tempo bianchi di Lewko erano infangati da un lato e grigi di polvere dall'altro, ma gli altri quattro non erano in condizioni migliori. «Hallana!» Ijada agitò un braccio sorridendo, come se ormai tutto andasse bene. «Siete arrivati, finalmente.» «Li stavi aspettando?» le domandò Ingrey. «Siamo partiti insieme dalla capitale e per due giorni abbiamo viaggiato senza quasi chiudere occhio. Per i Cinque Dei, che galoppata! Il principe maresciallo ci ha fornito i mezzi. Questa mattina io sono salita in sella prima degli altri e li ho lasciati indietro, perché il cuore mi diceva di affrettarmi e avevo una paura disperata.» L'Erudito Lewko avanzò verso Ingrey massaggiandosi le reni indolenzite e gli rivolse un frettoloso segno di benedizione. Dietro di lui era sceso da cavallo anche Jokol, sul cui volto era stampato il sorriso che Ingrey immaginava avesse anche in mare durante una tempesta, quando la sua nave s'inerpicava su onde alte come montagne e gli uomini dell'equipaggio urlavano aggrappati alle corde. «Oh, Ingorry!» esclamò allegramente il massiccio individuo, distribuendo cenni di saluto a destra e a sinistra come se gli spettri fossero amici di vecchia data. «Io giura che fa una canzone con questa cosa!» «Dunque le porte degli dei siete voi?» domandò Ingrey a Lewko. «Siete stati fatti santi?» «Io so che cosa significa essere un santo e non è la stessa cosa», rispose Lewko. «Se dovessi azzardare un'ipotesi...» Girò lo sguardo sulla radura affollata di figure spettrali e fece una pausa, accigliato.
Oswin e Hallana legarono il loro cavallo a un albero e li raggiunsero, tenendosi a braccetto per non perdere l'equilibrio sulle asperità del terreno. Si guardavano attorno, preoccupati per l'enorme quantità di anime isolate in quel limbo e nello stesso tempo incuriositi dal punto di vista professionale. «Se dovessi azzardare un'ipotesi, Oswin», riprese Lewko rivolgendosi al collega con l'aria di riprendere una discussione lasciata a metà, «direi che siamo qualcosa di simile agli animali sacri usati nelle cerimonie funebri.» Oswin parve offeso dal paragone, poi sembrò riflettere turbato. Hallana ridacchiò nervosamente, ma non senza una certa allegria. «Ingrey dovrà ripulire lo spirito dei miei spettri», disse Ijada con fermezza. «Ve l'avevo detto che sarebbe stato necessario.» Ingrey pensò che i due giorni di viaggio della comitiva dovevano essere stati giorni di accalorate discussioni, durante i quali Ijada aveva goduto della compagnia di esperti. Gli dei non hanno mani in questo mondo, eccetto le nostre. Biast vide sua sorella seduta all'altra estremità del tumulo, accanto al corpo di Wencel, e si affrettò verso di lei. La abbracciò con affetto e le fece qualche domanda. I due parlarono sottovoce, in fretta. Fara sembrava essersi ripresa e non piangeva, benché fosse visibilmente abbattuta. Ingrey disse: «Ijada, credo sia meglio non indugiare troppo, se il lavoro deve essere fatto». Si voltò a scrutare gli spettri, che avevano smesso di agitarsi e lo guardavano in silenzio. Come se io fossi la loro ultima speranza di salvezza. «Come posso... in che modo... che cosa devo fare?» Ijada impugnò a due mani lo stendardo raffigurante la testa di lupo e raddrizzò le spalle. «Tu sei il re sciamano. Fai ciò che ti sembra giusto e andrà bene.» Il maresciallo dalla cintura d'oro, accanto a lei, fece un cenno d'assenso. Quattromila spettri erano troppi! Conterà poco da chi inizio, purché io inizi. Ingrey esaminò la folla e trovò in prima fila l'alto guerriero dal mantello di lupo che aveva visto poco prima. Gli fece segno di farsi avanti e scrutò il suo volto pallido. Lo spettro sorrise e annuì cordialmente, come per rassicurarlo, quindi posò un ginocchio a terra davanti a lui, gli prese una mano e chinò la testa. Affascinato, Ingrey alzò la mano destra, avvolta nella benda inzuppata di sangue, e toccò la fronte del guerriero lasciandovi una traccia rossa. Notò che il contatto fisico con lo spettro era adesso molto solido, non liquido come prima, e si chiese se quel cambiamento dipendesse
da lui e che cosa significasse. «Vieni», disse sottovoce, e lo spirito di lupo del guerriero, così antico e consumato che ne restava solo una vaga ombra scura, fu attirato dalle sue dita e uscì. Il guerriero si rialzò, si volse ai Divini che lo stavano osservando e tese una mano supplichevole verso l'Erudito Oswin. Questi gettò uno sguardo interrogativo a Hallana, la quale annuì vigorosamente, e strinse la mano che gli veniva offerta. Lo spettro lo ringraziò con un sorriso beato e scomparve. «Oh», disse Oswin con voce tremante. I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Oh, Hallana, io non sapevo...» «Ssh», lo interruppe la donna. «Ora andrà tutto liscio, credo.» Si umettò le labbra e guardò Ingrey come se fosse un misto tra il suo figlio prediletto e una famosa opera d'arte del Tempio per vedere la quale aveva compiuto un lungo viaggio. Ingrey si volse di nuovo alla folla di spettri e ne fece avvicinare un altro. Il guerriero s'inginocchiò goffamente, speranzoso, prese la sua testa mozza con entrambe le mani e gliela porse. Ingrey ripeté il gesto di unzione col sangue sulla fronte e dal corpo immateriale chino dinanzi a lui uscì lo spirito di un falco, che s'involò nella notte. Il guerriero tese allora una mano verso Oswin e, prima che anch'egli sparisse, Ingrey ebbe modo di vedere che il suo spirito era stato ripulito. Il Padre ti accompagni nel tuo viaggio, amico. La successiva forma spettrale a farsi avanti fu una ragazza giovane, che reggeva una bandiera sulla quale era ricamato lo stemma dei Linxlake, un kin che si era estinto da due secoli per mancanza di progenie maschile. Quando Ingrey le prese la mano, ebbe la sorpresa di sentire che altre due anime si aggrappavano a lei e alla sua bandiera. La lince della ragazza era triste e malridotta e le altre due creature tanto consunte da risultare non identificabili. Lui segnò loro la fronte con tre strisce di sangue parallele; sembrò bastare, perché la ragazza si alzò e andò davanti a Jokol, che s'illuminò in viso e le baciò una mano sorridendo fieramente; quindi le sussurrò alcune parole, prima che anche lei svanisse. A Ingrey parve di udire una risata femminile aleggiare nell'aria. Jokol per la Figlia, dunque. La Signora della Primavera abbonda sempre nelle sue benedizioni. Il successivo fu un uomo anziano e magro, che andò da Lewko; questi lo salutò con espressione seria e accigliata, mentre lo spettro spariva. Lewko è la porta per il Bastardo, naturalmente. «Principe Biast», chiamò Ingrey. «Temo di avere bisogno della vostra
presenza qui.» Biast è la porta per il Figlio, è ovvio. «Immagino che io sarò l'ultima porta a essere usata», mormorò Hallana. Si voltò a guardare il tumulo. «Quando avrete bisogno di me, mi troverete seduta accanto alla povera Fara. Credo che abbia passato dei brutti momenti.» «Sì, Erudita, grazie», disse Ingrey. «È stata trattata con molta durezza fin dall'inizio. Ma alla fine si è ricordata di essere una principessa.» Biast venne al fianco di Ingrey e lo studiò con cautela. L'aria quasi ipnotizzata che fino a quel momento aveva avuto nel guardarlo stava lasciando il posto a un atteggiamento di sfida. In un tentativo un po' incerto di fare ironia, disse: «Devo chiamarvi altezza reale, qui?» «Non c'è bisogno che mi chiamiate in nessun modo, purché offriate il tocco di una mano a chi lo chiederà. Vostra sorella si è ripresa?» domandò Ingrey preoccupato, facendo un cenno col capo verso Fara. «Le ho proposto di accompagnarla dove abbiamo lasciato Symark e i servi dei Divini, ma non ha voluto. Dice che preferisce stare qui a guardare.» «Ha il diritto di farlo, dopo ciò che ha passato.» Ingrey pensò che ciò avrebbe fatto di lei l'unica altra testimone, oltre a lui, di tutte le azioni di Horseriver, dal momento della morte di suo padre a... qualunque cosa si fosse conclusa quella notte. Se lui fosse sopravvissuto, quel dettaglio avrebbe potuto essere importante. Se invece non sopravvivrò, sarà ancora più importante. «Suppongo che la maggior parte degli spettri qui presenti sarà presa dal dio che abita in voi», disse Ingrey a Biast. «Gli antichi re avevano due compiti: guidare i propri uomini in battaglia e ricondurli a casa. Horseriver aveva perso di vista il secondo compito, nella sua disperata follia. Questi guerrieri del Vecchio Dominio... hanno compiuto il proprio dovere verso il re; resta il dovere del re verso di loro. Sarà una lunga notte», sospirò. Biast deglutì e fece un cenno d'assenso. «Iniziamo.» Ingrey girò lo sguardo sui fantasmi che si stringevano di nuovo intorno alla radura e parlò ad alta voce, anche se dubitava che fosse necessario entro i confini di Campo del Sangue: «Non accalcatevi! Io resterò qui a fare il necessario, finché la lunga attesa di ciascuno di voi non sarà finita». Davanti a lui venne a inginocchiarsi un giovane barbuto, il primo di una lunga fila di altri della stessa età orribilmente mutilati. Ingrey liberò uno spirito animale dopo l'altro: orsi e cinghiali, cavalli e lupi, cervi e linci, falchi e tassi. Biast osservò con attenzione ciascuno degli spettri che vennero
a farsi toccare da lui, come se guardasse in uno specchio inquietante. Alle truppe di Audar erano occorsi due giorni per uccidere tutti quei guerrieri. Ingrey non capiva come avrebbe potuto occuparsi di tutti loro in una sola notte, ma in quei boschi sembrava succedere qualcosa di strano. Non sapeva se fosse una variante di ciò che accadeva al suo flusso di percezioni durante la follia che lo animava in battaglia - una capacità da sciamano - o se gli dei stessero usando la Loro dimensione temporale, grazie alla quale potevano occuparsi di tutte le anime del mondo simultaneamente. Lui sapeva soltanto che ogni guerriero gli costava una piccola frazione della sua nuova energia di sacro re. Sebbene non fosse stato lui a contrarre quel debito, il compito di ripagarlo era caduto sulle sue spalle. L'erede, già. Poi si domandò che cosa sarebbe finito prima, se il numero degli spettri che attendevano di essere ripuliti oppure la sua energia. Forse le due cose si sarebbero esaurite insieme, in perfetto equilibrio. Gli arcieri darthacani giunsero da lui a metà del lavoro, in piena notte. Ingrey si era già posto qualche domanda su di loro, visto che non portavano in sé nessuno spirito animale da liberare. Non riusciva a immaginare quale fosse la trappola ultraterrena, il sortilegio andato male, lo scherzo degli dei o il peccato commesso prima o durante la battaglia in cui erano rimasti imprigionati i loro spiriti. Li segnò col sangue come gli altri; essi lo ringraziarono e ciascuno andò al proprio dio nello stesso modo. La donna del kin Wolfcliff con gli orecchini a forma di testa di lupo gli diede un bacio sulla fronte per ripagarlo della sua benedizione del sangue; poi, come dopo un ripensamento, anche un bacio sulla bocca, prima di andare da Hallana. Le labbra di Ingrey erano rimaste paralizzate dal freddo di quel contatto, invece la bocca di lei aveva preso un lieve colorito rosa, come il ricordo di una passata felicità. Ingrey si disse che era stato un giusto scambio. Fu nel buio che preludeva all'alba, con la luna e le stelle nascoste dietro uno spesso strato di nuvole, che Ingrey giunse al termine del proprio compito. Restavano però ancora alcuni spettri, poco più di una ventina, i quali si erano tenuti indietro e davano le spalle ai messaggeri degli dei, rifiutandosi di guardarli in faccia. Ingrey si rivolse a Oswin: «Erudito, che cosa devo fare con costoro?» domandò indicando gli spettri rimasti, incapaci di andarsene e nello stesso tempo di avvicinarsi a lui. Oswin trasse un lungo respiro e rispose con riluttanza, come recitando
una vecchia lezione: «Il cielo piange per questo, ma il libero arbitrio è sacro. Il significato del sì è dato dalla capacità di dire no. Così come un matrimonio forzato non è un matrimonio bensì un criminoso atto di violenza. Gli dei non vogliono o non possono rapire le nostre anime; in ogni caso non lo fanno. Per quanto ne so io», aggiunse con puntiglio da studioso. Anche questi sono morti a Campo del Sangue. Ingrey fece uso della Voce Selvaggia, ordinò agli spettri recalcitranti di avanzare e li segnò col sangue, liberandoli dei loro spiriti animali. Poi li lasciò andare. Quasi tutti si sciolsero, dissolvendosi nel nulla, ancora prima di essere tornati tra gli alberi. Ora ne restavano solo due: il maresciallo guerriero, che da ore attendeva in piedi accanto a Ijada e allo stendardo reale, e l'uomo agli ordini del quale lui era morto in quei giorni drammatici. Ingrey dovette ricorrere a tutta la propria energia per costringere Horseriver a venire al suo cospetto. Entrambi posarono un ginocchio a terra. Costui non è più lo stesso. Lo spirito di cavallo di Horseriver se n'era andato, la regalità gli era stata tolta, ma il conte aveva ancora in sé la catena di anime: generazioni di Horseriver che continuavano ad alternarsi nel suo volto tormentato. In via sperimentale, Ingrey si protese in quella ressa alla ricerca di Wencel e mormorò: «Vieni». Poi, a voce più alta: «Vieni!» Un brivido percorse l'essere che aveva davanti, ma nessuna anima singola ne emerse. Ingrey si domandò dove stesse sbagliando. Se avesse iniziato con Horseriver prima di esaurire le forze nell'estenuante lavoro durato tutta la notte, sarebbe riuscito a disfare ciò che la maledizione di quell'individuo aveva costruito? O semplicemente ciò non rientrava nei suoi poteri terreni? Era quasi certo della seconda ipotesi. Quasi. Alcune delle facce di Horseriver, emergendo alla superficie di quella testa sconvolgente, guardavano con desiderio verso le porte degli dei, verso le cinque persone tanto diverse, si sarebbe detto male assortite, che ora si appoggiavano l'una all'altra, stremate quanto Ingrey. Altre facce invece si rifiutavano di voltarsi in quella direzione, coi lineamenti contratti da tutta l'amarezza e tutta la rabbia che avevano segnato i discendenti maschi del kin Horseriver. «Che cos'è che desiderate maggiormente?» domandò loro Ingrey. «Le vite che avete perduto non è in mio potere ridarvele. Separare le anime di quei guerrieri dagli dei è una vendetta che ormai vi ho tolto, perché non era diritto del vostro sacro re, anzi sarebbe stato un atto di vile tradimento. Dunque che cosa resta? Vi posso offrire pietà, se la volete.» Gli dei posso-
no darvene a fiumi. «Pietà», supplicarono le voci di alcuni Horseriver, guardando le porte; «Pietà», mormorarono anche gli altri, distogliendo lo sguardo. Una sola parola, sebbene di significato del tutto opposto nei due casi. Poteva Ingrey, con la magia o con la forza fisica, separare quelle anime così ammucchiate in un solo corpo? Doveva provarci? Il tempo l'aveva favorito quella notte, ma ora si era esaurito. Se fosse sorta l'alba prima che lui avesse preso una decisione, che cosa sarebbe successo? E se avesse rimandato la scelta per lasciare che fosse l'alba stessa a prenderla, non sarebbe stata anche quella in realtà una decisione sua? Ingrey aveva creduto che condurre gli uomini in battaglia, quando c'era la possibilità di portarli soltanto alla morte, fosse la decisione più difficile per un sacro re; invece la situazione attuale lo lasciava in preda a un'incertezza ancora più tormentosa. Guardò Horseriver e pensò: Deve essere stato un uomo dalla grande anima, un tempo, se gli dei hanno voluto vederlo finire qui, intrappolato nella sua rovina. Si voltò a guardare i testimoni di quella notte sconvolgente: tre Divini del Tempio, due principi, una principessa e due portabandiera reali, una viva e l'altro morto. L'impulso di gelosia per la regalità di Ingrey era completamente scomparso dai modi di Biast; neppure lui desiderava la sacra regalità, in quel momento. Il volto sfregiato del maresciallo guerriero era privo di espressione. Ingrey strinse la mano destra finché il sangue non tornò a scorrere fino alle dita, quindi tracciò una lunga linea circolare intorno alla testa tormentata dello spettro di Horseriver. Inalò l'aria della notte, mormorò: «Pietà» e lasciò andare anche lui. Lentamente, come spirali di fumo da una pira, le anime degli Horseriver se ne andarono verso il loro estremo destino, finché l'unica foschia che rimase nell'aria non fu quella della nebbia. Il maresciallo guerriero aveva chiuso gli occhi come se volesse risparmiarsi quella vista. Di tutti i presenti, era l'unico che Ingrey sentiva in grado di comprendere la sua scelta. Tutte le scelte. La radura era immersa nel silenzio. Ingrey cercò di fare qualche passo e per poco non cadde. Rimase lì a capo chino, debole e stordito. Non credeva di avere perso abbastanza sangue da rischiare la vita, tuttavia al suolo e sui vestiti gli sembrava di vederne fin troppo. Sembra sempre di più quando lo spargi. Alla fine raddrizzò la schiena e guardò l'ultimo spettro e Ijada, che reggeva lo stendardo con la testa di lupo. In alto, conficcato sulla punta, un cuore d'ombra pulsava an-
cora. S'inchinò al maresciallo guerriero. «Voglio chiederti una cosa in cambio di ciò che sto per dare anche a te, mio signore portabandiera. Un altro istante del tuo tempo.» Il maresciallo guerriero aprì una mano in uno strano gesto di consenso. Tutto il mio tempo è tuo, altezza reale, parve dire: Ingrey andò davanti a Ijada e le posò una mano su una spalla. Lei gli sorrise con aria stanca, col viso pallido segnato dalla polvere e dalla fatica. Lui si voltò verso i cinque del gruppo sacro. Sì... «Erudito Oswin, Erudita Hallana, volete venire qui un momento?» I due si scambiarono uno sguardo e lo accontentarono. «Sì, Ingrey?» domandò Hallana. «Vi spiace prendere questa asta, ciascuno a una delle estremità, e tenerla in orizzontale, non troppo alta dal suolo?» Con un po' di apprensione i due presero l'asta, forse incerti sulla sua solidità materiale, e si separarono di qualche passo. Lo stendardo dei Wolfcliff penzolò in basso, come se il grande lupo avesse chinato la testa. Ingrey si rivolse a Ijada e disse: «Prendimi per mano». Un po' esitante, la giovane gli toccò la mano destra, consapevole della ferita che ancora sanguinava, ma un sorriso di Ingrey la esortò a stringere più forte. L'asta era dinanzi a loro, a mezzo metro dal suolo. «Saltala assieme a me», disse lui. «Saltala e, così come siamo stati insieme questa notte, lo saremo per tutta la vita.» «Ingrey...» Lei gli gettò uno sguardo in tralice, attraverso una ciocca di capelli. «Mi stai chiedendo di sposarti?» All'incirca, fu sul punto di rispondere lui, ma si trattenne. Era qualcosa di più. «Sì, mia cara. Pensaci... forse stai sposando un re. È la grande occasione della tua vita.» Si guardò attorno. Il volto serio di Oswin s'illuminò di approvazione, mentre su quello di Hallana si era allargato un sorriso. «I testimoni di nozze non potrebbero essere migliori: tre Divini del Tempio dal carattere affabile, due principi... uno dei quali è un poeta che senza dubbio immortalerà questo episodio ancora prima del nostro ritorno a Easthome...» Jokol, che si era avvicinato per vedere meglio, annuì con entusiasmo. «Ah, Ingorry, tu avuto buona idea. Salta con egli, Lady Ijada. Mia bella Breiga piacerebbe essere qui!» «E una principessa...» Ingrey rivolse un mezzo inchino a Fara, ancora seduta sul bordo del tumulo, la quale gli rispose con un lieve cenno del ca-
po. «Per non parlare di quest'altro testimone», concluse lui, riferendosi al maresciallo guerriero. Non sapeva ancora se gli spettri avessero il dono dell'umorismo, ma il sorriso dell'uomo segnalò che quell'uso inconsueto della sua bandiera lo divertiva. Ingrey aggiunse rivolto a Ijada: «Tra qualche giorno potrai pavoneggiarti nella cerimonia ufficiale, con altre vesti e anche altri testimoni... purché non sia un altro anche lo sposo». «Uno più elegante di te potrebbe anche trovarlo», borbottò Oswin, indicando i suoi abiti infangati. Ingrey aprì la bocca per perorare ancora la propria causa, ma Ijada lo zittì posandogli due dita sulle labbra; lui vacillò un istante, per la stanchezza oltre che per l'emozione. La fanciulla lo scrutò pensierosa, quindi allungò la mano libera a battere qualche colpetto sull'asta della bandiera. Oswin e Hallana si affrettarono ad abbassarla a un'altezza più accessibile a un sacro re tanto pallido e sfinito. Ingrey e Ijada si guardarono, poi si voltarono verso l'asta, mano nella mano, e saltarono. L'atterraggio fece barcollare Ingrey come un ubriaco, tanto gli girava la testa per la debolezza, ma Ijada lo sostenne. Poi si baciarono sulla bocca, come richiedeva la tradizione; Ingrey accennò subito a ritrarsi pudicamente, ma lei gli prese il viso tra le mani e mostrò a tutti che cosa intendeva per un matrimonio degno di tal nome. Ah, sì, pensò Ingrey, godendosi la morbidezza delle sue labbra e il calore delle sue braccia intorno al collo. Questa è vita. Si separarono, continuando a guardarsi negli occhi con un sorriso assorto, e Ingrey si chinò a riprendere lo stendardo. Il cuore pulsante era scomparso dalla punta. Ma chi di noi ha ricevuto quale metà? Non era certo di saperlo. Il maresciallo guerriero posò un ginocchio a terra, sciolse la treccia di capelli dalla cintura d'oro e sollevò la propria testa davanti a sé. Anche Ingrey s'inginocchiò, per deporre una generosa striscia di sangue su quella fronte. Lo spirito dello stallone che liberò con quel gesto era molto consumato, ma ai suoi tempi doveva essere stato un animale maestoso, perché galoppò via nella notte leggero come un puledro. Il maresciallo guerriero si rialzò, si rimise la testa sul collo e annuì solennemente a Ingrey, quindi andò a toccare una mano dell'Erudito Oswin e, con un ultimo passo verso il bosco, scomparve. Tutto il buio della notte cadde per la prima volta sugli occhi di Ingrey, che soltanto allora si rese conto di aver potuto vedere solo grazie alla luce
soprannaturale emessa dagli spettri. Jokol grugnì e si diede subito da fare per ravvivare un fuoco che aveva precedentemente acceso accanto a Fara, mentre Ingrey era occupato col suo lavoro. Le fiamme arancioni guizzarono più alte, illuminando le facce stanche delle persone che si riunivano per scaldarsi. Biast indicò cautamente lo stendardo reale dei Wolfcliff che Ingrey ancora impugnava, usandone l'asta come sostegno. «Che cosa intendete farne?» Già, che cosa? Ingrey si girò a guardare il tessuto, perplesso. Tra le sue mani era solido come quello di Horseriver che Fara aveva spezzato, tuttavia non proveniva dal mondo esterno e lui dubitava di poterlo portare fuori dei Boschi Feriti. C'era anche da dubitare che resistesse al sorgere del sole, quando l'astro avesse fatto capolino oltre le cime degli alberi contorti. La sacra sovranità di Ingrey era molto più limitata da confini spaziali e temporali di quanto Biast immaginasse, a giudicare dall'aria preoccupata con cui il principe maresciallo lo stava scrutando. Non se la sentiva di consegnare umilmente lo stendardo a Biast, come avrebbe richiesto un minimo di prudenza politica. Era uno stendardo Wolfcliff, non Stagthorne, un oggetto appartenente alla notte, non al giorno... che dimostri di meritarselo. Ingrey disse: «Nel Vecchio Dominio il portabandiera reale custodiva lo stendardo dalla morte del re fino all'investitura del suo successore». E io so il perché. «Poi la bandiera veniva spezzata e fatta ardere sulla pira del defunto re, se la situazione consentiva lo svolgimento della cerimonia.» Se invece il rituale non poteva essere eseguito con tutti i crismi, come sembrava in quell'occasione, qualcuno doveva escogitarne un surrogato accettabile quanto prima, coi mezzi disponibili. Si guardò attorno, esaminando la radura. «Ijada, dobbiamo ripulire questo posto alla meglio prima di andarcene. Col fuoco, direi. Ed è necessario andare via molto presto.» «Prima che sorga il sole?» domandò lei. «Sì, questa è la mia impressione.» «Tu dovresti saperlo.» «Lo so.» Ijada seguì il suo sguardo circolare e disse: «Il mio patrigno diceva che questi alberi sono malati. Voleva dare fuoco al bosco, ma io non gliel'ho permesso». «A me lo permetterai?» «È il tuo regno.»
«Solo fino all'alba. Domani tornerà a essere di tua proprietà.» Ingrey gettò uno sguardo a Biast, per vedere se avesse colto l'allusione. «Forse è un bene», sospirò Ijada. «Forse è necessario. Forse è... tempo di farlo. E che cosa... ehm...» indicò il corpo di Wencel, «che cosa ne facciamo di quello?» L'Erudito Lewko disse, un po' a disagio: «Non credo sia possibile portarlo con noi ora. Ieri abbiamo stancato molto i cavalli e per loro sarà una fatica riportarci alla capitale lungo la strada principale. Dovremo incaricare qualcuno di tornare qui a recuperare il corpo. Sarà il caso di coprirlo con un piccolo tumulo, per proteggerlo dagli animali selvatici fino ad allora?» «L'ultimo re del kin Horseriver non ha mai avuto la sua pira funebre», osservò Ingrey. «Nessuno di quanti sono morti qui l'ha mai avuta, salvo chi è rimasto intrappolato nelle capanne che bruciavano, suppongo. Non so se Audar li abbia seppelliti per spirito religioso o se la cosa fosse richiesta per annientare qualche magia o maledizione, oppure per semplice praticità militare. Più dettagli apprendo su Campo del Sangue, più mi convinco che nessuno abbia mai saputo tutta la verità, nemmeno allora. Ma ormai è tardi. Il tempo è scaduto. Daremo fuoco al bosco.» Per Wencel. Per tutti loro. Ijada si umettò un dito e lo alzò. «Il vento soffia da oriente, almeno per ora. Dovrebbe continuare così, se non arriva un temporale.» Ingrey annuì. «Biast, signori, qualcuno di voi può aiutare la principessa Fara ad alzarsi? Qualcun altro dovrebbe andare a cercare i cavalli.» «Ci penso io!» disse vivacemente Hallana, cogliendo tutti di sorpresa, e salì sulla cima del tumulo. Poi iniziò a chiamare con voce suadente: «Qui, belli! Dove siete finiti? Venite qui, venite da me!» Oswin, che si stava ancora massaggiando le reni doloranti, non si mostrò affatto stupito quando, poco dopo, una serie di rumori nel sottobosco annunciò l'arrivo dei cavalli, che si trascinavano dietro le redini e sbuffavano nervosamente. Tuttavia mancavano quelli di Ijada e di Ingrey. Jokol e Lewko, su richiesta di Ingrey, raccolsero alcune bracciate di foglie e di rami secchi e le disposero intorno al corpo di Wencel. Lewko prese in custodia la borsa del conte, gli anelli e tutti gli altri oggetti personali di qualche interesse per i futuri eredi. Ijada depose sulla pira i frammenti della bandiera degli Horseriver. Poi Hallana aiutò la principessa Fara a montare a cavallo. Il gruppo partì verso l'acquitrino nella luce fioca dell'aurora nebbiosa. Fara non si voltò indietro neppure una volta. A farlo fu Biast, che fermò il cavallo sul bordo della radura quando Ijada e Ingrey incendiarono la pira con un ramo tolto dal fuoco. «Voi due siete
rimasti a piedi... avete bisogno di aiuto?» «No», rispose Ingrey. «Possiamo farcela. Avviatevi pure alla porta delle spine. Noi vi raggiungeremo più tardi.» «Vi aspetterò», insisté invece l'altro. Con espressione grave Ijada prese lo stendardo del lupo, indietreggiò di qualche passo e protese sulla pira il tessuto rosso e nero finché non prese fuoco. Poi consegnò l'asta a Ingrey, il quale la afferrò con entrambe le mani, la sollevò verso il cielo e chiuse gli occhi. Mentre la fanciulla si chiedeva che cosa stesse facendo, l'asta esplose in mille pezzi, come colpita da un fulmine, e le schegge ardenti ricaddero intorno appiccando il fuoco alla vegetazione. «Oh», mormorò Ijada, sorpresa. «Mi ero già preparata a setacciare il bosco armata di una torcia, alla ricerca di tutta la legna secca in grado di bruciare...» «Non sarà necessario», disse Ingrey; quindi prese per mano la compagna e la condusse verso il luogo in cui Biast era rimasto a guardarsi attorno, nella luce gialla delle fiamme. «È giunta l'ora di andarcene, per sempre.» Dietro di loro la luce palpitava sempre più viva; un albero molto più secco degli altri prese fuoco con un ruggito ed esplose in una nube di faville. «E anche in fretta.» Il cavallo di Biast scalpitava nervoso nonostante la stanchezza, ma il principe lo mantenne al passo per non allontanarsi da Ingrey e Ijada mentre attraversavano la distesa di alberi deformi verso l'acquitrino. Ogni tanto si voltava a guardarli, come se cercasse di decidere chi dei due prendere in groppa dietro di sé per portarlo in salvo al galoppo, se il vento fosse girato spingendo le fiamme dalla loro parte. Tuttavia la brezza continuò a spirare da oriente e le fiamme non divamparono a una velocità maggiore della loro. I tre giunsero al limitare del bosco con buon anticipo sull'avanzata dell'incendio. Ijada continuò a sostenere Ingrey fino alla porta delle spine. Poi Biast lo vide barcollare, saltò giù dal cavallo e lo costrinse a salire in sella al suo posto, conducendo poi l'animale a mano. Grazie alla luce dell'incendio, non ebbero bisogno di una lanterna per trovare il sentiero che risaliva a zig zag fuori della valle. Sulla dorsale della collina trovarono tutti gli altri, riuniti a un piccolo campo preparato da Symark, Ottovin, Bernan e Hergi. Ingrey stava tremando di freddo nell'aria umida quando Lewko lo aiutò a scendere dal cavallo di Biast. Hallana, che si occupava di Fara, non appena vide la difficoltà con cui Ingrey trascinava i piedi, lasciò la principessa alle
cure di Hergi, si affrettò a venirgli incontro e aiutò il collega a sostenerlo sino al fuoco. «Oh, maledizione!» mugolò la donna preoccupata; Ingrey trovò l'imprecazione anche più allarmante della propria debolezza. Hallana gli controllò le pulsazioni. «Dategli da mangiare e da bere qualcosa di caldo e copritelo con un mantello pesante», ordinò a Bernan e Oswin. Ingrey fu lieto di mettersi finalmente a sedere su una coperta, perché le gambe non lo reggevano più. «Credi che abbia perso troppo sangue?» domandò con ansia Ijada. Hallana esitò, poi rispose: «Si riprenderà, se lo teniamo ben coperto e con cibo caldo nello stomaco». Hergi arrivò con la sua borsa di pelle e Ingrey lasciò che la donna gli lavasse e bendasse di nuovo la mano destra. La ferita non sanguinava più; sembrava sul punto di rimarginarsi e anche i lividi violacei erano quasi spariti. Gli altri membri del gruppo si stavano dando da fare allegramente; gettarono altra legna sul fuoco e iniziarono a mangiare con appetito. Ingrey era esausto e infreddolito; le sue mani tremavano al punto che il boccale di tè caldo rischiò di sfuggirgli due volte mentre cercava di portarselo alle labbra. Gli sembrava di avere la faccia e le dita completamente insensibili, ma Ijada lo aiutava e continuava a riempirgli la ciotola di cibo. Dopo che ebbe mangiato, la giovane gli mise una coperta sulle spalle e si strinse accanto a lui per scaldarlo col proprio corpo, stringendogli le mani. Alla fine i tremiti di Ingrey si placarono; sebbene fosse sempre privo di energia, gli parve di sentirsi meglio. «Come siete arrivati qui?» domandò all'Erudito Lewko, che si era seduto con lui per fargli compagnia e offrirgli un po' di frutta secca portata da qualcuno nelle borse da sella. «Non ho potuto informare nessuno della nostra partenza dalla capitale, subito dopo la morte del sacro re, anche se avrei voluto farlo. Horseriver aveva sottomesso la mia volontà e quella di sua moglie con un incantesimo.» «Quella sera ho accompagnato Hallana, che voleva interrogare Lady Ijada. Stavamo parlando con lei quando Lady Ijada è balzata in piedi e ha esclamato con grande agitazione che qualcosa di spiacevole doveva esservi appena successo.» «Non riuscivo più a sentirti», intervenne Ijada. «Temevo che tu fossi stato ucciso», disse, stringendosi ancora di più al suo fianco. «Horseriver ha troncato il nostro legame mentale e l'ha sostituito con uno tra me e lui.»
«Ah!» mormorò lei. Lewko inarcò un sopracciglio, incuriosito, ma preferì continuare la sua narrazione: «Lady Ijada ha insistito che dovevamo indagare e Hallana le ha dato ragione. Io... ho deciso di non discutere. Anche il vostro tenente Gesca ha preferito non discutere, almeno non con Hallana, anche se ha voluto seguirci per non mancare al proprio dovere di sorvegliante. Tutti e quattro siamo andati al palazzo di Horseriver, dove ci hanno riferito che vi trovavate al capezzale del sacro re. Allora ci siamo recati al palazzo reale e lì siamo venuti a sapere dal principe Biast che voi e il conte eravate tornati a casa sua, assieme alla principessa Fara. Sapevamo di non avervi incontrati lungo la strada, perciò Hallana ha fatto una ricerca... ehm... di quelle che ogni tanto fa alla sua maniera, e ci ha guidato alla scuderia del conte». «Dove vi aspettava una scena inattesa», osservò Ingrey. «A dir poco. Fino a quel momento il principe Biast aveva rifiutato di credere che fosse successo qualcosa, a parte uno dei soliti malesseri di sua sorella. Ma dopo che ha visto la giumenta sgozzata nello stallo, nessuno sarebbe potuto essere più risoluto di lui nel lanciarsi all'inseguimento. Hallana è andata subito a prendere Oswin e Bernan e il loro carro; là ha incontrato il principe Jokol, che stava parlando con Oswin (chiedeva ancora che facesse trasferire un Divino sulla sua isola), e li ha condotti entrambi con sé. Io non ero molto persuaso di far mettere in viaggio tutta quella gente, ma poi... be', anch'io so contare fino a cinque.» Lewko sospirò e aggiunse: «Se non altro Jokol non ha portato con sé quel suo maledetto orso». «Voleva farlo?» domandò Ingrey divertito. «Sì», rispose Ijada. «Però sono riuscita a convincerlo a lasciarlo sulla sua nave. È un uomo molto dolce, sai.» Ingrey preferì non commentare quella dichiarazione. Lewko riprese: «A quel punto ho capito che gli dei dovevano essere dalla nostra parte. Le cose sarebbero andate molto diversamente se Jokol avesse insistito per portare con sé l'animale, magari sul carro. Io per esempio, spero che non me ne vogliate per questo, avrei rinunciato all'impresa. Mi chiedo se la sua povera Breiga non si troverà quell'orso a dormire ai piedi del letto la prima notte di nozze». Ijada ridacchiò. «Meglio che non suggeriate l'idea a Jokol, altrimenti sarebbe capace di provarci.» «Non temete, non voglio avere sulla coscienza il fallimento del loro matrimonio.» Lewko si cancellò il sogghigno dalla faccia e continuò: «Biast ha lasciato il governo di Easthome sulle spalle di Lord Hetwar, che a mio
avviso sono abbastanza robuste da sopportare un tale carico per alcuni giorni. Eravamo già sulla strada del fiume, diretti a nord, una mezza giornata dopo la vostra partenza dalla città. Poi c'è stato soltanto il problema di riposare la notte e di cambiare i cavalli presso i templi di alcuni centri abitati, per tutto il viaggio fino a Badgerbridge». «Vi siete tenuti sempre sulla strada del fiume?» domandò Ingrey, ripensando a una mappa mentale del territorio. «Forse ciò vi ha aiutato a guadagnare tempo, perché noi abbiamo dovuto uscire spesso di strada per non rischiare di essere rintracciati.» «Sì. Non avevamo nessun dubbio su quale fosse la vostra destinazione. Troppi sogni, troppe visioni! Tuttavia io non potevo neppure immaginare che cosa vi portasse qui, finché... be', ora ho visto il motivo. A Badgerbridge abbiamo lasciato il carro e anche i soldati di scorta del principe Biast; dovrebbero raggiungerci tra poco, se non si sono smarriti in queste foreste di Lady Ijada.» La giovane scosse pensosamente il capo, considerando tale eventualità. «Con loro ci sono alcuni boscaioli che li aiuteranno a trovarci.» Si voltò a guardare la valle. «In ogni caso il fumo li condurrà qui.» Dall'altra parte del piccolo accampamento, Hallana chiamò con un gesto Ijada, la quale la raggiunse. Ingrey si sentiva più caldo e riposato, sebbene avesse mal di testa. Si tirò in piedi e, a passi lenti, andò in un punto del crinale da cui poteva osservare per intero l'estensione di BoscosacroCampo del Sangue-Boschi Feriti. Il mio regno di una notte. Si annodò la coperta intorno al collo, sedette su una roccia coi gomiti sulle ginocchia e lasciò vagare lo sguardo in quel golfo di nebbia e fumo. La luce gialla che aveva illuminato le ultime ore della notte si era scurita in un anello rosso, violaceo al centro, e la brezza orientale lo stava allargando soprattutto verso ovest. Quel bagliore sanguigno si rifletteva sulle nuvole, basse e pesanti. In lontananza i tuoni rotolavano lenti sulle colline e assieme all'odore del fumo si avvertiva nell'aria quello umido della pioggia. Ingrey si domandò se il mattino successivo al massacro di Campo del Sangue ci fossero stati gli stessi odori, la stessa atmosfera cupa, e se anche Audar si fosse fermato lì a riflettere sul risultato delle sue ambizioni espansionistiche. Biast venne accanto a lui, con le braccia conserte, osservando il panorama come se condividesse i suoi pensieri. Il principe maresciallo doveva avere dormito poco negli ultimi giorni, a giudicare dal suo volto, e quando Ingrey lo invitò a sedersi sulla roccia piatta accanto a sé accettò volentieri,
con un sospiro stanco che non era una finzione. «Adesso che cosa farete?» domandò Biast. «Qualche ora di sonno, spero, prima di rimontare a cavallo.» «Intendo che cosa farete in generale.» So che cosa intendi. Ingrey sospirò e un vago sorriso si dipinse sulle sue labbra. «Potrei anche realizzare la suprema ambizione di un cortigiano...» fece una breve pausa, per dare al suo interlocutore il tempo d'irrigidirsi, «... e sposare una ricca ereditiera, per poi godermi una vita comoda nella sua tenuta di campagna.» E indicò le colline intorno a loro. «Una vita comoda? In questa terra desolata?» «Be', la ricca signora potrebbe trovare il modo di tenermi occupato in qualche lavoretto.» «Sì, lei potrebbe tenere occupato un uomo», sogghignò Biast. «Purché qualcuno non abbia ancora intenzione d'impiccarla.» Biast spazzò via quella preoccupazione con un gesto, senza smettere di sogghignare. «Non accadrà. Non dopo ciò che è successo. E se non vi fidate di me e di Hetwar, be', credo che Lewko e Oswin avrebbero da dire la loro sull'argomento. Vista la reputazione di cui godiamo, non sarà difficile indirizzare la giustizia sul percorso più saggio e...» la sua voce esitò, non per un dubbio bensì per timidezza, «e più misericordioso.» «Bene», sospirò Ingrey. «Vi ringrazio per avere protetto la vita di Fara. Più di una volta, a quanto sostiene mia sorella. Mettere di guardia il vostro lupo tra lei e suo marito è stata una delle mie decisioni più fortunate, se di fortuna si può parlare.» Ingrey si strinse nelle spalle. «Ho fatto soltanto il mio dovere verso di voi, nulla più di quanto avrebbe fatto qualsiasi persona coscienziosa.» «Una persona qualsiasi non avrebbe fatto ciò che vi ho visto fare questa notte.» Biast si guardò gli stivali, per evitare gli occhi di Ingrey. «Se ora decideste di diventare qualcosa di più... di reclamare il trono di mio padre... non vedo chi potrebbe opporsi al re lupo.» Non certo io, sembravano suggerire le sue spalle curve. Finalmente siamo arrivati al punto. «Il mio regno misura due leghe per quattro, la sua popolazione non comprende anima viva e su quel trono sono salito al tramonto e sceso all'alba. Sono stati i morti a conferirmi la mia regalità e alla fine io l'ho restituita a loro. Come ogni re deve fare. Vostro padre, per esempio.» Anche se il comportamento di Horseriver era stato l'opposto, e proprio da ciò erano scaturiti i guai. «E così farete voi, altezza, giacché ora è il vostro turno.»
Riflettendoci meglio, Ingrey decise che la geografia di quel regno aveva in realtà una dimensione assai diversa: otto leghe quadrate, sì, ma moltiplicate per quattro secoli o più, visto che tutta la storia del Vecchio Dominio si era concentrata in quel fazzoletto di terra, in quella notte fatale, prima di espandersi in ogni direzione. Come l'abisso sotto l'ingannevole superficie di un lago, in quella valle il tempo aveva una profondità maggiore che altrove. Il mio regno è molto più grande di quanto sembra. Tuttavia decise di non innervosire Biast con quella riflessione e si limitò a dire: «Se c'è un regno che mi compete, è contenuto in questa piccola valle». Le spalle di Biast si rilassarono visibilmente e il suo volto s'illuminò: il Lord lupo dagli inquietanti poteri aveva appena dichiarato che non desiderava avere parte nella politica di Easthome. Il principe scrutò l'orizzonte, forse cercando tracce della sua scorta che doveva essersi perduta da qualche parte, ancora in cerca di una via d'accesso tra le colline. Non vide nulla, così raccolse alcuni sassi e li gettò nella scarpata con aria pensierosa. «Siate sincero con me, Lord Ingrey», disse all'improvviso. Per la prima volta si girò a guardarlo in faccia. «Che cos'è che rende sacro il sacro re?» Ingrey esitò; Biast stava per voltarsi di nuovo altrove, deluso dal suo silenzio, quando l'altro disse d'un fiato: «La fede». E in risposta allo sguardo perplesso del principe precisò: «Non perdere la fede». La bocca di Biast si aprì lentamente in un'espressione sbalordita, come se qualcosa di pungente l'avesse colpito al cuore. Si appoggiò all'indietro e non disse nient'altro. I due restarono seduti lì senza parlare, a lungo, mentre il cerchio di fuoco continuava ad allargarsi nella valle per sconsacrare definitivamente ciò che restava di Campo del Sangue. EPILOGO Ingrey lasciò la foresta di Ijada quel pomeriggio, aggrappato rigidamente al pomo della sella, su un cavallo condotto per le redini da uno dei soldati della scorta di Biast. Trascorse la maggior parte della settimana successiva disteso a letto nella casa dei parenti di Ijada, a Badgerbridge. Non appena fu in grado di alzarsi senza perdere i sensi, lui e Ijada si sposarono - o si risposarono - nel salotto di quella dimora; in seguito poté godere della dolce compagnia di lei anche durante la notte, nella camera in cui trascorreva la convalescenza. Si possono fare molte cose senza bisogno di alzarsi dal letto. Il principe Biast era subito rientrato a Easthome, dove lo attendevano i
suoi doveri, e il giorno dopo le nozze di Ingrey un corriere portò notizia della sua elezione al trono di sacro re. Il principe Jokol e Ottovin si trattennero a Badgerbridge solo per partecipare al banchetto nuziale e stupire la gente di campagna con la loro capacità di reggere gli alcolici, quindi partirono a cavallo sulla strada del sud per tornare alla loro nave. Hallana, coi suoi fedeli servitori, andò a raggiungere i suoi figli a Suttleaf, ma Oswin e Lewko rimasero, perché era loro dovere scortare a Easthome Ijada, ancora tecnicamente agli arresti. Dopo le nozze, dunque, la coppia si trasferì nella capitale per il processo. Anche con la partecipazione dei due Eruditi, le ruote del Tempio e del Tribunale Reale si muovevano a rilento; occorsero diversi giorni prima che l'inchiesta ufficiale si concludesse con un verdetto di autodifesa. Oswin aveva inoltrato domanda perché Ijada e la principessa Fara ottenessero la dispensa per i loro spiriti animali, in un documento unico e con le stesse motivazioni. Gli argomenti contrari che qualcuno portò nella discussione del caso cozzarono contro le secche osservazioni di Lewko e la doppia dispensa fu concessa subito dopo il verdetto. Fara si isolò in un periodo di lutto molto privato, sotto la protezione del fratello. Se anche il suo spirito di cavallo la rendeva meno ambita per un futuro matrimonio politico, lei ne parve più soddisfatta che rammaricata. I ricorrenti dolori alla testa cessarono di tormentarla. Ingrey non seppe mai in che modo Lewko e Oswin riuscirono a fare assegnare un Divino al principe Jokol; quando il principe straniero e i suoi compagni ripartirono alla volta della loro isola, lui e Ijada scesero al porto per salutarli. Il giovane Divino appariva nervoso e si aggrappava alla murata della nave come se fosse certo che gli sarebbe venuto il mal di mare non appena usciti dalla foce del fiume, tuttavia sembrava coraggioso e determinato. L'orso Fafa, in un impeto di generosità (o forse perché Jokol sapeva che simili animali non erano precisamente graditi a una sposa), era stato regalato a re Biast e trasferito in una fattoria fuori città, fornita di uno stagno in cui poteva nuotare. La prima neve stava ormai cadendo quando i due novelli sposi partirono a cavallo da Easthome verso sud-est, diretti alla valle del Lure, in compagnia dell'Erudito Lewko. Forse era tardi per ciò che Ingrey doveva fare, ma sembrava difficile che fosse troppo tardi. Giunsero alla confluenza del Lure e del Birchbeck il giorno del solstizio d'inverno, coincidenza che diede a Ingrey nuove speranze, nonostante ciò che gli dicevano il suo raziocinio e gli avvertimenti dell'Erudito.
«Temo che sia un'idea sciocca, cugino», fu l'opinione di Islin kin Wolfcliff, castellano di Birchgrove. «Abito qui da dieci anni e non ho mai visto né sentito parlare di fantasmi in questo maniero. Tuttavia, se proprio desideri perlustrare il posto alla loro ricerca, ovviamente sei il benvenuto.» Islin guardò Ingrey e le due persone che lo accompagnavano e alzò una mano a mascherare uno sbadiglio. «Quando sarete stanchi di frugare in giro al freddo e al buio, vi attenderà un letto di piume. Ora credo che il mio maggiordomo abbia bisogno di me. Vi prego di scusarmi.» «Naturalmente», disse Ingrey con un educato inchino. Islin gli restituì l'inchino e uscì dalla sala. Ingrey si guardò attorno. Due candele di ottima cera d'api, fissate in candelabri d'argento, spandevano una luce morbida. Il fuoco che ardeva basso e quieto nel camino aveva dissipato una parte del freddo. Oltre le finestre a feritoia c'era soltanto il buio della notte; si udiva il rapido gorgoglio del Birchbeck, non ancora congelato benché le sue rive fossero orlate di ghiaccio. La sala era cambiata poco dal giorno sciagurato in cui suo padre e lui avevano ricevuto i loro lupi sacrificali, proprio lì dentro; eppure... non gli sembrava più la stessa. È più piccola e rustica di come la ricordavo. Come può rimpicciolire una stanza di pietra? «Tuo cugino mi è parso molto riservato, durante la cena», disse Ijada con aria preoccupata. «Pensi che i nostri spiriti animali l'abbiano messo a disagio?» Le labbra di Ingrey si piegarono in un breve sorriso non molto divertito. «Forse. Ma credo che si stia domandando se ho intenzione di usare la mia influenza a corte per riprendermi il patrimonio che lui considera suo.» Islin era un po' più anziano di Ingrey e aveva ereditato il castello e le terre da suo padre, lo zio di Ingrey, circa tre anni prima. «E tu intendi farlo?» domandò Ijada, incuriosita. Ingrey corrugò le sopracciglia. «No. In questo luogo ristagnano troppi brutti ricordi, che stanno già seppellendo i pochi piacevoli che mi restavano. Preferisco lasciarmeli tutti alle spalle. Eccetto uno.» Ijada si volse a Lewko. «Dunque, santo. Che cosa rivela la tua santa vista? Ha ragione Islin? Non ci sono spettri qui?» Lewko, che fin dal loro arrivo, per tutto il pomeriggio, aveva finto di essere un semplice Divino privo d'importanza, scosse il capo e sorrise. «In un edificio tanto grande e antico, dove ha vissuto molta gente, sarebbe strano se non ce ne fossero. I tuoi sensi di sciamano che cosa ti dicono, In-
grey?» Lui si guardò attorno, chiuse gli occhi e annusò l'aria. «Ogni tanto mi è parso di sentire uno strano odore umido. Ma in questa stagione non c'è da stupirsene.» Riaprì gli occhi. «E tu, Ijada?» «Sono troppo inesperta per essere sicura di qualcosa. Mi rimetto a te, Erudito.» Lewko si strinse nelle spalle. «Se questa notte il dio mi toccherà, ogni spettro della zona sarà attirato dalla mia aura. Non dipenderà da un mio incantesimo, sia chiaro, succederà e basta. Pregherò che condividiate la mia seconda vista. Gli dei sono in debito con voi due, ragazzi miei; se potete ricevere qualcosa, Essi vi daranno qualcosa. Mantenete la calma e vedremo.» Si segnò, chiuse gli occhi e giunse le mani. Per un po' sembrò immergersi in se stesso, mentre le sue labbra si muovevano in una preghiera silenziosa. Ingrey fece del proprio meglio per placare i desideri e le paure. Si chiese se non sarebbe bastato essere semplicemente molto stanco. Dopo un po' Lewko riaprì gli occhi, si avvicinò ai due compagni e li baciò entrambi sulla fronte. Le sue labbra erano fredde, ma Ingrey sentì uno strano, gradevole calore affluire in lui. Sbatté le palpebre. «Oh», disse Ijada osservando la sala con nuovo interesse. «Erudito, è quello?» Ingrey guardò dove lei indicava e vide una forma pallida fluttuare verso di loro e girare intorno a Lewko, non più materiale di un banco di nebbia illuminato dalla luna. «Sì», rispose l'Erudito scrutando l'apparizione. «Non dovete avere paura, comunque, ma solo compassione. Quest'anima è stata a lungo separata dagli dei e sta ormai svanendo, priva di ogni potere.» A Ingrey parve assurdo che Ijada, dopo avere affrontato il terrore e la meraviglia di Campo del Sangue, potesse avere paura di uno spiritello. La paura che lui provava era di un altro genere. «Erudito, potrebbe essere mio padre?» «Tu senti il suo lupo, come sentivi gli spiriti animali negli altri?» «No», ammise lui. «Allora è qualcun altro, perduto da tempo. Morto oltre la morte.» Lewko si fece il segno dei Cinque e il grumo di nebbia penetrò in una parete e scomparve. «Perché gli dei ci offrirebbero questa vista, se non ci fosse nulla da vedere?» si domandò Ingrey. «Non sarebbe logico. Deve esserci qualcos'a-
ltro.» Lewko annuì e si guardò attorno. «Facciamo un piccolo giro di esplorazione del castello, allora, e vediamo che cosa riusciamo a trovare. Però... non ci sperare troppo, Ingrey. Gli spettri di Campo del Sangue avevano un grande incantesimo e tutta la vita di quel territorio a sostenerli nel tempo. Lord Ingalef non ha avuto nulla del genere, temo.» «Aveva il suo lupo», obiettò testardamente Ingrey. «Potrebbe essere bastato.» Il suo tono indusse Ijada a stringergli una mano per calmarlo. I due lasciarono la sala lungo un corridoio diretto all'ala est, mentre Lewko andava dalla parte opposta; erano decisi a scoprire qualcosa finché fosse durato il dono della seconda vista. Nell'umida oscurità invernale il castello era lugubre e deprimente anche senza bisogno di spettri, tuttavia Ingrey si accorse che la sua visione notturna funzionava meglio che altrove. Percorsero corridoi e stanze, con Ijada che ogni tanto si fermava a toccare le pareti con le mani. Usciti dall'edificio principale, guardarono anche dentro le costruzioni minori allineate all'interno delle mura. Fu nella penombra della scuderia, dove il respiro e i corpi dei cavalli davano un po' di calore, che la fanciulla sussurrò: «Guardate, ce n'è un altro!» La pallida forma di nebbia girò intorno a loro con atteggiamento ansioso, ma svanì subito dopo. «Era lui...?» domandò Ijada. «Non credo. Era qualcosa di più antico e semplice, come il primo. Andiamo avanti.» Mentre uscivano di nuovo nel cortile coperto da uno strato di neve, Ingrey mormorò: «Sono in ritardo. Sarei dovuto venire prima». La mano di Ijada, che lo teneva a braccetto, strinse la sua. «Non devi parlare così. Non potevi saperlo. E, anche se l'avessi saputo, non avevi ancora i poteri che hai oggi.» «Ma è doloroso pensare che c'è stato un tempo in cui era possibile salvare il suo spirito e l'occasione mi è sfuggita tra le dita. Non so neppure se devo incolpare me stesso, o mio zio, o il Tempio, o gli dei...» «Non incolpare nessuno, allora. Mia madre e mio padre sono morti prematuramente. È vero, sono andati agli dei e ciò mi consola, ma... non abbastanza. Mai abbastanza. La morte non è una sfida che dobbiamo sostenere, né può pesare sulla nostra coscienza.» Ingrey la strinse a sé e si voltò a baciarle i capelli, alla luce della luna. Salirono la scala che portava sui bastioni, percorsero il camminamento
delle sentinelle fino al punto più elevato, sopra il fiume, e si fermarono a guardare l'irregolare valle del Birchbeck. L'acqua scorreva liscia come seta nera, tra i riflessi d'acciaio del ghiaccio lungo le rive. La neve caduta sui versanti aveva un riflesso azzurrino sul quale gli alberi si stagliavano come linee tracciate col carbone, fuorché nelle zone in cui s'infittivano gli abeti e altri sempreverdi. I rami spogli delle betulle erano invisibili in quel panorama di neve e rocce che ingannava lo sguardo. Per un po' rimasero a osservare il territorio. Ijada tremava, nonostante i suoi indumenti di lana, e Ingrey si tolse il mantello per metterglielo sulle spalle. La giovane donna sorrise e si strinse a lui. All'improvviso Ingrey vide lo spettro; sentendolo irrigidirsi, Ijada si voltò subito a seguire il suo sguardo. A pochi passi da loro fluttuava una forma simile a bruma nel pallore lunare, ma più densa delle altre, allungata, alta all'incirca quanto un uomo. Dentro di essa se ne scorgeva un'altra, più scura, che roteava come un refolo di fumo. Ingrey tolse subito il braccio dalle spalle di Ijada. «Vai a chiamare l'Erudito Lewko. Fai presto!» Lei annuì e corse via. Ingrey rimase in silenzio, osando a stento respirare per il timore che l'immagine svanisse o se ne andasse come le altre. Sembrava che avesse una specie di testa e i piedi, ma non lineamenti riconoscibili come tali. Con uno sforzo d'immaginazione cercò di sovrapporvi quelli di suo padre, e d'un tratto fu raggelato nell'accorgersi che non riusciva più a ricordare con precisione il suo volto. L'aspetto di Lord Ingalef non aveva mai significato molto nei ricordi di Ingrey. Nella memoria gli erano rimaste soprattutto altre impressioni: una presenza che lo riscaldava, la sua forte voce mascolina, le braccia che l'avevano stretto facendolo sentire sicuro e protetto. O forse gli avevano dato soltanto un'illusione di sicurezza. Se io diventassi padre oggi, non potrei dare a mio figlio una sicurezza assoluta, forse neppure parziale. Era un'illusione, sì. Mio figlio sarà abbastanza comprensivo da perdonarmi, quando diventerà adulto e lo capirà? Un rapido scalpiccio di passi sulla neve lo distrasse: Ijada e Lewko stavano salendo in fretta la lunga scala di pietra. Giunto sul camminamento presso i merli, l'Erudito si fermò e il suo sguardo incontrò la forma che aleggiava a pochi passi da Ingrey. «È lui?» domandò. «Suppongo...» cominciò Ingrey. Suppongo di sì, stava per dire, ma cambiò idea. «Sì, è lui. Ne sono certo. Erudito, che cosa devo fare? Vorrei do-
mandargli mille cose, ma non ha bocca. Non credo che possa parlare. Non so neppure se possa ascoltarmi.» «Penso che tu abbia ragione; il tempo delle domande e delle risposte è finito. Puoi soltanto ripulirlo e lasciarlo andare. È questo ciò che deve fare uno sciamano.» «E quando sarà ripulito e libero, il Padre dell'Inverno lo prenderà con sé? Oppure è già perduto oltre ogni redenzione? Non ci sono riti che tu possa fare per aiutarlo?» «Lui ha avuto il suo rito funebre molto tempo fa, Ingrey. Tu non puoi fare altro che ripulirlo, io non posso fare altro che pregare. Se il tempo trascorso è troppo, di lui non resta nulla che possa accettare gli dei, e in tal caso neanche gli dei potranno fare niente. Forse tutto ciò che puoi fare è porre fine alla sua agonia.» «E lasciare che si sciolga nel nulla?» «Sì.» «Come Horseriver.» Ora l'odio di quest'ultimo per l'ineluttabilità del tempo aveva più senso agli occhi di Ingrey. «Più o meno.» «A che cosa servo, se posso mandare agli dei oltre quattromila anime a me sconosciute, ma non l'unica che per me conta qualcosa?» «Non lo so.» «È a questo che assomma la sapienza del Tempio?» «Questa è la mia sapienza ed è tutta la verità che io conosco.» La sapienza del Tempio era dunque simile alla sicurezza che offriva un padre, nient'altro che un'illusione? Ed era sempre stato cosi? Preferiresti che Lewko ti raccontasse bugie confortanti? Ingrey non poteva percorrere al contrario quel cammino di anni e di esperienze per ritornare un bambino ingenuo; anche se avesse potuto, probabilmente non l'avrebbe fatto. Ijada venne ad abbracciarlo per dargli il conforto della sua presenza, se non era possibile il conforto di una risposta migliore. Lui assorbì per qualche istante il calore del suo corpo, poi le chiese di scostarsi e si fece avanti. Da una tasca della cintura estrasse un piccolo coltello a serramanico acquistato a Easthome in previsione di quel momento. La lama rifletté il chiarore della luna in un breve lampo. Ijada strinse i denti contemporaneamente a lui quando gli vide premere la punta affilata sul polpastrello dell'indice della mano destra. Quindi Ingrey alzò la mano sopra la forma di nebbia. Le gocce la attraversarono, caddero sulla neve calpestata e la sciolsero,
scavandovi piccole fosse scure. Per un po' Ingrey guardò lo spettro, irriconoscibile e immobile dinanzi a lui, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto dire. Addio gli sembrava una parola fredda. Vai in pace non suonava molto meglio. Si umettò le labbra nell'aria fredda della notte. «Padre, io non so ancora che cosa cercavi il giorno in cui hai officiato quel rito. Ma qualunque cosa fosse ormai è finita; ora va tutto bene. Il tuo sacrificio non è stato vano.» Si chiese se fosse il caso di aggiungere: Io ti perdono, ma preferì non farlo. Sarebbe stato inutile e forse sciocco e presuntuoso da parte sua. Perciò si limitò a dire: «Ti voglio bene, padre». Infine, dopo una pausa, ordinò: «Lascia la sua anima, spirito del lupo». La spirale di fumo scuro uscì dalla forma di nebbia pallida, sfiorò le sue dita e se ne andò nella notte. La nebbia parve non avere aspettato altro e si dissipò in breve tempo, come se avesse esaurito le energie necessarie per mantenere quella vaga parvenza di concretezza. «Il dio non l'ha preso con sé», mormorò Ingrey. «L'avrebbe preso, se avesse potuto», disse Lewko. «Anche il Padre dell'Inverno, come te, piange la perdita della sua anima.» Tuttavia Ingrey non stava piangendo, benché un dolore freddo si fosse solidificato dietro i suoi occhi. D'un tratto si accorse che il dono della seconda vista gli veniva tolto, perché la notte perse una parte della sua luce e la neve cessò di splendere. Ijada gli si accostò e gli arrotolò un fazzoletto intorno al dito insanguinato. Lui la cinse con un braccio. «Be'...» L'Erudito Lewko toccò la fronte a entrambi. «La ricerca è finita. Volete seguirmi al riparo dal freddo?» «Tra poco», disse sottovoce Ingrey. «Forse questa è l'ultima volta che vedrò il Birchbeck sotto la luna piena.» «Come vuoi.» Lewko sorrise, si strinse nel mantello, li salutò con un cenno del capo e scese dalle mura, attento a non scivolare sulla neve ghiacciata. Ingrey si spostò dietro Ijada, stringendola tra le braccia le posò il mento su una spalla ed entrambi guardarono la stretta valle del fiume. «So che non è questo che speravi di fare per Lord Ingalef», disse Ijada dopo un po'. «Mi dispiace.» «È vero. Ma è stato meglio di niente, perché un'anima non deve restare intrappolata nel mondo materiale. Ora qui tutto è finito e io potrò andarmene senza guardarmi indietro.»
«Questa è pur sempre la casa della tua infanzia.» «Lo è stata. Ma la mia infanzia appartiene al passato.» Ingrey la strinse più forte, in modo così intimo da strapparle una risatina. «Oggi la mia casa ha un altro nome: si chiama Ijada. Ha il vantaggio che la posso portare sempre con me, come le lumache.» Lei rise più forte e il fiato le uscì in una serie di rapide nuvolette bianche. Il giovane aggiunse: «Inoltre credo che a Badgerbridge faccia meno freddo che a Birchbeck, in inverno. Dico bene?» «Giù nella valle sì. Però sulle colline c'è la neve, nel caso tu ne senta la mancanza.» «Molto bene.» Dopo qualche istante di silenzio, Ingrey aggiunse: «Non mi è parso che stesse soffrendo chissà quale tormento. Ho visto quello che forse sarà il mio destino. Non ne avrò paura». Ijada mormorò: «Sarà anche il mio e quello di Fara, se tu non ci sopravvivrai per liberare le nostre anime». «Non so dirti quale delle due cose sia la peggiore.» La fece voltare verso di sé, preoccupato, e la guardò negli occhi grandi e scuri dai riflessi d'ambra, nella penombra azzurra. «Pregherò di restare io per ultimo, senza che nessuno pianga per me. Anche se non so come potrò sopportarlo.» «Ingrey.» Lei gli prese il volto tra le mani fredde e lo tenne fermo davanti agli occhi. «Un anno fa avresti mai immaginato, o potuto prevedere, di essere qui dove ti trovi adesso?» «No.» «Neppure io. Perciò forse non dovremmo essere tanto sicuri del nostro destino. Ciò che non sappiamo del futuro è più grande della nostra immaginazione e non smetterà mai di sorprenderci.» I pensieri di lui tornarono a quella notte a Oxmeade, quando la certezza di essere atteso da una sorte oscura l'aveva quasi spinto a tagliarsi la gola. Non era ancora certo che fosse stato un suo momento di depressione, piuttosto che l'influsso di Horseriver. Avrei perduto tutto questo. «Ho conosciuto quattromila anime che la pensavano come te, portabandiera.» «Allora fidati di chi ne sa più di te, mio caro.» «Mmh.» Gli indumenti di lana di Ijada erano asciutti e tiepidi e l'umidità della notte non gli dava più molto fastidio. La fanciulla aggiunse: «È prematuro dire che tu sei l'ultimo degli sciamani. Tu stesso potresti creare altre grandi bestie e guerrieri-spirito».
«Non metterò altri in questo guaio, a meno che non impari un modo per tirarli fuori.» «Giusto. Ma pensi che il Tempio si opporrà per sempre all'antica magia delle foreste? Anche se ne vedesse una nuova versione, adattata alla società di oggi?» «Per questo occorrerebbero lunghi studi. E i Cinque Dei sanno se non abbiamo visto i disastri che quell'antica magia può causare.» «Però il Tempio addestra i suoi maghi, e non certo alla perfezione. Guarda il povero Cumril, per esempio. Eppure tutto sommato se la cavano piuttosto bene. E noi sappiamo che i Divini sono capaci di vederci chiaro in queste cose.» «Uh.» Negli occhi di Ingrey balenò una luce di speranza. «Tu sei molto presuntuoso, Lord lupo.» Le mani di Ijada gli diedero una piccola stretta di rimprovero. «Che cosa vorresti dire, Lady leopardo?» «Come puoi affermare che non ci sarà nessuno a piangere per te, un giorno lontano? Una schiera di esseri umani non ancora nati potrebbe darti torto, lo sai?» «È una tua previsione, mia signora?» domandò lui in tono leggero, tuttavia fu percorso da un brivido, come se avesse udito una Voce Selvaggia. Ijada scrollò le spalle. «Affrontiamo il nostro futuro e lo scopriremo.» Le labbra di lei erano calde, come i raggi del sole che scacciassero dal cielo una gelida luna, ed era calda la sua guancia quando la posò su quella di lui, con un sospiro. Poi però Ijada disse: «Hai il naso gelato, caro lupo, e non è un buon segno. Se vogliamo essere antenati di qualcuno, e non solo discendenti, sarà meglio andare alla ricerca di quel letto di piume che tuo cugino ci ha promesso». Ingrey sbuffò. «D'accordo. A letto allora, se pensi che stanotte potremo fare qualcosa per i nostri eredi.» «Non prima che io mi sia scongelata i piedi sulla tua schiena», ribatté lei. Ingrey gemette scherzosamente e fu ricompensato dalla risata di Ijada. Quel suono gli alleggerì il cuore come la certezza che anche quella notte, la più lunga dell'anno, sarebbe stata seguita dall'alba. Tenendosi a braccetto scesero la scala coperta di neve. FINE