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MARGARET ATWOOD L'ASSASSINO CIECO (The Blind Assassin, 2000) Immaginate il monarca Agha Mohammed Khan ordinare che l'intera popolazione della città di Kerman venga assassinata o accecata - senza eccezioni. I suoi pretoriani si accingono alacremente all'opera. Mettono in fila gli abitanti, tagliano la testa agli adulti, cavano gli occhi ai bambini... In seguito, processioni di bambini accecati lasciano la città. Alcuni, vagando per la campagna, smarriscono la via nel deserto e muoiono di sete. Altri gruppi raggiungono insediamenti abitati... intonando canzoni sullo sterminio dei cittadini di Kerman... Ryszard Kapuściński Nuotavo, il mare era sconfinato, non vedevo la riva. Tanit era spietata, le mie preghiere furono accolte. Oh, tu che sei annegato nell'amore, ricordati di me. Iscrizione su un'urna funeraria cartaginese La parola è una fiamma che brucia in un vetro scuro. Sheila Watson I Il ponte Dieci giorni dopo la fine della guerra mia sorella Laura volò giù da un ponte con un'automobile. Il ponte era in riparazione: lei andò dritta contro il segnale di pericolo. La macchina precipitò nel vuoto per una trentina di metri, si schiantò sulle cime degli alberi, soffici per le foglie nuove, quindi si incendiò e rotolò nell'insenatura poco profonda giù in basso. Pezzi del ponte piovvero sull'auto. Di lei non rimase più nulla, se non qualche frammento carbonizzato. Fui informata dell'incidente da un poliziotto: la macchina era mia, ed erano risaliti a me dalla targa. Il suo tono era rispettoso: senza dubbio aveva riconosciuto il cognome di Richard. Disse che i copertoni potevano essere scivolati su una rotaia del tram, o forse erano stati i freni a non funzionare,
ma si sentì anche in dovere di informarmi che due testimoni - un avvocato in pensione e un cassiere di banca, persone affidabili - avevano affermato di aver visto tutta la scena. A sentir loro Laura aveva sterzato bruscamente e di proposito, e si era tuffata giù dal ponte senza darsi più pena che se fosse dovuta scendere da un marciapiede. Avevano notato le sue mani sul volante per via dei guanti bianchi che indossava. Non erano stati i freni, pensai. Lei aveva sempre le sue ragioni. Non che somigliassero mai alle ragioni di qualsiasi altra persona. Da questo punto di vista era assolutamente irriducibile. «Volete che qualcuno la identifichi, suppongo» dissi. «Verrò appena possibile». Potevo sentire la mia voce calma, come se l'ascoltassi da una certa distanza. In realtà riuscivo a malapena a tirare fuori le parole; avevo la bocca intorpidita, tutto il viso irrigidito dal dolore. Mi sembrava di essere dal dentista. Ero furiosa con Laura per quello che aveva fatto, ma anche con il poliziotto per avere insinuato che l'avesse fatto. Un vento caldo mi soffiava intorno alla testa, e le ciocche dei miei capelli si sollevavano e vorticavano, come inchiostro versato nell'acqua. «Temo che ci sarà un'inchiesta, signora Griffen» disse. «Naturalmente» ribattei. «Ma è stato un incidente. Mia sorella non è mai stata una buona guidatrice». Riuscivo a immaginare l'ovale armonioso del viso di Laura, il suo chignon appuntato con cura, l'abito che avrebbe potuto indossare: uno chemisier dal piccolo collo arrotondato, di un colore sobrio - blu marino, grigio acciaio o verde corridoio di ospedale. Colori penitenziali - che avevano più l'aria di qualcosa in cui fosse stata ficcata a forza che di qualcosa che avesse scelto di mettere. Il suo sorrisetto solenne; le sopracciglia sollevate in un gesto di sorpresa, quasi stesse ammirando il panorama. I guanti bianchi: un gesto da Ponzio Pilato. Se ne lavava le mani, di me. Di tutti noi. A cosa aveva pensato mentre l'auto volava giù dal ponte, quindi rimaneva sospesa nella luce del sole pomeridiano, scintillando come una libellula in quell'istante di fiato trattenuto prima di piombare giù? Ad Alex, a Richard, alla malafede, a nostro padre e alla sua rovina; a Dio, forse, e al fatale patto a tre che aveva stretto. Oppure alla pila di quaderni scolastici da poco prezzo che doveva avere nascosto quella mattina stessa, nel cassetto del comò dove tenevo le calze, sapendo che sarei stata io a trovarli. Quando il poliziotto se ne fu andato, salii a cambiarmi. Per recarmi all'obitorio avrei avuto bisogno di guanti e di un cappello con la veletta.
Qualcosa che coprisse gli occhi. Potevano esserci dei giornalisti. Avrei dovuto chiamare un taxi. E anche avvertire Richard, in ufficio: avrebbe desiderato avere una dichiarazione di cordoglio bella e pronta. Entrai nel mio spogliatoio: mi ci voleva qualcosa di nero, e un fazzoletto. Aprii il cassetto e vidi i quaderni. Sciolsi lo spago da cucina incrociato che li teneva insieme. Notai che mi battevano i denti, e che ero tutta gelata. Stabilii che dovevo trovarmi in stato di choc. Ciò che ricordai in quel momento fu Reenie, al tempo in cui eravamo piccole. Era Reenie che ci fasciava graffi, tagli e ferite di minore entità: nostra madre poteva riposare, o fare buone azioni altrove, ma Reenie c'era sempre. Ci tirava su e ci metteva a sedere sul tavolo smaltato della cucina, accanto all'impasto della torta che stava stendendo con il rullo, o al pollo che stava tagliando, o al pesce che stava sventrando, quindi ci dava una zolletta di zucchero di canna per farci tenere la bocca chiusa. Dimmi dove ti fa male, diceva. Smettila di urlare. Calmati e fammi vedere dove. Ma ci sono persone che non riescono a dire dove fa male. Che non riescono a calmarsi. Che non riescono neppure a smettere di urlare. The Toronto Star, 26 maggio 1945 INCIDENTE MORTALE IN CITTÀ SUSCITA INTERROGATIVI SPECIALE PER LO STAR In relazione all'incidente avvenuto la scorsa settimana sul St. Clair Ave. Bridge, l'inchiesta del coroner ha stabilito che si tratta di morte accidentale. Il pomeriggio del 18 maggio la signorina Laura Chase, 25 anni, stava viaggiando in direzione ovest quando la sua macchina ha sbandato, sfondando le barriere di protezione di un'area del ponte in riparazione, e si è schiantata nel baratro più sotto, prendendo fuoco. La signorina Chase è rimasta uccisa sul colpo. Sua sorella, la signora Richard E. Griffen, moglie dell'eminente industriale, ha testimoniato che la signorina Chase soffriva di violenti emicranie che influivano sulla sua vista. In risposta alle domande rivoltele al riguardo, ha negato ogni possibilità di ubriachezza, dal momento che la signorina Chase non beveva. Secondo la polizia un copertone finito su una rotaia scoperta del
tram potrebbe essere uno dei fattori all'origine dell'incidente. Sono stati sollevati interrogativi sull'idoneità delle misure di sicurezza adottate dal Municipio, ma dopo la testimonianza del perito, l'ingegnere municipale Gordon Perkins, sono stati accantonati. L'incidente ha provocato nuove proteste sullo stato della viabilità in questo tratto di carreggiata. Il signor Herb T. Jolliffe, in rappresentanza dei contribuenti locali, ha dichiarato ai giornalisti dello Star che non si è trattato della prima disgrazia causata dalla mancata manutenzione delle rotaie. Il Consiglio Comunale dovrebbe prenderne nota. L'assassino cieco, di Laura Chase. Reingold, Jaynes & Moreau, New York, 1947 Prologo: Piante perenni per il giardino roccioso Ha una sola foto di lui. L'ha infilata in una busta marrone con su scritto ritagli e ha nascosto la busta tra le pagine del libro Piante perenni per il giardino roccioso, dove nessun altro sarebbe mai andato a guardare. Ha conservato la foto con cura, perché è quasi tutto ciò che le è rimasto di lui. È in bianco e nero, scattata con una di quelle macchine fotografiche con il flash di prima della guerra, ingombranti e simili a scatole, con i loro obiettivi a fisarmonica e le loro custodie in cuoio di ottima fattura che rammentavano dei musi, con cinghie e fibbie complicate. La foto li ritrae insieme, lei e l'uomo, durante un picnic. Picnic è scritto sul retro, a matita non il nome dell'uno o dell'altra, solo picnic. Lei conosce i nomi, non ha bisogno di scriverli. Sono seduti sotto un albero; potrebbe trattarsi di un melo; al tempo non ci aveva fatto molto caso. Lei indossa una blusa bianca con le maniche arrotolate fino al gomito e un'ampia gonna tenuta stretta sotto le ginocchia. Doveva esserci vento, da come la camicia le si incolla addosso; o forse non dipendeva dal vento, era soltanto aderente; forse faceva caldo. Faceva caldo. Tenendo la mano sulla foto può sentire ancora il calore che ne emana, come il calore rilasciato a mezzanotte da una pietra riscaldata dal sole del giorno. L'uomo indossa un cappello chiaro inclinato all'ingiù, che gli tiene parte del viso in ombra. Il suo viso sembra più abbronzato di quello di lei, che è girata a metà verso di lui e sorride, in un modo in cui non ricorda di avere
più sorriso a nessuno da allora. Sembra molto giovane nella foto, troppo giovane, sebbene a quel tempo non si considerasse tale. Anche lui sorride il candore dei suoi denti risalta come la fiamma di un fiammifero sfregato ma ha la mano sollevata, come a schermirsi da lei per gioco, o a proteggersi dalla macchina fotografica, dalla persona che doveva essere là, a scattare la foto; o a proteggersi da chi in futuro avrebbe potuto guardarlo, avrebbe potuto guardarlo attraverso quella finestra quadrata di carta lucida piena di luce. Come per proteggersi da lei. Come per proteggerla. Nella sua mano tesa in un gesto protettivo c'è un mozzicone di sigaretta. Quando è sola recupera la busta marrone e sfila la foto dai ritagli di giornale. La depone sul tavolo e la osserva, come se scrutasse in un pozzo o in una pozzanghera - cercando qualcos'altro oltre il proprio riflesso, qualcosa che deve avere gettato via o perduto, fuori della sua portata ma ancora visibile, brillante come un gioiello sulla sabbia. Esamina ogni dettaglio. Le dita di lui scolorite dal flash o dalla luce abbagliante del sole; le pieghe dei loro vestiti; le foglie dell'albero e le piccole forme rotonde che ne pendevano - erano mele, dunque? L'erba ruvida in primo piano. Quel giorno l'erba era gialla perché il tempo era stato secco. Da un lato - a un primo sguardo non si nota - c'è una mano, troncata in corrispondenza del margine, tagliata con le forbici all'altezza del polso, appoggiata sull'erba quasi fosse stata abbandonata. Lasciata a se stessa. La traccia di una nuvola portata dal vento nel cielo luminoso, come una sbavatura di gelato sul metallo cromato. Le dita di lui macchiate di fumo. Il luccichio dell'acqua in lontananza. Tutto sommerso, ormai. Sommerso, ma abbagliante. II L'assassino cieco: L'uovo sodo Allora, cosa preferisci? chiede lui. Smoking e romanticherie, o naufragi su una costa arida? Puoi scegliere quello che vuoi: giungle, isole tropicali, montagne. O un'altra dimensione dello spazio - è la cosa che mi riesce meglio. Un'altra dimensione dello spazio? Questa poi! Non prendermi in giro, è un indirizzo utile. Può accadervi tutto quello che vuoi. Navi spaziali e uniformi attillate, armi a raggi, marziani dai corpi di calamari giganti, quel genere di cose.
Scegli tu, fa lei. Sei tu il professionista. Che ne dici di un deserto? Ho sempre desiderato visitarne uno. Con un'oasi, naturalmente. Qualche palma da datteri non guasterebbe. Sta togliendo la crosta al suo panino. Non le piacciono le croste. Non ci sono grandi possibilità, con i deserti. Gli elementi del paesaggio scarseggiano, a meno di aggiungere qualche tomba. Allora si potrebbe pensare a un mucchio di donne nude morte da tremila anni, con figure piene e flessuose, labbra rosso rubino, capelli azzurri in una spuma di riccioli scompigliati e occhi come fosse piene di serpenti. Ma non credo che potrei rifilarti una cosa simile. L'orrore non è il tuo genere. Non si sa mai. Potrebbero piacermi. Ne dubito. Vanno bene per la massa informe. Però in copertina hanno successo - si contorcono su qualche tizio, devono essere respinte con i calci dei fucili. Potrei avere un'altra dimensione dello spazio, e anche le tombe e le donne morte, per favore? Mi chiedi l'impossibile, ma vedrò di fare del mio meglio. Potrei infilarci anche qualche vergine sacrificale, con corazze di metallo, catenelle d'argento alle caviglie e abiti trasparenti. E in più un mucchio di lupi famelici. Vedo che non ti fermi davanti a niente. Preferisci gli smoking? Navi da crociera, biancheria candida, baci sui polsi e ipocrite svenevolezze? No. Va bene. Fai come meglio credi. Sigaretta? Fa segno di no con la testa. Lui si accende la sua, sfregando il fiammifero sull'unghia del pollice. Ti darai fuoco, gli dice. Finora non è mai successo. Lei guarda la manica arrotolata della sua camicia, bianca o di un azzurro pallido, poi il polso, la pelle più scura della mano. Irradia splendore, dev'essere il sole riflesso. Perché non lo stanno tutti a guardare? Eppure qui fuori, all'aperto, dà così nell'occhio... C'è altra gente intorno, seduta o stesa sull'erba, appoggiata a un gomito - altri partecipanti al picnic nei loro pallidi vestiti estivi. È proprio tutto come si deve. Ciò nondimeno lei ha l'impressione che loro due siano soli; come se il melo sotto cui sono seduti non fosse un albero ma una tenda; come se attorno a loro ci fosse una linea disegnata con il gesso. All'interno della linea, sono invisibili. Allora vada per lo spazio, dice lui. Con tombe, vergini e lupi - ma a rate.
D'accordo? A rate? Sai, come i mobili. Lei ride. No, dico sul serio. Non puoi tirarti indietro, anche se ci vorranno dei giorni. Dovremo incontrarci ancora. Lei esita. D'accordo, risponde. Se riesco a combinare. Bene, dice lui. Ora devo pensare. Mantiene un tono di voce normale. Troppa insistenza potrebbe scoraggiarla. Sul pianeta... vediamo... non Saturno, è troppo vicino. Sul pianeta Zycron, situato in un'altra dimensione dello spazio, c'è una pianura cosparsa di macerie. A nord c'è l'oceano, che è di colore viola. A ovest c'è una catena di montagne, dove dicono che dopo il tramonto si aggirino voraci morte viventi, le abitanti delle tombe in rovina disseminate nella zona. Vedi, ho messo le tombe in prima battuta. Molto coscienzioso da parte tua, dice lei. Sto ai patti. A sud c'è una distesa di sabbia, a est parecchie valli scoscese che una volta avrebbero potuto essere fiumi. Suppongo che siano canali, come su Marte? Oh sì, canali, questo genere di cose. Abbondanti tracce di una civiltà antica e un tempo altamente evoluta, sebbene ora la regione sia popolata soltanto da esigue bande di nomadi primitivi in continuo movimento. In mezzo alla pianura c'è un alto tumulo di pietre. La terra intorno è arida, con pochi cespugli stentati. Non proprio un deserto, ma abbastanza simile. È rimasto un panino al formaggio? Lei fruga nel sacchetto. No, dice, ma c'è un uovo sodo. Non è mai stata così felice prima d'ora. Tutto è di nuovo fresco, deve ancora succedere. Proprio quello che ci voleva, fa lui. Una bottiglia di limonata, un uovo sodo e tu. Fa rotolare l'uovo tra le palme per rompere il guscio, poi lo sbuccia. Lei guarda le sue mani, la mascella, i denti. Accanto a me che canto nel parco pubblico, dice. Ecco il sale. Grazie. Ti sei ricordata di tutto. La pianura arida non è rivendicata da nessuno, continua lui. O meglio lo è da cinque differenti tribù, nessuna abbastanza forte da annientare le altre. Tutte di tanto in tanto vagano nei pressi del mucchio di pietre, pascolando i loro thulk - creature blu simili a pecore dal carattere ombroso - o trasportando merce di poco valore sulle loro bestie da soma, una sorta di cammel-
li a tre occhi. Il mucchio di pietre è chiamato, nelle loro varie lingue, Tana dei Serpenti Volanti, Mucchio di Macerie, Dimora delle Madri Urlanti, Porta dell'Oblio e Fossa delle Ossa Rosicchiate. Ogni tribù racconta una storia simile al riguardo. Sotto le rocce, dicono, è seppellito un Re - un Re senza nome. Non solo il Re, ma anche i resti della splendida città su cui un tempo egli regnava. La città fu distrutta nel corso di una battaglia, il Re catturato e appeso a una palma da datteri in segno di trionfo. Al sorgere della luna fu tirato giù e seppellito, e le pietre vennero ammucchiate per segnare il posto. Quanto agli altri abitanti della città, furono tutti uccisi. Massacrati uomini, donne, bambini, neonati, perfino gli animali. Passati a fil di spada, fatti a pezzi. Non fu risparmiata nessuna creatura vivente. È orribile. Basta infilare una pala in un punto qualsiasi del terreno per portare alla luce qualcosa di terribile. Buon per gli affari, noi prosperiamo sulle ossa; senza di esse non ci sarebbero storie. C'è ancora un po' di limonata? No, dice lei. L'abbiamo bevuta tutta. Continua. I conquistatori cancellarono il vero nome della città dalla memoria, ed è per questo - dicono i narratori - che il posto è ora conosciuto con il nome della sua distruzione. Il mucchio di pietre segna perciò sia un atto di memoria deliberata, sia un atto di oblio deliberato. In quella regione amano il paradosso. Ognuna delle cinque tribù sostiene di essere stata l'aggressore vittorioso. Ognuna ricorda la strage con soddisfazione. Ognuna crede che essa fu ordinata dal proprio dio come una giusta vendetta, per via delle pratiche empie condotte nella città. Il male va pulito con il sangue, dicono. Quel giorno il sangue corse come acqua, perciò la pulizia deve essere stata perfetta. Ogni pastore che passa aggiunge una pietra al mucchio. È una vecchia usanza - lo si fa in ricordo dei morti, dei propri morti - ma dal momento che nessuno sa chi fossero realmente i morti sotto il tumulo, tutti depositano la propria pietra, per ogni eventualità. Aggirano la questione dicendo che quanto è successo doveva essere la volontà del loro dio, perciò lasciando una pietra ne onorano la memoria. C'è anche una storia che sostiene che la città non fu davvero distrutta. In realtà, mediante un incantesimo noto solo al Re, la città e i suoi abitanti vennero spazzati via e sostituiti dai loro fantasmi, e furono solo questi fantasmi a essere bruciati e massacrati. La vera città fu rimpicciolita e collocata in una caverna sotto il grande mucchio di pietre. Tutto ciò che c'era è
ancora là, compresi i palazzi e i giardini pieni di alberi e fiori; comprese le persone, non più grandi di formiche, che tuttavia portano avanti la loro vita di prima - indossando i loro minuscoli abiti, dando i loro minuscoli banchetti, raccontando le loro minuscole storie, cantando le loro minuscole canzoni. Il Re sa cos'è successo e ciò gli provoca incubi, ma tutti gli altri lo ignorano. Non sanno di essere diventati così piccoli. Non sanno di essere creduti morti. Non sanno neanche di essere stati salvati. Pensano che il soffitto di roccia sia un cielo: la luce filtra attraverso un foro di spillo tra le pietre, e loro pensano che sia il sole. Le foglie del melo frusciano. Lei solleva lo sguardo al cielo, quindi lo sposta sull'orologio. Ho freddo, dice. Sono anche in ritardo. Potresti sbarazzarti delle prove? Raccoglie i gusci d'uovo, appallottola la carta oleata. Non c'è fretta, vero? Non fa freddo qui. C'è una brezza che viene dall'acqua, dice lei. Dev'essere cambiato il vento. Si china in avanti, fa per alzarsi. Non andare ancora, dice lui, è troppo presto. Devo. Mi staranno cercando. Se arrivo in ritardo, vorranno sapere dove sono stata. Si liscia la gonna, serra le braccia attorno al corpo, si gira, mentre le piccole mele verdi la guardano come tanti occhi. The Globe and Mail, 4 giugno 1947 GRIFFEN TROVATO NELLA SUA BARCA A VELA SPECIALE PER THE GLOBE AND MAIL Dopo parecchi giorni di inspiegabile assenza, il corpo dell'industriale Richard E. Griffen, quarantasette anni, considerato il favorito alla candidatura Progressista Conservatrice nel distretto elettorale di St. David, Toronto, è stato rinvenuto nei pressi della sua residenza estiva di «Avilion» a Port Ticonderoga, dove si trovava in vacanza. Il signor Griffen è stato trovato nella sua barca a vela, l'Ondina, ormeggiata al suo imbarcadero privato sul fiume Jogues. Apparentemente è stato vittima di un'emorragia cerebrale.
La poiizia riferisce di non sospettare un delitto. Il signor Griffen, di cui è nota la brillante carriera a capo di un impero commerciale comprendente molti settori, tra cui i tessili, l'abbigliamento e l'industria leggera, è stato encomiato per gli sforzi prodigati nel provvedere le truppe Alleate di uniformi e componenti belliche durante la guerra. Ha partecipato spesso alle Conferenze di Pugwash ed è stato una figura di spicco sia dell'Empire Club che del Granite Club. Appassionato di golf, era ben noto anche al Royal Canadian Yatch Club. Il Primo Ministro, raggiunto al telefono nella sua tenuta privata di Kingsmere, ha commentato: «Il signor Griffen era uno degli uomini più validi del paese. La sua perdita lascerà un segno profondo». Il signor Griffen era il cognato della defunta Laura Chase, il cui romanzo postumo è stato pubblicato la primavera scorsa, e ha lasciato la sorella signora Winifred (Griffen) Prior, personaggio molto noto della vita mondana, la moglie signora Iris (Chase) Griffen, nonché la figlia Aimee, di dieci anni. I funerali avranno luogo mercoledì a Toronto nella chiesa di St. Simon the Apostle. L'assassino cieco: La panchina nel parco Perché c'era gente, su Zycron? Voglio dire, esseri umani come noi. Se è un'altra dimensione dello spazio, gli abitanti non dovrebbero essere lucertole parlanti o qualcosa di simile? Solo nei libri da quattro soldi, dice lui. Tutta roba inventata. In realtà è andata così: la Terra fu colonizzata dagli zycroniani, che avevano sviluppato la capacità di viaggiare da una dimensione all'altra dello spazio in un periodo successivo di parecchi millenni all'epoca di cui parliamo. Arrivarono qui ottomila anni fa. Portarono con sé i semi di molte piante, ed è per questo che abbiamo mele e arance, per non parlare delle banane - basta dare un'occhiata a una banana per capire che viene dallo spazio. Portarono anche animali - cavalli, cani, capre e così via. Furono loro a costruire Atlantide. Poi esplosero per voler essere troppo furbi. Noi discendiamo dai superstiti. Oh, fa lei. Questo spiega tutto. E ti torna comodo. Lo farà all'occorrenza. Quanto alle altre caratteristiche di Zycron, ha sette mari, cinque lune e tre soli, di varia potenza e colore. Che colori? Cioccolato, vaniglia e fragola?
Non mi prendi sul serio. Mi dispiace. Piega la testa verso di lui. Ora sto ascoltando. Vedi? Lui dice: Prima di essere distrutta, si diceva che la città - chiamiamola con il suo vecchio nome, Sakiel-Norn, traducibile approssimativamente con Perla del Destino - fosse stata una delle meraviglie del mondo. Anche chi si vanta che furono i propri antenati ad annientarla ricava un gran piacere nel descriverne la bellezza. Sorgenti naturali erano state fatte scorrere attraverso fontane scolpite nei cortili rivestiti di piastrelle e nei giardini dei suoi numerosi palazzi. C'erano fiori in abbondanza, e l'aria era piena di uccelli canori. Nelle sue vicinanze si stendevano pianure lussureggianti, dove pascolavano greggi di grassi gnarr, e frutteti, boschetti e foreste di alti alberi non ancora abbattuti dai mercanti o bruciati dai nemici malevoli. Allora le gole aride erano fiumi; i canali che partivano da essi irrigavano i campi attorno alla città, e il terreno era talmente ricco che si racconta che le spighe di grano avessero un diametro di sette centimetri e mezzo. Gli aristocratici di Sakiel-Norn erano chiamati Snilfard. Abili a lavorare il metallo, erano inventori di complicati congegni meccanici di cui conservavano gelosamente il segreto. A quel tempo avevano già inventato l'orologio, la balestra e la pompa a mano, sebbene non si fossero ancora spinti fino al motore a combustione interna e per il trasporto si servissero di animali. Gli Snilfard maschi portavano maschere di platino intessuto, che seguivano i movimenti del loro viso ma servivano a nascondere le loro vere emozioni. Le donne si velavano il volto con una stoffa simile a seta ricavata dal bozzolo delle falene chaz. Coprirsi il viso se non si era uno Snilfard era punibile con la morte, dal momento che impenetrabilità e sotterfugio erano appannaggio della nobiltà. Gli Snilfard vestivano lussuosamente, erano conoscitori di musica e suonavano svariati strumenti per fare sfoggio del loro gusto e della loro abilità. Indulgevano negli intrighi di corte, tenevano feste sontuose e intrecciavano complicati amori con le mogli degli altri. A causa di ciò venivano combattuti duelli, sebbene in un marito fosse più apprezzabile fingere di non sapere. I piccoli proprietari, i servitori e gli schiavi erano chiamati Ygnirod. Indossavano logore tuniche grige che lasciavano scoperta una spalla, e anche un seno nel caso delle donne, che erano - inutile a dirsi - facile bersaglio degli uomini Snilfard. Gli Ygnirod erano pieni di risentimento per il destino riservato loro nella vita, ma lo nascondevano fingendosi sciocchi. Una
volta ogni tanto organizzavano una rivolta, che veniva spietatamente soffocata. Tra loro il gradino più basso era occupato dagli schiavi, che potevano essere comprati, barattati e anche uccisi a piacimento. La legge proibiva loro di leggere, ma avevano codici segreti che graffiavano nella terra per mezzo di pietre. Gli Snilfard li attaccavano agli aratri. Se uno Snilfard andava in rovina, poteva essere retrocesso a Ygnirod. Oppure aveva la possibilità di evitare questo destino vendendo la moglie o i figli per estinguere il suo debito. Era molto più raro che un Ygnirod raggiungesse lo stato di Snilfard, giacché di solito la salita è molto più ardua della discesa: anche se era in grado di accumulare il denaro necessario a procurare una sposa Snilfard per sé o per il figlio, la cosa comportava sempre una certa dose di corruzione, e poteva passare del tempo prima che egli venisse accettato dalla società degli Snilfard. Credo che ora stia venendo fuori il tuo bolscevismo, dice lei. Sapevo che avresti trovato il modo di infilarcelo, prima o poi. Al contrario. La cultura che descrivo si basa sull'antica Mesopotamia. È nel Codice di Hammurabi, le leggi degli ittiti e così via. O c'è almeno in parte. In ogni modo, il passo sui veli c'è, e anche la vendita delle mogli. Potrei citarti capitolo e versetto. Per favore, oggi non citarmi capitolo e versetto, dice lei. Non ne avrei la forza, sono troppo debole. Sono spossata. È agosto, fa fin troppo caldo. L'umidità galleggia sopra di loro in una nebbia invisibile. Le quattro del pomeriggio, la luce sembra burro fuso. Sono seduti su una panchina nel parco, non troppo vicini l'uno all'altra; un acero con foglie esauste sopra le loro teste, terra screpolata sotto i loro piedi, erba avvizzita tutt'intorno. Una crosta di pane beccata dai passeri, cartacce spiegazzate. Non è la zona migliore. Una fontanella che gocciola; tre bambini sporchi, una femmina in prendisole e due maschi in calzoncini, stanno cospirando lì accanto. Lei indossa un abito giallo primula; sotto il gomito ha le braccia nude, coperte di sottili peli chiari. Si è tolta i guanti di cotone, li ha schiacciati in una palla, le sue mani sono nervose. Lui non si cura del suo nervosismo: gli piace pensare di costarle già qualcosa. Lei porta un cappello di paglia rotondo, come quello di una scolara; ha i capelli appuntati indietro; una ciocca madida spunta fuori. Un tempo la gente usava tagliare ciocche di capelli, conservarle, portarle dentro medaglioni; o, nel caso degli uomini, vicino al cuore. Prima di allora lui non aveva mai capito il perché.
Dove credono che tu sia? chiede. A fare spese. Non vedi il sacchetto delle compere? Ho preso un po' di calze; sono molto buone, della seta migliore. È come non indossare niente. Accenna un sorriso. Ho soltanto un quarto d'ora. Ha fatto cadere un guanto, è accanto al suo piede. Lui lo tiene d'occhio. Se nell'andarsene lo dimentica, se ne impadronirà. In assenza di lei, ne aspirerà il profumo. Quando posso vederti? chiede. La brezza calda smuove le foglie, la luce cade attraverso di esse, attorno a lei c'è del polline, una nuvola dorata. In realtà è polvere. Mi stai vedendo adesso, dice lei. Non fare così, ribatte lui. Dimmi quando. La pelle nella scollatura a V del suo vestito brilla, una pellicola di sudore. Non lo so ancora, risponde. Si guarda al di sopra la spalla, scruta il parco. Non c'è nessuno qui intorno, dice lui. Nessuno che conosci. Non si sa mai quando potrebbe esserci, fa lei. Non si sa mai chi si conosce. Dovresti prendere un cane, dice lui. Ride. Un cane? Perché? Allora avresti una scusa. Potresti portarlo a passeggio. Il cane e me. Il cane sarebbe geloso di te, dice lei. E tu penseresti che io preferisca il cane. Ma tu non lo preferiresti, fa lui. Vero? Lei spalanca ancora di più gli occhi. Perché non dovrei? Lui dice: I cani non parlano. The Toronto Star, 25 agosto 1975 NIPOTE DI ROMANZIERA VITTIMA DI UNA CADUTA SPECIALE PER THE STAR Aimee Griffen, trentotto anni, figlia del defunto Richard E. Griffen, l'eminente industriale, e nipote della nota scrittrice Laura Chase, è stata trovata morta nella cantina del suo appartamento di Church St. mercoledì, con il collo rotto in seguito a una caduta.
Apparentemente il decesso risale al giorno precedente. I vicini Jos e Beatrice Kelly sono stati messi in allarme dalla figlia di quattro anni della signorina Griffen, Sabrina, che spesso si recava da loro in cerca di cibo quando non trovava la madre. Corre voce che la signorina Griffen abbia lottato a lungo contro tossicodipendenza e alcolismo, e sia stata ricoverata in ospedale in parecchie occasioni. Sua figlia è stata affidata alle cure della signora Winifred Prior, sua prozia, mentre è imminente un'indagine. Né la signora Prior né la madre di Aimee Griffen, signora Iris Griffen di Port Ticonderoga, hanno voluto rilasciare dichiarazioni. Questo sfortunato episodio è un ulteriore esempio della negligenza dei nostri attuali servizi sociali, nonché della necessità di migliorare la legislazione per potenziare la tutela dei bambini a rischio. L'assassino cieco: I tappeti La linea ronza e crepita. È un tuono, o c'è qualcuno che sta ascoltando? Ma è a un telefono pubblico, non possono rintracciarlo. Dove sei? fa lei. Non dovresti telefonare qui. Non può sentirla respirare, non può sentire il suo respiro. Vuole che si metta il ricevitore contro la gola, ma non glielo chiederà, non ancora. Sono dietro l'angolo, dice. A un paio di isolati di distanza. Potrei andare al parco, quello piccolo, con la meridiana. Oh, non credo... Scivola via. Di' che hai bisogno di un po' d'aria. Rimane in attesa. Cercherò. All'entrata del parco ci sono due pilastri di pietra quadrangolari con la cima smussata, dall'aspetto egizio. Tuttavia non vi compaiono iscrizioni trionfali, nessun bassorilievo di nemici incatenati in ginocchio. Soltanto Vagabondaggio vietato e Tenere i cani al guinzaglio. Vieni qui, dice lui. Lontano dalla luce della strada. Non posso restare a lungo. Lo so. Vieni qui dietro. Le afferra il braccio, guidandola; lei trema come un filo metallico in balia di un forte vento. Là, dice lui. Non può vederci nessuno. Niente vecchie signore che portano a passeggio i loro barboncini.
Niente poliziotti con il manganello, dice lei. Fa una breve risata. La luce del lampione filtra attraverso le foglie, facendo baluginare debolmente il bianco dei suoi occhi. Non dovrei essere qui, dice. È un rischio troppo grosso. C'è una panchina di pietra a ridosso di alcuni cespugli. Lui le mette la sua giacca sulle spalle. Vecchio tweed, vecchio tabacco, odore di bruciato. Un retrogusto di sale. La pelle di lui è stata qui, a contatto della stoffa, dove ora c'è quella di lei. Ecco, starai più calda. Ora disobbediremo alla legge. Vagabonderemo. E quanto al Tenere i cani al guinzaglio? Disobbediremo anche a quello. Non le mette il braccio intorno. Sa che lei vorrebbe. Se lo aspetta; sente già il tocco, come gli uccelli sentono l'ombra. Camminando ha preso una sigaretta. Gliene offre una; questa volta l'accetta. La breve fiammata del fiammifero tra le loro mani a coppa. Le punte delle dita rosse. Lei pensa: Una fiamma un po' più intensa e vedremmo le ossa. Come le radiografie. Siamo soltanto una specie di nebbia, nient'altro che acqua colorata. L'acqua fa come vuole. Scende sempre a valle. La sua gola si riempie di fumo. Lui dice: Ora ti racconterò dei bambini. I bambini? Quali bambini? La rata successiva. Su Zycron, a Sakiel-Norn. Oh. Sì. Ci sono dei bambini. Non avevamo parlato di bambini. Sono bambini schiavi. Ci vogliono. Non so cavarmela senza di loro. Non credo di volerci dei bambini, fa lei. Puoi sempre dirmi di fermarmi. Nessuno ti sta forzando. Sei libera di andare, come dice la polizia quando sei fortunato. Mantiene la voce uniforme. Lei non se ne va. Lui dice: Adesso Sakiel-Norn è un tumulo di pietre, ma una volta era un fiorente centro di commercio e di scambio. Era situata a un incrocio in cui confluivano tre vie di comunicazione terrestri - una da est, una da ovest e una da sud. Al nord era collegata per mezzo di un largo canale che arrivava al mare, dove possedeva un porto ben fortificato. Di questi scavi e mura difensive non rimane traccia: dopo la sua distruzione, i blocchi di pietra sbozzati furono portati via dai nemici o dagli stranieri che se ne servirono
per i loro recinti di animali, i loro canali di scolo dell'acqua e le loro rudimentali fortificazioni, oppure furono seppelliti dalle onde e dal vento sotto la sabbia che si accumulava. Il canale e il porto furono costruiti da schiavi, il che non deve stupirci: era grazie agli schiavi che Sakiel-Norn aveva acquistato la sua magnificenza e il suo potere. Ma era anche rinomata per i lavori manuali, in particolare la tessitura. I segreti delle tinte usate dai suoi artigiani erano gelosamente conservati: le sue stoffe brillavano come miele liquido, come succo di uva purpurea, come una coppa di sangue di toro versata al sole. I suoi veli delicati erano leggeri come ragnatele, e i suoi tappeti tanto soffici e fini da far credere di camminare sull'aria, un'aria fatta per assomigliare ai fiori e all'acqua che scorre. È molto poetico, dice lei. Sono sorpresa. Pensalo come un grande magazzino, dice lui. A ben guardare, si trattava di beni di scambio di lusso. Così è meno poetico. Le stoffe erano tessute da schiavi che erano immancabilmente bambini, perché solo le dita dei bambini erano abbastanza piccole per operazioni tanto complesse. Ma l'incessante lavoro al chiuso che veniva loro richiesto faceva sì che diventassero ciechi all'età di otto o nove anni, e la loro cecità costituiva il metro con cui i venditori di tappeti valutavano ed esaltavano la merce: Questo tappeto ha reso ciechi dieci bambini, dicevano. Questo ne ha resi ciechi quindici, quest'altro venti. Dal momento che il prezzo cresceva in proporzione, esageravano sempre. Era consuetudine del cliente farsi beffe delle loro affermazioni. Sicuramente ne avrà resi ciechi solo sette, solo dodici, solo sedici, dicevano, tastando il tappeto. È ruvido come uno strofinaccio. È solo una coperta di mendicante. È stato fatto con pelo di gnarr. Una volta ciechi, i bambini venivano venduti per pochi soldi ai tenutari di bordelli, maschi e femmine senza differenza. I servizi dei bambini divenuti ciechi a quel modo fruttavano alte somme; il loro tocco era talmente soave e abile, si diceva, che sotto le loro dita si sentivano sbocciare i fiori e scorrere l'acqua fuori della pelle. Erano anche abili a forzare le serrature. Quelli che scappavano intraprendevano la professione di tagliare le gole nell'oscurità, ed erano molto richiesti come assassini prezzolati. Avevano il senso dell'udito molto sviluppato; sapevano camminare senza fare rumore, e infilarsi nelle aperture più piccole; sapevano fiutare la differenza tra una persona che dormiva profondamente e una che faceva sogni agitati. Uccidevano con la stessa
delicatezza con cui una falena vi sfiora il collo. Si riteneva che fossero senza pietà. Erano molto temuti. Le storie che i bambini si sussurravano l'un l'altro - seduti a tessere i loro infiniti tappeti, fin tanto che ci vedevano - erano su questa possibile vita futura. Tra loro circolava la voce che solo i ciechi fossero liberi. È troppo triste, mormora lei. Perché mi racconti una storia così triste? Ora si sono inoltrati dove le ombre sono più fitte. Le sue braccia intorno a lei, finalmente. Vacci piano, pensa lui. Niente movimenti bruschi. Si concentra sulla respirazione. Ti racconto le storie in cui sono bravo, dice. E quelle a cui crederai. Alle sciocchezze sdolcinate non crederesti, no? No. Non ci crederei. E poi, non è una storia triste, tutto sommato: alcuni di loro scappavano. Ma diventavano tagliatori di gole. Non avevano molta scelta, non credi? Non potevano diventare a loro volta venditori di tappeti, o proprietari di bordelli. Non avevano il capitale. Perciò dovevano darsi al lavoro sporco. Bella disdetta, per loro. Non dire così, dice lei. Non è colpa mia. Neanche mia. Diciamo che ci tocca pagare per i peccati dei padri. È inutilmente crudele, dice lei in tono freddo. Quand'è che è utile la crudeltà? dice lui. E quanta? Leggi i giornali, non sono stato io a inventare il mondo. Comunque, io sto dalla parte dei tagliatori di gole. Se dovessi tagliare gole o morire di fame, cosa faresti? O scopare per vivere, c'è sempre anche quello. Ora è andato troppo lontano. Ha mostrato la sua rabbia. Lei si stacca da lui. Ecco, dice. Devo tornare. Le foglie intorno a loro si muovono a ondate. Lei stende la mano, la palma rivolta verso l'alto: vi cadono alcune gocce di pioggia. Ora il tuono è più vicino. Si fa scivolare la sua giacca dalle spalle. Non l'ha baciata; non lo farà, non stasera. Lei lo percepisce come un rinvio. Stai alla finestra, dice lui. La finestra della tua camera. Lascia la luce accesa. Stai lì e basta. È stupita. Perché? Perché mai? Voglio che tu lo faccia. Voglio assicurarmi che sei al sicuro, aggiunge, sebbene la sicurezza non abbia niente a che fare con tutto ciò. Ci proverò, dice lei. Solo per un minuto. Tu dove sarai? Sotto l'albero. Il castagno. Non mi vedrai, ma ci sarò.
Lei pensa: Sa dov'è la finestra. Sa che albero è. Deve essersi aggirato furtivamente lì intorno. Per guardarla. Ha un leggero brivido. Piove, fa lei. Verrà giù un acquazzone. Ti bagnerai. Non fa freddo, dice lui. Aspetterò. The Globe and Mail, 19 febbraio 1998 PRIOR, Winifred Griffen. Si è spenta all'età di 92 anni, nella sua residenza di Rosedale, dopo lunga malattia. Con la signora Prior, nota filantropa, la città di Toronto ha perso una delle sue benefattrici più assidue e di vecchia data. Sorella del defunto industriale Richard Griffen e cognata dell'illustre romanziera Laura Chase, la signora Prior ha fatto parte del consiglio della Toronto Symphony Orchestra durante gli anni della sua formazione, e più di recente del Comitato di Volontari per la Art Gallery of Ontario e della Canadian Cancer Society. È stata inoltre attiva nel Granite Club, nell'Heliconian Club, nella Junior League e nel Dominion Drama Festival. Lascia la nipote Sabrina Griffen, attualmente in viaggio in India. I funerali avranno luogo martedì mattina nella chiesa di St. Simon the Apostle, e verranno seguiti dalla sepoltura al Mount Pleasant Cemetery. Saranno gradite donazioni al Princess Margaret Hospital in luogo dei fiori. L'assassino cieco: Il cuore di rossetto Quanto tempo abbiamo? chiede lui. Molto, dice lei. Due o tre ore. Sono andati tutti da qualche parte. A fare cosa? Non lo so. A fare soldi. A comprare cose. Attività redditizie. Di qualunque cosa si tratti. Si infila una ciocca di capelli dietro l'orecchio, si mette a sedere più dritta. Si sente a richiesta, da chiamare con un fischio. Un sentimento meschino. Di chi è questa macchina? dice. Di un amico. Sono una persona importante. Ho un amico con una macchina. Ti fai gioco di me, dice. Lui non risponde. Lei tira le dita di un guanto. E se qualcuno ci vede? Vedranno solo la macchina. È un rottame, la macchina di un povero dia-
volo. Anche se ti guarderanno non ti vedranno, perché si suppone che una donna come te non salirebbe neanche morta in una macchina come questa. A volte non ti piaccio granché, fa lei. Ultimamente non riesco a pensare a molto altro, dice lui. Ma non parlerei di piacere. È roba che richiede del tempo. Io non ho tempo per concentrarmi su questo. Non là, dice lei. Guarda il segnale. I segnali sono per gli altri, ribatte lui. Qui - quaggiù. Il sentiero è poco più che un solco. Fazzoletti di carta gettati via, involucri di gomme, preservativi usati simili a vesciche di pesce. Bottiglie e ciottoli; fango secco, screpolato e coperto di tracce di ruote. Non ha le scarpe adatte, i tacchi adatti. Quando lui le prende il braccio e la tiene in equilibrio, fa per allontanarsi. È praticamente un campo aperto. Qualcuno ci vedrà. Qualcuno chi? Siamo sotto il ponte. La polizia. Non facciamolo. Non ancora. La polizia non va in giro a ficcare il naso nella piena luce del giorno, dice lui. Girano soltanto di notte, con le loro torce, alla ricerca di pervertiti senza Dio. Allora dei vagabondi, dice lei. Dei maniaci. Vieni, dice lui. Qui sotto. All'ombra. Ci sono ortiche? Neanche una. Te lo prometto. E neppure vagabondi o maniaci, a parte me. Come lo sai? Dell'ortica. Sei già stato qui? Non darti tanta pena, dice lui. Stenditi. No. Rovinerai tutto. Aspetta un momento. Lei sente la propria voce. Non la riconosce, è troppo affannata. Sul cemento c'è un cuore tracciato con il rossetto che circonda quattro iniziali. Le unisce una A: A per Ama. Solo i diretti interessati potrebbero dire a chi appartengono quelle iniziali - e che sono stati qui, che l'hanno fatto. Sbandierare l'amore, tralasciare i particolari. Fuori del cuore ci sono altre quattro lettere, come i quattro punti della bussola: F C
U K
La parola fatta a pezzi, stirata: l'implacabile topografia del sesso. Sapore di fumo sulla bocca di lui, di sale in quella di lei; tutto intorno, odore di erbacce calpestate e di gatto, di angoli abbandonati. Umidità e vegetazione, terra sulle ginocchia, sudicia e grassa; denti di leone dai lunghi gambi che si protendono verso la luce. Al di sotto di dove sono stesi, il gorgoglio di un corso d'acqua. Sopra, rami coperti di foglie, sottili rampicanti dai fiori viola; i pilastri del ponte che si gettano verso l'alto, le travate di ferro, le ruote che passano sopra la loro testa; frantumi di cielo blu. Dura terra sotto la sua schiena. Lui le spiana la fronte, le passa un dito sulla guancia. Non dovresti adorarmi, dice. Il mio non è l'unico uccello al mondo. Un giorno o l'altro lo scoprirai. Non è questo, dice lei. In ogni modo io non ti adoro. La sta già respingendo, relegandola nel futuro. Be', di qualunque cosa si tratti, ne avrai di più quando non ti starò più con il fiato sul collo. E cosa significa esattamente? Non mi stai con il fiato sul collo. Che c'è vita oltre la vita, dice lui. Dopo la nostra vita. Parliamo d'altro. Va bene. Stendiamoci di nuovo. Metti la testa qui. Toglie la camicia umida. Il suo braccio intorno a lei, mentre l'altra mano fruga nella tasca in cerca delle sigarette, poi accende un fiammifero con l'unghia del pollice. L'orecchio di lei contro l'incavo della sua spalla. Lui dice: Allora, dov'ero rimasto? Ai tessitori di tappeti. Ai bambini ciechi. Oh, sì. Ricordo. Dice: La ricchezza di Sakiel-Norn si fondava sugli schiavi, e soprattutto sugli schiavi bambini che tessevano i suoi famosi tappeti. Ma parlarne portava sfortuna. Gli Snilfard sostenevano che le loro ricchezze non dipendevano dagli schiavi, ma dalla propria virtù e dal buonsenso - cioè, dagli adeguati sacrifici che venivano fatti agli dei. C'erano molti dei. Gli dei tornano sempre utili, giustificano quasi tutto, e quelli di Sakiel-Norn non facevano eccezione. Erano tutti carnivori; a loro piacevano i sacrifici di animali, ma ciò che apprezzavano più di ogni altra cosa era il sangue umano. Al tempo della fondazione della città, così era entrato nella leggenda molto tempo prima, si diceva che nove padri devoti
avessero offerto in sacrificio le proprie figlie, perché fossero seppellite come guardie sacre sotto le sue nove porte. A ognuno dei quattro punti cardinali c'erano due di queste porte, una per uscire e una per entrare: andarsene dalla stessa via per cui si era arrivati significava una rapida morte. La porta del nono ingresso era una lastra di marmo orizzontale in cima a un'altura nel centro della città; si apriva senza muoversi, e oscillava tra la vita e la morte, tra la carne e lo spirito. Era la porta attraverso cui gli dei erano venuti e se n'erano andati: loro non avevano bisogno di due ingressi, perché a differenza dei mortali potevano trovarsi contemporaneamente sui due lati della porta. I profeti di Sakiel-Norn avevano un detto: Qual è il reale alito di un uomo - quello che viene espirato o quello che viene inspirato? Tale era la natura degli dei. Il nono ingresso era anche l'altare su cui veniva versato il sangue del sacrificio. Bambini maschi erano offerti al Dio dei Tre Soli, che era il dio del giorno, delle luci chiare, dei palazzi, delle feste, delle fornaci, delle guerre, dell'alcol, delle entrate e delle parole; bambine erano offerte alla Dea delle Cinque Lune, patrona della notte, delle nebbie e delle ombre, della carestia, delle caverne, della nascita, delle uscite e dei silenzi. Ai bambini veniva spaccata la testa sull'altare con un bastone, quindi venivano gettati nella bocca del dio, che portava a una fornace ardente. Alle bambine tagliavano la gola e il loro sangue veniva fatto sgorgare per riempire le cinque lune calanti, in modo che non svanissero, scomparendo per sempre. Nove fanciulle erano sacrificate ogni anno, in onore delle nove fanciulle seppellite alle porte della città. Le vittime erano note come «le vergini della Dea», e venivano loro offerti preghiere, fiori e incenso, perché intercedessero a favore dei vivi. Gli ultimi tre mesi dell'anno erano chiamati «mesi senza faccia»; erano i mesi in cui non crescevano messi, e si diceva che la Dea digiunasse. In questo periodo erano il Dio dei Tre Soli nella sua tenuta da guerra e le fornaci a spadroneggiare, e le madri dei bambini maschi li vestivano da femmina per proteggerli. Secondo la legge le più nobili famiglie Snilfard dovevano offrire almeno una delle loro figlie. Era un insulto alla Dea offrire chiunque avesse un difetto fisico o fosse imperfetto, e con il passare del tempo gli Snilfard cominciarono a mutilare le loro fanciulle, in modo che fossero risparmiate: tagliavano loro un dito o il lobo di un orecchio, o qualche altra piccola parte del corpo. Ben presto la mutilazione divenne soltanto simbolica: un tatuaggio blu di forma allungata nel punto di incontro delle clavicole. Per una donna possedere uno di questi segni di casta se non era una Snilfard
era un reato capitale, ma i proprietari di bordelli, sempre avidi di fare affari, li applicavano con l'inchiostro a quelle delle loro prostitute più giovani che sapevano fare sfoggio di alterigia. La cosa piaceva ai clienti che volevano avere l'impressione di violentare qualche principessa Snilfard di sangue blu. Nello stesso tempo, gli Snilfard presero ad adottare trovatelle - per lo più la prole delle schiave femmine e dei loro padroni - e a usarle per sostituire le loro figlie legittime. Era un inganno, ma le famiglie nobili erano potenti, perciò la cosa andò avanti e le autorità chiudevano un occhio. Poi le famiglie nobili divennero ancora più pigre. Non vollero più preoccuparsi di allevare le fanciulle nel loro nucleo familiare, ma si limitarono a passarle al Tempio della Dea, pagando bene per il loro mantenimento. Dal momento che le fanciulle portavano il nome di famiglia, ai nobili andava il merito del sacrificio. Era come possedere un cavallo da corsa. Questa pratica era una versione svilita di quella originale improntata a più nobili ideali, ma a quel tempo a Sakiel-Norn tutto era in vendita. Le fanciulle consacrate venivano chiuse nell'area cintata del tempio, nutrite con quanto c'era di meglio perché si mantenessero floride e sane, e rigorosamente ammaestrate per il grande giorno - perché fossero capaci di compiere il loro dovere con decoro e senza patemi d'animo. In teoria, il sacrificio ideale avrebbe dovuto essere come una danza: solenne e lirica, armoniosa e aggraziata. Non erano animali, da massacrare in maniera brutale; dovevano essere loro stesse a donare liberamente la propria vita. Molte credevano a quanto veniva loro detto: che il benessere dell'intero regno dipendesse dal loro altruismo. Trascorrevano lunghe ore in preghiera, entrando nella giusta disposizione d'animo; veniva loro insegnato a camminare a occhi bassi, a sorridere con gentile malinconia e a intonare le canzoni della Dea, che parlavano dell'assenza e del silenzio, dell'amore inappagato e del rimpianto inespresso, e della mancanza di parole - canzoni sull'impossibilità di cantare. Passò altro tempo. Ora solo pochi prendevano ancora sul serio gli dei, e chiunque fosse eccessivamente pio od osservante era considerato pazzo. I cittadini continuavano a compiere gli antichi rituali perché l'avevano sempre fatto, ma la città non aveva un reale interesse in simili pratiche. Nonostante il loro isolamento, alcune fanciulle si rendevano conto di venir assassinate per rispetto formale a un concetto ormai sorpassato. Alcune alla vista del coltello cercavano di fuggire. Altre si mettevano a urlare quando venivano prese per i capelli e rovesciate sull'altare, e altre ancora
maledicevano lo stesso Re, che in quelle occasioni fungeva da Sommo Sacerdote. Una lo aveva perfino morso. Queste manifestazioni ricorrenti di panico e furia non piacevano alla popolazione, perché si diceva che sarebbero state seguite dalla più terribile delle sfortune. E magari sarebbe accaduto, se la Dea fosse davvero esistita. In ogni modo, simili accessi potevano rovinare i festeggiamenti: a tutti piacevano i sacrifici, perfino agli Ygnirod, perfino agli schiavi, perché veniva loro concessa una giornata di riposo ed erano liberi di ubriacarsi. Perciò sorse la consuetudine di tagliare la lingua alle fanciulle tre mesi prima del sacrificio. Non era una mutilazione, dissero i preti, ma un miglioramento - cosa poteva esserci di più adatto per le servitrici della Dea del Silenzio? Dunque, senza lingua e gonfia di parole che non avrebbe potuto mai più pronunciare, ogni fanciulla veniva condotta in processione al suono di una musica solenne, avvolta in veli e ornata di ghirlande di fiori, su per i gradini della nona porta della città. Oggi si potrebbe descriverla come una sposa viziata del bel mondo. Lei si tira su a sedere. Questo è davvero gratuito, dice. Continui a darmi addosso. Semplicemente ti piace l'idea di uccidere quelle povere ragazze nei loro veli da sposa. Scommetto che erano bionde. Non ce l'ho con te, dice lui. Non precisamente. A ogni modo non sto inventando nulla, ha tutto un solido fondamento storico. Gli ittiti... Non ne dubito, ma stai comunque tutto il tempo a leccarti le labbra. Sei vendicativo - no, sei geloso, anche se Dio solo sa perché. Non mi importa degli ittiti, della storia e di tutto il resto - è solo una scusa. Aspetta un momento. Tu eri d'accordo sulle vergini sacrificali, le hai inserite nel menù. Io non faccio che attenermi agli ordini. Su cos'hai da ridire - sugli abiti? Troppi veli? Non litighiamo, dice lei. Sente di stare per piangere, serra le mani per frenarsi. Non volevo turbarti. Su, andiamo. Lei respinge il suo braccio. Certo che volevi turbarmi. Ti piace sapere di poterlo fare. Pensavo che ti divertisse. Ascoltare mentre mi esibisco. Mentre faccio giochi di prestigio con gli aggettivi. Mentre faccio il buffone per te. Lei si tira giù la gonna, ci infila dentro la camicetta. Fanciulle morte in veli nuziali, perché dovrebbero divertirmi? Con la lingua tagliata. Devi
prendermi per un mostro. Lo eliminerò. Lo cambierò. Riscriverò la storia per te. Va bene? Non puoi, dice lei. Sei andato troppo avanti ormai. Non ne puoi cancellare neanche mezza riga. Me ne vado. Ora è in ginocchio, pronta ad alzarsi. C'è un'infinità di tempo. Stenditi. Le afferra il polso. No. Andiamo. Guarda dov'è il sole. Staranno per tornare. Potrei avere dei guai, anche se credo che per te questi non siano affatto guai: non contano. A te non importa - tutto quello che vuoi è una veloce, una veloce... Avanti, sputalo. Sai cosa intendo, dice lei con voce stanca. Non è vero. Mi dispiace. Sono io il mostro, mi sono fatto prendere la mano. Comunque, è solo una storia. Lei si appoggia la fronte contro le ginocchia. Dopo un minuto dice: Cosa farò? Dopo - quando tu non ci sarai più? Ce la farai, dice lui. Vivrai. Vieni, ti spolvero. Non viene via, non con una semplice spolverata. Allacciamo i tuoi bottoni, fa lui. Non essere triste. The Colonel Henry Parkman High School Home and School and Alumni Association Bulletin, Port Ticonderoga, maggio 1998 PRESTO CONSEGNATO IL PREMIO LAURA CHASE ALLA MEMORIA DI MYRA STURGESS, VICEPRESIDENTE DELLA ALUMNI ASSOCIATION La Colonel Henry Parkman High School è stata dotata di un nuovo premio di considerevole valore da un generoso lascito della defunta signora Winifred Griffen Prior di Toronto, di cui si ricorderà il fratello, il noto Richard E. Griffen, dal momento che passava spesso le vacanze qui a Port Ticonderoga e amava andare in barca sul nostro fiume. Si tratta del Premio di Scrittura Creativa Laura Chase alla Memoria, di un valore di duecento dollari, da destinare a uno studente dell'ultimo anno per il miglior racconto breve. Questo verrà giudicato da tre membri della Alumni Association, che ne valuteranno i pregi letterari nonché morali. Il no-
stro direttore signor Eph Evans dichiara: «Siamo grati alla signora Prior per essersi ricordata di noi, tra le sue numerose altre opere di beneficenza». Il premio, che nella sua prima edizione verrà conferito a giugno, in occasione della cerimonia per la consegna dei diplomi, è intitolato così in onore della nota scrittrice locale Laura Chase. La sorella di questa, signora Iris Griffen della famiglia Chase, che tanto ha fatto per la nostra città ai suoi albori, ha gentilmente acconsentito a consegnare il premio al fortunato vincitore, e sono ormai rimaste solo poche settimane, perciò dite ai vostri ragazzi di rimboccarsi le maniche della creatività e di sbrigarsi! La Alumni Association offrirà un tè nella palestra immediatamente dopo la cerimonia per la consegna dei diplomi. È possibile acquistare i biglietti presso Myra Sturgess, alla Gingerbread House. Tutti i proventi saranno destinati all'acquisto di divise da football, di cui c'è di sicuro un gran bisogno! Chiunque voglia cucinare qualcosa per l'occasione sarà il benvenuto, con la preghiera di segnalare con cura i cibi contenenti noci. III La consegna del premio Questa mattina mi sono svegliata con una sensazione di timore. Dapprima non sono riuscita a capire perché, ma poi mi sono ricordata. Oggi era il giorno della cerimonia. Il sole era alto, la stanza già troppo calda. La luce vi filtrava attraverso le tende a rete, rimanendo sospesa in aria, sedimento sul fondo di uno stagno. Mi sentivo la testa spappolata. Ancora in camicia da notte, bagnata per qualche spavento che avevo spinto da parte come fogliame, mi sono tirata su e sono scesa dal mio letto scompigliato, quindi mi sono costretta a eseguire tutti i rituali dell'alba - le cerimonie che compiamo per farci apparire sani e accettabili all'altra gente. I capelli vanno sistemati dopo che una qualche apparizione notturna li ha fatti rizzare, l'espressione di stupefatta incredulità lavata via dagli occhi. I denti spazzolati, quello che ne rimane. Dio solo sa quali ossi ho rosicchiato durante la notte. Poi sono entrata nella doccia, aggrappandomi alla sbarra di sostegno che Myra mi ha costretto a far istallare, attenta a non lasciar cadere il sapone:
ho paura di scivolare. Eppure, il corpo deve essere annaffiato, per togliersi dalla pelle l'odore dell'oscurità notturna. Ho il sospetto di avere un odore che non riesco più ad avvertire - un tanfo di carne stantia e di pipì torbida, invecchiata. Asciugata, aspersa di lozione e incipriata, spruzzata come muffa, ero in un certo senso restaurata. Soltanto, c'era ancora la sensazione di assenza di peso, o piuttosto di essere sul punto di cadere da uno strapiombo. Ogni volta che allungo un piede lo metto giù in maniera precaria, come se il pavimento potesse cedere sotto di me. Soltanto la tensione superficiale mi mantiene sul posto. Mettermi i vestiti mi ha aiutato. Non sono al meglio senza impalcatura. (Ma cosa ne è stato dei miei veri vestiti? Questi pastelli informi e queste scarpe ortopediche appartengono sicuramente a qualcun altro. Ma sono miei; peggio, adesso mi donano). Poi è stata la volta delle scale. Ho il terrore di ruzzolare giù - di rompermi il collo, di giacere scomposta con gli indumenti intimi in bella mostra, quindi di sciogliermi in una pozza in putrefazione prima che a qualcuno venga in mente di venirmi a cercare. Sarebbe un modo talmente sgraziato di morire. Ho affrontato un gradino alla volta, stringendo la ringhiera; poi ho percorso il corridoio fino alla cucina, con le dita della mano sinistra a sfiorare il muro come i baffi di un gatto. (Ci vedo ancora abbastanza. E posso ancora camminare. Siate felici per le piccole fortune, diceva Reenie. Perché dovremmo esserlo? chiedeva Laura. Se sono così piccole...) Non ho voluto niente per colazione. Ho bevuto un bicchiere d'acqua e ho passato il tempo a crogiolarmi nell'ansia. Alle nove e mezzo Walter è venuto a prendermi. «Fa abbastanza caldo per te?» ha domandato, il suo esordio usuale. In inverno è abbastanza freddo. Umido e asciutto sono per la primavera e l'autunno. «Come stai oggi, Walter?» gli ho chiesto, come sempre. «Mi tengo fuori dei guai» ha detto lui, come sempre. «È il massimo che ci si possa aspettare da noi tutti» ho replicato. Ha esibito la sua versione di un sorriso - una sottile fessura nel viso, come fango che si vada seccando - mi ha aperto lo sportello della macchina e mi ha fatto accomodare nel sedile del passeggero. «Gran giorno oggi, eh?» ha fatto. «Allacciamoci la cintura, o potrebbero arrestarmi». Ha detto allacciamoci la cintura come se fosse uno scherzo; ha abbastanza anni per ricordare vecchi tempi più spensierati. Doveva essere stato il tipo di giovanotto che
guidava con un gomito fuori del finestrino e una mano sul ginocchio della ragazza. È sbalorditivo pensare che in realtà quella ragazza era Myra. Ha allontanato delicatamente la macchina dal marciapiede e siamo partiti in silenzio. È un uomo grosso, Walter - squadrato come un plinto, con un collo che non è tanto un collo quanto una spalla in più; trasuda un odore non sgradevole di stivali di cuoio consumati e benzina. Dalla sua camicia a quadretti e dal berretto da baseball ho dedotto che non intendeva assistere alla cerimonia della consegna dei diplomi. Lui non legge libri, il che mette tutti e due più a nostro agio: per quanto lo riguarda, Laura è mia sorella ed è un peccato che sia morta, tutto qui. Avrei dovuto sposare qualcuno come Walter. Che ci sa fare con le mani. No: non avrei dovuto sposare nessuno. Così avrei evitato un sacco di guai. Walter ha fermato la macchina davanti al liceo. È un edificio moderno costruito dopo la guerra, ha cinquant'anni ma per me è come se fosse nuovo: non riesco ad abituarmi alla sua piattezza, al tono insipido. Sembra una cassa da imballaggio. Ragazzi e genitori sciamavano sul marciapiede e sul prato e attraversavano le porte principali, vestiti di tutti i possibili colori estivi. Myra ci stava aspettando, lanciando urletti dai gradini, in un abito a grandi rose rosse. Le donne con un sedere tanto grosso non dovrebbero indossare tessuti stampati a fiori così grandi. Andrebbe spezzata una lancia a favore dei busti, non che ne desideri il ritorno. Si era fatta sistemare i capelli, una massa di fitti riccioli grigi dall'aria ben cotta, come la parrucca di un avvocato inglese. «Sei in ritardo» ha detto a Walter. «Non è vero» ha ribattuto lui. «Se lo sono, vuol dire che tutti gli altri sono in anticipo, ecco. Non c'è motivo che lei debba ciondolare con le mani in mano». Hanno l'abitudine di parlare di me in terza persona, come se fossi una bambina o un cane. Walter ha passato il mio braccio in consegna a Myra, quindi io e lei abbiamo salito i gradini d'ingresso insieme, come in una corsa a tre gambe. Sentivo ciò che doveva sentire la mano di Myra: un fragile radio ricoperto mollemente di porridge e spago. Avrei dovuto portare il bastone, ma non mi vedevo a trascinarmelo dietro sul palcoscenico. Qualcuno ci avrebbe sicuramente inciampato. Myra mi ha portato dietro le quinte e mi ha domandato se volessi andare al bagno delle signore - è brava a ricordarsi queste cose -, poi mi ha fatto sedere nello spogliatoio. «Ora rimani qui» ha detto. Quindi è andata via di
corsa, facendo ballonzolare il sedere, per assicurarsi che fosse tutto in ordine. Le luci attorno allo specchio dello spogliatoio erano piccole lampadine rotonde, come nei teatri; gettavano una luce lusinghiera, ma io non ero lusingata: avevo un'aria malata, la pelle da cui era colato via il sangue, come carne macerata nell'acqua. Era paura, o stavo davvero male? Non mi sentivo certamente al massimo. Ho trovato il pettine, ho fatto un tentativo meccanico di usarlo. Myra continua a minacciarmi di portarmi dalla «sua ragazza», in quello che si ostina a chiamare salone di bellezza - il nome ufficiale è Hair Port, con Unisex come invitante aggiunta - ma io continuo a resistere. Almeno, posso ancora dire di avere i miei capelli, anche se si arricciano verso l'alto quasi fossi stata fulminata. Sotto si intravede il cuoio capelluto, il rosa grigiastro delle zampe dei topi. Se mai fossi sorpresa da un forte vento, tutti i miei capelli verrebbero soffiati via come la lanugine dei denti di leone, lasciando soltanto il minuscolo moncone butterato della testa calva. Myra mi aveva lasciato uno dei suoi speciali dolci al cioccolato preparati per il tè della Alumni Association - una fetta di stucco ricoperta di poltiglia al cioccolato - e un bricco di plastica con il tappo a vite pieno del suo tipico caffè dall'aspetto di acido di batteria. Non ho potuto né bere né mangiare, ma perché mai Dio avrebbe fatto le toilette? Ho lasciato qualche briciola marrone, tanto per dare un tocco di autenticità. Poi Myra è entrata con aria affaccendata, mi ha raccolta con un cucchiaino e mi ha condotta fuori, dove mi è stata stretta la mano dal direttore e mi sono sentita dire quanto fosse stato bello da parte mia avere partecipato; poi sono stata passata al vicedirettore, al presidente della Alumni Association, al capo del dipartimento di inglese - una donna con un tailleur pantalone -, al rappresentante della Camera di Commercio Giovanile e finalmente al membro locale del Parlamento, riluttante come sono costoro a lasciarsi scappare un'occasione. Non avevo visto tanti denti puliti in bella mostra dal periodo in cui Richard si era dato alla politica. Myra mi ha accompagnata fino alla mia sedia, quindi ha sussurrato: «Sarò qui dietro le quinte». L'orchestra della scuola ha attaccato a suonare tra cigolii e bemolli, e abbiamo intonato Oh, Canada!, di cui non riesco mai a ricordare le parole perché continuano a cambiarle. Oggi se ne canta una parte in francese, cosa che un tempo sarebbe suonata inaudita. Infine ci siamo seduti, dopo avere dichiarato solennemente il nostro orgoglio collettivo per qualcosa che non sappiamo pronunciare.
Poi il cappellano della scuola ha levato una preghiera, facendo una paternale a Dio sulle molte sfide senza precedenti a cui sono esposti i giovani d'oggi. Dio deve avere già sentito questo genere di cose, da cui probabilmente è annoiato quanto tutti noi. Gli altri sono intervenuti a turno: il ventesimo secolo che finisce, il vecchio da gettare via, l'avvento del nuovo da festeggiare, i cittadini del futuro, a voi con deboli mani e via di questo passo. Ho lasciato vagare la mia mente; sapevo che l'unica cosa che ci si aspettava da me era che non mi coprissi di disonore. Mi sembrava di essere di nuovo accanto al podio o a qualche interminabile cena, seduta vicino a Richard, con la bocca ben chiusa. Se mi veniva chiesto, cosa che accadeva di rado, di solito dicevo che il mio hobby era il giardinaggio. Al massimo una mezza verità, ma abbastanza noiosa da risultare accettabile. Poi è venuto il momento che gli studenti ricevessero i loro diplomi. Sono saliti uno dietro l'altro, solenni e raggianti, di tante taglie differenti, tutti belli come solo i giovani sanno essere. Perfino quelli brutti erano belli, perfino quelli scontrosi, quelli grassi, perfino quelli pieni di brufoli. Nessuno di loro lo capisce, quanto sono belli. Ma ciò nonostante sono irritanti, i giovani. Di regola hanno un modo di fare spaventoso, e a giudicare dalle loro canzoni non fanno che frignare e spassarsela, mentre il far buon viso a cattivo gioco è passato di moda, come il fox-trot. Non capiscono la loro fortuna. Mi guardavano a malapena. Devo essere sembrata loro bizzarra, ma suppongo che sia il destino di ognuno essere ridotto al rango di bizzarro da chi è più giovane di lui. A meno che non ci sia del sangue per terra, naturalmente. Guerra, pestilenza, assassinio, ogni genere di sofferenza o violenza, ecco cosa rispettano. Il sangue vuol dire che facevamo sul serio. Quindi è stata la volta dei premi - informatica, fisica, bla bla bla, economia, letteratura inglese, qualcosa che non ho afferrato. Poi il tizio della Alumni Association si è schiarito la gola ed è partito con un ipocrita pistolotto su Winifred Griffen Prior, santa in terra. È incredibile come tutti raccontino frottole, quando è in gioco del denaro! Suppongo che la vecchia puttana avesse previsto ogni cosa al momento di fare il lascito, misero com'è. Sapeva che sarebbe stata richiesta la mia presenza; voleva che fremessi sotto il severo sguardo della città, mentre si tessevano le lodi della sua munificenza. Spendete questo in ricordo di me. Odiavo darle questa soddisfazione, ma non potevo evitarlo senza sembrare spaventata o colpevole, oppure indifferente. Peggio: smemorata. Poi è venuto il turno di Laura. Il politico si è incaricato di fare gli onori
di casa: l'argomento imponeva del tatto. È stato detto qualcosa sulle origini locali di Laura, sul suo coraggio, sulla sua «dedizione a una nobile causa», qualunque cosa volesse dire. Nulla sul modo in cui era morta, che - nonostante il verdetto dell'inchiesta - ognuno in questa città crede vicino al suicidio quanto un'imprecazione lo è a una bestemmia. E assolutamente nulla sul libro, che senza dubbio per quasi tutti loro era meglio se fosse stato dimenticato. Tuttavia non è andata così, non qui: perfino a distanza di cinquant'anni quel libro conserva la sua aura di zolfo e tabù. Lo trovo difficile da spiegare: per quanto riguarda la sensualità, erano tutte cose trite e ritrite, il linguaggio osceno non aveva nulla che non si potesse sentire tutti i giorni agli angoli delle strade, il sesso era pudico come una danza dei ventagli - quasi stravagante, come i reggicalze. E poi, naturalmente, la questione era un'altra. Ciò che la gente ricorda non è il libro in sé, quanto le violente reazioni che suscitò: in chiesa i ministri del culto lo denunciarono come osceno, e non solo da noi; la biblioteca pubblica fu costretta a toglierlo dagli scaffali, l'unica libreria della città rifiutò di rifornirsene. Si parlò di censurarlo. La gente scappava a Stratford, a London o perfino a Toronto, e si procurava la sua copia di nascosto, come a quel tempo si usava fare con i preservativi. Tornati a casa tiravano le tende e leggevano, con disapprovazione, con gusto, avidità e gioia - perfino quelli a cui non era mai venuto in mente di aprire un romanzo prima di allora. Non c'è niente come una palata di sporcizia per incoraggiare l'alfabetizzazione. (Senza dubbio fu espressa anche qualche opinione garbata. Non ce l'ho fatta ad arrivare fino in fondo - è una storia troppo debole per me. Ma la poverina era talmente giovane. Forse avrebbe fatto meglio con qualche altro libro, se non fosse morta. Questa probabilmente è la cosa migliore che avrebbero potuto dire sul suo conto). Cosa volevano? Lascivia, oscenità, la conferma dei loro peggiori sospetti. Ma forse alcuni, loro malgrado, volevano essere sedotti. Forse erano alla ricerca della passione; forse frugavano nel libro come in un pacco misterioso - un pacco dono in fondo al quale, nascosto fra strati di frusciante carta velina, giaceva qualcosa che avevano sempre desiderato ma non avevano mai potuto agguantare. Ma volevano anche toccare con mano la gente reale al suo interno - a parte Laura, voglio dire: la sua, di realtà, era data per scontata. Volevano veri corpi, da adattare ai corpi evocati per loro dalle parole. Volevano vera lussuria. Soprattutto, volevano sapere: chi era l'uomo? A letto con la gio-
vane donna, la graziosa giovane donna morta; a letto con Laura. Alcuni di loro pensavano di saperlo, naturalmente. C'erano stati pettegolezzi. Per chi era capace di fare due più due, tutto tornava. Si comportava come se fosse pura come un giglio. Faceva la santarellina. È la dimostrazione che non si può giudicare un libro dalla copertina. Ma ormai Laura era al di fuori della loro portata. Rimanevo io. Cominciarono le lettere anonime. Perché avevo fatto in modo che quell'immondizia venisse pubblicata? E per di più a New York, la Grande Sodoma. Una simile porcheria! Non avevo nessuna vergogna? Avevo lasciato che la mia famiglia - tanto rispettata! - fosse disonorata, e con lei l'intera città. Laura non aveva mai avuto le rotelle a posto, tutti l'avevano sempre sospettato, e il libro ne era la prova. Io avrei dovuto proteggere la sua memoria. Avrei dovuto dare fuoco al manoscritto. Guardando la macchia indistinta di teste, laggiù tra il pubblico - le teste dei più vecchi - potevo immaginare un'atmosfera di vecchio rancore, vecchia invidia e vecchia condanna sprigionarsi da esse come da una palude che si raffredda. Quanto al libro in sé, restava innominabile - cacciato lontano dagli occhi, come un parente deforme di cui vergognarsi. Un libro così esile, così indifeso. Ospite non invitato a questa strana festa, fluttuava ai margini del palcoscenico come una falena impotente. Mentre sognavo a occhi aperti mi sono sentita afferrare per un braccio, quindi sono stata sollevata di peso e mi è stato ficcato in mano l'assegno nella sua busta profilata d'oro. Hanno annunciato la vincitrice. Non ne ho afferrato il nome. È avanzata verso di me, facendo risuonare i tacchi attraverso il palcoscenico. Era alta; di questi tempi sono tutte alte, le ragazze, dev'essere per via di qualcosa nel cibo. Indossava un abito nero, severo tra i colori estivi, con fili argentati o perline - qualcosa di scintillante. I capelli erano lunghi e scuri. Un viso ovale, una bocca truccata con rossetto color ciliegia; leggermente arcigna, concentrata, intenta. La pelle con un sottofondo di colore giallo pallido o marrone - forse era indiana, o araba, o cinese? Perfino a Port Ticonderoga era possibile una cosa del genere: tutti sono dappertutto al giorno d'oggi. Il mio cuore ha vacillato: un ardente desiderio mi ha attraversato come un crampo. Forse mia nipote - forse Sabrina ora ha questo aspetto, ho pensato. Forse, o forse no, come potrei saperlo? Non la riconoscerei neppure. Mi è stata tenuta lontana talmente a lungo; si è tenuta lontana. Che farci? «Signora Griffen» ha sibilato il politico.
Ho barcollato, ho ripreso l'equilibrio. E adesso cosa avevo intenzione di dire? «Mia sorella Laura sarebbe così contenta» ho ansato nel microfono. Avevo la voce stridula; ho pensato di poter svenire. «Le piaceva aiutare la gente». Era vero, mi ero fatta la solenne promessa di non dire nulla di falso. «Amava talmente la lettura e i libri». Anche questo era vero, fino a un certo punto. «Ti avrebbe augurato tutto il bene possibile per il tuo futuro». Vero anche questo. Sono riuscita a porgere la busta; la ragazza si è dovuta chinare. Le ho sussurrato all'orecchio, o ho pensato di sussurrare - Dio ti benedica. Stai attenta. Chiunque intenda avere a che fare con le parole ha bisogno di una simile benedizione, di un simile avvertimento. Avevo parlato davvero, o avevo semplicemente aperto e chiuso la bocca come un pesce? Ha sorriso, e minuscoli lustrini scintillanti sono balenati, illuminandole il viso e i capelli. Uno scherzo dei miei occhi e delle luci del palcoscenico, troppo intense. Avrei dovuto mettermi gli occhiali con le lenti colorate. Me ne stavo là sbattendo le palpebre. Poi lei ha fatto qualcosa di inaspettato: si è chinata verso di me e mi ha baciato sulla guancia. Attraverso le sue labbra potevo sentire la trama della mia pelle: morbida come il cuoio di un guanto da bambino, increspata, polverosa, antica. Mi ha sussurrato a sua volta qualcosa, ma non sono proprio riuscita ad afferrarla. Era un semplice grazie, o un altro messaggio - possibile? - in una lingua straniera? Si è girata. La luce che emanava era talmente abbagliante che ho dovuto chiudere gli occhi. Non avevo sentito, non vedevo niente. L'oscurità si è fatta più vicina. Gli applausi mi colpivano le orecchie come ali sbattute. Ho vacillato e sono stata sul punto di cadere. Qualche funzionario all'erta mi ha afferrato per il braccio e mi ha incastrato nuovamente nella mia sedia. Di nuovo nell'oscurità. Di nuovo nella lunga ombra gettata da Laura. Al sicuro. Ma la vecchia ferita si è riaperta, lascia sgorgare sangue invisibile. Presto ne sarò svuotata. La scatola d'argento I tulipani arancione stanno spuntando, raggrinziti e cenciosi come soldati sbandati di un esercito sulla via del ritorno. Li saluto con sollievo, quasi facendo gesti di richiamo da un edificio bombardato; eppure, devono farsi
strada come meglio possono, senza troppo aiuto da parte mia. A volte giro curiosando fra i detriti del giardino sul retro, ripulendolo di steli secchi e foglie cadute, ma questo è il massimo a cui mi spingo. Non riesco più a inginocchiarmi molto bene, non posso ficcare le mani nella terra. Ieri sono andata dal dottore per parlare di questi giramenti di testa. Mi ha detto che ho sviluppato quello che un tempo si chiamava un cuore, come se la gente sana non ne avesse uno. Sembra che dopotutto non continuerò a vivere per sempre, limitandomi a rimpicciolire, a diventare più grigia e polverosa, come la Sibilla nella sua ampolla. Avendo mormorato tanto tempo fa Voglio morire, ora mi rendo conto che questo desiderio sarà esaudito davvero, e piuttosto prima che poi. Non importa che abbia cambiato idea al riguardo. Mi sono avvolta in uno scialle per sedermi fuori, protetta dalla sporgenza della veranda sul retro, a un tavolo di legno coperto di graffi che ho chiesto a Walter di portare dal garage. C'erano sopra le solite cose, eredità dei precedenti proprietari: una collezione di lattine di vernice secca, una pila di fogli di bitume, un vasetto di vetro riempito a metà di chiodi arrugginiti, un rotolo di filo per appendere i quadri. Passeri mummificati, nidi di topi fatti di imbottitura di materasso. Walter lo ha lavato con lo Javex, ma puzza ancora di topo. Disposti davanti a me ci sono una tazza di tè, una mela divisa in quarti e un bloc-notes a righe blu, come i pigiami da uomo di una volta. Ho comperato anche una nuova penna, una da poco prezzo, una penna a sfera di plastica nera. Ricordo la mia prima penna stilografica, com'era liscia, come l'inchiostro mi faceva blu le dita. Era fatta di bachelite, con le rifiniture in argento. Era il 1929. Avevo tredici anni. Laura prese in prestito la penna senza chiederlo, come faceva con tutto - e poi la ruppe, come se niente fosse. La perdonai, naturalmente. Lo facevo sempre; dovevo, perché c'eravamo solo noi due. Noi due sulla nostra isola circondata di spine, in attesa di essere salvate; e, sul continente, tutti gli altri. Per chi sto scrivendo tutto questo? Per me stessa? Non credo. Non riesco a immaginarmi a rileggerlo poi, dal momento che il poi è diventato problematico. Per qualche estraneo, nel futuro, dopo la mia morte? Non ho una simile ambizione, e neanche una simile speranza. Forse non scrivo per nessuno. O forse per la stessa persona per cui scrivono i bambini, quando scarabocchiano i loro nomi nella neve. Non sono più veloce come una volta. Le mie dita sono rigide e malde-
stre, la penna oscilla e vaga, mi occorre molto tempo per mettere insieme le parole. Eppure insisto, ingobbita sulla carta come se cucissi al chiaro di luna. Quando guardo nello specchio vedo una donna vecchia; anzi, non vecchia, perché a nessuno è più concesso di essere vecchio. Anziana, allora. A volte vedo una donna anziana che potrebbe sembrare la nonna che non ho mai conosciuto, o mia madre, se le fosse riuscito di arrivare a questa età. Altre volte vedo invece il viso di ragazza che passavo tanto tempo ad aggiustare e a deplorare, lo vedo galleggiare come un annegato proprio sotto il mio viso attuale, che - soprattutto di pomeriggio, con la luce obliqua sembra così floscio e trasparente che potrei quasi sfilarlo come una calza. Il dottore dice che ho bisogno di camminare - ogni giorno, dice, per il mio cuore. Io preferirei di no. Non è l'idea del camminare che mi infastidisce, è l'uscire: mi sento troppo in mostra. Me li immagino soltanto, gli sguardi, i sussurri? Forse sì, forse no. Dopotutto sono un'istituzione locale, come un lotto vuoto disseminato di mattoni nel punto in cui un tempo sorgeva un importante edificio. La tentazione è di rimanere in casa; di impersonare la parte della specie di reclusa che i bambini del vicinato guardano con scherno e con un po' di soggezione; di far crescere siepi ed erbacce, di lasciare che le porte si arrugginiscano stando sempre chiuse, di giacere sul letto in un abito lungo, di permettere ai miei capelli di allungarsi e di spargersi sul cuscino e alle mie unghie di crescere in artigli, mentre la cera della candela gocciola sul tappeto. Ma tanto tempo fa ho compiuto una scelta tra classicismo e romanticismo. Preferisco stare in piedi e controllarmi: un sepolcro alla luce del sole. Forse non sarei dovuta tornare a vivere qui. Ma a quel tempo non riuscivo a pensare a nessun altro posto dove andare. Come diceva sempre Reenie: Chi lascia la strada vecchia per la nuova... Oggi ho fatto uno sforzo. Sono uscita, ho camminato. Ho camminato fino al cimitero: si ha bisogno di una meta per simili escursioni altrimenti senza senso. Ho indossato il mio cappello a tesa larga per ridurre il riverbero del sole e i miei occhiali con le lenti colorate, poi ho preso il mio bastone per procedere a tentoni sui marciapiedi. E un sacchetto di plastica. Ho percorso Erie Street, ho superato una lavanderia a secco, un fotografo specializzato in ritratti, i pochi altri negozi della strada principale che
sono riusciti a sopravvivere al drenaggio provocato dai centri commerciali ai margini della città. Quindi il Betty's Luncheonette, che ha di nuovo cambiato gestione: prima o poi i suoi proprietari si annoiano, o muoiono, o si trasferiscono in Florida. Ora Betty's ha un giardino a patio, dove i turisti possono sedersi al sole e arrostire ben bene; è sul retro, nel piccolo spiazzo di cemento crepato dove una volta tenevano i contenitori dell'immondizia. Offrono tortellini e cappuccino, annunciati spavaldamente in vetrina come se per tutti in città fosse naturale sapere di cosa si tratta. Be', ormai lo sanno; li hanno provati, magari solo per acquistare il diritto di disprezzarli. Non mi serve quella bambagia sul caffè. Sembra crema da barba. Un sorso, e ti esce la schiuma di bocca. Una volta la specialità erano i pasticci di pollo, ma sono scomparsi da un pezzo. Ci sono gli hamburger, però Myra dice che è meglio evitarli. A sentir lei usano polpette precongelate fatte con polvere di carne. La polvere di carne, dice, è quella che raschiano via dal pavimento dopo aver tagliato a pezzi con la sega elettrica le mucche congelate. Legge un sacco di riviste, dal parrucchiere. Il cimitero ha un cancello di ferro battuto sormontato da un'arcata ornata di intricate volute, e un'iscrizione: Pur attraversando la valle dell'ombra della morte non temerò alcun male, poiché Tu sei con me. Sì, essere in due offre un'ingannevole sicurezza; ma il Tu è un personaggio ambiguo. Tutti i Tu che ho conosciuto sono riusciti a sparire in un modo o nell'altro. Lasciano di nascosto la città, o diventano perfidi, o cadono come mosche, e poi dove ti ritrovi? Proprio qui. È difficile non notare il monumento della famiglia Chase; è più alto di qualsiasi altra cosa. Ha due angeli ed è in marmo bianco, in stile vittoriano, lacrimoso ma piuttosto ben fatto per il suo genere, su un grande cubo di pietra con gli angoli ornati di volute. Il primo angelo è in piedi, con la testa reclinata di lato in una posa addolorata, una mano teneramente appoggiata sulla spalla del secondo. Questo è in ginocchio, piegato sulla coscia dell'altro, con lo sguardo fisso davanti a sé, e tiene con delicatezza un fascio di gigli. Nonostante i loro corpi siano dignitosi, i contorni nascosti da pieghe di pietra mollemente drappeggiata, impenetrabile, si capisce che sono di sesso femminile. La pioggia acida sta facendo sentire i suoi effetti su di loro: gli occhi un tempo acuti ora sono offuscati, indeboliti e porosi, come se avessero le cateratte. Ma forse è la mia vista che se ne sta andando.
Io e Laura venivamo spesso qui. Vi eravamo condotte da Reenie, che pensava che rendere visita alle tombe di famiglia facesse in qualche modo bene ai bambini, e in seguito ci venivamo da sole: era una scusa ipocrita, e perciò accettabile, per fuggire. Quando era piccola, Laura diceva che gli angeli dovevamo essere noi, io e lei. Ribattevo che non poteva essere vero, perché erano stati messi lì dalla nonna prima della nostra nascita. Ma Laura non prestava mai grande attenzione a questo tipo di ragionamento. Era più interessata alle forme - a quello che le cose erano in se stesse, piuttosto che a ciò che non erano. Ne ricercava l'essenza. Col passare del tempo ho preso l'abitudine di venire qui almeno due volte l'anno, se non altro per mettere in ordine. Una volta guidavo, ma ora non più: i miei occhi sono troppo malridotti. Mi sono piegata faticosamente, ho raccolto i fiori appassiti che si erano accumulati, lasciati dagli ammiratori anonimi di Laura, e li ho ficcati nel sacchetto di plastica. Ora questi omaggi sono meno numerosi di un tempo, ma sempre fin troppo abbondanti. Oggi alcuni erano piuttosto freschi. Di tanto in tanto ho trovato bastoncini di incenso e anche candele, come se Laura venisse evocata. Dopo essermi occupata dei mazzi di fiori ho girato intorno al monumento, leggendo l'appello dei Chase defunti scolpito sui lati del cubo. Benjamin Chase e la sua adorata moglie Adelia; Norval Chase e la sua adorata moglie Liliana. Edgar e Percival, che non diventeranno vecchi come è stato concesso a noi di diventarlo. E Laura, qui come in ogni altro luogo. La sua essenza. Polvere di carne. C'era una sua foto nel giornale locale la scorsa settimana, insieme a un resoconto del premio - la foto classica, quella della sopraccoperta del libro, l'unica che sia mai stata stampata, perché è l'unica che ho dato. È un ritratto eseguito in uno studio fotografico, con la parte superiore del corpo voltata rispetto al fotografo e la testa girata per conferire al collo una curva aggraziata. Un po' di più, ora guarda su, verso di me, brava, ora vediamo il sorriso. I suoi lunghi capelli sono biondi, com'erano allora i miei - chiari, quasi bianchi, come se le sfumature rosse fossero state lavate via - il ferro, il rame, i metalli duri. Un naso dritto; un viso a cuore; occhi grandi, luminosi, ingenui; le sopracciglia arcuate, con una piega perplessa verso l'alto all'interno. Un tocco di testardaggine nella mascella, ma non lo si scorge a meno di conoscerlo. Di trucco neanche a parlarne, il che conferisce al viso un aspetto stranamente nudo: quando si guarda la bocca, ci si rende con-
to di guardare della carne. Graziosa; perfino bella; intatta in maniera toccante. La pubblicità di un sapone, tutti ingredienti naturali. Il viso sembra indifferente: ha quella impenetrabilità vacua, imbarazzata di tutte le ragazze bene educate del tempo. Una tabula rasa, che non aspetta di scrivere ma di essere scritta. È solo il libro a renderla degna di essere ricordata, ora. Laura tornò in una piccola scatola color argento, come quelle per le sigarette. Sapevo quali sarebbero stati i commenti in città, quasi fossi stata a origliare. Naturalmente non è davvero lei, ma solo le ceneri. Chi avrebbe mai detto che i Chase fossero favorevoli alla cremazione, non lo erano mai stati prima, ai bei tempi non si sarebbero mai abbassati a tanto, ma questa volta è come se avessero deciso di portare a termine il lavoro, visto che lei era già più o meno completamente bruciata. Eppure, pensavo che secondo loro sarebbe dovuta rimanere con la famiglia. Che l'avrebbero voluta nel loro grande monumento con i due angeli. Nessun altro ne ha due, ma quello fu quando i soldi gli bruciavano in tasca, tanto da farci dei buchi. Allora amavano mettersi in mostra, fare sensazione; stare al comando, si direbbe. Essere pezzi grossi. Di sicuro una volta da queste parti pezzi più grossi di loro non ce n'erano. Queste cose le sento sempre dire con la voce di Reenie. Lei era la nostra interprete della città, mia e di Laura. A chi altri avremmo potuto rivolgerci? Dietro il monumento c'è uno spazio vuoto. Ci penso come a un posto riservato - riservato in permanenza, come quelli che Richard si procurava al Royal Alexandra Theatre. È il mio posticino; è là che andrò sottoterra. La povera Aimee è a Toronto, al Mount Pleasant Cemetery, insieme ai Griffen - con Richard, Winifred e il loro sfarzoso megalite di granito lucido. Se n'è occupata Winifred - ha rivendicato i suoi diritti nei confronti di Richard e Aimee piombando subito come una furia e ordinando le loro bare. Chi paga le pompe funebri detta legge. Se avesse potuto, mi avrebbe escluso dai loro funerali. Ma Laura fu la prima di loro, perciò Winifred non aveva ancora perfezionato il suo numero di scippatrice di corpi. Dissi: «Viene a casa», tutto lì. Dispersi le ceneri al suolo, ma mi tenni la scatola d'argento. Per fortuna non la seppellii: a quest'ora qualche ammiratore avrebbe potuto sgraffignarla. Quella gente ruba qualunque cosa. Un anno fa ne ho sorpreso uno
con un barattolo di marmellata e una paletta, che grattava via la terra dalla tomba. Mi chiedo dove andrà a finire Sabrina. È l'ultima di noi. Presumo che sia ancora a questo mondo: non mi sono giunte notizie in senso opposto. Rimane da vedere con quale ramo della famiglia sceglierà di essere seppellita, o se si metterà in un angolo, lontana da tutti noi. Non la biasimerei. La prima volta che è fuggita, a tredici anni, Winifred telefonò in preda a una rabbia gelida, accusandomi di aiutarla e di essere sua complice, anche se non si spinse al punto di parlare di rapimento. Voleva sapere se Sabrina fosse venuta da me. «Non credo di essere tenuta a dirtelo» dissi, per tormentarla. Quello che è giusto è giusto; fino a quel momento quasi tutte le occasioni di tormentare erano state sue. Aveva l'abitudine di rimandarmi cartoline, lettere e regali di compleanno per Sabrina, con sopra scritto a stampatello Respinto al mittente nella sua squadrata calligrafia da tiranna. «Comunque io sono sua nonna. Può venire da me quando ne ha voglia. È sempre la benvenuta». «Non devo certo ricordarti che sono la sua tutrice legittima». «E allora perché lo stai facendo?» Sabrina, tuttavia, non venne da me. Non lo fece mai. Non è difficile indovinare il perché. Dio solo sa cosa le era stato detto sul mio conto. Niente di buono. La Button Factory L'afa estiva è arrivata sul serio, adagiandosi sulla città come una zuppa. Tempo da malaria, sarebbe stato una volta; tempo da colera. Gli alberi sotto ai quali cammino sono ombrelli avvizziti, la carta è umida sotto le mie dita, le parole che scrivo sbavano ai bordi come rossetto su una bocca che invecchia. Solo a salire le scale mi spuntano sottili baffi di sudore. Non dovrei camminare con un caldo del genere, fa battere con più fatica il mio cuore. Lo noto con malignità. Non dovrei sottoporlo a simili prove, ora che sono stata informata dei suoi difetti; eppure provo un piacere perverso nel farlo, come se io fossi un bullo e lui un ragazzino piagnucoloso di cui disprezzo la debolezza. Le sere passate ci sono stati tuoni, un battere e un incespicare lontani, come se Dio si abbandonasse a una tetra baldoria. Mi alzo per fare pipì, torno a letto, mi rigiro tra le lenzuola umide, ascoltando il monotono ronzare del ventilatore. Myra dice che dovrei mettere l'aria condizionata, ma
io non la voglio. Non posso neanche permettermela. «Chi pagherebbe una cosa del genere?» le dico. Deve credere che abbia un diamante nascosto nella fronte, come i rospi delle favole. Oggi la meta della mia camminata era la Button Factory, dove intendevo prendere il caffè del mattino. Il dottore mi ha messo in guardia sul caffè, ma lui ha solo cinquant'anni - fa jogging in pantaloncini, mettendo in mostra le sue gambe pelose. Non è onnisciente, anche se questo gli suonerebbe nuovo. Se non lo fa il caffè, sarà qualcos'altro a uccidermi. Erie Street era languida di turisti, per la maggior parte di mezza età, che ficcavano il naso nei negozi di souvenir, curiosavano nella libreria e bighellonavano, prima di ripartire dopo pranzo alla volta del vicino festival teatrale estivo per qualche rilassante ora di tradimento, sadismo, adulterio e assassinio. Alcuni di loro andavano nella mia stessa direzione - alla Button Factory, per vedere quali curiosità pacchiane acquistare per commemorare la loro vacanza di una notte dal Ventesimo secolo. Attirapolvere, avrebbe definito Reenie certi oggetti. Avrebbe affibbiato lo stesso termine anche ai turisti. Camminavo nella loro compagnia color pastello verso il punto in cui Erie Street svolta in Mill Street e corre lungo il fiume Louveteau. Port Ticonderoga ha due fiumi, il Jogues e il Louveteau - i nomi sono reliquie della stazione commerciale francese situata un tempo alla loro confluenza, non che i francesi ci vadano troppo a genio da queste parti: per noi sono il Jogs e il Lovetow. Il Louveteau con la sua corrente veloce costituì il richiamo per i primi mulini, poi per gli impianti elettrici. Il Jogues invece è profondo e lento, navigabile per cinquanta chilometri a nord del lago Erie. Lungo di esso veniva trasportato il calcare che diede vita alla prima industria della città, grazie agli enormi giacimenti lasciati dai mari interni via via che si ritiravano. (Nel permiano, nel giurassico? - una volta lo sapevo). La maggior parte delle case della città, compresa la mia, sono fatte di questo calcare. Le cave abbandonate sono ancora là nei sobborghi, profonde forme quadrate e oblunghe scavate nella roccia come se interi edifici ne fossero stati sradicati, lasciandosi dietro le proprie sagome vuote. A volte immagino l'intera città sorgere dalle acque poco profonde dell'oceano preistorico, spiegandosi come un anemone di mare o come le dita di un guanto di gomma quando ci soffi dentro - germogliando a scatti, come i fiori che si schiudono in quelle pellicole marroni e granulose che una volta - quando
era? - proiettavano nei cinema prima dei film. I cercatori di fossili frugano là fuori alla ricerca di pesci estinti, antiche felci, volute di corallo; e se gli adolescenti vogliono fare baldoria, è là che vanno. Fanno falò, bevono troppo, fumano droga e annaspano uno nei vestiti dell'altro come se fossero i primi al mondo a farlo, e tornando in città fracassano le macchine dei genitori. Il mio giardino sul retro confina con la Louveteau Gorge, una gola dove il fiume si restringe e ha un brusco dislivello. Il salto è abbastanza ripido da provocare una nebbiolina e un leggero spavento. Nei fine settimana estivi i turisti passeggiano lungo il sentiero dalla parte dello strapiombo oppure si mettono proprio sull'orlo, a fare fotografie; vedo passare i loro innocui e noiosi cappelli di tela bianca. Il precipizio si sgretola ed è pericoloso, ma la città non ha alcuna intenzione di spendere soldi per un recinto, essendo tuttora opinione comune da queste parti che se fai una cosa dannatamente stupida ti meriti qualsiasi conseguenza. Le tazze di cartone del negozio di ciambelle si accumulano nei mulinelli sottostanti, e ogni tanto c'è un cadavere, se di qualcuno caduto o spinto o saltato giù è difficile a dirsi, a meno che naturalmente non ci sia un biglietto. La Button Factory è situata sulla riva orientale del Louveteau, quattrocento metri a monte della gola. Per parecchi decenni è rimasta abbandonata, con le finestre rotte e il tetto che faceva acqua, una sontuosa dimora per topi e ubriachi; poi fu salvata dalla demolizione da un energico comitato di cittadini, e convertita in negozi. Sono state ripiantate le aiuole, l'esterno sottoposto a sabbiatura, i danni del tempo e del vandalismo riparati, sebbene attorno alle finestre più basse siano ancora visibili scuri sbaffi di fuliggine risalenti all'incendio di più di sessanta anni fa. L'edificio è in mattoni di un rosso tendente al marrone, con i finestroni a più vetri che si usavano una volta nelle fabbriche per risparmiare sulla luce. È piuttosto aggraziata, per essere una fabbrica: decorazioni a festoni, ognuna con una rosa di pietra nel mezzo, finestre a timpano, un tetto a mansarda di ardesia verde e viola. Annesso c'è un piccolo parcheggio. Un Benvenuto ai Visitatori della Button Factory, dice il cartello, in caratteri da circo vecchio stile; e in lettere più piccole: Vietato Parcheggiare Durante la Notte. E sotto, scarabocchiato in una calligrafia rabbiosa con un pennarello nero: Non sei Dio e la Terra non è il tuo parcheggio del cazzo. L'autentico tocco locale. L'ingresso principale è stato allargato, installata una rampa per i disabili,
le pesanti porte originali sostituite da porte a vetri: Entrata e Uscita, Spingere e Tirare, l'imperiosa combinazione di quattro elementi del Ventesimo secolo. Dentro risuona la musica, violini da area rurale, l'un-due-tre di qualche valzer brioso, afflitto. C'è un lucernario che sovrasta uno spazio centrale pavimentato in finti ciottoli, con panchine da giardino verniciate di fresco in verde e fioriere contenenti pochi arbusti scontenti. I vari negozi sono sistemati tutt'intorno: un effetto da centro commerciale. Le nude pareti di mattoni sono ornate da enormi ingrandimenti di vecchie foto tratte dagli archivi cittadini. Sono preceduti da una citazione di giornale - un quotidiano di Montreal, non locale - con la data, 1899: Non bisogna immaginare gli stabilimenti tetri e disumani della Vecchia Inghilterra. Le fabbriche di Port Ticonderoga sono situate in mezzo a una rigogliosa vegetazione ravvivata da allegri fiori, e addolcite dal suono delle correnti impetuose; sono pulite e ben ventilate, gli operai di buonumore ed efficienti. Al tramonto, dal nuovo, aggraziato Jubilee Bridge, che si curva come un arcobaleno di merletto di ferro battuto sulle ribollenti cascate del fiume Louveteau, si ammira un incantevole paesaggio fiabesco, mentre le luci della fabbrica di bottoni Chase si accendono tremolando e si riflettono nelle acque scintillanti. Questo non era del tutto falso, al tempo in cui fu scritto. Almeno per un breve periodo qui ci fu prosperità, abbastanza per tutti. Subito dopo viene mio nonno, in redingote, cappello a cilindro e basette bianche, che aspetta insieme a un gruppetto di dignitari ugualmente tirati a lucido di accogliere il duca di York durante il suo giro in Canada del 1901. Poi mio padre con una ghirlanda, davanti al Monumento ai Caduti in occasione della sua intitolazione - un uomo alto, dal volto austero, con i baffi e una benda sull'occhio; a guardare più da vicino, una collezione di puntini neri. Mi allontano per vedere di metterlo a fuoco - cerco di cogliere il suo occhio buono - ma non guarda verso di me; guarda l'orizzonte, con la schiena dritta e le spalle all'indietro, quasi fosse di fronte al plotone di esecuzione. Gagliardo, si direbbe. Poi una fotografia della fabbrica di bottoni nel 1911, dice la didascalia. Macchine con bracci sferraglianti simili a zampe di cavalletta, ingranaggi di acciaio e ruote dentate, pistoni che martellano su e giù, perforando le sagome; lunghi tavoli con le loro file di operai chinati in avanti, intenti ad
armeggiare con le mani. Le macchine sono governate da uomini con maschere protettive e maglie, le maniche rimboccate; quelle ai tavoli sono donne, con acconciature all'insù e grembiuli. Erano le donne che contavano i bottoni e li inscatolavano, oppure li cucivano su cartoncini con sopra stampato il nome Chase, sei, otto o dodici bottoni per cartoncino. In fondo allo spazio aperto pavimentato di ciottoli c'è un bar, il Whole Enchilada, con musica dal vivo il sabato e birra che a quanto si dice proviene da piccole fabbriche locali. L'arredamento è costituito da piani di legno appoggiati su botti, con séparé di pino vecchio stile lungo uno dei lati. Sul menù esposto in vetrina - non sono mai entrata - compaiono cibi che mi suonano esotici: medaglioni con formaggio serviti su fette di pane, bucce di patate farcite, nachos. Gli alimenti base impregnati di grasso della gioventù meno rispettabile, o almeno così mi ha detto Myra. Lei ha un posto in prima fila proprio alla porta accanto, e qualunque cosa accada al Whole EnchiJada, non se lo lascia mai scappare. Dice che là va a mangiare un protettore, e anche uno spacciatore di droga, tutti e due in pieno giorno. Me li ha indicati, con sussurri di estrema eccitazione. Il protettore indossava un vestito a tre pezzi e aveva l'aria di un agente di borsa. Lo spacciatore aveva baffi grigi e un abito in jeans, come un organizzatore sindacale d'altri tempi. Il negozio di Myra è la Gingerbread House, regali e oggetti da collezione. Ha un profumo dolce e speziato - qualche tipo di spray per ambienti alla cannella - e offre un'infinità di cose: vasetti di marmellata con coperchi rivestiti di cotone stampato, cuscini a forma di cuore pieni di erbe essiccate che profumano di fieno, scatole munite di rozzi cardini intagliate da «artigiani tradizionali», trapunte a quanto si sostiene cucite dai mennoniti, spazzole da toletta con teste di anatre ammiccanti. Insomma, l'idea che Myra ha dell'idea che la gente di città ha della vita di campagna, della vita dei loro rustici antenati delle cittadine di provincia - un pezzo di storia da portarsi a casa. La storia, per come me la ricordo, non è mai stata così accattivante, e soprattutto così pulita, ma quella vera non venderebbe mai: la maggior parte della gente preferisce un passato in cui non c'è nulla che puzzi. A Myra piace farmi regali dalla sua riserva di tesori. In altre parole, grazie a me si libera degli articoli che la gente non comprerà mai al suo negozio. Possiedo una ghirlanda di ramoscelli sbilenca, un servizio incompleto di portatovaglioli con sopra degli ananas, un'obesa candela che sembra profumata al cherosene. Per il mio compleanno mi ha regalato un paio di
guanti da forno a forma di chele di aragosta. Sono sicura che da parte sua volesse essere un pensiero gentile. O forse cerca di ammorbidirmi: lei è battista, e vorrebbe che trovassi Gesù, o viceversa, prima che sia troppo tardi. Questo genere di cose non andavano per la maggiore nella sua famiglia; sua madre Reenie non si interessava granché a Dio. C'era rispetto reciproco, e se si era nei guai si poteva naturalmente fare ricorso a Lui, come con gli avvocati; ma come con gli avvocati doveva trattarsi di guai seri. Altrimenti non valeva la pena frequentarlo troppo. Certamente lei non lo voleva nella sua cucina, dal momento che aveva già abbastanza cose a cui pensare. Dopo una breve riflessione, al Cookie Gremlin ho comprato un biscotto - farina d'avena e scaglie di cioccolato - e un caffè in una tazza di polistirolo, quindi mi sono seduta su una delle panchine da giardino, sorseggiando il caffè e leccandomi le dita, facendo riposare i piedi, ascoltando la musica registrata con il suo suono cadenzato e lugubre di corde pizzicate. Fu mio nonno Benjamin a costruire la fabbrica di bottoni, nei primi anni Settanta dell'Ottocento. C'era richiesta di bottoni, per il vestiario e per tutto quanto era legato a esso - la popolazione del continente si stava espandendo a ritmo vertiginoso - e i bottoni potevano essere fabbricati a buon prezzo e venduti a un prezzo altrettanto buono; questo (diceva Reenie) era proprio quello che ci voleva per mio nonno, che aveva intravisto quell'opportunità e usato il cervello che Dio gli aveva dato. I suoi antenati erano venuti dalla Pennsylvania negli anni Venti per approfittare della terra a buon mercato e della possibilità di costruire - la città era andata bruciata durante la guerra del 1812 ed era prevista una notevole opera di ricostruzione. Era gente un po' tedesca e settaria, incrociata con puritani di settima generazione - una miscela industriosa ma fanatica che produsse, oltre alla consueta messe di agricoltori virtuosi e ottusi, tre predicatori itineranti, due inetti speculatori terrieri e un piccolo malversatore avventurieri con una vena visionaria e un occhio all'orizzonte. In mio nonno tutto ciò si manifestò sotto forma di un'inclinazione alle scommesse, sebbene l'unica cosa su cui scommise in vita sua fosse se stesso. Suo padre possedeva uno dei primi mulini di Port Ticonderoga, un modesto mulino per frumento, al tempo in cui tutto funzionava ad acqua. Quando era morto per un colpo apoplettico, come si diceva allora, mio nonno aveva ventisei anni. Ereditato il mulino, chiese in prestito del denaro e importò i macchinari per fabbricare i bottoni dagli Stati Uniti. I primi
bottoni erano fatti di legno e osso, quelli più ricercati di corna di mucca. Questi ultimi due materiali si potevano ottenere quasi per niente da parecchi mattatoi nelle vicinanze, e quanto al legno ce n'era in tutta la zona circostante, riempiva il paese, e la gente lo bruciava solo per disfarsene. Con materie prime a basso costo, manodopera a basso costo e un mercato in espansione, come avrebbe potuto non fare fortuna? Quelli che venivano fuori dall'azienda di mio nonno non erano il tipo di bottoni che preferivo da ragazza. Dei piccoli bottoni di madreperla, o di quelli in cuoio bianco per i guanti delle signore, neanche a parlarne. I bottoni di famiglia stavano ai bottoni come le soprascarpe di gomma stavano alle calzature - bottoni monotoni, pratici, per cappotti, tute e camicie da lavoro, davano un'impressione di robustezza, quasi di rozzezza. Si poteva immaginarli sulla biancheria intima lunga, a tenere su il lembo di dietro, e sulle patte dei pantaloni da uomo. Le cose che nascondevano dovevano essere pendule, vulnerabili, vergognose, ineluttabili - la categoria di oggetti di cui il mondo ha bisogno ma disprezza. Difficile capire quanto fascino avrebbero potuto esercitare le nipoti di un uomo che fabbricava bottoni del genere, non fosse stato per il denaro. Ma il denaro o perfino le voci su di esso proiettano sempre una luce per così dire abbagliante, perciò io e Laura crescemmo circondate da una certa atmosfera. E a Port Ticonderoga nessuno pensava che i bottoni di famiglia fossero buffi o spregevoli. Là erano presi sul serio: il lavoro di troppa gente dipendeva da essi, perché potesse essere altrimenti. Nel corso degli anni mio nonno comprò altri mulini e trasformò anch'essi in fabbriche. Aveva una fabbrica di maglieria per i completi e le magliette intime e un'altra per le calze, e uno stabilimento che produceva piccoli oggetti di ceramica come portacenere. Andava orgoglioso delle condizioni di lavoro nelle sue fabbriche: ascoltava le lamentele di chiunque fosse abbastanza coraggioso da presentarle, e si doleva dei torti quando gli venivano riferiti. Continuava a introdurre miglioramenti tecnici, anzi miglioramenti di tutti i tipi. Fu il primo proprietario di fabbriche della città ad adottare l'illuminazione elettrica. Pensò che le aiuole di fiori facessero bene al morale degli operai - aveva sempre pronta una riserva di zinnie e bocche di leone, dal momento che erano economiche, appariscenti e duravano a lungo. Dichiarò che le condizioni delle donne nella sua impresa erano sicure come nei loro stessi salotti. (Presumeva che avessero dei salotti. Presumeva che quei salotti fossero sicuri. Gli piaceva avere una buona opinione di tutti). Rifiutò di tollerare l'ubriachezza sul lavoro, o il linguag-
gio osceno, o i comportamenti dissoluti. O almeno questo è quanto si dice di lui nel volume Le Industrie Chase: una storia, che mio nonno commissionò nel 1903 e fece stampare privatamente, con una rilegatura in pelle verde e non solo il titolo, ma anche la sua firma semplice e pesante goffrati in oro sulla copertina. Aveva l'abitudine di regalare copie di questa inutile cronaca ai suoi soci in affari, che probabilmente ne rimanevano sorpresi, ma forse no. Doveva essere considerata una cosa appropriata da farsi, perché in caso contrario mia nonna Adelia non gliela avrebbe permessa. Stavo seduta sulla panchina da giardino, a mordicchiare il mio biscotto. Era enorme, le dimensioni di uno sterco di vacca, come li fanno adesso insipidi, friabili, unti - e sembrava proprio che non ce l'avrei fatta a mangiarlo tutto. Non era la cosa più adatta, con un simile caldo. Avevo anche un po' di vertigini, forse dovute al caffè. Ho appoggiato la tazza accanto a me e il bastone è caduto rumorosamente dalla panchina sul pavimento. Mi sono piegata di lato, ma senza riuscire a raggiungerlo. Poi ho perso l'equilibrio e ho urtato il caffè, rovesciandolo. Lo sentivo, tiepido, attraverso il tessuto della gonna. Al momento di alzarmi avrei esibito una macchia marrone, come se fossi stata incontinente. Questo avrebbe pensato la gente. Perché in certi momenti crediamo che gli sguardi di tutti siano puntati su di noi? Di solito non ci guarda nessuno. Ma Myra mi stava guardando. Doveva avermi vista entrare; doveva avermi tenuto d'occhio. È uscita di corsa dal negozio. «Sei bianca come un lenzuolo! Hai un'aria esausta» ha detto. «Intanto asciughiamoci un po'! Anima benedetta, hai fatto tutta la strada fino qui a piedi? Non puoi camminare anche al ritorno! Meglio che chiami Walter - ti porterà lui a casa». «Posso farcela» le ho detto. «Non ho niente». Ma l'ho lasciata fare. Avilion Le ossa mi hanno dato di nuovo noia, come succede spesso quando c'è umidità. Fanno male come la storia: cose finite da un pezzo, che continuano a farsi sentire sotto forma di dolore. Quando il dolore è abbastanza forte mi impedisce di dormire. Ogni notte desidero ardentemente addormentarmi, mi sforzo di farlo; ma il sonno fluttua sopra la mia testa come una tenda fuligginosa. Ci sono le pillole per dormire, naturalmente, ma il dottore
mi ha messo in guardia contro di esse. La notte scorsa, dopo quelle che mi sono sembrate ore di umida agitazione, mi sono alzata e sono scivolata al piano di sotto senza pantofole, avanzando a tentoni al debole chiarore delle luci della strada che filtravano dalla finestra sulle scale. Una volta arrivata sana e salva in fondo, mi sono trascinata in cucina e ho curiosato nel nebuloso bagliore del frigorifero. Non c'era quasi niente che avessi voglia di mangiare: resti inzaccherati di un ciuffo di sedano, un cantuccio di pane bluastro, un limone che stava avvizzendo. Un avanzo di formaggio avvolto in una carta unta, duro e traslucido come le unghie dei piedi. Ho contratto le abitudini di chi vive solo; i miei pasti sono tirati via e casuali. Spuntini furtivi, baldorie furtive e picnic furtivi. Mi sono accontentata di un po' di burro di arachidi, preso direttamente dal vasetto con l'indice: perché sporcare un cucchiaio? Standomene là con il vasetto in mano e il dito in bocca, avevo la sensazione che qualcuno fosse sul punto di entrare nella stanza - un'altra donna, l'invisibile, legittima padrona di casa - e di chiedermi cosa diavolo stessi facendo nella sua cucina. L'avevo già avuta, l'impressione che perfino nel corso delle mie azioni più lecite e quotidiane - sbucciare una banana, spazzolarmi i denti - stessi commettendo una trasgressione. Di notte la casa sembrava più che mai quella di un estraneo. Ho vagato per le stanze sul davanti, la sala da pranzo, il salotto, una mano sulla parete per tenermi in equilibrio. I miei svariati beni fluttuavano nelle loro pozze di ombra, staccati da me, negando di appartenermi. Li esaminavo con occhio di ladro, decidendo cosa valesse la pena rubare e cosa sarebbe stato il caso di lasciare. Dei ladri avrebbero preso le cose ovvie - la teiera d'argento che era appartenuta a mia nonna, forse le porcellane dipinte a mano. Quello che rimaneva dei cucchiai con il monogramma. Il televisore. Niente che volessi davvero. Qualcuno dovrà occuparsi di passare in rassegna e disfarsi di ogni cosa, alla mia morte. Sarà Myra a sobbarcarsi quel lavoro, non c'è dubbio; lei pensa di avermi ereditato da Reenie. Si divertirà a recitare la parte della fedele servitrice di famiglia. Non la invidio: ogni vita è una discarica perfino mentre viene vissuta, e ancora di più dopo. Ma ammesso che lo sia, è una discarica sorprendentemente piccola; una volta fatta piazza pulita dopo la morte di qualcuno, ti accorgi di quanti pochi sacchetti dell'immondizia di plastica verde riempirai tu stesso quando verrà il tuo turno. Lo schiaccianoci a forma di alligatore, il gemello scompagnato di madreperla, il pettine di tartaruga sdentato. L'accendino d'argento rotto, la
tazza senza piattino, l'oliera senza l'aceto. Le ossa sparse della casa, i frammenti, le reliquie. Cocci trascinati a riva dopo un naufragio. Oggi Myra mi ha convinto a comprare un ventilatore elettrico - uno di quelli su un alto sostegno, migliore del piccolo aggeggio cigolante su cui facevo affidamento. Il modello che aveva in mente era in vendita al nuovo centro commerciale dall'altra parte del ponte sul fiume Jogues. Mi ci avrebbe accompagnata lei in macchina: doveva andarci comunque, non sarebbe stato un problema. È deprimente, il modo in cui inventa pretesti. Il nostro itinerario ci ha condotte davanti ad Avilion, anzi a quello che una volta era Avilion, ora così tristemente trasformato. Walhalla, si chiama adesso. Quale burocrate idiota ha deciso che questo fosse un nome adatto a un ospizio per anziani? Se ben ricordo, il Walhalla era dove si andava dopo essere morti, non subito prima. Ma forse era intenzionale. La posizione è eccellente - la riva orientale del fiume Louveteau alla confluenza con il Jogues - e combina un romantico panorama della gola con un sicuro ormeggio per le barche a vela. La casa è grande, ma ora sembra affollata, spinta via a spallate dai fragili bungalow sorti sul terreno circostante dopo la guerra. Nella veranda sul davanti erano sedute tre donne anziane, una di loro era su una sedia a rotelle e fumava con fare furtivo, come un'adolescente ribelle nel gabinetto. Uno di questi giorni ridurranno sicuramente tutto in cenere. Non sono rientrata ad Avilion da quando è stato trasformato; puzzerà senza dubbio di talco per bambini, urina acida e patate lesse del giorno prima. Preferirei ricordarlo com'era una volta, anche al tempo in cui l'ho conosciuto io, quando stava già iniziando la sua decadenza - le magnifiche sale spaziose, la distesa lucida della cucina, il vaso di Sèvres riempito di petali essiccati sul tavolino tondo di ciliegio nell'ingresso principale. Di sopra, nella stanza di Laura, il caminetto è scheggiato, nel punto in cui fece cadere un alare; tipico da parte sua. Sono l'unica persona a saperlo, ormai. Considerato il suo aspetto - la pelle luminosa, l'aria docile, il lungo collo da ballerina - la gente si aspettava che fosse aggraziata. Avilion non è in comune calcare. I suoi progettisti volevano qualcosa di più insolito, perciò è costruito con ciottoli di fiume smussati e cementati insieme. Da lontano fa l'effetto di una verruca, come la pelle di un dinosauro o i pozzi dei desideri nei libri illustrati. Un mausoleo all'ambizione, lo considero oggi. Non è una casa particolarmente elegante, ma un tempo era considerata a
suo modo maestosa - il palazzo di un mercante a cui si accede attraverso un viale che descrive una curva, con una tozza torretta gotica e attorno un'ampia veranda semicircolare che domina i due fiumi, dove nei languidi pomeriggi estivi a cavallo del secolo veniva servito il tè a signore con cappelli ornati di fiori. Una volta vi venivano sistemati quartetti d'archi per i ricevimenti in giardino; mia nonna e le sue amiche la usavano come palcoscenico durante gli spettacoli teatrali per dilettanti, al crepuscolo, con torce disposte tutt'intorno; io e Laura ci nascondevamo lì sotto. Ha cominciato a cedere, la veranda; ha bisogno di una mano di vernice. Una volta c'era un gazebo, e un giardino recintato fuori della cucina, e parecchi terreni con piante ornamentali, e uno stagno con ninfee e pesci rossi, e una serra riscaldata a vapore, ora demolita, dove crescevano felci e fucsie, e quando capitava un limone affusolato e un arancio aspro. C'era una sala da biliardo, un salotto e un soggiorno, e una biblioteca con una Medusa di marmo sopra il caminetto - il tipo di Medusa del Diciannovesimo secolo, con un bello sguardo impenetrabile, i serpenti che si contorcono fuori della testa come pensieri angosciosi. La mensola del camino era francese: ne era stata ordinata una diversa, qualcosa con Dioniso e tralci di vite, ma invece era arrivata la Medusa e la Francia era troppo distante per rimandarla indietro, perciò avevano tenuto quella. C'era una sala da pranzo grande e scura con carta da parati William Morris, il disegno del ladro di fragole, un lampadario con ninfee di bronzo attorcigliate e tre alte finestre di vetro colorato fatte venire dall'Inghilterra, che rappresentavano episodi della storia di Tristano e Isotta (l'offerta del filtro d'amore in una coppa rosso rubino; gli amanti, Tristano su un ginocchio, Isotta che si strugge sopra di lui con la cascata dei suoi capelli biondi - difficili da rendere su vetro, un po' troppo simili a una scopa che si sciolga; Isotta da sola, abbattuta, vestita di viola, con accanto un'arpa). Al progetto e all'arredamento della casa soprintendette mia nonna Adelia. Morì prima della mia nascita, tuttavia da quanto ho sentito dire era liscia come la seta e fredda come un cetriolo, ma con una volontà come una sega per ossa. Era anche una patita della Cultura, il che le conferiva una certa autorità morale. Ora sarebbe diverso; ma allora la gente credeva che la Cultura potesse renderti migliore - una persona migliore. Credevano che potesse elevarti, o almeno lo credevano le donne. Non avevano ancora visto Hitler a teatro. Il nome da ragazza di Adelia era Montfort. Veniva da una famiglia nota, o che veniva considerata tale in Canada - inglesi di Montreal di seconda
generazione incrociati con francesi ugonotti. Una volta questi Montfort erano stati benestanti - avevano fatto un bel gruzzolo con le ferrovie - ma a causa di speculazioni arrischiate e dell'inerzia erano ormai avviati su una brutta china. Così quando il tempo di Adelia aveva cominciato a esaurirsi senza che ci fosse alcun marito davvero accettabile in vista, lei aveva sposato il denaro - il volgare denaro, il denaro dei bottoni. Da lei ci si aspettava che lo raffinasse, come si fa con il petrolio. (Non si era sposata, era stata sposata, diceva Reenie, mentre stendeva l'impasto per i biscotti allo zenzero. Aveva combinato tutto la famiglia. Questo è quanto succedeva in certe case, e chi può dire che fosse peggio o meglio che scegliere per conto proprio? Comunque, Adelia Montfort fece il suo dovere, e fu fortunata ad averne l'occasione, visto che ormai stava diventando vecchiotta - doveva avere ventitré anni, il che al tempo significava non essere più giovani). Ho ancora un ritratto dei miei nonni; è in una cornice d'argento con fiori di convolvolo, e fu scattato subito dopo il matrimonio. Sullo sfondo c'è una tenda di velluto ornata di una frangia e due felci su piedistalli. La nonna Adelia è adagiata su una dormeuse, una bella donna dalle palpebre pesanti, con ricche vesti, due lunghi fili di perle e una profonda scollatura orlata di merletto, i candidi avambracci senza sporgenze di ossa, come rotoli di pollo. Il nonno Benjamin è seduto dietro di lei in abito da cerimonia, imponente ma imbarazzato, come se fosse stato agghindato per l'occasione. Quando avevo l'età per farlo - tredici, quattordici anni - mi perdevo in romantiche fantasticherie su Adelia. La notte spingevo lo sguardo fuori della mia finestra, sui prati e le aiuole di piante ornamentali illuminate dalla luce argentea della luna, e la vedevo trascinarsi malinconica attraverso i giardini attorno alla casa in un abito da pomeriggio di merletto bianco. Le attribuivo un sorriso languido, stanco del mondo e leggermente beffardo. Ben presto aggiunsi un amante. Lo incontrava fuori della serra, che a quel tempo era abbandonata - mio padre non nutriva il minimo interesse per gli alberi di arancio riscaldati a vapore -, ma che nella mia mente io restauravo e rifornivo di fiori. Orchidee, pensavo, o camelie. (Non sapevo cosa fosse una camelia, ma avevo letto qualcosa al proposito). Mia nonna e l'amante sparivano là dentro, a fare cosa? Non ne ero sicura. Nella realtà le possibilità di Adelia di avere un amante erano nulle. La città era troppo piccola, i suoi costumi troppo provinciali, lei aveva troppo da perdere. Non era una stupida. Inoltre non aveva denaro suo. Come padrona di casa e donna che si occupava della gestione della vita
familiare, Adelia si trovò bene con Benjamin Chase. Andava fiera del proprio gusto, e in questo mio nonno si rimetteva a lei, perché il gusto era una delle cose per cui l'aveva sposata. Lui aveva quarant'anni allora; aveva lavorato sodo per costruire la sua fortuna, e ora intendeva essere all'altezza del suo denaro, il che voleva dire essere sotto la tutela della sua sposina per quanto riguardava il guardaroba e venire tiranneggiato sulle maniere da tenere a tavola. A suo modo voleva anche lui la Cultura, o almeno la prova manifesta di essa. Voleva il servizio di porcellana giusto. Lo ebbe, insieme alle cene da dodici portate che una cosa del genere implicava: sedano e nocciole salate per cominciare, cioccolatini per finire. Consommé, crocchette, timballi, il pesce, l'arrosto, il formaggio, la frutta, uva di serra graziosamente disposta nell'alzata di vetro lavorato. Cibo da albergo accanto alla stazione, penso adesso; cibo da transatlantico. A Port Ticonderoga venivano in visita ministri - a quel tempo la città contava parecchi industriali importanti, il cui appoggio era tenuto in gran conto dai partiti politici - ed era ad Avilion che alloggiavano. C'erano fotografie del nonno Benjamin con un primo ministro dietro l'altro - Sir John Sparrow Thompson, Sir Mackenzie Bowell, Sir Charles Tupper. Dovevano preferire il cibo della casa a qualunque altra cosa venisse loro offerta. Il compito di Adelia era predisporre e organizzare queste cene, quindi evitare di farsi sorprendere a divorarle. La consuetudine voleva che quando era in compagnia si limitasse a spilluzzicare il suo cibo: masticare e ingoiare erano attività così sfacciatamente carnali. Credo che poi si facesse portare su in camera un vassoio. E che mangiasse con le mani. Avilion fu completata nel 1889 e tenuta a battesimo da Adelia. Prese il nome da Tennyson: L'isola-valle di Avilion; Dove non grandina, non piove e non nevica, Né il vento soffia mai con fragore; ma giace Immersa nei prati, beata, bella, con frutteti erbosi E piccole valli ombreggiate, coronate dal mare estivo... Aveva fatto stampare questa citazione all'interno dei suoi biglietti di auguri di Natale. (Tennyson era piuttosto fuori moda, per gli standard inglesi - era Oscar Wilde l'astro nascente, almeno negli ambienti giovanili -, ma allora cosa non era fuori moda a Port Ticonderoga?)
La gente - la gente di città - deve aver riso di lei per quella citazione: perfino gli arrampicatori sociali si riferivano a lei come a Sua Signoria o alla Duchessa, sebbene poi si offendessero se venivano lasciati fuori delle sue liste di invitati. Dei suoi biglietti di auguri di Natale devono aver detto: Be', quanto alla grandine e alla neve non ha avuto fortuna. Magari dirà due paroline a Dio. O forse, nelle fabbriche: Avete visto qualcuna di quelle piccole valli ombreggiate qui intorno, da qualche parte che non sia il davanti del suo vestito? Conosco il loro stile e dubito che allora fosse molto diverso. Adelia faceva sfoggio dei suoi biglietti di auguri di Natale, ma credo che ci fosse dell'altro. Avilion era il luogo in cui andò a morire re Artù. Sicuramente la scelta di quel nome da parte sua rivela quanto disperatamente in esilio si sentisse: poteva anche essere capace di dare vita per pura forza di volontà a qualche scialbo facsimile di un'isola felice, ma non sarebbe mai stata la realtà. Voleva un salotto; voleva gente che si occupasse di arte, poeti, compositori, personalità scientifiche e simili, come aveva visto durante la visita ai suoi cugini inglesi di terzo grado, quando la sua famiglia aveva ancora denaro. Una vita dorata, con vasti prati. Ma gente del genere a Port Ticonderoga non si trovava, e Benjamin rifiutava di viaggiare. Aveva bisogno di stare vicino alle sue fabbriche, diceva. La cosa più probabile è che non volesse essere trascinato in una folla che lo avrebbe schernito per il fatto di produrre bottoni, o dove potevano tendergli un agguato posate sconosciute, e dove Adelia si sarebbe vergognata di lui. Adelia rifiutava di viaggiare senza di lui, in Europa o da qualsiasi altra parte. Avrebbe potuto essere troppo forte la tentazione di non tornare più indietro. Allontanarsi, spargere denaro a poco a poco come un dirigibile che si vada sgonfiando, preda di poco di buono e di simpatiche canaglie, annegando nell'innominabile. Con una scollatura come la sua, sarebbe stata esposta a questo tipo di pericoli. Tra le altre cose, Adelia aveva il pallino della scultura. C'erano due sfingi di pietra ai lati della serra - sulla cui schiena io e Laura ci arrampicavamo - e un fauno che saltellava e guardava malizioso da dietro una panchina di pietra, con le orecchie a punta e un'enorme foglia di vite arrotolata sulle parti intime, come un distintivo; e seduta accanto allo stagno c'era una ninfa, una fanciulla pudica con piccoli seni da adolescente e un cordone di capelli di marmo sulla spalla, un piede immerso in maniera esitante nell'acqua. Mangiavamo mele accanto a lei, guardando i pesci rossi che le mor-
dicchiavano le dita dei piedi. (Queste sculture erano definite «autentiche», ma autentiche cosa? E come aveva fatto Adelia a procurarsele? Sospetto una catena di furtarelli qualche losco intermediario europeo doveva comprarle per una sciocchezza, contraffacendone la provenienza, quindi le rifilava ad Adelia, a cui arrivavano dopo un lungo viaggio, e intascava la differenza, ritenendo giustamente che una ricca americana - perché è così che l'avrebbe etichettata non avrebbe mangiato la foglia). Adelia disegnò anche il monumento di famiglia al cimitero, con i suoi due angeli. Voleva che il marito riesumasse i suoi antenati e li trasferisse là, per dare l'impressione di una dinastia, ma mio nonno non trovò mai il modo di farlo. Poi andò a finire che fu lei la prima a esservi sepolta. Il nonno Benjamin tirò un sospiro di sollievo quando Adelia se ne andò? Poteva essersi stancato di sapere che non sarebbe mai stato all'altezza dei suoi esigenti standard, anche se è chiaro che l'ammirava al punto da averne soggezione. Per esempio, nulla che riguardasse Avilion doveva essere cambiato: non un quadro venne spostato, nessuno dei mobili sostituito. Forse considerava la casa stessa il suo vero monumento funebre. E così Laura e io fummo per così dire tirate su da lei. Crescemmo dentro la sua casa; vale a dire dentro l'idea che aveva di sé. E dentro la sua idea di chi avremmo dovuto essere, ma non eravamo. Dal momento che a quel tempo era già morta, ci era impossibile qualsiasi discussione. Mio padre era il più grande di tre figli maschi, ognuno dei quali ricevette quello che nell'idea di Adelia era un nome altisonante: Norval e Edgar e Percival, un revival arturiano con un pizzico di Wagner. Suppongo che dovessero ritenersi contenti di non essere stati chiamati Uther o Sigmund o Ulric. Il nonno Benjamin adorava i figli e voleva che si impratichissero nel business dei bottoni, ma Adelia aveva progetti più ambiziosi. Li spedì alla Trinity College School a Port Hope, dove Benjamin e i suoi macchinari non avrebbero potuto involgarirli. Apprezzava i vantaggi della ricchezza del marito, ma preferiva sorvolare sulle sue fonti. I figli venivano a casa per le vacanze estive. In collegio e poi all'università avevano imparato a disprezzare cordialmente il padre, che non sapeva leggere in latino, neanche male, come loro. Parlavano di persone che lui non conosceva, cantavano canzoni che lui non aveva mai sentito nominare, raccontavano barzellette che lui non capiva. Navigavano al chiaro di luna sul suo piccolo panfilo, l'Ondina, come l'aveva chiamato Adelia
- un altro esempio del suo malinconico goticismo. Suonavano il mandolino (Edgar) e il banjo (Percival), e di nascosto bevevano birra e danneggiavano l'attrezzatura, lasciando che fosse lui a sbrogliarsela. Gironzolavano a bordo di una delle sue due nuove macchine, anche se per metà dell'anno le strade intorno alla città erano talmente in cattivo stato - prima la neve, poi il fango, poi la polvere - che non erano molti i posti dove andare. Giravano voci di ragazze facili, almeno per i due fratelli più giovani, e di elargizioni di denaro - be', era come minimo corretto liquidare quelle signore in modo che potessero farsi sistemare, perché chi voleva vedere gattonare in giro una sfilza di piccoli Chase illegittimi? -, ma non erano figliole della nostra città, e così ciò non costituiva motivo di biasimo per i ragazzi; anzi al contrario, almeno tra gli uomini. La gente li prendeva un po' in giro, ma si diceva che tenessero abbastanza i piedi per terra e che sapessero trattare con la gente comune. Edgar e Percival erano conosciuti come Eddie e Percy, mentre mio padre, più timido e austero, rimaneva Norval. Erano di aspetto gradevole e un po' selvaggi, come ci si aspetta che siano dei ragazzi. Cosa significava «selvaggi», esattamente? «Erano dei furfanti» mi disse Reenie, «ma non furono mai dei mascalzoni». «Qual è la differenza?» chiesi. Sospirò. «Spero solo che tu non debba scoprirlo mai» rispose. Adelia morì nel 1913, di un cancro mai specificato e perciò molto probabilmente di natura ginecologica. Durante l'ultimo mese della sua malattia fu fatta venire la madre di Reenie per dare un aiuto extra in cucina, e Reenie con lei; a quel tempo aveva tredici anni, e tutta la faccenda le fece una profonda impressione. «I dolori erano talmente forti che dovevano darle la morfina ogni quattro ore, le infermiere non l'abbandonavano mai. Ma lei non voleva stare a letto, stringeva i denti, era sempre in piedi e ben vestita come al solito, anche se si capiva che non era troppo lucida. La vedevo camminare nei giardini intorno alla casa, con i suoi colori pallidi e un gran cappello con il velo. Aveva un bel temperamento e più spina dorsale di molti uomini, quella donna. Alla fine dovettero legarla al letto, per il suo stesso bene. Tuo nonno aveva il cuore spezzato, si vedeva come tutto ciò gli risucchiasse ogni energia». Via via che il tempo passava e io diventavo sempre meno impressionabile, Reenie aggiungeva alla storia grida soffocate, lamenti e voti in punto di morte, anche se non fui mai sicura del perché lo facesse. Mi stava dicendo che dovevo dimostrare anch'io una simile for-
za d'animo - disprezzare come la nonna il dolore e stringere i denti - o stava semplicemente crogiolandosi nei dettagli strazianti? L'uno e l'altro, non c'è dubbio. Al tempo della morte di Adelia i tre ragazzi erano quasi adulti. Sentirono la mancanza della madre, la rimpiansero? Naturalmente. Come potevano non esserle grati per essersi tanto dedicata a loro? Eppure, li aveva tenuti sotto stretto controllo, o almeno quanto più stretto poteva. Parecchie cravatte e colletti dovettero allentarsi, dopo che le fu data adeguata sepoltura. Nessuno dei tre figli volle occuparsi di bottoni, per i quali avevano ereditato il disprezzo della madre, senza averne peraltro ereditato il realismo. Sapevano che il denaro non cresce sugli alberi, ma non avevano molte brillanti idee su dove crescesse in realtà. Norval - mio padre - pensava di studiare legge e poi col tempo darsi alla politica, dal momento che aveva progetti per migliorare il Paese. Gli altri due volevano viaggiare: una volta che Percy avesse finito il college, avevano intenzione di fare una spedizione esplorativa in Sud America, in cerca di oro. Andare alla ventura li attirava. Allora chi si sarebbe assunto la responsabilità delle Industrie Chase? Non ci sarebbe stata nessuna Chase & Figli? In tal caso a che scopo Benjamin avrebbe lavorato così sodo? A quel tempo si era convinto di averlo fatto per una ragione a prescindere dalle proprie ambizioni, dai propri desideri - per qualche nobile fine. Aveva accumulato un'eredità, voleva trasmetterla di generazione in generazione. Questo dovette costituire il deplorevole sottofondo di più di una discussione attorno al tavolo da pranzo, al momento del porto. Ma i ragazzi puntarono i piedi. Non si può costringere un giovane a dedicare la propria vita alla produzione di bottoni, se non ne ha voglia. Essi non intendevano deludere il padre, non di proposito, ma non desideravano neanche addossarsi il pesante e opprimente fardello di un'esistenza squallida. Il corredo Il nuovo ventilatore è stato ormai acquistato. I pezzi sono arrivati in una grande scatola di cartone e sono stati montati da Walter, che si è portato dietro la cassetta degli attrezzi e ha avvitato ogni cosa insieme. Una volta finito, ha detto: «Così dovrebbe essere sistemata». Per Walter le barche sono femminili, come anche i motori d'automobile rotti, le lampade e le radio scassate - articoli di ogni genere con cui gli uo-
mini che sanno trafficare con gli aggeggi possono giocherellare e farli tornare come nuovi. Perché lo trovo rassicurante? Forse in un angolo infantile e fiducioso di me stessa credo che Walter potrebbe tirare fuori le sue pinze e il suo set di chiavi inglesi e fare altrettanto anche con me. L'alto ventilatore è stato installato nella mia stanza. Ho trascinato quello vecchio di sotto nella veranda e l'ho orientato verso la mia nuca. È una sensazione piacevole ma snervante, come avere una mano di aria fredda leggermente posata sulla spalla. Così in piena corrente siedo al tavolo di legno, grattando la carta con la penna. No, non grattando - le penne non grattano più. Le parole rotolano piuttosto dolcemente e senza rumore sulla pagina; è farle scorrere giù dal braccio, strizzarle dalle dita che è così difficile. Ora è quasi il crepuscolo. Non c'è vento; il suono delle rapide che giunge attraverso il giardino è come un lungo respiro. I fiori blu si fondono nell'aria, quelli rossi sono neri, quelli bianchi risplendono, fosforescenti. I tulipani hanno sparso a terra i loro petali lasciando i pistilli nudi - neri, simili a rostri, sensuali. Le peonie sono quasi distrutte, in disordine e flosce come fazzoletti di carta bagnati, ma in compenso sono spuntati i gigli; anche i phlox. L'ultima delle sassifraghe ha fatto cadere i suoi fiori, lasciando l'erba cosparsa di coriandoli bianchi. Nel luglio del 1914 mia madre sposò mio padre. Mi pareva che questo richiedesse una spiegazione, tutto considerato. Tutte le mie speranze erano riposte in Reenie. Quando raggiunsi l'età per interessarmi a questo genere di cose - dieci, undici, dodici, tredici anni avevo l'abitudine di sedere al tavolo della cucina e di forzarla come una serratura. Aveva meno di diciassette anni quando era venuta ad Avilion a tempo pieno, da una casa a schiera sulla riva sud-orientale del Jogues, dove vivevano gli operai della fabbrica. Diceva di essere scozzese e irlandese, ma non irlandese cattolica, naturalmente, facendo intendere che le sue nonne lo erano. Aveva cominciato facendo la bambinaia a me, ma alla fine di rotazioni e attriti era diventata la nostra colonna portante. Quanti anni aveva? Non vi riguarda. Ne ho a sufficienza per avere buon senso. E basta. Se pungolata sulla sua vita, ammutoliva. Mi faccio gli affari miei, diceva. Quanto mi sembrava prudente, una volta. Quanto mi sembra gretto, adesso. Tuttavia conosceva le storie di famiglia, o almeno una parte di esse. Ciò
che mi raccontava variava a seconda della mia età, e anche a seconda di quanto era distratta al momento. Ciò nonostante, raccoglievo abbastanza frammenti del passato da poterne operare una ricostruzione, che deve essere stata altrettanto fedele alla realtà quanto un ritratto a mosaico lo è all'originale. Comunque, quello che volevo non era realismo: volevo cose dai colori sgargianti, dai contorni semplici e senza alcuna ambiguità, che è quanto più desiderano i bambini quando si tratta delle storie dei loro genitori. Vogliono una cartolina. Mio padre aveva fatto la sua proposta di matrimonio (diceva Reenie) durante una festa sui pattini. C'era un'insenatura - il laghetto di un vecchio mulino - a monte delle cascate, dove l'acqua era meno impetuosa. Durante gli inverni abbastanza freddi si formava una lastra di ghiaccio spessa abbastanza per poterci pattinare sopra. Qui il gruppo dei giovani della chiesa teneva le sue feste sui pattini, che non venivano chiamate feste, ma gite. Mia madre era metodista, mio padre anglicano: perciò, secondo i parametri del tempo, socialmente mia madre era al di sotto del livello di mio padre. (Se fosse stata ancora in vita, mia nonna Adelia non avrebbe mai acconsentito a quel matrimonio, o almeno così stabilii in seguito. A suo modo di vedere mia madre avrebbe occupato un gradino troppo basso della scala sociale - e inoltre le sarebbe apparsa troppo puritana, troppo fanatica, troppo provinciale. Adelia avrebbe trascinato mio padre a Montreal - e lo avrebbe accoppiato come minimo con una debuttante. Con qualcuna che indossasse abiti migliori). Mia madre era giovane, aveva solo diciotto anni, ma non era una ragazza sciocca o leggera, diceva Reenie. Faceva la maestra, allora era possibile anche se si avevano meno di vent'anni. Non doveva insegnare: suo padre era a capo dell'ufficio legale delle Industrie Chase, e la sua famiglia era in «buone condizioni finanziarie». Ma, come sua madre, che era morta quando lei aveva nove anni, mia madre prendeva sul serio la sua religione. Credeva che bisognasse aiutare quelli meno fortunati. Si era messa a insegnare ai poveri, considerandola una missione, diceva Reenie in tono ammirato. (Reenie ammirava spesso le azioni di mia madre che per quanto la riguardava avrebbe ritenuto stupido compiere. Quanto ai poveri, ci era cresciuta in mezzo e li considerava degli inetti. Potevi insegnare loro fino alla nausea, ma il più delle volte non facevi che sbattere la testa contro un muro di mattoni, diceva. Ma tua madre, sia benedetto il suo buon cuore, non se ne accorse mai). C'è un'istantanea di mia madre alla Normal School, a London, Ontario,
che la ritrae con altre due ragazze; stanno tutte e tre sulla soglia del loro pensionato e ridono, con le braccia intrecciate. Ai loro lati è ammucchiata la neve caduta durante l'inverno; dal tetto gocciolano ghiaccioli. Mia madre indossa una pelliccia di foca; da sotto il cappello brillano le punte dei suoi bei capelli. Doveva avere già comprato il pince-nez che precedette gli occhiali austeri che ricordo - era diventata presto miope - ma in questa foto non lo porta. Si vede uno dei piedi nello stivale orlato di pelliccia, la caviglia girata in maniera civettuola. Sembra coraggiosa, perfino focosa, come un ragazzo che giochi a fare il pirata. Dopo il diploma aveva accettato un posto in una scuola di una sola stanza in un angolo sperduto del nord-ovest, in quella che era allora terra di confine. Era rimasta traumatizzata da quell'esperienza - dalla povertà, dall'ignoranza, dai pidocchi. Là si cuciva la biancheria addosso ai bambini in autunno per scucirla soltanto in primavera, un dettaglio che mi è rimasto impresso come particolarmente avvilente. Certo, diceva Reenie, non era posto per una signora come tua madre. Ma a mia madre sembrava di realizzare qualcosa - di fare qualcosa magari solo per qualcuno di quei bambini sfortunati, o almeno così sperava; e poi era tornata a casa per le vacanze di Natale. Il suo pallore e la sua magrezza suscitarono molti commenti: le sue guance dovevano riprendere un po' di colorito. Per questo era lì alla festa sui pattini, al laghetto ghiacciato accanto al mulino, in compagnia di mio padre. Lui aveva cominciato con l'allacciarle i pattini poggiato su un ginocchio. Per qualche tempo avevano sentito parlare l'uno dell'altra attraverso i rispettivi padri. C'erano stati precedenti incontri molto decorosi. Avevano recitato insieme nell'ultimo degli spettacoli teatrali per dilettanti organizzati da Adelia nel giardino - lui era stato Ferdinando e lei Miranda in una versione purgata della Tempesta, in cui sia il sesso che Calibano erano stati minimizzati. Lei indossava un vestito rosa pallido, diceva Reenie, con una ghirlanda di rose, e pronunciava le parole in modo perfetto, proprio come un angelo. O magnifico nuovo mondo, che contiene simili abitanti! E lo sguardo vacuo dei suoi occhi abbagliati, limpidi, miopi. Si poteva prevedere cosa sarebbe successo. Mio padre avrebbe potuto cercare altrove, trovarsi una moglie con più denaro, ma dovette preferire qualcosa di sicuro e sperimentato: qualcuno su cui contare. Nonostante il suo entusiasmo - a quanto pare una volta aveva degli entusiasmi - era un giovanotto serio, diceva Reenie, lasciando intendere che altrimenti mia madre lo avrebbe rifiutato. A loro modo erano
tutti e due fanatici; volevano tutti e due raggiungere un fine onorevole, quale che fosse, cambiare in meglio il mondo. Che ideali seducenti, pericolosi! Dopo che ebbero pattinato parecchie volte intorno al laghetto, mio padre chiese a mia madre di sposarlo. Credo che lo abbia fatto in maniera goffa, ma a quel tempo la goffaggine negli uomini era segno di sincerità. In quell'istante, sebbene le loro spalle e i loro fianchi dovessero toccarsi, nessuno dei due guardava il compagno; erano uno accanto all'altra, le mani destre unite sul davanti, le sinistre sulla schiena. (Cosa indossava lei? Reenie sapeva anche questo. Una sciarpa blu lavorata a maglia, un berretto col pompon e guanti assortiti. Li aveva fatti con le sue mani. Un cappotto invernale adatto alle camminate, del verde degli abiti da caccia. Infilato nella manica aveva un fazzoletto - un capo che non dimenticò mai, diceva Reenie, a differenza di qualcuno di sua conoscenza). Cosa fece mia madre in quel momento cruciale? Fissò il ghiaccio. Non rispose subito. Questo equivaleva a un sì. Tutt'intorno a loro c'erano rocce coperte di neve e ghiaccioli bianchi tutto bianco. Sotto i loro piedi c'era ghiaccio, anch'esso bianco, e ancora più sotto l'acqua del fiume, con i suoi gorghi e i suoi risucchi, scuro ma invisibile. È come immaginavo quel periodo, il periodo prima che io e Laura nascessimo - così candido, così innocente, così solido in apparenza, ma fatto comunque di ghiaccio sottile. Sotto la superficie delle cose si celava ciò che non veniva detto, in un lento ribollire. Poi venne l'anello e l'annuncio sui giornali; e poi - una volta che mia madre fu tornata dopo aver terminato l'anno di insegnamento, com'era suo dovere - ci furono i tè di prammatica. Erano imbanditi magnificamente, con piccoli rotoli di pasta sfoglia ripieni di asparagi e panini con crescione, e tre tipi di torte - una lievitata, una di farina integrale e una alla frutta -, il tè in servizi d'argento e il tavolo ornato di rose, bianche o rosa o forse di un giallo pallido, ma mai rosse. Il rosso non era adatto ai tè di fidanzamento. Perché no? Lo scoprirai più tardi, diceva Reenie. Poi c'era il corredo. Reenie si divertiva a enumerarne i particolari - le camicie da notte, i peignoir, i merletti che li guarnivano, le federe con i monogrammi ricamati, i lenzuoli e le sottogonne. Parlava di credenze e di cassettoni e di armadi per la biancheria, e di che tipo di cose vi andassero conservate, ordinatamente piegate. Non si faceva cenno ai corpi che alla fine tutti quei tessuti avrebbero dovuto rivestire: i matrimoni, per Reenie, erano per lo più una questione di stoffe, almeno in apparenza.
Poi ci fu la lista degli ospiti da compilare, gli inviti da scrivere, i fiori da scegliere, e così via fino al matrimonio. E poi, dopo il matrimonio, ci fu la guerra. L'amore, poi il matrimonio, poi la catastrofe. Nella versione di Reenie, sembrava inevitabile. La guerra cominciò nell'agosto del 1914, poco dopo il matrimonio dei miei genitori. Tutti e tre i fratelli si arruolarono subito, non ci fu discussione. È sorprendente da considerare oggi, l'assenza di qualsiasi discussione al riguardo. C'è una loro foto, un bel terzetto in uniforme, con le fronti gravi e ingenue e i baffi delicati, i sorrisi noncuranti, gli occhi determinati, mentre posano ai soldati che non erano ancora divenuti. Mio padre è il più alto. Teneva sempre questa foto sulla scrivania. Raggiunsero il Royal Canadian Regiment, quello a cui si veniva sempre assegnati se si era di Port Ticonderoga. Furono destinati quasi subito alle Bermuda per dare il cambio al reggimento inglese che vi era di stanza, e così, per tutto il primo anno di guerra, passarono il tempo partecipando a sfilate e giocando a cricket. Anche mordendo il freno, o almeno così sostenevano nelle loro lettere. Il nonno Benjamin leggeva quelle lettere con avidità. Via via che il tempo passava lento senza una vittoria da nessuna delle due parti, diventava sempre più nervoso e insicuro. Non era quello il modo in cui sarebbero dovute andare le cose. Ironia della sorte, i suoi affari andavano a gonfie vele. Di recente aveva espanso la sua attività alla celluloide e alla gomma, che prevedevano un maggiore volume di affari; e grazie ai contatti politici che Adelia lo aveva aiutato a farsi, le sue fabbriche ricevevano moltissime commesse per l'approvvigionamento delle truppe. Era onesto come lo era sempre stato, non consegnava merce scadente, non era uno speculatore di guerra in quel senso. Ma non si poteva dire che non ci guadagnasse. La guerra giova al commercio dei bottoni. Sono talmente tanti i bottoni che si perdono in una guerra e vanno sostituiti - intere scatole, interi camion di bottoni alla volta. Sono fatti volare in pezzi, affondano nel terreno, vanno a fuoco. Lo stesso si può dire della biancheria intima. Da un punto di vista finanziario, la guerra fu un rogo miracoloso: un'enorme conflagrazione alchemica dalla quale si levava un fumo che si trasformava in denaro. O almeno così fu per mio nonno. Ma questo non deliziava più la sua anima, né teneva alto il senso che aveva della propria rettitudine, come sarebbe accaduto in precedenza, in anni di maggiore autocompiacimento. Voleva che i suoi figli tornassero. Non che fossero ancora partiti per qual-
che luogo pericoloso: erano sempre alle Bermuda, a marciare sotto il sole. Dopo la luna di miele (ai Finger Lakes, nello stato di New York), i miei genitori si erano stabiliti ad Avilion in attesa di potersi sistemare per conto proprio, e mia madre rimase là a occuparsi della gestione della casa del nonno. Erano a corto di personale, perché tutte le braccia utili dovevano essere impiegate o nelle fabbriche o nell'esercito, ma anche perché c'era la sensazione che Avilion dovesse dare l'esempio riducendo le spese. Mia madre insisteva su pasti semplici - brasato il mercoledì, a volte, la domenica sera, fagioli lessi -, che andavano a genio al nonno. Non si era mai trovato davvero a suo agio con gli stravaganti menù di Adelia. Nell'agosto del 1915 il Royal Canadian Regiment fu richiamato a Halifax, per prepararsi a partire per la Francia. Rimase in porto più di una settimana, accumulando scorte e nuove reclute e sostituendo le uniformi tropicali con un vestiario più caldo. Gli uomini furono provvisti di fucili Ross, che in seguito si sarebbero inceppati nel fango, lasciandoli inermi. Mia madre andò in treno a Halifax per salutare mio padre. Il treno era stipato di uomini diretti al fronte; non poté prendere il vagone letto, così viaggiò in piedi. Nei corridoi c'erano scarpe, e fagotti, e sputacchiere; gente che tossiva, che russava - e per di più ubriaca, non c'è dubbio. Mentre guardava quei visi fanciulleschi intorno a lei, la guerra le apparve finalmente reale, non più come un'idea ma come una presenza fisica. Il suo giovane marito poteva essere ucciso. Il suo corpo poteva andare distrutto; poteva essere fatto a pezzi; poteva diventare parte del sacrificio che - ormai era chiaro - sarebbe stato compiuto. Insieme a questa consapevolezza venne la disperazione e un timido terrore, ma anche - ne sono sicura - una certa dose di lugubre orgoglio. Non so dove alloggiassero a Halifax, o per quanto tempo. Era un albergo rispettabile o, dal momento che c'era penuria di stanze, una bettola a buon mercato, una pensione di infimo ordine vicino al porto? Fu per pochi giorni, per una notte, per qualche ora? Che accadde tra loro, che cosa fu detto? Il solito genere di cose, suppongo, ma quali? Ormai non è più dato saperlo. Poi la nave con sopra il reggimento salpò - era il piroscafo Caledonian - e mia madre rimase sulla banchina insieme alle altre mogli, agitando la mano in segno di saluto e piangendo. O forse senza piangere: lo avrebbe considerato una manifestazione di indulgenza nei propri confronti. Sono in qualche parte della Francia. Non so descrivere cosa sta succedendo qui, scriveva mio padre, perciò non ci proverò. Possiamo solo sperare che questa guerra sia per il meglio, e che grazie a essa la civiltà ver-
rà conservata e fatta progredire. Le vittime sono (parole cancellate) numerose. Prima non avevo mai saputo di cosa fossero capaci gli uomini. Ciò che dobbiamo sopportare è al di là (parole cancellate). Penso a tutti voi a casa ogni giorno, e soprattutto a te, mia carissima Liliana. Ad Avilion mia madre mise in moto la sua forza di volontà. Credeva nel servizio pubblico; sentiva di doversi rimboccare le maniche e di fare qualcosa di utile per lo sforzo bellico. Organizzò un Circolo per l'Assistenza ai soldati, che raccoglieva denaro mediante la vendita di cianfrusaglie. Questo veniva impiegato per confezionare piccole scatole contenenti tabacco e dolci da spedire nelle trincee. In queste occasioni spalancava le porte di Avilion, il che (diceva Reenie) metteva a dura prova i pavimenti. Oltre alle vendite di cianfrusaglie, ogni martedì pomeriggio il gruppo si riuniva in salotto a lavorare a maglia per le truppe - salviette per lavarsi per le principianti, sciarpe per quelle abbastanza brave, passamontagna e guanti per le esperte. Presto si aggiunse un nuovo battaglione di reclute, il giovedì donne più anziane e meno istruite che abitavano nella zona a sud del Jogues, capaci di lavorare a maglia anche dormendo. Queste confezionavano indumenti per bambini destinati agli armeni, che a quanto si diceva morivano di fame, e per qualcosa chiamato Profughi d'Oltremare. Dopo due ore di lavoro a maglia veniva servito un frugale tè nella sala da pranzo, sotto gli sguardi languidi di Tristano e Isotta. Quando cominciarono ad apparire i primi soldati mutilati, nelle strade e negli ospedali delle città vicine - Port Ticonderoga non aveva ancora un ospedale - mia madre andò a visitarli. Optava per i casi peggiori - uomini che probabilmente (diceva Reenie) non avrebbero mai vinto un concorso di bellezza - e da quelle visite tornava esaurita e scossa, e si concedeva perfino di piangere, in cucina, bevendo il cacao che Reenie preparava per tirarla su. Non si risparmiava, diceva Reenie. Si rovinava la salute. Andava oltre le sue forze, soprattutto considerato il suo stato. Quale virtù si attribuiva una volta a questa idea - all'andare oltre le proprie forze, al non risparmiarsi, al rovinarsi la salute! Nessuno è nato con questo tipo di altruismo: può essere acquisito soltanto attraverso la disciplina più ferrea, soffocando le naturali inclinazioni, e ai miei tempi l'abilità o il segreto per raggiungerlo dovevano essere andati perduti. O forse io non ho tentato, avendo sofferto per gli effetti che ebbe su mia madre. Quanto a Laura, non era altruista, per niente. No, era sensibile, che è una cosa diversa.
Io sono nata ai primi di giugno del 1916. Poco dopo Percy rimase ucciso in un violento bombardamento nei pressi di Ypres, e in luglio Eddie morì alla Somme. O almeno si suppose che fosse morto: nel punto in cui era stato visto l'ultima volta c'era un largo cratere. Furono dure prove per mia madre, ma assai più dure per mio nonno. In agosto ebbe un ictus, che ne pregiudicò il linguaggio e la memoria. Ufficiosamente mia madre subentrò nella gestione delle fabbriche. Faceva da intermediario tra mio nonno - creduto in convalescenza - e chiunque altro, e ogni giorno incontrava il segretario e i vari soprintendenti delle fabbriche. Siccome era la sola che capisse cosa diceva mio nonno, o che affermava così, divenne la sua interprete; e in quanto l'unica che avesse il permesso di tenergli la mano, ne guidava la firma; e chi può dire che a volte non agisse di testa propria? Non che non rifossero problemi. Quando la guerra ebbe inizio, un sesto dei lavoratori erano donne. Verso la sua fine questo numero era salito a due terzi. Gli uomini rimasti erano vecchi, o parzialmente menomati, o inadatti alla guerra per qualche altro motivo. Non accettavano di buon grado l'influenza esercitata dalle donne, se ne lamentavano o facevano scherzi volgari, e da parte loro le donne li consideravano creature deboli o scansafatiche, e provavano nei loro confronti un malcelato disprezzo. L'ordine naturale delle cose - quello che secondo mia madre era l'ordine naturale era ribaltato. Eppure, la paga era buona e il denaro spiana la via, e nel complesso mia madre era in grado di far funzionare le cose in maniera abbastanza tranquilla. Immagino mio nonno seduto in biblioteca, la sera, sulla sua sedia rivestita di cuoio verde e guarnita di borchie di ottone, alla sua scrivania, che era di mogano. Ha le punte delle dita unite, quelle della mano che sente e quelle della mano insensibile. Tende l'orecchio, in attesa di qualcuno. La porta è semiaperta; là fuori vede un'ombra. Dice «Avanti» - o meglio ha intenzione di dirlo - ma nessuno entra, o risponde. Arriva l'infermiera brusca. Gli chiede a cosa stia mai pensando, seduto così al buio tutto solo. Lui sente un suono, ma non si tratta di parole, sembra piuttosto un gracchiare di corvi; non risponde. Lei lo prende per il braccio, lo solleva senza sforzo dalla sedia, lo trascina a letto. Le falde della sua uniforme bianca frusciano. Lui sente un vento secco, che soffia sui campi autunnali coperti di erbacce. Sente il sussurro della neve. Sapeva che i suoi due figli erano morti? Voleva rivederli vivi, al sicuro,
a casa? Sarebbe stata una fine più triste per lui, se il suo desiderio si fosse avverato? È possibile - succede spesso -, ma simili pensieri non danno conforto. Il grammofono La notte scorsa ho guardato il canale delle previsioni meteorologiche, com'è mia abitudine. In altri luoghi del mondo ci sono inondazioni: acqua marrone che turbina, mucche gonfie che galleggiano, sopravvissuti accalcati sui tetti. Sono annegati in migliaia. Il riscaldamento globale è ritenuto responsabile: la gente deve smettere di bruciare le cose, si dice. Benzina, petrolio, intere foreste. Sono l'avidità e la fame a spingerli, come al solito. Dov'ero rimasta? Giro la pagina: la guerra sta ancora infuriando. Infuriare, è così che si diceva, delle guerre; e si dice ancora, per quanto ne so. Ma su questa pagina, una pagina nuova, pulita, farò sì che la guerra finisca - io da sola, con un colpo della mia penna di plastica. Non devo fare altro che scrivere: 1918. 11 novembre. Giorno dell'Armistizio. Ecco. È finita. I cannoni tacciono. Gli uomini rimasti in vita alzano lo sguardo al cielo, i volti sporchi, i vestiti fradici; si arrampicano fuori delle loro buche di appostamento e delle loro sudicie tane. A entrambe le parti sembra di avere perso. Nelle città, in campagna, qui e oltre oceano, le campane di tutte le chiese cominciano a suonare. (Me le rammento, le campane che suonavano. È uno dei miei primi ricordi. Era così strano - l'aria era talmente intrisa di rumore, e al tempo stesso così vuota. Reenie mi portò fuori a sentire. Aveva il viso rigato di lacrime. Grazie a Dio, disse. La giornata era fredda, le foglie cadute erano gelate, sul laghetto c'era un sottile strato di ghiaccio. Lo ruppi con un bastone. Dov'era mia madre?) Mio padre era stato ferito alla Somme, ma si era ristabilito ed era stato fatto sottotenente. Fu ferito di nuovo a Vimy, anche se non gravemente, e venne fatto capitano. Fu ferito di nuovo nel bosco di Bourlon, questa volta in modo più serio. Fu mentre era in convalescenza in Inghilterra che la guerra finì. Perse il benvenuto alle truppe che rientravano a Halifax, le sfilate vittoriose e via dicendo, ma gli fu riservata un'accoglienza speciale a Port Ticonderoga. Il treno si fermò. Le acclamazioni esplosero. Alcune mani si sollevarono per aiutarlo a scendere, quindi esitarono. Lui uscì fuori. Aveva un occhio e una gamba buoni. Il suo viso era scarno, segnato, esaltato.
I commiati possono essere sconvolgenti, ma i ritorni sono sicuramente peggiori. La carne in tutta la sua tangibilità non può mai essere all'altezza della luminosa ombra gettata dalla sua assenza. Il tempo e la distanza rendono indistinti i contorni; poi all'improvviso la persona amata è qui, ed è mezzogiorno, con la sua luce impietosa, e ogni macchia e poro e ruga e pelo ispido salta agli occhi. Dunque, mia madre e mio padre. Come avrebbe potuto ognuno dei due fare ammenda all'altro per essere tanto cambiato? Per non essere riuscito a mantenersi così come ci si aspettava? Com'era possibile che non ci fossero rancori? Rancori nutriti in silenzio e ingiusti, perché non c'era nessuno da condannare, nessuno su cui puntare il dito. La guerra non era una persona. Che senso aveva condannare un uragano? Eccoli là, sul marciapiede della stazione. La banda cittadina suona, sono quasi tutti ottoni. Lui è in uniforme; le sue medaglie sono come fori di arma da fuoco nella stoffa, attraverso i quali si intravede l'opaco barlume del suo vero corpo, metallico. Accanto a lui, invisibili, ci sono i suoi fratelli - i due ragazzi perduti, coloro che egli sente di aver perduto. Mia madre è là nel suo abito migliore, qualcosa con un bavero e una cintura, e un cappello con un nastro fiammante. Sorride timidamente. Nessuno dei due sa bene cosa fare. La macchina fotografica del giornale li coglie con il suo flash; loro sgranano gli occhi, quasi colti in flagrante. Mio padre ha una benda nera sull'occhio destro. Quello sinistro lancia sguardi ostili. Sotto la benda, non ancora messa allo scoperto, c'è una ragnatela di carne piena di cicatrici, dove il ragno è l'occhio mancante. «L'erede dei Chase ritorna da eroe» strombazzerà il giornale. Le cose sono cambiate: ora mio padre è l'erede, il che vuol dire che non solo è senza fratelli, ma anche senza padre. L'impero è nelle sue mani. Sembra fango. Mia madre pianse? È possibile. Devono essersi baciati goffamente, come a una di quelle riunioni di beneficenza in cui gli uomini compravano biglietti abbinati alle leccornie preparate dalle ragazze e ricevevano in cambio un bacio. Ma doveva avere comprato il biglietto sbagliato. Non era quella che si ricordava, questa donna efficiente e oberata di preoccupazioni, con un pince-nez come quello di una zia nubile che brillava appeso a una catenella d'argento intorno al collo. Adesso erano due estranei, e - deve essere venuto loro in mente - lo erano sempre stati. Com'era violenta la luce. Com'erano invecchiati. Non c'era traccia del giovanotto che una volta si era inginocchiato così rispettosamente sul ghiaccio per allacciarle i pat-
tini, o della giovane donna che aveva dolcemente accolto quell'omaggio. Qualcos'altro si materializzò come una spada tra loro. Naturalmente lui aveva avuto altre donne, del tipo che bazzicava intorno ai campi di battaglia per guadagnarsi da vivere. Puttane, per dire francamente una parola che mia madre non avrebbe mai pronunciato. Deve averlo capito la prima volta che le ha posato una mano addosso: la timidezza, il rispetto, dovevano essere spariti. Probabilmente lui aveva resistito alla tentazione alle Bermuda, poi in Inghilterra, fino al momento in cui Eddie e Percy erano stati uccisi e lui stesso ferito. Dopo si era aggrappato alla vita, a qualsiasi manciata gliene fosse venuta a tiro. Come faceva lei a non capire quanto bisogno ne avesse, in simili circostanze? Lei capiva, o almeno capiva che avrebbe dovuto capire. Capiva e non ne parlava, e pregava di avere la forza di perdonare, e perdonò. Ma per lui non dovette essere tanto facile vivere con la sua comprensione. Colazione in una nube di comprensione, porridge e comprensione, burro e comprensione sul pane tostato. Lui non avrebbe mai potuto fare niente contro di essa, perché come si può respingere qualcosa che non viene mai detto? Lei, da parte sua, se la prendeva con l'infermiera, o le molte infermiere, che avevano assistito mio padre nei vari ospedali. Voleva che lui dovesse la sua guarigione a lei sola - alle sue cure, alla sua instancabile devozione. Questo è il rovescio dell'altruismo: la sua tirannia. Tuttavia, mio padre non era poi tanto sano. In effetti era un relitto andato in mille pezzi, come testimoniano le grida nell'oscurità, gli incubi, gli improvvisi attacchi di rabbia, la scodella o il bicchiere lanciati contro la parete o il pavimento, ma mai contro di lei. Era rotto, e aveva bisogno di essere riparato: perciò lei poteva ancora aiutarlo. Lo avrebbe circondato di un'atmosfera di tranquillità, lo avrebbe assecondato, coccolato, avrebbe messo dei fiori sul tavolo della sua colazione e gli avrebbe preparato le sue cene preferite. Almeno, non si era preso qualche brutta malattia. Tuttavia, era successo qualcosa di molto peggio: ora mio padre era ateo. Sopra le trincee Dio era scoppiato come un pallone, e di lui non era rimasto altro che frammenti piccoli e sporchi di ipocrisia. La religione era soltanto un bastone per picchiare i soldati, e chiunque affermasse il contrario si riempiva la bocca di sciocchezze bigotte. A cos'erano serviti il coraggio di Percy e Eddie, la loro audacia, le loro morti orribili? Cosa avevano concluso? Erano stati uccisi dagli errori grossolani di un mucchio di vecchi criminali incompetenti, che avrebbero potuto benissimo tagliare loro le gole e scaraventarli oltre il fianco del piroscafo Caledonian. Tutto quel gran
parlare di combattere per Dio e la Civiltà lo faceva vomitare. Mia madre era sgomenta. Stava forse dicendo che Percy e Eddie non erano morti per un fine superiore? Che tutti quei poveretti erano morti invano? Quanto a Dio, chi altri li aveva assistiti in quel periodo di tormento e sofferenza? Lo pregava almeno di tenere il suo ateismo per sé. Poi si vergognò profondamente di averglielo chiesto - come se ciò che più le stava a cuore fosse l'opinione dei vicini e non il rapporto della viva anima di mio padre con Dio. Tuttavia, lui rispettò il suo desiderio. Ne capiva la necessità. Comunque, diceva certe cose soltanto quando aveva bevuto. Prima della guerra di solito non beveva, non in modo regolare, determinato, ma adesso sì. Beveva e misurava il pavimento, trascinando la gamba cattiva. Dopo un po' cominciava a tremare. Mia madre cercava di calmarlo, ma lui non voleva essere calmato. Saliva nella tozza torretta di Avilion, dicendo di voler fumare. In realtà era una scusa per stare solo. Lassù parlava tra sé e sé, si scagliava contro le pareti e finiva per bere fino all'intontimento. Per farlo si allontanava dalla presenza di mia madre, perché dal suo punto di vista era ancora un gentiluomo, oppure si aggrappava ai brandelli della maschera che aveva indosso. Non voleva spaventarla. Un'altra cosa che lo faceva sentire male, suppongo, era che le sue cure fatte a fin di bene gli dessero tanto sui nervi. Un passo leggero, un passo pesante, un passo leggero, un passo pesante, come un animale con una zampa in una trappola. Grida lamentose e attutite. Rumore di vetro rotto. Questi suoni mi svegliavano: il pavimento della torretta era sopra la mia stanza. Poi c'erano passi che scendevano; e poi silenzio, una sagoma nera fuori del rettangolo chiuso della mia camera. Io non potevo vederlo là fuori, ma potevo sentirlo, un mostro con un occhio solo che camminava a passi strascicati, infinitamente triste. Mi ero abituata a questi suoni, non pensavo che mi avrebbe mai fatto del male, ma lo trattavo lo stesso con circospezione. Non voglio dare l'impressione che lo facesse ogni notte. Inoltre con il tempo queste sedute - o forse è il caso di chiamarle crisi - divennero meno numerose e più distanziate. Ma si capiva quando ce n'era una nell'aria da come si serrava la bocca di mia madre. Aveva una specie di radar, riusciva a cogliere le onde della rabbia di lui che montava. Intendo dire che non la amava? Niente affatto. La amava; in un certo senso le era devoto. Ma non poteva raggiungerla, e lo stesso valeva per lei. Era come se avessero bevuto una pozione fatale che li avrebbe tenuti divisi
per sempre, anche se vivevano nella stessa casa, mangiavano allo stesso tavolo, dormivano nello stesso letto. Come sarà ardere di desiderio, struggersi per qualcuno che ti sta davanti agli occhi, giorno dopo giorno? Non lo saprò mai. Alcuni mesi dopo mio padre cominciò le sue sconvenienti scappatelle. Non nella nostra città però, o almeno non subito. Andava in treno a Toronto «per affari» e passava il suo tempo a bere, e anche a cercare donne facili, come si diceva allora. La voce si sparse in maniera sorprendentemente rapida, come sempre nel caso di uno scandalo. Cosa piuttosto strana, in città entrambi i miei genitori furono più rispettati per questo. Chi avrebbe potuto criticare mio padre, tutto considerato? Quanto a lei, nonostante quello che doveva sopportare, non si sentì una sola parola di lamentela uscire dalle sue labbra. Ed era proprio così che doveva essere. (Come faccio a sapere tutte queste cose? Non le so, non nella comune accezione del termine. Ma nelle famiglie come la nostra spesso c'è più nei silenzi che in quanto viene detto davvero - nelle labbra serrate, nelle teste girate per non vedere, nei rapidi sguardi in tralice. Nelle spalle sollevate come se si portasse un pesante fardello. Non c'è da stupirsi se prendemmo l'abitudine di ascoltare dietro le porte, Laura e io). Mio padre aveva un assortimento di bastoni da passeggio con manici particolari - di avorio, di argento, di ebano. Teneva molto a vestirsi in maniera accurata. Non si era mai aspettato che avrebbe finito per gestire gli affari di famiglia, ma ora che si era accollato quell'impegno intendeva farlo bene. Avrebbe potuto vendere tutto, ma il caso volle che non ci fossero compratori, o non al suo prezzo. Inoltre sentiva di avere un obbligo, se non nei confronti della memoria di suo padre, almeno di quella dei fratelli morti. Fece cambiare l'intestazione della carta da lettere in Chase & Figli, anche se di figlio ne era rimasto uno solo. Voleva averne di suoi, di figli, preferibilmente due, per rimpiazzare quelli perduti. Voleva perseverare. All'inizio gli uomini delle sue fabbriche lo adoravano. Non solo per le medaglie. Subito dopo la guerra le donne si erano fatte da parte o erano state tolte di mezzo, e i loro posti erano stati riempiti dagli uomini che ritornavano - da qualsiasi uomo in grado di occupare un posto, cioè. Ma di posti non ce n'erano abbastanza per tutti: la richiesta del periodo bellico era finita. In tutto il paese ci furono chiusure temporanee e licenziamenti, ma non nelle fabbriche di mio padre. Lui assumeva, assumeva in eccesso. Assumeva i reduci. Diceva che l'ingratitudine della nazione era spregevole, e
che era venuto il momento che i suoi uomini d'affari restituissero qualcosa di quanto le dovevano. Tuttavia furono in pochissimi a farlo. Chiudevano gli occhi, ma mio padre, che ne aveva uno già chiuso, non poteva. Nacque così la sua reputazione di ribelle, e di persona un po' sciocca. Io sembravo proprio figlia di mio padre. Ero più simile a lui; avevo ereditato il suo sguardo arcigno, il suo ostinato scetticismo. (Come infine avrei ereditato anche le sue medaglie. Le lasciò a me). Reenie diceva quando ero disobbediente - che avevo un carattere difficile e che sapeva da chi l'avessi preso. Laura d'altro canto era figlia di mia madre. Aveva un profondo senso religioso, in qualche modo; aveva la fronte alta e pura. Ma le apparenze ingannano. Io non avrei mai potuto lanciarmi giù da un ponte con la macchina. Avrebbe potuto farlo mio padre. Non mia madre. Eccoci nell'autunno del 1919, noi tre insieme - mio padre, mia madre e io -, intenti a fare uno sforzo. È novembre; è quasi ora di andare a letto. Siamo seduti nel soggiorno di Avilion. C'è un caminetto ed è acceso, visto che il tempo si è messo al freddo. Mia madre è in convalescenza da una recente, misteriosa malattia, che a quanto pare ha qualcosa a che vedere con i suoi nervi. Sta rammendando dei vestiti. Non avrebbe bisogno di farlo potrebbe pagare qualcuno - ma non vuole; le piace avere qualcosa che le tenga le mani occupate. Sta attaccando un bottone che è saltato da uno dei miei abiti: sono famosa per trattare male i miei vestiti. Sul tavolo rotondo accanto al suo gomito c'è il cestino da cucito bordato di erba odorosa, di fabbricazione indiana, con le forbici, i rocchetti di filo e l'uovo da rammendo di legno; ci sono anche i suoi nuovi occhiali rotondi, lì a fare la guardia. Non ne ha bisogno per i lavori da vicino. Indossa un abito celeste con un ampio colletto bianco e polsini bianchi orlati di piqué. I suoi capelli hanno cominciato a imbiancarsi prematuramente. Il pensiero di tingerli non la sfiora più di quanto potrebbe sfiorarla l'idea di tagliarsi una mano, perciò ha un viso da giovane donna in un nido di lanugine di cardo. Sono divisi nel mezzo, i suoi capelli, e ricadono indietro in ampie ciocche elastiche a formare un intricato viluppo di ondulazioni e ricci sulla nuca. (Al momento della sua morte, cinque anni dopo, li avrebbe avuti alla maschietta, più alla moda, meno impegnativi). Ha le palpebre abbassate, le guance gonfie, come il ventre; il suo sorriso appena accennato è dolce. L'alone giallo-rosa della lampadina elettrica le getta sul volto un tenue bagliore. Di fronte a lei c'è mio padre, su un divano. È appoggiato ai cuscini, ma
non ha pace. Ha la mano sul ginocchio della gamba cattiva; la gamba si muove su e giù a piccoli scatti. (La gamba buona, la gamba cattiva - questi termini mi incuriosiscono. Cos'ha fatto la gamba cattiva, per essere chiamata così? La sua segreta mutilazione è forse un castigo?) Io sono seduta accanto a lui, ma non troppo vicino. Il suo braccio è allungato sul divano dietro di me, ma non mi tocca. Ho il mio abbecedario; glielo sto leggendo, per dimostrargli che so farlo. Tuttavia non ne sono capace, ho soltanto memorizzato la forma delle lettere, e le parole da abbinare alle figure. Su un tavolino accostato al divano c'è un grammofono da cui spunta un altoparlante simile a un grande fiore di metallo. La mia voce mi sembra quella che a volte esce fuori di là: piccola e sottile e distante; qualcosa che si può spegnere con un dito. A come Arancia, Da mangiare è succosa: C'è chi ne ha poche, E chi invece ne ha a iosa. Lancio un'occhiata a mio padre per vedere se mi rivolge un po' di attenzione. A volte quando gli si parla non sente. Coglie il mio sguardo e dall'alto mi rivolge un debole sorriso. B come Bambino, Così tenero e rosa, Con due piccole mani E una faccia vezzosa. Mio padre è tornato a fissare fuori della finestra. (Immagina forse di stare dall'altro lato del vetro e di guardare nella stanza? Un orfano, cacciato per sempre - un vagabondo notturno? È per questo che aveva dovuto combattere - per questo idillio accanto al caminetto, per questa scena edificante tratta da una pubblicità di biscotti ai cereali: la moglie rotondetta e dalle guance rosee, così buona e gentile, la figlia obbediente e rispettosa. Per questa piattezza, per questa noia. Possibile che, nonostante il suo fetore e la sua assurda carneficina, sentisse una certa nostalgia della guerra? Di quella indubbia manifestazione vitale dell'istinto?) F come Fuoco,
Buon servo, cattivo signore. Se lasciato a se stesso Può bruciare per ore. La figura nel libro ritrae un uomo fatto di fuoco, che salta. Ali di fuoco gli escono fuori dei talloni e delle spalle, piccole corna di fuoco gli spuntano dalla testa. Guarda al di sopra della spalla con un sorriso malizioso, seducente, ed è senza vestiti. Il fuoco non può fargli del male, nulla può fargli del male. Me ne sono innamorata per questa ragione. Ho aggiunto altre fiamme con i miei pastelli. Mia madre conficca l'ago nel bottone, taglia il filo. Io continuo a leggere con una voce sempre più ansiosa, proseguendo con le dolci M ed N, con l'eccentrica Q, la dura R e le minacce sibilanti della S. Mio padre fissa le fiamme, guardando i campi e i boschi e le case e le città e gli uomini e i fratelli che si levano insieme al fumo, mentre la gamba cattiva si muove da sola, come un cane che corre in un sogno. Questa è la sua casa, questo castello assediato; lui è il suo lupo mannaro. Fuori della finestra il freddo color limone del tramonto si attenua in grigio. Io non lo so ancora, ma sta per nascere Laura. Il giorno del pane Non piove abbastanza, dicono gli agricoltori. Le cicale perforano l'aria con i loro appassionati richiami fatti di una sola nota; la polvere turbina nelle strade; dalle strisce di erbacce ai loro margini le cavallette si levano frullando nell'aria. Le foglie degli aceri pendono dai rami come guanti flosci; sul marciapiede la mia ombra si screpola. Vado a camminare presto, prima che il sole splenda in tutto il suo fulgore. Il dottore mi pungola: sto facendo progressi, mi dice; ma verso cosa? Penso al mio cuore come al compagno di un'infinita marcia forzata, noi due legati da una fune, involontari cospiratori in un complotto o in una manovra di cui siamo completamente all'oscuro. Dove stiamo andando? Verso l'indomani. Non mi sfugge come l'oggetto che mi tiene in vita sia lo stesso che mi ucciderà. In questo senso è come l'amore, o un certo tipo d'amore. Oggi sono andata di nuovo al cimitero. Qualcuno aveva lasciato un mazzo di zinnie arancioni e rosse sulla tomba di Laura; fiori dai colori caldi, dall'effetto tutt'altro che calmante. Quando sono arrivata stavano appas-
sendo, sebbene emanassero ancora il loro odore pungente. Sospetto che fossero stati rubati dalle aiuole di fronte alla Button Factory, da un ammiratore taccagno o un po' pazzo; ma in fondo è il genere di cosa che avrebbe fatto la stessa Laura. Aveva solo una vaghissima idea della proprietà. Sulla via del ritorno mi sono fermata al negozio di ciambelle: fuori stava diventando caldo, e volevo un po' d'ombra. Il posto è tutt'altro che nuovo; anzi, è quasi cadente, nonostante la sua disinvolta modernità - le mattonelle giallo chiaro, i tavoli di plastica bianca fissati al pavimento con attaccate le sedie fatte in serie. Mi ricorda uno di quegli istituti: un asilo infantile in un quartiere povero, forse, o un centro di accoglienza per ritardati mentali. Non ci sono troppe cose da poter gettare in aria o usare per ferire qualcuno: perfino le posate sono di plastica. L'odore è di olio per friggere grasso mescolato a disinfettante all'aroma di pino, con una mano di caffè tiepido a coprire il tutto. Ho preso un tè freddo piccolo e una ciambella classica con glassa, che mi scricchiolava tra i denti come polistirolo. Dopo averne consumata metà, che è tutto quanto sono riuscita a mandar giù, mi sono diretta lentamente attraverso il pavimento scivoloso verso il bagno delle donne. Nel corso delle mie camminate ho tracciato una mappa mentale di tutti i bagni facilmente accessibili di Port Ticonderoga - sono così comodi se si ha un bisogno urgente - e quello del negozio di ciambelle attualmente è il mio preferito. Non che sia più pulito degli altri, o che sia più facile trovarvi la carta igienica, ma offre un'ampia scelta di scritte. Tutti le hanno, ma mentre nella maggior parte dei locali ci passano spesso sopra una mano di vernice, nel negozio di ciambelle rimangono in vista molto più a lungo. Perciò non ci sono soltanto i testi originali, ma anche i commenti. Al momento la sequenza migliore è quella nello scomparto centrale. La prima frase è scritta a matita, in caratteri tondi, come quelli sulle tombe romane, profondamente incisi nella vernice: Non mangiare nulla che tu non sia disposto a uccidere. Poi, in pennarello verde: Non uccidere nulla che tu non sia disposto a mangiare. Sotto, con la penna a sfera: Non uccidere. Sotto, in pennarello viola: Non mangiare. E sotto ancora, a tutt'oggi l'ultima parola, in marcati caratteri neri: Fanculo i vegetariani - «Tutti gli dei sono carnivori» - Laura Chase. Laura continua a vivere.
Ci volle molto tempo a Laura per decidersi a venire al mondo, diceva Reenie. Era come se non riuscisse a stabilire se fosse davvero un'idea intelligente. Poi all'inizio era malaticcia, e stavamo per perderla - suppongo che stesse ancora decidendo. Ma alla fine pensò bene di fare un tentativo, perciò si aggrappò alla vita, e stette un po' meglio. Reenie credeva che le persone decidessero quando fosse la loro ora di morire; allo stesso modo, avevano voce in capitolo quando si trattava di venire o meno al mondo. Una volta raggiunta l'età in cui si risponde male, dicevo: Non ho chiesto io di nascere, come se fosse un argomento determinante; e Reenie ribatteva: Certo che l'hai fatto. Proprio come chiunque altro. Per lei, una volta che eri vivo, dovevi assumertene tutta la responsabilità. Dopo la nascita di Laura mia madre era più stanca del solito. Perse quota; perse la capacità di recupero. La sua volontà vacillò; i suoi giorni assunsero il carattere di un faticoso arrancare. Doveva riposarsi di più, disse il dottore. Non era una donna sana, diceva Reenie alla signora Hillcoate, che venne a dare una mano con il bucato. Era come se la mia precedente madre fosse stata rapita dagli elfi, e al suo posto fosse stata lasciata quest'altra - più vecchia e più grigia e più curva e più avvilita. Allora io avevo solo quattro anni ed ero spaventata dai suoi cambiamenti, volevo essere sostenuta e rassicurata; ma mia madre non aveva più l'energia per farlo. (Perché dico che non l'aveva più? Il suo comportamento come madre era sempre stato più educativo che tenero. In fondo, rimaneva un'insegnante). Ben presto scoprii che se riuscivo a rimanere tranquilla, senza richiedere a gran voce attenzione, e soprattutto se riuscivo a rendermi utile - specialmente con la piccola, con Laura, facendole la guardia e dondolando la sua culla in modo che dormisse, cosa che non faceva facilmente e a lungo - mi sarebbe stato permesso di rimanere nella stessa stanza con mia madre. Altrimenti, sarei stata mandata via. Perciò fu questa la decisione che presi: stare in silenzio ed essere servizievole. Avrei dovuto gridare. Avrei dovuto fare i capricci. È la ruota che cigola a essere oliata, come diceva Reenie. (Me ne stavo là sul comodino di mia madre, in una cornice d'argento, con un vestito scuro dal colletto di pizzo bianco, con la mano visibile che stringeva la copertina bianca all'uncinetto, in una presa maldestra, feroce, gli occhi che accusavano la macchina fotografica o chiunque la stesse maneggiando. Quanto a Laura, è quasi fuori della visuale, in questa foto. Di lei si vede soltanto la parte superiore della testa coperta di peluria e una
mano minuscola, le dita che mi serrano il pollice. Ero arrabbiata perché mi avevano detto di tenere la piccola, o in realtà la stavo proteggendo? Le stavo facendo scudo - riluttante a lasciarla andare?) Laura fu una neonata difficile, sebbene più inquieta che stizzosa. Fu anche una bambina difficile. Era preoccupata dalle porte dell'armadio, e anche dai cassetti della scrivania. Era come se stesse sempre in ascolto, attenta a cogliere qualcosa in lontananza o sotto il pavimento - qualcosa che si avvicinava senza fare rumore, come un treno fatto di vento. Aveva crisi inspiegabili - a provocare il suo pianto potevano essere un corvo morto, un gatto schiacciato da una macchina, una nuvola scura in un cielo sereno. D'altra parte, aveva un'inquietante resistenza al dolore fisico: se si scottava la bocca o si tagliava, di regola non piangeva. Era l'ostilità, l'ostilità dell'universo, ad angustiarla. La allarmavano in particolar modo i reduci mutilati agli angoli delle strade - i perdigiorno, i venditori di matite, i mendicanti, troppo malridotti per fare un qualsiasi lavoro. Un uomo senza gambe dal viso paonazzo che si trascinava su un carrello piatto la faceva sempre esplodere. Forse per via della furia nei suoi occhi. Come la maggior parte dei bambini, Laura credeva che le parole significassero quello che dicevano, ma portava la cosa all'estremo. Non si poteva dire Sparisci o Vatti a buttare nel lago senza aspettarsi qualche conseguenza. Cos'hai detto a Laura? Non hai ancora imparato? Mi sgridava Reenie. Ma neanche lei aveva imparato del tutto. Una volta le disse di mordersi la lingua, perché questo avrebbe impedito alle domande di uscire fuori, dopodiché Laura non poté masticare per giorni. Ora vengo alla morte di mia madre. Sarebbe banale dire che questo avvenimento cambiò tutto, ma sarebbe anche vero, perciò lo scrivo: Questo avvenimento cambiò tutto. Accadde un martedì. Un giorno in cui si faceva il pane. Tutto il nostro pane - un'infornata bastava per un'intera settimana - veniva fatto nella cucina di Avilion. Anche se a quel tempo Port Ticonderoga aveva un piccolo forno, Reenie diceva che comprare il pane era roba da pigri, e poi il fornaio ci aggiungeva il gesso per risparmiare sulla farina, e una dose eccessiva di lievito per gonfiare le pagnotte di aria e darvi l'impressione di averne di più. Perciò era lei a fare il pane.
La cucina di Avilion non era scura come la fuligginosa caverna vittoriana che doveva essere stata una volta, trent'anni prima. Al contrario, era bianca - pareti bianche, tavolo smaltato bianco, cucina economica a legna bianca, pavimento di mattonelle bianche e nere - con tendine color giallo dente di leone alle nuove finestre, ingrandite. (La sua risistemazione dopo la guerra era stata uno dei goffi doni propiziatori di mio padre a mia madre). Reenie considerava quella cucina all'ultimo grido, e in conseguenza degli insegnamenti che mia madre le aveva impartito sui germi, sulle loro gravi conseguenze e sui loro nascondigli, la teneva perfettamente pulita. Nei giorni in cui faceva il pane Reenie ci passava qualche ritaglio di pasta per fare omini di pane, con uva passa per gli occhi e i bottoni. Poi ce li cuoceva. Io mangiavo i miei, mentre mia sorella conservava i suoi. Una volta Reenie ne trovò un'intera fila nell'ultimo cassetto in alto di Laura, duri come sassi, avvolti nei suoi fazzoletti come piccole mummie dal viso a forma di focaccia. Reenie disse che avrebbero attirato i topi e che sarebbero dovuti finire dritti dritti nell'immondizia, ma Laura insistette per una sepoltura di massa nel giardino della cucina, dietro il cespuglio di rabarbaro. Disse che sarebbe stato il caso di recitare delle preghiere. Altrimenti, non avrebbe più mangiato la cena. Era sempre brava a mercanteggiare, quando ci si metteva d'impegno. Reenie scavò la fossa. Era la giornata libera del giardiniere; usò la sua vanga, che era proibita a chiunque, ma si trattava di un'emergenza. «Dio abbia pietà del marito» disse Reenie, mentre Laura disponeva i suoi omini di pane in una fila ordinata. «È testarda come un mulo». «A ogni modo non avrò un marito» fece Laura. «Vivrò da sola nel garage». «Neanch'io ne avrò uno» dissi, per non essere da meno. «Figuriamoci» ribatté Reenie. «A te piace il tuo letto bello e soffice. Dovresti dormire sul cemento, e coprirti di grasso e di olio». «Allora vivrò nella serra» dissi. «Non è più riscaldata» osservò Reenie. «Ti congeleresti a morte d'inverno». «Io dormirò in una delle macchine» disse Laura. Quell'orribile martedì avevamo fatto colazione in cucina, con Reenie. C'era stato porridge di avena e pane tostato con marmellata. A volte facevamo colazione con nostra madre, ma quel giorno era troppo stanca. La mamma era più severa, e ci faceva sedere diritte e mangiare anche le cro-
ste. «Ricordate gli armeni che muoiono di fame» diceva. Forse gli armeni a quel tempo non stavano più morendo di fame. La guerra era finita da un pezzo, l'ordine era stato ristabilito. Ma la loro drammatica situazione doveva essersi fissata nella mente della mamma come una specie di motto. Un motto, un'invocazione, una preghiera, un incantesimo. Le croste del pane tostato andavano mangiate in memoria di quegli armeni, chiunque fossero stati; non mangiarle era un sacrilegio. Io e Laura dovemmo capire il peso di quell'incantesimo, perché non fallì mai. Quel giorno mia madre non mangiò le sue croste. Me lo ricordo. Laura salì di sopra a dirglielo - E le croste, e gli armeni che muoiono di fame? finché finalmente la mamma ammise di non sentirsi bene. Quando lo disse, avvertii un brivido elettrico percorrermi tutta, perché lo sapevo. Lo avevo sempre saputo. Reenie diceva che Dio faceva la gente proprio come lei faceva il pane, e che per questo le pance delle madri si ingrossavano quando stavano per avere un bambino; era la pasta che cresceva. Diceva che le sue fossette erano l'impronta delle dita di Dio. Diceva che lei aveva tre fossette e certa gente non ne aveva nessuna, perché Dio non faceva tutti allo stesso modo, altrimenti si sarebbe annoiato a morte, e perciò non distribuiva le cose in maniera uniforme. Lì per lì non sembrava giusto, ma sarebbe risultato giusto alla fine. Laura aveva sei anni, all'epoca che sto rievocando. Io ne avevo nove. Sapevo che i bambini non erano fatti di pasta del pane - era una storia per i marmocchi come Laura. Eppure, non mi era stata offerta nessuna spiegazione dettagliata. In quei pomeriggi mia madre sedeva nel gazebo a lavorare a maglia. Stava facendo un golfino, come quelli per i Profughi d'Oltremare. Era anche questo per un profugo? chiedevo. Forse, rispondeva lei, e sorrideva. Dopo un po' si assopiva, le palpebre le si chiudevano pesantemente, gli occhiali tondi le scivolavano giù. Ci diceva che aveva gli occhi dietro la testa, e che perciò sapeva quando avevamo fatto qualcosa di male. Immaginavo quegli occhi piatti e brillanti e senza colore, come gli occhiali. Non era da lei dormire così a lungo il pomeriggio. C'era un sacco di cose che non erano da lei. Laura non si preoccupava, ma io sì. Stavo facendo due più due, mettendo insieme ciò che mi era stato detto e ciò che avevo udito per caso. Ciò che mi era stato detto: «Tua madre ha bisogno di riposo, tu dovrai fare in modo che Laura non le dia fastidio». Ciò che avevo
udito per caso (Reenie alla signora Hillcoate): «Il dottore non è contento. Le possibilità sono cinquanta e cinquanta. Lei naturalmente non direbbe mai una parola, ma non è una donna sana. Certi uomini devono sempre strafare». Così venni a sapere che mia madre correva un pericolo di qualche tipo, un pericolo che aveva a che fare con la sua salute e con mio padre, sebbene non fossi sicura di cosa potesse trattarsi. Ho detto che Laura non si preoccupava, ma si attaccava alla mamma più del solito. Sedeva a gambe incrociate nel freddo spazio sotto il gazebo dove lei riposava, o dietro la sua sedia mentre scriveva lettere. Quando nostra madre era in cucina, a Laura piaceva stare sotto il tavolo. Ci trascinava un cuscino e il suo abbecedario, quello che era stato mio. Aveva un sacco di cose che erano state mie. Ora Laura sapeva leggere, o almeno sapeva leggere l'abbecedario. La sua lettera preferita era la L, perché era la lettera con cui cominciava il suo nome, L come Laura. Io non ho mai considerato la mia lettera preferita quella con cui cominciava il mio nome - I come Iris -, perché la I era la lettera di io, di tutti. L come Lavanda, Così pura e profumata. Il suo odore delicato Rende allegra la giornata. La figura nel libro raffigurava due bambini in antiquati cappelli di paglia accanto a un ciuffo di lavanda su cui era posata una fata - a piedi nudi, con trasparenti ali tremolanti. Reenie diceva sempre che se si fosse imbattuta in qualcosa del genere l'avrebbe inseguita con lo schiacciamosche. Lo diceva a me, per scherzo, ma non lo diceva a Laura, perché Laura avrebbe potuto prenderla sul serio e turbarsi. Laura era diversa. Diversa significava strana, lo sapevo, ma tormentavo Reenie. «Cosa vuoi dire, con diversa?» «Non come tutti gli altri» rispondeva lei. Ma forse Laura non era tanto diversa dagli altri, dopotutto. Forse era come loro - come loro aveva qualche ingrediente strano, distorto, che la maggior parte delle persone tiene nascosto, ma non Laura, ed è per questo che spaventava. Perché, sì, lei spaventava - o se non spaventava, in qualche modo allarmava; anche se la cosa peggiorò, naturalmente, via via che cresceva.
Martedì mattina, dunque, in cucina. Reenie e mia madre facevano il pane. No: Reenie faceva il pane e mia madre beveva una tazza di tè. Reenie aveva detto alla mamma che non si sarebbe stupita se più tardi nel corso della giornata avesse tuonato, l'aria era talmente pesante, e lei non avrebbe dovuto stare fuori all'ombra, o sdraiarsi; ma mia madre aveva replicato che odiava stare senza far niente. Disse che la faceva sentire inutile; disse che le sarebbe piaciuto tenere compagnia a Reenie. Mia madre poteva fare miracoli, per come la vedeva Reenie, e in ogni caso lei non aveva alcun potere di dirle cosa doveva o non doveva fare. Perciò la mamma sedeva bevendo il tè mentre Reenie stava al tavolo, girando il monticello di pasta del pane, spingendolo con tutte e due le mani, piegandolo, girandolo, tornando a spingerlo. Aveva le mani coperte di farina; sembrava che indossasse bianchi guanti di farina. C'era farina anche sulla pettorina del suo grembiule. Sotto le braccia aveva due semicerchi di sudore che scurivano le margherite gialle del suo abito da casa. Alcune delle pagnotte erano già modellate e nelle teglie, con uno strofinaccio pulito e bagnato sopra ciascuna. Un umido odore di fungo riempiva la cucina. La cucina era calda, perché il forno richiedeva un bello strato di carbone, e anche perché c'era un'ondata di calore. La finestra era aperta, l'ondata di calore affluiva attraverso di essa. La farina per il pane veniva presa dal grande barile nella dispensa. Non bisognava mai infilarsi in quel barile, perché la farina poteva entrarti nel naso e nella bocca e soffocarti. Reenie aveva conosciuto un bambino che era stato ficcato nel barile della farina a testa in giù dai suoi fratelli e sorelle, ed era quasi morto soffocato. Io e Laura eravamo sotto il tavolo della cucina. Io leggevo un libro illustrato per bambini intitolato I grandi uomini della storia. Napoleone era in esilio sull'isola di Sant'Elena, in piedi su una scogliera con una mano dentro il cappotto. Credevo che avesse il mal di pancia. Laura era irrequieta. Strisciò fuori del tavolo per bere un po' d'acqua. «Vuoi un po' di pasta per fare un omino di pane?» chiese Reenie. «No» rispose Laura. «No, grazie» disse mia madre. Laura strisciò di nuovo sotto il tavolo. Vedevamo due paia di piedi, quelli stretti della mamma e quelli più larghi di Reenie nelle loro scarpe robuste, e le gambe magre della mamma e quelle paffute di Reenie nelle calze di un colore tra il rosa e il marrone. Sentivamo i colpi attutiti della pasta del pane che veniva girata e sbattuta. Poi all'improvviso la tazza di tè
della mamma andò in frantumi e mia madre era lì sul pavimento, con Reenie in ginocchio accanto a lei. «Oh, buon Dio» diceva. «Iris, vai a chiamare tuo padre». Corsi in biblioteca. Il telefono squillava, ma mio padre non c'era. Salii le scale verso la sua torretta, di solito un luogo proibito. La porta non era chiusa a chiave: nella stanza non c'era altro che una sedia e parecchi portacenere. Non era nel salotto sul davanti, non era in soggiorno, non era in garage. Doveva essere in fabbrica, pensai, ma non ero sicura della strada, e poi era troppo lontano. Non sapevo dove altro cercare. Tornai in cucina e scivolai sotto il tavolo, dove Laura era seduta abbracciandosi le ginocchia. Non stava piangendo. C'era qualcosa sul pavimento che sembrava sangue, una striscia, macchie rosso scuro sulle mattonelle bianche. Ci misi un dito e lo leccai - era sangue. Presi uno straccio e lo asciugai. «Non guardare» dissi a Laura. Dopo un po' Reenie scese giù dalla scala di servizio, girò la manovella del telefono e chiamò il dottore - ma non c'era, era in giro da qualche parte, come al solito. Allora telefonò in fabbrica e chiese di mio padre. Non riuscirono a rintracciarlo. «Trovatelo se potete. Ditegli che si tratta di un'emergenza» disse. Poi corse di nuovo di sopra. Si era completamente dimenticata del pane, che crebbe troppo e ricadde su se stesso, rovinato. «Non sarebbe dovuta stare in quella cucina così calda» disse Reenie alla signora Hillcoate, «non con questo tempo e con un temporale in arrivo, ma non si risparmia, non le si può dire niente». «Ha sofferto molto?» chiese la signora Hillcoate con una voce compassionevole, interessata. «Ho visto di peggio» disse Reenie. «Ringraziamo Dio che sia andata così. È scivolato fuori proprio come un gattino. Ma devo dire che ha perso fiumi di sangue. Ci toccherà bruciare il materasso, non so proprio come potremmo pulirlo». «Oh, Dio, be', potrà sempre averne un altro» osservò la signora Hillcoate. «Questo doveva essere condannato. Doveva avere qualcosa che non andava». «No, da quanto ho sentito non può» disse Reenie. «Il dottore dice che sarà meglio darci un taglio, perché un altro potrebbe ucciderla, e con questo c'è mancato poco». «Certe donne non dovrebbero sposarsi» disse la signora Hillcoate. «Non ci sono tagliate. Bisogna essere forti. Mia madre ha avuto dieci figli, e non ha mai battuto ciglio. Non che siano rimasti tutti vivi».
«La mia ne ha avuti undici» fece Reenie. «L'hanno messa letteralmente a terra». Sapevo per esperienza che quello era il preludio di una disputa sulla durezza della vita delle rispettive madri, e che ben presto sarebbero passate a parlare del bucato. Presi Laura per mano e salimmo in punta di piedi la scala di servizio. Eravamo preoccupate, ma anche molto curiose: volevamo scoprire cos'era successo alla mamma, ma volevamo anche vedere il gattino. Eccolo là, accanto a un mucchio di lenzuoli zuppi di sangue sul pavimento del corridoio fuori della stanza della mamma, in un catino smaltato. Ma non era un gattino. Era grigio, come una vecchia patata bollita, con una testa troppo grande; era tutto raggomitolato. Aveva gli occhi chiusi, stretti stretti, come se la luce gli facesse male. «Che cos'è?» sussurrò Laura. «Non è un gattino». Si accoccolò giù a guardare. «Andiamo di sotto» dissi. Il dottore era ancora nella stanza, si sentivano i passi. Non volevo che ci trovasse lì, perché sapevo che quella creatura ci era proibita; sapevo che non avremmo dovuto vederla. Soprattutto non Laura - era il tipo di spettacolo, come un animale schiacciato, che di regola l'avrebbe fatta gridare, e poi la colpa sarebbe ricaduta su di me. «È un bambino» disse Laura. «Non è finito». Era sorprendentemente calma. «Poverino. Non ha voluto nascere». Nel tardo pomeriggio Reenie ci portò a vedere la mamma. Era a letto con la testa appoggiata su due cuscini; le braccia magre erano fuori del lenzuolo; i capelli che si andavano imbiancando erano trasparenti. La fede le scintillava alla mano sinistra, i pugni stringevano il lenzuolo ai suoi lati. Aveva la bocca serrata, come se stesse riflettendo su qualcosa; era l'espressione di quando faceva le liste. Teneva gli occhi chiusi. Con le palpebre curve abbassate, i suoi occhi sembravano perfino più grandi di quando erano aperti. Gli occhiali erano posati sul comodino accanto alla brocca dell'acqua, entrambe le lenti brillanti e vuote. «Dorme» sussurrò Reenie. «Non toccatela». Gli occhi della mamma si aprirono lentamente. La bocca tremò; le dita della mano più vicina si schiusero. «Potete abbracciarla» disse Reenie, «ma non troppo forte». Feci come mi era stato detto. Laura nascose selvaggiamente la testa contro il fianco della mamma, sotto il suo braccio. C'era l'odore di amido e di lavanda azzurrina delle lenzuola, l'odore di sapone della mamma e in sottofondo un caldo odore di ruggine, mescolato
all'aroma acido e dolciastro di foglie bagnate, ma che bruciavano senza fiamma. Mia madre morì cinque giorni dopo. Morì per una febbre; e anche per la debolezza, perché non era riuscita a rimettersi in forze, disse Reenie. In quei giorni il dottore andava e veniva, e infermiere fredde ed efficienti si alternavano sulla poltroncina della camera da letto. Reenie correva su e giù per le scale con bacinelle, asciugamani e tazze di brodo. Mio padre faceva instancabilmente la spola tra la casa e la fabbrica, e si presentava al tavolo della cena con l'aria miserabile di un mendicante. Dov'era stato, quel pomeriggio in cui non si era riusciti a trovarlo? Nessuno lo diceva. Laura rimaneva accovacciata nel corridoio del piano di sopra. Mi fu detto di giocare con lei in modo che non le capitasse nulla di male, ma non voleva. Sedeva abbracciandosi le ginocchia e poggiandoci sopra il mento, con un'espressione pensierosa, segreta, e sembrava che stesse succhiando una caramella. Non avevamo il permesso di mangiare caramelle. Quando però mi feci mostrare cos'era, vidi che si trattava soltanto di un sassolino bianco rotondo. Durante quell'ultima settimana mi fu concesso di vedere la mamma ogni mattina, ma solo per cinque minuti. Non avevo il permesso di parlarle, perché (diceva Reenie) vaneggiava. Questo voleva dire che pensava di essere da qualche altra parte. Ogni giorno era più assente. Gli zigomi le sporgevano; odorava di latte e di qualcosa di crudo, di rancido, come la carta marrone in cui arrivava avvolta la carne. Durante quelle visite ero scontrosa. Vedevo quanto fosse malata, e gliene volevo per questo. Mi sembrava che in qualche modo mi stesse tradendo - che si stesse sottraendo ai suoi doveri, che avesse gettato la spugna. Non mi passava neppure per la testa che potesse morire. Prima avevo temuto questa eventualità, ma ora ero talmente terrorizzata che l'avevo scacciata dalla mia mente. L'ultima mattina, che non sapevo sarebbe stata l'ultima, la mamma sembrava più presente. Era più fragile, ma al tempo stesso più compatta - più concreta. Mi guardava come se mi vedesse. «C'è così tanta luce qui dentro» mormorò. «Potresti chiudere le tende?» Feci come mi era stato chiesto, poi tornai al suo capezzale, tormentando il fazzoletto che Reenie mi aveva dato nel caso mi fossi messa a piangere. Mia madre mi prese la mano; la sua era calda e asciutta, le dita come duttile filo metallico. «Fai la brava bambina» disse. «Spero che sarai una buona sorella per
Laura. So che ci proverai». Annuii. Non sapevo cosa dire. Mi sentivo vittima di un'ingiustizia: perché toccava sempre a me essere una buona sorella per Laura, e non viceversa? Sicuramente mia madre voleva più bene a Laura che a me. Forse non era così; forse ci amava nello stesso modo. O forse non aveva più l'energia di amare nessuno: era andata oltre tutto questo, nella stratosfera gelata, lontanissima dal campo magnetico denso e caldo dell'amore. Ma non riuscivo a immaginare una cosa del genere. Il suo amore per noi era un dato - solido e tangibile, come una torta. L'unico problema era a quale di noi sarebbe andata la fetta più grossa. (Che invenzioni sono, le madri. Spaventapasseri, bambole di cera su cui poter conficcare le nostre spille, rozzi diagrammi. Neghiamo loro un'esistenza propria, le costruiamo in modo che si adattino a noi - alle nostre bramosie, ai nostri desideri, ai nostri difetti. Ora che lo sono stata anch'io, lo so). Mia madre mi fissava con il suo sguardo azzurro. Che sforzo deve esserle costato tenere gli occhi aperti. Come devo esserle sembrata lontana - una macchia rosa remota, vacillante. Quanto deve esserle riuscito difficile concentrarsi su di me! Eppure, io non scorsi affatto il suo stoicismo, se pure di stoicismo si trattava. Volevo dire che si era sbagliata sul mio conto, sulle mie intenzioni. Non provavo sempre a essere una brava sorella: piuttosto era il contrario. A volte chiamavo Laura peste e le dicevo di non darmi fastidio, e solo la settimana prima l'avevo trovata a leccare una busta - una delle mie buste speciali, per i biglietti di ringraziamento - e le avevo detto che la colla che c'era sopra era fatta con i cavalli bolliti, cosa che le aveva provocato conati di vomito e l'aveva fatta singhiozzare. A volte mi nascondevo da lei in un cespuglio di lillà accanto alla serra, e me ne stavo là a leggere libri con le dita infilate nelle orecchie, mentre lei andava in giro a cercarmi, chiamando inutilmente il mio nome. Talmente spesso me la cavavo facendo solo il minimo indispensabile. Ma non avevo parole per esprimere tutto ciò, il mio disaccordo con la versione delle cose data dalla mamma. Non sapevo che di lì a poco mi sarebbe rimasta addosso l'idea che lei aveva di me; l'idea della mia bontà appuntata su di me come una spilla, e senza alcuna possibilità di tirargliela appresso (come sarebbe stato il normale sviluppo degli avvenimenti tra una madre e una figlia - se lei fosse vissuta, quando io fossi stata più grande).
Fiocchi neri Stasera c'è un tramonto fosco, che stenta a spegnersi. A est lampi che balenano sul cielo sospeso, poi un tuono improvviso, una porta che sbatte di colpo. La casa è come un forno, nonostante il mio nuovo ventilatore. Ho portato fuori una lampada; a volte vedo meglio nell'oscurità. La scorsa settimana non ho scritto nulla. Mi sono scoraggiata. Perché annotare avvenimenti così tristi? Ma ho ricominciato. Ho ripreso i miei scarabocchi neri; si svolgono come un lungo filo scuro di inchiostro attraverso la pagina, intricati ma leggibili. Ho dunque intenzione di lasciare una firma, dopo tutto? Dopo tutto quanto ho fatto per evitare di lasciare il mio segno: iniziali scritte col gesso sul marciapiede, o la X di un pirata sulla mappa, per svelare la spiaggia in cui era sepolto il tesoro. Perché vogliamo con tale ostinazione commemorare noi stessi? Perfino mentre siamo ancora vivi. Desideriamo affermare la nostra esistenza, come i cani che fanno la pipì sugli idranti antincendio. Mettiamo in bella mostra le nostre fotografie in cornice, i nostri diplomi di pergamena, le nostre tazze placcate d'argento; mettiamo i monogrammi sulla nostra biancheria, incidiamo i nostri nomi sugli alberi, li scarabocchiamo sulle pareti dei bagni pubblici. È sempre lo stesso impulso. Cosa speriamo di ricavarne? Approvazione, invidia, rispetto? O semplicemente attenzione, di qualunque tipo riusciamo a ottenerne? Come minimo vogliamo un testimone. Non sopportiamo l'idea che alla fine le nostre voci tacciano, come una radio che si sta scaricando. Il giorno dopo i funerali di mia madre fui mandata con Laura in giardino. Fu Reenie a spedirci fuori; disse che aveva bisogno di tenere i piedi un po' sollevati, perché l'avevano portata su e giù tutto il giorno. «Sono allo stremo delle forze» disse. Aveva delle macchie violacee sotto gli occhi, e supposi che avesse pianto, in segreto per non disturbare nessuno, e che avrebbe continuato a farlo una volta che avessimo sgombrato il campo. «Faremo le brave» dissi. Non volevo uscire - mi pareva che ci fosse una luce troppo viva, troppo abbagliante, e mi sentivo le palpebre gonfie e rosa - ma Reenie disse che dovevamo andare, e che comunque l'aria fresca ci avrebbe fatto bene. Non ci fu detto di uscire a giocare, perché sarebbe stato irriverente farlo subito dopo la morte della mamma. Ci venne solo detto di uscire.
Il ricevimento per il funerale aveva avuto luogo ad Avilion. Non fu chiamata una veglia funebre - le veglie si tenevano dall'altra parte del fiume Jogues, ed erano chiassose e sconvenienti, a base di liquori. No: il nostro era un ricevimento. Il funerale era stato affollato, erano venuti gli operai della fabbrica, le loro mogli, i loro bambini, e naturalmente i notabili della città - i banchieri, il clero, gli avvocati, i dottori -, ma il ricevimento non fu per tutti, anche se avrebbe potuto benissimo esserlo. Reenie disse alla signora Hillcoate, che era stata chiamata per dare una mano, che Gesù poteva anche avere moltiplicato i pani e i pesci, ma il Capitano Chase non era Gesù e da lui non ci si aspettava che sfamasse le moltitudini, sebbene come al solito non avesse saputo limitarsi e lei sperasse soltanto che nessuno sarebbe stato calpestato a morte nella ressa. Quelli che erano stati invitati si erano accalcati in casa, pieni di deferenza, lugubri, avidi di curiosità. Reenie aveva contato i cucchiai sia prima che dopo, e disse che avremmo dovuto usare quelli di qualità più scadente, e che certa gente se ne sarebbe andata con qualunque cosa che non fosse inchiodata a terra pur di avere un ricordino, e - considerato il modo in cui mangiavano - avrebbe potuto benissimo mettere in tavola delle palette invece dei cucchiai. Nonostante ciò era avanzato del cibo - metà di un prosciutto, un mucchietto di biscotti, svariate torte saccheggiate - e io e Laura ci eravamo intrufolate furtivamente nella dispensa. Reenie lo sapeva, ma in quel momento non ebbe la forza di fermarci - di dire «Vi rovinerete la cena», o «Smettetela di sgranocchiare nella mia dispensa o vi trasformerete in topi», o «Mangiate un'altra briciola e scoppierete» - oppure di pronunciare uno qualsiasi degli altri avvertimenti o profezie da cui ricavavo un segreto conforto. Per quell'unica volta avevamo avuto il permesso di rimpinzarci senza freno. Io avevo mangiato troppi biscotti, troppi pezzi di prosciutto; avevo mangiato un'intera fetta di torta alla frutta. Indossavamo ancora i vestiti neri, che erano troppo caldi. Reenie ci aveva pettinato i capelli in strette trecce e li aveva tirati indietro, con un rigido nastro di gros-grain in cima e uno in fondo a ogni treccia: quattro austere farfalle nere per ognuna di noi. Fuori, il sole mi fece socchiudere gli occhi. Mi irritò il verde intenso delle foglie, il giallo e il rosso intensi dei fiori: la loro sicurezza, quel guizzante mettersi in mostra, come se ne avessero il diritto. Pensai di decapitarli, di devastarli. Mi sentivo desolata, nonché di malumore e gonfia. Lo zucchero mi ronzava nella testa.
Laura voleva che ci arrampicassimo sulle sfingi accanto alla serra, ma dissi di no. Poi voleva andare a sedersi accanto alla ninfa di pietra e guardare i pesci rossi. Non ci vidi niente di male. Laura saltellò davanti a me sul prato. Era allegra in maniera fastidiosa, come se non avesse una sola preoccupazione al mondo; era stata così durante tutto il funerale della mamma. Sembrava sconcertata dal dolore di quanti la circondavano. Ciò che mi bruciava ancora di più era che per questo motivo la gente sembrava più dispiaciuta per lei che per me. «Povero agnellino» dicevano. «È così piccola, non si rende conto». «La mamma è con Dio» diceva Laura. È vero, questa era la versione ufficiale, il significato di tutte le preghiere che erano state recitate; ma Laura aveva un suo modo di credere a certe cose, non nel duplice senso in cui ci credevano tutti gli altri, ma con una tranquilla risolutezza che mi faceva venire voglia di scuoterla. Ci sedemmo sulla sporgenza rocciosa in riva allo stagno delle ninfee; ognuna di esse scintillava al sole come gomma verde bagnata. Avevo dovuto issare Laura. Si era appoggiata contro la ninfa di pietra e dondolava le gambe, agitando le mani nell'acqua, canticchiando tra sé e sé. «Non dovresti cantare» le dissi. «La mamma è morta». «Non è vero» replicò Laura con aria soddisfatta di sé. «Non è morta davvero. È in Paradiso con il bambino». La spinsi giù dalla sporgenza. Ma non dentro lo stagno - avevo un po' di cervello. La spinsi sull'erba. Non era un gran salto e il terreno era soffice; non si sarebbe potuta fare molto male. Si sdraiò sulla schiena, quindi si rovesciò e mi guardò con gli occhi spalancati, come se non potesse credere a ciò che avevo appena fatto. La bocca le si aprì in una perfetta O a bocciolo di rosa, come un bambino che soffi sulle candeline in un libro illustrato. Poi si mise a piangere. (Devo ammettere che ne fui gratificata. Volevo che anche lei soffrisse quanto me. Ero stanca che la facesse sempre franca perché era tanto piccola). Laura si tirò su dall'erba e si mise a correre lungo il vialetto posteriore verso la cucina, piangendo come se l'avessi accoltellata. Le corsi dietro: sarebbe stato meglio essere presente quando avesse raggiunto qualcuno dei grandi, nel caso mi avesse accusato. Correva goffamente: le braccia sporgevano in modo buffo, le piccole gambe magre si aprivano in maniera scomposta, i rigidi nastri ballonzolavano in fondo alle trecce, il vestito nero svolazzava. Strada facendo cadde una volta, e allora si fece male davve-
ro - si sbucciò la mano. Nel vederlo fui sollevata: un po' di sangue avrebbe nascosto la mia cattiveria. La bibita Un giorno, nel mese dopo la morte della mamma - non ricordo quando con precisione - mio padre disse che mi avrebbe portata in città. Non mi aveva mai prestato troppa attenzione, e neppure a Laura - ci aveva affidate alla mamma, e poi a Reenie - perciò fui sorpresa della sua proposta. Non portò Laura. Non accennò neppure a farlo. Annunciò l'imminente gita al tavolo della colazione. Aveva cominciato a insistere che io e Laura facessimo colazione con lui, invece che in cucina con Reenie, come prima. Noi sedevamo a un'estremità del lungo tavolo e lui all'altra. Ci parlava raramente: preferiva leggere il giornale, e noi eravamo troppo in soggezione per interromperlo. (Lo adoravamo, naturalmente. O lo adoravi o lo odiavi. Non ispirava emozioni più moderate). Il sole che penetrava attraverso i vetri colorati delle finestre gettava su di lui riflessi di varie sfumature, come se fosse stato immerso nell'inchiostro da disegno. Ricordo ancora il cobalto della sua guancia, il mirtillo brillante delle dita. Io e Laura avevamo anche noi quei colori a nostra disposizione. Spostavamo i nostri piatti di porridge un po' a destra, un po' a sinistra, in modo che perfino il grigio scialbo della nostra farina d'avena si trasformasse in verde o blu o rosso o viola: cibo magico, o incantato, o avvelenato a seconda del mio capriccio o dell'umore di Laura. Poi mentre mangiavamo ci facevamo a vicenda le smorfie, ma zitte zitte. Lo scopo era di comportarsi così senza che lui se ne accorgesse. Be', dovevamo pur fare qualcosa per divertirci. Quello strano giorno, mio padre tornò presto dalla fabbrica e andammo in città a piedi. Non era tanto lontano; a quel tempo nessun punto della città era troppo lontano dall'altro. Mio padre preferiva camminare, piuttosto che guidare o farsi portare dall'autista. Credo che fosse per la gamba cattiva: voleva dimostrare di farcela. Gli piaceva camminare a grandi falcate per la città e lo faceva nonostante zoppicasse. Io gli correvo accanto, cercando di stare al passo con la sua andatura irregolare. «Andiamo da Betty's» disse mio padre. «Ti compro una bibita». Nessuna di queste due cose era mai accaduta prima. Il Betty's Luncheonette era per la gente di città, non per me e Laura, diceva Reenie. Non sarebbe stato be-
ne scendere al di sotto del nostro livello. E poi, le bibite erano un vizio dannoso e ci avrebbero rovinato i denti. Il fatto che due cose tanto proibite mi fossero state offerte in un colpo solo, e in maniera così naturale, mi fece quasi precipitare nel panico. Sulla strada principale di Port Ticonderoga c'erano cinque chiese e quattro banche, tutte fatte di pietra, tutte squadrate. A volte bisognava leggere i nomi che c'erano scritti sopra per distinguerle, sebbene le banche fossero senza campanile. Il Betty's Luncheonette era accanto a una di queste. Aveva un tendone a strisce verdi e bianche e in vetrina il disegno di un pasticcio di pollo che aveva piuttosto l'aria di un cappello da neonato fatto di impasto per dolci, con una balza arricciata attorno al bordo. Dentro, la luce era di un giallo fioco, e l'aria profumava di vaniglia e caffè e formaggio fuso. Il soffitto era fatto di lamiera stampata; ne penzolavano alcuni ventilatori con le pale che ricordavano eliche di aereo. Parecchie donne con il cappello sedevano a tavolini bianchi pesantemente decorati; mio padre fece un cenno del capo nella loro direzione, e quelle lo ricambiarono. Lungo un lato c'erano alcuni séparé di legno scuro. Mio padre prese posto a uno di essi, e io gli scivolai di fronte. Mi chiese che tipo di bibita volessi, ma non ero abituata a trovarmi da sola con lui in un luogo pubblico, ed ero intimidita. Inoltre non sapevo che tipi ce ne fossero. Così ordinò una bibita alla fragola per me e una tazza di caffè per sé. La cameriera aveva un vestito nero e una crestina bianca e le sopracciglia depilate a formare curve sottili, e una bocca rossa brillante come marmellata. Chiamava mio padre Capitano Chase e lui la chiamava Agnes. Da questo, e dal modo in cui appoggiava i gomiti sul tavolo, mi resi conto che doveva già conoscere quel posto. Agnes disse se ero la sua bambina, e com'ero dolce; mio padre mi lanciò un'occhiata antipatica. Lei gli portò il caffè quasi subito, oscillando leggermente sui tacchi alti, e nel posarlo gli toccò brevemente la mano. (Presi nota di quel tocco, anche se non potevo ancora interpretarlo). Poi portò la bibita per me, in un bicchiere a cono come un berretto d'asino capovolto; dentro c'erano due cannucce. Le bollicine mi andarono su per il naso e mi fecero lacrimare gli occhi. Mio padre mise una zolletta di zucchero nel caffè e lo girò, quindi batté leggermente il cucchiaino su un lato della tazza. Lo studiai da sopra il bordo del mio bicchiere. All'improvviso sembrava differente; sembrava qualcuno che non avessi mai visto prima - più inconsistente, in qualche modo meno solido, ma più dettagliato. Aveva i capelli pettinati all'indietro e ta-
gliati corti ai lati, e si stava stempiando; l'occhio buono era di un blu spento, come la carta da zucchero. Il suo viso distrutto, ancora bello, aveva la stessa aria distante che aveva la mattina, al tavolo della colazione, quasi stesse ascoltando una canzone, o un'esplosione in lontananza. I baffi erano più grigi di quanto avessi mai notato, e mi sembrava strano, a pensarci bene, che agli uomini crescessero simili setole sulla faccia e alle donne no. Anche i suoi soliti vestiti erano diventati misteriosi in quella cupa luce odorosa di vaniglia, come se appartenessero a qualcun altro e lui li avesse soltanto presi in prestito. Erano troppo grandi per lui, ecco. Si era ristretto. Ma al tempo stesso era più alto. Mi sorrise, e mi chiese se mi stessi gustando la mia bibita. Dopodiché rimase in silenzio e pensieroso. Poi tirò fuori una sigaretta dalla custodia d'argento che portava sempre con sé, l'accese e soffiò fuori il fumo. «Se succede qualcosa» disse alla fine, «devi promettermi di prenderti cura di Laura». Annuii con aria solenne. Cosa voleva dire qualcosa? Cosa poteva succedere? Temetti qualche cattiva notizia, anche se non avrei saputo dire quale. Forse se ne sarebbe andato via, oltreoceano. Le storie della guerra non erano andate sprecate con me. Tuttavia non diede altre spiegazioni. «Qua la mano, d'accordo?» disse. Allungammo le mani al di sopra del tavolo; la sua era dura e asciutta, come il manico di una valigia di cuoio. Il suo unico occhio buono mi studiava, come se stesse valutando se fossi o meno affidabile. Sollevai il mento, raddrizzai le spalle. Volevo disperatamente meritarmi il suo giudizio positivo. «Cosa puoi comprare con un nichelino?» chiese poi. Questa domanda mi colse impreparata, mi lasciò ammutolita: non lo sapevo. Io e Laura non ricevevamo mai denaro da spendere come volevamo, perché Reenie diceva che prima dovevamo imparare il valore di un dollaro. Dalla tasca interna del vestito scuro tirò fuori il suo taccuino rivestito di pelle di cinghiale e ne strappò un foglietto. Poi si mise a parlare di bottoni. Non era mai troppo presto, disse, perché cominciassi a imparare i semplici rudimenti dell'economia, che mi sarebbero serviti per agire in maniera responsabile quando fossi cresciuta. «Supponi di cominciare con due bottoni» disse. Disse: quello che ti costa produrre i bottoni sono le tue spese, e la cifra a cui riesci a vendere i bottoni è il tuo incasso. Questa cifra meno la spesa, nel corso di un dato periodo di tempo, è il tuo guadagno netto. A questo punto potresti tenerti una parte del guadagno netto e usare il resto per fare quattro bottoni, e poi
dovresti vendere anche quelli ed essere in grado di farne otto. Disegnò un piccolo grafico con la sua matita d'argento: due bottoni, poi quattro bottoni, poi otto bottoni. I bottoni si moltiplicavano in maniera stupefacente sulla pagina; nella colonna accanto, il denaro si accumulava. Era come sgusciare piselli: i piselli in una ciotola, i baccelli in un'altra. Mi chiese se capissi. Lo scrutai in viso per vedere se era serio. Lo avevo sentito piuttosto spesso inveire contro la fabbrica di bottoni come una trappola, una sabbia mobile, una iattura, un incubo, ma quello era quando aveva bevuto. Adesso era abbastanza sobrio. Non sembrava che stesse spiegando qualcosa, sembrava che si stesse scusando. C'era qualcos'altro che voleva da me, oltre alla risposta alla sua domanda. Era come se volesse che lo perdonassi, lo assolvessi da qualche crimine; ma cosa mi aveva fatto? Nulla che mi venisse in mente. Mi sentivo confusa, e anche non all'altezza: qualunque cosa volesse o pretendesse da me, era al di là della mia comprensione. Era la prima volta che un uomo si aspettava da me più di quanto fossi in grado di dare, e non sarebbe stata l'ultima. «Sì» risposi. La settimana prima che morisse - in una di quelle terribili mattine - mia madre disse una cosa strana, sebbene allora non la considerassi tale. Disse: «In fondo, vostro padre vi vuole bene». Non aveva l'abitudine di parlarci dei sentimenti, e soprattutto non di amore - del suo o di chiunque altro, eccetto di quello divino. Ma si suppone che i genitori amino i propri figli, perciò devo aver preso questa cosa che disse come una rassicurazione: nonostante le apparenze, mio padre era come gli altri padri, o almeno come si pensava che fossero. Ora credo che fosse più complicato. Poteva essere un avvertimento. Poteva anche essere un peso. Anche se in fondo c'era l'amore, era sepolto sotto un gran cumulo di cose, e che cosa puoi trovare, una volta che ti metti a scavare? Non un semplice dono, d'oro puro e scintillante; no, qualcosa di antico e magari di funesto, come un amuleto di ferro che si arrugginisce tra vecchie ossa. È un talismano che non vale granché, questo amore, ma è pesante; un arnese pesante da portarmi dietro, appeso alla sua catena di ferro attorno al collo. IV
L'assassino cieco: Il caffè La pioggia è leggera ma costante da mezzogiorno. La nebbia si alza dagli alberi, dalle carreggiate. Lei supera la vetrina con la tazza di caffè dipinta sopra, bianca con una riga verde intorno e tre strisce di fumo che ne fuoriescono in linee tremolanti, come se tre dita fossero scivolate giù lungo il vetro bagnato. Sulla porta, in lettere dorate che stanno venendo via, c'è la scritta Caffè; lei apre la porta ed entra, scuotendo l'ombrello. È color crema, come il suo impermeabile di popeline. Tira indietro il cappuccio. Lui è nell'ultimo séparé, accanto alla porta a vento che conduce in cucina, dove ha detto che sarebbe stato. Le pareti sono ingiallite dal fumo, i pesanti séparé sono dipinti di un marrone opaco, ognuno ha un gancio di metallo a forma di zampa di gallina per i cappotti. Vi sono seduti uomini, soltanto uomini, con giacche sformate come coperte logore, niente cravatte, capelli tagliati male, le gambe aperte e i piedi in scarponi ben piantati sul pavimento. Mani come ceppi: quelle mani potrebbero salvarti o picchiarti fino a ridurti in poltiglia, restando identiche nel fare entrambe le cose. Strumenti ottusi, come i loro occhi. C'è tanfo nella sala, di tavole marce e aceto versato e pantaloni di lana maleodoranti e carne vecchia e una doccia alla settimana, di risparmi e chiacchiere e rancore. Lei sa che è importante comportarsi come se non notasse l'odore. Lui solleva una mano, e gli altri uomini la guardano con sospetto e disprezzo, mentre si dirige svelta verso di lui, i tacchi che battono rumorosamente sul pavimento. Gli si siede di fronte, sorride sollevata: lui c'è. C'è ancora. Cristo, dice lui, tanto valeva che ti mettessi il visone. Che ho fatto? Cosa c'è? Il tuo soprabito. È solo un soprabito. Un normale impermeabile, dice lei, esitante. Cos'ha che non va? Gesù, fa lui, ma guardati. E guardati intorno. È troppo pulito. Per te non ne faccio una giusta, vero? chiede lei. Non ci riuscirò mai. Sì che ci riesci, dice lui. Sai cos'è che fai bene. Ma non rifletti mai. Non me l'avevi detto. Non ero mai stata qui prima d'ora - in un posto come questo. E non posso certo uscire di casa come una donna delle pulizie - ci hai pensato? Se almeno avessi una sciarpa o qualcosa del genere. Per coprirti i capel-
li. I capelli, fa lei in tono esasperato. Cos'altro? Cosa c'è che non va nei miei capelli? Sono troppo biondi. Si notano. Le bionde sono come i topi bianchi, li trovi soltanto in gabbia. Non durerebbero a lungo in natura. Sono troppo vistosi. Non sei gentile. Detesto la gentilezza, dice lui. Detesto chi si vanta di essere gentile. Saccenti benefattori da quattro soldi, che elargiscono la loro gentilezza. Gente da disprezzare. Io sono gentile, dice lei, sforzandosi di sorridere. A ogni modo, lo sono con te. Se avessi pensato che era tutto qui - tiepida gentilezza sdolcinata - me ne sarei andato. Il treno di mezzanotte e via, come un fulmine. Avrei tentato la fortuna altrove. Non sono una cassetta delle elemosine, non cerco la carità di un po' di sesso. È infuriato. Lei si chiede perché. Non lo vede da una settimana. O magari sarà la pioggia. Forse allora non si tratta di gentilezza, dice lei. Forse è egoismo. Forse sono spietatamente egoista. Mi piacerebbe di più, dice lui. Ti preferisco avida. Spegne la sigaretta, ne prende un'altra, ci ripensa. Fuma ancora quelle belle e pronte, un lusso per lui. Deve razionarle. Si chiede se abbia abbastanza denaro, ma non può domandarglielo. Non voglio che mi siedi davanti così, sei troppo lontana. Lo so, dice lei. Ma non c'è nessun altro posto. Piove troppo. Troverò un posto per noi. Da qualche parte dove non nevichi. Non sta nevicando. Ma lo farà, dice lui. Soffierà il vento del nord. E avremo la neve. E allora cosa faranno i ladri, poveretti? Almeno gli ha strappato un sorriso, anche se ha più l'aria di una smorfia. Dove hai dormito? chiede lei. Non importa. Non hai bisogno di saperlo. In questo modo, se mai ti troveranno e ti faranno delle domande, non dovrai mentire. Non sono male come bugiarda, dice lei cercando di sorridere. Forse potresti farla a un dilettante, ribatte lui. Ma i professionisti, loro ti scoprirebbero, eccome. Ti aprirebbero come un pacco. Ti stanno ancora cercando? Non hanno rinunciato?
Non ancora. A quanto sento dire. È terribile, non è vero? dice lei. È tutto così terribile. Eppure siamo fortunati, no? Perché saremmo fortunati? È tornato di umore cupo. Almeno siamo tutti e due qui, almeno abbiamo... Il cameriere è in piedi accanto al séparé. Ha le maniche della camicia rimboccate, un lungo grembiule impregnato di vecchia sporcizia, ciocche di capelli sistemate attraverso la testa come un nastro oleoso. Ha le dita delle mani che sembrano dita dei piedi. Caffè? Sì, per favore, dice lei. Senza zucchero. Aspetta che il cameriere se ne sia andato. È sicuro? Il caffè? Vuoi dire se ci sono dentro germi? Non dovrebbero, è stato bollito per ore. Le rivolge un sorriso beffardo, ma lei preferisce non capire. No, voglio dire se il posto è sicuro. È un amico di un amico. Comunque tengo d'occhio la porta - potrei svignarmela dal retro. C'è un vicolo. Non sei stato tu, vero? dice lei. Te l'ho detto. Però avrei potuto, ero là. Comunque non ha importanza, perché a loro vado a pennello. Sarebbero felici di vedermi con le spalle al muro. Me e le mie brutte idee. Devi scappare, dice lei in tono disperato. Pensa alla parola cingere, a quanto sia sorpassata. Eppure è questo che vuole - cingerlo tra le sue braccia. Non ancora, dice lui. Meglio non andare, ancora. Meglio non prendere treni, non superare confini. Corre voce che è proprio lì che stanno controllando. Mi preoccupo per te, dice lei. Faccio brutti sogni. Mi preoccupo in continuazione. Non devi preoccuparti, cara, fa lui. Dimagrirai, e poi le tue belle tette e il tuo culo si ridurranno a niente. Non sarai più buona per nessuno, allora. Si porta la mano alla guancia come se l'avesse schiaffeggiata. Vorrei che non parlassi così. Lo so, dice lui. Le ragazze con impermeabili come il tuo hanno di questi desideri. The Port Ticonderoga Herald and Banner, 16 marzo 1933
CHASE APPOGGIA L'OPERA ASSISTENZIALE DI ELWOOD R. MUKRAY, CAPOREDATTORE Con il gesto altamente improntato a senso civico che la città si aspettava da lui, il Capitano Norval Chase, Presidente delle Industrie Chase, ha annunciato ieri che le Industrie Chase metteranno a disposizione dell'opera assistenziale a favore delle aree del paese più colpite dalla depressione tre carri merci di «seconde scelte» delle loro fabbriche, tra cui copertine, golfini per bambini e un assortimento di pratica biancheria intima per uomini e donne. Il Capitano Chase ha altresì dichiarato all'Herald and Banner che in questo momento di crisi nazionale ognuno ha il dovere di darsi da fare come durante il periodo bellico, e soprattutto gli abitanti dell'Ontano, che sono stati più fortunati di altri. Attaccato dai suoi avversari, in particolare dal signor Richard Griffen della Royal Classic Knitwear di Toronto, che lo ha accusato di scaricare le sue eccedenze sul mercato sotto forma di offerte gratuite privando in tal modo i lavoratori del salario, il Capitano Chase ha sostenuto che dal momento che coloro a cui sono destinati tali prodotti non potrebbero permettersi di acquistarli, non sta regalando la paga di nessuno. Ha aggiunto che tutte le aree del paese hanno sofferto battute d'arresto e che attualmente le Industrie Chase stanno facendo fronte a una diminuzione della produzione dovuta al calo della domanda. Ha detto inoltre che, sebbene disposto a fare qualsiasi sforzo per tenere in funzione le fabbriche, ben presto potrebbe vedersi costretto a effettuare licenziamenti o a ridurre orario di lavoro e paghe. Non possiamo che plaudire agli sforzi del Capitano Chase, un uomo che mantiene fede alla parola data. Il suo rifiuto di cedere alle logiche di crumiraggi e serrate adottate in centri come Winnipeg e Montreal ha mantenuto Port Ticonderoga una città rispettosa della legge ed esente dalle scene di disordini provocati dai sindacati, di violenza brutale e di versamento di sangue di ispirazione comunista che hanno devastato altre città, con notevoli danni alla proprietà, nonché morti e feriti.
L'assassino cieco: Il copriletto di ciniglia È qui che vivi? dice lei. Tormenta i guanti tra le mani, come se fossero bagnati e li stesse strizzando. È qui che sto, dice lui. È una cosa differente. La casa è in una fila di costruzioni identiche, tutte di mattoni rossi anneriti dalla fuliggine, strette e alte, dai tetti molto ripidi. Davanti c'è un rettangolo di polvere, qualche erbaccia secca cresciuta ai lati del vialetto. Un sacchetto di carta marrone strappato. Quattro gradini conducono alla veranda. Tendine di pizzo penzolano alla finestra sul davanti. Lui tira fuori la chiave. Nell'entrare lei lancia un'occhiata al di sopra della spalla. Non preoccuparti, dice lui, non sta guardando nessuno. Comunque, è la casa di un mio amico. Oggi sono qui e domani me ne sarò andato. Hai un sacco di amici, dice lei. No, ribatte lui. Non te ne servono molti, se non ci sono mele marce. C'è un'anticamera con una fila di ganci per i cappotti, un pavimento di linoleum consumato con un motivo a quadrati marroni e gialli, una porta interna con un pannello di vetro smerigliato con sopra disegnati aironi o gru. Uccelli dalle lunghe zampe che curvano i colli aggraziati e flessibili tra giunchi e ninfee, resti di un'età precedente: illuminazione a gas. Lui apre la porta con una seconda chiave, ed entrano nello scuro ingresso interno; dà un colpetto all'interruttore. Sopra di loro, un lume con tre fiori di vetro rosa e due lampadine mancanti. Non avere l'aria tanto sgomenta, cara, dice lui. Nessuna di queste cose ti si attaccherà. Basta che non tocchi niente. Oh, potrebbe succedere davvero, dice lei con una risata ansimante. E a te devo toccarti. Mi ti attaccherai. Lui chiude la porta alle loro spalle. Sulla sinistra ce n'è un'altra, verniciata e scura: lei immagina un orecchio indagatore schiacciato contro di essa dall'interno, uno scricchiolio, come di un peso che si sposti da un piede all'altro. Qualche malevola vecchia rugosa dai capelli grigi - non si combinerebbe bene con le tendine di pizzo? Una lunga e ripida rampa di scale sale verso l'alto, con passatoie inchiodate e una rada ringhiera. La carta da parati ha un disegno reticolato, con tralci di vite e rose intrecciate, un tempo rosa, ora di quel marrone chiaro del tè al latte. Lui la circonda con cautela con un braccio, le strofina le labbra su un lato del collo, sulla gola; non
sulla bocca. Lei rabbrividisce. È facile liberarsi di me, dopo, dice lui in un sussurro. Basta andare a casa e farsi una doccia. Non dire così, fa lei, sempre in un sussurro. Stai scherzando. Non mi prendi mai sul serio. Fai sul serio questo, dice lui. Lei gli fa scivolare il braccio attorno alla vita e salgono le scale in modo un po' goffo, un po' pesante; i loro corpi li rallentano. A metà strada c'è una finestra rotonda con i vetri colorati: la luce cade attraverso il blu cobalto del cielo, l'uva di un viola da grande magazzino a buon mercato e il rosso da mal di testa dei fiori, tingendo i loro visi. Sul pianerottolo del secondo piano lui la bacia di nuovo, questa volta con maggiore intensità, facendole scivolare su la gonna lungo le gambe coperte di seta fino all'orlo delle calze, toccando i bottoncini di gomma dura, spingendola contro il muro. Lei porta sempre un busto: toglierglielo è come scuoiare una foca. Il cappello le rotola a terra, le sue braccia sono attorno al collo di lui, la testa e il corpo inarcati all'indietro come se qualcuno la stesse tirando per i capelli. Quanto ai capelli, si sono sciolti, srotolati; lui ci passa sopra la mano, su quella pallida striscia affusolata, e pensa a una fiamma, alla singola fiamma tremolante di una candela bianca capovolta. Ma una fiamma non brucia verso il basso. La stanza è al terzo piano, dove un tempo dovevano trovarsi gli alloggi della servitù. Una volta dentro, lui mette la catenella. La stanza è piccola e soffocante e buia, con una finestra, aperta di qualche centimetro, l'avvolgibile quasi completamente abbassato, bianche tendine a rete annodate su ciascun lato. Il sole pomeridiano colpisce l'avvolgibile, tingendolo d'oro. L'aria odora di carie del legno, ma anche di sapone. In un angolo c'è un piccolo lavandino triangolare con sopra appeso uno specchio pieno di macchie giallastre; infilata lì sotto, la scatola nera della sua macchina per scrivere. Il suo spazzolino in una tazza smaltata; non è uno spazzolino nuovo. È troppo intimo. Distoglie lo sguardo. C'è una scrivania verniciata di scuro con segni di bruciature di sigaretta e tracce di bicchieri bagnati, ma quasi tutto lo spazio è occupato dal letto. È di quelli di ottone, antiquato, da ragazza, dipinto di bianco tranne ai pomelli. Probabilmente scricchiolerà. A questo pensiero, arrossisce. Capisce che si è dato da fare con il letto - ha cambiato le lenzuola o almeno la federa, lisciato lo scolorito copriletto di ciniglia di un verde giallastro. Vorrebbe quasi che non lo avesse fatto, perché quella vista le provoca
una fitta di qualcosa che ricorda la pietà, come se un contadino che muore di fame le avesse offerto il suo ultimo boccone di pane. Non è pietà ciò che vuole sentire. Non vuole sentire che lui è in alcun modo vulnerabile. Solo a lei è concesso. Appoggia la borsa e i guanti sul piano della scrivania. All'improvviso percepisce la cosa come un'occasione mondana. Come occasione mondana è assurda. Purtroppo non c'è il maggiordomo. Vuoi bere qualcosa? Ho dello scotch a buon mercato. Sì, per favore, dice lei. Lui tiene la bottiglia nel cassetto in alto della scrivania; la tira fuori insieme a due bicchieri. Dimmi basta. Basta, grazie. Non c'è ghiaccio, dice lui, ma se vuoi c'è dell'acqua. Va bene così. Lei ingoia il whisky, tossicchia, gli sorride, in piedi con la schiena contro la scrivania. Liscio e forte e tutto d'un fiato, dice lui, proprio come ti piace farlo. Si siede sul letto con il suo drink. Alla salute del fatto che ti piace. Solleva il bicchiere. Non le restituisce il sorriso. Sei stranamente cattivo, oggi. Autodifesa, dice lui. A me non piace farlo, mi piaci tu, ribatte lei. So la differenza. Fino a un certo punto, dice lui. O almeno pensi di saperla. Per salvare la faccia. Dammi una buona ragione perché non dovrei prendere e andarmene. Lui sorride. Allora vieni qui. Anche se sa che lei vorrebbe che lo facesse, non le dirà che la ama. Forse questo lo lascerebbe senza armatura, come un'ammissione di colpa. Mi tolgo subito le calze. Si smagliano solo a guardarle. Come te, dice lui. Lasciatele. Ora vieni. Il sole si è spostato; rimane soltanto un cuneo di luce, sulla sinistra dell'avvolgibile abbassato. Fuori, un tram passa sferragliando, suonando la campanella. I tram devono essere passati per tutto il tempo. Perché allora loro hanno sentito solo un gran silenzio? Il silenzio e il suo respiro, i loro respiri, laboriosi, trattenuti, nel tentativo di non fare alcun rumore. O di non farne troppo. Perché il piacere dovrebbe assomigliare tanto all'angoscia? A qualcuno ferito. Lui le aveva messo una mano sulla bocca. Ora la stanza è più buia, eppure lei vede meglio. Il copriletto ammucchiato sul pavimento, il lenzuolo attorcigliato attorno e sopra di loro
come uno spesso viticcio di stoffa; l'unica lampadina, non schermata, la carta da parati color crema con le sue violette blu, piccole e assurde, macchiata di beige dove il tetto deve aver lasciato passare l'acqua; la catenella che protegge la porta. La catenella che protegge la porta: è piuttosto fragile. Una buona spinta, un calcio con uno scarpone. Se dovesse succedere, cosa farebbe lei? Sente le pareti assottigliarsi, farsi trasparenti. Sono pesci in una boccia. Lui accende due sigarette, gliene porge una. Tutti e due aspirano. Lui passa la mano libera lungo di lei, poi di nuovo, stringendola tra le dita. Si chiede quanto tempo abbia; non glielo domanda. Invece, le afferra il polso. Lei porta un orologino d'oro. Lui ne copre il quadrante. E allora, dice. Una storia prima di andare a letto? Sì, per favore, risponde lei. Dov'eravamo rimasti? Avevi appena tagliato la lingua a quelle povere fanciulle con i loro veli da sposa. Ah, sì. E tu hai protestato. Se non ti piace questa storia potrei raccontartene un'altra, ma non sono in grado di prometterti che sarebbe meno cruenta. Potrebbe anche essere peggiore. Potrebbe essere ambientata al giorno d'oggi. Invece di pochi morti Zycroniani, potremmo avere acri di fango appiccicoso e centinaia di migliaia di... Mi tengo questa, dice svelta lei. Comunque, è quella che vuoi raccontarmi. Lei spegne la sigaretta nel portacenere di vetro marrone, poi gli si sistema accanto, con l'orecchio sul suo petto. Le piace sentire la sua voce in questo modo, come se non gli nascesse nella gola ma nel corpo, come un mormorio o un ringhio, o come una voce che parli dal profondo del sottosuolo. Come il sangue che si muove attraverso il proprio cuore: una parola, una parola, una parola. The Mail and Empire, 5 dicembre 1934 PLAUSO PER BENNETT SPECIALE PER THE MAIL AND EMPIRE In un discorso tenuto all'Empire Club ieri sera, il signor Richard E. Griffen, finanziere di Toronto e Presidente della Royal Classic
Kneatwear senza troppi peli sulla lingua, ha rivolto contenute lodi al Primo Ministro R.B. Bennett e frecciate ai suoi critici. Riferendosi alla turbolenta manifestazione di domenica ai Maple Leaf Gardens di Toronto, nel corso della quale 15.000 comunisti hanno inscenato un isterico benvenuto al loro leader Tim Buck, arrestato per associazione sovversiva ma rilasciato sulla parola sabato dal Kingston's Portsmouth Penitentiary, il signor Griffen si è dichiarato allarmato nel vedere il governo «cedere alle pressioni», sotto forma di una petizione firmata da 200.000 «cuori delusi e sanguinanti». La politica del «pugno di ferro dell'inflessibilità» del signor Bennett era stata corretta, ha sostenuto, dal momento che l'arresto di coloro che complottavano per far cadere i governi eletti e per confiscare la proprietà privata era l'unico modo di trattare la sovversione. Quanto alle decine di migliaia di immigrati espulsi sulla base dell'Articolo 98, compresi quelli rispediti in paesi come la Germania e l'Italia dove li attende il campo di concentramento, questi si erano dichiarati fautori di un regime tirannico, e ora potranno averne un assaggio di prima mano, ha detto il signor Griffen. Passando all'economia, ha affermato che sebbene la disoccupazione rimanga alta, con l'inquietudine che ne deriva e con i comunisti e i loro simpatizzanti che continuano ad approfittarne, ci sono stati segnali positivi, e lui è fiducioso che la Depressione finirà entro la primavera. Intanto l'unica politica sana sarebbe tirare diritti e permettere al sistema di correggersi. Qualsiasi propensione al socialismo morbido del signor Roosevelt dovrebbe essere contrastata, dal momento che tali tentativi potrebbero soltanto far ammalare ancora di più l'economia già sofferente. Sebbene la piaga della disoccupazione vada deplorata, molti sono gli scansafatiche per vocazione, e contro gli scioperanti illegali e gli agitatori esterni dovrebbe auspicarsi un pronto ed efficace uso della forza. Le considerazioni del signor Griffen sono state accolte da applausi scroscianti. L'assassino cieco: Il messaggero Allora. Diciamo che è buio. I soli, tutti e tre, sono tramontati. Sono sorte un paio di lune. Sulle colline ai piedi delle montagne si aggirano i lupi. La
fanciulla prescelta aspetta il suo turno di essere sacrificata. Le è stato servito il suo ultimo, elaborato pasto, è stata profumata e unta, canzoni sono state intonate in sua lode. Ora giace su un letto di broccato dorato e rosso, chiusa nella stanza più interna del Tempio, odorosa del miscuglio di petali e incenso e spezie aromatiche frantumate che di solito si cosparge sui feretri dei morti. Quanto al letto, è chiamato il Letto di Una Notte, perché nessuna fanciulla ce ne passa mai due. Invece tra le fanciulle stesse, finché hanno ancora la lingua, è chiamato il Letto delle Lacrime Mute. A mezzanotte riceverà la visita del Signore dell'Oltretomba, che a quanto si dice indossa un'armatura arrugginita. L'Oltretomba è il luogo della lacerazione e della disintegrazione: tutte le anime devono attraversarlo nel loro tragitto verso la terra degli Dei, e alcune - le più peccaminose - devono rimanervi. Ogni fanciulla consacrata del Tempio deve subire una visita del Signore coperto di ruggine la notte prima del suo sacrificio, perché in caso contrario la sua anima rimarrà insoddisfatta, e invece di viaggiare verso la terra degli Dei sarà costretta a unirsi al gruppo di morte belle e nude dai capelli azzurri, le figure piene, le labbra rosso rubino e gli occhi come fosse piene di serpenti, che vagano attorno alle antiche tombe in rovina nelle desolate montagne a ovest. Come vedi, non le ho dimenticate. Apprezzo la tua premura. Per te questo e altro. Qualunque altro dettaglio vuoi che aggiunga, non hai che da dirmelo. Come molta gente, antica e moderna, gli Zycroniani temono le vergini, specialmente morte. Le donne tradite in amore che sono spirate senza essersi sposate, da morte sono spinte a cercare ciò che si sono tanto sfortunatamente perdute da vive. Di giorno dormono nelle tombe in rovina e di notte danno la caccia agli sprovveduti viaggiatori, in particolare a qualsiasi giovane sia tanto temerario da percorrere quei luoghi. Balzano su questi giovani e ne succhiano l'essenza vitale, trasformandoli in obbedienti zombi, obbligati a soddisfare a richiesta le loro innaturali brame. Che sfortuna per i giovani, dice lei. Non c'è alcun modo di difendersi da queste creature maligne? Si può trafiggerle con lance o schiacciarle con massi, riducendole in poltiglia. Ma sono talmente tante che è come respingere una piovra, sono addosso a un poveretto prima che se ne accorga. Comunque, ipnotizzano le vittime, annientano la loro forza di volontà. È la prima cosa che fanno. Appena se ne vede una, si rimane inchiodati sul posto. Posso immaginarlo. Ancora scotch? Credo di poterlo reggere. Grazie. La fanciulla - secondo te come do-
vrebbe chiamarsi? Non lo so. Scegli tu. Sei tu l'esperto. Ci penserò. A ogni modo, eccola che giace sul Letto di Una Notte, in preda all'ansia. Non sa cosa sarà peggio, la gola tagliata o le poche ore che l'aspettano. Sebbene ufficialmente sia un segreto, al Tempio tutti sanno che il Signore dell'Oltretomba non è davvero tale, ma semplicemente uno dei cortigiani travestito. Come ogni altra cosa a Sakiel-Norn anche questa carica è in vendita, e si dice che ingenti somme passino da una mano all'altra per questo privilegio - sottobanco, naturalmente. Beneficiaria degli illeciti compensi è la Somma Sacerdotessa, che è facilmente corruttibile e di cui è noto il debole per gli zaffiri. Si giustifica giurando di destinare il denaro in beneficenza, e in realtà ne usa un po' in quel modo, quando si ricorda. Le fanciulle possono difficilmente lamentarsi di questa parte della loro prova, dal momento che sono senza lingua o materiale per scrivere, e comunque il giorno dopo sono tutte morte. Soldi venuti dal cielo, dice la Somma Sacerdotessa tra sé e sé mentre raccoglie il denaro. Nel frattempo in lontananza una grande orda lacera di barbari è in marcia, decisa a conquistare la famosa città di Sakiel-Norn, quindi a saccheggiarla e a raderla al suolo. Hanno già fatto lo stesso a parecchie altre città più a ovest. Nessuno - nessuno tra i paesi civili, cioè - può spiegarsi il loro successo. Non sono né ben equipaggiati né ben armati, non sanno leggere e non possiedono nessun ingegnoso strumento di metallo. Non solo, non hanno un Re, soltanto un capo. Questo non ha neanche un nome; ha rinunciato al suo nome al momento di diventare il capo, e al suo posto gli è stato dato un titolo. Il suo titolo è Servitore della Gioia. I suoi seguaci si riferiscono a lui anche come al Flagello dell'Onnipotente, Pugno Destro dell'Invincibile, Purificatore delle Iniquità e Difensore della Giustizia e della Virtù. La patria originale dei barbari è sconosciuta, ma si è d'accordo nell'affermare che provengano dal nord-ovest, dove hanno origine anche tutti i venti. I loro nemici li chiamano il Popolo della Desolazione, ma loro si definiscono il Popolo della Gioia. Il loro attuale capo reca i segni del favore divino: alla nascita aveva in testa un brandello di sacco amniotico, ha il piede ferito e un segno a forma di stella sulla fronte. Cade in trance e comunica con l'altro mondo ogniqualvolta non sa quale sarà la sua prossima mossa. Si appresta a distruggere Sakiel-Norn perché gli è stato ordinato da un messaggero degli Dei. Il messaggero gli è apparso sotto forma di fiamma con numerosi occhi e guizzanti ali di fuoco. Si sa che simili messaggeri parlano in tortuose para-
bole e assumono varie forme: thulk ardenti o sassi parlanti, o fiori che camminano, o ancora creature con il corpo di uomo e la testa di uccello. Ma potrebbero assumere l'aspetto di una persona qualsiasi. Chi viaggia da solo o in coppia, uomini dalla fama di ladri o maghi, stranieri che parlano parecchie lingue e mendicanti ai margini della strada sono coloro sotto le cui sembianze si nascondono con più probabilità dei messaggeri, dice il Popolo della Desolazione: perciò ognuno di loro deve essere trattato con grande circospezione, almeno finché non sia dato scoprire la loro vera natura. Se risultano emissari divini, la cosa migliore è offrire loro cibo e vino e l'uso di una donna, se richiesto, ascoltarne rispettosamente i messaggi e poi lasciarli andare per la loro strada. In caso contrario, andrebbero lapidati a morte e le loro proprietà confiscate. Puoi star certa che tutti i viaggiatori, maghi, stranieri o mendicanti che si trovino nelle vicinanze del Popolo della Desolazione provvedono di rifornirsi di una riserva di oscure parabole parole nebulose, sono chiamate, o seta intrecciata -, abbastanza arcane da tornare utili nelle varie occasioni che le circostanze possono dettare. Viaggiare tra il Popolo della Desolazione senza un indovinello o versi enigmatici equivarrebbe ad andare incontro a morte sicura. Secondo le parole della fiamma con gli occhi, la città di Sakiel-Norn era stata prescelta per essere distrutta in considerazione della sua lussuria, del suo culto di falsi dei, e soprattutto dei suoi ripugnanti sacrifici di bambini. A causa di questa pratica tutta la popolazione della città, compresi gli schiavi e i bambini e le vergini destinate al sacrificio, dovevano essere passati a fil di spada. Il fatto che i barbari volessero uccidere perfino coloro la cui ingiusta condanna a morte era la ragione della loro calata può sembrare strano, ma per il Popolo della Gioia non è la colpa o l'innocenza a essere determinante, ma l'essere o meno contaminati, e per quello che riguarda il Popolo della Gioia in una città contaminata ognuno è contaminato come tutti gli altri. L'orda avanza inesorabile, sollevando al suo passaggio una scura nube di polvere; la nube fluttua sopra di essa come una bandiera. Tuttavia, non è abbastanza vicina perché le sentinelle piazzate sulle mura di Sakiel-Norn possano avvistarla. Chiunque sia in grado di dare l'allarme - pastori sperduti, mercanti in transito e così via - viene scovato e massacrato senza pietà, eccezion fatta per coloro che potrebbero rivelarsi messaggeri divini. Il Servitore della Gioia cavalca davanti a tutti, il cuore puro, la fronte corrugata, gli occhi fiammeggianti. Sulle spalle ha un rozzo mantello di
cuoio, sulla testa l'insegna della sua carica, un copricapo a cono rosso. Dietro di lui vengono i suoi seguaci, scoprendo i canini. Gli erbivori fuggono dinanzi a loro, i saprofagi li seguono, i lupi avanzano a lunghi balzi ai loro fianchi. Intanto, nella città ignara di tutto, è in corso una congiura per rovesciare il Re. È stata organizzata (come di consueto) da un gruppo di cortigiani altamente fidati. Hanno assoldato il più abile degli assassini ciechi, un giovane che da bambino era stato tessitore di tappeti per poi essere venduto nei bordelli, ma che dal momento della sua fuga è divenuto famoso per i modi silenziosi e furtivi, e per la spietatezza della mano nel brandire il coltello. Il suo nome è X. Perché X? Uomini come quello si chiamano sempre X. Non sanno che farsene dei nomi, per loro i nomi sono solo un vincolo. Comunque, X sta per raggi X: se sei X, puoi passare attraverso solidi muri e guardare attraverso i vestiti delle donne. Ma X è cieco, dice lei. Ancora meglio. Vede attraverso i vestiti delle donne con l'occhio interno che è la felicità della solitudine. Povero Wordsworth! Non essere irriverente! fa lei, deliziata. Non posso farci nulla, è da quando sono bambino che sono irriverente. X deve penetrare nel recinto del Tempio delle Cinque Lune, trovare la porta della stanza dove avverrà il sacrificio della vergine destinata a morire il giorno dopo e tagliare la gola alla sentinella. Poi deve uccidere anche la fanciulla, nasconderne il corpo sotto il leggendario Letto di Una Notte e indossarne i veli cerimoniali. Deve aspettare finché il cortigiano che impersona il Signore dell'Oltretomba - che in realtà altri non è che il capo dell'imminente colpo di mano - arrivi, prenda ciò per cui ha pagato e se ne rivada. Il cortigiano ha pagato una bella somma e vuole qualcosa che valga il denaro sborsato, il che non significa una ragazza morta, anche se appena uccisa. Vuole che il cuore le batta ancora. Ma nel prendere accordi si è fatta confusione. C'è stato un malinteso sui tempi: così come stanno le cose, l'assassino cieco sarà il primo a tagliare il traguardo. È troppo macabro, dice lei. Hai una mente contorta. Lui le passa un dito lungo il braccio nudo. Vuoi che continui? Di regola
lo faccio per soldi. Tu lo stai avendo per niente, dovresti essermi grata. Comunque, non sai cosa accadrà. Sto solo intricando la trama. Direi che era già abbastanza intricata. Le trame intricate sono la mia specialità. Se ne vuoi di più esili, cerca altrove. Va bene, va bene. Continua. Travestito con gli abiti della fanciulla uccisa, l'assassino deve aspettare fino al mattino e poi farsi condurre lungo i gradini che portano all'altare, dove, al momento del sacrificio, pugnalerà il Re. Sembrerà dunque che il Re sia stato colpito dalla Dea in persona, e la sua morte sarà il segnale per un'insurrezione orchestrata con cura. Alcuni degli elementi più violenti, debitamente corrotti, insceneranno una rivolta. Dopodiché gli eventi seguiranno lo schema consacrato dal tempo. Le sacerdotesse del Tempio saranno prese in custodia, per la loro incolumità, si dirà, ma in realtà per costringerle ad appoggiare la rivendicazione dei cospiratori all'autorità spirituale. I nobili fedeli al Re saranno trafitti sul posto; i loro figli maschi saranno anch'essi uccisi, per evitare vendette successive; le loro figlie verranno date in spose ai vincitori per legittimare la confisca delle ricchezze delle loro famiglie, e le loro mogli viziate e sicuramente adultere date in pasto alla folla. Quando i potenti cadono, è un gran piacere potercisi pulire sopra i piedi. L'assassino cieco progetta di fuggire nella confusione che seguirà, tornando più tardi a reclamare l'altra metà del suo generoso compenso. In realtà i cospiratori intendono ucciderlo subito, perché sarebbe un disastro se fosse catturato e - in caso di fallimento del complotto - costretto a parlare. Il suo cadavere sarà ben nascosto, perché tutti sanno che gli assassini ciechi lavorano soltanto se prezzolati, e prima o poi la gente potrebbe cominciare a chiedersi chi fosse stato a prezzolare lui. Organizzare la morte di un Re è una cosa, essere scoperti è tutt'altra. La fanciulla rimasta finora senza nome giace sul suo letto di broccato rosso, aspettando il falso Signore dell'Oltretomba e rivolgendo un muto addio alla vita. L'assassino cieco avanza furtivo nel corridoio con indosso le vesti grigie di un'ancella del Tempio. Raggiunge la porta. La sentinella è una donna, dal momento che a nessun uomo è concesso di servire all'interno del recinto. Attraverso il suo velo grigio l'assassino le sussurra che ha un messaggio da parte della Somma Sacerdotessa destinato solo alle sue orecchie. La donna si china, il coltello si muove un'unica volta, la saetta di
Dio è misericordiosa. Le mani cieche guizzano verso il tintinnio delle chiavi. La chiave gira nella serratura. Dentro la stanza, la fanciulla la sente. Si alza. La sua voce si ferma. Rimane in ascolto di qualcosa fuori in strada. Lei si solleva su un gomito. Che c'è? chiede. È solo lo sportello di una macchina. Fammi un favore, dice lui. Da brava, mettiti la sottoveste e sbircia fuori della finestra. E se qualcuno mi vede? dice lei. Siamo in pieno giorno. Non c'è problema. Non ti riconosceranno. Vedranno soltanto una donna in sottoveste, non è uno spettacolo fuori del comune da queste parti; penseranno semplicemente che sei una... Una donna di facili costumi? dice lei disinvolta. È quello che pensi anche tu? Una vergine violata. Non è la stessa cosa. Molto galante da parte tua. A volte sono il mio peggior nemico. Se non fosse per te sarei molto più violata, dice lei. Ora è alla finestra, solleva l'avvolgibile. La sua sottoveste è del verde freddo del ghiaccio a riva, ghiaccio spaccato. Non potrà restarle aggrappato, non a lungo. Si squaglierà, si allontanerà, gli scivolerà di mano. Non c'è niente là fuori? dice lui. Nulla di anormale. Torna a letto. Ma lei ha guardato nello specchio sopra il lavandino, si è vista. Il viso senza trucco, i capelli scompigliati. Controlla l'orologio d'oro. Dio, che disastro, dice. Devo andare. The Mail and Empire, 15 dicembre 1934 VIOLENTO SCIOPERO SOFFOCATO DALL'ESERCITO PORT TICONDEROGA, ONT. Nuove violenze sono scoppiate ieri a Port Ticonderoga dopo i
disordini verificatisi nel corso della settimana in seguito alla chiusura, allo sciopero e alla serrata delle Industrie Chase & Figli. Essendosi le forze di polizia dimostrate insufficienti numericamente ed essendo stati richiesti rinforzi dall'assemblea legislativa provinciale, nell'interesse della sicurezza pubblica il Primo Ministro ha autorizzato l'intervento di un distaccamento del Royal Canadian Regiment, che è giunto sul posto alle due pomeridiane. Prima che l'ordine fosse ristabilito, un'assemblea di scioperanti ha perso il controllo. Le vetrine dei negozi della strada principale della città sono state infrante e lungamente saccheggiate. Parecchi negozianti che cercavano di difendere le loro proprietà hanno riportato contusioni e sono ora ricoverati in ospedale. A quanto pare un poliziotto è in grave pericolo di vita per la commozione cerebrale causatagli da un colpo di mattone alla testa. Si stanno conducendo indagini su un incendio divampato alla Fabbrica Uno alle prime ore del mattino e domato dai vigili del fuoco cittadini, e si sospetta il dolo. Il guardiano notturno, il signor Al Davidson, una volta trascinato al sicuro lontano dalle fiamme, è stato dichiarato morto per un colpo alla testa e intossicazione da fumo. Sono in corso le ricerche degli esecutori dell'attentato, e molti sospetti sono già stati individuati. L'editore del quotidiano di Port Ticonderoga, il signor Elwood R. Murray, ha affermato che a causare i disordini è stato l'alcol introdotto tra la folla da numerosi agitatori esterni. Ha sostenuto che i lavoratori del luogo sono sempre stati rispettosi della legge e non si sarebbero sollevati, se non fossero stati provocati. Il signor Norval Chase, Presidente delle Industrie Chase & Figli, non ha rilasciato commenti. L'assassino cieco: I cavalli della notte Una casa differente questa settimana, una stanza differente. Almeno tra la porta e il letto c'è lo spazio per girarsi. Le tende sono messicane, a strisce gialle, blu e rosse; il letto ha una testiera di acero, c'è una coperta della Compagnia della Baia di Hudson, di quelle che costituivano oggetto di scambio con i nativi, color cremisi e ruvida, che è stata gettata a terra. Alla parete il manifesto di una corrida spagnola. Una poltrona, il cuoio di un marrone rossiccio; una scrivania, quercia patinata, un vaso con alcune ma-
tite, tutte ben appuntite; una rastrelliera di pipe. L'aria è densa di particolato di tabacco. Uno scaffale di libri: Auden, Veblen, Spengler, Steinbeck, Dos Passos. Il tropico del cancro è in bella vista, deve essere stato importato di nascosto. Salammbô, Lo strano fuggitivo, Il crepuscolo degli idoli, Addio alle armi. Barbusse, Montherlant. Hammurabis Gesetz: Juristische Erläuterung. Questo nuovo amico ha interessi intellettuali, pensa lei. E anche più soldi. Perciò è meno fidato. Ha tre diversi cappelli sull'attaccapanni di legno ricurvo, nonché una vestaglia di stoffa scozzese, di puro cachemire. Hai letto qualcuno di questi libri? ha chiesto lei dopo che sono entrati e lui ha chiuso la porta a chiave. Si è tolta il cappello e i guanti. Qualcuno, ha detto lui. Non è entrato in dettagli. Dai, gira la testa. Le ha sfilato una foglia dai capelli. Stanno già cadendo. Lei si chiede se l'amico sappia. Non solo che c'è una donna - avranno architettato qualcosa tra loro in modo che l'amico non piombi all'improvviso, gli uomini fanno certe cose -, ma chi è. Il suo nome e così via. Spera di no. È sicura dai libri, e soprattutto dal manifesto della corrida, che questo amico le sarebbe ostile per principio. Oggi lui era stato meno impetuoso, più riflessivo. Aveva preferito indugiare, ritardare. Scrutare. Perché mi guardi così? Ti sto memorizzando. Perché? ha chiesto lei, mettendogli una mano sugli occhi. Non le piaceva essere esaminata a quel modo. Palpata. Per averti più tardi, ha risposto lui. Una volta che te ne sarai andata. Zitto. Non rovinare questa giornata. Batti il ferro finché è caldo, ha detto lui. È questo il tuo motto? Piuttosto chi risparmia guadagna, ha detto lei. Allora lui aveva riso. Ora lei si è avvolta nel lenzuolo, se lo è ripiegato sul seno; è stesa contro di lui, le gambe nascoste in una lunga e sinuosa coda di pesce di cotone bianco. Lui tiene le mani dietro la testa: sta fissando il soffitto. Lei gli offre dei sorsi del suo drink, whisky di segale e acqua, questa volta. Meno caro dello scotch. Vuole portare lei qualcosa di buono - qualcosa di bevibile -, ma finora se n'è dimenticata. Continua, dice. Deve venirmi l'ispirazione, fa lui.
Cosa posso fare per ispirarti? Non devo essere di ritorno fino alle cinque. Rimandiamo a dopo l'ispirazione seria, dice lui. Devo rimettermi in forze. Dammi mezz'ora. O lente, lente currite noctis equi! Cosa? Correte piano, piano, cavalli della notte. È di Ovidio, dice lei. In latino il verso va a un galoppo lento. Che cosa goffa, penserà che mi stia dando delle arie. Non capisce mai quando lui riconosce o meno un'allusione. A volte finge di ignorare una cosa e poi, dopo che gliel'ha spiegata, dimostra di saperla eccome, di averla sempre saputa. Prima la stana e poi la fa secca. Sei strana, tesoro, dice lui. Perché sono cavalli della notte? Tirano il carro del Tempo. Lui è con la sua concubina. Ciò significa che vuole che la notte si allunghi, in modo da poter rimanere più a lungo con lei. A che pro? fa lui pigramente. Cinque minuti non gli bastano? Non ha nulla di meglio da fare? Lei si tira su. Sei stanco? Ti sto annoiando? Vuoi che me ne vada? Torna giù. Tu non vai da nessuna parte. Lei vorrebbe che non lo facesse - parlare come un cowboy dei film. Lo fa per metterla in condizione di inferiorità. Malgrado ciò, allunga il braccio e glielo fa scivolare sopra. Metti la mano qui, signora. Lì sì che sta bene. Chiude gli occhi. Concubina, dice. Che termine d'altri tempi. Tipicamente vittoriano. Dovrei baciarti la scarpina, o riempirti di cioccolatini. Forse io sono d'altri tempi. Forse sono tipicamente vittoriana. Amante, allora. O una da portare a letto. È più moderno? Più al tuo livello? Sicuro. Ma credo di preferire concubina. Perché noi non siamo allo stesso livello, vero? No, dice lei. Non lo siamo. Comunque, vai avanti. Lui dice: Al calare della notte, il Popolo della Gioia si è accampato a un giorno di marcia dalla città. Schiave catturate nelle precedenti conquiste versano hrang scarlatto dalle fiasche di pelle in cui viene fatto fermentare e piegano umilmente la schiena, si curvano e servono, portando scodelle di stufato duro e poco cotto preparato con i thulk rubati. Le mogli degli ufficiali siedono nell'ombra, gli occhi scintillanti negli scuri ovali dei loro faz-
zoletti, attente alle insolenze. Sanno che quella notte dormiranno sole, ma più tardi potranno frustare le fanciulle prigioniere perché maldestre o irriverenti, e non mancheranno di farlo. Gli uomini sono accovacciati attorno ai loro piccoli fuochi, avvolti nei loro mantelli di cuoio, intenti a mangiare la loro cena, borbottando tra sé e sé. Non sono di umore gioviale. L'indomani, o il giorno dopo ancora - dipende dalla loro velocità e dalla vigilanza del nemico - dovranno combattere, e questa volta potrebbero anche non vincere. È vero, il messaggero dagli occhi di fuoco che ha parlato al Pugno dell'Invincibile ha promesso che sarebbe stata concessa loro la vittoria se avessero continuato a essere devoti e obbedienti e coraggiosi e astuti, ma ci sono sempre tanti se in queste faccende. Se perdono verranno uccisi, e lo stesso le loro donne e i loro bambini. Non si aspettano pietà. Se vincono, toccherà a loro uccidere, cosa non sempre piacevole come a volte si crede. Dovranno massacrare tutti nella città: questi sono gli ordini. Nessun bambino maschio dovrà essere lasciato vivo, per crescere agognando di vendicare il padre massacrato; nessuna bambina femmina, per corrompere il Popolo della Gioia con i suoi modi depravati. Nelle città conquistate in passato hanno risparmiato le fanciulle giovani e le hanno spartite tra i soldati, una o due o tre a seconda del valore e del merito, ma ora il messaggero divino ha detto basta. Tutte quelle uccisioni saranno stancanti, e anche rumorose. Uccidere su così vasta scala è molto duro e inoltre contamina, e va fatto senza eccezioni, altrimenti il Popolo della Gioia si troverà in grossi guai. L'Onnipotente sa come imporre la lettera della legge. I loro cavalli sono impastoiati a una certa distanza l'uno dall'altro. Sono pochi, e cavalcati soltanto dai capi - bestie snelle, ombrose, con bocche indurite, lunghi musi tristi e occhi teneri, vili. Di nulla di tutto ciò hanno colpa: ci sono stati costretti. Se si possiede uno di questi animali si può prenderlo a calci e picchiarlo, ma non ucciderlo e mangiarlo, perché molto tempo fa un messaggero dell'Onnipotente apparve nelle sembianze del primo cavallo. I cavalli ne hanno memoria, si dice, e ne sono fieri. Per questo permettono solo ai capi di cavalcarli. O almeno, questa è la ragione che ne viene data. Mayfair, maggio 1935 PETTEGOLEZZI SULLA TORONTO CHE CONTA
DI YORK Questo aprile la primavera ha fatto un ingresso spumeggiante, annunciata da una vera e propria sfilata di limousine con autista che conducevano una folla di illustri ospiti a uno dei più interessanti ricevimenti della stagione, l'incantevole festa che il 6 aprile scorso la signora Winifred Griffen Prior ha dato nella sua maestosa residenza in stile Tudor di Rosedale in onore della signorina Iris Chase di Port Ticonderoga, Ontario. La signorina Chase è figlia del Capitano Norval Chase e nipote della defunta signora Benjamin Montfort Chase, di Montreal. È in procinto di sposare il fratello della signora Griffen, il signor Richard Griffen, a lungo considerato uno degli scapoli più appetibili della provincia, in un brillante matrimonio che promette di essere uno degli eventi da non perdere nel calendario nuziale del mese di maggio. Le debuttanti della scorsa stagione e le loro madri erano ansiose di dare un'occhiata alla giovane sposina, affascinante in una sobria creazione della Schiaparelli in crespo beige con effetto in rilievo, con gonna affusolata e peplo, ornata di inserti di velluto nero e giaietto. Stagliata contro uno scenario di narcisi bianchi, pergolati a graticcio bianchi e candele accese in candelabri di argento ornati da grappoli di falsa uva nera Muscardine decorata con nastri argentati a spirale, la signora Prior ha ricevuto gli ospiti in un grazioso abito da sera in tulle di Chanel, con gonna drappeggiata e corsetto ornato di semplici perline. Era presente anche la sorella della signorina Chase, nonché sua damigella, la signorina Laura Chase, in velluto di cotone verde foglia con inserti in satin color anguria. Tra la distinta folla ricordiamo il Vicegovernatore e sua moglie, la signora Herbert A. Bruce, il Col. R.Y. Eaton e signora accompagnati dalla figlia signorina Margaret Eaton, l'On. W.D. Ross e signora con le figlie signorina Susan e signorina Isobel Ross, la signora A.L. Ellsworth e le sue due figlie, la signora Beverley Balmer e la signorina Elaine Ellsworth, la signorina Jocelyn e la signorina Daphne Boone, e infine il signor Grant Pepler e signora. L'assassino cieco: La campana di bronzo
È mezzanotte. Nella città di Sakiel-Norn un'unica campana di bronzo suona per annunciare il momento in cui il Dio Infranto, incarnazione notturna del Dio dei Tre Soli, raggiunge il punto più basso della sua discesa nelle tenebre e dopo un feroce combattimento è fatto a pezzi dal Signore dell'Oltretomba e dalla sua banda di morti guerrieri che dimorano laggiù. Sarà rimesso insieme dalla Dea, riportato in vita e curato fino a ritrovare rinnovati salute e vigore, e all'alba risorgerà come al solito, rigenerato, pieno di luce. Sebbene il Dio Infranto sia una figura popolare, nessuno nella città crede più sul serio a questa storia che si racconta su di lui. Eppure, in ogni famiglia le donne modellano un suo ritratto d'argilla, che gli uomini distruggono nella notte più scura dell'anno, e il giorno seguente le donne ne modellano uno nuovo. Per i bambini ci sono piccoli dei di pane dolce da mangiare; i bambini con le loro piccole bocche avide rappresentano il futuro, che come il tempo stesso divorerà tutti coloro che ora sono vivi. Il Re siede solo nella torre più alta del suo sontuoso palazzo, da dove osserva le stelle e interpreta gli auspici e i presagi per la settimana che seguirà. Ha messo da parte la sua maschera di platino intessuto, dal momento che non è presente nessuno a cui debba nascondere le sue emozioni: può sorridere e aggrottare le ciglia a volontà, proprio come un Ygnirod qualsiasi. È un tale sollievo. Proprio ora sta sorridendo, un sorriso pensoso: sta riflettendo sul suo ultimo intrigo amoroso con la moglie pienotta di un funzionario di basso rango. È stupida come un thulk, ma ha la bocca morbida e piena come un cuscino di velluto impregnato d'acqua, e affusolate dita guizzanti come pesci, e stretti occhi maliziosi, e un'esperienza coltivata con cura. Tuttavia, sta diventando troppo esigente, nonché indiscreta. Lo sta tormentando perché componga una poesia sulla sua nuca, o su qualche altra parte del suo corpo, com'è consueto tra i più frivoli degli amanti di corte, ma i suoi talenti non vanno in quella direzione. Perché le donne amano tanto andare a caccia di trofei, perché vogliono dei ricordi? O forse lei desidera che si renda ridicolo, per dimostrargli il suo potere? È un peccato, ma dovrà liberarsi di lei. Rovinerà suo marito finanziariamente - gli farà l'onore di pranzare a casa sua, con tutti i suoi cortigiani più fidati, finché le risorse di quel povero sciocco non saranno esaurite. A quel punto la donna verrà venduta come schiava per pagare il debito. Potrebbe farle perfino bene - rassodarle i muscoli. È un indubbio piace-
re immaginarla senza il suo velo, il viso nudo esposto allo sguardo di ogni passante, mentre porta il poggiapiedi della sua nuova padrona o il wibular domestico dal becco blu con un'espressione perennemente accigliata. Potrebbe sempre farla assassinare, ma gli sembra una punizione un po' severa: tutto ciò di cui è colpevole è l'ardente desiderio di cattiva poesia. Dopotutto, non è un tiranno. Davanti a lui giace un oorm sventrato. Sbircia oziosamente tra le piume. Non dà grande importanza alle stelle - non crede più a tutte quelle sciocchezze -, ma dovrà comunque passare qualche tempo a osservarle con gli occhi socchiusi ed escogitare qualche annuncio solenne. Il moltiplicarsi della ricchezza e un raccolto abbondante dovrebbero funzionare nel breve termine, e poi la gente si dimentica sempre delle profezie, a meno che non si rivelino vere. Si chiede se abbia qualche fondamento l'informazione che ha ricevuto da una fonte privata degna di fede - il suo barbiere -, secondo cui si starebbe tramando un ennesimo complotto ai suoi danni. Dovrà di nuovo ordinare arresti, ripristinare la tortura e le esecuzioni? Senza dubbio. L'indulgenza presunta è nociva all'ordine pubblico quanto quella reale. È auspicabile non allentare mai la presa, quando si regna. Se dovranno cadere delle teste, la sua non sarà tra quelle. Sarà costretto ad agire, per proteggersi; eppure sente una strana inerzia. Governare un regno è una continua tensione: basta che allenti la guardia anche solo per un momento e gli saranno addosso, chiunque essi siano. Lontano, a nord, gli sembra di scorgere un tremolio, come qualcosa che arda, ma scompare subito. Lampi, forse. Si passa la mano sugli occhi. Mi dispiace per lui. Penso che stia solo facendo del suo meglio. Io penso che abbiamo bisogno di un altro drink. Che ne dici? Scommetto che stai per farlo fuori. Hai quello scintillio negli occhi. A essere giusti se lo meriterebbe. Da parte mia lo reputo un bastardo. Ma i re devono esserlo, non è vero? La sopravvivenza del più forte, eccetera eccetera. I deboli al muro. Non lo credi davvero. Ce n'è ancora? Strizza la bottiglia, vuoi? Perché ho veramente una gran voglia di bere. Vedrò. Si alza, tirandosi dietro il lenzuolo. La bottiglia è sulla scrivania. Non c'è bisogno che ti copri, dice lui. Mi piace lo spettacolo. Si gira a guardarlo al di sopra della spalla. Dice: Aggiunge mistero. Pas-
sami il tuo bicchiere. Vorrei che la smettessi di comprare questo torcibudella. È tutto quello che posso permettermi. Comunque non ho gusto. È perché sono orfano. Mi hanno rovinato i presbiteriani, all'orfanotrofio. È per questo che sono così cupo e triste. Non giocare la vecchia sporca carta dell'orfanotrofio. Il mio cuore non sanguina. Invece lo fa, dice lui. A parte le gambe e lo splendido culo, ecco cosa ammiro di più in te - il tuo cuore sanguinante. Non è il mio cuore a sanguinare, è la mia mente. Sono sanguinaria. O così mi è stato detto. Lui ride. Alla salute della tua indole sanguinaria, allora. Cin cin. Lei beve, fa una smorfia. Non fa in tempo a entrare, che già esce, dice lui allegro. A proposito, avrei una faccenda urgente da sbrigare. Si alza, va alla finestra, solleva leggermente il telaio scorrevole. Non puoi farlo! È un vialetto laterale. Non colpirò nessuno. Almeno rimani dietro la tenda! E io? E tu cosa? Hai già visto un uomo nudo prima d'ora. Non chiudi sempre gli occhi. Non voglio dire questo, voglio dire che io non posso fare pipì fuori della finestra. Scoppierò. La vestaglia del mio amico, dice lui. La vedi? Quell'affare scozzese sull'attaccapanni. Controlla soltanto che il corridoio sia vuoto. La padrona di casa è una vecchia puttana ficcanaso, ma finché indossi la vestaglia scozzese non ti vedrà. Ti mimetizzerai - questa topaia è scozzese fino al midollo. E allora, dice lui. Dov'ero rimasto? È mezzanotte, dice lei. Un'unica campana di bronzo suona. Ah, sì. È mezzanotte. Un'unica campana di bronzo suona. Mentre il rintocco si smorza, l'assassino cieco gira la chiave nella porta. Il suo cuore batte forte, come sempre in simili momenti: momenti di notevole pericolo per se stesso. Se viene catturato, la morte che gli verrà destinata sarà lunga e dolorosa. Non prova alcun sentimento riguardo alla morte che sta per dare, né gli importa di conoscerne i motivi. Chi deve essere assassinato e perché è af-
fare di ricchi e potenti, ed egli li odia in eguale misura. Sono coloro che gli hanno tolto la vista e sono penetrati a forza nel suo corpo a decine, quando era troppo giovane per poter reagire in qualche modo, e accoglierebbe con gioia l'occasione di massacrare ognuno di loro - loro e chiunque sia coinvolto nelle loro attività, come questa fanciulla. Per lui non significa nulla che sia poco più di una prigioniera vestita a festa e ingioiellata. Per lui non significa nulla che la stessa gente che lo ha reso cieco abbia reso lei muta. Farà il suo lavoro, prenderà il suo compenso e la cosa finirà lì. In ogni caso, se pure non la uccide questa notte, verrà uccisa l'indomani, e lui sarà più rapido e certo non altrettanto maldestro. Le sta facendo un favore. Troppi sono stati i sacrifici commessi senza alcuna perizia. Nessuno di questi Re ci sa fare con il coltello. Spera che non faccia troppo chiasso. Gli è stato detto che non può gridare: il suono più alto che riesce a emettere, con la sua bocca senza lingua, ferita, è un forte miagolio soffocato, come.un gatto in un sacco. È un bene. Ciò nonostante, prenderà alcune precauzioni. Trascina il cadavere della sentinella dentro la stanza, in modo che nessuno possa inciamparci nel corridoio. Poi si infila dentro anche lui, senza fare rumore, a piedi nudi, e richiude la porta a chiave. V La pelliccia Questa mattina il canale delle previsioni meteorologiche ha annunciato l'arrivo di una tromba d'aria, e verso la metà del pomeriggio il cielo ha assunto una funesta sfumatura di verde e i rami degli alberi hanno preso ad agitarsi come se un enorme animale infuriato stesse cercando di aprirsi a forza un varco attraverso di essi. La bufera ci è passata proprio sopra la testa: guizzanti lingue serpentine di luce bianca, pile di vassoi di latta che piombavano a terra. Contate fino a mille e uno, ci diceva Reenie. Se ci riuscite, alla fine sarà a chilometri di distanza. Diceva di non usare mai il telefono durante un temporale, o il fulmine ti sarebbe entrato diritto nell'orecchio e saresti diventato sordo. Diceva anche di non fare mai il bagno, perché il fulmine sarebbe potuto scorrere fuori del rubinetto come acqua. Diceva che se ti si drizzavano i capelli sulla nuca dovevi fare un salto, perché era l'unica cosa in grado di salvarti. Al crepuscolo la tempesta era andata, ma era ancora tutto fradicio come
in una fogna. Mi rigiravo nello scompiglio del mio letto, avvertendo i faticosi battiti del mio cuore contro le molle del materasso, cercando di trovare una posizione comoda. Finalmente ho rinunciato al sonno, ho infilato un lungo maglione sulla camicia da notte e ho superato con successo le scale. Poi mi sono messa il mio impermeabile di plastica con il cappuccio, ho infilato i piedi negli stivali di gomma e sono uscita. Il legno bagnato dei gradini della veranda era insidioso. La vernice è venuta via, forse stanno marcendo. Nella debole luce tutto era monocromo. L'aria era umida e immobile. I crisantemi sul prato davanti casa brillavano di gocce scintillanti; un battaglione di lumache stava sicuramente divorando le poche foglie di lupino rimaste. Si dice che alle lumache piaccia la birra; io continuo a pensare che dovrei lasciargliene un po' fuori. Meglio a loro che a me: non è mai stata la mia specie di alcol preferita. Volevo uno stordimento più rapido. Sono avanzata lentamente, mentre i miei passi risuonavano sul marciapiede. C'era la luna piena, circondata da un pallido alone; sotto i lampioni la mia ombra rimpicciolita mi scivolava davanti come un folletto. Sentivo di stare facendo una cosa azzardata: una donna anziana, sola, che cammina di notte. Agli occhi di un estraneo sarei apparsa inerme. E davvero ero un po' spaventata, o almeno abbastanza in ansia perché il cuore mi battesse più forte. Come Myra continua a ripetermi con tanto garbo, le vecchie signore sono i bersagli preferiti dei rapinatori. Si dice che vengano qui da Toronto, questi rapinatori, come fanno tutti i cattivi. Probabilmente arrivano in pullman, con i loro strumenti da rapina camuffati da ombrelli, o da mazze da golf. Non ci sono distanze che non possano coprire, dice Myra in tono sinistro. Ho superato tre isolati in direzione della strada principale che attraversa la città, poi mi sono fermata a guardare dall'altra parte dell'asfalto bagnato, satinato, verso la stazione di servizio di Walter. Walter era seduto nel faro del suo casotto di vetro, nel bel mezzo della pozza di asfalto liscio, deserta e nera come l'inchiostro. Piegato in avanti con il suo berretto rosso sembrava un fantino attempato su un cavallo invisibile o il capitano del proprio destino, intento a pilotare una bizzarra astronave attraverso lo spazio. In realtà stava guardando lo Sports Network sul suo televisore in miniatura, come sono venuta a sapere da Myra. Non sono andata a parlargli: si sarebbe allarmato nel vedermi spuntare dall'oscurità con gli stivali di gomma e la camicia da notte, come un'eccentrica vagabonda ottuagenaria. Eppure, era confortante sapere che c'era almeno un altro essere umano sveglio a
quell'ora di notte. Sulla via del ritorno ho sentito dei passi alle mie spalle. Ci siamo, mi sono detta, ecco il rapinatore. Ma era soltanto una giovane donna con un impermeabile nero, che portava una borsa o una valigetta. Mi ha superato ad andatura veloce, con la testa sporta in avanti. Sabrina, ho pensato. Alla fine è tornata. Mi sono sentita pienamente perdonata, in quell'istante - e benedetta, piena di grazia, come se il tempo si fosse riavvolto all'indietro e il mio vecchio bastone di legno secco fosse sbocciato melodrammaticamente in un fiore. Ma alla seconda occhiata anzi, alla terza - ho visto che non era affatto Sabrina; solo un'estranea. Chi sono io comunque, per meritare un risultato così miracoloso? Come posso aspettarmelo? Eppure me lo aspetto. Contro ogni logica. Ma ora basta. Riprendo il fardello del mio racconto, come dicevano una volta i poeti. Torniamo ad Avilion. Mia madre era morta. Le cose non sarebbero più state le stesse. Mi fu detto di stringere i denti. Chi fu a dirmelo? Di sicuro Reenie, forse mio padre. È strano, non si parla mai di labbra, in certi momenti. Eppure sono quelle che verrebbe voglia di mordersi, per rimpiazzare un tipo di dolore con un altro. All'inizio Laura trascorreva molto tempo dentro la pelliccia di mia madre. Era di pelle di foca, in una tasca c'era ancora il suo fazzoletto. Laura ci si infilava dentro e cercava di abbottonarla, finché non le venne in mente di abbottonarla prima e strisciarci dentro poi. Credo che debba aver pregato lì dentro, o fatto giochi di prestigio: per far tornare magicamente indietro la mamma. Di qualunque cosa si trattasse, non funzionò. Poi la pelliccia venne data in beneficienza. Presto Laura cominciò a chiedere dove fosse andato il bimbo, quello che non sembrava affatto un gattino. In Paradiso non la soddisfaceva più - dopo che era stato nel catino, voleva sapere lei. Reenie le diceva che l'aveva portato via il dottore. Ma perché non c'è stato un funerale? Perché è nato troppo piccolo, diceva Reenie. Come ha potuto una cosa così piccola uccidere la mamma? Reenie diceva: Non ci pensare. Diceva: Lo capirai quando sarai più grande. Diceva: Ciò che non si sa non può far male. Una massima dubbia: a volte ciò che non si sa può fare molto male. Di notte Laura scivolava nella mia stanza e mi scuoteva per svegliarmi, poi si infilava nel mio letto. Non riusciva a dormire: era per via di Dio. Fi-
no al funerale, lei e Dio erano stati in buoni rapporti. Dio ti ama, diceva la maestra della scuola domenicale della chiesa metodista, dove ci aveva mandato nostra madre, e dove Reenie continuava a mandarci per principio, e Laura ci aveva creduto. Ma ora non ne era più così sicura. Cominciò a preoccuparsi dell'esatta ubicazione di Dio. Era colpa della maestra della scuola domenicale: Dio è ovunque, aveva detto, e Laura voleva sapere: Dio era nel sole, Dio era nella luna, Dio era nella cucina, nel bagno, era sotto il letto? («Vorrei torcere il collo a quella donna» diceva Reenie). Laura non voleva che Dio le spuntasse davanti quando meno se lo aspettava, cosa non difficile da credere considerato il suo recente comportamento. Apri la bocca e chiudi gli occhi, e ti darò una sorpresa coi fiocchi, diceva Reenie, tenendo un biscotto dietro la schiena, ma Laura non voleva più saperne. Voleva tenere gli occhi aperti. Non che non si fidasse di Reenie, ma aveva paura delle sorprese. Probabilmente Dio era nello stanzino delle scope. Sembrava il posto più verosimile. Se ne stava nascosto là come uno zio eccentrico e magari pericoloso, ma lei non poteva essere certa che ci stesse, perché aveva paura di aprire la porta. «Dio è nel tuo cuore» diceva la maestra della scuola domenicale, e questo era ancora peggio. Se fosse stato nello stanzino delle scope si sarebbe potuto sempre fare qualcosa, come chiudere la porta a chiave. Dio non dormiva mai, si diceva nell'inno - Nessun sonno spensierato chiuderà i Suoi occhi. No, di notte vagava per la casa spiando le persone controllando se fossero state abbastanza buone, o mandando flagelli per ucciderle, o indulgendo in qualche altro capriccio. Prima o poi sarebbe stato obbligato a fare qualcosa di spiacevole, com'era accaduto spesso nella Bibbia. «Ascolta, è lui» diceva Laura. Il passo leggero, il passo pesante. «Non è Dio. È soltanto papà. È nella torretta». «Cosa sta facendo?» «Fuma». Non volevo dire beve. Mi sembrava sleale. I sentimenti più teneri nei confronti di Laura li provavo quando dormiva - la bocca socchiusa, le ciglia ancora bagnate -, ma il suo era un sonno agitato; brontolava e scalciava, e a volte russava, impedendo anche a me di dormire. Scivolavo fuori del letto e attraversavo il pavimento in punta di piedi, quindi mi tiravo su per guardare fuori della finestra della nostra stanza. Quando c'era la luna i giardini fioriti erano di un grigio argenteo, come se ne fossero stati succhiati tutti i colori. Potevo vedere la ninfa di pietra, di scorcio; la luna si rifletteva nel suo laghetto delle ninfee, e lei im-
mergeva le dita dei piedi nella luce fredda. Rabbrividendo tornavo a letto, e giacevo guardando le ombre tremule delle tende e ascoltando i mormorii e i crepitii della casa che si assestava. Chiedendomi cosa avessi fatto che non andava. I bambini credono che tutto il male del mondo sia in qualche modo colpa loro, e in questo io non facevo eccezione; ma credono anche nei lieto fine, nonostante tutto lasci prevedere il contrario, e io non facevo eccezione neanche in questo. Volevo soltanto che il lieto fine si sbrigasse a venire, perché - soprattutto di notte, quando Laura dormiva e io non ero costretta a tirarle su il morale - mi sentivo terribilmente triste. La mattina aiutavo Laura a vestirsi - era stato mio compito anche quando la mamma era viva - e mi assicuravo che si lavasse i denti e la faccia. All'ora di pranzo a volte Reenie ci lasciava fare un picnic. Ci dava pane bianco imburrato e spalmato di gelatina di uva traslucida come cellophane, e carote crude, e mele a pezzetti. Ci dava manzo conservato, tirato fuori da una scatoletta a forma di tempio azteco. Ci dava uova sode. Mettevamo queste cose sui piatti, le portavamo fuori e le mangiavamo qua e là - accanto allo stagno, nella serra. Se pioveva, le mangiavamo dentro. «Ricordate gli armeni che muoiono di fame» diceva Laura con le mani giunte e gli occhi chiusi, chinandosi sulle croste del suo panino con la gelatina. Sapevo che lo diceva perché lo faceva la mamma, e nel sentirlo mi veniva voglia di piangere. «Non ci sono armeni che fanno la fame, è solo un'invenzione» le dissi una volta, ma non ci volle credere. Venivamo lasciate spesso da sole a quel tempo. Imparammo a conoscere ogni centimetro di Avilion: le sue crepe, i suoi sotterranei, le sue gallerie. Sbirciavamo nel nascondiglio sotto la scala di servizio, che conteneva un miscuglio di soprascarpe smesse e di manopole spaiate e un ombrello dalle stecche rotte. Esploravamo le varie ramificazioni della cantina - la cantina del carbone per il carbone; la cantina degli ortaggi per i cavoli e le zucche disposti sopra un'asse, e le barbabietole e le carote che mettevano barbe nella loro cassetta di sabbia, e le patate con i loro ciechi tentacoli albini, simili alle zampe dei gamberi; la cantina fredda per le mele nei loro barili e per gli scaffali delle conserve di frutta - polverose marmellate e gelatine che scintillavano come gemme grezze, e salse indiane a base di spezie e frutta, e sottaceti e fragole e pomodori pelati e salsa di mele, tutto in vasetti sigillati Crown. C'era anche una cantina dei vini, ma veniva tenuta chiusa; soltanto mio padre aveva la chiave.
Trovammo l'umida grotta dal pavimento di terra sotto la veranda, raggiunta strisciando tra le malvarose, dove provavano a crescere soltanto denti di leone sottili e lunghi come zampe di ragno e la lisimachia, con il suo odore di menta schiacciata mescolato a orina di gatto e (una volta) al tanfo aspro e nauseante di un serpente giarrettiera messo in allarme. Trovammo la soffitta, con scatole di vecchi libri e trapunte riposte e tre bauli vuoti, e un armonium rotto, e il manichino senza testa della nonna Adelia, un tronco scolorito e ammuffito. Trattenendo il respiro, avanzavamo furtive attraverso i nostri labirinti d'ombra. Traevamo conforto da questo - dal nostro segreto, dalla nostra conoscenza di passaggi nascosti, dalla nostra convinzione di non poter essere viste. Senti il ticchettare dell'orologio, dissi. Era un pendolo - un antico pezzo di porcellana bianca e dorata; era stato del nonno; stava sul caminetto nella biblioteca. Laura pensò che avessi detto leccare. Ed era vero, il pendolo di ottone che dondolava avanti e indietro sembrava una lingua che leccasse le labbra di una bocca invisibile. Divorando il tempo. Venne l'autunno. Io e Laura raccoglievamo i baccelli dell'albero della seta e li aprivamo, per sentire i semi a forma di scaglia sovrapposti l'uno all'altro, come la pelle di un drago. Li tiravamo fuori e li sparpagliavamo sui loro leggeri paracadute, liberando il peduncolo di un giallo marroncino come il cuoio, soffice come la parte interna di un gomito. Poi andavamo al Jubilee Bridge e gettavamo i baccelli in acqua per vedere quanto a lungo avrebbero galleggiato prima di capovolgersi o essere trascinati via. Immaginavamo che contenessero delle persone, o magari una sola? Non ne sono sicura. Ma c'era una certa soddisfazione nel vederli andare sotto. Venne l'inverno. Il cielo era grigio pallido, il sole basso nel cielo, di uno smorto colore rosato, come sangue di pesce. I ghiaccioli, pesanti, opachi e spessi quanto un polso, pendevano gocciolando dal tetto e dai davanzali, quasi bloccati nell'atto di cadere. Li spezzavamo e ne succhiavamo la punta. Reenie ci diceva che in quel modo le lingue ci sarebbero diventate nere e sarebbero cadute, ma sapevo che era falso, avendolo già fatto prima. A quel tempo Avilion aveva una rimessa per le barche e un deposito del ghiaccio, accanto all'imbarcadero. Nella rimessa c'era la vecchia barca a vela del nonno, ora di mio padre - l'Ondina, malridotta e messa a letto per l'inverno. Nel deposito del ghiaccio c'era il ghiaccio, che era quello del fiume Jogues, spaccato, trainato in blocchi da cavalli e immagazzinato là
dentro cosparso di segatura, in attesa dell'estate, quando sarebbe stato raro. Io e Laura uscivamo sull'imbarcadero scivoloso, dove ci era proibito andare. Reenie diceva che se fossimo cadute e finite sotto il ghiaccio non avremmo resistito neanche un istante, perché l'acqua era fredda come la morte. Avrebbe riempito i nostri stivali e saremmo andate a fondo come pietre. Gettavamo pietre per vedere che fine avrebbero fatto; volavano sul ghiaccio e restavano là, in vista. Il nostro respiro si trasformava in fumo bianco; lo soffiavamo fuori in nuvolette, come treni, appoggiandoci ora su un piede gelato ora sull'altro. Sotto le suole degli stivali la neve scricchiolava. Giungevamo le mani nelle manopole gelate e le tenevamo ben strette, in modo che dopo averle sfilate rimanessero due mani di lana aggrappate l'una all'altra, vuote e blu. In fondo alle rapide del Louveteau pezzi di ghiaccio frastagliato si erano ammucchiati l'uno contro l'altro. Il ghiaccio era bianco a mezzogiorno, verde chiaro al crepuscolo; i pezzi più piccoli producevano un suono tintinnante, come di campane. Nel centro del fiume l'acqua scorreva libera e nera. I bambini gridavano dall'altura sull'altra sponda, nascosti dagli alberi, le loro voci alte, deboli e felici nell'aria fredda. Andavano sugli slittini, cosa che a noi era vietata. Io pensavo di camminare sul ghiaccio frastagliato a riva, per vedere quanto fosse solido. Venne la primavera. I rami dei salici diventarono gialli, le sanguinelle rosse. Il Louveteau era in piena; cespugli e alberi strappati dalle radici vorticavano e si impigliavano. Una donna si buttò nelle rapide dal Jubilee Bridge e per due giorni il suo corpo non venne trovato. Fu ripescato a valle, e non era certo un bello spettacolo, perché andare giù per quelle rapide era come passare attraverso un tritacarne. Non è certo il modo migliore per lasciare questa terra, disse Reenie - non se si era interessati al proprio aspetto, anche se è molto probabile che in un momento del genere nessuno lo sia. La signora Hillcoate aveva saputo di una mezza dozzina di persone che avevano fatto quel salto, nel corso degli anni. Ne aveva letto sul giornale. Una di loro era una ragazza con cui andava a scuola, che aveva sposato un operaio delle ferrovie. Lui era spesso via, disse, perciò cosa ci si poteva aspettare? «Incinta» aggiunse. «E senza scusanti». Reenie annuì, come se questo spiegasse ogni cosa. «Per quanto un uomo possa essere stupido, la maggior parte di loro sa contare» disse, «almeno sulle dita. Scommetto che i pugni sui denti si sprecarono. Ma non ha senso chiudere la stalla una volta che sono usciti i
buoi». «Che buoi?» chiese Laura. «Deve avere avuto anche guai di altro tipo» disse la signora Hillcoate. «Se hai dei guai, niente di più facile che non ne abbia di un solo genere». «Che vuol dire in cinta?» mi sussurrò Laura. «Quale cinta?» Ma io non lo sapevo. Oltre che saltare giù, disse Reenie, alle donne piace anche entrare nel fiume controcorrente e poi essere risucchiate sotto la superficie dal peso dei loro vestiti bagnati, in modo da non poter nuotare e mettersi in salvo neanche volendo. Gli uomini erano più determinati. Si impiccavano alle traverse dei loro fienili, oppure si facevano saltare le cervella con i loro fucili; oppure, se volevano annegarsi, si legavano addosso dei sassi, o altri oggetti pesanti - teste di scure, sacchetti di chiodi. A loro non piaceva rischiare su una cosa tanto seria. Ma era tipicamente femminile entrare nel fiume così, rassegnarsi e farsi afferrare dalle acque. Dal tono di Reenie era difficile dire se approvasse o meno quelle differenze. In giugno compii dieci anni. Reenie fece una torta, anche se disse che forse non sarebbe stato il caso, era passato troppo poco tempo dalla morte della mamma, ma in fondo la vita doveva continuare, perciò forse la torta non avrebbe fatto male. Fatto male a cosa? chiese Laura. Ai sentimenti della mamma, dissi io. Allora la mamma ci stava guardando dal Paradiso? Ma a quel punto mi feci tronfia e ostinata, e non volli dirlo. Laura non toccò la torta, non dopo quell'accenno ai sentimenti di nostra madre, perciò mangiai tutte e due le nostre porzioni. Ora ho dovuto fare uno sforzo per ricordare i dettagli del mio dolore - le esatte forme che assunse -, sebbene volendo potrei evocarne un'eco, come un cagnolino che uggioli chiuso in cantina. Cosa avevo fatto il giorno in cui la mamma era morta? Potevo rammentarlo a stento, come il suo vero aspetto: adesso era solo quello delle fotografie. Ricordavo come mi era apparso strano il suo letto, quando di punto in bianco lei non era più lì: com'era sembrato vuoto. Il modo in cui la luce pomeridiana entrava obliquamente attraverso la finestra e cadeva in silenzio sul pavimento di legno duro, i granellini di polvere che vi fluttuavano come foschia. L'odore di lucido per mobili alla cera d'api e di crisantemi appassiti, e l'aroma di padella e di disinfettante che vi aleggiava. Ormai potevo ricordare la sua assenza molto meglio della sua presenza. Reenie disse alla signora Hillcoate che sebbene nessuno avrebbe mai po-
tuto prendere il posto della signora Chase, che era stata una santa in terra, ammesso che una cosa del genere esista, da parte sua lei aveva fatto del suo meglio e aveva mantenuto un atteggiamento allegro nel nostro interesse, perché meno si dice e meglio è, e fortunatamente sembrava che stessimo superando la cosa, anche se le acque chete rovinano i ponti e tutta la mia calma non mi avrebbe certo giovato. Ero un tipo che rimuginava, disse; prima o poi sarei esplosa. Quanto a Laura, non si poteva dire, perché comunque era sempre stata una bambina strana. Reenie disse che stavamo troppo insieme. Disse che Laura stava imparando atteggiamenti che erano troppo da grande per lei, mentre io restavo indietro. Ognuna di noi doveva stare con bambini della sua età, ma i pochi bambini della città che avrebbero fatto al caso nostro erano stati già mandati a scuola - nelle scuole private come quelle in cui, a dire la verità, avremmo dovuto essere spedite anche noi, ma sembrava che il Capitano Chase non trovasse mai il tempo per organizzare la cosa, e comunque avrebbe comportato troppi cambiamenti tutti in una volta, e sebbene io fossi fredda come un cetriolo e avrei saputo senz'altro cavarmela, Laura era piccola per la sua età e, a dire la verità, troppo piccola nel complesso. Era anche troppo nervosa. Era il tipo che si faceva prendere dal panico e si dimenava e annegava in venti centimetri d'acqua, perché perdeva la testa. Laura e io sedevamo sulla scala di servizio con la porta socchiusa, le mani sulla bocca per trattenerci dal ridere. Ci godevamo i piaceri dello spionaggio. Ma non fece bene a nessuna delle due sentire casualmente quelle cose sul nostro conto. Il soldato stanco Oggi ho camminato fino alla banca - presto, per evitare il caldo peggiore, ma anche per essere lì all'apertura. In tal modo potevo essere sicura di attirare l'attenzione di qualcuno, cosa di cui avevo bisogno perché era stato fatto un altro errore sul mio estratto conto. Sono ancora in grado di fare addizioni e sottrazioni, dico loro, a differenza di quelle vostre macchine, e loro mi sorridono come camerieri, del tipo che ti sputa nella minestra in cucina. Chiedo sempre di vedere il direttore, il direttore è sempre «in riunione», vengo sempre dirottata su un elfo ammiccante e condiscendente che odora ancora di latte e si vede già come un futuro plutocrate. Là mi sento disprezzata perché ho così poco denaro; e anche perché una volta ne avevo tanto. Naturalmente, non l'ho mai avuto davvero. Lo aveva
mio padre, e poi Richard. Ma il denaro mi veniva attribuito, nello stesso modo in cui i crimini vengono attribuiti a coloro che vi hanno soltanto assistito. La banca ha colonne romane, per ricordarci di dare a Cesare quel che è di Cesare, come queste ridicole spese accessorie. Terrei per niente il mio denaro in una calza sotto il materasso, giusto per fare loro dispetto. Ma la voce girerebbe, credo - la voce che sono diventata una vecchia pazza eccentrica, di quelle che si trovano morte in una baracca ingombra di centinaia di scatolette di cibo per gatti vuote, con un paio di milioni di dollari nascosti in biglietti da cinque tra le pagine di giornali che si vanno ingiallendo. Non ho alcun desiderio di diventare oggetto delle attenzioni dei drogati e dei topi d'appartamento dilettanti del luogo, con i loro occhi iniettati di sangue e le loro dita nervose. Tornando dalla banca ho fatto un giro dalle parti del Municipio, con il suo campanile in stile italiano e la sua costruzione di mattoni a due colori in stile fiorentino, la sua asta della bandiera che ha bisogno di una mano di vernice e il suo cannone da campo presente alla Somme. E anche le sue due statue di bronzo, entrambe commissionate dalla famiglia Chase. Quella a destra, commissionata da mia nonna Adelia, rappresenta il Colonnello Parkman, un veterano dell'ultima decisiva battaglia combattuta nella Rivoluzione Americana, quella di Fort Ticonderoga, ora nello stato di New York. Ogni tanto vediamo aggirarsi in città qualche tedesco o qualche inglese confuso, o perfino qualche americano, alla ricerca del campo di battaglia di Fort Ticonderoga. È la città sbagliata, viene detto loro. A pensarci bene, è anche il Paese sbagliato. Voi cercate quello che viene subito dopo. Fu il Colonnello Parkman a togliere le tende, a varcare il confine e a dare il nome alla nostra città, commemorando così in maniera perversa una battaglia che aveva perduto. (Anche se forse non è poi così strano: molta gente nutre un premuroso interesse per le proprie cicatrici). È ritratto a cavallo mentre brandisce la spada e si accinge a galoppare nella vicina aiuola di petunie: un uomo rude con gli occhi induriti e la barba a punta, l'immagine che ogni scultore ha di un comandante di cavalleria. Nessuno sa quale fosse il vero aspetto del Colonnello Parkman, dal momento che non lasciò nessuna testimonianza pittorica di se stesso e la statua non fu eretta che nel 1885, ma ormai il suo aspetto è questo. Tale è la tirannia dell'Arte. Sul lato sinistro del prato, anch'esso con un'aiuola di petunie, c'è una figura altrettanto mitica: il Soldato Stanco, con gli ultimi tre bottoni della
camicia slacciati, il collo piegato come sotto l'ascia del boia, l'uniforme sgualcita, l'elmetto di traverso, curvo sul suo fucile Ross difettoso. Per sempre giovane, per sempre esausto, sovrasta il Monumento ai Caduti, la pelle che brucia verde al sole, gli escrementi di piccione che gli colano sul viso come lacrime. Il Soldato Stanco fu un progetto di mio padre. La scultrice fu Callista Fitzsimmons, vivamente raccomandata da Frances Loring, che presiedeva il Comitato per i Monumenti ai Caduti della Società degli Artisti dell'Ontano. Ci fu qualche opposizione locale alla signorina Fitzsimmons - una donna non era considerata adeguata al soggetto -, ma mio padre travolse la riunione dei potenziali finanziatori: la signorina Loring non era anche lei una donna? domandò. In tal modo provocò parecchi commenti irriverenti, il più pulito dei quali fu Chi può dirlo? In privato, disse che è chi paga il pifferaio a scegliere la musica, e siccome tutti loro erano dei tremendi spilorci avrebbero fatto meglio a frugarsi nelle tasche o a gettare la spugna. La signorina Fitzsimmons non era solo una donna, aveva anche ventotto anni e i capelli rossi. Cominciò a venire ad Avilion spesso, per consultarsi con mio padre sul disegno presentato. Queste sedute avevano luogo nella biblioteca, all'inizio con la porta aperta e poi non più. Fu sistemata in una delle stanze degli ospiti, all'inizio in quella meno bella, poi nella migliore. Ben presto era là quasi ogni fine settimana, e la sua stanza divenne la «sua» stanza. Mio padre sembrava più felice; di sicuro beveva di meno. Fece risistemare i giardini, almeno quel tanto che bastava per renderli presentabili; fece ricoprire nuovamente di ghiaia il viale; fece raschiare, verniciare e riparare l'Ondina. A volte durante i fine settimana avevano luogo feste informali, i cui ospiti erano gli amici artisti di Callista, che arrivavano da Toronto. Questi artisti, tra cui non figuravano nomi che oggi possano suonare familiari, non portavano smoking o vestiti per la cena, ma maglioni con la scollatura a V; mangiavano pasti improvvisati sul prato e discutevano degli argomenti più elevati dell'Arte e fumavano e bevevano e parlavano. Le ragazze usavano troppi asciugamani in bagno, senza dubbio perché non avevano mai visto l'interno di una vera vasca prima d'allora, era la teoria di Reenie. Inoltre avevano le unghie sporche e smangiucchiate. Quando non c'erano feste, mio padre e Callista andavano a fare picnic con una delle auto - la spider, non la berlina -, portandosi un cestino riempito in modo parsimonioso da Reenie. Oppure andavano in barca, Callista in pantaloni, con le mani in tasca come Coco Chanel e una vecchia maglia
a girocollo di papà. A volte arrivavano fino a Windsor, e si fermavano nei posti di ristoro lungo la strada, che offrivano cocktail e atroci esecuzioni al piano e balli sfrenati - posti frequentati dai malviventi coinvolti nel contrabbando di alcolici, che venivano da Chicago e Detroit a fare i loro affari con i distillatori legali di parte canadese. (A quel tempo negli Stati Uniti c'era il proibizionismo; il liquore scorreva attraverso il confine come acqua molto costosa; cadaveri con i polpastrelli tagliati e le tasche vuote venivano gettati nel fiume Detroit e finivano sulle rive del lago Erie, provocando dispute su chi avrebbe dovuto sobbarcarsi la spesa della sepoltura). In queste gite papà e Callista rimanevano fuori tutta la notte, e a volte per più notti. Una volta andarono alle cascate del Niagara, suscitando l'invidia di Reenie, e una volta a Buffalo; ma a Buffalo ci andarono in treno. Ricevevamo questi dettagli da Callista, che non era avara nel fornirli. Ci disse che papà aveva bisogno di essere «stimolato», e che questi stimoli gli facevano bene. Disse che aveva bisogno di lasciarsi andare, per mescolarsi di più alla vita. Disse che lei e papà erano «grandi amici». Cominciò a chiamarci «le bambine»; disse che potevamo chiamarla «Callie». (Laura volle sapere se anche papà ballava, in quei locali; era difficile da immaginare, per via della gamba rovinata. Callista disse di no, ma che si divertiva a guardare. Io ne dubitavo. Non è mai un gran divertimento guardare gli altri ballare, se tu non puoi farlo). Io avevo soggezione di Callista perché era un'artista, e veniva interpellata come un uomo, e poi andava in giro e stringeva la mano come un uomo, e fumava sigarette in un corto bocchino nero, e sapeva chi era Coco Chanel. Aveva i buchi alle orecchie, e i suoi capelli rossi (tinti con l'henné, ora me ne rendo conto) erano avvolti in foulard. Indossava morbidi abiti simili a vestaglie con audaci ghirigori: fucsia, eliotropio, zafferano, erano i nomi dei colori. Mi disse che quei disegni venivano da Parigi ed erano ispirati dai rifugiati politici russi bianchi. Mi spiegò chi fossero. Era prodiga di spiegazioni. «È una delle sue puttanelle» disse Reenie alla signora Hillcoate. «Soltanto l'ennesima della serie, e il Signore sa se fosse già abbastanza lunga, ma c'era da credere che avrebbe avuto la decenza di non portarla sotto lo stesso tetto, lei non è ancora fredda nella tomba, sembra quasi che l'abbia fatta morire lui». «Cos'è una puttanella?» chiese Laura. «Pensa ai fatti tuoi» disse Reenie. Il fatto che continuasse a parlare anche se io e Laura eravamo in cucina dimostrava quanto fosse arrabbiata.
(In seguito spiegai a Laura che cos'era una puttanella: era una ragazza che masticava gomma. Ma Callie Fitzsimmons non lo faceva). «I piccoli vasi hanno grandi manici» disse la signora Hillcoate in tono ammonitorio, alludendo alle nostre orecchie, ma Reenie continuò. «Quanto a quegli stravaganti abiti che porta, potrebbe anche andare in chiesa in mutandine. In controluce si vede il sole, la luna e le stelle, e tutto quello che c'è in mezzo. Non che abbia molto da mettere in mostra, è una di quelle ragazze emancipate, piatta come un uomo». «Io non ne avrei mai il coraggio» disse la signora Hillcoate. «Non si può chiamare coraggio» ribatté Reenie. «Se ne infischia. Gli manca qualcosa, se vuoi saperlo; gli manca una rotella». (Quando si infervorava, la sua grammatica zoppicava). «È andata a fare il bagno nuda nello stagno delle ninfee, con tutte le rane e i pesci rossi - l'ho incontrata mentre tornava per il prato, con solo l'asciugamano e quello che Dio ha dato a Eva. Si è limitata a farmi un cenno e a sorridere, ma non ha battuto ciglio». «L'avevo sentito dire» disse la signora Hillcoate. «Credevo che fossero soltanto pettegolezzi. Sembrava campato in aria». «È una di quelle donne che vanno in cerca del pollo da spennare» disse Reenie. «Vuole soltanto mettere le sue grinfie su di lui e ripulirlo per bene». «Come sarebbe, il pollo da spennare? Che grinfie?» chiese Laura. Non so perché la parola emancipata mi faceva pensare al bucato molle, bagnato, steso ad asciugare su un filo, al vento. Callista Fitzsimmons non era niente di simile. Scoppiò una lite sul Monumento ai Caduti, e non solo per le voci su mio padre e Callista Fitzsimmons. Alcune persone in città pensavano che la statua del Soldato Stanco avesse un'aria troppo avvilita, e anche troppo sciatta: avevano da ridire sulla camicia sbottonata. Volevano qualcosa di più trionfale, come la Dea della Vittoria del monumento di due città più in là, che aveva ali d'angelo e vesti scompigliate dal vento e un aggeggio con tre denti che sembrava un forchettone per abbrustolire il pane. Inoltre volevano che sul davanti venisse scritto: «A Coloro Che Compirono Spontaneamente il Supremo Sacrificio». Mio padre rifiutò di cedere riguardo alla scultura, dicendo che potevano ritenersi fortunati se il Soldato Stanco aveva due braccia e due gambe, per non parlare della testa, e che se non fossero stati attenti avrebbe optato decisamente per il nudo realismo e la statua sarebbe stata fatta di frammenti
di corpi in putrefazione, di cui a suo tempo aveva calpestato una gran quantità. Quanto all'iscrizione, non c'era niente di spontaneo nel sacrificio, giacché non era stata intenzione dei morti saltare in aria e andare all'altro mondo. Quanto a lui proponeva «Per non dimenticare», che metteva l'accento al posto giusto: sulla nostra smemoratezza. Disse che una dannata infinità di gente era dannatamente smemorata. Imprecava raramente in pubblico, perciò fece impressione. Ottenne quello che voleva, naturalmente, dal momento che pagava lui. La Camera di Commercio sganciò i soldi per le quattro placche di bronzo con le liste d'onore dei caduti e i nomi delle battaglie. Volevano il loro nome impresso in fondo, ma mio padre li costrinse a rinunciare. Il Monumento ai Caduti era per i morti, disse - non per chi era rimasto in vita, tanto meno per chi ne aveva tratto vantaggio. Questo genere di discorso fece sì che qualcuno gliene volesse. Il momumento fu scoperto nel novembre 1928, nel Remembrance Day. C'era una nutrita folla, nonostante la pioggerella gelata. Il Soldato Stanco era stato montato su una piramide quadrangolare fatta di pietre di fiume smussate, come quelle di Avilion, e le placche di bronzo erano bordate di gigli e papaveri intrecciati a foglie di acero. C'era stata qualche discussione anche a questo proposito. Callie Fitzsimmons diceva che il disegno era antiquato e banale, con tutti quei fiori e foglie avvizziti - vittoriani, il peggiore insulto per gli artisti in quei giorni. Voleva qualcosa di più severo, di più moderno. Ma alla gente in città piaceva, e mio padre disse che a volte bisognava pure scendere a compromessi. Durante la cerimonia suonarono le cornamuse. («Meglio fuori che dentro» disse Reenie). Poi ci fu il sermone più importante, pronunciato dal ministro presbiteriano, che parlò di coloro che compirono spontaneamente il supremo sacrificio - la frecciata della città a papà, per dimostrare che non poteva monopolizzare le riunioni e che con il denaro non si poteva comprare tutto, e che loro avevano voluto quella frase malgrado lui. Poi vennero fatti altri discorsi, e vennero dette preghiere - molti discorsi e molte preghiere, perché i ministri di ogni chiesa della città dovevano essere rappresentati. Sebbene non ci fossero cattolici nel comitato organizzatore, perfino a un prete cattolico fu concesso di fare un intervento. Mio padre insistette su questo punto: un soldato cattolico morto era morto esattamente come un morto protestante. Reenie disse che era un modo di vedere le cose. «E l'altro modo qual è?» chiese Laura.
Mio padre depose la prima corona. Io e Laura stavamo a guardare, mano nella mano; Reenie piangeva. Il Royal Canadian Regiment aveva inviato una delegazione fin dalle Caserme Wolsely di London, e il Maggiore M.K. Greene depose una corona. Poi ne furono deposte altre da quasi tutte le associazioni possibili e immaginabili - la Legione, seguita dai Lions, i Kinsmen, il Rotary Club, gli Oddfellows, l'Orange Order, i Cavalieri di Colombo, la Camera di Commercio e, tra gli altri, lo I.O.D.E. - e per ultima la signora Wilmer Sullivan delle Madri dei Caduti, che aveva perso tre figli. Fu cantato Rimani con me, quindi fu suonata La ritirata, in modo un po' tremolante, da un trombettiere della banda degli scout. Seguirono due minuti di silenzio e una salva di fucili fatta esplodere dalla Milizia. Infine ci fu La sveglia. Mio padre stava a capo chino, ma tremava visibilmente, difficile dire se per il dolore o per la rabbia. Indossava l'uniforme sotto un cappotto pesante, e si appoggiava al suo bastone con le mani infilate nei guanti di cuoio. C'era anche Callie Fitzsimmons, ma si teneva in disparte. Non era il tipo di occasione in cui l'artista potesse farsi avanti e fare un inchino, ci aveva detto. Indossava un decoroso cappotto nero e una normale gonna invece di uno dei suoi vestiti, e un cappello che le nascondeva gran parte del viso, ma si sussurrò comunque sul suo conto. Poi in cucina Reenie fece la cioccolata calda per me e Laura, per riscaldarci, perché ci eravamo congelate a stare sotto la pioggerella. Ne fu offerta una tazza anche alla signora Hillcoate, che disse che non l'avrebbe rifiutata. «Perché è chiamato Monumento ai Caduti?» chiese Laura. «Perché serve a ricordare i caduti in guerra» disse Reenie. «Perché?» chiese Laura. «A che scopo? A loro fa piacere?» «Non è per loro, è piuttosto per noi» disse Reenie. «Lo capirai quando sarai più grande». A Laura dicevano sempre così, e lei non ci faceva caso. Voleva capire subito. Rovesciò la sua cioccolata. «Posso averne dell'altra? Cos'è il Supremo Sacrificio?» «I soldati hanno dato la loro vita per noi altri. Spero bene che tu non faccia l'esagerata, perché se te la dò mi aspetto che la finisca». «Perché hanno dato le loro vite? Volevano farlo?» «No, ma lo hanno fatto comunque. Per questo è un sacrificio» disse Reenie. «Adesso basta. Ecco la tua cioccolata».
«Hanno dato la loro vita a Dio, perché è questo che vuole Dio. Come Gesù, che è morto per i nostri peccati» disse la signora Hillcoate, che era battista e si considerava la massima autorità in materia. Una settimana più tardi Laura e io stavamo camminando lungo il sentiero accanto al Louveteau, sotto la gola. C'era foschia quel giorno, saliva dal fiume, vorticava come latte scremato nell'aria, gocciolava dai rami nudi dei cespugli. I sassi del sentiero erano scivolosi. All'improvviso Laura finì nel fiume. Fortunatamente non eravamo proprio accanto al corso principale, perciò non fu portata via dalle acque. Gridai, corsi a valle e l'afferrai per il cappotto; i suoi vestiti non erano ancora impregnati d'acqua, ma era comunque molto pesante, e quasi caddi a mia volta. Riuscii a trascinarla fino a una sporgenza piatta; poi la tirai fuori. Era fradicia come una pecora zuppa, e anch'io ero piuttosto bagnata. La scossi. Tremava e piangeva. «L'hai fatto apposta!» dissi. «Ti ho visto! Saresti potuta annegare!» Laura soffocava e singhiozzava. L'abbracciai. «Perché l'hai fatto?» «Così Dio avrebbe fatto rivivere la mamma» piagnucolò. «Dio non vuole che tu muoia» dissi. «Lo farebbe infuriare! Se voleva, poteva comunque far vivere la mamma, senza che tu ti annegassi». Questo era l'unico modo di parlare a Laura quando assumeva certi atteggiamenti: bisognava fingere di sapere qualcosa su Dio di cui lei era all'oscuro. Si pulì il naso con il dorso della mano. «E tu come lo sai?» «Perché guarda - ha lasciato che ti salvassi! Vedi? Se voleva che tu morissi, allora sarei caduta anch'io. Saremmo morte entrambe! E adesso andiamo, devi asciugarti. Non dirò niente a Reenie. Dirò che è stato un incidente, dirò che sei scivolata. Ma non fare mai più una cosa simile. Okay?» Laura non disse niente, ma mi permise di condurla a casa. Ci fu un'infinità di schiocchi di lingua spaventati, di tremolii e rimproveri, e una tazza di brodo di manzo e un bagno bollente e una borsa dell'acqua calda per Laura, il cui incidente venne ascritto alla sua nota goffaggine; le fu detto di guardare dove camminava. Mio padre mi disse Ben fatto; mi chiesi cosa mi avrebbe detto se l'avessi lasciata andare. Reenie osservò che era un bene che avessimo almeno un cervello in due, ma tanto per cominciare cosa stavamo facendo laggiù? E con la nebbia, per giunta. Disse che avrei dovuto avere più buonsenso. Quella notte giacqui sveglia per ore, le braccia avvolte intorno al corpo, stringendomi forte. Avevo i piedi di ghiaccio, mi battevano i denti. Non
potevo togliermi di mente l'immagine di Laura nelle gelide acque nere del Louveteau - come i suoi capelli si erano sparpagliati come fumo in un vento turbinoso, come il suo viso bagnato era stato percorso da uno scintillio argenteo, come mi aveva guardata quando l'avevo afferrata per il cappotto. Com'era stato duro tenerla. Com'ero stata sul punto di lasciarla andare. Miss Violence Invece di andare a scuola, io e Laura venimmo provviste di una sequela di precettori, sia uomini che donne. Non li ritenevamo necessari, e facevamo del nostro meglio per scoraggiarli. Li fissavamo con i nostri sguardi azzurro chiaro, oppure fingevamo di essere sorde o stupide; non li guardavamo mai negli occhi, soltanto sulla fronte. Spesso occorreva più di quanto si possa credere per sbarazzarsi di loro: di solito sopportavano molto da noi, perché la vita non li aveva certo trattati bene e avevano bisogno della paga. Non avevamo nulla contro di loro in quanto individui; semplicemente non volevamo esserne oppresse. Anche quando non avevamo lezione, dovevamo comunque rimanere ad Avilion, in casa o nei giardini. Ma chi era lì a controllarci? I precettori erano facili da eludere, non conoscevano i nostri passaggi segreti, e Reenie non poteva starci appresso ogni minuto, come osservava spesso lei stessa. Ogni volta che potevamo fuggivamo da Avilion e giravamo per la città, nonostante la convinzione di Reenie che il mondo fosse pieno di criminali, anarchici e loschi orientali con pipe d'oppio, baffi sottili come corde attorcigliate e lunghe unghie appuntite, nonché di drogati e di gente dedita alla tratta delle bianche, in attesa di rapirci e tenerci prigioniere per chiedere un riscatto a nostro padre. Uno dei molti fratelli di Reenie aveva qualcosa a che fare con le riviste da pochi soldi, del tipo truculento, scadente che si compra nei drugstore, e con quelle ancora peggiori, che ci si procura soltanto sotto banco. Qual era il suo lavoro? Distribuzione, lo chiamava Reenie. Importazione clandestina nel Paese, credo ora. In ogni caso a volte ne dava delle rimanenze a Reenie, e nonostante i suoi sforzi per nascondercele prima o poi ci mettevamo le mani. Alcune contenevano storie d'amore, e sebbene Reenie le divorasse, noi non sapevamo che farcene. Preferivamo - o meglio io preferivo, e Laura si aggregava - quelle con storie ambientate in altri paesi o perfino su altri pianeti. Astronavi venute dal futuro, dove le donne indossavano gonne cortissime fatte di stoffa luccicante e tutto brillava; asteroidi con piante
parlanti percorsi da mostri con occhi e zanne enormi; paesi antichissimi abitati da piccole fanciulle con gli occhi di topazio e la pelle opalina, vestite con pantaloni di mussola e piccoli reggiseni di metallo, come due imbuti uniti da una catenella. Eroi in costumi rigidi, con gli elmetti alati irti di punte. Stupidaggini, le chiamava Reenie. Come nessun'altra cosa al mondo. Ma è proprio per quello che mi piacevano. I criminali e i tipi coinvolti nella tratta delle bianche erano nelle riviste poliziesche, con le loro copertine disseminate di pistole e zuppe di sangue. Qui ogni volta ingenue eredi di immense fortune venivano messe fuori combattimento con l'etere, legate con della corda da bucato - molta più di quanta ne servisse - e rinchiuse in cabine di panfili, o in cripte di chiese abbandonate, o in umide cantine di castelli. Laura e io credevamo nell'esistenza di simili individui, ma non ne avevamo troppa paura. Perché sapevamo cosa aspettarci. Avevano grandi auto scure, e indossavano cappotti e guanti spessi e cappelli flosci di feltro nero, e saremmo state in grado di individuarli all'istante e scappare. Ma non ne vedemmo mai neanche uno. Le uniche forze ostili che incontravamo erano i figli degli operai della fabbrica, quelli più giovani, che non sapevano ancora che eravamo ritenute intoccabili. Ci seguivano a gruppetti di due o tre, silenziosi e curiosi, o gridando insulti; ogni tanto ci tiravano delle pietre, sebbene non ci colpissero mai. Più di tutto eravamo vulnerabili ai loro attacchi quando bighellonavamo lungo lo stretto sentiero che costeggiava il Louveteau, con lo strapiombo sopra le nostre teste - avrebbero potuto tirarci qualcosa - o nei vicoletti secondari, che imparammo a evitare. Percorrevamo Erie Street, esaminando le vetrine dei negozi: quello che vendeva articoli a poco prezzo era il nostro preferito. Oppure sbirciavamo dalla rete di recinzione della scuola elementare, che era per i bambini comuni - i figli degli operai - con il suo cortile cosparso di cenere e le sue alte porte intagliate con su scritto Maschi e Femmine. Durante l'intervallo facevano un gran baccano, e i bambini non erano puliti, soprattutto dopo che si erano azzuffati o erano stati spinti nella cenere. Eravamo felici di non dover frequentare quella scuola. (Lo eravamo davvero? O d'altra parte ci sentivamo escluse? Forse tutte e due le cose). Per questi giri ci mettevamo dei cappelli. Avevamo idea che fossero una protezione; ci rendevano, in un certo senso, invisibili. Una signora non usciva mai senza cappello, diceva Reenie. Diceva anche senza guanti, ma di
questi non ci preoccupavamo sempre. Di quel periodo mi ricordo i cappelli di paglia: non paglia chiara, di un colore bruciato. E il caldo umido di giugno, l'aria sonnolenta piena di polline. Lo scintillio blu del cielo. L'indolenza, il vagare senza meta. Come mi piacerebbe riaverli, quei pomeriggi senza scopo - la noia, la mancanza di un fine, le possibilità soltanto abbozzate. E in un certo senso li ho di nuovo; soltanto che ora, qualunque cosa verrà dopo, non durerà a lungo. La precettrice che avevamo a quel tempo durò più della maggior parte degli altri. Era una donna di quarantun anni con un guardaroba di cardigan di cachemire scoloriti che suggerivano un'esistenza precedente più prosperosa, e un rotolo di capelli da topo appuntati dietro la testa. Si chiamava signorina Goreham - signorina Violet Goreham. A sua insaputa la soprannominai Miss Violence, perché il suo nome mi pareva una combinazione talmente improbabile, dopodiché riuscivo a stento a guardarla senza ridacchiare. Tuttavia il nomignolo le restò incollato; lo insegnai a Laura, e poi Reenie naturalmente lo venne a sapere. Ci disse che eravamo cattive a prendere in giro a quel modo la signorina Goreham; la poverina aveva subito un rovescio di fortuna e meritava la nostra compassione, perché era una donna sola. Cosa voleva dire? Una donna senza marito. La signorina Goreham era stata destinata a una santa vita da nubile, disse Reenie con una sfumatura di disprezzo. «Ma neanche tu hai un marito» disse Laura. «È differente» ribatté Reenie. «Non ho ancora trovato un uomo a cui valesse la pena di stirare i pantaloni, ma ne ho respinti abbastanza. Ho avuto le mie proposte». «Forse anche Miss Violence ne ha» dissi, giusto per il gusto di contraddirla. Mi stavo avvicinando a quell'età. «No» disse Reenie, «non ne ha». «Come fai a saperlo?» chiese Laura. «Si vede dall'aspetto» disse Reenie. «Se avesse ricevuto anche una sola proposta, perfino se l'uomo avesse avuto tre teste e la coda, lo avrebbe acchiappato veloce come un serpente». Con Miss Violence andavamo d'accordo perché ci faceva fare quello che volevamo. Resasi ben presto conto di non avere abbastanza polso per tenerci a bada, aveva saggiamente deciso di non prendersi la briga di provar-
ci. Facevamo lezione di mattina, nella biblioteca, che un tempo era stata del nonno Benjamin e adesso era di nostro padre, e Miss Violence non faceva altro che mettercela a disposizione. Gli scaffali erano pieni di pesanti libri con il dorso di pelle e il titolo stampato in oro scuro, e dubito che il nonno Benjamin li avesse mai letti: rappresentavano soltanto l'idea che la nonna Adelia aveva di ciò che avrebbe dovuto leggere. Sceglievo i libri che mi interessavano: Il racconto di due città di Charles Dickens; le storie di Macaulay; La conquista del Messico e La conquista del Perù, illustrate. Leggevo anche poesia, e di tanto in tanto Miss Violence faceva un tiepido tentativo di insegnarci qualcosa facendomi leggere ad alta voce. A Xanadu Kubla Khan ordinò di costruire un grandioso tempio del piacere. Nei campi di Fiandra ondeggiano i papaveri, tra le croci, fila dopo fila. «Non procedere a sbalzi» diceva Miss Violence. «I versi dovrebbero scorrere. Fai finta di essere una fontana». Sebbene goffa e inelegante, aveva un elevato grado di sensibilità e una lunga lista di cose che voleva che fingessimo di essere: alberi in fiore, farfalle, brezze gentili. Tutto tranne che bambine dalle ginocchia sporche che si mettevano le dita nel naso: sulle questioni di igiene personale era meticolosa. «Non masticare le matite colorate, cara» diceva a Laura. «Non sei un roditore. Guarda, hai la bocca tutta verde. Ti fa male ai denti». Leggevo Evangeline di Henry Wadsworth Longfellow; leggevo i Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning. Come ti amo? Lasciami contare i modi. «Bello» sospirava Miss Violence. Di Elizabeth Barrett Browning era entusiasta, o entusiasta quanto glielo permetteva la sua natura; anche di E. Pauline Johnson, la principessa mohawk. Oh, il fiume scorre più veloce adesso; I mulinelli vorticano attorno alla mia prua. Turbinate! Turbinate! Come le increspature si arricciano In tanti irruenti gorghi vorticosi! «Travolgente, cara» diceva Miss Violence. Oppure leggevo Alfred, lord Tennyson, un uomo la cui maestà era seconda solo a quella di Dio, secondo il giudizio di Miss Violence. Del muschio più nero i vasi di fiori
Avevano spesse incrostazioni, tutti: I chiodi arrugginiti cadevano dai nodi Che fissavano il pero al muro sormontato dal timpano... Ella disse soltanto: «La mia vita è triste, Lui non viene» disse; Disse: «Sono stanca, stanca, Vorrei essere morta!» «Perché lo voleva?» chiese Laura, che di solito non mostrava grande interesse nelle mie recitazioni. «Era amore, cara» disse Miss Violence. «Amore senza limiti. Ma non era corrisposto». «Perché?» Miss Violence sospirò. «È una poesia, cara» disse. «Lord Tennyson l'ha scritta e suppongo che sapesse quello che faceva. Una poesia non ragiona sul perché. "Bellezza è verità, verità è bellezza - questo a voi, sopra la terra, di sapere è dato, questo e non altro a voi è dato sapere"». Laura la guardò con disprezzo, e tornò a colorare. Girai pagina: avevo già scorso l'intera poesia, e avevo scoperto che non vi succedeva nient'altro. Frangiti, frangiti, frangiti, Sulle tue fredde pietre grige, oh Mare! Quanto vorrei che la mia lingua potesse dare voce Ai pensieri che nascono dentro di me. «Un amore, cara» disse Miss Violence. Le piaceva l'amore senza limiti, ma le piaceva ugualmente la malinconia disperata. C'era un libro sottile rilegato in pelle color tabacco, che era appartenuto alla nonna Adelia: il Rubåiyåt di Omar Khayyåm, di Edward Fitzgerald. (In realtà non era stato scritto da Edward Fitzgerald, eppure si diceva che fosse lui l'autore. Come spiegarlo? Non ci provai). A volte Miss Violence leggeva dei brani da questo libro, per mostrarmi come andava declamata la poesia: Un libro di poesie sotto i rami dell'albero, Una brocca di vino, un po' di pane - e Tu Accanto a me che canto nel deserto -
Oh, il deserto sarebbe un vero Paradiso! Pronunciava l'«Oh» con il fiato mozzo, come se qualcuno le avesse dato un calcio nel petto; lo stesso il «Tu». Pensavo che fosse troppo chiasso da fare su un picnic, e mi chiedevo cosa avessero spalmato sul pane. «Naturalmente non si tratta di vino reale, cara» disse Miss Violence. «Allude alla comunione». Oh, volesse un Angelo alato prima che sia troppo tardi Arrestare il Rotolo non ancora dispiegato del Fato, E far sì che il severo Archivista Registri in altro modo, o piuttosto annientarlo. Ah, Amore! Potessimo Io e Te cospirare con Lui Per afferrare tutto il triste Schema delle Cose, Non dovremmo infrangerlo - per poi Rimodellarlo più vicino al desiderio del cuore! «Com'è vero» disse Miss Violence con un sospiro. Ma lei sospirava su tutto. Si adattò molto bene ad Avilion - con i suoi antiquati splendori vittoriani, la sua aria di decadenza estetica, di grazia passata, di debole rimpianto. I suoi atteggiamenti e perfino i suoi cachemire scoloriti si intonavano alla carta da parati. Laura non leggeva molto. Invece copiava le figure, oppure colorava con i pastelli le illustrazioni in bianco e nero degli spessi ed eruditi libri di viaggio o di storia. (Miss Violence glielo permetteva, presumendo che nessun altro se ne sarebbe accorto). Laura aveva idee strane ma molto precise su quali colori ci volessero: faceva un albero blu o rosso, faceva il cielo rosa o verde. Se c'era l'immagine di qualcuno che non le andava a genio, gli faceva la faccia viola o grigio scura per cancellarne i lineamenti. Le piaceva disegnare le piramidi, da un libro sull'Egitto; le piaceva colorare gli idoli egizi. Anche le statue assire con i corpi di leoni alati e le teste di aquila o uomo. Erano in un volume di Sir Henry Layard, che le aveva scoperte tra le rovine di Ninive e le aveva spedite in Inghilterra; si diceva che rappresentassero gli angeli descritti nel libro di Ezechiele. Miss Violence non considerava queste figure molto belle - le statue sembravano pagane, e anche assetate di sangue - ma Laura non si faceva scoraggiare. Di fronte alle critiche si limitava ad accoccolarsi ancora di più sulla pagina e a
colorare come se la sua stessa vita dipendesse da ciò. «Schiena dritta, cara» diceva Miss Violence. «Fai finta che la tua spina dorsale sia un albero che cresce verso il sole». Ma Laura non era interessata a questo tipo di finzioni. «Non voglio essere un albero» diceva. «Meglio un albero che una gobba, cara» sospirava Miss Violence, «e se non fai attenzione alla tua posizione, è questo che diverrai». Il più delle volte Miss Violence sedeva alla finestra intenta a leggere romanzi sentimentali presi in prestito dalla biblioteca pubblica. Le piaceva anche sfogliare gli album di pelle decorata della nonna Adelia, con i loro raffinati inviti goffrati incollati con cura, i loro menù dati da stampare al giornale e i successivi ritagli - i tè di beneficenza, le conferenze edificanti illustrate da diapositive - gli arditi, amabili viaggiatori che avevano visitato Parigi e la Grecia e perfino l'India, i seguaci di Swedenborg, i fabiani, i vegetariani, tutti i vari promotori dell'automiglioramento, e una volta ogni tanto qualcosa di veramente eccentrico - un missionario venuto dall'Africa, o dal Sahara, o dalla Nuova Guinea, che descriveva come i nativi praticassero la stregoneria o nascondessero le loro donne dietro elaborate maschere di legno o decorassero i crani dei loro antenati con pittura rossa e gusci di conchiglie di ciprea. Tutte le testimonianze di carta ingiallita di quella vita lussuosa, ambiziosa e spietata ormai scomparsa, che Miss Violence esaminava centimetro per centimetro, quasi ricordandola, sorridendo per un delicato piacere riflesso. Aveva un pacchetto di stelle di carta luccicante, dorate e argentate, che attaccava ai nostri lavori. A volte ci portava a raccogliere fiori di campo, che schiacciavamo tra due fogli di carta assorbente infilati sotto un libro pesante. A poco a poco ci affezionammo a lei, anche se non piangemmo quando se ne andò. Lei però pianse - a dirotto, in maniera inelegante, come faceva ogni cosa. Compii tredici anni. Stavo crescendo, con manifestazioni di cui non avevo colpa, anche se sembravano infastidire mio padre come se di una colpa si trattassero. Cominciò a interessarsi a come mi atteggiavo, a come parlavo, al mio comportamento in generale. I miei vestiti dovevano essere più semplici possibile: camicette bianche e gonne a pieghe scure, e scuri abiti di velluto per andare in chiesa. Abiti che sembravano uniformi - che sembravano vestiti alla marinara, ma non lo erano. Dovevo tenere le spalle
dritte, senza assumere posizioni sguaiate. Non dovevo stare seduta in maniera scomposta, masticare gomme, muovermi con irrequietezza o chiacchierare. I valori su cui insisteva erano quelli dell'esercito: ordine, obbedienza, silenzio e nessuna traccia di sessualità. La sessualità, sebbene non se ne parlasse mai, andava stroncata sul nascere. Mi aveva lasciato a briglia sciolta troppo a lungo. Era tempo che ci si occupasse di me. Anche Laura fu coinvolta in qualcuna di queste lavate di capo, sebbene non avesse ancora raggiunto l'età giusta. (Qual'era l'età giusta? L'età della pubertà, ora mi è chiaro. Ma allora ero semplicemente confusa. Che crimine avevo commesso? Perché venivo trattata come se fossi reclusa in uno strano riformatorio?) «Sei troppo duro con le bambine» diceva Callista. «Non sono ragazzi». «Purtroppo» ribatteva mio padre. Fu da Callista che andai il giorno in cui scoprii di avere contratto un'orribile malattia, perché in mezzo alle gambe mi colava il sangue: stavo sicuramente morendo! Callista si mise a ridere. Poi spiegò: «È soltanto una seccatura» disse. E che avrei dovuto parlarne come del «mio amico», o di un «ospite». Reenie aveva idee più presbiteriane. «È il ciclo» disse. Si fermò di colpo, prima di dire che era un ennesimo, più bizzarro piano di Dio, escogitato per rendere spiacevole la vita: era proprio così che stavano le cose, disse. Quanto al sangue, fai a pezzi degli stracci. (Non disse sangue, disse sporcizia). Mi fece una tazza di camomilla che ricordava l'odore della lattuga andata a male; e anche una borsa dell'acqua calda, per i crampi. Nessuna delle due mi fu di giovamento. Laura trovò una macchia di sangue tra le mie lenzuola e scoppiò a piangere. Ne dedusse che sarei morta. Sarei morta come la mamma, singhiozzò, senza prima avvertirla. Avrei avuto un piccolo bambino grigio che assomigliava a un gattino e poi sarei morta. Le dissi di non fare la sciocca. Dissi che quel sangue non aveva niente a che fare con i bambini. (Callista non aveva affrontato quell'argomento, avendo senza dubbio deciso che troppe informazioni di quel genere tutte in una volta avrebbero potuto procurarmi seri danni alla psiche). «Un giorno accadrà anche a te» dissi a Laura. «Quando avrai la mia età. È una cosa che succede alle ragazze». Laura era indignata. Rifiutò di crederci. Come in molte altre cose, era convinta che nel suo caso sarebbe stata fatta un'eccezione.
C'è un ritratto mio e di Laura risalente a quegli anni, scattato nello studio di un fotografo. Io indosso il vestito di velluto scuro regolamentare, uno stile troppo da bambina per me: ho, chiaramente, quello che un tempo veniva definito il petto. Laura siede accanto a me, in un abito identico. Abbiamo tutte e due calze bianche al ginocchio, Mary Janes di vernice; abbiamo le gambe con le caviglie decorosamente accavallate, la destra sulla sinistra, come ci era stato insegnato. Tengo un braccio intorno a Laura, ma in maniera incerta, come se mi fosse stato ordinato di metterlo lì. Da parte sua Laura ha le mani giunte in grembo. Ognuna di noi ha i capelli chiari divisi nel mezzo e tirati bene indietro, a lasciare scoperto il viso. Entrambe sorridiamo, in quel modo apprensivo dei bambini a cui è stato detto che devono fare i buoni e sorridere, come se fossero due cose uguali: è un sorriso imposto dalla minaccia della disapprovazione. Minaccia e disapprovazione sarebbero venute da papà. Ne avevamo paura, ma non sapevamo come evitarle. Le metamorfosi di Ovidio Mio padre aveva deciso, non a torto, che la nostra educazione era stata trascurata. Voleva che imparassimo il francese, ma anche la matematica e il latino - esercizi mentali che avrebbero fatto da correttivo al nostro carattere eccessivamente sognante. Anche la geografia ci avrebbe rinvigorite. Nonostante l'avesse a malapena notata durante il suo servizio, decretò che Miss Violence e le sue maniere fiacche, stantie e tinte di rosa dovevano essere spazzate via. Voleva che gli orli di merletto arricciati e contorti ci fossero recisi quasi fossimo lattuga, lasciando un nucleo semplice e sano. Non capiva perché ci piacesse quello che ci piaceva. Voleva che ci trasformassimo in copie di maschi, in un modo o nell'altro. Be', cosa ci si poteva aspettare? Non aveva mai avuto sorelle. Al posto di Miss Violence assunse un uomo chiamato signor Erskine, che un tempo aveva insegnato in una scuola maschile in Inghilterra ma era stato spedito in Canada, di punto in bianco, per motivi di salute. A noi non sembrava affatto malandato: non tossiva mai, per esempio. Era tarchiato, vestito di tweed, sui trenta o forse trentacinque anni, aveva i capelli rossicci e una bocca carnosa, bagnata e rossa, una barbetta a punta, un'ironia tagliente e un brutto carattere, e per finire un odore che ricordava il fondo di una cesta di panni da lavare impregnata di umidità. Fu presto chiaro che essere distratte e fissare la fronte del signor Erskine
non ci avrebbe liberato di lui. Prima di tutto ci sottopose a dei test per stabilire cosa sapessimo. Non molto, risultò, sebbene più di quanto pensassimo opportuno divulgare. Poi disse a mio padre che avevamo cervelli da insetti o da marmotte. Il nostro stato era decisamente deplorevole, ed era un miracolo che non fossimo cretine. Avevamo sviluppato abitudini mentali indolenti - ci era stato permesso di farlo, aggiunse in tono di rimprovero. Per fortuna, non era troppo tardi. Mio padre disse che in tal caso il signor Erskine avrebbe dovuto portarci al livello desiderato. A noi, il signor Erskine disse che la pigrizia, l'arroganza, la tendenza a bighellonare e a sognare a occhi aperti e lo svenevole sentimentalismo non avevano fatto altro che rovinare il nostro approccio a quel serio affare che è la vita. Nessuno si aspettava che fossimo dei geni, e non ci sarebbero stati accordati favori se lo fossimo state, ma certo si richiedeva un minimo anche alle ragazze: saremmo state soltanto un ingombro per qualunque uomo abbastanza stupido da sposarci, a meno che non fossimo state disposte a rimboccarci le maniche. Ordinò un gran mucchio di quaderni, del tipo economico a righe, con la copertina di cartone leggero. Ordinò una scorta di semplici matite di grafite, munite di gomma. Quelle erano le bacchette magiche, disse, grazie alle quali avremmo trasformato noi stesse, con il suo aiuto. Disse aiuto con un sorriso ammiccante. Gettò via le stelle di carta luccicante della signorina Goreham. La biblioteca ci distraeva troppo, disse. Chiese e ottenne due banchi di scuola, che sistemò in una delle stanze degli ospiti; fece togliere il letto e tutti gli altri mobili, in modo da lasciare soltanto la stanza nuda. La porta veniva chiusa a chiave, ed era lui a tenerla. Ora avremmo potuto rimboccarci le maniche e metterci d'impegno. I metodi del signor Erskine erano diretti. Era uno che tirava capelli e orecchie. Sbatteva la riga sul banco accanto alle nostre dita, se non sulle dita stesse, o ci dava schiaffi sulla nuca, quando era esasperato, o ancora, come ultima risorsa, ci lanciava addosso libri o ci picchiava dietro le gambe. Il suo sarcasmo era mortificante, almeno per me: spesso Laura lo prendeva alla lettera, il che lo mandava ancora di più in bestia. Non si faceva commuovere dalle lacrime; in realtà credo che ne godesse. Non era così ogni giorno. Le cose magari procedevano senza problemi per un'intera settimana. Poteva far mostra di pazienza, perfino di una goffa gentilezza. Poi c'era un'esplosione, e si comportava come un pazzo. Non sapere mai cosa avrebbe potuto fare, o quando avrebbe potuto farlo, era la
cosa peggiore. Non potevamo lamentarci con nostro padre, perché il signor Erskine non eseguiva forse i suoi ordini? Così diceva. Ma ci lamentavamo con Reenie, naturalmente. Era offesa. Io ero troppo grande per essere trattata in quel modo, diceva, e Laura era troppo nervosa, e tutte e due eravamo... insomma, chi si credeva di essere? Cresciuto sulla strada e pieno di arie, come tutti gli inglesi che finivano quaggiù pensando di poter spadroneggiare, e se faceva il bagno una volta al mese si sarebbe mangiata la camicia. Quando Laura andò da Reenie con le piaghe sulle palme delle mani, Reenie affrontò il signor Erskine, ma le fu detto di pensare ai fatti propri. Era stata lei a viziarci, disse il signor Erskine. Ci aveva viziate con l'eccessiva indulgenza e trattandoci da bambocce - era fin troppo ovvio - e ora toccava a lui riparare ai suoi danni. Laura disse che o se ne andava il signor Erskine o se ne sarebbe andata lei. Sarebbe scappata. Sarebbe saltata fuori da una finestra. «Non farlo, tesoro» disse Reenie. «Ci spremeremo le meningi. Gli renderemo pan per focaccia». «Ma lui non ha focacce» singhiozzò Laura. Callista Fitzsimmons avrebbe potuto essere di un qualche aiuto, ma vedeva da che parte tirava il vento: non eravamo figlie sue, ma di papà. Lui aveva scelto la sua linea di condotta, e sarebbe stato un errore tattico per lei intromettersi. Era un caso di sauve qui peut, un'espressione che, grazie allo zelo del signor Erskine, ero ormai in grado di tradurre. L'idea che il signor Erskine aveva della matematica era abbastanza semplice: dovevamo sapere come far quadrare i conti di una casa, il che significava sommare, sottrarre e tenere una partita doppia. La sua idea del francese erano le forme verbali e Phaedra. Faceva inoltre assegnamento sulle concise massime degli autori illustri. Si jeunesse savait, si vieillesse pouvait - Estienne; C'est de quoi j'ai le plus de peur que la peur - Montaigne; Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point Pascal; L'histoire, cette vietile dame exaltée et menteuse - de Maupassant; Il ne faut pas toucher aux idoles : la dorure en reste aux mains - Flaubert; Dieu s'est fait homme; soit. Le diable s'est fait femme - Victor Hugo. E così via. La sua idea della geografia erano le capitali d'Europa. La sua idea del latino era Cesare che sottometteva i galli e attraversava il Rubicone, alea iacta est; e, oltre a quello, brani scelti dall'Eneide di Virgilio - gli piaceva il suicidio di Didone - e dalle Metamorfosi di Ovidio, le parti in cui gli dei
facevano cose sgradevoli alle giovani donne. Il ratto di Europa a opera di un grosso toro, di Leda da parte di un cigno, di Danae da parte di una pioggia dorata - queste almeno avrebbero catturato la nostra attenzione, diceva, con il suo sorriso ironico. Su questo punto aveva ragione. Ogni tanto, per cambiare, ci faceva tradurre poesie d'amore latine di tipo cinico. Odi et amo - quel genere di cose. Andava in brodo di giuggiole nel vederci combattere con i cattivi giudizi dei poeti sul tipo di ragazze che apparentemente eravamo destinate a diventare. «Rapìo, rapis, rapui, raptum, rapere» diceva il signor Erskine. «"Afferrare e portare via". La parola inglese rapture, "estasi, rapimento", deriva dalla stessa radice. Coniugate». Tac, faceva la riga. Imparavamo. Imparavamo davvero, in uno spirito vendicativo: non concedevamo alcuna scusante al signor Erskine. Non c'era nulla che volesse di più che mettere un piede su ciascuno dei nostri colli - be', se possibile, quel piacere gli sarebbe stato negato. Quello che imparammo davvero da lui fu come imbrogliare. Era difficile bluffare in matematica, ma nel tardo pomeriggio passavamo molte ore copiando le nostre versioni di Ovidio da un paio di libri della biblioteca del nonno - vecchie traduzioni di illustri vittoriani, in caratteri piccoli e un lessico difficile. Traevamo il senso del brano da quei libri, quindi sostituivamo i vocaboli con altre parole più semplici e aggiungevamo qualche errore, per far sembrare di aver fatto tutto da sole. Qualunque fosse il risultato, il signor Erskine imperversava sulle nostre traduzioni con la sua matita rossa e scriveva feroci commenti ai margini. Non imparammo molto latino, ma sulla contraffazione sì. Imparammo anche a rendere i nostri visi vacui e rigidi, come se fossero stati inamidati. Era meglio non reagire al signor Erskine in nessuna maniera visibile, soprattutto non indietreggiando. Per un po' Laura rimase intimidita dal signor Erskine, ma il dolore fisico - almeno quello inferto a lei - non le faceva molto effetto. Presto la sua attenzione prese a vagar via anche quando lui urlava. Lui aveva una gamma talmente limitata. Laura guardava la carta da parati - un motivo di boccioli di rosa e nastri - o fuori della finestra. Sviluppò l'abilità di astrarsi in un batter d'occhio - un istante era concentrata su chi le parlava, l'istante successivo era altrove. O piuttosto era l'interlocutore a essere altrove: lei lo congedava, come se avesse agitato un'invisibile bacchetta magica; come se fosse stato lui stesso a farsi svanire. Il signor Erskine non sopportava di venire rifiutato in quel modo. Cominciava a scuoterla - per farla uscire da quello stato, diceva. Non sei la
Bella Addormentata, gridava. A volte la gettava contro il muro, o la scrollava tenendole le mani attorno al collo. Mentre la scuoteva lei chiudeva gli occhi e si afflosciava, cosa che lo irritava ancora di più. In un primo momento cercai di intervenire, ma non serviva a niente. Venivo semplicemente spinta da un lato da un colpo del suo maleodorante braccio rivestito di tweed. «Non lo irritare» dissi a Laura. «Non importa che lo irriti o meno» ribatté lei. «E comunque, non è irritato. Vuole soltanto mettermi le mani nella camicetta». «Non l'ho mai visto farlo» dissi. «Perché dovrebbe?» «Lo fa quando non guardi» fece lei. «O sotto la gonna. Quello che gli piace sono le mutandine». Lo disse con una tale calma che pensai che dovesse esserselo inventato, o che avesse frainteso. Frainteso le mani del signor Erskine, le loro intenzioni. Ciò che aveva descritto era talmente poco plausibile. Non mi pareva il tipo di cosa che un uomo adulto potesse fare, o fosse interessato a fare in generale: Laura non era che una bambina... «Non dovremmo dirlo a Reenie?» provai a chiederle. «Potrebbe non credermi» disse Laura. «Come te». Ma Reenie le credette, o scelse di crederle, e quella fu la fine del signor Erskine. Sapeva che non avrebbe dovuto sfidarlo a duello: lui avrebbe semplicemente accusato Laura di dire delle sporche bugie, dopodiché le cose sarebbero andate peggio che mai. Quattro giorni dopo marciò nell'ufficio di papà alla fabbrica di bottoni con una manciata di foto proibite. Non era il genere di cose che oggi potrebbe provocare più di un'alzata di sopracciglia, ma allora erano scandalose - donne in calze nere con seni a forma di budino che straripavano dai giganteschi reggiseni, le stesse donne con niente indosso, in posizioni contorte, a gambe allargate. Disse che le aveva trovate sotto il letto del signor Erskine quando aveva spazzato la sua stanza, ed era quello il tipo d'uomo a cui dovevano essere affidate le figlie del Capitano Chase? C'era un pubblico interessato, che comprendeva un gruppo di operai, l'avvocato di papà e, tra gli altri, il futuro marito di Reenie, Ron Hincks. La vista di Reenie - le guance con le fossette tutte infuocate, gli occhi fiammeggianti come quelli di una Furia vendicativa, la nera crocchia di capelli sul punto di sciogliersi - che sventolava un fascio di donne nude dalle grosse tette con i cespugli bene in vista, fu troppo per Ron. Mentalmente cadde in ginocchio davanti a lei, e da quel giorno cominciò a darle la cac-
cia, che alla fine fu coronata dal successo. Ma questa è un'altra storia. Se c'è una cosa che Port Ticonderoga non avrebbe sopportato, disse l'avvocato di mio padre col tono del consulente, era quel genere di sconcezze tra le mani di insegnanti di giovani innocenti. Mio padre si rese conto che dopo quell'episodio non avrebbe potuto tenere il signor Erskine in casa senza essere considerato un orco. (Per molto tempo ho sospettato che Reenie si fosse procurata da sé le foto, dal fratello che era nella distribuzione delle riviste e avrebbe potuto facilmente organizzare la cosa. Sospetto che il signor Erskine fosse innocente per quanto riguarda le fotografie. Se mai, i suoi gusti andavano alle bambine, non ai grossi reggiseni. Ma a quel punto non poteva aspettarsi un comportamento leale da Reenie). Il signor Erskine se ne andò, protestando la sua innocenza - indignato, ma anche scosso. Laura disse che le sue preghiere erano state esaudite. Disse che aveva pregato perché il signor Erskine fosse cacciato dalla nostra casa, e che Dio l'aveva ascoltata. Reenie, disse, aveva fatto la Sua volontà, con le fotografie sporche e tutto. Mi chiesi cosa ne pensasse Dio, supposto che esistesse - una cosa su cui nutrivo dubbi crescenti. Laura, invece, nel periodo in cui il signor Erskine era stato al nostro servizio, si era data seriamente alla religione: aveva ancora paura di Dio, ma costretta a scegliere tra un tiranno iracondo e imprevedibile e l'altro, aveva scelto quello che era più grande, nonché più lontano. Una volta operata la scelta, la portò agli estremi, come faceva con tutto. «Mi farò suora» annunciò in tono placido, mentre mangiavamo il nostro pranzo a base di panini al tavolo della cucina. «Non puoi» disse Reenie. «Non ti prenderanno. Non sei cattolica». «Potrei diventarlo» ribatté Laura. «Potrei unirmi a loro». «Bene» disse Reenie, «dovrai tagliarti i capelli. Sotto tutti quei loro veli, le suore sono calve come uova». Questa fu una mossa acuta da parte sua. Laura non ne sapeva niente. Se c'era una cosa di cui andava fiera, erano i suoi capelli. «E perché?» chiese. «Credono che sia il volere di Dio. Credono che Dio voglia che gli offrano i loro capelli, il che dimostra soltanto quanto siano ignoranti. Cosa dovrebbe farsene?» disse Reenie. «Che idea! Tutti quei capelli!» «E cosa ne fanno dei capelli?» chiese Laura. «Una volta che sono stati tagliati?» Reenie stava sgusciando i fagioli: toc, toc, toc. «Ne fanno parrucche per le donne ricche» disse. Non perdeva un colpo, ma sapevo che era una frot-
tola, come le sue vecchie storie secondo cui i bambini erano fatti con la pasta del pane. «Ricche donne con la puzza sotto il naso. Tu non vorrai mica vedere i tuoi bei capelli in giro sulla testa grande, grossa e sudicia di qualcun altro». Laura rinunciò a farsi suora, o almeno così sembrò; ma chi poteva dire quale sarebbe stato il suo prossimo amore? Aveva una spiccata tendenza a credere. Era aperta, si affidava, si consegnava, si metteva alla mercé. Un po' di incredulità sarebbe stata una prima linea di difesa. A questo punto erano trascorsi parecchi anni - sprecati, in sostanza, con il signor Erskine. Ma forse non dovrei dire sprecati: avevo imparato molte cose da lui, sebbene non sempre quelle che si era proposto di insegnarci. Oltre alla menzogna e all'imbroglio, avevo imparato l'insolenza mal celata e la resistenza silenziosa. Avevo imparato che la vendetta è un piatto che è meglio consumare freddo. Avevo imparato a non farmi cogliere sul fatto. Nel frattempo era cominciata la Depressione. Mio padre non perse molto nel crollo della Borsa, ma qualcosa perse comunque. Perse anche il suo margine di errore. Avrebbe dovuto chiudere le fabbriche in risposta alla diminuzione della domanda, avrebbe dovuto depositare in banca il denaro - accumularlo, come stavano facendo altri nella sua posizione. Questa sarebbe stata la cosa sensata. Ma non la fece. Non poteva sopportarlo. Non poteva sopportare di cacciare i suoi uomini dal lavoro. Doveva della lealtà, ai suoi uomini. Anche se alcuni di loro erano donne. La povertà piombò su Avilion. Le nostre stanze divennero fredde d'inverno, le nostre lenzuola logore. Reenie ne tagliava via le strisce centrali consumate, poi cuciva insieme le due parti rimaste. Un certo numero di stanze vennero chiuse; gran parte della servitù fu mandata via. Non c'era più un giardiniere, e le erbacce presero furtivamente piede. Mio padre diceva che avrebbe avuto bisogno della nostra collaborazione per mandare avanti le cose - per superare quel brutto momento. Potevamo aiutare Reenie in casa, disse, dal momento che eravamo tanto ostili al latino e alla matematica. Potevamo imparare come farci bastare un dollaro. Questo significava, in pratica, mangiare fagioli o baccalà o conigli per pranzo, e rammendare le nostre calze. Laura si rifiutava di mangiare conigli. Sembravano bambini scuoiati, diceva. Bisognava essere cannibali per mangiarli. Reenie diceva che la troppa bontà non avrebbe giovato a mio padre. Diceva anche che era troppo orgoglioso. Un uomo dovrebbe ammettere
quando è stato sconfitto. Lei non sapeva cosa ci aspettasse, ma la rovina era il risultato più probabile. Ormai avevo sedici anni. La mia educazione ufficiale, per quello che valeva, era terminata. Me ne stavo così, in attesa, ma di cosa? Che ne sarebbe stato di me, ora? Reenie aveva le sue preferenze. Si era messa a leggere la rivista Mayfair, con le descrizioni delle feste dell'alta società, e le pagine mondane dei giornali - i matrimoni, i balli di beneficenza, le vacanze lussuose. Memorizzava liste di nomi - i nomi delle persone importanti, delle navi da crociera, dei buoni alberghi. Avrei dovuto fare il mio ingresso in società, diceva, con tutti gli annessi e connessi - tè per conoscere le madri che contano nel bel mondo, ricevimenti e gite alla moda, e un ballo ufficiale a cui invitare i giovanotti più appetibili. Avilion si sarebbe di nuovo riempita di gente ben vestita, come ai vecchi tempi; ci sarebbero stati quartetti d'archi e torce sul prato. La nostra famiglia era buona almeno quanto le famiglie alle cui figlie veniva assicurato tutto questo - altrettanto buona, se non migliore. Mio padre avrebbe dovuto tenere un po' di denaro in banca apposta. Se solo mia madre non fosse morta, diceva Reenie, si sarebbe fatta ogni cosa per bene. Ne dubitavo. Da quello che avevo sentito su mia madre, magari avrebbe insistito perché fossi mandata a scuola - l'Alma Ladies' College, o qualche istituto più rispettabile e tetro - a imparare qualcosa di utile ma altrettanto tetro, come la stenografia; ma l'ingresso in società sarebbe stato considerato qualcosa di futile. Neanche lei l'aveva avuto. La nonna Adelia era diversa, e abbastanza lontana nel tempo perché potessi idealizzarla. Si sarebbe fatta in quattro per me; non avrebbe risparmiato né progetti né spese. Mi abbandonavo alle fantasticherie nella biblioteca, studiando i suoi ritratti ancora appesi alle pareti: quello a olio, eseguito nel 1900, in cui esibiva un sorriso da sfinge e un abito del colore delle rose rosse secche, con una profonda scollatura dalla quale la gola nuda emergeva all'improvviso, come un braccio da dietro la tenda di un mago; le fotografie in bianco e nero in cornici dorate, che la mostravano in cappelli a larghe tese, o piume di struzzo, o vestiti da sera con diademi e guanti bianchi di capretto, da sola o con varie autorità ormai dimenticate. Mi avrebbe fatto sedere e mi avrebbe dato i consigli necessari: come vestirmi, cosa dire, come comportarmi in ogni occasione. Come evitare di rendermi ridicola, cosa per cui intravedevo già ampie possibilità. Nono-
stante le sue incursioni nelle pagine mondane, Reenie non ne sapeva abbastanza. Il picnic alla fabbrica di bottoni Il fine settimana della Festa del Lavoro è arrivato e passato, lasciando resti di bicchieri di plastica, bottiglie galleggianti e palloncini che si afflosciano nel risucchio dei gorghi del fiume. Ora settembre si sta facendo valere. Sebbene a mezzogiorno il sole non sia meno caldo, sorge ogni mattina più tardi, trascinandosi dietro la foschia, e nelle sere più fredde i grilli stridono e friniscono. Astri selvatici crescono a gruppi nel giardino, dove hanno fatto radici qualche tempo fa - alcuni piccoli e bianchi, altri più folti e del colore del cielo, altri ancora con gambi color ruggine, di un viola più intenso. Una volta, nei giorni in cui mi dedicavo saltuariamente al giardinaggio, li avrei bollati come erbacce e li avrei estirpati. Ora non faccio più certe distinzioni. Questo è il tempo migliore per camminare, la luce non è troppo forte o abbagliante. I turisti si stanno diradando, e quelli che restano sono almeno coperti in maniera decente: niente più pantaloncini giganti e prendisole traboccanti, niente più gambe rosse e bitorzolute. Oggi mi sono messa in cammino verso i Campeggi. Mi sono messa in cammino, ma quando ero a metà strada è passata Myra in macchina e mi ha offerto un passaggio, e mi vergogno a dire che l'ho accettato: ero senza fiato, me n'ero già resa conto da un pezzo. Myra ha voluto sapere dove stessi andando e perché - deve avere ereditato l'istinto del cane da pastore da Reenie. Le ho detto dove stavo andando; quanto al perché, ho detto che volevo soltanto rivedere il posto, in onore dei vecchi tempi. Troppo pericoloso, ha fatto lei: non si sa mai cosa può strisciare tra gli arbusti laggiù. Mi ha fatto promettere di sedermi su una panchina, bene in vista, e di aspettarla. Ha detto che sarebbe tornata a riprendermi dopo un'ora. Mi sento sempre più come una lettera - depositata qui, raccolta là. Ma una lettera senza destinatario. I Campeggi non sono un grande spettacolo. Una striscia di terra tra la strada e il fiume Jogues - un acro o due - con alberi e cespugli stentati, e in primavera le zanzare che si diffondono dall'area acquitrinosa al suo centro. Qui vengono a cacciare gli aironi; a volte si sentono le loro grida rauche, come un bastone raschiato su una latta deformata. Di quando in quando appassionati di bird-watching vi fanno capolino con quella loro aria deso-
lata, come se andassero in cerca di qualcosa che hanno smarrito. Tra le ombre ci sono luccichii d'argento di pacchetti di sigarette, e i pallidi tuberi sgonfi di preservativi gettati via, e i quadrati abbandonati di Kleenex che la pioggia ha reso simili a merletti. Cani e gatti rivendicano i propri diritti, avide coppie si insinuano tra gli alberi, sebbene meno numerose di una volta - ci sono tante altre possibilità oggi. In estate gli ubriachi dormono sotto i cespugli più fitti, e gli adolescenti vanno là a fumare e a sniffare, qualsiasi cosa fumino e sniffino. Vi sono stati trovati mozziconi di candela e cucchiai bruciati, e l'occasionale ago usa e getta. Vengo a sapere tutte queste cose da Myra, che le considera una vergogna. Lei sa a cosa servono i mozziconi di candela e i cucchiai: sono l'armamentario dei drogati. Il vizio è ovunque, a quanto pare. Et in Arcadia ego. Un decennio o due fa venne fatto un tentativo di ripulire l'area. Fu innalzato un cartello - The Colonel Parkman Park, che suonava assurdo - e vi furono sistemati tre rustici tavoli da picnic, un contenitore per la plastica e un paio di bagni mobili, a beneficio dei visitatori di fuori, fu detto, anche se questi preferivano tracannare la loro birra e disseminare i loro rifiuti da qualche parte dove ci fosse una vista più chiara del fiume. Poi qualche ragazzo dal grilletto facile usò il cartello per allenarsi a sparare, i tavoli e i bagni furono rimossi dall'amministrazione provinciale - per via di un qualche bilancio - e il contenitore per i rifiuti non venne mai svuotato, sebbene fosse spesso saccheggiato dai procioni; così portarono via anche quello, e ora il posto sta tornando allo stato brado. È chiamato i Campeggi perché è là che avevano luogo i raduni religiosi all'aperto, con grandi tende come al circo e ferventi predicatori venuti da fuori. A quei tempi lo spazio era più curato, oppure più calpestato. Piccole fiere viaggianti vi sistemavano baracche e attrazioni e vi impastoiavano i loro pony e i loro asini, era qui che le sfilate terminavano e si disperdevano in picnic. Era un posto per riunioni all'aperto di qualsiasi genere. È qui che una volta si teneva la Festa del Lavoro della Chase & Figli. Questo era il nome formale, sebbene la gente lo chiamasse semplicemente il picnic della fabbrica di bottoni. Aveva luogo sempre il sabato precedente al lunedì ufficiale della Festa del Lavoro, con la sua calorosa retorica e le bande che marciavano e le bandiere fatte in casa. C'erano palloncini e una giostra, e giochi innocui, sciocchi - corse nei sacchi, gare in cui bisognava trasportare un uovo su un cucchiaio, staffette in cui il testimone era una carota. Si esibivano quartetti vocali, e neanche troppo male; il gruppo di trombettieri degli scout strombazzava uno o due numeri; squadre di bam-
bini eseguivano vivaci danze scozzesi e irlandesi su una piattaforma di legno rialzata che ricordava un ring, mentre la musica era fornita da un grammofono a carica. C'era un concorso per l'animale meglio vestito, e anche uno per i bambini. Si mangiavano pannocchie di granturco, insalata di patate, hot dog. Le ausiliarie organizzavano vendite gastronomiche in aiuto di questo o quello, offrendo pasticci e biscotti e torte, e vasetti di marmellata e di sottaceti e di salse indiane a base di spezie e frutta, ognuno con l'etichetta che recava un nome di battesimo: Conserva di scorza d'arancia di Rhoda, Composta di prugne di Pearl. Si facevano giochi pesanti - una gran baldoria. Al banco non si serviva nulla di più forte della limonata, ma gli uomini portavano fiasche grandi e piccole, e quando scendeva il crepuscolo potevano esserci risse, o grida e rauche risate tra gli alberi, seguite da tonfi lungo la riva quando un uomo o un giovanotto veniva buttato in acqua tutto vestito, oppure senza i calzoni. In quel punto le acque del Jogues erano abbastanza basse, di modo che quasi nessuno annegava. Una volta buio si facevano i fuochi d'artificio. Nel suo massimo fulgore, o in quello che io ricordo come tale, il picnic prevedeva anche la quadriglia, con tanto di violini. Ma nell'anno che ora sto rievocando, che è il 1934, si era posto un freno a questo genere di esagerata allegria. Verso le tre del pomeriggio mio padre faceva un discorso, dalla piattaforma destinata alle danze. Era sempre un discorso breve, ma veniva ascoltato con attenzione dagli uomini più anziani; anche dalle donne, dal momento che o lavoravano loro stesse per la compagnia, o erano sposate con qualcuno che vi lavorava. Quando i tempi si fecero più duri, perfino i giovani cominciarono ad ascoltare il discorso; perfino le ragazze, con i loro vestiti estivi e le braccia seminude. Il discorso non diceva mai molto, ma si poteva leggere tra le righe. «Ragione di essere soddisfatti» era buon segno; «motivi di ottimismo» era cattivo segno. Quell'anno il tempo era caldo e secco, com'era ormai da un bel pezzo. Non c'erano tanti palloncini come al solito; non c'era la giostra. Il granturco sulle pannocchie era troppo vecchio, i chicchi erano raggrinziti come nocche; la limonata era acquosa, gli hot dog finirono presto. Eppure, non c'erano stati licenziamenti alle Industrie Chase, non ancora. Rallentamenti, ma non licenziamenti. Mio padre disse «motivi di ottimismo» quattro volte, ma «ragione di essere soddisfatti» neanche una. C'erano sguardi ansiosi. Quando eravamo più piccole, io e Laura ci divertivamo al picnic; ora
non più, ma era un obbligo parteciparvi. Dovevamo farci vedere. Ci era stato inculcato fin dalla più tenera età: la mamma si era sempre fatta un dovere di andare, per quanto male potesse sentirsi. Dopo che mia madre era morta ed era toccato a Reenie badare a noi, questa aveva fatto scrupolosamente attenzione alle nostre tenute per quel giorno: non troppo informali, perché sarebbe stato sprezzante, come se non ci importasse cosa pensasse di noi la cittadinanza; ma neanche troppo eleganti, perché sarebbe equivalso a volerla mortificare. Ormai eravamo abbastanza grandi da scegliere come vestirci - io avevo appena compiuto diciotto anni, Laura ne aveva quattordici e mezzo -, anche se non avevamo più tante possibilità di scelta. L'eccessiva mostra di lusso era sempre stata scoraggiata in casa nostra, sebbene avessimo avuto quella che Reenie chiamava roba buona, ma di recente la definizione di lusso si era ristretta fino a significare qualunque capo nuovo. Per il picnic indossavamo tutte e due gonne svasate e strette in vita blu e camicette bianche dell'estate prima. Laura aveva il mio cappello di tre stagioni prima; quanto a me, avevo quello dell'anno precedente, a cui era stato cambiato il nastro. Laura non sembrava farci caso. Io invece sì. Lo dissi, e lei osservò che ero attaccata alle cose mondane. Ascoltammo il discorso. (O meglio, io lo ascoltai. Laura aveva l'atteggiamento di chi ascolta - gli occhi spalancati, la testa inclinata da un lato con aria attenta - ma non si poteva assolutamente dire cosa stesse sentendo). A mio padre quel discorso era sempre venuto bene, non importa quanto avesse bevuto, ma quella volta si impappinò sul testo. Avvicinava la pagina dattiloscritta all'occhio buono, quindi l'allontanava con uno sguardo perplesso, come se si trattasse del conto di qualcosa che non aveva ordinato. Un tempo i suoi vestiti erano stati eleganti, poi erano divenuti eleganti ma consumati, ora erano quasi logori. I capelli erano arruffati attorno alle orecchie, avevano bisogno di essere tagliati; sembrava tormentato - quasi feroce, come un bandito messo con le spalle al muro. Dopo il discorso, che fu accolto da niente di più che un applauso doveroso, alcuni degli uomini si riunirono in piccoli gruppi, parlando tra loro a voce bassa. Altri si sedettero sotto gli alberi, su giacche o coperte stese, oppure si allungarono con un fazzoletto sul viso a fare un pisolino. Soltanto gli uomini facevano così; le donne rimanevano sveglie, vigili. Le madri conducevano i figli piccoli al fiume, per farli sguazzare sulla spiaggetta ghiaiosa laggiù. Un po' in disparte era cominciata una fiacca partita di baseball; un gruppetto di spettatori la seguiva con aria stordita.
Andai ad aiutare Reenie alla vendita gastronomica. In sostegno di chi era? Non me lo ricordo. Ma ormai aiutavo sempre - ci si aspettava che lo facessi. Dissi a Laura che sarebbe dovuta venire anche lei, ma si comportò come se non mi avesse sentito e si allontanò lentamente, facendo dondolare il cappello per la tesa floscia. La lasciai andare. Io avrei dovuto tenerla d'occhio: per quanto riguardava me, Reenie dormiva tra due guanciali, ma a suo parere Laura era assolutamente troppo fiduciosa, dava troppa confidenza agli estranei. Gli uomini della tratta delle bianche erano sempre in agguato, e Laura era il loro bersaglio naturale. Sarebbe salita sulla macchina di un estraneo, avrebbe aperto una porta sconosciuta, attraversato la strada sbagliata, e poi sarebbe stata fatta, perché lei non si poneva limiti, o almeno non dove se li ponevano gli altri, e non si poteva metterla in guardia perché non avrebbe capito. Non che si facesse beffe delle regole: semplicemente le dimenticava. Ero stanca di tenere d'occhio Laura, che non me ne era grata. Ero stanca di essere ritenuta responsabile dei suoi sbagli, della sua incapacità di adeguarsi. Ero stanca di essere ritenuta responsabile, punto e basta. Volevo andare in Europa, o a New York, o perfino a Montreal - nei night club, alle soirée, in tutti quei posti eccitanti nominati nelle riviste mondane di Reenie - ma c'era bisogno di me a casa. Bisogno di me a casa, bisogno di me a casa - sembrava una condanna a vita. Peggio, un lamento funebre. Ero bloccata a Port Ticonderoga, fiero bastione del bottone comune-e-ordinario e dei mutandoni a basso prezzo per acquirenti che dovevano far quadrare i conti. Là mi sarei intorpidita, non mi sarebbe successo niente, e sarei diventata una vecchia zitella come Miss Violence, compatita e derisa. Questa era fondamentalmente la mia paura. Volevo essere in qualche altro posto, ma non vedevo alcun modo per arrivarci. Ogni tanto mi coglievo a sperare di essere rapita dagli uomini della tratta delle bianche, anche se non credevo alla loro esistenza. Almeno sarebbe stato un cambiamento. Il tavolo della vendita gastronomica era coperto da un tendone, e tovaglioli da tè o pezzi di carta oleata proteggevano la mercanzia dalle mosche. Reenie aveva contribuito con alcuni pasticci, una preparazione che a dire il vero non era mai stata il suo forte. I suoi pasticci avevano ripieni collosi e poco cotti, e croste spesse ma molli, che facevano pensare ad alghe marroncine o a grandi funghi lividi. In tempi migliori si vendevano abbastanza bene - venivano considerati oggetti rituali, non cibo in quanto tale - ma quel giorno non andavano granché. Il denaro scarseggiava, e in cambio la gente voleva qualcosa di veramente commestibile.
Mentre stavo dietro il tavolo, Reenie mi metteva al corrente sottovoce delle ultime novità. Quattro uomini erano già stati gettati nel fiume, quando il cielo era ancora di un bianco abbagliante, e non proprio per divertimento. C'erano state discussioni che avevano a che fare con la politica, disse Reenie; erano volate parole grosse. Oltre alle solite bravate sul fiume, erano scoppiate zuffe. Elwood Murray era stato messo fuori combattimento. Era l'editore del settimanale locale, che aveva ereditato da due generazioni di Murray anch'essi nei giornali: ne scriveva la maggior parte, e faceva anche le fotografie. Fortunatamente non era stato buttato in acqua, cosa che avrebbe rovinato la sua macchina fotografica, costata un bel mucchio di soldi anche se di seconda mano, come Reenie era venuta a sapere. Gli usciva il sangue dal naso, e ora sedeva sotto un albero con un bicchiere di limonata e due donne che gli si affaccendavano intorno con fazzoletti bagnati; potevo vederlo da dove mi trovavo. Era per motivi politici, quell'atterramento? Reenie non lo sapeva, ma alla gente non piaceva che stesse ad ascoltare cosa diceva. In tempi prosperi Elwood Murray era considerato un cretino, e forse quello che Reenie chiamava un invertito - be', non era sposato, e a quell'età doveva pur significare qualcosa -, ma era tollerato e perfino apprezzato, entro i limiti della decenza, finché riportava tutti i nomi in occasione degli avvenimenti mondani e li scriveva in modo corretto. Ma quelli non erano tempi prosperi, ed Elwood Murray era troppo ficcanaso per passarla liscia. Nessuno vuole che ogni bazzecola sul proprio conto venga scritta sui giornali, diceva Reenie. Nessuno con un po' di buonsenso lo vorrebbe. Individuai mio padre, che camminava tra gli operai partecipanti al picnic con la sua andatura sbilenca. Annuiva nel suo modo brusco a questo o a quello, un gesto in cui la testa sembrava indietreggiare sul collo piuttosto che spingersi in avanti. La benda nera sull'occhio si girava di qua e di là; da lontano sembrava un foro nella testa. I baffi gli si ripiegavano come un'unica zanna scura e obliqua sulla bocca, che di tanto in tanto si serrava in qualcosa che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso. Le mani erano nascoste nelle tasche. Accanto a mio padre c'era un uomo più giovane, un po' più alto di lui, ma a differenza di lui privo di rughe o angoli. Levigato era la parola che faceva venire in mente. Portava un panama elegante e un abito di lino che sembrava emettere luce, tanto era fresco e pulito. Veniva ovviamente da fuori città. «Chi è quel tipo con papà?» chiesi a Reenie.
Reenie guardò senza darlo a vedere, poi fece una breve risata. «È il signor Royal Classic in carne e ossa. Certo che ha un bel coraggio.» «Avevo pensato che fosse lui» dissi. Il signor Royal Classic era Richard Griffen, della Royal Classic Knitwear di Toronto. I nostri operai - gli operai di papà - si riferivano a lui in tono di scherno come a Royal Classic Shitwear, perché il signor Griffen non era soltanto il principale concorrente di papà, era anche per così dire un avversario. Aveva attaccato mio padre sulla stampa tacciandolo di essere troppo morbido sui disoccupati, sull'opera assistenziale e sui sinistroidi in generale. Anche sui sindacati, cosa gratuita perché Port Ticonderoga non ospitava nessun sindacato e le opinioni sfavorevoli di mio padre al riguardo non erano certo un segreto. Ma ora per qualche ragione mio padre aveva invitato Richard Griffen a cena ad Avilion, dopo il picnic, e anche con pochissimo preavviso. Solo quattro giorni. Reenie aveva l'impressione che il signor Griffen le fosse stato affibbiato di punto in bianco. Com'era risaputo, bisognava fare più bella figura con i propri nemici che con i propri amici, e per lei quattro giorni non erano abbastanza per i preparativi di un simile avvenimento, soprattutto considerando che ad Avilion non c'era stata una di quelle che si potevano definire cene eleganti dai tempi della nonna Adelia. È vero, Callie Fitzsimmons a volte portava degli amici per il fine settimana, ma era diverso, perché erano soltanto artisti e dovevano essere grati per qualunque cosa fosse loro offetta. A volte venivano trovati in cucina di notte, a fare scorrerie nella dispensa, a prepararsi panini con gli avanzi. Pozzi senza fondo, li chiamava Reenie. «Comunque è un arricchito» disse Reenie in tono sprezzante, squadrando Richard Griffen. «Guarda che pantaloni stravaganti». Era implacabile con chiunque criticasse mio padre (cioè con tutti tranne che con se stessa), e sprezzante nei confronti di chi si faceva strada nel mondo e si comportava al di sopra del proprio livello, o di ciò che lei considerava tale; ed era un fatto noto che i Griffen erano feccia, o almeno lo era il nonno. Aveva messo in piedi la sua attività imbrogliando gli ebrei, diceva Reenie in tono ambiguo - era una specie di prodezza questa, secondo la sua modesta opinione? -, ma come avesse fatto esattamente non sapeva dirlo. (Onestamente, Reenie poteva aver inventato queste accuse sui Griffen. A volte attribuiva alle persone le storie che secondo lei dovevano avere avuto). Dietro a mio padre e al signor Griffen, accanto a Callie Fitzsimmons, camminava quella che presi per la moglie del signor Griffen - una donna
piuttosto giovane, magra, elegante, che si trascinava dietro della mussola trasparente arancione chiaro simile al fumo che si alza da un'acquosa minestra di pomodoro. Il suo cappello a larghe tese era verde, come pure le scarpe aperte con i tacchi alti e una specie di sciarpa sottile che portava attorno al collo. Era vestita con eccessiva eleganza per il picnic. Mentre la osservavo si fermò, sollevò un piede e si girò a guardare al di sopra della spalla per vedere se le si fosse attaccato qualcosa al tacco. Speravo di sì. Eppure, pensai a quanto sarebbe stato bello avere abiti così eleganti, abiti da arricchiti così favolosi, invece dei vestiti decorosi, demodé e trasandati che a quel tempo costituivano il nostro stile dettato dal bisogno. «Dov'è Laura?» chiese Reenie improvvisamente in allarme. «Non ne ho idea» dissi. Avevo preso l'abitudine di parlarle in tono brusco, soprattutto quando mi comandava a bacchetta. Non sei mia madre era diventata la mia risposta più fulminante. «Dovresti avere abbastanza buonsenso da non perderla di vista» disse Reenie. «Potrebbe esserci chiunque in giro». Chiunque era uno dei suoi spauracchi. Non si poteva mai sapere quali intrusioni, quali furti e gaffe potesse commettere quel chiunque. Trovai Laura seduta sull'erba sotto un albero, intenta a parlare con un giovanotto - un uomo, non un ragazzo -, un uomo dalla carnagione scura con un cappello chiaro. Il suo stile era indefinibile - non era un operaio della fabbrica, ma neanche qualcos'altro, o almeno non qualcos'altro di preciso. Niente cravatta, ma in fondo era un picnic. Una camicia blu, un po' consumata ai bordi. Un abbigliamento improvvisato, un atteggiamento da proletario. Molti giovanotti lo ostentavano a quei tempi - molti studenti universitari. D'inverno portavano maglie lavorate ai ferri a strisce orizzontali. «Ciao» disse Laura. «Dove te n'eri andata? Questa è mia sorella Iris, questo è Alex». «Signor...?» dissi. Come mai Laura era passata così in fretta al nome di battesimo? «Alex Thomas» disse il giovanotto. Era educato ma cauto. Si alzò in fretta e tese la mano, e io la strinsi. Poi mi ritrovai seduta accanto a loro. Sembrava la cosa migliore da fare per proteggere Laura. «Viene da fuori città, signor Thomas?» «Sì. Sono qui in visita da conoscenti». Sembrava quello che Reenie avrebbe definito un simpatico giovanotto, intendendo non povero. Ma neanche ricco.
«È un amico di Callie» disse Laura. «Era qui un attimo fa, ci ha presentati lei. È venuto con il suo stesso treno». Stava dando un po' troppe spiegazioni. «Hai conosciuto Richard Griffen?» chiesi a Laura. «Era con papà. Il tizio che verrà a cena». «Richard Griffen, il magnate, lo sfruttatore?» chiese il giovanotto. «Alex, il signor Thomas, è un esperto dell'antico Egitto» disse Laura. «Mi stava parlando dei geroglifici». Lo guardò. Non l'avevo mai vista rivolgere a nessun altro uno sguardo come quello. Spaventato, abbagliato? Era difficile dare un nome a uno sguardo del genere. «Sembra interessante» dissi. Sentii la mia voce pronunciare la parola interessante con quel tono beffardo che usa la gente. Dovevo trovare il modo per dire a questo Alex Thomas che Laura aveva solo quattordici anni, ma non mi veniva in mente nulla che non l'avrebbe fatta arrabbiare. Alex Thomas tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della camicia - Craven A, se ben ricordo. Batté leggermente sul pacchetto per farne uscire una. Ero un po' sorpresa che fumasse sigarette bell'e pronte - la cosa mal si accordava con la sua camicia. Le sigarette confezionate erano un lusso: gli operai della fabbrica se le facevano da sé, qualcuno con una mano sola. «Grazie, ne prendo una» dissi. Avevo fumato solo poche sigarette prima d'allora, e anche quelle di nascosto, sgraffignate dalla scatola d'argento sopra il piano. Mi rivolse uno sguardo duro, il che credo fosse quello che volevo, quindi mi offrì il pacchetto. Accese un fiammifero con il pollice e me lo porse. «Non dovresti farlo» disse Laura. «Potresti darti fuoco». Elwood Murray ci comparve di fronte, di nuovo in piedi e pimpante. Aveva il davanti della camicia ancora umido e macchiato di rosa, dove le donne avevano provato a ripulire il sangue con i fazzoletti bagnati; l'interno delle narici era orlato di rosso scuro. «Salve, signor Murray» lo salutò Laura. «Sta bene?» «Alcuni dei ragazzi si sono lasciati trascinare un po'» disse Elwood Murray, quasi stesse rivelando timidamente di avere vinto un qualche premio. «È stato solo per divertirsi. Posso?» Quindi ci fece una foto con la sua macchina col flash. Diceva sempre Posso? prima di scattare una fotografia per il giornale, ma non aspettava mai la risposta. Alex Thomas sollevò la mano come per schermirsi. «Conosco queste due belle signore, naturalmente» gli disse Elwood Murray, «ma qual è il suo nome?»
Reenie piombò lì all'improvviso. Aveva il cappello di traverso ed era rossa in faccia e senza fiato. «Vostro padre vi sta cercando dappertutto» disse. Sapevo che non era vero. Ciò nonostante io e Laura dovemmo alzarci dall'ombra dell'albero, spazzolarci le gonne e andare con lei, come anatroccoli chiamati a raccolta. Alex Thomas ci fece un cenno di saluto. Era un cenno sardonico, o almeno così mi sembrò. «Non sapete fare nulla di meglio?» disse Reenie. «Stare sedute scomposte sull'erba con il Signore sa chi. E per l'amor del cielo, Iris, butta via quella sigaretta, non sei una sgualdrina. E se tuo padre ti vede?» «Papà fuma come un turco» dissi, in un tono che speravo insolente. «È diverso» ribatté Reenie. «Il signor Thomas» disse Laura. «Il signor Alex Thomas. Studia teologia. O almeno lo faceva fino a poco fa» aggiunse scrupolosamente. «Ha perso la fede. La sua coscienza non gli avrebbe permesso di continuare». Era chiaro che la coscienza di Alex Thomas aveva fatto una profonda impressione su Laura, ma non scosse minimamente Reenie. «Cosa combina, allora?» disse. «Qualcosa di equivoco, scommetto, o io sono una cinese. Ha un aspetto ambiguo». «Cos'ha che non va?» chiesi a Reenie. Non mi era piaciuto, ma senza dubbio ora veniva giudicato in maniera preconcetta. «Cos'ha che va, piuttosto» disse lei. «E poi, rotolarsi sul prato sotto gli occhi di tutti». Stava parlando più a me che a Laura. «Almeno avevi la gonna tirata giù». Reenie diceva che una ragazza sola con un uomo dovrebbe poter tenere una moneta tra le ginocchia. Aveva sempre paura che la gente - gli uomini - ci vedesse le gambe, la parte sopra il ginocchio. Delle donne che permettevano che ciò accadesse, diceva: Su il sipario, dov'è lo spettacolo? O: Tanto vale che appenda un cartello. O, in tono più malefico: Lo vuole lei, avrà quanto si merita, o, nei casi peggiori: È un incidente prevedibile. «Non ci stavamo rotolando» disse Laura. «Non eravamo in pendio». «Rotolare o no, sai cosa intendo» disse Reenie. «Non stavamo facendo nulla» osservai. «Stavamo parlando». «Questo non c'entra» replicò Reenie. «La gente potrebbe vedervi». «La prossima volta che non faremo nulla ci nasconderemo tra i cespugli» dissi. «E chi è, a ogni modo?» chiese Reenie, che di solito ignorava le mie
provocazioni dirette, dal momento che ormai non poteva evitarle. Chi è significava Chi sono i suoi genitori. «È orfano» disse Laura. «È stato adottato, preso da un orfanotrofio. Lo hanno adottato un ministro presbiteriano e sua moglie». Sembrava avere strappato questa informazione ad Alex Thomas in pochissimo tempo, ma era una delle sue abilità, se così può chiamarsi - tempestava l'interlocutore di domande, del genere personale che ci era stato insegnato che era maleducato fare, finché quello, in preda alla vergogna o all'indignazione, era costretto a smettere di rispondere. «Un orfano!» disse Reenie. «Potrebbe essere chiunque!» «Cos'hanno gli orfani che non va?» chiesi. Sapevo cos'avevano che non andava secondo la modesta opinione di Reenie: non sapevano chi erano i loro padri, e questo li rendeva inaffidabili, se non dei veri e propri degenerati. Nato in un fosso, ecco come la metteva Reenie. Nato in un fosso, lasciato davanti a una porta. «Non ci si può fidare di loro» disse Reenie. «Avanzano strisciando. Non conoscono limiti». «Be', a ogni modo» disse Laura, «l'ho invitato a cena». «Questo è davvero il colmo!» disse Reenie. Dispensatrici di pane C'è un susino selvatico sul retro del giardino, oltre il recinto. È antico, nodoso, con i rami ritorti. Walter dice che dovremmo abbatterlo, ma io ho osservato che, a ben guardare, non è mio. In ogni caso, ci sono affezionata. Fiorisce ogni primavera, senza che nessuno glielo chieda, senza nessuna cura; verso la fine dell'estate lascia cadere le susine nel mio giardino, piccole, blu e ovali con sopra una patina simile a polvere. Che generosità. Questa mattina ho raccolto gli ultimi frutti fatti cadere dal vento - quei pochi che gli scoiattoli, i procioni e le vespe intontite mi hanno lasciato - e li ho mangiati avidamente, mentre il succo della loro polpa ammaccata mi insanguinava il mento. Non ci ho fatto caso finché Myra non è passata con un altro dei suoi pasticci di tonno. Santo cielo, ha detto, con la sua risata ansimante da uccello. Con chi ti sei azzuffata? Ricordo quella cena della Festa del Lavoro in ogni dettaglio, perché è stata l'unica volta in assoluto che siamo stati tutti insieme nella stessa stanza.
Ai Campeggi i festeggiamenti erano ancora in corso, ma in nessuna forma a cui sarebbe stato consigliabile assistere da vicino, giacché il consumo clandestino di liquore a buon mercato andava ormai a ruota libera. Laura e io ce n'eravamo andate presto, per aiutare Reenie nei preparativi della cena. Questi duravano ormai da qualche giorno. Appena Reenie era stata informata di quella cena speciale, aveva disseppellito il suo unico libro di cucina, Il libro di cucina della scuola di Boston, di Fannie Merritt Farmer. In realtà non era suo: era appartenuto alla nonna Adelia, che lo aveva consultato - insieme ai suoi svariati cuochi, naturalmente - nell'organizzare le sue cene da dodici portate. Reenie lo aveva ereditato, sebbene non lo usasse per la cucina di tutti i giorni - quella ce l'aveva tutta in testa, a sentir lei. Ma qui ci voleva qualcosa di alta classe. Io lo avevo letto quel libro, o almeno lo avevo sfogliato, nei giorni in cui avevo elaborato una visione romantica di mia nonna. (Ormai ci avevo rinunciato. Sapevo che mi avrebbe dato addosso anche lei, come facevano Reenie e mio padre, e come avrebbe fatto mia madre, se non fosse morta. Darmi addosso era la ragione di vita di tutte le persone adulte. Non si dedicavano ad altro). Il libro di cucina aveva una copertina scialba, di un assurdo color senape, e conteneva cose altrettanto scialbe. Fannie Merritt Farmer era implacabilmente pragmatica - tutto secondo copione, in uno stringato stile New England. Presumeva che il lettore non sapesse nulla, e cominciava da lì: «Una bevanda è qualsiasi cosa da bere. L'acqua è la bevanda fornita all'uomo dalla natura. Tutte le bevande contengono una larga percentuale di acqua, e perciò dovrebbero essere considerati loro fini: I. Spegnere la sete. II. Introdurre l'acqua nel sistema circolatorio. III. Regolare la temperatura del corpo. IV. Aiutare lo smaltimento dei liquidi. V. Nutrire. VI. Stimolare il sistema nervoso e svariati organi. VII. Scopi medici» e così via. Il gusto e il piacere non rientravano nelle sue liste, ma sulla prima pagina del libro c'era una curiosa epigrafe di John Ruskin: Arte culinaria significa la conoscenza di Medea e di Circe e di Elena e della regina di Saba. Significa la conoscenza di tutte le erbe e i frutti e i balsami e le spezie, e di tutto ciò che è salutare e dolce nei campi e nei boschetti e saporito nelle carni. Significa prudenza e inventiva e buona volontà e prontezza di esecuzione. Significa la parsimonia delle vostre nonne e la scienza del moderno chimi-
co; significa provare e non sprecare; significa la meticolosità inglese e l'ospitalità francese e araba; e, infine, significa che dovete essere sempre delle perfette signore - dispensatrici di pane. Trovavo difficile immaginarmi Elena di Troia in grembiule, con le maniche rimboccate fino al gomito e le guance sporche di farina; e da quanto sapevo di Circe e Medea, le uniche cose che avessero mai preparato erano pozioni magiche, per avvelenare eredi in linea diretta o trasformare uomini in maiali. Quanto alla regina di Saba, dubito che avesse mai fatto anche solo un toast. Mi chiedevo dove il signor Ruskin avesse preso quelle strane idee, sia sulle signore che sull'arte culinaria. Eppure, era un'immagine che deve essere piaciuta a moltissime donne della piccola borghesia dell'epoca di mia nonna. Dovevano essere composte nel portamento, inavvicinabili, perfino regali, ma dotate di ricette arcane e potenzialmente letali, e capaci di ispirare le passioni più accese negli uomini. E per di più, perfette e sempre signore - dispensatrici di pane. Distributrici di graziosa prodigalità. Qualcuno aveva mai preso sul serio questo genere di cose? Mia nonna sì. Bastava guardare i suoi ritratti - quel sorriso gongolante, quelle palpebre abbassate. Chi credeva di essere, la regina di Saba? Senza alcun dubbio. Quando tornammo dal picnic, trovammo Reenie che si affaccendava in cucina. Non ricordava molto Elena di Troia: nonostante tutto il lavoro fatto in anticipo, era agitata e di malumore; sudava e aveva i capelli che le cadevano giù. Disse che dovevamo accontentarci di quello che sarebbe venuto fuori, perché cos'altro potevamo aspettarci, visto che lei non faceva miracoli, compreso cavar sangue da una rapa. E toccava anche mettere un posto in più, proprio all'ora zero, per questo Alex, o comunque si chiamasse. Alex il Furbo, si sarebbe detto dall'aspetto. «Si chiama con il suo nome» disse Laura. «Come tutti». «Non è come tutti» disse Reenie. «Si capisce al primo sguardo. La cosa più probabile è che sia un indiano meticcio, oppure uno zingaro. Certamente non viene dallo stesso pezzo di terra coltivato a piselli di noi altri». Laura non disse niente. Di norma non era incline ai sensi di colpa, ma questa volta sembrava un po' pentita di avere invitato Alex Thomas sull'impulso del momento. Tuttavia non poteva disdire l'invito, come osservò - sarebbe stato mille miglia oltre la semplice maleducazione. Un invitato era un invitato, chiunque fosse. Anche mio padre la pensava così, sebbene fosse tutt'altro che contento:
Laura aveva bruciato le tappe e gli aveva usurpato la sua posizione di ospite, ed era sicuro che ben presto avrebbe invitato alla sua tavola ogni orfano e perdigiorno e caso pietoso, neanche lui fosse il buon re Venceslao del canto natalizio. Quei suoi santi impulsi andavano frenati, disse; lui non gestiva un ospizio di carità. Callie Fitzsimmons aveva cercato di ammorbidirlo: Alex non era un caso pietoso, lo aveva rassicurato. È vero, il giovanotto non poteva vantare un lavoro, ma sembrava che avesse una fonte di reddito, o comunque non si era mai saputo che avesse chiesto soldi a qualcuno. Quale poteva essere la fonte delle sue entrate? chiese mio padre. Che fosse dannata se lo sapeva, disse Callie: Alex aveva la bocca cucita sull'argomento. Magari rapinava banche, osservò mio padre con pesante sarcasmo. Niente affatto, ribatté Callie; comunque, alcuni dei suoi amici conoscevano Alex. Mio padre disse che una cosa non escludeva l'altra. A quel tempo stava diventando acido nei confronti degli artisti. Troppi di loro avevano appoggiato il marxismo e gli operai, e lo avevano accusato di opprimere i lavoratori. «Alex è a posto. È soltanto un ragazzo» disse Callie. «È solo venuto a fare una gita. È solo un amico». Non voleva che mio padre si facesse l'idea sbagliata - che Alex Thomas fosse magari un suo boyfriend, in qualche modo in competizione con lui. «In cosa posso essere utile?» chiese Laura in cucina. «L'ultima cosa di cui ho bisogno» disse Reenie, «è qualche altra magagna. Tutto quello che ti chiedo è di tenerti lontana e non sgraffignare niente. Mi aiuterà Iris. Lei almeno non è maldestra». Reenie pensava che aiutarla fosse un segno di favore: era ancora irritata con Laura, e la stava escludendo. Ma questa forma di punizione con lei non funzionava. Prese il suo cappello da sole e andò a gironzolare sul prato. Parte del lavoro che mi era stato assegnato consisteva nel preparare i fiori per la tavola, nonché assegnare i posti. Per decorare la tavola avevo tagliato alcune zinnie dalle bordure - non c'era quasi nient'altro in quel periodo dell'anno. Quanto all'assegnazione dei posti avevo messo Alex Thomas accanto a me, con Callie dall'altro lato e Laura di fronte. In quel modo, mi pareva, sarebbe stato isolato, o almeno lo sarebbe stata Laura. Laura e io non avevamo vestiti adatti a una cena. Avevamo comunque dei vestiti. Erano i soliti abiti di velluto blu scuro di quando eravamo più piccole, allungati e con un nastro nero cucito sopra il segno consumato del vecchio orlo per nasconderlo. Una volta avevano avuto dei colletti di mer-
letto bianco, e quello di Laura l'aveva ancora; al mio l'avevo tolto, in modo da rendere la scollatura più profonda. Erano troppo stretti, o almeno il mio lo era; anche quello di Laura, a pensarci bene. Per i normali standard Laura non era abbastanza grande per partecipare a una cena come quella, ma Callie osservò che sarebbe stato crudele farla stare tutta sola nella sua stanza, soprattutto dal momento che aveva personalmente invitato uno degli ospiti. Mio padre disse che gli sembrava giusto. Poi disse che in ogni caso, ora che era cresciuta a vista d'occhio come un'erbaccia, Laura sembrava della mia stessa età. Era difficile dire che età pensava che avessimo. Non riusciva mai a ricordare i nostri compleanni. All'ora fissata gli ospiti si raccolsero nel salotto per uno sherry, che fu servito da una cugina zitella di Reenie arruolata per l'occasione. A Laura e a me non era permesso di bere sherry o qualunque altro tipo di vino durante i pasti. Laura non sembrava dispiacersi per questa esclusione, ma io sì. Su questo punto Reenie stava dalla parte di papà, ma del resto lei era astemia. «Labbra che toccano liquore non toccheranno mai le mie» diceva, vuotando i fondi dei bicchieri di vino nel lavandino. (Tuttavia si sbagliava al riguardo - meno di un anno dopo quella cena sposò Ron Hincks, un bell'ubriacone ai suoi tempi. Myra, se stai leggendo prendi nota: prima che venisse sbozzato in un pilastro della comunità da Reenie, tuo padre era una bella spugna). La cugina di Reenie era più grande di lei, e sciatta al punto che faceva male guardarla. Indossava un vestito nero e un grembiule bianco, come si conveniva, ma aveva calze di cotone marrone sformate, e le mani avrebbero dovuto essere più pulite. Di giorno lavorava dal fruttivendolo, dove uno dei suoi compiti era insaccare patate; è duro sfregare via quel genere di sporcizia. Reenie aveva preparato delle tartine con olive a fette, uova sode e piccoli sottaceti, nonché delle palline di pasta sfoglia al formaggio, che non erano riuscite come avrebbero dovuto. Il tutto era disposto su uno dei vassoi migliori della nonna Adelia, di porcellana dipinta a mano proveniente dalla Germania, con un disegno di peonie rosso scuro con foglie e gambi dorati. Sul vassoio c'era un tovagliolo e al centro un piatto di nocciole salate, con le tartine sistemate come i petali di un fiore, tutte spinose di stuzzicadenti. La cugina le ficcava davanti ai nostri ospiti in maniera rozza, quasi minacciosa, come se stesse inscenando una rapina a mano armata. «Questa roba sembra pericolosa» disse mio padre con il tono ironico nel quale ormai riconoscevo la rabbia camuffata. «Meglio rifiutarla o ve ne
pentirete quando sarà troppo tardi». Callie rise, ma Winifred Griffen Prior sollevò con grazia una pallina al formaggio e se la infilò in bocca in quel modo che hanno le donne quando non vogliono che il rossetto venga via con le labbra spinte in fuori in una specie di imbuto - e disse che era interessante. La cugina aveva dimenticato i tovaglioli da cocktail, perciò Winifred fu lasciata con le dita unte. La guardai con curiosità per vedere se le avrebbe leccate o pulite sul vestito, o magari sul divano, ma distolsi lo sguardo al momento sbagliato, perciò mi persi la scena. Ebbi la sensazione che lo avesse fatto sul divano. Winifred non era (come avevo pensato) la moglie di Richard Griffen, ma la sorella. (Era sposata, vedova o divorziata? Non era del tutto chiaro. Dopo il «signora» usava il proprio nome di battesimo e non quello del marito, il che faceva pensare a qualche incidente occorso al fu signor Prior, se davvero era «fu». Veniva nominato di rado e nessuno l'aveva mai visto; di lui si diceva che fosse ricco sfondato e «in viaggio». In seguito, quando Winifred e io avevamo smesso di parlarci, avevo preso l'abitudine di inventare per mio piacere storie su questo signor Prior: Winifred lo aveva fatto imbalsamare e lo teneva sotto naftalina in uno scatolone di cartone, oppure l'aveva murato in cantina con la complicità dell'autista, per potersi abbandonare a orge lascive con quest'ultimo. Quanto alle orge forse non ero andata troppo lontana dal vero, sebbene debba riconoscere che qualsiasi cosa Winifred facesse in quel senso era sempre nella più grande discrezione. Copriva le tracce - cosa che richiede pur sempre una certa abilità, suppongo). Quella sera Winifred indossava un abito nero, di taglio semplice ma esageratamente elegante, messo in risalto da un triplo giro di perle. Gli orecchini erano piccoli grappoli d'uva, anch'essi di perle ma con gambi e foglie dorati. Callie Fitzsimmons, per contrasto, era vestita volutamente sotto tono. Da un paio d'anni ormai aveva messo da parte il suo fucsia e le sue stoffe zafferano, gli audaci disegni ispirati dai rifugiati politici russi e perfino il bocchino. Ora durante il giorno portava pantaloni e maglioni dalla scollatura a V, con le maniche della camicia arrotolate; si era anche tagliata i capelli e abbreviata il nome in Cal. Aveva rinunciato ai monumenti ai caduti: non ce n'era più grande richiesta. Ora faceva bassorilievi di operai e contadini, e pescatori in pantaloni e giacche impermeabili, e cacciatori indiani, e madri con grembiuli che si tenevano i bambini sui fianchi e si riparavano gli occhi mentre guardavano il sole. Gli unici clienti che potessero permettersi di commissionare cose del
genere erano le compagnie di assicurazioni e le banche, che senza dubbio volevano sistemarle fuori dei loro palazzi per dimostrare di essere in sintonia con i tempi. Era scoraggiante essere al soldo di simili impudenti capitalisti, diceva Callie, ma quello che contava era il messaggio, e almeno qualcuno che camminava per strada e passava davanti alle banche eccetera avrebbe potuto vedere quei bassorilievi senza sborsare denaro. Era arte per il popolo, diceva. Si era messa in testa che mio padre avrebbe potuto aiutarla - procurarle qualche altro lavoro con le banche. Ma mio padre aveva annunciato seccamente che lui e le banche non erano più quel che si dice in rapporti intimi. Per la serata Callie indossava un vestito di jersey del colore di uno strofinaccio - taupe era il nome del colore, ci disse; era la parola francese per «talpa». Su chiunque altro avrebbe fatto l'effetto di un sacco floscio con due maniche e una cintura, ma Callie riusciva a farlo sembrare il massimo, non esattamente della moda o dello stile - quel vestito sottintendeva che quelle cose erano irrilevanti -, ma piuttosto di qualcosa che era facile non notare ma tagliente, come un comune utensile da cucina - un rompighiaccio, per esempio - subito prima di un delitto. Come abito era un pugno sollevato, ma in una folla silenziosa. Mio padre indossava il suo smoking, che avrebbe avuto bisogno di essere stirato. Richard Griffen indossava il suo, che non ne aveva bisogno. Alex Thomas portava una giacca marrone e pantaloni di flanella grigi, troppo pesanti per la stagione; e anche la cravatta, a puntini rossi su sfondo blu. La camicia era bianca, il colletto troppo largo. Sembrava che si fosse fatto prestare quei vestiti. Be', non si era aspettato di essere invitato a cena. «Che casa incantevole» disse Winifred Griffen Prior con un sorriso posticcio, mentre entravamo in sala da pranzo. «È così... così ben conservata! Che fantastiche finestre di vetro colorato - proprio fin de siècle! Dev'essere come vivere in un museo!» Quello che intendeva era fuori moda. Mi sentivo umiliata: avevo sempre pensato che quelle finestre fossero bellissime. Ma mi rendevo conto che il giudizio di Winifred era il giudizio del mondo esterno - il mondo che sapeva come stavano le cose e pronunciava sentenze in conseguenza, quel mondo in cui avevo così disperatamente desiderato entrare. Ora mi accorgevo di quanto fossi inadeguata a esso. Quanto fossi campagnola, grezza. «Sono esempi particolarmente belli di una certa epoca» disse Richard. «Anche i rivestimenti a pannelli sono di alta qualità». Nonostante la sua
pedanteria e il suo tono condiscendente, gli fui grata: non mi venne in mente che stesse facendo un inventario. Riconosceva un impero barcollante, quando ne vedeva uno: sapeva che eravamo pronti per andare all'asta, o lo saremmo stati presto. «Con museo intende polveroso?» chiese Alex Thomas. «O forse obsoleto». Mio padre aggrottò le ciglia. Winifred, gliene va dato atto, arrossì. «Non dovresti punzecchiare chi è più debole di te» disse Callie in un bisbiglio compiaciuto. «Perché no?» replicò Alex. «Lo fanno tutti». Reenie aveva fatto le cose in grande con il menù, almeno per quello che potevamo permetterci a quel tempo. Ma aveva fatto il passo più lungo della gamba. Crema di pomodoro, pesce persico à la provençale, pollo à la Providence - arrivavano, una portata dietro l'altra, dispiegandosi in un'inevitabile processione, come un'onda di marea, o una condanna. C'era un sapore metallico nella zuppa e farinoso nel pollo, che era stato trattato in maniera troppo grossolana e si era ristretto e indurito. Non era molto decoroso vedere tanta gente insieme in una stanza, intenta a masticare con tanto impegno ed energia. Masticare era il termine esatto - non mangiare. Winifred Prior disponeva il cibo nel piatto come se stesse giocando a domino. Ero in collera con lei: ero decisa a mangiare tutto, perfino le ossa. Non avrei tradito Reenie. Ai vecchi tempi, pensai, non sarebbe mai stata cacciata in una simile situazione - presa alla sprovvista, messa alla berlina, per mettere alla berlina anche noi. Ai vecchi tempi si sarebbe fatto ricorso agli specialisti. Accanto a me anche Alex Thomas faceva il suo dovere. Stava segando come se fosse questione di vita o di morte; il pollo scricchiolava sotto il suo coltello. (Non che Reenie gli fosse grata per il suo impegno. Teneva liste su chi aveva mangiato che cosa, si può starne certi. Quell'Alex Comesi-chiama aveva sicuramente un bell'appetito, fu il suo commento. C'è da credere che l'abbiano fatto morire di fame in una cantina). In quelle circostanze, la conversazione fu discontinua. Tuttavia ci fu un momento di ripresa dopo il formaggio - il cheddar troppo molle e tremolante, il formaggio fresco troppo vecchio, il bleu troppo forte - durante il quale potemmo tirare un respiro, raccogliere le idee e guardarci intorno. Mio padre girò il suo unico occhio blu su Alex Thomas. «Dunque, giovanotto» disse, in quello che forse credeva un tono cordiale, «cosa la porta nella nostra bella città?» Sembrava il capo famiglia di una noiosa comme-
dia vittoriana. Abbassai lo sguardo sul tavolo. «Sono venuto a trovare degli amici, signore» rispose Alex piuttosto educatamente. (Avremmo sentito Reenie, più tardi, sul tema della sua educazione. Gli orfani avevano buone maniere perché le buone maniere erano state loro inculcate negli orfanotrofi. Solo un orlano poteva essere così sicuro di sé, ma questa loro disinvoltura nascondeva un'indole vendicativa sotto sotto, erano come tutti gli altri. Be', certo che erano vendicativi, considerato come ci si era sbarazzati di loro. La maggior parte degli anarchici e dei rapitori erano orfani). «Mia figlia mi dice che si sta preparando al sacerdozio» disse mio padre. (Né io né Laura avevamo fatto parola al riguardo - doveva essere stata Reenie, e com'era prevedibile, o forse a bella posta, aveva leggermente frainteso). «Era così, signore» disse Alex. «Ma ho dovuto rinunciare. Non era quella la mia strada». «E adesso?» chiese mio padre, che era abituato ad avere risposte concrete. «Ora mi ingegno come posso» rispose Alex. Sorrise, quasi a mostrare una scarsa considerazione di sé. «Deve essere dura, allora» mormorò Richard, e Winifred rise. Ero sorpresa: non gli avevo attribuito quel genere di spirito. «Forse vuol dire che fa il cronista per un giornale» disse lei. «C'è una spia tra noi!» Alex sorrise di nuovo, e non replicò. Mio padre aggrottò le ciglia. Per quanto lo riguardava, i cronisti erano feccia. Non solo mentivano, ma vivevano alle spalle dei guai altrui - mosche carnarie, era il termine che usava per loro. Faceva un'eccezione per Elwood Murray, perché ne aveva conosciuto la famiglia. Venditore di frottole era la cosa peggiore che potesse dire su Elwood. Poi si passò a parlare del più e del meno - politica, economia - nel modo in cui lo si faceva di solito in quei giorni. Per mio padre, andavamo sempre peggio; per Richard, stavamo per uscire dal tunnel. Era difficile capire cosa pensare, disse Winifred, ma lei certamente sperava che si sarebbe riusciti a tenere le cose a freno. «Tenere a freno cosa?» chiese Laura, che fino a quel momento non aveva detto una parola. Fu come se si fosse messa a parlare una sedia. «I possibili disordini sociali» rispose mio padre in tono di rimprovero, dando a capire che non avrebbe dovuto più aprire bocca.
Alex disse che ne dubitava. Era appena tornato dai campi, disse. «I campi?» domandò mio padre, perplesso. «Quali campi?» «I campi per i disoccupati, signore» disse Alex. «I campi di lavoro di Bennett. Dieci ore al giorno e magri guadagni. I ragazzi non ne sono troppo entusiasti - direi che stanno diventando irrequieti». «I mendicanti non possono permettersi di scegliere» disse Richard. «È sempre meglio che vivere di espedienti. Ricevono tre pasti abbondanti, che è più di quanto possa avere un operaio con una famiglia da mantenere, e mi hanno detto che il cibo non è male. Verrebbe da pensare che dovrebbero essere contenti, ma quel genere di persone non lo è mai». «Non sono di nessun genere particolare» disse Alex. «Mio Dio, un rosso da salotto» commentò Richard. Alex abbassò lo sguardo sul piatto. «Se lo è lui, lo sono anch'io» disse Callie. «Ma non credo che sia necessario essere un rosso per rendersi conto...» «Cosa facevate là?» domandò mio padre, interrompendola. (Lui e Callie negli ultimi tempi discutevano molto. Lei voleva che abbracciasse il movimento sindacale. Lui diceva che Callie voleva che due più due facesse cinque). Proprio allora fece la sua entrata la bombe glacée. Ormai avevamo un frigorifero elettrico - lo avevamo comprato prima del Crollo - e Reenie, per quanto sospettosa del suo scomparto per la congelazione, ne aveva fatto buon uso per la serata. La bombe aveva la forma di un pallone, era di un verde brillante e dura come la selce, e per un po' assorbì tutta la nostra attenzione. Mentre veniva servito il caffè cominciò lo spettacolo dei fuochi d'artificio, giù ai Campeggi. Uscimmo tutti sul pontile a guardare. Era un bello spettacolo, perché si vedevano non solo i fuochi d'artificio ma anche i loro riflessi sul fiume Jogues. Fontane di rosso e giallo e blu ricadevano a cascata nell'aria - stelle che esplodevano, crisantemi, salici piangenti fatti di luce. «I cinesi hanno inventato la polvere da sparo» disse Alex, «ma non l'hanno mai usata per le armi. Soltanto per i fuochi d'artificio. Tuttavia non posso dire che mi piacciano veramente. Assomigliano troppo all'artiglieria pesante». «È un pacifista?» chiesi. Sembrava il tipo di cosa che avrebbe potuto essere. Se avesse detto di sì, intendevo mostrarmi in disaccordo con lui, per-
ché volevo la sua attenzione. Parlava per lo più a Laura. «Non sono un pacifista» rispose Alex. «Ma i miei genitori sono stati uccisi entrambi durante la guerra. O almeno credo». Ora ci toccherà la storia dell'orfano, pensai. Dopo tutto il chiasso che ha fatto Reenie, spero proprio che sia una bella storia. «Non ne è sicuro?» chiese Laura. «No» rispose Alex. «Mi è stato detto che sono stato trovato seduto su un mucchio di macerie carbonizzate, in una casa incendiata. Tutti gli altri erano morti. A quanto pare mi ero nascosto sotto una tinozza da bucato o sotto un pentolone - un recipiente di metallo di qualche tipo». «Dov'è successo? Chi l'ha trovata?» sussurrò Laura. «Non è chiaro» disse Alex. «Non lo sanno con esattezza. Non in Francia o in Germania. Più a est - in una di quelle piccole nazioni. Devo essere passato di mano in mano; poi la Croce Rossa si è presa cura di me in un modo o nell'altro». «Se lo ricorda?» chiesi. «Non proprio. Qualche dettaglio si è perduto strada facendo - il mio nome e così via - e poi sono finito con i missionari, che hanno intuito che tutto considerato per me dimenticare sarebbe stata la cosa migliore. Erano presbiteriani, un gruppo scrupoloso. Fecero rasare la testa a tutti, per i pidocchi. Ricordo la sensazione di ritrovarsi all'improvviso senza capelli che freddo faceva. È in quel momento che iniziano davvero i miei ricordi». Sebbene cominciasse a piacermi di più, mi vergogno di ammettere che ero più che leggermente scettica riguardo a quella storia. C'era troppo melodramma - troppa fortuna, sia buona che cattiva. Ero ancora troppo giovane per credere nelle coincidenze. E se stava cercando di fare impressione su Laura - era così? -, non avrebbe potuto scegliere modo migliore. «Deve essere terribile» osservai, «non sapere chi si è veramente». «Lo pensavo anch'io» disse Alex. «Ma poi mi è balenato che chi sono veramente è qualcuno che non ha bisogno di sapere chi è veramente, come si intende di solito. Cosa vuol dire, in ogni caso - l'origine famigliare e via dicendo? La gente la usa per lo più come scusa per il proprio snobismo, o per i propri difetti. Io sono libero dalla tentazione, ecco tutto. Sono libero da vincoli. Nulla mi tiene legato». Disse qualcos'altro, ma il cielo fu scosso da un'esplosione e non riuscii a sentirlo. Ma Laura sentì; annuì gravemente. (Cosa disse? Lo scoprii più tardi. Disse: Almeno non si ha mai nostalgia di casa).
Un soffione di luce esplose sopra di noi. Alzammo tutti lo sguardo. È difficile non farlo, in certi momenti. È difficile non starsene là a bocca spalancata. Fu l'inizio, quella sera - sul pontile di Avilion, con i fuochi d'artificio che abbagliavano il cielo? Difficile dirlo. Gli inizi sono improvvisi, ma anche insidiosi. Ti scivolano addosso di traverso, si tengono nell'ombra, si nascondono senza farsi riconoscere. Poi, più tardi, saltano su. I ritocchi Le oche selvatiche volano a sud, stridendo come cardini angosciati; lungo la riva del fiume le candele dei sommacchi bruciano di un rosso opaco. È la prima settimana di ottobre. La stagione degli indumenti di lana tolti dalla naftalina; di nebbie notturne e rugiada e gradini scivolosi, e di lumache intente in un'ultima passeggiata; di tardivi sprazzi di bocche di leone; di quei cavoli ornamentali, increspati, rosa e viola, che una volta non esistevano ma adesso sono dappertutto. La stagione dei crisantemi, i fiori dei funerali; quelli bianchi, cioè. I morti devono esserne talmente stanchi. La mattina era pungente e bella. Ho raccolto un piccolo mazzo di bocche di leone gialle e rosa dal giardino sul davanti e l'ho portato al cimitero. Volevo deporlo sulla tomba di famiglia, per i due angeli pensierosi sul loro cubo bianco: almeno avrebbero avuto qualcosa di diverso, ho pensato. Una volta là ho eseguito il mio piccolo rituale - la circonlocuzione del monumento: la lettura dei nomi. Credo di farlo in silenzio, ma una volta ogni tanto colgo il suono della mia voce, che borbotta come un gesuita che reciti il breviario. Pronunciare il nome dei morti è farli vivere di nuovo, dicevano gli antichi egizi: cosa che non sempre è da augurarsi. Dopo aver fatto il giro completo del monumento, ho trovato una ragazza - una giovane donna - inginocchiata davanti alla tomba, o meglio davanti al posto che vi occupa Laura. Aveva la testa piegata. Era vestita di nero: jeans neri, T-shirt e giacca nere, un piccolo zaino nero, di quelli che adesso si portano invece delle borse. Aveva lunghi capelli scuri - come quelli di Sabrina, ho pensato con un improvviso batticuore: Sabrina è tornata, dall'India o da dovunque sia stata. È tornata senza avvertire. Ha cambiato idea sul mio conto. Voleva farmi una sorpresa, e adesso gliel'ho rovinata.
Ma quando ho guardato più da vicino, ho visto che la ragazza era un'estranea: una studentessa inquieta, senza dubbio. In un primo momento avevo pensato che stesse pregando, ma no, stava deponendo un fiore: un solo garofano bianco, il gambo avvolto nella stagnola. Quando si è alzata, ho visto che stava piangendo. Laura commuove la gente. Io no. Dopo il picnic della fabbrica di bottoni, ci fu la solita specie di resoconto sull'Herald and Banner - quale bambino aveva vinto il concorso per il Bambino Più Bello, chi aveva vinto quello per il Miglior Cane. Anche il contenuto del discorso di mio padre, molto abbreviato: Elwood Murray mise una patina di ottimismo su tutto, in modo da farlo sembrare perfettamente normale. C'erano anche alcune foto - il cane vincente, una sagoma scura che ricordava una scopa di filacce; il bambino vincente, grasso come un puntaspilli, con una cuffietta ornata di gale; i ballerini di danze irlandesi che sollevavano un gigantesco trifoglio di cartone; mio padre sul podio. Non era una bella foto: aveva la bocca semiaperta, e sembrava che stesse sbadigliando. Una delle fotografie ritraeva Alex Thomas con noi due - me alla sua sinistra, Laura alla destra, come reggilibri. Entrambe lo guardavamo sorridendo; anche lui sorrideva, ma aveva sollevato la mano davanti a sé, come facevano i criminali della malavita per proteggersi dai flash al momento dell'arresto. Tuttavia, era riuscito a nascondere solo metà del viso. La didascalia diceva: «La signorina Chase e la signorina Laura Chase intrattengono un Visitatore di Fuori Città». Elwood Murray non era riuscito a rintracciarci quel pomeriggio, per scoprire il nome di Alex, e quando aveva chiamato a casa aveva trovato Reenie, che aveva detto che i nostri nomi non avrebbero dovuto essere messi in giro insieme a quelli di Dio sa chi, e si era rifiutata di rivelarglielo. Lui aveva comunque pubblicato la fotografia, e Reenie si sentì offesa, sia da noi che da Elwood Murray. Pensava che quella foto rasentasse l'indecenza, sebbene le nostre gambe non fossero in mostra. Pensava che avessimo tutte e due degli sciocchi sguardi maliziosi sul viso, come oche che si struggano per amore; con le bocche spalancate a quel modo potevamo benissimo sbavare. Avevamo dato un penoso spettacolo di noi stesse: tutti in città ci avrebbero riso dietro per aver fatto gli occhi dolci a un giovane mascalzone che sembrava un indiano - o peggio, un ebreo -, con le maniche rimboccate a quel modo, e per giunta comunista.
«Quell'Elwood Murray andrebbe preso a schiaffi» disse. «Pensa di essere tanto furbo». Strappò il giornale e lo infilò nella cassetta della legna per il fuoco, in modo che mio padre non lo vedesse. Dovette vederlo comunque, giù in fabbrica, ma non fece commenti. Laura telefonò a Elwood Murray. Non lo rimproverò, né ripeté nulla di quanto Reenie aveva detto sul suo conto. Invece gli disse che voleva diventare fotografa, come lui. No: non avrebbe detto una simile bugia. Questo è solo ciò che lui dedusse. Ciò che Laura disse veramente fu che voleva imparare a sviluppare foto dai negativi. Ed era la pura verità. Elwood Murray fu lusingato da quel segno di favore dalle altezze di Avilion - per quanto dispettoso, era un pavido snob - e acconsentì a farsi aiutare da lei nella camera oscura tre pomeriggi alla settimana. Poteva guardarlo mentre stampava le fotografie che eseguiva oltre alla normale routine, di matrimoni e cerimonie di consegna dei diplomi e così via. Sebbene il quotidiano fosse composto e stampato da un paio di uomini nella stanza sul retro, Elwood faceva quasi tutto il resto per quanto riguardava il settimanale, incluso lo sviluppo delle sue foto. Forse avrebbe potuto insegnarle anche i ritocchi a mano, disse: era un'attività promettente. La gente portava le sue vecchie stampe in bianco e nero per riaverle più vivide grazie all'aggiunta di colore che restituisse loro vita. Questo veniva fatto sbiancando le aree scure con un pennello, poi trattando la stampa con un bagno color seppia per darle una sfumatura di fondo rosa. Dopodiché veniva la coloritura. Le tinte erano in tubetti e bottigliette, e dovevano essere applicate con gran cura con piccoli pennelli, eliminando meticolosamente le quantità in eccesso. Ci voleva gusto e abilità nel mescolare, in modo che le guance non sembrassero cerchi rossi, o la pelle una stoffa beige. Ci voleva buona vista e mano ferma. Era un'arte, diceva Elwood - un'arte che era molto orgoglioso di conoscere a fondo, modestia a parte. Conservava un espositore girevole con una scelta di queste foto ritoccate in un angolo della vetrina del giornale, una sorta di pubblicità. Valorizzate i Vostri Ricordi, diceva il cartello scritto a mano che aveva messo lì accanto. Giovanotti in antiquate uniformi della Grande Guerra erano i soggetti più frequenti; anche spose e sposi. Poi c'erano foto di diplomi, prime comunioni, solenni gruppi di famiglia, bambini in abiti da battesimo, ragazze in vestiti da cerimonia, bambini in tenute da ricevimento, gatti e cani. C'era l'occasionale animaletto eccentrico - una tartaruga, un'ara - e, raramente, un bambino in una cassa da morto, con il viso cereo, circondato da gale.
I colori non risultavano mai chiari, come avrebbero fatto su un pezzo di carta bianca: avevano un che di indistinto, come se fossero visti attraverso della mussola. Non facevano sembrare le persone più reali; queste diventavano piuttosto ultrareali: cittadini di uno strano paese a metà, dai colori vivaci e al tempo stesso smorzati, che non aveva niente a che fare con il realismo. Laura mi disse dei suoi incontri con Elwood Murray; lo disse anche a Reenie. Mi aspettavo proteste, scenate; mi aspettavo che Reenie le dicesse che si stava degradando, o che si stava comportando in maniera scorretta e compromettente. Chi poteva dire cosa sarebbe potuto accadere in una camera oscura, tra un giovanotto e una ragazza a luci spente? Ma secondo Reenie non era come se Elwood pagasse Laura per lavorare per lui: le stava piuttosto insegnando, ed era tutta un'altra cosa. Questo lo metteva alla stregua di un dipendente. Quanto al fatto che Laura stesse nella camera oscura con lui, nessuno ne avrebbe pensato male, perché tanto Elwood era un invertito. Sospetto che Reenie fosse segretamente sollevata nel vedere che Laura si dimostrava interessata in qualcosa che non fosse Dio. Laura si dimostrava certamente interessata, ma come al solito esagerò. Sgraffignò alcuni dei materiali per i ritocchi di Elwood e li portò a casa. Lo scoprii accidentalmente: ero in biblioteca a curiosare a caso tra i libri, quando notai le fotografie incorniciate del nonno Benjamin, ognuna con un primo ministro diverso. Il viso di Sir John Sparrow Thompson era adesso di un delicato color malva, quello di Sir Mackenzie Bowell di un verde biliare, quello di Sir Charles Tupper di un arancione pallido. La barba e le basette del nonno Benjamin erano state colorate di un cremisi chiaro. Quella sera la colsi sul fatto. Là sulla sua toletta c'erano tubetti e piccoli pennelli. E anche il ritratto ufficiale di noi due con i nostri vestiti di velluto e le Mary Janes. Laura aveva tolto la foto dalla cornice e mi stava colorando di blu chiaro. «Laura» dissi, «in nome del cielo, cosa stai facendo? Perché hai colorato quelle foto? Quelle in biblioteca. Papà sarà furioso». «Stavo solo facendo pratica» disse. «Comunque, quegli uomini avevano bisogno di una ritoccatina. Secondo me adesso hanno un aspetto migliore». «Hanno un aspetto strano» ribattei. «O molto malato. Nessuno ha la faccia verde! O malva». Laura era imperturbabile. «Sono i colori delle loro anime» disse. «Sono i colori che avrebbero dovuto avere». «Finirai in grossi guai! Capiranno chi è stato».
«Nessuno le guarda mai» disse. «A nessuno importa». «Be', farai meglio a non toccare neanche con un dito la nonna Adelia» l'avvertii. «E neanche gli zii morti! Papà vorrebbe la tua pelle!» «Volevo farli in oro, per mostrare che sono nella gloria celeste. Gli zii, non la nonna. Lei l'avrei fatta color grigio acciaio». «Non osare! Papà non crede nella gloria celeste. E faresti meglio a rendere quei colori prima di essere accusata di furto». «Non ne ho usati granché» disse Laura. «Comunque, ho portato a Elwood un vasetto di marmellata. È un buono scambio». «La marmellata di Reenie, suppongo. Presa dalla cantina fredda - gliel'hai chiesta? Lei conta le marmellate, lo sai». Presi la foto di noi due. «Perché io sono blu?» «Perché sei addormentata» rispose Laura. I materiali per i ritocchi non furono le uniche cose che sgraffignò. Una delle incombenze di Laura era sistemare i negativi. A Elwood piaceva tenere l'ufficio bene in ordine, e anche la camera oscura. I suoi negativi erano infilati in buste trasparenti ordinate secondo la data in cui erano stati eseguiti, in modo che fu facile per Laura individuare quello della foto del picnic. Ne fece due copie in bianco e nero, un giorno che Elwood era uscito e lei poteva fare i suoi comodi. Non ne parlò a nessuno, neanche a me se non in seguito. Dopo aver fatto le stampe, fece scivolare il negativo nella borsetta e lo portò a casa. Non lo considerava un furto: era stato Elwood a rubare per primo la foto non chiedendoci il permesso di scattarla, e lei stava soltanto portandogli via qualcosa che comunque non gli era mai veramente appartenuto. Dopo avere raggiunto il suo scopo, Laura smise di andare nell'ufficio di Elwood Murray. Non gli diede alcuna spiegazione, e nessun preavviso. Pensavo che fosse scortese da parte sua, e infatti lo era, perché Elwood si sentì disprezzato. Cercò di scoprire attra verso Reenie se Laura fosse malata, ma tutto quello che Reenie gli disse fu che Laura doveva avere cambiato idea sulla fotografia. Era piena di idee, quella ragazza; aveva sempre qualche chiodo fis so, e ora doveva averne uno diverso. Questo risvegliò la curiosità di Elwood. Cominciò a tenere d'occhio Laura, in un modo che andava ben oltre la sua normale curiosità. Non lo chiamerei esattamente spiare - non era come se si nascondesse dietro i cespugli. Semplicemente faceva più caso a lei. (Tuttavia non aveva ancora scoperto il negativo sottratto. Non gli venne in mente che Laura avesse potuto
avere un altro motivo per cercarlo. Aveva uno sguardo così diretto, occhi sgranati talmente vacui, una fronte così pura e arrotondata, che pochi l'avrebbero sospettata di doppiezza). Sulle prime Elwood trovò ben poco da notare. Dovette osservare Laura la domenica mattina, mentre camminava lungo la via principale in direzione della chiesa, dove insegnava alla scuola domenicale ai bambini di cinque anni. Tre altre mattine alla settimana aiutava alla mensa gratuita dei poveri della Chiesa Unita, che era stata allestita accanto alla stazione ferroviaria. La sua missione consisteva nel servire scodelle di zuppa di cavolo a uomini e a ragazzi sporchi e affamati che vivevano di espedienti: uno sforzo onorevole, ma che non tutti in città vedevano di buon occhio. Ad alcuni sembrava che queste persone fossero cospiratori, sovversivi, o peggio ancora, comunisti; ad altri che non era giusto offrire pasti gratuiti, dal momento che loro dovevano guadagnarsi ogni boccone. Si sentiva gridare: «Andate a lavorare». (Gli insulti si levavano da entrambe le parti, sebbene quelli dei disoccupati fossero detti a voce più bassa. Naturalmente ce l'avevano con Laura e con tutti i benefattori bigotti come lei. Naturalmente sapevano come rendere noti i loro sentimenti. Una battuta, un sogghigno, una gomitata, un furtivo sguardo accigliato. Non c'è niente di più gravoso della gratitudine imposta). La polizia locale si teneva pronta, per assicurarsi che a questi uomini non saltassero in testa strane idee, fin tanto che rimanevano a Port Ticonderoga. Avrebbero dovuto essere mandati via, spediti da qualche altra parte. Ma non erano autorizzati a salire sui carri merci perché la compagnia ferroviaria non lo avrebbe tollerato. Ci furono zuffe e scazzottate e - come scrisse Elwood Murray nero su bianco - si fece un largo uso di manganelli. Perciò questi uomini si trascinavano lungo le rotaie e cercavano di saltare sui treni fuori della stazione, ma questo era più difficile perché a quel punto i convogli avevano acquistato velocità. Ci furono parecchi incidenti, e un morto - un ragazzo che non avrà avuto più di sedici anni cadde sotto le ruote e fu letteralmente tagliato in due. (Dopo questo episodio Laura si chiuse nella sua stanza per tre giorni e non volle mangiare niente: aveva servito una scodella di zuppa al ragazzo). Elwood Murray scrisse un editoriale in cui giudicava l'incidente deplorevole, negando comunque che fosse colpa delle ferrovie e tanto meno della città: se si corrono rischi sconsiderati, cosa ci si può aspettare? Laura chiedeva a Reenie gli ossi per la zuppa della chiesa. Reenie diceva che lei non era fatta di ossi: gli ossi non crescevano sugli alberi. La mag-
gior parte degli ossi le servivano per sé - per Avilion, per noi. Diceva che un penny risparmiato era un penny guadagnato, e non vedeva Laura che in quei tempi duri nostro padre aveva bisogno di tutti i penny che poteva rimediare? Tuttavia non riusciva a resistere a Laura troppo a lungo, e un osso o due saltavano fuori. Laura non voleva toccarli e neppure vederli - da questo punto di vista era schizzinosa - perciò Reenie glieli incartava. «Ecco qui. Quei fannulloni mangeranno noi e tutta la casa» sospirava. «Ci ho messo una cipolla». Non pensava che Laura dovesse lavorare alla mensa gratuita dei poveri - era troppo rozzo per una ragazzina come lei. «Non è giusto chiamarli fannulloni» diceva Laura. «Li cacciamo tutti via. Vogliono solo lavorare. Tutto quello che vogliono è un lavoro». «Sarà» faceva Reenie con voce scettica, esasperante. A me, in privato, diceva: «È il ritratto sputato di sua madre». Io non andavo alla mensa dei poveri con Laura. Non me lo chiedeva, e in ogni caso non ne avrei avuto il tempo: mio padre ora si era messo in testa che dovevo imparare tutti i segreti della produzione dei bottoni, com'era mio dovere. Faute de mieux, toccava a me essere il figlio nella Chase & Figli, e se mai un giorno mi fosse capitato di mandare avanti la baracca, dovevo fare la gavetta. Sapevo di non essere affatto portata per gli affari, ma ero troppo intimorita per obiettare. Accompagnavo mio padre in fabbrica tutte le mattine. In questo modo (diceva) mi sarei resa conto di come andavano le cose nel mondo reale. Se fossi stata un ragazzo, mi avrebbe fatto cominciare a lavorare alla catena di montaggio, per analogia con la consuetudine militare secondo cui un ufficiale non dovrebbe aspettarsi che i suoi uomini svolgano nessun compito che lui stesso non potrebbe svolgere. Visto come stavano le cose, mi mise a stilare l'inventario e a fare il bilancio contabile delle rimesse - i materiali grezzi dentro, il prodotto finito fuori. Ero una frana, più o meno intenzionalmente. Ero annoiata, e anche intimidita. Quando arrivavo in fabbrica tutte le mattine con le mie gonne e le mie camicette da educanda, camminando alle calcagna di mio padre come un cane, dovevo passare davanti alle file degli operai. Mi sentivo disprezzata dalle donne e fissata dagli uomini. Sapevo che mi facevano battute alle spalle - battute che avevano a che fare con la mia condotta (le donne) e con il mio corpo (gli uomini), e che quello era il loro modo di prendersi la rivincita. Sotto alcuni punti di vista non li biasimavo - al loro posto avrei fatto lo stesso -, ma ciò nonostante mi sentivo offesa da loro.
La-di-da. Si crede la regina diSaba. Una buona scopata la farebbe scendere dal piedistallo. Mio padre non notò niente di tutto ciò. O preferì non farlo. Un pomeriggio Elwood Murray arrivò alla porta sul retro da Reenie con il petto gonfio e l'aria grave di chi porta brutte notizie. Io stavo aiutando Reenie a fare le conserve: era settembre inoltrato, e stavamo mettendo nei vasetti gli ultimi pomodori del giardino davanti alla cucina. Reenie era sempre stata parsimoniosa, ma in quel periodo per lei sprecare era un peccato. Doveva essersi resa conto di quanto stesse diventando sottile il filo il filo dei dollari in sovrappiù che la tenevano legata al suo lavoro. C'era qualcosa che avremmo dovuto sapere, disse Elwood Murray, per il nostro bene. Reenie gli lanciò un'occhiata, a lui e al suo atteggiamento da pallone gonfiato, valutando la gravità delle sue notizie, e le giudicò abbastanza serie da invitarlo a entrare. Gli offrì perfino una tazza di tè. Poi gli chiese di aspettare finché non avesse tolto gli ultimi vasetti dall'acqua bollente con le molle e vi avesse avvitato i coperchi. Quindi si sedette. Ecco la notizia. La signorina Laura Chase era stata vista in giro per la città - disse Elwood - in compagnia di un giovanotto, lo stesso giovanotto con cui era stata fotografata al picnic della fabbrica di bottoni. Erano stati notati prima dalle parti della mensa dei poveri; poi, più tardi, seduti su una panchina - su più di una panchina - a fumare sigarette. O forse era l'uomo a fumare; quanto a Laura, non poteva giurarci, disse, serrando le labbra. Erano stati visti nei pressi del Monumento ai Caduti accanto al Municipio, e che si sporgevano dal parapetto del Jubilee Bridge per guardare le rapide un luogo tradizionale per il corteggiamento. Pare fossero stati notati perfino dalle parti dei Campeggi, il che era un segno quasi certo di comportamento equivoco, o di preludio a esso - sebbene non potesse affermarlo con certezza, perché non l'aveva visto con i propri occhi. Comunque, pensava che avremmo dovuto esserne informate. L'uomo era un adulto, e la signorina Laura non aveva solo quattordici anni? Che vergogna, approfittarsi così di lei. Si appoggiò allo schienale della sedia, scuotendo la testa desolato, come una marmotta, gli occhi scintillanti di piacere malizioso. Reenie era furiosa. Odiava chiunque la superasse in materia di pettegolezzi. «Le siamo grati per averci informato» disse con educazione sussiegosa. «Meglio estirpare subito la malapianta». Questo era il suo modo di difendere l'onore di Laura: ancora non era successo niente che non potesse
essere prevenuto. «Che ti avevo detto?» disse Reenie dopo che se ne fu andato. «È senza vergogna». Non intendeva Elwood, naturalmente, ma Alex Thomas. Quando venne affrontata, Laura non negò nulla se non di essere stata vista ai Campeggi. Le panchine e tutto il resto - sì, ci si era seduta, anche se non molto a lungo. Né riusciva a capire perché Reenie facesse tutto quel chiasso. Alex Thomas non era un innamorato da due soldi (espressione usata da Reenie). E non era neanche un cascamorto (altra espressione sua). Negò di evere fumato anche solo una sigaretta in vita sua. Quanto all'«amoreggiare» - altro termine di Reenie - pensava che fosse disgustoso. Cosa aveva fatto per provocare sospetti così meschini? Evidentemente non lo sapeva. Essere Laura, pensai, era come non avere orecchio musicale: la musica suonava e tu sentivi qualcosa, ma non quello che sentivano tutti gli altri. Secondo Laura, in tutte quelle occasioni - e ce n'erano state solo tre - lei e Alex Thomas erano stati impegnati in discussioni serie. Su cosa? Su Dio. Alex Thomas aveva perso la fede, e Laura stava cercando di aiutarlo a riguadagnarla. Era un lavoro duro perché lui era molto cinico, o forse scettico era quello che intendeva. Pensava che l'età moderna sarebbe stata un'età di questo mondo piuttosto che del futuro - sarebbe stata un'età dell'uomo, dell'umanità - e ne era entusiasta. Affermava di non avere un'anima, e diceva che non gli importava un fico di cosa sarebbe potuto succedergli dopo la morte. Eppure, lei era intenzionata a continuare a provare, per quanto quel compito potesse sembrare arduo. Tossii nella mano. Non osavo ridere. Avevo visto abbastanza spesso Laura usare quell'espressione da santarellina con il signor Erskine, e pensavo che era quello che stava facendo adesso: gettare fumo negli occhi. Reenie, le mani sui fianchi, la bocca spalancata, sembrava una vecchia gallina con le spalle al muro. «Perché è ancora in città, vorrei sapere» disse Reenie, confusa, cambiando discorso. «Pensavo che fosse solo in visita». «Oh, ha degli affari da sbrigare qui» rispose Laura in tono mite. «Ma può stare dove vuole. Non è uno stato schiavista, questo. Tranne che per gli schiavi salariati, naturalmente». Pensai che il tentativo di conversione non era stato a senso unico: Alex Thomas si era dato da fare anche lui. Se le cose continuavano a quel modo, ci saremmo ritrovati tra le mani una piccola bolscevica. «Non è troppo vecchio?» chiesi.
Laura mi lanciò uno sguardo inferocito - troppo vecchio per cosa? -, diffidandomi dall'immischiarmi. «L'anima non ha età» disse. «La gente parla» disse Reenie: era sempre il suo argomento decisivo. «Sono affari loro» ribatté Laura. Aveva un tono di fiera irritazione: gli altri erano la croce che doveva portare. Reenie e io eravamo entrambe senza argomenti. Che fare? Avremmo potuto dirlo a mio padre, che in quel caso magari avrebbe proibito a Laura di vedere Alex Thomas. Ma lei non sarebbe stata disposta a obbedire, non quando c'era un anima in gioco. Dirlo a mio padre avrebbe provocato più guai di quanto non valesse la pena, stabilimmo; e dopotutto, cos'era successo veramente? Nulla di tangibile. (Reenie e io ormai ci confidavamo sull'argomento; avevamo unito i nostri sforzi). Via via che i giorni passavano sentivo che Laura si stava prendendo gioco di me, sebbene non potessi precisare in che modo con esattezza. Non pensavo che mentisse nel vero senso della parola, ma non diceva neanche tutta la verità. Una volta la vidi in compagnia di Alex Thomas, mentre parlavano fitto fitto passeggiando davanti al Monumento ai Caduti; una volta sul Jubilee Bridge, una volta mentre oziava con lui fuori del Betty's Luncheonette, ignara delle teste che si giravano, inclusa la mia. Era pura ribellione. «Devi farla ragionare» mi diceva Reenie. Ma non potevo farla ragionare. Sempre più spesso non riuscivo neppure a parlarle; oppure ci riuscivo, ma lei ascoltava? Era come parlare a un foglio di carta assorbente bianca: le parole uscivano dalla mia bocca e scomparivano dietro il suo viso come se penetrassero nel muro di una nevicata. Quando non passavo il mio tempo alla fabbrica di bottoni - una pratica che appariva ogni giorno più inutile, perfino a mio padre - cominciai a gironzolare anch'io. Camminavo lungo la riva del fiume cercando di fingere di avere una meta, oppure stavo sul Jubilee Bridge come se aspettassi qualcuno, guardando l'acqua nera là sotto e ricordando le storie di donne che vi si erano gettate. Lo avevano fatto per amore, perché era quello l'effetto dell'amore. Ti arrivava alle spalle di soppiatto, si impadroniva di te prima che potessi accorgertene, e poi non c'era più niente da fare. Una volta che lo eri - innamorata -, saresti stata spazzata via malgrado tutto. O almeno così dicevano i libri. Oppure camminavo da sola lungo la strada principale, facendo seriamente attenzione a cosa c'era nelle vetrine - calze e scarpe, cappelli e guanti, cacciaviti e chiavi. Studiavo i manifesti delle stelle del cinema nelle ba-
cheche di vetro del Bijou Theatre e le confrontavo con il mio aspetto reale, o con il mio possibile aspetto se mi fossi pettinata in modo che i capelli mi ricadessero su un occhio e avessi avuto i vestiti giusti. Non avevo il permesso di entrare; non sono entrata in un cinema finché non mi sono sposata, perché Reenie diceva che andare al Bijou era squalificante, in ogni caso per le ragazze giovani non accompagnate. Gli uomini andavano là in cerca di preda, uomini dalle menti sporche. Ti si sedevano accanto e ti appiccicavano le mani addosso come carta moschicida, e prima che te ne accorgessi ti montavano sopra. Nelle descrizioni di Reenie la ragazza o la donna era un corpo inerte, ma con molti appigli, come una di quelle strutture in legno su cui si arrampicano i bambini. Era magicamente privata della facoltà di gridare o di muoversi. Era paralizzata - dallo choc, o dall'oltraggio, o dalla vergogna. Non aveva alcuna risorsa. La cantina fredda Freddo pungente; alte nuvole portate dal vento. Fasci di granturco seccato sono apparsi sui portoni più belli; nelle verande le zucche di Halloween hanno cominciato le loro veglie ghignanti. Tra una settimana a partire da adesso i bambini in cerca di dolci si riverseranno nelle strade, travestiti da ballerine e zombie e alieni e scheletri e indovini gitani e rockstar morte, e come al solito io spegnerò le luci e fingerò di non essere in casa. Non è vera e propria antipatia nei loro confronti, quanto autodifesa - se qualcuno dei marmocchi dovesse sparire, non voglio essere accusata di averlo adescato e mangiato. L'ho detto a Myra, che sta facendo un vivace smercio di tozze candele arancioni e gatti di ceramica nera e pipistrelli di rasatello, nonché di streghe ornamentali di stoffa imbottita con le teste fatte con mele essiccate. Si è messa a ridere. Pensava che stessi scherzando. Ieri ho trascorso una giornata indolente - il cuore mi ha fatto penare, ho potuto a malapena spostarmi dal divano -, ma questa mattina, dopo avere preso la mia pillola, mi sono sentita stranamente energica. Ho camminato in modo piuttosto arzillo fino al negozio di ciambelle. Là ho ispezionato il muro del bagno, sul quale l'ultimo arrivo è: Se non puoi dire niente di bello, non dire niente, seguito da: Se non puoi succhiare niente di bello, non succhiare niente. È bello sapere che la libertà di parola è ancora in pieno rigoglio in questo paese.
Poi ho preso un caffè e una ciambella con la glassa di cioccolato e li ho portati fuori, a una delle panche fornite dal locale, collocata in maniera pratica accanto al bidone dei rifiuti. Mi sono seduta là al sole ancora tiepido, scaldandomi come una tartaruga. La gente passeggiava lì intorno - due donne ipernutrite con una carrozzina, un ragazzo, una donna più magra con un cappotto di cuoio nero con sopra borchie d'argento come teste di chiodi e un'altra nel naso, tre uomini anziani in giacca a vento. Ho avuto l'impressione che mi stessero osservando. Sono ancora così famigerata, o la mia è solo paranoia? O forse avevo soltanto parlato tra me e me ad alta voce. Difficile dirlo. La voce mi sgorga semplicemente fuori come aria, quando non faccio attenzione? Un sussurro raggrinzito, i rampicanti invernali che frusciano, il sibilo del vento autunnale tra l'erba secca. A chi importa cosa pensa la gente, mi sono detta. Se vogliono ascoltare, sono i benvenuti. A chi importa, a chi importa. L'eterna risposta degli adolescenti. A me importava, naturalmente. Mi importava cosa pensava la gente. Me ne è sempre importato. Al contrario di Laura, non ho mai avuto il coraggio delle mie convinzioni. Mi si è avvicinato un cane; gli ho dato metà della ciambella. «Buon pro ti faccia» gli ho detto. È quello che diceva Reenie quando ti sorprendeva a origliare. Per tutto ottobre - l'ottobre del 1934 - si andò avanti a parlare di cosa stava succedendo alla fabbrica di bottoni. Si diceva che sobillatori venuti da fuori ciondolavano lì intorno; agitavano le acque, soprattutto tra le giovani teste calde. Si parlava di guadagni collettivi, di diritti dei lavoratori, di sindacati. I sindacati erano sicuramente illegali, o lo erano piuttosto le imprese che assumevano soltanto lavoratori iscritti a un particolare sindacato? Sembrava che nessuno lo sapesse bene. In ogni caso le organizzazioni dei lavoratori erano circondate da un odore di zolfo. Le persone che agitavano le acque erano mascalzoni e criminali prezzolati (secondo la signora Hillcoate). Non erano soltanto agitatori esterni, ma agitatori esterni stranieri, il che faceva in un certo senso più paura. Ometti scuri con i baffi, che avevano messo la loro firma col sangue e giurato lealtà fino alla morte, e che avrebbero fatto scoppiare disordini e non si sarebbero fermati davanti a niente, e avrebbero piazzato bombe e di notte sarebbero scivolati nelle nostre case per tagliarci la gola nel sonno (secondo Reenie). Erano questi i loro metodi, di questi spietati bolscevichi o organiz-
zatori sindacali, che in fondo non si distinguevano l'uno dall'altro (secondo Elwood Murray). Volevano il libero amore, e la distruzione della famiglia, e la morte per mano di plotoni di esecuzione di chiunque avesse del denaro - non importa quanto -, o un orologio, o una fede. Come era stato fatto in Russia. Così si diceva. Si diceva anche che le fabbriche di mio padre fossero nei guai. Entrambe le voci - gli agitatori esterni e i guai - venivano smentite pubblicamente. Si dava fede a entrambe. A settembre mio padre aveva lasciato a casa alcuni dei suoi operai - alcuni dei più giovani, più capaci di cavarsela, secondo le sue teorie - e aveva chiesto ai rimanenti di accettare orari più brevi. Non si facevano abbastanza affari, aveva spiegato, per far marciare tutte le fabbriche nella piena capacità produttiva. I clienti non compravano bottoni, o non il tipo di bottoni prodotti dalla Chase & Figli, che per avere profitti doveva poter contare su commissioni ingenti. E non compravano neppure gli indumenti intimi a buon mercato, pratici: preferivano rammendarli, si arrangiavano. Non tutti nel paese erano senza lavoro, naturalmente, ma chi aveva un posto non era troppo sicuro di riuscire a tenerselo stretto. Naturalmente preferivano mettere da parte il denaro piuttosto che spenderlo. Non si poteva biasimarli. Al loro posto chiunque avrebbe fatto lo stesso. Era entrata in scena l'aritmetica, con tutte le sue gambe, le sue schiene e teste, i suoi occhi spietati fatti di zeri. Due più due facevano quattro, era il suo messaggio. Ma cosa succedeva se non avevi il due più due? In quel caso i conti non sarebbero tornati. E infatti non tornavano, non ci riuscivo; non riuscivo a far diventare neri i numeri rossi sui libri contabili. Questo mi preoccupava terribilmente; era come se fosse una mia colpa personale. Quando chiudevo gli occhi di notte vedevo i numeri sulla pagina davanti a me, disposti in file sulla mia scrivania quadrata di quercia alla fabbrica di bottoni - quelle file di numeri rossi come tanti millepiedi meccanici, che divoravano quanto rimaneva del denaro. Quando la somma a cui riuscivi a vendere una cosa era inferiore a quanto ti era costata - che era quanto succedeva alla Chase & Figli da qualche tempo - è così che si comportavano i numeri. Si comportavano male - senza amore, senza giustizia, senza pietà , ma cosa ci si poteva aspettare? I numeri erano solo numeri. Non avevano altra scelta. Nella prima settimana di dicembre mio padre annunciò una chiusura. Era temporanea, disse. Sperava che sarebbe stata molto temporanea. Parlò di ritirata strategica e di nuove trincee per riorganizzarsi. Chiese comprensio-
ne e pazienza, e fu accolto dal silenzio guardingo degli operai riuniti. Dopo l'annuncio tornò ad Avilion, si chiuse nella sua torretta e bevve fino all'abbrutimento. Si sentiva rumore di cose rotte - oggetti di vetro. Bottiglie, senza dubbio. Io e Laura eravamo nella mia stanza, sedute sul mio letto, stringendoci forte le mani e ascoltando la furia e il dolore che si scatenavano lassù, proprio sopra le nostre teste, come un temporale interno. Era parecchio tempo che mio padre non faceva le cose tanto in grande. Doveva avere avuto l'impressione di avere tradito i suoi uomini. Di avere fallito. Di non aver potuto fare abbastanza. «Pregherò per lui» disse Laura. «Perché, a Dio importa?» chiesi. «Credo che in realtà se ne infischi. Se c'è un Dio». «Non si può saperlo» disse Laura, «se non dopo». Dopo cosa? Lo sapevo abbastanza bene, avevamo già fatto quel discorso. Dopo morti. Parecchi giorni dopo l'annuncio di mio padre, il sindacato mostrò il suo potere. C'era già un nucleo di iscritti, e ora volevano che aderissero tutti. Fu tenuta un'assemblea fuori della fabbrica chiusa e lanciato un appello a tutti i lavoratori affinché si iscrivessero, perché quando mio padre avrebbe riaperto le fabbriche, si disse, avrebbe tagliato all'osso e loro probabilmente avrebbero ricevuto paghe da fame. Era come tutti gli altri, in tempi duri come quelli avrebbe cacciato il suo denaro in banca, poi si sarebbe seduto con le mani in mano finché la gente non fosse stata stremata e messa a terra; quindi avrebbe colto l'occasione di ingrassarsi alle spalle dei lavoratori. Lui e la sua grande casa e le sue stravaganti figlie - quelle frivole parassite che vivevano a spese del sudore delle masse. Era chiaro che quei cosiddetti organizzatori venivano da fuori città, diceva Reenie, che ci raccontava tutto questo mentre sedevamo al tavolo della cucina. (Avevamo smesso di mangiare in sala da pranzo, perché aveva smesso di farlo mio padre. Era barricato nella sua torretta; Reenie gli portava su un vassoio). Quei teppisti non avevano il senso della decenza, a infilare noi due nella faccenda a quel modo, quando tutti sapevano che non c'entravamo un bel niente. Ci disse di non farci caso, cosa più facile a dirsi che a farsi. C'era ancora qualcuno che era fedele a mio padre. All'assemblea, avevamo saputo, c'erano stati contrasti, poi parole grosse, poi zuffe. Si era persa la calma. Un uomo aveva ricevuto un calcio in testa ed era stato por-
tato all'ospedale con una commozione cerebrale. Era uno degli scioperanti - si chiamavano scioperanti, adesso -, ma di questo infortunio furono incolpati i suoi stessi amici, perché una volta che si dava inizio a quel genere di scompiglio, chi poteva dire come sarebbe andata a finire? Meglio non cominciare. Meglio tenere la bocca chiusa. Molto meglio. Callie Fitzsimmons venne a trovare mio padre. Era molto preoccupata per lui, disse. Era preoccupata che si stesse lasciando andare. Moralmente, voleva dire. Come poteva trattare i suoi operai in quel modo altezzoso e da taccagno? Mio padre le disse di guardare in faccia la realtà. La chiamò amico del giaguaro. Disse anche: Chi ti ha mandato, uno dei tuoi amici rossi? Lei disse che era venuta di testa sua, perché gli voleva bene, perché sebbene fosse un capitalista era sempre stato un uomo a posto, ma ora scopriva che si era trasformato in un plutocrate senza cuore. Lui disse che non si poteva essere un plutocrate se si era al verde. Lei disse che poteva liquidare le sue attività. Lui disse che le sue attività non valevano molto di più del suo culo, che a quanto sapeva aveva dato via per niente a chiunque glielo avesse chiesto. Lei disse che lui non aveva disprezzato gli omaggi gratuiti. Lui disse di sì, ma i costi imprevisti erano stati troppo alti - prima tutto il cibo dispensato in casa sua ai suoi amici artisti, poi il suo sangue e adesso anche la sua anima. Lei lo chiamò reazionario borghese. Lui la chiamò mosca carnaria. A quel punto stavano urlando. Poi ci furono porte sbattute e una macchina sbandò sulla ghiaia, e quella fu la fine della storia. Reenie ne fu felice o dispiaciuta? Dispiaciuta. Callie non le era mai andata a genio, ma ci si era abituata, e poi un tempo era andata bene per mio padre. Chi l'avrebbe rimpiazzata? Qualche altra sgualdrina, e chi lascia la via vecchia per la nuova... La settimana seguente fu convocato uno sciopero generale per esprimere solidarietà agli operai della Chase & Figli. Tutti i negozi e gli uffici dovevano chiudere, diceva l'editto. Tutti i servizi pubblici dovevano essere interrotti. I telefoni, la distribuzione della posta. Niente latte, niente pane, niente ghiaccio. (Chi emanava quegli editti? Nessuno pensava che fossero davvero opera dall'uomo che concretamente ne leggeva il testo. Questi sosteneva di essere del luogo, proprio della nostra città, e sulle prime si pensò che lo fosse - era un Morton, un Morgan, qualcosa del genere -, ma poi era diventato chiaro senza ombra di dubbio che non lo era, non veramente. Non avrebbe potuto esserlo, e comportarsi così. E del resto, chi era suo nonno?)
Perciò non era l'uomo il problema. Non era lui il cervello che stava dietro a tutta la faccenda, diceva Reenie, perché tanto per cominciare non aveva nessun cervello. Forze oscure erano all'opera. Laura era preoccupata per Alex Thomas. Era coinvolto in qualche modo, diceva. Ne era sicura. Doveva esserlo per forza, considerati i suoi principi. Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno, Richard Griffen arrivò ad Avilion in macchina, accompagnato da altre due auto. Erano vetture grandi, lussuose e pesanti. In tutto c'erano altri cinque uomini, dei quali quattro piuttosto grossi, con soprabiti scuri e cappelli flosci grigi. Richard Griffen e uno degli uomini entrarono nello studio di mio padre insieme a lui. Due degli altri si misero alle porte della casa, quella sul davanti e quella posteriore, e due andarono da qualche parte con una delle costose macchine. Laura e io guardavamo l'andirivieni delle auto dalla finestra della sua camera. Ci era stato detto di tenerci lontane, il che voleva dire anche non a portata di voce. Quando chiedemmo a Reenie cosa stesse succedendo, ci sembrò preoccupata, e disse di saperne quanto noi, ma che avrebbe tenuto le orecchie bene aperte. Richard Griffen non rimase a cena. Quando se ne andò, due delle macchine scomparvero con lui. La terza rimase, insieme» tre dei grossi uomini. Si insediarono con discrezione nei vecchi alloggi dell'autista, sopra il garage. Erano detective, diceva Reenie. Dovevano esserlo. Ecco perché portavano sempre il soprabito: per nascondere le armi che tenevano nelle fondine. Le armi erano pistole. Lo sapeva dalle sue varie riviste. Diceva che erano là per proteggerci, e se vedevamo qualcuno aggirarsi furtivamente nel giardino di notte - a parte i tre uomini, naturalmente - dovevamo gridare. Il giorno dopo scoppiarono disordini nelle strade principali della città. Molti uomini che vi parteciparono non erano mai stati visti prima, o se lo erano stati, non erano rimasti impressi nella memoria. Chi avrebbe ricordato un vagabondo? Ma alcuni di loro non erano vagabondi, erano agitatori internazionali camuffati. Avevano spiato tutto il tempo. Come erano arrivati qui così in fretta? Sul tetto dei treni, si diceva. Era in quel modo che viaggiavano uomini come loro. I disordini cominciarono nel corso di una dimostrazione fuori del Municipio. Prima si tennero discorsi in cui si parlò dei crumiri e degli sgherri dell'azienda; poi l'effigie di mio padre, raffigurato in cartone con il cappello a cilindro e il sigaro in bocca - cose che non sempre aveva - fu bruciata, suscitando sonori applausi. Due bambole di pezza in vestiti rosa ornati di
gale furono inzuppate di cherosene e gettate anch'esse tra le fiamme. Dovevano rappresentare noi - me e Laura, disse Reenie. Erano circolate battute sul fatto che erano bamboline calde. (Le passeggiate di Laura con Alex non erano passate inosservate). Era stato Ron Hincks a riferirglielo, disse Reenie, pensando che dovesse saperlo. Lui diceva che era meglio che per il momento noi due non andassimo in città, perché gli animi si stavano scaldando e non si poteva mai sapere. Diceva che dovevamo restare ad Avilion, dove saremmo state al sicuro. Diceva che lo scherzo delle bambole era stato proprio una vergogna, e gli sarebbe piaciuto mettere le mani su chiunque l'avesse ideato. I negozi e gli uffici della strada principale che si erano rifiutati di chiudere si ritrovarono con le vetrine rotte. Poi lo stesso capitò anche a quelli che avevano chiuso. Dopodiché ebbero luogo saccheggi e le cose sfuggirono gravemente di mano. Il giornale fu assalito e i suoi uffici distrutti; Elwood Murray fu picchiato e le macchine nella tipografia sul retro fatte a pezzi. La camera oscura si salvò, ma non l'apparecchio fotografico. Per lui fu un momento triste, che poi sentimmo raccontare per filo e per segno un'infinità di volte. Quella notte la fabbrica di bottoni prese fuoco. Le fiamme fecero esplodere le finestre del piano più basso: io non potevo vederlo dalla mia stanza, ma l'autopompa passò rumorosamente davanti a casa nostra, correndo in soccorso. Ero sgomenta e spaventata, naturalmente, ma devo ammettere che c'era anche qualcosa di eccitante in tutto ciò. Mentre ascoltavo il frastuono dell'autopompa e le grida lontane provenienti dalla stessa direzione, sentii qualcuno che saliva la scala di servizio. Pensai che potesse essere Reenie, ma non era lei. Era Laura; indossava il cappotto. «Dove sei stata?» le chiesi. «Dobbiamo restare dove siamo. Papà ha abbastanza preoccupazioni senza che tu te ne vada in giro». «Ero soltanto nella serra» disse. «Stavo pregando. Avevo bisogno di un posto tranquillo». Riuscirono a estinguere il fuoco, ma l'edificio aveva riportato molti danni. Quella fu la prima notizia. Poi arrivò la signora Hillcoate, senza fiato e portando il bucato pulito, e le guardie la lasciarono passare. Incendio doloso, disse: avevano trovato le lattine di benzina. Il guardiano notturno giaceva a terra morto. Aveva un bernoccolo in testa. Due uomini erano stati visti fuggire via. Erano stati riconosciuti? Non in maniera sicura, ma correva voce che uno di loro fosse il giovanotto della signorina Laura. Reenie disse che non era il suo giovanotto, Laura non a-
veva un giovanotto, era solo una conoscenza. Be', qualunque cosa fosse, disse la signora Hillcoate, era molto probabile che avesse incendiato la fabbrica di bottoni e dato un colpo in testa al povero Al Davidson, uccidendolo come un topo, e avrebbe fatto meglio a filare dalla città se ci teneva alla pelle. A cena Laura disse di non avere fame. Disse che in quel momento non poteva mangiare: si sarebbe preparata un vassoio e avrebbe mangiato più tardi. La guardai mentre lo portava nella sua stanza passando per la scala di servizio. Aveva preso doppia porzione di tutto - coniglio, zucchine, patate lesse. Di solito considerava il mangiare una sorta di trastullo - qualcosa con cui tenere occupate le mani al tavolo da pranzo mentre gli altri parlavano -, oppure un compito noioso ma inevitabile, come lucidare l'argento. Una sorta di tediosa routine di manutenzione. Mi chiesi quando avesse sviluppato all'improvviso un tale ottimismo sul cibo. Il giorno seguente le truppe del Royal Canadian Regiment arrivarono per ristabilire l'ordine. Era il vecchio reggimento di mio padre durante la guerra. Per lui fu un vero colpo vedere quei soldati rivolgersi contro la loro stessa gente - la sua stessa gente, o che lui considerava tale. Non c'era bisogno di essere dei geni per immaginare che essa non condividesse più l'opinione che mio padre ne aveva, ma per lui fu comunque un brutto colpo. Allora lo avevano amato solo per il suo denaro? Così sembrava. Dopo che il Royal Canadian Regiment ebbe riportato la situazione sotto controllo, arrivarono i poliziotti a cavallo. Tre di loro comparvero fuori della nostra porta. Bussarono educatamente, quindi rimasero nell'ingresso, con i rigidi cappelli marroni in mano. Volevano parlare con Laura. «Vieni con me, per favore, Iris» sussurrò Laura quando fu mandata a chiamare. «Non posso vederli da sola». Sembrava molto piccola, molto pallida. Ci sedemmo insieme sul divano del soggiorno, accanto al vecchio grammofono. I poliziotti presero delle sedie. Non corrispondevano alla mia idea di un poliziotto a cavallo, erano troppo vecchi e troppo grossi attorno alla vita. Uno era più giovane, ma non era lui il capo. Fu quello di mezzo a parlare. Disse che gli spiaceva disturbarci in quello che doveva essere un momento difficile, ma la faccenda era piuttosto urgente. Volevano parlare del signor Alex Thomas. Laura era consapevole che quell'uomo era un nòto sovversivo ed estremista, ed era stato nei campi per i disoccupati, provocando agitazioni e fomentando disordini? Laura disse che per quanto ne sapeva aveva soltanto insegnato a leggere.
Si poteva anche vederla così, disse il poliziotto. E se era innocente, naturalmente non aveva nulla da nascondere, e se fosse stato necessario si sarebbe presentato, non era d'accordo? Dove sarebbe potuto stare in quei giorni? Laura disse che non avrebbe saputo dirlo. La domanda fu ripetuta in maniera diversa. Quell'uomo era sospettato: Laura non voleva aiutare a localizzare il criminale che forse aveva incendiato la fabbrica di suo padre, causando forse la morte di un impiegato fedele? Almeno a voler credere ai testimoni oculari... Dissi che ai testimoni oculari non si poteva credere, perché chiunque fosse visto fuggire poteva essere scorto soltanto di schiena, e inoltre era buio. «Signorina Laura?» fece il poliziotto, ignorandomi. Laura disse che anche se l'avesse saputo non l'avrebbe detto. Disse che chiunque era innocente finché non veniva provata la sua colpevolezza. Inoltre era contrario ai suoi principi cristiani dare un uomo in pasto ai leoni. Disse che le dispiaceva per il guardiano morto, ma non era colpa di Alex Thomas, perché Alex Thomas non avrebbe mai fatto una cosa simile. Ma non riuscì a dire nient'altro. Mi si era aggrappata al braccio, vicino al polso; la sentivo tremare, come una rotaia che vibri. Il poliziotto capo disse qualcosa a proposito dell'intralciare la giustizia. A questo punto replicai che Laura aveva appena quindici anni, e non poteva essere ritenuta responsabile nel modo in cui avrebbe potuto esserlo un adulto. Dissi che quanto aveva detto loro era confidenziale, naturalmente, e se fosse uscito da quella stanza - finendo sui giornali, per esempio -, mio padre avrebbe saputo chi ringraziare. I poliziotti sorrisero, si alzarono e presero congedo; erano decorosi e rassicuranti. Probabilmente si erano resi conto di quanto fosse sconveniente seguire quella pista nelle loro indagini. Sebbene alle corde, mio padre aveva ancora degli amici. «Bene» dissi a Laura, una volta che se ne furono andati. «So che l'hai fatto entrare in questa casa. Faresti meglio a dirmi dov'è». «L'ho messo nella cantina fredda» disse Laura, con il labbro inferiore che le tremava. «La cantina fredda!» esclamai. «Che posto stupido! Perché là?» «Cosi avrebbe avuto abbastanza da mangiare, in caso di emergenza» disse, e scoppiò in lacrime. L'abbracciai, e lei tirò su col naso contro la mia
spalla. «Abbastanza da mangiare?» dissi. «Abbastanza marmellata e gelatina e sottaceti? Davvero, Laura, l'hai combinata proprio bella». Poi scoppiammo tutt'e due a ridere, e quando smettemmo di ridere e Laura si fu asciugata gli occhi, dissi: «Dobbiamo portarlo fuori di qui. E se Reenie scende giù a prendere un vasetto di marmellata o qualcos'altro e se lo trova davanti per sbaglio? Le prende un attacco di cuore». Ridemmo ancora. Avevamo i nervi a fior di pelle. Poi dissi che sarebbe stata più adatta la soffitta, perché non ci andava mai nessuno. Avrei sistemato tutto io, dissi. Avrebbe fatto meglio ad andare a letto: era ovvio che sentiva la tensione e che era completamente esausta. Sospirò un po', come un bambino stanco, poi fece come le avevo suggerito. Aveva vissuto con i nervi tesi, portandosi dietro l'enorme peso di quel segreto come uno zaino opprimente, e adesso che me l'aveva passato era libera di dormire. Credevo davvero di farlo soltanto per risparmiarla - per aiutarla, per prendermi cura di lei, come avevo sempre fatto? Sì. È quello che pensavo. Aspettai finché Reenie non ebbe pulito la cucina e se ne fu andata a letto. Poi scesi la scala che portava alle cantine, giù nel freddo, nel buio, nell'odore dell'umidità abitata dai ragni. Oltrepassai la porta della cantina del carbone, quella della cantina dei vini, chiusa a chiave. La porta della cantina fredda si chiudeva con un chiavistello. Bussai, lo sollevai, entrai. Ci fu un rumore di rapidi passi. Era buio, naturalmente; l'unica luce era quella del corridoio. Sul barile delle mele c'erano i resti della cena di Laura - gli ossi del coniglio. Sembrava un altare primitivo. Non lo vidi subito; era dietro il barile. Poi riuscii a distinguerlo. Un ginocchio, un piede. «Va tutto bene» sussurrai. «Sono solo io». «Ah» disse con la sua voce normale. «La sorella devota». «Shh» feci. La luce si accendeva con un catenella che pendeva dalla lampadina. La tirai, la luce si accese. Alex Thomas si stava tirando su, uscendo a fatica da dietro il barile. Si piegò, battendo le palpebre, imbarazzato, come un uomo sorpreso con i pantaloni slacciati. «Dovrebbe vergognarsi» dissi. «È venuta a sbattermi fuori o a consegnarmi alle autorità, immagino» fece lui con un sorriso. «Non sia sciocco» ribattei. «Non vorrei certo che fosse scoperto qui. Mio padre non reggerebbe allo scandalo».
«Figlia di capitalista aiuta assassino bolscevico?» chiese. «Scoperto nido d'amore tra barattoli di gelatina? Questo tipo di scandalo?» Lo guardai in cagnesco. Non c'era da scherzare. «Può dormire tranquilla. Laura e io non stiamo combinando niente» disse. «È una ragazzina fantastica, ma sta facendo il tirocinio da santa, e io non sono un ladro di bambini». Ormai era in piedi e si stava togliendo la polvere di dosso. «Allora perché la nasconde?» chiesi. «È una questione di principio. Visto che glielo avevo chiesto, non ha potuto rifiutare. Rientro nella giusta categoria per lei». «Quale categoria?» «Dei "fratelli più piccoli", immagino» disse. «Tanto per citare Gesù». Lo trovai piuttosto cinico. Poi disse che imbattersi in Laura era stato una specie di incidente. L'aveva incontrata nella serra. Cosa stava facendo lì? Si stava nascondendo, è ovvio. Aveva anche sperato, disse, di potermi parlare. «A me?» chiesi. «E perché mai a me?» «Pensavo che avrebbe saputo cosa fare. Sembra un tipo pratico. Sua sorella è meno...» «Sembra che Laura se la sia cavata abbastanza bene» dissi secca. Non mi piaceva quando gli altri criticavano Laura - la sua vaghezza, la sua ingenuità, la sua incoscienza. Criticare Laura era una cosa riservata a me. «Come è riuscita a farla passare davanti agli uomini alle porte?» chiesi. «Per farla entrare in casa? Gli uomini con i soprabiti». «Anche gli uomini in soprabito ogni tanto devono pisciare» disse. Fui presa alla sprovvista dalla sua volgarità - faceva a pugni con l'educazione dimostrata durante la cena - ma forse era un assaggio del tono beffardo tipico degli orfani di cui Reenie ci aveva parlato. Decisi di ignorarla. «Non è stato lei ad appiccare il fuoco, suppongo» dissi. Volevo sembrare sarcastica, ma la battuta non fu recepita come tale. «Non sono tanto stupido» disse. «Non provocherei un incendio per nessuna ragione». «Tutti pensano che sia stato lei». «Ma non è così» disse. «Tuttavia sarebbe molto conveniente per certa gente sposare questa tesi». «Quale certa gente? Perché?» non lo stavo incalzando questa volta; ero sconcertata. «Usi la testa» rispose. Ma non volle dire altro.
La soffitta Presi una candela dalla riserva che tenevamo in cucina, a portata di mano in caso di interruzioni della corrente, e la accesi, quindi condussi Alex Thomas fuori della cantina e attraverso la cucina e su per la scala di servizio, poi su per la scala più stretta che portava alla soffitta, dove lo sistemai dietro tre bauli vuoti. Lassù c'erano alcune vecchie trapunte riposte in una cassapanca di cedro, e le tirai fuori per farne un giaciglio. «Non verrà nessuno» dissi. «Se lo fanno, si metta sotto le trapunte. Non cammini, potrebbero sentire i passi. Non accenda la luce». (In soffitta c'era una sola lampadina che si accendeva con una catenella, proprio come nella cantina fredda). «Le porteremo qualcosa da mangiare domattina» aggiunsi, senza sapere come avrei mantenuto quella promessa. Scesi di sotto, poi tornai di nuovo su con un vaso da notte, che posai a terra senza dire una parola. Era un dettaglio che mi aveva sempre preoccupato, nelle storie di Reenie sui rapitori: e il bagno? Va bene essere chiuse in una cripta, ma essere anche ridotte ad accovacciarsi in un angolo con la gonna sollevata... Alex Thomas annuì e disse: «Brava ragazza. È un'amica. Sapevo che era un tipo pratico». La mattina io e Laura tenemmo un consulto a bisbigli nella sua stanza. Gli argomenti discussi furono come procurarsi da mangiare e da bere, il bisogno di essere vigili e come svuotare il vaso da notte. Una di noi - fingendo di leggere - sarebbe stata di guardia nella mia stanza, con la porta aperta: da lì si vedeva la porta che conduceva alla scala della soffitta. L'altra sarebbe andata a prendere le cose e a portarle su. Ci accordammo sull'eseguire questi compiti a rotazione. Il grosso ostacolo sarebbe stata Reenie, che avrebbe sicuramente sentito puzza di imbroglio se avessimo agito in modo troppo furtivo. Non avevamo elaborato alcun piano nel caso fossimo state scoperte. Non lo facemmo mai. Fu tutto improvvisato. La prima colazione di Alex Thomas furono le croste del nostro pane tostato. Di norma non le mangiavamo se non sotto tortura - Reenie aveva ancora l'abitudine di dire Ricordate gli armeni che muoiono di fame -, ma questa volta, quando Reenie guardò, le croste erano sparite. In realtà erano nella tasca della gonna blu oltremare di Laura. «Evidentemente Alex Thomas è gli armeni che muoiono di fame» sus-
surrai, mentre correvamo di sopra. Ma Laura non trovava la cosa divertente. Pensava che fosse proprio cosi. La mattina e la sera erano le ore delle nostre visite. Razziavamo la dispensa, recuperavamo gli avanzi. Gli portavamo di nascosto carote crude, pelli di bacon, uova sode mangiate a metà, pezzi di pane ripiegati con dentro burro e marmellata. Una volta una zampa di pollo in fricassea - un colpo audace. Anche bicchieri d'acqua, tazze di latte, caffè freddo. Portavamo via i piatti vuoti, li ammucchiavamo sotto i nostri letti finché non c'era via libera, quindi li lavavamo nel lavandino del nostro bagno prima di rimetterli nella credenza della cucina. (Questo era compito mio: Laura era troppo maldestra). Non usavamo la porcellana buona. E se si fosse rotto qualcosa? Perfino un piatto di tutti i giorni avrebbe potuto essere notato: Reenie teneva d'occhio ogni cosa. Perciò stavamo molto attente con il vasellame. Reenie sospettava di noi? Credo di sì. Di solito capiva quando stavamo combinando qualcosa. Ma capiva anche quando era più prudente non sapere esattamente di cosa potesse trattarsi. Credo che si stesse preparando a cadere dalle nuvole, nel caso fossimo state scoperte. Una volta ci disse di non andare a rubacchiare l'uva passa; disse che ci stavamo comportando come pozzi senza fondo, e da dove ci erano spuntate quelle gambe gonfie tutt'a un tratto? E poi era irritata per il quarto di torta di zucca che era sparito. Laura disse che era stata lei a mangiarlo; aveva avuto un improvviso attacco di fame, disse. «Crosta e tutto?» chiese bruscamente Reenie. Laura non mangiava mai le croste delle torte di Reenie. Nessuno lo faceva. Neanche Alex Thomas. «L'ho data da mangiare agli uccellini» disse Laura. Era abbastanza vero: è quello che aveva fatto, dopo. In un primo momento Alex Thomas ci fu riconoscente per i nostri sforzi. Diceva che eravamo delle buone amiche, e che senza di noi sarebbe stato spacciato. Poi volle delle sigarette - stava morendo dalla voglia di fumare. Gliene portammo qualcuna di quelle nella scatola d'argento sul piano, ma lo avvertimmo di limitarsi a una al giorno - il fumo si poteva sentire. (Ignorò questa limitazione). Poi disse che la cosa peggiore della soffitta era non potersi lavare. Aveva la bocca che sapeva di fogna. Rubammo il vecchio spazzolino da denti con cui Reenie puliva l'argento e lo lavammo come meglio potemmo; disse che era meglio di niente. Un giorno gli portammo una bacinella, un asciugamano e una brocca di acqua calda. Poi aspettò che nessuno fosse di sotto e
gettò l'acqua sporca fuori della finestra della soffitta. Era piovuto, perciò il terreno era comunque bagnato e la chiazza non fu notata. Un po' più tardi, quando la via sembrava sgombra, gli permettemmo di scendere la scala della soffitta e lo chiudemmo nel bagno che ci dividevamo, in modo che potesse lavarsi come si deve. (Avevamo detto a Reenie che per aiutarla ci saremmo accollate la pulizia di quel bagno, provocando il seguente commento: Non si finisce mai di stupirsi). Mentre Alex Thomas si lavava Laura era nella sua stanza e io nella mia, e facevamo tutte e due la guardia alla porta del bagno. Cercai di non pensare a cosa stesse accadendo là dentro. L'immagine di lui senza vestiti era dolorosa per me, in un modo a cui era meglio non pensare. Alex Thomas fu oggetto di editoriali, non solo nel nostro giornale. Era colpevole di incendio doloso ed era un assassino, si disse, e della peggior specie - di quelli che uccidevano a sangue freddo per fanatismo. Era venuto a Port Ticonderoga per infiltrarsi tra i lavoratori e seminare i semi della zizzania, cosa che gli era riuscita, come dimostravano lo sciopero generale e i disordini. Era un esempio dei danni dell'educazione universitaria - un ragazzo intelligente, troppo intelligente perché potesse giovargli, il cui ingegno era stato rovinato da compagnie cattive e da letture peggiori. Venne riportata una dichiarazione del padre adottivo, un ministro presbiteriano, in cui affermava che pregava ogni notte per l'anima di Alex, ma che quella era una generazione di vipere. Non sorvolò sul fatto di avere salvato il piccolo Alex dagli orrori della guerra: Alex era un tizzone strappato all'incendio, diceva, ma era sempre un rischio prendere in casa uno sconosciuto. Se ne deduceva che era meglio lasciare simili tizzoni dov'erano. Come se non bastasse, la polizia aveva stampato un manifesto segnaletico di Alex, e lo aveva affisso nell'ufficio postale e in altri luoghi pubblici. Per fortuna non era una foto molto chiara: Alex aveva la mano tesa in avanti, che gli nascondeva in parte la faccia. Era la foto del giornale, quella che Elwood Murray aveva scattato a noi tre al picnic della fabbrica di bottoni. (Io e Laura eravamo state tagliate via, naturalmente). Elwood Murray aveva fatto sapere che avrebbe potuto stampare una foto migliore dal negativo, ma quando era andato a cercarlo il negativo era scomparso. Be', non c'era da stupirsi: una gran quantità di cose era andata distrutta quando il giornale era stato devastato. Portammo ad Alex i ritagli di giornale, e anche un manifesto segnaletico - Laura lo aveva sgraffignato da un palo del telefono. Lesse quelle cose sul proprio conto con doloroso sgomento. «Vogliono la mia testa su un vas-
soio» fu quello che disse. Pochi giorni dopo chiese se potessimo procurargli della carta - carta per scrivere. C'era una pila di quaderni rimasti dall'epoca del signor Erskine: gli portammo quelli, e anche una matita. «Cosa pensi che stia scrivendo?» chiese Laura. Non riuscivamo a deciderci. Un diario di prigionia, un'autodifesa? Forse una lettera a qualcuno in grado di salvarlo. Ma non ci aveva chiesto di impostare nulla, perciò non poteva trattarsi di una lettera. Prenderci cura di Alex Thomas fece riavvicinare me e Laura come non succedeva da tempo. Era il nostro segreto colpevole, nonché il nostro proponimento virtuoso - uno che finalmente potevamo condividere. Eravamo due piccole buone samaritane, che tiravano fuori del fossato l'uomo assalito dai briganti. Eravamo Maria e Marta che porgevano aiuto - be', non a Gesù, neanche Laura andava così lontano, ma era ovvio quale ruolo avesse assegnato a ciascuna di noi. Io dovevo essere Marta, occupata dalle incombenze domestiche, in secondo piano; lei doveva essere Maria, che deponeva pura devozione ai piedi di Alex. (Cosa preferisce un uomo? Uova al bacon o adorazione? A volte una cosa a volte l'altra, a seconda della fame che ha). Laura portava gli avanzi di cibo su per la scala della soffitta come se fossero un'offerta a un tempio. Portava giù il vaso da notte come se fosse un reliquario, o una preziosa candela sul punto di spegnersi tremolando. La sera, dopo che Alex Thomas era stato sfamato e abbeverato, parlavamo di lui - che aspetto aveva quel giorno, se era troppo magro, se aveva tossito -, non volevamo che si ammalasse. Di cosa poteva avere bisogno, cosa avremmo potuto provare a rubare per lui il giorno seguente. Quindi ci infilavamo nei rispettivi letti. Non so Laura, ma io lo immaginavo lassù in soffitta, esattamente sopra di me. Anche lui avrà cercato di addormentarsi, girandosi e rigirandosi nel suo giaciglio di trapunte ammuffite. Poi avrebbe dormito. Poi avrebbe sognato, lunghi sogni di guerra e di fuoco, e di villaggi che venivano distrutti, i loro frantumi disseminati tutt'intorno. Non so a che punto questi suoi sogni si trasformassero in visioni di inseguimento e fuga; non so a che punto lo raggiungessi in questi sogni, scappando con lui mano nella mano, al crepuscolo, via da un edificio in fiamme, attraverso i campi solcati di dicembre, con la terra coperta di stoppie in cui cominciava a insinuarsi il gelo, verso la linea scura dei boschi lontani. Ma non era veramente il suo sogno, lo sapevo. Era il mio. Era Avilion che stava bruciando, erano i suoi frantumi in fiamme che erano disseminati
a terra - la porcellana buona, la ciotola di Sèvres piena di petali di rosa, la scatola per sigarette d'argento sopra il piano. Lo stesso piano, le finestre dai vetri colorati della sala da pranzo - la coppa rosso sangue, l'arpa rotta di Isotta - tutto ciò da cui desideravo allontanarmi, è vero, ma non attraverso la distruzione. Volevo andarmene da casa, ma volevo anche che rimanesse lì ad aspettarmi, immutata, in modo da potervi ritornare quando avessi voluto. Un giorno, mentre Laura era fuori - non era più pericoloso per lei, gli uomini in soprabito se n'erano andati e anche i poliziotti a cavallo, le strade erano nuovamente pacifiche - decisi di fare una puntatina solitaria in soffitta. Avevo un'offerta da fare - una tasca piena di uva passa e fichi secchi sgraffignati dagli ingredienti per il pudding natalizio. Partii in ricognizione - Reenie era tranquillamente occupata con la signora Hillcoate, in cucina -, quindi andai alla porta che conduceva alla soffitta e bussai. A quell'epoca avevamo una bussata speciale, un colpo seguito da altri tre in rapida successione. Poi salii in punta di piedi la scala della soffitta. Alex Thomas era accoccolato accanto alla piccola finestra ovale, cercando di sfruttare al massimo la luce del giorno. Evidentemente non mi aveva sentito bussare: aveva la schiena rivolta verso di me, e teneva una trapunta sulle spalle. Sembrava che stesse scrivendo. Sentii odore di fumo di sigaretta - sì, stava fumando, c'era la sua mano che reggeva la sigaretta. Pensai che non fosse il caso che lo facesse così vicino a una trapunta. Non sapevo bene come annunciare la mia presenza. «Sono qui» dissi. Saltò su e lasciò cadere la sigaretta. Cadde sulla trapunta. Rimasi senza fiato e mi buttai in ginocchio per toglierla - avevo l'ormai familiare visione di Avilion in fiamme. «Non ti preoccupare» disse. Era anche lui in ginocchio, tutti e due alla ricerca di qualche scintilla superstite. Non ricordo come, ma subito dopo ci ritrovammo sul pavimento e lui mi teneva stretta e mi baciava sulla bocca. Non me l'aspettavo. O me l'aspettavo? Fu così improvviso, o ci furono dei preliminari - un tocco, uno sguardo? Feci qualcosa per provocarlo? Nulla di cui mi ricordi, ma ciò che ricordo fu quello che successe realmente? Ormai lo è: sono l'unica superstite. In ogni caso, fu proprio come aveva detto Reenie a proposito degli uomini nei cinema, solo che ciò che sentii non fu offesa. Ma il resto era abbastanza vero: ero paralizzata, non potevo muovermi, non avevo risorse.
Le mie ossa si erano trasformate in cera che si liquefaceva. Mi slacciò quasi tutti i bottoni prima che fossi in grado di alzarmi, trascinarmi via, fuggire. Lo feci senza una parola. Mentre scendevo in fretta la scala della soffitta, tirandomi indietro i capelli, infilandomi la camicetta nella gonna, ebbi l'impressione che - alle mie spalle - stesse ridendo di me. Non sapevo esattamente cosa potesse accadere se avessi lasciato che una cosa del genere capitasse di nuovo, ma in ogni caso sarebbe stato pericoloso, almeno per me. Me lo sarei voluto, avrei avuto quello che mi meritavo, sarebbe stato un incidente prevedibile. Non potevo permettermi di rimanere ancora da sola in soffitta con Alex Thomas, né potevo confidarne a Laura la ragione. Sarebbe stato troppo doloroso per lei: non avrebbe mai capito. (C'era un'altra possibilità - lui avrebbe potuto fare qualcosa del genere a Laura. Ma no, non potevo crederci. Lei non lo avrebbe mai permesso. O sì?) «Dobbiamo fargli abbandonare la città» dissi a Laura. «Non possiamo continuare così. Se ne accorgeranno sicuramente». «Non ancora» ribatté lei. «Stanno ancora controllando i binari». Era in grado di saperlo, dal momento che lavorava ancora alla mensa gratuita della chiesa. «Be', allora da qualche altra parte in città» dissi. «E dove? Non c'è nessun altro posto. E questo è il migliore - l'unico luogo in cui non penseranno mai di cercare». Alex Thomas disse che non voleva rimanere bloccato dalla neve. Disse che un inverno in soffitta lo avrebbe fatto impazzire. Disse che si sentiva un leone in gabbia. Disse che avrebbe camminato per tre o quattro chilometri lungo i binari e sarebbe saltato su un carro merci - là c'era un alto terrapieno che rendeva la cosa più facile. Disse che se solo fosse riuscito ad arrivare a Toronto, si sarebbe potuto nascondere - aveva degli amici là, e questi avevano a loro volta degli amici. Poi in un modo o nell'altro sarebbe passato negli Stati Uniti, dove sarebbe stato più al sicuro. Da quanto aveva letto sui giornali, le autorità sospettavano che potesse già trovarsi là. Sicuramente non lo stavano più cercando a Port Ticonderoga. Entro la prima settimana di febbraio decidemmo che sarebbe potuto fuggire senza correre eccessivi pericoli. Rubammo per lui un vecchio cappotto di mio padre nell'angolo in fondo al guardaroba, gli preparammo un involto con il pranzo - pane e formaggio, una mela - e lo mandammo per la sua
strada. (Più tardi mio padre si accorse del cappotto mancante e Laura disse che l'aveva dato a un vagabondo, il che in parte era vero. Siccome questo gesto era perfettamente in carattere con lei, non venne messo in dubbio, provocando soltanto qualche brontolio). La notte della partenza facemmo uscire Alex dalla porta sul retro. Disse che ci doveva molto; disse che non l'avrebbe dimenticato. Abbracciò tutte e due, un abbraccio fraterno di eguale durata a ognuna. Era ovvio che aveva fretta di andarsene. Strano a dirsi, a parte il fatto che era notte sembrava che stesse partendo per la scuola. Più tardi piangemmo, come delle madri. Fu anche un sollievo - che se ne fosse andato, che non avessimo più quella responsabilità -, ma anche questo è tipico delle madri. Si lasciò dietro uno dei quaderni da pochi soldi che gli avevamo dato. Naturalmente lo aprimmo subito per vedere se ci avesse scritto qualcosa. In cosa speravamo? In un messaggio di addio che esprimesse la sua eterna gratitudine? In sentimenti gentili su di noi? Qualcosa del genere. Questo fu ciò che trovammo: anchoryne berel carchineal diamite ebonort fulgor glutz hortz iridis jocynth kalkil lazaris malachont
nacrod onyxor porphyrial quartzephyr rhint sapphyrion tristok ulinth vorver wotanite xenor yorula zycron
«Pietre preziose?» chiese Laura. «No. Sono parole strane» dissi io. «È una lingua straniera?» Non lo sapevo. Pensai che la lista aveva l'aria sospetta di un codice. Forse (dopotutto) Alex Thomas era ciò che gli altri lo accusavano di essere: una spia di un qualche tipo. «Credo che dovremmo disfarcene» dissi.
«Ci penso io» fece svelta Laura. «Lo brucerò nel mio caminetto». Lo piegò e se lo infilò in tasca. Una settimana dopo la partenza di Alex Thomas, Laura venne nella mia stanza. «Credo che tu debba avere questa» disse. Era una copia della foto di noi tre, quella che Elwood Murray aveva scattato al picnic. Ma lei si era tagliata via - ne rimaneva solo la mano. Non avrebbe potuto eliminarla senza rendere il margine irregolare. Non aveva colorato affatto questa foto, a eccezione della sua mano mozzata. L'aveva tinta di un giallo molto chiaro. «Per l'amor del cielo, Laura!» esclamai. «Dove l'hai presa?» «Ho fatto alcune copie» disse. «Quando lavoravo da Elwood Murray. Ho anche il negativo». Non sapevo se essere arrabbiata o allarmata. Tagliare la foto a quel modo era una cosa molto strana da fare. La vista della mano giallo chiara di Laura che scivolava verso Alex nell'erba come un granchio incandescente mi fece scendere un brivido lungo la schiena. «Perché mai hai fatto una cosa simile?» «Perché è questo che vuoi ricordare» disse. Era talmente audace che rimasi senza fiato. Mi guardò dritta in faccia, cosa che in chiunque altro sarebbe equivalsa a una sfida. Ma Laura era fatta così: il suo tono non era né irritato né geloso. Per quanto la riguardava stava semplicemente constatando un fatto. «Non c'è problema» disse. «Ne ho un'altra per me». «E nella tua non ci sono io?» «No» disse. «Non ci sei. Di te non c'è niente se non la mano». Da parte sua questa fu la cosa più vicina a una confessione d'amore per Alex Thomas che io abbia mai sentito. Tranne il giorno prima che morisse, cioè. Non che anche allora avesse usato la parola amore. Avrei dovuto gettare via quella foto mutilata, ma non lo feci. Le cose tornarono al loro ordine consueto, monotono. Per un accordo non detto io e Laura non nominavamo più Alex Thomas tra noi. C'erano troppe cose che non potevano essere dette, da una parte e dall'altra. All'inizio salivo su in soffitta - vi si poteva ancora avvertire un leggero odore di fumo -, ma dopo un po' smisi di farlo, non serviva a niente. Ci rituffammo nella vita di tutti i giorni, per quanto era possibile. C'era un po' più di denaro adesso, perché dopotutto mio padre aspettava i soldi
dell'assicurazione per la fabbrica bruciata. Non era abbastanza, ma ci era stata concessa una tregua. La Sala Imperiale La stagione sta ruotando sui cardini, la terra gira allontanandosi dalla luce; sotto i cespugli ai margini della strada le cartacce dell'estate si accumulano come un presagio di neve. L'aria si sta facendo secca, preparandoci all'imminente Sahara dell'inverno a riscaldamento centrale. I polpastrelli dei miei pollici si stanno già spaccando, il mio viso avvizzisce ancora di più. Se potessi vedere la mia pelle allo specchio - se solo potessi avvicinarmi abbastanza, o allontanarmi abbastanza -, la troverei intersecata da minuscoli solchi, tra le rughe più grosse, come un intaglio. La scorsa notte ho sognato che le mie gambe erano ricoperte di peli. Non pochi peli, ma una gran quantità - peli scuri che spuntavano in ciuffi e cespi sotto i miei occhi, diffondendosi sulle cosce come la pelliccia di un animale. Stava arrivando l'inverno, ho sognato, perciò sarei andata in letargo. Prima mi sarebbe cresciuto il pelo, poi sarei strisciata dentro una grotta, quindi mi sarei addormentata. Sembrava tutto normale, come se lo avessi già fatto prima. Poi mi sono ricordata, anche in sogno, che non ero mai stata una donna particolarmente pelosa e che ormai ero glabra come un tritone, o almeno lo erano le mie gambe; perciò sebbene sembrassero attaccate al mio corpo, quelle gambe pelose non potevano assolutamente essere mie. Inoltre non avevano sensibilità. Erano le gambe di qualcos'altro, o di qualcun altro. Tutto quello che dovevo fare era seguirle, passarci sopra la mano, per scoprire di chi o di che cosa fossero. Questa preoccupazione mi ha svegliata, o così ho creduto. Ho sognato che Richard era tornato. Potevo sentirlo respirare nel letto accanto a me. Eppure non c'era nessuno. Allora mi sono svegliata, tornando alla realtà. Avevo le gambe intorpidite: avevo dormito tutta storta. Ho cercato a tastoni la lampada sul comodino, ho decifrato il mio orologio: erano le due di notte. Il cuore mi martellava penosamente, come se avessi corso. Era vero quello che si diceva, ho pensato. Un incubo può uccidere. Torno a darci dentro, facendomi strada come un granchio attraverso la carta. È una corsa lenta, tra me e il mio cuore, ma intendo arrivare prima. Dove? Alla fine, o alla Fine. All'una o all'altra. Sono tutte e due punti di arrivo, se vogliamo.
Gennaio e febbraio del 1935. Pieno inverno. Cadeva la neve, il respiro si condensava; le caldaie bruciavano, il fumo saliva, i radiatori producevano rumori metallici. Le automobili uscivano di strada e andavano a finire nei fossati; i loro guidatori, disperando nei soccorsi, tenevano il motore acceso e asfissiavano. Vagabondi morti venivano trovati sulle panchine e nei magazzini abbandonati, rigidi come manichini, come se posassero per pubblicizzare la povertà nella vetrina di un negozio. Cadaveri che non potevano essere sepolti perché non si riusciva a scavare le tombe nel terreno duro come l'acciaio aspettavano il loro turno nei depositi di nervosi impresari di pompe funebri. I topi se la passavano bene. Madri con bambini, incapaci di trovare lavoro o di pagare l'affitto, venivano cacciate armi e bagagli in mezzo alla neve. I bambini pattinavano sulla gora del mulino del fiume Louveteau, due di loro finirono sotto il ghiaccio e uno annegò. I tubi gelavano e scoppiavano. Laura e io stavamo sempre meno insieme. In realtà la si vedeva a malapena: collaborava alla campagna assistenziale della Chiesa Unita, o così diceva. Reenie annunciò che a partire dal mese successivo avrebbe lavorato per noi soltanto tre giorni alla settimana, dicendo che i piedi le stavano dando noia: era il suo modo di nascondere il fatto che non potevamo più permetterci di tenerla a tempo pieno. Lo capii comunque, era così chiaro che lo avrebbe visto anche un cieco. Come avrebbe visto la faccia di mio padre, che sembrava la mattina dopo un disastro ferroviario. Negli ultimi tempi stava quasi sempre nella sua torretta. La fabbrica di bottoni era vuota, il suo interno carbonizzato e distrutto. Non c'erano soldi per ripararla: la compagnia di assicurazioni nicchiava, adducendo le misteriose circostanze legate all'incendio doloso. Si sussurrava che non tutto fosse come sembrava: alcuni insinuarono perfino che fosse stato mio padre ad appiccare il fuoco, una calunniosa accusa non suffragata da alcuna prova. Le altre due fabbriche erano ancora chiuse; mio padre si lambiccava il cervello per trovare il modo di riaprirle. Andava a Toronto sempre più spesso per affari. A volte mi portava con lui, e alloggiavamo al Royal York Hotel, a quel tempo considerato il migliore. Era lì che tutti i presidenti di imprese e i dottori e gli avvocati inclini a questo genere di cose tenevano le loro amanti e facevano le loro baldorie lunghe un'intera settimana, ma a quel tempo non lo sapevo. Chi pagava queste nostre gite? Avevo un sospetto che fosse Richard, sempre presente in queste occasioni. Era con lui che mio padre stava con-
cludendo un affare: l'ultimo tra i pochissimi ancora possibili. L'affare concerneva la vendita delle fabbriche, ed era complesso. Mio padre aveva già provato a venderle, ma in quel periodo nessuno comprava, non alle condizioni stabilite da lui. Voleva vendere soltanto una partecipazione di minoranza. Voleva mantenere il controllo. Voleva un'immissione di capitale. Voleva riaprire le fabbriche, in modo che i suoi uomini riavessero i loro posti. Li chiamava «i suoi uomini», come se fossero ancora nell'esercito e lui fosse ancora il loro capitano. Non voleva ridurre le sue perdite e abbandonarli, perché come tutti sanno, o sapevano una volta, un capitano dovrebbe affondare insieme alla nave. Ora nessuno si farebbe tanti scrupoli. Ora incasserebbero e si metterebbero in salvo, poi si trasferirebbero in Florida. Mio padre diceva che aveva bisogno di portarmi con sé «perché prendessi appunti», ma non ne presi mai. Credevo di essere lì soltanto perché in quel modo avrebbe avuto con sé qualcuno - per un sostegno morale. Ne aveva certamente bisogno. Era magro come uno stecco e le mani gli tremavano in continuazione. Gli costava uno sforzo scrivere il proprio nome. Laura non partecipava a queste trasferte. La sua presenza non era richiesta. Rimaneva a casa, a distribuire con parsimonia il pane vecchio di tre giorni e la minestra acquosa. Aveva cominciato a lesinare perfino sui propri pasti, quasi sentisse di non averne diritto. «Gesù mangiava» diceva Reenie. «Mangiava di tutto. Non si teneva a stecchetto». «È vero» replicava Laura, «ma io non sono Gesù». «Be', ringraziamo il Signore che ha almeno il buonsenso di capire questo» brontolava Reenie rivolgendosi a me. Faceva scivolare nel pentolone i due terzi della cena di Laura avanzati, perché sarebbe stato un peccato e una vergogna che andassero sprecati. Era un punto di orgoglio per Reenie durante quegli anni non avere mai gettato via nulla. Mio padre non teneva più un autista, e non si fidava più a guidare. Io e lui raggiungevamo Toronto in treno, arrivavamo alla Union Station e andavamo in albergo, dall'altra parte della strada. Di pomeriggio, mentre lui combinava i suoi affari, io avrei dovuto divertirmi in qualche modo. Ma per lo più rimanevo nella mia stanza, perché avevo paura della città e mi vergognavo dei miei abiti fuori moda, che mi facevano apparire di qualche anno più giovane. Leggevo riviste: Ladies' Home Journal, Collier's, Mayfair. Per lo più leggevo i racconti che parlavano d'amore. Non avevo al-
cun interesse nei pasticci e nei modelli all'uncinetto, ma i consigli di bellezza catturavano la mia attenzione. Leggevo anche la pubblicità. Un bustino di latex con doppio elastico mi avrebbe aiutata a giocare meglio a bridge. Potevo anche fumare come una ciminiera, ma non c'era alcun problema, perché la mia bocca avrebbe avuto un meraviglioso profumo di pulito se avessi fatto regolare uso di Spud. Qualcosa chiamato Larvex avrebbe messo fine alle mie preoccupazioni riguardo alle tarme. Alla Bigwin Inn, sul bel lago di Bays, dove ogni momento era elettrizzante, avrei potuto fare ginnastica dimagrante a suon di musica sulla spiaggia. Alla fine della giornata tutti e tre - mio padre, Richard e io - cenavamo al ristorante. In queste occasioni non dicevo nulla, perché cosa avrei potuto mai dire? Gli argomenti erano l'economia e la politica, la Depressione, la situazione in Europa, i preoccupanti progressi del comunismo mondiale. Richard pensava che Hitler avesse senza dubbio fatto migliorare la Germania dal punto di vista finanziario. Era meno favorevole a Mussolini, che era un incompetente e un dilettante. A Richard era stato proposto un investimento in una nuova stoffa che gli italiani stavano mettendo a punto in gran segreto, fatta di proteine del latte riscaldate. Ma se quella roba si bagnava, diceva Richard, odorava terribilmente di formaggio, e perciò le signore del Nord America non l'avrebbero mai accettata. Avrebbe insistito con il rayon, sebbene si spiegazzasse quando pioveva, e avrebbe tenuto le orecchie bene aperte e colto qualsiasi idea promettente. Doveva per forza esserci qualcosa nell'aria, qualche stoffa artificiale che avrebbe tolto la seta dal mercato, e in buona misura anche il cotone. Quello che volevano le signore era un prodotto che non andasse stirato - che potesse essere appeso al filo da bucato, che si asciugasse senza pieghe. Volevano anche calze che durassero e al tempo stesso fossero leggere, in modo da mettere in mostra le gambe. Non aveva ragione? mi domandò con un sorriso. Aveva l'abitudine di fare appello a me nelle questioni che riguardavano le signore. Annuii. Annuivo sempre. Non ascoltavo mai con grande attenzione, non solo perché quelle conversazioni mi annoiavano, ma anche perché mi facevano star male. Mi feriva vedere mio padre dimostrarsi d'accordo su opinioni che sapevo non poteva condividere. Richard disse che avrebbe voluto invitarci a cena a casa sua, ma siccome era uno scapolo sarebbe stata una cosa sciatta. Viveva in un appartamento triste, disse; disse di essere praticamente un monaco. «Cos'è la vita senza una moglie?» chiese, sorridendo. Sembrava una citazione. Credo che lo fosse.
Richard chiese la mia mano nella Sala Imperiale del Royal York Hotel. Mi aveva invitata a pranzo insieme a mio padre, ma poi all'ultimo minuto, mentre camminavamo lungo i corridoi dell'albergo dirigendoci verso l'ascensore, lui disse che non avrebbe potuto essere dei nostri. Sarei dovuta andare sola. Naturalmente era una cosa combinata tra loro due. «Richard ha qualcosa da chiederti» mi disse mio padre. Aveva un tono di scusa. «Oh?» feci. Probabilmente qualcosa sulla stiratura, non che me ne importasse granché. Per quanto mi riguardava Richard era un uomo adulto. Aveva trentacinque anni, io diciotto. Era tutt'altro che interessante. «Credo che potrebbe chiederti di sposarlo» disse. A quel punto eravamo nella hall. Mi sedetti. «Oh» feci. All'improvviso mi fu chiaro ciò che avrebbe dovuto esserlo da qualche tempo. Mi venne voglia di ridere, quasi si trattasse di uno scherzo. Avevo anche l'impressione che mi fosse sparito lo stomaco. Eppure la mia voce rimase calma. «Cosa devo fare?» «Ho già dato il mio consenso» disse mio padre. «Perciò la decisione sta a te». Quindi aggiunse: «È in ballo una certa somma». «Una certa somma?» «Devo considerare il vostro futuro. Casomai dovesse succedermi qualcosa, cioè. Il futuro di Laura, in particolare». Quello che stava dicendo era che, a meno che non sposassi Richard, saremmo rimasti senza un soldo. Stava anche dicendo che noi due - me e soprattutto Laura - non saremmo mai state in grado di provvedere a noi stesse. «Devo considerare anche le fabbriche» disse. «Devo considerare la loro attività. Potrebbe essere ancora salvata, ma i banchieri mi stanno dietro. Mi stanno alle costole. Non aspetteranno ancora a lungo». Si curvava sul bastone, lo sguardo al tappeto, e vedevo quanto si vergognasse. Quanto fosse prostrato. «Non voglio che tutto questo non sia servito a niente. Tuo nonno, e poi... Che cinquanta, sessanta anni di duro lavoro vadano sprecati». «Oh. Capisco». Ero con le spalle al muro. Non si può certo dire che avessi qualche alternativa da proporre. «Si prenderanno anche Avilion. La venderanno». «Lo farebbero?» «È ipotecata fino all'ultimo mattone». «Oh».
«Ci vorrebbe una certa dose di fermezza. Una certa dose di coraggio. Ingoiare il rospo e così via». Non dissi niente. «Ma naturalmente» aggiunse, «qualunque decisione tu prenda sarà unicamente affar tuo». Non dissi niente. «Non vorrei che tu facessi nulla a cui fossi assolutamente contraria» disse, guardando oltre di me con l'occhio buono, aggrottando leggermente le ciglia, come se un oggetto di grande importanza fosse appena entrato nel suo campo visivo. Dietro di me non c'era nulla oltre al muro. Non dissi niente. «Bene. Il discorso è chiuso, allora». Sembrava sollevato. «Ha molto buonsenso, Griffen. Credo che sotto sotto sappia il fatto suo». «Credo di sì» dissi. «Sono sicura che è così». «Saresti in buone mani. E anche Laura, naturalmente». «Naturalmente» dissi piano. «Anche Laura». «Testa alta, allora». Lo biasimo? No. Non più. Riconsiderando le cose con la prospettiva di oggi, il giudizio è chiaro, ma lui stava soltanto facendo ciò che al tempo sarebbe stato considerato - e fu considerato - responsabile. Stava facendo del suo meglio. Richard ci raggiunse, quasi avesse ricevuto un segnale, e i due uomini si diedero la mano. La mia, di mano, fu presa e stretta brevemente. Poi il mio gomito. Era così che a quei tempi gli uomini portavano in giro le donne per il gomito -, dunque fui portata per il gomito nella Sala Imperiale. Richard disse che avrebbe voluto il Caffè Veneziano, che era più luminoso e dall'atmosfera più festosa, ma sfortunatamente era tutto prenotato. È strano ricordarlo adesso, ma al tempo il Royal York Hotel era l'edificio più alto di Toronto, e la Sala Imperiale era la sala da pranzo più grande. A Richard piacevano le cose grandi. Quanto alla sala, aveva file di larghe colonne quadrate, un soffitto intarsiato, una serie di lampadari, ognuno con una nappa appesa in fondo: un'opulenza raggelata. Dava l'idea del coriaceo, del massiccio, del pingue - con qualche venatura. Porfido è la parola che mi viene in mente, anche se magari non ce n'era. Era mezzogiorno, una di quelle mutevoli giornate invernali che sono più luminose di quanto dovrebbero. La bianca luce del sole faceva cadere i suoi raggi attraverso le aperture tra le pesanti tende, che dovevano essere
di un marrone rossiccio, mi pare, ed erano sicuramente di velluto. Sotto i soliti odori delle sale da pranzo degli alberghi, di ortaggi tenuti in caldo e di pesce tiepido, c'era puzza di metallo rovente e di stoffa bruciata. Il tavolo riservato da Richard era in un angolo buio, lontano dalla graffiante luce del giorno. C'era un bocciolo di rosa in un vaso per boccioli; fissai Richard al di sopra di esso, curiosa di come avrebbe condotto le cose. Mi avrebbe preso la mano, l'avrebbe stretta, avrebbe esitato, balbettato? Non lo credevo. Non che mi fosse eccessivamente antipatico. Non mi piaceva. Avevo poche opinioni su di lui, perché non ci avevo mai pensato troppo, sebbene - di tanto in tanto - avessi notato l'eleganza disinvolta dei suoi vestiti. A volte era pomposo, ma almeno non era quel che si dice brutto, per niente. Supponevo che fosse un ottimo partito. Mi sentivo un po' stordita. Non sapevo ancora cosa avrei fatto. Venne il cameriere. Richard ordinò. Poi guardò l'orologio. Poi parlò. Sentii poco di quanto disse. Sorrideva. Tirò fuori una piccola scatola rivestita di velluto nero, l'aprì. Dentro c'era una scintillante scheggia di luce. Trascorsi quella notte rannicchiata e tremante nel grande letto dell'albergo. Avevo i piedi ghiacciati, le ginocchia tirate su, la testa di traverso sul cuscino; davanti a me la distesa artica delle bianche lenzuola inamidate si stendeva all'infinito. Sapevo che non avrei mai potuto attraversarla, riguadagnare il sentiero, tornare dove faceva caldo; sapevo di avere perduto l'orientamento; sapevo di essermi smarrita. Sarei stata scoperta qui anni dopo da qualche intrepida squadra imbattutasi nelle mie tracce, un braccio allungato come se cercassi di afferrare disperatamente qualcosa, i lineamenti disseccati, le dita rosicchiate dai lupi. Ciò che stavo sperimentando era terrore, ma non terrore di Richard in quanto tale. Era come se la cupola illuminata del Royal York Hotel fosse stata strappata via e ora venissi fissata da una presenza maligna situata in qualche punto al di sopra della risplendente superficie nera e vuota del cielo. Era Dio, che puntava verso di me il riflettore vacuo e ironico del suo occhio. Mi stava osservando; stava osservando la mia situazione; stava osservando la mia incapacità di credere in lui. Non c'era il pavimento nella stanza: ero sospesa in aria, sul punto di precipitare. La mia caduta sarebbe stata senza fine - un'incessante caduta verso il basso. Tuttavia simili sensazioni tetre spesso si dileguano alla chiara luce del mattino, quando si è giovani.
L'Arcadian Court Fuori della finestra, nel cortile che si è fatto scuro, c'è la neve. Quel suono simile a un bacio contro il vetro. Si scioglierà perché siamo solo a novembre, ma è sempre un assaggio. Non so perché io lo trovi così eccitante. So cosa ci aspetta: neve sciolta mista a fango, buio, influenza, ghiaccio invisibile sulle strade, vento, macchie di sale sulle scarpe. Eppure c'è un senso di aspettativa: la tensione prima della battaglia. L'inverno è qualcosa in cui si può entrare dentro, che si può affrontare e poi sconfiggere ritirandocisi dentro casa. Eppure, mi piacerebbe che in questa casa ci fosse un caminetto. La casa in cui vivevo con Richard aveva il caminetto. Anzi, ne aveva quattro. Ce n'era uno nella nostra camera da letto, se ben ricordo. Fiamme che lambivano la carne. Srotolo le maniche del mio maglione, mi tiro i polsi sulle mani. Come quei guanti senza dita che si portavano una volta - i fruttivendoli, persone del genere - per lavorare al freddo. Finora è stato un autunno caldo, ma non posso continuare a far finta di niente. Dovrei pensare alla manutenzione della caldaia. Tirare fuori la camicia da notte di flanella. Fare scorta di un po' di fagioli in scatola, di un po' di candele, di un po' di fiammiferi. Una tempesta di ghiaccio come quella dell'inverno scorso potrebbe bloccare tutto, e allora si rimane senza elettricità, con un bagno impraticabile e niente acqua potabile tranne quella che si può sciogliere. Il giardino non contiene nulla se non foglie morte e fragili gambi e crisantemi duri a morire. Il sole sta perdendo quota; fa buio presto ora. Scrivo al tavolo della cucina, in casa. Mi manca il rumore delle rapide. Il vento che a volte soffia tra i rami spogli è molto simile, ma ci si può fare meno affidamento. La settimana dopo il fidanzamento venni spedita a pranzo fuori con la sorella di Richard, Winifred Griffen Prior. L'invito era venuto da lei, ma in realtà avevo la sensazione che fosse stato Richard a mandarmici. Potevo sbagliarmi, perché Winifred tirava molte fila, e in quell'occasione poteva aver tirato anche quelle di Richard. La cosa più probabile è che lo avessero voluto entrambi. Il pranzo doveva aver luogo all'Arcadian Court. Era dove pranzavano le signore, all'ultimo piano del grande magazzino Simpsons, sulla Queen
Street - uno spazio alto, ampio, definito «bizantino» nel design (il che significava che aveva arcate e palme in vaso), in lilla e argento, con luci e sedie dalle linee slanciate. Tutt'intorno a metà altezza correva una balconata con ringhiere di ferro battuto; era riservata agli uomini, agli uomini d'affari. Potevano andarsi a sedere lassù e guardare le signore in basso, coperte di piume e cinguettanti, come se fossero in una voliera. Avevo indossato la mia migliore tenuta da giorno, l'unica tenuta possibile di cui disponessi per un'occasione del genere: un tailleur blu oltremare con la gonna a pieghe, una camicetta bianca con un fiocco al collo, un cappello blu oltremare simile a una paglietta. Questo completo mi faceva sembrare una scolaretta o una propagandista dell'Esercito della Salvezza. Non accennerò neanche alle scarpe; ancora adesso pensarci è troppo avvilente. Tenevo l'anello di fidanzamento nuovo di zecca chiuso nel mio pugno inguantato, consapevole che, portato con abiti come i miei, dovesse sembrare una pietra artificiale o rubata. Il maître mi guardò come se fossi sicuramente capitata nel posto sbagliato, o quanto meno fossi entrata dall'ingresso sbagliato - cercavo un lavoro? Sembravo male in arnese, e troppo giovane per partecipare a un pranzo di signore. Ma poi diedi il nome di Winifred e andò tutto liscio, perché Winifred praticamente viveva all'Arcadian Court. (Praticamente viveva era una sua espressione). Almeno non dovetti aspettare, bevendo un bicchiere di acqua ghiacciata da sola con donne ben vestite che mi fissavano e si chiedevano come avessi fatto a entrare, perché Winifred era già lì, seduta a uno dei tavoli dal colore scialbo. Era più alta di quanto ricordassi - snella, o forse flessuosa, si sarebbe detto, sebbene in parte fosse merito del bustino. Indossava un completo verde - non un verde pastello ma un verde vivace, quasi sgargiante. (Era dello stesso colore delle gomme da masticare alla clorofilla che divennero di moda due decenni più tardi). Aveva scarpe di coccodrillo verdi in tinta. Erano appariscenti, simili a gomma, leggermente lucide, come ninfee, e pensai che non avevo mai visto scarpe così ricercate e insolite. Il suo cappello era della stessa tonalità - un ghirigoro rotondo di stoffa verde in bilico sulla sua testa come una torta velenosa. Proprio in quel momento stava facendo una cosa che mi era stato insegnato di non fare mai perché era volgare: si stava guardando nello specchio del portacipria, in pubblico. Peggio, si stava incipriando il naso. Mentre esitavo, non volendo farle sapere che l'avevo colta in quell'atto volgare, chiuse di scatto il portacipria e lo infilò nella sua luccicante borsetta di
coccodrillo come se niente fosse. Poi allungò il collo, girò lentamente il viso incipriato e si guardò intorno con uno sguardo vitreo, come un faro. Poi mi vide e sorrise, allungando una languida mano in segno di benvenuto. Aveva un braccialetto d'argento che desiderai all'istante. «Chiamami Freddie» disse dopo che mi fui seduta. «Tutte le mie amiche lo fanno, e voglio che noi diventiamo grandi amiche». Allora era di moda per le donne come Winifred prediligere i diminutivi che le facevano sembrare dei maschi: Billie, Bobbie, Willie, Charlie. Io non avevo un soprannome del genere, perciò non potevo offrirgliene a mia volta uno. «Oh, è questo l'anello?» chiese. «È una bellezza, non è vero? Ho aiutato Richard a sceglierlo - gli piace che faccia spese per lui. Agli uomini vengono certe emicranie quando vanno a fare spese, non è vero? Lui pensava che potesse andare meglio uno smeraldo, ma in realtà non c'è niente di meglio di un diamante, non è vero?» Nel dir ciò mi studiava con interesse e con un certo gelido divertimento, per vedere come l'avrei presa - quella degradazione del mio anello di fidanzamento a una commissione di poca importanza. I suoi occhi erano intelligenti e stranamente larghi, con ombretto verde sulle palpebre. Le sue sopracciglia ritoccate con la matita erano depilate a tracciare una morbida linea arcuata, conferendole l'espressione di noia e al tempo stesso di stupore attonito coltivata dalle stelle del cinema di quel periodo, sebbene dubito che Winifred fosse mai molto stupita. Il suo rossetto era di un colore arancio rosato scuro, una sfumatura che era appena diventata di moda - gambero era il nome esatto, come avevo imparato dalle mie letture pomeridiane. La bocca aveva lo stesso aspetto cinematografico delle sopracciglia, con le due metà del labbro superiore disegnate a formare le punte dell'arco di Cupido. La voce era quel che si diceva una voce da bevitrice di whisky - bassa, quasi profonda, con una patina ruvida, graffiata, come la lingua di un gatto -, come un velluto fatto di cuoio. (Giocava a carte, scoprii in seguito. Bridge, non poker - sarebbe stata brava a poker, brava a bluffare, ma era troppo rischioso, troppo d'azzardo; le piaceva andare sul sicuro. Giocava anche a golf, ma soprattutto per i contatti mondani; non era così brava come sosteneva. Il tennis era troppo movimentato per lei; non avrebbe voluto farsi sorprendere sudata. «Andava in barca», il che significava, per lei, sedere in barca su un cuscino, con il cappello e un drink). Winifred mi chiese cosa volessi mangiare. Qualunque cosa, dissi. Mi chiamò «cara» e disse che l'insalata Waldorf era meravigliosa. Dissi che
sarebbe andata bene. Non riuscivo a immaginare come sarei mai potuta arrivare a chiamarla Freddie: sembrava troppo famigliare, perfino irriverente. Dopotutto era un'adulta - se non di trenta, almeno di ventinove anni. Era di sei o sette anni più giovane di Richard, ma erano amici: «Richard e io siamo grandi amici» mi disse in tono confidenziale, per la prima ma non certo ultima volta. Era una minaccia, naturalmente, come lo era molto di quello che mi disse in quel tono disinvolto e confidenziale. Significava non solo che lei aveva diritti precedenti ai miei, e una dedizione che non potevo sperare di capire, ma anche che se mai avessi ostacolato Richard avrei dovuto fare i conti con tutti e due. Era lei che organizzava le cose per Richard, mi annunciò - avvenimenti mondani, cocktail party, cene e così via, perché lui era uno scapolo e come disse (e avrebbe continuato a dire, un anno dopo l'altro): «Siamo noi femminucce a organizzare questo tipo di cose». Poi disse che era semplicemente deliziata che Richard si fosse finalmente deciso a sistemarsi, e con una ragazza giovane come me. C'erano state un paio di cose intime - alcuni precedenti intoppi sentimentali. (Era così che Winifred parlava sempre delle donne in relazione a Richard - intoppi sentimentali, come reti, o ragnatele, o trappole, o semplicemente pezzi di gomma appiccicosa lasciati per terra, su cui si poteva finire per sbaglio con la scarpa). Per fortuna Richard era sfuggito a quegli intoppi, non che le donne non gli dessero la caccia. Gli davano la caccia a frotte, diceva Winifred, abbassando la sua voce da bevitrice di whisky, e io ebbi un'immagine di Richard, i vestiti strappati, i capelli di solito sistemati con cura arruffati, che fuggiva in preda al panico inseguito da un mucchio di femmine ululanti. Ma non potevo credere a quell'immagine. Non potevo immaginare Richard che correva, o si affrettava, o aveva paura. Non potevo immaginarlo in pericolo. Annuii e sorrisi, incerta di quale dovesse essere il mio posto. Ero anch'io uno degli intoppi appiccicosi? Forse. A giudicare dalle apparenze, tuttavia, venivo invitata a capire che Richard aveva un alto valore intrinseco, e che avrei fatto meglio a rigare dritta se dovevo esserne all'altezza. «Ma sono sicura che te la caverai» disse Winifred, con un lieve sorriso. «Sei così giovane». Se mai, la giovinezza mi avrebbe reso più difficile cavarmela, ed era su questo che Winifred contava. Quanto a lei, non aveva alcuna intenzione di rinunciare a cavarsela. Arrivarono le nostre insalate Waldorf. Winifred mi guardò prendere col-
tello e forchetta - almeno non mangiavo con le mani, diceva la sua espressione - e fece un piccolo sospiro. Ero una faticaccia per lei, ora me ne rendo conto. Senza dubbio pensava che fossi ombrosa, od ostile: non parlavo del più e del meno, ero così ignorante, così rustica. O forse il suo sospiro si riferiva a ciò che l'aspettava - al lavoro che l'aspettava, perché io ero un ammasso di argilla informe, e ora lei avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e mettersi a modellarmi. Chi ha tempo non aspetti tempo. Ci diede subito dentro. Il suo metodo era l'insinuazione, l'accenno. (Ne aveva un altro - il bastone -, ma durante quel pranzo non ebbi modo di provarlo). Disse che aveva conosciuto mia nonna, o almeno ne aveva sentito parlare. Le donne Monfort di Montreal erano state celebrate per il loro stile, aggiunse, ma naturalmente Adelia Monfort era morta prima che io nascessi. Questo era il suo modo di dire che nonostante il mio pedigree in realtà stavamo partendo da zero. I miei vestiti erano il meno, insinuò. I vestiti si potevano sempre comprare, naturalmente, ma avrei dovuto imparare a indossarli in modo da farli figurare. «Come se fossero la tua pelle, cara» disse. Dei miei capelli neppure a parlarne - lunghi, senza permanente, pettinati all'indietro, tenuti da un fermaglio. Erano un chiaro caso da forbici e permanente a freddo. Poi c'era la questione delle unghie. Niente di eccessivamente vistoso, ben inteso; ero troppo giovane per le cose vistose. «Potresti essere affascinante» disse Winifred. «Assolutamente. Con un piccolo sforzo». Ascoltavo umilmente, piena di risentimento. Sapevo di non avere fascino. Né Laura né io l'avevamo. Eravamo troppo taciturne per il fascino, oppure troppo schiette. Non lo avevamo mai imparato, perché Reenie ci aveva viziato. A suo parere chi eravamo doveva essere abbastanza per chiunque. Non dovevamo metterci in bella mostra davanti alla gente, corteggiarla con blandizie, lusinghe ed esibizioni di palpebre sbattute. Credo che mio padre scorgesse l'utilità del fascino in certi ambienti, ma non ce lo aveva affatto instillato. Avrebbe voluto che fossimo più simili a dei ragazzi, e ora lo eravamo. Ai ragazzi non si insegna a essere affascinanti. Fa credere alla gente che siano ambigui. Winifred mi guardava mangiare con un sorriso canzonatorio sulle labbra. Nella sua testa mi stavo già trasformando in una sfilza di aggettivi una sfilza di buffi aneddoti da raccontare nei minimi dettagli alle sue amiche, le Billie e le Bobbie e le Charlie. Sembrava che avesse preso i vestiti da un ente benefico. Mangiava come se non avesse mai toccato cibo. E le scarpe!
«Bene» disse, dopo aver frugato nella sua insalata - Winifred non finiva mai un pasto, «ora dovremo metterci al lavoro». Non sapevo cosa intendesse. Fece un altro piccolo sospiro. «Organizzare il matrimonio» disse. «Non abbiamo molto tempo. Pensavo: St. Simon the Apostle, e poi la sala da ballo del Royal York, quella centrale, per il ricevimento». Dovevo aver creduto che sarei stata semplicemente passata a Richard, come un pacco; ma no, avrebbero dovuto esserci delle cerimonie - più d'una. Cocktail party, tè, feste per la consegna dei regali alla sposa, servizi fotografici per i giornali. Sarebbe stato come il matrimonio di mia madre nelle storie che raccontava Reenie, ma in qualche modo in peggio e con dei pezzi mancanti. Dov'era il preludio romantico con il giovanotto inginocchiato ai miei piedi? Sentivo un'ondata di sgomento montarmi su dalle ginocchia al viso. Winifred lo vide, ma non fece nulla per rassicurarmi. Non voleva che fossi rassicurata. «Non preoccuparti, mia cara» disse, in un tono che denotava ben poca speranza. Mi diede dei colpetti sul braccio. «Ti guiderò io». Sentii la volontà defluire da me - qualsiasi potere mi fosse rimasto sulle mie azioni. (Ma sì! Ora che ci penso, era davvero una sorta di tenutaria di bordello, una mezzana). «Santo cielo, guarda che ore sono» disse. Aveva un orologio d'argento, flessibile, come un nastro di metallo colato; c'erano sopra dei puntini al posto dei numeri. «Devo scappare. Ti porteranno del tè, e uno sformato o qualcos'altro, se vuoi. Le ragazze giovani hanno una tale debolezza per i dolci». Rise e si alzò, poi mi diede un bacio color gambero, non sulla guancia ma sulla fronte. Serviva a tenermi al mio posto, che era - sembrava chiaro - quello di una bambina. La guardai muoversi attraverso lo spazio pastello pieno di sussurri dell'Arcadian Court come se scivolasse, con lievi cenni del capo e piccoli, misurati gesti della mano. L'aria si divideva davanti a lei come erba alta; le sue gambe non sembravano attaccate ai fianchi, ma direttamente alla vita; nulla si muoveva a scatti. Sentivo parti del mio corpo straripare, oltre i lati delle spalline e i bordi delle calze. Desiderai essere capace di riprodurre quella camminata, così armoniosa e incorporea e invulnerabile. Per il matrimonio non fu scelta Avilion, ma la reggia finto Tudor in legno e muratura di Winifred a Rosedale. Sembrava più comodo, visto che la maggior parte degli invitati sarebbe venuta da Toronto. Sarebbe stato an-
che meno imbarazzante per mio padre, che non poteva più permettersi il tipo di matrimonio che Winifred pensava le fosse dovuto. Non poteva neanche permettersi l'onere del mio guardaroba: se ne occupò Winifred. Stipati nel mio bagaglio - in uno dei miei svariati bauli nuovi di zecca - c'erano una gonna da tennis, sebbene non giocassi, un costume da bagno, sebbene non sapessi nuotare, e parecchi vestiti da ballo, sebbene non sapessi ballare. Dove avrei potuto imparare? Non ad Avilion; neanche il nuoto, perché Reenie non ce lo avrebbe permesso. Ma Winifred aveva insistito su quelle tenute. Diceva che avrei dovuto avere abiti per ogni occasione, non importa quali fossero le mie lacune, che non avrei mai dovuto ammettere. «Di' che hai l'emicrania» mi diceva. «È sempre una scusa accettabile». Mi disse anche molte altre cose. «Va bene mostrarsi annoiata» disse. «Ma non fare mai vedere che hai paura. La fiuteranno su di te come squali e verranno a darti il colpo di grazia. Puoi guardare il bordo del tavolo - abbassando le palpebre -, ma non guardare mai il pavimento, sembrerà che hai il collo debole. Non stare in piedi impalata, non sei un soldato. Non imbarazzarti mai. Se qualcuno fa un'osservazione che ti offende, di' Prego?, come se non avessi sentito; nove volte su dieci non avranno il coraggio di ripeterla. Non parlare mai a voce alta con un cameriere, è volgare. Falli inchinare, è quello che devono fare. Non giocherellare con i guanti o con i capelli. Fai credere di avere sempre qualcosa di meglio da fare, ma non mostrarti mai impaziente. Se hai qualche dubbio, vai alla toilette delle signore, ma vacci lentamente. La grazia viene dall'indifferenza». Queste erano le sue prediche. Devo ammettere che, nonostante la mia avversione nei suoi confronti, esse si sono dimostrate di notevole importanza nella mia vita. La notte prima delle nozze la trascorsi in una delle migliori camere da letto di Winifred. «Fatti bella» disse allegramente, sottintendendo che non lo ero. Mi aveva dato della crema detergente e dei guanti di cotone - dovevo mettermi la crema e poi infilarmi i guanti. Questo trattamento avrebbe reso le mani bianche e soffici - la consistenza del grasso di bacon crudo. Stavo nel bagno attiguo alla camera, ascoltando il rumore dell'acqua che scrosciava sulla porcellana della vasca da bagno e studiando il mio viso nello specchio. Mi sembravo cancellata, con i lineamenti indistinti, come un ovale di sapone usato, o una luna calante. Laura venne dalla sua stanza attraverso la porta comunicante e si sedette
sulla tazza chiusa. Non prese mai l'abitudine di bussare, quando si trattava di me. Indossava una semplice camicia da notte di cotone bianca, che era stata mia, e aveva i capelli legati dietro; la coda del colore del grano le ricadeva su una spalla. Era a piedi nudi. «Dove sono le tue pantofole?» chiesi. Aveva un'aria afflitta. Con quell'espressione, e con la camicia da notte bianca e i piedi nudi, sembrava una penitente - l'eretica di un vecchio dipinto mentre si recava al patibolo. Teneva le mani giunte davanti a sé, con le dita che delimitavano una O di spazio lasciato aperto, come se stesse reggendo una candela accesa. «Le ho dimenticate». Quando era vestita sembrava più adulta, perché era alta, ma adesso sembrava più giovane; dimostrava circa dodici anni, e odorava come una bambina. Era lo shampoo che usava - quello per bambini, perché era più economico. Aveva il pallino delle piccole, inutili economie. Si guardò intorno nel bagno, poi abbassò lo sguardo sul pavimento di piastrelle. «Non voglio che ti sposi» disse. «Lo hai fatto capire abbastanza chiaramente». Era stata tetra durante tutti i preparativi - i ricevimenti, le prove dei vestiti, quelle della cerimonia -, a malapena educata con Richard, assolutamente obbediente con Winifred, come una giovane domestica in prova. Nei miei confronti inquieta, come se il matrimonio fosse un capriccio malizioso nel migliore dei casi, nel peggiore un rifiuto nei suoi confronti. All'inizio avevo pensato che potesse essere invidiosa di me, ma non era esattamente così. «Perché non dovrei sposarmi?» «Sei troppo giovane» rispose. «La mamma aveva diciotto anni. E comunque ne ho quasi diciannove». «Ma lei lo amava. Voleva farlo». «Come sai che io non lo voglio?» chiesi, esasperata. Questo la bloccò per un momento. «Non puoi volerlo» disse, alzando lo sguardo su di me. Aveva gli occhi umidi e rossi: aveva pianto. Questo mi irritò: che diritto aveva di piangere? Se mai, avrei dovuto farlo io. «Quello che voglio io non conta» dissi in tono aspro. «È l'unica cosa sensata da fare. Non abbiamo un soldo, o non te ne sei accorta? Ti piacerebbe se venissimo gettate in mezzo a una strada?» «Potremmo trovare un lavoro» disse. La mia acqua di colonia era sul davanzale accanto a lei; se ne spruzzò un po', distrattamente. Era Liù di Guerlain, un regalo di Richard. (Scelto da Winifred, come questa mi aveva fatto sapere. Gli uomini si confondono talmente ai banchi dei profumi, non è vero? Il profumo dà loro direttamente alla testa).
«Non fare la stupida» replicai. «Cosa potremmo fare? Mandiamo a monte tutto e finiremo in disgrazia». «Oh, potremmo fare un'infinità di cose» disse in tono vago, rimettendo giù l'acqua di colonia. «Potremmo fare le cameriere». «Non potremmo mantenerci a quel modo. Le cameriere non guadagnano quasi niente. Devono umiliarsi a racimolare mance. Hanno tutte i piedi piatti. E poi, tu non hai la minima idea dei prezzi» dissi. Era come cercare di spiegare l'aritmetica a un uccello. «Le fabbriche sono chiuse, Avilion sta cadendo a pezzi, stanno per venderla; le banche sono infuriate. Non hai guardato papà? Non l'hai visto? Sembra un vecchio». «Allora è per lui» disse. «Quello che stai per fare. Credo che questo spieghi qualcosa. Credo che sia coraggioso». «Sto facendo quanto credo giusto». Mi sentivo così virtuosa, e al tempo stesso talmente sacrificata, che mi misi quasi a piangere. Ma se avessi ceduto sarebbe stata finita. «Non è giusto» disse. «Non è per niente giusto. Potresti mandare tutto all'aria, sei ancora in tempo. Potresti scappare stanotte e lasciare un biglietto. Io verrei con te». «Smettila di tormentarmi, Laura. Sono abbastanza grande per sapere cosa sto facendo». «Ma dovrai permettergli di toccarti, sai. Non è come baciarsi. Dovrai permettergli...» «Non preoccuparti per me» dissi. «Lasciami in pace. Ho gli occhi bene aperti». «Come una sonnambula» ribatté. Prese uno dei miei recipienti di cipria, l'aprì, l'annusò e riuscì a versarne una manciata sul pavimento. «Be', almeno avrai dei bei vestiti». Avrei voluto darle uno schiaffo. Quella, naturalmente, era la mia consolazione segreta. Dopo che se ne fu andata, lasciando una traccia di polverose impronte bianche, mi sedetti sul bordo del letto, a osservare il mio baule da nave. Era molto alla moda, giallo chiaro fuori e blu scuro all'interno, con le rifiniture in acciaio, le teste dei chiodi che scintillavano come dure stelle metalliche. Era riempito in maniera ordinata, con tutto quello che mi serviva per la luna di miele, ma mi sembrava pieno di oscurità - di vuoto, di spazio vuoto. Quello è il mio corredo, pensai. All'improvviso sembrava una parola mi-
nacciosa - così estranea, così definitiva. Uno spazzolino, pensai. Ne avrò bisogno. Il mio corpo rimaneva là seduto, inerte. Il tango Ecco la foto del matrimonio: Una giovane donna con un vestito di raso bianco tagliato sbieco, la stoffa morbida, con uno strascico aperto a ventaglio attorno ai piedi, come melassa versata. Ha qualcosa della spilungona nell'atteggiamento, nella posizione dei fianchi, nei piedi, come se la sua spina dorsale non fosse fatta per quel vestito - troppo dritta. Ci sarebbe bisogno di un'alzata di spalle per un vestito così, di un'andatura stanca, di una curva sinuosa, di una sorta di gobba da tubercolosa. C'è un velo che cade giù dritto ai due lati della testa e si abbassa sulla fronte, gettando un'ombra troppo scura sugli occhi. Il sorriso non mette in mostra denti. Una corona di piccole rose bianche; una cascata di rose più grandi, rosa e bianche, mescolate a gelsomini, tra le sue braccia coperte da guanti bianchi - braccia con i gomiti un po' troppo in fuori. Corona, cascata - erano questi i termini usati dai giornali. Un'evocazione di suore e di acque fresche e pericolose. «Una bella sposa» recitava la didascalia. A quei tempi si dicevano certe cose. Nel suo caso la bellezza era d'obbligo, con tutto quel denaro in gioco. (Ho detto «nel suo caso», perché non ricordo di essere stata presente, in nessuna accezione significativa del termine. Io e la ragazza della foto abbiamo smesso di essere la stessa persona. Io sono una sua conseguenza, il risultato della vita in cui un tempo lei si tuffava a capofitto; mentre lei, se mai si può dire che esiste, è formata soltanto da ciò che ricordo. Sono io che ho la visuale migliore - posso scorgerla chiaramente, quasi sempre. Anche se fasse abbastanza in gamba da guardare, invece, lei non potrebbe vedermi affatto). Richard è accanto a me, ammirevole secondo i parametri del tempo e del luogo, intendendo con ciò piuttosto giovane, non brutto e ricco. Ha un aspetto imponente, ma al tempo stesso curioso: un sopracciglio alzato, il labbro inferiore sporto un po' in fuori, la bocca sul punto di sorridere, come per un divertimento segreto, equivoco. Un garofano all'occhiello, i capelli pettinati all'indietro come una lucida cuffia di gomma, incollati alla testa con la sostanza appiccicosa che si usava metterci a quei tempi. Ma
ciò nonostante un uomo attraente. Devo ammetterlo. Affascinante. Un uomo di mondo. Ci sono anche alcuni ritratti di gruppo in posa - in secondo piano una folla disordinata di amici dello sposo nei loro abiti da cerimonia, più o meno gli stessi per matrimoni e funerali, identici a quelli dei capo camerieri; in primo piano le damigelle d'onore della sposa, pure e splendenti, con i bouquet spumeggianti di fiori. Laura è riuscita a rovinare ognuna di queste foto. In una è decisamente truce, in un'altra deve aver mosso la testa, perciò il suo viso è una macchia indistinta, come un piccione che va a sbattere contro un vetro. In una terza si sta mordicchiando un dito, lanciando occhiate di traverso con aria colpevole, come se fosse stata sorpresa con le mani nel sacco. In una quarta deve esserci stato un difetto nella pellicola, perché c'è un effetto di luce chiazzata che non cade su di lei ma più in alto, come se stesse sul bordo di una piscina illuminata, di notte. Dopo la cerimonia comparve Reenie, vestita decorosamente in blu e tutta in ghingheri. Mi abbracciò stretta e disse: «Se solo tua madre fosse qui». Cosa voleva dire? Fosse lì ad approvare o a interrompere la cerimonia? Dal tono della sua voce avrebbe potuto essere sia una cosa che l'altra. In quell'occasione pianse, io no. Ai matrimoni la gente piange per la stessa ragione per cui piange davanti ai lieto fine: perché vuole disperatamente credere in qualcosa che sa che non è verosimile. Ma io avevo superato un simile atteggiamento infantile; respiravo l'aria alta e fredda della disillusione, o almeno così pensavo. Ci fu lo champagne, naturalmente. Doveva esserci: Winifred non lo avrebbe mai dimenticato. Gli altri mangiavano. Vennero fatti discorsi di cui non ricordo nulla. Ballammo? Credo di sì. Non ne ero capace, ma mi ritrovai sulla pista da ballo, perciò devo pure aver caracollato qua e là. Poi indossai la mia tenuta da viaggio. Era un abito a due pezzi in una leggera lana primaverile di un verde pallido, con un sobrio cappello assortito. Costava un occhio, disse Winifred. Al momento della partenza mi misi in bilico sui gradini (quali gradini? I gradini devono essere svaniti dalla mia memoria), e gettai il mio bouquet verso Laura. Non lo prese. Se ne stava là nel suo abito rosa conchiglia, guardandomi freddamente, le mani strette davanti a sé come per trattenersi, e una delle damigelle d'onore - una o l'altra delle cugine Griffen - lo afferrò e se lo portò via avidamente, quasi fosse cibo. A quel punto mio padre era scomparso. Meno male, perché l'ultima volta che era stato visto era rigido per quanto aveva bevuto. Suppongo che fosse
andato a terminare l'opera. Ppi Richard mi prese per il gomito e mi guidò verso la macchina pronta per la fuga. Nessuno doveva conoscere la nostra destinazione, che si presumeva in qualche luogo fuori città - in una romantica locanda appartata. In realtà la macchina fece il giro dell'edificio fino all'entrata laterale del Royal York Hotel, dove avevamo appena dato il ricevimento nuziale, e fummo portati su di nascosto in ascensore. Richard disse che dal momento che avremmo preso il treno per New York la mattina dopo, e che l'Union Station era esattamente dall'altra parte della strada, che senso aveva andare troppo lontano? Sulla mia notte di nozze, o piuttosto sul mio pomeriggio di nozze - il sole non era ancora tramontato e la stanza era inondata, come suol dirsi, di uno splendore rosato, perché Richard non tirò le tende - dirò molto poco. Non sapevo cosa aspettarmi; la mia unica fonte di informazioni era stata Reenie, che mi aveva lasciato credere che qualunque cosa fosse successa sarebbe stata spiacevole e molto probabilmente dolorosa, e in questo non fui ingannata. Aveva anche insinuato che questo fatto o sensazione spiacevole non sarebbe stato assolutamente nulla di speciale - ci passavano tutte le donne, o almeno tutte quelle che si sposavano - perciò non avrei dovuto protestare. Fai buon viso a cattivo gioco, erano state le sue parole. Aveva detto che ci sarebbe stato del sangue, e ci fu. (Ma non aveva detto perché. Quella parte fu una totale sorpresa). Non sapevo ancora che la mia mancanza di piacere - il mio disgusto, perfino la mia sofferenza - sarebbe stata considerata normale e perfino auspicabile da mio marito. Era uno di quegli uomini per i quali se una donna non provava piacere sessuale tanto meglio, perché non sarebbe stata incline ad andare a cercarlo altrove. Forse questi atteggiamenti erano comuni, a quei tempi. O forse no. Non avevo modo di saperlo. Richard aveva combinato di farsi mandare su una bottiglia di champagne, in quello che aveva previsto sarebbe stato il momento giusto. Anche la cena. Io zoppicai fino al bagno e mi chiusi a chiave, mentre il cameriere disponeva tutto su un tavolo portatile con una tovaglia di lino bianca. Io indossavo la tenuta che Winifred aveva ritenuto adeguata per l'occasione, una camicia da notte di raso di una sfumatura rosa salmone, con un delicato bordo di pizzo color grigio ragnatela. Cercai di pulirmi con un asciugamano, poi mi chiesi cosa avrei dovuto farne: il rosso era così visibile, sembrava che mi fosse uscito il sangue dal naso. Alla fine lo misi nel cestino
della carta straccia e sperai che la cameriera dell'albergo pensasse che fosse caduto lì per sbaglio. Poi mi spruzzai di Liù, un profumo che trovavo delicato e tenue. Era stato chiamato così - avevo scoperto nel frattempo - dal nome della fanciulla di un'opera - una giovane schiava il cui destino era quello di uccidersi piuttosto che tradire l'uomo che amava, che a sua volta amava qualcun'altra. È così che andavano le cose, nelle opere. Non consideravo quel profumo di buon augurio, ma ero preoccupata di avere uno strano odore. In effetti ce l'avevo. Quella stranezza era venuta da Richard, ma ora era mia. Sperai di non aver fatto troppo rumore. Involontari respiri affannosi, brusche inspirazioni, come quando ci si tuffa nell'acqua fredda. Per cena ci fu bistecca con contorno di insalata. Mangiai quasi solo insalata. A quel tempo negli alberghi la lattuga era sempre la stessa. Sapeva di acqua verde chiaro. Sapeva di gelo. Il viaggio in treno fino a New York il giorno seguente fu tranquillo. Richard lesse i giornali, io le riviste. Il genere di discorsi che facemmo non era diverso da quelli che facevamo prima di sposarci. (Esito a chiamarli discorsi, perché io non parlavo molto. Sorridevo e assentivo, e non ascoltavo). A New York cenammo in un ristorante con alcuni amici di Richard, una coppia di cui ho dimenticato i nomi. Erano nuovi ricchi, senza alcun dubbio: talmente nuovi che saltava agli occhi. Quanto agli abiti, sembrava che si fossero coperti di colla, quindi si fossero rotolati nelle banconote da cento dollari. Mi chiesi come l'avessero fatto, quel denaro; aveva un'aria poco pulita. Quella gente non conosceva troppo bene Richard, né desiderava farlo: gli dovevano qualcosa, tutto qui - per qualche favore non detto. Avevano paura di lui, erano leggermente deferenti nei suoi confronti. Lo dedussi dal gioco degli accendini: chi accendeva che cosa a chi, e quanto in fretta. Richard era felice della loro deferenza. Era felice che gli accendessero le sigarette, e che di conseguenza le accendessero anche a me. Mi venne in mente che Richard fosse voluto uscire con loro non solo perché desiderava circondarsi di una piccola cricca di lacché, ma perché non desiderava stare solo con me. Potevo biasimarlo a stento: avevo poco da dire. Ciò nonostante ora - in compagnia - nei miei confronti era premuroso, mi metteva con tenerezza il cappotto sulle spalle, mi rivolgeva piccole, amorevoli attenzioni, teneva sempre una mano su di me, delicatamente, da qualche parte. Ogni tanto studiava l'ambiente, controllando quali tra gli
altri uomini lo invidiassero. (Questo lo dico col senno di poi, naturalmente: allora non mi rendevo conto di nulla). Il ristorante era molto caro, e anche molto moderno. Non avevo mai visto nulla del genere. Le cose scintillavano più che brillare; c'era legno sbiancato e rifiniture in ottone e vetro sgargiante dappertutto, e una gran quantità di laminato. Sculture di donne stilizzate in ottone o acciaio, lisce come caramelle, con sopracciglia ma senza occhi, con fianchi affusolati ma senza piedi, con braccia che si fondevano con i busti; sfere di marmo bianco; specchi rotondi come oblò. Su ogni tavolo, una sola calla in un sottile vaso di acciaio. Gli amici di Richard erano perfino più grandi di lui, e la donna sembrava più vecchia dell'uomo. Indossava un visone bianco, nonostante il tempo primaverile. Anche il vestito era bianco, un disegno ispirato - ci disse a un certo punto - all'antica Grecia, alla Vittoria alata di Samotracia, per la precisione. Le pieghe dell'abito partivano da sotto il petto, dove correva un cordoncino dorato che poi si incrociava tra i seni. Pensai che se avessi avuto un seno così flaccido e cadente non mi sarei mai messa un simile vestito. La pelle che si vedeva al di sopra della scollatura era grinzosa e coperta di lentiggini, come pure le braccia. Mentre lei parlava il marito sedeva in silenzio, con le mani serrate e il suo sorrisetto immutabile; teneva saggiamente lo sguardo abbassato sulla tovaglia. Così questo è il matrimonio, pensai: questo tedio condiviso, questo nervosismo, e quei piccoli solchi polverosi che si formano ai lati del naso. «Richard non ci aveva avvertito che lei era così giovane» disse la donna. Il marito disse: «Le passerà» e sua moglie rise. Considerai la parola avvertire: ero tanto pericolosa? Solo nel modo in cui lo sono le pecore, ora suppongo. Così ottuse da mettere a repentaglio la propria vita, da finire sui precipizi o intrappolate dai lupi, cosicché qualche guardiano deve rischiare il collo per toglierle dai guai. Presto - dopo due giorni a New York, o furono tre? - ci imbarcammo per l'Europa a bordo del Berengeria, che a sentire Richard era la nave che prendevano tutte le persone che erano qualcuno. Il mare non era mosso per quel periodo dell'anno, ma ciò nonostante vomitai e stetti male come un cane. (Perché si citano sempre i cani, in questi casi? Perché sembra che non possano farci niente. Neanch'io potevo). Mi portarono una bacinella e del tè freddo leggero con zucchero ma senza latte. Richard disse che dovevo bere champagne perché era la cura mi-
gliore, ma non volli rischiare. Era più o meno premuroso, ma anche più o meno annoiato, sebbene dicesse che era un peccato che mi sentissi male. Dissi che non volevo rovinargli la serata e che sarebbe dovuto uscire e vedere gente, e così fece. Il vantaggio del mio malessere era che Richard non mostrò alcuna voglia di mettersi a letto con me. Il sesso può andare a meraviglia con molte cose, ma il vomito non è una di queste. La mattina seguente Richard disse che avrei dovuto fare lo sforzo di presentarmi a colazione, perché saper reagire voleva dire essere già a metà dell'opera. Sedetti al nostro tavolo, mangiucchiai del pane e bevvi dell'acqua, cercando di ignorare gli odori della cucina. Mi sentivo incorporea e flaccida e con la pelle grinzosa, come un pallone sgonfio. Richard si curava di me a intermittenza: conosceva gente, o così sembrava, e la gente conosceva lui. Si alzava, stringeva mani, tornava a sedersi. A volte mi presentava, a volte no. Ma non conosceva tutti quelli che avrebbe voluto. Era chiaro dal modo in cui continuava a guardarsi intorno, oltre me, oltre quelli con cui stava parlando - al di sopra delle loro teste. Durante il giorno mi ripresi gradualmente. Bevvi ginger ale, che mi giovò. Non mangiai la cena, ma vi partecipai. Di sera ci fu uno spettacolo di cabaret. Indossai il vestito che Winifred aveva scelto per una simile occasione, grigio tortora con una mantellina di chiffon lilla, e sandali assortiti, lilla, con i tacchi alti e aperti in punta. Non mi ero veramente impratichita a camminare su tacchi così alti: vacillavo leggermente. Richard disse che l'aria di mare doveva farmi bene; disse che avevo la giusta quantità di colore, un leggero rossore da scolara. Disse che ero meravigliosa. Mi guidò al tavolo che aveva riservato, e ordinò un martini per me e uno per sé. Disse che il martini mi avrebbe rimesso al mondo in men che non si dica. Ne bevvi un po', dopo di che Richard sparì, e c'era una cantante ritta sotto un proiettore blu. Aveva i capelli neri che le ricadevano in un'onda su un occhio, e indossava un vestito nero a tubino ricoperto di grossi lustrini a scaglie, che aderiva strettamente al suo didietro sodo ma sporgente ed era tenuto su da quello che sembrava uno spago intrecciato. La fissavo affascinata. Non ero mai stata in un cabaret, e neanche in un night club. Faceva ondeggiare le spalle e cantava Stormy weather con una voce simile a un voluttuoso lamento. Le si vedeva quasi l'ombelico. La gente sedeva ai suoi tavoli e la guardava e ascoltava scambiandosi giudizi su di lei - libera di apprezzarla o meno, di esserne o meno sedotta, di approvare o disapprovare la sua esibizione, o il suo vestito, o il suo didietro. Lei però non era libera. Doveva andare fino in fondo - cantare,
muoversi. Mi chiesi quanto la pagassero per farlo, e se ne valesse la pena. Solo se si era poveri, decisi. Da allora mi è sempre sembrato che la frase sotto i riflettori indicasse una precisa forma di umiliazione. Il riflettore era qualcosa da cui bisognava chiaramente tenersi alla larga, se possibile. Dopo la cantante fu il turno di un uomo che suonò un piano bianco, in gran fretta, e quindi di una coppia, due ballerini professionisti: un numero di tango. Erano vestiti di nero, come la cantante. I loro capelli scintillavano come pelle verniciata sotto il riflettore, che adesso proiettava una luce di un verde acido. La donna aveva un ricciolo scuro incollato alla fronte e un grande fiore rosso dietro un orecchio. Il suo vestito, svasato da metà coscia, per il resto era aderente come una calza. La musica era irregolare, zoppicante - come un quadrupede che barcolli su tre zampe. Un toro azzoppato che giri in tondo a testa bassa. Quanto alla danza, era più una battaglia che una danza. Le facce dei ballerini erano fisse, impassibili; si lanciavano sguardi sfavillanti, aspettando l'occasione di mordersi. Sapevo che era un numero, vedevo che era eseguito sapientemente; malgrado ciò, sembravano entrambi feriti. Venne il terzo giorno. Nel primo pomeriggio andai a camminare sul ponte per prendere un po' d'aria fresca. Richard non venne con me: stava aspettando dei telegrammi importanti, disse. Ne aveva ricevuti già molti; apriva le buste con un tagliacarte d'argento, leggeva il contenuto, quindi li stracciava o li infilava nella sua valigetta, che teneva chiusa a chiave. Non avevo una particolare voglia di averlo con me sul ponte, ma ciò nonostante mi sentivo sola. Sola e perciò trascurata, trascurata e perciò fallita. Come se mi fosse stato fatto un bidone a un appuntamento, o fossi stata piantata; come se avessi il cuore spezzato. Un gruppo di inglesi in abiti di lino color crema mi fissava. Non era uno sguardo ostile; era dolce, remoto, leggermente curioso. Nessuno sa fissare come gli inglesi. Mi sentivo spiegazzata e sporca, e poco interessante. Il cielo era coperto; le nuvole erano di un grigio sporco, piene di protuberanze ciondoloni, come l'imbottitura di un materasso zuppo. Piovigginava. Non portavo il cappello, per paura che potesse volare via; avevo solo una sciarpa di seta annodata sotto il mento. Ero appoggiata al parapetto e guardavo su e giù, le onde color ardesia che rotolavano incessantemente, la scia della nave che scarabocchiava il suo breve messaggio senza senso. Come l'indizio di un incidente nascosto: la striscia di uno chiffon strappato. La fuliggine delle ciminiere si posava su di me; i capelli mi si sciolsero
e si incollarono alle guance in strisce bagnate. Dunque questo è l'oceano, pensai. Non sembrava profondo come avrebbe dovuto. Cercai di ricordare qualcosa che forse avevo letto al riguardo, una poesia o qualcos'altro, ma non ci riuscii. Frangiti, frangiti, frangiti. C'era qualcosa che cominciava a quel modo. C'erano dentro fredde pietre grigie. Oh, mare. Volevo gettare qualcosa fuori bordo. Mi pareva il caso. Alla fine gettai un penny di rame, ma non espressi alcun desiderio. VI L'assassino cieco: Il vestito pied-de-poule Gira la chiave. C'è una serratura a chiavistello, una piccola fortuna. Gli è andata bene questa volta, ha in prestito un intero appartamento. È di una donna sola, un'unica grande stanza con uno stretto bancone da cucina, però ha un bagno tutto suo, con una vasca dalle zampe ad artiglio e asciugamani rosa. Roba di lusso. Appartiene alla ragazza di un amico di un amico, fuori città per un funerale. Quattro interi giorni di sicurezza, o quanto meno l'illusione di essa. Le tende sono intonate al copriletto; sono di una pesante seta grezza color ciliegia, sopra tendine leggere. Tenendosi leggermente discosto dalla finestra, guarda fuori. La vista - ciò che scorge attraverso le foglie gialle è sugli Allan Gardens. Un paio di ubriachi o vagabondi giacciono privi di sensi sotto gli alberi, uno con la faccia sotto un giornale. Anche a lui è capitato di dormire così. I giornali inumiditi dal proprio respiro odorano di povertà, di sconfitta, di imbottitura ammuffita con sopra peli di cane. Sull'erba sono disseminati cartelli e cartacce spiegazzate, i resti della notte scorsa - una dimostrazione, i compagni hanno battuto sui loro dogmi e sulle orecchie degli ascoltatori, finché è durata. Ora due uomini sconsolati fanno pulizia, con bastoni dalla punta d'acciaio e borse di iuta. Almeno c'è lavoro per i poveracci. Lei attraverserà il parco in diagonale. Si fermerà, lancerà occhiate fin troppo esplicite per vedere se qualcuno sta guardando. Dopodiché, sarà lì. Sulla scrivania bianca e dorata - chiaramente di una donna - c'è una radio della grandezza e della forma di una mezza pagnotta. L'accende: un trio messicano, le voci come corda liquida, dure, morbide, intrecciate. Ecco dove dovrebbe andare, in Messico. Bere tequila. Lasciarsi andare, la-
sciarsi andare ancora di più. Lasciarsi trascinare via. Diventare un desperado. Mette la macchina da scrivere portatile sulla scrivania, la apre, alza il coperchio, ci infila un foglio. Sta finendo la carta carbone. Ha tempo per qualche pagina prima che lei arrivi, se arriverà. A volte viene bloccata, o intercettata. O almeno così sostiene. Gli piacerebbe sollevarla e metterla nella lussuosa vasca, coprirla di schiuma. Sguazzare là dentro con lei, maiali tra le bolle rosa. Forse lo farà. Ciò su cui sta lavorando è un'idea, o l'idea di un'idea. È su una razza di extraterrestri che mandano un'astronave a esplorare la Terra. Sono fatti di cristalli a un alto stadio di organizzazione, e cercano di entrare in contatto con le creature della Terra che ritengono simili a loro: occhiali, finestre, fermacarte veneziani, calici di vino, anelli di brillanti. Falliscono. Mandano un rapporto in patria: Questo pianeta contiene molti interessanti resti di una civiltà un tempo fiorente ma ora estinta, probabilmente di una categoria superiore. Non sappiamo quale catastrofe abbia causato l'estinzione di ogni vita intelligente. Attualmente il pianeta ospita soltanto una varietà di filigrana viscosa e verde e un gran numero di globuli di fango semiliquido dalle forme eccentriche, sbatacchiati qua e là dalle fluttuanti correnti del fluido leggero e trasparente che ricopre la superficie del pianeta. Gli acuti strilli e i sonori gemiti prodotti da questi globuli vanno ascritti a vibrazioni d'attrito, e non devono essere scambiati per linguaggio. Ma non è una storia. Non può essere una storia, a meno che gli alieni non invadano e non saccheggino e qualche donna non salti fuori della sua tuta. Ma un'invasione non si accorderebbe con la premessa. Se gli esseri di cristallo pensano che il pianeta non ha vita, perché dovrebbero prendersi la briga di sbarcarci? Per ragioni archeologiche, forse. Per raccogliere dei campioni. All'improvviso migliaia di finestre vengono risucchiate dai grattacieli di New York da un aspirapolvere extraterrestre. Migliaia di presidenti di banca vengono risucchiati anch'essi, e cadono morti gridando. Sarebbe bello. No. Non è ancora una storia. Ha bisogno di scrivere qualcosa che venda. Ritorna alle donne morte che sbavano sangue, con quelle non si sbaglia mai. Questa volta darà loro capelli viola, le metterà in azione sotto i velenosi raggi lilla delle dodici lune di Arn. La cosa migliore è immaginare l'illustrazione della copertina con cui probabilmente se ne verranno fuori i ragazzi, e partire da lì. È stanco di loro, di queste donne. È stanco delle loro zanne, della loro
flessuosità, dei loro seni simili a mezzi pompelmi, sodi ma maturi, della loro ingordigia. È stanco dei loro artigli rossi, dei loro occhi da vipere. È stanco di sfondare le loro teste. È stanco degli eroi che si chiamano Will o Burt o Ned, nomi di una sillaba; è stanco delle loro armi a raggio, dei loro aderenti abiti metallici. Dieci centesimi a brivido. Eppure, è un mezzo di sostentamento, sempre che riesca a mantenere il ritmo, e i mendicanti non possono permettersi quasi mai di scegliere. Sta di nuovo finendo i soldi. Spera che lei gli porti un assegno, da una delle caselle postali che lui tiene sotto falso nome. Glielo girerà e lei lo incasserà al suo posto; con il nome che ha, alla sua banca non avrà problemi. Spera che porti qualche francobollo. Spera che porti altre sigarette. Gliene sono rimaste solo tre. Cammina su e giù. Il pavimento scricchiola. È di legno duro, ma è macchiato dove è colata acqua dal radiatore. Quel palazzo di appartamenti è stato eretto prima della guerra, per uomini d'affari soli di buona reputazione. Allora le cose erano più promettenti. Riscaldamento a vapore, acqua calda a non finire, corridoi rivestiti di piastrelle - tutto all'ultimo grido. Ormai si può dire che ha visto tempi migliori. Qualche anno prima, quando era giovane, aveva conosciuto una ragazza che abitava là. Un'infermiera, se ben ricorda: preservativi nel cassetto del comodino. Aveva un fornello a due fuochi, qualche volta gli aveva preparato la colazione - uova al bacon, pancake con sciroppo d'acero, se l'era leccato dalle dita. C'era una testa di cervo imbalsamata e attaccata al muro, lasciata dai precedenti affittuari; lei asciugava le calze appendendole alle corna. Avevano trascorso i sabati pomeriggio, i martedì sera, ogni momento che lei aveva libero, a bere - scotch, gin, vodka, qualunque cosa. Le piaceva ubriacarsi subito. Non voleva andare al cinema, o fuori a ballare; sembrava che non volesse romanticherie, né alcuna loro parvenza, per fortuna. Tutto quello che voleva da lui era la prestanza fisica. Le piaceva stendere una coperta sul pavimento del bagno; le piaceva la durezza delle piastrelle sotto la schiena. Era un inferno per le sue ginocchia e i suoi gomiti, non che sul momento ci facesse caso, la sua attenzione era altrove. Lei mugolava come se fosse sotto i riflettori, muovendo la testa, rovesciando gli occhi. Una volta l'aveva presa in piedi, nella cabina armadio. Una sveltina in piedi, con l'odore delle palline di naftalina, tra i tessuti crespi degli abiti della domenica, i completi di lambswool. Lei aveva pianto di piacere. Dopo averlo mollato aveva sposato un avvocato. Un'unione astuta, un matri-
monio bianco; ne aveva letto sui giornali, divertito, senza rancore. Buon per lei, aveva pensato. A volte le puttane vincono. Giorni spensierati. Giorni senza nomi, pomeriggi stupidi, rapidi e terreni e presto finiti, e senza desideri prima o dopo, senza alcun bisogno di parole e nulla da pagare. Prima che rimanesse coinvolto nelle cose in cui era rimasto coinvolto. Controlla l'orologio e poi di nuovo la finestra, ed eccola che arriva, avanzando a lunghi passi in diagonale attraverso il parco. Oggi indossa un cappello a larghe tese e un tailleur pied-de-poule con una cintura ben stretta, una borsetta schiacciata sotto il braccio, la gonna a pieghe che oscilla di qua e di là, nella sua curiosa andatura ondeggiante, come se non si fosse mai abituata a camminare sulle sue gambe. Ma forse dipende dai tacchi alti. Si è spesso chiesto come facciano le donne a tenercisi in equilibrio. Ora si è fermata come per un segnale convenuto; si guarda intorno in quel suo modo stupefatto, come se si fosse appena svegliata da un sogno inquietante, e i due tizi che raccolgono le cartacce la squadrano. Ha perso qualcosa, signorina? Ma lei tira dritto, attraversa la strada, può vederne dei frammenti attraverso le foglie, ora probabilmente sta cercando il numero civico. Ora sta salendo i gradini d'ingresso. Il citofono suona. Lui spinge il bottone, schiaccia la sigaretta, spegne la lampada sulla scrivania, apre la porta. Ciao. Sono senza fiato. Non ho aspettato l'ascensore. Chiude la porta, ci si appoggia con la schiena. Non ti ha seguito nessuno. Ho controllato. Hai delle sigarette? E il tuo assegno, e una bottiglia di scotch della miglior qualità. L'ho rubato dal nostro bar ben fornito. Ti avevo detto che abbiamo un bar ben fornito? Sta cercando di essere disinvolta, perfino frivola. Non le riesce mai bene. È bloccata, aspetta di vedere cosa vuole lui. Non fa mai la prima mossa, non le piace fare passi falsi. Brava ragazza. Si muove verso di lei, l'abbraccia. Sono una brava ragazza? A volte mi sento come la donna di un gangster - che ti fa le commissioni. Non puoi essere la donna di un gangster, io non lo sono: non ho neppure un'arma. Guardi troppi film. Per niente, gli dice lei sul collo. Potrebbe tagliarsi i capelli. Soffici cardi selvatici. Gli slaccia i primi quattro bottoni, fa passare la mano sotto la
camicia. La sua carne è così densa, così compatta. A grana fine, bruciata. Ha visto portacenere intagliati in un legno così. L'assassino cieco: Il broccato rosso È stato bello, dice lei. Il bagno, è stato bello. Non ti avevo mai immaginato con degli asciugamani rosa. In confronto al solito, è piuttosto lussuoso. La tentazione si cela ovunque, dice lui. Le comodità attirano. Direi che si tratta di una sgualdrina dilettante, non credi? L'aveva avvolta in uno degli asciugamani rosa e portata a letto bagnata e scivolosa. Ora sono sotto il copriletto di seta grezza color ciliegia e le lenzuola di rasatello, bevono lo scotch che lei ha portato. È una buona miscela, fumosa e calda, va giù liscia come acqua. Lei si stira voluttuosamente, chiedendosi soltanto di sfuggita chi laverà le lenzuola. Non riesce mai a superare la sensazione della trasgressione in tutte quelle stanze - la sensazione di violare i confini privati di chiunque ci viva di solito. Le piacerebbe rovistare negli armadi, nei cassetti delle scrivanie non per prendere qualcosa, soltanto per guardare; per vedere come vive l'altra gente. La gente vera; gente più vera di lei. Le piacerebbe fare lo stesso con lui, se non fosse che non ha armadi, cassetti di scrivania, nulla che sia suo. Niente da trovare, niente che lo tradisca. Solo una valigia blu piena di segnacci, che tiene chiusa. Di solito è sotto il letto. Le sue tasche non forniscono indizi; qualche volta le ha frugate. (Non era spiare, voleva soltanto sapere dov'erano le sue cose, e che cos'erano, e com'erano). Fazzoletto, blu con orlo bianco; spiccioli; due mozziconi di sigaretta avvolti in carta oleata - doveva averli messi da parte. Un temperino, vecchio. Una volta c'erano anche due bottoni, di una camicia, aveva pensato. Non si era offerta di ricucirglieli, perché avrebbe capito che aveva curiosato. Le faceva piacere che lui la credesse fidata. Una patente, il nome non è il suo. Un certificato di nascita, idem. Nomi differenti. Le sarebbe piaciuto passarlo al setaccio. Frugarlo. Capovolgerlo. Svuotarlo. Lui canta piano, in una voce untuosa, come un cantante sdolcinato della radio: Una stanza fumosa, una luna diabolica e tu. Ti ho rubato un bacio e mi hai promesso amore eterno
Ti ho infilato le mani sotto la gonna, Mi hai morso un orecchio, abbiamo fatto un macello È l'alba, tu sei andata. E io sono triste. Lei ride. Dove l'hai sentita? È la mia canzone della sgualdrina. Si accorda con quanto ci circonda. Non è una vera sgualdrina. E neanche dilettante. Non credo che prenda soldi. La cosa più probabile è che si faccia ricompensare in qualche altro modo. Una barca di cioccolatini. Tu ti accontenteresti? Dovrebbero essere camion interi, dice lei. Io sono piuttosto cara. Il copriletto è di vera seta, mi piace il colore - è appariscente, ma molto bello. Fa un bell'effetto, come i copricandela rosa. Hai inventato qualcos'altro? Qualcos'altro di cosa? Della mia storia. La tua storia? Sì. Non è per me? Oh sì, fa lui. Naturalmente. Non penso ad altro. Mi tiene sveglio la notte. Bugiardo. Ti annoia? Nulla che ti faccia piacere potrebbe mai annoiarmi. Dio, come sei galante. Dovremmo avere più spesso asciugamani rosa. Molto presto bacerai la mia scarpina di cristallo. Ma a ogni modo continua. Dov'ero rimasto? La campana era suonata. La gola era stata tagliata. La porta si stava aprendo. Oh. E va bene. Lui dice: La ragazza di cui abbiamo parlato ha sentito aprire la porta. Indietreggia contro il muro, avvolgendosi strettamente nel broccato rosso del Letto di Una Notte. La stoffa ha un odore salmastro, come un acquitrino salato con la bassa marea: la paura prosciugata di quelle che l'hanno preceduta. È entrato qualcuno; si sente il rumore di un oggetto pesante trascinato sul pavimento. La porta si richiude; la stanza è nera come petrolio. Perché non c'è una lampada, una candela? Lei allunga le mani davanti a sé per proteggersi, e si ritrova la sinistra afferrata e tenuta da un'altra mano: tenuta gentilmente e senza coercizione. È come se le venisse rivolta una domanda. Non può parlare. Non può dire: Non posso parlare.
L'assassino cieco lascia cadere sul pavimento il suo velo da donna. Tenendo la mano della fanciulla, si siede sul letto accanto a lei. Intende ancora ucciderla, ma può farlo più tardi. Ha sentito parlare di queste fanciulle segregate, tenute lontane da tutti fino all'ultimo giorno della loro vita; è incuriosito. In ogni caso è una specie di dono, e tutto per lui. Rifiutare un simile dono sarebbe come sputare in faccia agli dei. Sa che dovrebbe muoversi in fretta, finire il lavoro, sparire, ma c'è ancora molto tempo per tutto ciò. Sente il profumo di cui l'hanno cosparsa; sa di feretri, quelli di giovani donne morte nubili. Dolcezza andata sprecata. Non rovinerà niente, niente che sia stato comprato e pagato: il falso Signore dell'Oltretomba probabilmente è già venuto e andato via. Avrà tenuto la sua cotta di maglia arrugginita? È più che probabile. È entrato dentro di lei con rumore metallico come una pesante chiave di ferro, si è rigirato nella sua carne, l'ha squarciata. Lui ricorda fin troppo bene la sensazione. Farà qualunque altra cosa, ma non quello. Si porta la mano di lei alla bocca e vi passa sopra le labbra, non esattamente un bacio ma un segno di rispetto e di omaggio. Misericordiosa e preziosissima, dice - la consueta formula con cui i mendicanti si rivolgono a una possibile benefattrice -, a condurmi in questo luogo è stata la fama della tua bellezza, sebbene il solo fatto di essere qui potrebbe costarmi la vita. Non posso vederti con gli occhi, perché sono cieco. Mi permetterai di vederti con le mani? Sarebbe un'ultima gentilezza, e forse lo sarebbe anche per te. Non è stato schiavo e venduto nei bordelli per niente: ha imparato come adulare, come mentire in modo credibile, come ingraziarsi il prossimo. Le mette le dita sul mento e aspetta finché, dopo un attimo di esitazione, lei annuisce. Può sentire cosa sta pensando: Domani sarò morta. Si chiede se indovini il vero motivo della sua venuta. Alcune delle cose migliori vengono fatte da coloro che non sanno a che santo votarsi, che non hanno tempo, che capiscono l'esatto significato della parola impotente. Questi fanno a meno di calcolare rischi e vantaggi, non pensano al futuro, sono costretti a prendere di petto il presente. Gettati in un precipizio, o si cade o si vola; ci si aggrappa a qualsiasi speranza, per quanto inverosimile; per quanto - se posso usare una parola fin troppo sfruttata - miracolosa. Ciò che intendiamo con questo è: Nonostante tutto. Così è quella notte. L'assassino cieco comincia a toccarla molto lentamente, con una sola mano, la destra - la mano fidata, la mano del coltello. Gliela passa sul viso,
giù lungo la gola; quindi aggiunge la mano sinistra, la mano infida, e le usa tutte e due insieme, con tenerezza, quasi forzando una serratura della massima fragilità, una serratura fatta di seta. È come essere accarezzata dall'acqua. Lei trema, ma non come prima, di paura. Dopo un po' lascia scivolare giù il broccato rosso, prende la mano di lui e la guida. Il tatto viene prima della vista, prima della parola. È il primo linguaggio e l'ultimo, e dice sempre la verità. Ecco come la ragazza che non poteva parlare e l'uomo che non poteva vedere si innamorarono. Mi sorprendi, dice lei. Veramente? fa lui. E perché? Però mi piace sorprenderti. Si accende una sigaretta, gliene offre una; lei fa segno di no con la testa. Lui fuma troppo. Sono i nervi, nonostante le sue mani ferme. Perché hai detto che si sono innamorati, dice lei. Ti sei preso gioco di questo concetto abbastanza spesso - come di una superstizione fuori della realtà, borghese, fondamentalmente marcia. Un sentimento malaticcio, l'altisonante giustificazione vittoriana per una sensualità rispettabile. Ti stai rammollendo? Non criticare me, critica la storia, dice lui, sorridendo. Certe cose succedono. Ci sono testimonianze di innamoramenti, o quanto meno di questa parola. Comunque, ho detto che stava mentendo. Non puoi svicolare in questo modo. Mentiva solo all'inizio. Poi hai cambiato le carte in tavola. E va bene. Ma dovrebbe esserci un modo più freddo di guardare la cosa. Quale cosa? L'affare dell'innamorarsi. Da quando in qua è un affare? dice lei irritata. Lui sorride. Questo concetto ti disturba? Troppo commerciale? La tua coscienza ne sarebbe scossa, è questo che stai dicendo? Ma c'è sempre uno scambio, no? No, dice lei. Non c'è. Non sempre. Si potrebbe dire che ha preso quanto ha potuto. Perché non avrebbe dovuto? Non aveva scrupoli, la sua esistenza era mors tua vita mea e lo era sempre stata. O si potrebbe dire che erano entrambi giovani, perciò non conoscevano nulla di meglio. I giovani di solito scambiano il desiderio per amore, sono infestati da ogni genere di idealismo. E non ho detto che poi non la uccise. Come ho fatto notare, era soltanto interessato.
Così hai avuto paura, dice lei. Abbandoni, sei un codardo. Non andrai fino in fondo. Stai all'amore come una che prima te la fa annusare e poi non te la dà sta allo scopare. Lui ride, una risata sorpresa. È la volgarità delle parole, è spiazzato, c'è finalmente riuscita? Modera il linguaggio, signorina. Perché dovrei? Tu non lo fai. Io sono un cattivo esempio. Diciamo che potrebbero abbandonarsi - abbandonarsi alle loro emozioni, se vuoi metterla così. Potrebbero rotolarsi nelle loro emozioni - vivere quell'attimo, sprizzare poesia da tutte le parti, bruciare la candela, vuotare il calice, ululare alla luna. Il loro tempo si stava esaudendo. Non avevano niente da perdere. Lui sì. O certamente lo pensava! E va bene. Lei non aveva niente da perdere. Soffia fuori una nuvola di fumo. Non come me, fa lei, suppongo sia questo che vuoi dire. Non come te, cara, dice lui. Come me. Io sono quello che non ha niente da perdere. Lei dice: Ma tu hai me. Io sono qualcosa. The Toronto Star, 20 agosto 1935 STUDENTESSA DELLA BUONA SOCIETÀ RITROVATA SANA E SALVA SPECIALE PER LO STAR Ieri la polizia ha interrotto le ricerche di Laura Chase, la studentessa quindicenne della buona società scomparsa più di una settimana fa e finalmente ritrovata al sicuro presso amici di famiglia, i signori E. Newton-Dobbs, nella loro residenza estiva di Musoka. Il noto industriale Richard E. Griffen, cognato della signorina Chase, ha parlato al telefono ai giornalisti a nome della famiglia. «Io e mia moglie siamo molto sollevati» ha detto. «È stato solo un equivoco, causato da una lettera consegnata in ritardo dalla posta. La signorina Chase aveva fatto dei programmi per le vacanze di cui credeva che fossimo al corrente, come pure i suoi ospiti, i quali non hanno l'abitudine di leggere i giornali quando sono in vacanza, altrimenti questo pasticcio non sarebbe mai accaduto.
Quando sono tornati in città e si sono resi conto della situazione, ci hanno telefonato immediatamente». Interrogato sulle voci secondo cui la signorina Chase sarebbe scappata di casa e quindi localizzata in strane circostanze al parco dei divertimenti di Sunnyside Beach, il signor Griffen ha dichiarato di non sapere chi sia il responsabile di queste malevole invenzioni, ma che si sarebbe fatto carico di scoprirlo. «È stato un normale equivoco, come può succedere a tutti» ha affermato. «Mia moglie e io siamo felici che sia sana e salva, e ringraziamo sinceramente la polizia, i giornali e il pubblico che ha seguito con preoccupazione la vicenda per il loro aiuto». La signorina Chase si è detta confusa dalla pubblicità, e rifiuta di rilasciare interviste. Sebbene non siano stati causati danni permanenti, queste non sono certo le prime serie difficoltà provocate dal mal funzionamento delle consegne postali. Il pubblico merita un servizio su cui poter contare ciecamente. I funzionari statali dovrebbero prenderne nota. L'assassino cieco: Per strada Lei cammina per strada, sperando di sembrare una donna qualificata a camminare da sola per strada. O almeno in quella strada. Ma non lo è. È vestita nel modo sbagliato, con il cappotto sbagliato. Dovrebbe portare un foulard in testa, annodato sotto il mento, un cappotto sformato e consumato alle maniche. Dovrebbe apparire scialba e trasandata. Qui le case sono guancia a guancia. Un tempo erano casette per la servitù, una fila dietro l'altra, ma ora ci sono meno servitori e i ricchi provvedono in altro modo. Mattoni fuligginosi, due orizzontali, due verticali, le latrine fuori, sul retro. Alcune hanno resti di orti nei minuscoli prati sul davanti - un filare di pomodori anneriti, un palo di legno con fili penduli. Gli orti non possono venir su bene - c'è troppa ombra, la terra è troppo piena di cenere. Ma perfino qui gli alberi autunnali sono stati generosi, le foglie rimaste sono gialle, arancioni e vermiglie, e di un rosso più intenso, come fegato fresco. Dall'interno delle case giungono grida, latrati, un acciottolio o una porta sbattuta. Voci femminili alzate in preda a una rabbia soffocata, grida insolenti di bambini. Nelle strette verande ci sono uomini su sedie di legno con le mani penzoloni dalle ginocchia, senza lavoro ma non ancora senza un
tetto, una casa. I loro occhi su di lei, i loro sguardi arcigni che ne fanno un amaro inventario: i polsi e il collo di pelliccia, la borsetta di lucertola. Forse sono pigionanti, ammucchiati nelle cantine e negli angoli più strani per arrotondare e riuscire a pagare l'affitto. Donne camminano svelte, le teste basse, le spalle incurvate, con involti di carta marrone. Sposate, probabilmente. Viene in mente la parola stufato. Devono avere rimediato qualche osso dal macellaio, staranno portando a casa i tagli più economici, da servire con cavoli flosci. Le sue spalle sono troppo all'indietro, il suo mento troppo in alto, non ha quell'aspetto abbacchiato: quando alzano la testa abbastanza da metterla a fuoco, le loro sono occhiate di disapprovazione. Devono pensare che sia una prostituta, ma con scarpe come quelle cosa ci fa quaggiù? Qui è molto al di sotto del suo livello. Ecco il bar, all'angolo che aveva detto lui. The Beer Parlour. Là fuori è riunito un gruppetto di uomini. Nessuno le dice niente quando passa loro accanto, si limitano a fissarla come da dietro un cespuglio, ma può sentire i bisbigli, l'odio e il desiderio che si mescolano nelle gole e la seguono come la scia di una nave. Forse l'hanno presa per una donna impegnata nell'attività della parrocchia o per qualche altra sussiegosa benefattrice. Che infila le sue dita pulite nelle loro vite, fa domande, offre avanzi di aiuto condiscendente. Ma è vestita troppo bene. Ha preso un taxi, è scesa tre isolati prima, dove c'era più traffico. Meglio non diventare una macchietta: chi prenderebbe un taxi da queste parti? Ma lei è comunque una macchietta. Quello che le serve è un cappotto diverso, preso a una vendita di beneficienza, appallottolato in una valigia. Potrebbe andare nel ristorante di un albergo, lasciare il suo cappotto al guardaroba, scivolare nella toilette delle signore, cambiarsi. Spettinarsi i capelli, sbavarsi il rossetto. Venire fuori come una donna differente. No. Non funzionerebbe mai. Tanto per cominciare c'è la valigia; dovrebbe uscirci di casa. Dove vai tanto di fretta? Perciò le tocca fare un numero di prestigio senza cilindro. Contando solo sulla sua faccia tosta. Ormai ha abbastanza pratica di calma, freddezza, impassibilità. Un'alzata di entrambe le sopracciglia, lo sguardo candido e trasparente di un agente segreto. Un viso di pura acqua. Non è questione di mentire, ma di evitare che diventi necessario farlo. Rendere tutte le domande sciocche in anticipo. Tuttavia un certo pericolo c'è. Anche per lui: più di prima, le ha detto. Pensa di essere stato individuato una volta, per strada: riconosciuto. Qual-
che gorilla della Squadra Rossa, forse. Aveva attraversato una birreria affollata, era uscito dalla porta sul retro. Non sa se crederci o no, a quel tipo di pericolo: uomini in vestito scuro con rigonfiamenti, colletti tirati su, macchine in cerca di preda. Venga con noi. La portiamo dentro. Stanze nude e luci accecanti. Sembra troppo teatrale, oppure come le cose che accadono soltanto nella nebbia, in bianco e nero. Solo in altri paesi, in altre lingue. O se qui, non a lei. Se fosse stata presa, lo avrebbe rinnegato prima ancora che il gallo cantasse per la prima volta. Lo sa, non ha dubbi, è tranquilla. Comunque l'avrebbero lasciata andare, perché il suo coinvolgimento sarebbe stato visto come un frivolo passatempo o come una birichinata ribelle, e qualsiasi scompiglio ne fosse derivato sarebbe stato nascosto. Avrebbe dovuto pagare di tasca sua per questo, ma con cosa? È già rovinata: non si può cavare sangue da una pietra. Si sarebbe isolata, avrebbe chiuso le imposte. Fuori per il pranzo, in permanenza. Ultimamente ha avuto l'impressione di essere osservata, anche se ogni volta che si guarda intorno non c'è mai nessuno. È stata più prudente; è stata il più prudente possibile. Ha paura? Sì. Quasi sempre. Ma la sua paura non conta. Anzi, conta. Accresce il piacere che prova con lui; anche il gusto di farla franca. Il vero pericolo viene da lei stessa. Cosa permetterà, quanto lontano è disposta ad andare. Ma il permettere e l'essere disposti non hanno niente a che vedere con tutto ciò. Allora dove verrà spinta; dove sarà condotta. Non ha esaminato i propri motivi. Potrebbero anche non esserci motivi veri e propri; il desiderio non è un motivo. Non le sembra di avere alcuna scelta. Un piacere così estremo è anche un'umiliazione. È come essere trascinati in giro da una corda infame, un guinzaglio attorno al collo. La offende, la sua mancanza di libertà, e così allunga il tempo che la separa dal piacere, razionandolo. Non si presenta agli appuntamenti, racconta frottole sul perché non ce l'ha fatta - sostiene di non aver visto i segni di gesso sul muro del parco, di non avere ricevuto il messaggio - il nuovo indirizzo dell'inesistente negozio di vestiti, la cartolina firmata da una vecchia amica che non ha mai avuto, la telefonata di qualcuno che ha chiamato il numero sbagliato. Ma alla fine, ritorna. Non serve a niente resistere. Va da lui per l'amnesia, per l'oblio. Gli si consegna, si annulla; entra nell'oscurità del proprio corpo, dimentica il proprio nome. Vuole immolarsi, anche se per poco. Esistere senza alcun limite.
Eppure, si ritrova a pensare a cose che all'inizio non le erano mai venute in mente. Come fa con il bucato? Una volta c'erano delle calze ad asciugare su un radiatore - lui aveva visto che lei le guardava e le aveva tolte di mezzo. Ripone le cose prima delle sue visite, o almeno le fa sparire. Dove mangia? Le ha detto che non gli piace farsi vedere troppo spesso nello stesso posto. Deve spostarsi, da un ristorantino, da una bettola all'altra. Sulla sua bocca queste parole hanno un fascino sordido. Certi giorni è più nervoso, è guardingo, non esce; ci sono torsoli di mela, in questa o quella stanza; ci sono briciole di pane sul pavimento. Dove prende le mele, il pane? È stranamente reticente su certi dettagli su cosa succede nella sua vita quando lei non c'è. Forse sente che potrebbe diminuirlo ai suoi occhi, sapere troppo. Troppi particolari squallidi. Forse ha ragione. (Tutti quei quadri di donne, nelle gallerie d'arte, sorprese in momenti intimi. Ninfa dormiente. Susanna e i vecchioni. Donna al bagno, con un piede in una tinozza di latta - Renoir o Degas? Tutti e due, e tutte e due donne paffute. Diana e le sue ancelle, un momento prima di cogliere gli occhi indiscreti del cacciatore. Non c'è mai un quadro intitolato Uomo che lava calze in un lavandino). L'avventura ha luogo a una certa distanza. L'avventura fa guardare dentro se stessi attraverso una finestra appannata di rugiada. L'avventura vuol dire lasciare le cose fuori: dove la vita grugnisce e tira su col naso, l'avventura si limita a sospirare. Lei vuole più di questo - non le basta quello che ha di lui? Vuole tutto il quadro? Il pericolo potrebbe essere rappresentato dal guardare troppo da vicino e dal vedere troppo - dal farlo rimpicciolire, e lei con lui. Poi svegliarsi vuota, trovare che tutto si è esaurito - finito. Non le rimarrebbe nulla. Sarebbe orbata di tutto. Una parola antiquata. Non le è venuto incontro, questa volta. Ha detto che era meglio di no. Ha lasciato che trovasse la strada da sola. Infilato nel palmo del guanto ha un quadratino di carta ripiegata con indicazioni criptiche, ma non ha bisogno di guardarlo. Può sentirne il leggero calore contro la pelle, come un misuratore di radio al buio. Lo immagina mentre la immagina - la immagina che cammina lungo la strada, più vicina adesso, sta per arrivare. È impaziente, nervoso, può aspettare a stento? È come lei? Gli piace ostentare indifferenza - come se
non gli importasse se lei arrivi o meno -, ma è solo una scena, una delle tante. Per esempio, non fuma più sigarette bell'e pronte, non se le può permettere. Se le fa da solo, con uno di quegli osceni aggeggi di gomma rosa che ne sfornano tre alla volta; le taglia con una lametta, quindi le infila in un pacchetto di Craven A. Uno dei suoi piccoli inganni, o vanità; il bisogno che ne ha le fa trattenere il respiro. A volte gli porta delle sigarette, a manciate - generosità, opulenza. Le ruba dalla scatola d'argento sul tavolino di vetro, ne riempie la borsa. Ma non lo fa ogni volta. Meglio tenerlo sulle spine, meglio tenerlo affamato. Lui sta steso supino, sazio, fumando. Se lei vuole delle dichiarazioni, deve procurarsele prima - assicurarsele prima, come una puttana con il suo denaro. Ma possono essere misere. Mi sei mancata, potrebbe dire. O: Non mi basti mai. A occhi chiusi, digrignando i denti per trattenersi; lo sente contro il proprio collo. Dopo, le cose deve strappargliele di bocca. Di' qualcosa. Cosa? Quello che vuoi. Dimmi cos'è che vuoi sentire. Se lo faccio e poi tu lo dici, non ti crederò. Allora leggi tra le righe. Ma non c'è nessuna riga. Non me ne dai nessuna. Allora lui potrebbe cantare: Caccialo dentro tutto, caccialo tutto fuori E poi come il fumo che va su per una ciminiera... Che ne dici di questa come riga? dirà. Sei proprio un bastardo. Non ho mai sostenuto il contrario. Non c'è da stupirsi che facciano ricorso alle storie. Giunta al calzolaio gira a sinistra, poi costeggia un isolato, poi due case. Poi il piccolo palazzo di appartamenti: l'Excelsior. Deve chiamarsi così dalla poesia di Henry Wadsworth Longfellow. Uno stendardo con uno strano emblema, un cavaliere che sacrifica tutte le cure terrene per scalare le altezze. Le altezze di cosa? Del pietismo borghese da salotto. L'Excelsior è un edificio in mattoni rossi a tre piani, con quattro finestre
a piano e balconi di ferro battuto - più sporgenze che balconi, non c'è spazio per una sedia. Un tempo una spanna al di sopra del resto del quartiere, ora un luogo dove la gente lotta per non essere cacciata via. Su un balcone qualcuno ha improvvisato una corda da bucato; uno strofinaccio che sta diventando grigio vi è appeso come la bandiera di un reggimento sconfitto. Lei cammina davanti all'edificio, poi all'angolo seguente attraversa. A questo punto si ferma e abbassa lo sguardo, come se qualcosa le si fosse impigliato nella scarpa. Guarda giù, poi alle sue spalle. Non c'è nessuno che cammini dietro di lei, nessuna macchina che proceda lentamente. Una donna robusta che sale faticosamente dei gradini d'ingresso, una borsa a rete in ciascuna mano, come zavorra; due ragazzi con i vestiti rattoppati che inseguono un cane sporco lungo il marciapiede. Neanche un uomo, a parte tre vecchi avvoltoi da veranda piegati su un giornale che si dividono. Quindi si gira e ritorna sui suoi passi, e quando arriva all'Excelsior si infila rapida nel vicolo adiacente e si affretta, sforzandosi di non correre. L'asfalto è irregolare, i suoi tacchi troppo alti. Questo è il luogo sbagliato per storcersi una caviglia. Si sente più esposta adesso, al centro dell'attenzione, sebbene non vi siano finestre. Il cuore le batte forte, le gambe sono molli, di seta. Il panico si è impossessato di lei, perché? Lui non ci sarà, dice una voce sommessa nella sua testa; una sommessa voce angosciata, una triste voce che ricorda il tubare di una tortora lamentosa. È andato via. È stato portato via. Non lo rivedrai mai più. Mai. Si mette quasi a piangere. Sciocca, a spaventarsi a quel modo. Ma in questo c'è comunque una parte di vero. Potrebbe sparire più facilmente di lei: lei ha un indirizzo fisso, lui saprebbe sempre dove trovarla. Si ferma, alza il polso, aspira l'odore rassicurante della pelliccia profumata. C'è una porta metallica verso il retro, una porta di servizio. Bussa leggermente. L'assassino cieco: Il custode La porta si apre, lui c'è. Non ha tempo di provare riconoscenza prima che la tiri dentro. Sono su un pianerottolo; scale di servizio. Niente luce tranne quella che penetra da una finestra, da qualche parte in alto. La bacia, con le mani su ciascun lato del suo viso. La carta vetrata del collo di lui. Sta tremando, ma non di eccitazione, o non solo. Lei si allontana. Sembri un bandito. Non ha mai visto un bandito; pensa
a quelli delle opere. I contrabbandieri, in Carmen. Quando si va giù pesante con i tappi di sughero bruciati. Scusa, dice lui. Ho dovuto levare le tende in fretta. Poteva essere un falso allarme, ma sono stato costretto a rinunciare a un paio di cose. Come un rasoio? Tra l'altro. Vieni - è quaggiù. Le scale sono strette: legno non dipinto, assi di cinque centimetri per dieci come ringhiera. In fondo, un pavimento di cemento. L'odore della polvere di carbone, un penetrante odore di sotterraneo, come le pietre umide di una cantina. È qui dentro. La stanza del custode. Ma tu non sei il custode, dice lei, con una breve risata. O no? Ora lo sono. O almeno è quanto pensa il padrone. È passato un paio di volte, la mattina presto, ad assicurarsi che avessi alimentato la caldaia, ma senza esagerare. Non vuole affittuari troppo caldi, costano troppo; tiepidi è sufficiente. Non è granché come letto. È un letto, dice lei. Chiudi la porta a chiave. Non si chiude, fa lui. C'è una piccola finestra con delle sbarre; i resti di una tenda. Attraverso di essa penetra una luce color ruggine. Hanno appoggiato una sedia contro il pomello della porta, una sedia con molte traverse mancanti, quasi ridotta a pezzi. Non è una gran barriera. Sono sotto l'unica coperta ammuffita, con i loro cappotti ammucchiati sopra. Al lenzuolo meglio non pensare. Lei può sentire le sue costole, seguire con la mano gli spazi tra l'una e l'altra. Cosa mangi? Non mi seccare. Sei troppo magro. Potrei portare qualcosa, del cibo. Ma tu non sei molto affidabile, vero? Potrei morire di fame nell'attesa che ti faccia viva. Non preoccuparti, sarò fuori di qui abbastanza presto. Da dove? Vuoi dire da questa stanza, o dalla città, o... Non lo so. Non tormentarmi. Sono interessata, ecco tutto. Mi riguarda, voglio... Falla finita. E va bene, dice lei, sarà meglio tornare a Zycron. A meno che non vuoi che me ne vada. No. Rimani ancora un po'. Scusa, ma sono stato sotto pressione. Dov'eravamo? Ho dimenticato.
Lui stava decidendo se tagliarle la gola o amarla per sempre. Giusto. Già. Le solite scelte. Sta decidendo se tagliarle la gola o amarla per sempre, quando - con l'udito sensibile accordatogli dalla cecità - percepisce un rumore metallico, qualcosa che stride, raschia. Gli anelli di una catena che si sfregano, dei ceppi in movimento. Si avvicina lungo il corridoio. Lui sa già che il Signore dell'Oltretomba non ha ancora fatto la visita per cui ha già pagato: lo ha capito dallo stato in cui era la ragazza. Intatto, si potrebbe dire. Che fare adesso? Potrebbe scivolare dietro la porta o sotto il letto, abbandonarla al suo destino, quindi riapparire e finire il lavoro per cui è stato pagato. Ma in quella situazione è restio ad agire a quel modo. Allora potrebbe aspettare finché le cose sono a buon punto e il cortigiano è sordo al mondo esterno, e scivolare fuori della porta; ma poi, l'onore degli assassini come gruppo - come corporazione, se vuoi - sarebbe macchiato. Prende la fanciulla per il braccio e, mettendole la sua stessa mano sulla bocca, le segnala la necessità di fare silenzio. Poi la conduce lontano dal letto e la nasconde dietro la porta. Controlla che questa non sia chiusa a chiave, com'era stabilito. L'uomo non si aspetta una sentinella: nel suo patto con la Somma Sacerdotessa ha specificato di non volere testimoni. La sentinella del tempio doveva tagliare la corda non appena l'avesse sentito arrivare. L'assassino cieco tira fuori la sentinella morta da sotto il letto e la sistema sul copriletto, nascondendole lo squarcio alla gola con la sua sciarpa. Non è ancora fredda, e ha smesso di sanguinare. Saranno guai se l'amico ha una candela accesa; altrimenti, di notte tutti i gatti sono grigi. Le vergini del tempio sono ammaestrate a mostrarsi inerti. All'uomo potrebbe occorrere qualche tempo - impedito com'è dal suo pesante costume da dio, che tradizionalmente comprende un elmo e una visiera - per scoprire che sta scopando la donna sbagliata, e per di più morta. L'assassino cieco tira le tende del letto di broccato, chiudendole quasi completamente. Poi raggiunge la fanciulla, e tutte e due si schiacciano quanto più possibile contro la parete. La pesante porta si apre con un cigolio. La fanciulla vede un bagliore avanzare sul pavimento. Il Signore dell'Oltretomba non ci vede molto bene, evidentemente; va a sbattere contro qualcosa, impreca. Ora sta armeggiando con i tendaggi del letto. Dove sei, bellezza? sta dicendo. Non si stupirà certo non sentendola rispondere, scoprendola muta, proprio come
dev'essere. L'assassino cieco esce lentamente da dietro la porta, e la fanciulla con lui. Come togliermi questa dannata roba di dosso? borbotta tra sé e sé il Signore dell'Oltretomba. Loro due scivolano oltre la porta, poi nel corridoio, mano nella mano, come bambini che scappino dagli adulti. Alle loro spalle risuona un urlo, di rabbia od orrore. Una mano sul muro, l'assassino cieco comincia a correre. Passando tira fuori le torce dai loro sostegni, le scaglia dietro di sé, sperando che si spengano. Conosce il Tempio come le sue tasche, al tatto e all'odorato; è il suo lavoro conoscere certe cose. Allo stesso modo conosce la città, può corrervi come un topo in un labirinto: ne conosce i passaggi, i tunnel, i rifugi e i vicoli ciechi, gli architravi, i canali di scolo e le grondaie - perfino le parole d'ordine, il più delle volte. Sa quali muri può scalare, dove si trova ogni appiglio. Ora spinge un pannello di marmo - c'è sopra un bassorilievo del Dio Infranto, patrono dei fuggiaschi - e si ritrovano al buio. Lo sa dal modo in cui la ragazza incespica, e per la prima volta gli viene in mente che portandola con sé sarà rallentato. Sarà ostacolato dalla sua capacità di vedere. Dall'altra parte del muro si muovono passi pesanti. Lui sussurra: Tieniti alla mia veste, aggiungendo, inutilmente: Non dire una parola. Sono nella rete di tunnel nascosti che permette alla Somma Sacerdotessa e ai suoi scagnozzi di avere notizia di tanti preziosi segreti da coloro che vengono al Tempio per incontrarsi o per confessarsi alla Dea o per pregare, ma devono uscirne al più presto. In fin dei conti, è il primo posto in cui la Somma Sacerdotessa penserà di cercare. Né può farli uscire da lì attraverso la pietra allentata nel muro esterno da cui è entrato all'andata. Il falso Signore dell'Oltretomba può esserne a conoscenza, avendo preso accordi per il delitto e specificato l'ora e il luogo, e ormai deve avere indovinato che a tradire è stato l'assassino cieco. Attutito dalle spesse pietre, risuona un gong di bronzo. Lo sente attraverso i piedi. Conduce la fanciulla di muro in muro, poi giù lungo una scala ripida e stretta. Lei piagnucola per la paura: avere la lingua tagliata non ha arrestato la sua capacità di piangere. Peccato, pensa lui. Trova a tastoni la fogna in disuso che è lì, lo sa, ce la fa salire offrendole le mani come staffa, quindi si issa accanto a lei. D'ora in avanti dovranno strisciare. L'odore non è piacevole, ma è un odore vecchio. Effluvio umano raggrumato, ridotto in polvere.
Ora c'è aria fresca. La sente mentre annusa per controllare se c'è odore di fumo di torce. Ci sono stelle? le chiede. Lei annuisce. Dunque non ci sono nuvole. Peccato. Un paio delle cinque lune devono risplendere - lo sa dal periodo del mese - e altre tre seguiranno tra breve. Loro due saranno chiaramente visibili per il resto della notte, e alla luce del giorno diverranno incandescenti. Il Tempio non vorrà che la storia della loro fuga diventi di pubblico dominio - significherebbe perdere la faccia, e inoltre potrebbero seguire delle rivolte. Un'altra fanciulla sarà scelta per il sacrificio: con i veli chi se ne accorgerà? Ma molti li inseguiranno, di nascosto ma implacabilmente. Può trovare un nascondiglio, ma prima o poi dovrebbero uscirne per procurarsi cibo e acqua. Da solo avrebbe potuto farcela, ma non in due. Potrebbe sempre buttarla in un fosso. O pugnalarla, gettarla in un pozzo. No, non può. C'è sempre il covo degli assassini. È dove tutti loro vanno quando non lavorano, a scambiare due chiacchiere, a dividersi il bottino e a vantarsi delle loro imprese. È nascosto audacemente proprio sotto la stanza dei giudizi del palazzo principale, un profondo sotterraneo cosparso di tappeti - i tappeti che gli assassini furono costretti a tessere da bambini e che poi hanno rubato. Li riconoscono al tatto e spesso ci siedono sopra, fumando l'erbaccia fring che induce al sogno e passando le dita sui disegni, sui colori sgargianti, ricordando com'erano quei colori quando ancora ci vedevano. Ma solo gli assassini ciechi hanno il permesso di entrare nel sotterraneo. Formano una società chiusa, nella quale gli estranei sono introdotti soltanto sotto forma di bottino. Inoltre, lui ha tradito la sua professione salvando la vita a qualcuno che era stato pagato per uccidere. Sono professionisti, gli assassini; si vantano di portare a termine i loro contratti, non sopportano violazioni al loro codice di comportamento. Lo ucciderebbero senza pietà, e anche lei, dopo un po'. Uno dei suoi compagni potrebbe benissimo venire ingaggiato per rintracciarli. Contro un furbo ci vuole un furbo e mezzo. Poi, presto o tardi, saranno condannati. Basterà il profumo di lei a tradirli - l'hanno profumata da capo a piedi. Dovrà portarla fuori da Sakiel-Norn - fuori della città, fuori del territorio conosciuto. È pericoloso, ma non tanto quanto restare. Forse riuscirà a scendere giù al porto, quindi a salire a bordo di una nave. Ma come varcare di nascosto le porte? Tutte e otto sono serrate e sorvegliate, come sempre la notte. Da solo, potrebbe scalare le mura - ha le dita delle mani e dei pie-
di capaci di fare presa come quelle di un geco -, ma con lei sarebbe una catastrofe. C'è un'altra via. Rimanendo in ascolto a ogni passo, la conduce giù, verso la parte della città più vicina al mare. Le acque di tutte le sorgenti e le fontane di Sakiel-Norn vengono raccolte in un canale, e questo canale si riversa sotto le mura della città, attraverso un tunnel ad arco. L'acqua è più alta della testa di un uomo e la corrente veloce, perciò nessuno prova mai a entrare in città per quella via. Ma a uscirne? L'acqua che scorre attenuerà l'odore. Lui sa nuotare. È una delle cose che gli assassini hanno cura di imparare. Presume giustamente che lei non ne sia capace. Le dice di togliersi tutti i vestiti e di farne un fagotto. Quindi si libera della veste del Tempio e lega i suoi abiti al fagotto di lei. Si annoda la veste attorno alle spalle, poi attorno ai polsi della fanciulla, le dice che se i nodi si sciolgono non dovrà comunque staccarsi da lui, qualunque cosa accada. Quando raggiungeranno il passaggio ad arco, dovrà trattenere il respiro. Gli uccelli nyerk si stanno svegliando; ne sente i primi gracidii; presto sarà giorno. Tre strade più in là si sta avvicinando qualcuno, con passo deciso, prudente, come se stesse cercando qualcosa. L'assassino cieco in parte guida, in parte spinge la ragazza nell'acqua fredda. Lei annaspa, ma fa come le è stato detto. Si fanno trascinare dalle acque; lui cerca la corrente principale, tende l'orecchio per cogliere il rumore dell'impeto e del gorgoglio dell'acqua dove questa entra nel passaggio ad arco. Troppo presto e rimarranno senza fiato, troppo tardi e lui si spaccherà la testa contro la pietra. Poi si tuffa sott'acqua. L'acqua è indistinta, non ha forma, puoi infilarci la mano; eppure può ucciderti. La forza di una simile cosa è la velocità, la traiettoria. Con cosa va a urtare e quanto velocemente. Lo stesso potrebbe dirsi... ma non importa. C'è un lungo tragitto angoscioso. Pensa che gli scoppieranno i polmoni, che le braccia gli cederanno. La sente trascinarsi dietro di lui, si chiede se sia annegata. Almeno la corrente è con loro. Struscia contro la parete del tunnel; qualcosa si lacera. Stoffa o carne? Una volta oltre il passaggio ad arco tornano in superficie; lei tossisce, lui ride piano. Le tiene la testa sopra l'acqua, stando sul dorso; in questo modo percorrono galleggiando un tratto del canale. Quando giudica che si trovino abbastanza lontano e abbastanza al sicuro, si dirige verso terra e la issa sulla riva sassosa in pendenza. Cerca a tastoni l'ombra di un albero. È e-
sausto, ma anche inebriato, pieno di una strana felicità dolente. L'ha salvata. Ha dispensato pietà per la prima volta nella sua vita. Chissà cosa può derivare da una simile deviazione dal sentiero prescelto? C'è qualcuno in giro? chiede. Lei si ferma a guardare, scrolla la testa per dire di no. Qualche animale? Di nuovo no. Appende i loro abiti ai rami dell'albero; poi, alla luce delle lune color zafferano, eliotropio e magenta che si va affievolendo, la prende tra le braccia come se fosse seta, affonda dentro di lei. È fresca come un melone, e leggermente salata, come un pesce fresco. Giacciono l'una nelle braccia dell'altro, profondamente addormentati, quando tre spie mandate in avanscoperta dal Popolo della Desolazione per perlustrare gli accessi alla città inciampano su di loro. Vengono bruscamente svegliati, quindi interrogati da quella delle spie che parla la loro lingua, anche se tutt'altro che alla perfezione. Il ragazzo è cieco, dice agli altri, e la ragazza è muta. Le tre spie li guardano meravigliate. Come hanno fatto ad arrivare fin lì? Non vengono certo dalla città; tutte le porte sono serrate. È come se fossero caduti dal cielo. La risposta è ovvia: devono essere messaggeri divini. Viene loro gentilmente concesso di rimettersi i vestiti ormai asciutti e di montare insieme sul cavallo di una delle spie, quindi vengono condotti via per essere presentati al Servitore della Gioia. Le spie sono enormemente soddisfatte di sé, e l'assassino cieco ha il buonsenso di non parlare troppo. Ha sentito vaghe storie su questa gente e sulle sue curiose credenze riguardo ai messaggeri divini. Si dice che questi trasmettano i loro messaggi in forme oscure, e così cerca di ricordarsi tutti gli indovinelli, i paradossi e gli enigmi che conosce: La via che scende è la via che sale. Cos'è che va su quattro gambe all'alba, su due a mezzogiorno e su tre la sera? Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolce. Cos'è bianco e nero e tutto coperto di rosso? Questo non può essere zycroniano, non avevano i giornali. Aggiudicato. Come non detto. Che ne pensi di: È più forte di Dio, più cattivo del Diavolo, il povero ce l'ha, al ricco manca e se lo mangi muori? È nuovo. Prova a indovinare. Mi arrendo. Niente. Lei ci mette un minuto a capire. Niente. Sì, dice. Dovrebbe andare.
Mentre cavalcano, l'assassino cieco tiene un braccio attorno alla fanciulla. Come proteggerla? Ha un'idea, improvvisata e generata dalla disperazione, ma nonostante ciò può funzionare. Affermerà che tutti e due sono davvero messaggeri divini, ma di tipo differente. È lui che riceve i messaggi dall'Invincibile, ma solo lei può interpretarli. A tal fine usa le mani, fa dei segni con le dita. Il metodo per leggere quei segni è stato rivelato solo a lui. Aggiungerà, giusto nel caso che venga loro qualche brutta idea, che a nessun uomo è concesso di toccare la fanciulla muta in modo sconveniente, o di toccarla in generale. Tranne a lui, naturalmente. Altrimenti lei perderà il suo potere. È semplice, finché la berranno. Spera che lei sia svelta di comprendonio e sia capace di improvvisare. Si chiede se conosca qualche segno. È tutto per oggi, dice lui. Devo aprire la finestra. Ma fa così freddo. No, non per me. Questo posto sembra uno sgabuzzino. Sto soffocando. Gli sente la fronte. Credo che ti stia venendo qualcosa. Potrei andare in farmacia. No. Non mi ammalo mai. Che c'è? Cosa c'è che non va? Sei preoccupato. Non sono esattamente preoccupato. Non mi preoccupo mai. Ma non mi fido di quanto sta succedendo. Non mi fido dei miei amici. I miei cosiddetti amici. Perché? Cosa stanno combinando? Praticamente nulla, dice lui. È questo il problema. Mayfair, febbraio 1936 PETTEGOLEZZI SULLA TORONTO CHE CONTA DI YORK A metà gennaio si è visto il Royal York Hotel traboccare di gaudenti in tenute esotiche, in occasione del terzo ballo di beneficenza in costume della stagione, organizzato in sostegno del Brefotrofio Downtown Foundlings. Quest'anno il tema - con una strizzatina d'occhio allo spettacolare Beaux Arts Bali dello scorso anno, intitolato «Tamerlano a Samarcanda» - era «Xanadu», e sot-
to l'abile direzione del signor Wallace Wynant le tre lussuose sale da ballo erano state trasformate in un «grandioso tempio del piacere» di irresistibile splendore, dove Kubla Khan e il suo sfolgorante seguito tenevano un gran ricevimento. Sovrani stranieri da regni orientali e i loro corteggi - harem, servitori, danzatrici e schiavi, come pure damigelle con salteri, mercanti, cortigiani, fachiri, soldati di tutti i paesi e mendicanti in quantità - volteggiavano allegramente intorno a una fantastica fontana ispirata ad «Alph, il fiume sacro», tinti di un viola da baccanale da un riflettore sistemato in alto, sotto gli scintillanti festoni di cristallo della centrale «Grotta di ghiaccio». Le danze si svolgevano vivaci anche nei due adiacenti pergolati, entrambi carichi di fiori, mentre in ogni sala un'orchestra jazz continuava a eseguire «la musica e il canto». Non abbiamo sentito «voci ancestrali profetanti guerra», dal momento che tutto era in dolce armonia, grazie alla mano decisa della signora Winifred Griffen Prior, ideatrice del ballo, incantevole nei panni scarlatti e dorati di principessa del Rajistan. Nel comitato organizzatore erano presenti anche la signora Richard Chase Griffen, fanciulla abissina in verde e argento, la signora Oliver MacDonnell, in rosso cinese, e la signora Hugh N. Hillert, maestosa sultana in magenta. L'assassino cieco: L'alieno sul ghiaccio È in un altro posto adesso, ha affittato una stanza vicino alla stazione di smistamento. È sopra un negozio di ferramenta. In vetrina c'è una misera mostra di chiavi e cardini. Non va troppo bene; da queste parti nulla va troppo bene. Il vento trasporta sabbia e fa rotolare sul terreno cartacce spiegazzate; i marciapiedi sono infidi per il ghiaccio, per la neve ammucchiata che nessuno ha spalato. A una certa distanza i treni si lamentano e vengono smistati, i loro fischi si affievoliscono in lontananza. Sempre in partenza. Potrebbe saltare su uno, ma è un rischio: vengono pattugliati, anche se non si sa mai quando. Comunque, ora è inchiodato lì - diciamo la verità - a causa di lei; anche se lei, come i treni, non è mai puntuale ed è sempre in partenza. La stanza è dopo la seconda rampa, scala di servizio con gomma sui gradini, gomma consumata a chiazze, ma almeno ha un'entrata indipendente. A meno che non si voglia contare la giovane coppia con un bambino
piccolo dall'altra parte della parete. Usano la stessa scala, ma lui li vede di rado, si alzano troppo presto. Però li sente a mezzanotte, quando cerca di lavorare; ci danno dentro come se non ci fosse un domani, con il letto che cigola come tanti topi. Lo fa impazzire. Si penserebbe che quando il marmocchio si mette a urlare la facciano finita, e invece no, continuano a galoppare. Ma almeno si sbrigano. A volte appoggia l'orecchio alla parete per ascoltare. Un oblò qualsiasi durante una tempesta, pensa. Di notte tutte le vacche sono vacche. Ha incrociato la donna un paio di volte, infagottata e con il fazzoletto come una nonna russa, alle prese con pacchi e con la carrozzina del bambino. La tengono al piano terra, dove rimane in attesa come una trappola mortale aliena, con la sua nera bocca spalancata. Una volta l'ha aiutata a portarla e lei gli ha sorriso, un sorriso furtivo, i piccoli denti bluastri attorno ai bordi, come latte scremato. Di notte la mia macchina da scrivere vi disturba? ha azzardato - alludendo al fatto che a quell'ora è sveglio, che li sente. No, per niente. Sguardo vuoto, ottuso come quello di una giovenca. Cerchi scuri sotto gli occhi, linee all'ingiù incise dal naso agli angoli della bocca. Lui dubita che le attività notturne siano una sua idea. Sono troppo veloci, tanto per cominciare - il tizio entra ed esce come un rapinatore di banche. Lei porta scritto su tutta se stessa cavallo da soma; probabilmente fissa il soffitto, pensa a lavare il pavimento. La sua stanza è stata ricavata dividendone in due una più grande, il che spiega l'inconsistenza della parete. Lo spazio è stretto e freddo: spifferi entrano dal telaio della finestra, il radiatore sferraglia e gocciola, ma non riscalda. Un gabinetto nascosto in un angolo gelido, la tazza macchiata di un arancione velenoso da vecchio piscio e ferro, e una cabina per la doccia fatta di zinco, con una tenda di gomma sudicia per l'età. La doccia è un tubo nero che corre su per la parete, con una cipolla rotonda di metallo forato. Il rivolo d'acqua che ne esce è di un gelo polare. Un letto a scomparsa, montato con poca perizia, cosicché deve fare i salti mortali per tirarlo giù; un piano di lavoro di compensato messo insieme con chiodini, un tempo dipinto di giallo. Un fornelletto a un fuoco. La tetraggine ricopre ogni cosa come fuliggine. In confronto a dove potrebbe essere adesso, è un palazzo. Ha mollato i suoi compagni. Ha tagliato la corda, non ha lasciato indirizzi. Non sarebbe dovuto occorrere tanto tempo per rimediare un passaporto, o i due passaporti di cui ha bisogno. Ha intuito che lo stavano te-
nendo in caldo come assicurazione: se qualcuno a loro parere più importante fosse stato preso, avrebbero potuto scambiarlo con lui. Forse stavano pensando di consegnarlo comunque alla polizia. Sarebbe stato un magnifico capro espiatorio: era sacrificabile, non aveva mai aderito veramente alle loro idee. Un compagno di viaggio che non andava abbastanza lontano o abbastanza in fretta. A loro non piaceva la sua erudizione, per quello che valeva; a loro non piaceva il suo scetticismo, che scambiavano per superficialità. Solo perché Tizio ha torto non vuol dire che Caio abbia ragione, aveva detto una volta. Probabilmente se l'erano segnato per ogni eventualità. Avevano le loro piccole liste. Forse volevano il loro martire, il loro Sacco e Vanzetti in versione singola. Dopo che l'avranno messo in croce fino a farlo diventare un Rosso, la sua faccia patibolare su tutti i giornali, riveleranno alcune prove della sua innocenza - raccogliendo a proprio vantaggio lo sdegno dell'opinione pubblica. Guardate cosa fa il sistema! Un vero e proprio assassinio! Non c'è giustizia! È questo il modo di pensare dei compagni. Come una partita di scacchi. E lui è il pedone da sacrificare. Va alla finestra, guarda fuori. Ghiaccioli come zanne brunastre pendono al di là dei vetri, prendendo il colore dal tetto. Pensa al nome di lei circondato da un'aura elettrica - eccitazione sessuale come neon blu. Dov'è? Non prenderà un taxi, non fino a destinazione, è troppo sveglia per farlo. Osserva la fermata del tram, desiderando che si materializzi. Che scenda giù facendo balenare una gamba, una scarpa con il tacco alto, meglio se costosa. Fica sui trampoli. Perché pensa certe cose, visto che se un altro uomo qualsiasi la chiamasse così picchierebbe quel bastardo? Indosserà una pelliccia. La disprezzerà per questo, le chiederà di tenersela addosso. Con la pelliccia dall'inizio alla fine. L'ultima volta che l'ha vista aveva un livido sulla coscia. Aveva desiderato di averglielo fatto lui. Cos'è? Ho sbattuto contro una porta. Sa sempre quando mente. O crede di saperlo. Pensare di saperlo può essere una trappola. Un ex professore una volta gli aveva detto che aveva un intelletto duro come diamante, e al tempo ne era stato lusingato. Ora considera la natura dei diamanti. Sebbene taglienti, scintillanti e utili per tagliare il vetro, brillano soltanto di luce riflessa. Al buio non servono a niente. Perché continua a venire? Lui è un suo gioco privato, è così? Non le farà pagare niente, non si farà comprare. Da lui vuole una storia d'amore, perché è questo che vogliono le ragazze, o almeno le ragazze del suo tipo, che
si aspettano ancora qualcosa dalla vita. Ma dev'esserci un altro punto di vista. Desiderio di rivincita, o di punizione. Le donne hanno modi curiosi di ferire qualcun altro. Invece dell'altro, feriscono se stesse; oppure lo fanno in modo che il tizio non venga neppure a sapere che è stato ferito, se non molto più tardi. Poi lo scopre. Allora gli cade l'uccello. Nonostante quegli occhi, la linea pura della sua gola, a volte coglie un barlume di qualcosa di contorto, macchiato. Meglio non inventarla in sua assenza. Meglio aspettare che sia davvero qui. Poi potrà crearla dal vero. Ha un tavolino da bridge, un vero pezzo da mercato delle pulci, e una sedia pieghevole. Siede alla macchina da scrivere, si soffia sulle dita, infila un foglio. In un ghiacciaio situato sulle Alpi svizzere (o sulle Montagne Rocciose, meglio, o in Groenlandia, ancora meglio), alcuni esploratori hanno trovato - incastrato in una colata di ghiaccio diafano - un veicolo spaziale. Ha la forma di un piccolo dirigibile, ma appuntito alle estremità come un baccello di okra. Ne fuoriesce uno strano bagliore, che brilla attraverso il ghiaccio. Di che colore è? Verde, è la cosa migliore, con una sfumatura gialla come l'assenzio. Gli esploratori sciolgono il ghiaccio, servendosi di cosa? Un cannello da saldatori che per caso hanno con sé? Un grosso falò fatto con gli alberi lì intorno? Se devono esserci alberi, meglio rispostare la scena sulle Montagne Rocciose. Non ci sono alberi in Groenlandia. Forse si potrebbe usare un grosso cristallo che ingrandisca i raggi del sole. I boy scout - di cui aveva fatto brevemente parte - gli avevano insegnato questo metodo per accendere il fuoco. Senza farsi vedere dal capogruppo, un gioviale uomo dalla lugubre faccia rosa entusiasta di canti e accette, avevano tenuto le loro lenti d'ingrandimento puntate sulle braccia nude per vedere chi avrebbe resistito più a lungo. Il quel modo avevano dato fuoco ad aghi di pino e a pezzi di carta igienica. No, il cristallo gigante sarebbe stato troppo improbabile. Il ghiaccio viene gradualmente sciolto. X, che sarà uno scozzese burbero, li avverte di lasciar perdere, perché la cosa non fa prevedere nulla di buono, ma Y, che è uno scienziato inglese, dice che è loro dovere accrescere il patrimonio della conoscenza umana, mentre Z, un americano, sostiene che hanno buone probabilità di fare milioni. B, che è una ragazza dai capelli biondi e la bocca gonfia, come se fosse stata presa a pugni, dice che
è tutto molto eccitante. È russa e si presume che creda nel libero amore. X, Y e Z non hanno ancora fatto la prova, sebbene ne abbiano tutti voglia - X inconsciamente, Y con un senso di colpa e Z con volgarità. All'inizio chiama sempre i suoi personaggi con lettere, poi inserisce i nomi. A volte consulta l'elenco telefonico, a volte le iscrizioni sulle lapidi. La donna è sempre B, che sta per Bambina Bislacca, Bambolina o Bel Bocconcino, a seconda del suo stato d'animo. O per Bella Bionda, naturalmente. B dorme in una tenda separata e ha l'abitudine di dimenticare le manopole e di girare di notte, contrariamente agli ordini. Fa commenti sulla bellezza della luna e sulle qualità armoniche degli ululati dei lupi; è in rapporti di amicizia con i cani da slitta, a cui si rivolge in una parlata infantile russa, e sostiene (nonostante il suo materialismo scientifico ufficiale) che hanno un'anima. Sarà una seccatura se rimarranno senza cibo e dovranno mangiarne uno, ha concluso X con il suo pessimismo scozzese. La struttura scintillante simile a un baccello è liberata dal ghiaccio, ma gli esploratori hanno solo pochi minuti per esaminare il materiale di cui è fatta - una sottile lega di metallo sconosciuta all'uomo -, prima che si volatilizzi, lasciando un odore di mandorle, o patchouli, o zucchero bruciato, o zolfo, o cianuro. Sotto gli occhi di tutti appare una sagoma di forma umanoide, chiaramente maschile, vestita in un abito attillato del colore blu verdastro delle piume di pavone, con lo splendore delle ali degli scarabei. No. Fa pensare troppo alle fate. Vestito in un abito attillato del blu verdastro della fiamma del gas, con lo splendore della benzina versata nell'acqua. È ancora incastrato nel ghiaccio che si deve essere formato all'interno del baccello. Ha la pelle verde chiaro, orecchie leggermente a punta, sottili labbra cesellate e grandi occhi spalancati. Sono quasi tutti pupilla, come nei gufi. I capelli sono di un verde più scuro, e sono raccolti in spesse crocchie sul cranio, che è piuttosto a punta. Incredibile. Un essere proveniente dallo spazio. Chissà quanto tempo è giaciuto là? Decenni? Secoli? Millenni? È sicuramente morto. Cosa devono fare? Issano il blocco di ghiaccio che lo rinchiude e si imbarcano in una discussione. (X dice che dovrebbero partire subito e chiamare le autorità; Y vuole sezionarlo lì per lì, ma gli viene ricordato che potrebbe volatilizzarsi, come l'astronave; Z è decisamente propenso a portarlo nel mondo civile su una slitta, quindi a impacchettarlo nel ghiaccio sec-
co e a venderlo al miglior offerente; B fa osservare che i cani da slitta stanno dimostrando un inquietante interesse e hanno cominciato a uggiolare, ma non viene presa in considerazione a causa della sua maniera enfatica, russa e femminile di mettere le cose). Finalmente - è ormai buio, l'aurora boreale si comporta in modo strano - viene deciso di metterlo nella tenda di B. B dovrà dormire nell'altra tenda insieme ai tre uomini, il che fornirà qualche opportunità di voyerismo a lume di candela, visto che B sa certamente come riempire sia una tenuta da alpinista che un sacco a pelo. Durante la notte monteranno guardie di quattro ore, avvicendandosi nei turni. Di mattina tireranno a sorte per raggiungere la decisione finale. Tutto va bene durante la guardia di X, Y e Z. Poi viene il turno di B. Dice di avere una strana sensazione, l'impressione che non andrà tutto liscio, ma lo dice sempre e viene ignorata. Appena svegliata da Z, che è stato lì a guardarla con impulsi libidinosi mentre si è stiracchiata, si è sfilata a fatica dal sacco a pelo e poi si è dimenata per entrare nella tuta imbottita, prende il suo posto nella tenda insieme alla creatura congelata. Il tremolio della candela le fa venir sonno; si ritrova a chiedersi come sarebbe l'uomo verde in una situazione romantica - ha belle sopracciglia, anche se è così magro. Si addormenta di colpo. L'essere imprigionato nel ghiaccio comincia a emettere bagliori, dapprima deboli, poi più intensi. L'acqua cola silenziosamente sul pavimento della tenda. Ora il ghiaccio è scomparso. Si mette seduto, poi si alza. Senza un solo rumore si avvicina alla ragazza addormentata. I capelli verde scuro sulla sua testa si agitano, crocchia dopo crocchia, quindi si allungano, tentacolo - perché è questo che sono - dopo tentacolo. Un tentacolo si attorciglia attorno alla gola della ragazza, un altro attorno alle sue abbondanti forme, un terzo le copre la bocca. Lei si sveglia come da un incubo, ma non è di un incubo che si tratta: il viso dell'essere spaziale è vicino al suo, i suoi freddi tentacoli la tengono in una morsa implacabile; la sta osservando con un desiderio e una bramosia senza precedenti, esprimendo bisogno puro e semplice. Nessun uomo mortale l'ha mai guardata con tale intensità. Lotta brevemente, poi si arrende al suo abbraccio. Non che abbia molta scelta. La bocca verde si apre, scoprendo delle zanne. Si avvicinano al suo collo. La ama al punto da assimilarla - da fame parte di sé, per sempre. Lui e lei diventeranno una cosa sola. La ragazza lo capisce senza bisogno di parole, perché tra l'altro questo signore ha il dono della comunicazione telepatica. Sì, sospira.
Si fa un'altra sigaretta. Lascerà che B venga mangiata e bevuta in questa maniera? O i cani da slitta si accorgeranno della brutta situazione in cui si trova, spezzeranno le funi, faranno irruzione attraverso la tela, sbraneranno il tizio tentacolo dopo tentacolo? Oppure uno degli altri - lui preferisce Y, il freddo scienziato inglese - verrà a salvarla? Seguirà una lotta? Potrebbe andare. Sciocco! Avrei potuto insegnarvi tutto! trasmette telepaticamente l'alieno a Y appena prima di morire. Il suo sangue sarà di un colore non umano. Arancione andrebbe bene. O forse il tizio verde scambierà liquidi venosi con B, e lei diventerà come lui - una versione verdastra di se stessa. Poi i due agiranno insieme, ridurranno gli altri in gelatina, decapiteranno i cani e muoveranno alla conquista del mondo. Le città ricche e tiran niche dovranno essere distrutte, quelle povere e virtuose lasciate libere. Noi siamo il Flagello del Signore, annuncerà la coppia. A quel punto saranno in possesso del Raggio della Morte, messo insieme con le conoscenze dello spaziale e un po' di chiavi e cardini rubati in un vicino ferramenta, perciò chi oserà protestare? Oppure l'alieno non berrà affatto il sangue di B - si inietterà dentro di lei! Il suo corpo si accartoccerà come un acino, la sua pelle secca e rugosa si trasformerà in nebbiolina, e al mattino non rimarrà traccia di lui. I tre uomini andranno da B strofinandosi gli occhi assonnati. Non so cosa sia successo, dirà lei, e siccome non lo sa mai, le crederanno. Forse abbiamo avuto tutti un'allucinazione, diranno. È il nord, l'aurora boreale - confonde i cervelli degli uomini. Il sangue si condensa per il freddo. Non coglieranno il verde bagliore alieno superintelligente negli occhi di B, che erano comunque verdi fin dall'inizio. Ma i cani lo capiranno. Annuseranno il cambiamento. Ringhieranno con le orecchie all'indietro, ululeranno in tono lamentoso, non vorranno più esserle amici. Cos'è preso a questi cani? Le possibilità sono talmente tante. La lotta, il combattimento, la salvezza. La morte dell'alieno. E nel frattempo i vestiti verranno strappati via. Succede sempre così. Perché sforna certe porcherie? Perché ne ha bisogno - altrimenti sarebbe del tutto al verde, e cercare un'altra occupazione in quella situazione lo porterebbe allo scoperto più di quanto sarebbe minimamente prudente. Anche perché lo sa fare. Ha il bernoccolo. Non tutti ce l'hanno: molti hanno provato, molti hanno fallito. Una volta aveva ambizioni più grandi, più serie. Scrivere la vita di un uomo com'è veramente. Scendere terra terra, al
livello delle paghe da fame e del pane e dello stillicidio e delle prostitute da quattro soldi con la faccia da troia e dei calci in bocca e del vomito nei rigagnoli. Mettere in mostra i meccanismi del sistema, il macchinario, il modo in cui ti mantiene in vita soltanto finché ti rimane un po' di forza, ti esaurisce, ti trasforma in un dente dell'ingranaggio o in un ubriacone, ti schiaccia in una maniera o nell'altra il viso nella merda. Ma il lavoratore medio non leggerebbe quel genere di cose - il lavoratore che secondo i compagni ha una nobiltà tanto innata. Quel che vogliono quei ragazzi è la sua robaccia. Economica, al prezzo di un centesimo, azione veloce, con un sacco di tette e di culi. Non che si possano stampare le parole «tette» e «culi»: i libri da quattro soldi sono sorprendentemente puritani. Seni e sederi è il massimo a cui arrivano. Sangue e pallottole, budella e urla e contorcimenti, ma niente nudità esplicita completa. Niente bestemmie. Forse non è puritanesimo, forse semplicemente non vogliono che li facciano chiudere. Si accende una sigaretta, si muove furtivo, guarda fuori della finestra. Ceneri oscurano la neve. Un tram passa stridendo. Si gira, si muove furtivo, con in testa parole disposte a scatole cinesi. Controlla l'orologio: è di nuovo in ritardo. Non verrà. VII Il baule da nave L'unico modo per scrivere la verità è presumere che quanto annoti non verrà mai letto. Da nessun'altra persona, e neanche da te in epoca successiva. Altrimenti cominci a giustificarti. Deve sembrarti che lo scritto fuoriesca come un lungo ghirigoro d'inchiostro dall'indice della tua mano destra; deve sembrarti che la tua mano sinistra lo cancelli. Impossibile, naturalmente. Io faccio scorrere la mia riga, faccio scorrere la mia riga, questo filo nero che sto dipanando attraverso la pagina. Ieri è arrivato un pacco per me: una nuova edizione dell'Assassino cieco. È una copia di pura cortesia: non ne risulterà alcun guadagno, almeno per me. Il libro è ormai fuori diritti e chiunque può pubblicarlo, perciò il patrimonio di Laura non vedrà nulla dei profitti. È ciò che succede un dato
numero di anni dopo la morte dell'autore: si perde il controllo dell'opera. È là fuori nel mondo, e si moltiplica in Dio sa quante forme, senza nessun avallo da parte mia. Artemisia Press, si chiama questa casa editrice; è inglese. Credo siano quelli che mi hanno chiesto di scrivere un'introduzione, cosa che ho rifiutato, è ovvio. Probabilmente gestita da un gruppo di donne, con un nome del genere. Mi chiedo quale Artemisia abbiano in mente - la generalessa persiana descritta da Erodoto, che se la diede a gambe quando la battaglia si mise male per lei, o la matrona romana che mangiò le ceneri del marito morto, in modo che il suo corpo ne diventasse il sepolcro vivente? Probabilmente la pittrice rinascimentale violentata: è l'unica che venga ricordata oggigiorno. Il libro è sul tavolo della cucina. Capolavori dimenticati del ventesimo secolo, è scritto in corsivo sotto il titolo. Laura era una «modernista», ci viene detto nel risvolto interno. Era «influenzata» dai gusti di Djuna Barnes, Elizabeth Smart, Carson McCullers - autrici che so per certo che non aveva mai letto. Il disegno sulla copertina non è troppo male, però. Sfumature di un viola brunastro sbiadito, uno stile fotografico: una donna in slip, a una finestra, vista attraverso una tenda a rete, il viso in ombra. Dietro di lei, uno spicchio d'uomo - il braccio, la mano, il dietro della testa. Abbastanza appropriato, credo. Ho deciso che era ora di telefonare al mio avvocato. Cioè, non al mio vero avvocato. Quello che consideravo mio, quello che si è occupato della faccenda con Richard, che si è battuto tanto strenuamente contro Winifred, anche se invano - quello è morto parecchi decenni fa. Da allora in poi sono stata passata di mano in mano all'interno dello studio, come una teiera d'argento eccessivamente decorata che viene rifilata come regalo di nozze a ogni nuova generazione, ma che nessuno adopera mai. «Il signor Sykes, per favore» ho detto alla ragazza che ha risposto. Una delle segretarie, suppongo. Ho immaginato le sue unghie, lunghe, rosso scuro e a punta. Ma forse quello non è il tipo di unghie giusto per una segretaria di oggi. Forse sono blu ghiaccio. «Spiacente, il signor Sykes è in riunione. Di chi devo dire?» Potrebbero benissimo usare dei robot. «La signora Iris Griffen» ho risposto, nella mia voce più tagliente. «Sono una delle sue più vecchie clienti». Questo non mi ha aperto nessuna porta. Il signor Sykes era sempre in
riunione. È un ragazzo occupato, a quanto pare. Ma perché penso a lui come a un ragazzo? Deve essere sui cinquantacinque - nato, forse, nello stesso anno in cui è morta Laura. È davvero morta da tanto tempo, il tempo che ci è voluto a far crescere e maturare un avvocato? È un'altra di quelle cose che devono essere vere perché tutti gli altri sono d'accordo nel trovarle tali, sebbene a me non lo sembrino. «Posso dire al signor Sykes di cosa si tratta?» ha chiesto la segretaria. «Del mio testamento» ho risposto. «Sto considerando l'idea di scriverne uno. Lui mi ha consigliato spesso di farlo». (Una bugia, ma volevo inculcare nel suo cervello sicuramente svagato che il signor Sykes e io siamo amici per la pelle). «Si tratta di questo, e di qualche altra faccenda. Dovrei venire a Toronto al più presto, per consultarlo. Forse potrebbe chiamarmi, quando ha un minuto libero». Ho immaginato il signor Sykes che riceveva il messaggio; ho immaginato il piccolo brivido che gli sarebbe corso dietro al collo mentre provava a dare un senso al mio nome, e poi ci riusciva. Avrebbe sentito la morte passargli accanto. È quello che si prova - succede perfino a me - quando ci si imbatte in quei trafiletti di giornale su persone un tempo famose o bellissime o tristemente note, e per lungo tempo ritenute morte. E invece a quanto pare continuano a vivere, in qualche forma raggrinzita, oscura, incrostati dagli anni, come scarafaggi sotto un sasso. «Naturalmente, signora Griffen» ha detto la segretaria. «Mi assicurerò che la richiami». Devono prendere lezioni - lezioni di dizione - per ottenere esattamente la giusta miscela di considerazione e disprezzo. Ma perché mi lamento? È un'arte in cui una volta ero esperta anch'io. Ho messo giù il telefono. Ci sarà senza dubbio qualche occhiata sorpresa tra il signor Sykes e i suoi compari, uomini dall'aspetto giovanile che cominciano a perdere i capelli, guidano Mercedes e hanno pance paffute: Cosa può mai avere da lasciare in eredità la vecchia befana? Cosa, cioè, di cui valga la pena parlare? In un angolo della mia cucina c'è un baule da nave pieno di etichette strappate. È una parte del set di bagagli coordinati del mio corredo - un tempo vitello giallo chiaro, ora scurito, le rifiniture in acciaio rovinate e sporche. Lo tengo chiuso a chiave, la chiave affondata ben bene in fondo a un barattolo a chiusura ermetica pieno di crusca. I barattoli del caffè e dello zucchero sarebbero troppo ovvi. Ho lottato con il coperchio del barattolo - devo pensare a un nascondi-
glio migliore, più facile - e finalmente l'ho aperto e ho tirato fuori la chiave. Mi sono inginocchiata con una certa difficoltà, ho girato la chiave nella serratura, ho sollevato il coperchio. Era un po' che non aprivo il baule. L'odore di bruciacchiato e di foglie autunnali della carta vecchia si è levato a darmi il benvenuto. C'erano tutti i quaderni con le loro scadenti copertine di cartone simili a segatura pressata. Anche il dattiloscritto, tenuto insieme da un vecchio spago da cucina incrociato. Anche le lettere agli editori - scritte da me, naturalmente, non da Laura, che a quel tempo era morta - e le bozze corrette. Anche le lettere di insulti, finché non ho smesso di conservarle. Anche cinque copie della prima edizione, con le sopraccoperte ancora come nuove - appariscenti, ma le sopraccoperte lo erano a quei tempi, negli anni subito dopo la guerra. I colori sono un arancione sgargiante, un viola spento e un verde giallognolo, stampati su carta leggera, con un orribile disegno - una specie di Cleopatra con seni verdi a pera, occhi bordati di kajal, collane viola dall'ombelico al mento e un'enorme bocca arancione imbronciata, che emerge come un genio dalle spire del fumo di una sigaretta viola. L'acido sta corrodendo le pagine, la copertina dai colori violenti sta sbiadendo come le piume di un uccello tropicale imbalsamato. (Ricevetti sei copie omaggio - le copie dell'autore, erano chiamate -, ma ne diedi una a Richard. Non so che fine abbia fatto. Credo che l'abbia stracciata, come faceva sempre con i pezzi di carta che non voleva. No ora ricordo. La trovarono sulla barca insieme a lui, accanto alla sua testa. Winifred me la rimandò con un biglietto: Guarda cos'hai fatto! L'ho strappata io. Non volevo accanto a me nulla che fosse stato toccato da Richard). Mi sono spesso chiesta cosa fare di tutto ciò - di questo nascondiglio di cianfrusaglie, di questo piccolo archivio. Non posso indurmi a venderlo, ma non posso neppure decidermi a disfarmene. Se non faccio niente, la scelta sarà lasciata a Myra, che farà ordine dopo la mia morte. Dopo i primi momenti di choc - supponendo che si metta a leggere -, qualcosa verrà senza dubbio strappato e fatto a pezzi. Poi un fiammifero acceso e tutto tornerà come prima. Lo interpreterebbe come un atto di lealtà: è ciò che avrebbe fatto Reenie. Ai vecchi tempi i guai si tenevano in famiglia, che è sempre il posto migliore, ammesso che ne esista uno. Perché andare a rivangare tutta la storia dopo tanti anni, con tutti quelli che vi sono coinvolti ormai infilati da bravi, come bambini stanchi, nelle loro tombe? Forse dovrei lasciare questo baule e il suo contenuto a un'università, o a una biblioteca. Là almeno verrebbe apprezzato, in un senso macabro. Non
sono pochi gli studiosi a cui piacerebbe mettere i loro artigli su tutta questa cartaccia. Materiale, lo chiamerebbero - il loro nome per il bottino. Devono immaginarmi come un vecchio drago ammuffito accovacciato su un tesoro ottenuto in modo illecito - una macilenta signora che non vuole cedere agli altri ciò di cui non sa che fare, una carceriera rinsecchita e ipercritica, una custode delle chiavi con un'espressione compassata sulle labbra, che sorveglia la segreta in cui Laura, lasciata morire di fame, è incatenata al muro. Per anni mi hanno bombardata di lettere in cui mi chiedevano la corrispondenza di Laura - mi chiedevano manoscritti, promemoria, interviste, aneddoti -, ogni genere di macabro dettaglio. A queste importune missive avevo l'abitudine di stilare risposte redatte in maniera stringata: «Gentile signorina W., a mio parere il suo progetto di una "cerimonia commemorativa" sul ponte che fu la scena della tragica morte di Laura Chase è sia di cattivo gusto che morboso. Deve essere fuori di testa. Credo che lei soffra di autointossicazione. Dovrebbe provare un enteroclisma». «Gentile signora X., la ringrazio per la lettera in cui mi informa della tesi da lei proposta, sebbene non possa dire che il suo titolo abbia molto senso per me. Senza dubbio lo ha per lei, altrimenti non se ne sarebbe uscita così. Non posso darle alcun aiuto. Del resto, non ne merita. "Decostruzione" fa pensare alla sfera metallica usata nelle demolizioni, e "problematizzare" non è un verbo». «Egregio dottor Y., riguardo al suo studio sulle implicazioni teologiche dell'Assassino cieco: le credenze religiose di mia sorella erano molto profonde ma certamente non quel che si dice convenzionali. Non le piaceva Dio, né approvava Dio, né sosteneva di capire Dio. Diceva di amare Dio, e quanto agli esseri umani era un altro paio di maniche. No, non era buddista. Non sia fatuo. Le suggerisco di imparare a leggere». «Egregio professor Z., ho preso nota della sua opinione secondo cui da troppo tempo ormai si attende una biografia di Laura Chase. Questa può benissimo essere, come lei dice, "tra le nostre più importanti scrittrici della metà del secolo". Non saprei. Ma la mia collaborazione a ciò che lei chiama "il suo progetto" è fuori questione. Non ho alcuna voglia di soddisfare la sua bramosia di ampolle di sangue secco e dita mozzate di santi.
«Laura Chase non è il suo "progetto". Era mia sorella. Non avrebbe desiderato vedersi mettere le mani addosso dopo morta, in qualunque modo si voglia eufemisticamente definire ciò. Le cose scritte possono fare molto male. Troppo spesso la gente non ne tiene conto». «Gentile signorina W., questa è la sua quarta lettera sullo stesso argomento. La smetta di tormentarmi. Lei è una parassita». Per decenni ho tratto una fosca soddisfazione da questi velenosi scarabocchi. Ho goduto nel leccare i francobolli, nel lasciar cadere le lettere come tante bombe a mano nella scintillante cassetta rossa, con la sensazione di avere regolato i conti con qualche ficcanaso zelante e avido. Ma ultimamente ho smesso di rispondere. Perché punzecchiare degli estranei? Se ne infischiano di quello che penso di loro. Per loro io sono solo un'appendice: la mano spaiata, in più, di Laura, non attaccata ad alcun corpo - la mano che l'ha consegnata al mondo, a loro. Mi vedono come un deposito un mausoleo vivente, una fonte, come la definiscono. Perché dovrei fare loro dei favori? Per quanto mi riguarda sono persone che frugano nell'immondizia - iene, per lo più; sciacalli sulle tracce di una carogna, corvi a caccia delle carcasse degli animali uccisi dalle auto lungo le strade; mosche carnarie. Vogliono frugare dentro di me come se fossi un mucchio di ciarpame, cercando rottami di metallo e terraglie rotte, cocci cuneiformi e frammenti di papiro, curiosità, giocattoli perduti, denti d'oro. Se mai sospettassero cosa tengo riposto qui, scassinerebbero le serrature, farebbero irruzione ed entrerebbero, mi darebbero una botta in testa e scapperebbero con gli scarabocchi, e si sentirebbero più che giustificati. No. Allora non a un'università. Perché dare loro soddisfazione? Forse il mio baule da nave dovrebbe andare a Sabrina, nonostante la sua decisione di restare nel suo isolamento, nonostante - ed è qui che fa più male - il suo persistente rifiuto di me. Malgrado ciò, il sangue non è acqua, come sa chiunque abbia assaggiato sia l'uno che l'altra. Queste cose le appartengono di diritto. Si potrebbe perfino dire che sono la sua eredità: dopotutto è mia nipote. È anche la pronipote di Laura. Sicuramente vorrà informarsi sulle sue origini, una volta superata la cosa. Ma non c'è dubbio che Sabrina rifiuterebbe un simile regalo. È adulta adesso, continuo a ripetermi. Se ha qualcosa da domandarmi, qualcosa da dirmi, me lo farà sapere.
Ma perché non lo fa? Perché ci mette tanto tempo? Il suo silenzio è una forma di vendetta, per qualcosa o per qualcuno? Certo non per Richard. Non l'ha mai conosciuto. Neanche per Winifred, da cui è scappata. Per sua madre allora - per la povera Aimee? Quanto può mai ricordare? Aveva solo quattro anni. La morte di Aimee non è stata colpa mia. Dov'è Sabrina adesso, e di cosa può andare in cerca? Me la immagino come una ragazza magrolina, con un sorriso esitante, un po' ascetico; ma graziosa, con i suoi seri occhi blu come quelli di Laura, i suoi lunghi capelli scuri attorcigliati in crocchie come serpi addormentate intorno alla testa. Ma non avrà un velo; porterà sandali pratici, o magari stivali dalle suole consumate. O avrà adottato un sari? Le ragazze come lei lo fanno. Sarà impegnata in questa o quella missione - sfamare i poveri del Terzo Mondo, confortare i morenti; espiare i peccati di noi altri. Un compito inutile - i nostri peccati sono un pozzo senza fondo, e ce ne sono molti di più là da dove vengono. Ma è questa la caratteristica di Dio - l'inutilità. Gli è sempre piaciuta la futilità. La considera nobile. Sotto questo aspetto ha preso da Laura: la stessa tendenza all'assolutismo, lo stesso rifiuto del compromesso, lo stesso disprezzo per i più volgari difetti umani. Per cavarsela con un simile atteggiamento bisogna essere belli. Altrimenti verrà semplicemente scambiato per brutto carattere. Il Braciere Nonostante la stagione, il tempo si mantiene caldo. Tiepido, mite, secco e luminoso; perfino il sole, così pallido e debole in questo periodo dell'anno, è pieno e maturo, i tramonti opulenti. I tizi pimpanti e dalle facce sorridenti del canale delle previsioni meteorologiche dicono che ciò è dovuto a qualche lontana catastrofe che ha sollevato una gran quantità di polvere un terremoto, un vulcano? Qualche nuovo, feroce atto di Dio. Non tutto il male vien per nuocere, è il loro motto. Ieri Walter mi ha portata a Toronto all'appuntamento con l'avvocato. È un posto dove non va mai se può evitarlo, ma Myra lo ha costretto. È stato dopo il mio annuncio che avrei preso il pullman. Myra non ne ha voluto sapere. Com'è risaputo c'è solo un pullman, e parte e ritorna al buio. Ha detto che quando ne sarei scesa, la sera, gli automobilisti non mi avrebbero visto di sicuro e mi avrebbero schiacciata come un insetto. In ogni caso,
non sarei dovuta andare a Toronto da sola perché, anche questo è risaputo, è popolata interamente da criminali e rapinatori. Walter, ha detto, si sarebbe preso cura di me. Per la gita Walter si è messo un berretto da baseball rosso; tra il bordo del berretto e il margine del bavero della giacca il suo collo irsuto sporgeva come un bicipite. Le sue palpebre erano grinzose come ginocchia. «Ho pensato di prendere il pickup» ha detto, «è solido come un cesso di mattoni, così quei delinquenti ci penseranno due volte prima di venirmi addosso. Soltanto, c'è qualche molla in meno, perciò non sarà un viaggio comodo». Secondo lui, i guidatori a Toronto sono tutti matti. «Be', bisogna essere matti per andare là, no?» ha detto. «Ed è là che stiamo andando» ho osservato. «Ma solo una volta. Come dicevo alle ragazze, una volta non conta». «E ti credevano, Walter?» ho chiesto, prendendolo in giro come piace a lui. «Certo. Stupide come rape. Soprattutto le bionde». Potevo sentirlo sorridere. Solida come un cesso di mattoni. Questo si diceva delle donne. Era inteso come un complimento, nei giorni in cui non tutti avevano cessi di mattoni; soltanto di legno, fragili, puzzolenti e facili da buttare giù. Appena mi ha fatta salire a bordo e mi ha allacciato la cintura, Walter ha acceso la radio: violini elettrici che si lamentavano, una contorta storia d'amore, il battito deciso di un cuore spezzato. Sofferenza trita, ma pur sempre sofferenza. Il business dell'intrattenimento. Che guardoni siamo diventati tutti quanti. Mi sono appoggiata al cuscino fornito da Myra. (Ci ha equipaggiato come per un viaggio transoceanico - ha infilato in macchina una coperta per le ginocchia, panini al tonno, dolcetti al cioccolato, un thermos di caffè). Fuori del finestrino c'era il fiume Jogues, che seguiva il suo corso indolente. Lo abbiamo attraversato e abbiamo svoltato verso nord, superando strade fiancheggiate da quelle che un tempo erano casette di operai, poi qualche piccola azienda: un autodemolitore, un emporio di cibi naturali in rovina, un punto vendita di scarpe ortopediche con un piede al neon verde che si accendeva a intermittenza, come se camminasse da solo sul posto. Poi un centro commerciale in miniatura, cinque negozi, di cui solo uno era riuscito a sistemare già i fili argentati natalizi. Poi il salone di bellezza di Myra, The Hair Port. In vetrina c'era la foto di una persona con la testa rapata, se maschio o femmina non avrei saputo dire con precisione. Poi un motel che un tempo veniva chiamato Fine dei Viaggi. Suppongo
che avessero in mente «La fine dei viaggi è ai convegni d'amore», ma non ci si poteva aspettare che tutti cogliessero il riferimento: ad alcuni sarà risultato troppo sinistro, un edificio tutto entrate ma senza uscite, che faceva pensare ad aneurismi e trombosi e flaconi di sonnifero vuoti e ferite di arma da fuoco alla testa. Ora lo chiamano semplicemente Viaggi. È stato molto saggio cambiare il nome. Tanto più inconcludente, tanto meno estremo. Molto meglio viaggiare che arrivare. Abbiamo superato qualche altro rivenditore - polli sorridenti che offrivano vassoi con parti del loro stesso corpo fritte, un allegro messicano che brandiva dei taco. Davanti a noi si stagliava il serbatoio dell'acqua della città, una di quelle enormi bolle di cemento disseminate nel paesaggio campestre come nuvolette dei fumetti svuotate di parole. Ora avevamo raggiunto l'aperta campagna. Un silos di metallo si innalzava da un campo come una torre di comando; accanto al margine della strada tre corvi beccavano la massa informe e pelosa di una marmotta bruciata. Recinti, ancora silos, un gruppo di mucche bagnate; un bosco di cedri scuri, poi un'area paludosa, con i giunchi estivi già a pezzi e spelacchiati. Ha cominciato a piovigginare. Walter ha azionato i tergicristalli. Alla loro rilassante ninnananna mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata il mio primo pensiero è stato: Avrò russato? E in tal caso, con la bocca aperta? È tanto brutto a vedersi, e perciò tanto umiliante. Ma non mi sono decisa a chiederlo. Nel caso che ve lo stiate domandando, la vanità non muore mai. Eravamo sull'autostrada a otto corsie, vicino a Toronto. Questo a quanto diceva Walter: io non vedevo niente, perché eravamo incollati dietro il camion di un'azienda agricola che ondeggiava, sbilanciato da gabbie di oche bianche, diretto senza alcun dubbio al mercato. I loro colli lunghi e condannati e le loro teste agitate sbirciavano di qua e di là attraverso le assicelle, i loro becchi si aprivano e si chiudevano, mandando grida tragiche e ridicole, coperte dal rombo delle ruote. Sul parabrezza si sono appiccicate delle piume, la macchina è stata invasa dall'odore di sterco di oca e dal fumo dello scappamento. Dietro il camion c'era un cartello che diceva: Se siete abbastanza vicini da leggere siete troppo vicini. Quando finalmente è uscito dall'autostrada, davanti a noi c'era Toronto, una montagna artificiale di vetro e cemento che si innalzava dall'uniforme pianura in riva al lago, tutta cristalli, guglie, gigantesche piastre scintillanti e obelischi taglienti, fluttuante in una fo-
schia di smog tra il marrone e l'arancio. Sembrava qualcosa che non avessi mai visto prima - qualcosa che fosse spuntata durante la notte, o che in realtà non era lì, come un miraggio. Fiocchi neri ci volavano accanto come se più avanti stesse bruciando un mucchio di carta. La furia vibrava nell'aria come afa. Mi sono venute in mente sparatorie tra macchine. L'ufficio dell'avvocato era dalle parti di King e Bay Street. Walter si è perso, poi non riusciva a trovare parcheggio. Ci è toccato camminare per cinque isolati, con Walter che mi spingeva avanti per il gomito. Non sapevo dove fossimo, perché tutto era talmente cambiato. Cambia ogni volta che ci vado, il che non accade spesso, e l'effetto complessivo è devastante come se la città sia stata rasa al suolo e ricostruita da zero. Il centro che ricordo io - grigio, calvinista, con uomini bianchi in soprabiti scuri che avanzavano a ranghi serrati sui marciapiedi, occasionalmente intervallati da una donna con tacchi alti, guanti e cappello di prammatica, borsa a busta sotto il braccio e avanti marsch! - è semplicemente scomparso, ma del resto lo era già da qualche tempo. Toronto non è più una città protestante, è una città medievale: le folle che intasano le strade sono multicolori, i vestiti sgargianti. Bancarelle di hotdog con ombrelli gialli, chioschi di ciambelle, venditori ambulanti di orecchini, borse di stoffa e cinture di cuoio, mendicanti che portano cartelli con su scritto con le matite colorate Fuori Servizio: tra loro si sono divisi il territorio. Sono passata davanti a un suonatore di flauto, a un trio di chitarre elettriche, a un uomo in kilt e cornamusa. Da un momento all'altro mi aspettavo giocolieri o mangiatori di fuoco, lebbrosi in processione, con cappucci e campanelli di ferro. Il rumore era assordante; una pellicola iridescente mi è rimasta incollata agli occhiali come olio. Alla fine ce l'abbiamo fatta ad arrivare dall'avvocato. La prima volta che mi sono rivolta a questo studio, nei lontani anni Quaranta, era situato in uno di quei fuligginosi palazzi di uffici in mattoni rossi stile Manchester, con l'atrio a mosaico, i leoni di pietra e le scritte dorate sulle porte di legno con i loro riquadri di vetro stampato. L'ascensore era di quelli che avevano una grata incrociata di sbarre di metallo all'interno della cabina; entrarci era come finire brevemente in prigione. Era una donna in divisa blu oltremare e guanti bianchi a manovrarlo, annunciando i piani, che arrivavano soltanto a dieci. Ora lo studio legale è situato in una torre di lastre di cristallo, in un uffi-
cio al cinquantesimo piano. Walter e io siamo saliti nell'ascensore risplendente, con il suo interno di plastica marmorizzata, il suo odore di tappezzeria di automobile e la sua calca di gente intonata, uomini e donne, tutti con gli sguardi sfuggenti e i visi vacui dei servitori a vita. Gente che vede soltanto ciò che è pagata per vedere. Quanto allo studio legale, ha un ingresso che potrebbe benissimo essere quello di un albergo a cinque stelle: fiori disposti con un'abbondanza e un'ostentazione settecentesche, una spessa moquette color fungo, un dipinto astratto fatto di costose macchie. L'avvocato è arrivato, ci ha stretto la mano, ha sussurrato, ha gesticolato: dovevo seguirlo. Walter ha detto che mi avrebbe aspettato lì, non si sarebbe mosso. Fissava con un certo allarme la giovane, distinta segretaria in vestito nero, foulard color malva e unghie madreperla; lei fissava non lui, ma la sua camicia a quadri e i suoi enormi stivali con la suola di gomma simili a baccelli. Poi Walter si è seduto sul divano a due posti, dove è affondato immediatamente come in un mucchio di marshmallow, le ginocchia ad angolo acuto, le gambe dei pantaloni tirate su, a scoprire spesse calze rosse da taglialegna. Davanti a lui, su un raffinato tavolino, c'era un assortimento di riviste finanziarie che gli consigliavano come far fruttare al massimo i dollari che voleva investire. Ha preso un numero sui fondi comuni d'investimento: nella sua smisurata manaccia sembrava un Kleenex. Gli occhi gli roteavano in testa come quelli di un manzo in una carica di suoi simili. «Non ci metterò molto» ho detto, per tranquillizzarlo. In realtà ci ho messo un po' più di quanto pensassi. Be', fanno pagare tanto al minuto, questi avvocati, proprio come le puttane più a buon mercato. Continuavo ad aspettarmi di sentire dei colpi alla porta e una voce irritata dire: Ehi, là dentro. Che aspetti? Rizzalo, mettilo dentro e tiralo fuori! Quando ho finito le mie faccende con l'avvocato, ci siamo di nuovo avviati al pickup e Walter ha detto che mi avrebbe portato a pranzo. Conosceva un posto, ha detto. Credo che Myra lo abbia costretto a farlo: Per l'amor del cielo, assicurati che mangi qualcosa, a quell'età mangiano come uccellini, non capiscono neanche quando esauriscono l'energia, potrebbe morire di fame in macchina. Magari aveva fame anche lui: mentre dormivo aveva divorato tutti i panini impacchettati con cura da Myra, e per giunta anche i dolcetti al cioccolato. Il posto che conosceva si chiamava il Braciere, ha detto. Ci aveva mangiato l'ultima volta che era venuto, forse due o tre anni prima, ed era stato
più o meno decente, tutto considerato. Considerato cosa? Considerato che era a Toronto. Aveva preso un doppio hamburger al formaggio con tutti i contorni. Là facevano costolette al barbecue, e in generale erano specializzati in piatti alla griglia. Ricordavo anch'io quel ristorante, da più di dieci anni prima - nei giorni in cui tenevo d'occhio Sabrina, dopo la prima volta che era scappata. Avevo l'abitudine di bighellonare intorno alla sua scuola alla fine delle lezioni, piazzandomi sulle panchine, in punti in cui avrei potuto tenderle un agguato - no, dove avrei potuto essere riconosciuta da lei, nonostante ci fossero scarse probabilità che questo accadesse. Mi nascondevo dietro un giornale aperto, come un esibizionista ossessionato, patetico, come lui piena di desiderio senza speranza per una ragazza che sarebbe sicuramente fuggita da me quasi fossi un troll. Volevo soltanto far sapere a Sabrina che c'ero; che esistevo; che non ero quella che le avevano detto. Che avrei potuto essere un rifugio per lei. Sapevo che ne avrebbe avuto bisogno, ne aveva già bisogno, perché conoscevo Winifred. Tuttavia non successe mai niente. Non mi notò mai, né io mi rivelai mai. Quando si venne al dunque, fui troppo codarda. Un giorno la seguii al Braciere. Sembrava il posto che le ragazze - le ragazze di quell'età, di quella scuola - bazzicavano all'ora di pranzo, o quando saltavano le lezioni. L'insegna fuori della porta era rossa, i bordi delle finestre decorati con festoni di plastica gialla che avrebbero dovuto rappresentare delle fiamme. Fui allarmata dall'audacia miltoniana del nome e delle fiamme: si erano mai resi conto di cosa stavano citando? Lo gettò capofitto fiammeggiante dall'etereo cielo con orrenda rovina riarso. ...Un diluvio di fiamme nutrito di zolfo sempre ardente, mai consunto. No. Non lo sapevano. Il Braciere era l'inferno soltanto per la carne alla griglia. L'interno aveva lampade sospese con paralumi di vetro colorato e piante screziate, fibrose, in recipienti di terracotta - un'aria anni sessanta. Mi sedetti nel séparé accanto a quello occupato da Sabrina e da due sue compagne di scuola, tutte vestite nelle stesse sgraziate divise mascoline, quei kilt simili a coperte con cravatte assortite che Winifred aveva sempre trovato tanto prestigiosi. Le tre ragazze avevano fatto del loro meglio per rovinare
l'effetto - calze cascanti, camicie parzialmente tirate fuori, cravatte storte. Masticavano gomma come se fosse un dovere religioso, e parlavano in quel modo annoiato e troppo rumoroso di cui le ragazze della loro età sembrano essere sempre state maestre. Erano tutte e tre belle, nel modo in cui lo sono le ragazze così giovani. Non può essere aiutato, quel genere di bellezza, né può essere conservato; è una freschezza, una pienezza delle cellule che riceviamo in dono ed è passeggera, e che nulla può ricreare. Nessuna di loro ne era soddisfatta, però; stavano già facendo tentativi di modificarsi, di migliorare e alterare e rimpicciolire, di stiparsi in qualche impossibile stampo immaginario, strappando via peli e tracciando segni a matita sui loro visi. Non le biasimavo, avendo fatto anch'io lo stesso una volta. Me ne stavo seduta là osservando Sabrina da sotto la tesa del mio cappello da sole floscio e ascoltando le loro chiacchiere banali, che innalzavano davanti a sé come una maschera. Nessuna stava dicendo quello che pensava, nessun si fidava delle altre - e del tutto a ragione, perché il tradimento occasionale è storia di tutti i giorni a quell'età. Le altre due erano bionde; solo Sabrina era scura e lucida come una mora. Non ascoltava davvero le sue amiche, e neppure le guardava. Dietro l'indifferenza studiata del suo sguardo doveva fervere la ribellione. Riconobbi la scontrosità, la testardaggine, l'indignazione schiava-principessa, che va tenuta nascosta finché non siano state raccolte armi a sufficienza. Guardati le spalle, Winifred, pensai con soddisfazione. Sabrina non mi notò. Oppure mi notò, ma non sapeva chi fossi. Mi lanciarono qualche occhiata, mi giunsero mormoni e risolini; ricordo quel genere di cosa. Sciattona incartapecorita, o la sua versione moderna. Credo che ce l'avessero col mio cappello. Era tutt'altro che alla moda, quel cappello. Quel giorno per Sabrina io ero soltanto una donna vecchia - una donna più vecchia -, una vecchia qualunque non ancora abbastanza decrepita da essere degna di nota. Dopo che loro tre se ne furono andate, mi recai alla toilette. Sulla parete del bagno c'era una poesia: Amo Darren sì perché È fatto per me e non per te Se provi a metterti al posto mio Ti spacco la faccia giuro su Dio.
Le ragazze sono diventate più esplicite di una volta, ma non più brave nella punteggiatura. Quando io e Walter abbiamo finalmente individuato il Braciere, che (a sentir lui) non era dove lo aveva lasciato, c'era del compensato inchiodato alle finestre, con sopra fissato un qualche avviso ufficiale. Walter ha annusato tutto intorno alla porta sbarrata come un cane che abbia messo un osso fuori posto. «Sembra che sia chiuso» ha detto. È rimasto un attimo lì con le mani in tasca. «Cambiano sempre le cose» ha aggiunto. «Non si riesce a starci dietro». Dopo esserci guardati un po' in giro e aver seguito qualche falsa pista, ci siamo accontentati di una tavola calda senza pretese sulla Davenport, con sedili in vinile e jukebox ai tavoli, riforniti di musica country e di una manciata di vecchie canzoni dei Beatles e di Elvis Presley. Walter ha messo Heartbreak Hotel, e lo abbiamo ascoltato mentre mangiavamo i nostri hamburger e bevevamo il nostro caffè. Walter ha insistito per pagare - di nuovo Myra, senza alcun dubbio. Deve avergli messo in mano una banconota da venti. Ho mangiato solo metà del mio hamburger. Non ce l'ho fatta a finirlo. Walter ha mangiato l'altra metà, ficcandosela tutta in bocca, come se la stesse imbucando. Mentre uscivamo dalla città, ho chiesto a Walter di farmi passare accanto alla mia vecchia casa - la casa dove un tempo ho vissuto con Richard. Ricordavo la strada alla perfezione, ma quanto alla casa in sé, quando l'ho raggiunta sulle prime non la riconoscevo. Era ancora spigolosa e sgraziata, con le finestre strabiche, massiccia, di un marrone intenso come tè troppo carico, ma su tutti i muri era cresciuta l'edera. Le parti in legno da finto chalet, un tempo color crema, erano state dipinte di verde mela, e lo stesso la pesante porta d'ingresso. Richard era contrario all'edera. Ce n'era un po' appena ci eravamo trasferiti là, ma lui l'aveva fatta togliere. Mangiava i mattoni, diceva; entrava nei camini, incoraggiava i roditori. Questo era quando ancora spiegava le ragioni di ciò che pensava e faceva, e ancora le presentava come le ragioni di ciò che io stessa avrei dovuto pensare e fare. Prima che gettasse le ragioni al vento. Mi è balenata un'immagine di me stessa a quel tempo, con un cappello di paglia e un vestito giallo chiaro, di cotone per via del caldo. Era verso la
fine dell'estate, l'anno dopo il mio matrimonio; il terreno sembrava fatto di mattoni. Su istigazione di Winifred avevo cominciato a dedicarmi al giardinaggio: dovevo avere un hobby, diceva. Aveva deciso che avrei dovuto iniziare con un giardino roccioso, perché anche se avessi ucciso le piante le rocce sarebbero rimaste. Non c'è molto che tu possa fare per uccidere una roccia, aveva scherzato. Aveva mandato quelli che definiva tre uomini fidati, che dovevano pensare agli scavi e alla sistemazione delle rocce, in modo che potessi piantare qualcosa. Nel giardino c'erano già alcune rocce ordinate da Winifred: alcune piccole, altre più grandi, come lastre, disseminate a caso o ammucchiate come tessere di domino cadute. Stavamo tutti là, i tre uomini fidati e io, a guardare quel cumulo di sassi ammucchiati alla rinfusa. Loro avevano il cappello in testa ed erano senza giacca, con le maniche delle camicie rimboccate, le bretelle bene in vista; stavano aspettando le mie istruzioni, ma io non sapevo cosa dire. Allora avrei voluto ancora cambiare qualcosa - fare qualcosa di testa mia, fare qualcosa, non importa a partire da che. Pensavo ancora di poterlo fare. Ma non sapevo assolutamente nulla di giardinaggio. Avrei avuto voglia di piangere, ma basta piangere una volta ed è finita: se piangi, gli uomini fidati ti disprezzeranno, e poi non saranno più fidati. Walter mi ha aiutata a scendere dalla macchina, quindi ha aspettato in silenzio, un po' dietro di me, pronto ad afferrarmi se fossi caduta. Me ne stavo sul marciapiede e guardavo la casa. Il giardino roccioso era ancora là, anche se molto trascurato. Naturalmente era inverno, perciò era difficile a dirsi, ma dubitavo che vi crescesse più qualcosa, tranne forse qualche dracena, quelle crescono ovunque. Sul vialetto c'era un grande cassone pieno di legno frantumato, lastre di calcina: erano in corso dei lavori di ristrutturazione. Oppure c'era stato un incendio: una finestra del piano di sopra era fracassata. A sentire Myra la gente che vive per strada si accampa in posti del genere: lasciate una casa disabitata, per lo meno a Toronto, e ci entreranno come fulmini, tenendoci le loro feste a base di droga o quello che sia. Culti satanici, aveva sentito dire. Faranno falò sui pavimenti di legno duro, intaseranno i bagni e defecheranno nei lavandini, sgraffigneranno i rubinetti, i lussuosi pomelli delle porte, tutto quello che si può vendere. Anche se a volte sono solo ragazzi che mandano tutto all'aria per divertimento. I giovani hanno un vero talento per questo genere di cose.
La casa sembrava senza proprietario, provvisoria, come la foto sul volantino di un'agenzia immobiliare. Non sembrava più collegata a me in alcun modo. Cercavo di ricordare il suono dei miei passi, gli stivali invernali sulla neve secca che scricchiolava, mentre camminavo veloce verso casa, tardi, architettando una scusa; la saracinesca nera come inchiostro della porta; il modo in cui la luce dei lampioni stradali cadeva sui cumuli di neve, blu ghiaccio ai bordi e punteggiati dal braille giallo della pipì di cane. Le ombre erano differenti allora. Il mio cuore agitato, il mio respiro che si srotolava, fumo bianco nell'aria gelida. Il calore febbrile delle mie dita; la ruvidezza della mia bocca sotto il rossetto appena messo. C'era un caminetto nel salotto. Mi sedevo là davanti, con Richard, la luce che tremolava su di noi e sui nostri occhiali, ognuno con il suo sottobicchiere per proteggere l'impiallacciatura. Sei di sera, l'ora del martini. A Richard piaceva ricapitolare la giornata: è così che diceva. Aveva preso l'abitudine di mettermi la mano dietro il collo - appoggiandovela, limitandosi a tenerla leggermente lì mentre portava avanti la ricapitolazione. Ricapitolazione è ciò che facevano i giudici prima che un caso passasse alla giuria. È così che si vedeva? Forse. Ma i suoi pensieri più riposti, le sue ragioni, mi rimanevano spesso oscuri. Quella era una fonte di tensione tra noi due: la mia incapacità di capirlo, di anticiparne i desideri, cosa che egli attribuiva alla mia volontaria e perfino aggressiva mancanza di attenzione. In realtà era anche confusione e, più tardi, paura. Man mano che andavamo avanti, per me lui diventava sempre meno simile a un uomo, con una pelle e organi funzionanti, e sempre più simile a un gigantesco groviglio di spago, che come per incantesimo ogni giorno ero condannata a cercare di districare. Non ci riuscii mai. Stavo fuori della mia casa, la mia vecchia casa, in attesa di un'emozione di qualunque genere. Non ne è arrivata nessuna. Avendo provato entrambi, non so cosa sia peggio: un sentimento intenso, o la sua assenza. Dal castagno nel prato spenzolavano un paio di gambe, gambe di donna. Per un momento ho pensato che fossero vere gambe che si stessero calando giù, scappando, finché non ho guardato con più attenzione. Erano un paio di collant imbottiti con qualcosa - carta igienica, senza dubbio, o biancheria intima - e buttati giù dalla finestra del piano di sopra durante qualche rito satanico o scherzo di adolescenti o bisboccia di vagabondi. Doveva essere la mia finestra quella da cui erano state gettate quelle gambe incorporee. La mia vecchia finestra. Mi sono immaginata mentre
guardavo da quella finestra, tanto tempo prima. Macchinando come scivolare fuori per quella via, senza farmi notare, e calarmi giù grazie a quell'albero - togliendomi pian piano le scarpe, spenzolandomi oltre il davanzale, allungando un piede nella sola calza e poi l'altro, aggrappandomi agli appigli. Ma non l'avevo fatto. Guardando fuori della finestra. Esitando. Pensando: Quanto sono diventata estranea a me stessa. Cartoline dall'Europa Le giornate si fanno buie, gli alberi diventano desolati, il sole rotola in discesa verso il solstizio d'inverno, ma non è ancora inverno. Niente neve, niente nevischio, niente venti ululanti. È minaccioso, questo ritardo. Un silenzio color bruno grigiastro ci pervade. Ieri ho camminato fino al Jubilee Bridge. È corsa voce di ruggine, corrosione, debolezza strutturale; è corsa voce di buttarlo giù. Qualche società immobiliare senza nome e senza volto aspira a innalzare dei condomini sulla proprietà pubblica confinante, dice Myra - è un terreno di prima qualità per il panorama. Al giorno d'oggi i panorami valgono più delle patate, non che in quel punto esatto siano mai cresciute patate. Corre voce che un mucchio di denaro sporco sia passato di mano in mano sotto banco per facilitare l'affare, cosa che - ne sono sicura - è accaduta anche quando il ponte è stato costruito, con il pretesto di onorare la regina Vittoria. Un appaltatore o l'altro deve aver pagato i rappresentanti eletti di Sua Maestà per ottenere il lavoro, e in questa città noi continuiamo a rispettare i vecchi metodi: Fare soldi, non importa come. Sono questi i vecchi metodi. Strano pensare che un tempo signore in gale e crinoline passeggiavano su questo ponte e si sporgevano dalla sua ringhiera filigranata per osservare il panorama ora costoso e ben presto privato: il tumulto delle acque là sotto, le pittoresche scogliere di calcare a occidente, le vicine fabbriche che funzionavano a pieno ritmo quattordici ore al giorno, piene di servili bifolchi sempre pronti a togliersi il cappello, e che al crepuscolo baluginavano come casinò illuminati a gas. Stavo là e guardavo da una parte l'acqua a monte, liscia come una caramella, scura e silenziosa, un potenziale minaccioso. Dall'altra parte c'erano le cascate, i mulinelli, il rumore indistinto. È una bella distanza fino a giù. Ho preso consapevolezza del mio cuore, e delle vertigini. Anche della mancanza di respiro, come se fossi da qualche parte sopra la mia testa. Ma
sopra la mia testa dove? Non in acqua; in qualcosa di più denso. Il tempo: il vecchio tempo freddo, il vecchio dolore, che si depositano in strati come limo in una palude. Per esempio: Richard e io, sessantaquattro anni fa, che scendiamo la passerella del Berengeria sull'altra sponda dell'oceano Atlantico, il suo cappello inclinato in maniera disinvolta, la mia mano guantata appoggiata al suo braccio - la coppia di sposi novelli in luna di miele. Perché la luna di miele è chiamata così? Lune de miel, luna fatta di miele, come se la luna stessa non fosse una sfera fredda, arida e senz'aria, di roccia butterata, ma soffice, dorata, succulenta - una luminosa susina candita, del tipo giallo, che si scioglie in bocca, appiccicosa come il desiderio, così tormentosamente dolce da farti dolere i denti. Un caldo riflettore che fluttua, non nel cielo, ma dentro il tuo corpo. So tutto questo. Lo ricordo molto bene. Ma non dalla mia luna di miele. L'emozione che ricordo più chiaramente di quelle otto settimane - o forse furono nove? - è l'ansia. Ero preoccupata che Richard trovasse l'esperienza del nostro matrimonio - intendendo con questo la parte di esso che aveva luogo al buio e di cui non si poteva parlare - deludente, come me. Anche se non sembrava che le cose stessero così: all'inizio era abbastanza affabile nei miei confronti, almeno alla luce del giorno. Nascondevo questa mia ansia come meglio potevo, e mi facevo frequenti bagni: mi sembrava che stessi marcendo dentro, come un uovo. Dopo avere attraccato a Southampton, io e Richard andammo in treno a Londra, dove scendemmo al Brown's Hotel. Ci facevamo servire la colazione nella suite, e in quelle occasioni io indossavo un négligé, uno dei tre scelti per me da Winifred: rosa antico, avorio con merletto grigio tortora, lilla con acquamarina - colori chiari, slavati, che ben si accordavano con il viso della mattina. Ognuno aveva pantofole di raso assortite, orlate di pelliccia tinta o di piume di cigno. Presumevo che questo fosse quanto indossavano al mattino le donne adulte. Avevo visto foto di simili completi (ma dove? Forse in qualche pubblicità, magari per una miscela di caffè?): l'uomo in vestito e cravatta, i capelli pettinati lisci all'indietro, la donna nel suo négligé con l'aria altrettanto strigliata, una mano sollevata che teneva la caffettiera d'argento con il becco ricurvo, mentre tutti e due si sorridevano con aria stordita al di sopra del piattino del burro. Laura si sarebbe fatta beffe di quelle tenute. Lo aveva già fatto quando mi aveva vista metterle in valigia. Ma non era esattamente così: Laura era
incapace di farsi veramente beffe di qualcosa. Le mancava la crudeltà necessaria. (La crudeltà intenzionale necessaria, cioè. Le sue crudeltà erano occasionali - sottoprodotti di qualunque nobile idea stesse elaborando nella sua testa). La sua reazione era stata piuttosto di stupore - una sorta di incredulità. Aveva passato la mano sul raso con un piccolo brivido, e io avevo sentito la fredda stoffa untuosa e scivolosa sulle estremità delle mie stesse dita. Come pelle di lucertola. «Li indosserai?» disse. In quelle mattine estive a Londra - perché era estate allora - mangiavamo le nostre colazioni con le tende tirate a metà per proteggerci dalla luminosità del sole. Richard prendeva due uova sode, due spesse fette di pancetta e un pomodoro alla griglia, con toast e marmellata, il toast friabile, raffreddato in un porta toast. Io prendevo metà di un pompelmo. Il tè era scuro, dal forte sapore di tannino, come acqua di palude. Quello era il modo giusto, inglese, di servirlo, diceva Richard. Non veniva detto molto, a parte lo stretto necessario. «Dormito bene, cara?» e «Mmm - e tu?» Richard si faceva consegnare i giornali, insieme ai telegrammi. Di questi ce n'erano sempre parecchi. Scorreva i giornali, poi apriva i telegrammi, li leggeva, li piegava con cura una volta e poi un'altra, li metteva in tasca. Oppure li faceva a pezzi. Non li spiegazzava mai per poi gettarli nel cestino della carta straccia, e se anche lo avesse fatto probabilmente io non avrei frugato, non li avrei tirati fuori e letti, o almeno non in quel periodo della mia vita. Supponevo che fossero tutti per lui: a me non era mai stato mandato un telegramma, e non mi veniva in mente alcun motivo perché potessi riceverne uno. Durante il giorno Richard aveva vari impegni. Pensavo che fossero con dei soci d'affari. Noleggiava una macchina e un autista per me, e venivo portata a vedere quello che a suo parere andava visto. La maggior parte delle cose che passavo in rassegna erano edifici, altre erano parchi. Altre ancora erano statue erette fuori degli edifici o dentro i parchi: uomini di stato con la pancia tirata in dentro e il petto spinto in fuori, una gamba piegata sull'altra, che stringevano rotoli di carta; militari a cavallo. Nelson sulla sua colonna, il principe Alberto sul suo trono con un quartetto di donne dall'aria esotica che si agitavano e si rotolavano intorno ai suoi piedi, vomitando frutta e frumento. Quelli dovevano essere i continenti su cui il principe Alberto, sebbene morto, signoreggiava ancora, ma lui non faceva loro alcuna attenzione; sedeva austero e silenzioso sotto la sua pesante cupola dorata guardando in lontananza, la mente rivolta a cose più elevate.
«Cosa hai visto oggi?» chiedeva Richard a cena, e io enumeravo obbediente, spuntando un edificio o un parco o una statua dopo l'altra: la Torre di Londra, Buckingham Palace, Kensington, Westminster Abbey, il palazzo del Parlamento. Lui non incoraggiava le visite ai musei, a parte il museo di Storia Naturale. Ora mi chiedo perché pensasse che la vista di tanti grossi animali impagliati avrebbe contribuito alla mia educazione. Perché era ormai evidente che era questo a cui miravano tutte quelle visite - alla mia educazione. Perché gli animali impagliati sarebbero andati meglio per me, o meglio per la sua idea di cosa dovessi diventare, che non, per esempio, una stanza piena di quadri? Credo di saperlo, ma forse mi sbaglio. Forse gli animali impagliati erano più o meno come uno zoo - un posto dove portare un bambino a fare una gita. Però andai alla National Gallery. Me lo suggerì il concierge dell'albergo, una volta che ebbi esaurito gli edifici. Mi estenuò - era come un grande magazzino, tanti corpi affollati contro le pareti, tanto sfolgorio -, ma al tempo stesso era esilarante. Non avevo mai visto tante donne nude tutte insieme. C'erano anche uomini nudi, ma non erano poi tanto nudi. C'era anche un'infinità di splendidi vestiti. Forse si tratta di categorie fondamentali, come donne e uomini: nudi e vestiti. Be', Dio ha creduto che fosse giusto così. (Laura da bambina: Cosa indossa Dio?) In tutti quei posti la macchina e l'autista aspettavano, e io entravo svelta attraverso qualunque cancello o porta, cercando di sembrare risoluta; cercando di non sembrare così sola e vuota. Poi guardavo e guardavo, in modo da avere qualcosa da dire in seguito. Ma non riuscivo veramente a capire il significato di quanto vedevo. Gli edifici sono solo edifici. Non hanno quasi niente di interessante, a meno che non sappiate qualcosa di architettura, o su quanto vi è accaduto, e io non lo sapevo. Mi mancava il talento per le visioni d'insieme; era come se i miei occhi fossero letteralmente a contatto con qualsiasi cosa fossi tenuta a guardare, e potessi assimilarne soltanto la consistenza: la ruvidezza dei mattoni o delle pietre, la levigatezza delle ringhiere di legno lucidato a cera, l'asprezza di una pelliccia consumata. Le striature del corno, il caldo barlume dell'avorio. Occhi di vetro. In aggiunta a queste escursioni educative, Richard mi incoraggiava ad andare a fare spese. I commessi dei negozi mi intimidivano, e compravo poco. In altre occasioni andavo dal parrucchiere. Non voleva che mi tagliassi i capelli né che li ondulassi, perciò non lo facevo. Uno stile semplice era il più adatto a me, sosteneva. Si addiceva alla mia giovinezza.
A volte me ne andavo semplicemente in giro, oppure mi sedevo sulle panchine, aspettando l'ora di tornare. A volte un uomo mi si sedeva accanto e cercava di attaccare discorso. Allora me ne andavo. Passavo un'infinità di tempo a cambiarmi d'abito. A trastullarmi con spalline, fermagli, tese di cappelli, cuciture di calze. A preoccuparmi se questa o quella cosa fosse adatta a questa o a quell'ora del giorno. Non c'era nessuno che mi allacciasse il vestito o mi dicesse che figura facevo di spalle e se avevo tutto infilato al posto giusto. Prima lo faceva Reenie, o Laura. Sentivo la loro mancanza, e cercavo di evitare di pensarci. A limarmi le unghie, a tenere a bagno i piedi. A strapparmi i peli, o a raderli: era necessario essere lisce, prive di setole. Una topografia simile ad argilla bagnata, una superficie su cui le mani potessero scivolare. Si diceva che le lune di miele offrissero alla nuova coppia il tempo per conoscersi meglio, eppure man mano che i giorni passavano mi sembrava di conoscere sempre meno Richard. Si stava tenendo in disparte, o era una dissimulazione? Una ritirata strategica? Tuttavia io stavo prendendo forma - la forma intesa per me da lui. Ogni volta che guardavo uno specchio, una piccola parte di me era stata riempita di colore. Dopo Londra andammo a Parigi, in traghetto attraverso la Manica e in treno. Lo schema dei giorni a Parigi era quasi lo stesso di quelli a Londra, anche se le colazioni erano differenti: un panino duro, marmellata di fragole, caffè con latte caldo. I pasti erano squisiti; Richard ne era entusiasta, specialmente dei vini. Continuava a dire che non eravamo a Toronto, cosa che mi appariva lampante. Vidi la Tour Eiffel ma non ci salii, perché non amo le altezze. Visitai il Pantheon e la tomba di Napoleone. Non visitai Notre Dame, perché Richard non vedeva di buon occhio le chiese, o almeno non quelle cattoliche, che considerava snervanti. In particolare pensava che l'incenso istupidisse il cervello. L'albergo francese aveva un bidè, di cui Richard mi spiegò l'uso con l'ombra di un sorrisetto ammiccante, dopo avermi sorpreso a lavarmici i piedi. Pensai: Capiscono qualcosa che agli altri non è chiaro, i francesi. Capiscono l'ansia del corpo. Quanto meno ne ammettono l'esistenza. Alloggiavamo al Lutetia, che durante la guerra sarebbe diventato il quartier generale nazista, ma come avremmo potuto saperlo? La mattina prendevo il caffè al bar dell'albergo, perché avevo paura di andare da qualsiasi altra parte. Avevo l'impressione che se avessi perso di vista l'albergo non
sarei stata più capace di ritornarci. Ormai sapevo che tutto il francese che mi aveva insegnato il signor Erskine era quasi inutile: Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point non mi avrebbe procurato altro latte caldo. Un vecchio cameriere con la faccia da tricheco si occupava di me; aveva l'abilità di versare il caffè e il latte caldo da due bricchi, tenendoli alti in aria, e lo trovavo affascinante, come un mago per bambini. Un giorno mi disse - sapeva un po' d'inglese - «Perché è triste?» «Non sono triste» risposi, e mi misi a piangere. La simpatia degli estranei può essere disastrosa. «Non dovrebbe essere triste» disse, guardandomi con i suoi malinconici, ruvidi occhi da tricheco. «C'entra sicuramente l'amore. Ma lei è così giovane e graziosa, avrà tempo per essere triste in seguito». I francesi se ne intendono di tristezza, ne conoscono tutti i tipi. È per questo che hanno i bidè. «È scellerato, l'amore» disse, dandomi un colpetto sulla spalla. «Ma se non c'è, è peggio». L'effetto fu leggermente rovinato l'indomani, quando mi fece delle proposte, o almeno credo che si trattasse di questo: il mio francese non era abbastanza buono per poterlo dire con certezza. Dopotutto non era tanto vecchio - sui quarantacinque, forse. Avrei dovuto accettare. Sulla tristezza si sbagliava, però: molto meglio essere tristi mentre si è giovani. Una bella ragazza triste ispira l'impulso di consolarla, a differenza di una vecchia befana triste. Ma lasciamo stare. Poi andammo a Roma. Roma mi sembrò familiare - almeno avevo un contesto in cui inquadrarla, fornitomi tanto tempo prima dal signor Erskine e dalle sue lezioni di latino. Vidi il Foro, o quanto ne rimaneva, e la via Appia, e il Colosseo, che sembrava un formaggio rosicchiato dai topi. Svariati ponti, svariati angeli logori, seri e pensosi. Vidi il Tevere che scorreva giallo come l'itterizia. Vidi San Pietro, anche se solo da fuori. Era molto grande. Suppongo che avrei dovuto vedere le truppe fasciste di Mussolini nelle loro uniformi nere che andavano in giro a marciare e a maltrattare la gente - lo facevano già? -, ma non fu così. È quel genere di cose che al momento tendono a essere invisibili, a meno che non vi capiti di esserne la vittima. Altrimenti le si vedono soltanto in seguito, nei cinegiornali, oppure nei film realizzati molti anni dopo. Di pomeriggio ordinavo una tazza di tè - stavo imparando a ordinare le cose, riuscivo a capire quale tono usare con i camerieri, come tenerli a di-
stanza di sicurezza. Bevendo il tè scrivevo cartoline. Le mie cartoline erano dirette a Laura e a Reenie, e parecchie a mio padre. C'erano sopra le fotografie degli edifici che ero stata condotta a visitare - raffiguravano, in piccoli dettagli color seppia, cosa avrei dovuto vedere. I messaggi che scrivevo loro erano frivoli. A Reenie: Il tempo è splendido. Me la sto godendo. A Laura: Oggi ho visto il Colosseo, dove i cristiani venivano dati in pasto ai leoni. L'avresti trovato interessante. A mio padre: Spero che tu stia bene. Richard ti manda i suoi saluti. (Quest'ultima cosa non era vera, ma stavo imparando quali bugie ci si aspettava che dicessi, nella mia qualità di moglie). Verso la fine del periodo destinato alla nostra luna di miele passammo una settimana a Berlino. Richard doveva sbrigarvi degli affari che avevano come oggetto manici di pale. Una delle sue fabbriche produceva manici di pale, e i tedeschi erano a corto di legno. C'erano molte opere di scavo da fare, e ancora di più se ne progettavano, e Richard poteva fornire i manici a un prezzo che batteva la concorrenza. Come diceva Reenie: Tutto fa brodo. Diceva anche: Gli affari sono affari, e poi ci sono le faccende poco pulite. Ma io non sapevo niente di affari. Il mio compito era sorridere. Devo ammettere che a Berlino mi divertii. Da nessuna parte ero stata così bionda. Gli uomini erano straordinariamente educati, anche se non si guardavano dietro quando passavano per le porte girevoli. I baciamano coprivano molti peccati. Fu a Berlino che imparai a profumarmi i polsi. Memorizzavo le città attraverso i loro alberghi, gli alberghi attraverso i loro bagni. Vestirsi, spogliarsi, stare stesa nell'acqua. Ma basta con questi appunti di viaggio. Tornammo a Toronto passando da New York, a metà agosto, in un'ondata di caldo. Dopo l'Europa e New York, Toronto sembrava sgraziata e angusta. Fuori della Union Station aleggiava un miscuglio di esalazioni bituminose proveniente da un'area in cui stavano riparando delle buche. Una macchina a noleggio venne a prenderci e ci condusse oltre i tram, con la loro polvere e il loro sferragliare, poi davanti ai pesanti edifici delle banche e ai grandi magazzini, poi su per il terreno in pendio che conduceva a Rosedale e all'ombra dei castagni e degli aceri. Ci fermammo davanti alla casa che Richard aveva comprato per noi per telegramma. L'aveva acquistata per quattro soldi, disse, dopo che il precedente proprietario era riuscito a fare bancarotta. A Richard piaceva dire di
avere acquistato le cose per quattro soldi, il che era strano, perché amava gloriarsi di tutto il suo denaro. All'esterno la casa era scura, ricoperta di festoni di edera, con le sue finestre alte e strette tutte rivolte all'interno. La chiave era sotto lo zerbino, l'ingresso odorava di prodotti chimici. Durante la nostra assenza Winifred aveva fatto cambiare la carta da parati, e i lavori non erano ancora finiti: c'erano ancora gli abiti dei pittori nelle stanze sul davanti, dove avevano strappato via i vecchi parati vittoriani. I nuovi colori erano perlacei, smorti - i colori dell'indifferenza lussuosa, del freddo distacco. Cirri tinti da un fioco tramonto, che si libravano ben al di sopra della volgare vivacità di uccelli, fiori e simili. Questo era lo scenario che mi veniva proposto, l'aria rarefatta in cui avrei dovuto fluttuare. Reenie avrebbe disdegnato quegli interni - il loro vuoto risplendente, il loro pallore. L'intera casa sembra un bagno. Ma al tempo stesso ne sarebbe stata spaventata, come me. Richiamai alla memoria la nonna Adelia: lei avrebbe saputo cosa fare. Avrebbe riconosciuto lo sforzo dei nuovi ricchi di fare effetto; sarebbe stata educata ma sprezzante. Oh, è senz'altro moderna, avrebbe forse detto. Se la sarebbe sbrigata in fretta con Winifred, pensai, ma ciò non mi procurò alcun conforto: adesso ero anch'io nella tribù di Winifred. O lo ero in parte. E Laura? Laura vi avrebbe introdotto di nascosto i suoi pastelli, i suoi tubetti di colore. Vi avrebbe fatto cadere qualcosa, ne avrebbe rotto qualcosa, deturpato almeno un angolino. Avrebbe lasciato il segno. Nell'ingresso, appoggiato al telefono, c'era un biglietto di Winifred. «Ciao, ragazzi! Benvenuti a casa! Ho fatto finire per prima la camera da letto! Spero che vi piacerà - è così chic! Freddie». «Non sapevo che se ne stesse occupando Winifred» dissi. «Desideravamo che fosse una sorpresa» ribatté Richard. «Non volevamo che ti impantanassi nei dettagli». Non per la prima volta, mi sentii come un bambino escluso dai genitori. Genitori geniali, crudeli, sempre in combutta, determinati sulla giustezza delle loro scelte, in tutto. Ero già sicura che i miei regali di compleanno da parte di Richard sarebbero stati sempre qualcosa che non desideravo. Andai di sopra a rinfrescarmi, su suggerimento di Richard. Evidentemente ne avevo bisogno. Di sicuro mi sentivo appiccicosa e afflosciata. («Una rosa senza rugiada» fu il suo commento). Il mio cappello era un disastro; lo feci volare sul mobile da bagno con il lavandino incassato.
Mi spruzzai il viso d'acqua, e lo tamponai con uno degli asciugamani bianchi con il monogramma preparati da Winifred. La camera da letto dava sul giardino sul retro, dove non era stato fatto nulla. Mi tolsi le scarpe con un calcio, mi lasciai cadere sullo sconfinato letto color crema. Aveva un baldacchino con della mussola drappeggiata tutt'intorno, come in un safari. Era qui, dunque, che avrei dovuto sorridere e sopportarlo - il letto su cui non avevo avuto voce in capitolo, ma dove ora dovevo giacere. E questo era il soffitto che avrei fissato d'ora in avanti, attraverso la nebbia di mussola, mentre le faccende terrene andavano avanti al di sotto della mia gola. Il telefono accanto al letto era bianco. Squillò. Risposi. Era Laura, in lacrime. «Dove sei stata?» singhiozzò. «Perché non sei tornata?» «Che vuoi dire?» dissi. «È adesso che dovevamo tornare! Calmati, non ti sento». «Non rispondevi mai!» piagnucolò. «Ma di cosa diavolo stai parlando?» «Papà è morto! È morto, morto - abbiamo mandato cinque telegrammi! Li ha mandati Reenie!» «Solo un istante. Calma. Quando è successo?» «Una settimana dopo la tua partenza. Abbiamo provato a telefonare, abbiamo chiamato tutti gli alberghi. Dicevano che ti avrebbero riferito, promettevano! Non te l'hanno detto?» «Sarò là domani» dissi. «Non lo sapevo. Nessuno mi ha detto niente. Non ho avuto nessun telegramma. Non li ho mai avuti». Non riuscivo a capire. Cos'era successo, cos'era andato storto, perché mio padre era morto, perché non ero stata avvertita? Mi ritrovai sul pavimento, sul tappeto grigio avorio, accovacciata sul telefono, raggomitolata attorno a esso come se fosse qualcosa di prezioso e di fragile. Pensai alle mie cartoline dall'Europa, che arrivavano ad Avilion con i loro messaggi allegri, banali. Probabilmente erano ancora sul tavolo dell'ingresso. Spero che tu stia bene. «Ma era sui giornali!» esclamò Laura. «Non dov'ero io» dissi. «Non in quei giornali». Non aggiunsi che comunque non mi ero mai data la pena di leggerli. Ero troppo istupidita. Era Richard che aveva ritirato i telegrammi, sulla nave e in tutti i nostri alberghi. Potevo vedere le sue dita meticolose che aprivano le buste, leggevano, piegavano i telegrammi in quattro, li riponevano. Non potevo accusarlo di aver mentito - non mi aveva mai detto niente, di quei telegrammi -, ma questo equivaleva a mentire. Non è vero?
Doveva aver detto al personale degli alberghi di non passare nessuna chiamata. Non a me, e non mentre ero presente. Mi aveva tenuto all'oscuro, deliberatamente. Pensai che avrei potuto sentirmi male, ma non fu così. Dopo un po' scesi di sotto. Esci dai gangheri e perderai la battaglia, diceva Reenie. Richard era seduto nella veranda sul retro con un gin and tonic. Davvero premuroso da parte di Winifred procurare una scorta di gin, aveva già detto, due volte. Un altro gin era già servito, in attesa che arrivassi, sul basso tavolo di ferro battuto bianco con il piano di vetro. Lo presi. Il ghiaccio tintinnò contro il cristallo. È così che doveva suonare la mia voce. «Mio Dio» disse Richard, guardandomi. «Pensavo che ti stessi rinfrescando. Cosa è successo ai tuoi occhi?» Dovevano essere rossi. «Mio padre è morto» dissi. «Hanno mandato cinque telegrammi. Non me l'hai detto». «Mea culpa» fece Richard. «So che avrei dovuto, ma volevo risparmiarti le preoccupazioni, cara. Non c'era niente da fare, non c'era modo di tornare in tempo per il funerale e non volevo rovinarti tutto. Credo di essere stato anche egoista - ti volevo tutta per me, anche solo per poco. Ora siediti e riprenditi, bevi il tuo drink, e perdonami. Affronteremo la questione domani mattina». Il caldo dava le vertigini; dove il sole batteva il prato era di un verde accecante. Le ombre sotto gli alberi erano dense come catrame. La voce di Richard mi giungeva in scoppi intermittenti, come in codice Morse: sentivo solo certe parole. Preoccupazioni. Tempo. Rovinarti. Egoista. Perdonami. Cosa avrei potuto ribattere? Il cappello color guscio d'uovo Natale è arrivato e passato. Ho cercato di non farci caso. Myra, però, non ci avrebbe mai rinunciato. Mi ha regalato un piccolo pudding alle prugne che ha cotto con le sue mani, fatto di melassa e stucco e decorato con ciliegine candite tagliate a metà, di un rosso vivo, come i copricapezzoli su una spogliarellista vecchio stile, e un gatto di legno piatto dipinto con aureola e ali da angelo. Ha detto che quei gatti avevano fatto furore alla Gingerbread House, e lei li trovava molto carini, e gliene era rimasto uno, c'era soltanto una crepa sottile che si vedeva a malapena, e sarebbe stato sicuramente bene sulla parete sopra i fornelli.
Una bella sistemazione, le ho detto. Sopra, un angelo, e per di più un angelo carnivoro - è ora che si dica la verità sull'argomento! Sotto, il forno, come in tutti i racconti più attendibili. E tra i due, noi altri, gettati sulla Terra di Mezzo, al livello delle padelle. La povera Myra era sconcertata, com'è sempre dai discorsi teologici. Il suo Dio le piace semplice - semplice e crudo, come un ravanello. L'inverno che stavamo aspettando è arrivato alla vigilia di Capodanno un gelo acuto, seguito il giorno dopo da un'enorme nevicata. Fuori della finestra i fiocchi turbinavano fitti fitti, come se Dio facesse piovere scaglie di sapone nel finale di uno spettacolo per bambini. Mi sono sintonizzata sul canale delle previsioni meteorologiche per avere il quadro completo strade chiuse, macchine sepolte, linee elettriche fuori uso, il commercio bloccato, operai in abiti voluminosi che camminano goffamente come giganteschi bambini infagottati per giocare all'aperto. Nel corso di tutta l'esposizione di quella che è stata eufemisticamente chiamata la «contingenza», il giovane conduttore ha conservato il suo ottimismo disinvolto, come fanno abitualmente in tutti i disastri immaginabili. Hanno la spensierata noncuranza dei trovatori o degli zingari dei luna-park, o dei venditori di assicurazioni, o dei guru del mercato azionario - che fanno previsioni gonfiate pienamente coscienti che nulla di quanto ci dicono potrà davvero realizzarsi. Myra ha chiamato per chiedermi se stavo bene. Ha detto che Walter sarebbe passato appena avesse smesso di nevicare, per tirarmi fuori. «Non essere sciocca, Myra» ho detto. «Sono perfettamente in grado di tirarmi fuori da sola». (Una bugia - non avevo alcuna intenzione di alzare un dito. Ero ben provvista di burro di arachidi, avrei potuto aspettare con calma che passasse. Ma avevo voglia di compagnia, e le mie minacce di mettermi in azione di solito affrettavano l'arrivo di Walter). «Non toccare la pala!» ha esclamato Myra. «Ogni anno centinaia di anziani - di gente della tua età - muoiono di attacchi di cuore per aver spalato la neve! E caso mai andasse via la luce, guarda dove metti le candele!» «Non sono decrepita» ho replicato bruscamente. «Se manderò a fuoco la casa, lo farò di proposito». Walter è comparso, Walter ha spalato la neve. Aveva portato un sacchetto di «buchi di ciambelle»; li abbiamo mangiati al tavolo della cucinario con prudenza, lui all'ingrosso, ma in maniera contemplativa. E un uomo per il quale masticare costituisce una forma di pensiero. Ciò che mi è tornato alla memoria allora è stata l'insegna sulla vetrina
del chiosco dei Downyflake Doughnut, al Parco dei Divertimenti di Sunnyside, nel - cos'era - nell'estate del 1935: Fratello, la vita è dura da affrontare, Ma a qualsiasi traguardo sia diretto, È alla ciambella che devi puntare, E non al buco, sia largo oppure stretto. Un paradosso, il buco della ciambella. Uno spazio vuoto, un tempo, ma ora hanno imparato a vendere anche quello. Una quantità negativa; il nulla reso mangiabile. Mi sono chiesta se fosse possibile usarlo - metaforicamente, s'intende - per dimostrare l'esistenza di Dio. Dare un nome a una sfera di nulla la trasforma in un'entità? Il giorno seguente mi sono avventurata fuori, tra le dune fredde, splendide. Una pazzia, ma volevo partecipare - la neve è così attraente, finché non diventa porosa e sporca di fuliggine. Il prato davanti casa era una valanga scintillante, con un tunnel alpino scavato nel mezzo. Mi sono fatta strada fino al marciapiede, e fin lì tutto bene, ma qualche casa più a nord i vicini non erano stati solerti come Walter nello spalare la neve, e sono rimasta intrappolata in un cumulo, mi sono dibattuta, sono scivolata e infine caduta. Nulla di rotto o di storto - o almeno mi pareva -, ma non potevo alzarmi. Giacevo là nella neve, dimenando braccia e gambe come una tartaruga rovesciata. I bambini lo fanno, ma apposta - agitano le braccia come gli uccelli, giocano agli angeli. Per loro è uno spasso. Stavo cominciando a preoccuparmi dell'ipotermia, quando due estranei mi hanno sollevata e portata di peso fino alla mia porta. Ho raggiunto zoppicando la stanza sul davanti e mi sono lasciata cadere sul divano, con ancora indosso calosce e cappotto. Fiutando l'odore delle disgrazie lontano un miglio, com'è sua abitudine, Myra è arrivata con una mezza dozzina di turgidi pasticcini avanzati da qualche solenne riunione di famiglia. Mi ha preparato una borsa dell'acqua calda e un po' di tè, quindi è stato chiamato il dottore, e tutti e due hanno fatto un sacco di storie, dando la stura a un torrente di consigli utili e di sinceri, arroganti versi di disapprovazione, notevolmente soddisfatti di sé. Ora sono costretta all'immobilità. E sono anche arrabbiata con me stessa. O meglio, non con me stessa - con questo brutto tiro che mi ha combinato il mio corpo. Dopo che ci si è imposto da egomaniaco qual è, facendo un gran chiasso attorno ai propri bisogni, imponendoci i suoi sordidi e perico-
losi desideri, lo scherzo finale del corpo è semplicemente assentarsi. Proprio quando ne hai più bisogno, proprio quando ti serve un braccio o una gamba, all'improvviso il corpo ha altre cose da fare. Vacilla, si piega sotto di te; si scioglie come se fosse fatto di neve, senza lasciare quasi niente. Due pezzetti di carbone, un vecchio cappello, un sorriso fatto di sassi. Le ossa bastoni secchi, facili a rompersi. È un affronto, tutto ciò. Ginocchia deboli, nocche artritiche, vene varicose, acciacchi: oltraggi - non sono nostri, non li abbiamo mai voluti o reclamati. Dentro la nostra testa portiamo i nostri io perfetti - i nostri io nell'età migliore, nonché nella loro luce migliore: mai colti in atteggiamenti goffi, con una gamba fuori della macchina e una ancora dentro, o mentre ci stuzzichiamo i denti, o mentre ci grattiamo il naso o il sedere. Se nudi, ci vediamo graziosamente adagiati attraverso un velo di nebbia, ed è qui che intervengono le stelle del cinema: assumono quelle pose per noi. Sono i nostri io più giovani che si stanno allontanando da noi, risplendono, diventano mitici. Da bambina, Laura chiedeva: In Paradiso, che età avrò? Laura era in piedi sui gradini d'ingresso di Avilion, tra le due urne di pietra dove non erano stati piantati fiori, ad aspettarci. Nonostante la sua altezza, sembrava molto giovane, molto fragile e sola. Aveva anche un'aria campagnola, dimessa. Indossava un vestito da casa blu chiaro con su stampato un motivo di farfalle color malva sbiadito - che era stato mio tre estati prima - e niente scarpe. (Era una nuova mortificazione della carne, o semplice eccentricità, o le aveva soltanto dimenticate?) Aveva i capelli raccolti in un'unica treccia che le ricadeva su una spalla, come la ninfa di pietra sulla riva del nostro laghetto di ninfee. Dio sa da quanto tempo era là. Non avevamo potuto annunciare con esattezza l'ora del nostro arrivo, perché avremmo fatto il viaggio in macchina, cosa che in quel periodo dell'anno era possibile: le strade non erano allagate o immerse nel fango fino all'altezza degli assali, e alcune erano perfino lastricate, ormai. Parlo al plurale, perché Richard venne con me. Disse che non gli saltava neanche in mente di mandarmi ad affrontare una situazione così difficile da sola, non in un momento come quello. Fu più che premuroso. Guidò lui stesso, la sua coupé blu - uno dei suoi nuovi giocattoli. Nel portabagagli di dietro c'erano le nostre due valigie, quelle piccole, solo per una notte - la sua di cuoio marrone rossiccio, la mia di un giallo sorbetto al
limone. Indossavo un vestito di lino color guscio d'uovo - frivolo accennarvi, non c'è dubbio, ma l'avevo comprato a Parigi e ci tenevo molto - e sapevo che al nostro arrivo avrebbe avuto il didietro tutto spiegazzato. Scarpe di lino con fiocchi di stoffa rigida aperte in punta. Il cappello color guscio d'uovo assortito viaggiò sulle mie ginocchia come un delicato pacco regalo. Richard era un guidatore nervoso. Non gli piaceva essere interrotto - diceva che gli rovinava la concentrazione - e così facemmo il tragitto più o meno in silenzio. Il viaggio durò più di quattro ore, mentre ora ce ne vogliono meno di due. Il cielo era chiaro, luminoso e insondabile come metallo; il sole si riversava come lava. Il caldo si levava tremolando dall'asfalto; le piccole città erano chiuse a difendersi dal sole, le tendine abbassate. Ne ricordo i prati bruciacchiati e i portici dalle colonne bianche, e le stazioni di servizio solitarie, le pompe come robot cilindrici con un braccio solo, i cocuzzoli di vetro come bombette senza tese, e i cimiteri dove sembrava che non sarebbe stato più sepolto nessuno. Ogni tanto ci imbattevamo in un lago da cui proveniva un odore di pesciolini morti e di elodee calde. Nel vederci avvicinare, Laura non agitò la mano. Rimase in attesa mentre Richard frenava, scendeva con difficoltà e faceva il giro della macchina per aprire lo sportello dalla mia parte. Stavo piegando le gambe di lato, le due ginocchia insieme come mi era stato insegnato, e stavo per afferrare la mano che Richard mi offriva, quando all'improvviso Laura si animò. Corse giù dai gradini, mi prese l'altro braccio e mi tirò fuori della macchina, ignorando completamente Richard, poi mi abbracciò e mi si aggrappò quasi stesse annegando. Niente lacrime, solo quell'abbraccio da spezzare la schiena. Il mio cappello color guscio d'uovo cadde sulla ghiaia e Laura ci mise i piedi sopra. Ci fu un suono crepitante, mentre Richard tratteneva il respiro. Non dissi nulla. In quel momento non m'importava più del cappello. Ognuna con un braccio attorno alla vita dell'altra, io e Laura salimmo i gradini che conducevano alla casa. Reenie apparve sulla porta della cucina dall'altra parte dell'ingresso, ma capì che in quel momento era il caso di lasciarci sole. Credo che abbia dirottato la sua attenzione su Richard - distraendolo con un drink o qualcos'altro. Be', lui avrebbe voluto visitare l'immobile e fare una passeggiata sul terreno circostante, ora che li aveva effettivamente ereditati. Andammo diritte in camera di Laura e ci sedemmo sul suo letto. Conti-
nuavamo a stringerci le mani - la sinistra nella destra, la destra nella sinistra. Laura non piangeva, come al telefono. No, era calma come un pezzo di legno. «Era nella torretta» esordì. «Si era chiuso dentro». «Lo faceva sempre» dissi. «Ma questa volta non ne è uscito. Reenie gli lasciava fuori i vassoi con i pasti come al solito, ma lui non mangiava niente, e neppure beveva - per quello che ne sapevamo. Così poi abbiamo dovuto buttare giù la porta». «Tu e Reenie?» «È venuto il ragazzo di Reenie - Ron Hincks - quello che sta per sposare. L'ha buttata giù lui. E papà era steso per terra. Doveva essere là da almeno due giorni, ha detto il dottore. Aveva un aspetto orribile». Non mi ero resa conto che Ron Hincks fosse il ragazzo di Reenie - anzi il suo fidanzato. Da quanto tempo andava avanti, e come avevo fatto a non accorgermene? «Era morto, è questo che vuoi dire?» «All'inizio non l'ho pensato, perché aveva gli occhi aperti. Ma era proprio morto. Era... non so dirti com'era. Come se fosse in ascolto, di qualcosa che lo aveva spaventato. Era vigile». «Si era sparato?» non so perché lo chiesi. «No. No, era semplicemente morto. Nel certificato è stato scritto per cause naturali - all'improvviso, per cause naturali, diceva così - e Reenie ha detto alla signora Hillcoate che si è trattato veramente di cause naturali, perché bere era certamente la seconda natura di papà, e a giudicare da tutte le bottiglie vuote aveva ingurgitato abbastanza alcol da far crepare un cavallo». «Si è ubriacato a morte» dissi. Non era una domanda. «Quando è successo?» «Subito dopo l'annuncio della chiusura permanente delle fabbriche. È questo che l'ha ucciso. Ne sono sicura!» «Cosa?» chiesi. «Quale chiusura permanente? Quali fabbriche?» «Tutte» disse Laura. «Tutte quelle che ci appartengono. Tutto ciò che ci appartiene in città. Pensavo che lo sapessi». «Non lo sapevo». «Le nostre fabbriche sono state assorbite da quelle di Richard. Tutto è stato trasferito a Toronto. Ora è diventato tutto Griffen-Chase Royal Consolidated». Niente più Figli, in altre parole. Richard aveva fatto piazza pulita.
«Perciò questo significa niente lavoro» dissi. «Niente lavoro qui. È tutto finito. Cancellato». «Hanno detto che era una questione di costi. Dopo l'incendio della fabbrica di bottoni... hanno detto che ci sarebbe voluto troppo per ricostruirla». «Chi l'ha detto?» «Non lo so» disse Laura. «Non è stato Richard?» «Non era questo il patto» dissi. Povero papà - che si fidava delle strette di mano e delle parole d'onore e delle cose date per scontate. Mi stava diventando chiaro che non era più questo il modo in cui funzionavano le cose. E forse non lo era mai stato. «Quale patto?» chiese Laura. «Non importa». Avevo sposato Richard per niente, dunque - non avevo salvato le fabbriche, e certamente non avevo salvato mio padre. Ma c'era ancora Laura; non era in mezzo a una strada. Dovevo pensare a questo. «Non ha lasciato nulla, nessuna lettera, nessun biglietto?» «No». «Hai cercato?» «Ha cercato Reenie» disse Laura sottovoce; il che significava che lei non se l'era sentita. Naturalmente, pensai. Sarebbe stata Reenie a cercare. E se avesse davvero trovato qualcosa del genere, l'avrebbe bruciato. Stordimento Ma mio padre non avrebbe lasciato biglietti. Sarebbe stato consapevole delle implicazioni. Non avrebbe voluto un verdetto di suicidio, perché, come risultò, aveva un'assicurazione sulla vita: aveva versato denaro per anni, perciò nessuno avrebbe potuto accusarlo di avere combinato tutto all'ultimo momento. Aveva bloccato il denaro - doveva andare dritto in un conto vincolato, in modo che solo Laura potesse toccarlo, e solo dopo aver compiuto ventun anni. A quel punto doveva aver perso ogni fiducia in Richard, e concluso che lasciarmi qualcosa sarebbe stato inutile. Io ero ancora minorenne, ed ero la moglie di Richard. Le leggi erano differenti allora. Ciò che era mio era suo, a tutti gli effetti. Come ho già detto, ho le medaglie di mio padre. Per cosa le aveva avute? Coraggio. Audacia sotto il fuoco nemico. Nobili gesti di abnegazione.
Credo che ci si aspettasse che io fossi alla loro altezza. Tutta la città è venuta al funerale, disse Reenie. Be', quasi tutta, perché in alcuni quartieri c'era parecchia amarezza; eppure gli era stato dimostrato il dovuto rispetto, e a quel punto si era saputo che non era stato lui a chiudere definitivamente le fabbriche a quel modo. Si era saputo che non vi aveva avuto alcuna parte - non aveva potuto impedirlo, ecco tutto. Erano stati i grossi interessi a ucciderlo. Tutti in città erano dispiaciuti per Laura, disse Reenie. (Ma non per me, era sottinteso. Dal loro punto di vista io ero finita insieme al bottino. Per quello che valeva). Ecco i piani di Richard: Laura sarebbe venuta a vivere con noi. Be', è naturale che l'avrebbe fatto: non poteva rimanere ad Avilion tutta sola, dal momento che aveva solo quindici anni. «Potrei stare con Reenie» disse Laura, ma Richard rispose che era fuori questione. Reenie si sarebbe sposata; non avrebbe avuto il tempo di occuparsi di lei. Laura disse che non aveva bisogno che ci si occupasse di lei, ma Richard si limitò a sorridere. «Reenie potrebbe venire a Toronto» disse Laura, ma Richard disse che Reenie non avrebbe voluto. (Era Richard che non voleva. Lui e Winifred avevano già assunto quello che a parer loro era il personale adatto alla gestione della sua casa - gente che sapeva il fatto suo, disse. Questo significava che sapeva il fatto di Richard, nonché quello di Winifred). Richard disse che ne aveva già discusso con Reenie, e aveva raggiunto un accordo soddisfacente. Reenie e il suo novello sposo ci avrebbero fatto da custodi, disse, e avrebbero sorvegliato i restauri - Avilion stava cadendo a pezzi, perciò c'erano molti restauri da fare, a cominciare dal tetto - e così sarebbero stati a disposizione per prepararci la casa ogni volta che ce ne fosse stato bisogno, perché sarebbe servita da residenza estiva. Saremmo venuti ad Avilion per andare in barca e così via, disse, con il tono dello zio indulgente. In tal modo Laura e io non saremmo state private della casa avita. Disse casa avita con un sorriso. Non ci avrebbe fatto piacere? Laura non lo ringraziò. Gli fissò la fronte con la studiata espressione vacua che un tempo aveva usato con il signor Erskine, e capii che c'erano guai in vista. Io e lui saremmo tornati a Toronto in macchina, continuò Richard, una volta che le cose fossero state sistemate. Prima aveva bisogno di incontrare gli avvocati di mio padre, un'occasione alla quale non c'era bisogno che fossimo presenti: sarebbe stato troppo straziante per noi, considerati i re-
centi avvenimenti, e voleva risparmiarci il più possibile. Uno di questi avvocati era un parente acquisito da parte di nostra madre, ci disse Reenie in privato - il cugino di una cugina di secondo grado - perciò avrebbe tenuto sicuramente gli occhi aperti. Laura sarebbe rimasta ad Avilion fino a che lei e Reenie non avessero impacchettato le sue cose; poi sarebbe venuta in città in treno, e qualcuno sarebbe andato a prenderla alla stazione. Avrebbe vissuto con noi in casa nostra - c'era una stanza da letto in più che le sarebbe andata a pennello, una volta che fosse stata ridipinta. E avrebbe frequentato - finalmente - una scuola come si deve. Il St. Cecilia era quella che lui aveva scelto, consultandosi con Winifred, che di certe cose se ne intendeva. Laura avrebbe potuto avere bisogno di lezioni private, ma era sicuro che col passare del tempo tutto si sarebbe risolto. In questo modo sarebbe stata in grado di avvalersi dei benefici, dei vantaggi... «I vantaggi di cosa?» domandò Laura. «Della tua posizione» rispose Richard. «Non mi pare di avere nessuna posizione» ribatté Laura. «Cosa intendi dire esattamente con questo?» chiese Richard, in tono meno indulgente. «È Iris che ha una posizione» disse Laura. «È lei la signora Griffen, io sono solo un extra». «Mi rendo conto che sei comprensibilmente turbata» disse Richard in tono freddo, «considerate le spiacevoli circostanze, che sono state difficili per tutti, ma non c'è bisogno di essere sgradevoli. Non è facile neanche per me e per Iris. Sto solo cercando di fare del mio meglio per te». «Pensa che sarò d'impaccio» mi disse Laura quella sera, in cucina, dove eravamo andate a cercare rifugio da Richard. Ci disturbava guardarlo fare le sue liste - cosa andava scartato, cosa riparato, cosa sostituito. Guardarlo e stare zitte. Si comporta come se fosse lui il padrone, aveva detto Reenie indignata. Ma lo è, avevo risposto. «D'impaccio a cosa?» chiesi. «Sono sicura che non intendeva dire questo». «D'impaccio a lui» rispose. «D'impaccio a voi due». «Tutto si sistemerà per il meglio» disse Reenie. Lo disse meccanicamente. La sua voce era esausta, priva di convinzione, e vidi che da lei non ci si poteva aspettare più alcun aiuto. Quella sera in cucina sembrava vecchia, e piuttosto grassa, e anche confusa. Come sarebbe venuto fuori ben presto, era già incinta di Myra. Si era permessa di perdere la testa.
Quando perdi la testa perdi anche tutto il resto, e poi chi s'è visto s'è visto, diceva sempre, ma aveva contravvenuto alle proprie massime. Doveva avere la mente altrove, per esempio doveva chiedersi se sarebbe riuscita a farsi portare all'altare, e cosa sarebbe successo in caso contrario. Brutti momenti, senza dubbio. Allora non c'erano barriere tra la sufficienza e il disastro: se scivolavi cadevi, e se cadevi ti agitavi e ti dimenavi e andavi sotto. Difficilmente avrebbe avuto un'altra occasione, perché se anche se ne fosse andata per avere il bambino e poi lo avesse dato via, le voci sarebbero girate e la gente in città non avrebbe mai dimenticato una cosa del genere. Allora avrebbe potuto benissimo mettere i cartelli: ci sarebbe stata la coda attorno all'edificio. Una volta che una donna era facile, si faceva in modo che rimanesse tale. Perché comprare una mucca quando il latte è gratis?, è quanto pensava probabilmente Reenie. Perciò ci aveva date per perse, aveva rinunciato a noi. Per anni aveva fatto quanto aveva potuto, e ora non aveva più alcun potere. Tornata a Toronto, aspettai l'arrivo di Laura. L'ondata di caldo continuava. Tempo afoso, fronti madide, una doccia prima dei gin and tonic nella veranda sul retro, affacciati sul giardino rinsecchito. L'aria come fuoco liquido; ogni cosa floscia o gialla. Nella stanza da letto c'era un ventilatore che faceva il rumore di un vecchio con una gamba di legno che si arrampicava su per le scale: un rantolo ansante, un gorgoglio, un rantolo. Nelle pesanti notti senza stelle fissavo il soffitto, mentre Richard continuava a fare quello che faceva. Era stordito da me, diceva. Stordito - come se fosse ubriaco. Voleva dire che non si sarebbe mai sentito come si sentiva nei miei confronti, se fosse stato sobrio e nelle sue piene facoltà? Mi guardavo nello specchio, chiedendomi: Cosa c'è in me? Cosa c'è che può stordire a tal punto? Lo specchio era a figura intera: cercavo di vedermi di spalle, ma naturalmente non era possibile. Non si riesce mai a vedersi come ci vedono gli altri - come ci vede un uomo che ci guarda, da dietro, quando non lo sappiamo - perché in uno specchio la nostra testa è sempre girata ad angolo retto sulla spalla. Una posa civettuola, invitante. Si può tenere in mano un altro specchio per vederci di spalle, ma allora ciò che scorgiamo è ciò che tanti pittori hanno amato dipingere - Donna che si guarda allo specchio, considerata un'allegoria della vanità. Anche se è improbabile che si tratti di vanità, piuttosto del contrario: di una ricerca di difetti. Cosa c'è in me? Può facilmente essere interpretato come Cosa c'è che
non va in me? Richard diceva che le donne potevano essere divise in mele e pere, a seconda della forma del loro sedere. Io ero una pera, ma una pera acerba. Era quello che gli piaceva in me - la mia immaturità, la mia durezza. Nel reparto sedere, credo che intendesse, ma forse in tutto. Dopo le mie docce, la mia rimozione delle setole, le mie spazzolate e pettinate, ora stavo attenta a togliere tutti i peli dal pavimento. Tiravo su i piccoli ciuffi di peli dallo scarico della vasca da bagno o del lavandino, li gettavo nel water e tiravo lo sciacquone, perché Richard aveva osservato casualmente che le donne lasciavano sempre peli in giro. Come gli animali durante la muta, era sottinteso. Come lo sapeva? Come sapeva delle pere e delle mele, e dei peli caduti? Chi erano quelle donne, le altre donne? A parte una superficiale curiosità, non me ne importava. Cercavo di evitare di pensare a mio padre e al modo in cui era morto, e a cosa potesse avere avuto in mente prima che accadesse, e a come dovesse essersi sentito, e a tutto ciò che Richard non aveva ritenuto conveniente comunicarmi. Winifred era sempre occupatissima. Nonostante il caldo sembrava fredda, avvolta in tessuti leggeri e impalpabili come la parodia di una madrina delle fiabe. Richard continuava a ripetere quanto fosse meravigliosa e quanta fatica e preoccupazioni mi stesse risparmiando, ma lei mi rendeva sempre più nervosa. Entrava e usciva in continuazione da casa nostra; non sapevo mai quando potesse spuntare, facendo capolino dalla porta con un sorriso spavaldo. Il mio unico rifugio era il bagno, perché là potevo girare la chiave senza sembrare eccessivamente sgarbata. Si stava occupando del resto dell'arredamento, ordinando i mobili per la stanza di Laura. (Una toletta orlata di una stoffa increspata con un motivo floreale rosa, tende e copriletto in tinta. Uno specchio con una cornice a volute bianca con guarnizioni in oro. Era proprio quello che ci voleva per Laura, non ero d'accordo? Non lo ero, ma non aveva alcun senso dirlo). Stava anche facendo progetti per il giardino; aveva già buttato giù parecchi schizzi - solo qualche piccola idea, diceva agitandomi i fogli sotto gli occhi e poi tirandoli indietro, riponendoli con cura nella cartella già traboccante delle altre sue piccole idee. Una fontana sarebbe stata deliziosa, diceva - qualcosa di francese, ma avrebbe dovuto essere autentica. Non ero d'accordo?
Volevo che Laura venisse. La data del suo arrivo era stata posticipata ormai tre volte - non aveva ancora finito i bagagli, le era venuto un raffreddore, aveva perso il biglietto. Le parlavo al telefono bianco; la sua voce era controllata, distante. I due servitori erano stati insediati, una cuoca-domestica brontolona e un grosso tizio con la pappagorgia che si era fatto passare per giardiniereautista. Si chiamavano Murgatroyd e dicevano di essere marito e moglie, ma sembravano fratello e sorella. Mi guardavano con diffidenza, e io li contraccambiavo. Durante il giorno, quando Richard era in ufficio e Winifred era onnipresente, cercavo di fuggire di casa il più possibile. Dicevo di andare in centro - a fare spese, dicevo, che era una versione accettabile di come avrei trascorso il mio tempo. Mi facevo lasciare dall'autista davanti ai grandi magazzini Simpsons, dicendogli che al ritorno avrei preso un taxi. Quindi entravo, compravo qualcosa in fretta: calze e guanti erano sempre convincenti come prova del mio desiderio di fare acquisti. Poi attraversavo il negozio in tutta la sua lunghezza e uscivo dalla porta opposta. Ripresi le mie vecchie abitudini - girovagare senza scopo, esaminare le vetrine, i manifesti dei film. Andavo perfino al cinema da sola; non mi facevano più effetto gli uomini che ti palpavano, avevano perso la loro aura di magia demoniaca, ora che sapevo ciò che avevano in mente. Non ero interessata a quel genere di cose, sempre le stesse - lo stesso ossessivo stringere e tastare. Tieni le mani a posto o grido funzionava abbastanza bene, finché eri pronta a metterlo in pratica. Sembravano capire che lo ero. A quei tempi la mia stella del cinema preferita era Joan Crawford. Occhi feriti, bocca letale. A volte andavo al Royal Ontario Museum. Guardavo le armature, gli animali impagliati, gli antichi strumenti musicali. Questo non mi era di grande giovamento. Oppure andavo al Diana Sweets per una bibita o una tazza di caffè: era una sala da tè signorile di fronte ai grandi magazzini, molto frequentata dalle signore, dove avevo poche probabilità di essere infastidita da molestatori occasionali. Oppure attraversavo il Queen's Park, svelta e risoluta. Se l'avessi fatto troppo lentamente, sarebbe saltato sicuramente su qualche uomo. Carta moschicida, così Reenie chiamava questa o quella giovane donna. Deve raschiarseli via di dosso. Una volta un uomo si esibì, proprio davanti a me, all'altezza degli occhi. (Avevo fatto l'errore di sedermi su una panchina appartata, nei giardini dell'università). Non era neanche un vagabondo, era vestito piuttosto bene. «Mi dispiace» gli dissi. «Non sono proprio interessata». Sembrò deluso. Molto probabilmente a-
vrebbe voluto che io svenissi. In teoria sarei potuta andare dove volevo, in pratica c'erano barriere invisibili. Mi mantenevo sulle strade principali, nelle zone più ricche: perfino entro quei confini in realtà non erano moltissimi i luoghi in cui mi sentissi libera. Osservavo l'altra gente - non tanto gli uomini, quanto le donne. Erano sposate? Dove stavano andando? Avevano un lavoro? Guardandole non potevo indovinare molto, se non il prezzo delle loro scarpe. Mi sentivo come se fossi stata presa e scaricata in un paese straniero, dove tutti parlavano una lingua diversa. A volte c'erano coppie, a braccetto - che ridevano, felici, affettuose. Vittime di un enorme inganno, e al tempo stesso sue artefici, o almeno mi sembrava. Le osservavo con rancore. Poi un giorno - era giovedì - vidi Alex Thomas. Era dall'altra parte della strada, aspettando che il semaforo scattasse. Era la Queen Street, a Yonge. Era piuttosto malandato - indossava una camicia azzurra, da operaio, e un cappello malconcio - ma era proprio lui. Sembrava illuminato, come se un raggio di luce lo colpisse da qualche fonte invisibile, rendendolo spaventosamente visibile. Certo tutti gli altri in strada lo stavano guardando - certo tutti sapevano chi era! Da un momento all'altro lo avrebbero riconosciuto, avrebbero gridato, si sarebbero lanciati al suo inseguimento. Il mio primo impulso fu di avvertirlo. Ma poi capii che l'avvertimento doveva valere per tutti e due, perché in qualsiasi guaio fosse coinvolto, vi sarei stata immediatamente coinvolta anch'io. Avrei potuto non rivolgergli la minima attenzione. Mi sarei potuta girare. Sarebbe stato saggio. Ma una simile saggezza a quel tempo non era alla mia portata. Scesi dal marciapiede e feci per attraversare nella sua direzione. Il semaforo cambiò di nuovo: ero bloccata in mezzo alla strada. Le macchine suonarono i loro clacson; ci furono grida; il traffico ondeggiò. Non sapevo se tornare indietro o andare avanti. Allora lui si girò, e sulle prime non fui certa che potesse vedermi. Allungai la mano, come una persona che sta affogando e implora di essere salvata. In quel momento nel mio cuore avevo già tradito. Fu un tradimento o un atto di coraggio? Forse entrambe le cose. Nessuna delle due comporta la premeditazione: cose del genere avvengono su due piedi, in un batter d'occhio. Questo soltanto perché le abbiamo già provate, più e più volte, nel silenzio e nell'oscurità; in un tale silenzio, in una tale
oscurità, che ne siamo perfino inconsapevoli. Ciechi ma senza commettere passi falsi, andiamo avanti come se entrassimo in una danza che ci è tornata alla memoria. Sunnyside Tre giorni dopo, doveva arrivare Laura. Mi ero fatta accompagnare alla Union Station per essere lì all'arrivo del treno, ma lei non c'era. Non era neanche ad Avilion: telefonai a Reenie per controllare, provocando un'esplosione; aveva sempre saputo che sarebbe successo qualcosa del genere, considerato com'era Laura. L'aveva accompagnata al treno, aveva spedito il baule e tutto il resto, come ordinato, aveva preso ogni precauzione. Avrebbe dovuto accompagnarla per tutto il viaggio, e adesso ecco! Qualche trafficante di schiave l'aveva fatta sparire. Il baule di Laura comparve in orario, ma di lei sembrava che si fosse persa ogni traccia. Richard fu più turbato di quanto mi sarei aspettata. Aveva paura che fosse stata rapita da qualche misterioso gruppo - gente che ce l'aveva con lui. Potevano essere i rossi, oppure un rivale in affari privo di scrupoli: certi squilibrati esistevano. Criminali, insinuò, in combutta con ogni specie di gente - gente che non si sarebbe fermata davanti a nulla pur di esercitare pressioni su di lui, a causa dei suoi contatti politici in continuo aumento. Ora avremmo dovuto aspettarci di ricevere un messaggio ricattatorio. Erano molti gli elementi che lo insospettivano, quell'agosto; disse che dovevamo stare bene in guardia. C'era stata una grossa marcia a Ottawa, in luglio - migliaia, decine di migliaia di uomini che sostenevano di essere disoccupati e domandavano lavoro e paghe eque, istigati dai sovversivi a rovesciare il governo. «Scommetto che c'è coinvolto quel giovane come-si-chiama» disse Richard, osservandomi attentamente. «Quel giovane chi?» domandai, guardando fuori della finestra. «Fai attenzione, cara. L'amico di Laura. Quello scuro. Il giovane criminale che ha distrutto la fabbrica di tuo padre dandole fuoco». «Non è andata distrutta» dissi. «Hanno spento il fuoco in tempo. E comunque, non è mai stato provato». «Se l'è svignata» replicò Richard. «È scappato come un coniglio. Per me è una prova sufficiente».
I partecipanti alla marcia erano stati raggirati con un astuto stratagemma suggerito dietro le quinte - almeno a sentir lui - dallo stesso Richard, che al tempo aveva amici altolocati. I leader della marcia erano stati attirati a Ottawa per «colloqui ufficiali», e l'intera faccenda era stata tenuta sotto controllo al Regina. I colloqui non avevano portato a nulla, secondo copione, ma poi erano scoppiati disordini: i sovversivi avevano agitato le acque, la folla aveva perso il controllo, c'erano stati morti e feriti. Dietro a tutto questo c'erano i comunisti, perché loro avevano le mani in pasta in ogni losco affare, e chi poteva dire che l'agguato a Laura non fosse uno di quegli affari? Pensai che Richard si stesse agitando eccessivamente. Anch'io ero turbata, ma credevo che Laura avesse semplicemente fatto un giro più lungo del previsto - distratta da qualcosa. Sarebbe stato più tipico da parte sua. Era scesa alla stazione sbagliata, aveva dimenticato il nostro numero di telefono, aveva perso la strada. Winifred disse che avremmo dovuto controllare gli ospedali: Laura poteva essersi ammalata o avere avuto un incidente. Ma non era in ospedale. Dopo due giorni di preoccupazioni informammo la polizia, e poco dopo, nonostante le precauzioni di Richard, la storia finì sui giornali. I cronisti assediarono il marciapiede fuori casa nostra. Scattavano foto, magari solo alle porte e alle finestre; telefonavano; ci supplicavano di rilasciare interviste. Quello che volevano era uno scandalo. «Nota studentessa dell'alta società trovata in un nido d'amore». «La Union Station luogo di macabri resti». Volevano che si dicesse che Laura era fuggita con un uomo sposato, o era stata sequestrata dagli anarchici, o era stata trovata morta in una valigia a quadri nel deposito bagagli. Sesso o morte, o tutte e due le cose insieme è questo che avevano in mente. Richard disse che dovevamo essere gentili ma abbottonati. Disse che non aveva senso inimicarsi eccessivamente i giornali, perché i cronisti erano piccoli parassiti vendicativi che avrebbero serbato rancore per anni e ci avrebbero ripagato più tardi, quando meno ce lo fossimo aspettato. Disse che se ne sarebbe occupato lui. Per prima cosa mise in giro la voce che ero sull'orlo del crollo, e chiese che la mia privacy e la mia salute delicata fossero rispettate. Questo fece un po' demordere i cronisti; naturalmente supposero che fossi incinta, cosa che a quei tempi veniva ancora considerata, e che inoltre si pensava confondesse il cervello delle donne. Poi fece sapere che per qualsiasi informa-
zione ci sarebbe stata una ricompensa, pur non dicendo di quanto. L'ottavo giorno ci fu una chiamata anonima: Laura non era morta, ma lavorava in una bancarella di cialde al Parco dei Divertimenti di Sunnyside. Chi chiamava sosteneva di averla riconosciuta dalla descrizione fornitane dai giornali. Fu deciso che Richard e io saremmo andati insieme a recuperarla in macchina. Winifred disse che molto probabilmente Laura era in uno stato di choc a scoppio ritardato, considerata la morte disdicevole di mio padre e la sua scoperta del cadavere. Chiunque sarebbe stato turbato dopo una simile prova, e Laura era una ragazza dal temperamento nervoso. La cosa più probabile era che si rendesse a malapena conto di quanto faceva o diceva. Una volta che l'avessimo riavuta tra noi, avremmo dovuto somministrarle un forte sedativo e portarla da un dottore. Ma la cosa più importante, disse Winifred, era che non trapelasse una sola parola su tutto ciò. Una quindicenne che scappava di casa a quel modo avrebbe gettato una cattiva luce sulla famiglia. Magari la gente avrebbe pensato che fosse stata maltrattata, e questo poteva diventare un serio impedimento. Per Richard e per il suo avvenire politico, intendeva dire. A quel tempo Sunnyside era dove la gente andava d'estate. Non gente come Richard e Winifred - c'era troppo chiasso per loro, troppo tanfo di sudore. Giostre, hot-dog, root beer, tiri al bersaglio, concorsi di bellezza, bagni pubblici: in poche parole, divertimenti volgari. A Richard e Winifred non sarebbe piaciuto trovarsi così a tiro delle ascelle altrui, o di chi contava il proprio denaro in centesimi. Ma non so perché faccio tanto la moralista, dato che non sarebbe piaciuto neanche a me. Non c'è più, Sunnyside - spazzato via da un'autostrada d'asfalto a dodici corsie a un certo punto degli anni Cinquanta. Smantellato tanto tempo fa, come molte altre cose. Ma quell'agosto funzionava ancora a pieno regime. Ci andammo con il coupé di Richard, ma dovemmo lasciare la macchina a una certa distanza, per via del traffico e della calca di gente che faceva a gomitate sui marciapiedi e sulle strade polverose. Era una giornata orribile, torrida e caliginosa; più arroventata dei cardini dell'Ade, come direbbe ora Walter. Sopra la riva del lago aleggiava una foschia invisibile ma quasi palpabile, fatta di profumo stantio e di olio abbronzante spalmato sulle spalle nude, mescolato al vapore dei wurstel che cuocevano e all'odore bruciato dello zucchero filato. Camminare nella folla era come affondare in uno stufato - ci si trasformava in un ingrediente, si prendeva un certo sapore. Perfino la fronte di Richard era bagnata, sotto la
tesa del panama. Dall'alto veniva un forte stridore di metallo contro metallo, e un rimbombo minaccioso, e un coro di grida femminili: le montagne russe. Non ci ero mai stata e nel vederle rimasi a bocca aperta, finché Richard non disse: «Chiudi la bocca, cara, o ci entreranno le mosche». Più tardi sentii una strana storia - da chi? Da Winifred, non c'è dubbio; era il genere di cose che buttava lì per dimostrare di sapere cosa accadeva veramente nella vita, nella vita dei miserabili, dietro le quinte. La storia diceva che le ragazze che si erano messe nei guai - era il termine di Winifred, come se avessero combinato il guaio tutte da sole -, che queste ragazze inguaiate andavano sulle montagne russe a Sunnyside, sperando in tal modo di provocare un aborto. Winifred rideva: Naturalmente non funzionava, diceva, e se avesse funzionato cosa avrebbero fatto? Con tutto quel sangue, voglio dire? L'avrebbero fatto volare in aria? Figuratevi un po'! Quello che immaginai quando lo raccontò furono le stelle filanti rosse che si lanciavano dai transatlantici al momento della partenza e scendevano come una cascata sugli spettatori di sotto; o una serie di linee, linee rosse lunghe e spesse, che si srotolavano dalle montagne russe e dalle ragazze lì sopra come vernice gettata da un secchio. Come lunghi scarabocchi di fumo vermiglio. Come se scrivessero in cielo. Ora penso: Ma in quest'ultimo caso, cosa avrebbero scritto? Diari, romanzi, autobiografie? O semplici graffiti: Mary ama John. Ma John non ama Mary, o non abbastanza. Non abbastanza da evitarle di svuotarsi così, scarabocchiando sopra tutti quanti in lettere rosse, tanto rosse. Una vecchia storia. Ma in quell'agosto del 1935 non avevo ancora sentito parlare di aborto. Se la parola fosse stata detta in mia presenza, cosa che non poteva accadere, non avrei avuto idea del suo significato. Neanche Reenie l'aveva mai nominata: oscuri accenni a macellai da tavolo di cucina erano il massimo a cui si fosse spinta, e Laura e io - nascoste sulla scala di servizio a origliare - avevamo pensato che parlasse di cannibalismo, cosa che avevamo trovato avvincente. Le montagne russe sfrecciavano tra le grida, il tiro al bersaglio faceva un rumore come di popcorn. Altra gente rideva. Mi accorsi di avere fame, ma non me la sentii di suggerire uno spuntino; non sarebbe stato appropriato in quel momento, e poi il cibo era inaccettabile. Richard era di umore nero; mi teneva per il gomito, guidandomi attraverso la folla. Aveva l'altra mano
in tasca: quel posto, disse, brulicava sicuramente di ladri lesti di mano. Ci facemmo strada verso la bancarella delle cialde. Laura non si vedeva, ma Richard non voleva parlare subito con lei, aveva un'idea migliore. Gli piaceva risolvere le cose con chi comandava, sempre, se era possibile. Perciò chiese di parlare a quattr'occhi con il proprietario della bancarella, un uomo robusto dalla carnagione scura che puzzava di burro rancido. L'uomo capì subito perché Richard era lì. Uscì fuori dalla bancarella, gettando un'occhiata furtiva al di sopra della spalla. Era consapevole che stava dando ricetto a una fuggiasca minorenne? chiese Richard. Dio ce ne guardi! esclamò l'uomo, inorridito. Laura lo aveva raggirato - aveva detto di avere diciannove anni. Però lavorava sodo, lavorava come un mulo, teneva il locale pulito e dava una mano con le cialde quando il daffare era davvero tanto. Dove dormiva? Su questo punto fu vago. Qualcuno lì intorno le aveva dato un letto, ma non lui. Non c'era niente di losco, dovevamo credergli, almeno per quanto ne sapeva. Era una brava ragazza e lui era un uomo felicemente sposato, a differenza di qualcuno là in giro. Gli era dispiaciuto per lei - aveva pensato che forse si era cacciata in qualche guaio. Aveva un debole per le belle ragazzine così. In effetti era stato lui a chiamare, e non solo per la ricompensa; aveva immaginato che lei avrebbe fatto meglio a tornare dalla sua famiglia, giusto? A questo punto guardò Richard in attesa. Ci fu un passaggio di denaro, anche se - mi parve di capire - non tanto quanto l'uomo si era aspettato. Poi fu mandata a chiamare Laura. Non protestò. Ci diede un'occhiata e decise di non farlo. «Grazie di tutto, comunque» disse all'uomo delle cialde. Gli strinse la mano. Non si rese conto che aveva speculato su di lei. Richard e io la tenemmo ognuno per un gomito; la conducemmo alla macchina attraverso Sunnyside. Mi sentivo una traditrice. Richard la fece sedere tra noi due. Le misi un braccio attorno alle spalle per calmarla. Ero arrabbiata con lei, ma sapevo che dovevo essere confortante. Odorava di vaniglia, di sciroppo dolce forte e di capelli non lavati. Dopo avere riportato Laura a casa, Richard mandò a chiamare la signora Murgatroyd e le fece portare un bicchiere di tè freddo. Ma Laura non lo bevve, si sedette esattamente al centro del divano, le ginocchia unite, rigida, il viso impietrito, gli occhi come ardesia. Aveva idea di quanta ansia e scompiglio avesse provocato? chiese Richard. No. Gliene importava? Nessuna risposta. Lui certamente sperava che non avrebbe più riprovato a fare nulla di simile. Nessuna risposta. Perché ora lui era in loco parentis, per così dire, e aveva una responsabilità
nei suoi confronti, e aveva tutte le intenzioni di assolverla, per quanto potesse costargli. E siccome nulla è a senso unico, si aspettava che lei si rendesse conto di avere a sua volta una responsabilità nei suoi confronti - nei nostri confronti, precisò -, che consisteva nel comportarsi bene e nel fare quanto le veniva richiesto, nei limiti del possibile. Lo capiva? «Sì» rispose Laura. «Capisco cosa vuoi dire». «Lo spero proprio» disse Richard. «Lo spero proprio, ragazzina». Il ragazzina mi innervosì. Era un rimprovero, come se ci fosse qualcosa che non andava nell'essere una ragazzina. Se era così, era un rimprovero che comprendeva anche me. «Cosa mangiavi?» chiesi, per cambiare discorso. «Mele caramellate» rispose Laura. «Ciambelle comprate al chiosco dei Downyflake Doughnut, il secondo giorno le ho pagate di meno. La gente lì era davvero carina. Hot dog». «Oh, cara» dissi, con un piccolo sorriso di disapprovazione a Richard. «È quello che mangia l'altra gente» disse Laura, «nella vita reale», e io cominciai a capire vagamente cosa dovesse averla attratta a Sunnyside. Era l'altra gente - la gente che era sempre stata e avrebbe continuato a essere altra, per quanto riguardava Laura. Desiderava servirla, quest'altra gente. Desiderava, in un certo senso, unirsi a lei. Ma non ci era mai riuscita. Eravamo tornati alla mensa dei poveri di Port Ticonderoga. «Laura, perché l'hai fatto?» chiesi appena fummo sole. (Come hai potuto farlo? avrebbe avuto una risposta semplice: era scesa dal treno a London e aveva cambiato il suo biglietto con quello per un treno successivo. Almeno non era andata in qualche altra città: allora magari non l'avremmo più trovata). «Richard ha ucciso papà» disse. «Non posso vivere in casa sua. È sbagliato». «Non è molto corretto» ribattei. «Papà è morto per una sfortunata combinazione di circostanze». Mi vergognavo di me stessa nel dirlo: mi sembrava di sentire Richard. «Può anche non essere corretto, ma è vero. Sotto sotto, è vero» disse. «A ogni modo, volevo un lavoro». «Ma perché?» «Per dimostrare che ce l'avremmo... che ce l'avrei fatta. Che io, che noi non dovevamo...» Distolse lo sguardo da me, si rosicchiò un'unghia. «Dovevamo cosa?»
«Lo sai» disse. «Tutto questo». Fece un gesto della mano in direzione della toletta con le sue gale, delle tende a fiori in tinta. «Per prima cosa sono andata dalle suore. Al Convento di Nostra Signora Stella del Mare». Oh Dio, pensai, non di nuovo le suore. Pensavo che avessimo chiuso con le suore. «E cosa hanno detto?» domandai in maniera gentile, distaccata. «Non è servito a niente» disse Laura. «Sono state molto carine con me, ma hanno detto di no. Non solo perché non ero cattolica. Hanno detto che non avevo una vera vocazione, stavo soltanto sottraendomi ai miei doveri. Hanno detto che se volevo servire Dio, avrei dovuto farlo nella vita alla quale mi aveva chiamato». Una pausa. «Ma quale vita?» disse. «Io non ho nessuna vita!» Poi si mise a piangere, e io l'abbracciai, il gesto antico di quando era piccola. Ma smettila di strillare. Se avessi avuto una zolletta di zucchero di canna gliel'avrei data, ma ormai eravamo ben oltre la fase dello zucchero di canna. Lo zucchero non sarebbe servito a niente. «Come faremo ad andarcene da qui?» piagnucolava. «Prima che sia troppo tardi?» Almeno aveva il buonsenso di essere spaventata; aveva più buonsenso di me. Ma io pensavo che fosse solo un melodramma da adolescente. «Troppo tardi per cosa?» le chiesi gentilmente. Un profondo respiro era tutto quello che ci voleva; un profondo respiro, un po' di calma, fare mente locale. Non era il caso di farsi prendere dal panico. Pensavo che avrei potuto collaborare con Richard, con Winifred. Pensavo che avrei potuto vivere come un topo nel castello delle tigri, strisciando non vista dentro i muri; standomene tranquilla, tenendomi fuori dei guai. No: mi attribuisco un merito che non ho. Non vedevo il pericolo. Non sapevo neanche che erano delle tigri. Peggio: non sapevo che sarei potuta diventare io stessa una tigre. Non sapevo che anche Laura lo sarebbe potuta diventare, nelle circostanze adeguate. Chiunque poteva, se è per questo. «Cerca di vedere il lato positivo» dissi a Laura nel mio tono più tranquillizzante. Le diedi qualche colpetto sulla schiena. «Ti porto una tazza di latte caldo, e poi potrai farti una bella dormita. Ti sentirai meglio domani». Ma lei continuava a piangere, e non voleva essere confortata. Xanadu La scorsa notte ho sognato che indossavo il costume che avevo al ballo a tema dedicato a Xanadu. Io dovevo essere una fanciulla abissina - la fanciulla con il salterio. Era di raso verde, quel costume: un piccolo bolero
con un bordo di lustrini dorati, che lasciava ampiamente scoperti seni e vita; culottes di raso verde, pantaloni trasparenti. Un'infinità di false monete d'oro indossate come collane e avvolte attorno alla fronte. Un piccolo turbante vivace con una spilla a mezzaluna. Un velo sul viso. Un'idea dell'Oriente quale può averla un costumista da circo di cattivo gusto. Pensavo di essere molto chic indossandolo, finché mi resi conto, abbassando lo sguardo sulla mia pancia cadente, sulle mie nocche ingrossate venate di blu, sulle mie braccia raggrinzite, di non avere l'età che avevo allora, ma la mia età di adesso. Non ero al ballo, però. Ero tutta sola, o così mi sembrò sulle prime, nella serra in rovina di Avilion. Vasi vuoti erano sparsi qua e là; altri, non vuoti, erano pieni di terra secca e piante morte. Una delle sfingi di pietra giaceva al suolo, rovesciata su un lato, sfregiata con un pennarello - nomi, iniziali, disegni sconci. C'era un buco nel tetto di vetro. Il posto puzzava di gatto. La casa dietro di me era buia, deserta, tutto ciò che conteneva era sparito. Mi avevano lasciata lì con quel ridicolo vestito stravagante. Era notte, con una sottile falce di luna. Alla sua luce potevo vedere che in realtà c'era un'unica pianta ancora viva: una sorta di cespuglio scintillante con un fiore bianco. Laura, dissi. Dall'ombra giunse una risata d'uomo. Non è granché come incubo, direte. Aspettate a provarlo. Mi sono svegliata - sconsolata. Perché la mente combina certi scherzi? Ci si accanisce contro, ci lacera, affonda i suoi artigli dentro di noi. Se hai abbastanza fame, dicono, cominci a mangiarti il cuore. Forse è la stessa cosa. Sciocchezze. Si tratta solo di sostanze chimiche. Devo prendere dei provvedimenti, riguardo a questi sogni. Ci sarà pure qualche pillola. Oggi ancora neve. Mi basta guardare fuori della finestra per sentirmi dolere le dita. Scrivo al tavolo della cucina, lentamente, come se cesellassi qualcosa. La penna è pesante, difficile da premere, come un chiodo che gratta sul cemento. Autunno 1935. Il caldo si ritirava, il freddo avanzava. Gelo sulle foglie cadute, poi sulle foglie che non erano cadute. Poi sulle finestre. Allora certi dettagli mi davano gioia. Mi piaceva inspirare l'aria. Lo spazio all'interno dei miei polmoni era tutto mio. Nel frattempo, le cose andavano avanti. Quella a cui ora Winifred si riferiva come alla «scappatella» di Laura veniva tenuta il più possibile nascosta. Richard disse a Laura che se ne a-
vesse parlato a chiunque altro, soprattutto a scuola, lo sarebbe venuto sicuramente a sapere e lo avrebbe considerato un affronto personale, alla stregua di un tentativo di sabotaggio. Aveva sistemato le cose con la stampa: ur alibi era stato fornito dai Newton-Dobbse, una coppia di suoi amici che occupavano una posizione di rilievo - lui era qualcuno in una compagnia ferroviaria - e che erano disposti a giurare che Laura era stata tutto il tempo in loro compagnia nella loro casa di Muskoka. Era stato un piano per le vacanze fatto all'ultimo momento, e Laura pensava che i Newton-Dobbse ci avessero telefonato e i Newton-Dobbse pensavano che lo avesse fatto lei, ed era stato soltanto un malinteso, e non si erano resi conto che Laura era data per scomparsa, perché quando erano in vacanza non facevano mai attenzione ai giornali. Proprio una bella storia. Ma la gente ci credette, o dovette fingere di crederci. Suppongo che i Newton-Dobbse abbiano diffuso la vera storia tra i loro amici più intimi - è strettamente confidenziale e tenetevelo per voi -, che è quello che Winifred avrebbe fatto al posto loro, dal momento che i pettegolezzi erano una merce come un'altra. Ma almeno non arrivò mai sui giornali. Laura fu infagottata in un kilt pruriginoso e in una cravatta scozzese e spedita al St. Cecilia. Non faceva segreto del fatto che lo detestava. Diceva che non aveva bisogno di andarci; diceva che come si era trovata un lavoro avrebbe potuto trovarsene un altro. Diceva queste cose a me, quando Richard era presente. Non voleva parlare direttamente a lui. Si rosicchiava le unghie, non mangiava abbastanza, era troppo magra. Mi preoccupai molto per lei, come ci si aspettava che facessi e com'era onestamente il caso. Ma Richard diceva che era stanco di quelle sciocchezze isteriche, e quanto al lavoro, non voleva più sentirne parlare. Laura era troppo giovane per andare a vivere per conto proprio; si sarebbe impegolata in qualcosa di spiacevole, perché il mondo era pieno di gente che si faceva un dovere di dare la caccia alle ragazzine sciocche come lei. Se non le piaceva la sua scuola, poteva essere mandata in un'altra, lontana, in un'altra città, e se fosse scappata anche da lì lui l'avrebbe messa in un istituto per ragazze ribelli insieme a tutti gli altri depravati come lei, e se neanche quello avesse funzionato ci sarebbe sempre stata una clinica. Una clinica privata, con sbarre alle finestre: se era il capo cosparso di cenere che voleva, quello avrebbe certamente fatto al caso suo. Lei era una minorenne, lui era una persona influente, e stesse pur certa che avrebbe fatto esattamente
come aveva detto. Come sapeva - come sapevano tutti - era un uomo di parola. Quando era arrabbiato gli occhi tendevano a sporgergli in fuori, e ora gli stavano appunto sporgendo, ma disse tutto questo in un tono calmo, credibile, e Laura gli credette e ne fu intimidita. Cercai di intervenire - quelle minacce erano troppo dure, lui non capiva Laura e il suo modo di prendere le cose alla lettera - ma mi disse di tenermene fuori. Quello di cui c'era bisogno era una mano ferma. Laura era stata coccolata abbastanza. Era venuto il momento che si desse una regolata. Col passare delle settimane fu stabilita una tregua impacciata. In casa cercai di sistemare le cose in modo che loro due non si scontrassero mai. Navi che si sfiorano nella notte, era quello in cui speravo. Winifred si era intromessa, naturalmente. Doveva aver detto a Richard di prendere posizione, perché Laura era il tipo di ragazza che avrebbe morso la mano che la sfamava a meno che non le fosse stata messa una museruola. Richard consultava Winifred su tutto, perché era lei che si mostrava solidale nei suoi confronti, che lo sosteneva, lo incoraggiava in generale. Era lei che lo appoggiava socialmente, che favoriva i suoi interessi in quelle che considerava le giuste direzioni. Quando avrebbe cercato di entrare in Parlamento? Non ancora, sussurrava Winifred in qualunque orecchio su cui si piegasse - i tempi non erano ancora maturi -, ma presto. Avevano deciso entrambi che Richard era l'uomo del futuro, e che la donna che gli stava dietro - non ne aveva una ogni uomo di successo? - doveva essere lei. Certamente non ero io. Le nostre rispettive posizioni ormai erano chiare, le sue e le mie; in verità a lei erano sempre state chiare, ma ora lo stavano diventando anche a me. Lei era necessaria a Richard, mentre io potevo sempre essere sostituita. Il mio lavoro era aprire le gambe e chiudere la bocca. Può suonare brutale, e lo era. Ma non era troppo fuori del comune. Winifred doveva tenermi occupata durante le ore del giorno: non voleva che impazzissi per la noia, non voleva che perdessi le staffe. Si lambiccava a prepararmi compiti insignificanti, quindi a riordinare il mio tempo e il mio spazio in modo che fossi libera di svolgerli. Questi compiti non erano mai troppo impegnativi, perché non faceva segreto della sua opinione secondo cui ero piuttosto stupida. Da parte mia non facevo nulla per scorag-
giare tale opinione. Veniamo dunque al ballo di beneficenza per il Brefotrofio Downtown Foundlings, di cui Winifred fu l'ideatrice. Mi mise nella lista degli organizzatori, non solo per tenermi affaccendata, ma perché la cosa avrebbe giovato all'immagine di Richard. «Organizzatrice» - era solo un gioco, lei non mi riteneva capace neppure di organizzare i lacci delle mie scarpe, perciò che lavoretto da niente avrebbe potuto assegnarmi? Scrivere gli indirizzi sulle buste, decise. Aveva ragione, ero in grado di farlo. Fui perfino brava. Non dovevo pensare troppo, e potevo far vagare la mente altrove. («Grazie a Dio ha almeno un talento» la sentii dire alle Billie e alle Charlie, durante il bridge. «Oh, dimenticavo - due!» Scoppi di risa). Il Brefotrofio Downtown Foundlings, che soccorreva i bambini dei quartieri poveri, era il fiore all'occhiello di Winifred, o almeno lo era il ballo di beneficenza. Era un ballo in costume - com'erano per lo più queste feste, perché a quel tempo alla gente piacevano i travestimenti. Piacevano quasi quanto le uniformi. Servivano tutti e due allo stesso scopo: per evitare di essere chi si era, si poteva fingere di essere qualcun altro. Si poteva diventare più grandi e potenti, o più affascinanti e misteriosi, semplicemente indossando abiti esotici. Be', in fondo c'era qualcosa di vero. Winifred era affiancata da un comitato per il ballo, ma era risaputo che prendeva tutte le grosse decisioni da sola. Lei teneva i cerchi, gli altri ci saltavano attraverso. Fu lei a scegliere il tema per il 1936 - «Xanadu». Di recente il rivale Beaux Arts Bali era stato incentrato su «Tamerlano a Samarcanda», e aveva riportato un grande successo. I temi orientali non potevano mancare, e sicuramente a scuola tutti avevano imparato a memoria Kubla Khan, perciò perfino gli avvocati - perfino i dottori - perfino i banchieri avrebbero saputo cos'era Xanadu. Anche per le loro mogli sarebbe stato scontato saperlo. A Xanadu Kubla Khan ordinò di costruire Un grandioso tempio del piacere: Dove Alph, il fiume sacro, scorreva Per caverne smisurate all'uomo Giù fino a un mare senza sole. Winifred fece battere a macchina l'intera poesia, la fece ciclostilare e distribuire al nostro comitato - per far circolare le idee, diceva. Inoltre, qualsiasi suggerimento da parte nostra sarebbe stato più che gradito, sebbene
sapessimo che aveva tutto già perfettamente disegnato nella sua testa. La poesia sarebbe apparsa anche sull'invito inciso a lettere dorate, con una scritta araba in caratteri dorati e cerulei tutt'intorno. Qualcuno avrebbe capito quella scritta? No, ma era decisamente incantevole. A questi ricevimenti si partecipava solo su invito. Venivi invitato e poi pagavi salato, tuttavia si trattava di una cerchia molto ristretta. I nomi sulla lista divenivano materia di ansiosa aspettativa, ma solo per chi aveva dubbi sul proprio rango. Aspettare un invito e non riceverlo era un assaggio del Purgatorio. Credo che molte lacrime venissero versate per delusioni del genere, ma in segreto - in quel mondo, non potevi mai far vedere che te ne importava. La bellezza di Xanadu era (disse Winifred, dopo aver letto la poesia con la sua voce da bevitrice di whisky - in maniera eccellente, devo dargliene atto) - la sua bellezza era che con un tema simile ci si poteva svelare o nascondere a proprio piacimento. Le corpulente potevano avvolgersi in ricchi broccati, le snelle potevano intervenire come schiave o danzatrici persiane, e mettersi generosamente in mostra. Gonne trasparenti, braccialetti, catene tintinnanti alle caviglie - le opportunità erano praticamente infinite, e certo agli uomini sarebbe piaciuto vestirsi da pascià e fingere di avere un harem. Anche se dubitava di poter convincere qualcuno a recitare la parte dell'eunuco, aggiunse tra risolini di apprezzamento. Laura era troppo giovane per quel ballo. Winifred stava progettando per lei un ingresso in società, un rito di passaggio che non aveva ancora avuto luogo, ma fino ad allora non era considerata idonea. Tuttavia, mostrò notevole interesse per i preparativi. Ero molto sollevata nel vederla di nuovo interessata a qualcosa. Di certo non lo era alla sua attività scolastica: i suoi voti erano pessimi. Mi correggo: non era ai preparativi che si interessava, ma alla poesia. Io la conoscevo già dai tempi di Miss Violence, ad Avilion, ma all'epoca Laura non se n'era curata granché. Ora non faceva che leggerla. Cos'era un demonio-amante, voleva sapere? Perché il mare era senza sole, perché l'oceano era senza vita? Perché l'assolato tempio del piacere aveva grotte di ghiaccio? Cos'era il monte Abora, e perché la fanciulla abissina lo cantava? Perché le voci ancestrali profetizzavano la guerra? Non avevo risposta a nessuna di queste domande. Ora le conosco tutte. Non le risposte di Samuel Taylor Coleridge - non sono sicura che ne avesse, dal momento che a quel tempo era dedito alla droga - ma le mie. Eccole, per quello che valgono.
Il fiume sacro è vivo. Scorre verso l'oceano senza vita, perché è là che vanno a finire tutte le cose che sono vive. L'amante è un demone-amante perché non c'è. L'assolato tempio del piacere ha grotte di ghiaccio perché è ciò che hanno tutti i templi del piacere - dopo un po' si fanno molto freddi, quindi si sciolgono, e allora come ti ritrovi? Tutto bagnato. Il monte Abora era la casa della vergine abissina, e lei lo cantava perché non poteva tornarvi. Le voci ancestrali profetizzavano la guerra perché le voci ancestrali non tacciono mai, e odiano sbagliarsi, e la guerra è una cosa certa, prima o poi. Correggetemi se sbaglio. La neve cadeva, dapprima soffice, poi in palline dure che pungevano la pelle come aghi. Il sole tramontava di pomeriggio, il cielo passava da sangue sbiadito a latte scremato. Il fumo si riversava dai camini, dalle caldaie alimentate a carbone. I cavalli del carro del pane lasciavano in strada mucchi di fumanti focacce marroni che poi il gelo solidificava. I bambini se le tiravano l'un l'altro. Gli orologi continuavano a suonare la mezzanotte, ogni mezzanotte di un intenso blu scuro tempestato di stelle glaciali, la luna color giallo avorio. Guardavo fuori della finestra della camera da letto, giù sul marciapiede, attraverso i rami del castagno. Poi spegnevo la luce. Il ballo dedicato a Xanadu ebbe luogo il secondo sabato di gennaio. Il mio costume era arrivato quella mattina, in una scatola traboccante di carta velina. La cosa chic era affittare il costume da Malabar, perché farsene fare uno apposta avrebbe significato dimostrare uno zelo eccessivo. Ora erano quasi le sei e me lo stavo provando. Laura era nella mia stanza: faceva spesso i compiti là, o fingeva di farli. «Cosa dovresti essere?» chiese. «La fanciulla abissina» risposi. Non ero ancora sicura di cosa avrei usato come salterio. Forse un banjo con l'aggiunta di qualche nastro. Poi mi ricordai che l'unico banjo di cui avessi notizia era appartenuto ai miei zii morti ed era rimasto ad Avilion, in soffitta. Avrei dovuto rinunciare al salterio. Non mi aspettavo che Laura mi dicesse che ero graziosa, o perfino bella. Non lo faceva mai: per lei graziosa e bella non erano categorie di pensiero. Questa volta commentò: «Non sei molto abissina. Le abissine non dovrebbero essere bionde». «Non posso fare niente per il colore dei miei capelli» dissi. «È colpa di Winifred. Avrebbe dovuto scegliere i vichinghi o qualcosa del genere». «Perché hanno tutti paura di lui?» domandò Laura.
«Paura di chi?» ribattei. (Non avevo considerato la paura in quella poesia, solo il piacere. Il tempio del piacere. Il tempio del piacere era dove in realtà io vivevo allora - dov'era il mio vero essere, sconosciuto a quanti mi circondavano. Cinto da mura e torri tutt'intorno, in modo che nessun altro potesse entrarvi). «Ascolta» disse. Recitò a occhi chiusi: Potessi rivivere dentro di me La sua musica e il canto, Ne trarrei un piacere tanto intenso, Che con musica forte e prolungata Costruirei quel tempio in aria, Quel tempio soleggiato! Quelle grotte di ghiaccio! E ognuno che fosse in ascolto li vedrebbe là, E griderebbe Attenti! Attenti! I suoi occhi fiammeggianti, i suoi capelli fluttuanti! Traccia tre volte un circolo attorno a lui E chiudi gli occhi con sacro terrore, Perché egli si è nutrito di mielata E ha bevuto il latte del Paradiso. «Vedi, hanno paura di lui» disse, «ma perché? Perché Attenti?» «Sul serio, Laura, non ne ho idea» risposi. «È solo una poesia. Non si può capire sempre il significato delle poesie. Forse pensano che sia pazzo». «È perché è troppo felice» disse Laura. «Ha bevuto il latte del Paradiso. La gente si spaventa, quando sei troppo felice a quel modo. Non è per questo?» «Laura, non mi assillare» feci. «Io non so tutto, non sono una professoressa». Era seduta sul pavimento, nel suo kilt della scuola. Si succhiava una nocca, guardandomi, delusa. Ultimamente la deludevo spesso. «Ho visto Alex Thomas l'altro giorno» disse. Mi girai svelta, mi aggiustai il velo allo specchio. Faceva un ben misero effetto, il raso verde: una vamp di Hollywood in un film ambientato nel deserto. Mi consolai al pensiero che tutti gli altri sarebbero stati altrettanto finti. «Alex Thomas? Davvero?» domandai. Avrei dovuto mostrarmi più sorpresa.
«Be', non sei contenta?» «Contenta di cosa?» «Contenta che sia vivo» rispose. «Contenta che non l'abbiano preso». «Certo che sono contenta» dissi. «Ma non dire niente a nessuno. Non vorrai che si mettano di nuovo a dargli la caccia». «Non c'è bisogno che tu me lo dica. Non sono una bambina. Per questo non l'ho salutato». «Lui ti ha visto?» chiesi. «No. Stava solo camminando per la strada. Aveva il colletto del cappotto sollevato e la sciarpa sul mento, ma l'ho riconosciuto. Teneva le mani in tasca». All'accenno alle mani, alle tasche, fui attraversata da un dolore acuto. «Che strada era?» «La nostra» disse. «Era sull'altro lato, e guardava le case. Credo che ci stesse cercando. Deve sapere che viviamo da queste parti». «Laura» feci, «hai ancora una cotta per Alex Thomas? Perché se ce l'hai, dovresti provare a fartela passare». «Non ho una cotta per lui» disse con disprezzo. «Non ce l'ho mai avuta. Cotta è una parola orribile. Fa veramente schifo». Da quando frequentava la scuola era diventata meno devota, e il suo linguaggio era diventato molto più sboccato. Schifo andava per la maggiore. «Comunque voglia chiamarla, dovresti rinunciarci. È impossibile» dissi in tono gentile. «Ti renderà soltanto infelice». Laura si mise le braccia intorno alle ginocchia. «Infelice» ripeté. «Cosa puoi saperne tu dell'infelicità?» VIII L'assassino cieco: Storie carnivore Si è spostato di nuovo, per fortuna. Lei odiava quel posto fuori mano, accanto alla stazione di smistamento. Non le piaceva andare là, e in ogni caso era talmente lontano, e poi così freddo: ogni volta che ci arrivava le battevano i denti. Odiava quella camera stretta e triste, la puzza stantia delle sigarette perché non si poteva aprire la finestra bloccata, la piccola doccia sporca nell'angolo, quella donna che incontrava sulle scale - una donna che faceva pensare alla contadinella oppressa di qualche vecchio romanzo ammuffito, ogni volta si aspettava di vederla con un fascio di legna sulla
schiena. L'astiosa occhiata insolente che lanciava, quasi immaginasse esattamente cosa sarebbe successo dietro quella porta una volta che si fosse chiusa. Un'occhiata invidiosa, ma anche malevola. Che liberazione. Ora la neve si è sciolta, sebbene ne rimanga qualche chiazza grigia nelle zone all'ombra. Il sole è caldo, c'è odore di terra bagnata e di radici che si muovono e dei resti fradici dei giornali gettati via lo scorso inverno, confusi e illeggibili. Nei quartieri più belli della città sono spuntati i narcisi, e in qualche giardino sul davanti, dove non c'è ombra, si vedono i tulipani, rossi e arancioni. Una nota di speranza, come dicono le rubriche di giardinaggio; sebbene perfino adesso, in aprile avanzato, l'altro giorno abbia nevicato - grossi fiocchi bianchi bagnati, una tempesta di neve anomala. Lei ha nascosto i capelli sotto un fazzoletto, ha indossato un cappotto blu marino, la cosa più vicina al sobrio che avesse. Lui ha detto che sarebbe stata la cosa migliore. Da queste parti, nei cantucci, negli angoli, tracce di gatto maschio e vomito, fetore di polli messi in gabbia. Sulla strada gli escrementi dei cavalli dei poliziotti, che tengono gli occhi aperti, non per i ladri ma per i sovversivi - covi di rossi venuti dall'estero, che sussurrano tra loro come topi nella paglia, sei per letto senza dubbio, dividendosi le donne, tramando i loro contorti, intricati complotti. Si dice che Emma Goldman, esiliata dagli Stati Uniti, viva nelle vicinanze. Sangue sul marciapiede, un uomo con un secchio e una spazzola. Lei cammina infastidita attorno alla pozzanghera rosa. È una zona di macellai kasher; anche di sarti, di pellicciai all'ingrosso. E di aziende che sfruttano i dipendenti, senza dubbio. File di donne immigrate ingobbite sulle macchine, mentre i loro polmoni si riempiono di laniccio. I vestiti che porti ce li hai grazie a quelli di qualcun altro, le aveva detto una volta. Sì, aveva ribattuto lei con disinvoltura, ma a me stanno meglio. Quindi aveva aggiunto con una certa rabbia: Cosa vuoi che faccia? Cosa vuoi che faccia io? Credi sul serio che abbia qualche potere? Si ferma a un fruttivendolo, compra tre mele. Non mele molto buone, con la buccia moscia e avvizzita, ma sente di avere bisogno di un'offerta di pace di qualche tipo. La donna le prende una delle mele, indica una macchia marrone dov'è guasta, la sostituisce con una migliore. Tutto questo senza parlare. Cenni eloquenti e sorrisi dai denti radi. Uomini in lunghi cappotti neri, larghi cappelli neri, piccole donne dagli occhi penetranti. Scialli, gonne lunghe. Verbi scorretti. Non vi guardano direttamente, ma non si perdono granché. Lei è appariscente, una gigantes-
sa. Le sue gambe troppo scoperte. Ecco il negozio di bottoni, proprio dove aveva detto. Si ferma un momento a guardare la vetrina. Bottoni stravaganti, nastri di raso, passamano, guarnizioni, lustrini - materie prime per gli aggettivi da sogno della moda copiata. Le dita di qualcuno, proprio da queste parti, devono avere cucito il bordo di ermellino sulla sua mantellina da sera di chiffon bianco. Il contrasto tra il velo fragile e la folta pelliccia animale, ecco cosa attrae gli uomini. La carne delicata, poi il boschetto. La sua nuova stanza è sopra un fornaio. Gira l'angolo, sale le scale, avvolta in una nuvola di odore che le piace. Però è denso, soffocante - lievito che fermenta, che le va diritto alla testa come elio caldo. Non lo ha visto da troppo tempo. Perché è stata lontana? Lui è là, apre la porta. Ti ho portato qualche mela, gli dice. Dopo un po' gli oggetti di questo mondo prendono di nuovo forma attorno a lei. Ecco la sua macchina da scrivere, precaria sul piccolo portacatino. La valigia blu è lì accanto, con sopra il catino rimosso. Una camicia spiegazzata a terra. Perché gli indumenti in disordine significano sempre desiderio? Con le loro forme contorte, impetuose. Le fiamme nei dipinti sono così - come stoffa arancione gettata, scagliata via. Sono stesi a letto, un'enorme struttura di mogano intagliato che riempie quasi la stanza. Un tempo mobilia nuziale, fatta venire da lontano, destinata a durare una vita. Una vita, che parola stupida sembra adesso; la durata, che cosa inutile. Taglia una mela con il temperino di lui, gli mette in bocca gli spicchi. Se non sapessi come stanno le cose, penserei che stai cercando di sedurmi. No - ti sto soltanto tenendo in vita. Ti sto ingrassando per mangiarti più tardi. È un'idea perversa, signorina. Sì. È tua. Non dirmi che hai dimenticato le donne morte con i capelli azzurri e gli occhi come fosse piene di serpenti. Ti avrebbero mangiato a colazione. Solo se ne avessero avuto il permesso. Allunga di nuovo il braccio verso di lei. Che fine hai fatto? Sono settimane. Già. Aspetta. Ho qualcosa da dirti. È urgente? chiede lui.
Sì. Non proprio. No. Il sole tramonta, le ombre delle tende si muovono attraverso il letto. Fuori in strada voci, lingue sconosciute. Lo ricorderò sempre, dice lei tra sé e sé. Poi: Perché penso alla memoria? Non è ancora dopo, è adesso. Non è ancora finito. Ho pensato alla storia, dice lei. Ho immaginato il seguito. Oh? Ti è venuta qualche idea tutta tua? Ho sempre avuto idee tutte mie. Okay. Sentiamole, fa lui, sorridendo. Va bene, dice lei. Eravamo rimasti a quando la ragazza e l'uomo cieco venivano portati al cospetto del Servitore della Gioia, il capo degli invasori barbari chiamati il Popolo della Desolazione, perché sospettati di essere messaggeri divini. Correggimi se sbaglio. Davvero fai attenzione a questa roba? chiede lui con aria stupita. Te la ricordi davvero? Certo. Ricordo ogni parola che hai detto. Arrivano all'accampamento dei barbari, e l'assassino cieco dice al Servitore della Gioia che ha un messaggio per lui da parte dell'Invincibile, ma deve consegnarglielo in privato, alla presenza della sola ragazza. Questo perché non vuole perderla di vista. Ma non ci vede. È cieco, ricordi? Sai cosa intendo. E il Servitore della Gioia dice che va bene. Non direbbe solo Va bene. Farebbe un discorso. Queste parti non le so fare. I tre entrano in una tenda isolata dalle altre, e l'assassino dichiara di avere un piano per conquistare Sakiel-Norn. Li istruirà su come introdursi in città senza assedi o vittime, tra i loro, voglio dire. Dovranno mandare un paio di uomini, darà loro la parola d'ordine per la porta - lui conosce le parole d'ordine, ricordi? - e una volta entrati questi uomini dovranno raggiungere il canale e tendere una corda sotto il passaggio ad arco. Dovranno fissarne l'estremità a qualcosa - una colonna di pietra o roba del genere - e poi di notte un gruppo di soldati potrà introdursi nella città seguendo la corda, aggrappandosi a essa una mano dietro l'altra, sott'acqua, poi sopraffare le guardie, aprire tutte e otto le porte e poi bingo. Bingo? fa lui, ridendo. Non è una parola molto zycroniana. Be', voilà, allora. Dopodiché, potranno uccidere tutti a oltranza, se è questo che vogliono. Uno stratagemma furbo, dice lui. Molto astuto. Sì, fa lei, è in Erodoto, o qualcosa del genere. La caduta di Babilonia, mi
pare che fosse. Hai una sorprendente quantità di cianfrusaglie in testa, dice lui. Ma ora le cose vanno equilibrate, no? I nostri due ragazzi non possono continuare a fare la parte dei messaggeri divini. È troppo rischioso. Prima o poi commetterebbero un errore, fallirebbero e sarebbero uccisi. Devono scappare. Sì. Ci ho pensato. Prima di fornire la parola d'ordine e le istruzioni, l'assassino cieco dice che loro due devono essere portati alle colline ai piedi delle montagne occidentali, con abbondanti provviste di cibo e così via. Dirà che devono farvi una sorta di pellegrinaggio - salire su una montagna, ricevere altre istruzioni divine. Solo allora lui fornirà la merce, intendendo con questo la parola d'ordine. In tal modo, se l'attacco dei barbari fallisce, loro due saranno in un luogo dove a nessuno degli abitanti di Sakiel-Norn verrà mai in mente di cercarli. Ma saranno uccisi dai lupi, dice lui. O se non da loro, dalle donne morte dalle figure flessuose e le labbra rosso rubino. Oppure lei verrà uccisa, e lui sarà costretto a soddisfare le loro innaturali brame fino alle calende greche, poveraccio. No, dice lei. Non è quello che succederà. Ah, no? E chi lo dice? Non fare ah, no. Lo dico io. Ascolta - ecco come andrà. All'assassino cieco non sfugge alcuna voce, e perciò sa come stanno veramente le cose. Le donne non sono affatto morte, in realtà. Hanno soltanto messo in giro quella diceria, in modo da essere lasciate in pace. In realtà sono schiave fuggitive, e donne scappate per evitare di essere vendute dai loro mariti o padri. Non sono neanche tutte donne - alcuni sono uomini, ma uomini gentili e affabili. Vivono tutti in caverne e allevano pecore, e hanno i loro orti. Fanno a turno a nascondersi dietro le tombe e a spaventare i viaggiatori urlando loro contro e così via - per salvare le apparenze. Inoltre, i lupi non sono davvero lupi, sono soltanto cani da pastore addestrati a spacciarsi per lupi. In realtà sono molto mansueti, e molto fedeli. Dunque questa gente accoglierà i due fuggitivi, e una volta che avrà ascoltato la loro triste storia sarà molto carina con loro. Quindi l'assassino cieco e la ragazza senza lingua potranno sistemarsi in una delle caverne, e prima o poi avranno dei bambini che potranno vedere e parlare, e saranno molto felici. E nel frattempo tutti i loro concittadini saranno massacrati? chiede lui, sorridendo. Stai avallando il tradimento verso il proprio paese? Hai barattato il bene comune con la soddisfazione personale?
Be', quella gente stava per ucciderli. I loro concittadini. Solo pochi ne avevano intenzione - l'élite, le carte in cima al mazzo. Condanneresti tutti gli altri con loro? Lasceresti che la nostra coppia tradisca la propria gente? Piuttosto egoista da parte tua. È la storia, dice lei. È nella Conquista del Messico - come si chiama, Cortez - la sua amante azteca fece lo stesso. È anche nella Bibbia. La prostituta Raab si comportò in maniera identica, quando Gerico fu distrutta. Aiutò gli uomini di Giosuè, e lei e la sua famiglia furono risparmiati. Aggiudicato, dice lui. Ma hai infranto le regole. Non puoi trasformare le donne morte in un branco di folcloristiche pastorelle secondo i tuoi capricci. Non hai mai inserito sul serio queste donne nella storia, dice lei. Non direttamente. Hai solo riferito delle voci sul loro conto. Le voci possono essere false. Lui ride. È abbastanza vero. Ora, ecco la mia versione. Nell'accampamento del Popolo della Gioia tutto accade come hai detto, anche se con dialoghi migliori. I nostri due giovani vengono condotti alle colline ai piedi delle montagne occidentali e lasciati là tra le tombe, quindi i barbari si accingono a entrare nella città secondo le istruzioni, e saccheggiano, e distruggono, e massacrano gli abitanti. Nessuno scampa alla morte. Il Re viene impiccato a un albero, la Somma Sacerdotessa sventrata, il cortigiano che aveva ordito il complotto perisce insieme a tutti gli altri. I piccoli schiavi innocenti, la corporazione degli assassini ciechi, le fanciulle sacrificali nel Tempio - muoiono tutti. Un'intera cultura è cancellata dall'universo. Non viene lasciato vivo nessuno capace di tessere i meravigliosi tappeti e questo, devi ammetterlo, è un peccato. Intanto i due giovani, mano nella mano, a passi incerti, lenti, si avviano per la loro strada solitaria attraverso le montagne occidentali. Credono fermamente che saranno presto avvistati dai benevoli padroni degli orti, e accolti tra loro. Ma, come dici tu, le voci non sono necessariamente vere, e l'assassino cieco ha colto la voce sbagliata. Le donne morte sono davvero morte. Non solo, i lupi sono davvero lupi, e le donne morte possono chiamarli con un fischio a loro piacimento. In men che non si dica i nostri due eroi sono carne per lupi. Sei proprio un inguaribile ottimista, dice lei. Non sono inguaribile. Ma mi piace che le mie storie siano realistiche, il che vuol dire che devono esserci dei lupi. In una forma o nell'altra. E perché questo sarebbe realistico? Si scosta da lui stendendosi sulla
schiena, fissa il soffitto. È seccata perché la sua versione è stata liquidata. Tutte le storie parlano di lupi. Tutte quelle che valgano la pena di essere raccontate, cioè. Tutto il resto è robaccia sentimentale. Tutto? Certo, fa lui. Pensaci un po'. C'è la fuga dai lupi, la lotta con i lupi, la cattura dei lupi, l'addomesticamento dei lupi. Essere gettati tra i lupi, o gettare gli altri tra i lupi in modo che i lupi mangino loro e non te. Correre con il branco dei lupi. Trasformarsi in lupo. Meglio di tutto, trasformarsi nel lupo capobranco. Non esistono altre storie decenti. Io credo di sì, ribatte lei. Credo che la storia di te che mi racconti la storia dei lupi non parli dei lupi. Non scommetterci, dice lui. Nascondo un lato lupesco. Vieni qui. Aspetta. C'è qualcosa che devo chiederti. Okay, spara, fa lui pigramente. I suoi occhi si sono richiusi, la sua mano è sopra di lei. Mi sei mai infedele? Infedele. Che parola antiquata. Lascia stare le mie scelte lessicali, dice lei. Lo sei? Non più di quanto tu lo sia nei miei confronti. Fa una pausa. Non la considero un'infedeltà. Come la consideri? chiede lei con voce fredda. Da parte tua, distrazione. Chiudi gli occhi e dimentichi dove sei. E da parte tua? Diciamo solo che sei prima inter pares. Sei veramente un bastardo. Sto solo dicendo la verità, fa lui. Be', forse non dovresti. Non ti inalberare, dice lui. Sto solo scherzando. Non sopporterei l'idea di mettere un dito su qualsiasi altra donna. Vomiterei. C'è un silenzio. Lo bacia, si ritrae. Devo partire, dice con cautela. Dovevo dirtelo. Non volevo che ti chiedessi dov'ero finita. Partire per dove? Perché? Partecipiamo al viaggio inaugurale di una nave. Tutti, l'intero entourage. Lui dice che non possiamo mancare. Dice che è l'avvenimento del secolo. Del secolo è passato solo un terzo. In ogni caso, avrei pensato che un piccolo posto fosse riservato alla Grande Guerra. Lo champagne al chiaro di luna può difficilmente competere con i milioni di morti nelle trincee. E che dire dell'epidemia di influenza, o...
Intende l'avvenimento mondano. Oh, mi scusi, signora. Ho sbagliato. Qual è il problema? Starò via solo un mese - be', più o meno. A seconda di come verranno organizzate le cose. Lui non dice niente. Non è che voglia farlo. No. Non credo che tu lo voglia. Troppi pasti a sette portate da mangiare, e fin troppi balli. Alla fine una ragazza può esaurirsi. Non essere così. Non dirmi come devo essere! Non unirti al coro di gente che ha progetti per migliorarmi. Mi hanno rotto i coglioni. Sarò quello che sono. Mi dispiace. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace. Odio quando strisci a terra. Ma Cristo, se sei brava a farlo. Scommetto che fai un sacco di pratica, sul fronte interno. Forse è meglio che vada. Vattene, se ti va. Si gira, le dà le spalle. Fai quel cazzo che hai voglia di fare. Non sono il tuo guardiano. Non devi alzarti e supplicare e piagnucolare e dimenare la coda per me. Non capisci. Non ci provi neanche. Non capisci affatto come stanno le cose. Non mi diverto. Va bene. Mayfair, luglio 1936 IN CERCA DI UN AGGETTIVO DI J. HERBERT HODGINS ...Mai nave più bella ha solcato le rotte marine. Ha la bellezza agile e aerodinamica del levriero nella struttura esterna, mentre all'interno è caratterizzata da una profusione di dettagli e da una superiorità nell'arredamento che ne fa un capolavoro di comodità, efficienza e lusso. La nuova nave è un albergo Waldorf-Astoria galleggiante. Ho cercato un aggettivo adatto. È stata chiamata meravigliosa, eccitante, magnifica, regale, sontuosa, maestosa e superba. Tutte parole che la descrivono con una certa precisione. Ma ogni parola in sé rende conto soltanto di una singola fase di questa «grande
conquista nella storia della cantieristica britannica». È impossibile descrivere la Queen Mary: deve essere vista e «sentita», come bisogna partecipare alla sua incomparabile vita di bordo. ...Naturalmente nel salone principale ógni sera venivano aperte le danze, ed era difficile ricordare di essere in mare. La musica, la pista, la folla elegantemente vestita erano tipici delle sale da ballo degli alberghi di almeno mezza dozzina di città nel mondo. Si potevano ammirare tutti gli abiti più nuovi lanciati da Londra e Parigi, usciti dritti dritti dalle loro scatole. Si potevano ammirare anche le ultime novità in fatto di accessori: borsette incantevoli; mantelle da sera rigonfie, di cui molte versioni eleganti accentuavano i motivi colorati; scialli lussuosi e mantelline di pelliccia. I massimi onori sono stati decretati all'abito a sbuffo, sia di taffettà che di tulle. Dov'era preferito il modello dritto, il vestito era inevitabilmente accompagnato da un'elaborata tunica di taffettà o di raso stampato. Numerose e di foggia svariata le mantelle di chiffon. Ma tutte ricadevano dalle spalle in un fluido stile militare. Una donna giovane e bella dal viso di porcellana di Dresda sotto un'acconciatura di capelli bianchi portava una mantella di chiffon lilla sopra un abito grigio dalle linee molto morbide. Un'alta bionda con un abito rosa anguria indossava una mantella di chiffon bianco, bordato di code di ermellino. L'assassino cieco: Le Donne Delizia di Aa'A La sera si balla, leggiadre danze sfavillanti su una pista scivolosa. Ilarità indotta: lei non può evitarla. Dappertutto intorno scoppiettano i flash: non puoi mai dire chi stiano prendendo di mira, o quando sui giornali apparirà una tua foto, la testa rovesciata indietro, i denti bene in mostra. La mattina ha i piedi doloranti. Il pomeriggio si rifugia nella memoria, stesa su una sedia a sdraio, dietro gli occhiali da sole. Rifiuta la piscina, il lancio degli anelli, il volano, i giochi senza fine, privi di senso. I passatempi servono a far passare il tempo e lei ha il suo, di passatempo. I cani girano in continuazione intorno alla sdraio all'estremità dei loro guinzagli. Sono tenuti da persone pagate per portarli a passeggio, tra le migliori. Finge di leggere. Qualcuno scrive lettere, nella biblioteca. Per lei non ha senso. Anche se
mandasse una lettera, lui si sposta con tale frequenza che potrebbe non riceverla mai. Ma potrebbe riceverla qualcun altro. Nei giorni di mare calmo le onde fanno il loro dovere. Ti cullano. L'aria di mare, dice la gente - ah, fa così bene. Bisogna fare un profondo respiro e basta. Rilassarsi e basta. Lasciarsi andare. Perché mi racconti queste storie tristi? dice lei, mesi prima. Sono stesi avvolti nella sua pelliccia, con il lato del pelo verso l'alto, su richiesta di lui. Aria fredda soffia attraverso la finestra rotta, i tram passano sferragliando. Solo un minuto, dice lei, ho un bottone ficcato nella schiena. È questo il tipo di storie che conosco. Tristi. Comunque, portata alla sua logica conclusione, ogni storia è triste, perché alla fine tutti muoiono. Nascita, copula e morte. Non si fa eccezione, tranne forse per la parte della copula. Qualche tizio non ci arriva neppure, povero cristo. Ma in mezzo possono esserci parti felici, dice lei. Tra la nascita e la morte - non è vero? Comunque, penso che per chi crede nel Paradiso anche quella possa essere una storia discretamente felice - la morte, voglio dire. Con nugoli di angeli che ti accompagnano cantando all'eterno riposo e così via. Già. Tante belle promesse per chi muore. No, grazie. Eppure, ci possono essere parti felici, dice lei. O più di quante tu ne abbia mai messe nelle tue storie. Non ne metti molte. Vuoi dire la parte in cui ci sposiamo e ci sistemiamo in un piccolo bungalow e abbiamo due bambini? Questa? Ora sei cattivo. Okay, fa lui. Vuoi una storia felice. Vedo che non demorderai finché non ne avrai una. Perciò eccola che arriva. Era il novantanovesimo anno di quella che sarebbe divenuta famosa come la Guerra dei Cento Anni, o Guerre Xenoriane. Il pianeta Xenor, situato in un'altra dimensione dello spazio, era popolato da una razza superintelligente ma supercrudele nota come gli Uomini Lucertola, che non erano quello che dicevano di essere. Esteriormente erano alti più di due metri, erano squamosi e grigi. I loro occhi avevano fessure verticali, come quelli dei gatti o dei serpenti. Avevano la pelle così dura che di solito non dovevano indossare vestiti, tranne corti pantaloni di carchineal, un metallo rosso duttile sconosciuto sulla Terra. Questi proteggevano le loro parti vitali, anch'esse squamose ed enormi, potrei aggiungere, ma al tempo stesso vul-
nerabili. Be', grazie al cielo qualcosa lo era, dice lei, ridendo. Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto. Comunque, il loro piano era catturare un gran numero di donne terrestri e generare una super-razza, mezza uomo, mezza Uomo Lucertola, che sarebbe stata più dotata di loro per vivere sui vari altri pianeti abitabili dell'universo - capace di adattarsi a strane atmosfere, di mangiare una gran varietà di cibi, di resistere a malattie sconosciute e così via -, ma avrebbe anche avuto la forza e l'intelligenza extraterrestre degli Xenoriani. Questa superrazza si sarebbe diffusa in tutto il cosmo e lo avrebbe conquistato, mangiando strada facendo gli abitanti dei diversi pianeti, perché gli Uomini Lucertola avevano bisogno di spazio per espandersi e di una nuova fonte di proteine. La flotta spaziale degli Uomini Lucertola di Xenor aveva sferrato il suo primo attacco alla Terra nel 1967, riportando devastanti successi nelle principali città, dove erano morte milioni di persone. Approfittando del panico diffuso, gli Uomini Lucertola avevano ridotto parti dell'Eurasia e del Sud America a colonie a loro asservite, impossessandosi delle giovani donne per i loro diabolici esperimenti riproduttivi e seppellendo i cadaveri degli uomini in enormi pozzi, dopo averne mangiato le parti che più preferivano. Avevano un debole per i cervelli e i cuori, e i reni, leggermente arrostiti sulla graticola. Ma le linee di rifornimento xenoriane erano state interrotte da un lancio di razzi partito da installazioni terrestri nascoste, gli Uomini Lucertola erano stati privati degli ingredienti vitali per le loro letali armi a raggi zorch e la Terra si era ripresa e aveva contrattaccato - non solo con le proprie forze militari, ma con nugoli di gas fatto con il veleno di una rana poco comune, la Iridis hortz, usato un tempo dai Nacrod di Ulinth per intingere le punte delle frecce e al quale, come avevano scoperto gli scienziati terrestri, gli Xenoriani erano particolarmente sensibili. Perciò lo squilibrio era stato pareggiato. Anche i loro pantaloncini di carchineal erano infiammabili, se si riusciva a colpirli con precisione con un proiettile che fosse già abbastanza caldo. I franchi tiratori terrestri dalla mira infallibile, che usavano fucili a lunga gittata con munizioni al fosforo, erano gli eroi del giorno, sebbene le rappresaglie contro di loro fossero severe, e comprendessero torture elettriche sconosciute in precedenza e terribilmente dolorose. Gli Uomini Lucertola non prendevano bene il fatto di vedersi divampare le parti intime, cosa questa del tutto comprensibile.
Dunque, prima dell'anno 2066, gli Uomini Lucertola alieni erano stati ricacciati in un'altra dimensione dello spazio, dove ora venivano inseguiti dai piloti da caccia terrestri nelle loro piccole e veloci navicelle d'assalto biposto. Il loro fine ultimo era annientare completamente gli Xenoriani, tenendone magari qualche decina da esibire in zoo appositamente fortificati, dietro vetri infrangibili. Tuttavia gli Xenoriani non avevano intenzione di arrendersi senza uno scontro all'ultimo sangue. Avevano ancora una flotta funzionante, e qualche asso nella manica. Avevano maniche? Pensavo che di sopra fossero nudi. Cristo, non essere così pignola. Sai cosa voglio dire. Will e Boyd erano due vecchi compagni - due consumati veterani delle navicelle d'assalto che avevano combattuto mille battaglie, in servizio ormai da tre anni. Era un sacco di tempo per il reparto delle navicelle d'assalto, dove le perdite erano alte. A detta dei comandanti il loro coraggio era superiore al loro giudizio, sebbene fino a quel momento T'avessero fatta franca con il loro comportamento temerario, in un susseguirsi di audaci incursioni. Ma all'inizio della nostra storia una navicella-zorch xenoriana li aveva incalzati da vicino e ora erano stati colpiti in malo modo e procedevano con gran difficoltà. I raggi-zorch avevano aperto una falla nel serbatoio di carburante, messo fuori combattimento il collegamento con il controllo sulla Terra e fuso il meccanismo di governo, procurando nello stesso tempo una brutta ferita alla testa a Boyd, mentre Will sanguinava nella sua tuta spaziale, da un punto non precisato del tronco. A quanto pare siamo alla resa dei conti, disse Boyd. Fottuti su tutta la linea. Ormai a momenti questo affare andrà a gambe all'aria. Vorrei solo che avessimo avuto il tempo di far esplodere qualche altro centinaio di quegli squamosi figli di cane, mandandoli al creatore. Idem. Be', alla salute, vecchio amico, disse Will. Comunque, sembra che hai qualcosa che ti gocciola là dentro - un intruglio rosso. Ti cola dalle dita dei piedi. Ha, ha. Ha, ha, fece Boyd con una smorfia di dolore. Proprio divertente. Hai sempre avuto un senso dell'umorismo scadente. Prima che Will potesse rispondere, la nave girò su se stessa ormai fuori controllo e descrisse una spirale da capogiro. Erano stati catturati da un campo di gravità, ma di quale pianeta? Non avevano idea di dove si trovassero. Il loro sistema gravitazionale artificiale era fuori uso, e così i due uomini persero i sensi.
Quando si svegliarono, non potevano credere ai loro occhi. Non erano più nella navicella, né nelle loro aderenti tute spaziali metalliche. No, indossavano ampie vesti verdi di un materiale scintillante, ed erano distesi su soffici divani dorati in un pergolato di viti frondose. Le loro ferite erano guarite, e il dito medio della mano sinistra di Will, saltato via in un'incursione precedente, era ricresciuto. Si sentivano pervasi di salute e benessere. Pervasi, mormora lei. Mio Dio. Già, a noi ragazzi piace qualche parola ricercata di tanto in tanto, dice lui, parlando con un lato della bocca, come un gangster dei film. Dà un tocco di classe a questa roba. Lo immagino. Andiamo avanti. Non ci capisco niente, disse Boyd. Credi che siamo morti? Se siamo morti, ci metto la firma, disse Will. Va tutto bene, benone. Direi. Proprio allora Will emise un debole fischio. Stavano venendo loro incontro due delle femmine più fantastiche che avessero mai visto. Indossavano lunghi abiti di una tinta blu violacea, che ricadevano in piccole pieghe e frusciavano ai loro movimenti. Ciò ricordò a Will niente di meno che le guarnizioni di carta che venivano messe intorno alla frutta nelle spocchiose drogherie di prim'ordine. Avevano le braccia e i piedi nudi, e strane acconciature con fini reticelle rosse. La pelle era di uno squisito rosa dorato. Camminavano con un moto ondulato, come se fossero state immerse nello sciroppo. Salute a voi, uomini della Terra, disse la prima. Sì, salute, disse la seconda. Vi abbiamo aspettato a lungo. Abbiamo seguito il vostro arrivo sulla nostra telecamera interplanetaria. Dove siamo? chiese Will. Siete sul pianeta Aa'A, rispose la prima. La parola suonava come un sospiro di appagamento, con un piccolo sussulto nel mezzo, come quelli che fanno i bambini quando si girano nel sonno. Suonava anche come l'ultimo respiro di un morente. E come ci siamo finiti? chiese Will. Boyd era senza parole. Faceva scorrere gli occhi sulle curve formose e mature in mostra davanti a lui. Mi piacerebbe affondare i denti in un pezzo di quella roba, stava pensando. Siete caduti dal cielo nella vostra navicella, disse la prima. Sfortunatamente è andata distrutta. Dovrete rimanere qui con noi. Non sarà dura da sopportare, disse Will.
Ci prenderemo molta cura di voi. Vi siete guadagnati un premio. Proteggendo il vostro mondo dagli Xenoriani, proteggete anche il nostro. Il pudore impone di gettare un velo su quanto accadde poi. Deve proprio? Te lo dimostrerò tra un attimo. Bisogna solo aggiungere che Boyd e Will erano gli unici uomini sul pianeta Aa'A, perciò naturalmente le donne erano vergini. Ma potevano leggere nel pensiero, e ognuna di loro capiva in anticipo cosa potessero desiderare Will e Boyd. Così ben presto le fantasie più stravaganti dei due amici furono realizzate. Poi ci fu un delizioso pasto a base di nettare, che, venne detto agli uomini, avrebbe allontanato la vecchiaia e la morte; seguì una passeggiata negli incantevoli giardini, che erano colmi di fiori inimmaginabili; quindi i due vennero condotti in una grande stanza piena di pipe, di cui potevano servirsi a loro piacimento. Pipe? Quelle che si fumano? Da usare insieme alle pantofole, che furono fornite loro subito dopo. Me la sono voluta, suppongo. Non c'è dubbio, dice lui, sorridendo. Le cose andarono meglio. Una delle ragazze era molto attiva sessualmente, l'altra era più posata e capace di discutere di arte, letteratura e filosofia, per non parlare della teologia. Sembrava che sapessero cosa si richiedeva loro in ogni dato istante, e cambiavano a seconda degli stati d'animo e delle inclinazioni di Boyd e Will. E così il tempo passava in armonia. Mentre le giornate perfette si avvicendavano, gli uomini impararono a conoscere di più il pianeta Aa'A. Prima di tutto, non vi si mangiava carne e non c'erano animali carnivori, sebbene ci fosse un'infinità di farfalle e di uccelli canterini. Ho bisogno di aggiungere che il dio adorato su Aa'A aveva la forma di un'enorme zucca? Secondo, non c'erano vere e proprie nascite. Le donne crescevano sugli alberi, da uno stelo che partiva dalla cima della loro testa, e quando erano mature venivano raccolte da quelle che le avevano precedute. Terzo, non c'erano vere e proprie morti. Quando giungeva l'ora, ognuna delle Donne Delizia - per chiamarle con i nomi con cui ben presto Boyd e Will si riferirono loro - disorganizzavano semplicemente le loro molecole, che allora si riaggregavano attraverso gli alberi in una donna nuova di zecca. Così l'ultima donna era, sia nella sostanza che nella forma, identica alla prima. Come sapevano quando era giunta l'ora? Di disorganizzare le loro molecole?
Primo, dalle lievi rughe prodotte dalla loro pelle vellutata quando diventavano troppo mature. Secondo, dai moscerini. I moscerini? I moscerini della frutta, che svolazzavano in nugoli attorno alle loro acconciature di reticelle rosse. Questa è la tua idea di una storia felice? Aspetta. C'è dell'altro. Dopo un po' questa esistenza, per quanto meravigliosa, iniziò a stancare Boyd e Will. Tanto per cominciare, le donne li controllavano in continuazione, per assicurarsi che fossero felici. Questo alla fine può venire a noia a un uomo. Inoltre, non c'era nulla che le ragazze non facessero. Erano assolutamente svergognate, o senza vergogna, come preferisci. Al momento giusto davano prova del comportamento più depravato. Sgualdrina era il minimo che si potesse dire di loro. Oppure, potevano diventare timide e pudiche, umili, modeste; piangevano e gridavano perfino - anche quello a richiesta. Sulle prime Will e Boyd lo trovarono eccitante, ma dopo un po' cominciarono a irritarsi. Quando venivano colpite, dalle donne non usciva sangue, soltanto succo. Se si colpivano più forte, si dissolvevano in una polpa dolce e molle, che ben presto diventava un'altra Donna Delizia. Non sembrava che provassero vero e proprio dolore, e Will e Boyd cominciarono a chiedersi se non provassero neanche piacere. Tutta l'estasi era stata solo una messa in scena? Quando venivano interrogate al riguardo, le ragazze erano sorridenti ed evasive. Non si riusciva a venirne a capo. Sai cosa mi piacerebbe proprio adesso? chiese Will un bel giorno. La stessa cosa che piacerebbe a me, scommetto, rispose Boyd. Un'enorme bistecca alla griglia, succulenta, gocciolante sangue. Un grosso mucchio di patatine fritte. E una bella birra fredda. Idem. E poi un bel duello scatenato con quegli squamosi figli di cane di Xenor. Hai afferrato l'idea. Decisero di andare in esplorazione. Nonostante fosse stato loro detto che Aa'A era uguale in ogni direzione, e che avrebbero soltanto trovato altri alberi e altri pergolati e altri uccelli e altre farfalle e altre donne affascinanti, si misero in cammino verso ovest. Dopo molto tempo e nessuna avventura di alcun tipo, si imbatterono in un muro invisibile. Era scivoloso come
vetro, ma a spingerlo risultava soffice e flessibile. Poi, di scatto, riprendeva la forma originaria. Era talmente alto che era inutile cercare di allungarsi o arrampicarsi. Era come un'enorme bolla di cristallo. Credo che siamo intrappolati in una grande tetta trasparente, disse Boyd. Si sedettero ai piedi del muro, sopraffatti da una profonda disperazione. Questo posto è pace e abbondanza, disse Will. È un letto soffice e dolci sogni notturni, è tulipani sul ridente tavolo della colazione, è la mogliettina che prepara il caffè. È tutto l'amore che hai mai potuto sognare, in qualsiasi forma possibile e immaginabile. È tutto ciò che gli uomini pensano di volere quando sono là fuori a combattere in un'altra dimensione dello spazio. È ciò per cui altri uomini hanno dato la vita. Ho detto giusto? Eccome, rispose Boyd. Ma è troppo bello per essere vero, disse Will. Dev'essere una trappola. Potrebbe perfino trattarsi di qualche infernale trucco mentale degli Xenoriani, per tenerci lontani dalla guerra. È il Paradiso, ma non possiamo uscirne. E qualunque cosa da cui non si possa uscire è l'Inferno. Ma questo non è l'Inferno. È la Felicità, disse una delle Donne Delizia che si stava materializzando dal ramo di un albero lì vicino. Non c'è nessun luogo dove andare lontano da qui. Rilassatevi. Divertitevi. Vi ci abituerete. E questa è la fine della storia. Davvero? dice lei. Terrai quei due uomini imprigionati là dentro per sempre? Ho fatto come volevi. Volevi la felicità. Ma posso tenerli là dentro o farli uscire, a seconda di quanto desideri. Lasciali uscire, allora. Fuori c'è la morte. Ricordi? Oh. Capisco. Si gira di lato, si tira su la pelliccia, fa scivolare il braccio attorno a lui. Però ti sbagli sulle Donne Delizia. Non sono come pensi tu. Mi sbaglio come? Ti sbagli e basta. The Mail and Empire, 19 settembre 1936 GRIFFEN METTE IN GUARDIA CONTRO I ROSSI IN SPAGNA SPECIALE PER THE MAIL AND EMPIRE
In un ardente discorso tenuto all'Empire Club lo scorso giovedì l'eminente industriale Richard E. Griffen, della Griffen-Chase Royal Consolidated, ha messo in guardia sui potenziali pericoli che minacciano l'ordine mondiale e il pacifico corso del commercio internazionale a causa della guerra civile in corso in Spagna. I Repubblicani, ha sostenuto, prendono ordini dai Rossi, come hanno già dimostrato le loro espropriazioni, i massacri di pacifici civili e le atrocità commesse contro la religione. Molte chiese sono state profanate e bruciate, e l'assassinio di suore e preti è ormai all'ordine del giorno. L'intervento dei Nazionalisti capeggiati dal Generale Franco ha costituito una reazione assolutamente normale. Spagnoli indignati e coraggiosi di ogni classe sociale si sono riuniti per difendere la tradizione e l'ordine civile, e il mondo guarderà con ansia agli esiti dello scontro. Un trionfo dei Repubblicani significherebbe una Russia più aggressiva, mentre molti paesi più piccoli si ritroverebbero probabilmente minacciati. Delle nazioni continentali, solo la Germania e la Francia, e in certa misura l'Italia, sono state abbastanza forti da resistere all'ondata. Il signor Griffen ha raccomandato vivamente che il Canada segua l'esempio di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, e prenda le distanze dal conflitto. Quella del non intervento è una politica sana e andrebbe adottata immediatamente, perché ai cittadini canadesi non dovrebbe essere chiesto di rischiare la loro vita in questa mischia a loro estranea. Tuttavia si è già verificato un flusso sotterraneo di comunisti duri a morire che lasciano il nostro continente alla volta della Spagna, e sebbene ciò andrebbe loro proibito per legge, il paese deve rallegrarsi che gli si sia presentata l'opportunità di liberarsi di elementi sovversivi senza alcuna spesa da parte dei contribuenti. Le osservazioni del signor Griffen sono state accolte da calorosi applausi. L'assassino cieco: Il Top Hat Grill Il Top Hat Grill ha un'insegna al neon con un cappello a cilindro rosso che viene sollevato da un guanto blu. Il cappello continua ad alzarsi; non si abbassa mai. Ma sotto non c'è nessuna testa, solo un occhio che ammicca.
Un occhio di uomo, che si apre e si chiude; l'occhio di un prestigiatore; un buffone scaltro e senza testa. Il cappello a cilindro è la cosa più di classe del Top Hat Grill. Eppure, eccoli qui, seduti a uno dei suoi séparé, in pubblico come la gente reale, ognuno con un hamburger, la carne grigia sul pane bianco, soffice e insipido come il sedere di un angelo, la salsa ispessita con farina. Piselli in scatola come contorno, di un delicato verde grigiastro; patate fritte molli di grasso. Agli altri séparé siedono sconsolati uomini soli con un'espressione di scusa negli occhi arrossati, le camicie leggermente sudicie e le cravatte lucide da contabile, qualche coppia malconcia che fa il massimo della baldoria del venerdì sera che può permettersi, e qualche terzetto di prostitute fuori servizio. Mi chiedo se vada con qualche prostituta, pensa lei. Quando io non sono in giro. Poi: Come faccio a sapere che sono prostitute? È la cosa migliore che hanno, dice lui, per quello che costa. Intende l'hamburger. Hai provato qualcos'altro? No, ma alla fine ti viene il fiuto. È davvero molto buono, nel suo genere. Risparmiami le maniere da party, dice lui, ma non troppo bruscamente. Il suo stato d'animo non è quello che si dice gioviale, è all'erta. Nervoso per qualche motivo. Non era stato mai così quando era tornata dai suoi viaggi. Era stato taciturno e rancoroso. Non ci vediamo da un sacco di tempo. Sei venuta per il solito? Il solito cosa? Il solito su e giù. Perché senti la necessità di essere così volgare? Sono le compagnie che frequento. Quello che le piacerebbe sapere al momento è perché stanno mangiando fuori. Perché non sono nella sua stanza. Perché lui sta gettando al vento la prudenza. Dove ha preso i soldi. Risponde per prima all'ultima domanda, anche se lei non gliel'ha fatta. L'hamburger che vedi davanti a te, dice, è un gentile omaggio degli Uomini Lucertola di Xenor. Alla loro salute, delle abiette bestie squamose, e di tutti quelli che fanno loro guerra. Solleva il suo bicchiere di Coca-Cola; l'ha corretto con del rum preso dalla sua fiaschetta. (Niente cocktail, temo, aveva detto aprendole la porta. Questa bettola è asciutta come la prugna di
una strega). Lei solleva il suo bicchiere. Gli Uomini Lucertola di Xenor? dice. Proprio loro? Proprio loro. L'ho mandato a un giornale, l'ho spedito due settimane fa, e non se lo sono lasciato sfuggire. L'assegno è arrivato ieri. Deve essere andato alla cassetta postale da solo, e da solo deve avere incassato anche l'assegno, ultimamente l'ha fatto. Ha dovuto, lei è stata via troppo tempo. Ne sei felice? Sembri felice. Già, sicuro... è un capolavoro. Azione a non finire, sangue versato a non finire. Belle femmine. Sorride. Chi può resistere? Parla delle Donne Delizia? No. Niente Donne Delizia in questo. È tutta un'altra storia. Lui pensa: Che succederà quando glielo dirò? Partita chiusa o promesse eterne, e qual'è la cosa peggiore? Lei porta una sciarpa di un materiale sottile, fluttuante, una sorta di arancione rosa. Melone è il termine per quella sfumatura. Polpa dolce, fresca, liquida. Ricorda la prima volta che l'ha vista. Allora dentro il suo vestito non riuscì a immaginare altro che nebbia. Cosa ti è preso? dice lei. Sembri molto... Hai bevuto? No. Non troppo. Sposta i piselli grigio pallidi nel piatto. Finalmente è successo, dice. Me ne vado. Passaporto e tutto. Oh, fa lei. All'improvviso. Cerca di tenere lo sgomento fuori della sua voce. All'improvviso, dice lui. I compagni mi hanno contattato. Devono avere deciso che sono più utile laggiù che qui. Comunque, dopo aver menato senza fine il can per l'aia, all'improvviso muoiono dalla voglia di non avere più a che fare con me. Una rogna di meno. Sarai al sicuro, in viaggio? Pensavo... Più sicuro che se rimanessi qui. Ma corre voce che nessuno mi cerchi più con troppo accanimento. Ho la sensazione che anche la parte avversaria voglia che me la batta. È meno complicato per loro in questo modo. Ma non dirò a nessuno quale treno prenderò. Non mi interessa esserne buttato giù con un buco in testa e un coltello nella schiena. E quanto ad attraversare il confine? Hai sempre detto... Adesso il confine è come carta velina, se cerchi di uscire, cioè. I tizi della dogana sanno benissimo cosa succede, sanno che c'è un canale diretto da qui a New York, e poi oltre oceano fino a Parigi. È tutto organizzato, e si chiamano tutti Joe. Gli sbirri hanno ricevuto ordini in tal senso. Guardate
dall'altra parte, è stato detto loro. Sanno da che parte soffia il vento. Se ne infischiano alla grande. Vorrei poter venire con te, dice lei. Dunque, ecco perché la cena fuori. Voleva darle la notizia da qualche parte dove non potesse fare storie. Spera che non farà una scenata in pubblico. Piangendo, frignando, strappandosi i capelli. Ci conta. Già. Piacerebbe anche a me, dice lui. Ma non puoi. È dura laggiù. Dentro di sé canta: Temporale, non hai scampo, la mia lampo apro in un lampo... Riprendi il controllo, dice a se stesso. Sente un'effervescenza in testa, come ginger ale. Sangue spumeggiante. Gli sembra di volare - la guarda dall'alto. Il suo bel viso angosciato ondeggia come un riflesso in una pozzanghera agitata; si sta già dissolvendo, e presto sarà in lacrime. Ma nonostante il suo dolore, non è mai stata così deliziosa. Uno scintillio morbido e latteo la circonda; la carne del suo braccio, dove l'ha tenuta, è soda e tonda. Gli piacerebbe afferrarla, trascinarla su nella sua stanza, scoparla alla grande. Come se questo la facesse rimanere dov'è. Ti aspetterò, dice lei. Quando ritornerai non farò altro che uscire dalla porta, e poi potremo andarcene insieme. Te ne andresti davvero? Lo lasceresti? Sì. Per te lo farei. Se tu volessi. Lascerei tutto. Schegge di luce al neon entrano dalla finestra sopra di loro, rosse, blu, rosse. Lei lo immagina ferito; sarebbe un modo di non farlo andare via. Le piacerebbe chiuso a chiave, legato, solo per lei. Lascialo adesso, dice lui. Adesso? Spalanca gli occhi. Subito? Perché? Perché non sopporto che tu stia con lui. Non sopporto l'idea. Non significa niente per me, dice lei. Significa per me. Soprattutto dopo che me ne sarò andato, quando non potrò vederti. Mi farà impazzire pensarci, davvero. Ma non avrei un soldo, dice lei in una voce sorpresa. Dove vivrei? In una stanza d'affitto, tutta da sola? Come te, pensa. Di cosa vivrei? Potresti trovare un lavoro, dice lui fiaccamente. Potrei mandarti del denaro.
Tu non hai un soldo, non se ne parla neppure. E io non so fare niente. Non so cucire, non so battere a macchina. C'è anche un'altra ragione, pensa, ma non posso dirgliela. Deve esserci un modo. Ma non insiste. Forse non sarebbe un'idea brillante, farla vivere tutta sola. Là fuori nel mondo cattivo, dove ogni uomo sulla faccia della terra potrebbe provarci. Se qualcosa fosse andata storta, avrebbe dovuto prendersela solo con se stesso. Credo che sia meglio che rimanga al mio posto, non credi? È la cosa migliore. Fino al tuo ritorno. Tornerai, non è vero? Tornerai sano e salvo? Certo, dice lui. Perché se così non fosse, non so cosa farei. Se venissi ucciso o qualcosa del genere, andrei completamente a pezzi. Pensa: Sto parlando come in un film. Ma come altro potrei parlare? Abbiamo dimenticato come. Merda, pensa lui. Si sta agitando. Ora si metterà a piangere. Si metterà a piangere e io starò seduto qui come un cretino, e una volta che le donne iniziano a piangere non c'è verso di farle smettere. Forza, ti prendo il cappotto, dice lui tetro. Qui è uno schifo. Non abbiamo molto tempo. Torniamo nella stanza. IX Il bucato Marzo, finalmente, e qualche avaro indizio di primavera. Gli alberi sono ancora spogli, i germogli ancora duri, nei bozzoli, ma nei punti in cui batte il sole la neve si scioglie. Gli escrementi dei cani si scongelano, quindi si fanno molli, con il loro merletto ghiacciato ingiallito di pipì vecchia. Vengono alla luce fette di prato, melmose e cosparse di rifiuti. Il limbo dev'essere così. Oggi a colazione ho mangiato qualcosa di diverso. Un nuovo tipo di fiocchi di cereali portati da Myra per tirarmi su: lei crede a tutto quel che dicono le scritte dietro le confezioni. I nostri fiocchi, dice questa in caratteri semplici nei colori dei lecca-lecca, delle tute da jogging di soffice cotone, non sono fatti con mais e frumento manipolati o di un tipo qualunque, ma con cereali poco conosciuti dai nomi difficili da pronunciare - arcaici, mistici. I loro semi sono stati riscoperti nelle tombe precolombiane e nelle piramidi egizie; un dettaglio che ne garantisce l'autenticità, anche se non troppo rassicurante, a pensarci bene. Questi fiocchi non solo ti raschiano a
fondo come una spazzola per piatti, essi mormorano di rinnovata vitalità, di eterna giovinezza, di immortalità. Sul dietro della scatola si snoda come un festone un elastico intestino rosa; sul davanti c'è una faccia musiva color giada senza occhi, nella quale i pubblicitari non hanno sicuramente ravvisato una maschera funeraria azteca. In onore di questi nuovi cereali mi sono costretta a sedermi come si deve al tavolo della cucina, con tanto di posto apparecchiato e tovagliolo di carta. Chi vive solo scivola nell'abitudine di mangiare in verticale: perché darsi la pena di tante minuzie, quando non c'è nessuno che possa dividerle con te o criticarle? Ma la rilassatezza in un settore può condurre alla sciatteria in tutto. Ieri ho deciso di fare il bucato, per fare un dispetto a Dio lavorando di domenica. Non che a lui importi granché di quale giorno della settimana sia: in Paradiso, come nel subconscio - o almeno così ci viene detto - il tempo non esiste. Ma in realtà volevo fare un dispetto a Myra. Non dovrei rifare il letto, dice Myra; non dovrei portare pesanti ceste di vestiti sporchi giù per i malsicuri gradini della cantina, dov'è sistemata la vecchia e frenetica lavatrice. Chi fa il bucato di solito? Myra, è sottinteso. Visto che ci sono posso benissimo far partire un carico, dice. Poi tutte e due fingiamo che non l'abbia fatto lei. Siamo complici nella finzione - o in ciò che sta rapidamente diventando tale - secondo cui posso provvedere a me stessa. Ma la tensione del fingere sta cominciando a farsi sentire su di lei. Le sta anche venendo il mal di schiena. Vuole trovare una donna, assumere un'estranea ficcanaso, che venga e pensi a tutto. La sua scusa è la mia salute. In qualche modo è venuta a conoscenza del mio cuore, del dottore, dei suoi toccasana e delle sue profezie - suppongo dalla sua infermiera, una rossa tinta che non chiude mai bocca. Questa città è un colabrodo. Ho detto a Myra che quello che faccio con i miei panni sporchi è affar mio: terrò lontana finché sarà possibile quella non meglio identificata donna. Quanto di questo è imbarazzo, da parte mia? Parecchio. Non voglio nessun altro che curiosi nei miei difetti, nelle mie macchie e nei miei odori. Va bene che lo faccia Myra, perché io conosco lei e lei conosce me. Sono la croce che deve portare: sono ciò che la rende così buona, agli occhi degli altri. Tutto quello che deve fare è dire il mio nome e alzare gli occhi al cielo, e l'indulgenza le viene accordata, se non dagli angeli, almeno dai vicini, che sono maledettamente più difficili da accontentare.
Non fraintendermi. Non sto sputando sulla bontà del prossimo, che è molto più difficile da spiegare della cattiveria, e altrettanto complicata. Ma a volte è difficile da sopportare. Avendo preso la mia decisione - e avendo previsto i belati di preoccupazione di Myra nello scoprire il mucchio di asciugamani lavati e piegati, e il mio compiaciuto sorrisetto di trionfo - mi sono accinta alla mia scappatella con il bucato. Ho scavato nel contenitore della biancheria da lavare, evitando per il rotto della cuffia di caderci dentro a testa in giù, e ho pescato quello che pensavo di poter trasportare, evitando la nostalgia per gli indumenti intimi dei giorni andati. (Com'erano belli! Non si fanno più cose del genere, non con bottoni rivestiti dello stesso tessuto, non cucite a mano. O forse si fanno, ma io non le vedo mai, e comunque non potrei permettermele, e non ci entrerei. Certe cose sono strette in vita). Gettati i panni scelti nella cesta di plastica, mi sono avviata di traverso giù per le scale, un gradino dopo l'altro, come Cappuccetto Rosso in viaggio verso la casa della Nonna attraverso l'oltretomba. Soltanto che sono io la Nonna, e porto dentro di me il mio lupo cattivo. Che rode, rode senza posa. Il piano terra, fin qui tutto bene. Lungo il corridoio fino in cucina, poi forza, l'interruttore della luce della cantina e l'immersione nervosa nell'umidità. Quasi all'improvviso è iniziata l'ansia. Luoghi di questa casa che una volta avrei superato con facilità sono diventati infidi: le finestre a ghigliottina sono sospese come trappole, pronte a cadermi sulle mani, la scaletta a sgabello minaccia di crollare, sui ripiani superiori delle scaffalature sono piazzati a trabocchetto oggetti di vetro in equilibrio precario. A metà della scala mi sono resa conto che non avrei dovuto provarci. La pendenza era troppo ripida, le ombre troppo dense, l'odore troppo sinistro, come cemento versato di fresco a nascondere uno sposo scaltramente avvelenato. Sul pavimento in fondo si stendeva una pozza di oscurità, profonda e scintillante e bagnata come una vera pozza; forse il fiume stava salendo attraverso il pavimento, come ho visto succedere sul canale delle previsioni meteorologiche. Ognuno dei quattro elementi può scatenarsi in qualsiasi momento: il fuoco può prorompere dalla terra, la terra liquefarsi e precipitare vicino alle tue orecchie, l'aria scagliarmi contro come una roccia, scaraventando via il tetto da sopra la tua testa. Dunque, perché non un'inondazione? Ho avvertito un gorgoglio, che poteva o meno venire da dentro di me; ho sentito il cuore bloccarmisi in petto in preda al panico. Sapevo che l'acqua
era uno scherzo, dell'occhio, dell'orecchio o della mente; comunque, meglio non scendere. Ho lasciato cadere il bucato sulla scala della cantina, abbandonandolo. Forse avrei potuto tornare a raccoglierlo più tardi, forse no. Qualcuno ci avrebbe pensato. Ci avrebbe pensato Myra, a labbra strette. Ora l'avevo fatta bella, ora la donna mi sarebbe stata sicuramente imposta. Mi sono girata, c'è mancato poco che cadessi, mi sono aggrappata alla ringhiera; poi mi sono trascinata di nuovo su, un gradino alla volta, verso la sana, dolce luce del giorno della cucina. Fuori della finestra era grigio, un uniforme grigio smorto, il cielo e anche la neve porosa, ormai vecchia. Ho attaccato il bricco elettrico; ben presto ha cominciato la sua cantilena di vapore. Quando giungi al punto di sentire che sono i tuoi utensili a prendersi cura di te e non viceversa, vuol dire che le cose si sono spinte piuttosto in là. Eppure, ero confortata. Ho fatto una tazza di tè, l'ho bevuta, poi ho sciacquato la tazza. Sono ancora in grado di lavare i miei piatti, in ogni caso. Quindi ho riposto la tazza sul ripiano insieme alle altre, quelle dipinte a mano della nonna Adelia, gigli con gigli, viole con viole, ogni disegno abbinato con il proprio simile. Almeno le mie credenze non hanno dato segni di squilibrio. Ma l'immagine dei capi di bucato buttati sui gradini della cantina mi disturbava. Tutti quegli stracci, quei frammenti spiegazzati, come pelli bianche staccatesi dal corpo. Ma non completamente bianche. La prova di qualcosa: pagine bianche su cui il mio corpo scarabocchia, lasciando la sua testimonianza criptica via via che si va lentamente ma inesorabilmente modificando. Forse dovrei fare un tentativo di raccogliere quelle cose e di rimetterle nella loro cesta, e nessuno si accorgerebbe di niente. Nessuno vuol dire Myra. A quanto pare, sono in preda a una bramosia di ordine. Meglio tardi che mai, dice Reenie. Oh, Reenie. Come vorrei che fossi qui. Ritorna a prenderti cura di me! Ma non lo farà. Tocca a me prendermi cura di me stessa. Di me e di Laura, come promisi solennemente di fare. Meglio tardi che mai. Dov'ero rimasta? Era inverno. No, con quello ho finito. Era primavera. La primavera del 1936. Era l'anno in cui tutto cominciò ad andare in pezzi. Continuò ad andare in pezzi, cioè, in una maniera più grave di quanto non stesse già facendo. È l'anno in cui re Edoardo abdicò; scelse l'amore piuttosto che l'ambi-
zione. No. Scelse l'ambizione della duchessa di Windsor piuttosto che la propria. È questo l'avvenimento che la gente ricorda. E cominciò la Guerra Civile in Spagna. Ma queste cose accaddero soltanto mesi dopo. Per cosa fu noto marzo? Per qualcosa. Richard scuoteva rumorosamente il giornale al tavolo della colazione, dicendo: Dunque l'ha fatto. Eravamo solo noi due a colazione, quel giorno. Laura non la faceva con noi, tranne il fine settimana, e anche allora lo evitava per quanto poteva, fingendo di dormire. Nei giorni lavorativi faceva colazione da sola in cucina, perché doveva andare a scuola. O meglio, non da sola: c'era sempre la signora Murgatroyd. Poi il signor Murgatroyd l'accompagnava a scuola in macchina e l'andava a riprendere, perché a Richard non piaceva l'idea che andasse a piedi. Quello che in realtà non gli piaceva era l'idea che potesse perdersi. Pranzava a scuola, e vi prendeva lezioni di flauto il martedì e il giovedì, perché uno strumento musicale era obbligatorio. Avevamo provato con il piano, ma non se n'era fatto niente. Lo stesso con il violoncello. Laura era restia a esercitarsi, ci fu detto, sebbene di sera ci venisse a volte offerto il triste, stonato lamento del suo flauto. Le note false sembravano volute. «Le parlerò» diceva Richard. «Non possiamo lamentarci» ribattevo. «Sta solo facendo quanto le chiedi». Laura non era più apertamente sgarbata con Richard. Ma se lui entrava in una stanza, lei ne usciva. Torniamo al giornale del mattino. Dal momento che Richard lo teneva sollevato tra noi due, potevo leggere i titoli di testa. Era di Hitler che stava parlando Richard: era entrato in Renania. Aveva infranto le regole, aveva fatto la cosa proibita. Bene, disse, si capiva lontano un miglio che sarebbe successo, ma si sono fatti sorprendere tutti con i pantaloni calati. Si sta prendendo gioco di loro. È un tipo intelligente. Vede il punto debole nel recinto. Vede un'occasione e la coglie. Bisogna fargli tanto di cappello. Convenni, ma non stavo ascoltando. Non ascoltare era l'unico modo che avessi durante quei mesi per conservare il mio equilibrio. Dovevo cancellare il rumore circostante: come un funambolo che attraversi le cascate del Niagara, non potevo permettermi di guardare intorno, per paura di scivolare. Cos'altro puoi fare quando ciò a cui pensi in ogni istante di veglia è così lontano dalla vita che dovresti vivere? Da ciò che è proprio qui sul tavolo, che quella mattina era un vaso per boccioli con dentro un narciso bianco
carta preso dalla ciotola di bulbi di serra mandata da Winifred. È così piacevole in questo periodo dell'anno, aveva detto. Così fragrante. Come un alito di speranza. Winifred mi considerava innocua. In altre parole, credeva che fossi una stupida. Più tardi - dieci anni più tardi - avrebbe detto, al telefono, perché non ci incontravamo più di persona: «Ti credevo una sciocca, ma in realtà sei un demonio. Ci hai sempre odiati, perché tuo padre fece bancarotta e incendiò la sua fabbrica, e ce ne hai fatto una colpa». «Non è stato lui a incendiarla» ribattei. «È stato Richard. O quanto meno ha organizzato la cosa». «Questa è una sporca bugia. Tuo padre era completamente al verde, e se non fosse stato per l'assicurazione su quell'edificio non avreste avuto più un centesimo! Noi vi abbiamo tirato fuori dai pasticci, a te e alla tua sciocca sorella! Se non fosse stato per noi, sareste finite in mezzo a una strada, invece di starvene belle sedute sui vostri sederi come le marmocchie viziate placcate argento che eravate. Avete sempre avuto tutto bello e fatto, non avete mai dovuto sforzarvi, non avete mai mostrato un momento di gratitudine a Richard. Non avete alzato un dito per aiutarlo nei momenti difficili, neanche una volta, mai». «Facevo quello che volevi tu. Tenevo la bocca chiusa. Sorridevo. Ero un addobbo da vetrina. Ma Laura andò oltre. Avrebbe dovuto lasciare fuori Laura». «Era solo rancore, rancore, rancore! Ci dovevate tutto, e non potevate sopportarlo. Dovevate vendicarvi di lui! Tra te e lei lo avete ucciso, come se gli aveste puntato una pistola alla testa e premuto il grilletto». «E chi ha ucciso Laura, allora?» «Laura si è uccisa da sola, come sai benissimo». «Potrei dire lo stesso di Richard». «Questa è una calunnia. Comunque, Laura era matta come un cavallo. Non so come tu abbia mai potuto credere una sola parola di quanto diceva, su Richard o su qualsiasi altro argomento. Nessuno sano di mente l'avrebbe fatto!» Non riuscii a dire altro, perciò attaccai il telefono. Ma ero impotente di fronte a lei, perché a quell'epoca aveva un ostaggio Aveva Aimee. Nel 1936, tuttavia, era ancora abbastanza affabile, e io ero ancora la sua protetta. Continuava a trascinarmi da un ricevimento all'altro - riunioni dell'Associazione delle Giovani Volontarie, raduni politici, i comitati più
svariati - e a parcheggiarmi sulle sedie o negli angoli, mentre lei socializzava come si doveva. Ora mi rendo conto che per lo più non era gradita, ma semplicemente tollerata per via del suo denaro e della sua sconfinata energia: la maggior parte delle donne in quei circoli erano contente di lasciare a Winifred la parte del leone in qualsiasi lavoro ci fosse in ballo. Ogni tanto una di loro mi si accostava esitante e osservava che aveva conosciuto mia nonna - o, se era più giovane, che le sarebbe piaciuto conoscerla, in quell'età dell'oro prima della Grande Guerra, quando la vera eleganza era ancora possibile. Quella era una parola in codice: significava che Winifred era un'arriviste - un'arricchita, chiassosa e volgare - e che io avrei dovuto propugnare tutta un'altra serie di valori. Io sorridevo vagamente, e dicevo che mia nonna era morta molto prima che nascessi. In altre parole, non potevano aspettarsi da me nessun tipo di contrasto nei confronti di Winifred. E come sta il suo intraprendente marito? chiedevano. Quando possiamo aspettarci il grande annuncio? Il grande annuncio riguardava la carriera politica di Richard, non ancora formalmente iniziata, ma considerata imminente. Oh, sorridevo, mi aspetto di essere la prima a esserne informata. Non lo credevo affatto: mi aspettavo di essere l'ultima. La nostra vita - di Richard e mia - si era adagiata in quello che pensavo sarebbe stato il suo modello per sempre. O piuttosto c'erano due vite, una di giorno e una di notte: erano distinte, nonché immutabili. Placidità e ordine e ogni cosa al suo posto, con una violenza decorosa e sanzionata che aveva luogo in sottofondo, come una scarpa pesante e brutale che batte il ritmo su un pavimento ricoperto da un tappeto. Ogni mattina facevo la doccia per liberarmi della notte; per lavare via la roba che Richard si metteva sui capelli - qualche costosa brillantina profumata. Si trasmetteva a tutta la mia pelle. Lo seccava il fatto che fossi indifferente, anzi perfino disgustata dalle sue attività notturne? Per niente. Preferiva la conquista alla collaborazione, in ogni campo della vita. A volte - sempre più spesso, col passare del tempo - c'erano lividi, viola, poi blu, poi gialli. Era notevole con quanta facilità mi venissero, diceva Richard sorridendo. Bastava un semplice tocco. Non aveva mai saputo che una donna potesse ammaccarsi a quel modo. Dipendeva dal fatto che ero così giovane e delicata.
Privilegiava le cosce, dove non si sarebbero visti. Qualcosa di evidente avrebbe potuto ostacolare le sue ambizioni. A volte mi sembrava che quei segni sul mio corpo fossero una specie di codice, che fioriva, quindi spariva, come inchiostro simpatico tenuto davanti a una candela. Ma se erano un codice, chi ne teneva la chiave? Io ero sabbia, io ero neve - scritta, riscritta, spianata. Il portacenere Sono stata di nuovo dal dottore. Mi ci ha portata in macchina Myra: dato il ghiaccio invisibile provocato da una gelata seguita al disgelo, le strade erano troppo scivolose perché potessi camminare, ha detto. Il dottore mi ha dato dei colpetti sulle costole e mi ha auscultato il cuore, ha assunto un'espressione arcigna, l'ha cancellata, quindi - dopo essersi già fatto un'idea - mi ha chiesto come mi sentissi. Credo che abbia fatto qualcosa ai capelli; sicuramente prima erano più radi in cima. Si è rassegnato a incollarsi qualche ciuffo sulla testa? O peggio, a un trapianto? A-ha, ho pensato. Nonostante il tuo jogging e le tue gambe pelose, l'età ha cominciato a essere un punto dolente. Ben presto ti pentirai di tutta quell'abbronzatura. Il tuo viso sembrerà un testicolo. Ciò nondimeno è stato disgustosamente spiritoso. Almeno non dice: Come stiamo oggi? Non mi si rivolge mai con il noi, come fanno alcuni di loro: capisce bene l'importanza della prima persona singolare. «Non riesco a dormire» gli ho detto. «Faccio troppi sogni». «Ma se sogna, significa che dorme» ha osservato, volendo fare una battuta. «Sa cosa intendo» ho detto brusca. «Non è la stessa cosa. I sogni mi svegliano». «Ha bevuto caffè?» «No» ho mentito. «Dev'essere la coscienza sporca». Stava scrivendo una ricetta, senza dubbio per delle pillole di zucchero. Ha ridacchiato tra sé e sé: pensava di essere stato piuttosto divertente. A partire da un certo punto i danni dell'esperienza decadono; con l'avanzare dell'età assumiamo un'aria innocente, almeno nella mente altrui. Ciò che vede il dottore quando mi guarda è una vecchia lunatica, incapace e perciò senza colpa. Mentre ero nel sancta sanctorum, Myra leggeva vecchie riviste nella sala d'aspetto. Ha strappato un articolo sul come combattere la tensione, e un
altro sui benefici effetti del cavolo crudo. Erano per me, ha detto, soddisfatta delle sue utili trouvailles. Mi fa in continuazione la diagnosi. La mia salute corporea ha per lei quasi lo stesso interesse della mia salute spirituale: in particolare ha l'esclusiva delle mie viscere. Ho osservato che non avevo bisogno di combattere la tensione, perché che tensione può esserci nel vuoto assoluto? Quanto al cavolo crudo, mi gonfiava come una vacca morta, perciò avrei fatto a meno dei suoi benefici effetti. Ho detto che non avevo alcuna voglia di passare la vita, o quanto ne rimaneva, puzzando come un barile di crauti e strepitando come il clacson di un camion. I crudi riferimenti alle funzioni del corpo di solito mettono un freno a Myra. Ha guidato per il resto del tragitto fino a casa in silenzio, con un sorriso che le si irrigidiva sul viso come gesso a presa rapida. A volte ho vergogna di me stessa. Ma mettiamoci al lavoro, ormai ci ho fatto la mano. Fare la mano è la parola giusta: a volte mi sembra che sia solo la mia mano a scrivere, non il resto di me; che la mia mano abbia assunto una vita propria, e continuerà a scrivere anche staccata dal resto di me, come un magico feticcio egizio imbalsamato o come le zampe di coniglio essiccate che gli uomini usavano appendere ai loro specchietti retrovisori come portafortuna. Nonostante l'artrite delle mie dita, ultimamente questa mia mano ha dato prova di una straordinaria vivacità, quasi gettasse al vento ogni ritegno. Di certo ha scritto una quantità di cose che non le sarebbe mai stato permesso di scrivere se avesse dovuto obbedire al mio buon senso. Giriamo le pagine, giriamo le pagine. Dov'ero rimasta? Aprile 1936. In aprile ricevemmo una convocazione dalla direttrice del St. Cecilia, la scuola frequentata da Laura. Riguardava la sua condotta, diceva. Non era una faccenda di cui sarebbe stato bene discutere per telefono. Richard era impegnato per affari. Propose Winifred per farmi da scorta, ma dissi che ero sicura che non fosse nulla di grave; mi sarei occupata da sola della questione, e lo avrei informato se si fosse trattato di qualcosa di importante. Presi appuntamento con la direttrice, di cui ho dimenticato il nome. Mi vestii in un modo che speravo l'avrebbe intimidita, o almeno le avrebbe ricordato la posizione e l'influenza di Richard: mi pare che indossassi un cappotto di cachemire con bordi di ghiottone - caldo per la stagione, ma di effetto - e un cappello con sopra un fagiano morto, o parte di es-
so. Le ali, la coda e la testa, che era provvista di piccoli occhi di vetro rossi simili a spilli. La direttrice era una donna che si andava ingrigendo, dalla forma di un attaccapanni di legno - ossa fragili con sopra appesi tessuti dall'aria umida. Era nel suo ufficio, barricata dietro una scrivania di quercia, le spalle che le arrivavano alle orecchie per il terrore. Un anno prima sarei stata spaventata da lei quanto lei lo era da me, o piuttosto da ciò che rappresentavo: un grosso rotolo di denaro. Ora però avevo acquistato sicurezza. Avevo visto Winifred in azione, avevo fatto pratica. Ora sapevo sollevare un sopracciglio per volta. Sorrideva nervosamente, mostrando denti gialli e tondeggianti che ricordavano i chicchi di una pannocchia di granturco mangiata a metà. Mi chiesi cosa avesse fatto Laura: doveva trattarsi di qualcosa di grave, se aveva condotto quella donna al punto di affrontare l'assente Richard e il suo invisibile potere. «Temo che non possiamo davvero continuare a tenere Laura» disse. «Abbiamo fatto del nostro meglio, e ci rendiamo conto che ci sono delle circostanze attenuanti, ma tutto considerato dobbiamo pensare alle altre nostre alunne, e temo che Laura eserciti semplicemente un'influenza perturbatrice». Ormai avevo imparato l'importanza di lasciar spiegare gli altri. «Mi dispiace, ma non so di cosa stia parlando» dissi, muovendo appena le labbra. «Quali circostanze attenuanti? Quale influenza perturbatrice?» Tenevo le mani immobili in grembo, la testa alta e leggermente inclinata, l'angolazione migliore per il cappello con il fagiano. Speravo che si sarebbe sentita osservata da quattro occhi, non solo da due. Sebbene avessi il beneficio della ricchezza, lei aveva quello dell'età e della posizione. Faceva caldo nell'ufficio. Avevo appeso il cappotto alla spalliera della sedia, ma anche così sudavo come uno stivatore. «Mette in discussione Dio» disse, «nell'ora di Dottrina Religiosa, che devo dire è l'unico argomento in cui sembra dimostrare un minimo di interesse. Si è spinta tanto lontano da scrivere un saggio intitolato "Dio mente?" È stato motivo di profondo turbamento per l'intera classe». «E a quale risposta è giunta?» chiesi. «Su Dio?» Ero sorpresa, anche se non io davo a vedere: credevo che Laura avesse allentato sulla questione di Dio, ma a quanto pare non era così. «Affermativa». Abbassò lo sguardo sulla scrivania, dove il saggio di Laura era aperto davanti a lei. «Cita - è proprio qui - il Primo libro dei Re, capitolo ventidue, il passaggio in cui Dio inganna re Acab. 'Ecco, dunque,
il Signore ha messo uno spirito menzognero sulla bocca di tutti questi tuoi profeti'. Laura continua col dire che se Dio lo fece una volta, chi ci assicura che non lo abbia fatto ancora, e come distinguere le false profezie dalle vere?» «Be', è una conclusione logica, in ogni caso» dissi. «Laura conosce la Bibbia». «Mi permetta di dire» fece la direttrice, esasperata, «che il Diavolo può citare la Bibbia a suo vantaggio. Prosegue osservando che sebbene Dio menta, non imbroglia - manda sempre anche un vero profeta, ma la gente non lo ascolta. Secondo lei Dio è come un'emittente radiofonica e noi siamo radio difettose, un paragone che trovo a dir poco irriverente». «Laura non intende essere irriverente» dissi. «Non su Dio, in ogni caso». La direttrice lo ignorò. «Non sono tanto le discussioni capziose che fa, quanto innanzitutto il fatto che ritenga opportuno sollevare il problema». «A Laura piace avere risposte» dissi. «Le piace avere risposte su questioni importanti. Sarà senz'altro d'accordo nel dire che Dio sia una questione importante. Non vedo perché questo dovrebbe essere considerato un elemento di disturbo». «Le altre studentesse lo trovano tale. Credono che lei - be', si metta in mostra. Che sfidi l'autorità costituita». «Come faceva Cristo» dissi, «o come al tempo alcuni pensavano che facesse». Non fece l'ovvia osservazione che certe cose potevano andare benissimo per Cristo ma non si addicevano a una ragazza di sedici anni. «Lei non capisce bene» disse. Si torceva letteralmente le mani, un'operazione che studiai con interesse, non avendola mai vista prima. «Le altre pensano che lei - pensano che sia divertente. O almeno lo pensano alcune di loro. Altre ancora pensano che sia una bolscevica. Il resto la considera semplicemente strana. In ogni caso, attira il tipo di attenzione sbagliato». Cominciai a capire il suo punto di vista. «Non credo che Laura intenda essere divertente» dissi. «Be', non si direbbe proprio!» Ci guardammo un momento in silenzio al di sopra della scrivania. «Ha quasi un seguito, sa?» disse la direttrice con un pizzico di invidia. Aspettò che incassassi, quindi proseguì. «È poi, c'è la questione delle assenze. Capisco che ci siano problemi di salute, ma...» «Quali problemi di salute?» domandai. «Non c'è nulla che non vada nella salute di Laura». «Be', ho supposto, considerati tutti gli appuntamenti dal dottore...»
«Quali appuntamenti dal dottore?» «Lei non li ha autorizzati?» Mi esibì un fascio di lettere. Riconobbi la carta da lettere, che era la mia. Le scorsi: non le avevo scritte, ma recavano la mia firma. «Capisco» dissi, prendendo il mio cappotto con i bordi di ghiottone e la mia borsetta. «Dovrò parlare a Laura. Grazie per il tempo che mi ha concesso». Le strinsi la punta delle dita. Ormai non c'era neanche bisogno di dire che Laura avrebbe dovuto essere espulsa dalla scuola. «Abbiamo fatto del nostro meglio» disse la povera donna. Stava praticamente piangendo. Un'altra Miss Violence. Bassa forza prezzolata, bene intenzionata ma incapace. Non poteva competere con Laura. Quella sera, quando Richard chiese come fosse andato il mio colloquio, gli dissi dell'effetto perturbatore esercitato da Laura sulle sue compagne di classe. Invece di arrabbiarsi sembrò divertito, quasi ammirato. Disse che Laura aveva una spina dorsale. Disse che una certa quantità di ribellione dimostrava spirito di iniziativa. Anche lui non aveva amato la scuola e aveva reso la vita difficile agli insegnanti, disse. Non pensavo che fosse quello il motivo che aveva spinto Laura, ma non ne feci parola. Non gli accennai ai falsi permessi per il dottore: questo avrebbe sollevato un polverone. Dare del filo da torcere agli insegnanti era una cosa, marinare la scuola tutt'altra. Puzzava di delinquenza. «Non avresti dovuto contraffare la mia calligrafia» dissi a Laura in privato. «Non potevo contraffare quella di Richard. È troppo differente dalle nostre. La tua era molto più facile». «La calligrafia è una cosa personale. È come rubare». Per un attimo sembrò mortificata. «Mi dispiace. Era solo un prestito. Non pensavo che te la saresti presa». «Suppongo che sia inutile chiedere perché l'hai fatto?» «Non ho mai chiesto di essere mandata in quella scuola» disse Laura. «Non mi piacevano più di quanto io piacessi loro. Non mi prendevano sul serio. Non sono persone serie. Se fossi dovuta stare tutto il tempo là, mi sarei ammalata davvero». «Cosa hai fatto» dissi, «quando non eri a scuola? Dove sei andata?» Ero preoccupata che potesse incontrare qualcuno - incontrare un uomo. Stava entrando nell'età giusta. «Oh, qua e là» rispose. «Andavo in centro, o mi sedevo nei parchi, cose così. Oppure andavo semplicemente in giro. Ti ho visto, un paio di volte,
ma tu non mi hai notata. Credo che stessi facendo spese». Sentii un afflusso di sangue al cuore, poi un'oppressione: panico, come una mano che mi serrasse. Devo essere impallidita. «Che c'è?» fece Laura. «Non ti senti bene?» Quel maggio andammo in Inghilterra a bordo del Berengeria, poi tornammo a New York partecipando al viaggio inaugurale della Queen Mary. La Queen era il transatlantico più grande e più lussuoso che fosse mai stato costruito, o almeno questo è quanto riportavano tutti gli opuscoli. Era un avvenimento che avrebbe fatto epoca, disse Richard. Winifred venne con noi. Anche Laura. Un viaggio del genere le avrebbe fatto benissimo, disse Richard: ultimamente era sciupata ed esaurita, se ne stava in ozio dal momento del suo improvviso allontanamento dalla scuola. Il viaggio sarebbe stato una lezione per lei, di quelle davvero utili per una ragazza del suo tipo. Comunque, non potevamo lasciarla a casa. Il pubblico non ne aveva mai abbastanza della Queen Mary. Era descritta e fotografata fino alla nausea, e arredata per esserne all'altezza, con illuminazione al neon, laminati plastici, colonne scanalate e decorazioni in legno d'acero - costose impiallacciature dappertutto. Ma sguazzava come un maiale, e il ponte di seconda classe dominava quello di prima, perciò non si poteva andare in giro senza essere bersagliati dalle imprecazioni degli idioti spiantati che ti squadravano dall'alto. Il primo giorno ebbi mal di mare, ma poi mi ripresi. Si danzava molto. Ormai sapevo ballare; abbastanza bene, ma non troppo. (Non fare mai niente troppo bene, diceva Winifred, sembrerà che ti ci stai impegnando). Ballavo con uomini diversi da Richard - uomini che lui conosceva tramite i suoi affari, uomini a cui mi presentava. Prenditi cura di Iris per me, diceva a questi uomini, sorridendo, dandogli dei colpetti sul braccio. A volte ballava con altre donne, le mogli degli uomini che conosceva. A volte usciva a fumare una sigaretta o a fare un giro sul ponte, o almeno era quello che diceva. Io invece pensavo che fosse di malumore, o rimuginasse su qualcosa. Ogni volta ne perdevo le tracce per un'ora. Poi tornava, sedeva al nostro tavolo, mi guardava ballare abbastanza bene, e io mi chiedevo quanto tempo fosse stato via. Era scontento, decisi, perché il viaggio non dava i risultati che aveva sperato. Non riusciva a procurarsi le prenotazioni desiderate per cenare al Verandah Grill, non faceva conoscenza con la gente che voleva conoscere. Era un pezzo grosso nel suo terreno abituale, ma sulla Queen Mary era
davvero molto piccolo. Anche Winifred era un pezzo piccolo: il suo brio andava sprecato. Più di una volta vidi donne a cui si era accostata timidamente fare finta di non vederla. Allora sgattaiolava di nuovo in quella che chiamava «la nostra cricca», sperando che nessuno si fosse accorto di nulla. Laura non ballava. Non era capace, non le interessava affatto; e comunque era troppo giovane. Dopo cena si chiudeva nella sua cabina; diceva di leggere. Il terzo giorno di viaggio, a colazione, aveva gli occhi gonfi e rossi. A metà mattina andai a cercarla. La trovai su una sdraio con una coperta scozzese tirata fino al collo, intenta a guardare distrattamente alcune persone che giocavano al gioco degli anelli. Mi sedetti accanto a lei. Una giovane donna robusta ci camminò accanto con sette cani, ognuno al proprio guinzaglio; indossava dei pantaloncini nonostante il tempo freddo, e aveva le gambe marroni per l'abbronzatura. «Potrei trovare un lavoro del genere» disse Laura. «Un lavoro di che genere?» «Portare a passeggio i cani» disse. «I cani degli altri. Mi piacciono i cani». «Non ti piacerebbero i padroni». «Non porterei a passeggio i padroni». Aveva gli occhiali da sole, ma tremava. «C'è qualcosa che non va?» domandai. «No». «Sembra che hai freddo. Credo che ti stia venendo qualcosa». «Non ho niente. Non ti agitare». «È naturale che sia preoccupata». «Non devi. Ho sedici anni. Saprò bene se sono malata». «Ho promesso a nostro padre che mi sarei presa cura di te» dissi freddamente. «E anche a nostra madre». «È stato sciocco da parte tua». «Non c'è dubbio. Ma ero giovane, non sapevo ancora come andava il mondo. Ecco cosa vuol dire essere giovani». Laura si tolse gli occhiali da sole, ma non mi guardò. «Non ho colpa delle promesse altrui» disse. «Papà mi ha rifilato a te. Non ha mai saputo che farsene di me - di noi. Ma adesso è morto, sono morti tutti e due, perciò non c'è problema. Ti assolvo dall'impegno. Sei libera». «Laura, cosa c'è?»
«Niente» rispose. «Ma ogni volta che voglio semplicemente pensare raccapezzarmi -, tu decidi che sono malata e cominci a tormentarmi. Mi fa diventare matta». «Non è molto giusto» dissi. «Ho provato e riprovato, ti ho sempre dato il beneficio del dubbio, ti ho sempre dato il massimo...» «Lasciamo stare» disse. «Guarda che gioco sciocco!» Ascrissi tutto al vecchio dolore - al lutto, e a tutto quello che ci era successo. O magari poteva avere ancora il chiodo fisso di Alex Thomas? Avrei dovuto chiederle di più, avrei dovuto insistere, ma dubito che anche in quel caso mi avrebbe detto cosa la angustiasse davvero. La cosa che ricordo più chiaramente di quel viaggio, a parte Laura, è il saccheggio che ebbe luogo su tutta la nave il giorno che entrammo in porto. Tutto ciò con sopra il nome o il monogramma della Queen Mary andò a finire in una borsa o in una valigia - carta da lettere, argenteria, asciugamani, portasapone, tutto - qualunque cosa non fosse incatenata al suolo. Alcuni svitarono perfino le manopole dei rubinetti, e gli specchi più piccoli, e i pomelli delle porte. I passeggeri di prima classe erano peggiori degli altri; ma si sa, i ricchi sono sempre stati cleptomani. Qual era la ragione di tutta quella devastazione? I souvenir. Quella gente aveva bisogno di qualcosa con cui ricordare se stessa. Strana cosa, la caccia al souvenir: l'adesso diventa il poi mentre è ancora adesso. Non credi davvero di essere dove sei, e così rubi la prova, o qualcosa che scambi per tale. Io stessa me ne andai con un portacenere. L'uomo con la testa in fiamme La scorsa notte ho preso una delle pillole che mi ha prescritto il dottore. Mi ha fatto dormire, sì, ma poi ho sognato, e quel sogno non era molto migliore di quelli che facevo senza il beneficio della medicina. Ero sul pontile di Avilion, con il ghiaccio rotto e verdastro del fiume che tintinnava tutt'intorno come tante campanelle, ma non indossavo un cappotto invernale - solo un vestito di cotone stampato con sopra disegnate delle farfalle. E un cappello fatto di fiori di plastica a colori sgargianti rosso pomodoro, un orribile lillà -, illuminato dall'interno da minuscole lampadine. Dov'è il mio? diceva Laura, con la sua voce di quando aveva cinque an-
ni. Ma quando ho abbassato lo sguardo su di lei, non eravamo più bambine. Laura era cresciuta, come me; i suoi occhi erano piccoli chicchi di uva passa. Questo mi ha riempito di orrore, e mi sono svegliata. Erano le tre di notte. Ho aspettato che il mio cuore smettesse di protestare, poi mi sono fatta strada tastoni al piano di sotto e mi sono preparata un latte caldo. Avrei dovuto saperlo che non c'era da fare assegnamento sulle pillole. Non si può comprare l'oblio così a buon mercato. Ma continuiamo. Una volta sceso dalla Queen Mary, il nostro gruppo di famiglia passò tre giorni a New York. Richard doveva concludere degli affari; noi altre potevamo fare le turiste, disse. Laura non voleva andare a vedere i Rockettes, o in cima alla Statua della Libertà o all'Empire State Building. Non voleva neanche fare spese. Voleva soltanto andare in giro per le strade e guardarsi intorno, diceva, ma era una cosa troppo pericolosa perché potesse farla da sola, secondo Richard, perciò io andavo con lei. Non era una compagnia vivace - un sollievo dopo Winifred, che era decisa a essere vivace quanto era umanamente possibile. Poi passammo parecchie settimane a Toronto, mentre Richard si metteva in pari con i suoi affari. Quindi ci trasferimmo ad Avilion. Saremmo andati in barca, disse Richard. Il suo tono sottintendeva che quella era l'unica cosa per cui fosse buono quel posto; e anche che era felice di sacrificare il suo tempo per assecondare i nostri capricci. O, per dirla in modo più garbato, per farci piacere - fare piacere a me, ma fare piacere anche a Laura. Mi sembrava che fosse giunto a considerare Laura come un puzzle che adesso era suo compito ricomporre. Lo coglievo mentre la guardava nelle occasioni più svariate, quasi nello stesso modo in cui guardava le pagine della borsa - alla ricerca dell'impugnatura, dell'accesso, della maniglia, del cuneo, dell'entrata. Secondo la sua visione della vita, c'era una impugnatura e un accesso del genere per ogni cosa. O quello, o un prezzo. Voleva dominare Laura, voleva il suo collo sotto il piede. Così, dopo ognuno dei suoi tentativi veniva lasciato con una gamba in aria, come un cacciatore di orsi in posa in una fotografia da cui l'orso ucciso sia scomparso. Come ci riusciva Laura? Non opponendoglisi, non più: a quel tempo evitava di scontrarsi frontalmente con lui. Ci riusciva ritraendosi, e girandosi, e facendogli perdere l'equilibrio. Lui si scagliava sempre nella sua direzione, e afferrava sempre, sempre nient'altro che aria. Quello che lui voleva era la sua approvazione, perfino la sua ammirazio-
ne. O semplicemente la sua gratitudine. Qualcosa del genere. Con qualche altra ragazza avrebbe tentato la carta dei regali - una collana di perle, un maglione di cachemire - cose che si presumeva una ragazza di sedici anni desiderasse. Ma sapeva bene che non era il caso di rifilare niente del genere a Laura. Era come cavare sangue da una rapa, pensavo. Non riuscirà mai a capirla. E poi Laura non ha un prezzo, perché lui non ha nulla che lei possa volere. In un qualsiasi scontro di volontà, con chiunque in assoluto, io scommettevo ancora su di lei. A suo modo era testarda come un mulo. Pensai che avrebbe colto al volo l'occasione di trascorrere qualche tempo ad Avilion - era stata così restia a lasciarlo -, ma quando si accennò al progetto sembrò indifferente. Non voleva attribuire alcun merito a Richard, o questa fu la mia interpretazione. «Almeno vedremo Reenie» fu tutto quello che disse. «Mi duole dire che Reenie non è più al nostro servizio» intervenne Richard. «Le è stato chiesto di andarsene». Quando era successo? Qualche tempo prima. Un mese, parecchi mesi? Richard fu vago. Era per via del marito di Reenie, disse, che beveva troppo. Perciò i restauri della casa non venivano effettuati in quella che qualunque persona ragionevole avrebbe considerato una maniera tempestiva e soddisfacente, e Richard non vedeva alcun senso nel pagare una bella somma di denaro per la pigrizia, e per ciò che poteva essere definito soltanto insubordinazione. «Non voleva che fosse qui insieme a noi» disse Laura. «Sapeva che avrebbe preso partito». Stavamo gironzolando per il piano terra di Avilion. La casa sembrava rimpicciolita, teli impolverati coprivano i mobili, o meglio quanto ne rimaneva - alcuni dei pezzi più ingombranti e scuri erano stati eliminati, su ordine di Richard, suppongo. Potevo immaginare Winifred mentre diceva che non si dovrebbe pretendere da nessuno di vivere con una credenza ornata di grappoli di legno così pesanti e inverosimili. I libri rilegati in pelle erano ancora nella biblioteca, ma avevo la sensazione che forse non ci sarebbero rimasti ancora a lungo. I ritratti dei primi ministri con il nonno Benjamin erano stati eliminati: qualcuno - Richard, senza dubbio - doveva avere finalmente notato i loro visi color pastello. Una volta Avilion aveva avuto un'aria di stabilità che equivaleva a intransigenza - un macigno grosso e tozzo scagliato giù in mezzo al flusso
del tempo, che rifiutava di essere spostato per chicchessia -, ma ora era malridotto, afflitto, come se fosse sul punto di crollare su se stesso. Non aveva più il coraggio delle sue pretese. Era talmente demoralizzante, diceva Winifred, come tutto era polveroso, e in cucina c'erano topi, aveva visto gli escrementi, e anche pesciolini d'argento. Ma i Murgatroyd sarebbero arrivati quel giorno stesso, più tardi, con il treno, insieme a una coppia di nuovi servitori che erano stati aggiunti al nostro seguito, perciò ben presto sarebbe stato tutto in perfetto ordine come su una barca, tranne naturalmente (disse con una risata) la barca stessa, intendendo l'Ondina. In quel momento Richard era nella rimessa a esaminarla. Avrebbe dovuto essere raschiata e riverniciata sotto la supervisione di Reenie e Ron Hincks, ma questa era un'altra delle cose che non erano state fatte. Winifred non riusciva a capire che intenzioni avesse Richard con quella vecchia bagnarola - se aveva davvero tanta voglia di navigare avrebbe dovuto affondare quel rottame e comprare una barca nuova. «Pensa che ha un valore sentimentale, suppongo» dissi. «Per noi, voglio dire. Per Laura e per me». «E ce l'ha?» chiese Winifred, con quel suo sorriso divertito. «No» rispose Laura. «Perché dovrebbe? Papà non ci portava mai in barca. Ci portava solo Callie Fitzsimmons». Eravamo in sala da pranzo; almeno il tavolo lungo c'era ancora. Mi chiesi quale decisione avrebbe preso Richard, o piuttosto Winifred, su Tristano e Isotta e sulla loro vitrea storia d'amore fuori moda. «Callie Fitzsimmons è venuta al funerale» disse Laura. Eravamo sole; Winifred era andata di sopra per quello che chiamava il riposino di bellezza. In quelle occasioni si metteva sugli occhi dei tamponi di ovatta imbevuti di amamelide e si copriva il viso con un preparato di costoso fango verde. «Ah, sì? Non me l'avevi detto». «Mi sono dimenticata. Reenie era furiosa con lei». «Per essere venuta al funerale?» «Per non essere venuta prima. È stata piuttosto sgarbata. Ha detto: "Arrivi alla frutta"». «Ma se odiava Callie! Ha sempre odiato quando veniva ospite qui! La considerava una sgualdrina!» «Io credo che non fosse abbastanza sgualdrina per andare bene a Reenie. Era troppo pigra, non ha fatto bene il suo lavoro». «Il lavoro di sgualdrina?»
«Be', Reenie pensava che sarebbe dovuta andare fino in fondo. O che almeno avrebbe dovuto esserci, quando papà si trovava in simili difficoltà. Per non farlo pensare a certe cose». «Reenie ha detto tutto questo?» «Non esattamente, ma si poteva capire cosa intendesse». «Che ha fatto Callie?» «Ha finto di non capire. Poi ha fatto quello che fanno tutti ai funerali. Ha pianto e ha detto bugie». «Quali bugie?» ho chiesto. «Ha detto che anche se loro due non la vedevano allo stesso modo dal punto di vista politico, papà era una brava, una bravissima persona. Reenie ha detto punto di vista politico col cavolo, ma alle sue spalle». «Credo che provasse a esserlo» dissi. «Bravo, intendo». «Be', non ha provato con abbastanza impegno» ribatté Laura. «Non ti ricordi cosa diceva? Che noi gli eravamo rimaste sulle spalle, come se fossimo un peso». «Ha provato con quanto impegno ha potuto» dissi. «Ricordi quella volta che si travestì da Babbo Natale? Fu prima che la mamma morisse. Avevo appena compiuto cinque anni». «Sì» risposi. «È quello che intendevo. Ci provava». «Ho odiato quel Natale» disse Laura. «Ho sempre odiato quel genere di sorprese». Ci avevano detto di aspettare nel guardaroba. Le doppie porte che davano nell'ingresso avevano tendine leggere all'interno, perciò non potevamo vedere nel salone quadrato, che aveva un caminetto, alla vecchia maniera; è là che era stato sistemato l'albero di Natale. Eravamo appollaiate sul divano del guardaroba, con dietro lo specchio rettangolare. Dal lungo attaccapanni pendevano cappotti - i cappotti di papà, i cappotti della mamma, e anche i cappelli, più sopra - quelli di lei con grandi piume, quelli di lui con piume più piccole. C'era odore di soprascarpe di gomma; e di resina di pino fresca e cedro dalle ghirlande intrecciate intorno alle ringhiere della scala principale, e di cera sulle assi di legno del pavimento tiepide, perché era accesa la caldaia: i radiatori sibilavano e producevano un rumore metallico. Da sotto il davanzale della finestra veniva una corrente fredda, e l'odore inesorabile, gradevole della neve. C'era una sola luce sul soffitto della stanza; aveva una sfumatura di un giallo serico. Vedevo noi due riflesse nei vetri delle porte: i nostri vestiti di
velluto blu reale con i colletti di pizzo, i nostri visi bianchi, i nostri capelli opachi divisi nel mezzo, le nostre mani pallide incrociate in grembo. Le nostre calze bianche, le nostre Mary Janes nere. Ci era stato insegnato a sedere accavallando i piedi - mai le ginocchia - ed era così che eravamo sedute. Lo specchio si alzava dietro di noi come una bolla di vetro che ci spuntasse da sopra le teste. Sentivo i nostri respiri entrare e uscire: i respiri dell'attesa. Sembrava che fosse qualcun altro a respirare - qualcuno grande ma invisibile, nascosto, infagottato nei cappotti. A un tratto le doppie porte si spalancarono. C'era un uomo vestito di rosso, un gigante rosso che torreggiava sopra di noi. Dietro di lui c'era l'oscurità della notte, e uno sfavillio di fiamme. Aveva la faccia coperta di fumo bianco. La sua testa bruciava. Avanzò barcollando: aveva le braccia spalancate. Dalla bocca gli uscì il suono di un ululato, o di un grido. Io rimasi stupefatta per un momento, ma ero abbastanza grande per capire di cosa dovesse trattarsi. Il suono doveva essere una risata. Era solo papà, che fingeva di essere Babbo Natale, e non stava bruciando - era solo l'albero acceso alle sue spalle, era solo la ghirlanda di candele sulla sua testa. Indossava la vestaglia di broccato rosso, all'incontrano, e una barba fatta di cotone per imbottiture. Mia madre diceva che lui non si rendeva mai conto della sua forza: non si rendeva mai conto di quanto fosse grande rispetto a chiunque altro. Dunque non si stava rendendo conto di quanto potesse sembrare spaventoso. Certamente fu spaventoso per Laura. «Non la finivi più di gridare» dissi allora. «Non capivi che stava fingendo». «Peggio» ribatté Laura. «Pensai che fingesse il resto del tempo». «Cosa vuoi dire?» «Che è così che era davvero» rispose lei in tono paziente. «Che sotto sotto bruciava. Sempre». L'Ondina Questa mattina ho dormito fino a tardi, esausta dopo una notte di cupi vagabondaggi. Avevo i piedi gonfi, come se avessi camminato a lungo su un terreno duro; mi sentivo la testa spugnosa e molle. È stato il bussare di Myra alla porta a svegliarmi. «In piedi!» ha trillato attraverso la fessura delle lettere. Per pura cattiveria non ho risposto. Magari avrebbe pensato che ero morta - crepata nel sonno! Senza dubbio si stava già preoccupando
di quale dei miei vestiti stampati a fiori mi avrebbe messo nella bara, e stava pensando alle cibarie per il ricevimento dopo il funerale. Non l'avrebbe chiamata veglia funebre, niente di così barbaro. Una veglia sembra qualcosa fatto per assicurarsi che i morti siano davvero morti prima di buttarci sopra palate di terra. Ho sorriso a quell'idea. Poi mi sono ricordata che Myra aveva una chiave. Ho pensato di tirarmi il lenzuolo sul viso per darle un ultimo istante di piacevole orrore, ma poi ho deciso che era meglio di no. Mi sono tirata su a sedere, quindi sono scesa dal letto e mi sono messa la vestaglia. «Un momento» ho gridato giù per le scale. Ma Myra era già dentro, e con lei c'era la donna: la donna delle pulizie. Era una creatura grande e grossa con l'aspetto di una portoghese: non c'era modo di ritardarne l'entrata in funzione. Si è subito messa al lavoro con l'aspirapolvere di Myra - avevano pensato a tutto - mentre io la seguivo come uno spirito che annuncia la morte, piagnucolando: Non tocchi questo! Lasci quell'altro! Posso farlo da sola! Ora non troverò più niente! Almeno sono riuscita ad arrivare in cucina prima di loro, e ho avuto il tempo di ficcare le mie pagine scarabocchiate nel forno. Era improbabile che lo avrebbero affrontato il primo giorno di pulizie. In ogni caso non è troppo sporco, non ci cuocio mai niente. «Là» ha detto Myra, dopo che la donna ha finito. «Tutto pulito e in ordine. Non ti fa sentire meglio?» Mi aveva portato un ninnolo fresco fresco dalla Gingerbread House una fioriera per crochi verde smeraldo, solo leggermente scheggiata, raffigurante la testa di una ragazza che sorride timidamente. I crochi dovrebbero crescere attraverso i buchi in cima ed esplodere in un'aureola di fiori, queste le sue precise parole. Tutto quello che devo fare è innaffiarlo, dice Myra, e ben presto sarà grazioso come una pianta. Misteriose sono le vie attraverso cui Dio compie i suoi miracoli, come diceva Reenie. Potrebbe darsi che Myra sia l'angelo custode a me destinato? O invece è un assaggio del Purgatorio? E come fare a capire la differenza? Il nostro secondo giorno ad Avilion io e Laura andammo a trovare Reenie. Non fu difficile scoprire dove viveva: tutti in città lo sapevano. O almeno lo sapeva la gente al Betty's Luncheonette, perché è là che lavorava tre giorni alla settimana. Non dicemmo a Richard e a Winifred dove saremmo andate, perché che senso aveva aumentare l'atmosfera pesante at-
torno al tavolo della colazione? Non avrebbero potuto assolutamente proibircelo, ma ci saremmo attirate senza dubbio una fastidiosa dose di soffocato disprezzo. Prendemmo l'orsacchiotto che avevo comprato per la bambina di Reenie ai grandi magazzini Simpsons, a Toronto. Non era un orsacchiotto molto adatto alle coccole - era austero e molto imbottito e rigido. Sembrava un impiegato statale di basso rango, o almeno un impiegato di quei tempi. Non so che aspetto abbiano adesso. È più che probabile che indossino jeans. Reenie e suo marito abitavano in una di quelle casette a schiera di calcare costruite originariamente per gli operai della fabbrica - due piani, tetto a punta, latrina sul retro dello stretto giardino - non molto lontano da dove vivo adesso. Non avevano telefono, perciò non potemmo avvertirla della nostra venuta. Quando aprì la porta e ci vide là fuori, fece un largo sorriso e poi si mise a piangere. Dopo un attimo Laura fece lo stesso. Io stavo là con l'orsacchiotto in mano, sentendomi tagliata fuori perché non piangevo anch'io. «Dio vi benedica» disse Reenie a tutte e due. «Entrate a vedere la bambina». Percorremmo il corridoio dal pavimento di linoleum che conduceva alla cucina. Reenie l'aveva dipinta di bianco e aveva aggiunto tendine gialle, della stessa sfumatura di giallo di quelle di Avilion. Notai una serie di barattoli di metallo, anch'essi bianchi, con su stampigliato in giallo: Farina, Zucchero, Caffè, tè. Non c'era bisogno che mi venisse detto che Reenie aveva fatto quelle decorazioni da sola. Quelle, e le tendine, e qualunque altra cosa su cui potesse mettere le mani. Stava facendo del suo meglio. La bambina - sei tu, Myra, ora hai fatto il tuo ingresso nella storia - era stesa in un cesto della biancheria di vimini, e girava lo sguardo su di noi senza sbattere gli occhi, che erano perfino più blu di quelli che di solito hanno i bambini piccoli. Devo dire che sembrava un budino di sugna, ma del resto succede a molti bambini. Reenie insistette a farci una tazza di tè. Ormai eravamo signorine, disse; potevamo bere vero tè, non solo latte con poco tè dentro, come facevamo una volta. Aveva preso peso; la parte di sotto delle sue braccia, un tempo così soda e forte, ballonzolava un po', e mentre camminava verso i fornelli ondeggiava quasi. Aveva le mani paffute, le nocche che formavano delle fossette. «Mangi per due e poi ti dimentichi di smettere» disse. «Vedete il mio
anello nuziale? Non potrei toglierlo a meno che non me lo taglino. Dovrò farmici seppellire». Lo disse con un sospiro di autocompiacimento. Poi la bambina cominciò ad agitarsi, e Reenie la prese su e se la mise sulle ginocchia, e ci guardò al di sopra del tavolo con un'aria quasi insolente. Il tavolo (semplice, piccolo, con una tovaglia di incerata stampata a tulipani gialli) era come una grande voragine - da una parte c'eravamo noi due, dall'altra, ormai a una distanza immensa, Reenie con la sua bambina, senza rimpianti. Rimpianti per cosa? Per averci abbandonato. O almeno è così che mi sembrava. C'era qualcosa di strano nelle maniere di Reenie, non verso la bambina, ma verso di noi in rapporto a lei - come se l'avessimo colta in fallo. Da allora mi sono chiesta - e dovrai scusarmi se lo dico, Myra, ma in realtà tu non dovresti leggere queste cose, e chi è causa del suo mal... - da allora mi sono chiesta se la bambina non fosse per niente di Ron Hincks, ma di nostro padre. Immaginati Reenie, l'unica persona di servizio rimasta ad Avilion dopo che io ero partita per la luna di miele, e tutt'intorno alla testa di mio padre le torri stavano crollando al suolo. Non si sarebbe attaccata a lui come un impiastro, con lo stesso spirito con cui gli portava una tazza di minestra calda o la borsa dell'acqua? Conforto contro il freddo e il buio. In questo caso, Myra, tu saresti mia sorella. O meglio, la mia sorellastra. Non che potremo mai saperlo, per lo meno io. Suppongo che tu potresti farmi riesumare, prendere un campione dei miei capelli o delle mie ossa o di qualsiasi cosa serva, e mandarlo a far analizzare. Ma dubito che andresti così lontano. L'unica altra prova possibile sarebbe Sabrina - potreste mettere insieme e confrontare qualche vostro pezzo. Ma perché questo accada, Sabrina dovrebbe tornare, e Dio solo sa se lo farà mai. Potrebbe essere ovunque. Potrebbe essere morta. Potrebbe essere in fondo al mare. Mi chiedo se Laura sapesse di Reenie e nostro padre, se davvero c'era qualcosa da sapere. Mi chiedo se questa fosse tra le tante cose che sapeva ma di cui non fece mai parola. Nulla di più facile. I giorni ad Avilion non passarono in fretta. Faceva ancora troppo caldo, c'era ancora troppa umidità. Il livello dell'acqua nei due fiumi era basso: perfino le rapide del Louveteau erano pigre, e dal Jogues veniva un odore sgradevole. Rimanevo per la maggior parte del tempo in casa, seduta sulla sedia dallo schienale di cuoio nella biblioteca del nonno con le gambe sul bracciolo.
Gli involucri delle mosche morte dell'inverno precedente incrostavano ancora i davanzali: la biblioteca non era una priorità assoluta per la signora Murgatroyd. Il ritratto della nonna Adelia dominava ancora la stanza. Passavo i pomeriggi con gli album di ricordi, con i loro ritagli sui tè di beneficenza e i fabiani in visita, e sugli esploratori con i loro spettacoli di immagini proiettate con la lanterna magica e le loro relazioni sulle pittoresche usanze indigene. Non so perché qualcuno trovasse strano il fatto che decoravano i crani dei loro antenati, pensavo. Lo facciamo anche noi. Oppure sfogliavo le vecchie riviste mondane, ricordando come un tempo avevo invidiato la gente di cui parlavano; oppure frugavo nei libri di poesie con le loro pagine di carta velina bordate d'oro. Le poesie che mi mandavano in estasi ai tempi di Miss Violence ora mi colpivano perché eccessive e svenevoli. Ahimé, fardello, poscia, s'approssima, stracco - il linguaggio arcaico dell'amore non corrisposto. Ero irritata da certe parole, che rendevano gli amanti infelici - ora me ne rendevo conto - leggermente ridicoli, come la povera, malinconica Miss Violence stessa. Con i bordi molli, indistinti, zuppi, come una focaccia caduta nell'acqua. Nulla che si abbia voglia di toccare. La mia infanzia mi sembrava già lontana - un'età remota, indistinta e agrodolce, come i fiori essiccati. Ne rimpiangevo la perdita, la rivolevo indietro? Non mi pareva. Laura non stava in casa. Gironzolava per la città, come facevamo una volta. Indossava un mio vestito di cotone giallo dell'estate prima, e il cappello abbinato. Vederla da dietro mi procurava una sensazione strana, come se guardassi me stessa. Winifred non faceva mistero di essere mortalmente annoiata. Andava a nuotare ogni giorno nella piccola spiaggia privata accanto alla rimessa delle barche, sebbene non si spingesse mai dove non toccava: per lo più si accontentava di sguazzare qua e là, indossando un enorme cappello a cono color magenta. Voleva che Laura e io ci unissimo a lei, ma noi declinavamo l'invito. Nessuna delle due nuotava molto bene, e poi sapevamo che genere di cose potevano essere scaricate nel fiume, e magari lo erano ancora. Quando non nuotava o stava al sole, Winifred girava per la casa prendendo appunti o facendo schizzi ed elenchi di difetti - la carta da parati nell'ingresso aveva davvero bisogno di essere sostituita, c'era del marciume secco sotto le scale - oppure schiacciava sonnellini nella sua stanza. Avilion sembrava prosciugare la sua energia. Era confortante sapere che c'era qualcosa in grado di farlo.
Richard parlava molto al telefono, chiamate interurbane; oppure andava a Toronto dalla mattina alla sera. Il resto del tempo si trastullava con l'Ondina, supervisionando le riparazioni. Il suo obiettivo, diceva, era rendere di nuovo quell'affare in grado di galleggiare prima della partenza. Gli venivano consegnati i giornali tutte le mattine. «Guerra civile in Spagna» disse un giorno a pranzo. «Be', era annunciata da tempo». «È spiacevole» commentò Winifred. «Non per noi» fece Richard. «Finché ce ne teniamo fuori. Lasciamo che comunisti e nazisti si uccidano a vicenda - ben presto si getteranno entrambi nella mischia». Laura aveva saltato il pranzo. Era giù al pontile per conto suo, con solo una tazza di caffè. Ci andava spesso: mi rendeva nervosa. Si stendeva sul pontile, facendo spenzolare un braccio nell'acqua, fissando il fiume come se ci avesse fatto cadere qualcosa e lo stesse cercando sul fondo. Ma l'acqua era troppo scura. Non si vedeva granché. Solo un occasionale gruppo di pesciolini che fluttuavano qua e là come le dita di un borsaiolo. «Comunque» disse Winifred, «vorrei che non lo facessero. È molto sgradevole». «Potremmo trarre vantaggio da una buona guerra» ribatté Richard. «Forse smuoverà le acque - porrà fine alla Depressione. Conosco qualche tizio che ci conta. C'è gente che farà un sacco di soldi». Non mi veniva mai detto nulla sulla condizione finanziaria di Richard, ma di recente ero giunta a credere - da vari accenni e allusioni - che non avesse tutto il denaro che pensavo una volta. O non lo aveva più. Il restauro di Avilion era stato bloccato - rinviato -, perché Richard non era stato più disposto a spendere altri soldi. Questo a sentire Reenie. «Perché farà soldi?» chiesi. Sapevo perfettamente la risposta, ma ero scivolata nell'abitudine di fare domande ingenue solo per vedere cosa avrebbero detto Richard e Winifred. La scala mobile morale che applicavano a quasi ogni settore della vita non aveva ancora cessato di catturare la mia attenzione. «Perché è così che stanno le cose» rispose bruscamente Winifred. «A proposito, la vostra amica è stata arrestata». «Quale amica?» chiesi, troppo in fretta. «Quella tale, Callista. La vecchia amante di tuo padre. Quella che si crede un'artista». Mi risentii per il suo tono, ma non sapevo come controbattere. «È stata
così buona con noi quando eravamo bambine» dissi. «È naturale che lo fosse, non credi?» «A me piaceva» feci. «Non c'è dubbio. Un paio di mesi fa si è messa in contatto con me - ha cercato di vendermi un orribile quadro o un affresco o qualcosa del genere - un gruppo di brutte donne in tuta da lavoro. Non certo la prima cosa che uno vorrebbe mettere in sala da pranzo». «E perché l'avrebbero arrestata?» «È stata la Squadra Rossa, una retata a una riunione di sinistroidi. Ha chiamato qui - era assolutamente fuori di sé. Voleva parlare con te. Non ritenni che avresti dovuto essere coinvolta, così Richard è andato fino in città e l'ha tirata fuori dei pasticci». «Perché l'ha fatto?» chiesi. «La conosce appena». «Oh, solo perché ha il cuore tenero» disse Winifred, sorridendo dolcemente. «E poi ha sempre detto che quella gente combina più guai in prigione che fuori, vero, Richard? Sulla stampa non fanno che urlare come ossessi. Giustizia di qua, giustizia di là. Forse era per fare un piacere al primo ministro». «C'è dell'altro caffè?» domandò Richard. Questo significava che Winifred avrebbe dovuto abbandonare l'argomento, ma lei continuò. «O forse sentiva di doverlo alla tua famiglia. Suppongo che tu possa considerarla una specie di cimelio di famiglia, come un vecchio coccio che passa di mano in mano». «Credo che raggiungerò Laura sul pontile» dissi. «È una giornata così bella». Richard aveva letto il giornale durante tutta la mia conversazione con Winifred, ma ora alzò svelto lo sguardo. «No» disse, «stai qui. La incoraggi troppo. Lasciala sola e le passerà». «Passerà cosa?» chiesi. «Qualunque cosa la roda» disse Richard. Si era girato per guardarla fuori della finestra, e notai per la prima volta che dietro la testa aveva una chiazza di capelli più radi, un tondo di pelle rosa che si intravedeva attraverso i capelli castani. Presto avrebbe avuto la chierica. «La prossima estate andremo a Muskoka» disse Winifred. «Non posso dire che questo piccolo esperimento di villeggiatura sia stato un successo strepitoso». Verso la fine del nostro soggiorno decisi di fare una visita alla soffitta.
Aspettai che Richard fosse occupato al telefono e Winifred stesa su una sdraio sulla nostra piccola striscia di sabbia con un asciugamano umido sugli occhi. Poi aprii la porta che dava sulla scala della soffitta, richiudendomela alle spalle, e salii il più piano possibile. Laura era già lì, seduta su uno dei bauli di cedro. Aveva aperto la finestra, per fortuna: altrimenti il posto sarebbe stato soffocante. C'era un odore muschiato di vecchi vestiti ed escrementi di topo. Girò la testa, senza fretta. Non l'avevo spaventata. «Ciao» fece. «Ci abitano i pipistrelli, quassù». «Non mi stupisce» dissi. C'era una grande busta di carta del droghiere accanto a lei. «Cos'hai là?» Cominciò a tirare fuori cose - svariate cianfrusaglie, chincaglierie. La teiera d'argento che era stata di mia nonna, e tre tazze e piattini di porcellana di Dresda dipinta a mano. Qualche cucchiaio con il monogramma. Lo schiaccianoci a forma di alligatore, un gemello di madreperla spaiato, un pettine di tartaruga con qualche dente mancante, un accendino d'argento rotto, un'oliera senza il contenitore per l'aceto. «Cosa vuoi fare di queste cose?» dissi. «Non puoi portarle a Toronto!» «Le voglio nascondere. Non possono saccheggiare tutto». «Chi?» «Richard e Winifred. Comunque, le getterebbero via; li ho sentiti parlare di porcheria senza valore. Prima o poi faranno piazza pulita. Così voglio salvare qualcosa, per noi. Le lascerò quassù in uno dei bauli. In questo modo saranno al sicuro, e noi sapremo dove sono». «E se se ne accorgono?» chiesi. «Non succederà. Non c'è nulla di davvero prezioso. Guarda» disse, «ho trovato i nostri vecchi quaderni di scuola. Erano ancora qui, nello stesso posto in cui li avevamo lasciati. Ricordi quando li abbiamo portati quassù? Per lui?» Alex Thomas non aveva mai bisogno di un nome, per Laura: era sempre lui. Per un po' avevo pensato che avesse rinunciato a lui, o almeno all'idea di lui, ma evidentemente non era così. «È difficile credere che l'abbiamo fatto» dissi. «Che l'abbiamo nascosto qui, che non siamo state scoperte». «Siamo state prudenti» disse Laura. Rimase un attimo soprappensiero, poi sorrise. «Non mi hai mai creduto veramente sul signor Erskine» aggiunse. «Vero?» Credo che avrei dovuto mentire subito. Invece scesi a un compromesso.
«Non mi piaceva. Era orribile» dissi. «Reenie mi ha creduto, però. Dove pensi che sia?» «Il signor Erskine?» «Sai chi». Rimase in silenzio, si girò di nuovo a guardare fuori della finestra. «Hai ancora la tua foto?» «Laura, non credo che dovresti continuare a pensare a lui» dissi. «Non credo che si farà vivo. Non è molto probabile». «Perché? Credi che sia morto?» «Perché dovrebbe essere morto?» chiesi a mia volta. «Non credo che sia morto. Credo solo che sia da qualche altra parte». «Comunque non possono averlo preso, altrimenti lo avremmo saputo. Sarebbe stato sui giornali» disse. Raccolse i vecchi quaderni e li infilò nella busta di carta. Rimanemmo ad Avilion più di quanto pensassi, e certamente più a lungo di quanto volessi: mi sentivo in prigione là, rinchiusa, incapace di muovermi. Il giorno prima di quello previsto per la partenza, scesi a colazione e Richard non c'era; c'era solo Winifred, che stava mangiando un uovo. «Ti sei persa il grande varo» disse. «Quale grande varo?» Fece un gesto verso il nostro panorama, che era del Louveteau da una parte e del Jogues dall'altra. Fui sorpresa di vedere Laura sull'Ondina, che navigava seguendo la corrente. Era in piedi a prua, come una polena. Ci dava le spalle. Richard era al timone. Indossava un orribile cappello da marinaio bianco. «Almeno non sono affondati» disse Winifred, con una punta acida. «Tu non sei voluta andare?» dissi. «No, davvero». C'era uno strano tono nella sua voce, che scambiai per gelosia: a lei piaceva a tal punto partecipare fin dall'inizio a ogni progetto di Richard. Fui sollevata: forse Laura ora si sarebbe rilassata un po', forse avrebbe messo fine alla campagna di congelamento. Forse avrebbe iniziato a trattare Richard come se fosse un essere umano, e non qualcosa strisciato fuori da sotto un sasso. Questo avrebbe facilitato sicuramente anche la mia vita, pensai. Avrebbe alleggerito l'atmosfera. Ma non fu così. Se mai, la tensione aumentò, sebbene in senso opposto: adesso era Richard che lasciava la stanza ogni volta che vi entrava Laura.
Era come se ne avesse paura. «Cos'hai detto a Richard?» le chiesi una sera dopo il nostro rientro a Toronto. «Che vuoi dire?» «Quel giorno che sei andata in barca con lui, sull'Ondina». «Non gli ho detto nulla» rispose. «Perché avrei dovuto?» «Non lo so». «Non gli dico mai niente» disse Laura, «perché non ho niente da dire». Il castagno Rileggo ciò che ho scritto e so che è sbagliato, non per via di quanto ho annotato, ma di quanto ho omesso. Quello che non c'è ha una presenza, come l'assenza di luce. Tu vuoi la verità, naturalmente. Vuoi che io faccia due più due. Ma due più due non dà necessariamente la verità. Due più due è uguale a una voce fuori della finestra. Due più due è uguale al vento. L'uccello vivo non è le sue ossa etichettate. La scorsa notte mi sono svegliata di colpo con il cuore che mi martellava. Dalla finestra veniva un tintinnio: qualcuno tirava sassolini contro il vetro. Sono scesa a fatica dal letto e ho brancolato fin là, ho sollevato un po' di più il pannello scorrevole e mi sono sporta. Non avevo gli occhiali, ma ci vedevo abbastanza bene. C'era la luna, quasi piena, venata dalla ragnatela delle sue vecchie cicatrici, e sotto di essa l'opaco bagliore arancione gettato tutt'intorno dai lampioni stradali. Sotto di me c'era il marciapiede, chiazzato d'ombra e parzialmente nascosto dal castagno del giardino sul davanti. Ero consapevole che non avrebbe dovuto esserci un castagno là: quell'albero doveva trovarsi in un altro luogo, a centocinquanta chilometri di distanza, fuori della casa dove un tempo avevo vissuto con Richard. Eppure era là, l'albero, i rami aperti come una rete spessa e dura, i fiori bianco naftalina debolmente risplendenti. Il tintinnio sul vetro si è ripetuto. C'era una figura piegata laggiù: un uomo che frugava nei recipienti dell'immondizia, che agitava le bottiglie di vino nell'inutile speranza che in una di esse potesse esserci qualcosa. Un ubriaco di strada, spinto dal vuoto e dalla sete. I suoi movimenti erano furtivi, invadenti, come se non stesse cercando, ma spiando - setacciando i
miei rifiuti per raccogliere una prova contro di me. Poi si è raddrizzato e si è spostato lateralmente in piena luce, e ha alzato lo sguardo. Ho visto le sopracciglia scure, i fori delle orbite oculari, il sorriso come un taglio bianco attraverso lo scuro ovale del viso. Nella V sotto la sua gola c'era del pallore: una camicia. Ha sollevato la mano, muovendola di lato. Il gesto di chi è appena arrivato, o di chi si sta congedando. Ora si stava allontanando, e io non potevo gridargli dietro. Lui sapeva che non potevo. Ormai era sparito. Ho sentito una pressione soffocante attorno al cuore. No, no, no, no, diceva una voce. Lacrime mi scorrevano lungo il viso. Ma l'avevo detto forte - troppo forte, perché Richard era sveglio adesso. Era proprio dietro di me. Stava per mettermi la mano sul collo. È stato a quel punto che mi sono svegliata davvero. Ero stesa con il viso bagnato, gli occhi spalancati, a fissare il vuoto grigio del soffitto, in attesa che il mio cuore rallentasse. Ormai non piango più spesso, quando sono sveglia; solo qualche lacrima asciutta di tanto in tanto. È stata una sorpresa scoprire che lo stavo facendo. Quando sei giovane, pensi che tutto quello che fai sia usa e getta. Ti muovi da un adesso all'altro, appallottolando il tempo nelle tue mani, buttandolo via. Sei tutt'uno con la tua macchina che fila a tutta velocità. Pensi di poterti liberare delle cose, e anche delle persone - lasciartele alle spalle. Non sai ancora dell'abitudine che hanno, di ritornare. Nei sogni il tempo è congelato. Non puoi mai fuggire da dove sei stato. C'era veramente un tintinnio, vetro contro vetro. Sono scesa a fatica dal letto - il mio vero letto, singolo - e mi sono avviata verso la finestra. Due procioni stavano frugando nel cassonetto dei vicini, rovesciando bottiglie e lattine. Animali saprofagi, di casa tra i rifiuti. Hanno alzato lo sguardo su di me, vigili, non allarmati, le loro nere mascherine da ladro nella luce della luna. Buona fortuna a voi, ho pensato. Pigliate quello che potete, finché potete. A chi importa se vi spetta o meno? Soltanto, non fatevi sorprendere. Sono tornata a letto e sono rimasta stesa nell'oscurità pesante, ascoltando il suono di un respiro che, lo sapevo, non era là. X
L'assassino cieco: Gli Uomini Lucertola di Xenor Per settimane gironzola tra gli scaffali delle riviste. Va nel più vicino drugstore, compra qualche limetta per le unghie o uno scalzapelli, qualcosa di poco conto, poi passa davanti alle riviste, senza toccarle e attenta a non farsi vedere mentre le guarda, ma scorrendone i titoli alla ricerca del suo nome. Uno dei suoi nomi. Ormai li conosce, o almeno ne conosce la maggior parte: incassava gli assegni. Storie straordinarie. Racconti del mistero. Avventure incredibili. Le scorre tutte. Alla fine individua qualcosa. Deve essere questa: Gli Uomini Lucertola di Xenor. Il primo emozionante episodio degli annali delle Guerre zycroniane. In copertina una bionda dall'aspetto pseudobabilonese, una veste bianca fissata sotto gli inverosimili seni da una cintura di anelli dorati, gioielli di lapislazzuli attorno alla gola, una mezzaluna d'argento che le spunta dalla testa. Ha le labbra tumide, la bocca aperta, gli occhi grandi, ed è nelle grinfie di due creature con artigli a tre dita e occhi dalle pupille verticali. Indossano soltanto pantaloncini rossi. I loro visi sono dischi appiattiti, la pelle è coperta di squame delle varie sfumature di un grigio che ricorda il peltro. Mandano un bagliore lucido, come se fossero cosparsi di grasso; sotto la pelle grigio-blu i muscoli si gonfiano e scintillano. Le bocche senza labbra rivelano numerosi denti aguzzi come aghi. Li avrebbe riconosciuti ovunque. Come procurarsi una copia? Non in quel negozio, dove è conosciuta. Non sarebbe assolutamente il caso di far nascere voci per un qualche comportamento bizzarro. Al giro di spese successivo fa una deviazione fino alla stazione e là, all'edicola, individua la rivista. Un sottile centesimo; paga tenendo i guanti, arrotola svelta la rivista, la ficca in borsa. Il giornalaio la guarda in modo strano, ma in fondo gli uomini lo fanno sempre. Tiene la rivista stretta a sé per tutto il viaggio di ritorno in taxi, la porta di nascosto di sopra, si chiude in bagno. Le sue mani, lo sa, tremeranno nel girare le pagine. È una di quelle storie che leggono i fannulloni nei carri merci chiusi, o i ragazzi in età scolare alla luce di una torcia. I guardiani delle fabbriche a mezzanotte, per tenersi svegli; i rappresentanti nei loro alberghi da commessi viaggiatori dopo una giornata infruttuosa, senza cravatta, la camicia aperta, i piedi alzati, un whisky nel bicchiere dello spazzolino da denti. I poliziotti, in una sera monotona. Nessuno di loro troverà il messaggio che sarà sicuramente nascosto nelle pagine stampate. Sarà un
messaggio destinato soltanto a lei. La carta è talmente delicata che le si rompe quasi tra le mani. Qui nel bagno chiuso a chiave, dispiegata sulle sue ginocchia in caratteri illeggibili, c'è Sakiel-Norn, città dai mille splendori - i suoi dei, le sue usanze, la sua mirabile tessitura di tappeti, i suoi bambini fatti schiavi e maltrattati, le vergini sul punto di essere sacrificate. I suoi sette mari, le sue cinque lune, i suoi tre soli; le montagne occidentali e le loro inquietanti tombe, dove i lupi ululano e si celano le belle morte viventi. La congiura di palazzo allunga i suoi tentacoli, il Re aspetta l'occasione buona, calcolando le forze schierate contro di lui; la Somma Sacerdotessa intasca le sue tangenti. Ora è la notte prima del sacrificio; la prescelta aspetta nel letto fatale. Ma dov'è l'assassino cieco? Cos'è stato di lui e del suo amore per la fanciulla innocente? Deve aver tenuto quella parte per dopo, decide. Poi, prima di quanto si aspetti, lo spietato attacco dei barbari, spronati dal loro capo monomaniaco. Ma hanno appena superato le porte della città, che c'è una sorpresa: tre astronavi atterrano sulla liscia pianura a est. Hanno la forma di uova fritte o di Saturni tagliati a metà, e vengono da Xenor. Ne irrompono fuori Uomini Lucertola, con i loro muscoli grigi guizzanti, i loro calzoncini da bagno e le loro armi avanzate. Hanno armi a raggi, lazo elettrici, macchine volanti monoposto. Tutti i tipi di congegni all'avanguardia. L'improvvisa invasione cambia le cose per gli Zycroniani. Barbari e cittadini, dignitari e ribelli, padroni e schiavi - tutti dimenticano le loro differenze e stringono causa comune. Le barriere di classe si dissolvono - gli Snilfard gettano via i loro vecchi titoli insieme alle loro maschere facciali e si rimboccano le maniche, presidiando le barricate assieme agli Ygnirod. Tutti si salutano con il nome di tristok, che significa (approssimativamente), colui con cui ho scambiato il sangue, vale a dire compagno o fratello. Le donne vengono condotte al Tempio e chiuse là dentro per la loro stessa incolumità, come anche i bambini. Il Re assume il controllo. Le forze barbare sono accolte nella città per il loro valore in battaglia. Il Re stringe la mano al Servo della Gioia, e decidono di dividersi il comando. Un pugno è più della somma delle sue dita, dice il Re, citando un proverbio arcaico. Le otto pesanti porte della città vengono chiuse all'ultimo momento. Gli Uomini Lucertola riportano un successo iniziale nei territori più lontani grazie all'elemento sorpresa. Catturano alcune donne dall'aria promet-
tente, che vengono chiuse in gabbia e concupite attraverso le sbarre da decine di soldati Lucertola. Ma poi l'esercito xenoriano subisce una battuta d'arresto: a causa di una differenza nelle forze gravitazionali le armi a raggi su cui fanno affidamento non funzionano molto bene sul pianeta Zycron, i lazo elettrici sono efficaci soltanto a breve distanza e gli abitanti di Sakiel-Norn sono ora dall'altra parte di un muro molto alto. Gli Uomini Lucertola non hanno abbastanza macchine volanti monoposto per trasportare una forza d'assalto sufficiente a prendere la città. Proiettili piovono giù dai bastioni su qualunque Uomo Lucertola si faccia abbastanza a tiro: gli Zycroniani hanno scoperto che i pantaloncini metallici degli Xenoriani sono infiammabili alle alte temperature, e lanciano palle di pece bollente. Il capo delle Lucertole fa i capricci e grida, e cinque scienziati Lucertola vengono mandati a morte: Xenor evidentemente non è una democrazia. Quelli lasciati in vita lavorano per risolvere i problemi tecnici. Con il tempo necessario e l'adeguato equipaggiamento, sostengono, potranno dissolvere le mura di Sakiel-Norn. Potranno anche produrre un gas che toglierà i sensi agli Zycroniani. Allora saranno in grado di fare i loro comodi in tutta tranquillità. Questa è la fine della prima puntata. Ma che è successo alla storia d'amore? Dove sono l'assassino cieco e la fanciulla senza lingua? Nella confusione la fanciulla è stata quasi dimenticata - l'ultima volta è stata vista mentre si nascondeva sotto il letto di broccato rosso - e l'uomo cieco non è comparso affatto. Sfoglia le pagine all'indietro: forse ha saltato qualcosa. Ma no, i due sono semplicemente svaniti. Forse tutto si aggiusterà nel prossimo eccitante episodio. Forse glielo farà sapere. Lei sa che c'è qualcosa di folle in questa sua attesa - lui non le manderà nessun messaggio, o se anche lo farà non le arriverà per quella via - ma non può liberarsene. È la speranza che fa girare le sue fantasie, è il desiderio che fa sorgere quei miraggi - speranza contro speranza, desiderio nel vuoto. Forse la sua mente sta cedendo, forse sta andando fuori strada, forse sta uscendo dal seminato. Fuori dei cardini, come una porta rotta, come un cancello contro cui si è andati a sbattere, come una cassaforte che si sta arrugginendo. Quando sei scardinato, escono da te cose che andrebbero tenute dentro, e ne entrano altre che andrebbero chiuse fuori. Le serrature perdono i loro poteri. Le guardie vanno a dormire. Le parole d'ordine non funzionano. Lei pensa: Forse sono stata abbandonata. È una parola sorpassata, ab-
bandonata, ma descrive esattamente la sua situazione. Abbandonarla è qualcosa che lui potrebbe immaginare di fare. D'impulso potrebbe morire per lei, ma vivere per lei sarebbe un altro paio di maniche. Non ha talento per la monotonia. Malgrado il suo buon senso aspetta e cerca, mese dopo mese. Batte i drugstore, la stazione, ogni edicola che le capiti. Ma l'eccitante episodio successivo non appare mai. Mayfair, maggio 1937 PETTEGOLEZZI SULLA TORONTO CHE CONTA DI YORK Quest'anno aprile è arrivato saltellando come un agnello, e prendendo l'esempio dal suo umore vivace e gioioso, la stagione primaverile è stata tutta scompigliata da un gaio trambusto di arrivi e partenze. Il signore e la signora Henry Ridelle hanno fatto ritorno da un soggiorno invernale in Messico, il signore e la signora Johnson Reeves sono rientrati in automobile dal loro rifugio di Palm Beach in Florida e il signore e la signora T. Perry Grange sono tornati dalla loro crociera tra le assolate isole dei Caraibi, mentre la signora R. Westerfield e sua figlia Daphne sono andate a fare una capatina in Francia e in Italia, «Mussolini permettendo», e il signore e la signora W. McClelland sono partiti per la favolosa Grecia. I Dumont Fletcher hanno trascorso un'eccitante stagione a Londra e hanno fatto di nuovo il loro ingresso nella scena locale, giusto in tempo per il Dominion Drama Festival, a cui il signor Fletcher ha partecipato in qualità di membro della giuria. Nel frattempo, un ingresso di tipo diverso è stato festeggiato nello scenario lilla e argento dell'Arcadian Court, dove la signora Richard Griffen (ex signorina Iris Montfort Chase) è stata notata a un pranzo dato da sua cognata, la signora Winifred «Freddie» Griffen Prior. La giovane signora Griffen, una delle spose più importanti della scorsa stagione, incantevole come sempre in un elegante completo di seta azzurro cielo con uno chapeau verde chiaro, riceveva le felicitazioni per la nascita della figlia Aimee Ade-
lia. Le Pleiadi erano tutte in gran fermento per l'arrivo della grande attrice loro ospite, la signorina Frances Homer, la celebre interprete di monologhi, che all'Eaton Auditorium ha riproposto la sua serie di Donne del Destino, in cui presenta figure storiche femminili e l'influenza da esse esercitata sulla vita di importanti personaggi mondiali come Napoleone, Ferdinando di Spagna, Horatio Nelson e Shakespeare. La signorina Homer ha brillato per arguzia e vivacità nei panni di Nell Gywn, è stata drammatica nelle spoglie della Regina Isabella di Spagna, la sua Josephine ha disegnato un quadretto delizioso e la sua Lady Emma Hamilton ha fornito un'intensa prova di recitazione. Nel complesso è stato uno spettacolo pittoresco e affascinante. La serata si è conclusa con un buffet offerto in onore delle Pleiadi e dei loro ospiti alla Round Room dalla generosa signora Winifred Griffen Prior. Lettera dalla Clinica Bella Vista Ufficio del Direttore, The Bella Vista Sanctuary Amprior, Ontario 12 maggio 1937 Signor Richard E. Griffen Presidente e Capo del Consiglio di Amministrazione Griffen-Chase Royal Consolidated Industries Ltd. 20 King Street West Toronto, Ontario Caro Richard, È stato un piacere incontrarti in febbraio - sebbene in circostanze così incresciose - e stringerti la mano di nuovo dopo tanti anni. Le nostre vite ci hanno sicuramente condotto in direzioni diverse dopo i «memorabili bei tempi andati». Passando a un tono più serio, mi dispiace riferirti che le condizioni della tua giovane cognata, signorina Laura Chase, non sono migliorate; se mai, sono alquanto peggiorate. Le delusioni di cui soffre sono ben radicate. A nostro parere rimane un pericolo per
se stessa e va tenuta sotto costante osservazione, se necessario con sedativi. Non ci sono più state finestre rotte, quantunque si sia verificato un incidente in cui è stato usato un paio di forbici; tuttavia, faremo tutto il possibile per evitare che succeda di nuovo. Continuiamo a fare tutto quanto è in nostro potere. Sono ora disponibili parecchi nuovi trattamenti che speriamo di usare con risultati positivi, in particolare la «terapia dell'elettrochoc», per la quale avremo ben presto l'attrezzatura. Con il tuo permesso aggiungeremo questo al trattamento a base di insulina. Nutriamo fondate speranze per un futuro miglioramento, sebbene la nostra prognosi sia che la signorina Chase non sarà mai una persona forte. Per quanto possa essere penoso, devo chiedere a te e a tua moglie di trattenervi per ora dal fare visite o perfino dal mandare lettere alla signorina Chase, dal momento che il contatto con uno qualunque di voi avrebbe sicuramente un effetto dirompente sul trattamento. Come sai, proprio tu sei al centro delle fissazioni più ostinate della signorina Chase. Mercoledì sarò a Toronto, e sono impaziente di avere un colloquio privato con te - nei tuoi uffici, dal momento che la tua giovane moglie, avendo appena avuto un bambino, non dovrebbe essere eccessivamente turbata con faccende tanto preoccupanti. In quella sede ti chiederò di firmare i necessari moduli di consenso per i trattamenti che proponiamo. Mi prendo la libertà di accludere il conto del mese scorso, perché tu lo prenda prontamente in considerazione. Cordialmente tuo, Dr. Gerald P. Witherspoon, Direttore L'assassino cieco: La torre Si sente pesante e sporca, come un sacco di panni non lavati. Ma allo stesso tempo piatta e senza sostanza. Carta bianca con sopra - appena percettibile - l'impronta incolore di una firma, non la sua. Un detective potrebbe anche trovarla, quella firma, ma quanto a lei non può prendersi la briga. Non può prendersi la briga di guardare.
Non ha rinunciato alla speranza, l'ha solo ripiegata e riposta: non è fatta per essere portata tutti i giorni. Intanto ci si deve prendere cura del corpo. Non ha senso non mangiare. Meglio stare all'erta, e in questo il nutrimento aiuta. Anche i piccoli piaceri: può sempre far ricorso ai fiori, ai primi tulipani, per esempio. Non serve a niente uscire di sé. Correre per la strada a piedi nudi, gridare Al fuoco! Il fatto che non c'è nessun incendio non passerà inosservato. Il miglior modo di tenere un segreto è fingere che non ce ne siano. È gentile da parte sua, dice al telefono. Mi dispiace tanto, ma non posso. Sono impegnata. Certi giorni - soprattutto i giorni sereni, caldi - si sente una sepolta viva. Il cielo è una cupola di roccia blu, il sole un buco rotondo al suo interno, attraverso il quale la luce del vero giorno splende beffarda. L'altra gente sepolta con lei non sa cos'è successo: solo lei lo sa. Se desse voce alla sua consapevolezza, la rinchiuderebbero per sempre. La sua unica possibilità è continuare come se tutto stesse procedendo normalmente, e nel frattempo tenere d'occhio il piatto cielo blu, stando attenta alla grossa crepa che dovrà finalmente apparirvi. Dopodiché lui potrebbe calarsi attraverso di essa su una scala di corda. Lei si farà strada fino al tetto, salterà per afferrarla. La scala sarà tirata su con loro due aggrappati, avvinghiati l'uno all'altra, supererà torrette e torri e guglie, finché non uscirà dalla crepa nel finto cielo, lasciando gli altri nel prato giù di sotto, a guardare inebetiti in aria a bocca spalancata. Che intrecci onnipotenti e infantili. Sotto la cupola di pietra blu piove, splende il sole, tira vento, è sereno. Stupisce pensare a come vengano realizzati tutti questi realistici effetti meteorologici. C'è un bambino nelle vicinanze. Le sue grida le giungono a intermittenza, come se fossero portate dal vento. Porte si aprono e si chiudono, il suono della sua piccola, immensa rabbia va e viene. È sorprendente quanto possano strepitare. A volte il suo respiro ansimante è vicinissimo, il suono stridulo e sommesso, come quando si strappa della seta. Giace a letto, le lenzuola sopra o sotto di lei a seconda del momento del giorno. Preferisce un cuscino bianco, bianco come un'infermiera, e leggermente inamidato. Parecchi cuscini per tenerla su, una tazza di tè per ancorarla, così non si addormenterà. La tiene tra le mani, e se va a finire sul pavimento si sveglierà. Non fa sempre così, è tutt'altro che pigra.
Sogni a occhi aperti si inseriscono a intervalli. Immagina lui che la immagina. Questa è la sua salvezza. Col pensiero cammina per la città, ripercorre i suoi labirinti, i suoi squallidi dedali: ogni appuntamento, ogni incontro, ogni porta e scala e letto. Quello che lui diceva, quello che diceva lei, quello che facevano prima, quello che facevano dopo. Perfino le volte che discutevano, litigavano, si separavano, si tormentavano, si ritrovavano. Com'era loro piaciuto ritagliarsi l'uno sull'altra, assaggiare il loro stesso sangue. Eravamo rovinosi insieme, pensa. Ma come altro possiamo vivere, in questi giorni, se non in mezzo alle rovine? A volte vorrebbe dargli fuoco, farla finita con lui; finirla con quell'eterno, inutile desiderio. Almeno, potrebbero pensarci le ore del giorno e l'entropia del suo stesso corpo - a logorarla, a consumarla, a cancellare quella zona del suo cervello. Ma nessun esorcismo è bastato, e lei del resto non ci ha provato con troppo impegno. Non è un esorcismo che vuole. Vuole quella spaventosa beatitudine, come cadere giù da un aeroplano per sbaglio. Vuole il suo sguardo famelico. L'ultima volta che lo ha visto, dopo che erano tornati nella sua stanza, era stato come annegare: ogni cosa si era oscurata e urlava, ma al tempo stesso era intensamente argentea, e lenta, e chiara. Questo è ciò che intende con essere schiava. Forse lui porta sempre con sé un'immagine di lei, come in un medaglione; o non esattamente un'immagine, piuttosto un diagramma. Una mappa, come di un tesoro. Quella di cui avrà bisogno per tornare. Prima c'è la terra, migliaia di chilometri di terra, con un cerchio esterno di rocce e montagne coperte di ghiaccio, spaccate, corrugate; poi una foresta con un viluppo di frutti fatti cadere dal vento, che vanno a comporre un manto intricato, legno morto che marcisce sotto il muschio; poi l'inaspettata radura. Poi brughiere e steppe battute dal vento e aride colline rosse dove la guerra va avanti. Dietro le rocce, in agguato nei canyon inariditi, stanno acquattati i difensori. Sono soprattutto cecchini. Poi vengono i villaggi, con squallide casupole e i monelli che lanciano occhiate furtive e le donne che trascinano fasci di ramoscelli, le strade di terra battuta sporche della melma in cui si rivoltano i maiali. Poi le rotaie della ferrovia che attraversano le città, con le loro stazioni e depositi, le loro officine e magazzini, le loro chiese e banche di marmo. Poi le città, vaste forme oblunghe di luce e tenebre, torre su torre. Le torri sono rivestite
di diamante. No: qualcosa di più moderno, più credibile. Non zinco, quello è per i mastelli delle povere donne. Le torri sono rivestite di acciaio. Là vengono fabbricate bombe, là cadono anche bombe. Ma lui evita tutto, attraversa tutto illeso, tutta la strada fino a questa città, la città che contiene lei, con le case e i campanili che la circondano, nella torre più interna, più centrale di tutte, che non sembra neppure una torre. È camuffata: si potrebbe essere scusati a scambiarla per una casa. Lei è il tremulo cuore di tutto, infilata nel suo letto bianco. È chiusa lontana dal pericolo, ma è lei lo scopo di tutto ciò. Lo scopo di tutto ciò è proteggere lei. Ecco come trascorrono il loro tempo - a proteggerla da tutto il resto. Lei guarda fuori della finestra, e nulla può arrivare a lei, né lei può arrivare a nulla. Lei è lo zero rotondo, lo zero spaccato. Uno spazio che si definisce non essendoci. Ecco perché non possono raggiungerla, posare un dito su di lei. Ecco perché non possono appuntare nulla su di lei. Ha un sorriso così buono, ma lei non c'è, là dietro. Lui vuole pensarla invulnerabile. Mentre se ne sta alla sua finestra illuminata, con una porta chiusa a chiave alle spalle. Lui vuole essere là, sotto l'albero, con lo sguardo rivolto verso l'alto. Facendosi coraggio si arrampica sul muro, una mano dopo l'altra si inerpica sulla pianta rampicante e sul davanzale, felice come un ladro; si rannicchia, solleva il vetro, entra. La radio è a basso volume, musica da ballo che si fa più forte e si affievolisce. Soffoca i passi. Non si scambiano una parola, e così ricomincia il delicato, accurato saccheggio della carne. Attutito, esitante e oscuro, come sott'acqua. Hai condotto un'esistenza protetta, le aveva detto una volta. Si potrebbe anche chiamarla così, aveva replicato lei. Ma come potrà mai venirne fuori, dalla sua vita, se non attraverso di lui? The Globe and Mail, 26 maggio 1937 FAIDA ROSSA A BARCELLONA PARIGI. SPECIALE PER THE GLOBE AND MAIL Sebbene le notizie da Barcellona siano pesantemente censurate, al nostro corrispondente a Parigi è giunta voce di scontri tra fazioni repubblicane avversarie in quella città. A quanto pare i co-
munisti appoggiati da Stalin e bene armati dalla Russia stanno effettuando purghe contro i rivali del POUM, gli estremisti trotskisti che hanno fatto causa comune con gli anarchici. All'euforia dei primi giorni del regime repubblicano è seguita un'atmosfera di sospetto e paura, dal momento che i comunisti accusano il POUM di tradimento da «quinta colonna». Si è assistito a scontri aperti in strada, con la polizia cittadina che prendeva le parti dei comunisti. Corre voce che numerosi membri del POUM siano in prigione o in fuga. Parecchi canadesi potrebbero essere stati colpiti nel fuoco incrociato, ma tali notizie rimangono non verificate. Per quanto riguarda le altre zone della Spagna, Madrid è sempre nelle mani dei repubblicani, ma le forze nazionaliste guidate dal Generale Franco stanno riportando significativi successi. L'assassino cieco: La Union Station Lei piega il collo, appoggia la fronte sul bordo del tavolo. Immagina la sua venuta. È il crepuscolo, le luci della stazione sono accese, la faccia di lui vi appare sbattuta. Da qualche parte nelle vicinanze c'è una costa, blu oltremare: sente le grida dei gabbiani. Sale con un balzo sul treno fra nuvole di vapore sibilante, issa la sacca da viaggio sulla reticella; poi crolla sul sedile, tira fuori il panino che ha comprato, lo svolge dalla carta spiegazzata, lo spezza in due. È quasi troppo stanco per mangiare. Accanto a lui c'è una donna anziana che sta lavorando con i ferri a qualcosa di rosso, un maglione. Sa a cosa sta lavorando perché glielo dice lei; gli direbbe tutto se glielo permettesse, dei figli, dei nipoti; ha senza dubbio delle istantanee, ma la sua non è una storia che lui desideri sentire. Non può pensare ai bambini, avendone visti troppi morti. Sono i bambini che non lo lasciano mai, anche più delle donne, più dei vecchi. Erano sempre così inaspettati: i loro occhi assonnati, le loro mani ceree, le dita molli, la bambola di pezza stracciata zuppa di sangue. Si gira, si studia il viso nel finestrino che si affaccia sulla notte, un viso dagli occhi infossati, incorniciato da capelli che sembrano bagnati, la pelle di un nero verdognolo, velata dalla fuliggine e dalle scure sagome degli alberi che gli sfrecciano innanzi. Supera a fatica le ginocchia della vecchia e raggiunge il corridoio, si mette tra le carrozze, fuma, getta via il mozzicone, piscia nel vuoto. Ha la
sensazione di andare nella stessa direzione - nel nulla. Potrebbe cadere giù qui e non essere più trovato. Una zona paludosa, un orizzonte che si distingue vagamente. Torna al suo posto. Il treno è freddo e umido e surriscaldato e afoso; o suda o rabbrividisce, forse entrambe le cose: brucia e gela, come in amore. La tappezzeria ruvida dello schienale del sedile è ammuffita e scomoda, e gli gratta contro la guancia. Alla fine dorme, a bocca aperta, la testa caduta da un lato, contro il vetro sporco. Nelle orecchie ha il ticchettio dei ferri da calza, e sotto quello il suono secco delle ruote lungo le rotaie di ferro, come il rumore di un metronomo che funziona senza tregua. Ora lo immagina che sogna. Lo immagina che sogna di lei, che sogna di lui. Attraverso un cielo del colore dell'ardesia bagnata volano l'uno verso l'altro su scure ali invisibili, cercando, cercando, tornando sui propri passi, trascinati dalla speranza e dal desiderio, confusi dalla paura. Nei loro sogni si toccano, si intrecciano, è piuttosto uno scontro, ed è lì che finisce il volo. Cadono verso terra, paracadutisti entrati in collisione, angeli pasticcioni e sporchi di cenere, mentre l'amore cola dietro di loro come seta strappata. Da terra, il nemico apre il fuoco per accoglierli. Passa un giorno, una notte, un giorno. A una fermata scende, compra una mela, una Coca-Cola, mezzo pacchetto di sigarette, un giornale. Avrebbe dovuto comprare una fiaschetta di liquore, o magari un'intera bottiglia, per l'oblio che contiene. Guarda fuori dei finestrini chiazzati di pioggia i campi lunghi e piatti che si srotolano come tappeti ispidi, i cumuli di alberi; ci vede doppio per la sonnolenza. Di sera c'è un tramonto che indugia, allontanandosi verso ovest mentre lui si avvicina, affievolendosi dal rosa al viola. La notte cade con la sua discontinuità, a sbalzi, le grida di ferro del treno. Dietro i suoi occhi c'è il rosso, il rosso di piccoli fuochi ammassati, di piccole esplosioni in aria. Si sveglia mentre il cielo si fa più chiaro; da un lato distingue dell'acqua, piatta e sconfinata e argentea, il lago interno finalmente. Dall'altro lato delle rotaie ci sono piccole case avvilite, con panni che penzolano dai fili nei cortili. Poi una ciminiera di mattoni incrostata, una fabbrica con le finestre cieche e un'alta ciminiera; poi un'altra fabbrica, con gli innumerevoli vetri che riflettono un pallidissimo blu. Lo immagina scendere dal treno di mattina presto, camminare attraverso la stazione, attraverso il lungo atrio a volta fiancheggiato da colonne, sul pavimento di marmo. Vi galleggiano echi, le voci indistinte degli altoparlanti, i loro oscuri messaggi. L'aria odora di fumo - fumo di sigarette, di
treni, della città stessa, piuttosto simile a polvere. Anche lei sta camminando attraverso la polvere o il fumo; è pronta ad aprire le braccia, a essere sollevata in aria da lui. La gioia l'afferra alla gola, indistinguibile dal panico. Non lo vede. Il sole dell'alba entra attraverso le alte finestre ad arco, l'aria fumosa si accende, il pavimento brilla. Ora lui è a fuoco, dall'altra parte della sala, ogni dettaglio è distinto - l'occhio, la bocca, la mano -, sebbene tremulo, come un riflesso su una pozzanghera increspata. Ma la sua mente non può trattenerlo, non può fissare il ricordo del suo aspetto. È come se una brezza soffi sull'acqua e lui si scomponga in colori spezzati, in piccole onde, per poi riformarsi da un'altra parte, dopo la colonna seguente, riprendendo il suo corpo ben noto. È circondato da uno scintillio. Lo scintillio è la sua assenza, ma a lei sembra luce. È la semplice luce del giorno, dalla quale ogni cosa intorno è illuminata. Ogni mattina e ogni notte, ogni guanto e ogni scarpa, ogni sedia e ogni piatto. XI Il bagno A partire da qui, le cose prendono una piega più cupa. Ma in fondo sapevi che sarebbe andata così. Lo sapevi, perché sai già cosa è successo a Laura. Quanto a Laura, lei non lo sapeva, naturalmente. Non aveva alcuna intenzione di interpretare l'eroina romantica condannata. Lo divenne solo più tardi, nell'ambito della sua nuova immagine, e perciò nelle menti dei suoi ammiratori. Nel corso della vita quotidiana era spesso irritante, come tutti. O noiosa. O allegra, poteva anche essere così: in presenza delle condizioni giuste, il cui segreto era noto solo a lei, poteva scivolare in una sorta di rapimento. Sono i suoi sprazzi di gioia quelli che mi commuovono di più, adesso. E così nella memoria si muove nel suo trantran di tutti i giorni, all'occhio esterno nulla di eccessivamente insolito - una ragazza dai capelli luminosi che sale su una collina, immersa nei propri pensieri. Ci sono molte di queste ragazze graziose, riflessive, il paesaggio ne è pieno, ne nasce una al minuto. Il più delle volte non accade nulla di fuori dell'ordinario, a queste ragazze. A questa, a quella e all'altra ancora, e poi invecchiano. Ma Laura è stata prescelta, da te, da me. In un quadro raccoglierebbe fiori di campo,
nella vita reale faceva raramente una cosa del genere. Il dio dal viso di terra si accovaccia dietro di lei nell'ombra della foresta. Solo noi possiamo vederlo. Solo noi sappiamo che spiccherà il salto. Ho riguardato quanto ho scritto finora, e mi sembra inadeguato. Forse c'è troppa frivolezza, o troppe cose che si potrebbero scambiare per frivolezza. Un'infinità di vestiti, di stili e colori oggi fuori moda, ali di farfalla cadute. Un'infinità di cene, non sempre molto buone. Colazioni, picnic, viaggi transoceanici, balli in costume, giornali, gite in barca sul fiume. Tutti elementi che non si combinano molto bene con la tragedia. Ma nella vita, una tragedia non è un urlo prolungato. Coinvolge tutto ciò che conduce a essa. Un'ora banale dietro l'altra, un giorno dietro l'altro, un anno dietro l'altro, e poi l'attimo improvviso: la coltellata, il proiettile esploso, il tuffo della macchina dal ponte. È aprile adesso. I bucaneve sono venuti e se ne sono andati, i crochi sono in fiore. Presto - almeno nelle giornate di sole - potrò trasferirmi nella veranda sul retro, al mio vecchio tavolo di legno coperto di graffi e impregnato di puzza di topo. Non c'è ghiaccio sui marciapiedi, e così ho ricominciato a fare passeggiate. I mesi di inattività invernale mi hanno indebolita; me lo sento nelle gambe. Malgrado ciò sono decisa a riprendere possesso dei miei precedenti territori, a rivisitare i miei locali preferiti. Oggi, con l'aiuto del mio bastone e con parecchie pause lungo la strada, sono riuscita a farcela fino al cimitero. C'erano i due angeli Chase, ovviamente per nulla malandati nonostante l'inverno nella neve; c'erano i nomi di famiglia, solo leggermente più illegibili, ma potrebbe anche essere la mia vista. Ho fatto scorrere le dita lungo questi nomi, lungo le loro lettere; nonostante la loro durezza, la loro tangibilità, sotto il mio tocco sembravano ammorbidirsi, svanire, ondeggiare. Il tempo è stato loro addosso con i suoi invisibili denti aguzzi. Qualcuno ha ripulito la tomba di Laura dalle foglie fradice dello scorso autunno. C'era un piccolo mazzo di narcisi bianchi, già appassiti, i gambi avvolti in un foglio di alluminio. Chi pensano che apprezzi questi loro omaggi, gli adoratori di Laura? Più precisamente, chi pensano che li raccolga dopo di loro? Loro e la loro porcheria floreale, sparpagliata tutt'intorno insieme ai pegni del loro falso dolore. Vi darò qualcosa per cui piangere davvero, avrebbe detto Reenie. Se fossimo state le sue vere figlie ci avrebbe preso a schiaffi. Visto come stavano le cose non lo fece mai, perciò non scoprimmo mai cosa potesse na-
scondersi dietro quel minaccioso qualcosa. Sulla via del ritorno mi sono fermata al negozio di ciambelle. Devo essere apparsa stanca come in effetti mi sentivo, perché è arrivata subito una cameriera. Di solito non servono ai tavoli, bisogna andare al banco e portarsi le cose da soli, ma questa ragazza - una ragazza dal viso ovale, i capelli scuri, in quella che sembrava un'uniforme nera - mi ha chiesto cosa poteva portarmi. Ho ordinato un caffè e, tanto per cambiare, un muffin ai mirtilli. Poi l'ho vista parlare a un'altra ragazza, quella dietro al banco, e mi sono resa conto che non era affatto una cameriera, ma una cliente, come me: la sua uniforme nera non era neppure un'uniforme, soltanto una giacca e dei pantaloni. In qualche punto mandava luccichii argentei, forse chiusure lampo: non sono riuscita a distinguere i dettagli. Prima che potessi ringraziarla come si deve, se n'era andata. È talmente confortante trovare educazione e rispetto in ragazze di quell'età. Troppo spesso (riflettevo, pensando a Sabrina) mostrano soltanto ingratitudine noncurante. Ma l'ingratitudine noncurante è la corazza dei giovani; senza di essa, còme potrebbero mai farsi strada nella vita? I vecchi augurano ai giovani il bene; ma augurano loro anche il male: avrebbero voglia di mangiarseli, e di assorbirne la vitalità, e rimanere loro stessi immortali. Senza la protezione del carattere scontroso e della leggerezza, tutti i bambini sarebbero schiacciati dal passato - il passato degli altri, caricato sulle loro spalle. L'egoismo è la loro unica buona qualità. Fino a un certo punto, naturalmente. La cameriera nel suo grembiule blu mi ha portato il caffè. Anche il muffin, di cui mi sono pentita quasi immediatamente. Sono riuscita solo ad aprirvi un piccolo varco. Tutto nei ristoranti sta diventando troppo grosso, troppo pesante - il mondo materiale si manifesta sotto forma di enormi mucchi umidi di impasto. Dopo avere bevuto quanto caffè ho potuto, sono andata a chiedere del bagno. Nello scompartimento di mezzo le scritte che mi ricordavo dall'autunno scorso sono state coperte di vernice, ma fortunatamente la stagione è già ricominciata. Nell'angolo in alto a destra, una coppia di iniziali dichiarava timidamente il suo amore per un'altra coppia di iniziali, com'è loro abitudine. Sotto, in un'ordinata scritta blu: Il buon senso nasce dall'esperienza. L'esperienza nasce dalla mancanza di buon senso. Sotto, scritto in corsivo con una penna a sfera viola: Se cerchi una ra-
gazza esperta chiama Anita la Bocca Potente, ti porterò in Paradiso, e un numero di telefono. E sotto ancora, in stampatello e pennarello rosso: Il giudizio universale è alle porte. Preparati a un triste destino, dico a te, Anita. A volte penso - no, a volte gioco con l'idea - che questi scarabocchi nei bagni siano in realtà opera di Laura, come se agisse da molto lontano attraverso le braccia e le mani delle ragazze che li scrivono. Un'idea stupida, ma piacevole, finché non compio il passo logico successivo e deduco che in quel caso dovrebbero essere destinati tutti a me, perché chi altri conosce ancora Laura in questa città? Ma se sono destinati a me, cosa intende con essi Laura? Non quello che dice. Altre volte sento un forte stimolo a partecipare, a contribuire; a unire la mia tremula voce al coro anonimo di serenate troncate, lettere d'amore scarabocchiate, annunci volgari, inni e imprecazioni. Il Dito Mobile scrive, e avendo scritto, Va avanti; né tutta la tua Pietà né l'Intelligenza Potranno indurlo a cancellare mezza Riga, Né tutte le tue Lacrime potranno cancellarne una Parola. Ah, penso. Questo li farebbe alzare in piedi e urlare. Un giorno che mi sentirò meglio tornerò là e lo scriverò davvero. Dovrebbero esserne tutti rallegrati, perché non è quello che vogliono? Quello che vogliamo tutti: lasciarci alle spalle un messaggio che abbia un effetto, magari orribile; un messaggio che non possa essere cancellato. Ma simili messaggi possono essere pericolosi. Pensaci due volte prima di esprimere un desiderio, soprattutto prima di esprimere il desiderio di trasformarti nella mano del fato. (Pensaci due volte, diceva Reenie. E Laura chiedeva: Perché solo due?) Il gattino Venne settembre, quindi ottobre. Laura tornò a scuola, una scuola differente. I kilt là erano grigi e blu invece che marroni e neri; per il resto era quasi uguale alla prima, per quanto potevo capire. In novembre, subito dopo avere compiuto diciassette anni, Laura annunciò che Richard stava gettando via il suo denaro. Avrebbe continuato a frequentare la scuola, se lui lo pretendeva, avrebbe messo il suo corpo dietro
al banco, ma non stava imparando nulla di utile. Lo dichiarò con calma e senza rancore, e in modo alquanto soprendente Richard cedette. «Comunque non ha davvero bisogno di andare a scuola» disse. «Non dovrà mai lavorare per vivere». Ma Laura doveva essere occupata in qualcosa, proprio come me. Fu arruolata in una delle cause di Winifred, un'organizzazione volontaria chiamata Le Abigail, che si occupava di visitare gli ospedali. Le Abigail erano un gruppo vivace: ragazze di buona famiglia che si allenavano a essere le future Winifred. Indossavano grembiuli da ragazza di latteria con tulipani applicati sulle pettorine e gironzolavano per le corsie d'ospedale, dove avrebbero dovuto parlare ai pazienti, magari leggere per loro e rallegrarli come, non era specificato. Laura si dimostrò bravissima. Non le piacevano le altre Abigail, inutile a dirsi, ma si adattò al grembiule. Com'era prevedibile, era attratta dalle corsie che ospitavano i poveri, che le altre Abigail tendevano a evitare per via del fetore e del comportamento indecente dei degenti. Queste corsie erano piene di derelitti: vecchie afflitte da demenza, reduci indigenti e malridotti, uomini senza naso con la sifilide terziaria e così via. Le infermiere erano scarse in questi gironi, e ben presto Laura si fece carico di compiti che a rigor di termini non erano di sua competenza. Padelle e vomito non la mettevano in imbarazzo, a quanto pare, e neppure le bestemmie, i deliri e la generale confusione. Non era quella la situazione che Winifred aveva immaginato, ma ben presto fu quella con cui ci trovammo a fare i conti. Le infermiere ritenevano Laura un angelo (almeno alcune di loro; altre la consideravano semplicemente d'impiccio). Secondo Winifred, che cercava di tenere le cose sotto controllo e aveva le sue spie, correva voce che Laura fosse particolarmente brava con i casi disperati. Sembrava non cogliere il fatto che stessero morendo, diceva. Trattava la loro condizione come ordinaria, perfino normale, e questo - supponeva Winifred - doveva avere su di loro un effetto in qualche modo calmante, effetto che non avrebbe certo avuto su una persona sana. Per Winifred questa facilità o talento di Laura era un altro segno della sua natura fondamentalmente bizzarra. «Deve avere nervi di ghiaccio» diceva. «Io non ci riuscirei di certo. Non potrei sopportarlo. Pensate che squallore!» Intanto, erano in atto i piani per l'ingresso in società di Laura. Questi piani non erano ancora stati condivisi con lei: avevo preparato Winifred ad aspettarsi una reazione negativa da parte sua. In quel caso, disse lei, tutta la
cosa sarebbe stata organizzata e poi presentata come un fait accompli; o, meglio ancora, si sarebbe potuto addirittura fare a meno dell'ingresso in società, se il suo obiettivo principale fosse stato già raggiunto, dove l'obiettivo principale era un matrimonio strategico. Stavamo pranzando all'Arcadian Court; Winifred mi aveva invitata là, solo noi due, per escogitare uno stratagemma per Laura, come si era espressa. «Uno stratagemma?» chiesi. «Sai cosa voglio dire» disse Winifred. «Niente di disastroso». Il meglio che si poteva sperare per Laura, tutto considerato - continuò - era che un uomo bravo e ricco ingoiasse il rospo, le chiedesse di sposarlo e la portasse dritta all'altare. Ancora meglio, un uomo ricco, bravo e stupido, che non vedesse nemmeno che c'era un rospo da ingoiare finché non sarebbe stato troppo tardi. «Di che rospo parli?» domandai. Mi chiesi se fosse stato quello lo schema seguito da lei stessa quando aveva messo nel sacco lo sfuggente signor Prior. Aveva nascosto la sua natura di rospo fino alla luna di miele e poi gliel'aveva rivelata troppo all'improvviso? È per questo che non si faceva mai vedere, tranne in fotografia? «Devi ammettere» disse Winifred, «che Laura è più che un po' strana». Tacque per sorridere a qualcuno al di sopra della mia spalla, e per agitare le dita in un saluto. I suoi bracciali d'argento tintinnarono; ne portava troppi. «Cosa vuoi dire?» chiesi in tono mite. Raccogliere le spiegazioni di Winifred su ciò che voleva dire era diventato un mio deplorevole hobby. Winifred contrasse le labbra. Aveva un rossetto arancione, le sue labbra stavano cominciando a riempirsi di rughe. Oggigiorno diremmo che era colpa del troppo sole, ma la gente non aveva ancora fatto quel collegamento, e a Winifred piaceva essere abbronzata; le piaceva la patina metallica. «Non è il tipo che va a genio a tutti gli uomini. Se ne viene fuori con certe stranezze. Le manca - le manca la prudenza». Winifred indossava le sue scarpe verdi di alligatore, ma non le giudicavo più eleganti; al contrario, le giudicavo appariscenti. Molte delle cose di Winifred che un tempo trovavo misteriose e affascinanti ora le trovavo ovvie, semplicemente perché ne sapevo troppo. La sua costosa vernice era smalto scheggiato, il suo splendore nient'altro che lucido. Avevo guardato dietro le quinte, avevo visto corde e pulegge, avevo visto fili e corsetti. Avevo sviluppato dei gusti miei.
«Per esempio?» chiesi. «Quali strane cose?» «Ieri mi ha detto che il matrimonio non è importante, solo l'amore. Ha detto che Gesù è d'accordo con lei» rispose Winifred. «Be', è il suo modo di vedere» dissi. «Non ne fa mistero. Ma non ha in mente il sesso, lo sai. Non ha in mente l'eros». Quando c'era qualcosa che non capiva, Winifred ne rideva o la ignorava. Questa la ignorò. «Tutti hanno in mente il sesso, che lo conoscano o meno» disse. «Un simile modo di vedere potrebbe procurare un sacco di guai a una ragazza come lei». «Ne verrà fuori in tempo» osservai, anche se non lo pensavo. «Non sarà mai troppo presto. Le ragazze con la testa tra le nuvole sono di gran lunga le peggiori - gli uomini se ne approfittano. Tutto quello che ci serve è un piccolo Romeo ben provvisto. Questo la metterebbe a posto». «Cosa suggerisci, dunque?» chiesi, fissandola con espressione vacua. Usavo quel mio sguardo vacuo per nascondere irritazione o anche rabbia, ma non faceva che incoraggiare Winifred. «Come ho detto, darla in sposa a un brav'uomo che non sappia come va il mondo. Poi potrà sbizzarrirsi con le faccende amorose più tardi, se è quello che vuole. Finché lo fa senza dare nell'occhio, nessuno aprirà il becco». Giocherellai con i resti del mio pasticcio di pollo. Ultimamente Winifred aveva imparato un bel po' di espressioni gergali. Suppongo pensasse che erano all'ultima moda: aveva raggiunto l'età in cui avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi di essere all'ultima moda. Ovviamente non conosceva Laura. Mi era difficile concepire l'idea di Laura che faceva qualcosa di simile senza dare nell'occhio. Era più da lei farlo apertamente, per strada, in pieno giorno. Avrebbe voluto sfidarci, sbattercelo in faccia. Fuggire con un amante, o qualcosa di altrettanto melodrammatico. Mostrare a noi altri che ipocriti fossimo. «Laura avrà del denaro quando compirà ventun anni». «Non abbastanza» disse Winifred. «Forse sarà abbastanza per lei. Forse vuole soltanto fare la sua vita» replicai. «La sua vita!» esclamò Winifred. «Pensa solo cosa ne farebbe!» Non aveva senso cercare di far recedere Winifred dai suoi propositi. Era come una mannaia da macellaio calata a mezz'aria. «Hai qualche candidato?» chiesi. «Nulla di sicuro, ma ci sto lavorando» rispose in tono brusco. «Ci sono
alcune persone a cui non dispiacerebbe legarsi a Richard». «Non darti troppa pena» mormorai. «Oh, ma se non lo faccio» disse Winifred allegramente, «cosa succederà?» «Ho sentito che hai preso Winifred per il verso sbagliato» dissi a Laura. «Mettendola tutta sottosopra. Stuzzicandola sul Libero Amore». «Non ho mai nominato il Libero Amore» ribatté. «Ho detto soltanto che il matrimonio era un'istituzione sorpassata. Ho detto che non ha nulla a che vedere con l'amore, ecco tutto. L'amore è dare, il matrimonio è comprare e vendere. Non si può mettere l'amore in un contratto. Poi ho detto che non c'è matrimonio in Paradiso». «Questo non è il Paradiso» dissi. «Nel caso tu non l'abbia notato. Comunque, l'hai sicuramente allarmata». «Stavo solo dicendo la verità». Si stava togliendo le pellicine con il mio scalzapelli. «Suppongo che ora comincerà a presentarmi alla gente. Non fa che immischiarsi». «Ha solo paura che tu possa rovinarti la vita. Se ti fai prendere troppo dall'amore, voglio dire». «Sposarti ti ha evitato di rovinarti la vita? O è troppo presto per dirlo?» Ignorai il suo tono. «Tu cosa pensi, comunque?» «Hai un nuovo profumo. Te l'ha regalato Richard?» «Dell'idea del matrimonio, voglio dire». «Niente». Ora si stava spazzolando i lunghi capelli biondi, con la mia spazzola, seduta alla mia toletta. Ultimamente faceva più attenzione all'aspetto esteriore; aveva cominciato a vestirsi in maniera piuttosto elegante, sia con i suoi vestiti che con i miei. «Vuoi dire che non ci pensi granché?» chiesi. «No. Non ci penso affatto». «Forse dovresti» dissi. «Forse dovresti dedicare almeno un minuto di riflessione al tuo futuro. Non puoi continuare per sempre a non far altro che gingillarti, a non fare...» Volevo dire a non fare niente, ma sarebbe stato un errore. «Il futuro non esiste» disse Laura. Aveva preso l'abitudine di parlarmi come se io fossi la sorella minore e lei la maggiore; come se dovesse spiegarmi chiaramente le cose. Poi disse una delle sue strane frasi. «Se fossi un funambolo con gli occhi bendati che attraversasse le Cascate del Niagara su un alto filo, a cosa faresti più attenzione - alla folla sull'altra riva o ai
tuoi piedi?» «Ai miei piedi, credo. Vorrei che non usassi la mia spazzola. Non è igienico». «Ma se facessi troppa attenzione ai tuoi piedi, cadresti. E se facessi troppa attenzione alla folla, cadresti lo stesso». «Allora qual'è la risposta giusta?» «Se tu fossi morta, questa spazzola sarebbe ancora tua?» chiese, guardandosi il profilo con la coda dell'occhio. Questo le conferì, nel riflesso, un'espressione maliziosa insolita per lei. «I morti possono possedere le cose? E se non possono, cosa la rende "tua" adesso? Le tue iniziali sopra di essa? O i tuoi germi?» «Laura, smetti di stuzzicarmi!» «Non ti sto stuzzicando» disse, mettendo giù la spazzola. «Sto pensando. Tu non capisci mai la differenza. Non so perché ascolti qualunque cosa Winifred abbia da dire. È come ascoltare una trappola per topi. Senza il topo dentro» aggiunse. Era diventata diversa ultimamente: era diventata fragile, noncurante, imprudente in una maniera nuova. Non era più aperta nelle sue sfide. Sospettavo che avesse iniziato a fumare alle mie spalle: le avevo sentito addosso odore di tabacco una o due volte. Tabacco, e qualcos'altro: qualcosa di troppo vecchio, di troppo smaliziato. Avrei dovuto essere più attenta ai cambiamenti che stavano avvenendo in lei, ma avevo parecchie altre cose per la mente. Aspettai fino alla fine di ottobre per informare Richard che ero incinta. Dissi che avevo voluto esserne sicura. Espresse una gioia convenzionale, e mi baciò sulla fronte. «Brava» disse. Stavo solo facendo ciò che ci si aspettava da me. Un vantaggio era che adesso la notte mi lasciava scrupolosamente da sola. Non voleva rovinare niente, diceva. Gli dissi che era molto premuroso da parte sua. «E tu avrai il gin razionato d'ora in poi. Non permetterò nessuna disobbedienza» fece, agitando il dito verso di me in un modo che trovai sinistro. Mi sembrava più allarmante in questi momenti di frivolezza di quanto non fosse il resto del tempo; era come guardare una lucertola fare le capriole. «Prenderemo il dottore più bravo» aggiunse. «Non baderemo a spese». Mettere le cose sul terreno commerciale era rassicurante per tutti e due. Con del denaro in gioco, sapevo qual era il mio ruolo: ero la portatrice di un pacco molto costoso, né più né meno.
Dopo il primo gridolino di genuino spavento, Winifred si diffuse in smancerie fasulle. In realtà era allarmata. Presumeva (giustamente) che essere la madre di un figlio ed erede, o anche solo di un erede, mi avrebbe dato nei confronti di Richard un prestigio maggiore di quanto ne avessi avuto fino ad allora, e molto di più di quanto avessi il diritto di avere. Di più per me, di meno per lei. Sarebbe stata bene attenta a trovare dei modi per ridimensionarmi: ogni istante mi aspettavo di vederla apparire con piani dettagliati per l'arredamento della stanza del nascituro. «Per quando possiamo attendere il lieto evento?» chiese, e capii che avrei dovuto aspettarmi una dose prolungata di linguaggio esageratamente dolce da parte sua. Ora si sarebbe parlato del nuovo arrivo e di un regalo della cicogna e del piccolo sconosciuto, a non finire. Winifred poteva diventare molto vivace e affettata sugli argomenti che la rendevano nervosa. «Per aprile, credo» risposi. «O per marzo. Non sono ancora andata da un dottore». «Ma devi saperlo» disse, inarcando le sopracciglia. «Be', non mi è mai successo prima» ribattei seccata. «Non è che stessi aspettando che accadesse. Non ci facevo attenzione». Una sera andai nella stanza di Laura per darle la notizia. Bussai alla porta; visto che non rispondeva, aprii piano, pensando che forse dormiva. Ma non era così. Era in ginocchio accanto al letto, con la camicia da notte blu, la testa abbassata e i capelli sparsi quasi fossero smossi da un vento invisibile, le braccia allargate come se fosse stata scaraventata là. Sulle prime pensai che stesse pregando, ma non era così, o almeno non in maniera che potessi sentire. Quando mi notò, si alzò, con un'aria pratica come se fosse stata a spolverare, e si sedette sullo sgabello ornato di stoffa increspata della sua toletta. Come sempre, fui colpita dal rapporto tra ciò che la circondava, che Winifred aveva scelto per lei - gli squisiti tessuti stampati, i boccioli di rosa di nastro, le organze, le balze - e Laura stessa. Una foto avrebbe rivelato solo armonia. Eppure per me l'incongruenza era profonda, quasi surreale. Laura era una selce in un nido di lanugine del cardo. Ho detto selce, non una pietra qualunque: una selce ha il cuore di fuoco. «Laura, volevo dirtelo» dissi. «Sto per avere un bambino». Si girò verso di me, il viso liscio e bianco come un piatto di porcellana, l'espressione sigillata al suo interno. Ma non mi sembrò sorpresa. Né si felicitò con me. Invece disse: «Ti ricordi il gattino?»
«Quale gattino?» chiesi. «Il gattino che ebbe la mamma. Quello che la uccise». «Laura, non era un gattino». «Lo so» disse. La bella vista È tornata Reenie. Non è troppo contenta di me. Ebbene, signorina. Cos'hai da dire a tua discolpa? Cos'hai fatto a Laura? Non impari mai niente? Non ci sono risposte a certe domande. Le risposte sono talmente aggrovigliate con le domande, così intricate e complesse, che in realtà non sono affatto risposte. Su questo punto sono sotto processo. Lo so. So cosa penserai tra breve. Sarà più o meno lo stessa cosa che sto pensando anch'io: Mi sarei dovuta comportare diversamente? Tu lo crederai senz'altro, ma avevo altre scelte? Le avrei adesso, ma adesso non è allora. Avrei dovuto essere in grado di leggere nella mente di Laura? Avrei dovuto sapere cosa stava accadendo? Avrei dovuto capire cosa sarebbe successo poi? Ero la guardiana di mia sorella? Avrei dovuto è un'espressione inutile. Riguarda ciò che non è avvenuto. Appartiene a un universo parallelo. Appartiene a un'altra dimensione dello spazio. Un mercoledì di febbraio mi avviai al piano di sotto, dopo il mio sonnellino pomeridiano. A quel tempo facevo un'infinità di sonnellini: ero incinta di sette mesi, e avevo problemi a dormire tutta la notte. Inoltre c'era qualche preoccupazione per la mia pressione sanguigna; avevo le caviglie gonfie, e mi era stato detto di stare il più possibile stesa con le gambe in alto. Mi sentivo come un enorme acino, gonfio fino a scoppiare di zucchero e succo violaceo; mi sentivo brutta e ingombrante. Quel giorno nevicava, ricordo, grandi fiocchi soffici e bagnati: avevo guardato fuori della finestra dopo essermi alzata faticosamente in piedi, e avevo visto il castagno tutto bianco, come un corallo gigante. Winifred era là, nel salotto color nuvola. Non era strano - andava e veniva come se fosse la padrona -, ma c'era anche Richard. Di solito a quell'ora del giorno era nel suo ufficio. Avevano entrambi un drink in mano. Avevano tutti e due l'aria cupa.
«Cosa c'è?» chiesi. «Cosa c'è che non va?» «Siediti» fece Richard. «Qui, accanto a me». Diede dei colpetti sul divano. «Sarà un trauma» disse Winifred. «Mi dispiace che sia dovuto succedere in un momento così delicato». Fu lei a parlare. Richard mi teneva la mano e guardava il pavimento. Ogni tanto scuoteva la testa, come se trovasse la sua storia incredibile o fin troppo vera. Ecco la sostanza del suo discorso: Alla fine Laura era scoppiata. Scoppiata, disse, come se Laura fosse un fagiolo. «Avremmo dovuto procurare prima un aiuto a quella povera ragazza, ma pensavamo che si stesse calmando» disse. Comunque quel giorno, all'ospedale in cui faceva assistenza volontaria, aveva perso il controllo. Fortunatamente era presente un dottore, e un altro - uno specialista - era stato mandato a chiamare. In conclusione Laura era stata dichiarata pericolosa per se stessa e per gli altri, e sfortunatamente Richard era stato costretto ad affidarla alle cure di un istituto. «Cosa mi state dicendo? Cosa ha fatto?» Winifred aveva la sua espressione compassionevole. «Ha minacciato di farsi del male. Ha detto anche alcune cose che erano... be', soffre chiaramente di allucinazioni». «Cosa ha detto?» «Non credo che dovrei dirtelo». «Laura è mia sorella» replicai. «Ho il diritto di sapere». «Ha accusato Richard di cercare di ucciderti». «In questi termini?» «Era chiaro cosa intendeva» disse Winifred. «No, per favore, sii precisa». «Lo ha definito un mercante di schiave bugiardo e sleale, e un degenerato mostro adoratore del Dio Denaro». «So che a volte ha dei punti di vista estremi, e tende a esprimersi in maniera diretta. Ma non si può mettere qualcuno in manicomio solo per aver detto qualcosa del genere». «C'è stato dell'altro» disse Winifred in tono tetro. Richard, per calmarmi, spiegò che non si trattava di un istituto normale di tipo vittoriano. Era una clinica privata, molto buona, una delle migliori. La Clinica Bella Vista. Là si sarebbero presi cura di lei in maniera eccellente.
«Com'è la vista?» chiesi. «Prego?» «Si chiama Bella Vista. Dunque, com'è la vista? Cosa vedrà Laura quando guarderà fuori della finestra?» «Spero che tu non voglia scherzare» disse Winifred. «No. È molto importante. È un prato, un giardino, una fontana, o cosa? O qualche squallido vicolo?» Nessuno dei due seppe dirmelo. Richard disse che era sicuro che si trattasse di un paesaggio naturale di un tipo o dell'altro. La clinica, aggiunse, era fuori città. C'erano terreni sistemati a parco. «Ci sei stato?» «So che sei turbata, cara» disse. «Forse dovresti fare un sonnellino». «Ne ho appena fatto uno. Per favore, parla». «No, non ci sono stato. Naturalmente non ci sono stato». «E allora come lo sai?» «Ma insomma, Iris» disse Winifred. «Che importanza ha?» «Voglio vederla». Mi era difficile credere che Laura fosse andata a pezzi all'improvviso, ma in fondo ero talmente abituata alle sue bizzarrie da non trovarle più strane. Sarebbe stato facile per me essermi lasciata sfuggire il suo squilibrio - i segni rivelatori della fragilità mentale, qualunque fossero stati. A sentire Winifred, i dottori avevano avvertito che per il momento vedere Laura era fuori questione. Erano stati molto chiari al riguardo. Era troppo sconvolta, non solo, era violenta. E inoltre c'erano da considerare le mie condizioni. Mi misi a piangere. Richard mi porse il suo fazzoletto. Era leggermente inamidato e profumava di colonia. «C'è qualcos'altro che dovresti sapere» disse Winifred. «Qualcosa di molto doloroso». «Forse dovremmo rinviare questo punto a più tardi» suggerì Richard a bassa voce. «È molto penoso» disse Winifred, con falsa riluttanza. Così naturalmente insistetti per saperlo subito. «La povera ragazza sostiene di essere incinta» disse Winifred. «Proprio come te». Smisi di piangere. «Ebbene? Lo è?» «Certo che no» rispose Winifred. «Come potrebbe?» «Chi è il padre?» non potevo proprio figurarmi Laura che inventava una
cosa del genere di sana pianta. «Voglio dire, chi immagina che sia?» «Rifiuta di dirlo» rispose Richard. «Naturalmente era isterica» disse Winifred, «perciò era tutto confuso. A quanto pare crede che il bambino che avrai in realtà sia suo, in qualche modo che non ha saputo spiegare. Stava delirando, ovvio». Richard scosse la testa. «Molto triste» mormorò, nel tono sommesso e solenne di un impresario di pompe funebri: attutito, come uno spesso tappeto rosso scuro. «Lo specialista - lo specialista in malattie mentali - ha detto che Laura deve essere morbosamente gelosa di te» disse Winifred. «Gelosa di tutto ciò che ti riguarda - vuole vivere la tua vita, vuole essere te, e la cosa ha assunto questa forma. Ha detto che dovresti essere tenuta al sicuro». Diede un piccolo sorso al suo drink. «Tu non hai avuto dei sospetti?» Vedi che donna furba era. Aimee nacque all'inizio di aprile. A quei tempi usavano l'etere, e così non fui cosciente durante il parto. Inspirai e persi i sensi, e quando mi svegliai mi ritrovai più debole e più piatta. Il bambino non c'era. Era nella nursery, con tutti gli altri. Era una femmina. «Non c'è nulla che non va in lei, vero?» chiesi. Ero molto ansiosa al riguardo. «Dieci dita alle mani e dieci ai piedi» rispose l'infermiera in tono brusco, «e tutto il resto esattamente al suo posto». La bambina mi fu portata più tardi nel pomeriggio, avvolta in una coperta rosa. Le avevo già dato il nome, nella mia testa. Aimee significava amata, e io certamente speravo che sarebbe stata amata, da qualcuno. Avevo dubbi sulla mia capacità di amarla, o di amarla tanto quanto le sarebbe stato necessario. In quelle circostanze ero presa da fin troppe cose: non pensavo che sarebbe rimasto abbastanza di me. Aimee era come tutti i neonati - aveva il viso schiacciato, come se fosse andata a sbattere contro un muro ad alta velocità. I capelli sulla sua testa erano lunghi e scuri. Mi guardò di traverso con gli occhi quasi chiusi, uno sguardo diffidente. Che colpo riceviamo quando veniamo messi al mondo, pensai; che brutta sorpresa dev'essere, quel primo, duro incontro con l'aria esterna. Fui addolorata per la piccola creatura; promisi solennemente di fare del mio meglio per lei. Mentre ci stavamo studiando l'un l'altra, arrivarono Winifred e Richard. All'inizio l'infermiera li scambiò per i miei genitori. «No, questo è l'orgo-
glioso papà» disse Winifred, e si misero tutti a ridere. Avevano portato fiori e un elaborato corredino da neonato, tutto un raffinato lavoro all'uncinetto e fiocchi di raso bianco. «Adorabile!» esclamò Winifred. «Ma santo cielo, ci aspettavamo una biondina. È terribilmente scura. Guarda che capelli!» «Mi dispiace» dissi a Richard. «So che volevi un maschio». «Sarà per la prossima volta, cara» fece lui. Non sembrava affatto turbato. «Sono solo i capelli della nascita» disse l'infermiera a Winifred. «Ce li hanno molti bambini, a volte arrivano perfino alla schiena. Cadono e al loro posto crescono i capelli veri. Potete ringraziare la vostra buona stella se non ha denti o una coda, come succede a certi». «Il nonno Benjamin era scuro» dissi, «prima che gli venissero i capelli bianchi, e anche la nonna Adelia, e mio padre, naturalmente, anche se non so come fossero i suoi due fratelli. La parte bionda della famiglia era quella di mia madre». Lo dissi nel mio solito tono colloquiale, e fui sollevata nel vedere che Richard non mi stava prestando la minima attenzione. Ero felice che Laura non ci fosse? Che fosse rinchiusa da qualche parte, lontano, dove non potevo raggiungerla? E dove lei non poteva raggiungere me; dove non poteva stare accanto al mio letto come la fata non invitata al battesimo, e dire: Ma di cosa state parlando? L'avrebbe capito, naturalmente. L'avrebbe capito subito. La luna splendeva luminosa Ieri sera ho visto una giovane donna che si dava fuoco: una giovane donna snella vestita con leggerissimi abiti infiammabili. Lo faceva in segno di protesta contro questa o quella ingiustizia; ma perché pensava che il falò che stava facendo di sé avrebbe risolto qualcosa? Oh, non farlo, volevo dirle. Non bruciare la tua vita. Qualunque sia il motivo, non ne vale la pena. Ma per lei valeva, ovviamente. Cosa le ossessiona, queste giovani ragazze con un talento per l'autoimmolazione? Quello che fanno serve a dimostrare che anche le ragazze hanno coraggio, che sanno fare ben più che piangere e lamentarsi, che anche loro sanno affrontare la morte con stile? E da dove proviene quell'impulso? Comincia con una sfida, e in questo caso, a cosa? Al grande ordine delle cose, opprimente, soffocante, al grande carro dalle ruote chiodate, ai tiranni ciechi, agli dei ciechi? Queste ragazze sono abbastanza sconsiderate o
abbastanza arroganti da pensare di poter porre fine a tutto ciò su due piedi immolando se stesse su qualche altare teorico, o è una sorta di dimostrazione? Piuttosto ammirevole, se si ammira l'ossessione. Piuttosto coraggiosa, anche. Ma completamente inutile. Mi preoccupo per Sabrina, da questo punto di vista. Cosa sta combinando, laggiù dall'altra parte del globo? È stata morsa dai cristiani o dai buddhisti, o c'è qualche altra varietà di pipistrello che abita la sua cella campanaria? Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Sono queste le parole sul suo passaporto per la vacuità? Vuole fare ammenda per i peccati della sua famiglia deplorevole, distrutta e dominata dal denaro? Spero proprio di no. Anche Aimee aveva un po' questa tendenza, ma in lei assunse una forma più lenta, più ambigua. Laura precipitò dal ponte quando Aimee aveva otto anni, Richard morì quando ne aveva dieci. Questi avvenimenti non possono non averla colpita. Poi, tra Winifred e me, è stata fatta a pezzi. Ora Winifred non avrebbe vinto la battaglia, ma allora lo fece. Mi rubò Aimee, e per quanto ci abbia provato, non riuscii più a riaverla indietro. Non c'è da stupirsi che quando Aimee divenne maggiorenne e mise le mani sul denaro che Richard le aveva lasciato se la squagliò, e fece ricorso a varie forme di conforto chimico, e si sbatté un uomo dietro l'altro. (Chi era, per esempio, il padre di Sabrina? Difficile a dirsi, e Aimee non lo fece mai. Gira la ruota, aveva detto, e scegli a caso). Cercai di tenermi in contatto con lei. Continuai a sperare in una riconciliazione - dopo tutto era mia figlia, mi sentivo colpevole nei suoi confronti e volevo rimediare - rimediare al groviglio che era diventata la sua infanzia. Ma allora si rivolse contro di me - e anche contro Winifred, il che almeno mi fu di una certa consolazione. Non volle che nessuna delle due le stesse vicino, o vicino a Sabrina - soprattutto non a Sabrina. Non voleva che la contaminassimo. Cambiava casa spesso, senza sosta. Un paio di volte fu buttata in mezzo alla strada per non avere pagato l'affitto; fu arrestata per avere provocato disordini. Fu ricoverata in ospedale in parecchie occasioni. Suppongo si dovrebbe dire che divenne un'alcolista cronica, anche se odio questo termine. Aveva abbastanza denaro da non doversi mai procurare un lavoro, e meno male, perché non avrebbe potuto tenerselo a lungo. O forse non dovrei dire meno male. Le cose sarebbero potute andare diversamente se non fosse stata in grado di vivere alla meno peggio; se avesse dovuto concen-
trarsi sul prossimo pasto, invece di fissarsi su tutto il male che le sembrava che le avessimo fatto. Vivere di rendita incoraggia l'autocommiserazione in coloro che vi sono già inclini. L'ultima volta che andai a trovare Aimee, viveva in una fatiscente casetta schiera dalle parti di Parliament Street, a Toronto. Una bambina che supposi fosse Sabrina era accovacciata nel riquadro di terra accanto al vialetto sul davanti - una monella sporca e scarmigliata con addosso dei pantaloncini, ma senza maglietta. Aveva una vecchia tazza di latta e la riempiva di sabbia con un cucchiaio piegato. Era una creaturina piena di risorse: mi chiese un quarto di dollaro. Glielo diedi? Più che probabile. «Sono tua nonna» le dissi, e lei alzò lo sguardo su di me come se fossi pazza. Senza dubbio non le era mai stato detto dell'esistenza di una simile persona. Dovetti sentire le chiacchiere di uno dei vicini, quella volta. Sembravano persone decenti, o almeno abbastanza decenti da sfamare Sabrina quando Aimee dimenticava di tornare a casa. Facevano Kelly di cognome, se ben ricordo. Furono loro a chiamare la polizia quando Aimee fu trovata in fondo alle scale con il collo rotto. Caduta o spinta o saltata giù, non lo sapremo mai. Avrei dovuto agguantare Sabrina, quel giorno, e andarmene con lei. Diretta in Messico. Lo avrei fatto se avessi saputo cosa sarebbe successo che Winifred l'avrebbe rubata e rinchiusa lontana da me, proprio come aveva fatto con Aimee. Sabrina sarebbe stata meglio se fosse venuta a stare con me invece che con Winifred? Come dev'essere stato per lei, crescere con una ricca vecchia vendicativa e amareggiata? Invece che con una povera vecchia vendicativa e amareggiata, cioè io. Però l'avrei amata. Dubito che Winifred lo abbia mai fatto. Si aggrappò a Sabrina soltanto per farmi dispetto; per punirmi; per dimostrare che aveva vinto. Ma quel giorno non commisi nessun furto di bambini. Bussai alla porta, e dal momento che non ci fu risposta l'aprii ed entrai, poi salii le scale ripide e scure che portavano all'appartamento di Aimee, al secondo piano. Aimee era in cucina, seduta al piccolo tavolo rotondo, a guardarsi le mani, che tenevano una tazza di caffè con sopra una di quelle facce gialle sorridenti. La teneva vicinissima agli occhi e la rigirava da una parte all'altra. Aveva il volto pallido, i capelli arruffati. Non posso dire di averla trovata molto attraente. Stava fumando una sigaretta. Molto probabilmente era sotto l'effetto di questa o quella droga, mescolata con alcol; ne sentivo l'odore nella stanza, insieme a quello del fumo vecchio, del lavandino sporco, del
secchio dell'immondizia pieno. Cercai di parlarle. Cominciai gentilmente, ma non era dell'umore giusto per ascoltare. Disse che era stanca di tutti noi. Più di tutto era stanca della sensazione che le cose le fossero tenute nascoste. La famiglia aveva nascosto tutto; nessuno voleva dirle la verità; le nostre bocche si aprivano e si chiudevano e ne uscivano parole, ma non erano parole che avessero un senso. Ma in ogni modo aveva capito tutto. Era stata rapinata, era stata privata dell'eredità, perché io non ero la sua vera madre e Richard non era stato il suo vero padre. Era scritto tutto nel libro di Laura, disse. Le chiesi cosa mai volesse dire. Rispose che era ovvio: la sua vera madre era Laura, e il suo vero padre era quell'uomo, quello nell'Assassino cieco. La zia Laura era stata innamorata di lui, ma noi l'avevamo ostacolata e liquidato in qualche modo questo amante sconosciuto. Lo avevamo cacciato spaventandolo, comprandolo, in qualsiasi modo; aveva vissuto nella casa di Winifred abbastanza a lungo per vedere come venivano sistemate le cose dalla gente come noi. Allora, quando venne fuori che Laura era incinta di lui, l'avevamo mandata via per nascondere lo scandalo, e quando la mia bambina era morta al momento della nascita, avevamo rubato la figlia di Laura, l'avevamo adottata e l'avevamo fatta passare per nostra. Non era affatto lucida, ma il succo era questo. Capisci bene quale attrattiva esercitasse su di lei questa fantasia: chi non avrebbe voluto avere per madre un essere mitico, invece del tipo reale, trito? Avendo la possibilità. Dissi che si sbagliava di grosso, aveva fatto una gran confusione, ma non mi diede ascolto. Non c'era da stupirsi che non si fosse mai sentita felice con Richard e me, disse. Non ci eravamo mai comportati come i suoi veri genitori, perché in effetti non eravamo i suoi veri genitori. E non c'era da stupirsi che la zia Laura si fosse gettata giù da un ponte - lo aveva fatto perché le avevamo spezzato il cuore. Probabilmente aveva lasciato un biglietto per lei in cui spiegava tutto, perché lo leggesse quando fosse stata più grande, ma Richard e io dovevamo averlo distrutto. Non c'era da stupirsi che io fossi stata una madre così terribile, continuò. Non le avevo mai voluto bene davvero. In caso contrario, l'avrei messa davanti a tutto il resto. Avrei tenuto conto dei suoi sentimenti. Non avrei lasciato Richard. «Posso anche non essere stata una madre perfetta» dissi. «Sono disposta ad ammetterlo, ma ho fatto del mio meglio, date le circostanze - circostanze di cui tu in realtà sai molto poco». Che pensava di fare con Sabrina?
continuai. Di lasciarla andare in giro così fuori di casa senza vestiti addosso, sporca come una mendicante? Quella era incuria, la bambina poteva sparire da un momento all'altro, i bambini sparivano in continuazione. Io ero la nonna di Sabrina, sarei stata più che disposta a prenderla con me, e... «Tu non sei sua nonna» disse Aimee. Ormai piangeva. «Lo è la zia Laura. O lo era. È morta, e sei stata tu a ucciderla!» «Non fare la stupida» dissi. Questa era la reazione sbagliata: con quanta più veemenza si negano certe cose, più vengono credute. Ma spesso si reagisce in modo sbagliato quando si è spaventati, e Aimee mi aveva spaventata. Quando dissi la parola stupida, cominciò a gridarmi contro. Ero io la stupida, disse. Ero pericolosamente stupida, ero talmente stupida da non sapere neanche quanto fossi stupida. Usò una quantità di parole che non starò a ripetere qui, poi prese la tazza di caffè con la faccia gialla sorridente e me la scagliò contro. Quindi mi si avvicinò, vacillando; piangeva forte, grandi singhiozzi strazianti. Aveva le braccia aperte in maniera minacciosa, credetti. Ero turbata, scossa. Indietreggiai, afferrando la ringhiera, schivando altri oggetti - una scarpa, un piattino. Quando arrivai al portone, fuggii. Forse avrei dovuto tendere le braccia. Avrei dovuto stringerla a me. Avrei dovuto piangere. Poi mi sarei dovuta sedere insieme a lei e raccontarle la storia che ti sto raccontando. Ma non lo feci. Mi lasciai sfuggire l'occasione, e me ne pento amaramente. Fu solo tre settimane più tardi che Aimee cadde giù dalle scale. Piansi la sua morte, naturalmente. Era mia figlia. Ma devo ammettere che piansi la persona che era stata a un'età molto più verde. Piansi ciò che sarebbe potuta diventare; piansi le sue possibilità perdute. Più di ogni altra cosa, piansi i miei fallimenti. Dopo la morte di Aimee, Winifred mise le sue grinfie su Sabrina. Chi arriva prima ha la legge dalla sua, e lei non perse tempo. Portò in fretta e furia Sabrina alla sua residenza di Rosedale, che era stata rimessa a nuovo, e in un batter d'occhio ottenne la nomina a tutrice ufficiale. Presi in considerazione l'idea di lottare, ma sarebbe stata soltanto una ripetizione della battaglia per Aimee - ero condannata a perdere. Quando Sabrina fu affidata a Winifred, io non avevo ancora sessant'anni; allora potevo ancora guidare. Di tanto in tanto facevo una scappata a Toronto e seguivo Sabrina come un'ombra, come un investigatore privato in un vecchio poliziesco. Gironzolavo attorno alla sua nuova scuola ele-
mentare, la sua nuova, esclusiva scuola elementare - solo per darle un'occhiata, e per assicurarmi che, nonostante tutto, stava bene. Ero da Eaton, per esempio, la mattina in cui Winifred la portò in quel grande magazzino per comprarle delle scarpe eleganti, pochi mesi dopo essersela accaparrata. Senza dubbio gli altri vestiti di Sabrina li comprava senza consultarla - sarebbe stato nel suo stile -, ma le scarpe avevano bisogno di essere provate, e per qualche ragione Winifred non aveva affidato quel noioso compito al personale di servizio. Era il periodo natalizio - le colonne nel magazzino erano ornate di finto agrifoglio, ghirlande con pigne verniciate d'oro e nastri di velluto rosso erano appese sulle porte come aureole spinose - e Winifred rimase bloccata dai canti natalizi, con suo grande fastidio. Io ero nel corridoio accanto. Il mio guardaroba non era più quello di una volta - indossavo un vecchio cappotto di tweed e un fazzoletto tirato giù sulla fronte - e sebbene guardasse dritta verso di me, non mi vide. Probabilmente quella che vide fu una signora delle pulizie, o un'immigrante in cerca di occasioni. Era tutta agghindata come al solito, ma nonostante ciò sembrava piuttosto malandata. Be', doveva essere vicina ai settanta, e dopo una certa età il suo tipo di trucco tende a farti sembrare mummificata. Non avrebbe dovuto continuare a mettere il rossetto arancione, stonava troppo su di lei. Potevo vedere i solchi incipriati dell'esasperazione tra le sue sopracciglia, i muscoli serrati della mascella coperta di fard. Stava trascinando via Sabrina per un braccio, cercando di aprirsi la strada attraverso il coro di clienti, voluminosi nei vestiti invernali; doveva odiare il tono entusiasta e giocondo del canto. Sabrina d'altra parte voleva sentire la musica. Tirava verso il basso, trasformandosi in un peso morto, come fanno i bambini - fanno resistenza senza darlo a vedere. Il suo braccio era ben alzato, come se lei fosse una brava bambina che vuole rispondere a una domanda a scuola, ma aveva un cipiglio da diavoletto. Doveva fare male, quello che stava facendo. Prendere posizione, muovere una protesta. Fare resistenza. La canzone era Il buon re Venceslao. Sabrina conosceva le parole: vedevo la sua piccola bocca che si muoveva. «La luna splendeva luminosa quella notte, nonostante il terribile gelo» cantava. «Quando un pover'uomo apparve, raccogliendo legna per l'inve-e-erno». È una canzone sulla fame. Ero sicura che Sabrina la capisse - doveva ricordarsela ancora, la fame. Winifred le diede uno strattone al braccio e si guardò attorno nervosa. Non mi vide, ma avvertì la mia presenza, come
una mucca in un campo ben recintato avverte la presenza di un lupo. È tuttavia, le mucche non sono come gli animali selvatici; sono abituate a sentirsi protette. Winifred era ombrosa, ma non spaventata. Seppure le attraversai la mente, mi pensò senza dubbio come a qualcuno che si trovava in un luogo molto lontano, grazie al cielo fuori di vista, nell'oscurità esterna in cui mi aveva relegata. In quell'istante ebbi il prepotente impulso di afferrare Sabrina tra le braccia e di fuggire insieme a lei. Immaginavo il pianto tremulo di Winifred mentre mi facevo strada a forza tra gli imperturbabili esecutori di canti natalizi, che strepitavano giulivi a proposito del tempo inclemente. L'avrei tenuta stretta, non avrei inciampato, non l'avrei lasciata cadere. Ma non sarei neanche andata lontano. Mi sarebbero stati alle costole in men che non si dica. Allora uscii in strada da sola, e camminai, camminai, la testa bassa, il colletto sollevato, lungo i marciapiedi del centro. Il vento si stava alzando dal lago, e la neve cadeva turbinando. Era giorno, ma a causa delle nuvole basse e della neve la luce era fioca; le macchine avanzavano lentamente a sbalzi lungo le strade spopolate, vedevo i loro fanalini di coda rossi allontanarsi come occhi di bestie gobbe che corressero all'indietro. Stringevo un pacchetto - ho dimenticato cosa avessi comprato - ed ero senza guanti. Dovevo averli fatti cadere nel grande magazzino, tra i piedi della folla. Ne sentivo a malapena la mancanza. Una volta potevo camminare attraverso le tormente di neve a mani nude senza neanche accorgermene. È l'amore o l'odio o il terrore, o semplicemente la rabbia, che ci consente di farlo. Un tempo facevo sempre un sogno a occhi aperti su me stessa - lo faccio ancora, a dire il vero. Un sogno a occhi aperti abbastanza ridicolo, sebbene spesso sia attraverso certe immagini che plasmiamo i nostri destini. (Avrai notato quanto scivoli facilmente nel linguaggio ampolloso come plasmiamo i nostri destini, una volta che parto per la tangente. Ma non importa). In questo sogno a occhi aperti Winifred e le sue amiche, con ghirlande di denaro sulla testa, sono riunite intorno al letto bianco ornato di gale di Sabrina mentre lei dorme, discutendo su cosa le doneranno. Ha già ricevuto la coppa d'argento incisa di Birks, la carta da parati per la sua stanza con il fregio raffigurante orsi addomesticati, le prime perle per la sua collana a un filo, e tutti gli altri doni d'oro, perfettamente comme il faut, che si trasformeranno in carbone al sorgere del sole. Ora stanno programmando l'orto-
dontista e le lezioni di tennis e le lezioni di piano e le lezioni di danza e l'esclusivo campo estivo. Che speranze ha? In quel momento io appaio in un lampo di luce sulfurea e uno sbuffo di fumo e uno sbattere di fuligginose ali di cuoio, la madrina pecora nera non invitata. Voglio consegnare un dono, grido. Ne ho il diritto! Winifred e la sua combriccola ridono e mi indicano. Tu? Tu sei stata bandita molto tempo fa! Ti sei guardata in uno specchio ultimamente? Ti sei lasciata andare, dimostri centodue anni. Torna nel tuo vecchio squallido sotterraneo! Cosa potrai mai offrire? Io offro la verità, dico. Sono l'ultima che può farlo. È l'unica cosa in questa stanza che sarà ancora qui domani mattina. Il Betty's Luncheonette Le settimane passavano, e Laura non tornava. Volevo scriverle, telefonarle, ma Richard diceva che le avrebbe fatto male. Non doveva essere interrotta, diceva, da una voce dal passato. Aveva bisogno di concentrare l'attenzione sulla sua situazione immediata - sul trattamento che l'aspettava. Questo era quanto gli era stato detto. Quanto alla natura del trattamento, lui non era un dottore, non pretendeva di capire certe cose. Sicuramente era meglio lasciarle agli esperti. Mi torturavo con visioni di lei imprigionata, che lottava, intrappolata in una dolorosa fantasia creata da lei stessa o in un'altra ugualmente dolorosa, che non era sua ma delle persone che la circondavano. E quand'è che l'una diventava l'altra? Dov'era la soglia tra il mondo interiore e quello esteriore? Tutti noi attraversiamo senza pensarci questo varco ogni giorno, usiamo le parole d'ordine della grammatica - io dico, tu dici, lui e lei dicono, esso, d'altra parte, non dice? - pagando il privilegio della sanità di mente in moneta comune, con significati su cui ci siamo trovati d'accordo. Ma perfino da bambina Laura non si trovava quasi mai d'accordo. Era questo il problema? Che teneva duro sul no, quando era il «ciò che si richiedeva? E viceversa, e viceversa. Laura stava andando bene, mi fu detto: stava facendo progressi. Poi non andò più così bene, ebbe una ricaduta. Progressi in cosa, ricaduta in cosa? Meglio non entrare in particolari, mi avrebbe turbato, era importante che conservassi le mie energie, come dovrebbe fare una giovane mamma. «Ti riavremo in buona salute in men che non si dica» disse Richard, dandomi dei colpetti sul braccio.
«Ma non sono veramente malata» ribattei. «Sai cosa intendo» disse. «Di nuovo normale». Mi rivolse un sorriso affettuoso, quasi un'occhiata maliziosa. Gli si stavano rimpicciolendo gli occhi, o era la carne attorno che avanzava, e questo gli conferiva un'espressione scaltra. Pensava al momento in cui sarebbe potuto tornare al posto che gli competeva: sopra di me. Pensai che mi avrebbe spremuto via il fiato. Stava mettendo su peso; mangiava molto fuori; faceva discorsi, nei circoli, a riunioni importanti, riunioni essenziali. Riunioni ponderose, nelle quali uomini importanti, essenziali si incontravano e ponderavano, perché - come immaginavano tutti - ci aspettavano tempi duri. Tutto quel far discorsi può gonfiare un uomo. Ho assistito al processo, molte volte ormai. È quel genere di parole, il tipo che si usa nei discorsi. Hanno un effetto effervescente sul cervello. Si può vederlo in televisione, durante le trasmissioni politiche - le parole vengono fuori dalle loro bocche come bolle di gas. Decisi che avrei cercato di essere malaticcia il più a lungo possìbile. Non la finivo di crucciarmi per Laura. Rigiravo da tutte le parti la storia di Winifred sul suo conto, studiandola da ogni angolazione. Non potevo assolutamente crederci, ma non potevo neanche non crederci. Laura aveva sempre avuto un enorme potere: il potere di rompere le cose senza averne l'intenzione. E neanche aveva mai rispettato i territori. Quello che era mio era suo: la mia penna stilografica, la mia colonia, il mio vestito estivo, il mio cappello, la mia spazzola. Questo catalogo si era forse ampliato fino a includere il mio bambino prima che venisse al mondo? Tuttavia, se soffriva di allucinazioni - se si era soltanto inventata le cose -, perché aveva inventato proprio quello? Ma supponiamo d'altra parte che Winifred stesse mentendo. Supponiamo che Laura fosse sana come era sempre stata. In quel caso, Laura aveva detto la verità. E se Laura aveva detto la verità, allora era incinta. Se davvero ci sarebbe stato un bambino, che fine avrebbe fatto? E perché non mi aveva detto niente, invece di dirlo a un dottore, a un estraneo? Perché non mi aveva chiesto aiuto? Ci pensai su per qualche tempo. Potevano esserci state molte buone ragioni. Una poteva benissimo essere il mio stato delicato. Quanto al padre, immaginario o reale, c'era un solo uomo possibile. Doveva trattarsi di Alex Thomas. Ma non poteva essere. Come avrebbe potuto?
Non sapevo più come Laura avrebbe risposto a queste domande. Era diventata una sconosciuta per me, come ci è sconosciuto l'interno del nostro guanto quando c'è dentro la mano. Era tutto il tempo con me, ma non riuscivo a guardarla. Potevo solo sentire la forma della sua presenza: una forma cava, riempita dalle mie fantasie. I mesi passavano. Venne giugno, poi luglio, poi agosto. Winifred diceva che ero pallida ed esaurita. Avrei dovuto passare più tempo all'aperto, diceva. Se non volevo dedicarmi al tennis o al golf, come mi aveva più volte suggerito - magari avrebbero giovato alla mia pancetta, che dovevo far vedere prima che diventasse cronica -, avrei potuto almeno lavorare al mio giardino roccioso. Era un'occupazione che ben si accordava con la maternità. Non ero affezionata al mio giardino roccioso, che era mio solo di nome, come tante altre cose. (Come la «mia» bambina, a pensarci bene: sicuramente frutto di uno scambio, sicuramente lasciata dagli zingari; sicuramente la mia vera bambina - che piangeva di meno e sorrideva di più, e non era così ostica - era stata fatta sparire). Il giardino roccioso era altrettanto resistente alle mie cure; nulla di quanto facessi lo soddisfaceva minimamente. Le sue rocce davano un bello spettacolo - c'era molto granito rosa, insieme al calcare - ma non riuscivo a farci crescere niente. Mi accontentavo dei libri - Piante perenni per il giardino roccioso, Piante grasse del deserto per i climi settentrionali, e simili. Sfogliavo questi libri, compilando elenchi - elenchi di cosa avrei potuto piantare, oppure elenchi di cosa avevo effettivamente già piantato; cosa avrebbe dovuto essere cresciuto, ma non l'aveva fatto. Dracena, euforbia marginata, semprevivo. Mi piacevano i nomi, ma non mi importava molto delle piante in sé. «Non ho il pollice verde» dicevo a Winifred. «Non sono come te». La mia simulazione di incompetenza era ormai diventata la mia seconda natura, non dovevo neanche starci a pensare. Da parte sua Winifred aveva smesso di trovare del tutto conveniente la mia inettitudine. «Be', naturalmente devi fare qualche sforzo» diceva. Al che io esibivo i miei debiti elenchi di piante morte. «Le rocce sono belle» dicevo. «Non possiamo dire che è semplicemente una scultura?» Pensai di partire da sola per andare a trovare Laura. Avrei potuto lasciare Aimee con la nuova bambinaia, a cui pensavo come a una signorina Murgatroyd - tutti i nostri domestici erano Murgatroyd nella mia mente, erano
tutti in combutta. Ma no, la bambinaia avrebbe avvertito Winifred. Potevo sfidarli tutti; potevo scivolare via una mattina, prendere Aimee con me; potevamo andare in treno. Ma un treno per dove? Non sapevo dov'era Laura - dov'era stata nascosta. Avevano detto che la Clinica Bella Vista era da qualche parte a nord, ma a nord copriva un bel po' di territorio. Frugai nella scrivania di Richard, quella nel suo studio in casa, ma non trovai nessuna lettera dalla clinica. Doveva tenerle in ufficio. Un giorno Richard tornò a casa presto. Sembrava piuttosto turbato. Laura non era più alla clinica, disse. Com'è potuto succedere? domandai. Era arrivato un uomo, disse. Quest'uomo sosteneva di essere l'avvocato di Laura, o di agire nel suo interesse. Era un curatore, disse - il curatore del conto vincolato della signorina Chase. Aveva contestato l'autorità in base alla quale era stata rinchiusa alla Clinica Bella Vista. Aveva minacciato un'azione legale. Sapevo niente di queste azioni legali? No, non ne sapevo niente. (Tenevo le mani unite in grembo. Espressi sorpresa, e un moderato interesse. Non espressi gioia). E poi cos'è successo? chiesi. Il direttore della Clinica Bella Vista era assente, e il personale era rimasto confuso. L'avevano lasciata andare, affidandola alla custodia dell'uomo. Avevano ritenuto che la famiglia avrebbe desiderato evitare della pubblicità scomoda. (L'avvocato aveva minacciato qualcosa del genere). Be', feci, credo che abbiano fatto la cosa giusta. Sì, disse Ricahrd, non c'è dubbio; ma Laura era compos mentis? Per il suo bene, per la sua sicurezza, avremmo almeno dovuto stabilire questo. Sebbene apparentemente fosse sembrata più calma, il personale della clinica aveva i suoi dubbi. Chissà in quale pericolo poteva mettere se stessa o gli altri se le fosse stato permesso di andarsene in giro liberamente. Per caso non sapevo dov'era? No. Non avevo avuto sue notizie? No. Non avrei esitato a informarlo, in quell'eventualità? Non avrei esitato. Queste furono le mie precise parole. Era una frase senza un oggetto, e perciò a rigor di termini non era una bugia. Lasciai passare un ragionevole lasso di tempo, quindi andai in treno a
Port Ticonderoga per interpellare Reenie. Inventai una telefonata: Reenie non stava bene, spiegai a Richard, e voleva rivedermi prima che succedesse qualcosa. Diedi l'impressione che fosse in punto di morte. Le avrebbe fatto piacere avere una foto di Aimee, dissi; avrebbe voluto fare due chiacchiere sui vecchi tempi. Era il minimo che potessi fare. Dopotutto, ci aveva praticamente cresciute. Mi aveva cresciuto, corressi, per sviare l'attenzione di Richard dal pensiero di Laura. Mi accordai con Reenie per vederci al Betty's Luncheonette. (Aveva il telefono ormai, non se la passava tanto male). Sarebbe stata la cosa migliore, disse. Lavorava ancora là, part-time, ma potevamo incontrarci alla fine del suo orario. Il locale aveva dei nuovi proprietari, disse; ai vecchi non sarebbe piaciuto che si fosse seduta là fuori come un cliente pagante, anche se pagava, ma i nuovi avevano capito di avere bisogno di tutti i clienti paganti che fossero riusciti a trovare. Il Betty's Luncheonette era piuttosto in declino. Il tendone a strisce era sparito, gli scuri séparé erano rovinati e di cattivo gusto. L'odore non era più di vaniglia fresca, ma di grasso rancido. Ero vestita troppo bene, mi resi conto, non avrei dovuto indossare le mie volpi bianche. Che senso aveva mettersi in mostra, date le circostanze? Non mi piacque l'aspetto di Reenie: era troppo gonfia, troppo gialla, con il respiro un po' troppo pesante. Forse non stava davvero bene: mi chiesi se fosse il caso di domandarglielo. «Che bellezza scaricare il peso dai piedi» disse, mentre sprofondava nel séparé davanti a me. Myra - quanti anni avevi, Myra? Dovevi avere tre o quattro anni, ho perso il conto - Myra era con lei. Aveva le guance rosse per l'eccitazione, gli occhi rotondi e leggermente sporgenti, come se la stessero gentilmente strangolando. «Le ho detto tutto di te» disse Reenie in tono affettuoso. «Di voi due». Myra non era troppo interessata a me, devo dire, ma era incuriosita dalle volpi intorno al mio collo. Ai bambini di quell'età di solito piacciono gli animali pelosi, anche se morti. «Hai visto Laura» dissi, «o hai parlato con lei?» «Un bel tacer non fu mai scritto» disse Reenie, guardandosi intorno, come se là perfino i muri potessero avere le orecchie. Non vedevo il bisogno di tutte quelle precauzioni. «Suppongo che sia stata tu a organizzare la storia dell'avvocato?» dissi. Reenie sembrava al corrente. «Ho fatto quanto era necessario» disse. «Comunque, quell'avvocato era il marito della cugina di secondo grado di
tua madre, in un certo senso una persona di famiglia. Così ha visto che era il caso di agire, una volta che ho saputo cosa stava succedendo, cioè». «Come hai saputo?» conservavo il cosa hai saputo per dopo. «Mi ha scritto» disse Reenie. «Ha detto di avere scritto anche a te, ma di non aver mai ricevuto risposta. Non le era permesso di spedire lettere in quanto tali, ma la cuoca l'ha aiutata. Poi Laura le ha mandato il denaro occorrente, più un piccolo extra». «Non ho avuto nessuna lettera» dissi. «È come aveva immaginato. Aveva immaginato che loro avrebbero fatto in modo che non ti arrivassero». Sapevo chi intendeva con loro. «Suppongo che sia venuta qui» dissi. «Dove altro sarebbe potuta andare?» chiese Reenie. «Povera creatura. Dopo tutto quello che aveva passato». «Cosa ha passato?» avevo una gran voglia di saperlo, e nello stesso tempo ne avevo paura. Laura poteva inventare, mi dissi. Laura poteva soffrire di allucinazioni. Non era da escludersi. Ma Reenie lo aveva escluso: non importa quale storia Laura le avesse raccontato, lei ci aveva creduto. Dubitavo che fosse la stessa storia che avevo sentito. Soprattutto dubitavo che ci avesse infilato un bambino, di qualsiasi tipo. «C'è la piccola, perciò non scenderò in particolari» disse. Fece un cenno del capo verso Myra, che stava trangugiando una fetta di un'orribile torta rosa e mi osservava come se volesse leccarmi. «Se ti dicessi tutto non dormiresti la notte. L'unica consolazione è che tu non vi hai avuto alcuna parte. Questo è quanto ha detto». «Ha detto così?» Ero sollevata nel sentirlo. Allora a Richard e a Winifred erano state assegnate le parti dei mostri, e io ero stata giustificata sulla base della mia debolezza morale, non c'è dubbio. Anche se ero sicura che Reenie non mi avesse completamente perdonato per essere stata così negligente da lasciare che tutto ciò accadesse. (Una volta che Laura saltò giù dal ponte, mi perdonò ancora meno. A suo parere dovevo averci avuto qualcosa a che fare. In seguito fu fredda nei miei confronti. Morì disapprovandomi). «Non avrebbe dovuto affatto essere messa in un posto come quello, una ragazza giovane come lei» disse Reenie. «A nessun costo. Uomini che se ne vanno in giro con i pantaloni slacciati, tutti i generi di sconcezze. Che vergogna!» «Mordono?» chiese Myra, allungando la mano verso le mie volpi. «No» risposi. «Non sono vere. Vedi, hanno gli occhi di vetro. Si mordo-
no solo le code». «Ha detto che se solo l'avessi saputo, non l'avresti mai lasciata là» disse Reenie. «Supponendo che l'avessi saputo. Qualunque cosa, ha detto, ma non sei senza cuore». Lanciò un'occhiataccia di traverso al bicchiere d'acqua. Aveva i suoi dubbi al riguardo. «Là dentro per lo più mangiavano patate» aggiunse. «In purè e bollite, ha detto. Lesinavano sul cibo, toglievano il pane di bocca ai poveri matti e agli svitati. Riempiendosi le loro tasche, suppongo». «Dov'è andata? È qui ora?» «Rimanga tra noi» rispose Reenie, «ha detto che sarebbe stato meglio per te non saperlo». «Sembrava - era...» Era visibilmente pazza, volevo chiedere. «Era esattamente come sempre. Né più né meno. Non sembrava svitata, se è questo che intendi» disse Reenie. «È più magra - ha bisogno di rimettere un po' di carne sulle ossa - e non parla tanto di Dio. Spero solo che Lui le stia accanto, tanto per cambiare». «Grazie, Reenie, per tutto quello che hai fatto» dissi. «Non devi ringraziarmi» fece Reenie in tono freddo. «Ho fatto soltanto quello che era giusto». Intendendo che io non l'avevo fatto. «Posso scriverle?» Stavo armeggiando alla ricerca del fazzoletto. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una criminale. «Ha detto che è meglio di no. Ma voleva che ti dicessi che ti ha lasciato un messaggio». «Un messaggio?» «Lo ha lasciato prima che la portassero in quel posto. Tu avresti saputo dove trovarlo, ha detto». «Quello è il tuo fazzoletto? Hai il raffreddore?» chiese Myra, notando con interesse che tiravo su con il naso. «Se fai troppe domande ti cadrà la lingua» disse Reenie. «Non è vero» disse Myra in tono compiaciuto. Cominciò a canterellare in maniera stonata e a darmi calci sulle ginocchia con le sue gambe grassocce, sotto il tavolo. Aveva un modo allegro di essere sicura di sé, a quanto pareva, e non si spaventava facilmente - qualità che in lei ho spesso trovato irritanti, ma per le quali alla fine le sono stata grata. (La cosa potrà suonarti nuova, Myra. Accettala come un complimento, finché ne hai l'occasione. Se ne fanno talmente pochi). «Ho pensato che magari ti avrebbe fatto piacere vedere una foto di Ai-
mee» dissi a Reenie. Avevo almeno quest'unica impresa di cui farmi bella, per riscattarmi ai suoi occhi. Reenie prese la foto. «Perbacco, è una cosina scura, vero?» disse. «Non si sa mai a chi assomiglierà un bambino». «Voglio vedere anch'io» disse Myra, afferrandola con le sue manacce sporche di zucchero. «Svelta allora, e poi andiamo. Siamo in ritardo per papà». «No» fece Myra. «Casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia» cantilenò Reenie, strofinando via la glassa rosa dal musetto di Myra con un tovagliolo di carta. «Voglio rimanere qui» protestò Myra, ma le venne infilato il cappotto, le fu calcato sulle orecchie il cappello fatto a maglia e fu trascinata di traverso fuori dal séparé. «Abbi cura di te» disse Reenie. Non mi baciò. Volevo gettarle le braccia al collo, e piangere, piangere. Volevo essere consolata. Volevo essere io ad andarmene con lei. «Casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia» disse un giorno Laura, quando aveva undici o dodici anni. «Non c'è nessun posto come la propria casa. Lo dice sempre Reenie. Io lo trovo stupido». «Che vuoi dire?» chiesi. «Guarda». Lo scrisse sotto forma di equazione. Nessun posto = casa. Perciò, casa = nessun posto. Perciò la casa non esiste. La casa è dov'è il tuo cuore, pensai allora, mentre cercavo di ricompormi al Betty's Luncheonette. Non avevo più cuore, era stato spezzato; o meglio, non spezzato, semplicemente non era più lì. Mi era stato scavato via per bene, come il tuorlo da un uovo sodo, lasciando il resto di me esangue, congelato e vuoto. Non ho cuore, pensai. Perciò non ho casa. Il messaggio Ieri ero troppo stanca per fare molto di più che starmene sdraiata sul divano. Secondo quella che sta diventando una mia abitudine, indubbio segno di trascuratezza, ho guardato un talk show diurno, del genere in cui si rivelano segreti. È di moda, adesso, rivelare segreti: le persone rivelano i propri segreti e anche quelli degli altri, rivelano tutti i segreti che hanno e
perfino quelli che non hanno. Lo fanno per senso di colpa e angoscia, e per loro piacere, ma soprattutto perché vogliono mettersi in mostra e gli altri vogliono guardarli mentre lo fanno. Non mi tiro indietro: mi gusto questi piccoli peccatucci sporchi, questi squallidi intrighi famigliari, questi traumi coltivati. Mi godo l'aspettativa con cui si scoprono gli altarini, come se si trattasse di stupefacenti regali di compleanno, e poi la sensazione della tensione che si allenta sulle facce degli spettatori: le lacrime indotte e la compassione striminzita e maligna, l'applauso imbeccato e doveroso. È tutto qui? devono pensare. Non dovrebbe essere meno normale, più sordida, più epica, più sinceramente lacerante, questa ferita nella tua carne? Dicci di più! Per favore, non potremmo girare la manovella e avviare il meccanismo del dolore? Mi chiedo cosa sia preferibile: attraversare tutta la vita gonfio dei tuoi segreti finché non scoppi sotto la loro pressione, o farteli succhiare fuori, ogni loro paragrafo, ogni frase, ogni parola, cosicché alla fine sei svuotato di tutto ciò che un tempo per te era prezioso come oro accumulato, che ti era vicino come la tua pelle - ogni cosa che per te era della massima importanza, ogni cosa che ti ha fatto diventare piccolo piccolo e desiderare di nasconderti, ogni cosa che apparteneva a te solo - e devi trascorrere il resto dei tuoi giorni come un sacco vuoto che sventola al vento, un sacco vuoto con sopra impressa una vivace etichetta fluorescente, in modo che tutti sappiano che genere di segreti racchiudevi un tempo? Io non propendo per una cosa né per l'altra, vada come vada. Le lingue sciolte affondano le navi, diceva un manifesto in tempo di guerra. Naturalmente le navi affonderanno comunque, prima o poi. Dopo essermi tolta quello sfizio, sono andata in cucina, dove ho mangiato metà di una banana che stava diventando nera e due cracker lievitati con bicarbonato di sodio. Mi sono chiesta se qualcosa - qualcosa da mangiare fosse caduto dietro il secchio dell'immondizia - c'era un odore forte -, ma un rapido controllo non ha rivelato nulla. Forse era il mio stesso odore. Non posso vincere l'idea che il mio corpo odori come cibo per gatti, qualunque avanzo di profumo mi sia spruzzata questa mattina - era Tosca, o Ma griffe, o forse Je reviens? Ho ancora qualche rimasuglio di questa roba in circolazione. Propongo le buste dell'immondizia verdi, Myra, quando avrai il tempo di comprarle. Richard mi regalava profumo quando gli sembrava che avessi bisogno di essere ammorbidita. Profumo, sciarpe di seta, piccole spille con gioielli a
forma di animali domestici, di uccelli in gabbia, di pesci rossi. I gusti di Winifred, non per lei ma per me. Sul treno che tornava da Port Ticonderoga e poi per alcune settimane successive meditai sul messaggio di Laura, quello che Reenie diceva che mi aveva lasciato. Allora doveva aver saputo che qualunque cosa avesse in mente di dire al dottore sconosciuto in ospedale avrebbe potuto avere delle conseguenze. Doveva aver saputo che era un rischio, e così aveva preso delle precauzioni. In qualche modo, in qualche posto, aveva lasciato qualche parola, qualche indizio per me, come un fazzoletto fatto cadere o una traccia di sassolini bianchi nel bosco. La immaginai che scriveva quel messaggio, nel modo in cui si metteva sempre a scrivere. Senza dubbio avrebbe usato una matita, una matita dall'estremità mangiucchiata. Mangiucchiava spesso le matite; da bambina la sua bocca profumava di cedro, e se si trattava di una matita colorata le sue labbra erano blu o verdi o viola. Scriveva lentamente; aveva una scrittura infantile, con le vocali rotonde e le o chiuse, e lunghi e tremolanti gambi nelle g e nelle y. I puntini sulle i e sulle j erano circolari, collocati troppo a destra, come se fossero palloncini neri fissati ai loro gambi da fili invisibili; i trattini trasversali delle t spuntavano soltanto da un lato. Sedevo accanto a lei col pensiero, per vedere la sua prossima mossa. Sarebbe arrivata alla fine del messaggio, poi l'avrebbe messo dentro una busta e l'avrebbe sigillata, e poi l'avrebbe nascosta, nel modo in cui aveva nascosto il suo mucchio di cianfrusaglie ad Avilion. Ma dove avrebbe potuto metterla? Non ad Avilion: non ci si era più avvicinata, non prima di essere portata via. No, doveva essere nella casa di Toronto. Da qualche parte dove nessun altro avrebbe guardato - né Richard, né Winifred, né nessuno dei Murgatroyd. Cercai in vari posti - in fondo ai cassetti, dietro agli armadi, nelle tasche dei miei cappotti invernali, nella mia riserva di borse, perfino nelle mie manopole invernali - ma senza trovare nulla. Poi mi ricordai di averla sorpresa nello studio del nonno una volta, quando aveva dieci o undici anni. Aveva la Bibbia di famiglia spalancata davanti a sé, un gran bestione rilegato in pelle, e ne stava tagliando delle parti con le vecchie forbici da cucito di nostra madre. «Laura, cosa stai facendo?» chiesi. «È la Bibbia!» «Sto tagliando le parti che non mi piacciono». Spiegai le pagine che aveva gettato nel cestino della carta straccia: stri-
sce delle Cronache, pagine e pagine del Levitico, il piccolo frammento di san Matteo in cui Gesù maledice l'albero di fico sterile. Allora ricordai che Laura si era indignata sull'albero di fico, quando frequentava la scuola domenicale. L'aveva mandata su tutte le furie il fatto che Gesù fosse stato così spietato verso un albero. Abbiamo tutti le nostre brutte giornate, aveva commentato Reenie, mentre montava velocemente gli albumi in una ciotola gialla. «Non dovresti farlo» dissi. «È solo carta» replicò Laura, continuando a tagliare. «La carta non è importante. Sono le parole che ci sono scritte che lo sono». «Avrai grossi guai». «Non è vero» disse. «Nessuno l'apre mai. Guardano solo la prima pagina per le nascite, i matrimoni e le morti». E aveva ragione. Non fu mai scoperta. Quel ricordo fu ciò che mi spinse a tirare fuori il mio album di nozze, dove erano conservate le foto di quell'evento. Certo il volume era di scarso interesse per Winifred, e neanche Richard era mai stato colto a sfogliarlo amorevolmente. Laura doveva saperlo, doveva sapere che sarebbe stato un posto sicuro. Ma cosa - deve aver pensato - mi avrebbe mai spinto a guardarci? Se avessi cercato Laura, lo avrei fatto. Lo sapeva. C'erano un sacco di sue foto là dentro, attaccate alle pagine marroni con triangolini neri ai lati; foto di lei con la fronte aggrottata e lo sguardo fisso sui piedi, con indosso la sua tenuta da damigella. Trovai il messaggio, anche se non era a parole. Laura era venuta in città in occasione del mio matrimonio portandosi il materiale per i ritocchi, i tubetti di colore che aveva sgraffignato nei locali del giornale di Elwood Murray a Port Ticonderoga. Doveva averli conservati per tutto quel tempo. Per una persona che sosteneva un tale disprezzo per il mondo materiale, non era affatto brava a gettare via le cose. Aveva modificato solo due delle fotografie. La prima era una foto di gruppo del ricevimento di nozze. In essa le damigelle e i testimoni dello sposo erano stati ricoperti di uno spesso strato di indaco - completamente eliminati. Io ero stata lasciata, e anche Richard, e anche Laura, e Winifred, che era stata una delle damigelle al seguito della sposa. Winifred era stata colorata di un verde intenso, come Richard. A me era stata data una mano di blu acqua. Quanto a Laura, era di un giallo brillante, non solo il vestito, ma anche il viso e le mani. Cosa voleva dire, quella radiosità? Perché di
radiosità si trattava, come se Laura risplendesse da dentro, come una lampada di vetro o una ragazza fatta di fosforo. Non guardava diritto, ma di traverso, come se la sua attenzione non fosse affatto concentrata sulla foto. La seconda era la foto ufficiale degli sposi, scattata davanti alla chiesa. Il viso di Richard era stato dipinto di grigio, un grigio talmente scuro che i tratti erano stati quasi cancellati. Le mani erano rosse, come le fiamme che scaturivano dai suoi contorni e in qualche modo dall'interno della testa, quasi fosse il cranio stesso a bruciare. Il mio abito da sposa, i guanti, il velo, i fiori - di questi fronzoli Laura non si era data pena. Però si era occupata del mio viso - lo aveva decolorato al punto che gli occhi, il naso e la bocca sembravano coperti di nebbia, come una finestra in una fredda giornata di pioggia. Lo sfondo e perfino i gradini della chiesa sotto i nostri piedi erano stati interamente colorati di nero, lasciando le nostre due figure a galleggiare a mezz'aria nella più scura e tenebrosa delle notti. XII The Globe and Mail, 7 ottobre 1939 GRIFFEN PLAUDE IL PATTO DI MONACO SPECIALE PER THE GLOBE AND MAIL In un discorso vigoroso e incisivo intitolato «Preoccupiamoci dei nostri affari», pronunciato mercoledì alla riunione dell'Empire Club a Toronto, il signor Richard E. Griffen, Presidente e Capo del Consiglio di Amministrazione delle Griffen-Chase-Royal Consolidated Industries Ltd., ha lodato i notevoli sforzi del Primo Ministro britannico signor Neville Chamberlain, che la scorsa settimana hanno condotto al Patto di Monaco. È significativo, ha detto il signor Griffen, che tutti i partiti della Camera dei Comuni britannica abbiano accolto con gioia la notizia, e lui si augurava che tutti i partiti del Canada facessero altrettanto, dal momento che il patto avrebbe messo fine alla Depressione e introdotto una nuova «età dell'oro» di pace e prosperità. Dimostrava inoltre il valore dell'arte di governo e della diplomazia, come anche del pensiero costruttivo e del buon vecchio senso degli affari pragmatico. «Se tutti daranno un poco» ha detto, «allora tutti avranno molto
da guadagnare». Rispondendo alle domande sulla situazione della Cecoslovacchia sotto il Patto, ha affermato che a suo parere ai cittadini di quel paese sono state concesse sufficienti garanzie. Una Germania forte e sana, ha dichiarato, è nell'interesse dell'Occidente e in particolare dell'attività economica, e servirebbe a «tenere il bolscevismo sotto controllo e lontano da Bay Street». Rimane ora da auspicarsi un trattato commerciale bilaterale, a cui - gli era stato assicurato - si stava lavorando. Invece che alle minacce belliche bisognerebbe ora pensare a fornire merci al consumatore, creando lavoro e prosperità dove più ce n'è bisogno - «nel cortile dietro casa». Ai sette anni di carestia, ha affermato, dovrebbero ora seguire i sette anni di abbondanza, e ci aspettano prospettive dorate per tutti gli anni Quaranta. Si dice che il signor Griffen stia incontrando i principali membri del Partito Conservatore e considerando con interesse il ruolo di timoniere. Il suo discorso è stato accolto da calorosi applausi. Mayfair, giugno 1939 STILE REALE ALLA FESTA DEL ROYAL GARDEN DI CYNTHIA FERVIS In occasione del compleanno di Sua Maestà i cinquemila ragguardevoli ospiti delle Loro Eccellenze Lord e Lady Tweedsmuir si sono disposti ammaliati lungo i viali del giardino della Residenza del Governatore a Ottawa, in attesa del grazioso passaggio delle Loro Maestà. Alle quattro e mezzo sono fuoriusciti dalla Residenza del Governatore presso la Galleria Cinese. Il Re era in tight; la Regina aveva scelto il beige, con una soffice pelliccia, perle e un largo cappello leggermente inclinato all'insù, il viso delicatamente accaldato, i cordiali occhi blu sorridenti. Sono rimasti tutti affascinati dalle sue incantevoli maniere. Dietro le Loro Maestà camminavano il Governatore Generale e Lady Tweedsmuir, il primo un ospite gentile e affabile, la seconda
posata e bella. Il suo completo tutto bianco, arricchito da pellicce di volpe dell'Artico Canadese, era messo in risalto da una chiazza turchese sul cappello. Sono stati presentati alle Loro Maestà il Colonnello e signora F. Phelan, di Montreal; lei indossava un abito di seta stampata su cui sbocciavano piccoli fiori vivaci e un elegante cappello con una larga tesa chiara di cellophane. Lo stesso onore è stato riservato al Brigadier Generale e signora W.H.L. Elkins e alla signorina Joan Elkins, nonché al signor e signora Gladstone Murray. Il signor e la signora Richard Griffen erano tra i prescelti; lei portava un mantello di volpe argentata, le pelli montate su chiffon nero a raggiera, sopra un vestito color lilla. La signora Douglas Watts indossava un abito di chiffon verde pallido con un giacchino di velluto marrone, la signora F. Reid era elegante e deliziosa in un vestito di organza e pizzo valenciennes. Non una sola allusione al tè è stata fatta finché il Re e la Regina non hanno salutato con un cenno, le macchine fotografiche hanno scattato e azionato i flash e tutte le voci hanno intonato God save the King. Poi l'attenzione è stata monopolizzata dalle torte di compleanno... enormi torte bianche con glassa candida. La torta servita al Re all'interno della residenza era ornata non solo da rose, trifoglio d'Irlanda e cardi selvatici, ma anche da stormi di colombe di zucchero in miniatura con bandierine bianche nel becco, giusti simboli di pace e speranza. L'assassino cieco: La Stanza delle Bevande È metà pomeriggio, il tempo è nuvoloso e umido, tutto è appiccicoso: i suoi guanti di cotone bianchi sono macchiati già solo per avere toccato la ringhiera. La pesantezza del mondo, un peso solido; il suo cuore spinge contro di esso come se spingesse contro una pietra. L'aria afosa le fa resistenza. Nulla si muove. Ma il treno arriva, e lei aspetta al cancello come le si richiede, e come una promessa mantenuta lui lo varca. La vede, le va incontro, si toccano rapidamente, poi si stringono le mani come se fossero lontani parenti. Lo bacia brevemente sulla guancia, perché sono in un luogo pubblico e non si sa mai, e poi si avviano su per la rampa in pendenza che conduce alla stazione di marmo. Si sente a disagio con lui, nervosa; ha avuto a malapena il
tempo di guardarlo. Sicuramente è più magro. Che altro? È stato complicatissimo tornare. Non avevo molti soldi. Ho dovuto chiedere passaggi per tutto il viaggio. Avrei potuto mandarti del denaro, dice lei. Lo so. Ma non avevo indirizzo. Lascia la sua sacca al deposito bagagli, si porta dietro solo la valigetta. Prenderà la borsa più tardi, dice, ma adesso non vuole essere impedito nei movimenti. La gente va e viene attorno a loro, passi e voci; stanno là irresoluti; non sanno dove andare. Avrebbe dovuto pensarci lei, avrebbe dovuto organizzare qualcosa, perché naturalmente lui non ha una stanza, non ancora. Almeno ha portato una bottiglia di scotch, riposta nella borsa. Questo se lo è ricordata. Devono andare da qualche parte, così vanno in un albergo, uno economico che lui si ricorda. È la prima volta che lo fanno ed è un rischio, ma appena vede l'albergo è sicura che nessuno là si aspetterebbe che siano altro che non sposati; o, se sposati, non tra di loro. Lei ha indossato il suo impermeabile estivo di due stagioni prima, si è messa una sciarpa sulla testa. La sciarpa è di seta, ma è la peggiore che abbia rimediato. Forse penseranno che lui la paghi. Spera di sì. In quel modo non la noteranno. Sul tratto di marciapiede là fuori ci sono vetri rotti, vomito, qualcosa che sembra sangue che si sta seccando. Non calpestarlo, le dice. Al piano terra c'è un bar, sebbene sia chiamato Stanza delle Bevande. Solo Uomini, Signore e Accompagnatori. Fuori c'è un'insegna al neon rossa con le lettere verticali e una freccia rossa che scende giù e si curva in modo che la punta indichi la porta. Due delle lettere sono rotte, perciò si legge Stanza delle Be nde. Piccole lampadine simili a luci natalizie lampeggiano a intermittenza, correndo lungo l'insegna come formiche che scendano lungo una grondaia. Perfino a quest'ora ci sono uomini che bighellonano là intorno, aspettando che il locale apra. Mentre li superano la prende per il gomito, le fa un po' fretta. Dietro di loro uno degli uomini fa il verso di un gatto maschio in amore. L'albergo ha una porta separata. Le mattonelle a mosaico bianche e nere dell'entrata circondano quello che un tempo era forse un leone rosso, ma sembra che sia stato rosicchiato da tarme mangiatrici di pietra, e così adesso ha più l'aria di un polipo mutilato. Il pavimento di linoleum giallo ocra non è stato lavato da un pezzo; chiazze di sporco vi sbocciano come fiori grigi schiacciati.
Lui firma il registro, paga; nel frattempo lei sta lì, sperando di sembrare annoiata, mantenendo la faccia immobile, gli occhi al di sopra del tetro impiegato al banco, fissi sull'orologio. È semplice, lapidario, senza pretese di grazia, come un orologio delle ferrovie: pratico. Questo è il tempo, dice, ha solo questa dimensione, non ce ne sono altre. Ora ha le chiavi. Secondo piano. C'è un piccolo ascensore che sembra una bara, ma lei non ne sopporta l'idea, sa di cosa saprà, di calze sporche e denti in rovina, e non sopporta di stare lì dentro faccia a faccia con lui, così vicina e in quell'odore. Salgono su per le scale. Un tappeto, un tempo blu scuro e rosso. Un sentiero cosparso di fiori, ormai logoro fino alle radici. Mi dispiace, dice lui. Poteva andare meglio. Si ha quello che si paga, dice lei; ma è la cosa sbagliata da dire, lui può credere che stia commentando la sua mancanza di denaro. Però è una buona copertura, aggiunge, cercando di rimediare. Lui non risponde. Sta parlando troppo, sente la propria voce, e ciò che sta dicendo non è affatto accattivante. È diversa da come se la ricorda, è molto cambiata? Nel corridoio c'è una carta da parati ormai senza colore. Le porte sono di legno scuro, piene di buchi, incise e graffiate. Lui trova la camera, la chiave gira. È una chiave antiquata dal cannello lungo, come quella di una vecchia cassaforte. La stanza è peggio di qualunque altra stanza ammobiliata in cui sono stati prima: quelle avevano almeno una superficiale pretesa di pulizia. Un letto matrimoniale con sopra un copriletto scivoloso, finto raso imbottito, di uno squallido rosa giallastro come la pianta di un piede. Una sedia, con un sedile da cui fuoriesce l'imbottitura che sembra riempita di polvere. Un portacenere di vetro marrone sbreccato. Fumo di sigaretta, birra versata, e sotto un altro odore fastidioso, come di biancheria intima non lavata da un pezzo. Sulla porta c'è un sopraffinestra, vetro stampato verniciato di bianco. Si sfila i guanti, li lascia cadere sulla sedia insieme all'impermeabile e alla sciarpa, tira fuori la bottiglia dalla borsa. Nessun bicchiere in vista, dovranno bere dalla bottiglia. Apriamo la finestra? chiede. Potremmo far entrare un po' di aria fresca. Lui ci va, solleva il pannello scorrevole. Un forte vento irrompe nella stanza. Fuori, un tram passa sferragliando. Lui si gira, sempre alla finestra, si piega all'indietro, le mani dietro di lui sul davanzale. Con la luce alle spalle, lei non può vederne che il contorno. Potrebbe essere chiunque. Bene, dice lui. Eccoci di nuovo. Sembra stanco morto. Le viene in mente che potrebbe avere solo voglia di dormire in quella stanza.
Va verso di lui, gli fa scivolare le braccia intorno alla vita. Ho trovato la storia, dice. Quale storia? Gli Uomini Lucertola di Xenor. L'ho cercata dappertutto, avresti dovuto vedermi frugare nelle edicole, devono aver pensato che fossi pazza. L'ho cercata una vita. Oh, quella, dice lui. Hai letto quella robaccia? Me n'ero dimenticato. Non si mostrerà scoraggiata. Non mostrerà di avere tanto bisogno di lui. Non dirà che quello era un indizio che dimostrava la sua esistenza; una prova, per quanto assurda. Certo che l'ho letta. Ho continuato ad aspettare l'episodio successivo. Non l'ho mai scritto, dice. Troppo occupato a farmi sparare, da tutte e due le parti. Il nostro gruppo era preso nel mezzo. Dovevo scappare dai buoni. Che confusione. In ritardo, le sue braccia la cingono. Sa di latte in polvere e malto. Le appoggia la testa sulla spalla, la carta vetrata della sua guancia contro il lato del suo collo. È lì con lei al sicuro, almeno per il momento. Dio, ho bisogno di bere, dice. Non dormire, fa lei. Non dormire ancora. Vieni a letto. Lui dorme per tre ore. Il sole si sposta, la luce si affievolisce. Lei sa che dovrebbe andare, ma non può sopportare l'idea di farlo, né quella di svegliarlo. Che scusa addurrà al suo ritorno? Si inventerà una vecchia signora ruzzolata dalle scale, una vecchia signora che aveva bisogno di essere soccorsa; inventerà un taxi, una scappata all'ospedale. Come avrebbe potuto lasciarla a cavarsela da sola, povera vecchia? Stesa sul marciapiede senza un solo amico al mondo. Dirà che lo sa, avrebbe dovuto telefonare, ma nelle vicinanze non c'era un telefono, e la vecchia signora soffriva talmente. Si corazza contro la predica che le verrà propinata sul fatto che dovrebbe pensare agli affari propri; contro le scrollate di testa, perché cosa si può fare con lei? Quando imparerà a non strafare? Al piano di sotto l'orologio ticchetta via i minuti. Ci sono voci nel corridoio, il rumore di qualcuno che si affretta, un rapido picchiettare di scarpe. È tutto un giro di scopate. Giace sveglia accanto a lui, ascoltandolo dormire, chiedendosi dove sia andato. E anche quanto debba dirgli - e se debba dirgli tutto quello che è successo. Se le chiederà di andarsene con lui, allora dovrà dirglielo. O forse sarebbe meglio di no. O non ancora. Quando si sveglia vuole ancora da bere, e una sigaretta.
Suppongo che non dovremmo farlo, dice lei. Fumare a letto. Prenderemo fuoco. Bruceremo. Lui non dice niente. Com'è andata? chiede lei. Ho letto i giornali, ma non è la stessa cosa. No, dice lui. Non lo è. Ero così preoccupata che potessi rimanere ucciso. È quasi successo, dice lui. La cosa buffa è che era un inferno, ma mi ci ero abituato, e ora non riesco ad abituarmi a questo. Hai messo su un po' di peso. Oh, sono troppo grassa? No. Va bene. Qualcosa a cui aggrapparsi. È buio pesto adesso. Da sotto la finestra, dove la Stanza delle Bevande si vuota sulla strada, giungono frammenti di una canzone stonata, grida, risate; poi il suono di vetro che si frantuma. Qualcuno ha fracassato una bottiglia. Una donna urla. Festeggiano qualcosa. Cosa festeggiano? La guerra. Ma non c'è la guerra. È tutto finito. Festeggiano la prossima, dice lui. È in arrivo. Tutti la negano quassù nel paese dei sogni, ma giù al piano terra puoi fiutarla che arriva. Con la Spagna a pezzi per essere stata oggetto di tiro al bersaglio, cominceranno molto presto a fare sul serio. È come se l'aria risuonasse di tuoni, e ne sono eccitati. Ecco perché tutte queste bottiglie fracassate. Non vogliono perdere tempo. Oh, non è sicuramente così, dice lei. Non ce ne può essere un'altra. Hanno fatto patti e tutto. Pace nei nostri giorni, dice lui sprezzante. Fottute stronzate. Quello in cui sperano è che lo Zio Joe e Hitler si distruggano a vicenda, e in più li liberino degli ebrei, mentre loro se ne stanno seduti sui loro culi a far soldi. Sei cinico come sempre. E tu sei altrettanto ingenua. Non proprio, dice lei. Non discutiamo. Non saremo noi a decidere le cose. Ma questo è più tipico di lui, più simile a com'era, perciò si sente un po' meglio. No, fa lui. Hai ragione. Non saremo noi a decidere. Siamo pesci piccoli. Ma tu te ne andrai comunque, dice lei. Se ricomincia. Che tu sia un pesce piccolo o meno.
La guarda. Cos'altro posso fare? Non sa perché lei stia piangendo. Lei cerca di trattenersi. Vorrei che fossi stato ferito, dice. Allora dovresti rimanere. Sai che bella consolazione, dice lui. Vieni qui. Quando se ne va, quasi non ci vede. Cammina da sola per un po', per calmarsi, ma è buio e ci sono troppi uomini sul marciapiede, perciò prende un taxi. Seduta sul sedile di dietro, si ritocca la bocca, si incipria il viso. Quando si fermano, fruga nella borsa, paga il taxi, sale i gradini di pietra, attraversa l'entrata ad arco e chiude la spessa porta di quercia. Mentalmente sta facendo le prove: Scusa il ritardo, ma non crederai a cosa mi è successo. Ho avuto proprio una piccola avventura. L'assassino cieco: Le tendine gialle Come si è propagata la guerra? Come ha ripreso forza? Di cosa era fatta? Di quali segreti, bugie, tradimenti? Di quali amori e odi? Di quali somme di denaro, di quali metalli? La speranza getta una cortina fumogena. Il fumo ti va negli occhi, e così nessuno è preparato, ma all'improvviso eccola qui, come un falò sfuggito al nostro controllo - come un assassinio, solo moltiplicato. Un fiume in piena. La guerra si svolge in bianco e nero. Per quelli che stanno a guardare, cioè. Per quelli che vi sono davvero coinvolti ci sono molti colori, colori eccessivi, troppo vivaci, troppo liquidi e incandescenti, troppo rosso e arancione, ma per gli altri la guerra è come un cinegiornale - granuloso, macchiato, con scoppi di rumori intermittenti e grandi masse di gente dalla pelle grigia che si precipita o arranca o cade giù, il tutto in un altro luogo. Lei va a vedere i cinegiornali nei cinema. Legge i giornali. Sa di essere alla mercé degli eventi, e sa che gli eventi non hanno pietà. Ha deciso. È determinata adesso, sacrificherà tutto e tutti. Nulla e nessuno la ostacolerà. Ecco cosa farà. Ha programmato tutto. Se ne andrà di casa un giorno, come se fosse un giorno qualsiasi. Avrà del denaro, denaro di qualche genere. Questa parte non è ben chiara, ma di sicuro potrà rimediare qualcosa. Cosa fa l'altra gente? Va al banco dei pegni, e questo è quello che farà an-
che lei. Si procurerà il denaro impegnando oggetti: un orologio d'oro, un cucchiaio d'argento, una pelliccia. A più riprese. Li impegnerà a poco a poco, e la loro mancanza non verrà notata. Non sarà una gran cifra, ma dovrà farsela bastare. Affitterà una stanza, una stanza economica ma non troppo squallida - niente che una mano di vernice non possa ravvivare. Scriverà una lettera dicendo che non tornerà. Loro manderanno emissari, ambasciatori, poi avvocati, minacceranno, criminalizzeranno, lei avrà paura tutto il tempo ma terrà duro. Brucerà tutti i ponti tranne quello che porta a lui, anche se il ponte che porta da lui è così tenue. Tornerò, ha detto, ma come può esserne sicuro? Non si può assicurare una cosa del genere. Vivrà di mele e cracker, di tazze di tè e bicchieri di latte. Di scatole di fagioli e manzo in scatola. Anche di uova fritte, quando sarà possibile, e fette di toast, che mangerà al caffè all'angolo, dove mangiano anche gli strilloni e gli ubriachi fin dal mattino. Anche i reduci ci mangeranno, sempre più numerosi col passare dei mesi: uomini senza mani, braccia, gambe, orecchie, occhi. Desidererà parlare con loro, ma non lo farà perché qualsiasi interesse da parte sua sarebbe sicuramente frainteso. Come sempre il suo corpo avrebbe stimolato un linguaggio sfacciato. Perciò starà solo a sentire. Nel caffè si parlerà della fine della guerra, a detta di tutti imminente. Sarà solo questione di tempo, diranno, prima che ogni cosa venga riassorbita e i ragazzi tornino a casa. Gli uomini che lo diranno saranno estranei l'uno all'altro, ma si scambieranno comunque simili commenti, perché la prospettiva della vittoria li renderà loquaci. Ci sarà una sensazione differente nell'aria, in parte ottimismo, in parte paura. Da un giorno all'altro usciranno dal tunnel, ma chi può dire cosa troveranno là fuori? Il suo appartamento sarà sopra una drogheria, e avrà un cucinino e un piccolo bagno. Comprerà una pianta da appartamento - una begonia, oppure una felce. Si ricorderà di innaffiare la pianta, così non morirà. La donna che gestirà la drogheria avrà i capelli scuri e sarà grassoccia e materna, e parlerà della sua magrezza e del fatto che dovrebbe mangiare di più, e di come andrebbe curato un raffreddore di petto. Forse sarà greca; greca, o qualcosa del genere, con grosse braccia e la riga in mezzo, e una crocchia di dietro. Suo marito e suo figlio saranno oltremare; avrà le loro foto, in cornici di legno dipinto, ritoccate, accanto al registratore di cassa. Entrambe - lei e la donna - trascorreranno un'infinità di tempo ad ascoltare: dei passi, una telefonata, un colpo alla porta. È duro dormire in quelle
circostanze: discuteranno dei rimedi contro l'insonnia. Di tanto in tanto la donna le ficcherà in mano una mela, o un dolce di un verde carico dal contenitore di vetro sul banco. Simili doni la conforteranno più di quanto non potrebbe far pensare il loro basso prezzo. Come saprà dove andarla a cercare? Ora che si è bruciata i ponti alle spalle. Lo saprà, tuttavia. Lo scoprirà in qualche modo, perché la fine dei viaggi è ai convegni d'amore. Dovrebbe. Deve. Cucirà delle tendine per le finestre, tendine gialle, il colore dei canarini o dei tuorli d'uovo. Tendine allegre, come la luce del sole. Non importa che non sappia cucire, perché la donna di sotto l'aiuterà. Inamiderà le tendine e le appenderà. Si metterà in ginocchio con uno scopino e pulirà gli escrementi di topo e le mosche morte sotto il lavandino della cucina. Ridipingerà una serie di barattoli trovati in un negozio di cianfrusaglie, e ci stampiglierà sopra: Tè, Caffè, Zucchero, Farina. Nel farlo canticchierà fra sé e sé. Comprerà un asciugamano nuovo, un'intera serie di asciugamani nuovi. Anche lenzuola, sono importanti, e federe. Si spazzolerà molto i capelli. Queste sono le cose allegre che farà, mentre lo aspetterà. Comprerà una radio di seconda mano, piccola e dal suono metallico, al banco dei pegni; ascolterà le notizie per tenersi aggiornata con gli avvenimenti in corso. Avrà anche un telefono: un telefono sarà necessario a lungo andare, sebbene nessuno la chiamerà, non ancora. A volte lo prenderà solo per sentirlo ronzare. Oppure ci saranno delle voci che converseranno sulla linea comune. Per lo più si tratterà di donne che si scambieranno dettagli sui pasti, sul tempo, sulle offerte speciali e sui bambini, e sugli uomini lontani. Nulla di tutto ciò accadrà, naturalmente. Oppure accadrà, ma non in modo che possa essere notato. Accadrà in un'altra dimensione dello spazio. L'assassino cieco: Il telegramma Il telegramma viene consegnato nel solito modo, da un uomo in uniforme scura la cui faccia non preannuncia buone notizie. Quando li assumono per quel lavoro insegnano loro quell'espressione, remota ma dolorosa, come una vuota campana scura. L'immagine della bara chiusa. Il telegramma arriva in una busta gialla con un rettangolo trasparente, e dice la stessa cosa che dicono sempre i telegrammi come quello - parole remote, come le parole di un estraneo, un intruso che stia dall'altra parte di una lunga stanza vuota. Non ci sono molte parole, ma ogni parola è distin-
ta: informiamo, perdita, rammarico. Parole caute, neutre, che nascondono una domanda: Cosa ti aspettavi? Di cosa parla? Di chi parla? chiede lei. Oh. Ricordo. Lui. Quell'uomo. Ma perché lo hanno mandato a me? Non sono mica una parente prossima! Parente? dice uno di loro. Ne aveva qualcuno? Dovrebbe essere una spiritosaggine. Ride. Non ha niente a che fare con me. Appallottola il telegramma, che presume abbiano già letto di nascosto senza dirle niente. Si siede, in modo un po' troppo irruente. Scusate, dice. All'improvviso mi sento piuttosto strana. Ecco qui. Questo ti tirerà su. Bevilo tutto, è quello che ci vuole. Grazie. Non ha niente a che fare con me, ma è sempre uno choc. È come se la morte mi fosse passata accanto. Rabbrividisce. Calma. Sei un po' pallida. Non prenderla a livello personale. Forse è stato un errore. Forse hanno confuso gli indirizzi. Potrebbe essere. O forse è stata opera sua. Forse ha voluto fare uno scherzo. Era un tipo strano, se ben ricordo. Più strano di quanto pensassimo. Che cosa schifosa, sgradevole da fare! Se fosse vivo potresti citarlo per danni. Forse cercava di farti sentire in colpa. È quello che fanno, quelli della sua razza. Invidiosi, tutti quanti. Impediscono agli altri di godersi la vita. Non preoccupartene. Be', non è una cosa molto piacevole, comunque la si rigiri. Piacevole? Perché dovrebbe essere piacevole? Lui non è mai stato quello che si dice piacevole. Suppongo che potrei scrivere all'ufficiale superiore. Per chiedere una spiegazione. E perché dovrebbe saperne qualcosa? Non è dipeso certo da lui, è stato qualche funzionario in un ufficio. Usano soltanto quello che c'è scritto nei curriculum. Direbbe che è stato un errore, certo non il primo, da quello che sento. Comunque, non ha senso protestare. Servirebbe solo ad attirare l'attenzione, e comunque sia non scoprirai mai perché l'ha fatto. No, a meno che i morti non camminino. Hanno gli occhi scintillanti, tutti rivolti verso di lei, in guardia. Di cosa hanno paura? Cosa temono che faccia? Vorrei che non usaste quella parola, dice lei di cattivo umore. Quale parola? Oh. Vuole dire morti. Bisogna pure chiamare le cose con
il loro nome, essere terra terra. È assurdo non farlo. Ora, non fare... Non mi piace la terra, quando deve ricoprire i morti. Non essere morbosa. Dalle un fazzoletto. Non è il momento di tormentarla. Dovrebbe andare di sopra, fare un riposino. Poi sarà perfettamente in forma. Non lasciarti turbare da questa cosa. Non prendertela a cuore. Dimenticala. L'assassino cieco: La distruzione di Sakiel-Norn Di notte si sveglia di colpo con il cuore che le martella. Scivola giù dal letto e si avvia in silenzio verso la finestra, solleva un po' di più il pannello scorrevole e si sporge. C'è la luna, quasi piena, venata dalla ragnatela delle sue vecchie cicatrici, e sotto di essa l'opaco bagliore arancione gettato tutt'intorno dai lampioni stradali. Sotto c'è il marciapiede, chiazzato d'ombra e parzialmente nascosto dal castagno nel giardino, i rami aperti come una rete spessa e dura, i fiori bianco naftalina debolmente risplendenti. C'è un uomo, guarda in su. Lei vede le sopracciglia scure, i fori delle orbite oculari, il sorriso come un taglio bianco attraverso l'ovale del viso. Nella V sotto la sua gola c'è del pallore: una camicia. Solleva la mano, fa un cenno: vuole che lo raggiunga - che scivoli fuori della finestra, si cali giù lungo l'albero. Ma lei ha paura. Ha paura di cadere. Ora lui è lì fuori, sul davanzale, ora è nella stanza. I fiori del castagno divampano: alla loro luce bianca vede la sua faccia, la pelle grigiastra, in mezzatinta; è a due dimensioni, come una fotografia, ma macchiato. C'è odore di bacon che brucia. Non sta guardando lei, non esattamente; è come se lei fosse la propria ombra e lui stesse guardando quella. Il punto in cui sarebbero gli occhi se la sua ombra potesse vedere. Desidera toccarlo, ma esita: sa che se lo prendesse tra le braccia diventerebbe confuso, poi si dissolverebbe in brandelli di vestiti, in fumo, in molecole, in atomi. Le sue mani lo attraverserebbero. Ho detto che sarei tornato. Cosa ti è successo? Cosa c'è che non va? Non lo sai? Poi sono fuori, sul tetto, sembra, e guardano la città sotto di loro, ma non è nessuna città che lei abbia mai visto. È come se un'enorme bomba ci fos-
se caduta sopra, è tutta in fiamme, tutto brucia contemporaneamente - le case, le strade, i palazzi, le fontane e i templi - esplodendo, scoppiando come fuochi d'artificio. Non ci sono suoni. Brucia in silenzio, come in un quadro - bianco, giallo, rosso e arancione. Niente grida. Non c'è gente; la gente deve essere già morta. Lì accanto, lui vacilla in una luce tremula. Non ne rimarrà niente, dice. Un mucchio di sassi, poche parole antiquate. È sparita, ormai, cancellata. Nessuno la ricorderà. Ma era così bella! esclama lei. Ora le sembra un luogo che ha conosciuto; lo ha conosciuto molto bene, lo ha conosciuto come le proprie tasche. Nel cielo sono sorte tre lune. Zycron, pensa. Amato pianeta, terra del mio cuore. Dove una volta, tanto tempo fa, ero felice. Tutto è scomparso ormai, tutto distrutto. Non sopporta di guardare le fiamme. Era bella per alcuni, dice lui. È sempre quello il problema. Cosa è andato storto? Chi è stato? La vecchia donna. Cosa? L'histoire, cette vieille dame exaltée et menteuse. Risplende come latta. I suoi occhi sono fessure verticali. Non è come lo ricorda. Tutto ciò che lo rendeva unico è stato bruciato via. Non importa, dice lui. La ricostruiranno. Lo fanno sempre. Ora ha paura di lui. Sei così cambiato, dice. La situazione era critica. Abbiamo dovuto combattere il nemico con le sue stesse armi. Ma avete vinto. So che avete vinto! Nessuno ha vinto. Si è sbagliata? C'è stata sicuramente la notizia della vittoria. C'è stata una parata, dice lei. Ne ho sentito parlare. C'era la banda di ottoni. Guardami, dice lui. Ma non può. Non può metterlo a fuoco, non rimarrà fermo. È vago, vacilla come una fiamma di candela, ma priva di luce. Non può vedere i suoi occhi. È morto, naturalmente. Naturalmente è morto, non ha forse ricevuto il telegramma? Ma è solo un'invenzione, tutto questo. È solo un'altra dimensione dello spazio. Allora perché c'è una tale desolazione? Ora se ne sta andando, e lei non può gridargli dietro, la sua gola non produrrà alcun suono. Ormai è sparito. Sente una pressione soffocante attorno al cuore. No, no, no, no, dice una voce dentro la sua testa. Lacrime le scorrono lungo il viso.
È a quel punto che si sveglia davvero. XIII I guanti Oggi piove, la pioggia di aprile, sottile, leggera. Le scille blu stanno cominciando a fiorire, i narcisi piegano i loro musi a terra, i nontiscordardimé nati spontaneamente stanno venendo su adagio, preparandosi a impadronirsi della luce. Eccolo che viene - un altro anno di spintoni e gomitate vegetativi. Sembra che non se ne stanchino mai: le piante non hanno ricordi, ecco perché. Non possono rammentare quante volte hanno già fatto tutto questo prima d'ora. Devo ammettere che è una sorpresa trovarmi ancora qui, ancora a parlarti. Preferisco pensarci come a una chiacchierata, anche se naturalmente non lo è: io non sto dicendo nulla, tu non stai ascoltando nulla. L'unica cosa tra noi è questa linea nera: un filo gettato sulla pagina vuota, nell'aria vuota. Il ghiaccio invernale nella gola formata dal Louveteau è quasi scomparso, anche nei crepacci in ombra delle scogliere. L'acqua, nera e poi bianca, si precipita tra le voragini di calcare e sui massi, senza alcuno sforzo, come sempre. Un rumore violento, ma calmante; seducente, quasi. Si può capire come mai la gente sia attratta da certe cose. Dalle cascate, dai luoghi alti, dai deserti e dai laghi profondi - luoghi di non ritorno. Finora c'è stato un solo cadavere nel fiume, una giovane donna di Toronto imbottita di droga. Un'altra ragazza che andava di fretta. Un'altra perdita di tempo: il suo. Aveva dei parenti qui, una zia, uno zio. Sono già oggetto di grette occhiate di traverso, come se avessero qualche responsabilità; hanno già assunto l'aria arrabbiata e intrappolata di chi è consapevole della propria innocenza. Sono sicura che siano irreprensibili, ma sono vivi, e chiunque rimanga vivo viene biasimato. È la regola in cose come questa. È ingiusta, ma è così. Ieri mattina è passato Walter, per occuparsi della messa a punto di primavera. E così che chiama la routine delle riparazioni casalinghe che esegue, per mio conto, ogni anno. Si è portato dietro la sua cassetta degli attrezzi, la sua sega elettrica portatile, il suo cacciavite elettrico: nulla gli
piace di più che rombare come un motore. Ha parcheggiato tutti questi attrezzi nella veranda sul retro, poi si è messo a camminare pesantemente fuori della casa. Quando è tornato aveva un'espressione compiaciuta. «Al cancello del giardino manca una stecca» ha detto. «Posso inchiodarcene un'altra oggi, e dipingerla quando il tempo è asciutto». «Oh, non darti pena» ho detto, come faccio ogni anno. «Sta cadendo tutto a pezzi, ma resisterà finché campo». Walter lo ignora, come sempre. «Anche i gradini sul davanti» dice. «Hanno bisogno di una verniciata. Ce n'è uno che potrebbe venire via da un momento all'altro - ne va messo uno nuovo. Tu li trascuri troppo a lungo, l'acqua entra dentro e poi marciscono. Ma forse per la veranda ci vuole un mordente, è meglio per il legno. Potremmo mettere una striscia di un altro colore lungo i bordi dei gradini, così la gente ci vedrebbe meglio. Adesso come adesso potrebbe mettere un piede in fallo e farsi male». Usa il noi per cortesia, e con gente intende me. «Posso sistemare il nuovo gradino più tardi nel corso della giornata». «Ti bagnerai tutto» ho detto. «Il canale delle previsioni meteorologiche dice che continuerà a piovere». «No, si rasserenerà». Non ha nemmeno alzato lo sguardo al cielo. Walter è andato a comprare l'occorrente - alcune tavole, suppongo - e io ho trascorso quella pausa distesa sul divano del soggiorno, come l'eterea eroina di un romanzo che sia stata dimenticata tra le pagine del suo stesso libro e lasciata a ingiallire, ad ammuffire e a sgretolarsi come il libro stesso. Un'immagine morbosa, direbbe Myra. Cos'altro suggeriresti? replicherei. Il fatto è che il mio cuore ha fatto di nuovo i capricci. Fatto i capricci, una frase singolare. È quel che dice la gente per minimizzare la gravità delle proprie condizioni. Essa implica che la parte incriminata (cuore, stomaco, fegato, quale che sia) sia un bambino stizzoso, birichino, che può essere riportato all'ordine con una sberla o una parola severa. Nello stesso tempo implica che questi sintomi - questi tremiti e questi dolori, queste palpitazioni - siano solo rappresentazioni teatrali, e che l'organo in questione smetterà ben presto di saltellare qua e là e di dare spettacolo, e riprenderà la sua placida esistenza fuori della scena. Il dottore non è soddisfatto. Ha borbottato di test ed esami, e di andare a
Toronto, dove si nascondono gli specialisti, quei pochi che non sono scappati verso pascoli più verdi. Mi ha cambiato le pillole, ne ha aggiunta un'altra all'arsenale. Ha perfino suggerito la possibilità di un'operazione. Che conseguenze avrebbe, ho domandato, e quali risultati? Troppe delle une, è venuto fuori, e non abbastanza degli altri. Sospetta che ci vorrebbe niente meno che un'intera unità nuova - questo il suo termine, quasi stessimo parlando di una lavapiatti. Inoltre dovrei essere messa in una lista d'attesa, aspettando l'unità di un altro, una di cui non ci sia più bisogno. Per dirla in soldoni, il cuore di un altro, strappato a qualche ragazzo: non vorresti certo che te ne impiantino uno vecchio, traballante e avvizzito come quello che intendi gettare via. Quello che vuoi è qualcosa di fresco e succoso. Ma chissà dove le prendono, certe cose? Io credo dai bambini di strada in America Latina; o almeno così dice la voce più paranoide. Cuori rubati, cuori al mercato nero, strappati via dal bel mezzo di costole rotte, caldi e sanguinanti, offerti al falso dio. Cos'è il falso dio? Siamo noi. Noi e il nostro denaro. Questo è quello che direbbe Laura. Non toccare quei soldi, diceva Reenie. Non sai da dove vengono. Potrei vivere con me stessa, sapendo che porto il cuore di un bambino morto? Ma se non lo farò, cosa succederà? Per favore, questa angoscia sconnessa non va scambiata per stoicismo. Prendo le mie pillole, faccio le mie camminate a tappe, ma non c'è niente che possa fare per la paura. Dopo pranzo - un pezzo di formaggio duro, un bicchiere di latte dubbio, una carota vizza, dal momento che questa settimana Myra non ha assolto il compito che si era autoassegnata di rifornirmi il frigorifero - è tornato Walter. Ha misurato, segato, martellato, poi ha bussato alla porta sul retro per dire che gli dispiaceva per il rumore, ma adesso era tutto in perfetto ordine. «Ti ho fatto del caffè» ho detto. È un rituale di queste occasioni di aprile. L'avevo bruciato questa volta? Non importa. Era abituato a quello di Myra. «Volentieri». Si è tolto con cura gli stivali di gomma e li ha lasciati nella veranda sul retro - Myra lo ha ben ammaestrato, non gli è permesso di seminare quello che lei chiama il suo sporco su quelli che chiama i propri tappeti - poi ha camminato in punta di piedi nelle sue calze enormi sul pa-
vimento della cucina; che, grazie alle energiche strofinate e pulite della donna di Myra, ora è liscio e infido come un ghiacciaio. Prima aveva sopra una patina adesiva, un accumulo di polvere e sporcizia, come un sottile rivestimento di colla, ma ora non più. In realtà dovrei cospargerlo di sabbia, o finirò con lo scivolarci e farmi male. Guardare Walter che camminava in punta di piedi era in sé un gran divertimento - un elefante che cammina sulle uova. Ha raggiunto il tavolo della cucina, posandoci sopra i suoi guanti da lavoro gialli, che sono rimasti là come gigantesche zampe extra. «Guanti nuovi» ho detto. Erano talmente nuovi che brillavano quasi. Sopra non c'era neanche un graffio. «Me li ha regalati Myra. Un tizio tre strade più in là si è tagliato la punta delle dita con una sega da traforo e lei è andata su tutte le furie, preoccupata che farò lo stesso, o peggio. Ma quel tizio è un buono a nulla che si è trasferito qui da Toronto, con licenza parlando non gli si dovrebbe permettere di trastullarsi con le seghe, potrebbe anche tagliarsi la testa, non che sarebbe una gran perdita per il mondo. Le ho detto, bisogna avere qualche rotella in meno per fare una scemata come quella, e comunque io non ho una sega da traforo. Ma mi fa comunque portare dietro questi dannati cosi, fa Iu-uuhh, qui ci sono i tuoi guanti». «Potresti perderli» ho detto. «Ne comprerebbe degli altri» ha replicato con aria tetra. «Lasciali qui. Di' che li hai dimenticati e che passerai a prenderli più tardi. Poi non prenderli e basta». Vedevo me stessa durante le notti solitarie, che tenevo una delle coriacee mani di Walter messe a mia disposizione: sarebbe una specie di compagnia. Patetico. Forse dovrei comprare un gatto, o un cagnolino. Qualcosa di caldo, di poche pretese e peloso - una creatura amica, che mi aiuti a montare la guardia di notte. Abbiamo bisogno di una promiscuità mammifera: troppa solitudine fa male alla vista. Ma se prendessi qualcosa del genere è più che probabile che ci inciamperei sopra e mi romperei il collo. La bocca di Walter si è contratta, mostrando le punte dei denti superiori: era un sorriso. «I cervelloni la pensano allo stesso modo, eh?» ha fatto. «Allora, forse potresti gettare questi affari nell'immondizia, casualmente o di proposito». «Walter, sei un furfante» ho detto. Ha sorriso ancora, ha aggiunto cinque cucchiaini di zucchero al caffè, lo ha tracannato, poi ha poggiato tutte e due le mani sul tavolo e si è issato in aria, come un obelisco sollevato da
corde. In quel movimento ho previsto di colpo quale sarebbe stata la sua ultima azione legata a me: alzerà un'estremità della mia bara. Lo sa anche lui. Si tiene pronto. Non per niente è un tuttofare. Non si agiterà, non mi lascerà cadere, si assicurerà che proceda in piano, in posizione orizzontale, senza correre pericoli in quel mio ultimo, breve viaggio. «Oh, issa!» dirà. E io andrò. Lugubre. Lo so; e anche sdolcinato. Ma per favore, abbi pazienza con me. A chi sta per morire è concessa qualche libertà, come ai bambini al loro compleanno. I fuochi di casa Ieri sera ho guardato il notiziario alla televisione. Non dovrei farlo, fa male alla digestione. Da qualche parte è scoppiata un'altra guerra, una di quelle che chiamano minori, sebbene naturalmente non sia minore per chiunque abbia la ventura di trovarcisi coinvolto. Ne danno un'immagine generica, di queste guerre - uomini in tenuta mimetica con sciarpe sopra la bocca e il naso, nuvole di fumo, edifici sventrati, civili avviliti, piangenti. Infinite madri che portano infiniti bambini debilitati, con i visi macchiati di sangue; infiniti vecchi stravolti. Trascinano via dei giovani e li assassinano, per prevenire la vendetta, come fecero i greci a Troia. La scusa di Hitler per uccidere i bambini ebrei, se ben ricordo. Le guerre scoppiano e si esauriscono, ma poi c'è una fiammata da qualche altra parte. Le case spaccate in due come uova, i loro contenuti incendiati o derubati o calpestati per vendetta; i profughi mitragliati dagli aerei a bassa quota. In un milione di sotterranei la famiglia reale sconcertata affronta il plotone di esecuzione; le gemme cucite nei loro corsetti non li salveranno. Le bande di Erode pattugliano un migliaio di strade; subito accanto, Napoleone scappa con l'argenteria. Nella scia dell'occupazione, di qualsiasi occupazione, i fossati si riempiono di donne violentate. Per non far torto a nessuno, vengono violentati anche gli uomini. Violentati i bambini, violentati i cani e i gatti. È facile perdere il controllo. Ma non qui; non in questa gentile, noiosa acqua stagnante; non a Port Ticonderoga, nonostante un drogato o due nei parchi, nonostante l'occasionale scasso, nonostante l'occasionale corpo trovato a galleggiare nei gorghi. Noi ce ne stiamo acquattati quaggiù, a bere i nostri drink e a sgranocchiare i nostri spuntini prima di andare a letto, a scrutare il mondo come attraverso una finestra segreta, e quando ne abbiamo avuto abbastanza
la chiudiamo. Basta con il Ventesimo secolo, diciamo, mentre ci avviamo di sopra. Ma c'è un rombo lontano, come una mareggiata che si abbatte sulla riva. Ecco che viene il Ventunesimo secolo, incedendo maestosamente sopra le nostre teste come un'astronave piena di spietati alieni dagli occhi di lucertola o uno pterodattilo di metallo. Prima o poi ci fiuterà, strapperà via i tetti dalle nostre piccole fragili tane con i suoi artigli di ferro, e allora saremo nudi, tremanti, affamati, malati e disperati come tutti gli altri. Mi scuso per la digressione. Alla mia età si indulge in queste visioni apocalittiche. Viene da dire: La fine del mondo è alle porte. Si mente a se stessi - Sono contento che non sarò lì a vederla -, quando in realtà non c'è nulla che piacerebbe di più, a condizione di guardarla attraverso la finestra segreta, a condizione di non essere coinvolti. Ma perché darsi pena per la fine del mondo? Ogni giorno è la fine del mondo, per qualcuno. Il tempo continua a salire, e quando raggiunge il livello dei nostri occhi, si affoga. Cosa successe poi? Per un momento ho perso il filo, mi è difficile ricordare, ma poi lo faccio. Ci fu la guerra, naturalmente. Non eravamo preparati, ma al tempo stesso sapevamo di averla già vissuta. Era lo stesso freddo, il freddo che affluiva come una nebbia, il freddo nel quale ero venuta al mondo. Come allora, tutto si impregnava di un'ansia che dava i brividi le sedie, i tavoli, le strade e le luci della strada, il cielo, l'aria. Durante la notte intere porzioni di ciò che era stato riconosciuto come realtà semplicemente svanivano. Questo è ciò che accade quando c'è una guerra. Ma tu sei troppo giovane per ricordare di quale guerra parlo. Ogni guerra è la guerra per chiunque l'abbia vissuta. Quella a cui mi riferisco cominciò nel settembre del 1939, e andò avanti fino al... Be', è nei libri di storia. Puoi andare a controllare. Tenete accesi i fuochi delle case, diceva uno slogan della Grande guerra. Ogni volta che lo sentivo immaginavo un'orda di donne dai capelli fluenti e gli occhi scintillanti che avanzavano furtivamente in fila per una o per due alla luce della luna e davano fuoco alle proprie case. Nei mesi precedenti alla guerra il mio matrimonio con Richard stava già naufragando, sebbene a dire il vero avesse cominciato a naufragare fin dall'inizio. Avevo avuto un aborto e poi un altro. Da parte sua Richard aveva avuto un'amante e poi un'altra, o così sospettavo - cosa inevitabile (avrebbe
detto in seguito Winifred) considerato il mio delicato stato di salute e le necessità di Richard. Gli uomini avevano necessità, a quei tempi; erano numerose, queste necessità; vivevano sotterrate nei cantucci e nelle nicchie oscure dell'essere umano, e ogni tanto riprendevano forza e uscivano fuori, come un'invasione di topi. Erano talmente furbe e forti, come aspettarsi che un qualunque uomo normale avesse la meglio contro di loro? Questa era la dottrina secondo Winifred, e - a voler essere giusti - anche secondo un'infinità di altra gente. Queste amanti di Richard erano (presumevo) le sue segretarie - ragazze sempre molto giovani, sempre graziose, sempre perbene. Le assumeva fresche fresche da qualsiasi accademia le producesse. Per un po' mi trattavano con condiscendenza nervosa, al telefono, quando lo chiamavo in ufficio. Venivano anche spedite a comprare regali per me, a ordinare fiori. A lui piaceva che avessero ben chiare le precedenze: io ero la moglie ufficiale, e lui non aveva alcuna intenzione di divorziare da me. Gli uomini divorziati non diventavano le guide dei loro paesi, non a quei tempi. Questa situazione mi dava una certa dose di potere, ma era tale soltanto se non lo esercitavo. In effetti, era potere soltanto se fingevo di non sapere nulla. La minaccia che pendeva su di lui era che io potessi scoprire tutto; che potessi svelare un segreto che era già stato svelato, e liberare ogni genere di male. Me ne importava? Sì, in un certo senso. Ma meglio poco che niente, mi dicevo, e Richard era pur sempre qualcosa. Era il pane sulla tavola, per Aimee e anche per me. Sii superiore, diceva Reenie, e io ci provavo. Cercavo di essere talmente superiore da innalzarmi nel cielo, come un pallone sfuggito di mano, e qualche volta ci riuscivo. Occupavo il mio tempo, avevo imparato a farlo. Mi ero data seriamente al giardinaggio ormai, e stavo ottenendo qualche risultato. Non tutto moriva. Avevo progetti per un giardino perenne d'ombra. Richard salvava le apparenze. Io facevo lo stesso. Partecipavamo a cocktail party e a cene, arrivavamo e ce ne andavamo insieme, la sua mano sul mio gomito. Ci facevamo un dovere di bere un drink o due prima di cena, o anche tre; stavo diventando un po' troppo amante del gin, in questa o quella combinazione, ma non ero troppo vicina al limite finché potevo sentire le dita dei piedi e controllare la lingua. Stavamo ancora pattinando sulla superficie delle cose - sul ghiaccio sottile delle buone maniere, che nasconde lo scuro laghetto sottostante: una volta che fonde, sei annegato. Meglio un po' di vita che niente.
Non sono riuscita a rendere Richard in modo da dargli un qualsiasi spessore. Rimane un ritaglio di cartone. Lo so. Non so veramente descriverlo, non so metterlo precisamente a fuoco: è vago, come un viso in un giornale bagnato, gettato via. Perfino allora mi appariva più piccolo del normale, ma anche più grande del normale. Derivava dal fatto che aveva troppo denaro, troppo carisma nel mondo - si era tentati di aspettarsi da lui più di quanto non ci fosse, e così quello che in lui era normale sembrava insufficiente. Era spietato, ma non come un leone; più come una sorta di grosso roditore. Scavava tunnel sottoterra; uccideva le cose rosicchiandone le radici. Aveva il denaro necessario per fare grandi gesti, per atti di notevole generosità, ma non ne fece nessuno. Era diventato come la statua di se stesso: enorme, pubblica, imponente, vuota. Faceva tanto il grande ma in realtà era molto piccino. Per dirla in due parole. Allo scoppio della guerra Richard si trovò in grande imbarazzo. Aveva intrattenuto rapporti d'affari troppo intimi con i tedeschi, aveva dimostrato troppa ammirazione per loro nei suoi discorsi. Come molti dei suoi pari, aveva chiuso troppo gli occhi davanti alle loro brutali violazioni della democrazia; una democrazia che molti dei nostri leader avevano denigrato come irrealizzabile, ma che ora erano accaniti nel difendere. Inoltre Richard si trovò a perdere molto denaro, dal momento che non poteva più commerciare con chi in una notte era diventato il nemico. Dovette arrampicarsi sugli specchi, fare qualche salamelecco; non gli riusciva molto bene, ma lo fece. Riuscì a salvare la sua posizione e a recuperare di nuovo faticosamente la popolarità - be', non era il solo ad avere le mani sporche, perciò meglio che gli altri non gli puntassero contro le loro dita contaminate -, e in breve le sue fabbriche lavoravano senza posa, a pieno regime per lo sforzo bellico, e nessuno era più patriottico di lui. Dunque non tornò a suo svantaggio quando la Russia passò dalla parte degli alleati e Iosif Stalin divenne all'improvviso l'amabile zio di tutti noi. È vero, Richard aveva detto molto contro i comunisti, ma quello era stato tanto tempo prima. Ora fu tutto infilato sotto il tappeto, perché i nemici dei propri nemici non sono forse amici? Intanto io arrancavo attraverso i giorni, non come al solito - il solito non c'era più - ma come meglio potevo. Braccata, è la parola che userei adesso per descrivere me stessa allora. O istupidita, andrebbe altrettanto bene.
Non c'erano più feste in giardino di cui doversi occupare, niente più calze di seta se non al mercato nero. La carne era razionata, e.anche il burro, e lo zucchero: se volevi averne di più, più di quanto ne aveva l'altra gente, diventava importante stabilire certi contatti. Niente più viaggi transoceanici su transatlantici di lusso - la Queen Mary fu adibita al trasporto delle truppe. La radio smise di essere un'orchestra portatile e divenne un oracolo convulso; ogni sera l'accendevo per sentire le notizie, che inizialmente erano sempre cattive. La guerra continuava, un motore inarrestabile. Logorava la gente - quella tensione costante, tetra. Era come ascoltare qualcuno che digrignasse i denti nelle tenebre prima dell'alba, mentre si giace insonni notte dopo notte dopo notte. Tuttavia, c'erano anche dei vantaggi. Il signor Murgatroyd ci lasciò per unirsi all'esercito. Fu allora che imparai a guidare. Mi venne passata una macchina, mi pare che fosse la Bentley, e Richard la fece registrare a mio nome - in modo da ottenere più benzina. (La benzina era razionata, naturalmente, anche se non tanto per la gente come Richard). Questo mi dava anche più libertà, sebbene fosse una libertà che non mi serviva più granché. Presi un raffreddore che si trasformò in bronchite - tutti presero il raffreddore quell'inverno. Impiegai mesi a liberarmene. Trascorsi un sacco di tempo a letto, triste. Non facevo che tossire. Non andavo più a vedere i cinegiornali - i discorsi, le battaglie, i bombardamenti e la devastazione, le vittorie, perfino le occupazioni. Tempi esaltanti, o almeno così ci veniva detto, ma io avevo perso ogni interesse. La fine della guerra si approssimava. Sempre più. Poi successe. Ricordavo il silenzio dopo la fine della guerra precedente, seguito dal suono delle campane. Era stato a novembre, allora, con il ghiaccio nelle pozzanghere, mentre adesso era primavera. Ci furono parate. Ci furono proclami. Si batté la grancassa. Non fu così facile, tuttavia, la fine della guerra. La guerra è un gran fuoco; le sue ceneri vengono trasportate lontano, e si posano lentamente. Il Diana Sweets Oggi ho camminato fino al Jubilee Bridge, poi fino al negozio di ciambelle, dove ho mangiato quasi un terzo di una frittella alle arance. Un gran pezzo di farina e grasso, che si sono propagati attraverso le mie arterie co-
me limo. Poi sono andata in bagno. Nello scompartimento di mezzo c'era qualcuno, perciò ho aspettato, evitando lo specchio. L'età assottiglia la pelle; si vedono le vene, i tendini. Inoltre, appesantisce. È duro tornare come si era prima, quando si era senza pelle. Alla fine la porta si è aperta ed è uscita una ragazza - una ragazza piuttosto scura, in abiti squallidi, gli occhi cerchiati di fuliggine. Ha emesso un urletto, poi una risata. «Scusi» ha detto, «non l'avevo vista, mi ha fatto venire la pelle d'oca». Aveva l'accento straniero, ma era di qui: era della nazionalità dei giovani. Sono io la straniera adesso. Il messaggio più nuovo era scritto in pennarello dorato: Non puoi arrivare in Paradiso senza Gzsù. I glossatori si erano già messi all'opera: Gesù era stato cancellato con un segnacelo, e sopra era stato scritto Morte, in nero. E sotto, in verde: Il Paradiso è in un granello di polvere. Blake. E sotto ancora, in arancione: Il Paradiso è sul pianeta Xenor. Laura Chase. Un'altra citazione sbagliata. Ufficialmente la guerra finì la prima settimana di maggio - la guerra in Europa, cioè. Che è l'unica parte di essa che avrebbe interessato Laura. Una settimana più tardi telefonò. Scelse la mattina per telefonare, un'ora dopo colazione, quando doveva essere sicura che Richard non sarebbe stato in casa. Non riconobbi la voce, avevo rinunciato ad aspettarla. Sulle prime pensai che fosse la ragazza del parrucchiere. «Sono io» disse. «Dove sei?» chiesi cautamente. Devi ricordare che a quel tempo era un'entità sconosciuta per me - forse dal dubbio equilibrio psichico. «Qui» rispose. «In città». Non mi avrebbe detto dove era alloggiata, ma mi nominò un angolo di strada dove sarei potuta passare a prenderla, più tardi nel pomeriggio. In quel caso avremmo preso il tè, dissi. Il Diana Sweets, era lì che intendevo portarla. Era un posto sicuro, appartato, frequentato soprattutto da donne; mi conoscevano là. Dissi che sarei andata in macchina. «Oh, hai una macchina adesso?» «Più o meno». La descrissi. «Sembra piuttosto un cocchio» disse allegramente.
Laura era all'angolo tra King e Spadina Street, proprio dove aveva detto che sarebbe stata. Non era il più rispettabile dei quartieri, ma ciò non sembrava disturbarla. Suonai il clacson, lei fece un cenno e poi si avvicinò e montò. Mi sporsi e la baciai sulla guancia. Mi sentii subito una traditrice. «Non posso credere che tu sia davvero qui» le dissi. «Ma ci sono». Tutt'a un tratto fui sul punto di piangere; lei sembrava indifferente. Ma la sua guancia mi era parsa molto fredda. Fredda e sottile. «Spero solo che non ne abbia fatto parola a Richard» disse. «Sul fatto che sono qui. O a Winifred» aggiunse, «perché è la stessa cosa». «Non lo farei» dissi. Non replicò nulla. Siccome stavo guidando, non potevo guardarla direttamente. Per quello dovetti aspettare finché non ebbi parcheggiato la macchina, poi finché non camminammo fino al Diana Sweets, e poi finché non ci fummo sedute una di fronte all'altra. Alla fine riuscii a vederla tutta, apertamente. Era e non era la Laura che ricordavo. Era più vecchia, naturalmente - lo eravamo entrambe - ma c'era dell'altro. Era vestita con cura, quasi in modo austero, in uno chemisier di un blu spento con un corpino a pieghe e piccoli bottoni sul davanti; aveva i capelli tirati indietro in un severo chignon. Appariva contratta, crollata su se stessa, svuotata di colore, ma al tempo stesso traslucida, - come se piccoli guizzi di luce venissero spinti fuori della sua pelle dall'interno, come se spine di luce si proiettassero fuori da lei in una pungente foschia, come un cardo selvatico tenuto contro il sole. È un effetto difficile da descrivere. (Né dovresti tenerne gran conto: i miei occhi si stavano già guastando, anche se ancora non lo sapevo. La luce indistinta attorno a Laura poteva essere semplicemente un difetto visivo). Ordinammo. Volle caffè piuttosto che tè. Sarebbe stato un caffè cattivo, l'avvertii - non si poteva avere del buon caffè in un posto simile, per via della guerra. Ma disse: «Sono abituata al caffè cattivo». Cadde il silenzio. Non sapevo, quasi da dove cominciare. Non ero ancora pronta a chiederle come mai fosse tornata a Toronto. Dov'era stata tutto quel tempo? chiesi. Cosa aveva fatto? «All'inizio sono stata ad Avilion» rispose. «Ma era tutto chiuso!» Lo era stato per tutta la durata della guerra. Non ci eravamo tornati per anni. «Come hai fatto a entrare?» «Oh, lo sai» disse. «Siamo sempre riuscite a entrare, quando volevamo». Ricordai lo scivolo del carbone, la discutibile serratura di una delle porte della cantina. Ma era stata riparata molto tempo prima. «Hai rotto una fi-
nestra?» «Non è stato necessario. Reenie aveva tenuto una chiave» disse. «Ma non dirlo a nessuno». «La caldaia sarà stata spenta. Avrai avuto freddo» dissi. «Infatti» fece. «In compenso c'erano un sacco di topi». I nostri caffè arrivarono. Sapevano di briciole di pane abbrustolito e di cicoria tostata, cosa che non doveva stupire, visto che era quanto ci mettevano dentro. «Vuoi della torta o qualcosa del genere?» dissi. «La torta qui non è male». Era così magra, mi pareva che potesse prendere un dolce. «No, grazie». «Poi cos'hai fatto?» «Poi ho compiuto ventun anni, perciò ho avuto un po' di soldi, da parte di papà. E così sono andata a Halifax». «Halifax? Perché Halifax?» «È là che arrivavano le navi». Non approfondii la questione. C'era una ragione dietro, c'era sempre con Laura; era una ragione che ero riluttante a sentire. «Ma cosa facevi?» «Di tutto un po'» disse. «Mi rendevo utile». Il che è tutto quello che avrebbe detto sull'argomento. Supposi che si trattasse di una qualche mensa dei poveri, o roba del genere. Pulire i bagni in un ospedale, quel tipo di cose. «Non hai ricevuto le mie lettere? Dalla Clinica Bella Vista? Reenie ha detto di no». «No» risposi. «Non ho mai ricevuto nessuna lettera». «Suppongo che le abbiano sottratte. E non ti permettevano di chiamarmi, o di venirmi a trovare?» «Dicevano che ti avrebbe fatto male». Fece una risatina. «Avrebbe fatto male a te» disse. «Davvero, non saresti dovuta stare là, in quella casa. Non saresti dovuta stare con lui. È un vero demonio». «So che l'hai sempre pensata così, ma che altro potevo fare?» chiesi. «Non mi avrebbe mai concesso il divorzio. E io non ho un soldo». «Non è una buona scusa». «Forse non per te. Tu hai il conto vincolato che ti ha lasciato papà, ma io non ho niente del genere. E poi come avrei fatto con Aimee?» «Potevi portarla con te». «Più facile a dirsi che a farsi. Avrebbe potuto non voler venire. È piuttosto attaccata a Richard, a dire la verità, se proprio vuoi saperlo». «E come mai?» domandò.
«La coccola. Le dà tutto». «Ti ho scritto da Halifax» disse Laura, cambiando argomento. «Non ho mai avuto neanche quelle lettere». «Suppongo che Richard legga la tua posta» osservò. «Credo di sì» dissi. La conversazione stava prendendo una piega che non avevo previsto. Avevo immaginato che mi sarebbe toccato consolare Laura, compatirla, sentire una storia triste, e invece mi stava facendo la predica. Com'è facile scivolare di nuovo nei nostri vecchi ruoli. «Cosa ti ha detto di me?» chiese ora. «Del mettermi in quel posto?» Eccolo, dunque, chiaro e tondo. Eravamo al punto cruciale: o Laura era stata pazza, o Richard aveva mentito. Non potevo credere a tutte e due le cose. «Mi ha raccontato una storia» dissi evasivamente. «Che genere di storia? Non preoccuparti, non rimarrò turbata. Voglio solo saperlo». «Ha detto che eri - be', mentalmente disturbata». «Naturalmente. È quello che mi aspettavo. Cos'altro?» «Ha detto che pensavi di essere incinta, ma che era solo un'allucinazione». «Ero incinta» disse Laura. «È questo il punto - è per questo che mi hanno tolto di mezzo tanto in fretta. Lui e Winifred erano morti di paura. La vergogna, lo scandalo - puoi immaginare quali conseguenze hanno pensato che potesse avere sulle ghiotte opportunità di lui». «Sì, posso capirlo». Potevo capirlo anche allora - le telefonate in gran segreto da parte del dottore, il panico, l'affrettato conciliabolo tra loro due, il piano improvvisato. Poi l'altra versione dei fatti, quella falsa, architettata solo per me. Di norma ero abbastanza docile, ma probabilmente avevano capito che doveva pur esserci un limite. Devono avere avuto paura di cosa avrei potuto fare, una volta che l'avessero varcato. «Comunque, non ho avuto il bambino. Questa è una delle cose che hanno fatto, alla clinica». «Una delle cose?» mi sentivo piuttosto stupida. «Oltre ai loro discorsi sconclusionati, voglio dire, e alle pillole e alle macchine. Fanno aborti» disse. «Ti tramortiscono con l'etere, come il dentista. Poi ti tirano fuori il bambino. Poi ti dicono che ti sei inventata tutto. Poi, quando li accusi di questo, dicono che sei un pericolo per te e per gli altri». Era così calma, così credibile. «Laura» dissi, «sei sicura? Sul bambino, voglio dire. Sei sicura che ce ne fosse davvero uno?»
«Certo che sono sicura» disse. «Perché avrei dovuto inventarmi una cosa simile?» C'era ancora spazio per il dubbio, ma questa volta credetti a Laura. «Com'è successo?» sussurrai. «Chi era il padre?» Una cosa del genere richiedeva il sussurro. «Se non lo sai già, non credo che te lo dirò» rispose. Supposi che dovesse trattarsi di Alex Thomas. Alex era l'unico uomo verso cui Laura avesse dimostrato un qualsiasi interesse - oltre a nostro padre, cioè, e a Dio. Odiavo ammettere una simile possibilità, ma non c'era davvero altra scelta. Dovevano essersi incontrati al tempo in cui lei saltava le lezioni, quando frequentava la prima scuola a Toronto, e poi più tardi, quando non studiava più; quando si pensava che tirasse su il morale a decrepiti miserabili all'ospedale, con indosso il suo piccolo grembiule lezioso e ipocrita, e non faceva che mentire tutto il tempo. Non c'è dubbio che a lui il grembiule doveva avere procurato un brivido a buon mercato, era il tipo di tocco eccentrico che gli sarebbe andato a genio. Forse è per quello che era scappata - per incontrare Thomas. Quanti anni aveva allora - quindici, sedici? Come aveva potuto fare una cosa del genere, lui? «Ne eri innamorata?» chiesi. «Innamorata?» fece Laura. «Di chi?» «Di... lo sai» non riuscii a dirlo. «Oh, no» rispose Laura, «per niente. È stato orribile, ma dovevo farlo. Dovevo fare il sacrificio. Dovevo accollarmi il dolore e soffrirlo sulla mia pelle. È quello che avevo promesso a Dio. Sapevo che se lo avessi fatto, avrei salvato Alex». «Cosa vuoi dire, per l'amor del cielo?» La mia ritrovata fiducia nella sua sanità mentale si stava sgretolando: eravamo tornate nel regno della follia metafisica. «Salvare Alex da cosa?» «Dalla cattura. Gli avrebbero sparato. Callie Fitzsimmons sapeva dov'era, e lo ha detto a Richard». «Non posso crederci». «Callie era una spia» disse Laura. È quello che diceva Richard - diceva che Callie lo teneva informato. «Ricordi quando lei era in prigione, e Richard l'ha fatta uscire? È per questo che l'ha fatto. Glielo doveva». Trovai quella ricostruzione dei fatti assolutamente mozzafiato. Anche mostruosa, sebbene ci fosse una vaga, una vaghissima possibilità che fosse vera. Ma in questo caso Callie doveva avere mentito. Come avrebbe potuto sapere dov'era Alex? Si era spostato talmente spesso.
Però, avrebbe potuto tenersi in contatto con Callie. Avrebbe potuto farlo. Lei era una delle persone di cui avrebbe potuto fidarsi. «Io sono stata ai patti» disse Laura, «e ha funzionato. Dio non imbroglia. Ma poi Alex è partito per la guerra. Dopo che era tornato dalla Spagna, voglio dire. È quello che disse Callie - che disse a me». Non riuscivo a raccapezzarmi. Mi sentivo piuttosto confusa. «Laura» dissi, «perché sei venuta qui?» «Perché la guerra è finita» disse Laura in tono paziente, «e Alex tornerà presto. Se non fossi qui, non saprebbe dove trovarmi. Non saprebbe della Clinica Bella Vista, non saprebbe che sono andata a Halifax. L'unico mio indirizzo che avrà è il tuo. In qualche modo mi farà avere un messaggio». Aveva la fiducia corazzata e irritante del vero credente. Avevo voglia di scuoterla. Chiusi gli occhi per un momento. Vidi lo stagno di Avilion, la ninfa di pietra che vi immergeva le dita del piede: vidi il sole ardente che brillava sulle foglie verdi simili a gomma, il giorno del funerale di nostra madre. Mi faceva male lo stomaco per le troppe torte e il troppo zucchero. Laura era seduta sulla sporgenza rocciosa accanto a me, canticchiando tra sé e sé con aria compiaciuta, certa della convinzione che tutto fosse davvero a posto e che gli angeli fossero dalla sua parte, perché aveva stretto qualche strambo patto segreto con Dio. Le dita mi prudevano per il dispetto. Sapevo che cosa era successo subito dopo. L'avevo spinta giù. Ora arrivo alla parte che non cessa di ossessionarmi. A quel punto avrei dovuto mordermi la lingua, tenere la bocca chiusa. Per amore avrei dovuto mentire, o dire qualcos'altro: qualsiasi cosa tranne la verità. Mai interrompere un sonnambulo, diceva Reenie. Lo choc potrebbe ucciderlo. «Laura, detesto dovertelo dire» dissi, «ma qualunque cosa tu abbia fatto, non ha salvato Alex. Alex è morto. È rimasto ucciso in guerra, sei mesi fa. In Olanda». La luce attorno a lei si affievolì. Divenne molto pallida. Era come guardare della cera che si raffreddasse. «Come lo sai?» «Ho ricevuto il telegramma» dissi. «Lo hanno mandato a me. Mi aveva indicato come parente più prossima». A quel punto avrei potuto ancora cambiare rotta; avrei potuto dire: Ci deve essere stato un errore, doveva essere destinato a te. Ma non lo dissi. Invece dissi: «È stato molto indiscreto da parte sua. Non avrebbe dovuto farlo, pensando a Richard. Ma
non aveva famiglia, ed eravamo stati amanti, capisci - in segreto, per parecchio tempo -, e chi altri aveva?» Laura non disse niente. Si limitò a guardarmi. Mi guardava attraverso. Il Signore sa cosa vedeva. Una nave che stava affondando, una città in fiamme, un coltello nella schiena. Riconobbi lo sguardo, però: era lo sguardo che aveva il giorno in cui era quasi affogata nel Louveteau, proprio mentre stava andando sotto - terrorizzato, freddo, rapito. Scintillante come acciaio. Dopo un momento si alzò, si sporse sul tavolo e prese la mia borsa, rapidamente e quasi con delicatezza, come se contenesse qualcosa di fragile. Poi si girò e uscì dal ristorante. Non mi mossi per fermarla. Fui colta di sorpresa, e quando mi alzai anch'io dalla mia sedia Laura era sparita. Ci fu un po' di confusione riguardo al pagamento del conto - non avevo altro denaro oltre a quello che era nella borsa, che mia sorella - spiegai aveva preso per sbaglio. Promisi di rimborsarli il giorno seguente. Dopo avere sistemato la questione corsi quasi nel punto in cui avevo parcheggiato la macchina. Non c'era più. Anche le chiavi erano nella borsa. Non ero al corrente che Laura avesse imparato a guidare. Camminai per parecchi isolati, architettando delle storie. Non potevo dire a Richard e a Winifred cosa era successo davvero alla mia macchina: sarebbe stato usato come un'ennesima prova contro Laura. No, avrei detto che avevo avuto un guasto e che la macchina era stata rimorchiata in un garage, che mi avevano chiamato un taxi e io ci ero salita e soltanto quando ero arrivata a casa mi ero accorta di avere lasciato per sbaglio la borsa nella macchina. Nulla di cui preoccuparsi, avrei detto. Tutto sarebbe stato sistemato subito, in mattinata. Poi chiamai davvero un taxi. La signora Murgatroyd sarebbe stata in casa per farmi entrare e pagarmi il taxi. Richard non venne a casa per cena. Era in questo o quel circolo, a mangiare una cena orribile, a fare un discorso. Stava andando forte ormai, era in vista della meta. Questa meta - ora lo so - non era semplicemente la ricchezza o il potere. Ciò che voleva era rispetto - rispetto, nonostante fosse un nuovo ricco. Lo desiderava ardentemente, ne aveva sete; desiderava esercitare rispetto, maneggiarlo non solo come un martello ma anche come uno scettro. Tali desideri in sé non sono spregevoli. Quel particolare circolo era riservato agli uomini; altrimenti sarei stata là, seduta in disparte, per applaudire alla fine. In simili occasioni davo la serata libera alla bambinaia di Aimee e mi incaricavo io di metterla a letto.
Le facevo fare il bagno, le leggevo qualcosa, poi le rimboccavo le coperte. Quella particolare sera fu insolitamente lenta a addormentarsi: doveva aver capito che c'era qualcosa che mi preoccupava. Rimasi seduta accanto a lei tenendole la mano, accarezzandole la fronte e guardando fuori della finestra, finché non si assopì. Dov'era andata Laura, dove alloggiava, cosa aveva fatto della mia macchina? Come potevo raggiungerla, cosa potevo dire per aggiustare le cose? Una cetonia sbatacchiava contro la finestra, attirata dalla luce. Urtava sul vetro come un pollice cieco. Sembrava arrabbiata, e frustrata, e anche indifesa. La scarpata Oggi il mio cervello mi ha riservato un vuoto improvviso; un abbacinamento, come quelli causati dalla neve. Non era il nome di qualcuno a essere scomparso - almeno questo è normale -, ma una parola, che si era capovolta e svuotata di significato come un bicchiere di carta soffiato via dal vento. Questa parola è scarpata. Ma perché mi era venuta in mente? Scarpata, scarpata, ripetevo, forse anche ad alta voce, ma non mi appariva nessuna immagine. Era un oggetto, un'attività, uno stato mentale, un difetto fisico? Niente. Vertigine. Vacillavo sull'orlo, cercavo di prendere aria. Alla fine ho fatto ricorso al dizionario. Scarpata, fortificazione verticale, oppure ripida scogliera. All'inizio era il verbo, credevamo una volta. Dio sapeva che cosa inconsistente sarebbe stata la parola? Che cosa esile, che poteva essere cancellata per caso? Forse è questo che accadde a Laura - che la spinse letteralmente oltre il limite. Le parole su cui aveva contato, costruendoci sopra la sua casa di carte, credendole solide, erano volate via e le avevano mostrato i loro nuclei vuoti, quindi erano schizzate via da lei come altrettanta carta straccia. Dio. Fiducia. Sacrificio. Giustizia. Fede. Speranza. Amore. Senza contare sorella. Be', sì. Quella non poteva mancare. La mattina dopo il mio tè con Laura al Diana Sweets, rimasi incollata al telefono. Le ore passavano: nessuna notizia. Avevo un appuntamento per il pranzo con Winifred e due membri del comitato, all'Arcadian Court. Con
Winifred era sempre meglio attenersi ai piani concordati - altrimenti si incuriosiva - e così andai. Ci fu raccontata l'ultima impresa di Winifred, un cabaret a sostegno dei militari feriti. Ci sarebbero stati canti e balli, e alcune delle ragazze stavano mettendo su un numero di can-can, perciò dovevamo tutte rimboccarci le maniche e darci dentro, per vendere i biglietti. Anche Winifred avrebbe scalciato in aria in sottoveste arricciata e calze nere? Sperai sinceramente di no. A quel punto era fin troppo scheletrica. «Sei un po' pallida, Iris» disse Winifred, inclinando la testa da un lato. «Davvero?» feci in tono affabile. Ultimamente mi diceva spesso che non ero in forma. Quello che intendeva era che non stavo facendo tutto il possibile per appoggiare Richard, per sospingerlo lungo il cammino verso la gloria. «Sì, un po' appassita. Richard ti sta stancando? Ne ha di energia da bruciare, quell'uomo!» Era di ottimo umore. I suoi piani - i suoi piani per Richard - dovevano andare bene, nonostante la mia rilassatezza. Ma non potevo rivolgerle troppa attenzione; ero troppo in ansia per Laura. Cosa avrei fatto se non si fosse presentata al più presto? Non potevo certo dichiarare che la macchina mi era stata rubata: non volevo che fosse arrestata. Non lo avrebbe voluto neanche Richard. Non era nell'interesse di nessuno. Tornai a casa, dove la signora Murgatroyd mi riferì che Laura era passata durante la mia assenza. Non aveva neanche suonato il campanello - la signora Murgatroyd si era imbattuta per caso in lei nell'ingresso. Era stato un colpo, vedere la signorina Laura in carne e ossa dopo tutti quegli anni, come vedere un fantasma. No, non aveva lasciato indirizzo. Però aveva detto qualcosa. Dica a Iris che le parlerò più tardi. Qualcosa del genere. Aveva lasciato le chiavi di casa nel vassoio della posta; aveva detto di averle prese per sbaglio. Una strana cosa da prendere per sbaglio, osservò la signora Murgatroyd, il cui naso da carlino fiutava subito l'imbroglio. Non credeva più alla mia storia del garage. Fui sollevata: tutto poteva ancora aggiustarsi. Laura era ancora in città. Mi avrebbe parlato più tardi. E lo ha fatto, sebbene tenda a ripetersi, com'è abitudine dei morti. Dicono tutte le cose che ti hanno detto da vivi; ma raramente qualcosa di nuovo. Mi stavo togliendo i vestiti che avevo indossato a pranzo, quando arrivò
il poliziotto con la notizia dell'incidente. Laura aveva sfondato una barriera di segnalazione di pericolo, quindi era volata giù dal St. Clair Avenue Bridge nel profondo baratro sottostante. Era stato un incidente terribile, disse il poliziotto, scuotendo tristemente la testa. Era alla guida della mia macchina: erano risaliti a me dalla targa. Sulle prime - naturalmente - avevano pensato che dovessi essere io la donna carbonizzata trovata sul luogo del disastro. Quella sì sarebbe stata una notizia. Dopo che il poliziotto se ne fu andato provai a smettere di tremare. Avevo bisogno di mantenermi calma, avevo bisogno di riprendere il controllo. Sentirai che musica, diceva Reenie, ma che tipo di musica aveva in mente? Non era musica da ballo. Una stridula banda di ottoni, una parata di qualche genere, con la gente ai lati, a puntare il dito e a schernire. In fondo alla strada un boia, con energia da bruciare. Naturalmente ci sarebbe stato un controinterrogatorio da parte di Richard. La mia storia sulla macchina e il garage avrebbe continuato a reggere se avessi aggiunto che quel giorno avevo incontrato Laura per il tè, ma che non gliel'avevo detto, perché non volevo turbarlo inutilmente proprio prima di un discorso importante. (Tutti i suoi discorsi erano importanti, adesso; si stava avvicinando alla meta tanto desiderata). Laura era nella macchina quando si era rotta, avrei detto; mi aveva accompagnata al garage. Quando avevo dimenticato la borsa doveva averla presa, e poi sarebbe stato un gioco da ragazzi per lei la mattina dopo andare a riprendere la macchina, pagando con un assegno falsificato preso dal mio libretto. Avrei strappato un assegno, per rendere la cosa verosimile; se messa alle strette sul nome del garage, avrei detto di averlo dimenticato. Se messa ancora alle strette, avrei pianto. Come potevano pensare che mi ricordassi un dettaglio tanto insignificante, avrei detto, in un momento simile? Andai di sopra a cambiarmi. Per recarmi all'obitorio avrei avuto bisogno di un paio di guanti e di un cappello con la veletta. Potevano già esserci i giornalisti, i fotografi. Ci andrò in macchina, pensai, e poi mi ricordai che la mia auto era a pezzi. Avrei dovuto chiamare un taxi. Avrei dovuto anche avvertire Richard, in ufficio: appena fosse trapelata la notizia, le mosche carnarie lo avrebbero assediato. Era troppo importante perché potesse andare diversamente. Avrebbe desiderato avere una dichiarazione di cordoglio bella e pronta.
Feci la telefonata. Rispose l'ultima giovane segretaria di Richard. Le dissi che era una questione urgente, e che no, non poteva essere comunicata attraverso di lei. Avrei dovuto parlare con Richard in persona. Ci fu una pausa mentre Richard veniva rintracciato. «Cosa c'è?» chiese. Non gradiva mai che gli si telefonasse in ufficio. «C'è stato un terribile incidente» dissi. «Si tratta di Laura. La macchina che stava guidando è volata giù da un ponte». Non disse niente. «Era la mia macchina». Non disse niente. «Temo che sia morta» aggiunsi. «Mio Dio». Una pausa. «Dov'è stata tutto questo tempo? Quando è tornata? Cosa faceva nella tua macchina?» «Pensavo che avresti dovuto saperlo subito, prima che i giornali ci mettano le mani» dissi. «Sì» fece. «È stata una cosa saggia». «Ora devo andare all'obitorio». «L'obitorio?» disse. «L'obitorio cittadino? Per quale diavolo di motivo?» «È dove l'hanno portata». «Be', toglila di lì» disse. «Portala in qualche posto decente. In qualche posto più...» «Privato» dissi. «Sì, lo farò. Dovrei dirti che hanno ventilato l'ipotesi - la polizia, uno di loro è appena stato qui - ha ipotizzato che...» «Cosa? Cosa gli hai detto? Cosa ha ipotizzato?» Sembrava piuttosto allarmato. «Soltanto che potrebbe averlo fatto di proposito». «Assurdo» disse. «Deve essere stato un incidente. Spero che tu abbia detto così». «Naturalmente. Ma c'erano dei testimoni. Hanno visto...» «C'era un biglietto? Se c'era, brucialo». «Erano un due, un avvocato e qualcuno che lavora in una banca. Lei indossava guanti bianchi. L'hanno vista girare il volante». «Uno scherzo della luce» disse. «Oppure erano ubriachi. Chiamerò l'avvocato. Me ne occuperò io». Misi giù il telefono. Entrai nel mio spogliatoio: mi ci voleva qualcosa di nero, e un fazzoletto. Dovrò dirlo ad Aimee, pensai. Dirò che è stata colpa del ponte. Dirò che il ponte si è rotto. Aprii il cassetto dove tenevo le calze, e lì c'erano i quaderni - erano cinque, i quaderni di scuola da poco prezzo di quando studiavamo con il si-
gnor Erskine, legati insieme con spago da cucina. Il nome di Laura era scritto sulla copertina in alto, a matita - con la sua scrittura infantile. Sotto: Matematica. Laura odiava la matematica. Vecchi compiti di scuola, pensai. No: vecchi compiti a casa. Perché me li aveva lasciati? A quel punto avrei potuto fermarmi. Avrei potuto scegliere l'ignoranza, ma feci quello che avresti fatto tu - quello che hai già fatto, se hai letto fin qui. Scelsi piuttosto di sapere. La maggior parte di noi farà così. Sceglieremo di sapere non importa cosa, ci mutileremo nel farlo, infileremo le mani nelle fiamme, se necessario. La curiosità non è l'unico motivo: l'amore o il dolore o la disperazione o l'odio è ciò che ci spinge. Spieremo inesorabilmente i morti: apriremo le loro lettere, leggeremo i loro diari, esamineremo la loro spazzatura sperando in un indizio, una parola finale, una spiegazione da coloro che ci hanno abbandonato - che ci hanno passato la patata bollente, che spesso è molto meno bollente di quanto avevamo creduto. Ma che dire di quelli che seminano indizi perché noi ci inciampiamo? Perché si prendono questa briga? Egoismo? Pietà? Rivincita? Una semplice affermazione di esistenza, come scarabocchiare le proprie iniziali sul muro di un bagno? La combinazione di presenza e anonimato - confessione senza penitenza, verità senza conseguenze - ha il suo fascino. Ti toglie il sangue dalle mani, in un modo o nell'altro. Quelli che lasciano simili prove non possono lamentarsi se poi arrivano degli estranei e ficcano il naso in ogni singola cosa che un tempo non li avrebbe riguardati. E non solo estranei: amanti, amici, parenti. Siamo guardoni, tutti noi. Perché dovremmo presumere che qualcosa del passato sia a nostra disposizione, solo perché l'abbiamo trovata? Siamo tutti predatori di tombe, una volta che apriamo le serrature chiuse da altri. Ma solo chiuse. Le stanze e il loro contenuto sono rimasti intatti. Se chi li ha lasciati avesse voluto l'oblio, poteva sempre fare ricorso al fuoco. XIV La ciocca dorata Ora devo sbrigarmi. Posso vedere la fine baluginare lassù davanti a me, come se si trattasse di un motel sulla strada in una buia notte di pioggia.
Un motel del dopoguerra, da ultima spiaggia, dove non si fanno domande, nessuno dei nomi nel registro sul bancone d'ingresso è vero e si paga in anticipo. L'ufficio è ornato da vecchie luci di albero di Natale; dietro c'è un gruppo di casupole scure, i cuscini odorosi di muffa. Sul davanti, una pompa di benzina con la faccia di luna piena. Ma non c'è benzina, è finita molti decenni fa. Questa è la fine della corsa. Fine, un rifugio caldo e sicuro. Un posto per riposare. Ma non l'ho ancora raggiunto, e sono vecchia e stanca, e a piedi, e zoppico. Persa nei boschi, e senza sassolini bianchi a segnare la strada, e un terreno infido da percorrere. Lupi, vi invoco! Donne morte dai capelli azzurri e occhi come fosse piene di serpenti, vi chiamo a raccolta! Statemi accanto ora, mentre ci avviciniamo alla fine! Guidate le mie tremolanti dita artritiche, la mia penna a sfera nera da pochi soldi; tenete a galla il mio cuore che perde colpi solo per pochi giorni ancora, finché non metto le cose in ordine. Siate i miei compagni, i miei aiutanti e amici; ancora una volta, aggiungo, perché non siamo state buone conoscenze in passato? Ogni cosa ha il suo posto, diceva Reenie; o, quando era in vena di turpiloquio, alla signora Hillcoate: Non c'è fiore senza merda. Il signor Erskine mi ha insegnato qualche trucco utile. Un'invocazione ben formulata alle Furie può far comodo, in caso di bisogno. Quando si tratta essenzialmente di una questione di vendetta. All'inizio credevo di volere solo giustizia. Pensavo che il mio cuore fosse puro. Ci piace avere opinioni così buone dei motivi che ci spingono a fare qualcosa di doloroso a qualcun altro. Ma come osservava altresì il signor Erskine, Eros con il suo arco e le sue frecce non è l'unica divinità cieca. L'altra è la Giustizia. Goffe divinità cieche dalle armi affilate: la Giustizia tiene a fatica una spada che, in combinazione con la benda che le copre gli occhi, è un'ottima ricetta per tagliarsi. Vorrai naturalmente sapere cosa c'era nei quaderni di Laura. Sono come li ha lasciati, legati con il loro sporco spago marrone, li ho lasciati per te nel mio baule da nave, insieme a tutto il resto. Non ho cambiato nulla. Puoi vedere tu stessa. Le pagine che vi sono state strappate non sono state strappate da me. Cosa mi aspettavo, quel giorno del maggio 1945 pieno di terrore? Confessioni, rimproveri? Oppure un diario, che raccontasse in dettaglio gli incontri amorosi tra Laura e Alex Thomas? Senza dubbio, senza dubbio. Ero
preparata alla lacerazione. E la ricevetti, anche se non nel modo che avevo immaginato. Tagliai lo spago, aprii a ventaglio i quaderni. Erano cinque: Matematica, Geografia, Francese, Storia e Latino. I libri della conoscenza. Scrive come un angelo, si dice di Laura dietro una delle edizioni dell'Assassino cieco. Un'edizione americana, se ben ricordo, con volute dorate in copertina: tengono in gran conto gli angeli, da quelle parti. In realtà, gli angeli non scrivono molto. Essi registrano i peccati e i nomi dei dannati e dei salvati, oppure appaiono come mani liberate dal corpo e scarabocchiano ammonimenti sui muri. Oppure consegnano messaggi, pochi dei quali sono buone notizie: Dio sia con te non è una benedizione incondizionata. Tenendo presente tutto ciò, sì: Laura scriveva come un angelo. In altre parole, non molto. Ma l'essenziale. Latino, fu il quaderno che aprii per primo. La maggior parte delle pagine che ne rimanevano erano bianche; c'erano bordi frastagliati dove Laura doveva avere strappato i suoi vecchi compiti. Aveva lasciato soltanto un passo, una traduzione che aveva fatto - con il mio aiuto, nonché con l'aiuto della biblioteca di Avilion - dei versi finali del Libro IV dell'Eneide di Virgilio. Didone si era trafitta sulla pira, o meglio sull'altare ardente che aveva innalzato con tutti gli oggetti collegati al suo amore svanito, Enea, che se n'era andato per mare a compiere il proprio destino attraverso la guerra. Sebbene sanguinante come un maiale scannato, Didone era dura a morire. Non la finiva di contorcersi. Al signor Erskine, se ben ricordo, quel brano piaceva. Rammentai il giorno in cui l'aveva scritta. Gli ultimi raggi del sole entravano dalla finestra della mia stanza. Laura era stesa sul pavimento, agitava in aria i calzettoni sfilati a metà, e trascriveva laboriosamente nel quaderno gli scarabocchi frutto della nostra collaborazione. Odorava di sapone Ivory e di limatura di matita. Infine la potente Giunone si dolse delle sue lunghe sofferenze e del difficile distacco, e inviò Tride dall'Olimpo per liberare l'anima agonizzante dal corpo che ancora vi si teneva attaccato. Questo andava fatto perché Didone non stava morendo di morte naturale o procurata da altri ma, disperata, condotta a essa da un folle impulso. In ogni modo Proserpina non aveva ancora reciso la ciocca dorata dal suo capo, né l'aveva inviata nell'Oltretomba.
Dunque ora, tutta coperta di rugiada, le ali gialle come crochi, trascinandosi dietro mille colori dell'arcobaleno che scintillavano alla luce del sole, Iride volava giù, e librandosi sopra Didone disse: Come mi è stato detto di fare, prendo questa cosa sacra che appartiene al Dio della Morte; e ti libero del tuo corpo. Allora tutto il calore si estinse all'improvviso, e la sua vita svanì nell'aria. «Perché ha dovuto tagliare la ciocca di capelli?» chiese Laura. «Quella Iride?» Non ne avevo idea. «Era solo una cosa che andava fatta» dissi. «Una specie di offerta». Ero stata contenta di scoprire che avevo lo stesso nome di un personaggio di una storia, e che dunque non. mi era stato semplicemente dato il nome di un fiore, come avevo sempre pensato. Il motivo botanico, per le femmine, era stato dominante nella famiglia di mia madre. «Ha aiutato Didone a uscire dal suo corpo» disse Laura. «Non voleva più vivere. L'ha liberata della sua infelicità, dunque era la cosa giusta da fare. Non è vero?» «Credo di sì» dissi. Non ero troppo interessata ad argomenti etici così elevati. Accadevano strane cose, nelle poesie. Non aveva senso cercare di capirne qualcosa. Però mi chiesi se Didone fosse stata bionda; nel resto della storia me l'ero sempre figurata bruna. «Chi è il Dio della Morte? Perché vuole i suoi capelli?» «Basta con questi capelli» dissi. «Abbiamo fatto il latino. Ora finiamo il francese. Il signor Erskine ci ha dato troppi compiti, come sempre. Ora: Il ne faut pas toucher aux idoles: la dorure en reste aux mains». «Che ne diresti di: Non toccate i falsi dei, vi rimarrà la pittura dorata sulle mani?» «Non parla di pittura». «Ma è ciò che significa realmente». «Conosci il signor Erskine. Non gli importa cosa significa». «Odio il signor Erskine. Vorrei avere di nuovo Miss Violence». «Anch'io. Vorrei avere di nuovo la mamma». «Anch'io». Il signor Erskine non aveva dato un buon giudizio di quella traduzione di Laura. Era piena dei suoi fregacci a matita rossa. Come posso descrivere la pozza di dolore in cui stavo per cadere? Non
posso descriverla, perciò non ci proverò. Sfogliai gli altri quaderni. Quello di Storia era vuoto, tranne per la foto che Laura ci aveva incollato dentro - lei e Alex Thomas al picnic alla fabbrica di bottoni, ora entrambi colorati di giallo, con la mia mano mozzata tinta di blu che striscia verso di loro attraverso il prato. Geografia conteneva soltanto una breve descrizione di Port Ticonderoga che ci era stata assegnata dal signor Erskine. «Questa città di media grandezza è situata alla confluenza dei fiumi Louveteau e Jogues, ed è nota per le pietre e altre cose» era la prima frase di Laura. Da quello di francese era stato tolto tutto il francese. Invece, conteneva la lista di strane parole che Alex aveva dimenticato nella nostra soffitta, e che - ora scoprivo - Laura non aveva bruciato, dopo tutto. Anchoryne, berel, carchineal, diamite, ebonort... Una lingua straniera, è vero, ma una che avevo imparato a capire, meglio di quanto avessi mai capito il francese. Matematica riportava una lunga colonna di numeri, alcuni dei quali affiancati da parole. Mi ci volle qualche minuto per capire che genere di numeri fossero. Erano date. La prima data coincideva con il mio ritorno dall'Europa, l'ultima si riferiva a circa tre mesi prima della partenza di Laura per la Clinica Bella Vista. Le parole erano queste: Avilion, no. No. No. Sunnyside. No. Xanadu, no. No. Queen Mary, no no. New York, no. Avilion. Non subito. L'ondina, X. «Stordito». Di nuovo Toronto. X. X. X. X. X. O. C'era tutta la storia. Era tutto chiaro. Era sempre stato lì, proprio sotto i miei stessi occhi. Come avevo potuto essere così cieca? Non Alex Thomas, dunque. Assolutamente non Alex. Per Laura Alex apparteneva a un'altra dimensione dello spazio. La vittoria viene e va Dopo avere sfogliato i quaderni di Laura, li rimisi nel mio cassetto delle calze. Era tutto chiaro, ma nulla poteva essere provato. Questo era altrettanto chiaro.
Ma c'è sempre più di un modo di fare le cose, come diceva Reenie. Se non puoi andarci attraverso, giraci intorno. Aspettai fin dopo il funerale, poi aspettai un'altra settimana. Non volevo agire troppo precipitosamente. Meglio essere prudenti che doversi pentire poi, diceva sempre Reenie. Un assioma discutibile: molto spesso una cosa non esclude l'altra. Richard partì per Ottawa per un viaggio importante. Uomini in posizioni elevate avrebbero potuto fargli la fatidica proposta, accennò; o, se non adesso, presto. Dissi sia a lui che a Winifred che avrei colto quell'opportunità per andare a Port Ticonderoga con le ceneri di Laura nella loro scatola color argento. Dovevo deporre quelle ceneri, dissi, e occuparmi dell'iscrizione sul monumentale cubo di famiglia dei Chase. Tutto come si confaceva. «Non sentirti in colpa» disse Winifred, sperando che lo facessi - se mi fossi sentita in colpa, non sarei andata in giro a incolpare qualcun altro. «Meglio non pensare a certe cose». Ma ci pensiamo comunque. Non possiamo farne a meno. Dopo essermi congedata da Richard, diedi una serata libera alla servitù. Avrei tenuto la postazione, dissi. Lo avevo fatto spesso ultimamente - mi piaceva stare da sola in casa, soltanto con Aimee, quando dormiva - così perfino la signora Murgatroyd non avrebbe avuto sospetti. Quando la via fu libera agii in fretta. Avevo già fatto qualche preparativo, avevo impacchettato qualcosa di nascosto - la mia scatola dei gioielli, le mie fotografie, Piante perenni per il giardino roccioso - e ora pensai al resto. I miei abiti, anche se certo non tutti; alcune cose per Aimee, anche se certo non tutte neanche quelle. Misi quanto potevo nel baule da nave, lo stesso che una volta conteneva il mio corredo, e nella valigia assortita. Gli uomini della compagnia ferroviaria vennero a ritirare il bagaglio, come avevo combinato. Poi, il giorno dopo, mi fu facile andare alla Union Station in taxi con Aimee, entrambe con una sola borsa con l'occorrente per una notte, e chi s'è visto s'è visto. Lasciai una lettera per Richard. Dicevo che in considerazione di ciò che aveva fatto - che ora sapevo aveva fatto - non volevo più vederlo. Date le sue ambizioni politiche non avrei chiesto il divorzio, sebbene avessi ampie prove del suo comportamento abietto nei quaderni di Laura, che - mentivo - erano chiusi in una cassetta di sicurezza. Se gli fosse venuta qualche idea di mettere le sue sporche mani su Aimee, aggiungevo, avrebbe fatto bene ad abbandonarla, perché in quel caso avrei sollevato un grosso, un grossis-
simo scandalo, cosa che avrei fatto anche nel caso non avesse accontentato le mie richieste finanziarie. Queste non erano esose: tutto quello che volevo era il denaro sufficiente a comprare una casetta a Port Ticonderoga e ad assicurare il mantenimento di Aimee. Alle mie necessità avrei provveduto in altro modo. Firmai la lettera Cordialmente tua e, mentre leccavo l'aletta della busta, mi chiesi se avessi scritto correttamente abietto. Parecchi giorni prima di lasciare Toronto ero andata a salutare Callie Fitzsimmons. Aveva abbandonato la scultura, ora si dedicava alla pittura murale. La trovai in una compagnia di assicurazioni - nella sede centrale - dove era riuscita a procurarsi una commissione. Il contributo delle donne allo sforzo bellico, era il tema - superato, ora che la guerra era finita (e, sebbene nessuna di noi due lo sapesse ancora, ben presto ci avrebbero passato sopra una mano di una delicata e rassicurante sfumatura di taupe). Le avevano concesso tutta una parete. Tre operaie, in tute e sorrisi impavidi, che fabbricavano bombe; una ragazza alla guida di un'ambulanza; due contadine con la zappa e una cesta di pomodori; una donna in uniforme alle prese con una macchina da scrivere; nell'angolo in fondo, spinta da una parte, una madre in grembiule che sfornava una pagnotta, mentre due bambini alzavano su di lei uno sguardo di approvazione. Callie fu sorpresa nel vedermi. Non l'avevo avvisata della mia visita: non avevo alcun desiderio di essere evitata. Stava sorvegliando i pittori, con i capelli tenuti su da un foulard a colori vivaci, e indossava pantaloni cachi e scarpe da tennis e camminava a grandi passi con le mani in tasca e una sigaretta incollata al labbro inferiore. Aveva saputo della morte di Laura, ne aveva letto sui giornali - che ragazza incantevole, tanto strana da bambina, che peccato. Dopo questi preliminari, le spiegai cosa mi aveva detto Laura, e le chiesi se fosse vero. Callie era indignata. Usò la parola stronzate parecchie volte. È vero, Richard l'aveva aiutata quando era stata beccata dalla Squadra Rossa come sovversiva, ma aveva pensato che l'avesse fatto soltanto in nome dei vecchi tempi, in fondo lei aveva fatto parte della famiglia. Negò di avergli mai detto nulla, su Alex o su qualsiasi altro rosso o compagno di viaggio. Che stronzate! Questi erano i suoi amici! Quanto ad Alex, sì, all'inizio lo aveva aiutato, quando era nei pasticci, ma poi era sparito, dovendole a dire il vero anche del denaro, e poi aveva sentito dire che era in Spagna. Come avrebbe potuto spifferare dove si trovava, se non lo sapeva neanche lei? Niente di fatto. Forse su quell'argomento Richard aveva mentito a Laura,
come aveva mentito a me su molto altro. D'altra parte, cos'altro mi aspettavo che dicesse? Ad Aimee non piacque Port Ticonderoga. Voleva suo padre. Voleva ciò che le era familiare, come fanno i bambini. Rivoleva il suo spazio. Oh, non è per tutti così? Spiegai che dovevamo rimanere là per un po'. Non dovrei dire spiegai, perché non ci fu nessuna spiegazione. Cosa avrei potuto dire che avesse un minimo di senso, a una bambina di otto anni? Port Ticonderoga era diversa adesso, la guerra aveva operato pesanti interventi. Durante il conflitto parecchie delle fabbriche erano state riaperte donne in tuta avevano fabbricato spolette - ma ora stavano chiudendo di nuovo. Forse sarebbero state convertite alla produzione del tempo di pace, una volta stabilito cosa avrebbero voluto comprare esattamente i reduci per le case e le famiglie che ora si sarebbero senza dubbio fatti. Intanto i disoccupati erano molti, c'era attendismo. C'erano dei vuoti. Elwood Murray non dirigeva più il giornale: presto sarebbe stato un nuovo nome scintillante sul Monumento ai Caduti, dal momento che si era arruolato in marina e si era fatto accoppare. È interessante di quali degli uomini della città si diceva che erano stati uccisi e di quali si diceva che si erano fatti ammazzare, come se fosse una prova di goffaggine o perfino un atto deliberato, anche se piuttosto trascurabile - quasi un acquisto, come farsi tagliare i capelli. Comprare il biscotto, era il termine locale per questo, usato di regola dagli uomini. C'era da chiedersi chi avesse cotto il biscotto. Il marito di Reenie, Ron Hincks, non fu classificato tra questi occasionali compratori di morte. Si disse con grande solennità che era rimasto ucciso in Sicilia, insieme a un gruppo di altri ragazzi di Port Ticonderoga che si erano arruolati nel Royal Canadian Regiment. Reenie aveva la pensione, ma non molto altro, e affittava una stanza nella sua piccola casa; inoltre, lavorava ancora al Betty's Luncheonette, sebbene dicesse che la schiena la stava uccidendo. Non era la schiena che la stava uccidendo, come avrei scoperto presto. Erano i suoi reni, e finirono il lavoro sei mesi dopo il mio trasferimento. Se stai leggendo, Myra, mi piacerebbe che tu sapessi che duro colpo fu. Avevo contato sul fatto che lei fosse là - non c'era sempre stata? - e ora, tutt'a un tratto, non c'era. E poi ci fu sempre di più, perché di chi era la voce che sentivo quando
volevo una radiocronaca? Andai ad Avilion, naturalmente. Fu una visita difficile. Il terreno era in abbandono, i giardini coperti di vegetazione; la serra era in rovina, con i vetri rotti e le piante secche, ancora nei loro vasi. Be', ce n'era qualcuna così anche ai nostri tempi. Le sfingi di guardia erano ricoperte di varie scritte del tipo John ama Mary; una era stata rovesciata. Lo stagno della ninfa di pietra era intasato da piante ed erbacce secche. Quanto alla ninfa, era sempre là, anche se le mancava qualche dito. Il suo sorriso però era lo stesso: remoto, segreto, distaccato. Non dovetti entrare in casa con la forza: Reenie era ancora viva allora, e aveva sempre la chiave clandestina. La casa era in uno stato pietoso: polvere ed escrementi di topo ovunque, macchie sui parquet ora opachi, dove era colato qualcosa. Tristano e Isotta erano ancora lì, a sorvegliare la sala da pranzo vuota, sebbene Isotta avesse riportato un danno alla sua arpa, e una rondine o due avesse fatto il nido sopra la finestra di mezzo. Niente vandalismi all'interno, però: l'alito del nome dei Chase soffiava intorno alla casa, sebbene debolmente, e nell'aria doveva essersi mantenuta un'aura sempre più fievole di potere e denaro. Feci il giro di tutta la casa. L'odore di muffa era diffuso ovunque. Diedi un'occhiata alla biblioteca, dove la testa della Medusa dominava ancora sopra il caminetto. Anche la nonna Adelia era ancora al suo posto, sebbene avesse cominciato a dare segni di cedimento: il suo viso adesso aveva un'espressione di astuzia repressa ma gioiosa. Scommetto che avevi le tue brave avventure, dopo tutto, le dissi tra me e me. Scommetto che avevi una vita segreta. Scommetto che era grazie a essa che andavi avanti. Frugai tra i libri. Aprii i cassetti della scrivania. In uno c'era una scatola di campioni di bottoni dei tempi del nonno Benjamin: i dischetti di osso bianco che erano diventati d'oro nelle sue mani ed erano rimasti d'oro per tanti anni, ma che ora si erano di nuovo trasformati in osso. In soffitta trovai il nido che Laura doveva essersi fatta lassù, dopo aver lasciato la Clinica Bella Vista: le trapunte tirate fuori dai bauli, le coperte del suo letto di sotto - un indizio lampante della sua presenza, se qualcuno avesse ispezionato la casa in cerca di lei. C'era qualche buccia d'arancia secca, un torsolo di mela. Come sempre non aveva pensato a mettere via nulla. Nascosta nell'armadio di quercia c'era la busta di cianfrusaglie che aveva riposto qui, quell'estate dell'Ondina: la teiera d'argento, le tazze e i piattini di porcellana, i cucchiai con il monogramma. Lo schiaccianoci a
forma di alligatore, un gemello di madreperla spaiato, l'accendino rotto, l'oliera senza il contenitore per l'aceto. Sarei tornata in seguito, mi dissi, e avrei preso altre cose. Richard non si presentò di persona, il che era un segno (per me) della sua colpa. No, mandò Winifred. «Sei impazzita?» fu la sua salva iniziale. (Questo in un séparé del Betty's Luncheonette: non la volevo nella mia casa in affitto, e non la volevo in nessun posto vicino ad Aimee). «No» risposi, «e non lo era neppure Laura. O non tanto come voi pretendevate che fosse. So cosa ha fatto Richard». «Non so di cosa tu stia parlando» disse Winifred. Indossava una stola di visone composta di lucide code, e si stava liberando dai guanti. «Suppongo che quando mi sposò immaginasse di aver fatto un affare due al prezzo di una. Ci ha avute per una miseria». «Non essere ridicola» disse Winifred, sebbene apparisse scossa. «Le mani di Richard sono assolutamente pulite, qualunque cosa abbia detto Laura. È immacolato come la neve. Hai fatto un grave errore di giudizio. Vuole che ti dica che è pronto a passarci sopra - su questa tua aberrazione. Se torni, è pienamente disposto a perdonare e dimenticare». «Ma io no» ribattei. «Può anche essere immacolato, ma non come la neve. È tutta un'altra sostanza». «Tieni la voce bassa» sibilò. «La gente ci guarda». «Guarderebbe comunque» dissi, «con te in ghingheri come il cavallo di Lady Astor. Sai, quella sfumatura di verde non ti dona affatto, soprattutto alla tua età attuale. In realtà non ti ha mai donato. Ti dà un'aria biliosa». Questo colpì nel segno. Winifred stava trovando difficile andare avanti: non era abituata a questo mio nuovo aspetto velenoso. «Cosa vuoi, esattamente?» disse. «Non che Richard abbia fatto assolutamente nulla. Ma non vuole scandali». «Gliel'ho detto, esattamente» risposi. «Gliel'ho detto a chiare note. E ora vorrei l'assegno». «Vuole vedere Aimee». «Non esiste che io permetta una cosa del genere» dissi. «Ha una gran voglia di ragazze giovani. Tu lo sapevi, l'hai sempre saputo. Perfino a diciotto anni io mi avvicinavo al limite massimo. Avere Laura nella stessa casa era una tentazione troppo forte per lui, ora lo capisco. Non poteva tenere le mani lontane da lei. Ma non le metterà su Aimee». «Non essere disgustosa» disse Winifred. Ora era molto arrabbiata: sotto
il trucco si era coperta di macchie. «Aimee è sua figlia». Ero sul punto di dire: «No, non lo è», ma sapevo che sarebbe stato un errore tattico. Legalmente, era sua figlia; non avevo modo di provare il contrario, non avevano ancora inventato tutti quei geni e compagnia bella, non ancora. Se Richard avesse saputo la verità, sarebbe stato ancora più ansioso di strapparmi Aimee. L'avrebbe tenuta in ostaggio, e io avrei perso tutto il vantaggio guadagnato fino ad allora. Era un'insidiosa partita di scacchi. «Non si fermerebbe davanti a niente» dissi, «neanche davanti ad Aimee. Poi la spedirebbe in qualche fabbrica di aborti clandestini, come ha fatto con Laura». «Vedo che non ha senso continuare la discussione» disse Winifred, raccogliendo i guanti, la stola di visone e la borsa di rettile. Dopo la guerra, le cose cambiarono. E cambiarono il nostro aspetto. Gli smorzati grigi granulosi e le mezzetinte scomparvero. Furono sostituiti dalla piena luce accecante del mezzogiorno - sgargiante, primitiva, senza ombre. Rosa caldi, blu violenti, palloni da spiaggia rossi e bianchi, il verde fluorescente della plastica, il sole che ardeva come un proiettore. Intorno alle periferie delle città grandi e piccole i bulldozer si scatenarono e gli alberi vennero abbattuti; furono scavate grandi buche nel terreno, quasi vi fossero state fatte cadere delle bombe. Le strade erano tutte ghiaia e fango. Apparvero spiazzi di nuda terra in cui erano stati piantati sottili alberelli: erano popolari le betulle piangenti. C'era fin troppo cielo. C'era la carne, grandi pezzi e fette e tocchi ne scintillavano nelle vetrine dei macellai. C'erano arance e limoni luminosi come il sorgere del sole, e mucchi di zucchero e montagne di burro giallo. Tutti non facevano altro che mangiare. Si rimpinzavano di tutta la carne in technicolor e di tutto il cibo in technicolor che potevano procurarsi, come se non ci fosse un domani. Ma un domani c'era, non c'era altro che il domani. Era lo ieri a essere svanito. Ora avevo abbastanza denaro, da Richard e anche dal patrimonio di Laura. Avevo comprato la mia casetta. Aimee era ancora risentita con me per averla strappata alla sua vita precedente, notevolmente più ricca, ma sembrava essersi calmata, sebbene di tanto in tanto cogliessi una sua occhiata fredda: stava già decidendo che come madre ero deludente. D'altra parte Richard aveva raccolto i vantaggi della distanza, e negli occhi di Aimee
c'era molto più che una scintilla nei suoi confronti, adesso che non era più presente. Tuttavia, il flusso di regali da parte sua si era rallentato fino a diventare un gocciolio, perciò non le rimanevano molte scelte. Temo di averla giudicata più stoica di quanto non fosse. Intanto, Richard si stava preparando al bastone del comando, su cui stando ai giornali - aveva quasi messo le mani. È vero, io ero un impedimento, ma le voci di una separazione erano state stroncate. Si diceva che ero «in campagna», il che non era male, finché ero disposta a rimanerci. A mia insaputa, erano state lasciate trapelare altre voci: che ero mentalmente instabile; che Richard mi manteneva finanziariamente, nonostante la mia stravaganza; che Richard era un santo. Non c'è niente di male in una moglie matta, se si sa trattarla come si deve: ciò rende le spose dei potenti tanto più favorevoli alla causa di qualcuno. A Port Ticonderoga vivevo abbastanza tranquillamente. Ogni volta che uscivo, mi muovevo attraverso un mare di rispettosi bisbigli che si smorzavano quando arrivavo a portata di voce, per poi ricominciare. Mi veniva riconosciuto che, qualunque cosa fosse successa con Richard, ero io la parte offesa. Mi era capitata la pagliuzza corta, ma siccome non c'era nessuna giustizia e pochissima pietà, non si poteva fare nulla per me. Questo prima che apparisse il libro, naturalmente. Il tempo passava. Facevo giardinaggio, leggevo e così via. Avevo già avviato - in maniera modesta, cominciando con qualcuno dei gioielli a forma di animale che mi aveva regalato Richard - il commercio di oggetti di seconda mano che mi sarebbe stato molto utile nei decenni a venire. Era stata impiantata una parvenza di normalità. Ma le lacrime non versate possono far diventare rancidi. Lo stesso la memoria. Lo stesso mordersi la lingua. Stavano cominciando le mie brutte notti. Non riuscivo a dormire. Ufficialmente, Laura era stata messa in ombra. Ancora pochi anni e sarebbe stato come se non fosse mai esistita. Non avrei fatto voto di silenzio, mi dissi. Cosa volevo? Ben poco. Solo un ricordo di qualche tipo. Ma cos'è un ricordo, a ben guardare, se non una commemorazione di ferite sopportate? Sopportate, e detestate. Senza memoria, non può esserci vendetta. Per non dimenticare. Ricordatemi. A voi con deboli mani passiamo. Le grida dei fantasmi assetati. Nulla è più difficile che capire i morti, ho scoperto; ma nulla è più pericoloso che ignorarli.
Il mucchio di macerie Spedii il libro. A tempo debito, ricevetti una lettera di riscontro. Le risposi. Gli avvenimenti seguirono il loro corso. Arrivarono le copie per l'autore, prima della pubblicazione. Sul risvolto di copertina c'era una toccante nota biografica: Laura Chase ha scritto L'assassino cieco prima di compiere venticinque anni. Era il suo primo romanzo; sfortunatamente sarà anche l'ultimo, dal momento che è morta in un tragico incidente automobilistico nel 1945. Siamo fieri di presentare l'opera di questa giovane e dotata scrittrice nella sua prima, sorprendente fioritura. Sopra c'era la foto di Laura, una brutta riproduzione: la faceva sembrare coperta di escrementi di mosca. Ciò nonostante, era sempre qualcosa. Quando il libro uscì, sulle prime fu accolto dal silenzio. Dopotutto era un libro piuttosto piccolo, e non certo materia da best-seller: per quanto bene accolto negli ambienti letterari di New York e Londra, non fece molto scalpore quassù, non all'inizio. Poi i moralisti se ne impadronirono, coloro che battevano i pugni sul pulpito e le donnette del luogo entrarono in azione, e cominciò il chiasso. Una volta che le mosche carnarie ebbero stabilito il legame - Laura era la cognata morta di Richard Griffen - si buttarono tutti sulla storia come una valanga. A quel tempo Richard aveva la sua scorta di nemici politici. Le insinuazioni cominciarono a circolare. La storia che Laura si era suicidata, soffocata tanto efficacemente a suo tempo, venne di nuovo a galla. La gente parlava, non solo a Port Ticonderoga, ma anche nei circoli che contavano. Se l'aveva fatto, perché? Qualcuno fece una telefonata anonima - ma chi sarà mai stato? - ed entrò in scena la Clinica Bella Vista. La testimonianza di un vecchio impiegato (ben pagato, si disse, da uno dei giornali) portò a una minuziosa inchiesta sulle pratiche più squallide che vi venivano condotte, e in conseguenza di ciò si scavò nel cortile sul retro e tutta la baracca venne chiusa. Ne studiai le fotografie con interesse: prima di diventare una clinica era stata la residenza di un grande industriale del legname, e si diceva che nella sala da pranzo aveva alcune belle finestre con vetri colorati, sebbene non belle
come quelle di Avilion. Particolarmente dannose si rivelarono alcune lettere tra Richard e il direttore. Di tanto in tanto Richard mi appare, negli occhi della mente o in sogno. È grigio, ma con una lucentezza iridescente tutt'intorno, come olio su una pozzanghera. Mi lancia un'occhiata equivoca. Un altro fantasma pieno di rimprovero. Poco prima che i giornali annunciassero il suo ritiro dalla politica ufficiale, ricevetti una sua telefonata, la prima dalla mia partenza. Era furioso, e anche agitato. Gli era stato detto che a causa dello scandalo non poteva più essere considerato un candidato alla leadership, e ora gli uomini che contavano non rispondevano alle sue chiamate. Era stato trattato freddamente. Era stato preso in giro. L'avevo fatto di proposito, disse, per rovinarlo. «Fatto cosa?» chiesi. «Non sei rovinato. Sei ancora ricco». «Quel libro!» disse. «Mi hai boicottato! Quanto hai dovuto pagarli per farlo pubblicare? Non credo che Laura abbia scritto quello sporco... quel mucchio di immondizia!» «Non vuoi crederci» replicai, «perché eri stordito da lei. Non puoi sopportare l'eventualità che durante tutto il tempo in cui hai avuto la tua piccola e squallida storia con lei, lei debba essere entrata e uscita dal letto di un altro uomo - uno che amava, a differenza di te. O almeno presumo che sia questo che voglia dire il libro - no?» «Era quel rosso, vero? Quel fottuto bastardo del picnic!» Richard doveva essere molto turbato: di regola, imprecava di rado. «Come faccio a saperlo?» dissi. «Non la spiavo. Ma hai ragione, probabilmente è iniziato al picnic». Non gli dissi che c'erano stati due picnic con Alex: uno con Laura e un secondo, un anno più tardi, senza di lei, dopo che mi ero imbattuta in lui quel giorno in Queen Street. Quello a base di uova sode. «Lo faceva per dispetto» disse Richard. «Si stava solo vendicando di me». «Non mi sorprenderebbe» feci. «Deve averti odiato. Perché non avrebbe dovuto? L'hai praticamente violentata». «Non è vero! Non ho fatto nulla senza il suo consenso!» «Consenso? È così che lo chiami? Io lo chiamerei ricatto». Mi attaccò il telefono in faccia. Era una caratteristica di famiglia. Quan-
do poco prima aveva chiamato per inveirmi contro, Winifred aveva fatto lo stesso. Poi Richard scomparve, e poi fu trovato sull'Ondina - be', sai tutto. Doveva essere scivolato furtivamente in città, scivolato nei terreni di Avilion, scivolato sulla barca, che tra parentesi era nella rimessa, e non legata al pontile come dissero erroneamente i giornali. La cosa venne insabbiata: un cadavere in una barca in acqua è abbastanza normale, ma uno in una rimessa per barche è strano. Winifred non avrebbe voluto che si pensasse che Richard fosse andato fuori di testa. Cosa successe realmente allora? Non ne sono sicura. Una volta che venne rinvenuto, Winifred prese in mano la situazione e fece buon viso a cattivo gioco. Un colpo - fu la sua versione. Fu trovato con il libro accanto, però. Questo lo so, perché Winifred mi telefonò in uno stato di isteria e mi disse così. «Come hai potuto fargli questo?» disse. «Hai distrutto la sua carriera politica, e poi hai distrutto i suoi ricordi di Laura. Lui l'amava! L'adorava! Non ha potuto sopportare quando è morta!» «Sono contenta di sentire che provava un po' di rimorso» osservai freddamente. «Non posso dire di averlo mai notato al tempo». Winifred mi diede tutta la colpa, naturalmente. Dopodiché, fu guerra aperta. Mi fece la cosa peggiore che potesse venirle in mente. Si prese Aimee. Suppongo che ti sia stato insegnato il vangelo secondo Winifred. Nella sua versione, io sarò stata un'ubriacona, una donnaccia, una sciattona, una cattiva madre. Col passare del tempo sulla sua bocca sono diventata senza dubbio una sudicia strega, una vecchia sgualdrina pazza, una venditrice ambulante di vecchie cianfrusaglie da discarica. Tuttavia, dubito che ti abbia mai detto che ho ucciso Richard. Se te l'avesse detto, avrebbe dovuto dire anche come mai le era venuta in mente quell'idea. Cianfrusaglie era un insulto. È vero che compravo a poco e rivendevo a molto - chi non lo fa, nel giro dell'antiquariato? - ma avevo un buon occhio e non ho mai costretto nessuno. C'è stato un periodo in cui ho bevuto troppo - lo ammetto - ma non prima che Aimee se ne fosse andata. Quanto agli uomini, ce ne fu qualcuno anche di quelli. Non fu mai una questione di amore, era più una sorta di fasciatura periodica. Ero tagliata fuori da tutto ciò che mi circondava, incapace di raggiungerlo, di toccarlo; nello stesso tempo mi sentivo scorticata. Avevo bisogno del conforto di un altro corpo.
Evitavo qualsiasi uomo della mia precedente cerchia sociale, sebbene alcuni di loro si fecero vivi, come moscerini sulla frutta, non appena ebbero sentore che ero sola e forse a pezzi. Uomini come quelli avrebbero potuto essere istigati da Winifred, e senza dubbio lo erano. Mi limitavo esclusivamente agli estranei, raccolti nelle mie incursioni nelle vicine città grandi e piccole in cerca di quelli che oggi chiamano oggetti da collezione. Non davo mai il mio vero nome. Ma Winifred si rivelò troppo ostinata per me, alla fine. Tutto quello che le serviva era un uomo, ed è quello che ottenne. Le foto della porta della stanza di un motel, chi entrava e chi usciva; le firme false nel registro; la testimonianza del proprietario, che aveva accettato di buon grado i contanti. Potrebbe battersi in tribunale, mi disse il mio avvocato, ma glielo sconsiglierei. Cercheremo di strappare il diritto alle visite, è tutto quello che ci si può aspettare. Ha fornito loro del materiale e loro lo hanno usato. Anche lui mi disapprovava, non per la mia turpitudine morale ma per la mia goffaggine. Nel suo testamento Richard aveva nominato Winifred tutrice di Aimee, nonché unica curatrice del suo non trascurabile conto vincolato. Perciò aveva anche questo a suo favore. Quanto al libro, Laura non ne scrisse neppure una parola. Ma devi averlo capito da un pezzo. L'ho scritto io, durante le mie lunghe sere da sola, mentre aspettavo che Alex tornasse, e poi, una volta saputo che non lo avrebbe fatto. Non pensavo che stavo scrivendo - scrivevo e basta. Quanto ricordavo, e anche quanto immaginavo, che è anch'esso la verità. Pensavo a me stessa come a qualcuno che registra. Una mano senza corpo che scarabocchia su un muro. Volevo una commemorazione. È così che cominciò. Per Alex, ma anche per me stessa. Da questo ad attribuire la paternità del libro a Laura il passo fu breve. Potresti stabilire tu se a ispirarmi fu la viltà o la fragilità nervosa - non mi sono mai piaciuti i riflettori. O la semplice prudenza: il mio nome mi avrebbe assicurato la perdita di Aimee, che persi comunque. Ma ripensandoci si trattò semplicemente di fare giustizia, perché non posso dire che Laura non abbia scritto una parola. In senso stretto è esatto, ma in un altro senso - che Laura avrebbe chiamato spirituale - si potrebbe dire che collaborò con me. La vera autrice non è nessuna delle due: un pugno è più della somma delle sue dita.
Ricordo Laura all'età di dieci o undici anni, seduta alla scrivania del nonno, nella biblioteca di Avilion. Aveva davanti un foglio di carta, ed era impegnata a disporre i posti in Paradiso. «Gesù siede alla destra di Dio» disse, «perciò chi siede alla sua sinistra?» «Forse Dio non ha una sinistra» risposi per prenderla in giro. «Le mani sinistre hanno fama di essere cattive, perciò forse lui non dovrebbe averne una. O forse gli era stata mozzata in una guerra». «Noi siamo fatti a immagine di Dio» disse Laura, «e abbiamo la mano sinistra, perciò deve averla anche lui». Consultò il suo schema, mangiucchiando l'estremità della sua matita. «Ci sono!» esclamò. «La tavola deve essere rotonda! Così ognuno siede alla destra di tutti gli altri, in senso circolare». «E viceversa» dissi. Laura era la mia mano sinistra, e io ero la sua. Abbiamo scritto il libro insieme. È un libro scritto con la mano sinistra. Ecco perché una di noi è sempre fuori campo, da qualunque parte si guardi. Quando ho cominciato questo resoconto della vita di Laura - della mia vita - non avevo idea del perché lo stessi scrivendo, o chi mi aspettassi che lo leggesse una volta che lo avessi finito. Ma ora mi è chiaro. Lo stavo scrivendo per te, Sabrina, perché tu sei quella - la sola - che ora ne ha bisogno. Visto che Laura non è più chi pensavi che fosse, neanche tu sei più chi pensavi che fossi. Questo può essere uno choc, ma può anche essere un sollievo. Per esempio, tu non hai alcun legame con Winifred, e nessuno con Richard. Non c'è un briciolo di Griffen in te: da questo punto di vista le tue mani sono pulite. Il tuo vero nonno era Alex Thomas, e quanto a chi fosse tuo padre, be', le possibilità sono sconfinate. Ricco, povero, mendicante, santo, una ventina di paesi d'origine, una dozzina di mappe cancellate, un centinaio di villaggi rasi al suolo - scegli quello che vuoi. L'eredità che ti ha lasciato è il regno della speculazione infinita. Sei libera di reinventarti a tuo piacimento. XV L'assassino cieco Epilogo: L'altra mano Ha una sola foto di lui, una stampa in bianco e nero. La conserva con cu-
ra, perché è quasi tutto ciò che le è rimasto di lui. La foto li ritrae insieme, lei e l'uomo, durante un picnic. Picnic è scritto sul retro - non il nome dell'uno o dell'altra, solo picnic. Lei conosce i nomi, non ha bisogno di scriverli. Sono seduti sotto un albero; deve trattarsi di un melo. Lei indossa un'ampia gonna, tenuta stretta sotto le ginocchia. Era una giornata calda. Tenendo la mano sulla foto può sentire ancora il calore che ne emana. Lui indossa un cappello chiaro, che gli tiene parte del viso in ombra. Lei è girata a metà verso di lui, e sorride in un modo in cui non ricorda di avere sorriso a nessuno da allora. Sembra molto giovane nella foto. Anche lui sorride, ma ha la mano sollevata tra sé e la macchina fotografica, come per schermirsi da essa. Come per schermirsi da lei, quando in futuro sarebbe tornata a guardarli. Come per proteggerla. Tra le dita ha un mozzicone di sigaretta. Quando è sola recupera la foto, la depone sul tavolo e la osserva. Esamina ogni dettaglio: le dita di lui macchiate di fumo, le pieghe scolorite dei loro vestiti, le mele acerbe che pendono dall'albero, l'erba che sta morendo in primo piano. Il viso di lei che sorride. La foto è stata tagliata; ne è stato eliminato un terzo. Nell'angolo in basso a sinistra c'è una mano, tagliata con le forbici all'altezza del polso, appoggiata sull'erba. È la mano dell'altra, quella che è sempre nella foto, che si veda o meno. La mano che metterà tutto sulla carta. Come ho potuto essere così ignorante? pensa. Così stupida, così cieca, così adagiata nella spensieratezza? Ma senza questa ignoranza, questa spensieratezza, come potremmo vivere? Se si sapesse cosa sta per succedere, se si sapesse tutto ciò che accadrà poi - se si sapessero in anticipo le conseguenze delle proprie azioni - si sarebbe condannati. Si sarebbe rovinati, come Dio. Si sarebbe una pietra. Non si mangerebbe mai, non si berrebbe e non si riderebbe, né ci si alzerebbe dal letto la mattina. Non si amerebbe mai nessuno, mai una seconda volta. Non si oserebbe mai. Sommersi, adesso - anche l'albero, il cielo, il vento, le nuvole. Tutto ciò che le è rimasto è la foto. E anche la sua storia. La foto ritrae la felicità, la storia no. La felicità è un giardino cinto di erba: non c'è entrata o uscita. In Paradiso non ci sono storie, perché non ci sono viaggi. Sono la perdita e il rimpianto e l'infelicità e il desiderio ardente a spingere avanti la storia, lungo la sua strada contorta. The Port Ticonderoga Herald and Banner, 29 maggio 1999
IRIS CHASE GRIFFEN, UNA INDIMENTICABILE SIGNORA DI MYRA STURGESS La signora Iris Chase Griffen si è spenta all'improvviso lo scorso mercoledì all'età di 83 anni, nella sua casa di Port Ticonderga. «Ci ha lasciato in modo molto tranquillo, mentre era seduta nel suo giardino sul retro» ha affermato la vecchia amica di famiglia Myra Sturgess. «La cosa non ci ha colto di sorpresa, dal momento che soffriva di cuore. È stata una vera personalità e una figura di levatura storica, una donna meravigliosa anche nei suoi ultimi anni. Sentiremo tutti la sua mancanza e sarà sicuramente ricordata a lungo». La signora Griffen era la sorella della nota scrittrice locale Laura Chase. Era inoltre figlia del Capitano Norval Chase, che sarà ricordato a lungo dalla sua città, e nipote di Benjamin Chase, fondatore delle Industrie Chase, che diedero vita alla Fabbrica di bottoni e ad altre. Era anche la moglie del defunto Richard E. Griffen, importante industriale e personalità politica, e cognata di Winifred Griffen Prior, la filantropa di Toronto che è morta lo scorso anno lasciando una generosa eredità alla nostra scuola secondaria. Lascia la nipote Sabrina Griffen, che è appena tornata dall'estero e si pensa verrà al più presto a visitare la nostra città, per occuparsi degli affari della nonna. Sono sicura che le verrà riservata una calorosa accoglienza e qualsiasi aiuto o sostegno noi tutti potremo offrirle. Per desiderio della signora Griffen il funerale avverrà in forma privata, con la tumulazione delle ceneri nella tomba monumentale della famiglia Chase al Mount Hope Cemetery. Tuttavia una funzione commemorativa avrà luogo nella cappella della Jordan Funeral Home giovedì venturo alle 15:00, in segno di riconoscenza per tutti i numerosi contributi dati dalla famiglia Chase nel corso degli anni, e sarà seguita da un rinfresco offerto a casa di Myra e Walter Sturgess, a cui tutti saranno i benvenuti. La soglia
Oggi piove, una calda pioggia primaverile. L'aria ne è resa opalescente. Il suono delle rapide si riversa sopra e intorno alla scogliera - si riversa come un vento, ma immobile, come i segni delle onde sulla sabbia. Sono seduta al tavolo di legno nella veranda sul retro, al riparo della sporgenza, e guardo il lungo giardino disordinato. È quasi il crepuscolo. Il phlox selvatico è in fiore, o almeno credo che debba esserlo; non riesco a vederlo chiaramente. Qualcosa di blu, che scintilla laggiù in fondo al giardino, la fosforescenza della neve nell'ombra. Nelle aiuole i germogli si spingono verso l'alto, hanno la forma di matite, viola, color acqua, rossi. L'aroma della terra umida e delle piante appena nate si infrange su di me, acquoso, scivoloso, con un sapore acido come la corteccia di un albero. Odora di gioventù; odora di struggimento. Mi sono avvolta in uno scialle: la sera è calda per la stagione, ma non lo percepisco come calore, soltanto come assenza di freddo. Osservo il mondo chiaramente da qui - dove il qui è il paesaggio intravisto dalla cima di un'onda subito prima che quella successiva vi porti sotto: com'è blu il cielo, com'è verde il mare, com'è definitivo il panorama. Accanto al mio gomito c'è il mucchio di carta che ho accumulato così laboriosamente, mese dopo mese. Quando avrò finito - quando avrò scritto la pagina finale - mi tirerò su da questa sedia e mi avvierò in cucina, e frugherò in giro in cerca di un elastico o di un pezzo di spago o di un vecchio nastro. Legherò i fogli, poi alzerò il coperchio del mio baule da nave e farò scivolare questo involto in cima a tutto il resto. Là rimarrà finché tu non tornerai dai tuoi viaggi, se mai tornerai. L'avvocato ha la chiave, e le sue istruzioni. Devo ammettere che faccio un sogno a occhi aperti su di te. Una sera busseranno alla porta e sarai tu. Sarai vestita di nero, avrai con te uno di quei piccoli zaini che adesso tutte portano al posto della borsa. Pioverà, come questa sera, ma non avrai un ombrello, tu disdegneresti gli ombrelli; ai giovani piace che le loro teste vengano sferzate dagli elementi, lo trovano tonificante. Starai sulla veranda in una foschia di luce umida; i tuoi lucidi capelli neri saranno zuppi, i tuoi abiti neri saranno fradici, le gocce di pioggia brilleranno sul tuo viso e sui vestiti come lustrini. Busserai. Ti sentirò, mi trascinerò a fatica nell'ingresso, aprirò la porta. Il mio cuore farà un balzo e comincerà a martellare; ti guarderò attenta-
mente, poi ti riconoscerò: l'ultimo desiderio che ho accarezzato. Penserò tra me e me di non avere mai visto qualcuno di così bello, ma non lo dirò; non vorrei che pensassi che sono un po' svitata. Poi ti accoglierò, allungherò le braccia verso di te, ti bacerò sulla guancia, in modo contenuto, perché sarebbe sconveniente lasciarmi andare. Piangerò qualche lacrima, ma solo poche, perché gli occhi degli anziani sono aridi. Ti inviterò a entrare. Entrerai. Non lo raccomanderei a una ragazza giovane, di attraversare la soglia di una casa come la mia, con dentro una persona come me - una donna vecchia, anziana, che vive sola in una casetta fossilizzata, con i capelli come ragnatele in fiamme e un giardino invaso dalle erbacce e pieno di Dio sa cosa. C'è un alito di zolfo attorno a certe creature: potrai essere perfino un po' impaurita da me. Ma sarai anche un po' avventata, come tutte le donne della nostra famiglia, e perciò entrerai comunque. Nonna, dirai; e grazie a quella parola non sarò più una rinnegata. Ti farò sedere al mio tavolo, tra i cucchiai di legno e le ghirlande di ramoscelli, e la candela che non viene mai accesa. Tremerai, ti darò un asciugamano, ti avvolgerò in una coperta, ti farò una cioccolata. Poi ti racconterò una storia. Ti racconterò questa storia: la storia di come mai ti sarai trovata qui, seduta nella mia cucina, ad ascoltare la storia che sono stata a raccontarti. Se per qualche miracolo dovesse accadere, non ci sarebbe alcun bisogno di questo disordinato mucchio di carta. Cosa vorrò da te? Non amore: sarebbe chiedere troppo. Non perdono, che non spetta a te accordare. Solo qualcuno che mi ascolti, forse: solo qualcuno che venga a trovarmi. Qualunque altra cosa tu faccia, però, non farmi più bella di quella che sono: non ho alcun desiderio di diventare un cranio decorato. Ma lascio me stessa nelle tue mani. Quale altra scelta ho? Quando leggerai quest'ultima pagina, quello - se mai mi troverò da qualche parte - è l'unico posto in cui sarò. Ringraziamenti Vorrei esprimere la mia gratitudine alle seguenti persone: la mia inestimabile assistente, Sarah Cooper; i miei altri ricercatori, A.S. Hall e Sarah Webster; il professor Tim Stanley; Sharon Maxwell, archivista, Cunard Line Ltd., St. James Library, Londra; Dorothy Duncan, direttore esecutivo, Ontano Historical Society; Hudson's Bay/Simpsons Archives, Winnipeg;
Fiona Lucas, Spadina House, Heritage Toronto; Fred Kerner; Terrance Cox; Katherine Ashenberg; Jonathan F. Vance; Mary Sims; Joan Gale; Don Hutchison; Ron Bernstein; Lorna Toolis e il suo staff della Merrill Collection of Science Fiction, Speculation and Fantasy della Toronto Public Library, e Janet Inksetter della Annex Books. Anche ai miei primi lettori Eleanor Cook, Ramsay Cook, Xandra Bingley, Jess A. Gibson e Rosalie Abella. Anche ai miei agenti, Phoebe Larmore, Vivienne Schuster e Diana Mackay; e ai miei editor, Ellen Seligman, Heather Sangster, Nan A. Talese e Liz Calder. Anche ad Arthur Gelgoot, Michael Bradley, Bob Clark, Gene Goldberg e Rose Tornato. E a Graeme Gibson e alla mia famiglia, come sempre. Un sentito ringraziamento viene rivolto alle seguenti persone per avermi autorizzato a ripubblicare materiale già edito: Epigrafi: Ryszard Kapuściński, Shah of Shahs: © 1982. L'iscrizione dell'urna cartaginese attribuita a Zashtar, una nobile minore (c. 210-185 a.C), è citata dal dr. Emil F. Swardsward in «Carthaginian Shard Epitaphs», Cryptic: The Journal of Ancient Inscriptions, vol. VII, n. 9, 1963. Sheila Watson: da Deep Hollow Creek, c. 1992, Sheila Watson. Ripubblicato dietro autorizzazione di McClelland & Stewart Inc. Il resoconto sul viaggio inaugurale della Queen Mary è tratto da: «In Search of an Adjective» di J. Herbert Hodgins. Mayfair, luglio 1936. (Maclean Hunter, Montreal). L'esatta proprietà del copyright è ignota. Ripubblicato per concessione di Roger Media and Southam Inc. FINE