COSMO — Classici della fantascienza. Direttore responsabile: Gianfranco Viviani Titolo originale: THE SIRENS OF TITAN T...
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COSMO — Classici della fantascienza. Direttore responsabile: Gianfranco Viviani Titolo originale: THE SIRENS OF TITAN Traduzione di Roberta Rambelli Casa editrice La Tribuna, Piacenza. Prima edizione italiana: 1965 nella collana SFBC, La Tribuna, Piacenza Seconda edizione: 1981 © 1959 by Kurt Vonnegut Jr. © 1981 per la lingua italiana, by Editrice Nord Stampato dalla litografia AGEL, Rescaldina (Milano).
Introduzione di Pietro Adamo Presentazione di Carlo Pagetti
kurt vonnegut LE SIRENE DI TITANO
EDITTRICE NORD
«Ogni ora che passa porta il Sistema Solare quarantatremila miglia piú vicino all'Ammasso Globulare M 13 nella costellazione d'Ercole... eppure vi sono ancora certi incompetenti i quali insistono che il progresso non esiste». Ransom K. Fern
INTRODUZIONE
Kurt Vonnegut di Pietro Adamo
«“Signor Trout”, gli dico, “sono un romanziere e l’ho creata per usarla nei miei libri”. “Chiedo scusa?”, risponde lui. “Sono il suo creatore. Lei ora è nel bel mezzo di un libro … verso la fine, a dirla tutta”. “Uhm”, dice lui. “C’è qualche domanda che vorrebbe farmi?”. “Cosa?”, bofonchia. “Si senta libero di chiedere tutto ciò vuole … sul passato, sul futuro”, gli dico, “c’è un premio Nobel nel suo futuro”. “Un cosa?” “Un premio Nobel per la medicina”. “Uhm”, fa lui, con un suono affatto impegnativo. “Ho anche fatto in modo che d’ora in avanti lei abbia un editore rispettabile. Basta libretti porno per lei”. “Uhm”. “Se fossi al suo posto, avrei un sacco di domande”. “Hai una pistola, lì?”. Questa straordinaria conversazione si svolge tra Kurt Vonnegut, autore, e Kilgore Trout, personaggio (ispirato ad un altro grande scrittore di SF , Theodore Sturgeon: Theodore-Kilgore Sturgeon-Trout, Storione-Trota), verso la chiusa di Breakfast of Champions. Il povero Trout, appena riemerso ferito da una triste vicenda (il suo fanatico allievo Dwayne Hoover ha tentato di ucciderlo, lui e altri), si trova di fronte il suo Demiurgo: sarà un altro pazzo, pensa, magari armato … Ci vorrà un viaggetto psico-letterario tra il Taj Mahal, Venezia e la superficie del Sole per convincerlo che no, non è in presenza di uno psicotico, ma di Kurt Vonnegut in persona, signore e padrone del suo destino. Nella comparsata di Kurt – non saprei come altro definirla – troviamo una delle metafore centrali della sua narrativa, quella
della creazione e delle sue responsabilità, si tratti di uno scrittore alle prese con i suoi divaganti personaggi, di un artista disimpegnato (Rabo Karabekian di Bluebeard), di uno scienziato troppo preso nel suo ruolo (Hoenikker in Cat’s Cradle, Daffodil in Slapstick o Roomford in Sirens of Titan), e ovviamente della divinità e della sua varia presenza/assenza, spesso raccontata attraverso i culti creati ex novo dei suoi primi romanzi. Ma per Vonnegut la «creazione», cifra esistenziale dell’homo faber occidentale, non è una cosa seria: l’intera civiltà umana è stata creata unicamente per produrre una striscetta di metallo utile a riparare l’astronave di Salo, il robot tralfamadoregno tra i protagonisti di Sirens, arenato appunto su Titano. E Salo è incaricato di consegnare un messaggio importante: Greetings … È da questo punto di vista, cinico da un lato e sardonico dall’altro, che Vonnegut guarda al mondo che lo circonda, compreso, ovviamente, il mondo particolare costituito dalle sue narrazioni. È un’osservazione, la sua, ironica e divagante, che situa le follie degli esseri umani tra il disperato e il divertito. Il disperato è dato da un’umanità evidentemente non compos mentis, che si dà al nazismo per finta, «fa la prova» dell’atomica su una cittadina di cui a nessuno importa, fonda «la chiesa di Dio supremamente indifferente», e via dicendo. Il divertito è dato dalla consapevolezza di condividere questa stessa follia, di non potersene davvero tirare fuori, di essere parte in causa: nell’introduzione all’edizione del 1966 di Mother Night scrive, tongue in cheek (e dopo aver raccontato seriamente del bombardamento di Dresda), che «se fossi nato in Germania, sarei probabilmente diventato un nazista e mi sarei messo a spostare qua e là ebrei, zingari e polacchi». È un’ironia autoriale, quella di Vonnegut, che presta ai suoi romanzi una a volte irresistibile cifra comicosatirica, anche quando affrontano temi drammatici. È una cifra che mi pare vicina, ma non sovrapponible, a certa tradizione ebraica dei Cinquanta: dal Max Shulman di Missili in giardino e A ciascuno il suo fiammifero al Jerry Lewis dei primi film
senza Dean Martin, da Bob Hope a Lenny Bruce alla coppia Mike Nichols/Elaine May sino a certe pagine di Saul Bellow, per giungere poi a Woody Allen a Mel Brooks. Non sovrapponibile perché, al contrario di questi comici ebrei, il «tedesco» Vonnegut non solo vira molto più verso un nero assurdista, ma è post-moderno sino in fondo, coinvolgendo nella follia dell’Occidente se stesso come autore e persino, come si è visto, come personaggio … Dal punto di vista stilistico questo atteggiamento si riflette nella scelta di «frammentare» il racconto in microsezioni, ottenendo non solo l’effetto straniante della divagazione temporale estemporanea (principio condensato, per esempio, nelle vicende dei protagonisti di Sirens e di Slaughterhouse Five, con Roomford e il cane bloccati nell’«infundibolo» che li proietta nello spazio-tempo sotto forma di onda, e Billy Pilgrim che viaggia a casaccio nella sua stessa vita, anche se si trova nello zoo di Tralfamadore con la sua sexy star personale), ma anche una più diretta partecipazione autoriale (in prima persona, come abbiamo visto) e un effetto narrativo quasi mirato alla forma «morale» dell’aforisma. Vonnegut è nato nel 1922 a Indianapolis, ma studia alla prestigiosa Cornell University di New York, dove si laurea in biochimica. Già nell’adolescenza matura convinzioni socialiste, di orientamento antiautoritario, e un certo scetticismo nei confronti della religione. Parecchi anni dopo dedicherà Hocus Pocus a Eugene W. Debs, il leader del partito socialista americano di inizio secolo, celebre oppositore della guerra, anche lui dell’Indiana. Il romanzo si apre con una dichiarazione di appartenenza: «Il mio nome è Eugene Debs Hartke e sono nato nel 1940. Mi è stato dato questo nome su richiesta di mio nonno paterno, Benjamin Wills, socialista e ateo, […] in onore di Eugene Debs di Terre Haute, Indiana. Debs era socialista e pacifista, un organizzatore sindacale candidato molte volte alla presidenza degli Stati Uniti, che ha preso più voti di qualsiasi altro candidato di un terzo partito nella storia del paese». Tra il 1944
e il 1945 affronta due traumi profondi. Il primo è il suicidio della madre nel giorno della festa della mamma (lui stesso tenterà il suicidio quarant’anni dopo). Il secondo è successivo al suo arruolamento ed è uno dei momenti autobiografici più presenti nella sua narrativa, ovvero il periodo di permanenza a Dresda, prigioniero dei tedeschi, durante i celebri bombardamenti della RAF (la Royal Air Force britannica) nel corso della primavera 1945. Tornato in patria, si mette a studiare antropologia all’Università di Chicago, lavorando nel contempo come reporter di nera: «Ma poi il dipartimento di Antropologia ha bocciato la mia tesi di laurea, secondo la quale non si potevano ignorare la assonanze», ha scritto di recente nell’Introduzione a Bagombo Snuff Box, «tra i pittori cubisti di Parigi nel 1907 e le sollevazioni tardottocentesche dei capi dei nativi americani Injun. Hanno detto che era una tesi non professionale». Sposato da poco (con la sua childhood sweetheart), è costretto a trovarsi un lavoro serio, come pubblicitario alla General Electric. Qui mal sopporta la gerarchia imperante e le opinioni politiche prevalenti: «Un attore cinematografico mezzo fallito di nome Ronald Reagan lavorava per l’azienda. Se ne andava in giro tutto il tempo, tenendo lezioni sui mali del socialismo a camere di commercio e compagnie di potere. Non ci siamo mai incontrati e perciò sono rimasto socialista». Vonnegut esordisce come scrittore sul prestigioso Collier’s con un racconto di fantascienza. E di fatto, per tutti gli anni Cinquanta, la science fiction è il suo campo di sperimentazione prediletto. Nel 1952 pubblica il primo romanzo, Player Piano, corposa antiutopia che sembra una parodia dell’ambiente aziendale GE. Nel 1959, dopo altri racconti di fantascienza, alcuni scritti anche per le riviste di settore, pubblica The Sirens of Titan, dove il suo tipico stile follia-assurdo-umor nero si dispiega completamente: viaggi e guerre spaziali, robot e paradossi temporali, religione create ex novo e fanatismi vari. Anche Mother Night, il suo romanzo successivo (1961), è un ec-
cellente esempio di humour nero (i dialoghi sono scoppiettanti), con la storia di uno scrittore nazista sui generis, l’americano germanizzato Howard Campbell, che passa attraverso i momenti più drammatici del Novecento (crisi del dopoguerra, nazismo, guerra fredda) un po’ da imbroglione un po’ da ingenuo, facendo la spola tra Mata Hari e Adolf Eichmann nel tipico stile postmoderno di Vonnegut, dove la realtà è sempre ridotta a narrazione (ed è quindi indistinguibile da quest’ultima: in Slaughterhouse Billy Pilgrim incontra un ufficiale tedesco anglofilo che va in giro con i libri di Campbell …). Nello stesso anno pubblica in The Magazine of Fantasy & Science Fiction uno dei suoi racconti più brillanti e significativi, Harrison Bergeron, dove si fa beffe della tendenza all’appiattimento della società americana (un Handicapper general si premura di rendere tutti uguali i cittadini, handicappando – con dispositivi impiantati nel cervello, maschere, plastiche e via dicendo – i più intelligenti, brillanti, belli, aggraziati). Nel 1963 Cat’s Cradle torna alla fantascienza, entro il solito clima comico virato al nero (qui in chiave apocalittica), ma stavolta più sfumato e con un’attenzione quasi «tradizionale» per la trama. I libri di Vonnegut non sembrano avere gran successo o molti lettori. Tuttavia nel 1965, in un momento di grande crisi personale (quasi decide di smettere di scrivere: «Mi sono procurato meravigliosi guai e poi ne sono uscito», racconta nell’intro autobiografica di Slaughterhouse), God Bless You, Mr. Rosewater lo proietta sul palco nazionale. E i due libri successivi, Slaughterhouse nel 1969 e Breakfast del 1973, lo trasformano in autore di culto. A mio parere si tratta del suo momento più creativo. I tre libri sono brillanti epitomi del suo stile culturale: costruiti su brevi storie a incastro (spesso con finale ad effetto), percorsi da un filo rosso di follia, assurdità e alienazione, tessuto a volte (soprattutto Slaughterhouse) con la strumentazione «classica» della fantascienza (mondi alternativi, extraterrestri, viaggi nel tempo), con un sempre più spiccato gusto post-mo-
derno (i disegni che pullulano in Breakfast, la partecipazione personale, che va dal capitolo in prima persona di Slaughterhouse alla comparsata in Breakfast), sembrano aderire perfettamente allo Zeitgeist. Vonnegut si ritrova, con Joseph Heller e Ken Kesey, Thomas Pynchon e John Barth, a fornire il senso del non-senso, a rivelare l’assurdo e l’irreale, a dipingere la pazzia del sistema militar-industriale, della tecnocrazia, della scienza, della società tardo-capitalista nel suo insieme. Non è un caso che molte pubblicazioni americane lo abbiano ricordato come eroe della generazione della controcultura: come i citati Pynchon e Barth (e qualche altro autore di science fiction diventato icona culturale come Robert Heinlein), Vonnegut usa la strumentazione fantascientifica (e occorre tener conto che tutti i suoi romanzi sono un po’ «fantascientifici», anche quelli dove non ci sono tralfamadoregni o gimnicks tecnologici) per cogliere il sottile grano di follia che caratterizza il secondo dopoguerra, tra paranoia dell’atomico, alienazione e speranza nell’utopia. Lo ha spiegato molto bene Todd Gitlin, fondatore dello SDS (Students for a Democratic Society) e protagonista dei Sixties: «Quando la storia perde il guinzaglio, quando la realtà sembra illusoria e le illusioni acquistano vita propria, il romanziere perde la piattaforma sulla quale l’immaginazione costruisce un’apparenza plausibile. I lettori presi in un maelstrom vogliono riacquistare distanza. Non c’è da meravigliarsi se la narrativa che in quegli anni leggevano i giovani, freaks e radicali, tendeva verso la stranezza postmoderna, la falsa calma dell’allegoria, o la sovrannaturale semplicità dell’astrazione del disco volante: Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut, Herman Hesse». Una tesi non dissimile da quella che esprimono, a metà Sessanta, Leslie Fiedler e Susan Sontag sul ruolo culturale della fantascienza. Ma ancora più significativa è un’altra pagina di Gitlin. Quando quest’ultimo si trova a dover giustificare la politicizzazione dello SDS, non trova di meglio che rifarsi a Cat’s Cradle (alla religione dei bokononiani): «Stavo davvero innamorando-
mi del concetto di “quadri”, ma questo è un termine troppo duro e troppo legato a un obiettivo: l’elite dello SDS era più vicino a ciò che Kurt Vonnegut intendeva con karass, una rete gettata nella storia e unita da un destino comune». Dopo i romanzi scritti a cavallo dei Settanta, lo stile di Vonnegut un po’ si accademizza. Si può certo godere della gentile assurdità, un po’ sotto tono, di Jailbird come del millenarismo assurdista di Deadeye Dick come della generose follie fantascientifiche di Slapstick o Timequake. È però difficile sottrarsi alla sensazione di una certa ripetizione. Di fatto, negli ultimi tempi Vonnegut si è notato più per le coraggiose prese di posizioni pubbliche su temi controversi che per le imprese letterarie: presidente onorario dell’associazione Umanista, che raccoglie i migliori cervelli laici degli Usa, si è pronunciato in favore di eutanasia e aborto; ha dichiarato pubblicamente che George Bush jr. è un decerebrato dannoso per gli Stati Uniti e per il mondo; poco prima di morire, ha rilasciato una polemica intervista in cui dichiarava il suo rispetto per i kamikaze. Quest’ultima tesi non mi sembra affatto condivisibile, anche se mi pare rientri nella sua più generale preoccupazione per lo schiacciamento dell’individualità e dell’originalità in questo inizio di terzo millennio. E tuttavia ho la tentazione (anche se non credo sia davvero il caso), di pensarla come l’ennesima provocazione, tra l’assurdo e il folle, di uno degli spiriti più caustici del secolo appena finito. PIETRO ADAMO
PRESENTAZIONE Un biglietto per Tralfamadore
I. Come altri romanzi di Vonnegut, il suo secondo, The Sirens of Titan (1959), si offre a molteplici chiavi di lettura. In questo senso, aveva ragione Umberto Eco, a cui si deve la Prefazione alia I edizione italiana del romanzo (he Sirene di Titano, Piacenza, 1965), a individuare addirittura «sei diversi filoni, sei diversi soggetti per sei diversi romanzi» — osservazione, come si può capire facilmente, lusinghiera solo per metà. Nell'analisi di Eco, il romanzo vonneguttiano viene collocato nella prospettiva della SE degli anni '60, come era vista da alcuni intellettuali piú sensibili al fascino delle letterature «minori» (Fiedler in America, Amis in Inghilterra, lo stesso Eco e Dorfles da noi), cioè, piú che favola fantastica o, al contrario, estrapolazione utopico-scientifica, invece libellistica neo-illuminista che irride con allegria satirica alle ipocrisie e alle credenze della nostra epoca, dunque derivante dalla tradizione settecentesca di Swift e di Voltaire, e non dalla tensione avveniristica di Wells e di Verne. Perciò, secondo Eco, Vonnegut, «inventando» una nuova religione — o, piuttosto, la sua parodia — «si iscrive nella schiera dei narratori... che indubbiamente stanno dando vita a una nuova forma di pamphletistica razionalistica...». Tuttavia il libro nasce certamente da un piú vasto progetto narrativo, in cui la fantasia scientifica, alimentata dal successo dei primi voli spaziali, diventa «folk» contemporaneo, scende al livello delle masse televisive trasformandosi, nel processo, in un rituale stregonesco esorcizzato con le armi dell'ironia
e della parodia. Tre anni dopo la pubblicazione delle Sirene Stan Lee lancia The Fantastic Four, il fumetto in cui il trionfo della magìa scientifica è consumato con l'abbandono pressoché totale delle vecchie leggi della «verisimiglianza» e «plausibilità», a cui l'universo fantastico di Superman offriva ancora un versante realistico (Superman è, dopo tutto, un «alien», che vive una vita del tutto normale come Clark Kent). Può essere utile, anzi, leggere o rileggere Le Sirene di Titano accanto a un fascicolo dei Fantastici Quattro, come è successo all'estensore di queste note — che ha a sua disposizione la ricca biblioteca di fumetti del figlio — per cogliere alcune elementari analogie: cosi, nell'episodio dello «Spirito Rosso», pubblicato in Italia sui «Fantastici Quattro Gigante» n. 6, Agosto 1978, ma in origine apparso in U.S.A. all'inizio del 1963, il malvagio scienziato sovietico Kragoff e i suoi scimmioni puntano sulla Luna cercando di precedere i Fantastici Quattro, e, nello stesso tempo, di acquisire i loro super-poteri. Infatti, «i poteri dei Fantastici Quattro provengono da un bombardamento di raggi cosmici... Ecco perché ho costruito un razzo in plastica trasparente, in modo che i raggi cosmici bombardino anche me!» — come infatti puntualmente avviene, in modo da consentire una lotta ad armi pari sulla superficie lunare, o meglio, nella «zona azzurra» dove «l'atmosfera si stende per miglia...» ed è quindi una replica della Terra spopolata e desolata. Ma non basta: l'epico scontro Kragoff-Fantastici Quattro è «arbitrato» da un Superessere, l'Osservatore, proveniente da un pianeta ultra-civilizzato che è «un gigantesco calcolatore», il quale «impiega i suoi vasti poteri per manipolare la trama stessa del tempo e dello spazio». L'analogia con le Sirene, anche se non implica un influsso diretto, è dunque evidente se si pensa ai super-intelligenti Tralfamadoriani e al loro potere sui destini umani, o ai «Marziani» di Vonnegut, terrestri che possono sopravvivere anche in man-
canza di aria inghiottendo una pillola a intervalli regolari. Nel futuribile dì Vonnegut, come in quello di Lee, tutto è possibile. Tra i due discorsi c'è, però, una differenza fondamentale: il tono narrativo dei Fantastici Quattro è sostanzialmente serio (l'umorismo è applicato ai rapporti interni tra i Quattro, ma non si estende di solito alle loro avventure), mentre Vonnegut usa gli stessi materiali con evidenti intenti parodistici. II. Il primo obiettivo delle Sirene di Titano è, evidentemente, proprio la de-codificazione in chiave farsesca delle convenzioni favolistiche della «space opera» nelle sue varie forme (romanzi, films, comics): da ciò deriva anche l'accumulo stravagante di intrecci. La favola è, insomma, una burla dichiarata ed esemplificata attraverso la catena delle trame inserite una dentro l'altra, la sfacciata inverosimiglianza delle trovate pseudoscientifiche, che assumono subito aspetto ciarlatanesco, come i finti libri citati dall'anonimo narratore, a cominciare da quella «quattordicesima edizione» dell 'Enciclopedia del Bambino, che spiega nel modo piú idiota e melenso il concettochiave di infundibolo crono-sinclastico, fino agli episodi della guerra tra Marte e la Terra, o all'apparizione clownesca del robot tralfamadoriano Salo su Titano, una specie di inconsapevole Dio-pagliaccio, descritto come un grosso mandarino fornito di tre zampe dai piedi gonfiabili che producono molesti «suoni risucchianti» — con grande imbarazzo del loro proprietario. Le meraviglie del futuro, lungi dall'essere asettiche creazioni di plastica e metallo, assomigliano, se osservate con occhio attento, a baracconi da circo equestre, come l'astronave che dovrebbe portare Malachi Constant e la sua strana famiglia su Titano, la quale esternamente pare nuova di zecca, ma all'interno si rivela l'alcova un po' sporca di alcune coppiette clandestine. L' uso del dato scientifico, dunque, non è tanto mi-
tico-favoloso, ma piuttosto volutamente capriccioso e arbitrario, sempre manipolabile come il corpo di gomma dell'Uomo Elastico, il capo dei Fantastici Quattro, e riconducibile a un'umoristica realtà terrena. Questo procedimento narrativo, a sua volta, si realizza attraverso l'uso di un linguaggio che assume tonalità epico-infantili, come se lo scrittore si rivolgesse a un pubblico ignorante o innocente, a cui vuole raccontare una favola strana nella forma piú semplice e colloquiale. Perciò la struttura del periodo, sia nei dialoghi che nelle descrizioni, deve essere piana, proprio come in un'Enciclopedia per bambini, e la complessità di una situazione va smontata attraverso un progressivo accumulo di dettagli, incapsulati in una sequenza di coordinate o di brevi frasi principali. Si veda, tanto per fare un esempio, come lo scrittore riferisce le considerazioni di Rumfoord, che ha elaborato la grottesca messinscena cosmica della guerra tra «Marziani» e Terrestri: Rumfoord aveva su Marte quei pochi esseri umani magnificamente guidati... ed era il loro condottiero. Aveva abilità. Era piacevolmente disposto a spargere il sangue altrui. Aveva una religione nuova e plausibile da introdurre alla fine della guerra. E aveva i metodi per prolungare il periodo di pentimento e di orrore che avrebbe seguilo la guerra.
Ancora mezza pagina e scopriremo che il truculento esercito marziano «magnificamente guidato» ha la stessa capacità d'offesa e di difesa di una colonna di formiche di fronte a un branco di formichieri: esso, secondo gli occulti disegni del «condottiero», viene sterminato senza pietà.
III. Naturalmente, anche Rumfoord è manovrato dalle super-intelligenze di Tralfamadore, che hanno creato la Terra e la sua storia per i propri fini, o, addirittura, per il piú banale e insignificante dei loro obiettivi — la consegna di un insignificante messaggio in un'altra galassia. Ma, anche in questo caso, il concetto caro alla SF di manipolazione dall'alto, che si trasmette dal protagonista del romanzo a Rumfoord, da Rumfoord a Salo, da Salo ai suoi padroni di Tralfamadore, assume connotati tragici solo attraverso la mediazione parodistica del linguaggio, il rimescolio continuo degli elementi narrativi, e l'effetto di straniamento e de-familiarizzazione che tutto ciò provoca nel lettore. È vero che, nella parte conclusiva delle Sirene di Titano, Vonnegut sembra introdurre una componente di genuino e piú tradizionale pathos, con la ribellione di Salo al suo destino dì automa, la morte di Beatrice su Titano e quella di Malachi, solo in un paesaggio nevoso in cui si riassume la sua vicenda. Sarebbe troppo facile parlare di una «caduta» di Vonnegut, magari ispirata da motivi commerciali (l'obbligo del «lieto fine» anche se interpretato in modo non convenzionale), mentre è forse piú esatto vedere nella conclusione l'applicazione di ancora un altro modulo narrativo — quello patetico, appunto — che scioglie qualche lacrima ironica in onore del lettore disattento, pronto a dimenticare che l'estrema visione paradisiaca di Malachi è indotta in lui, mediante ipnotizzazione, dal pietoso Salo, e assomiglia in modo sospetto al finale di qualche zuccheroso film degli anni '50, dove lo sfortunato protagonista — o, meglio, lo spettatore allocchito — ode un gaudioso scampanio di campane celesti accompagnare la dipartita dell'eroe o dell'eroina di turno. In questo senso, un po' troppo ottimistiche, anche se accattivanti, mi sembrano le osservazioni del critico americano Richard Giannone, autore di una delle ultime mo-
nografie su Vonnegut ('Vonnegut. A Preface to His Novels, New York, 1977), secondo cui la realtà ritorna ad avere una sua «armonica interezza... Alla fine la nostra percezione del mondo è corretta perché le percezioni di Constant sono state rinnovate attraverso il suo pellegrinaggio nello spazio». Ma la serena morte nell'ipnosi non sarà piuttosto l'estrema ironia del romanzo — la conferma definitiva dell'incapacità umana (e americana) di possedere del reale una visione diretta e non manipolata dalle forze occulte dei mass-media e delle loro metaforiche proiezioni narrative? Come per molti romanzieri a cui si può applicare il termine «post-modernista», e forse in anticipo su alcuni dei piú famosi, per Vonnegut il romanzo è fondamentalmente gioco, che irride ad alcuni aspetti della vita, misconosce l'esistenza di «verità» profonde e metafisiche, mentre fa la parodia di se stesso e delle pretenziosità moraleggianti che si annidano nel messaggio letterario. Il «moralismo» vonneguttiano — a differenza di quanto poteva succedere in un pamphleteer settecentesco — è oggetto della burla narrativa quanto la realtà rappresentata. Non a caso il motivo del gioco (la palla-mazza tedesca...), associato a quello del divertimento, del trucco e, naturalmente, della finzione, ricorre in tutto il romanzo. Ma il gioco dei giochi è il romanzo stesso, nella sua unità e totalità di opera narrativa che interpreta se stessa come gioco letterario — parodia, come abbiamo visto, della «space opera», parodia della scienza, parodia del linguaggio dei comics, parodia del corpus letterario americano, anche, che compare in alcuni suoi statuti e codici piú significativi — il sermone, il romanzo di iniziazione alla vita, la ballata popolare e parodia della letteratura come procedura comunicativa. La tradizione letteraria occidentale ha individuato la funzione della scrittura come comunicazione di messaggi significativi. Lo scrittore scrive per comunicare un messaggio — che può essere anche un messaggio di morte, o di crisi, di auto-distru-
zione — ma sempre un messaggio «importante». The Sirens of Titan è un romanzo intorno a un messaggio che non esiste. Ciò è esplicitamente dichiarato dallo scrittore durante il primo colloquio tra Rumfoord e Malachi Constant: «.Be'...» mormorò Malachi Constant, là nella stanza simile a un camino, sotto la scala, a Newport, «.sembra che finalmente ci si servirà del messaggero». «Come?» disse Rumfoord. «Il mio nome... significa messaggero fedele,» disse Constant. «Qual è il messaggio?» «Mi scusi,» disse Rumfoord. «Non so niente di nessun messaggio». E inclinò ironicamente il capo. «Qualcuno le ha detto qualcosa a proposito di un messaggio?»
Alla fine, il «messaggio» del romanzo starà sostanzialmente nella scoperta, da parte del lettore, come dei personaggi, che non esistono «messaggi» nel senso tradizionale del termine, almeno; esiste solo il linguaggio del romanzo, poiché, per usare una terminologia ormai largamente diffusa nella critica moderna e che non dovrebbe piú spaventare gli appassionati dì SF, il significato è il significante, come la favola è la favola, e non un'allegoria moraleggiante. IV Nella descrizione della grottesca invasione marziana sulla Terra, Vonnegut sottolinea la sorte miserevole riservata a donne e bambini «marziani»: Le poche persone che furono abbastanza fortunate da avere marziani da ammazzare in quest'ultima ondata li ammazzarono allegramente... li ammazzarono allegramente fino a che scoprirono che i loro bersagli erano donne inermi e bambini. La gloriosa guerra era finita...
Gli innocenti pagano per tutti, e non è una grande consolazione avere un biglietto per Tralfamadore, dove il tempo non esiste e la storia dell'uomo è stata già scritta nei minuti dettagli, come in una sorta di romanzo gigantesco. È ciò che scoprirà Billy Pilgrim, il protagonista dell'opera, forse piú interessante — assieme a Mother Night — di Vonnegut, Slaughterhouse-Five, apparsa nel 1970. Sebbene tutti i romanzi di Vonnegut siano collegati tra di loro da una serie di espedienti narrativi, The Sirens of Titan, Mother Night e SlaughterhouseFive (conosciuto in Italia, anche per il bel film di Roy Hill, come Mattatoio N. 5) formano una trilogia che qualsiasi lettore interessato all'evoluzione della narrativa contemporanea dovrebbe conoscere. Carlo Pagetti Pescara, settembre 1978
CAPITOLO PRIMO FRA TEMPIA E TEMPRARE «Credo che qualcuno lassù mi abbia in simpatia». Malachi Constant
Ormai ciascuno sa come trovare dentro di sé il significato della vita. Ma l'umanità non è sempre stata così fortunata. Meno di un secolo fa gli uomini e le donne non avevano un facile accesso alle scatole di rompicapi che sono dentro di loro. Non sapevano nominare neppure uno dei cinquantatré portali dell'anima. E le religioni strane facevano grossi affari. L'umanità, ignorante delle verità che giacciono entro ogni essere umano, guardava verso l'esterno... premeva sempre verso l'esterno. Ciò che l'umanità sperava di imparare in quella spinta verso l'esterno; era chi fosse realmente responsabile di tutta la creazione e che cosa significasse tutta la creazione. L'umanità lanciava sempre verso l'esterno, sempre verso l'esterno, i suoi agenti incaricati dell'avanzata. Alla fine li lanciò nello spazio, nel mare privo di colore, di sapore e di peso di un'esternità senza fine. Li lanciò come pietre. Quegli sfortunati agenti trovarono ciò che avevano già trovato in abbondanza sulla Terra... un incubo privo di significato, senza fine. I doni dello spazio, dell'infinita esternità, erano tre: eroismi inutili, commedie di scarso valore, e morte senza scopo. Alla fine l'esternità perse la sua immaginaria attrazione.
Solo l'interiorità rimaneva da essere esplorata. Solo l'anima umana rimaneva terra incognita. Questo fu l'inizio della bontà e della saggezza. Com'era la gente dei tempi antichi, dall'anima ancora inesplorata? Quella che segue è una storia vera dell'Età dell'Incubo, che corrisponde approssimativamente, con qualche anno in piú o in meno, al periodo fra la Seconda Guerra Mondiale e la Terza Grande Depressione. C'era una folla imponente. La folla si era raccolta lì perché stava per verificarsi una materializzazione. Un uomo e il suo cane stavano per materializzarsi, stavano per apparire uscendo dall'aria sottile... come vortici di fumo, all'inizio, per poi diventare alla fine sostanziali come qualsiasi altro uomo o cane viventi. La folla non avrebbe visto la materializzazione. La materializzazione era una faccenda rigorosamente privata in una proprietà privata, e la folla era enfaticamente non invitata a rallegrarsene la vista. La materializzazione sarebbe accaduta come una moderna, civile impiccagione tra mura alte, opache, sorvegliate. E la folla che sostava al difuori di quelle mura era molto simile alla folla che si raccoglie attorno alle mura dietro le quali avviene un'impiccagione. La folla sapeva che non avrebbe visto nulla, eppure i suoi componenti provavano piacere nell'essere vicini, nel fissare le mura opache e nell'immaginare ciò che stava avvenendo all'interno. I misteri della materializzazione, come i misteri di un'impiccagione, erano accresciuti da quel muro; erano resi pornografici dai vetrini di lanterna magica dell'immaginazione morbosa... vetrini di lanterna magica proiettati dalla folla sulle opache mura di pietra. Quella città era Newport, Rhode Island, P.S.A., Terra, Sistema Solare, Via Lattea. Le mura erano quelle della tenuta Rum-
foord. Dieci minuti prima del momento stabilito per la materializzazione, agenti della polizia sparsero la voce che la materializzazione era avvenuta prematuramente, era avvenuta al difuori delle mura, e l'uomo e il cane potevano essere visti, chiari come il giorno, a due isolati di distanza. La folla galoppò via per vedere il miracolo al crocicchio. La folla andava pazza per i miracoli. In coda alla folla c'era una donna che pesava trecento libbre, centotrentacinque chili. Aveva il gozzo, una mela candita e una bambina di sei anni, piccola e scialba. Stringeva per mano la bambina e la trascinava qua e là, come una palla attaccata a un elastico. — Wanda June — disse, — se non ti comporti bene, non ti porterò mai piú a vedere una materializzazione. Le materializzazioni avvenivano da nove anni, una volta ogni cinquantanove giorni. Gli uomini piú dotti e piú degni di fiducia di tutto il mondo avevano implorato, disperati, il privilegio di vedere una materializzazione. Ma in qualsiasi modo quei grandi uomini formulassero le loro richieste, venivano respinti. Il rifiuto era sempre lo stesso, scritto a mano dalla segretaria della signora Rumfoord. La signora Beatrice Rumfoord mi prega di informarLa che non le è possibile farLe pervenire l'invito richiesto. La signora è certa che Lei comprenderà i suoi sentimenti al riguardo: il fenomeno che Lei desidera osservare è una tragica questione di famiglia, non un soggetto adatto all'indagine di estranei, per quanto la loro curiosità possa essere nobilmente motivata. La signora Rumfoord e i suoi dipendenti non rispondevano a nessuna delle decine di migliaia di domande che venivano loro
rivolte a proposito delle materializzazioni. La signora Rumfoord pensava di dovere al mondo ben poche informazioni. E si liberava da quel piccolissimo obbligo emanando un rapporto ventiquattro ore dopo ciascuna materializzazione. Il suo rapporto non superava mai le cento parole. Veniva appuntato dal suo maggiordomo in una vetrinetta affissa nel muro, vicino all'unico ingresso della tenuta. L'unico ingresso alla tenuta era una porta simile a quella di Alice nel Paese delle Meraviglie, sul muro occidentale. La porta era alta soltanto un metro e quaranta. Era di ferro, ed era chiusa da una grande serratura Yale. Gli ampi cancelli della tenuta erano stati murati. I rapporti che apparivano nella vetrinetta accanto alla porta di ferro erano uniformemente freddi e stizzosi. Contenevano informazioni che servivano soltanto a rattristare chiunque avesse un briciolo di curiosità. Annunciavano il momento esatto in cui si erano materializzati il marito della signora Rumfoord, Winston, e il suo cane Kazak, e il momento esatto in cui si erano dematerializzati. Le condizioni di salute dell'uomo e del cane venivano invariabilmente indicate come buone. I rapporti lasciavano capire che il marito della signora Rumfoord poteva vedere chiaramente il passato e il futuro, ma trascuravano di fornire esempi di questa visione in una o nell'altra direzione. Ormai la folla era stata attirata lontano dalla tenuta per permettere l'arrivo indisturbato di una lussuosa macchina, presa a nolo, davanti alla porticina di ferro nel muro occidentale. Un uomo snello, vestito come un elegantone edoardiano, scese dalla macchina e mostrò un foglio al poliziotto che sorvegliava la porta. Era camuffato con un paio di occhiali scuri e una barba finta. Il poliziotto annuì e l'uomo aprì personalmente la porta con una chiave che si era tolto dalla tasca. Si insinuò nell'interno e sbatté la porta dietro di sé, con un tonfo. La macchina si allontanò.
Attenti al cane! diceva un cartello sopra la porticina di ferro. I fuochi del tramonto estivo scintillavano tra le lame e gli aghi di vetro spezzato inseriti nel cemento sulla sommità del muro. L'uomo che era entrato era la prima persona che fosse mai stata invitata dalla signora Rumfoord a una materializzazione. Non era un grande scienziato. Non aveva ricevuto neppure una buona istruzione. Era stato buttato fuori dall'Università di Virginia a metà del primo anno. Era Malachi Constant di Hollywood, California, l'uomo piú ricco d'America... e un famoso libertino. Attenti al cane! aveva detto il cartello all'esterno della porticina di ferro. Ma aldilà del muro c'era soltanto lo scheletro di un cane. Portava un collare dalle aguzze punte di ferro, incatenato al muro. Era lo scheletro di un cane molto grosso: un mastino. I suoi lunghi denti si incastravano gli uni negli altri come i denti d'un ingranaggio. Il cranio e le mascelle formavano un modello abilmente articolato, ma inoffensivo, d'una macchina straziacarni. Le mascelle si chiudevano così... clac! Lì c'erano stati gli occhi scintillanti, là gli orecchi aguzzi, là le narici sospettose, lì il cervello di carnivoro. Funi di muscoli erano state agganciate lì e lì, avevano unito i denti nella carne così... clac! Lo scheletro era simbolico... un argomento di conversazione installato da una donna che non parlava quasi con nessuno. Nessun cane era morto al suo posto, là accanto al muro. La signora Rumfoord aveva comprato le ossa da un veterinario e le aveva fatte sbiancare e verniciare e montare. Lo scheletro era uno dei molti commenti amari e oscuri della signora Rumfoord sui cattivi scherzi che il tempo e suo marito le avevano giocato. La signora Rumfoord aveva diciassette milioni di dollari. La signora Rumfoord aveva la piú alta posizione sociale raggiungibile negli Stati Uniti d'America. La signora Rumfoord era sana e bella, e anche dotata di talento. Era molto dotata come poetessa. Aveva pubblicato un volumetto anonimo di poesie intitolato Fra tempia e temprare. Era
stato ragionevolmente ben accolto. Il titolo derivava dal fatto che tutte le parole fra tempia e temprare, nei dizionari molto piccoli, erano in rapporto con tempo. Ma, sebbene fosse così ben dotata, la signora Rumfoord faceva cose strane, come incatenare uno scheletro di cane al muro, come far murare i cancelli della tenuta, come lasciare che i giardini un tempo famosi diventassero una specie di giungla del New England. Morale: denaro, posizione, salute, bellezza e talento non sono tutto. Malachi Constant, l'uomo piú ricco d'America, chiuse dietro di sé la porticina stile Alice nel Paese delle Meraviglie. Appese gli occhiali scuri e la barba finta all'edera del muro. Superò a passo vivace lo scheletro del cane, consultando nello stesso tempo il suo orologio a energia solare. Fra sette minuti, un mastino vivo chiamato Kazak si sarebbe materializzato e avrebbe cominciato a fare scorribande su quei terreni. — Kazak morde — aveva detto la signora Rumfoord nel suo invito, — quindi la prego di essere puntuale. Constant sorrise all'avvertenza di essere puntuale. Essere puntuale significava esistere come un punto, e significava anche arrivare in orario in qualche posto. Constant esisteva come un punto: non riusciva a immaginare come fosse esistere in qualche altro modo. Questa era una delle cose che avrebbe scoperto: come fosse esistere in qualche altro modo. Il marito della signora Rumfoord esisteva in un altro modo. Winston Niles Rumfoord aveva guidato la sua astronave privata dritto nel cuore di un infundibolo cronosinclastico non registrato sulle carte, a due giorni di distanza da Marte. Aveva con sé soltanto il suo cane. Ora Winston Niles Rumfoord e il suo cane Kazak esistevano come fenomeni ondulatorii: a quanto pareva pulsavano in una spirale distorta che aveva origine
nel Sole e terminava a Betelgeuse. La Terra stava per intercettare quella spirale. Quasi tutte le spiegazioni brevi degli infundiboli cronosinclastici sono certamente offensive per gli specialisti del campo. Ma può darsi che la migliore spiegazione breve sia probabilmente quella del dottor Cyril Hall, che appare nella quattordicesima edizione dell'Enciclopedia per Bambini: Meraviglie e Cose da Fare. L'articolo viene qui riprodotto nella sua interezza, per cortese autorizzazione degli editori: INFUNDIBOLI CRONOSINCLASTICI — Immagina che il tuo Papà sia l'uomo piú in gamba mai vissuto sulla Terra e che sappia tutto quello che si può sapere e che abbia esattamente ragione in tutto, e possa dimostrare di avere ragione in tutto. Adesso immagina un altro bambino su qualche simpatico mondo lontano un milione di anni-luce, e che il Papà di quel bambino sia l'uomo piú in gamba che sia mai vissuto su quel simpatico mondo così lontano. Ed è in gamba, ed ha ragione come il tuo Papà. Tutti e due i Papà sono in gamba, e tutti e due hanno ragione. Solo, se si incontrassero, comincerebbero una terribile discussione, perché non si troverebbero d'accordo su niente. Ora, tu puoi dire che il tuo Papà ha ragione e il Papà dell 'altro bambino ha torto, ma l'Universo è un posto spaventosamente grande. C'è abbastanza posto perché tanta gente abbia ragione su certe cose eppure non si trovi d'accordo. La ragione per cui tutti e due i Papà possono avere ragione e nello stesso tempo possono avere una terribile discussione è che vi sono molti modi diversi di avere ragione. Ma vi sono posti nell'Universo in cui tutti e due i Papà potrebbero finalmen-
te capire di che cosa stava parlando l'altro Papà. Questi posti si trovano dove tutte le diverse specie di verità collimano perfettamente come i pezzi dell'orologio solare del tuo Papà. Noi chiamiamo questi posti infundiboli cronosinclastici. Sembra che il Sistema Solare sia pieno di infundiboli cronosinclastici. Ce n'è uno, di cui siamo certi, che sembra stia tra la Terra e Marte. Ne conosciamo l'esistenza perché un uomo terrestre e il suo cane terrestre vi sono finiti dentro. Forse penserai che sarebbe bello andare in un infundibolo cronosinclastico e vedere tutti i modi diversi di avere assolutamente ragione, ma è una cosa molto pericolosa da farsi. Quel pover'uomo e il suo povero cane sono ora sparsi qua e là, non solo attraverso lo spazio ma anche attraverso il tempo. Crono significa tempo. Sinclastico significa incurvato nello stesso modo verso tutte le direzioni, come la buccia di un' arancia. Infundibolo (infundibulum) è il nome con cui gli antichi romani come Giulio Cesare e Nerone chiamavano un imbuto. Se non sai che cosa è un imbuto, di' alla Mamma di mostrartene uno. La chiave che apriva la porta stile Alice nel Paese delle Meraviglie era arrivata insieme all'invito. Malachi Constant infilò la chiave nella tasca dei calzoni orlati di pelliccia e seguì l'unico sentiero che sì apriva davanti a lui. Camminava nell'ombra fonda, ma i raggi piatti del tramonto riempivano le cime degli alberi d' una luce tipo Maxfield Parish1. Constant agitò l'invito, mentre procedeva, aspettandosi di ve1
Maxfield Parish è un artista americano ancora vivo, molto popolare e molto sorpassato. La luce, nei suoi quadri, è altamente teatrale. E specializzato in albe e tramonti. (Nota dell'autore all'edizione italiana).
nire bloccato a ogni svolta. L'inchiostro dell'invito era viola. La signora Rumfoord aveva soltanto trentaquattro anni, ma scriveva come una vecchia... con una grafia spinosa e capricciosa. Detestava apertamente Constant, che non aveva mai conosciuto. Lo spirito di quell'invito era riluttante, per dir poco, come se fosse stato scritto su un fazzoletto sporco. «Durante l'ultima materializzazione di mio marito», aveva scritto nell'invito, «questi ha insistito perché lei fosse presente alla prossima. Non sono riuscita a dissuaderlo, nonostante i molti evidenti svantaggi. Mio marito insiste di conoscerla bene per averla incontrata su Titano, che, a quanto mi è sembrato di capire, è una luna del pianeta Saturno». C'era a malapena una frase nell'invito che non contenesse il verbo insistere. Il marito della signora Rumfoord aveva insistito perché lei facesse qualcosa di molto contrario alla sua opinione, e lei a sua volta insisteva perché Malachi Constant si comportasse meglio che poteva come quel gentiluomo che non era affatto. Malachi Constant non era mai stato su Titano. Per quel che ne sapeva lui, non era mai uscito dall'involucro gassoso del suo pianeta natale, la Terra. A quanto pareva, tra poco avrebbe imparato che le cose stavano altrimenti. Le svolte del sentiero erano numerose, e la visibilità era molto ridotta. Constant seguiva un sentiero verdeumido che aveva l'ampiezza d'un tosaerba... ed era, infatti, la pista tracciata da un tosaerba. Da entrambi i lati del sentiero si levavano le pareti verdi della giungla in cui si era trasformato il giardino. La pista del tosaerba sfiorava una fontana asciutta. L'uomo che aveva guidato il tosaerba era diventato creativo, in quel punto: aveva fatto biforcare il sentiero. Constant poteva scegliere su quale fianco della fontana doveva passare. Constant si fermò alla biforcazione e alzò lo sguardo. Anche la fontana era meravigliosamente creativa. Era un cono descritto da molte ciotole di pietra dal diametro decrescente. Le ciotole erano
come colletti su un asse cilindrico alto dodici metri. D'impulso, Constant non scelse né una biforcazione né l'altra, ma si arrampicò sulla fontana. Salì da una ciotola all'altra, con l'intenzione di vedere, quando fosse arrivato in cima, da dove era venuto e dove doveva andare. Ritto sulla sommità, nella ciotola piú piccola della fontana barocca, con i piedi nelle rovine dei nidi d'uccello, Malachi Constant guardò la tenuta, e un'ampia porzione di Newport e della baia di Narrangasett. Alzò l'orologio nella luce del sole, lasciandogli assorbire quel qualcosa che era per gii orologi solari ciò che il denaro era per gli uomini della Terra. La fresca brezza marina scompigliò i capelli nerazzurri di Constant. Era un uomo ben fatto: un po' piú pesante del dovuto, scuro di pelle, con labbra da poeta, e dolci occhi castani nelle orbite ombrate da una fronte di Cro-Magnon. Aveva trentun anni. Valeva tre miliardi di dollari, quasi tutti ereditati. Il suo nome significava messaggero fedele. Era uno speculatore, soprattutto per quanto riguardava le azioni e i titoli di borsa. Nelle depressioni che io affliggevano sempre dopo che aveva preso alcolici, narcotici e donne, Constant languiva di desiderio per una sola cosa... un solo messaggio che fosse abbastanza dignitoso e importante da meritare che lui lo portasse umilmente da un punto all'altro. Il motto inscritto sotto la cotta d'armi che Constant si era disegnato diceva soltanto: Il Messaggero attende. Ciò che Constant aveva in mente, presumibilmente, era un messaggio di prima classe inviato da Dio a qualcuno altrettanto importante. Constant tornò a consultare il suo orologio solare. Aveva ancora due minuti, entro i quali doveva scendere e raggiungere la casa... due minuti prima che Kazak si materializzasse e cercasse qualche estraneo da mordere. Constant rise fra sé, pensando
quanto sarebbe stata deliziata la signora Rumfoord se quel volgare parvenu del signor Constant di Hollywood fosse stato costretto a trascorrere tutto il tempo della sua visita appollaiato sulla fontana, da un cane purosangue. La signora Rumfoord sarebbe stata addirittura capace di far attivare la fontana. Era possibile che lei stesse sorvegliando Constant. La villa era a un minuto di cammino dalla fontana... isolata dalla giungla da una pista falciata larga tre volte il sentiero. Villa Rumfoord era di marmo: una vasta riproduzione della sala dei banchetti dell'Whitehall Palace di Londra. La villa, come la maggior parte delle residenze veramente grandiose di Newport, era una parente collaterale degli uffici postali e degli edifici giudiziari della regione. Villa Rumfoord era un'espressione ilarmente impressionante del concetto: Gente solida. Era senza dubbio uno dei piú grandi saggi sulla densità dopo la Grande Piramide di Cheope. In un certo senso, era un saggio migliore sulla stabilità di quanto lo fosse la Grande Piramide, affusolata nel nulla quando si avvicina al cielo. Nella dimora dei Rumfoord nulla diminuiva quando si avvicinava al cielo. Capovolta, avrebbe conservato lo stesso identico aspetto. La densità e la stabilità della magione erano, naturalmente, in. ironica variante con il fatto che l'ex padrone della casa, tranne che per un'ora ogni cinquantanove giorni, non era piú sostanziale d'un raggio di luna. Constant scese dalla fontana, calandosi sugli orli di ciotole dalle dimensioni sempre crescenti. Quando raggiunse il fondo, fu preso dal fortissimo desiderio di vedere la fontana in funzione. Pensò alla folla, fuori, pensò quanto quella folla, a sua volta, sarebbe stata contenta di vedere la fontana in funzione. Sarebbero rimasti tutti affascinati... ad osservare la minuscola ciotola alla sgocciolante sommità traboccare nella piccola ciotola piú in basso... e il traboccare della piccola ciotola nella piccola ciotola piú sotto... e il traboccare di quella piccola ciotola sulla
ciotola piú sotto... e così via e così via e così via, una rapsodia di traboccamenti, mentre ogni ciotola cantava la sua allegra canzone d'acqua. E, sbadigliante sotto tutte quelle ciotole, c'era la bocca rovesciata della ciotola piú grande... un autentico Belzebù di ciotola, arida come un osso e insaziabile... che aspettava, aspettava, aspettava la prima dolcissima goccia. Constant era estatico, e immaginava che la fontana funzionasse. La fontana era molto simile a un'allucinazione... e le allucinazioni, di solito provocate da droghe, erano quasi tutto ciò che poteva ancora sorprendere e incantare Constant. Il tempo passava rapidamente. Constant non si muoveva. In qualche punto della tenuta un mastino abbaiò. Quell'abbaiare risuonò come colpi di mazza su un grande gong di bronzo. Constant si ridestò dalla sua contemplazione della fontana. Ad abbaiare poteva essere stato soltanto Kazak, il cane dello spazio. Kazak si era materializzato, Kazak fiutava il sangue di un parvenu. Constant percorse di scatto la distanza che ancora lo separava dalla casa. Un vecchio maggiordomo in polpe aprì la porta a Malachi Constant di Hollywood. Il maggiordomo stava piangendo di gioia. Stava indicando una stanza che Constant non riusciva a vedere. Il maggiordomo stava cercando di descrivere che cosa lo rendesse così felice e pieno di lacrime. Non riusciva a parlare. Aveva la mascella paralizzata e tutto ciò che potè dire a Constant fu: — Patt patt... patt patt patt. Il pavimento del vestibolo era a mosaico, e mostrava i segni dello zodiaco attorno a un sole dorato. Winston Niles Rumfoord, che si era materializzato soltanto un minuto prima, entrò nel vestibolo e si fermò sul sole. Era molto piú alto e piú massiccio di Malachi Constant... ed era la prima persona che avesse mai indotto Constant a pensare che potesse esistere sul serio qualcuno superiore a lui. Winston Niles Rumfoord tese la grande mano morbida e salutò familiar-
mente Constant, quasi cantando il suo saluto in una voce tenorile e aristocratica. — Lietissimo, lietissimo, lietissimo, signor Constant — disse Rumfoord. — È stato molto gentile a venirrrrrrre. — Il piacere è mio — replicò Constant. — Mi hanno detto che lei è probabilmente l'uomo piú fortunato che sia mai vissuto. — Questa potrebbe essere un'affermazione un po' forte — disse Constant. — Non vorrà negare di avere una fantastica buona fortuna, dal punto di vista finanziario — disse Rumfoord. Constant scosse il capo. — No. Questo sarebbe difficile negarlo — ammise. — E a che cosa attribuisce la sua meravigliosa fortuna? — chiese Rumford. Constant alzò le spalle. — Chi sa? Credo che qualcuno lassù mi abbia in simpatia — disse. Rumfoord alzò lo sguardo al soffitto. — Quale affascinante concetto... qualcuno lassù l'ha in simpatia. Constant, che aveva continuato a stringere la mano di Rumfoord durante la conversazione, pensò improvvisamente che la sua stessa mano era piccola e simile alla zampa di un rapace. La palma di Rumfoord era callosa, ma non cornea come la palma di un uomo condannato a fare un dato lavoro per tutti i suoi giorni. I calli erano perfettamente eguali, provocati dalle mille liete fatiche di una classe attiva e danarosa. Per un attimo, Constant dimenticò che l'uomo cui stringeva la mano era soltanto un aspetto, un nodo d'un fenomeno ondulatorio che si stendeva dal Sole a Betelgeuse. La stretta di mano ricordò a Constant che cosa stava toccando... perché la sua mano formicolava di un lieve ma inconfondibile flusso di elettricità.
Constant non era stato costretto a sentirsi inferiore dal tono dell'invito della signora Rumfoord ad assistere alla materializzazione. Constant era un maschio e la signora Rumfoord era una femmina, e Constant immaginava di avere i mezzi per dimostrare, se gliene fosse stata offerta l'occasione, la sua indubbia superiorità. Winston Niles Rumfoord era qualcosa d'altro... moralmente, spazialmente, socialmente, sessualmente ed elettricamente. Il sorriso e la stretta di mano di Winston Niles Rumfoord smantellarono l'alta opinione che Constant aveva di sé con la stessa efficienza con cui l'uomo di fatica d'un luna park potrebbe smantellare una grande ruota girevole. Constant, che aveva offerto i suoi servizi a Dio come messaggero, ora si sentì preso dal panico davanti alla molto moderata grandezza di Rumfoord. Constant si frugò nella memoria, per cercare nel passato prove della propria grandezza. Frugò la sua memoria come un ladro che fruga il portafoglio di un altro uomo. Constant trovò la propria memoria satura di immagini gualcite e sovraesposte di tutte le donne che aveva posseduto, di assurde credenziali che testimoniavano la sua proprietà di aziende ancora piú assurde, di testimonianze che gli attribuivano virtù e poteri che soltanto tre miliardi di dollari potevano avere. C'era persino una medaglia d'argento con un nastro rosso... di cui Constant era stato insignito per essersi piazzato secondo in una gara di salto all'Università di Virginia. Il sorriso di Rumfoord continuò. Per seguire l'analogia del ladro che stava frugando nel portafoglio di un altro uomo: Constant lacerò le cuciture della sua memoria, sperando di trovare uno scomparto segreto che contenesse qualcosa di prezioso. Non c'erano scomparti segreti... nulla di prezioso. Tutto ciò che rimaneva a Constant erano gli involucri della sua memoria: lembi flaccidi e scuciti. Il vecchio maggiordomo guardò Rumfoord con adorazione, compiendo le frementi contorsioni di una donna vecchia e brut-
ta che posasse per un quadro della Madonna. — Il signorino — belò. — Il signorino. — Posso leggerle nella mente, lo sa? — disse Rumfoord. — Davvero? — fece umilmente Constant. — È la cosa piú facile del mondo — continuò Rumfoord. I suoi occhi scintillarono. — Lei non è cattivo, sa... — disse, — in particolare quando dimentica chi è. — Toccò leggermente il braccio di Constant. Era un gesto da politicante... un volgare gesto pubblico, da parte d'un uomo che in privato, tra quelli della sua razza, avrebbe sofferto dolori da far rabbrividire pur di non toccare mai nessuno. — Se è davvero tanto importante per lei, in questa fase dei nostri rapporti, sentirsi in qualche modo superiore a me — disse cordialmente a Constant, — pensi a questo: lei può riprodursi e io no. — Voltò l'ampia schiena a Constant e lo guidò attraverso una serie di sale grandiose. In una si fermò, e insistette perché Constant ammirasse un immenso ritratto a olio d'una bambina che stringeva le redini di un pony d'un bianco immacolato. La bambina portava un berretto bianco, un abito bianco inamidato, guanti bianchi, calze e scarpe bianche. Era la bambina piú linda e piú gelida che Malachi Constant avesse mai visto. C'era una strana espressione sul suo volto, e Constant stabilì che era preoccupata di sporcarsi anche minimamente. — Bel ritratto — commentò Constant. — Vero che non sarebbe un peccato se cadesse in una pozzanghera fangosa? — disse Rumfoord. Constant sorrise, incerto. — Mia moglie, da bambina — disse in tono brusco Rumfoord, e lo guidò fuori dalla stanza. Lo condusse lungo un corridoio di servizio, in una minuscola stanza poco piú grande d'un grosso ripostiglio. Era lunga tre metri, larga due, e aveva un soffitto alto sei metri, come il resto delle stanze della villa. La stanza era simile a un camino. In
essa c'erano due poltroncine. — Un incidente architettonico... — spiegò Rumfoord, chiudendo la porta e alzando lo sguardo al soffitto. — Prego? — fece Constant. — Questa stanza — disse Rumfoord. Con la destra, debolmente, fece il gesto magico d'una scala a chiocciola. — Era una delle poche cose che ho desiderato davvero con tutto il mio cuore, quando ero un bambino... questa piccola stanza. Accennò con il capo agli scaffali che si levavano per due metri lungo la parete su cui si apriva la finestra. Gli scaffali erano bellissimi. Sopra gli scaffali c'era una tavola di legno che era stata evidentemente gettata a riva dalle onde; c'era scritto, in vernice azzurra: MUSEO DI SKIP. Il Museo di Skip era un museo di resti mortali... di endoscheletri e di esoscheletri... di conchiglie, coralli, ossa, cartilagini e gusci... di residui, di briciole e di resti d'anime scomparse da molto tempo. Molti degli esemplari erano di quelli che un bambino — presumibilmente Skip — poteva aver trovato senza difficoltà sulle spiagge e nei boschi di Newport. Alcuni erano evidentemente costosi regali fatti a un bambino con uno straordinario interesse per la scienza della biologia. Il pezzo piú importante tra quei regali era lo scheletro completo di un maschio umano adulto. C'erano anche una corazza vuota di un armadillo, un dodo impagliato, e la lunga zanna a spirale d'un narvalo, che Skip aveva scherzosamente etichettato come: Corno d'Unicorno. — Chi è Skip? — chiese Constant. — Skip sono io — rispose Rumfoord. — Lo ero. — Non lo sapevo — disse Constant. — Soltanto in famiglia, naturalmente — disse Rumfoord. — Uhm — fece Constant. Rumfoord si sedette in una delle poltroncine e indicò l'altra a Constant. — Non possono farlo neppure gli angeli, sa — disse Rum-
foord. — Che cosa non possono fare? — disse Constant. — Riprodursi — replicò Rumfoord. Offrì a Constant una sigaretta, ne prese una per sé, e l'infilò in un lungo bocchino d'osso. — Mi dispiace che mia moglie sia troppo indisposta per scendere... per venirla a conoscere — continuò. — Non è lei che mia moglie vuole evitare: sono io. — Lei? — disse Constant. — Esatto — ribadì Rumfoord. — Non mi ha piú visto dopo la mia prima materializzazione. — Ridacchiò, melanconicamente. — Una volta è stata sufficiente. — Mi... mi spiace — disse Constant. — Non capisco. — Non le piacquero le mie predizioni — spiegò Rumfoord. — Giudicò molto sconvolgente quel poco che le avevo detto circa il suo futuro. così non vuole sentire altro. — Si appoggiò alla spalliera della poltroncina, e aspirò profondamente. — Le dirò, signor Constant — disse in tono vivace, — è un lavoro ingrato dire agli esseri umani che l'Universo in cui si trovano è duro, molto duro. — La signora diceva che era stato lei a chiederle di invitarmi — disse Constant. — Ha avuto il messaggio attraverso il maggiordomo — spiegò Rumfoord. — Ho sfidato mia moglie a invitarla, altrimenti non l'avrebbe fatto. Deve tenerlo in mente: l'unico modo per indurre quella donna a fare qualcosa è dirle che non ha il coraggio di farlo. Naturalmente, non è una tecnica infallibile. Ora potrei mandarle un messaggio, dicendole che non ha il coraggio di affrontare il futuro, e lei mi farebbe rispondere che ho ragione. — Può... può veramente vedere nel futuro? — domandò Constant. Si sentì la pelle del viso tirarsi, incartapecorirsi. Le palme gli sudavano. — In un modo puntuale di parlare... sì — rispose Rumfoord.
— Quando lanciai la mia astronave nell'infundibolo cronosinclastico, seppi in un lampo che tutto ciò che è stato sarà sempre, e tutto ciò che sarà è sempre stato. — Ridacchiò di nuovo. — Sapere questo toglie fascino alla predizione... ne fa la cosa piú semplice e piú ovvia che si possa immaginare. — Lei ha detto a sua moglie tutto ciò che stava per accaderle? — chiese ancora Constant. Era una domanda allusiva. A Constant non interessava ciò che sarebbe accaduto alla moglie di Rumfoord. Era affamato di notizie che riguardassero lui stesso. Si sentì intimidito, quando chiese della moglie di Rumfoord. — Ecco... non tutto — rispose Rumfoord. — Mia moglie non mi ha lasciato finire. Quel po' che le ho detto le ha fatto passare la voglia di sentire il resto. — Ca... capisco — disse Constant, che non capiva affatto. — Sì — disse Rumford allegramente. — Le ho detto che voi due vi sareste sposati, su Marte. — E scrollò le spalle. — Non proprio sposati... — continuò, — ma fatti accoppiare dai marziani... come animali in una fattoria. Winston Niles Rumfoord era membro dell'unica autentica classe americana. Era una classe autentica poiché i suoi limiti erano chiaramente definiti ormai da due secoli... chiaramente definiti per chiunque avesse un occhio per le definizioni. Dalla classe ristretta di Rumfoord erano usciti un decimo dei Presidenti dell' America, un quarto dei suoi esploratori, un terzo dei governatori della Costa Orientale, metà dei suoi ornitologi professionisti, tre quarti dei suoi grandi velisti, e la virtuale totalità dei sottoscrittori dei deficit dell'opera lirica. Era una classe singolarmente priva di ciarlatani, con la notevole eccezione dei ciarlatani politici. La ciarlataneria politica era un mezzo per assicurarsi un'alta carica... e non veniva mai portata anche nella vita privata. Una volta assunta una carica, i membri di quella classe diventavano, quasi senza eccezione, magnificamente responsabili.
Se Rumfoord accusava i marziani di far accoppiare la gente come se la gente non fosse niente piú che bestiame, accusava i marziani di fare proprio quello che aveva fatto la sua stessa classe. La forza della sua classe dipendeva in buona misura da un ragionevole investimento del denaro... ma dipendeva in misura anche maggiore da matrimoni fondati cinicamente sul tipo di figli che ne sarebbero potuti nascere. I desiderata erano figli sani, affascinanti e saggi. L'analisi piú acuta, anche se priva di spirito, della classe di Rumfoord è, senza dubbio, I re filosofi dell'America di Waltham Kittredge. Fu Kittredge a provare che in realtà quella classe era una famiglia, le cui estremità si ripiegavano ordinatamente in un solido nucleo di consanguineità attraverso i matrimoni tra cugini. Rumfoord e sua moglie, per esempio, erano terzi cugini, e si detestavano. E quando la classe di Rumfoord venne diagrammata da Kittredge, assomigliava soprattutto al nodo duro, quasi sferico, noto come pugno di scimmia. Waltham Kittredge commise spesso errori nel suo I re filosofi dell'America, quando tentò di tradurre in parole l'atmosfera della classe di Rumfoord. Da quel professore universitario che era, Kittredge cercava soltanto parole roboanti e, poiché non ne trovò di adatte, ne coniò una quantità di nuove e intraducibili. Di tutto il gergo di Kittredge, soltanto una definizione ha trovato la strada per arrivare nelle conversazioni di tutti i giorni. La definizione è coraggio a-neurotico. Era quei genere di coraggio, naturalmente, che aveva portato Winston Niles Rumfoord nello spazio. Era coraggio puro... non solo indenne dal desiderio di fama e di denaro, ma indenne anche da tutti gli impulsi che colpiscono gli spostati e gli eccentrici. Esistono, fra parentesi, due forti parole comuni che avrebbero potuto servire benissimo, una o l'altra, al posto di tutto il gergo di Kittredge. Quelle parole sono stile e ardimento. Quando Rumfoord divenne il primo individuo che possedeva
un'astronave privata, pagandola di tasca propria cinquantotto milioni di dollari... quello fu stile. Quando i governi della Terra sospesero l'esplorazione dello spazio a causa degli infundiboli cronosinciastici e Rumfoord annunciò che sarebbe andato su Marte... quello fu ardimento. Quando Rumfoord annunciò che avrebbe portato con sé un cane assolutamente terribile, come se un'astronave non fosse altro che una sofisticata automobile sportiva, come se un viaggio a Marte fosse poco piú di un giretto per il Connecticut Turnpike2... quello fu stile. Quando non si sapeva ancora che cosa sarebbe accaduto se un'astronave fosse finita in un infundibolo cronosinclastico, e Rumfoord seguì una rotta che lo portò dritto nel centro d'uno di essi... quello fu veramente ardimento. Per mettere a confronto Malachi Constant di Hollywood con Winston Niles Rumfoord di Newport e dell'Eternità: Tutto ciò che Rumfoord faceva, lo faceva con stile, facendo fare una bella figura a tutta l'umanità. Tutto ciò che Constant faceva, lo faceva in stile — con aggressività, clamorosamente, puerilmente, con grandi sprechi — facendo fare una brutta figura all'umanità ed a se stesso. Constant era ispido di coraggio... ma quel coraggio era tutto, tranne che a-neurotico. Ogni gesto coraggioso che aveva compiuto era stato motivato dal disprezzo e da stimoli dell'infanzia che facevano sembrare meschina la paura. Constant, dopo aver sentito da Rumfoord che sarebbe stato accoppiato su Marte alla moglie di Rumfoord, distolse lo sguardo dal suo ospite e lo posò sul museo dei resti, lungo una parete. Le mani di Constant erano serrate una all'altra, strette al 2
Il Connecticut Turnpike è una nuova autostrada molto veloce, che porta da New York a Providence, nel Rhode Island. (Nota dell'autore all' edizione italiana).
punto di pulsare. Constant si schiarì la gola parecchie volte. Poi emise un fischio sottile, tra la lingua e la volta del palato. Si stava comportando come chi aspetta che un dolore terribile sia passato. Chiuse gli occhi e aspirò aria tra i denti. — Luu dii duu, signor Rumfoord — disse sottovoce. Aprì gli occhi. — Marte? — chiese. — Marte — confermò Rumfoord. — Naturalmente, non è la sua destinazione finale... e non lo è neppure Mercurio. — Mercurio? — disse Constant. E fece di quel nome bellissimo un gracidio indecoroso. — La sua destinazione è Titano — spiegò Rumfoord, — ma prima di arrivare là visiterà Marte, Mercurio e anche la Terra. È importante comprendere a quale punto nella storia dell'esplorazione puntuale dello spazio Malachi Constant ricevette la notizia delle sue future visite a Marte, Mercurio, Terra e Titano. Sulla Terra, l'atteggiamento verso l'esplorazione dello spazio era molto simile all'atteggiamento dell'Europa verso l'esplorazione dell'Atlantico prima che Cristoforo Colombo salpasse. Tuttavia, c'erano queste importanti differenze: i mostri che si frapponevano tra gli esploratori dello spazio e le loro mete non erano immaginari, ma numerosi, terribili, vari ed uniformemente cataclismici; il costo d'una spedizione, anche piccola, era sufficiente a rovinare molte nazioni; ed era una virtuale certezza che una spedizione non poteva accrescere la ricchezza dei suoi finanziatori. In breve, sulla base del comune buonsenso e delle migliori informazioni scientifiche, non si poteva dire niente di buono sull'esplorazione dello spazio. Erano passati da un pezzo i tempi in cui una nazione poteva apparire piú gloriosa di un'altra lanciando nel nulla qualche oggetto pesante. La Galactic Spacecraft, una società anonima controllata da Malachi Constant, aveva, per la verità, ricevuto l'ultimissima ordinazione per un esemplare da museo di questo
genere, un razzo alto novanta metri e dal diametro di undici. Il razzo era stato costruito, ma l'ordine di partenza non era mai arrivato. La nave era chiamata semplicemente La Balena, e conteneva alloggi per cinque passeggeri. Ciò che aveva prodotto un arresto così brusco era stata la scoperta degli infundiboli cronosinclastici. Erano stati scoperti matematicamente, sulla base dei voli bizzarri delle astronavi automatiche mandate nello spazio per preparare, si pensava, la strada agli uomini. La scoperta degli infundiboli cronosinclastici disse in effetti all'umanità: «E che cosa ti fa pensare che arriveresti in qualche posto?». Era una situazione che sembrava fatta apposta per i predicatori fondamentalisti americani. Furono piú rapidi dei filosofi e degli storici e di chiunque altro, nel dire cose sensate a proposito dell' interrotta Età dello Spazio. Due ore dopo che la partenza della Balena veniva rimandata a tempo indeterminato, il reverendo Bobby Denton gridava alla sua Crociata dell'Amore a Wheeling, nella Virginia occidentale: — «E il Signore discese, per veder la città e la torre che i figliuoli degli uomini edificavano. E il Signore disse: "Ecco un medesimo popolo, ed essi tutti hanno un medesimo linguaggio, e questo è il cominciamento del loro lavoro; ed ora tutto ciò che hanno disegnato di fare, non sarà loro divietato. Or su, scendiamo e confondiamo ivi la loro favella; acciocché l'uno non intenda la favella dell'altro". E il Signore li disperse di là sopra la faccia di tutta la terra; ed essi cessarono di edificar la città. Perciò essa fu nominata Babilonia; perciocché il Signore confuse quivi la favella di tutta la terra, e disperse coloro di là sopra la faccia di tutta la terra3». Bobby Denton lanciò sul suo pubblico uno sguardo acceso e 3
Genesi, 11-5/9: la traduzione riportata qui sopra e le seguenti sono quelle del Diodati (n.d.t.).
affettuoso, e si accinse ad arrostirlo sui carboni della sua stessa iniquità. — Non sono forse questi i tempi biblici? — disse. — Non abbiamo edificato con l'acciaio e l'orgoglio un'abominazione molto piú alta dell'antica Torre di Babele? E non intendevamo forse, come quegli antichi costruttori, arrivare con essa al Cielo? E non abbiamo sentito dire molte volte che il linguaggio degli scienziati è internazionale? Usano tutti le stesse parole greche e latine per indicare le cose, e tutti parlano il linguaggio dei numeri. — Per Denton, questa sembrava una prova decisiva, e i Crociati dell' Amore ne convennero, tristemente, senza comprendere il perché. — Quindi, perché dovremmo gridare per la sorpresa e per il dolore, ora che Iddio ci dice ciò che disse ai costruttori della Torre di Babele: «No! Andatevene! Voi non andrete né in Cielo né altrove con quella cosa! Disperdetevi, udite? Smettetela di parlarvi l'uno all'altro nel linguaggio della scienza! Nulla vi verrà vietato, di ciò che avete immaginato di fare, se continuerete a parlarvi l'uno all'altro con il linguaggio della scienza, e Io non voglio questo! Io, il vostro Signore Iddio che è nei Cieli, voglio che questo vi sia vietato, così smetterete di pensare a torri pazzesche e a razzi pazzeschi per raggiungere il Cielo e comincerete a pensare ad essere vicini e mariti e mogli e figlie e figli migliori! Non guardate ai razzi, se volete la salvezza... guardate alle vostre case e alle vostre chiese!». La voce di Bobby Denton divenne rauca e smorzata. — Volete volare attraverso lo spazio? Iddio vi ha già dato l'astronave piú meravigliosa di tutta la creazione! Sì! Velocità? Volete la velocità? L'astronave che Iddio vi ha dato percorre sessantaseimila miglia all'ora... e continuerà a correre a quella velocità per tutta l'eternità, se a Dio piacerà. Volete un'astronave che possa trasportare comodamente gli uomini? L'avete! Non porterà soltanto un uomo ricco e il suo cane, o soltanto cinque uomini o dieci uomini. No! Dio non è tirchio! Vi ha
dato un'astronave che porterà miliardi di uomini, di donne e di bambini! Sì! E non dovranno starsene legati sui sedili o portare vaschette per pesci sulla testa. No! Non sull'astronave di Dio. La gente sull'astronave di Dio può andare a nuotare, e passeggiare nella luce del sole e giocare a baseball e pattinare sul ghiaccio, e fare gite familiari con l'automobile di famiglia, la domenica, dopo essere stata in Chiesa e dopo aver fatto un pranzo di famiglia a base di pollo! Bobby Denton annuì. — Sì! — disse. — E se qualcuno crede che Iddio sia meschino a mettere delle cose nello spazio per impedirci di volare lassù, fategli ricordare l'astronave che Iddio ci ha già dato. E non dobbiamo comprare neppure il carburante, né preoccuparci e affaticarci per decidere quale tipo di carburante dobbiamo usare. No! A tutto questo ha già pensato Iddio. «Iddio ci ha detto cosa noi dovevamo fare, su questa meravigliosa astronave. Ha scritto il regolamento in modo che chiunque potesse capirlo. Non occorre essere un fisico o un grande chimico o un Albert Einstein per comprenderlo. E non ha fissato neppure un grande quantitativo di regole. Ci hanno detto che se facessero partire La Balena, dovrebbero fare undicimila diversi controlli prima di poter essere certi che è pronta ad andare: questa valvola è aperta, quella valvola è chiusa, quel filo è tirato, quel serbatoio è pieno?... e così via e così via, undicimila cose da controllare. Qui, sull'astronave di Dio, Dio vi ha dato soltanto dieci cose da controllare... e non per un piccolo viaggio verso qualche grossa pietra morta e velenosa nello spazio, ma per il viaggio verso il Regno dei Cieli! Pensateci! Dove preferireste essere, domani... su Marte o nel Regno dei Cieli? «Sapete qual è l'elenco dei controlli sulla verde, rotonda astronave di Dio? Volete sentire il count-down di Dio?». I Crociati dell'Amore risposero urlando che volevano sentirlo. — Dieci!... — esclamò Bobby Denton. — Concupisci la
casa del tuo prossimo, o il suo servo, o la sua serva, o il suo bue, o il suo asino, o cosa alcuna che sia del tuo prossimo? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Nove!... — disse Bobby Denton, — Porti falsa testimonianza contro il tuo prossimo? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Otto!... — disse Bobby Denton. — Rubi? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Sette!... — disse Bobby Denton. — Commetti adulterio? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Sei!... — disse Bobby Denton. — Uccidi? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Cinque!... — disse Bobby Denton. — Onori tuo padre e tua madre? — Sì! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Quattro!... — disse Bobby Denton. — Ricordi il Giorno del Signore e lo santifichi? — Sì! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Tre!... — disse Bobby Denton. — Usi il nome del Signore Iddio tuo invano? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Due!... — disse Bobby Denton. — Ti fai immagini scolpite della divinità? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Uno!... — gridò Bobby Denton. — Poni altri dèi davanti al solo vero Iddio tuo Signore? — No! — gridarono i Crociati dell'Amore. — Decollate! — urlò gioiosamente Bobby Denton. — Paradiso, stiamo arrivando! Decollate, figlioli, e così sia! — Be'... — mormorò Malachi Constant, là nella stanza simile a un camino, sotto la scala, a Newport, — sembra che finalmente ci si servirà del messaggero. — Come? — disse Rumfoord. — Il mio nome... significa messaggero fedele — spiegò
Constant. — Qual è il messaggio? — Mi scusi — disse Rumfoord. — Non so niente di nessun messaggio. — E inclinò il capo con aria interrogativa. — Qualcuno le ha detto qualcosa a proposito di un messaggio? Constant levò in alto le palme. — Voglio dire... perché dovrò avere tutti quei guai per arrivare su Tritone? — Titano — lo corresse Rumfoord. — Titano, Tritone — disse Constant. — Perché diamine dovrei andarci? — Diamine era uria parola debole e pudica per Constant... e gli occorse un attimo per comprendere perché l'aveva usata. Diamine era quello che dicevano i cadetti spaziali alla televisione, quando un meteorite portava via un pannello dei comandi, o quando si scopriva che il navigatore era un pirata spaziale del pianeta Zircone. Si alzò. — Perché diavolo dovrei andarci? — Ci andrà... glielo prometto — disse Rumfoord. Constant si avvicinò alla finestra: un po' della sua forza prepotente stava ritornando. — Le dirò subito — fece, — che non ci andrò. — Mi dispiace di sentirle dir questo — fece Rumfoord. — Dovrei fare qualcosa per lei, quando ci fossi arrivato? — chiese Constant. — No — rispose Rumfoord. — E allora perché le dispiace? — disse Constant. — Che cosa le importa? — Niente — disse Rumfoord. — Mi dispiace soltanto per lei. Perderebbe veramente qualcosa. — Per esempio? — domandò Constant. — Ecco... il clima piú piacevole che si possa immaginare, tanto per dirne una — fece Rumfoord. — Clima! — esclamò sprezzante Constant. — Con le mie case a Hollywood, nella valle del Kashmir, ad Acapulco, in Manitoba, a Tahiti, a Parigi, alle Bermude, a Roma, a New
York e a Città del Capo, dovrei lasciare la Terra in cerca di climi migliori? — Su Titano c'è ben piú del clima — replicò Rumfoord. — Le donne, per esempio, sono le piú belle creature che esistano tra il Sole e Betelgeuse. Constant sghignazzò amaramente. — Le donne! — disse. — Crede che io fatichi a procurarmi donne bellissime? Crede che io sia affamato d'amore, e che l'unico modo per avvicinarmi a una bella donna sia salire su un razzo e dirigermi verso una delle lune di Saturno? Sta scherzando? Ho avuto donne così belle che chiunque, dal Sole a Betelgeuse, cadrebbe a sedere e si metterebbe a piangere soltanto se una di quelle donne lo salutasse! Si tolse dalla tasca il portafoglio e ne estrasse una foto della sua piú recente conquista. Non c'era dubbio... la ragazza nella foto era bella da stordire. Era Miss Zona del Canale, ed era stata una delle concorrenti al titolo di Miss Universo... e in realtà era molto piú bella della vincitrice. La sua bellezza aveva spaventato i giudici. Constant porse a Rumfoord la foto. — Hanno qualcosa di simile, su Titano? — domandò. Rumfoord studiò rispettosamente la foto, poi la rese. — No — rispose, — niente di simile su Titano. — Benissimo — disse Constant, che sentiva di avere di nuovo in pugno il suo destino, — clima, belle donne... che altro? — Nient'altro — disse in tono mite Rumfoord. E alzò le spalle. — Oh... oggetti d'arte, se le piace l'arte. — Ho la piú grande collezione d'arte del mondo. Constant aveva ereditato questa famosa collezione d'arte. La collezione era stata fatta da suo padre... o meglio dagli agenti di suo padre. Era sparpagliata nei musei di tutto il mondo, e ogni pezzo era chiaramente etichettato come appartenente alla Collezione Constant. La collezione era stata fatta e poi esibita in quel modo su consiglio del Direttore delle Relazioni Pubbliche dell'
Anonima Magnum Opus, la società anonima il cui solo scopo era di occuparsi degli affari di Constant. Il fine di quella collezione era stato quello di provare quanto potevano essere generosi, utili e sensibili i miliardari. La collezione si era anche rivelata un investimento assolutamente affascinante. — Questo per quanto riguarda l'arte — disse Rumfoord. Constant stava per rimettere la foto di Miss Zona del Canale nel portafoglio, quando si accorse di avere in mano non una fotografia ma due. C'era una foto, dietro quella di Miss Zona del Canale. Immaginò che fosse una fotografia di colei che aveva preceduto Miss Zona del Canale, e pensò che poteva mostrare anche quella a Rumfoord... poteva mostrare a Rumfoord a quale celestiale bellezza aveva avuto accesso. — Ce n'è... ce n'è un'altra — disse Constant, tendendo la seconda foto a Rumfoord. Rumfoord non fece il gesto di prenderla. Non sì prese neppure il disturbo di guardarla. Invece, guardò negli occhi Constant, con un sogghigno furbesco. Constant abbassò lo sguardo sulla foto che era stata ignorata. E si accorse che non era una foto di colei che aveva preceduto Miss Zona del Canale. Era una fotografìa che Rumfoord gli aveva passato di nascosto. Non era una fotografia normale, sebbene avesse la superficie lucida e i margini bianchi. Entro quei margini si stendevano profondità scintillanti. L'effetto era molto simile a quello di una finestra di vetro rettangolare nella superficie d'una baia corallina limpida e poco profonda. In fondo a quella che sembrava una baia corallina c'erano tre donne... una bianca, una aurea e una bruna. Guardavano Constant, implorandolo di venire a loro, di ferie complete con l'amore. La loro bellezza stava alla bellezza di Miss Zona del Canale come la gloria del Sole stava alla gloria d'una lucciola. Constant si lasciò cadere dì nuovo in una poltroncina. Dovet-
te distogliere lo sguardo da quella bellezza per non scoppiare in lacrime. — Può tenere quella fotografia, se vuole — disse Rumfoord. — E formato portafoglio. Constant non riuscì a immaginare cosa poteva dire. — Mia moglie sarà ancora con lei quando arriverà su Titano — continuò Rumfoord, — ma non interverrà se lei vorrà scherzare con quelle tre ragazze. Anche suo figlio sarà con lei, ma sarà di larghe vedute come Beatrice. — Figlio? — disse Constant. Lui non aveva figli. — Sì... uno splendido ragazzo chiamato Crono — disse Rumfoord. — Crono? — ripetè Constant. — Un nome marziano — spiegò Rumfoord. — È nato su Marte... da lei e da Beatrice. — Beatrice? — ripetè ancora Constant. — Mia moglie — disse Rumfoord. Era diventato molto trasparente. Anche la sua voce stava assumendo un timbro metallico, come se uscisse da una radio da poco prezzo. — Le cose vanno così e così, ragazzo mio — proseguì, — con o senza messaggi. È il caos, e non per errore, poiché l'Universo è appena nato. È il grande divenire che crea la luce e il calore e il moto, e che la scaglierà da qui a laggiù. — Predizioni, predizioni, predizioni — disse Rumfoord, meditabondo. — C'è qualcosa d'altro che potrei dirle? Ohhh... sì, sì, sì. Quel figlio, quel ragazzo chiamato Crono... — Crono raccoglierà un pezzetto di metallo, su Marte — disse Rumfoord, — e lo chiamerà il suo «portafortuna». Tenga d'occhio quei portafortuna, signor Constant. E incredibilmente importante. Winston Niles Rumfoord svaní pian piano, cominciando dalla punta delle dita e terminando con il sogghigno. Il sogghigno rimase per qualche tempo dopo che il resto di lui era scomparso.
— Ci vedremo su Titano — salutò il sogghigno. E poi svaní. — È tutto finito, Moncrief? — gridò la signora Rumfoord al maggiordomo, dalla sommità della scala a chiocciola. — Sissignora... se ne è andato — rispose il maggiordomo. — Anche il cane. — E quel tale signor Constant? — disse la signora Rumfoord... cioè Beatrice. Si comportava come un'invalida: vacillava, sbatteva forte le palpebre, rendeva la propria voce simile al sussurro del vento tra le cime degli alberi. Indossava una lunga vestaglia bianca le cui pieghe morbide formavano una spirale antioraria in armonia con la bianca scala a chiocciola. Lo strascico della vestaglia formava una cascata sui gradini piú alti, dando a Beatrice una continuità con l'architettura della casa. In quella esibizione la cosa che aveva piú importanza era la sua figura alta e diritta. I particolari del suo viso erano insignificanti. Se ci fosse stata una palla da cannone, al posto della testa, si sarebbe adattata ugualmente benissimo a quella grandiosa composizione. Ma Beatrice aveva un viso... e un viso interessante. Si sarebbe potuto dire che somigliava a un guerriero indiano, dai denti sporgenti. Ma chiunque avesse detto questo, avrebbe aggiunto prontamente che era meravigliosa. Il suo viso, come il viso di Malachi Constant, era unico, una variazione sorprendente su un tema familiare, una variazione che induceva gli osservatori a pensare: Sì... sarebbe un altro bel modo di essere. Ciò che Beatrice aveva fatto del suo viso, in realtà, era quello che potrebbe fare qualsiasi ragazza comune. L'aveva sovraccaricato di dignità, di sofferenza, di intelligenza e di un lampo piccante di civetteria. — Sì — rispose Constant, dal basso, — quel tale signor Constant è ancora qui. — Era in piena vista, appoggiato a una colonna, nell'arcata che si apriva sul vestibolo. Ma era così in basso nella composizione, così perduto tra i particolari architettonici, da essere quasi invisibile.
— Oh! — fece Beatrice. — Come sta? — Era un'accoglienza molto vuota. — Come sta lei — replicò Constant. — Posso solamente fare appello ai suoi istinti di gentiluomo — disse Beatrice, — chiedendole di non diffondere a destra e a sinistra la storia del suo incontro con mìo marito. Posso comprendere bene quanto debba essere terribile la tentazione di farlo. — Sì... — disse Constant. — Potrei vendere la mia storia per un mucchio dì quattrini, pagare l'ipoteca sulla mia casa, e diventare un personaggio di notorietà internazionale. Potrei mescolarmi ai grandi e ai quasi-grandi, ed esibirmi davanti alle teste coronate d'Europa. — Mi vorrà scusare — disse Beatrice, — se non riesco ad apprezzare il sarcasmo e tutte le altre sfumature del suo spirito senza dubbio famoso, signor Constant. Queste visite di mio marito mi fanno star male. — Lei non l'ha piú visto, vero? — domandò Constant. — L'ho visto la prima volta che si è materializzato — rispose Beatrice, — e questo è bastato per farmi star male per il resto dei miei giorni. — Io l'ho trovato molto simpatico — ribatté Constant. — I pazzi, talvolta, non sono privi di fascino — disse Beatrice. — I pazzi? — disse Constant. — Come uomo di mondo, signor Constant — disse Beatrice, — lei non direbbe che un individuo che fa profezie complicate e altamente improbabili sia pazzo? — Ecco... — fece Constant, — è davvero molto pazzesco dire a un uomo che ha accesso alla piú grande astronave mai costruita che se ne andrà nello spazio? La notizia che Constant aveva accesso a un'astronave sbalordì Beatrice. La sbalordì tanto che indietreggiò d'un passo dalla sommità della scala a chiocciola, separandosi dalla spirale
montante. Quel piccolo passo indietro la trasformò in ciò che era: una donna sola e spaventata in una casa immensa. — Lei ha veramente un'astronave? — chiese. — Una società che io controllo ne ha una in custodia — rispose Constant. — Ha sentito parlare della Balena? — Sì — disse Beatrice. — La mia società la vendette al governo — spiegò Constant. — Ma credo che il governo sarebbe felicissimo se qualcuno la ricomprasse a cinque centesimi per ogni dollaro. — Le auguro molta fortuna per la sua spedizione — disse Beatrice. Constant si inchinò. — Le auguro molta fortuna per la sua — replicò. Se ne andò senza aggiungere altro. Nell'attraversare il fulgido zodiaco sul pavimento del vestibolo, sentì che la scala a chiocciola ora scendeva, invece di salire. Constant divenne il punto piú infimo in un gorgo di destino. Mentre usciva dalla porta, si sentì deliziosamente consapevole di trascinare dietro di sé l'aplomb della magione di Rumfoord. Poiché era prestabilito che lui e Beatrice dovevano ritrovarsi, per generare un figlio chiamato Crono, Constant non si sentiva obbligato a cercarla e a circuirla, e neppure a mandarle una cartolina di saluti. Poteva occuparsi degli affari suoi, pensò, e l'altezzosa Beatrice avrebbe dovuto comunque venire a lui... come qualsiasi altra pupa. Stava ridendo quando rimise gli occhiali scuri e la barba finta e quando varcò la piccola porta di ferro nel muro di cinta. La macchina era ritornata, ed era ritornata anche la folla. I poliziotti tenevano aperto uno stretto passaggio fino alla portiera della macchina. Constant lo percorse in fretta e raggiunse la macchina. Il passaggio si richiuse come il Mar Rosso dietro i Figli d'Israele. Le grida della folla, prese insieme, erano un grido collettivo di indignazione e di dolore. La folla, cui non era stato promesso nulla, si sentiva imbrogliata, poiché non
aveva ricevuto nulla. Uomini e ragazzi cominciarono a scagliare sassi contro la macchina di Constant. L'autista mise in moto la macchina e la fece avanzare strisciando attraverso il mare di carne infuriata. Un uomo calvo attentò alla vita di Constant con un hotdog, di cui si servì per pugnalare il vetro del finestrino: spezzò il panino, ruppe il salsicciotto... lasciò un nauseante alone di mostarda e di sugo. — Ah, ah, ah! — gridò una graziosa ragazza, e mostrò a Constant ciò che non aveva mai mostrato, probabilmente, ad altri uomini. Gli mostrò che i suoi due incisivi superiori erano falsi. Lasciò che i due incisivi cadessero fuori di posto. Gridò come una strega. Un ragazzino si arrampicò sul cofano, bloccando la visuale all' autista. Strappò i tergicristallo e li buttò alla folla. Alla macchina occorsero tre quarti d'ora per arrivare al limitare della folla. E al limitare non c'erano i pazzi, ma i quasi-sani. Soltanto lì le grida diventarono coerenti. — Ci dica! — gridò un uomo; ed era semplicemente eccitato, non rabbioso. — Ne abbiamo il diritto! — urlò una donna. E mostrò a Constant i suoi due bellissimi bambini. Un'altra donna disse a Constant che cosa la folla riteneva di avere il diritto di sapere. — Abbiamo il diritto di sapere che cosa succede! — gridò. Poi, il tumulto fu un esercizio di scienza e di teologia... un cercare a tentoni, da parte dei vivi, qual era il significato della vita. L'autista, vedendosi davanti finalmente la strada libera, premette al massimo l'acceleratore. La macchina sfrecciò via. Un grande cartello passò accanto, in un lampo. PORTIAMO UN AMICO A UNA CHIESA DI NOSTRA SCELTA, LA DOMENICA! diceva.
CAPITOLO SECONDO CUGINI IN CASSA «Qualche volta penso che sia un grande errore avere una materia che può pensare e sentire. Se ne lamenta. Ma, per la stessa ragione, immagino che i macigni e le montagne e le lune potrebbero venire accusati di essere un po' troppo flemmatici». WINSTON NILES RUMFOORD
La macchina sfrecciò verso nord, fuori di Newport, svoltò per una strada coperta di ghiaia, e arrivò all'appuntamento con un elicottero che aspettava in un prato. La ragione per cui Malachi Constant trasbordò dalla macchina all'elicottero era d'impedire che qualcuno lo seguisse, che qualcuno scoprisse chi era il visitatore barbuto e occhialuto recatosi alla tenuta Rumfoord. Nessuno sapeva dove fosse Constant. Neppure l'autista e il pilota conoscevano la vera identità del loro passeggero. Per entrambi, Constant era il signor Jonah K. Rowley. — Signor Rowley, signore...? — disse l'autista, quando Constant scese dalla macchina. — Sì? — fece Constant. — Non ha avuto paura, signore? — chiese l'autista. — Paura? — replicò Constant, sinceramente stupito da quella domanda. — E di cosa? — Di cosa? — ripetè incredulo l'autista. — Be', di tutti quei pazzi che avrebbero voluto linciarci. Constant sorrise e scosse il capo. Neppure una volta, in mezzo a quel ribollire di violenza, aveva pensato che qualcuno gli avrebbe fatto del male. — Non serve a nulla lasciarsi prendere dal panico, le pare? — disse. Riconobbe nelle sue parole il fraseggiare di Rum-
foord... persino qualcosa dell'aristocratica modulazione di Rumfoord. — Cielo... lei deve avere una specie di angelo custode... che l'aiuta a rimanere freddo come il ghiaccio, qualsiasi cosa succeda — disse l'autista in tono di ammirazione. Quel commento interessò Constant, perché descriveva bene il suo atteggiamento in mezzo alla folla impazzita. Dapprima accettò il commento come un'analogia... come una descrizione poetica del suo umore. Un uomo che avesse un angelo custode si sarebbe indubbiamente sentito come si sentiva lui... — Sissignore! — esclamò l'autista. — Senza dubbio qualcuno deve vegliare su di lei! Poi un pensiero colpì Constant: Era precisamente così. Fino a quel momento di verità, Constant aveva pensato alla sua avventura a Newport come a un'altra allucinazione provocata dalle droghe, come a un'altra festa a base di peyotl: vivida, nuova, affascinante, e assolutamente priva di conseguenze. La porticina era stata un tocco di sogno... la fontana asciutta un altro... il grande quadro della bambina non-mi-toccare, tutta bianca, con il pony tutto bianco... e la stanza simile a un camino sotto la scala a chiocciola... e la fotografia delle tre sirene di Titano... e le profezie di Rumfoord... e lo sbigottimento di Beatrice Rumfoord in cima alla scala... Malachi Constant si sentì inondare d'un sudore freddo. Le ginocchia minacciarono di piegarsi, le palpebre gli si scardinarono. Finalmente comprendeva che tutto era stato reale! Era rimasto calmo in mezzo alla folla esagitata perché sapeva che non sarebbe morto sulla Terra. Qualcosa stava vegliando su di lui, era vero. , E qualunque cosa fosse, gli stava salvando la pelle per... Constant tremò mentre contava sulle dita i punti d'interesse dell'itinerario che Rumfoord gli aveva promesso. Marte. Poi Mercurio.
Poi ancora la Terra. Poi Titano. Poiché l'itinerario finiva su Titano, presumibilmente era lì che Malachi Constant sarebbe morto. Sarebbe morto là! Per quale ragione Rumfoord si era mostrato così allegro? Constant avanzò, strascicando i piedi, verso l'elicottero, e fece ondeggiare il grande aeromezzo sgangherato, mentre saliva a bordo. — Lei è Rowley? — chiese il pilota. — Esatto — rispose Constant. — Ha un nome strano, signor Rowley — disse il pilota. — Prego? — fece nauseato Constant. Stava guardando attraverso la calotta di plastica dell'abitacolo... guardava in alto, verso il cielo serotino. Si chiedeva se era possibile che vi fossero occhi, lassù, occhi che potevano vedere tutto ciò che lui faceva. E se c'erano occhi lassù, e se volevano che lui facesse certe cose, andasse in certi posti... come potevano obbligarlo? Oh, Dio, lassù sembrava tutto così freddo e rarefatto! — Ho detto che lei ha un nome insolito — ripetè il pilota. — Che nome? — disse Constant, che aveva dimenticato il nome sciocco che si era scelto per camuffarsi. — Jonah — rispose il pilota. Cinquantanove giorni piú tardi, Winston Niles Rumfoord e il suo fedele cane Kazak si materializzarono di nuovo. Dopo la loro ultima visita erano accadute molte cose. In primo luogo, Malachi Constant aveva venduto tutte le sue azioni della Galactic Spacecraft, la società anonima che aveva la custodia della grande nave a razzo chiamata La Balena. Aveva fatto questo per distruggere ogni nesso tra sé e l'unico mezzo conosciuto capace di arrivare su Marte. Aveva investito il ricavato della vendita nella MoonMist Tobacco. In secondo luogo, Beatrice Rumfoord aveva liquidato tutto il suo portafoglio azionano comprendente titoli di varie società e
aveva investito il ricavato in azioni della Galactic Spacecraft, intendendo in questo modo assicurarsi voce in capitolo quando si fosse dovuto decidere che fare con La Balena. In terzo luogo, Malachi Constant aveva preso a scrivere a Beatrice Rumfoord lettere offensive, per tenerla alla larga... per rendersi assolutamente e permanentemente insopportabile agli occhi di lei. Vedere una di quelle lettere voleva dire vederle tutte. La piú recente, scritta su carta intestata della Magnum Opus Inc., la società anonima il cui solo scopo era di occuparsi degli affari finanziari di Malachi Constant, diceva: Un ciao dall'assolata California, Pupa Spaziale! Ehi, sono ansiosissimo di spupazzarmi una dama di prima classe come te sotto le lune gemelle di Marte. Sei il solo tipo di donna che non ho mai avuto, e ci scommetto che il tuo tipo è il piú fantastico. Affettuosità e baci, tanto per cominciare. Mal. In quarto luogo, Beatrice aveva acquistato una capsula di cianuro, senza dubbio piú mortale dell'aspide di Cleopatra. Era intenzione di Beatrice inghiottirla se mai si fosse trovata a spartire anche solo il medesimo fuso orario con Malachi Constant. In quinto luogo, la borsa era precipitata, spazzando via, tra gli altri, Beatrice Rumfoord. Aveva comprato le azioni della Galactic Spacecraft a prezzi che variavano da 151 1/2 a 169. Le azioni erano precipitate a 6 in dieci giorni, e adesso erano lì, tremolanti, una frazione in piú, una frazione in meno. Poiché Beatrice aveva comperato a credito garantito e non solo per contanti, aveva perduto tutto, compresa la casa di Newport. Non le era rimasto altro che i suoi abiti, il suo buon nome e la sua istruzione. In sesto luogo, Malachi Constant aveva dato una festa, due giorni dopo essere ritornato a Hollywood... e soltanto adesso, cinquantasei giorni dopo, la festa si stava esaurendo. In settimo luogo, un giovanotto autenticamente barbuto che
si chiamava Martin Koradubian si era presentato come lo sconosciuto con barba che era stato invitato nella tenuta Rumfoord ad assistere a una materializzazione. Era un tale che riparava orologi solari a Boston, ed era un bugiardo affascinante. Una rivista aveva comprato la sua «confessione» per tremila dollari. Seduto nel Museo di Skip, sotto la scala a chiocciola, Winston Niles Rumfoord lesse la confessione di Koradubian con delizia e ammirazione. Koradubian sosteneva che Rumfoord gli aveva parlato dell'anno decimilionesimo dopo Cristo. Nell'anno decimilionesimo, secondo Koradubian, vi sarebbe stata una grandiosa pulizia generale. Tutti i documenti che riguardavano il periodo tra la morte di Cristo e l'anno milionesimo sarebbero stati ammucchiati e bruciati. Questo sarebbe avvenuto, diceva Koradubian, perché i musei e gli archivi stavano per sloggiare i vivi dalla Terra. Il periodo d'un milione d'anni cui si riferiva il ciarpame bruciato sarebbe stato riassunto nei libri di storia in una sola frase, secondo Koradubian: Dopo la morte di Gesù Cristo, vi fu un periodo di riassestamento che durò approssimativamente un milione di anni. Winston Niles Rumfoord rise e depose l'articolo di Koradubian. A Rumfoord nulla piaceva di piú di una buona, enorme frode. — Anno decimilionesimo dopo Cristo — disse a voce alta, — un anno magnifico per i fuochi d'artificio e le sfilate e le fiere mondiali. Un ottimo momento per spaccare le pietre angolari e dissotterrare le capsule del tempo. Rumfoord non stava parlando a se stesso. C'era qualcun altro con lui nel Museo di Skip. L'altra persona era sua moglie Beatrice. Beatrice era seduta nella poltroncina davanti a lui. Era scesa per chiedere l'aiuto del marito in un momento di grande bisogno.
Rumfoord aveva cambiato blandamente argomento. Beatrice, già spettrale in una vestaglia bianca, divenne plumbea. — Che animale ottimista è l'uomo! — esclamò soavemente Rumfoord. — Immagina, aspettarsi che la specie duri per altri dieci milioni di anni... come se la gente fosse ben costruita come le tartarughe! — E alzò le spalle. — Bene... chissà... forse gli esseri umani dureranno così a lungo, in forza della loro pura perversità. Tu cosa ne dici? — Che cosa? — disse Beatrice. — Quanto durerà la razza umana? — chiese Rumfoord. Dai denti serrati di Beatrice uscì una nota fragile, acuta, sostenuta, così alta da essere quasi al disopra della portata dell'orecchio umano. Quel suono recava l'identica orrenda promessa del fischio delle alette d'una bomba che cade. Poi venne l'esplosione. Beatrice capovolse la sedia, aggredì lo scheletro, lo -scagliò a frantumarsi in un angolo. Spazzò via gli scaffali del Museo di Skip, lanciando gli esemplari contro le pareti, calpestandoli sul pavimento. Rumfoord era sbalordito. — Buon Dio... — disse, — che cosa ti ha indotta a far questo? — Non sai tutto? — domandò istericamente Beatrice. — È necessario che qualcuno ti dica qualcosa? Leggimi nella mente! Rumfoord si portò le palme alle tempie, spalancando gli occhi. — Scariche... tutto quello che afferro sono delle scariche — rispose. — Che altro ci dovrebbe essere, se non delle scariche? — replicò Beatrice. — Sto per essere buttata in mezzo a una strada, senza neppure di che pagarmi un pasto... e mio marito ride e vuole che io giochi agli indovinelli! — Non era un indovinello ordinario — disse Rumfoord. — Riguardava la possibile durata della razza umana. Pensavo che
ti avrebbe dato una prospettiva piú ampia riguardo ai tuoi stessi problemi. — All'inferno la razza umana! — esclamò Beatrice. — Tu ne fai parte, lo sai — disse Rumfoord. — E allora preferirei fare domanda per essere trasferita tra gli scimpanzé! — ribatté Beatrice. — Nessun marito scimpanzé se ne resterebbe inerte mentre sua moglie perde tutte le sue noci di cocco. Nessun marito scimpanzé cercherebbe di trasformare sua moglie in una prostituta spaziale per Malachi Constant di Hollywood, California! Dopo aver detto questa cosa orribile, Beatrice si calmò un poco. Agitò il capo, stancamente. — Per quanto tempo continuerà a durare la razza umana, Maestro? — Non lo so — rispose Rumfoord. — Credevo che sapessi tutto — disse Beatrice. — Prova a dare un'occhiata al futuro. — Io guardo il futuro — replicò Rumfoord, — e vedo che non sarò nei Sistema Solare quando la razza umana morirà. Quindi la fine è un mistero per me quanto lo è per te. A Hollywood, California, la suoneria del telefono azzurro nella cabina telefonica di marcassite accanto alla piscina di Malachi Constant stava suonando. È sempre penoso quando un essere umano scade a una condizione difficilmente piú rispettabile di quella d'un animale. Quanto è piú penoso, quando la persona che decade in questo modo ha avuto tutto a suo favore! Malachi Constant era disteso nell'ampio canale di scolo della sua piscina a forma di fagiolo, e dormiva il sonno dell'ubriaco. Nel canale di scolo c'era un centimetro d'acqua tepida. Constant era completamente vestito, con un paio di calzoncini corti da sera, verdazzurri, e una giacchetta da pranzo di broccato d'oro. I suoi abiti erano fradici. Era completamente solo.
Un tempo, la piscina era stata uniformemente coperta da un ondulato lenzuolo di gardenie. Ma una persistente brezza mattutina aveva spinto i fiori a un'estremità della piscina, come se stesse ripiegando un lenzuolo ai piedi d'un letto. Nel ripiegare il lenzuolo, la brezza aveva rivelato il fondo della piscina ricoperto di vetri rotti, ciliege, pezzetti di buccia di limone, gemme di peyotl, fette d'arancia, olive farcite, cipolline sottaceto, un televisore, una siringa ipodermica, e i resti di un pianoforte bianco a coda. Mozziconi di sigari e mozziconi di sigarette, alcune delle quali alla marijuana, costellavano la superficie. La piscina sembrava non tanto un impianto sportivo quanto una coppa di punch nell'inferno. Un braccio di Constant penzolava nella piscina. Dal polso, sommerso nell'acqua, veniva lo scintillio dei suo orologio solare. L'orologio si era fermato. La suoneria del telefono insistette. Constant brontolò ma non si mosse. La suoneria tacque. Poi, dopo venti secondi, ricominciò a suonare. Constant gemette, si levò a sedere, gemette. Dall'interno della casa giunse un suono vivace, efficiente, tacchi alti su un pavimento di piastrelle. Una donna incantevole, bionda-ottone, uscì dalla casa dirigendosi verso la cabina telefonica, lanciando a Constant uno sguardo di altezzoso disprezzo. La donna stava masticando della gomma. — Sì?— disse nel microfono. — Oh, è ancora lei. Sì... è sveglio. Ehi! — gridò a Constant. Aveva una voce da cornacchia. — Ehi, cadetto spaziale! — gridò. — Uhm? — fece Constant. — Quel tale presidente di quella tua società vuole parlarti. — Quale società? — replicò Constant. — Di quale società è presidente, lei? — disse la donna nel microfono. Ottenne la risposta. — Magnum Opus — disse. — Ransom K. Fern della Magnun Opus — spiegò.
— Digli... digli che lo richiamerò io — disse Constant. La donna lo riferí a Fern, e ne ottenne un altro messaggio da riferire a Constant. — Dice che se ne va. Constant si alzò, malfermo, soffregandosi la faccia con le mani. — Se ne va? — ripetè, stordito. — Il vecchio Ransom K. Ferri se ne va? — Già — disse la donna. Sorrise odiosamente. — Dice che non puoi piú permetterti di pagargli lo stipendio. Dice che farai meglio ad andare a parlargli prima che se ne vada a casa. — Rise. — Dice che sei rovinato. A Newport, il frastuono dell'esplosione di Beatrice Rumfoord aveva attirato il maggiordomo Moncrief nel Museo di Skip. — Ha chiamato, signora? — domandò. — Era qualcosa di piú d'una chiamata, Moncrief — disse Beatrice. — La signora non vuole nulla, grazie — intervenne Rumfoord. — Abbiamo avuto soltanto una discussione vivace. — Come osi dire se io voglio qualcosa o no? — disse Beatrice a Rumfoord, accalorandosi. — Comincio a rendermi conto che tu non sei neppure lontanamente onnisciente come pretendi di essere. Si dà il caso che io voglia moltissimo qualche cosa. Io voglio moltissimo molte cose. — Signora? — chiese il maggiordomo. — Voglio che tu lasci entrare il cane, per favore — disse Beatrice. — Vorrei accarezzarlo prima che se ne vada. Vorrei scoprire se un infundibolo cronosinclastico uccide l'amore in un cane come uccide l'amore in un uomo. Il maggiordomo si inchinò e uscì. — Bella scena da recitare davanti a un servitore — commentò Rumfoord. — Fra l'altro — disse Beatrice, — il mio contributo alla di-
gnità della famiglia è stato un po' piú grande del tuo. Rumfoord scosse il capo. — Ti ho delusa in qualche cosa? È questo, che stai dicendo? — In qualche cosa? — replicò Beatrice. — In tutto! — Cosa vorresti che facessi? — domandò Rumfoord. — Avresti potuto dirmi che stava per arrivare questo crollo in borsa! — disse Beatrice. — Avresti potuto risparmiarmi quello che sto soffrendo adesso. Le mani di Rumfoord si agitarono nell'aria, misurando imbarazzate varie linee di discussione. — Ebbene? — disse Beatrice. — Vorrei che potessimo andare insieme nell'infundibolo cronosinclastico — disse Rumfoord. — così potresti capire, una volta per tutte, di che cosa stavo parlando. Tutto quello che posso dirti è che la mia incapacità di avvertirti del crollo della borsa fa parte dell'ordine naturale come la cometa di Halley... e che non ha senso infuriarsi con me per questa incapacità come non l'avrebbe l'infuriarsi con la cometa per il suo passaggio. — Tu stai dicendo che non hai carattere, né alcun senso di responsabilità verso di me — asserì Beatrice. — Mi dispiace dover dire così, ma è la verità. Rumfoord scosse il capo, avanti e indietro. — Una verità... ma, oh, Dio, che verità puntuale — disse. Rumfoord si ritirò di nuovo dietro la sua rivista. La rivista si aprì naturalmente in mezzo, dove c'era la pubblicità a colori delle sigarette MoonMist. La MoonMist Tobacco, Ltd., era stata recentemente acquistata da Malachi Constant. Un Piacere Profondo!, diceva il titolo della pubblicità. L'illustrazione che l'accompagnava era la foto delle tre sirene di Titano. Erano là... la ragazza bianca, la ragazza aurea e la ragazza bruna. Le dita della ragazza aurea erano fortuitamente aperte, mentre riposavano sul seno sinistro, e questo aveva permesso a un disegnatore di dipingere una Sigaretta MoonMist tra due di
quelle dita. Il fumo della sigaretta passava sotto le narici della ragazza bruna e della ragazza bianca, e la loro concupiscenza capace di annichilire lo spazio sembrava accentrata soltanto su quel fumo al mentolo. Rumfoord aveva saputo che Constant avrebbe tentato di degradare quell'immagine utilizzandola commercialmente. Il padre di Constant aveva fatto qualcosa dì simile quando aveva scoperto di non poter comprare a nessun prezzo la Monna Lisa di Leonardo. Il vecchio aveva punito Monna Lisa servendosi di lei in una campagna pubblicitaria per certe supposte. Era quel modo commerciale di trattare la bellezza, a minacciare di avere partita vinta. Rumfoord emise una specie di ronzio, un suono che emetteva quando si avvicinava alla compassione. La compassione cui si stava avvicinando era per Malachi Constant, che se la stava passando molto peggio di Beatrice. — È tutto quello che avevi da dire in tua difesa? — domandò Beatrice, portandosi dietro la poltrona di Rumfoord. Teneva le braccia conserte, e Rumfoord, che le leggeva nella mente, sapeva che lei giudicava i propri gomiti appuntiti e sporgenti come le spade di un torero. — Prego? — disse Rumfoord. — Questo silenzio... questo nasconderti nella rivista... questo è la somma e il totale della tua confutazione? — disse Beatrice. — Confutazione: una parola esatta, puntuale, se mai ne è esistita una — commentò Rumfoord. — Io dico una cosa, poi tu mi confuti, poi io confuto te, poi arriva qualcun altro e ci confuta tutti e due. — Rabbrividì. — Un incubo in cui tutti si mettono in fila per confutarsi l'un l'altro. — Non potresti, in questo momento — disse Beatrice, — darmi qualche informazione sull'andamento della borsa che mi metta in grado di riguadagnare ciò che ho perduto e magari qualcosa di piú? Se avessi un briciolo di premura verso di me, non potresti dirmi esattamente in che modo Malachi Constant
di Hollywood cercherà di indurmi con l'inganno ad andare su Marte? In questo modo io potrei batterlo in astuzia. — Senti — rispose Rumfoord, — la vita, per una persona puntuale, è come un otto volante. — Si voltò per far vibrare le mani davanti al viso di lei. — Ti accadranno cose di ogni genere! Certo — continuò, — posso vedere l'intero otto volante su cui sei salita. E, certo, potrei darti un pezzo di carta che ti indicherebbe ogni discesa e ogni curva, ti metterebbe in guardia contro ogni finto spettro che ti balzerà davanti nelle gallerie. Ma questo non ti aiuterebbe. — Non capisco perché — replicò Beatrice. — Perché tu dovresti comunque salire su quell'otto volante — spiegò Rumfoord. — Non sono stato io a disegnarlo, non ne sono il proprietario, e non decido chi deve salire e chi no. Io so soltanto come è fatto. — E Malachi Constant fa parte dell'otto volante? — chiese Beatrice. — Sì — rispose Rumfoord. — E non c'è la possibilità di evitarlo? — domandò ancora Beatrice. — No — disse Rumfoord. — Bene... prova a dirmi allora quali passi ci faranno incontrare — disse Beatrice, — e poi lascia che io faccia quel poco che posso. Rumfoord alzò le spalle. — E sta bene... se ci tieni — disse. — Se questo ti aiuterà a sentirti meglio... — In questo preciso momento — continuò, — il Presidente degli Stati Uniti sta annunciando una nuova Era Spaziale, per alleviare la disoccupazione. Verranno spesi miliardi di dollari per costruire astronavi automatiche, tanto per far lavorare la gente. L'episodio inaugurale di questa Nuova Era Spaziale sarà il lancio della Balena, martedì prossimo. La Balena sarà ribattezzata La Rumfoord in mio onore, verrà riempita di scimmie, e
verrà lanciata nella direzione generica di Marte. Tu e Constant prenderete entrambi parte alle cerimonie. Tu salirai a bordo per un'ispezione ufficiale, e un interruttore difettoso ti metterà in viaggio insieme alle scìmmie. Vale la pena di interrompere la narrazione a questo punto per dire che la storiella raccontata a Beatrice è uno dei pochi esempi noti di menzogna da parte di Winston Niles Rumfoord. Nella storia di Rumfoord c'era questo di vero: La Balena sarebbe stata ribattezzata e lanciata il martedì, e il Presidente degli Stati Uniti stava annunciando effettivamente una Nuova Era Spaziale. Alcuni dei commenti pronunciati a quel tempo dal Presidente meritano di essere ricordati... e si dovrebbe ricordare che il Presidente dava uno speciale sapore alla parola «progresso» pronunciandola «progherso». Dava uno speciale sapore anche alle parole «cuscino» e «casa», pronunciandole come «cugino» e «cassa». — Ora, certa gente va in giro ad affermare che l'economia americana è vecchia e ammalata — disse il Presidente, — e francamente non capisco come si possa dire una cosa simile, perché ora c'è una possibilità di progherso su tutti i fronti molto piú grande che in qualsiasi altra epoca della storia umana. «E c'è un fronte sui cui possiamo fare proghersi particolari: il grande fronte dello spazio. Già una volta abbiamo voltato le spalle allo spazio, ma non è da americani accettare un "no" come risposta quando c'è di mezzo il progherso. «Ora, certa gente dal cuore debole viene a trovarmi ogni giorno alla Casa Bianca — continuò il Presidente, — e piange e si lamenta e dice: "Oh, signor Presidente, abbiamo i magazzini pieni di automobili e di aerei e di elettrodomestici e di vari altri prodotti", e poi aggiunge: "Oh, signor Presidente, nessuno vuole piú che le fabbriche producano qualcosa, perché tutti hanno già due, tre o quattro esemplari di ogni prodotto". «Ricordo in particolare un uomo, fabbricante di cugini, che
aveva prodotto troppa roba, e non riusciva a pensare ad altro che a tutti quei cugini che aveva in cassa. E io gli ho detto: "Nei prossimi vent'anni, la popolazione mondiale raddoppierà, e tutti quei miliardi di individui nuovi avranno bisogno di qualcosa su cui appoggiarsi, così lei si tenga stretti i suoi cugini. Nel frattempo, perché non dimentica quei cugini che ha in cassa e non pensa al progherso nello spazio?". «L'ho detto a lui e lo dico a voi e lo dico a tutti: "Lo spazio può assorbire la produttività d'un bilione di pianeti grandi quanto la Terra. Possiamo costruire e lanciare razzi per sempre e non riusciremo mai a riempire lo spazio e non impareremo mai tutto quello che c'è da sapere". «Ora, quella stessa gente cui piace tanto piangere e lamentarsi dice: "Oh, ma signor Presidente, e gli infundiboli cronosinclastici e questo e quello? ". E io dico a questa gente: "Se tutti avessero dato ascolto a gente come voi, non vi sarebbe mai stato il progherso. Non vi sarebbe il telefono né niente altro. E inoltre", lo dico a loro e lo dico a voi e lo dico a tutti, "non dobbiamo mettere della gente a bordo delle navi a razzo. Ci serviremo soltanto degli ammali inferiori"». il discorso continuava a lungo sullo stesso tono. Malachi Constant di Hollywood, California, uscì dalla cabina telefonica di marcassite completamente lucido. Si sentiva gli occhi come carboni semibruciati. in bocca aveva un sapore simile a quello d'un purée fatto con una coperta da cavallo. Era certissimo di non aver mai visto prima quella bella donna bionda. Le rivolse una delle domande tipiche degli istanti di brusco cambiamento. — Dove sono tutti gli altri? — chiese. — Li hai buttati fuori — rispose la donna. — Davvero? — fece Constant. — Sì — disse la donna. — Vuoi dire che non te lo ricordi? Constant annuì, fiaccamente. Durante quella festa di cin-
quantasei giorni era arrivato a un punto in cui non ricordava quasi piú nulla Il suo scopo era stato quello di rendersi indegno di qualsiasi destino... incapace di qualsiasi missione... troppo ammalato per viaggiare. E vi era riuscito in modo clamoroso. — Oh, è stato uno spettacolo — disse la donna. — Ti stavi divertendo come tutti gli altri, e hai dato una mano a spingere il pianoforte nella piscina. Poi, quando finalmente il piano è caduto in acqua, ti sei preso quella grossa sbornia triste. — Sbornia triste — fece eco Constant. Questo era qualcosa di nuovo. — Sì — disse la donna. — Hai detto che avevi avuto un'infanzia molto infelice, e hai costretto tutti ad ascoltare quanto era stata infelice. Hai detto che tuo padre non aveva mai avuto il minimo interesse per te. Quasi sempre, nessuno riusciva a capirti, ma ogni volta che qualcuno ci riusciva, capiva che tuo padre non si era mai interessato a te. «Poi hai parlato di tua madre — disse la donna, — e hai detto che se era una sgualdrina, allora tu eri orgoglioso d'essere figlio d'una sgualdrina, se una sgualdrina era fatta così. Poi hai detto che avresti regalato un pozzo di petrolio a ogni donna che ti si fosse avvicinata e ti avesse stretto la mano e avesse detto a voce alta, in modo che tutti sentissero: "Io sono una sgualdrina, proprio come era tua madre"». — E poi cos'è successo? — disse Constant. — Hai regalato un pozzo di petrolio a tutte le donne presenti alla festa — raccontò la donna. — E poi hai cominciato a piangere piú di prima, mi hai presa in disparte e hai detto a tutti che io ero l'unica persona nel Sistema Solare di cui potevi fidarti. Hai detto che tutti gli altri aspettavano soltanto che ti addormentassi per caricarti su una nave a razzo e per lanciarti verso Marte. Poi hai mandato a casa tutti, tranne me. I servitori e tutti gli altri. «Poi siamo andati in volo nel Messico e ci siamo sposati, poi siamo tornati qui — disse la donna. — E adesso scopro che
non sei padrone neppure di un vaso da notte o di una finestra da cui buttarti. Farai meglio ad andare in ufficio a vedere cosa diavolo succede, perché il mio amico è un gangster, e ti ucciderà se gli dico che non hai provveduto a me in modo decente. «Diavolo — disse la donna, — io ho avuto un'infanzia piú infelice della tua. Anche mia madre era una sgualdrina e anche mio padre non tornava mai a casa... ma per giunta noi eravamo poveri. Perlomeno tu avevi qualche miliardo di dollari». A Newport, Beatrice Rumfoord voltò le spalle a suo marito. Si fermò sulla soglia del Museo di Skip, guardando nel corridoio. Dal corridoio venne la voce dei maggiordomo. Il maggiordomo era ritto sulla porta d'ingresso, e chiamava Kazak, il cane spaziale. — Anch'io so qualcosa degli otto volanti — disse Beatrice. — Benissimo — commentò Rumfoord, inanemente. — Quando avevo dieci anni — disse Beatrice, — mio padre si mise in testa che mi sarei divertita a fare una corsa in otto volante. Eravamo in villeggiatura a Cape Cod, e andammo a un parco di divertimenti fuori Fall River. «Mio padre comperò due biglietti per l'otto volante. Sarebbe venuto con me. «Io diedi un'occhiata all'otto volante — disse Beatrice, — e mi sembrò sciocco e sporco e pericoloso, e rifiutai semplicemente di salire. Neppure mio padre riuscì a indurmi a salire — disse Beatrice, — sebbene fosse il presidente del consiglio d'amministrazione della New York Central Railroad. «Tornammo indietro e andammo a casa — continuò orgogliosamente Beatrice. Gli occhi le scintillarono, fece un brusco cenno del capo. — Questo è il modo di trattare gli otto volanti», concluse. Uscì dal Museo di Skip e andò nel vestibolo per attendere l'arrivo di Kazak. Dopo un attimo, sentì dietro di sé la presenza elettrica di suo marito.
— Bea... — disse lui, — se io sembro indifferente alle tue sventure, è soltanto perché so che alla fine le cose andranno per il meglio. Se ti sembra offensivo, da parte mia, non inorridire all' idea del tuo accoppiamento con Constant, è solo un'umile ammissione, da parte mia, del fatto che lui sarà per te un marito molto migliore di quanto io sia mai stato o sarò mai. «Pensa che sarai veramente innamorata per la prima volta, Bea — disse Rumfoord. — Pensa che ti comporterai aristocraticamente senza prove esteriori della tua aristocrazia. Pensa che non avrai altro se non la dignità e l'intelligenza e la tenerezza che Dio ti ha dato... pensa che dovrai servirti di questi doni e di null'altro, e pensa che ne ricaverai qualcosa dì squisito». Rumfoord emise un gemito che aveva un suono metallico. Stava diventando immateriale. — Oh, Dio — disse, — tu parli di otto volanti... «Fermati a pensare, qualche volta, all'otto volante su cui mi trovo io. Un giorno, su Titano, ti sarà rivelato come ci si è serviti spietatamente di me, e da parte di chi, e a quali fini disgustosamente meschini». Kazak si lanciò nella casa, quasi volando. Atterrò, scivolando, sul pavimento lucido. Corse, rimanendo immobile, cercando di fare una deviazione ad angolo retto per dirigersi verso Beatrice. Corse piú in fretta, sempre piú in fretta, ma senza ottenere alcuna trazione. Diventò trasparente. Cominciò a contrarsi, a frizzare pazzamente sul pavimento del vestibolo, come una pallina da ping-pong in una padella bollente. Poi scomparve. Non c'era piú nessun cane. Senza guardarsi indietro, Beatrice seppe che anche suo marito era scomparso. — Kazak? — disse, fiocamente. Fece schioccare le dita, come per chiamare un cane. Le sue dita erano troppo deboli per
produrre un suono. — Bravo cagnone — sussurrò.
CAPITOLO TERZO «PASTICCINI RIUNITI» PRIVILEGIATE
«Figliolo.., dicono che non c'è regalità in questo paese, ma vuoi che ti dica come si può diventare re degli Stati Uniti d' America? Basta che tu cada in una latrina e ne esca profumato come una rosa». NOEL CONSTANT
La Magnum Opus, la società anonima di Los Angeles che si occupava degli interessi finanziari di Malachi Constant, era stata fondata dal padre di Malachi. Aveva come sede un palazzo di trentun piani. Sebbene la Magnum Opus fosse proprietaria dell'intero palazzo, occupava soltanto gli ultimi tre piani, e affittava il resto ad altre società anonime che controllava. Alcune di queste società, che erano state recentemente vendute dalla Magnum Opus, stavano traslocando. Altre, che erano state recentemente comprate dalla Magnum Opus, venivano a stabilirsi lì. Tra gli inquilini c'erano la Galactic Spacecraft, la MoonMist Tobacco, la Fandango Petroleum, la Lennox Monorail, la FryKwik, la Sani-Maid Pharmaceuticals, la Lewis & Marvin Sulphur, la Dupree Electronics, la Universal Piezoelectric, la Psychokinesis Unlimited, la Ed Muir Associates, la Max-Mor Machine Tools, la Wilkinson Paint and Varnish, la American Levitation, la Fio-Fast, la King O' Leisure Shirts, e la Emblem Supreme Casualty and Life Assurance Company of California. Il Palazzo Magnum Opus era una colonna sottile, prismatica, a dodici facce, rivestita su tutti i dodici lati da vetro verdazzurro che sfumava nel rosa verso la base. I dodici lati, secondo l'architetto, rappresentavano le dodici grandi religioni del mondo. Fino a quel momento, nessuno aveva chiesto all'architetto di elencarle.
E questa era una fortuna, poiché non sarebbe stato in grado di farlo. Sul tetto c'era un eliporto privato. L'ombra e il fruscio dell'elicottero di Constant che si posava sull'eliporto sembrarono, a molta della gente che stava sótto, l' ombra e il fruscio del fulgido Angelo della Morte. Lo sembravano a causa del crollo in borsa, lo sembravano perché i posti e il denaro erano così scarsi... Sembrava così soprattutto perché ciò che era crollato piú duramente, ciò che aveva trascinato tutto nel baratro con sé, era la catena delle società di Malachi Constant. Constant pilotava personalmente il suo elicottero, poiché tutti i suoi servitori se ne erano andati la sera prima. Constant lo pilotava male. Lo posò con un tonfo che fece fremere il palazzo. Arrivava per avere un colloquio con Ransom K. Fern, presidente della Magnum Opus. Fern attendeva Constant al trentunesimo piano: una sola e immensa stanza che era l'ufficio di Constant. L'ufficio era ammobiliato in modo spettrale, poiché nessun mobile aveva le gambe. Ogni cosa era sospesa magneticamente all'altezza adeguata. I tavoli e le scrivanie e il bar e i divani erano lastre galleggianti. Le sedie erano cestelli inclinati e galleggianti. E, cosa ancora piú fantastica, le matite e i blocchi di carta erano sparpagliati a casaccio nell'aria, pronti per essere agguantati da chiunque avesse un'idea degna di essere scritta. Il tappeto era verde come l'erba per la semplice ragione che era erba: viva, lussureggiante come un campo da golf. Malachi Constant scese dall'eliporto al suo ufficio con un ascensore privato. Quando la porta dell'ascensore si aprì sussurrando, Constant fu sbalordito dai mobili senza gambe, dalle matite e dai blocchi di carta che galleggiavano. Erano otto settimane che non veniva in ufficio. Qualcuno aveva cambiato l'arredamento della stanza.
Ransom K. Fern, presidente della Magnum Opus, stava ritto davanti alla finestra che andava dal pavimento al soffitto, e guardava fuori, sulla città. Portava il cappello Homburg nero e il soprabito nero Chesterfield, come al solito. Teneva appeso al braccio il suo bastone da passeggio. Era estremamente magro (lo era sempre stato). — Ransom K. Fern — aveva detto di Fern il padre di Malachi Constant, Noel, — è come un cammello che abbia consumato le sue due gobbe e adesso stia consumando tutto il resto tranne i capelli e i globi oculari. Secondo i dati pubblicati dall'Ufficio Fiscale Internazionale, Fern era il dirigente meglio pagato del paese. Aveva uno stipendio d'un milione di dollari all'anno... piú le percentuali sugli utili e le indennità di contingenza. Era stato assunto dalla Magnum Opus quando aveva ventidue anni. Adesso ne aveva sessanta. — Qual... qualcuno ha cambiato tutti i mobili — disse Constant. — Sì — disse Fern, continuando a guardare la città. — Qualcuno li ha cambiati. — Lei? — chiese Constant. Fern tirò su con il naso, prendendo tempo prima di rispondere. — Pensavo che dovessimo dimostrare la nostra lealtà verso alcuni dei nostri prodotti. — Io... io non ho mai visto niente di simile — disse Constant. — Niente gambe... galleggiano nell'aria. — Magnetismo, sa bene — spiegò Fern. — Ecco... ecco, credo che sia magnifico, adesso che comincio ad abituarmi — disse Constant. — Qualcuna delle nostre società fabbrica questa roba? — L'American Levitation Company — disse Fern. — Lei ci aveva detto di comprarla, così l'abbiamo comprata. Ransom K. Fern voltò le spalle alla finestra. Il suo viso era
un'inquietante combinazione di gioventù e di vecchiaia. In quel viso non c'era traccia di alcun processo intermedio di invecchiamento, non c'era alcuna allusione all'uomo di trenta, di quaranta o di cinquant'anni che si era lasciato indietro. Soltanto l'adolescenza e l'età di sessant'anni vi erano rappresentate. Era come se un diciassettenne fosse stato avvizzito e sbiadito da un'esplosione di calore. Fern leggeva due libri al giorno. Si diceva che Aristotele fosse stato l'ultimo uomo a conoscere bene il complesso della propria cultura. Ransom K. Fern aveva fatto un imponente tentativo di uguagliare il risultato conseguito da Aristotele. Aveva avuto un po' meno successo di Aristotele nel percepire il piano complessivo di ciò che conosceva. La montagna intellettuale aveva travagliato per produrre un topolino filosofico... e Fern era il primo ad ammettere di essere un topo, e un topo rognoso, per giunta. Ecco come Fern esprimeva la sua filosofia amichevolmente, nei suoi termini piú semplici: — Tu vai da un uomo e gli dici: «Come vanno le cose, Joe?». E lui dice: «Oh, bene, bene... non potrebbero andar meglio». E tu lo guardi negli occhi, e vedi che in realtà le cose non potrebbero andar peggio. Quando arrivi fino in fondo, tutti se la passano malissimo, e intendo dire proprio tutti. E il vero inferno, in questo, è che niente sembra potervi porre rimedio. Questa filosofia non lo rattristava. Non lo spingeva a rimuginare. Lo rendeva spietatamente vigile. Gli era anche utile negli affari, perché lo induceva a presumere automaticamente che il suo interlocutore era molto piú debole e molto piú afflitto di quanto sembrasse. Qualche volta, per giunta, certa gente dallo stomaco robusto trovava divertenti gli «a parte» mormorati di Fern. La sua posizione — lavorare prima per Noel Constant e poi
per Malachi — contribuiva in modo simpatico a rendere amaramente divertente quasi tutto ciò che poteva dire... poiché lui era superiore a Constant pére e fils sotto tutti gli aspetti tranne uno, e quell'aspetto era l'unico che avesse davvero importanza. I Constant — ignoranti, volgari e sfacciati — avevano una cospicua quantità di cieca fortuna. O l'avevano avuta fino a quel momento. Malachi Constant doveva ancora mettersi in mente che la sua fortuna era scomparsa... fino all'ultimo frammento. Doveva ancora metterselo in mente, nonostante le terribili notizie che Fern gli aveva riferito per telefono. — Ehi! — esclamò d'un tratto Constant, — piú guardo questi mobili, e piú mi piacciono. Questa roba dovrebbe andare come i pasticcini. — C'era qualcosa di patetico e di repellente nel modo in cui Malachi Constant parlava d'affari. Era stato lo stesso con suo padre. Il vecchio Noel Constant non aveva mai capito niente di affari, e questo valeva anche per suo figlio... e quel poco fascino che i Constant avevano avuto era evaporato nell'istante in cui avevano cominciato a fingere che il loro successo dipendesse dal loro merito e dalle loro fatiche. C'era qualcosa di osceno, nell'ottimismo, nell'aggressività e nell'astuzia di un miliardario. — Se vuole la mia opinione — disse Constant, — è stato un investimento solido... una ditta che fabbrica mobili come questi. — Pasticcini Riuniti privilegiate — commentò Fern. Pasticcini Riuniti privilegiate era una delle sue battute preferite. Quando la gente andava da lui a supplicarlo di suggerire un investimento che permettesse di raddoppiare un patrimonio in sei settimane, lui consigliava gravemente di investire il danaro in quelle azioni fittizie. Certa gente aveva tentato di seguire sul serio il suo consiglio. — Stare seduto su un divano American Levitation è piú scomodo che stare in piedi in una canoa di corteccia di betulla —
disse asciutto Fern. — Provi a buttarsi su una di quelle cosiddette sedie, e la farà rimbalzare contro la parete, come un sasso scagliato da una fionda. Sieda sull'orlo della sua scrivania, e quella le farà fare un giro di valzer nella stanza, come uno dei fratelli Wright ai primi voli, a Kitty Hawk. Constant toccò piano la scrivania. E la scrivania rabbrividì nervosamente. — Be'... non le hanno ancora eliminato tutti i difetti, ecco tutto — replicò Constant. — Non è mai stato detto niente di piú vero — assentì Fern. A questo punto, Constant fece una dichiarazione che non aveva mai dovuto fare prima d'allora. — Un uomo ha diritto di sbagliare, ogni tanto — disse. — Ogni tanto? — disse Fern, alzando le sopracciglia. — Per tre mesi lei non ha preso altro che decisioni sbagliate, e ha fatto quello che io avrei giudicato impossibile. È riuscito a far qualcosa di piú che spazzar via i risultati di quasi quarant'anni di ispirata intuizione. Ransom K. Fern prese una matita dall'aria e la spezzò in due. — La Magnum Opus non esiste piú. Io e lei siamo le due ultime persone rimaste nel palazzo. Tutti gli altri sono stati liquidati e mandati a casa. — Si inchinò e si avviò verso la porta. — Il centralino è stato regolato in modo che tutte le telefonate arrivino direttamente qui, alla sua scrivania. E quando se ne andrà, signor Constant, signore, ricordi di spegnere le luci e di chiudere il portone. A questo punto è forse opportuno fare la storia della Società Anonima Magnum Opus. La Magnum Opus cominciò come un'idea nella mente di uno yankee che faceva il commesso viaggiatore di pentole dal fondo di rame. Quello yankee era Noel Constant, nativo di New Bedford, nel Massachussetts. Era il padre di Malachi. Il padre di Noel, a sua volta, era Sylvanus Constant, un operaio che riparava telai nelle fabbriche di New Bedford della Nattaweena Division della Grand Republic Woolen Company.
Era un anarchico, anche se non si mise mai nei pasticci per questo, eccetto che con sua moglie. La famiglia poteva far risalire le proprie origini, attraverso una nascita illegittima, a Beniamin Constant, che era stato tribuno sotto Napoleone dal 1799 al 1801, e amante di Anne Louise Germanie Necker, baronessa de Stael-Holstein, moglie dell'allora ambasciatore di Svezia in Francia. Una notte, a Los Angeles, comunque, Noel Constant si mise in testa di diventare uno speculatore. A quell'epoca aveva trentanove anni, era scapolo, fisicamente e moralmente poco affascinante, e come affarista era un fallimento. L'idea di diventare uno speculatore gli venne mentre sedeva, solo, su un letto nella stanza 223 del Wilbur Hampton Hotel. La piú preziosa organizzazione finanziaria che mai dovesse essere proprietà di un solo uomo non poteva avere, all'inizio, un quartier generale piú modesto. La stanza 223 dell'Wilburhampton Hotel era lunga tre metri e mezzo e larga due e mezzo, e non aveva né telefono né scrivania. Tutto quello che aveva era un letto, un cassettone con tre cassetti, i vecchi giornali che rivestivano l'interno dei cassetti, e, nell'ultimo cassetto, una Bibbia Gideon4. La pagina del giornale che rivestiva il cassetto di mezzo era una pagina di quotazioni di borsa, vecchia di quattordici anni. C'è un indovinello su un uomo chiuso in una stanza, con niente altro che un letto e un calendario, e la domanda è questa: 4
In ogni stanza degli alberghi americani c'è una Bibbia, che vi è stata messa da un'organizzazione chiamata Società Gideon. Sul frontespizio di ciascuna di queste Bibbie, tutte nella traduzione cosiddetta di re Giacomo, c'è una breve spiegazione sugli scopi della Società Gideon. Parecchi anni fa, due commercianti in viaggio, in un albergo molto lontano da casa, si leggevano l'un l'altro i versetti d'una Bibbia di proprietà d'uno di loro. Si resero conto che c'erano probabilmente migliaia di viaggiatori, negli alberghi del paese, che si sentivano soli e che avrebbero gradito qualche lettura consolante. I due commercianti fondarono così una società che lanciò sottoscrizioni allo scopo di fornire una Bibbia ad ogni stanza d'albergo. L'iniziativa ebbe molto successo. (Nota dell'autore all'edizione italiana).
Come sopravviverà? Risposta: Mangerà le date del calendario e berrà l'acqua delle molle del letto. Questo si avvicina molto alla descrizione della genesi della Magnum Opus. Il materiale con cui Noel Constant costruì la sua fortuna non era piú nutriente, in se stesso, delle date del calendario e delle molle del letto. La Magnum Opus fu costruita con una penna, un libretto di assegni, qualche busta intestata del Governo, abbastanza grande da contenere un assegno, una Bibbia, e un conto in banca di ottomiladuecentododici dollari. Il conto in banca era la parte che spettava a Noel Constant del patrimonio del suo anarchico padre. Ii patrimonio era costituito principalmente da Buoni del Tesoro. E Noel Constant aveva un programma di investimenti. Era la semplicità stessa. La Bibbia sarebbe stata il suo consigliere per quanto riguardava gii investimenti. Vi sono stati alcuni che hanno concluso, dopo aver studiato il sistema di investimento di Noel Constant, che quest'uomo era un genio, o aveva una superba organizzazione di spie industriali. Sceglieva invariabilmente i protagonisti dei piú brillanti colpi in borsa, ore e giorni prima che la loro ascesa cominciasse. In dodici mesi, senza lasciare quasi mai la stanza 223 dell'Wilburhampton Hotel, portò il suo patrimonio a un milione e un quarto. Noel Constant vi riuscì senza genio e senza spie. Il suo sistema era così stupidamente semplice che certa gente non riesce a capirlo, non importa quanto lo si spieghi. La gente che non riesce a capirlo è gente che deve credere, per propria tranquillità mentale, che una ricchezza immensa può essere prodotta soltanto da un'immensa abilità. Questo era il sistema di Noel Constant. Prese la Bibbia che c'era nella sua camera, e cominciò con il primo versetto della Genesi.
La prima frase della Genesi, come qualcuno forse sa, è: «In the beginning God created the heaven and the earth5». Noel Constant scrisse il versetto in lettere maiuscole, mise dei punti tra le lettere, e divise le lettere a coppie, trasformando la frase come segue: «I.N., T.H., E.B., E.G., I.N., N.I., N.G., G.O., D.C., R.E., A.T., E.D., T.H., E.H., E.A., V.E., N.A., N.D., T.H., E.E., A.R., T.H.». Poi cercò società che avessero quelle iniziali, e ne comprò le azioni. La sua regola, all'inizio, fu di possedere azioni d'una sola società per volta, di investirvi il suo intero patrimonio, e di vendere nel momento in cui il valore delle azioni fosse raddoppiato. Il suo primissimo investimento fu nelle International Nitrate. Poi vennero le Trowbridge Helicopter, le Electra Bakeries, le Eternity Granite, le Indiana Novelty, le Norwich Iron, le National Gelatin, le Granada Oil, le Del-Mar Creations, le Richmond Electroplating, le Anderson Trailer e le Eagle Duplicating. Il suo programma per i dodici mesi seguenti fu questo: ancora le Trowbridge Helicopter, le ELCO Hoist, le Engineering Associated, le Vickery Electronics, le National Alum, le National Dredging, e le Trowbridge Helicopter. La terza volta che comprò le Trowbridge Helicopter, non ne comprò solo una parte. Comprò l'intera società, baracca e burattini. Due giorni dopo, la società ottenne un contratto governativo a lunga scadenza per la costruzione di missili balistici intercontinentali, un contratto che diede alla società un valore di cinquantanove milioni di dollari. Noel Constant aveva comprato la società per ventidue milioni. L'unica decisione che Noel Constant prese in vita sua riguardo a quella società era contenuta in un ordine scritto su una cartolina pubblicitaria dell'Wilburhampton Hotel. La cartolina era indirizzata al presidente della società e gli diceva di cambiarne 5
«In principio Iddio creò il cielo e la terra» (n.d.t).
il nome in Galactic Spacecraft, Inc., poiché la società aveva superato ormài da un pezzo tanto Trowbridge quanto gli elicotteri. Sebbene questo esercizio d'autorità fosse molto piccolo, fu significativo, perché dimostrava che Constant si era finalmente interessato a una delle cose di cui era proprietario. E, sebbene le sue azioni della società avessero piú che raddoppiato il loro valore, non le vendette tutte. Ne vendette soltanto il quarantanove per cento. Poi continuò a seguire i consigli della sua Bibbia, ma conservò la fetta piú grossa di tutte le ditte che gli erano veramente simpatiche. Durante i primi due anni passati nella stanza 223 dell'Wilburhampton Hotel, Noel Constant ebbe un solo visitatore. Quel visitatore non sapeva che lui fosse ricco. Il suo unico visitatore era una cameriera che si chiamava Florence Whitehill, che trascorreva con lui una notte ogni dieci in cambio d'un piccolo compenso. Florence, come tutti gli altri dell'Wilburhampton, gli credeva quando lui diceva di essere un commerciante di francobolli. L'igiene personale non era la caratteristica piú notevole di Noel Constant. Era facile credere che il suo lavoro lo portasse a un contatto regolare con la mucillagine. I soli che sapevano quanto fosse ricco erano i dipendenti dell' Ufficio Fiscale Internazionale e della famosa ditta di consulenza contabile Clough & Higgins. Poi, dopo due anni, Noel Constant ricevette il suo secondo visitatore nella stanza 223. Il secondo visitatore era un uomo di ventidue anni magro e attento, dagli occhi azzurri. Impegnò la seria attenzione di Noel Constant annunciandogli di venire dall'Ufficio Fiscale degli Stati Uniti. Constant invitò il giovane nella propria camera e gli accennò di sedersi sul letto. Lui rimase in piedi.
— Mi hanno mandato un bambino, vero? — disse Noel Constant. Il visitatore non si offese. Rivolse lo scherno a proprio vantaggio, servendosene in un'immagine di sé che era veramente agghiacciante. — Un bambino con un cuore di pietra e una mente rapida come una mangusta, signor Constant — replicò. — E ho frequentato anche la facoltà di economia e commercio dell'Harvard. — Può darsi — disse Constant, — ma non credo che lei possa farmi del male. Io non devo un soldo al Governo Federale. Il visitatore imberbe annuì. — Lo so — asserì. — Ho trovato tutto in perfetto ordine. Il giovanotto si guardò intorno. Non era sorpreso dallo squallore della stanza. Era abbastanza uomo di mondo da aspettarsi qualcosa di misero. — Mi sono occupato delle sue denunce dei redditi in questi ultimi due anni — disse, — e secondo i miei calcoli lei è l'uomo piú fortunato che sia mai esistito. — Fortunato? — ripetè Noel Constant. — Io credo di sì — disse il giovane visitatore. — Lei non lo crede? Per esempio... cosa fa la manifattura della ELCO Hoist Company? — ELCO Hoist? — chiese Noel Constant, senza capire. — Per un periodo di due mesi lei ne è stato il proprietario, per il cinquantatré per cento — disse il giovane visitatore. — Mah... fa dei montacarichi... cose per sollevare oggetti vari — rispose indispettito Noel Constant. — E prodotti affini. Il sorriso del giovane visitatore gli disegnò sotto il naso un paio di baffi da gatto. — Per sua informazione — spiegò, — la ELCO Hoist Company era un nome dato dal Governo, durante l'ultima guerra, a un laboratorio segretissimo che produceva apparecchi per l'ascolto subacqueo. Dopo la guerra fu ceduto al capitale privato, e il nome non venne cambiato perché il lavoro che svolgeva era
ancora segretissimo e l'unico cliente continuava a essere il Governo. «Immaginiamo che lei mi dica — continuò il giovane visitatore, — cos'ha saputo sul conto dell'Indiana Novelty, per pensare che fosse un buon investimento. Credeva che fabbricasse delle scatole per cotillon con dentro cappelli di carta?». — Devo rispondere a queste domande per l'Ufficio Fiscale? — domandò Noel Constant. — Devo descrivere particolareggiatamente tutte le società di cui sono stato proprietario, altrimenti non mi lasceranno il mio denaro? — Glielo stavo chiedendo soltanto per mia curiosità. Dalla sua reazione, devo dedurre che lei non ha la piú lontana idea di quel che fa l'Indiana Novelty. Per sua informazione, l'Indiana Novelty non fabbrica niente, ma detiene alcuni importantissimi brevetti di macchinari per la rigenerazione dei pneumatici. — Perché non parliamo di quello che interessa all'Ufficio Fiscale? — disse in tono secco Noel Constant. — Non faccio piú parte dell'Ufficio Fiscale — ribatté il giovane visitatore. — Ho dato le dimissioni dal mio impiego a centoquattordici dollari settimanali, questa mattina, per assumere un impiego che mi renderà duemila dollari la settimana. — E per chi lavora? — chiese Noel Constant. — Per lei — rispose il giovane. Si alzò e tese la mano. — Mi chiamo Ransom K. Fern — disse. «Avevo un professore, alla facoltà di economia e commercio dell'Harvard — disse il giovane Fern a Noel Constant, — che continuava a dirmi che ero in gamba ma che avrei dovuto trovare il mio uomo se volevo diventare ricco. Non voleva spiegarmi che cosa intendeva dire. Diceva che l'avrei capito, prima o poi. Gli chiesi dove dovevo andare a cercare il mio uomo, e lui mi consigliò di impiegarmi presso l'Ufficio Fiscale per un anno o giú di lì. «Quando ho esaminato le sue denunce dei redditi, signor Constant, ho capito all'improvviso che cosa aveva voluto dire il
mio professore. Voleva dire che io ero abile e preciso ma non ero straordinariamente fortunato. Dovevo trovare qualcuno che avesse una fortuna sbalorditiva... e l'ho trovato». — Perché dovrei pagarle duemila dollari la settimana? — chiese Noel Constant. — Come vede, ho qui tutte le mie comodità e tutto il mio personale, e lei sa che cosa sono riuscito a fare, con questo. — Sì — replicò Fern, — e io posso mostrarle quando lei avrebbe dovuto ricavare duecento milioni di dollari invece di ricavarne solo cinquantanove. Lei non sa assolutamente nulla della legislazione fiscale e della legislazione delie società... e persino della normale procedura d'affari. Piú tardi Fern dimostrò tutto questo a Noel Constant, padre di Malachi... e Fern gli mostrò un piano organizzativo che aveva il nome di Società Anonima Magnum Opus. Era una macchina meravigliosa per fare violenza allo spirito di migliaia di leggi senza violare, in realtà, neppure un'ordinanza municipale. Noel Constant rimase così impressionato da quel monumento di ipocrisia e di acuto senso pratico che chiese di comprarne il pacchetto azionario di maggioranza senza neppure consultare in proposito la sua Bibbia. — Signor Constant, signore — disse il giovane Fern, — non comprende? La Magnum Opus è lei, con lei come presidente del consiglio d'amministrazione e me come direttore generale. «Signor Constant — continuò, — per il momento lei è per l'Ufficio Fiscale un uomo facile da sorvegliare come un venditore ambulante di mele all'angolo della strada. Ma provi a immaginare come sarebbe difficile sorvegliarla se avesse un intero palazzo pieno fino al soffitto di burocrati industriali... uomini che perdono i documenti e usano i moduli sbagliati e creano nuovi moduli e chiedono tutto in quintuplice copia, che capiscono all'incirca un terzo di ciò che si dice loro, che danno abitualmente risposte inesatte per guadagnare il tempo di pensare, che prendono decisioni solo quando vi sono costretti, e che poi
si affrettano a ricoprire le loro orme; che fanno errori, in perfetta buona fede, nelle addizioni e nelle sottrazioni, che convocano riunioni ogni volta che si sentono soli, che scrivono memoriali ogni volta che si sentono poco amati; uomini che non buttano mai via una cosa a meno che credano che quella potrebbe servire a farli silurare. Un solo burocrate industriale, se è abbastanza vitale e nervoso, dovrebbe essere in grado di creare una tonnellata di documenti insignificanti ogni anno perché l'Ufficio Fiscale li esamini. Nel Palazzo della Magnum Opus, ne avremo a migliaia! E lei ed io potremo tenere i due ultimi piani, e lei potrà continuare a tener nota di quello che succede, come fa adesso. — Si guardò intorno. — Fra parentesi, come riesce a tenerne nota? Scrive con un fiammifero bruciato sui margini d'un elenco telefonico? — Tengo tutto nella mia testa — rispose Noel Constant. — C'è un altro vantaggio che devo farle osservare — disse Fern. — Un giorno o l'altro la sua fortuna si esaurirà. E allora lei avrà bisogno del dirigente piú abile e piú preciso che possa assumere... o precipiterà di nuovo fra le pentole e le padelle. — Lei è assunto — decise Noel Constant, padre di Malachi. — E adesso, dove dobbiamo costruire quel palazzo? — disse Fern. — Sono proprietario di questo albergo, e questo albergo è proprietario del lotto aldilà della strada — replicò Noel Constant. — Costruisca il palazzo sul lotto aldilà della strada. — Alzò un dito indice contorto come un albero a gomiti. — C'è solo una cosa... — Sì, signore? — fece Fern. — Io non ci vengo — disse Noel Constant. — Io resto qui. Coloro che desiderano storie piú particolareggiate sull'Anonima Magnum Opus, possono andare nella loro biblioteca pubblica e chiedere o il romantico Un sogno troppo folle? di Lavina Waters o il duro Bilancia primordiale di Crowther Gomburg.
Il volume della Waters, sebbene sia molto confuso per quanto riguarda i particolari finanziari, contiene il miglior resoconto della scoperta, da parte della cameriera Florence Whitehill, di essere stata messa in stato interessante da Noel Constant, e della sua scoperta che Noel Constant, era multimultimilionario. Noel Constant sposò la cameriera, le diede una sontuosa abitazione e un conto in banca d'un milione di dollari. Le disse di chiamare il nascituro Malachi, se fosse stato un maschio, e Prudence, se fosse stata una femmina. Le chiese, per favore, di venirlo a trovare una volta ogni dieci giorni nella stanza 223 dell'Wilburhampton Hotel, ma di non portare il piccino. Il libro di Gomburg, sebbene sia eccellente sui particolari finanziari, risente della tesi centrale di Gomburg, secondo la quale la Magnum Opus era un prodotto d'un complesso di incapacità di amare. Leggendo tra le righe del libro di Gomburg, diventa sempre piú chiaro che lo stesso Gomburg non era amato ed era incapace di amare. Né la Waters né Gomburg, tra parentesi, scoprirono il metodo di investimento di Noel Constant. Non lo scoprì neppure Ransom K. Fern, sebbene ci si provasse con molto impegno. L'unica persona cui Noel Constant lo rivelò fu suo figlio Malachi, il giorno del ventunesimo compleanno di Malachi. Quella festa di compleanno a due ebbe luogo nella stanza 223 dell'Wilburhampton. Era la prima volta che padre e figlio si incontravano. Malachi era venuto a trovare Noel su invito di quest'ultimo. Poiché le emozioni umane sono quelle che sono, il giovane Malachi Constant prestò piú attenzione a un particolare dell'arredamento della stanza che al segreto per guadagnare milioni o anche miliardi di dollari. Il segreto di far denaro era così semplice, tanto per cominciare, che non richiedeva molta attenzione. La parte piú complicata riguardava il modo in cui il giovane Malachi avrebbe dovuto raccogliere la torcia della Magnum Opus quando Noel, alla
fine, l'avrebbe deposta. Il giovane Malachi doveva chiedere a Ransom K. Fern un elenco cronologico degli investimenti della Magnum Opus, e, leggendo lungo il margine, avrebbe scoperto fino a qual punto della Bibbia fosse arrivato il vecchio Noel e da dove doveva cominciare lui. Il particolare nell'arredamento della stanza 223 che interessava il giovane Malachi era una sua fotografia. Era una sua fotografia all'età di tre anni: la fotografia di un bambino grazioso, simpatico e ardito sulla riva dell'oceano. Era appesa alla parete. Era l'unica immagine che vi fosse nella stanza. Il vecchio Noel vide che il giovane Malachi guardava la foto, e fu confuso e imbarazzato al pensiero dei rapporti tra padre e figlio. Si frugò nella mente per cercare qualcosa di bello da dire, e non vi trovò quasi niente. — Mio padre mi diede due soli consigli — dichiarò, — e solo uno dei due ha retto alla prova del tempo. Eccoli: «Non toccare il tuo capitale» e «Tieni la bottiglia di liquore fuori dalla camera da letto». — L'imbarazzo e la confusione erano adesso troppo grandi, in lui, per essere sopportati. — Addio — concluse bruscamente. — Addio? — ripetè il giovane Malachi, sbalordito. Si mosse verso la porta. — Tieni la bottiglia di liquore fuori dalla camera da letto — disse il vecchio, e gli voltò le spalle. — Sì, signore, lo farò — disse il giovane Malachi. — Addio, signore — salutò, e se ne andò. Quella fu la prima e l'ultima volta che Malachi Constant vide suo padre. Suo padre visse per altri cinque anni, e la Bibbia non lo ingannò mai. Noel Constant morì proprio quando fu arrivato in fondo a questo versetto: «And God made two great lights: the greater light to rule the day, and the lesser light to rule the night: he
made the stars also6». Il suo ultimo investimento fu Sonnyboy Oil a 17 e 1/4. Il figlio cominciò dove il padre aveva finito, anche se Malachi non si trasferì nella stanza 223 dell'Wilburhampton. E, per cinque anni, la fortuna del figlio era stata sensazionale come lo era stata la fortuna del padre. E adesso, improvvisamente, la Magnum Opus era in rovina. Là, nel suo ufficio, con i mobili galleggianti e il tappeto d'erba, Malachi Constant non riusciva ancora a credere che la sua fortuna fosse finita. — Non è rimasto nulla? — chiese, con voce fievole. Riuscì a sorridere a Ransom K. Fern. — Avanti, amico... voglio dire, deve essere rimasto qualcosa. — Lo credevo anch'io, alle dieci di questa mattina — rispose Fern. — Mi stavo congratulando con me stesso per aver fortificato la Magnum Opus contro ogni colpo immaginabile. Stavamo sopportando bene la depressione... sì, e anche i suoi errori. «Poi, alle dieci e un quarto, ho ricevuto la visita di un avvocato che a quanto pare era alla sua festa, ieri notte. Lei, a quanto pare, ieri notte stava regalando pozzi di petrolio, e l'avvocato era stato abbastanza previdente da stilare documenti che, firmati da lei, sarebbero stati vincolati. Erano firmati da lei. Lei ha regalato cinquecentotrentun pozzi di petrolio in piena efficienza, ieri notte, e questo ha spazzato via la Fandango Petroleum. «Alle undici il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato che la Galactic Spacecraft, che avevamo venduto, stava ricevendo un contratto di tre miliardi di dollari per la Nuova Era Spaziale. «Alle undici e mezzo ho ricevuto una copia di The Journal of the American Medical Association, che era stata contrassegnata dal nostro direttore delle relazioni pubbliche PSI. Queste 6
«Iddio adunque fece i due gran luminari (il maggiore per avere il reggimento del cielo, e il minore per avere il reggimento della notte) e le stelle» Genesi, 1-16 (n.d.t).
tre lettere, come lei saprebbe se fosse stato qualche volta in ufficio, significano "per sua informazione". Ho guardato alla pagina indicata, e ho imparato, per mia informazione, che le sigarette MoonMist non sono una causa, ma la causa principale della sterilità in entrambi i sessi, dovunque vengono vendute le sigarette MoonMist. Questo fatto non è stato scoperto da esseri umani ma da un calcolatore. Ogni volta che le venivano passati dati sul consumo di sigarette, la macchina si eccitava tremendamente, e nessuno riusciva a capire perché. La macchina stava evidentemente tentando di dire qualcosa ai suoi operatori. Fece tutto ciò che poteva per esprimersi, e alla fine riuscì a indurre i suoi operatori a rivolgerle le domande esatte. «Le domande esatte riguardavano il rapporto tra le sigarette Moon-Mist e la riproduzione umana. Il rapporto era questo: «La gente che fumava le sigarette Moon-Mist non poteva avere figli, anche se li avesse voluti». — Senza dubbio — proseguì Fern, — vi sono gigolò e donnine allegre e nuovayorchesi che sono soddisfatti di questa liberazione dalla biologia. Secondo l'ufficio legale della Magnum Opus, prima che quell'ufficio venisse liquidato, comunque, vi sono parecchi milioni di persone che possono farci causa con esito favorevole... perché le sigarette Moon-Mist le hanno private di qualcosa di piuttosto prezioso. Piacere profondo, proprio! «Vi sono approssimativamente dieci milioni di ex fumatori delle Moon-Mist, in questo paese, tutti sterili. Se uno su dieci le fa causa per danni incalcolabili, se le chiede a titolo di risarcimento la modesta somma di cinquemila dollari... il conto totale sarà cinque miliardi di dollari, escluse le spese legali. E lei non ha cinque miliardi di dollari. Dopo il crollo della borsa e l'acquisto, da parte sua, di aziende come l'American Levitation, lei non vale neppure cinquecento milioni. «La Moon-Mist Tobacco — disse Fern, — è lei. La Magnum Opus — disse Fern, — è lei. Tutto ciò che lei rappresenta verrà
citato per danni, e citato con successo. E, anche se forse le parti in causa non riusciranno a cavare sangue dalle rape, possono certamente rovinare le rape nel corso del loro tentativo». Fern si inchinò di nuovo. — Compio ora il mio ultimo dovere ufficiale, che è quello di informarla che suo padre le scrisse una lettera che doveva esserle consegnata soltanto nel caso che la sua fortuna volgesse al peggio. Avevo ricevuto istruzioni di collocare questa lettera sotto il guanciale nella stanza 223 dell'Wilburhampton, se la sua fortuna fosse andata a rotoli. Ho collocato la lettera sotto il guanciale un'ora fa. E ora, da umile e leale servitore dell'azienda, le chiederò un piccolo favore — concluse Fern. — Se le sembrerà che la lettera getti anche la luce piú vaga sul significato della vita, le sarei grato se mi telefonasse a casa. Ransom K. Fern salutò toccandosi il cappello Homburg con la canna del bastone. — Addio, signor Magnum Opus Jr. Addio. L'Wilburhampton Hotel era una struttura trasandata, a tre piani, stile Tudor, di fronte al palazzo Magnum Opus, e di fronte a quel palazzo faceva la figura di un letto sfatto ai piedi dell'Arcangelo Gabriele. Tavole di pino erano inchiodate all'esterno stuccato dell'albergo, per simulare una costruzione parzialmente lignea. La spina dorsale del tetto era stata intenzionalmente spezzata, per simulare antichità. Le gronde erano tozze e basse e ripiegate, e simulavano l'esistenza di un tetto di paglia. Le finestre erano piccole, con pannelli di vetro a forma di losanga. La piccola sala da cocktail dell'albergo era nota come la Hear Ye Room. Nella Hear Ye Room c'erano tre persone... un barista e due clienti. I due clienti erano una donna magra e un uomo grasso... tutti e due vecchi, in apparenza. Nessuno, nell'Wilburhampton, li aveva mai visti, ma già sembrava che fossero seduti da anni nella Hear Ye Room. La loro colorazione protettiva era perfetta,
poiché sembravano parzialmente lignei, con la spina dorsale spezzata, un tetto di paglia e le finestre piccole. Sostenevano di essere insegnanti in pensione della stessa scuola superiore del Middle West. L'uomo grasso si presentava come George M. Helmholtz, già maestro di banda. La donna magra si presentava come Roberta Wiley, già insegnante d'algebra. Avevano evidentemente scoperto in età avanzata le consolazioni dell'alcol e del cinismo. Non ordinavano mai due volte la stessa roba, erano avidi di sapere cosa c'era in questa bottiglia e cosa c'era in quella... di sapere che cos'era un punch Alba Dorata, e un Helen Twelvetrees, e un plui d'or e un fizz Vedova Allegra. Il barista sapeva che non erano alcolizzati. Conosceva quel tipo di gente, e la trovava simpatica: erano soltanto due personaggi del Saturday Evening Post arrivati in fondo alla loro strada. Quando non facevano domande sulle diverse cose da bere, i due non si distinguevano da milioni di altri frequentatori americani di bar, nel primo giorno della Nuova Era Spaziale. Sedevano solidamente sugli sgabelli del bar, fissando le file di bottiglie. Le loro labbra si muovevano in continuazione... facendo esperimenti preoccupanti di sogghigni, di smorfie e di ringhi. L'immagine proposta dall'evangelista Bobby Denton, la Terra come astronave di Dio, era valida... in particolare per quanto si riferiva ai frequentatori dei bar. Helmhoitz e la signorina Wiley si comportavano come pilota e co-pilota di un viaggio assolutamente senza scopo attraverso lo spazio, che si prevedeva durasse per sempre. Era facile credere che avessero cominciato il viaggio bene in ordine, saturi di gioventù e di preparazione tecnica, e che le bottiglie davanti a loro fossero gli strumenti che avevano osservato per anni e per anni e per anni. Era facile credere che ogni nuovo giorno aveva trovato il giovanotto spaziale e la ragazza spaziale microscopicamente
piú trasandati del giorno innanzi, fino a che, ora, erano diventati la vergogna del Servizio Spaziale Pangalattico. Due bottoni dei calzoni di Helmhoitz erano slacciati. C'era della crema per barba sul suo orecchio sinistro. Le sue calze erano spaiate. La signorina Wiley era una vecchietta dall'aria pazza con un mento molto appuntito. Portava una parrucca nera a riccioletti che aveva l'aria di essere rimasta inchiodata per anni alla porta di un granaio. — Capisco perché il Presidente ha ordinato di cominciare un' Era Spaziale nuova di zecca, per vedere se serve a ridurre la disoccupazione — disse il barista. — Uh, uh — assentirono contemporaneamente Helmhoitz e la signorina Wiley. Soltanto una persona osservatrice e sospettosa avrebbe rilevato una nota falsa nel comportamento dei due: Helmhoitz e la signorina Wiley erano troppo interessati al tempo. Per essere gente che non aveva niente da fare e non aveva dove andare, erano straordinariamente interessati ai loro orologi: la signorina Wiley al suo orologio da polso molto maschile, il signor Helmhoitz al suo orologio d'oro da taschino. La verità era che Helmhoitz e la signorina Wiley non erano affatto insegnanti in pensione. Erano entrambi maschi, entrambi maestri di travestimenti. Erano agenti scelti dell'Esercito di Marte, gli occhi e gli orecchi di una banda marziana per l'arruolamento forzato di reclute che aleggiava in un disco volante a una quota di duecento miglia. Malachi Constant non lo sapeva, ma aspettavano lui. Helmholtz e Wiley non abbordarono Malachi Constant quando attraversò la strada per entrare nel''Wilburhampton. Non diedero segno di essere interessati a lui. Lasciarono che attraversasse l'atrio e salisse nell'ascensore senza rivolgergli un'occhiata. Tuttavia, tornarono a consultare i loro orologi... e una perso-
na osservatrice e sospettosa avrebbe notato che la signorina Wiley premeva un pulsante sul suo orologio, mettendo in moto frenetico una lancetta cronometrica. Helmholtz e la signorina Wiley non si sarebbero serviti della violenza con Malachi Constant. Non avevano mai usato la violenza con nessuno, eppure avevano reclutato quattordicimila persone per Marte. La loro tecnica abituale consisteva nei travestirsi da ingegneri civili e nell'offrire a uomini e donne non proprio intelligentissimi nove dollari all'ora esenti dalle tasse, piú vitto e alloggio e trasporto, per lavorare a un progetto segreto del Governo, per tre anni, in una remota parte del mondo. Helmholtz e la signorina Wiley dicevano tra loro, scherzando, che non avevano mai specificato quale governo stesse organizzando il progetto, e che nessuna recluta aveva mai pensato di chiederlo. Ai novantanove per cento delle reclute veniva praticata l'amnesia, all'arrivo su Marte. I loro ricordi venivano cancellati da esperti d'igiene mentale, e i chirurghi marziani inserivano nei loro crani antenne radio perché le reclute potessero venire radiocomandate. Poi alle reclute venivano assegnati nomi a casaccio; quindi venivano mandate nelle fabbriche, nei cantieri edilizi, negli uffici amministrativi o nell'Esercito di Marte. Le poche reclute che non venivano trattate in questo modo erano quelle che dimostravano con ardore che avrebbero servito Marte eroicamente, senza bisogno di esservi obbligate. Questi pochi fortunati venivano accolti nella cerchia segreta delle autorità. Gli agenti segreti Helmholtz e Wiley appartenevano a questa cerchia. Erano in pieno possesso dei loro ricordi, e non erano radiocomandati. E adoravano il loro lavoro. — Com'è quella slivovitz? — chiese Helmholtz al barista, strizzando gli occhi in direzione d'una bottiglia polverosa nella fila piú bassa. Aveva appena finito uno sloe gin rickey.
— Non sapevo neppure che l'avevamo — rispose il barista. Mise la bottiglia sul banco, inclinandola per leggere l'etichetta. — Acquavite di prugne — disse. — Penso che la proverò — disse Helmholtz. Dopo la morte di Noe! Constant, la stanza 223 dell'Wilburhampton era sempre rimasta vuota: quasi un monumento. Malachi Constant entrò nella stanza 223. Non andava in quella stanza da quando era morto suo padre. Chiuse la porta dietro di sé e trovò la lettera sotto il guanciale. Nella stanza non era stato cambiato nulla, tranne le lenzuola. La fotografia di Malachi bambino, sulla spiaggia, era ancora l'unica immagine appesa alla parete. La lettera diceva: Caro figlio, ti è successo qualcosa di grosso e di brutto, altrimenti non staresti leggendo questa lettera. Io ti scrivo questa lettera per dirti di calmarti per le cose brutte e di guardarti attorno per vedere se è successo qualcosa di buono o qualcosa di importante per cui noi siamo diventati così ricchi e poi abbiamo perduto di nuovo il malloppo. Quello che io voglio che tu cerchi di scoprire è questo: sta succedendo qualcosa di speciale o è tutta una pazzìa come sembrava a me? Se non sono stato un buon padre e se non sono stato buono come qualsiasi altra cosa è perché io ero come morto molto tempo prima di morire. Nessuno mi voleva bene e io non ero molto in gamba e non riuscivo a trovare degli hobby che mi piacessero ed ero stufo marcio di vendere pentole e padelle e di guardare la televisione; così ero come morto e ormai ero andato troppo in là per tornare indietro. È stato allora che ho cominciato a fare affari con la Bibbia e tu sai che cosa è successo dopo. Sembrava che
qualcuno o qualche cosa volesse che io diventassi padrone dell'intero pianeta anche se ero come morto. Tenevo gli occhi aperti per vedere se arrivava un segnale per spiegarmi che cosa significava tutto questo ma non arrivava mai nessun segnale. Continuavo soltanto a diventare sempre piú ricco. E poi tua madre mi mandò quella fotografia di te sulla spiaggia e dal modo in cui mi guardavi da quella fotografia pensai che forse era per te che avevo accumulato tutto quel denaro. Decisi che sarei morto senza vederci chiaro e che forse tu saresti stato capace di capire tutto all'improvviso, di vedere tutto limpido come l'acqua. Ti posso dire che anche a un uomo mezzo morto non piace essere vivo e non capire il perché. La ragione per cui ho detto a Ransom K. Fern di darti questa lettera soltanto se la tua fortuna volgesse al peggio è che nessuno pensa o nota niente fino a che la sua fortuna è buona. Perché dovrebbe farlo? Quindi da ' un 'occhiata in giro per conto mio, ragazzo. E se tu sei rovinato e ti si presenta qualcuno con una proposta pazzesca, il mio consiglio è che tu l'accetti. Potresti imparare qualcosa quando sei dell'umore adatto per imparare qualcosa. L'unica cosa che ho imparato io è che certa gente è fortunata e certa gente non lo è, e neanche un laureato della facoltà di economia e commercio dell'Harvard sa dire perché. Sinceramente tuo Papà Si udì bussare alla porta della stanza 223. La porta si aprì prima che Constant potesse rispondere. Helmholtz e la signorina Wiley entrarono. Entrarono precisamente nel momento piú adatto, essendo stati avvertiti dai loro superiori, con precisione al secondo, di quando Malachi Constant avrebbe finito la lettera. Ed era stato anche detto loro, con precisione, che cosa dovevano dirgli.
La signorina Wiley si tolse la parrucca, rivelandosi per un uomo ossuto, e Helmholtz compose i lineamenti in modo da rivelare che era senza paura e avvezzo al comando. — Signor Constant — disse Helmholtz, — sono qui per informarla che il pianeta Marte non soltanto è popolato, ma popolato da una grande ed efficiente società militare e industriale. Questa società è stata reclutata sulla Terra, e le reclute vengono trasferite su Marte per mezzo di dischi volanti. Siamo disposti a offrirle il grado di tenente colonnello nell'esercito di Marte. «La sua posizione, sulla Terra, è disperata. Sua moglie è un mostro. Inoltre, il nostro servizio di spionaggio ci informa che qui sulla Terra non soltanto lei verrà spogliato di tutti i suoi averi dalle innumerevoli cause per danni, ma verrà anche imprigionato per negligenza criminale. «Oltre allo stipendio e ai privilegi, ben superiori a quelli concessi ai tenenti colonnelli degli eserciti terrestri, possiamo offrirle l'immunità da qualsiasi noia legale terrestre, e la possibilità di vedere un pianeta nuovo e interessante, e la possibilità di pensare al suo pianeta natale da un punto di vista nuovo e piacevolmente distaccato». — Se accetta la nomina — disse la signorina Wiley, — alzi la mano sinistra e ripeta con me... Il giorno seguente, l'elicottero di Malachi Constant fu trovato vuoto in mezzo al deserto di Mojave. Le impronte di un uomo se ne allontanavano per una dozzina di metri, poi cessavano. Era come se Malachi Constant avesse camminato per dodici metri e poi si fosse dissolto nell'aria. Il martedì successivo, l'astronave nota come La Balena venne ribattezzata La Rumfoord e fu preparata per la partenza. Beatrice Rumfoord osservò soddisfatta le cerimonie attraverso un televisore, a tremila chilometri di distanza. Era ancora a Newport. La Rumfoord stava per venire lanciata, tra un minuto esatto. Se il destino intendeva portare a bordo Beatrice Rum-
foord, avrebbe dovuto farlo maledettamente in fretta. Beatrice si sentiva a meraviglia. Aveva dimostrato tante belle cose. Aveva dimostrato che era padrona del suo destino, poteva dire no quando voleva... e rendere valido il suo rifiuto. Aveva dimostrato che le vanterie onniscienti di suo marito erano un bluff... che suo marito non era migliore, in fatto di previsioni, dell'Ufficio Meteorologico degli Stati Uniti. Perdipiú aveva escogitato un piano che le avrebbe permesso di vivere con modesta agiatezza per il resto dei suoi giorni, e che nello stesso tempo avrebbe inflitto a suo marito il trattamento che meritava. La prossima volta che lui si fosse materializzato, avrebbe trovato la tenuta invasa dagli zotici. Beatrice avrebbe fatto pagare cinque dollari a testa per entrare dalla porticina stile Alice nel Paese delle Meraviglie. Non era un sogno assurdo. Ne aveva discusso con i due supposti rappresentanti dei detentori dell'ipoteca sulla tenuta... e quelli erano entusiasti. Adesso erano con lei, e guardavano alla televisione i preparativi per la partenza della Rumfoord. Il televisore era nella stanza in cui c'era il grande ritratto di Beatrice bambina, immacolata nell'abito bianco, con un pony bianco tutto suo. Beatrice sorrise al ritratto. Quella bambina non si era ancora sporcata minimamente. L'annunciatore televisivo cominciò il countdown dell'ultimo minuto per il lancio della Rumfoord. Durante il countdown, l'umore di Beatrice fu quello di un uccellino. Non riusciva a stare seduta e non riusciva a stare quieta. La sua irrequietezza era il risultato della felicità, non dell'incertezza. Per lei era indifferente che La Rumfoord fosse un fiasco o no. I suoi due visitatori, d'altra parte, sembravano prendere molto sul serio il lancio: sembrava che stessero pregando per il suo successo. Erano un uomo e una donna, un certo signor George M. Helmholtz e la sua segretaria, una certa signorina Roberta
Wiley. La signorina Wiley era una vecchia cosetta dall'aria buffa, ma molto sveglia e spiritosa. Il razzo si sollevò con un ruggito. Era un lancio impeccabile. Helmholtz si appoggiò allo schienale della poltrona ed emise un virile sospiro di sollievo. Poi sorrise e si batté le grosse cosce, con esuberanza. — Perdiana... — esclamò, — sono orgoglioso di essere americano... e orgoglioso di vivere in questa epoca. — Vogliono bere qualcosa? — chiese Beatrice. — La ringrazio molto... — disse Helmholtz, — ma non oso mischiare gli affari con il piacere. — Ma non abbiamo finito di parlare d'affari? — replicò Beatrice. — Non abbiamo discusso tutto? — Ecco... La signorina Wiley e io avevamo sperato di fare un inventario degli edifici piú grandi che sorgono sulla proprietà — spiegò Helmholtz. — Ma temo che si sia fatto troppo buio. Ci sono dei riflettori? Beatrice scosse il capo. — Mi dispiace — disse. — Forse ha una lampada tascabile molto potente? — insistè Helmholtz. — Probabilmente posso procurarle una lampada tascabile — disse Beatrice. — Ma non credo che sia necessario che lei esca. Posso dirle io quali sono gli edifici. — Suonò per chiamare il maggiordomo, e poi gli disse di portare una lampada tascabile. — Ci sono il piccolo edificio del campo di tennis, la serra, la casetta del giardiniere, quella che una volta era la portineria, la rimessa, la foresteria, il capanno degli attrezzi, le cabine, il canile e la vecchia torre dell'acqua. — E qual è quello nuovo? — disse Helmholtz. — Quello nuovo? — ripetè Beatrice. Il maggiordomo ritornò con una lampada tascabile, che Beatrice diede a Helmholtz. — Quello metallico — disse la signorina Wiley.
— Metallico? — fece Beatrice, stupita. — Non ci sono edifici metallici. Forse le tegole di legno, rovinate dalle intemperie, sembrano argentate. — E corrugò la fronte. — Qualcuno ha detto loro che qui c'era un edificio metallico? — L'abbiamo visto quando siamo arrivati — disse Helmholtz. — Proprio vicino al sentiero... nel sottobosco vicino alla fontana — aggiunse la signorina Wiley. — Non riesco a immaginare di che si tratta — disse Beatrice. — Possiamo andare a dare un'occhiata? — domandò Helmholtz. — Sì... naturalmente — disse Beatrice, alzandosi. Il gruppetto attraversò lo zodiaco sul pavimento del vestibolo e si addentrò nella balsamica oscurità. Il raggio della lampada tascabile danzava davanti a loro. — Davvero... — disse Beatrice, — sono curiosa quanto loro di scoprire che cosa sia. — Sembra una di quelle cose prefabbricate, fatte di alluminio — spiegò la signorina Wiley. — Sembra un serbatoio d'acqua a forma di fungo o qualcosa di simile — soggiunse Helmholtz. — Solo che è posato proprio sul terreno. — Davvero? — fece Beatrice. — Sa che cosa ho detto che era, vero? — disse la signorina Wiley. — No... disse Beatrice. — Che cosa ha detto che era? — Devo dirlo sottovoce — disse scherzosamente la signorina Wiley, — altrimenti qualcuno cercherebbe di mandarmi in manicomio. — Si portò la mano alla bocca, dirigendo verso Beatrice un forte bisbiglio. — Un disco volante.
CAPITOLO QUARTO Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda, una tenda. Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda. I TAMBURI DI MARTE
Gli uomini avevano marciato fino alla piazza d'armi al suono d'un tamburo. Il tamburo aveva questo da dire loro: Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda, una tenda. Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda! Era una divisione di fanteria composta di diecimila uomini, disposti in un quadrato cavo, su una piazza d'armi naturale, fatta di ferro massiccio e spessa un miglio. I soldati stavano sull'attenti sopra la ruggine arancione. Fremevano, rigidi, sebbene fossero simili al ferro quanto era possibile esserlo... ufficiali e soldati. Le loro uniformi erano d'un tessuto rozzo, verde, gelido: il colore dei licheni. L'esercito era scattato sull'attenti in un silenzio assoluto. Non era stato impartito alcun segnale udibile o visibile. Erano scattati tutti sull'attenti come un sol uomo, come per una sorprendente coincidenza. Il terzo uomo della seconda squadra del primo plotone della seconda compagnia del terzo battaglione del secondo reggimento della prima divisione di fanteria d'assalto marziana era
un soldato semplice che era stato degradato da tenente colonnello tre anni prima. Era su Marte da otto anni. Quando in un esercito moderno qualcuno viene degradato da ufficiale a soldato semplice, è probabile che sarà molto vecchio, come soldato, e i suoi compagni d'armi, una volta abituatisi al fatto che non è piú un ufficiale, lo chiameranno, per rispetto alle sue gambe, ai suoi occhi e al suo fiato indeboliti, qualcosa come Pop, Paparino, o Gramps, Nonnino, o Unk, Zietto. Il terzo uomo della seconda squadra del primo plotone della seconda compagnia dei terzo battaglione del secondo reggimento della prima divisione di fanteria d'assalto marziana era chiamato Unk. Unk aveva quarant'anni. Unk era un uomo ben fatto... un po' piú pesante del dovuto, scuro di pelle, con labbra da poeta, e dolci occhi castani nelle orbite ombrate da una fronte di CroMagnon. L'incipiente calvizie aveva isolato un drammatico ciuffo di capelli. Un aneddoto illustrativo su Unk: Una volta, mentre il plotone di Unk stava facendo la doccia, Henry Brackman, sergente del plotone di Unk, chiese a un sergente di un altro reggimento di scegliere il miglior soldato del plotone. Il sergente in visita, senza alcuna esitazione, scelse Unk, perché Unk era un uomo solido, muscoloso e intelligente in mezzo a quei ragazzi. Brackman roteò gli occhi. — Gesù... davvero? — disse. — È il fesso del plotone. — Mi prendi in giro? — ribatté il sergente in visita. — Diavolo, no, non ti prendo in giro — disse Brackman. — Guardalo: è lì fermo da dieci minuti, e non ha ancora toccato un pezzo di sapone. Unk! Svegliati, Unk! Unk rabbrividì, e smise di sognare sotto la pioggerella tiepida della doccia. Guardò con aria interrogativa Brackman, triste e volonteroso. — Usa un po' di sapone, Unk — l'esortò Brackman. — Per
amor di Dio, usa un po' di sapone! Ora, sulla ferrea piazza d'armi, Unk stava sull'attenti, nel quadrato cavo, come tutti gli altri. In mezzo al quadrato cavo c'era un pilastro di pietra cui erano infissi anelli di ferro. Dentro gli anelli erano state fatte passare tintinnanti catene di ferro... erano state strette attorno a un soldato dai capelli rossi ritto contro il pilastro. Il soldato era un soldato molto lindo... ma non era un soldato in ordine, poiché tutte le mostrine e le decorazioni gli erano state strappate dall'uniforme, e non aveva né la cintura, né la cravatta, né le mollettiere bianche come la neve. Tutti gli altri, compreso Unk, erano azzimati. Tutti gli altri avevano un bell'aspetto. Qualcosa di doloroso stava per accadere all'uomo legato al palo... qualcosa cui l'uomo avrebbe desiderato moltissimo sfuggire, qualcosa cui non sarebbe sfuggito, per via delle catene. E tutti i soldati avrebbero assistito. Era stata data grande importanza all'avvenimento. Persino l'uomo incatenato era sull'attenti, per essere il miglior soldato che sapeva essere, in quelle circostanze. Di nuovo... nessun ordine visibile o udibile fu impartito, ma i diecimila soldati eseguirono il movimento di riposo da parata come un sol uomo. E così fece anche l'uomo incatenato. Poi i soldati si rilassarono, come se avessero ricevuto l'ordine del riposo normale. Di fronte a quest'ordine avevano l'obbligo di rilassarsi, ma di tenere i piedi a posto e di rimanere in silenzio. I soldati erano liberi di pensare un poco, adesso, e di guardarsi intorno e di mandare messaggi con gli occhi, se avevano messaggi da mandare e se trovavano chi li ricevesse. L'uomo incatenato tirò le catene e girò il collo per valutare l'altezza del pilastro cui era incatenato. Era come se pensasse di poter fuggire servendosi di un metodo scientifico, se solo fosse riuscito a scoprire quanto era alto il pilastro e di che cosa era
fatto. Il pilastro era alto cinque metri, ottanta centimetri e quattro millimetri, senza contare i quattro metri, dieci centimetri e due millimetri piantati nel ferro. Il pilastro aveva un diametro medio di settantaquattro centimetri e tre millimetri, variando da questa media, tuttavia, fino a diciassette centimetri e otto millimetri. Il pilastro era composto di quarzo, alcali, feldspato, mica e tracce di tormalina e di orneblenda. Per informazione dell'uomo incatenato: era a duecento milioni, trecentoquarantaseimila novecentoundici chilometri dal Sole, e nessuno stava arrivando in suo aiuto. L'uomo dai capelli rossi incatenato al pilastro non faceva rumore, perché i soldati nella posizione di riposo non erano autorizzati a fare rumore. Mandò un messaggio con gli occhi, tuttavia, mentre avrebbe voluto gridare. Mandò il messaggio a chiunque i cui occhi incontrassero i suoi. Sperava di far pervenire il messaggio a una persona in particolare, al suo migliore amico... ad Unk. Stava cercando Unk. Non riuscì a trovare il viso di Unk. Se anche avesse trovato il viso di Unk, non vi sarebbe stata alcuna fioritura di riconoscimento e di pietà sul viso di Unk. Unk era appena uscito dall'ospedale della base, dove l'avevano curato per malattia mentale, e la mente di Unk era quasi vuota. Unk non riconosceva il suo migliore amico incatenato ai pilastro. Unk non riconosceva nessuno. Unk non avrebbe saputo neppure di chiamarsi Unk, non avrebbe neppure saputo di essere un soldato, se non gliel'avessero detto quando l'avevano dimesso dall'ospedale. Era venuto dall'ospedale direttamente alla formazione in cui si trovava ora. All'ospedale avevano continuato e continuato e continuato a dirgli che lui era il miglior soldato della migliore squadra del miglior plotone della migliore compagnia del miglior battaglione del miglior reggimento della migliore divisione del miglior
esercito. Unk indovinava che era qualcosa di cui doveva essere orgoglioso. All'ospedale gli avevano detto che era stato molto malato, ma adesso era completamente guarito. Questa sembrava una buona notizia. All'ospedale gli avevano detto come si chiamava il suo sergente, e che cosa era un sergente, e che cosa erano tutti i simboli e i gradi e le specialità. Avevano cancellato così bene i suoi ricordi che avevano dovuto insegnargli da capo perfino i movimenti dei piedi e il maneggio delle armi. All'ospedale avevano dovuto spiegare a Unk che cosa erano le Razioni Respiratorie di Combattimento o RRC o pillole-perscemi: avevano dovuto dirgli di prenderne una ogni sei ore per non soffocare. Erano pillole d'ossigeno che rimediavano al fatto che nell'atmosfera marziana non c'era ossigeno. All'ospedale avevano dovuto persino spiegare a Unk che aveva un'antenna radio sotto la volta del cranio, e che gli avrebbe fatto male ogni volta che lui avesse fatto qualcosa che un buon soldato non deve mai fare. L'antenna gli avrebbe anche dato gli ordini e avrebbe fornito il rullo di tamburi per marciare. Avevano detto che non solo Unk ma anche tutti gli altri avevano un'antenna come quella... compresi i medici e le infermiere e i generali con quattro stelle. Era un esercito molto democratico, avevano detto. Unk immaginò che fosse una bella cosa, per un esercito, essere così. All'ospedale avevano dato a Unk un piccolo esempio dei dolore che la sua antenna gli avrebbe inflitto se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Il dolore era orribile. Unk era obbligato ad ammettere che un soldato sarebbe stato pazzo se non avesse sempre fatto il suo dovere.
All'ospedale avevano detto che la legge piú importante dì tutte era questa: obbedire sempre ad un ordine diretto senza un attimo d'esitazione. Mentre se ne stava in formazione sulla ferrea piazza d'armi, Unk si rese conto che aveva molte cose da imparare di nuovo. All'ospedale non gli avevano insegnato tutto quello che c'era da sapere sulla vita. L'antenna che aveva nella testa lo riportò sull'attenti e la sua mente si vuotò. Poi l'antenna rimise Unk nella posizione di riposo, poi di nuovo sull'attenti, poi lo costrinse a fare il presentai' arm, poi lo mise di nuovo in posizione di riposo. Ricominciò a pensare. Colse un'altra occhiata del mondo che lo circondava. La vita era così, si disse. Unk a titolo sperimentale: vuoti e occhiate, e ogni tanto, magari, quello spaventoso lampo di dolore per aver fatto qualcosa di sbagliato. Una piccola luna che volava bassa e veloce veleggiò nel cielo viola, lassù. Unk non sapeva perché pensasse così, ma pensava che la luna si muovesse troppo rapidamente. Non gli sembrava giusto. E il cielo, pensò, avrebbe dovuto essere azzurro invece che viola. Unk aveva freddo, inoltre, e desiderava piú calore. Il freddo interminabile sembrava sbagliato ed ingiusto, in un certo senso, come la luna troppo rapida e il cielo viola. Il comandante della divisione di Unk stava parlando ora con il comandante del reggimento di Unk. Il comandante del reggimento di Unk parlò al comandante del battaglione di Unk. Il comandante del battaglione di Unk parlò al comandante della compagnia di Unk. Il comandante della compagnia di Unk parlò al capo del plotone di Unk, che era il sergente Brackman. Brackman si avvicinò ad Unk e gli ordinò di marciare verso l'uomo incatenato a passo militare e di strangolarlo fino ad ucciderlo. Brackman disse a Unk che era un ordine diretto.
Quindi Unk obbedì. Marciò verso l'uomo incatenato. Marciò al ritmo della musica secca e metallica di un tamburo. Il suono del tamburo era nella sua testa, e usciva dalla sua antenna: Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda, una tenda, Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda! Quando Unk raggiunse l'uomo incatenato, esitò per un secondo... perché l'uomo dai capelli rossi incatenato al pilastro sembrava così infelice. Poi vi fu un piccolo dolore ammonitore nella testa di Unk, come la prima puntura in profondità del trapano di un dentista. Unk posò i pollici sulla trachea dell'uomo dai capelli rossi, e il dolore cessò immediatamente. Unk non premette i pollici, perché l'uomo stava cercando di dirgli qualcosa. Unk era stupito del silenzio dell'uomo... poi si rese conto che l'antenna di quell'uomo doveva imporgli il silenzio, così come le antenne imponevano il silenzio a tutti gli altri soldati. Eroicamente, l'uomo incatenato sopraffece la volontà della sua antenna e parlò rapidamente, rabbrividendo. — Unk... Unk... Unk... — disse, e gli spasimi provocati dalla lotta tra la sua volontà e la volontà dell'antenna gli fecero ripetere quel nome, stupidamente. — Pietra azzurra, Unk — disse. — Caserma dodici... lettera. La sofferenza ammonitrice si fece sentire di nuovo, tormentosa, nella testa di Unk. Con diligenza, Unk strangolò l'uomo incatenato... lo soffocò fino a che il viso dell'uomo divenne purpureo e la lingua penzolò. Unk indietreggiò, si mise sull'attenti, fece un perfetto dietrofront e ritornò al suo posto nei ranghi... accompagnato di nuovo dal tamburo che gli suonava nella testa:
Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda, una tenda. Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda! Il sergente Brackman fece un cenno del capo verso Unk, e gli strizzò l'occhio con affetto. I diecimila si misero di nuovo sull'attenti. Orribilmente, il morto incatenato al pilastro si sforzò di mettersi a sua volta sull'attenti, facendo tintinnare le catene. Non riuscì — non riuscì ad essere un perfetto soldato — non perché non lo volesse ma perché era morto. La grande formazione si ruppe nelle sue componenti rettangolari, che si allontanarono marciando stolidamente; ogni uomo udiva un tamburo nella propria testa. Un osservatore non avrebbe udito nulla, tranne la cadenza degli stivali. Un osservatore non avrebbe capito chi era veramente il comandante, poiché persino i generali si muovevano come marionette, tenendo il tempo delle parole idiote: Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda, una tenda. Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda!
CAPITOLO QUINTO LETTERA DI UN EROE SCONOSCIUTO «Possiamo rendere i centri della memoria d'un uomo sterili come uno scalpello da chirurgo appena uscito da un'autoclave. Ma su di esso cominciano subito ad accumularsi granelli di esperienza nuova. A loro volta questi granelli si dispongono in schemi non necessariamente favorevoli al pensiero militare. Sfortunatamente, questo problema di ricontaminazione sembra insolubile». DR. MORRIS N. CASTLE Direttore dell'Igiene Mentale, Marte
La formazione di Unk si fermò davanti a una caserma di granito, davanti a una caserma in una prospettiva di migliaia di caserme, una prospettiva che sembrava correre all'infinito sulla pianura ferrea. Ogni dieci caserme c'era un pennone con una bandiera che svolazzava nel vento penetrante. Le bandiere erano tutte diverse. La bandiera che svolazzava come un angelo custode sulla zona spettante alla compagnia di Unk era molto gaia: strisce rosse e bianche, e molte stelle bianche in campo azzurro. Era la Vecchia Gloria, la bandiera degli Stati Uniti d'America sulla Terra. Piú in là c'era la bandiera rossa dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Piú in là c'era una meravigliosa bandiera verde, arancione, gialla e porpora, con un leone che reggeva una spada. Era la bandiera di Ceylon. E piú in là c'era un disco rosso in campo bianco, la bandiera del Giappone.
Le bandiere indicavano i paesi che le varie unità marziane avrebbero attaccato e paralizzato quando fosse cominciata la guerra tra Marte e la Terra. Unk non vide le bandiere fino a che la sua antenna non permise alle sue spalle di afflosciarsi, alle sue giunture di allentarsi... fino a che non lo lasciò andare. Guardò intontito la lunga prospettiva di caserme e di bandiere. La caserma davanti alla quale si era fermato aveva un grande numero dipinto sopra la porta. Il numero era 576. Una parte di Unk trovò affascinante quel numero, e lo indusse a studiarlo. Poi ricordò l'esecuzione... ricordò che l'uomo dai capelli rossi che lui aveva ucciso gli aveva detto qualcosa a proposito d'una pietra azzurra e della caserma dodici. Dentro la caserma 576, Unk pulì il fucile e scoprì che era una cosa estremamente piacevole da fare. Scoprì inoltre che sapeva ancora come smontare l'arma. Quella parte della sua memoria, perlomeno, non era stata cancellata, all'ospedale. Lo rese furtivamente felice sospettare che c'erano con tutta probabilità altre parti della sua memoria che erano sfuggite a quella sorte. Non sapeva perché quel sospetto dovesse renderlo furtivamente felice. Ripulì a colpi rapidi la bocca del suo fucile. La sua arma era un Mauser tedesco da 11 millimetri, a un solo colpo, un tipo di fucile che si era fatto una reputazione quando era stato usato dagli spagnoli durante la guerra ispano-americana, sulla Terra. Tutti i fucili dell'esercito marziano erano all'incirca della stessa epoca. Gli agenti marziani, lavorando di nascosto sulla Terra, erano riusciti a comperare immensi quantitativi di Mauser e di Enfield inglesi e di Springfield americani, quasi per niente. I compagni di squadra di Unk stavano pulendo a loro volta la bocca dei loro fucili. L'olio aveva un buon odore, e lo straccio unto, attorcendosi nelle scanalature, resisteva alla spinta del bastone quel tanto che bastava per essere interessante. Quasi nessuno parlava.
Nessuno pareva aver prestato particolare attenzione all'esecuzione. Se quell'esecuzione era stata una lezione per i compagni di Unk, questi avevano trovato la lezione facile da digerire come il Pablum. C'era stato soltanto un commento sulla parte che Unk aveva avuto nell'esecuzione, ed era venuto dai sergente Brackman. — Sei stato bravissimo, Unk — dichiarò Brackman. — Grazie — disse Unk. — Quest'uomo è stato bravissimo, non è vero? — chiese Brackman ai compagni di squadra di Unk. C'era stato qualche cenno di consenso, ma Unk aveva l'impressione che i suoi compagni di squadra avrebbero fatto cenni di consenso in risposta a qualsiasi domanda positiva, e avrebbero scosso il capo in risposta a qualsiasi domanda negativa. Unk ritirò il bastone e lo straccio, passò il dito sotto il percussore aperto, e rifletté la luce del sole con l'unghia oleosa del pollice. L'unghia del pollice mandò la luce del sole su per l'interno della canna. Unk accostò l'occhio alla bocca del fucile e fu affascinato da quella perfetta bellezza. Sarebbe rimasto per ore a fissare, felice, l'immacolata spirale della scanalatura, sognando la terra beata di cui vedeva il cancello rotondo all'altra estremità della canna. Il colore roseo sotto l'unghia oleosa del suo pollice all'altra estremità della canna rendeva quella estremità molto simile a un roseo paradiso. Un giorno o l'altro sarebbe strisciato in quella canna per raggiungere quel paradiso. Sarebbe stato caldo, là... e ci sarebbe stata soltanto una luna, pensò Unk, e la luna sarebbe stata grassa, maestosa e lenta. Qualcosa d'altro di quel roseo paradiso in fondo alla canna arrivò fino a Unk, e Unk fu stupito dalla chiarezza della visione. C'erano tre bellissime donne in quel paradiso, e Unk sapeva esattamente com'erano! Una era bianca, una era aurea e una era bruna. La ragazza aurea stava fumando una sigaretta sotto lo sguardo di Unk. Unk fu ancora piú sorpreso quando scoprì di conoscere persino che tipo di sigaretta stava fumando la ragaz-
za aurea. Era una sigaretta Moon-Mist. — Vendete le Moon-Mist — disse Unk, a voce alta. Gli fece bene, dirlo: lo fece sentire autoritario e acuto. — Eh? — fece un giovane soldato di colore che puliva il suo fucile accanto a Unk. — Cos'hai detto, Unk? — chiese. Aveva ventitré anni. Il suo nome era cucito, in giallo, su un pezzo di stoffa nera sul taschino sinistro. Il suo nome era Boaz. Se i sospetti fossero stati permessi nell'esercito di Marte, Boaz sarebbe stato una persona da sospettare. Il suo grado era soltanto quello di soldato scelto, ma la sua uniforme, sebbene del verde-lichene regolamentare, era fatta di stoffa molto piú bella ed era confezionata molto meglio dell'uniforme di chiunque altro... compresa quella del sergente Brackman. L'uniforme di tutti gli altri era rozza, ruvida, tenuta insieme da goffe cuciture di filo spesso. E l'uniforme di tutti gli altri faceva bella figura soltanto quando chi la. portava stava sull'attenti. In qualsiasi altra posizione, un comune soldato si accorgeva che la sua uniforme tendeva a sgualcirsi e a scricchiolare, come se fosse stata di carta. L'uniforme di Boaz seguiva tutti i suoi movimenti con serica grazia. Le cuciture erano numerose e minuscole. E, cosa ancor piú sbalorditiva, le scarpe di Boaz avevano un lustro profondo, ricco, color rubino... un lustro che gli altri soldati non riuscivano a ottenere per quanto lucidassero le proprie scarpe. A differenza delle scarpe di tutti gli altri della compagnia, le scarpe di Boaz erano di vero cuoio terrestre. — Hai detto qualcosa, Unk? — disse Boaz. — Svendete le Moon-Mist. Sbarazzatevene — mormorò Unk. Per lui quelle parole non avevano senso. Le aveva lasciate uscire soltanto perché avevano desiderato tanto uscire. — Vendete — disse. Boaz sorrise, malinconicamente divertito.
— Vendere, eh? — disse. — Sta bene, Unk... le vendiamo. — E alzò un sopracciglio. — Cosa dobbiamo vendere, Unk? — C'era qualcosa di particolarmente vivo e penetrante nelle pupille dei suoi occhi. Unk giudicò inquietante quel fulgore giallo, quell'acutezza degli occhi di Boaz... sempre piú inquietante, mentre Boaz continuava a fissarlo. Unk distolse io sguardo, guardò per caso negli' occhi di alcuni altri compagni di squadra... si accorse che i loro occhi erano uniformemente ebeti. Persino gli occhi del sergente Brackman erano ebeti. Gli occhi di Boaz continuarono a mordere dentro Unk. Unk si sentì costretto a incontrare di nuovo il suo sguardo. Quelle pupille sembravano diamanti. — Non ti ricordi di me, Unk? — chiese Boaz. Quella domanda allarmò Unk. Per qualche ragione, era importante che lui non ricordasse Boaz. Fu contento di non ricordarlo veramente. — Boaz, Unk — disse l'uomo di colore. — Io sono Boaz. Unk annuì. — Come stai? — domandò. — Oh... non sto proprio male — rispose Boaz. Scosse il capo. — Non ricordi nulla di me, Unk? — No — disse Unk. La memoria lo tormentava un poco, ora: gli diceva che avrebbe potuto ricordare qualcosa sul conto di Boaz, se avesse tentato con tutte le forze. Azzittì la memoria. — Mi dispiace... — disse. — La mia mente è vuota. — Tu e io... siamo fratelli — disse Boaz. — Boaz e Unk. — Uhm — fece Unk. — Ricordi che cos'è il sistema dei fratelli, Unk? — chiese Boaz. — No — rispose Unk. — Ogni uomo in ogni squadra — spiegò Boaz, — ha un fratello. I fratelli dividono la stessa trincea, stanno uno vicino all'altro durante gli assalti, si riparano l'un l'altro. Se un fratello si
mette nei guai in un corpo a corpo, l'altro fratello arriva e l'aiuta, con un colpo di coltello. — Uhm — fece Unk. — Strano — disse Boaz, — che cosa dimentica un uomo in un ospedale e che cosa continua a ricordare, qualsiasi cosa gli facciano. Tu e io... abbiamo fatto le esercitazioni insieme come fratelli per un anno intero, e tu l'hai dimenticato. E poi dici quella cosa a proposito delle sigarette. Che specie di sigarette, Unk? — L'ho... l'ho dimenticato — rispose Unk. — Cerca di ricordarlo — disse Boaz. — Prima lo ricordavi. — Corrugò la fronte e socchiuse gli occhi, come se cercasse di aiutare Unk a ricordare. — Credo che sia così interessante quello che un uomo può ricordare dopo essere stato all'ospedale. Cerca di ricordare tutto quello che puoi. C'era una certa effeminatezza in Boaz... l'effeminatezza di un bullo furbissimo che fa il solletico sotto il mento a un effeminato, e gli parla come si parla a un bambino. Ma a Boaz Unk era simpatico, a modo suo. Unk aveva la bizzarra impressione che lui e Boaz fossero le sole persone reali nell'edificio di pietra... che gli altri fossero robot dagli occhi vitrei, e robot neppure molto ben fatti. Il sergente Brackman, che era il comandante, non sembrava piú sveglio, piú responsabile, piú autorevole di un sacco di piume bagnate. — Sentiamo tutto quello che riesci a ricordare, Unk — disse Boaz in tono di adulazione. — Fratello mio... ricorda tutto quello che puoi ricordare. Prima che Unk riuscisse a ricordare qualcosa, il dolore alla testa che l'aveva costretto a procedere all'esecuzione io colpì di nuovo. Il dolore non si fermò, tuttavia, al morso ammonitore. Mentre Boaz lo guardava, privo di espressione, il dolore nella testa di Unk divenne una cosa massacrante. Unk si alzò, lasciò cadere il fucile, si afferrò la testa tra le
mani, ondeggiò, urlò, svenne. Quando Unk rinvenne sul pavimento della caserma, suo fratello Boaz gli stava imbrattando le tempie con uno strofinaccio freddo. I compagni di squadra di Unk stavano in cerchio attorno a Unk e a Boaz. Le loro facce erano prive dì sorpresa e di simpatia. La loro convinzione era che Unk aveva fatto qualcosa di stupido e di poco soldatesco e che quindi meritava quello che gli era capitato. Lo guardavano come se Unk avesse fatto qualcosa di militarmente stupido come mettersi di profilo contro il cielo o pulire un'arma carica, come starnutire mentre era di ronda o contrarre e non denunciare una malattia venerea, come rifiutare un ordine diretto o dormire dopo la sveglia, come ubriacarsi di sentinella o come tenere un libro o una bomba a mano senza sicura nell'armadietto, come chiedere chi aveva fondato l'esercito e perché... Boaz era il solo che sembrava dispiaciuto di ciò che era accaduto a Unk. — È stata tutta colpa mia, Unk — disse. Il sergente Brackman si fece largo in mezzo al cerchio e si fermò davanti a Unk e Boaz. — Cos'ha fatto, Boaz? — chiese. — Stavo scherzando con lui — disse premuroso Boaz. — Gli ho detto di cercare di ricordare tutto quello che poteva. Non immaginavo che l'avrebbe fatto. — Dovresti avere abbastanza buonsenso da non scherzare con un uomo appena uscito dall'ospedale — disse burbero Brackman. — Oh, lo so... lo so — assentì Boaz, pieno di rimorso. — Fratello mio... — disse. — Dio mi castighi!. — Unk — disse Brackman, — all'ospedale non ti hanno detto qualcosa a proposito dei ricordi? Unk scosse il capo, vagamente.
— Forse — disse. — Mi hanno detto tante cose. — Questa è la cosa peggiore che tu possa fare, Unk: ricordare — dichiarò Brackman. — È per questo che ti hanno mandato in ospedale, tanto per cominciare: perché ricordavi troppe cose. — Unì a coppa le mani tozze e vi tenne il desolante problema che era. stato Unk. — Santo cielo: ricordavi tante cose, Unk, che come soldato non valevi un soldo. Unk si levò a sedere, si posò una mano sul petto e si accorse che la parte anteriore della sua giubba era umida di lacrime. Cercò di spiegare a Brackman che in realtà non aveva affatto cercato di ricordare, che aveva saputo istintivamente che era male farlo... ma che il dolore l'aveva colpito comunque. Non lo disse a Brackman per paura che il dolore ritornasse. Unk gemette e sbatté le palpebre per staccarne le ultime lacrime. Non intendeva fare nulla che non gli fosse stato ordinato. — Quanto a te, Boaz — disse Brackman, — non so... ma forse una settimana di servizio alla latrina ti insegnerebbe a non scherzare con la gente appena uscita dall'ospedale. Qualcosa di informe, nella memoria di Unk, gli disse dì osservare attentamente il diverbio tra Brackman e Boaz. Era importante, in un certo senso. — Una settimana, sergente? — fece Boaz. — Sì, perdio... — disse Brackman, poi rabbrividì e chiuse gli occhi. Era evidente che la sua antenna gli aveva inferto una piccola stilettata di dolore. — Un giorno — si corresse Brackman, ed era piú una domanda che una minaccia. Ancora una volta Brackman reagì al dolore che provava nella testa. — A cominciare da quando, sergente? — chiese Boaz. Brackman agitò le tozze mani. — Non importa — disse. Sembrava confuso, stordito... perseguitato. Abbassò la testa, come per combattere meglio il dolore se fosse tornato. — Basta con gli scherzi, maledizione! —
esclamò, con voce profonda, gutturale. E corse via, corse nella sua stanza in fondo alla caserma, e sbatté la porta. Il comandante della compagnia, un certo capitano Arnold Burch, entrò in caserma per un'ispezione a sorpresa. Boaz fu il primo a vederlo. Boaz fece quello che un soldato doveva fare, in quelle circostanze. Boaz gridò: — Aaaaatt-tenti! — Boaz fece questo, sebbene non avesse alcun grado. È una bizzarria della tradizione militare che l'ultimo dei soldati semplici possa ordinare ai suoi pari e ai sottufficiali suoi superiori di mettersi sull'attenti, se è il primo a notare la presenza di un ufficiale in qualsiasi edificio coperto purché non in zona di combattimento. Le antenne dei militari reagirono istantaneamente: raddrizzarono le loro schiene, bloccarono le loro giunture, contrassero le loro viscere, fecero sporgere le loro natiche... vuotarono le loro menti. Unk balzò su dal pavimento, rigido e tremante. Soltanto un uomo sì mise sull'attenti in ritardo. Quell'uomo fu Boaz. E quando si mise sull'attenti, c'era qualcosa di insolente e di svogliato e di irridente nel modo in cui lo fece. Il capitano Burch, giudicando profondamente offensivo quell'atteggiamento, stava per parlarne a Boaz. Ma il capitano riuscì appena ad aprire la bocca che il dolore lo colpì in mezzo agli occhi. Il capitano chiuse la bocca senza aver emesso un suono. Sotto lo sguardo distruttivo di Boaz, scattò con prontezza sull'attenti, fece dietrofront, udì nella testa un tamburo e uscì marciando dalla caserma al ritmo di quel tamburo. Quando il capitano se ne fu andato, Boaz non fece rimettere in riposo i suoi compagni di squadra, sebbene fosse in suo potere farlo. Nella tasca anteriore destra dei calzoni aveva un minuscolo telecomando che poteva costringere i suoi compagni di squadra a fare quasi tutto. Il telecomando aveva le dimensioni d'una borraccia da tasca, da una pinta. Come una borraccia, il telecomando era incurvato per adattarsi alla curva d'un corpo
umano. Boaz lo portava contro la coscia dura e curva. Il telecomando aveva sei pulsanti e quattro manopole. Manovrandoli, Boaz poteva radiocomandare chiunque avesse un'antenna nel cranio. Boaz poteva provocare dolori, in qualsiasi misura, a chiunque; poteva farlo scattare sull'attenti, poteva fargli sentire il tamburo, poteva farlo marciare, fermarsi, allinearsi, rompere le righe, salutare, attaccare, ritirarsi, saltare, saltellare, spiccare balzi... Boaz non aveva antenne nel cranio. Libera quanto voleva esserlo... la Ubera volontà di Boaz era libera fino a questo punto. Boaz era uno dei veri comandanti dell'esercito di Marte. Comandava un decimo delle forze armate che dovevano attaccare gli Stati Uniti d'America quando fosse stato lanciato l'attacco contro la Terra. C'erano unità che si preparavano ad attaccare la Russia, la Svizzera, il Giappone, l'Australia, il Messico, la Cina, il Nepal, l'Uruguay... Per quel che ne sapeva Boaz, c'erano ottocento veri comandanti nell'esercito di Marte... e non uno di loro aveva ufficialmente un grado superiore a sergente. Il comandante nominale dell'intero esercito, il Generale degli Eserciti Borders M. Pulsifer, era in realtà controllato di continuo dal suo attendente, il caporale Bert Wright. Il caporale Wriglit, attendente perfetto, procurava l'aspirina per i mal di testa quasi cronici del generale. I vantaggi d'un sistema di comandanti segreti sono evidenti. Qualsiasi ribellione nell'esercito di Marte sarebbe stata diretta contro le persone sbagliate. E, in tempo di guerra, il nemico poteva sterminare tutti gli ufficiali marziani senza disturbare minimamente l'esercito marziano. — Settecentonovantanove — disse Boaz a voce alta, correggendo il proprio calcolo del numero dei veri comandanti. Uno dei veri comandanti era morto, poiché era stato strangolato da Unk. L'uomo strangolato era stato il soldato semplice Stony
Stevenson, ex vero comandante di un'unità inglese d'assalto. Stony era rimasto così affascinato dagli sforzi di Unk per comprendere ciò che stava succedendo, che aveva cominciato, inconsciamente, ad aiutare Unk a pensare. Per questo, Stevenson aveva subito l'umiliazione suprema. Gli era stata installata un'antenna nel cranio, ed era stato costretto dall'antenna a marciare fino al pilastro come un buon soldato... per attendere di essere ucciso dal suo protetto. Boaz lasciò i suoi compagni di squadra ritti sull'attenti... lasciò che continuassero a tremare, a non pensare a nulla, a non vedere nulla. Boaz andò alla branda di Unk, e vi si sdraiò posando le grandi scarpe lucide sulla coperta marrone. Intrecciò le mani dietro la testa, incurvando il corpo come un arco. — Auuuu... — fece, tra un gemito e uno sbadiglio. — Auuuuu, amici, amici — disse, lasciando oziare la mente. — Dannazione, su, amici. — Erano chiacchiere sciocche e pigre. Boaz era un po' stufo dei suoi giocattoli. Gli era venuto in mente di farli combattere uno contro l'altro... ma la pena per questo, se l'avessero scoperto, era la stessa pena che aveva subito Stony Stevenson. — Auuuuu, su, amici. Su, su, amici — disse, languidamente. — Dannazione, su, amici — disse. — Ce l'ho fatta. Dovete ammetterlo. Il vecchio Boaz se la cava proprio magnificamente. Rotolò giú dal letto, cadde a quattro zampe, e balzò in piedi con l'eleganza di una pantera. Sorrise d'un sorriso abbagliante. Stava facendo tutto quello che poteva per godersi la sua fortunata posizione nella vita. — Voi ragazzi non ve la passate male — disse ai suoi rigidi compagni di squadra. — Dovreste vedere come trattiamo i generali, se pensate di passarvela male. — Ridacchiò e tubò. — Due sere fa il nostro vero comandante ha dato inizio a una discussione: si trattava di stabilire quale dei generali correva piú forte. così abbiamo tirato giú dal letto tutti i ventitré generali, nudi, li abbiamo messi in fila come se fosse-
ro cavalli da corsa, poi abbiamo tirato fuori i quattrini e abbiamo fatto scommesse, e poi abbiamo fatto correre i generali come se avessero il diavolo alle calcagna. Il generale Stover è arrivato primo, con il generale Harrison subito dietro di lui, e il generale Mosher dietro il generale Harrison. La mattina dopo, tutti i generali dell'esercito erano rigidi come pezzi di legno. Nessuno riusciva a ricordare niente della notte precedente. Boaz ridacchiò e tubò di nuovo, e poi decise che la sua fortunata posizione nella vita sarebbe sembrata anche migliore se l' avesse considerata seriamente... se avesse dimostrato che onere fosse, se avesse dimostrato quanto si sentiva onorato di avere un simile onere. Indietreggiò, con l'aria di valutare la situazione, infilò i pollici nella cintura e fece una smorfia. — Oh — fece, — non è affatto un gioco. — Si avvicinò a Unk, si fermò a pochi centimetri da lui e lo squadrò. — Unk, ragazzo mio... — disse. — Mi dispiacerebbe dirti quanto tempo ho passato a pensare a te... a preoccuparmi di te, Unk. Boaz si dondolò. — Tu tenterai di risolvere il tuo rompicapo, vero? Sai quante volte ti hanno mandato in ospedale, per tentare di cancellare i tuoi ricordi? Sette volte, Unk! Sai quante volte, di solito, devono mandare un uomo a farsi cancellare i ricordi? Una volta sola, Unk. Una volta sola! — Boaz fece schioccare le dita sotto il naso di Unk. — E questo basta, Unk. Una volta sola, e quell'uomo non si preoccupa piú di niente, dopo, mai. — Scosse la testa, pensieroso. — Ma tu no, Unk. Unk rabbrividì. — Ti sto tenendo troppo a lungo sull'attenti, Unk? — disse Boaz. Digrignò i denti. Non poteva vietarsi di torturare Unk, di tanto in tanto. In primo luogo, Unk aveva avuto tutto, sulla Terra, e Boaz non aveva avuto nulla. In secondo luogo, Boaz dipendeva miseramente da Unk... o sarebbe dipeso da lui quando fossero arrivati sulla Terra. Boaz
era un orfano che era stato reclutato quando aveva soltanto quattordici anni... e non aveva la minima idea di come si facesse a divertirsi sulla Terra. Contava su Unk per farsi mostrare come si faceva. — Vuoi sapere chi sei... da dove vieni... che cosa eri? — chiese Boaz a Unk. Unk era ancora sull'attenti, senza pensare a nulla, incapace di trarre profitto da qualsiasi cosa potesse dirgli Boaz. Boaz, comunque, non stava parlando per edificazione di Unk. Boaz stava rassicurando se stesso sul conto del fratello che sarebbe stato al suo fianco quando sarebbero arrivati sulla Terra. — Amico... — disse Boaz, facendo una smorfia a Unk, — tu sei uno degli uomini piú fortunati che siano mai vissuti. Sulla Terra, amico, tu eri un re! Come molte informazioni su Marte, le informazioni di Boaz sul conto di Unk erano sottosviluppate. Non sapeva dire da dove fossero venute esattamente quelle informazioni. Le aveva raccolte dalle voci generiche che costituiscono lo sfondo della vita d'un esercito. Ed era troppo un buon soldato per andare in giro a fare domande, cercando di arrotondare la propria conoscenza. La conoscenza di un soldato non doveva affatto essere rotonda. Quindi Boaz non sapeva nulla, in realtà, sul conto di Unk, eccetto che un tempo era stato molto fortunato. E ci ricamava sopra. — Voglio dire... — continuò Boaz, — non c'era niente che tu non potessi avere, non c'era niente che tu non potessi fare, non c'era posto dove non potessi andare! E mentre Boaz sottolineava le meraviglie della fortuna di Unk sulla Terra, esprimeva un profondo interesse per un'altra meraviglia: la sua superstiziosa convinzione che la sua fortuna, invece, sulla Terra, sarebbe stata schifosa.
Poi Boaz usò quattro parole magiche che sembravano descrivere il massimo della felicità che una persona poteva raggiungere sulla Terra: I night-club di Hollywood. Non aveva mai visto Hollywood, non aveva mai visto un night-club. — Amico — disse, — tu entravi e uscivi dai night-club di Hollywood per tutto il giorno e per tutta la notte. «Amico — disse Boaz a Unk, cercando di nascondere la patetica vaghezza delle sue aspirazioni. — Andremo in posti bellissimi e ordineremo cose splendide, e ci mescoleremo a gente splendida, e ci divertiremo moltissimo. — Afferrò il braccio di Unk e lo scosse. — Fratelli... ecco che cosa siamo, fratello. Ragazzo mio... saremo una coppia famosa... andremo dappertutto, faremo di tutto. «"Stanno arrivando il fortunato vecchio Unk e suo fratello Boaz" — recitò Boaz, dicendo quello che sperava avrebbero detto i terrestri, dopo la conquista. — "Eccoli che vanno, felici come uccellini!"». Ridacchiò e tubò al pensiero di quei due, felici come uccellini. Il suo sorriso si avvizzì. I suoi sorrisi non duravano mai a lungo. Nel suo intimo, Boaz era preoccupatissimo. Aveva paura di perdere il posto. Non era mai stato chiaro, per lui, come gli fosse capitato quel posto... quel grande privilegio. Non sapeva neppure chi gli avesse dato quell'ottimo posto. Boaz non sapeva neppure chi comandasse i veri comandanti. Non aveva mai ricevuto un ordine... non da qualcuno che fosse superiore ai veri comandanti. Boaz basava le sue azioni — come tutti i veri comandanti — su ciò che può essere descritto alla meglio come ghiotti pettegolezzi... pettegolezzi che circolavano al livello dei veri comandanti. Ogni volta che i veri comandanti si riunivano, a tarda sera, i pettegolezzi venivano fatti passare insieme alla birra, ai cracker e al formaggio. C'era stato un pettegolezzo, per esempio, sullo spreco nei
magazzini viveri, un altro sulla convenienza che i soldati si ferissero e si infuriassero veramente durante gli allenamenti di ju-jitsu, un altro sulla tendenza deplorevole dei soldati a non fare i nodi quando mettevano le mollettiere. Lo stesso Boaz aveva fatto passare questi pettegolezzi, senza immaginare da dove provenissero... e basava su di essi le proprie azioni. L'esecuzione di Stony Stevenson da parte di Unk era stata anch'essa annunciata in questo modo. All'improvviso, era diventata l'argomento generale della conversazione. All'improvviso, i veri comandanti avevano messo agli arresti Stony. Boaz toccò il telecomando che aveva in tasca, senza premerne i pulsanti. Prese posto tra gli uomini che controllava, si mise volontariamente sull'attenti, premette un pulsante, e si rilassò mentre i suoi compagni di squadra si rilassavano. Aveva una gran voglia di bere un sorso di liquore molto forte. Aveva diritto anche ai liquori, quando voleva. Dalla Terra venivano spedite scorte illimitate di liquori d'ogni genere, per i veri comandanti. E anche gli ufficiali potevano avere tutto il liquore che volevano, anche se non ricevevano la roba migliore. Quello che bevevano gli ufficiali era un letale liquore verde prodotto localmente con i licheni fermentati. Ma Boaz non beveva mai. Una delle ragioni per cui non beveva era il timore che l'alcol diminuisse la sua efficienza come soldato. Un'altra ragione per cui non beveva era il timore di dimenticarsi di se stesso e di offrire da bere a un arruolato. La pena per un vero comandante che offriva una bevanda alcolica a un arruolato era la morte. — Sì, signore — disse Boaz, aggiungendo la propria voce al borbottio degli uomini che si rilassavano. Dieci minuti dopo, il sergente Brackman annunciò un periodo di ricreazione, durante il quale tutti dovevano uscire a giocare a pallamazza tedesca, lo sport principale dell'esercito di Marte.
Unk se la svignò. Unk se la svignò per andare alla caserma 12 a cercare la lettera sotto la pietra azzurra... la lettera di cui gli aveva parlato la sua vittima dai capelli rossi. Le caserme della zona erano deserte. La bandiera in cima al pennone eretto davanti a quelle caserme era fatta d'aria. Le caserme deserte erano state la sede d'un battaglione di commandos imperiali marziani. I commandos erano scomparsi, senza far rumore, nel cuore della notte, un mese prima. Se ne erano andati con le loro astronavi, con le facce annerite, le piastrine fissate con nastri adesivi perché non tintinnassero... verso una destinazione segreta. I commandos imperiali marziani erano esperti nell'uccidere le sentinelle con cappi di corde da pianoforte. La loro destinazione segreta era la luna della Terra. Avrebbero cominciato la guerra da lì. Unk trovò una grossa pietra azzurra davanti alla porta della caldaia della caserma dodici. La pietra era una turchese. Le turchesi sono molto comuni, su Marte. La turchese che trovò Unk aveva un diametro di trenta centimetri. Unk guardò sotto. Trovò un cilindro di alluminio con un coperchio a vite. Dentro il cilindro c'era una lettera molto lunga scritta a matita. Unk non sapeva chi l'aveva scritta. Non era nelle condizioni ideali per indovinare, poiché conosceva i nomi di tre sole persone: il sergente Brackman, Boaz e Unk. Unk andò nella sala caldaie e chiuse la porta. Era eccitato, sebbene non sapesse perché. Cominciò a leggere alia luce che scendeva dalla finestra polverosa. Caro Unk, cominciava la lettera. Non sono molte, Dio lo sa... ma queste sono le cose che so per certo, e alla fine troverai un elenco di domande alle quali dovresti cercare di trovare le risposte. Le domande sono importanti. Ho pensato piú intensamente a queste domande che alle risposte che conosco già.
Questa è la prima cosa che so per certo: 1) Se le domande non hanno senso, non ne avranno neppure le risposte. Tutte le cose che lo scrivente sapeva per certo erano numerate, come per sottolineare la natura penosa e faticosa del gioco di scoprire le cose certe. C'erano centocinquantotto cose che lo scrivente sapeva per certo. Una volte ce n'erano state centottantacinque, ma diciassette erano state cancellate. Il secondo paragrafo era: 2) Io sono una cosa chiamata vìvente. Il terzo era: 3) Io sono in un posto chiamato Marte. Il quarto era: 4) Io sono in una parte d'una cosa chiamata esercito. Il quinto era: 5) L'esercito intende uccidere altre cose chiamate viventi in un posto chiamato Terra. Dei primi ottantuno paragrafi, neppure uno era cancellato. E, nei primi ottantuno paragrafi, lo scrivente procedeva verso questioni sempre piú sottili, e gli errori diventavano piú numerosi. Boaz veniva spiegato e accantonato dallo scrivente fin dalle prime fasi del gioco. 46) Sta' attento a Boaz, Unk. Non è quello che sembra. 47) Boaz ha qualcosa nella tasca destra che fa male alla gente dentro la testa quando la gente fa qualcosa che a Boaz non piace. 48) Anche certi altri hanno delle cose che possono farti male dentro la testa. Non puoi distinguerli a occhio, quindi sii gentile con tutti. 71) Unk, vecchio amico... quasi tutto quello che io so per certo è uscito dalla lotta contro il dolore provocato dalla mia antenna, diceva la lettera a Unk. Ogni volta che comincio a voltare la testa e a guardare qualcosa, e comincia il dolore, io continuo a voltare lo stesso la testa, perché so che vedrò qualcosa che non dovrei vedere. Ogni volta che faccio una domanda, e comincia il dolore, so di aver fatto una domanda intelli-
gente. Poi spezzo le domande in piccoli pezzi e domando quei pezzi di domanda. Allora ottengo le risposte ai pezzi di domanda e poi metto insieme le risposte e ottengo una risposta alla domanda intera. 72) Piú mi abituo a sopportare il dolore, e piú imparo, Adesso tu hai paura del dolore, Unk, ma non imparerai niente se non affronterai il dolore. E piú imparerai, piú sarai contento di sopportare il dolore. Nella sala caldaie della caserma vuota,Unk posò in disparte la lettera per un momento. Aveva voglia di piangere, perché l'eroica fede che io scrivente aveva in Unk era mal riposta,Unk sapeva che non avrebbe potuto sopportare una frazione del dolore che lo scrivente aveva sopportato: probabilmente non amava a tal punto la. conoscenza. Persino la piccola fìtta che gli avevano inferto come esempio all'ospedale era stata terribile.. Deglutì aria, come un pesce che muore sulla riva del fiume, ricordando il grande dolore con cui Boaz l'aveva schiaffeggiato in caserma. Avrebbe preferito morire piuttosto che rischiare un altro dolore come quello. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Se avesse cercato di parlare, avrebbe singhiozzato. Il povero Unk non voleva avere piú guai da nessuno. Qualsiasi informazione avesse ottenuto dalia lettera — informazione conquistata dall'eroismo di un altro uomo — l'avrebbe usata per evitare qualsiasi altro dolore. Unk si chiese se c'erano persone che potevano sopportare il dolore piú di altre. Immaginava che fosse così. Immaginò, con le lacrime agli occhi, di essere particolarmente sensibile a questo proposito. Senza augurare alcun male allo scrivente, desiderò che lo scrivente potesse sentire, una volta sola, i dolori come li sentiva lui. Allora, forse, lo scrivente avrebbe indirizzato la lettera a qualcun altro. Unk non aveva modo dì giudicare la validità delie informa-
zioni contenute in quella lettera. Accettava tutto avidamente, indiscriminatamente. E, accettandolo, acquistava una comprensione della vita identica alla comprensione della vita che aveva lo scrìvente. Unk si nutrì con avidità di filosofia. E mescolati alia filosofia c'erano pettegolezzi, storia, astronomia, biologia, teologia, geografia, psicologia, medicina... e persino un racconto breve. Qualche esempio scelto a caso: Pettegolezzo: 22) Il generale Borders è sempre ubriaco. È così ubriaco che non riesce neppure ad allacciarsi le scarpe in modo che restino allacciate. Gli ufficiali sono confusi e infelici come tutti gli altri. Tu eri un ufficiale, Unk, con un battaglione tutto tuo. Storia: 26) Tutti quelli che sono su Marte vengono dalla Terra. Pensavano che su Marte sarebbero stati meglio. Nessuno riesce a ricordare che cosa ci fosse di tanto brutto sulla Terra. Astronomia: 11) Tutto quello che c'è nel cielo gira attorno a Marte una volta al giorno. Biologia: 58) La gente nuova nasce dalle donne quando uomini e donne dormono insieme. È difficile che nasca gente nuova dalle donne, su Marte, perché gli uomini e le donne dormono in posti diversi. Teologia: 15) Qualcuno ha fatto tutto per qualche ragione. Geografìa: 16) Marte è rotondo. L'unica città di Marte si chiama Phoebe. Nessuno sa perché si chiama Phoebe. Psicologia: 103)Unk, il guaio degli stupidi bastardi è che sono troppo stupidi per credere che esìsta qualche cosa come l'astuzia. Medicina: 73) Quando cancellano la memoria di un uomo in questo posto chiamato Marte, non la cancellano completamente. Ne cancellano la parte centrale, press'a poco. Lasciano sempre molta roba negli angoli. C'è una storia che parla di come abbiano tentato di cancellare completamente qualche memoria. I poveretti ai quali avevano fatto questa cosa non sa-
pevano camminare, non sapevano parlare, non sapevano far niente. La sola cosa che si poteva pensare di fare con loro era demolirli, insegnargli un vocabolario basico di mille parole e di dargli un lavoro nelle relazioni pubbliche dell'esercito o dell'industria. Il racconto breve: 89) Unk, il tuo miglior amico è Stony Stevenson. Stony è un uomo grande e grosso, forte e felice, che beve un quarto di whisky al giorno. Stony non ha un'antenna in testa, e può ricordare tutto quello che gli è successo. Finge di essere un agente dello spionaggio, ma è uno dei veri comandanti. Controlla per radio una compagnia della fanteria d'assalto che deve attaccare un posto sulla Tara chiamato Inghilterra. Stony viene dall'Inghilterra. A Stony piace l'esercito di Marte perché c'è tanto da ridere. Stony ride sempre. Ha saputo che tipo resistente eri, Unk, così è venuto alla tua caserma a darti un'occhiata. Ha fatto finta di essere un tuo amico, per poterti sentir parlare. Dopo un pò, ti sei fidato di lui, Unk, e gli hai detto qualcuna delle tue teorie segrete sul significato della vita di Marte. Stony ha cercato di ridere, ma poi ha capito che tu avevi scoperto certe cose di cui lui non sapeva niente. Non riusciva a mandarla giú, perché lui avrebbe dovuto sapere tutto e tu non avresti dovuto sapere niente. E poi tu hai fatto a Stony molte delle domande importanti di cui volevi avere le risposte, e Stony conosceva le risposte soltanto a metà di esse. E Stony è tornato alla sua caserma, e le domande di cui non conosceva le risposte continuavano a girargli per la testa. Quella notte non ha potuto dormire, sebbene abbia bevuto e bevuto e bevuto. Cominciava a capire che qualcuno si serviva di lui, e non immaginava chi fosse. Non sapeva neppure perché dovesse esserci un esercito di Marte, tanto per cominciare. Non sapeva neppure perché Marte stesse per attaccare la Terra. E piú ricordava della Terra, piú si rendeva conto che l'esercito di Marte non aveva neppure le probabilità d'una palla di neve nell'inferno. Il grande attacco contro la Terra sarebbe stato sicura-
mente un suicidio. Stony si chiedeva a chi poteva parlare di questo, e non c'era nessuno tranne tu, Unk. così Stony è sceso dal letto circa un'ora prima dell'alba, è venuto dì nascosto netta tua caserma, Unk, e ti ha svegliato. Ti ha detto tutto quello che sapeva di Marte. E ti ha promesso che per l'avvenire ti avrebbe detto tutte le maledette cose che avrebbe scoperto, e tu. avresti dovuto raccontargli ogni maledetta cosa che avresti scoperto. E spesso voi due vi sareste trovati in qualche posto e avreste cercato di far collimare le cose che sapevate. E luì ti ha dato una bottìglia di whisky. E avete bevuto tutti e due alla stessa bottiglia, e Stony ti ha detto che tu eri il suo migliore amico. Ti ha detto che eri il solo amico che avesse mai avuto su Marte, anche se rideva sempre, e poi ha pianto, e quasi ha svegliato i tuoi vicini di branda. Ti ha detto di tenere d'occhio Boaz, e poi è tornato nella sua caserma e ha dormito come un bambino. La lettera, dal racconto in avanti, era la prova dell'efficienza della squadra segreta d'osservazione composta da Stony Stevenson e da Unk. Da quel punto in avanti, le cose conosciute per certo nella lettera erano quasi tutte introdotte da frasi come: Stony dice... e Tu hai scoperto... e Stony ti ha detto... e Tu hai detto a Stony... e Tu e Stony vi siete ubriacati nel poligono di tiro e voi due matti avete deciso... La cosa piú importante che i due matti avevano deciso era che l'uomo che comandava veramente tutto su Marte era un uomo alto e robusto, cordiale, sorridente, che parlava con voce modulata ed era sempre accompagnato da un grosso cane. Quell'uomo e il suo cane, secondo la lettera a Unk, si presentavano alle riunioni segrete dei veri comandanti dell'esercito di Marte circa ogni cento giorni. La lettera non diceva nulla in proposito, perché lo scrivente non ne sapeva nulla, ma quell'uomo e il suo cane erano Winston Niles Rumfoord e Kazak, il cane dello spazio. E le loro apparizioni su Marte non erano irregolari. Essendo cronosincla-
sticoinfundibolati, Rumfoord e Kazak apparivano prevedibilmente quanto la cometa di Halley. Apparivano su Marte ogni centoundici giorni. Come diceva la lettera a Unk: 155) Secondo Stony, quel tipo grande e grosso e il suo cane si presentano alle riunioni ed eclissano tutti. Lui è un tipo affascinante, e prima che la riunione sia finita tutti cercano di pensare esattamente come pensa lui. Ogni idea che ha ognuno di loro, viene da lui. Lui sorride e sorride e parla e parla con quella sua fantastica voce modulata e riempie tutti di idee nuove. E poi tutti i presenti alla riunione fanno passare quelle idee, come se le avessero pensate loro. Lui va pazzo per il gioco della pallamazza tedesca. Nessuno sa come si chiama. Si limita a ridere, se qualcuno glielo chiede. Di solito porta l'uniforme dei marines sciatoriparacadutisti, ma il vero comandante dei marines sciatori-paracadutisti giura di non averlo mai visto se non alle riunioni segrete. 156) Unk, vecchio amico, diceva la lettera a Unk, ogni volta che tu e Stony scoprite qualcosa di nuovo, aggiungilo a questa lettera. Tieni questa lettera ben nascosta. E ogni volta che cambi il nascondiglio, sta' attento a dire a Stony dove l'hai messa. In questo modo, anche se andrai all'ospedale a farti cancellare la memoria, Stony potrà dirti dove devi andare per farti riempire di nuovo la memoria. 157) Unk... sai perché continui a tirare avanti? Continui a tirare avanti perché hai una compagna e un figlio. Quasi nessuno su Marte ne ha. Il nome della tua compagna è Bee. È istruttrice alla Scuola di Respirazione Schliemann a Phoebe. Il nome di tuo figlio è Crono. Vive nella scuola elementare di Phoebe. Secondo Stony Stevenson, Crono è il miglior giocatore di pallamazza tedesca della scuola. Come tutti gli altri su Marte, Bee e Crono hanno imparato a stare soli. Non sentono la
tua mancanza. Non pensano mai a te. Ma tu devi dimostrare loro che hanno bisogno di te, molto bisogno di te. 158) Unk, pazzo figlio d'un cane, ti voglio bene. Quando rimetterai insieme la tua famigliola, prendi un 'astronave e vola verso un posto bello e tranquillo, verso un posto dove tu non debba sempre prendere le pillole-per-scemi per rimanere vivo. Porta con te Stony. E quando vi sarete sistemati, passate molto tempo cercando di scoprire perché il qualcuno che ha fatto e organizzato tutto l'ha fatto. Tutto ciò che a Unk rimaneva ancora da leggere era la firma. La firma era su una pagina separata. Prima di voltare la pagina, Unk cercò di immaginare il carattere e l'aspetto dello scrivente. Lo scrivente era intrepido. Lo scrivente amava a tal punto la verità da esporsi a qualsiasi dolore pur di accrescere la sua scorta di verità. Era superiore a Unk e a Stony. Osservava e registrava le loro attività sovversive con affetto, divertimento e distacco. Unk immaginò che lo scrivente fosse un vecchio meraviglioso con la barba bianca e la taglia d'un fabbro ferraio. Unk voltò la pagina e lesse la firma. Fedelmente tuo... era il sentimento espresso sopra la firma. La firma riempiva l'intera pagina. Era fatta di tre lettere maiuscole, alte venti centimetri e larghe cinque. Le lettere erano tracciate goffamente, con un'esuberanza da giardino d'infanzia, piene di sbavature nere. La firma era questa:
La firma era quella di Unk. Unk era l'eroe che aveva scritto la lettera. Unk aveva scritto la lettera a se stesso prima che gli cancellassero la memoria. Era letteratura nel suo senso migliore, poiché rendeva Unk coraggioso, vigile e segretamente libero. Faceva di lui stesso il suo eroe in tempi molto difficili. Unk non sapeva che l'uomo che aveva assassinato al pilastro era il suo migliore amico: Stony Stevenson. Se l'avesse saputo, forse si sarebbe ucciso. Ma il Destino gli risparmiò questa conoscenza per molti anni. Quando Unk ritornò alla sua caserma, coltelli e baionette venivano affilati con aspri scrii-scraaa. Ognuno stava affilando una lama. E ovunque c'erano sorrisi da pecora, ma d'un tipo particolare. Quei sorrisi tradivano pecore che, in determinate condizioni, potevano commettere allegramente un omicidio. Era appena arrivato l'ordine che il reggimento salisse al piú presto possibile sulle sue astronavi. La guerra contro la Terra era cominciata. Le avanguardie dei commandos imperiali marziani avevano già cancellato le installazioni terrestri sulla luna terrestre. Le batterie razzo dei commandos, sparando dalla luna, stavano dando ora ad ogni città principale un assaggio di inferno. E, come musica d'accompagnamento per quell'assaggio d'inferno, le radio marziane irradiavano alla Terra questo messag-
gio, in una cantilena esasperante: Uomo bruno, uomo bianco, uomo giallo... arrenditi o muori. Uomo bruno, uomo bianco, uomo giallo... arrenditi o muori.
CAPITOLO SESTO UN DISERTORE IN TEMPO DI GUERRA
«Non riesco a capire perché la pallamazza tedesca non sia una specialità olimpica, o addirittura una delle specialità olimpiche piú importanti». WINSTON NILES RUMFOORD
Fu una marcia di sei miglia, dall'accampamento dell'esercito alla pianura dove attendeva la flotta d'invasione. E la strada da percorrere attraversava l'angolo nordoccidentale di Phoebe, la sola città di Marte. La popolazione di Phoebe, secondo la Storia tascabile di Marte di Winston Niles Rumfoord, raggiungeva al massimo le ottantasettemila persone. Ogni anima, ogni struttura di Phoebe era direttamente collegata allo sforzo bellico. La massa dei lavoratori di Phoebe era radiocomandata come erano radiocomandati i soldati, per mezzo di antenne inserite nel cranio. La compagnia di Unk stava ora marciando attraverso l'angolo nordoccidentale di Phoebe, in mezzo al reggimento diretto verso la flotta. Non si era ritenuto necessario far muovere i soldati e tenerli in fila per mezzo di trafitture impartite dalle antenne. Adesso c'era in loro la febbre della guerra. Cantavano, mentre marciavano, e posavano duramente gli stivali dal tacco di ferro sulla strada di ferro. Il loro canto era sanguinario: Terrore, affanno, desolazione... Un-duè-tre-quatt! Piomberanno su ogni nazione! Un-duè-tre-quatt!
La Terra vogliamo incatenare! La Terra vogliamo bruciare! Un-duè-tre-quatt! Il suo spirito spezzare! Il suo cervello frantumare! Un-duè-tre-quatt! Grida! Duè-tre-quatt! Soffri! Duè-tre-quatt! Muori! Duè-tre-quatt! Mooooooooorte! Le fabbriche di Phoebe lavoravano ancora a pieno ritmo. Nessuno oziava nelle strade per veder passare gli eroi che cantavano. Le finestre ammiccavano quando qualche saldatore abbacinante, nell'interno, si spegneva e si accendeva. Un portone vomitò una luce gialla fumante e schizzante mentre il metallo fuso veniva colato. Le grida degli ingranaggi penetravano nel canto dei soldati. Tre dischi volanti, azzurre navi-vedetta, passarono bassi sulla città, emettendo suoni dolci come il frusciare delle cime degli alberi. «Tudliu...», pareva cantassero, e passarono, in una rotta piana, mentre la superficie di Marte si incurvava sotto di loro, allontanandosi. Nel tempo che un agnello avrebbe impiegato per agitare due volte la coda, stavano già scintillando nello spazio eterno. — Terrore, affanno, desolazione... — cantavano le truppe. Ma un soldato muoveva le labbra senza emettere suoni. Quel soldato era Unk. Unk era nella prima fila del penultimo squadrone della sua compagnia. Boaz era proprio dietro di lui, e i suoi occhi facevano prudere la nuca di Unk. Boaz e Unk, inoltre, erano trasformati in fratelli siamesi dalla lunga canna d'un mortaio da sei pollici che stavano portando insieme. — Soffri! Duè-tre-quatt! — cantavano le truppe. — Muori!
Duè-tre-quatt! Mooooorte! — Unk, fratello mio... — disse Boaz. — Sì, fratello mio? — fece Unk, distrattamente. Teneva, nella confusione della sua bardatura militare, una bomba a mano innescata. Aveva strappato la linguetta. Per farla esplodere in tre secondi, Unk doveva soltanto lasciarla andare. — Ho fatto in modo che ci dessero un buon incarico, fratello mio — disse Boaz. — Il vecchio Boaz... si prende cura di suo fratello, no, fratello? — È verissimo, fratello — assentì Unk. Boaz aveva disposto le cose in modo che lui e Unk salissero a bordo della nave-madre della compagnia, per l'invasione. Sebbene, per un capriccio logistico, dovesse trasportare la canna di un mortaio, la nave-madre della compagnia non era essenzialmente una nave da combattimento. Doveva portare soltanto due uomini, mentre il resto dello spazio era occupato da caramelle, attrezzi sportivi, dischi, carne in scatola, giochi di pazienza, pillole-per-scemi, Bibbie, carta per appunti, arnesi da barbiere, tavole per stirare e altro materiale che doveva servire a sollevare il morale. — È un inizio fortunato, no, fratello mio... salire sull'astronave-madre? — Fortunati noi, fratello — disse Unk. Aveva appena lanciato la bomba a mano in una fogna, mentre passava. Dalla gola della fogna salirono una colonna di liquido e un ruggito. I soldati si buttarono a terra. Boaz, nella sua qualità di vero comandante della compagnia, fu il primo ad alzare la testa. Vide il fumo che saliva dalla fogna e immaginò che fosse stato il gas della fogna ad esplodere. S'infilò la mano in tasca, premette un pulsante, e trasmise alla sua compagnia il segnale che avrebbe fatto rialzare tutti. Quando gli altri si alzarono, si alzò anche Boaz. — Accidenti, fratello — disse. — Direi che abbiamo avuto il
battesimo del fuoco. E sollevò la sua estremità della canna del mortaio. Non c'era nessuno a sollevarne l'altra estremità. Unk era andato in cerca di sua moglie, di suo figlio e del suo migliore amico. Unk era andato oltre la collina sul piatto, piatto, piatto, piatto Marte. Il figlio che Unk stava cercando si chiamava Crono. Secondo il computo terrestre, Crono aveva otto anni. Gli era stato dato il nome del mese in cui era nato. L'anno marziano era diviso in ventun mesi: dodici di trenta giorni e nove di trentuno. Questi mesi si chiamavano gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre, winston, niles, rumfoord, kazak, newport, crono, sinclastico, infundibolo e salo. Mnemonicamente: Trenta giorni han salo, niles, giugno e settembre, Winston, crono, kazak e novembre. Aprile, rumfoord, newport e infundibolo. Tutti gli altri, piccino mio, ne hanno trentuno. Il mese di salo prendeva il nome da una creatura che Winston Niles Rumfoord conosceva su Titano. Titano, naturalmente, è una luna di Saturno, estremamente piacevole. Salo, amico di Rumfoord su Titano, era un messaggero venuto da un'altra galassia, ed era stato costretto a fermarsi su Titano dal guasto di un pezzo nell'impianto generatore della sua astronave. Stava aspettando il pezzo di ricambio. Stava aspettando pazientemente da duecentomila anni. La sua nave era mossa (e lo era pure lo sforzo bellico marziano) da un fenomeno noto come VUDD, o Volontà Universale di Divenire. La VUDD è quella che fa dal nulla gli universi... che induce il nulla a insistere per diventare qualcosa.
Molti terrestri sono contenti che la Terra non abbia VUDD. Come diceva una popolare e zoppicante canzoncina: Willy trovò un po' di Volontà Universale di Divenire Mischiata alla sua gomma da masticare. Far gli stupidi col cosmo non conviene: Ora Willy ha sei galassie e gli sta bene. Il figlio di Unk, Crono, a otto anni era un meraviglioso giocatore d'un gioco chiamato pallamazza tedesca. La pallamazza tedesca era la sola cosa che gli stesse a cuore. La pallamazza tedesca era lo sport piú importante di Marte... nelle scuole elementari, nell'esercito, e nei campi sportivi delle fabbriche. Poiché c'erano solo cinquantadue bambini su Marte, Marte tirava avanti benissimo con una sola scuola elementare, nel bel mezzo di Phoebe. Nessuno di quei cinquantadue bambini era stato concepito su Marte. Erano stati tutti concepiti sulla Terra, o, come nel caso di Crono, su un'astronave che portava nuove reclute a Marte. I bambini, a scuola, studiavano molto poco, poiché la società di Marte non sapeva in che particolare modo servirsi di loro. Passavano quasi tutto il tempo giocando a pallamazza tedesca. Il gioco della pallamazza tedesca si gioca con una palla floscia, grande come un grosso melone. La palla non è piú scattante d'un cappello da dieci galloni pieno di acqua piovana. Il gioco somiglia un po' al baseball, con un battitore che colpisce la palla in mezzo a un campo di giocatori avversari e che corre da una base all'altra; e gli avversari devono tentare di prendere la palla e di rendere inutili gli sforzi di quello che corre. Nella pallamazza tedesca, però, vi sono soltanto tre basi: prima, seconda e pedana. E il battitore non ha nessuno che gli lanci la palla. Posa la palla su un pugno e la colpisce con l'altro pugno. Se un avversario riesce a colpire con la palla l'uomo che corre da una base all'altra, allora l'uomo che corre è eliminato e deve abbandonare immediatamente il terreno di gioco.
Il responsabile della grande importanza della pallamazza tedesca su Marte era, naturalmente, Winston Niles Rumfoord, che era responsabile di tutto, su Marte. Howard W. Sams dimostra nel suo Winston Niles Rumfoord, Benjamin Franklin e Leonardo da Vinci che la pallamazza tedesca è l'unico sport di squadra che Rumfoord conoscesse, da bambino. Sams dimostra che a Rumfoord quel gioco era stato insegnato, quando era bambino, dalla sua governante, una certa signorina Joyce MacKenzie. Durante l'infanzia di Rumfoord, a Newport, una squadra composta da Rumfoord, la signorina MacKenzie e il maggiordomo Earl Moncrief, aveva l'abitudine di giocare regolarmente a pallamazza tedesca contro una squadra composta da Watanabe Wataru, il giardiniere giapponese, Beverly June Wataru, figlia del giardiniere, ed Edward Seward Darlington, il mozzo di stalla, mezzo scemo. La squadra di Rumfoord vinceva invariabilmente. Unk, unico disertore nella storia dell'esercito di Marte, se ne stava ora acquattato, ansimante, dietro un macigno di turchese e guardava gli scolaretti che giocavano a pallamazza tedesca sul ferreo campo di gioco. Dietro il macigno, oltre a Unk, c'era una bicicletta che aveva rubato dal deposito di una fabbrica di maschere antigas. Unk non sapeva quale di quei bambini fosse suo figlio, quale fosse Crono. I piani di Unk erano nebulosi. Il suo sogno era di raccogliere sua moglie, suo figlio e il suo migliore amico, rubare un'astronave e volarsene via verso un posto dove avrebbero potuto vivere felici tutti insieme. — Ehi, Crono! — esclamò un bambino, sul campo di gioco. — Tocca a te battere! Unk sbirciò oltre il macigno, verso la pedana. Il bambino che si sarebbe presentato per battere sarebbe stato Crono, sarebbe stato suo figlio.
Crono, il figlio di Unk, si presentò per battere. Era piccolo, per la sua età, ma sorprendentemente virile nel portamento. i suoi capelli erano di un nero giaietto, e setolosi... e le setole nere crescevano in una forte spirale antioraria. Il bambino era mancino. La palla era posata sul suo pugno destro, e lui si preparava a colpirla con la sinistra. Aveva gli occhi incassati, come quelli di suo padre. E i suoi occhi erano luminosi sotto la grondaia delle folte sopracciglia nere. Splendevano di un furore assoluto. Quegli occhi carichi di furore scintillarono qui, poi là. I loro movimenti scuotevano gli avversari, distogliendoli dalle loro posizioni, convincendoli che la lenta e stupida palla sarebbe venuta verso di loro con velocità terribile e li avrebbe fatti a pezzi se avessero osato mettersi in mezzo. L'allarme ispirato dal bambino che stava per battere era percepito anche dalla maestra. Era nella posizione tradizionale dell'arbitro nella pallamazza tedesca, fra la prima e la seconda base, ed era atterrita. Era una fragile vecchia signora che si chiamava Isabel Fenstermaker. Aveva settantatré anni, e prima che le cancellassero la memoria era stata una testimone di Geova. Era stata rapita mentre cercava di vendere una copia di The Watchtower a un agente marziano, a Duluth. — Su, Crono... — disse, affettatamente, — è soltanto un gioco, sai. Il cielo fu all'improvviso annerito da una formazione di cento dischi volanti, le navi rosso-sangue dei marine sciatori-paracadutisti di Marte. Il tubare combinato delle navi era un tuono melodioso che scuoteva i vetri delle finestre della scuola. Ma (e questo può dare un'idea dell'importanza che il giovane Crono dava alla pallamazza tedesca quando si accingeva a battere) neppure un bambino alzò lo sguardo al cielo. Il piccolo Crono, dopo aver portato gli avversari e la signorina Fenstermaker sull'orlo del collasso nervoso, depose la palla ai suoi piedi e si tolse dalla tasca una piccola striscia di metal-
lo, che era il suo portafortuna. La baciò, per propiziarsi la fortuna, e la rimise in tasca. Poi raccolse di colpo la palla, la colp= con un blup poderoso, e cominciò a correre attorno alle basi. Gli avversari e la signorina Fenstermaker schivarono la palla, come se fosse una palla da cannone arroventata. Quando la palla si fermò, di sua spontanea volontà, gli avversari l'inseguirono, con una specie di rituale goffaggine. Era chiaro che lo scopo dei loro sforzi era di non colpire Crono con la palla, era di non eliminarlo. Gli avversari stavano tutti cospirando per accrescere la gloria di Crono con un'esibizione di opposizione impotente. Era chiaro che Crono era la cosa piú gloriosa che i bambini avessero mai visto su Marte, e che tutta la gloria che loro stessi avevano derivava dai loro rapporti con lui. Il piccolo Crono scivolò nella pedana in una nuvola di ruggine. Un avversario gli scagliò contro la palla... troppo tardi, troppo tardi, troppo tardi. L'avversario imprecò ritualmente alla sua fortuna. Il piccolo Crono si alzò, si spolverò, e tornò a baciare il suo portafortuna, ringraziandolo per quella nuova corsa vittoriosa. Credeva fermamente che tutti i suoi poteri derivassero dal portafortuna, e lo credevano anche i suoi compagni di scuola e, segretamente, lo credeva anche la signorina Fenstermaker. La storia del portafortuna era questa: Un giorno i bambini della scuola vennero condotti dalla signorina. Fenstermaker a fare una visita a una fabbrica di lanciafiamme. Il direttore della fabbrica spiegò ai bambini tutte le fasi della fabbricazione dei lanciafiamme, e si augurò che qualcuno dei bambini, diventato adulto, desiderasse venirvi a lavorare. Al termine della visita, nel reparto spedizioni, la caviglia del direttore si impigliò in una spirale di nastro d'acciaio, che veniva usato per chiudere le casse che contenevano i lancia-
fiamme. La spirale era un rottame, dall'orlo seghettato, che era stato gettato nella corsia da un operaio sbadato. Il direttore si graffiò la caviglia e si strappò i calzoni prima di liberarsi dalla spirale. Quindi inscenò la prima dimostrazione realmente comprensibile che i bambini avessero visto in quel giorno. Cosa abbastanza logica, se la prese con la spirale. La calpestò. Poi, quando la spirale lo punse di nuovo, l'afferrò e la tagliò in tanti pezzetti lunghi quattro pollici con un grosso paio di cesoie. I bambini ne furono edificati, affascinati e soddisfatti. E, mentre lasciavano il reparto spedizioni, il piccolo Crono raccolse uno dei pezzetti lunghi quattro pollici e se l'infilò in tasca. Il pezzo che aveva raccolto era diverso da tutti gli altri, perché aveva due buchi. Questo era il portafortuna di Crono. Diventò parte di lui come la sua mano destra. Il suo sistema nervoso, per così dire, si estendeva fino al pezzetto di metallo. Se lo toccavi, toccavi Crono. Unk, il disertore, si alzò, dietro il macigno di turchese, e avanzò vigorosamente e dignitosamente nel cortile della scuola. Si era tolto tutte le mostrine dalla divisa. Questo gli dava un'aria piuttosto ufficiale e bellicosa, pur senza vincolarlo a qualche particolare impresa. Di tutto l'equipaggiamento che aveva addosso prima di disertare, aveva tenuto soltanto un coltello, il Mauser a un colpo e una bomba a mano. Lasciò queste tre armi nascoste dietro il macigno, insieme alla bicicletta rubata. Si avvicinò marciando alla signorina Fenstermaker. Le disse che voleva parlare immediatamente con il piccolo Crono per una faccenda ufficiale... in privato., Non le disse di essere il padre del bambino. Essere il padre del bambino non gli dava alcun diritto. Essere un investigatore ufficiale gli dava diritto a tutto quello che volesse chiedere.
La povera signorina Fenstermaker sì lasciò ingannare facilmente. Accettò che Unk parlasse con il bambino nel suo ufficio. L'ufficio della signorina Fenstermaker era pieno di documenti scolastici non ancora classificati, alcuni dei quali risalivano a cinque anni addietro. Era molto indietro con il lavoro... così indietro che aveva dichiarato una moratoria sul lavoro scolastico fino a che le fosse stato possibile rimettersi alla pari. Qualcuno dei mucchi di carte era caduto, formando ghiacciai che infilavano le dita sotto la sua scrivania, nel corridoio e nella sua toilette privata. C'era uno schedario aperto, a due cassetti, pieno della sua collezione geologica. Nessuno andava mai a controllare la signorina Fenstermaker. Nessuno se ne preoccupava. Aveva un'abilitazione all'insegnamento dello stato del Minnesota, Stati Uniti d'America, Terra, Sistema Solare, Via Lattea, e questo era quanto bastava. Per il colloquio con. suo figlio, Unk si sedette dietro la scrivania mentre suo figlio Crono stava in piedi davanti a lui. Era stato Crono a esprimere il desiderio di restare in piedi. Unk, mentre pensava a quello che doveva dire, aprì pigramente i cassetti della scrivania della signorina Fenstermaker, e si accorse che anche quelli erano pieni di sassi. Il piccolo Crono era furbo e ostile, e pensava a qualcosa da dire prima che parlasse Unk. — Frottole — disse. — Cosa? — fece Unk. — Qualsiasi cosa dirai... saranno frottole — disse il bambino di otto anni. — E cosa te lo fa pensare? — chiese Unk. — Tutte le cose che dicono tutti sono frottole — asserì Crono. — E in ogni caso, che cosa ti importa quello che penso? Quando avrò quattordici anni, mi metterete una cosa in testa e io farò in ogni caso quello che vorrete voi. Si stava riferendo al fatto che le antenne non venivano instal-
late nel cranio dei bambini fino al loro quattordicesimo anno. Era un problema di grandezza del cranio. Quando un bambino compiva i quattordici anni, veniva mandato all'ospedale per l'operazione. Gli radevano i capelli, e i medici e le infermiere scherzavano con lui, dicendogli che era diventato adulto. Prima che il bambino venisse portato in sala operatoria, gli chiedevano qual era il suo gelato preferito. Quando il bambino si svegliava, dopo l'operazione, lo aspettava un grosso piatto di quella specie di gelato... nocciola, vaniglia, cioccolata, qualsiasi gusto. — E tua madre è piena di frottole? — domandò Unk. — Sì, da quando è tornata dall'ospedale l'ultima volta — rispose Crono. — E tuo padre? — disse Unk. — Non so niente, di lui — replicò Crono. — Non me ne importa. È pieno di frottole come tutti gli altri. — E chi non è pieno di frottole? — disse Unk. — Io non sono pieno di frottole — ribatté Crono. — Io sono l'unico. — Avvicinati — disse Unk. — E perché? — Perché voglio dirti sottovoce una cosa molto importante. — Ne dubito — disse Crono. Unk si alzò dalla scrivania, si avvicinò a Crono e gli sussurrò nell'orecchio: — Io sono tuo padre, ragazzo! — Quando Unk pronunciò queste parole, il cuore gli risuonò come un campanello d'allarme. Crono non si scompose. — E allora? — disse in tono gelido. Non aveva mai ricevuto istruzioni, né visto alcun esempio pratico, che lo spingessero a pensare che un padre avesse qualche importanza. Su Marte, la parola «padre» era priva di ogni significato emotivo. — Sono venuto a prenderti — dichiarò Unk. — In un modo o nell'altro ce ne andremo da qui. — Scosse dolcemente il ra-
gazzo, cercando di farlo ribollire un po'. Crono staccò dal braccio la mano di suo padre, come se fosse una sanguisuga. — Per fare che? — domandò. — Vivere! — disse Unk. Il bambino squadrò spassionatamente suo padre, cercando una buona ragione per cui avrebbe dovuto fidarsi di quello sconosciuto. Si tolse dalla tasca il portafortuna, e lo strofinò tra le palme. La forza immaginaria che gli derivò dal portafortuna lo rese abbastanza forte da non fidarsi di nessuno, da continuare come aveva fatto per tanto tempo, solo e collerico. — Io vivo — disse. — Sto bene così — dichiarò. — Va' all'inferno. Unk fece un passo indietro. Gli angoli della bocca gli si abbassarono. — Andare all'inferno? — sussurrò. — Io dico a tutti di andare all'inferno — disse il bambino. Stava cercando di essere gentile, ma si seccò subito di quello sforzo. — E adesso posso andare fuori a giocare a pallamazza? — Tu dici a tuo padre di andare all'inferno? — mormorò Unk. La domanda echeggiò nella memoria svuotata di Unk e raggiunse un angolo intatto dove vivevano ancora frammenti della sua strana infanzia. La sua strana infanzia l'aveva trascorsa a fantasticare di quando avrebbe alla fine visto e amato un padre che non voleva vederlo, che non voleva essere amato da lui. — Ho... ho disertato dall'esercito per venire qui... per trovarti — disse Unk. Un po' d'interesse scintillò negli occhi del bambino, poi si spense. — Ti prenderanno — asserì. — Prendono sempre tutti. — Ruberò un'astronave — disse Unk. — E tu e tua madre e io ci saliremo e voleremo via! — E dove andremo? — replicò il bambino.
— In qualche bel posto! — rispose Unk. — Parlami di questo bel posto. — Non so. Dovremo vederlo! Crono scosse pietosamente il capo. — Mi dispiace — disse. — Non credo che tu sappia di cosa stai parlando. Riusciresti solo a far ammazzare un mucchio di gente. — Vuoi restare qui? — chiese Unk. — Sto bene qui — rispose Crono. — Posso andar fuori a giocare a pallamazza, adesso? Unk pianse. Il suo pianto sgomentò il bambino. Non aveva mai visto piangere un uomo. Non aveva mai pianto lui stesso. — Vado fuori a giocare! — gridò, furiosamente, e corse fuori dall'ufficio. Unk andò alla finestra dell'ufficio. Guardò fuori, sul ferreo campo di gioco. C'era in campo la squadra del piccolo Crono, adesso. Il piccolo Crono raggiunse i suoi compagni di squadra e si schierò di fronte a un battitore che voltava le spalle a Unk. Crono baciò il suo portafortuna, poi lo rimise in tasca. — Calma, amici! — gridò con voce rauca. — Avanti, amici... uccidiamolo! La compagna di Unk, la madre del piccolo Crono, era istruttrice nella Scuola di Respirazione Schliemann per le Reclute. La respirazione Schliemann, naturalmente, è una tecnica che permette agli esseri umani di sopravvivere nel vuoto o in un'atmosfera inospitale senza usare elmi o altri scomodi meccanismi per la respirazione. Consiste, essenzialmente, nel prendere una pillola ricca di ossigeno. Il sangue assorbe questo ossigeno attraverso le pareti dell'intestino tenue invece che attraverso i polmoni. Su Marte, queste pillole sono conosciute ufficialmente come Razioni Respiratorie da Combattimento, e nel linguaggio popolare come pillole-per-scemi.
La Respirazione Schliemann è semplicissima in un'atmosfera benigna ma inutile come quella marziana. Chi respira continua a respirare e a parlare normalmente, sebbene nell'atmosfera non vi sia ossigeno da assorbire per i suoi polmoni. Tutto quello che deve ricordare è di prendere con regolarità le pillole-per-scemi. La scuola presso la quale era istruttrice la compagna di Unk insegnava alle reclute le tecniche piú difficili necessarie nel vuoto o in un'atmosfera nociva. Questo comporta non soltanto prendere le pillole, ma anche turarsi gli orecchi e le narici e tenere chiusa la bocca. Qualsiasi sforzo per respirare o per parlare comporterebbe emorragie e probabilmente la morte. La compagna di Unk era una delle sei istruttrici della Scuola di Respirazione Schliemann per le Reclute. La sua classe era una stanza nuda, senza finestre, sbiancata a calce, di nove metri quadri. Attorno alle pareti c'erano delle panche. Su una tavola, al centro, c'erano una ciotola di pillole-perscemi, una ciotola di tappi per gli orecchi e per il naso, un rotolo di cerotto, un paio di forbici e un piccolo registratore. La funzione del registratore era di suonare della musica durante i lunghi periodi nei quali non c'era nulla da fare se non starsene seduti ad aspettare pazientemente che la natura seguisse il suo corso. Adesso era uno di quei periodi. Gli allievi avevano ricevuto dosi di pillole-per-scemi. Adesso gli allievi dovevano starsene seduti quieti sulle panche, ad ascoltare la musica e ad aspettare che le pillole per scemi raggiungessero il loro intestino tenue. La musica che veniva suonata era stata registrata abusivamente da una radiotrasmissione terrestre. Sulla Terra era un successo... un trio composto da un ragazzo, una ragazza e le campane d'una cattedrale. Era intitolato: «Dio Abbellisce il Nostro Intimo». Il ragazzo e la ragazza cantavano alternativamente i versetti, e si univano in armonia ai cori. Le campane della cattedrale suonavano e tintinnavano ogni volta che veniva citato qualcosa di natura religiosa.
C'erano diciassette reclute. Indossavano tutte le mutande verde-lichene che avevano appena ricevuto. Erano seminude per permettere all'istruttrice di controllare con una semplice occhiata le loro reazioni fisiche esterne alla Respirazione Schliemann. Le reclute erano fresche dei trattamenti d'amnesia e dell'installazione delle antenne all'Ospedale Centrale. I loro capelli erano stati rasati, e ogni recluta aveva una striscia di cerotto che andava dalla sommità del capo alla nuca. Il cerotto mostrava dove era stata inserita l'antenna. Gli occhi delle reclute erano vuoti come le finestre d'una filanda abbandonata. Lo erano anche gli occhi dell'istruttrice, poiché anche a lei era stata recentemente cancellata la memoria. Quando l'avevano dimessa dall'ospedale, le avevano detto come si chiamava, dove viveva, e come si insegnava la Respirazione Schliemann... e queste furono, press'a poco, tutte le informazioni pratiche che le diedero. Ce ne fu un'altra: le avevano detto che aveva un figlio d'otto anni, di nome Crono, e che poteva andarlo a trovare a scuola il martedì sera, se voleva. Il nome dell'istruttrice, della madre di Crono, della compagna di Unk, era Bee. Indossava una tuta verde-lichene e scarpe bianche da ginnastica, e portava al collo un fischietto appeso a una catenella e uno stetoscopio. Sulla giubba della sua tuta c'era un rebus del suo nome7. L'istruttrice guardò l'orologio appeso al muro. Era passato abbastanza tempo perché anche il sistema digestivo piú lento avesse portato una pillola-per-scemi all'intestino tenue. Si alzò, spense il registratore e soffiò nel fischietto. — In fila! — ordinò. Le reclute non avevano ancora ricevuto l'istruzione militare fondamentale, quindi erano incapaci di mettersi in fila con precisione. Dipinti sul pavimento c'erano dei quadrati dentro i qua7
Un'ape. Bee, infatti, significa ape (n.d.t.).
li dovevano mettersi le reclute, per formare file e ranghi gradevoli all'occhio. Adesso veniva fatto un gioco che ricordava le sedie musicali: parecchie reclute dagli sguardi vuoti si gettavano verso lo stesso quadrato. A suo tempo, ogni recluta trovò un quadrato per sé. — Bene — disse Bee. — Prendete i tappi e tappatevi il naso e gli orecchi, prego. Le reclute avevano tenuto stretti i tappi nei pugni viscidi. Si tapparono il naso e gli orecchi. Bee passò da una recluta all'altra, assicurandosi che tutti gli orecchi e tutte le narici fossero tappati. — Bene — commentò, quando ebbe finito l'ispezione. — Benissimo — disse. Prese dalla tavola il rotolo di cerotto. — Ora vi dimostrerò che non avete affatto bisogno di usare i polmoni, purché abbiate le Razioni Respiratorie da Combattimento... o, come le chiamerete presto nell'esercito, pillole-per-scemi. — Passò tra le file, staccando pezzi di cerotto e sigillando bocche. Nessuno obiettò. Quando ebbe finito, nessuno aveva un'apertura adeguata attraverso la quale formulare un'obiezione. Bee prese nota del tempo, e riattaccò la musica. Per i venti minuti seguenti non vi sarebbe stato nulla da fare, se non osservare i corpi nudi per scoprire cambiamenti di colore, gli spasimi morenti nei polmoni sigillati e inutili. Idealmente, i corpi avrebbero dovuto diventare bluastri, poi rossi, poi di nuovo naturali in quei venti minuti... e le casse toraciche avrebbero dovuto scuotersi con violenza, arrendersi, rimanere immobili. Quando quella prova di venti minuti fosse finita, ogni recluta avrebbe saputo quanto fosse poco necessaria la respirazione polmonare. Idealmente, ogni recluta sarebbe diventata così sicura di sé e delle pillole-per-scemi, alla fine del suo corso di istruzione, da sentirsi pronta a balzare da un'astronave sulla luna terrestre o sul fondo d'un oceano terrestre o dovunque, senza chiedersi neppure per un secondo in che cosa si stava
buttando. Bee si sedette su una panca. C'erano cerchi scuri sotto i suoi splendidi occhi. Quei cerchi erano comparsi dopo che aveva lasciato l'ospedale, ed erano diventati sempre piú cupi via via che i giorni passavano. All'ospedale le avevano promesso che sarebbe diventata piú serena ed efficiente via via che i giorni fossero passati. E le avevano detto che, se per caso si fosse accorta che le cose non andavano così, doveva ritornare all'ospedale per farsi curare ancora. — Tutti noi abbiamo bisogno d'aiuto, ogni tanto — aveva detto Il dottor Morris N. Castle. — Non c'è da vergognarsi. Un giorno potrei aver bisogno del suo aiuto, Bee, e non esiterei a chiederlo. Lei era stata mandata all'ospedale dopo che aveva mostrato al suo supervisore questa poesia, che aveva scritto sulla Respirazione Schliemann: Spezza i legami, dunque, con l'aria della vita, Sigilla ogni apertura; Stringi la gola come l'avaro le sue dita, Serra la vita nelle tue mura. Espira, aspira pure, ma insistere non vale, Del vile è il respirare: E quando galleggiamo nello spazio mortale, Attento a non parlare. Se ti senti travolto da gioia o da dolore, Dimostralo piangendo; Dentro di te all'anima ed al cuore L'atmosfera aggiungendo. Ciascuno è veramente come un 'isola quando Nello spazio mortale ce ne stiamo vagando. Oh sì, ciascuno è un'isola, aggiungo con fermezza, Un'isola imprendibile, un'isola-fortezza. Bee, che era stata mandata all'ospedale perché aveva scritto
questa poesia, aveva un viso forte, dagli zigomi sporgenti e altezzoso. Assomigliava in modo sorprendente a un guerriero indiano. Ma chiunque avesse detto questo si sentiva obbligato ad aggiungere prontamente che Bee era ugualmente bellissima. Si udì un secco bussare alla porta di Bee. Bee andò alla porta e l'apri. — Sì? — disse. Nel corridoio deserto c'era un uomo in uniforme, rosso e sudato. L'uniforme non aveva mostrine. Appeso alle spalle dell'uomo c'era un fucile. I suoi occhi erano profondi e furtivi. — Messaggero — dichiarò burberamente. — Messaggio per Bee. — Bee sono io — disse Bee, impacciata. Il messaggero la squadrò, e la fece sentire nuda. Il corpo di lui irradiava calore, e quel calore avviluppava Bee, soffocandola. — Mi riconosci? — sussurrò lui. — No — disse lei. La domanda dell'uomo la sollevò un poco. A quanto pareva aveva già avuto a che fare con lui. Lui e la sua visita, dunque, erano normale amministrazione... e, all'ospedale, lei aveva semplicemente dimenticato quell'uomo e ciò che lo riguardava. — Neppure io mi ricordo di te — sussurrò lui. — Sono stata all'ospedale — disse lei. — Dovevano cancellarmi la memoria. — Sussurra! — ordinò lui, seccamente. — Cosa? — fece Bee. — Sussurra! — disse lui. — Scusami — sussurrò lei. A quanto pareva, sussurrare faceva parte dell'ordinaria amministrazione, quando si doveva trattare con quel funzionario. — Ho dimenticato tante cose. — Tutti abbiamo dimenticato! — sussurrò lui, incollerito. Tornò di nuovo a guardare su e giú nei corridoio. — Tu sei la madre di Crono, non è vero? — sussurrò. — Sì — sussurrò lei.
Ora lo strano messaggero concentrava lo sguardo sul viso di lei. Respirava profondamente, sospirava, corrugava la fronte... sbatteva frequentemente le palpebre. — Com'è... com'è il messaggio? — sussurrò Bee. — Il messaggio è questo — sussurrò il messaggero. — Io sono il padre di Crono. Ho appena disertato dall'esercito. Mi chiamo Unk. Troverò un modo per fuggire da qui con te, il bambino e il mio migliore amico. Non so ancora come farò, ma devi tenerti pronta a partire da un momento all'altro! — Le diede una bomba a mano. — Nascondila in qualche posto — sussurrò. — Quando verrà il momento, forse ne avrai bisogno. Grida eccitate giunsero dall'atrio, in fondo al corridoio. — Ha detto che era un messaggero segreto! — gridò un uomo. — Messaggero un corno! — gridò un altro. — È un disertore in tempo di guerra! Con chi sarebbe venuto a parlare? — Non l'ha detto. Ha detto che era un segreto! Trillò un fischietto. — Sei di voi vengano con me! — gridò un uomo. — Frugheremo questo posto stanza per stanza. Gli altri circondino l'esterno! Unk spinse Bee e la sua bomba a mano nella stanza, e chiuse la porta. Si staccò il fucile dalla spalla, puntandolo contro le reclute tappate e incerottate. — Un'occhiata, una mossa di uno di voi — disse, — e sarete tutti morti. Le reclute, rigidamente ritte sui loro quadrati disegnati sul pavimento, non reagirono. Erano di un color azzurro pallido. Le loro casse toraciche stavano scuotendosi. Tutta la consapevolezza di ogni uomo era concentrata nella regione d'una piccola pillola bianca, datrice di vita, che si dissolveva nel duodeno. — Dove posso nascondermi? — chiese Unk. — Come faccio
a uscire? Era inutile che Bee rispondesse. Non c'era posto dove nascondersi. Non c'era via d'uscita se non attraverso il corridoio. C'era una sola cosa da fare, e Unk la fece. Si spogliò fino a rimanere in mutande verde-lichene, nascose il fucile sotto una panca, si mise i tappi negli orecchi e nelle narici, si incerottò la bocca e si mise tra le reclute. Aveva la testa rasata, come le altre reclute. E, come le altre reclute, aveva una striscia di cerotto che andava dalla sommità del capo alla nuca. Era stato un soldato così terribile che i medici gli avevano aperto la testa, all'ospedale, per vedere se per caso non dipendeva dai cattivo funzionamento dell'antenna. Bee ispezionò la stanza con calma incantata. Teneva la bomba a mano che Unk le aveva dato come se fosse un vaso con una sola rosa perfetta. Poi andò dove Unk aveva nascosto il fucile, e vi mise accanto la bomba a mano: la depose con cura, con un dignitoso rispetto per la proprietà altrui. Poi ritornò al suo posto, accanto al tavolo. Non guardò Unk e non evitò di guardarlo. Come le avevano detto all'ospedale: era stata molto, molto male, e sarebbe stata ancora molto, molto male se non avesse concentrato rigorosamente la mente sul suo lavoro e se non avesse lasciato che fossero gli altri a pensare e a preoccuparsi. A tutti i costi, doveva mantenersi calma. I tonanti falsi allarmi degli uomini che facevano la perquisizione di stanza in stanza si stavano lentamente avvicinando. Bee rifiutò di preoccuparsi. Unk, prendendo posto tra le reclute, si era ridotto a un numero. Osservandolo professionalmente, Bee vide che il corpo di Unk stava diventando azzurroverde invece che azzurro puro. Questo poteva significare che non aveva preso una pillola-per-scemi da molte ore... e in questo caso fra poco sarebbe crollato. Se fosse crollato, sarebbe stata certamente la soluzione piú pacifica del problema che rappresentava, e Bee desiderava la
pace piú di ogni altra cosa. Non dubitava che Unk fosse il padre di suo figlio. La vita era così. Non lo ricordava, e non si prese il disturbo di studiarlo per riconoscerlo la prossima volta... se mai ci fosse stata una prossima volta. Non sapeva che farsene di lui. Notò che il corpo di Unk era ormai di un verde predominante. La sua diagnosi era stata esatta, allora. Sarebbe crollato da un momento all'altro. Bee fantasticava. Fantasticava di una bambina in un abito bianco inamidato, guanti bianchi e scarpe bianche, e con un pony bianco tutto suo. Bee invidiò quella bambina che si era mantenuta così pulita. Bee si chiese chi fosse quella bambina. Unk crollò senza far rumore, flessibile come un sacco di anguille. Unk si svegliò e si trovò disteso sul dorso in una cuccetta, a bordo di un'astronave. Le luci della cabina erano abbaglianti. Unk fece per gridare, ma un nauseante mal dì testa lo zittì. Cercò di rimettersi in piedi; si aggrappò, come un ubriaco, ai supporti tubolari della cuccetta. Era solo. Qualcuno gli aveva rimesso l'uniforme. In principio pensò che l'avessero lanciato nello spazio eterno. Ma poi vide che il portello era aperto sull'esterno, e che fuori c'era il terreno solido. Unk si sporse dal portello e vomitò. Alzò gli occhi lacrimanti e vide che, a quanto pareva, era ancora su Marte, o su qualche cosa che somigliava molto a Marte. Era notte. La pianura di ferro era affollata di file e file di astronavi. Mentre Unk guardava, una fila di astronavi lunga dieci chilometri si alzò dalla formazione, e veleggiò melodiosamente nello spazio. Un cane abbaiò: abbaiò con una voce simile a un grande gong di bronzo.
E fuori dalla notte balzò il cane... grande e terribile come una tigre. — Kazak! — gridò un uomo nell'oscurità. Il cane si fermò a quell'ordine, ma tenne a bada Unk, tenne Unk appiattito contro l'astronave sotto la minaccia delle sue zanne lunghe e umide. Il padrone del cane apparve, e il raggio d'una lampada tascabile danzava davanti a lui. Quando fu giunto a pochi metri da Unk, si piazzò la lampada tascabile sotto il mento. Il raggio e le ombre contrastanti facevano sembrare il suo viso quello d'un demone. — Salve, Unk — salutò. Spense la lampada tascabile e si fece da parte, in modo da essere illuminato dalla luce che filtrava dall'astronave. Era alto e robusto, un po' molle, meravigliosamente sicuro di sé. Indossava l'uniforme rosso-sangue e gli stivali dalla punta quadrata dei marine sciatori-paracadutisti. Era disarmato, ad eccezione di un frustino nero e oro lungo mezzo metro. — È molto tempo che non ci vediamo — disse. Fece un sorriso piccolissimo a forma di V. La sua voce era tenorile, modulata. Unk non ricordava quell'uomo, ma l'uomo conosceva bene Unk, evidentemente: lo conosceva come amico. — Chi sono, Unk? — disse l'uomo, con voce gaia. Unk ansimò. Quello doveva essere Stony Stevenson, doveva essere l'intrepido amico di Unk. — Stony? — sussurrò. — Stony? — disse l'uomo. Rise. — Oh, Dio... — disse, — molte volte ho desiderato essere Stony, e lo desidererò ancora molte volte. Il suolo tremò. Nell'aria vi fu un vortice. Le astronavi vicine erano balzate nell'aria da ogni parte ed erano scomparse. Ormai la nave di Unk aveva un settore della pianura di ferro tutta per sé. Le navi piú vicine posate al suolo erano a circa
mezzo chilometro. — Il tuo reggimento se ne va, Unk — disse l'uomo. — E tu non sei con loro. Non ti vergogni? — Chi sei? — chiese Unk. — Che importanza hanno i nomi, in tempo di guerra? — replicò l'uomo. Posò la grossa mano sulla spalla di Unk. — Oh, Unk, Unk, Unk — disse, — quante ne hai passate. — Chi mi ha portato qui? — domandò Unk. — Quelli della polizia militare, che siano benedetti — rispose l'uomo. Unk scosse il capo. Le lacrime gli scorsero per le guance. Era stato battuto. Non c'era piú ragione di tenere il segreto, anche in. presenza di qualcuno che poteva avere su di lui potere di vita e di morte. A Unk, la vita e la morte erano indifferenti. — Ho... ho cercato di riunire la mia famiglia — disse. — È tutto. — Marte è un posto pessimo per l'amore, un posto pessimo per un uomo di famiglia, Unk — asserì l'uomo. L'uomo era, naturalmente, Winston Niles Rumfoord. Era il comandante in capo di tutti i marziani. Non era veramente un marine sciatore-paracadutista. Ma era libero di indossare qualsiasi uniforme gli colpisse la fantasia, senza badare a quello che dovevano passare gli altri per avere quel privilegio. — Unk — disse Rumfoord, — la storia d'amore piú triste che io possa sperare di sentire è accaduta su Marte. Ti piacerebbe sentirla? — C'era una volta — iniziò Rumfoord, — un uomo che veniva trasportato dalla Terra a Marte a bordo di un disco volante. Si era offerto come volontario per l'esercito di Marte, e portava già l'uniforme fiammante di tenente colonnello della fanteria d'assalto. Si sentiva elegante, poiché sulla Terra era stato spiritualmente poco privilegiato e supponeva, come fanno le persone spiritualmente poco privilegiate, che l'uniforme dicesse di lui cose meravigliose.
«La sua memoria non era ancora stata cancellata, e la sua antenna doveva ancora venire installata... ma era così evidentemente un leale marziano che gli avevano affidato il comando dell'astronave. I reclutatori hanno un detto su una recluta maschile come lui: dicono che chiama i suoi testicoli Dermos e Phobos. Deimos e Phobos sono le due lune di Marte. «Questo tenente colonnello, privo di qualsiasi istruzione militare, stava facendo l'esperienza nota sulla Terra come trovare se stesso. Sebbene ignorasse l'impresa di cui aveva accettato di far parte, dava ordini alle altre reclute, e si faceva obbedire». Rumfoord alzò un dito, e Unk fu sbalordito nel vedere che era trasparente. — C'era una cabina chiusa a chiave in cui quell'uomo non era autorizzato a entrare — continuò Rumfoord. — Gli uomini dell' equipaggio gli spiegarono con cura che quella cabina ospitava la donna piú bella mai portata su Marte, e che ogni uomo che l'avesse vista si sarebbe certamente innamorato di lei. L'amore, gli dissero, avrebbe distrutto il valore di qualsiasi militare, ad eccezione dei professionisti migliori. «Il nuovo tenente colonnello fu offeso dall'allusione che lui non era un militare professionista, e regalò all'equipaggio racconti delle sue prodezze amatorie con donne affascinanti... che avevano lasciato, tutte, il suo cuore assolutamente intatto. Gli uomini dell'equipaggio rimasero scettici, sostenendo che il tenente colonnello, nonostante tutte le sue imprese lascive, non si era mai trovato di fronte a una bellezza intelligente e altera come quella che stava nella cabina chiusa. «Il rispetto apparente dell'equipaggio per il tenente colonnello era ormai sottilmente diminuito. Le altre reclute sentirono il cambiamento, e diminuirono il loro rispetto. Il tenente colonnello nell'uniforme sgargiante si sentiva quello che era in realtà: un pagliaccio vanitoso. Il modo in cui avrebbe potuto riguadagnare la sua dignità non venne mai espresso, ma era evidente a tutti. Poteva riguadagnarla soltanto conquistando la bellezza
chiusa nella cabina. Era. completamente disposto a farlo... era disperatamente disposto... «Ma l'equipaggio — proseguì Rumfoord, — continuava a proteggerlo da un supposto fallimento amoroso e dal crepacuore. Il suo ego ribollì, sfrigolò, scattò, crepitò, esplose. «Ci fu una festicciola nella mensa ufficiali, e il tenente colonnello si ubriacò e cominciò a vociare. Si vantò ancora della sua spietata lascivia sulla Terra. E poi vide che qualcuno aveva messo in fondo al suo bicchiere la chiave d'una cabina. «Il tenente colonnello se la svignò subito verso la cabina chiusa, entrò e sì chiuse la porta alle spalle. La cabina era buia, ma l'interno della testa del tenente colonnello era illuminato dal liquore e dalle parole trionfali dell'annuncio che avrebbe dato a colazione la mattina seguente. «Nell'oscurità, prese con facilità la donna, perché lei era indebolita dal terrore e dai sedativi. Fu un'unione senza gioia, che poteva soddisfare soltanto gli istinti piú crudi di Madre Natura. «Il tenente colonnello non si sentì affatto meravigliosamente. Si sentiva distrutto. Stupidamente, accese la luce, sperando di trovare nell'aspetto della donna qualche causa d'orgoglio nella sua brutalità — continuò tristemente Rumfoord. — Rannicchiata sulla cuccetta c'era una donna piuttosto comune, che aveva passato la trentina. Aveva gli occhi rossi e il viso gonfio per le lacrime e la disperazione. «Inoltre, il tenente colonnello la conosceva. Era una donna che, a quanto gli aveva promesso un indovino, un giorno gli avrebbe generato un figlio. Era stata così altera e orgogliosa l'ultima volta che l'aveva vista, e adesso era così malridotta che persino lo spietato tenente colonnello ne fu commosso. «Il tenente colonnello comprese per la prima volta ciò che molta gente non comprende mai: che lui era vittima non soltanto dell'oltraggiosa fortuna, ma anche degli agenti piú crudeli di quell'oltraggiosa fortuna. La donna l'aveva considerato un porco, quando si erano incontrati in precedenza. E lui adesso ave-
va dimostrato aldilà di ogni dubbio di essere veramente un porco. «Come l'equipaggio aveva predetto, il tenente colonnello era rovinato per sempre, come militare. Si lasciò travolgere senza speranza nell'intricata tattica di causare meno dolore invece di causarne di piú. La prova del suo successo sarebbe stato conquistare il perdono e la comprensione della donna. «Quando l'astronave raggiunse Marte, seppe dalle chiacchiere, nell'Ospedale Centrale, che stavano per cancellargli la memoria. Perciò scrisse a se stesso la prima d'una serie dì lettere che elencavano le cose che non voleva dimenticare. La prima lettera riguardava la donna verso la quale si era comportato così male. «Dopo il trattamento di amnesia la cercò, e scoprì che lei non lo ricordava. Non solo, ma era incìnta; aveva in grembo il figlio di lui. Perciò il suo problema diventò conquistare l'amore di lei, e attraverso lei l'amore dei figlio. «Tentò di fare questo, Unk, non una volta sola, ma molte volte. Venne regolarmente sconfitto. Ma quello rimase il problema centrale della sua vita... probabilmente perché lui stesso veniva da una famiglia dispersa. «Ciò che lo sconfisse, Unk, fu una freddezza congenita da parte della donna, e un sistema psichiatrico che considerava gli ideali della società marziana come nobile buonsenso. Ogni volta che l' uomo riusciva a scuotere un poco la sua compagna, la psichiatria, assolutamente priva di spirito, la raddrizzava: tornava a fare di lei un'efficiente cittadina. «Tanto l'uomo quanto la sua compagna furono frequentemente ospiti dei reparti psichiatrici dei rispettivi ospedali. E forse degno di meditazione — concluse Rumfoord, — il fatto che quest'uomo supremamente frustrato sia stato il solo marziano che abbia scritto una filosofia, e che quella donna supremamente autofrustrata sia stata la sola marziana che abbia scritto una poesia».
Boaz arrivò all'astronave-madre della compagnia dalla città di Phoebe, dove era andato a cercare Unk. — Maledizione... — disse a Rumfoord, — se ne vanno tutti senza di noi? — Era in bicicletta. Vide Unk. — Maledizione, fratello — disse a Unk, — ragazzo mio... hai fatto passare un vero inferno a tuo fratello. Dico sul serio! Come sei arrivato qui? — Polizia militare — rispose Unk. — È il modo in cui ci arrivano tutti — aggiunse Rumfoord, con leggerezza. — Dobbiamo raggiungerli, fratello — dichiarò Boaz. — Quei ragazzi non attaccheranno, se non hanno con loro una nave-madre. Per che cosa combatteranno? — Per il privilegio di essere il primo esercito che sia morto per una buona causa — rispose Rumfoord. — Cosa? — fece Boaz. — Lascia perdere — disse Rumfoord. — Salite a bordo, ragazzi, chiudete il portello, premete il pulsante via. Raggiungerete gli altri prima di accorgervene. È tutto completamente automatico. Unk e Boaz salirono a bordo. Rumfoord tenne aperto il portello esterno. — Boaz... — disse, — il bottone rosso, sul pannello centrale... quello è il pulsante via. — Lo so — replicò Boaz. — Unk... — disse Rumfoord. — Sì? — fece Unk, desolatamente. — La storia che ti ho raccontato... la storia d'amore... Ho omesso una cosa. — Cioè? — La donna della storia d'amore... la donna che ebbe un bambino da quell'uomo. La donna che era il solo poeta su Marte. — Ebbene? — chiese Unk. Non gli importava molto, di lei.
Non aveva capito che la donna della storia era Bee, era la sua compagna. — Era stata sposata per molti anni, prima di arrivare su Marte — disse Rumfoord. — Ma quando il bollente tenente colonnello la prese nell'astronave diretta a Marte, era ancora vergine. Winston Niles Rumfoord ammiccò a Unk prima di chiudere il portello esterno. — Una bella barzelletta su suo marito, eh, Unk? — disse.
CAPITOLO SETTIMO VITTORIA «Non c'è ragione perché il bene non possa trionfare spesso quanto il male. Il trionfo di qualsiasi cosa è questione di organizzazione. Se esistono gli angeli, spero che siano organizzati secondo i metodi della mafia». WINSTON NILES RUMFOORD
È stato detto che la civiltà terrestre, fino ad ora, ha creato diecimila guerre, ma solo tre commentari bellici intelligenti: i commentari di Tucidide, di Giulio Cesare e di Winston Niles Rumfoord. Winston Niles Rumfoord scelse così bene 75.000 parole per la sua Storia tascabile di Marte che non rimane nulla da dire, o da dire meglio, sulla guerra tra la Terra e Marte. Chiunque si senta obbligato, nel corso di un volume storico, a descrivere la guerra tra la Terra e Marte, è umiliato dalla certezza che la vicenda è già stata narrata con gloriosa perfezione da Rumfoord. Il comportamento abituale per uno di questi storici sconfitti è descrivere la guerra nei termini piú spogli, piú secchi, piú telegrafici, e raccomandare al lettore di consultare immediatamente il capolavoro di Rumfoord. È il comportamento che viene seguito qui. La guerra tra Marte e la Terra durò 67 giorni terrestri. Fu attaccata ogni nazione della Terra. Le perdite della Terra furono 461 morti, 223 feriti, nessun prigioniero e 216 dispersi. Le perdite di Marte furono 149.315 morti, 446 feriti, 11 prigionieri e 46.634 dispersi. Alla fine della guerra, tutti i marziani erano morti, feriti, cat-
turati o dispersi. Su Marte non era rimasta anima viva. Su Marte non era rimasto in piedi un solo edificio. Le ultime ondate di marziani che attaccarono la Terra, con orrore dei terrestri che li bersagliarono, erano composte da vecchi, donne e pochi bambini. I marziani arrivarono a bordo dei veicoli spaziali piú brillantemente concepiti che si fossero mai visti nel sistema solare. E, fino a che i marziani ebbero i loro veri comandanti che li radiocomandavano, si batterono con una fermezza, un'abnegazione e una volontà di impegnare da vicino il nemico tali da conquistare la burbera ammirazione di tutti coloro che li combatterono. Tuttavia in molti casi le truppe persero i loro veri comandanti, in aria o al suolo. Quando questo accadeva, le truppe diventavano immediatamente neghittose. Il loro guaio maggiore, comunque, fu che erano armati poco meglio della polizia d'una grande città. Combattevano con armi da fuoco, bombe a mano, coltelli, mortai e piccoli lanciarazzi. Non avevano armi nucleari, né carri armati, né artiglieria media o pesante, né copertura aerea, né mezzi di trasporto, una volta che fossero arrivati al suolo. Le truppe marziane, inoltre, non potevano decidere dove dovevano atterrare le loro navi. Le loro navi erano controllate da piloti-navigatori completamente automatici, e questi congegni elettronici erano regolati dai tecnici, su Marte, in modo da portare le navi ad atterrare in punti particolari della Terra, senza considerare quanto potesse essere spaventosa, laggiù, la situazione militare. I soli comandi disponibili, per coloro che erano a bordo, erano due pulsanti nel pannello centrale della cabina, uno con la scritta via e uno con la scritta fermo. Il pulsante via dava semplicemente inizio a un volo che portava lontano da Marte. Il pulsante fermo non era collegato a niente. Era stato installato su insistenza degli esperti marziani di igiene mentale, i quali af-
fermavano che gli esseri umani erano sempre piú felici quando avevano a che fare con macchinari che erano convinti di poter spegnere. La guerra tra la Terra e Marte cominciò quando 500 commandos imperiali marziani si impadronirono della luna terrestre, il 23 aprile. Non incontrarono opposizione. I soli terrestri sulla Luna, in quel momento, erano 18 americani nell'Osservatorio Jefferson, 53 russi nell'Osservatorio Lenin, e quattro geologi danesi in mezzo al Mare Imbrium. I marziani annunciarono alla Terra la loro presenza per radio, chiedendo alla Terra dì arrendersi. E diedero alla Terra ciò che descrissero come «un assaggio d'inferno». Questo assaggio, con notevole divertimento della Terra, risultò essere una pioggia molto leggera di razzi che portavano dodici libbre di tritolo ciascuno. Dopo aver dato alla Terra questo assaggio d'inferno, i marziani dissero alla Terra che la situazione della Terra era disperata. La Terra la pensava diversamente. Nelle ventiquattro ore successive, la Terra lanciò 617 ordigni termonucleari contro la testa di ponte marziana sulla Luna. Di questi, 276 colpirono il bersaglio. Non soltanto vaporizzarono la testa di ponte: resero la Luna inabitabile per gli uomini almeno per dieci milioni di anni. E, per un caso della guerra, un proiettile mancò la Luna e colpì una formazione di astronavi che sopraggiungeva portando 15.671 commandos imperiali marziani. Questo liquidò tutti i commandos imperiali marziani che esistevano. Portavano speroni alle ginocchia e lucenti uniformi nere, e tenevano negli stivali coltelli seghettati lunghi quaranta centimetri. Sulle mostrine avevano un teschio e due tibie incrociate. Il loro motto era Per aspera ad astra, lo stesso motto del Kansas, Stati Uniti, Terra, Sistema Solare, Via Lattea. Vi fu una tregua di trentadue giorni, il tempo necessario al grosso delle forze d'aggressione marziane per valicare il vuoto
tra i due pianeti. Questo colpo di. maglio consìsteva in 81.932 soldati a bordo di 2.311 navi. Era rappresentata ogni unità militare, ad eccezione dei commandos imperiali marziani. Alla Terra fu risparmiata l'ansia di conoscere quando sarebbe arrivata questa armata terribile. Le emittenti marziane sulla Luna, prima di venire vaporizzate, avevano promesso l'arrivo di questa massa irresistibile entro trentadue giorni. Dopo trentadue giorni, quattro ore e quindici minuti, l'armata marziana andò a finire in uno sbarramento termonucleare radarcomandato. Il calcolo ufficiale del numero di razzi antiaerei termonucleari lanciati contro l'armata marziana è 2.542.670. Il vero numero dei razzi lanciati è di scarso interesse, quando si può descrivere la potenza di questo sbarramento in un altro modo, un modo che è insieme poesia e verità. Lo sbarramento mutò i cieli della Terra dal celestiale azzurro in un infernale arancione bruciato. I cieli rimasero arancione bruciato per un anno e mezzo. Della potente armata marziana, soltanto 761 navi, che portavano 26.635 soldati, superarono lo sbarramento e si posarono sulla Terra. Se tutte queste navi fossero atterrate in un solo punto, i superstiti avrebbero potuto resistere. Ma i piloti-navigatori elettronici delle navi avevano altre idee. I piloti-navigatori sparpagliarono i resti dell'armata qua e là sulla superficie della Terra. Squadre, plotoni e compagnie uscirono dalle navi dovunque, chiedendo la resa di nazioni composte da milioni di persone. Un uomo solo, malamente ustionato, che si chiamava Krishna Gara, attaccò tutta l'India con una doppietta. Sebbene non vi fosse nessuno a radiocomandarlo, non si arrese fintanto che il suo fucile non scoppiò. L'unico successo militare dei marziani fu la conquista di un mercato di carni a Basilea, Svizzera, da parte di diciassette marine sciatori-paracadutisti. In ogni altra località i marziani vennero macellati pronta-
mente, prima ancora che potessero scavarsi delle trincee. Il macello fu compiuto tanto dai dilettanti quanto dai professionisti. Per esempio, nella Battaglia di Boca Raton, in Florida, Stati Uniti, la signora Lyman R. Peterson uccise quattro uomini della fanteria d'assalto marziana con il fucile calibro 22 di suo figlio. Li centrò quando uscirono dalla loro astronave, che era atterrata nel suo cortile. Fu insignita della Medaglia d'Onore del Congresso alla memoria. I marziani che attaccarono Boca Raton, fra parentesi, erano i resti della compagnia di Unk e di Boaz. Senza Boaz, il loro vero comandante, che li radiocomandasse, combatterono svogliatamente, a dir poco. Quando le truppe degli Stati Uniti arrivarono a Boca Raton per combattere i marziani, non c'era rimasto niente contro cui combattere. I civili, accaldati e orgogliosi, se l'erano cavata brillantemente. Ventitré marziani erano stati impiccati ai lampioni dei quartiere degli affari, undici erano rimasti uccisi nelle sparatorie, e uno, il sergente Brackman, era nella prigione locale gravemente ferito. Il totale degli attaccanti era stato di trentacinque. — Mandateci altri marziani — disse Ross L. McSwann, sindaco di Boca Raton. Piú tardi, diventò senatore degli Stati Uniti. Dovunque, i marziani venivano uccisi, uccisi, uccisi, fino a che i soli marziani liberi sulla faccia della Terra furono i marine sciatori-paracadutisti che gozzovigliavano nel mercato delle carni a Basilea, Svizzera. Furono avvertiti, per mezzo di altoparlanti, che la loro situazione era disperata, che avevano i bombardieri sulla testa, che tutte le strade erano bloccate dai carri armati e dalla fanteria pesante e che cinquanta pezzi d'artiglieria erano puntati sul mercato delle carni. Fu detto loro di uscire con le mani alzate, altrimenti il mercato delie carni sarebbe stato fatto saltare.
— Sciocchezze! — gridò il vero comandante dei marine sciatori-paracadutisti. Vi fu un'altra tregua. Una nave vedetta marziana, dallo spazio aperto, trasmise per radio alla Terra che era imminente un altro attacco, un attacco molto piú terribile di qualsiasi cosa conosciuta negli annali di guerra. La Terra rise e si preparò. In tutto il globo si udivano gli allegri spari dei dilettanti che si familiarizzavano con le armi leggere. Alle piste di lancio vennero consegnati nuovi contingenti di ordigni termonucleari, e nove terribili razzi furono lanciati contro lo stesso Marte. Uno colpì Marte, cancellando la città di Phoebe e l'accampamento dell'esercito dalla faccia del pianeta. Altri due scomparvero in un infundibolo cronosinclastico. Gli altri diventarono derelitti dello spazio. Non ebbe importanza che Marte fosse stato colpito. Non c'era piú nessuno, in ogni caso... neppure un'anima. Gli ultimi marziani erano diretti verso la Terra. Gli ultimi marziani stavano arrivando in tre ondate. Nella prima ondata arrivarono le riserve dell'esercito, le ultime truppe addestrate: 26.119 uomini a bordo di 721 navi. A una distanza di mezza giornata terrestre venivano 86.912 civili maschi, armati da poco, a bordo di 1.738 navi. Non avevano uniforme, avevano sparato una sola volta con i loro fucili, e non conoscevano affatto l'uso di tutte le altre armi. A una distanza di un'altra mezza giornata terrestre dopo questi miserabili irregolari venivano 1.391 donne disarmate e 52 bambini a bordo di 46 navi. Erano tutta la gente e tutte le navi che erano rimaste a Marte. La mente sovrana che stava dietro il suicidio marziano era Winston Niles Rumfoord. Il complicato suicidio di Marte era finanziato dai redditi di investimenti in beni immobili, titoli di borsa, spettacoli messi
in scena a Broadway e invenzioni. Poiché Rumfoord poteva vedere nel futuro, era stato facilissimo per lui accumulare denaro. Il tesoro marziano era custodito in banche svizzere, in conti identificati soltanto da numeri in codice. L'uomo che dirigeva gli investimenti marziani, che era a capo del Programma Acquisti di Marte, l'uomo che prendeva ordini direttamente da Rumfoord, era Earl Moncrief, il vecchio maggiordomo di Rumfoord. Moncrief, cui quella possibilità era stata offerta proprio alla fine della sua vita di servitore, divenne lo spietato, efficiente e addirittura brillante Primo Ministro di Rumfoord per gli Affari Terrestri. In apparenza, la posizione di Moncrief rimase immutata. Moncrief morì di vecchiaia nel suo ietto, nell'ala della servitù di villa Rumfoord, due settimane dopo la fine della guerra. La persona responsabile dei trionfi tecnologici del suicidio marziano fu Salo, l'amico di Rumfoord su Titano. Salo era un messaggero del pianeta Tralfamadore nella Piccola Nube di Magellano. Salo aveva la conoscenza tecnologica d'una civiltà vecchia milioni di anni terrestri. Salo aveva un'astronave che si era guastata... ma, anche in avaria, era di gran lunga l'astronave piú meravigliosa che il sistema solare avesse mai visto. Il suo vascello, in avaria, spogliato di tutte le caratteristiche lussuose, era il prototipo di tutte le astronavi di Marte. Sebbene Salo non fosse un ingegnere molto bravo, era riuscito a misurare ogni parte della sua nave e a disegnare i progetti per le sue discendenti marziane. Cosa ancora piú importante, Salo possedeva una grande quantità della fonte d'energia piú potente che sì possa concepire, la VUDD, o Volontà Universale di Divenire. Salo donò generosamente metà della sua scorta di VUDD ai suicidi di Marte. Earl Moncrief, il maggiordomo, costruì le sue organizzazioni finanziarie e logistiche e il suo servizio segreto con la forza
bruta del denaro e con una profonda comprensione delia gente abile, maliziosa e scontenta che viveva dietro facciate servili. Era quella gente che accettava lietamente il denaro marziano e gli ordini marziani. Quegli individui non facevano domande. Erano contenti di avere la possibilità di lavorare come termiti nei davanzali dell'ordine costituito. Venivano da tutti i sentieri della vita. I disegni modificati dell'astronave di Salo vennero suddivisi nei disegni dei pezzi che la componevano. I disegni dei pezzi vennero portati dagli agenti di Moncrief a fabbricanti dì tutto il mondo. I fabbricanti non immaginavano a che cosa servissero quei pezzi. Sapevano soltanto di ricavare splendidi profitti dalla fabbricazione. Le prime cento navi marziane furono montate dagli agenti di Moncrief in depositi segreti, sulla Terra stessa. Quelle navi furono caricate con VUDD data a Moncrief da Rumfoord, a Newport. Vennero messe immediatamente in servizio, e portarono le prime macchine e le prime reclute sulla pianura ferrea di Marte, dove sarebbe sorta la città di Phoebe. Quando Phoebe sorse, ogni ingranaggio fu mosso dalla VUDD di Salo. Era intenzione di Rumfoord che Marte perdesse la guerra... che Marte la perdesse stupidamente e orribilmente. Poiché vedeva il futuro, Rumfoord sapeva con certezza che sarebbe andata così... e ne era contento. Voleva cambiare il Mondo in meglio, per mezzo del grande, indimenticabile suicidio di Marte. Come afferma nella sua Storia tascabile di Marte: «Qualsiasi uomo che voglia cambiare il Mondo in modo significativo deve avere una grande abilità, una piacevole disposizione a versare il sangue altrui, e una nuova religione plausibile da introdurre durante il breve periodo di pentimento e di orrore che dì solito segue gli spargimenti dì sangue.
«Tutti i fallimenti da parte dei condottieri terrestri si possono attribuire a una mancanza da parte dei condottieri stessi», dice Rumfoord, «almeno in una di queste tre cose. «Basta con questi fiaschi provocati dai condottieri, in cui milioni di persone sono morte per niente o anche per meno!», dice Rumfoord. «Tanto per cambiare, proviamo ad avere pochi esseri umani, guidati a perfezione, che muoiono per un grande scopo». Rumfoord aveva su Marte quei pochi esseri umani guidati a perfezione... ed era il loro condottiero. Aveva abilità. Era piacevolmente disposto a spargere il sangue altrui. Aveva una religione nuova e plausibile da introdurre alla fine della guerra. E aveva i metodi per prolungare il periodo di pentimento e di orrore che avrebbe seguito la guerra. Questi metodi erano variazioni su un unico tema: la gloriosa vittoria della Terra su Marte era stato un macello di pessimo gusto compiuto ai danni di santi virtualmente inermi, che avevano intrapreso una piccola guerra sulla Terra per legare i popoli di quel pianeta in una monolitica Fratellanza dell'Uomo. La donna chiamata Bee e suo figlio Crono erano nell'ultima ondata di astronavi marziane che si avvicinarono alla Terra. La loro era un'ondina, in realtà, poiché era composta soltanto di quarantasei navi. Il resto della flotta era già stato distrutto. Quest'ultima ondata, o ondina, fu individuata dalla Terra. Ma non le furono scagliati contro ordigni termonucleari. Non c'erano piú ordigni termonucleari da scagliare. Erano stati usati tutti. L'ondina arrivò, illesa. Si sparpagliò sulla faccia della Terra. Le poche persone che furono abbastanza fortunate da avere marziani da ammazzare in quest'ultima ondata li ammazzarono allegramente... li ammazzarono allegramente fino a che scopri-
rono che i loro bersagli erano donne inermi e bambini. La gloriosa guerra era finita. Come Rumfoord aveva predisposto, cominciò a spuntare la vergogna. La nave che portava Bee e Crono e altre ventidue donne non fu presa a bersaglio quando atterrò. Non atterrò in una zona civilizzata. Precipitò nella foresta dell'Amazzonia, in Brasile. Soltanto Bee e Crono sopravvissero. Crono uscì dalla nave e baciò il suo portafortuna. Nessuno sparò neppure contro Unk e Boaz. Accadde loro una cosa molto bizzarra, dopo che ebbero schiacciato il pulsante via e si furono allontanati da Marte. Prevedevano di raggiungere la loro compagnia, ma non la raggiunsero mai. Non videro mai neppure un'altra astronave. La spiegazione era semplice, sebbene non vi fosse nessuno in giro per fornirgliela: Unk e Boaz non dovevano andare sulla Terra... non subito. Rumfoord aveva fatto regolare il loro pilota-navigatore automatico in modo che la nave portasse Unk e Boaz prima sul pianeta Mercurio... e poi da Mercurio alla Terra. Rumfoord non voleva che Unk venisse ucciso in guerra. Rumfoord voleva che Unk stesse in un posto sicuro per circa due anni. E poi Rumfoord voleva che Unk apparisse sulla Terra, come per miracolo. Rumfoord teneva in serbo Unk per una parte importantissima in una rappresentazione allegorica che Rumfoord voleva inscenare per la sua nuova religione. Unk e Boaz erano molto soli e perplessi, là nello spazio. Non c'era molto da vedere o da fare. — Maledizione, Unk... — disse Boaz. — Vorrei sapere dove
è andato il resto della banda. Quasi tutto il resto della banda stava penzolando, in quel momento, dai lampioni del quartiere degli affari, a Boca Raton. Il pilota-navigatore automatico dì Unk e di Boaz, che fra le altre cose controllava le luci della cabina, creava un ciclo artificiale di notti e di giorni terrestri, notti e giorni, notti e giorni. Le sole cose da leggere a bordo erano due fascicoli di fumetti, dimenticati dagli operai che avevano messo a posto la nave. Erano Tití e Silvestro, che parlava d'un canarino che faceva impazzire un gatto, e I miserabili, che parlava di un uomo il quale aveva rubato certi candelieri d'oro a un prete che era stato buono con lui. — Perché ha preso quei candelieri, Unk? — chiese Boaz. — Che mi venga un accidente se lo so — rispose Unk. — Che mi venga un accidente se me ne importa. Il pilota-navigatore aveva appena spento le luci nella cabina, aveva appena decretato che lì dentro era notte. — Non te ne importa di niente, vero? — disse Boaz, nel buio. — Infatti — assentì Unk. — Non me ne importa niente neppure di quella cosa che hai in tasca. — Che cosa ho in tasca? — disse Boaz. — Una cosa per fare male alla gente — rispose Unk. — Una cosa per far fare alla gente tutto quello che vuoi. Unk udì Boaz grugnire e poi gemere piano, nel buio. E sapeva che Boaz aveva appena schiacciato un pulsante sulla cosa che aveva in tasca, un pulsante che avrebbe dovuto stecchire Unk. Unk non emise alcun suono. — Unk...? — fece Boaz. — Sì? — disse Unk. — Sei lì, fratello? — domandò Boaz, sbalordito. — Dove dovrei andare? Credi di avermi vaporizzato? — Stai bene, fratello?
— Perché non dovrei star bene, fratello? — ribatté Unk. — Ieri notte, mentre tu dormivi, fratello, ti ho tolto dalla tasca quella stupida cosa, fratello, e l'ho aperta, fratello, e ne ho strappato fuori quello che c'era dentro, fratello, e l'ho riempita di carta igienica. E adesso sono seduto sulla mia cuccetta, fratello, e ho il fucile carico, fratello, ed è puntato nella tua direzione, fratello, e cosa diavolo credi di fare? Rumfoord si materializzò due volte sulla Terra, a Newport, durante la guerra tra Marte e la Terra: una volta subito dopo l'inizio della guerra, poi il giorno in cui la guerra finì. A quel tempo lui e il suo cane non avevano ancora un particolare significato religioso. Erano soltanto attrazioni turistiche. La tenuta Rumfoord era stata affittata, dai detentori dell'ipoteca, a un impresario che si chiamava Marlin T. Lapp. Lapp vendeva a un dollaro l'uno i biglietti per assistere alle materializzazioni. A parte l'apparizione e poi la sparizione di Rumfoord e del suo cane, non era un grande spettacolo. Rumfoord non parlava con altri che con Moncrief, il maggiordomo, e gli parlava sottovoce. Sedeva meditabondo in una poltroncina nella stanza sotto la scala a chiocciola, nel Museo di Skip. E si copriva gli occhi con una mano e intrecciava le dita dell'altra mano attorno al collare di Kazak. Rumfoord e Kazak erano presentati come spettri. C'era una pedana fuori dalla finestra della stanzetta, e la porta del corridoio era stata tolta. Due file di spettatori potevano passare per dare un'occhiata all'uomo e al cane cronosinclasticoinfundibolati. — Credo che non abbia molta voglia di parlare, gente — diceva Marlin T. Lapp. — Dovete rendervi conto che ha molte cose da pensare. Non è veramente qui, gente. Lui e il suo cane sono sparsi dappertutto, dal Sole a Betelgeuse. Fino all'ultimo giorno di guerra, tutto il movimento e tutti i rumori furono forniti da Marlin T. Lapp.
— Credo che sia una cosa meravigliosa per tutti voi, in questo grande giorno nella storia del mondo, venire a vedere questo grande spettacolo culturale, istruttivo e scientifico — affermò Lapp l'ultimo giorno della guerra. — Se questo spettro parlerà — dichiarò Lapp, — ci parlerà delle meraviglie del passato e del futuro, e di cose nell'Universo di cui nessuno ha mai sognato. Spero soltanto che qualcuno tra voi sia abbastanza fortunato da essere qui quando lui deciderà che il tempo è maturo, per dirci tutto quello che può. — Il tempo è maturo — disse Rumfoord con voce inespressiva. «Il tempo è marcio — disse Winston Niles Rumfoord. «La guerra che finisce così gloriosamente oggi è stata gloriosa soltanto per i santi che l'hanno perduta. Questi santi erano terrestri come voi. Andarono su Marte, organizzarono i loro attacchi disperati e morirono contenti, perché i terrestri potessero diventare infine un solo popolo... felice, fraterno e orgoglioso. «Il loro desiderio, quando morirono, non fu un paradiso per loro stessi, ma fu che la fratellanza dell'umanità sulla Terra potesse essere duratura. «A questo scopo, che tutti dobbiamo realizzare devotamente, io vi porto notizia di una nuova religione, che può essere accolta con entusiasmo in ogni angolo d'ogni cuore terrestre. «I confini nazionali — continuò Rumfoord, — scompariranno. La voglia di combattere finirà. Tutte le invidie, tutte le paure, tutti gli odii moriranno. «Il nome della nuova religione — dichiarò Rumfoord, — è Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente. «La bandiera di questa chiesa sarà azzurra e oro — disse ancora Rumfoord. — E su quella bandiera saranno scritte a lettere d'oro in campo azzurro queste parole: Occupati della gente, e Dio onnipotente si occuperà di se stesso. «I due insegnamenti principali di questa religione sono questi. I piccoli uomini non possono fare nulla per aiutare o compiacere Dio Onnipotente, e la Fortuna non è la mano di Dio.
«Perché dovreste credere in questa religione piuttosto che in un'altra? — chiese Rumfoord. — Dovreste credervi perché io, come capo dì questa religione, posso fare miracoli, e i capi delle altre religioni non possono. Che miracoli posso fare? Posso fare il miracolo di predire, con assoluta esattezza, ciò che ci porterà il futuro». Poi Rumfoord predisse nei minimi particolari cinquanta eventi futuri. Queste predizioni furono accuratamente annotate dai presenti. Inutile dirlo, si realizzarono tutte, alla fine... si realizzarono in ogni minimo particolare. — Gli insegnamenti di questa religione sembreranno dapprima sottili e sconcertanti — asserì Rumfoord. — Ma diverranno splendidi e cristallini via via che il tempo passerà. «Come inizio attualmente sconcertante — disse Rumfoord, — vi narrerò una parabola: «Una volta, la fortuna sistemò le cose in modo che un bambino chiamato Malachi Constant nascesse ricco, il bambino piú ricco della Terra. Lo stesso giorno, la fortuna sistemò le cose in modo che una nonna cieca posasse un piede su un pattino a rotelle, in cima a una scala di cemento, che il cavallo di un poliziotto calpestasse la scimmia d'un suonatore d'organetto e che un rapinatore in libertà vigilata trovasse un francobollo che valeva novecento dollari in fondo a un baule, in soffitta. Io vi domando... la fortuna è la mano di Dio?». Rumfoord alzò il dito indice trasparente come una tazza da tè di Limoges. — Durante la mia prossima visita, miei compagni di fede — proseguì, — vi dirò una parabola su coloro che fanno ciò che, secondo loro, Dio Onnipotente vuole che sia fatto. Nel frattempo farete bene, per essere meglio informati su questa parabola, a leggere tutto ciò che vi capiterà fra le mani a proposito dell'inquisizione spagnola.
«La prossima volta che verrò a voi, vi porterò una Bibbia, revisionata in modo da essere significativa nei tempi moderni. E vi porterò una breve storia di Marte, una vera storia dei santi che sono morti perché il mondo potesse essere unito come Fratellanza dell'Uomo. Questa storia spezzerà il cuore di tutti gli esseri umani che hanno un cuore da spezzare». Rumfoord e il suo cane si dematerializzarono bruscamente. Sull'astronave partita da Marte e diretta verso Mercurio, sull'astronave che portava Unk e Boaz, il pilota-navigatore automatico decretò che nella cabina doveva essere di nuovo giorno. Era l'alba successiva alla notte in cui Unk aveva detto a Boaz che la cosa nella tasca di Boaz non poteva fare piú male a nessuno. Unk dormiva seduto sulla sua cuccetta. Il suo fucile Mauser, carico e pronto a sparare, gli giaceva sulle ginocchia. Boaz non dormiva. Era disteso sulla sua cuccetta, di fronte a Unk, sul lato opposto della cabina. Boaz non aveva dormito neppure per un batter d'occhio. Adesso, se l'avesse voluto, avrebbe potuto facilmente disarmare e uccidere Unk, Ma Boaz aveva deciso che aveva bisogno d'un fratello molto di piú di quanto avesse bisogno di qualcosa che facesse fare alla gente esattamente ciò che lui voleva. Durante la notte, comunque, era diventato molto incerto circa ciò che voleva far fare alla gente. Non essere solo, non avere paura... Boaz aveva deciso che quelle erano le cose piú importanti della vita. Un amico fraterno poteva essere d'aiuto piú di qualsiasi altra cosa. La cabina si riempì di un suono bizzarro, che pareva fatto di fruscii e di colpi dì tosse. Era una risata. Era la risata di Boaz. Ciò che la rendeva così strana era il fatto che Boaz non aveva mai riso in quel particolare modo... non aveva mai riso delle cose di cui stava ridendo ora. Stava ridendo del terribile pasticcio in cui si trovava... del modo in cui, durante tutta la sua vita militare, aveva fatto finta di credere che lui aveva compreso quel che succedeva, e che
quel che succedeva era bello e -giusto. Stava ridendo del modo idiota in cui aveva lasciato che qualcuno si servisse di lui... Dio solo sapeva chi e perché. — Santo cielo, fratello — disse a voce alta, — cosa facciamo, qui nello spazio? Cosa facciamo, con questi abiti addosso? Chi è che guida questa stupida cosa? Come abbiamo fatto a salire in questa scatola di latta? Come mai dobbiamo sparare a qualcuno quando saremo arrivati dove stiamo andando? E come mai lui dovrà cercare di sparare a noi? Come mai? — domandò Boaz. — Fratello, puoi dirmi come mai? Unk si svegliò, e puntò di scatto la canna del suo Mauser contro Boaz. Boaz continuò a ridere. Si tolse il telecomando dalla tasca e lo buttò sul pavimento. — Non lo voglio, fratello — disse. — Benissimo, tu hai strappato via quello che c'era dentro. Non lo voglio. E poi gridò: — Non voglio niente di questa robaccia!
CAPITOLO OTTAVO IN UN NIGHT CLUB DI HOLLYWOOD HARMONIUM — La sola forma di vita conosciuta su Mercurio. L'harmonium abita nelle grotte. Sarebbe difficile immaginare una creatura piú graziosa. Enciclopedia per Bambini: Meraviglie e cose da fare
Il pianeta Mercurio canta come un bicchiere di cristallo. Canta sempre. Una faccia di Mercurio guarda il Sole. Quella faccia ha sempre guardato il Sole. Quella faccia è un mare di polvere incandescente. L'altra faccia guarda il nulla dello spazio eterno. Questa faccia ha sempre guardato il nulla dello spazio eterno. Questa faccia è una foresta di giganteschi cristalli biancazzurri, freddi da far star male. È la tensione tra l'emisfero caldissimo del giorno senza fine e l'emisfero gelido della notte senza fine che fa cantare Mercurio. Mercurio non ha atmosfera, così il suo canto è per il senso del tatto. È un canto lento. Mercurio tiene una singola nota nel canto anche per un millennio terrestre. Vi sono alcuni che credono che un tempo il canto fosse rapido, folle e brillante... tormentosamente vario. È possibile. Vi sono creature nelle profonde grotte di Mercurio. Il canto che il loro pianeta canta è importante per loro, perché quelle creature si nutrono di vibrazioni. Si nutrono di energia meccanica. Le creature stanno aggrappate alle pareti canore delle loro
grotte. In questo modo, mangiano il- canto di Mercurio. Le grotte di Mercurio sono piacevolmente calde, in profondità. Le pareti delle grotte in profondità sono fosforescenti. Emanano una luce giallo-giunchiglia. Le creature nelle grotte sono trasparenti. Quando si aggrappano alle pareti, la luce delle pareti fosforescenti le attraversa. La luce gialla delle pareti tuttavia diventa, quando passa attraverso i corpi delle creature, di un vivido colore acquamarina. La Natura è una cosa meravigliosa. Le creature nelle grotte assomigliano molto a piccoli aquiloni privi di ossatura. Hanno forma di rombo, e sono lunghe trenta centimetri e larghe venti quando raggiungono la maturità. Hanno uno spessore non superiore all'involucro d'un palloncino. Ogni creatura ha quattro deboli ventose, una a ogni angolo. Queste ventose le permettono di strisciare, in modo simile a quello d'un verme, e di aggrapparsi, e di distinguere i punti in cui il canto di Mercurio è migliore. Quando hanno trovato un punto che promette un buon pasto, le creature si attaccano alle pareti come carta da parati umida. Quelle creature non hanno bisogno di un sistema circolatorio. Sono così sottili che le vibrazioni datrici di vita fanno fremere tutte le cellule senza bisogno di intermediari. Quelle creature non hanno secrezioni. Quelle creature si riproducono per sfaldamento. I piccoli, quando si staccano da un genitore, non si distinguono dalla forfora. C'è un sesso solo. Ogni creatura produce semplicemente scaglie del suo genere, e il suo genere è uguale al genere di tutti gli altri. Non esiste l'infanzia. Le scaglie cominciano a sfaldarsi tre ore terrestri dopo essere state prodotte.
Non raggiungono la maturità per poi deteriorarsi e morire. Raggiungono la maturità e rimangono in pieno fiore, per così dire, fino a che Mercurio canta. Non c'è modo in cui una creatura possa fare del male a un'altra, e non c'è motivo per cui una creatura faccia del male a un'altra. Fame, invidia, ambizione, paura, indignazione, religione, desiderio sessuale sono irrilevanti e sconosciuti. Quelle creature hanno un solo senso: il tatto. Hanno deboli poteri telepatici. I messaggi che sono capaci di trasmettere e di ricevere sono monotoni quasi come il canto di Mercurio. Hanno soltanto due messaggi. Il primo è una risposta automatica al secondo, e il secondo è una risposta automatica al primo. Il primo è: «Sono qui, sono qui, sono qui». Il secondo è: «Sei contento, sei contento, sei contento». C'è un'ultima caratteristica di quelle creature che non è stata spiegata su basi utilitaristiche: quelle creature sembrano trovare piacere nel disporsi in disegni sbalorditivi sulle pareti fosforescenti. Sebbene cieche e indifferenti all'osservazione di chiunque, spesso si dispongono in modo da presentare un disegno regolare e abbagliante di giallo-giunchiglia e di rombi di vivida acquamarina. Il giallo viene dalle pareti nude della grotta. L'acquamarina è la luce delle pareti filtrata attraverso i corpi delle creature. A causa del loro amore per la musica e della loro tendenza a mettersi al servizio della bellezza, quelle creature hanno ricevuto un nome splendido dai terrestri. Sono chiamate harmonium. Unk e Boaz si avvicinarono alla faccia non illuminata di Mercurio, settantanove giorni terrestri dopo la partenza da Marte. Non sapevano che il pianeta sul quale stavano atterrando era Mercurio.
Pensavano che il Sole era paurosamente grande... Ma questo non impediva loro di credere che stessero atterrando sulla Terra. Svennero durante il periodo di brusca decelerazione. Ora stavano riprendendo conoscenza... venivano cullati da una crudele e splendida illusione. Sembrò a Unk e a Boaz che la loro nave stesse scendendo lentamente tra grattacieli sui quali giocavano i riflettori. — Non sparano — disse Boaz. — O la guerra è finita, o non è ancora cominciata. Gli allegri raggi di luce che vedevano non provenivano da riflettori. I raggi provenivano dagli alti cristalli sulla linea di confine tra l'emisfero illuminato e l'emisfero oscuro di Mercurio. Quei cristalli coglievano i raggi del Sole, li deviavano prismaticamente, li facevano giocare sulla faccia buia del pianeta. Altri cristalli, sulla faccia buia, coglievano quei raggi e li facevano passare. Era facile credere che i riflettori stessero giocando sopra una civiltà sofisticata. Era facile scambiare la folta foresta di giganteschi cristalli biancazzurri per grattacielì, stupendi e bellissimi. Unk, ritto davanti a un oblò, piangeva in silenzio. Piangeva l' amore, la famiglia, l'amicizia, la verità, la civiltà. Le cose che piangeva erano tutte astrazioni, poiché la sua memoria poteva fornirgli pochi fatti con cui la sua immaginazione potesse foggiare una commedia appassionata. Alcuni nomi gli tintinnavano nella testa come ossa aride. Stony Stevenson, un amico,.. Bee, una moglie... Crono, un figlio... Unk, un padre... Gli venne in mente il nome Malachi Constant, e non seppe che farsene. Unk cadde in una vuota fantasticheria, un vuoto rispetto per la gente splendida e per le splendide vite che avevano prodotto i maestosi edifici inondati dai riflettori. Lì, senza dubbio, famiglie senza volto e amici senza volto e speranze senza nome po-
tevano fiorire come... Unk non riuscì a trovare un'immagine adatta a una fioritura. Immaginò una fontana straordinaria, un cono descritto da ciotole discendenti di diametro crescente. Non andava bene. La fontana era asciutta, piena dei resti di nidi d'uccellini. Le punte delle dita di Unk formicolavano, come se fossero scalfite dalla scalata su per le ciotole asciutte. Quell'immagine non andava bene. Unk immaginò di nuovo le tre bellissime ragazze che gli avevano fatto cenno di discendere nella canna oliata del suo fucile Mauser. — Amico! — esclamò Boaz, — dormono tutti... ma non per molto! — Tubò, e i suoi occhi lampeggiarono. — Quando il vecchio Boaz e il vecchio Unk arriveranno in città — disse, — tutti dovranno svegliarsi e restare svegli per settimane intere! La nave veniva comandata a perfezione dal suo pilota-navigatore. L'attrezzatura stava parlando nervosamente tra sé... roteando, ronzando, ticchettando, frusciando. Sentiva ed evitava i pericoli ai lati, cercando un ideale punto di atterraggio, in basso. I progettisti del pilota-navigatore avevano deliberatamente ossessionato il congegno con un'idea... e quell'idea era cercare rifugio per le truppe e il materiale prezioso che avrebbe dovuto portare. Il pilota-navigatore doveva deporre le truppe e il materiale prezioso nella cavità piú profonda che poteva trovare. Si presumeva che l'atterraggio sarebbe avvenuto sotto il fuoco nemico. Venti minuti terrestri piú tardi, il pilota-navigatore stava ancora parlando tra sé,.. e trovava abbastanza da dirsi per continuare a parlare come sempre. E la nave stava ancora scendendo, e scendeva rapidamente. I presunti riflettori e i presunti grattacieli non erano piú visibilì. C'era soltanto un'oscurità d'inchiostro. Dentro la nave c'era un silenzio d'una sfumatura appena piú
lieve. Unk e Boaz sentivano ciò che stava loro succedendo... e lo trovavano indicibile. Sentivano, giustamente, che venivano sepolti vivi. La nave sussultò all'improvviso, gettando sul pavimento Boaz e Unk. Quella violenza portò un violento sollievo. — Finalmente a casa! — gridò Boaz. — Benvenuti a casa! Poi ricominciò la terribile sensazione di cadere come foglie. Venti minuti terrestri piú tardi, la nave stava ancora scendendo dolcemente. I suoi sussulti erano piú frequenti. Per proteggersi contro i sussulti, Boaz e Unk andarono a letto. Si distesero a faccia in giú, aggrappandosi con le mani ai supporti tubolari d'acciaio delle loro cuccette. Per completare il loro avvilimento, il pilota-navigatore decretò che nella cabina scendesse la notte. Un rumore stridente passò sopra la cupola della nave e costrinse Unk e Boaz ad alzare gli occhi dai loro guanciali agli oblò. Adesso, fuori c'era una debole luce gialla. Unk e Boaz gridarono di gioia e corsero agli oblò. Li raggiunsero giusto in tempo per essere di nuovo gettati sul pavimento mentre la nave si liberava dell'ostruzione e ricominciava la sua discesa. Un minuto terrestre piú tardi, la discesa cessò. Si udì un modesto scatto del pilota-navigatore. Poiché aveva portato il suo carico sano e salvo da Marte a Mercurio, secondo le istruzioni, si era spento. Aveva consegnato il suo carico sul pavimento d'una grotta centosettanta chilometri al disotto della superficie di Mercurio. Si era fatto strada attraverso un tortuoso sistema di passaggi, fino a che non aveva potuto andare piú oltre. Boaz fu il primo a raggiungere l'oblò, a guardare fuori ed a vedere il gaio benvenuto di giallo e di rombi d'acquamarina che gli harmonium avevano disegnato sulle pareti.
— Unk! — disse Boaz. — Mi venga un accidente se non ci ha portati proprio nel mezzo di un night club di Hollywood! A questo punto è opportuna una ricapitolazione delle tecniche di respirazione Schliemann, perché si possa comprendere pienamente ciò che accadde poi. Unk e Boaz, nella loro cabina pressurizzata, ricavavano l'ossigeno dalle pillole-per-scemi nell'intestino tenue. Ma, vivendo in un'atmosfera pressurizzata, non avevano bisogno di tapparsi gli orecchi e le narici e di tenere la bocca chiusa. Quell'otturamento era necessario soltanto nel vuoto o in un' atmosfera velenosa. Boaz aveva l'impressione che fuori dall'astronave vi fosse l'atmosfera della sua Terra natale. In realtà, fuori non c'era altro che il vuoto. Boaz spalancò il portello interno e quello esterno, con una grandiosa spensieratezza dettata dalla presunta esistenza di un'atmosfera esterna amichevole. E fu ricompensato dall'esplosione della scarsa atmosfera della cabina nel vuoto esterno. Sbatté il portello interno, ma non prima che lui e Unk si fossero procurati un'emorragia nell'atto di gridare di gioia. Poi crollarono, con i sistemi respiratori che sanguinavano a profusione. Quello che li salvò dalla morte fu un sistema d'emergenza completamente automatico che rispose all'esplosione con un'altra esplosione, riportando alla normalità la pressione della cabina. — Mamma mia! — disse Boaz, quando rinvenne. — Maledizione! Mamma mia! E sicuro come l'inferno che questa non è la Terra. Unk e Boaz non si lasciarono prendere dal panico. Recuperarono le forze con cibo, riposo, bevande e pilloleper-scemi. E poi si tapparono gli orecchi e le narici, si chiusero la bocca ed esplorarono i dintorni della nave. Stabilirono che la loro tomba era molto profonda, tortuosa, interminabile... priva
d'aria, non abitata da qualsiasi cosa che fosse remotamente umana, e inabitabile da qualsiasi cosa che fosse remotamente umana. Notarono la presenza degli harmonium, ma non trovarono nulla di incoraggiante nella presenza di quelle creature. Quelle creature sembravano spaventose. Unk e Boaz non riuscivano a credere di essere in un luogo simile. E fu il non crederlo che li salvò dai panico. Ritornarono alla nave. — Sta bene — disse Boaz con calma, — c'è stato un errore. Siamo sprofondati troppo nel sottosuolo. Dobbiamo risalire a volo lassù, dove ci sono i palazzi. Ti dico francamente, Unk, non mi sembra neppure che siamo nella Terra. C'è stato qualche errore, come dico, e dobbiamo chiedere dove siamo alla gente di quei palazzi. — D'accordo — assentì Unk. Si leccò le labbra. — Basta che tu schiacci il vecchio pulsante via — disse Boaz, — e voleremo in alto, come uccellini. — D'accordo — fece Unk. — Voglio dire — continuò Boaz, — lassù, la gente di quei palazzi forse non sa neppure quello che c'è qui sotto. Forse abbiamo scoperto qualcosa che li meraviglierà. — Sicuro — disse Unk. La sua anima sentiva la pressione dei sovrastanti chilometri di roccia. E la sua anima sentiva la vera natura della loro situazione critica. Da tutte le parti e sopra di loro c'erano gallerie che si biforcavano e si biforcavano e si biforcavano. E quei rami si biforcavano in ramoscelli e i ramoscelli si biforcavano in passaggi non piú larghi di un poro umano. L'anima di Unk aveva ragione quando sentiva che neppure un passaggio su diecimila conduceva fino alla superficie. L'astronave, grazie al meccanismo sensibile brillantemente concepito e installato nella sua parte inferiore, si era fatta con facilità strada giú e giú e giú, attraverso una delle pochissime
vie d' accesso... giú e giú e giú, attraverso una delle pochissime vie d' uscita. Ciò che l'anima di Unk non aveva sospettato ancora era la congenita stupidità del pilota-navigatore, quando si trattava di risalire. Ai progettisti non era mai venuto in mente che la nave potesse trovare problemi nel salire. Tutte le navi marziane, dopotutto, dovevano decollare da un campo privo di ostacoli su Marte, e dovevano essere abbandonate dopo lo sbarco sulla Terra. Di conseguenza, sulla nave non c'erano virtualmente meccanismi sensibili agli ostacoli in salita. — Addio, vecchia grotta — disse Boaz. Distrattamente, Unk premette il pulsante via. Il pilota-navigatore ronzò. Dopo dieci secondi terrestri, il pilota-navigatore si era scaldato. L'astronave lasciò il pavimento della grotta con sussurrante facilità, toccò una parete, si trascinò su per la parete con un grido stridente e lacerante, urtò la sua cupola contro una sporgenza, indietreggiò, urtò di nuovo la cupola, indietreggiò, graffiò la sporgenza, tornò a salire sussurrando. Poi risuonò di nuovo il grido stridente... questa volta da ogni parte. Ogni moto verso l'alto era cessato. La nave s'era incastrata nella roccia massiccia. Il pilota-navigatore gemette. Mandò un filo di fumo color mostarda attraverso il piantito della cabina. Si era surriscaldato, e il surriscaldamento era per il pilota-navigatore il segnale di districare la nave da un pasticcio senza speranza. E cominciò a far questo... stridendo. Le membra d'acciaio gemettero. I bulloni saltarono, come colpi di fucile. Finalmente la nave si liberò. Il pilota-navigatore sapeva quando era sconfitto. Rimandò la nave sul pavimento della caverna, e atterrò dolcemente. Il pilota-navigatore si spense. Unk tornò a premere il pulsante via.
Di nuovo la nave si lanciò in un passaggio cieco, si ritirò di nuovo, tornò a posarsi sul pavimento e si spense. Il ciclo si ripetè una dozzina di volte, fino a che fu chiaro che la nave sarebbe riuscita solo ad andare in frantumi. La sua struttura era già lesa malamente. Quando l'astronave si posò sul pavimento della grotta per la dodicesima volta, Unk e Boaz andarono in pezzi. Gridarono. — Siamo morti, Unk... siamo morti! — urlò Boaz. — Non sono mai stato vivo, per quel che posso ricordare — replicò Unk, con voce rotta. — Pensavo che sarei riuscito finalmente a vivere. Unk si avvicinò a un oblò e guardò fuori con occhi lacrimosi. Vide che le creature piú vicine all'oblò avevano disegnato in acquamarina una lettera A perfetta e giallochiara. La formazione di una A era nei limiti delle probabilità, per creature prive di cervello che si distribuivano a caso. Ma poi Unk vide che la A era preceduta da una Z perfetta. E la Z era preceduta da una perfetta N. Unk inclinò il capo da una parte e guardò obliquamente dall'oblò. Quel movimento gli offrì una prospettiva per un centinaio di metri di parete infestata di harmonium. Unk fu sbalordito nel vedere che gli harmonium formavano un messaggio in lettere abbaglianti. Il messaggio era questo, giallochiaro, profilato d'acquamarina: È UNA PROVA DI INTELLIGENZA!
CAPITOLO NONO UN ROMPICAPO RISOLTO «In principio, Dio divenne il Cielo e la Terra... E Dio disse: "Che Io sia la luce", e divenne la luce». La Bibbia revisionata autorizzata di Winston Niles Rumfoord «Per uno spuntino delizioso, provate dei giovani harmonium arrotolati in tubetti e riempiti di formaggio fresco venusiano». La cucina galattica di Beatrice Rumfoord «Per quanto riguarda le loro anime, i martiri marziani morirono non quando attaccarono la Terra ma quando furono reclutati per la macchina bellica marziana». La storia tascabile di Marte di Winston Niles Rumfoord «Mi sono trovato un posto dove posso fare del bene senza fare del male». Boaz in: Unk e Boaz nelle Grotte di Mercurio, di SARAH HORNE CANBY
Il libro piú venduto in questi ultimi tempi è stato la Bibbia revisionata autorizzata di Winston Niles Rumfoord. Seconda in ordine di popolarità è quella deliziosa contraffazione, La cucina galattica di Beatrice Rumfoord. Terza in ordine di popolarità è la Storia tascabile di Marte di Winston Niles Rumfoord. Quarto in ordine di popolarità è un libro per bambini, Unk e Boaz nelle grotte di Mercurio, di Sarah Horne Canby. La blanda analisi fatta dall'editore del successo del libro della signora Canby appare sulla sovraccoperta: «Quale bambino non vorrebbe fare naufragio a bordo di un'astronave carica di polpette, panini, salsa, attrezzi sportivi e gassose?».
Il dottor Frank Minot, nel suo Gli harmonium sono adulti?, vede qualcosa di piú sinistro nell'amore che i bambini hanno per quel libro. «Abbiamo il coraggio di considerare», domanda, «quanto Unk e Boaz sono vicini all'esperienza quotidiana dei bambini quando Unk e Boaz trattano con solennità e rispetto creature che sono in realtà oscenamente prive di sentimenti, insensibili e stupide?». Minot, nel tracciare un parallelo tra i genitori umani e gli harmonium, allude ai contegno di Unk e Boaz verso gli harmonium. Gli harmonium scrissero a Unk e Boaz un nuovo messaggio di speranza o di velata derisione ogni quattordici giorni terrestri... per la durata di tre anni. I messaggi erano scritti, naturalmente, da Winston Niles Rumfoord, che si materializzava per breve tempo su Mercurio a intervalli di quattordici giorni. Staccava qualche harmonium qua, ne appiccicava altri là, e formava le lettere maiuscole. Nella fiaba della signora Canby, la prima allusione al fatto che Rumfoord frequentava di tanto in tanto la grotta compare in una scena molto vicina alla fine... una scena in cui Unk trova nella polvere le impronte di un grosso cane. A questo punto del racconto è obbligatorio, se è un adulto che lo legge a voce alta a un bambino, che l'adulto domandi al bambino con voce deliziosamente rauca: — E chi era il cane? Il cane era Kazak. Il cane era il terribile, grosso cane cronosinclasticoinfundibolato di Winston Niles Rumfoord. Unk e Boaz erano su Mercurio da tre anni quando Unk trovò le impronte di Kazak nella polvere, sul pavimento di una galleria. Mercurio aveva portato Unk e Boaz attorno al sole per dodici volte e mezzo. Unk trovò le impronte su un pavimento nove chilometri piú in alto della cavità in cui giaceva la nave ammaccata, graffiata e incastrata nella roccia. Unk non viveva piú nell'astronave, e neppure Boaz. L'astronave serviva semplicemente come comune base di rifornimento alla quale Unk e Boaz ritornavano per
prendere le provviste all'incirca ogni mese terrestre. Unk e Boaz si incontravano di rado. Si muovevano in cerchie molto diverse. La cerchia in cui si muoveva Boaz era molto piccola. Il suo rifugio era fisso e riccamente ammobiliato. Era allo stesso livello dell'astronave, dalia quale distava soltanto mezzo chilometro. La cerchia in cui si muoveva Unk era vasta e irrequieta. Non aveva casa. Camminava a passo leggero e andava lontano, e continuava a salire fino a che il freddo lo fermava. Dove il freddo fermava Unk, fermava anche gli harmonium. Ai livelli piú alti in cui vagabondava Unk, gli harmonium erano pochi e stenti. Nel piacevole livello inferiore dove viveva Boaz, gli harmonium erano abbondanti e crescevano in fretta. Boaz e Unk si erano separati dopo un anno terrestre trascorso insieme nell'astronave. In quel primo anno trascorso insieme, era diventato chiaro ad entrambi che non sarebbero riusciti ad andarsene a meno che qualcosa o qualcuno venisse a tirarli fuori. Era chiaro anche se le creature sulle pareti continuavano a scrivere nuovi messaggi sottolineando l'equità della prova cui Unk e Boaz venivano assoggettati, la facilità con cui avrebbero potuto fuggire se soltanto avessero pensato un po' di piú, se soltanto avessero pensato un po' piú profondamente. — PENSATE! — dicevano le creature. Unk e Boaz si separarono dopo che Unk ebbe una crisi temporanea di follia. Unk aveva tentato di uccidere Boaz. Boaz era entrato nell'astronave con un harmonium, che era esattamente simile a tutti gli altri harmonium, e aveva detto: — Non è carino, Unk? Unk era saltato alla gola di Boaz. Unk era nudo quando trovò le orme del cane. L'uniforme verde-lichene e gli stivali neri di fibra della fanteria d'assalto
marziana erano stati ridotti a stracci e polvere dall'attrito contro la pietra. Le orme del cane non eccitarono Unk. L'anima di Unk non si colmò della musica della socievolezza né della luce della speranza quando vide le orme di una creatura a sangue caldo, quando vide le orme del migliore amico dell'uomo. Allo stesso modo, trovò ben poco da dire a se stesso quando le impronte delle scarpe di un uomo si unirono a quelle del cane. Unk era in guerra con l'ambiente che lo circondava. Aveva preso a considerare l'ambiente che lo circondava o come malevolo o come amministrato in modo crudele. La sua reazione era di combatterlo con le uniche armi a sua disposizione: la resistenza passiva e un aperto sfoggio di disprezzo. Le impronte parvero a Unk la mossa d'apertura di un nuovo stupido gioco che il suo ambiente voleva giocare. Avrebbe seguito le orme, ma pigramente, senza eccitazione. Le avrebbe seguite soltanto perché non aveva nessun altro programma, per il momento. Le avrebbe seguite. Avrebbe visto dove andavano. La sua avanzata fu scabrosa e vacillante. Il povero Unk aveva perduto parecchio peso, e anche molti capelli. Stava invecchiando rapidamente. Si sentiva gli occhi infiammati e lo scheletro legnoso. Unk non si era mai raso, su Mercurio. Quando i capelli e la barba diventavano tanto lunghi da dargli noia, falciava ciuffi di quella paglia con un coltello da macellaio. Boaz si radeva ogni giorno. Boaz si tagliava i capelli due volte ogni settimana terrestre con gli arnesi da barbiere che erano a bordo dell'astronave. Boaz, che aveva dodici anni meno di Unk, non si era mai sentito meglio in vita sua. Aveva acquistato peso, nelle grotte di Mercurio... e anche serenità. La grotta-casa di Boaz era ammobiliata con una branda, una
tavola, due sedie, un punching bag per tenersi in esercizio, uno specchio, un manubrio per ginnastica, un registratore e una nastroteca di musica che consisteva di millecento composizioni. La grotta-casa di Boaz aveva una porta, un macigno rotondo con cui tappava l'imboccatura della caverna. La porta era necessaria, poiché Boaz era Dio Onnipotente, per gli harmonium. Riuscivano a individuarlo dal battito del suo cuore. Se avesse dormito con la porta aperta, si sarebbe svegliato per trovarsi inchiodato da centinaia di migliaia di ammiratori. L'avrebbero lasciato soltanto quando il suo cuore avesse cessato di battere. Come Unk, Boaz era nudo. Ma aveva ancora le scarpe. Le sue scarpe di pelle autentica avevano resistito magnificamente. Era vero che Unk percorreva cinquanta chilometri per ogni chilometro percorso da Boaz, ma le scarpe di Boaz non si erano limitate a resistere. Sembravano ancora nuove. Boaz le puliva, le lucidava e le lustrava con regolarità. In quel momento le stava lucidando. La porta della sua grotta era bloccata dal macigno. Soltanto quattro harmonium preferiti erano lì dentro insieme con lui. Due gli stavano avvoltolati attorno alle braccia. Uno gli si era attaccato alla coscia. Il quarto, un harmonium immaturo lungo soltanto sette centimetri, gli stava appeso all'interno del polso sinistro, e si nutriva delle pulsazioni di Boaz. Era quello che Boaz faceva quando trovava un harmonium cui voleva bene piú che agii altri: lasciava che la creatura si nutrisse delle sue pulsazioni. — Ti piace? — diceva con il pensiero al fortunato harmonium. — Non è bello? Non si era mai sentito meglio fisicamente, non si era mai sentito meglio mentalmente, non si era mai sentito meglio spiritualmente. Era contento di essersi separato da Unk, perché a Unk piaceva girare le cose in modo che chiunque era felice
sembrasse stupido o pazzo. — Che cosa rende così un uomo? — chiese Boaz con il pensiero al piccolo harmonium. — Cosa crede di guadagnare, in confronto a quello che sta gettando via? Non mi meraviglio che abbia l'aria sofferente. Boaz scosse il capo. — Ho cercato di fargli provare interesse per voi, e luì si è inferocito di piú. inferocirsi non serve mai a niente. — Non so cosa stia succedendo — disse Boaz con il pensiero, — e probabilmente non sono abbastanza sveglio per poterlo capire, se qualcuno me lo spiegasse. Tutto quello che so è che in un certo senso siamo messi alla prova, da parte di qualcuno o di qualcosa molto piú in gamba di noi, e tutto quello che posso fare è starmene buono e tranquillo e cercare di passarmela bene fino a che tutto finirà. Boaz annuì. — Questa è la mia filosofia, amici — continuò, rivolto agli harmonium che gli stavano appiccicati. — E se non mi sbaglio è anche la vostra. Credo che sia per questo che ce la intendiamo così bene. La punta della scarpa di vera pelle che Boaz stava lucidando splendeva come un rubino. — Amici... auu, su, amici, amici, amici — disse Boaz a se stesso, fissando in quel rubino. Quando si lucidava le scarpe, immaginava di poter vedere molte cose nei rubini delle scarpe. In quel momento, Boaz guardava in un rubino e vedeva Unk che strangolava il povero vecchio Stony Stevenson incatenato al pilastro di pietra, sulla ferrea piazza d'armi di Marte. L'orribile immagine non era un ricordo casuale. Era il centro dei rapporti tra Boaz e Unk. — Non ventarmi — disse Boaz con il pensiero, — e io non venterò te. — Era una supplica che aveva rivolto molto spesso a Unk. Era stato Boaz a inventare quella supplica, il cui significato era questo: Unk doveva smettere di dire a Boaz la verità sugli
harmonium, perché Boaz amava gli harmonium, e perché Boaz era così gentile da non dissotterrare verità che avrebbero reso infelice Unk. Unk non sapeva di aver strangolato il suo amico Stony Stevenson. Unk credeva che Stony fosse ancora meravigliosamente vivo in qualche punto dell'Universo. Unk viveva del sogno di ritrovare Stony. Boaz era così gentile da nascondere a Unk la verità, per quanto fosse stata grande la tentazione di servirsene per colpire Unk in mezzo agli occhi. L'orribile immagine nel rubino si dissolse. — Sì, Signore — disse Boaz con il pensiero. L'harmonium adulto sul braccio sinistro di Boaz si agitò. — Chiedi un concerto al vecchio Boaz? — chiese Boaz alla creatura, con il pensiero. — È questo che cerchi di dire: «Vecchio Boaz, non voglio sembrarti ingrato, perché so che è un grande onore essere qui, vicino al tuo cuore. Ma io continuo a pensare a tutti i miei amici là fuori e desidero che anche loro possano avere qualcosa di bello». È questo che stai cercando di dire? — domandò Boaz con il pensiero. — Stai cercando di dire: «Ti prego, papà Boaz... organizza un concerto per tutti i miei poveri amici là fuori»? È questo che stai cercando di dire? Boaz sorrise. — Non è necessario adularmi — disse all'harmonium. Il piccolo harmonium che aveva sul polso si piegò su se stesso, poi si ridistese. — E tu cosa stai cercando di dirmi? — gli chiese Boaz. — Stai cercando di dirmi: «Zio Boaz... le tue pulsazioni sono troppo cariche per un marmocchio come me. Zio Boaz... per favore, suona un po' di bella musica dolce e facile, da mangiare». È questo che stai cercando di dire? Boaz rivolse la sua attenzione all'harmonium sul braccio destro. La creatura non si era mossa. — E tu non sei il tipo tranquillo? — chiese Boaz alla creatu-
ra, con il pensiero. — Non parli molto, ma continui a pensare, sempre. Credo che tu pensi che il vecchio Boaz è meschino perché non suona sempre la musica, eh? L'harmonium sul braccio sinistro tornò ad agitarsi. — Cos'hai detto? — domandò Boaz con il pensiero. Inclinò la testa e finse di ascoltare, sebbene il suono non potesse propagarsi nel vuoto in cui viveva. — Hai detto: «Ti prego, Re Boaz, suonaci l'Ouverture 1812»? — Boaz si mostrò scandalizzato, poi severo. — Solo perché qualcosa è migliore di tutto il resto — asserì con il pensiero, — non significa che vada bene per te. Gli studiosi che si occupano della Guerra Marziana si stupiscono spesso della bizzarra disuguaglianza dei preparativi bellici di Rumfoord. In certi campi, i suoi piani erano stati orribilmente fragili. Le scarpe che forniva alla truppa ordinaria, per esempio, erano quasi una satira sulla temporaneità della società costruita su Marte... una società il cui unico scopo era distruggere se stessa per unire i popoli della Terra. Nelle nastroteche che Rumfoord scelse personalmente per le navi-madre delle compagnie, tuttavia, si può scorgere un gigantesco nucleo culturale... un nucleo culturale preparato quasi per una civiltà monumentale che dovesse durare mille anni terrestri. Si è detto che Rumfoord dedicò piú tempo alle inutili nastroteche musicali che all'artiglieria e ai servizi sanitari messi insieme. Come afferma un detto anonimo: «L'esercito marziano arrivò con trecento ore di musica continua, e non durò abbastanza per ascoltare fino alla fine il Valzer di un minuto». La spiegazione della bizzarra importanza attribuita alla musica trasportata dalle navi-madre marziane è semplice: Rumfoord andava pazzo per la buona musica... una mania, sia detto fra parentesi, che l'aveva colpito soltanto dopo che era stato sparso attraverso il tempo e lo spazio dell'infundibolo cronosinclastico. Gli harmonium nelle grotte di Mercurio andavano pazzi a loro volta per la buona musica. Si erano nutriti per secoli d'una
sola nota sostenuta nel canto di Mercurio. Quando Boaz fece loro assaggiare per la prima volta la musica, che per caso fu La sagra della primavera, alcune di quelle creature morirono letteralmente di estasi. Un harmonium morto è rugoso e arancione, nella luce gialla delle grotte di Mercurio. Un harmonium morto sembra un'albicocca secca. In quella prima occasione, che non era stata intesa come un concerto per gli harmonium, il registratore era posato sul pavimento dell'astronave. Le creature che erano morte di estasi erano state in contatto diretto con lo scafo metallico della nave. Ora, due anni e mezzo piú tardi, Boaz mostrò il modo adatto per organizzare un concerto per quelle creature senza ucciderle. Boaz lasciò la grotta-casa, portando con sé il registratore e i nastri scelti per il concerto. Nel corridoio esterno c'erano due tavole per stirare, fatte d'alluminio. Avevano imbottiture di fibra sui piedi. Le tavole per stirare distavano due metri una dall'altra, e reggevano una specie di barella fatta di sbarre d'alluminio e di tela di lichene. Boaz posò il registratore in mezzo alla barella. La funzione del congegno risultante era diluire e diluire e diluire le vibrazioni del registratore. Le vibrazioni, prima di raggiungere il pavimento di pietra, dovevano farsi faticosamente strada attraverso la tela morta della barella, giú per i manici della barella, attraverso le tavole per stirare, e infine attraverso le imbottiture di fibra ai piedi delle tavole per stirare. Quella diluizione era una misura di sicurezza. Assicurava che nessun harmonium ricevesse una dose eccessiva e letale di musica. Boaz mise il nastro nel registratore e lo accese. Durante tutto il concerto, avrebbe montato la guardia all'apparecchiatura. Il suo dovere era di stare attento che nessuna creatura strisciasse troppo vicina a quel congegno. Il suo dovere, quando una creatura si avvicinava troppo, era di staccarla dalla parete o dal pa-
vimento, sgridarla e appiccicarla a una distanza di cento metri o piú. — Se non hai abbastanza buonsenso — diceva con il pensiero all'harmonium scioccherello, — dovrai rimanere qui per sempre. Pensaci. In realtà, una creatura piazzata a un centinaio di metri dal registratore aveva ancora moltissima musica da mangiare. Le pareti delle grotte erano così straordinariamente conduttive, infatti, che gli harmonium appesi alle pareti a una distanza di molti chilometri coglievano attraverso la pietra sprazzi dei concerti di Boaz. Unk, che aveva seguito le impronte addentrandosi sempre piú. nelle grotte, potè capire dal comportamento degli harmonium che Boaz stava organizzando un concerto. Aveva raggiunto un livello piuttosto caldo, dove gli harmonium erano fitti. Il loro disegno regolare, alternato di giallo e di rombi d'acquamarina, si stava spezzando: degenerava in gruppetti irregolari, ruote e folgori. Era la musica, che li spingeva a far questo. Unk depose il suo zaino, poi si sdraiò per riposare. Unk sognò colori che non erano giallo e acquamarina. Poi sognò che il suo buon amico Stony Stevenson io stava aspettando oltre la prossima svolta. La sua mente si ravvivò al pensiero delle cose che lui e Stony si sarebbero detti quando si fossero incontrati. La mente di Unk non aveva ancora un volto da abbinare al nome di Stony Stevenson, ma questo non aveva molta importanza. — Che coppia! — si disse Unk. Con questo intendeva che lui e Stony, insieme, sarebbero stati invincibili. — Ti dico — si disse Unk con soddisfazione, — che vogliono tenerci divìsi a tutti i costi. Se il vecchio Stony e il vecchio Unk ritorneranno insieme, gli altri faranno bene a stare in guardia. Quando il vecchio Stony e il vecchio Unk sono insieme, può capitare di tutto, e di solito capita. Il vecchio Unk ridacchiò.
La gente che avrebbe dovuto aver paura della riunione di Unk e Stony era la gente che abitava nei grandi e bellissimi palazzi lassù. L'immaginazione di Unk aveva fatto moltissimo, in tre anni, partendo dalle rapide visioni avute dei presunti palazzi... che in realtà erano cristalli massicci, morti, gelidi. L'immaginazione di Unk era ormai certa che i signori di tutta la creazione vivessero in quei palazzi. Erano i carcerieri di Unk e Boaz e forse anche di Stony. Stavano facendo un esperimento con Unk e Boaz nelle grotte. Scrivevano messaggi con gli harmonium. Gii harmonium non avevano nulla a che fare con i messaggi. Unk sapeva per certo tutte queste cose. Unk sapeva per certo moltissime cose. Sapeva persino come erano ammobiliati i palazzi lassù. I mobili non avevano gambe. Galleggiavano nell'aria, sospesi dal magnetismo. E la gente non lavorava mai, e non si preoccupava mai di nulla. Unk odiava quella gente. E odiava anche gli harmonium. Strappò un harmonium da una parete e lo lacerò in due. L'harmonium si raggrinzì immediatamente... divenne color arancio. Unk scagliò contro il soffitto il cadavere bipartito. E, alzando lo sguardo al soffitto, vide che c'era scritto un nuovo messaggio. Il messaggio si stava disintegrando, a causa della musica. Ma era ancora leggibile. Il messaggio diceva a Unk come fuggire dalle caverne in modo sicuro, facile e rapido. Ora che gli era stata data la soluzione del rompicapo che non era riuscito a risolvere in tre anni, era costretto ad ammettere che il rompicapo era stato semplice ed equo. Unk si affrettò, attraverso le grotte, fino a che giunse nel luogo in cui Boaz teneva il concerto per gli harmonium. Unk era agitato e sconvolto dalla grande notizia. Non poteva parlare nel
vuoto, così trascinò Boaz nell'astronave. Lì, nell'atmosfera inerte della cabina, Unk parlò a Boaz del messaggio che significava la fuga dalle grotte. Toccò a Boaz reagire stolidamente. Boaz si era lasciato affascinare dalla piú vaga illusione d'intelligenza da parte degli harmonium... ma adesso, dopo aver sentito che stava per essere liberato dalla sua prigione, era stranamente riservato.. — Questo... questo spiega l'altro messaggio — disse Boaz sottovoce. — Che altro messaggio? — chiese Unk. Boaz alzò le mani per riferire un messaggio che era apparso sulla parete fuori di casa sua, quattro giorni terrestri innanzi. — Diceva: «BOAZ, NON ANDARE!» — rispose Boaz. Abbassò lo sguardo, imbarazzato. — «NOI TI AMIAMO, BOAZ!». Ecco cosa diceva. Boaz lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e si voltò come se si distogliesse da una bellezza insopportabile. — L'ho visto — disse, — e ho dovuto sorridere. Ho guardato quelle dolci e gentili creature sulla parete, e ho detto a me stesso: «Ragazzi... come può andare da qualche parte il vecchio Boaz? Il vecchio Boaz resterà qui ancora per un bel po'!». — È una trappola! — asserì Unk. — Che cosa è? — disse Boaz. — Una trappola! — ripetè Unk. — Un trucco per tenerci tutti qui! Il fascicolo di fumetti intitolato Titi e Silvestro era aperto sulla tavola davanti a Boaz. Boaz non rispose subito a Unk. Sfogliò il fascicolo malconcio, invece. — Io aspetto — disse finalmente. Unk pensò a quell'appello pazzesco in nome dell'amore. Fece qualcosa che non faceva da molto tempo. Rise. Pensò che fosse una conclusione isterica dell'incubo... quelle stupide membrane appese alle pareti che parlavano d'amore! Boaz abbrancò Unk di colpo e scosse le sue povere ossa ari-
de. — Ti sarei grato, Unk — disse Boaz piccato, — se mi lasciassi pensare quello che penserò di quel messaggio con cui mi dicono di amarmi. Voglio dire... sai... non è necessario che abbia senso, per te. Voglio dire... sai... tu non hai il diritto di dire niente in proposito, in un modo o nell'altro. Voglio dire... sai... questi animali non ti riguardano. Non è necessario che tu li ami, o che li capisca, o che parli di loro. Voglio dire... sai... Il messaggio non era indirizzato a te. Sono io quello che dicono di amare. E questo esclude te. Lasciò andare Unk e rivolse di nuovo la sua attenzione al fascicolo di fumetti. Il suo dorso ampio, bruno, dai muscoli poderosi, sbalordì Unk. Vivendo separato da Boaz, Unk si era lusingato di essere fisicamente uguale a Boaz. E adesso vedeva che era stata una patetica illusione. I muscoli del dorso di Boaz scivolavano uno sull'altro in lenti disegni che facevano da contrappunto al rapido movimento delle sue dita che voltavano le pagine. — Tu sai tante cose sulle trappole e tutto il resto — continuò Boaz. — E come fai a sapere che non ci sia una trappola anche peggiore che ci aspetta, se ce ne andiamo da qui? Prima che Unk potesse rispondergli, Boaz ricordò di aver lasciato il registratore acceso e incustodito. — Non c'è nessuno che li sorvegli! — gridò. Lasciò Unk e corse a salvare gli harmonium. Mentre Boaz era assente, Unk fece progetti per capovolgere l'astronave. Quella era la soluzione del rompicapo. Era quello che avevano detto gli harmonium sul soffitto: UNK, CAPOVOLGI LA NAVE. La teoria di capovolgere la nave era ragionevole, naturalmente. Il meccanismo senziente della nave era sul fondo. Capovolta, la nave sarebbe stata in grado di applicare, per uscire dalle grotte, la stessa eleganza e intelligenza che aveva usato
nel discendere. Grazie a un argano elettrico e alla lieve gravità delle grotte di Mercurio, Unk capovolse la nave prima che Boaz ritornasse. Tutto quello che rimaneva da fare per uscire era premere il pulsante via. LA nave capovolta avrebbe premuto contro il pavimento della grotta, avrebbe rinunciato, e si sarebbe ritirata dal pavimento con l'impressione che il pavimento fosse un soffitto. Sarebbe risalita per il sistema di camini e avrebbe inevitabilmente trovato la via d'uscita, con l'impressione di cercare la cavità piú profonda. La cavità in cui alla fine si sarebbe trovata sarebbe stato l'abisso senza fondo e senza lati dello spazio eterno. Boaz entrò nella nave capovolta, con le braccia cariche di harmonium morti. Portava un gallone o piú di quelle che parevano albicocche secche. Come era inevitabile, ne lasciò cadere qualcuna. E, quando si chinò per raccoglierle con reverenza, ne lasciò cadere altre. Le lacrime gli scorrevano sul viso. — Vedi? — disse Boaz. Era infuriato disperatamente con se stesso. — Vedi, Unk? Vedi cosa succede quando qualcuno si allontana e si dimentica? Boaz scosse il capo. — Non sono tutti — continuò. — Non sono che una piccola parte. — Trovò una scatola vuota che un tempo aveva contenuto delle caramelle. Vi mise i cadaveri degli harmonium. Si rialzò, con le mani sui fianchi. Come era rimasto sbalordito delle condizioni fisiche di Boaz, Unk era sbalordito, adesso, della dignità di Boaz. Boaz, quando si raddrizzò, era un Ercole saggio, serio, piangente, bruno. Unk, al confronto, si sentiva sparuto, sradicato, afflitto dal mal di testa. — Vuoi fare la divisione, Unk? — chiese Boaz. — Divisione? — disse Unk.
— Pillole-per-scemi, viveri, gassose, caramelle — spiegò Boaz. — Dividere tutto? — fece Unk. — Mio Dio... ce n'è abbastanza di tutto per cinquecento anni. — Non avevano mai parlato di dividere, prima. Non c'era mai stata scarsità né minaccia di scarsità. — Metà per te, da portare via, e metà da lasciare qui con me — disse Boaz. — Lasciare con te? — ripetè Unk, incredulo. — Tu... tu vieni con me, no? Boaz alzò la grande destra, e fu un gesto tenero per chiedere silenzio, un gesto compiuto da un essere umano grande sotto ogni aspetto. — Non ventarmi, Unk — disse Boaz, — e io non venterò te. — Si asciugò le lacrime con un pugno. Unk non era mai stato capace di respingere quella supplica sulla verità. Lo spaventava. Una parte della sua mente lo ammoniva che Boaz non stava bluffando, che Boaz conosceva veramente una verità sui conto di Unk che poteva farlo a pezzi. Unk aprì la bocca e la richiuse. — Tu sei venuto a portarmi la grande notizia — disse Boaz. — «Boaz, saremo liberi!», hai dichiarato. E io mi eccito, e lascio perdere tutto quello che sto facendo, e mi preparo a essere libero. «E continuo a dirmi che sarò libero e poi cerco di pensare come sarà, e tutto quello che riesco a vedere è la gente. Mi spinge dì qua e poi mi spinge di là... e non gli va bene niente, e diventa sempre piú feroce, perché niente la rende felice. E se la prende con me perché io non l'ho resa felice, e tutti continuiamo ad arrabattarci. «E poi, all'improvviso ricordo tutti i piccoli pazzi animali che ho reso così felici, così facilmente, con la musica. E ne trovo a migliaia, morti, perché Boaz si era dimenticato di loro, si era tanto esaltato al pensiero di essere libero. E io avrei potuto
salvare tutte le loro vite perdute, se avessi pensato a quello che facevo. «E poi mi dico: "Non sono mai stato utile alia gente, e la gente non è mai stata utile a me. Quindi, perché voglio essere libero in mezzo a una folla di gente?". «E poi ho capito quello che ti avrei detto, Unk, quando sono tornato qui», concluse Boaz. Boaz lo disse: — Mi sono trovato un posto dove posso fare del bene senza fare del male, e capisco che io faccio del bene, e quelli cui faccio del bene sanno che lo faccio, e mi amano, Unk, come possono. Mi sono trovato una casa. «E quando morirò qui, un giorno, potrò dire a me stesso: "Boaz, tu hai reso un milione di vite degne di essere vissute. Nessuno ha mai donato piú gioia. Non hai un solo nemico in tutto l'Universo". — Boaz divenne per se stesso il padre e la madre affettuosi che non aveva mai avuto. — Dormi, adesso — disse a se stesso, immaginandosi su un roccioso ietto di morte nelle grotte. — Sei un bravo ragazzo, Boaz. Buonanotte»..
CAPITOLO DECIMO UN'ERA DI MIRACOLI «Oh Signore Altissimo, Creatore degli Universi, Tessitore delle Galassie, Anima delle Onde Elettromagnetiche, oh Tu che respiri inconcepibili volumi di Vuoto Siderale, oh Tu che scagli Fuoco e Rocce, oh Tu che scherzi con i Millenni... cosa possiamo fare noi per Te che Tu non possa dare da Solo un settilione di volte meglio? Cosa potremmo dare o dire che possa interessarti? Nulla. Oh, Umanità, rallegrati nell'apatia del nostro Creatore, perché ci rende finalmente liberi e sinceri e dignitosi. Uno sciocco come Malachi Constant non può piú indicare un ridicolo caso di fortuna e dire: "Lassù qualcuno mi ha in simpatia". E un tiranno non può piú dire: "Dio vuole che accada questo e, quest'altro, e chi non contribuisce a che questo e quest' altro accada è contro Dio". Oh Signore Altissimo, che arma gloriosa è la Tua Apatia, perché noi l'abbiamo sfoderata, abbiamo inferto con essa colpi poderosi di punta e di taglio, e i discorsi che così spesso ci hanno resi schiavi o ci hanno condotti alla follia giacciono morti». REVERENDO C. HORNER REDWINE
Era un martedì pomeriggio. Era primavera, nell'emisfero settentrionale della Terra. La Terra era verde e ricca di acque. L'aria della Terra era buona da respirare, nutriente come la panna. La purezza delle piogge che cadevano sulla Terra poteva essere assaporata. Il sapore della purezza era squisitamente acre. La Terra era calda. La superficie della Terra si sollevava e ribolliva in feconda irrequietudine. La Terra era piú fertile dove c'era piú morte. La pioggia squisitamente acre cadeva su un luogo verde dove c'era molta morte. Cadeva su un cimitero d'una chiesa di campagna, nel Nuovo Mondo. Il cimitero era a West Barnstable, Cape Cod, Massachusetts, Stati Uniti d'America. Il cimite-
ro era pieno e gli spazi tra i morti di morte naturale erano occupati dai corpi dei venerati caduti di guerra. Marziani e terrestri giacevano fianco a fianco. Non c'era un paese al mondo che non avesse cimiteri con terrestri e marziani sepolti fianco a fianco. Non c'era un paese al mondo che non avesse combattuto una battaglia nella guerra di tutta la Terra contro gli invasori di Marte. Era stato tutto perdonato. Tutti gli esseri viventi erano fratelli, e tutti gli esseri morti lo erano ancora di piú. La chiesa, che stava acquattata tra le lapidi come un'umida madre dodo, era stata in tempi successivi presbiteriana, congregazionalista, unitaria e universale apocalittica. Adesso era la Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente. Un uomo che sembrava un selvaggio stava nel cimitero, guardando stupito l'aria che sapeva di panna, il verde, l'umidità. Era quasi nudo, e la sua barba e i suoi capelli nerazzurri erano aggrovigliati, lunghi e spruzzati di grigio. L'unico indumento che portava era un perizoma tintinnante, fatto di chiavi inglesi e di filo di rame. Quell'indumento copriva le sue vergogne. La pioggia gli scorreva sulle guance umide. Rovesciò all'indietro il capo per beila. Posò la mano su una lapide, piú per sentirne il contatto che per cercarne il sostegno. Era abituato al contatto delle pietre.., era mortalmente abituato al contatto di pietre scabre e aride. Ma pietre umide, pietre muscose, pietre squadrate e scolpite dagli uomini... non toccava pietre come quelle da molto, molto tempo. Pro patria, diceva la pietra che stava toccando. Quell'uomo era Unk. Era tornato in patria, da Marte e da Mercurio. La sua astronave era atterrata in un bosco vicino al cimitero. Era saturo della violenza tenera e incurante di un uomo la cui vita è stata crudelmente sprecata.
Unk aveva quarantatré anni. Aveva tutte le ragioni per avvizzire e per morire. Tutto ciò che So teneva in vita era un desiderio piú meccanico che emotivo. Desiderava riunirsi con Bee, la sua compagna, con Crono, suo figlio, e con Stony Stevenson, il suo migliore, unico amico. Il reverendo C. Horner Redwine era ritto sul pulpito della sua chiesa, in quel piovoso martedì pomeriggio. Non c'era nessun altro nella chiesa. Redwine era salito sul pulpito soltanto per essere felice il piú possibile. Non era felice quanto era possibile esserlo in circostanze avverse. Era felice come era possibile esserlo in circostanze straordinariamente felici... perché era un ministro molto amato di una religione che non solo prometteva, ma realizzava miracoli. La sua chiesa, la Prima Chiesa di Dio Assolutamente indifferente a Barnstable, si chiamava anche in un altro modo: La Chiesa detto Stanco Vagabondo dello Spazio. Quel nome era giustificato da questa profezia: uno sbandato dell'esercito di Marte sarebbe arrivato un giorno alla chiesa di Redwine. La chiesa era pronta per il miracolo. C'era un chiodo di ferro forgiato a mano piantato nel vecchio palo di quercia dietro il pulpito. Il palo reggeva la trave poderosa del tetto. E al chiodo era appeso un attaccapanni incrostato di pietre semipreziose. E all'attaccapanni era appeso un abito in una sacca di plastica trasparente. La profezia diceva che lo stanco Vagabondo dello Spazio sarebbe stato nudo, e che l'abito gli sarebbe calzato come un guanto. L'abito era fatto in modo da adattarsi bene soltanto all'uomo cui era destinato. Era in un solo pezzo, giallo-limone, impermeabilizzato, chiuso da una cerniera lampo, e idealmente aderente alla pelle. L'indumento non era alla moda. Era una creazione speciale per aggiungere fascino al miracolo. Cuciti sul petto e sulla fronte c'erano punti interrogativi aran-
cione alti un piede. Significavano che il Vagabondo dello Spazio non avrebbe saputo chi era. Nessuno avrebbe saputo chi era fino a che Winston Niles 'Rumfoord, il capo di tutte le chiese di Dio Assolutamente indifferente, avesse detto al mondo il nome del Vagabondo dello Spazio. Se il Vagabondo dello Spazio fosse arrivato, Redwine avrebbe dovuto suonare a distesa la campana della chiesa. Quando la campana avesse suonato a distesa, i parrocchiani dovevano sentirsi in estasi, abbandonare tutto ciò che stavano facendo, ridere, piangere, accorrere. Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco Volontari di West Barnstable era così dominato dai membri della chiesa di Redwine che sarebbe arrivato addirittura il camion dei pompieri, poiché era il solo veicolo abbastanza glorioso per il Vagabondo dello Spazio. L'urlo della sirena antincendio in cima alla caserma dei pompieri doveva aggiungersi alla caotica gioia della campana. Un fischio della sirena significava un incendio in un prato o in un bosco. Due fischi significavano un incendio in una casa. Tre fischi significavano un'operazione di salvataggio. Dieci fischi avrebbero significato che era arrivato il Vagabondo dello Spazio. L'acqua filtrava attorno al telaio difettoso d'una finestra. L'acqua strisciava sotto una tegola smossa del tetto, cadeva da una fessura, e pendeva in gocce scintillanti da una trave sopra la testa di Redwine. La buona pioggia inumidiva la vecchia campana di Paul Revere8, appesa nel campanile, ruscellava lun8
Paul Revere fu un famoso patriota del Massachusetts che, durante la guerra d'indipendenza, svegliò gli altri patrioti nel cuore della notte per avvertirli che gli inglesi stavano uscendo da Boston per impadronirsi dei depositi di armi di Lexington e di Concord. così fu possibile fermare gli inglesi. Revere, inoltre, fu famoso per l'abilità con cui lavorò i metalli: fece splendidi pezzi d'argenteria, e campane dal suono dolcissimo. Molte chie-
go la corda della campana, bagnava il pupazzo di legno legato in fondo alla corda della campana, sgocciolava dai piedi del pupazzo, e formava una pozzanghera sul pavimento del campanile. Il pupazzo aveva un significato religioso. Rappresentava un ripugnante modo di vivere che non esisteva piú. Era un Malachi. Nessuna casa e nessun luogo di lavoro d'un membro della fede di Redwine erano privi di un Malachi appeso in qualche posto. C'era un solo modo adatto per appendere un Malachi. Per il collo. C'era un solo nodo adatto da usare, ed era un nodo da carnefice. E la pioggia sgocciolava dai piedi del Malachi di Redwine, in fondo alla corda della campana... La primavera fredda e maligna del croco era passata. La primavera fragile, gelida e fatata dell'asfodelo era passata. Era giunta la primavera dell'umanità, e i fiori del pergolato di lillà fuori dalla chiesa di Redwine pendevano pesanti, carichi come grappoli d'uva. Redwine ascoltava la pioggia e immaginava che parlasse un inglese chauceriano. Pronunciava a voce aita le parole che immaginava che la pioggia stesse dicendo; le pronunciava arrnoniosamente, come il suono uguale della pioggia. Quando aprile con l'aque intenerisce Lo alidor che dié marzo alla radice, Orme vena infundendo di licore Che per virtude genera lo flore...9 Una gocciolina cadde scintillando dalla trave, e inumidì la se, compresa una che sorge a due miglia da casa mia, hanno campane fatte da Paul Revere tanto tempo fa, intorno al 1776. (Nota dell'autore all'edizione italiana). 9 La citazione è tolta dal primo dei Canterbury Tales di Chaucer. (Nota dell'autore all'edizione italiana).
lente sinistra degli occhiali di Redwine e la sua guancia di mela. Il tempo era stato buono, con Redwine. Ritto sul pulpito, sembrava un giovane strillone di campagna, rubizzo e occhialuto, sebbene avesse quarantanove anni. Alzò la mano per togliersi l'umidità dalla guancia, e fece tintinnare il sacchetto di tela azzurra pieno di pallini di piombo che portava legato attorno al polso. Portava altri sacchetti di pallini di piombo appesi alle caviglie e all'altro polso, e due pesanti lastre di ferro appese alle spalle per mezzo di cinghie: una lastra sui petto e una sul dorso. Quei pesi erano i suoi intralci nella corsa della vita. Portava venti chili... li portava lietamente. Una persona piú forte ne avrebbe portati di piú, una persona piú debole ne avrebbe portati di meno. Tutti i robusti aderenti alla fede di Redwine accettavano lietamente quegli intralci, e li portavano con orgoglio dovunque. I piú deboli e i piú timidi erano costretti ad ammettere, finalmente, che la corsa della vita era equa. Le liquide melodie della pioggia formavano un sottofondo così splendido per qualsiasi recitazione nella chiesa vuota che Redwine continuò a recitare per un poco. Questa volta recitò qualcosa che aveva scritto Winston Niles Rumfoord, il Maestro di Newport. Ciò che Redwine stava per recitare con il coro della pioggia era una cosa che il Maestro di Newport aveva scritto per definire la propria posizione rispetto ai suoi ministri, la posizione dei suoi ministri rispetto ai loro greggi, e la posizione di tutti rispetto a Dio. Redwine lo leggeva al suo gregge il primo sabato di ogni mese. — Non sono vostro padre — disse Redwine. — Chiamatemi fratello, piuttosto. Ma non sono vostro fratello. Chiamatemi figlio, piuttosto. Ma non sono vostro figlio. Chiamatemi cane,
piuttosto. Ma non sono il vostro cane. Chiamatemi piuttosto una pulce del vostro cane. Ma non sono una pulce. Chiamatemi piuttosto un germe su una pulce sul vostro cane. Come germe su una pulce sul vostro cane, sono ansioso di servirvi in tutti i modi che posso, così come voi siete disposti a servire Dio Onnipotente, Creatore dell'Universo. Redwine batté le mani, uccidendo la pulce immaginaria infestata dal germe. Il sabato, l'intera congregazione schiacciava la pulce all'unisono. Un'altra goccia cadde tremolando dalla trave e inumidì di nuovo la guancia di Redwine. Redwine fece un cenno di dolce ringraziamento per la goccia, per la chiesa, per la pace, per il Maestro di Newport, per la Terra, per un Dio che non se ne interessava, per tutto. Scese dal pulpito, facendo dondolare avanti e indietro, con un ritmo maestoso, i pallini di piombo nei sacchetti. Percorse la corsia e passò sotto l'arcata che portava al campanile. Si fermò accanto alla pozzanghera sotto la corda della campana, poi alzò lo sguardo per indovinare la strada che l'acqua aveva preso per scendere. Era un modo meraviglioso perché la pioggia primaverile entrasse, stabilì. Se mai gli fosse toccato di modificare la chiesa, avrebbe fatto in modo che le intraprendenti gocce di pioggia potessero continuare a scendere in quel modo. Subito oltre l'arcata sotto il campanile c'era un'altra arcata, un'arcata fiorita di lillà. Redwine si fermò sotto quella seconda arcata, vide nel bosco l'astronave simile a una grande bolla, vide il Vagabondo dello Spazio, nudo e barbuto, nel suo cimitero. Redwine gridò di gioia. Tornò correndo nella chiesa e tirò la corda della campana come uno scimpanzé ubriaco. Nel fragore delle campane, Redwine udì le parole che, secondo il Maestro di Newport, dicevano le campane. — NIENT'INFERNO! — strepitò la campana.
«NIENT'INFERNO... «NIENT'INFERNO!». Unk fu atterrito dalla campana. A Unk sembrava una campana incollerita e spaventata, e ritornò correndo alla sua nave, graffiandosi dolorosamente la pelle mentre scavalcava un muro di pietra. Mentre chiudeva il portello, udì una sirena ululare risposte alla campana. Unk pensò che la Terra fosse ancora in guerra con Marte, e che la sirena e la campana stessero attirando su di lui una rapida morte. Premette il pulsante via. Il navigatore automatico non reagì immediatamente ma incominciò una discussione confusa e inconcludente con se stesso. La discussione si concluse quando il navigatore si spense. Unk tornò a premere il pulsante via. Questa volta lo tenne premuto schiacciandolo con il tacco. Ancora una volta il navigatore discusse stupidamente con se stesso e cercò di spegnersi. Quando scoprì che non poteva spegnersi, emise un sudicio fumo giallo. Il fumo divenne così denso e velenoso che Unk fu costretto a inghiottire una pillola-per-scemi e a praticare di nuovo la respirazione Schliemann. Poi il pilota-navigatore emise una nota d'organo profonda e vibrante e morì, per sempre. Non era piú possibile decollare. Quando il pilota-navigatore moriva, l'intera astronave moriva. Unk attraversò il fumo e si diresse verso un oblò. Guardò fuori. Vide una macchina dei pompieri. La macchina dei pompieri stava facendo irruzione attraverso i cespugli, verso l'astronave. Uomini, donne e bambini erano aggrappati alla macchina... fradici di pioggia e con espressioni d'estasi. Davanti alia macchina dei pompieri veniva il reverendo C, Horner Redwine. In una mano portava un abito giallo-limone in un sacco di plastica trasparente. Nell'altra mano teneva un
fascio di lillà appena recisi. Le donne lanciarono baci a Unk attraverso gli oblò, e sollevarono i loro bambini perché vedessero l'uomo adorabile che stava nell'astronave. Gli uomini restarono con la macchina dei pompieri, gridarono evviva a Unk, si gridarono evviva l'uno all'altro, gridarono evviva a tutto. L'autista lanciò grandi sbuffi dal tubo di scappamento, fece suonare la sirena e squillare la campana. Tutti portavano intralci di qualche tipo. Quasi tutti gli intralci erano di tipo ovvio... pesi attaccati alla cintura, sacchetti di pallini, vecchie grate di stufe... che dovevano annullare i vantaggi fisici. Ma c'erano, fra i parrocchiani di Redwine, parecchi veri credenti che avevano scelto intralci d'una specie piú sottile e piú eloquente. C'erano donne che avevano ricevuto, per un colpo di fortuna cieca, il terrificante vantaggio della bellezza. Avevano annullato quell'ingiusto vantaggio con vestiti miseri, portamento inelegante e un uso spettrale dei cosmetici. Un vecchio, il cui unico vantaggio era una vista eccellente, l'aveva guastata portando gli occhiali della moglie. Un giovanotto bruno, il cui predace fascino virile non poteva essere rovinato da abiti miseri e dalle cattive maniere, si era svantaggiato con una moglie che era nauseata del sesso. La moglie dei giovanotto bruno, che aveva motivo di essere orgogliosa del suo distintivo del Phi Beta Kappa10, si era svantaggiata con un marito che leggeva soltanto i fumetti. La congregazione di Redwine non era unica. Non era particolarmente fanatica. C'erano letteralmente miliardi di persone che si autosvantaggiavano allegramente, sulla Terra. E ciò che li rendeva tutti così felici era che nessuno approfittava piú degli altri. I pompieri pensarono a un altro modo per esprimere la loro gioia. C'era un tubo montato nel mezzo della loro macchina. 10
Una confraternita universitaria molto esclusiva e aristocratica (n.d.L).
Poteva essere fatto girare intorno come una mitragliatrice. Lo puntarono verso l'alto e l'aprirono. Una fontana tremante e malsicura salì nel cielo; fu sbrindellata dal vento, quando non potè piú salire. I brandelli piovvero tutt'intorno, ora ricadendo sull'astronave con tonfi scroscianti, ora innaffiando gli stessi pompieri, ora bagnando le donne e i bambini, sorprendendoli, e poi rendendoli piú che mai pieni di gioia. Il fatto che l'acqua dovesse avere una parte così importante nel benvenuto dato a Unk era un caso affascinante. Nessuno l'aveva prestabilito. Ma era perfetto che ciascuno dimenticasse se stesso in un festival di universale umidità. Il reverendo C. Horner Redwine, che si sentiva nudo come un folletto dei boschi nell'aderente umidità dei suoi abiti, batté un ramo di lillà sul vetro di un oblò, poi premette il viso adorante contro il vetro. L'espressione del viso che restituì lo sguardo a Redwine era sorprendentemente simile all'espressione del viso d'una scimmia' intelligente in uno zoo. La fronte di Unk era solcata da rughe profonde e i suoi occhi erano liquidi di un disperato desiderio di comprendere. Unk aveva deciso di non avere paura. E non aveva neppure fretta di lasciar entrare Redwine. Finalmente si avvicinò all'ingresso e aprì le serrature del portello interno e di quello esterno. Indietreggiò, aspettando che qualcun altro spalancasse i portelli. — Prima lasciate che io entri e che gli faccia indossare l'abito — disse Redwine alla sua congregazione. — Poi lo lascerò a voi! Là nell'astronave, l'abito giallo-limone si adattava a Unk come una mano di vernice. I punti interrogativi color arancione sul petto e sul dorso aderivano senza una grinza. Unk non sapeva ancora che nessun altro al mondo era vestito come lui. Pensò che molta gente avesse abiti come il suo... con punti interrogativi e tutto.
— Questa... questa è la Terra? — chiese Unk a Redwine. — Sì — disse Redwine. — Cape Cod, Massachusetts, Stati Uniti d'America, Fratellanza dell'Uomo. — Grazie a Dio! — esclamò Unk. Redwine alzò le sopracciglia, perplesso. — Perché? — disse. — Prego? — fece Unk. — Perché ringraziare Dio? — replicò Redwine. — A Lui non importa ciò che succede a te. Non si è dato da fare per portarti qui sano e salvo piú di quanto si darebbe da fare per ucciderti. — Alzò le braccia, dimostrando la muscolosità della sua fede. I pallini di piombo nei sacchetti appesi ai polsi dondolarono, attirando l'attenzione di Unk. Dai sacchetti-intralci, l'attenzione di Unk fece facilmente un salto alla pesante lastra di ferro sul petto di Redwine. Redwine seguì lo sguardo di Unk e sollevò la lastra di ferro che aveva sul petto. — Pesante — disse. — Uhm — fece Unk. — Dovresti portare una ventina di chili, direi... dopo che ti avremo rimesso in sesto — asserì Redwine. — Venti chili? — ripetè Unk. — Dovresti essere lieto, non triste, di portare questo intralcio — disse Redwine. — Allora nessuno potrebbe rimproverarti di approfittare dei capricci della fortuna. — Nella sua voce si insinuò un tono beatamente minaccioso che non aveva usato molto dopo i primissimi tempi della Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente, dopo le clamorose conversioni in massa che erano seguite alla guerra con Marte. In quei giorni, Redwine e tutti gli altri giovani predicatori avevano minacciato i miscredenti del virtuoso sdegno delle folle... folle virtuosamente sdegnate che allora non esistevano. Ora le folle virtuosamente sdegnate esistevano in ogni parte del mondo. Il totale dei membri delle Chiese di Dio Assolutamente Indifferente ammontava a tre buoni miliardi tondi. I gio-
vani leoni che per primi avevano insegnato quel credo potevano ora permettersi di essere agnellini, di contemplare misteri orientali come lo sgocciolare dell'acqua lungo la corda d'una campana. Il braccio disciplinare della chiesa consisteva ora nelle folle che erano dovunque. — Devo avvertirti — disse Redwine a Unk, — che quando uscirai tra tutta quella gente non dovrai dire nulla per far credere che Dio si sia interessato a te in modo particolare o che tu possa in qualche modo essere d'aiuto a Dio. Il peggio che potresti dire, per esempio, sarebbe qualcosa come: «Ringrazio Dio per avermi liberato di tutti i miei affanni. Per qualche ragione Egli mi ha scelto, e adesso il mio solo desiderio è di servirLo. «Quella folla amichevole là fuori — continuò Redwine, — potrebbe diventare ostile molto rapidamente, nonostante gli alti auspici sotto i quali sei giunto». Unk aveva avuto intenzione di dire quasi alla lettera ciò che Redwine l'aveva avvertito di non dire. Gli era sembrato l'unico discorso adatto. — Cosa... cosa dovrei dire? — chiese Unk. — E stato profetizzato ciò che tu dirai — rispose Redwine, — parola per parola. Ho pensato a lungo e intensamente alle parole che tu dirai, e sono convinto che non sia possibile migliorarle. — Ma io non riesco a pensare nessuna parola... ad eccezione di «salve, grazie...» — disse Unk. — Cosa vuole che dica? — Quello che dirai — replicò Redwine. — Quella brava gente là fuori ha pregustato per molto tempo questo momento. Ti faranno due domande, e tu risponderai meglio che potrai. Guidò Unk fuori, attraverso il portello. La fontana della macchina dei pompieri era stata chiusa. Le grida e le danze erano cessate. La congregazione di Redwine formò un semicerchio attorno a Unk e a Redwine. I membri della congregazione tenevano le
labbra serrate e i polmoni pieni d'aria. Redwine diede un segnale rituale. La congregazione parlò come un sol uomo. — CM sei? — dissero tutti. — Non... non so il mio vero nome — rispose Unk. — Mi chiamavano Unk. — Che cosa ti è successo? — domandò la congregazione. Unk scosse la testa, incerto. Non riusciva a pensare un adeguato condensato delle sue avventure, in quei tono evidentemente rituale. Era chiaro che da lui ci si aspettava qualcosa di grande. E lui non era all'altezza. Respirò rumorosamente, facendo capire ai membri della congregazione che era dispiaciuto di deluderli con la sua mancanza di colore. — Sono stato vittima d'una serie di incidenti — disse. Alzò le spalle. — Come lo siamo tutti. Gli evviva e le danze ricominciarono. Unk fu issato a bordo della macchina dei pompieri, e portato fino alla porta della chiesa. Redwine indicò amabilmente un cartiglio ligneo spiegato, sopra la porta. Incise nel cartiglio, a lettere dorate, c'erano queste parole: SONO STATO VITTIMA D'UNA SERIE DI INCIDENTI COME LO SIAMO TUTTI Unk fu condotto sulla macchina dei pompieri dalla chiesa a Newport, nel Rhode island, dove stava per avvenire una materializzazione. Secondo un piano che era stato preparato da anni, un'altra macchina dei pompieri fu spostata da Cape Cod, in modo da proteggere West Barnstable, che sarebbe rimasta per un po' senza autopompa. La notizia dell'arrivo del Vagabondo dello Spazio si sparse sulla Terra come un incendio. In ogni villaggio, paese e città attraversati dalla macchina dei pompieri, Unk fu bersagliato da
una pioggia di fiori. Unk sedeva alto sulla macchina dei pompieri, su un tronco d' abete di mezzo metro per due metri, posato di traverso nella parte centrale della macchina. Nella parte centrale della macchina c'era il reverendo C. Homer Redwine. Redwine aveva il comando della campana della macchina, e la suonava assiduamente. Attaccato al battaglio della campana c'era un Malachi fatto di plastica resistentissima. Il pupazzo era di un tipo speciale che poteva venire acquistato soltanto a Newport. Esibire un Malachi come quello equivaleva a proclamare di aver fatto un pellegrinaggio a Newport. L'intero Dipartimento dei Vigili del Fuoco Volontari di West Barnstable, con l'eccezione di due nonconformisti, aveva fatto il pellegrinaggio a Newport. Il Malachi della macchina dei pompieri era stato comprato con i fondi del Dipartimento. Nella parlantina dei venditori di oggetti-ricordo di Newport, il Malachi di plastica resistente del Dipartimento Vigili del Fuoco era «un Malachi genovino, autorizzato, ufficiale». Unk era felice, perché era così beilo essere dì nuovo fra la gente e respirare di nuovo aria. E tutti sembravano adorarlo. C'era tanto bel rumore. C'erano tante belle cose. Unk sperava che tutte quelle belle cose continuassero per sempre. — Cosa ti è successo? — gli gridava tutta la gente, e rideva. Per facilitare le comunicazioni di massa, Unk abbreviò la risposta che era tanto piaciuta alla piccola folla vicino alla Chiesa del Vagabondo dello Spazio. — Incidenti! — gridava. Rideva. Oh, ragazzi. Che diavolo. Rideva. A Newport, la tenuta Rumfoord era stipata da otto ore. Le guardie respingevano migliaia di, persone dalla porticina nel muro. Le guardie erano a malapena necessarie, poiché la folla nell'interno era monolitica. Non sarebbe riuscita a entrare neppure un'anguilla unta.
Le migliaia di pellegrini rimasti fuori dalle mura si sospingevano l'un l'altro, piamente, per cercare una posizione piú vicina agli altoparlanti montati agli angoli del muro di cinta. Dagli altoparlanti sarebbe venuta la voce di Rumfoord. Era la folla piú grande e piú eccitata che si fosse mai vista, perché quel giorno era il Grande Giorno del Vagabondo dello Spazio, a lungo promesso. Dovunque si faceva sfoggio degli intralci piú immaginosi ed efficienti! La folla era meravigliosamente scialba e minorata. Anche Bee, che era stata la compagna di Unk su Marte, era a Newport, E c'era anche il figlio di Bee, Crono. — Eh!... Comprate qui i Malachi genovini, autorizzati, ufficiali — disse Bee con voce rauca. — Ehi... Comprate qui i Mala-chi. Dovete avere un Malachi da mostrare al Vagabondo dello Spazio. Comprate un Malachi, perché il Vagabondo dello Spazio possa benedirlo quando passerà. Era nel chiosco di fronte alla porticina di ferro nel muro della tenuta Rumfoord, a Newport. Il chiosco di Bee era il primo nella fila di venti chioschi che fronteggiavano la porta. I venti chioschi erano coperti da un'unica tettoia, ed erano separati uno dall'altro da divisorii che arrivavano alla cintura. I Malachi che Bee stava vendendo erano pupazzi di plastica dalle giunture snodate e dagli occhi di marcassite. Bee li comprava da una fabbrica di articoli religiosi per ventisette centesimi al pezzo e li rivendeva per tre dollari. Era un'eccellente donna d'affari. E, anche se Bee mostrava al mondo un aspetto esteriore efficiente e lampeggiante, era. la sua grandeur interiore che le faceva vendere piú mercanzia. Il fulgore da fiera di Bee attirava So sguardo dei pellegrini. Ma ciò che portava i pellegrini ai suo chiosco e li faceva comprare era la sua aura. Quell'aura diceva senza possibilità di errore che Bee era nata per una posizione molto piú nobile nella vita, e che era per un incredibile capriccio del caso se faceva quel che faceva.
— Ehi!... comprate un Malachi finché siete ancora in tempo — disse Bee. — Non potete comprare un Malachi quando c'è una materializzazione! Questo era vero. Il regolamento stabiliva che i concessionari dovessero chiudere i battenti cinque minuti prima che Winston Niles Rumfoord e il cane si materializzassero. E dovevano tenere i battenti chiusi fino a dieci minuti dopo che l'ultima traccia di Rumfoord e di Kazak era scomparsa. Bee si rivolse a suo figlio Crono, che stava aprendo una cassa di Malachi. — Quanto manca al fischio? — chiese. Il fischio era un grande fischio a vapore nell'interno della tenuta. Fischiava cinque minuti prima delle materializzazioni. Le materializzazioni vere e proprie venivano annunciate da un colpo dì cannone da tre pollici. Le dematerializzazioni venivano annunciate dalla liberazione di mille palloncini. — Otto minuti — rispose Crono, guardando il suo orologio. Adesso aveva undici anni terrestri. Era bruno e cupo, saturo d' una ribellione che covava sotto la cenere. Era un esperto imbrogitone ed abilissimo con le carte. Parlava in modo sboccato e portava un coltello a serramanico con una lama lunga quindici centimetri. Crono non fraternizzava con gli altri ragazzi, e la sua reputazione di trattare coraggiosamente e direttamente la vita era così cattiva che soltanto poche ragazzine molto sciocche e molto graziose si lasciavano attirare da lui. Crono era schedato dal Dipartimento di polizia di Newport e dalla polizia statale del Rhode Island come delinquente precoce. Conosceva per nome di battesimo almeno cinquanta tutori della legge, ed era un veterano di quattordici esami al rivelatore di menzogne. Ciò che impediva di spedire Crono in un istituto correzionale era la migliore organizzazione legale della Terra, l'ufficio legale della Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente. Dietro istru-
zioni di Rumfoord, l'ufficio legale difendeva Crono contro tutte le accuse. Le accuse piú comuni contro Crono erano furto con destrezza, porto d'armi abusivo, possesso di pistole non denunciate, sparatorie nei limiti della città, vendita di oggetti e di pubblicazioni osceni e disubbidienza filiale. Le autorità sostenevano con amarezza che il vero grosso guaio di quel ragazzo era sua madre. Sua madre lo amava così come era. — Ancora otto minuti soltanto per comprare il vostro Malachi, gente — disse Bee. — Affrettatevi, affrettatevi, affrettatevi. Gli incisivi superiori di Bee erano d'oro, e la sua pelle, come la pelle di suo figlio, era color quercia dorata. Bee aveva perduto gli incisivi superiori quando l'astronave su cui lei e Crono venivano portati da Marte era precipitata nella regione dei gumbo, nella foresta amazzonica. Lei e Crono erano stati i soli superstiti dei disastro, e avevano vagato nella giungla per un anno. Il colore della pelle di Bee e di Crono era permanente, poiché derivava da una modificazione del loro fegato. Il loro fegato era stato modificato da una dieta durata tre mesi e consistente di acqua e di radici di salpa-salpa o pioppo azzurro dell'Amazzonia. La dieta aveva fatto parte dell'iniziazione di Bee e di Crono nella tribù dei gumbo. Durante l'iniziazione, madre e figlio erano stati legati alle estremità di due funi, nel mezzo del villaggio, con Crono che rappresentava il Sole e Bee che rappresentava la Luna, così come i gumbo intendevano il Sole e la Luna. A seguito delle loro comuni esperienze, Bee e Crono erano molto piú legati fra loro di gran parte delie madri e dei figli. Alla fine erano stati salvati da un elicottero. Winston Niles Rumfoord aveva mandato l'elicottero al punto giusto nel momento giusto.
Winston Niles Rumfoord aveva dato a Bee e a Crono la lucrosa concessione dei Malachi davanti alla porticina stile Alice nel Paese delle Meraviglie. Aveva pagato anche il conto del dentista di Bee, e aveva consigliato che gli incisivi superiori falsi fossero d'oro. L'uomo che aveva il chiosco vicino a quello di Bee era Harry Brackman. Era stato sergente del plotone di Unk su Marte. Brackman, adesso, era corpulento e quasi calvo. Aveva una gamba di legno e la mano destra di acciaio inossidabile. Aveva perduto la gamba e la mano nella Battaglia di Boca Raton. Era l'unico superstite della battaglia... e, se non fosse stato così orribilmente ferito, sarebbe stato certamente linciato insieme con altri superstiti del suo plotone. Brackman vendeva modellini in plastica della fontana oltre il muro. I modellini erano alti un piede. I modellini avevano pompe a molla, nel piedestallo. Le pompe pompavano l'acqua dalla grande ciotola alla base fino alle minuscole ciotole alla sommità. Poi le minuscole ciotole traboccavano l'acqua nelle ciotole sottostanti un po' piú grandi e... Brackman ne aveva tre che funzionavano sul banco davanti a lui. — Proprio come quella che c'è là dentro, gente — disse. — Potete portarne una a casa. Mettetela sulla finestra, così tutti i vostri vicini sapranno che siete stati a Newport. Mettetela in mezzo alla tavola di cucina nelle festicciole dei vostri bambini, e riempitela di limonata rosa. — Quanto costa? — chiese un campagnolo. — Diciassette dollari — rispose Brackman. — Puah! — fece il campagnolo. — È un oggetto sacro, cugino — replicò Brackman, guardando imparzialmente il campagnolo. — Non è un giocattolo. — Frugò sotto il banco e tirò fuori un modellino di astronave marziana. — Vuole un giocattolo? Questo è un giocattolo. Quarantanove centesimi. Ci, guadagno sopra soltanto due centesi-
mi. Il campagnolo cercò di dimostrarsi un compratore giudizioso. Paragonò il giocattolo con l'originale che doveva rappresentare. L'originale era un'astronave marziana in cima a una colonna alta trenta metri. La colonna e l'astronave erano nell'interno della tenuta Rumfoord... nell'angolo della tenuta dove una volta c'erano stati i campi da tennis. Rumfoord doveva ancora spiegare la funzione dell'astronave, la cui colonna di sostegno era stata costruita con i contributi degli scolaretti di tutto il mondo. La nave veniva tenuta sempre pronta. Appoggiata alla colonna c'era quella che era considerata la scala a pioli piú lunga della storia, che portava vertiginosamente al portello della nave. Nel serbatoio dell'astronave c'era l'ultimo resto della scorta bellica marziana della Volontà Universale di Divenire. — Uh-uh — fece il campagnolo. Depose il modellino sul banco. — Se non le spiace, prima farò ancora qualche altro acquisto. — Fino a quel momento, la sola cosa che aveva comprato era un cappello alla Robin Hood con una foto di Rumfoord da una parte e la figura d'una barca a vela dall'altra, e con il suo nome cucito alla penna. Il suo nome, secondo la penna, era Delbert. — Grazie lo stesso — disse Delbert. — Probabilmente tornerò. — Certo che tornerà, Delbert — replicò Brackman. — Come fa a sapere che mi chiamo Delbert? — chiese Delbert, compiaciuto e sospettoso. — Crede che Winston Niles Rumfoord sia il solo, da queste parti, ad essere dotato di poteri soprannaturali? — disse Brackman. Un getto di vapore si levò entro le mura. Un attimo dopo, la voce del grande fischio a vapore rotolò sul chiosco... possente, lamentosa e trionfante. Era il segnale che Rumfoord e il suo cane si sarebbero materializzati fra cinque minuti.
Era il segnale perché i concessionari smettessero il loro vociare irriverente dì mercanzie e chincaglierie, e chiudessero i battenti. I battenti si chiusero immediatamente, con grande frastuono. L'effetto di quella chiusura, nell'interno dei chioschi, fu di trasformare la fila di privative in una galleria in penombra. L'isolamento dei concessionari nella galleria aveva una bizzarra dimensione di spettralità, poiché la galleria conteneva soltanto superstiti di Marte. Rumfoord aveva insistito, su questo: i marziani dovevano avere la prima opzione sulle privative di Newport. Era il suo modo di dire «Grazie». Non c'erano molti superstiti... soltanto cinquantotto negli Stati Uniti e soltanto trecentosedici in tutto il mondo. Dei cinquantotto che erano negli Stati Uniti, ventuno erano concessionari a Newport. — Ci siamo di nuovo, ragazzi — disse qualcuno, in fondo, molto in fondo alla fila. Era la voce del cieco che vendeva i cappelli alla Robin Hood con la foto di Rumfoord da una parte e una figura di barca a vela dall'altra. Il sergente Brackman appoggiò le braccia incrociate sul divisorio tra il suo chiosco e quello di Bee. Strizzò l'occhio al giovane Crono, che era sdraiato su una cassa chiusa di Malachi. — Vada all'inferno, eh, ragazzo? — disse Brackman a Crono. — Vada all'inferno — convenne Crono. Si stava pulendo le unghie con il pezzo di metallo stranamente piegato, perforato e intaccato che era stato il suo portafortuna su Marte. Era il suo portafortuna anche sulla Terra. Il portafortuna aveva probabilmente salvato la vita a Crono e a Bee nella giungla. Gli uomini della tribù gumbo avevano riconosciuto il pezzo di metallo come un oggetto di tremendo potere. Il loro rispetto per quel pezzo di metallo li aveva indotti a iniziare i suoi proprietari, invece di mangiarseli. Brackman rise affettuosamente.
— Sissignore... ecco un vero marziano — asserì. — Non lascerebbe la sua cassa di Malachi neppure per dare un'occhiata al Vagabondo dello Spazio. Crono non era il solo a provare apatia per il Vagabondo dello Spazio. Era un'orgogliosa e impudente abitudine di tutti i concessionari stare lontani dalle cerimonie... rimanere nella galleria in penombra dei loro chioschi fino a che Rumfoord e il suo cane erano venuti e se ne erano andati. Non che i concessionari disprezzassero davvero la religione di Rumfoord. Anzi, molti di loro pensavano che la nuova religione fosse una cosa ottima. Ciò che sottolineavano drammaticamente, quando rimanevano nei chioschi chiusi, era il fatto che loro, veterani di Marte, avevano già fatto piú che abbastanza per mettere in piedi la Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente. Tutti loro sottolineavano drammaticamente il fatto che ci sì era serviti di loro. Rumfoord li incoraggiava in quell'atteggiamento... parlava con affetto di loro come dei suoi «...santi soldati che stanno davanti alla porticina. La loro apatia», aveva detto Rumfoord una volta, «è la grande ferita che hanno subito perché noi potessimo essere piú vivi, piú sensibili e piú Uberi». La tentazione di dare un'occhiata al Vagabondo dello Spazio era forte nei concessionari marziani. C'erano altoparlanti sopra le mura della tenuta Rumfoord, e ogni parola pronunciata da Rumfoord nell'interno rumoreggiava negli orecchi di chiunque si trovasse entro un raggio di mezzo chilometro. Quelle parole avevano continuato ad annunciare il glorioso momento di verità che sarebbe giunto all'arrivo del Vagabondo dello Spazio. Era un grande momento con cui i veri credenti si lusingavano... Il grande momento in cui i veri credenti avrebbero visto le loro credenze accresciute, chiarite e vivificate nella misura di dieci a uno. Ora quel momento era arrivato.
La macchina dei pompieri che aveva portato il Vagabondo dello Spazio dalla Chiesa del Vagabondo dello Spazio a Cape Cod stava scampanellando e ululando davanti ai chioschi. Gii gnomi nella penombra dei chioschi rifiutarono di guardare. Entro le mura il cannone ruggì. Rumfoord e il suo cane, dunque, si erano materializzati... e il Vagabondo dello Spazio stava varcando la porta stile Alice nel Paese delle Meraviglie. — Probabilmente è qualche attore fallito che hanno assoldato a New York — disse Brackman. Questa frase non ottenne risposta da nessuno, neppure da Crono che si considerava il cinico piú incallito dei chioschi. Brackman non prendeva sul serio la propria affermazione che il Vagabondo dello Spazio fosse un impostore. I concessionari conoscevano anche troppo bene il debole di Rumfoord per il realismo. Quando Rumfoord metteva in scena un dramma passionale, non si serviva d'altro che di persone vere in un inferno vero. Sia permesso sottolineare qui che, sebbene Rumfoord amasse appassionatamente gli spettacoli grandiosi, non cedette mai alla tentazione di proclamarsi Dio o qualcosa di molto simile a Dio. Questo lo ammettono i suoi peggiori nemici. Il dottor Maurice Rosenau, nel suo L'impostura pangalattica o Tre miliardi di gonzi, dice: Winston Niles Rumfoord, fariseo, Tartufo e Cagliostro interstellare, si è preso la pena di dichiarare di non essere Dìo Onnipotente, di non essere un parente stretto di Dio Onnipotente e di non aver ricevuto istruzioni particolareggiate da Dio Onnipotente. A queste parole del Maestro dì Newport possiamo dire «Amen»! E possiamo aggiungere che Rumfoord è così lontano
dall'essere un parente o un agente di Dio Onnipotente da rendere impossibile ogni comunicazione con Dio Onnipotente fino a che Rumfoord è in circolazione! Abitualmente, la conversazione dei veterani marziani nei chioschi chiusi era briosa... brulicava di allegra irriverenza e di allusioni al modo di vendere ai gonzi il ciarpame religioso. Ora che Rumfoord e il Vagabondo dello Spazio stavano per incontrarsi, i concessionari faticavano a non interessarsene. Il sergente Brackman si portò la mano sana alla sommità del capo. Era un gesto caratteristico, per un veterano di Marte. Toccava la zona sopra la sua antenna, sopra l'antenna che un tempo aveva pensato per lui tutti i pensieri importanti. Sentiva la mancanza dì quei segnali. — Conducete qui il Vagabondo dello Spazio! — rumoreggiò la voce di Rumfoord dalle trombe di Gabriele sopra le mura. — Forse... forse dovremmo andare — disse Brackman a Bee. — Cosa? — mormorò Bee. Era ritta e voltava le spalle ai battenti chiusi. Aveva gli occhi chiusi. E la testa abbassata. Sembrava gelata. Rabbrividiva sempre quando avveniva una materializzazione. Crono soffregava lentamente il suo portafortuna con il pollice, e osservava un alone di vapore sul metallo freddo, un alone attorno al pollice. — Vadano all'inferno... eh, Crono? — disse Brackman. L'uomo che vendeva uccellini meccanici cinguettanti faceva dondolare irrequieto la sua mercanzia appesa in alto. Una contadina l'aveva colpito con un forcone, nella battaglia di Toddington, Inghilterra, e l'aveva lasciato per morto. La Commissione internazionale per l'Identificazione e la Riabilitazione dei Marziani aveva identificato il venditore di uccellini, con l'aiuto delle impronte digitali, per Bernard K. Winslow, un sessatore itinerante di polli, che era scomparso dal
reparto alcolizzati d'un ospedale londinese. — Mille grazie per l'informazione — aveva detto Winslow alla Commissione. — Adesso non mi sento piú sperduto. Il sergente Brackman era stato identificato dalia Commissione per il soldato semplice Francis J. Thompson, che era scomparso nel cuore della notte mentre montava la guardia a un parco macchine di Fort Bragg, Carolina del Nord, Stati Uniti d'America. La Commissione era rimasta perplessa, quando si era trovata alle prese con Bee. Le sue impronte non erano registrate. La Commissione credeva che lei fosse Florence White, una ragazza scialba e senza amici che era scomparsa da una lavanderia a vapore di Cohoes, New York, oppure Darlene Simpkins, una ragazza scialba e senza amici che era stata vista accettare un passaggio da uno sconosciuto dalla carnagione scura a Brownsville, Texas. Nella fila dei chioschi, oltre a Brackman e Crono e Bee, c'erano ruderi marziani che erano stati identificati come Myron S. Watson, un alcolizzato che era scomparso dal suo posto di inserviente alia toilette dell'aeroporto di Newark... come Charlene Heller, assistente dietologa nella tavola calda della Scuola Superiore Stivers a Dayton, Ohio... come Krishna Garu, un tipografo ancora ricercato, tecnicamente, per bigamia, sfruttamento di prostitute e mancata assistenza familiare a Calcutta, India... come Kurt Schneider, un altro alcolizzato, direttore di un'agenzia di viaggi che stava per fallire a Brema, Germania. — Il potente Rumfoord... — iniziò Bee. — Prego? — disse Brackman. — Ci ha strappati alle nostre vite — continuò Bee. — Ci ha fatti addormentare. Ci ha tolto le nostre menti come si tolgono i semi da una zucca. Ci ha caricati come robot, ci ha addestrati, ci ha dato una funzione... ci ha bruciati per una buona causa. — Alzò le spalle. — Avremmo potuto fare di meglio, noi, se ci avesse lasciato
la responsabilità delle nostre vite? — disse Bee. — Saremmo diventati qualcosa di piú... o qualcosa di meno? Io credo di essere contenta che si sia servito di me. Credo che avesse idee molto migliori, circa quello che si doveva fare di me, di quante ne avessero Florence White o Darlene Simpskins o chiunque io sia stata. «Ma io odio ugualmente», concluse Bee. — Ne hai il diritto — disse Brackman. — Lui ha detto che era il diritto di ogni marziano. — C'è una consolazione — asserì Bee. — Si è già servito di noi. Non gli saremo utili mai piú. — Benvenuto, Vagabondo dello Spazio — rumoreggiò la voce tenorile alla margarina, uscendo dalle trombe di Gabriele sulle mura. — Com'è appropriato che tu venga a noi sulla rossa macchina antincendio d'un dipartimento di vigili del fuoco volontari! Non riesco a pensare un simbolo per l'umanità dell'uomo che sia piú stimolante di una macchina dei pompieri. Dimmi, Vagabondo dello Spazio, vedi qualcosa, qui... qualcosa che ti faccia pensare di poter essere già stato qui? Il Vagabondo delio Spazio mormorò qualcosa di incomprensibile. — Piú forte, per favore — lo esortò Rumfoord. — La fontana... ricordo quella fontana — disse il Vagabondo dello Spazio, incerto. — Solo... solo... — Solo? — l'incoraggiò Rumfoord. — Era asciutta, allora... quando l'ho vista. E adesso è così bagnata — disse il Vagabondo dello Spazio. Un microfono vicino alla fontana venne collegato con gli altoparlanti, in modo che il gorgogliare, lo sputacchiare e il ciangottare della fontana sottolineassero le parole del Vagabondo dello Spazio. — C'è qualche altra cosa familiare, eh, Vagabondo dello Spazio? — disse Rumfoord. — Sì — rispose timido il Vagabondo dello Spazio. — Tu. — Io ti sono familiare? — domandò maliziosamente Rum-
foord. — Intendi dire che c'è la possibilità che io abbia avuto una piccola parte nella tua vita? — Ti ricordo su Marte — disse il Vagabondo dello Spazio. — Eri tu l'uomo con il cane... poco prima che partissimo. — Cos'è successo dopo che siete partiti? — chiese Rumfoord. — Qualcosa andò male — rispose il Vagabondo dello Spazio. Sembrava che cercasse di scusarsi, come se la serie di disgrazie fosse in un certo senso colpa sua. — Molte cose andarono male. — Hai mai considerato la possibilità — disse Rumfoord, — che tutto sia andato invece assolutamente bene? — No — rispose con semplicità il Vagabondo dello Spazio. L'idea non lo sbalordiva, non poteva sbalordirlo... poiché l'idea che gli veniva proposta era ben oltre la portata della sua filosofia mal costruita. — Riconosceresti la tua compagna e tuo figlio? — chiese Rumfoord. — Non... non so — disse il Vagabondo dello Spazio. — Conducetemi la donna e il ragazzo che vendono i Malachi davanti alla porticina — ordinò Rumfoord. — Conducetemi Bee e Crono. Il Vagabondo dello Spazio e Winston Niles Rumfoord e Kazak erano su un palco davanti alla villa. Il palco era a livello dell'occhio per la folla presente. Il palco davanti alla villa era una parte d'un sistema continuo di ballatoi, rampe, scalette, pulpiti, gradini e palchi che raggiungevano ogni punto della tenuta. Quel sistema rendeva possibile la libera e vistosa circolazione di Rumfoord nella tenuta, senza che la folla l'intralciasse. Questo significava inoltre che Rumfoord poteva mostrarsi a tutte le persone che si trovavano nella tenuta. L'intero sistema non era sospeso magneticamente, sebbene apparisse come un miracolo di levitazione. L'apparente miraco-
lo era ottenuto per mezzo di un astuto uso delle vernici. I sostegni erano dipinti di un nero opaco, mentre le sovrastrutture erano dipinte di un oro sfolgorante. Le telecamere e i microfoni montati su giraffe potevano seguire dovunque quel sistema. Per le materializzazioni notturne, le sovrastrutture del sistema erano orlate di lampadine elettriche color carne. Il Vagabondo dello Spazio era soltanto la trentunesima persona che era stata invitata a raggiungere Rumfoord su quel sistema sopraelevato. E adesso un assistente era stato mandato al chiosco dei Malachi per condurre la trentaduesima e la trentatreesima persona destinate a condividere quell'onore. Rumfoord non aveva un bell'aspetto. Aveva un brutto colorito. E, sebbene sorridesse come sempre, i suoi denti sembravano battere, dietro quel sorriso. La sua allegria compiacente era diventata una caricatura, e sottolineava che non stava affatto bene. Ma il famoso sorriso si protraeva. L'incantatore di folle, magnificamente snob, teneva il suo grosso cane Kazak per il collare. Il collare era torto in modo da stringere, come in un ammonimento, la gola del cane. L'ammonimento era necessario, poiché era evidente che al cane non piaceva affatto il Vagabondo dello Spazio. Il sorriso cessò per un istante, ricordando alla folla il fardello che Rumfoord aveva portato... avvertendo la folla che non sarebbe stato capace di portarlo per sempre. Rumfoord teneva nel palmo della mano un microfono e un trasmettitore grandi quanto una monetina. Quando non voleva che la sua voce giungesse alla folla, si limitava a chiudere in pugno la monetina. Ora la monetina era chiusa nel suo pugno... e Rumfoord stava rivolgendo al Vagabondo dello Spazio frasi ironiche che avrebbero sbalordito la folla, se la folla avesse potuto udirle.
— Certamente questo è il tuo giorno, no? — disse Rumfoord. — Una perfetta festa d'amore dall'istante in cui sei arrivato. La folla ti adora addirittura. Tu adori le folle? I traumi gioiosi di quel giorno avevano ridotto il Vagabondo dello Spazio in una condizione di rimbambimento... una condizione in cui l'ironia e persino il sarcasmo andavano sprecati, su di lui. Era stato prigioniero di molte cose, nei suoi tempi tristi. Adesso era prigioniero d'una folla che lo considerava un prodigio. — Certo, sono stati tutti meravigliosi — dichiarò, in risposta all'ultima domanda di Rumfoord. — Sono stati grandi. — Oh, sono una grande massa — disse Rumfoord. — In quanto a questo non c'è errore. Mi sono tormentato il cervello per trovare la parola piú adatta a descrivere quelle folle, e tu me l'hai portata dallo spazio esterno. Grandi, ecco che cosa sono. — La mente di Rumfoord era evidentemente altrove. Non era molto interessato al Vagabondo dello Spazio in quanto persona... lo guardava appena. E non pareva neppure molto eccitato per l'arrivo della moglie e del figlio del Vagabondo dello Spazio. — Dove sono, dove sono? — chiese Rumfoord a un assistente, che stava giú in basso. — Sbrighiamoci. Facciamola finita. Il Vagabondo dello Spazio giudicava le sue avventure così soddisfacenti e stimolanti, così splendidamente inscenate, che non osava fare domande: temeva che fare domande lo facesse sembrare ingrato. Si rendeva conto che lui aveva una tremenda responsabilità cerimoniale e che la cosa migliore da fare era tenere la bocca chiusa, parlare solo quando gli parlavano, e rispondere a tutte le domande in modo breve e naturale. La mente del Vagabondo dello Spazio non brulicava di domande. La struttura fondamentale della sua posizione cerimoniale era evidente... era pulita e funzionale come uno sgabello a
tre zampe per la mungitura. Aveva sofferto immensamente, ed ora veniva ricompensato immensamente. L'improvviso cambiamento di fortuna creava uno spettacolo clamoroso. Sorrise, comprendendo la gioia della folla... fingendo di essere lui stesso nella folla, condividendo la gioia della folla. Rumfoord lesse nella mente del Vagabondo dello Spazio. — A loro piacerebbe altrettanto il contrario, sai — asserì. — Il contrario? — disse il Vagabondo dello Spazio. — Se venisse prima la grande ricompensa e poi la grande sofferenza — spiegò Rumfoord. — È il contrasto che loro amano. L'ordine degli eventi non fa alcuna differenza, per loro. È il brivido del rapido rovesciamento... Rumfoord aprì il pugno ed espose il microfono. Con l'altra mano fece un gesto pontificale. Stava facendo cenno a Bee e a Crono, che erano stati issati su un affluente del sistema dorato di ballatoi, rampe, scale, pulpiti, gradini e palchi. — Da questa parte, prego. Non abbiamo a disposizione tutto il giorno, sapete — disse Rumfoord con un tono da maestro di scuola. Durante quella pausa, il Vagabondo dello Spazio provò il primo vero formicolio di progetti per un bel futuro sulla Terra. Poiché tutti erano così gentili, entusiasti e pacifici, sulla Terra poteva essere vissuta una vita non soltanto piacevole ma perfetta. Il Vagabondo dello Spazio aveva già ricevuto uno splendido abito nuovo e una posizione affascinante nella vita, e la sua compagna e suo figlio gli sarebbero stati resi fra poco. Tutto ciò che gli mancava era un buon amico, e il Vagabondo detto Spazio cominciò a tremare. Tremava perché sapeva in fondo al cuore che il suo migliore amico, Stony Stevenson, era nascosto in qualche punto della tenuta e aspettava un segnale per comparire. Il Vagabondo dello Spazio sorrise, perché immaginava l'apparizione di Stony. Stony sarebbe sceso correndo da una rampa,
ridendo, un po' ubriaco. — Unk, sporco bastardo... — avrebbe ruggito Stony proprio nei microfoni collegati con gli altoparlanti, — perdio, ti ho cercato in ogni sporca osteria della lurida Terra... e tu te ne stavi su Mercurio! Mentre Bee e Crono raggiungevano Rumfoord e il Vagabondo dello Spazio, Rumfoord si allontanò. Se si fosse separato da Bee, da Crono e dal Vagabondo dello Spazio per la lunghezza di un braccio, il suo allontanamento avrebbe potuto essere compreso. Ma il sistema dorato gli permetteva dì porre una distanza veramente rispettabile tra sé e i tre, e non soltanto una distanza ma una distanza resa tortuosa dal rococò e da vari ostacoli simbolici. Era innegabilmente una scena di grandiosa teatralità, nonostante l'acre commento del dottor Maurice Rosenau (op. city. «Coloro che guardano con reverenza Winston Niles Rumfoord mentre danza nella sua palestra dorata a Newport sono gli stessi idioti che si trovano nei negozi di giocattoli e che guardano con reverenza a bocca aperta i trenini mentre i trenini fanno ciuf-ciuf-ciuf entrando e uscendo da gallerie di cartapesta, sopra viadotti di stuzzicadenti, attraverso città di cartone, per poi entrare di nuovo in gallerie di cartapesta. I trenini e Winston Niles Rumfoord ricompariranno facendo ciuf-ciuf-ciuf! Oh, mirabile dictu... ricompariranno!». Dal podio davanti alla villa, Rumfoord salì su un montante verticale che si inarcava sopra la cresta di una siepe di bosso. Dall'altra parte del montante c'era un ballatoio che correva per tre metri fino al tronco di un faggio color rame. Il tronco aveva un diametro di un metro e venti. Al tronco erano fissate grappe dorate per mezzo di viti isolanti. Rumfoord legò Kazak alla grappa piú bassa, poi si arrampicò e scomparve, come Giovannino su per il fagiolo magico. E parlò dall'alto dell'albero. La sua voce non veniva dall'albero, ma dalle trombe di Gabriele sopra le mura.
La folla distolse gli occhi dalia sommità fronzuta dell'albero, rivolse gli occhi sugli altoparlanti piú vicini. Soltanto Bee, Crono e il Vagabondo dello Spazio continuarono a guardare in alto, verso il punto in cui si trovava veramente Rumfoord. Non era tanto per realismo quanto per imbarazzo. Guardando in alto, i membri della famigliola evitavano di guardarsi l'un l'altro. Nessuno dei tre aveva motivo di essere soddisfatto di quella riunione. Bee non era attratta dall'idiota magro, barbuto e felice, vestito di quella specie di tuta giallo-limone. Aveva sognato un libero pensatore alto e robusto, collerico e prepotente. Il giovane Crono odiava quell'intruso barbuto nei suoi sublimi rapporti con sua madre. Crono baciò il suo portafortuna e si augurò che suo padre, se era davvero suo padre, crepasse all'istante. In quanto al Vagabondo dello Spazio, per quanto tentasse sinceramente, non vedeva nulla che avrebbe scelto di sua spontanea volontà in quella madre e in quel figlio cupi e malevoli. Per caso, gli occhi del Vagabondo dello Spazio incontrarono l'unico occhio buono di Bee. Bisognava dire qualcosa. — Come stai? — chiese il Vagabondo dello Spazio. — Come stai tu? — ribatté Bee. Tornarono entrambi a guardare l'albero. — Oh miei felici fratelli menomati — disse la voce di Rumfoord, — ringraziamo Dio (Dio che apprezza i nostri ringraziamenti come il possente Mississippi apprezza una goccia di pioggia) perché non siamo come Malachi Constant. La nuca dei Vagabondo delio Spazio cominciò a dolere un poco. Abbassò lo sguardo. I suoi occhi furono attirati da un ballatoio diritto e dorato a media distanza. I suoi occhi lo seguirono. Il ballatoio finiva ai piedi della scala a pioli piú lunga della Terra. Anche la scala era dipinta d'oro.
Lo sguardo del Vagabondo delio Spazio salì la scala fino alia minuscola porta dell'astronave in cima alia colonna. Si chiese chi poteva avere abbastanza coraggio o abbastanza motivi per salire una scala così spaventosa fino a una porta così minuscola. Il Vagabondo dello Spazio tornò a guardare la folla. Forse Stony Stevenson era in mezzo alla folla. Forse aspettava che lo spettacolo finisse prima di presentarsi al suo migliore e unico amico di Marte.
CAPITOLO UNDICESIMO NOI ODIAMO MALACHI CONSTANT PERCHÉ...
«Dimmi una sola cosa buona che tu hai fatto in vita tua». WINSTON NILES RUMFOORD
E il sermone continuò in questo modo: — Noi siamo disgustati di Malachi Constant — disse Rumfoord lassù, in cima all'albero, — perché si è servito dei fantastici frutti della sua fantastica fortuna per finanziare l'interminabile dimostrazione che l'uomo è un porco. Guazzava tra i sicofanti. Guazzava tra donne indegne. Guazzava in spassi lascivi, nell'alcol e nelle droghe. Guazzava in ogni forma conosciuta di voluttuosa turpitudine. «Al culmine della sua fortuna, Malachi Constant valeva di più degli stati dell'Utah e del Nord Dakota messi insieme. Eppure, oserei dire, il suo valore morale non era neppure quello del sorcio piú corrotto dei due stati. «Noi siamo incolleriti con Malachi Constant — proseguì Rumfoord lassù, in cima all'albero, — perché non aveva fatto niente per meritare i suoi miliardi, e perché non fece nulla di altruistico o di immaginoso con i suoi miliardi. Era benevolo quanto Maria Antonietta, creativo come un professore di cosmesi in un'università per imbalsamatori. «Noi odiamo Malachi Constant — disse Rumfoord lassù, in cima all'albero, — perché ha accettato i fantastici frutti della sua fantastica fortuna senza scrupoli, come se la fortuna fosse la mano di Dio. Per noi della Chiesa di Dio Assolutamente indifferente, un uomo non può fare nulla di piú crudele, di piú pericoloso, di piú blasfemo che credere questo... che la fortuna, buona o cattiva, sia la mano di Dio!
«La fortuna, buona o cattiva — continuò Rumfoord lassù, in cima all'albero, — non è la mano di Dio. «La fortuna — disse ancora Rumfoord lassù, in cima all'albero, — è il modo in cui vortica il vento e ricade la polvere molti eoni dopo che Dio è passato. «Vagabondo dello Spazio!», chiamò Rumfoord dalla cima dell'albero. Il Vagabondo dello Spazio non stava prestando molta attenzione. I suoi poteri di concentrazione erano scarsi... probabilmente perché era rimasto troppo a lungo nelle grotte, o aveva vissuto troppo a lungo delie pillole-per-scemi, o aveva servito troppo a lungo nell'esercito di Marte. Stava guardando le nuvole. Erano cose splendide, e il cielo in cui fluttuavano era di un azzurro affascinante per il Vagabondo dello Spazio affamato di colore. — Vagabondo dello Spazio! — chiamò di nuovo Rumfoord. — Tu, dal vestito giallo — disse Bee. Lo urtò: — Svegliati. — Prego? — fece il Vagabondo dello Spazio. — Vagabondo dello Spazio! — chiamò Rumfoord. Il Vagabondo delio Spazio scattò sull'attenti. — Signorsì? — gridò verso il fogliame. La risposta era ingenua, allegra, e accattivante. Un microfono all'estremità di una giraffa venne fatto dondolare davanti a lui. — Vagabondo dello Spazio! — chiamò Rumfoord; ed era irritato, perché la procedura cerimoniale veniva guastata. — Eccomi qui, signore! — gridò il Vagabondo delio Spazio. La sua risposta tuonò dall'altoparlante, così forte da spaccare gli orecchi. — Chi sei? — disse Rumfoord. — Qual è il tuo vero nome? — Non conosco il mio vero nome — rispose il Vagabondo dello Spazio. — Mi chiamavano Unk. — Cosa ti è successo prima che ritornassi sulla Terra, Unk? — domandò Rumfoord. Il Vagabondo dello Spazio raggiò. Era stato condannato a
una ripetizione della semplice dichiarazione che aveva causato tante risate e danze e canti a Cape Cod. — Sono stato vittima d'una serie d'incidenti, come lo siamo tutti — replicò. Questa volta non vi furono risate e danze e canti, ma la folla era definitivamente favorevole a quello che aveva detto il Vagabondo dello Spazio. I menti erano alzati, gli occhi erano spalancati, le narici erano schiuse. Non c'erano grida, perché la folla voleva udire proprio tutto quello che Rumfoord e il Vagabondo dello Spazio potevano avere da dire. .— Vittima d'una serie di incidenti, davvero? — disse Rumfoord lassù, in cima all'albero. — Di tutti gli incidenti — chiese, — quali considereresti il piú significativo? Il Vagabondo dello Spazio inclinò la testa. — Dovrei pensarci... — disse. — Ti risparmierà il fastidio — l'interruppe Rumfoord. — L'incidente piú significativo che ti è accaduto è stato la tua nascita. Vorresti che ti dicessi come ti chiamavi quando sei nato? Il Vagabondo dello Spazio esitò soltanto un momento, e ciò che lo fece esitare fu la paura di guastare una soddisfacente carriera cerimoniale dicendo qualcosa di sbagliato. — Sì, per favore — disse. — Ti chiamavano Malachi Constant — dichiarò Rumfoord lassù, in cima all'albero. Nella misura in cui le folle possono essere buone, le folle che Winston Niles Rumfoord attirava a Newport erano buone. Non avevano la mentalità delle folle. I loro componenti rimanevano in possesso della propria coscienza, e Rumfoord non li invitava mai a partecipare all'unanimità a qualsiasi azione... meno di tutto agli applausi o ai fischi. Quando ebbero compreso che il Vagabondo dello Spazio era il disgustoso, indisponente e odioso Malachi Constant, i membri della folla reagirono in modi personali, quieti e sospiranti... in modo che era in generale compassionevole. Pesava sulle loro coscienze generalmente oneste, dopotutto, il fatto che avevano
impiccato in effige Malachi Constant nelle loro case e nei loro luoghi di lavoro. E, mentre erano stati contentissimi di impiccare le effigi, ben pochi di loro pensavano che Constant, in persona, meritasse veramente l'impiccagione. Impiccare Malachi Constant in effige era un atto di violenza quanto adornare un albero di Natale o nascondere le uova di Pasqua. E Rumfoord lassù, in cima all'albero, non disse nulla per scoraggiare la loro compassione. — Tu hai avuto il singolare incidente, signor Constant — disse in tono comprensivo, — di diventare il simbolo centrale della mentalità sbagliata per una setta religiosa assolutamente enorme. «Tu non saresti attraente per noi come simbolo, signor Constant, se i nostri cuori non ti fossero vicini, in una certa misura. I nostri cuori devono esserti vicini, poiché tutti i tuoi errori fiammeggianti sono errori che gli esseri umani hanno fatto fin dall'inizio del tempo. «Fra pochi minuti, signor Constant — continuò Rumfoord lassù, in cima all'albero, — tu scenderai i ballatoi e le rampe fino a quella lunga scala dorata e salirai quella scala, ed entrerai in quell'astronave, e volerai a Titano, una tiepida e feconda luna di Saturno. Tu vivrai lì, al sicuro e tra molte comodità, ma in esilio dalla tua Terra Natale. «Tu lo farai volontariamente, signor Constant, perché la Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente possa avere un dramma di sacrificio spontaneo e dignitoso da ricordare e da ponderare per sempre. «immagineremo, per nostra soddisfazione spirituale — prosegui ancora Rumfoord lassù, in cima all'albero, — che tu porti con te tutte le idee sbagliate sul significato della fortuna, tutta la ricchezza e il potere male usati, tutti i tuoi passatempi disgustosi». L'uomo che era stato Malachi Constant, che era stato Unk, che era stato il Vagabondo dello Spazio e che adesso era di nuovo Malachi Constant... provava ben poco nell'essere dichia-
rato di nuovo Malachi Constant. Probabilmente avrebbe provato qualcosa di interessante se la scelta dei tempi da parte dì Rumfoord fosse stata diversa. Ma Rumfoord gli aveva detto quale doveva essere la sua sorte soltanto pochi secondi dopo avergli detto che era Malachi Constant... e la sua sorte era abbastanza terribile da richiedere tutta l'attenzione di Constant. Quella sorte non gli era stata promessa entro armi o mesi o giorni... ma entro pochi minuti. E, come qualsiasi condannato, Malachi Constant cominciò a studiare l'apparato su cui avrebbe dovuto dare spettacolo, con esclusione di tutto il resto. Curiosamente, la sua prima preoccupazione fu che avrebbe incespicato, che avrebbe pensato troppo al semplice problema di camminare, e che i suoi piedi avrebbero cessato di funzionare naturalmente, e che avrebbe inciampato su quei piedi legnosi. — Non inciamperai, signor Constant — disse Rumfoord lassù, in cima all'albero, leggendo nella mente di Constant. — Non puoi andare in nessun altro posto, non puoi fare null'altro. Mettendo un piede davanti all'altro, mentre noi osserveremo in silenzio, farai di te l'essere umano piú memorabile, piú magnifico e piú significativo dei tempi moderni. Constant si voltò a guardare la sua compagna e suo figlio, che erano piuttosto tristi. I loro sguardi erano diritti. Constant seppe dai loro sguardi che Rumfoord aveva detto la verità, che nessuna strada gli era aperta salvo la strada dello spazio. Beatrice e il giovane Crono erano supremamente cinici per quanto riguardava i festeggiamenti.., ma non per quanto riguardava il comportamento coraggioso in quelle circostanze. Stavano sfidando Malachi Constant a comportarsi bene. Constant strofinò insieme il pollice e l'indice sinistro in un attento moto rotatorio. Osservò quel gesto inutile per circa dieci secondi. E poi lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi, alzò gli occhi e si avviò con fermezza verso l'astronave.
Quando il suo piede sinistro urtò la rampa, la testa gli sì riempi d'un suono che non udiva da tre anni terrestri. Il suono veniva dall'antenna sotto la sommità del suo cranio. Rumfoord lassù, in cima all'albero, stava inviando segnali all'antenna di Constant per mezzo d'un telecomando che aveva in tasca. Stava rendendo piú sopportabile la lunga e solitaria marcia di Constant riempiendo la testa di Constant con il suono di un tamburo. Il tamburo aveva questo da dirgli: Prendi una tenda, una tenda, una tenda; Prendi una tenda, una tenda. Prendi una tenda! Prendi una tenda! Prendi una ten, prendi una tenda! Il tamburo tacque quando la mano di Malachi Constant si strinse per la prima volta su un gradino dorato della piú alta scala a pioli del inondo. Guardò in alto, e la prospettiva gli fece sembrare la sommità della scala piccola come un ago. Appoggiò per un attimo la fronte al gradino cui era stretta la sua mano. — C'è qualcosa che vorresti dire, signor Constant, prima di salire la scala? — chiese Rumfoord lassù, in cima all'albero. Un microfono montato su una giraffa fu di nuovo spinto dondolando davanti a Constant. Constant si leccò le labbra. — Hai qualcosa da dire, signor Constant? — ripetè Rumfoord. — Se sta per parlare — disse a Constant il tecnico addetto al microfono, — parli in tono perfettamente normale, e tenga le labbra a circa quindici centimetri dal microfono. — Hai intenzione di parlarci, signor Constant? — domandò ancora Rumfoord. — Probabilmente... probabilmente non vale la pena di dirlo — affermò Constant quietamente, — ma vorrei dire che non ho
capito niente di quello che mi è successo da quando sono arrivato sulla Terra, — Non hai provato un sentimento di partecipazione? — replicò Rumfoord lassù, in cima all'albero. — È così? — Non importa — disse Constant. — Salirò lo stesso la scala. — Bene — asserì Rumfoord lassù, in cima all'albero, — se pensi che noi siamo ingiusti con te, prova a dirci qualcosa di veramente buono che tu hai fatto in qualche momento della tua vita, e lasciaci decidere se quell'atto di bontà potrebbe farti esentare da ciò che è stato deciso per te. — Bontà? — ripetè Constant. — Sì — disse Rumfoord, in tono espansivo. — Dimmi una sola cosa buona che tu hai fatto in vita tua... e di cui puoi ricordarti. Constant rifletté intensamente. I suoi ricordi principali erano di aver percorso corridoi interminabili nelle grotte. C'erano state ben poche occasioni di far qualcosa che potesse passare come un gesto di bontà verso Boaz e gli harmonium. Ma Constant non poteva dire onestamente di aver approfittato di quelle possibilità di essere buono. Quindi pensò a Marte e a tutte le cose che erano contenute nella lettera a se stesso. Senza dubbio, tra tutte quelle cose c'era qualcosa sulla sua bontà. E poi ricordò Stony Stevenson... Il suo amico. Aveva avuto un amico, e questa era certamente una buona cosa. — Avevo un amico — dichiarò Constant nel microfono. — Come si chiamava? — chiese Rumfoord. — Stony Stevenson — rispose Constant. — Un amico soltanto? — fece Rumfoord lassù, in cima all'albero. — Uno solo — disse Constant. La sua povera anima era inondata di piacere, mentre si rendeva conto che un solo amico era quello di cui un uomo aveva bisogno per essere ben fornito
in fatto di amicizia. — Quindi la tua affermazione di bontà reggerebbe o cadrebbe, in realtà — disse Rumfoord lassù, in cima all'albero, — a seconda che tu sia stato o no un buon amico per questo Stony Stevenson. — Sì — asserì Constant. — Ricordi un'esecuzione su Marte, signor Constant? — domandò Rumfoord lassù, in cima all'albero, — in cui tu sei stato il giustiziere? Tu hai strangolato un uomo incatenato a un pilastro davanti a tre reggimenti dell'esercito di Marte. Quello era un ricordo che Constant aveva fatto del suo meglio per sradicare. C'era riuscito, in buona misura... e la ricerca che fece nella sua mente era sincera. Non poteva essere certo che quell'esecuzione avesse avuto luogo. — Credo... credo di ricordare ~ disse Constant. — Ebbene... l'uomo che hai strangolato era il tuo grande e buon amico Stony Stevenson — affermò Winston Niles Rumfoord. Malachi Constant pianse mentre saliva la scala dorata. Si fermò a mezza strada, e Rumfoord tornò a chiamarlo attraverso gli altoparlanti. — Ti senti un partecipante interessato in modo vitale, ora, signor Constant? — gridò Rumfoord. Il signor Constant si sentì davvero così. Adesso aveva una completa comprensione della propria indegnità, e un'amara simpatia per chiunque giudicasse giusto trattarlo severamente. . E quando giunse in cima, Rumfoord gli disse di non chiudere ancora il portello, perché la sua compagna e suo figlio sarebbero saliti quasi subito. Constant si sedette sulla soglia della sua astronave in cima alla scala, e ascoltò il breve sermone di Rumfoord sulla buia compagna di Constant, sulla donna monocola e dai denti d'oro chiamata Bee. Constant non ascoltò con attenzione il sermone. I suoi occhi vedevano un sermone piú vasto e piú confortante
nel panorama della città, della baia e delle isole, laggiù. Il sermone del panorama era questo: anche un uomo senza un solo amico nell'Universo poteva trovare il suo pianeta natale misteriosamente, dolorosamente bello. — Ora vi parlerò — disse Winston Niles Rumfoord in cima all' albero, tanto piú in basso di Malachi Constant, — di Bee, la donna che vende i Malachi davanti alla porta, la donna bruna che, insieme con suo figlio, ora ci guarda tutti corrucciata. «Mentre era diretta a Marte, tanti anni fa, Malachi Constant le impose le sue attenzioni e lei gli generò questo figlio. Prima di allora, era mia moglie e padrona di questa tenuta. Il suo vero nome è Beatrice Rumfoord». Dalla folla si levò un gemito. C'era da stupirsi se le immagini polverose di altre religioni erano state messe in disparte per mancanza di pubblico, se tutti gli occhi erano puntati su Newport? Non soltanto il capo della Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente era capace di predire il futuro e di combattere le piú crudeli di tutte le disuguaglianze, le disuguaglianze della fortuna... ma la sua riserva di sensazioni nuove e sconvolgenti era inesauribile. Era così ben fornito di materiale grandioso che poteva addirittura lasciare che la voce gli si smorzasse mentre annunciava che la donna monocola dai denti d'oro era sua moglie e che lui era stato cornificato da Malachi Constant. — Ora vi invito a disprezzare l'esempio della sua vita come avete così a lungo disprezzato l'esempio della vita di Malachi Constant — continuò blandamente da lassù, in cima all'albero. — Impiccatela insieme a Malachi Constant alle imposte delle vostre finestre e alle vostre lampade, se volete. «Gli eccessi di Beatrice erano eccessi di riluttanza. Quando era piú giovane, si sentiva così squisitamente educata da non fare nulla e da non permettere che le si facesse nulla, per paura di contaminarsi. La vita per Beatrice, quando era piú giovane, era troppo piena di germi e di volgarità per non essere intolle-
rabile. «Noi della Chiesa di Dio Assolutamente Indifferente la condanniamo in modo totale per aver rifiutato di rischiare nel vivere la sua immaginaria purezza, come condanniamo Malachi Constant per aver sguazzato nel sudiciume. «Era implicito in ogni atteggiamento di Beatrice che lei era sotto l'aspetto intellettuale, morale e fisico ciò che Dio voleva che gli esseri umani fossero per essere perfetti, e che il resto dell' umanità aveva bisogno di altri diecimila anni per arrivare a quell' altezza. Abbiamo di nuovo un caso di una persona comune e improduttiva che si crogiolava nel presunto benvolere di Dio Onnipotente. La supposizione che Dio Onnipotente ammirasse Beatrice per la sua educazione tipo non-mi-toccate è almeno discutibile quanto la supposizione che Dio Onnipotente volesse che Malachi Constant fosse ricco. «Signora Rumfoord — disse Winston Niles Rumfoord lassù, in cima all'albero, — invito te e tuo figlio a seguire Malachi Constant nell'astronave diretta a Titano. C'è qualcosa che vorresti dire prima di partire?». Vi fu un lungo silenzio durante il quale madre e figlio si fecero piú vicini e guardarono, spalla a spalla, il mondo tanto cambiato dalle notizie di quel giorno. — Hai intenzione di dirci qualcosa, signora Rumfoord? — domandò Rumfoord lassù, in cima all'albero. — Sì — rispose Beatrice. — Ma non mi ci vorrà molto. Credo che tutto ciò che dici di me sia vero, poiché tu menti molto di rado. Ma quando mio figlio ed io ci avvieremo verso quella scala e la saliremo, non lo faremo per te o per la tua stupida folla. Lo faremo per noi stessi... e proveremo a noi stessi e a chiunque voglia guardare che non abbiamo paura di niente. I nostri cuori non si spezzeranno quando lasceremo questo pianeta. Questo pianeta ci disgusta almeno quanto noi, sotto la tua guida, l'abbiamo disgustato. «Non ricordo i vecchi tempi, quando ero padrona di questa
tenuta, quando non sopportavo di fare qualcosa o che mi facessero qualcosa. Ma ho amato me stessa dall'istante in cui mi hai detto che ero così. La razza umana è una cosa schifosa e così è la Terra, e lo sei anche tu». Beatrice e Crono percorsero rapidamente i ballatoi e le rampe fino alla scala e la salirono. Passarono oltre Malachi Constant sulla soglia dell'astronave, senza alcun saluto. Scomparvero nell'interno. Constant li seguì nell'astronave e li raggiunse mentre stavano studiando le possibili sistemazioni. Le condizioni dell'interno dell'astronave erano una sorpresa... e sarebbero state una sorpresa per i custodi della tenuta, in particolare. L'astronave, che sembrava inviolabile alla sommità d'una colonna nei sacri recinti sorvegliati dai guardiani, era stata evidentemente la scena di una o forse di parecchie orge. Le cuccette erano tutte sfatte. La biancheria da letto era sgualcita, attorcigliata e in disordine. Le lenzuola erano macchiate di rossetto e di lucido da scarpe. Molluschi fritti scricchiolavano untuosi sotto i piedi. Due bottiglie da un quarto di Mountain Moonlight, una pinta di Southern Comfort, e una dozzina di lattine di Narragansett Lager Beer, tutte vuote, erano sparpagliate nella nave. Sulla parete bianca accanto alla porta c'erano due nomi scritti con il rossetto: Bud e Sylvia. E da una flangia della trave centrale della cabina penzolava un reggiseno nero. Beatrice raccolse le bottiglie e le lattine della birra. Le lasciò cadere fuori dalla porta. Staccò il reggiseno e lo fece svolazzare fuori dalla porta, aspettando un vento favorevole. Malachi Constant, che sospirava e scuoteva il capo e piangeva Stony Stevenson, usava i piedi come scope. Spinse i molluschi fritti verso la porta. Il giovane Crono si sedette su una cuccetta, strofinando il suo portafortuna. — Andiamo, mamma — disse impettito. — Ti prego. Andia-
mo. Beatrice lasciò andare il reggiseno. Un refolo di vento lo colse, lo portò sopra la folla, l'appese a un albero vicino a quello su cui sedeva Rumfoord. — Addio, gente pulita e saggia e amabile — salutò Beatrice.
CAPITOLO DODICESIMO IL GENTILUOMO DI TRALFAMADORE «In un modo puntuale di parlare, addio». WINSTON NILES RUMFOORD
Saturno ha nove lune, la piú grande delle quali è Titano. Titano è poco piú piccolo di Marte. Titano è la sola luna del sistema solare che abbia un'atmosfera. C'è abbondanza di ossigeno da respirare. L'atmosfera di Titano è simile all'atmosfera davanti alla porta di servizio d'una pasticceria terrestre in un mattino di primavera. Titano ha una fornace chimica naturale nel suo nucleo che mantiene una temperatura atmosferica uniforme di sessantasette gradi Fahrenheit.11 Su Titano vi sono tre mari, ciascuno delle dimensioni del terrestre lago Michigan. Le acque di tutti e tre sono fresche e limpide come smeraldi. I tre mari si chiamano Mare Winston, Mare Niles e Mare Rumfoord. C'è un gruppo di novantatré stagni e laghi, che costituiscono un mare incipiente. Il gruppo è noto come Laghi Kazak. Vi sono tre grandi fiumi che collegano il Mare Winston, il Mare Niles, il Mare Rumfoord e i Laghi Kazak. Questi fiumi, con i loro affluenti, sono capricciosi... variamente ruggenti, irrequieti e precipitosi. I loro capricci sono determinati dalle strette, fluttuanti in modo pazzo, delle otto lune sorelle, e dalla prodigiosa influenza di Saturno, che ha novantacinque volte la massa della Terra. I tre fiumi sono conosciuti come Fiume Winston, Fiume Niles, e Fiume Rumfoord. 11
Circa 20° C. (n.d.t).
Vi sono boschi e prati e montagne. La montagna piú alta è Monte Rumfoord, che è alto duemilanovecentosettantacinque metri. Titano offre una vista incomparabile delle cose piú spaventosamente belle del sistema solare: gli anelli di Saturno. Quelle fasce abbaglianti hanno un'ampiezza di sessantamila chilometri e sono poco piú spesse d'una lama di rasoio. Su Titano gli anelli sono chiamati Arcobaleno di Rumfoord. Saturno descrive un cerchio attorno al Sole. Lo compie ogni ventinove anni terrestri e mezzo. Titano descrive un cerchio attorno a Saturno. Titano descrive, di conseguenza, una spirale attorno al Sole. Winston Niles Rumfoord e il suo cane Kazak erano fenomeni ondulatorii che pulsavano in spirali distorte, con l'origine nei Sole e le terminazioni in Betelgeuse. Ogni volta che un corpo celeste intercettava le loro spirali, Rumfoord e il suo cane si materializzavano su quel corpo celeste. Per ragioni ancora misteriose, le spirali di Rumfoord, Kazak e Titano coincidevano esattamente. Quindi Rumfoord e il suo cane erano materializzati in permanenza su Titano. Rumfoord e Kazak vivevano su un'isola a un chilometro e mezzo dalla riva del Mare Winston. La loro casa era un'impeccabile riproduzione del Taj Mahal dell'India terrestre. Era stata costruita da manodopera marziana. Era stato un ironico capriccio di Rumfoord quello di chiamare la sua casa di Titano Dun Roamìn12. Prima dell'arrivo di Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e Crono, c'era solo un'altra persona su Titano. Quell'altra persona 12
Dun Roamin è uno spaventoso gioco di parole che però non ho inventato io. Significa «Done Roaming», ossia «Guadagnato viaggiando». Per gualche misteriosa ragione, molta gente, negli Stati Uniti, usa battezzare con questo nome il cottage per la villeggiatura. (Nota dell'autore all'edizione italiana).
si chiamava Salo. Era vecchio. Salo aveva undici milioni di anni terrestri. Salo veniva da un'altra Galassia, dalla Piccola Nube di Magellano. Era alto un metro e trenta. Salo aveva la pelle con la grana e il colore della pelle d'un mandarino terrestre. Salo aveva tre gambe snelle come quelle d'un cervo. i suoi piedi erano di forma estremamente interessante, poiché erano sfere gonfiabili. Gonfiando queste sfere fino alle dimensioni di pallemazze tedesche, Salo poteva camminare sull'acqua. Riducendole alle dimensioni di palle da golf, Salo poteva correre sulle superfici dure ad alte velocità. Quando sgonfiava completamente le sfere, i suoi piedi diventavano ventose. Salo poteva camminare sui muri. Salo non aveva braccia. Salo aveva tre occhi e i suoi occhi potevano percepire non soltanto il cosiddetto spettro visibile ma anche gli infrarossi, gli ultravioletti e i raggi X. Salo era puntuale — cioè, viveva un momento alla volta — e amava dire a Rumfoord che preferiva vedere i meravigliosi colori alle estremità opposte dello spettro piuttosto che il passato o il futuro. Questa era un'ambiguità astuta, poiché Salo, vivendo un momento alla volta, aveva visto molto di piú, nel passato e dell'universo, di quanto avesse visto Rumfoord. Inoltre ricordava di piú ciò che aveva visto. La sua testa era tonda e montata su sospensioni cardaniche. La sua voce era un rumoreggiatore elettrico che sembrava il campanello di una bicicletta. Parlava cinquemila lingue, di cui cinquanta erano lingue terrestri, e trentuno lingue morte terrestri. Salo non viveva in un palazzo, sebbene Rumfoord si fosse offerto di fargliene costruire uno. Salo viveva all'aperto, vicino all' astronave che l'aveva portato su Titano duecentomila anni prima. La sua astronave era un disco volante, il prototipo della
flotta marziana d'invasione. Salo aveva una storia interessante. Nell'anno terrestre 483.441 a.C, era stato scelto per pubblico entusiasmo telepatico come il piú bello, il piú sano, il piú morale esemplare della sua gente. L'occasione era stato il centomilionesimo anniversario del governo del suo pianeta patrio, nella Piccola Nube di Magellano. Il nome del suo pianeta patrio era Tralfamadore, che il vecchio Salo aveva tradotto una volta a Rumfoord tanto come noi tutti quanto come numero 541. La lunghezza di un anno sul suo pianeta patrio, secondo i suoi calcoli, era 3,6162 volte la lunghezza di un anno terrestre... quindi la celebrazione cui aveva partecipato era stata in. realtà in onore di un governo vecchio di 361.620.000 anni terrestri. Saio aveva descritto una volta a Rumfoord questa forma di governo come anarchia ipnotica, ma aveva rifiutato di spiegarne il funzionamento. — O capisci subito che cosa è — disse a Rumfoord, — o è inutile tentare di spiegartelo, Skip. Il suo compito, quando era stato eletto a rappresentare Tralfalmadore, era stato quello di portare un messaggio sigillato «da un Orlo dell'Universo all'Altro». Coloro che avevano organizzato le cerimonie non erano così illusi da credere che il progettato viaggio di Salo coprisse veramente l'intero Universo. L'immagine era poetica, come lo era la spedizione di Salo. Salo doveva semplicemente prendere il messaggio e andare veloce e lontano per quanto glielo consentiva la tecnologia tralfamadoriana. Salo non conosceva il messaggio. Era stato preparato da qualcosa che Salo descriveva a Rumfoord come «una specie di università... solo che non ci va nessuno. Non ci sono palazzi, non ci sono facoltà. Ci sono dentro tutti e non c'è dentro nessuno. È come una nuvola a cui tutti hanno dato un piccolo sbuffo di vapore, e poi la nuvola pensa per tutti. Non voglio dire che sia veramente una nuvola. Voglio dire che è qualcosa di simile.
Se non capisci di che cosa sto parlando, Skip, è inutile tentare di spiegartelo. Tutto quello che posso dire è che non vi sono mai riunioni». Il messaggio era contenuto in un'ostia di piombo sigillata di cinque centimetri quadri e spessa un centimetro. L'ostia era contenuta in una reticella d'oro appesa a una fascia d'acciaio inossidabile fissata all'asse che potrebbe essere definito il collo di Salo. Salo aveva l'ordine di non aprire la reticella e l'ostia fintanto che non fosse arrivato a destinazione. La sua destinazione non era Titano. La sua destinazione era in una galassia che cominciava diciotto milioni di anni-luce aldilà di Titano. Gli organizzatori delle cerimonie cui Salo aveva partecipato non sapevano che cosa avrebbe trovato Salo in quella galassia. Salo aveva istruzione di trovarvi delle creature, di imparare la loro lingua, di aprire il messaggio e di tradurlo a quelle creature. Salo non metteva in dubbio il buonsenso del suo incarico, poiché era, come tutti i tralfamadoriani, una macchina. Poiché era una macchina, doveva fare ciò che doveva fare. Tra tutti gli ordini che Salo aveva ricevuto prima di decollare da Tralfamadore, quello cui era stata attribuita la maggiore importanza era questo: non doveva, in nessun caso, aprire il messaggio lungo la strada. Quest'ordine era stato così insistentemente sottolineato che era diventato il fulcro stesso dell'essere del piccolo messaggero tralfamadoriano. Nell'anno terrestre 203.117 a.C, Salo era stato costretto a scendere nel sistema solare da difficoltà meccaniche. Era stato costretto a fermarsi dalla completa disintegrazione di un piccolo pezzo del generatore d'energia della sua nave, un pezzo grande all'incirca quanto un apriscatole terrestre. Salo non aveva inclinazione per la meccanica, quindi aveva soltanto una vaga idea dell' aspetto e della funzione del pezzo mancante. Poiché la nave di Salo era mossa dalla VUDD, la Volontà Universale
di Divenire, il suo generatore di energia non era cosa con cui potesse gingillarsi un dilettante di meccanica. La nave di Salo non era del tutto fuori uso. Poteva ancora correre... ma a fatica, a soli centomila chilometri all'ora. Era adatta per brevi balzi nel sistema solare, anche così avariata, e copie di quella nave avariata erano servite per lo sforzo bellico marziano. Ma la nave avariata era impossibilmente lenta per gli scopi della commissione intergalattica di Salo. Quindi il vecchio Salo si era rintanato su Titano e aveva mandato a Tralfamadore notizia del suo incidente. Mandò il messaggio in patria alla velocità della luce, il che significava che avrebbe impiegato centocinquantamila anni terrestri per arrivare a Tralfamadore. Si dedicò a molti hobby che l'aiutarono a passare il tempo. I piú importanti erano la scultura, la coltivazione delle margherite titaniane e l'osservazione delle varie attività sulla Terra. Poteva osservare le attività della Terra per mezzo di un visore sul pannello dei comandi della sua nave. Il visore era abbastanza potente da permettere a Salo di seguire le attività delle formiche terrestri, se avesse voluto. Fu attraverso questo visore che ricevette la prima risposta da Tralfamadore. La risposta era scritta sulla Terra per mezzo di pietre enormi su una pianura che ora è l'Inghilterra. Le rovine della risposta esistono ancora, e sono note come Stonehenge 13. Il significato di Stonehenge visto dall'alto è, in tralfamadoriano: «Il pezzo di ricambio verrà fornito alla massima velocità possibile». Stonehenge non era il solo messaggio che il vecchio Salo aveva ricevuto. Ce n'erano stati altri quattro, tutti scritti sulla Terra. La Grande Muraglia della Cina, vista dall'alto, significava in tralfamadodano: «Abbi pazienza. Non ti abbiamo dimenticato». La Domus Aurea dell'imperatore romano Nerone significava: 13
Stonehenge: antichissimo monumento druidico la cui origine non è ancora stata completamente chiarita (n.d.t.).
«Facciamo del nostro meglio». Il significato del Cremlino di Mosca, visto dall'alto, era: «Ti rimetterai in viaggio prima di quanto credi». Il significato del palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra, in Svizzera, è: «Prepara tutto e tieniti pronto a partire dietro breve preavviso». Un semplice calcolo aritmetico rivelerà che tutti questi messaggi erano arrivati a velocità considerevolmente superiori alla velocità della luce. Salo aveva mandato in patria il suo messaggio alla velocità della luce, e quindi aveva impiegato centocinquantamila anni per raggiungere Tralfamadore. Aveva ricevuto una risposta da Tralfamadore in meno di cinquantamila anni. È grottesco per chiunque sia primitivo come un terrestre spiegare in che modo furono realizzate queste rapide comunicazioni. Basti dire, in una compagnia così primitiva, che i tralfamadoriani riuscirono a far echeggiare certi impulsi della Volontà Universale di Divenire attraverso l'architettura a volta dell'universo con una velocità tre volte superiore a quella della luce. E riuscirono a mettere a fuoco e a modulare questi impulsi in modo da influenzare creature lontanissime e da ispirarle a servire i fini tralfamadoriani. Era un modo meraviglioso di far realizzare certe cose così lontano da Tralfamadore. Era il modo piú rapido. Ma non era un modo economico. Lo stesso vecchio Salo non era attrezzato per comunicare e per far fare le cose in questo modo, neppure su brevi distanze. Gli apparati e le quantità di Volontà Universale di Divenire usati in questo procedimento erano colossali, e richiedevano i servizi di migliaia di tecnici. E neppure l'apparato di Tralfamadore, energizzato, servito e costruito in maniera poderosa, era particolarmente perfetto. Il vecchio Salo aveva osservato molti difetti di comunicazione sulla Terra. Certe civiltà cominciavano a fiorire sulla Terra, e i partecipanti cominciavano a costruire strutture immani che do-
vevano essere ovviamente messaggi in tralfamadoriano... e poi quelle civiltà si spegnevano senza aver completato i messaggi. Il vecchio Salo aveva visto accadere queste cose centinaia di volte. Il vecchio Salo aveva detto al suo amico Rumfoord molte cose interessanti sulla civiltà di Tralfamadore, ma non aveva mai parlato a Rumfoord dei messaggi e delle tecniche grazie alle quali venivano recapitati. Aveva detto a Rumfoord soltanto questo: aveva mandato in patria un'invocazione d'aiuto, e aspettava da un giorno all'altro l'arrivo del pezzo di ricambio. La mente dei vecchio Salo era così diversa da quella di Rumfoord che Rumfoord non poteva leggere la mente di Salo. Salo era contento di quella barriera tra i loro pensieri, perché aveva una mortale paura di ciò che avrebbe potuto dire Rumfoord se avesse scoperto che il popolo di Salo aveva tanto a che fare con la storia della Terra. Sebbene Rumfoord fosse cronosinclasticoinfundìbciato, e quindi fosse lecito aspettarsi da lui una piú ampia visione delle cose, Salo aveva scoperto che Rumfoord era ancora in fondo al cuore un terrestre sorprendentemente provinciale. Il vecchio Salo non voleva che Rumfoord scoprisse ciò che i tralfamadoriani stavano facendo alla T'erra, perché era sicuro che Rumfoord si sarebbe offeso... che Rumfoord se la sarebbe presa con Salo e con tutti i tralfamadoriani. Salo credeva che non l'avrebbe sopportato, poiché amava Winston Niles Rumfoord. Non c'era nulla di offensivo in questo amore. Vale a dire, non era omosessuale. Non poteva esserlo, poiché Salo non aveva sesso. Era una macchina, come tutti i tralfamadoriani. Era tenuto insieme da biette, morse, dadi, bulloni e magneti. La pelle color mandarino di Salo, che era così espressiva quando lui era turbato emotivamente, poteva essere messa o tolta come una giacca a vento terrestre. Era tenuta chiusa da una cer-
niera magnetica. I tralfamadoriani, secondo Salo, si fabbricavano l'un l'altro. Nessuno sapeva con certezza in che modo era stata creata la prima macchina. Questa era la leggenda: C'erano una volta su Tralfamadore creature che non erano affatto simili a macchine. Non erano fidate. Non erano efficienti. Non erano prevedibili. Non erano durevoli. E quelle povere creature erano ossessionate dall'idea che tutto ciò che esisteva dovesse avere uno scopo, e che certi scopi fossero piú elevati di altri. Quelle creature impiegavano quasi tutto il loro tempo cercando di scoprire quale fosse il loro scopo. E ogni volta che scoprivano qualcosa che sembrava uno scopo, quello scopo sembrava così infimo che quelle creature si sentivano riempire di disgusto e di vergogna. E, piuttosto che servire uno scopo così infimo, quelle creature facevano una macchina perché lo servisse. Questo lasciava le creature libere di servire scopi piú alti. Ma ogni volta che scoprivano uno scopo piú alto, quello scopo non era ancora abbastanza alto. Quindi vennero costruite macchine anche per servire scopi piú alti. E le macchine facevano tutto in modo così esperto che alla fine fu affidato loro il compito di scoprire quale poteva essere lo scopo piú alto delle creature. Le macchine riferirono in tutta onestà che non si poteva dire che quelle creature avessero uno scopo qualsiasi. Di conseguenza le creature cominciarono a massacrarsi a vicenda, poiché odiavano soprattutto le cose che non avevano uno scopo. E scoprirono che non erano neppure molto brave a massacrarsi. così affidarono anche quel compito alle macchine. E le macchine portarono a termine quel compito in molto meno tempo di quanto occorra per dire «Tralfamadore».
Servendosi del visore sul pannello dei comandi della sua astronave, il vecchio Salo osservava l'approssimarsi a Titano dell'astronave che portava Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e il loro figlio Crono. La loro nave era regolata per atterrare automaticamente sulla riva del Mare Winston. Era regolata in modo da atterrare fra due milioni di statue di esseri umani in grandezza naturale. Salo aveva fatto le statue al ritmo di dieci ogni anno terrestre. Le statue erano concentrate nella regione del Mare Winston perché le statue erano fatte di torba titanica. La torba titanica abbonda accanto al Mare Winston, a solo mezzo metro sotto la superficie del suolo. La torba titanica è una sostanza curiosa... e molto attraente per uno scultore facile e spontaneo. Appena viene dissotterrata, la torba titanica ha la consistenza dello stucco terrestre. Dopo un'ora di esposizione alla luce e all'aria di Titano, la torba ha la forza e la durezza del gesso per scultori. Dopo due ore di esposizione, è resistente come il granito, e deve essere lavorata con lo scalpello. Dopo tre ore di esposizione, soltanto un diamante potrebbe graffiare la torba titanica. Salo era stato ispirato a fare tante statue dal modo vistoso in cui si comportavano i terrestri. Non era tanto ciò che i terrestri facevano ma il. modo in cui io facevano che ispirava Salo. I terrestri si comportavano sempre come se ci fosse un grande occhio nel cielo... e come se quel grande occhio fosse affamato di spettacolì. Il grande occhio era appassionato di grandiosa teatralità. Il grande occhio era indifferente al fatto che gli spettacoli terrestri fossero commedie, tragedie, farse, satire, esercizi atletici o vaudeville, La sua richiesta, che, a quanto pareva, i terrestri consideravano irresistibile quanto la forza di gravità, era che gli spettacoli fossero grandiosi.
La richiesta era così potente che i terrestri non facevano quasi altro se non dare spettacoli, notte e giorno... e persino nei loro sogni. Il grande occhio era il solo pubblico che stesse sui serio a cuore ai terrestri. Le rappresentazioni piú fantastiche che Salo aveva visto erano state organizzate da terrestri che erano terribilmente soli. Il grande occhio immaginario era il loro solo pubblico. Salo, con le sue statue dure come il diamante, aveva tentato di eternare alcuni stati mentali di quei terrestri che avevano inscenato le rappresentazioni piú interessanti per il grande occhio immaginario. Poco meno sorprendenti delle statue erano le margherite titaniane che abbondavano attorno al Mare Winston. Quando Salo era arrivato su Titano nel 203.117 a.C, i fiori delle margherite titaniane erano fiori gialli, piccoli, stellati, dal diametro di circa mezzo centimetro. Poi Salo aveva cominciato una coltivazione selettiva. Quando Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e il loro figlio Crono arrivarono su Titano, la margherita titaniana tipica aveva uno stelo di un metro di diametro e un fiore color lavanda spruzzato di rosa con una massa superiore a una tonnellata. Salo, dopo aver osservato l'approssimarsi dell'astronave di Malachi Constant, di Beatrice Rumfoord e del loro figlio Crono, gonfiò i piedi fino alle dimensioni di pallemazze tedesche. Camminò sulle limpide acque smeraldine del Mare Winston e attraversò le acque verso il Taj Mahal di Winston Niles Rumfoord. Entrò nel cortile cintato del palazzo e si fece uscire l'aria dai piedi. L'aria sibilò. Il sibilo echeggiò tra le mura. La sdraio color lavanda di Winston Niles Rumfoord, che stava accanto alla piscina, era vuota. — Skip? — chiamò Salo. Usò il nome piú intimo tra tutti i nomi di Rumfoord, il nome dell'infanzia di Rumfoord, sebbene Rumfoord si infastidisse a sentirlo usare. Non usava quel nome
per punzecchiare Rumfoord. Lo usava per affermare l'amicizia che provava per Rumfoord... per mettere un poco alla prova quell'amicizia e per vederle superare splendidamente la prova. C'era una ragione perché Salo sottoponesse quell'amicizia a una simile prova goliardica. Non aveva mai capito l'amicizia, non ne aveva mai sentito parlare prima di arrivare nel sistema solare. Per lui era una novità affascinante. Doveva giocarci. — Skip? — chiamò di nuovo Salo. C'era un sapore insolito nell'aria. Salo l'identificò provvisoriamente come ozono. Non riuscì a spiegarsene la presenza. Una sigaretta bruciava ancora nel portacenere accanto alla sdraio di Rumfoord, quindi Rumfoord non aveva lasciato da molto quella sdraio. — Skip? Kazak? — chiamò Salo. Era insolito che Rumfoord non dormicchiasse nella sua sdraio, che Kazak non gli dormicchiasse accanto. L'uomo e il cane passavano quasi tutto il tempo accanto alla piscina, intercettando i segnali dei loro altri io attraverso lo spazio e il tempo. Di solito Rumfoord stava immobile nella sdraio, con le dita d'una mano languida e penzolante sepolte nel manto dì Kazak. Di solito Kazak uggiolava e si agitava nel sogno. Salo guardò nell'acqua della piscina rettangolare. In fondo alla piscina, in due metri e mezzo d'acqua, c'erano le tre sirene di Titano, le tre bellissime femmine umane che erano state offerte al lascivo Malachi Constant tanto tempo prima. Erano statue che Salo aveva fatto con la torba titanica. Tra i milioni di statue fatte da Salo, soltanto queste tre erano dipinte con i colori della vita. Era stato necessario dipingerle per dare loro importanza nel sontuoso schema orientale del palazzo di Rumfoord. — Skip? — chiamò di nuovo Salo. Kazak, il cane dello spazio, rispose alla chiamata. Kazak uscì dal palazzo ricco di cupole e di minareti che sì rifletteva nella piscina. Kazak uscì a passo rigido dalle ombre merlettate della
grande sala ottagonale. Kazak sembrava avvelenato. Kazak rabbrividì e guardò fisso un punto a un lato di Salo. Non c'era nulla, lì. Kazak si fermò e sembrò prepararsi al terribile dolore che gli sarebbe costato muovere un altro passo. E poi Kazak lampeggiò e crepitò di fuochi di sant'Elmo. Il fuoco di sant'Elmo è una scarica elettrica luminosa, e una creatura che ne sia afflitta è soggetta a una noia non peggiore di quella d'essere solleticata da una piuma. Tuttavia la creatura sembra immersa nei fuoco, e la si può perdonare se è sbigottita. La scarica luminosa che emanava da Kazak era orripilante a vedersi. E rinnovava il puzzo di ozono. Kazak non si mosse. La sua capacità di sorprendersi a quello spettacolo sbalorditivo si era esaurita da lungo tempo. Tollerava quel bagliore con stanca malinconia. Il bagliore morì. Rumfoord apparve sulla soglia. Anche lui sciupato e paralizzato. Una fascia di dematerializzazione, una fascia di nulla ampia trenta centimetri, attraversava Rumfoord dalla testa ai piedi. Era seguita da due fasce piú strette, a tre centimetri di distanza. Rumfoord alzò le mani e distese le dita. Torrenti di fuochi di sant'Elmo rosei, violetti e verdepallidi si irradiarono dalla punta delle sue dita. Brevi lampi d'oro pallido gli sfrigolavano nei capellì, donandogli un'aureola sgargiante. — Pace — disse debolmente Rumfoord. Il fuoco di sant'Elmo di Rumfoord si spense. Salo era terrorizzato. — Skip... — disse. — Che... che succede, Skip? — Macchie solari — spiegò Rumfoord. Si trascinò fino alla sdraio color lavanda, vi distese la sua grande mole, e si coprì gli occhi con una mano inerte e bianca come un fazzoletto bagnato. Kazak gli si distese accanto. Kazak stava tremando.
— Non... non ti ho mai visto così — disse Salo. — Non c'è mai stata, una tempesta solare come questa — replicò Rumfoord. Salo non fu sorpreso nello scoprire che le macchie solari avevano influenza sui suoi amici cronosinclasticoinfundibolati. Aveva visto molte volte Rumfoord e Kazak ammalati di macchie solari... ma il sintomo piú grave era stato una nausea passeggera. Le scintille e le fasce di dematerializzazione erano nuove. Mentre Salo osservava Rumfoord e Kazak, i due divennero momentaneamente bidimensionali, come figure dipinte su bandiere svolazzanti. Si consolidarono, si arrotondarono di nuovo. — Posso fare qualcosa, Skip? — chiese Salo. Rumfoord gemette. — La gente non smetterà mai di fare questa domanda spaventosa? — Scusami — disse Salo. I suoi piedi erano completamente sgonfi, ora: erano concavi, erano ventose. I suoi piedi mandavano suoni risucchianti sul pavimento lucido. — È necessario che tu faccia questi rumori? — chiese Rumfoord, irritato. Il vecchio Salo desiderò di morire. Era la prima volta che il suo amico Winston Niles Rumfoord gli aveva detto una parola rude. Salo non poteva sopportarlo. Il vecchio Salo chiuse due dei suoi tre occhi. Il terzo esplorò il cielo. L'occhio fu attratto da due punti azzurri che sfrecciavano nel cielo. I punti erano uccelli azzurri di Titano che veleggiavano altissimi. I due avevano trovato una corrente ascensionale. Nessuno dei due grandi uccelli sbatteva le ali. Neppure un movimento d'una piuma era privo di armonia. La vita era un sogno veleggiante. — Grau — disse con aria socievole uno degli uccelli azzurri
di Titano. — Grau — convenne l'altro. Gli uccelli chiusero simultaneamente le ali e precipitarono dall'alto come pietre. Parvero precipitare a morte certa fuori dalle mura di Rumfoord. Ma poi ripresero a salire veleggiando, per cominciare un'altra lunga e facile ascesa. Questa volta ascesero in un cielo striato dalla scia di vapore dell'astronave che portava Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e il loro figlio Crono. La nave stava per atterrare. — Skip...? — fece Salo. — È necessario che tu mi chiami così? — replicò Rumfoord. — No — rispose Salo. — E allora non farlo — disse Rumfoord. — Non mi piace quel nome... a meno che lo usi qualcuno con cui io sono cresciuto. — Credevo... come tuo amico... — balbettò Salo, — di poter avere il diritto... Rumfoord non sapesse tutto quello che sembrava sapere. — Skip... — iniziò. — Per favore! — disse Rumfoord. — Signor Rumfoord.,. — borbottò Salo, — credi che in qualche modo io mi sia servito di te? — Non tu — disse Rumfoord. — Le tue sorelle macchine, sul tuo prezioso Tralfamadore. — Uhm — fece Salo. — Tu... tu credi... che ci si sia serviti di te, Skip? — Tralfamadore — rispose amaramente Rumfoord, — ha teso la mano verso il sistema solare, mi ha prelevato e si è servito di me come di un perfetto sbucciapatate! — Se potevi vedere questo nel futuro — disse disperato Salo, — perché non ne hai parlato prima? — A nessuno piace pensare che qualcuno si serve di lui — replicò Rumfoord. — Lo ammetterà di fronte a se stesso sol-
tanto all'ultimo momento. — Ebbe un sorriso contorto. — Può sorprenderti il sapere che io provo un certo orgoglio, per quanto questo orgoglio possa essere scioccamente sbagliato, nel prendere decisioni per ragioni soltanto mie. — Non mi sorprende — asserì Salo. — Oh?— fece in tono sgarbato Rumfoord. — Avrei pensato che fosse un atteggiamento troppo sottile perché una macchina potesse comprenderlo. Quello, senza dubbio, era il punto cruciale dei loro rapporti. Salo era una macchina, poiché era stato progettato e costruito. Non nascondeva questo fatto. Ma Rumfoord non aveva mai usato quel fatto come un insulto, fino a quel momento. Però adesso aveva usato quel fatto decisamente come un insulto. Attraverso un sottile velo di noblesse oblige, Rumfoord fece sapere a Salo che essere una macchina significava essere privi di sensibilità, privi di immaginazione, essere volgari, essere decisi senza un brandello di coscienza... Salo era pateticamente vulnerabile a questa accusa. Era a causa dell'intimità spirituale che lui e Rumfoord avevano condiviso un tempo, se Rumfoord sapeva così bene come offenderlo. Salo chiuse di nuovo due dei suoi tre occhi; osservò di nuovo gli uccelli azzurri di Titano che veleggiavano. Quegli uccelli erano grandi come aquile terrestri. Salo si augurò di essere un uccello azzurro di Titano. L'astronave che portava Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e il loro figlio Crono passò a bassa quota sul palazzo e atterrò sulla riva del Mare Winston. — Ti do la mia parola d'onore — gli assicurò Salo, — non sapevo che ci si serviva di te, e non avevo la minima idea che tu... — Macchina — disse con cattiveria Rumfoord. — Dimmi per quale scopo ci si è serviti di te... ti prego — supplicò Salo. — Parola d'onore, non ho la piú vaga...
— Macchina! — l'insultò Rumfoord. — Se pensi così male di me, Skip... Winston... signor Rumfoord... — disse Salo, — dopo tutto quello che abbiamo fatto e cercato di fare soltanto in nome dell'amicizia, allora certamente non c'è nulla che io possa dire o fare, adesso, per farti cambiare idea. — È proprio quello che direbbe una macchina — ribatté Rumfoord. — È quello che ha detto una macchina — disse umilmente Salo. Gonfiò i suoi piedi fino alle dimensioni di pallemazze tedesche, preparandosi ad uscire dai palazzo di Rumfoord e a camminare sulle acque del Mare Winston... per non. ritornare mai piú. Soltanto quando i suoi piedi furono gonfiati del tutto comprese la sfida contenuta nelle parole di Rumfoord. Era una chiara allusione: c'era ancora qualcosa che il vecchio Salo poteva fare per rimettere le cose a posto. Anche se era una macchina, Salo era abbastanza sensibile per sapere che chiedere cosa fosse quel qualcosa significava umiliarsi. Si fece coraggio. In nome dell'amicizia, si sarebbe umiliato. — Skip... — esordì, — dimmi cosa devo fare. Qualsiasi cosa... farò qualsiasi cosa. — Fra pochissimo tempo — disse Rumfoord, — un'esplosione farà schizzare la terminazione della mia spirale lontano dai Sole, lontano dal sistema solare. — No! — gridò Salo. — Skip! Skip! — No, no,.. niente pietà, per favore! — disse Rumfoord, indietreggiando, nel timore dì essere toccato. — È una cosa molto bella, in realtà. Vedrò molte cose nuove, molte nuove creature.— Cercò di sorridere. — Ci si stanca, sai, a rimanere impigliati nel monotono meccanismo del sistema solare. — Rise, rauco. — Dopotutto non è come se morissi o qualcosa di simile. Tutto ciò che è stato sarà sempre, e tutto ciò che sarà è sempre stato. — Scosse il capo in fretta e gettò via una lacrima che
non sapeva di avere sulla palpebra. «Per quanto questo pensiero cronosinclasticoinfundibolato sia confortante, mi piacerebbe ancora sapere quale è stato il punto principale di questo episodio nel sistema solare». — Tu... tu l'hai riassunto molto meglio di quanto potrebbe chiunque altro... nella tua Storia tascabile di Marte — disse Salo. — La Storia tascabile di Marte — replicò Rumfoord, — non parla del fatto che io sono stato poderosamente influenzato da forze emanate dal pianeta Tralfamadore. — E digrignò i denti. «Prima che il mio cane ed io ce ne andiamo crepitando attraverso lo spazio come fuochi d'artificio nelle mani di un pazzo — disse Rumfoord, — mi piacerebbe sapere qual è il messaggio che tu porti». — Non... non lo so — ribatté Salo. — È sigillato. Ho l'ordine... — Contro tutti gli ordini di Tralfamadore — disse Winston Niles Rumfoord, — contro tutti i tuoi istinti di macchina, ma in nome della nostra amicizia, Salo, voglio che tu apra il messaggio e me lo legga, subito. Malachi Constant, Beatrice Rumfoord e il giovane Crono, il loro figlio selvaggio, fecero colazione, imbronciati, all'ombra d'una margherita titaniana in riva al Mare Winston. Ogni membro della famiglia aveva una statua cui appoggiarsi. Il barbuto Malachi Constant, playboy del sistema solare, indossava ancora il suo abito giallovivo con i punti interrogativi arancione. Era l'unico abito che avesse. Constant era appoggiato contro una statua dì san Francesco d'Assisi. San Francesco stava cercando di fare amicizia con due uccelli ostili e paurosamente grandi, che sembravano aquile. Constant non poteva identificare con precisione quegli uccelli come uccelli azzurri di Titano, poiché non aveva ancora visto un uccello azzurro di Titano. Era arrivato su Titano soltanto un'ora prima.
Beatrice, che sembrava una regina degli zingari, stava rimuginando ai piedi della statua d'un giovane studioso di fisica. A prima vista, lo scienziato che indossava un camice da laboratorio sembrava un perfetto servitore della verità. A prima vista, ci si convinceva che soltanto la verità poteva farlo felice, mentre fissava raggiante la sua provetta. A prima vista, si pensava che fosse al disopra delle bestiali preoccupazioni dell'umanità quanto gli harmonium nelle grotte di Mercurio. A prima vista era un giovane privo di vanità, privo di cupidigia... e si accettava per il valore facciale il titolo che Salo aveva scolpito sulla statua: Scoperta dell'energia atomica, E poi ci si accorgeva che il giovane cercatore della verità aveva una scandalosa erezione. Beatrice non se ne era ancora accorta. Il giovane Crono, cupo e pericoloso come sua madre, stava già compiendo il suo primo gesto di vandalismo... o stava cercando di compierlo. Crono stava cercando di scrivere una sconcia parola terrestre sulla base della statua cui era appoggiato. Stava tentando di farlo con uno spigolo aguzzo del suo portafortuna. La torba titanica stagionata, dura quasi come il diamante, logorò invece la punta dello spigolo, arrotondandola. La statua su cui Crono stava lavorando era un gruppo di famiglia: un uomo di Neanderthal, la sua compagna e il loro piccino. Era una statua che commuoveva profondamente. Quelle creature tozze, irsute, speranzose, erano così brutte da essere bellissime. La loro importanza e la loro universalità non erano guastate dal titolo satirico che Salo aveva dato all'opera. Dava titoli spaventosi a tutte le sue statue, come per proclamare disperatamente che non si prendeva sul serio come artista, neppure per un istante. Il titolo che aveva dato alla famiglia neandertaliana derivava dal fatto che al piccino veniva mostrato un piede umano che arrostiva su un rozzo spiedo. Il titolo era La porchetta.
— Non importa quello che accade, non importa quale cosa bella o triste o lieta o spaventosa accada — disse Malachi Constant alla sua famiglia, lì su Titano, — che mi venga un accidente se reagirò. Nel momento in cui sembrerà che qualcuno o qualcosa vuole che io mi comporti in un modo speciale, rimarrò immobile. — Alzò lo sguardo verso gli anelli di Saturno e arricciò le labbra. — Non è troppo bello, per parlarne? — Sputò al suolo. «Se qualcuno si aspetta di servirsi ancora di me per qualche suo piano immenso — continuò Constant, — avrà una grande delusione. Se la caverebbe molto meglio se cercasse di ottenere la collaborazione d'una di queste statue. Sputò di nuovo. «Per quel che mi riguarda, l'Universo è un deposito di rottami, dove tutto ha prezzi esosi. Sono stufo di frugare nei mucchi di rottami, cercando qualcosa da comprare. Ogni cosiddetta occasione è collegata con fili sottilissimi a una carica di dinamite. — Sputò di nuovo. «Mi dimetto — disse Constant. «Mi ritiro — asserì Constant. «La pianto», dichiarò Constant. La famigliola di Constant approvò senza entusiasmo. Il coraggioso discorso di Constant era ormai rancido. L'aveva ripetuto molte volte durante il viaggio di diciassette mesi dalla Terra a Titano... ed era, in fin dei conti, una filosofia abituale per tutti i veterani di Marte. Constant non stava parlando alla sua famiglia, comunque. Stava parlando a voce alta perché la sua voce giungesse abbastanza lontano, nella foresta di statue e sopra il Mare Winston. Stava facendo una dichiarazione ad uso di Rumfoord o di chiunque altro fosse in agguato lì vicino. — Abbiamo preso parte per l'ultima volta — disse Constant, a voce alta, — a esperimenti e zuffe e festival che non amiamo
e che non comprendiamo! — «Comprendiamo»... — giunse un'eco dalle mura di un palazzo su un'isola a duecento metri dalla riva. Il palazzo era, naturalmente, Dun Doamin, il Taj Mahal di Rumfoord. Constant non fu stupito di vedere là quel palazzo. L'aveva visto quando era sbarcato dall'astronave; l'aveva visto splendere là come la Città di Dio di sant'Agostino. — E poi che succederà? — chiese Constant all'eco. — Tutte le statue acquisteranno vita? — «Vita»? — ripetè l'eco. — E un'eco — disse Beatrice. — Lo so che è un'eco — replicò Constant. — Non sapevo che tu sapevi se era o no un'eco — ribatté a sua volta Beatrice. Era distante ed educata. Era stata estremamente corretta con Constant: non gli aveva rimproverato nulla, non si era aspettata nulla da lui. Una donna meno aristocratica gli avrebbe fatto passare l'inferno, rimproverandolo di tutto ed esigendo miracoli. Non avevano fatto l'amore, durante il viaggio. Né Constant né Beatrice vi erano interessati. I veterani di Marte non ne erano mai interessati. Inevitabilmente, il lungo viaggio aveva avvicinato Constant alla sua compagna e a suo figlio... li aveva resi piú vicini di quanto lo fossero stati sul sistema dorato di ballatoi, rampe, scale, pulpiti, gradini e palchi di Newport. Ma l'unico amore in quell'unità familiare era ancora l'amore tra il giovane Crono e Beatrice. Oltre a quell'amore tra madre e figlio c'erano soltanto educazione, cupa compassione e indignazione repressa per essere stati costretti ad essere una famiglia. — Oh — fece Constant, — la vita è buffa, quando ci si pensa. Il giovane Crono non sorrise quando suo padre disse che la vita era buffa. Il giovane Crono era il membro della famiglia meno qualificato a pensare che la vita era buffa. Beatrice e Constant, in fin
dei conti, potevano ridere amaramente dei pazzeschi incidenti cui erano sopravvissuti. Ma il giovane Crono non poteva ridere insieme a loro, perché lui stesso era un incidente pazzesco. Non c'era da stupirsi se i tesori piú importanti per Crono erano un portafortuna e un coltello a serramanico. Il giovane Crono estrasse il suo coltello a serramanico e ne fece scattare distrattamente la lama. Gli occhi gli si strinsero. Si stava preparando a uccidere, se uccidere fosse divenuto necessario. Stava guardando in direzione d'una barca a remi dorata che si era staccata dal palazzo sull'isola. Era una creatura color mandarino, quella che stava remando. Il rematore era, naturalmente, Salo. Stava arrivando in barca per trasportare la famiglia fino al palazzo. Salo era un cattivo rematore, poiché non aveva mai remato prima. Stringeva i remi con i piedi a ventosa. Aveva un solo vantaggio, rispetto ai rematori umani, in quanto aveva un occhio sulla nuca. Il giovane Crono fece lampeggiare un raggio di luce nell'occhio del vecchio Salo: lo fece lampeggiare con la lucida lama del suo coltello. L'occhio posteriore di Salo sbatté. Far lampeggiare un raggio di luce nell'occhio di Salo non era, da parte di Crono, un'esibizione paragonabile al manovrare uno specchietto per le allodole. Era un'astuzia della giungla, un gesto di astuzia calcolato per mettere a disagio quasi ogni specie di creatura dotata di vista. Era una delle mille astuzie della giungla che Crono e sua madre avevano imparato negli anni trascorsi insieme nella foresta amazzonica. La bruna mano di Beatrice sì strinse su un sasso. — Torna a impensierirlo — disse sottovoce a Crono. Il giovane Crono fece di nuovo lampeggiare la luce nell'occhio del vecchio Saio. — Il suo corpo sembra l'unica parte morbida — disse Beatrice, senza muovere le labbra. — Se non riesci a colpire il corpo,
prova con un occhio. Crono annuì. Constant era agghiacciato nel vedere quale efficiente unità di autodifesa formavano la sua compagna e suo figlio. Constant non era compreso nei loro piani. Non avevano bisogno di lui. — E io cosa dovrei fare? — sussurrò Constant. — Sst! — disse seccamente Beatrice. Salo amarrò la sua barca dorata. Lo fece rapidamente, con un rozzo nodo al polso d'una statua accanto all'acqua. La statua era una donna nuda che suonava un trombone. Era intitolata Evelyn e il violino magico: un titolo piuttosto enigmatico. Salo era troppo oppresso dal dolore per curarsi della propria sicurezza... addirittura per comprendere che poteva spaventare qualcuno. Rimase fermo un attimo su un masso di stagionata torba titanica vicino al punto in cui era sbarcato. I suoi piedi sofferenti succhiarono la pietra umida. Liberò i piedi con uno sforzo tremendo. Avanzò, abbagliato dai lampi del coltello di Crono. — Per favore... — disse. Un sasso uscì volando dal bagliore del coltello. Salo lo schivò. Una mano gli afferrò la gola ossea e lo buttò al suolo. Il giovane Crono si mise a cavalcioni sui vecchio Salo, pungendogli il petto con la punta del coltello. Beatrice si inginocchiò accanto alla testa di Salo, con un sasso pronto per fracassargliela. — Avanti.,. uccidetemi — disse Salo con voce raschiante. — Mi fareste un favore. Vorrei essere morto. Vorrei, lo giuro davanti a Dio, non essere mai stato fabbricato e attivato, tanto per cominciare. Uccidetemi, toglietemi alla mia infelicità, e poi andate a vederlo. Chiede di voi. — Chi? — domandò Beatrice. — Il tuo povero marito... Il mio ex amico, Winston Niles Rumfoord — rispose Salo.
— Dov'è? — chiese Beatrice. — In quel palazzo sull'isola — disse Salo. — Sta morendo... tutto solo, se si eccettua il suo fedele cane. Chiede di voi... chiede di voi tutti. E dice che non vuole piú posare gli occhi su di me. Malachi Constant osservò le labbra plumbee baciare senza suono l'aria. La lingua dietro quelle labbra ebbe uno schiocco infinitesimale. Le labbra si contrassero all'improvviso, scoprendo i denti perfetti di Winston Niles Rumfoord. Anche Constant stava mostrando i denti, preparandosi a digrignarli convenientemente alla vista dell'uomo che gli aveva fatto tanto male. Non li digrignò. In primo luogo, nessuno stava guardando... nessuno l'avrebbe visto farlo e nessuno l'avrebbe capito. In secondo luogo, Constant si accorse di non essere piú capace di odio. I suoi preparativi per digrignare i denti decaddero nello stupore di uno zotico... lo stupore di uno zotico di fronte a una malattia spettacolosamente mortale. Winston Niles Rumfoord era disteso sul dorso, del tutto materializzato, sulla sua sdraio accanto alla piscina. I suoi occhi erano rivolti al cielo, senza battiti di ciglia e in apparenza senza vista. Una mano bellissima penzolava dalla sdraio e le dita inerti stringevano il collare di Kazalc, il cane dello spazio. Il collare era vuoto. Un'esplosione nel Sole aveva separato l'uomo e il cane. Un Universo programmato secondo misericordia avrebbe tenuto uniti l'uomo e il cane. L'Universo abitato da Winston Niles Rumfoord e dal suo cane non era programmato secondo misericordia. Kazak era stato mandato a precedere il suo padrone nella grande missione verso il nulla. Kazak se ne era andato ululando in uno sbuffo di ozono e di luce malsana, con un ronzio simile a quello d'uno sciame di api.
Rumfoord lasciò scivolare dalle dita il collare vuoto. Il collare espresse morte, formò un suono informe e un mucchietto informe, fu uno schiavo inanimato della gravità, nato con una spina dorsale spezzata. Le labbra plumbee di Rumfoord si mossero. — Salve, Beatrice... moglie — salutò in tono sepolcrale. «Salve, Vagabondo dello Spazio — disse ancora. Questa volta diede alla propria voce un tono affettuoso. — Sei stato coraggioso a venire, Vagabondo dello Spazio... a correre un altro rischio con me. «Salve, illustre giovane portatore dell'illustre nome di Crono. Io ti saluto, oh astro della pallamazza tedesca... io ti saluto, oh tu dal portafortuna». I tre cui stava parlando erano fermi subito oltre la soglia. Tra loro e Rumfoord stava la piscina. Il vecchio Salo, il cui desiderio di morire non era stato esaudito, stava soffrendo a poppa della barca dorata attraccata all'esterno delle mura. — Non sto morendo — affermò Rumfoord. — Me ne sto soltanto andando dal sistema solare. E non sto facendo neppure questo. Nel grandioso modo senza tempo, nel modo cronosinclasticoinfundibolato di guardare le cose, sarò sempre qui. Sarò sempre dovunque sono stato. «Sono ancora in luna di miele con te, Beatrice. Ti sto ancora parlando in una piccola stanza sotto la scala, a Newport, Constant. Sì... e sto giocando a nascondino nelle grotte di Mercurio con te e con Boaz. E Crono... ti sto ancora osservando mentre giochi così bene a pallamazza tedesca sul ferreo campo di gioco su Marte». Gemette. Fu un piccolo gemito.... e tanto triste. La dolce, mite aria di Titano portò via quel piccolo gemito. — Qualsiasi cosa abbiamo detto, amici, la stiamo ancora dicendo... come fu, come è, come sarà — asserì Rumfoord. Il piccolo gemito si levò di nuovo.
Rumfoord lo guardò allontanarsi come se fosse un anello di fumo. — C'è qualcosa che dovreste sapere sulla vita nel sistema solare — continuò. — Poiché sono cronosinclasticoinfundibolato, l'ho sempre saputo. Tuttavia è una cosa tanto avvilente che vi ho pensato il meno possibile. «La cosa tanto avvilente è questa: «Tutto ciò che tutti i terrestri hanno fatto in ogni tempo è stato distorto da creature che abitano su un pianeta lontano centocinquantamila anni-luce. Il nome del pianeta è Tralfamadore. «Non so come i tralfamadoriani ci controllassero. Ma so a quale fine ci controllavano. Ci controllavano in modo da farci portare un pezzo di ricambio a un messaggero tralfamadoriano appiedato proprio qui su Titano». Rumfoord puntò un dito verso il giovane Crono. — Tu, giovanotto... — disse. — Tu l'hai in tasca. Nella tua tasca è il culmine di tutta la storia terrestre. Nella tua tasca c'è il misterioso qualcosa che ogni terrestre cercava così disperatamente, così premurosamente, così ciecamente, così faticosamente di produrre e di consegnare. Un guizzo sfrigolante di elettricità spuntò dalla pùnta del dito accusatore di Rumfoord. — La cosa che tu chiami il tuo portafortuna — disse ancora Rumfoord, — è il pezzo di ricambio che il messaggero tralfamadoriano ha atteso così a lungo! «Il messaggero è la creatura color mandarino che adesso se ne sta rannicchiata fuori dalle mura. Il suo nome è Salo. Avevo sperato che il messaggero avrebbe dato all'umanità la possibilità di sbirciare il messaggio che porta, poiché l'umanità gli ha dato un bell'aiuto per proseguire. Sfortunatamente, ha l'ordine di non mostrare il messaggio a nessuno. È una macchina, e, in quanto macchina, non ha altra scelta se non considerare gli ordini come ordini. Gli ho chiesto con educazione di mostrarmi il
messaggio. Ha rifiutato disperatamente». Il guizzo sfrigolante di elettricità sul dito di Rumfoord crebbe, formò una spirale attorno a Rumfoord. Rumfoord osservò la spirale con triste disprezzo. — Credo che forse sia questa — disse della spirale. Era realmente quella. La spirale si prolungò leggermente, facendo una riverenza. Poi cominciò ad avvolgersi attorno a Rumfoord, tessendo un bozzolo continuo di luce verde. Sussurrava appena, mentre roteava. — Tutto ciò che posso dire — affermò Rumfoord dall'interno del bozzolo, — è che ho fatto del mio meglio per fare del bene alla mia Terra natia mentre servivo gli irresistibili desideri di Tralfamadore. «Forse, adesso che il pezzo di ricambio è stato consegnato al messaggero tralfamadoriano, Tralfamadore lascerà in pace il sistema solare. Forse i terrestri saranno liberi di evolversi e di seguire le loro inclinazioni, come non sono stati liberi di fare per migliaia di anni. — Starnuti. — È già meraviglioso che i terrestri siano riusciti a dimostrare il buonsenso che hanno dimostrato. Il bozzolo verde lasciò il suolo e aleggiò sulla cupola. — Ricordatemi come un gentiluomo di Newport, Terra, e del sistema solare — concluse Rumfoord. Sembrava di nuovo sereno, in pace con se stesso, perlomeno uguale a qualsiasi creatura che avrebbe potuto incontrare in qualsiasi altro luogo. — In un modo puntuale di parlare — giunse dal bozzolo l'educata voce tenorile di Rumfoord, — addio. Il bozzolo e Rumfoord scomparvero con un pft. Rumfoord e il suo cane non furono mai piú rivisti. Il vecchio Salo entrò rimbalzando nel cortile proprio mentre Rumfoord e il suo bozzolo scomparivano. Il piccolo tralfamadoriano era disperato. Aveva strappato con un piede a ventosa il messaggio della fascia che portava attorno alla gola. Il piede era ancora una ventosa e in esso c'era il mes-
saggio. Levò lo sguardo verso il punto in cui aveva aleggiato il bozzolo. — Skip! — gridò nel cielo. — Skip! Il messaggio! Ti dirò il messaggio! Il messaggio! Skiiiiiiiiip! La testa gli sobbalzò sulle sospensioni cardaniche. — Andato — disse con voce atona. Sussurrò: — Andato. «Macchina? — fece Salo. Parlava esitando, tanto a sé quanto a Constant, a Beatrice e a Crono. — Sono una macchina, e lo sono anche quelli del mio popolo. Sono stato progettato e costruito, e nessuna spesa e nessun accorgimento sono stati risparmiati per farmi fidato, efficiente, prevedibile e durevole. Ero la macchina migliore che la mia gente sapesse fare. «Ho dimostrato di essere una buona macchina? — chiese Salo. «Fidato? — disse. — Dovevo tenere sigillato il messaggio fino a quando avessi raggiunto la mia destinazione, e adesso l'ho aperto. «Efficiente? Dopo aver perduto il mio migliore amico nell'Universo, ora mi costa piú energia calpestare una foglia morta di quanta me ne costasse una volta scalare saltellando Monte Rumfoord. «Prevedibile? Dopo aver osservato gli esseri umani per duecentomila anni terrestri, sono diventato volubile e sentimentale come la piú sciocca scolaretta terrestre. «Durevole?— concluse cupamente. — Vedremo quello che vedremo». Depose il messaggio che aveva portato così a lungo sulla sdraio vuota, color lavanda, di Rumfoord. — Eccolo... amico — disse al suo ricordo di Rumfoord, — e possa darti molta consolazione, Skip. Costa molto dolore al tuo amico Salo. Per darlo a te, anche se troppo tardi, il tuo vecchio amico Salo ha dovuto combattere contro il nucleo stesso del suo essere, contro la sua stessa natura di macchina.
«Tu hai chiesto l'impossibile a una macchina, e la macchina l'ha fatto. «La macchina non è piú una macchina. i contatti della macchina sono corrosi, i suoi cuscinetti intasati, i suoi circuiti bruciati, i suoi ingranaggi spanati. La sua mente ronza e scoppietta come la mente di un terrestre... ribolle e si surriscalda di pensieri d'amore, d'onore, di dignità, di diritti, di appagamento, di integrità, di indipendenza...». Il vecchio Salo riprese il messaggio alla sdraio di Rumfoord. Era scrìtto su un sottile quadrato di alluminio. Il messaggio era un solo punto. — Vorreste sapere in che modo ci si è serviti di me, in che modo la mia vita è stata sprecata? — disse. — Vorreste sapere qual è il messaggio che ho portato per quasi mezzo milione di anni terrestri... Il messaggio che dovrei portare per altri diciotto milioni di anni? Levò il quadrato di alluminio in un piede a ventosa. — Un punto — dichiarò. — Un solo punto. «Il significato di un punto, in tralfamadoriano — spiegò il vecchio Salo, — è... Saluti». La piccola macchina di Tralfamadore, dopo aver consegnato il messaggio a se stesso, a Constant, a Beatrice e a Crono, a una distanza di centocinquantamila anni-luce, uscì saltellando bruscamente dal cortile e corse sulla spiaggia. E là fuori si uccise, Si fece a pezzi e scagliò i pezzi in tutte le direzioni. Crono andò da solo sulla spiaggia e vagò pensieroso tra i pezzi di Salo. Crono aveva sempre saputo che il suo portafortuna aveva poteri straordinari e straordinari significati. E aveva sempre sospettato che qualche creatura superiore si sarebbe alla fine presentata per reclamare come proprio quel portafortuna. Era nella natura dei portafortuna veramente efficaci che gli esseri umani non ne fossero mai i veri proprietari. Si prendevano soltanto cura di loro, ne ottenevano benefici,
finché i veri proprietari, i proprietari superiori, si presentavano. Crono non provava un senso di futilità o di disordine. A lui, tutto sembrava in perfetto ordine. E il ragazzo partecipò adeguatamente a quel perfetto ordine. Si tolse dalla tasca il portafortuna, lo lasciò cadere senza rimpianti sulla sabbia, lo lasciò cadere tra i pezzi sparpagliati di Salo. Presto o tardi, pensava Crono, le forze magiche dell'Universo avrebbero rimesso di nuovo tatto insieme. Lo facevano sempre.
EPILOGO RIUNIONE CON STONY
«Tu sei stanco, tanto stanco, Vagabondo dello Spazio, Malachi, Unk, l'issa la stella piú fievole, e pensa quanto si stanno appesantendo le tue membra». SALO
Non c'è molto altro da dire. Malachi Constant diventò vecchio su Titano. Beatrice Rumfoord diventò vecchia su Titano. Morirono in pace, morirono a ventiquattro ore di distanza uno dall'altra. Soltanto gli uccelli azzurri di Titano sanno con certezza che cosa accadde, alla fine, del loro figlio Crono. Quando Malachi Constant compì settantaquattro anni, era avvizzito, gentile e aveva le gambe incurvate. Era del tutto calvo, e stava quasi sempre nudo: non portava altro che una barbetta bianca alla Van Dyke, accuratamente tagliata. Viveva nell'astronave avariata di Salo; vi abitava da trent'anni. Constant non aveva cercato di far volare l'astronave. Non aveva osato toccarne un solo comando. I comandi della nave di Salo erano molto piú compiessi di quelli d'una nave marziana. Il pannello dei comandi di Salo offriva a Constant duecentosettantatré manopole, interruttori e pulsanti, ognuno dei quali aveva un'iscrizione o una calibrazione tralfamadoriana. Quei comandi erano soltanto un capriccio di un giocatore di indovinelli in un Universo composto per un bilionesimo di materia contro un decilione di futilità di velluto nero.
Constant aveva trafficato con la nave soltanto per scoprire se, come aveva detto Rumfoord, il portafortuna di Crono serviva davvero come parte del generatore di energia. Superficialmente, in ogni caso, il portafortuna serviva proprio a quello. C'era una porticina d'accesso al generatore della nave che un tempo aveva evidentemente lasciato filtrare del fumo. Constant l'apri e trovò un compartimento fuligginoso. E sotto la fuliggine c'erano cuscinetti e camme collegati con niente. Constant riuscì a infilare i buchi del portafortuna di Crono su quei cuscinetti e tra le camme. Il portafortuna si adattava ai sostegni e agli spazi liberi in un modo che avrebbe soddisfatto un meccanico svizzero. Constant aveva molti hobby che l'aiutavano a passare il tempo balsamico nel clima salubre di Titano. Il suo hobby piú interessante era trafficare attorno a Salo, il messaggero tralfamadoriano smantellato. Constant trascorse migliaia di ore nel tentativo di rimettere insieme Salo e di farlo funzionare di nuovo. Fino ad allora, non aveva avuto fortuna. Quando Constant aveva intrapreso la ricostruzione del piccolo tralfamadoriano, l'aveva fatto con l'espressa speranza che Salo accettasse di riportare sulla Terra il giovane Crono. Constant non era ansioso di ritornare sulla Terra, e non lo era neppure la sua compagna Beatrice. Ma Constant e Beatrice avevano convenuto che il loro figlio, poiché aveva ancora davanti a sé la maggior parte della vita, doveva vivere quella vita con i suoi operosi e gai contemporanei, sulla Terra. Ma quando Constant compì settantaquattro anni, portare il giovane Crono sulla Terra non era piú un. problema pressante. Il giovane Crono non era piú particolarmente giovane. Aveva quarantadue anni. E si era adattato in modo così totale a Titano che sarebbe stata una crudeltà estrema mandarlo altrove. A diciassette anni, il giovane Crono era fuggito dal suo pa-
lazzo per unirsi agli uccelli azzurri, le creature piú mirabili di Titano. Crono viveva ora tra i loro nidi, accanto ai Laghi Kazak. Portava le loro piume, e covava le loro uova e divideva il loro cibo e parlava il loro linguaggio. Constant non vedeva mai Crono. Qualche volta, a notte tarda, udiva le grida di Crono. Constant non rispondeva a quelle grida. Quelle grida non erano per qualcosa o per qualcuno di Titano. Erano per Phoebe, una luna che passava. Qualche volta, quando Constant usciva a raccogliere le fragole ritardane o le uova maculate dei piviere titaniano, che pesavano un chilo, si imbatteva in un piccolo santuario fatto di stecchi e di pietre in una radura. Crono faceva centinaia di quei santuari. Gli elementi di quei santuari erano sempre gli stessi. Una grande pietra era al centro, e rappresentava Saturno. Un cerchio di legno, fatto d'un fuscello verde, vi era posato intorno... per rappresentare gli anelli di Saturno. E, aldilà degli anelli, c'erano pietre piú piccole per rappresentare le nove lune. La piú grande di quelle pietre-satelliti era Titano. E sotto quella pietra c'era sempre la piuma d'un uccello azzurro di Titano. Le tracce sul terreno indicavano che il giovane Crono, non piú tanto giovane, passava ore a spostare in. cerchio gli elementi del sistema. Quando il vecchio Malachi Constant trovava uno dei santuari del suo strano figlio in uno stato di abbandono, lo riordinava meglio che poteva. Constant lo mondava dalle erbacce e lo rastrellava, e faceva un nuovo cerchio per la pietra che era Saturno. Poneva una penna fresca d'uccello azzurro sotto la pietra che era Titano. Riordinare i santuari era tutto ciò che poteva fare Constant per essere spiritualmente vicino a suo figlio. Rispettava ciò che suo figlio stava cercando di fare con la religione.
E qualche volta, quando Constant guardava un santuario rimesso in ordine, provava a muovere intorno gli elementi della propria vita... ma lo faceva nella propria mente. In quei casi rifletteva malinconicamente su due cose in particolare: sull'uccisione di Stony Stevenson, il suo migliore e unico amico, e sulla conquista, così tardi nella sua vita, dell'amore di Beatrice. Constant non scoprì mai se Crono sapeva chi riordinava i santuari. Forse Crono pensava che lo facessero il suo dio o i suoi dèi. Era tutto tanto triste. Ma era tutto così bello, anche. Beatrice Rumfoord viveva soia nel Taj Mahal di Rumfoord. I suoi contatti con Crono erano ancora piú tormentosi di quelli di Constant. A intervalli imprevedibili, Crono raggiungeva a nuoto il palazzo, si vestiva con gli abiti del guardaroba di Rumfoord, annunciava che era il compleanno di sua madre, e trascorreva la giornata in discorsi indolenti, imbronciati, ragionevolmente civili. Alla fine della giornata, Crono s'infuriava con gli abiti, con sua madre e con la civiltà. Si strappava gli abiti, gridava come un uccello azzurro e si tuffava nei Mare Winston. Quando Beatrice aveva passato una di quelle feste di compleanno, piantava un remo sulla sabbia della spiaggia e vi appendeva un lenzuolo bianco. Era un segnale per Malachi Constant, per implorarlo di venire subito, di aiutarla a calmarsi. E quando Constant arrivava in risposta al segnale di soccorso, Beatrice si confortava sempre con le stesse parole. — Perlomeno — diceva, — non è un ragazzo attaccato alle gonne della madre. E perlomeno ha avuto la grandezza d'animo di unirsi alle creature piú nobili e più belle che ci siano in vista. Il lenzuolo bianco, il segnale di soccorso, stava sventolando, adesso. Malachi Constant si staccò dalla riva in una canoa rotonda. La barca dorata del palazzo era stata affondata dalla putredine,
ormai da molto tempo. Constant indossava un vecchio accappatoio di lana azzurra che un tempo era appartenuto a Rumfoord. L'aveva trovato nel palazzo e l'aveva preso quando il suo abito da Vagabondo dello Spazio si era logorato. Era il suo unico indumento, e lo indossava soltanto quando andava a far visita a Beatrice. Constant aveva con sé, nella canoa, sei uova di piviere, mezzo gallone di fragole selvatiche di Titano, un vaso di torba da tre galloni pieno di latte di margherita fermentato, un secchio di semi di margherita, otto libri che aveva preso in prestito dalla biblioteca del palazzo, che contava quarantamila volumi, e una scopa e una paletta fatte a mano. Constant era autosufficiente. Coltivava o raccoglieva o fabbricava tutto ciò che gli occorreva, Questo gli dava un'enorme soddisfazione. Beatrice non doveva dipendere da Constant. Rumfoord aveva riempito prodigalmente il Taj Mahal di viveri terrestri e di liquori terrestri. Beatrice aveva da mangiare e da bere in abbondanza, e ne avrebbe avuto per sempre. Constant portava a Beatrice cibi indigeni perché era molto orgoglioso delle sue qualità di boscaiolo e di allevatore. Gli piaceva fare sfoggio della sua abilità nel procurare viveri. Era una compulsione. Constant aveva portato nella canoa la scopa e la paletta perché il palazzo di Beatrice era sempre in disordine. Beatrice non puliva mai, quindi Constant toglieva di mezzo la parte peggiore dei rifiuti quando veniva a farle visita. Beatrice Rumfoord era una vecchia scattante, monocola, bruna, dai denti d'oro... magra e dura come la spalliera d'una sedia. Ma la classe della vecchia signora, devastata e maltrattata, era sempre visibile. Per chiunque avesse il senso della poesia, della mortalità e della meraviglia, l'orgogliosa compagna di Malachi Constant era bella quanto poteva esserlo una creatura umana.
Era probabilmente un po' matta. Su una luna abitata solo da altre due persone, lei stava scrivendo un libro intitolato Il vero scopo della vita nel sistema solare. Era una confutazione della convinzione di Rumfoord secondo la quale lo scopo della vita umana nel sistema solare era rimettere in cammino un messaggero appiedato di Tralfamadore. Beatrice aveva cominciato il libro dopo che suo figlio l'aveva lasciata per unirsi agli uccelli azzurri. Fino a quel momento, il manoscritto occupava mille centimetri cubi nell'interno del Taj Mahal. Ogni volta che Constant le faceva visita, lei gli leggeva a voce alta le aggiunte al manoscritto. Adesso stava leggendo a voce alta, seduta nella vecchia sdraio di Rumfoord, mentre Constant stava ripulendo il cortile. Lei indossava una coperta da letto di ciniglia rosa e bianca che faceva parte della dotazione del palazzo. Intessuto nel pelo della coperta c'era il motto A Dio non importa. Era stata la coperta da letto personale di Rumfoord. Beatrice leggeva e leggeva, intessendo argomenti contro l'importanza delle forze di Tralfamadore. Constant non ascoltava con attenzione. Si godeva semplicemente la voce di Beatrice, che era forte e trionfale. Era in una botola accanto alla piscina, e apriva una valvola che avrebbe fatto scorrere via l'acqua. L'acqua della piscina era stata trasformata in qualcosa di simile a una crema di piselli dalle alghe titaniche. Cigni volta che Constant faceva visita a Beatrice combatteva una battaglia senza speranza contro quella verde e prolifica mucillagine. — «Sarei l'ultima a negare» — disse Beatrice, leggendo a voce alta la propria opera, — «che le forze di Tralfamadore hanno avuto a che fare con gli affari della Terra. Tuttavia, le persone che hanno servito gli interessi di Tralfamadore li hanno serviti in modi così altamente personalizzati che si può affermare che Tralfamadore non abbia avuto in pratica nulla a che
vedere con l'intera faccenda». Constant, giú nella botola, appoggiò l'orecchio contro la valvola che aveva aperto. A giudicare dal rumore, l'acqua stava scorrendo via lentamente. Constant imprecò. Una delle informazioni di importanza vitale che erano scomparse con Rumfoord e morte con Salo era il modo in cui erano riusciti, ai loro tempi, a mantenere così limpida e cristallina la piscina. Da quando Constant si era assunto la manutenzione della piscina, le alghe si erano accumulate. Il fondo e i fianchi della piscina erano coperti da un lenzuolo di fanghiglia viscida, e le tre statue nel mezzo, le tre sirene di Titano, erano nascoste sotto un ammasso mucillaginoso. Constant conosceva il significato delle tre sirene nella sua vita. L'aveva appreso leggendo... sia nella Storia tascabile dì Marte sia nella Bibbia revisionata autorizzata di Winston Niles Rumfoord. Le tre grandi bellezze non significavano molto per lui, ora, in realtà, se non per ricordargli che un tempo il sesso l'aveva turbato. Constant uscì dalla botola. — Lo scarico diventa sempre piú lento ogni volta — disse a Beatrice. — Non credo che riuscirò piú a ripulire i tubi. — Davvero? — fece Beatrice, alzando lo sguardo dai suoi scrìtti. — Davvero — ribadì Constant. — Be'... tu fai quello che deve essere fatto — replicò Beatrice. — Questa è la storia della mìa vita — disse Constant. — Ho appena avuto un'idea che dovrebbe entrare nel libro — affermò Beatrice, — se riesco a impedire che mi sfugga. — La colpirò con la paletta, se viene da questa parte — le assicurò Constant. — Non dire niente per un minuto — disse Beatrice. — Lascia che la chiarisca bene nella mia mente. — Si alzò e varcò l'ingresso del palazzo, per sfuggire alle distrazioni di Constant e
degli anelli di Saturno. Guardò a lungo un grande quadro a olio appeso alla parete dell'ingresso. Era l'unico quadro del palazzo. Era stato Rumfoord a portarlo da Newport. Era il ritratto d'una bambina immacolata vestita di bianco, che stringeva le redini di un pony bianco tutto suo. Beatrice sapeva chi era la bambina. Il ritratto portava una lastrina d'ottone che diceva: Beatrice Rumfoord bambina. Era un contrasto violento... tra la bambina vestita di bianco e la vecchia che la guardava. Improvvisamente Beatrice voltò le spalle al ritratto e uscì di nuovo nel cortile. L'idea che voleva aggiungere al suo libro era chiara, adesso, nella sua mente. — La cosa peggiore che ci possa capitare — asserì, — è che nessuno si serva di noi per qualche cosa. Quel pensiero la placò. Si distese sulla vecchia sdraio di Rumfoord e alzò lo sguardo verso gli anelli di Saturno, così paurosamente belli... l'Arcobaleno di Rumfoord. — Grazie per esserti servito di me — disse a Constant, — anche se non volevo che nessuno si servisse di me. — Prego — rispose Constant. Cominciò a spazzare il cortile. Il sudiciume che stava spazzando era un misto di sabbia che il vento aveva soffiato dall'esterno, gusci di semi di margherita, gusci di noccioline terrestri, barattoli di pollo disossato, e fogli scartati del manoscritto. Beatrice viveva quasi esclusivamente di semi di margherita, di noccioline e di polli disossati perché non doveva cuocerli, perché non doveva neppure smettere di scrivere per mangiarli. Poteva mangiare con una mano e scrivere con l'altra... e piú d'ogni altra cosa al mondo desiderava scrivere tutto. Dopo aver spazzato per una buona metà, Constant si fermò per vedere come si stava vuotando la piscina. Si stava vuotando lentamente. L'ammasso verde e viscido che copriva le tre sirene di Titano stava emergendo in quel mo-
mento dalla superficie calante. Constant si chinò sopra la botola aperta e ascoltò il rumore dell'acqua. Udì la musica dei tubi. E udì anche qualcosa d'altro. Udì l'assenza di un suono familiare ed amato. La sua compagna Beatrice non respirava piú. Malachi Constant seppellì la sua compagna nella torba titaniana sulla riva del Mare Winston. Venne sepolta dove non c'erano statue. Malachi Constant le disse addio mentre il cielo era pieno di uccelli azzurri di Titano. Dovevano essere diecimila, perlomeno, quei grandi e nobili uccelli. Mutarono il giorno nella notte, e fecero tremare l'aria con i battiti delle loro ali. Nessuno degli uccelli gridò. E in quella notte a mezzo del giorno, Crono, il figlio di Beatrice e di Malachi, apparve su una collinetta che sovrastava la tomba nuova. Portava una cappa di piume che faceva svolazzare come se fosse un paio d'ali. Era meraviglioso e fortissimo. — Vi ringrazio, Madre e Padre — gridò, — per il dono della vita. Addio! Se ne andò, e gli uccelli se ne andarono con lui. Il vecchio Malachi Constant ritornò al palazzo con il cuore pesante come una palla da cannone. Ciò che lo attirava in quel triste luogo era il desiderio di lasciarlo in ordine. Prima o poi sarebbe venuto qualcun altro. Il palazzo doveva essere ordinato e pulito e pronto per i futuri visitatori. Il palazzo avrebbe dovuto parlare bene del precedente inquilino. Attorno alia logora sdraio di Rumfoord c'erano le uova di piviere e le fragole selvatiche di Titano, e il vaso di latte di margherita fermentato e il canestro di semi di margherita che Con-
stant aveva dato a Beatrice. Erano deperibili. Non sarebbero durati fino all'arrivo dei prossimo inquilino. Constant li ricaricò sulla canoa. Non ne aveva bisogno. Nessuno ne aveva bisogno. Quando raddrizzò la vecchia schiena dalla canoa, vide Salo, il piccolo messaggero di Tralfamadore, che camminava sull'acqua, dirigendosi verso di luì. — Come stai — salutò Constant. — Come stai — salutò a sua volta Salo. — Grazie per avermi rimesso insieme. — Non credevo dì esserci riuscito — disse Constant. — Non riuscivo a ottenere neppure un'occhiata, da te. — Ci sei riuscito benissimo — asserì Salo. — Ma non riuscivo a decidere se volevo guardare o no. — Lasciò uscire l'aria dai piedi con un sibilo. — Credo che ora mi avvierò pian piano per la mia strada. — Hai intenzione di consegnare il messaggio, dopotutto? — chiese Constant. — Chiunque abbia già fatto un viaggio così lungo per una commissione così sciocca — rispose Salo, — non ha altra scelta se non quella di sostenere l'onore degli sciocchi portando a termine la commissione. — La mia compagna è morta oggi — dichiarò Constant. — Mi dispiace — disse Salo. — Vorrei dire: «Posso fare qualcosa?»... ma Skip una volta mi disse che era l'espressione piú odiosa e piú stupida della lingua inglese. Constant si strofinò le mani. L'unica compagnia che gli era rimasta su Titano era la compagnia che la sua mano destra poteva fare alla sinistra. — Mi manca molto. — Ti eri finalmente innamorato, vedo — disse Salo. — Solo un anno terrestre fa. Ci è occorso tanto tempo per comprendere che uno scopo della vita umana, chiunque la controlli, è amare chiunque vi sia intorno per essere amato. — Se tu e tuo figlio voleste ritornare sulla Terra — disse
Salo, — non sarebbe molto fuori strada, per me. — Mio figlio se ne è andato con gli uccelli — spiegò Constant. — Buon per lui! — commentò Salo. — Ci sarei andato anch'io, se mi avessero accettato. — La Terra — disse Constant, quasi con stupore. — Possiamo arrivarci in poche ore — insistè Salo. — Adesso che la nave funziona di nuovo perfettamente. — Mi sento molto solo, qui — disse Constant, — adesso che... — Scosse il capo. Durante il viaggio verso la Terra, Salo sospettò di aver commesso un errore tragico consigliando a Constant di ritornare sulla Terra. Aveva cominciato a sospettarlo quando Constant insistette per essere condotto a Indianapolis, Indiana, Stati Uniti d'America. Quell'insistenza di Constant era sbalorditiva, poiché Indianapolis era ben lontana dall'essere un posto ideale per un vecchio senza casa. Salo voleva lasciarlo a St. Petersburg, Florida, Stati Uniti d' America, ma Constant, come è abitudine dei vecchi, non si lasciò smuovere dalla sua prima decisione. Voleva andare a Indianapolis e questo era quanto. Salo pensò che Constant avesse qualche parente a qualche vecchia conoscenza a Indianapolis, ma poi scoprì che non si trattava di questo. — Non conosco nessuno a Indianapolis, e non so niente di Indianapolis, eccetto una cosa — disse Constant, — una cosa che ho letto su un libro. — E cos'hai letto, in un libro? — chiese Salo, imbarazzato. — Indianapolis, nell'Indiana — rispose Constant, — è il primo posto negli Stati Uniti d'America dove un bianco è stato impiccato per l'assassinio di un indiano. La gente che impicca un bianco per aver assassinato un indiano... è la gente che va
bene per me. La testa di Salo sussultò sulle sospensioni cardaniche. I suoi piedi emisero suoni risucchianti di dolore sul pavimento d'acciaio. Il suo passeggero, evidentemente, non sapeva quasi nulla del pianeta verso il quale veniva portato a una velocità che si avvicinava a quella della luce. Perlomeno Constant aveva del denaro. Questo era già motivo di speranza. Aveva quasi tremila dollari in varie monete terrestri, tolte dalle tasche degli abiti di Rumfoord nel Taj Mahal. E perlomeno aveva dei vestiti. Aveva addosso un abito di tweed, terribilmente largo ma di ottima stoffa, che era appartenuto a Rumfoord, completo di una chiave del Phi Beta Kappa appesa alla catena dell'orologio che si stendeva sul panciotto. Salo aveva indotto Constant a prendere la chiave insieme al vestito. Constant aveva un buon cappotto, un cappello e anche un paio di soprascarpe. Con la Terra a una sola ora di distanza, Salo si chiese che altro poteva fare per rendere sopportabile il resto della vita di Constant, anche a Indianapolis. E decise di ipnotizzare Constant, perché almeno gli ultimi secondi della vita di Constant facessero un immenso piacere al vecchio. La vita di Constant sarebbe finita bene. Constant era già in uno stato semipnotico, mentre guardava il cosmo attraverso un oblò. Salo gli venne alle spalle e gli parlò con voce suadente. — Tu sei stanco, tanto stanco, Vagabondo dello Spazio, Malachi, Unk — disse Salo. — Fissa la stella piú fievole, terrestre, e pensa quanto si stanno appesantendo le tue membra. — Appesantendo — ripetè Constant. — Un giorno dovrai morire, Unk — continuò Salo. — Mi dispiace, ma è vero.
— Vero — assentì Constant. — Non deve dispiacerti. — Quando saprai di stare per morire, Vagabondo dello Spazio — asserì ipnoticamente Salo, — ti capiterà una cosa meravigliosa. — Poi descrisse a Constant le cose splendide che Constant avrebbe immaginato prima che la sua vita si spegnesse. Sarebbe stata un'illusione postipnotica. — Svegliati! — disse Salo. Constant rabbrividì e si allontanò dall'oblò. — Dove sono? — chiese. — Su un'astronave tralfamadoriana partita da Titano e diretta verso la Terra — rispose Salo. — Oh — fece Constant. — Naturalmente — proseguì un momento piú tardi, — devo avere dormito. — Fa' un sonnellino — suggerì Salo. — Sì, credo... credo che lo farò — disse Constant. Si distese su una cuccetta. Si addormentò di colpo. Salo legò il Vagabondo dello Spazio alla sua cuccetta con le cinghie di sicurezza. Poi si legò al seggiolino davanti ai comandi. Regolò tre quadranti e controllò i dati di ciascuno. Premette un pulsante rossovivo. Si abbandonò sul seggiolino. Non c'era altro da fare, ormai. Da quel momento tutto sarebbe stato automatico. Fra trentasei minuti, la nave si sarebbe posata vicino al capolinea d'un autobus alla periferia di Indianapolis, Indiana, Stati Uniti d'America, Terra, Sistema Solare, Via Lattea. Là sarebbero state le tre del mattino. E sarebbe stato anche inverno. L'astronave si posò su dieci centimetri di neve fresca in un terreno deserto, a sud di Indianapolis. Non c'era nessuno sveglio per vederla atterrare. Malachi Constant scese dall'astronave. — Ecco là la tua fermata dell'autobus, vecchio soldato — sussurrò Salo. Era necessario sussurrare, perché a soli dieci
metri c'era una casa di legno a due piani con la finestra d'una camera da letto spalancata. Salo indicò una panchina coperta di neve sui ciglio della strada. — Dovrai aspettare una decina di minuti — sussurrò. — L'autobus ti porterà nel centro della città. Chiedi all'autista di farti scendere vicino a un buon albergo. — Constant annuì. — Me la caverò benissimo. — Come ti senti? — sussurrò Salo. — Caldo come un toast — sussurrò in risposta Constant. La protesta di un dormiente un po' disturbato giunse dalla finestra aperta della vicina camera da letto. — Au, qualcuno — protestò il dormiente, — afo wa, deyah, ummmmmmmmm. — Ti senti bene davvero? — sussurrò Salo. — Sì, benissimo. Caldo come un toast. — Buona fortuna. — Noi non lo diciamo, quaggiù — replicò in un sussurro Constant. Salo ammiccò. — Io non sono di quaggiù — sussurrò. Guardò intorno a sé, il mondo perfettamente bianco, sentì gli umidi baci dei fiocchi di neve e ponderò i significati nascosti nei lampioni gialiopallidi che splendevano su un mondo così candidamente addormentato. — Bellissimo — disse. — Non è vero? — sussurrò Constant. — Sim-fawl — gridò in tono minaccioso il dormiente, a chiunque potesse minacciare il suo sonno. — Soo! A-so! Cos'è un mabba?Nf. — Sarà meglio che tu vada — sussurrò Constant. — Sì — assentì Salo. — Addio. E grazie. — Prego — sussurrò in risposta Salo. Indietreggiò fino alla nave, vi salì e chiuse il portello. La nave si levò con il rumore che fa un uomo soffiando sulla bocca d'una bottiglia. Scompar-
ve nella neve vorticante. «Tudliu», fece. Le suole di Malachi Constant scricchiolarono sulla neve mentre si avviava verso la panchina. Spazzò via la neve sulla panchina e si sedette. — Fraught — gridò il dormiente, come se avesse improvvisamente capito tutto. «Braugh! — gridò, poiché non gli piaceva affatto ciò che aveva capito all'improvviso. «Sup-foe! — disse, spiegando in termini privi di incertezza ciò che intendeva fare. «Fluff», gridò. I cospiratori presumibilmente fuggirono. Cadde altra neve. L'autobus che Malachi Constant stava aspettando passò con due ore di ritardo quel mattino... a causa della neve. Quando l'autobus arrivò era troppo tardi. Malachi Constant era morto. Salo l'aveva ipnotizzato in modo che immaginasse, mentre moriva, di vedere il suo migliore e unico amico, Stony Stevenson. Mentre la neve vorticava sopra Constant, lui immaginò che le nubi si aprissero, lasciando passare un raggio di sole, un raggio di sole tutto per lui. Un'astronave d'oro incrostata di diamanti scese lungo il raggio di sole e atterrò sulla neve intatta della strada. Ne uscì un uomo robusto dai capelli rossi, con un grosso sigaro. Era giovane. Indossava l'uniforme della fanteria d'assalto marziana, la vecchia divisa di Unk. — Ciao, Unk — disse. — Salì. — Salire? — domandò Constant. — Chi sei? — Stony Stevenson, Unk. Non mi riconosci? — Stony? — fece Constant..— Sei tu, Stony? — Chi altro potrebbe essere? — disse Stony. Rise. — Sali. — Per andar dove? — domandò Constant.
— In Paradiso. — Com'è il Paradiso? — Lassù tutti sono felici per sempre, o almeno per tutto il tempo che questo sporco Universo resterà intero. Salì, Unk. Beatrice è già là, e ti aspetta. — Beatrice? — fece Unk, salendo nell'astronave. Stony chiuse i portelli e premette il pulsante via. — Andiamo... andiamo in Paradiso, adesso? — chiese Constant. — Io... io andrò in Paradiso? — Non chiedermi perché, vecchio buffone — disse Stony. — Ma lassù qualcuno ti ha in simpatia. FINE