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URSULA K. LE GUIN LEGGENDE DI EARTHSEA (Tales From Earthsea, 2001) Sommario Prefazione Il Trovatore Rosascura e Diamante Le ossa della terra Nell'alta palude Libellula Una descrizione di Earthsea
LE TERRE INTERNE DELL'ARCIPELAGO Una mappa dell'Ottavo secolo dell'Isola di Arie Questa è una mappa didattica, non una carta nautica, in quanto le dimensioni delle isole sono esagerate, anche se le loro posizioni e distanze relative sono abbastanza precise. Sulla mappa non figura alcun scritta. L'isola scomparsa di Solea è indicata da una spirale. Prefazione Alla fine del quarto libro di Earthsea, Tehanu, la storia era giunta a quello che ritenevo fosse il presente. E, proprio come nel presente del cosiddetto mondo reale, non sapevo cosa sarebbe successo in seguito. Potevo supporre, predire, temere, sperare, però non sapevo. Incapace di continuare la storia di Tehanu (perché non era ancora avvenuta) e presumendo scioccamente che la storia di Ged e Tenar fosse giunta allo "e vissero felici e contenti", diedi al libro un sottotitolo: "L'Ultimo Libro di Earthsea". Oh scrittrice sciocca. Il presente si muove. Perfino nel tempo narrativo, nel tempo onirico, nel "c'era una volta", ora non è allora. Sette o otto anni dopo la pubblicazione di Tehanu, mi fu chiesto di scrivere una storia ambientata in Earthsea. Una semplice occhiata di sfuggita
al luogo mi disse che là erano successe delle cose mentre non stavo guardando. Era ora di tornare indietro e scoprire cosa stesse accadendo adesso. Volevo anche informazioni su varie cose successe allora, prima che Ged e Tenar nascessero. Parecchie cose riguardanti Earthsea, i maghi, l'isola di Roke, i draghi, avevano cominciato a rendermi perplessa. Per capire gli eventi correnti, era necessario svolgere qualche ricerca storica, trascorrere un po' di tempo negli Archivi dell'Arcipelago. Il metodo per svolgere una ricerca su una serie di episodi storici inesistenti consiste nel narrare la storia e scoprire cosa sia accaduto. Credo che questo non sia tanto diverso da ciò che fanno gli storici del cosiddetto mondo reale. Anche se siamo presenti a qualche evento storico, lo comprendiamo, riusciamo davvero a ricordarlo, finché non siamo in grado di raccontarlo come storia? E per avvenimenti di epoche o luoghi al di fuori della nostra esperienza, non abbiamo nulla su cui basarci se non le storie che altri ci raccontano. Gli eventi passati, dopotutto, esistono solo nel ricordo, che è una forma di immaginazione. L'evento è reale adesso, ma quando appartiene ormai all'allora, la continuazione della sua realtà dipende interamente da noi, dalla nostra energia e dalla nostra onestà. Se lasciamo che esca dalla memoria, solo l'immaginazione può ripristinarne almeno un barlume. Se mentiamo sul passato, costringendolo a raccontare la storia che vogliamo noi, ad assumere il significato che vogliamo noi, il passato perde la propria realtà, diventa un falso. Portare con noi il passato nel corso degli anni nei grandi contenitori del mito e della storia è un'impresa ardua; ma come dice Lao Tzu, i saggi procedono marciando con le salmerie. Quando si costruisce o si ricostruisce un mondo mai esistito, una storia del tutto immaginaria, la ricerca è di tipo alquanto diverso, ma l'impulso e le tecniche di base sono piuttosto simili. Si guarda quel che accade e si cerca di capire perché accade, si ascolta quello che ci dice la gente e si osserva ciò che la gente fa, si riflette seriamente su tutto quanto, e si cerca di raccontarlo con onestà, perché la storia abbia peso e senso. I cinque racconti di questo libro esplorano o ampliano il mondo creato dai primi quattro romanzi di Earthsea. Ognuno è una storia a sé stante e completa, ma sarebbe opportuno leggerli dopo i romanzi, non prima. "Il Trovatore" si svolge circa trecento anni prima del periodo dei romanzi, in un'epoca fosca e travagliata; la sua storia fa luce su come siano nate alcune tradizioni e istituzioni dell'Arcipelago. "Le Ossa della Terra" parla
dei maghi che istruirono il mago che per primo istruì Ged, e dimostra che occorre più di un magio per fermare un terremoto. "Rosascura e Diamante" potrebbe svolgersi in qualsiasi momento nel corso dell'ultimo paio di secoli a Earthsea; dopotutto, una storia d'amore può avvenire in qualsiasi momento, in qualunque luogo. "Nell'Alta Palude" è una storia appartenente ai sei anni, brevi ma movimentati, in cui Ged fu Arcimago di Earthsea. E l'ultima storia, "Libellula", che si svolge alcuni anni dopo il termine di Tehanu, è il ponte tra quel libro e il libro successivo, I venti di Earthsea. Un ponte di drago. Perché la mia mente potesse spostarsi tra gli anni e i secoli senza scompigliare le cose, e per limitare al massimo le contraddizioni e le discrepanze mentre scrivevo queste storie, sono diventata (un po') più sistematica e metodica, e ho riunito la mia conoscenza delle genti e della loro storia in "Una Descrizione di Earthsea". La sua funzione è come quella della prima grande mappa dell'Arcipelago e delle Distese che disegnai quando cominciai a lavorare a Il Mago di Earthsea oltre trent'anni fa: dovevo sapere dove fossero le cose, e come muovermi da qui a là, sia nel tempo che nello spazio. Dato che gli elementi romanzeschi di questo tipo, come le mappe di regni immaginari, sono di notevole interesse per alcuni lettori, includo la descrizione dopo i racconti. Ho anche ridisegnato le carte geografiche in questo libro, e mentre lo facevo ne ho scoperta con gioia una vecchissima negli Archivi di Havnor. Nel corso degli anni, da quando cominciai a scrivere di Earthsea, sono cambiata, naturalmente, e così pure le persone che leggono i libri. Tutte le epoche sono epoche mutevoli, però la nostra è un'epoca di massiccia e rapida trasformazione morale e mentale. Gli archetipi diventano gravami, il semplice si complica, il caos acquista eleganza, e si scopre che quello che tutti ritengono vero è invece quello che pensavano alcuni. È sconvolgente. Per quanto amiamo la transitorietà, il guizzo ammaliante dell'elettronica, desideriamo ardentemente anche l'inalterabile. Adoriamo le vecchie storie per la loro immutabilità. Artù sogna eternamente ad Avalon. Bilbo può andare e tornare, e c'è sempre l'amata e familiare Contea. Don Chisciotte si accinge per sempre a uccidere un mulino a vento... Così la gente si rivolge ai regni fantastici in cerca di stabilità, antiche verità, semplicità immutabili. E le fabbriche del capitalismo forniscono tutto quanto. L'offerta soddisfa
la domanda. La fantasy diventa una merce, un'industria. La fantasy mercificata non corre rischi: non inventa nulla, ma imita e banalizza. Procede privando le vecchie storie della loro complessità intellettuale ed etica, trasformando la loro azione in violenza, i loro protagonisti in pupazzi, e il loro contenuto veritiero in insulsaggini sentimentali. Gli eroi brandiscono spade, laser, bacchette magiche, meccanicamente come mietitrebbie, mietendo profitti. Le scelte morali causa di profondo turbamento sono ritoccate, rese gradevoli e sicure. Le idee dei grandi narratori, concepite con passione, sono copiate, trasformate in stereotipi, ridotte in giocattoli, stampate in plastica multicolore, pubblicizzate, vendute, rotte, buttate via, sostituibili, intercambiabili. Quello su cui contano i mercificatori di fantasy, quello che sfruttano, è l'insuperabile immaginazione del lettore, bambino o adulto, che dà vita anche a quelle cose morte... per un po', in parte. L'immaginazione, come tutto ciò che è vivo, vive adesso, e vive grazie al vero cambiamento. Come tutte le cose che facciamo o abbiamo, può essere cooptata o degradata; ma sopravvive allo sfruttamento commerciale e didattico. La terra dura più degli imperi. I conquistatori possono lasciare un deserto dove prima c'erano foreste e prati, ma la pioggia continua a scendere, i fiumi continuano a scorrere verso il mare. I regni instabili, mutevoli e falsi del "C'era una volta" fanno parte della storia e del pensiero umano quanto le nazioni dei nostri atlanti caleidoscopici, e alcuni sono più duraturi. Abitiamo sia i regni reali che quelli immaginari da parecchio tempo. Ma viviamo in entrambi i luoghi in modo diverso rispetto ai nostri genitori o ai nostri antenati. L'incantesimo cambia con l'età, e a seconda dell'epoca. Conosciamo una dozzina di Artù differenti, adesso, tutti autentici. La Contea è mutata irrevocabilmente perfino durante la vita di Bilbo. Don Chisciotte ha cavalcato fino in Argentina e là ha incontrato Jorge Luis Borges. Plus c'est la même chose, plus ça change. Per me è stata una gioia tornare a Earthsea e trovarlo ancora là, del tutto familiare, eppure cambiato e in costante mutamento. Quello che pensavo sarebbe successo non è quanto sta accadendo, la gente è diversa da come mi aspettavo, e mi smarrisco su isole che credevo di conoscere a memoria. Questo dunque è il resoconto delle mie esplorazioni e delle mie scoperte: racconti di Earthsea per chi ha amato o pensa di poter amare il luogo, ed è disposto ad accettare queste ipotesi: le cose cambiano,
autori e maghi non sono sempre affidabili, nessuno può spiegare un drago. Il Trovatore 1. Nell'Era Oscura Questa è la prima pagina del Libro dell'Oscurità, scritto circa seicento anni fa a Berila, Enlad: "Dopo che Elfarran e Morred perirono e l'isola di Solea sprofondò nel mare, il Consiglio dei Saggi governò per il fanciullo Serriadh finché questi non salì al trono. Il suo regno fu prospero ma breve. I re che gli succedettero a Enlad furono sette, e con loro crebbero la pace e la ricchezza. Poi arrivarono i draghi a razziare le Terre occidentali, e i maghi tentarono invano di contrastarli. Re Akambar trasferì la corte da Berila alla città di Havnor, da dove inviò la propria flotta contro gli invasori provenienti dalle Terre Kargiche, ricacciandoli a est. Ma essi attaccarono ancora, compiendo incursioni e spingendosi fino al mare Interno. Dei quattordici sovrani di Havnor l'ultimo fu Maharion, che concluse la pace sia con i draghi che con i Karg, ma a caro prezzo. E dopo che l'Anello delle Rune fu spezzato, ed Erreth-Akbe morì con il grande drago, e Maharion il Prode fu ucciso a tradimento, sembrò che nulla di buono accadesse nell'Arcipelago. Molti rivendicarono il trono di Maharion, ma nessuno riuscì a conservarlo, e le dispute dei contendenti divisero la lealtà in tante fazioni. Non esistevano più comunanza e giustizia, solo il volere dei ricchi. Uomini di nobile casato, mercanti, pirati, chiunque potesse assoldare soldati e maghi si proclamava signore, rivendicando terre e città come proprie. I signori della guerra rendevano schiave le popolazioni assoggettate, e chi era al loro soldo era in realtà schiavo, perché il padrone era la sua unica protezione dai signori della guerra rivali che s'impossessavano delle terre, e dai pirati che attaccavano i porti, e dalle bande e orde di miserabili senza legge, privati di mezzi di sostentamento, spinti dalla fame a razziare e rubare."
Il Libro dell'Oscurità, scritto nel periodo finale dell'epoca di cui parla, è una raccolta di storie contradditorie, biografie parziali e leggende confuse. Ma è il miglior documento sopravvissuto agli anni oscuri. Desiderosi di lodi, non di storia, i signori della guerra bruciavano i libri da cui i poveri e gli impotenti avrebbero potuto apprendere cosa fosse il potere. Ma quando i libri del sapere di un mago finivano in mano a un signore della guerra, era probabile che questi li trattasse con cautela, mettendoli sotto chiave perché non nuocessero o dandoli a un mago al suo servizio affinché li usasse come desiderava. Ai margini degli incantesimi e delle liste di parole e nei risguardi di tali libri del sapere, un mago o il suo apprendista potevano registrare una calamità, una carestia, una scorreria, un cambiamento di padrone, unitamente agli incantesimi operati in tali occasioni e il loro successo o insuccesso. Queste annotazioni casuali rivelano qui e là qualche momento chiaro, anche se tra quei momenti tutto è oscuro. Sono come fugaci apparizioni di una nave illuminata in alto mare, al buio, con la pioggia. E ci sono canzoni, vecchi lai e ballate provenienti da piccole isole e dai tranquilli territori montani di Havnor, che raccontano la storia di quegli anni. Ad Havnor, Porto grande è la città al centro del mondo, bianco turrita sopra la propria baia; sulla torre più alta, la spada di Erreth-Akbe riflette i primi e gli ultimi raggi del sole. Attraverso quella città passano tutti i traffici e i commerci e il sapere e le arti di Earthsea, una ricchezza non accaparrata. Là siede il re, tornato dopo la riparazione dell'Anello, in segno di risanamento. E in quella città, negli ultimi tempi, uomini e donne delle isole parlano con i draghi, in segno di cambiamento. Ma Havnor è anche la Grande isola, una terra vasta e ricca; e nei villaggi dell'interno, nelle fattorie sulle pendici del monte Onn, le cose non cambiano mai molto. Là, è probabile che una canzone che meriti di essere cantata venga cantata ancora. Là, i vecchi nella taverna parlano di Morred come se lo avessero conosciuto quando anch'essi erano giovani e prodi. Là, le ragazze che escono per riportare a casa le vacche dal pascolo raccontano storie delle donne della Mano, dimenticate in qualsiasi altra parte del mondo, perfino a Roke, ma ricordate tra quei sentieri e quei campi silenti e solatii, e nelle cucine accanto ai focolari dove le donne lavorano e conversano. Nel periodo dei re, i magi si radunavano nella corte di Enlad e in seguito nella corte di Havnor per consigliare il sovrano e per consultarsi, usando le
loro arti per raggiungere scopi che ritenevano concordemente buoni. Ma negli anni oscuri, i maghi vendettero le loro capacità al miglior offerente, utilizzando i propri poteri per scontrarsi in duelli e combattimenti di stregoneria, incuranti del male che arrecavano, o peggio che incuranti. Calamità e carestie, il prosciugamento di sorgenti, estati senza pioggia e anni senza estate, la nascita di agnelli e vitelli malati e deformi, il parto di bambini insani e malfermi tra le genti delle isole, tutte queste cose erano attribuite alle pratiche di maghi e streghe, e fin troppo spesso giustamente. Così diventò pericoloso praticare la stregoneria, se non sotto la protezione di un signore della guerra potente; e anche allora, se s'imbatteva in qualcuno dai poteri maggiori dei suoi, un mago rischiava di essere distrutto. E se un mago abbassava la guardia tra la gente comune, pure il volgo avrebbe potuto distruggerlo se fosse stato in grado di farlo, vedendo in lui la causa dei peggiori mali patiti, un essere maligno. In quegli anni, nell'opinione della maggior parte della gente, tutta la magia era nera. Fu allora che la stregoneria rurale, e soprattutto quella praticata dalle donne, si fece la cattiva fama di cui avrebbe continuato a godere in seguito. Le streghe pagarono a caro prezzo la pratica delle arti che consideravano loro. La cura di bestie e donne gravide, il parto, l'insegnamento di canti e riti, la fertilità e l'ordine del campo e dell'orto, la costruzione e la cura della casa e della mobilia, l'estrazione di minerali e metalli, di queste cose importanti si erano sempre occupate le donne. Una ricca conoscenza di incantesimi e magie per assicurare un esito fausto in queste imprese era patrimonio comune delle streghe. Ma quando le cose andavano male nel parto, o nel campo, la colpa allora era delle streghe. E le cose andavano male piuttosto spesso, con i maghi che guerreggiavano, usando veleni e sortilegi in modo sconsiderato per acquisire un vantaggio immediato, senza pensare alle conseguenze delle loro azioni. I maghi cagionavano siccità e bufere, morie, incendi e malattie in tutti i territori, e invece a essere punita era la strega del villaggio. Lei non sapeva perché il suo incantesimo di guarigione avesse corrotto la ferita facendola incancrenire, perché il bambino che aveva aiutato a venire al mondo fosse ebete, perché la sua benedizione sembrasse bruciare i semi nei solchi e fare appassire le mele sull'albero. Ma per quei mali, qualcuno doveva paga're: e c'erano a disposizione la strega o lo stregone, proprio lì nel villaggio o nella cittadina, non lontano nel castello o nel forte del signore della guerra, non protetti da armigeri e incantesimi di difesa. Stregoni e streghe venivano affogati nei pozzi avvelenati, bruciati nei campi inariditi, sepolti vivi per rendere di nuovo fertile
il terreno morto. Così la pratica della loro scienza e il suo insegnamento erano diventati pericolosi. A svolgere tale compito erano spesso persone già reiette, menomate, squilibrate, senza famiglia, vecchie... uomini e donne che avevano ben poco da perdere. Il saggio e la saggia, fidati e rispettati, cedettero il passo alle figure tipiche dello stregone rurale impotente che si trascina portandosi appresso il proprio bagaglio di trucchi e inganni, e della strega megera con le sue pozioni usate in ausilio di libidine, gelosia e astio. E il dono di un bambino per la magia diventò una cosa da temere e nascondere. Questa è una storia di tale periodo. In parte è presa dal Libro dell'Oscurità, e in parte proviene da Havnor, dalle fattorie montane dell'Onn e dai boschi dei Faliern. Con tali frammenti è possibile mettere insieme una storia, e anche se sarà una trapunta assai leggera, fatta per metà di dicerie e per metà di congetture, può essere comunque abbastanza veritiera. È una storia della Fondazione di Roke, e se i Maestri di Roke dicono che non andò così, siano loro a raccontarci cosa accadde invece. Perché una nube incombe sul periodo in cui Roke diventò l'Isola dei Saggi, e può darsi che siano stati i saggi a collocarla là. 2. Lontra Nel nostro ruscello c'era una lontra Che a cambiar guisa sempre era pronta, Magie e incanti sapeva fare Lingua di drago e d'uomo parlare. E scorre l'acqua, scorre e via va E scorre l'acqua e via va. Lontra era il figlio di un maestro d'ascia che lavorava nei cantieri navali di Porto grande. Fu sua madre a porgli quel nome; era una contadina del villaggio di Endlane, a nord-ovest del monte Onn. Era venuta in città in cerca di lavoro, come tanti altri. Gente onesta con un lavoro onesto in tempi difficili, il maestro d'ascia e la sua famiglia non desideravano farsi notare per non incorrere in qualcosa di spiacevole. E così, quando fu chiaro che il ragazzo aveva un dono per la magia, il padre cercò di farglielo passare a suon di botte. — È come battere una nuvola perché piove — disse la madre di Lontra. — Attento a non inculcargli il male a furia di botte — disse sua zia.
— Bada che con un incantesimo non rivolti contro di te la tua cinghia — disse lo zio. Ma il ragazzo non giocava nessun tiro mancino al padre. Prendeva le botte in silenzio, e imparò a nascondere il proprio dono. Non gli sembrava granché. Per lui era talmente facile far splendere una luce argentea in una stanza buia, o trovare uno spillo pensando a dove fosse finito, o raddrizzare una commessura storta passando le mani sul legno e parlando a esso, che non capiva perché facessero tanto chiasso per cose del genere. Ma suo padre si infuriava con lui quando prendeva qualche "scorciatoia", lo colpì addirittura sulla bocca una volta, mentre stava parlando al lavoro, e lo esortò a lavorare con gli attrezzi, in silenzio. Sua madre provò a spiegargli. — È come se avessi trovato una grossa gemma — gli disse. — E cosa deve fare uno di noi con un diamante, può solo nasconderlo, no? Chi è abbastanza ricco da comprarlo da te è anche abbastanza forte da ucciderti per prendertelo. Tienilo nascosto. E stai alla larga dalle persone importanti e dai loro dotati. "Dotati", era così che chiamavano i maghi a quell'epoca. Uno dei doni del potere è riconoscere il potere. Un mago sa riconoscere un altro mago, a meno che l'occultamento non sia molto abile. E il ragazzo non aveva alcuna abilità, tranne che nella carpenteria navale, di cui era un promettente apprendista all'età di dodici anni. Circa in quel periodo, la levatrice che aveva aiutato sua madre quando era nato passò da loro e disse ai genitori di Lontra: — Lasciate che Lontra venga da me la sera dopo il lavoro. Dovrebbe imparare i canti e prepararsi al giorno dell'imposizione del nome. I genitori non avevano nulla in contrario, perché la donna aveva già fatto la stessa cosa per la sorella maggiore, così la sera lo mandarono da lei. Ma la levatrice non si limitò a insegnare a Lontra il canto della Creazione. Sapeva del dono del giovane. Lei e alcuni uomini e donne come lei, persone di nessuna rinomanza e in certi casi di dubbia reputazione, avevano tutti in qualche misura quel dono; e condividevano, in segreto, il sapere e l'arte che possedevano. — Un dono senza insegnamento è come una nave senza guida — dissero a Lontra, e gli insegnarono tutto ciò che sapevano. Non era molto, ma conteneva alcuni rudimenti delle grandi arti; e, pur sentendosi turbato dall'inganno nei confronti dei genitori, il ragazzo non seppe rinunciare a tale conoscenza, e alla gentilezza e agli elogi dei suoi poveri insegnanti. — Non ti farà alcun male se non l'userai mai per fare del male — gli dissero, e per lui non fu difficile promettere di agire bene.
Al torrente Serrenen, dove il Serrenen scorre all'interno delle mura settentrionali della città, la levatrice pose a Lontra il suo vero nome, con cui è ricordato in isole lontane da Havnor. Tra quelle persone c'era un vecchio che chiamavano, tra di loro, il Cambiatore. Questi mostrò a Lontra alcuni incantesimi di illusione; quando il ragazzo aveva più o meno quindici anni, il vecchio lo portò nei campi vicino al Serrenen per mostrargli l'unico incantesimo di vero cambiamento che conoscesse. — Anzitutto, vediamo se riesci a trasformare quel cespuglio nella sembianza di un albero — disse, e Lontra lo fece subito. Aveva una tale facilità d'illusione che il vecchio si allarmò. Lontra dovette supplicarlo e blandirlo perché continuasse a insegnargli, e infine dovette giurargli sul proprio nome vero e segreto che se avesse appreso la grande magia del Cambiatore l'avrebbe usata solo per salvare una vita, la propria o quella di un altro. Allora il vecchio gliela insegnò. Non che fosse di grande utilità, pensò Lontra, dal momento che doveva tenerla nascosta. Quello che imparava lavorando con il padre e lo zio nel cantiere navale era utile, almeno; e stava diventando un bravo artigiano, perfino suo padre lo ammetteva. Losen, un pirata proclamatosi re del mare Interno, era allora il principale signore della guerra della città e di tutta la parte orientale e meridionale di Havnor. Riscuotendo tributi dal ricco dominio, li spendeva per accrescere gli armamenti e le flotte che inviava in altre isole a caccia di schiavi e di bottino. Come diceva lo zio di Lontra, Losen teneva occupati i carpentieri navali. Loro erano grati di avere un'occupazione in un periodo in cui gli uomini in cerca di lavoro trovavano solo quello di mendicante, e nelle corti di Maharion imperversavano i ratti. Facevano un lavoro onesto, loro, diceva suo padre, e il modo in cui venivano impiegate le imbarcazioni che costruivano non li riguardava. Ma gli altri insegnamenti che Lontra aveva ricevuto l'avevano reso sensibile su questioni del genere, delicato di coscienza. La grande galea che stavano costruendo adesso sarebbe stata condotta in guerra, spinta con i remi dagli schiavi di Losen, e sarebbe tornata con un carico di uomini. Per Lontra era irritante pensare alla buona nave usata in quel modo malvagio. — Perché non possiamo costruire pescherecci, come facevano un tempo? — chiese, e suo padre rispose: — Perché i pescatori non possono pagarci. — Non possono pagarci quanto ci paga Losen. Però potremmo campare — replicò Lontra.
— Pensi che possa rifiutare l'ordine del re? Vuoi vedermi remare con gli schiavi sulla galea che stiamo costruendo? Usa la testa, ragazzo! Così Lontra continuò a lavorare con loro, con le idee chiare e la rabbia in cuore. Erano in trappola. E a che serviva il dono della magia, pensò, se non per uscire da una trappola? La sua coscienza di artigiano non gli consentiva di manomettere in alcun modo la costruzione della nave; ma la sua coscienza di mago gli disse che poteva fare un incantesimo alla nave, introdurre una maledizione nelle travi e nello scafo. Quello era sicuramente un buon impiego dell'arte segreta, no? Per nuocere, certo, ma per nuocere al male. Non ne parlò con i suoi insegnanti. Se avesse sbagliato, non sarebbe stata colpa loro, e sarebbero stati all'oscuro di tutto. Ponderò a lungo la decisione, riflettendo su come agire, preparando l'incantesimo con estrema cura. Era il contrario di un incantesimo di ritrovamento: un incantesimo di smarrimento, lo definì tra sé. La nave avrebbe galleggiato, e sarebbe stata governabile, e avrebbe risposto al timone, però non avrebbe mai seguito la rotta giusta. Era la cosa migliore che potesse fare per protestare contro il cattivo uso di un buon lavoro e di una buona nave. Era soddisfatto di sé. Quando la nave fu varata - e sembrò che non avesse nulla che non andasse, perché il difetto si sarebbe notato solo quando fosse stata in alto mare - Lontra non seppe trattenersi e rivelò il proprio gesto agli insegnanti, alla piccola cerchia di vecchi e levatrici, al giovane gobbo capace di parlare con i morti, alla ragazza cieca che conosceva i nomi delle cose. Raccontò loro quale tiro avesse giocato, e la cieca rise, ma i vecchi dissero: — Stai in guardia. Fai attenzione. Stai nascosto. Al servizio di Losen c'era un uomo che si chiamava Segugio, perché, come diceva, aveva fiuto per la stregoneria. Il suo compito consisteva nell'annusare il cibo, le bevande, gli indumenti e le donne di Losen, qualsiasi cosa potesse essere usata da maghi nemici contro di lui; doveva anche ispezionare le sue navi da guerra. Una nave è una cosa fragile in un elemento pericoloso, vulnerabile da incantesimi e sortilegi. Non appena salì a bordo della nuova galea, Segugio fiutò qualcosa. — Bene, bene — disse. — Di chi si tratta? — Andò al timone e vi posò sopra una mano. — Davvero abile — disse. — Ma chi è costui? Un nuovo arrivato, penso. — Annusò ammirato. — Molto abile — commentò. Arrivarono alla casa in via dei Carpentieri dopo il crepuscolo. Sfondaro-
no la porta a calci e Segugio, stando tra gli armigeri corazzati, disse: — Lui. Lasciate stare gli altri. — E a Lontra disse: — Non muoverti — con voce bassa e amichevole. Avvertì un grande potere nel giovane, ed ebbe un po' paura di lui. Ma Lontra era troppo sconvolto, e l'addestramento ricevuto troppo scarso, perché potesse pensare di usare la magia per liberarsi o fermare la brutalità degli armigeri. Si scagliò contro di loro e lottò come una belva finché non lo stordirono con un colpo in testa. Gli uomini ruppero la mascella al padre di Lontra e tramortirono sua madre e sua zia per insegnare loro a non allevare giovani dotati. Poi portarono via Lontra. Non una porta si aprì nella stradicciola. Nessuno guardò fuori per vedere cosa fosse quel baccano. Solo molto tempo dopo che gli armigeri si furono allontanati, alcuni vicini uscirono di soppiatto per cercare di consolare un poco i famigliari di Lontra. — Oh, è una sciagura, una sciagura, questa stregoneria! — dissero. Segugio comunicò al padrone che lo stregone era rinchiuso in un luogo sicuro, e Losen chiese: — Per chi lavorava? — Lavorava nel tuo cantiere navale, altezza. — A Losen piacevano i titoli regali. — Chi lo ha assoldato per stregare la nave, sciocco? — Pare che l'idea sia stata sua, maestà. — Perché? Cosa sperava di ricavarne? Segugio si strinse nelle spalle. Preferì non dire a Losen che la gente lo odiava disinteressatamente. — È dotato, dici. Puoi servirtene? — Posso provare, altezza. — Domalo o seppelliscilo — ordinò Losen, e rivolse l'attenzione a faccende più importanti. Gli umili insegnanti di Lontra gli avevano insegnato l'orgoglio. Gli avevano instillato un profondo disprezzo per i maghi che lavoravano per uomini come Losen, che per paura o avidità corrompevano la magia piegandola a fini malvagi. Secondo lui, non c'era nulla di più spregevole di un simile tradimento della loro arte. Così si preoccupò, quando si rese conto di non riuscire a disprezzare Segugio. Era stato rinchiuso in un magazzino in uno dei vecchi palazzi di cui Losen si era impossessato. Non c'erano finestre, la porta era di quercia nodosa con sbarre di ferro, ed era protetta da incantesimi che avrebbero tenuto pri-
gioniero un mago molto più esperto. Al soldo di Losen c'erano uomini di grande abilità e potere. Segugio non si considerava uno di loro. — Io ho soltanto un buon fiuto — disse. Ogni giorno andava a controllare che Lontra stesse riprendendosi dalla botta alla testa e dalla slogatura alla spalla, e a parlare con lui. Era, almeno così pareva a Lontra, un uomo benintenzionato e onesto. — Se non lavorerai per noi, ti uccideranno — gli disse. — Losen non può lasciare libero un tipo come te. Ti conviene accettare l'offerta intanto che è disposto a prenderti. — Non posso. Lontra lo disse esprimendo rincrescimento per una circostanza sfortunata, non condanna morale. Segugio lo guardò con stima. Vivendo con il re pirata, era stanco di vanterie e minacce, di millantatori e prepotenti. — In cosa sei più forte? Lontra era riluttante a rispondere. Segugio gli era simpatico, ma non doveva per forza fidarsi di lui. — Nel cambiamento di forma — borbottò infine. — Nell'assunzione di forme? — No. I miei sono semplici trucchi. Come trasformare una foglia in una moneta d'oro. In apparenza. A quell'epoca non esistevano nomi fissi per i vari tipi di magia, né erano chiari i nessi tra tali arti. Non c'era - come avrebbero detto in seguito i saggi di Roke - scienza in ciò che sapevano. Ma Segugio sapeva con certezza che il prigioniero stava nascondendo le proprie doti. — Non puoi cambiare la tua forma, neppure in apparenza? Lontra scrollò le spalle. Per lui era difficile mentire. Pensava di essere un mentitore così goffo perché gli mancava la pratica. Segugio sapeva come stavano realmente le cose. Sapeva che la magia stessa si opponeva alla menzogna. La destrezza di mano, i trucchi evocatorii e il falso commercio con i morti erano contraffazioni della magia, vetro accanto al diamante, ottone accanto all'oro. Erano imbrogli, e le menzogne allignavano in quel terreno. Ma l'arte della magia, per quanto potesse essere usata per falsi scopi, si occupava di ciò che era reale, e le parole con cui operava erano le vere parole. Dunque per i veri maghi era difficile mentire circa la loro arte. Dentro di sé sapevano che la loro bugia, pronunciata, poteva cambiare il mondo. Segugio era dispiaciuto per Lontra. — Sai, se fosse Gelluk a interrogarti, ti caverebbe tutto quello che sai con un paio di parole, e ti caverebbe anche
il senno. Ho visto cosa lascia dietro di sé il vecchio Facciabianca quando interroga qualcuno. Ascolta, sai operare con il vento? Lontra esitò e rispose: — Sì. — Hai una borsa? I manipolatempo erano soliti portare con sé una sacca di cuoio in cui dicevano di tenere i venti, aprendola per lasciare uscire un vento propizio o catturarne uno contrario. Forse era solo vacua ostentazione, ma ogni manipolatempo aveva una borsa, una grande sacca lunga o un piccolo sacco. — A casa — disse Lontra. Non era una bugia. A casa aveva davvero una borsa. In essa teneva gli utensili per i lavori di fino e la livella. E non mentiva del tutto a proposito del vento. Parecchie volte era riuscito a portare un po' di vento magico nella vela di una barca, anche se non sapeva assolutamente come combattere o controllare una tempesta, come doveva fare il manipolatempo di una nave. Però pensò che avrebbe preferito annegare in una burrasca piuttosto che essere ucciso in quella prigione. — Ma non saresti disposto a usare quella dote al servizio del re? — Non c'è nessun re a Earthsea — disse il giovane, retto e severo. — Al servizio del mio padrone, allora — si corresse paziente Segugio. — No — disse Lontra, ed esitò. Sentiva di dovere una spiegazione a quell'uomo. — Vedi, non si tratta tanto di non volere, quanto di non potere. Pensavo di mettere degli zaffi nel fasciame di quella galea, vicino alla chiglia... sai cosa intendo per zaffi, vero? Sarebbero saltati via con l'allentarsi del legno quando la nave avesse incontrata il mare grosso. — Segugio annuì. — Ma non sono riuscito a farlo. Sono un costruttore di navi. Non posso costruire una nave perché affondi. Con gli uomini a bordo. Le mie mani si sono rifiutate di compiere un'azione del genere. Dunque ho fatto quello che ho potuto. Ho fatto in modo che la nave andasse dove voleva lei. Non dove vorrebbe il tuo padrone. Segugio sorrise. — E non hanno ancora annullato ciò che hai fatto — disse. — Ieri, il vecchio Facciabianca ha continuato ad andare avanti e indietro sulla nave, ringhiando e brontolando. Ha ordinato di sostituire il timone. — Si riferiva al primo mago di Losen, un uomo pallido del nord chiamato Gelluk, molto temuto a Havnor. — Non servirà a nulla. — Potresti annullare l'incantesimo che hai fatto alla nave? Un guizzo di compiacimento apparve sul volto giovane, stanco e malconcio, — No — rispose. — Penso che non possa annullarlo nessuno. — Peccato. Avresti potuto servirtene per contrattare.
Lontra non disse nulla. — Orbene, un naso è una cosa utile, una cosa vendibile — proseguì Segugio. — Non che io cerchi concorrenza. Però un trovatore può sempre trovare lavoro, come si suol dire... Sei mai stato in una miniera? La congettura di un mago era prossima alla conoscenza, anche se poteva darsi che il mago non si rendesse conto di ciò che sapeva. Il primo segno del dono di Lontra, quando aveva due o tre anni, era stato la sua capacità di rintracciare subito qualsiasi oggetto smarrito - un chiodo caduto, un attrezzo collocato nel posto sbagliato - non appena comprendeva la parola che indicava tale oggetto. E da ragazzo uno dei divertimenti che prediligeva era di incamminarsi da solo nella campagna e vagare lungo i sentieri o sulle colline, sentendo attraverso la pianta dei piedi nudi e in tutto il corpo le vene d'acqua sottoterra, i filoni e i groppi di minerale grezzo, la configurazione e l'intreccio corrugato dei tipi di roccia e del terreno. Era come se camminasse in un grande edificio, ne vedesse le stanze e i corridoi, le discese verso caverne ariose, il luccichio delle ramificazioni argentee nelle pareti; e mentre avanzava, era come se il suo corpo diventasse il corpo della terra, consentendogli di conoscerne le arterie e gli organi e i muscoli come se appartenessero a lui. Quella facoltà lo aveva deliziato, da ragazzo. Non aveva mai cercato di servirsene in alcun modo. Era stato il suo segreto. Non rispose alla domanda di Segugio. — Cosa c'è sotto di noi? — Segugio indicò il pavimento, lastricato di ardesia scabra. Lontra rimase alcuni istanti in silenzio. Poi, a bassa voce, disse: — Argilla e ghiaia. E, più sotto, la roccia che genera i granati. Sotto tutta questa parte della città c'è quella roccia. Non conosco i nomi. — Puoi impararli. — Io so costruire le barche, so governarle. — Starai meglio lontano dalle navi, da tutti i combattimenti e le scorrerie. Il re sta sfruttando le vecchie miniere di Samory, oltre la montagna. Là non ti avrebbe sottocchio. Devi lavorare per lui, se vuoi rimanere vivo. Darò disposizioni perché tu venga mandato là. Se accetti di andare. Dopo un breve silenzio, Lontra disse: — Grazie. — E alzò lo sguardo verso Segugio, gli rivolse una rapida occhiata interrogativa, indagatrice. Quell'uomo lo aveva catturato, era rimasto a guardare mentre i famigliari del giovane venivano picchiati e tramortiti, non era intervenuto per arrestare le percosse. Eppure parlava da amico.
Lo sguardo di Lontra chiedeva: "Perché?" Segugio rispose. — Gli uomini dotati devono restare uniti — spiegò. — Gli uomini che non posseggono alcuna arte, nient'altro che la ricchezza, ci aizzano l'uno contro l'altro, per il loro vantaggio, non il nostro. Noi vendiamo loro il nostro potere. Perché lo facciamo? Se procedessimo insieme per la nostra strada, staremmo meglio, forse. Segugio agiva a fin di bene mandando il giovane a Samory, ma non capiva la natura della volontà di Lontra. Né la capiva Lontra stesso. Era troppo abituato a obbedire agli altri per comprendere che in realtà aveva sempre seguito la propria indole, ed era troppo giovane per credere che ciò che faceva, qualunque cosa, avrebbe potuto ucciderlo. Aveva in animo, non appena lo avessero portato fuori dalla cella, di usare l'incantesimo di trasformazione del vecchio Cambiatore per fuggire. La sua vita era sicuramente in pericolo, quindi sarebbe stato giusto ricorrere a quell'incantesimo, no? Era solo indeciso su quali sembianze assumere; doveva mutarsi in un uccello, o in un pennacchio di fumo, quale sarebbe stato più sicuro? Ma mentre stava riflettendo, gli uomini di Losen, avvezzi ai trucchi dei maghi, gli drogarono il cibo, e Lontra non pensò più a nulla. Lo gettarono come un sacco di avena su un carro trainato da un mulo. Quando diede segno di rianimarsi durante il viaggio, uno degli uomini gli sferrò un colpo in testa, commentando che voleva accertarsi che il passeggero riposasse bene. Quando rinvenne, in preda alla nausea e debole a causa del veleno, e con il cranio dolente, si ritrovò in una stanza con le pareti di mattoni e le finestre murate. La porta era priva di sbarre, e sembrava non ci fosse alcuna serratura. Ma quando provò ad alzarsi in piedi, sentì che dei vincoli stregoneschi gli bloccavano il corpo e la mente, resistenti, tenaci, che si stringevano a ogni suo movimento. Riuscì ad alzarsi, ma non a fare un passo verso la porta. Non poté neppure allungare la mano davanti a sé. Era una sensazione orribile, come se i suoi muscoli non gli appartenessero. Tornò a sedersi e cercò di rimanere immobile. I vincoli magici attorno al petto gli impedivano di respirare a fondo, e anche la sua mente sembrava oppressa, come se i pensieri fossero ammassati in uno spazio troppo angusto per contenerli. Dopo molto tempo, la porta si aprì ed entrarono parecchi uomini. Lontra non poté opporsi in alcun modo mentre lo imbavagliavano e gli legavano le braccia dietro la schiena. — Adesso non ordirai incantesimi né pronun-
cerai strane formule, giovanotto — disse un uomo forte e corpulento dalla faccia rugosa. — Però puoi accennare con la testa senza difficoltà, giusto? Ti hanno mandato qui come rabdomante. Se sarai un buon rabdomante mangerai bene e dormirai tranquillo. Cinabro, ecco cosa devi indicare accennando con la testa. Il mago del re dice che è ancora qui, da qualche parte, in queste vecchie miniere. E lo vuole. Quindi sarà meglio che lo troviamo. Adesso ti porterò fuori. Io sarò il cercatore d'acqua e tu la mia bacchetta, capito? Farai strada tu. Se vuoi andare in una direzione o nell'altra devi solo piegare la testa, così. E quando capisci che c'è del minerale sotto di te, indica il posto battendo il piede, così. I patti sono questi, chiaro? Se ti comporterai bene, mi comporterò bene anch'io. Attese che Lontra annuisse, ma il giovane rimase immobile. — Tieni pure il broncio — disse l'uomo. — Se non ti piace questo lavoro, c'è sempre il forno di arrostimento. L'uomo, che gli altri chiamavano Licky, lo condusse fuori in una mattinata calda e luminosa che lo abbagliò. Lasciando la cella, Lontra aveva sentito che i vincoli magici si allentavano e scomparivano, però c'erano altri incantesimi tessuti attorno ad altri edifici del luogo, soprattutto attorno a un'alta torre di pietra, che riempivano l'aria di viscose linee di resistenza e di repulsione. Se provava a spingersi in avanti e penetrare in quelle linee, Lontra avvertiva subito stilettate dolorosissime alla faccia e al ventre, e guardava inorridito il proprio corpo in cerca delle ferite, che in realtà erano solo immaginarie. Imbavagliato e immobilizzato, senza voce e senza mani con cui operare magie, non poteva fare nulla contro tali incantesimi. Licky gli aveva legato attorno al collo l'estremità di una correggia intrecciata e teneva l'altro capo, seguendolo. Lasciò che Lontra incappasse in un paio di incantesimi, poi il giovane imparò a schivarli. La loro posizione era abbastanza evidente: i sentieri polverosi curvavano per evitarli. Al guinzaglio come un cane, Lontra proseguì il cammino, accigliato, tremando di rabbia e di nausea. Si guardò intorno, vedendo la torre di pietra, cataste di legna accanto all'ampia porta, ruote e macchine arrugginite vicino a una fossa, grandi mucchi di ghiaia e argilla. Girare la testa dolente gli provocava un senso di vertigine. — Se sei un rabdomante, sarà meglio che ti metta a cercare — disse Licky, affiancandosi e guardandolo in faccia. — E se non lo sei, sarà meglio che cerchi lo stesso. Così non andrai subito sottoterra. Un uomo uscì dalla torre di pietra. Passò accanto a loro, camminando frettoloso con una strana andatura dinoccolata, lo sguardo fisso di fronte a
sé. Il suo mento luccicava, e il petto era bagnato di saliva che gli colava dalle labbra. — Quella è la torre del forno di arrostimento — disse Licky. — Dove cuociono il cinabro per estrarre il metallo. Gli arrostitori muoiono in un paio di anni. Da che parte, rabdomante? Dopo qualche istante, Lontra indicò con il capo a sinistra, lontano dalla torre grigia. S'incamminarono verso una lunga valle brulla, passando accanto a cumuli di scorie ricoperti d'erba. — Qui sotto è tutto esaurito da un pezzo — disse Licky. E Lontra aveva cominciato a essere consapevole dello strano paesaggio sotto i propri piedi: pozzi vuoti e camere di aria fetida nella terra scura, un labirinto verticale, le cavità più profonde piene di acqua immobile. — Non c'è mai stato molto argento, e il metallo liquido è finito da tempo. Senti, giovanotto, lo sai almeno cos'è il cinabro? Lontra scosse la testa. — Te ne mostrerò un po'. È quello che cerca Gelluk. Il minerale che contiene il metallo liquido. Sai, il metallo liquido mangia tutti gli altri metalli, perfino l'oro. Così Gelluk lo chiama il re. Se gli troverai il suo re, lui ti tratterà bene. Viene qui spesso. Andiamo, ti faccio vedere. Un cane non può seguire la traccia se prima non ha sentito l'odore. Licky lo portò nelle miniere per mostrargli le ganghe, i tipi di terreno in cui era probabile trovare il minerale grezzo. Alcune minatrici stavano lavorando in fondo a una lunga galleria. Dato che erano più piccole degli uomini e potevano muoversi più facilmente in luoghi angusti, o perché erano a proprio agio con la terra, o più probabilmente perché era la tradizione, le donne avevano sempre coltivato le miniere di Earthsea. Quelle minatrici erano donne libere, non schiavi come i lavoratori della torre del forno di arrostimento. Gelluk lo aveva nominato caposquadra delle minatrici, disse Licky, però lui non lavorava nella miniera; le minatrici lo proibivano, credendo fermamente che portasse sfortuna che un uomo prendesse in mano una pala o puntellasse una parete. — A me sta bene — disse Licky. Una donna dai capelli arruffati e gli occhi vivaci, con una candela legata alla fronte, posò il piccone per mostrare a Lontra un po' di cinabro in un secchio, grumi e briciole rosso brunastro. Delle ombre guizzavano sulla parete di terra che le donne stavano sgretolando. Le vecchie travi scricchiolavano, del terriccio cadeva dall'alto. Sebbene l'aria scorresse fresca nell'oscurità, le gallerie e i cunicoli erano così bassi e stretti che le minatri-
ci dovevano chinarsi e pigiarsi. In alcuni punti il soffitto era crollato. Le scale erano traballanti. La miniera era un luogo terrificante; eppure Lontra provava un senso di protezione lì dentro. Era abbastanza dispiaciuto quando risalirono in superficie, nella giornata torrida. Licky non lo condusse nella torre del forno di arrostimento, ma di nuovo verso l'alloggiamento. Da una stanza chiusa a chiave, portò fuori una piccola e morbida borsa di cuoio che sembrava avere un certo peso. La aprì per mostrare a Lontra la piccola pozza di lucentezza che conteneva. Quando la chiuse, il metallo all'interno si mosse, gonfiandosi, premendo, come un animale che cercasse di liberarsi. — Eccolo, il re — disse Licky, con un tono che poteva essere di profondo rispetto o di odio. Pur non essendo uno stregone, Licky era un uomo molto più temibile di Segugio. Ma al pari di Segugio era brutale, non crudele. Esigeva obbedienza, e null'altro. Lontra aveva visto gli schiavi e i loro padroni per tutta la vita nei cantieri navali di Havnor, e sapeva di essere fortunato. Almeno di giorno, quando Licky era il suo padrone. Poteva mangiare solo nella cella, dove gli toglievano il bavaglio. Pane e cipolle erano il pasto che gli davano, con un po' di olio rancido. Per quanto ogni sera fosse affamato, quando si sedeva nella stanza con i vincoli magici che lo stringevano, riusciva a stento a inghiottire il cibo. Sapeva di metallo, di cenere. Le notti erano lunghe e terribili, perché gli incantesimi lo opprimevano, lo costringevano a svegliarsi ripetutamente, atterrito, boccheggiante, incapace di pensare in modo coerente. L'oscurità era totale, perché Lontra non poteva far brillare alcuna luce fatua in quella stanza. Lo spuntar del giorno giungeva indicibilmente gradito, anche se significava che lui avrebbe avuto le mani legate dietro la schiena, un bavaglio in bocca e un guinzaglio attorno al collo. Licky lo portava fuori di buonora ogni mattina, e spesso girovagavano fino al tardo pomeriggio. Licky era silenzioso e paziente. Non chiedeva se Lontra stesse cogliendo qualche segno del minerale; non chiedeva se stesse cercando il minerale o fingesse di cercarlo. Lontra stesso non avrebbe potuto rispondere alla domanda. In quelle peregrinazioni senza meta, la conoscenza del sottosuolo entrava in lui, come una volta, e il giovane cercava di escluderla. "Non voglio lavorare al servizio del male!" diceva a se stesso. Poi l'aria e la luce estiva lo ammorbidivano, e sotto la pianta dei piedi nudi sentiva l'erba secca, e sapeva che sotto le radici dell'erba, attraverso la terra scura, scorreva lento un ruscello, lambendo un'ampia cornice di roccia co-
perta di filoni di mica, e sotto quella cornice c'era una caverna, e nelle sue pareti c'erano sottili e friabili strati di cinabro... Lontra non faceva alcun segno. Pensava che forse la mappa del terreno sotto di lui che stava formandosi nella sua mente avrebbe potuto servirgli, se fosse riuscito a trovare il modo di sfruttare tale conoscenza. Ma dopo una decina di giorni, Licky disse: — Mastro Gelluk verrà qua. Se non ci sarà del minerale grezzo per lui, probabilmente troverà un altro rabdomante. Lontra proseguì per un miglio, meditando; poi girò in tondo e tornò indietro, conducendo Licky a una collinetta non lontano dall'estremità dei vecchi strati coltivati della miniera. Là, indicò in basso con il capo, e batté il piede. Tornato nella cella, dopo che Licky gli ebbe tolto bavaglio e guinzaglio, disse: — C'è del minerale grezzo, in quel punto. Lo si può raggiungere continuando a scavare nella vecchia galleria, proseguendo dritto per una ventina di piedi. — Una buona quantità di minerale? Lontra si strinse nelle spalle. — Quanto basta per andare avanti, eh? Lontra non disse nulla. — A me sta bene — fece Licky. Due giorni dopo, quando riaprirono il vecchio pozzo e ripresero a scavare in direzione della vena, il mago arrivò. Licky aveva lasciato Lontra all'esterno, seduto al sole invece che nella stanza degli alloggiamenti. Lontra gli era grato. Non era del tutto comodo con le mani legate e imbavagliato, ma vento e sole erano vere benedizioni. E poteva respirare a fondo e dormicchiare senza sognare di avere la bocca e le narici ostruite dalla terra, gli unici sogni che facesse di notte chiuso in cella. Stava sonnecchiando, seduto a terra all'ombra degli alloggiamenti, e l'odore dei ceppi accatastati vicino alla torre del forno suscitava in lui il ricordo dei cantieri di casa, la fragranza del legno nuovo mentre la pialla passava sulla liscia tavola di quercia. Fu destato da un rumore o da un movimento. Alzò lo sguardo e vide il mago in piedi di fronte a lui, imponente. Gelluk indossava abiti stravaganti, come facevano a quell'epoca molti maghi. Una lunga veste di seta di Lorbanery, scarlatta, con ricami d'oro e fregi runici e simboli in nero, e un grande cappello a punta, lo facevano sembrare più alto di quanto potesse essere un uomo. Lontra non aveva bisogno di vedere quegli abiti per capire chi fosse. Riconobbe la mano che
aveva tessuto i suoi vincoli e maledetto le sue notti, il sapore acre e la stretta soffocante di quel potere. — Penso di avere trovato il mio piccolo trovatore — disse Gelluk. Aveva una voce bassa e profonda, come le note di una viola. — Dormi al sole, come chi ha fatto bene il proprio lavoro. Dunque, hai indicato dove scavare per raggiungere la Rossa madre, vero? Conoscevi la Rossa madre prima di venire qui? Sei un cortigiano del re? Suvvia, corde e nodi non servono, adesso. — Restando dov'era, con un movimento improvviso di un dito, slegò i polsi di Lontra, e gli fece cadere il bavaglio dalla bocca. — Potrei insegnarti a far questo da solo — disse il mago, sorridendo, osservando Lontra che strofinava e fletteva i polsi indolenziti, e muoveva le labbra che erano rimaste premute contro i denti per ore. — Il Segugio mi ha detto che sei un ragazzo promettente e potresti fare parecchia strada con una guida adatta. Se desideri visitare la Corte del re, posso portarti là. Ma forse non conosci il re di cui parlo, eh? In effetti, Lontra era incerto, non sapeva se il mago si riferisse al pirata o all'argento vivo, ma provò a indovinare e con un rapido gesto indicò la torre di pietra. Il mago socchiuse gli occhi, e il suo sorriso si allargò. — Conosci il suo nome? — Il metallo liquido — rispose Lontra. — Il volgo lo chiama così, o argento vivo, o l'acqua pesante. Ma quelli che lo servono lo chiamano il re, e il Re sommo, e il Corpo della luna. — Lo sguardo benevolo e curioso di Gelluk si spostò da Lontra alla torre, quindi tornò a posarsi sul giovane. La faccia del mago era ampia e lunga, più bianca di qualsiasi faccia che Lontra avesse mai visto, con occhi azzurrognoli. Dei peli grigi e neri si arricciavano qua e là sul mento e sulle gote. Il suo sorriso calmo e franco rivelava denti piccoli, di cui parecchi mancanti. — Coloro che hanno imparato a vedere realmente possono vederlo nella sua vera essenza, il signore di tutte le sostanze. La radice del potere risiede in lui. Sai come lo chiamiamo nella segretezza del suo palazzo? Quell'uomo imponente dal grande cappello all'improvviso si sedette nella polvere accanto a Lontra, vicinissimo. Il suo alito sapeva di terra. I suoi occhi chiari fissarono quelli del ragazzo. — Ti piacerebbe saperlo? Puoi sapere tutto ciò che vuoi. Non devo avere segreti per te. E neppure tu devi averne per me. — E rise, non in modo minaccioso, ma con diletto. Fissò di nuovo Lontra, la grande faccia bianca, calma e pensosa. — Hai dei poteri, certo, ogni sorta di peculiarità e di trucchi. Un ragazzo furbo. Ma non
troppo furbo, il che è un bene. Non troppo furbo per imparare, come alcuni... Ti insegnerò, se vuoi. Ti piace imparare? Ti piace la conoscenza? Ti piacerebbe sapere con quale nome chiamiamo il re quando è tutto solo nel suo splendore nelle sue corti di pietra? Il suo nome è Turres. Conosci questo nome? È una parola della lingua del Re sommo. Il suo nome nella sua lingua. Nella nostra lingua vile noi diremmo Seme. — Sorrise ancora, e batté sulla mano di Lontra. — Perché lui è il seme e fruttifica. Il seme e la fonte di potere e di bene. Vedrai. Vedrai. Vieni! Vieni! Andiamo a vedere il re che vola tra i suoi sudditi, raccogliendosi! — E si alzò, agile e fulmineo, prendendo la mano di Lontra e tirandolo su con forza sorprendente. Rideva eccitato. Lontra aveva la sensazione di essere riportato in vita dopo un periodo interminabile, uggioso, frastornante, di obnubilamento. Al tocco del mago, non sentì l'orrore del vincolo stregonesco, piuttosto un dono di energia e speranza. Disse a se stesso che non doveva fidarsi di quell'individuo, eppure desiderava fidarsi di lui, apprendere da lui. Gelluk era potente, imperioso, bizzarro, però lo aveva liberato. Per la prima volta dopo tanti giorni, Lontra camminava con le mani slegate e senza alcun incantesimo su di sé. — Da questa parte, da questa parte — mormorò Gelluk. — Non ti accadrà nulla di male. — Giunsero all'ingresso della torre del forno di arrostimento, uno stretto passaggio nei muri spessi tre piedi. Il mago strinse il braccio di Lontra, perché il giovane esitava. Licky gli aveva detto che erano le esalazioni del metallo che si levavano dal minerale grezzo riscaldato a far ammalare e a uccidere le persone che lavoravano nella torre. Lontra non era mai entrato in quel posto, né aveva mai visto entrarvi Licky. Si era avvicinato abbastanza da scoprire che la torre era circondata da incantesimi di imprigionamento che pungevano e disorientavano e avviluppavano gli schiavi che tentavano di fuggire. Ora percepì tali incantesimi come fili di ragnatela, corde di bruma fosca, che cedevano e lasciavano passare il mago che li aveva creati. — Respira, respira, respira — disse Gelluk, ridendo, e Lontra cercò di non trattenere il respiro mentre entravano nella torre. La bocca del forno di arrostimento occupava il centro di un'enorme sala a cupola. Muovendosi frettolose, delle figure scheletriche, nere sullo sfondo del vivido bagliore, gettavano senza sosta palate di minerale grezzo sui ceppi divorati da fiamme crepitanti alimentate da grandi mantici, mentre altre figure portavano nuovi ceppi e manovravano i mantici. Dall'apice della cupola, una spirale di camere saliva nella torre tra fumo ed esalazioni. In
quelle stanze, gli aveva spiegato Licky, il vapore dell'argento vivo veniva trattenuto e condensato, riscaldato di nuovo e ricondensato, finché nella camera superiore il metallo puro non si depositava in una vaschetta di pietra... solo un paio di gocce al giorno, diceva Licky, con il minerale di qualità scadente che stavano arrostendo adesso. — Non temere — disse Gelluk, sovrastando con voce forte e melodiosa lo sbuffare dei grossi mantici e il crepitio costante del fuoco. — Vieni, vieni a vedere come il re vola nell'aria, purificandosi, purificando i suoi sudditi! — Condusse Lontra sull'orlo della bocca del forno, gli occhi luccicanti nel bagliore delle fiamme. — Gli spiriti maligni che lavorano per il re si mondano — disse, accostando le labbra all'orecchio di Lontra. — Sbavando, fanno uscire gli scarti e la lordura. Malattia e impurità suppurano ed escono dalle piaghe. E quando poi il calore li ha nettati, possono finalmente volare su, volare su nelle Corti del re. Vieni, vieni, su nella sua torre, dove la notte buia porta la luna! Seguendolo, Lontra salì la scala a chiocciola, ampia all'inizio ma sempre più stretta, superando camere di raccolta con forni roventi i cui sfoghi salivano in sale di raffinazione dove la fuliggine del minerale combusto veniva raschiata da schiavi nudi e gettata in altri forni per essere di nuovo bruciata. Giunsero alla camera superiore. Gelluk ordinò all'unico schiavo accovacciato accanto all'estremità del condotto di condensazione: — Mostrami il re! Lo schiavo, basso e scarno, calvo, con piaghe purulente sulle mani e le braccia, scoperchiò una coppa di pietra vicino alla bocca del condotto. Gelluk guardò nel recipiente, smanioso come un bambino. — Così minuscolo — mormorò. — Così giovane. Il piccolo principe, il signore bambino, il sovrano Turres. Seme del mondo! Gioiello e anima! Dalla parte anteriore della veste estrasse una borsa di pelle pregiata decorata con fili d'argento. Con un fine cucchiaio di corno legato alla borsa, prese le poche gocce di argento vivo dalla coppa e le mise nella borsa, quindi riannodò la correggia. Lo schiavo restò in disparte, immobile. Tutti quelli che lavoravano nel calore e nelle esalazioni della torre di arrostimento erano nudi, o indossavano solo perizoma e mocassini. Lontra guardò di nuovo lo schiavo, pensando, a giudicare dalla statura, che fosse un bambino; poi però vide i piccoli seni. Era una donna. Era calva. Le articolazioni dei suoi arti scheletrici erano nodi gonfi. Lo guardò una volta, muovendo soltanto gli occhi. Sputò nel fuoco, si asciugò con la.mano la bocca infiammata, e rimase ancora
immobile. — Bene, piccola servitrice, ben fatto — le disse Gelluk, con voce tenera. — Dai i tuoi scarti al fuoco, e verranno trasformati nell'argento vivo, la luce della luna. Non è meraviglioso — proseguì, conducendo via Lontra e scendendo insieme a lui la scala a chiocciola — come da ciò che è più vile provenga ciò che è più nobile? Questo è un grande principio dell'arte! Dalla vile Rossa madre nasce il Re sommo. Dallo sputo di uno schiavo moribondo si crea l'argenteo Seme del potere! Continuò a parlare mentre scendevano la scala di pietra puzzolente, e Lontra si sforzò di capire, perché quello era un uomo potente che gli stava dicendo cosa fosse il potere. Ma quando uscirono di nuovo alla luce del giorno, la testa del giovane vorticava ancora nell'oscurità, e dopo qualche passo Lontra si piegò in due e vomitò sul terreno. Gelluk lo osservò con la solita espressione curiosa e affettuosa, e quando si drizzò sussultando e ansimando, il mago gli chiese garbato: — Temi il re? Lontra annuì. — Se sarai partecipe del suo potere, il re non ti farà alcun male. Temere un potere, combattere un potere, è molto pericoloso. Amare il potere ed esserne partecipi è il metodo sopraffino. Guarda. Osserva cosa faccio. — Gelluk sollevò la borsa in cui aveva riposto le poche gocce di argento vivo. Fissando Lontra negli occhi, aprì la borsa, l'accostò alle labbra e ne bevve il contenuto. Aprì la bocca sorridente perché Lontra potesse vedere le stille argentee raccolte sulla lingua, e infine le inghiottì. — Ora il re è nel mio corpo, nobile ospite della mia casa. Non mi farà sbavare né vomitare né piagherà il mio corpo; no, perché io non lo temo, ma lo invito, e dunque il re entra nelle mie vene e nelle mie arterie. Non mi accade nulla di male. Il mio sangue diventa argenteo. Vedo cose ignote ad altri uomini. Sono partecipe dei segreti del re. E quando il re mi lascia, si nasconde nel luogo della lordura, nell'immondezza stessa, e tuttavia nel luogo vile aspetta che io arrivi e lo raccolga e lo mondi come lui ha mondato me, così ogni volta diventiamo sempre più puri insieme. — Il mago prese il braccio di Lontra e s'incamminò con lui. Sorridente e confidenziale, disse: — Sono un uomo che caca chiaro di luna. Non ne conoscerai un altro come me. E non è tutto, non è tutto, il re entra nel mio seme. È il mio seme. Io sono Turres e lui è me... La mente confusa, Lontra si rendeva conto solo in modo vago che ades-
so stavano dirigendosi verso l'ingresso della miniera. Scesero nel sottosuolo. I cunicoli della miniera erano un labirinto oscuro come le parole del mago. Lontra procedeva incespicando, cercando di capire. Vide la schiava della torre, la donna che lo aveva guardato. Vide i suoi occhi. Camminavano al buio, a parte la fioca luce fatua che Gelluk creava davanti a loro. Attraversarono settori da tempo abbandonati, eppure sembrava che il mago li conoscesse alla perfezione, o forse non conosceva la strada e stava vagando incurante. Parlava, girandosi a volte verso Lontra per guidarlo o avvertirlo, poi proseguendo, continuando a parlare. Raggiunsero il punto in cui le minatrici stavano allungando la vecchia galleria. Là il mago parlò con Licky al chiarore delle candele, tra ombre frastagliate. Toccò il terreno all'estremità del cunicolo, ne prese in mano qualche piccola zolla, rotolò il terriccio tra i palmi, tastandolo, saggiandolo, assaggiandolo. Mentre lo faceva, rimase in silenzio, e Lontra lo osservò con estrema attenzione, cercando ancora di comprendere. Licky tornò agli alloggiamenti con loro. Sottovoce, Gelluk augurò la buonanotte a Lontra. Come al solito, Licky lo chiuse nella stanza dai muri di mattoni, dandogli una pagnotta, una cipolla, una caraffa d'acqua. Lontra si accovacciò come sempre nella molesta oppressione dei vincoli magici. Bevve avidamente. Il sapore aspro e rustico della cipolla era buono, e la mangiò tutta. Mentre la luce fioca che filtrava nella stanza dalle crepe nella malta della finestra murata svaniva a poco a poco, invece di sprofondare nella sofferenza di tutte le sue notti in quella cella, Lontra rimase sveglio, si sentì sempre più desto. L'eccitato scompiglio mentale delle ore trascorse con Gelluk lentamente si calmò. Qualcosa emerse dalla quiete, avvicinandosi, chiarendosi, l'immagine che aveva visto nella miniera, oscura eppure nitida: la schiava nella camera superiore della torre, la donna dai seni vuoti e gli occhi purulenti, che sputava la saliva che le colava dalla bocca guasta, e si asciugava le labbra, e rimaneva là immobile aspettando di morire. Quella donna lo aveva guardato. Ora Lontra la vide più chiaramente che nella torre. Non aveva mai visto nessuno con tale chiarezza. Vide le braccia scarne, le giunture gonfie dei gomiti e dei polsi, la nuca che pareva quella di un bambino. Era come se fosse con lui nella stanza. Era come se fosse in lui, come se fosse lui. Lo guardò. Lontra vide che lo guardava. Vide se stesso attraverso i suoi occhi. Vide le linee degli incantesimi che lo trattenevano, solide corde di tenebra, un fitto groviglio di fili tutt'intorno a lui. C'era un modo per uscire dal-
l'intrico... bastava che si girasse così, e poi così, e scostasse le linee con le mani, così: e Lontra si liberò. Non vedeva più la donna, adesso. Era solo nella stanza, libero. Tutti i pensieri che non era riuscito a pensare per giorni e giorni gli si accavallarono nella mente, un diluvio di idee e sentimenti, un impeto di collera, vendetta, compassione, orgoglio. Dapprima fu sopraffatto da violente fantasticherie di potere e di rivalsa: avrebbe liberato gli schiavi, avrebbe vincolato Gelluk con un incantesimo e lo avrebbe gettato nel fuoco purificatore, lo avrebbe accecato e lasciato a respirare le esalazioni di argento vivo in quella camera sulla sommità della torre finché non fosse morto... Ma quando i suoi pensieri si placarono e cominciarono ad acquistare lucidità, Lontra si rese conto di non poter sconfiggere un mago così abile e potente, per quanto quel mago fosse pazzo. Per avere qualche speranza di successo, doveva far leva sulla sua follia, e indurlo ad annientarsi da solo. Meditò. Nel tempo trascorso con Gelluk, aveva cercato di apprendere da lui, di comprendere ciò che il mago gli stava dicendo. Eppure era certo, adesso, che le sue idee, gli insegnamenti che era tanto ansioso di impartire, non avessero nulla a che fare con il suo potere né con alcun potere vero. L'estrazione e la raffinazione di minerali erano sì grandi arti con propri misteri e abilità particolari, però sembrava che Gelluk non ne sapesse realmente nulla. I suoi discorsi sul Re sommo e la Rossa madre erano soltanto parole. E non le parole giuste. Ma Lontra come faceva a saperlo? Nel suo profluvio verbale, l'unica parola che Gelluk avesse pronunciato nella Vecchia lingua, la lingua degli incantesimi dei maghi, era la parola turres. Gelluk aveva detto che significava seme. Grazie alle proprie doti magiche, Lontra aveva riconosciuto quel significato come vero. Gelluk aveva detto che la parola significava inoltre argento vivo, e Lontra sapeva che il mago si sbagliava. I suoi umili maestri gli avevano insegnato tutte le parole che conoscevano della Lingua della creazione. Tra di esse non figuravano né il nome del seme né il nome dell'argento vivo. Ma le labbra del giovane si schiusero, la sua lingua si mosse. — Ayezur — disse. La sua voce era la voce della schiava della torre di pietra. Era lei a conoscere il vero nome dell'argento vivo e lo pronunciava attraverso di lui. Poi, per un po', Lontra rimase immobile, con il corpo e con la mente, cominciando a capire per la prima volta dove risiedesse il proprio potere. Ritto al buio nella stanza sbarrata, capì che sarebbe stato libero, perché
era già libero. Una marea di gratitudine lo pervase. Dopo qualche tempo, volutamente, rientrò nella trappola di vincoli magici, tornò al proprio posto, si sedette sul pagliericcio, e continuò a riflettere. L'incantesimo di imprigionamento era ancora presente, però adesso non aveva alcun potere su di lui. Lontra poteva entrarvi e uscirne come se si trattasse di semplici linee dipinte sul pavimento. La riconoscenza per quella libertà pulsò in lui, costante come il battito del suo cuore. Pensò a ciò che doveva fare, e a come doveva farlo. Non era sicuro se fosse stato lui a chiamare la ragazza o se fosse venuta spontaneamente; non sapeva in che modo avesse pronunciato la parola della Vecchia lingua, dicendola a lui o attraverso di lui. Non sapeva cosa stesse facendo, né cosa stesse facendo lei, ed era quasi certo che operare qualsiasi incantesimo avrebbe destato Gelluk. Ma alla fine, incauto e timoroso, perché simili incantesimi erano semplice dicerìa tra coloro che gli avevano insegnato la sua arte, chiamò a sé la donna della torre di pietra. La fece entrare nella propria mente e la vide come l'aveva vista là in quella camera, e la chiamò; e lei venne. La sua apparizione si manifestò di nuovo appena oltre la ragnatela di fili dell'incantesimo, e lo fissò, e lo vide, perché una tenue luce azzurrognola senza sorgente riempiva la stanza. Le sue labbra piagate ebbero un fremito, ma lei non parlò. Parlò Lontra, rivelandole il proprio nome vero: — Io sono Medra. — Io sono Anieb — sussurrò lei. — Come possiamo liberarci? — Il suo nome. — Anche se lo conoscessi... Quando sono con lui non posso parlare. — Se io fossi con te, potrei usare il nome. — Non posso chiamarti. — Però io posso venire — replicò lei. Si guardò intorno, e lui alzò lo sguardo. Sapevano entrambi che Gelluk aveva avvertito qualcosa, si era destato. Lontra sentì che i vincoli si chiudevano e si stringevano, mentre nella cella calava nuovamente l'oscurità. — Verrò, Medra — disse lei. Tese la mano scarna e serrata, poi aprì il pugno con il palmo all'insù, come se gli offrisse qualcosa. E scomparve. La luce sparì del tutto con lei. Lontra era solo nelle tenebre. La fredda stretta dei vincoli gli afferrò la gola e lo soffocò, gli legò le mani, gli schiacciò i polmoni. Lontra si accovacciò, boccheggiando. Non riusciva a pensare; non riusciva a ricordare. — Resta con me — disse, senza sapere a
chi si rivolgesse. Aveva paura, e non sapeva cosa temesse. Il mago, il potere, l'incantesimo... Era tutto tenebra. Ma nel suo corpo, non nella mente, ardeva una conoscenza che non poteva più nominare, una certezza che era come una minuscola lampada tenuta in mano in un labirinto di caverne sotterranee. Tenne gli occhi su quella fonte di luce. Sogni maligni e tormentosi di soffocamento lo assalirono, ma non lo sopraffecero. Respirò profondamente. Alla fine dormì. Sognò lunghi versanti montani velati di pioggia, e la luce che brillava attraverso di essa. Sognò nubi che passavano sopra le coste di isole, e un'alta collina verde tondeggiante che si ergeva nella bruma e al sole, al termine del mare. Il mago che si chiamava Gelluk e il pirata che si chiamava re Losen avevano lavorato insieme per anni, sostenendo e accrescendo ognuno il potere dell'altro, ognuno convinto che l'altro fosse il proprio servo. Gelluk era sicuro che senza di lui l'infimo regno di Losen sarebbe ben presto crollato e qualche mago nemico avrebbe spazzato via il sovrano con un mezzo incantesimo. Ma lasciava che il re si comportasse da padrone. Il pirata faceva comodo al mago, che si era abituato a vedere soddisfatti i propri bisogni, a disporre di tutto il tempo libero che desiderava, e di un'inesauribile scorta di schiavi per le sue esigenze e i suoi esperimenti. Era facile mantenere le protezioni che aveva posto sulla persona e le spedizioni e le scorrerie di Losen, gli incantesimi di imprigionamento che aveva tessuto nei luoghi dove lavoravano gli schiavi o venivano serbati tesori. Farli, però, era stato un altro paio di maniche, un lavoro lungo e arduo. Ma ora erano compiuti, e in tutta Havnor non c'era nessun mago in grado di annullarli. Gelluk non aveva mai incontrato un uomo che temesse. Si era imbattuto in alcuni maghi abbastanza forti da suscitare in lui circospezione, però non ne aveva mai conosciuto uno che gli stesse alla pari quanto a potere e abilità. Negli ultimi tempi, addentrandosi sempre più a fondo nei misteri di un certo libro di scienza portato dall'isola di Way da un predone di Loser, Gelluk era diventato indifferente nei confronti di gran parte delle arti che aveva appreso o scoperto da solo. Il libro lo aveva convinto che fossero soltanto ombre o cenni di una conoscenza superiore. Come un unico vero elemento controllava tutte le sostanze, così un'unica vera conoscenza racchiudeva tutte le altre. Avvicinandosi sempre più a tale arte suprema, capiva che le conoscenze dei maghi erano rozze e false come il titolo e il domi-
nio di Losen. Quando fosse stato un tutt'uno con il vero elemento, sarebbe diventato l'unico vero re. Sarebbe stato il solo, di tutti gli uomini, a pronunciare le parole della creazione e della distruzione. Avrebbe avuto draghi, come cani. Nel giovane rabdomante ravvisava un potere, innato e incolto, che avrebbe potuto sfruttare. Gli occorreva molto più argento vivo di quanto non avesse, dunque gli occorreva un trovatore. L'arte del trovamento era una capacità vile. Gelluk non l'aveva mai praticata, però si rendeva conto che il giovane la possedeva. Sarebbe stato opportuno scoprire il vero nome del ragazzo, per essere certo di poterlo controllare. Gelluk sospirò al pensiero del tempo che doveva sprecare per insegnare al giovane a svolgere bene il proprio compito. Dopo di che, sarebbe stato ancora necessario estrarre dalla terra il minerale grezzo e raffinare il metallo. Come sempre, la mente di Gelluk balzò oltre gli ostacoli e gli indugi, verso i misteri meravigliosi che l'attendevano una volta alla meta. Nel libro di scienza proveniente da Way, che portava con sé in uno scrigno chiuso da un incantesimo ogni volta che viaggiava, c'erano passi riguardanti il vero fuoco raffinatore. Avendoli studiati a lungo, Gelluk sapeva che quando avesse avuto metallo puro a sufficienza, la fase successiva sarebbe stata di raffinarlo ulteriormente per ottenere il Corpo della Luna. A quanto aveva compreso, il linguaggio occulto del libro spiegava che per purificare l'argento vivo puro, il fuoco doveva essere non di semplice legna ma di cadaveri umani. Rileggendo e ponderando le parole quella notte nella sua stanza agli alloggiamenti, scorse un altro significato possibile. C'era sempre un altro significato nelle parole di quel libro. Forse il libro diceva che bisognava sacrificare non solo carne vile ma anche spirito inferiore. Il grande fuoco nella torre avrebbe dovuto bruciare non corpi morti, ma vivi. Vivi e coscienti. Purezza dall'immondezza, beatitudine dal dolore. Faceva tutto parte del grande principio, perfettamente chiaro una volta colto. Era certo di avere ragione, di avere infine compreso il metodo. Ma non doveva avere fretta, doveva essere paziente, assicurarsi. Volse l'attenzione a un nuovo passo, confrontandolo con l'altro, e meditò sul libro fino a notte fonda. Una volta, per un attimo, qualcosa lo distrasse, un'intrusione ai margini della sua coscienza; il ragazzo stava tentando qualche trucco. Gelluk pronunciò una sola parola, impaziente, e tornò alle meraviglie del regno del Re sommo. Non si accorse che i sogni del suo prigioniero gli erano sfuggiti. Il giorno dopo, ordinò a Licky di mandargli il ragazzo. Era ansioso di
vederlo, di essere gentile con lui, di impartirgli insegnamenti, vezzeggiandolo un po' come aveva fatto il giorno prima. Si sedette con lui al sole. Gelluk amava i bambini e gli animali. Gli piacevano tutte le cose belle. Era gradevole avere accanto una giovane creatura. Il timore e il frastornamento di Lontra erano accattivanti, come la sua forza incompresa. Gli schiavi erano tediosi con la loro debolezza e la loro scaltrezza e i loro brutti corpi malati. Naturalmente, Lontra era suo schiavo, però non era necessario che il ragazzo lo sapesse. Avrebbero potuto essere maestro e apprendista. Ma gli apprendisti erano infedeli, pensò Gelluk, rammentandosi del proprio apprendista, Early, troppo furbo per i suoi gusti, e riproponendosi di controllarlo più strettamente. Padre e figlio, ecco cosa potevano essere lui e Lontra. Avrebbe detto al ragazzo di chiamarlo Padre. Si ricordò che intendeva scoprire il suo vero nome. C'erano vari modi per scoprirlo, ma il più semplice, dato che il ragazzo era già sotto il suo controllo, era chiederglielo. — Qual è il tuo nome? — disse, fissandolo. Ci fu una piccola lotta mentale, ma la bocca si aprì e la lingua si mosse. — Medra. — Molto bene, molto bene, Medra — fece il mago. — Tu puoi chiamarmi Padre. — Devi trovare la Rossa madre — disse, il giorno dopo. Sedevano ancora fianco a fianco all'esterno degli alloggiamenti. Il sole d'autunno era caldo. Il mago si era tolto il cappello a cono, e i folti capelli grigi gli ricadevano attorno al volto. — So che hai trovato quella piccola vena da sfruttare, ma contiene appena qualche briciola di minerale. Non vale quasi la pena di arrostirlo, tanto è scarso. Se vuoi aiutarmi, e se vuoi che ti insegni, devi impegnarti di più. Penso che tu sappia in che modo. — Sorrise. — Vero? Lontra annuì. Era ancora colpito, sgomento, per la facilità con cui Gelluk lo aveva costretto a rivelargli il proprio nome, che conferiva al mago potere immediato e assoluto su di lui. Ora non aveva più speranza di opporglisi. Quella notte era sprofondato nella disperazione totale. Poi però Anieb gli era entrata nella mente: era venuta di sua spontanea volontà, con i suoi mezzi. Lontra non poteva chiamarla, non poteva neppure pensare a lei, e non avrebbe osato farlo, dato che Gelluk conosceva il suo nome. Ma lei si manifestò, anche quando Lontra era con il mago, non come apparizione ma come una presenza mentale.
Era difficile avvertirla, con il mago che parlava e con i costanti incantesimi di controllo che tessevano una rete di tenebra attorno a lui. Ma quando riuscì ad avvertirla, più che percepire la sua vicinanza, ebbe la sensazione che Anieb fosse lui, o di essere lei. Vide attraverso gli occhi della ragazza. La sua voce gli parlò nella mente, più forte e più chiara della voce e degli incantesimi di Gelluk. Grazie agli occhi e alla mente di lei, Lontra poté vedere e pensare. E cominciò a rendersi conto che il mago, sicurissimo di possederlo anima e corpo, non badava agli incantesimi che lo legavano alla sua volontà. Un vincolo è un legame. Lontra, o Anieb dentro di lui, ebbe modo di seguire i legami degli incantesimi di Gelluk e arrivare nella mente del mago. Ignaro di tutto ciò, Gelluk continuò a parlare, seguendo la malia incessante della propria voce incantatrice. — Devi trovare il vero grembo, il ventre della Terra, che racchiude il seme di luna puro. Lo sapevi che la Luna è il padre della Terra? Sì, sì; e il Padre Luna si è giaciuto con lei, com'è diritto del padre. Ha vivificato la vile argilla della Terra con il vero seme. Ma lei non vuole dare alla luce il Re. La paura la rende forte, e persiste nella sua bassezza. Trattiene il Re e lo cela in profondità, temendo di dare alla luce il proprio padrone. Ecco perché, per darlo alla luce, lei deve essere bruciata viva. Gelluk s'interruppe e tacque per qualche istante, riflettendo, il volto eccitato. Lontra intravide le immagini nella mente del mago: grandi fuochi che ardevano, bruciando stecchi che avevano mani e piedi, bruciando ceppi che gemevano come geme la legna verde nella fiamma. — Sì — disse Gelluk, la voce sommessa e sognante — deve essere bruciata viva. E allora, solo allora, il re scaturisce, lucente! Oh, è ora, è ora da tempo. Dobbiamo far nascere il re. Dobbiamo trovare il grande filone. È qui, non c'è dubbio: il grembo della Madre si trova sotto Samory. S'interruppe nuovamente. D'un tratto, guardò in faccia Lontra, che raggelò terrorizzato pensando che il mago lo avesse sorpreso a osservargli la mente. Gelluk lo fissò un po' con quella curiosa espressione in parte penetrante e in parte assente, sorridendo. — Piccolo Medra! — esclamò, come se si fosse appena accorto della sua presenza. Batté affettuoso sulla spalla di Lontra. — So che hai il dono di trovare ciò che è nascosto. Davvero un grande dono, con l'addestramento adeguato. Non temere, figlio mio. So perché hai condotto i miei servi solo alla piccola vena, giocando e indugiando. Ma adesso che sono venuto, tu servi me, e non hai nulla da temere. Ed è inutile cercare di nascondermi qualcosa, vero? Il figlio saggio ama il
padre e gli obbedisce, e il padre lo ricompensa come merita. — Si piegò, avvicinandosi al giovane, come gli piaceva fare, e disse in tono dolce e confidenziale: — Sono certo che tu possa trovare il grande filone. — So dov'è — disse Anieb. Lontra non poteva parlare; la ragazza aveva parlato attraverso di lui, usando la voce del giovane, che suonava rauca e debole. Pochissime persone parlavano a Gelluk a meno che lui non le costringesse a farlo. Gli incantesimi mediante i quali ammutoliva e indeboliva e controllava tutti quelli che lo avvicinavano ormai erano per lui qualcosa di consueto, a cui non pensava neppure. Era abituato a essere ascoltato, non ad ascoltare. Sereno in virtù della propria forza e ossessionato dalle proprie idee, aveva in mente un'unica cosa. Non percepiva affatto Lontra, se non come parte dei suoi piani, un'appendice di se stesso. — Sì, sì, lo troverai — disse, e sorrise di nuovo. Ma il ragazzo percepiva appieno il mago, sia fisicamente che come una presenza in possesso di un immenso potere di controllo; e gli parve che le parole di Anieb lo avessero sottratto in parte a quel potere, aprendogli una breccia, offrendogli un appiglio. Anche con Gelluk così vicino, spaventosamente vicino, Lontra riuscì a parlare. — Ti condurrò là — disse, a fatica. Il mago era abituato a sentire dagli altri le parole che aveva messo loro in bocca, ammesso che avessero qualcosa da dire. Quelle erano le parole che voleva ma che non si aspettava di udire. Prese il braccio del giovane, accostando la faccia alla sua, e lo sentì ritrarsi intimorito. — Sei davvero abile — disse. — Hai trovato minerale migliore di quello della prima piccola vena? Minerale che valga la pena di estrarre e arrostire? — È il filone principale — rispose il giovane. Le parole lente e stentate erano pregne di importanza. — Il filone principale? — Gelluk lo fissò, le loro facce separate di una spanna. La luce dei suoi occhi azzurrognoli sembrava lo scintillio mutevole dell'argento vivo. — Il grembo? — Soio il padrone può andare là. — Quale padrone? — Il padrone della casa. Il re. Per Lontra quella conversazione era, di nuovo, come avanzare in una vasta tenebra con una piccola lampada. La conoscenza di Anieb era quella lampada. Ogni passo rivelava il passo successivo che lui doveva fare, però
non scorgeva mai il luogo in cui si trovava. Non sapeva cosa lo attendesse, e non capiva ciò che vedeva. Ma lo vedeva e andava avanti, parola per parola. — Come sai di quella casa? — L'ho vista. — Dove? Qui vicino? Lontra annuì. — È nella terra? "Digli quello che vede" sussurrò Anieb nella mente di Lontra, e il giovane rispose: — Un ruscello scorre nell'oscurità su un tetto luccicante. Sotto il tetto c'è la casa del re. Il tetto si erge alto sopra il pavimento, retto da grandi pilastri. Il pavimento è rosso. Tutti i pilastri sono rossi. Su di essi brillano delle rune. Gelluk trattenne il respiro. Quindi, la voce bassissima, chiese: — Sei in grado di leggere le rune? — Non so leggerle. — La voce di Lontra era monotona. — Non posso andare là. Nessuno può entrare là, a parte il re. Solo lui può leggere quel che c'è scritto. La faccia pallida di Gelluk era sbiancata ancor più; la mascella gli tremava leggermente. Si drizzò, all'improvviso, come faceva sempre. — Portami là — disse, cercando di controllarsi, ma obbligando con tale violenza Lontra ad alzarsi e a camminare che il giovane vacillò e incespicò per parecchi passi, cadendo quasi. Poi Lontra s'incamminò, rigido e impacciato, cercando di non opporsi all'impetuosa volontà coercitiva che gli affrettava i passi. Gelluk gli stava a fianco, prendendogli spesso il braccio. — Da questa parte — disse varie volte. — Sì, sì! È questa la strada. — Era però lui a seguire il giovane. Il suo tocco e i suoi incantesimi lo sollecitavano, lo spingevano, ma nella direzione decisa da Lontra. Oltrepassarono la torre del forno, oltrepassarono il vecchio pozzo e il nuovo, entrando nella lunga valle dove Lontra aveva condotto Licky il primo giorno. Era autunno inoltrato, adesso. Gli arbusti e l'erba non erano più verdi, ma di un grigio spento, e secchi, e il vento scuoteva le ultime foglie dei cespugli. Alla loro sinistra, un ruscello scorreva tra boschetti di salici. Un sole tiepido e lunghe ombre striavano le colline. Lontra sapeva che stava arrivando un momento in cui avrebbe potuto liberarsi da Gelluk: di questo era certo dalla notte scorsa. Sapeva pure che in quello stesso momento avrebbe potuto sconfiggerlo, privarlo del potere, se
il mago, preso dalle proprie visioni, si fosse dimenticato di proteggersi... e se Lontra fosse riuscito ad apprendere il suo nome. Gli incantesimi del mago legavano ancora le loro menti. Lontra si spinse avventato nella mente di Gelluk, cercando il suo vero nome. Ma non sapeva dove cercare, né in che modo. Trovatore che non conosceva il proprio mestiere, nei pensieri del mago riuscì a vedere con chiarezza soltanto pagine di un libro di scienza pieno di parole senza senso, e la visione che aveva descritto: un grande palazzo dai muri rossi, dove rune argentee danzavano sui pilastri cremisi. Ma Lontra non era in grado di leggere né il libro né le rune. Non aveva mai imparato a leggere. Intanto i due continuavano ad allontanarsi dalla torre, ad allontanarsi da Anieb, la cui presenza a volte si indeboliva e svaniva. Lontra non osava chiamarla. Solo pochi passi davanti a loro, adesso, c'era il luogo dove nel sottosuolo, a due o tre piedi di profondità, dell'acqua scura scorreva lenta e filtrava attraverso il terreno morbido sopra la cornice di mica. Sotto quello strato si apriva la caverna con la vena di cinabro. Gelluk era assorbito quasi del tutto dalla propria visione ma, dato che la mente di Lontra e la sua erano collegate, vide in parte ciò che il ragazzo vedeva. Si fermò, afferrando il braccio del giovane. La mano gli tremava smaniosa. Lontra indicò il basso pendio che s'innalzava davanti a loro. — La casa del re è là — disse. Allora l'attenzione di Gelluk lo abbandonò del tutto, fissandosi sul fianco della collina e sulla visione che il mago scorgeva all'interno. E Lontra poté chiamare Anieb. La ragazza gli pervase subito la mente e l'essere, e rimase con lui. Gelluk era immobile, ma le sue mani tremanti erano serrate, il suo corpo alto fremeva da capo a piedi, come un segugio che volesse cacciare ma non riuscisse a trovare le peste. Era perplesso. Il fianco del colle si stagliava con la sua erba e i suoi cespugli sotto gli ultimi raggi di sole, ma non c'era nessuna entrata. Solo erba che cresceva nel suolo ghiaioso, terreno compatto senza alcuna fenditura. Anche se Lontra non aveva pensato le parole, Anieb parlò con la sua voce, la stessa voce monotona e debole. — Solo il padrone può aprire la porta. Solo il re ha la chiave. — La chiave — disse Gelluk. Lontra era immobile, in disparte, insignificante come Anieb nella camera della torre.
— La chiave — ripeté Gelluk, insistente. — La chiave è il nome del re. Quello era un salto nel buio. Chi di loro lo aveva detto? Teso e tremante, il mago era ancora perplesso. — Turres — disse poco dopo, quasi in un sussurro. Il vento soffiò tra l'erba secca. L'uomo tutt'a un tratto balzò in avanti, gli occhi accesi, e gridò: — Apriti al nome del re! Io sono Tinaral! — E le sue mani si mossero in un gesto rapido e possente, come se aprissero pesanti tende. Il fianco della collina di fronte a lui tremò, si torse, e si aprì. Si formò in esso uno squarcio, che s'approfondì e si allargò. Dallo squarcio sgorgò dell'acqua, che lambì i piedi del mago. Gelluk arretrò, lo sguardo fisso, e con un gesto rabbioso della mano spazzò via il ruscello, che si dissolse in tanti spruzzi, come una fontana colpita da folate di vento. Lo squarcio nel terreno diventò più profondo, rivelando la cornice di mica. Con uno schianto secco, la pietra luccicante si spaccò. Sotto, c'era l'oscurità. Il mago avanzò. — Vengo — disse, la voce tenera e gioiosa, e si accostò impavido alla ferita che solcava il terreno, le mani e la testa circondate da un alone di luce bianca. Ma non vedendo né una china né una scala che scendesse nel sottosuolo, giunto sul bordo della volta spezzata della caverna esitò, e in quell'istante Anieb urlò con la voce di Lontra: — Tinaral, cadi! Barcollando violentemente, il mago tentò di girarsi, mise un piede in fallo sul bordo friabile, e precipitò nell'oscurità, il mantello scarlatto rigonfio, la luce fatua attorno a lui simile a una stella cadente. — Chiuditi! — gridò Lontra, cadendo in ginocchio, le mani sul terreno, sui margini frastagliati del crepaccio. — Chiuditi, madre! Risanati, saldati! — Supplicò, implorò, pronunciando nella Lingua della creazione parole che non conosceva un attimo prima di nominarle. — Madre, saldati! — disse, e il terreno spaccato scricchiolò e si mosse, unendosi, serrandosi. Rimase un segno rossastro, una cicatrice attraverso la polvere e la ghiaia e l'erba sradicata. Il vento agitò le foglie secche degli arbusti di quercia nana. Il sole era dietro la collina, e delle nubi stavano avvicinandosi in una bassa massa grigia. Lontra si accovacciò ai piedi del pendio, solo. Le nubi si oscurarono. La pioggia attraversò la piccola valle, cadendo sul
terreno e sull'erba. Sopra le nuvole, il sole stava scendendo la scala di ponente della lucente casa del cielo. Infine Lontra si drizzò a sedere. Era bagnato, aveva freddo, era confuso. Perché era lì? Aveva perso qualcosa e doveva trovarlo. Non sapeva cosa avesse perso, ma si trovava nella torre infuocata, nel luogo dove una scala di pietra saliva tra fumo ed esalazioni. Doveva andare là. Si alzò in piedi e trascinandosi, zoppicante e malfermo, ripercorse nella direzione opposta la valle. Non pensò affatto di nascondersi o proteggersi. Fortunatamente, non c'erano guardie nei paraggi; le sentinelle erano poche, e non stavano all'erta, dato che gli incantesimi del mago avevano sempre tenuto chiusa la prigione. Adesso erano scomparsi, ma le persone nella torre non lo sapevano, continuavano a lavorare schiacciate dall'incantesimo più potente chiamato disperazione. Lontra oltrepassò la camera a cupola del forno di arrostimento e gli schiavi indaffarati, e salì lentamente la scala a chiocciola, buia e fetida, fino alla stanza sulla sommità della torre. Lei era là, la donna ammalata capace di guarirlo, la povera donna custode del tesoro, l'estranea che era lui stesso. Il ragazzo si fermò silenzioso sulla soglia. Lei era seduta sul pavimento di pietra accanto al crogiolo, il corpo scarno grigiastro e scuro come le pietre. Mento e seni luccicavano per la saliva che le colava dalla bocca. Lontra pensò alla sorgente d'acqua sgorgata dal terreno spaccato. — Medra — disse lei. La bocca piagata le impediva di parlare con chiarezza. Il giovane si inginocchiò e le prese le mani, guardandola in volto. — Anieb — sussurrò — vieni con me. — Voglio andare a casa — disse lei. Lui la aiutò ad alzarsi. Non fece alcun incantesimo che li proteggesse o li nascondesse. Aveva esaurito la forza. E sebbene in lei ci fosse una grande magia, che l'aveva portata da lui durante tutto lo strano viaggio nella valle e aveva ingannato il mago inducendolo a rivelare il proprio nome, Anieb non conosceva né arti né incantesimi, e non le rimaneva più una stilla di energia. Eppure nessuno badò a loro, come se fossero davvero avvolti da un incantesimo protettivo. Scesero la scala a chiocciola, uscirono dalla torre, superarono gli alloggiamenti, si allontanarono dalle miniere. Attraversarono tratti di bosco rado, dirigendosi verso le colline pedemontane che
separavano il monte Onn dalle pianure di Samory. Anieb tenne un'andatura più spedita di quanto sembrasse possibile per una donna così affamata e distrutta, camminando quasi nuda nel gelo della pioggia. Tutta la sua volontà era volta al proseguimento del cammino; non aveva nient'altro in mente, né il giovane né nulla. Però era lì con lui in carne e ossa, e Lontra avvertiva la sua presenza in modo acuto e strano come quando era venuta rispondendo alla sua chiamata. La pioggia le scorreva sul capo e sul corpo nudo. Lontra la fece fermare per metterle addosso la propria camicia. Si vergognava, perché la camicia era sporca, dato che l'aveva indossata per tutte quelle settimane. Lei lasciò che gliela infilasse dalla testa, e riprese subito il cammino. Non poteva procedere velocemente, però avanzava con passo costante, gli occhi fissi sul vago sentiero carraio che stavano seguendo, finché la notte non calò presto sotto le nubi gravide di pioggia, e non fu più possibile vedere dove mettevano i piedi. — Crea la luce — disse Anieb. La sua voce era un piagnucolio malinconico. — Non puoi creare la luce? — Non lo so — rispose lui, e provò ad accendere la luce fatua attorno a loro, e poco dopo il terreno luccicò debolmente davanti ai loro piedi. — Dovremmo trovare riparo e riposare — disse Lontra. — Non posso fermarmi — disse lei, riprendendo il cammino. — Non puoi camminare tutta la notte. — Se mi stendo, non mi rialzerò. Voglio vedere la Montagna. La voce fievole di Anieb era sovrastata dalle voci molteplici della pioggia che si riversava sulle colline e tra gli alberi. Avanzarono nell'oscurità, vedendo solo il sentiero dinanzi a loro nel fioco chiarore argenteo della luce fatua solcata da linee veloci di pioggia. Quando lei incespicò, il giovane le strinse il braccio. Dopo di che proseguirono affiancati, i corpi che si toccavano, per confortarsi e scaldarsi un poco. Camminavano lentamente, sempre più piano, ma continuarono ad avanzare. Non si udiva alcun rumore, tranne quello della pioggia che cadeva dal cielo nero, e il lieve sciaguattio dei loro piedi fradici nel fango e nell'erba bagnata del sentiero. — Guarda — disse lei, fermandosi. — Medra, guarda. Lui stava procedendo semiaddormentato. Il pallore della luce fatua era svanito, sommerso da un chiarore più vasto e diffuso. Cielo e terra erano un'unica distesa grigia, ma davanti a loro, in alto, molto in alto, sopra un cumulo di nubi, la lunga cresta della montagna scintillava rossa.
— Là — disse Anieb. Indicò la montagna e sorrise. Guardò il compagno, poi abbassò lentamente lo sguardo sul terreno. Si lasciò cadere in ginocchio. Lontra le si inginocchiò accanto, cercò di sorreggerla, ma lei gli scivolò tra le braccia. Lui cercò almeno di tenerle sollevato il capo dal fango del sentiero. Le membra e la faccia di Anieb si contrassero; batté i denti. Lontra la strinse a sé, cercando di scaldarla. — Le donne — sussurrò lei. — La mano. Chiedi a loro. Nel villaggio. Ho proprio visto la Montagna. Provò a drizzarsi a sedere, alzando lo sguardo, ma i tremiti e i brividi l'assalirono e la squassarono. Cominciò a boccheggiare. Nella luce rossa che adesso brillava dalla cresta del monte e dal cielo a levante, Lontra vide la schiuma e la saliva scarlatta che le colava dalla bocca. Anieb gli si aggrappò qualche volta, ma non parlò più. Lottò contro la morte, si sforzò di respirare, mentre la luce rossastra svaniva e si spegneva inghiottita dal grigio, quando le nuvole coprirono nuovamente la montagna e nascosero il sole nascente. Era pieno giorno e pioveva quando l'ultimo faticoso respiro di Anieb non fu seguito da nessun altro. L'uomo il cui nome vero era Medra rimase seduto nel fango con la donna morta tra le braccia, e pianse. Un carrettiere che precedeva a piedi un mulo che trainava un carico di legna di quercia s'imbatté in loro e li portò a Bordobosco. Non riuscì a persuadere il giovane a staccarsi dalla morta. Per quanto debole e vacillante, il giovane non volle posare il proprio fardello sopra il carico, e salì sul carro stringendo la salma, reggendola per tutte le miglia del tragitto fino a Bordobosco. Tutto quel che disse fu: — Lei mi ha salvato — e il carrettiere non fece domande. — Lei mi ha salvato ma io non ho potuto salvarla — disse rabbioso il giovane agli uomini e alle donne del villaggio montano. Si rifiutava ancora di separarsi da lei, stringendo quel corpo bagnato e rigido come se volesse difenderlo. Molto lentamente, gli fecero capire che una delle donne era la madre di Anieb, e che avrebbe dovuto consegnarla a lei perché l'abbracciasse. Lui infine acconsentì, assicurandosi che la donna trattasse con dolcezza la salma dell'amica e la proteggesse. Poi seguì docilmente un'altra donna. Indossò gli indumenti asciutti che questa gli diede, mangiò un po' di cibo che gli offrì, si coricò sul pagliericcio a cui lei lo condusse, e singhiozzò stremato, alla fine dormì. Un paio di giorni dopo, alcuni uomini di Licky vennero a chiedere se
qualcuno avesse notizia del grande mago Gelluk e di un giovane trovatore, o li avesse visti; erano entrambi scomparsi senza lasciare traccia, spiegarono gli uomini, come se la terra li avesse inghiottiti. Nessuno a Bordobosco disse una parola del forestiero nascosto nel solaio dove Mead teneva le mele. Lo protessero. Forse è per questo che adesso la gente del posto chiama il villaggio non più Bordobosco come un tempo, ma Tanadilontra. Aveva sostenuto una prova lunga e ardua, e aveva corso un grande rischio contro un grande potere. La sua forza fisica tornò presto, perché era giovane, però la sua mente fu lenta a riprendersi. Aveva perso qualcosa, l'aveva perso per sempre, l'aveva perduto proprio quando l'aveva trovato. Cercò tra i ricordi, tra le ombre, brancolando senza sosta in una miriade di immagini: l'irruzione a casa sua a Havnor; la cella di pietra e Segugio; la cella di mattoni negli alloggiamenti e i vincoli magici; le camminate con Licky; Gelluk seduto accanto a lui; gli schiavi, il fuoco, la scala a chiocciola di pietra che saliva tra fumo ed esalazioni fino alla camera superiore della torre. Doveva recuperare tutto, esaminare tutto, cercando. Più volte si ritrovò in quella stanza nella torre e guardò la donna, e lei lo riguardò. Più volte attraversò la piccola valle, camminò sull'erba secca, contemplò le visioni ardenti del mago, con lei. Più volte vide il mago che cadeva, vide la terra che si chiudeva. Vide la cresta rossa della montagna all'alba. Anieb moriva mentre lui la stringeva, il volto devastato appoggiato al suo braccio. Lui le chiedeva chi lei fosse, e cosa avessero fatto insieme, e in che modo l'avessero fatto, ma Anieb non poteva rispondergli. Sua madre Ayo e la sorella di sua madre, Mead, erano donne sagge, donne dell'arte. Guarirono Lontra come meglio potevano, con olii caldi e massaggi, erbe e canti. Gli parlarono e lo ascoltarono. Nessuna delle due aveva il minimo dubbio sul fatto che il ragazzo fosse dotato di grande potere. Lui negò. — Non avrei potuto fare nulla senza tua figlia — disse. — Cos'ha fatto, lei? — chiese sommessa Ayo. Lontra provò a raccontarglielo. — Eravamo estranei. Eppure lei mi ha rivelato il suo nome — disse. — E io le ho rivelato il mio. — Parlava esitante, con lunghe pause. — Ero io a camminare con il mago, costretto da lui, ma lei era con me, ed era libera. E così insieme abbiamo potuto volgere il potere del mago contro di lui, perché distruggesse se stesso. — Rifletté a lungo, e soggiunse: — Lei mi ha dato il suo potere. — Sapevamo che in lei c'era un grande potere — annuì Ayo, poi per un po' tacque. — Non sapevamo come insegnarle. Non ci sono più maestri
sulla montagna. I maghi di re Losen distruggono gli stregoni e le streghe. Non c'è nessuno a cui rivolgersi. — Una volta mi trovavo sui pendii più alti della montagna — disse Mead — e una bufera di neve primaverile mi ha sorpresa, e ho smarrito la strada. Lei è venuta lassù. È venuta da me, non in persona, e mi ha guidata al sentiero. Aveva appena dodici anni, allora. — Camminava con i morti, a volte — disse sottovoce Ayo. — Nella foresta, giù verso il Faliern. Conosceva i Vecchi Poteri, quelli di cui mi parlava mia nonna, i poteri della terra. Erano forti là, diceva lei. — Ma era anche soltanto una ragazza come le altre — disse Mead, e nascose il viso. — Una brava ragazza — mormorò. Dopo un poco, Ayo disse: — È scesa a Firn con alcuni giovani. Per comprare lana dai pastori del posto. È stato un anno la scorsa primavera. Quel mago di cui parlavano è andato là, facendo malefici. A caccia di schiavi. A quel punto, tacquero tutti. Ayo e Mead si somigliavano molto, e Lontra vedeva in loro come Anieb avrebbe potuto essere: una donna bassa, esile, svelta, con una faccia tonda e occhi luminosi, e una massa di capelli scuri, non lisci come i capelli della maggior parte della gente, ma ricci e crespi. Molte persone nella parte occidentale di Havnor avevano capelli del genere. Anieb però era calva, come tutti gli schiavi della torre del forno di arrostimento. Il suo nome d'uso comune era Giaggiolo, l'iris azzurro della primavera. Sua madre e sua zia la chiamavano Giaggiolo quando parlavano di lei. — Qualunque cosa io sia, qualunque cosa possa fare, non è abbastanza — disse Lontra. — Non è mai abbastanza — disse Mead. — E cosa può fare una persona da sola? Alzò l'indice; poi drizzò le altre dita, e le strinse formando un pugno; quindi, lentamente, girò il polso e aprì la mano mostrando il palmo, come se offrisse qualcosa. Lontra aveva visto compiere quel gesto da Anieb. Non era un incantesimo, pensò, osservando attentamente, ma un segno. Ayo lo stava guardando. — È un segreto — gli disse. — Posso conoscere il segreto? — chiese lui dopo qualche attimo. — Lo conosci già. È qualcosa che tu hai concesso a Giaggiolo, e che lei ha concesso a te. La fiducia.
— La fiducia — ripeté il giovane. — Sì. Ma contro... contro di loro...? Gelluk è morto. Forse Losen cadrà, adesso. Cambierà qualcosa? Gli schiavi saranno liberi? I mendicanti mangeranno? Sarà fatta giustizia? Penso che ci sia del male in noi, nel genere umano. La fiducia lo respinge. Lo supera con un balzo. Supera il baratro. Ma il male esiste. E tutto ciò che facciamo alla fine serve il male, perché noi siamo malvagi. Avidi e crudeli. Guardo il mondo, le foreste e questa montagna, il cielo, ed è tutto giusto, come dovrebbe essere. Ma noi no. La gente no. Noi sbagliamo. Agiamo male. Gli animali non agiscono male. Come potrebbero? Ma noi possiamo, e lo facciamo. E non smettiamo mai. Lo ascoltarono, senza convenire, senza negare, ma accettando la sua disperazione. Le sue parole echeggiarono nel loro silenzio sollecito, e vi rimasero diversi giorni, e tornarono a lui mutate. — Ognuno di noi non può fare nulla senza gli altri — dichiarò Lontra. — Ma sono gli avidi, i crudeli, a restare uniti e a rafforzarsi a vicenda. E chi non vuole unirsi a loro è solo. — L'immagine di Anieb come l'aveva vista la prima volta, una moribonda tutta sola nella stanza della torre, era sempre con lui. — Il vero potere va sprecato. Ogni mago usa le sue arti contro gli altri, servendo gli avidi. A cosa può giovare qualsiasi arte, usata in questo modo? È sprecata. Si guasta, o viene buttata via. Come la vita degli schiavi. Nessuno può essere libero da solo. Nemmeno un magio. Operano tutti la loro magia in celle di prigione, per non ottenere nulla. Non c'è modo di usare bene il potere. Ayo serrò la mano e la aprì con il palmo all'insù, l'abbozzo fugace di un gesto, di un segno. Un uomo salì la montagna fino a Bordobosco, un carbonaio di Firn. — Mia moglie Nesty manda un messaggio alle sagge — disse, e gli abitanti del villaggio gli indicarono la casa di Ayo. Fermandosi sulla soglia, il carbonaio fece un gesto frettoloso, un pugno che si apriva e mostrava il palmo. — Nesty mi ha incaricato di dirvi che i corvi volano presto e che il segugio sta dando la caccia alla lontra — riferì. Lontra, seduto accanto al fuoco sgusciando noci, rimase immobile. Mead ringraziò il messaggero e lo fece entrare, offrendogli una tazza d'acqua e una manciata di noci sgusciate. Lei e Ayo chiacchierarono con lui della moglie. Quando il carbonaio si fu allontanato, Mead guardò il ragazzo. — Il Segugio è al servizio di Losen — disse lui. — Partirò oggi. Mead si girò verso la sorella. — Allora è giunto il momento di parlare un po' con te — disse, sedendosi di fronte a Lontra sul lato opposto del
fuoco. Ayo restò in piedi vicino al tavolo, silenziosa. Nel focolare ardeva una fiamma vivace. Era una stagione fredda e piovosa, e la legna da ardere era abbondante, lì sulla montagna. — Da queste parti, e forse anche oltre, c'è gente che pensa, come hai detto tu, che nessuno possa essere saggio da solo. Così queste persone cercano di aiutarsi, di sostenersi a vicenda. Ed è per questo che ci chiamano la Mano, o le donne della Mano, anche se non siamo soltanto donne. Però è vantaggioso che ci considerino donne, perché i potenti non si aspettano che le donne lavorino insieme, o pensino a cose come il governo e il malgoverno, o abbiano qualche potere. — Dicono — intervenne Ayo, stando in disparte nell'ombra — che ci sia un'isola dove la regola della giustizia è osservata come all'epoca dei re. L'isola di Morred, la chiamano. Ma non è Enlad dei re, e neppure Ea. È a sud, non a nord di Havnor, dicono. Là, a quanto si dice, le donne della Mano hanno custodito le vecchie arti. E le insegnano, non le tengono per sé, come fanno invece i maghi. — Forse con un insegnamento del genere tu potresti dare una lezione ai maghi — disse Mead. — Forse riuscirai a trovare quell'isola — disse Ayo. Lontra guardò le due donne. Era chiaro che gli avevano rivelato il loro più grande segreto, la loro più profonda speranza. — L'isola di Morred — disse. — Questo è solo il nome con cui la indicano le donne della Mano, perché maghi e pirati non scoprano nulla. Loro senza dubbio la conoscono con un nome diverso. — Sarà un viaggio terribilmente lungo — disse Mead. Per le sorelle e per tutti gli abitanti del villaggio, il monte Onn rappresentava il mondo, e le coste di Havnor erano il margine dell'universo. Oltre quel margine, c'erano solo dicerie e sogni. — Si arriva al mare, andando a sud, dicono — fece Ayo. — Lo sa, sorella — le rammentò Mead. — Ci ha raccontato che era un carpentiere navale, no? Comunque, la strada per arrivare al mare è sicuramente lunghissima. Con questo mago sulle tue tracce, come farai ad andare là? — Grazie all'acqua, che non reca alcuna traccia — rispose Lontra, alzandosi. Una pioggia di gusci di noce gli cadde dal grembo, e lui prese la ramazza e li scopò tra le ceneri del focolare. — È meglio che vada. — C'è del cibo — disse Ayo, e Mead si affrettò a riporre pane e formag-
gio e noci in una sacca ricavata da uno stomaco di pecora. Era gente molto povera. Gli offrirono ciò che avevano. Come aveva fatto Anieb. — Mia madre è nata a Endlane, oltre la foresta di Faliern — disse Lontra. — Conoscete quella cittadina? Mia madre si chiama Rosa, è la figlia di Sorbo... — I carrettieri scendono a Endlane, d'estate. — Se qualcuno potesse parlare con i suoi familiari, loro le invierebbero un messaggio. Suo fratello veniva a trovarci in città ogni anno. Ayo e Mead annuirono. — Vorrei che mia madre sapesse che sono vivo — disse Lontra. La madre di Anieb annuì. — Lo saprà. — Adesso vai — lo esortò Mead. — Vai con l'acqua — disse Ayo. Lontra le abbracciò, e loro lo abbracciarono, poi il giovane lasciò la casa. Si allontanò di corsa dalle casupole sparpagliate e raggiunse il torrente rapido e rumoroso che aveva sentito gorgogliare nel sonno durante tutte le notti trascorse a Bordobosco. Rivolse al torrente una preghiera. — Portami e salvami — gli chiese. Fece l'incantesimo insegnatogli tempo addietro dal vecchio Cambiatore, e pronunciò la parola di trasformazione. D'un tratto, non c'era più un uomo inginocchiato vicino all'acqua impetuosa, bensì una lontra, che s'infilò nel torrente e scomparve. 3. Sterna Viveva un saggio sul nostro colle Che trovò il modo di far ciò che volle. Mutò la forma, e anche nome mutò, Ma quanto al resto nulla cambiò. E scorre l'acqua, scorre e va via E scorre l'acqua e va via. Un pomeriggio d'inverno sulla sponda dell'Onneva, nel punto dove il fiume sfocia nell'insenatura settentrionale della Grande baia di Havnor, un uomo si drizzò sulla sabbia fangosa: un uomo vestito e calzato poveramente, un uomo bruno e magro, con occhi scuri e capelli così fini e folti da non lasciar passare la pioggia. Pioveva sulle spiagge basse della foce del fiume, l'acquerugiola fredda e lugubre di quell'inverno grigio. L'uomo ave-
va gli abiti fradici. Curvò le spalle, si girò, e s'incamminò verso il pennacchio di fumo di un camino che scorse in lontananza lungo la riva. Dietro di lui c'erano le impronte delle quattro zampe di una lontra che uscivano dall'acqua, e le orme dei piedi di un uomo che si allontanavano dal fiume. Le canzoni non dicono dove quell'uomo andò a quel punto. Dicono solo che vagò, che vagò a lungo di terra in terra. Se si fosse spinto lungo la costa della Grande isola, in molti di quei villaggi avrebbe potuto trovare una levatrice o una saggia o uno stregone che, conoscendo il segno della Mano, avrebbe potuto aiutarlo; ma con il Segugio sulle sue tracce, molto probabilmente lasciò Havnor al più presto, imbarcandosi come membro dell'equipaggio su un peschereccio degli stretti di Ebavnor o su un mercantile del mare Interno. Sull'isola di Ark, e a Orrimy su Hosk, e giù tra le Novanta isole, si narra di un uomo giunto in cerca di una terra dove la gente ricordava la giustizia dei re e l'onore dei maghi, una terra che lui chiamava l'isola di Morred. Non si sa se quelle storie riguardino Medra, dal momento che Medra cambiò spesso il proprio nome, non usando praticamente più quello di Lontra. La caduta di Gelluk non aveva causato la caduta di Losen. Il re pirata aveva al suo servizio altri maghi, tra i quali un uomo di nome Early, cui sarebbe piaciuto trovare il pivellino che aveva sconfitto il suo maestro Gelluk. Ed Early aveva buone probabilità di rintracciarlo. Il potere di Losen si estendeva su tutta Havnor e tutta la parte settentrionale del mare Interno, crescendo di anno in anno; e il fiuto del Segugio era sempre acuto. Forse fu per sottrarsi alla caccia che Medra giunse a Pendor, molto a ovest del mare Interno, o forse a condurlo là fu qualche diceria che circolava tra le donne della Mano di Hosk. Pendor era un'isola ricca, allora, prima che il drago Yevaud la depredasse. Fino a quel momento, dovunque fosse andato, Medra aveva trovato terre ridotte come Havnor o peggio, in preda alla guerra, alle scorrerie, alla pirateria, i campi pieni di erbacce, le città piene di ladri. Forse, all'inizio, pensò di avere trovato a Pendor l'isola di Morred, perché la città era bella e pacifica, e la gente prospera. Là conobbe un magio, un vecchio chiamato Dragone, il cui vero nome era andato perduto. Quando sentì la storia dell'isola di Morred, Dragone sorrise e assunse un'espressione triste e scosse il capo. — Non è qui — disse. — Non è questa. I signori di Pendor sono bravi uomini. Ricordano i re. Non cercano guerra né bottino. Però mandano i loro figli a ovest a caccia di draghi. Come svago. Quasi i draghi della Distesa ovest fossero anatre o oche da uccidere! Non porterà nulla di buono, questo.
Dragone accolse Medra come allievo, più che volentieri. — La mia arte mi è stata insegnata da un magio che mi ha offerto tutto il suo sapere spontaneamente, ma io non ho mai trovato nessuno a cui passare quella conoscenza, finché non sei arrivato tu — disse a Medra. — I giovani vengono da me e mi chiedono: "A che serve? Si può trovare l'oro? Puoi insegnarmi a trasformare le pietre in diamanti? Puoi darmi una spada capace di uccidere un drago? A che serve parlare dell'equilibrio delle cose? Non se ne ricava alcun profitto". Ecco cosa mi dicono. Parlano di profitto! — E il vecchio inveì contro la follia dei giovani e i mali dei tempi moderni. Quando si trattava di insegnare ciò che sapeva, era instancabile, generoso ed esigente. Per la prima volta, a Medra la magia fu presentata non come una serie di strane doti e atti irrazionali, ma come un'arte e un mestiere, che si poteva apprendere veramente con un lungo studio e usare giustamente dopo una lunga pratica, anche se conservava sempre il suo carattere particolare. In fatto di incantesimi e sortilegi, la maestria di Dragone non era molto superiore a quella dell'allievo, ma il vecchio aveva chiara nella mente l'idea di qualcosa di molto più grande, l'interezza della conoscenza. E questo faceva di lui un magio. Ascoltandolo, Medra pensò a come lui e Anieb avessero camminato nell'oscurità e nella pioggia con quel fioco luccichio che mostrava loro solo il passo successivo che potevano compiere, e a come avessero alzato lo sguardo verso la cresta rossa della montagna all'alba. — Ogni incantesimo dipende da ogni altro incantesimo — spiegò Dragone. — Ogni movimento di una singola foglia muove ogni foglia di ogni albero di ogni isola di Earthsea! C'è un intero. Ecco cosa devi cercare e considerare. Una cosa funziona solo come parte dell'intero. Soltanto in questo risiede la libertà. Medra rimase con Dragone tre anni, e quando il vecchio magio morì, il signore di Pendor chiese a Medra di prendere il suo posto. Nonostante le invettive contro i cacciatori di draghi, Dragone era riverito sulla sua isola, e il suo successore avrebbe avuto onori e potere. Tentato forse di credere di essersi avvicinato per quanto possibile all'isola di Morred, Medra rimase ancora per qualche tempo a Pendor. Salpò con il giovane signore a bordo della sua nave, superando le Toringates e spingendosi nella Distesa ovest, in cerca di draghi. Desiderava ardentemente vedere un drago. Ma delle tempeste inopportune, il tempo malvagio di quegli anni, ricacciarono tre volte la loro nave fino a Inlat, e Medra si rifiutò di navigare nuovamente verso ovest con simili burrasche. Aveva imparato parecchio come manipo-
latempo dai giorni in cui veleggiava nella baia di Havnor su una tozza barca con l'albero a prua. Poco dopo quel viaggio, lasciò Pendor, scendendo ancora a sud, e forse andò a Ensmer. In un modo o nell'altro, giunse infine a Geath, nelle Novanta isole. Là, cacciavano balene, come fanno ancora. Era un'attività con cui non voleva aver nulla a che fare. Le loro navi puzzavano e puzzava la loro città. Non gli piaceva imbarcarsi su una nave che sfruttava il sudore degli schiavi, ma l'unica imbarcazione in partenza da Geath diretta a est era una galea che doveva trasportare un carico di olio di balena a Porto d'O. Medra aveva sentito parlare del mare Chiuso, a sud-est di O, dove si trovavano isole ricche, poco conosciute, che non avevano alcun rapporto con le terre del mare Interno. Forse quello che cercava era là. Così s'imbarcò come manipolatempo sulla galea, che era spinta dai remi di quaranta schiavi. Il tempo una volta tanto era bello: vento in poppa, un cielo azzurro trapunto di nuvolette candide, il sole tiepido della tarda primavera. Percorsero un lungo tratto di mare da Geath. Nel tardo pomeriggio, Medra sentì che il capitano diceva al timoniere: — Tienila a sud questa notte, così non avvisteremo Roke. Il nome di quell'isola gli era nuovo, e Medra chiese: — Cosa c'è là? — Morte e desolazione — rispose il capitano, un uomo basso con occhietti tristi e furbi che sembravano quelli di una balena. — Guerra? — Anni fa. Calamità, magia nera. Le acque attorno all'isola sono maledette. — Vermi — disse il timoniere, il fratello del capitano. — Se peschi dei pesci da qualunque parte vicino a Roke, li trovi pieni di vermi come un cane morto su un letamaio. — Vive ancora della gente, là? — domandò Medra, e il capitano rispose: — Streghe — mentre suo fratello disse: — Mangiavermi. Esistevano molte isole simili nell'Arcipelago, rese sterili e desolate dai malefici lanciati da maghi rivali; erano luoghi nefasti che conveniva evitare, e Medra non pensò più a Roke, fino a quella notte. Dormendo in coperta con la luce delle stelle sul volto, fece un sogno semplice e vivido: era giorno, delle nuvole solcavano veloci un cielo splendente, e in lontananza, oltre la distesa marina, Medra vide la curva soleggiata di un'alta collina verdeggiante. Si svegliò con quella immagine ancora chiara nella mente, rendendosi conto di averla vista dieci anni pri-
ma, nella cella stregata delle miniere di Samory. Si drizzò a sedere. Il mare scuro era così calmo che le stelle si riflettevano qui e là sul lato liscio sottovento delle lunghe onde. Le galee a remi di solito non si allontanavano molto dalla terraferma, e solitamente non viaggiavano di notte, mettendosi alla cappa in una baia o in un porto; ma non c'erano attracchi in quella traversata, e dato che il tempo era così propizio avevano alzato l'albero e una grande vela quadra. La nave avanzava silenziosa; gli schiavi ai remi dormivano sui loro banchi, gli uomini liberi dell'equipaggio erano tutti addormentati tranne il timoniere e la vedetta, che sonnecchiava. L'acqua lambiva sciabordando le fiancate, il fasciame scricchiolava un po', la catena di uno schiavo sferragliò, sferragliò ancora. "Non hanno bisogno di un manipolatempo in una notte come questa, e non mi hanno ancora pagato" disse Medra alla propria coscienza. Si era svegliato dal sogno con il nome di Roke in mente. Perché non aveva mai sentito parlare di quell'isola, né l'aveva vista su qualche carta nautica? Poteva darsi che fosse davvero maledetta e disabitata come dicevano, ma perché non era segnata sulle carte? "Potrei volare là come una sterna e tornare alla nave prima dell'alba" si disse, ma poco convinto. Era diretto a Porto d'O. Le terre devastate erano fin troppo comuni. Non era il caso di spiccare il volo per andarle a cercare. Si mise comodo sul suo rotolo di corda e osservò le stelle. Guardando a ovest, vide le quattro stelle splendenti della Forgia, basse sul mare. Erano un po' velate, e mentre le osservava scomparvero, una a una. Un lievissimo fremito percorse le onde lunghe e lente. — Capitano — disse Medra, in piedi — svegliati. — Che succede? — Sta arrivando un vento stregato. In poppa. Ammaina la vela. Non c'era un alito di vento. L'aria era dolce, la grande vela pendeva lasca. Solo le stelle a occidente si offuscarono e svanirono in una tenebra silenziosa che crebbe lentamente. Il capitano guardò in quella direzione. — Un vento stregato, dici? — chiese, riluttante. Gli uomini dell'arte usavano il tempo come arma, mandando la grandine a devastare i raccolti di un nemico o una burrasca ad affondare le sue navi; e tali tempeste, strane e imprevedibili, potevano continuare a imperversare ben oltre il luogo dov'erano state inviate, affliggendo mietitori o marinai a cento miglia di distanza. — Ammaina la randa — ripeté Medra, perentorio. Il capitano sbadigliò e imprecò e cominciò a impartire ordini, gridando. Gli uomini dell'equipag-
gio si alzarono lentamente, e lentamente cominciarono a far scendere la vela ingombrante, e il sorvegliante dei rematori, dopo avere rivolto parecchie domande al capitano e a Medra, cominciò a sbraitare rivolto agli schiavi e a camminare in mezzo a loro destandoli a destra e a sinistra, facendo schioccare lo staffile. La vela era ammainata a metà, la metà degli schiavi aveva afferrato i remi, l'incantesimo di placazione di Medra era stato pronunciato a metà, quando il vento stregato colpì. Colpì con un immane rombo di tuono che squassò l'oscurità improvvisa e assoluta accompagnata da una pioggia sferzante. La nave beccheggiò come un cavallo che s'impennasse, poi rollò con tale violenza che l'albero si staccò dal suo basamento, anche se gli stralli tennero. La vela colpì l'acqua, si riempì, e trascinò con sé la galea, rovesciandola: i grandi remi scivolarono negli scalmi, gli schiavi incatenati si dibattevano e urlavano sui loro banchi, i barili d'olio rotolarono fragorosamente l'uno sull'altro. La galea rimase inclinata, con il ponte perpendicolare al mare, finché un'onda gigantesca non si abbatté sullo scafo, sommergendolo, mandandolo a picco. Il coro di grida degli uomini a bordo cessò all'improvviso. Si udiva solo lo scrosciare della pioggia sul mare, che andava attenuandosi mentre il vento anomalo si spostava, proseguendo verso est. Intanto, un uccello marino bianco si staccò dalle acque nere battendo le ali, e volò fragile e disperato a nord. Impresse su una striscia di sabbia sotto scogliere di granito, nel chiarore dell'alba, c'erano le impronte di un uccello che si posava. Da esse partivano le orme di un uomo che camminava, percorrendo un lungo tratto di spiaggia che si stringeva vieppiù tra le scogliere e il mare. Poi i segni terminavano. Medra sapeva che era pericoloso assumere ripetutamente una forma diversa dalla propria, ma era scosso e debole dopo il naufragio e il lungo volo notturno, e la spiaggia grigia lo aveva portato solo ai piedi di un dirupo a picco che lui non poteva scalare. Fece l'incantesimo e pronunciò la parola ancora una volta e, come sterna, muovendo rapido le ali affaticate, volò sulla sommità della scogliera. Lassù, preso dal volo, continuò a planare sopra una terra ancora indistinta all'aurora. Di fronte a sé, in lontananza, illuminata dai primi raggi di sole, vide la curva di un'alta collina verdeggiante. Volò là, e si posò sull'altura, e mentre toccava il terreno ridiventò uomo. Per alcuni istanti rimase sconcertato. Gli sembrava di essersi trasformato
indipendentemente dalla propria volontà, di essere diventato se stesso semplicemente toccando quel suolo, quel colle. Lì predominava una magia più grande della sua. Si guardò intorno, curioso e circospetto. Su tutta la collina, la scintillaria era in fiore, con i lunghi petali che sfolgoravano gialli tra l'erba. I bambini di Havnor conoscevano quel fiore. Lo chiamavano così dall'incendio di Ilien, quando il Signore del fuoco aveva attaccato le isole, ed Erreth-Akbe lo aveva combattuto e sconfitto. Storie e canti degli eroi affiorarono nella memoria di Medra: Erreth-Akbe e gli eroi prima di lui, la regina Aquila, Heru, Akambar che aveva ricacciato i Karg nelle terre d'oriente, e Serriadh il pacificatore, ed Elfarran di Solea, e Morred, l'Incantatore bianco, l'amato re. I prodi e i saggi gli apparvero come se fossero stati evocati, come se lui li avesse chiamati, anche se lui non Io aveva fatto. Li vide tutti. Si ergevano tra l'erba alta, tra i fiori a forma di fiamma che ondeggiavano al vento del mattino. Poi scomparvero tutti, e lui rimase solo sulla collina, scosso e perplesso. "Ho visto le regine e i re di Earthsea" pensò "e sono soltanto l'erba che cresce su questa collina." Si portò lentamente sul lato di levante della cima, già illuminato e riscaldato dai raggi del sole che si era alzato due dita sopra l'orizzonte. Guardando sotto il sole, vide i tetti di una cittadina all'estremità di una baia che si apriva rivolta a est, e oltre essa la distesa sconfinata del mare. Girandosi a ovest, vide campi e pascoli e strade. A nord c'erano lunghe colline verdi. Verso sud, in un avvallamento, un boschetto di alberi alti attirò il suo sguardo, che si soffermò sul bosco. Medra pensò che fosse l'inizio di una grande foresta come quella di Faliern, a Havnor, poi si chiese perché l'avesse pensato, dato che oltre il bosco si vedevano brughiere e pascoli senz'alberi. Rimase a lungo lassù, prima di scendere tra l'erba alta e la scintillaria. Ai piedi della collina imboccò un viottolo. Il sentiero attraversava terreni agricoli che sembravano ben tenuti, anche se molto solitari. Medra cercò una strada che portasse in città, ma non ce n'erano che andassero verso est. Non c'era anima viva nei campi, alcuni dei quali erano stati arati di recente. Nessun cane abbaiava al suo passaggio. Solo a un crocicchio un vecchio asino che brucava un prato sassoso si avvicinò alla staccionata e sporse la testa, desideroso di compagnia. Medra si fermò ad accarezzare il muso grigio e ossuto. Essendo un uomo di città e di mare, non sapeva molto di fattorie e di animali da soma, ma gli sembrò che l'asino lo guardasse be-
nevolmente. — Dove sono, asino? — gli chiese. — Come faccio a raggiungere la cittadina che ho visto? L'asino premette il muso contro la sua mano perché continuasse a grattargli il punto appena sopra gli occhi e sotto le orecchie. Quando Medra lo fece, l'asino mosse di scatto il lungo orecchio destro. Così quando si separò dall'animale, Medra andò a destra al crocicchio, anche se sembrava che quella strada tornasse verso la collina; poco dopo incontrò delle case, e poi imboccò una strada che finalmente lo condusse nella cittadina che aveva visto all'estremità della baia. Era stranamente serena, come la campagna. Non una voce, non una faccia. Era difficile sentirsi inquieto in una cittadina dall'aria leggera in una dolce mattina di primavera, ma con un silenzio simile Medra dovette chiedersi se si trovasse davvero in un luogo colpito da qualche calamità o in un'isola maledetta. Proseguì. Tra una casa e un vecchio susino c'era una corda per stendere il bucato, e gli indumenti appesi sventolavano nella brezza tiepida. Un gatto sbucò dall'angolo di un orto, non un animale abbandonato e denutrito, ma un gatto florido, con zampe bianche e lunghi baffi. E finalmente, scendendo la stradicciola ripida, che lì era acciottolata, Medra udì delle voci. Si fermò ad ascoltare, e non sentì nulla. Riprese il cammino, giungendo in fondo alla strada. Sboccava in una piccola piazza del mercato. C'erano delle persone, radunate là, non molte. Non stavano comprando né vendendo. Non c'erano bancarelle né chioschi. Quelle persone stavano aspettando lui. Da quando aveva camminato sulla collina verde sovrastante la città e aveva visto quegli spiriti splendenti tra l'erba, si era sentito sereno. Era ansioso, colmo di un senso di grande stranezza, ma non aveva paura. Rimase immobile e guardò le persone venute ad accoglierlo. Tre di loro si fecero avanti: un vecchio canuto, imponente, dall'ampio torace, e due donne. Un mago sapeva riconoscere un altro mago, e Medra capì che quelle erano donne di potere. Alzò la mano, serrando il pugno, quindi la girò e la aprì, mostrando il palmo. — Ah — fece la donna più alta, e rise. Ma non rispose al gesto. — Dicci chi sei — chiese l'uomo canuto, abbastanza cortese, ma senza salutarlo, senza dargli il benvenuto. — Dicci come sei giunto qui. — Sono nato a Havnor, e sono stato educato come carpentiere navale e stregone. Ero su una nave diretta da Geath a Porto d'O. Sono l'unico so-
pravvissuto al naufragio avvenuto la notte scorsa, quando la nave è stata colpita da un vento stregato. — Medra s'interruppe. Il pensiero della nave e degli uomini incatenati a bordo gli inghiottì la mente, come il mare nero aveva ingoiato le vittime. Boccheggiò, quasi avesse rischiato di affogare. — Come sei giunto qui? — Come... come uccello, una sterna. È l'isola di Roke, questa? — Hai mutato te stesso? Lui annuì. — Chi servi? — chiese la donna più bassa e più giovane, parlando per la prima volta. Aveva un viso duro e acuto, e lunghe sopracciglia nere. — Non ho nessun padrone. — Per quale motivo eri diretto a Porto d'O? — Ad Havnor, anni fa, ero in servitù. Chi mi ha liberato mi ha parlato di un luogo dove non esistono padroni, dove la regola di Serriadh è ricordata e le arti sono onorate. Cerco quel luogo, quell'isola, da sette anni. — Chi te ne ha parlato? — Donne della Mano. — Chiunque può serrare un pugno e mostrare un palmo — disse la donna alta, affabile. — Ma non tutti possono volare a Roke. O giungervi a nuoto, o navigando, o in qualsiasi altro modo. Quindi dobbiamo chiederti cosa ti ha portato qui. Medra non rispose subito. — Il caso — disse infine. — Il caso che ha esaudito un desiderio nutrito a lungo. Non l'arte. Né la conoscenza. Penso di avere trovato il luogo che cercavo, ma non lo so. Penso che possiate essere le persone di cui mi hanno parlato, ma non lo so. Penso che gli alberi che ho visto dalla collina racchiudano qualche grande mistero, ma non lo so. So solo che da quando ho messo piede su quell'altura provo quel che ho provato da bambino la prima volta che ho sentito cantare Le Gesta di Enlad. Sono smarrito tra tante meraviglie. Il vecchio canuto guardò le due donne. Altre persone si erano fatte avanti, e ci fu una breve conversazione sommessa tra loro. — Se tu rimanessi qui, cosa faresti? — gli chiese la donna dalle sopracciglia nere. — So costruire le barche, e ripararle, e governarle. So trovare le cose, in superficie e sottoterra. So manipolare il tempo, se ne avete bisogno. E imparerò l'arte da chiunque voglia insegnarmi. — Cosa vuoi imparare? — chiese la donna più alta, con la solita voce pacata.
Medra si rese conto che gli era stata posta la domanda da cui dipendeva il resto della sua vita, nel bene e nel male. Rimase di nuovo in silenzio alcuni istanti. Fece per parlare, tacque, e infine rispose. — Non ho potuto salvare una persona, no, non ho potuto salvare la persona che mi ha salvato — disse. — Nulla di quel che so avrebbe potuto liberarla. Non so nulla. Se sapete come si diventa liberi, vi prego, insegnatemelo! — Liberi! — sbottò la donna alta, e la sua voce schioccò come una frusta. Guardò i compagni e le compagne, e poco dopo abbozzò un sorriso. Volgendosi verso Medra, disse: — Siamo prigionieri, e dunque la libertà è qualcosa che studiamo. Tu sei venuto qui penetrando nei muri della nostra prigione. In cerca della libertà, dici. Ma dovresti sapere che lasciare Roke può essere ancor più difficile che approdarvi. Una prigione nella prigione, e in parte l'abbiamo costruita proprio noi. — Guardò gli altri. — Qual è il vostro parere? — domandò loro. Dissero poco, sembrarono consultarsi e assentire quasi in silenzio. Infine, la donna più bassa guardò Medra con i suoi occhi penetranti. — Resta, se vuoi — gli disse. — Resterò. — Come vuoi che ti chiamiamo? — Sterna — rispose Medra; e quello fu il suo nome. Quello che trovò a Roke era qualcosa di meno e qualcosa di più delle speranze e delle voci che aveva così a lungo inseguito. L'isola di Roke, gli spiegarono, era il cuore di Earthsea. La prima terra che Segoy aveva sollevato dalle acque all'inizio del tempo era stata la lucente Ea del mare settentrionale, la seconda era stata Roke. Quella collina verde, il Poggio di Roke, aveva radici più profonde di tutte le isole. Gli alberi che lui aveva visto, che a volte sembravano trovarsi in un punto dell'isola e a volte in un altro, erano gli alberi più vecchi del mondo, e la fonte e il centro della magia. — Se il bosco fosse tagliato, tutta la magia verrebbe meno. Le radici di quegli alberi sono le radici della conoscenza. Le ombre delle loro foglie al sole tracciano le parole pronunciate da Segoy nella Creazione. Così disse Brace, la sua fiera insegnante dalle sopracciglia nere. A Roke, tutti i maestri dell'arte magica erano donne. Non c'erano uomini di potere, sull'isola; gli uomini lì erano pochi. Trent'anni addietro, i pirati signori di Wathort avevano inviato una flotta a conquistare Roke, non per le sue ricchezze, che erano scarse, ma per spezzare il potere della sua magia, ritenuto grande. Uno dei maghi di Roke
aveva tradito l'isola, consegnandola ai maghi di Wathort, indebolendo i suoi incantesimi di difesa e di allarme. Una volta aperto un varco nelle protezioni, i pirati avevano preso l'isola senza servirsi della magia ma con la forza, mettendola a ferro e fuoco. Le loro grandi navi riempirono la baia di Thwil, le loro orde bruciarono e saccheggiarono, i loro catturatoli di schiavi portarono via uomini, ragazzi, giovani donne. I bambini e i vecchi furono massacrati. Incendiarono ogni casa e ogni campo che incontrarono. Quando se ne andarono, alcuni giorni dopo, non lasciarono in piedi un solo villaggio; le fattorie erano in rovina o abbandonate. La cittadina sulla baia, Thwil, possedeva in parte il carattere strano e misterioso del poggio e del bosco, perché anche se i predoni l'avevano attraversata in cerca di schiavi e bottino e appiccando incendi, i fuochi si erano spenti e in quelle strade strette i razziatori si erano smarriti. La maggior parte degli isolani superstiti erano donne sagge con i loro figli, che si erano nascosti nella cittadina o nel Bosco immanente. Gli uomini che si trovavano ora a Roke erano quei bambini sopravvissuti, diventati adulti, e alcuni uomini che ora erano vecchi. Non c'era nessun governo a parte quello delle donne della Mano, perché erano i loro incantesimi a proteggere Roke da tanto tempo, a proteggerla molto più strettamente adesso. Si fidavano poco degli uomini. Un uomo aveva tradito l'isola. Degli uomini l'avevano attaccata. Erano le ambizioni degli uomini, dissero, ad aver corrotto tutte le arti per trarne profitto. — Noi non abbiamo a che fare con i loro governi — disse Velo, la donna alta dalla voce pacata. Eppure Brace disse a Medra: — La nostra rovina è opera nostra. Uomini e donne della Mano si erano uniti a Roke un centinaio di anni prima, formando una lega di maghi. Orgogliosi e sicuri dei propri poteri, avevano cercato di insegnare ad altri ad associarsi in segreto contro i fautori della guerra e della schiavitù per potere insorgere e affrontarli a viso aperto. Le donne erano sempre state capi nella lega, spiegò Brace, e le donne, come venditrici di balsami e fabbricanti di reti, erano andate da Roke in altre terre attorno al mare Interno, tessendo un'ampia trama di resistenza. Anche adesso rimanevano fili e nodi di quella rete. Medra si era imbattuto per la prima volta in una di quelle tracce nel villaggio di Anieb, e le aveva seguite da allora. Ma non lo avevano condotto lì. Dopo l'incursione, l'isola di Roke si era isolata completamente, si era chiusa nei potenti incantesimi protettivi tessuti dalle sagge dell'isola, e non aveva contatti con nessun altro popolo. — Non possiamo salvarli — disse Brace. — Non abbiamo potuto salvare neppure la nostra gente.
Velo, con il suo sorriso e la sua voce gentile, fu implacabile. Disse a Medra che non si era opposta alla sua permanenza a Roke soltanto perché intendeva sorvegliarlo. — Sei penetrato una volta nelle nostre difese — dichiarò. — Quello che dici di te, può darsi sia vero, ma può anche darsi che non lo sia. Cosa puoi dirmi per convincermi a fidarmi di te? Concordò con le compagne di farlo alloggiare in una casetta vicino al porto e affidargli un lavoro come aiutante della carpentiera navale di Thwil, che aveva imparato il mestiere da sola e che accolse di buon grado la competenza di Medra. Velo non gli creò difficoltà, e lo salutava sempre con gentilezza. Però aveva chiesto: — Cosa puoi dirmi per convincermi a fidarmi di te? — e lui non aveva una risposta da darle. Brace di solito si accigliava quando lui la salutava. Gli rivolgeva domande improvvise, ascoltava le sue risposte, e non diceva nulla. Medra le chiese, piuttosto timidamente, di spiegargli cosa fosse il Bosco immanente, perché quando lo aveva chiesto ad altri gli avevano risposto: — Può dirtelo Brace. — Lei respinse la sua richiesta, non in modo arrogante ma decisa, dicendogli: — Puoi apprendere cos'è il Bosco immanente solo nel Bosco e dal Bosco. — Alcuni giorni dopo, Brace scese sulla spiaggia della baia di Thwil, dove lui stava riparando una barca da pesca. Lo aiutò come poteva, e gli chiese informazioni sulla costruzione delle barche, e Medra l'accontentò e le mostrò qualcosa. Il pomeriggio trascorse tranquillo, ma alla fine lei se ne andò di colpo, con il suo solito fare brusco. Medra aveva un po' soggezione di Brace; era una donna imprevedibile. Rimase sorpreso quando, non molto tempo dopo, lei gli disse: — Andrò nel Bosco dopo la Lunga danza. Vieni, se vuoi. Dal Poggio di Roke, sembrava che tutto il Bosco fosse visibile, ma se si entrava nel Bosco, non sempre si usciva di nuovo nei campi. Si continuava a camminare sotto gli alberi. Nella parte interna del Bosco, erano tutti di un unico tipo, che non cresceva in nessun altro luogo, eppure il loro nome in hardico non aveva altro significato che "albero". Nella Vecchia lingua, disse Brace, ognuno di quegli alberi aveva un proprio nome. Si continuava a camminare, e dopo un po' ci si trovava di nuovo tra piante familiari, querce e faggi e frassini, castagni e noci e salici, verdi in primavera e spogli d'inverno; c'erano abeti scuri e cedri, e un alto sempreverde che Medra non conosceva, con una morbida corteccia rossastra e il fogliame a strati. Si proseguiva, e il percorso tra gli alberi non era mai lo stesso. La gente di Thwil diceva che era meglio non addentrarsi troppo, dato che solo se si tornava lungo il cammino fatto all'andata, si poteva essere sicuri di sbucare
nei campi. — Fin dove arriva la foresta? — chiese Medra, e Brace rispose: — Fin dove arriva la mente. Le foglie degli alberi parlavano, gli spiegò, e le ombre si potevano leggere. — Io sto imparando a leggerle — gli disse. Quando era a Orrimy, Medra aveva imparato a leggere la scrittura comune dell'Arcipelago. In seguito, Dragone di Pendor gli aveva insegnato alcune rune del potere. Quella era scienza nota. Ciò che Brace aveva appreso sola nel Bosco immanente era noto soltanto alle persone con cui lei condivideva la propria conoscenza. Viveva tutta l'estate sotto le fronde del Bosco; aveva solo una cassetta per impedire ai topi di mangiare la sua piccola provvista di cibo, un riparo di rami, e un fuoco per cucinare vicino a un ruscello che usciva dai boschi per unirsi al fiumiciattolo che scendeva verso la baia. Medra si accampò nelle vicinanze. Non sapeva cosa volesse da lui Brace; sperava che intendesse insegnargli, che intendesse cominciare a rispondere alle sue domande sul Bosco. Ma lei non disse nulla, e lui era timido e cauto, temendo di disturbare la sua solitudine, che lo sgomentava come l'imperturbabilità del Bosco stesso. Il secondo giorno che Medra era là, Brace lo invitò ad andare con lei, e lo condusse nel cuore della foresta. Camminarono per ore in silenzio. Nel mezzogiorno estivo i boschi erano silenti. Nessun uccello cantava. Le foglie non si muovevano. I corridoi di alberi erano perennemente diversi e uguali. Quando tornarono indietro, Medra non se ne rese conto, ma capì che si erano spinti oltre le coste di Roke. Uscirono nuovamente tra i terreni coltivati e i pascoli nel tepore della sera. Mentre si dirigevano verso il luogo dov'erano accampati, Medra vide spuntare sulle colline occidentali le quattro stelle della Forgia. Brace si separò da lui dicendogli soltanto: — Buonanotte. Il giorno dopo gli disse: — Vado a sedermi sotto gli alberi. — Non sapendo bene come dovesse comportarsi, Medra la seguì tenendosi a distanza, finché non giunsero nella parte più interna del Bosco immanente, dove tutti gli alberi erano della stessa specie, senza nome eppure ognuno con il proprio nome. Quando lei si sedette sul soffice terriccio tra le radici di un vecchio albero maestoso, lui trovò lì vicino un posto dove appoggiarsi; e mentre lei osservava e ascoltava e rimaneva immobile, lui osservò e ascoltò e restò immobile. Lo fecero per parecchi giorni. Poi, una mattina, di umore ribelle, Medra rimase accanto al ruscello mentre Brace si addentra-
va nel Bosco. Lei non si voltò a guardarlo. Velo giunse dalla cittadina di Thwil, quella mattina, portando un cesto di pane, formaggio, ricotta, frutta estiva. — Cos'hai imparato? — chiese a Medra, fredda e cortese come sempre, e lui rispose: — Che sono uno stolto. — Perché, Sterna? — Uno stolto potrebbe sedere sotto gli alberi per sempre senza acquistare un briciolo di saggezza. La donna alta abbozzò un sorriso. — Mia sorella non ha mai insegnato a un uomo prima d'ora — disse. Gli lanciò un'occhiata, poi spostò lo sguardo sui campi estivi. — Non ha mai guardato un uomo prima d'ora — soggiunse. Medra restò in silenzio. Si sentiva il volto infuocato. Abbassò gli occhi. — Pensavo... — disse, e s'interruppe. Nelle parole di Velo vedeva, tutt'a un tratto, l'altro lato dell'impazienza, della fierezza e dei silenzi di Brace. Aveva cercato di considerarla intoccabile, mentre desiderava ardentemente sentire quella morbida pelle bruna, quei capelli neri lucenti. Quando lei lo fissava all'improvviso con un'aria di sfida incomprensibile, Medra aveva sempre pensato che fosse in collera con lui. Temeva di insultarla, di offenderla. E Brace cosa temeva? Il desiderio di Medra? Il proprio?... Ma non era una ragazza inesperta, era una saggia, una maga, la donna che camminava nel Bosco immanente e capiva lo schema delle ombre! Tutte queste riflessioni gli attraversarono impetuose la mente, come una piena che sfondasse un argine, mentre si trovava ai margini della foresta con Velo. — Pensavo che i magi si tenessero in disparte — disse infine. — Dragone diceva che fare l'amore annulla il potere. — Così sostengono alcuni saggi — disse Velo, e sorrise ancora, e lo salutò, accomiatandosi da lui. Medra trascorse l'intero pomeriggio in preda alla confusione e alla collera. Quando Brace uscì dal Bosco e si diresse verso il cantuccio frondoso che rappresentava la sua dimora, lui la raggiunse, portando il cesto di Velo come pretesto. — Posso parlarti? — esordì. Lei annuì sbrigativa, aggrottando le ciglia nere. Medra non disse nulla. Brace si accovacciò per scoprire cosa contenesse il cesto. — Pesche! — esclamò, e sorrise. — Il mio maestro, Dragone, diceva che i maghi che fanno l'amore annullano il loro potere — sbottò tutto d'un fiato Medra.
Lei non disse nulla; estrasse le vivande dal cesto, spartendole. — Pensi che sia vero? — insisté Medra. Brace si strinse nelle spalle. — No — rispose. Medra ammutolì. Dopo qualche istante, lei lo guardò. — No — ripeté sottovoce. — Non penso che sia vero. Penso che tutti i veri poteri, tutti i vecchi poteri, alla radice siano un unico potere. Lui continuò a tacere, e Brace disse: — Guarda le pesche! Sono tutte mature. Dovremo mangiarle subito. — Se ti dicessi il mio nome — fece Medra — il mio vero nome... — Io ti direi il mio — disse Brace. — Se è così... se è così che dovremmo incominciare. Incominciarono, comunque, con le pesche. Erano entrambi timidi. Quando Medra le prese la mano, era tutto percorso da un tremore, e Brace, il cui nome era Elehal, voltò il capo accigliata. Poi gli toccò il palmo, delicatamente. Quando lui le accarezzò la chioma nera lucente, sembrò che Brace appena tollerasse quel gesto, e Medra si arrestò. Quando provò ad abbracciarla, lei era rigida, come se lo respingesse. Poi lei si girò e, impetuosa, frettolosa, goffa, lo strinse tra le braccia. Non fu la prima notte trascorsa insieme, né la successiva né quella dopo, a dar loro piacere o agio. Ma impararono vicendevolmente, e superarono il pudore e la paura, trovando infine la passione. Allora i lunghi giorni nel silenzio dei boschi e le lunghe notti stellate furono un incanto per loro. Quando Velo salì dalla cittadina per portare le ultime pesche tardive, Medra e Brace risero; le pesche erano il simbolo della loro felicità. Provarono a convincere Velo a fermarsi e a cenare con loro, ma lei non accettò l'invito. — Rimanete qui intanto che potete — disse. L'estate fu troppo breve, quell'anno. La pioggia arrivò presto; in autunno, la neve cadde perfino su un'isola meridionale quale Roke. Le tempeste si susseguivano, come se i venti fossero insorti rabbiosi contro le manipolazioni e le ingerenze dei maghi. Le donne sedevano insieme accanto al fuoco nelle fattorie solitarie; anche nella cittadina di Thwil, la gente si radunava attorno ai focolari. Ascoltavano il vento che soffiava e la pioggia che scrosciava o il silenzio della neve. All'esterno della baia di Thwil, il mare mugghiava sulle scogliere lungo tutte le coste dell'isola, un mare che nessuna nave poteva azzardarsi ad affrontare. Quello che avevano, dividevano. Quanto a questo, era davvero l'isola di Morred. A Roke, nessuno pativa la fame o restava senza un tetto che lo riparasse, sebbene nessuno avesse molto più del necessario. Nascosti al resto
del mondo non solo dal mare e dalle tempeste, ma pure dalle loro difese che camuffavano l'isola e sviavano le navi, gli abitanti di Roke lavoravano e parlavano e cantavano le canzoni, Il Canto d'Inverno e Le Gesta del Giovane re. E avevano libri, le Cronache di Enlad e la Storia degli Eroi Saggi. Da quei libri preziosi, i vecchi e le donne leggevano ad alta voce in una sala nei pressi del molo, dove le pescatrici fabbricavano e riparavano le loro reti. C'era un focolare nella sala, e accendevano la brace. Veniva gente anche da fattorie dalla parte opposta dell'isola per sentir leggere quelle storie, e tutti ascoltavano in silenzio, attentissimi. — Le nostre anime sono affamate — disse Brace. Viveva con Medra nella casetta che gli avevano assegnato vicino al Magazzino delle reti, pur se trascorreva molti giorni con sua sorella Velo. Brace e Velo erano bambine in una fattoria nei dintorni di Thwil quando erano giunti i razziatori da Wathort. La loro madre le aveva nascoste in una minuscola cantina dove conservavano patate e radici, e aveva poi usato i propri incantesimi per cercare di difendere il marito e i fratelli, che non avevano voluto nascondersi e avevano invece lottato contro gli aggressori. Erano stati massacrati insieme al bestiame. La casa e la stalla e il fienile erano stati bruciati. Le bambine rimasero nella cantina quella notte e le notti seguenti. Alcuni vicini che infine erano venuti a seppellire i corpi putrescenti, trovarono le due bambine, mute, affamate, armate di una zappa e di un vomere rotto, pronte a difendere il loro rifugio di zolle e pietre. Medra aveva appreso solo una piccola parte della vicenda da Brace. Una sera Velo, che aveva tre anni più della sorella e un ricordo molto più chiaro dell'accaduto, gli raccontò tutta la storia. Brace, che sedeva insieme a loro, ascoltò in silenzio. In cambio, Medra parlò alle due donne delle miniere di Samory, e del mago Gelluk, e della schiava Anieb. Quando Medra terminò il racconto, Velo rimase a lungo in silenzio, poi disse: — Ecco a cosa ti riferivi, quando sei giunto qui... "Non ho potuto salvare chi mi ha salvato." — E tu mi hai chiesto: "Cosa puoi dirmi per convincermi a fidarmi di te?" — L'hai appena detto — fece Velo. Medra le prese la mano e vi posò la fronte. Narrando la storia, aveva trattenuto le lacrime. Non riuscì più a trattenerle, adesso. — Lei mi ha dato la libertà — disse. — E io sento ancora che tutto ciò che faccio, lo faccio tramite lei e per lei. No, non per lei. Non possiamo fa-
re nulla per i morti. Ma per... — Per noi — disse Brace. — Per noi che viviamo, nascosti, senza uccidere e senza essere uccisi. I morti sono morti. I grandi e i potenti proseguono per la loro strada incontrollati. L'unica speranza rimasta al mondo è la gente di nessun conto. — Dobbiamo nasconderci per sempre? — Parole degne di un uomo — commentò Velo, sorridendo mesta. — Sì — rispose Brace. — Dobbiamo nasconderci, sempre, se necessario. Perché non rimane che uccidere ed essere uccisi, oltre queste coste. È quanto tu affermi, e io ti credo. — Ma non si può nascondere il vero potere — replicò Medra. — Non a lungo. Se viene nascosto, se non è condiviso, muore. — La magia non morirà, a Roke — disse Velo. — A Roke tutti gli incantesimi sono forti. Lo ha detto Ath stesso. E tu hai camminato sotto gli alberi... Il nostro compito deve essere quello di conservare questa forza. Nasconderla, sì. Accumularla, come un giovane drago accumula il proprio fuoco. E condividerla. Ma solo qui. Tramandarla, qui, dove è al sicuro, dove difficilmente i grandi predoni e i grandi assassini la cercheranno, dato che qui nessuno conta alcunché. E un giorno il drago acquisterà tutta la sua forza. Anche se occorreranno mille anni... — Ma all'esterno di Roke ci sono persone comuni che sono in schiavitù e patiscono la fame e muoiono infelici — disse Medra. — Devono farlo per mille anni senza alcuna speranza? Guardò le due sorelle: una così mite e irremovibile, l'altra, sotto la scorza severa, vivace e tenera come la prima fiamma di un fuoco. — Ad Havnor — disse — lontano da Roke, in un villaggio sul monte Onn, tra gente che non sa nulla del mondo, ci sono ancora donne della Mano. La rete non si è rotta dopo tanti anni. Come è stata intessuta? — Con abilità e astuzia — rispose Brace. — E gettata su una superficie davvero vasta! — Medra guardò di nuovo le sorelle. — Non sono stato istruito molto bene, nella città di Havnor — disse. — I miei insegnanti mi hanno raccomandato di non usare la magia per scopi cattivi, ma vivevano nella paura e non possedevano alcuna forza contro i forti. Mi hanno dato tutto ciò che avevano, ma non era molto. È stato solo grazie alla fortuna, che ho trovato la strada giusta da seguire. E grazie alla forza che mi ha donato Anieb. Se non fosse stato per lei, adesso sarei il servo di Gelluk. Eppure lei era incolta, e dunque ridotta in schiavitù. Se la magia è insegnata male dai migliori, e usata per fini malvagi dai
potenti, come potrà mai crescere la nostra forza qui? Di cosa si nutrirà il giovane drago? — Questo è il centro — disse Velo. — Dobbiamo stare al centro. E attendere. — Dobbiamo dare agli altri quello che abbiamo — disse Medra. — Se tutti tranne noi sono schiavi, che valore ha la nostra libertà? — La vera arte prevale sulla falsa. Lo schema resisterà — disse Brace, corrugando la fronte. Prese l'attizzatoio e smosse la legna arsa nel focolare, ravvivando con un colpo deciso la fiamma. — So questo. Ma le nostre vite sono brevi, e lo schema è molto lungo. Se solo Roke fosse adesso com'era un tempo... se avessimo più gente della vera arte radunata qui, per insegnare e imparare oltre che conservare... — Se Roke fosse adesso com'era un tempo, se la sua forza fosse nota, quelli che ci temono verrebbero di nuovo a distruggerci — disse Velo. — La soluzione sta nella segretezza — disse Medra. — Ma anche il problema. — Il nostro problema sono gli uomini, perdonami se lo dico, caro fratello — fece Velo. — Per gli altri uomini, gli uomini sono più importanti delle donne e dei bambini. Potremmo avere qui cinquanta streghe, e loro non se ne curerebbero granché. Ma se sapessero della presenza qui di cinque uomini di potere, cercherebbero nuovamente di distruggerci. — Così, anche se tra noi c'erano degli uomini, noi eravamo le donne della Mano — disse Brace. — Lo siete ancora — disse Medra. — Anieb era una di voi. Lei e voi e noi tutti viviamo nella stessa prigione. — Cosa possiamo fare? — domandò Velo. — Apprendere la nostra forza! — rispose Medra. — Una scuola — disse Brace. — Dove i saggi potrebbero venire a imparare a vicenda, a studiare lo schema... Il Bosco immanente ci proteggerebbe. — I signori della guerra disprezzano studiosi e insegnanti — osservò Medra. — Penso che li temano pure — disse Velo. Così parlarono, quel lungo inverno, e altri parlarono con loro. Lentamente, i loro discorsi passarono dalla visione all'intenzione, dal desiderio intenso al progetto. Velo era sempre cauta, metteva in guardia contro i pericoli. Il canuto Duna era così smanioso che, stando a Brace, voleva cominciare a insegnare la stregoneria a tutti i bambini di Thwil. Una volta
convintasi che la libertà di Roke consistesse nell'offrire ad altri la libertà, Brace occupò del tutto la propria mente per stabilire in che modo le donne della Mano potessero riacquistare la forza di un tempo. Ma la sua mente, foggiata dai lunghi periodi di solitudine tra gli alberi, cercava sempre forma e chiarezza, e Brace disse: — Come possiamo insegnare la nostra arte, quando non sappiamo cosa sia? E parlarono di quello, tutte le sagge dell'isola: cosa fosse la vera arte della magia, e quando diventasse falsa; come si mantenesse o si perdesse l'equilibrio delle cose; quali arti fossero necessarie, quali fossero utili, quali pericolose; perché certe persone avessero un dono ma non un altro, e se si potesse apprendere un'arte per cui non si aveva alcun dono innato. In quelle discussioni stabilirono i nomi che da allora hanno sempre indicato le varie branche dell'arte magica: travamento, manipolazione del tempo, cambiamento, guarigione, evocazione, strutturazione, nominazione, le arti dell'illusione, e la conoscenza dei canti. Queste sono tuttora le arti dei Maestri di Roke, anche se il Cantore ha preso il posto del Trovatore quando il travamento venne considerato una dote soltanto utile, indegna di un magio. E fu in quelle discussioni che la scuola di Roke ebbe inizio. Alcuni sostengono che la scuola sia nata in modo molto diverso. Dicono che Roke fosse governata da una donna chiamata la Donna oscura, che era in lega con i Vecchi Poteri della terra. Dicono che vivesse in una caverna sotto il Poggio di Roke, senza mai uscire alla luce del giorno, ma tessendo su terra e mare grandi incantesimi che piegavano gli uomini al suo volere malvagio, finché non giunse a Roke il primo Arcimago, che penetrò nella caverna, sconfisse la Donna Oscura, e ne prese il posto. Non c'è nulla di vero in questa storia, tranne un fatto: uno dei primi Maestri di Roke penetrò davvero in una grande caverna. Ma sebbene le radici di Roke siano le radici di tutte le isole, quella caverna non si trovava a Roke. Ed è vero che all'epoca di Medra e di Elehal la gente di Roke, uomini e donne, non temeva i Vecchi Poteri della terra, ma li venerava, cercando di trarne acume e forza. Le cose cambiarono con il passare degli anni. La primavera arrivò tardi quell'anno, fu una stagione fredda e tempestosa. Medra si dedicò alla costruzione di una barca. Quando i peschi fiorirono, aveva costruito, secondo lo stile di Havnor, un'imbarcazione snella e robusta, adatta ad affrontare il mare aperto. La chiamò Speranzosa. Non molto tempo dopo, salpò dalla baia di Thwil, non portando con sé alcun compagno. — Aspettami alla fine dell'estate — disse a Brace.
— Sarò nel Bosco immanente — disse lei. — E il mio cuore sarà con te, mia scura lontra, mia bianca sterna, amor mio, Medra. — E il mio cuore sarà con te, mia brace infuocata, mio albero in fiore, amor mio, Elehal. Nel primo dei suoi viaggi di trovamento, Medra, o Sterna, com'era chiamato, veleggiò verso nord, spingendosi nel mare Interno fino a Orrimy, dov'era stato alcuni anni addietro. Là c'erano delle persone della Mano di cui si fidava. Una di esse era un uomo chiamato Corvo, un ricco eremita, che non aveva alcuna dote magica ma una grande passione per ciò che era scritto, per i libri di scienza e di storia. Era stato Corvo a ficcare il naso di Sterna in un libro, per usare le sue parole, finché Sterna non aveva imparato a leggerlo. — I maghi incolti sono la maledizione di Earthsea! — strillava. — Il potere ignorante è una sciagura! — Corvo era un tipo strano, cocciuto, arrogante, e, in difesa della propria passione, coraggioso. Anni prima aveva sfidato il potere di Losen, recandosi a Havnor sotto mentite spoglie e ripartendo con quattro libri provenienti da un'antica biblioteca reale. Si era appena procurato, e ne andava assai fiero, un trattato arcano di Way riguardante l'argento vivo. — Me ne sono impossessato sotto il naso di Losen! — disse a Sterna. — Vieni a dare un'occhiata al libro. Apparteneva a un mago famoso. — Tinaral — disse Sterna. — Lo conoscevo. — Il libro è spazzatura, vero? — fece Corvo, che era lesto a cogliere i segnali quando si trattava di libri. — Non lo so. Sto cercando una preda più grossa. Corvo drizzò il capo. — Il Libro dei Nomi. — È andato perduto quando Ath si è messo in viaggio diretto a ovest — disse Corvo. — Un mago chiamato Dragone mi ha raccontato che Ath, quando si è fermato a Pendor, ha detto a un mago del posto di avere lasciato il Libro dei Nomi a una donna delle Novanta isole perché lo custodisse. — A una donna! Perché lo custodisse! Nelle Novanta isole! Era pazzo? Corvo inveì, ma al pensiero che il Libro dei Nomi potesse ancora esistere si dichiarò pronto a partire per le Novanta isole non appena Sterna avesse deciso di farlo. Così veleggiarono a sud con la Speranzosa, approdando prima alla maleodorante Geath, e quindi camuffati da venditori ambulanti si spostarono
da un'isoletta all'altra nel labirinto di canali. Corvo aveva rifornito la barca di merci migliori di quelle che vedeva di solito la maggior parte degli abitanti delle isole, e Sterna le offriva a un prezzo equo, perlopiù barattandole, dato che c'era poco denaro tra gli isolani. La loro popolarità li precedette. Si sapeva che accettavano in cambio libri, purché fossero libri vecchi e arcani. Ma nelle isole tutti i libri erano vecchi e arcani, quei pochi che si trovavano. Corvo fu lietissimo di procurarsi un bestiario macchiato dell'epoca di Akambar barattandolo con cinque bottoni d'argento, un coltello con il manico di madreperla e una pezza di seta di Lorbanery. Seduto sulla Speranzosa, leggeva cantilenando le antiche descrizioni dell'harikki e dell'otak e dell'orso dei ghiacci. Ma Sterna sbarcava su ogni isola, mostrando le sue merci nelle cucine delle massaie e nelle taverne sonnolente dove sedevano i vecchi. A volte provava a serrare il pugno, girando poi la mano e mostrando il palmo, ma lì nessuno rispondeva a quel gesto. — Libri? — disse un intrecciatore di vimini di Nord Sudidi. — Come quello lassù? — Indicò le lunghe strisce di pergamena che erano state inserite nel tetto di paglia della sua casa. — Servono a qualcos'altro? — Corvo, fissando le parole visibili qua e là tra i giunchi del cornicione, cominciò a tremare di rabbia. Sterna si affrettò a riportarlo a bordo prima che desse in escandescenze. — Era solo un manuale per guaritori di bestie — ammise Corvo quando ripresero il viaggio, riacquistando la calma. — Ho visto scritto "affetto da spavenio", e qualcosa a proposito delle "mammelle di pecora". Ma l'ignoranza! L'ignoranza bruta di quell'individuo! Usare il libro per fare il tetto di casa! — Ed erano conoscenze utili — osservò Sterna. — Come può la gente non essere ignorante se la conoscenza non viene conservata, non viene insegnata? Se fosse possibile riunire i libri in un unico posto... — Come la Biblioteca dei re — disse Corvo, sognando splendori perduti. — O la tua biblioteca — disse Sterna, che era diventato un uomo più astuto rispetto a un tempo. — Frammenti — sbottò Corvo, sminuendo il lavoro di una vita. — Resti! — Inizi — replicò Sterna. Corvo si limitò a sospirare. — Penso che potremmo andare ancora a sud — disse Sterna, manovran-
do per imboccare il canale principale. — Verso Pody. — Hai talento in questa branca — disse Corvo. — Sai dove guardare. Hai scovato subito quel bestiario nel fienile... Ma non c'è molto da cercare qui. Nulla di importante. Impossibile che Ath abbia lasciato il più grande libro di scienza mai esistito in mezzo a dei bifolchi che l'avrebbero usato come copertura! Andiamo pure a Pody, se vuoi. E poi torniamo a Orrimy. Ne ho quasi abbastanza. — E abbiamo finito i bottoni — disse Sterna. Era allegro; non appena aveva pensato a Pody, aveva capito di andare nella direzione giusta, — Forse riuscirò a trovarne strada facendo — disse. — Sai, è il mio dono. Nessuno dei due era mai stato a Pody. Era una tranquilla isola meridionale con un vecchio porto grazioso, Telio, fatto di arenaria rosata, e campi e frutteti che avrebbero dovuto essere fertili. Ma i signori di Wathort dominavano l'isola da un secolo, imponendo tributi e prendendo schiavi e fiaccando la terra e la popolazione. Le strade soleggiate di Telio erano tristi e sporche. La gente viveva in quelle strade come se fossero una regione selvaggia, in tende e capanne di rottami, o senza alcun riparo. — Oh, siamo capitati nel posto sbagliato — disse Corvo, disgustato, evitando un mucchio di escrementi umani. — Queste creature non hanno libri, Sterna! — Aspetta, aspetta — disse il suo compagno. — Concedimi un giorno. — È pericoloso — disse Corvo — è inutile — ma non fece altre obiezioni. Il giovane ingenuo e umile a cui aveva insegnato a leggere, era diventato la sua guida imperscrutabile. Lo seguì lungo una delle strade principali, quindi in un quartiere di piccole case, il vecchio rione dei tessitori. A Pody coltivavano il lino, e c'erano maceratoi di pietra, perlopiù inutilizzati adesso, e si vedevano dei telai accanto alle finestre di alcune case. In una piazzetta che offriva un po' d'ombra nella giornata di sole rovente, quattro o cinque donne sedevano vicino a un pozzo, filando. Dei bambini giocavano lì accanto, svogliati per il caldo, scheletrici, fissando senza molto interesse i forestieri. Sterna si era diretto lì senza esitare, come se sapesse dove stava andando. Ora si fermò e salutò le donne. — Oh, bell'uomo — disse una di loro, sorridendo — non mostrarci nemmeno quello che hai in quel fagotto, perché non ho un soldo, né di rame né d'avorio, e da un mese non vedo un centesimo. — Però, può darsi che tu abbia del lino, eh, signora? Tessuto, o filo. Il lino di Pody è il migliore... così ho sentito dire a Havnor, che è lontano da qui. E so riconoscere la qualità di quello che stai filando. È un filato eccel-
lente. — Corvo osservò il compagno, divertito e con un certo disdegno; anche lui sapeva contrattare con estrema scaltrezza per procurarsi un libro, però non si abbassava a ciarlare con donne comuni di bottoni e filati. — Lascia solo che ti mostri cosa c'è qui dentro — stava dicendo Sterna, aprendo il fagotto sull'acciottolato, e le donne e i bambini timidi e sporchi si avvicinarono per vedere le meraviglie offerte dal mercante. — Cerchiamo tessuto e filato greggio, e anche altre cose... siamo a corto di bottoni. Se ne avessi qualcuno di corno o di osso, eh? Ti darei uno di questi berretti di velluto in cambio di tre o quattro bottoni. O uno di questi rotoli di nastro; guarda il colore del nastro. S'intona benissimo con i tuoi capelli, signora! O in cambio di carta, o libri. I nostri padroni a Orrimy cercano cose del genere. Magari hai un libro, riposto da qualche parte, eh? — Oh, sei un bell'uomo — disse la donna, ridendo, mentre lui le accostava il nastro rosso alla treccia di capelli neri. — E vorrei avere qualcosa per te! — Non sarò così sfrontato da chiedere un bacio — disse Medra. — Ma una mano aperta, forse...? Fece il segno; lei lo guardò un attimo. — È facile — disse sottovoce, e ricambiò il gesto — ma non sempre è prudente, tra estranei. Medra continuò a mostrare le merci e a scherzare con le donne e i bambini. Nessuno comprò nulla. Rimirarono quelle paccottiglie come se fossero tesori. Lui lasciò che guardassero e tastassero a piacimento; permise addirittura che un bambino rubasse uno specchietto d'ottone, vedendolo sparire sotto la camicia stracciata del marmocchio senza dire nulla. Infine disse che doveva andarsene, e mentre richiudeva il fagotto, i bambini si allontanarono alla spicciolata. — Ho una vicina — disse la donna dalla treccia nera — che potrebbe avere della carta, se è questo che cerchi. — Carta scritta? — chiese Corvo, che era rimasto seduto sul muretto del pozzo, annoiato. — Con dei segni sopra? Lei lo squadrò. — Con dei segni sopra, signore — rispose. Poi si rivolse a Sterna, cambiando tono. — Se vuoi venire con me, la mia vicina abita qui nei paraggi. E anche se è solo una ragazza, e povera, venditore, ti dirò che ha una mano aperta. Anche se forse non tutti i presenti ce l'hanno. — Tre su tre — bofonchiò Corvo, abbozzando il segno — dunque risparmia la tua acredine, donna. — Oh, sei tu ad averne a iosa, signore. Siamo povera gente, qui. E ignoranti — disse lei, con gli occhi che lampeggiavano, poi fece strada.
Li condusse a una casa in fondo a un viottolo. Era stata una bella dimora un tempo, una costruzione di pietra su due piani, ma ora era semiabbandonata, deturpata, i telai delle finestre e le lastre che rivestivano i muri erano stati divelti. Attraversarono un cortile con un pozzo. La donna bussò a una porta laterale, e una ragazza andò ad aprire. — Puah, è il covo di una strega — sbottò Corvo, sentendo odore di erbe e fumo aromatico, e arretrò. — Guaritrici — disse la loro guida. — È ancora malata, Dory? La ragazza annuì, guardando Sterna, poi Corvo. Aveva tredici o quattordici anni, era tarchiata sebbene fosse esile, con uno sguardo fermo e cupo. — Sono uomini della Mano, Dory, uno basso e grazioso e uno alto e arrogante, e a quanto dicono stanno cercando libri. So che ne avevate qualcuno, una volta, ma può darsi che adesso non li abbiate più. Nel loro fagotto non c'è nulla che vi serva, però forse vi daranno qualche moneta d'avorio per pagare quello che vogliono. Vero? — La donna voltò gli occhi luminosi verso Sterna, che annuì. — Sta molto male, Giunco — disse la ragazza. Guardò di nuovo Sterna. — Tu non sei un guaritore? — Era un'accusa. — No. — Lei lo è — disse Giunco. — Come sua madre e la madre di sua madre. Facci entrare, Dory, o almeno lascia che entri io, così le parlerò. — La ragazza rientrò un attimo, e Giunco disse a Medra: — Sta morendo di consunzione, sua madre. Nessun guaritore ha potuto curarla. Ma lei sapeva guarire la scrofola, e alleviare il dolore con il tocco della mano. Era portentosa, e Dory prometteva di seguire le sue orme. La ragazza, con un cenno, li invitò a entrare. Corvo preferì aspettare fuori. La stanza era alta e lunga, con tracce di un'eleganza passata, ma molto vecchia e povera. Ovunque c'erano arnesi da guaritore ed erbe medicinali che stavano essiccando, ma disposti con un certo ordine. Accanto al bel camino di pietra, dove bruciava una piccola manciata di erbe aromatiche, c'era un letto. La donna che lo occupava era così smunta che nella semioscurità sembrava fatta solo di ossa e ombra. Mentre Sterna si avvicinava, cercò di drizzarsi a sedere e parlare. Sua figlia le sollevò il capo dal cuscino, e quando lui fu vicinissimo sentì che la donna sussurrava: — Mago... Non per caso... Essendo una donna di potere, sapeva cosa fosse Sterna. Era stata lei a chiamarlo lì? — Sono un trovatore — disse Sterna. — E un cercatore.
— Puoi insegnarle? — Posso portarla da persone che le insegneranno. — Portala, allora. — Lo farò. La malata posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. Scosso dalla forza di quella volontà, Sterna si drizzò e trasse un respiro profondo. Si girò verso la ragazza, Dory. Lei non ricambiò il suo sguardo, osservando la madre con un'espressione accigliata di dolore. Solo quando la donna si addormentò, la figlia si mosse, andando ad aiutare Giunco, che come amica e vicina stava rendendosi utile raccogliendo pezze sporche di sangue sparse accanto al letto. — Ha sanguinato ancora poco fa, e io non ho potuto far nulla — disse Dory. Le lacrime le sgorgarono dagli occhi, rigandole le guance. L'espressione del viso non cambiò quasi. — Oh, piccola mia, tesoro — disse Giunco, prendendola tra le braccia; ma pur abbracciandola, Dory non si abbandonò, rimase rigida. — Sta andando là, al muro, e io non posso andare con lei — disse. — Andrà sola, e io non posso andare con lei... Non puoi andare là? — Si staccò da Giunco, fissando Sterna. — Tu puoi andare là! — No — replicò lui. — Non conosco la strada. Eppure, mentre Dory parlava, aveva visto quel che vedeva la ragazza: una lunga collina che scendeva nelle tenebre e, attraverso la collina, dove iniziava la zona oscura, un muro basso di pietre. E mentre guardava, gli era parso di vedere una donna che camminava lungo il muro, magrissima, incorporea, ossa e ombra. Ma non era la moribonda stesa sul letto. Era Anieb. Poi l'immagine scomparve, e lui si ritrovò di fronte alla giovane strega. L'espressione d'accusa di Dory cambiò lentamente. La ragazza si coprì il volto con le mani. — Dobbiamo lasciarli andare — disse Sterna. La giovane disse: — Lo so. Giunco scrutò i due con i suoi occhi penetranti e luminosi. — Un uomo non solo destro — disse — ma anche dotato. Be', non sei il primo. Lui la fissò perplesso. — Questa è chiamata la Casa di Ath — spiegò lei. — Ath viveva qui — disse Dory, e un barlume d'orgoglio affiorò per un attimo dal suo dolore impotente. — Il magio Ath. Molto tempo fa. Prima di andare a occidente. Tutte le mie antenate erano sagge. Ath ha dimorato
qui. Con loro. — Dammi un catino — disse Giunco. — Andrò a prendere dell'acqua per smollare queste pezze. — A prendere l'acqua, ci vado io — disse Sterna. Prese il catino e uscì nel cortile, andando al pozzo. Proprio come prima, Corvo sedeva sul muretto, annoiato e inquieto. — Perché stiamo perdendo tempo qua? — chiese, mentre Sterna calava il secchio nel pozzo. — Sbrighi le faccende di casa per le streghe, adesso? — Sì — rispose Sterna — e lo farò finché quella donna non morirà. Poi porterò sua figlia a Roke. E se vuoi leggere il Libro dei Nomi puoi venire con noi. Così alla scuola di Roke giunsero da oltremare il primo studente e il primo bibliotecario. Il Libro dei Nomi, che adesso è conservato nella Torre isolata, era il fondamento della conoscenza e del metodo della Nominazione, che è il fondamento della magia di Roke. La ragazza Dory, che a quanto si dice insegnò ai propri insegnanti, divenne la maestra di tutte le arti della guarigione e della scienza erboristica, doti grazie a lei tenute in grande considerazione a Roke. Quanto a Corvo, incapace di separarsi dal Libro dei Nomi anche solo per un mese, mandò a prendere i suoi volumi rimasti a Orrimy e si stabilì con essi a Thwil. Consentiva alla gente della scuola di studiarli, purché mostrassero il dovuto rispetto per i libri, e per lui. Così il corso degli anni per Sterna era ormai fissato. Nella tarda primavera salpava a bordo della Speranzosa, cercando e trovando persone per la scuola di Roke: bambini e giovani, perlopiù, che avevano il dono della magia, e a volte adulti, uomini e donne. La maggior parte dei bambini erano poveri, e anche se Sterna per prenderli con sé voleva il loro consenso, i genitori o i padroni di rado conoscevano la verità: Sterna era un pescatore che aveva bisogno di un ragazzo che lo aiutasse sulla barca, o di una ragazza da addestrare come tessitrice, o stava comprando schiavi per il suo padrone su un'altra isola. Se mandavano con lui un bambino per offrirgli l'opportunità di imparare un mestiere, o se gliene vendevano uno perché lavorasse per lui e mantenesse la famiglia in miseria, Sterna pagava con avorio vero; se gli vendevano un bambino come schiavo, lui pagava in oro, e il giorno dopo era già in viaggio, quando l'oro si ritrasformava in sterco di vacca. Toccò punti remoti dell'Arcipelago, spingendosi perfino nella Distesa o-
rientale. Non andò mai nella stessa città o isola senza che fossero trascorsi prima alcuni anni, facendo perdere così le proprie tracce. Ma cominciarono ugualmente a parlare di lui. L'Acchiappabambini, lo chiamavano, un temuto stregone che portava i bambini sulla sua isola nel gelido nord e là succhiava il loro sangue. Nei villaggi di Way e Felkway raccontano ancora ai bambini la storia dell'Acchiappabambini, perché imparino a diffidare dei forestieri. Ormai molte persone della Mano sapevano cosa si stesse realizzando a Roke. I giovani raggiungevano l'isola inviati da loro. Uomini e donne arrivavano per imparare e insegnare. Per molti di loro non fu facile giungere a destinazione, perché gli incantesimi che nascondevano l'isola erano più forti che mai, facendola sembrare solo una nuvola, o un banco di scogli tra i flutti; e soffiava il vento di Roke, che impediva a qualsiasi nave di avvicinarsi alla baia di Thwil, a meno che a bordo non ci fosse uno stregone capace di far cambiare direzione a quel vento. Ma la gente arrivava comunque, e con il passare degli anni per la scuola si rese necessaria una casa più grande di qualsiasi abitazione di Thwil. Nell'Arcipelago, gli uomini costruivano le navi e le donne costruivano le case, quella era la tradizione; ma se si trattava di innalzare un edificio di grandi dimensioni, le donne permettevano agli uomini di lavorare con loro, non avendo le superstizioni delle minatrici che non volevano uomini nelle miniere, né quelle dei carpentieri navali che proibivano alle donne di assistere alla costruzione di uno scafo. Così, sia uomini che donne di grande potere eressero la Grande casa di Roke. La prima pietra fu posta su una collina sopra la cittadina di Thwil, vicino al Bosco e rivolta verso il Poggio. I muri non erano solo fatti di pietra e legno, ma poggiavano su profonde fondamenta magiche ed erano rafforzati da vari incantesimi. Stando su quella collina, Medra aveva detto: — C'è una vena d'acqua che non si prosciugherà, proprio sotto i miei piedi. — Scavarono e arrivarono all'acqua, e la lasciarono sgorgare al sole; la prima parte della Grande casa che costruirono fu la parte più interna, il cortile della fontana. Medra si recò là con Elehal, camminando sul bianco selciato, quando intorno al cortile non era ancora stato innalzato alcun muro. Elehal aveva piantato un giovane sorbo del Bosco immanente accanto alla fontana. Volevano assicurarsi che allignasse. Il vento primaverile soffiava forte, dal Poggio di Roke verso il mare, deviando lo zampillo della fontana. Sul pendio del Poggio, si scorgeva un gruppetto di persone: un cerchio di giovani studenti che imparavano trucchi di illusione dallo stre-
gone Hega di O; Maestro di Mano, lo chiamavano. La scintillaria, dopo la fioritura, spargeva le proprie ceneri al vento. C'erano striature di grigio nei capelli di Brace. — Te ne vai, dunque — disse Brace — e ci lasci a risolvere questa questione della Regola. — Il suo cipiglio era severo come sempre, ma di rado la sua voce era così aspra quando parlava con lui. — Rimarrò, se lo desideri, Elehal. — Voglio che tu rimanga, certo. Ma non farlo! Sei un trovatore, devi andare e trovare. È solo che accordarsi sulla Via... o la Regola, come Waris vuole che la chiamiamo... è due volte più impegnativo della costruzione della casa. E provoca il decuplo di litigi. Vorrei potermene staccare! Vorrei solo poter passeggiare con te, così... E vorrei che tu non andassi a nord. — Perché litighiamo? — chiese Medra, piuttosto avvilito. — Perché il nostro numero è aumentato! Raduna venti o trenta persone di potere in una stanza, e ognuna di loro cercherà di averla vinta. Riunisci uomini che hanno sempre fatto a modo loro e donne che hanno sempre fatto a modo loro, e il risentimento sarà reciproco. E inoltre, tra noi esistono delle divergenze profonde e reali, Medra. Bisogna appianarle, e non è un compito facile. Anche se un po' di buona volontà gioverebbe molto. — Si tratta di Waris? — Di Waris e di parecchi altri uomini. Sono uomini, e questo per loro conta più di qualsiasi altra cosa. Considerano abominevoli i Vecchi Poteri. E i poteri delle donne sono sospetti, perché loro ritengono che siano tutti legati ai Vecchi Poteri. Come se quei poteri potessero essere controllati o usati dai comuni mortali! Ma loro collocano gli uomini al primo posto in assoluto. E quindi pensano che un vero mago debba essere un uomo. E celibe. — Ah, di questo si tratta — fu il commento mesto di Medra. — Proprio. Mia sorella me l'ha detto ieri sera... Lei ed Enni e le carpentiere hanno proposto di costruire una parte della casa interamente riservata a loro, o addirittura una casa separata, perché possano mantenersi puri. — Puri? — Non è mio il termine, è di Waris. Comunque, loro hanno rifiutato. Vogliono che la Regola di Roke separi gli uomini dalle donne, e vogliono che siano gli uomini a decidere per tutti. Ora, com'è possibile arrivare a un compromesso con loro? Perché sono venuti qui, se non vogliono lavorare con noi? — Dovremmo mandare via gli uomini che non vogliono farlo.
— Via? Arrabbiati? Perché raccontino ai signori di Wathort o di Havnor che le streghe di Roke stanno tramando per scatenare un pandemonio? — Dimentico... dimentico sempre — disse lui, di nuovo abbattuto. — Dimentico i muri della prigione. Non sono così sciocco quando sono all'esterno di questi muri... Quando sono qui stento a credere che sia una prigione. Ma fuori, senza di te, ricordo... Non voglio andare, però devo andare. Non voglio ammettere che qui qualcosa possa essere sbagliata o andare male, ma devo farlo... Andrò, questa volta, e andrò a nord, Elehal. Ma quando tornerò, rimarrò. Quello che ho bisogno di trovare, lo troverò qui. Non l'ho già trovato? — No — disse lei — solo me... Ma c'è parecchio da cercare e da trovare nel Bosco immanente. Abbastanza da placare perfino la tua irrequietezza. Perché a nord? — Per tendere la Mano a Enlad ed Ea. Non sono mai stato là. Non sappiamo nulla delle loro magie. Enlad dei re e la splendente Ea, l'isola più vecchia. Troveremo di certo degli alleati, là. — Ma c'è Havnor tra noi — disse lei. — Non attraverserò Havnor con la mia barca, amore mio. Intendo aggirarla. Per mare. — Medra riusciva sempre a farla ridere; era l'unico che ci riuscisse. Quando era lontano, Brace era sommessa e tranquilla, avendo imparato l'inutilità dell'impazienza nel lavoro che bisognava svolgere. A volte si accigliava ancora, a volte sorrideva, ma non rideva. Quando poteva, andava nel Bosco da sola, come aveva sempre fatto. Ma negli anni della costruzione della casa e della fondazione della scuola, riusciva ad andarci solo di rado, e anche allora spesso portava con sé un paio di studenti perché imparassero insieme a lei le vie della foresta e lo schema delle foglie, la struttura; perché lei era la Strutturatrice. Sterna intraprese tardi il suo viaggio, quell'anno Aveva con sé un ragazzo quindicenne, Granello, un Manipolatempo promettente che aveva bisogno di addestramento in mare, e Sava, una donna sessantenne venuta a Roke con lui sette o otto anni prima. Sava era una delle donne della Mano dell'isola di Ark. Pur non possedendo alcuna dote magica, era così brava a far sì che un gruppo di persone si fidassero reciprocamente e lavorassero insieme, che era stimata come una saggia ad Ark, e adesso a Roke. Aveva chiesto a Sterna di portarla a visitare i famigliari, madre, sorella e due figli; Sterna avrebbe lasciato Granello con lei, riportando entrambi a Roke quando fosse tornato. Così salparono diretti a nord-est, attraverso il mare Interno, a estate inoltrata, e Sterna disse a Granello di gonfiare la vela con
un po' di vento magico, per essere certi di giungere ad Ark prima della Lunga danza. Mentre costeggiavano quell'isola, Sterna tessé un incantesimo di illusione intorno alla Speranzosa, affinché non sembrasse una barca bensì un tronco alla deriva, dato che in quelle acque i pirati e i catturatori di schiavi di Losen erano numerosi. Da Sesery, sulla costa orientale di Ark, dove lasciò i passeggeri, dopo avere partecipato alla Lunga danza, risalì lo stretto di Ebavnor, intendendo dirigersi a ovest lungo la costa meridionale di Omer. Mantenne l'incantesimo di illusione attorno alla barca. Nella limpidezza dell'estate, mentre soffiava un vento da nord, vide, alti e lontani sopra il braccio di mare azzurro e il vago grigiobruno della terra, i lunghi crinali e la vetta leggiadra del monte Onn. Guarda, Medra. Guarda! Era Havnor, la sua terra, dove si trovavano i suoi famigliari, vivi o morti, non lo sapeva; dove Anieb giaceva nella propria tomba, lassù sulla montagna. Non era mai tornato, non si era mai avvicinato tanto. Quanto tempo era passato? Sedici, diciassette anni. Nessuno lo avrebbe riconosciuto, nessuno avrebbe ricordato il giovane Lontra, tranne la madre e il padre e la sorella, sempre che fossero ancora vivi. E c'erano sicuramente delle persone della Mano a Porto grande. Anche se da ragazzo non sapeva che esistessero, adesso avrebbe dovuto riconoscerle. Risalì lo stretto finché il monte Onn non venne nascosto dal promontorio all'imboccatura della baia di Havnor. Non lo avrebbe più scorto, a meno che non fosse entrato nella baia. Allora avrebbe visto la montagna, la cresta imponente, sopra le acque calme dove provava a far levare il vento magico a dodici anni; e proseguendo avrebbe visto le torri innalzarsi sull'acqua, dapprima indistinte, semplici linee e puntini, e poi svettanti con le loro vivaci bandiere, la città bianca al centro del mondo... Era solo codardia, stare lontano da Havnor, adesso... Paura per la propria pelle, paura di scoprire che i suoi famigliari erano morti, paura di ricordare Anieb in modo troppo vivido. Perché a volte aveva avuto l'impressione che, come lui l'aveva chiamata da viva, lei potesse chiamarlo da morta. Il legame che li aveva uniti e le aveva permesso di salvarlo non si era spezzato. Molte volte la ragazza gli era apparsa in sogno, silenziosa e immobile come la prima volta che l'aveva vista nella fetida torre a Samory. E anni addietro l'aveva scorta nella visione della donna morente a Telio, nella zona crepuscolare, accanto al mu-
ro di pietra. Adesso sapeva, grazie a Elehal e ad altre persone di Roke, cosa fosse quel muro. Era il muro che separava i vivi dai morti. E in quella visione Anieb camminava lungo il lato esterno; non quello che scendeva nelle tenebre. Aveva paura di lei, che lo aveva liberato? Bordeggiò nel vento teso, doppiò Punta sud, e veleggiò nella Grande baia di Havnor. Le bandiere garrivano ancora sulle torri della città di Havnor, e un re regnava ancora, là; le bandiere erano i vessilli delle città e delle isole conquistate, e il sovrano era il signore della guerra Losen. Il re non lasciava mai il palazzo di marmo dove sedeva tutto il giorno, servito dagli schiavi, guardando l'ombra della spada di Erreth-Akbe scivolare come l'ombra di una grande meridiana sui tetti sottostanti. Impartiva ordini, e gli schiavi dicevano: — Sarà fatto, maestà. — Teneva udienze, e dei vecchi arrivavano e dicevano: — Obbediamo, maestà. — Convocava i suoi maghi, e il magio Early si presentava, inchinandosi. — Fammi camminare! — urlava Losen, battendo con le mani deboli le gambe paralizzate. Il magio rispondeva: — Maestà, come Sai, la mia povera arte non ha giovato, ma ho mandato a chiamare il più grande guaritore di Earthsea, che vive nella lontana Narveduen, e quando arriverà, altezza, di certo camminerai di nuovo, sì, e ballerai la Lunga danza. Losen allora imprecava e strillava, e gli schiavi gli portavano del vino, e il magio usciva, inchinandosi, e assicurandosi, mentre si allontanava, che l'incantesimo paralizzante fosse sempre efficace. Era molto più comodo per lui che il re fosse Losen, invece di governare Havnor apertamente. Gli uomini d'arme non si fidavano degli uomini dell'arte, e non amavano servirli. Quali che fossero i suoi poteri, un magio, a meno di non essere potente come il Nemico di Morred, non era in grado di tenere insieme eserciti e flotte, se i soldati e i marinai decidevano di non obbedire. La gente era abituata a temere Losen e a obbedirgli, una vecchia abitudine ormai, consolidata. Gli attribuivano le doti che aveva posseduto di audace strategia, saldo comando e crudeltà assoluta; e gli tributavano poteri che non aveva mai avuto, come il controllo dei maghi al suo servizio. Non c'erano più maghi che lo servissero, adesso, tranne Early e un paio di umili stregoni. Early aveva cacciato o ucciso, uno dopo l'altro, i rivali che gli contendevano il favore di Losen, e ormai da anni dominava da solo
tutta Havnor. Quando era apprendista e aiutante di Gelluk, aveva incoraggiato il maestro a studiare la scienza di Way, trovandosi così libero mentre Gelluk si era allontanato da corte, preso dalla propria infatuazione per l'argento vivo. Ma la scomparsa repentina del maestro lo aveva scosso. C'era qualcosa di misterioso nella vicenda, un elemento mancante, o una persona. Convocando il capace Segugio perché lo aiutasse, Early aveva svolto un'indagine accurata sull'accaduto. Dove fosse Gelluk, naturalmente, non era un mistero. Segugio aveva seguito le sue tracce giungendo a una cicatrice sul fianco di una collina, e aveva detto che il mago era sepolto là sotto, in profondità. Early non desiderava affatto esumarlo. Ma il ragazzo che era con Gelluk, Segugio non era riuscito a rintracciarlo; non era in grado di dire se fosse sotto quella collina con lui, o se invece avesse tagliato la corda. Il ragazzo non aveva lasciato tracce di incantesimo, a differenza del magio, spiegò Segugio, ed era piovuto parecchio per tutta la notte seguente, e quando aveva creduto di avere trovato le orme del ragazzo, quelle appartenevano invece a una donna; e quella donna era morta. Early non punì Segugio per l'insuccesso, ma lo tenne a mente. Non era avvezzo agli insuccessi, e non gli piacevano. Non gli piacque ciò che quello gli disse a proposito di quel ragazzo, Lontra, e lo tenne a mente. Il desiderio di potere si alimenta da solo, cresce mentre divora. Early soffriva la fame. Era affamato. C'era poca soddisfazione a governare Havnor, una terra di mendicanti e poveri agricoltori. A che serviva possedere il Trono di Maharion se a occuparlo era soltanto un ubriacone sciancato? Come ci si poteva gloriare dei palazzi della città, quando ad abitarli erano solo schiavi striscianti? Early avrebbe potuto avere qualsiasi donna desiderasse, ma le donne avrebbero prosciugato il suo potere, gli avrebbero succhiato la forza. Non voleva nessuna donna accanto a sé. Bramava un nemico; un avversario che valesse la pena di distruggere. Le sue spie si presentavano da lui da oltre un anno mormorando di un'insurrezione segreta in tutto il suo regno, di gruppi ribelli di stregoni che si chiamavano "la Mano". Ansioso di trovare il nemico, ordinò di indagare su uno di quei gruppi. Risultò che si trattava di molte anziane, levatrici, falegnami, uno scavatore, l'apprendista di uno stagnino, e un paio di ragazzini. Umiliato e furioso, Early li fece giustiziare insieme all'uomo che li aveva denunciati. Fu un'esecuzione pubblica, in nome di Losen, per il crimine di cospirazione contro il re. Forse non c'erano state abbastanza intimidazioni del genere, negli ultimi tempi. Ma non erano nel carattere di Early. Non gli
piaceva esibire in pubblico gli stolti che lo avevano gabbato, mostrandosi come avversari temibili. Avrebbe preferito affrontarli a modo suo, a tempo debito. Per essere nutriente, la paura doveva essere immediata; Early aveva bisogno che la gente avesse paura di lui, aveva bisogno di vedere la paura, di sentire il loro terrore, di odorarlo, di assaporarlo. Ma dato che governava in nome di Losen, era il re a dover essere temuto dagli eserciti e dai popoli, mentre lui doveva restare nell'ombra, accontentarsi di schiavi e apprendisti. Non molto tempo dopo, aveva mandato a chiamare Segugio per qualche faccenda e, sistemata la questione, il vecchio gli aveva chiesto: — Hai mai sentito parlare dell'isola di Roke? — È a sud-est di Kamery. Il signore di Wathort la possiede da quaranta o cinquant'anni. Pur lasciando di rado la città, Early si vantava della propria conoscenza di tutto l'Arcipelago, racimolata grazie ai resoconti dei suoi marinai e alle meravigliose mappe antiche conservate nel palazzo. Studiava quelle carte di notte, meditando su dove e come estendere eventualmente il proprio impero. Segugio annuì, come se la posizione dell'isola fosse l'unico elemento interessante di Roke. — Ebbene? — Una delle vecchie che hai fatto torturare prima che finissero tutti sul rogo, sai? Be', è stato il tizio che l'ha torturata a raccontarmelo... La vecchia ha parlato di suo figlio a Roke. Lo ha chiamato perché venisse da lei, ecco. Come se il figlio avesse il potere di farlo... — Ebbene? — Mi è sembrato strano. Una vecchia di un villaggio dell'interno, che non aveva mai visto il mare, e diceva il nome di un'isola così lontana. — Il figlio era un pescatore che parlava dei suoi viaggi. Early agitò la mano. Segugio aspirò forte con il naso, annuì, e uscì. Early non trascurava mai alcuna futilità menzionata da Segugio, perché in molti casi quelle informazioni si erano rivelate tutt'altro che inutili. Detestava il vecchio per questo, e perché era imperturbabile. Non lo elogiava mai, e si serviva di lui assai di rado, ma Segugio era troppo utile per non utilizzare le sue doti. Il mago tenne a mente il nome di Roke, e quando lo sentì nuovamente, in circostanze analoghe, capì che Segugio aveva fiutato una pista giusta. Tre bambini, due ragazzi di quindici o sedici anni e una dodicenne, fu-
rono catturati da una nave da pattuglia di Losen a sud di Omer, mentre navigavano su un peschereccio rubato spinto da un vento magico. La pattuglia riuscì a prenderli solo perché aveva a bordo un Manipolatempo, che provocò un'onda che sommerse l'imbarcazione rubata. Riportato con gli altri a Omer, uno dei ragazzi crollò e piagnucolò qualcosa a proposito di unirsi alla Mano. Udendo quella parola, gli uomini dissero ai tre che sarebbero stati torturati e bruciati; a quel punto il ragazzo strillò che se gli avessero risparmiato la vita avrebbe raccontato tutto della Mano, e di Roke, e dei grandi magi dell'isola. — Portateli qui — ordinò Early al messaggero. — La ragazza è volata via, signore — annunciò riluttante il messaggero. — Volata via? — Ha assunto forma d'uccello. Di un falco pescatore, hanno detto. Non se lo aspettavano da una ragazza così giovane. È fuggita in un batter d'occhio. — Portate qui i ragazzi, allora — disse Early, paziente ma torvo. Gli portarono un ragazzo. L'altro era saltato dalla nave, attraversando la baia di Havnor, ed era stato ucciso da un dardo di balestra. Il ragazzo che portarono era talmente terrorizzato che perfino Early ne fu disgustato. Come poteva intimorire una creatura che per la paura era già cieca e lorda di letame? Fece al ragazzo un incantesimo di vincolo che lo tenne eretto e immobile come una statua di pietra, e lo lasciò così per una notte e un giorno. Di tanto in tanto parlò alla statua, dicendole che era un giovanotto abile e sarebbe stato un buon apprendista, lì nel palazzo. Poteva anche darsi che andasse a Roke, dopotutto, perché Early stava pensando di andarci, di incontrarsi con i maghi dell'isola. Quando Early lo sciolse, il ragazzo provò a fingere di essere ancora pietrificato, e non volle parlare. Early dovette penetrargli nella mente, come aveva imparato da Gelluk tempo addietro, quando quello era un vero maestro nella propria arte. Scoprì quanto gli fu possibile scoprire. Poi il ragazzo, non servendo più a nulla, dovette essere eliminato. Era umiliante, ancora una volta, essere messo nel sacco dalla stupidità stessa di quella gente; e tutto ciò che Early aveva appreso su Roke era che la Mano si trovava sull'isola, dove sorgeva anche una scuola in cui insegnavano la magia. Aveva appreso inoltre il nome di un uomo. L'idea di una scuola per maghi lo fece ridere. Una scuola per cinghiali, pensò, un collegio per draghi! Ma che a Roke ci fosse un intrigo e un'adunanza di uomini di potere sembrava probabile, e più ci pensava più l'idea
di una lega o alleanza di maghi lo spaventava. Era qualcosa di anormale, e poteva esistere solo in presenza di una grande forza, la pressione di una volontà dominante... la volontà di un magio abbastanza forte da tenere al proprio servizio perfino altri maghi potenti. Ecco il nemico che voleva! Segugio era giù alla porta, gli dissero. Early lo mandò a chiamare. — Chi è Sterna? — domandò, non appena vide il vecchio. Invecchiando, Segugio aveva finito con il somigliare davvero a un cane: grinzoso, naso lungo e occhi tristi. Aspirò forte con il naso, e parve sul punto di rispondere che non lo sapeva, ma non era così sprovveduto da provare a mentire a Early. Sospirò. — Lontra — rispose. — Quello che ha ucciso il vecchio Facciabianca. — Dove si nasconde? — Non si nasconde affatto. Ha girato in città, parlato con della gente. È andato a trovare sua madre a Endlane, sul fianco della montagna. È lassù, adesso. — Avresti dovuto informarmi subito — disse Early. — Non sapevo che lo cercassi. Io gli ho dato la caccia a lungo. Mi ha gabbato. — Segugio parlò senza rancore. — Ha ingannato e ucciso un grande magio, che era mio maestro. È pericoloso. Voglio vendetta. Con chi ha parlato, qui? Voglio quelle persone. Poi mi occuperò di lui. — Ha parlato con alcune vecchie, giù vicino al porto. Con un vecchio stregone. Con sua sorella. — Portali qui. Prendi i miei uomini. Segugio aspirò forte con il naso, sospirò, annuì. Early non cavò granché dalle persone che i suoi uomini gli portarono. Di nuovo la stessa storia: appartenevano alla Mano, e la Mano era una lega di potenti stregoni dell'isola di Morred, o Roke; e l'uomo, Lontra o Sterna, veniva da là, anche se era originario di Havnor; e loro lo stimavano molto, sebbene fosse solo un trovatore. La sorella era scomparsa, forse era andata con lui a Endlane, dove viveva la madre. Early frugò nelle loro menti offuscate e stolte, fece torturare il più giovane del gruppo, quindi ordinò che venissero bruciati tutti davanti al palazzo, perché Losen potesse assistere, stando seduto a una finestra. Il re aveva bisogno di qualche svago. Tutto ciò richiese appena due giorni, e intanto Early stava cercando e sondando il terreno verso il villaggio di Endlane, facendosi precedere da Segugio, andando in avanscoperta con i propri poteri. Quando seppe dove fosse quell'uomo, si recò là molto rapidamente, con ali d'aquila; perché E-
arly era un grande mutaforma, così impavido da assumere perfino forma di drago. Sapeva che era bene essere cauti con quell'individuo. Lontra aveva sconfitto Tinaral, e c'era poi il legame con Roke. C'era della forza in lui o con lui. Eppure per Early era difficile temere un semplice trovatore che s'accompagnava a levatrici e plebaglia simile. Non riuscì a persuadersi ad agire in modo furtivo. Calò in pieno giorno nella piazza disordinata del villaggio di Endlane, mutando gli artigli in gambe umane e le grandi ali in braccia. Un bambino corse vociando dalla madre. Non c'era nessun altro in giro. Ma Early volse il capo, fissando, conservando in parte le movenze svelte e rigide di un'aquila. Un mago riconosceva sempre un altro mago, ed Early capì in quale casa si trovasse la sua preda. La raggiunse, e spalancò la porta. Un uomo bruno, esile, seduto a un tavolo, sollevò lo sguardo verso di lui. Early alzò la mano per paralizzarlo con l'incantesimo di vincolo. La mano venne bloccata, rimase immobile, sollevata a metà al suo fianco. Era una contesa, dunque, un nemico contro cui valeva la pena di combattere! Early fece un passo indietro e poi, sorridendo, alzò entrambe le braccia tendendole davanti a sé, molto lentamente ma con un movimento costante, senza che l'avversario potesse contrastare quel gesto in alcun modo. La casa sparì. Nessun muro, nessun tetto, nessuno. Early rimase sulla piazza polverosa del villaggio sotto il sole del mattino, con le braccia in aria. Era solo illusione, naturalmente, ma lo arrestò nell'istante in cui operava l'incantesimo; dovette poi annullare l'illusione, fare riapparire il telaio della porta attorno a sé, i muri e le travi del tetto, il luccichio delle stoviglie, le pietre del focolare, il tavolo... Ma al tavolo non sedeva nessuno. Il suo nemico era scomparso. Si arrabbiò, allora; era fuori si sé, un uomo affamato a cui avevano strappato di mano il cibo. Chiamò Sterna, perché ricomparisse, ma non conosceva il suo vero nome né aveva alcun controllo sul suo cuore o sulla sua mente. L'appello di Early non ottenne risposta. Uscì a grandi passi dalla casa, si voltò, e lanciò un incantesimo su di essa, facendole prendere fuoco; le fiamme si levarono dal tetto di paglia, dai muri, dalle finestre. Delle donne corsero fuori, gridando. Senza dubbio e-
rano nascoste nella stanza sul retro; lui le ignorò. "Segugio" pensò. Pronunciò le parole di chiamata, usando il vero nome di Segugio, e il vecchio andò da lui, com'era costretto a fare. Era accigliato, però, e disse: — Ero nella taverna, laggiù. Avresti potuto chiamarmi usando il mio nome comune, e sarei venuto. Early lo fissò. La bocca di Segugio si chiuse e rimase serrata. — Parla quando ti do il permesso di parlare — disse il mago. — Dov'è quell'uomo? Segugio fece un cenno con il capo verso nord-est. — Cosa c'è, là? Early aprì la bocca di Segugio, gli concesse voce sufficiente per rispondere in tono spento: — Samory. — Che forma ha assunto? — Lontra — rispose la voce monotona. Early rise. — Lo aspetterò — disse; le sue gambe diventarono artigli gialli, le braccia ampie ali piumate, e l'aquila spiccò il volo, librandosi nel vento. Segugio aspirò forte con il naso, sospirò, e s'incamminò in quella direzione, arrancando di malavoglia, mentre dietro di lui nel villaggio le fiamme si spegnevano, e i bambini strillavano, e le donne lanciavano imprecazioni contro l'aquila. Il pericolo nel cercare di far bene è che la mente arriva a confondere l'intento del bene con l'atto di fare le cose bene. Non era quello che la lontra stava pensando mentre nuotava rapida lungo lo Yennava. Non pensava quasi nulla, se non alla velocità e alla direzione e al dolce sapore dell'acqua del fiume e al dolce potere del nuoto. Però stava pensando a qualcosa del genere mentre sedeva al tavolo della casa della nonna a Endlane, parlando con la madre e la sorella, appena prima che la porta si spalancasse e apparisse quella terribile figura fulgida. Medra era andato a Havnor convinto che, non avendo cattive intenzioni, non avrebbe nuociuto a nessuno. Invece, il male che aveva fatto era irreparabile. Uomini e donne e bambini erano morti perché lui era lì. Erano morti soffrendo atrocemente, bruciati vivi. E aveva messo in pericolo sua madre e sua sorella, e se stesso, e indirettamente anche Roke. Se Early (di cui conosceva solo il nome comune e la fama) lo avesse catturato e usato come si diceva usasse le persone, svuotando le loro menti come piccoli sacchi, allora tutti a Roke sarebbero stati esposti al potere del mago e alla forza
delle flotte e degli eserciti che comandava. Medra avrebbe tradito Roke consegnandola a Havnor, come il mago innominato l'aveva consegnata a Wathort. Forse anche quell'uomo pensava di non poter nuocere a nessuno. Medra stava riflettendo, ancora una volta, e invano, su come andarsene subito da Havnor inosservato, quando il mago era apparso. Adesso, come lontra, stava pensando soltanto che gli sarebbe piaciuto rimanere pesce, essere lontra, nelle dolci acque brune del fiume perenne, per sempre. Non c'era morte per una lontra, solo vita fino alla fine. Ma nella lustra creatura albergava la mente mortale; e dove il corso d'acqua passava accanto alla collina a ovest di Samoty, la lontra salì sulla sponda fangosa, e un istante dopo accovacciato sulla riva c'era un uomo tremante. Adesso, dove andare? Perché si era recato lì? Non aveva pensato. Aveva assunto la forma più rapida, era corso al fiume come lontra, nuotando da lontra. Ma solo nella propria forma poteva pensare da uomo, nascondersi, decidere, agire da uomo o mago contro il mago che lo braccava. Sapeva di non poter competere con Early. Per arrestare quel primo incantesimo di vincolo aveva usato tutta la forza di resistenza che possedeva. L'illusione e il cambiamento di forma erano le uniche armi di cui disponesse. Se avesse affrontato di nuovo il mago, sarebbe stato distrutto. E Roke con lui. Roke e i figli dell'isola, e il suo amore Elehal, e Velo, Corvo, Dory, tutti, la fontana nel cortile bianco, l'albero accanto alla fontana. Solo il Bosco immanente sarebbe rimasto in piedi. Solo la verde collina, silenziosa, immobile. Sentì Elehal che gli diceva: "C'è Havnor tra noi". La sentì dire: "Tutti i veri poteri, tutti i vecchi poteri, alla radice sono un unico potere". Alzò lo sguardo. L'altura sopra il torrente era la stessa collina dove era andato quel giorno con Tinaral, accompagnato dalla presenza di Anieb. Bastava fare qualche passo per raggiungere il segno, la cicatrice, ancora abbastanza chiara sotto l'erba verde dell'estate. — Madre — disse Medra, inginocchiandosi là. — Madre, apriti a me. Posò le mani sul segno che solcava il terreno, ma non c'era alcun potere in esse. — Lasciami entrare, madre — sussurrò nella lingua che era vecchia come la collina. Il suolo tremò un po' e si aprì. Medra udì il grido di un'aquila. Si alzò in piedi. Saltò nell'oscurità. L'aquila arrivò, volteggiando e stridendo sulla valle, sopra la collina e i salici accanto al torrente. Volteggiò, cercando e cercando, e tornò nella di-
rezione da cui era giunta. Molto tempo dopo, nel tardo pomeriggio, il vecchio Segugio risalì arrancando la valle, fermandosi di tanto in tanto e aspirando forte con il naso. Si sedette sul fianco della collina vicino alla cicatrice sul terreno, riposando le gambe stanche. Osservò il terreno, notando qualche grumo di terriccio smosso e l'erba piegata. Passò la mano sugli steli piegati, per raddrizzarli. Infine, si alzò in piedi, andò a bere un po' d'acqua limpida sotto i salici, e s'incamminò nella valle, verso la miniera. Medra si destò dolorante, nell'oscurità. Per parecchio tempo non ci fu che quello. Il dolore andava e veniva, l'oscurità rimaneva. Una volta si attenuò un poco, trasformandosi in una penombra che gli consentì di vedere in modo vago. Vide un pendio che, dal punto in cui lui giaceva, scendeva verso un muro di pietre, oltre il quale c'era altra tenebra. Non riuscì ad alzarsi per raggiungere il muro, e poco dopo il dolore tornò acutissimo al braccio e all'anca e alla testa. L'oscurità lo avvolse, quindi, e poi più nulla... Sete, e con la sete il dolore. Sete, e un rumore di acqua corrente. Cercò di ricordare come si creasse la luce. Anieb gli disse: "Non puoi creare la luce?". Ma lui non ci riuscì. Strisciò nell'oscurità finché il rumore dell'acqua non risuonò forte; le rocce sotto di lui erano bagnate, e brancolando con la mano trovò l'acqua. Bevve; poi, trascinandosi cercò di allontanarsi dalle rocce bagnate, perché aveva freddo. Un braccio gli doleva ed era privo di forza. La testa gli faceva ancora male, e Medra gemette e rabbrividì, cercando di rannicchiarsi per scaldarsi. Non c'era calore né luce. Sedeva un po' discosto da dove giaceva, guardando se stesso, sebbene il buio fosse ancora assoluto. Era raggomitolato vicino al punto in cui il ruscelletto gocciolava dalla cornice di mica. Non lontano c'era un altro mucchietto di membra... seta rossa marcia, lunghi capelli, ossa. Più in là, la caverna continuava. Notò che le sue camere e i suoi passaggi erano molto più estesi di quanto avesse pensato. Lo notò con lo stesso interesse distaccato con cui vedeva il corpo di Tinaral e il proprio corpo. Provò un lieve rammarico. Era giusto che morisse lì, con l'uomo che aveva ucciso. Era più che giusto. Ma in lui c'era qualcosa che doleva, non l'intensa sofferenza corporea, un dolore lungo, lungo una vita. — Anieb — disse. Poi tornò in sé, con le fitte atroci al braccio e all'anca e al capo, infermo e stordito nelle tenebre assolute. Quando si mosse, piagnucolò, ma si driz-
zò a sedere. "Devo vivere" pensò. "Devo ricordare come si fa a vivere. Come si crea la luce. Devo ricordare. Devo ricordare le ombre delle foglie." Fin dove arrivava la foresta? Fin dove arrivava la mente. Alzò lo sguardo nell'oscurità. Dopo qualche tempo, mosse un po' la mano sana, e dalla mano si propagò un lucore fioco. La volta della caverna era molto sopra di lui. Il rivoletto di acqua che gocciolava dalla cornice di mica scintillava con brevi scrosci nella luce fatua. Medra non vedeva più le camere e i passaggi della caverna che aveva visto prima con occhi distaccati e incorporei. Scorgeva soltanto quello che la tremula luce fatua mostrava, appena attorno e davanti a lui. Come quando aveva camminato nella notte con Anieb che poi era morta... passo dopo passo nelle tenebre. Si sollevò sulle ginocchia, e pensò di sussurrare: — Grazie, madre. — Si alzò in piedi, e cadde, perché l'anca sinistra cedette con una fitta così dolorosa che lui urlò. Dopo un po', provò di nuovo, e riuscì a reggersi. Allora si mise in cammino. Impiegò parecchio tempo per attraversare la caverna. Infilò il braccio ferito sotto la camicia, e tenne premuta sull'anca la mano sana, e così fu un po' più facile camminare. Le pareti si restrinsero gradualmente fino a formare un passaggio. Lì il soffitto era molto più basso, appena sopra la sua testa. L'acqua colava lungo una parete, ristagnando in piccole pozze tra le rocce sotto i suoi piedi. Quello non era il meraviglioso palazzo rosso della visione di Tinaral, con misteriose rune argentee su alte colonne ramificate. Era solo la terra, solo terriccio, roccia, acqua. L'aria era fredda e immota. Lontano dal gocciolio del ruscello regnava il silenzio. Oltre il lucore della luce fatua regnava l'oscurità. Medra si fermò e piegò il capo. — Anieb — disse — puoi tornare fin qui? Non conosco la strada. — Attese un po'. Non vide che oscurità, non udì che silenzio. Lentamente, entrò zoppicando nel passaggio. Early non sapeva come avesse fatto quell'uomo a sfuggirgli, ma due cose erano certe: era il mago più potente che avesse incontrato, e sarebbe tornato in tutta fretta a Roke, dato che quella era la fonte e il centro del suo potere. Inutile cercare di arrivare là prima di lui; aveva troppo vantaggio. Però poteva seguirlo, e se i suoi poteri non fossero stati sufficienti avrebbe
portato con sé una forza a cui nessun mago sarebbe stato in grado di opporsi. Perfino Morred era stato quasi abbattuto, non dalla stregoneria, ma semplicemente dalla forza delle armate che il Nemico aveva schierato contro di lui, o no? — La tua flotta si accinge a partire, maestà — annunciò Early al vecchio sbalordito che sedeva in poltrona nel palazzo dei re. — Un grande nemico si è radunato contro di te, a sud, nel mare Interno, e noi lo sgomineremo. Cento navi salperanno da Porto grande, da Omer e da Porto sud e dal tuo feudo di Hosk, la flotta più formidabile che si sia mai vista al mondo! Io guiderò i nostri uomini. E la gloria sarà tua — disse, sbottando a ridere, e Losen lo fissò sgomento, cominciando finalmente a capire chi fosse il padrone, e chi lo schiavo. Early controllava a tal punto gli uomini di Losen che in due giorni la grande flotta partì da Havnor, accrescendosi lungo il percorso. Ottanta navi veleggiarono oltre Ark e Ilien, spinte da un vento magico costante che spirava in direzione di Roke. A volte Early, in candida veste di seta, stringendo un lungo bastone bianco, il corno di una bestia marina dell'estremo nord, stava sulla prora adorna della galea di testa, i cui cento remi battevano come ali di gabbiano. A volte era lui stesso il gabbiano, o un'aquila, o un drago, che precedeva in volo la flotta, e quando gli uomini lo vedevano volare così gridavano: — Il capodrago! Il capodrago! Sbarcarono a Ilien per rifornirsi di acqua e cibo. Radunando un esercito di parecchie centinaia di uomini così rapidamente, non era rimasto molto tempo per approvvigionare le navi. Invasero le cittadine sulla costa occidentale di Ilien, prendendo ciò che volevano, e fecero lo stesso a Vissti e a Kamery, portando via tutto quello che potevano portar via e bruciando il resto. Poi la grande flotta fece rotta verso ovest, dirigendosi verso l'unico porto dell'isola di Roke, la baia di Thwil. Early sapeva del porto dalle mappe conservate a Havnor, e sapeva che il porto era sovrastato da un colle. Mentre si avvicinavano, assunse forma di drago e si librò sopra le navi, guidandole, guardando a ovest per scorgerlo. Quando lo vide, sagoma vaga verdeggiante sul mare brumoso, gridò - gli uomini sulle navi udirono il grido del drago - e volò più veloce, lasciando che loro lo seguissero alla conquista dell'isola. Stando a tutte le dicerie, Roke era protetta da incantesimi difensivi che la rendevano anche invisibile a occhi comuni. Se davvero c'erano delle magie tessute attorno a quel colle o alla baia che adesso Early vedeva aprirsi dinanzi a sé, per lui erano garza impalpabile, un velo trasparente. Nulla gli
offuscò la vista né contrastò la sua volontà, mentre sorvolava la baia, la cittadina e un edificio finito a metà sul pendio sopra di essa, raggiungendo la sommità del colle verdeggiante. Là, abbassando zampe di drago e battendo ali rosso ruggine, si posò. Assunse la propria forma. Ma non era stato lui a operare il cambiamento. Si fermò, guardingo, incerto. Il vento soffiava, l'erba alta ondeggiava. Era estate inoltrata e adesso l'erba era secca, stava ingiallendo, non c'erano fiori, a parte i capolini bianchi di schiumatrina. Una donna salì il pendio avvicinandosi a lui, avanzando tra l'erba alta. Non seguiva alcun sentiero, e camminava tranquilla, senza fretta. Early pensava di avere alzato la mano per fermarla con un incantesimo, ma non aveva compiuto nessun gesto, e la donna continuò a salire. Si fermò solo quando fu a un paio di braccia, leggermente più in basso rispetto a lui. — Dimmi il tuo nome — gli chiese, e lui rispose: — Teriel. — Perché sei venuto qui, Teriel? — Per distruggervi. Lui la fissò, vedendo una donna di mezz'età, dal viso tondo, bassa e robusta, con capelli striati di grigio e occhi scuri sotto sopracciglia scure, occhi che avvincevano i suoi, che lo tenevano avvinto, che cavavano la verità di bocca. — Distruggerci? Distruggere questo colle? Gli alberi laggiù? — La donna guardò un boschetto non lontano dal poggio. — Forse Segoy che li ha creati potrebbe distruggerli. Forse la terra distruggerà se stessa. Forse si distruggerà per mano nostra, alla fine. Ma non per opera tua. Falso re, falso drago, falso uomo, non venire sul Poggio di Roke se non conosci il suolo su cui ti trovi. — Fece un gesto con la mano, indicando il terreno. Poi si voltò e scese il pendio, attraversando la distesa erbosa come aveva fatto prima. C'erano altre persone sul colle, notò adesso Early, molte altre persone, uomini e donne, bambini, persone vive e spiriti dei morti; erano numerosissimi. Terrorizzato dalla loro presenza, si fece piccolo, cercò di operare un incantesimo che lo nascondesse. Ma non riuscì a farne alcuno. Non possedeva più alcuna dote magica. La sua magia era scomparsa, lo aveva abbandonato, assorbita da quel colle spaventoso, da quel suolo terrifico su cui lui stava. Non era più un mago, era solo un uomo come gli altri, senza potere.
Lo sapeva, ne era assolutamente certo, anche se provò ancora a pronunciare incantesimi, e alzò le braccia compiendo il gesto magico, e sferzò l'aria furioso. Poi si voltò verso est, tendendo lo sguardo per scorgere il movimento cadenzato dei remi delle galee, per scorgere le vele delle sue navi che venivano a punire quella gente e a salvarlo. Vide solo una foschia sull'acqua, su tutto il mare, fin oltre l'imboccatura della baia. Mentre osservava, la foschia diventò nebbia fitta, scura, che si diffuse sulle onde lente. La Terra girando al cospetto del sole alterna il giorno e la notte, ma dentro di lei non esiste il giorno. Medra camminava nella notte. Zoppicava parecchio, e non sempre riusciva a circondarsi della luce fatua. Quando la luce cessava, doveva fermarsi, sedersi e dormire. Il sonno non era mai morte, come invece pensava lui. Si svegliava, sempre con il freddo nelle ossa, sempre dolorante, sempre assetato, e quando riusciva a creare un barlume di luce fatua, si alzava in piedi e proseguiva. Non vedeva mai Anieb, però sapeva che lei era là. La seguiva. A volte c'erano grandi cavità. A volte c'erano pozze di acqua ferma. Non era facile violare l'immobilità della loro superficie, ma in quelle pozze Medra beveva. Gli sembrava di scendere sempre più in profondità da tantissimo tempo, finché non giunse alla pozza più lunga; dopo di essa il terreno riprese a salire. A volte Anieb lo seguiva, adesso. Medra poteva pronunciare il suo nome, anche se lei non rispondeva. Non poteva dire l'altro nome, però poteva pensare agli alberi; alle radici degli alberi. Quello era il regno delle radici degli alberi. Fin dove arrivava la foresta? Fin dove arrivavano le foreste. Fin dove arrivavano le vite, fin dove scendevano le radici degli alberi. Fin dove le foglie proiettavano le loro ombre. Lì non c'erano ombre, solo la tenebra, ma lui andò avanti, e continuò ad avanzare, finché non vide Anieb dinanzi a sé. Vide il bagliore dei suoi occhi, la nuvola dei suoi capelli ricci. Anieb si girò a guardarlo un istante, poi si voltò e corse leggera lungo un ripido pendio nell'oscurità. Dove Medra si trovava ora, il buio non era totale. L'aria si muoveva contro la sua faccia. In lontananza, davanti a lui, si scorgeva una luce fioca che non era luce fatua. Proseguì. Strisciava da tempo, ormai, trascinando la gamba destra, che non reggeva il suo peso. Proseguì. Sentì l'odore del vento della sera e vide il cielo notturno attraverso i rami e le foglie degli alberi. La radice arcuata di una quercia formava l'imboccatura della caverna, un'apertura appena sufficiente per consentire il passaggio di un uomo o di un tasso. Strisciò all'esterno. Si abbandonò accanto alla radice dell'albero,
vedendo la luce svanire e un paio di stelle far capolino tra le foglie. Fu là che Segugio lo trovò, a miglia di distanza dalla valle, a ovest di Samory, ai margini della grande foresta di Faliern. — Ti ho preso — disse il vecchio, guardando il corpo inerte sporco di fango. E aggiunse mesto: — Troppo tardi. — Si chinò per vedere se potesse sollevarlo o trascinarlo, e sentì il lieve calore della vita. — Hai la pelle dura — disse. — Su, svegliati. Andiamo, Lontra, svegliati. Lui riconobbe Segugio, anche se non aveva la forza di sollevarsi a sedere e riusciva a malapena a parlare. Il vecchio gli mise sulle spalle la propria giubba e gli fece bere un po' d'acqua dalla borraccia. Poi gli si accovacciò accanto, appoggiando la schiena al tronco immenso della quercia, e fissò la foresta per un po'. Era mattina inoltrata, faceva caldo, la luce del sole estivo filtrava attraverso le foglie creando mille tonalità di verde. Uno scoiattolo squittì, verso la sommità della quercia, e una ghiandaia gli rispose. Segugio si grattò il collo e sospirò. — Il mago sta seguendo la pista sbagliata, come al solito — disse infine. — Ha detto che eri andato a Roke e che ti avrebbe acciuffato là. Io ho taciuto. Guardò l'uomo che conosceva solo come Lontra. — Sei entrato là dentro, in quel buco, con il vecchio mago, vero? L'hai trovato? Medra annuì. — Hmm — fece Segugio, e sbottò in una risatina cavernosa. — Lo trovi quel che cerchi, vero? Come me. — Vide che il compagno soffriva, e disse: — Ti porterò via di qui. Andrò al villaggio laggiù a chiamare un carrettiere, quando avrò ripreso fiato. Ascolta. Non agitarti. Non ti ho dato la caccia tutti questi anni per consegnarti a Early. Come ti avevo consegnato a Gelluk. Mi è dispiaciuto averlo fatto. Ci ho pensato. Sai... quello che ti avevo detto a proposito degli uomini dotati che dovrebbero stare uniti, invece di lavorare per certa gente... Credevo di non avere molta scelta, e sbagliavo. Ma dopo averti trattato male, ho pensato che se per caso ti avessi incontrato ancora ti avrei fatto un favore, potendo. Da trovatore a trovatore, capito? Lontra aveva il respiro affannoso. Segugio posò un attimo una mano sulla sua e disse: — Non preoccuparti. — E si alzò. — Riposati e stai tranquillo — disse. Trovò un carrettiere che li portasse a Endlane. La madre e la sorella di Lontra vivevano dai cugini, mentre ricostruivano alla meglio la casa bru-
ciata. Lo accolsero con gioia e incredulità. Non essendo a conoscenza del legame di Segugio con il signore della guerra e il suo mago, lo trattarono come uno di loro: il brav'uomo che aveva soccorso il povero Lontra mezzo morto nella foresta e lo aveva riportato a casa. Un saggio, disse la madre di Lontra, Rosa, sicuramente un saggio. Una persona che meritava ogni riguardo. Lontra stentava a ristabilirsi, a guarire. L'aggiustaossa fece il possibile per sistemargli il braccio rotto e l'anca offesa, la saggia curò con gli unguenti i tagli provocati dalle rocce alle mani e alla testa, alle ginocchia, sua madre gli portava tutte le ghiottonerie che riusciva a trovare nell'orto e sugli arbusti di bacche; ma lui rimaneva debole e smunto come quando Segugio lo aveva rintracciato. Non c'era cuore in lui, disse la saggia di Endlane. Il suo cuore era altrove, roso dalla preoccupazione o dalla paura o dalla vergogna. — Se non è qui, allora dov'è? — chiese Segugio. Lontra, dopo un lungo silenzio, rispose: — A Roke. — Dov'è andato il vecchio Early con la grande flotta. Capisco. Hai degli amici, là. Be', so che una delle navi è tornata, perché ho visto uno dei suoi uomini giù alla tavèrna. Andrò a informarmi. Scoprirò se sono arrivati a Roke e cos'è successo là. Quel che posso dirti è che a quanto pare il vecchio Early non è ancora tornato a casa. — Segugio ridacchiò. — No, non è ancora tornato a casa — ripeté, e si alzò. Guardò Lontra, che non era un bello spettacolo. — Stai tranquillo — disse, e se ne andò. Si assentò diversi giorni. Quando ricomparve, su un carro trainato da un cavallo, aveva un'aria così soddisfatta che la sorella di Lontra si precipitò in casa e disse al fratello: — Segugio ha vinto una battaglia o una fortuna! Viaggia su un carro di città dietro un bel cavallo, come un principe! L'anziano uomo entrò subito dopo. — Bene — disse — innanzitutto, arrivato in città, vado al palazzo, per sentire che novità ci sono, e cosa vedo? Vedo il vecchio re pirata che si regge sulle sue gambe, urlando ordini come un tempo. Stava proprio in piedi! Non lo faceva da anni. Urlando ordini! E alcuni li eseguivano, altri no. Così me ne sono andato, perché una situazione del genere è pericolosa, in un palazzo. Poi ho fatto visita a certi miei amici e ho chiesto dove fosse il vecchio Early, se la flotta fosse stata a Roke e fosse rientrata e via dicendo. Mi hanno detto che nessuno sa nulla di Early. Non c'è traccia di Early, non si è più fatto vivo. Mi hanno detto, prendendomi in giro, che magari avrei potuto cercarlo io. Sanno che lo adoro. Quanto alle navi, alcune sono tornate, e gli uomini a bordo dicono di
non essere mai giunti a Roke, di non averla mai vista, di essere passati nel punto indicato dalle carte nautiche senza però trovare nessuna isola. Poi ho sentito degli uomini di una delle grandi galee. Dicono che quando si sono avvicinati alla posizione in cui avrebbero dovuto incontrare l'isola, sono entrati in un banco di nebbia così fitta che sembrava un panno bagnato, e il mare è diventato denso, talmente denso che i rematori non riuscivano quasi a muovere i remi, e sono rimasti bloccati là un giorno e una notte. Quando sono usciti dalla nebbia, sul mare non c'era più nessuna altra nave della flotta, e gli schiavi stavano quasi ribellandosi, così il capitano ha riportato tutti a casa il più in fretta possibile. Un'altra imbarcazione, la Nembo, che un tempo era la nave di Losen, è rientrata mentre io ero in città. Ho parlato con alcuni marinai appena sbarcati. Mi hanno raccontato che c'erano solo nebbia e banchi di scogli tutt'attorno a dove avrebbe dovuto essere Roke, così hanno proseguito insieme a sette altre navi, scendendo a sud, e si sono imbattuti in una flotta salpata da Wathort. Forse i signori di Wathort avevano sentito dire che stava arrivando una grande armata nemica a razziare i loro territori, perché senza fare tante domande hanno scagliato subito del fuoco magico contro le nostre navi e si sono avvicinati per tentare l'abbordaggio; gli uomini con cui ho parlato mi hanno detto che hanno dovuto lottare accanitamente per poter fuggire, e non tutti ci sono riusciti. Intanto non avevano ricevuto nessuna notizia da Early, e chi non aveva a bordo un manipolatempo doveva arrangiarsi. Così hanno risalito tutto il mare Interno, mi hanno raccontato quelli della Nembo, in ordine sparso, come cani bastonati. Allora, ti piacciono le notizie che ti ho dato? Lontra, che aveva cercato di frenare le lacrime, nascose il viso. — Sì, grazie — rispose. — Immaginavo che le avresti gradite. Quanto a re Losen — disse Segugio — chissà? — Aspirò forte con il naso e sospirò. — Se fossi in lui, mi ritirerei a vita privata — disse. — Come ho intenzione di fare io. Lontra aveva riacquistato il controllo del proprio volto e della voce. Si asciugò gli occhi e il naso, si schiarì la voce, e disse: — Può darsi che sia una buona idea. Vieni a Roke. È un posto più sicuro. — Pare che non sia tanto facile trovarlo — osservò Segugio. — Io so trovarlo — disse Lontra. 4. Medra Presso la porta stava un vecchietto
Che apriva al ricco e al poveretto; Molti vi giunsero, umili e importanti Ma la Porta di Medra non varcarono in tanti. E scorre l'acqua, scorre e va via E scorre l'acqua e va via. Segugio restò a Endlane. Poteva guadagnarsi da vivere come trovatore, nel villaggio, e gli piaceva la taverna, e l'ospitalità della madre di Lontra. All'inizio dell'autunno, Losen penzolava a testa ingiù da una finestra del Nuovo palazzo, marcendo, mentre sei signori della guerra si contendevano il suo regno, e le navi della grande flotta si inseguivano e si davano battaglia a vicenda oltre lo stretto e su tutto il mare, procelloso per opera dei maghi. Ma la Speranzosa, governata da due giovani stregoni della Mano di Havnor, attraversò il mare Interno e condusse Medra sano e salvo a Roke. Brace lo attendeva sul molo. Zoppo e magrissimo, lui le si accostò e le prese le mani, però non riuscì a guardarla in faccia. Disse: — Ho troppe morti che mi gravano sul cuore, Elehal. — Vieni con me nel Bosco — disse lei. Andarono là insieme e vi rimasero fino all'arrivo dell'inverno. Nell'anno seguente, costruirono una casetta vicino alla riva del Thwilburn che usciva dal Bosco, e vissero là tutta l'estate. Lavorarono e insegnarono nella Grande casa. La videro innalzarsi pietra su pietra, e ogni pietra era impregnata di incantesimi di protezione, resistenza, e pace. Videro istituire la Regola di Roke, ma mai in modo saldo e rigoroso, come forse avrebbero desiderato, poiché c'era sempre qualche contrasto; perché giungevano magi da altre isole, e degli studenti della scuola si affermavano come tali, ed erano uomini e donne di potere, persone dotte, orgogliose, che avevano giurato sulla Regola di operare insieme e per il bene di tutti, ma ognuno manteneva opinioni personali in merito al metodo. Invecchiando, Elehal si stancò delle passioni e delle questioni della scuola, e fu attratta sempre più dagli alberi, dove andava da sola, fin dove arrivava la mente. Anche Medra si recava nel Bosco, ma non si spingeva lontano come lei, perché era zoppo. Dopo la morte di Elehal, visse per qualche tempo in solitudine nella casetta vicino al Bosco. Un giorno d'autunno tornò alla scuola. Entrò dalla porta del giardino,
che dava sul sentiero che attraverso i campi conduceva al Poggio di Roke. Era un particolare curioso della Grande casa di Roke, quello: non aveva nessun portale, nessun ingresso sontuoso. Si poteva entrare da quella che chiamavano la porta posteriore, che, sebbene fatta di corno con l'intelaiatura di denti di drago e decorata con un intaglio dell'Albero dalle mille foglie, non sembrava granché dall'esterno, visto che vi si arrivava percorrendo una stradicciola squallida; o si poteva entrare dalla porta del giardino, semplice quercia disadorna con un chiavistello di ferro. Ma non c'era una porta principale. Medra percorse le sale e i corridoi di pietra fino al punto più interno dell'edificio, il cortile della fontana, dove l'albero piantato da Elehal adesso si ergeva alto, con le bacche ormai rosse. Sentendo che lui era là, gli insegnanti di Roke lo raggiunsero, gli uomini e le donne che erano maestri e maestre della loro arte. Medra era il Maestro Trovatore, prima di isolarsi nel Bosco. Una giovane donna insegnava ora quell'arte, come Medra l'aveva insegnata a lei. — Ho riflettuto — disse Medra. — Voi siete otto. Nove è un numero migliore. Consideratemi ancora un maestro, se volete. — Cosa farai, Mastro Sterna? — chiese l'Evocatore, un magio di Ilien dai capelli grigi. — Custodirò la porta — rispose Medra. — Essendo zoppo, non mi allontanerò mai molto dalla porta. Essendo vecchio, saprò cosa dire a quelli che vengono qui. Essendo un trovatore, scoprirò se sono adatti a questo luogo. — Ci eviterebbe molti problemi e qualche pericolo — osservò la giovane Trovatrice. — E come farai? — domandò l'Evocatore. — Chiederò il loro nome — spiegò Medra. Sorrise. — Se me lo diranno, potranno entrare. E quando penseranno di avere imparato tutto, potranno uscire. Se sapranno dirmi il mio nome. E così fece. Per il resto della sua vita, Medra custodì le porte della Grande casa di Roke. La porta del giardino che dava sul Poggio fu chiamata a lungo la Porta di Medra, anche dopo che molte altre cose erano cambiate in quell'edifico con il passare dei secoli. E il nono Maestro di Roke è tuttora il Portinaio. A Endlane e nei villaggi alle pendici dell'Onn, le donne che filano e tessono cantano una canzone indovinello, e l'ultima strofa forse ha a che fare con l'uomo che fu Medra, e Lontra, e Sterna.
C'eran tre cose che non saran più: La bella Solea alta sull'onda, Un drago che nuota nel mare blu, L'uccello marino in vol nella tomba. Rosascura e Diamante Una barcarola dell'ovest di Havnor Dove il mio amore va Là io andrò. Dove la sua barca remerà Io remerò. Rideremo insieme, Insieme piangeremo. S'egli vivrà, vivrò, Se morirà, morirò. Dove il mio amore va Là io andrò. Dove la sua barca remerà Io remerò. Nella parte occidentale di Havnor, tra colline coperte di boschi di querce e castagni, c'è la cittadina di Radura. Tempo addietro, il ricco di quella cittadina era un mercante di nome Aureo. Aureo possedeva la segheria che tagliava le tavole di quercia per le navi che si costruivano a Porto sud e a Porto grande; possedeva i castagneti più estesi; possedeva i carri e impiegava i carrettieri che trasportavano legno e castagne oltre le colline per la vendita. Conduceva una vita agiata grazie agli alberi, e quando nacque suo figlio, la madre disse: — Potremmo chiamarlo Castagno, o Quercia, magari? — Ma il padre disse: — Diamante — dato che a suo avviso il diamante era l'unica cosa più preziosa dell'oro. Così il piccolo Diamante crebbe nella più bella casa di Radura un bambino grasso, rubicondo, allegro, dagli occhi vivaci. Aveva una voce melodiosa, aveva orecchio, e amava la musica, così sua madre, Tuly, lo chia-
mava Passerotto o Allodola, tra gli altri appellativi affettuosi, poiché "Diamante" non le era mai piaciuto. Il ragazzo trillava e cantava in tutta la casa; imparava qualsiasi canzone non appena la sentiva, e quando non ne sentiva, inventava nuove melodie. Sua madre gli fece insegnare dalla saggia Groviglio La Creazione di Ea e Le Gesta del Giovane re, e nella ricorrenza di Tornasole, quando aveva undici anni, Diamante cantò Il Canto d'Inverno per il signore del Territorio occidentale, che stava visitando il proprio dominio sulle colline sopra Radura. Il signore e la sua signora lodarono il canto del ragazzo e gli donarono un minuscolo scrigno d'oro con un diamante incastonato nel coperchio, un gesto gentile e un regalo grazioso che Diamante e la madre gradirono. Ma Aureo non apprezzava granché il canto e i ninnoli. — Ci sono cose più importanti che devi fare, figliolo — disse. — Premi più grandi da meritare. Diamante pensava che il padre si riferisse agli affari - i boscaioli, i segatori, la segheria, i castagneti, i raccoglitori, i carrettieri, i carri - tutto quel lavoro e le discussioni e l'organizzazione, quelle faccende complicate, da adulti. Erano cose che aveva sempre considerato con disinteresse, quindi come avrebbe fatto a occuparsene come si aspettava suo padre? Forse lo avrebbe scoperto crescendo. Ma in realtà Aureo non stava pensando solo agli affari. Nel figlio aveva osservato qualcosa che lo induceva non proprio a mirare più in alto degli affari, ma a gettare di tanto in tanto uno sguardo oltre gli affari, per poi chiudere gli occhi. All'inizio pensava che Diamante possedesse una capacità che molti bambini avevano e in seguito perdevano, un barlume sporadico di magia. Da piccolo, Aureo stesso riusciva a far luccicare la propria ombra. I suoi famigliari lo avevano elogiato per quel trucchetto simpatico, invitandolo a esibirsi davanti ai visitatori; poi, quando aveva sette o otto anni, l'aveva disimparato e non era più riuscito a farlo. Quando vide che Diamante scendeva la scala senza toccare i gradini, pensò che i suoi occhi lo avessero ingannato; ma alcuni giorni dopo, vide che il bambino saliva le scale fluttuando nell'aria, facendo solo scorrere un dito sulla ringhiera di quercia. — Sai farlo anche venendo giù? — chiese Aureo, e Diamante rispose: — Oh, sì, così — e tornò dabbasso, leggero come una nuvola sospinta dal vento del sud. — Come hai imparato a farlo? — L'ho scoperto per caso, senza volerlo — rispose il ragazzo, evidentemente incerto se il padre approvasse o meno.
Aureo non lodò il figlio, non volendo che si vergognasse o si vantasse di quello che forse era soltanto un dono infantile, effimero, come la sua voce acuta melodiosa. Si faceva già fin troppo chiasso per il suo talento canoro. Ma circa un anno dopo vide Diamante nel giardino dietro casa con la compagna di giochi Rosa. I bambini erano accovacciati, le teste vicine, ridevano. Nel loro atteggiamento c'era un che di intenso o misterioso che lo indusse a fermarsi alla finestra del pianerottolo della scala e a osservarli. Tra loro, qualcosa stava saltellando su e giù... una rana, un rospo, un grosso grillo? Andò in giardino e si avvicinò, muovendosi così silenzioso, nonostante fosse un omone, che i ragazzi, assorti, non lo sentirono. La cosa che saltellava sull'erba tra i loro piedi nudi era una pietra. Diamante alzò la mano, e la pietra si staccò con un balzo dal suolo; quando agitò leggermente il palmo, la pietra rimase sospesa a mezz'aria; e quando schioccò le dita verso il basso, il sasso cadde a terra. — Adesso tocca a te — disse Diamante a Rosa, e lei cominciò a ripetere quanto lui aveva appena fatto, ma la pietra si limitò a sussultare un poco. — Oh — mormorò Rosa — c'è tuo padre. — Davvero bello questo gioco — disse Aureo. — L'ha inventato Diama — fece Rosa. Ad Aureo la bambina non piaceva. Era al contempo schietta e chiusa, avventata e timida. Era una femmina, di un anno più giovane di Diamante, e figlia di una strega. Aureo avrebbe voluto che il figlio giocasse con dei ragazzi della sua età, del suo rango, appartenenti alle famiglie rispettabili di Radura. Tuly si ostinava a chiamare la strega "la saggia", ma una strega era sempre una strega, e sua figlia non era una compagna adatta a Diamante. Aureo, tuttavia, provava una certa soddisfazione nel vedere che il figlio insegnava dei trucchi alla piccola strega. — Cos'altro sai fare, Diamante? — chiese. — Suonare il flauto — rispose prontamente il bambino, ed estrasse dalla tasca il piccolo piffero che la madre gli aveva regalato quando aveva compiuto dodici anni. Lo portò alle labbra, mosse agile le dita, e suonò un dolce motivo familiare della costa occidentale, Dove il mio amore va. — Molto bello — disse il padre. — Ma, sai, chiunque può suonare il piffero. Diamante lanciò un'occhiata a Rosa. La ragazza distolse lo sguardo, piegò il capo. — L'ho imparato molto in fretta — disse Diamante. Aureo bofonchiò, per nulla colpito.
— Può farlo da solo — disse Diamante, e staccò il piffero dalle labbra. Le sue dita guizzarono sui fori, e il piffero suonò una breve giga. Stonò parecchie volte, e l'ultima nota acuta fu un fischio stridulo. — Non ho ancora imparato bene — disse il bambino, seccato e imbarazzato. — Niente male, niente male — commentò suo padre. — Continua a esercitarti. — E se ne andò. Non era sicuro di quanto avrebbe dovuto dire. Non voleva incoraggiare il ragazzo a dedicare altro tempo alla musica, o a quella ragazza; gliene dedicava già fin troppo, e né la musica né la compagna lo avrebbero aiutato molto a farsi strada nella vita. Però quel dono, quel dono innegabile... la pietra a mezz'aria, il flauto che suonava senza soffiare nell'imboccatura... Be', sarebbe stato sbagliato dare eccessiva importanza alla cosa, ma probabilmente non andava scoraggiata. Secondo Aureo, il denaro significava potere, ma non era l'unico potere. Ce n'erano altri due, uno pari, uno superiore. C'era il lignaggio, la nascita. Quando il signore del Territorio occidentale veniva nel proprio dominio nei pressi di Radura, Aureo era contento di fargli atto d'omaggio. Il signore era nato per governare e mantenere la pace, come Aureo era nato per occuparsi di commercio e proprietà; ognuno al proprio posto; e tutti, nobili o uomini comuni, se servivano bene e con onestà, meritavano onore e rispetto. Ma c'erano anche signori minori che Aureo poteva trattare diversamente, a cui poteva concedere prestiti o meno, lasciando che elemosinassero, uomini di nobili natali che non meritavano né omaggio né onore. Il potere del lignaggio e il potere del denaro erano aleatori, e bisognava conquistarli per non perderli. Ma oltre ai ricchi e ai nobili c'erano le persone chiamate uomini di potere: i maghi. Il loro potere, sebbene esercitato poco, era assoluto. Avevano nelle loro mani il destino del regno dell'Arcipelago, da tempo senza sovrano. Se Diamante era davvero nato per quel tipo di potere, se quello era il suo dono, allora tutti i sogni e i progetti di Aureo di insegnare al figlio la conduzione degli affari, di farsi aiutare da lui a incrementare il commercio con Porto sud e comprare tutti i castagneti sopra Reche, tutti quei progetti si riducevano a bazzecole. E se Diamante fosse andato (come lo zio materno) alla Scuola di Maghi di Roke? E se Diamante (come quello zio) avesse acquistato gloria per la famiglia e sovranità su nobili e cittadini comuni, diventando un mago alla Corte del signore reggente a Porto grande? Poco mancò che Aureo stesso salisse le scale gallegiando nell'aria, trasportato da tali visioni.
Ma non disse nulla al ragazzo né alla moglie. Era un uomo volutamente taciturno, che diffidava delle fantasticherie finché non era possibile tradurle in atti concreti; e la consorte, pur essendo devota e solerte come moglie e madre e massaia, dava già fin troppa importanza al talento e alle doti del figlio. Inoltre, come tutte le donne, era incline alla chiacchiera e al pettegolezzo, e sconsiderata nella scelta delle amicizie. Quella ragazza, Rosa, frequentava Diamante perché Tuly incoraggiava la madre della piccola, la strega Groviglio, a venire in visita, consultandola ogni volta che Diamante aveva una pipita, e raccontandole più del lecito circa le questioni private della famiglia. Gli affari di Aureo non erano affar della strega. D'altro canto, forse Groviglio avrebbe potuto dirgli se suo figlio fosse davvero promettente, se avesse disposizione per la magia... ma inorridì al pensiero di rivolgersi a lei, di chiedere un parere a una strega, soprattutto un consiglio su suo figlio. Decise di aspettare e osservare. Essendo un uomo paziente con una notevole forza di volontà, lo fece per quattro anni, finché Diamante non fu sedicenne. Ben sviluppato, grande e grosso, bravo nei giochi e negli studi, il giovane aveva ancora il viso rubicondo, gli occhi vivaci e allegri. L'aveva presa male quando la sua voce era cambiata, quando il melodioso timbro acuto era diventato rauco e sgradevole. Aureo aveva sperato che con il cambiamento di voce il figlio avrebbe smesso di cantare, ma il ragazzo continuava a girovagare con suonatori ambulanti, cantori di ballate e gente simile, imparando tutta la loro robaccia. Non era quella la vita adatta al figlio di un mercante che doveva ereditare e gestire le proprietà e le attività del padre, e Aureo glielo disse. — Il tempo dei canti è finito, figliolo — gli annunciò. — Devi pensare a diventare un uomo. Al ragazzo era stato imposto il nome vero alle sorgenti dell'Amia, nelle colline sopra Radura. Il mago Cicuta, che aveva conosciuto il magio prozio del giovane, salì da Porto sud per celebrare il rito. E Cicuta fu invitato l'anno seguente alla festa d'onomastico, una grande festa, birra e cibo per tutti, e abiti nuovi, una camicia o una gonna o una sottoveste per ogni bambino e bambina, secondo la vecchia usanza della parte occidentale di Havnor, e danze sullo spiazzo erboso al centro del villaggio nella tiepida serata autunnale. Diamante aveva molti amici, tutti i ragazzi della sua età e anche tutte le ragazze. I giovani ballarono, e alcuni bevvero un po' troppa birra, ma nessuno si comportò male, e fu una serata gioiosa e memorabile. La mattina dopo, Aureo disse di nuovo al figlio che doveva pensare a diventare uomo.
— Un po' ci ho pensato — disse il ragazzo, la voce roca. — Ebbene? — Be', io... — iniziò Diamante, e si bloccò. — Contavo su di te perché ti occupassi degli affari di famiglia — disse Aureo. Il suo tono era neutro, e Diamante rimase in silenzio. — Hai qualche idea su cosa vorresti fare? — A volte. — Hai parlato con Mastro Cicuta? Diamante esitò e rispose: — No. — Rivolse al padre uno sguardo interrogativo. — Ho parlato con lui ieri sera — proseguì Aureo. — Mi ha detto che certi doni naturali non solo sono difficili da sopprimere, ma è anche sbagliato e dannoso provarci. La luce era tornata a balenare negli occhi scuri di Diamante. — Secondo il maestro, simili doti vanno educate, altrimenti, oltre a essere sprecate, possono risultare pericolose. L'arte va appresa ed esercitata, mi ha spiegato. Il volto del ragazzo raggiava. — Però, mi ha spiegato, va appresa ed esercitata per il gusto di farlo. Diamante annuì entusiasta. — A maggior ragione se si tratta di un dono vero, di un talento insolito. Una strega con i suoi filtri d'amore non può causare tanto danno, ma perfino un modesto stregone di campagna, come mi ha spiegato Mastro Cicuta, deve essere prudente, perché se l'arte è usata per scopi vili diventa debole e perniciosa... Naturalmente, perfino un modesto stregone viene pagato. E i maghi, come sai, vivono con i signori, e hanno ciò che desiderano. Diamante ascoltava attento, corrugando un po' la fronte. — Quindi, per essere franchi, se tu hai questo dono, Diamante, non è di alcuna utilità, direttamente, ai nostri affari. Dev'essere coltivato nel modo opportuno e tenuto sotto controllo... appreso e padroneggiato. Solo allora, mi ha detto Mastro Cicuta, i tuoi insegnanti potranno cominciare a indicarti come impiegarlo, in che modo ti gioverà... gioverà a te o agli altri — aggiunse coscienzioso il padre. Ci fu una lunga pausa. — Gli ho raccontato — riprese poi Aureo — di averti visto trasformare, con un gesto della mano e una sola parola, la statuina di legno di un uccello in un uccello che ha spiccato il volo cantando. Ti ho visto far brillare un lieve bagliore nell'aria. Tu non sapevi che ti osservavo. Ho osservato senza
dire nulla per molto tempo. Non volevo dare troppa importanza a semplici giochi infantili. Ma credo che tu abbia un dono, forse un grande dono. Quando ho raccontato a Mastro Cicuta cosa ti ho visto fare, lui ha convenuto con me. Ha detto che puoi andare a studiare con lui a Porto sud per un anno, o forse più a lungo. — Studiare con Mastro Cicuta? — disse Diamante, e la sua voce salì di mezza ottava. — Se vuoi. — Io... io... non ci ho mai pensato. Posso pensarci? Per un po'... per un giorno? — Certo — annuì Aureo, contento della cautela del figlio. Pensava che Diamante potesse accettare subito la proposta, il che sarebbe stato normale, forse, ma doloroso per il padre il gufo che aveva - forse - generato un'aquila. Perché Aureo con sincera umiltà considerava l'arte magica qualcosa di inarrivabile... non un semplice balocco quale la musica o la narrazione di storie, ma un'attività concreta dal potenziale immenso, che la sua attività di mercante non avrebbe mai potuto eguagliare. Inoltre, anche se non si sarebbe espresso in questi termini, aveva paura dei maghi. Era un po' sprezzante nei confronti degli stregoni, con i loro trucchi e le loro illusioni e i paroloni a vanvera, ma dei maghi aveva paura. — La mamma lo sa? — chiese Diamante. — Lo saprà a tempo debito. Non svolge alcun ruolo nella tua decisione, Diamante. Le donne non sanno nulla di queste cose, non hanno nulla a che fare con queste faccende. Devi compiere la tua scelta da solo, come un uomo. Lo capisci? — Aureo parlava con estrema convinzione; era l'occasione giusta per cominciare a staccare il ragazzo dalla madre. Lei, essendo una donna, tendeva ovviamente a tenersi stretto il figlio, ma lui era un uomo e doveva imparare a separarsi da lui. E il ragazzo annuì in modo abbastanza risoluto da soddisfare il padre, anche se manteneva un'espressione meditabonda. — Mastro Cicuta ha proprio detto che io... che secondo lui io avrei... che potrei avere un dono, disposizione per...? Aureo gli assicurò che il mago aveva detto così, anche se naturalmente bisognava ancora vedere di quale tipo di dono si trattasse. La modestia del ragazzo gli procurava un grande sollievo. Sotto sotto, aveva temuto che Diamante trionfasse su di lui, facendo valere subito il proprio potere... quel potere misterioso, pericoloso, imprevedibile, contro cui la sua ricchezza,
abilità e dignità nulla potevano. — Grazie, padre — disse il ragazzo. Aureo lo abbracciò e se ne andò soddisfatto. Il loro luogo d'incontro era il saliceto, il boschetto di salici vicino all'Amia, là dove il fiume scorreva sotto la fucina del fabbro. Non appena Rose arrivò, Diamante disse: — Vuole che vada a studiare con Mastro Cicuta! Cosa devo fare? — Studiare con il mago? — Pensa che io abbia questo grande talento. Per la magia. — Chi? — Mio padre. Ha visto alcune delle cose che stavamo provando. Ma dice che Cicuta sostiene che dovrei studiare con lui perché potrebbe essere pericoloso non farlo. Oh... — e Diamante si batté le mani sul capo. — Ma quel talento lo hai davvero. Il giovane gemette e si fregò la testa con le nocche. Sedeva sul terreno nel loro vecchio angolo dei giochi, un recesso appartato tra i salici, dove udivano il torrente che scorreva sui sassi lì accanto e il clangore della fucina più in lontananza. La ragazza si sedette di fronte a lui. — Pensa a tutte le cose che riesci a fare — gli disse. — Non ci riusciresti se non avessi un dono. — Un piccolo dono — bofonchiò lui. — Sufficiente per qualche giochetto. — Come fai a saperlo? Rosa aveva la pelle molto scura, con una nuvoletta di capelli crespi, bocca sottile, un volto intenso e serio. Mani e gambe e piedi erano nudi e sporchi, e la sua gonna e la giubba erano sciupate. Le dita dei piedi e delle mani erano delicate e aggraziate, e una collana di ametiste luccicava sotto la giubba lacera e priva di bottoni. Sua madre, Groviglio, si guadagnava da vivere curando e guarendo, aggiustando ossa e aiutando le partorienti, e vendendo incantesimi di ritrovamento, filtri d'amore e pozioni per dormire. Poteva permettersi di vestire se stessa e la figlia con abiti nuovi, di comperare delle scarpe, e provvedere alla pulizia personale, ma non le veniva in mente di farlo. Né s'interessava dell'andamento della casa. Lei e Rosa vivevano perlopiù di pollo lesso e uova fritte, dato che spesso la pagavano dandole del pollame. Il cortile della loro casa di due stanze pullulava di gatti e galline. Le piacevano i gatti, i rospi, e i gioielli. La collana di ametiste era stata il pagamento per aver fatto nascere sano e forte il figlio del
capo guardaboschi di Aureo. Groviglio stessa era piena di braccialetti e cerchietti che luccicavano e tintinnavano quando muoveva le mani in un gesto rapido e impaziente per compiere qualche incantesimo. A volte girava con un gattino sulla spalla. Non era una madre attenta. Quando aveva sette anni, Rosa le aveva chiesto: — Perché mi hai messa al mondo se non mi volevi? — Come puoi aiutare i bambini a nascere se non ne hai avuto uno? — rispose la madre. — Dunque sono stata un'esercitazione — sbottò aspra la piccola. — Tutto quel che si fa serve a far pratica — disse Groviglio. Non era mai cattiva. Si ricordava assai di rado di fare qualcosa per la figlia, però non la feriva mai, non la rimproverava mai, e le dava tutto ciò che Rosa le chiedeva: il pranzo, un rospo tutto suo, la collana di ametiste, lezioni di stregoneria. Le avrebbe procurato vestiti nuovi se Rosa glieli avesse chiesti, ma la ragazza non gliene chiedeva mai. La giovane aveva badato a se stessa fin dalla tenera età; e questo era uno dei motivi per cui Diamante l'amava. Con lei, sapeva cosa fosse la libertà. Senza di lei, poteva raggiungerla solo quando ascoltava la musica, cantava o suonava. — Un dono l'ho davvero — disse ora Diamante, strofinandosi le tempie e tirandosi i capelli. — Smettila di distruggerti la testa — disse Rosa. — Tarry pensa che lo abbia, lo so. — Certo che ce l'hai! Che importa cosa pensa Tarry? Suoni già l'arpa dieci volte meglio di lui. Quello era un altro motivo per cui lui l'amava. — Esiste qualche mago musicista? — le domandò, alzando lo sguardo. Lei rifletté. — Non lo so. — Nemmeno io. Morred ed Elfarran cantavano, e lui era un magio. Penso che ci sia un Maestro Cantore a Roke, che insegna le ballate e le storie. Ma non ho mai sentito parlare di un mago che fosse musicista. — Non vedo perché un mago non possa esserlo. — Lei era sempre aperta a qualsiasi possibilità. Altro motivo per cui le piaceva tanto. — Mi è sempre sembrato che si assomigliassero abbastanza — osservò — la magia e la musica. Gli incantesimi e le melodie. Innanzitutto, vanno eseguiti alla perfezione. — Esercizio — disse Rosa, piuttosto acida. — Lo so. — Gli lanciò un sassolino, che si trasformò a mezz'aria in una farfalla. Lui fece altrettanto, e le due creature colorate svolazzarono alcuni istanti prima di ricadere a
terra come ciottoli. Diamante e Rosa avevano inventato diverse variazioni del genere, partendo dal vecchio giochetto del sasso che saltellava. — Dovresti andare, Diama — disse lei. — Solo per scoprirlo. — Lo so. — Pensa se diventassi un mago! Oh! Pensa alle cose che potresti insegnarmi! Il cambiamento di forma... Potremmo mutarci in qualunque cosa. Cavalli! Orsi! — Talpe — disse Diamante. — Se devo essere sincero, avrei voglia di nascondermi sottoterra. Ho sempre pensato che mio padre mi avrebbe insegnato a condurre i suoi affari, dopo l'imposizione del nome. Ma in tutto questo tempo ha continuato ad aspettare. Immagino che avesse in mente la magia fin dall'inizio. Ma se andassi a studiare con Cicuta e scoprissi che non sono portato per la magia come non lo sono per la contabilità? Perché non posso fare quello che so di essere in grado di fare? — Be', perché non puoi fare tutto quanto? Dedicarti alla magia e alla musica, almeno. Un contabile puoi sempre assumerlo. Quando Rosa rideva, la sua faccia scarna s'illuminava, la bocca sottile si allargava, e gli occhi scomparivano. — Oh, Rosascura — mormorò Diamante. — Ti amo. — Certo che mi ami. Ti conviene. Se non mi amassi, ti stregherei. Si piegarono in avanti sulle ginocchia, avvicinando i visi, le braccia abbassate, le mani unite. Si baciarono su tutta la faccia. Alle labbra di Rosa, il volto di Diamante era liscio e pieno come una prugna, con appena una traccia di ruvidezza sopra la bocca e sul mento, dove ultimamente il giovane aveva cominciato a radersi. Per le labbra di Diamante, il volto di Rosa era morbido come seta, con appena una traccia di ruvidezza su una guancia, che lei si era strofinata con una mano sporca. Si avvicinarono ancora un poco, e i loro petti e i loro ventri si toccarono, ma le mani rimasero abbassate. Continuarono a baciarsi. — Rosascura — le sussurrò lui all'orecchio... il nome segreto con cui la chiamava. Lei non disse nulla, ma gli alitò calda nell'orecchio, e Diamante emise un gemito. Le strinse le mani. Poi si ritrasse leggermente. Anche lei si ritrasse. Rimasero accovacciati. — Oh, Diama — fece lei — sarà terribile quando te ne andrai. — Non me ne andrò — dichiarò il giovane. — In nessun posto. Mai.
Ma naturalmente andò a Porto sud, con un carro del padre guidato da un carrettiere del padre, insieme a Cicuta. Di solito, la gente seguiva i consigli dei maghi. Ed era un grande onore essere invitati da un mago a diventare suoi studenti o apprendisti. Cicuta, che aveva conseguito il proprio bastone a Roke, era abituato a essere interpellato da ragazzi che andavano da lui supplicandolo di essere messi alla prova e, se in possesso del dono necessario, educati. Lo incuriosiva un po' quel giovane che dietro i bei modi cordiali celava una certa dose di riluttanza o di insicurezza. Era il padre, non il ragazzo, a pensare che fosse dotato. Il che era insolito, anche se forse meno insolito tra i ricchi che non tra il volgo. Comunque, il padre aveva versato in anticipo una sostanziosa quota d'apprendistato in oro e avorio. Se il ragazzo avesse avuto la stoffa del mago, Cicuta lo avrebbe educato; se invece, come sospettava, si fosse trattato di una semplice attitudine passeggera e infantile, l'allievo sarebbe stato mandato a casa con quanto rimaneva della quota pagata. Cicuta era un mago onesto, integerrimo, dotto, serissimo, cui non interessavano molto sentimenti e idee. Il suo talento era per i nomi. — L'arte inizia e finisce con la nominazione — diceva, il che era verissimo, anche se forse c'erano parecchie altre cose tra l'inizio e la fine. Così Diamante, invece di imparare incantesimi e illusioni e trasformazioni e tutti i trucchi pacchiani del genere, per usare l'espressione di Cicuta, sedeva in una stanzetta sul retro della casetta del mago, situata in una stradicciola nella zona più vecchia della città, e imparava a memoria lunghe, lunghissime liste di parole, parole di potere nella Lingua della creazione. Piante e parti di piante e animali e parti di animali e isole e parti di isole, parti di navi, parti del corpo umano. Le parole non avevano mai senso, non formavano mai delle frasi. Erano soltanto liste. Lunghe, lunghissime. La sua mente prese a vagare. "Ciglio" nella Vera lingua era siasa, lesse, e sentì che delle ciglia gli sfioravano la guancia leggere come un bacio di farfalla, ciglia scure. Trasalì e alzò lo sguardo, senza capire cosa lo avesse toccato. In seguito, quando provò a ripetere la parola, restò muto. — Memoria, memoria — diceva Cicuta. — Il talento non serve a nulla senza la memoria! — Non era severo, però era inflessibile. Diamante non sapeva che opinione avesse Cicuta di lui, ma immaginava che non lo considerasse granché. A volte il mago si faceva accompagnare da lui quando doveva svolgere qualche compito; perlopiù, si trattava di fare incantesimi di protezione a navi e case, di purificare pozzi, e di partecipare alle sedute
dei consigli cittadini, parlando di rado ma ascoltando sempre. Un altro mago, non educato a Roke ma con il dono della guarigione, si occupava dei malati e dei moribondi di Porto sud. Cicuta era ben contento di lasciargli tale mansione. A lui piaceva solo studiare e, a quanto poteva vedere Diamante, non fare nulla di magico. — Mantenere l'Equilibrio, consiste tutto in questo — diceva Cicuta, e: — Conoscenza, ordine, e controllo. — Lo diceva così spesso che quelle parole formarono un motivetto nella mente del ragazzo, echeggiando di continuo: Cono-sceenza orditi eccontroool... Quando Diamante usava le liste di nomi come parole di motivi inventati da lui, riusciva a impararle molto più velocemente; però così la melodia si fondeva con il nome, e lui cantava così forte - perché gli era tornata la voce, sebbene cambiata, un timbro tenorile stentoreo - che Cicuta sussultava. La casa del mago era molto silenziosa. L'allievo, perlopiù, doveva stare con il maestro, o studiare le liste di nomi nella stanza dove si trovavano i libri del sapere e dei nomi, o dormire. Cicuta era uno strenuo fautore del motto: "Presto a letto e presto in piedi". Ma ogni tanto Diamante aveva un paio d'ore libere. Scendeva sempre al porto e si sedeva su un pontile o su una scala d'attracco e pensava alla ragazza. Non appena usciva dalla casa e si allontanava da Mastro Cicuta, cominciava a pensare a Rosascura, e continuava a pensare a lei e a poco altro. Era un po' sorpreso di questo. Credeva di dover sentire nostalgia di casa, di dover pensare a sua madre. In effetti, pensava molto spesso anche a lei, e gli mancava la sua casa, coricato sul lettino nella sua stanzetta spoglia dopo una magra cena a base di passato di piselli freddo... perché quel mago, almeno, non viveva nel lusso come aveva immaginato Aureo. Diamante non pensava mai a Rosascura, di notte. Pensava a sua madre, o a stanze soleggiate e cibo caldo, o gli nasceva nella testa una melodia e lui provava a eseguirla mentalmente all'arpa, e così si addormentava. Rosascura gli veniva in mente solo quando scendeva al porto e contemplava l'acqua e i pontili e i pescherecci, solo quando era all'aperto e lontano da Cicuta. Così adorava le sue ore libere come se fossero veri e propri incontri con lei. L'aveva sempre amata, ma non si era reso conto di amarla più di chiunque altro e di qualsiasi altra cosa. Quando era con lei, perfino quando era al porto e pensava a lei, si sentiva vivo. Non si sentiva mai del tutto vivo nella casa di Mastro Cicuta e in presenza del mago. Si sentiva un po' morto. Non morto, ma un poco morto, sì.
A volte, seduto sulla scala d'attracco, con l'acqua sporca del porto che lambiva sciabordando il gradino sotto i suoi piedi, e le strida dei gabbiani e il vociare dei portuali che si diffondevano nell'aria come una musica brutta e zoppicante, Diamante chiudeva gli occhi e vedeva la sua amata così nitida, così vicina, che allungava la mano per toccarla. Se allungava le dita solo mentalmente, come quando suonava l'arpa mentale, la toccava davvero. Sentiva la sua mano nella propria, e con la bocca sentiva la sua guancia, calda e fresca, vellutata e ruvida. Mentalmente, le parlava, e lei rispondeva, e la sua voce roca diceva: — Diamante... Ma risalendo le strade di Porto sud, lui la perdeva. Giurava di tenerla con sé, di pensare a lei, di rivederla quella notte, ma lei scompariva. Quando apriva la porta di casa di Mastro Cicuta, Diamante recitava già liste di nomi, o si domandava cosa avrebbe mangiato a cena, perché aveva quasi sempre fame. Solo quando aveva un'ora di svago e poteva tornare di corsa al porto, riusciva a pensare a lei. Così arrivò a considerare quelle ore come degli incontri reali con l'amata, e le aspettava ansioso, senza sapere cosa attendesse finché non posava i piedi sull'acciottolato, e lo sguardo sul porto e sull'orizzonte marino in lontananza. Allora ricordava ciò che valeva la pena di ricordare. L'inverno trascorse, e il freddo inizio di primavera, e con il tepore della primavera inoltrata giunse una lettera di sua madre, consegnata da un carrettiere. Diamante la lesse e andò con la lettera da Mastro Cicuta, dicendo: — Mia madre vorrebbe sapere se posso passare un mese a casa quest'estate. — Probabilmente, no — rispose il mago, poi, degnando di maggiore attenzione il ragazzo, posò la penna e disse: — Giovanotto, devo chiederti se desideri continuare a studiare con me. Diamante rimase interdetto. Non aveva mai pensato che la cosa dipendesse da lui. — Pensi che debba continuare? — domandò infine. — No, probabilmente — rispose il mago. Il giovane si aspettava di sentirsi sollevato, liberato, ma si accorse di provare invece un senso di vergogna, l'umiliazione di chi è stato respinto. — Mi dispiace — disse, con tale dignità che Cicuta tornò ad alzare lo sguardo. — Potresti andare a Roke — disse il mago. — A Roke? L'espressione imbambolata del ragazzo irritò l'uomo, anche se Cicuta sapeva che non si sarebbe dovuto arrabbiare. I maghi erano abituati a ri-
scontrare una sicurezza di sé smisurata nei giovani della loro sorta. Si aspettavano che la modestia subentrasse in seguito, sempre che questo avvenisse. — Ho detto Roke. — Il tono di Cicuta indicava che non era abituato a dover ripetere le cose. Poi, dato che quel ragazzo, quel ragazzo viziato, svagato, sciocco, che però era paziente e non si lamentava mai, gli era in fondo simpatico, ebbe pietà di lui e disse: — Dovresti o andare a Roke o trovare un mago che ti insegni quello di cui hai bisogno. Naturalmente, hai bisogno di quello che posso insegnarti io. Hai bisogno dei nomi. L'arte inizia e finisce con la nominazione. Ma non è questo il tuo dono. Hai poca memoria per le parole. Devi esercitarla con diligenza. Comunque, è chiaro che hai delle doti, doti che vanno coltivate e disciplinate, cosa che un'altra persona può fare meglio di me. — Dunque la modestia generava modestia, a volte, perfino in luoghi improbabili. — Se tu dovessi andare a Roke, ti darei una lettera, raccomandandoti all'attenzione del Maestro Evocatore. — Ah — fece Diamante, sbalordito. L'arte dell'Evocatore era forse la più arcana e pericolosa di tutte le arti magiche. — Può darsi che mi sbagli — disse Cicuta, la voce aspra e monotona. — Forse sei portato per la Struttura. O magari il tuo è un talento comune per la forma e la trasformazione. Non ne sono sicuro. — Però credi... credi che io abbia davvero... — Oh, sì. Giovanotto, sei straordinariamente lento a riconoscere le tue capacità. — Il tono della frase era brusco, e Diamante s'irrigidì un po'. — Pensavo di avere talento per la musica — disse. Cicuta respinse l'idea con un gesto deciso della mano. — Sto parlando della vera arte — disse. — Ora sarò franco con te. Ti consiglio di scrivere ai tuoi genitori, e lo farò anch'io, informandoli della tua decisione di andare alla scuola di Roke, se è quanto deciderai; o di andare a Porto grande, se il magio Caparbio ti accetterà, come credo farà, con la mia raccomandazione. Ma ti sconsiglio di far visita a casa. I legami con la famiglia e gli amici e così via sono proprio la cosa di cui devi liberarti. Adesso e in futuro. — I maghi non hanno famiglia? Cicuta era contento di vedere un po' di ardore nel ragazzo. — I maghi costituiscono una famiglia a sé stante — disse. — E non hanno amici? — Possono essere amici. Ho detto forse che fosse una vita facile? — Una pausa. Cicuta fissò Diamante. — C'era una ragazza — disse.
Il giovane sostenne il suo sguardo per un attimo, abbassò gli occhi, e non parlò. — Me l'ha detto tuo padre. La figlia di una strega, una compagna di giochi dell'infanzia. Tuo padre credeva che le avessi insegnato degli incantesimi. — È stata lei a insegnarmeli. Cicuta annuì. — È perfettamente comprensibile, tra bambini. E assolutamente impossibile, adesso. Lo capisci? — No — rispose. — Siediti — lo invitò l'uomo. Dopo un istante di esitazione, Diamante occupò la sedia dall'alto schienale di fronte al mago. — Io posso proteggerti, qui, e l'ho fatto. A Roke, naturalmente, sarai completamente al sicuro. Le mura stesse del luogo, là... Ma se andrai a casa, devi essere disposto a proteggerti. È una cosa difficile per un giovane, molto difficile... viene messa a dura prova una volontà che non è ancora stata temprata, una mente che non ha ancora visto la sua vera meta. Io ti consiglio vivamente di non correre questo rischio. Scrivi ai tuoi genitori, e vai a Porto grande, o a Roke. La metà della quota annua d'apprendistato, che ti restituirò, ti servirà per le prime spese. Diamante sedeva dritto e immobile. Negli ultimi tempi, aveva acquistato in parte la statura e la corpulenza del padre, e aveva tutta l'aria di un uomo, sebbene giovanissimo. — Cosa intendevi dire, Mastro Cicuta, dicendo di avermi protetto qui? — Semplicemente che ti ho protetto come proteggo me stesso — rispose il mago; e un istante dopo, stizzoso: — Lo scambio, ragazzo. Il potere che diamo in cambio del nostro potere. Lo stato d'esistenza inferiore a cui rinunciamo. Saprai di certo che ogni vero uomo di potere è celibe. Ci fu una pausa, e Diamante disse: — Dunque hai provveduto tu... hai fatto in modo che io... — Naturalmente. Era compito mio, essendo io il tuo insegnante. Il giovane annuì. Disse: — Grazie. — Poi si alzò. — Con permesso, Maestro — disse. — Devo pensare. — Dove vai? — Giù al porto. — È meglio che tu rimanga qui. — Non riesco a pensare, qui. Forse, a quel punto, Cicuta aveva compreso la portata del problema; ma avendo detto al ragazzo che non sarebbe più stato il suo maestro, in co-
scienza non poteva dargli alcun ordine. — Possiedi un dono autentico, Essiri — disse, usando il nome che aveva imposto al ragazzo alle sorgenti dell'Amia, una parola che nella Vecchia lingua significava "Salice". — Non lo capisco del tutto. Credo che tu non lo capisca affatto. Sii prudente! Fare cattivo uso di un dono, o rifiutarsi di usarlo, può causare grande perdita, grande danno. Diamante annuì, sofferente, contrito, docile, irremovibile. — Vai pure — disse il mago, e lui uscì. In seguito, Cicuta si rese conto che non avrebbe mai dovuto permettere al ragazzo di lasciare la casa. Aveva sottovalutato la sua forza di volontà, o la forza dell'incantesimo con cui la ragazza lo aveva stregato. La loro conversazione si era svolta al mattino; Cicuta tornò a dedicare la propria attenzione al vecchio sortilegio che stava chiosando; solo all'ora di cena pensò nuovamente all'allievo, e solo dopo avere cenato da solo concluse che Diamante era fuggito. Cicuta era restìo a praticare qualsiasi forma minore dell'arte magica. Non ricorse ad alcun incantesimo di trovamento, come avrebbe potuto fare invece qualunque stregone. Né chiamò a sé il ragazzo in alcun modo. Era arrabbiato; ferito, forse. Aveva una buona opinione del giovane, e si era offerto di scrivere all'Evocatore, raccomandandolo; e la prima volta che il suo carattere era stato messo alla prova, Diamante aveva ceduto. — Vetro — borbottò il mago. Almeno, la debolezza dimostrava che non era pericoloso. Certi giovani dotati andavano tenuti sotto controllo, per il bene di tutti; ma in quel ragazzo non c'era cattiveria, né malevolenza. Nessuna ambizione. — Non ha spina dorsale — disse Cicuta al silenzio della casa. — Torni pure strisciando da sua madre. Ma era comunque doloroso constatare che Diamante era venuto meno alle sue aspettative, deludendolo, andandosene senza una parola di ringraziamento o di scusa. Alla faccia delle buone maniere, pensò il mago. Mentre spegneva con un soffio la lampada e si coricava, la figlia della strega udì il verso di una civetta, il lieve hu-hu-hu-hu cadenzato per cui la gente chiamava quegli uccelli civette ridenti. Lo udì con il cuore afflitto. Quello era il loro segnale, nelle notti d'estate, quando uscivano di soppiatto per incontrarsi nel saliceto presso le rive dell'Amia, quando tutti gli altri dormivano. Non voleva pensare a lui di notte. Durante l'inverno, aveva provato a comunicare con lui, una notte dopo l'altra. Aveva imparato dalla madre l'incantesimo di invio, e sapeva che era un incantesimo vero. Gli
aveva inviato il proprio tocco, la propria voce che pronunciava il suo nome, ripetutamente. Si era imbattuta in un muro d'aria e di silenzio. Non aveva toccato nulla. Lui l'aveva esclusa. Non voleva sentire. Diverse volte, all'improvviso, di giorno, per un attimo lei aveva avvertito la sua presenza nella mente, vicino, abbastanza vicino da poterlo toccare se allungava la mano. Però di notte avvertiva solo il vuoto della sua assenza, il suo rifiuto di ogni contatto. Da mesi, Rosa aveva smesso di cercare di comunicare con lui, ma il cuore le doleva ancora moltissimo. — Hu-hu-hu — fece la civetta, sotto la sua finestra, e poi chiamò: — Rosascura! — Riscuotendosi di soprassalto dalla propria infelicità, lei balzò giù dal letto e aprì le imposte. — Vieni fuori — sussurrò Diamante, un'ombra nel chiarore stellare. — La mamma non è in casa. Entra! — Rosa corse alla porta. Si abbracciarono stretti, rimanendo a lungo in silenzio. A Diamante pareva di stringere tra le braccia il proprio futuro, la propria vita, tutto. Infine lei si scostò, gli baciò la guancia e mormorò: — Mi sei mancato, mi sei mancato, mi sei mancato. Quanto puoi fermarti? — Finché voglio. Rosa lo tenne per mano e lo condusse all'interno. Diamante era sempre un po' restio a entrare nella casa della strega, un posto puzzolente e in disordine, pieno di misteri femminei e stregoneschi, diversissimo dalla sua casa comoda e linda, e ancor più diverso dalla casa del mago, fredda e austera. Rabbrividì come un cavallo mentre era là, troppo alto per i travetti ornati di festoni di erbe. Era teso e sfinito, avendo percorso a piedi quaranta miglia in sedici ore senza toccare cibo. — Dov'è tua madre? — chiese in un sussurro. — Veglia la vecchia Ferny. È morta oggi pomeriggio. La mamma rimarrà là tutta la notte. Ma tu... com'è che sei arrivato? — Camminando. — Il mago ti ha lasciato venire a trovare i tuoi genitori? — Sono scappato. — Scappato! Perché? — Per tenerti con me. Diamante la guardò, guardò quella faccia scura, fiera e vivace, circondata da una nuvola scarmigliata di capelli. La ragazza indossava solo la camicia da notte, e lui vide la dolce e delicata protuberanza dei seni. L'attirò di nuovo a sé, ma dopo averlo abbracciato Rosa si staccò ancora da lui, aggrottando le ciglia.
— Per tenermi? — ripeté. — Non sembravi preoccupato di perdermi, durante tutto l'inverno. Cosa ti ha spinto a tornare, adesso? — Cicuta voleva che andassi a Roke. — A Roke? — Rosa lo fissò. — A Roke, Diama? Allora hai davvero il dono... potresti diventare uno stregone? Scoprire che lei era dalla parte di Cicuta fu un colpo. — Per lui gli stregoni non contano nulla. Intendeva dire che potrei diventare un mago. Compiere magie. Non semplici stregonerie. — Oh, capisco — disse la ragazza, un attimo dopo. — Ma non capisco perché sei scappato. Non si tenevano più per mano, ora. — Non capisci? — fece lui, esasperato perché lei non capiva, come prima lui stesso non aveva capito. — Un mago non può avere nulla a che fare con le donne. Con le streghe. Con tutto quanto. — Oh, lo so. I maghi si considerano superiori a certe cose. — Non si tratta solo di questo... — Oh, è così, invece. Scommetto che hai dovuto disimparare tutti gli incantesimi che ti ho insegnato. Vero? — Non è la stessa cosa. — No. Non è la Somma arte. Non è la Vera lingua. Un mago non deve sporcarsi le labbra con parole comuni. "Debole come magia di donne, cattivo come magia di donne", pensi che non sappia cosa dicono? Allora, perché sei tornato qui? — Per vederti! — A che scopo? — A che scopo, secondo te? — Non hai mai comunicato con me, non mi hai mai permesso di comunicare con te, in tutto il tempo che sei stato via. Io avrei solo dovuto aspettare che ti stancassi di giocare al mago. Be', mi sono stancata di aspettare. — La voce di Rosa si udiva appena, era un sussurro rauco. — Qualcuno è venuto a trovarti — disse Diamante, stentando a credere che lei potesse respingerlo. — Chi ti ha corteggiata? — Se c'è qualcuno che mi corteggia, non sono affari tuoi! Te ne sei andato, mi hai voltato le spalle. I maghi non possono avere nulla a che fare con quel che faccio io, con quello che fa mia madre. Be', anch'io non voglio avere a che fare con te, mai più. Quindi, vattene! Affamato, frustrato, incompreso, Diamante tese le mani per stringerla ancora, perché il corpo di Rosa capisse il suo corpo, ripetendo il primo ab-
braccio intenso che racchiudeva tutti gli anni delle loro vite. Si ritrovò due passi indietro, con le mani che gli bruciavano e le orecchie che gli ronzavano, abbacinato. Gli occhi di Rosa sprizzavano lampi, le sue mani serrate sprizzavano scintille. — Non farlo più — mormorò la ragazza. — Non temere — disse Diamante, girandosi e avviandosi alla porta. Una piantina di salvia secca gli si impigliò nei capelli e uscì con lui. Diamante trascorse la notte nel loro vecchio luogo d'incontro, nel saliceto. Forse sperava che lei arrivasse, ma Rosa non andò, e ben presto il giovane si addormentò, cedendo alla stanchezza. Si svegliò alle prime luci dell'alba. Si drizzò a sedere e pensò. Guardò la vita in quella luce fredda. Era diversa da come aveva immaginato. Scese al torrente in cui gli era stato imposto il nome. Bevve, si lavò le mani e la faccia, cercò di rendersi presentabile, e attraversò la cittadina fino alla bella abitazione situata all'estremità della parte alta, la casa di suo padre. Dopo le prime esclamazioni e i primi abbracci, la servitù e sua madre lo fecero sedere subito perché facesse colazione. Così, fu con del cibo caldo nello stomaco e un certo gelido coraggio nel cuore che affrontò suo padre, uscito prima di colazione per controllare un gruppo di carri di legname in partenza per Porto grande. — Bene, figliolo! — Si salutarono accostando le guance. — Dunque, Mastro Cicuta ti ha concesso una vacanza? — No. Me ne sono andato. Aureo lo fissò, poi riempì il proprio piatto e si sedette. — Te ne sei andato — disse. — Sì. Ho deciso che non voglio essere un mago. — Hmf — bofonchiò Aureo, masticando. — Te ne sei andato di tua iniziativa? Con il permesso di Mastro Cicuta? — Di mia iniziativa, senza il suo permesso. Il padre masticò molto lentamente, gli occhi fissi sul tavolo. Diamante aveva visto quell'espressione quando un guardaboschi gli comunicava che c'era qualche infestazione nei castagneti, o quando suo padre scopriva che un venditore di muli lo aveva imbrogliato. — Voleva che andassi al Collegio di Roke a studiare con il Maestro Evocatore. Intendeva mandarmi là. Ho deciso di non andare. Dopo un po', continuando a guardare il tavolo, Aureo chiese: — Perché? — Non è la vita che voglio.
Un'altra pausa. Aureo lanciò un'occhiata alla moglie, che stava accanto alla finestra e ascoltava in silenzio. Poi guardò il figlio. Lentamente, la mescolanza di collera, delusione, confusione e rispetto, sul suo viso, lasciò il posto a qualcosa di più semplice, un'espressione di complicità, che arrivò molto prossima a una strizzatina d'occhio. — Capisco — disse. — E cos'hai deciso di volere? Una pausa. — Questo — rispose Diamante, la voce pacata. Non guardò né il padre né la madre. — Ah! — esclamò Aureo. — Bene! Ti dirò che sono contento, figliolo. — Mangiò in un boccone un piccolo pasticcio di carne di maiale. — Essere un mago, andare a Roke e via dicendo, mi è sempre sembrato un po' irreale, inverosimile. E con te lontano, non sapevo a cosa servisse tutto quello che abbiamo, se devo essere sincero. I miei affari. Se sei qui, tutto quadra, capisci? Quadra. Bene! Ma, dimmi, sei scappato dalla casa del mago senza avvisare? Lui sapeva che te ne saresti andato? — No. Gli scriverò — disse Diamante, con la sua nuova voce pacata. — Non si arrabbierà? Pare che i maghi siano irascibili. Molto orgogliosi. — È arrabbiato — disse Diamante — ma non farà nulla. E così avvenne. Con grande stupore di Aureo, anzi, Mastro Cicuta restituì scrupoloso due quinti della quota d'apprendistato. Il pacchetto, consegnato da un carrettiere di Aureo che aveva portato a Porto sud un carico di pennoni, era accompagnato da un biglietto per Diamante. Diceva: "La vera arte richiede cuore devoto e sincero". Il nome del destinatario scritto all'esterno era la runa hardica indicante il salice. Il biglietto era firmato con la runa di Cicuta, che aveva due significati: la pianta di cicuta, e la sofferenza. Diamante sedeva nella propria stanza soleggiata al piano superiore, sul letto comodo, udendo sua madre che cantava girando per la casa. Tenendo in mano la lettera del mago, rilesse il messaggio e le due rune varie volte. Lo spirito freddo e inerte nato in lui quella mattina nel saliceto accettò la lezione. Niente magia. Mai più. Non aveva mai donato il proprio cuore alla magia. Per lui era stato un gioco, un gioco da fare insieme a Rosascura. Poteva abbandonare perfino i nomi della Vera lingua appresi nella casa del mago, pur conoscendo la bellezza e il potere che racchiudevano; poteva staccarsene, dimenticarli. Quella non era la sua lingua. Poteva parlare la sua lingua solo con lei. E l'aveva perduta, l'aveva lasciata andare. Il cuore doppio non conosceva lingua vera. D'ora in poi, lui avrebbe parlato solo il linguaggio del dovere: guadagno e spesa, uscite ed
entrare, profitto e perdita. E oltre a quello, nulla. C'erano state illusioni, piccoli incantesimi, sassolini che diventavano farfalle, uccelli di legno che per qualche istante vivevano e battevano le ali, volando. Ma in realtà non aveva mai avuto scelta. Per lui c'era soltanto una strada da imboccare. Aureo era immensamente felice e non se ne rendeva conto. — Il vecchio ha riavuto il suo gioiello — disse il carrettiere al guardaboschi. — È dolce come il miele. — Il padre, ignaro di essere dolce, pensava solo a come fosse dolce la vita. Aveva comprato il bosco di Reche, a un prezzo molto salato, certo, ma almeno il vecchio Ramobasso di Poggioest non se n'era impossessato, e adesso lui e Diamante avrebbero potuto sfruttarlo come andava fatto. Tra i castagni c'erano molti pini, che si potevano abbattere e vendere come alberi e pennoni e legname da costruzione, piantando al loro posto arboscelli di castagno. Con il tempo sarebbe diventato un bosco solo di castagni come il Bosco grosso, il cuore del suo regno di castagni. Con il tempo, naturalmente. Querce e castagni non crescevano in un batter d'occhio come gli alni e i salici. Ma il tempo c'era. Adesso, c'era. Il ragazzo aveva appena diciassette anni, e lui stesso ne aveva solo quarantacinque. Nel fiore degli anni. Si era sentito vecchio, ma erano sciocchezze passate. Era nel fiore degli anni. Gli alberi più vecchi, non più fruttiferi, sarebbero stati abbattuti insieme ai pini. Si sarebbe potuto ricavare del buon legname per mobili. — Bene, bene, bene — diceva spesso alla moglie — tutto di nuovo roseo, eh? Il cocco della mamma è tornato a casa, eh? Basta musi tristi, eh? E Tuly sorrideva e gli accarezzava la mano. Una volta, invece di sorridere e convenire con lui, la donna disse: — È bellissimo riaverlo a casa, ma... — e Aureo smise di ascoltare. Le madri erano nate per preoccuparsi dei figli, e le donne erano nate per non essere mai contente. Non c'era motivo per cui Aureo dovesse ascoltare la litania di inquietudini che Tuly si portava appresso in ogni attimo della sua esistenza. Naturalmente, lei pensava che una vita da mercante non fosse abbastanza per il ragazzo. Non sarebbe stata soddisfatta neppure se il figlio fosse diventato re di Havnor. — Quando troverà una ragazza — disse il padre, rispondendo a qualunque cosa avesse detto la moglie — sarà a posto. Sai, vivendo con i maghi, che non hanno certi interessi, è rimasto un po' indietro. Non preoccuparti per Diamante. Riconoscerà quel che vuole, quando lo vedrà!
— Lo spero — disse Tuly. — Almeno non frequenta più quella giovane strega — disse Aureo. — Quella è una storia conclusa. — In seguito gli venne in mente che nemmeno sua moglie frequentava più la strega. Per anni, erano state inseparabili, malgrado gli ammonimenti di Aureo, e adesso Groviglio non si faceva più vedere. Le amicizie femminili non duravano mai. Punzecchiò la consorte a questo riguardo. La trovò che spargeva pulegio e veleno per tignole nelle cassapanche e negli armadi, e disse: — Non dovresti chiamare la tua amica saggia perché provveda lei a cacciare le tarme con qualche sortilegio? O non siete più amiche? — No, non lo siamo più — rispose la moglie, la voce sommessa e pacata. — Ed è meglio così! — sentenziò chiaro e tondo lui. — E di sua figlia che ne è stato? Ho sentito dire che è scappata con un giocoliere, eh? — Con un musicante — precisò Tuly. — L'estate scorsa. — Una festa d'onomastico — disse Aureo. — È tempo di divertirsi un po', di ascoltare un po' di musica e ballare, ragazzo. Diciannove anni. Festeggiali! — Andrò a Poggioest con i muli di Sul. — No, no, no. Sul può sbrigarsela da solo. Resta a casa e festeggia. Hai lavorato sodo. Ingaggeremo un gruppo di musicanti. Qual è il migliore? Tarry e la sua banda? — Padre, non voglio una festa — disse Diamante, e si alzò, scuotendo i muscoli come un cavallo. Era più imponente di Aureo, adesso, e quando si muoveva di scatto impressionava. — Andrò a Poggioest — ribadì, e lasciò la stanza. — Che cos'ha? — chiese l'uomo alla moglie, una domanda retorica. Lei lo guardò e non disse nulla, una risposta non retorica. Quando Aureo fu uscito, Tuly trovò il figlio nella stanza della contabilità, intento a esaminare dei libri mastri. Guardò le pagine. Lunghe, lunghissime liste di nomi e numeri, debiti e crediti, profitti e perdite. — Diama — lo chiamò, e lui alzò lo sguardo. La sua faccia era ancora tonda e un po' color pesca, sebbene le ossa fossero più massicce e gli occhi malinconici. — Non intendevo ferire i sentimenti di mio padre — disse il giovane. — Se vuole una festa, l'avrà — disse lei. Le loro voci erano simili; pur appartenendo al registro alto, erano cupe, sommesse, pacate. Tuly si appol-
laiò su uno sgabello accanto al figlio, vicino all'alta scrivania. — Non posso... — fece Diamante, e s'interruppe, e riprese: — Non ho proprio nessuna voglia di ballare. — Tuo padre sta cercando di combinare un matrimonio — disse Tuly, con tenerezza. — Non m'importa. — Lo so che non t'importa. — Il problema è... — Il problema è la musica — disse infine sua madre. Lui annuì. — Figlio mio, non c'è motivo — disse la madre, infervorandosi tutt'a un tratto — non c'è motivo di rinunciare a tutto ciò che ami! Diamante le prese la mano e la baciò mentre sedevano affiancati. — Le cose non si mescolano — disse. — Dovrebbero, ma non accade. Ho avuto modo di scoprirlo. Quando ho lasciato il mago. Pensavo di poter fare tutto. Sai... compiere magie, suonare la musica, essere il figlio di mio padre, amare Rosa... Le cose non funzionano così. Non si mescolano. — Sì, invece. Sì — ribatté Tuly. — Tutto è allacciato, aggrovigliato! — Per le donne, forse. Ma io... io non posso essere doppio. — Doppio? Tu? Hai rinunciato alla magia perché sapevi che se non lo avessi fatto l'avresti tradita. Diamante rimase visibilmente scosso udendo quella parola, però non negò. — Ma perché hai rinunciato alla musica? — chiese sua madre. — Il mio cuore dev'essere sincero e devoto. Non posso suonare l'arpa se sto trattando con un allevatore di muli. Non posso comporre ballate se sto calcolando quanto dobbiamo pagare i raccoglitori perché non vadano a lavorare da Ramobasso! — La voce di Diamante adesso tremava leggermente, e i suoi occhi non erano tristi, ma rabbiosi. — Così hai fatto un incantesimo a te stesso — disse Tuly — come quello che ti aveva fatto il mago. Un incantesimo per stare al sicuro. Per stare con gli allevatori di muli, e i raccoglitori di castagne, e questi... — diede un colpetto sprezzante al libro mastro pieno di liste di nomi e di cifre. — Un incantesimo di silenzio. Dopo una lunga pausa, il giovane disse: — Cos'altro posso fare? — Non lo so, caro. Io voglio che tu sia al sicuro, certo. E sono contentissima di vedere tuo padre felice e fiero di te. Ma non sopporto di vederti infelice, senza orgoglio! Non so. Forse hai ragione. Forse un uomo non può
mai dedicarsi a più di una cosa. Però mi manca la tua voce che canta. Era in lacrime. Si abbracciarono, e Tuly gli accarezzò i capelli folti e lucenti e si scusò se era stata crudele, e Diamante la strinse ancora e le disse che era la madre più buona del mondo, e lei uscì. Ma mentre usciva si voltò un attimo e disse: — Lascia che tuo padre faccia quella festa. E festeggia anche tu. — D'accordo — annuì lui, per consolarla. Aureo ordinò la birra e il cibo e i fuochi d'artificio, ma Diamante si occupò di ingaggiare i musicanti. — Certo che porterò la mia banda — disse Tarry. — Non mi lascerei sfuggire un'occasione simile per nulla al mondo. Tutti i suonatori dell'ovest verranno qui quando sapranno che tuo padre dà una delle sue feste. — Puoi informarli che l'unica banda a essere pagata sarà la tua. — Oh, verranno per la gloria — disse l'arpista, un tipo sulla quarantina, magro, strabico, dal mento pronunciato. — Magari puoi provare a suonare qualcosa con noi, eh? Non eri malvagio come suonatore, prima che ti mettessi a far soldi. Anche la voce era discreta, bastava coltivarla un po'. — Ne dubito — disse Diamante. — Quella ragazza che ti piaceva, Rosa la strega, va in giro con Labby, ho sentito. Senza dubbio, faranno un salto qua. — In tal caso li vedrò — replicò Diamante, bello e imponente e indifferente, e si allontanò. — Adesso è troppo ricco e importante per fermarsi a chiacchierare — fece Tarry. — Anche se gli ho insegnato tutto quello che sa dell'arte dell'arpa. Ma per un riccone queste cose non contano nulla. Le parole maligne di Tarry avevano urtato i nervi di Diamante, e il pensiero della festa lo oppresse a tal punto da fargli perdere l'appetito. Per un po', pensò speranzoso di star male e di poter saltare la festa. Ma arrivò il giorno fatidico, e lui era là. Non in modo evidente, eminente e vistoso come suo padre, però era presente, sorrideva, ballava. C'erano tutti i suoi amici d'infanzia, la metà di loro sposati ormai con l'altra metà, a quanto sembrava, ma c'erano comunque diverse coppie che amoreggiavano, e parecchie ragazze graziose sempre accanto a lui. Bevve una quantità notevole dell'ottima bevanda del birraio Gadge, e scoprì che riusciva a sopportare la musica, se ballava e parlava e rideva mentre ballava. Così danzò con tutte le ragazze graziose, e poi danzò con quelle che gli si avvicinarono per un
altro ballo, cioè tutte. Era la festa più grandiosa che Aureo avesse mai organizzato, con una pista da ballo costruita sullo spiazzo erboso al centro della cittadina, e una tenda in cui gli anziani potevano mangiare e bere e chiacchierare, e indumenti nuovi per i bambini, e giocolieri e burattinai, alcuni ingaggiati e altri venuti a raccattare qualche soldo e a tracannare birra gratis. Qualsiasi festività attirava suonatori e intrattenitori ambulanti; si guadagnavano da vivere così, ed erano i benvenuti anche se non erano stati invitati. Un cantastorie con la voce monotona e l'accompagnamento lamentoso di una cornamusa stava cantando Le Gesta del Capodrago a un gruppo di persone sotto la grande quercia sulla sommità del poggio. Quando la banda di Tarry composta di arpa, piffero, viola e tamburo - fece una pausa per riposare un po' e bere un sorso, un nuovo gruppetto di musicanti salì sull'assito. — Ehi, c'è la banda di Labby! — strillò la giovane graziosa accanto a Diamante. — Andiamo, sono i migliori! Labby, un individuo appariscente dalla pelle chiara, suonava il corno ligneo a doppia ancia. Con lui c'erano un violista, un suonatore di tamburello, e Rosa, che suonava il piffero. Il primo motivo era un saltarello, allegro e veloce, troppo veloce per alcuni ballerini. Diamante e la sua compagna rimasero sull'assito, e la gente li acclamò e applaudì quando finirono la danza, sudati e ansanti. — Birra! — gridò il festeggiato, e fu trascinato via da un vortice di ragazzi e ragazze che ridevano e vociavano. Alle proprie spalle, il giovane udì iniziare il motivo seguente, la viola sola, forte e triste come una voce di tenore: Dove il mio amore va. Bevve in un sorso un boccale di birra, e le ragazze che lo circondavano osservarono i muscoli forti della sua gola mentre deglutiva, e risero e chiacchierarono, e lui fu scosso da un lungo brivido, come un cavallo da tiro punto dai tafani. Disse: — Oh, non ci riesco... — e si allontanò di scatto nel crepuscolo, oltre le lanterne appese attorno al chiosco del birraio. — Dove va? — chiese qualcuno, e qualcun altro disse: — Tornerà — e tutti continuarono a ridere e a chiacchierare. Il motivo terminò. — Rosascura — disse Diamante, stando dietro di lei nell'oscurità. Lei voltò il capo e lo guardò. Le loro teste erano alla stessa altezza; la giovane sedeva con le gambe incrociate sul palchetto dei suonatori, lui era inginocchiato sull'erba. — Vieni nel saliceto — le disse. Lei non disse nulla. Labby, lanciandole un'occhiata, portò il corno alle labbra. Il suonatore di tamburello cominciò a battere il tempo, e attaccaro-
no una giga marinaresca. Quando Rosa si girò di nuovo, Diamante era scomparso. Dopo circa un'ora, Tarry tornò insieme ai suoi musicanti, senza mostrare alcuna gratitudine per la pausa, e reso intrattabile dalla birra. Interruppe il motivo e la danza, invitando a gran voce Labby a sgombrare. — Oh, non scocciare, strimpellatore d'arpa — sbottò Labby, e Tarry si offese, e la gente si schierò con l'uno o con l'altro, e mentre era in corso la breve disputa, Rosa mise in tasca il piffero e se ne andò alla chetichella. Lontano dalle lanterne della festa c'era buio, ma lei conosceva la strada anche nell'oscurità. Lui la stava aspettando. I salici erano cresciuti, in quei due anni. C'era solo un piccolo spazio per sedersi tra i germogli verdi e le lunghe foglie pendule. La musica riprese, lontana, smorzata dal vento e dal mormorio del torrente che scorreva lì accanto. — Cosa volevi, Diamante? — Parlare. Erano soltanto due voci e due ombre. — Sentiamo — disse lei. — Volevo chiederti di venire via con me — disse il giovane. — Quando? — Allora. Quando abbiamo litigato. Non sono riuscito a spiegarmi. Pensavo... — Una lunga pausa. — Pensavo di poter continuare a fuggire. Con te. E suonare. Guadagnarmi da vivere. Insieme a te. Intendevo dire questo. — Non l'hai detto. — Lo so. Ho parlato nel modo sbagliato. Ho sbagliato tutto. Ho tradito tutto. La magia. E la musica. E te. — Io sto bene. — Davvero? — Non sono proprio brava a suonare il piffero, ma me la cavo. Quello che non mi hai insegnato tu, posso farlo ugualmente con un incantesimo, se necessario. E la banda è a posto. Labby non è malvagio come sembra. Nessuno fa lo stupido con me. Guadagniamo discretamente. D'inverno, sto con mia madre e le do una mano. Dunque sto bene. E tu, Diama? — Male. Rosa fece per dire qualcosa, invece tacque. — Eravamo bambini, immagino — disse Diamante. — Adesso... — Cos'è cambiato? — Ho fatto la scelta sbagliata.
— Una volta? — chiese lei. — O due? — Due. — La terza volta è quella fortunata. Nessuno dei due parlò, per un po'. Nell'oscurità frondosa, Rosa scorgeva solo la sua mole. — Sei cresciuto parecchio — gli disse. — Sei ancora capace di creare una luce, Diama? Voglio vederti. Lui scosse il capo. — Delle cose che sapevi fare, era l'unica che non sono mai stata capace di fare. E tu non sei mai riuscito a insegnarmela. — Non sapevo bene quel che facevo. A volte funzionava, a volte no. — E il mago di Porto sud non ti ha insegnato il trucco? — Mi ha insegnato solo nomi. — Perché non puoi farlo, adesso? — Ho rinunciato, Rosascura. Dovevo o fare quello e nient'altro, o non farlo. Bisogna dedicare il cuore a un'unica cosa. — Non vedo perché — replicò lei. — Mia madre può curare una febbre e aiutare una partoriente e trovare un anello smarrito; forse è ben poco rispetto a quanto possono fare i maghi, ma è pur sempre qualcosa. E lei non ha rinunciato a nulla per questo. Mettendomi al mondo, non ha smesso. Anzi, mi ha messa al mondo per imparare come si fa nascere una creatura! Solo perché ho imparato da te a suonare, ho dovuto per caso rinunciare agli incantesimi? Adesso, anch'io sono capace di far calare la febbre. Perché bisogna smettere di fare una cosa per poterne fare un'altra? — Mio padre... — iniziò Diamante, e s'interruppe e sbottò in una specie di risata. — Non vanno d'accordo. Il denaro e la musica. — Il padre e la giovane strega — disse Rosascura. Di nuovo, ci fu silenzio tra loro. Le foglie dei salici si mossero. — Vuoi tornare insieme a me? — chiese Diamante. — Vuoi venire con me, vivere con me, sposarmi, Rosascura? — Non nella casa di tuo padre, Diama. — Da qualunque parte. Fuggiamo. — Ma non puoi avermi senza la musica. — O la musica senza di te. — Accetto — disse lei. — Labby lo vorrà un arpista? Rosascura esitò, rise. — Se non vuole perdere una pifferaia — rispose. — Da quando sono andato via, non ho più suonato, Rosascura — disse Diamante. — Ma ho sempre pensato alla musica, e a te... — Lei gli tese le
mani. Si inginocchiarono, mentre le foglie dei salici sfioravano i loro capelli. Si baciarono, dapprima timidamente. Negli anni dopo la partenza di Diamante, Aureo guadagnò più denaro di quanto avesse mai guadagnato in precedenza. Tutti i suoi affari erano fruttiferi. Sembrava che la fortuna gli stesse appresso e non volesse abbandonarlo. Diventò ricchissimo. Non perdonò il figlio. Sarebbe stato un lieto fine, ma Aureo non voleva nemmeno sentirne parlare. Andarsene così, senza una parola, la sera della sua festa d'onomastico, fuggire con la giovane strega, lasciando incompiuto il lavoro onesto, per diventare un suonatore ambulante, un arpista che strimpellava e cantava e sorrideva per ricevere qualche spicciolo... tutto ciò era motivo di vergogna e dolore e collera per l'uomo. Fu una tragedia, per lui. Lo fu anche per Tuly, dato che poteva vedere il figlio solo mentendo al marito, e lei era molto restia a farlo. Piangeva al pensiero di Diamante affamato, che dormiva su qualche duro giaciglio. Le fredde notti d'autunno furono una sofferenza per lei. Ma con il passare del tempo, sentendo parlare del figlio come del melodioso cantore dell'ovest di Havnor che aveva suonato l'arpa e cantato per i grandi signori nella Torre della spada, il cuore della madre si rasserenò. E una volta, mentre Aureo era a Porto sud, lei e Groviglio presero un carro trainato da un asino e si recarono a Poggioest, dove ascoltarono Diamante che cantava la Ballata della regina perduta, mentre Rosa sedeva con loro, e la piccola Tuly era appollaiata sulle ginocchia di Tuly. E pur non essendo un lieto fine, quello fu almeno un momento di vera gioia, e a volte non si può pretendere di più, dopotutto.
Dove il Mio Amore Va (adagio e scorrevole) Dove il mio amore va, Là io andrò.
Dove la sua barca remerà, Io remerò. Rideremo insieme, Insieme piangeremo. S'egli vivrà, vivrò, Se morirà, morirò. Le ossa della terra Pioveva ancora, e il mago di re Albi era fortemente tentato di fare un incantesimo al tempo, solo un incantesimo piccolo piccolo, per spedire la pioggia oltre la montagna. Le ossa gli dolevano. Desideravano tanto che il sole uscisse e riscaldasse la carne e le asciugasse. Naturalmente, il mago avrebbe potuto pronunciare un incantesimo contro il dolore, ma sarebbe servito solo a nascondere le fitte per un po'. Non esisteva cura per ciò che lo affliggeva. Le ossa vecchie avevano bisogno del sole. Il mago rimase immobile sulla soglia della propria casa, tra la stanza buia e l'aria aperta striata di pioggia, trattenendosi dal compiere un incantesimo, e arrabbiato con se stesso perché non si risolveva. Non imprecava mai - gli uomini di potere non imprecavano, non era prudente - ma si schiarì la gola con un colpo di tosse che pareva il ringhio di un orso. Un istante dopo, un rombo di tuono echeggiò dalle pendici superiori nascoste del monte Gont, diffondendosi da nord a sud, spegnendosi nelle foreste ammantate di nubi. Un buon segno, il tuono, pensò Dulse. Presto la pioggia sarebbe cessata. Tirò su il cappuccio e uscì sotto la pioggia per dar da mangiare ai polli. Controllò nel pollaio, trovando tre uova. Bucca Rossa era alla cova. Le sue uova ormai stavano per schiudersi. Gli acari la molestavano, e Bucca Rossa aveva un'aria sudicia e spossata. Dulse pronunciò qualche parola contro i parassiti, si disse che doveva ricordarsi di pulire il nido non appena fossero nati i pulcini, quindi raggiunse la bassacorte, dove Bucca Bruna, Grigia, Candore, Ghette e il re, accalcandosi sotto la gronda, emettevano sommessamente commenti irritati circa la pioggia. — Cesserà entro mezzogiorno — disse il mago ai polli. Dopo aver dato loro da mangiare, tornò sguazzando verso la casa con tre uova calde. Da bambino gli piaceva camminare nel fango. Ricordava la gradevole sensazione di fresco che gli saliva dalle dita dei piedi. Gli piaceva ancora andare scalzo, però non trovava più gradevole il fango; era appiccicoso, e lo costringeva a piegarsi per pulirsi i piedi prima di entrare in casa. Quando aveva un pavimento di terra battuta, se ne infischiava dei piedi sporchi, ma adesso ne aveva uno di legno, come un signore o un mercante o un arci-
mago. Così che il freddo e l'umidità non gli penetrassero nelle ossa. L'idea non era stata sua. La scorsa primavera, Silenzio era salito da Porto Gont per posare un pavimento nella vecchia casa. Avevano avuto una delle loro discussioni in proposito. Dulse, dopo tanto tempo, avrebbe dovuto sapere che non era il caso di discutere con Silenzio. — Cammino sulla terra battuta da settantacinque anni — aveva detto Dulse. — Qualche anno in più non mi ucciderà. Al che, naturalmente, Silenzio non replicò, lasciando che lui riflettesse sulle proprie parole e si rendesse conto di quanto fossero sciocche. — La terra battuta è più facile da tenere pulita — insisté il mago, sapendo di avere già perso. Era vero che un buon pavimento d'argilla battuta andava solo spazzato e spruzzato ogni tanto perché non si sollevasse la polvere, ma sembrava comunque una giustificazione stupida. — E chi lo poserà questo pavimento? — chiese il mago, adesso solo querulo. Silenzio annuì, intendendo dire che avrebbe provveduto lui stesso a farlo. Il ragazzo era infatti un lavoratore di prim'ordine, carpentiere, stipettaio, muratore, conciatetti; lo aveva dimostrato nel periodo trascorso lassù come studente di Dulse, e la sua vita con i ricchi di Porto Gont non gli aveva infiacchito le mani. Portò le tavole dalla segheria di Sesto, usando il carro e i buoi di Gammer; posò il pavimento e lo lustrò il giorno dopo, mentre il vecchio mago era su a lago Pantano a raccogliere erbe medicinali. Quando Dulse rincasò, il pavimento brillava quasi fosse anch'esso un lago scuro. — Dovrò lavarmi i piedi ogni volta che entro — borbottò. Entrò circospetto. Il legno era così liscio che sembrava morbido alla pianta nuda del piede. — Raso — commentò. — Non hai fatto tutto questo in un giorno senza un paio di incantesimi. Una casupola di campagna con un pavimento degno di un palazzo. Be', sarà uno spettacolo, quest'inverno, vedere il fuoco acceso qua dentro! O dovrei procurarmi un tappeto, adesso? Un vello, con ricami d'oro? Silenzio sorrise. Era soddisfatto. Si era presentato alla porta di Dulse alcuni anni prima. Be', no, dovevano essere almeno venti, o venticinque. Tempo addietro, ormai. Era proprio un ragazzo, allora; gambe lunghe, capelli arruffati, faccia dolce. Una bocca risoluta, occhi limpidi. — Cosa vuoi? — aveva chiesto il mago, sapendo cosa volesse, cosa volessero tutti, e distogliendo lo sguardo da quegli occhi limpidi. Era un bravo insegnante, il migliore di Gont, lo sapeva. Ma era
stanco di insegnare, non voleva un altro apprendista fra i piedi. E avvertiva un senso di pericolo. — Voglio imparare — sussurrò il ragazzo. — Vai a Roke — disse il mago. Il giovane portava un paio di scarpe e un bel panciotto di cuoio. Poteva permettersi di pagare la traversata o guadagnarsela lavorando. — Sono stato a Roke. Al che, Dulse lo squadrò di nuovo. Niente mantello, niente bastone. — Fallito? Mandato via? Scappato? Il ragazzo scosse il capo a ogni domanda. Chiuse gli occhi; la sua bocca era già chiusa. Aveva un'aria raccolta, sofferente; prese fiato, e fissò il mago negli occhi. — La mia arte è qui, a Gont — disse, la voce ancora poco più che un sussurro. — Il mio maestro è Heleth. Al che, il mago, il cui vero nome era Heleth, rimase impalato a guardarlo, finché il ragazzo non abbassò gli occhi. In silenzio, cercò il nome del giovane, e vide due cose: una pigna d'abete e la runa della Bocca chiusa. Poi, continuando a cercare, udì nella mente un nome che veniva pronunciato; ma non lo disse. — Sono stanco di insegnare e parlare — disse. — Ho bisogno di silenzio. Ti basta? Il ragazzo annuì. — Allora per me sarai Silenzio — disse il mago. — Puoi dormire nella nicchia sotto la finestra che guarda a ovest. Nella legnaia c'è un vecchio pagliericcio. Dagli aria. E prima di portarlo in casa assicurati che dentro non si nasconda qualche topo. — E Dulse s'incamminò in direzione dell'Overfell, arrabbiato con il ragazzo per essersi rivolto a lui, e con se stesso per aver ceduto; ma non era la collera a fargli battere forte il cuore. Procedendo a grandi passi, allora poteva camminare a grandi passi, con il vento marino che soffiava sempre alla sua sinistra e le prime luci che lambivano il mare oltre l'ombra immane della montagna, pensò ai magi di Roke, i maestri dell'arte magica, i professori del mistero e del potere. "Il ragazzo era troppo per loro, eh? E sarà troppo anche per me" si disse, e sorrise. Era un uomo pacifico, ma non gli dispiaceva un po' di pericolo. Si fermò, allora, e sentì il terriccio sotto i piedi. Era scalzo, come al solito. Quando era uno studente a Roke, portava le scarpe. Ma era tornato a casa, a Gont, a re Albi, con il bastone di mago, e scalciando si era liberato delle scarpe. Rimanendo immobile, sentì sotto i piedi la polvere e la roccia
della sommità della scogliera, e gli scogli sottostanti, e le radici dell'isola nell'oscurità più in basso. Nelle tenebre sottomarine, tutte le isole si toccavano ed erano un tutt'uno. Così aveva detto la sua insegnante Ard, e così avevano detto i suoi maestri a Roke. Ma quella era la sua isola, la sua roccia, la sua terra. Da cui derivava la sua magia. — La mia arte è qui — aveva detto il ragazzo, ma si trattava di qualcosa di più profondo dell'arte. Ecco, forse, una cosa che Dulse avrebbe potuto insegnargli: qual era l'essenza più profonda dell'arte. Quello che lui aveva appreso lì, a Gont, ancor prima di andare a Roke. E il ragazzo doveva avere un bastone. Perché Nemmerle aveva permesso che partisse da Roke senza bastone, a mani vuote come un apprendista o una strega? Un simile potere non doveva peregrinare senza essere incanalato, senza essere segnalato. "Il mio insegnante non aveva nessun bastone" si disse Dulse. E nel medesimo istante pensò: "Il ragazzo vuole il suo bastone da me. Quercia di Gont, dalla mano di un mago di Gont. Be', se lo meriterà, gliene farò uno. Se riuscirà a tenere la bocca chiusa. E gli lascerò i miei libri di scienza. Se sarà in grado di pulire un pollaio, e riuscirà a comprendere le Glosse di Danemer, e a tenere la bocca chiusa". Il nuovo allievo pulì il pollaio e zappò il campetto di fagioli, imparò il significato delle Glosse di Danemer e degli Arcani delle Enlades, e tenne la bocca chiusa. Ascoltava. Sentiva quel che Dulse diceva; a volte, sentiva quel che Dulse pensava. Faceva quel che voleva il mago e anche quello che non sapeva di volere. Il suo dono andava ben oltre la guida di Dulse, e tuttavia aveva fatto bene a recarsi lì a re Albi, e lo sapevano entrambi. In quegli anni, a volte Dulse pensava a padri e figli. Lui aveva litigato con il proprio padre, uno stregone cercatore, per la sua scelta di Ard come insegnante. Il genitore aveva gridato che uno studente di Ard non lo considerava figlio suo, aveva alimentato la propria rabbia, era morto senza perdonare. Dulse aveva visto giovani che piangevano di gioia alla nascita del primo figlio. Aveva visto poveri che davano alle streghe i guadagni di un anno in cambio della promessa di un bambino sano, e un ricco che toccava la faccia del figlioletto adorno di fronzoli preziosi e sussurrava adorante: — La mia immortalità! — Aveva visto uomini che picchiavano i figli, che li angariavano e li umiliavano, che li vessavano e li ostacolavano, odiando la morte che vedevano in loro. Aveva visto l'odio conseguente negli occhi dei figli, la minaccia, il disprezzo crudele. E vedendo ciò, Dulse capiva perché
non avesse mai cercato la riconciliazione con il padre. Aveva visto un padre e un figlio lavorare insieme dall'alba al tramonto, il vecchio guidando un bue cieco, l'uomo di mezz'età spingendo l'aratro dalla lama di ferro, senza mai scambiarsi una parola. Mentre tornavano a casa, il vecchio aveva posato un attimo la mano sulla spalla del figlio. Non aveva mai dimenticato quell'episodio. Lo rammentava anche adesso, quando nelle sere invernali guardava dall'altra parte del focolare la faccia scura china su un libro di scienza o una camicia da rammendare. Gli occhi bassi, la bocca chiusa, lo spirito in ascolto. — Una volta nella vita, se è fortunato, un mago trova qualcuno con cui può parlare. — Glielo aveva detto Nemmerle, un paio di notti prima che Dulse lasciasse Roke, un paio d'anni prima che Nemmerle fosse designato Arcimago. Era il Maestro Strutturatore e il più benevolo degli insegnanti alla scuola. — Penso che se tu rimanessi, Heleth, potremmo parlare. Per un po', Dulse non era riuscito a proferire parola. Poi, balbettando, sentendosi in colpa per la propria ingratitudine e incredulo di fronte alla propria testardaggine: — Maestro... io... io rimarrei, ma il mio lavoro è a Gont. Vorrei che fosse qui, con te... — È un dono raro, sapere dove si deve essere, prima di essere stati in tutti i posti dove non è necessario trovarsi. Bene, mandami uno studente di tanto in tanto. Roke ha bisogno della magia gontiana. Penso che stiamo trascurando delle cose, qui, cose che vale la pena di conoscere... Dulse aveva mandato degli studenti alla scuola, tre o quattro bravi ragazzi portati per diversi tipi di arte; ma quello che Nemmerle aspettava, era arrivato e ripartito di sua spontanea volontà, e Dulse non sapeva cosa pensassero di lui a Roke. E Silenzio, naturalmente, non lo diceva. Era evidente che là, in due o tre anni, aveva imparato quello che certi ragazzi imparavano in sei o sette anni e che molti non imparavano mai. Per lui era stato solo uno studio preparatorio per impossessarsi dei fondamenti. — Perché non sei venuto prima da me? — gli aveva chiesto il mago. — In seguito saresti potuto andare a Roke a perfezionarti, no? — Non volevo farti perdere tempo. — Nemmerle sapeva che saresti venuto a lavorare con me? Silenzio scosse il capo. — Se ti fossi degnato di informarlo delle tue intenzioni, forse mi avrebbe inviato un messaggio. Silenzio parve colpito. — Eravate amici? Dulse fece una pausa. — Era il mio maestro. Forse sarebbe stato mio
amico, se io fossi rimasto a Roke. I maghi hanno amici? Non più di quanto abbiano mogli o figli, immagino... Una volta Nemmerle mi ha detto che nel nostro mestiere può ritenersi fortunato chi trova qualcuno con cui parlare... Tienilo a mente. Se sarai fortunato, un giorno dovrai aprire la bocca. Silenzio piegò la testa arruffata cogitabonda. — Se non sarà bloccata dalla ruggine — soggiunse Dulse. — Se mi chiederai di farlo, parlerò — disse il giovane, così zelante, così pronto a rinnegare la propria natura su richiesta di Dulse, che il mago non poté non ridere. — Ti ho chiesto di non parlare — disse. — E non si tratta di una mia necessità. Io parlo abbastanza per due. Non preoccuparti. Saprai cosa dire quando sarà il momento. Questa è l'arte, no? Cosa dire, e quando dirlo. E il resto è silenzio. Il giovane dormì su un pagliericcio sotto la piccola finestra a ovest per tre anni. Imparò la magia, diede da mangiare ai polli, munse la vacca. Una volta, suggerì a Dulse di tenere delle capre. Non proferiva verbo da una settimana, una fredda e piovosa settimana autunnale. Disse: — Potresti tenere qualche capra. Dulse aveva aperto sul tavolo il grosso libro di scienza. Stava cercando di ritessere uno degli Incantesimi di Acastan, spezzati e privati di potere dalle Emanazioni di Fundaur secoli addietro. Aveva appena cominciato a farsi un'idea della parola mancante che avrebbe potuto colmare una delle lacune, l'aveva quasi intuita, e... — Potresti tenere qualche capra — esordì Silenzio. Il mago si considerava un uomo loquace, impaziente, irascibile. La necessità di non imprecare era stata un peso per lui in gioventù, e per trent'anni l'imbecillità di apprendisti, clienti, vacche, e polli, lo aveva messo a dura prova. Apprendisti e clienti temevano la sua lingua tagliente, anche se vacche e polli non badavano ai suoi scatti. Non si era mai arrabbiato con Silenzio in precedenza. Ci fu una pausa lunghissima. — Perché dovrei? Il giovane, a quanto pareva, non notò né la pausa né il tono estremamente sommesso della sua voce. — Latte, formaggio, capretto arrosto, compagnia — rispose. — Hai mai tenuto delle capre? — chiese Dulse, con la stessa voce bassa e garbata. Silenzio scosse il capo. Era infatti un ragazzo di città, nato a Porto Gont. Non aveva detto nulla
di sé, ma Dulse aveva chiesto informazioni in giro. Il padre, uno scaricatore, era morto nel grande terremoto, quando Silenzio doveva avere sette o otto anni; la madre faceva la cuoca in una taverna del quartiere del porto. A dodici anni il ragazzo si era cacciato in qualche guaio, probabilmente pasticciando con la magia, e la madre era riuscita a collocarlo come apprendista presso Elassen, un rispettabile stregone di Valmouth. Là, il ragazzo aveva appreso il suo vero nome, e i rudimenti della falegnameria e del lavoro agricolo, se non altro; ed Elassen era stato così generoso, dopo tre anni, da pagargli il viaggio a Roke. Questo era tutto ciò che Dulse sapeva di lui. — Non mi piace il formaggio di capra — dichiarò l'uomo. Silenzio annuì, con l'accettazione deferente di sempre. Di tanto in tanto, negli anni successivi, Dulse ricordava come non avesse perso le staffe quando Silenzio gli aveva chiesto delle capre; e ogni volta il ricordo gli dava una placida soddisfazione, come quella che si provava finendo l'ultimo boccone di una pera perfettamente matura. Dopo avere trascorso parecchi giorni cercando di ritrovare la parola mancante, aveva incaricato Silenzio di studiare gli Incantesimi di Acastan. Insieme, finalmente, avevano risolto il problema. Era stato un lavoro ingrato. — Come arare con un bue cieco — fu il commento di Dulse. Non molto tempo dopo, diede a Silenzio il bastone di quercia gontiana che aveva fatto per lui. E il signore di Porto Gont aveva provato di nuovo a indurre il mago a scendere a Porto Gont e fare ciò che andava fatto, e Dulse aveva mandato Silenzio, invece, e il giovane era rimasto là. Dulse stava in piedi sul gradino davanti alla porta di casa, con tre uova in mano e la pioggia che gli scorreva fredda lungo la schiena. Da quanto era lì? Perché era lì in piedi? Stava pensando al fango, al pavimento, a Silenzio. Era uscito a passeggiare sul sentiero che dominava il tratto di mare dell'Overfell? No, quello era accaduto anni addietro, e c'era il sole, allora. Adesso pioveva. Aveva dato da mangiare ai polli, ed era tornato verso la casa con tre uova, tre uova ancora calde nella sua mano, uova marrone chiaro, lisce e tiepide; e aveva ancora in mente il fragore del tuono, avvertiva la vibrazione del tuono nelle ossa, nei piedi. Tuono? No. C'era stato un rombo di tuono, poc'anzi. Adesso non si trattava di un tuono. Aveva provato quella strana sensazione e non l'aveva riconosciuta, in precedenza. .. quando? Molto tempo addietro, prima dei giorni e degli anni a cui stava pensando. Quando, quando era successo...? Prima del ter-
remoto. Appena prima del terremoto. Appena prima che mezzo miglio di costa a Essary scivolasse nel mare, e la gente morisse schiacciata dalle macerie nei villaggi devastati, e un'onda gigantesca sommergesse i pontili a Porto Gont. Scese dal gradino della porta per sentire il terreno con i nervi della pianta dei piedi, ma il fango insudiciò e confuse i messaggi che il suolo gli inviava. Dulse posò le uova sul gradino, si sedette accanto ad esse, si lavò i piedi con l'acqua piovana nella pignatta vicino al gradino, li asciugò con lo straccio appeso al manico della pignatta, lo sciacquò e strizzò e lo rimise a posto, raccolse le uova, si alzò lentamente, ed entrò in casa. Lanciò un'occhiata al proprio bastone, appoggiato nell'angolo dietro la porta. Mise le uova nella dispensa, mangiò in fretta una mela perché aveva fame, e prese il bastone. Era di tasso, con il puntale di rame, e l'impugnatura levigata dall'uso. Glielo aveva dato Nemmerle. — Ritto! — ordinò, parlando la lingua del bastone, e lo lasciò andare. Quello rimase dritto come se lo avesse conficcato in una cavità. — Alla radice — disse Dulse impaziente, nella Lingua della creazione. — Alla radice! Osservò il bastone sul pavimento di legno lucido. Poco dopo, lo vide tremare leggermente... un fremito, una vibrazione. — Ah, ah, ah — fece il vecchio mago. — Cosa dovrei fare? — chiese a voce alta, alcuni istanti dopo. Il bastone ondeggiò, si fermò, oscillò ancora. — Basta così, mio caro — disse Dulse, posando la mano sul bastone. — Andiamo... Ecco perché continuavo a pensare a Silenzio. Dovrei farlo venire... Inviargli un messaggio... No. Cosa diceva Ard? Trova il centro, trova il centro. Ecco la domanda da porre. Ecco cosa bisogna fare... — Mentre continuava a borbottare tra sé, scovando il mantello pesante, mettendo l'acqua a bollire sul focherello acceso prima, si chiese se avesse sempre parlato da solo, se avesse sempre parlato nel periodo in cui Silenzio aveva vissuto con lui. No. Era diventata un'abitudine dopo che Silenzio se n'era andato, pensò, con la parte della mente che continuava a soffermarsi sulle cose normali della vita, mentre l'altra parte si preparava ad affrontare terrore e distruzione. Fece bollire le tre uova fresche e una già nella dispensa e le mise in una borsa con quattro mele e una vescica di vino resinato, nel caso fosse dovuto star fuori tutta la notte. Con movimenti artritici, si avvolse nel pesante mantello, prese il bastone, disse al fuoco di spegnersi, e uscì.
Non teneva più una mucca. Si fermò a guardare il pollaio, riflettendo. La volpe aveva visitato il frutteto, negli ultimi tempi. Ma i polli avrebbero dovuto procurarsi il cibo, con lui assente. Dovevano rischiare anche loro, come chiunque altro. Aprì un poco il cancelletto del pollaio. Sebbene adesso la pioggia fosse solo un'acquerugiola brumosa, i pennuti rimasero accovacciati sotto la gronda, sconsolati. Il re non aveva cantato nemmeno una volta, quella mattina. — Non avete nulla da dirmi? — chiese loro Dulse. Bucca Bruna, la sua prediletta, si scosse e disse alcune volte il proprio nome. Gli altri pennuti tacquero. — Be', siate prudenti. Ho visto la volpe nella notte di plenilunio — disse il mago, e si avviò. Mentre camminava, pensò; pensò, concentrato; e ricordò. Ricordò il più possibile di certe cose di cui la sua insegnante aveva parlato una sola volta e tanto tempo addietro. Strane cose, talmente strane che lui non aveva mai saputo se fossero vera magia o semplici astrusità stregonesche, per usare l'espressione usata a Roke. Cose di cui sicuramente non aveva mai sentito parlare alla scuola, e a cui non aveva mai accennato, là, temendo forse che i Maestri lo disprezzassero per averle prese sul serio, sapendo forse che loro non avrebbero capito, perché erano cose gontiane, verità di Gont. Non erano scritte nemmeno nei libri di scienza di Ard, provenienti dal grande magio Ennas di Perregal. Erano tutte conoscenze tramandate oralmente. Erano verità locali di Gont. — Se devi leggere la Montagna — gli aveva detto la sua insegnate — vai allo Stagno Scuro sopra il pascolo di Semere. Da là si vedono le vie. Bisogna trovare il centro. Vedere dove entrare. — Entrare? — aveva sussurrato il giovane Dulse. — Cosa si potrebbe fare dall'esterno? Dopo un lungo silenzio, aveva chiesto: — Come? — Così. — E Ard tese le lunghe braccia e le sollevò nell'invocazione di quello che, come avrebbe appreso in seguito, era un grande incantesimo di Trasformazione. L'insegnante pronunciò le parole dell'incantesimo nel modo sbagliato, come dovevano fare i maestri di magia perché l'incantesimo non operasse. Dulse conosceva il trucco per udirle nel modo giusto e ricordarle. Quando Ard ebbe finito, Dulse ripeté mentalmente le parole, in silenzio, abbozzando gli strani gesti sgraziati che facevano parte del sortilegio. Tutt'a un tratto, la sua mano si fermò. — Ma questo non si può annullare! — esclamò.
Ard annuì. — È irrevocabile. Lui non conosceva nessuna trasformazione irrevocabile, nessun incantesimo che non si potesse rendere nullo, tranne la Parola di slegamento, che veniva pronunciata solo una volta. — Ma perché...? — All'occorrenza — disse Ard. Dulse sapeva che non era il caso di chiedere spiegazioni. La necessità di operare un simile incantesimo non poteva presentarsi spesso; molto difficilmente avrebbe dovuto usarlo. Lasciò che il terribile incantesimo occupasse un recesso della sua mente e venisse coperto e nascosto da mille magie meravigliose, utili o illuminanti, da tutta la scienza e le regole di Roke, da tutta la saggezza dei libri ereditati da Ard. Rozzo, mostruoso, inutile, l'incantesimo rimase in un anfratto oscuro della sua mente per sessant'anni, come la prima pietra di una casa precedente e dimenticata, nella cantina di un palazzo pieno di luci, tesori e bambini. La pioggia era cessata, anche se la foschia velava ancora la vetta, e brandelli di nubi si insinuavano nelle foreste elevate. Pur non essendo un camminatore instancabile come Silenzio, che avrebbe trascorso la vita vagando nelle foreste del monte Gont se avesse potuto, Dulse era nato a re Albi e conosceva le strade e i sentieri della zona come le proprie tasche. Al pozzo di Rissi prese la scorciatoia, e prima di mezzogiorno sbucò nel pascolo di Semere, un pianoro sul fianco della montagna. Un miglio più in basso, ora illuminati dal sole, gli edifici della fattoria stavano al riparo di una collina percorsa da un gregge di pecore che sembrava una nuvola. Porto Gont e la sua baia erano celati dai verdi colli che s'innalzavano nell'entroterra sovrastando la città. Dulse girovagò un po' prima di trovare quello che doveva essere lo Stagno scuro. Era piccolo, per metà fango e canne, con un vago sentiero melmoso che conduceva all'acqua, e nessuna impronta sul sentiero a parte orme di zoccoli caprini. L'acqua era scura, pur trovandosi sotto il cielo limpido e ben al di sopra delle torbiere. Seguì le impronte caprine, brontolando quando scivolò con un piede sul fango, stortandosi la caviglia per non cadere. Sull'orlo dello stagno si fermò. Si chinò per massaggiare la caviglia. Ascoltò. Silenzio assoluto. Niente vento. Nessun canto d'uccelli. In lontananza, nessun muggito, nessun belato, né il suono di qualche voce umana. Come se tutta l'isola tacesse. Non una mosca che ronzasse.
Guardò l'acqua scura. Non rifletteva nulla. Riluttante, avanzò, scalzo, le gambe nude; un'ora prima, quando era uscito il sole, aveva arrotolato il mantello e lo aveva messo nella borsa. Le canne gli sfioravano le gambe. Il fango era molle e vischioso sotto i suoi piedi, pieno di radici aggrovigliate. Dulse non faceva alcun rumore mentre avanzava lentamente nello stagno, e le increspature circolari prodotte dai suoi movimenti erano lievi. Per un lungo tratto, l'acqua si mantenne bassa. Poi il suo piede cauto non sentì il fondo, e si arrestò. L'acqua tremò. Dapprima, percepì il tremito con le cosce, si sentì lambire, come dallo strusciamento solleticante di una pelliccia; poi lo vide, il tremito di tutta la superficie dello stagno. Non erano le increspature prodotte da lui, già svanite, ma un agitarsi dell'acqua, una turbolenza, una vibrazione che si ripeteva. — Dove? — sussurrò, e poi disse la parola a voce alta nella lingua compresa da tutte le cose che non avevano altra lingua. Ci fu silenzio. Quindi un pesce guizzò dall'acqua nera fremente, un pesce bianco e grigio lungo quanto la sua mano, e mentre guizzava gridò con una vocina chiara, nella medesima lingua: — Yaved! Il vecchio mago rifletté. Rammentò tutto ciò che sapeva dei nomi di Gont, richiamò alla mente tutti i pendii e i dirupi e i burroni dell'isola, e poco dopo vide dove fosse Yaved. Era il luogo dove i crinali si separavano, appena all'interno rispetto a Porto Gont, nel cuore del crocchio di colline che sovrastavano la città. Era il luogo della faglia. Scatenandosi in quel punto, un terremoto avrebbe potuto demolire la città, provocare frane e un maremoto, far cozzare le scogliere della baia, unendole, come due mani che si congiungessero. Dulse rabbrividì, tremò da capo a piedi come l'acqua dello stagno. Si voltò e si diresse verso la sponda, in fretta, senza badare a dove metteva i piedi, infischiandosene se rompeva il silenzio sciaguattando e ansimando. Arrancò sul sentiero tra le canne, finché non raggiunse il tratto di terreno asciutto ed erba ruvida dove si udiva il ronzio dei moscerini e dei grilli. Allora si abbandonò al suolo, sedendosi, perché gli tremavano le gambe. — Non servirà — disse, parlando tra sé in hardico, quindi soggiunse: — Non posso farlo. — E poi: — Non posso farlo da solo. Era così sconvolto che quando si decise a chiamare Silenzio, non riuscì a ricordare l'inizio dell'incantesimo, pur conoscendolo da sessant'anni; poi, quando gli sembrò di ricordarlo, cominciò a pronunciare invece una for-
mula di evocazione, e l'incantesimo aveva già iniziato a operare, prima che lui si rendesse conto di ciò che stava facendo, lo arrestasse e lo annullasse completamente. Strappò un po' d'erba e si strofinò le caviglie e i piedi sporchi di fango. Non era ancora secco, e invece di pulirsi, riuscì solo a spalmare quella melma sulla pelle. — Odio il fango — mormorò. Poi serrò di scatto la bocca e smise di cercare di pulirsi le gambe. — Terra, terra — disse, dando qualche colpetto affettuoso al terreno su cui sedeva. Quindi, molto lentamente, con estrema cura, cominciò a pronunciare l'incantesimo di chiamata. In una strada affollata che conduceva ai pontili accalcati di Porto Gont, il mago Ogion si arrestò di colpo. Il capitano accanto a lui proseguì per parecchi passi, poi si voltò e vide che il mago stava parlando all'aria. — Ma io verrò, maestro! — disse il mago. E dopo una pausa: — Fra quanto? — E dopo una pausa più lunga, disse all'aria qualcosa in una lingua che il capitano non comprendeva, e fece un gesto che per un attimo oscurò l'aria attorno a lui. — Capitano — disse — mi dispiace, l'incantesimo alle tue vele dovrà aspettare. Un terremoto incombe. Devo avvisare la città. Tu avverti la gente giù al porto... Ogni nave in grado di salpare si diriga subito in mare aperto, esca dalla baia e si allontani dalle Scogliere armate! Buona fortuna! — Si girò e ripercorse di gran carriera la strada, un uomo alto e forte dai capelli arruffati ormai grigi, che adesso correva come una lepre. La città di Porto Gont era sita all'estremità interna di una baia lunga e stretta dalle coste scoscese. L'imboccatura della baia si trovava tra due grandi promontori - la Porta del porto, le Scogliere armate - separati da una distanza di neppure cento piedi. La gente di Porto Gont era al sicuro dai pirati. Ma tale sicurezza costituiva anche un pericolo: la lunga baia seguiva una faglia, una frattura nella terra, e delle fauci aperte potevano sempre chiudersi. Quando ebbe fatto il possibile per avvertire la città, e vide che tutte le guardie cittadine e del porto stavano facendo del loro meglio per impedire che le poche strade che dal centro abitato si trasformassero in pericolose fiumane di persone in preda al panico, Ogion si chiuse in una stanza della torre di segnalazione del porto, sprangò la porta, perché tutti volevano parlargli, e inviò un'emanazione allo Stagno scuro del pascolo di Semere sulla
montagna. Il suo vecchio maestro sedeva tra l'erba accanto allo stagno, mangiando una mela. Dei frammenti di guscio d'uovo erano sparsi sul terreno attorno alle sue gambe, che erano incrostate di fango quasi secco. Quando alzò lo sguardo e vide l'emanazione di Ogion, il maestro sorrise, gli rivolse un sorriso largo e amabile. Sembrava invecchiato. E parecchio. Ogion non lo vedeva da oltre un anno, essendo stato impegnato; era sempre occupato a Porto Gont, a lavorare per i signori e la gente comune, senza poter mai camminare nelle foreste sui versanti della montagna o andarsi a sedere con Heleth nella casetta di re Albi e ascoltare e stare in silenzio. Heleth era vecchio, aveva ormai ottant'anni; ed era spaventato. Sorrise di gioia nel vederlo, però aveva paura. — Penso che quello che dobbiamo fare — esordì senza preamboli — sia cercare di impedire che la frattura si sposti molto. Tu alla Porta della baia, e io all'interno, nella Montagna. Lavorando insieme, insomma. Forse ci riusciremo. Sento che il terremoto si prepara a colpire... tu lo senti? Ogion scosse il capo. Lasciò che la propria emanazione si sedesse sull'erba vicino a Heleth, cosa che successe senza piegare alcuno stelo. — Io non ho fatto altro che seminare il panico in città e mandare le navi fuori dalla baia — disse. — Cos'è che senti? Come fai a sentirlo? Erano domande tecniche, da magio a magio. Heleth esitò prima di rispondere. — E qualcosa che ho appreso da Ard — iniziò, e s'interruppe subito. Non aveva mai detto nulla a Ogion della sua prima insegnante, una maga che non godeva di alcuna fama neppure a Gont, o forse di una fama cattiva. Ogion sapeva solo che quella persona di nome Ard non era mai andata a Roke, che aveva studiato a Perregal, e che qualche mistero o ignominia ne offuscava il nome. Pur essendo loquace, per essere un mago, su certe cose Heleth era muto come un sasso. E così Ogion, che rispettava il silenzio, non gli aveva mai chiesto di quell'insegnante. — Non è magia di Roke — riprese il vecchio. La sua voce era roca, un po' forzata. — Nulla che sia contro l'equilibrio, però. Nulla di losco. Aveva sempre indicato con quel termine le azioni malvage, gli incantesimi a scopo di lucro, le maledizioni, la magia nera: roba losca. Dopo un po', cercando le parole adatte, proseguì: — Terra. Roccia. È una magia sporca. Vecchia. Vecchissima. Vecchia quanto l'isola di Gont. — I Vecchi Poteri? — mormorò Ogion. Heleth rispose: — Non ne sono sicuro.
— Controllerà la terra stessa? — Si tratta più che altro di unirsi alla terra, penso. Di andare dentro. — Il vecchio stava seppellendo il torsolo della mela e i pezzetti più grandi di guscio d'uovo sotto un mucchietto di terriccio, che compattò con cura. — Naturalmente, conosco le parole, però dovrò scoprire cosa fare mentre procedo. Questo è il guaio dei grossi incantesimi, eh? Apprendi quello che stai facendo mentre lo fai. Impossibile esercitarsi. — Alzò lo sguardo. — Ah... ecco! Lo senti? Ogion scosse il capo. — Tensione profonda — disse Heleth, continuando distrattamente a dare dei colpetti affettuosi al terreno, quasi stesse accarezzando una mucca spaventata. — Credo che manchi poco, ormai. Puoi tenere aperta la Porta della baia, mio caro? — Dimmi cosa farai... Ma Heleth stava scuotendo la testa. — No — disse. — Non c'è tempo. Non è il tuo genere di magia. — Era sempre più turbato da quanto percepiva nella terra o nell'aria, e tramite lui anche Ogion avvertì quella tensione che andava accumulandosi, insopportabile. Rimasero seduti in silenzio. La crisi passò. Heleth si rilassò leggermente e addirittura sorrise. — Una cosa vecchissima — disse — quello che farò. Adesso vorrei averci pensato di più. Tramandandoti magari questa conoscenza. Ma mi sembrava una magia piuttosto rozza. Goffa... Lei non mi ha detto dove l'avesse imparata. Qui, naturalmente... Esistono diversi tipi di conoscenza, dopotutto... — Lei? — Ard. La mia insegnante. — Heleth sollevò lo sguardo, il viso indecifrabile, l'espressione forse furbesca. — Non lo sapevi? No, immagino di non avertelo mai raccontato. Mi domando che differenza facesse per la sua magia, il fatto che lei fosse una donna. O cos'abbia di diverso la mia, la magia di un uomo... Ciò che importa, a mio avviso, è di chi è la casa in cui viviamo. E chi lasciamo entrare nella casa. Questo genere di cose... Ecco! Di nuovo... La sua tensione improvvisa, l'immobilità, la faccia tirata e l'espressiona assorta rivolta all'interno, ricordavano una donna in travaglio cui si contraesse il ventre. Fu quello il pensiero che passò nella mente di Ogion, mentre chiedeva al vecchio maestro: — Cosa intendevi prima, dicendo che tu agirai nella Montagna? Lo spasmo cessò; Heleth rispose: — Dentro la Montagna. Là è Yaved.
— Indicò le colline sotto di loro. — Entrerò, cercherò di impedire che la terra scivoli qui e là, eh? Scoprirò il modo quando lo farò, senza dubbio. Penso che dovresti tornare in te. La situazione sta precipitando. — S'interruppe di nuovo; sembrava che fosse in preda a un dolore intenso, era curvo e contratto. A fatica, si alzò in piedi. Senza riflettere, Ogion tese la mano per aiutarlo. — Inutile — disse il vecchio mago, sorridendo — sei solo aria e luce. Adesso io diverrò terra e pietra. È meglio che tu vada. Addio, Aihal. Tieni... tieni la bocca aperta, una volta tanto, eh? Ogion, obbediente, richiamando la propria emanazione nella stanza mal ventilata di Porto Gont, non capì la facezia del vecchio finché non si girò verso la finestra e vide le Scogliere armate all'estremità della lunga baia, le fauci pronte a chiudersi. — La terrò aperta — disse allora, e si mise all'opera. — Vedi, ciò che devo fare — disse il vecchio mago, continuando a parlare con Silenzio perché era confortante parlare con lui sebbene Silenzio non fosse più lì — è entrare nella montagna, penetrare proprio all'interno. Ma non come fa uno stregone cercatore di minerali, non sgusciando semplicemente tra le cose e guardando e assaggiando. Più in profondità. Alla radice. Non devo arrivare alle vene, ma alle ossa. Così... — E stando in solitudine nel pascolo, alla luce di mezzogiorno, Heleth spalancò le braccia nel gesto di invocazione con cui iniziavano tutti i grandi incantesimi; e parlò. Non accadde nulla mentre pronunciava le parole che Ard gli aveva insegnato, la sua vecchia maestra strega, dalla bocca pungente e le lunghe braccia magre, che allora aveva proferito le frasi nel modo sbagliato; ora la formula era però pronunciata correttamente. Non accadde nulla, e lui ebbe il tempo di rammaricarsi del sole e del vento marino, e di dubitare dell'incantesimo, e di dubitare di se stesso, prima che la terra si levasse attorno a lui, asciutta, calda, e scura. All'interno, capì che doveva affrettarsi, che le ossa della terra desideravano ardentemente muoversi, e che doveva diventare quelle ossa per guidarle, ma non riuscì a farlo. Era preda dello smarrimento di ogni trasformazione. Ai suoi tempi, era stato volpe, e toro, e libellula, e sapeva cosa significasse cambiare forma. Questo mutamento però era diverso, questo lento ampliamento. "Sto diventando immenso" pensò. Si protese verso Yaved, verso il punto dolente. Avvicinandosi, sentì ri-
versarsi in lui una grande forza proveniente da ovest, come se Silenzio lo avesse preso per mano, dopotutto. Attraverso quel legame, poté inviare in ausilio la propria forza, la forza della Montagna. "Non gli ho detto che non sarei tornato" pensò, le sue ultime parole in hardico, il suo ultimo cruccio, perché adesso era nelle ossa del monte. Conobbe le arterie di fuoco, e il battito del grande cuore. Ora sapeva cosa fare. In una lingua non umana, disse: — Stai zitta, stai tranquilla. Suvvia. Stai ferma. Così, ecco. Possiamo stare tranquilli. E lui era tranquillo, immobile, solido, roccia nella roccia e terra nella terra, nell'oscurità ardente della montagna. Era il mago Ogion, il loro mago, l'uomo che gli abitanti videro ergersi solitario sul tetto della torre di segnalazione del molo, quando le strade tremarono e ondeggiarono, e i ciottoli schizzarono in alto, e i muri di mattoni d'argilla si sbriciolarono, e le Scogliere armate s'inclinarono scricchiolando e cominciarono a congiungersi. Era Ogion l'uomo che videro tendere le mani davanti a sé, sforzandosi, separando; e le scogliere si separarono obbedendo al movimento delle sue mani, e si drizzarono, tornarono come prima. La città rabbrividì e si fermò. Era stato Ogion ad arrestare il terremoto. Gli abitanti lo avevano visto, e lo dissero. — Il mio insegnante era con me, e con lui c'era la sua maestra — spiegò Ogion, quando lo lodarono. — Ho potuto tenere aperta la Porta della baia perché lui ha tenuto ferma la Montagna. — La gente lodò la sua modestia, e non gli diede retta. Ascoltare gli altri è una dote rara, e gli uomini vogliono i loro eroi. Quando in città tornò la calma, e le navi rientrarono in porto, e si cominciò a ricostruire i muri crollati, Ogion si sottrasse agli elogi e salì nelle colline sopra Porto Gont. Trovò la strana conca chiamata Valletta del regolatore, il cui nome vero nella Lingua della creazione era Yaved, come il vero nome di Ogion era Aihal. Camminò nella valle un giorno intero, come se cercasse qualcosa. Alla sera, si stese al suolo e parlò alla terra. — Avresti dovuto avvertirmi. Avrei potuto dirti addio — disse. Poi pianse, e le sue lacrime caddero sul terriccio secco tra gli steli d'erba e formarono minuscole chiazze di fango, minuscole pozze appiccicose. Dormì all'addiaccio, senza alcun giaciglio o coperta tra lui e il terreno. All'alba, si alzò, e imboccando la strada maestra raggiunse re Albi. Non entrò nel villaggio, ma lo superò e andò alla casa che sorgeva solitaria a nord delle altre abitazioni, all'inizio delle scogliere dell'Overfell. La porta
era aperta. Gli ultimi fagioli erano grossi e maturi sulle piantine; i cavoli crescevano rigogliosi. Tre galline vennero a chiocciare e becchettare nella polvere davanti alla porta, una rossa, una bruna, una bianca; una gallina grigia stava covando nel pollaio. Non c'erano pulcini, e nessuna traccia del gallo, il re, come lo chiamava Heleth. "Il re è morto" pensò Ogion. Forse in quello stesso istante stava nascendo un pulcino per prenderne il posto. Gli parve di cogliere un sentore di volpe, proveniente dal piccolo frutteto dietro la casa. Spazzò fuori la polvere e le foglie che attraverso la porta aperta si erano posate sul pavimento di legno lucido. Mise al sole il materasso e la coperta di Heleth perché prendessero aria. "Rimarrò qui un po'" si disse. "È una bella casa." E poco dopo pensò: "Potrei tenere qualche capra". Nell'alta palude L'isola di Semel si trova a nord-ovest di Havnor, oltre il mare Pelnico, a sud-ovest delle Enlades. Pur essendo una delle grandi isole dell'Arcipelago di Earthsea, non esistono molte storie che provengano da Semel. Enlad ha la propria storia gloriosa, e Havnor la ricchezza, e Paln la dubbia fama, ma Semel ha solo bestiame bovino e pecore, foreste e piccoli borghi, e il grande vulcano silente chiamato Andanden che sovrasta tutto. A sud dell'Andanden c'è una terra dove si è posato uno strato di cenere alto cento piedi, l'ultima volta che il vulcano ha parlato. Fiumi e torrenti, scorrendo verso il mare, solcano quella pianura elevata, serpeggiando e ristagnando, allargandosi e snodandosi in un susseguirsi di anse, trasformando la piana in una palude, un grande acquitrino desolato con un orizzonte lontano, pochi alberi, non molte persone. Sul terreno ricco di cenere cresce un'erba rigogliosa, e la gente del posto alleva bestiame, buoi da ingrasso per la popolosa costa meridionale, lasciando che gli animali vaghino per miglia e miglia attraverso la pianura, con i fiumi a fungere da staccionate. Come tutte le montagne, l'Andanden influenza il tempo. Raccoglie attorno a sé le nubi. L'estate è breve, l'inverno lungo, nell'alta palude. All'imbrunire di un giorno d'inverno, un viaggiatore sostò all'incrocio ventoso di due sentieri, nessuno dei quali molto promettente, semplici piste per bestiame tra le canne, e cercò un segno che gli indicasse quale direzione dovesse prendere.
Scendendo l'ultimo pendio del monte, aveva visto delle case sparse qua e là nella piana acquitrinosa, un villaggio non lontano. Pensava di trovarsi sulla strada giusta per il villaggio, ma a un certo punto doveva avere svoltato nella direzione sbagliata. Delle canne alte crescevano lungo i sentieri, e quindi, se nei paraggi ci fosse stata qualche luce, lui non avrebbe potuto vederla. Dell'acqua gorgogliava sommessa vicino ai suoi piedi. Aveva consumato le scarpe camminando attorno all'Andanden sulle strade impervie di lava nera. Le suole erano bucate, adesso, e i piedi gli dolevano nell'umidità gelida dei sentieri che attraversano l'acquitrino. L'oscurità calò rapida. Da sud stava levandosi della foschia, che nascondeva il cielo. Solo sopra l'immensa mole indistinta del monte, le stelle splendevano nitide. Il vento sibilava tra le canne, un fischio sommesso, lugubre. Il viandante fermo all'incrocio fischiò alle canne. Qualcosa si mosse su uno dei sentieri, qualcosa di grosso, scuro, nelle tenebre. — Sei lì, mia cara? — disse il viandante. Parlava nella Vecchia lingua, la Lingua della creazione. — Vieni, allora, Ulla — disse, e la giovenca fece un paio di passi verso di lui, verso il proprio nome, mentre lui le andava incontro. Individuò la grossa testa con il tatto più che con la vista, accarezzando la morbida fossetta tra gli occhi, grattandole la fronte alla base delle corna. — Bellissima, sei bellissima — le disse, sentendo il suo alito erbaceo, appoggiandosi al massiccio corpo caldo. — Vuoi guidarmi, Ulla? Vuoi condurmi dove devo andare? Era fortunato ad avere incontrato la giovenca di una fattoria, e non una bestia brada, che lo avrebbe solo portato ancor più all'interno della piana paludosa. La sua Ulla aveva l'abitudine di saltare gli steccati, ma dopo avere girovagato un po' cominciava ad avere nostalgia della stalla e della mamma, da cui a volte succhiava ancora qualche poppata; e adesso accompagnò a casa il viandante di buon grado. Imboccò, lenta ma decisa, uno dei sentieri, e lui andò con lei, tenendole una mano sul fianco quando la strada si faceva ampia. Quando l'animale guadò un ruscello che arrivava al ginocchio, il viaggiatore le si aggrappò alla coda. Ulla salì sulla sponda opposta, bassa e fangosa, e agitò la coda per liberarsi, ma attese che lui la raggiungesse muovendosi in modo ancor più goffo, prima di proseguire tranquilla. Il viandante le si strinse contro il fianco, perché il gelo del ruscello gli era penetrato fino alle ossa, e stava tremando. — Muuu — disse sommessa la sua guida, e lui scorse, un po' a sinistra,
un piccolo riquadro fioco di luce gialla. — Grazie — disse, aprendo il cancello. E, mentre la giovenca andava a salutare la madre, attraversò con passo malfermo il cortile buio, dirigendosi verso la porta della casa. Doveva essere Chicco, quello che bussava alla porta, anche se lei non capiva perché bussasse. — Entra, sciocco! — disse, ma bussarono di nuovo, e allora lei posò l'indumento che stava rammendando e andò alla porta. — Possibile che tu sia già ubriaco? — sbottò, poi lo vide. La prima cosa che le venne in mente fu un re, un signore, il Maharion dei canti, alto, dritto, bello. La seconda cosa che pensò fu un mendicante, un uomo smarrito, in abiti sporchi, che stringeva al corpo le braccia tremanti. Lui disse: — Mi sono smarrito. Sono giunto al villaggio? — La voce era aspra e rauca, un tono da mendicante, ma l'accento non era da viandante. — Il villaggio è mezzo miglio più avanti — rispose Dote. — C'è una locanda? — La locanda più vicina è a Oraby, dieci o dodici miglia a sud. — La donna rifletté solo un attimo. — Se hai bisogno di una stanza per la notte, ne ho una. O potrebbe averla San, se vai al villaggio. — Se è possibile, rimarrei qui — disse lui con quel suo fare principesco, battendo i denti, aggrappandosi allo stipite della porta per reggersi in piedi. — Togliti le scarpe — disse Dote. — Sono fradice. Vieni dentro, allora. — Si scostò e disse: — Vieni vicino al fuoco. — E lo fece sedere sulla panca di Bren accanto al camino. — Attizza un po' il fuoco... Vuoi un po' di zuppa? È ancora calda. — Grazie, signora — mormorò lui, rannicchiandosi davanti alla fiamma. Dote gli portò una ciotola di brodo. Lui bevve avido ma cauto, come se da tempo non fosse abituato a del cibo caldo. — Hai passato la montagna? Lui annuì. — Per quale motivo? — Per venire qui — rispose il forestiero. Cominciava a tremare meno. I suoi piedi nudi erano un triste spettacolo, lividi, gonfi, fradici. Dote avrebbe voluto suggerirgli di accostarli al fuoco, ma non le piaceva essere importuna. Qualunque cosa fosse, quell'uomo non era un mendicante per scelta. — Non molti vengono qui nell'Alta palude — gli disse. — Venditori
ambulanti e gente simile. Ma non d'inverno. Il forestiero finì la zuppa, e lei prese la ciotola. Si sedette al proprio posto, lo sgabello accanto alla lampada a olio a destra del focolare, e prese l'indumento che stava rammendando. — Scaldati bene, poi ti mostrerò il tuo letto. Non c'è fuoco in quella stanza. Hai incontrato il maltempo, sulla montagna? Dicono che sia nevicato... — Qualche turbine di neve — rispose lui. Lei lo osservò bene, ora che era illuminato dalla lampada e dal fuoco. Non era giovane, era esile, meno alto di quel che le era parso poc'anzi. Il volto era bello, ma c'era qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato. "Sembra rovinato" pensò Dote. "Un uomo rovinato..." — Perché sei venuto alla Palude? — gli chiese. Aveva il diritto di chiederglielo, avendolo accolto in casa, eppure si sentì a disagio nell'insistere tanto. — Ho saputo che qui c'è una moria del bestiame. — Adesso che non era più intirizzito, la sua voce era bellissima. Parlava come i narratori quando impersonavano gli eroi e i capigraghi. Che fosse un narratore o un cantore? No, no, aveva parlato della moria. — Sì, c'è una moria. — Forse potrò aiutare le bestie. — Sei un guaritore? Lui annuì. — Allora sarai più che gradito. La moria che ha colpito il bestiame è terribile. E sta peggiorando. Lui non disse nulla. Dote notò che il tepore stava avendo un effetto benefico su di lui, rilassandolo. — Avvicina i piedi al fuoco — gli disse d'un tratto. — Ho delle vecchie scarpe di mio marito. — Le costò un po' dirlo, poi però provò un senso di sollievo, e si sentì a sua volta rilassata. Perché conservava le scarpe di Bren, comunque? Erano troppo piccole per Chicco e troppo grandi per lei. Aveva dato via gli indumenti del marito, ma aveva tenuto le scarpe, senza sapere il perché. Per darle a quel forestiero, a quanto pareva. Bastava sapere aspettare, e le cose andavano a posto, pensò. — Te le tirerò fuori. Le tue sono distrutte. Lui le lanciò uno sguardo. I suoi occhi scuri erano grandi, profondi, opachi come gli occhi di un cavallo, indecifrabili. — Mio marito è morto — spiegò Dote. — Due anni fa. Febbre malarica. Bisogna stare attenti alla malaria, qui. È l'acqua. Vivo con mio fratello. È
al villaggio, alla taverna. Abbiamo una latteria. Io faccio il formaggio. Le nostre bestie stanno bene... — E fece il segno per scacciare il male. — Le tengo nel recinto. Fuori nelle praterie la moria è tremenda. Forse il freddo la farà cessare. — È più probabile che il freddo uccida le bestie ammalate — disse il forestiero. Sembrava un po' assonnato. — Io mi chiamo Dote — disse lei. — Mio fratello è Chicco. — Burrone — si presentò l'uomo dopo alcuni istanti di esitazione, e a lei sembrò un nome inventato lì per lì. Non gli si addiceva. Non c'era nulla in lui che quadrasse, che formasse un insieme armonico. Eppure Dote non provava alcuna diffidenza nei suoi confronti. Con lui si sentiva a proprio agio. Sapeva che non aveva cattive intenzioni. C'era della bontà in lui, lo si capiva da come parlava degli animali. Probabilmente, sapeva trattare gli animali. Lui stesso era come un animale, una creatura silenziosa e ferita che aveva bisogno di protezione ma non poteva chiederla. — Vieni — gli disse — prima di addormentarti davanti al focolare. — E lui la seguì obbediente nella stanza di Chicco, un locale poco più grande di un armadio, costruito in un angolo della casa. La stanza di Dote era dietro il camino. Dopo un po', Chicco sarebbe arrivato, ubriaco, e lei avrebbe sistemato il giaciglio nell'angolo del camino perché dormisse lì. Era giusto che il viandante riposasse in un buon letto per una notte. Forse le avrebbe lasciato un paio di monete di rame prima di ripartire. In quei tempi, nella casa di Dote c'era una terribile penuria di denaro. L'uomo si svegliò, come faceva sempre, nella propria stanza nella Grande casa. Non capì perché il soffitto fosse basso e l'aria pura avesse un odore acre e delle bestie stessero schiamazzando all'esterno. Dovette rimanere immobile e tornare in quest'altro posto e in quest'altro uomo, di cui non ricordava il nome comune, sebbene lo avesse detto la notte precedente a una giovenca o a una donna. Conosceva il suo nome vero ma non serviva a nulla lì, dovunque fosse quel luogo, non serviva né lì né altrove. C'erano state strade nere e pendici scoscese e una immensa piana verde che si stendeva in basso dinanzi a lui, attraversata da fiumi, costellata di acque luccicanti. Un vento freddo spirava. Le canne fischiavano, e la giovane mucca lo aveva guidato oltre il ruscello, ed Emer aveva aperto la porta. Non appena l'aveva vista, aveva saputo quale fosse il nome della donna. Ma doveva usare qualche altro appellativo. Non doveva chiamarla con il nome vero. Doveva ricordare come le aveva detto di chiamarsi. Lui non doveva
essere Irioth, sebbene fosse Irioth. Forse con il tempo sarebbe stato un altro uomo. No, era sbagliato; lui doveva essere quest'uomo. Le gambe e i piedi di costui dolevano. Ma il letto era un buon letto, un letto di piume, caldo, e non era necessario che lui si alzasse subito. Sonnecchiò un po', allontanandosi da Irioth. Quando infine si alzò, si chiese quanti anni avesse, e si guardò le mani e le braccia per vedere se avesse settant'anni. Sembrava ne avesse ancora quaranta, pur sentendosene adosso settanta e muovendosi come un vecchio claudicante. Indossò i propri indumenti, per quanto fossero sporchi dopo giorni e giorni di viaggio. Sotto la sedia c'era un paio di scarpe, usate ma in buono stato, scarpe robuste; e insieme alle scarpe, un paio di calze di lana. Infilò le calze sui piedi malconci e, zoppicando, raggiunse la cucina. Emer era accanto al grande acquaio, stava colando qualcosa di pesante servendosi di un panno. — Grazie per le calze e le scarpe — disse lui, grato del dono, e in quell'istante ricordò il nome comune della donna, ma aggiunse solo: — Signora. — Non c'è di che — rispose lei, e posò quello che reggeva in un grosso recipiente di terracotta, e si asciugò le mani sul grembiule. Lui non sapeva assolutamente nulla di donne. Non viveva in un luogo dove ci fossero delle donne da quando aveva dieci anni. Aveva paura di loro, allora, delle donne che gli gridavano di levarsi dai piedi in quell'altra grande cucina tanto tempo addietro. Ma da quando aveva cominciato a viaggiare in tutti gli angoli di Earthsea, aveva incontrato delle donne e aveva scoperto che erano una presenza gradevole, come gli animali; si occupavano dei fatti loro e non badavano molto a lui, a meno che lui non le spaventasse. Cercava di non farlo. Non aveva nessuna voglia di terrorizzarle, nessuna ragione. Non erano uomini. — Gradisci un po' di cagliata fresca? È un'ottima colazione. — Dote lo stava osservando, ma senza fissarlo a lungo, senza guardarlo negli occhi. Come un animale, come un gatto, era... lo stava valutando, evitando però di provocarlo. C'era un gatto, un gattone grigio, che contemplava i tizzoni, accovacciato sul bordo del focolare. Irioth accettò la ciotola e il cucchiaio che lei gli porse e si sedette sulla panca. Il gatto balzò accanto a lui e fece le fusa. — Ma guarda... — disse la donna. — Con la maggior parte della gente non è affettuoso. — È la cagliata.
— Forse ha riconosciuto un guaritore. Provava un senso di pace lì con la donna e il gatto. Era capitato in una buona casa. — C'è freddo, fuori — disse lei. — Questa mattina c'era del ghiaccio nell'abbeveratoio. Riprenderai il cammino, oggi? Ci fu una pausa. Lui dimenticò che doveva rispondere a parole. — Resterei, se potessi — disse infine. — Resterei qui. Lei sorrise, ma era anche incerta, e dopo qualche attimo disse: — Ebbene, qui sei il benvenuto, signore, ma devo chiederti... puoi pagare qualcosa? — Oh, sì — rispose lui, confuso, e si alzò e andò zoppicando nella camera da letto, dove si trovava la sua borsa. Le portò un soldo, una piccola corona d'oro enladiana. — Sai, solo per il cibo e il fuoco... la torba costa tanto, adesso — stava dicendo lei, poi guardò quello che le porgeva. — Oh, signore... — esclamò, e lui capì di avere sbagliato. — Nel villaggio non c'è nessuno che potrebbe cambiare quella moneta — gli spiegò la donna, guardandolo un istante in volto. — L'intero villaggio tutto insieme non potrebbe cambiarla! — ribadì, e rise. Era tutto a posto, allora, anche se la parola "cambiare" gli echeggiava nella mente. — Non è stata cambiata — disse il forestiero, ma capì che lei intendeva dire qualcos'altro. — Mi dispiace — si scusò. — Se mi fermassi un mese, se mi fermassi per l'inverno, sarebbe un pagamento adeguato? Devo avere un posto dove alloggiare, mentre lavoro con le bestie. — Mettila via — lo invitò lei, con un'altra risata, e agitando rapida le mani. — Se sai guarire il bestiame, gli allevatori ti pagheranno, e potrai pagarmi allora. Chiamala garanzia, se vuoi. Ma mettila via, signore! Se la guardo, ho il capogiro... Chicco — disse, quando un uomo rinsecchito e nodoso entrò dalla porta accompagnato da una raffica di vento freddo — il signore alloggerà da noi mentre curerà il bestiame... fortuna e prosperità! Ci ha dato garanzia di pagamento. Quindi tu dormirai nell'angolo del camino, e lui nella stanza... Questo è mio fratello Chicco, signore. Chicco piegò il capo e borbottò. Aveva gli occhi spenti. A Irioth parve che quell'uomo fosse stato avvelenato. Quando il fratello tornò fuori, la donna si avvicinò e disse, risoluta, sottovoce: — Non c'è nulla di malvagio in lui, tranne il bere; ma il bere ormai è la sua unica occupazione. Gli ha divorato gran parte della mente, e ha divorato gran parte di quel che abbiamo. Dunque, capisci, metti il tuo denaro dove lui non lo veda, se non ti di-
spiace, signore. Non verrà a cercarlo. Ma se lo vedesse, lo prenderebbe. Capisci, spesso non sa quel che fa. — Sì — disse Irioth. — Capisco. Sei una brava donna. — Stava parlando di lui, del fatto che non sapesse quel che faceva. Lo stava perdonando. — Una brava sorella — disse. Quelle parole gli erano così nuove, parole che non aveva mai pronunciato né concepito prima, che pensò di averle proferite nella Vecchia lingua, lingua che non doveva parlare. Ma lei si limitò a stringersi nelle spalle, abbozzando un sorriso corrucciato. — A volte gli staccherei dal collo quella testa sciocca — disse, e riprese il proprio lavoro. Non si era reso conto di quanto fosse stanco finché non era giunto in quel rifugio. Trascorse tutta la giornata sonnecchiando davanti al fuoco in compagnia del gatto grigio, mentre Dote entrava e usciva affaccendata, offrendogli spesso del cibo... vivande povere, scadenti, che lui però mangiò tutte, lentamente, apprezzandole. La sera il fratello se ne andò, e lei disse con un sospiro: — Chiederà che gli facciano ancora credito alla taverna, dal momento che adesso abbiamo in casa un ospite che paga. Non che sia colpa tua. — Oh, sì — disse Irioth. — È stata colpa mia. — Ma lei era pronta al perdono; e il gatto grigio gli si era raggomitolato contro la coscia, sognando. I sogni del gatto gli entrarono nella mente, nelle regioni basse dove lui parlava con gli animali, i luoghi foschi. Il gatto, là, saltava, e poi c'erano il latte e il fremito lieve e profondo. Non c'era colpa, solo la grande innocenza. Non c'era bisogno di parole. Lì non lo avrebbero trovato. Lui non era lì. Non c'era bisogno di pronunciare alcun nome. Non c'erano che lei, e il gatto che sognava, e la fiamma che guizzava. Lui aveva superato la montagna morta percorrendo strade nere, ma lì i torrenti scorrevano lenti tra i pascoli. Era pazzo, e lei non sapeva perché mai gli consentisse di restare, eppure non lo temeva né diffidava di lui. Che importava se era folle? Era gentile, e forse una volta era savio, prima che accadesse quello che gli era accaduto. E non era completamente matto. Pazzo qua e là, pazzo a tratti. Non c'era nulla di integro in lui, neppure la sua follia. Non ricordava il nome che le aveva detto, e aveva detto alla gente del villaggio di chiamarlo Otak. Probabilmente non ricordava nemmeno il nome di lei; la chiamava sempre signora. Ma forse quella era semplice cortesia. Lei lo chiamava signore, per cortesia, e perché né Burrone né Otak le sembravano nomi adatti a lui. Un otak, a quanto aveva sentito, era un piccolo animale con i denti aguzzi e
senza voce, ma non esistevano creature del genere nell'Alta palude. Aveva pensato che la sua storia di essere venuto a curare la malattia del bestiame facesse parte forse del suo lato folle. Non si comportava come i guaritori che passavano di lì con rimedi e incantesimi e balsami per gli animali. Ma dopo avere riposato un paio di giorni, il forestiero le chiese chi fossero gli allevatori del villaggio, e uscì, camminando ancora con passo malfermo a causa dei piedi doloranti, calzando le vecchie scarpe di Bren. Quella vista le provocò un tuffo al cuore. Tornò alla sera, più zoppo di prima, perché naturalmente San lo aveva fatto andare a piedi fino ai Campi lunghi, dove pascolava la maggior parte del suo bestiame. Nessuno possedeva cavalli, tranne Alder, e quei cavalli servivano ai suoi mandriani. Dote diede all'ospite un catino di acqua calda e un asciugamano pulito per i suoi poveri piedi, e poi pensò di chiedergli se gradisse fare un bagno, e lui rispose di sì. Scaldarono l'acqua e riempirono la vecchia tinozza, e lei si ritirò nella propria stanza mentre lui si lavava accanto al camino. Quando Dote tornò di là, la cucina era sgombra e rassettata, gli asciugamani appesi davanti al fuoco. Non aveva mai conosciuto un uomo che badasse a cose del genere, e non se lo sarebbe mai aspettato da un ricco. Doveva avere dei servi, lui, nel luogo da cui proveniva, no? Invece, non era più d'incomodo del gatto. Lavò i propri indumenti, perfino il lenzuolo; lavò tutto e stese i panni ad asciugare in una giornata di sole, prima che lei se ne rendesse conto. — Non è necessario che tu lo faccia, signore. Posso lavare le tue cose con le mie — gli disse la donna. — Non è necessario — replicò lui, con quel suo fare riservato, assente, come se non sapesse bene di cosa lei stesse parlando; poi però disse: — Lavori parecchio. — Come tutti. Lavorano tutti parecchio, no? Mi piace fare il formaggio. Ne traggo profitto. E poi sono forte. Mi spaventa solo la vecchiaia, quando non potrò sollevare i secchi e le forme. — Gli mostrò il braccio tornito e muscoloso, stringendo il pugno e sorridendo. — Niente male per una donna di cinquant'anni! — disse. Era sciocco vantarsi, ma era fiera delle proprie braccia forti, dell'energia e dell'abilità che possedeva. — Fortuna e prosperità — disse lui, serio. Era meraviglioso il modo in cui sapeva trattare le mucche di Dote. Quando era alla fattoria e lei aveva bisogno di una mano, il forestiero prendeva il posto di Chicco, e come Dote disse ridendo all'amica Fulva, quell'uomo con le mucche era più in gamba del vecchio cane di Bren. — Parla alle mucche, e ti assicuro che loro ascoltano quel che dice. E quella
giovenca lo segue come un cucciolo. — Qualunque cosa stesse facendo al bestiame là nelle praterie, gli allevatori cominciavano a pensare bene di lui. Naturalmente, erano pronti a cogliere al volo qualsiasi promessa di aiuto. Metà mandria di San era morta. Alder non voleva dire quanti capi avesse perso. C'erano corpi di animali sparsi ovunque. Se non fosse stata la stagione fredda, in tutta la Palude ci sarebbe stata puzza di carne putrescente. L'acqua non si poteva bere, se non dopo averla fatta bollire per un'ora, a parte quella presa dai pozzi, quello di Dote lì alla fattoria e quello del villaggio, che davano il nome al luogo. Una mattina, uno dei mandriani di Alder si presentò nel cortile a cavallo, portandosi appresso un mulo sellato. — Mastro Alder dice che Mastro Otak può cavalcare la mula, dato che i Campi orientali distano una dozzina di miglia — annunciò il giovanotto. L'ospite di Dote uscì dalla casa. Era una mattinata luminosa, brumosa; le paludi erano nascoste da veli di vapore scintillante; l'Andanden si stagliava sopra la foschia, una sagoma maestosa accidentata che svettava nel cielo a nord. Il guaritore non disse nulla al mandriano ma andò subito accanto alla mula, che in realtà era una bardotta, essendo nata dall'asina di San e dal cavallo bianco di Alder. Era una roana bianca, giovane, con un muso grazioso. Lui le parlò a lungo, accostando la bocca al grosso orecchio delicato e strofinandole la testa. — Fa così, lui — spiegò il mandriano a Dote. — Parla alle bestie. — Era divertito, sdegnoso. Era uno dei compagni di bevute di Chicco alla taverna, un giovanotto abbastanza per bene, per essere un mandriano. — Sta guarendo il bestiame? — chiese lei. — Be', non può far cessare la moria in un sol colpo. Ma sembra che possa guarire una bestia se riesce a curarla prima che cominci il barcollio. E quelle non ancora colpite, dice che può mantenerle sane. Così il padrone lo manda in tutta la prateria perché faccia il possibile. Per molte bestie è troppo tardi. Il guaritore controllò il sottopancia, allentò una cinghia, e montò in sella, tutt'altro che abilmente, ma la bardotta non protestò. Voltò il lungo muso bianco e i begli occhi per guardare il cavaliere. Lui sorrise. Dote non lo aveva mai visto sorridere. — Andiamo? — disse poi al mandriano, che partì subito con un cenno di saluto a Dote, mentre la sua piccola giumenta sbuffava. Il guaritore lo seguì. La bardotta aveva un'andatura sciolta e tranquilla, e il suo mantello
bianco splendeva nella luce del mattino. A Dote sembrava quasi di vedere un principe che si allontanasse a cavallo, era come un'immagine presa da un racconto... le figure in sella che si addentravano nella foschia scintillante sulla vaga distesa grigio spento dei campi invernali, e poi scomparivano. Nei pascoli, il lavoro era arduo. — Lavorano tutti parecchio, no? — gli aveva detto Emer, mostrandogli le braccia tornite e forti, le mani dure e arrossate. L'allevatore Alder pretendeva che lui rimanesse fuori in quei prati finché non avesse toccato tutte le bestie delle grandi mandrie al pascolo. Alder aveva mandato con lui due mandriani. Si accamparono alla meglio con un telo steso sul terreno e una tenda aperta. Nella palude non c'era nulla da bruciare, tranne piccoli arbusti e canne secche, e il fuoco era appena sufficiente a far bollire l'acqua, mai abbastanza intenso da scaldare un uomo. I mandriani si allontanavano e cercavano di radunare le bestie perché lui potesse curarle quando erano in gruppo, invece di doversi spostare da una all'altra mentre vagavano, brucando qua e là l'erba secca brinata. Ma non riuscivano a tenere raggruppato il bestiame a lungo, e se la prendevano con le bestie e con lui, perché non era abbastanza rapido. Per lui era strano che non avessero pazienza con gli animali, che li considerassero alla stregua di cose, trattandoli come un boscaiolo considerava i tronchi ammassati in un fiume, usando solo la forza. Non avevano pazienza nemmeno con lui, gli stavano sempre addosso, dicendogli di spicciarsi, di sbrigarsi a finire il lavoro; né avevano pazienza con se stessi, con la loro vita. Quando parlavano tra loro, parlavano sempre di quello che avrebbero fatto in città, a Oraby, una volta intascata la paga. Il guaritore sentì raccontare un sacco di cose sulle prostitute di Oraby, Pratolina e Dorata e quella chiamata il Cepuglio Ardente. Doveva sedersi con i giovani perché tutti avevano bisogno del poco calore che offriva il fuoco, ma i mandriani non lo volevano là, e lui non voleva stare con loro. Sapeva che in loro c'era una vaga paura; lo temevano come stregone, ed erano invidiosi di lui, ma soprattutto lo disprezzavano. Era vecchio, diverso, non era uno di loro. Conosceva la paura e l'invidia, e le rifuggiva, e ricordava il disprezzo. Era contento di non essere uno di loro, che non volessero parlare con lui. Temeva di arrecare loro nocumento. Si alzò nel gelo del mattino mentre gli altri dormivano ancora avvolti nelle coperte. Sapeva dove fossero le bestie che pascolavano nei paraggi, e andò da loro. Ormai aveva dimestichezza con la malattia. La percepiva con le mani, come un bruciore, o come un senso di nausea se era molto avanza-
ta. Imbattendosi in un manzo steso al suolo, fu assalito dalle vertigini ed ebbe conati di vomito. Non si avvicinò oltre, ma pronunciò delle parole che avrebbero potuto lenire la sofferenza del trapasso, e proseguì. Le bestie lasciavano che camminasse tra loro, per quanto fossero brade e da mani umane non avessero ricevuto che castrazione e macellazione. La loro fiducia nei suoi confronti lo rallegrava, lo inorgogliva. Non avrebbe dovuto inorgoglirsi, ma lo faceva. Se voleva toccare una di quelle grandi bestie, bastava che si fermasse e le parlasse un po' nella lingua di chi non parla. — Ulla — diceva, chiamandole per nome. — Ellu. Ellua. — Loro si ergevano, massicce e indifferenti; a volte, qualcuna lo guardava a lungo. A volte, qualcuna gli si accostava, muovendosi con passo tranquillo e maestoso, e gli alitava nel palmo aperto. Poteva guarire tutte le bestie che andavano da lui. Posava le mani sui colli e sui fianchi dal pelo ispido, e inviava alle mani la forza guaritrice con le parole di potere pronunciate ripetutamente. Dopo un po' la bestia si scuoteva, scrollava un po' il capo, o si scostava. E lui abbassava le mani e rimaneva là, svuotato e frastornato, per qualche tempo. Poi ne arrivava un'altra, una grossa creatura curiosa, ritrosamente audace, incrostata di fango, e lui avvertiva la malattia come un pizzicore, un formicolio, un bruciore nelle mani, seguito dalle vertigini. — Ellu — diceva, e andava accanto all'animale e posava le mani su di esso finché i palmi non provavano una sensazione di fresco, come se un ruscello montano gli scorresse tra le dita. I mandriani stavano discutendo se fosse rischioso o meno mangiare la carne di un manzo ucciso dalla moria. La scorta di cibo che avevano portato, già scarsa all'inizio, stava per finire. Invece di percorrere una trentina di miglia per rifornirsi di viveri, volevano tagliare la lingua di un manzo morto lì vicino quella mattina. Il guaritore li aveva costretti a far bollire tutta l'acqua che usavano. Ora disse: — Se mangerete quella carne, tra un anno comincerete ad avere le vertigini. Poi vi verrà il barcollio e morirete come loro. I mandriani imprecarono e ghignarono, ma alla fine gli diedero retta. Lui non sapeva se quanto aveva detto fosse vero. Gli era parso vero mentre lo diceva. Forse voleva far loro un dispetto. Forse voleva sbarazzarsi dei mandriani. — Tornate indietro — disse. — Lasciatemi qui. Per un uomo solo, c'è cibo sufficiente per altri tre o quattro giorni. La bardotta mi riporterà a casa. Non fu necessario persuaderli. Partirono subito, lasciando tutto lì, le loro
coperte, la tenda, la pentola di ferro. — Come faremo a portare al villaggio tutto quanto? — chiese il guaritore alla bardotta. Lei guardò i due cavalli che si allontanavano e rispose come rispondevano i bardotti. — Hiioooo! — fece. Le sarebbero mancati i compagni. — Dobbiamo finire il lavoro qui — disse lui, e lei lo guardò serena. Tutti gli animali erano pazienti, ma la mitezza del genere cavallino era meravigliosa, venendo concessa generosamente, volentieri. I cani erano fedeli, ma la loro fedeltà era dettata in buona parte dall'obbedienza. I cani erano gerarchici, dividevano il mondo in signori e cittadini comuni. I cavalli erano tutti signori. Accettavano la complicità, erano conniventi. Ricordava di aver camminato tra le poderose zampe piumate dei cavalli da tiro, senza paura. Il conforto del loro fiato sulla testa. Tanto tempo addietro. Andò accanto alla graziosa bardotta e le parlò, chiamandola "cara", consolandola perché non si sentisse sola. Impiegò altri sei giorni per passare in rassegna le grandi mandrie delle paludi orientali. Trascorse gli ultimi due raggiungendo gruppi sparsi di bestiame che si erano spinti ai piedi della montagna. Molte di quelle bestie non avevano ancora contratto la malattia, e lui poteva proteggerle. La bardotta lo portava senza sella e gli consentiva di spostarsi agevolmente. Ma non era rimasto più nulla da mangiare per lui. Quando tornò al villaggio, era stordito e aveva le ginocchia molli. Impiegò parecchio tempo per arrivare alla fattoria, dopo avere lasciato la bardotta alla stalla di Alder. Emer lo salutò e lo rimproverò e cercò di farlo mangiare, ma lui le spiegò che non poteva. — Stando in mezzo alla malattia, in quei campi malati, sono stato male. Tra un po', riuscirò a mangiare di nuovo — le disse. — Sei pazzo — disse lei, molto in collera. Ma era una stizza dolce. Perché la collera non era sempre così dolce? — Almeno, fai il bagno! — gli disse. Lui sapeva quanto puzzasse, e la ringraziò. — Quanto ti paga Alder per tutto quello che hai fatto? — domandò Emer, mentre l'acqua si scaldava. Era ancora indignata, parlava in modo ancor più reciso del solito. — Non lo so — rispose lui. Lei si fermò e lo fissò. — Non hai stabilito un prezzo? — Stabilito un prezzo? — sbottò lui, iroso. Poi ricordò chi non era, e parlò con umiltà. — No, non l'ho stabilito. — Beata ingenuità! — sibilò lei. — Alder t'imbroglierà. — Versò nella
tinozza una pentola di acqua fumante. — Ha dell'avorio, lui. Digli che deve pagarti in avorio. Dieci giorni là fuori a curare le sue bestie, patendo la fame, al freddo! San ha solo monete di rame, ma Alder può pagarti in avorio. Scusami se m'impiccio dei tuoi affari, signore... — Si precipitò fuori dalla porta con due secchi, andando alla pompa. Non voleva più usare l'acqua del ruscello, adesso. Era saggia e buona. Perché lui aveva vissuto così a lungo tra gente che ignorava cosa fosse la bontà? — Dovremo vedere — disse Alder il giorno seguente — se le mie bestie sono guarite. Se supereranno l'inverno, sapremo che la tua cura ha avuto effetto, che le bestie sono sane, ecco. Non che io ne dubiti, ma quel che è giusto è giusto, no? Non mi chiederesti di pagarti quanto intendo pagarti, no, se la cura non funzionasse e le bestie alla fine morissero, eh? Lungi da me questo pericolo! Ma nemmeno io pretendo che tu aspetti tanto tempo senza ricevere un soldo. Quindi, ecco un anticipo di quanto avrai in seguito. E per adesso siamo a posto così, giusto? Le monete di rame non erano neppure in una borsa. Irioth dovette tendere la mano, e l'allevatore gliene depositò sei sul palmo, contandole. — Bene! Il giusto prezzo! — disse, cordiale. — E magari darai un'occhiata ai miei giovenchi nei pascoli dello Stagno lungo, tra un paio di giorni. — No — disse Irioth. — La mandria di San stava perdendo molti capi quando sono partito. Hanno bisogno di me, là. — Oh, no, non hanno bisogno di te, Mastro Otak. Mentre eri nella prateria orientale, è arrivato uno stregone guaritore dalla costa sud, un tipo che è già stato qui in passato, così San lo ha ingaggiato. Tu lavori per me, e sarai pagato bene. Riceverai qualcosa di più prezioso del rame, forse, se le bestie staranno bene! Irioth non disse sì, né no, né grazie, ma si allontanò senza parlare. L'allevatore lo seguì con lo sguardo e sputò. — Lungi da me — disse. Nella mente del guaritore sorse l'agitazione; era la prima volta che accadeva, da quando era giunto nell'Alta palude. Lottò contro di essa. Un uomo di potere era venuto a guarire il bestiame, un altro uomo di potere. Uno stregone, però, aveva detto Alder. Non un mago, non un magio. Solo un curatore, un guaritore di bestie... Non devo temerlo. Non devo temere il suo potere. "Non ho bisogno del suo potere. Devo vederlo, per essere sicuro, per essere certo. Se fa quel che faccio io qui, non c'è nulla di male. Possiamo lavorare insieme. Se faccio quello che fa lui qui. Se usa solo la stregoneria e non ha cattive intenzioni. Come io non ho cattive intenzioni..." Percorse la via tortuosa del villaggio di Pozzipuri fino alla casa di San,
che era circa a metà strada, di fronte alla taverna. San, un uomo duro e temprato che aveva passato la trentina, stava parlando con un individuo sul gradino davanti alla porta di casa, un forestiero. Quando videro Irioth, i due parvero inquieti. San entrò in casa e il forestiero lo seguì. Irioth si avvicinò e salì sul gradino. Non entrò, parlò invece attraverso la porta aperta. — Mastro San, sono venuto per il bestiame che hai là tra i fiumi. Posso andare da loro, oggi. — Non sapeva perché lo avesse detto. Non era quanto intendeva dire. — Ah — disse San, andando alla porta, e si schiarì la voce, titubante. — Non è necessario, Mastro Otak. Quest'uomo è Mastro Solevivo, venuto a occuparsi della moria. In passato, ha già curato le mie bestie, quando avevano il marciume agli zoccoli e altre malattie del genere. Sai, dato che sei già fin troppo impegnato con i manzi di Alder... Lo stregone si fece avanti, sbucando da dietro San. Il suo nome era Ayeth. Il suo potere era piccolo, guasto, corrotto dall'ignoranza e dal cattivo uso e dalla menzogna. Ma l'invidia che albergava in lui era come un fuoco pungente. — Vengo a lavorare da queste parti da ormai dieci anni — disse, squadrandolo. — Poi capita qui un uomo che viene dal nord e mi porta via il lavoro... certuni litigherebbero per un fatto del genere. Un litigio tra stregoni non è una bella cosa. Sempre che tu sia uno stregone, un uomo di potere. Io lo sono. Come ben sa la brava gente che abita qui. Irioth cercò di dire che non voleva nessun litigio. Provò a spiegare che c'era lavoro sufficiente per due. Che non intendeva portare via il lavoro a quell'uomo. Ma tutte quelle parole si dissolsero nell'acredine dell'invidia del forestiero, che non voleva sentirle e impedì che venissero pronunciate. Lo sguardo fisso di Ayeth diventò più insolente, mentre osservava Irioth che balbettava. Fece per dire qualcosa a San, ma Irioth parlò. — Devi... — disse — devi andare. Via... — E mentre diceva "Via", la sua mano fendette l'aria come un coltello, e Ayeth barcollò all'indietro contro una sedia, esterrefatto. Era solo un piccolo stregone, un guaritore disonesto che conosceva solo qualche misero incantesimo. O così sembrava. E se fosse stato un inganno, se avesse nascosto il proprio potere, se fosse stato un rivale che nascondeva il proprio potere? Un rivale invidioso? Bisognava fermarlo, bisognava legarlo, dire il suo nome, chiamarlo. Irioth cominciò a pronunciare le parole che avrebbero legato lo stregone, e l'uomo sgomento si rannicchiò spaventato, si fece piccolo, rimpicciolì raggrinzendo, gridando, emettendo un gemito fievole e acuto... "È sbagliato, sbagliato. Sto agendo male.
Io sono il male" pensò Irioth. Interruppe le parole dell'incantesimo, lottando contro di esse perché non gli uscissero di bocca, e infine urlò un'unica altra parola. E Ayeth rimase accovacciato a terra, vomitando e rabbrividendo, e San stava osservando allibito la scena, cercando di dire: — Lungi da me! Lungi da me! — E non era stato fatto alcun male. Ma il fuoco ardeva nelle mani di Irioth, gli bruciò gli occhi quando provò a nasconderli dietro i palmi, gli bruciò la lingua quando provò a parlare. Per parecchio tempo, nessuno volle toccarlo. Otak era crollato in preda alle convulsioni davanti alla porta di San. Giaceva là a terra come un morto. Ma il guaritore del sud disse che non era morto, e che era pericoloso come una vipera. San raccontò come Otak avesse colpito Solevivo con una maledizione, pronunciando alcune parole terribili che avevano fatto rimpicciolire l'uomo sempre più, che lo avevano fatto gemere come uno stecco gettato nel fuoco; poi, all'improvviso, era tornato in sé, ma aveva vomitato l'anima, il che era molto comprensibile, e intanto attorno all'altro, Otak, brillava una strana luce, una specie di fiamma tremula, e c'erano ombre che guizzavano, e la sua voce era diversa da qualsiasi voce umana. Una cosa terribile. Solevivo raccomandò agli abitanti del villaggio di sbarazzarsi di quell'individuo, ma non restò nei paraggi a controllare che lo facessero. Imboccò la strada che portava a sud non appena ebbe tracannato una pinta di birra alla taverna, dicendo che non c'era posto per due stregoni in un solo villaggio e che sarebbe tornato, forse, quando quell'uomo, o qualunque cosa fosse, se ne fosse andato. Nessuno voleva toccarlo. Fissavano da lontano l'ammasso di membra che occupava il vano della porta di San. La moglie di San andava avanti e indietro nella via, piangendo e lamentandosi a gran voce. — Sventura! Sventura! Oh, il mio bambino nascerà morto, lo sento! Chicco andò a chiamare la sorella, dopo avere sentito il racconto di Solevivo alla taverna, e la versione di San, e parecchie altre versioni che già circolavano. Nel racconto migliore, un Otak alto dieci piedi aveva sovrastato Solevivo e lo aveva colpito con una saetta, trasformandolo in un mucchietto di carbone, prima di schiumare dalla bocca, diventare livido, e stramazzare a terra. Dote si affrettò a raggiungere il villaggio. Andò subito alla porta di San, si chinò, e posò le mani sul corpo esanime. Tutti restarono a bocca aperta e mormorarono: — Lungi da me! Lungi da me! — tranne la figlia più gio-
vane di Fulva, che fraintese i segni e con una vocetta acuta esclamò: — Fortuna e prosperità! Il mucchio di membra si mosse, e si destò lentamente. Videro che era il guaritore, esattamente com'era stato, niente fiamme né ombre, sebbene stesse molto male a giudicare dall'aspetto. — Andiamo — disse Dote, e lo fece alzare, e risalì lentamente la strada insieme a lui. Gli abitanti del villaggio scossero il capo. Dote era una donna coraggiosa, ma a volte si poteva essere avventati. O coraggiosi, dissero attorno al tavolo della taverna, nel modo sbagliato, nel posto sbagliato. Nessuno che non fosse nato con quel dono avrebbe dovuto impicciarsi della stregoneria. O degli stregoni. Era qualcosa che si dimenticava. Gli stregoni sembravano uguali all'altra gente. Ma erano diversi. I guaritori sembravano persone innocue. Guarivano il marciume agli zoccoli, liberavano una mammella ostruita. Benissimo. Ma bastava contrariarne uno, e si scatenava un putiferio... fiamme, ombre e maledizioni e convulsioni. Misterioso. Era sempre stato misterioso, quell'individuo. Da dove era sbucato, eh? Qualcuno lo sapeva? Dote lo mise a letto, gli tolse le scarpe, e lasciò che dormisse. Chicco rincasò tardi e più ubriaco del solito, cadde e si tagliò la fronte, sbattendo contro un alare del camino. Sanguinando e infuriandosi, ordinò a Dote di buttare "fori di cascia a pedatte lo shhteregone, subito", doveva cacciarlo subito. Poi vomitò sulla cenere e si addormentò sul bordo del focolare. Lei lo trascinò sul pagliericcio, gli tolse le scarpe e lo lasciò dormire. Andò a dare un'occhiata all'altro. Sembrava che avesse la febbre, posandogli la mano sulla fronte. Lui aprì gli occhi, fissandola in viso senza espressione. — Emer — disse, e li richiuse. Lei si allontanò indietreggiando, atterrita. Nel proprio letto, al buio, rifletté: "Ha conosciuto il mago che mi ha imposto il nome. Oppure sono stata io a dire il mio nome. Forse l'ho detto a voce alta nel sonno. O gliel'ha detto qualcuno. Ma non lo conosce nessuno. Gli unici a conoscere il mio nome erano il mago, e mia madre. E sono morti, sono morti... L'avrò detto nel sonno..." Ma sapeva che non era così. Lei era in piedi accanto al letto con la piccola lampada a olio in mano, e la luce le brillava rossastra tra le dita e dorata sul viso. Lui pronunciò il suo nome. Lei gli diede il sonno.
Il guaritore dormì fino a tardi quella mattina, e si svegliò come se fosse stato ammalato, debole e placido. Lei non riusciva ad avere paura di lui. Scoprì che non ricordava nulla di quanto era successo al villaggio, dell'altro stregone, neppure delle sei monete di rame che lei aveva trovato sparse sulla coperta, monete che lui doveva aver stretto nella mano fin dall'inizio. — Senza dubbio è quanto ti ha dato Alder — disse. — Il taccagno! — Ho detto che avrei curato le bestie che sono... nel pascolo tra i fiumi, vero? — chiese lui, agitandosi, assumendo di nuovo un'espressione tormentata, e si alzò dalla panca. — Siediti — gli ingiunse Dote. Lui si sedette, ma fremeva. — Come puoi guarire le bestie se sei malato? — disse lei. — Cos'altro posso fare? Ma il guaritore poco a poco si calmò, accarezzando il gatto grigio. Entrò Chicco. — Vieni fuori — disse, vedendo l'ospite che sonnecchiava sulla panca. Lei uscì con il fratello. — Non lo voglio più qui — dichiarò lui, atteggiandosi a padrone di casa, con il grosso taglio violaceo sulla fronte, e gli occhi come ostriche, e le mani che sussultavano. — Dove andrai? — replicò Dote. — È lui che deve andarsene. — È casa mia, questa. La casa di Bren. Lui resta. Vai o stai, decidi tu. — Decido io anche se quello va via o rimane, e io dico che deve andarsene. Non tocca solo a te decidere. Tutti dicono che dovrebbe andarsene. È un uomo losco. — Oh, sì, dal momento che ha curato metà bestiame e il suo lavoro è stato pagato con sei soldi di rame, è ora che se ne vada, mi pare giusto! Rimarrà qui finché vorrò io, e non parliamone più. — Non compreranno il nostro latte e il nostro formaggio — piagnucolò Chicco. — Chi lo dice? — La moglie di San. Tutte le donne. — Allora porterò il formaggio a Oraby — disse Dote — e lo venderò là. E adesso, fratello, comportati in modo dignitoso, vai a lavare quel taglio, e cambiati la camicia. Puzzi di bettola. — E rientrò in casa. — Oh, povera me — disse, e scoppò in lacrime. — Che succede, Emer? — chiese il guaritore, volgendo verso di lei il viso scarno e gli occhi strani.
— Oh, è inutile, lo so che è inutile. È tutto inutile con un ubriacone — disse Dote. Si asciugò gli occhi con il grembiule. — È stato questo a rovinarti — chiese — il bere? — No — rispose lui, senza offendersi, forse non comprendendo. — Certo che no. Ti chiedo perdono — si scusò lei. — Forse beve per cercare di essere un altro uomo — disse il guaritore. — Per mutare, per cambiare... — Beve perché beve — replicò lei. — Per certuni, si tratta solo di questo. Adesso vado nella latteria. Chiuderò a chiave la porta di casa. Ci sono... si sono visti degli sconosciuti nei paraggi. Tu riposa. Fuori fa molto freddo. — Voleva assicurarsi che lui rimanesse in casa al sicuro, che nessuno andasse a molestarlo. In seguito, sarebbe andata al villaggio, avrebbe parlato con le persone di buon senso, e avrebbe provato a far cessare quelle stupide chiacchiere. Quando lo fece, la moglie di Alder, Fulva, e parecchie altre persone convennero con lei che un alterco tra stregoni per motivi di lavoro non era certo una novità e che non era il caso di agitarsi tanto. Ma San, sua moglie e la combriccola della taverna non volevano lasciar perdere, dato che era l'unica cosa interessante di cui parlare per il resto dell'inverno, a parte la moria del bestiame. — E poi — disse Fulva — mio marito non è mai contrario a pagare in rame quando pensa che forse dovrebbe pagare in avorio. — Le bestie che ha toccato si reggono, dunque? — A quanto pare, sì. E non se ne sono ammalate altre. — È un vero stregone, Fulva — disse convinta Dote. — Ne sono certa. — È proprio questo il guaio, cara — annuì l'altra. — E lo sai anche tu! Non è il posto adatto a un uomo del genere, il nostro villaggio. Chiunque lui sia, non è affar nostro, ma perché è venuto qui? Ecco cosa dobbiamo chiederci. — È venuto a curare le bestie — disse Dote. Solevivo era partito da neppure tre giorni, quando un nuovo forestiero arrivò al villaggio: un uomo che giunse su un buon cavallo percorrendo la strada sud e chiese alla taverna dove poteva trovare alloggio. Lo mandarono a casa di San, ma la moglie strillò quando sentì che c'era un forestiero alla porta, e gridò che se il marito avesse lasciato entrare un altro stregone il suo bambino sarebbe nato doppiamente morto. Le sue urla si udivano a parecchie case di distanza lungo la via, e una piccola folla di una dozzina di persone si radunò tra l'abitazione di San e la taverna.
— Be', questo non va — disse garbato il forestiero. — Non posso provocare con la mia presenza una nascita prematura. Non c'è per caso una stanza sopra la taverna? — Mandatelo alla latteria — disse uno dei mandriani di Alder. — Dote accoglie in casa chiunque. — Si udirono dei risolini maliziosi e sommessi. — Da quella parte — indicò il taverniere. — Grazie — disse il viaggiatore, e condusse il cavallo nella direzione indicatagli. — Tutti i forestieri nello stesso cesto — fu il commento del taverniere, che venne ripetuto quella sera decine di volte, destando sempre ammirazione, la cosa migliore che qualcuno avesse detto dall'inizio della moria. Dote era nella latteria, avendo terminato la mungitura serale. Stava colando il latte e preparando i paioli. — Signora — disse una voce dalla porta, e lei pensò che fosse il guaritore e disse: — Aspetta un attimo che finisco qui — e poi girandosi vide uno sconosciuto e per poco non lasciò cadere il recipiente. — Oh, mi hai spaventata! — sbottò. — Cosa posso fare per te, allora? — Cerco un letto per la notte. — No, mi dispiace, siamo già in tre, il mio ospite, mio fratello ed io. Forse San, al villaggio... — Al villaggio mi hanno mandato qui. Hanno detto: "Tutti i forestieri nello stesso cesto". — Il viaggiatore aveva passato la trentina, aveva una faccia franca e un aspetto gradevole, vestiva con semplicità, anche se il cavallo da sella alle sue spalle era una bella bestia. — Sistemami nella stalla, signora, andrà benissimo. È il mio cavallo che ha bisogno di un buon letto; è stanco. Dormirò nella stalla e partirò domattina. È un piacere dormire con le mucche in una notte fredda. E sarò felice di pagarti, signora, se due soldi di rame possono bastare. Il mio nome è Falco. — Io sono Dote — disse lei, un po' agitata, ma trovando il forestiero simpatico. — D'accordo, allora, Mastro Falco. Sistema il cavallo e governalo. C'è una pompa, là, e fieno in abbondanza. Vieni in casa, dopo. Posso offrirti un po' di zuppa, e un soldo sarà più che sufficiente, grazie. — Non aveva voglia di chiamarlo signore, come faceva sempre con il guaritore. Costui non aveva quel portamento nobile. Quando lo aveva visto, non le era parso di vedere un re, come le era capitato invece con l'altro ospite. Quando Dote finì il lavoro nella latteria e andò in casa, il nuovo arrivato, Falco, era accovacciato davanti al camino, attizzando il fuoco con gesti e-
sperti. Il guaritore era nella propria stanza, e dormiva. Lei si affacciò a dargli un'occhiata, e chiuse la porta. — Non sta molto bene — spiegò, parlando sottovoce. — Stava curando il bestiame che pascola nella parte est della palude, lontano da qui. E rimasto fuori al freddo giorni e giorni, e si è logorato. Mentre lei sbrigava le faccende nella cucina, Falco le diede una mano di tanto in tanto, con estrema naturalezza, e lei cominciò a chiedersi se i forestieri fossero tutti più pratici e servizievoli in casa degli uomini della Palude. Era piacevole conversare con lui, e gli parlò del guaritore, dal momento che non aveva molto da dire su se stessa. — Si servono di uno stregone e poi per ringraziarlo di ciò che ha fatto gli sparlano dietro — concluse. — Non è giusto. — Ma lui li ha spaventati, in qualche modo, vero? — Credo di sì. È venuto da queste parti un altro guaritore, un tipo che era già stato qui in passato. Uno che non vale granché, per quel che posso dire io. Due anni fa, avevo una mucca con le mammelle malate, e lui non ha saputo curarla. E il suo balsamo è solo grasso di maiale, garantito. Be', comunque, ha accusato Otak di rubargli il lavoro. E forse Otak gli ha detto la stessa cosa. Hanno perso le staffe, e hanno fatto qualche sortilegio, magia nera, forse. Credo che Otak l'abbia fatto. Però non gli ha torto un capello, e alla fine ha avuto uno svenimento e si è accasciato. Ora non ricorda più nulla di quanto è accaduto, mentre l'altro uomo è andato via incolume. E dicono che tutte le bestie toccate da Otak sono ancora vive, e sane. Dieci giorni ha trascorso là fuori, al vento e alla pioggia, toccando le bestie e guarendole. E sai come lo ha ricompensato l'allevatore? Con sei monetine! Non fa meraviglia che fosse un po' arrabbiato! Ma non dico... — Dote si trattenne, poi proseguì. — Non dico che non sia un po' strano, a volte. Come lo sono streghe e stregoni, immagino. Forse devono essere così, avendo a che fare con simili poteri, con simili mali. Però è un uomo onesto, e buono. — Signora — chiese Falco — posso raccontarti una storia? — Oh, sei un narratore? Oh, perché non l'hai detto subito? È questo che sei? Mi sono domandata se non fossi per caso un narratore, dato che è inverno e via dicendo, e sei in viaggio. Ma con quel cavallo, ho pensato che dovessi essere un mercante, invece. Vuoi raccontarmi una storia? Ne sarei felicissima, e più lunga è, meglio è! Prima però bevi la zuppa, e lascia che mi sieda ad ascoltare... — In realtà non sono un narratore, signora — disse Falco con il suo sor-
riso amabile — ma ho proprio una storia da raccontarti. — E quando ebbe finito la zuppa, e lei si fu seduta con ago e filo per rammendare, la raccontò. — Nel mare Interno, sull'isola dei Saggi, a Roke, dov'è insegnata tutta la magia, ci sono nove Maestri — iniziò. Lei chiuse gli occhi beata, e ascoltò. Falco nominò i Maestri, Manipolatore ed Erborista, Evocatore e Strutturatore, Chiave del vento e Cantore, Nominatore e Cambiatore. — Quelle del Cambiatore e dell'Evocatore sono arti molto pericolose — spiegò. — Forse sei a conoscenza del cambiamento, o trasformazione, signora. Perfino un comune stregone può essere in grado di compiere incantesimi d'illusione, trasformando una cosa in un'altra per breve tempo, o assumendo una sembianza diversa dalla propria. L'hai visto succedere? — Ne ho sentito parlare — sussurrò Dote. — E a volte streghe e stregoni dicono di evocare i morti perché parlino tramite loro. Magari un bambino morto che i genitori piangono. Nella capanna della strega, al buio, i genitori lo sentono lamentarsi, o ridere... Dote annuì. — Quelli sono solo incantesimi d'illusione, di apparenza. Ma esistono veri cambiamenti, e vere evocazioni. E possono rappresentare vere tentazioni per il mago! È meraviglioso volare con le ali di un falcone, signora, e vedere la terra sotto di sé con occhi di falcone. E l'evocazione, che in realtà è nominazione, è un grande potere. Conoscere il nome vero significa avere potere, come ben sai, signora. E l'arte dell'evocatore consiste proprio in questo. È meraviglioso evocare la sembianza e lo spirito di una persona scomparsa da tempo. Vedere la bellezza di Elfarran nei frutteti di Solea, come la vedeva Morred quando il mondo era giovane... La voce di Falco era diventata molto sommessa, molto cupa. — Be', tornando alla mia storia... Oltre quarant'anni fa, nacque un bambino sull'isola di Ark, una ricca isola del mare Interno, a sud-est di Semel, lontano da qui. Quel bambino era figlio di un maggiordomo di rango inferiore della casa del signore di Ark. Non era il figlio di un povero, però non era un bambino importante. I genitori morirono giovani. Quindi non gli prestarono molta attenzione, finché non furono costretti ad accorgersi di lui per quello che faceva e sapeva fare. Era un marmocchio dotato, come si suol dire. Aveva dei poteri. Poteva accendere un fuoco o spegnerlo con una parola. Poteva far volare pentole e tegami nell'aria. Poteva trasformare un topo in un piccione e farlo volare nelle grandi cucine del signore di
Ark. E se veniva contrariato, o era spaventato, allora faceva del male. Rovesciò un pentolino di acqua bollente addosso a una cuoca che lo aveva maltrattato. — Misericordia — sussurrò Dote. Da quando era iniziato il racconto, non aveva dato nemmeno un punto di rammendo. — Era solo un bambino, e i maghi di quella casa non erano certo saggi, perché usarono poca consapevolezza o gentilezza con lui. Forse lo temevano. Gli legarono le mani e lo imbavagliarono per impedirgli di compiere incantesimi. Lo chiusero a chiave in un sotterraneo, una cantina di pietra, finché non ritennero di averlo domato. Poi lo mandarono a vivere nelle stalle della grande fattoria, perché era bravo con gli animali, ed era più tranquillo quando stava con i cavalli. Ma litigò con un garzone di scuderia, e trasformò il poveretto in un mucchietto di sterco. Dopo avere restituito al garzone la sua forma, i maghi lo legarono di nuovo, e lo imbavagliarono, e lo misero su una nave diretta a Roke. Pensavano che forse i Maestri di Roke sarebbero riusciti a domarlo. — Povero bambino — mormorò Dote. — Poveretto, davvero... perché anche i marinai lo temevano, e lo tennero legato per tutto il viaggio. Quando il Portinaio della Grande casa lo vide, gli liberò le mani e gli sciolse la lingua. E la prima cosa che il ragazzo fece nella Grande casa, si dice, fu capovolgere il lungo tavolo del refettorio, inacidire la birra, e trasformare in un maiale uno studente che cercò di fermarlo... Ma il ragazzo aveva trovato pane per i suoi denti nei Maestri. "Non lo punirono, però vincolarono con degli incantesimi i suoi poteri incontrollati finché non lo persuasero ad ascoltare e a cominciare a imparare. Impiegarono parecchio tempo. C'era in lui uno spirito competitivo per cui reputava ogni potere che non possedeva, ogni cosa che non sapeva, una minaccia, una sfida, qualcosa da combattere e sconfiggere. Ci sono molti ragazzi così. Io, tra questi. Ma sono stato fortunato. Ho imparato la lezione in giovane età. "Bene, quel ragazzo imparò finalmente a frenare la collera e a controllare il proprio potere. Ed era un potere grandissimo. Apprendeva facilmente qualsiasi arte studiasse, apprendeva con troppa facilità, e dunque disdegnava l'illusione, e la manipolazione del tempo, e perfino la guarigione, perché non racchiudevano nulla di spaventoso, nulla che rappresentasse una sfida. La padronanza di tali arti non aveva alcun valore per lui. Così, dopo che l'arcimago Nemmerle gli ebbe imposto il nome, il ragazzo si dedicò alla grande e perigliosa arte dell'evocazione. E studiò a lungo con il
Maestro di quell'arte. "Visse sempre a Roke, perché è da là che proviene tutta la conoscenza della magia, e là è conservata. Non aveva alcun desiderio di viaggiare e incontrare altra gente, o di vedere il mondo, dicendo che poteva evocare il mondo intero perché andasse da lui... il che era vero. Forse risiede proprio in questo il pericolo dell'arte evocatoria. "Ora, quello che è proibito all'evocatore, o a qualsiasi mago, è chiamare uno spirito vivente. Possiamo rivolgerci a loro, certo. Possiamo inviare una voce o una emanazione, una sembianza di noi stessi. Ma non evochiamo i viventi, come spirito o sostanza corporea, perché vengano da noi. Solo i morti possiamo evocare. Solo le ombre. Senza dubbio comprendi perché debba essere così. Evocare un vivente significa disporre di un potere assoluto su di lui, corpo e mente. Nessuno, per quanto forte o saggio o grande, può legittimamente possedere e usare un altro essere umano. "Ma lo spirito competitivo operava nel ragazzo, mentre cresceva e diventava un uomo. È uno spirito forte a Roke: sempre far meglio degli altri, primeggiare sempre... L'arte diventa una gara, un gioco. Il fine diventa un mezzo per perseguire un fine che non è più lo stesso, uno scopo inferiore... A Roke non c'era nessuno che fosse più dotato di quell'uomo, ma se qualcuno lo superava in qualsiasi cosa, lui stentava a sopportarlo. Si spaventava, si irritava. "Non c'era posto per lui tra i Maestri, dato che era stato designato nuovo Maestro Evocatore un uomo forte nel fiore degli anni, che difficilmente si sarebbe ritirato o sarebbe morto. Tra i dotti e gli altri insegnanti aveva un posto d'onore, ma non era uno dei Nove. Era stato lasciato da parte. Forse fu un male per lui rimanere là, sempre in mezzo a maghi e magi, in mezzo a ragazzi che apprendevano la magia, tutti bramosi di potere, di un potere sempre maggiore, tutti in lotta per essere il più forte. A ogni modo, con il passare degli anni diventò vieppiù distaccato, dedicandosi agli studi nella sua cella della torre, lontano dagli altri, insegnando a pochi studenti, parlando poco. L'Evocatore gli mandava studenti dotati, ma molti ragazzi della scuola ignoravano quasi che esistesse. In quell'isolamento, cominciò a praticare certe arti che non è bene praticare e che non conducono a nulla di buono. "Un evocatore si abitua a chiamare a sé a proprio piacimento spiriti e ombre, e a congedarli quando desidera. Forse quell'uomo cominciò a pensare: Chi mi proibisce di fare lo stesso con i vivi? Perché ho il potere se non posso usarlo? Così cominciò a chiamare a sé i vivi, quelli di Roke che
temeva, considerandoli rivali, quelli di cui invidiava il potere. Quando andavano da lui, li privava del potere e se ne impossessava, lasciandoli ammutoliti. Non erano in grado di dire cosa fosse accaduto, che ne fosse stato della loro energia. Non lo sapevano. "Così alla fine chiamò il suo maestro, l'Evocatore di Roke, cogliendolo alla sprovvista. "Ma l'Evocatore si oppose, lottando con il corpo e con lo spirito, e si rivolse a me, e io accorsi. Insieme, lottammo contro la volontà che voleva distruggerci." Era calata la notte. La lampada di Dote si era spenta. Solo il bagliore rosso del fuoco nel camino brillava sul volto di Falco. Non era il volto che le era parso di vedere prima. Era logoro, e duro, e sfregiato lungo un lato. La faccia del falco, pensò Dote. Rimase immobile, ascoltando. — Questo non è il racconto di un narratore, signora. È una storia che non sentirai mai raccontare da nessun altro. "Ero novizio nel mestiere dell'arcimago, allora. E più giovane dell'uomo contro cui lottavamo, e forse non lo temevo abbastanza. In due riuscimmo a stento a resistergli, là nel silenzio, nella cella della torre. Nessun altro sapeva cosa stesse accadendo. Lottammo. Lottammo a lungo. Poi tutto finì. Lui cedette. Cadde come un rametto spezzato. Era battuto. Ma fuggì. L'Evocatore aveva speso per sempre parte della propria forza, per sconfiggere quella volontà cieca. E io non avevo in me abbastanza energia per fermarlo, né ebbi la prontezza di farlo inseguire da qualcuno. Né mi rimaneva un briciolo di potere con cui seguirlo. Così lui lasciò Roke. Scomparve. "Non potevamo nascondere lo scontro che avevamo avuto con lui, ma raccontammo il minimo indispensabile. Molti alla scuola erano contenti che se ne fosse andato, perché era sempre stato mezzo matto, e a quel punto era completamente pazzo. "Ma dopo esserci ripresi dalle ammaccature che ci segnavano l'animo, diciamo, e dalla grande stupidità di mente che deriva da una simile lotta, l'Evocatore e io cominciammo a renderci conto che non era bene permettere che un uomo così potente, un magio, vagasse per il mondo, fuori di senno e forse colmo di vergogna e collera e desiderio di vendetta. "Non trovammo alcuna traccia di lui. Senza dubbio si era mutato in un uccello o in un pesce quando aveva lasciato Roke, raggiungendo così qualche altra isola. E un mago può celarsi a qualsiasi incantesimo di travamento. Inviammo delle richieste di informazioni, nei modi che ci sono propri, ma senza ricevere alcuna risposta. Allora ci mettemmo in viaggio
in cerca del fuggiasco, l'Evocatore nelle isole orientali e io in quelle occidentali, perché pensando a quell'uomo avevo cominciato a vedere con l'occhio della mente una grande montagna, un cono accidentato, con una lunga distesa di terra verde sottostante, verso sud. Ricordando le lezioni di geografia a Roke quando ero ragazzo, e la configurazione del terreno di Semel, e la montagna chiamata Andanden, sono venuto infine nell'Alta palude. Credo di essere giunto nel luogo giusto." Ci fu silenzio. La fiamma crepitava. — Devo parlargli? — chiese Dote, la voce ferma. — Non è necessario — disse l'uomo simile a un falcone. — Lo farò io. — E disse: — Irioth. Dote guardò la porta della camera da letto. La porta si aprì, e lui apparve, magro e stanco, gli occhi scuri colmi di sonno, smarrimento e sofferenza. — Ged — disse. Piegò il capo. Dopo un po', alzò lo sguardo e chiese: — Mi porterai via il nome? — Perché dovrei portartelo via? — Significa solo dolore. Odio, orgoglio, avidità. — Ti toglierò quelle cose, Irioth, ma non il tuo nome. — Non capivo — disse Irioth — riguardo agli altri. Che sono altro, diversi. Lo siamo tutti. Dobbiamo esserlo. Sbagliavo. L'uomo chiamato Ged gli andò accanto e gli prese le mani, che erano in parte protese, supplichevoli. — Hai errato. Sei tornato sulla retta via. Ma sei stanco, Irioth, e la strada è ardua da percorrere quando si è soli. Vieni a casa con me. L'uomo teneva il capo chino come se fosse stremato. Tutta la tensione e la passione avevano abbandonato il suo corpo. Ma sollevò gli occhi, non per guardare Ged, ma per fissare Dote, silenziosa nell'angolo del focolare. — Ho del lavoro da fare, qui — disse Irioth. Anche Ged si voltò verso la donna. — È vero — annuì lei. — Guarisce il bestiame. — Loro mi mostrano quello che dovrei fare — disse lui — e chi sono. Conoscono il mio nome. Ma non lo pronunciano mai. Dopo qualche istante, Ged attirò piano a sé l'uomo più anziano e lo abbracciò. Gli disse qualcosa sottovoce, quindi lo lasciò andare. Irioth trasse un respiro profondo. — Vedi, Ged, non servo a nulla, là — fece. — Qui sono utile. Se mi permetteranno di svolgere il lavoro. — Guardò di nuovo la donna, e anche
Ged la osservò. Lei guardò entrambi. — Qual è il tuo parere, Emer? — chiese l'uomo simile a un falcone. — Penso — rispose lei, la voce fievole e stridula, rivolgendosi al guaritore — che se i manzi di Alder sopravviveranno quest'inverno, gli allevatori ti scongiureranno di rimanere. Anche se può darsi che non ti amino. — Nessuno ama gli stregoni — sentenziò l'arcimago. — Bene, Irioth! Ho percorso tanta strada per venirti a cercare in pieno inverno, e devo tornare a casa da solo? — Di' agli altri... di' agli altri che ho sbagliato — disse. — Di' loro che ho agito male. Di' a Thorion... — s'interruppe, confuso. — Gli dirò che i cambiamenti nella vita di un uomo possono andare ben oltre tutte le arti che conosciamo, e ben oltre la nostra saggezza — dichiarò l'arcimago. Guardò nuovamente Emer. — Può restare qui, signora? È il tuo desiderio oltre che il suo? — Vale dieci volte mio fratello, quanto a utilità e compagnia — rispose lei. — Ed è un uomo buono e sincero, come ti ho detto, signore. — Molto bene, allora. Irioth, mio caro compagno, insegnante, rivale, amico, addio. Emer, donna coraggiosa, a te vanno la mia stima e i miei ringraziamenti. Possano il tuo cuore e il tuo focolare conoscere la pace. — E Ged fece un gesto che per un attimo lasciò una scia luccicante nell'aria sopra il focolare. — Ora andrò nella stalla — soggiunse, e uscì. La porta si chiuse. C'era silenzio, a parte il crepitio del fuoco. — Vieni accanto al camino — disse Dote. Irioth obbedì, e si sedette sulla panca. — Era l'arcimago, quello? Davvero? Lui annuì. — L'Arcimago del mondo — sussurrò lei. — Nella mia stalla. Dovrebbe riposare nel mio letto... — Non accetterebbe — disse Irioth. Lei sapeva che l'ospite aveva ragione. — Il tuo nome è bellissimo, Irioth — disse qualche istante dopo. — Non ho mai conosciuto il vero nome di mio marito. Né lui conosceva il mio. Non pronuncerò più il tuo. Però mi piace conoscerlo, dato che tu conosci il mio. — Il tuo nome è bellissimo, Emer — disse lui. — Lo pronuncerò quando mi dirai di farlo. Libellula
1. Iria Gli antenati di suo padre possedevano un vasto e ricco dominio sulla vasta e ricca isola di Way. Non rivendicando alcun titolo né alcun privilegio di corte all'epoca dei re, durante tutti gli anni oscuri dopo la caduta di Maharion, ressero con mano ferma il loro territorio e la loro gente, investendo nella terra i guadagni, tutelando la giustizia, respingendo i piccoli despoti. Quando l'ordine e la pace tornarono nell'Arcipelago sotto l'influenza dei saggi di Roke, ancora per qualche tempo la famiglia e i suoi poderi e villaggi prosperarono. Tale prosperità e la bellezza dei prati e dei pascoli montani e delle colline coronate di querce resero quel dominio proverbiale, e dunque la gente diceva "pingue come una vacca di Iria", o "fortunato come un iriano". I padroni e molti fittavoli del dominio aggiunsero il suo nome al proprio, chiamandosi Irian. Ma sebbene gli agricoltori e i pastori continuassero a svolgere il proprio compito di stagione in stagione e di anno in anno e di generazione in generazione, saldi e vitali come le querce, la famiglia proprietaria del territorio mutò e declinò con il tempo e la fortuna. Un litigio tra fratelli per l'eredità li divise. Uno amministrò male la proprietà perché avido, l'altro perché stolto. Uno aveva una figlia che sposò un mercante e cercò di condurre i possedimenti dalla città, l'altro aveva un figlio, e i figli del figlio litigarono di nuovo, ridividendo la terra divisa. Quando nacque la ragazza chiamata Libellula, il dominio di Iria, pur essendo ancora una delle più incantevoli regioni collinose e pratose di Earthsea, era un campo di battaglia di contese e controversie. I terreni coltivati si ricoprirono d'erbacce, i tetti delle fattorie crollarono, i capannoni per la mungitura rimasero inutilizzati, e i pastori seguirono le greggi oltre la montagna, cercando pascoli migliori. La vecchia casa che era stata il centro del dominio era ormai semidiroccata sulla collina tra le querce. Il suo proprietario era uno dei quattro uomini che si fregiavano dell'appellativo di padrone di Iria. Gli altri tre lo chiamavano padrone d'Iria vecchia. Spese la giovinezza e quanto rimaneva dell'eredità nelle corti di giustizia e nelle anticamere dei signori di Way, a Shelieth, cercando di dimostrare di avere diritto all'intero dominio, com'era stato cent'anni addietro. Tornò a casa sconfitto e amareggiato, e trascorse le giornate bevendo il forte vino rosso del suo ultimo vigneto e aggirandosi lungo i confini della proprietà con un branco di cani malnutriti e maltrattati, per tenere lontano gli intrusi.
Si era sposato mentre era a Shelieth, con una donna di cui nessuno a Iria sapeva nulla, perché proveniva da qualche altra isola, si diceva, da un'isola dell'ovest; e la donna non andò mai a Iria, perché morì di parto in città. Quando tornò a casa, l'uomo aveva con sé una figlia di tre anni. L'affidò alla governante e la dimenticò. A volte, quando era ubriaco, si ricordava di lei. Se riusciva a trovarla, la faceva stare accanto alla sedia o sedere sulle sue ginocchia, e la costringeva ad ascoltare tutti i torti subiti da lui e dal casato di Iria. Imprecava e piangeva, beveva e la faceva bere, chiedendole di promettere solennemente di onorare il proprio retaggio ed essere fedele a Iria. Lei ingollava il sorso di vino, ma detestava le imprecazioni e le promesse solenni e le lacrime, e le carezze sdolcinate che seguivano. Fuggiva, non appena poteva, se poteva, e correva dai cani e dai cavalli e dalle bestie. Giurava a loro che sarebbe stata devota alla madre, che nessuno conosceva o onorava, a cui nessuno mostrava devozione, tranne lei. Quando aveva tredici anni, il vecchio vignaiolo e la governante, le uniche persone rimaste del personale della casa, dissero al padrone che era giunto per sua figlia il momento dell'imposizione del nome. Chiesero se dovessero far venire lo stregone di Stagno ovest, o se potesse andar bene anche la strega del loro villaggio. Il padrone di Iria si mise a sbraitare, furioso. — Una strega di campagna? Una fattucchiera dovrebbe imporre il vero nome alla figlia di Irian? O un viscido stregone traditore, servo di quei villani rifatti arraffaterra che hanno rubato Stagno ovest a mio nonno? Se quel fetido verme mette piede sulla mia proprietà, gli faccio strappare il fegato dai cani, andate a dirgli questo, se volete! — E così via. La vecchia Margherita tornò in cucina e il vecchio Coniglio tornò nella vigna, e la tredicenne Libellula si precipitò fuori dalla casa e scese la collina verso il villaggio, scagliando le imprecazioni paterne contro i cani che, eccitati dalle grida del padrone, abbaiavano e ululavano e la seguivano. — Torna indietro, cagna dall'anima nera! — urlò. — A casa, traditore strisciante! — E i cani tacquero e arretrarono con la coda tra le gambe. Libellula trovò la strega del villaggio intenta a estrarre vermi da un taglio infetto sulla culatta di una pecora. Il nome comune della strega era Rosa, come per moltissime donne di Way e di altre isole dell'Arcipelago Hardico. Alle persone che avevano un nome segreto che racchiudeva il loro potere come un diamante racchiude la luce, andava benissimo avere un nome pubblico diffuso, comune, simile a quello di tanti altri. Rosa stava recitando un incantesimo sottovoce, ma erano le sue mani e il corto coltello affilato a svolgere la maggior parte del lavoro. La pecora
sopportava paziente l'azione della lama che le scavava la carne; gli occhi ambrati opachi erano socchiusi e fissavano lontano. Muoveva solo di tanto in tanto la piccola zampa anteriore sinistra, sospirando. Libellula osservò attentamente l'opera della donna. La strega estrasse un verme, lo lasciò cadere sul terreno, ci sputò sopra, ed esplorò nuovamente la ferita. La ragazza si appoggiò alla pecora, e questa si appoggiò a lei, e si confortarono a vicenda. Rosa cavò l'ultimo verme, lo buttò e sputò, poi disse: — Adesso passami quel secchio. — Lavò la piaga con acqua salata. L'animale sospirò profondamente e all'improvviso se ne andò, allontanandosi dal cortile. — Bucky! — gridò Rosa. Un bambino sudicio sbucò da sotto un cespuglio, dove stava dormendo, e seguì la pecora, cui in teoria doveva badare, sebbene fosse più vecchia, più grande, più pasciuta, e probabilmente più saggia di lui. — Hanno detto che dovresti darmi il nome — esordì Libellula. — Ma mio padre è andato su tutte le furie. Così, non se ne parla più. La strega non disse nulla. Sapeva che la ragazza aveva ragione. Quando decideva qualcosa, il padrone di Iria non cambiava mai idea, gloriandosi della propria irreprensibilità, dato che a suo avviso solo i deboli dicevano una cosa e poi ritrattavano. — Perché non posso impormelo io, il mio nome vero? — chiese la giovane, mentre Rosa lavava il coltello e le mani nell'acqua salata. — Perché non si può. — Perché no? Perché dev'essere proprio una strega o uno stregone a farlo? Cos'è che fate? — Be'... — fece Rosa, versando l'acqua salata sul terreno brullo del cortiletto davanti alla sua casa che, come la maggior parte delle abitazioni delle streghe, era un po' discosta dal villaggio. — Be'... — ripeté, drizzandosi e guardandosi attorno come se cercasse una risposta, o una pecora, o un asciugamano. — Vedi, bisogna sapere qualcosa del potere — rispose infine, e la guardò con un occhio. L'altro occhio guardava leggermente di lato. A volte Libellula pensava che l'occhio strabico fosse il sinistro, altre le sembrava che fosse il destro, comunque un occhio guardava sempre dritto mentre l'altro fissava chissà cosa, chissà dove. — Quale potere? — L'unico — rispose Rosa. Con un movimento repentino come quello della pecora che aveva lasciato il cortile, entrò in casa. Libellula la seguì, ma solo fino alla porta. Nessuno entrava nella casa di una strega senza essere invitato.
— Hai detto che lo avevo — insisté la ragazza, rivolgendosi all'oscurità puzzolente dell'unica stanza del tugurio. — Ho detto che in te hai una forza, una grande forza — replicò dal buio la donna. — E lo sai anche tu. Non so come vada impiegata, e nemmeno tu lo sai. Bisogna scoprirlo. Ma non esiste un potere che permetta di imporsi il nome da soli. — Perché no? Il nostro vero nome non è forse la cosa che più ci appartiene? Un lungo silenzio. La strega uscì con un fuso di talco e un gomitolo di lana sudicia. Si sedette sulla panca accanto alla porta e fece ruotare il fuso. Aveva avvolto già una iarda di filo grigiastro, quando rispose. — Una persona è il proprio nome. Vero. Ma cos'è un nome, allora? È quello che ci chiamano gli altri. Se non esistesse nessun altro, soltanto io, a cosa mi servirebbe un nome? — Ma... — ribatté Libellula, e s'interruppe, presa dalla discussione. Dopo avere riflettuto un po', disse: — Dunque un nome deve essere un dono? Rosa annuì. — Dammi il mio nome, Rosa — chiese la ragazza. — Tuo padre dice che non devo farlo. — E io dico che devi farlo. — È lui il padrone, qui. — Sarò anche povera e stupida e inutile per causa sua, ma non può farmi vivere senza nome! La strega sospirò, come la pecora, inquieta e impacciata. — Questa notte — continuò Libellula. — Alla nostra sorgente, sotto il colle d'Iria. Se non saprà nulla, mio padre non si arrabbierà. — La sua voce era in parte carezzevole, in parte feroce. — Dovresti avere la tua festa di nominazione come tutti i giovani, una festa con canti e balli — disse la donna. — Un nome andrebbe imposto all'alba. E poi si dovrebbe festeggiare con un banchetto e la musica. Non muoversi furtivamente di notte senza che nessuno sappia nulla... — Lo saprò io. Come si fa a sapere quale nome pronunciare, Rosa? Lo dice l'acqua? La strega scosse una volta la testa grigio ferro. — Non posso rivelartelo. — Il suo "non posso" non significava "non voglio". La giovane attese. — È il potere, come ho detto. Si manifesta così. — Rosa smise di filare e alzò un occhio verso una nuvola nel cielo a ovest; l'altro occhio guardò un po'
verso nord. — Sei là nell'acqua, con la creatura a cui imporre il nome. Le togli il nome che ha avuto fino a quel momento. La gente può continuare a usarlo come nome comune, ma non è il suo, non lo è mai stato. Così adesso non è più una creatura, e non ha nome. Allora aspetti. Là, nell'acqua. Apri la mente, per così dire. Come aprire la porta di una casa al vento. E arriva. La tua lingua lo pronuncia. Il tuo respiro lo forma. Lo dai alla creatura, il respiro, il nome. Non puoi pensarlo. Lasci che venga da te. Tramite te e l'acqua deve giungere alla creatura alla quale appartiene. Questo è il potere, il modo in cui opera. Avviene tutto così. Non è una cosa che si fa. Bisogna sapere come lasciarlo operare. L'arte consiste in questo. — I magi possono fare di più — disse la ragazza alcuni istanti dopo. — Nessuno può fare di più — ribatté Rosa. Libellula torse il collo, facendo schioccare le ossa, stiracchiandosi, tendendo irrequieta le lunghe membra. — Lo farai? — domandò. Dopo qualche attimo di esitazione, la strega annuì. Si incontrarono sul sentiero sotto il colle d'Iria nel cuore della notte, molto dopo il tramonto, molto prima dell'alba. Rosa creò un alone fioco di luce fatua perché potessero attraversare il terreno paludoso attorno alla sorgente senza cadere in qualche fosso nascosto tra le canne. Nella fredda oscurità, sotto rade stelle e la curva nera del colle, si spogliarono ed entrarono nell'acqua bassa, con i piedi che affondavano nel fango vellutato. La strega toccò la mano della ragazza, dicendo: — Ti tolgo il nome, bambina. Non sei più bambina. Non hai più nome. C'era un silenzio assoluto. In un sussurro, la strega disse: — Donna, ricevi il nome. Tu sei Irian. Rimasero immobili ancora un istante; poi, quando il vento notturno soffiò sulle loro spalle nude, rabbrividendo, uscirono dall'acqua, si asciugarono alla meglio, si fecero strada a fatica, scalze e infelici, tra le canne taglienti e i grovigli di radici, e raggiunsero infine il sentiero. E una volta là, la voce rabbiosa e stridula, la giovane mormorò: — Come hai potuto darmi proprio questo nome? La strega non disse nulla. — Non è giusto. Non è il mio vero nome! Pensavo che il mio nome mi avrebbe fatto diventare me stessa. Ma questo peggiora solo le cose. Ti sei sbagliata. Sei soltanto una strega. Hai sbagliato. È il suo nome, il nome di mio padre. Può tenerselo. È così orgoglioso del suo nome, del suo stupido dominio, del suo stupido nonno. Io non lo voglio. Mi rifiuto di tenerlo. Non sono io. Non mi appartiene. Non so ancora chi sono. Ma non sono I-
rian! — Tacque di colpo, dopo aver pronunciato il nome. La strega continuò a tacere. Avanzarono affiancate nell'oscurità. Infine, con voce intimorita e conciliante, Rosa disse: — È venuto così... — Se lo dirai a qualcuno, ti ucciderò — sbottò Libellula. A questo punto, la strega si arrestò. Sibilò dalla gola, come un gatto. — Dirlo a qualcuno? Anche la ragazza smise di camminare. Un attimo dopo, disse: — Mi dispiace. Marni sento... come se mi avessi tradita. — Ho pronunciato il tuo vero nome. Non è quello che mi aspettavo. E questo mi turba. Come se avessi lasciato una cosa a metà, incompiuta. Ma è il tuo nome. Se ti tradisce, allora significa che è vero. — Rosa esitò, quindi parlò con minor rabbia, con maggior freddezza. — Se vuoi il potere di tradirmi, Irian, te lo darò. Il mio nome è Etaudis. Si era alzato nuovamente il vento. Tremavano entrambe, battevano i denti. Erano l'una di fronte all'altra sul sentiero buio, riuscivano a stento a vedersi. Libellula allungò la mano, brancolando, e trovò la mano della strega. Si strinsero, scambiandosi un lungo e forte abbraccio. Poi ripresero il cammino, affrettando il passo; la strega si diresse verso la propria capanna nei pressi del villaggio, l'erede di Iria salì il poggio e raggiunse la casa diroccata, dove tutti i cani, che l'avevano lasciata andar via senza far chiasso, l'accolsero abbaiando e latrando a squarciagola, e svegliando tutti nel raggio di mezzo miglio; tranne il padrone di casa, che dormiva ubriaco accanto al camino spento. 2. Avorio Il padrone di Iria di Stagno ovest, Betulla, non possedeva la vecchia casa, però possedeva le terre centrali del vecchio dominio, quelle più ricche. Suo padre, cui viti e frutteti interessavano più delle liti con i parenti, gli aveva lasciato una proprietà florida. Betulla ingaggiò degli uomini che si occupassero delle fattorie e delle cantine vinicole, delle botti e del trasporto a mezzo carro, godendosi la propria ricchezza. Sposò la timida discendente del fratello minore del signore di Wayfirth, compiacendosi immensamente al pensiero che le sue figlie fossero di sangue nobile. La voga dell'epoca tra la nobiltà era di avere un mago al proprio servizio, un mago autentico con bastone e mantello grigio, educato sull'isola dei Saggi; così il padrone d'Iria di Stagno ovest si procurò un mago di Roke. Scoprì sorpreso che era facilissimo procurarsene uno, se si pagava il prez-
zo richiesto. Il giovanotto, di nome Avorio, in realtà non aveva ancora bastone e mantello; spiegò che sarebbe stato nominato mago quando fosse tornato a Roke. I Maestri lo avevano mandato a conoscere il mondo per acquisire esperienza, perché tutte le lezioni apprese a scuola non potevano dare a un uomo la perizia necessaria per essere un mago. Betulla non era molto convinto della veridicità della spiegazione, e Avorio lo rassicurò, garantendogli che l'educazione ricevuta a Roke gli aveva fornito ogni tipo di conoscenza magica di cui avrebbe potuto aver bisogno a Iria di Stagno ovest. Per dimostrarlo, fece apparire un branco di cervi illusorio che attraversò correndo la sala da pranzo, seguito da uno stormo di cigni, che giunsero in volo mirabile attraverso il muro sud e uscirono dal muro nord; e infine, da un bacile d'argento al centro del tavolo sgorgò uno zampillo, e quando il padrone di casa e i suoi famigliari imitarono circospetti il mago e riempirono le loro coppe con il liquido che zampillava e lo assaggiarono, scoprirono che era un vino dolce e dorato. — Vino delle Andrades — dichiarò il giovanotto, con un sorriso modesto e soddisfatto. A quel punto, poteva già contare sull'ammirazione incondizionata della moglie e delle figlie del padrone. E Betulla rifletté che il ragazzo valeva il compenso richiesto, anche se lui preferiva decisamente il faniano rosso secco dei suoi vigneti, che inebriava dopo qualche coppa, mentre quella roba gialla era solo acqua melata. Se il giovane stregone era in cerca di esperienza, a Stagno ovest doveva accontentarsi di poco. Ogni volta che Betulla aveva ospiti giunti da Kembermouth o dai domini vicini, ecco che apparivano il branco di cervi, i cigni e la fontana di vino dorato. Avorio creò pure uno spettacolo di fuochi d'artificio davvero bello per le calde serate primaverili. Ma se chi si occupava dei frutteti e dei vigneti si rivolgeva al padrone chiedendo se il mago potesse fare un incantesimo di crescita alle pere o magari cacciare il carbonchio che aveva colpito le vigne di faniano sul colle sud. Betulla diceva: — Un mago di Roke non si abbassa a certe cose. Andate dallo stregone del villaggio e ditegli di guadagnarsi il pane che mangia! — E quando la figlia più giovane contrasse una tosse debilitante, la moglie del padrone non osò importunare il giovanotto, ma mandò umilmente a chiamare Rosa di Iria vecchia, chiedendole di entrare dalla porta di servizio e magari di preparare un impiastro o intonare un canto adatto, per restituire la salute alla ragazza. Avorio non si accorse mai della malattia della ragazza, né delle pere che
crescevano male, né delle viti colpite dal carbonchio. Si teneva in disparte, come si conveniva a un uomo d'arte e di erudizione. Trascorreva le giornate girando nella campagna sulla bella cavalla nera che Betulla gli aveva messo a disposizione quando il giovane gli aveva spiegato che non era venuto da Roke per scarpinare nel fango e nella povere di viottoli campestri. Durante le cavalcate, spesso oltrepassava una vecchia casa su una collina, circondata da grandi querce. Una volta, si staccò dal sentiero del villaggio e salì il poggio, ma un branco di cani scheletrici e feroci gli si scagliò contro, ringhiando e latrando. La giumenta aveva paura dei cani, e avrebbe potuto sgroppare e imbizzarrirsi, così dopo quello spiacevole incontro Avorio stette alla larga. Sapeva però apprezzare la bellezza, e gli piaceva guardare la vecchia casa e fantasticare nella luce screziata dei pomeriggi estivi. Chiese a Betulla di quel posto. — È Iria — disse l'uomo. — Cioè, Iria vecchia. Quella casa è mia di diritto. Ma dopo un secolo di contese e litigi per averla, mio nonno ha rinunciato a qualsiasi rivendicazione pur di risolvere la disputa. Anche se il padrone della casa litigherebbe ancora con me se non fosse sempre troppo ubriaco per parlare. Non vedo il vecchio da anni. Aveva una figlia, mi pare. — Si chiama Libellula, e fa lei tutto il lavoro, e l'ho vista una volta l'anno scorso. È alta, e bella come un albero in fiore — disse la figlia più giovane, Rosa, impegnata a stipare una vita di acute osservazioni nei quattordici anni che la sorte le aveva destinato. S'interruppe, tossendo. La madre lanciò un'occhiata angosciata e implorante al mago. Sicuramente, doveva aver udito la tosse, questa volta, o no? Lui sorrise alla giovane, e la madre si sentì rincuorata. Sicuramente, non avrebbe sorriso così se la tosse di Rosa fosse stata qualcosa di grave, no? — Non ha nulla a che fare con noi, la gente che vive nella vecchia casa — dichiarò Betulla, contrariato. L'accorto Avorio non fece altre domande. Ma voleva vedere la ragazza bella come un albero in fiore. Cavalcò regolarmente nei pressi di Iria vecchia. Provò a fermarsi al villaggio ai piedi della collina per chiedere informazioni, ma non c'era nessun posto dove fermarsi, e nessuno che fosse disposto a rispondere alle sue domande. Una strega strabica gli lanciò un'occhiata e si rintanò subito nel proprio tugurio. Se fosse andato alla casa avrebbe dovuto affrontare il branco di cagnacci maligni e probabilmente un vecchio ubriaco. Ma valeva la pena di rischiare, pensò; la vita monotona a Stagno ovest lo stava tediando a morte, e il rischio gli piaceva. Salì il poggio finché i cani non lo circondarono, strepi-
tando furiosi, cercando di azzannare le zampe della giumenta. La cavalla scattò in avanti, sferzando l'aria con gli zoccoli, e per evitare che s'imbizzarrisse Avorio dovette ricorrere a un incantesimo calmante e a tutta la forza che aveva nelle braccia. I cani stavano saltando e cercando di azzannare le sue gambe, ora, e lui stava per dare briglia sciolta alla cavalla quando qualcuno si fece largo tra i cani imprecando a gran voce e frustandoli con una correggia. Quando riuscì a fermare la giumenta schiumante e spossata, Avorio vide la fanciulla bella come un albero in fiore. Era molto alta, molto sudata, con grandi mani e piedi, bocca, naso e occhi, tutti grandi, e una testa di capelli arruffati coperti di polvere. Stava urlando: — Giù! Via, a casa, carogne, brutti bastardi! — ai cani che uggiolavano spaventati. Avorio premette una mano sulla gamba destra. Dei denti canini gli avevano lacerato le brache sul polpaccio, e usciva un rivoletto di sangue. — È ferita? — disse la donna. — Oh, bestiacce vigliacche! — Stava accarezzando la zampa anteriore destra della giumenta. Quando staccò le mani, erano bagnate di sudore cavallino striato di sangue. — Su, su — disse. — Sei brava, tu, sei coraggiosa. — La cavalla abbassò la testa, fu percorsa da un fremito di sollievo. — Perché l'hai fatta fermare in mezzo ai cani? — sbottò rabbiosa la donna. Inginocchiata accanto alla zampa della giumenta, stava guardando Avorio. Lui la stava osservando dall'alto, dal dorso dell'animale, eppure si sentiva basso; si sentiva piccino. Lei non attese una risposta. — La porto su io — disse, drizzandosi, e allungò la mano verso le redini. Avorio capì che doveva smontare. Lo fece, domandando: — È grave? — osservando la zampa della giumenta, vedendo solo schiuma luccicante insanguinata. — Andiamo, tesoro — disse la giovane, non a lui. La cavalla la seguì docile. Percorsero il sentiero accidentato che saliva attorno al fianco della collina, raggiungendo un vecchio cortile di stalla di pietra e mattoni, deserto, abitato solo da rondini che svolazzavano sopra i tetti e attorno ai nidi, chiacchierando rapide e stridule. — Bada che non si agiti — disse la giovane, e lo lasciò in quel luogo deserto con le briglie in mano. Tornò poco dopo reggendo un secchio pesante, e cominciò a lavare la zampa dell'animale. — Toglile la sella — disse, e il suo tono racchiudeva un tacito e impaziente: "Stolto che non sei altro!". Avorio obbedì, irritato e incuriosito da quella rude gigantessa. Non gli ricordava affatto un albero in fiore, ma in effetti era bella, di una bellezza grande, grossa e selvaggia. La cavalla le si sottomise completamente. Quando lei disse: — Muovi la zampa! — la cavalla mosse la zampa. La
donna la strofinò tutta, asciugandola, le rimise il sottosella e si assicurò che rimanesse al sole. — Si riprenderà — disse. — C'è una ferita, ma se la laverai quattro o cinque volte al giorno con acqua calda salata, si rimarginerà. Mi dispiace. — Pronunciò le ultime due parole con sincerità, sebbene a malincuore, quasi si domandasse ancora come avesse potuto, lui, fermare la cavalla e permettere che venisse assalita, e lo guardò in faccia per la prima volta. Gli occhi della gigantessa erano luminosi, di un castano aranciato, come il topazio scuro o l'ambra. Erano occhi strani, all'altezza dei suoi. — Dispiace anche a me — disse lui, cercando di parlare con noncuranza, con leggerezza. — È la giumenta di Irian di Stagno ovest? Tu sei il mago, allora? Lui fece un inchino. — Avorio, di Porto grande di Havnor, al tuo servizio. Posso... Lo interruppe. — Pensavo venissi da Roke. — Infatti — annuì lui, ricomponendosi. Lei lo fissò con quegli occhi strani, che al mago parevano indecifrabili come quelli di una pecora. Poi proruppe: — Hai vissuto là? Hai studiato là? Conosci l'Arcimago? — Sì — rispose Avorio, sorridendo. Poi sussultò e si chinò, premendo un attimo la mano sullo stinco. — Sei ferito anche tu? — Non è nulla — rispose. Infatti, constatò piuttosto seccato che il taglio aveva cessato di sanguinare. La donna tornò a guardarlo in volto. — Com'è... com'è... Roke? Avorio, zoppicando solo leggermente, si accostò a un vecchio montatoio e si sedette. Distese la gamba, massaggiando il punto leso, e guardò la ragazza. — Occorrerebbe molto tempo per raccontarti com'è Roke — disse. — Ma lo farei con vero piacere. — Quell'uomo è un mago, o quasi — disse Rosa la strega. — Un mago di Roke! Non devi fargli domande! — Era più che scandalizzata, era spaventata. — Lui non ha nulla in contrario — la rassicurò Libellula. — Solo che non risponde quasi mai. — Certo che no! — Certo che no, perché? — Perché è un mago! Perché tu sei una donna, senz'arte, né conoscenza,
né erudizione! — Avresti potuto insegnarmi tu! Non hai mai voluto farlo! Rosa bandì tutto quello che aveva insegnato o che avrebbe potuto insegnare con uno schiocco delle dita. — Be', allora devo imparare da lui — disse la giovane. — I maghi non insegnano alle donne. Sei istupidita. — Tu e Ginestrone vi scambiate incantesimi. — Ginestrone è uno stregone di campagna. Quell'uomo è un saggio. Ha appreso le Arti supreme nella Grande casa di Roke! — Mi ha raccontato com'è — disse Libellula. — Si sale attraversando la cittadina di Thwil. C'è una porta che dà sulla strada, ma è chiusa. Sembra una porta qualsiasi. La strega ascoltò, incapace di resistere al fascino di segreti svelati e al contagio del desiderio intenso. — E un uomo viene ad aprire quando bussi, un uomo dall'aspetto qualunque. E ti sottopone a una prova. Devi dire una certa parola, una parola d'ordine, prima che ti lasci entrare. Se non la conosci, non potrai mai entrare. Ma se ti lascia entrare, quando sei dentro vedi che la porta è diversissima... è fatta di corno, con un albero intagliato, e il telaio è fatto di dente di drago, il dente di un drago vissuto moltissimo tempo prima di ErrethAkbe, prima di Morred, quando a Earthsea gli esseri umani non esistevano ancora. C'erano solo i draghi, all'inizio. Il dente è stato trovato sul monte Onn, a Havnor, al centro del mondo. E le foglie dell'albero sono scolpite così sottili che la luce le attraversa, ma la porta è talmente robusta che se il Portinaio la chiude nessun incantesimo può aprirla. E poi il Portinaio ti conduce lungo diversi corridoi, e ti senti confuso e smarrito, e dopo all'improvviso ti ritrovi all'aperto, sotto il cielo. Nel cortile della Fontana, nel punto più interno della Grande casa. Ed è là che sarebbe l'Arcimago, se ci fosse... — Vai avanti — sussurrò la strega. — Non mi ha raccontato altro, per ora — disse Libellula, tornando alla mite giornata primaverile nuvolosa e alla infinita familiarità del sentiero del villaggio, del cortile di Rosa, delle sue sette pecore da latte che brucavano sul Poggio d'Iria, delle chiome bronzee delle querce. — Sta molto attento a quel che dice quando parla dei Maestri. Rosa annuì. — Però mi ha parlato di alcuni studenti. — Questo può farlo tranquillamente, immagino.
— Non so — disse Libellula. — Sentire raccontare della Grande casa è meraviglioso, però pensavo che la gente là fosse... non so. Certo, perlopiù sono solo ragazzi quando vanno là. Però pensavo fossero... — Osservò le pecore sulla collina, il volto turbato. — Alcuni sono proprio cattivi e stupidi — riprese sottovoce. — Entrano nella scuola perché sono ricchi. E studiano solo per diventare più ricchi. O per avere il potere. — Be', naturale — disse Rosa. — Sono là per questo motivo! — Ma il potere... come mi hai spiegato tu... non significa costringere la gente a fare ciò che si vuole, o a pagarci... — No? — No! — Se una parola può guarire, una parola può ferire — sentenziò la strega. — Se una mano può uccidere, una mano può curare. Vale ben poco il carro che va solo in una direzione. — Ma a Roke imparano a usare il potere bene, non per nuocere, non per guadagnare. — Secondo me, tutto serve per trarre un profitto, in qualche modo. La gente deve vivere. Ma io che ne so? Mi guadagno da vivere facendo quello che so fare. Ma sto alla larga dalle grandi arti, dalle arti perigliose, come l'evocazione dei morti. — E con la mano, Rosa fece il gesto per allontanare il pericolo menzionato. — Tutto è periglioso — disse la giovane, tendendo lo sguardo oltre le pecore, oltre il colle, oltre gli alberi, scrutando profondità immote, una immane distesa di vuoto incolore, simile al cielo limpido prima del levar del sole. La strega la osservò. Sapeva di non sapere chi fosse Irian o cosa potesse essere. Una donna grande e grossa, forte, goffa, ignorante, innocente, arrabbiata, certo. Ma fin da quando Irian era bambina, aveva scorto in lei qualcos'altro, qualcosa che andava al di là di ciò che era. E quando distoglieva lo sguardo dal mondo come lo stava distogliendo adesso, Irian sembrava entrare in quel luogo o in quel tempo o in quell'essere estraneo e remoto, che esulava completamente dalla conoscenza di Rosa. Allora la temeva, e temeva per lei. — Sii prudente — disse arcigna la strega. — Tutto è periglioso, hai ragione, soprattutto avere a che fare con i maghi. Per amore, rispetto, e fiducia, Libellula non avrebbe mai trascurato un avvertimento di Rosa; ma non riusciva a considerare pericoloso Avorio. Non lo capiva, però l'idea di temerlo, di temerlo come persona, non voleva
proprio entrarle in testa. Cercò di essere rispettosa, ma era impossibile. Lo riteneva intelligente e piuttosto bello, ma non pensava molto a lui, se non per quello che poteva raccontarle. Avorio sapeva cosa le interessasse e un po' alla volta glielo disse, dopo di che, soddisfatta la curiosità iniziale, la ragazza volle sapere altre cose. Lui era paziente con lei, che apprezzava la sua pazienza, rendendosi conto che era più sveglio di lei. A volte il mago sorrideva di fronte alla sua ignoranza, ma non la derideva né la rimproverava mai. Al pari della strega, gli piaceva rispondere a una domanda con una domanda; ma le risposte alle domande di Rosa erano sempre qualcosa che Libellula aveva sempre saputo, mentre le risposte alle domande di Avorio erano cose che lei non aveva mai immaginato e che trovava sorprendenti, sgradevoli, perfino dolorose, perché mutavano le sue convinzioni. Giorno per giorno, mentre parlavano nel vecchio cortile delle stalle di Iria, dove avevano preso l'abitudine di incontrarsi, lei gli chiedeva e lui le raccontava nuove cose, sebbene con riluttanza, rispondendo sempre in modo incompleto; proteggeva i suoi Maestri, secondo lei, cercava di difendere l'immagine splendente di Roke. Finché un giorno Avorio cedette alle insistenze della ragazza e alla fine parlò liberamente. — Ci sono delle brave persone, là — disse. — L'Arcimago era sicuramente grande e saggio. Ma se ne andato. E i Maestri... Alcuni vivono appartati, seguendo conoscenze arcane, cercando altre strutture, altri nomi, ma usando la loro conoscenza senza costrutto. Altri celano l'ambizione sotto il mantello grigio della saggezza. Roke non è più la sede del potere, a Earthsea. Quella sede è la Corte di Havnor, adesso. Roke vive del proprio grande passato, difesa da mille incantesimi che la proteggono dal presente. E all'interno di quelle mura incantate, cosa c'è? Ambizioni contrastanti, la paura di tutto ciò che è nuovo, la paura dei giovani che sfidano il potere dei vecchi. E al centro, nulla. Un cortile vuoto. L'Arcimago non tornerà più. — Come lo sai? — sussurrò lei. Lui assunse un'espressione cupa. — Il drago lo ha portato via. — L'hai visto? L'hai visto accadere? — Libellula serrò le mani, immaginando quel volo, non udendo neppure la risposta del giovane. Parecchi istanti dopo, tornò alla luce del sole e al cortile delle stalle e ai propri pensieri e dubbi. — Ma anche se l'Arcimago se n'è andato — disse — sicuramente alcuni dei Maestri sono davvero saggi, no? Quando Avorio alzò lo sguardo e parlò, lo fece con riluttanza, con un accenno di sorriso malinconico. — Sai, tutto il mistero e la saggezza dei
Maestri, quando sono esposti alla luce del giorno, non sono poi granché. Trucchi del mestiere... meravigliose illusioni. Ma la gente non vuole saperlo. La gente vuole le illusioni, i misteri. Non si può biasimarla. Nella vita, sono così poche le cose belle o degne. Quasi volesse illustrare ciò che stava dicendo, raccolse un pezzo di mattone dalla pavimentazione rotta e lo lanciò in aria, e mentre parlava il frammento svolazzò sopra le loro teste muovendo delicate ali azzurre... una farfalla. Avorio allungò il dito, e la farfalla si posò. Quando scosse il dito, la farfalla cadde a terra, di nuovo un pezzo di mattone. — Nella mia vita, non c'è molto che valga qualcosa — disse Libellula, fissando il selciato. — L'unica cosa che so fare è condurre la fattoria, e cercare di stare a testa alta e dire la verità. Ma se pensassi che perfino a Roke fosse tutto un cumulo di trucchi e bugie, odierei quegli uomini per avermi ingannata, per avere ingannato tutti quanti. Non possono essere solo bugie. Qualcosa di vero dev'esserci. L'Arcimago è andato davvero nel labirinto tra gli Uomini canuti ed è tornato con l'Anello della pace. È andato davvero nella terra della morte con il giovane re, e ha sconfitto il magio ragno, ed è tornato. Lo sappiamo perché è stato il re stesso a raccontarlo. Anche qui, gli arpisti sono venuti a cantare quel canto, e un narratore è venuto a narrare la storia. Avorio annuì. — Ma l'Arcimago ha perso tutto il suo potere nella terra della morte. Forse tutta la magia si è indebolita allora. — Gli incantesimi di Rosa operano come sempre — replicò risoluta la giovane. Avorio sorrise. Non disse nulla, ma lei capì che per il giovane mago, che aveva visto grandi imprese e grandi poteri, le azioni di una strega di campagna erano inezie insignificanti. Sospirò e parlò con il cuore in mano. — Oh, se solo non fossi una donna! Lui sorrise ancora. — Sei una bella donna — disse, ma con semplicità, evitando l'atteggiamento adulatorio usato con lei all'inizio, prima che lei gli dimostrasse di detestarlo. — Perché vorresti essere un uomo? — Perché così potrei andare a Roke! E vedere, e imparare! Perché possono andarci soltanto gli uomini, là? — Così ha stabilito il primo Arcimago, secoli fa — rispose Avorio. — Ma... me lo sono chiesto anch'io. — Davvero? — Spesso. Vedendo solo ragazzi e uomini, un giorno dopo l'altro, nella Grande casa e nei dintorni della scuola. Sapendo che le donne della citta-
dina non possono neppure metter piede nei campi attorno al Poggio di Roke, perché un incantesimo le blocca. Una volta ogni tanti anni, forse, a qualche grande signora è permesso di entrare per breve tempo nei cortili esterni... Perché mai? Tutte le donne sono incapaci di comprendere? O sono i Maestri a temerle, a temere di essere corrotti... No, ma a temere che l'ammissione delle donne possa cambiare la regola a cui si aggrappano... la purezza di quella regola... — Le donne possono vivere in castità come gli uomini — dichiarò recisa Libellula. Si rendeva conto di essere brusca e grossolana, mentre lui era delicato e fine, ma era l'unico modo di essere che conoscesse. — Certo — annuì lui, e il suo sorriso si fece smagliante. — Ma le streghe non sono sempre caste, vero?... Forse è questo che temono i Maestri di Roke. Forse il celibato non è essenziale come insegna la Regola di Roke. Forse non è un modo di mantenere puro il potere, ma di tenere il potere per sé. Lasciando fuori le donne, escludendo chi non accetta di trasformarsi in un eunuco per avere quel particolare tipo di potere... Chissà? Un magio donna! Questo sì cambierebbe tutto, tutte le regole! Libellula si accorse che la mente di Avorio precedeva danzando la sua, cogliendo idee, giocando con esse e trasformandole, come aveva trasformato il frammento di mattone in farfalla. Lei non poteva danzare con lui, non poteva giocare con lui, ma lo osservò meravigliata. — Potresti andare a Roke — disse Avorio, gli occhi che brillavano eccitati, maliziosi, audaci. Di fronte al silenzio incredulo quasi supplichevole della ragazza, insisté: — Potresti, sì. Sei una donna, ma esiste il modo di cambiare la tua sembianza. Hai il coraggio e l'ardire e la forza di volontà di un uomo. Potresti entrare nella Grande casa. Ne sono certo. — E cosa farei, là? — Quello che fanno tutti gli studenti. Vivresti in solitudine in una cella di pietra e impareresti a essere saggia! Potrebbe essere diverso da quello che sogni tu, ma impareresti anche quello. — Impossibile. Se ne accorgerebbero. Non riuscirei nemmeno a entrare. Hai detto che c'è il Portinaio. Non conosco la parola che bisogna dirgli. — La parola d'ordine, sì. Ma posso insegnartela io. — Davvero? È consentito? — Non m'importa cos'è consentito — rispose il mago, con un'espressione corrucciata che lei non aveva mai visto sul suo volto. — L'Arcimago stesso ha detto che le regole sono fatte per essere infrante. L'ingiustizia crea le regole, e il coraggio le infrange. Io ho il coraggio, se l'hai anche tu!
Libellula lo osservò. Non riusciva a parlare. Si alzò e un attimo dopo lasciò il cortile, si allontanò lungo il sentiero che girava attorno al fianco della collina. Uno dei cani, il suo preferito, un grosso e brutto segugio dalla testa massiccia, la seguì. Libellula si fermò sul pendio sopra il tratto acquitrinoso della sorgente dove Rosa le aveva imposto il nome dieci anni prima. Rimase immobile. Il cane le si accovacciò accanto e alzò il muso, guardandola in faccia. Nella sua mente non c'era un solo pensiero chiaro, ma continuavano a risuonare delle parole: "Potrei andare a Roke e scoprire chi sono". Guardò a ovest, oltre i canneti e i salici e le colline. A occidente, tutto il cielo era vuoto, limpido. La sua anima sembrò andare in quel cielo e sparire, separandosi da lei. Si udì un rumore lieve, il clop clop degli zoccoli della giumenta nera che avanzavano sul sentiero. Allora Libellula tornò in sé e chiamò a gran voce Avorio e scese a precipizio la collina, andandogli incontro. — Andrò a Roke! — disse. Avorio non si era prefisso né aveva progettato un'avventura del genere, ma per quanto fosse folle, più ci pensava più l'idea gli andava a genio. La prospettiva di trascorrere il lungo inverno grigio a Stagno ovest gli faceva scendere il morale sotto i tacchi. Lì non c'era nulla per lui, a parte la ragazza, Libellula, che ormai occupava completamente i suoi pensieri. La forza massiccia e innocente della giovane lo aveva sconfitto finora, ma lui faceva quello che le garbava perché fosse lei alla fine a fare quello che garbava a lui, ed era un gioco che secondo lui valeva la pena di fare. Se fosse fuggita con lui, in pratica avrebbe potuto ritenersi vincitore. Quanto allo scherzo in sé, l'idea di farla entrare davvero nella scuola di Roke camuffata da uomo, difficilmente sarebbe riuscito, però gli piaceva come gesto irriverente nei confronti di tutta la devozione e la pomposità dei Maestri e dei loro leccapiedi. E se poi fosse andato in porto, se lui fosse davvero riuscito a far entrare una donna da quella porta, anche solo per un attimo, che dolce vendetta sarebbe stata! Il denaro costituiva un problema. La ragazza credeva, naturalmente, che come un grande mago lui avrebbe schioccato le dita e sarebbe apparsa una barca magica che spinta da un vento stregato li avrebbe portati in un battibaleno a destinazione. Ma quando lui le spiegò che si sarebbero dovuti imbarcare su una nave, pagando la traversata, Libellula disse semplicemente: — Ho il gruzzolo del formaggio.
Avorio faceva tesoro di quelle sue espressioni rustiche. A volte lei lo spaventava, e lui si rammaricava. Quando la sognava, non sognava mai che lei gli cedesse, sognava invece di abbandonarsi a una dolcezza selvaggia e devastante, di sprofondare in un abbraccio che annichiliva. In quei sogni lei era qualcosa di incomprensibile, e lui una nullità. Si svegliava scosso e umiliato. Di giorno, quando vedeva le sue grandi mani sporche, quando lei parlava come un bifolco, un sempliciotto, Avorio riacquistava la propria superiorità. Gli dispiaceva solo che non ci fosse nessuno a cui riferire i motti della ragazza, uno dei suoi vecchi amici di Porto grande, che li avrebbe trovati divertenti. — Ho il gruzzolo del formaggio — ripeté tra sé, tornando a Stagno ovest, e rise. — L'ho davvero — dichiarò a voce alta. La cavalla nera mosse un orecchio. Avorio comunicò a Betulla di avere ricevuto un'emanazione dal suo insegnate di Roke, il Maestro Manipolatore, e di dover partire subito; naturalmente, non poteva rivelare di quale affare si trattasse, ma non prevedeva di assentarsi a lungo; mezzo mese per andare, altrettanto per tornare, e al massimo sarebbe stato di ritorno prima del Maggese. Doveva chiedere a Mastro Betulla di dargli un anticipo della retribuzione per pagare la traversata e l'alloggio, dal momento che un mago di Roke non doveva approfittare della disponibilità della gente a fornirgli tutto ciò di cui aveva bisogno, ma era tenuto a pagare come un uomo comune. Betulla era d'accordo, e consegnò al mago una borsa contenente il denaro per il viaggio, i primi soldi veri che Avorio avesse in tasca dopo diversi anni: dieci monete d'avorio che recavano inciso su un lato la Lontra di Shelieth, sull'altro la Runa della pace in onore di re Lebannen. — Salve, piccoli omonimi — salutò i soldi, quando fu solo con loro. — Voi e il gruzzolo del formaggio andrete perfettamente d'accordo. Disse pochissimo a Libellula circa i propri piani, soprattutto perché non ne fece quasi, affidandosi alla sorte e al proprio ingegno, che raramente lo tradiva quando aveva occasione di usarlo. La ragazza non gli domandò quasi nulla. — Sarò un uomo per tutto il viaggio? — fu una delle cose che gli chiese. — Sì — rispose lui — ma sarai solo camuffata. Non ti farò un incantesimo di sembianza finché non giungeremo all'isola di Roke. — Pensavo che sarebbe stato un incantesimo di cambiamento — osservò lei. — Sarebbe incauto — dichiarò lui, con una buona imitazione della tersa solennità del Maestro Cambiatore. — Se sarà necessario, lo farò, natural-
mente. Ma scoprirai che i maghi sono parchi nel ricorrere ai grandi incantesimi. A ragione. — L'Equilibrio — annuì lei, accettando come sempre tutto quello che le diceva nel senso più semplice. — E forse perché tali arti non hanno il potere che avevano un tempo — spiegò Avorio. Non sapeva per quale motivo cercasse di indebolire la fiducia di Libellula nella magia; forse perché intaccando la forza e l'integrità della ragazza lui si avvantaggiava. Aveva iniziato cercando semplicemente di portarla nel proprio letto, un gioco che gli piaceva moltissimo. Il gioco era diventato una specie di lotta inattesa che però lui non poteva far cessare. Adesso era deciso non a conquistarla, ma a sconfiggerla. Non poteva permettere che lei lo battesse. Doveva dimostrare a Libellula e a se stesso che i suoi sogni erano insignificanti. Tempo addietro, stancatosi di corteggiare quel colosso di indifferenza, aveva escogitato una malia, un incantesimo di seduzione stregonesco che aveva disprezzato fin dal primo istante in cui aveva creato, pur conoscendone l'efficacia. Aveva ammaliato la ragazza mentre lei, tipicamente, stava aggiustando la cavezza di una mucca. Il risultato non era stato la tenera brama che il sortilegio aveva suscitato nelle ragazze con cui lui lo aveva usato a Havnor e a Thwil. Libellula era diventata gradualmente cupa e silenziosa. Smise di rivolgergli le interminabili domande su Roke, e quando le parlò lo ignorò. Quando lui le si avvicinò incerto, prendendole la mano, lei lo respinse con un colpo in testa che lo stordì, e senza dire una parola lasciò il cortile delle stalle a grandi passi, mentre il brutto segugio che prediligeva le trotterellava dietro. Il cane si voltò e lanciò un'occhiata al giovane mago, ghignando. Libellula imboccò il sentiero che conduceva alla vecchia casa. Quando le orecchie smisero di ronzargli, Avorio la seguì alla chetichella, sperando che l'incantesimo stesse operando, e che quello fosse solo il suo modo particolarmente rozzo di invitarlo alla fine nel suo letto. Giunto nei pressi della casa, udì un rumore di stoviglie rotte. Il padre, l'ubriacone, uscì barcollando, l'aria spaventata e confusa, seguito dalla voce aspra e forte della ragazza... — Fuori da questa casa, traditore strisciante avvinazzato! Gozzovigliatore schifoso svergognato! — Mi ha portato via la coppa — disse il padrone di Iria allo sconosciuto, uggiolando come un cucciolo, mentre i suoi cani schiamazzavano attorno a lui. — L'ha rotta. Avorio se ne andò. Non tornò per due giorni. Il terzo giorno, a titolo di
prova, passò davanti a Iria vecchia, e lei gli corse incontro, scendendo a precipizio dal poggio. — Scusa, Avorio — gli disse, guardandolo con quegli occhi aranciati. — Non so cosa mi abbia preso l'altro giorno. Ero arrabbiata. Ma non con te. Ti chiedo perdono. Lui la perdonò magnanimo. Non provò più a stregarla con una malia d'amore. Presto non avrebbe avuto bisogno di nessuna malia, rifletté ora. L'avrebbe avuta in suo potere, un potere vero. Finalmente aveva capito come ottenerlo. Era stata lei a darglielo. La forza e la volontà di Libellula erano enormi, ma per fortuna lei era stupida, e lui no. Betulla doveva inviare un carrettiere a Kembermouth con sei botti di faniano di dieci anni, ordinate da un vinaio della cittadina. Era contento di mandare anche il proprio mago come guardia del corpo, perché il vino era prezioso, e sebbene il giovane re stesse raddrizzando le cose il più rapidamente possibile, c'erano ancora bande di predoni sulle strade. Così Avorio lasciò Stagno ovest sul grande carro trainato da quattro grandi cavalli da tiro, procedendo lentamente a sobbalzi, le gambe penzoloni. Nei pressi del colle dell'Asino, una figura sgraziata si alzò dal ciglio della strada e chiese un passaggio. — Non ti conosco — disse il carrettiere, sollevando la frusta per intimare allo sconosciuto di stare alla larga, ma Avorio gli si portò accanto e disse: — Lascia che il giovanotto salga sul carro, buon uomo. Non farà nulla di male, se sono qui con te. — Tienilo d'occhio, allora, signore — disse il carrettiere. — Lo farò — annuì Avorio, ammiccando a Libellula. Lei, ben camuffata da uno strato di sporcizia e vecchi indumenti da bracciante, camiciotto e gambali e cappellaccio di feltro, non rispose al cenno d'intesa. Recitò la propria parte anche mentre sedevano fianco a fianco, le gambe che penzolavano dalla sponda posteriore del carro, con sei grosse botti di vino che sobbalzavano tra loro e il carrettiere assopito, e la distesa sonnolenta di colline e campi estivi che scorreva lentissima. Avorio provò a stuzzicarla, ma lei si limitò a scuotere il capo. Forse era spaventata da quel folle progetto, adesso che l'avventura era iniziata. Impossibile dirlo. Era serissima e silenziosa. "Questa donna potrebbe annoiarmi a morte" pensò Avorio "dopo averla avuta sotto di me una volta." Quel pensiero lo eccitò in modo quasi insopportabile, ma quando la guardò di nuovo, il suo desiderio si spense di fronte a quella presenza massiccia, concreta. Sulla strada che attraversava quello che un tempo era il dominio di Iria non c'erano locande. Mentre il sole calava verso le pianure d'occidente, si
fermarono in una fattoria che offriva stallaggio per i cavalli, una tettoia per il carro, e paglia nel sottotetto della stalla per i viaggiatori. Il sottotetto era buio e sapeva di rinchiuso, e la paglia era muffosa. Avorio non provò alcun senso di libidine, sebbene Libellula giacesse a nemmeno tre piedi da lui. Aveva recitato la parte dell'uomo così bene per tutto il giorno che aveva quasi convinto perfino lui. "Forse ingannerà i vecchi, dopotutto" pensò. Sorrise all'idea, e dormì. Proseguirono a scosse e sobbalzi per tutto il giorno successivo imbattendosi in un paio di acquazzoni estivi, e al crepuscolo giunsero a Kembermouth, un porto prospero cinto di mura. Lasciarono che il carrettiere sbrigasse il compito assegnatogli dal padrone, e andarono in cerca di una locanda nei pressi del porto. Libellula si guardò attorno, osservando le vedute del luogo in un silenzio che avrebbe potuto significare soggezione o disapprovazione o semplice flemma. — È una bella cittadina — disse Avorio — ma l'unica città al mondo è Havnor. Era inutile cercare di impressionarla; tutto quello che Libellula disse fu: — Le navi non vanno tanto spesso a Roke, vero? Ci vorrà molto per trovarne una che ci porti là, secondo te? — No, se avrò un bastone — rispose lui. Lei smise di guardarsi attorno e per un po' camminò meditabonda. Era bellissima in movimento, baldanzosa e aggraziata, la testa alta. — Intendi dire che faranno un favore a un mago? Ma tu non sei un mago. — Questa è una formalità. Noi stregoni superiori possiamo portare il bastone quando lavoriamo per Roke. Cosa che io sto appunto facendo. — Conducendomi là? — Conducendo alla scuola uno studente, sì. Uno studente molto dotato! Lei non fece altre domande. Non discuteva mai; era una delle sue virtù. Quella sera, mentre cenavano nella locanda del porto, gli chiese con voce insolitamente timida: — Sono molto dotata? — A mio avviso, sì — rispose Avorio. Libellula rifletté - spesso la conversazione con lei era una faccenda lenta - e riprese: — Rosa ha sempre detto che avevo del potere, ma non sapeva di che genere. E io... so di averlo, però non so cosa sia. — Vai a Roke per scoprirlo — disse il mago, alzando il bicchiere per brindare. Un attimo dopo, anche lei levò il calice e gli sorrise, un sorriso così tenero e radioso che lui disse spontaneamente: — E ti auguro di trovare tutto ciò che cerchi!
— Se ci riuscirò, sarà grazie a te — disse lei. In quell'attimo Avorio l'amò per il suo cuore sincero, e avrebbe giurato di considerarla solo una compagna d'avventura in quell'impresa audace, uno splendido scherzo. Nella locanda affollata, dovettero dividere una stanza con altri due viaggiatori, ma i pensieri di Avorio erano assolutamente casti, anche se rise un po' di se stesso per questo. La mattina dopo, prese un rametto aromatico dall'orto della locanda e con un incantesimo lo mutò nella sembianza di un bel bastone, con puntale di rame e alto esattamente quanto lui. — Di che legno è? — chiese Libellula affascinata quando lo vide; quando lui le rispose ridendo che era di rosmarino, rise anche lei. S'incamminarono lungo le banchine, chiedendo di una nave diretta a sud che potesse portare un mago e il suo apprendista all'isola dei Saggi, e ben presto trovarono una nave mercantile diretta a Wathort, e il capitano disse che avrebbe trasportato il mago per amicizia e l'apprendista per metà prezzo. Anche appena metà prezzo equivaleva a metà del gruzzolo del formaggio; ma avrebbero avuto il lusso di una cabina, perché la Lontra marina era una nave a due alberi fornita di ponte. Mentre parlavano con il capitano, un carro si arrestò sulla banchina e cominciò a scaricare sei botti dall'aspetto familiare. — Quello è il nostro vino — disse Avorio, e il capitano disse: — Diretto alla città di Hort — e Libellula sussurrò: — Viene da Iria. Si voltò a guardare la terra, allora. L'unica volta che lui la vide volgersi indietro. Il manipolatempo della nave salì a bordo appena prima che salpassero, non era un mago di Roke ma un tipo segnato dalle intemperie che indossava un logoro mantello marinaro. Avorio lo salutò agitando leggermente il bastone. Lo stregone lo squadrò e disse: — Un uomo solo manipola il tempo su questa nave. Se non sono io, scendo a terra. — Io sono un semplice passeggero, Mastro Otre. Lascio volentieri i venti nelle tue mani. Lo stregone guardò Libellula, dritta come un fuso e silenziosa. — Bene — annuì, e quella fu l'ultima parola che disse ad Avorio. Durante il viaggio, comunque, parlò parecchie volte con Libellula, il che inquietò un po' il suo compagno. L'ignoranza e l'atteggiamento fiducioso della ragazza avrebbero potuto metterla in pericolo, e quindi mettere in pericolo anche lui. Le chiese di cosa parlassero lei e il manipolatempo, e lei rispose: — Di che ne sarà di noi.
Lui la fissò perplesso. — Di noi tutti. Di Way e Felkway, e Havnor, e Wathort, e Roke. Tutta la gente delle isole. Dice che lo scorso autunno, quando doveva essere incoronato, re Lebannen ha mandato a prendere il vecchio Arcimago a Gont perché lo incoronasse, e lui non è voluto andare. E non c'era un nuovo Arcimago. Così il re si è incoronato da solo. E alcuni sostengono che questo è sbagliato, e che lui non occupa il trono in modo legittimo. Ma altri dicono che il re stesso è il nuovo Arcimago. Ma lui non è un mago, è soltanto un re. Così, secondo certuni, verranno ancora gli anni oscuri, quando non regnava la giustizia e la magia veniva usata per scopi malvagi. Dopo una pausa, Avorio chiese: — Quel vecchio manipolatempo ti ha raccontato tutte queste cose? — Sono cose risapute, credo — disse Libellula, con la solita grave semplicità. Il manipolatempo, almeno, conosceva il proprio mestiere. La Lontra marina navigò veloce verso sud; incontrarono temporali estivi e mare mosso, ma mai una burrasca o un vento molesto. Sbarcarono e presero a bordo del carico nei porti della costa nord di O, a Ilien, Leng, Kamery e Porto d'O, e poi si diressero a occidente per trasportare i passeggeri a Roke. E volgendo lo sguardo a ovest, Avorio avvertiva uno sgradevole senso di vuoto alla bocca dello stomaco, perché sapeva benissimo quanto fosse protetta l'isola di Roke. Sapeva che né lui né il manipolatempo avrebbero potuto far nulla se il vento di Roke fosse stato contrario. E se fosse stato contrario, Libellula avrebbe chiesto perché, perché spirasse contro di loro. Era contento di vedere che era inquieto anche lo stregone, che stava accanto al timoniere, tenendo d'occhio la testa dell'albero, pronto a ridurre la velatura al minimo accenno di un vento occidentale. Ma il vento continuò a soffiare costante dal nord. Portato da quel vento, arrivò un temporale, e Avorio scese in cabina, ma Libellula rimase sul ponte. Aveva paura dell'acqua, gli aveva detto. Non sapeva nuotare; aveva detto: — Annegare dev'essere orribile... Non poter respirare l'aria... — Era rabbrividita all'idea. Era l'unica volta che aveva mostrato di aver paura di qualcosa. Ma detestava la cabina bassa e angusta, ed era rimasta sul ponte ogni giorno, dormendo là nelle notti calde. Avorio non aveva cercato di persuaderla a scendere sotto coperta. Adesso sapeva che la persuasione non serviva. Per averla doveva dominarla; e lo avrebbe fatto, se solo fossero riusciti a raggiungere Roke. Tornò sul ponte. Stava rasserenando, e mentre il sole tramontava, a ovest
le nubi si diradarono, mostrando un cielo dorato dietro la curva alta e scura di una collina. Avorio osservò quel promontorio con una specie di odio struggente. — Quello è il Poggio di Roke, ragazzo — disse il manipolatempo a Libellula, al suo fianco vicino al parapetto. — Adesso entreremo nella baia di Thwil. Dove soffia solo il vento che vogliono loro. Quando furono ben dentro la baia ed ebbero gettato l'ancora, era ormai scesa l'oscurità, e Avorio disse al capitano: — Sbarcherò domattina. Nella loro minuscola cabina, Libellula lo aspettava seduta, solenne come sempre ma con gli occhi che brillavano eccitati. — Sbarcheremo domattina — comunicò Avorio anche a lei, e lei annuì, sottomessa. Chiese: — Il mio aspetto va bene? Avorio si sedette sul proprio lettino stretto e guardò la ragazza seduta sul suo; non potevano stare di fronte, dato che non c'era spazio per le ginocchia. A Porto d'O, seguendo il suggerimento del mago, si era comprata camicia e brache decenti, per sembrare un candidato più verosimile per la scuola. La sua faccia era bruciata dal vento e pulita. I capelli erano intrecciati, e la treccia raccolta sulla nuca, come quella di Avorio. Si era lavata bene anche le mani, e adesso le teneva aperte sulle cosce, mani lunghe e forti, simili a mani maschili. — Non hai l'aspetto di un uomo — le disse Avorio, e lei s'incupì. — Non per me. A me non sembrerai mai un uomo. Ma non preoccuparti. A loro, sì. Libellula annuì, con un'espressione ansiosa. — La prima prova è la grande prova, Libellula — disse lui. Ogni notte, mentre giaceva in solitudine nella cabina, aveva progettato quella conversazione. — Entrare nella Grande casa. Varcare quella porta. — Ci ho pensato — disse lei, concitata. — Non potrei semplicemente rivelare chi sono? Con te là a garantire per me... a dire che anche se sono una donna, ho delle doti... E io prometterei di pronunciare il voto e accettare l'incantesimo di castità, e vivrei isolata se mi chiedessero di farlo... Avorio stava scuotendo il capo. — No, no, no, no. Impossibile. Inutile. Fatale. — Anche se tu... — Anche se io perorassi la tua causa. Non ascolteranno. La Regola di Roke proibisce che alle donne si insegni qualsiasi arte superiore, qualsiasi parola della Lingua della creazione. È sempre stato così. Non ascolteranno. Quindi hanno bisogno di una dimostrazione! E noi li accontenteremo, tu ed
io! Daremo a quei vecchi una lezione. Devi essere coraggiosa, Libellula. Non devi cedere alla debolezza, non devi pensare: "Oh, se li supplicherò di lasciarmi entrare, non potranno respingermi". Possono farlo, invece, e lo faranno. E se rivelerai chi sei, ti puniranno. E puniranno anche me. — Avorio pronunciò con particolare veemenza l'ultima frase, e nel proprio intimo soggiunse: "Lungi da me". Lei lo guardò con quegli occhi indecifrabili, e infine chiese: — Cosa devo fare? — Ti fidi di me, Libellula? — Sì. — Ti fiderai completamente di me, sapendo che il rischio che io corro per te è maggiore perfino del rischio che corri tu in questa impresa? — Sì. — Allora devi dirmi la parola che dirai al Portinaio. Lei lo fissò stupefatta. — Ma... credevo dovessi dirmela tu... la parola d'ordine. — La parola d'ordine che ti chiederà è il tuo vero nome. Avorio attese alcuni istanti, perché lei recepisse bene la cosa, poi continuò sommesso: — E per farti l'incantesimo di sembianza, perché sia completo e profondo e i Maestri di Roke vedano in te un uomo e nient'altro, per far questo, anch'io devo conoscere il tuo nome vero. — S'interruppe ancora. Mentre parlava, gli sembrava che tutto quel che diceva fosse vero, e la sua voce era commossa e gentile quando proseguì. — Avrei potuto scoprirlo molto tempo fa. Ma ho preferito non usare tali arti. Volevo che ti fidassi di me abbastanza da rivelarmi tu stessa il tuo vero nome. Libellula si stava guardando le mani, serrate adesso sulle ginocchia. Nel fioco lucore rossastro della lanterna della cabina, le sue ciglia proiettavano lunghe ombre delicate sulle guance. Sollevò lo sguardo e lo fissò. — Il mio nome è Irian — disse. Lui sorrise. Lei, no. Lui non disse nulla. Era perplesso, sconcertato. Se avesse saputo che sarebbe stato così facile, avrebbe potuto disporre del suo nome e del potere di farle fare tutto ciò che voleva, giorni addietro, settimane addietro, fingendo solamente di voler intraprendere quel folle progetto... senza rinunciare alla propria retribuzione e alla rispettabilità precaria, senza affrontare un viaggio in mare, senza dovere andare fino a Roke! Solo ora si rendeva conto che il piano era assolutamente folle. Non sarebbe mai riuscito a camuffarla in modo tale da ingannare il Portinaio anche solo per un attimo.
Tutti i suoi propositi di umiliare i Maestri come loro avevano umiliato lui erano fantasie balzane. Ossessionato dall'idea di raggirare la ragazza, era caduto nella trappola che le aveva teso. Amaramente, riconobbe di credere sempre alle proprie bugie, imprigionato da reti che lui stesso abilmente tesseva. Dopo essersi reso ridicolo una volta a Roke, era tornato per farlo di nuovo. Una rabbia grande e desolante lo pervase. Era tutto inutile, tutto sbagliato. — Cosa c'è che non va? — chiese Libellula. La gentilezza della sua voce roca e profonda lo accasciò, e Avorio si coprì il volto con le mani, lottando contro la vergogna delle lacrime. Lei gli posò la mano sul ginocchio. Era la prima volta che lo toccava. Lui resisté, resisté al calore e al peso del suo tocco, che aveva tanto desiderato, sprecando tanto tempo. Avrebbe voluto ferirla, riscuoterla brutalmente dalla sua terribile e ignara gentilezza, ma ciò che disse quando infine parlò fu: — Volevo solo fare l'amore con te. — Davvero? — Pensavi fossi uno dei loro eunuchi? Che mi fossi castrato con qualche incantesimo per poter essere santo? Secondo te, perché non ho un bastone? Secondo te, perché non sono alla scuola? Hai creduto a tutto quanto ti ho detto? — Sì — rispose lei. — Mi dispiace. — La sua mano era ancora sul ginocchio di Avorio. Disse: — Possiamo fare l'amore, se vuoi. Lui si drizzò, rimase seduto immobile. — Cosa sei? — le chiese infine. — Non lo so. È per questo che volevo venire a Roke. Per scoprirlo. Avorio si staccò, si alzò, piegandosi; non si poteva stare diritti nella cabina bassa. Serrando e aprendo le mani, si allontanò il più possibile da lei, volgendole le spalle. — Non lo scoprirai. Sono tutte menzogne, finzioni. Vecchi che giocano con delle parole. Io non ho voluto fare quei giochi, così me ne sono andato. Sai cos'ho fatto? — Si girò, mostrando i denti in una smorfia di trionfo. — Ho chiamato una ragazza, una giovane della città, nella mia stanza. Nella mia cella. Nella mia piccola cella casta. C'era una finestra che dava su una viuzza tranquilla. Niente incantesimi... non si possono fare con tutta la loro magia sempre all'opera. Ma la ragazza voleva venire ed è venuta, e io ho calato dalla finestra una scala di corda, e lei è salita. E lo stavamo facendo, quando i vecchi sono entrati! Li ho sistemati a dovere! E se avessi
potuto farti entrare, li avrei sistemati di nuovo come meritano, avrei dato loro una bella lezione! — Be', io proverò — dichiarò Libellula. Lui la fissò allibito. — Non per le tue stesse ragioni — disse lei. — Ma intendo ancora tentare. E poi siamo venuti fin qui. E tu conosci il mio nome. Era vero. Lui conosceva il suo vero nome: Irian. Era come un tizzone, come una brace che gli ardeva nella mente. Il suo pensiero non riusciva a contemplarlo. La sua conoscenza non riusciva a usarlo. La sua lingua non riusciva a pronunciarlo. Libellula alzò lo sguardo verso di lui, la faccia forte e dura addolcita dal chiarore vago della lanterna. — Se è solo per fare l'amore che mi hai portata qui, Avorio — disse — possiamo farlo. Se vuoi ancora farlo. Dapprima muto, lui scosse semplicemente la testa. Poco dopo riuscì a ridere. — Credo che siamo andati oltre... al di là di questa possibilità... Libellula lo guardò senza rammarico, o biasimo, o vergogna. — Irian — disse Avorio, e adesso quel nome era facile da pronunciare, dolce e fresco come acqua di fonte nella sua bocca secca. — Irian, ecco cosa devi fare per entrare nella Grande casa... 3. Azver La lasciò all'angolo della strada, una viuzza squallida, dall'aria piuttosto sinistra, che saliva tra muri anonimi fino a una porta di legno in un muro più alto. Le aveva fatto l'incantesimo, e lei sembrava un uomo, anche se non si sentiva tale. Lei e Avorio si abbracciarono, perché dopotutto erano stati amici, compagni, e lui aveva fatto tutto questo per lei. — Coraggio! — le disse, e la lasciò andare. Lei s'incamminò lungo la via e si fermò davanti alla porta. Si voltò, allora, ma lui era scomparso. Bussò. Poco dopo, udì il rumore del catenaccio. La porta si aprì. Apparve un uomo di mezz'età. — Cosa posso fare per te? — chiese. Non sorrise, però la sua voce era affabile. — Puoi lasciarmi entrare nella Grande casa, signore. — Conosci l'entrata? — I suoi occhi a mandorla erano attenti, ma sembrava che l'uomo la guardasse da miglia o anni di distanza. — L'entrata è questa, signore. — Conosci il nome che devi dirmi prima che ti lasci entrare?
— Il mio, signore. È Irian. — Davvero? — fece lui. Ci fu una pausa. Libellula rimase in silenzio. — È il nome che mi ha imposto Rosa, la strega del mio villaggio a Way, nella sorgente sotto il Poggio d'Iria — disse infine, a testa alta, dicendo il vero. Il Portinaio la osservò per quelli che sembrarono lunghi istanti. — Dunque è il tuo nome — annuì. — Ma forse non tutto il tuo nome. Penso che tu ne abbia un altro. — Non lo conosco, signore. Dopo un'altra lunga pausa, lei soggiunse: — Forse posso apprenderlo qui, signore. Il Portinaio chinò leggermente il capo. Un sorriso lievissimo gli disegnò due mezzelune sulle guance. Si scostò. — Entra, figlia — la invitò. Lei varcò la soglia della Grande casa. L'incantesimo di sembianza di Avorio si dissolse come una ragnatela. Libellula era e appariva se stessa. Seguì il Portinaio lungo un corridoio di pietra. Solo giunta in fondo le venne in mente di girarsi per vedere la luce che splendeva attraverso le mille foglie dell'albero scolpito nell'alta porta dal telaio bianco d'osso. Un giovanotto in mantello grigio che stava percorrendo svelto il corridoio si arrestò di botto avvicinandosi a loro. Fissò Irian; poi con un breve cenno del capo proseguì. Lei si voltò a guardarlo. Il ragazzo si era girato a sua volta. Un globo di fuoco verdognolo dai contorni vaghi volò rapido nel corridoio all'altezza degli occhi, inseguendo a quanto pareva il giovanotto. Il Portinaio agitò la mano verso la fiamma verdastra, e il globo lo evitò. Irian si scansò e si chinò con movimenti frenetici, ma sentì il pizzicore del fuoco freddo tra i capelli quando le passò sopra. Il Portinaio le lanciò un'occhiata, e il suo sorriso si era allargato. Anche se l'uomo non disse nulla, Irian capì che era consapevole della sua presenza, era preoccupato per lei. Si drizzò e lo seguì. L'uomo si fermò davanti a una porta di quercia. Invece di bussare, tracciò un piccolo segno o una runa sulla porta con l'estremità superiore del suo bastone, un bastone leggero di un legno grigiastro. L'uscio si aprì, mentre una voce sonora all'interno diceva: — Avanti! — Attendi un istante qui, per favore, Irian — disse il Portinaio, ed entrò nella stanza, lasciando la porta spalancata dietro di sé. Lei vide scaffali e libri, un tavolo con altri libri e calamai e scritti, due o tre ragazzi seduti, e
l'uomo tarchiato dai capelli grigi al quale il Portinaio stava parlando. Vide l'uomo mutare espressione, vide che i suoi occhi si spostavano e le lanciavano un breve sguardo sbigottito, lo vide interrogare il Portinaio, sottovoce, concitato. Le si avvicinarono entrambi. — Il Maestro Cambiatore di Roke... Irian di Way — disse il Portinaio. Il Cambiatore la fissò palesemente. Era più basso di lei. Fissò il Portinaio, poi di nuovo Irian. — Perdonami se parlo di te in tua presenza, giovane — disse — ma devo. Maestro Portinaio, sai che non metterei mai in dubbio il tuo giudizio, ma la Regola è chiara. Devo chiederti cosa ti abbia indotto a infrangerla e a lasciare entrare costei. — Lei mi ha chiesto di entrare — rispose il Portinaio. — Ma... — il Cambiatore s'interruppe. — Quando è stata l'ultima volta che una donna ha chiesto di entrare nella scuola? — Sanno che la Regola non lo consente. — Lo sapevi, Irian? — le domandò il Portinaio, e lei rispose: — Sì, signore. — Dunque, cosa ti ha condotto qui? — chiese il Cambiatore, severo, ma non nascondendo la propria curiosità. — Mastro Avorio ha detto che avrei potuto spacciarmi per un uomo. Anche se io pensavo che avrei dovuto dire chi ero. Sarò casta come tutti, signore. Due lunghe curve apparvero sulle guance del Portinaio, incorniciando il lento sbocciare di un sorriso. Il Cambiatore mantenne un'espressione severa, ma batté le palpebre, e dopo una breve riflessione disse: — Certo... sì... Essere onesti era indubbiamente l'idea migliore. Di che mastro hai parlato? — Avorio — disse il Portinaio. — Un ragazzo di Porto grande di Havnor, che ho lasciato entrare tre anni fa, e ho fatto uscire l'anno scorso, come forse rammenti. — Avorio! Quel ragazzo che studiava con il Manipolatore?... È qui? — chiese il Cambiatore a Irian, adirato. Dritta come un fuso, lei non disse nulla. — Non nella scuola — rispose il Portinaio, sorridendo. — Ti ha ingannata, ragazza. Si è fatto gioco di te, cercando di farsi gioco di noi. — Mi sono servita di lui perché mi aiutasse a venire qui e mi spiegasse
cosa dire al Portinaio — spiegò Irian. — Non sono qui per raggirare nessuno, ma per apprendere quello che devo sapere. — Mi sono domandato spesso perché avessi lasciato entrare quel ragazzo — dichiarò il Portinaio. — Ora comincio a capire. Al che il Cambiatore lo guardò, e dopo aver meditato chiese pacato: — Portinaio, cos'hai in mente? — Penso che Irian di Way possa essere venuta da noi a cercare non solo quello che deve sapere, ma anche quello che noi dobbiamo sapere. — Pure il tono del Portinaio era pacato, e il sorriso era scomparso. — Penso che possa trattarsi di una questione di cui discutere tra noi nove. Il Cambiatore assimilò tali parole con un'espressione di autentico stupore, però non fece obiezione. Disse solo: — Ma non tra gli studenti. Il Portinaio scosse il capo, concordando. — Lei può alloggiare in città — disse il Cambiatore, con un certo sollievo. — Mentre noi parliamo alle sue spalle? — Non vorrai portarla nella sala di Consiglio? — sbottò incredulo il Cambiatore. — L'Arcimago ha portato in quella sala il giovane Arren. — Ma... Ma Arren era re Lebannen... — E Irian chi è? Il Cambiatore tacque, poi sottovoce, rispettoso, disse: — Amico mio, cosa pensi di fare, di apprendere? Lei cos'è, dal momento che chiedi di far questo per lei? — Chi siamo noi — replicò il Portinaio — per respingerla senza sapere cosa sia? — Una donna — disse il Maestro Evocatore. Irian aveva atteso alcune ore nella camera del Portinaio, una stanza bassa, luminosa, spoglia, con un sedile accanto a una finestra affacciata sugli orti della Grande casa... begli orti curati, lunghe file e appezzamenti di verdure ed erbe, con arbusti di bacche e alberi da frutto all'estremità. Vide un uomo atticciato dalla pelle scura e due ragazzi uscire e sarchiare uno dei pezzetti di terreno coltivato. Osservando il loro lavoro meticoloso, si calmò. Le sarebbe piaciuto poterli aiutare. L'attesa e la stranezza erano molto gravose. Una volta il Portinaio entrò, portandole un boccale d'acqua e un piatto con carne fredda, pane e scalogni, e lei mangiò perché lui le disse di mangiare, ma masticare e deglutire non fu facile. Gli ortolani se ne anda-
rono, e non restò più nulla da guardare dalla finestra, se non i cavoli che crescevano e i passeri che saltellavano, e qualche falco che volava alto nel cielo, e il vento che frusciava sommesso tra le alte chiome degli alberi oltre gli orti. Il Portinaio tornò e disse: — Vieni, Irian... vieni a conoscere i Maestri di Roke. — Il cuore prese a batterle forte, come un cavallo al galoppo. Seguì il Portinaio nel labirinto di corridoi, fino a una stanza dalle pareti scure, con una fila di alte finestre a punta. Nella sala c'era un gruppo di uomini. Ognuno di loro si voltò a guardarla mentre entrava. — Irian di Way, signori — annunciò il Portinaio. Nessuno parlò. Con un cenno, il Portinaio la invitò ad avanzare. — Hai già conosciuto il Maestro Cambiatore — le disse. Le presentò tutti gli altri, ma lei non riuscì ad afferrare i loro nomi e le loro arti; notò solo che il Maestro Erborista era quello che aveva immaginato fosse un ortolano, e che il più giovane del gruppo, un uomo alto con una bella faccia severa che pareva fatta di pietra scura, era il Maestro Evocatore. Fu lui a parlare quando il Portinaio ebbe terminato. — Una donna — disse. Il Portinaio annuì una volta, mite come sempre. — È per questo che hai riunito i Nove? Soltanto per questo? — Soltanto per questo — rispose il Portinaio. — Sono stati avvistati draghi in volo sul mare Interno. Roke non ha arcimago, e le isole non hanno un re incoronato legittimamente. C'è del lavoro vero da svolgere — dichiarò l'Evocatore, e anche la sua voce era come pietra, fredda e greve. — Quando lo svolgeremo? Seguì un silenzio imbarazzato, mentre il Portinaio taceva. Infine, un uomo esile dagli occhi vivaci, che sotto il mantello grigio da mago indossava una tunica rossa, disse: — Porti questa donna nella Casa come studente, Maestro Portinaio? — Se lo facessi, spetterebbe a voi tutti approvare o disapprovare — rispose lui. — Dunque? — fece l'uomo in tunica rossa, abbozzando un sorriso. — Maestro Manipolatore — disse il Portinaio — lei ha chiesto di entrare come studente, e mi è parso che non ci fosse alcun motivo di respingerla. — Ci sono tutte le ragioni, invece — ribatté l'Evocatore. Un uomo dalla voce chiara e profonda parlò. — Non è il nostro giudizio a prevalere, bensì la Regola di Roke, che noi abbiamo giurato di osservare. — Dubito che il Portinaio possa violarla con leggerezza — intervenne un uomo che Irian notava solo adesso, sebbene fosse un individuo impo-
nente, ossuto, con i capelli bianchi e una faccia scavata. A differenza degli altri, mentre parlava la guardò. — Io sono Kurremkarmerruk — le disse. — Come Maestro Nominatore, mi servo liberamente dei nomi, compreso il mio. Chi ti ha imposto il nome, Irian? — Rosa, la strega del nostro villaggio, signore — rispose lei, stando ben eretta, anche se la voce le uscì dalle labbra aspra e acuta. — Ha un nome sbagliato? — chiese il Portinaio al Nominatore. Kurremkarmerruk scosse il capo. — No. Ma... L'Evocatore, che volgeva le spalle agli altri e fissava il focolare spento, si girò. — I nomi che le streghe s'impongono a vicenda non ci riguardano — dichiarò. — Se hai qualche interesse nei confronti di questa donna, Portinaio, dovresti pensarci fuori da queste mura... fuori dalla porta che hai giurato di sorvegliare. Qui non c'è posto per lei, né mai ci sarà. Può portare solo confusione, discordia, e ulteriore debolezza tra noi. Non parlerò più, non dirò altro in presenza di costei. L'unica risposta all'errore deliberato è il silenzio. — Il silenzio non basta, signore — disse un uomo che non aveva ancora parlato. Agli occhi di Irian, aveva un aspetto assai strano, avendo una pelle chiara e rossiccia, lunghi capelli pallidi, e occhi stretti color ghiaccio. Anche il suo modo di parlare era strano, stentato. — Il silenzio è la risposta a tutto, e a nulla — sentenziò. L'Evocatore alzò il nobile volto scuro e guardò l'uomo pallido sul lato opposto della sala, ma non disse nulla. Senza una parola, senza un gesto, si girò di nuovo e uscì dalla stanza. Quando le passò accanto lentamente, Irian si ritrasse. Era come se una tomba si fosse aperta, una tomba d'inverno, fredda, bagnata, buia. Il respiro le si bloccò in gola. Irian boccheggiò un po'. Quando si riprese, vide che il Cambiatore e l'individuo pallido la stavano osservando con estrema attenzione. Anche l'uomo dalla voce profonda e squillante come una campana la guardò, e le parlò con bonaria severità. — A mio avviso, l'uomo che ti ha condotto qui aveva cattive intenzioni, però tu non hai cattive intenzioni. Tuttavia, stando qui, Irian, nuoci a noi e a te stessa. Ogni cosa che non è al proprio posto reca danno. Una nota cantata, per quanto ben cantata, rovina la melodia di cui non fa parte. Le donne insegnano alle donne. Le streghe apprendono la loro arte dalle altre streghe e dagli stregoni, non dai maghi. Ciò che insegniamo qui è in una lingua non adatta alle lingue delle donne. Il cuore giovane si ribella a simili leggi, definendole ingiuste, arbitrarie. Ma sono leggi vere, basate non su ciò che vogliamo, ma sulla realtà delle
cose. Il giusto e l'ingiusto, lo stolto e il saggio, devono obbedire tutti a tali leggi, o sprecare la vita e finir male. Il Cambiatore e un vecchio magro dal volto acuto accanto a lui annuirono, entrambi d'accordo. Il Maestro Manipolatore disse: — Irian, mi dispiace. Avorio era mio allievo. Se gli ho insegnato male, ho fatto peggio mandandolo via. Lo consideravo insignificante, e dunque innocuo. Ma ti ha mentito e ti ha ingannato. Non devi vergognarti. La colpa è stata sua e mia. — Non mi vergogno — dichiarò Irian. Guardò tutti negli occhi. Riteneva di doverli ringraziare per la loro cortesia, ma le parole non vollero uscirle di bocca. Rivolse ai presenti un cenno rigido del capo, si girò, e lasciò la sala a grandi passi. Il Portinaio la raggiunse quando lei arrivò a un corridoio trasversale e si fermò non sapendo che direzione prendere. — Da questa parte — le disse, mettendosi al passo con lei, e poco dopo: — Da questa parte — e giunsero infine a una porta. Non era fatta di corno e di avorio. Era quercia senza alcun intaglio, nera e massiccia, con un vecchio catenàccio di ferro consunto. — Questa è la porta dell'orto — disse il magio, levando il catenaccio. — La Porta di Medra, la chiamavano un tempo. Io sono il custode di entrambe le porte. — L'aprì. La luminosità del giorno abbagliò Irian. Quando riuscì a vedere con chiarezza, vide un sentiero che, partendo dalla porta, attraversava gli orti e i campi oltre gli orti; al di là dei campi, si ergevano alti gli alberi, e sulla destra si stagliava la protuberanza del Poggio di Roke. E fermo sul sentiero, appena all'esterno della porta, come se li aspettasse, c'era l'uomo dai capelli pallidi e gli occhi stretti. — Strutturatore — disse il Portinaio, per nulla sorpreso. — Dove mandi questa signora? — chiese quello, nella sua strana parlata. — In nessun posto — rispose il Portinaio. — L'ho fatta uscire come l'ho fatta entrare, su sua richiesta. — Vuoi venire con me? — disse lo Strutturatore alla ragazza. Lei guardò lui e il Portinaio, e non disse nulla. — Non vivo in questa Casa. In nessuna casa — spiegò lo Strutturatore. — Io vivo là. Nel Bosco... Ah! — esclamò, voltandosi di colpo. L'uomo imponente dai capelli bianchi, Kurremkarmerruk il Nominatore, era a pochi passi da loro, sul sentiero. Era apparso solo quando l'altro magio aveva esclamato: "Ah!". Irian fissò prima l'uno poi l'altro, smarrita, confusa. — Questa è solo una mia sembianza, una emanazione — le spiegò il vecchio. — Nemmeno io vivo qui. Vivo a miglia di distanza... — Con un gesto, indicò il nord. — Potresti venire là quando avrai finito con lo Strut-
turatore. Mi piacerebbe apprendere altro sul tuo nome. — Salutò con un cenno del capo i due magi e sparì. Un rombo percosse forte l'aria dove un attimo prima si trovava il Nominatore. Irian abbassò lo sguardo sul terreno. Dopo una lunga pausa, schiarendosi la voce, tenendo il capo chino, chiese: — È vero che la mia presenza qui è nociva? — Non so — rispose il Portinaio. — Nel Bosco non c'è nocumento — disse lo Strutturatore. — Vieni. C'è una vecchia casa, una capanna. Vecchia, sporca. Non t'importa, eh? Rimani un po'. Puoi vedere. — E s'incamminò lungo il sentiero, tra il prezzemolo e le piantine di fagioli. Lei guardò il Portinaio, notò che aveva un lieve sorriso sul volto, e seguì il magio dai capelli pallidi. Percorsero circa mezzo miglio. Il poggio dalla cima tondeggiante spiccava in pieno sole alla loro destra. Dietro di loro, sulla collina più bassa, la scuola si estendeva grigia e disordinata con i suoi numerosi tetti. Il bosco torreggiava davanti a loro, adesso. Irian vide querce e salici, castagni e frassini, e alti sempreverdi. Dall'oscurità fitta e screziata di sole degli alberi usciva un ruscello, dalle sponde verdi, con molti punti marroni calpestati, dove vacche e pecore scendevano ad abbeverarsi o per passare sulla sponda opposta. Irian e il magio avevano attraversato un pascolo recintato dove cinquanta o sessanta pecore brucavano l'erba corta di un verde intenso, e adesso si fermarono accanto al ruscello. — Ecco la casa — disse il magio, indicando un tetto basso coperto di muschio, seminascosto dalle ombre pomeridiane degli alberi. — Rimani, questa notte. Rimarrai? Le stava chiedendo di rimanere, non le diceva che doveva restare. Irian non poté far altro che annuire. — Porterò del cibo — disse il magio, e proseguì, affrettando il passo e scomparendo poco dopo nel misto di luce e ombra sotto gli alberi, senza la repentinità del Nominatore, però. Irian lo osservò finché non svanì, quindi avanzò tra l'erba alta e le erbacce, fino alla casupola. Sembrava vecchissima. Era stata ricostruita e restaurata più volte, ma dall'ultima volta doveva essere trascorso parecchio. Ed era disabitata da tempo, a giudicare dall'aria quieta e solinga. Ma aveva un aspetto gradevole, come se le persone che avevano dormito lì dentro avessero dormito tranquille. Quanto ai muri decrepiti, ai topi, alla polvere, alle ragnatele, e ai pochi mobili, erano tutte cose piuttosto familiari per Irian. Trovò una ramazza consunta e scopò fuori gli escrementi di topo. Srotolò la propria coperta sul letto di tavole. Trovò una brocca incrinata in un armadietto dalle
ante sbilenche e la riempì d'acqua al ruscello che scorreva limpido e cheto a una decina di passi dalla porta. Fece quelle cose come in trance, e dopo averle fatte si sedette nell'erba con la schiena appoggiata al muro della casa, che tratteneva il calore del sole, e si addormentò. Quando si svegliò, il Maestro Strutturatore sedeva lì accanto, e sull'erba tra loro c'era un cesto. — Fame? Mangia — le disse. — Mangerò dopo, signore. Grazie — disse lei. — Io ho fame, adesso — disse il magio. Prese un uovo sodo dal cesto, lo ruppe, lo sgusciò, e lo mangiò. — Chiamano questa casa la Casa di Lontra — raccontò. — È vecchissima. Vecchia quanto la Grande casa. Tutto è vecchio, qui. Noi siamo vecchi... i Maestri. — Tu non sei tanto vecchio — disse Irian. Le pareva che avesse tra i trenta e i quarant'anni, anche se era difficile valutarne l'età; continuava a pensare che i suoi capelli fossero bianchi, perché non erano neri. — Ma giungo da lontano. Le miglia possono essere anni. Sono un Karg, di Karego. Sai di cosa parlo? — Gli Uomini canuti! — esclamò Irian, fissandolo. Tutte le ballate di Margherita, le ballate degli Uomini canuti che arrivavano con le loro navi dall'Est per devastare la terra e infilzare bambini innocenti con le loro lance, e la storia di come Erreth-Akbe avesse perso l'Anello della pace, e le nuove canzoni e il Racconto del re che narravano come l'Arcimago Sparviere fosse andato tra gli Uomini canuti tornando poi con quell'anello... — Canuti? — fece lo Strutturatore. — Con i capelli brinati. Bianchi — spiegò Irian, distogliendo lo sguardo, imbarazzata. — Ah... — Qualche istante dopo, lui disse: — Il Maestro Evocatore non è vecchio. — E le lanciò uno sguardo furtivo con quegli occhi stretti color ghiaccio. Lei non disse nulla. — Penso che tu abbia avuto paura di lui. Irian annuì. Quando, trascorso un po' di tempo, la ragazza continuò a tacere, il magio disse: — All'ombra di questi alberi non c'è pericolo. Solo verità. — Quando mi è passato accanto — disse lei, sottovoce — ho visto una tomba. — Ah — esclamò lo Strutturatore.
Aveva fatto un mucchietto di pezzi di guscio d'uovo sul terreno vicino al proprio ginocchio. Dispose i frammenti bianchi, formando una curva, poi la chiuse, la completò formando un cerchio. — Sì — annuì, studiando i gusci; quindi, raschiando un po' il terreno, li seppellì delicatamente e accuratamente. Si pulì le mani. Il suo sguardo guizzò di nuovo per un attimo in direzione di Irian, prima di volgersi altrove. — Sei stata una strega, Irian? — No. — Ma possiedi della conoscenza. — No. Non la possiedo. Rosa non ha voluto insegnarmi. Diceva che non osava farlo. Perché avevo del potere, ma lei non sapeva che potere fosse. — La tua Rosa è un fiore saggio — osservò il magio, serio. — Ma io so che devo fare qualcosa. Che devo essere qualcosa. Ecco perché sono voluta venire qui. Per scoprirlo. Sull'isola dei Saggi. Irian stava abituandosi alla sua strana faccia, adesso, e riusciva a interpretarla. Le sembrava che lui avesse un'espressione triste. Il suo modo di parlare era aspro, rapido, roco, e pacifico. — Gli uomini dell'isola non sono sempre saggi, eh? — disse il mago. — Forse il Portinaio... — La guardò, adesso, non uno sguardo fuggevole ma diretto; la fissò negli occhi. — Però, là... Nel bosco... Sotto gli alberi... C'è la vecchia saggezza. Mai vecchia. Io non posso insegnarti. Ma posso portarti nel Bosco. — Qualche istante dopo, si alzò. — Sì? — Sì — disse lei, incerta. — La casa va bene? — Sì... — Domani — annunciò il magio, e si allontanò. Così per metà mese o più, nei caldi giorni estivi, Irian dormì nella Casa di Lontra, che era una casa tranquilla, e mangiò il cibo che il Maestro Strutturatore le portava nel cesto - uova, formaggio, verdura, frutta, montone affumicato - e ogni pomeriggio andò con lui nel boschetto di alberi alti, dove i sentieri non sembravano mai trovarsi esattamente dove lei ricordava, e spesso conducevano ben oltre quelli che avrebbero dovuto essere i confini del bosco. Camminavano in silenzio, e parlavano di rado quando riposavano. Il magio era un uomo taciturno. Anche se in lui c'era una traccia di focosità, non la palesava mai, e la sua presenza era tranquilla come quella degli alberi e dei rari uccelli e delle rare creature a quattro zampe del Bosco. Come le aveva detto, non cercò di insegnarle nulla. Quando lei gli chiese di parlarle del Bosco, il magio le disse che, con il Poggio di Ro-
ke, si ergeva sin da quando Segoy aveva creato le isole del mondo, e che tutta la magia era nelle radici degli alberi, e che esse erano unite alle radici di tutte le foreste esistenti o ancora a venire. — E a volte il Bosco è in questo luogo — spiegò — e a volte in un altro luogo. Ma esiste sempre. Irian non aveva mai visto dove vivesse lui. Immaginava che il Maestro dormisse dovunque decidesse di coricarsi, in quelle calde notti d'estate. Gli domandò da dove provenisse il cibo che mangiavano. Quello che la scuola non produceva da sola, spiegò lui, era fornito dagli agricoltori e dagli allevatori dei dintorni, che si consideravano ben ricompensati dagli incantesimi di protezione che i Maestri facevano alle loro greggi e ai campi e ai frutteti. Una spiegazione che Irian trovò sensata. A Way, l'espressione "un mago senza zuppa" significava qualcosa di inaudito, di incredibile. Ma lei non era un mago e così, volendo guadagnarsi la zuppa, fece del proprio meglio per riparare la Casa di Lontra, prendendo in prestito gli attrezzi da un agricoltore e comprando chiodi e malta a Thwil, perché aveva ancora metà del gruzzolo del formaggio. Lo Strutturatore non andava mai da lei molto prima di mezzogiorno, quindi Irian aveva le mattinate libere. Era abituata alla solitudine, però sentiva ancora la mancanza di Margherita e di Coniglio, e dei polli e delle mucche e delle pecore, e dei cani sciocchi e litigiosi, e di tutto il lavoro che faceva a casa cercando di mandare avanti Iria vecchia e non far mancare il cibo in tavola. Così ogni mattina lavorava senza fretta finché non vedeva spuntare dagli alberi il magio, con i capelli color sole che splendevano al sole. Una volta nel Bosco, non pensava più a guadagnarsi la zuppa, a meritare la propria permanenza lì; non pensava neppure all'apprendimento. Essere nel Bosco era sufficiente, era tutto. Quando gli chiese se gli studenti della Grande casa si recassero lì, il magio rispose: — A volte. — In un'altra occasione, le disse: — Le mie parole non sono nulla. Senti le foglie. — Quella fu l'unica cosa detta da lui che si sarebbe potuta definire un insegnamento. Mentre camminava, Irian ascoltava le foglie quando il vento le faceva stormire o scuoteva le chiome degli alberi; osservava il gioco delle ombre, e pensava alle radici degli alberi nell'oscurità della terra. Era contentissima di trovarsi lì. Eppure, senza insoddisfazione né premura, aveva l'impressione di essere in attesa. E quella tacita attesa era più intensa e chiara quando usciva dal riparo del bosco e vedeva il cielo aperto. Una volta, quando avevano percorso un lungo tratto, e gli alberi, sem-
preverdi scuri che lei non conosceva, torreggiavano altissimi attorno a loro, Irian udì un richiamo - il suono di un corno, un grido? - remoto, appena percettibile. Si fermò, tendendo l'udito verso ovest. Il magio proseguì, girandosi solo quando si accorse che lei si era fermata. — Ho sentito... — fece Irian, e non seppe dire cosa avesse udito. Lui ascoltò. Infine, ripresero a camminare in un silenzio reso più ampio e profondo da quel richiamo lontano. Irian non entrava mai nel Bosco senza di lui, e trascorsero parecchi giorni prima che lui la lasciasse sola all'interno. Ma un pomeriggio torrido, quando giunsero in una radura circondata da querce, il mago annunciò: — Tornerò qui, eh? — e si allontanò con passo svelto e silenzioso, scomparendo quasi subito nel cuore screziato e mutevole della foresta. Lei non aveva nessuna voglia di esplorarla. La pace del luogo invitava alla quiete, all'osservazione, all'ascolto, e Irian sapeva quanto fossero ingannevoli i sentieri, sapeva che il Bosco era, per usare l'espressione dello Strutturatore, "più grande all'interno che all'esterno". Si sedette in un tratto riparato e chiazzato di sole, e osservò le ombre delle foglie che danzavano sul terreno. Lo strato di ghiande era spesso; sebbene non avesse mai visto cinghiali nel bosco, scorse le loro impronte, lì. Per un attimo, colse l'odore di una volpe. I suoi pensieri si muovevano silenziosi e agevoli come la brezza nella luce calda. Lì, la sua mente spesso sembrava priva di pensieri, colmata dalla foresta stessa, ma quel giorno dei ricordi affiorarono, vividi. Pensò ad Avorio, pensò che non lo avrebbe più rivisto, si chiese se avesse trovato una nave che lo riportasse a Havnor. Le aveva detto che non sarebbe più tornato a Stagno ovest; l'unico posto per lui era Porto grande, la Città del re, e per quel che gli importava l'isola di Way poteva pure sprofondare nel mare come Solea. Ma Irian pensò con affetto alle strade e ai campi di Way. Pensò al villaggio di Iria vecchia, alla sorgente paludosa sotto il Poggio d'Iria, alla vecchia casa sull'altura. Pensò a Margherita che cantava ballate in cucina, nelle sere d'inverno, battendo il tempo con gli zoccoli; e al vecchio Coniglio nelle vigne con il suo coltello affilatissimo, che le mostrava come potare la vite e arrivare alla parte viva della pianta; e a Rosa, la sua Etaudis, che sussurrava incantesimi per alleviare il dolore al braccio rotto di un bambino. "Ho conosciuto delle persone sagge" rifletté. La sua mente si ritrasse al ricordo del padre, ma il movimento delle foglie e delle ombre lo fece emergere. Lo vide ubriaco, che urlava. Sentì su di sé quelle mani tremule, indiscrete. Lo vide piangere, malato, svergognato; e la pena sorse
nel corpo di Irian e si dissolse, come un crampo che svanisse distendendo gli arti. Per lei, il padre significava meno della madre che non aveva conosciuto. Si stiracchiò, sentendo il proprio corpo che si crogiolava al calore, e con la mente tornò ad Avorio. Nella vita, non aveva mai avuto nessuno da desiderare. Quando era apparso il giovane mago, una figura a cavallo così snella e arrogante, le sarebbe piaciuto poterlo desiderare; ma non aveva provato alcunché, non ne era stata capace, così aveva pensato che lui fosse protetto da un incantesimo. Rosa le aveva spiegato che tali incantesimi dei maghi operavano in modo che certe idee non venissero alla persona interessata né a loro, perché, se fosse accaduto, il loro potere sarebbe diminuito, almeno secondo loro. Ma Avorio, il povero Avorio, era tutt'altro che protetto. Se c'era qualcuno stregato da un incantesimo di castità, quella persona doveva essere lei stessa, perché, malgrado il fascino e la bellezza del giovanotto, lei non era mai riuscita a provare nulla nei suoi confronti, a parte la simpatia, e l'unica brama che avesse avuto era di apprendere ciò che lui poteva insegnarle. Irian esaminò se stessa, seduta nel silenzio intenso del Bosco. Nessun uccello cantava; la brezza era cessata; le foglie erano immobili. "Sono stregata? Sono una creatura sterile, che non è integra, che non è una donna?" si chiese, guardandosi le forti braccia nude, il morbido rigonfiamento del seno sotto lo scollo della camicia. Alzò lo sguardo e vide l'Uomo canuto che usciva da un corridoio scuro di grandi querce e avanzava verso di lei attraverso la radura. Le si fermò di fronte. Irian si accorse di arrossire, aveva la faccia e la gola in fiamme, le girava la testa, le orecchie le ronzavano. Cercò qualche parola, per dire qualcosa, qualsiasi cosa, pur di stornare la sua attenzione da lei, ma restò muta. Lui le si sedette accanto. Lei abbassò lo sguardo, come se stesse studiando lo scheletro di una foglia morta che aveva vicino alla mano. "Cosa voglio?" si chiese, e la risposta giunse non in parole ma attraverso tutto il suo corpo e la sua anima: il fuoco, un fuoco più intenso, il volo, l'ardore del volo... Tornò in sé, nell'aria immota sotto gli alberi. L'Uomo canuto le sedeva accanto, il capo chino, e a Irian parve così esile e chiaro, così cheto e mesto. Non c'era nulla da temere. Non c'era nocumento. Lui si voltò a guardarla. — Irian — chiese — senti le foglie?
La brezza spirava di nuovo, lieve; Irian udiva un mormorio impercettibile tra le querce. — Un po' — rispose. — Senti le parole? — No. Lei non chiese nulla e lui non disse altro. Poco dopo si alzò, e lei lo seguì fino al sentiero che li conduceva sempre, prima o poi, fuori dal bosco, alla radura presso il Thwilburn e la Casa di Lontra. Quando giunsero là, era tardo pomeriggio. Lui scese al torrente e si inginocchiò a bere, nel punto dove il corso d'acqua usciva dal bosco, a monte di tutti i guadi. Lei lo imitò. Poi, sedendosi nell'erba fresca e alta della sponda, il magio cominciò a parlare. — Quelli del mio popolo, i Karg, adorano gli dei. Due dei, fratelli. E anche il re là è un dio. Ma prima degli dei e dopo gli dei, sempre, ci sono i torrenti. Le caverne, le pietre, le colline. Gli alberi. La terra. L'oscurità della terra. — I Vecchi Poteri — disse Irian. Lui annuì. — Là, le donne conoscono i Vecchi Poteri. Anche qui, le streghe. E la conoscenza è male... eh? Quando aggiungeva quel piccolo "eh" interrogativo al termine di quella che sembrava un'affermazione, la coglieva sempre alla sprovvista. Irian non disse nulla. — L'oscurità è male — dichiarò lo Strutturatore. — Eh? Irian trasse un respiro profondo e lo fissò negli occhi mentre sedevano vicini. — Solo nell'oscurità la luce — disse. — Ah — esclamò il magio. Distolse lo sguardo, impedendole di vedere la sua espressione. — Dovrei andarmene — disse Irian. — Posso camminare nel Bosco, ma non posso vivere nel Bosco. Non è il mio... il mio posto. E il Maestro Cantore ha detto che la mia presenza qui è nociva, è male. — Noi tutti nuociamo, esistendo — asserì lo Strutturatore. Come faceva spesso, creò un piccolo disegno con quello che aveva a portata di mano: sul tratto sabbioso della sponda di fronte a sé, collocò il picciolo di una foglia, un filo d'erba, e parecchi sassolini. Li studiò e li ridispose. — Adesso devo parlare di male — annunciò. Dopo una lunga pausa, proseguì. — Sai che un drago riportò il nostro signore Sparviere, con il giovane re, dai lidi della morte. Poi il drago condusse a casa Sparviere, perché il suo potere era svanito, Sparviere non era più un magio. Così in seguito i Maestri di Roke si riunirono per scegliere
un nuovo arcimago, qui, nel Bosco, come sempre. Ma non come sempre. "Prima che il drago venisse, anche l'Evocatore era tornato dalla morte, dove può andare, dove la sua arte può portarlo. Aveva visto il nostro signore e il giovane re, là, in quella terra oltre il muro di pietre. Disse che non sarebbero tornati. Spiegò che Sparviere gli aveva detto di tornare da noi, alla vita, con quella notizia. Così noi ci rattristammo per il nostro signore. "Ma poi arrivò il drago, Kalessin, portando Sparviere, vivo. "L'Evocatore era tra noi quando sul Poggio di Roke vedemmo l'Arcimago inginocchiarsi dinanzi a re Lebannen. Poi, mentre il drago portava via il nostro amico, l'Evocatore cadde a terra. "Giaceva al suolo come se fosse morto, freddo, il cuore non batteva, eppure respirava. L'Erborista usò tutte le sue arti, ma non riuscì a ridestarlo. "È morto" disse. "Il respiro non vuole lasciarlo, ma lui è morto." Così ci rattristammo per la sua morte. Poi, dato che c'era sgomento tra noi, e la struttura di tutti i miei disegni preannunciava cambiamento e pericolo, ci riunimmo per scegliere un nuovo custode di Roke, un arcimago che ci guidasse. E nel nostro consiglio collocammo il giovane re al posto dell'Evocatore. Ci sembrava giusto che il giovane re partecipasse insieme a noi. Solo il Cambiatore espresse parere contrario, all'inizio, e quindi si dichiarò d'accordo. "Ma ci riunimmo, discutemmo, senza riuscire a decidere. Tante parole furono dette, ma non fu fatto il nome di nessuno. E poi io..." S'interruppe alcuni istanti. — ... Fui colto da quello che la mia gente chiama eduevanu, l'altro fiato. Mi giunsero delle parole, e le pronunciai. Dissi: Hama Gondun...! E Kurremkarmerruk le ripeté agli altri in hardico: "Una donna di Gont". Ma quando tornai in me, non seppi dire cosa significassero. E così ci separammo senza avere designato un arcimago. "Il re partì poco tempo dopo, e il Maestro Chiave di Vento andò con lui. Prima dell'incoronazione, si recarono a Gont e cercarono Sparviere, per scoprire il significato delle parole "una donna di Gont". Eh? Ma non lo videro, videro solo la mia compatriota Tenar dell'Anello. Lei disse di non essere la donna che cercavano. E loro non trovarono nessuno, nulla. Così Lebannen ritenne che si trattasse di una profezia ancora da compiersi. E a Havnor posò la corona sul proprio capo. "L'Erborista ed io reputavamo che l'Evocatore fosse morto. Pensavamo che il suo respiro fosse il residuo di qualche incantesimo della sua arte per noi incomprensibile, come l'incantesimo noto ai serpenti che consente al
loro cuore di continuare a battere a lungo dopo la morte. Sebbene fosse terribile seppellire un corpo che respirava, l'Evocatore era freddo, e il suo sangue non scorreva, e non c'era anima in lui. Questo era ancor più terribile. Così ci accingemmo a seppellirlo. Ma poi, mentre giaceva accanto alla tomba, l'Evocatore aprì gli occhi. Si mosse, e parlò. Disse che aveva richiamato se stesso in vita, per fare ciò che andava fatto." La voce dello Strutturatore era diventata più aspra. Di colpo, con il palmo della mano, disfece il piccolo disegno di ciottoli. — Così, quando il Maestro Chiave di Vento tornò dall'incoronazione, noi eravamo di nuovo in nove. Ma divisi. Perché secondo l'Evocatore dovevamo riunirci ancora e scegliere un arcimago. Il re non aveva alcun diritto di far parte del nostro consiglio, secondo lui. E "una donna di Gont", chiunque possa essere, non ha nulla a che fare con gli uomini di Roke. Eh? Chiave di Vento, il Cantore, il Cambiatore, il Manipolatore, sono d'accordo con lui. E come re Lebannen è un uomo che ha fatto ritorno dalla morte, adempiendo quella profezia, a loro avviso anche l'arcimago sarà un uomo tornato dalla morte. — Ma... — disse Irian, e s'interruppe. Dopo una pausa, lo Strutturatore disse: — Quell'arte, l'evocazione, sai, è terribile. È sempre un pericolo. Qui... — e alzò lo sguardo nella penombra verde e dorata degli alberi — qui non esiste evocazione. Non si richiama da oltre il muro. Non c'è muro. La sua faccia era una faccia da guerriero, ma quando guardava tra gli alberi l'espressione si raddolciva, diventava struggente. — Così — disse lo Strutturatore — adesso per lui tu sei la ragione per cui dovremmo riunirci. Ma io non andrò alla Grande casa. Non risponderò alla chiamata. — Lui non verrà qui? — Penso che non verrà nel Bosco. Né sul Poggio di Roke. Sul Poggio, ciò che è, è com'è. Irian non capì cosa intendesse dire, ma non fece domande, pensierosa. — Dunque, per lui sono la ragione per cui dovreste riunirvi... — Sì. Per mandare via una donna, occorrono nove magi. — Lo Strutturatore sorrideva assai di rado, e quando lo faceva era un sorriso breve e feroce. — Dobbiamo riunirci per applicare la Regola di Roke. E scegliere così un arcimago. — Se andassi via... — Irian lo vide scuotere il capo. — Potrei andare dal Nominatore...
— Qui sei più al sicuro. L'idea di nuocere la turbava, ma l'idea del pericolo non l'aveva neppure sfiorata. Le pareva inconcepibile. — Non mi accadrà nulla — disse. — Allora, il Nominatore, e tu... e il Portinaio...? — Non vogliamo che Thorion sia arcimago. Non lo vuole nemmeno il Maestro Erborista, anche se lui zappa e parla poco. Lo Strutturatore vide che Irian lo fissava meravigliata. — Thorion l'Evocatore pronuncia il suo vero nome — le disse. — È morto, eh? Irian sapeva che re Lebannen usava il proprio nome vero pubblicamente. Anche lui era ritornato dai lidi della morte. Tuttavia, il pensiero che lo usasse pure l'Evocatore la impressionava e la turbava. — E gli... gli studenti? — Divisi anche loro. Irian pensò alla scuola, dove era stata per brevissimo tempo. Da lì, dai margini del Bosco, la vedeva come muri di pietra che racchiudevano un tipo di creatura ed escludevano tutti gli altri, come un recinto, una gabbia. Come potevano mantenere l'equilibrio in un posto del genere? Lo Strutturatore mosse quattro sassolini, formando una piccola curva sulla sabbia, e disse: — Vorrei che lo Sparviere non fosse partito. Vorrei poter leggere ciò che scrivono le ombre. Ma sento soltanto le foglie che dicono cambiamento, cambiamento... Tutto cambierà tranne loro. — Alzò di nuovo lo sguardo verso gli alberi, l'espressione di struggimento. Il sole stava calando. Il magio si alzò, le augurò garbato la buonanotte, e si allontanò, avanzando sotto gli alberi. Irian rimase seduta ancora un po' vicino al Thwilburn. Era turbata da quanto le aveva detto lo Strutturatore, e da quanto aveva pensato e provato nel Bosco, e straniata anche dal fatto che qualche pensiero o sentimento potesse sconvolgerla in quel luogo. Andò alla casa, mise sulla tavola la cena di carne affumicata, pane e lattuga, e mangiò, senza assaporare il cibo. Poi, inquieta, vagò lungo la sponda del torrente, avvicinandosi all'acqua. L'aria era calda e immota nella semioscurità del crepuscolo, solo le stelle più grandi splendevano nel cielo coperto lattiginoso. Irian si tolse i sandali e mise i piedi nell'acqua. Era fresca, ma delle vene di calore solare la percorrevano ancora. Irian si levò i vestiti, le brache maschili e la camicia che erano tutto ciò che aveva, e s'immerse nuda nell'acqua, sentendo la spinta e il movimento della corrente lungo tutto il corpo. Non aveva mai nuotato nei torrenti di Iria, e aveva odiato il mare, quella massa grigia e fredda che si gonfiava minacciosa, ma quell'acqua rapida le piaceva, quella sera. Si
lasciò trasportare e galleggiò, le mani che scivolavano sulle rocce sommerse sericee e sui propri fianchi di seta, le gambe che penetravano in grovigli d'erba acquatica. Tutto il turbamento e l'inquietudine l'abbandonarono, dissolvendosi nell'acqua, e lei galleggiò deliziata nella carezza del torrente, contemplando il tenue fuoco bianco delle stelle. Un brivido l'attraversò. L'acqua diventò fredda. Ricomponendosi, le membra ancora rilassate, alzò lo sguardo e vide sulla sponda sopra di lei la figura nera di un uomo. Si drizzò, nuda, nell'acqua. — Vattene! — urlò. — Vattene, traditore, individuo schifoso, o ti strappo il fegato! — Balzò sulla riva, aggrappandosi ai ciuffi d'erba tenace, e annaspando si alzò in piedi. Non c'era nessuno, là. Irian era furibonda, tremava di rabbia. Si precipitò lungo la sponda, trovò i vestiti e li infilò, continuando a imprecare a gran voce... — Mago vigliacco! Perfido traditore, figlio di un cane! — Irian? — Era qui! — gridò lei. — Quel cuore infame, quel Thorion! — Andò incontro allo Strutturatore, che era apparso nel chiarore stellare accanto alla casa. — Stavo facendo il bagno nel torrente, e lui era là che mi osservava! — Un'emanazione... solo una sua sembianza. Non poteva farti alcun male, Irian. — Un'emanazione con gli occhi, una sembianza dotata di vista! Gli auguro di... — Irian s'interruppe tutt'a un tratto, non riuscendo a trovare la parola adatta. Aveva la nausea. Rabbrividì, e inghiottì la saliva fredda che le aveva riempito la bocca. Lo Strutturatore si fece avanti e le prese le mani. I palmi del magio erano caldi, e lei aveva un freddo tale che gli si rannicchiò contro, per assorbire il tepore del suo corpo. Rimasero così per un po', le mani unite, i corpi che si toccavano, Irian a capo chino. Infine, lei si staccò, drizzandosi, scostando dal viso i capelli bagnati. — Grazie — disse. — Avevo freddo. — Lo so. — Non ho mai freddo — disse Irian. — È stato lui. — Credimi, Irian, lui non può venire qui. Non può nuocerti, qui. — Non può nuocermi in nessun luogo — dichiarò lei, mentre il fuoco le scorreva di nuovo nelle vene. — Se prova a farlo, lo distruggerò. — Ah — esclamò lo Strutturatore. Irian lo guardò nel chiarore delle stelle, e gli chiese: — Dimmi il tuo
nome... Non il tuo vero nome... Solo un nome con cui possa chiamarti. Quando penso a te. Lui rimase a lungo in silenzio, poi rispose: — A Karego-At, quando ero un barbaro, ero Azver. In hardico, sarebbe un vessillo di guerra. — Azver — annuì lei. — Grazie. Restò sveglia nella casupola, oppressa dall'aria soffocante e dal soffitto che pareva schiacciarla, poi all'improvviso dormì, un sonno profondo. Si svegliò in modo altrettanto repentino quando l'est cominciava appena a schiarire. Andò alla porta per vedere lo spettacolo che preferiva, il cielo prima del sorgere del sole. Abbassando lo sguardo dal cielo, vide Azver lo Strutturatore raggomitolato nel mantello grigio che dormiva sodo sul terreno davanti al gradino della porta. Rientrò in casa senza fare rumore. Poco dopo, vide che Azver tornava nei suoi boschi, camminando un po' rigido e grattandosi la testa mentre camminava, come faceva la gente quando non era del tutto sveglia. Irian si mise al lavoro, scrostando i muri all'interno, preparandoli per l'intonacatura. Proprio mentre i primi raggi di sole entravano dalla finestra, bussarono alla porta aperta. All'esterno c'era l'uomo che lei aveva scambiato per un ortolano, il Maestro Erborista, solido e placido come un bue, e accanto a lui il vecchio Nominatore, scarno, il viso arcigno. Irian andò alla porta e farfugliò qualche parola di saluto. La intimidivano, quei Maestri di Roke; inoltre, la loro presenza significava che era finito il periodo sereno, i giorni di camminate nella silente foresta estiva insieme allo Strutturatore. Sì, quel periodo si era concluso la notte passata. Lei lo sapeva, ma non voleva ammetterlo. — Lo Strutturatore ci ha chiamati — spiegò il Maestro Erborista. Sembrava a disagio. Notando un ciuffo d'erbacce sotto la finestra, disse: — Quello è velvero. Deve averlo piantato qualcuno di Havnor. Non sapevo che crescesse su questa isola. — Esaminò attentamente la piantina, e mise alcuni baccelli nella propria borsa. Irian stava osservando il Nominatore di sfuggita ma con pari attenzione, cercando di capire se si trattasse di una emanazione o se fosse presente in carne e ossa. Sembrava non ci fosse nulla di incorporeo in lui, ma Irian non pensava che si trovasse lì, e ne ebbe la conferma quando il magio si mosse: fu lambito dalla luce del sole e non proiettò ombra alcuna. — Vivi molto lontano da qui, signore? — gli domandò. Lui annuì. — Ho lasciato me stesso a metà strada — spiegò. Alzò lo
sguardo; lo Strutturatore stava avvicinandosi a loro, completamente sveglio, adesso. Li salutò e chiese: — Il Portinaio verrà? — Ha detto che preferiva rimanere a custodire le porte — rispose l'Erborista. Richiuse con cura la borsa dalle molte tasche e guardò gli altri. — Ma non so se riuscirà a tenere chiuso il formicaio. — Che succede? — chiese Kurremkarmerruk. — Stavo leggendo di draghi. Non prestavo attenzione alle formiche. Ma tutti i ragazzi che studiavano con me alla Torre se ne sono andati. — Sono stati chiamati a raccolta — disse l'Erborista, seccamente. — Allora? — disse il Nominatore, più seccamente. — Posso riferire solo come paiono le cose a me — fece l'Erborista, riluttante, inquieto. — Sentiamo — lo esortò il vecchio magio. L'Erborista esitava ancora. — Questa signora non fa parte del nostro consiglio — disse infine. — Fa parte del mio — replicò Azver. — È venuta in questo luogo in questa circostanza — disse il Nominatore. — E in questo luogo, in questo momento, nessuno giunge per caso. Noi sappiamo solo come paiono le cose. Dietro i nomi ci sono altri nomi, esimio Guaritore. Il magio dagli occhi scuri piegò il capo a quelle parole, e disse: — Benissimo — accettando con evidente sollievo il loro giudizio. — Thorion ha trascorso molto tempo con gli altri Maestri, e con i giovani. Riunioni segrete, cerchie ristrette. Dicerie, bisbigli. Gli studenti più giovani sono spaventati, e molti hanno chiesto a me e al Portinaio se possono andar via... lasciare Roke. E noi li lasceremmo partire. Ma non ci sono navi nel porto, e nessuna nave è entrata nella baia di Thwil dopo quella che ti ha condotto qui, signora, ed è salpata il giorno seguente alla volta di Wathort. Per opera del Maestro Chiave di Vento, il vento di Roke spira contrario a tutti. Se il re stesso dovesse arrivare, non potrebbe sbarcare a Roke. — Finché il vento non cambierà, eh? — disse lo Strutturatore. — Thorion sostiene che Lebannen non è un vero re, dal momento che non è stato incoronato da un arcimago. — Sciocchezze! Non storia! — sbottò il vecchio Nominatore. — Il primo arcimago è venuto secoli dopo l'ultimo re. Roke ha governato in vece dei re. — Ah — esclamò lo Strutturatore. — È arduo per il custode consegnare
le chiavi quando il padrone torna a casa. Eh? — L'Anello della pace è di nuovo integro — disse l'Erborista, con voce paziente e afflitta — la profezia si è compiuta, il figlio di Morred è incoronato, eppure non abbiamo pace. Dove abbiamo sbagliato? Perché non riusciamo a trovare l'equilibrio? — Cosa intende fare Thorion? — chiese il Nominatore. — Portare qui Lebannen — rispose l'Erborista. — I giovani parlano di vera corona. Una seconda incoronazione, qui a Roke. Celebrata dall'Arcimago Thorion. — Lungi! — sbottò Irian, facendo il segno per impedire che la parola diventasse atto. Nessuno degli uomini sorrise, e l'Erborista fece tardivamente lo stesso gesto. — In che modo tiene in pugno tutti quanti? — disse il Nominatore. — Erborista, tu eri qui quando Sparviere e Thorion furono sfidati da Irioth. Il suo dono era pari al dono di Thorion, penso. Lo usava per servirsi degli uomini, per controllarli interamente. È questo che fa Thorion? — Non so — rispose l'Erborista. — Posso dire soltanto che quando sono con lui, quando sono nella Grande casa, ho l'impressione che non si possa far nulla che non sia già stato fatto. Che non cambierà nulla. Che non crescerà nulla. Che qualunque cura io adoperi, la malattia porterà comunque alla morte. — Si guardò attorno come un bue ferito. — E ritengo sia vero. Non c'è modo di riacquistare l'Equilibrio se non stando fermi. Abbiamo oltrepassato i limiti. Non è giusto che l'Arcimago e Lebannen siano entrati in persona nella terra della morte e siano tornati... Hanno infranto una legge che non deve essere infranta. È stato per ripristinare la legge che Thorion è ritornato. — Cosa, per rimandarli nella terra della morte? — disse il Nominatore, e lo Strutturatore: — Chi deve stabilire quale sia la legge? — C'è un muro — disse l'Erborista. — Quel muro non ha radici profonde come i miei alberi — dichiarò lo Strutturatore. — Ma hai ragione, Erborista, abbiamo perso l'equilibrio — disse Kurremkarmerruk, la voce aspra e dura. — Quando e dove abbiamo cominciato a oltrepassare i limiti? Cosa abbiamo dimenticato, a cosa abbiamo voltato le spalle, cosa abbiamo trascurato? Irian spostò lo sguardo da un magio all'altro. — Quando l'equilibrio è sbagliato, stare fermi non serve. Lo squilibrio deve aumentare, lo sbaglio aggravarsi — disse lo Strutturatore. — Fin-
ché... — Fece un rapido gesto di capovolgimento con le mani aperte, rovesciando i palmi. — Cos'è più sbagliato di richiamarsi in vita dalla morte? — osservò il Nominatore. — Thorion era il migliore di noi... un cuore coraggioso, una mente nobile... — Il tono dell'Erborista era quasi rabbioso. — Sparviere lo amava. Come noi tutti. — È stato vittima della sua stessa coscienza — sentenziò il Nominatore. — La coscienza gli ha detto che lui solo poteva raddrizzare le cose. Per farlo, ha rinnegato la propria morte. E così rinnega la vita. — E chi gli si opporrà? — chiese lo Strutturatore. — Io posso solo nascondermi nei miei boschi. — E io nella mia torre — disse il Nominatore. — E tu, Erborista, e il Portinaio, siete nella trappola, nella Grande casa. I muri che abbiamo costruito per tenere fuori tutto il male. O dentro, secondo i casi. — Siamo in quattro contro di lui — disse lo Strutturatore. — Sono in cinque contro di noi — replicò l'Erborista. — La situazione è dunque precipitata a tal punto — disse il Nominatore — che noi stiamo qui ai margini della foresta piantata da Segoy e discutiamo di come distruggerci a vicenda? — Sì — annuì lo Strutturatore. — Ciò che rimane troppo a lungo immutato, alla fine si distrugge. La foresta è eterna perché muore e continua a morire e così vive. Non permetterò che questa mano di morte mi tocchi. Né che tocchi il re che ci ha dato la speranza. Una promessa è stata fatta, è stata fatta tramite me. Io l'ho pronunciata... "Una donna di Gont." Non permetterò che quella parola sia dimenticata. — Allora dovremmo andare a Gont? — domandò l'Erborista, contagiato dall'ardore di Azver. — Sparviere è là. — Tenar dell'Anello è là — disse Azver. — Forse la nostra speranza risiede là — disse il Nominatore. Rimasero in silenzio, incerti, cercando di aprire il cuore alla speranza. Anche Irian rimase in silenzio, ma le sue speranze tramontarono, lasciando il posto a un senso di vergogna e di futilità assoluta. Quelli erano uomini saggi e coraggiosi, che cercavano di salvare ciò che amavano, ma non sapevano come. E lei non era partecipe della loro saggezza, era esclusa dalle loro decisioni. Senza che i magi se ne accorgessero, si allontanò da loro. S'incamminò verso il Thwilburn, verso il punto in cui il torrente usciva dal bosco scendendo da una cascatella di massi. L'acqua luccicava al
sole del mattino e produceva un rumore festoso. Irian avrebbe voluto piangere, ma non era mai stata brava a piangere. Osservò l'acqua, e a poco a poco la vergogna si trasformò in collera. Tornò verso i tre uomini, e disse: — Azver. Lui voltò il capo, sorpreso, e le si avvicinò un po'. — Perché avete infranto la vostra Regola per me? È stato giusto nei miei confronti, dato che non potrò mai essere quello che siete? Azver corrugò la fronte. — Il Portinaio ti ha fatto entrare perché glielo hai chiesto — disse. — Io ti ho portata nel Bosco perché le foglie degli alberi avevano pronunciato il tuo nome ancor prima che tu venissi qui. Irian, Irian, mi dicevano. Non so perché tu sia venuta, ma non è stato per caso. Lo sa anche l'Evocatore. — Forse sono venuta qui per distruggerlo. Il magio la guardò e non disse nulla. — Forse sono venuta per distruggere Roke. Gli occhi chiari dello Strutturatore sfolgorarono, allora. — Prova! Un lungo brivido percorse Irian, mentre fronteggiava il magio. Si sentì più grande, più grande di lui, infinitamente più grande. Avrebbe potuto allungare un dito e annientarlo. Azver le pareva così piccolo, intrepido, indifeso, così umano e mortale. Traendo un respiro profondo, Irian fece un passo indietro. Il senso di forza immane la stava abbandonando. Voltò leggermente il capo e abbassò lo sguardo, sorpresa di vedere il proprio braccio bruno, la manica rimboccata, l'erba che cresceva fresca e verde attorno ai sandali. Tornò a guardare lo Strutturatore, e le sembrò ancora una creatura fragile. Lo compativa e lo rispettava. Avrebbe voluto avvisarlo del pericolo in cui si trovava. Ma le parole non le uscirono dalle labbra. Si girò e tornò sulla riva del torrente, vicino alla cascatella. Là, si accovacciò e si coprì il viso con le braccia, escludendo il magio, escludendo il mondo. Le voci dei magi che parlavano erano come le voci del torrente che scorreva. Il torrente diceva le sue parole e i magi le loro, ma non erano le parole giuste, nemmeno una. 4. Irian Quando Azver si riunì agli altri, sul suo volto c'era qualcosa che indusse l'Erborista a chiedergli: — Che c'è? — Non so — rispose lui. — Forse non dovremmo lasciare Roke.
— Probabilmente, non possiamo — disse l'Erborista. — Se Chiave di Vento fa spirare i venti contro di noi... — Io ritorno dove sono — annunciò di colpo Kurremkarmerruk. — Non mi piace lasciare me stesso in giro come una scarpa vecchia. Sarò qui con voi questa sera. — E scomparve. — Mi piacerebbe passeggiare un po' sotto i tuoi alberi, Azver — disse l'Erborista, con un lungo sospiro. — Vai pure, Deyala. Io resterò qui. — L'Erborista si allontanò. Azver si sedette sulla panca rozza che Irian aveva costruito e addossato alla facciata della casupola. Guardò a monte e la vide accovacciata immobile sulla riva. Nel campo tra loro e la Grande casa, delle pecore belavano sommesse. Il sole del mattino stava diventando molto caldo. Suo padre lo aveva chiamato Vessillo di guerra. Azver era venuto nell'ovest, lasciandosi alle spalle tutto ciò che conosceva. Aveva appreso il proprio nome vero dagli alberi del Bosco immanente, ed era diventato il Maestro Strutturatore di Roke. In tutti quegli anni, il disegno delle ombre e dei rami e delle radici, il linguaggio silenzioso della sua foresta, aveva parlato di distruzione, di trasgressione, di cambiamento totale. Adesso, il cambiamento era imminente, lo sapeva. Era giunto con lei. Irian era sotto la sua sorveglianza, affidata alle sue cure, se n'era reso conto la prima volta che l'aveva vista. Anche se era venuta per distruggere Roke, come aveva detto, lui doveva servirla. Lo faceva volentieri. Aveva camminato con lui nella foresta, alta, goffa, impavida; aveva scostato i rami spinosi dei rovi con le grandi mani sollecite. Con occhi ambrati come l'acqua del Thwilburn all'ombra, aveva osservato ogni cosa; aveva ascoltato; era rimasta immobile. Azver voleva proteggerla e sapeva di non poterlo fare. Le aveva offerto un po' di calore quando aveva freddo. Non aveva nient'altro da offrirle. Sarebbe andata dove doveva andare. Non comprendeva il pericolo. Non possedeva altra saggezza che la propria innocenza, non aveva altra armatura che la propria rabbia. "Chi sei, Irian?" le domandò, guardando la sua figura accovacciata come un animale chiuso nel proprio mutismo. L'Erborista tornò dai boschi e si sedette un po' con lui, senza parlare. A metà giornata, rientrò nella Grande casa, comunicandogli che si sarebbe presentato lì insieme al Portinaio la mattina dopo. Avrebbero chiesto a tutti gli altri Maestri di incontrarsi con loro nel Bosco. — Ma lui non verrà — disse Deyala, e Azver annuì. Restò tutto il giorno accanto alla Casa di Lontra, sorvegliando Irian, fa-
cendole mangiare qualcosa con lui. Lei andò alla casupola, ma quando ebbero mangiato tornò al proprio posto sulla sponda del torrente e si sedette, immobile. E anche Azver sentì un'apatia nel corpo e nella mente, un istupidimento, contro cui lottò, ma che non riuscì a scrollarsi di dosso. Pensò agli occhi dell'Evocatore, e allora fu lui ad avere freddo, un freddo che lo pervase da capo a piedi, sebbene sedesse nella calura della giornata estiva. "Siamo governati dai morti" pensò. E quel pensiero non volle abbandonarlo. Fu contento di vedere Kurremkarmerruk avanzare lentamente lungo la riva del Thwilburn, giungendo da nord. Il vecchio guadò il torrente scalzo, tenendo le scarpe in una mano e il bastone nell'altra, borbottando quando metteva un piede in fallo sulle rocce. Si sedette sulla sponda opposta per asciugarsi i piedi e mettere le scarpe. — Quando tornerò alla Torre — disse — non camminerò. Ingaggerò un carrettiere, o comprerò un mulo. Sono vecchio, Azver. — Vieni in casa — lo invitò lo Strutturatore, e prese acqua e cibo per il Nominatore. — Dov'è la ragazza? — Dorme. — Con un cenno del capo, Azver indicò il punto dove Irian era raggomitolata sull'erba sopra la cascatella. Il caldo del giorno cominciava ad attenuarsi, e le ombre del Bosco si allungavano sull'erba, anche se la Casa di Lontra era ancora al sole. Kurremkarmerruk sedette sulla panca, appoggiando la schiena al muro della casupola, mentre Azver sedette sul gradino della porta. — Siamo giunti al termine della vicenda — disse il vecchio, rompendo il silenzio. Azver si limitò ad annuire. — Cosa ti ha portato qui, Azver? — chiese il Nominatore. — Ho pensato spesso di domandartelo. Hai percorso parecchia strada. E nelle terre kargiche non avete maghi. — No. Però abbiamo le cose di cui è fatta la magia. Acqua, pietre, alberi, parole... — Ma non le parole della Creazione. — No. Né i draghi. — Mai. — Solo nelle vecchie storie dell'oriente estremo, del deserto di Hur-atHur. Prima che esistessero gli dei. Prima che esistessero gli uomini. Prima che gli uomini fossero uomini, erano draghi.
— Interessante, questo — disse il vecchio studioso, drizzandosi bene sulla panca. — Ti ho detto che stavo leggendo di draghi. Sai che circolano certe dicerie di draghi in volo sul mare Interno che si sarebbero spinti fino a Gont. Quello era senza dubbio Kalessin che portava a casa Ged, moltiplicato dai marinai per rendere più interessante la storia. Ma un ragazzo che studia qui mi ha giurato che tutti gli abitanti del suo villaggio avevano visto volare dei draghi, questa primavera, a ovest del monte Onn. Così stavo leggendo dei vecchi libri, per apprendere da quanto tempo i draghi non si spingessero a est di Pendor. E in una vecchia pergamena pelnica, mi sono imbattuto nella tua storia, o qualcosa di simile. C'è scritto che uomini e draghi erano tutti un unico genere, ma poi litigarono. Alcuni andarono a ovest e alcuni a est, e diventarono due generi diversi, e dimenticarono di essere stati un genere solo. — Noi siamo andati ancor più a est — disse Azver. — Ma sai cos'è il capo di un esercito, nella mia lingua? — Edran — rispose prontamente il Nominatore, e rise. — Drago. Dragone... Dopo una pausa, disse: — Potrei dare la caccia all'origine di una parola sull'orlo della rovina... E penso, Azver, che siamo arrivati proprio a questo punto. Non lo sconfiggeremo. — Lui è in vantaggio — disse Azver, freddo. — È in vantaggio, sì. Ma, pur ammettendo che è improbabile, pur ammettendo che è impossibile, se dovessimo sconfiggerlo, se lui tornasse alla morte e ci lasciasse qui, vivi... cosa faremmo? Cosa accadrebbe, poi? Dopo una lunga riflessione, Azver rispose: — Non ho idea. — Le tue ombre e le tue foglie non ti dicono nulla? — Cambiamento, cambiamento — rispose lo Strutturatore. — Trasformazione. All'improvviso, alzò lo sguardo. Le pecore, che si erano raccolte vicino allo steccato, stavano disperdendosi, fuggendo rapide, e qualcuno stava scendendo lungo il sentiero che partiva dalla Grande casa. — Un gruppo di giovani — disse l'Erborista, trafelato, giungendo alla casupola. — L'esercito di Thorion. Stanno venendo qui. A prendere la ragazza. Per mandarla via. — S'interruppe, e trasse un respiro profondo. — Il Portinaio stava parlando con loro quando sono uscito. Penso... — Eccolo — disse Azver, mentre il Portinaio si univa ai compagni, la faccia liscia giallobruna tranquilla come sempre. — Ho detto ai giovani — spiegò — che se oggi fossero usciti dalla Porta
di Medra, varcando di nuovo quella soglia non sarebbero più entrati nella casa che conoscevano. Alcuni volevano tornare indietro, allora. Ma Chiave di Vento e il Cantore li hanno esortati a non desistere. Arriveranno tra poco. Udirono delle voci maschili nei campi a est del Bosco. Azver si affrettò a raggiungere Irian sulla riva del torrente, e gli altri lo seguirono. Irian si destò e si alzò in piedi, l'aria spenta e stordita. I magi le si erano schierati attorno, formando una specie di guardia, quando il gruppo di trenta o più uomini oltrepassò la casupola e si avvicinò. Erano perlopiù studenti anziani; c'erano cinque o sei bastoni da mago tra la folla, che era guidata dal Maestro Chiave di Vento. La sua vecchia faccia scarna e acuta sembrava tesa e stanca, ma salutò i quattro magi cortesemente, con il loro titolo. I quattro lo salutarono, e Azver prese la parola. — Vieni nel Bosco, Maestro Chiave di Vento — disse — e aspetteremo là gli altri membri dei Nove. — Prima dobbiamo risolvere la questione che ci divide — dichiarò Chiave di Vento. — È una questione ardua — disse il Nominatore. — La donna che è con voi spregia la Regola di Roke — proseguì Chiave di Vento. — Deve andarsene. Una barca l'attende in porto per condurla via, e il vento, vi garantisco, le sarà propizio fino a Way. — Non ne dubito, signore — disse Azver. — Ma dubito che lei voglia partire. — Signore, Strutturatore, intendi sfidare la nostra Regola e la nostra comunità, che è unita da tanto tempo e difende l'ordine dalle forze della distruzione? Sarai proprio tu a spezzare la struttura, a infrangere lo schema? — Non è vetro, che si possa infrangere — rispose Azver. — È alito, è fuoco. Parlare gli costava un grande sforzo. — Non conosce morte — disse, ma parlava nella propria lingua, e gli altri non comprendevano. Si accostò a Irian. Sentì il calore del suo corpo. Lei li fissava inebetita, chiusa in quel silenzio animalesco, come se non comprendesse nessuno di loro. — Thorion, nostro signore, è tornato dalla morte per salvarci tutti — disse Chiave di Vento, chiaro e deciso. — Sarà lui l'Arcimago. Sotto la sua autorità, Roke non cambierà. Il re riceverà la vera corona dalle sue mani, e governerà guidato da lui, come governò Morred. Nessuna strega profanerà
il sacro suolo. Nessun drago minaccerà il mare Interno. Ci saranno ordine, sicurezza, e pace. Nessuno dei quattro magi accanto a Irian gli rispose. Nel silenzio, gli uomini che accompagnavano Chiave di Vento mormorarono, e una voce si levò dal gruppo e intimò: — Consegnateci la strega. — No — disse Azver, ma non riuscì ad aggiungere altro. Brandiva il bastone di salice, ma era solo un pezzo di legno stretto nella mano. Di loro quattro, soltanto il Portinaio si mosse e parlò. Fece un passo avanti, spostando lo sguardo da un giovane all'altro. Disse: — Voi vi siete fidati di me, rivelandomi i vostri nomi. Vi fidate di me, adesso? — Mio signore — rispose un giovanotto con una bella faccia bruna e un bastone di quercia — di te ci fidiamo, certo... e quindi ti chiediamo di lasciare andare la strega, perché ritorni la pace. Irian avanzò prima che il Portinaio potesse replicare. — Non sono una strega — dichiarò. La sua voce sembrava acuta, metallica, dopo le voci profonde degli uomini. — Non ho alcuna arte. Non ho alcuna conoscenza. Sono venuta per imparare. — Non insegniamo alle donne, qui — disse Chiave di Vento. — Lo sai. — Non so nulla — ribatté Irian. Fece un altro passo avanti, fronteggiando il magio. — Dimmi chi sono. — Impara a stare al tuo posto, donna — l'apostrofò con gelida collera il magio. — Il mio posto... — disse lei, lentamente, strascicando le parole. — Il mio posto è sulla collina... Dove le cose sono ciò che sono. Di' al morto che lo incontrerò là. Chiave di Vento tacque. Il gruppo di uomini borbottò, rabbioso, e alcuni di essi avanzarono. Azver si frappose tra loro e la ragazza; le parole di Irian lo avevano liberato dalla paralisi mentale e fisica che lo aveva bloccato poc'anzi. — Dite a Thorion che lo incontreremo sul Poggio di Roke — fece. — Quando verrà, saremo là. Adesso vieni con me — concluse, rivolgendosi a Irian. Il Nominatore, il Portinaio e l'Erborista seguirono lui e la ragazza nel Bosco. C'era un sentiero per loro. Ma quando alcuni dei giovani provarono a raggiungerli, non trovarono alcuna via. — Tornate indietro — disse Chiave di Vento ai ragazzi. Loro uscirono dal Bosco, incerti. Il sole basso brillava ancora sui campi e sui tetti della Grande casa, ma nel bosco le ombre erano fitte. — Stregoneria — dissero — sacrilegio, profanazione.
— Meglio andar via — disse il Maestro Chiave di Vento, il volto risoluto e cupo, gli occhi inquieti. S'incamminò in direzione della scuola, e gli altri lo seguirono alla spicciolata, discutendo e riflettendo, delusi e incolleriti. Non si erano addentrati molto nel Bosco, ed erano sempre vicino al torrente, quando Irian si arrestò, si allontanò dal sentiero, e si accovacciò accanto alle enormi radici ricurve di un salice che sporgeva sull'acqua. I quattro magi rimasero sul sentiero. — Ha parlato con l'altro fiato — disse Azver. Il Nominatore annuì. — Allora dobbiamo seguirla? — chiese l'Erborista. Questa volta il Portinaio annuì. Abbozzò un sorriso e disse: — Parrebbe di sì. — Benissimo — disse l'Erborista, con la solita espressione paziente e turbata; e si scostò di qualche passo, inginocchiandosi a osservare una piccola pianta o un fungo sul suolo della foresta. Il tempo trascorse come sempre nel Bosco, non scorrendo affatto, in apparenza, ma passò, il giorno volò via tranquillo in alcuni lunghi respiri, un tremolio di foglie, un uccello che cantava lontano e un altro che rispondeva da ancor più lontano... Irian si alzò in piedi lentamente. Non parlò, ma guardò lungo il sentiero, e lo imboccò. I quattro uomini la seguirono. Sbucarono nell'aria calma della sera. Il cielo a ovest conservava ancora un po' di luce, mentre guadavano il Thwilburn e attraversavano i campi diretti al Poggio di Roke, che si ergeva davanti a loro formando un'alta curva scura sullo sfondo del cielo. — Stanno arrivando — disse il Portinaio. Degli uomini stavano attraversando gli orti, percorrendo il sentiero che partiva dalla Grande casa, i cinque magi, numerosi studenti. Li guidava Thorion l'Evocatore, alto nel suo mantello grigio, impugnando il lungo bastone di legno bianco osso, attorno a cui aleggiava un fioco bagliore di luce fatua. Dove i due sentieri s'incontravano e si univano per salire poi verso la cima del Poggio, Thorion si fermò e rimase ad attenderli. Irian affrettò il passo e gli si parò di fronte. — Irian di Way — esordì l'Evocatore con voce chiara e profonda — affinché possano regnare la pace e l'ordine, e nell'interesse dell'equilibrio di tutte le cose, io ti ordino ora di lasciare quest'isola. Non possiamo darti ciò che chiedi, e di questo ti chiediamo perdono. Ma se cercherai di rimanere
qui perderai il perdono e subirai le conseguenze della trasgressione. Irian era alta quasi quanto lui, ed altrettanto eretta. Per parecchi istanti non disse nulla, poi parlò con voce aspra e acuta, dicendo: — Sali con me sul colle, Thorion. Lo lasciò al crocicchio, su un tratto pianeggiante, e imboccò il sentiero del colle, percorrendo qualche metro, a grandi passi. Poi si girò a guardarlo. — Cosa ti impedisce di venire sul colle? — gli chiese. L'aria attorno a loro stava oscurandosi. L'ovest era solo una linea rossa opaca; a est, il cielo sopra il mare era tenebroso. L'Evocatore sollevò lo sguardo verso Irian. Lentamente, alzò le braccia e il bastone bianco nell'invocazione di un incantesimo, parlando nella lingua che tutti i magi e i maghi di Roke avevano imparato, la lingua della loro arte, la Lingua della creazione. — Irian, pronunciando il tuo nome io ti chiamo a me e ti vincolo e ti obbligo a obbedirmi! Lei esitò; per un attimo, sembrò in procinto di cedere, di andare da lui, ma poi gridò: — Io non sono solo Irian! Al che, l'Evocatore si precipitò verso di lei, allungando le mani, scagliandole si contro come se volesse abbrancarla. Erano entrambi sul colle, adesso. Lei sovrastò immane il mago, del fuoco si sprigionò tra loro, una vampata di fiamma rossa nell'aria del crepuscolo, uno scintillio di scaglie rosso-oro, di ali enormi... poi cessò tutto, e non rimasero che la donna in piedi sul sentiero del colle, e l'uomo alto che si piegava di fronte a lei, che si piegava lentamente e si abbassava, fino ad accasciarsi al suolo. Di tutti i presenti, fu l'Erborista, il guaritore, il primo a muoversi. Salì lungo il sentiero e s'inginocchiò accanto a Thorion. — Mio signore — disse. — Amico mio... Sotto il rigonfio del mantello grigio, le sue mani trovarono solo un mucchio di indumenti e di ossa secche e un bastone spezzato. — È meglio così, Thorion — disse, ma piangeva. Il vecchio Nominatore avanzò e chiese alla donna sul colle: — Chi sei? — Non conosco il mio altro nome — rispose lei. Parlava come aveva parlato lui, come si era rivolta all'Evocatore, nella Lingua della creazione, la lingua parlata dai draghi. Si voltò e cominciò a salire verso la cima del colle. — Irian — la chiamò Azver lo Strutturatore. — Tornerai da noi? Lei si fermò e lasciò che lui la raggiungesse. — Tornerò, se mi chiamerete — rispose. Allungò la mano e toccò quella del magio. Lo Strutturatore ebbe un sus-
sulto e dalle labbra gli sfuggì un sibilo. — Dove andrai? — le domandò. — Da chi mi darà il mio nome. Nel fuoco, non nell'acqua. Dalla mia gente. — All'ovest — annuì Azver. Lei disse: — Oltre l'ovest. Si staccò da lui e dagli altri, e proseguì lungo il versante del colle nell'oscurità che andava infittendo. Mentre si allontanava, la videro tutti, videro i grandi fianchi di corazza dorata, le spire irte di punte della coda, gli artigli, l'alito che era fuoco splendente. Sulla cresta del poggio, si fermò qualche istante, volgendo lentamente la lunga testa per osservare l'isola di Roke tutt'intorno, indugiando con lo sguardo sul Bosco immanente, che adesso era solo una macchia scura nell'oscurità. Poi, con un rumore simile a quello prodotto da lastre di ottone che venissero scosse, le grandi ali si spiegarono, e il drago spiccò un balzo nell'aria, volteggiò sul Poggio di Roke, e volò via. Una voluta di fuoco, un pennacchio di fumo, scesero lentamente nell'aria buia. Azver lo Strutturatore si stringeva con la sinistra la mano destra, che il tocco di Irian aveva bruciato. Guardò gli uomini, riuniti in silenzio ai piedi del poggio, intenti a seguire con gli occhi il drago. — Ebbene, amici miei — disse — e adesso? Solo il Portinaio rispose. Disse: — Penso che dovremmo andare alla nostra casa, e aprire le porte. Una descrizione di Earthsea POPOLI E LINGUE Popolazione Le terre Hardiche La gente hardica dell'Arcipelago vive di agricoltura, pastorizia, pesca, commercio, e le solite arti e mestieri di una società non industriale. La popolazione è stabile e non ha mai sovraffollato la terra abitabile disponibile. La carestia è sconosciuta, e la povertà di rado è acuta. Le piccole isole e i villaggi in genere sono governati da un consiglio più
o meno democratico o Parlamento, capeggiato o rappresentato nei rapporti con altri gruppi, da un isolano eletto o da un'isolana eletta. Nelle Distese spesso non c'è altro governo che il Parlamento dell'isola e il Parlamento cittadino. Nelle Terre interne, una casta di governo è stata costituita fin dall'antichità, e la maggior parte delle grandi isole e delle grandi città sono rette almeno nominalmente da signori e signore per diritto ereditario, mentre l'intero Arcipelago è stato governato per secoli dai re. Spesso, comunque, borghi e città sono retti perlopiù in modo autonomo dal loro Parlamento e dalle gilde mercantili e artigiane. Le grandi gilde, poiché la loro rete copre tutte le Terre interne, non sono soggette ad alcun signore supremo o ad altra autorità, ma obbediscono solo al re di Havnor. Forme di feudalesimo, vassallaggio e schiavitù sono esistite in certi periodi in alcune aree, ma non sotto il governo dei re Havnoriani. L'esistenza della magia come potere effettivo riconosciuto, esercitato da certi individui, ma non da tutti, foggia e influenza tutte le istituzioni dei popoli hardici, perciò, sebbene la vita quotidiana nell'Arcipelago assomigli apparentemente a quella delle società non industriali altrove, vi sono differenze quasi incommensurabili. Una di queste differenze può essere - o può essere indicata da - la mancanza di qualsiasi tipo di religione istituzionalizzata. La superstizione è comune come in qualsiasi luogo, ma non ci sono dei, né culti, né alcun genere di adorazione formale. Un rituale è presente solo nelle offerte tradizionali nei luoghi dei Vecchi Poteri, nelle grandi festività annuali celebrate universalmente, quali Tornasole e la Lunga danza, nella recitazione e nel canto delle canzoni e delle epiche tradizionali in tali festività, e forse nel compimento di incantesimi. Tutti gli abitanti dell'Arcipelago e delle Distese hanno in comune la lingua e la cultura hardica, con variazioni locali. Il popolo delle Zattere dell'estrema Distesa sudoccidentale conserva le grandi celebrazioni annuali, ma poco altro della cultura dell'Arcipelago, non praticando il commercio, né l'agricoltura, e non avendo alcuna conoscenza delle altre popolazioni. La maggior parte degli abitanti dell'Arcipelago ha pelle bruna o rossobruna, capelli lisci neri, e occhi scuri; il tipo costituzionale prevalente è basso, snello, di ossatura esile, ma abbastanza muscoloso e in carne. Nelle Distese orientali e meridionali gli individui tendono a essere più alti, più robusti come ossatura, e più scuri. Molti meridionali hanno la pelle di un marrone molto scuro. La maggior parte degli uomini dell'Arcipelago ha pochi peli facciali o ne è priva. Gli abitanti di Osskil, Rogma e Borth hanno la pelle più chiara delle al-
tre popolazioni dell'Arcipelago, e spesso hanno capelli castani o addirittura biondi, e occhi chiari; gli uomini sovente hanno la barba. La loro lingua e alcune loro credenze sembrano più kargiche che hardiche. Probabilmente questi abitanti dell'estremo nord discendono dai Karg i quali, dopo avere colonizzato le quattro grandi terre orientali, tornarono con le loro navi verso ovest circa duemila anni fa. Le terre Kargiche In queste quattro grandi isole a nord-est dell'Arcipelago principale, il colore di pelle predominante va dal marrone chiaro al bianco, con capelli dallo scuro al biondo, e occhi scuri o azzurri o grigi. Non c'è stata molta mescolanza di carnagione kargica e arcipelagica, tranne che a Osskil, dato che la Distesa nord è isolata e poco popolata, e le popolazioni kargiche per due o tre millenni si sono tenute separate dagli abitanti dell'Arcipelago, considerandoli spesso nemici. Le quattro isole kargiche hanno perlopiù un clima arido, ma sono fertili, quando vengono irrigate e coltivate. I Karg hanno mantenuto una società che sembra poco influenzata, se non negativamente, dai ben più numerosi vicini insediati a sud e a ovest. Tra i Karg il potere della magia sembra essere molto raro come dono innato, forse perché è stato trascurato o soppresso efficacemente dalla società e dal governo. Tranne che come un male da temere ed evitare, la magia non svolge alcun ruolo riconosciuto nella società kargica. Questa incapacità o rifiuto di praticare la magia mette i Karg in condizione di svantaggio rispetto ai popoli arcipelagici sotto quasi ogni aspetto, il che spiega forse perché i Karg in genere abbiano evitato il commercio o qualsiasi tipo di interscambio, a parte le scorrerie piratesche e l'invasione delle isole più vicine della Distesa meridionale e attorno al mare di Gont. Draghi Canti e storie indicano che i draghi esistevano prima di qualunque altra creatura. In hardico antico, le perifrasi o gli eufemismi per la parola drago sono Primogenito, Più anziano, Figlio maggiore. (Le parole che indicano il primogenito di una famiglia in osskiliano, akhad, e in kargico, gadda, derivano dalla parola haath, drago, nella Vecchia lingua.) Riferimenti sparsi e racconti provenienti da Gont e dalle Distese, brani
di storia sacra delle Terre dei Karg e passi di misteri arcani del Sapere di Paln, a lungo ignorati dagli studiosi di Roke, riportano che agli albori della storia draghi ed esseri umani erano un unico genere. Alla fine, quegli umani-draghi si separarono formando due generi, incompatibili come abitudini e desideri. Forse una lunga separazione geografica causò una divergenza naturale graduale, una differenziazione di specie. Il Sapere pelnico e le leggende kargiche sostengono che la separazione fu deliberata, frutto di un accordo noto come verw nadan, Vedurnan, la Divisione. Tali leggende sono custodite con particolare cura a Hur-at-Hur, la più orientale delle Terre dei Karg, dove i draghi degenerando sono diventati animali privi di intelligenza superiore. Eppure è a Hur-at-Hur che la gente possiede il convincimento più vivido della consanguineità originale di draghi e umani. E quelle storie di tempi antichi sono accompagnate da racconti di periodi recenti che parlano di draghi che assumono forma umana, di umani che assumono forma di drago, di esseri che sono in realtà sia umani che draghi. In qualunque modo sia avvenuta la divisione, dall'inizio della storia gli esseri umani vivono nell'Arcipelago principale e nelle Terre dei Karg a est, mentre i draghi sono rimasti nelle isole più occidentali... e oltre. La gente si è chiesta perplessa come mai abbiano scelto il mare vuoto come loro dominio, dato che i draghi sono "creature del vento e del fuoco", che annegano se immersi nell'acqua. Ma i draghi non hanno bisogno di posarsi né sull'acqua né sulla terra; vivono in volo, alti nel cielo, nel sole, nel chiarore stellare. Il suolo non serve a un drago, se non quando gli occorre un angolo roccioso dove deporre le uova e allevare i piccoli. Le isolette brulle a ovest della Distesa occidentale sono più che sufficienti per questo. La Creazione di Ea non contiene alcun chiaro riferimento a una unità originale e a una successiva separazione di draghi e umani, ma questo dipende forse dal fatto che il poema nella sua presunta forma originale, nella Lingua della creazione, risaliva a un'epoca precedente alla separazione. La miglior prova nel poema dell'origine comune di draghi e umani è la parola hardica arcaica che è comunemente intesa come "gente" o "esseri umani", alath. Questa parola è etimologicamente (dalle Vere Rune Atl e Htha) "parola-esseri", "quelli che dicono parole", e dunque potrebbe significare, o comprendere, i draghi. A volte la parola usata è alherath, "vero-parolaesseri", "quelli che dicono parole vere", parlatori della Vera lingua. Questo potrebbe significare maghi umani, o draghi, o entrambi. Nell'arcano Sapere di Paln, si dice, quella parola è usata per indicare sia mago che drago.
I draghi nascono con la conoscenza della Vera lingua, o, per usare le parole di Ged, "il drago e la lingua del drago sono tutt'uno". Se gli esseri umani in origine possedevano anch'essi tale conoscenza innata o identità, l'hanno persa perdendo la loro natura di drago. Lingue La Vecchia lingua, o Lingua della creazione, con cui Segoy creò le isole di Earthsea all'inizio del tempo, è presumibilmente una lingua infinita, in quanto nomina tutte le cose. Questa lingua è innata nei draghi, non negli umani, come già detto in precedenza. Ci sono delle eccezioni. Alcuni esseri umani con un potente dono della magia, o attraverso l'antica consanguineità di umani e draghi, conoscono alcune parole della Vecchia lingua in modo innato. Ma la stragrande maggioranza delle persone deve imparare la Vecchia lingua. I praticanti hardici dell'arte magica la imparano dai loro insegnanti. Stregoni e streghe ne imparano qualche parola; i maghi ne imparano molte, e alcuni arrivano a parlarla quasi correntemente come i draghi. Tutti gli incantesimi impiegano almeno una parola della Vecchia lingua, anche se può darsi che streghe e stregoni rurali non ne conoscano bene il significato. I grandi incantesimi si compiono interamente nella Vecchia lingua, e sono compresi mentre vengono pronunciati. La lingua hardica dell'Arcipelago, la lingua osskiliana di Osskil, e la lingua kargica, sono tutte lontane discendenti della Vecchia lingua. Nessuna di queste lingue serve per operare incantesimi. Le genti dell'Arcipelago parlano hardico. I dialetti sono numerosi quanto le isole, ma nessuno presenta diversità così radicali da risultare del tutto incomprensibile agli altri. L'osskiliano, parlato a Osskil e in due isole a nord-ovest di Osskil, è più affine al kargico che all'hardico. Il kargico, come lessico e sintassi, è la lingua che diverge maggiormente dalla Vecchia lingua. La maggior parte dei suoi locutori (come la maggior parte dei locutori hardici) non si rendono conto che le loro lingue hanno un'ascendenza comune. Gli studiosi dell'Arcipelago ne sono consapevoli, ma la maggior parte dei Karg lo negherebbe, dato che hanno confuso l'hardico con la Vecchia lingua, con cui si operano gli incantesimi, e quindi temono e disprezzano la lingua dell'Arcipelago come stregoneria maligna.
Scrittura La scrittura, a quanto si dice, fu inventata dai Maestri delle Rune, i primi grandi maghi dell'Arcipelago, forse per favorire l'apprendimento e l'assimilazione della Vecchia lingua. I draghi non hanno scrittura. A Earthsea, esistono due tipi completamente diversi di scrittura: le Vere Rune e la scrittura runica. Le Vere Rune usate nell'Arcipelago rappresentano concretamente parole della Lingua della creazione. Le Vere Rune non sono solo simboli, ma elementi reificatori: possono essere usate per creare in modo concreto una cosa o una situazione, o per determinare un evento. Scrivere una simile runa equivale ad agire. Il potere dell'azione varia secondo le circostanze. La maggior parte delle Vere Rune si trovano solo in testi antichi e antichi libri del sapere, e vengono usate solo da maghi addestrati al loro impiego; ma molte di esse, come il simbolo scritto sull'architrave della porta per proteggere una casa dal fuoco, sono d'uso comune, sono familiari a gente incolta. Molto dopo l'invenzione delle Vere Rune, fu ideata per la lingua hardica una scrittura runica analoga ma non magica. Questa scrittura non influisce sulla realtà più di quanto non faccia qualsiasi altra scrittura; vale a dire, influisce indirettamente, ma considerevolmente. Si dice che Segoy abbia scritto per primo le Vere Rune con il fuoco nel vento, e dunque esse sono contemporanee alla Lingua della creazione. Ma può darsi che questo non sia vero, dal momento che i draghi non le usano, e se le riconoscono, non lo ammettono. Ogni Vera Runa ha un senso, una connotazione o area di significato, che può essere più o meno definito in hardico; ma è meglio dire che le rune non sono affatto parole, ma gesti, o atti. Solo nella sintassi della Vecchia lingua, però, e solo pronunciata o scritta da un mago, non come esposizione ma con l'intento di agire, rafforzata dalla voce e dal gesto, in un incantesimo, la parola o la runa sprigiona appieno il proprio potere. Se scritti, gli incantesimi sono scritti usando le Vere Rune, a volte con una certa mescolanza di rune hardiche. Scrivere utilizzando le Vere Rune, come parlare la Vecchia lingua, equivale a garantire la verità di quanto si dice... se si è umani. Gli esseri umani non possono mentire in quella lingua. I draghi possono; o così affermano; e se mentono a tale riguardo, questo non dimostra forse che quanto dicono è vero? La parola parlata espressione di una Vera Runa può essere la parola che tale runa significa nella Vecchia lingua, o può essere una delle connotazio-
ni della runa tradotta in hardico. I nomi delle rune d'uso comune quali Pirr (usata per proteggere dal fuoco, dal vento, dalla pazzia), Sifl ("buona fortuna, buon viaggio"), Simn ("buon lavoro") sono usati senza cerimonie dalla gente comune di lingua hardica; ma i praticanti della magia pronunciano con cautela anche questi nomi noti e usati spesso, dal momento che sono in realtà parole della Vecchia lingua, e possono influenzare gli eventi in modo involontario o imprevisto. Le cosiddette Seicento Rune dell'Hardico non sono le rune hardiche usate per scrivere il linguaggio normale. Sono Vere Rune a cui sono stati dati nomi "sicuri", inattivi, nella lingua normale. I loro veri nomi nella Vecchia lingua devono essere memorizzati in silenzio. Lo studente di magia ambizioso passerà poi all'apprendimento delle "Rune Ulteriori", delle "Rune di Ea", e di molte altre. Se la Vecchia lingua è infinita, lo sono anche le rune. L'hardico comune, per questioni di governo o di affari o per messaggi personali o per registrare storia e racconti e canzoni, è scritto nei caratteri propriamente detti rune hardiche. La maggior parte degli abitanti dell'Arcipelago impara da alcune centinaia a molte migliaia di questi caratteri come elemento fondamentale dei loro pochi anni di educazione scolastica. Parlato o scritto, l'hardico non serve per operare incantesimi. Letteratura e fonti storiche Un millennio e mezzo fa o più, le rune hardiche furono ideate e sviluppate per permettere la scrittura narrativa. A partire da quel periodo, La Creazione di Ea, Il Canto d'Inverno, le Gesta, i Lai, e le Canzoni, tutti iniziati come componimenti recitati o cantati, furono scritti e conservati come testi. Continuano a esistere in entrambe le forme. Le numerose copie scritte dei testi antichi servono a impedire che varino troppo o che vadano completamente smarriti, ma le canzoni e le istorie che fanno parte dell'educazione di ogni bambino vengono insegnate e apprese a voce alta, tramandate nel corso degli anni oralmente. L'hardico antico differisce nel lessico e nella pronuncia dal linguaggio corrente, ma l'apprendimento a memoria e il regolare ascolto e la recitazione dei classici fa sì che la lingua arcaica rimanga significativa (e probabilmente limita l'alterazione diacronica del linguaggio nel parlato quotidiano), mentre le rune hardiche, come i caratteri cinesi, possono prestarsi a pronunce molto diverse e a variazioni di significato. Gesta, lai, canzoni, e ballate popolari sono ancora composti come rap-
presentazioni orali, perlopiù da cantori di professione. Le nuove opere di interesse generale vengono trascritte ben presto come opuscoli o inserite in raccolte antologiche. Sia che vengano declamati sia che vengano letti in silenzio, tutti questi poemi e canti sono apprezzati per il loro contenuto, non per le qualità letterarie, che possono essere molteplici o nulle. Il metro regolare sciolto, l'allitterazione, il fraseggio stilizzato, e la strutturazione ripetitiva sono i principali artifici poetici. Il contenuto comprende narrativa storica, epica e mitica, descrizioni geografiche, osservazioni pratiche riguardanti la natura, l'agricoltura, la vita marinara e le arti manuali, parabole e racconti ammonitorii, poesia spirituale, visionaria e filosofica, e canzoni d'amore. Le gesta e i lai di solito sono declamati, le ballate vengono cantate, spesso con l'accompagnamento percussivo; cantori e cantanti di professione possono utilizzare l'arpa, la viola, il tamburello, e altri strumenti. Le canzoni in genere hanno meno contenuto narrativo, e molte sono apprezzate e tramandate soprattutto per la melodia. I libri di storia e i documenti e le formule concernenti la magia esistono solo in forma scritta; di solito, il materiale di argomento magico è scritto utilizzando un misto di caratteri runici hardici e di Vere Rune. Di un libro del sapere (una compilazione di incantesimi stilata e annotata da un mago, o da una stirpe di maghi) esiste solitamente una sola copia. Spesso è importantissimo che le parole di tali libri del sapere non vengano pronunciate a voce alta. Gli osskiliani usano le rune hardiche per scrivere la loro lingua, dato che commerciano perlopiù con popolazioni di lingua hardica. I Karg hanno un atteggiamento fortemente contrario a qualsiasi tipo di scrittura, considerandola una cosa stregonesca e malvagia. Tengono registrazioni e conti complessi utilizzando fili di colori diversi e intrecci, e sono matematici esperti, e usano un sistema di computo dodicesimale; ma solo da quando hanno conquistato il potere i re Dei è stato adottato da loro un tipo di scrittura simbolica, e con parsimonia. I burocrati e i mercanti dell'Impero hanno adattato le rune hardiche al kargico, con qualche semplificazione e qualche aggiunta, per scopi commerciali e diplomatici. Ma i sacerdoti kargici non imparano mai la scrittura; e molti Karg scrivono ancora ogni runa hardica tracciandovi sopra un lieve segno trasversale, per annullare la stregoneria che si annida nella runa. STORIA
Nota sulle date: Molte isole hanno un proprio calendario locale. Il sistema di datazione più usato nell'Arcipelago, che deriva dal Racconto Havnoriano, fissa come primo anno della storia l'anno in cui Morred salì al trono. In base a questo sistema, il "presente" nel resoconto che state leggendo è l'anno arcipelagico 1058. Gli inizi Tutto quello che sappiamo dei tempi antichi di Earthsea si trova nei poemi e nei canti, tramandati oralmente per secoli prima che venissero scritti. La Creazione di Ea, il poema più antico e più sacro, ha almeno duemila anni nella versione in lingua hardica; la sua versione originale forse risale a millenni prima. Le sue trentuno stanze narrano di come Segoy innalzò le isole di Earthsea all'inizio del tempo e creò tutti gli esseri nominandoli nella Lingua della creazione, la lingua in cui il poema fu recitato la prima volta. L'oceano, comunque, è più vecchio delle isole; così dice il cantico: Prima ch'Ea fosse, pria che Segoy facesse le isole apparire dell'alba il vento soffiava sul mare... E i Vecchi Poteri della Terra, che sono manifesti in luoghi quali il Poggio di Roke, il Bosco immanente, le Tombe di Atuan, il Terrenon, le Labbra di Paor, e in molti altri luoghi, possono essere contemporanei al mondo stesso. Può darsi che Segoy sia o fosse uno dei Vecchi Poteri della Terra. Può darsi che Segoy sia un nome indicante la Terra stessa. Alcuni pensano che tutti i draghi, o certi draghi, o certe persone, siano manifestazioni di Segoy. Quel che è certo è che il nome Segoy è un antico rispettoso nominativo derivato dal verbo hardico antico seoge, "fare, formare, diventare intenzionalmente". Dalla medesima radice proviene il sostantivo esege, "forza creativa, alito, poesia". La Creazione di Ea è il fondamento dell'educazione nell'Arcipelago. A sei o sette anni, tutti i bambini hanno sentito il poema e la maggior parte di loro ha cominciato a impararlo a memoria. Un adulto che non lo conosca a memoria, così da poterlo recitare o cantare con gli altri e insegnarlo ai
bambini, è considerato un individuo estremamente ignorante. Lo si insegna in inverno e in primavera, e lo si recita o lo si canta interamente ogni anno in occasione della Lunga danza, la celebrazione del solstizio d'estate. Una citazione dal poema figura all'inizio de' Il Mago di Earthsea: Solo nel silenzio la parola, solo nel buio la luce, solo nella morte la vita: il volo del falco riluce nel cielo distesa infinita. L'inizio della prima stanza è citato in Tehanu: La creazione dal disfacimento, la fine dal principio, chi saprà con certezza? Conosciamo la soglia ch'è in mezzo che varchiamo dipartendo. Tra tutti gli esseri in eterno ritorno, il più anziano, il Portinaio, Segoy... e l'ultimo verso della prima stanza: Poi dalla schiuma, splendida Ea spuntò. Storia dell'Arcipelago I re di Enlad I due testi storici o epici più antichi superstiti sono Le Gesta di Enlad e La Canzone del Giovane re o Le Gesta di Morred. Le Gesta di Enlad, che in gran parte sembra rappresentare un'opera puramente mitologica, tratta dei re prima di Morred, e del primo anno di Morred sul trono. La capitale di quei sovrani era Berila, sull'isola di Enlad. I primi re e le prime regine di Enlad, tra cui figurano Lar Ashal, Dohun, Enashen, Timan, e Tagtar, incrementarono gradualmente il loro potere, giungendo infine a proclamarsi sovrani di Earthsea. Il loro regno non si estendeva più a sud di Ilien e non comprendeva Felkway a est, Paln e Semel
a ovest, o Osskil a nord, ma essi inviarono degli esploratori in tutto il mare Interno e nelle Distese. Le più antiche mappe di Earthsea, ora negli archivi del palazzo di Havnor, furono tracciate a Berila circa milleduecento anni fa. Quei re e quelle regine possedevano qualche conoscenza della Vecchia lingua e della magia. Alcuni di loro erano sicuramente maghi, o avevano maghi che li consigliavano o li aiutavano. Ma ne' Le Gesta di Enlad la magia è una forza bizzarra, su cui non si deve fare affidamento. Morred fu il primo uomo, e il primo re, a essere chiamato "Magio". Morred La Canzone del Giovane re, cantata annualmente a Tornasole, la festività del solstizio d'inverno, narra la storia di Morred, chiamato il Re magio, il Bianco incantatore, e il Giovane re. Morred discendeva da un ramo collaterale della Casa di Enlad, ereditando il trono da un cugino; i suoi antenati erano maghi, consiglieri dei re. Il poema inizia con la più nota e più amata storia d'amore dell'Arcipelago, quella di Morred ed Elfarran. Nel terzo anno del suo regno, il giovane re andò a sud, recandosi nell'isola maggiore dell'Arcipelago, Havnor, per risolvere delle controversie tra le città stato locali. Tornando a bordo della sua "snella nave senza remi", giunse all'isola di Solea e là vide Elfarran, l'isolana o signora di Solea, "nei frutteti fioriti a primavera". Non proseguì verso Enlad, ma restò con Elfarran. Come pegno d'amore le donò un braccialetto d'argento, il gioiello di famiglia più prezioso, su cui era incisa una Vera Runa, unica e potente. Morred ed Elfarran si sposarono, e il poema descrive il loro regno come un breve periodo aureo, il fondamento e la pietra di paragone dell'etica e del governo da allora in poi. Prima del loro matrimonio, un magio o mago, il cui nome non è mai menzionato se non come il Nemico di Morred o il signore della verga, aveva corteggiato Elfarran. Implacabile e deciso a possederla, nei pochi anni di pace che seguirono al matrimonio, quell'uomo accumulò un immenso potere magico. Dopo cinque anni, si fece avanti e annunciò, nelle parole del poema: Se Elfarran mia non sarà, la parola di Segoy io annullerò,
L'isole tutte spariranno, con l'onde bianche le sommergerò. Aveva il potere di suscitare onde enormi, e di arrestare la marea o di farla alzare anzitempo; e con la voce era in grado di incantare intere popolazioni, portando sotto il proprio controllo tutti quelli che lo udivano. Così fece rivoltare i sudditi di Morred contro il sovrano. Gridando che il loro re li aveva traditi, gli abitanti dei villaggi di Enlad distrussero città e campi; i marinai affondarono le loro navi; e i soldati di Morred, obbedendo agli incantesimi del Nemico, lottarono l'un contro l'altro in battaglie sanguinose e devastanti. Mentre Morred cercava di liberare il suo popolo da tali incantesimi e di affrontare il nemico, Elfarran tornò con la prole di un anno all'isola natia, Solea, dove i suoi stessi poteri sarebbero stati maggiori. Ma il Nemico la seguì colà, deciso a farla prigioniera e schiava. Elfarran si rifugiò alle Sorgenti di Ensa, dove, grazie alla conoscenza dei Vecchi Poteri del luogo, riuscì a opporsi al Nemico e a cacciarlo dall'isola. "Le dolci acque della terra respinsero il distruttore salso" dice il poema. Ma mentre fuggiva, il Nemico catturò il fratello di Elfarran, Salan, che stava giungendo da Enlad per aiutarla. Facendo di Salan il proprio gebbeth, o strumento, il Nemico lo inviò da Morred con il messaggio che Elfarran era scappata con la prole in un'isoletta dello stretto braccio di mare chiamato le Fauci di Enlad. Fidandosi del messaggero, Morred entrò nella trappola. Riuscì a malapena a scampare al tranello. Il Nemico lo inseguì da est a ovest attraverso Enlad, lasciando dietro di sé una scia di devastazione. Sulle Piane di Enlad, incontrando i compagni che gli erano rimasti fedeli, perlopiù marinai giunti a Enlad con le loro navi per aiutarlo, Morred fece dietrofront e diede battaglia. Il Nemico non volle affrontarlo direttamente, mandò invece contro di lui i guerrieri stessi di Morred stregati dagli incantesimi; non solo, compì pure delle magie che avvizzirono e disseccarono i corpi dei compagni di Morred che "benché vivi, parevano gli anneriti morti di sete del deserto". Per salvare i propri uomini, Morred si ritirò. Mentre lasciava il campo di battagia, cominciò a piovere, e Morred vide il nome dell'avversario scritto dalle gocce di pioggia sulla polvere. Conoscendo il nome del Nemico, poté opporsi ai suoi incantesimi e cacciarlo da Enlad, inseguendolo per mare d'inverno, "spinto dal vento dell'ovest, dal vento foriero di pioggia, dal nembo". Ognuno dei due aveva trovato pane per i propri denti, e nello scontro finale, in un punto del mare di
Ea, entrambi perirono. Nella rabbia della lotta disperata, il Nemico sollevò un'onda gigantesca e la scagliò verso l'isola di Solea, perché la sommergesse. Elfarran ne era consapevole, come fu consapevole del momento della morte di Morred. Ordinò alla propria gente di imbarcarsi e mettersi in salvo; poi, dice il poema, "prese nelle mani la piccola arpa", e nell'ora di attesa dell'onda distruttrice che soltanto Morred avrebbe potuto arrestare, compose la canzone intitolata Il Lamento per il Bianco incantatore. L'isola sprofondò nel mare, ed Elfarran con essa. Ma la sua culla-barchetta di legno di salice, galleggiando, portò in salvo il loro figliolo, Serriadh, che aveva con sé il pegno di Morred, il braccialetto recante la Runa della pace. Sulle mappe dell'Arcipelago, l'isola di Solea è indicata da uno spazio bianco o da un gorgo. Dopo Morred, governarono altri sette re e regine di Enlad, e le dimensioni e la prosperità del regno crebbero costantemente. I re di Havnor Un secolo e mezzo dopo la morte di Morred, re Akambar, un principe di Shelieth di Way, trasferì la corte a Havnor e fece di Porto grande di Havnor la capitale del regno. Più centrale di Enlad, Havnor si trovava in una posizione migliore per il commercio e per l'invio di flotte che proteggessero le isole hardiche dalle incursioni e dalle scorrerie dei Karg. La storia dei Quattordici re di Havnor (in realtà sei re e otto regine, 150400) è narrata nel Lai Havnoriano. Discendendo sia da rami maschili che femminili, e imparentandosi per mezzo di matrimoni con vari nobili casati dell'Arcipelago, la casa reale comprendeva cinque principati: la Casa di Enlad, la più antica, che discendeva direttamente da Morred e Serriadh; le Case di Shelieth, di Ea e di Havnor; e infine la Casa di Ilien. Il principe Gemal il Marino di Ilien fu il primo del suo casato a salire sul trono di Havnor. Sua nipote era la regina Heru; il di lei figlio, Maharion (che regnò dal 430 al 452), fu l'ultimo re prima dell'Era Oscura. Gli anni dei re di Havnor furono un periodo di prosperità, scoperta, e forza, ma nell'ultimo secolo di tale periodo gli attacchi dei Karg a est e dei draghi a ovest divennero frequenti e feroci. Re, signori, e Isolani, cui spettava il compito di difendere le isole dell'Arcipelago, finirono con il fare sempre più affidamento sui maghi per respingere i draghi e le flotte kargiche. Nel Lai Havnoriano e ne' Le Gesta
dei Capidrago, con il prosieguo della storia, i nomi e le imprese di questi maghi cominciano a eclissare quelli dei sovrani. Il grande magio-studioso Ath compilò un libro del sapere che riuniva varie conoscenze sparse, riguardanti in particolar modo le parole della Lingua della creazione. Il suo Libro dei Nomi divenne il fondamento della nominazione come parte sistematica dell'arte magica. Ath affidò il libro a un compagno mago di Pody quando andò all'ovest, inviato dal sovrano a sconfiggere o scacciare un branco di draghi che spaventavano il bestiame, provocavano incendi, e distruggevano fattorie in tutte le isole occidentali. In un punto imprecisato a ovest di Ensmer, Ath affrontò il grande drago Orm. I resoconti di tale incontro differiscono; ma, anche se in seguito i draghi cessarono le ostilità per un po', si sa con certezza che Orm sopravvisse, mentre Ath perì. Il suo libro, smarrito per secoli, si trova adesso nella Torre isolata a Roke. Il cibo dei draghi, si dice, è la luce, o il fuoco; i draghi uccidono spinti dall'ira, o per difendere i loro piccoli, o per divertimento, ma non mangiano mai la preda. Da tempo immemorabile, fino al regno di Heru, avevano usato solo le isolette più esterne della Distesa ovest - che forse costituivano l'estremo limite orientale del loro regno - per incontrarsi e riprodursi, e la maggior parte degli abitanti delle isole li aveva visti assai di rado. Per natura irritabili e arroganti, i draghi possono essersi sentiti minacciati dall'incremento della popolazione e della prosperità delle Terre interne, con il conseguente aumento dei traffici che interessava perfino la Distesa ovest. Quale che fosse la ragione, in quegli anni i draghi compirono un numero sempre maggiore di incursioni, improvvise e casuali, colpendo greggi e mandrie e paesani delle solitarie isole occidentali. Un racconto del Vedurnan o Divisione, noto a Hur-at-Hur, dice: L'uomo scelse il giogo, i draghi di volare. L'uomo scelse il possesso, i draghi di nulla avere. Vale a dire, gli esseri umani decisero di possedere dei beni, mentre i draghi rinunciarono a qualsiasi possesso. Ma, come tra gli umani esistono degli asceti, alcuni draghi sono avidi di cose luccicanti, oro, gioielli; uno di questi era Yevaud, che a volte andava in mezzo agli uomini in forma umana, e che trasformò la ricca isola di Pendor in un nido d'infanzia per cuc-
cioli di drago, finché non venne ricacciato a ovest da Ged. Ma sembra che i draghi predatori del Lai e delle canzoni fossero mossi non tanto dall'avidità quanto invece dalla collera, dalla sensazione di essere stati ingannati, traditi. Le gesta e i lai che narrano delle incursioni dei draghi e dei contrattacchi dei maghi ritraggono i draghi spietati come bestie feroci, terrificanti, imprevedibili, ma intelligenti, a volte più saggi dei maghi stessi. Sebbene parlino la Vera lingua, sono infinitamente subdoli. Ad alcuni di loro piacciono chiaramente gli scontri d'ingegno con i maghi, "cavillando con lingua biforcuta". Come gli esseri umani, tutti i draghi tranne i più grandi nascondono il loro vero nome. Nel lai Il viaggio di Hasa, i draghi appaiono come esseri formidabili ma sensibili, la cui collera di fronte alla flotta invaditrice umana è giustificata dall'amore per il loro dominio desolato. Si rivolgono così all'eroe: Torna in patria alle case del levante, Hasa. Lascia alle nostre ali i lunghi venti dell'ovest, lasciaci il mare d'aria, l'ignoto, l'estremo... Maharion e Erreth-Akbe La regina Heru, chiamata l'Aquila, ereditò il trono dal padre, Denggmal della Casa di Ilien. Il di lei consorte, Aiman, apparteneva alla Casa di Morred. Dopo avere governato per trent'anni, Heru cedette la corona al loro figlio, Maharion. Il consigliere-magio e amico inseparabile di Maharion era un cittadino comune e "uomo senza padre", figlio della strega di un villaggio dell'entroterra di Havnor. Eroe più amato dell'Arcipelago, la sua storia è narrata ne' Le Gesta di Erreth-Akbe, che i bardi cantano in occasione della Lunga danza di mezza estate. Le doti magiche di Erreth-Akbe risultarono evidenti quando era ancora un ragazzo. Fu mandato a corte per essere educato dai maghi di palazzo, e la regina lo scelse come compagno del figlio. Maharion ed Erreth-Akbe divennero "come fratelli". Trascorsero dieci anni insieme lottando contro i Karg, le cui sporadiche scorrerie dall'Est erano diventate negli ultimi tempi una vera e propria invasione con intenti colonizzatori e schiavistici. Venway, Torheven e le Torikles, Spavy, Perregal, e parti di Gont, erano sotto il dominio dei Karg da più di una gene-
razione. A Shelieth, sull'isola di Way, Erreth-Akbe operò una grande magia contro le forze kargiche, che erano sbarcate con "mille navi" a Waymarsh e stavano riversandosi nell'entroterra. Usando un'invocazione dei Vecchi Poteri detta il Sapere acqueo (forse la stessa usata da Elfarran a Solea contro il Nemico), trasformò le acque delle Fonti di Shelieth - sorgenti e pozze sacre nei giardini dei signori di Way - in una piena che spazzò gli invasori verso la costa, dove li attendeva l'esercito di Maharion. Nessuna nave della flotta tornò a Karego-At. L'avversario successivo di Erreth-Akbe fu un magio chiamato il signore del Fuoco, talmente potente da allungare un giorno di cinque ore, anche se non poté, come aveva giurato di fare, arrestare il sole a mezzogiorno e bandire per sempre l'oscurità dalle isole. Il signore del fuoco assunse forma di drago per combattere contro Erreth-Akbe, ma alla fine venne sconfitto, al prezzo delle foreste e delle città di Ilien, che il magio incendiò mentre lottava. Può darsi che il signore del fuoco fosse in realtà un drago in forma umana; perché, poco dopo la sua caduta, Orm, il Grande drago, che aveva sconfitto Ath, guidò schiere di suoi simili ad attaccare le isole occidentali dell'Arcipelago... forse per vendicare il signore del Fuoco. Quegli stormi fiammeggianti causarono enorme terrore, e centinaia di imbarcazioni portarono la gente in fuga da Paln e da Semel alle isole Interne; ma i danni provocati dai draghi erano minori dei danni provocati dai Karg, e Maharion reputava che il pericolo più urgente fosse a est. Andando personalmente a ovest ad affrontare i draghi, inviò a est Erreth-Akbe, perché cercasse di concludere la pace con il re delle Terre dei Karg. Heru, la Regina madre, diede all'emissario il braccialetto che Morred aveva donato a Elfarran; il suo consorte Aimal lo aveva dato a lei quando si erano sposati. Era stato lasciato in eredità di generazione in generazione ai discendenti di Serriadh, ed era il loro bene più prezioso. Su di esso era inciso un simbolo che figurava soltanto lì, la Runa del Vincolo o Runa della pace, considerata la garanzia di un governo pacifico e giusto. "Che il re kargico indossi l'anello di Morred" disse la Regina madre. Così, portandolo seco come dono munifico e simbolo di intenzioni pacifiche, ErrethAkbe si recò da solo nella Città dei re a Karego-At. Là fu bene accolto da re Thoreg, che, dopo la perdita disastrosa della propria flotta, era pronto a stabilire una tregua e a ritirarsi dalle isole hardiche occupate, se Maharion si fosse astenuto da rappresaglie. I sovrani kargici, tuttavia, subivano già l'influsso manipolatorio dei
sommi, sacerdoti dei Due Dei. Il sommo sacerdote di Thoreg, Intathin, contrario a qualsiasi tregua o accordo, sfidò Erreth-Akbe a un duello di magia. Dato che i Karg non praticavano la magia così come la intendevano i popoli hardici, Intathin deve avere attirato Erreth-Akbe in un luogo dove i Vecchi Poteri della terra annullassero i poteri dell'eroe. Le Gesta di Erreth-Akbe narra solo che l'eroe e il sommo sacerdote lottarono finché: Debolezza di vecchia tenebra pervase le membra di Erreth-Akbe, il silenzio di madre tenebra gli pervase la mente. A lungo giacque, immemore di chiara fama e fratellanza, a lungo, e sul petto avea l'anello runico spezzato. La figlia del "saggio re Thoreg" liberò Erreth-Akbe da tale stordimento o incantesimo che l'imprigionava e gli restituì la sua forza. Erreth-Akbe le diede la metà del braccialetto rimastagli. (Dopo di lei, venne custodita dai suoi discendenti per oltre cinquecento anni, fino agli ultimi eredi di Thoreg, un fratello e una sorella esiliati su un'isola deserta della Distesa est; e la sorella la diede a Ged.) Intathin tenne l'altra metà dell'Anello spezzato, che "scomparve come inghiottita dall'oscurità"... vale a dire, finì nel Grande tesoro delle Tombe di Atuan. (Là, Ged la trovò, e unendo le due metà e ricomponendo così la Runa della pace, lui e Tenar riportarono l'Anello a Havnor.) La versione kargica della storia, narrata come racconto sacro dai sacerdoti, dice che Intathin sconfisse Erreth-Akbe, il quale "perse il bastone e l'amuleto e il potere" e tornò a Havnor, trascinandosi come un uomo finito. Ma in quell'epoca i maghi non portavano alcun bastone, ed Erreth-Akbe era un uomo tutt'altro che finito e un magio potente quando affrontò il drago Orm. Re Maharion cercò la pace e non la trovò mai. Mentre Erreth-Akbe era a Karego-At (un'assenza che durò forse degli anni), le devastazioni per opera dei draghi aumentarono. Le isole Interne erano afflitte dai profughi che fuggivano dalle terre occidentali, e dalle interruzioni dei commerci, dal momento che i draghi avevano cominciato a incendiare le imbarcazioni che si spingevano a ovest di Hosk, e attaccavano le navi perfino nel mare Interno. Tutti i maghi e gli armati di cui poteva disporre Maharion andarono a combattere i draghi, e il sovrano stesso li accompagnò quattro volte;
ma spade e frecce erano praticamente inutili contro nemici volanti dal corpo corazzato che eruttavano fiamme. Paln era "una piana di carbone", e i villaggi e i borghi della parte occidentale di Havnor erano stati inceneriti. I maghi del re con i loro incantesimi avevano catturato e ucciso molti draghi sul mare Pelnico, il che probabilmente acuiva l'ira dei draghi. Proprio mentre Erreth-Akbe tornava, il Grande drago Orm raggiunse in volo la città di Havnor, minacciando le torri del palazzo reale con il proprio fuoco. Erreth-Akbe, entrando nella baia "con vele logorate fin quasi alla trasparenza dai venti dell'est", non poté fermarsi ad "abbracciare l'amico che era un fratello o a salutare la patria". Assumendo egli stesso forma di drago, volò ad affrontare Orm sul monte Onn. "Fiamme e fuoco nell'aria di mezzanotte" si scorgevano dal palazzo di Havnor. Volarono a nord, ErrethAkbe inseguendo l'avversario. Sul mare vicino a Taon, Orm attaccò di nuovo e questa volta ferì il magio, che dovette posarsi a terra e assumere la propria forma. Erreth-Akbe, inseguito adesso dal drago, giunse alla Vecchia isola, Ea, la prima terra innalzata dal mare da Segoy. Su quel suolo sacro e potente, Erreth-Akbe e Orm s'incontrarono. Cessando il combattimento, parlarono come pari, decidendo di porre fine all'inimicizia tra le loro razze. Sfortunatamente, i maghi del re, furiosi per l'attacco sferrato al cuore del regno e incoraggiati dalla loro vittoria nel mare Pelnico, avevano proseguito con la flotta, conducendola nell'estrema Distesa ovest, attaccando isolette e scogli dove i draghi allevavano i loro piccoli, uccidendo molte nidiate, "spaccando uova mostruose con mazze di ferro". La collera di Orm si ridestò, apprendendo della strage, e il Grande drago "si scagliò verso Havnor come una freccia di fuoco". (Sia in hardico che in kargico ci si riferisce ai draghi usando il maschile, anche se in realtà il genere dei draghi è materia di congetture, e nel caso dei draghi più vecchi e più grandi, un mistero.) Erreth-Akbe, ristabilitosi in parte dopo il ferimento, diede la caccia a Orm, lo allontanò da Havnor, e continuò a braccarlo "attraverso tutto l'Arcipelago e le Distese", non permettendogli mai di toccare terra, ma spingendolo sempre sul mare, finché in un ultimo volo terribile non oltrepassarono il Tratto dei draghi e giunsero all'ultima isola della Distesa ovest, Selidor. Là, sulla spiaggia estrema, entrambi stremati, si affrontarono e lottarono, "con artigli e fuoco e parola e spada", finché: Il loro sangue scorse mescolandosi e arrossando la sabbia.
Il loro respiro cessò. I corpi accanto al mare muggente giacquero aggrovigliati. Ed entraron nella terra della morte. Re Maharion stesso, dice la storia, si recò a Selidor per "piangere sulla sponda del mare". Recuperò la spada di Erreth-Akbe e la collocò sulla sommità della torre più alta del suo palazzo. Dopo la morte di Orm, i draghi continuarono a rappresentare una minaccia nell'Ovest, soprattutto quando venivano provocati dai cacciatori di draghi, però si ritirarono dalle isole popolate e non molestarono più il traffico marittimo pacifico. Yevaud di Pendor fu l'unico drago a razziare le Terre interne dopo l'epoca dei re. Da molti secoli non si vedeva nessun drago sul mare Interno, quando Kalessin, detto l'Anziano, portò Ged e Lebannen all'isola di Roke. Maharion morì alcuni anni dopo Erreth-Akbe, senza aver visto instaurare la pace, avendo visto invece nel proprio regno molto fermento e dissidi. Dato che l'Anello della pace era andato perduto, si diceva ovunque, non poteva esserci un vero sovrano di Earthsea. Ferito mortalmente in battaglia contro il signore ribelle Gehis delle isole Haven, Maharion pronunciò una profezia: "Erediterà il mio trono chi avrà attraversato vivo la terra oscura giungendo ai lidi lontani del giorno". L'Era Oscura, la Mano e la scuola di Roke Dopo la morte di Maharion nel 452, parecchi pretendenti si disputarono il trono; nessuno ebbe la meglio. Nel giro di alcuni anni, le loro lotte avevano distrutto completamente il governo centrale. L'Arcipelago diventò un campo di battaglia di principi ereditari feudali, governi di piccole isole e città stato, e signori della guerra pirateschi, tutti in lotta nel tentativo di aumentare la loro ricchezza e allargare o difendere i propri confini. I commerci e il traffico marittimo languirono a causa della pirateria; città e cittadine si ritirarono all'interno di mura difensive; le arti e i mestieri, la pesca e l'agricoltura, risentirono delle continue scorrerie e delle guerre incessanti; la schiavitù, che sotto i re non esisteva, divenne comune. La magia era l'arma principale nelle incursioni e nelle battaglie. I maghi lavoravano al soldo dei signori della guerra o cercavano il potere per sé. A causa dell'irresponsabilità di tali maghi e della corruzione del loro potere, la magia
stessa cadde in discredito. I draghi non costituivano una minaccia in quel periodo, e i Karg avevano beghe interne di cui occuparsi, ma la disgregazione della società dell'Arcipelago si aggravò con il passare degli anni. La continuità morale e intellettuale era garantita solo dalla conoscenza e dall'insegnamento de' La Creazione e degli altri miti e racconti eroici, e dalla conservazione di arti e mestieri, tra cui l'arte magica usata per scopi giusti. La Mano, una lega o comunità sparsa, dedita principalmente alla comprensione e all'insegnamento e all'uso etico della magia, fu fondata da uomini e donne sull'isola di Roke circa centocinquant'anni dopo la morte di Maharion. Ritenendo che la Mano rappresentasse una minaccia per la loro egemonia, i magi e i signori della guerra di Wathort attaccarono Roke, e uccisero quasi tutti gli uomini adulti dell'isola. Ma la Mano si era già diffusa su altre isole, tutt'intorno al mare Interno. Come Donne della Mano, la comunità sopravvisse per secoli, mantenendo una tenue ma vigorosa rete di informazione, comunicazione, protezione e insegnamento. Attorno al 650, le sorelle Elehal e Yahan di Roke, Medra il Trovatore, e altre persone della Mano, fondarono a Roke una scuola, come centro dove potersi riunire e condividere la conoscenza, chiarire le discipline, ed esercitare un controllo etico sulle pratiche magiche. Grazie ai rappresentanti della Mano sulle altre isole, la fama e l'influenza della scuola crebbero rapidamente. Il magio Teriel di Havnor, reputando la scuola una minaccia al potere individuale incontrollato dei magi, giunse a Roke con una grande flotta per distruggerla. Fu sgominato, e la sua flotta venne dispersa. Quella prima vittoria contribuì moltissimo alla nomea di invulnerabilità della scuola di Roke. Sotto l'influenza crescente di Roke, la magia fu plasmata in un corpo coerente di conoscenza, il cui uso era sempre più controllato da fini politici e morali. I maghi educati alla scuola andarono in altre isole dell'Arcipelago per contrastare i signori della guerra, i pirati, e i nobili in lotta, impedendo incursioni e razzie, imponendo pene e accordi, facendo rispettare i confini, e proteggendo persone, fattorie, città, borghi, e traffici marittimi, finché l'ordine sociale non fu ripristinato. Nei primi anni, furono inviati a pacificare; in seguito, furono chiamati sempre più spesso a mantenere la pace con il loro intervento. Mentre il trono di Havnor rimaneva vuoto, per oltre duecento anni la Scuola di Roke funse in effetti da governo centrale dell'Arcipelago. Il potere dell'Arcimago di Roke era sotto molti aspetti quello di un re.
Ambizione, arroganza e pregiudizio, influenzarono certamente Halkel, il primo Arcimago, nella creazione del proprio titolo autoritario. Tuttavia, limitato dall'insegnamento e dalla pratica coerente della scuola e dalla vigilanza dei colleghi, nessun arcimago, in seguito, fece cattivo uso del proprio potere per indebolire gli altri o per rafforzare se stesso. La cattiva fama acquisita dalla magia nell'Era Oscura, comunque, continuò a infangare gran parte dell'attività di stregoni e streghe. Si diffidava e si diceva male specialmente dei poteri delle donne, soprattutto in quanto combinati con i Vecchi Poteri. In tutto il mondo di Earthsea, varie sorgenti, caverne, colline, pietre, e foreste, erano ed erano sempre state luoghi dove si concentravano potere e sacralità in sommo grado. Tutti questi luoghi erano localmente temuti o venerati; alcuni erano noti ovunque. La conoscenza di tali luoghi e poteri costituiva il cuore della religione nel Regno dei Karg. Nell'Arcipelago, la dottrina dei Vecchi Poteri faceva ancora parte della profonda base comune del pensiero e della venerazione. Su tutte le isole, le arti praticate perlopiù dalle streghe, quali l'ostetricia, la guarigione, la zootecnia, la rabdomanzia, l'estrazione di minerali e la metallurgia, gli incantesimi di semina e di crescita, gli incantesimi d'amore, e così via, spesso invocavano i Vecchi Poteri e vi ricorrevano. Ma i maghi colti di Roke diffidavano generalmente delle antiche pratiche e non si rivolgevano ai "Poteri della Madre". Solo a Paln i maghi combinavano le due pratiche, nell'arcano ed esoterico Sapere Pelnico, ritenuto pericoloso. Sebbene, come qualsiasi potere, potessero essere corrotti e male adoperati al servizio dell'ambizione (come la Pietra di Terrenon a Osskil), i Vecchi Poteri erano intrinsecamente sacrali e pre-etici. Durante e dopo l'Era Oscura, comunque, vennero femminilizzati e demonizzati nelle terre hardiche dai maghi, come lo furono nelle Terre dei Karg dai culti dei re Sacerdoti e dei re Dei. Così, nell'ottavo secolo, nelle Terre interne dell'Arcipelago, solo le donne dei villaggi mantenevano vivi i rituali e le offerte negli antichi luoghi. Venivano disprezzate e maltrattate per questo. I maghi stavano alla larga da quei posti. A Roke, che era il centro dei Vecchi Poteri di tutto Earthsea, le più profonde manifestazioni di quei poteri - il Poggio di Roke e il Bosco immanente - non venivano mai menzionate come tali. Solo gli Strutturatori, che vivevano tutta la vita nel Bosco immanente, servivano a unire arti e azioni umane alla più antica sacralità della terra, ricordando ai maghi e ai magi che il loro potere non era loro, ma era stato concesso in prestito.
Storia delle terre dei Karg La storia delle Quattro terre è perlopiù leggendaria, riguarda lotte e accordi locali delle tribù, delle città stato e dei piccoli regni che per millenni costituirono la società kargica. La schiavitù era comune a molti di quegli stati, oltre a un sistema sociale a caste più rigido e a una più rigida differenziazione sessuale (divisione del lavoro) rispetto all'Arcipelago. Le religione era un elemento unificatore perfino tra le tribù più bellicose. Nelle Quattro Terre, erano centinaia i Luoghi di tregua dove non erano consentiti né scontri armati né dispute. La religione kargica era un culto domestico e comunitario dei Vecchi Poteri, le forze degli inferi o della terra manifeste come spiriti del luogo. Venivano venerati in loco o su altari domestici con offerte di fiori, olio, cibo, danze, corse, sacrifici, sculture, canti, musica, e silenzio. Il culto era sia informale che rituale, privato e pubblico. Non c'era clero; qualsiasi adulto poteva celebrare i riti e insegnarli ai bambini. Questa antica pratica spirituale è continuata, ufficiosamente e a volte di nascosto, sotto le più recenti religioni istituzionali dei Due Dei e del re Dio. Degli innumerevoli luoghi sacri delle Quattro terre - boschi, caverne, montagne, colline, fonti e pietre - il luogo più sacro era una caverna con dei menhir nel deserto di Atuan, chiamato le Tombe. Era meta di pellegrinaggio fin dagli albori della storia documentata, e i re di Atuan e successivamente quelli di Hupun mantenevano in quella località un ostello per accogliere i pellegrini. Seicento o settecento anni fa, cominciò a diffondersi nelle isole la religione di un dio celeste, uno sviluppo del culto dei Due Dei, Atwah e Wuluahm, in origine eroi di una saga del deserto di Hur-at-Hur. Un Padre Celeste venne aggiunto come capo del pantheon, e nacque una casta sacerdotale per condurre i riti. Senza sopprimere il culto dei Vecchi Poteri, i sacerdoti dei Due Dei e del Padre Celeste cominciarono a professionalizzare la religione, gestendo i rituali e le festività, costruendo templi sempre più sontuosi, e controllando cerimonie pubbliche quali matrimoni, funerali, e l'insediamento dei funzionari. La tendenza gerarchica e centralizzante di questa religione appoggiò dapprima l'ambizione dei re di Hupun a Karego-At. Usando le armi e le manovre diplomatiche, la Casa di Hupun nel giro di un secolo circa con-
quistò o assorbì la maggior parte degli altri regni kargici, che esistevano in numero superiore a duecento. Quando (nell'anno 440 del calendario kargico) Erreth-Akbe andò a concludere la pace tra l'Arcipelago e le Terre dei Karg, portando l'Anello del Vincolo come simbolo della sincerità del proprio sovrano, giunse a Hupun, allora capitale dell'Impero Kargico e trattò con re Thoreg, capo di tale impero. Ma da alcuni decenni i re di Hupun erano in conflitto con il sommo sacerdote e i suoi seguaci di Awabath, la Città santa, a cinquanta miglia da Hupun. I sacerdoti dei Due Dei stavano strappando il potere ai re e facendo di Awabath la capitale politica del paese, non solo la capitale religiosa. Sembra che la visita di Erreth-Akbe sia avvenuta proprio mentre il potere passava definitivamente dai re ai sacerdoti. Re Thoreg lo ricevette con onore, ma il Sommo sacerdote Intathin lottò contro Erreth-Akbe, lo sconfisse o lo ingannò, e per un certo periodo lo imprigionò. L'Anello che avrebbe dovuto unire i due regni fu spezzato. Dopo quella lotta, i re kargici continuarono a sedere sul trono di Hupun, simbolicamente rispettati ma privi di potere. Le Quattro terre erano governate da Awabath. I sommi sacerdoti dei Due Dei diventarono i re Sacerdoti. Nell'anno 840 del calendario arcipelagico, uno dei due Sacerdoti re avvelenò l'altro e si proclamò incarnazione del Padre Celeste, re Dio, da adorare nella sua persona corporea. Il culto dei Due Dei continuò, come il culto popolare dei Vecchi Poteri; ma a partire da allora, il potere religioso e secolare fu nelle mani del re Dio, scelto (spesso con violenza più o meno occulta) e deificato dai sacerdoti di Awabath. Le Quattro terre furono dichiarate Impero del Cielo, e il titolo ufficiale del re Dio era Imperatore Supremo. Gli ultimi eredi della Casa di Hupun erano un ragazzo e una ragazza, Ensar e Anthil. Volendo porre termine alla stirpe di re kargici ma non volendo rischiare di commettere sacrilegio versando sangue reale, il re Dio ordinò che i ragazzi venissero abbandonati su un'isola deserta. Tra i propri indumenti e giocattoli, la principessa Anthil aveva la metà dell'Anello portato da Erreth-Akbe, che era arrivato fino a lei dopo essere appartenuto alla figlia di Thoreg. Da vecchia, Anthil diede quella metà al giovane mago Ged, naufragato sulla sua isola. In seguito, con l'aiuto della somma sacerdotessa delle Tombe di Atuan, Artha-Tenar, Ged poté ricongiungere le metà spezzate dell'Anello e formare così di nuovo la Runa della pace. Ged e
Tenar portarono l'Anello integro a Havnor, ad attendere l'erede di Morred e Serriadh, re Lebannen. MAGIA Tra la popolazione di lingua hardica dell'Arcipelago, la capacità di compiere magie è un talento innato, come il dono della musica, sebbene molto più raro. La maggior parte della gente ne è del tutto priva. In alcune persone, forse una su cento, è un talento latente, coltivabile. In pochissimi, è manifesto senza bisogno di addestramento. Il dono della magia è attivato principalmente dall'uso della Vera lingua, la Lingua della creazione, in cui il nome di una cosa è la cosa stessa. Questa lingua, innata nei draghi, può essere appresa dagli esseri umani. Alcuni nascono con una conoscenza spontanea di almeno qualche parola della Lingua della creazione. L'insegnamento di tale lingua è la parte principale dell'insegnamento della magia. Il vero nome di un individuo è una parola della Vera lingua. Un elemento essenziale del talento della strega, dello stregone o del mago, è la capacità di conoscere il vero nome di un bambino e imporre al bambino quel nome. Si può evocare la conoscenza e ricevere il dono solo in certe circostanze, al momento giusto (di solito all'inizio dell'adolescenza) e nel luogo giusto (una sorgente, uno stagno, o un ruscello). Dato che il nome della persona è la persona stessa, nel senso più letterale e assoluto, chiunque conosca quel nome ha un potere effettivo, potere di vita e di morte, sulla persona. Spesso un vero nome non è mai noto a nessuno all'infuori del datore e del possessore, che lo tengono segreto per tutta la vita. La facoltà di imporre il vero nome e l'obbligo di non rivelarlo sono tutt'uno. Qualche volta, un vero nome è stato rivelato, ma mai dal datore. Alcune persone di grande potere innato e coltivato sono in grado di scoprire il vero nome di un altro, o perfino di far sì che il nome si riveli spontaneamente. Dato che tale conoscenza può essere rivelata o male adoperata, è enormemente pericolosa. Le persone comuni - e i draghi - tengono segreto il loro vero nome; i maghi lo nascondono e lo difendono con degli incantesimi. Morred poté cominciare a lottare contro il Nemico solo quando vide il nome del Nemico scritto sulla polvere dalla pioggia. Ged poté costringere il drago Yevaud a obbedirgli, dopo avere scoperto, grazie alla magia e all'erudizione, il vero nome di Yevaud sotto centinaia di nomi falsi.
La magia era un talento sregolato prima dell'epoca di Morred, che come re e magio disciplinò moralmente e intelletualmente l'arte magica, radunando maghi perché lavorassero insieme a corte per il bene generale e studiassero le basi etiche e i vincoli della loro pratica. Tale armonia predominò in tutto il regno di Maharion. Nell'Era Oscura, con la mancanza di qualsiasi controllo sui poteri magici e il loro cattivo uso assai diffuso, la magia cadde nel discredito generale. La scuola di Roke La scuola fu fondata circa nel 650, come descritto sopra. I Nove Maestri o maestri-insegnanti di Roke erano in origine: CHIAVE DI VENTO, maestro degli incantesimi per controllare il tempo MANIPOLATORE, maestro di tutte le illusioni ERBORISTA, maestro delle arti di guarigione CAMBIATORE, maestro degli incantesimi che trasformano materia e corpi EVOCATORE, maestro degli incantesimi che chiamano gli spiriti dei vivi e dei morti NOMINATORE, maestro della conoscenza della Vera lingua STRUTTURATORE, abitatore del Bosco immanente, maestro di significato e intento TROVATORE, maestro degli incantesimi di travamento, vincolo, e ritorno PORTINAIO, maestro dell'entrare e dell'uscire dalla Grande casa Il primo Arcimago, Halkel, abolì il titolo di Trovatore, sostituendolo con Cantore. Compito del Cantore è la conservazione e l'insegnamento di ge-
sta, lai e ballate orali, e degli incantesimi cantati. L'uso originale impreciso e approssimativamente descrittivo delle parole strega, stregone, mago, fu codificato in una gerarchia rigorosa da Halkel. In base a sue regole. La fattucchieria era riservata alle donne. Tutta la magia praticata dalle donne era definita "arte vile", anche quando comprendeva pratiche definite altrove "arti superiori", quali la guarigione, il canto, il cambiamento, eccetera. Le streghe dovevano apprendere solo da altre streghe o dagli stregoni. Non potevano entrare nella Scuola di Roke, e Halkel dissuase i maghi dall'insegnare alcunché alle donne. Proibì esplicitamente di insegnare alle donne qualsiasi parola della Vera lingua, e pur essendo largamente ignorato, tale divieto portò a lungo andare a una profonda e duratura perdita di conoscenza e potere tra le donne che praticavano la magia. La stregoneria era praticata dagli uomini (l'unica vera distinzione dalla fattucchieria). Gli stregoni si educavano l'un l'altro, e possedevano qualche conoscenza della Vera lingua. La stregoneria comprendeva sia le arti vili indicate da Halkel (travamento, riparazione, rabdomanzia, guarigione degli animali, eccetera) sia alcune arti superiori (guarigione degli esseri umani, canto, manipolazione del tempo). Uno studente che dimostrava talento per la stregoneria e veniva mandato ad affinarlo a Roke, prima studiava le arti superiori della stregoneria, e se riusciva bene in tali arti, poteva proseguire l'addestramento dedicandosi all'arte magica, soprattutto alla nominazione, all'evocazione, e alla strutturazione, diventando così un mago. Un mago, secondo la definizione data da Halkel, era un uomo che riceveva il proprio bastone da un insegnante, egli stesso un mago, che si era assunto la responsabilità particolare di educare l'allievo. Di solito era l'Arcimago a consegnare il bastone a uno studente e a nominarlo mago. Quel tipo di insegnamento e di successione esisteva non solo a Roke, specialmente a Paln, ma i Maestri di Roke giunsero a considerare con sospetto gli studenti di individui non addestrati a Roke. Magio rimase un termine fondamentalmente indefinito: un mago di grande potere. Il titolo e la carica di arcimago furono inventati da Halkel, e l'Arcimago di Roke era un decimo Maestro, mai annoverato tra i Nove. Forza di vitale importanza etica e intellettuale, l'arcimago esercitava anche un considerevole potere politico. Nel complesso, tale potere era usato benignamente. Mantenendo Roke come forte elemento accentrante, normalizzatore, pacificatore della società arcipelagica, gli arcimaghi inviarono in tutto l'Arcipe-
lago stregoni e maghi addestrati che comprendevano la pratica etica della magia e proteggevano le comunità dalla siccità, dalle calamità, dagli invasori, dai draghi, e dall'uso senza scrupoli della loro arte. Dall'incoronazione di re Lebannen e dal ripristino dell'Alta corte di giustizia e del Consiglio a Porto grande di Havnor, Roke è rimasta senza un arcimago. Pare che tale carica, che in origine non faceva parte del governo della scuola o dell'Arcipelago, non sia più utile o appropriata, e che Ged, che molti definiscono il più grande di tutti gli arcimaghi, possa essere stato l'ultimo. Celibato e magia La scuola di Roke fu fondata da uomini e donne, e sia uomini che donne insegnarono e studiarono là durante i primi decenni; ma dato che nell'Era Oscura le donne e la fattucchieria e i Vecchi Poteri erano ormai considerati qualcosa di impuro, d'immondo, era già assai diffusa la credenza che gli uomini dovessero prepararsi a operare "magie superiori" evitando scrupolosamente gli "incantesimi vili", il "Sapere della terra", e le donne. Un uomo che non fosse disposto a porsi sotto il ferreo controllo di un incantesimo di castità non avrebbe mai potuto praticare le arti superiori. Sarebbe stato al massimo un semplice stregone. I maghi dunque avevano cominciato a evitare le donne, rifiutandosi di insegnare alle donne o di apprendere alcunché da loro. Le streghe, che quasi universalmente continuarono a praticare la magia senza rinunciare alla loro sessualità, erano descritte dai casti celibi come tentatrici, impure, corruttrici, fondamentalmente malvagie. Quando nel 730 il primo Arcimago di Roke, Halkel di Way, escluse le donne dalla scuola, tra i suoi Nove Maestri solo lo Strutturatore e il Portinaio protestarono; le loro obiezioni furono respinte. Per oltre tre secoli, nessuna donna insegnò o studiò alla scuola di Roke. In quei secoli, la magia era un'arte onorata, che conferiva prestigio e potere, mentre la fattucchieria era superstizione immonda e ignorante, praticata dalle donne, pagata dai villici. La convinzione che un mago dovesse essere celibe rimase incontestata per tanti secoli e probabilmente diventò un fatto psicologico. Senza questo pregiudizio, comunque, pare che il nesso tra magia e sessualità possa dipendere dall'uomo, dalla magia, e dalle circostanze. E fuor di dubbio che un grande mago quale Morred fosse marito e padre. Per mezzo millennio o più, gli uomini ambiziosi che desideravano ope-
rare i grandi incantesimi si vincolarono alla castità assoluta, imposta mediante incantesimi che costoro facevano a se stessi. Alla scuola di Roke, gli studenti erano soggetti a un simile incantesimo di castità dal momento in cui entravano nella Grande casa e, se diventavano maghi, per il resto della vita. Tra gli stregoni, sono pochi quelli rigorosamente celibi, e molti si sposano e hanno dei figli. Le donne che si dedicano alla magia possono osservare periodi di castità, oltre a digiunare e praticare altre discipline che si ritiene servano a purificare e a concentrare il potere; ma perlopiù le streghe hanno una vita sessuale attiva, disponendo di più libertà della maggior parte delle donne dei villaggi e avendo meno motivi di temere maltrattamenti. Molte si legano, con un "vincolo di strega", a un'altra strega o a una donna comune. Non accade spesso che le streghe sposino un uomo, e se lo fanno, è probabile che scelgano uno stregone. FINE