LE TERRIBILI NOTTI (I Can't Sleep At Night, 1968) A cura di KURT SINGER Indice Presentazione Gli insetti di Ray Bradbury...
48 downloads
655 Views
697KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
LE TERRIBILI NOTTI (I Can't Sleep At Night, 1968) A cura di KURT SINGER Indice Presentazione Gli insetti di Ray Bradbury Fuori dal tempo di Carroll John Daly Una bella famiglia di Margaret St. Clair Un dono dal cielo di Emil Petaja La Signora Sary di William Tenn L'uomo morto di Ray Bradbury Al lupo! di Robert Bloch Il sorriso della signora di Mary Elizabeth Counselman Bentornato! di Charles King Questi debiti sono tuoi di Arthur J. Burks La bottega meravigliosa di P. Schuyler Miller L'eterno riposo di Helen W. Kasson Il giorno smarrito di August Derleth Presentazione Il racconto dell'orrore è una delle forme d'arte perfette. Secco, asciutto, qualche volta evocativo ma sempre necessario in ogni componente, dà un'impagabile soddisfazione di lettura. E questa antologia raccoglie una serie di racconti moderni che si propongono di essere altrettanti meccanismi di piacere narrativo. Che si propongono, soprattutto, di costituire un antidoto all'orrore à la page che siamo costretti a subire dall'inizio degli anni Settanta, da quando al cinema è arrivata l'incredibile rozzezza narrativa di Dario Argento, da quando la Hammer ha smesso di produrre i suoi capolavori, da quando, dopo L'Esorcista, stampa e schermo hanno cominciato a rigurgitare di ectoplasmi, fenomeni paranormali da strapazzo e apparizioni cui era tolta, in generale, la caratteristica più bella delle apparizioni: quella di infiltrarsi nella realtà e fronteggiarla, ma di non appartenervi. Il cinema e la narrativa parapsichica, da alcuni anni, inseriscono i loro fenomeni nel quadro del banale. In un suo saggio sull'impoverimento di una parte del cinema fantastico apparso sulla rivista francese
Positif Alain Garsault osserva che esso non sembra più in grado di creare miti - e pensate a quali archetipi formidabili sono stati il vampiro, la mummia, la creatura di Frankenstein o il mito intramontabile della Bella e la Bestia - né di avere la forza e la convinzione necessaria per dare linfa alle antinomie su cui si era basato in precedenza il sentimento dell'inquietudine: bene e male, bello e brutto, giorno e notte, specchio e realtà. È come se il cinema (insistiamo su questo settore perché la narrativa è ancora più insignificante e deludente) volesse portare il fantastico a una dimensione quotidiana, ma gliene mancassero forza e inventiva (per farlo bisogna essere Roman Polanski e girare Rosemary's Baby, o Mario Bava...). Le eccezioni non sono mancate, ma per ognuna di esse (perle come la serie dei Phibes di Robert Fuest, L'Esorcista II di John Boorman, L'australiano di Jerzy Skolimowski) sono fioccati in media due film di Dario Argento, un Patrick, un Brood (film quest'ultimo da vedere, almeno per l'idea dalla quale parte e l'interpretazione di Oliver Reed e Samantha Eggar, ma irrimediabilmente privo di polso e di un minimo di coerenza). Solo l'ironia di Vincent Price, la visionarietà di Boorman, la grandissima regia di Skolimowski o alcuni casi interessanti ma «ai confini» del fantastico, come la serie ultraviolenta di Tobe Hooper inaugurata da Non aprite quella porta! hanno permesso allo spettatore abituato alle leccornie di non morire d'asfissia. Fortuna che questo è l'anno di The Shining, il nuovo film di Stanley Kubrick, che quasi certamente renderà in modo magistrale anche una storia melodrammatica come il romanzo di Stephen King (autore à la page, per l'appunto). Dal cinema torniamo alla narrativa: per ripetere, come si diceva, che i racconti di questo libro sono fatti per chi odia le soluzioni scontate, per chi ha in animo di spaccare la TV a colpi d'accetta (anche Hitchcock, presentando le sue antologie, alludeva a qualcosa del genere, ma con più garbo) e infine per coloro che amano le situazioni estreme e critiche, le uniche che valga la pena di raccontare. Qualche esempio? Il racconto di P. Schuyler Miller, cui è ispirata la copertina di Karel Thole, e che vi trasporterà in un negozio incredibilmente bello e crudele; la storia entomologica di Ray Bradbury, Gli insetti, che conferma in questo scrittore un maestro della fantasy anziché della fantascienza; Outside of Time di Carroll John Daly (un celebre autore di polizieschi «duri» dell'età dei pulp e di «Black Mask»); Il giorno perduto di August Derleth, che è una storia tradizionale sugli inghippi del tempo e
della memoria, ma che è tipica dell'onnivoro scrittore del Wisconsin. Ci sono poi autori - come Mary Elizabeth Counselman, Emil Petaja, Robert Bloch: in parte già noti ai lettori italiani, in parte tutti da scoprire - che evocano immediatamente visioni di «Weird Tales», eccellenti antologie apparse tra gli anni Quaranta e Cinquanta e una concezione del racconto dell'orrore stringata, poetica, quasi sempre sorprendente. La Counselman, in particolare (di cui pubblicammo già un racconto su «Psyco»), è una delle maestre moderne dell'orrore insieme a Shirley Jackson, tenuta invece a battesimo in questa collana. Un ultimo gruppo di scrittori è poi familiare anche ai lettori di fantascienza: lo stesso Schuyler Miller, Bradbury, Margaret St. Clair, William Tenn: per dimostrare che l'horror non striscia più - o non soltanto - fra segrete gotiche e armature polverose, ma appartiene al mondo di oggi, e in modo più inquietante che mai. Perciò spegnete il televisore, mettetevi in poltrona e cominciate a leggere. Giuseppe Lippi Gli insetti RAY BRADBURY Nella stanza, il suono dei tasti della macchina da scrivere è come un tamburello sul legno, e il mio sudore cade sui tasti incessantemente battuti da dita che tremano. E sopra, al di là di questo rumore, nasce l'ironica melodia di un moscerino che vola sulla mia testa piegata, e un'infinità di mosche ronzano e si posano sulla rete della zanzariera. E sul soffitto, attorno alla nuda lampadina che splende gialla, un pezzo di carta bianca è tutto uno sbattere d'ali di falene. Una formica s'arrampica su per il muro; io la guardo e rido con un'amarezza incessante, cattiva. Quanta ironia nelle nere mosche e nelle rosse formiche e nella corazza dei grilli. Come ci sbagliavamo, noi tre: Susan e io e William Tinsley. Chiunque tu sia, ovunque ti trovi, se mai leggerai quello che sto scrivendo, non schiacciare più le formiche sul marciapiede, non uccidere il calabrone che ronza alla tua finestra, non distruggere i grilli sui tuoi campi! È qui che Tinsley ha commesso l'errore colossale. Ricorderai William Tinsley, no? L'uomo che ha speso un milione di dollari in spray e insetticidi e veleni per formiche? Non c'era mai posto per una mosca o per un moscerino, nell'ufficio di
Tinsley. Non un muro bianco o una scrivania verde o una superficie immacolata dove una mosca potesse posarsi prima che Tinsley la distruggesse con un tremendo colpo del suo magnifico scacciamosche. Non dimenticherò mai quello strumento di morte: Tinsley, il monarca, reggeva un impero industriale, e aveva come scettro uno scacciamosche. Io ero segretario e braccio destro di Tinsley per la sua industria di utensili da cucina. A volte gli davo consigli sui suoi molti investimenti. Nel luglio del 1944, Tinsley cominciò ad arrivare al lavoro con lo scacciamosche sotto il braccio. Entro la fine della settimana, quando mi capitava di trovarmi in un angolo nascosto dell'archivio all'ingresso di Tinsley, capivo subito se lui era entrato: lo scacciamosche tagliava, sibilando, l'aria; Tinsley compiva la sua strage mattutina. Col passare dei giorni mi accorsi della preoccupazione di Tinsley. Mi dettava lettere, ma i suoi occhi scrutavano i muri da ogni lato, il tappeto, gli scaffali della libreria, persino i miei vestiti. Una volta risi, feci un commento scherzoso: dissi che Tinsley e Clyde Beatty erano i migliori addestratori d'animali di questo mondo. Tinsley si raggelò e mi voltò la schiena. Allora chiusi la bocca: pensavo che tutti hanno il diritto di essere eccentrici quanto gli pare. «Ciao, Steve». Una mattina, mentre appoggiavo la matita sul tampone di carta assorbente, Tinsley agitò lo scacciamosche nell'aria. «Ti spiace rimuovere i cadaveri, prima di cominciare?». Sul tappeto color terra di siena, in un'orribile confusione, giacevano le vittime: mosche immobili, distrutte, senza più ali. Le gettai una per una nel cestino, sbuffando. «S.H. Little, California. Caro Little, investiremo denaro nel suo spray per insetti. Cinquemila dollari...». «Cinquemila?», obiettai. Smisi di scrivere. Tinsley m'ignorò. «Cinquemila dollari. Dia immediatamente il via alla produzione non appena l'andamento bellico lo permette. I più sinceri saluti». Tinsley abbrancò lo scacciamosche. «Pensi che io sia pazzo?», disse. «Era un p.s. o stai parlando con me?», chiesi. Squillò il telefono. Era l'Impresa Distruzione Termiti. Tinsley mi ordinò di preparare un assegno di mille dollari: dovevano installargli un tetto a prova di termiti. Poi carezzò la sua poltroncina di metallo. «Ecco una cosa che mi piace, in questi uffici: sono tutti ferro e cemento, solidissimi. Le termiti se ne stanno alla larga». Poi balzò su, e lo scacciamosche sibilò in aria.
«Maledizione, Steve, quella cosa è qui da molto?». Sopra di noi ci fu un ronzio, poi il silenzio. Sembrava che in quel silenzio le quattro mura ci muovessero addosso, e che il soffitto vuoto ci scrutasse. Le narici di Tinsley si agitavano in un respiro affannoso. Non riuscivo proprio a vedere quell'insetto infernale. Tinsley esplose. «Aiutami a trovarlo! Maledizione, aiutami!». «Senti, guarda...», cominciai. Qualcuno bussò alla porta. «Via!». L'urlo di Tinsley era acuto, spaventato. «Via da quella porta, e non entrate!». Si gettò in avanti, chiuse a chiave la porta in un gesto frenetico, si appoggiò contro il legno, frugò la stanza con occhi febbrili. «Spicciati, Steve! Con metodo! Non restartene lì seduto!». Scrivania, poltrone, lampadario, muri: come un animale impazzito, Tinsley cercò, trovò l'insetto, lo colpì. Un corpicino luccicante cadde sul pavimento, e Tinsley lo schiacciò col piede. Aveva l'aria del trionfatore. Poi cominciò a darmi una lavata di capo, ma non mi andava giù. «Senti un po'». Mi avvicinai a lui. «Io sono il tuo segretario, il tuo braccio destro, non una sentinella per insetti. Non ho mica gli occhi sulla nuca!». «Neanche Loro!», gridò Tinsley. «Allora sai che fanno?». «Loro? Chi diavolo sarebbero, Loro?». Si azzittì. Tornò alla scrivania, sedette stancamente, e dopo un po' mi disse: «Non importa. Non pensarci più. Non parlarne con nessuno». Ritornavo calmo. «Bill, dovresti vedere uno psichiatra per...». Tinsley rise, amaramente. «E lo psichiatra lo racconterebbe a sua moglie, e sua moglie a qualcun altro, e Loro mi scoprirebbero. Sono dappertutto. Dappertutto. Non voglio che la mia battaglia venga interrotta». «Se stai parlando dei centomila dollari che hai buttato in insetticidi spray e veleni per formiche nelle ultime quattro settimane», gli risposi, «qualcuno dovrebbe proprio fermarti. Manderai in malora te stesso, me, e gli azionisti. Onestamente, Tinsley...». «Chiudi il becco! Tu non capisci». Certo, allora non capivo. Tornai nel mio ufficio, e per tutto il giorno udii quel maledetto scacciamosche sibilare. Quella sera uscivo con Susan Miller. Le raccontai di Tinsley, e lei ascoltò con simpatia e competenza professionale. Poi picchiettò la sigaretta sul tavolo, l'accese e disse: «Steve, io sono una psichiatra, ma non avrei la minima possibilità di successo se non è Tinsley a venire da me. Non posso aiutarlo, se lui non vuole». Mi diede una pacca sul braccio. «Comunque se
insisti gli darò un'occhiata, in memoria dei vecchi tempi. Ma la battaglia è già persa per metà quando il paziente non coopera». «Devi aiutarmi, Susan. Nel giro di un mese sarà matto da legare. Penso abbia un complesso di persecuzione...». Andammo a casa di Tinsley. La prima volta, funzionò tutto bene. Ridemmo, ballammo, cenammo tardi al «Brown Derby». Tinsley non sospettò per un solo secondo che la slanciata, dolce donna abbandonata fra le sue braccia in un giro di valzer fosse uno psichiatra attento a ogni sua reazione. Io li osservai dal tavolo, e nascosi un risolino con la mano, e sentii Susan ridere a una delle sue battute. Poi tornammo in un silenzio piacevole, rilassato, il silenzio che segue a una serata divertente, felice. Il profumo di Susan riempiva la macchina, dalla radio usciva una musica discreta, e le ruote scivolavano con un leggero sospiro sull'autostrada. Guardai Susan e lei guardò me. Le sue sopracciglia s'alzarono: voleva dire che fino a quel momento non aveva scoperto in Tinsley il minimo indizio di squilibrio. Scrollai le spalle. In quell'istante una falena entrò dal finestrino, sbatté qua e là le sue ali scarlatte contro il vetro che l'imprigionava. Tinsley urlò, e per poco la macchina non uscì di strada. Tese la mano guantata verso la falena: borbottava qualcosa, era pallidissimo. I freni stridettero. Susan s'impossessò del volante e riuscì a tenere l'auto in strada. Mentre ci fermavamo, Tinsley schiacciò la falena con dita implacabili. Poi restò a guardare l'odoroso pigmento dell'insetto che cadeva sul braccio di Susan. E rimanemmo lì, tutti e tre, a respirare affannosamente. Susan mi guardò, e questa volta i suoi occhi esprimevano preoccupazione. Io annuii. Lo sguardo di Tinsley si puntò in avanti. Come in sogno, disse: «Il novantanove per cento di tutta la vita sul nostro pianeta è costituito d'insetti...». Senza un'altra parola chiuse i finestrini e ci riportò a casa. Susan mi telefonò un'ora dopo. «Steve, si è costruito un terribile complesso. Domani esco a pranzo con lui. Gli piaccio. Forse posso scoprire quello che vogliamo sapere. Ha in casa qualche animale, fra l'altro?». Tinsley non aveva mai posseduto un cane o un gatto. Detestava gli animali. «Dovevo aspettarmelo», disse Susan. «Be', buonanotte, Steve. Ci ve-
diamo domani». Nella luce diretta, vivida, del mezzogiorno, le mosche erano un nugolo vivo e dorato e ronzante, come un milione di complessi, delicati macchinari elettrici. Vorticando, danzavano nell'aria e si univano e si posavano sui rifiuti a iniettare le loro uova, a riprodursi, a battere le ali, a danzare di nuovo nell'aria, e mentre le osservavo tutti quei vortici turbinanti si confondevano nella mia mente, e mi chiedevo perché Tinsley ne avesse tanta paura, perché ne fosse terrorizzato, perché volesse ucciderle, e intanto camminavo per strada e tutt'intorno a me, in grandi archi e spazi disseminati in cielo, le onnipresenti mosche ronzavano e volavano e sbattevano le loro ali lucide. Vidi calabroni, zanzare e vespe, api gialle e formiche nere. D'improvviso, ai miei occhi il mondo era molto più vivo di prima, perché l'apprensione di Tinsley me ne aveva reso cosciente. Tolsi dalla giacca una formica rossa che mi era caduta addosso da un cespuglio di lillà. Poi, prima di rendermi conto di quello che stavo facendo, mi diressi verso una casa bianca d'aspetto familiare: ci abitava l'avvocato Remington, legale della famiglia di Tinsley da quarant'anni, ancora prima che Tinsley nascesse. Conoscevo Remington solo per faccende di lavoro, eppure ero lì a spingere il cancello, a suonare alla sua porta, a fissarlo, qualche minuto dopo, da sopra un bicchiere del suo sherry. «Ricordo benissimo», disse Remington, ricordando. «Povero Tinsley. Aveva solo diciassette anni quando è successo». Mi tesi in avanti, attentissimo. «Cosa è successo?». La formica correva in cerchio, impazzita, sui peli biondi del dorso della mia mano, restava prigioniera della foresta sul mio polso, si voltava, stringeva inutilmente le mandibole. Io scrutavo la formica. «Un incidente?». L'avvocato Remington annuì amaramente. La memoria di tutto era nuda nei suoi vecchi occhi marroni. Lui appoggiò il ricordo sul tavolo e ne distese gli angoli, perché anch'io potessi osservarlo, con poche, accurate parole. «Il padre di Tinsley portò il ragazzo a caccia nella regione del lago Arrowhead. Era l'autunno del suo diciassettesimo anno. Un posto bellissimo, una deliziosa, chiara giornata d'autunno. Me lo rammento perché anch'io, quello stesso pomeriggio, ero a caccia a non molti chilometri da lì. Era pieno di cacciatori. Su e giù per i laghi, tra il profumo dei pini, si udivano risuonare le fucilate. Il padre di Tinsley aveva appoggiato il fucile contro un cespuglio per allacciarsi le scarpe quando si alzò in volo uno stormo di
quaglie. E alcuni degli uccelli, terrorizzati, puntarono su Tinsley senior e sul figlio». Remington, per trovare le parole, scrutò nel suo bicchiere. «Una quaglia andò a sbattere contro il fucile. Partì un colpo che raggiunse il padre di Tinsley al viso». «Buon Dio!». Vedevo, con gli occhi della mente, il vecchio Tinsley barcollare, portarsi le mani al volto rosso di sangue, lasciarle ricadere umide e dense, precipitare a terra, mentre il ragazzo, stupefatto e inorridito, vacillava e non riusciva a credere a ciò che vedeva. Bevvi in fretta il mio sherry. Remington riprese: «E questa non è ancora la parte più orribile. Chiunque crederebbe che non possa succedere di peggio, ma quello che seguì fu per il ragazzo un incubo indescrivibile. Corse per sette chilometri in cerca d'aiuto. Aveva abbandonato il padre morto, rifiutandosi di credere che fosse morto. Urlando, gemendo, strappandosi i vestiti di dosso, nel giro di qualcosa come sei ore il giovane Tinsley raggiunse una strada e tornò indietro con un dottore e altri due uomini. Il sole stava tramontando, quando arrivarono alla foresta di pini in cui giaceva suo padre». Remington s'interruppe, scosse il capo in qua e in là, a occhi chiusi. «Tutto quanto il corpo, le braccia, le gambe, i contorni devastati di quello che un tempo era un viso bello e forte, erano coperti in ogni centimetro da insetti vivi, frenetici: cimici, formiche di tutti i tipi, richiamate dal dolce odore del sangue. Era impossibile vedere un solo centimetro del corpo del padre di Tinsley!». Nella mia mente ricreai i pini, i tre uomini chini sul ragazzo, il cadavere su cui un mare di minuscole creature affamate correva e scivolava, si fermava e riprendeva il cammino. Lì attorno, un picchio scavava, uno scoiattolo correva, e le quaglie battevano le loro piccole ali. E i tre uomini afferravano le braccia del ragazzo e lo allontanavano da quell'orrore... Un briciolo del terrore, degli spasimi del ragazzo doveva essere uscito dalle mie labbra: quando tornai a posare lo sguardo sulla libreria, scopersi che Remington mi stava fissando, e il bicchiere che stringevo s'era spezzato in due, ma la ferita alla mano non mi procurava dolore. «Ecco perché Tinsley è così terrorizzato da insetti e animali», sussurrai dopo molti minuti. Caddi all'indietro sulla poltrona, e il mio cuore mordeva il freno. «E col passare degli anni il ricordo è cresciuto in lui, lo ha ossessionato». Remington sembrava interessato ai problemi di Tinsley, ma io lo tacitai
chiedendogli: «Che professione faceva suo padre?». «Pensavo lo sapesse», esclamò Remington, sorpreso. «Era un naturalista molto famoso. Davvero molto famoso. In un certo senso è ironico che sia stato ucciso dalle creature che studiava, no?». «Sì». Mi alzai e strinsi la mano dell'avvocato. «Grazie, Remington. Lei mi è stato di grande aiuto. Ora devo andare». «Arrivederci». Rimasi un attimo fermo davanti alla casa di Remington, e la formica continuava a girare, impazzita, sulla mia mano. E io, per la prima volta, cominciavo a comprendere Tinsley e a sentirmi vicino a lui. Salii in macchina e andai a prendere Susan. Susan si tolse la veletta del cappello dagli occhi, puntò lo sguardo nel nulla. «Quello che mi hai raccontato», disse, «calza a pennello a Tinsley. Non ha fatto altro che rimuginare per tutti questi anni». Agitò una mano. «Guardati attorno. Sarebbe così facile credere che gli insetti sono davvero quegli orrori che lui pensa. C'è una farfalla danaide che ci segue». Me la indicò. «Sta ascoltando le nostre parole? Il padre di Tinsley era un naturalista. E cos'è successo? Ha interferito, ha messo il naso dove non doveva, per cui Loro, Loro che controllano animali e insetti, lo hanno ucciso. Da dieci anni, notte e giorno, questo pensiero scava nella mente di Tinsley, e ogni volta che lui si è guardato attorno e ha visto la vita che regna sulla terra ha dato corpo, forma e sostanza ai suoi sospetti!». «Non posso certo dire di biasimarlo», risposi. «Se mio padre fosse rimasto ucciso a quel modo...». «Si rifiuta di parlare se c'è un insetto nella stanza, non è vero, Steve?». «Sì. Ha paura che scoprano che sa tutto». «Capisci com'è sciocca un'idea del genere? Non riuscirebbe mai, anche ammesso che farfalle e formiche e mosche siano malvage, a conservare il segreto, perché ne abbiamo parlato tu e io, e ne hanno parlato altri. Ma gli resta sempre l'illusione che se non dice nulla in Loro presenza... Be', per ora è ancora vivo. Non lo hanno distrutto, ti pare? E se Loro fossero malvagi e temessero ciò che lui sa, non lo avrebbero distrutto da tempo?». «Forse stanno giocando, con lui», meditai. «Sai, è strano. Il padre di Tinsley era sul punto di fare una grande scoperta, quando è morto. Questa storia sembra quasi logica». «Sarà meglio che il sole non ti picchi più in testa», rise Susan, svoltando in una strada piena d'ombra.
Domenica mattina Bill Tinsley e Susan e io andammo a messa, e sedemmo nella musica dolce, nei mormorii quieti, nei colori morbidi della chiesa. A un certo punto Bill cominciò a ridere fra sé, e io fui costretto a tirargli un colpo nelle costole e a chiedergli cosa avesse. «Guarda il reverendo, laggiù», rispose Tinsley, affascinato. «Ha una mosca sulla pelata. Una mosca in chiesa. Vanno dappertutto, te l'ho detto. Lascia pure che il prete parli, non servirà a niente di buono. Oh, dolcissimo Signore». Dopo la messa ci spostammo in campagna per un picnic, e il cielo era d'un blu magnifico. Susan cercò due o tre volte di far parlare Bill della sua ossessione, ma Bill si limitò a indicare la processione di formiche che traversava la tovaglia e a scuotere rabbiosamente il capo. Più tardi si scusò e ci chiese, abbastanza teso, di fare un salto a casa sua: da solo non avrebbe tirato avanti molto, i soldi stavano finendo, gli affari parevano andare a rotoli, e aveva bisogno di noi. Susan e io gli stringemmo le mani, cercando di fargli capire che lo comprendevamo. Quaranta minuti dopo eravamo nello studio di casa sua, chiusi a chiave, con qualcosa da bere. Tinsley passeggiava ansiosamente avanti e indietro, brandendo il solito scacciamosche. Frugò tutta la stanza e uccise due mosche prima di aprire bocca. Diede una pacca al muro. «Metallo. Qui non ci sono larve, tarme, tarli, termiti. Anche le poltrone sono di metallo, tutto è di metallo. Siamo soli, no?». Mi guardai attorno. «Penso di sì». «Bene». Bill tirò il fiato e poi lo lasciò andare. «Avete mai pensato a Dio e al Demonio nell'universo, Susan, Steve? Avete mai compreso quanto sia crudele il mondo? Vi siete mai accorti che tutti noi cerchiamo di fare passi avanti e ci arriva una mazzata in testa ogni volta che guadagniamo un centimetro?». Annuii, e Tinsley riprese: «A volte ci si chiede dove sta Dio, o dove stanno le Forze del Male. Ci si chiede sotto quale forma esistono queste forze, se magari sono angeli invisibili. Ebbene, la risposta è semplice e intelligente e scientifica: ci osservano di secondo in secondo. Passa mai un solo minuto della nostra vita senza una mosca che ronza nella stanza, o una formica che incrocia i nostri passi, o una zecca su un cane, o un gatto che ci guarda, o uno scarafaggio o una falena che si muovono nel buio, o un moscerino che si posa su un reticolato?». Susan non disse nulla: fissò tranquillamente Tinsley, senza fargli pesare lo sguardo. Tinsley bevve dal suo bicchiere. «Minuscole creature alate cui non prestiamo attenzione, che ci seguono
ogni giorno della nostra vita, che ascoltano le nostre preghiere e speranze e desideri e paure, che ci ascoltano e poi riferiscono ciò che deve essere riferito a Lui o Lei o Esso, insomma a quella Forza che le ha mandate sul mondo». «Oh, andiamo», esclamai, d'impulso. Sorprendentemente, Susan mi zittì. «Lascialo finire», disse. Poi guardò di nuovo Tinsley. «Dai». «Sembra pazzesco», ricominciò lui, «ma ho studiato la cosa con metodo scientifico. In primo luogo, non sono mai riuscito a capire perché debbano esistere tanti insetti, e di specie così diverse. Si può dire che per noi uomini non sono niente di più che fonte di continue irritazioni, come minimo. Be', eccovi una spiegazione semplicissima: i Loro padroni sono pochi. Potrebbe addirittura trattarsi di una sola persona, e Esso o Loro non possono trovarsi dappertutto. Le mosche, invece, sì, e anche le formiche e gli altri insetti. E siccome noi uomini non siamo capaci di distinguere una formica dall'altra, è impossibile assegnar loro un'identità: una mosca vale l'altra, il sistema è perfetto. Sono così tante, e sono con noi da un tale numero d'anni, che non prestiamo loro la minima attenzione. Ricordate La Lettera Scarlatta di Hawtorne? Abbiamo la verità sotto gli occhi, e l'eccessiva familiarità ci rende ciechi». «Non credo a niente di quello che hai detto», commentai, irruente. «Fammi finire!», gridò Tinsley, terrorizzato. «Aspetta a giudicare. Esiste una Forza che deve possedere una rete di contatti, un sistema di comunicazione, perché vuole comandare e distorcere a suo piacere ogni singolo destino. Pensaci, pensateci: migliaia di miliardi d'insetti che scrutano, controllano e inviano rapporti sul loro sorvegliato speciale, che tengono a bada l'umanità!». «Stammi a sentire!», gridai. «Ti è successa quella cosa che eri ancora un ragazzo, e non hai fatto altro che peggiorare! Te la sei lasciata crescere dentro! Ma non puoi continuare a illuderti!». Ero balzato in piedi. «Steve!». Anche Susan s'alzò, e le sue guance erano rosse. «Discorsi del genere non servono a niente! Siediti». Si strinse un attimo contro di me, e subito si voltò verso Tinsley. «Bill, se tutto quello che dici fosse vero, se tutti i tuoi piani, questa casa a prova d'insetti, il tuo silenzio in presenza di una sola mosca, la tua propaganda, i tuoi veleni per formiche e i tuoi spray insetticidi significassero davvero qualcosa, come mai sei ancora vivo?». «Come mai?», gridò Tinsley. «Perché ho lavorato da solo». «Ma se davvero Loro esistono, Bill, ormai sanno tutto da almeno un me-
se perché Steve e io ne abbiamo parlato, non è vero Steve? e tu sei ancora vivo. Non è una prova che ti sbagli?». «Ne avete parlato? Glielo avete detto!». Gli occhi di Tinsley erano enormi, furibondi. «No, è una bugia. Steve me lo aveva promesso!». «Stammi a sentire». La voce di Susan lo scosse, quasi lui fosse un ragazzino colto in flagrante. «Stammi a sentire, prima di metterti a gridare. Sei disposto a tentare un esperimento?». «Che tipo d'esperimento?». «D'ora in poi i tuoi piani saranno allo scoperto, alla luce del sole. Se non ti succede niente entro le prossime otto settimane, dovrai ammettere che i tuoi timori sono infondati». «Ma mi uccideranno!». «Ascolta! Steve e io metteremo in pericolo le nostre vite assieme alla tua, Bill. Se tu muori, moriremo anche Steve e io. Io sono molto affezionata alla mia vita, Bill, e Steve alla sua. Noi non crediamo nei tuoi orrori e vogliamo che tu te ne liberi». Tinsley abbassò la testa. «Non so. Non so». «Otto settimane, Bill. Se vuoi potrai continuare per tutti gli anni che ti restano a fabbricare insetticidi, ma per amor di Dio non farti venire l'esaurimento nervoso. Il solo fatto che tu sia ancora vivo dovrebbe dimostrarti che Loro non ce l'hanno con te, se no perché ti avrebbero lasciato al mondo?». Tinsley dovette ammetterlo, ma provava riluttanza ad arrendersi. Mormorò tra sé: «Questo è l'inizio della grande crociata. Potrebbe durare un migliaio d'anni, ma forse alla fine saremo liberi». «Tu puoi liberarti in otto settimane, Bill, non lo capisci? Basta che riusciamo a provare che gli insetti sono innocui. Per le prossime otto settimane spingi a fondo la tua campagna pubblicitaria, metti annunci su settimanali e quotidiani, falla diventare una notizia, parlane con tutti. Se morirai, il mondo sarà avvisato. E poi, quando saranno trascorse le otto settimane, ti sentirai libero, leggero, e non credi che sarà meraviglioso, Bill, dopo tutti questi anni?». In quel momento accadde qualcosa che ci lasciò stupefatti: da sopra le nostre teste venne il ronzio di una mosca. Era lì sin dall'inizio del colloquio, eppure avrei giurato di non averne visto nemmeno una. Tinsley prese a tremare. Io non sapevo più quel che facevo, reagivo automaticamente a una spinta interiore. Tesi la mano nell'aria e chiusi la mosca nel palmo, poi la schiacciai, fissando Bill e Susan. I loro volti erano terrei.
«L'ho uccisa», dissi, stupidamente. «L'ho uccisa, e non so perché». Spalancai la mano. La mosca cadde a terra. La pestai col piede, come avevo visto fare tante volte a Bill, e il mio corpo era freddo senza motivo. Susan mi fissò come se avesse perduto l'ultimo amico al mondo. «Cosa sto dicendo?», gridai. «Non credo una sola schifosa parola di tutte queste follie!». Era scuro, al di là delle spesse finestre. Tinsley s'accese una sigaretta e poi, siccome tutti e tre eravamo in uno strano stato d'animo, ci offrì di restare lì a dormire. Susan rispose che avrebbe accettato se: «Mi prometti di tentare per le prossime otto settimane». «Sei disposta a rischiare la vita?». Bill non riusciva a credere a Susan. Lei annuì gravemente. «L'anno prossimo ne rideremo». «Va bene», capitolò Bill. «Ci proverò per otto settimane». La mia stanza, al piano superiore, dava su quelle deliziose colline. Susan era nella camera vicina alla mia, e Bill dormiva dall'altra parte del corridoio. Immobile nel letto, udivo i grilli che stridevano fuori, e quel suono mi era insopportabile. Chiusi la finestra. Più tardi il sonno scomparve del tutto, e così immaginai che un moscerino stesse volteggiando nell'oscurità della mia stanza. Alla fine mi rivestii e scesi in cucina. Non è che avessi fame: volevo solo calmare il nervosismo. Scopersi Susan china sul frigorifero, a scegliere qualcosa da mangiare. Ci fissammo, depositammo due piatti sul tavolo, cademmo a sedere. Per noi il mondo era irreale. Non so perché, ma stando vicini a Tinsley l'universo si faceva insicuro, nebbioso. Susan, nonostante tutta l'esperienza e la cultura, era pur sempre una donna, e nel profondo le donne sono superstiziose. Quasi per completare la scena, mentre stavamo infilando i coltelli in un pollo mangiato a metà una mosca ci finì sopra. Restammo a guardare la mosca per cinque minuti: camminò un po' sul pollo, volò via, girò in aria, tornò a posarsi su una zampa. Rimettemmo il pollo in frigorifero, ci scherzammo sopra, parlammo un poco, inquieti. Poi tornammo di sopra, e quando le porte delle stanze si chiusero ci sentimmo molto soli. Io saltai a letto, e feci brutti sogni ancora prima di chiudere gli occhi. Il mio orologio da polso, nel buio, ticchettava orribilmente, e avevo già udito parecchi ticchettii prima di sentire l'urlo. Non m'impressiona, di tanto in tanto, sentire una donna che urla; ma l'ur-
lo di un uomo è così strano, così raro, che quando lo si ode il sangue vi si ghiaccia nelle vene. L'urlo sembrava nascere da tutta la casa, e mi parve di percepire un mormorio frenetico, qualcosa come: «Adesso so perché Loro mi hanno lasciato vivere!». Spalancai la porta e vidi Tinsley che correva giù per il corridoio: i suoi vestiti erano spiegazzati e bagnati, il corpo fradicio dalla testa ai piedi. Mi scorse, si girò, gridò: «Stai lontano da me, Dio, Steve, non toccarmi o succederà anche a te! Avevo torto! Avevo torto, sì, ma ero troppo vicino alla verità!». Prima che potessi fermarlo aveva già sceso le scale e s'era chiuso la porta alle spalle. Susan era al mio fianco. «Ormai è completamente impazzito, Steve. Dobbiamo fermarlo». Un rumore che veniva dal bagno attrasse la mia attenzione. Corsi a chiudere il rubinetto dell'acqua calda, bollente, che si riversava sulle mattonelle gialle. La macchina di Bill si mise in moto: ci fu l'esplosione del motore, e poi l'auto si scagliò in avanti a velocità folle. «Dobbiamo seguirlo», insisteva Susan. «Si ucciderà! Sta cercando di fuggire a qualcosa. Dove hai la macchina?». Corremmo alla mia automobile, e il vento era freddo, le stelle freddissime. Saltammo a bordo, accesi il motore, partimmo. Eravamo tutti e due storditi, senza fiato. «Da che parte?», urlai. «Si è diretto a est, sono sicura». «Allora verso est». Accelerai, mormorando: «Oh, Bill, idiota, pazzo. Fermati. Torna indietro. Aspettami, idiota». Il braccio di Susan s'aggrappò al mio, mi strinse forte. Lei sussurrò: «Più forte!», e io risposi: «Andiamo già a novanta all'ora, ci sono delle brutte curve». Il cuore della notte era precipitato su di noi: il mormorio degli insetti, il vento, i freni che fischiavano sull'asfalto, i battiti dei nostri cuori spaventati. «Eccolo là!», esclamò Susan. Un paio di chilometri più avanti, scorsi due grumi di luce che guizzavano fra le colline. «Accelera, Steve!». Accelerai: il piede che schiaccia il pedale, il motore che romba, le stelle che volteggiano follemente, i fari che tagliano l'oscurità in tante fettine irregolari. E rivedevo davanti agli occhi Tinsley che fuggiva nel corridoio, tutto bagnato. Si era messo sotto quell'acqua calda, bollente! Perché? Perché? «Bill, fermati, idiota! Fermati! Dove stai andando? Da cosa stai fuggendo, Bill?».
Ormai l'avevamo quasi raggiunto. Ci avvicinammo a lui metro per metro, centimetro per centimetro, e in curva la gravità tentava di mandarci a fracassare contro i grandi ammassi di granito ai fianchi della strada, e correvamo su per le colline e giù per le valli immerse nella notte, sui fiumi e sui ponti, su altre curve, all'infinito. «Ha solo un mezzo chilometro di vantaggio, ormai», disse Susan. «Lo raggiungeremo». Diedi una sterzata al volante. «Dio ci aiuti, ma lo raggiungeremo». Poi, d'improvviso, accadde. La macchina di Tinsley rallentò. Rallentò e continuò a scivolare lungo la strada. In quel punto c'era una dirittura d'asfalto lunga più d'un chilometro, senza curve o colline. La sua automobile continuò a perdere velocità. Quando le arrivammo dietro, andava forse a cinque chilometri l'ora, poco più svelta di un uomo. E i fari erano sempre accesi. «Steve...». Le unghie di Susan mi morsero il polso. «È successo... qualcosa». Lo sentivo anch'io. Suonai il clacson: silenzio. Lo schiacciai di nuovo, e quel suono era un rumore enorme, solitario, nel buio e nel vuoto. Mi fermai. La macchina di Tinsley avanzava come una lumaca d'acciaio, sussurrando piano nella notte. Spalancai la portiera e uscii. «Stai qui», ordinai a Susan. Il suo viso era bianco come neve, e le sue labbra tremavano. Corsi all'automobile, gridando: «Bill! Bill...». Tinsley non rispose. Non poteva rispondere. Era lì dietro il volante, immobile, e la macchina avanzava piano, così piano. Lo stomaco mi si capovolse. Tesi un braccio, tirai il freno a mano, spensi il motore, senza guardarlo. La mia mente, poco per volta, stava costruendo un nuovo orrore, più mostruoso. Guardai ancora una volta Bill, la sua testa piegata all'indietro sul sedile. Non serviva proprio a niente uccidere mosche, uccidere falene, uccidere moscerini. I Maligni erano troppo astuti. Si possono uccidere tutti gli insetti del mondo, distruggere i cani e i gatti e gli uccelli, le donnole e le tamie, e le termiti, e tutti gli animali e gli insetti del mondo. Ci si può riuscire, si può uccidere uccidere uccidere, e quando si è finito, quando il lavoro è fatto... restano sempre i microbi. I microbi. I batteri. Sì. Creature microscopiche unicellulari e bicellulari e multicellulari.
Ce ne sono milioni, miliardi, su ogni poro, su ogni centimetro di pelle del vostro corpo. Sulle vostre labbra quando parlate, dentro le vostre orecchie quando ascoltate, sulla vostra pelle quando toccate un oggetto, sulla vostra lingua quando assaggiate un cibo, sui vostri occhi quando guardate! Non potete scrollarli via, non potete distruggerli tutti! È un lavoro impossibile, impossibile! E tu lo avevi scoperto, non è vero, Bill? Stavo lì a fissarlo. Ti avevamo quasi convinto, Bill, che gli insetti non sono colpevoli, che non ci osservano. In questo avevamo ragione. Ti avevamo convinto e tu ti sei messo a pensare, stanotte, e sei arrivato al vero punto cruciale. I batteri! Ecco perché avevi aperto l'acqua calda! Ma è impossibile uccidere i batteri con la velocità necessaria. Si moltiplicano e si moltiplicano, all'istante! Fissai Bill, inerte. «E tu credevi che bastasse lo scacciamosche. È... È ridicolo!». Bill, sei proprio tu che giaci lì col tuo corpo trasformato dalla lebbra e dal cancro e dalla tubercolosi e dalla malaria e dalla peste bubbonica, tutte assieme? Dov'è la pelle del tuo volto, Bill, e la carne sulle tue ossa? E perché le tue dita sono ancora attaccate al volante? Oh, Dio, Tinsley, vedessi il tuo colore, sentissi come puzzi: adesso sei solo una fetida cloaca di malattie. Microbi. Messaggeri. Ce ne sono milioni. Miliardi di miliardi. Dio non può sempre essere in ogni posto. Forse ha inventato le mosche e tutti gli altri insetti perché osservino le sue creature. Ma anche i Maligni erano intelligenti, e hanno inventato i batteri. Bill, sei così diverso... Adesso non racconterai più il tuo segreto al mondo. Tornai da Susan, la fissai, incapace di parlare. Riuscii solo a farle cenno di tornare a casa senza di me. Io avevo un lavoro da fare: buttare l'auto di Bill giù nel burrone, dare fuoco anche al suo cadavere. Susan girò la macchina senza voltarsi indietro. E ora, stanotte, una settimana dopo, sto battendo a macchina queste righe, ora e adesso, nella notte d'estate, con le mosche che svolazzano nella mia stanza. Adesso capisco perché Bill Tinsley è vissuto tanto a lungo. Finché i suoi sforzi si sono indirizzati contro insetti, formiche, uccelli, animali, cioè verso i rappresentanti delle Forze Benigne, i Maligni lo hanno lasciato fare. Tinsley, senza saperlo, lavorava per i Maligni. Ma quando lui ha compreso che i batteri erano il vero nemico, numerosissimi, invisibili,
insidiosi, i Maligni lo hanno distrutto. Gli occhi della mia mente vedono ancora la morte del padre di Tinsley, causata da uno stormo di quaglie. Un fatto del genere sembra anomalo: perché le quaglie, che rappresentano il Bene, avrebbero dovuto uccidere il vecchio Tinsley? Ma la risposta mi è ormai chiara. Anche le quaglie soffrono di malattie, e le malattie infrangono la loro vera natura, ed è stata una malattia, quel giorno di tanti anni fa, a costringere gli uccelli ad andare a sbattere contro il fucile di Tinsley, a ucciderlo. E così sono morti anche tanti animali e tanti insetti. E un'altra immagine fissata nei miei occhi è il padre di Tinsley coperto di formiche: quasi un rosso tappeto funebre. E mi chiedo se per caso non gli stessero recando conforto nella morte, nella corruzione della carne; se non gli parlassero in una strana lingua silenziosa che nessuno di noi può udire fino alla morte. O forse ci parlano sempre. La partita a scacchi continua: il Bene contro il Male, spero. Ma io sto perdendo. Stanotte sono qui seduto a scrivere, ad aspettare, e la mia pelle si scioglie e s'ammorbidisce, e Susan si trova dall'altra parte della città: non sa niente, è al sicuro da questa terribile verità che io debbo mettere su carta anche se mi sta uccidendo. Ascolto le mosche, perché nei loro ronzii vorrei scoprire un messaggio di speranza, ma non sento niente. Anche adesso, mentre scrivo, la pelle delle mie dita si fa sempre più molle e cambia colore, e il mio viso è in parte secco e squamoso, in parte umido, molliccio, e si stacca ogni secondo che passa dalle ossa sempre più molli. I miei occhi vagano nelle orbite come quelli di un lebbroso, la mia pelle è scura come quella di un appestato, il mio stomaco mi attanaglia col bruciore dei succhi gastrici, la mia lingua sa d'amaro e d'acido, i miei denti stanno cadendo, le mie orecchie risuonano, e fra pochi minuti la struttura stessa delle mie dita, i muscoli, le ossa si scioglieranno, andranno in putrefazione, resterà solo un ammasso gelatinoso accumulato fra i tasti di questa macchina, la mia carne abbandonerà il mio scheletro come un mantello vecchio, smesso, ma io devo continuare a scrivere e scrivere finché etaoin shrdlucmfwyp cmfwyp... cmfw... aaaaa ddddddddddddddddddd... Titolo originale: The Watchers. Fuori dal tempo CARROLL JOHN DALY
Mi chiamano semplicemente D.P., ovvero Dean il Pigro. Ormai accetto questo soprannome come segno di stima e d'affetto. Sono stati i ragazzi dell'università a inventarlo, e gli insegnanti si sono adeguati. Vogliono dire che è pigro il mio corpo, non la mente. Non sono più molto informato su ciò che accade nel mondo: uso le mie ore di lettura per quello che gli altri non leggono. Quello che non appare sui giornali m'interessa parecchio di più di quello che vi appare. Esistono tante persone più capaci di me di comprendere e spiegare i fatti della vita quotidiana. Vivo a lato di una strada, di una strada laterale. Da anni godo di una posizione del tutto non ufficiale all'università: sono un buon ascoltatore, e uno che crede molto. Se credo nell'impossibile? Non mi è necessario credere nell'impossibile, visto che ho eliminato il vocabolo «impossibile» dal mio lessico. Trovo che certe cose siano improbabili, ma niente di più. Succedono troppe cose strane. In Università, quando qualcuno racconta un fatto che sfida la credulità delle menti accademiche, gli rispondono: «parlane a Dean il Pigro». E così, spesso i ragazzi vengono da me con avvenimenti improbabili. Anche gli insegnanti, quasi con aria di scusa, fingendo di prendere tutto sullo scherzo; però, di sottecchi, guardano come reagisco. È sorprendente quanto sono occupato. Provo un senso di soddisfazione e piacere quando siedo, in compagnia della mia pipa, ad ascoltare uno dei nostri studenti che mi racconta cose di cui non oserebbe fiatare col più intimo amico. Fu proprio con questo stato d'animo che spalancai la porta del mio appartamento, al secondo piano del museo, a Tommy Slatter, della facoltà di medicina. Tommy è un ragazzo di corporatura media, tendente al magro, con la carnagione scura; il tipo che se evita di specializzarsi in chirurgia può diventare un ottimo medico di famiglia. Tranquillo, modi piacevoli, occhi d'un blu acceso, amichevoli, bocca generosa e simpatica. Probabilmente non avrebbe mai combinato nulla di troppo speciale, ma è mia opinione che proprio questo sia il compito dei medici. La natura cura; un buon dottore deve solo dare conforto e sicurezza ai malati. Gli occhi di Tommy erano cerchiati, e le simpatiche fossette ai lati della sua bocca più pronunciate. Tommy era l'eroe dell'università, anche se non si faceva vivo da quasi una settimana, cioè da quando il fatto era successo. Era anche l'eroe di New York. Era addirittura un eroe nazionale e interna-
zionale: aveva cacciato in secondo piano ogni altra notizia sui giornali e alla radio, e senz'altro occupava il primo posto nella considerazione di uomini e donne. Vide che gettavo un'occhiata all'orologio. Mi piace fare le ore piccole, ma era già mezzanotte meno cinque. «Dai, dai, D.P.». La sua risata era artificiosa. «Tu non mandi mai indietro nessuno, giorno o notte che sia. Lo so che è tardi, e vedrai che sarà molto più tardi quando ti libererai di me. Sono venuto a fumare la pipa in compagnia». Tommy mi diede una mano a sistemare l'altra poltrona davanti al fuoco. Nonostante il mio invito, sedette solo dopo che io m'ero accomodato. Poi mi sedette di fronte, stese i piedi in direzione del camino, s'infilò una sigaretta tra le labbra e l'accese. Diceva sempre di voler fumare la pipa con me, ma non la fumava mai. Io riempii lentamente la pipa, l'accesi, gli sorrisi e aspettai. «Spero», attaccò lui d'improvviso, «che tu abbia letto un giornale, in questi ultimi giorni, o che almeno qualcuno t'abbia raccontato di cosa si parla». «Sì», gli risposi. «Ho letto tutti i giornali, visto tutte le foto. Sono persino andato due volte al cinema per rivedermi il cinegiornale. Ti sarà arrivato il mio biglietto di congratulazioni, no?». «Forse. Comunque non l'ho letto». Respirò a fondo. «Ho ricevuto letteralmente migliaia e migliaia di lettere. Centinaia di donne vogliono sposarmi. Centinaia di persone vogliono coprirmi di denaro, e altrettante persone vogliono togliermelo prima ancora che io l'abbia in mano. Il cinema mi ha offerto cifre favolose. Pensa che un night club è disposto a pagarmi diecimila dollari per una semplice apparizione». Scostò un poco la schiena dalla poltrona, si tese verso la luce. «Guardami, e non venirmi a dire che il troppo studio mi ha buttato giù, mi ha esaurito mentalmente e fisicamente». «No, Tommy», gli risposi, «non lo direi mai». «Certo che non lo diresti». Si concesse un sorriso stanco. «Sai che ho visto Dean Stone, l'augusto sovrano di questa istituzione? L'avevo intravisto solo una volta, da lontano. Non avrei mai creduto che si sarebbe abbassato a respirare la stessa aria che respiro io, e invece guarda, è quasi inciampato in quel suo morbidissimo tappeto per venire a stringermi la mano». «È più che giusto», annuii, «anche se tu la prendi tanto alla leggera. È
stato un atto molto coraggioso e nobile. L'università è fiera di te». «Sciocchezze». I suoi occhi blu s'accesero. «Non ho fatto proprio niente. Ho solo alzato le braccia e ho tirato giù la ragazza dall'aria». «Sì, lo hai raccontato ai giornalisti. Ne abbiamo discusso, qui all'università. L'opinione generale è che tu sia stato molto modesto, Tommy, e tutti sono fieri di come ti sei comportato. La modestia...». «Non è il mio lato forte», m'interruppe. «Mi vergogno di non essere modesto. Mi sento un imbroglione, un truffatore. Non ho fatto niente di più: ho solo alzato le braccia e l'ho tirata giù dall'aria». «Ma la ragazza è caduta dal terrazzo dell'attico, e tu l'hai presa fra le braccia e l'hai salvata. Magari i giornali ci hanno giocato un po' dentro: dicevano che non aveva nemmeno un graffio». «Infatti, non ne aveva». Tommy annuì vigorosamente. «Neanche una spelatura da due soldi». Serissimo, aggiunse: «Hai letto da quanti piani è precipitata?». «Sì, quattordici. Non credo proprio che tu debba vergognarti di nulla, Tommy. Hai compiuto un gesto magnifico, da eroe». «Quattordici piani», ripeté. «Ho spalancato le gambe, ho teso le braccia, le ginocchia hanno ceduto solo un po', ma sono riuscito a restare in piedi e a salvarla. Sto citando i resoconti dei giornali. Però... Non hai pensato alla forza di gravità? Credi... Credi che una cosa del genere sia possibile?». «Possibile... Be', l'avrei giudicata altamente improbabile, ma è successa. L'hai afferrata. Non sei caduto. Ti ha visto un sacco di gente. Una cinepresa...». Lui mi stava scrutando a fondo. «Cosa c'è, Tommy?», gli chiesi. «Continua, per favore. Dimmi cosa hai letto e cosa hai visto nel cinegiornale. Raccontami tutto come lo racconteresti a uno che non ne sappia niente». «Credi che esista qualcuno che non ne sa niente? D'accordo, Tommy, se è questo che vuoi. Wanda Lou Sherman, diciotto anni, figlia unica di Johnson H. Sherman, multimilionario magnate dell'acciaio, stava giocando a tennis da tavolo sulla terrazza del loro attico, nella parte alta di Park Avenue. Ai miei tempi si chiamava ping-pong, fra l'altro. Trascinata dal gioco... No, è stato perché le rimanevano ancora pochissime palline che è andata a sbattere contro il muretto. Si è voltata, si è tesa in avanti, ha afferrato la pallina, e per un motivo inesplicabile (ma questi motivi, Tommy, sono sempre inesplicabili) la pesantissima, resistentissima rete d'acciaio ha ceduto e lei è precipitata in strada, giù per quattordici piani. Fin qui tutto bene?».
«Esatto». Tommy era molto serio. «Avanti». «Benissimo. Era prima di cena, verso le cinque del pomeriggio, la via era affollata, perché sull'altro lato si celebrava un matrimonio. La ragazza ha urlato. La gente ha guardato in su. Il cameraman si è girato e ha ripreso la scena. Poi, Tommy, sei spuntato tu. L'hai afferrata, hai ceduto un po', sei quasi caduto. Però sei rimasto in piedi e le hai salvato la vita. Devo raccontarti anche di come la sposerai ed entrerai nell'industria dell'acciaio e...». «No. Questa parte possiamo saltarla. Quanta gente credi mi abbia visto farmi avanti e afferrare la ragazza?». «Tutti quelli che si trovavano lì, immagino. Anche quelli che in realtà non t'hanno visto. È nella natura umana, Tommy. Hanno detto che ti sei fatto avanti nella via. Non credo nessuno gli abbia chiesto da che direzione provenivi». «Ricordi la vecchia con lo scialle, quella che si vede nel cinegiornale? Cosa ha detto?». Io avevo un'aria perplessa. «Ha raccontato che sono apparso come dal nulla, e stringevo la ragazza fra le braccia». «È importante?». «Così importante», rispose Tommy, «da essere l'unico resoconto veritiero dei fatti. Oltre al mio, ovviamente: non ho fatto altro che alzare le braccia e tirarla giù dall'aria». Tommy si alzò, cominciò a passeggiare. «Senti, D.P.». Passeggiava e parlava. «Io prendo sul serio la forza di gravità e la velocità dei corpi che cadono. Il buonsenso farebbe capire a chiunque che nemmeno un gigante, figuriamoci uno magro come me, poteva afferrare quella ragazza dopo un volo di quattordici piani, anche se è alta appena un metro e sessanta e pesa poco più di quarantacinque chili. Ci saremmo sfracellati tutti e due, ridotti in poltiglia. Non riesci a crederlo?». «Credo che in certe occasioni la natura possa arrivare a vette insolite. Diciamo che d'improvviso la natura ti ha dato poteri sovrumani. O magari, più semplicemente, che sei stato all'altezza della situazione». «Tutto», adesso mi sorrideva con quel suo sorriso pensieroso, «è possibile. Ma credimi, esiste una soluzione molto più semplice. La verità: ho alzato le braccia e l'ho tirata giù dall'aria. Sai, l'ho raccontato a Dean Stone. Volevo vedere che effetto avrebbe fatto la verità su un uomo deciso, pratico. L'ho sfidato con la verità. E sai cosa m'ha detto? "La verità non può certamente far male a nessuno". Ci credi?». «Be'... No, Tommy. È una delle solite frasi da repertorio del nostro buon
rettore. Non poteva mica dirti di raccontare bugie». E dopo una lunga pausa: «Vuoi raccontarmi la verità, Tommy? Non penso che farebbe male né a te né a me». «Infatti», ammise Tommy. «Non può farti male. Tu hai parlato con uomini talmente... che hanno vissuto certe esperienze... Be', quelli che altri definirebbero pazzi. E non li hai fatti internare o cose del genere». «No». Sorrisi. «Niente cose del genere». «Ma tutto potrebbe essere un'illusione, no?». «Se la vita è un'illusione, sì». «E potrebbe esserlo?». «Tutto può essere, ma non lo ritengo probabile. Vedi, Tommy, io sento un sacco di cose da un sacco di gente. Ognuna di esse, presa singolarmente, pare incredibile; ma se le prendi tutte assieme, ti trovi di fronte a un'evidenza tanto ampia che sei portato a credere. Nessuno di noi nega l'esistenza delle stelle se non le vediamo perché il cielo è nuvoloso». «Allora hai già sentito tutto?». «Spero non tutto, Tommy». E lo pensavo sul serio. «La vita diventerebbe noiosissima se non mi aspettassi, se almeno non sperassi di sentire qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo per me, di nuovo per l'umanità». «Be', io posso accontentarti». Tommy mi fissava. «Non fosse per la ragazza, per i giornali e per il cinegiornale, dubiterei della mia sanità mentale. Ma per quanto strana e incredibile possa sembrare, c'è una sola spiegazione alla verità su Wanda Lou Sherman... e su me che la tiro giù dall'aria. Io non ci faccio più la figura dell'eroe, ma spiega come mai sono riuscito ad afferrare la ragazza con tanta facilità». «Davvero, Tommy?». Aspettai. E poi: «Me la racconti?». «Non so», rispose. E quasi subito sedette e mi raccontò tutto. Per me era una cosa nuova. Penso lo sarà anche per voi. «È tutto vero», attaccò. «Non stavo sognando. Non sono mai stato più sveglio in vita mia. O più sobrio. È stata lei». «Chi è stato, Tommy?». «Quella ragazza, Ruth. Sai, l'ho incontrata alla biblioteca Astor. Dovevo fare una ricerca per il dottor Clasueman. Allora credevo di essere stato molto abile, molto furbo, ma più tardi ho saputo che era stata lei a combinare tutto. Me l'ha confessato. Dovevo battere a macchina per ore e ore. Mi ha battuto tutto lei, all'istante. Centoventi cartelle dattiloscritte. All'istante». «Scusa, ma cosa significa "all'istante", Tommy?».
«Insomma». Il suo sorriso era davvero pensieroso. «Io le ho dato la carta, la carta bianca. Lei l'ha presa con la sinistra e me l'ha restituita con la destra, perfettamente battuta a macchina. All'istante». «Questo», dissi, «è davvero notevole». Mi misi ad ascoltare con più attenzione. «Altro che notevole, se tieni presente che lei non aveva la macchina da scrivere e che comunque, in quella sala della biblioteca, non è permesso usarla». «Immagino», stavo cercando d'aiutarlo, «che tu ti sia addormentato, o che non abbia guardato l'orologio. O che lei fosse molto bella». «Ho guardato l'orologio. Me lo ha chiesto lei. Non è passato neanche un po' di tempo. Sì, D.P., è una ragazza bellissima. Ruth o non Ruth, è araba: il tipo di ragazza araba che un regista infilerebbe in un film tratto dalle Mille e una notte». «Immagino ci sia una spiegazione molto semplice». «Oh, sì, D.P.». Rise nervosamente. «Certo che c'è una spiegazione, e piuttosto semplice dal punto di vista della ragazza. Quello è stato l'inizio, poi ho visto Ruth parecchie volte. Dimostra una ventina d'anni, ma ne ha... Be', parleremo dopo della sua età. Non voglio raccontarti più di quello che puoi digerire in un colpo solo». «Ho digerito molte cose, in questi anni. Spero di digerirne ancora». «È probabile». Per un attimo il suo sorriso lo ringiovanì. «Ti farò ingoiare tutto a piccole dosi, come l'ho ingoiato io. In seguito è successo altre due volte: lei faceva il lavoro per me all'istante. Sai, ormai uscivamo sempre assieme, andavamo a cena in piccoli ristoranti fuori mano. Cucina straniera. Tra parentesi, Ruth parla come minimo una dozzina di lingue in modo perfetto, se questo ti sorprende». «Mi interessa. Va' avanti». «Be', si avvicinavano gli ultimi esami, sai com'è, e io avevo un mucchio di cose da fare, e continuavo a lamentarmi che non c'era abbastanza tempo. Ruth mi prendeva in giro. Una volta mi disse... Ricordo perfettamente. Disse: "Non hai bisogno di più tempo, Tommy. Hai bisogno di meno tempo. A dire il vero, hai bisogno di assenza di tempo"». «E ti ha spiegato?». «No. Non allora. Mi è stato spiegato più tardi. Ma continuava a farmi lo stesso scherzo: io le passavo gli appunti e le note allo stato grezzo e lei me li restituiva perfettamente battuti a macchina. All'istante, capisci?». «Capisco, Tommy».
«Sul serio?». Gli angoli della sua bocca si piegarono. «È più di quanto riuscissi a fare io, D.P. Ruth era molto intelligente e molto saggia, e ci piacevamo moltissimo. Io mi conosco abbastanza bene, e stranamente riuscivo a capire anche le sue sensazioni. Lei non era come la sua amica: molto seria, d'accordo, ma anche così simpatica». «La sua amica, Tommy?». «La sua amica era più vecchia, comunque non aveva più di venticinque anni. Ti sto parlando del tempo dei nostri calendari. Mi pareva di essere in mostra: quella donna mi scrutava con occhi che sembravano guardare dall'abisso dei secoli. È la cosa che ho pensato subito la prima volta che l'ho vista. Era una donna molto bella ma troppo seria, come se il peso del mondo riposasse solo sulle sue spalle». «Aveva un nome?», gli chiesi. «Sì, aveva un nome. Possiamo parlarne dopo? Insomma, io stavo sempre con Ruth, e a un certo punto lei mi ha dato il primo scossone. Sai cos'ha fatto, D.P.? Mi ha preso tutte e due le mani, mi ha fissato a lungo, intensamente, ed è scomparsa. Così». «Così?». «Be', un attimo prima era lì, e poi non c'era più. Allora non capivo, ma adesso so cos'era successo. Cos'era esattamente successo». Puntò i suoi occhi blu su di me, quasi per scrutare il futuro. Non voleva sapere come la stavo prendendo, ma come l'avrei presa. Ammesso che continuasse a raccontare. E continuò. «Riapparve». Tommy Slatter affondò di nuovo nella poltrona. «Mi stringeva le mani e mi guardava. Era riapparsa dal nulla, come nei trucchi d'un prestigiatore. Ricordo di aver detto qualcosa di particolarmente scemo, tipo "Dovresti darti all'illusionismo", o un'altra frase altrettanto cretina. E ho aggiunto che sarebbe stato molto imbarazzante averla per moglie. «Ricordo la sua risposta, e il tono dolce della sua risata. Mi disse: "Oh, ma non potrebbe succedere se fossimo sposati. Scompariremmo assieme dagli occhi dell'altra gente". Per adesso non chiedermi di spiegarti, ci arrivo subito. È piuttosto facile da capire, se accetti la faccenda nel suo insieme. Voglio dire se accetti tutto, quando avrò finito di raccontare». «Sì, ero innamorato di lei. Perché no? Sì, avevo tentato di baciarla. E questo l'aveva spaventata. Capisci, non è che fosse troppo timida, o che mi trovasse repellente. Voglio solo dire che era spaventata. Mi ha avvertito di non provarci mai più con estrema serietà e solennità, stringendomi tutte e
due le mani». Tommy rimase a pensare per un attimo. «Deve essere stato più o meno in quel periodo che me lo ha chiesto. «"Tommy", mi ha domandato, "ti piacerebbe vivere per sempre?". «"Con te non mi dispiacerebbe", le risposi, afferrando al volo l'occasione. Lei mi guardò molto a lungo prima di mettersi a ridere. Come se... Be', come se volesse crederci ma trovasse la frase un po' stereotipata. In effetti le avevo risposto senza pensarci molto, ma non scherzavo. Lo pensavo sul serio, e glielo dissi, e le chiesi di sposarmi. Riuscii a convincerla. La strinsi fra le braccia, e che il cielo mi aiuti, D.P., ma per me lei era ed è l'unica donna di questo mondo. Mi fece ripetere un sacco di volte che volevo vivere per sempre (con lei, attenzione), e che non scherzavo. «E adesso viene la grande scena d'amore, D.P.». Pareva che Tommy avesse fretta di raccontarmela. «La più bella donna del mondo fra le braccia, e le sue labbra vicinissime alle mie. Mi disse che mi aspettava da... duemila anni. Sì, duemila anni. Sembrava così naturale e vero e meraviglioso oltre ogni parola, e lei era lì fra le mie braccia, non fiacca e abbandonata, capisci, ma viva e innamorata, e mi sussurrò qualcosa, mi parlò del bacio della vita eterna». Poi Tommy mi chiese, quasi con durezza, perché sapevo che odiava le esibizioni di sentimentalismo: «Nessuno ha mai definito così un bacio, non è vero?». «Non lo so, Tommy. Le mie ricerche non sono troppo romantiche. Il mio lavoro... Un lungo lavoro...». Sorrisi. «Quando trovo il tempo di dedicarmici, mi porta fra le mummie dell'Egitto, nel loro passato». «Quanto vai indietro?», domandò, poi cambiò subito argomento. «Ci baciammo. Non avevo dubbi allora, e non ne ho oggi, su Ruth: io l'amo e lei mi ama». Rise. «È un bel po' per aspettare un uomo, no, duemila anni o forse più? Capisci, non lo sa esattamente quanti anni sono passati, ma dopo tanto tempo si fa presto a dimenticare. Dovrei proprio capirlo, e...». Improvvisamente, era sorpreso. «Guardami, D.P. Ti sembro diverso?». Scrutò l'orologio sul caminetto. «Continua ad andare avanti. E il tempo passa, quando le lancette si muovono. Però io non sento lo scorrere del tempo». Era vagamente perplesso. «Tu lo senti?». «Non si sente mai lo scorrere del tempo. Ci si accorge che è passato, ma non lo si sente passare, Tommy». «Davvero?». Non pareva troppo convinto. «Prima non ci avevo mai pensato, e adesso non riesco più a capirlo. Ma dovrebbe esserci una sensazione, una sensazione particolare, qualcosa di diverso. O forse no. Scusa, sono andato troppo avanti con la mia storia».
«Può darsi. Prenditela calma, Tommy. Ti vedo preoccupato». «Purtroppo. Non ho più visto Ruth da che sono balzato alla ribalta, da quando ho salvato l'erede dell'impero dell'acciaio. E non so se sto vivendo una vita normale o una vita eterna. E non riuscirò mai a scoprirlo se non la rivedo o...». Gettò un'occhiata al grande orologio. «Si ferma». «No, non si fermerà. Puoi starne certo». «Davvero? Ho i miei dubbi». Si piegò in avanti. «Se non esistesse più tempo, D.P., l'orologio non avrebbe più ragione di continuare a battere, no? A pensarci bene, se non esistesse più tempo l'orologio non avrebbe più tempo di battere, non ti pare? È ragionevole». «Se accetto la tua ipotesi sul tempo». Gli sorrisi. «Ci arriveremo». Annuì con forza. «Ruth si mise a parlare in modo abbastanza sconclusionato, o così credevo. La sua amica, l'altra ragazza che per adesso è senza nome, voleva raccontarmi tutto subito. Prima che accadesse. Ma Ruth si opponeva. Diceva che doveva succedermi all'improvviso, da un momento all'altro. Che io ero il tipo di persona che poteva sopportarlo. Non usò il verbo "sopportare". Penso che abbia parlato di "adattarsi". Non fare quell'espressione stupita, D.P. Te lo sto raccontando come mi è successo. E se ti stupisce sentirlo da me, figurati come mi sentivo io. Eppure non credo di aver avuto quella tua aria curiosa. Una curiosità intelligente e acuta, intendiamoci. Penso di essere rimasto immobile come un baccalà. Ma non ero sconvolto, capisci, non m'importava niente: ero così innamorato, e... Be', lei guardò il suo orologio da polso e disse... Queste parole le ricordo bene. «"Adesso usciamo in strada, Tommy. Credo che Times Square sia l'ideale. Voglio che la prima volta tu lo sperimenti in tutta la sua forza e il suo splendore". Erano le cinque di un delizioso pomeriggio di primavera, D.P. Times Square era piena di gente, fai attenzione a questo particolare. Times Square nel pieno dell'ora di punta della passeggiata serale. Non riuscivo proprio a capirlo: eravamo noi due, ed era la prima volta che ci trovavamo fra le braccia l'uno dell'altra, e ci eravamo promessi di restare uniti per la vita... La vita eterna. «Non ho ancora messo le carte in tavola, eh? Ci arrivo. Ormai ci siamo. Ricorda, ci troviamo nel cuore di New York, a Times Square nell'ora del passeggio serale. La gente che è di buon umore ti sfiora sorridendo, quelli di cattivo umore ti spingono da parte perché hanno paura di perdere un minuto, di non riuscire a infilarsi nella sotterranea. Un attimo prima avevo
attorno il rombo dei motori e il suono dei clacson e il tintinnio delle campane e le voci forti, secche della gente, e poi... il silenzio, un silenzio mortale. Come se una mano enorme avesse colpito d'improvviso la città e l'avesse ammutolita, se non uccisa. «Capisci, non c'era più un solo rumore, a parte il respiro dolce di Ruth che mi stringeva il braccio. Erano spariti lo strepitio del traffico, lo sferragliare della metropolitana, le voci della gente. Ed erano scomparse anche la pressione, le spinte che gli altri esercitavano su di me. Oh, le persone erano sempre lì, potevo toccarle, ma non si muovevano. Proprio così, D.P. «OGNI ESSERE VIVENTE ERA IMMOBILE, COME CONGELATO. «Macchine immobili e silenziose per strada. La gente paralizzata, come statue in un museo delle cere o animali impagliati. Tutti immobili e silenziosi, fermi nelle posizioni più grottesche. Grottesche solo perché erano talmente strane, immagino. C'era un uomo col piede alzato per aria: stava per fare un passo quando la "cosa" l'aveva colpito. E una donna che voleva salire su un taxi, metà dentro e metà fuori, paralizzata. «Forse non riuscirei neanche a descrivere la scena, se una volta non avessi visto un documentario sulla Grand Central Station. Il proiettore si ruppe, e le immagini sullo schermo s'immobilizzarono: un film trasformato in fotografia. È esattamente ciò che mi è successo quel pomeriggio: una città viva trasformata in una città immobile. Nulla si muoveva, nessuno respirava, tranne Ruth e me. «Era qualcosa di stupefacente e di terribilmente grandioso. Era come camminare in una città di morti, con la gente immobilizzata dalla cosa che s'era abbattuta su di loro. «"Cos'è, Ruth?", boccheggiai. «"Il tempo". Lei mi strinse più forte il braccio. "Il tempo si è fermato, Tommy". Io la fissavo senza capire. "Forse dovevo avvisarti, forse è troppo, per te. Il tempo si è fermato, e si sono fermati anche coloro che vivono nel tempo. Io, e pochi altri come me, viviamo fuori dal tempo. Adesso è successo a te. Ho vissuto fuori dal tempo per più di duemila anni. Ecco perché non ne ho ancora venti: il tempo non mi tocca". «D.P., capisci cosa ti sto raccontando? Il tempo si era fermato, e Ruth e io ne eravamo fuori, fuori dal tempo. Ci credi?». «Vai avanti», gli risposi. «Quanto è durato il fenomeno?». «Quanto è durato?». Tommy rise. «Anch'io ho fatto la stessa domanda a Ruth. Ma cosa significa "quanto"? Non c'era tempo. Non è durato nulla, ed è durato un'eternità. Chiedimi come mi sentivo, a questo posso rispondere.
Non mi sentivo affatto diverso da come mi sento ora, da come mi sono sempre sentito, solo che ero come tramortito dalla vastità, dall'impossibilità dell'impossibile. L'impossibile che mi stava accadendo davanti agli occhi. «Sopra di noi, un grande aereo era fermo nell'aria. Chiesi a Ruth se non sarebbe caduto. Lei si limitò a stringermi di più il braccio e a guidarmi nelle strade, tra figure immobili di uomini e donne. "Non può cadere", mi spiegò. "Non esiste tempo. Il tempo si è fermato, Tommy, e tutte le cose e le persone che vedi immobili si sono fermate con lui". «"E... Il tempo tornerà? Riprenderanno tutti a vivere?". «Passato l'impatto del primo choc, adesso Ruth si divertiva alla mia confusione. Si mise a ridere. «"Non se ne accorgeranno. Non se ne sono mai accorti. Capisci, Tommy, è successo migliaia e migliaia di volte nel corso dei secoli. È successo la prima volta che ho fatto quel lavoro per te, in biblioteca. Il tempo si è fermato, e io ho battuto a macchina i tuoi appunti. È successo nel mio appartamento, quando ti ho preso le mani e sono scomparsa. «"Esistono molte persone come te... Come me?", le chiesi. «"Qualcuno vive fuori dal tempo, sì. La mia amica viveva fuori dal tempo prima ancora che io nascessi. Vieni, andiamo all'ottava strada, vediamo se si può evitare qualche incidente". «Non posso raccontarti tutto. Ciò che ho visto e ciò che ho fatto spiega molti di quelli che i giornali chiamano miracoli. Trovammo una bambina che era scivolata sotto le ruote di un camion. Il tempo si era fermato: ancora un secondo, e la bambina sarebbe morta, orribilmente schiacciata. Qualcuno, lì attorno, l'aveva già vista morta. Sua madre stava correndo verso di lei, e il suo viso esprimeva un dolore immenso. La scomparsa del tempo aveva arrestato la sua corsa. Ho raccolto la bambina e l'ho appoggiata sul marciapiede. Ne hanno parlato anche i giornali. Hanno gridato al miracolo, hanno detto che la ruota del camion deve averla gettata sul marciapiede senza farle neanche un graffio». «E ho visto altre cose». Di nuovo quel suo sorriso pensoso. «In un ristorante affollato, una donna impazzita di gelosia aveva sparato al marito. Eravamo a Broadway. Ce ne siamo accorti guardando dentro dalla vetrata. Sarà un po' duro crederci, D.P., ma ormai puoi digerire anche le cose più dure: ho tirato via il proiettile che era immobile per aria. L'ho qui con me». Tommy s'infilò la mano in tasca, e un attimo dopo mi passò un proiettile.
«Ho scaricato la pistola e l'ho rimessa in mano alla donna. No, le dita non erano dure e rigide: morbide e pieghevoli come al solito...». Una risata nervosa. «Perché, naturalmente, la donna era viva. «D.P., abbiamo incontrato qualcun altro... come noi. Non molti, uno qui e uno là. Sembrava che avessero del lavoro da fare. Un uomo di mezza età ci raccontò che in un appartamento della città bassa era scoppiato un incendio, e che una donna era sfuggita alle braccia dei pompieri, lanciandosi tra le fiamme. "L'ho riacciuffata e l'ho depositata sulle spalle di un pompiere", ci disse. "Un altro miracolo per i giornali, a meno che il pompiere non si vergogni di parlarne: quella donna era già spacciata". «"Ma le fiamme non ti hanno bruciato?", gli chiesi. «"No, non esiste tempo"». Tommy Slatter s'interruppe per un lungo momento, e poi mi scrutò a fondo. Tirò un'ultima boccata dalla sigaretta, la gettò nel camino. Fece per ricominciare, accese un'altra sigaretta. Io non dissi nulla. Lui riprese a parlare. «Ormai avrai capito dove voglio arrivare, D.P.». Trasse un grande respiro. «Non l'ho raccontato bene, comunque sono stupito di essere riuscito a raccontarlo. Tu sei un uomo molto notevole, D.P.». Una pausa. «Camminammo per la città, scivolando tra quelle figure immobili ma tutt'altro che inespressive. È strano: se ti fermi a studiare un volto, se lo guardi da vicino, ti accorgi che... Non importa. Traversammo Park Avenue, arrivammo nella zona alta: il matrimonio, l'operatore con la cinepresa, un mucchio di gente. Probabilmente avevano urlato, ma io non avevo sentito nulla perché il tempo s'era fermato. Il tempo si era fermato proprio quando il corpo di quella bella ragazza stava precipitando verso il suolo, incontro a una morte orribilmente violenta. «Non la vidi subito. Me la fece notare l'espressione sui volti di quelli che l'avevano sentita gridare e stavano guardando in su. Espressioni straordinarie, te l'assicuro. L'operatore aveva già girato la cinepresa e stava riprendendo la scena. Cosa vedeva tutta quella gente, o piuttosto cosa avrebbe visto al ritorno del tempo? Avevano visto un corpo che cadeva, avrebbero visto il corpo riprendere a cadere. Mi segui?». «Non del tutto», gli risposi. «Be'... Naturalmente avrebbero pensato di aver visto la ragazza cadere giù per i quattordici piani. Ma non è vero. L'avrebbero vista cadere solo d'un paio di metri. Forse si sarebbe fatta male a un braccio, si sarebbe slogata una caviglia. Comunque, per una ragazza giovane e piena di salute
non può essere una tragedia cadere da due metri. Anche quello sarebbe diventato uno dei soliti miracoli. Il tempo si era fermato quando lei era a due metri dal suolo, e al ritorno del tempo lei sarebbe caduta di due soli metri. «Credo di aver dimenticato il tempo, credo di aver dimenticato le centinaia di persone immobili lì. Non so cosa pensavo, so solo cos'ho fatto. Sono corso per strada, ho alzato le braccia per tirare giù la ragazza, ed è successo». «È successo cosa?», domandai. «È tornato il tempo. Un minuto prima c'era il silenzio della morte, e le mie braccia si tendevano in alto. Un minuto dopo, il rumore di una grande città. Le urla di uomini e donne isteriche. Il grido d'agonia dalle labbra della ragazza. E questo è tutto, D.P. Lei mi è caduta tra le braccia e io l'ho afferrata. Anche un ragazzino di dodici anni poteva riuscirci. E così... Ecco tutto. Ecco la verità. Ecco perché dico che l'ho solo tirata giù dall'aria». Aspettava che io parlassi. Gli chiesi semplicemente: «Cos'è accaduto a Ruth?». «Non lo so. Non l'ho più vista». Mentre vuotavo la pipa nel caminetto e tornavo a riempirla, non staccai i miei occhi dai suoi. Poi dissi: «E l'altra ragazza, quella più vecchia?». Lui non rispondeva. «Si è fatta viva, non è vero?». «Sì». Tommy annuì. «Si è fatta viva». Mi alzai, impiegai un mucchio di tempo ad accendere la pipa. Poi mi avvicinai alla cassaforte murale, tirai fuori la chiave, l'aprii ed estrassi centinaia di pagine di note. «Una storia interessante, Tommy». Tornato in poltrona, depositai le carte sulle mie ginocchia. «Queste note sono il frutto di quasi vent'anni di studio e di ricerca. Il mio libro parlerà dell'Egitto, Tommy. Dubitavo di avere mai il tempo di finirlo». «Forse», adesso il suo sorriso pensoso era enorme, «non hai bisogno di tempo, ma dell'assenza del tempo». «Forse». Ero molto serio. «Anch'io ho una piccola storia. Non è drammatica o eccitante come la tua, ma mi ha lasciato piuttosto sconcertato. Nel giro di poche ore, mentre dormivo, qualcuno si è impossessato di queste note, vi ha apportato correzioni e aggiunte. Ha aggiunto del materiale che io nemmeno sognavo. Ha documentato fatti che in tutti questi anni non ero riuscito a provare. E poi ci sono dei dati che ritenevo al di là delle conoscenze umane».
«Un po' come quello che mi è successo con la mia ricerca, no?». «Direi di sì. Comunque mi è stata offerta una chiave: un nome scarabocchiato a matita su una pagina. Quasi indecifrabile, ma sono riuscito a capirlo. L'amica di Ruth si chiama... Naomi?». «Allora mi credi». Tommy s'alzò. «Sì, Naomi. Vedi, non dovevo dirtelo, dovevi essere tu a dirmelo. Tu...». S'interruppe. «È stata lei a dirti di venire da me?». Tommy scrutò la stanza, puntò gli occhi nell'angolo più buio, quasi s'aspettasse di vedere qualcuno acquattato nelle tenebre. «Sì... È stata lei, D.P.». E poi sputò tutto: «Naomi. Mi fa paura. Non credo che nutra il minimo interesse per me, o per Ruth. Gl'interessi tu. Mi ha interrogato su di te per ore, e adesso... ecco... non potrò più rivedere Ruth se... se... Signore, D.P., a Naomi interessi... interessi tu». «Oppure il mio lavoro». Gli sorrisi. «Ma ha ragione, Tommy: non mi resta da vivere il tempo necessario per terminarlo», e aggiunsi, spero senza immodestia: «È un lavoro importante, un grande lavoro, un grandissimo lavoro». «Devo chiamarla». Tommy, eccitatissimo, fissava il telefono. «Se voglio rivedere Ruth, devo chiamare subito Naomi. Mi ha mandato da te, e... e...». Si fermò, deglutì. «Non credo che si tratti solo del tuo lavoro, D.P., a giudicare da come parla di te. E sono sicuro che è pericolosa, una donna molto pericolosa. Vuole che tu esca dal tempo con... con lei. Puoi farlo? Vuoi farlo? È centinaia d'anni più vecchia di Ruth. Ne hai il coraggio?». Un ragazzo onesto, Tommy. E anche romantico, mi parve allora. D'altronde io avevo sempre ascoltato molto, ma fatto pochissime esperienze. Forse sorrisi: pensavo a come sarebbe stato parlare con una donna di... be', diciamo di più di venticinque secoli. E poi c'era il mio lavoro, il mio lavoro incompleto. Guardai Tommy: era così eccitato. Erano passati molti anni da che io avevo provato un'eccitazione simile. Per cui gli risposi, gentilmente: «Chiama Naomi, Tommy. E dille che sarò lietissimo di uscire dal tempo con lei». Titolo originale: Outside of Time. Una bella famiglia MARGARET ST. CLAIR
«Forse David le vuole bene sul serio», disse Mamma, incerta. «E noi non vogliamo che il nostro ragazzo sia infelice, no?». Kate gettò la testa all'indietro e rise. La luce artificiale traeva riflessi brillanti dai suoi denti lunghi, forti. «Certo che le vuole bene», urlò con la sua voce roca. «Certo che le vuole bene. Disperatamente, enormemente. Altrimenti, perché dovrebbe volerla sposare?». Nella stanza in penombra, il soffitto a travi mandò un'eco obbediente: «Sposare... Sposare...». «Kate è sempre stata innamorata di suo fratello», disse Lance dall'altro lato della stanza. Lance era magro. David non aveva mai conosciuto nessuno magro quanto Lance. «Deve proprio imparare a stare attenta. La nostra famiglia si chiama Vlchek, non Volsung, Katharine». Tutti risero. Da un volto all'altro scivolò una fulgida ondata di complicità, di gioia condivisa, familiare. Solo Kate si rifiutò di accettare lo scherzo, borbottando. «Non intendevo offenderti, Katharine», disse Lance, in fretta. «Proprio no. Ma abbiamo capito già da molto tempo che di tutti noi David è l'unico capace di conquistarsi il successo nel mondo esterno. Possiede alcune qualità che lo rendono notevolmente, particolarmente attraente all'altro sesso. Il che non deve spezzarti il cuore: tutto quello che fa lo fa per noi». «Ma se le vuole bene sul serio...», ripeté Mamma, fissando la stoffa verde, consunta, che le copriva le mani. «Se le vuole...». Ormai era tempo che parlasse David. «Mi piace, sì», ammise. «Più di quanto mi piacessero tutte le altre. Ma questo non fa che migliorare la situazione. Come ha detto Lance, tutto quello che faccio lo faccio per la famiglia». «Sei un bravo ragazzo, David», sorrise Mamma. «Cosa faremmo mai senza di te? Anno dopo anno, tu provvedi a noi». Gli altri annuirono, in generoso riconoscimento. David arrossì di piacere: chi poteva contare qualcosa, Elaine compresa, di fronte a tanto? «Però non ci saranno guai, vero?», chiese ansiosamente Minna. «Ti ricordi cos'è successo due anni fa». «No, no», la tranquillizzò David. «Non se è David a preparare le cose», intervenne impetuosamente Kate. «Caro dolce David. David è così intelligente. Possiamo contare su di lui». Gli si avvicinò e prese a carezzargli il braccio con la testa, gli occhi mezzi chiusi. Compiaciuto, David tese la mano e sfiorò i pochi, duri capelli sulla testa di lei. Kate gli era sempre piaciuta.
«E viene?», chiese Mamma, alzandosi dalla poltrona. «Domani sera». Il momento difficile era quando entravano in casa. Mamma dava aria, spolverava, spazzava, puliva, ma era sempre una casa strana. Quella rompiscatole di Gunning, due anni prima, aveva annusato l'atmosfera e poi aveva detto che c'era un odore molto particolare. Invece Elaine oltrepassò la soglia senza il minimo borbottio: sì, la casa le piaceva. «Devi aiutarla a vestirsi, Kate», disse David, raggiungendo sua sorella sulla scala. «Ha detto che hai due begli occhi. Però ricordati di non toglierti il foulard, se no si spaventa». «Lo terrò a mente», rispose Kate, emozionatissima. «Oh, David, com'è bella. Mi piace, mi piace tanto». La sua gola pulsava. «Bene!». David le tirò un colpetto affettuoso. «Non dimenticarti». In cantina, tutto era pronto: l'altare coi drappi neri, le candele nere, il grande catino nero di ottone. David si sentì invaso da un senso di gratitudine. Tutto procedeva così bene, con tanta decorosità, tanta decenza. Odiava la mediocrità e le scene. Il comportamento di quella Gunning era stato un orribile colpo a un antico rituale, ma quella sera non sarebbe successo nulla del genere. Ne era dolcemente, intimamente sicuro. Mamma venne giù dalle scale mentre lui era ancora inginocchiato. «M'ero scordata il giusquiamo», spiegò. «Minna era in pensiero». Prese dalla credenza un fiasco panciuto, in creta screziata di verde. «David, sei certo che non ti dispiacerà troppo sacrificare Elaine?». «No. A lui...», fece un cenno in direzione dell'altare, «a lui piace così». «Lo so», comprensiva, lei prese nella sua fredda, bizzarra mano quella del figlio. «Caro David», disse. Elaine fu meravigliosa, a cena. Mangiò e bevve senza fretta, rise alle battute di Lance, parve non accorgersi delle mani di Mamma. E com'era bella! Contro la stoffa nera del vestito, le sue braccia erano più bianche dell'avorio, della pergamena. La sua bocca era come vino rosso, i suoi capelli come seta nera. Kate, che serviva a tavola, ne era incantata. A un certo punto, dimenticando le precauzioni, cominciò a sfregarsi lentamente contro Elaine, ed Elaine le sorrise dolcemente, teneramente. Adesso veniva il momento più delicato, delicato nonostante il giusquiamo che doveva rendere Elaine disponibile e suggestionabile: Mamma suggerì di fare un salto da basso. Ma Elaine accettò subito, come se le future suocere invitassero sempre la fidanzata del figlio a dare un'occhiata in can-
tina, dopo cena. La scala era stata riparata, durante l'anno; era scomparso quell'orribile scricchiolio. Mamma scese con aria decisa, Elaine la seguì graziosamente. Persino Minna se ne stava in silenzio. Tutti gli altri venivano dietro. Al fondo della scala, Elaine s'arrestò. Era lì che, due anni prima, Gunning si era messa a urlare e aveva cercato di scappare. Indubbiamente, era un momento delicato (bisogna però dire che l'intera serata sarebbe stata un succedersi di momenti delicati, l'uno dopo l'altro, sino all'irresistibile delizia dell'ultimo, trascendente, delicatissimo momento). Elaine girò il viso verso David. «Che splendido arredo», gli disse. I suoi occhi si erano allargati un poco, prima che lei parlasse? David si trovò a riflettere. Elaine aveva pronunciato quella frase con tutta la grazia di una persona di sangue reale; e, come fedeli sudditi della regina, gli altri alle sue spalle le avevano dato corda, si erano guardati e avevano sorriso pieni d'orgoglio, e i loro occhi erano lucidi, brillanti come quelli d'un pipistrello. O forse era proprio l'arredo così tradizionale della cantina che non l'aveva sorpresa? A David sarebbe piaciuto riflettere su quell'interrogativo, ma non c'era tempo. Elaine si stava lentamente avvicinando all'altare, e gli altri lo spingevano verso di lei con una fretta molto fisica e concreta, ma anche psichica. La catena di adoratori si mosse in una danza lenta, sinuosa. L'altare indietreggiava, lo spazio stesso sembrava distendersi e contrarsi attorno a loro. Poi David ed Elaine si ritrovarono su un pavimento immobile, a fissare la croce col rospo impalato. Il canto arrivava, dolce, fino alle loro orecchie. Elaine lasciò ricadere lentamente a terra la mantellina. Alla luce delle candele nere, la sua pelle splendeva come alabastro; e mentre lei scioglieva i suoi capelli neri come la mezzanotte, Kate (David poteva vederne il corpo pesante dall'angolo degli occhi) ebbe un piccolo sobbalzo e prese a rantolare, come in delirio. Meravigliosa Elaine: lui l'amava, tutti l'amavano. Si sentì invaso da un'emozione terribilmente intensa, e non riusciva a capire se si trattava d'angoscia o riconoscenza. Il canto si fece più alto. Era giunta l'ora. Quasi senza fiato, David assunse il ruolo del celebrante, ma affogava nell'emozione, non sapeva uscirne. Nel turbine della passione, si attaccò disperatamente alle parole e ai simboli del rituale, e meravigliosamente, prodigiosamente, il rito salì di estasi in estasi, nel solito vertiginoso modo.
Poi giunse il momento che lui raccolse il pugnale. «Inginocchiati», disse alla bella, deliziosa Elaine. Ed Elaine, sorridendo appena, tese le mani e gli strappò il pugnale. Kate aveva sussultato? No, non si udì un solo suono. E la cosa più strana fu che non si verificò il più piccolo crollo di tensione, nemmeno quando lui si inginocchiò e lei gli mise il catino sotto la gola. La cosa più strana fu che niente era strano. No, nemmeno quello era strano. Tutto quello che aveva fatto lo aveva fatto per la famiglia. Anno dopo anno aveva provveduto ai loro bisogni. Anche quella notte avrebbe provveduto. Il pugnale che Elaine stringeva in mano stava scendendo. Calmo, contento, David chiuse gli occhi. Titolo originale: The Family. Un dono dal cielo EMIL PETAJA Il temporale notturno aveva riempito la desolata spiaggia di detriti. Detriti d'ogni tipo, scaraventati lì da un oceano frettoloso. C'erano persino due relitti umani. Il cielo era un'antica coppa di rame: chiudeva la terra, la proteggeva dalle minacce in agguato nello spazio esterno. Durante la notte il vento aveva ululato come mille demoni, il tuono aveva mugghiato lungo le colline, i lampi s'erano scatenati. Si erano infiltrati nelle caverne più remote, più lontane dal mare; ed era stata l'alba a cacciarli, o forse il freddo e l'insaziabile appetito. Il vento era morto, una strana calma regnava sul grigio, nervoso oceano. Ma faceva un freddo incredibile, in quella mattina di fine aprile, su quel lembo di spiaggia una quarantina di chilometri a nord da San Quintino. Le grandi labbra di Big Tom erano blu. Un brivido le scosse quando lui, rabbioso, si chinò a sputare sulla sabbia. «Ti... Tiralo su, idiota! Ci vuo... Ci vuole del legno asciutto. Sto morendo dal freddo!». Anche il piccolo, magro Aino rabbrividì, ma non disse nulla. Si accucciò ancora di più sulla sabbia umida, odorosa; fissò alcuni detriti che gli stavano di fronte; ne stringeva qualcun altro al petto smunto. Il pezzo di legno che doveva raccogliere era mezzo seppellito nella sabbia, come se la mano d'un gigante l'avesse deposto lì. Era lungo una ventina di centimetri, piatto, lucido. Era come tutte le altre cose che il mare a-
veva depositato lì: un po' arrotondato dall'andare e venire delle onde, smangiato qua e là. Si poteva quasi immaginare che ci fosse scritto sopra qualcosa. Big Tom si grattò la pancia all'altezza della cintura di cuoio, che gli tagliava in due il corpo. Il suo viso grande, ispido, si oscurò quando Aino non gli rispose, non fece ciò che gli aveva ordinato. Poi il suo piede scattò in avanti, e Aino si precipitò sulla sabbia. Arrivò quasi a toccare quel curioso relitto. L'avrebbe senz'altro toccato; però lasciò cadere gli altri pezzi di legna e tese le mani in avanti. «Ti ho detto di tirarlo su!». Nel tono di Big Tom c'era qualcosa di terribilmente pauroso: avevano diviso per tre anni la stessa cella, e Aino aveva sempre obbedito come un cane. E poi, Aino aveva un fisico debole. Forse era nato per obbedire a qualcuno più forte di lui. Forse, qualcosa nel suo essere gli imponeva di prendere ordini da chi sapeva maneggiare meglio la vita. A San Quintino Tom Clegg si era assunto quel ruolo, e da che erano usciti, otto giorni prima, aveva richiesto la più completa servilità al suo compagno: era un suo diritto, era lui il più forte. E adesso, per la prima volta in tre anni e otto giorni, Aino non obbediva ai suoi ordini. «Tiralo su!». La voce di Big Tom era alta, minacciosa. Mise giù la legna che aveva raccolto. Aino si girò, lo guardò. Il suo volto magro, devastato, impallidì. La sua bocca (una fessura aperta a caso in un disordinato mucchio d'argilla) si spalancò, mettendo in mostra piccoli denti sporgenti. I suoi occhi si riempirono di terrore. Aino aveva paura di Big Tom. Specialmente quando Big Tom lo guardava a quel modo: il sopracciglio sinistro un po' teso verso il basso, il labbro inferiore, molliccio, spinto in fuori. Big Tom aveva generosamente nutrito quella paura, rafforzandola di tanto in tanto con eloquenti esempi di ciò che sarebbe accaduto ad Aino se non avesse rispettato gli ordini. Gli occhi impauriti di Aino tornarono a posarsi sul legno che doveva raccogliere. Poi uggiolò come un cucciolo, ma non lo toccò. La mano di Big Tom scattò. Aino rotolò sulla spiaggia, arrivò quasi al confine tra sabbia e mare. I suoi occhi erano aperti, timorosi, e c'era sangue sul suo viso. Non tentò nemmeno di asciugarlo. Non si mosse, rimase ad aspettare che Big Tom gli si avvicinasse e lo rimettesse in piedi. Big Tom lo scrollò come un cane che stia finendo un topo.
«Perché diavolo non lo hai tirato su, come ti avevo detto? Perché diavolo, eh?». Continuava a ripetere quella domanda, quasi si trattasse di un enigma che sfidava ogni comprensione. Dopo un po' lasciò andare Aino per fargli tirare il fiato, per sentirlo rispondere. Aino inghiottì aria e si passò furtivamente una mano sulla bocca ferita, come se il sangue fosse qualcosa di cui vergognarsi. «Io...». «Sputa tutto!». Il sopracciglio sinistro di Tom ricadde. «Non è un pezzo di legno qualsiasi», mormorò Aino. «C'è... C'è scritto qualcosa. È venuto dal cielo, coi lampi». Big Tom lo fissò, poi cominciò a ridere. Meraviglioso! E lui aveva temuto che Aino si stesse ribellando, che non volesse più fare lo schiavo. Aveva avuto paura di dover perdere il suo giocattolo. Aino poteva anche essere un aborto, uno sgorbio, come Big Tom continuava a ripetergli, ma sapeva leggere e scrivere. Quando avevano chiesto la carità a San Francisco, nella terza strada, tutti i soldi erano finiti in mano ad Aino, perché sembrava malato e affamato. Di fronte a Big Tom la gente tirava avanti, gli gettava sguardi freddissimi che dicevano perché non ti trovi un lavoro, delinquente? «Oh, è un'idea che ti sarà venuta da quei fottuti libri della biblioteca della prigione». Big Tom sghignazzò: aveva ritrovato il suo sadico buonumore. «Lo sapevo che non dovevo lasciarti leggere tutte quelle porcherie. Lo sapevo che ti saresti rimbecillito. I libri rimbecilliscono la gente. Non lo sapevi, bestia?». Si avvicinò di nuovo al pezzo di legno. «Vuoi che lo tiri su io, sgorbio? E cosa dovrebbe succedermi? Credi che resterò secco, se lo tocco?». Big Tom rise. «No...». I minuscoli denti di Aino morsero la sua bocca senza labbra. Ma era inutile discutere con Big Tom: non aveva mai sentito parlare di Charles Fort, di pietre di tuono. Non aveva mai sentito parlare degli orrori che si nascondono tra venti e tempeste. Non aveva mai sentito parlare di Loro, di quelli che vivono oltre la Terra. Big Tom ridacchiava mentre si chinava a raccogliere il legno. «Vedi?», sghignazzò. «E tu pensavi che mi avrebbe ucciso. Credi che sia una specie di... oggetto magico, magari un dio. È questo che pensi, sgorbio?». Si avvicinò, spinse il detrito contro la faccia di Aino. Aino fece un salto
all'indietro, uggiolando. Big Tom uscì in una grande risata. «Lo pensi ancora, eh? Perché? Rispondimi! Che cosa ti fa pensare che non sia un pezzo di legno come un altro, trasportato dall'acqua?». Gli occhi di Aino si portarono timidamente sulla cosa che Big Tom stringeva in mano, ma non l'abbandonarono più. Le sue pupille si dilatarono. La sua bocca si curvò, e lui rispose con una nuova dignità. «Non è un pezzo di legno come gli altri, Tom. È venuto giù dal cielo, non è uscito dal mare. È sceso nella tempesta. A volte loro mandano giù qualcosa, o vengono sulla terra in forme particolari. Charles Fort chiama "pietre di tuono" le cose che arrivano da fuori. Le conosceva, ma non sapeva che...». Big Tom l'interruppe con uno sbuffo. «Allora adesso sei più furbo di quelli che hanno scritto i libri, eh? Credi di essere molto intelligente, no, sgorbio? Molto furbo, eh?». «No, Tom. Però so...». «Guarda! È solo un pezzo di legno che viene dal mare!». «C'è scritto sopra qualcosa». Big Tom gettò un'occhiata di traverso. «E questa la chiami scrittura? Diavolo, io non so leggere, ma riconosco qualcosa di scritto quando lo vedo. Dove sarebbero le lettere?». Aino non cercò di spiegare. Non tentò di raccontare a Big Tom che esistevano libri in molte lingue, e che alcune lingue usavano simboli fonetici differenti, e che se qualcosa cadeva dal cielo e aveva delle frasi scritte sopra... «È perché è rimasto troppo tempo in mare». Big Tom grugnì. «L'acqua s'è mangiato il legno. Basta un po' di cervello per capirlo. Andrà benissimo per il fuoco». Aino si piegò a raccogliere i pezzi di legna, e nella sua mente s'incrociavano paura e preoccupazione. Mentre tornavano alla caverna, i suoi timori si concretizzarono in parole. «Tom, non lo brucerai!». «Davvero?». Big Tom rise. «Aspetta che ti faccio vedere!». Calcò l'enorme piede sulla spiaggia. «Non puoi, Tom!», gridò Aino. «Non è... quello che sembra! È vivo... È come un dio». La spiaggia, davanti a loro, tracciava un'ampia curva. «Sei diventato scemo, Aino», disse Big Tom. «Lo sapevo che ti sarebbe
successo, a leggere tutti quei libri. Com'è che dici una cosa tanto cretina?». Aino esitò. «Mi ha... Mi ha parlato». «Oh, ha aperto bocca e ti ha parlato!». «Ha parlato alla mia mente». Big Tom si stava spazientendo. Ne aveva abbastanza. Le sue labbra si piegarono in un sorriso sadico, poi lasciò cadere ai piedi di Aino l'oggetto che lo preoccupava tanto. «Fallo a pezzi!», gli ordinò. «Fallo a pezzi! Vediamo se c'è dentro un dio. Avanti! Fallo a pezzi prima che sia io a ridurre a pezzi te!». Aino rabbrividì, ma aveva la fronte coperta di sudore. «No, Tom! Non farmelo toccare!». Big Tom si tese come una molla. «Non lo sai cosa potrebbe succederti?». Sopra il rombo del mare, la sua voce sembrava una frustata. Aino, mugolando, cadde in ginocchio. Fissò il pezzo di legno che avevano trovato. Continuò a fissarlo. Dalla bocca gli uscivano sillabe prive di significato. Guardò Big Tom, e il viso dell'altro era senza pietà. Big Tom era stufo, impaziente, annoiato. La sua rabbia era la rabbia di un animale che non riesce a capire qualcosa, che deve reagire subito oppure mettersi a spaccare tutto. Gli occhi di Aino rotearono. Alle loro spalle, l'oceano sospirava. Sopra, nel cielo scuro, un gabbiano si tuffò, pianse, scomparve. Avevano intorno solo desolazione. Aino guardò la cosa che gli stava davanti. Poi, riverente, chinò il capo e la sfiorò con le labbra. Dopo aver picchiato a sangue Aino, fino al punto di sentirsi tutto indolenzito, Big Tom lo rimise in piedi e lo spinse verso la caverna. Fece portare ad Aino quel pezzo di legno. Aino ballonzolava avanti, debolissimo. Il cielo e il mare e la spiaggia desolata erano, ai suoi occhi feriti, niente di più che un'assurda macchia di colore. Tenne duro, continuò a camminare finché non raggiunsero l'apertura della roccia. Poi crollò. La legna si sparpagliò da per tutto, ma lui, fieramente, strinse contro il suo petto scheletrico quella cosa. «In piedi!». Big Tom lo prese a calci finché lui non riuscì, in qualche maniera, a sollevarsi. «Torna a Bolinas. Trova qualcosa da mangiare, intanto che io preparo il fuoco. Spicciati!». «Non ho soldi, Tom».
«Accidenti, devo proprio dirti tutto? Chiedi la carità, ruba. Però stai ben attento a portarmi qualcosa da mangiare». Mentre Aino usciva dalla caverna, lo afferrò per il polso. «E stai bene attento a tornare indietro, perché se mi tocca venirti a cercare, quant'è vero dio ti uccido. Non crederai che stia scherzando, eh?». «Tornerò, Tom», sussurrò Aino. Erano quasi le undici quando gli si parò di nuovo di fronte la familiare curva della spiaggia. Avanzò, sulla sabbia battuta dal mare, verso la caverna. Gli facevano male le gambe e la schiena, dove Big Tom lo aveva picchiato. Il suo volto pallido era ferito e incrostato di sangue, ma il sole lo riscaldava. A ogni passo, sollevava minuscole nuvole di sabbia asciutta. Si sentiva bene. Pensò: com'è buffo che certi giorni ti vanno tutte bene. Come quel mattino, a Bolinas. Tutti erano gentili con lui, gli sorridevano e si comportavano da amici. Aveva già bevuto due tazze di caffè e un boccale di birra gelata. Non avrebbe parlato a Big Tom del caffè e della birra. Si arrangiasse. Il grande sacco che trasportava conteneva cibo per tutti e due, sufficiente per un paio di giorni. E non era stato costretto a rubarlo. Big Tom non si sarebbe lamentato, a vedere tutto quel ben di dio. Gettò un'occhiata al sole luminosissimo, e s'affrettò. L'ora tarda e lo stomaco vuoto avrebbero ammorbidito le reazioni di Big Tom. «Fagioli!», sbuffò Big Tom, studiando con aria critica il contenuto del sacco di Aino. «Sono stufo marcio di fagioli!». Aino tirò fuori in tutta fretta due scatole di carne di maiale e una di pollo. «Dove le hai trovate?», chiese Big Tom, più condiscendente. «Me le ha date il droghiere». Aino mostrò i suoi piccoli denti, in un sorriso quasi inconscio. «Ha detto che gli ricordavo qualcuno». «Il coniglio Bunny?». Big Tom rise, sputò, tirò fuori il coltello. «Non prendertela. Lo so che le hai rubate. Metti un po' di legna sul fuoco e mangiamo. Alla mia pancia sembra che mi abbiano tagliato la gola». Divorarono in silenzio la carne e i fagioli. Aino voleva dire quello che gli bruciava dentro, ma gli parve più saggio tenere la bocca chiusa. Voleva dire: Non ho rubato niente. Non ce n'è stato bisogno. Erano tutti gentili, con me. Sembrava che non fossi neanche un rifiuto appena uscito da San Quintino. Non mi trattavano come un rifiuto, ma come una persona a posto...
Il cibo era delizioso, e quello era il pasto migliore di tutta la sua vita. A pancia piena, Big Tom sbadigliò, si voltò su un fianco e s'addormentò. Aino rimase accanto al fuoco a pensare. La sua mente era piena d'una miriade di pensieri: pensieri nuovi, pensieri che prima non aveva mai conosciuto, o non aveva osato conoscere. La sua immaginazione si protendeva nel futuro con un tranquillo senso di benessere. Le cose sarebbero state diverse. Non sapeva come o perché, ma ne era certo. Continuò ad alimentare il fuoco fino a che Big Tom, tossendo, si svegliò. «Mi è appena venuta in mente una cosa», disse Aino, cauto. «Ma davvero?». Era molto strano che Aino uscisse in un'affermazione del genere. Big Tom non era certo che gli piacesse. Che diavolo stava bollendo in pentola? «Quella scatola che abbiamo trovato ieri, vicino a Stinson». «E allora? È solo un giocattolo per bambini finito in mare». «Dovremmo aprirla», disse Aino. Big Tom s'accigliò. «Ci sarà dentro qualche giocattolo». «Ti spiace se la apro?». «Ma figurati». Big Tom si schiarì la gola e sputò. «Ieri ho cercato d'aprirla per un'ora. È chiusa coi chiodi e i chiodi sono tutti arrugginiti, ecco cosa. Non abbiamo neanche un martello, niente. Comunque puoi aprirla, certo». Aino, strisciando, arrivò nell'angolo più basso della caverna, dove il giorno prima Big Tom aveva depositato la scatola oblunga. Big Tom lo osservò con occhi irridenti: la scatola era inzuppata d'acqua, pesante. Quando Aino fece il gesto di sollevarla, Big Tom rise: le braccia di Aino erano magre come stecchini. Ma, fra lo stupore di Big Tom, Aino sollevò la scatola con la massima facilità, la trasportò vicino al fuoco e la rimise giù. Come se fosse piena di piume. Poi, e lo stupore di Tom aumentò ancora, Aino l'aprì senza problemi. Sembrava che sapesse come riuscirci, che sentisse i punti in cui la resistenza dei chiodi era minore. Infilò un pezzo di legno sotto il coperchio e lo spalancò senza il minimo sforzo. Big Tom osservava la scena, e il suo sopracciglio sinistro si piegò verso il basso. Identificava tutto quello coi libri che Aino leggeva, e lui odiava i libri. Rappresentavano una minaccia. Aino gli stava dando una lezione, stava facendo qualcosa che a lui non era riuscito. A Big Tom non andava. «Be'?», mugugnò. «Cosa c'è dentro? Una pistola giocattolo o roba del genere?». «No», rispose Aino, «è piena di soldi. Piena di vecchie monete e gioiel-
li». Dapprima Big Tom non riuscì a capirlo. Non riusciva ad assimilare il fatto che quella che sembrava una scatola per giocattoli buttata a riva dal mare contenesse una fortuna in monete d'oro e gioielli; che dopo averlo un po' ripulito dalla scorie marine l'interno brillasse di luce. Il suo cervello non arrivava facilmente a vette del genere. Morsicò le monete e i gioielli fulgidi come fuoco, e la sua mente si trovò alle corde, costretta ad accettare il fatto che Aino e lui, due vagabondi dall'incerto passato, fossero giunti in possesso di un'enorme fortuna. «Da dove sarà venuta?», chiese, spingendo Aino da parte e piegandosi sulla scatola. «Chi lo sa? Potrebbe venire dalla Cina, o dalla Persia, o da Mu». Gli occhi color ardesia di Aino vagarono oltre l'imboccatura della caverna, si persero sull'orizzonte. «Forse anche da più lontano». «Diamoci da fare, nascondiamola, seppelliamola, se no vengono a portarcela via». «Ma non possono», rispose Aino. «Nessuno può toccare questo tesoro. È nostro. Abbiamo trovato la scatola che galleggiava sull'acqua, e questo significa che non è di nessuno. L'abbiamo scoperta noi, ci appartiene per legge». Big Tom voleva ribattere, ma qualcosa nella voce dell'altro gli spense le obiezioni in gola. Era come se Aino, immobile a scrutare l'orizzonte, vedesse il futuro, capisse quel che doveva accadere. Le parole di Aino erano convincenti: era tutto vero. Avevano trovato quel tesoro in mare, e nessuno aveva il diritto di rubarglielo. Poi, dopo aver raggiunto questa certezza, Big Tom Clegg diventò ciò che Big Tom Clegg era per natura: un ladro e un imbroglione. Anche Aino era un ladro, ma per necessità, perché gli avevano imposto di esserlo. Qualcuno avrebbe dato la colpa all'ambiente, o al sistema, o alla fame; in realtà, Aino era un ladro perché tempo addietro gli avevano detto di fare il ladro. Era nella natura di Aino obbedire a qualcuno. E adesso la cupidigia e l'avidità di Big Tom s'erano messe in moto. Quel tesoro era loro, ma Aino non contava. Aino era uno sgorbio. Per cui quel tesoro era suo. Aino gli era stato utile, certo, lo aveva servito alla perfezione negli ultimi tre anni. A pensarci bene, era stato Aino a vedere per primo la scatola che galleggiava sulle onde, fra due scogli, dalle parti della spiaggia di Stinson. Era stato Aino a suggerire di portarsela dietro nonostante il cielo cupissimo e la pioggia che cominciava a cadere. Era
stato Aino ad aprirla con un pezzo di legno. Ma ormai Big Tom non aveva più bisogno di Aino: il tesoro gli avrebbe permesso di comperarsi altri servi, migliori. Big Tom ruminò idee, lanciando occhiate di cupidigia alla scatola. Finì col decidere che Aino non doveva lasciare mai più quella caverna. Quel desolato buco nella roccia sarebbe diventato il letto eterno di Aino. Nessuno si sarebbe preoccupato di quel che gli accadeva... Era notte. Fuori, il mare rumoreggiava. Incorniciato dalla roccia frastagliata, il cielo si era trasformato in un grigio uniforme, e solo un debolissimo chiarore lo distingueva dall'oceano lontano. L'oceano sembrava del tutto distaccato dai frangenti impetuosi che, coll'avanzare della marea, si facevano sempre più vicini. Aino dormiva come un bambino. Il fuoco era quasi spento. Solo poche, debolissime fiammelle rischiaravano lo scosceso soffitto della caverna, si rifrangevano sulla scatola chiusa, immobile fra i due uomini. Poi, mentre Big Tom si passava la mano avida sulle grandi labbra per tenersi sveglio, anche quelle fiammelle morirono, e del fuoco restò solo il ricordo. Non vedeva più Aino. Male. Nell'oscurità, Big Tom s'accigliò: aveva bisogno di luce per fare quello che voleva fare. Solo un briciolo di luce. Ma non c'era più legna, e lui non aveva voglia di uscire dalla caverna per andarla a cercare. Aino poteva svegliarsi, e poi voleva farlo subito. Voleva mettersi a dormire sicuro che il tesoro fosse solo suo. Si tese, cercò di individuare Aino perso nelle tenebre. Non riuscì a vederlo, ma vide qualcosa d'altro, qualcosa che luccicava con una debole luminescenza bianchiccia. E quel qualcosa usciva dalla camicia di Aino. Big Tom sorrise. Era il pezzo di legno che avevano trovato quella mattina, la cosa che aveva sconvolto Aino, che gli aveva procurato una sonora battuta. Il sorriso di Big Tom si fece più largo, quando gli venne in mente Aino che s'inginocchiava davanti al legno. Era proprio un cretino! Big Tom se n'era completamente dimenticato, non ci avrebbe più pensato se in quel momento non l'avesse visto sporgere da sotto la camicia di Aino. Lo sgorbio doveva esserselo portato in giro tutto il giorno, nascosto sotto la camicia per non farglielo vedere. E adesso, mentre Aino dormiva, il pezzo di legno era scivolato in fuori, invitante. Meraviglioso! Aino pensava che fosse magico, che fosse un dio: be', il
dio gli avrebbe aperto la strada per il paradiso. Big Tom si mosse con l'agilità d'un gatto. La sua mano carezzò la scatola chiusa, poi si tese sul petto magro di Aino, afferrò il pezzo di legno. Ridendo, lo gettò sulle braci ancora accese. Rimase accucciato un minuto accanto al fuoco, aprendo e richiudendo le dita intirizzite dal freddo. Il legno bruciava a combustione lenta, faceva fumo. Poi s'accese una minuscola fiamma, e gli occhi di Big Tom avvamparono di un rosso fuoco omicida. Fuori, il muggito della marea aumentò. Big Tom udì Aino gemere, risvegliarsi. Si voltò, pronto a colpire. Le dita di Aino frugavano la camicia, cercavano il pezzo di legno. Quando lui aprì gli occhi, Big Tom ruggì e si lanciò in avanti. Le sue dita si chiusero sul collo di Aino prima che l'altro potesse muoversi o gridare, lo schiacciarono. Era così facile che non sembrava neanche divertente. Se solo Aino avesse lottato un po'... Macché, non si muoveva d'un millimetro. Se ne stava lì a occhi spalancati. Sembrava che guardasse alle spalle di Big Tom, che vedesse qualcosa di terrificante. Big Tom era quasi tentato di girarsi a guardare, ma prima doveva finire il suo lavoro. Spinse più a fondo le dita. Poi la sua mano perse la presa. Uscì in un urlo che riecheggiò sulle pareti della caverna e andò a perdersi sul mare. Dal fuoco alle sue spalle veniva del fumo. Non poteva vedere, ma il fumo aveva braccia, tentacoli, e i tentacoli lo stringevano alla gola, lo soffocavano. Non riusciva a vedere. Non riusciva più a vedere se gli occhi di Aino erano così spalancati. Il fumo era una coltre nera, una coltre di serpenti che lo colpivano. I serpenti si arrotolarono attorno alla sua gola. Gridò, indietreggiò, cadde sul fuoco, che lo abbracciò bramosamente... Non restava molto di Big Tom, solo qualche osso irriconoscibile. Avrebbero pensato che qualcuno si fosse rifugiato nella caverna per la notte, avesse messo troppa legna sul fuoco, e poi, soffocato dal fumo, avesse cercato di uscire, fosse inciampato e finito carbonizzato. Non era una spiegazione del tutto sufficiente, visto com'erano ridotte quelle ossa, ma poteva andare. O magari avrebbero pensato che non si trattava di ossa umane. Aino, per un lungo momento, scrutò con aria grave ciò che aveva ai piedi, poi infilò la mano sotto la cenere, in cerca del pezzo di legno. Era bianco e intero come sempre, freddo, e morbido alle sue dita come seta. Aino lo carezzò con reverenza, gli fece un inchino, lo infilò sotto la camicia. Il suo viso splendeva di umile orgoglio. Si voltò. Oh, già, la scatola. Spalancò il coperchio con un calcio. Un sor-
riso storto gli nacque sulle labbra, mentre fissava quel mucchio di sassi e fango e ossa di gatto: un ragazzino dall'immaginazione vivace aveva seppellito in mare la sua bestiola. Aino scrutò la marea. Raddrizzò le deboli spalle, uscì dalla caverna. S'incamminò in fretta lungo la spiaggia deserta. Nato per servire, Aino aveva trovato un nuovo padrone. Titolo originale: Skydrift. La Signora Sary WILLIAM TENN Stamattina, mentre stavo rientrando a casa, ho visto due bambine che, con solennità, facevano saltare la palla sul marciapiede al ritmo d'una vecchia filastrocca. Credo che le mie labbra siano impallidite, e ho quasi perso i sensi. Le mascelle mi si sono serrate, il sangue mi pulsava alla tempia destra; e sapevo di non potermi muovere, qualunque cosa succedesse, finché loro non avessero finito. «Uno, due e tre fan pari. «Vedo la Signora Sary «Che cavalca una gattina «Proprio come una fatina». Tornai in vita quando le bambine ebbero cantato l'ultima nota della filastrocca. Spalancai la porta e me la chiusi immediatamente alle spalle. Accesi le luci in corridoio, in cucina, in biblioteca. E poi, per lunghi minuti immemori passeggiai in su e in giù finché il respiro non si calmò e l'orribile ricordo non scivolò indietro nel baratro degli anni. Quelle parole! Io non odio i bambini (a dispetto di quello che dicono i miei amici, non odio i bambini), ma perché devono cantare quella stupida canzoncina? Succede spesso, quando io sono presente... Come se quelle creature maledette sapessero che effetto mi fa... Sarietta Hawn andò a vivere con la signora Clayton alla morte di suo padre, deceduto nelle Indie Occidentali. Sua madre era l'unica sorella della signora Clayton, e il padre, un amministratore delle colonie inglesi, non aveva parenti. Quindi, era perfettamente naturale che la bambina traversasse il Mar dei Caraibi per andare a raggiungere la mia padrona di casa, a Nanville. Ed era altrettanto naturale che l'iscrivessero alla scuola elementare di Nanville, dove io insegnavo aritmetica e scienze in compagnia della
signorina Drury, inglese, storia e geografia. «Quella Hawn è impossibile, incredibile!». La signorina Drury entrò come un lampo nella mia aula, durante l'intervallo del mattino. «È un mostro, un brutto mostro impudente!». Attesi che nell'aula deserta si spegnessero gli echi, e studiai, divertito, la figura sciatta, vittoriana della signorina Drury. Mentre lei si portava, febbrilmente agitata, davanti alla cattedra, il suo petto chiuso nel busto sussultava, i lembi della gonna e della sottoveste le sbattevano contro le caviglie. Io mi tesi in avanti, appoggiai la testa fra le mani. «Un briciolo di prudenza, signorina. Nelle ultime due settimane ho avuto parecchio da fare con la chiusura del trimestre, e non ho trovato il tempo di studiarmi per bene Sarietta. Però la signora Clayton non ha figli, e da giovedì, da quando la bambina è arrivata, non ha fatto altro che innamorarsene. Certo non permetterà che Sarietta venga punita come... Be', come lei ha fatto con Joey Richards la settimana scorsa. E non lo permetterà neppure il consiglio degli insegnanti, a dire il vero». La signorina Drury, arrabbiata, sollevò il capo. «Quando lei avrà sulle spalle i miei anni d'insegnamento, giovanotto, imparerà che non serve risparmiare la giusta punizione a delinquenti nati come Joey Richards. Se non gli faccio assaggiare la mia verga quando gli saltano i cinque minuti, diventerà un ubriacone buono a nulla come suo padre». «D'accordo. Comunque ricordi che diversi membri del consiglio degli insegnanti la stanno tenendo d'occhio. E come sarebbe a dire che Sarietta Hawn è un mostro? È albina, se non ricordo male. La mancanza del pigmento è dovuta a un fattore ereditario casuale, altro che mostro. Esistono migliaia di albini che conducono una vita perfettamente felice». «Ereditarietà!». Uno sbuffo di disprezzo. «Ancora un'altra fesseria. Le dico che è un mostro, uno dei diavoletti più malvagi che Satana abbia mai creato. Quando le ho chiesto di raccontare agli altri bambini come viveva in India, si è alzata a gridare: "Questo è un capitolo chiuso per i pazzi e gli imbecilli". Ebbene, se la campana dell'intervallo non avesse squillato proprio in quel momento, stia pur certo che le avrei fatto assaggiare la verga». Scrutò l'orologio, che portava appeso al collo. «La ricreazione è quasi terminata. Sarà bene che lei faccia controllare l'impianto elettrico, signor Flynn: stamattina la campana è suonata con un minuto d'anticipo. E non si lasci mettere i piedi sulla pancia da quella Hawn». «Nessun bambino mi mette i piedi sulla pancia». Sorrisi. La porta sbatté alle sue spalle.
Un momento dopo ci furono le risate e le chiacchiere dei piccoli di otto anni che tornavano in classe. Iniziai la lezione sulla divisione a tre cifre con uno sguardo di sottecchi all'ultima fila. Sarietta Hawn sedeva quieta quieta, le mani appoggiate sul banco. La lunga treccia di capelli color cenere e la pelle completamente bianca assumevano, sullo sfondo dei mobili color mogano, sfumature quasi gialle. E anche i suoi occhi erano lievemente gialli: grandi iridi senza un colore preciso, palpebre semi-trasparenti che non si abbassavano mai quando la fissavo. Era davvero brutta. La sua bocca era troppo generosa per essere bella; le orecchie formavano quasi un angolo retto con la testa; e la lunga punta del naso scendeva in basso, verso il labbro superiore. Indossava un vestito candido come la neve, di taglio severo, che assurdamente aggiungeva anni al suo corpo magro. Terminata la lezione d'aritmetica, mi avvicinai a quella figurina solitaria, persa sul fondo dell'aula. «Non ti piacerebbe venire più vicina alla cattedra?», le chiesi con tutta la gentilezza possibile. «Vedresti meglio la lavagna». Lei si alzò e mi fece un inchino. «La ringrazio molto, signore, ma la luce del sole che entra dalla finestra mi fa male agli occhi. Mi trovo sempre meglio nel buio e nell'ombra». E un piccolo, goffo sorriso di gratitudine. Annuii, ma mi sentivo un po' a disagio per quella sua risposta troppo corretta, troppo formale. Durante la lezione di scienze mi accorsi che i suoi occhi mi seguivano da per tutto. Sotto quello sguardo implacabile mi comportai un po' goffamente, e i bambini, che avevano capito, cominciarono a bisbigliare e a voltare indietro la testa. Mi cadde di mano una scatola di farfalle, mi chinai a raccoglierla. E all'improvviso un'esclamazione uscì da quelle piccole trenta bocche, riempì la stanza. «Guarda! Lo sta facendo di nuovo!». Mi rialzai. Sarietta Hawn non s'era spostata dalla sua strana, rigida posizione. Ma ora i suoi capelli erano d'un bel color castano; gli occhi blu; le guance e le labbra d'un rosa delicato. Le mie dita cercarono d'affondare nella superficie della cattedra. Impossibile! Luce e ombra non potevano fare scherzi così fantastici, ma era im-
possibile! Boccheggiai, dimentico della mia dignità d'insegnante. La bambina parve arrossire, e un'ombra s'infittì sul suo capo. Ripresi a parlare di bozzoli e lepidotteri con voce incerta. Un momento dopo vidi che il suo viso e i suoi capelli erano di nuovo bianchissimi. Comunque non m'interessavano le spiegazioni, e non interessavano nemmeno ai bambini. La lezione era rovinata. «Ha fatto esattamente la stessa cosa con me», esclamò la signorina Drury a pranzo. «Esattamente la stessa cosa! Solo che a me è sembrato che si trasformasse in una bruna, con gli occhi e i capelli neri come la pece. Aveva appena detto che ero una pazza, quella piccola delinquente!, e io stavo afferrando la verga, e lei è diventata tutta nera e scura. Comunque ci avrei pensato io a farla diventare rossa, glielo giuro, se la campana non avesse suonato un minuto prima!». «Può darsi», risposi. «Ma il suo colorito è così delicato che la minima variazione di luminosità può giocare scherzi alla nostra vista. Adesso, per esempio, non sono più tanto certo di quello che è successo. Sarietta Hawn non è un camaleonte, dopo tutto». L'anziana insegnante strinse le labbra fino a ridurle a una linea d'un rosa pallido sul suo viso grinzoso. Scosse il capo e si piegò in avanti sul tavolo pieno di briciole. «Non è un camaleonte. È una strega. Lo so! E la Bibbia ci comanda di distruggere le streghe, di bruciarle». La mia risata incerta echeggiò nello sporco seminterrato della scuola che ci serviva da sala da pranzo. «Non può crederci! Una bambina di otto anni...». «Ragione in più per finirla prima che cresca e faccia del male sul serio. Mi creda, signor Flynn, lo so! Un mio antenato ha bruciato trenta streghe nel New England, ai tempi dell'inquisizione. La mia famiglia ha un fiuto speciale per creature del genere. Non ci sarà mai pace fra noi!». Gli altri bambini, incapaci di comprendere, sembravano condividere l'opinione della signorina Drury. Cominciarono a chiamare l'albina «Signora Sary». A Sarietta, d'altra parte, quel nome piaceva. Quando Joey Richards tentò d'avventarsi contro un gruppo di bambini che la seguivano per strada cantando la filastrocca, lei lo fermò. «Lascia perdere, Joseph», gli disse, con quel suo curioso modo di fare, da adulto. «Hanno proprio ragione: io sono una fata». E Joey si girò verso di lei con un'espressione stupefatta, incredula, dischiuse i pugni e tornò al suo fianco. La adorava. Forse perché tutti e due
si sentivano ai margini della comunità infantile, forse perché tutti e due erano orfani (lui aveva un padre sempre ubriaco, ed era un po' peggio che se non avesse avuto nessuno), stavano sempre assieme. Le sere che uscivo sulla veranda a gustarmi la mia boccata d'aria fresca, lo trovavo accucciato ai suoi piedi nell'umidità delle tenebre. Lei s'interrompeva a metà della frase, l'indice smunto ancora teso nell'aria. Tutti e due se ne restavano in silenzio finché io non me ne andavo. Joey non mi trovava malvagio, per cui fui uno dei pochi privilegiati a sapere qualcosa dei primi anni della Signora Sary. Una sera, mentre uscivo a fare due passi, scorsi Joey che trotterellava alle mie spalle. Se n'era appena andato dalla veranda. «Accidenti», sospirò, «certo che Stogolo ha insegnato un sacco di cose alla Signora Sary. Mi piacerebbe che fosse qui a sistemare la vecchia Drury. Gliela farebbe vedere, gliela farebbe proprio vedere». «Stogolo?». «Certo. È lo stregone che ha lanciato la maledizione del figlio del diavolo alla madre di Sary prima che Sary nascesse, perché lei lo aveva fatto sbattere in prigione. Poi la mamma di Sary è morta quando lei è nata, e suo padre s'è messo a bere. Sary dice che beveva più forte di mio padre. Però lei ha trovato Stogolo e sono diventati amici. Si sono scambiati il sangue e si sono promessi la pace sulla tomba della madre di Sary. E lui le ha insegnato il voodoo e la maledizione del figlio del diavolo e a fare le pozioni d'amore col fegato di maiale e...». «Joey, mi sorprendi», lo interruppi. «Accettare queste sciocche superstizioni! Un ragazzo come te, che va così bene in scienze! La Signora Sary... Sarietta è cresciuta in una comunità primitiva, dove la gente non sa niente. Ma tu sai!». Tirò un calcio alle erbacce che crescevano ai lati del marciapiede. «Okay», rispose a voce bassa. «Okay. Mi spiace di averne parlato, signor Flynn». Poi scomparve giù per la strada verso casa sua: un puntino sempre più piccolo, in giacca bianca e calzoncini di velluto. E io mi rammaricai di averlo interrotto, perché Joey era in vena di confidenze di rado e Sarietta parlava solo se qualcuno l'interrogava, anche con sua zia. In seguito ho rimpianto quell'interruzione molto, molto di più. La stagione si era fatta sorprendentemente calda. «Giuro», mi confessò una mattina la signorina Drury, «che in vita mia non ho mai visto un in-
verno del genere. Le estati di San Martino e le ondate di calore sono una cosa, ma è stupefacente che si vada avanti così di giorno in giorno, senza interruzioni!». «Gli scienziati dicono che sul nostro pianeta si sta sviluppando un clima più caldo. Naturalmente, per ora è impossibile accorgersene, ma la corrente del Golfo...». «La corrente del Golfo», mi canzonò lei. Indossava gli stessi panni pesanti, inamidati, di sempre, e il caldo stava riducendo ai minimi termini la sua scarsa pazienza. «La corrente del Golfo! Da quando quel pipistrello della Hawn è venuto a vivere a Nanville, il mondo si è capovolto. I gessi mi si rompono sempre, i cassetti della cattedra non si aprono, i cancellini si tagliano in due... Quella piccola strega sta cercando di lanciarmi una maledizione!». «Insomma mi stia a sentire». La fronteggiai: la scuola era alle mie spalle. «Questa faccenda è durata abbastanza. Se lei ha bisogno di credere nella stregoneria, non la faccia entrare nei suoi rapporti coi bambini. Sono qui per imparare, non per assorbire le fantasie isteriche di una... Di una...». «Di una vecchia zitella inacidita. Su, lo dica», ringhiò. «So che lei la pensa così, signor Flynn. Lei le va dietro e quel demonio la lascia in pace. Ma io so quello che so, e lo sa anche quel mucchio di malvagità allo stato puro che lei chiama Sarietta Hawn. C'è guerra tra di noi, e l'eterna battaglia fra il bene e il male potrà terminare solo con la morte di una di noi due!». In un turbinio di gonne, lei si girò e imboccò il sentiero che portava a scuola. Fu allora che cominciai a preoccuparmi della sua sanità mentale. Non avevo ancora imparato a preoccuparmi della mia. Fu quello il giorno che i bambini entrarono per la lezione d'aritmetica lentamente, quietamente, come se una bolla di sapone li avviluppasse tutti. Quando la porta dell'aula si chiuse alle spalle dell'ultimo scolaro, la bolla si spezzò, un mormorio riempì la stanza. «Dov'è Sarietta Hawn?», chiesi. «E Joey Richards?», aggiunsi, perché non riuscivo a vedere nemmeno lui. Si alzò Louise Bell, col grembiulino rosa che aderiva al suo corpo magro. «Hanno fatto i cattivi. La signorina Drury si è accorta che Joey le stava tagliando un ciuffo di capelli e ha cominciato a picchiarlo. La Signora Sary si è alzata e ha detto che lei non doveva toccarlo perché era sotto la sua protezione. Così la signorina Drury ci ha fatto uscire, e adesso penso che li starà picchiando tutti e due. È arrabbiata nera!».
In un balzo raggiunsi l'uscita, e d'improvviso udii un urlo: era la voce di Sarietta! Divorai il corridoio. L'urlo arrivò al massimo, durò qualche secondo. Poi finì. Mentre balzavo sulla maniglia dell'aula della signorina Drury, ero preparato a tutto, persino a un omicidio. Ma non ero preparato a quello che vidi. Rimasi lì immobile, la mano sulla porta, ad assorbire quel quadro di tensione. Joey Richards era appoggiato contro la lavagna, e nella destra umidiccia stringeva un lungo ciuffo di capelli brunastri. La Signora Sary era di fronte alla signorina Drury, la testa piegata in avanti: sul suo collo magro spiccava una riga rossa di sangue. E la signorina Drury fissava con aria stupida il pezzettino di verga che le restava in mano. Gli altri frammenti di verga erano sparpagliati ai suoi piedi. I bambini mi videro e si rimisero in moto. La Signora Sary si tirò su, marciò verso la porta con espressione decisa. Joey Richards si tese in avanti, strusciò il ciuffo di capelli contro la schiena dell'insegnante, che non si accorgeva nemmeno della sua presenza. Quando raggiunse la bambina alla porta, notai che i capelli s'erano impregnati del sudore raccolto dalla schiena della signorina Drury. A un lieve cenno della Signora Sary, il ragazzo le passò il ciuffo di capelli. Lei lo infilò con estrema cura nella tasca del vestito. Poi, senza una sola parola, tutti e due mi oltrepassarono per raggiungere i loro compagni. Evidentemente non era successo loro nulla di grave. Mi avvicinai alla signorina Drury: tremava moltissimo, parlava da sola. Non staccò gli occhi dal frammento di verga. «È andata a pezzi! È andata a pezzi! Volevo... Ma è andata a pezzi!». Le misi un braccio attorno alle spalle, la guidai a una sedia. Lei sedette e continuò a parlare da sola. «Una volta. L'ho picchiata una volta sola. Stavo alzando il braccio per darle un'altra frustata... Avevo la verga sopra la testa... Ed è andata a pezzi. Joey era in un angolo, non può essere stato lui... La verga è andata a pezzi». Fissava il frammento di legno che stringeva in mano e si dondolava avanti e indietro, come chi abbia sofferto d'una perdita inconsolabile. I bambini mi aspettavano. Le diedi un bicchiere d'acqua, ordinai al bidello di prendersi cura di lei, e tornai in aula. Qualcuno, per infantile senso del ridicolo o per cattiveria, aveva scarabocchiato a grandi lettere sulla lavagna:
Uno, due e tre fan pari. Vedo la Signora Sary Che cavalca una gattina Proprio come una fatina. Irato, mi girai verso i bambini, e mi accorsi di un cambiamento: il banco di Joey Richards era vuoto. Si era messo a fianco della Signora Sary, nelle lunghe, profonde ombre in fondo all'aula. Con mio enorme sollievo, la Signora Sary non fece parola dell'incidente. A tavola, come sempre, rimase in silenzio, gli occhi rigidamente fissi sul piatto. Si scusò alla fine del pranzo e si allontanò. La signora Clayton era troppo indaffarata e chiacchierona, per cui non le giunse voce della cosa. Da quel lato non ci sarebbero state ripercussioni. Dopo cena raggiunsi la vecchia casa piena d'archi dove la signorina Drury viveva coi genitori. Sul mio corpo si formavano pozzanghere di sudore, e mi era del tutto impossibile concentrarmi. Ogni foglia, su ogni albero, se ne stava immobile nella notte umida, senza vento. La vecchia insegnante si sentiva molto meglio. Ma rifiutava di lasciar cadere la faccenda, di fare del suo meglio, come io le suggerivo, per ristabilire un clima d'amicizia. Andava avanti e indietro sulla grande sedia a dondolo di stile coloniale, e scuoteva violentemente il capo. «No, no, no! Non voglio diventare amica di quella figlia delle tenebre. Preferirei stringere la mano di Belzebù. Adesso lei mi odia ancora più di prima perché l'ho costretta a venire allo scoperto, non capisce? L'ho costretta a mettere in mostra la sua stregoneria. Ora... ora io devo lottare con lei e sconfiggerla, sconfiggere Colui che la protegge! Devo pensare, devo... Solo che c'è questo caldo diabolico. Fa così caldo! Il mio cervello... Il mio cervello non funziona più a dovere». Si asciugò la fronte con lo scialle di cashmere. Quando me ne andai, piuttosto infelice, cercavo una soluzione. Di quel passo, prima o poi sarebbe successo qualcosa; e allora il provveditorato ci avrebbe messi sotto inchiesta, e la scuola sarebbe andata a farsi benedire. Tentavo di esaminare con calma ogni possibilità, ma i vestiti mi si incollavano al corpo e pensare era un peso insopportabile. La veranda era deserta. Vidi qualcosa muoversi in giardino, mi affrettai: c'erano due ombre, ed erano la Signora Sary e Joey Richards. Mi fissarono, quasi in attesa di sentirmi annunciare la mia identità.
La bambina era accucciata sul terreno e stringeva in mano una bambola. Una bambolina di cera con capelli brunastri, raccolti in una crocchia molto simile a quella della signorina Drury. Una bambolina di cera con un vestito di mussola che seguiva lo stile rigido, severo dei vestiti della signorina Drury. Una caricatura preparata con cura. «Non credete che sia una cosa piuttosto sciocca?», riuscii a chiedere dopo un po'. «La signorina Drury è già sconvolta e spiaciuta a sufficienza per quello che vi ha fatto. Non c'è proprio bisogno di alimentare le sue superstizioni con tanta crudeltà. Sono certo che se vi sforzate, possiamo essere tutti amici». Si alzarono. Sarietta stringeva la bambola sul petto. «Non è sciocco, signor Flynn. Quella orribile donna deve imparare la lezione. Una lezione terribile, che non dimenticherà mai. Scusi la fretta, signore, ma stanotte devo fare molte cose». E poi scomparve: una macchiolina bianca che risalì le scale e s'addentrò nella casa addormentata. Mi girai verso il bambino. «Joey, tu sei un ragazzo piuttosto intelligente. Ora, da uomo a uomo...». «Mi scusi, signor Flynn». S'avviò verso il cancello. «Devo... Devo tornare a casa». Il suono delle sue scarpe da ginnastica sul marciapiede si fece sempre più debole, svanì in distanza. A quanto pareva, avevo perso la sua fiducia. Quella notte mi fu difficile addormentarmi. Mi agitavo sulle lenzuola strette, mi appisolavo, mi risvegliavo e m'appisolavo di nuovo. Verso mezzanotte, mi svegliai con un brivido. Sprimacciai il cuscino e feci per rimettermi a dormire, quando le mie orecchie colsero un suono debolissimo. Lo riconobbi: era il suono che s'era infiltrato nei miei sogni e mi aveva riempito gli occhi di paura. Mi rizzai a sedere. La voce di Sarietta! Stava intonando una canzone, una canzone veloce, con parole irriconoscibili. Il tono saliva sempre più in alto, la velocità si faceva sempre maggiore, come se lei dovesse rispettare qualche mostruoso tempo. Alla fine, quando sembrava che la bambina stesse per scivolare oltre i limiti dei suoni udibili all'orecchio umano, s'interruppe. Poi, su un tono talmente alto che i miei timpani vibrarono, si levò un'invocazione lamentosa: «Kurunoo O Stogoloooo!». Silenzio. Due ore più tardi, riuscii a riaddormentarmi.
Mi svegliò il sole che filtrava, rosso, tra le palpebre. Mi vestii, anche se mi sentivo stranamente svogliato e apatico. Non avevo fame: per la prima mattina in vita mia, saltai la colazione. Il caldo saliva dal marciapiede, m'inumidiva il viso e le mani. Attraverso le suole delle scarpe, sentivo l'asfalto che ribolliva. Persino l'ombra della scuola era un sollievo da nulla. Anche alla signorina Drury era scomparso l'appetito: lasciò intatti sul tavolo del seminterrato i suoi sandwiches alla lattuga, preparati con tanta cura. Appoggiò la testa sulle mani e mi guardò con occhi cerchiati di rosso. «Fa così caldo!», mormorò. «Non riesco a sopportarlo. E non capisco perché tutti sono tanto dispiaciuti per quel pipistrello della Hawn. Solo perché l'ho messa a sedere dove batte il sole. Questo caldo mi ha fatto soffrire mille volte più di quanto abbia sofferto lei». «Ha messo... Sarietta... a sedere...». «Certo che sì! Non deve godere di nessun privilegio. Se ne stava sempre in fondo all'aula, dove c'è un bel fresco. Le ho fatto cambiare di banco. Adesso è proprio sotto la finestra grande, da dove entra il sole. E le dà un bel fastidio, me lo lasci dire. Solo che io mi sento sempre peggio. Come se stessi andando a pezzi. Stanotte non ho dormito neanche un minuto. Quei sogni terribili, terribili: grandi mani che mi spingevano e mi schiacciavano, coltelli che mi ferivano il viso e le mani...». «Ma Sarietta non sopporta il sole! È albina!». «Albina, che idiozia! È una strega. Adesso si metterà a fabbricare bamboline di cera. Joey Richards non mi ha mica tagliato i capelli per scherzo. Lei gli aveva ordinato... Ooh!». Si piegò in due sulla sedia. «I crampi!». Aspettai che l'attacco le passasse. Il suo volto era madido di sudore, e disfatto. «È buffo che lei abbia parlato di bamboline di cera. È riuscita così bene a convincere la bambina di essere una strega, che adesso le fabbrica sul serio. Ci creda o no, ieri sera, dopo che me ne sono andato...». L'insegnante era balzata in piedi, rigida, attenta. Il braccio appoggiato contro un tubo dell'impianto di riscaldamento, mi fissava. «Ha fabbricato una bambolina di cera. Rappresentava me?». «Be', lei lo sa come sono i bambini. Rappresentava l'idea che Sarietta ha del suo aspetto. Un po' rozza di struttura, ma un buon lavoro d'artigianato. Personalmente credo che il suo talento meriti di essere incoraggiato». Miss Drury non mi aveva sentito. «Crampi!», esclamò. «E io credevo che fossero crampi! Mi ha infilato dentro gli spilli! Quella piccola... Devo
cercare... Bisogna che stia attenta. Però devo agire in fretta. In fretta». Anch'io mi alzai e, dall'altra parte del tavolo, cercai di appoggiarle la mano sulle spalle. «Andiamo, si controlli. Questa storia è durata anche troppo». Lei corse via, si fermò ai piedi delle scale, parlando fra sé. «Non posso usare legno o spilli, li controlla. Ma ho le mie mani: se riesco a metterle le mani addosso e a soffocarla in fretta, non sarà capace di fermarmi. Ma non devo darle una sola possibilità». Quasi singhiozzava. «Non devo darle una sola possibilità!». Poi, veloce, decisa, scomparve su per le scale. Io buttai il tavolo da parte e le corsi dietro. Quasi tutti i bambini stavano mangiando lungo lo steccato in fondo al cortile. Ma adesso s'erano interrotti, e guardavano qualcosa con affascinato orrore. I sandwiches erano immobili di fronte alle loro bocche spalancate. Seguii la direzione dei loro sguardi. La signorina Drury stava scivolando lungo i fianchi dell'edificio, silenziosa come una pantera vestita da donna. Di tanto in tanto vacillava, s'aggrappava al muro. Un metro davanti a lei, Sarietta Hawn e Joey Richards sedevano all'ombra. Scrutavano attentamente una bambolina di cera, col vestitino di mussola, che si trovava sul cemento, appena oltre il limite dell'ombra. La bambolina giaceva di schiena sotto il sole, e per quanto fossi distante vedevo benissimo che si stava sciogliendo. «Ehi», gridai, «signorina Drury! Sia ragionevole!». Corsi avanti. Alla mia voce, i due bambini alzarono il capo, stupiti. La signorina Drury si era lanciata avanti ed era caduta, piuttosto che balzata, sulla bambina. Joey Richards afferrò la bambolina e scappò via, verso di me. Io gli inciampai addosso e andai a finire per terra con un grande tonfo. Mentre cadevo, intravvidi la destra della signorina Drury che precipitava sulla bambina. Sarietta, schiacciata dal corpo dell'insegnante, era diventata un patetico fagottino. Mi rialzai, fissai Joey. Alle mie spalle, gli altri bambini gridavano come non li avevo mai sentiti gridare. Joey stava spiaccicando la bambolina con tutte e due le mani. Io non osavo staccare gli occhi. La cera, già ammorbidita dal sole, perse ogni forma, gli scivolò in piccoli rigagnoli fra le dita contratte. Filtrò attraverso l'abitino di mussola, cadde a grumi sul cemento del cortile. Al di sopra dell'urlo dei bambini, la voce della signorina Drury si alzò in
un grido terrificante che continuò e continuò e continuò. Joey guardava oltre le mie spalle con occhi frenetici. Ma continuava a schiacciare la bambola, e io tenevo lo sguardo sulle sue mani disperatamente, pietosamente, mentre l'aria risuonava di quel grido enorme e l'immenso calore del sole mi riempiva il viso di sudore. La cera scivolava tra le dita di Joey, e lui d'improvviso cominciò a cantare con voce spezzata, isterica, velocissima. Il suo canto divenne sempre più forte, parve dominare il mondo: «Uno, due e tre fan pari. «Vedo la Signora Sary «Che cavalca una gattina «Proprio come una fatina». E Miss Drury gridava e i bambini urlavano e Joey cantava, ma io continuavo a tenere gli occhi sulla bambolina di cera. Continuavo a tenere gli occhi sulla bambolina di cera che colava fra le piccole dita di Joey strette a pugno. Continuavo a tenere gli occhi sulla bambolina... Titolo originale: Mistress Sary. L'uomo morto RAY BRADBURY «Eccolo là, da quella parte», disse la signora Ribmoll, indicando l'altro lato della strada. «Vedi quell'uomo appollaiato sul barile di pece, di fronte al negozio del signor Jenkins? Be', è lui. Lo chiamano Martin lo Strano». «Quello che dice di essere morto?», gridò Arthur. La signora Ribmoll annuì. «Matto come un cavallo. È convinto di essere morto dopo l'inondazione e si lamenta che nessuno se n'è accorto». «Lo vedo seduto lì tutti i giorni», gridò Arthur. «Oh, sì, sta seduto lì, proprio. Sta seduto lì e non guarda niente. Dico io, è una maledetta vergogna che non lo sbattano dentro». Arthur fece una smorfia all'uomo. «Yah!». «Lascia stare, non ti vede nemmeno. L'uomo più incivile che abbia mai incontrato. Non gli va bene niente». La donna afferrò Arthur per il braccio. «Andiamo, ragazzo, bisogna fare spesa». Proseguirono lungo la strada, oltre la bottega del barbiere. Dopo che loro furono scomparsi, dietro la vetrina apparve il signor Simpson, che agitava le sue forbici blu e masticava la sua cicca insipida. Gettò un'occhiata stra-
bica attraverso il vetro sporco di cacche di mosca, guardò l'uomo dall'altra parte, seduto sul barile di pece. «Immagino che la cosa migliore che potrebbe succedere a Martin lo Strano sarebbe sposarsi», immaginò. I suoi occhi scintillarono astutamente. Si girò a guardare, da dietro le spalle, la ragazza della manicure, la signorina Weldon, che stava aggiustando le unghie spezzate di un contadino di nome Gilpatrick. La signorina Weldon non alzò gli occhi, a quel suggerimento. Lo aveva sentito spesso. La stuzzicavano sempre per via di Martin lo Strano. Il signor Simpson tornò indietro e riprese a lavorare sui polverosi capelli di Gilpatrick. Gilpatrick ridacchiò piano. «E quale donna sposerebbe lo Strano? A volte credo quasi che sia proprio morto. Ha un odore spaventoso». La signorina Weldon fissò il volto di Gilpatrick, e con estrema cura gli tagliò un dito con uno dei suoi strumenti. «Accidenti! Fai attenzione a quello che combini, donna!». La signorina Weldon lo fissò coi calmi occhi blu, nel suo visino pallido. Aveva capelli color grigio topo, non si truccava, e in genere non parlava a nessuno. Il signor Simpson fece un risolino soffocato e chiuse le forbici blu d'acciaio. «Su, su, su!», e un'altra risata. «La signorina Weldon sa quello che fa, Gilpatrick. Devi stare attento. La signorina Weldon ha regalato una bottiglia d'acqua di colonia a Martin lo Strano, per Natale. È servita a coprire l'odore». La signorina Weldon mise giù gli strumenti. «Mi scusi, signorina Weldon», si scusò il signor Simpson. «Non aprirò più bocca». Riluttante, lei riprese in mano gli strumenti. «Ehi, si sdraia di nuovo!», gridò uno dei quattro uomini che aspettavano nella bottega. Il signor Simpson ruotò sui tacchi, e per poco non portò via la rosea orecchia di Gilpatrick con le forbici. «Venite a vedere, ragazzi!». Dall'altra parte della strada, lo sceriffo uscì dall'ufficio proprio in quel momento e vide cosa stava succedendo. Vide cosa faceva Martin lo Strano. Tutti uscirono di corsa dai negozietti lì attorno. Lo sceriffo si fece avanti e guardò per terra. «Andiamo, Martin lo Strano, andiamo, su», urlò. Con la punta dello stivale nero, lucidissimo, frugò la strada. «Andiamo, tirati su. Tu non sei
morto. Stai bene come me. Però morirai di freddo se te ne resti lì, fra le carte delle cicche e i mozziconi di sigaro. Andiamo, tirati su!». Il signor Simpson arrivò sulla scena e guardò Martin lo Strano che se ne stava sdraiato. «Sembra una scatola di bottiglie di latte». «Sta rubando un sacco di spazio per le macchine che devono parcheggiare, ed è venerdì mattina», piagnucolò lo sceriffo. «C'è un mucchio di gente che ha bisogno di spazio. Andiamo, Strano. Hmmm. Be', datemi una mano, ragazzi». Depositarono il corpo sul marciapiede. «Lasciamolo lì», dichiarò lo sceriffo, girellando attorno coi suoi stivali. «Lasciamolo lì finché non si stufa di stare coricato. Lo ha già fatto un milione di volte. Gli piace la pubblicità. Sciò, bambini!». Fece scappare via un branco di ragazzini con una smorfia. Tornato in bottega, Simpson si guardò attorno. «Dov'è la signorina Weldon? Uh». Guardò attraverso il vetro. «Eccola là. Se lo sta pulendo per bene, e lui è sempre lì sdraiato. Gli mette a posto la giacca, gliel'abbottona. Sta tornando. Niente scherzi, eh? Se la prende». L'orologio del barbiere disse che era mezzogiorno, e poi l'una e poi le due e poi le tre. Il signor Simpson prendeva nota del tempo. «Ci scommetto che Martin lo Strano resta lì fino alle quattro», disse. Qualcun altro disse: «Io scommetto che ci resta fino alle quattro e mezza». «L'ultima volta», un colpo di forbici, «c'è rimasto quattro ore. Però oggi è una bella giornata calda. Magari si fa un pisolino fino alle cinque. Sì, le cinque. Fuori i soldi, gente. Forse anche più tardi». Il denaro venne raccolto e depositato su una mensola vicino alle lozioni per capelli. Uno degli uomini più giovani cominciò ad affilare un pezzo di legno col coltellino. «È un po' buffo come prendiamo in giro lo Strano. Dentro, ci fa paura. Voglio dire che non ci permettiamo di credere che è morto sul serio. Non osiamo crederlo. Se ne fossimo certi, rimarremmo secchi. Per cui ci scherziamo sopra. Lo lasciamo sdraiato. Non fa del male a nessuno. Sta solo lì. Ma io mi sono accorto che Doc Hudson non ha mai toccato il cuore dello Strano col suo stetoscopio. Ci scommetto che ha paura di quello che potrebbe scoprire». «Ha paura di quello che potrebbe scoprire». Risate. Simpson rise e spalancò le lame della forbice. Due uomini con la barba lunga risero, un po' troppo forte. Le risate non durarono molto. «Tu sei proprio speciale, per
gli scherzi!», dissero tutti, battendosi le mani sulle ginocchia magre. La signorina Weldon continuò a fare la manicure al cliente. «Si tira su!». Ci fu una corsa generale alla vetrina sporca per vedere Martin lo Strano che si rimetteva in piedi. «È su un ginocchio, adesso è sull'altro, adesso qualcuno gli dà una mano». «È la signorina Weldon. Aveva una bella fretta». «Che ore sono?». «Le cinque. Pagate, ragazzi!». «Anche quella signorina Weldon è ben tocca. Stare dietro a un uomo come lo Strano». Simpson fece tintinnare le forbici. «È un'orfana, è di modi molto tranquilli. Le piacciono gli uomini che non parlano troppo. Lo Strano non dice praticamente niente. Proprio il contrario di noialtri zoticoni, eh, amici? Noi parliamo troppo. Alla signorina Weldon non piace come parliamo». «Se ne vanno, tutti e due, la signorina Weldon e Martin lo Strano». «Ehi, stai un po' più lontano dall'orecchio, eh, Simp?». Salterellando per strada, giocando con una palla di gomma rossa, arrivò Charlie Bellows. I suoi capelli biondi gli cadevano a frangia sugli occhi blu. Diede un colpo distratto alla palla, con la lingua fra i denti, e la palla andò a scivolare sotto i piedi di Martin lo Strano, ancora una volta appollaiato sul barile di pece. In drogheria la signorina Weldon stava comperando cibarie: infilava scatole di minestra e scatole di verdura nella sporta. «Posso riavere la palla?», chiese il piccolo Charlie Bellows ai due metri e ottantacinque di Martin lo Strano. Lì vicino non c'era nessuno che potesse udirli. «Puoi riavere la tua palla?», disse Martin lo Strano, incerto. A quanto sembrava, stava rigirandosi in testa la domanda. I suoi occhi d'un grigio completo diedero forma all'immagine di Charlie come si potrebbe dar forma a una pallina di fango. «Puoi riavere la tua palla. Sì, prendila». Charlie si piegò lentamente e afferrò la palla d'un rosso brillante e si rialzò lentamente, e nei suoi occhi c'era uno sguardo misterioso. Scrutò a nord e a sud, e poi di nuovo il viso pallido, ossuto, dello Strano. «Io so qualcosa». Martin lo Strano guardò giù. «Sai qualcosa?». Charlie si piegò in avanti. «Tu sei morto». Martin lo Strano rimase lì seduto.
«Sei morto sul serio», sussurrò il piccolo Charlie Bellows. «Ma io sono l'unico che lo sa. Io le credo, signor Strano. Una volta ci ho provato anch'io. A morire, intendo. È difficile. È faticoso. Sono rimasto sdraiato sul pavimento per un'ora. Ma gli occhi mi si aprivano e la pancia brontolava, per cui me la sono grattata. Poi ho smesso. Perché?». Si fissò la punta delle scarpe. «Perché dovevo andare in bagno». Un lento sorriso di comprensione si formò sulla pelle morbida, pallida del lungo, ossuto volto di Martin lo Strano. «È faticoso. Non è facile». «A volte penso a lei», disse Charlie. «La vedo camminare attorno alla mia casa di notte. A volte alle due del mattino. A volte alle quattro. Mi sveglio e so che lei sta camminando dalle mie parti. So che devo guardare fuori, e guardo, e accidenti, lei è lì che cammina e cammina. Ma non va da nessuna parte». «Non c'è nessuna parte dove andare». Martin lo Strano sedeva con le sue grandi mani, callose, sulle ginocchia. «Cerco di pensare... a qualche posto... dove andare...». Le sue parole rallentarono, come cavalli morsi dal freno. «Ma è difficile pensare. Ci provo e... ci provo. A volte so quasi cosa fare, dove andare. Poi mi dimentico. Una volta ho avuto l'idea di andare da un dottore e farmi dichiarare morto, ma chissà perché...». La sua voce era lenta e tossicchiante e bassa. «...Non ci sono mai andato». Charlie lo fissò negli occhi. «Se vuole, l'accompagno io». Martin lo Strano guardò tranquillamente il sole che tramontava. «No. Sono affaticato... stanco, ma... aspetterò. Adesso che sono arrivato fino a questo punto, sono curioso di vedere cosa succederà dopo. Dopo l'alluvione che ha spazzato via la mia fattoria e tutte le mie cose e mi ha buttato sott'acqua, come un pulcino chiuso in gabbia, io mi sono riempito d'acqua come si può riempire un thermos, e comunque sono uscito dall'alluvione sulle mie gambe. Ma sapevo di essere morto. Ogni notte sono rimasto nella mia stanza ad ascoltare, ma non c'era battito nelle mie orecchie o nel mio petto o nel mio polso, anche se me ne stavo immobile come un grillo intirizzito. Nulla dentro di me, solo oscurità e calma e comprensione. Però deve esserci un motivo se cammino ancora. Forse è perché ero ancora giovane quando sono morto. Avevo solo ventotto anni, e non ero ancora sposato. Ho sempre voluto sposarmi. Non ci sono mai riuscito. E adesso sono qui, faccio cose strane in città, risparmio un sacco di soldi perché non mangio mai, accidenti, non posso mangiare, e a volte divento così scoraggiato e depresso e stupefatto che mi butto giù per strada e spero che mi prenderanno e m'infileranno in una bara di pino e mi lasceranno in pace
per sempre. Eppure, al tempo stesso, non voglio. Voglio qualcosa di più. So che quando la signorina Weldon viene qui e io vedo il vento che gioca tra i suoi capelli e i capelli sembrano piccole piume marroni...». Con un sospiro, scivolò nel silenzio. Charlie Bellows attese cortesemente per un minuto, poi si schiarì la gola e se ne andò, facendo saltare la palla. «Arrivederci!». Lo Strano fissò il punto in cui s'era fermato Charlie. Cinque minuti dopo, strizzò gli occhi. «Eh? C'è qualcuno? Qualcuno ha parlato?». La signorina Weldon uscì dalla drogheria con la borsa piena di cibo. «Le piacerebbe accompagnarmi a casa, Strano?». Camminarono in un piacevole silenzio. Lei badava a non andare troppo forte, perché per lui ogni passo era un'impresa. Il vento mormorava fra i cedri e gli olmi e gli aceri della strada. Diverse volte le labbra di lui si aprirono e lo Strano la scrutò di traverso, e poi richiuse sempre la bocca e fissò avanti, come se guardasse qualcosa lontano un milione di chilometri. Finalmente disse: «Signorina Weldon?». «Sì, Strano?». «Continuo a risparmiare denaro. Ho una sommetta niente affatto disprezzabile. Non spendo molto per niente, e... Lei resterebbe sorpresa», ammise, sincero. «Ho quasi un migliaio di dollari. Forse più. A volte li conto e poi mi stanco e non li conto più. E...». D'improvviso parve impacciato, e un poco in collera con lei. «Perché le piaccio, signorina Weldon?», le chiese. Lei parve leggermente sorpresa, poi gli sorrise. Lo sguardo che gli regalò era quasi uno sguardo di piacere infantile. «Perché lei è tranquillo. Perché non è invadente e cattivo come gli uomini che vengono alla bottega del barbiere. Perché io sono sola, e lei è stato gentile con me. Perché lei è la prima persona che mi trova piacevole. Tutti gli altri non mi guardano nemmeno. Dicono che non sono capace di pensare. Dicono che sono un'idiota perché non ho finito le elementari. Ma io sono così sola, Strano, e parlare con lei significa così tanto». Lui le stringeva forte la mano piccola, pallida. Lei si morse le labbra. «Vorrei poter fare qualcosa per quello che la gente dice di lei. Non voglio sembrare cattiva, ma lei dovrebbe smetterla di raccontare che è morto, Strano». Lui si fermò. «Allora non mi crede neanche lei», disse, lontano. «Lei è "morto" perché ha bisogno di una donna che le prepari dei bei
pranzetti, e di amore, e di vivere come si deve, Strano. È questo che lei intende quando dice di essere "morto", niente di più!». I suoi occhi grigi si fecero profondi e spersi. «È questo che intendo?». Poi scorse il volto di lei, appassionato, pieno di luce. «Sì, è questo che intendo. Lei ha proprio indovinato. È questo che intendo». I loro passi risuonavano solitari nella sera, volavano via sulle ali del vento come foglie, e poi il buio si fece più scuro e morbido e uscirono le stelle. Quella sera, alle nove circa, due ragazzi e due ragazze erano fermi sotto un lampione. Più giù, qualcuno camminava lentamente, quietamente, solo, lungo la via. «Eccolo», disse uno dei ragazzi. «Chiediglielo tu, Tom». Tom era a disagio. Le ragazze cominciarono a ridere. Tom disse: «D'accordo, d'accordo, però venite anche voi». Il vento scuoteva gli alberi da ogni parte, faceva cadere le foglie da sole e a grappoli. Le foglie scivolavano sopra la testa di Martin lo Strano, che avanzava. «Signor Strano? Eilà, signor Strano!». «Eh? Oh, salve». «Noi... Uh... Cioè», bofonchiò Tom, girando gli occhi in cerca d'aiuto. «Vorremmo sapere se... Be'... Vorremmo che lei venisse alla nostra festa!». Un minuto dopo, dopo aver fissato il viso pulito, acqua e sapone di Tom, dopo aver visto la deliziosa casacca blu che la sua amica di sedici anni indossava, Martin lo Strano rispose. «Grazie, ma non so. Potrei dimenticarmi di venire». «No, impossibile», insistette Tom. «Non potrebbe scordarsene. È per la vigilia d'Ognissanti!». Una delle ragazze prese Tom per il braccio e sibilò: «Lasciamo andare, Tom. Lasciamo andare. Per favore. Non funzionerà, Tom. Non è abbastanza spaventoso». Tom fece segno di no. «Lascia che ci pensi io». La ragazza insisteva. «Per favore, no. È solo un vecchio sporco. Bill può mettersi le candeline sulle dita e quegli orribili denti di porcellana in bocca e dipingersi coi pastelli verdi sotto gli occhi, e spaventarci a morte. Non c'è bisogno di lui!». E scagliò la testa ribelle in direzione dello Strano. Martin lo Strano rimase immobile. Ascoltò il vento fischiare tra le fronde degli alberi per dieci minuti, e poi si rese conto che i quattro ragazzi se
n'erano andati. Un sorriso duro come la pietra gli nacque sulle labbra. Bambini. Ognissanti. Non è abbastanza spaventoso. Bill è più bravo. Solo un vecchio. Assaggiò quel sorriso, e scoprì che era strano e amaro. Il mattino dopo il piccolo Charlie Bellows lanciò la palla contro il muro della drogheria, l'afferrò al volo, la lanciò di nuovo. Si accorse di qualcuno che fischiettava alle sue spalle, si girò. «Oh, salve, signor Strano!». Martin lo Strano avanzava solo, e fra le dita aveva tanti dollari verdi e li contava. Si fermò, all'improvviso. La sua espressione era vacua. «Charlie!», gridò. «Charlie!». Le sue mani si muovevano a tastoni. «Sissignore, signor Strano!». «Charlie, dove stavo andando? Dove stavo andando? Andavo da qualche parte a comprare qualcosa per la signorina Weldon! Qui, Charlie, aiutami!». «Sissignore, signor Strano». Charlie corse avanti e si fermò all'ombra dell'uomo. Una mano si abbassò, e stringeva del denaro: settanta dollari. «Charlie, corri a comperare un vestito per... la signorina Weldon...». Il cervello di Martin lo Strano boccheggiava, affondava, si ribellava, lottava contro la ragnatela dell'oblio. Sul suo volto c'erano terrore allo stato puro e desiderio e paura. «Non riesco a ricordarmi dove, Dio, aiutami a ricordare. Un vestito e una giacca per la signorina Weldon da... da...». «Dai grandi magazzini Krausmeyer?», chiese Charlie, speranzoso. «No». «Da Fieldman?». «No!». «Dal signor Leiberman?». «Leiberman! Proprio così! Leiberman, Leiberman! Ecco qua, ecco qua, Charlie, ecco qua, corri da...». «Leiberman». «...E compera un vestito verde per... la signorina Weldon, e una giacca. Un bel vestito verde con tante rose gialle disegnate sopra. Compra e poi porta tutto qui da me. Oh, Charlie, aspetta». «Sissignore, signor Strano?». «Charlie... Credi che forse potrei darmi una ripulita a casa tua?», chiese Martin lo Strano, tranquillamente. «Ho bisogno di... di un bagno». «Accidenti, non lo so, signor Strano. I miei genitori sono un po' matti. Non lo so».
«Non importa, Charlie. Capisco. Adesso corri!». Charlie corse via veloce come il vento, stringendo i soldi. Arrivò alla bottega del barbiere, mise dentro la testa. Il signor Simpson smise di tagliare i capelli del signor Trumbull e guardò il bambino. «Ehi!», gridò Charlie. «Martin lo Strano sta fischiettando!». «E cosa?», chiese il signor Simpson. «Fa così», disse Charlie, e fischiettò il motivo. «Dio sacrosanto e potentissimo!», muggì Simpson. «Ecco perché la signorina Weldon non è venuta a lavorare, stamattina! Quella è la marcia nuziale!». Charlie riprese a correre. Pandemonio! Urla, risate, il rumore dell'acqua che scrosciava, colpi. Il retrobottega del barbiere era invaso dal vapore. Fecero a turno. Per prima cosa il signor Simpson riempì un gran catino d'acqua calda e la versò in un unico getto su Martin lo Strano, che sedeva nella vasca senza dire niente, stava lì seduto e basta, e poi il signor Trumbull grattò la schiena pallida di Martin lo Strano con uno spazzolone e un sacco di sapone, e di tanto in tanto Shorty Phillips innaffiava lo Strano con uno spruzzatore di acqua di colonia. Ridevano tutti e correvano nel vapore. «Ti sposi, eh, Strano? Congratulazioni, ragazzo!». Altra acqua. «L'ho sempre detto che avevi bisogno di sposarti», rise il signor Simpson, colpendo al petto Martin lo Strano con un getto d'acqua fredda. Lo Strano fece finta di non essersene neanche accorto. «Adesso hai un profumo migliore!». Lo Strano se ne stava seduto. «Grazie. Grazie moltissime perché fate questo. Grazie perché mi aiutate. Grazie per il bagno. Ne avevo bisogno». Simpson rise da dietro la mano. «Stai pur tranquillo, per te si fa tutto, Strano!». Qualcuno sussurrò, nell'umido retrobottega: «Immaginatevi un po' che coppia! Una deficiente sposata a un idiota!». Simpson s'accigliò. «Chiudete il becco, lì in fondo!». Charlie entrò di corsa. «Ecco qua il vestito verde, signor Strano!». Un'ora dopo avevano depositato lo Strano sulla poltrona del barbiere. Qualcuno gli aveva dato un nuovo paio di scarpe. Il signor Trumbull le stava lucidando con vigoria, strizzando l'occhio a tutti. Il signor Simpson tagliò i capelli di Martin lo Strano, e non volle farsi pagare. «No, no, Strano, fai conto che sia il mio regalo di nozze per te. Sissignore». E sputò. Poi spruzzò un po' d'acqua di rose sulla capigliatura nera dello Strano. «Ecco
fatto. Chiaro di luna e rose!». Martin si guardò attorno. «Non parlerete con nessuno di questo matrimonio», chiese, «fino a domani? Io e la signorina Weldon vorremmo sposarci senza che tutta la città venga a prenderci in giro. Mi capite?». «Ma certo, certo. Strano», rispose Simpson, dando gli ultimi ritocchi al suo lavoro. «La parola d'ordine è stare zitti. Dove andrete a vivere? Comprerai una nuova fattoria?». «Una fattoria?». Martin lo Strano scese dalla poltrona. Qualcuno gli prestò una bella giacca nuova, e qualcun altro gli aveva stirato i calzoni. Aveva un aspetto magnifico. «Sì, adesso comprerò la mia proprietà. Dovrò pagare qualcosa in più, ma ne vale la pena. È speciale. Adesso vieni con me, Charlie Bellows». Si avviò verso la porta. «Ho comperato una casa in periferia, e devo andarla a pagare. Vieni, Charlie». Simpson lo fermò. «Com'è? Non avevi tanto denaro. Non puoi permetterti molto». «No», disse lo Strano, «hai ragione. È una casettina piccola, ma andrà bene. L'aveva costruita una famiglia un po' di tempo fa, poi si sono trasferiti all'Est. Era in vendita per cinquecento dollari, me la sono comperata. La signorina Weldon e io traslochiamo stasera, dopo la cerimonia. Ma per favore non raccontatelo a nessuno prima di domani». «Stai tranquillo, Strano. Stai tranquillo». Martin lo Strano uscì nel sole delle quattro del pomeriggio, con Charlie a fianco, e gli uomini nella bottega del barbiere si misero a sedere e risero. Fuori il vento sospirava, e poco per volta il sole scese e le forbici continuavano a tintinnare, e gli uomini erano seduti nella bottega, parlavano e ridevano... La mattina dopo, a colazione, il piccolo Charlie Bellows masticava pensieroso la sua zuppa di cereali. Il padre aprì il giornale sul tavolo e guardò la moglie. «In città parlano tutti della scomparsa di Martin lo Strano e della signorina Weldon», disse suo padre. «Li stanno cercando, ma non riescono a trovarli». «Be'», disse mamma, «ho sentito dire che lui aveva comperato una casa». «Anch'io l'ho sentito», disse papà. «Stamattina ho telefonato a Carl Rogers, e lui dice di non aver venduto nessuna casa allo Strano. E Carl è l'unico agente immobiliare della città». Charlie Bellows inghiottì un po' di cereali. Guardò suo padre. «Oh, no, non è l'unico agente immobiliare della città».
«Cosa vuoi dire?», gli chiese papà. «Niente, tranne che a mezzanotte ho guardato fuori dalla finestra, e ho visto qualcosa». «Hai visto cosa?». «C'era un grande chiaro di luna. E sai cos'ho visto? Be', ho visto due persone che camminavano su per la strada della Radura degli Olmi. Un uomo e una donna. Un uomo con un vestito nero, e una donna con un vestito verde. Camminavano pianissimo. Si tenevano per mano». Charlie tirò il fiato. «E quelle due persone erano Martin lo Strano e la signorina Weldon. E a camminare su per la strada della Radura degli Olmi non si trova più neanche una casa. C'è solo il cimitero di Trinity Park. E il signor Gustavvson, giù in città, vende le cappelle del cimitero di Trinity Park. Ha un ufficio. Come dicevo, il signor Carl Rogers non è l'unico agente immobiliare della città. Per cui...». «Oh», sbuffò papà, irritato, «stavi sognando!». Charlie piegò il capo sui cereali e gettò un'occhiata in su con l'angolo degli occhi. «Sissignore», rispose alla fine, sospirando. «Stavo solo sognando». Titolo originale: The Dead Man. Al lupo! ROBERT BLOCH La luna era appena spuntata. Luccicava sul lago, e quando Violet entrò formava una ragnatela d'argento sui suoi capelli. Ma non era il chiaro di luna che risaltava sul tetro pallore del suo viso. Era la paura. «Cos'è che ti rode?», le chiesi. «Un lupo mannaro». Rimisi giù la pipa, abbandonai la poltrona e mi avvicinai a lei. Lei continuava a fissarmi, immobile, come una grande bambola cinese con gli occhi di vetro. Le scossi le spalle. Scomparve quello sguardo fisso. «Avanti, andiamo», dissi. «Era un lupo mannaro», sussurrò lei. «L'ho sentito che mi seguiva nella foresta. Le sue zampe graffiavano i rami alle mie spalle. Avevo paura di voltarmi, ma sapevo che c'era. Mi è venuto sempre più vicino, e quando è
spuntata la luna l'ho sentito ululare. Poi sono scappata via». «L'hai sentito ululare?». «Ne sono quasi certa». «Quasi!». I suoi occhi si nascosero dietro le ciglia abbassate. Piegò il capo, e d'improvviso il colorito le si accese sulle guance. Io restavo a guardarla, annuendo. «Hai sentito un lupo ululare qui intorno?», insistetti. «Tu... Non...». La voce le si strangolò in gola. Scossi il capo, piano, con decisione. «Per favore, Violet. Non facciamo gli sciocchi. La scorsa settimana abbiamo parlato una mezza dozzina di volte di questa storia, ma sono disposto a riprovarci». La presi per mano con estrema gentilezza e la guidai a una poltrona. Le accesi una sigaretta, gliela passai. Le sue labbra tremavano, la sigaretta oscillava in su e in giù. «Stammi a sentire, cara», cominciai. «Qui non ci sono lupi. D'accordo, siamo nel selvaggio Canada, ma da queste parti sono vent'anni che non si vede un lupo. Il vecchio Leon, giù all'osteria, te lo può confermare. «E anche se, per un caso bizzarro, un lupo solitario fosse arrivato fin qui scendendo dal nord, se si aggirasse attorno al lago, non c'entrerebbe proprio niente coi lupi mannari. «Tu e io possediamo buonsenso a sufficienza per essere al di sopra di queste sciocche superstizioni. Cerca di scordarti i tuoi antenati canadesi, e per favore ricorda che adesso sei la moglie di un esperto nel campo delle leggende». Il riferimento agli antenati canadesi era piuttosto brutale, ma volevo scuoterla da quello stato d'animo. Invece ottenni l'effetto opposto: cominciò a tremare. «Ma Charles, devi aver sentito qualcosa!», singhiozzò. Adesso i suoi occhi chiedevano aiuto. Fui costretto ad allontanare lo sguardo. «Niente», mormorai. «Quella notte che ti ho svegliato... Non hai visto la sua ombra sul muro?». Scossi il capo, mi obbligai a sorridere. «Odierei pensare che hai letto troppi dei miei racconti, cara», le dissi. «Ma non saprei proprio come spiegare le tue... ehm... idee sbagliate».
Violet tirò una boccata di fumo, e la punta della sigaretta risplendette un attimo. Ma i suoi occhi erano morti. «Non hai mai sentito quel lupo? Non ti ha mai seguito nella foresta? Mai, neanche quando eri qui da solo?». La sua voce era supplichevole. «Temo di no. Lo sai che sono venuto un mese prima di te per scrivere. E ho scritto. Non ho visto lupi mannari, spettri, vampiri, ghoul, gemetti o demoni. Solo indiani e canadesi e altra gente. Una sera, mentre rincasavo dopo essere stato da Leon, mi è sembrato di vedere un elefante rosa, ma mi sbagliavo». Sorrisi. Lei non sorrise con me. «Sul serio, Violet, mi chiedo se ho commesso uno sbaglio a farti venire qui. Ma pensavo che per te sarebbe stato un po' come tornare ai vecchi tempi. Dopo tutto, per una franco-canadese questa foresta dovrebbe essere una meraviglia. Ma adesso mi chiedo...». «Ti chiedi se sono pazza». Quelle parole uscirono a fatica dalle sue labbra. «No», mormorai. «Non l'ho mai detto». «Però lo pensi, Charles». «Niente affatto. Momenti del genere capitano a tutti. Qualunque medico può dirti che un errore di percezione non indica necessariamente... lo squilibrio psichico». Parlavo con tutto il mio calore, ma era chiaro che lei non era affatto convinta. «Non m'inganni, Charles. E nemmeno io posso ingannarmi. C'è qualcosa che non va». «Sciocchezze. Scordati tutto». Riaccesi il sorriso sulle labbra, ma pareva che non avessi nessuna voglia di sorridere. «Dopo tutto, Violet, io dovrei essere proprio l'ultima persona al mondo a pensare una cosa del genere. Non ricordi, prima che ci sposassimo a Quebec, che ti chiamavo sempre strega? Ti chiamavo "la Rossa Strega del nord" e scrivevo per te quei sonetti e te li sussurravo». Violet scosse il capo. «Era diverso. Tu sapevi quello che facevi. Non vedevi, non sentivi cose che non esistono». Mi schiarii la gola. «Voglio darti un suggerimento, cara. Non hai parlato a nessun altro di questa storia, vero?». «No». «E dura da un paio di settimane, secondo te?». «Sì».
«Bene. Non voglio che continui. Tu sei terribilmente preoccupata. Per questo motivo, e solo per questo motivo, tienilo a mente, sarebbe bene chiamare il dottor Meroux. In qualità di semplice osservatore, naturalmente. «Mi sembra un tipo molto in gamba, non solo come medico ma anche come psichiatra. Lo sai che ha l'hobby della psichiatria. Chiaro, è solo un dilettante confinato in mezzo a una foresta, ma gode di ottima reputazione. Sono certo che rispetterebbe le tue confidenze. E forse potrebbe fare una diagnosi, chiarire tutta questa faccenda in un amen». «No, Charles. Non ne voglio parlare col dottor Meroux». Mi accigliai. «D'accordo. Però m'interessa la tua idea di questo misterioso lupo mannaro. Mi piacerebbe sapere cosa ti hanno raccontato dei loupgarous da piccola. Tua nonna aveva un po' di sangue indiano nelle vene, no? Non ti ha mai fatto tremare di paura con qualche storia terrificante?». Violet annuì. «Oui... Volevo dire sì». Mi accorsi che era scivolata nella lingua della sua infanzia, ma feci finta di non averlo notato. «Ti ha parlato degli uomini-lupo, dei lycanthropes, che cambiano aspetto al richiamo della luna e ululano e corrono su quattro zampe? Dei loro corpi che sono ombre paurose nella notte? Ti ha detto che inseguono la preda, che squarciano le gole delle loro vittime, e che chi ne viene azzannato assorbe il mostruoso virus della licantropia?». «Sì. Me ne ha parlato molte volte». «Ah. E adesso che ti trovi qui, in mezzo a una foresta, risorgono le immagini delle tue paure infantili. Il lupo mannaro, cara, è soltanto il simbolo di qualcosa che tu temi. Forse un tuo senso di colpa prende corpo nell'allucinazione di questa creatura bestiale, che si nasconde e attende il momento di svelarsi. «Io non sono uno psichiatra dilettante come il dottor Meroux, ma credo di poter concludere che un'allucinazione del genere è piuttosto naturale. Se tu sarai assolutamente sincera con me, forse riusciremo a scoprire la natura delle tue paure, a denudare il vero terrore che si nasconde dietro questo mostro, questo ibrido mitologico che t'insegue nella foresta...». «No! Basta! Per favore, non adesso! Non sopporto di parlarne ancora». Violet singhiozzava. Io la confortai come potevo. «Scusa. Sarai già abbastanza nervosa. Be', dimentichiamoci di tutto, cara, aspettiamo che tu riesca ad affrontare il problema. E adesso, a nanna». L'accompagnai in camera da letto dandole continue pacche sulle spalle.
Ci spogliammo, c'infilammo a letto. Abbassai la fiamma della lampada, la spensi. La nostra casetta era immersa nell'oscurità. Solo un briciolo del chiarore lunare filtrava tra le cime degli alberi, e il lago era un mare d'argenteo fuoco. Mi girai dall'altra parte e caddi in un torpore improvviso. Violet, al mio fianco, era tesa. Poi, piano, gradualmente, si rilassò. Ci addormentammo. Non so che ore fossero quando mi svegliai. La mano di Violet mi morse le spalle, e il suo respiro era forte, veloce. «Ascolta, Charles!», mormorò. Ascoltai. «Lo senti? Fuori... Lo senti che gratta alla porta?». Scossi il capo. «Svegliati, Charles. Devi sentirlo! Ha continuato a passeggiare su e giù sotto la finestra, e adesso gratta alla porta. Fai qualcosa!». Saltai giù dal letto, la presi per il braccio. «Forza», le dissi. «Andiamo a dare un'occhiata». Frugai la poltrona, in cerca della torcia elettrica. «Se ne sta andando», singhiozzò Violet. «Sbrigati». Impugnando saldamente la torcia, trascinai Violet verso la porta. Mi fermai, la lasciai, tolsi il catenaccio. La porta si spalancò. Il grande arco di luce frugava la notte: la foresta era assolutamente priva di vita. Poi puntai la torcia in basso. Violet urlò. «Guarda, Charles! Lì per terra, alla porta! Non vedi le impronte?». Guardai. E sotto i miei occhi, perfettamente impresse sul terreno, c'erano le impronte delle zampe di un lupo gigantesco. Mi girai verso Violet, la fissai a lungo. Poi scossi la testa. «No, cara», sussurrai. «Ti sbagli. Non vedo niente. Non vedo proprio niente!». Il mattino dopo Violet rimase a letto, e io scesi in città a vedere Lisa. Lisa viveva con suo padre vicino all'incrocio. Il vecchio era paralizzato. Lisa lo manteneva fabbricando collane di perline e cesti di vimini da vendere ai turisti. È così che l'avevo incontrata, un mese prima, quando ero lì da solo. Mi ero fermato al banco a fianco della strada. Volevo comperare un braccia-
letto per Violet. Poi vidi Lisa, e dimenticai tutto. Lisa era mezza indiana e mezza dea. Aveva capelli neri. E non si poteva immaginare un nero più completo, più affascinante, prima d'incontrare i suoi occhi: due finestre ovali spalancate sulla notte. Il suo viso, i suoi lineamenti erano un delicato cesello su uno sfondo di rame brunito. Il suo corpo era snello e forte, ma stranamente cedevole quando si abbandonava a un abbraccio. Lo scopersi molto presto. Due giorni dopo averla incontrata, per essere precisi. Non intendevo essere così precipitoso. Ma Lisa era mezza indiana e mezza dea. Ed era completamente maligna. Maligna come la notte che profumava il fosco splendore dei suoi capelli... Maligna come i suoi profondissimi occhi... La pagana perfezione del suo corpo era fatta d'istinto e della sostanza stessa del peccato. Mi offrì la dolceamara corruzione dell'antico, proibito frutto che solo Lilith conobbe. Venne da me nelle notti senza luna, silenziosa come un succubo, e io celebrai la notte e l'oscurità. Quando arrivò Violet, i nostri incontri cessarono. Dissi a Lisa che dovevamo essere prudenti, e lei rise. «Per un po', d'accordo», mi rispose. «Un po'?». Lisa annuì. I suoi occhi scintillavano. «Sì. Solo finché tua moglie resta in vita». Lo disse con estrema naturalezza. E dopo un attimo io capii che era una frase perfettamente naturale. Perché era vera, logica. Non desideravo più Violet. Desideravo quest'altra cosa, questa cosa che non era né amore né lussuria, ma celebrava il matrimonio della mia anima con gli abissi della malvagità. E se la desideravo, Violet doveva morire. Scrutai Lisa, annuii. «Vuoi che la uccida?», le chiesi. «No. Esistono altre strade». «Magia indiana?». Un mese prima, la semplice idea mi avrebbe fatto ridere. Ma ora, conoscendo Lisa, stringendo Lisa, capivo che la prospettiva era valida. «No. Non esattamente. Se tua moglie non morisse? Se dovesse andarsene?».
«Vuoi dire se mi concedesse il divorzio?». «Vedo che non capisci. È vero o no che esistono posti dove vengono rinchiusi i pazzi?». «Ma Violet non è pazza. È una donna normalissima. Ci vorrebbe qualcosa di assolutamente straordinario per farla uscire di senno». «Vedere lupi, ad esempio?». «Lupi?». «Un lupo si metterà a seguire tua moglie. La inseguirà, la tormenterà, le darà la caccia ogni volta che sarà sola. Lei ti chiederà aiuto, spiegazioni. Tu devi rifiutarti di crederle. E in poco tempo la sua mente...». Lisa scrollò le spalle. Non feci domande. Mi limitai ad accettare ciò che lei mi diceva. Non seppi se Lisa si fosse recata nella foresta a consultare gli sciamani, o se avesse mormorato preghiere ai neri signori della paura. Però un lupo si mise a seguire mia moglie. E io feci finta di non vedere nulla, di non sentire nulla. Tutto stava andando come Lisa aveva predetto: Violet impazziva. Chissà come, si era fatta l'idea che un lupo mannaro fosse la sua nemesi notturna. Tanto meglio. La sua ragione si ottenebrava di giorno in giorno. E Lisa attendeva, sorridendo con quel suo sorriso segreto. Quel mattino Lisa mi attendeva al suo banco, in una stradina laterale vicina all'incrocio. Alla luce del sole sembrava un'indiana come tante altre. Solo quando l'ombra cadeva sul suo viso potevo vedere i suoi occhi e i suoi capelli com'erano realmente: neri e immutabili come il suo io segreto. Mise la mano sul mio braccio, e fuoco e ghiaccio corsero lungo la mia spina dorsale. «Come sta tua moglie?», mormorò. «Non troppo bene. Stanotte ha trovato impronte di lupo davanti a casa. Ha avuto una crisi isterica». Lisa sorrise. «Crede che sia un lupo mannaro, sai». Lisa sorrise. «Vorrei che tu mi raccontassi la verità, tesoro. Come hai fatto a ordinare al lupo di seguirla?». Lisa sorrise. Sospirai. «Forse non dovrei fare troppe domande».
«Giusto, Charles. Non ti basta sapere che il nostro piano funziona? Che Violet sta impazzendo? Che presto se ne andrà e noi potremo restare assieme, per sempre?». La scrutai. «Sì, mi basta. E adesso cosa succederà?»'. «Tua moglie vedrà il lupo. Lo vedrà sul serio. Si spaventerà moltissimo. Tu ti rifiuterai di crederle, come sempre. Lei si rivolgerà alle autorità. Scenderà al villaggio e cercherà di convincere la gente a crederle. Tutti penseranno che sia pazza. E se ti chiedono qualcosa, tu non sai niente. Dopo un po' il dottore sarà costretto a visitarla. E poi...». «Vedrà il lupo?», ripetei. «Lo vedrà sul serio?». «Sì». «Quando?». «Stanotte, se vuoi». Annuii, lentamente. Poi mi venne un dubbio. «Ma è quasi a pezzi. È troppo spaventata per uscire nella foresta». «In questo caso, il lupo andrà a lei». «Benissimo. Cancellerò le impronte. Le ho cancellate anche stamattina». «Sì. E sarà meglio che stasera tu non ti trovi in casa. Sei una persona sensibile, Charles. Ti sarebbe difficile sopportare il terrore di tua moglie». Mi venne in mente l'immagine di Violet: l'immagine del suo volto spaventato, dei suoi occhi tesi in fuori, della sua bocca spalancata in un urlo di paura delirante, mentre il mostro dei suoi incubi si accucciava davanti a lei. Sì, sarebbe successo proprio quello, e molto presto. Sorrisi. Lisa mi sorrise di rimando. Allontanandomi, la sentii ridere, e pensai che c'era qualcosa di innaturale nella sua allegria. Poi, ovviamente, compresi la verità: nemmeno Lisa era sana di mente. Quella sera cenammo in silenzio. Quando la luna spuntò sul lago, Violet s'alzò e tirò le tendine con una smorfia che non riuscì a nascondere. «Cosa c'è, cara? Ti dà fastidio il chiarore lunare?». «Lo odio, Charles». «Ma è bellissimo». «Non per me. Odio la notte». Potevo permettermi di essere generoso. «Violet, ci ho pensato. Questo posto... ti scuote i nervi. Non credi sarebbe meglio se te ne tornassi in città?». «Da sola?». «Ti raggiungo appena ho finito di lavorare».
Violet allontanò una ciocca dei suoi capelli castani dalla fronte. Fu un colpo scoprire che non possedevano più i riflessi d'una volta. La magia era scomparsa dai suoi capelli: erano morti, inerti. Come erano morti, inerti, il suo viso e i suoi occhi. «No, Charles. Non posso andarmene da sola. Mi seguirebbe». «Ma cosa?». «Il lupo». «I lupi non scendono in città». «I lupi normali, no. Ma questo...». «Come mai pensi che il lupo che... ehm... vedi non sia normale?». Si accorse della mia esitazione, ma la disperazione vinceva ogni reticenza. Mi rispose subito. «Perché appare solo di notte. Perché qui non ci sono lupi veri. Perché sento la malvagità di quella bestia. Non si limita a seguirmi, Charles: mi dà la caccia. E vuole solo me. Sta aspettando che succeda qualcosa. Se me ne andassi, mi seguirebbe. Non posso sfuggirgli». «Non puoi sfuggirgli perché esiste solo nella tua immaginazione», scattai. «Violet, sono stato molto paziente. Ho trascurato il mio lavoro per prendermi cura di te. Sono due settimane che sto ad ascoltare i tuoi deliri. «Ma se tu non riesci a guarirti da sola, be', allora ci deve pensare qualcun altro. Questo pomeriggio mi sono preso la libertà di discutere il tuo caso col dottor Meroux. Vuole vederti». Sotto il peso delle mie accuse, lei crollò. «Allora è vero», boccheggiò. «Tu credi davvero che io sia... pazza». «I lupi mannari non esistono», dissi. «Mi sembra più facile credere alla presenza di una malattia mentale che a una creatura soprannaturale». Mi alzai. Violet, stupefatta, mi guardò. «Dove vai?», sussurrò. «Da Leon», le risposi. «Ho bisogno di bere qualcosa. Questa storia sta facendo saltare anche i miei nervi». «Charles. Non lasciarmi sola, stanotte». «Hai paura di lupi che non esistono?», le chiesi, con falsa gentilezza. «Andiamo, cara! Se vuoi che io conservi un briciolo di fiducia nel tuo equilibrio mentale, dimostrami almeno che posso lasciarti sola un paio d'ore senza che tu crolli». «Charles...». Arrivai alla porta, la spalancai. Quando il chiaro di luna formò una mac-
chia d'argento sul pavimento, lei sussultò. Immobile sulla soglia, le sorrisi. «Violet, mi sembra di essere stato estremamente paziente con te. Ma se tu ti rifiuti di farti vedere da un medico, se insisti a restare qui, se non vuoi ammettere di essere un po' squilibrata... Be', dimostrami che hai ragione». Mi girai, uscii, chiusi la porta, infilai deciso il sentiero. La notte era bellissima. Incamminandomi verso l'incrocio a un chilometro e mezzo da lì, respirai a fondo. L'impazienza mi spingeva quasi a correre. Avevo una fretta maledetta di giungere a destinazione. E non volevo affatto fare un salto alla taverna di Leon. Volevo andare da Lisa. La capanna in cui viveva Lisa era immersa nel buio, e mi chiesi se lei fosse a letto. Sapevo che suo padre dormiva già: non avrebbe causato guai. Avvicinandomi alla capanna, avevo già deciso di svegliarla, anche se si era coricata. Una notte come quella non era fatta per dormire. A poca distanza dalla soglia, un rumore improvviso mi fermò. La porta, lentamente, si stava aprendo. D'istinto mi ritirai nell'ombra, e poi vidi una figura uscire dalla capanna. «Lisa!», sussurrai. Lei si voltò, mi venne incontro. «Anche tu hai avuto la stessa idea», mormorai, prendendola fra le braccia. «Vieni, andiamocene. Facciamo un salto alla spiaggia». Lisa, silenziosa, mi camminava a fianco, sul sentiero che conduceva al lago. Per un lungo momento restammo a fissare la luna. Poi, quando le mie braccia si strinsero attorno alla sua vita, Lisa girò il volto verso di me e scosse il capo. «No, Charles, adesso devo andare». «Andare?». «Mi aspettano all'incrocio». «Lascia che aspettino». Raccolsi il suo volto fra le mani, mi chinai a baciarla. Si tirò indietro. «Cosa c'è, Lisa?». «Vattene!». «C'è qualcosa che non va?». «Va tutto bene. Vattene, Charles». Allora la fissai sul serio. E vidi. Vidi che il suo viso era stranamente ros-
so, i suoi occhi innaturalmente luminosi, le sue labbra socchiuse più per protesta che per passione. Non guardava me: guardava, attraverso me, la luna alle mie spalle. Due minuscole lune scintillavano nei suoi occhi. Parvero espandersi, ingrandirsi, e poi due globi di argenteo fuoco presero il posto delle sue pupille nere. «Vattene, Charles», mormorò. «Vattene... Subito». Ma non me ne andai. Non succede tutti i giorni di avere l'insolita possibilità di osservare la metamorfosi d'un licantropo. E io stavo guardando una donna che si trasformava in lupo. Il primo indizio me lo diede la sua respirazione. Il respiro di Lisa diventò un ansito; l'ansito diventò una serie di tremendi sussulti. Il suo petto saliva e scendeva, saliva e scendeva, saliva e scendeva, e cambiava. Le sue spalle si tesero in avanti. Il suo corpo non s'incurvò, ma parve crescere all'improvviso. Le braccia si ritrassero all'indietro, verso le spalle. Adesso Lisa era caduta a terra: si agitava a metà nell'ombra, a metà nel chiarore lunare. Ma la luce della luna non risplendeva più sulla sua pelle: la pelle si andava scurendo, ispessendo, e ne uscivano ciuffi di pelo. La sua agonia era simile a quella del parto, e, in un certo senso, si trattava proprio di un parto. Stava dando alla luce non una nuova vita, ma una nuova parte di se stessa. Il dolore, i movimenti convulsi, erano semplici riflessi del processo. Era affascinante osservare il suo cranio che cambiava forma, come se le mani di uno scultore invisibile stessero piegando, modellando quella creta viva, costringendo la struttura ossea ad assumere un altro aspetto. Per un attimo quella testa allungata rimase miracolosamente priva di capelli; poi ne spuntò un ciuffo di peli morbidi, le orecchie si allungarono, i lobi rosei si adagiarono sul grande collo. Gli occhi di Lisa scivolarono in fuori, i lineamenti del suo viso furono come stravolti, poi si trasformarono nel muso sporgente. Sulle sue labbra nacque un ringhio, spuntarono le zanne. La sua pelle si era notevolmente scurita. La sua immagine mi ricordava una pellicola fotografica sovraesposta mentre si sviluppa in camera oscura. I vestiti di Lisa erano caduti a terra. Le sue gambe si accorciarono, si fecero pelose, presero la nuova forma. Le mani che prima si agitavano sulla sabbia divennero zampe. L'intero processo durò circa tre minuti e mezzo. Lo so perché lo cronometrai con l'orologio.
Oh, sì, lo cronometrai attentamente. Forse avrei dovuto sentirmi spaventato, ma non a tutti è concesso vedere una donna che si trasforma in lupo. Osservai la metamorfosi con quello che si potrebbe definire interesse professionale. E il fascino escludeva la presenza della paura. Ormai la trasformazione era completa: avevo davanti un lupo agile, ansimante. Naturalmente, capii. Capii perché Lisa avesse pochi amici, perché passasse tante sere da sola, perché mi avesse chiesto di andarmene, e perché conoscesse alla perfezione i movimenti del fantomatico lupo. Immobile sotto la luna, sorrisi. Gli occhi della belva mi scrutarono, imploranti. Penso che lei si aspettasse da me sorpresa, paura, o per lo meno un senso di repulsione. Il mio sorriso era una risposta inattesa. Nella sua gola nacque un uggiolio, e poi sembrò quasi che lei facesse le fusa. Si sentiva tranquilla. «Sarà meglio che tu vada», mormorai. Esitava. Mi chinai, carezzai la schiena del lupo, ancora scossa dal dolore della metamorfosi. «È tutto a posto», dissi. «Capisco, Lisa. Di me puoi fidarti, lo sai. E questo non cambia per nulla i miei sentimenti... su noi due». Le fusa continuavano, nel grande corpo peloso del lupo. «Non perdere tempo», incalzai. «Violet è sola. Avevi promesso di sorprenderla». La belva si girò e scomparve nella foresta alle mie spalle. Camminai fino al lago, osservai il chiarore lunare che giocava sull'acqua. E d'improvviso giunse la reazione emotiva. Era tutto chiaro, troppo chiaro. Ero complice di una ragazza che voleva far impazzire mia moglie. Nemmeno la ragazza era del tutto sana di mente. E adesso avevo scoperto che si trattava di un lupo mannaro. Forse ero un po' matto anch'io. Ma la situazione era quella che era. Non riuscivo a trovare una risposta, e ormai non potevo più tirarmi indietro. Le cose sarebbero andate secondo il nostro piano, e alla fine avrei ottenuto ciò che volevo. O no? Cominciai a singhiozzare. Non era rimorso, e non era autocommiserazione e non era paura. Era solo che avevo pensato a una cosa: avevo pensato di stringere Lisa fra le braccia e sentirla cambiare; di baciare le sue labbra rosse e scoprire, all'improvviso, che il muso di un lupo si premeva contro la mia bocca.
I miei singhiozzi vennero interrotti da un lontano, ironico ululato che uscì dagli alberi. Mi coprii le orecchie con le mani e rabbrividii. Improvvisamente mi trovai a correre nella foresta. Non sentivo più ululati, ma il rombo del mio stesso respiro mi echeggiava nelle orecchie. Corsi disperatamente, alla cieca, ferendomi mani e viso. Quando arrivai a casa, le luci erano spente. Raggiunsi stremato la porta, cercai d'aprirla, scoprii che era chiusa col catenaccio. All'interno, Violet urlò, e io fui felice di sentirla urlare. Almeno era viva. Perché, d'improvviso, avevo capito. I licantropi non si limitano a spaventare. Uccidono. Per cui il suo urlo fu come una benedizione, e quando aprì la porta lei corse, singhiozzando, fra le mie braccia, e anche quella fu una benedizione. «L'ho visto!», bisbigliò. «Stasera è venuto, ha guardato dentro dalla finestra. Era un lupo, ma aveva occhi umani. Mi fissavano, quegli occhi verdi... e poi ha cercato di aprire la porta... ululava... penso di essere svenuta... Oh, Charles, aiutami... aiutami...». Non potevo più fare finta di niente. Non potevo seguire il nostro piano, messo di fronte al suo terrore. La presi fra le braccia e sussurrai quel che potevo per darle conforto. «Sì, cara», mormorai. «Lo so che lo hai visto. Perché l'ho visto anch'io, nella foresta. È per questo che sono tornato. E l'ho sentito ululare. Adesso so che avevi ragione: c'è un lupo». «Un lupo mannaro». «Un lupo, ad ogni modo. Domani scendo in città, organizzo una battuta, e vedrai che lo troveremo». Mi sorrise. Non riusciva a smettere di tremare, ma ebbe il coraggio di sorridere. «Non devi più aver paura, cara», le dissi. «Adesso sono qui con te. Va tutto bene». Quella notte dormimmo abbracciati, come bambini impauriti. E, più o meno, lo eravamo. Quando mi svegliai era mezzogiorno passato. Violet, tranquilla, stava preparando da mangiare. Mi alzai, mi sbarbai per avere un'aria un po' meno selvatica. Quando mi accomodai a tavola il pranzo era pronto, ma il cibo non m'andava giù.
«È pieno d'impronte tutt'attorno la casa», disse Violet. La sua voce non tremava più: si sentiva forte perché io le credevo. «Okay», le risposi. «Adesso scendo in città. Ne parlerò con Leon, col dottor Meroux, con qualcuno dei ragazzi. Magari arrivo fino al quartier generale della polizia a cavallo, se mi dànno un passaggio». «Vuoi dire che hai intenzione di dargli la caccia anche tu?». «Certo. Voglio essere della partita. È il minimo che io possa fare. Altrimenti non mi perdonerei mai di averti giudicata male». Mi baciò. «Adesso non hai più paura di restare sola in casa?», le chiesi. «No. Non più». «Bene». Uscii. Mentre percorrevo la strada non feci altro che pensare. Ma quando entrai nella taverna di Leon, all'incrocio, e chiesi da bere, le mie meditazioni vennero bruscamente interrotte. Il grasso Leon stava parlando col piccolo dottor Meroux, sul fondo del banco. Agitava le braccia, sgranava gli occhi, e quando mi vide mi si avvicinò subito. Si sporse a fissarmi dall'altra parte del banco. «Ah, signoor Colby, che piacere rivederla». «Grazie, Leon. Ho avuto molto da fare. Non sono più riuscito a venire». «Ha avuto da fare in casa?». Continuava a fissarmi. Io esitai, mi morsi le labbra. Ma perché mai dovevo esitare a rispondere? «Sì. Mia moglie non è stata molto bene. Sono rimasto quasi sempre con lei». «È un posticino solitario, eh?». «Lo sai benissimo com'è». Scrollai le spalle. «Perché?». «Niente. Solo mi domandavo se non ha sentito qualcosa, di queste notti». «Se ho sentito qualcosa? Cosa dovevo sentire? Rane e grilli, e...». «Lupi, magari?». Ammiccai. Leon mi scrutava. «Ha sentito l'ululato del loup?», sussurrò. Scossi la testa, sperando che lui non mi stesse guardando le mani: tremavano. «Strano. Credevo che dalle parti del lago l'eco fosse molto forte». «Ma qui non ci sono lupi...».
«Ah!», esalò Leon. «Si sbaglia». «Come fai a saperlo?». «Ricorda Big Pierre, la guida, quel tipo con la pelle scura che vive dall'altra parte del lago?», chiese Leon. «Si». «Ieri Big Pierre è partito con un gruppo diretto al fiume. Sua figlia, Yvonne, è rimasta a casa. Stanotte si è trovata sola. È per via di lei che abbiamo scoperto il lupo». «Ve ne ha parlato?». «Non ne ha parlato, no. Ma stamattina il nostro buon dottor Meroux passava da quelle parti e si è fermato per darle il buongiorno. L'ha trovata in cortile. Le loup l'aveva azzannata di notte, che la sua anima riposi in pace». «Morta?». «Purtroppo. Non è un'idea piacevole. Il dottor Meroux ha perso le tracce nella foresta, ma quando Big Pierre ritorna stanerà quella bestiaccia, sicuro come l'oro». Il dottor Meroux si avvicinò lungo il banco, coi baffi che gli si rizzavano per l'eccitazione. «Cosa ne pensi, Charles? Un lupo selvatico che si aggira nel nostro territorio, e uccide. Avviserò la polizia a cavallo. Bisogna far avvertire tutti. Se avessi visto il corpo di quella povera ragazza...». Inghiottii d'un fiato il liquore e mi alzai. «Violet!», mormorai. «È sola in casa. Devo tornare da lei». Uscii dalla taverna, corsi per la strada su cui batteva il sole. Adesso sapevo dov'era andata Lisa dopo aver lasciato Violet. Adesso sapevo che i licantropi non si limitano a cambiare di forma. Corsi al suo banco di vendita, ma non c'era nessuno. Abbandonando ogni precauzione, mi diressi alla porta di casa sua. Ai miei colpi rispose soltanto il querulo borbottio del vecchio paralitico. Poi, proprio quando stavo per andarmene, la porta si spalancò: Lisa socchiudeva gli occhi alla luce del sole. Era pallida, disfatta, e i capelli le cadevano disordinatamente sulla schiena nuda. «Charles, cosa c'è?». La spinsi nell'ombra degli alberi dietro casa. Lei rimase lì a guardarmi, il viso stanco, gli occhi torbidi di fatica. Le diedi uno schiaffo, forte. Lei sussultò, cercò di scappare, ma io l'afferrai per le spalle. La colpii di nuovo. Cominciò a uggiolare piano, come
un cane. Come un lupo. Le diedi un altro schiaffo, con tutta la mia forza. Sentivo la gola come ostruita, le parole erano difficili da pronunciare. «Piccola pazza!», mormorai. «Perché lo hai fatto?». Lei si mise a piangere. La scossi. «Smettila! Credi che non sappia cos'hai combinato stanotte? Be', lo so. E lo sanno tutti. Perché lo hai fatto, Lisa?». Allora lei capì, seppe che non poteva nemmeno sperare di ingannarmi. «Ci sono stata costretta», sussurrò. «Tu non sai com'è. Dopo essere andata da tua moglie sono tornata al lago. È stato allora che... si è impossessata di me». «Cosa?». «La fame». Lo disse come se fosse semplicissimo. «Tu non puoi capire, vero? Capire come la fame s'impossessa di te. Ti morde lo stomaco, e poi ti morde il cervello, e non riesci più a pensare. Puoi solo agire. E quando sono passata vicino a casa di Big Pierre, Yvonne era al pozzo, tirava su acqua al buio. Ricordo di averla vista, e poi... ho dimenticato tutto». La scossi fino a farle battere i denti. «Hai dimenticato, eh? La ragazza è morta!». «Sia lodato le bon Dieu!», sospirò Lisa. Boccheggiai. «Ringrazi Dio perché... è morta?». «Certo. Perché se non fosse morta, se fosse sopravvissuta al morso di una creatura come me, avrebbe seguito la stessa terribile sorte». «Oh». Il mio fu quasi un sospiro inaudibile. «Non capisci? Non sono io che scelgo di fare quello che faccio. È la fame, sempre la fame. In passato, quando sentivo che stavo per... cambiare me ne andavo lontano per non farmi scoprire dalla gente di qui. Ma stanotte la fame è arrivata in fretta, e io non ho potuto scappare. Comunque è meglio che sia morta, poverina». «Se la pensi così», mormorai. «Però c'è un piccolo particolare: questa faccenda rovina i nostri piani». «Perché?». «Mia moglie non si spaventerà più all'idea di un lupo immaginario. E quando andrà a raccontare che si sente seguita, nessuno penserà che sia pazza. Adesso tutti sanno che un lupo esiste sul serio». «Già. Tu cosa proponi?».
«Non propongo niente. Dovremo restarcene calmi». Le sue braccia mi circondarono, il suo viso ferito si appoggiò al mio. «Charles», singhiozzò. «Vuoi dire che non potremo stare assieme...». «Lo credi ancora possibile, dopo quello che hai fatto?». «Non mi ami, Charles?». Adesso mi stava baciando, e le sue labbra erano morbide. Quello non era il bacio di un lupo, ma il caldo, vibrante bacio di una donna innamorata. Le sue braccia erano morbide. Sentii che rispondevo al suo abbraccio, sentii che in me cresceva l'incredibile ondata di desiderio che quella ragazza sapeva suscitare. E le mie difese s'indebolirono. «Troveremo qualcosa», le dissi. «Però devi promettermi che quello che è successo stanotte non succederà mai più. E non devi più tormentare mia moglie». «Te lo prometto». Sospirò. «Sarà difficile da mantenere, questa promessa. Ma farò del mio meglio. Stasera puoi venire da me, no? Ce ne staremo assieme, e sarai tu a proteggermi dalla... fame». «Verrò stanotte», le risposi. I suoi occhi si riempirono d'improvvisa paura. «Charles», sussurrò, «sarà meglio che tu venga prima che spunti la luna». Quando arrivai a casa, Violet mi stava aspettando sulla porta. «Hai sentito?», chiese. «Come fai a saperlo?», replicai. «C'è un uomo che ti aspetta. Me lo ha detto lui. Mi ha chiesto del lupo e io gli ho raccontato quello che è successo. Ti aspetta dentro». «Gli hai raccontato tutto, e vuole vedermi». «Sì. Sarà meglio che tu entri da solo. Si chiama Cragin. È della polizia a cavallo». Non mi restava che entrare. Non avevo mai incontrato un agente della polizia a cavallo del nordovest. A parte l'uniforme, Cragin poteva benissimo essere un massiccio poliziotto di città: ne aveva i modi e la mentalità. «Il signor Charles Colby?», chiese, alzandosi dalla poltrona al mio ingresso. «Sissignore. Che posso fare per lei?». «Credo lo sappia già. È per la morte di Yvonne Beauchamps, sull'altra sponda del lago». Sospirai. «Me ne hanno parlato. Un lupo, no? Voleva sapere se ho visto
qualche impronta di lupo?». «Ne ha viste?». Esitai, e fu un errore. L'omone in uniforme mi fissò e sorrise. «Non importa. Basta dare un'occhiata attorno a casa sua per vedere quintali d'impronte di lupo. A dire il vero, le impronte portano da qui al lago alla casa dei Beauchamps. Le ho seguite, oggi pomeriggio». Non riuscivo a dire niente. Cercai d'accendere una sigaretta e me ne pentii subito. «Inoltre», aggiunse Cragin, «ho parlato con sua moglie. Pare che sappia tutto del lupo». «Davvero? Le ha raccontato di averne visto uno ieri sera?» «Sì». Cragin smise di sorridere. «Fra parentesi, lei dov'era ieri sera, quando il lupo è apparso qui?». «In città». «Alla taverna?». «No. Facevo due passi». «Due passi, eh?». Il dialogo era tutt'altro che brillante, ma m'interessava moltissimo. Capivo che Cragin voleva arrivare a qualcosa, e ci arrivò. «Lasciamo stare, per il momento», suggerì. «Ho già raccolto tutte le informazioni che mi servono. Sto solo cercando di vedere se riusciamo a scoprire le abitudini di quel bastardo. Stiamo organizzando una battuta di caccia, sa. Immagino che non le interessi venire con noi. Non è roba che le va a genio, eh?». Non risposi. «Be', non è vero? Lei è uno scrittore». Annuii. «Mi dicono che lei scrive un sacco di storie del soprannaturale. Sua moglie mi raccontava che ne ha appena finita una su un mostro invisibile». Annuii di nuovo. Era abbastanza facile continuare ad annuire. Cragin assunse un'aria indifferente. «Le vengono mai idee strane?», mi chiese. «Sarebbe a dire?». «Mi sembra naturale che un autore come lei sia un po'... diverso. Se non si offende, immagino che un uomo che scrive sempre di mostri abbia punti di vista un tantino bizzarri su parecchie cose». Boccheggiai, ma riuscii a mascherare in fretta la sorpresa con un sorriso. «Sta forse dicendo che quando racconto la storia di un mostro si tratta del-
la mia autobiografia?», chiesi. Non era esattamente la risposta che si aspettava. Mi spinsi ancora più avanti. «Che c'è?», dissi con voce strascicata. «Le sembra che io abbia l'aspetto d'un vampiro?». Cragin si costrinse a sorridere. «È il mio mestiere essere sospettoso. Mi faccia vedere i denti, poi le risponderò». Spalancai la bocca e dissi: «Ah!». Nemmeno questo gli piacque. Capii di essere in vantaggio e ne approfittai. «Dove vuole arrivare, Cragin?», gli domandai. «Sa che mia moglie ha visto un lupo là fuori. Sa che è apparso stanotte. Sa che se n'è andato di qui, ha fatto il giro del lago, ha ucciso la ragazza ed è scomparso. «Le abbiamo fornito tutte le informazioni che voleva. A meno che, naturalmente, lei non abbia la vaga idea che io possa essere una qualche specie di mostro. Forse la sua teoria scientifica sostiene che io mi sono trasformato in lupo, ho terrorizzato mia moglie e poi sono fuggito nelle tenebre in cerca d'una vittima». Ormai lo avevo messo alle corde. «Non sono molto pratico di voialtri poliziotti alla Dick Tracy», dissi. «Ovviamente sapevo che alcuni dei mezzo-sangue di qui credono ai fantasmi e ai lupi mannari e ai demoni, ma non credevo che la polizia a cavallo accettasse simili superstizioni». «Senta, signor Colby, io...». Avevo la mano sulla porta. Sorridendo amabilmente, gli indicai il paesaggio. «Il suggerimento che posso darle, signore, è di andarsi a cacciare il lupo». Accettò il suggerimento, e scomparve. Mi sedetti e, prima che Violet rientrasse, mi concessi il lusso di una sudata. Per la prima volta mi ero comportato con una certa intelligenza. Il mio attacco diretto aveva senz'altro disperso quei vaghi sospetti che Cragin poteva nutrire. Gli avevo tolto quel poco di fede che forse possedeva nelle chiacchiere sui lupi mannari. Decisi di fare lo stesso con Violet. Come se niente fosse, le raccontai nei particolari il nostro colloquio. Lei mi ascoltò in silenzio. «E adesso, cara, la verità è ovvia», conclusi. «Il lupo esiste davvero, ma è solo un lupo. Tu pensavi che fosse qualcosa di più perché sembrava
comportarsi in modo intelligente. Il dottor Meroux mi ha detto che bestie come quella sono abituate alla presenza dell'uomo, e quindi sono molto astute. «Ma quando ha ucciso, ha ucciso da animale. È un lupo, nulla di più. Stanotte gli daranno la caccia e poi potrai stare tranquilla». Violet mi mise la mano sul braccio. «Resterai in casa?», mi chiese. Mi accigliai. «No. Torno giù e mi unisco agli altri. Te l'avevo già detto. Sarà un punto d'onore, per me, far parte della battuta che lo ucciderà». «Preferirei che tu... Ho paura». «Metti il catenaccio. Un lupo non sa togliere i catenacci». «Ma...». «Vado a dargli la caccia. Credimi, sarai più al sicuro se stanotte io non resto in casa». Quando raggiunsi Lisa fra gli alberi dietro casa sua, la luna si era quasi alzata. Mi aspettava nell'ombra, e fu con un enorme senso di sollievo che scoprii di avere di fronte una donna, non un lupo. Il suo sorriso, le sue carezze mi rassicurarono. «Sapevo che saresti venuto», disse. «Ora potremo restare assieme. Oh, Charles, ho paura». «Paura?». «Sì. Non hai sentito? Quel Cragin, quel tizio della polizia a cavallo, ha parlato con un sacco di gente. Oggi è venuto da me e mi ha chiesto se sapevo niente del lupo. Leon, alla taverna, ha chiacchierato come una donnicciola, ha raccontato che di notte io scompaio. E ha parlato di lupi mannari». «Non c'è bisogno d'aver paura», la tranquillizzai, e l'informai del mio colloquio con Cragin. «Ma stanotte organizzano la battuta di caccia», insistette Lisa. «Leon ha chiuso la taverna. Quasi tutti gli uomini sono con Cragin. Sono partiti al tramonto, verso il lago. Verranno in giù dalla casa di Big Pierre e cercheranno di braccare il lupo». «E perché dovresti preoccuparti?», le risposi, sorridendo. «Non ci sarà nessun lupo. Stanotte tu e io resteremo assieme». «Hai ragione. Finché resto con te, sono al sicuro». Mi guidò alla radura
dietro gli alberi. «Restiamo qui a parlare?», propose. «Leon ha chiuso, ma ho comperato del vino oggi. Ti piace il vino, no, Charles?». Tirò fuori una brocca e ci sdraiammo sull'erba. Il vino era dolce, ma forte. La luna saliva a est, e io bevevo. D'improvviso lei mi afferrò la spalla. «Ascolta!». Venivano da lontano, da molto lontano, dall'altra parte del lago: urla di uomini attutite dalla distanza, frammiste ad alti, monotoni latrati. «Stanno cacciando coi cani». Lisa rabbrividì. Io bevvi una lunga sorsata, la strinsi di più al mio corpo. «Non c'è niente da temere», la confortai. Eppure, fissando il cielo, sentivo che la mia paura aumentava; aumentava in proporzione al clamore che veniva dal lago. Stavano dando la caccia a un licantropo che era fra le mie braccia. Il profilo fiero, pagano di Lisa si stagliava contro il volto pallido, frastagliato della luna alta. Il volto della luna e il volto della ragazza, che si fissavano. E io che fissavo tutte e due... E quando cresce la luna, così crescerà il fluido maledetto nelle vene del licantropo... «Lisa», mormorai, «stai bene?». «Certo, Charles. Tieni, bevi». «Voglio dire, non hai l'impressione che stia per... succederti qualcosa?». «No. Non stanotte. Va tutto bene. Sono con te». Rise e mi baciò. Io bevvi, per scacciare i timori che non potevo allontanare. «Non tormenterai più Violet? Non uscirai più di notte finché questa storia non sarà finita?». «Sì, certo». Lei teneva la brocca incollata alle mie labbra. «Avrai pazienza? Aspetterai che io riesca a escogitare un altro piano?». «Tutto quello che vuoi, amore». La guardai. «Forse ci vorrà tempo. Forse non potremo metterci subito assieme come speravamo. Forse il divorzio sarà l'unica via d'uscita. Violet è molto rigida in certe cose, darà battaglia. Prima che io sia libero, le pratiche legali potrebbero richiedere diversi anni. Riuscirai ad aspettare?». «Divorzio? Anni?».
«Devi promettermi che aspetterai. Che non farai del male a Violet e a nessun altro. Se no, non posso restare con te». Lei mi fissò: il suo viso era coperto dalle ombre. Poi si piegò, e la sua bocca cercò le mie labbra. «D'accordo, Charles. Se è l'unica via, posso aspettare. Posso aspettare». Bevvi di nuovo. Tutto era molto chiaro. Poi diventava confuso. Poi era di nuovo chiaro. I latrati dei cani mi risuonarono nelle orecchie, poi si trasformarono in un mormorio lontano. Il volto di Lisa si fece enorme, poi scomparve. Era il vino, ma non m'importava. Avevo la promessa di Lisa, e le labbra di Lisa. Non riuscivo più a sopportare la tensione. Gli ultimi giorni erano stati un incubo continuo, per me. Mi ubriacai di labbra e di vino. Un poco più tardi, m'addormentai... «Svegliati!». La voce che risuonava alle mie orecchie era piena d'impazienza. Poi cominciarono a schiaffeggiarmi sul collo. «Svegliati, Colby! Presto!». Riaprii gli occhi, mi misi a sedere. La luna era alta nel cielo, e i suoi raggi pallidi cadevano sul viso piegato sopra di me: il viso del dottor Meroux. «Stavo dormendo», bofonchiai. «Dov'è Lisa?». «Lisa? Qui non c'è nessuno. Svegliati, amico. Vieni con me». Mi alzai, barcollai un attimo, ritrovai l'equilibrio. «Stai bene?». «Sì, Doc. Cosa succede?». «Non so se...». C'era indecisione nella sua voce, e una punta di timore. Mi afferrai a quel timore, lo tenni ben stretto. D'improvviso ero sobrio, e stavo gridando. «Dimmelo! Cos'è successo?». «Tua moglie», rispose lui, lentamente. «Il lupo è andato a casa tua, mentre tu eri qui. Io passavo di là. Sono entrato a vedere se era tutto a posto. Il lupo era già scomparso. Ma...». «Ma?». «Ha morso Violet alla gola». Corremmo nelle tenebre, nel grande buio che nasceva dalla notte esterna
é dal terrore interno. Lisa aveva mentito. Mi aveva fatto bere, aveva aspettato che mi addormentassi, e poi era fuggita a colpire... Non riuscivo a pensare a nient'altro. Arrivammo a casa. Il dottor Meroux s'inginocchiò a fianco del letto in cui giaceva Violet. Lei si voltò e mi sorrise debolmente. «È ancora viva?», boccheggiai. «Sì. L'ha morsa alla gola, ma per fortuna sono riuscito a fermare l'emorragia. Non è una cosa molto seria. È solo terribilmente spaventata. Tienila a riposo per un giorno o due». M'inginocchiai a fianco di mia moglie, appoggiai le labbra sulle sue guance, appena sopra il collo bendato. «Grazie a Dio», sussurrai. «Non farle domande», mi ordinò Meroux. «Lasciala riposare. Devo essere arrivato subito dopo l'attacco della belva. Il lupo è entrato dalla finestra, ci sono tutti i vetri per terra. Quando mi ha sentito è balzato fuori ed è scomparso. È pieno di tracce, qui intorno». Uscii di casa con lui: era tutto vero. «La squadra di cacciatori sta già arrivando», m'informò. «Da qui non sarà difficile seguire le impronte, credo». Annuii. All'improvviso, dalla foresta venne l'abbaiare dei cani. Le voci frenetiche degli uomini si mescolarono agli altrettanto convulsi ululati dei cani. Il dottor Meroux si girò, s'arricciò i baffi. «Devono averlo trovato!», gridò. «Senti!». Urla e mormorii. Rumori di corsa dal sottobosco. Un grido acuto. E poi... Una scarica di colpi di fucile. «Nom de Dieu! L'hanno preso!». Il dottore esultava. Adesso l'abbaiare era più vicino. I passi degli uomini in corsa strappavano rami. Le voci risuonavano chiare. E poi, sullo spiazzo davanti a casa mia, apparve il lupo. La grande bestia grigia era sfinita, stremata. Trascinava il corpo martoriato sull'erba e lasciava una scia di sangue. La grande testa penzolava, le zanne sporgevano in fuori. Camminava verso di noi e ansimava di dolore. Meroux tirò fuori una pistola, tolse la sicura. Io fermai la sua mano. «No!», sussurrai. «No!».
M'incamminai verso il lupo. I suoi occhi incontrarono i miei, ma parvero non riconoscermi. Nel suo sguardo si leggeva solo l'imminenza della morte. «Lisa», sussurrai. «Non potevi aspettare». Il dottore non mi udì, ma mi udì il lupo. La testa si tese in su, e per un attimo un suono strangolato gli uscì dalla gola. Poi il lupo morì. Lo vidi morire. Fu abbastanza semplice. Le zampe cedettero, la testa cadde in basso, e il lupo scivolò a terra. Potevo sopportare di veder morire il lupo. Ma quello che successe dopo non fu così facile. Perché morì anche Lisa. Quando avevo visto la metamorfosi da donna a lupo, l'avevo freddamente cronometrata. Adesso, mentre vedevo la metamorfosi da lupo a donna, mi riusciva solo di rabbrividire e piangere. Il corpo s'ingrandì, si tese, diventò flessibile. Le orecchie scomparvero in dentro, le zampe s'allungarono, si coprirono di pelle bianca. Alle mie spalle il dottor Meroux stava gridando, ma non capivo cosa dicesse. Fissavo quella forma di lupo ormai scomparsa, la nuda bellezza di Lisa esplosa come un fiore improvviso: un giglio pallido, bianco di morte. Era solo una ragazza morta sotto il chiaro di luna. Singhiozzando, allontanai lo sguardo. «No, non può essere!». La voce penetrante del dottore mi fece tornare in me. Il suo indice, tremante, si puntava contro la cosa ai nostri piedi. Guardai, e vidi un'altra trasformazione. Non riesco a sopportare di descriverla. Adesso, posso solo ricordare che Lisa non mi ha mai raccontato come o quando rimase vittima della licantropia. E ricordo che il sangue di cui si nutrono queste creature serve a preservare un'innaturale giovinezza. La donna stesa a terra invecchiò sotto i nostri occhi. Da donna a lupo: già una metamorfosi del genere è orribile a vedersi. Ma quell'ultimo orrore fu ancor più stupefacente. La bellissima ragazza divenne una vecchia rugosa. E la vecchia rugosa divenne... qualcosa di più osceno. Alla fine, qualcosa di incredibilmente antico giaceva, morto, ai nostri piedi. Qualcosa di accartocciato e incartapecorito fissava la luna con un
sorriso da mummia. Lisa, finalmente, aveva ripreso il suo vero aspetto. Il resto deve essere successo molto in fretta. Arrivarono gli uomini, coi cani. Il dottor Meroux si piegò sulla cosa che era stata lupo e donna, e adesso non era più niente. Io svenni. Il mattino dopo, quando mi risvegliai, il dottor Meroux stava cambiando medicazione alla ferita di Violet. Mia moglie stava abbastanza bene: mi portò la colazione a letto. Dormii di nuovo. Il mattino successivo Meroux tornò. Mi sentivo in forze. Riuscii a sedermi e a fargli qualche domanda. Le sue risposte mi resero più tranquillo. Il dottor Meroux si era comportato saggiamente. Aveva dato conferma alla storia del licantropo, ma non aveva fatto il nome di Lisa. Con l'aiuto di Cragin, stava mettendo tutto a tacere. In fin dei conti, ulteriori indagini apparivano inutili. Considerata la situazione locale, era molto meglio lasciar cadere la faccenda. Violet è quasi la stessa di prima. Stanotte le ho confessato tutto. Lei si è limitata a sorridere. Forse, quando starà meglio tornerà in città e chiederà il divorzio. Non so. Non mi ha offerto il perdono, non ha fatto commenti. Però sembra inquieta, turbata. Oggi è uscita a passeggiare. Io sono rimasto qui tutto il pomeriggio, a battere a macchina questo resoconto. Immagino che adesso Violet tornerà, visto che il sole è tramontato. A meno che non sia già fuggita, senza dire niente, in città. Però credo che le sia ancora impossibile viaggiare, con quella ferita mezzo aperta. La luna sta sorgendo sopra il lago, ma non ho voglia di guardarla. Non riesco a sopportare il ricordo di ciò che è successo. Spero, con questo resoconto, di liberarmi delle memorie. Forse il futuro mi porterà la pace che desidero. Ormai sono certo che Violet mi odia, ma le concederò il divorzio e tirerò avanti. Sì. Sembrava proprio che mi odiasse. Perché ho mandato un licantropo a ucciderla... Ma sto divagando. Non devo pensare a questo. No. Eppure devo pensare a qualcosa. Non voglio ancora smettere di scrivere. Se no sarei costretto a restarmene seduto qui, mentre la notte scende come un sudario oscuro su questa terra morta.
Sì, dovrei restarmene seduto qui ad ascoltare il silenzio. Dovrei guardare la luna che spunta sopra il lago, attendere il ritorno di Violet. Chissà dov'è andata a girare, oggi. Con quella ferita alla gola, non le fa bene stare fuori. Quella ferita alla gola... Dove Lisa l'ha azzannata. Sto cercando di ricordare qualcosa. Non mi riesce di pensare con lucidità. Ma so che sto cercando di ricordare una cosa che riguarda la sua ferita. È per questo che ho paura del chiaro di luna e di trovarmi solo qui. Ma di cosa si tratta? Ora lo so! Sì. Ricordo. E prego che Violet se ne sia andata per sempre, che non torni indietro. Oggi era inquieta, ed è uscita nella foresta. Ora so perché ha voluto andarsene. La ferita sta cominciando a fare effetto. Ricordo cosa ha detto Lisa quando le ho raccontato che Yvonne era morta. Ha ringraziato Dio... Perché se Yvonne fosse sopravvissuta, anche lei sarebbe diventata un... Violet è stata morsa. Violet non è morta. Adesso la ferita fa il suo effetto. E la luna è alta, alta sul lago. Violet corre nella foresta, è un... Lì! Fuori dalla finestra! La vedo! Lo vedo. Mentre io scrivo, si avvicina alla casa. Lo vedo al chiaro di luna, il chiaro di luna che scivola e risplende sul suo dorso peloso. E risplende sul muso nero, sulle zanne grandi, appuntite. Violet mi odia. Violet sta tornando. Ma non è più... una donna. Un attimo! Ho chiuso la porta? Sì. Bene. Non può entrare. Sta camminando davanti alla porta. La gratta. E la sua gola ringhia. Quella gola... Quelle mascelle! Forse verrà Cragin, o il dottor Meroux. Se no, passerò la notte seduto qui. Domattina se ne andrà. E se si farà viva di nuovo, la farò rinchiudere. Sì, aspetterò. Ma come ulula! Mi fa saltare i nervi. Lo sa che sono in casa. Mi sente battere a macchina. Sa. E se potesse arrivare qui da me... Non può. Sono al sicuro. Adesso cosa sta facendo? Non è più davanti alla porta. Sento le sue
zampe che si spostano, che arrivano sotto la finestra. La finestra. L'altra notte, quando Lisa è entrata, ha fracassato i vetri. La finestra è senza vetri... Sta ululando. Sta per saltare dentro. Sì. Adesso lo vedo... Il grande corpo di un lupo che balza contro la luna... Violet... No... Vio... Titolo originale: The Man Who Cried «Wolf!» Il sorriso della signora MARY ELIZABETH COUNSELMAN Sir Cedric Harbin, l'archeologo, irritato girò il capo da una parte all'altra sull'amaca di tela. Quella volta era stato l'urlo di un jaru, un giaguaro, a svegliarlo. Due ore prima era stato il chiacchierìo delle scimmie; due ore e mezzo prima, qualche altro terribile suono della giungla. Dalla posizione supina in cui giaceva ormai da otto afose notti, scrutò il giovane indigeno Chavante che gli faceva aria con una gigantesca felce, per tenere lontani i moscerini e le minuscole, terribili mosche pium che gli si affollavano intorno. A quello sguardo, il ragazzo gli rivolse un sorriso di scusa e cominciò a scuotere lo «sciò-mosche» con maggiore energia. Il dente di capivasa, adagiato sul labbro inferiore, ondeggiava furiosamente avanti e indietro. Harbin bestemmiò, allontanò con un movimento delle palpebre il sudore che continuava a scendergli negli occhi. Nonostante i cerotti che gli imbozzolavano il petto nudo, cercò di mettersi a sedere, ma cadde all'indietro con un grugnito. In quell'istante la tenda si spalancò, e dall'umida notte spuntò una ragazza. «Caro, mi è parso di sentire che ti lamentavi. Ti fa male?». «Non troppo. Sono solo annoiato! E disgustato! Non sei ancora andata a letto?». Sir Cedric le rivolse uno sguardo stanco mentre lei si piegava su di lui, e dolcemente gli toglieva il sudore dal viso e dal collo. Era piccola, bionda, bellissima, di una bellezza straordinaria nonostante la camicetta spiegazzata e i calzoni da cavallerizza. Però era quando sorrideva che ci si dimenticava di ogni altra cosa. Un tranquillo divertimento sembrava emanare dalla sua bocca incurvata, dolcissima, e dagli occhi d'un blu acceso: sembrava
quasi che invitasse tutti a gioire di una battuta che solo lei conosceva, e che avrebbe raccontato. Il ragazzo indo-brasiliano la divorava con gli occhi, chiaramente affascinato. Harbin (suo marito, anche se sembrava vecchio abbastanza da poter essere suo padre) le afferrò la mano, in un impulso di gratitudine. «Diana», sospirò, «tesoro mio. Come diavolo fai a essere così allegra e vivace dopo il disastro che ho combinato con questa spedizione? Sono andato a finire diritto tra le spire del boa constrictor come... come un idiota di turista che non abbia mai messo piede all'interno del Mato Grosso!». Si accigliò, deluso di se stesso. «Comunque non so perché mi sono lasciato convincere dalla Fondazione a buttarmi in questo inferno. Era la nostra luna di miele! Che razza d'idea m'è venuta, portarti in questa giungla putrida!». «Andiamo, andiamo, caro!». Diana Harbin appoggiò due dita sulle labbra del marito. Sollevò la sua testa con tenerezza, gli fece succhiare un po' di herva matte attraverso una bombilla infilata in una zucca vuota, poi gli porse una rivista vecchia d'un mese. «Ecco qua. Prova a leggere e riposarti. Non puoi andare in cerca della tua preziosa Città Perduta con tre costole rotte, e questo è tutto. Per cui smettila di tormentarti! Mario tiene perfettamente sotto controllo la situazione». Un certo sguardo s'accese sul volto di mezza età di Sir Cedric. Era scomparso prima che sua moglie potesse accorgersene, ma lei si accorse della nota di tensione nella voce del marito. «Mario... Oh, già», biascicò l'archeologo. «Quel giovanotto bello e forte che ci fa da guida». «Bello?». Sua moglie rise, con tanta allegria che Sir Cedric le rivolse uno sguardo interrogativo. «È bello? Non me n'ero accorta... Perbacco, Cedric!». Lei gli restituì lo sguardo, ammiccando. «Credo proprio che tu sia geloso! Di Mario?». La ragazza socchiuse gli occhi, imitando l'atteggiamento languido di un Romeo da melodramma. «Ah, Senhora! Lei è come un'orchidea della giungla selvaggia!», lo scimmiottò, poi rise. «Caro, è talmente sdolcinato!». Harbin non partecipava alla sua allegria. I suoi occhi si fecero di ghiaccio, e minuscoli. «Quel demonio!», esplose. «Ti ha detto proprio così? Insolente d'un mezzo sangue! Mandamelo qui! Lo licenzio subito!». «Tu non farai niente del genere!», rise sua moglie, baciandolo sulla fron-
te. «Cedric, non essere assurdo. Tutti i brasiliani fanno proposte alla prima ragazza nordamericana che incontrano... Fa parte dei buoni rapporti fra le nazioni!». Gli diede da bere ancora un goccio di quel tè nutriente, e sembrava estremamente divertita. «Mario», gli fece notare, «è una guida molto efficiente. Ha impedito ai Chavante, che capiscono solo la logica della guerra, di mettersi a combattere con le altre tribù che abbiamo incontrato. Ci ha sempre tenuti riforniti di mandioca e di rapadura senza offrire in cambio metà del nostro equipaggiamento. Ed è l'unica guida di Belem che abbia una vaga idea di come raggiungere quella tua Città Perduta... Ammesso che esista», gli ricordò ironicamente. «Tienilo a mente, l'unica prova che possiedi è quel vecchio, pazzesco documento della Biblioteca Nacional di Rio. Mario non crede che esista». «Mario!», sbuffò l'archeologo. «Se il tenente colonnello Fawcett e suo figlio sono morti nel tentativo di trovarla, nel 1925, qualcosa deve esserci... Oh, se solo potessi scendere da questa ridicola amaca!», si lamentò. «Siamo appena a due giorni di marcia dalla città. Ci scommetterei la vita. Ci...». «Oh, be'». Sua moglie, teneramente, gli diede un colpetto sul braccio. «Organizzeremo altre spedizioni, caro, ci riproveremo. Per adesso devi cercare di guarire perché possiamo riportarti a Belem. Potresti anche avere delle lesioni interne. Dio, quell'orribile serpente! Ti è caduto addosso dall'albero, ti ha stritolato...». Rabbrividì e gli si inginocchiò a fianco con un piccolo singhiozzo, appoggiando la mano di lui sulla sua guancia fredda. «Oh, Cedric, poteva ucciderti!». Harbin si rilassò. Mentre carezzava i lunghi capelli biondi di Diana, amarezza e frustrazione scomparivano lentamente dal suo viso. «Tesoro mio», mormorò, «non riuscirò mai a capire cosa abbia trovato una deliziosa ragazza americana come te in un vecchio inglese capriccioso come me! Però tutto il mio mondo è cambiato, quella sera al Club degli Esploratori di Rio, quando tu hai girato le spalle a quell'asino di Forrester e hai sorriso. A me! Quando... Quando ti ho vista sorridere per la prima volta, Diana, è successa la più meravigliosa delle cose. Era come se... il sole mi fosse apparso per la prima volta in vita... Oh, al diavolo!». Sir Cedric s'interruppe, imbarazzato. «Non sono mai stato un granché a esprimere i miei sentimenti». «Stai andando benissimo!», sussurrò sua moglie. «E tu ricordami di raccontarti come mi sentivo io la prima volta che ho incontrato il famoso Sir Cedric Harbin. Ah ah!». La ragazza si sottrasse al suo abbraccio. «Non o-
ra! Prima bisogna che Mario e io torniamo da Matura con i viveri. Caro, cerca di dormire, così mi riposo un po' anch'io. Partiamo all'alba, lo sai». Harbin rispose al suo sorriso gentile, cordiale, con un'occhiata di famelica possessività. «D'accordo. Ma tornerai subito? Voglio dire... Oh, accidenti!». Sua moglie si chinò di nuovo a baciarlo dolcemente. «Certo che tornerò subito», mormorò. «Giovedì prossimo è la nostra prima ricorrenza: siamo sposati da un intero mese! Non crederai che voglia passare una giornata del genere in compagnia di Mario e di un branco di Tapirape che borbottano Ticanto! Ticanto!. Non è esattamente il tipo di conversazione brillante che vorrei registrare nel mio diario!». Sir Cedric ridacchiò. Poi, tranquillo, osservò Diana che usciva dalla tenda per andare a completare i preparativi del breve viaggio. Sapeva che il villaggio costiero di Matura era solo a pochi chilometri più a valle, sul Rio das Mortes, il Fiume della Morte, che una volta era diventato rosso di sangue, quando gli indiani avevano massacrato un gruppo d'ingegneri minerari portoghesi. Adesso ospitava un piccolo posto di rifornimento, gestito da un olandese grasso e orbo. Da lì Diana avrebbe potuto, via Belem, inviare un telegramma alla Fondazione per dire (Harbin sospirò amaramente) che lui non stava bene, che aveva completamente rovinato la spedizione. E Mario poteva fare rifornimento dei generi più indispensabili: caffè, chinino, mandioca. Forse avrebbe trovato anche qualche gingillo per i portatori indigeni che si erano da poco aggiunti a loro. Ai Chiavante la cosa non era andata troppo a genio; ma persino il loro capitao, il loro capo, Burity, capiva che i suoi uomini non sarebbero riusciti, da soli, a riportare indietro tutto l'equipaggiamento e l'esploratore ferito. Harbin succhiò un po' di matte e si mise a pensare ai nuovi portatori. Mario ne aveva assoldati quattro: piccoli indiani abbronzatissimi, vestiti di stracci sporchi, coi capelli unti, neri e lunghi che spuntavano da sotto le bende sulla fronte. Erano Urubu. Sir Cedric si sforzò di ricordare in che termini gliene aveva parlato, a Belem, il sovrintendente agli indiani. Li aveva definiti «la tribù degli avvoltoi». Gli aveva raccontato una storia di cannibalismo? Sir Cedric non riusciva a rammentarsene. Quando Mario li aveva scovati, i quattro indiani stavano cacciando, ed erano tutti armati: di archi e frecce lunghe un metro e mezzo, di lance e cerbottane. A dire il vero, Mario aveva raccontato con una certa paura che il proiettile avvelenato di una cerbottana, scagliato verso un'iguana color nero e argento, per poco
non l'aveva colpito alla spalla. «E buonanotte al suonatore!», mormorò a mezza voce Harbin, fissando il soffitto della tenda. «Non ci si può mai fidare di un giovanotto simpatico, se c'è di mezzo una donna! Una donna deliziosa come Diana, così giovane e romantica e suggestionabile». «Ah? Senhor parla?». Il ragazzo Chavante lo colse di sorpresa: muoveva in su e in giù, rapidamente, la felce, e i suoi denti bianchi risplendevano nel viso nero, da mongoloide. «Cosa? Oh, niente. Parlavo fra me», borbottò Harbin. «Tira via quella maledetta tarantola lì sopra, per favore, se no mi cade addosso». «Sì, senhor!». Il ragazzo si affrettò a obbedire. Tanta sollecitudine nasceva dal fatto che Diana gli aveva promesso un paio di gemelli del marito, da appendere alle orecchie. Harbin chiuse gli occhi. Ora lo cullavano i gracidii ritmici di rane e cicale, ora lo destava il ruggito sibilante di un anaconda o il tuffo di un alligatore che si gettava nel fiume, a pochi metri dal banco di sabbia su cui erano accampati. Poco per volta, a dispetto delle mosche pium, Sir Cedric scivolò in un sonno irrequieto, e in un sogno ricorrente: la sua bellissima moglie restava prigioniera d'un groviglio di sterpaglie e liane. Continuava a chiamarlo, a chiamarlo e a ridere, a pochi passi da lui, irraggiungibile. E lui, disperato, cercava d'abbattere la barriera verde con un facao, un machete simile a una sciabola, che fra le sue dita si trasformava in gomma molliccia... Quando si risvegliò, intorpidito, la testa gli faceva male. La tenda ribolliva del calore mattutino. Il ragazzo Chavante gli stava apparecchiando la colazione: gru arrosto, farinha (una farinata d'avena addolcita dalla rapadura, dolce come una caramella), caffè con zucchero di canna fermentato. Harbin ebbe un'espressione disgustata e abbaiò al ragazzo, i cui occhi neri risplendevano di curiosa eccitazione. La sua voce calma, però, non tradiva nulla. «Bon dia! Senhor durmiou bem?», chiese educatamente. «Muita bem», grugnì Harbin, sbadigliando. «Dov'è la Senhora? Ha già fatto colazione?». Il ragazzo sorrise, raggiante. Adesso il suo volto era una maschera imperscrutabile, misteriosa e illeggibile come la giungla stessa. «Senhora pé, pé», annunciò, poi chiarì l'idea in un faticoso impasto di portoghese e inglese. «Senhora es andata. Senhora, Senhor Mario. Es andata. Dice lascia dormire, tu malato, no sveglia».
«Oh! Sono già partiti, eh?». Sir Cedric parve dispiaciuto, poi scrollò le spalle. «Be', domani al tramonto dovrebbero essere di ritorno. Matura è lontano solo qualche chilometro. Forse...». S'interruppe, di nuovo sconcertato dall'espressione divertita sul volto del Chavante. «Eh? Perché ridi?», gli chiese. In risposta, il ragazzo corse all'ingresso della tenda e fece un cenno. Entrò un Chavante più anziano, dall'aria nervosa, forse il padre o il fratello maggiore del ragazzo. Sembrava pronto a scappare via al primo accenno di rabbia da parte dell'esploratore. «Senhor? Pliz?», balbettò l'uomo. Era Burity, il capo. Harbin lo riconobbe dalla fronda secca di palma infilzata nel labbro inferiore: una specie di bizzarra barba sul suo viso privo di peli. «Senhor?», riattaccò. «Fa regalo? Fa regalo se Burity racconta?». «Cos'hai da raccontare, scimmia farfugliona?», ribatté Sir Cedric. Cercò di appoggiarsi sui gomiti, mentre un senso di disagio gli attanagliava i muscoli dello stomaco. «Sì? D'accordo, d'accordo, un regalo. Parla!». Il capo dei Chavante vacillò, s'aggrappò a un palo della tenda. Harbin s'accorse che era ubriaco: l'odore penetrante del rum che bevevano gli indigeni gli arrivò alle narici. Burity tentò due volte di parlare, strizzò gli occhi e rise follemente, poi, finalmente, sputò: «Senhora. Senhora e Senhor Mario. No giù rio, es andato su. No andato Matura. Es preso uomini...». Alzò un dito, poi un altro, con espressione assente. «Es scappati. Andato Goyaz. No torna indietro». «Cosa?». Harbin si rizzò a sedere, dimentico del dolore che gli trafiggeva le costole spezzate. «Menti!», ruggì. «Ti... Ti ridurrò a pezzi, scimmia bugiarda! Ti taglierò la lingua per aver detto una cosa del genere!». Burity si fece piccolo piccolo, scosse violentemente il capo. «No bugia! No bugia, Capitao! Es verità! Senhor zangado? No es zangado per Burity. Me fa nada, me manso, buon indiano!». Sir Cedric, selvaggiamente, cercò qualcosa da tirargli addosso. Ma il Chavante girò sui tacchi e uscì, seguito dalle bestemmie feroci dell'esploratore. Harbin ricadde sull'amaca, respirando pesantemente. Il dolore gli esplose nel petto, sotto le bende: probabilmente aveva rotto di nuovo le costole, già saldate a metà. Per un attimo lo sommerse la furia dell'impotenza più completa. Quell'indiano mentiva, certo che mentiva! In quelle condizioni Diana non lo avrebbe mai abbandonato, mai... Oppure sì? Un marito di
mezza età poteva essere completamente sicuro di una moglie bella e giovane? Sir Cedric si costrinse a rimanere tranquillo. Strinse i denti, appoggiò i pugni ai fianchi. Il ragazzo Chavante spuntò fuori da dietro un baule dove s'era nascosto, e cominciò timidamente a fargli aria. Harbin gli fece cenno di andarsene, poi lo richiamò. «Ragazzo...?». Esitò, arrossendo alla propria mancanza di discrezione. «Ragazzo, hai...? Per caso sai da che parte mia... Da che parte è andato il Senhor Mario? Su per il fiume, o in giù verso la valle?». «No, Capitao». Il ragazzo abbassò gli occhi in segno di rispetto, ma sul suo viso impassibile Harbin leggeva un segreto disprezzo. «Non c'è nessuno che può scoprirlo? Un battitore? Un battitore capirebbe da che parte se n'è andata il batalao, no?», incalzò Sir Cedric. «Un battitore, Capitao?». Il ragazzo gli stava di fronte, con la consueta espressione di rispetto. «Sì, battitore dice. Ma Brujo capisce meglio. Chiede Brujo di guardare batalao di Senhora. Brujo vede tutto, oggi, ieri, domani». «Bru...? Oh, sì. Certo». Sir Cedric nascose un sorriso. Non era la prima volta che sentiva attribuire poteri straordinari ai Brujo, gli stregoni di quegli indigeni del Mato Grosso. Il sovrintendente agli indiani gli aveva consigliato di prenderne con sé uno, come arbitro per eventuali dispute, medico e consigliere dei portatori Chavante. In genere i Brujo erano vecchi dai volti raggrinziti e gli occhi mistici, mezzi matti per il grande uso di yagé, la terribile droga verde topazio estratta dalla polpa delle liane. Murika, il Brujo dei suoi Chavante, non faceva eccezione. Ma Murika, rifletté immediatamente Harbin, avrebbe saputo tutto di Diana e di quel maledetto brasiliano, senza dubbio. Ogni voce, ogni chiacchiera anche minima arrivava in fretta a quelle orecchie antiche, sagge; e poi veniva riferita ai creduloni come frutto di una sapienza d'origine sovrannaturale. «Certo, Murika!». Sir Cedric annuì amabilmente, schioccando le dita in direzione del ragazzo. «Be'? Portamelo qui! Immediatamente!». Il giovane Chavante annuì e uscì dalla tenda. Poi tornò, e con estrema reverenza tenne aperto il lembo di stoffa per permettere l'ingresso a un vecchio indiano rugoso. Murika era piccolissimo, e in genere i Chavante superavano tutti il metro e ottanta. Ma nel suo portamento eretto, nel viso sereno sormontato da una
capigliatura ornata di penne, c'era qualcosa che imponeva rispetto. Il volto e il petto del vecchio erano ricoperti di pigmenti rossi e neri: il nero-blu era estratto dal frutto del genipapo, il rosso dalla bacca urukù. Una pelle di giaguaro, con la coda che penzolava in basso, gli cingeva i fianchi magri; le braccia, dal polso al gomito, erano ornate da un gran numero di fili del telegrafo, probabilmente rubati. Sul suo labbro inferiore, proteso in avanti come in tutti i Chavante, era adagiato un grande osso di scimmia, che non disturbava troppo la sua pronuncia. Non conosceva affatto l'inglese ma parlava benissimo il portoghese, forse appreso alla scuola della missione cristiana prima di votarsi alla magia nera. La sua voce era profonda e pastosa come la musica di un oboe lontano. Sir Cedric, nonostante il sorriso che aleggiava agli angoli della sua bocca, ne rimase impressionato. «Murika?». Rivolse un saluto incerto all'indiano. «Ti... Ti ho fatto chiamare per... per...». Il vecchio Brujo annuì con aria decisa, poi infilò nella sua pipa a forma di bocchino per sigari una fibra vegetale. Si accomodò a gambe incrociate a fianco dell'amaca, appoggiando la schiena al palo centrale. Senza una parola chiuse gli occhi, fumando piano. Un odore estremamente acido riempì la tenda. Sir Cedric si sentì subito strano, quasi allucinato. E un po' disgustato, per cui assunse un'espressione torva. «Ehi, senti», disse. «Non ho tempo per le tue chiacchiere da strapazzo. Dimmi solo se sai da che parte è...». Il ragazzo Chavante sibilò fra i denti, scosse il capo e gli fece cenno di stare zitto. Dall'altra parte dell'amaca, esclamò con aria di reverenza: «Senhor, no parla! Brujo fuma ayahuasca. Es droga di seconda vista...». «Oh!», sbuffò Sir Cedric, impaziente. «Ne ho già sentito parlare... Un mucchio di maledette idiozie. Oppure», sorrise amaramente, «forse no. Forse funziona come il pentatolo di sodio. Libera l'inconscio. Serve a tirar fuori fatti che il conscio ha dimenticato. Hmmp!». Trasalendo, si girò su un fianco, a guardare il vecchio che oscillava e fumava nel più completo silenzio. Però adesso gli occhi del Brujo s'erano aperti. La sua espressione era strana, drogata: fissava Harbin senza vederlo, quasi guardasse attraverso di lui, attraverso le pareti della tenda, lontano, molto più lontano, attraverso la grande giungla là fuori. Con estrema lentezza lo stregone iniziò a parlare. Intonava una curiosa cantilena un po' in lingua Chavante, un po' in portoghese. Harbin si sforzò di capire il portoghese, ma l'indiano era al di là delle sue possibilità.
«...Vanno verso il sole che sorge. Il batalao si muove piano. Ci sono tre portatori, Chavante. La Senhora che Ride dorme sotto il toldo. L'uomo fa la guardia... Adesso spara col fucile, uccide un arara rosso sangue. Porta le piume alla Senhora. Lei ride, lo ringrazia, si mette le piume nei capelli dorati...». Sir Cedric bestemmiò, si tirò di nuovo a sedere con furia. Si disse debolmente che erano solo un mucchio di chiacchiere stupide, insignificanti, senza un briciolo di verità. Oppure no? Verso il sole che sorge, aveva detto il vecchio. Allora il batalao stava navigando a est, verso Goyaz, come sosteneva Burity; non a ovest, verso Matura. Il Brujo ne era certo? Aveva scoperto tracce precise sulla riva del fiume, tra un'infinità di altri segni (le zampe tonde dei giaguari, le impronte a tre dita dei tapiri, le tracce tonde e larghe delle capivare, una specie di porcellini d'India acquatici grandi come pecore)? O stava solo tirando a indovinare? «...Adesso lei canta», riprese d'improvviso Murika. «Canta questa canzone, la sento benissimo...». Intonò un motivo. E i capelli si rizzarono in testa a Harbin quando riconobbe Non cercare di legarmi mai, una vecchia canzone di Noel Coward che piaceva molto a Diana. Era la canzone che lei ballava col giovane Forrester al Club degli Esploratori, quella sera... Quella sera che... Sorprendentemente, incredibilmente, Murika stava cantando le parole, anche se non conosceva l'inglese: «Non cercare di legarmi mai, «Non cercare di fermarmi mai... «Prendimi quando mi trovi, «Amami e lasciami andare...». Il suono di quelle parole, la loro importanza così ovviamente ignota al vecchio stregone indiano, colpirono Sir Cedric come una pugnalata. «Basta!», urlò, furioso. «È... È un mucchio di maledette sciocchezze! Come... Come puoi riuscire a sentirli se si sono avviati giù per il fiume, o su per il fiume, come dici tu, quattro o cinque ore fa?». Il vecchio Brujo, in risposta, chiuse gli occhi. Dopo pochi istanti, quando li riaprì e tornò a fissare l'esploratore, era scomparso quello sguardo strano, lontano. Si alzò in piedi e rimase ad attendere a fianco dell'amaca di Harbin. Sir Cedric lo squadrò rabbiosamente, poi scrollò le spalle e gli tese un pacchetto di tabacco d'infima qualità. Il vecchio indiano lo accettò con l'aria compiacente di chi fa un regalo, non di chi lo riceve.
«Vuole sapere altre cose, Capitao?», chiese dolcemente. «Murika ha guardato nel passato, e ha visto il padre, a Rio, che dice le parole del matrimonio. Il Capitao lascia cadere l'anello, nella fretta d'infilarlo al dito della Senhora che Sorride. Un uomo coi baffi d'oro lo raccoglie e glielo restituisce...». I capelli si rizzarono di nuovo in testa a Harbin. «Kimball!», mormorò. «Era... Era il mio uomo migliore. E io ho lasciato cadere l'anello... Come potevi saperlo? Mi hai sentito parlarne con Diana...? Deve essere così», concluse, asciugandosi di nascosto la fronte. «Naturalmente, Non c'è nulla... Nulla di sovrannaturale». L'espressione tranquilla di Murika non mutò. Se ne restava lì calmo, in attesa, e sembrava più sicuro di sé di quanto Harbin non si fosse mai sentito in vita sua. In effetti, la calma saggezza di quel volto rugoso lo faceva sentire più insicuro che mai. «Desidera che io guardi nel futuro, Capitao?», chiese gentilmente il vecchio Chavante. «L'ayahuasca manda gli occhi in ogni direzione. Si può vedere ciò che era, ciò che è, e ciò che sarà». «Ma vai al diavolo!», abbaiò Sir Cedric, più per convincere se stesso che per offendere Murika. «D'accordo!», esclamò. «Cosa succederà? Dici che mia moglie è fuggita con quel maledetto brasiliano. Tornerà indietro?». Murika tirò un'altra boccata dalla pipa, e ancora una volta i suoi occhi assunsero quello sguardo opaco, drogato. Le pupille s'ingrandirono sino a far scomparire le iridi. Harbin lo osservava affascinato, cercando di sentirsi superiore e disinvolto, cercando di respingere la dolorosa sensazione di vuoto che gli chiudeva lo stomaco. Murika spalancò gli occhi enormi, ondeggiando avanti e indietro. Quando parlò, la sua voce era esilissima e piena di echi, come l'urlo di un uomo che risuoni nel pozzo d'una miniera. «Vedo...», intonò. «Sento... la Senhora Che Sorride... Che urla. È scritto nelle stelle... Che il Capitao potrà sempre avere davanti a sé, per il resto dei suoi giorni, il viso sorridente della sua Senhora. Ma...». «Sì?», incalzò, teso, Harbin quando l'indiano s'interruppe. «Sì?». «Ma è anche scritto nelle stelle», rispose piano Murika, «che la vista del suo volto condurrà il Capitao alla follia. Questo vedo, e nulla più». Sir Cedric, con un tremito, mollò il fiato. Idiozie, tutte idiozie allo stato puro. Eppure... Quell'accenno alla canzone di Noel Coward, all'anello che era caduto. E i baffi biondi di Kimball: certo lui e Diana non ne avevano mai parlato in presenza di Murika, anche se poteva trattarsi solo di una
brillante intuizione. Eppure... Si sdraiò sull'amaca, combattendo con se stesso per riguadagnare l'autocontrollo. Stringeva così forte le mani lungo i fianchi che le unghie gli si erano conficcate nei palmi. Due gocce di sangue uscirono dalla pelle lacerata e gli scivolarono sui polsi, ma lui non se ne accorse. Murika invece le notò, si avvicinò all'amaca dell'uomo bianco. Fece nell'aria qualche gesto curioso con un teschio di scimmia che aveva tratto da sotto la pelle di leopardo, poi appoggiò dolcemente il teschio sulla fronte di Harbin. «Capitao», disse il vecchio, «il perdono è meglio della vendetta...». L'archeologo, selvaggiamente, scosse la testa. Il cranio di scimmia ricadde a terra con un tonfo vuoto. I suoi occhi frugavano il viso di Murika. «Vattene via!», gracchiò. Il sudore gli copriva fronte e labbra. «Cosa stai cercando di combinarmi, con tutta questa messa in scena! Vuoi farmi impazzire? Vattene!». Tra sbuffi e bestemmie si tirò su. Il ragazzo Chavante corse di nuovo a nascondersi dietro il baule, ma il vecchio Brujo si limitò a un leggero inchino. Poi s'incamminò verso l'ingresso della tenda. «La gelosia», disse in quel suo portoghese armonioso, «è come un veleno, Capitao. Il Sehnor si trova al bivio del sentiero. Ci pensi bene». «Vattene!», ruggì Harbin, scagliando la zucca di matte contro la testa dell'indiano. Però l'oggetto, avvicinandosi al bersaglio, compì una parabola stranissima e cadde a terra senza colpirlo. L'esploratore rabbrividì di nuovo: gli avevano raccontato che un Brujo può deflettere il volo di una freccia o di un proiettile di cerbottana. Impossibile, naturalmente. Ricadde indietro, stringendo i denti per il dolore alle costole. Aveva la fronte inondata di sudore; la tenda gli sembrava un bagno turco. Dall'esterno gli giungeva il debole sciacquio di un alligatore che risaliva il fiume, il lugubre sibilare di uno sciame di ciganas, lo stridio invidioso di un falco che si alzava in cielo, sopra un gruppo di portatori che fiocinavano pesci con archi e frecce dentate. La mente di Harbin risalì la corrente, seguì il batalao dove una bella ragazza bionda e un prestante giovanotto sedevano vicinissimi, all'ombra del toldo. Forse in quel momento si stavano baciando; forse si stringevano per la vita, come fanno i giovani innamorati. Gli sfuggì un urlo, mezzo di rabbia, mezzo di dolore. Diana, Diana. Ovviamente era stato troppo bello per essere vero. Era scappata col primo idiota belloccio e virile; e lui, dopo aver combinato quel disastro con la
spedizione, aveva perso anche il fascino di una solida reputazione. Non l'avrebbe mai più tenuta fra le braccia; non avrebbe mai più rivisto quel suo meraviglioso sorriso pieno di gioia, quel sorriso per cui i Chavante l'avevano soprannominata Rissante, la Senhora Che Sorride. Gli occhi di Harbin si raggelarono. Maledizione, sorrideva sempre! Era per tenerezza e coraggio, oppure solo perché lo prendeva in giro? Quelle ragazze americane, così leggere, così poco serie; terribilmente diverse da tutte le riservatissime donne inglesi che aveva conosciuto. Forse lo aveva sposato così, per scherzo, già decisa ad abbandonarlo non appena si fosse stufata. Abbandonarlo lì con quegli idioti di indigeni, costringerlo a tornare a Belem alla meno peggio, senza guida! Al pensiero di Mario, il viso di Sir Cedric si tese. Maledetto brasiliano insolente! Se solo avesse potuto seguirli, mettere le mani attorno a quel collo abbronzato! Le sue dita si contrassero per il desiderio d'uccidere, e la sua bocca uscì in un urlo improvviso, imperioso: «Ragazzo! Ragazzo! Dove diavolo ti sei nascosto?». Il ragazzo Chavante uscì da dietro il baule, tremando. «Vai a chiamarmi Burity», ordinò Harbin, poi scosse il capo. «No, no, non servirebbe. Questa regione appartiene agli Urubu. Ah...!». Gli si accesero gli occhi. «Quei nuovi portatori. Falli venire qui. Subito!». Il ragazzo corse immediatamente via, desideroso di placare il padrone, preoccupato per i gemelli che gli erano stati promessi. Cinque minuti dopo era di ritorno coi quattro Urubu. Harbin li studiò, ancora furibondo di rabbia. Diede l'ordine in portoghese, poi cercò di tradurlo in un incerto Chavante, ma i quattro uomini della Tribù degli Avvoltoi scossero il capo, sorridendo con aria ebete. Harbin, disgustato, si rassegnò al linguaggio dei segni. «Senhora...». Tracciò in aria la forma d'una donna. «Capito? Voglio che me la riportiate... indietro», e indicò se stesso con la mano tesa. Il capo degli Urubu, un indiano dagli occhi diabolici, con cicatrici che gli correvano dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca, annuì d'improvviso, abbaiò poche parole agli altri tre. Allora tutti annuirono, parlando all'unisono; e le loro voci, pensò Harbin con un brivido, sembravano proprio le nauseanti, odiose voci degli schifosi uccelli che adoravano. Il capo si fece avanti, e i suoi occhi maligni brillavano. «Turi?», chiese maliziosamente. Poi indicò Harbin, la foresta all'esterno con un gesto vago, e chiese in inglese: «Uomo?». «Oh... L'uomo bianco? Mario?». Il viso di Sir Cedric era contorto. «Va-
da al diavolo!», gracchiò. «Non m'importa cosa gli fate!». Con un ampio cenno del braccio indicò che il colloquio era terminato. Il capo degli Urubu sorrise, deliziato. Annuì e gli rispose mimando il taglio d'una gola. Sul suo viso aleggiava la gioia perversa di un bambino autorizzato a strappare le ali a una mosca. Poi scomparvero, come uno stormo di osceni avvoltoi, e Harbin si distese sull'amaca, chiuse gli occhi stanchi. In poco più di un giorno gli Urubu, servendosi di una veloce montaria, potevano raggiungere l'altra barca, più lenta. E se erano cannibali, se era quello che gli aveva detto il sovrintendente agli indiani, Mario era sistemato. Così imparava a rubare la moglie di un uomo paralizzato, che non poteva nemmeno inseguirli! Avrebbero riportato indietro Diana, e... Beh, ci avrebbe pensato dopo. Lacrime di vergogna scivolarono fra le palpebre chiuse di Harbin. Diana... Come aveva potuto farlo? Ma era solo una bambina, così suggestionabile, così romantica. Perdonarla? Cosa aveva detto il vecchio Murika? Che il perdono è meglio della vendetta? Sir Cedric sorrise amaramente. Be', dopo un po' forse l'avrebbe perdonata. Potevano ancora costruirsi una vita, anche se il ricordo di lei che fuggiva con quel giovanotto sarebbe cresciuto, fra loro, come un'impenetrabile muraglia di giungla. Ma no, no. Il sorriso di Harbin si fece più pacifico, quasi tranquillo. Sono un uomo civile, si ricordò. Vedere ogni giorno il sorriso di sua moglie non lo avrebbe condotto alla follia, come aveva predetto Murika. Probabilmente, dopo essere stata perdonata per quell'oltraggiosa fuga, lei lo avrebbe amato molto di più, lo avrebbe amato sul serio. «Acu!», gridò uno dei Chavante a pesca lungo il fiume: doveva aver colpito un pirara, oppure era stato morso sulla gamba nuda da un piranha, quei micidiali pesciolini che in pochi minuti riuscivano a spolpare lo scheletro d'un uomo. «Acu!». Non gridavano altro, quei selvaggi, e l'esclamazione poteva voler dire «Salve!», oppure «Urrà!», oppure semplicemente «Ahi!», secondo gli eventi. Harbin sorrise alla loro semplicità. Sospirando, l'archeologo si preparò ad attendere e perdonare. Scivolò in un sonno irrequieto, mentre il ragazzo Chavante, con aria timida, riprendeva ad agitare la felce. Adesso gli occhi che scrutavano Harbin erano spalancati, sorpresi, e pieni di rispetto. Sir Cedric sognò di sua moglie tutta notte. Per tutto il giorno dopo, e per gli altri due giorni che seguirono, rimase docilmente sdraiato sull'amaca. Prese il poco chinino che restava e mangiò quello che gli portavano senza
un solo borbottio. Un centinaio di volte, trascinato dal sentimento, immaginò il discorso che avrebbe fatto a Diana: doveva mettere in chiaro che lui capiva, ma lei gli era stata infedele. Diana avrebbe pianto, poi gli avrebbe gettato le braccia al collo e l'avrebbe pregato di perdonarla. Il che lui avrebbe fatto in estrema umiltà, si ripeté stancamente. Harbin. Non desiderava altro che riaverla, vederla sorridere, sorridere come se niente di tutta quella storia fosse mai accaduto. Di tanto in tanto lo coglieva un minuscolo scrupolo di coscienza, ripensando al gesto dell'Urubu quando s'era parlato di Mario. E se Diana amava quel disgraziato? Era nei suoi diritti...? Ma che razza di vita avrebbe mai condotto sua moglie, con una guida? Harbin sbuffò. La sorte che attendeva quel traditore era ampiamente meritata. Lì, in Brasile, le passioni erano piuttosto calde: uccidere un uomo, o farlo uccidere, perché vi aveva sedotto la moglie era pratica corrente. E d'altra parte (Sir Cedric uscì in una risata) poteva sempre sostenere di non aver dato quell'ordine agli Urubu, di essere stato frainteso. Il quinto giorno dopo la partenza degli Urubu, il vecchio Murika raggiunse silenziosamente la sua tenda. Per un attimo rimase immobile, fissò con espressione incuriosita l'esploratore, poi si avvicinò lentamente all'amaca. «Capitao», disse dolcemente, «Lei ha dato un ordine agli Urubu, e non è bene. Il Senhor si trovava al bivio del sentiero, e ha svoltato dalla parte sbagliata». Harbin rimase stupefatto. Quel vecchio fannullone era rimasto nei paraggi della sua tenda, a spiare? Lanciò un'occhiata minacciosa al Brujo, e con un gesto impaziente gli ordinò di andarsene. Vecchio malvagio e arrogante! Dagli una mano e ti prenderanno il braccio! Ma Murika non se ne andò. I suoi grandi occhi erano turbati, e di nuovo possedevano quello sguardo remoto. Di nuovo Harbin arricciò il naso, quando l'odore forte della ayahuasca uscì dalla pipa del vecchio. Murika lo fissava, ma vedeva oltre lui. «Vedo...», intonò la sua voce piena, «Vedo... Una Città Perduta, che la giungla ha divorato. Ci sono grandi blocchi di pietra, incisi con strane scritture. La Senhora che Sorride è lì, e l'uomo la sta fotografando». «Accidenti a te!». Sir Cedric, imbizzarrito, si tirò su. «Così quel disgraziato non solo mi ha rubato la moglie, mi ha anche defraudato della spedizione, eh? Sarà lui ad avere tutta la gloria per aver trovato la mia...». I suoi occhi erano freddissimi. «Bene, bene... Qualunque cosa gli facciano, gli starà benissimo!», mormorò sottovoce. «Sono felice di averli mandati là!
Sono felice!». Murika non disse nulla. Scosse lentamente il capo. «Sono solo bambini», rispose poi, tranquillamente. «Non condanni la gente della foresta, Capitao, se non capisce. Loro vogliono solo obbedire all'ordine del Senhor». Harbin annuì con impazienza, a occhi serrati. «Va bene. Gli ho ordinato di ucciderlo! E a te cosa importa, vecchio pazzo rincretinito?», abbaiò, di nuovo facendo cenno a Murika di andarsene. «Scompari di qui! Domani al tramonto torneranno con mia moglie, e io non voglio altro!», mormorò. «Io... Io non permetterò mai più che stia lontana dai miei occhi, questo è certo! Bambina romantica. Non capisce nemmeno quello che fa». Afferrò la zucca di matte, ne succhiò un po', si rimise giù. Restò immobile nella lenta notte della giungla. Dormì poco, e il suo cuore batteva di felicità. Attese nel calore del giorno, cercando di trovare qualcosa di nuovo nella vecchia rivista che aveva già letto due volte. Ormai il dolore alle costole si era calmato: le ossa si stavano saldando. Al diavolo anche le costole fratturate! Domani avrebbe ordinato ai portatori di adagiarlo sulla barca, e lui e Diana sarebbero tornati nel mondo civile. Avrebbero seguito il fiume, anche se ci voleva più tempo. Non l'avrebbe tenuta lì nella giungla un giorno in più del necessario. A Belem, in un hotel decente, le avrebbe fatto dimenticare Mario. L'avrebbe ricoperta di doni, amata con sottile arte. D'improvviso, gli arrivò alle orecchie un grido. Lo attendeva con disperazione, sperava da tanto di sentirlo: gli Urubu erano tornati. Dopo essere corso all'apertura della tenda, il ragazzo Chavante si girò e annuì. I suoi occhi erano enormi e docili. «Capitao?», chiese, in un rispettoso sussurro. Sembra che si stia rivolgendo al Brujo, notò Harbin con un sorriso di compiacimento. «Capitao? Il... Il Senhor Mario non è con loro. I tre portatori della nostra tribù sono morti, o scappati. Ma... La Senhora che Sorride, l'hanno riportata, come ha ordinato il Senhor». «Oh? Bene, bene!». Sir Cedric si carezzò il volto, nervoso e felice. «Sono già a riva? Falli venire subito. Sbrigati! Sbrigati!». Pregustò l'apparizione di sua moglie, forse trascinata avanti da un paio di sorridenti Urubu, arrabbiata. Ma il capo entrò solo, gli porse un foglio di carta spiegazzato. Harbin s'accigliò, lo scorse in fretta. Il suo cuore sobbalzò. Era un messaggio che Diana stava indirizzando a lui dalla Città Perduta, probabilmente quando la Tribù degli Avvoltoi l'aveva sorpresa. Un
messaggio che provava la sua innocenza, la sua lealtà, l'amore di cui lui aveva dubitato. Rosso di vergogna ma contento, Harbin lesse: «Tesoro, «Affido questo messaggio a uno dei Chavante, perché te lo porti subito. Ormai saprai che non siamo andati a Matura, che non avevamo nessuna intenzione di andarci. Ho persuaso Mario ad accompagnarmi nella tua Città Perduta, per cui la spedizione non sarà un fallimento. Caro, questa cosa significava tanto per te, e io non sopportavo di vederti così disgustato di te stesso. Non te l'ho detto prima perché sapevo che mi avresti proibito di tentare da sola. «Mario ha fatto un po' di fotografie, io ho ricopiato qualche geroglifico dalle pietre e ho raccolto dei vasi. Caro, tu e il tenente colonnello Fawcett e quel pazzesco documento di Rio avevate ragione. Qui c'è un tempio, Inca, credo. L'altare sacrificale è in pietra adorna d'oro e d'argento. Vorrei che tu lo vedessi. Ma ho tracciato una mappa, e potremo tornare dopo che le tue costole si sa». Il messaggio s'interrompeva bruscamente. Sir Cedric alzò gli occhi, scrutò il sorridente Urubu: adesso gli sembrava il figlio maligno di qualche demone della foresta. L'indiano annuì di nuovo, compiaciuto di aver obbedito con tanta perfezione agli ordini del Capitao. Fece di nuovo il gesto di tagliare una gola... E d'improvviso, con un immenso tuffo al cuore, Sir Cedric ricordò cosa gli aveva raccontato degli Urubu il sovrintendente agli indiani. Non erano cannibali: erano cacciatori di teste! Harbin cercò d'inghiottire saliva, ma aveva la gola secca. A quali orribili riti aveva costretto la sua giovane moglie ad assistere? Lo avrebbe mai perdonato? Avrebbe mai potuto guardarlo senza un brivido di repulsione? Avrebbe mai...? «Rissante?», chiese, incerto. «Dov'è... Dov'è mia moglie?». Spinto dalla furia, disegnò un corpo di donna nell'aria, poi indicò se stesso. «Dille di venire qui! Portamela! Subito!». L'Urubu sorrise malignamente, annuì diverse volte, come uno scolaretto felice del lavoro che mostra all'insegnante. Gridò qualche parola nel suo dialetto e un altro indiano entrò nella tenda, reggendo un minuscolo cestino di vimini. Ancora prima di sollevare il coperchio e vedere l'orribile cosa rinsecchita (le labbra cucite assieme nell'atroce parodia d'un sorriso, i lunghi capelli biondi sciolti e accuratamente ripuliti da ogni macchia di sangue), Harbin
cominciò a urlare... Titolo originale: The Smiling Face. Bentornato! CHARLES KING «Avanzati Ahrimanes... Avanzati Zamiel... Avanzati Sammael... Avanzati Belial...». Su di noi risuonava la voce priva d'emozioni, che sembrava uscire da un sepolcro umido. L'invocazione all'Angelo del Male proseguiva, interrotta, di tanto in tanto, dai profondi respiri degli attoniti spettatori. «Avanzati Abaddon... Avanzati Apollyon... Avanzati...», e qualcuno urlò debolmente quando una forma sottile, dai contorni incerti, ci passò sopra la testa per un attimo e scomparve. Un'altra forma, e un'altra ancora, scivolarono in silenzio su di noi. I brevi rantoli che, a intervalli irregolari, uscivano dalla bocca dei presenti ora si erano fatti più veloci: un pauroso contrappunto alla folle litania dell'Evocatrice. Più fitte, sempre più fitte le forme sopra di noi... Più alte, sempre più alte le urla degli altri... E poi la mia torcia elettrica mandò il suo raggio incredulo sul pavimento. Bastò un istante per vedere a sufficienza. La mano che avevo libera scivolò sull'interruttore e lo fece scattare. Improvvisamente immersa nella luce giallognola, la stanza mise a nudo i volti di chi l'occupava. Un gruppo di persone tese, impaurite, che guardavano avanti con occhi che non vedevano. Quasi terribile nel suo osceno effetto, il terrore di qualche attimo fa li attanagliava ancora. Solo l'Evocatrice sembrava non risentire degli effetti della sua magia. I suoi occhi erano fissi su di me, e scintillavano di rabbia. Per cui mi affrettai a dire: «Lo spettacolo è finito, gente... Un'altra imbrogliona smascherata!». Con uno strillo, quella donna maledetta si lanciò attraverso la stanza. Riuscii a fermarla appena prima che le sue unghie affilate mi carezzassero il viso. «E piantatela di restare lì come cretini! Guardate sotto il tavolo!». Il mio ordine secco parve risvegliare gli altri dal letargo. Come in sogno si alzarono, si avvicinarono al tavolo a qui era seduta poco prima la vecchia, urlante Evocatrice.
«Allora! Cosa vedete?». Rispose una voce stupefatta: «Ci sono dei pulsanti che spuntano dal pavimento...». «Esatto», e a quel punto dovetti stringere con più energia la vecchia furibonda, che ormai sbavava e vomitava imprecazioni. «Esatto! Quei pulsanti controllano i movimenti delle forme che vi hanno tanto spaventati. In realtà sono appese a dei fili». «Ma... Ma...». «Lo so. Vi chiedete cos'era quel terrore vero, inconfondibile, che vi ha presi, che vi ha paralizzati. Be', vi stavano vendendo una merce molto ben confezionata». «Cosa vuoi dire?». «Guardate la faccenda da questo punto di vista», spiegai. «Questa vecchia megera che sto tenendo ferma dice di essere una strega; sostiene di essere in contatto diretto con le creature dell'inferno. Voi la pagate e lei vi promette una dimostrazione pratica. Be', vi piaccia o no, tutti voi eravate ben propensi a crederle, forse perché il terrore che avete provato era così delizioso... Ahi!». Mi tolsi il sangue dalla guancia, dove quel vecchio demonio era finalmente riuscito a graffiarmi. L'allontanai con uno spintone, le gettai qualche lira, e accompagnai i miei amici fuori dalla casa. Più tardi, in camera mia, sturammo un po' del vino locale e ci demmo sotto. Io ero affacciato alla finestra, ammiravo la stupefacente immensità delle Alpi, quando una voce mi richiamò ai miei doveri d'anfitrione. «Vai avanti con la spiegazione, Jules. Stavi dicendo che noi eravamo in buona parte responsabili dell'atmosfera creata dalla vecchia, e che le credevamo prima ancora che cominciasse». «E non è vero? Non avete tutti insistito per andare alla seduta, anche se io vi avevo avvertito che non esistono spettri, succubi, demoni, lemuri, insomma niente di tutta quella robaccia di cui si servono medium fasulli...». «Ma, Jules...». «Lasciami finire. Sapete tutti che io giro il mondo da anni per mettere a nudo imbrogli come quello di stasera. Da bambino, mi sono preso un sacco di spaventi nella piccola città della Pennsylvania Tedesca (1) dove sono nato. Ho trascorso troppe notti insonni, spaventato a morte, perché qualche idiota mi aveva riempito le orecchie di chiacchiere misticheggianti...». «E così ti sei votato alla distruzione di tutti coloro che sostengono di sa-
pere che cose del genere esistono. Hai seguito voci e dicerie dalla Transilvania alla Transgiordania... Ma sappiamo tutti che...». «E allora perché non riuscite a capire da soli che la gente non si libererà mai di queste idiozie, e dei delinquenti che se ne servono, se anche voi vi lasciate imbrogliare come perfetti cretini da un po' di messinscena e tanta autosuggestione, come è successo stasera?». Rabbioso? Certo, ero maledettamente rabbioso. Nel mio piccolo mi ero costruito una discreta reputazione di smaschera-streghe, o come diavolo volete definirmi. I miei studi sull'argomento erano ben conosciuti e tradotti in diversi paesi. E adesso in Italia, dove m'ero recato in vacanza con alcuni amici, dovevo lavorare duro come al solito per convincere quei cosiddetti intellettuali che se certa gente continuava a seppellire cortecce d'albero, cuori d'animali e altro pattume assortito al chiaro di luna, si trattava solo di superstizioni dure a morire. Allora il mio lavoro non era servito a niente? Allora erano tutti così stupidi o perversi da aver bisogno di dimostrazioni individuali? Era terribilmente deludente... «Non te la prendere troppo, Jules. Ti crediamo. Sul serio, ti crediamo. È solo che...». «Piantala», grugnii. «Ne ho piene le tasche di sentirmi dire che ci vuole tempo per scuotersi di dosso antiche credenze e superstizioni. Sono solo follie romantiche, roba da bambini». Più tardi, solo, provai un certo dispiacere per aver dato quella lavata di capo ai miei amici. Dopo tutto, non erano peggio degli altri. Creduloni, sempre in cerca di nuovi brividi, pronti a farsi intimidire e derubare... Ma erano affari loro. Da parte mia, avevo bisogno di prendermi un briciolo di riposo dal triste lavoro che era diventato la missione della mia vita. Rimuginai l'idea fino a convincermi. Non tornavo a casa da che era morta mamma, una decina d'anni addietro. Così mandai un telegramma a mio padre. Concepita l'idea, il piano entrò immediatamente in esecuzione. Ci volle pochissimo per gli arrivederci, per fare le valigie e saltare sulla prima nave in partenza. Il viaggio fu privo d'eventi. Passai quasi tutto il tempo al bar della nave, dove il barista era genialmente loquace o silenzioso secondo i casi. E poi lentamente, maestosamente, sorpassammo la Statua della Libertà tra fischi di sirena e urla, accompagnati dal rombo coraggioso dei rimorchiatori che ci trascinavano a un molo di Manhattan. Ormai avevo tanta
voglia di rivedere mio padre e la casa dov'ero nato, che feci solo un salto velocissimo al bar dell'hotel Pennsylvania, e poi corsi subito alla stazione, distante pochi metri. Per l'intera notte i miei pensieri seguirono il ritmo delle ruote del treno. Ero troppo eccitato per dormire. Sì: più mi avvicinavo alla minuscola città che era stata la mia culla, più comprendevo quanto avessi bisogno della sua calma assoluta, della sua pace sonnolenta. Le mie ore di pazienza furono ripagate dal sorgere del mattino. Ero troppo stanco per mangiare: una veloce toilette, e ancora attesa. E poi, e poi, finalmente, la lunga coda di vetture si fermò alla mia stazione. Appoggiai le valigie sul marciapiede e dopo un attimo le raccolsi. Avevo telegrafato a mio padre, ma non era alla stazione. Pensai che gli anni passavano anche per lui: probabilmente era ancora a letto. In tal caso, meglio mangiare qualcosa all'albergo e disturbare il meno possibile il riposo del vecchio. Inoltre avrei avuto la possibilità di dare un'occhiata alla città, vedere se era cambiata. Camminare fino all'unico albergo della città mi procurò uria gioia immensa. Adesso sapevo che i miei giorni lì sarebbero stati pieni di pace, perché tutto era come allora. Ecco lì i piccoli negozi addormentati, che di anno in anno si assopivano dolcemente coi loro proprietari... Ecco lì i frugali, pii membri della setta di Amish che portavano in piazza i frutti del loro lavoro agricolo... «Buon giorno a lei, straniero», salutò placidamente il rugoso impiegato dell'albergo. «Buon giorno anche a lei... Ma io non sono uno straniero». Le sue rughe si dissolsero, tornarono a coagularsi, ne spuntarono altre, mentre l'uomo meditava sul grave problema. Poi: «No... Non mi pare proprio di ricordarla...». «Si vergogni», risi. «Il figlio di Jules Swartz è cambiato così tanto, in questi anni, che i suoi vecchi amici non lo riconoscono più?». È dolce essere riconosciuti da qualcuno che appartiene al passato. Confesso che il mio ego ne trae un grande piacere. .. Ma ero completamente impreparato alla sua reazione. «Lei... Lei è davvero il figlio di Jules Swartz?». «È quello che le ho appena detto». «Non è più tornato qui dalla morte di sua madre?». «Anche questo è vero».
Il vecchio poneva tanta attenzione nel pronunciare le parole, che praticamente le sillabava: «E... Non se n'è andato di qui che era giovanissimo?». La faccenda stava diventando fastidiosa. In genere non rispondo alle domande che riguardano la mia vita. Ma, riflettei, non poteva succedere proprio niente di male se rispondevo a quel vecchio ciarliero. E forse gli avrei fornito spunti per qualche chiacchiera da fare durante il giorno. «Sì, me ne sono andato che ero molto giovane. Sono tornato solo di tanto in tanto, per una visita...». «E ricorda di cosa è morta sua madre?». Adesso ero proprio scocciato. Per cui decisi di chiudere il becco a quel galletto che parlava troppo. «Lei probabilmente lo sa meglio di me, mio curioso ospite. Ero in Messico quando mi hanno scritto che il suo cuore ha ceduto. Ma, naturalmente, se lei possiede informazioni migliori...». Il mio ovvio sarcasmo andò altrettanto ovviamente sprecato. E io imparai la lezione. Quella sarebbe stata la prima e ultima volta che scambiavo motto con un impiegato d'albergo rincretinito dagli anni. Le parole che pronunciò in seguito rafforzarono la mia decisione: «Forse io ho informazioni migliori... Forse le ho sul serio...». Ne avevo abbastanza. Valigie alla mano, uscii prima che un vecchio idiota troppo loquace mi sciupasse il ritorno a casa. L'aria fresca, pulita, mi fece ricordare che avevo fame. Il mio occhio colse, all'angolo lì avanti, l'insegna d'un bar con tavola calda. Non l'avevo mai visto: la prima novità della città. Il locale era discretamente pulito. Mi buttai avidamente su una generosa razione di uova e pancetta. Il caffè, sorprendentemente, era ottimo. Lo dissi al tizio che gestiva il locale. Lui sorrise. «Per fortuna c'è qualcuno che sa apprezzarlo. In genere si lamentano che è troppo forte». «A me piace così». «Anche a me, straniero». «Non sono esattamente uno straniero. Sono nato in questa città, e adesso torno per far visita a mio padre». «Splendido. E chi sarebbe?». «Jules Swartz. Io mi chiamo come...». «Oh!». La tazzina di caffè si arrestò a mezza strada dalla mia bocca. Qualche
goccia si rovesciò sul banco. Poi, lentamente, delicatamente, rimisi giù la tazzina. Quell'oh! era troppo accentuato, troppo pieno di sottintesi provocatori. E io ero maledettamente stanco di vedere gli altri reagire a quel modo, ogni volta che menzionavo mio padre. «Mi dica», e cercavo di tenere sotto controllo la voce, «perché mai tutti si comportano come se sentissero un cattivo odore, quando parlo di Jules Swartz». Prima di rispondere, lui diede una pulita al banco con uno straccio umido. Evidentemente era un tipo che ci pensava parecchio, prima di rispondere a una domanda seria. Stava cercando le parole più adatte. Poi: «Io non sto qui da molto, stra... uh... signor Swartz. Personalmente, non so niente». «Ma ha sentito delle voci, eh?». «Sì... Le ho sentite». «E cosa dicono?». «Oh, lei lo sa che in una città come questa la gente chiacchiera troppo...». «Certo che lo so. È per questo che sono scappato. Pare che la Pennsylvania Tedesca e il misticismo da due soldi vadano perfettamente d'accordo...». «Più o meno è quello che volevo dire io, signor Swartz. Col lavoro che faccio, con la gente che entra ed esce ogni cinque minuti, non posso fare a meno di sentire... di raccogliere le chiacchiere». «Mi racconti tutto». «Ricordi che non è quello che dico io...». L'impazienza mi mordeva. «Lo so... Lo so... Lei sta solo ripetendo quello che ha sentito...». «È esatto». Ancora un po' e l'avrei strozzato. «Avanti...». E arrivò la risposta. «La gente scompariva!». «Sul serio? Gente della città?». «No. Gente di passaggio. Commessi viaggiatori, turisti, roba del genere...». «Ma questo cosa c'entra con papà?». «Be'... C'era anche sua madre...». La mia mano scattò e lui balzò all'indietro, andando a sbattere contro il
mobile che aveva alle spalle. «Ehi! Le sto solo ripetendo quello che lei voleva che le dicessi!». Ascoltai i violenti battiti del mio cuore, guardai la mano che tremava. «Sarà meglio che mi beva un bicchierino. No, facciamo due. Uno anche per lei». Senza una parola versò due whisky. Brindammo, poi ingurgitammo d'un fiato il liquore robusto. «Facciamo un altro giro!». «Penso che basti, signor Swartz». Rinfrancato dal whisky accesi una sigaretta, e fui lieto di scoprire che le mani non mi tremavano quasi più. «Avanti... È meglio che mi racconti tutto». Mi scrutò con aria critica, e parve rassicurato da ciò che vide. «Be', la gente dice che sua madre non è morta di attacco cardiaco...». «Cosa dicono?». «Insomma, si sarebbe... uh... buttata giù!». «Suicidata?». «Già». «Ma... Ma perché?». «C'era quella gente che era scomparsa...». Mi aggrappai disperatamente al banco, fino a che le dita mi fecero male. «Insomma! La smetta di torturarmi! Cosa c'entra questa gente?». «Dicono... Ho sentito dire... Che quella gente è scomparsa a casa sua!». Animali insopportabili! Selvaggi ignoranti, perversi, bramosi di scandali! Le stesse lingue, dense di pregiudizi e paure vecchie come il mondo, che mi avevano costretto a fuggire, avevano crocefisso la mia santa madre. Quelle lingue, con la precisione di bisturi da alta chirurgia, le avevano scavato la fossa e poi ce l'avevano spinta dentro. Io ero fuggito da tutto quello. Lei era rimasta, aveva combattuto la sua battaglia... e aveva perso. «Mi... Mi dispiace, signor Swartz». «Loro... I miei genitori... Accettavano ancora turisti, non è vero?». «Sì. Quelli che non trovavano posto in albergo andavano a casa sua. Pare che ci fosse un accordo tra l'albergo e i suoi». C'era sempre stato. Il terreno fertile produce denaro, ma il denaro non basta mai a un agricoltore in una piccola città. Anche quando io vivevo lì avevamo ospitato parecchia gente di passaggio. I pochi dollari in più erano sempre benvenuti. «Ma l'albergo ha smesso di mandare gente un po' di tempo fa».
Mi risvegliai dai ricordi. Quelle parole indicavano che stavamo per arrivare al cuore della storia. «Vuol dire... Dopo la morte di mia madre?». «No, prima. Quando il proprietario dell'albergo ha raccontato ai suoi che... che succedeva». «Come sta mio padre?». Lui tossicchiò. «Non l'ho visto molto di recente». «Vuol dire da quando mia madre...». «Sì». È per questo che mio padre non mi era venuto incontro alla stazione. Era troppo fiero per sopportare i crudeli commenti degli occhi e delle lingue che l'avrebbero seguito; e troppo gentile per farsi scudo della mia compagnia, per costringermi a dividere l'ombra che lo circondava. Ormai era fatta. La voce del mio informatore s'intromise di nuovo nei miei sogni a occhi aperti. «Anch'io sto da poco in questa città. Non mi piacciono le idee di certe persone...». Era facile capire che si sentiva imbarazzato. Con vero senso del pudore, non voleva intromettersi in quella storia. Cercai di rendergli tutto più facile: «Sono d'accordo con lei, amico mio». Si rischiarò un poco. «Voglio dire che i suoi genitori mi sono sempre piaciuti. Tutte le volte che sono venuti qui a mangiare qualcosa erano gentili con me... Cortesi... Molto più cortesi di tutti gli altri...». Quasi mi misi a piangere. Con quel suo atteggiamento onesto, sincero, voleva essermi d'aiuto. Gli feci cenno di continuare. «Lei è il figlio», sussurrò, rosso in viso. «Forse lei può fare qualcosa. Sua madre è scomparsa, ma suo padre ha diritto di passare gli ultimi giorni in pace». C'era una sola cosa da fare, e la feci: gli strinsi la mano. La stretta di mano che ci può essere fra due uomini che si vergognerebbero a esprimere gratitudine a parole, e che debbono capirsi in silenzio. Certo, io potevo fare qualcosa. Dopo tutto, era proprio il lavoro che facevo, che avevo sempre fatto. Avevo distrutto macabri miti in ogni parte del mondo; avevo convinto molte persone, testarde e piene di pregiudizi come quelle che vivevano in città, della futilità intellettuale delle loro idee sostanzialmente banali. Sì... Quello era proprio il mio lavoro: aiutare mia madre a riposare in pace, e mio padre a vivere in pace. «Dov'è il telefono?».
M'indicò la cabina nascosta in un angolo. Cambiai un paio di dollari con una manciata di monetine. Pochi minuti mi bastarono per parlare con New York. Dall'altra parte del filo mi risposero con un deliziato assenso. Riattaccai, sentendomi profondamente meglio. «Grazie di nuovo», dissi mentre uscivo. «Lei è stato molto buono con me. Mi ha proprio dato una mano». Decisi di arrivare a piedi a casa di mio padre. Non era molto lontana; e poi avrei evitato di intrecciare altre orribili conversazioni con quegli sciocchi superstiziosi. Mentre passeggiavo, su di me scese la quiete. L'erba ai lati della strada dalle ampie curve mandava un profumo delizioso, e i grandi, nodosi alberi tendevano i rami carichi quasi in un gesto di benedizione. Non passò molto tempo prima che aprissi il cancelletto che dava sulla casa dove ero nato io, dov'era nato mio padre. Sulle prime ebbi un cattivo presentimento: tutto stava andando a pezzi. Era chiaro che nessuno si prendeva più cura di niente, perché le erbacce spuntavano dappertutto, e il grano moriva nei campi. Un tetro senso di depressione oscurò la pace appena ritrovata. Giunto davanti a casa, attesi un attimo prima d'entrare. Volevo ricompormi nello spirito e nel fisico. Poi entrai. Nell'angolo, la scricchiolante sedia a dondolo s'arrestò, «Bentornato a casa, figliolo». Rimasi immobile il tempo d'un respiro, poi corsi avanti. Quando le mie braccia si tesero attorno al vecchio, avevo le guance bagnate dalle lacrime. Il suo corpo che un tempo era così forte... così eretto... adesso era magro e curvo. La sua voce... così debole... così sola... «Papà! Ti trovo benissimo!». «Davvero, figliolo?». Sorrise. Un sorriso così triste che buttai al vento l'idea di procedere a piccoli passi. «Non preoccuparti, papà. Stamattina, in città, ho sentito abbastanza. Ho capito che ti hanno fatto un sacco di male. Ma vedrai che io...». «Per favore». La sua mano scarna, piena di vene, ebbe un lento cenno di protesta. «Per favore, figliolo. Preferisco dimenticare». «Non preoccuparti. Non ho in mente assurde vendette. Voglio solo riabilitare il tuo buon nome davanti agli occhi di questa comunità, che dovrebbe essere fiera di ospitarti. E, magari, evitare che in futuro malizia e stupidità distruggano la vita di qualcun altro». «No, ragazzo mio... Non devi».
«Ma...». Un rossore cupo, di rabbia, traversò il volto del vecchio. La sua mano si strinse a pugno, poi si rilassò. «Ho detto che non devi!». Mio padre, senza per questo dimostrare orgoglio, doveva conoscere la reputazione di cui godevo nel mio campo. Mia madre doveva avergli mostrato le lettere e i ritagli di giornale che le avevo inviato. Mi sarebbe piaciuto venire incontro a questo suo desiderio, ma... «È troppo tardi, papà». «Troppo tardi?». «Sì. Ho già telefonato a una coppia d'amici. Li ho pregati di venire qui e darmi una mano a smontare questo castello di sciocchezze». La sua voce era così bassa che quasi non la sentivo. «Troppo... tardi...». «Ma ti renderai conto», incalzai, «che non è solo per il tuo bene: molta altra gente è destinata a essere perseguitata, se non la facciamo finita con questa storia». La mia preoccupazione si mutò quasi in gioia: per la prima volta, un senso di pace gli rischiarò il volto. Be', no. Non esattamente un senso di pace. Semmai, un'aria di assoluta calma. Come se il peso che lo tormentava avesse lasciato le sue deboli spalle. «Sono buoni amici?». Finalmente un solido argomento di discussione. «Sì, papà, i miei migliori amici. Lavorano in campo letterario. Sono tutti e due scrittori di ottima fama. I loro articoli incidono sull'opinione pubblica. Se loro scrivono la verità su questa casa, una verità che io chiarirò al di là d'ogni dubbio, il buonsenso comune prenderà il posto della paura superstiziosa, una volta per tutte». Mi guardò e il suo viso era sempre più calmo. «Sì... Deve esser così». Lo presi sottobraccio. «Vieni. Esploriamo la nostra vecchia casa. Sono stato lontano troppo tempo». «Troppo tempo». Mi maledivo per non essere più tornato da tanti anni. Gli spiacevoli eventi del mattino dimostravano chiaramente che ero rimasto lontano da lì troppo tempo. Era stato terribilmente ingiusto abbandonare il vecchio da solo, costringerlo a sopravvivere alle pugnalate della gente... Sulle stanze gravava l'atmosfera dei luoghi in cui nessuno vive. Non e-
rano calde, accoglienti; davano solo un'impressione di tristezza. Cercai di assumere un tono allegro. «Diamo un'occhiata in solaio, papà? Hai aggiunto altre vecchie cianfrusaglie, dall'ultima volta?». «Preferirei di no, figliolo». Qualcosa si destò dentro di me. «Perché?». «Ci sono le cose di tua madre. Io... Non...». Fui sommerso da un'ondata di sollievo. «Allora vado da solo. Credimi, ti capisco». Quanto doveva averla amata. Solo nella soffitta, guardavo le fotografie, i vestiti, i ricami... Avevo davanti tutti i ricordi di mia madre che la casa conteneva. E tutto era pulito, senza tracce di polvere, a prova dell'amorosa attenzione delle mani di mio padre, infaticabili nella loro devozione. Solo di se stesso il vecchio non si curava più. Ma le cose sarebbero cambiate. Dopo aver fatto esplodere, coi miei amici, la bolla di malignità che incombeva sulla città, sarei rimasto con mio padre, non l'avrei più lasciato. Insieme potevamo... E rabbrividii dai piedi alla punta dei capelli quando un grido acuto risuonò nella casa, si conficcò nel mio cuore. Corsi in corridoio, divorai gli scalini a tre per volta, scendendo senza fiato verso il piano di sotto. Ma qualcun altro mi aveva preceduto su quella scala. Adesso giaceva in fondo, coricato sullo stomaco, ma il suo collo spezzato aveva assunto un angolo talmente contorto che i suoi occhi si puntavano nei miei, senza più vedere nulla. Mio padre. Entro un'ora il corpo riposava nell'agenzia di onoranze funebri. Senza la minima incertezza, feci capire a quegli sciocchi stupefatti che si era trattato di morte accidentale. Era così facile scrutare nelle loro miserabili menti, capire che pensavano a un suicidio. Per cui raccontai tutto e poi uscii all'aria aperta, aprendomi la strada tra quei visi primitivi, curiosi. Tornai alla fattoria, ad aspettare quegli amici che non potevano più aiutarmi. Ma no, c'era ancora qualcosa da fare! Dopo le ferventi parole che avevo rivolto al mio povero padre, sarei stato un gran vigliacco a non cercare d'aiutare tutti gli altri, gli altri condannati a vite sconvolte dalla maldicenza. Dovevo abbattere le radici di quei timori irragionevoli. Per cui aspettai. Udii i passi dei miei amici risuonare sulla veranda. Alzandomi in piedi cercai di dominare le mie emozioni, ma mi bastò un'occhiata per capire che avevano già saputo tutto. Maledette lingue... Maledette lingue... Im-
placabili... Spietate... Lila attirò la mia testa contro la sua e mi baciò. La sua voce calma, deliziosa, mi calmò, mi cullò: «Jules, ce l'ha detto il taxista». Jim non aggiunse nulla, per il momento. Mi strinse la mano, trasmettendomi tutta la vera, forte amicizia che aveva per me. Erano amici. I miei migliori amici. Più tardi, sedemmo a fumare davanti al fuoco che avevo acceso nel camino. Nessuno di noi aveva molta fame: avevamo inghiottito solo pochi bocconi. Raccontai l'intera storia e sempre di più mi andavo convincendo che un'amicizia così meravigliosa, così sincera, era un dono della Provvidenza. «Hai perfettamente ragione, Jules», commentò Lila. «Dobbiamo mettere in pratica il tuo piano». Anche Jim, con quel suo modo di fare lento, pensoso, espresse la propria opinione. «Sono d'accordo con Lila, Jules. La tua è un'ottima idea, e terribilmente umanitaria. Sei una brava persona». Quanto mi riscaldava la loro presenza! «Basteranno un paio di notti passate qui per svelare la verità. A proposito, sarà meglio che andiate a letto. Troverete la stanza di sopra». «E tu, Jules?». «Mi corico subito anch'io». Rimasto solo, presi a rimuginare. Ricordai avvenimenti della mia infanzia, pensai ai miei cari genitori. Le ore, silenziose, volavano senza che me ne accorgessi. Fu un'occhiata casuale all'orologio a dirmi quanto fosse tardi: mezzanotte. Fu un'altra occhiata casuale che spezzò il velo del mistero, e diede una spiegazione logica a ciò che avevo appena intuito. Lo specchio della sala era coperto di ragnatele, sporco. Me ne allontanai e sedetti di nuovo davanti al fuoco. Lasciai che i miei pensieri vagassero nel passato. Però adesso gli avvenimenti si spiegavano da soli con stupefacente chiarezza. Mia madre si era suicidata. Anche lei aveva capito, e non era riuscita a sopportare la verità. Mio padre? Adesso capivo anche troppo bene perché mi avesse chiesto se i miei amici erano buoni amici. Capivo perché mi avesse detto che era «troppo tardi». Non una volta sola... Due.
E perché mi avesse ripetuto che era passato «troppo tempo». Ciò che lui intendeva era diametralmente opposto a ciò che intendevo io. Aveva cercato... questo dovevo riconoscerlo... aveva cercato di tenermi lontano dal segreto. Ma io lo avevo costretto... Lo avevo costretto... Poi, quando aveva capito che era «troppo tardi» da «troppo tempo», si era abbandonato, aveva lasciato che il peso scivolasse via dalle sue spalle... Per ricadere sulle mie. Sì... Anche lui s'era suicidato. Era l'unica cosa da fare. Non avrebbe più sopportato il mio sguardo, una volta che io avessi scoperto la verità. E anche questo lo capivo. Era tempo, e il richiamo era forte. Mi alzai. Gettai un altro sguardo allo specchio pieno di polvere, ben conscio di ciò che mi avrebbe detto. La mia mente razionale poteva rifiutare quell'immagine, ma i miei occhi e il mio ego no! Mi guardai le mani: le dita si erano allungate, erano come serpi, si agitavano e scuotevano quasi non esistesse più una struttura ossea. Guardai i ciuffi di pelo nero che le coprivano. Guardai il mio viso... il mio viso... che era diventato innaturalmente grande... che era tutto cosparso di escrescenze rosse, tondeggianti... e due file di denti aguzzi sporgevano in fuori dalle mie labbra livide... Ero affamato. Risalii in silenzio le scale, arrivai alla porta della stanza dove dormivano i miei amici. Non toccai nemmeno la maniglia. Sapevo che non era necessario. Senza il minimo sforzo passai attraverso la porta, attraverso il legno, e cominciai a pregustare l'eredità di mio padre... (1) Nel testo inglese: Dutch Pennsylvania. Si tratta di una parte della Pennsylvania colonizzata da immigranti tedeschi. Il loro influsso è ancora vivo nel curioso, teutonico accento locale (N.d.T.). Titolo originale: Welcome Home! Questi debiti sono tuoi ARTHUR J. BURKS L'ex capitano Evan Frome traversò l'autostrada Lincoln con una certa apprensione. Non era abituato a camminare. Adesso che si trovava temporaneamente a piedi, gli sembrava che gli autisti cercassero di stabilire di
quanti millimetri potevano sfiorare i pedoni. A volte andavano troppo vicini, e c'era un funerale. Il giorno prima, Frome aveva incontrato un vicino nei paraggi di una grande macchia rossa. Il vicino gli aveva spiegato da cosa derivava la macchia, che s'andava scurendo. Evan Frome rabbrividì un poco. Aveva visto tanti morti da farne scorta per l'eternità. Non si era mai abituato ai cadaveri. «La macchina ha scaraventato l'uomo in aria per una quindicina di metri, giusto sull'autostrada», aveva detto il vicino. Gli sembrava un viso familiare, ricordò, e nella sua voce c'era qualcosa d'inquietante. Evan Frome camminava un poco curvo. Non perché fosse vecchio, ma perché aveva sopportato molti pesi: pesi come ordinare alla truppa di lanciarsi in avanti, a morire in nome della tattica. Pesi mentali. Scosse il capo, irrequieto: quei pesi gli erano familiari, non dovevano continuare a tormentarlo. Però ieri, quando era arrivato a Casa di Cristo, si era sentito addosso una familiarità diversa, che non capiva. Non aveva mai sofferto di amnesie, non aveva mai visto prima Casa di Cristo, a meno che non ci fosse passato davanti in macchina prima della guerra, ai soliti ottanta chilometri orari. Eppure tutta quanta la Pennsylvania, per non parlare di Casa di Cristo, gli era risultata familiare. Il che lo faceva sentire irrequieto e rappacificato al tempo stesso. Desiderava vedere Casa di Cristo sin da quando Peter Beltz, il migliore amico che avesse mai avuto, morendo fra le sue braccia l'aveva lasciato erede della casa alla periferia del villaggio. «Tu sei tutta la mia famiglia», gli aveva detto Pete, poi aveva sorriso ed era morto. Le macchine lo superavano a velocità folle. Andavano tutte fortissimo. Camion giganteschi quasi lo sollevavano dal suolo, coi risucchi d'aria che si creavano al loro passaggio. Sulla sinistra, sotto il ponte, anitre bianche come la neve nuotavano in uno stagno fangoso. Pecore troppo grasse (davano l'idea che a bucarle con uno spillo sarebbero esplose in un'immane deflagrazione) alzavano le teste sudice a fissarlo. Anche le pecore gli sembravano familiari. «Sarà perché Pete mi ha descritto questo posto tante volte», pensò, «anche le anatre e le pecore». Senza mai guardare in basso, come se i suoi piedi conoscessero la strada, seguì le curve del sentiero sinuoso che lo portava lontano dall'asfalto. Guardò a destra, dalla parte dell'autostrada, e l'alta, massiccia casa a due piani sulla collina era una vecchia conoscenza. Gli sembrava quasi di esse-
re nato da quelle parti. «Oh, questa sì che è una bella idiozia!», si disse. «Se c'è una cosa che non ho mai avuto, è il minimo rapporto con la Pennsylvania Tedesca». Quando raggiunse le prime case oltre il prato e lo stagno represse un brivido. Le case erano antiche, verniciate d'un rosso brillante, costruite con mattoni di dimensioni enormi, affacciate su argini in solida roccia. Gli sembrava quasi che le case, e i muri di roccia più alti di lui, lo salutassero, gli chiedessero dov'era stato e quando era tornato a casa. Era una sensazione mostruosa. Seppe che l'edificio all'angolo era una banca prima ancora di scorgere l'insegna sulla porta. Seppe, dopo aver girato l'angolo, che l'ufficio postale si trovava alla prima trasversale, e che la trasversale scendeva verso est dolcemente, chiusa da due filari di salici piangenti. Guardò, ed era proprio così. «Ma certo che è così», si disse. «Ho visto tutto ieri!». Capiva che avrebbe dovuto accettare, prima o poi, il fatto che ieri, quando era sceso per la prima volta a Casa di Cristo, sapeva già tutto. E quel suo sapere si era mischiato a diverse sensazioni (tristezza, senso d'inutilità, rabbia, forse un briciolo di paura) per cui non possedeva spiegazioni. Salì gli scalini che portavano all'antico ufficio postale in pietra quasi come se stesse correndo in cerca d'un rifugio. Il fresco dell'aria autunnale lasciò il posto al calore di un riscaldamento eccessivo. Scrutò la fila di sportelli: «Fermo posta», «Stampe e raccomandate», «Vaglia postali». Anche quelle parole, d'un giallo sbiadito, gli erano familiari. E sembrava che almeno metà degli uomini che stavano dietro gli sportelli fossero nati coi capelli grigi, curvi nel corpo e tremanti di mano, occhialuti, lenti nei movimenti. Era certo che avessero passato l'intera esistenza dietro quei vetri. E forse sarebbero morti da qualche altra parte, ma l'ufficio postale era il battito dei loro cuori. Uno dei vecchi lo fissava a bocca spalancata. Poi, con voce chioccia, gridò a qualcun altro: «Ollie, c'è il capitano Frome. Evan Frome!». Frome si arrestò davanti allo sportello più grande, si appoggiò sui gomiti, infilò la testa sotto il vetro. «È un fatto tanto insolito?», chiese stizzosamente. «Sono stato qui anche ieri, e nessuno s'è meravigliato». «Ma non era ancora venuta la donna delle pulizie, capitano», rispose l'uomo più vecchio e più curvo, che senz'altro doveva essere il capufficio.
«E potrei chiedere cos'ha a che vedere la donna delle pulizie col sottoscritto?». «Ci ha incuriositi, capitano», rispose il vecchio David Vogel. «Forse lei sa com'è in queste piccole città, dove non succede quasi mai niente». «No, non lo so, ma ne ho sentito parlare. Le piccole città vivono di chiacchiere. Però io sono venuto qui per stare in pace. Non romperò l'anima. Mi farò i miei affari...». «Nessuno ha affari esclusivamente suoi, nemmeno i più Personali!», rispose, tagliente, il vecchio David. «Comunque, noi non le racconteremo niente a meno che, e finché, non sia lei ad attaccare discorso». «Potrei risponderle con maggior sicurezza», disse Frome, lasciando annegare l'ostilità negli occhi grigi, quasi spenti, dell'altro, «se avessi una vaga idea di cosa sta parlando». Il vecchio si girò, arrivò zoppicando a una serie di scaffali dietro le cassette di sicurezza, afferrò un plico sottile, marrone. Frome scosse il capo: non aspettava nessuna comunicazione ufficiale. Anzi, era sicuro che per un mese o due non ne avrebbe ricevute perché non aveva lasciato il suo indirizzo a nessuno; a nessuno salvo, ovviamente, Harriet Hedr, che forse un giorno sarebbe diventata sua moglie, quando lui si fosse sentito pronto. E Harriet non gli avrebbe mai mandato una lettera come quella: le sue erano piccole, ordinate, profumate. Quei vecchi avrebbero arricciato il naso, la prima volta che fiutavano il profumo di Harriet. «Siamo sicuri che lei si chiama Evan Frome?», chiese David Vogel. «EV-A-N F-R-O-M-E? E che è capitano?». «Le ho lasciato il mio nome ieri, le ho detto che aspettavo posta. Perché dovrebbe sembrarle strano che me ne arrivi?». «E chi ha detto che è strano, capitano?», replicò David Vogel. Tutti i grigi impiegati della posta si erano messi in fila dietro lo sportello, e lo guardavano. Non ce n'era uno che sorridesse. Parevano in attesa, come amabili corvi grigi. «Le dispiace dirmi quanti anni ha, prima che io le consegni questa lettera?». «Sono nato il giorno dell'armistizio, l'11 novembre del 1918!», ringhiò. «Il che significa che compio trent'anni oggi. È il mio compleanno, capufficio. Adesso posso avere quella lettera, o devo mostrarle i miei nei e le mie ferite?». I vecchi si scrutarono l'un l'altro, muovendo la testa in su e in giù. «Notevole!», disse uno degli impiegati.
«Non in Pennsylvania!», ribatté David Vogel. «Be', ecco qui la sua lettera, capitano. Forse adesso capirà perché ci siamo comportati un po' da idioti». Evan Frome scrollò le spalle, e la camicia cachi aderì ancora di più alle sue spalle larghe. Prese la lettera e per prima cosa lesse l'indirizzo: le lettere, scritte a mano, erano pallide, tremolanti, quasi filiformi. Capitano Evan Frome, Esercito degli Stati Uniti d'America, Fermo Posta, Casa di Cristo, Pennsylvania. Sapeva di non aver mai visto quella grafia, eppure qualcosa nel suo intimo vibrò, gli fece tremare un poco le mani, perché la grafia gli era familiare, familiare quanto la sua. Eppure, per quanto si sforzasse, non gli riusciva di ricordare dove o quando l'avesse già vista; e l'indirizzo del mittente, scritto sul retro, gli era completamente ignoto, anche se suonava così familiare! Joseph Toelle, Fermo Posta, Casa di Cristo, Pennsylvania. Per un attimo, fu come se una campana risuonasse dentro di lui. Poi tutto scomparve, elusivo: sapeva benissimo di non aver mai conosciuto un certo Joseph Toelle. «Deve esserci un errore», disse Evan Frome. E sapeva già, mentre parlava, che non c'era nessun errore. «Non conosco nessun Joseph Toelle». I vecchi si scambiarono di nuovo occhiate, e un sorriso corse tra loro cinque. «È improbabile che lei l'abbia conosciuto, capitano», disse David Vogel. «È morto nel '98. Era capufficio qui. Il primo capo del nostro ufficio, costruito nell'83!». Evan Frome ebbe un sospiro di sollievo. «Allora è chiaro che deve esserci un errore», commentò. «Questa lettera non può essere per me». «Lo pensavamo anche noi», disse il vecchio David, «quando la donna
delle pulizie l'ha tirata fuori da quegli scaffali là», li indicò col dito, «che risalgono a più di cinquant'anni fa. Non so come mai le è venuta voglia di pulire lì dietro, o perché ho insistito anch'io, a meno che...». «Be', a meno che cosa?», chiese Evan Frome. «A meno che non fosse per far saltare fuori la sua lettera!». «Piuttosto improbabile, no? Senta, voi cinque non mi sembrate tipi da tirare scherzi... No», e tutti e cinque, di fronte alla sua aria dubbiosa, parvero mortalmente feriti, «no, probabilmente non avete mai fatto uno scherzo in vita vostra...». A quel punto s'interruppe. Aveva continuato a fissare la lettera, e c'era un'annotazione sul retro, e d'improvviso s'accorse di cosa diceva quell'annotazione. Sulla destra dell'indirizzo, il mittente aveva scritto con quella sua grafia filiforme (ormai non trovava nessun altro aggettivo per definirla): «Tenere in ufficio fino all'11 novembre 1948. Verranno a ritirarla!». Frome rialzò il capo, fissò i cinque vecchietti. Si aspettava che scomparissero, che diventassero sconosciuti, giovani sconosciuti. Si aspettava che l'intero ufficio postale scomparisse e che sopra la sua testa apparisse il soffitto dell'ospedale della base militare; che Harriet Hedr, l'infermiera, si chinasse ansiosamente su di lui e gli dicesse: «Stia tranquillo, capitano. È tutto finito, sa. È stato un brutto colpo, ma lei deve resistere!». Ma i vecchietti non scomparivano, e l'ufficio postale era sempre solido, troppo caldo, robusto come la Pennsylvania. «Quando», chiese, «è morto Joseph Toelle?». Sperava che la sua voce non suonasse irreale come si sentiva irreale lui; che loro non scoprissero che i goccioloni di sudore sulla sua fronte non derivavano dall'eccessivo riscaldamento dell'ambiente. «Il 13 settembre 1898», disse il vecchio David Vogel. «Ho preso il suo posto io, e sono sempre rimasto qui». «Lei ha una bella età, non è vero?», disse il capitano Evan Frome. «Be', me ne vado. È chiaro che questa lettera non può essere per me. Una semplice coincidenza, ecco tutto. Vedo cosa c'è scritto e poi gliela restituisco. Posso aprirla qui, allo sportello?». «Perbacco, si accomodi», rispose David Vogel, «ma la lettera è sua. Joseph Toelle non ha mai fatto un errore in vita sua!». Dal tono della voce, sembrava che il vecchio Vogel odiasse ancora il capufficio morto da cinquant'anni. Frome pensò che era strano quanto tempo
possa durare l'odio. E cos'altro, si chiese sollevando la busta, potrebbe durare mezzo secolo? La sua mente scivolò di nuovo alla familiarità che Casa di Cristo gli ispirava, ma rifiutò di pensarci. Quei sogni incerti li aveva abbandonati all'ospedale, dove Harriet Hedr aspettava che lui la mandasse a chiamare. Di ritorno nella casa a due piani e cinque stanze che Pete Beltz gli aveva donato, Frome abbandonò la lettera sul tavolo, si lavò in fretta le mani, si studiò nello specchio grande del salotto. Aveva un bell'aspetto, decise; si vedeva che cominciava a scrollarsi di dosso tutti quei pesi. I suoi capelli erano biondo-rossi come sempre. I capelli, pensò, non si lasciano impressionare dalla morte. Forse era un pochino magro, ma all'ospedale Harriet non gli aveva permesso di mangiare troppo. Senza esercizio fisico si diventa grassi, e lei non avrebbe sposato un uomo grasso. Pesava una settantina di chili, aveva ossa grandi e una struttura massiccia, era alto un metro e ottanta: quasi perfettamente in regola. Si piegò sullo specchio per osservare meglio gli occhi. Gli parevano a posto. Strano, gli venne in mente, che Pete mi abbia regalato la casa. D'altra parte, se era l'ultimo della sua famiglia, cosa doveva farne? Pensò che la situazione aveva ancora qualcosa d'irreale, ma il fatto più bizzarro era la lettera. E poteva anche risolvere subito quel mistero. Peter Beltz, partendo per la guerra, aveva lasciato la casa fornita d'ogni comodità: la caldaia in cantina, il riscaldamento a vapore, un mucchio di attrezzi vari, e l'antico taglialettere con cui adesso stava aprendo la busta gialla (si accorgeva solo allora che il tempo l'aveva ingiallita). Il contenuto erano almeno una ventina di fogli di carta protocollo, scritti fitti. Niente saluti, ma le prime righe attrassero la sua attenzione: «La casa», diceva la lettera, «non è un regalo. È solo il pagamento di un antico debito, per cui smettila di meravigliarti. Non è possibile sapere il nome di chi ha pagato». Stupefacente, per quanto assurdo. Il paragrafo successivo, comunque, era tutta un'altra cosa. «Il nome di Harriet è più facile, perché ha rapporti molto più stretti. Di cognome fa Hedr, un cognome piuttosto strano. Dovresti farla venire subito. Ha un ruolo ben preciso nel tuo compito. Abbiamo contratto assieme questi debiti; i nostri errori sono comuni!». Evan Frome riprese la busta, la studiò di nuovo. Harriet Hedr aveva ven-
ticinque anni; Joseph Toelle era morto da cinquanta: non potevano avere nessun errore in comune. Pensò ad altro: Peter Beltz non aveva mai incontrato Harriet; Harriet non era mai stata a Casa di Cristo, Pennsylvania. Nessuno, all'ufficio postale, poteva conoscere il suo nome. Una sensazione insolita gli nacque nel coccige e risalì lentamente su per la spina dorsale. Era una sensazione di brivido, ma assolutamente senza paura. Il brivido scomparve quasi con riluttanza, per lasciare posto ad altre sensazioni. «Sono stati contratti debiti che devono essere pagati», proseguiva la lettera. «Ho atteso con la massima precisione che tutti i debiti attuali fossero pagati. A parte il fatto che devi a Harriet Hedr la vita che le dedicherai, tutti i tuoi debiti nei confronti degli uomini e di Dio al di fuori di Casa di Cristo sono ora pagati». Il brivido ricomparve, salì più in alto. Anche quello era vero, per quanto potesse sempre trattarsi di semplici coincidenze. Non doveva un centesimo a nessuno e non soffriva di tormenti religiosi. Era, come minimo, un buon cristiano. Non possedeva nulla, a parte quattordicimila dollari depositati a New York e che presto avrebbe trasferito alla banca di Casa di Cristo. Era molto strano, pensò, che quell'antica lettera parlasse della sua situazione finanziaria. Comunque la cosa avrebbe avuto scarsa importanza, se non fosse stato citato il nome di Harriet Hedr. Continuò a leggere. «Mi restano sessantasette giorni da vivere», diceva la grafia filiforme di Joseph Toelle, e a Evan Frome pareva quasi di udire il suo spiccato accento teutonico. «Non è un periodo sufficiente per saldare i miei obblighi; ma non me ne preoccupo troppo visto che non posso farci niente, e quindi non sono tenuto a cercare di rimediare. Comunque, in questo mondo o nel mondo che segue un uomo deve pagare i propri debiti. E così questi debiti sono tuoi!». «E a questo come ci sei arrivato, se posso permettermi di chiederlo?», disse Evan Frome ad alta voce. I suoi occhi tornarono sulla frase «sessantasette giorni da vivere», e si chiese: Chissà se, in quel momento, sapeva quanto resta da vivere a me in questo momento? Se lo sapeva, è chiaro che non importa se si tratta di mesi o di anni, basta che io li viva con Harriet Hedr! «Segue la lista completa», proseguiva la lettera. «Alcuni dei miei creditori saranno morti, ma tutti avranno eredi. Per alcuni di loro, il rapporto fra il morto e il vivente sarà molto simile a quello che esiste fra te e me!».
«Sono certo», disse Frome, inchinandosi ironicamente alla stanza vuota, «che prima o poi mi spiegherai in cosa consiste esattamente questo rapporto, visto che devo accollarmi i tuoi debiti». Poi, leggendo più avanti, scoprì una risposta parziale alla sua domanda: «Che cos'è questo rapporto lo scoprirai a tempo debito!». «Non credo», disse Evan Frome, «che mi piaccia troppo il tuo atteggiamento paternalista». Seguiva una lista di sette nomi, accanto a ognuno dei quali era segnata una cifra. Frome, automaticamente, raccolse una matita e segnò le cifre su un pezzo di carta trovato sulla scrivania. Il solo vederlo gli fece arricciare le labbra: era un foglio di carta intestata del Waldorf Astoria Hotel. Pete aveva l'abitudine di tenere come ricordo la carta intestata di tutti gli hotel in cui si fermava. Non gli aveva mai parlato del Waldorf Astoria, e Frome si chiese quale pagina della sua vita rappresentasse quel foglio. Fece la somma. «Tremilacentoundici dollari», disse. «Una cifra insignificante. Anche Joseph sapeva far di conto, visto che concorda col mio risultato». Ma la frase successiva lo gelò. «Gli interessi sono molto bassi, ma a causa del tempo trascorso, il totale sarà all'incirca di quattordicimila dollari». Mise da parte la lettera, mentre il solito brivido saliva un po' più in su sulla sua spina dorsale. Quella faccenda stava uscendo dai limiti della coincidenza, stava diventando qualcosa di più d'un delirio verbale. A voler essere onesti, era del tutto impossibile che nell'estate del 1898 Joseph Toelle riuscisse a vedere con tale accuratezza, con tale precisione il conto in banca di Evan Frome nel 1948. «Se nomina la mia banca», decise Frome, «mando subito un telegramma a Harriet e le chiedo di venire qui col primo aereo. A dire il vero, le telegraferò in ogni caso!». Però non si sentiva spaventato. Quei fatti erano molto insoliti, ma dovevano pur nascondere una spiegazione. Era certo che ci avrebbe riso sopra, appena fosse riuscito a trovarla. Se riuscirò ancora a ridere dopo che questi debiti mi avranno distrutto!, si disse, perché qualcosa, dentro, gli sussurrava che quei debiti erano suoi, e che li avrebbe pagati fino all'ultimo centesimo. «Non è necessario», continuava la lettera, «che tu visiti la mia tomba, ma se dovesse succedere sarebbe un'esperienza insolita, perché significhe-
rebbe che tu sai!». «Cosa dovrei sapere, Joseph?», esclamò Evan Frome. «Per ora so meno di niente!». «Anna e io», proseguiva la lettera, «riposiamo fianco a fianco. Non mi sono preoccupato di provvedere che la tomba venga preservata per l'eternità perché è una cosa che non ha senso, come tu sai; ma l'egoismo mi ha suggerito di far mettere una lapide in marmo, al posto della pietra che si consuma tanto in fretta, per cui tu potrai vedere, e capire, se l'ispirazione ti muoverà». Evan Frome continuò a leggere per due ore buone, senza mai alzare gli occhi dalla grafia minuta, filiforme, di Joseph Toelle, che aveva quasi ottant'anni all'epoca della lettera. Frome si chiedeva perché mai non ci fossero saluti. Intuiva vagamente che la loro mancanza era già una spiegazione, ma non riusciva a concretizzarne il significato. E aveva la sensazione, ogni volta che rideva o sorrideva, che Joseph Toelle ridesse o sorridesse con lui, oppure di lui. A un certo punto della lettera, Joseph Toelle si sentiva obbligato a fornire a Frome una stupefacente prova. Parlava dell'armistizio del 1918, verificatosi qualche mese dopo la morte del padre di Frome nelle Fiandre. Toelle narrava entrambi i fatti, e preannunciava la nascita di Frome in quella storica data. Inoltre diceva che in quella ricorrenza l'ufficio postale di Casa di Cristo restava aperto, ogni anno, fino alle venti e trenta di sera. Tra un paragrafo e l'altro, venivano descritte con una certa precisione le esperienze di Frome nella seconda guerra mondiale. Frome, però, si accorse che non c'era niente che almeno due persone non sapessero: il defunto Peter Beltz e la sua adorata Harriet Hedr. Per una circostanza che Evan Frome reputava sfortunata, i due non si erano mai conosciuti. Quando ebbe finito di leggere lo strano documento, Frome provò l'impulso quasi irresistibile di andare a visitare il cimitero dove Toelle era sepolto a fianco di «Anna», senz'altro sua moglie. Non riusciva assolutamente a capire perché la donna venisse menzionata in quella lettera dal passato, se non per permettergli di identificare la tomba. No, non era un motivo sufficiente. Toelle doveva aver avuto le sue buone ragioni, che si sarebbero chiarite col procedere degli eventi. Frome ripose la lettera (o forse si trattava di una specie di diario, o forse non era né l'una né l'altra cosa) in una cassaforte murale di cui Peter Beltz non gli aveva mai parlato, ma che aveva trovato aperta all'arrivo in casa.
S'infilò la giacchetta militare sopra la camicia cachi. Uscendo di casa, si chiese se avrebbe avuto il coraggio di comperarsi qualche vestito nuovo, adesso che tutto il suo capitale non gli apparteneva più. E chi avrebbe pagato la cerimonia nuziale, all'arrivo di Harriet? Gli tornò in mente che doveva telegrafarle. Rientrò in casa, telefonò il telegramma, s'avviò verso l'autostrada Lincoln, svoltò a sinistra in cima alla collina che nascondeva la sua casa al villaggio di Casa di Cristo, guardò da tutte e due le parti per vedere se rischiava l'osso del collo a traversare la strada, e la traversò di corsa. Dal negozio dove aveva fatto provviste e dove s'era accordato col proprietario perché gli trovasse una domestica partiva una strada che andava a est, girava attorno a una chiesa mennonita e si perdeva tra due filari di alti alberi. Gli sembrava di conoscerli, quegli alberi; aveva il nome sulla punta della lingua. Saltò sul marciapiede e seguì la strada fino a incrociarne un'altra, decisamente mal tenuta, che portava a una ripida collina per poi svanire oltre un altro filare di quegli alberi. Infilò questa seconda strada, superò un cancello che nessuno si era ricordato di chiudere. I sassi scivolavano sotto le sue scarpe militari. Sulla destra, un grosso cane legato alla catena gli abbaiò contro. I cani abbaiavano di rado a Evan Frome, e il fatto che quello abbaiasse gli dava un po' fastidio. Si chiese perché mai: non c'è nulla di strano in un cane che abbaia. Quello, però, tranquillamente seduto sulle due zampe posteriori, prima guardò Frome, poi alzò il naso verso il cielo come se fosse notte (in realtà mancava poco a mezzogiorno) e lui stesse abbaiando alla luna. Per di più, i suoni che emetteva erano d'una tristezza incredibile. Frome s'arrestò davanti al cortile e schioccò le dita all'animale. «Qua, piccolo, facciamo amicizia!». Il cane abbaiò di nuovo. Una donna uscì di fretta da una porta a vetri, e Frome sobbalzò perché in lei c'era qualcosa di vagamente familiare, e lui cominciava a essere nauseato da tutte le cose e le persone familiari di Casa di Cristo. Ma fece qualche passo in avanti e rivolse la parola alla donna, immobile poco oltre la soglia, a scrutarlo coi pugni sui fianchi. «Abbaia sempre così, il suo cane?», le chiese. «No, capitano Frome», rispose la donna, di cui lui ignorava il nome. «Abbaia solo quando passa un corteo funebre. È per questo che sono uscita a vedere. Non sapevo che ci fossero funerali, a meno che», e gli sorrise con aria amichevole, «lei non sia un funerale!».
«No, no, certo che no. Almeno, penso di non esserlo. Però se il suo cane potesse parlare, magari...». Ma lei s'era già voltata ed era tornata in casa. La porta a vetri sbatté alle sue spalle. Evan Frome, stranamente preoccupato, timoroso che le sensazioni e gli eventi improbabili di quella giornata derivassero dallo shock per cui era rimasto tanto tempo in ospedale, s'incamminò con grande cautela lungo la strada mal tenuta. Il cimitero era molto ampio. Una parte era decisamente vecchia e stipata di tombe. Nella parte più recente spuntavano solo qua e là pietre tombali, monumenti funebri e lapidi. L'area di sepoltura si trovava su una collinetta tondeggiante, tutta coperta da un'erba grigio-verde alta una trentina di centimetri. Il vento giocava con l'erba, la piegava, la rialzava, per cui il colore cambiava dal grigio al verde, dal verde al grigio: pareva che le lapidi del cimitero spuntassero dalle acque di un laghetto montano. Frome aveva visto molti cimiteri, ma nessuno che sembrasse accogliente, addirittura amichevole, come questo. Girò a sinistra nella zona più vecchia. Oltrepassò un enorme monumento di cui non si preoccupò di leggere la lapide, dopo aver visto che accennava a un cimitero ancora più antico, da qualche altra parte. Seguì un sentiero molto battuto, che lo portò al centro delle tombe. Da entrambi i lati l'erba cresceva foltissima. Alcune delle lapidi in marmo o pietra (queste ultime estremamente corrose, quasi illeggibili) erano appena visibili al di sopra del lago in continua agitazione. Voltò a destra. Dopo una ventina di passi voltò a sinistra. Poi girò di nuovo a destra e s'arrestò davanti a un semplice monumento di marmo, il primo che aveva notato entrando. Lesse i nomi e le date: erano i nomi di Joseph e Anna Toelle, con le rispettive date di nascita e di morte. Anna era proprio la moglie di Joseph. Era morta nel 1890, otto anni prima del marito. Sino a quel momento, quello era stato uno dei giorni Più strani che Evan Frome avesse mai vissuto; anche più strano di quando, all'ospedale, gli era così difficile distinguere tra i sogni del giorno e gli incubi della notte. E certo non era meno strano trovarsi lì, fissare il monumento funebre di Joseph Toelle e di sua moglie, capire che sembrava essere accaduto un fatto sorprendente: Joseph Toelle aveva scritto una lettera a Evan Frome, quasi vent'anni prima della nascita e del battesimo di Frome, che doveva essergli consegnata il giorno del suo trentesimo compleanno.
Gli venne in mente la frase di uno degli impiegati delle poste: «In Pennsylvania potrebbe succedere!». Scosse il capo con rabbia. Non credeva nell'hexerei o in cose del genere. Era ovvio che gli stavano facendo uno scherzo. Però non riusciva a immaginare che ne fossero responsabili i cinque vecchietti dell'ufficio postale, e nemmeno che c'entrasse Peter Beltz. Se fosse stato Peter a mettere in moto la cosa, avrebbe dovuto prevedere la propria morte; il che sarebbe stato altrettanto strano di quanto gli andava accadendo. No, c'era una spiegazione molto più semplice. Poteva scommettere di aver avuto ai suoi ordini qualche soldato di Casa di Cristo, che magari in quel momento lo stava osservando e che aveva organizzato tutto come una specie di bizzarro scherzo di benvenuto. Siccome i suoi amici sapevano benissimo cosa aveva passato all'ospedale, era improbabile che un amico desse il via a quella catena d'avvenimenti. Eppure, con la gente dell'esercito non si sapeva mai. Alcuni suoi colleghi avevano un sense of humor del tutto speciale. «Stanno usando», disse dolcemente a Joseph e Anna, «i vostri nomi per niente. Ma gliela farò vedere io, di chiunque si tratti». Si girò, s'allontanò d'una dozzina di passi, s'arrestò, immobile come la pietra. Era tornato il brivido di poco prima, e adesso era molto più forte. Era assolutamente certo di non aver chiesto, e di non essersi sentito indicare, l'ubicazione del cimitero o delle tombe di Joseph e Anna Toelle! Nacque in lui il desiderio, forte come il brivido che gli correva nella spina dorsale, di oltrepassare la casa di quella donna senza risvegliare l'attenzione del cane. Non ce la fece: il cane abbaiò, la catena si tese. L'ordine secondo cui Joseph Toelle aveva disposto la lista dei creditori pareva buono quanto un altro. Il primo era Adolphe Bruner, e il debito era di quattrocento dollari. Evan Frome non traversò l'autostrada per andare a casa di Adolphe Bruner. Un sentiero che partiva dietro la casa di Beltz superava la siepe di ligustro, traversava il cortile dei Dahling e sbucava dai Bruner. Evan Frome s'incamminò, deciso, sul sentiero. Un segugio femmina, nel cortile d'una casa, alzò il muso al suo passaggio. «Se abbai, sorellina», disse Frome, «te la faccio vedere io». La cagnetta si limitò a battere la coda per terra, e non abbaiò. Frome superò l'apertura nella siepe dei Dahling, infilò una salita che arrivava al portone d'un garage, superò una lunga sfilza di gradini, che portavano a una
delle più vecchie abitazioni di Casa di Cristo. Afferrò il battacchio d'ottone e bussò. Gli venne ad aprire una giovane donna. «Oh, capitano Frome!», gli disse. Era delizioso vedere come faceva in fretta la gente del villaggio a imparare i nomi dei nuovi venuti; e anche imbarazzante, perché lui non conosceva quello di lei. «La signora Bruner?», chiese. «No, la signora Bruner è la mia prozia. Non sta molto bene, ma è sempre felice di ricevere visite. Dovrà parlare forte e molto chiaramente, è un po' sorda. Ha novantasette anni». Frome entrò in un lindo soggiorno, s'accomodò sull'antica, solida poltrona che la donna gli indicava. Scacciò la sensazione di familiarità. Dopo tutto, i soggiorni vecchio stile erano tutti uguali: quello, ad esempio, gli ricordava moltissimo il soggiorno della sua infanzia. La donna corse di sopra. Frome osservò compiaciuto le sue caviglie che scomparivano su per le scale: non era ancora tanto vecchio da non saper apprezzare un paio di gambe femminili ben tornite. Si sentì un poco colpevole, perché ormai Harriet doveva essere in volo per arrivare da lui. Sulla scala, davanti alla giovane, apparve una vecchia signora di nobilissimo aspetto, diritta e magrissima, con un ciuffo di capelli bianchi come la neve perfettamente acconciati, e una collana che doveva costare qualche migliaio di dollari. Le sue caviglie, notò Frome, erano perfette quanto quelle della pronipote. Non portava occhiali, e i suoi occhi neri erano acuti come quelli d'un falco. Quando arrivò al punto da cui poteva vedere Evan Frome, si fermò, si portò la mano sottile alla gola. L'anziana signora spalancò la bocca, ma non disse nulla prima di essergli arrivata davanti e di avergli stretto la mano. «Sono il capitano Evan Frome, signora Bruner», si presentò lui. «Sorprendente!», rispose la signora. «Per un attimo ho creduto... Ma è impossibile, naturalmente. Sto proprio invecchiando». «Niente è impossibile in Pennsylvania, signora Bruner», disse Evan Frome, «stando a David Vogel, dell'ufficio postale di Casa di Cristo. Penso di averle ricordato qualcuno. Mi dica, per favore. È una cosa estremamente importante, per me». Lei rise di cuore. «Le assicuro, capitano», gli rispose, accomodandosi su una poltrona vicinissima alla sua, «che ciò che mi è venuto in mente quando l'ho vista non può essere importante per lei. Ma mi dica, perché è venuto a trovare una vecchia come me?».
Non sapeva da che parte cominciare. Però sapeva che neanche all'anziana signora avrebbe parlato della lettera di Joseph Toelle. «Sono qui per un vecchio debito, signora Bruner», esordì. «Un debito nei confronti di Adolphe Bruner...». «Mio fratello», lo interruppe lei, «è morto da quarantasette anni! Dubito proprio che lei gli dovesse qualcosa. A dire il vero era attento, molto attento a badare che nessuno gli dovesse soldi!». C'era una punta d'amarezza nella sua voce? Ma era troppo facile immaginare chissà cosa. «Non ci sono eccezioni?», insistette Evan Frome. «Joseph Toelle non gli doveva qualcosa come quattrocento dollari?». La giovane donna canticchiava in cucina, quasi per rassicurarli che non stava ascoltando. La signora Bruner si alzò in tutta la sua statura, con tale rapidità che Frome ebbe l'illusione di trovarsi di fronte una ragazzina di sedici o diciassette anni, anziché una donna quasi centenaria. «E se fosse così, capitano?», gli chiese. «E allora? Cosa potrebbe mai interessare a lei?». Frome tirò un colpo alla cieca. «Forse m'interessa per un motivo simile al motivo per cui mi ha scambiato con qualcun altro, appena mi ha visto... Con Joseph Toelle, ad esempio!». Il colpo andò a vuoto. La risata di lei fu squillante e serena. «Ma che idiozia», disse la signora Bruner. «Joseph Toelle è morto da cinquant'anni. I suoi debiti non possono interessare...». «Sono venuto a pagarli!», scattò Evan Frome, sorpreso di sentirselo dire. «Non sono venuto per discutere con lei. Sono qui per pagare quei quattrocento dollari! Se non le spiego il perché, almeno avrà qualcosa su cui riflettere». «Giovanotto», disse la signora Bruner, «ammesso che lei abbia qualche ragionevole motivo per dover pagare quel debito, e ammesso che il debito sia esistito, si è estinto da tempo. I debiti scompaiono dopo sette anni». «No», ribatté Frome. «Forse lei la pensa così, ma non è così, a dispetto della legge. Questo debito non è estinto». La vecchia signora era sempre in piedi. «Non capisco questa storia, capitano Frome», disse, «ma non mi piace. Mi fa sentire come se fossi già sull'orlo della bara, e a me piacerebbe vivere altri novantasette anni. Se ne vada, per favore. Controllerò tra le carte di mio fratello. Se esiste qualche debito... Ma no, è impossibile».
«Mi telefona, se trova qualcosa?», chiese Frome. «Con gli interessi che si sono accumulati, quei quattrocento dollari farebbero una cifra piuttosto interessante». Uscì, girò a sinistra su un'ombreggiata strada di macadam. Si chiedeva se tre o quattro dei suoi vecchi amici, ancora in uniforme come lui, sarebbero saltati fuori da dietro un albero o dalla siepe di ligustro, mettendosi a ridere come matti alla sua credulità. Eppure David Vogel, l'anziano capufficio, avrebbe dovuto far parte del complotto, e proprio non gli riusciva di vedere in quel ruolo il gentiluomo dai capelli grigi. Ripensò alla mancanza di saluti che spiccava nella lettera di Joseph Toelle. Quella mancanza lo turbava ancora. Lasciava spazio alla possibilità che qualche bello spirito avesse trovato l'antico manoscritto, effettivamente vergato da Joseph Toelle, e avesse falsificato la busta. No: la lettera parlava chiaramente di lui, di Harriet Hedr, di alcuni avvenimenti della sua avventura bellica. I suoi amici conoscevano quei fatti, ma non le esperienze e la morte di suo padre nella prima guerra mondiale. Voltò a destra e salì altri scalini, ancora più antichi di quelli davanti a casa Bruner. Ci scommetto, si disse, che tutte queste vecchie case svaniscono appena io esco! Perché no? Siamo in Pennsylvania! Questa volta trovò un vecchio, Manfred Ritcher, che sembrava più anziano della signora Ilsa Bruner, anche se aveva solo ottant'anni. Era cieco. Per Frome fu un colpo, dopo che la porta si fu spalancata, incontrare quegli occhi bianchissimi che chiaramente non lo vedevano. «Sì?». La voce era tremolante. Il vecchio era quasi un metro e novanta: fieramente eretto, puntava lo sguardo al di sopra della testa di Frome. «Chi è?». «Sono il capitano Evan Frome, signore», rispose lui. «Vorrei vedere il signor Manfred Ritcher». «Ritcher sono io, giovanotto. La sua voce mi è familiare, anche se sono sicuro che non ci siamo mai conosciuti. Entri, entri. A un vecchio fanno sempre piacere le visite». «Credevo che la gente della Pennsylvania Tedesca non amasse troppo gli estranei», disse Frome. «Ha ragione, giovanotto. Anch'io ero fatto così. Ma quando si diventa vecchi, la diffidenza non serve più a niente». Sedettero. A Frome sembrava che il vecchio vivesse da solo, e si chiese
come facesse a tenere tutto così pulito, in ordine. Poi vide un volto spettrale affacciarsi alla porta che dava sulla cucina, e pensò di nuovo che quelle case e quella gente dovevano svanire nella nebbia appena lui se ne andava. «Mi spieghi, signore, il suono familiare della mia voce. Lei ha detto che le pareva familiare». «Sì, sì, l'ho detto, ma naturalmente è fuori discussione. Non ne parliamo più». Nella voce del vecchio c'era senz'altro rabbia, e un pizzico di rancore. Frome studiò gli occhi ciechi, le guance rosse come mele, i capelli bianchi e soffici. «Quanto le doveva Joseph Toelle quando è morto?», gli chiese a bruciapelo. «Lei stava pensando a lui, non è vero? E si è arrabbiato». Il vecchio cominciò a tremare. Aprì la bocca, e dagli angoli gli uscirono fili di bava. Quel tremito spaventò Evan Frome: chissà che effetto poteva avere lo shock sul vecchio. Frome corse alla porta della cucina, la spalancò. «Temo di aver sconvolto il signor Ritcher», disse alla vecchia che trovò lì. «È meglio che lei venga a vedere». «Martha», disse Ritcher, «guarda questo giovanotto e dimmi... Chi è? Mi ha appena chiesto di quel delinquente di Toelle...». Il vecchio non riuscì a terminare la frase. D'improvviso Evan Frome provò una repulsione irragionevole e immotivata per Manfred Ritcher. Anche quello non aveva senso. Sentiva che per qualche motivo Toelle e Ritcher dovevano essere stati accesi nemici, e che chissà come lui aveva assunto la parte, oltre che i debiti, di Joseph Toelle. Era una sensazione stranissima. Si costrinse ad aiutare la donna a portare il vecchio di sopra e metterlo a letto. Ritcher continuava a tremare. Tornato di sotto, Frome spiegò la sua visita come meglio poteva. «Gli uomini d'affari non discutono i loro affari con degli estranei», lo informò la donna. «Ma chiederò in giro, frugherò tra le carte di Manfred. Se c'è qualcosa... Be', non capisco perché dovrei parlargliene. Certo che se lei ha qualche buona ragione per voler pagare quel debito, i soldi serviranno almeno a seppellire Manfred». «Duecentocinquanta dollari con un interesse composto dell'otto per cento per più di cinquant'anni», disse Frome. «Sì, il totale basta per seppellire due o tre persone». Desiderò non aver detto quella frase, che lasciò la vecchia stupefatta. Desiderò non aver detto un sacco di cose. Desiderò non essere mai andato
a Casa di Cristo. Ma no, si consolò tornando sulla strada di macadam, non desiderava niente del genere. Quella strana serie di avvenimenti improbabili cominciava a interessarlo in modo straordinario. Anche se tutto si fosse rivelato una beffa, era pur sempre qualcosa di cui parlare davanti al camino in una fredda sera d'inverno. Il prossimo era Ottokar Gettman. Evan Frome svoltò in un sentiero che portava a un campo d'aspetto totalmente incolto. In quanto al sentiero, pareva che anziché scavare il suolo l'avessero bruciato. Di nuovo la solita sensazione di stranezza, che gli piombò addosso come un mantello quando, sollevando gli occhi sulla collina che stava superando, vide le fondamenta di quella che un tempo doveva essere stata una grande fattoria. Probabilmente era esistito anche un laghetto. Le fondamenta erano annerite dal fumo. Frome si chiese quanti esseri umani e quanti animali fossero morti nell'incendio che aveva distrutto l'edificio. Un uomo con un fucile da caccia fra le braccia strava frugando nelle macerie. Frome lo aveva quasi raggiunto quando l'uomo lo sentì e si girò, il fucile pronto a sparare. «Ehi, ci vada piano!», disse Frome. «Non sono mica un fagiano. Sono il capitano, anzi ex capitano, Evan Frome. Cerco Ottokar Gettman». «Lei è in ritardo di dieci anni», gli rispose l'altro. «Se fosse venuto subito dopo l'incendio poteva darsi da fare con gli altri vicini a cercare le sue ossa. Forse ci proverò ancora io. Sono Georg Gettman, il suo unico parente vivo. Ho ereditato questo posto dopo l'incendio che ha ucciso il vecchio Ottokar. Era già venuto a cercare il vecchio?». «No, perché?». «Be', mi sembra strano, ecco tutto. Passano dieci anni e nessuno chiede di mio zio. Poi io vengo qui per vedere se riesco a buttare giù qualche fagiano, e magari a decidere cosa fare di questa terra, e salta fuori lei. Mi sembra proprio strano che dobbiamo incontrarci in questo particolare giorno. Cosa voleva da Ottokar?». Frome scelse le parole con cautela. Parlò di Joseph Toelle senza spiegare il suo rapporto col funzionario delle poste morto da tanto tempo (come poteva spiegarlo?), e raccontò di un antico debito. Il giovane scosse il capo. «Le carte di Ottokar sono tutte bruciate», disse. «Sarei felice d'incassare un vecchio debito, estinto o no, ma onestamente non so. Comunque il denaro mi servirebbe. Sentirò il mio avvocato e le farò sapere. Dove abita?». «Ho ereditato la casa di Peter Beltz, vicino all'autostrada Lincoln». «Sì, so dov'è. Pete e io eravamo molto amici da bambini, e a volte veni-
vo a trovare il vecchio Ottokar. Adesso vivo a New York. Il mio nome è sull'elenco telefonico». Evan Frome ridiscese il sentiero. Tre sbagli completi per Joseph Toelle! Decise che se adesso, dopo aver negato che i debiti esistevano, i creditori di Joseph si facevano vivi con delle pretese, lui non avrebbe più creduto al vecchio Joseph e non avrebbe pagato. «Questi debiti sono tuoi!»: come no! In vita sua non aveva mai riscontrato debiti così sfuggenti, e non aveva mai sentito parlare di debitori che andassero in giro a chiedere il permesso di pagare. Tornò a casa e rilesse con tutta l'attenzione possibile la lettera di Toelle, per vedere se gli era sfuggito qualcosa. Adesso gli sembrava che le profezie sulle sue esperienze nella seconda guerra mondiale fossero più vaghe di quanto avesse creduto. Quella faccenda si sarebbe smontata, era chiaro, e lui non avrebbe vissuto ciò che s'era annunciato come la più insolita esperienza dei suoi giorni. Decise di aspettare, prima di andare a far visita agli altri quattro «creditori» di Joseph Toelle. Era arrivata la cameriera: la miglior cuoca che Evan Frome avesse mai incontrato. Era sui sessanta, e probabilmente non era bella nemmeno da giovane, però quello che lei non sapeva delle ricette della Pennsylvania non valeva la pena saperlo. La castana, efficiente, atletica Harriet Hedr, che arrivò due giorni dopo, s'innamorò immediatamente di Hedvig. «È perfetta, Evan», disse Harriet. «La terremo finché morte non ci separi. Cosa facciamo per prima cosa, in questo meraviglioso villaggio? Sai, Evan, appena sono arrivata a Lancaster mi è sembrato di tornare a casa dopo una lunga assenza!». «No», Harriet!», disse lui. «No! Qualunque altra cosa, ma non questo! Tu non sei mai stata qui!». «No». Lo guardò come l'aveva guardato tante volte in ospedale, quando lo shock stava recedendo: con aria interrogativa. «Cosa facciamo per prima cosa, tesoro?». «Ci sposiamo appena possibile. La gente di qui non vede di buon occhio le coppie che vivono nel peccato!». «Nemmeno io», puntualizzò lei. L'espressione interrogativa era ancora presente nei suoi occhi, ma Frome non le diede spiegazioni che dopo il matrimonio. E siccome nessuno dei due era mai stato lì, la casa di Beltz divenne automaticamente la casa della loro luna di miele. Non c'era motivo di allontanarsi. D'altra parte, tutti e due avevano già viaggiato troppo, e a-
vevano una gran voglia di fermarsi, di riposare. Frome raccontò a Harriet della lettera. Lei lo ascoltò con calma. Poi prese la lettera e la lesse attentamente. Frome non accennò ad alcuni particolari strani, come il fatto di essere andato al cimitero senza sapere dove si trovasse, di essersi recato dai primi tre debitori di Toelle come se in vita sua non avesse fatto altro. No, il troppo era troppo. I due sposini controllarono assieme gli altri quattro creditori, e si trovarono in un vicolo cieco. Se Joseph Toelle aveva mai dovuto qualcosa anche a uno solo dei sette, non ne restava la minima traccia. Persino Manfred Ritcher, che s'era imbestialito come un bufalo a sentire il nome di Joseph Toelle, non aveva niente da reclamare. «La nostra storia paurosa si è rovinata, tesoro», disse Frome a Harriet. «Probabilmente l'ho fatta troppo grossa. Sai, avevo persino escogitato una teoria per spiegare come mai Toelle non ha messo nessun saluto nella lettera». «E quale sarebbe il motivo?». «Era un promemoria», rispose Frome, sorridendo incerto. «Ne ho scritti un sacco anch'io, so benissimo che non dimenticherei i dettagli tecnici. Ma non ho mai indirizzato saluti a me stesso!». Harriet boccheggiò. «Vuoi dire che credi che Joseph Toelle, quando ti ha scritto, pensava di scrivere a se stesso, per cui ha automaticamente evitato i saluti?». «No, no, non ci credo, ma non sarebbe stata una storia interessante? Ho pensato un sacco di cose, ho persino immaginato di essere letteralmente rinato. Ho visto i morti che escono dai cimiteri, che ricominciano a vivere come bambini...». «Non so», disse Harriet, pensierosa, «se a tutti farebbe piacere sapere che una cosa del genere è vera. C'è un sacco di gente che dice che non vorrebbe ripetere l'esperienza per tutto l'oro del mondo». «Ma si aggrapperebbero tutti alla minima possibilità, se per miracolo gli venisse offerta. Comunque, non abbiamo prove. La faccenda è finita nel nulla. Nemmeno uno dei creditori di Joseph ha preteso uno solo dei dollari che ho ancora in una banca di New York, grazie al cielo!». Bussarono forte, a lungo, alla porta d'ingresso. Frome aveva scoperto che, a Casa di Cristo, i visitatori si accertavano sempre che chi era in casa potesse sentire che bussavano. Le porte dovevano essere belle robuste, per
sopportare quel rituale. Andò ad aprire. Un uomo sui cinquant'anni, magro, rinsecchito, che non doveva pesare più d'una cinquantina di chili, s'inchinò con aria di scusa. Frome notò che reggeva una borsa. «In considerazione del suo matrimonio», disse il magrolino, «ho atteso che lei avesse più o meno il tempo di sistemarsi. Sono Christopher Berg, di Lancaster. Sono un avvocato. Sono qui», disse con aria di scusa, poi s'inchinò di nuovo quando Harriet lo fece entrare, gli prese il cappello e lo guidò a una poltrona, «per l'ipoteca che grava su questa casa». Harriet e suo marito si scambiarono un'occhiata. «Un'ipoteca?», ripeté stupidamente Frome. «Peter Beltz mi ha lasciato questa casa. Mi ha detto che tutto era perfettamente a posto. Almeno, penso che me l'abbia detto». «C'è stato un errore», rispose Berg. «Spiacevolissimo, ovviamente. Immagino che Peter Beltz non fosse al corrente dell'ipoteca. È abbastanza incredibile che nessuno si sia accorto di questo ostacolo legale, ma così è, a quanto pare». «Per dire pane al pane», fece Frome, «l'ipoteca ammonta a...». «Quattordicimila dollari!», esclamò Harriet. «Oh, allora lo sapete già!», disse Berg, sollevato. «Così è tutto molto più facile, naturalmente! Comunque è difficile», aggiunse, nervoso, «capire da dove devo cominciare. Ed è anche imbarazzante. Inoltre, come avvocato debbo avvisarvi che potreste intentare una causa con buone probabilità di successo». «Perché non cominciamo», suggerì Evan Frome, «con Joseph Toelle, il defunto Joseph Toelle?». «Certo», disse Berg. «Sì, certo. Perché se lei non fosse andato in giro a chiedere di lui e non avesse messo in moto tanti interessi, probabilmente io ora non sarei qui. La cosa coinvolge direttamente sette persone, oltre a Joseph Toelle e al nonno di Peter Beltz, da cui lei ha ricevuto la casa. Di queste sette persone, solo due sono vive. Ma ci sono gli eredi». «Mi permetta», intervenne Frome, «di tornare a suggerirle di cominciare dall'inizio». «Be', la storia comincia con Peter Beltz, il nonno del giovane Peter Beltz che le ha lasciato la casa. So che gliel'ha lasciata perché possediamo le sue ultime volontà. Il nonno di Beltz e Joseph Toelle furono amici intimi per tutta la vita. Il nonno di Beltz aiutò Toelle a trovare lavoro all'ufficio po-
stale di Casa di Cristo». «Tutto questo succedeva un po' prima che lei comparisse, avvocato Berg?», chiese Frome. «Io rappresento la terza generazione degli avvocati Berg di Lancaster. Mio nonno era coetaneo di Toelle e Beltz. Ho ritrovato gli incartamenti fra quelli che appartenevano a lui. Ma proseguiamo. A Joseph Toelle venne l'idea, né la prima né l'ultima, mi dicono, di un'invenzione rivoluzionaria. Il suo magro salario di impiegato delle poste non gli permetteva certo di realizzarla. Ma era un tipo persuasivo...». «Per cui ha spinto alcuni amici a investire denaro», disse Frome. «Sembra che lei abbia assistito di persona ai fatti!», esclamò Berg. «Anch'io ho una certa inclinazione per le invenzioni», rispose Frome, sorridendo a Harriet. «Ma continui. Anzi, credo che fino a un certo punto potrei continuare da solo. La banca non voleva prestare a Toelle tremilacentoundici dollari senza le necessarie garanzie. Per cui se li è fatti dare da amici come Bruner, Gettman, Ritcher, e da altri quattro. Però non riesco a capire cosa c'entri il nonno di Beltz... A meno che non abbia emesso cambiali per coprire i prestiti che ammontavano alla cifra che ho appena detto». «È esatto!», esclamò Berg, sollevando le sopracciglia. «La cifra è esattamente quella. Joseph Toelle persuase quelle sette persone a investire denaro nella sua invenzione. Beltz emise le cambiali, che però la banca non voleva accettare perché l'unico possedimento di Beltz era la casa in cui ci troviamo ora, costruita da lui stesso! La casa era già ipotecata, e Beltz si stava tirando il collo per pagare l'ipoteca. Ad ogni modo riuscì a pagare gli interessi di tutte le cambiali e a eliminare l'ipoteca. Poi...». «Poi», intervenne Frome, «ritirò le cambiali e lasciò a quelle sette persone un'ipoteca comune sulla casa! Ma com'è possibile che Peter Beltz, suo nipote, ne fosse all'oscuro?». «È proprio qui che forse lei può riuscire a evitare l'ipoteca», rispose Berg, «però potrebbe anche perdere la casa, che, le assicuro, oggi vale molto di più di quattordicimila dollari, forse il doppio, forse ancora di più. Penso che a un certo punto, dopo la morte di Joseph Toelle, i sette creditori abbiano agito di comune accordo, dichiarando una moratoria sul pagamento degli interessi dell'ipoteca. Sapevano tutti che Joseph Toelle non aveva lasciato niente da cui si potessero ricavare soldi...». «Falso!», disse Frome. «Ha lasciato una lettera. A quanto mi risulta, i Toelle pagano i loro debiti».
«Una lettera?», ripeté Berg. «Ignoro l'esistenza di una lettera». Evan Frome sorrise a Harriet, che gli sorrise di rimando. Si divertivano immensamente. Era meraviglioso essere innamorati, e sapere qualcosa che nessun altro poteva sapere. Frome si chiese cosa avrebbe pensato, fatto e detto Berg se gli avesse mostrato la lettera di Joseph Toelle. Ma sapeva che nel villaggio circolavano già storie strane; meglio lasciar perdere. «L'ipoteca», riprese Berg, «venne archiviata e gradualmente dimenticata. Forse tra i detentori dell'ipoteca c'è stata qualche discussione, ma non ne resta traccia. E nemmeno noi saremmo andati a tirarla fuori se lei non avesse cominciato a fare strane domande, capitano Frome. Ora le chiedo: cosa intende fare? L'ipoteca non le dà più diritto al possesso della casa, a meno che lei non intenda pagarla... Assieme agli interessi che si sono accumulati». «I due creditori viventi», chiese Frome, «e gli eredi degli altri cinque vogliono che paghi gli interessi e lasci l'ipoteca al livello di tremilacentoundici dollari, oppure accettano l'ipoteca al suo ammontare totale di quattordicimila dollari, interessi compresi? Per me è lo stesso. Per il momento preferirei pagare gli interessi sui quattordicimila dollari. Qual è il tasso d'interesse?». «Il due per cento in più del tasso legale», disse, triste, Berg. «In totale si tratta di ottocentoquaranta dollari l'anno». «Firmerò subito un assegno per il primo anno, e d'ora in poi pagherò regolarmente». «I creditori saranno lieti di ricevere il denaro», concluse Berg, alzandosi. «Vedrò che tutti i dettagli vengano sistemati, e includerò il mio onorario...». «Mi permetta di chiarire, signore», disse Frome, «che non sono stato io a consultarla. Il suo onorario non deve entrare nel mio assegno. Sono i creditori che devono pagarla, ricorda?». Dopo che l'ometto fu scomparso con un ultimo inchino, Frome e Harriet si guardarono. Frome era eccitato, non poteva impedirselo. E felice che gli rimanessero un bel po' di soldi. Cominciò a ridere. Harriet gli si sedette a fianco. Si abbracciarono. «Nessuno», disse Harriet, «si è mai amato come ci amiamo noi». «Certo che, no», convenne Frome. «Per cui potresti farmi sapere cos'hai da ridere tanto, visto che hai appe-
na scoperto di essere in debito di quattordicimila dollari!». «Stavo solo pensando. Cosa succederebbe se tutti conoscessero le loro vite passate, ammesso che esistano? Se potessero studiarle punto per punto? Mi chiedevo come mi sentirei se potessi seguire le mie tracce attraverso i secoli, di tomba in tomba, dal letto dell'oceano alla terra dei fossili. Se sono davvero Joseph Toelle, sono probabilmente l'unico uomo che abbia ammirato da vivo la propria tomba, piena del mio passato!». «Perché non ci facciamo un salto adesso?», chiese Harriet. «Non capisco bene tutto quello che è implicito in questa storia, ma mi piacerebbe vedere la tomba di Joseph». Frome balzò in piedi, e sperò che il telefono squillasse in quel momento. Voleva fare una prova, ma Harriet non doveva sapere di che si trattava, non doveva nemmeno sospettarlo. Mentre s'infilavano il cappotto, il suo cervello lavorava a piena velocità. «Vai avanti tu, cara», disse Frome. «Voglio prendere su un fazzoletto pulito e un pacchetto di sigarette. Ti raggiungo subito». Correndo verso le scale, Evan aspettò, col fiato sospeso, che lei gli facesse la domanda più semplice e più ovvia: «Dov'è il cimitero?». Ma non glielo chiese. Gli disse: «D'accordo, caro, ma io cammino molto in fretta, ricordi?». Harriet uscì, chiuse la porta. Frome le concesse qualche secondo, poi andò a guardare dalla finestra. Harriet girò a sinistra all'autostrada Lincoln, si fermò alla prima intersezione, guardò in su e in giù con estrema cura, infilò la strada che portava a est. Frome aspettò che fosse scomparsa dietro l'angolo della vecchia casa a fianco della strada. Poi, senza il fazzoletto nuovo e senza il pacchetto di sigarette, uscì. Harriet sembrava avere una fretta tremenda. Non si voltò mai indietro. Pareva quasi che stesse correndo. Non si fermò alla stradina mal tenuta, piena di sassi, che conduceva al cimitero. Anzi, quando il cane si mise ad abbaiare lamentosamente, lei accelerò il passo. Frome si lanciò all'inseguimento del suo amore. Ma lei non si girò, e lui non la raggiunse finché non si fu fermata. Immobile, un'espressione rapita sul volto, fissava la tomba dei Toelle. Lui la circondò con le braccia. «Chi», le chiese dolcemente, «ti ha insegnato la strada? Io no!». «Non c'era bisogno che me l'insegnasse nessuno, caro». Harriet si girò, lo guardò. Insieme tornarono a scrutare l'antica lapide che diceva che Anna Toelle era morta nel 1890, e Joseph Toelle nel 1898. Poi si guardarono l'un
l'altra, nel profondo degli occhi. «Be', finalmente sappiamo», disse Harriet. «Sì, sappiamo», disse Frome. «Ma cosa, esattamente?». «Che il profondo amore di Anna e Joseph non è morto! Spero che abbiano vissuto un sacco di vite felici, assieme! Ma ti prego, Evan, niente invenzioni!». Titolo originale: These Debts Are Yours. La bottega meravigliosa P. SCHUYLER MILLER Ricordai immediatamente quel posto. Avevo quasi dieci anni la prima volta che lo vidi. Ero con mio padre, in uno dei nostri giri di esplorazione della città vecchia, lungo il fiume. Al tempo della sua giovinezza il quartiere, per quanto dimesso, era ancora rispettabile, pieno di piccole botteghe e vecchie case d'aspetto traballante. Aveva lavorato lì per un fornitore navale fino a racimolare i soldi per pagarsi il college, e durante le nostre passeggiate incontravamo spesso vecchi uomini e donne sporche, sciatte, che si ricordavano di lui. Innumerevoli sono i pomeriggi di sabato che ho trascorso nell'angolo più buio di un bar invaso dalle mosche, senza toccare la bibita dai colori violenti nel boccale davanti a me, ascoltando l'incantevole flusso di ricordi che quegli strani amici sapevano far risorgere dal passato di mio padre. Fu durante una di queste incursioni, appena prima del mio decimo compleanno, che arrivammo a una strada che nemmeno lui aveva mai visto. Era poco più d'una fessura tra due magazzini cadenti, pallidamente illuminata da un lampione a gas posto a metà della via. Iniziava, come scoprimmo, quasi alla fine del vialetto che corre dietro il quartiere portoghese, nei pressi di Walnut Street. Un lato era un unico muro di mattoni: magazzini addossati a magazzini per un centinaio di metri, forse. Sull'altro lato correva un minuscolo marciapiede di pietre sconnesse, e le vetrine di una fila di botteghe male in arnese, quasi tutte vuote. Potevamo anche non accorgercene, perché stavamo andando al piccolo spiazzo triangolare d'erba sotto il vecchio castagno, dove il Grand e il Beekman si affacciano sul fiume e i giocatori di scacchi s'incontrano per amichevoli sfide, il sabato sera, tra una pipata e un boccale di birra. Ma proprio mentre passavamo davanti alla strada s'accese il lampione, e l'improv-
viso scoppio di luce nel cuore di quell'oscuro groviglio catturò i miei occhi. Tirai la giacca di mio padre e ci fermammo a guardare. Mi chiedo ora, a volte, come e da chi sia stato acceso il lampione. La porta della bottega era proprio sotto il fascio di luce. Diversamente, forse non l'avremmo vista, anche se ho la sensazione che dovevamo vederla. Persino al buio avrebbe spiccato. L'insegna sopra la porta era linda, e i piccoli riquadri di vetro che formavano la vetrina scintillavano. Sembrava appena tirata a lucido, e quell'impressione si faceva sempre più forte, man mano che ci avvicinavamo, per contrasto alle finestrelle traballanti e alle vetrine luride delle altre botteghe. L'avevo scoperta io, e secondo le regole del gioco avevo diritto ad aprire per primo la porta. Ma subito mi fermai a scrutarla, perché era davvero strano trovare un posto del genere in quei paraggi. La strada era vecchia, e la maggioranza degli edifici risaliva all'inizio del secolo, prima che venissero eretti i magazzini. Avevano tutti l'aria onesta e un po' sofferente del primo Novecento, ormai consumata dall'arida carie della povertà e dell'incuria; ma la bottega aveva qualcosa di allegro, di sereno, che riportava la mia mente alle immagini della Londra di Dickens. Era come la poppa d'un galeone incastrata fra sudice chiatte. La vetrina era poco alta e molto ampia, con un'infinità di riquadri di vetro verde, pesante, chiusi nel piombo. Il marciapiede sotto la vetrina era immacolato, e la lapide di granito su cui era inciso il numero, e persino i ciottoli fino al centro della strada erano stati tirati a lucido, tanto che brillavano. Così ci apparve, la prima volta, il numero 52 di Manderly Lane. Il lampione illuminava la porta, ma una luce più calda, più pastosa, filtrava attraverso i vecchi riquadri della strana vetrina,. Penso che fosse il primo lume a petrolio che vedevo. Ricordo di aver schiacciato il naso contro il più lucido dei vetri per dare un'occhiata dentro, prima d'aprire la grande porta di quercia. E quello che vidi era incantesimo allo stato puro. Nei quattro anni da che mamma era morta e mia zia era venuta a vivere con noi, ero stato con mio padre in un'infinità di bottegucce tristi in quelle squallide strade, e la loro sporcizia e puzza e assoluta mediocrità non mi davano più fastidio. Ero riuscito ad abituarmi, a capire. Erano parte dell'ambiente in cui quella gente povera e stanca conduceva l'esistenza. Pochi di loro, come mio padre, erano riusciti a farsi strada nel mondo, in genere grazie a manovre politiche o ad altri metodi ancor più discutibili; ma pochissimi avevano perso quella rapace, ferina espressione di fame e
sospetto che era diventata parte integrante di loro, appresa nell'infanzia e alimentata in gioventù. Coloro che se n'erano meglio liberati erano tra i più cari amici di mio padre. Ma quel posto era diverso. Era il regno delle fate. Era la Bottega d'Ogni Curiosità, era la bottega dell'Uovo Magico di Stockton, era tutti i posti meravigliosi che avevo scoperto nei vecchi volumi della libreria di mio padre, condensati in un unico punto e restituiti alla vita. L'interno era più largo e profondo di quanto non sembrasse possibile dall'esterno. Un enorme banco di quercia correva, sulla sinistra, dall'ingresso al retrobottega, e una magnifica tappezzeria, densa di colori vivaci e di magica vita, decorava il muro sulla destra della porta. Il pavimento era di grandi assi di pino, smerigliate in bianco. Il soffitto era basso, sorretto da pesanti travi. E il profumo del pino e della quercia facevano parte del ricco, meraviglioso odore che mi circondò quando spinsi la porta ed entrai. Era un odore fatato, come era fatata la bottega. Conteneva tutte le spezie dell'Oriente, e sandalo, e mirra. E menta e timo e lavanda. E cuoio antico e rame brunito, e l'odore forte, pulito, dell'acciaio terso. Quel profumo conteneva cose che un bambino di nove anni poteva conoscere solo in sogno. Dietro il banco c'erano credenze con sportelli di vetro spesso, dove potevo indovinare meraviglie ancora maggiori di quelle disseminate sul grande piano di quercia rossa. Tre lucerne pendevano dal soffitto, e la loro luce gialla e la luce di una candela in un pesante candeliere di ferro battuto erano l'unica illuminazione del locale. Il loro splendore dorato scivolava sui morbidi tagli di ricca seta e sul broccato e sul velluto scarlatto, sottolineava i fantastici disegni dei folti tappeti che ornavano il muro dove finiva la tappezzeria, carezzava le curve dolcissime di porcellane dalle forme squisite, rosso sangue e verde giada. In parte mi mostrava, in parte mi nascondeva le infinite meraviglie di un pannello d'ebano e d'avorio dal disegno complicatissimo che chiudeva il fondo della bottega, e la grottesca bizzarria delle figure intagliate sulla massiccia cassapanca un poco più avanti, e una famiglia di minuscole marionette che vi riposava contro, e infine i pezzi degli scacchi che si trovavano, già pronti per il gioco, su un piccolo sgabello intagliato e laccato. Mio padre vide gli scacchi e subito si avvicinò, mentre io continuavo a muovermi, pieno di meraviglia, da una cosa all'altra, e riempivo i polmoni del profumo di quel luogo, e lasciavo che le mie dita scorressero su quegli oggetti strani, incantevoli. Gli scacchi erano d'avorio, neri e rossi, d'arti-
gianato persiano. Li possiedo ancora, e uomini che dovrebbero sapere il fatto loro dicono che sono molto antichi e molto belli. Ho detto che, mentre aprivo la porta, una campana argentina risuonò nelle profondità della bottega? Fra tante meraviglie me n'ero immediatamente scordato, e fu quasi con un brivido di panico che mi accorsi che il proprietario ci stava osservando, Non so come me l'ero immaginato. Un nano stregato, forse, curvo per gli anni e pieno di ricordi. Un eurasiatico mellifluo, o un cinese con una bella ragazza di umili natali per schiava. Oppure uno gnometto con la barba, allegro come la facciata esterna della bottega e pieno di stupefacente magia come l'interno. Ai miei tempi si leggevano le stesse cose che i bambini leggono oggi, per quanto il mio gusto per il melodramma fosse già un po' fuori moda. Invece quello era un uomo enorme, un uomo dalla pelle scura, col segno di un'antica cicatrice che gli traversava gola e guancia, un uomo consumato dal mare e dal vento, grande quanto il doppio di mio padre e me messi assieme. Era d'età indefinibile (non vecchio, certo, perché aveva capelli neri e folti, ma nemmeno giovane) e indossava vestiti stinti dal sole. Un paio di sandali di corda gli coprivano i piedi nudi. Mio padre lo scrutò, lo soppesò come l'avevo visto, in quel quartiere, soppesare gli estranei prima di dare il via alla conversazione. Sembrò soddisfatto, perché chiese il prezzo degli scacchi, e così facendo causò un'altra sorpresa. Immagino di essermi aspettato una voce profonda, tuonante, da un uomo così enorme, un uomo che evidentemente aveva fatto il marinaio, e che a giudicare da come si muoveva doveva essere stato un ufficiale, abituato a urlare gli ordini sopra il rombo del vento e del mare. Ma la sua voce era minuscola e sottile e morbida, come se lui l'avesse inghiottita e non riuscisse più a sputarla fuori. Mi diede i brividi alla schiena. «Non sono in vendita», sussurrò. Avevo già sentito usare quel trucco tante volte, e mi sorprese che mio padre non procedesse alla solita maniera. Invece si voltò a studiare gli oggetti esposti sul banco e sugli scaffali più dietro. Il proprietario della bottega raccolse il candeliere di ferro e lo seguì. Mio padre guardava un curioso poggiapiedi ricavato dalla zampa d'un elefante, carezzava un pizzo bianco come panna. «Tra poco è il compleanno di mio figlio», disse poi, con aria indifferente. Io ascoltavo, potete esserne certi, a orecchie spalancate. «Forse lei ha
qualcosa che gli piace». L'uomo mi guardò. Aveva occhi neri, occhi duri, simili a quelli di certe statuine di pietra esposte lì. Il suo viso era solcato da rughe profonde che formavano come tanti rigagnoli, scavati dal naso a uncino fino agli angoli della bocca grande, crudele. Ma la sua voce era sottile e morbida come la seta che vendeva. «Lo lasci guardare da solo», rispose. «Può prendersi la candela. E intanto che lui guarda, noi possiamo giocarci gli scacchi». Se mio padre rimase stupito non lo diede a vedere. Aveva imparato a controllare il viso e la lingua, come aveva imparato a controllare il corpo forte, agile, per necessità, tanti anni prima, in quelle stesse strade. «Bene», disse, e tolse dalla tasca del panciotto la sua moneta portafortuna. Era una moneta greca, penso, o ancora più antica. «Per il bianco». La moneta scintillò in aria, e sentii l'uomo che mormorava pianissimo: «Testa». La moneta cadde sul pavimento, e mio padre lasciò che fosse l'altro a raccoglierla. «Testa», disse dolcemente l'uomo, «ma io preferisco il nero». Avvicinarono due sedie al tavolino, e per parte mia li dimenticai subito fra le meraviglie che la candela mi svelava. Rimasi a lungo, ricordo, a esaminare la tappezzeria che correva lungo tutto il muro: il tessuto era un poco stinto dal tempo, ma era pieno di vita, di colore, e narrava un episodio di una mitologia che non riuscii allora, e non riesco ancora oggi, a individuare. Me ne stufai, ebbi un attimo di panico quando scorsi le orbite vuote di una fila di maschere che mi osservavano dall'alto; poi tornai agli oggetti disposti nel massimo disordine sul lungo banco e cominciai a rovistare, per vedere cosa riuscivo a trovare. Le credenze mi tentavano, ma la voce sottile del proprietario mi fece quasi paura: «Forza, ragazzo, aprile». La partita fu lunga, credo. Io ero così eccitato alla stranezza di tutto, così voglioso di fare la scelta più giusta in quell'ammasso d'inenarrabili meraviglie, che avrei potuto restare lì tutta la vita prima di decidere qual era la cosa che desideravo di più. E poi trovai la nave. Adesso sono certo che si trattò d'un caso, un puro caso: o, se fu il fato, allora il fato è molto più immenso di quanto non ci sia dato comprendere. Avevo spalancato credenza dopo credenza, reggendo in alto il candeliere per scrutare fra le ombre, oppure adagiandolo sul banco alle mie spalle per esplorare con le mani. Sotto le credenze c'erano profondi cassetti, e altri ancora sotto il banco, e io li frugai, scoprendo nuove meraviglie a ogni i-
stante: vassoi dove sgargianti farfalle riposavano inchiodate a legni esotici, ciondoli d'oro così fini e delicati che sarebbero bastate le mie unghie a scalfirli, gioielli d'innumerevoli tipi, e le mummie di strani animaletti. Una delle credenze sembrava chiusa a chiave, e quando finalmente riuscii ad aprirla scopersi che dava direttamente sul muro, su una nicchia con pannelli di legno profonda un metro e mezzo. E lì, adagiata su una struttura di ferro, c'era una grande bottiglia di vetro (una sfera perfetta di vetro verde, sottile), e nella bottiglia c'era la nave. Era una nave antica, a vela quadra, perfetta in ogni dettaglio. La maggior parte dei modellini che avevo visto nelle botteghe al porto erano minuscoli ed estremamente grezzi, infilati in bottiglie di rum o nel primo fiasco capitato fra le mani di chi le costruiva; oggettini che denotavano ingegno e scarsa abilità artigianale. Quella nave era diversa. Mentre le solite navi nella bottiglia procedevano a vele spiegate, un poco inclinate dalla forza del vento immaginario che gonfiava le velature nuove fiammanti o consunte, la mia nave vagava nella bonaccia, e le vele erano flosce e il sole batteva sulla coperta spoglia. Il mare limpido in cui navigava non era mosso da una sola onda. Le minuscole figure di marinai, non più grandi dell'unghia del mio mignolo, eseguivano con aria cupa i loro compiti, e sul ponte un piccolissimo capitano mi fissava e agitava contro il mio viso un braccio minaccioso che terminava in un sottile, lucido uncino. Seppi subito che volevo quella nave più di quanto avessi mai voluto ogni altra cosa in vita mia. Non perché fosse costruita con tanta maestria, o perché era stata chiusa nella sfera di vetro con incomparabile arte. Era perché (e lo dico trent'anni dopo), era perché in fondo alla mia anima di bambino albergava la convinzione che quella nave fosse, chissà come, vera, che navigasse chissà come su un vero mare, e che se solo fossi riuscito a possederla avrei trovato il modo di salire a bordo e di salpare verso le più fantastiche avventure che un bambino possa sognare. Mi girai a chiamare mio padre. La partita era terminata, e lui, con un'espressione stranamente pensosa in volto, era chino a fissare le posizioni finali degli scacchi. Perché aveva vinto. Gli scacchi erano suoi. Ma il padrone della bottega non guardava lui, guardava me, e anche se aveva la luce alle spalle non mi piaceva per niente ciò che mi sembrava di leggere sul suo viso. Feci un passo indietro. La candela oscillò e la cera calda mi scese sul polso. Balzai all'indietro, e credo che il mio gomito abbia urtato lo sportello della credenza, perché lo sentii cedere e richiudersi. Poi, con l'agilità
d'una tigre, il proprietario balzò al centro del negozio, si piegò dietro il banco. Aprì di nuovo la credenza, e la nave non c'era più. Mi parve che nella sua voce sottile ci fosse un tono di minaccia. «Allora, ragazzo», sussurrò, «tuo padre mi ha battuto. Cosa vuoi?». Appoggiai la candela fra noi due e indietreggiai. In quel momento non volevo niente di più che tornare in strada, dove c'erano le luci e la gente e mio padre. Tutte le meraviglie di quel luogo affogavano in un'emozione che era senso di colpa e paura al tempo stesso, come se io avessi visto cose proibite: perché era quello che mi diceva la sua voce. «Niente, signore», gli risposi. «Proprio niente». «Niente?». Era mio padre. «Che sciocchezza, Tom. Non fare lo sciocco. Questo è un posto meraviglioso. Ho vinto al signore degli scacchi molto preziosi, e adesso dobbiamo concedergli di rifarsi. Allora, cosa vuoi?». È strano, adesso, capire come la presenza di mio padre cambiasse tutto. Non esisteva più paura, e non c'era più motivo di sentirmi colpevole. Anzi, sorse in me un senso di sfida, e io fissai quegli occhi neri, duri, e risposi. «Mi piacerebbe una nave, credo. Una nave nella bottiglia». E questo è quasi tutto, a parte il fatto che ebbi una nave. L'avevo chiesta, e mio padre, imbarazzato per aver vinto quegli scacchi che valevano tanto, insistette che scegliessi. Ci misi un sacco di tempo, rovistai tutti gli scaffali e tutte le credenze, e alla fine scelsi una fregata che, lo capisco oggi, era un capolavoro. Però non aveva vita, e le sue vele erano tese e il mare pieno di onde. E non c'era bonaccia e l'equipaggio non era abbronzato dal sole, e la bottiglia non era una verde bolla di vetro che mi riempiva tutte e due le braccia. E per molti anni, dopo che ci trasferimmo in un'altra città e io trovai nuovi amici e una nuova scuola, e alla fine un lavoro, ho continuato a chiedermi come mai... Riconobbi immediatamente la strada, quando la rividi. L'avevo cercata, a dire il vero; non con troppa energia, così, distrattamente, mentre vagavo fra le antiche strade che trent'anni prima percorrevo con mio padre. Nelle notti d'estate giocavano ancora a scacchi nel piccolo parco dove il Beekman s'incontra col fiume, ma i giocatori che io conoscevo erano scomparsi. Però la gente di quel quartiere non dimentica troppo in fretta, e mi offrirono un bicchierino qua, e due o tre da un'altra parte, e si parlò dei vecchi tempi e si disse che i nuovi tempi erano decadenti e corrotti. Era quasi la mezzanotte di una splendida serata piena di stelle, per cui, ovviamente, girai dalla parte del fiume e passeggiai lungo le strade de-
serte con l'unica compagnia della mia ombra. Ascoltavo la quieta eco dei miei passi e non pensavo a nulla, solo alla notte. Il lampione gettò un raggio di luce sul mio cammino, un poco più luminoso delle stelle. Nello stesso momento io scesi dal marciapiede e sentii sotto i piedi pietre irregolari, e chissà come le due cose si fusero assieme e penetrarono oltre i miei sogni a occhi aperti, per riportarmi un antico ricordo. Alzai gli occhi, ed era lì. In trent'anni la strada si era fatta più triste e scura, ma le sconnesse pietre di pavimentazione erano ancora più lucide di quella sera in cui avevo quasi dieci anni. Uno dei magazzini era andato a fuoco, qualche anno addietro. Il muro di mattoni che chiudeva la strada sulla sinistra stava cadendo a pezzi, e i resti anneriti dal fumo del magazzino si stagliavano contro la notte. Le case che oltrepassai erano morte, sigillate da assi; le facciate delle botteghe erano infrante, e tre o quattro addirittura spalancate nel buio. Ma quando arrivai al numero 52, era come se nulla fosse cambiato. Nulla, in trent'anni. C'era la stessa grande vetrina, coi riquadri di vetro così vecchi e consunti che era difficile scrutare dentro. C'era la stessa luce che dal lampione illuminava la strada, e la stessa grande porta col massiccio chiavistello di ferro. E, come avevo fatto trent'anni prima, la spalancai ed entrai nella bottega. La campanella squillò: una campana d'argento, mi parve, che risuonò nel cuore della bottega. I miei passi rimbombavano sulle assi di pino, e il chiarore delle tre lucerne risplendeva sulla tappezzeria del muro a destra, e sul banco e sulle credenze a sinistra. Al di sotto della lucerna centrale, vicino al banco, c'era un tavolino intagliato e verniciato in rosso, e sopra c'erano una scacchiera e gli scacchi d'avorio, rossi e neri. Alzai gli occhi, come trent'anni prima, e lui era lì. Penso che mi abbia riconosciuto. Assomiglio a mio padre, e forse è stato per questo, comunque credo che mi abbia riconosciuto. D'altra parte io non sono mio padre, e il gioco che giocammo quella notte fu molto diverso. «Cerca qualcosa, signore?». Era la solita voce morbida, piccola e sottile, intrappolata nella sua gola sfregiata. L'avevo risentita spesso in sogno, in quei trent'anni. E lui era lo stesso, persino nei vestiti che indossava. Potevo giurarci. Ripeté la domanda, ed era come se quei trent'anni fossero svaniti e davanti a lui si trovasse un bambino di nove anni, quasi dieci, mezzo spaventato, mezzo spavaldo, che gli rispondeva: «Vorrei vedere una nave, credo. Una nave nella bottiglia».
Pareva che anche lui fosse scavato nel legno, come una delle sue statuette. Ma la sua voce non era dolce e carezzevole come la ricordavo. «Mi spiace, signore. Non abbiamo navi». Avevo cambiato l'apertura del gioco, e l'intero gioco stava cambiando. Benissimo. La mossa era mia. «Dò un'occhiata, se permette. Forse troverò qualcosa di mio gusto». Lui raccolse il candeliere dal banco a fianco del tavolino. Il banco sembrava più piccolo di quel che ricordavo, ma anch'io ero più piccolo, trent'anni prima. «Gioca a scacchi, signore?», mi chiese dolcemente. «Ne ho qui di molto insoliti, molto antichi. Molto belli. Vuole vederli?». Nell'atmosfera sembrava aleggiare una specie di pressione, una ragnatela di forze intangibili che si raccoglievano attorno a me, che cercavano di respingermi entro gli schemi di una generazione addietro. Mi scopersi chino sul tavolino, con uno degli scacchi d'avorio in mano. Per quanto riuscivo a capire, erano identici a quelli vinti da mio padre. Li avevo ancora a casa, salvo un alfiere andato perso. «Grazie», gli dissi. «Li ho anch'io, e molto belli, quasi identici ai suoi. Mi hanno spiegato che sono persiani». Non sono certo che mi abbia sentito. Teneva il candeliere sopra la testa, mi scrutava con quegli occhi di pietra. «La sfido. Metto in palio questi scacchi», sussurrò. «Deve essere molto sicuro di sé», risposi. «Valgono parecchio». Cercò di sorridere: una smorfia veloce su quella bocca dura, grande, e la cicatrice che si tendeva sulla sua gola. «Ho fiducia nella mia abilità, signore», disse. «Vuole mettere la sua alla prova?». A quel punto lo fissai, a lungo, implacabilmente. Il suo viso scuro, quadrato, non era più vecchio di quanto lo fosse trent'anni prima; gli occhi erano altrettanto lucidi, duri e senza età. E cominciai a chiedermi, come penso si sia chiesto d'un colpo mio padre alzandosi vincitore, cosa avrei dovuto pagare se avessi perso. Ma fu l'insolente ragazzino di dieci anni a rispondere: «Sì, giocherò. Ma non per questi scacchi. Giocherò con lei per una nave». «Qui non ci sono navi», ripeté. «Ma se c'è qualcosa d'altro...?». «Vedrò», dissi. Mi girai verso il banco e gettai un'occhiata all'ammasso di curiosità che lo ricopriva. Erano meno meravigliose di quanto non fossero parse a un bambino che non aveva ancora dieci anni: oggetti da due soldi si mescolavano al miglior artigianato e a materiali preziosi. Aprii gli
sportelli di una credenza, e mi parve che gli oggetti fossero esattamente nello stesso ordine in cui li avevo riposti trent'anni prima. Tirai un cassetto, e gli stessi colori e forme di conchiglie grottesche, di farfalle sgargianti mi tornarono alla memoria. Poi mi voltai verso di lui e afferrai il candeliere. Mi sembrava che dentro di me si stesse chiudendo un circuito, che l'ultimo pezzo si sistemasse nel puzzle che turbinava nel mio cervello. Il tempo scompariva, si scioglieva, e io scivolavo lungo la fila di credenze, le aprivo l'una dopo l'altra, toccavo velocemente le cose che contenevano, continuando a tenere alta la candela. Questa volta l'uomo dalla pelle scura era alle mie spalle. E poi, d'improvviso, seppi di essere arrivato. Tirai lo sportello della credenza, e non si apriva. Tirai di nuovo, e pensai che lui avesse smesso di respirare. E poi qualcosa (un caso, oppure il fato?), qualcosa m'insegnò la mossa giusta, il colpetto da dare alla maniglia mentre tiravo, e i cardini della credenza girarono senza il minimo rumore, e apparve la nicchia, e la nave. Era la stessa, e non era la stessa. Le vele senza vento parevano più scure e alcune erano ammainate, come se il capitano avesse perso fiducia. La coperta era d'un bianco stinto per il sole tropicale, e sul lucido scafo la vernice s'era scrostata e gonfiata. Gli indumenti indossati da quei minuscoli marinai erano più consunti e laceri, e gli uomini erano meno di quanti ricordassi. Ma il piccolissimo capitano dominava il ponte come lo dominava trent'anni prima, gli occhi implacabilmente tesi al cielo vuoto, a fissare me e oltre di me. Questa volta teneva le mani intrecciate dietro la schiena, e la sinistra poggiava sul polso della destra nel punto da cui partiva l'uncino. Questa volta sembrava un po' meno eretto, un po' più vecchio di prima. Voltandomi verso il padrone della bottega tenni ben stretto il candeliere di ferro, perché non mi piaceva ciò che leggevo sul suo volto. Ma quell'espressione scomparve in un attimo. «Me n'ero scordato, signore», disse. «Giocherò». E poi sembrò che un'altra mano scendesse sulla mia, che spingesse le mie dita nel taschino del panciotto, che tirasse fuori la stessa moneta d'oro che mio padre aveva lanciato un'altra sera. Gli occhi dell'uomo si posarono sulla moneta, poi tornarono nei miei. «Se lei è d'accordo, signore», disse, «io sono abituato al nero». Non sono un grande giocatore, nemmeno un buon giocatore. Mentre disponevo sulla scacchiera i pezzi rossi, mi tornò in mente la stessa domanda. Qual era il prezzo della mia sconfitta? Qual era il prezzo che chiedeva
e che io avrei pagato a lui, a lui che sceglieva sempre il nero? Credo che quella notte fossimo in due a muovere i pezzi rossi. Credo che lui lo sapesse, perché il suo viso bruciato dal sole era pallido mentre si piegava sulla scacchiera. La partita fu veloce. Nella mia mente non nacque mai il minimo dubbio sulla successione delle mosse, e lui pareva giocare con sinistra decisione. Ora non so dirvi quali furono le nostre mosse, o come finì il gioco, ma d'improvviso seppi che il suo re era in trappola, e lo seppe anche lui, perché quando feci per muovere la regina il suo volto aveva un'aria omicida. Quando lui balzò in piedi scacchi e scacchiera caddero a terra, ma io lo tenevo d'occhio. Gettai all'indietro la sedia traballante, afferrando il massiccio candeliere. Lui si scagliò verso di me e io lanciai il candeliere contro la sua testa. C'era una rete di forze invisibili tessuta intorno a noi, che tornava ad avvicinarci dopo quei trent'anni? Era caso, o destino? Era quasi impossibile sbagliare il colpo, ma lo mancai, e il candeliere andò a infrangersi contro la bolla di vetro, contro la nave imprigionata. Per un interminabile momento le sue dita di ferro strinsero la mia gola. Per un momento mi trovai a lottare ciecamente contro il suo viso, a tempestarlo di pugni per liberarmi. Per un momento lui infierì su di me, il viso contorto da paura e rabbia, sibilando strane sillabe con quella sua voce soffocata. Poi ci nacque attorno la forza e il ruggito del mare, e io sentii il vento che urlava fra le gomene tese, e lo scricchiolìo dei bozzelli che si tendevano, e il rumore delle vele che si riempivano di vento. Sentii una voce forte come un ruggito che gridava ordini, e le urla di risposta degli uomini. E qualcosa d'enorme e di nero mi sfiorò nelle tenebre, e l'odore del mare mi riempiva le narici, e le luci morirono nel turbine del vento che si alzava, e la pressione di quelle dita di ferro scomparve dalla mia gola. Quando tornai a respirare, trovai i cerini e accesi la lucerna che pendeva dalla trave sopra la mia testa. La bolla di vetro verde era polvere. La nave era scomparsa. E la cosa che giaceva ai miei piedi tra gli scacchi sparpagliati, i vestiti a brandelli, la carne lacerata come dalla carena di una nave, la gola squarciata come dal morso spietato di una mandibola d'acciaio, quella cosa era rimasta troppo a lungo sott'acqua per essere completamente umana. Titolo originale: Ship-in-a-Bottle.
L'eterno riposo HELEN W. KASSON Era una stanza, come tutte le stanze di questo mondo. Aveva muri e un pavimento e un soffitto, persino una porta. Ma niente finestre. In spagnolo si chiamava la tumba; in francese, le tombeau; insomma, era una cripta. Ad ogni modo, la famiglia era riunita (proprio come si sarebbe riunita in un'altra stanza) in un consesso pieno d'indignazione. C'era il bisnonno, per cui la cripta era stata costruita (era il più indignato di tutti). Possedeva una lunga barba patriarcale, era il primo morto e il capo della famiglia. Certo, anche lui aveva avuto antenati come chiunque altro, ma nessuno si curava di loro. Gramps aveva fondato la fabbrica di birra che sostentava i discendenti (e mica male!), per cui la famiglia risaliva fino a lui e lì si fermava, del tutto soddisfatta. Gramps era sufficiente. Poi c'era la bisnonna, Gammer, piccola e rinsecchita, la peggio conciata di tutti perché era rimasta quasi un secolo all'umido. E il nonno e la nonna, le cui ossa non erano altrettanto antiche; e mamma e papà e zia Pansy che non si era mai sposata ed era già tutta appassita prima di morire; e il piccolo Willie che era morto a otto anni ed era ancora un bel monello. Poi c'erano un paio di parenti poveri, seppelliti nella cripta per necessità e per spirito di sopportazione, che siccome erano poveri non avevano il diritto di essere indignati quanto la vera famiglia. E c'era un estraneo, un doloroso e irrimediabile errore di cui i Collins defunti si lamentavano ormai da vent'anni. Sul suo forno funebre c'era scritto «Ned Collins», ma non era zio Ned. Quel tipo era seduto vicino a zio Ned quando il treno era volato fuori dai binari, e le sue ossa si erano talmente mischiate a quelle di zio Ned che chi le aveva raccolte aveva fatto un gramo lavoro. Solo in parte era zio Ned, per la precisione nell'osso del mignolo della mano destra e nella tibia della gamba sinistra, il che però non lo rendeva, nel modo più assoluto, un Collins genuino. Era quasi tutto un estraneo, e faceva un gran dolore pensare che avrebbe riposato per l'eternità nella sacra cripta dei Collins. Naturalmente, i Collins realizzavano quella profana e sacrilega verità solo quando morivano. I vivi piangevano sulla tomba di zio Ned e ignoravano ogni differenza. Ma il tempo, persino in una cripta, guarisce le ferite delle ossa, e il falso zio Ned era di nuovo tutto intero, se così si può dire. Spesso si lamentava delle inconsulte e arbitrarie azioni del mignolo destro e della tibia sinistra,
e i Collins defunti sapevano che quello era l'orgoglio familiare del vero zio Ned che arrivava sino alle sue ossa smembrate, che chiedeva di essere rimesso al posto giusto e biasimava la presenza di un estraneo nel bel mezzo del clan Collins. Ma quella notte non era contro il falso zio Ned che si teneva l'indignato consesso. Piuttosto bizzarramente, tutta la rabbia era diretta contro l'unico membro vivo della famiglia. Si chiamava Ambie Collins, e sulla terra era conosciuto come uomo buono e pio. E di nuovo, piuttosto bizzarramente, era a questa bontà e a questa pietà che si ribellavano i morti della cripta. «Perché non può lasciarci in pace?», mugugnò Gramps. «Viene ogni domenica, colla pioggia o col sereno, e ci cammina sulla testa, fa un baccano del diavolo per scavare un buco e infilarci il suo vaso da fiori. Piange e si lamenta come una prefica!». «Vuole solo fare del bene», disse mamma (relativamente nuova alla morte, ricordava ancora le debolezze dei vivi. Inoltre era la madre di Ambie Collins, e così possedeva per lui un curioso calore affettivo). «È costume dei vivi piangere i loro morti». «Costume!», sbuffò Gramps. «Tu fai presto ad accettare questo costume. Sei l'ultima che è morta, stai sul fondo. Non riesci nemmeno a sentirlo, eh? È sulla mia testa che cammina. È sulla mia bara che quello si agita a un'ora in cui la gente per bene dovrebbe dormire. Ho vissuto a lungo e sono morto da un bel pezzo. Ho bisogno del mio riposo!». Gammer annuì. «Ne hai ogni diritto, e anch'io. Anch'io sono sul forno più in alto. Me lo sento pesare addosso». Due lacrime scivolarono sulle sue guance coriacee. «Sono spaventosamente stanca, Pa'». Gramps spostò le sue ossa un pochino di lato, e per enfatizzare il discorso grattò sul muro con la destra. «Ne ho ogni diritto», gracchiò. «Mi è stato promesso. Tutti quei giorni che sono andato a messa... Cinquantadue domeniche per ottant'anni. Ho passato più di quattromila giorni ad ascoltare le promesse di pace e riposo che mi aspettavano da morto. E adesso cosa succede? Il mio unico discendente vivo, disgraziato, passa un giorno alla settimana a cercare di privarmi del mio sonno eterno!». «D'accordo», disse mamma, «vi dà fastidio. Cosa hai intenzione di...». Il resto della frase si perse in un'improvvisa marea di robusti colpi. «Willie!», gridò mamma. «Smettila di picchiare su quella bara. Vuoi romperla?». «Yuu! Sono un ghoul!», urlò Willie. «Saccheggio le bare (1)! Guarda-
temi! Sono il capo dei ghoul!». «Be', piantala», disse mamma, «o chiamo il vampiro (2)». Gramps, sconsolato, riprese il discorso. «Non so cosa voglio fare, ma bisogna fare qualcosa. Quell'Ambie. Ci... Ci infesta!». «Perché non andiamo a infestare lui?», suggerì Willie, con la freschezza d'idee d'un bambino di otto anni. All'unisono la famiglia, compresi i parenti poveri che si trovavano nella cripta per spirito di sopportazione e l'usurpatore dell'eterno riposo di zio Ned, rivolse gli occhi a Willie, ammirata. «Giusto», dissero, nell'unisono che è possibile a dieci voci. «Giusto», ripeté Gramps nella sua qualità di fondatore, capo e spina dorsale della famiglia; e, incidentalmente, di primo e unico Collins che fosse vissuto grazie alle proprie fatiche. «È perfettamente giusto! Lui ci ha infestati, adesso lo infestiamo noi. Gli facciamo vedere cosa significa essere perseguitati da qualcuno di un altro mondo! Magari gli sconvolgiamo un po' l'esistenza». «Non troppo», aggiunse subito mamma. «Non sconvolgiamogli troppo l'esistenza». «No, non troppo». Gramps era torvo. «Solo quel tanto che lui ha sconvolto la nostra morte. Forse potremmo farlo sentire come ci sentivamo noi quando siamo morti. Ricordate?». «Quando ci sembrava di soffocare e non riuscivamo a respirare un briciolo d'aria e le ossa si tiravano e si tiravano e si tiravano fino a che le giunture scricchiolavano. E quel peso sul petto. Ricordate? Quando le costole quasi si spezzavano in due? E quella s-t-r-e-t-t-a attorno al cuore, quella p-r-e-s-s-i-o-n-e, che sembrava dovesse saltare fuori e rompersi e riempire di sangue le dita di chi stava s-t-r-i-n-g-e-n-d-o? E quel viaggio da congelare con l'Angelo della Morte, con le sue ali che sbattevano e ci buttavano tutta l'aria fredda sul corpo. E traversare il fiume con tutto quel fango fetido, con quegli orribili rettili che aspettavano di prenderti se cadevi fuori dalla barca. No, non sconvolgeremo troppo la sua esistenza. Solo un pochino. Tanto da fargli capire cosa significa morire e quanto si ha bisogno di riposare dopo aver superato la Morte. Tanto da fargli piantare lì di venire a girare sulle nostre teste ogni domenica mattina per lasciare quei fiori infernali. Tutto qui». Gramps sorrise. Non era un granché di sorriso, ma si capiva benissimo cosa voleva dire.
Era venerdì sera, e Ambie Collins non si sentiva troppo su. Charlotte aveva brontolato di nuovo, e per la solita vecchia faccenda: Lulu. Ora, non fatevi l'idea che ci fosse qualcosa di immorale fra Ambie e Lulu, perché non c'era proprio. Sì, avevano una cosa in comune: erano tutti e due sensitivi. Ma non c'era niente di più. Niente di più, tra loro due, che una delicata affinità spirituale, di cui Charlotte non aveva il diritto di essere gelosa. Ma così andavano le cose. Ambie Collins era noto al mondo come uomo buono e pio. Per sua moglie Charlotte, aveva diversi difetti. Di sera, quando si spogliava, lasciava cadere i vestiti dov'era, non si lavava abbastanza spesso quanto dovrebbero lavarsi le persone a posto, a volte faceva schioccare le dita in modo spaventoso, e, cosa peggiore di tutte, si arrabbiava terribilmente alle domande che gli parevano infrangere la sua libertà personale. No, non era un mascalzone. Non osate pensarlo! Passava le sue giornate, convenzionali e circospette, a controllare le azioni acquistate coi soldi della fabbrica di birra del nonno (venduta da un pezzo), e a sedere in borsa a osservare altra gente che sudava al rialzo o al declino dei propri investimenti. Solo per mezz'ora al giorno faceva qualcosa che Charlotte poteva trovare criticabile, ed era quando lasciava l'ufficio e se ne andava al locale all'angolo a sorbirsi un gelato alla soda, giusto per tenersi in forma, capite. E Charlotte criticava quell'abitudine. Abbondantemente. Perché un giorno, per pura combinazione, lei era passata davanti al locale alle quattro del pomeriggio e aveva visto Ambie che succhiava di malavoglia il gelato alla soda, ma con gli occhi si divorava di ottima lena la succulenta Lulu (eravamo agli inizi; Ambie e Lulu avevano appena scoperto il reciproco interesse per gli spiriti). Da allora in poi, niente riuscì più a far credere a Charlotte che Ambie avesse bisogno di quel gelato al cioccolato affogato nella soda per calmare i morsi della fame. E, effettivamente, Ambie non ne aveva bisogno. Aveva bisogno di Lulu per nutrire l'anima, per stimolare lo spirito, per parlare con lei dei grandi regni dell'Aldilà. Tutti e due credevano nell'Altra Vita, tutti e due sapevano di essere sensitivi, tutti e due cullavano la speranza d'incontrare, una notte o l'altra, uno spirito benevolo che si decidesse, in termini cosmici, a spiegare alcune cosette un tantino nebulose. E, in un futuro molto prossimo, avrebbero partecipato assieme a una seduta spiritica. Per cui i giorni di Ambie erano degni di essere vissuti, e gli dava molto fastidio che quello spaventapasseri di Charlotte osasse interferire. A dire il vero, aveva un po' paura di lei. In un certo senso amava Lulu (un senso
molto platonico, molto spirituale), ma non aveva mai pensato di chiedere il divorzio a Charlotte. E poi non aveva buone ragioni per divorziare. Erano solo fatti intangibili che minavano il loro rapporto. Il fatto che lui fosse sensitivo e lei no; che lui avesse sentimenti profondi e raffinati, mentre lei era spirituale quando una pentola da cucina. «Se Charlotte dovesse morire...». A volte quel pensiero si insinuava nella mente di Ambie nel cuore della notte, quando, ne era certo, anche Dio era troppo stanco per stare ad ascoltare. Avrebbe potuto coltivare i suoi interessi ultra-mondani con Lulu, e la vita sarebbe stata degna di essere vissuta sia di giorno che di notte. Chissà? Forse, con la loro mentalità libera e anticonvenzionale, lui e Lulu sarebbero riusciti ad evocare uno spirito. Le cose stavano esattamente a questo punto la sera di venerdì che Ambie tornò a casa, nauseato e stanco della giornata di lavoro. Si era preso il gelato alla soda e torta... Lulu era stranamente interessante,quel pomeriggio. E così, nonostante la sua mente fosse leggera e felice il suo spirito ispirato, aveva un gran peso allo stomaco e non se la sentiva proprio di mangiare. Charlotte se ne accorse immediatamente da come lui raccoglieva il cibo e, come al solito, cominciò a punzecchiarlo (era il giorno di libertà della cuoca. Lei aveva preparato la cena con le proprie mani, ed era terribilmente infuriata all'idea che Ambie non le rendesse giustizia. E solo per quella robetta, quel niente, quello straccetto che gli versava la soda nel gelato!). «Immagino che oggi ti sarai mangiato il tuo gelato alla soda», disse, acida. «Certo». «Immagino che avessi fame». «Certo». «Eri così affamato che l'avrai fatto fuori in silenzio completo, senza neanche alzare gli occhi dal bicchiere». Allora Ambie alzò gli occhi dal cibo sparpagliato nel piatto. «No», rispose freddamente, «non l'ho succhiato in silenzio. Perché me lo chiedi?». Le guance di Charlotte diventarono rosse. Era peggio di quanto non sospettasse: Ambie non aveva mai ammesso di parlare a quella donnaccia dietro il banco. «Lo chiedo», disse, accendendosi, «perché ho sempre saputo che in te c'era qualcosa di depravato. Ho sempre saputo che sei un bugiardo e un adultero, e che ogni pomeriggio lasci l'ufficio per qualcosa che non è un gelato alla soda».
Ambie scagliò il tovagliolo sul tavolo. «Sei tu la bugiarda», disse. «Bestia!». Gli occhietti neri di Charlotte scintillavano. «Mostro! Traditore di donne! Non credere di riuscire a farmela. Non ti concederò mai il divorzio. Mai!». Ambie lo aveva sempre sospettato. Forse era per quello che non lo aveva mai chiesto. Ma visto che era stata lei a tirar fuori l'argomento, decise che era meglio andare sino in fondo. «Io sono una brava persona», disse (un tipo che conosceva glielo aveva detto, una volta. Uno che non sapeva della doppia vita che lui conduceva fra Lulu e Charlotte, che sapeva solo dei suoi pellegrinaggi domenicali alla cripta dei Collins). «Ma se tu la pensi così, è meglio che le nostre strade si dividano». Schioccò le dita con aria decisa. Ignorando lo schiocco, Charlotte cambiò tattica. Sapeva che non avrebbe mai trovato un altro uomo, se perdeva Ambie, perché era tutta ossa e aveva gli occhi attaccati l'uno all'altro. «Ambie!». Scoppiò in lacrime. «Com'è possibile! Com'è possibile che tu decida con tanta freddezza di distruggere il nostro matrimonio, la nostra vita, il nostro amore?». Fu il vocabolo «amore» che trasformò Ambie da topo in leone. Quella parola era quasi un anacronismo, sulle labbra sottili di Charlotte. «Amore!», ruggì. «Tu non sai cosa significhi! Tu sei solo un ammasso di carne e ossa e... uno stomaco! Tu non hai niente, niente! Tu non sei più profonda di una... di una bistecca di manzo!». «E cos'ha quella... quell'altra cosa? Mi piacerebbe proprio sapere che cos'ha quella nullità che ti serve il gelato!». Ambie sorrise, d'un sorriso segreto. Quando parlò, la sua voce era dolce e nostalgica. «Esistono cose», mormorò, «di cui tu non hai idea. Esistono altri mondi, mondi dello spirito, della mente, dell'anima. Esiste un'altra vita a cui tutti andremo, da cui tutti veniamo. I morti camminano e parlano con i vivi; i vivi dormono e parlano con i morti». Charlotte lo fissava a occhi spalancati, per quanto le era consentito dalle orbite ravvicinate. Quello era un lato di Ambie in cui non s'era mai imbattuta. Conosceva l'Ambie che schioccava le dita, che si lavava poco, che si occupava d'azioni, ma non l'Ambie spirituale, sensitivo. Era impazzito? Forse che il suo cervello albergava simili pensieri da tanti anni, oppure era saltato all'improvviso apprendendo che lei sapeva del tradimento con Lulu? «Esistono spettri», continuò Ambie, «spiriti invisibili che sono costantemente a fianco dei vivi. Chissà? Forse ce n'è uno qui, in questo momen-
to...». S'interruppe bruscamente, col respiro mozzo. Certo non c'era nulla che gli impedisse di parlare, ma le parole non gli uscivano più di gola, anche se Charlotte capiva che stava sforzandosi perché gli occhi quasi gli schizzavano fuori dalle orbite. Lei gli versò un bicchiere d'acqua e glielo tese. Lui se lo portò a pochi millimetri dalle labbra, ma si fermò lì. Pareva proprio che ci fosse qualcosa. Ma cosa? «Bevi!», consigliò Charlotte. «Glub!», disse Ambie. «Cosa ti succede?», gridò Charlotte. «Diglielo», disse Gramps, e tolse la mano dalle labbra di Ambie. Perché si trattava di Gramps, arrivato giusto in tempo per confermare la predica di Ambie sugli spiriti invisibili e troppo tardi per sentire parlare di Lulu. Ambie ruotò su se stesso. «Gramps!», urlò. «Sei proprio tu?». «È proprio chi?», chiese Charlotte (capite, Ambie era sensitivo, e quindi poteva vedere Gramps; ma Charlotte, che era solo una bistecca di manzo, non poteva vederlo). «È Gramps, il mio bisnonno, tornato dall'Altro Mondo. Oh, meraviglioso! Meraviglioso! Aspetta che lo racconti a Lulu!». Nella grande eccitazione, Ambie s'era scordato che davanti alla moglie non bisognava mai fare il nome dell'Altra Donna. «Su, su, Ambie», fece Charlotte con voce terrorizzata. «Siediti, è meglio». «Forse sì», ammise stancamente Ambie. Si piegò all'indietro, ma la sedia era scomparsa prima che il suo sedere arrivasse a toccarla. E lui atterrò, sempre col sedere, sul pavimento, e fece un bel tonfo. Poi parve di nuovo che lo strangolassero. Davanti alle sue labbra non c'era nulla di visibile, eppure lui lottava eroicamente per parlare senza risultati apprezzabili. I suoni che uscivano dalla sua gola non erano umani, ad ogni modo. «Me i a», gorgoliò. «St, Am!». Il che, tradotto, significava: «Smettila. Basta, Gramps!». Ma Charlotte non poteva capire. Lei vedeva solo un maniaco, forse un epilettico, che si rotolava sul pavimento e agitava le gambe e combatteva contro il nulla più assoluto (essere una bistecca di manzo è decisamente scomodo, in certi momenti). Alla fine Ambie si rimise in piedi e riprese controllo della sua lingua.
Girò la schiena a Charlotte e fronteggiò Gramps. «Bene!», disse. «Adesso che hai smesso di scherzare, sono proprio felice di vederti. E come stai bene!». Gramps stava proprio bene, tutto considerato. Sua moglie gli aveva tolto gran parte del fango cimiteriale dalla barba, e siccome il vestito in cui l'avevano sepolto era stato fatto prima della guerra (la guerra di secessione, ovviamente), quando la stoffa era buona sul serio, aveva retto sorprendentemente bene. «C'è da stupirsi che io stia bene», disse Gramps, astioso. «Con quel poco che riposo...». «Immagino che ci sia molto da fare... lì». «Più da fare del necessario», rispose Gramps, in un tono denso di sottintesi. Charlotte ascoltava sbalordita. Siccome non era sensitiva, udiva solo metà della conversazione, cioè quello che diceva Ambie. «A... chi... stai... parlando?», chiese perentoriamente. Ambie sussultò come se l'avessero punto. E lo avevano punto. Gramps ridacchiò maliziosamente. «Così dovresti imparare», disse Gramps. «Imparare cosa?». «Come ci si sente a essere perseguitati, a non poter riposare». Per un attimo Ambie pensò che il bisnonno si risentisse dell'interesse suo e di Lulu per l'Aldilà, poi decise che non poteva essere così e che era meglio ignorare la cosa. «Senti, Gramps», disse, «smettila di parlare a indovinelli. Come hai fatto a venire qui? È stato difficile superare la barriera?». «Io non sono qui», rispose Gramps. «Ci vorrebbero dei picconi per buttare giù quel muro di pietra. E poi ci sono due chiavistelli alla porta», aggiunse, petulante. «Certo che quando hanno costruito quella cripta avevano paura che io scappassi». «Ma sei qui», disse Ambie. «Ti vedo». Gramps pareva infastidito. «No. Sono sempre là, nella mia bara!». «Ma...». «Senti, Ambie. Hai mai letto Freud quando parla delle allucinazioni?». «Sì, ma...». «Be', eccoti la spiegazione!». Ambie respirò a fondo. «Ma tu non puoi aver letto Freud. Sei morto prima che lo traducessero».
«Mica ho detto che l'ho letto io», bofonchiò Gramps. «Ma tu sì. È quanto basta». «Vuoi dire», chiese lentamente Ambie, «che sei un'allucinazione, non uno spettro?». «E che differenza fa?», chiese Gramps, disinteressato. «Non so. Il libro l'hai letto tu. Dovresti saperlo». Charlotte si rifiutava di continuare a essere ignorata. «Ambie», urlò. «Smettila di parlare da solo!». In quel momento squillò il campanello. Charlotte aveva paura di lasciare solo Ambie per andare a vedere, e Ambie era troppo preso a scrutare con aria incredula Charlotte, per cui andò ad aprire Gramps. «Vuoi dire che non vedi Gramps?», chiese Ambie a sua moglie, stupitissimo. «Certo che no. E non lo vedi nemmeno tu!». «Non lo senti neanche?», insistette Ambie. «Non ho sentito proprio niente, a parte i tuoi folli borbottii». «Oilà!», strillò Ambie. «Allora sono proprio sensitivo. Lulu l'ha sempre detto». Si voltò a un'occhiata di Charlotte, e scoprì il reverendo che s'appoggiava al muro, pallido e scosso, e s'asciugava la fronte. «Chi ha aperto la porta?», sussurrò il ministro di Dio. «Ho aperto io», disse Gramps. Il reverendo, che non era nulla di più che una bistecca di manzo con vocazione spirituale, non aveva visto Gramps alla porta e adesso non lo sentiva. Ambie capì che stava aspettando una risposta. «Ho aperto io», disse Ambie. «Ma... ma... lei era qui». «Un esercizio di magia», rispose allegramente Ambie. «Me l'ha insegnata il mio bisnonno. Il corpo è più veloce dell'occhio, roba del genere, sa. Si accomodi, reverendo». Il reverendo s'accomodò. Per terra, com'era successo ad Ambie pochi minuti prima (Gramps, che aveva un'età rispettabile, non conosceva troppi scherzi nuovi. Non si sa con precisione se lo schiaffo del soldato era già in voga ai suoi tempi. Per cui, il togliere la sedia da sotto un sedere era ancora il massimo dell'umorismo, per Gramps). E questo non bastava. Gramps stava pensando a tutte le domeniche trascorse in chiesa ad ascoltare promesse di riposo eterno, e gli veniva in
mente a quale indecente ora del mattino Ambie lo svegliava ogni domenica. Appena riconosciuto il collarino bianco del reverendo, decise di vendicarsi per almeno una di quelle domeniche. Charlotte aiutò il ministro a rimettersi in piedi, mentre Ambie teneva ben salda la sedia. «Basta, Gramps», disse Ambie. «Falli a me i tuoi scherzi, se proprio devi scherzare. Ma i nostri ospiti...». S'interruppe, sentendosi soffocare. Gramps lo prendeva in parola. D'improvviso si udì risuonare un gran colpo. «Ambie! Non schioccare le dita», disse Charlotte. Ambie si portò una mano alla guancia. Quando la tolse, da sotto l'orecchia partiva l'impronta di cinque dita molto ossute. «Gramps», piagnucolò, «basta. Non so cos'ho fatto per...». La frase non venne terminata. E nemmeno Gramps aveva terminato. Ambie cercava di nuovo, disperatamente, di parlare. Il reverendo puntò gli occhi su Ambie e si tirò indietro. «Cosa c'è, signor Collins? Non sta bene?», Ambie decise di smettere coi suoi tentativi di discussione. Scosse la testa e s'incamminò verso l'altro lato della stanza. A mezza strada il suo piede rimase come impigliato e lui cominciò a fare qualcosa che sembrava la Danza delle Belle Statuine, solo che non danzava per niente. Era fermo al centro della stanza e saltellava sul nulla. Il tappeto era perfettamente liscio, senza rughe; le stringhe delle sue scarpe erano allacciate; le giarrettiere gli reggevano i calzoni: a occhio e croce, non c'era proprio niente che gli impedisse di avanzare. Eppure, non procedeva. «Aia!», urlò. «Tiralo via! Cos'è?». «Filo di ferro spinato», ridacchiò Gramps. «L'hanno lasciato nella cripta i muratori. L'ho sempre detto che sarebbe venuto buono». «Be', riportatelo indietro. E vattene anche tu». «Io sono già nella cripta», notò Gramps. «E anche il filo di ferro. Tieni a mente Freud, le allucinazioni...». «Vattene!», gridò Ambie. «Insomma, signor Collins», disse il reverendo, «con chi sta parlando?». Gli occhi di Charlotte si facevano sempre più spaventati, ma dietro quelle pupille nasceva il seme d'un pensiero. «Ambie», disse sua moglie, gentilmente, «qui ci siamo solo noi. Vieni. Siediti qui e parla un po' col reverendo. Io preparo la limonata». Ambie andò. E sedette. Ma non poteva parlare. Appena si sentiva pron-
to, Gramps schiaffava una mano invisibile sulle sue labbra e Ambie non poteva più parlare. Il reverendo fece del suo meglio, producendosi in una conversazione a senso unico. Dissertò del tempo e della parrocchia, e alla fine arrivò al punto cruciale: voleva raccogliere soldi per costruire una nuova ala della chiesa (da quei soldi, tra parentesi, si aspettava interessi niente male). Quando, di punto in bianco, chiese ad Ambie una donazione, Gramps tolse la mano dalla bocca di Ambie quel tanto da permettergli di dire: «Sì». Il reverendo tirò fuori un'impegnativa e Ambie firmò: duecento dollari. Il che significava circa venti dollari per le sue casse private, e più di tanto non poteva sperare di ricavare da un singolo parrocchiano, per cui si alzò e se ne andò. Disse che non voleva la limonata, dopo tutto: gli disturbava la digestione. Comunque Charlotte non stava preparando la limonata. Stava telefonando al suo avvocato. Era domenica mattina, e nella cripta tutto era tranquillo. Fino alle nove. Poi da sopra venne il rimbombo dei passi, il rumore della pala che scavava. Un poco più tardi, quando il vaso di fiori giunse all'estrema dimora, ci fu un pesante tonfo. Poi Ambie attaccò a passeggiare in su e in giù, meditando ad alta voce sulle virtù dei cari estinti. «Mia madre», disse, «e mio padre. E il mio caro nonno e la mia cara nonna e il bisnonno, che ha fatto tutti quei soldi. E la bisnonna, che mi portava sempre le caramelline alla menta, e lo zio Ned, che mi faceva saltare sulle ginocchia». Passò in rassegna l'intero albero genealogico (compresi persino i parenti poveri che giacevano nella loro bara di sopportazione e il piccolo Willie, che aveva sempre detestato) finché ad un certo punto Gramps non ce la fece più. «Vattene via, idiota!», urlò. «Vattene! Lasciami dormire!». Ma quel giorno, chissà perché, Ambie non lo sentiva. Forse i poteri allucinatori di Ambie erano più deboli, forse la voce fragile di Gramps non era abbastanza forte da superare lo strato di terra e pietra che li separava, per non parlare dei mondi che li dividevano; o forse la scarsa sensitività di Ambie era dovuta al fatto che, per quanto si lamentasse a voce tanto alta, i suoi pensieri erano completamente presi da Lulu, e in modo tutt'altro che spirituale! E così, sordo all'irritazione di Gramps, Ambie tirò avanti coi suoi gemiti. Perché quella domenica si sentiva straordinariamente grato a Gramps. Capite, Charlotte aveva abbandonato il tetto coniugale la stessa sera di vener-
dì, e la sua richiesta di divorzio stava già andando avanti. Charlotte aveva soppesato i fatti e aveva deciso che la mancanza di un uomo era meglio di un uomo pazzo. Inoltre, la follia di Ambie spiegava a sufficienza come mai lui le preferisse Lulu. L'orgoglio era salvo. Gli alimenti sarebbero bastati a permetterle una vita decente, e per di più non avrebbe sentito dita che schioccavano. Sicché Ambie traboccava d'amore e gratitudine per Gramps, che aveva indotto Charlotte a chiedere il divorzio. E continuava a lamentarsi. E Gramps urlava. E la bisnonna disse che quel baccano le stava facendo venire un mal di testa spaventoso e perché cavolo quelli dicevano sempre che uno era «tranquillo come un morto». Alla fine il piccolo Willie si risvegliò e saltò fuori dalla sua bara e cominciò a giocare al vampiro col falso zio Ned. Il falso zio Ned gli diede una sculacciata e maledì il giorno che quei disgraziati avevano confuso le sue ossa con quelle di zio Ned e lo avevano seppellito lì. E zia Pansy, la zitella, si tuffò nei rimpianti: «Se solo avessi sposato quell'uomo, anche se non era degno di me, forse mi avrebbero seppellita nella sua cripta di famiglia, non qui. Forse mi sarebbe stato concesso un po' di quel riposo eterno che promettevano». I parenti poveri non dissero nulla perché, dopo tutto, erano ospiti sgraditi, ma ciò che pensarono era sufficiente a risvegliare l'intero clan dei Collins. Ma Ambie continuò a piagnucolare dalle nove a mezzogiorno, e poi si rimise il cappotto nero e s'infilò in macchina e corse da Lulu. Lui e Lulu dovevano andare a una seduta spiritica, ma pensava che forse avrebbero rinunciato e si sarebbero fermati in riva al lago. (1) I bambini imparano un sacco di cose divertenti, dopo morti (Nota dell'Autore). (2) Non succede niente a spaventare i bambini dopo morti. Potete fargli venire tutte le psicosi che volete. Tanto non cresceranno, grazie al cielo (Nota dell'Autore). Titolo originale: Please Go Away and Let Me Sleep. Il giorno smarrito AUGUST DERLETH Jasper Camberveigh era un uomo metodico, abituato ad alzarsi ogni
mattina alle sette in punto qualsiasi tempo facesse; ma quella mattina, inspiegabilmente, si svegliò con mezz'ora di ritardo. Questo era già un motivo di disagio. C'era poi una strana circostanza che, egualmente, Camberveigh non si sapeva spiegare. Quando aveva guardato nello specchio della stanza da bagno, il volto riflessovi non era il suo. E la cosa più singolare era che per un attimo non si era reso conto che non si trattava della sua faccia, benché quel volto dimostrasse chiaramente quasi il doppio dei suoi cinquant'anni. Poi accadde qualcosa: a lui, allo specchio, al suo senso dell'equilibrio; rischiò di cadere; l'immagine riflessa divenne offuscata, le sue fattezze lasciarono il posto ai lineamenti familiari del suo viso e in pochi secondi si trovò a fissare i propri occhi azzurri e perplessi, sfiorando colle dita la mascella contratta. Anche questo sgradevole malessere non fu l'ultimo degli eventi misteriosi di quella mattina. Infatti quando accese la radio per ascoltare il solito notiziario della B.B.C., la prima cosa che sentì fu questo annuncio: «Sabato, diciassette maggio. Bombardieri inglesi hanno sorvolato il territorio nemico la scorsa notte...». Sabato, diciassette maggio! La prima cosa che venne in mente a Camberveigh, che era una persona scrupolosa e abitudinaria, fu che l'annunciatore si fosse sbagliato, ma quando la voce monotona del radiocronista continuò a descrivere gli avvenimenti del venerdì precedente, Camberveigh fu costretto ad ammettere che doveva essere veramente sabato mattina. Ma allora che fine aveva fatto il venerdì? Perché Camberveigh era andato a letto giovedì sera, e quindi, in base a tutte le leggi che regolano spazio e tempo, doveva essere venerdì mattina! Si sentì estremamente a disagio. Se giovedì fosse stato indisposto avrebbe anche potuto ammettere, per quanto improbabile, d'aver dormito per tutta la giornata di venerdì, ma al contrario giovedì era stato in condizioni di spirito e di salute eccezionali; aveva fatto il solito giro dei negozi di libri usati, ed infatti c'era quel vecchio libro rilegato in pelle che doveva restituire a Max Anima, giù a Soho, e poi era andato a letto alla solita ora, le undici, come aveva sempre fatto sino dalla morte di sua moglie, cinque anni prima. D'altronde quel mattino si sentiva come al suo solito, salvo per quella bizzarra avventura nella stanza da bagno e salvo naturalmente l'essersi svegliato mezz'ora più tardi del normale. Mezz'ora! Diamine, un giorno e una notte più tardi! E come se non bastasse, la mezz'ora!
Camberveigh si rase e fece colazione, preoccupato. Se davvero aveva dormito per tutto venerdì avrebbe dovuto essere più affamato di quanto non fosse in effetti. Ma non aveva più appetito del solito. E poi se non si era fatto la barba venerdì, avrebbe dovuto averla più lunga. A ciò si aggiunga che svariati oggetti in casa erano stranamente fuori posto, sicché tutto ciò lo portò a concludere che, inequivocabilmente, non aveva dormito per tutta la giornata di venerdì. Quindi, com'è ovvio, doveva essersi alzato ed aver fatto qualcosa, ma per quanto si lambiccasse il cervello non gli riuscì di ricordarsi nulla; la sua memoria era completamente vuota. Eppure non proprio del tutto: nel suo subconscio avvertiva l'assillante certezza che ci fosse qualcosa di strano e di terribile, che avrebbe dovuto sapere. Tuttavia Camberveigh era di carattere alieno dalle fantasie e si rifiutava di dar peso a vaghi timori, premonizioni, sospetti e simili. Accertato il fatto che, in un modo o nell'altro, non riusciva a ricordarsi cosa avesse fatto venerdì sedici, doveva fare quel giorno ciò che avrebbe dovuto fare venerdì. Doveva restituire al vecchio libraio il volume che Anima gli aveva prestato, e doveva andare a trovare il suo medico per scoprire se quell'improvvisa amnesia a proposito del giorno precedente poteva essere un sintomo di qualche malattia grave. Meglio prima che dopo, pensò. Così, ancora preoccupato per quel vuoto di memoria, Camberveigh si sedette e dette uno sguardo al libro. Anima lo aveva costretto a prenderlo, dicendo che era pieno di bizzarrie antiche, ed in effetti era proprio così. Esaminò la rilegatura ed ebbe la sgradevole sensazione che il volume fosse ricoperto con pelle umana. Era scritto in latino e risultava piuttosto difficile da leggere, dato che la stampa si era sbiadita in molti punti. Era tuttavia chiaro che si trattava di uno di quei singolari libri che parlano di demonologia e di simili faccende occulte, ed egli si chiese un po' perplesso per quale motivo Anima aveva tanto insistito perché lo prendesse, dato che sapeva bene che i suoi interessi riguardavano soprattutto l'entomologia e l'ornitologia e che entrambe avevano ben poco a che fare con l'occulto. Dette un'occhiata a qualche passaggio qua e là, traducendo mentre leggeva. «L'evocazione dall'Abisso di Colui che Vi Servirà, può essere realizzata in questa maniera...», e seguiva una formula complicata. Voltò alcune pagine. «A mezzanotte è possibile richiamare le anime dei defunti, e comunicare spiritualmente con esse interrogandole sul futuro...». Sfogliò alcune altre pagine. «È così che per mezzo di un oggetto maledetto, è possi-
bile far uscire dal corpo il proprio "Io", il corpo astrale, ed impossessarsi di un'altra persona per un certo tempo, e precisamente solo per il periodo in cui l'oggetto rimane in suo possesso». Continuò a sfogliare il libro. «Quentus ha sempre con sé un grande cane nero, che si ritiene sia il suo Familiare, qualche crudele demone evocato dall'Abisso e posto al suo servizio ...». Certo, rifletté Camberveigh, a pensarci senza pregiudizi era interessante; ma non era cosa per lui e doveva, sia pure a malincuore, restituirlo senza perdere altro tempo. Aveva già così poco tempo da dedicare ai suoi studi. Incartò scrupolosamente il libro, si vestì, prese l'ombrello nonostante la giornata fosse straordinariamente mite, e si avviò verso lo studio del dottore che si trovava a pochi passi da casa sua. Non aveva assolutamente nulla fuori di posto. «Lei è perfettamente sano», disse il dottore. «Quanto le è successo è certamente strano, ma niente affatto unico. Cose del genere sono già successe e succederanno di nuovo. Se ne dimentichi». «Eppure ho la sensazione che ci sia qualcosa a proposito di ieri che dovrei sapere». «Se fossi nei suoi panni mi sentirei anch'io così». Un po' rassicurato, Camberveigh riprese la sua passeggiata. Scese nella metropolitana e mentre aspettava il suo treno comprò una copia del Daily Telegraph. Bombardamenti inglesi, minacce di rappresaglia da parte tedesca, gli spagnoli che adulavano l'Asse, gli Americani che adulavano la Spagna; disgustoso! Passò ad una pagina interna e scoprì che un suo conoscente era morto di morte violenta. «L'assassinio di Rochard Craig», diceva il titolo dell'articolo. «Nessun nuovo elemento è sino ad ora emerso nella ricerca dell'assassino che nella giornata di ieri, dopo essere penetrato nell'abitazione di Rochard Craig, lo ha ucciso essendo stato scoperto nell'atto di saccheggiare gli scaffali pieni di libri antichi e rari, che costituivano il tesoro della collezione di Craig. Craig è stato pugnalato a morte. Ricerche sono in corso per recuperare i volumi sottratti, ma le speranze sono esigue...». Era orribile, rifletté meccanicamente Camberveigh, e passò a leggere l'abituale servizio sugli uccelli locali, firmato da un apicoltore del Sussex, ora in pensione. Finalmente arrivò il suo treno ed egli lo prese fino a Soho, gustandosi nel frattempo la relazione su ciò a cui fanelli, cucù e qualche raro falcone pellegrino si erano dedicati, durante l'ultima settimana, nel Sussex. Colse il corrispondente lievemente in errore, o almeno così pensava, e si ripromise mentalmente di scrivergli e di sottolineare la cosa per quanto banale fosse.
Le curiosità scientifiche vanno osservate con scrupolo, non bisogna confondere la fantasia con i fatti, ed occorre attenersi rigorosamente alla verità. Questo era il solo atteggiamento appropriato. Arrivò alla piccola libreria d'angolo di Anima poco dopo l'ora di pranzo, ma essendo per abitudine poco interessato al cibo non se ne preoccupò. Il negozio era, come sempre, in ombra; era situato in un vicolo angusto ed anche quando il sole splendeva, non vi penetrava mai molta luce. Camberveigh lo aveva notato in occasione della sua prima visita al negozio di Anima, che era avvenuta poco più di due settimane prima dopo il casuale incontro con il libraio in un rifugio antiaereo. A quanto pareva, ad Anima piaceva così. Rimase per un po' in piedi ad aspettare; forse il libraio stava pranzando o forse non aveva sentito il campanello suonare. Dopo aver atteso vanamente qualche altro minuto tornò sui suoi passi fra mucchi di libri e toccò la campanella coll'ombrello. Questa volta Anima sbucò dalla stanza sul retro. Era un ometto rugoso, dall'aria gracile, ed avanzò con espressione ossequiosa e sguardo furtivo. «Ah, è lei», disse con una familiarità quasi offensiva. «Mi avete riportato il libro, eh?». I suoi occhi fissarono il pacchetto che Camberveigh teneva in mano e, almeno avrebbe giurato, si accesero di una strana ed avida luce di possesso. D'improvviso Camberveigh sentì la propria voce dire: «Be, no, mi dispiace signor Anima, ma l'ho trovato così interessante da leggere che vorrei dargli un'occhiata ancora per un po'. Pensavo che non vi sarebbe dispiaciuto se lo avessi tenuto almeno fino a domenica». Anima era deluso. Lanciò a Camberveigh uno sguardo acuto e inquisitorio, ma sembrò soddisfatto di quanto lesse sul suo volto. Assentì con un cenno dicendo che andava bene e che Camberveigh poteva leggerlo se voleva. «Ma non oltre lunedì, badate! Dovete restituirmi il libro lunedì. Ne ho bisogno. Lo sto... studiando». Camberveigh lasciò il negozio perplesso. Quale inspiegabile motivo lo aveva spinto a tenersi il libro? Perché si era trovato improvvisamente a pensare che ci fosse qualcosa di sinistramente familiare nel vecchio, che egli aveva sempre osservato con la più distaccata indifferenza ogni qualvolta lo aveva incontrato in precedenza? Era fuori dal normale, eppure, lo era poi davvero? Con un brivido di agghiacciante sorpresa ebbe la sensazione che dalla sua ultima visita al negozio, doveva avere rivisto un'altra volta la faccia di
Anima. Il sospetto divenne certezza, al di là di ogni dubbio. Per quanto confuso, sapeva che era stato il volto di Anima a fissarlo quel mattino dal suo stesso specchio! Durante il ritorno a casa cercò di dare un senso al suo comportamento, ma era impossibile spiegarlo razionalmente. D'improvviso, nell'ombra del negozio, di fronte alla bramosia di Anima di tornare in possesso del suo strano libro, Camberveigh si era sentito prendere da un'innaturale determinazione a tenerselo. Aveva agito d'impulso, ciò che non gli era mai successo in precedenza. Ma adesso, seduto nella vettura della metropolitana, sentiva dentro di sé un gran turbamento, un conflitto di emozioni radunate in chissà quale insondabile angolo della sua anima; ancora una volta fu colpito dal pensiero che ci fosse qualcosa che avrebbe dovuto sapere a proposito del giorno prima, ma era convinto di essere sul punto di scoprirlo, anzi di sapere già cosa fosse, se solo fosse riuscito a capirlo. Era straordinario ed estremamente seccante per un uomo metodico come Camberveigh. In realtà non voleva avere più nulla a che fare col libro di Anima. A quale perverso capriccio doveva imputare il suo comportamento? Aveva avuto tutto il tempo di esaminare il libro, per cui cominciava anzi a sentire un vago disgusto, una avversione che come il suo improvviso impulso di poco prima non sapeva spiegarsi. Si portò il libro a casa e disfece nuovamente il pacchetto. Era senza dubbio ricoperto di pelle umana. Impossibile precisare quanto fosse vecchio, ma non si trattava tanto di un libro vero e proprio, quanto di una raccolta di scritti stampati in varie epoche, riuniti da qualche collezionista ormai morto da un pezzo e rilegati in quel modo orribile. Camberveigh rifletté che probabilmente risaliva al tempo in cui le Messe Nere ed il culto del demonio erano praticati a Londra, ma era incerto a proposito del periodo. Lasciò perdere il libro e si dedicò a rispondere alla posta del mattino. Non riusciva però a concentrarsi sulla corrispondenza; cominciò a pensare al libro, ad Anima ed alla sua strana ansia, prima di darglielo ad ogni costo e poi di riprenderselo. Rifletté sull'incredibile fascino che il libro pareva esercitare su di lui, al tempo stesso in cui era ben cosciente d'un senso di repulsione. Finalmente si alzò, incapace di trattenersi ancora, riprese il libro e lo aprì, visto che tanto valeva occuparsene in maniera ordinata e leggere fin-
ché non ne fosse stato completamente stufo. E così fece. Lesse tutto a proposito di demoni, streghe, negromanti, riti cabalistici, alcune strane pratiche druidiche, antiche religioni, spettri, corpi astrali e possessioni; lesse fino al tramonto e finalmente mise giù il libro. Di solito a quell'ora, essendo una persona molto ordinata, metteva a posto il suo appartamento. Aggirandosi per la casa a tale scopo s'imbatté nel suo abito grigio, gettato dietro una sedia imbottita. Ed era uno dei suoi abiti migliori, per giunta! Com'era finito lì? Lo raccolse indignato. Certamente non poteva essere stato lui, neppure in stato di trance, ammesso che venerdì lo fosse stato! Come se non bastasse, quando lo ebbe raccolto si accorse che non solo il vestito era malamente spiegazzato, ma anche molto sporco e pieno di polvere, come se lo avesse indossato per trasportare qualcosa d'impolverato, ed infine s'accorse che era stato macchiato in varie parti da qualcosa che aveva tinto di marrone il tessuto, asciugando, e che sembrava ruggine. Spazzolò la giacca e poi decise di tentare di lavarla nella tinozza in bagno, inumidì con precauzione una delle macchie e provò a strofinarla. L'acqua assunse una strana colorazione, d'un marrone rossiccio, e quella nel catino appariva come quella di quando un mese prima, dopo essersi fatto un brutto taglio, aveva lavato un fazzoletto macchiato di sangue. Camberveigh si irrigidì e fissò l'acqua. Cos'era quello che v'intravvedeva? Quali abissi d'oscurità e d'orrore lo fissavano da quell'acqua bizzarramente colorata? Tornò a guardare l'abito e d'improvviso lo gettò via. Poi lo raccolse di nuovo e lo fissò con più attenzione. Se le macchie erano sangue, cos'aveva lasciato quei segni così fitti di polvere e di sporco? Come se avesse trasportato dei libri, stringendoli al corpo? Sentì la bocca e la gola inaridirsi ed iniziò a tremare lievemente. Ciò che gli era passato per la testa era sicuramente assurdo! Eppure ora, inesorabilmente, la sua stessa logica cominciava ad imporsi. Tornò colla mente alla visita che aveva fatto ad Anima giovedì; ricostruì, parola per parola, la loro conversazione. «Conoscete Rochard Craig?», aveva chiesto Anima. «Si». «Siete mai stato a casa sua?». «Oh, sì». «La conoscete bene, allora, eh? Avete visto la sua collezione?». «Sì, sebbene io non sia molto interessato ai libri». «Già, voi amanti di insetti e di uccelli non apprezzate le cose inanima-
te». Tutto ciò gli risovvenne con straordinaria chiarezza. Anima aveva parlato di Rochard Craig; la sua invidia nel menzionare alcuni dei libri di Craig era evidente. Quali erano? La sua mente ordinata ricordava al momento solo un paio di titoli, ed egli corse a prendere il giornale e li cercò fra quelli indicati come mancanti dalla collezione Craig. Erano tutti lì, debitamente annotati. Camberveigh si versò un whisky e soda e lo bevette d'un fiato. Poi tornò a prendere in mano quell'orribile libro, che si trovava ancora sul tavolo dove lo aveva lasciato. Dopo aver cercato per un po' trovò il passo che gli era tornato in mente. «È così che per mezzo di un oggetto maledetto, è possibile far uscire dal corpo il proprio "Io", il corpo astrale, ed impossessarsi di un'altra persona per un certo tempo e precisamente solo per il periodo in cui l'oggetto rimane in suo possesso». Continuò a leggere con crescente meraviglia. Ciò che vi stava scritto era inconcepibile, incredibile, eppure... Eppure c'erano quelle macchie di sangue sul vestito; c'erano i segni, come se avesse trasportato dei libri; c'erano tante circostanze strane, che non poteva trattarsi solo di una coincidenza. E l'oggetto maledetto! Sicuramente si trattava del libro! Anima glielo aveva dato e per tal via si era in qualche modo impossessato di lui. Ecco che fine aveva fatto il suo giorno smarrito. Per quanto pazzesco fosse, contro ogni ragionevolezza, pure era la sola spiegazione plausibile di cos'era successo del suo venerdì. Continuò a leggere, cercando di dimenticarsi del suo naturale scetticismo scientifico. Apparentemente chi proiettava il corpo astrale correva un solo pericolo: finché il suo «oggetto» non gli veniva restituito, proprio a causa della possessione da lui operata anche l'altro aveva a disposizione un ponte fra di loro; certo era questa la ragione della bramosia di Anima di tornare in possesso del libro. Sì, era innegabile, ciò forniva una spiegazione chiara, in cui ogni tessera del mosaico trovava il suo posto. Camberveigh si lasciò cadere su una sedia, mentre gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte. Si accese una sigaretta. Doveva pensare. Si rendeva perfettamente conto che se le indagini sulla morte di Rochard Craig (oh, era orribile! Si sentiva rivoltare all'idea di aver potuto commettere qualcosa di simile), fossero mai arrivate fino a lui, non avrebbe avuto la più pallida speranza di cavarsela. C'era la prova del suo abito, ridotto in quel modo, e sarebbe stato facile analizzare il sangue; c'erano i libri: senza
dubbio li aveva Anima ed era certo che avrebbe dichiarato che Camberveigh glieli aveva portati venerdì, quel maledetto giorno andato smarrito. E forse c'era anche l'arma! Balzò in piedi di colpo e cominciò a cercare febbrilmente. In meno di mezz'ora la scoprì: un piccolo stiletto che aveva comprato molto tempo prima ad un'asta di Petrie. Era goffamente nascosto dietro uno scaffale di libri. Quale prova! Lo tirò fuori e lo lavò scrupolosamente. Si era fatto piuttosto tardi ed era scesa l'oscurità. Passeggiò per qualche momento avanti e indietro nella sua stanza, immerso in profondi pensieri, ma alla fine tornò a prendere il libro. Doveva fare quello che aveva fatto Anima? Ancora incredulo prese il volume, si sdraiò ed iniziò a seguire le istruzioni, esposte in quel latino elaborato. Dopo un po' gli parve di dormire... e di sognare. Strade nebbiose e la corruzione di Londra silenziosa nella notte; una Londra in cui nulla era materiale; e lui passava attraverso le pareti come fossero aria, rapidamente, velocemente, riconoscendo strade, vicoli, edifici; adesso era a Soho e stava scendendo per quella stretta viuzza, penetrando in quel negozietto d'angolo coi suoi libri ammuffiti. E gli parve di penetrare nella figura avvizzita e contorta che giaceva addormentata sul letto, di impadronirsi del suo corpo e distruggerlo. Poi di nuovo la nebbia e la notte, e Londra addormentata, eccetto per quelle creature dagli occhi torvi, insonni, che camminavano per le sue strade di notte, nascoste pietosamente dall'oscurità, i dimenticati e i vagabondi... Dopo un certo lasso di tempo si risvegliò faticosamente, stanco come se non avesse dormito affatto. Eppure aveva dormito. Si era svegliato esattamente alle sette di domenica mattina. Ah, che razza di sogno aveva fatto! Ma... era stato un sogno? Era ancora completamente vestito. Balzò dal letto e gettò per terra quel dannato libro di Max Anima. Con un brivido di disgusto lo raccolse e tornò a posarlo sul tavolo. Non era stato un sogno. C'era ancora il suo vestito con quelle spaventose macchie che lo accusavano. E c'era anche lo stiletto. E, ciò che era peggio, c'era il libro rilegato in pelle umana. Chi poteva dubitare che fosse maledetto? Collera, rabbia impotente ed amarezza si alternarono dentro di lui. Gli occorse qualche minuto per soffocare queste emozioni ed affrontare il pro-
blema con l'essenziale lucidità che gli era propria. Ripensò alla sua situazione; non era delle migliori. Sicuramente era impossibile che nessuno lo avesse visto in prossimità della casa di Craig; quanto ad Anima non doveva essersi granché preoccupato di essere visto di persona. Anche se lui, Camberveigh, avesse intuito l'accaduto, poteva forse andare a raccontarlo alla polizia? Già si figurava come avrebbero accolto un simile racconto senza capo né coda! Raccolse frettolosamente il libro, prese il vestito e scese in cantina, dove, dopo aver acceso il fuoco nella caldaia, distrusse accuratamente entrambi. Dopo aver completato l'operazione tolse la cenere, raffreddò la caldaia, e gettò finalmente la cenere nel canale di scolo. Poi prese lo stiletto, uscì e lo gettò nel Tamigi che scorreva poco lontano. Fatto questo tornò a casa, si sbarbò accuratamente e si preparò qualcosa per colazione, mentre rifletteva. Se qualcuno lo aveva visto durante quel venerdì di cui non ricordava più nulla, con ogni probabilità la polizia sarebbe stata ben presto fuori dalla sua porta. Perlomeno adesso aveva distrutto le prove. Aveva più di una probabilità di cavarsela. Iniziò istintivamente a prepararsi ad affrontarla. Sapeva bene di non essere colpevole, ma non c'era alcun modo di coinvolgere Anima, proprio nessuno. Comunque cominciava ad essere assalito da grossi dubbi, a proposito dell'intera faccenda. In effetti quel maledetto libro suggeriva che nessuna forza psichica può costringere qualcuno a fare una qualsiasi cosa che sia contraria alla propria natura, e le implicazioni di ciò erano veramente mostruose! Accese la radio e cercò un notiziario. Era un po' in ritardo. Perse il bollettino di guerra, ma riuscì a sentire le ultime notizie londinesi. «Max Anima, un eccentrico commerciante di libri, famoso per la sua abilità nel procurarsi volumi rari e copie uniche di testi esauriti, è stato trovato morto questa mattina nel retro della sua libreria. Apparentemente si è suicidato. La porta della stanza era chiusa dall'interno...». Sicché, pensò, era proprio come aveva immaginato! In quell'istante bussarono alla porta con forza ed autorità. A noi, pensò, ed andò con fiducia ad aprire la porta. Un ispettore di Scotland Yard era fermo sul pianerottolo. Con un cortese «buon giorno» entrò con aria sicura.
Titolo originale: The Lost Day. FINE