ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt ARRIGO PETACCO RISERVATO PER IL DUCE I segreti del regime conservati nell'arch...
270 downloads
1937 Views
258KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt ARRIGO PETACCO RISERVATO PER IL DUCE I segreti del regime conservati nell'archivio personale di Mussolini Editore: Edizione Club degli Editori, su licenza della Arnoldo Mondadori Editore, 1979. AVVERTENZA Questo libro è nato in maniera diversa dagli altri miei; non è il frutto di una ricerca su un preciso argomento, ma della lettura attenta, ma anche curiosa, discontinua e stimolante di appunti, rapporti, spiate, lettere personali e anonime, denunce, pettegolezzi, calunnie e intercettazioni che Benito Mussolini conservò gelosamente per vent'anni fra le carte segrete del suo archivio personale. Mussolini era un uomo preciso fino al limite della pignoleria. Per esempio, usò sempre lo stesso tipo di pennino a punta quadra e lo stesso tipo di matita rossoblù (marca Faber). Non buttò mai via nulla di quanto passava sul suo tavolo di Capo del Governo, neppure un invito a pranzo o una partecipazione di nozze. Tutto ciò che lui leggeva e annotava veniva accuratamente conservato in appositi fascicoli dal capo della Segreteria Particolare del Duce (nella carica si succedettero nell'ordine: Alessandro Chiavolini, Osvaldo Sebastiani e Nicolò De Cesare); cosicché, allo scadere improvviso del suo mandato (25 luglio 1943) il suo archivio personale occupava molti scaffali. Regolandosi in questo modo Mussolini aveva obbedito, consapevolmente o no, a una disposizione di legge che prescrive siano conservate (e a suo tempo affidate all'Archivio Generale dello Stato) tutte le carte del Capo del Governo in carica: dai documenti più delicati alle scartoffie più insignificanti, compresi i calendari e le agende personali. Nessun altro Capo del Governo, a quanto mi risulta, è stato finora tanto preciso quanto lui. È vero, si dirà, che la caduta del regime fascista è stata così repentina e verticale da impedirgli l'eliminazione delle carte più compromettenti; resta comunque il fatto che esse sono ora a completa disposizione degli studiosi. Come ho già detto, nei dossier di Mussolini c'è di tutto, e riferire dei loro contenuti in maniera organica sarebbe impresa estremamente complessa, e anche un po' noiosa. Ho perciò preferito piluccare qua e là le carte che più stuzzicavano il mio interesse e la mia curiosità: come le "informative" di polizia che riassumevano quotidianamente, per uso esclusivo del Capo del Governo, le voci, le mormorazioni, le denunce e anche le calunnie sull'attività politico-erotico-canagliesca di certi gerarchi del regime; o come certe inedite testimonianze sulla vita privata del Duce, dai suoi ricordi di scuola alle bozze degli articoli e dei romanzi d'appendice che egli scriveva in gioventù quando stentava a legare il pranzo con la cena; o come, ancora, certe sconosciute lettere d'amore che gli scriveva una ragazzina di quattordici anni, di nome Claretta Petacci... Ed ora qualche informazione. L'archivio personale del Duce scomparve da Palazzo Venezia subito dopo il 25 luglio 1943 e venne ritrovato per caso, nel febbraio del 1944, nella stazione ferroviaria di Milano chiuso in molte casse abbandonate al deposito bagagli. Dalle indagini svolte dalla polizia della RSI, risultò che il materiale era stato spedito da Roma verso la fine dell'agosto del 1943 per ordine del governo Badoglio. Probabilmente era destinato in Svizzera, ma gli eventi bellici avevano bloccato a Milano la spedizione. Dopo il ricupero, per espressa decisione di Mussolini, le casse furono inviate a Gargnano dove egli allora risiedeva, e lì rimasero fino all'arrivo degli americani che le sequestrarono. Quando l'archivio fu restituito al governo italiano, si notò subito che risultava mancante tutta la parte dedicata agli alti gradi delle Forze Armate. Chi l'avrà fatta sparire? Gli stessi militari che si occuparono dell'imballaggio o i servizi segreti alleati? Mistero. Più tardi vennero tolte anche tutte le carte che riguardavano Galeazzo Ciano, che furono infatti restituite alla vedova per ordine del Tribunale. Quello che restava fu quindi affidato al Ministero dell'Interno che lo tenne fino al 1957, anno in cui, finalmente, il carteggio venne depositato nell'Archivio Generale dello Stato (dove appunto, grazie alla cortesia del personale e alla preziosa assistenza di Renato Grispo, Gaetano Pagina 1
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Contini, Pia Rinaldi Mariani e Mario Missori, ho potuto svolgere le mie ricerche). Ora, considerando tutte queste sue peripezie, mi pare inutile sottolineare che l'archivio del Duce deve avere subito più di un saccheggio. Tuttavia, ciò che è rimasto è sufficiente per tratteggiare una panoramica, sia pure lacunosa e discontinua, del sottogoverno fascista e anche un profilo, incompleto quanto volete, di quel Mussolini intimo che pochi hanno conosciuto. Ed è quanto ho tentato di fare scrivendo questo libro. A.P. Portovenere, maggio 1979. Parte prima TANTO VA LA GATTA AL LARDO... I STRAZIAMI MA DI BACI SAZIAMI Lui: Devo gettarmi ai tuoi piedi per rivederti? Lei: Sì. Lui: Così mi renderò ancor più ridicolo... Allora solo se mi prostro faresti quella cosa... Lei: Il fatto è che andiamo d'accordo in un punto solo: quello voluto dalla natura. Qui la cosa è divina, perfetta. Ma altro campo non c'è. Lui: E io che credevo di avere trovato un'anima, oltre che un corpo! Ma te la farò pagare. Ora soffro io, ma domani... Lei: Ho fatto male a telefonarti. Lui: Tutte le volte che parli con me mi umili, mi schiaffeggi e non ti giustifichi per ciò che mi hai fatto. Lei: Non devo giustificare nulla. Lui: Ma se me ne hai fatte più di Bertoldo! Lo sanno tutti ormai. E questo mi strazia, mi addolora. Dio quanto mi fai soffrirei Nessuno oserebbe farmi quello che mi hai fatto tu. Lei: Io non ti ho fatto nulla. Lui: Crepa, vigliacca. Il brano che avete letto non è stato tolto dal copione di una commedia amorosa degli anni Trenta, ma dal testo di una delle tante intercettazioni telefoniche eseguite dagli agenti dell'OVRA, la polizia segreta fascista, e conservate nel voluminoso archivio riservato della Segreteria Particolare del Duce (già allora lo spionaggio telefonico era molto diffuso, solo che non c'erano ancora i registratori: lavoravano gli stenografi). Lui è Roberto Farinacci, il ras di Cremona, il più duro fra i gerarchi fascisti. Lei è Gianna Pederzini, famosa cantante lirica e bellissima donna, che fu legata sentimentalmente per alcuni anni all'uomo che venne considerato, a suo tempo, il numero due del regime. Mussolini, infatti, non si accontentava di far sorvegliare i suoi gerarchi per controllare la loro attività politica. Di essi voleva sapere tutto: amori, tradimenti, intrallazzi e ricatti. All'inizio di ogni giorno gli giungevano, col mattinale, decine di rapporti di polizia, relazioni riservate, suppliche e lettere anonime. Lui leggeva tutto ed era di una precisione meticolosa: sottolineava le frasi più significative e annotava sullo stesso foglio i suoi commenti, o le eventuali risposte, usando la matita rossoblù. Dal contenuto di questi dossier, e tenuto conto dei saccheggi che devono avere subito, si ha l'impressione che Mussolini conservasse proprio tutto. Mescolate fra documenti di grande valore storico, si trovano infatti molte carte di nessuna importanza che chiunque altro avrebbe senza dubbio cestinato. In appositi fascicoli sono, per esempio, conservate le 642 lettere d'amore che una grafomane bolognese, di nome Maria Teresa Bellardelli, gli scrisse nell'arco di cinque anni chiedendogli insistentemente un incontro amoroso. Ma ci sono anche lettere di tutt'altro tenore, come quella che gli scrisse il 3 ottobre 1935 Vittorio Emanuele Orlando, quando l'ex Presidente della Vittoria tentò inutilmente di riavvicinarsi al regime che dapprima aveva combattuto. Per la verità, già da qualche anno l'illustre uomo politico liberale cercava di stabilire un contatto col Duce. C'è, per esempio, nel suo fascicolo, una nota informativa del 19 gennaio 1931 nella quale viene segnalato a Mussolini che "S.E. Orlando ha detto a un nostro informatore che i fuoriusciti si ritengono tanto sicuri di tornare in Italia entro il 1931 che già stanno litigando fra di loro per la divisione dei portafogli". Il rapporto così prosegue: "Secondo S.E. Pagina 2
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Orlando essi sono in errore perché lui, pur non essendo fascista, è convinto che Mussolini, se riuscirà a soffocare l'opposizione interna al Fascismo, potrà vincere e resistere ancora per molti anni. Vi sembrerà strano, ha detto ancora Orlando, di sentirmi parlare così, ma io sono convinto che se dovesse cadere il Fascismo andremmo incontro al bolscevismo: e di fronte a tanto pericolo, io mi sento dieci volte Fascista. D'altra parte, ha concluso Orlando, io non posso davvero lagnarmi del Regime". La lettera inviata da Orlando a Mussolini il 3 ottobre 1935 dice: "Eccellenza, nel momento attuale ogni italiano deve essere presente, per servire. Se l'opera mia, nella pura forma del servizio, potesse essere utile, voglia l'E.V. disporne". Vittorio Emanuele Orlando, l'uomo che molti anni dopo accuserà certi intellettuali dell'Italia democratica di cupidigia di servire, ora è evidentemente di opinione diversa. Tuttavia, Mussolini non ha alcuna necessità dei servizi dell'uomo politico siciliano, gli serve invece la sua lettera per ovvi motivi propagandistici. Così la passa immediatamente ai giornali affinché la pubblichino con grande evidenza. Poi, per giustificare la sua scorrettezza, scrive all'ex Presidente: "Eccellenza, ho creduto opportuno rendere di pubblica ragione la sua lettera. Le affermazioni in - essa contenute - e delle quali nessuno avrebbe potuto dubitare - sono già un servizio reso al Paese". La pubblicazione della lettera, avverte un'altra nota riservata, "ha avuto larga risonanza fra i detriti dei disciolti partiti politici". L'agente N. 40 riferisce al Duce che: "l'ex deputato cattolico, Umberto Tupini, avrebbe detto che la mossa di Orlando, spontanea o provocata, è arrivata comunque in ritardo". E che invece la signora Argentina Altobelli avrebbe detto che "la lettera di Orlando è stata un'abile mossa del Duce per dimostrare alla Corona e all'estero che il Regime Fascista ha anche l'appoggio dei liberali e che quindi non è isolato". In un altro fascicolo, Mussolini si occupa della costituzione dell'IRI (siamo nel 1933). Un agente che si firma Piemonte segnala una flessione generale delle Borse e consensi generali per la nomina di Beneduce alla presidenza dell'IRI. Alla pratica è unito il sunto di una registrazione telefonica relativa a una conversazione fra il senatore Giovanni Agnelli e il professor Vittorio Valletta, amministratore delegato della FIAT. In essa si afferma che il senatore Agnelli sconsiglia di acquistare le azioni dell'IRI perché "le obbligazioni sono per aiutare gli industriali, e noi dovremmo essere piuttosto dall'altra parte. E poi, fin che fosse farsi imprestar soldi dal Governo bene, ma prestarne noi al Governo è un po' troppo! Non le pare caro Valletta?". Roberto Farinacci è il nome che appare più di frequente fra le carte segrete del Duce (e lo incontreremo molto spesso in questo libro). Violento, rude, cinico, sgrammaticato e coraggioso, egli spunta fuori ad ogni occasione. Fra i gerarchi è forse il più corrotto, ma recita spregiudicatamente la parte dell'incorruttibile. Sempre pronto all'accusa, tempesta Mussolini di lettere minacciose che risultano tanto numerose quante sono le denunce a suo carico. Mussolini, che probabilmente lo teme, usa con lui il metodo del bastone e della carota: ora gli risponde per le rime, ora si limita a sottolineare con la matita rossa i suoi svarioni grammaticali e sintattici (come quello contenuto in un suo telegramma dei tempi della Marcia su Roma: Cremona e Mantova non può rinviare). Una prima traccia della lotta fra i due la si ritrova in un fascicolo del 1925. A quell'epoca Farinacci è segretario del partito e non pare affatto rassegnato all'idea di mettere il manganello in soffitta e di indossare il doppio-petto come vorrebbe Mussolini, ormai saldo al potere come Capo del Governo. In quei giorni, infatti, gli squadristi farinacciani ne combinano di tutti i colori. Episodi di violenza vengono segnalati da quasi tutte le città del Nord e, dalle informative riservate che giungono sul tavolo del Duce, appare più che evidente il disegno di Farinacci si sostituirsi all'ormai imborghesito Mussolini quale capo del movimento squadristico. Si segnala, per esempio, da Trieste che gli squadristi, in risposta all'invito di ristabilire l'ordine, cantano una canzone i cui versi sono sottolineati da Mussolini: Ma che ordine / che disciplina: / carneficina / carneficina. E ancora: Vogliamo una repubblica di stracci, ma governata da Roberto Farinacci. Giungono pure a Mussolini dei manifesti spiegazzati (evidentemente staccati dai muri sui quali erano stati affissi) contenenti affermazioni per lui piuttosto allarmanti. Uno dice: Per Farinacci solo e vero Duce del Fascismo, Eja, eja, Alalà! Un altro definisce Farinacci colui che ha salvato il Fascismo dopo la crisi Matteotti. Indispettito e sdegnato, Mussolini chiede telegraficamente spiegazioni a Pagina 3
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Farinacci, e l'altro gli risponde ribaldo: "Caro Presidente, di quei manifesti ho la stessa responsabilità di quanta ne hai tu quando gridano Viva Mussolini Re". La rottura fra i due si verifica verso la fine del 1925. Lo testimonia un lungo telegramma riservato che Mussolini, per dare maggior ufficialità a quanto scrive, indirizza al Prefetto di Cremona: "Voglia comunicare all'on. Farinacci quanto segue: Ho dato ordine tassativo di emanare entro oggi decreto di scioglimento delle squadre, fra le quali sono molti di dubbia fama, come recenti cronache criminali documentano ampiamente... I miei ordini non si votano, si accettano senza riserve. Poiché quando è in gioco il prestigio del governo sono indiscutibili. Mio ordine è preciso: tutte le formazioni squadristiche, a cominciare dai "corsari neri" del troppo loquace Castelli, saranno sciolte a qualunque costo, dico a qualunque costo. È gran tempo di fare separazione necessaria: i fascisti con i fascisti, i delinquenti con i delinquenti, i profittatori con i profittatori...". Pochi mesi dopo, Roberto Farinacci (che nella doppia veste di segretario del partito e di avvocato ha ottenuto dal Tribunale di Chieti una sentenza vergognosa per gli assassini di Matteotti) sarà esonerato da ogni incarico politico. Alla segreteria del partito è chiamato Augusto Turati; lui si ritira nella sua Cremona e aspetta. Aspetta, ma non demorde. Dalle colonne del suo giornale "Il Regime Fascista" se la prende con tutti: attacca il neo segretario Turati, attacca Italo Balbo, attacca il ministro dell'Interno, Federzoni, e polemizza addirittura con l'organo ufficiale del PNF "Il Popolo d'Italia" del quale è direttore Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Anche al Duce, Farinacci scrive lettere di fuoco in cui ora lo accusa di volerlo assassinare moralmente e politicamente e ora si lamenta della sua nera ingratitudine. Mussolini per qualche tempo tace, poi, il 10 giugno 1926 gli invia questa lettera personale: Caro Farinacci, alla tua lettera sfogo rispondo molto brevemente e semplicemente quanto segue: a) non è vero che io ti voglia assassinare moralmente e politicamente. Frasi grosse e grottesche. Il vero è piuttosto il contrario. Io da tre mesi faccio il possibile per salvarti politicamente e moralmente. Ma tu non sei stato a posto. Dopo le tue dimissioni da Segretario Generale del Partito hai dimostrato di non saper stare tranquillo nei ranghi, ma hai assunto arie le quali hanno sollevato un disagio abbastanza notevole nel Partito e speranze eccessive in tutti gli avversari. b) Nel mio atteggiamento verso di te dal gennaio del 1926 in poi non giocano affatto i motivi cui alludi - alcuni dei quali assolutamente ridicoli - bensì la tua campagna contro il Ministero dell'Interno; campagna che ritengo profondamente ingiusta e dannosa al regime non fosse altro per le soddisfazioni e speranze che regala agli avversari. c) La nera ingratitudine non esiste né verso di te né verso chicchessia; né oggi, né nel secondo semestre del '24, né mai. Può darsi che io debba qualche cosa a qualcuno, te compreso; ma gli altri mi debbono un'infinita gratitudine, te compreso. Io sono di gran lunga creditore di tutti, indiscutibilmente. Tutti in Italia e fuori sanno (te compreso) che se il Regime vive e vincerà le tremende battaglie alle quali va incontro gli è perché io vivo e lavoro sedici ore al giorno come un negro. Lasciamo stare il tasto dell'ingratitudine! E ricorda piuttosto che io ti chiamai a reggere il Partito quaranta giorni dopo il mio discorso del 3 gennaio, appunto per darti una prova solenne di riconoscimento per quanto avevi fatto per il Partito nel periodo quartarellaro. E ricorda che l'ordine del giorno del Gran Consiglio del 30 marzo '26 di plauso alla tua opera fu dettato da me. Tale riconoscimento confermo oggi, aggiungendo però che da sei mesi tu non cammini più sul retto sentiero della disciplina. Da tre mesi ti ripeto queste parole. S.E. Teruzzi può testimoniarlo. d) Negare l'esistenza del fattaccio bancario di Parma è un colmo! Per ciò che riguarda il Popolo d'Italia ti hanno venduto del fumo. Ricordo perfettamente che durante il processo Candiani il Conte L. fece un'offerta al mio giornale, ma ricordo altrettanto perfettamente che io - proprio io - pregai l'avvocato intermediario di restituire la somma - ventimila lire - al signor Conte. Il Regime, cioè il Governo, e se vuoi il sottoscritto, non si occupa affatto della tua professione. Ho veramente altro da fare io, specie in questo momento nel quale tutto il mondo dell'antifascismo è in agguato nella speranza vaga di far tracollare il regime sul terreno economico-finanziario. e) Il disagio nel Partito è originato in gran parte dal tuo atteggiamento di indisciplina spirituale, di monopolizzatore della purezza e della salvezza del Pagina 4
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Partito, dal tuo continuo lanciare accuse generiche alle quali non fai seguire precisazioni concrete, dai tuoi contatti e dai tuoi discorsi (anche sul treno Milano-Genova) ma soprattutto dai discorsi dei tuoi amici i quali hanno la lingua troppo lunga. Ancora una volta, ed è l'ultima, ti ripeto: "Obbedisci a Turati" e, smettendo quell'aria di antipapa che aspetta o fa credere di aspettare la sua ora, riconciliati con Federzoni che non ha rancori di sorta verso di te e che non merita i tuoi sospetti e che è un servitore devoto del Regime; riconciliati con Balbo che ha anche lui meriti indiscutibili verso il Partito e che fu durante il periodo quartarellaro particolarmente preso di mira dagli avversari del Regime; e fa la polemica soltanto contro i nemici del Fascismo. E soprattutto evita la Massoneria. L'atmosfera si chiarirà; l'avvenire ti sarà aperto e gli avversari non avranno la gioia di vederti bandito dalla vita politica. Ricordati che chiunque esce dal Partito decade e muore. Cordiali saluti fr. Mussolini II SIAMO UN POPOLO D'EROI "Siamo un popolo d'eroi", diceva una nota canzone fascista. Per dimostrare la verità di questa asserzione, i gerarchi del regime ne inventarono di tutti i colori. D'altra parte, l'arditismo in guerra era allora più importante della cultura e una medaglia, non importa se onestamente guadagnata, valeva quanto un titolo di studio. Logico dunque che i gerarchi brigassero attivamente per costituirsi un immaginario passato eroico. Mussolini, da parte sua, non era restio a decorare i suoi prodi: il regime aveva un gran bisogno di eroi. Tuttavia, almeno in privato, voleva vederci chiaro. Lui, che eroe non era mai stato, era piuttosto scettico sull'eroismo dei suoi camerati e forse anche invidioso. Per questo, fin dai primi anni del suo governo, si adoperò per scoprire cosa si celasse di vero dietro la retorica delle motivazioni ufficiali pubblicate sull'albo d'oro. Mussolini godeva malignamente nello scoprire gli incredibili sotterfugi escogitati dai falsi eroi che lo circondavano. Il dossier, diciamo così, delle medaglie malguadagnate, inizia con un appunto del 1930. Si tratta di una segnalazione del capo della polizia al quale il Duce aveva affidato il compito di controllare il "passato eroico" di Italo Balbo, quadrumviro del regime. Dice: "Per prima cosa bisognerebbe rivedere il processo celebrato contro S.E. Balbo al Tribunale Militare di Firenze. Come è noto, egli fu accusato di diserzione per essere fuggito dalla caserma di Moncalieri (dove seguiva un corso per pilota aviatore) subito dopo la ritirata di Caporetto. È altresì noto che S.E. Balbo fu assolto con formula piena in quanto dimostrò che non aveva abbandonato la caserma per disertare, bensì per correre al fronte onde contribuire ad arrestare l'avanzata del nemico. Tutto questo è falso: S.E. Balbo, in effetti, fuggì da Moncalieri e raggiunse la sua casa a Ferrara dove rimase nascosto alcuni giorni. Solo per le rampogne del padre si ripresentò alle armi nella zona di Padova". "Risulta ancora", prosegue la segnalazione "che la promozione di Italo Balbo a capitano, per meriti di guerra, è ingiustificata. Il suo "merito" consistette infatti nell'obbligare un ufficiale austriaco prigioniero a togliersi gli stivali." La scheda dedicata a Roberto Farinacci è più complessa. Una prima segnalazione relativa all'attività da lui svolta durante la prima guerra mondiale, così riferisce: "Fatte le opportune ricerche risulta che la terza compagnia del 30 reggimento Genio telegrafisti di cui faceva parte S.E. Farinacci, salvo compiti speciali (impianti di linee telegrafiche e telefoniche) non ha mai partecipato a fatti d'arme. Infatti, l'unica località considerata zona di guerra in cui detta compagnia ha operato è quella di Caviola che si trovava a oltre sei chilometri dalla prima linea. Risulta ancora che S.E. Farinacci lasciò detta compagnia il 29 marzo 1917 perché comandato presso le Ferrovie dello Stato" (quest'ultima frase è sottolineata in rosso da Mussolini). Un intero fascicolo è poi dedicato alla mutilazione del braccio destro subita da Farinacci durante la campagna d'Etiopia. La motivazione ufficiale spiega che il gerarca "è rimasto ferito mentre istruiva volontariamente i legionari nell'uso delle bombe a mano". C'è anche una lettera del mutilato nella quale egli chiede a Mussolini di essere compensato per tanto eroismo, con l'ordine militare di Savoia. Seguono decine di telegrammi esaltanti l'arditismo del "ras" di Cremona e il suo sprezzo del pericolo. Uno di questi, scritto da Ettore Farinacci, fratello dell'"eroe", dice testualmente: "Duce! Mio fratello ha, perduto il braccio destro nel compimento del proprio dovere. È nello stile fascista: quando Pagina 5
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt un braccio viene meno nella lotta, un altro lo sostituisca. Eccolo, Duce. Metto a vostra disposizione il mio braccio destro". A dare tono grottesco all'intera faccenda c'è infine il rapporto riservato di un maresciallo dell'Arma che afferma: "S.E. Farinacci non si è sfracellato la mano durante una esercitazione volontaria, ma si è ferito mentre si dilettava a pescare di frodo con delle bombe a mano in un laghetto presso Dessié. Per questa ragione Ettore Muti ha soprannominato S.E. Farinacci il "Martin Pescatore"...". Il mutilato non avrà l'Ordine militare di Savoia: dovrà accontentarsi di una medaglia d'argento. Le richieste di decorazioni si accavallano nel dossier alle proteste dei non decorati. "Duce", telegrafa il maresciallo De Bono da Tripoli, "ho letto che hanno dato il Gran Cordone a Teruzzi. Ora diranno tutti che De Bono è il solo fesso della compagnia". In calce a una lettera del fascista bolognese Arconovaldo Bonaccorsi, che chiede medaglie per il suo "eroico comportamento" nella guerra civile spagnola, è appuntata la seguente segnalazione dell'OVRA: "Il comandante dell'aeronautica spagnola sostiene che il comportamento di Arconovaldo Bonaccorsi, alias "Conte Rossi", è orribile. Non fa altro che ammazzare prigionieri. Si parla di duemila uccisioni". Bonaccorsi sarà decorato lo stesso. Anche la guerra d'Albania contribuisce a rimpinguare il "dossier degli eroi". Scrive Farinacci da Tirana: "Duce, apprendo che hanno concesso l'Ordine militare di Savoia al generale Agostinucci che non si è mai mosso da Tirana. Hanno decorato Bottai, Ricci, Cianetti, Del Giudice, Pavolini, Riccardi... A me niente, eppure sono anche mutilato. È bene comunque che tu sappia che il clima d'Albania ha procurato un neuroma al moncherino del mio braccio...". Alla lettera di Farinacci è unita la seguente segnalazione: "Tirana. S.E. Farinacci fa continuamente la spola fra Tirana e Bari per raggiungere la cantante Gianna Pederzini impegnata colà per una serie di recite". Un'altra nota da Tirana riguarda invece Bottai: "Il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, si è recato oggi al fronte a bordo di una macchina con autista". Il dossier, oltre a una quantità infinita di richieste e di medaglie, contiene anche un curioso carteggio fra Mussolini e Italo Balbo. Risale al 1934, quando il giovane maresciallo dell'Aria sostituì Emilio De Bono come governatore della Libia. Eccolo: Caro Balbo, ho notizia che intendi monumentare De Bono sulle dune. Non lo fare. Si presterebbe al ridicolo. Mussolini. Caro Duce. Ormai il bozzetto è pronto, ma prima di collocare il monumento sulle dune verrò a parlarti. Tuttavia, quanto alla serietà della cosa, penso possa passare. D'altra parte, qui a Tripoli abbiamo già la galleria De Bono, Il Lungomare De Bono, la via De Bono, Il Castel De Bono, la scuola De Sono, e perfino il nome di De Bono, a caratteri cubitali, sulla volta dell'orribile teatro Miramare. Monumentando il camerata si potrebbero sostituire gli altri nomi. Balbo. Caro Balbo. Il monumentabile De Bono non vuole saperne di essere monumentato. Dice che, fra l'altro, porta iella. Mussolini. Caro Duce. Proprio ieri ho rescisso il contratto con lo scultore. Ci rimarrà il bozzetto per l'avvenire... Saluti fascisti. Italo Balbo. III LO "SCHIAFFO" A TOSCANINI Arturo Toscanini fu considerato un buon italiano fino al 1931, anno IX dell'era fascista. Il maestro, per la verità, ostentava da tempo un completo distacco per la politica del regime, tuttavia il ricordo della sua adesione al "listone" del '19 autorizzava i fascisti a pensarla così. In quell'anno le cose cambiarono: Toscanini passò nell'elenco dei "sovversivi" e il commendator Chiavolini, infaticabile schedatore del Capo del Governo, gli dedicò un dossier che, con il passare del tempo, si sarebbe sempre più ingrossato. Ma ecco come andarono le cose. Il 14 maggio 1931, annunciato in prima pagina dal "Carlino", doveva avere luogo nel teatro comunale di Bologna una serata di gala in memoria del maestro Giuseppe Martucci. Direttore d'orchestra: Arturo Toscanini, reduce dai successi in ogni parte del mondo. Ospiti d'onore: il concittadino Leandro Arpinati, sottosegretario all'Interno, e Galeazzo Ciano, "genero del regime". Pagina 6
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Avvenimento importante, dunque. Ma, per renderlo ancora più solenne, i fascisti bolognesi ebbero un'alzata di ingegno: delegarono il vicepodestà, professor Lipparini, a recarsi dal grande maestro per invitarlo a intonare l'inno fascista Giovinezza al momento dell'ingresso dei due gerarchi nel teatro. Non sappiamo con quale animo il professor Lipparini si sia recato all'Hotel Brun per assolvere la sua missione. Il rapporto del prefetto Guadagni al Duce riferisce soltanto la risposta del maestro, che fu questa: "Voi siete pazzo! Neanche i re, davanti ai quali mi sono esibito, hanno mai preteso tanto. Io suono soltanto musica seria.". Poi, forse intenerito dall'espressione del Lipparini, aggiunse: "Non avete, qui a Bologna, la banda comunale? Bene: mettetela fuori dal teatro e fatele suonare quel che vi pare. Io eseguirò solo il programma prestabilito". Un'ora dopo, alla federazione fascista bolognese, spirava già aria di azione punitiva. Il federale Ghinelli era fuori dai gangheri. "Gliela faremo vedere noi a quel rammollito!", gridava per i corridoi. "Il manganello ci vuole!". Per il resto della giornata Toscanini continuò a respingere fermamente le pretese dei fascisti, rispose di no anche quando, con una certa abilità, dalla federazione gli fecero sapere che erano disposti a sostituire Giovinezza con la Marcia Reale. Arpinati, messo al corrente dei fatti, sembra che propendesse per una soluzione blanda. Rifiutò di sospendere la manifestazione. "Faccia pure quello che vuole", concluse. "Io però al teatro non ci vado". A teatro, puntuale come sempre, ci andò invece Toscanini, ma non riuscì ad entrare. Contrariamente alla leggenda che vuole sia stato lo stesso Arpinati a schiaffeggiarlo sul podio, il maestro non riuscì neppure a entrare. Una squadra di fascisti lo fermò davanti all'ingresso. Gli fu chiesto, fra le grida minacciose degli astanti, se era disposto a suonare Giovinezza e lui, ancora una volta, rispose di no. Per questo rifiuto non si prese soltanto uno schiaffo, come fu detto, ma calci e pugni a ripetizione, come testimonia il prefetto Guadagni nel suo rapporto a Mussolini. L'intervento dei carabinieri evitò il peggio. Lo spettacolo, naturalmente, non ci fu. Toscanini, assediato dai fascisti all'Hotel Brun, riuscì a partire per Milano soltanto all'1,20, scortato dai militi dell'Arma. Di questo episodio i giornali italiani non parlarono. Soltanto il "Carlino" fu autorizzato da Arpinati a pubblicare una notizia di 22 righe. Ma la cosa si riseppe ugualmente. Il dossier del Duce conserva numerosi telegrammi di protesta per il rifiuto "sacrilego". Come quello di Raffaele Paolucci, l'affondatore, con Rossetti, della Viribus Unitis, che dice: "Duce. Appreso rifiuto di costui a eseguire inni patriottici, mi auguro vorrete impedirgli di recarsi all'estero". Il dossier contiene però anche le segnalazioni di polizia relative alle coraggiose manifestazioni di solidarietà tributate al maestro: "Il 17 maggio, durante un concerto alla Scala, si è levato dal loggione il grido Viva Toscanini!, e il pubblico ha applaudito fragorosamente. La stessa sera, decine di studenti hanno percorso le strade di Milano inneggiando a Toscanini e distribuendo manifestini antifascisti. Alcuni di essi sono stati identificati e arrestati. Si tratta di Ernesto Bedrone, Roberto Missiroli, Carlo Gilli, Carlo Pertinucci, Eugenio Giovanardi, Aldo Arienti e Aldo Valcarenghi. Risultano essere stati allievi del liceo Berchet e aderenti di Giustizia e Libertà...". Da parte loro, i fascisti organizzano gazzarre davanti all'abitazione dei Toscanini. I numerosissimi milanesi che si recano a visitare il maestro sono percossi, insultati, schedati. Da Roma, dove si teme che il maestro intenda trasferirsi all'estero, giungono ordini precisi. Già dal 15 maggio la polizia ha provveduto a ritirare i passaporti di Toscanini, della moglie Carlotta De Martino e dei figli Wanda e Walter. "Non è stato possibile ritirare quello della figlia Wally," telegrafa il prefetto Fornaciari, "perché si trova all'estero". Il 17 maggio, Bocchini, capo della polizia, gli ordina: "Con abili espedienti tergiversi circa restituzioni passaporti ai Toscanini". E alcuni giorni dopo: "Consegni, se necessario, passaporto a Toscanini, ma non ai suoi familiari". Il prefetto esegue. Provvede anche a inviare a Mussolini un rapporto per spiegare la posizione politica del maestro sovversivo: "Sebbene vicino al partito nel 1919, quando fu candidato della lista fascista, Toscanini si è poi fatto catturare dal più pericoloso antifascismo: quello liberal-albertiniano". Alcuni mesi dopo tutti i Toscanini riavranno i passaporti e potranno partire per l'America. Il maestro tornerà comunque in Italia un paio di volte, sempre seguito a ogni passo dagli agenti dell'OVRA. Ecco, per esempio, una delle sue telefonate intercettate, trascritte e fatte pervenire a Mussolini. Milano, novembre 1935. XIII E.F. Telefonata di Toscanini a certo "Aldo". Pagina 7
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Aldo: Hai visto che sono stati proibiti tutti i giornali stranieri? Toscanini: È una vera porcheria mettere il paese in queste condizioni. È inaudito che una persona non possa leggere il giornale che vuole. Non è neppure una cosa intelligente costringere il popolo italiano col nodo scorsoio alla gola... Aldo: ... e la benda sugli occhi. Toscanini: Si deve leggere solo quello che vogliono loro. Questo non è vivere. Aldo: Nemmeno in Russia... Toscanini: Non vedo l'ora di andarmene. Mi urtano queste cose. Vedere la gente schiava in questo modo! Si parla di schiavi neri. Noi siamo schiavi bianchi! Qui ti strozzano. La devi pensare per forza come la pensa quello là... Ma io non la penserò mai come lui! Non l'ho mai pensato. Solo una volta, per un momento, ho avuto la debolezza... ora me ne vergogno. Dopo un'ultima visita in Italia nel 1938, il maestro Toscanini si stabilì definitivamente in America. Tornerà in patria a guerra finita per inaugurare la Scala risorta. IV I "RILIEVI A CARICO" I dossier di Mussolini dedicati alle malefatte dei gerarchi, che Alessandro Chiavolini, segretario particolare del Duce, aggiornava con puntigliosità burocratica, appaiono oggi i più saccheggiati. I cosiddetti "rilievi a carico" sono tuttavia ancora numerosi e interessano soprattutto i gerarchi del regime. Ce n'è per tutti, insomma. Ecco un breve campionario di quelli relativi a Italo Balbo: Risulta che all'età di 17 anni, S.E. Balbo tentò di ricattare il cavalier Santini di Ferrara. Scoperto, evitò il processo e il carcere per intervento dei genitori che appianarono le cose col Santini. Roma. Per ottenere il brevetto di pilota, S.E. Balbo ha fatto spendere alla Regia Aeronautica la somma di 300 mila lire mentre, in media, ogni allievo non costa più di 5000 lire. Ferrara. Ecco come sono pagati i fedelissimi di S.E. Balbo: console Divisi, stipendio da console, da ispettore nazionale zuccherieri, da consigliere della Società dei Gas e di altre tre società. Totale L. 150.000 annue (il Divisi ha anche sistemato molto bene i suoi dieci fratelli). Generale Gaggioli: stipendi da generale, da redattore capo del "Padano", da consigliere delegato di cooperative. Totale L. 150.000 annue. Tutti gli altri fedelissimi guadagnano in media L. 10.000 al mese. (Per avere un'idea di questa cifra basterà ricordare che la famosa canzone "se potessi avere mille lire al mese" sarà lanciata cinque anni più tardi.) Ferrara. La camorra degli appalti diretta da S.E. Balbo raggiunge limiti mai raggiunti altrove. S.E. Balbo ha fatto ottenere recentemente alla città di Ferrara un mutuo di 150 milioni ed ha preteso un compenso di cinque milioni. Molte segnalazioni riguardano anche il "ras" di Cremona e i dossier di Mussolini si riempirono dei resoconti delle sue malefatte. La prima segnalazione giunge da Genova. Si tratta di una registrazione telefonica: Signora: "Per farmi difendere in Cassazione mi hanno consigliato il senatore Cogliolo...". Avv. Novara: "No, no. Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze...". Un'altra segnalazione riguarda un colloquio telefonico fra la segretaria di Farinacci, Jole Foà, e l'avvocato Levi. Levi: "L'onorevole lavora molto?". Foà: "Moltissimo, ne è perfino stufo". Levi: "Allora incasserà parecchio...". Foà: "Sì. Il mese scorso ha guadagnato ventimila lire in più di quanto si guadagnava da voi. Insomma, 50-60 mila al mese". Su questa registrazione si nota un appunto con matita rossa di Mussolini: "Quanto paga di ricchezza mobile?". Nel foglio successivo c'è la risposta: "L'on. Farinacci ha un reddito annuo accertato di 50 mila lire per la professione di avvocato e di 12 mila come direttore del suo giornale. Agli effetti dell'imposta è tassato per un imponibile di 37.000 lire e paga la somma di L. 10.000 l'anno". In seguito, le denunce contro Farinacci si fanno più brucianti. Un dossier contiene una vicenda che pare un romanzo d'avventura. È la storia di un tesoro, un vero tesoro, consistente in 30 chili di monete d'oro, 800 grammi di Pagina 8
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt brillanti, 4 chili di portasigarette d'oro e 15 chili di monete d'argento. Questo tesoro, che apparteneva a un certo cavalier Teni di Mantova, sarebbe stato fatto scomparire dai suoi congiunti grazie all'appoggio di Farinacci che affrontò il Teni accompagnato da una persona da lui presentata come il questore di Ferrara. "Ricuperato il tesoro," riferisce il rapporto "i congiunti del Teni lo hanno consegnato a Farinacci per la somma di due milioni di lire della quale avevano bisogno per salvarsi dal fallimento." Moltissime segnalazioni rivelano le altre soperchierie. Ecco un breve campionario: L'industriale Giannelli di Bologna ha pagato a Farinacci la somma di 1.400.000 lire per ricuperare certi documenti compromettenti. Farinacci ha bruciato le carte davanti a lui. Ora però sono apparse in circolazione delle copie fotografiche... S.E. Farinacci ha preteso dall'industriale Borletti la somma di 100 mila lire per una parcella. Borletti non voleva pagare l'enorme cifra, ma quando gli hanno raccontato di Giannelli si è affrettato a sborsare la somma. Malgrado il suo feroce antisemitismo, S.E. Farinacci continua ad avere contatti con ricchi ebrei ai quali, dietro lauti compensi, fa ottenere l'arianizzazione. S.E. Farinacci in questi ultimi anni ha notevolmente ampliato il proprio patrimonio. Recentemente ha acquistato molti terreni a Zagarolo e si è fatto costruire una lussuosa villa a Gaeta. Risulta che per un solo parere legale pretende 100 mila lire. Guadagna molto anche amministrando i patrimoni degli ebrei che ora vivono in Svizzera. Il comportamento di Farinacci urta evidentemente Mussolini che, alla fine, gli scrive una lettera per rimproverargli il lusso eccessivo. Farinacci se ne offende: "Duce," gli telegrafa in cifra "è vero che nel '22 ero un pezzente e che ora viaggio in automobile, ma l'auto mi è stata regalata dai ferrovieri di Cremona. Inoltre potrei guadagnare moltissimo facendo l'avvocato, mentre invece mi limito a poche cause tutte scelte molto lontano da Cremona per non usufruire involontariamente di un trattamento privilegiato." La risposta di Mussolini questa volta è sferzante: "Non contesto che tu fossi un pezzente nel '22, ma nego che tu sia rimasto un pezzente. I veri pezzenti non vivono come te. L'apologia del falso pezzentismo mi è odiosa quanto l'esibizionismo pescecanesco". Il "falso pezzente" svolge anche un'intensa attività sentimentale. I suoi amori con la cantante Pederzini sono ormai noti a tutti, ma lui non è un amante fedele. Ecco comunque altri scampoli delle notizie e dei pettegolezzi sul suo conto che giungono sul tavolo del Duce: Venezia. S.E. Farinacci è giunto all'Excelsior con la cantante Gianna Pederzini. Straordinario l'attaccamento di S.E. alla cantante che è sempre in cerca di motivi per ingelosirlo. Gibilterra. È qui giunto da Roma S.E. Farinacci per incontrare la cantante Pederzini. S.E. ha obbligato il transatlantico Oceania a restare fermo sei ore per attenderlo. Montecatini. S.E. Farinacci è qui in vacanza con la cantante Pederzini. S.E. mantiene un comportamento ridicolo e puerile sollevando mormorazioni. Il "pezzo" più importante del dossier resta comunque un lungo rapporto dell'OVRA sull'attività politico-economico-amorosa di Roberto Farinacci. È del 1940 e contiene l'elenco completo delle malefatte del gerarca cremonese, dalle speculazioni della ""banda Farinacci, Varenna, Candiani" sempre sotto accusa quando c'è uno scandalo", ai suoi intrallazzi per favorire gli ebrei ricchi mentre nel contempo manifesta il proprio antisemitismo facendo "rinchiudere nel campo di concentramento di Frosinone due giovani israeliti, Vito e Salvatore Fano, di Roma, colpevoli di avere rivolto la parola a due ragazze ariane". "Comportandosi in questo modo" continua il rapporto "S.E. Farinacci si è creato una ricchezza tale che gli permette di sgavazzare alla ricerca delle più raffinate piacevolezze nei più lussuosi alberghi. Al Grande Albergo di Roma" (si tratta del Grand Hotel, ribattezzato in seguito alla nota legge contro gli esotismi. N.d.A.) "S.E. Farinacci ha in permanenza un appartamento per svolgervi i suoi divertimenti. Fra le frequentatrici figurano molte attrici cinematografiche, ma purtroppo S.E. non si accontenta soltanto di queste. Ora ci conduce anche la maestrina Maria Rosa L., vedova di un valoroso ufficiale caduto in Africa, alla quale ha promesso di farle fare carriera nel cinema. Ha condotto nel suo appartamento anche la studentessa di filosofia A.R., vergine. Risulta che egli vuole queste ragazze, anche minorenni, in divisa da giovane italiana. A queste donne, forse per eccentricità, egli suole fare discorsi megalomani. Si Pagina 9
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt definisce uno degli uomini più importanti della terra, dice di essere il migliore degli italiani e afferma che non gli fa ombra neppure il Duce... Dalle indagini svolte dal sottoscritto, risulta che a Roma e a Milano egli stipendia delle mezzane che hanno il compito di procurargli le ragazze. Alla sua mezzana di Roma, tale Giordano, paga uno stipendio di L. 3.000 al mese." Verso la fine degli anni Trenta l'azione antisemita di Roberto Farinacci è particolarmente intensa. Con la consueta spregiudicatezza, mentre da un lato dà la caccia agli ebrei che si annidano anche negli ambienti fascisti (e in questo è aiutato dal futuro "ispettore della razza", l'ex prete Giovanni Preziosi), dall'altro traffica con gli ebrei ricchi fuggiti in Svizzera, che gli hanno affidato l'amministrazione dei propri patrimoni immobiliari. Tutto preso dal nuovo impegno razzista, il ras di Cremona ha però dimenticato che la sua segretaria particolare Jole Foà è anch'essa israelita. O meglio, non l'ha affatto dimenticato: è soltanto convinto che nessuno oserà molestare una sua diretta collaboratrice. Ma Mussolini non la sente così. "Sarà bene che ti liberi della segretaria ebrea", gli manda a dire. E Farinacci gli risponde: "Duce, sono pronto a sterminare tutti gli ebrei, ma si deve cominciare dai grossi prima di arrivare agli umili. La mia segretaria è sola al mondo, ha cinquant'anni e lavora con me da vent'anni. Non mi va di fare il maramaldo con lei. Eppoi devo ricordarti che lei abitava nel cortile di via Paolo da Cannobio ai tempi del nostro Covo. E già allora era dei nostri...". Mussolini non si commuove e annota: "Dire a Farinacci che è interesse suo disfarsene. Se la cosa si risapesse in Germania farebbe pessima impressione. Farinacci non può atteggiarsi a padrino dell'antisemitismo e tenersi la segretaria ebrea. Le dia cinquantamila lire e l'allontani". V LE LETTERE FOLLI DEL SEGRETARIO DEL PARTITO All'inizio degli anni Trenta, Augusto Turati (da non confondere col leader socialista Filippo) è ancora segretario del Partito nazionale fascista. Nelle alte sfere del regime egli ha molti nemici che gli invidiano la rapida carriera, ma il principale fra essi è Roberto Farinacei al quale ha preso il posto. Le prime segnalazioni che lo riguardano, e che sono conservate nell'archivio personale di Mussolini, risultano banali. Si riferiscono essenzialmente all'attività libertina del segretario del partito o sottolineano il suo narcisismo e i suoi gusti da esteta. Il fascicolo diventa invece più interessante quando Roberto Farinacci scende in campo deciso a sbarazzarsi di colui che considera un usurpatore. Il ras di Cremona vuole la fine politica di Turati ma sa che dovrà fare i conti col fratello del Duce, Arnaldo, amico e protettore del segretario del partito. L'offensiva di Farinacci prende quindi di mira un falso bersaglio, ossia il podestà di Milano, Ernesto Belloni, notoriamente legato ad Arnaldo Mussolini. Belloni bada agli affari, controlla, per esempio, dodici società che lavorano per conto del comune del quale è podestà. Ha anche trafficato con alcune banche americane che hanno offerto un prestito al comune di Milano. Così, quando Farinacci lo denuncia, lo scandalo risulta grosso. I giornali, naturalmente, non ne parlano, ma le voci corrono e a Roma si cerca in ogni modo di insabbiare l'affare. È chiaro infatti che la rovina di Belloni comprometterebbe il segretario del partito e, soprattutto, il fratello del Duce. Farinacci tuttavia è deciso a non cedere. Belloni lo ha denunciato per diffamazione e lui insiste per essere processato. "Gli farò vedere io!" minaccia. Alla fine, per ordine del Duce, ha luogo a Roma una riunione riservata fra Farinacci, Arnaldo Mussolini, Augusto Turati, il suo vice Achille Starace e il sottosegretario agli Interni, Leandro Arpinati. L'ordine è di trovare una base d'accordo. Viene anche deciso di non redigere verbali, tuttavia Mussolini riesce ugualmente ad avere il testo trascritto della discussione. Eccone un brano: Arpinati: Farinacci accusa Belloni di essere un profittatore, ma chi di noi non ha approfittato della propria posizione politica? Starace: È automatico. Turati: Siamo tutti dei profittatori. Arpinati: Io ora ho la serva e la macchina... Arnaldo Mussolini: Hai fatto una bella carriera. Arpinati: Sì, ma se lui mi manda via non saprei dove andare. Farinacci : Torniamo all'argomento. Pagina 10
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Arpinati: Va bene. Ma anche tu, Farinacci, devi ammettere che non saresti mai diventato il grande avvocato che sei se tu non fossi l'ex segretario del partito... A questo punto Arnaldo, spalleggiato da Turati, propone un trucco per insabbiare lo scandalo Belloni. Arnaldo Mussolini: Io propongo di fare così: creiamo un giurì d'onore, Belloni ritira la querela contro Farinacci e tutto va alle calende greche. Farinacci: Non sono d'accordo. Belloni mi ha denunciato per diffamazione e io voglio essere processato. Il testo riferisce poi degli sforzi inutili fatti da Turati per indurre Farinacci a mutare parere. Questi infatti terrà duro e, al processo, sarà assolto con formula piena, provocando automaticamente l'espulsione di Belloni dal partito. La vicenda, alquanto complessa, deve avere notevolmente scosso la posizione di Turati. Questi infatti, pochi giorni dopo, viene allontanato dalla direzione del partito e nominato direttore della "Stampa" di Torino. Ma anche alla "Stampa" Augusto Turati continua evidentemente a far ombra a Roberto Farinacci se questi, come risulta dalle segnalazioni di polizia, "si ostina tenacemente a indagare sulla vita intima dell'ex segretario del partito col proposito di sfruttare ogni occasione di scandalo". E l'occasione viene offerta a Farinacci, nel 1932 da certa Paulette Marcellino, un'italo-francese che fa la modista a Torino. Paulette, che è stata amante di Turati, consegna a Farinacci un pacco di lettere in cui, afferma il rapporto, "l'ex segretario del partito rivela una sconcertante personalità. Con linguaggio irripetibile egli si perde in divagazioni boccaccesche e usa inoltre delle espressioni inammissibili anche sul conto dei più alti esponenti del regime. S.E. Farinacci," prosegue il rapporto, "che ora possiede dette lettere, le fa leggere in giro e minaccia dì farle pubblicare all'estero". Messo al corrente di quanto si sta tramando alle sue spalle, il povero Turati ricorre subito a Mussolini giurando che tali lettere lui non le ha mai scritte e che si tratta evidentemente di una congiura intessuta ai suoi danni. Per avvalorare la sua innocenza, egli invia al Duce anche una lunga ritrattazione che è riuscito a farsi rilasciare dalla donna pentita. In questa dichiarazione, la Marcellino cerca penosamente di fare marcia indietro insinuando di essere stata irretita dal Farinacci e da lui indotta a vendicarsi del Turati preparando ad arte le lettere false. Farinacci nega di avere avuto rapporti sentimentali con lei, ma quella insiste: "Fu a Torino, in quella camera dove ero già stata con Turati. Lui ha visto la mia debolezza ed io, eccitata com'ero, con quell'uomo ancora nel sangue, non ho avuto la forza di dire di no a S.E. Farinacci che mi amò due volte". Pochi giorni dopo lo scambio di queste accuse, alcune lettere di Augusto Turati sono pubblicate da un giornale francese al quale Farinacci le ha fatte evidentemente pervenire. La stampa italiana, naturalmente, non fa il minimo accenno all'episodio, ma lo scandalo dilaga ugualmente. Nell'agosto del 1932, Turati è invitato a lasciare la direzione della "Stampa" e il giornale gli rivolge questo curioso saluto, tipico saggio dello stile fascista: "Salutiamo Augusto Turati con virile animo: rivolgiamo il pensiero a Colui che tutto sa e tutto vede, a Colui che legge con occhio fermo nei cuori umani". Il "Colui", che non è il Padre Eterno, ma il Duce, con lo stesso occhio fermo ha anche letto il rapporto riservato che pubblichiamo qui di seguito. La sorte dell'ex segretario è quindi segnata: un mese dopo sarà espulso dal partito. RISERVATO PER IL DUCE agosto '1932: In questi giorni le voci di ambienti politici e giornalistici sono principalmente occupate nei commenti alla notizia dell'uscita da "La Stampa" dell'On. Augusto Turati. Tale notizia circolava già un paio di giorni prima che il giornale torinese recasse l'annuncio delle dimissioni dell'ex-Segretario del Partito dalla sua direzione. Alcune di queste voci dicono di dissensi di carattere amministrativo che si sarebbero determinati tra l'On. Turati ed il Sen. Agnelli; e provengono dagli amici dell'ex-Segretario del Partito. Aggiungono esse che il Turati avrebbe voluto seguire le orme della "Gazzetta del Popolo" sulla via delle grandi spese e queste idee non sarebbero state condivise dal Sen. Agnelli; che l'Agnelli avrebbe voluto impiantare a Torino - con capitale straniero - una grande fabbrica di gomma ed avendo trovato a Roma - presso il Duce - un reciso diniego avrebbe preteso dal Turati una forte pressione per riuscire a strappare la concessione, al che il Turati si sarebbe rifiutato. Ma i più parlano di altre e ben più tristi cose. Dicono che l'ex-Segretario del Partito avrebbe continuato a Torino a fare ciò che faceva a Roma specialmente Pagina 11
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt nell'ultimo tempo del suo Segretariato: perdere - cioè - la testa - nel vero senso della parola - dietro alle donne, compiendo - nelle sue relazioni leggerezze gravi. Finché avrebbe commesso una colpa assai più grossa: avrebbe stretto relazione con una ex-cocotte, una donna di origine francese, certa Paulette Marcellino. Costei, bella femmina rapace un tempo, ora sarebbe a Torino ritirata dalla vita allegra ed avrebbe una casa di confezioni. Il Turati avrebbe stretta una folle relazione con questa Paulette, la quale sarebbe pazzamente innamorata di lui. Senonché ad un certo momento l'On. Turati si sarebbe stancato di questa relazione ed avrebbe piantato la ex-cocotte, la quale fuori di sé per il dolore e l'ira avrebbe fatto un grossissimo scandalo. Sarebbe andata a raccontare per Torino le cose, più intime di questa relazione: debolezze e degenerazioni dell'uomo, che - a detta della Paulette - sarebbe un sadico terribile - fino a parlare, negli eccessi dei sadismo, di bimbe da sventrare, ecc. ecc. - un cocainomane ed altro. Avrebbe anche raccontato di avere fatto dono al Turati di una collana di perle - per la bambina di lui - di cinquemila lire. L'On. Turati molte di queste tristi cose avrebbe scritte anche in una quarantina di lettere folli, dirette alla Paulette; la quale - avvenuta la rottura - ne avrebbe portate due all'On. Farinacci - per servirsene contro l'ex-Segretario del Partito - e le altre le avrebbe mandate in Francia, presso un notaio. Torino sarebbe piena di questo scandalo, che sarebbe presto venuto a conoscenza del Prefetto e del Segretario Federale, i quali avrebbero informato Roma; mentre l'ambiente della "Gazzetta del Popolo" ne avrebbe fatta una tristissima speculazione divulgando ampiamente le notizie anche con vergognose amplificazioni. Dicendo - per esempio - che un giorno il Turati avrebbe addirittura rubato alla Paulette una collana di perle del valore di cinquantamila lire. Aggiungono - queste voci sulle gravi colpe dell'On. Turati che l'ex-Segretario del Partito verso la fine della scorsa settimana sarebbe stato chiamato a Roma, dove avrebbe ricevuto ordine di dimettersi da direttore de "La Stampa" e di lasciare Torino. La Paulette sarebbe allora corsa da Torino alla Capitale, disperata, dicendo che era pentita di quanto aveva fatto; che nei suoi racconti vi sarebbero state delle esagerazioni, ecc. ecc. Queste voci naturalmente hanno profondamente addolorato gli ambienti fascisti che sentono come tutta questa triste miseria - di un uomo che tanta fiducia sì ebbe dal Capo e che così male Lo ha compensato - faccia del male al Partito. Ma si rileva anche che forse le autorità di Torino avrebbero anche meglio agito se avessero avvertito prima le Alte Gerarchie di Roma, della condotta poco edificante dell'ex-Segretario del Partito, facendo allontanare in tempo costui da Torino senza - così - giungere al grave scandalo. Il quale, se certo demolisce un uomo, non giova d'altra parte al Partito ed al buon nome del Regime. Ma anche molta sorpresa ha destato il commento che "La Stampa" ha avuto l'impudenza di fare alla notizia delle dimissioni del Turati; commento che è stato deploratissimo, perché anche si tira in ballo il nome del Duce. Si ricorda a questo proposito che le funzioni di redattore capo nel vecchio giornale torinese erano affidate dal Turati al giornalista Santi Savarino, già ex-redattore de "La Tribuna", notissimo a Roma come un accanito massone ed accanitissimo antifascista. Per la successione alla direzione della "Stampa" , si fa il nome dell'ex-Ministro Rocco. Ma gli amici dell'On. Bottai dicono che a costui dovrebbe essere affidato il posto di direttore del giornale torinese. Si aggiunge che l'attuale direttore dell'Ufficio romano di corrispondenza della Stampa il Signoretti, sarebbe nominato redattore-capo. VI LIBRO E MOSCHETTO Mussolini non dimenticò mai di essere stato maestro di scuola. Aveva l'uzzolo del correttore di bozze e dedicava parte del suo tempo a rivedere, correggere e spesso anche a riscrivere i testi che gli altri esponenti del regime gli sottoponevano prima di darli alle stampe. Alcuni dei suoi dossier contengono un numero incredibile di manoscritti e bozze di stampa da lui debitamente corretti come fossero compiti di scolari. Probabilmente, Mussolini si divertiva a dare la caccia agli errori e ai periodi zoppicanti. Dall'esame del materiale da lui raccolto (una vera collezione di strafalcioni) si direbbe che la consapevolezza di essere il più colto della compagnia fosse per lui motivo di grande orgoglio. Pagina 12
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Ma, in effetti, il suo non era un gran merito. Basta dare un'occhiata alle bozze da lui corrette per rendersene conto. Ecco, per esempio, un breve campionario di correzioni mussoliniane apportate alle bozze di stampa del Diario di Italo Balbo. Balbo scrive: "Non si può combattere senza averne la certezza assoluta". Mussolini sottolinea la frase con la matita rossa e postilla : "Certezza di che cosa?". Balbo scrive ancora: "La ambizione di sorprenderlo facendo più di quanto si aspetta". Il correttore Mussolini precisa: "Meglio il congiuntivo: di più di quanto egli si aspetti". Balbo continua: "Qualcuno ha rifiutato la tessera: erano i più tiepidi". Mussolini sottolinea e annota: "E la consecutio temporum?". Balbo non è naturalmente la sola vittima del maestro Mussolini. I dossier conservano bozze e articoli di vari gerarchi costellati di correzioni e di commenti ironici. Un libro di Badoglio, sulla guerra d'Etiopia, ha molte pagine ridotte a un cimitero di croci rosse e blu, mentre un articolo del maresciallo De Bono, scritto per la rivista "Gerarchia", è giudicato dai Duce "impubblicabile" . Vi si leggono, d'altronde, frasi di questo tenore: "Non è facile impresa, ma ci si riesce. È più difficile tenere lontani i menagramo che ce ne sono ancora tanti in giro che lo fanno per mestiere". Anche nella "sezione letteraria" dei dossier di Mussolini, Roberto Farinacci continua a occupare un posto d'onore. Un intero fascicolo è dedicato al dramma Redenzione che il ras di Cremona ha scritto e intende rappresentare a tutti i costi al teatro Manzoni di Milano. Il copione del dramma, allegato agli atti, è costellato di segni rossi e commenti ironici. In esso, Farinacci racconta la storia di certo Madidini, "martire fascista di Cremona", in modo così banale, puerile e pagliaccesco, che Mussolini è indotto a vietarne la rappresentazione. A spingerlo a prendere questa decisione è stato anche un commento del critico Carini al quale ha dato il dramma in lettura. Il commento del Carini così si conclude: "Mi spiace, Duce, che questo dramma vada per l'Italia. Esso non potrà che divulgare l'opinione che S.E. Farinacci sia piuttosto incolto...". Ma Farinacci non si arrende. Vuole rappresentare il suo dramma a tutti i costi e telegrafa da Cremona: "Duce, richiamo la tua attenzione sui commenti che la mancata rappresentazione susciterebbe mentre, nel contempo, "L'amorosa tragedia" di Sem Benelli trionfa. Siamo in regime totalitario e autoritario e spero tu vorrai capire...". Il Duce capisce e concede il permesso. "Redenzione", dramma in tre atti dell'onorevole Roberto Farinacci, è rappresentato al Manzoni davanti a un pubblico composto per metà da squadristi cremonesi. Un altro dossier è ancora dedicato a Farinacci. Contiene le carte relative all'affare della sua tesi di laurea. La storia è questa. Farinacci si era laureato in legge a Modena, nel 1924, usufruendo di una sessione speciale per combattenti. Tutti coloro che lo conoscevano erano convinti che egli non poteva essere riuscito con le sue sole forze a superare l'esame. Si era anche sparsa la voce che avesse copiato la tesi, ma, poiché nel frattempo Farinacci era diventato segretario del partito, le mormorazioni si erano placate. La faccenda fu riportata d'attualità all'epoca dello scandalo Belloni, podestà di Milano. Questi, per ritorsione contro Farinacci, fece svolgere ricerche negli archivi dell'università di Modena allo scopo di rintracciare la tesi in questione. Non vi riuscì, perché la tesi era scomparsa. Naturalmente, tutti pensarono che fosse stato Farinacci a farla sparire, invece era stato lo stesso Mussolini. Questa tesi, infatti, è tuttora conservata in uno dei dossier del Duce insieme a un'altra, quella dell'avvocato Marenghi, che Farinacci copiò. La prima, quella del ras di Cremona, è intitolata: "Obbligazione naturale dal punto di vista della filosofia del diritto e del diritto civile". Quella di Marenghi: "Revisione critica delle varie teorie intorno al fondamento dell'obbligazione naturale". Salvo i titoli, le due tesi sono identiche perfino nelle virgole. Farinacci non ebbe neppure l'astuzia di cambiare le prime righe. Inutile dire che Mussolini fece sapere a Farinacci di essere a conoscenza del suo segreto. Esiste infatti nel dossier una lettera dello stesso Farinacci a Mussolini in cui curiosamente spiega e giustifica il suo comportamento. Eccone il testo: "Duce, io non volevo copiare. Avevo già bella e pronta la mia tesi di laurea il cui titolo era: "La somministrazione dell'olio di ricino ai sovversivi da parte dei fascisti non può essere considerata violenza privata, ma semplice ingiuria o, nella peggiore delle ipotesi, minaccia lieve". Questa, Duce, era la tesi che Pagina 13
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt intendevo discutere. Purtroppo il professor Groppali dell'Università di Modena mi sconsigliò di presentarla; temeva che quegli antifascisti dei miei esaminatori ne approfittassero per fregarmi. Per questo, Duce, decisi di copiare dal Marenghi". VII "BALBO È INGRASSATO" Autunno 1932. Kurt Suckert, alias Curzio Malaparte, vive a Parigi in Quai de l'Horloge. Non è un fuoruscito, anzi i fuorusciti autentici lo guardano con sospetto, ché nessuno ha dimenticato i suoi trascorsi fascisti, le sue rissose polemiche con Granisci e il suo duello con Pietro Nenni. Ma da tempo la "migliore penna del fascismo", come lo ha definito Gobetti, è in disgrazia presso il regime. Cacciato l'anno prima dalla direzione della "Stampa" (e anche da Torino con foglio di via obbligatorio quale "indesiderabile") per il suo modo di fare il giornale infischiandosene delle "veline" di Palazzo Venezia, Malaparte ha scelto volontariamente l'esilio. Il suo libro "Tecnica del colpo di stato" ha riscosso un successo internazionale. Gli editori se lo contendono. Lui scrive per il "Corriere" e per gli altri giornali italiani, ma scrive anche lettere di fuoco contro il suo ex amico Italo Balbo, che ritiene responsabile del suo licenziamento dalla "Stampa". Queste lettere egli le indirizza agli amici di Balbo desiderando, evidentemente, che il gerarca le legga. Ma certo non immagina che esse finiranno in uno dei tanti dossier riservati di Mussolini. Ecco qualche brano delle epistole malapartiane. Scrive il 3 ottobre 1932 a Nello Quilici, direttore del "Corriere Padano", giornale di Balbo: "Non contento di avere detto male di me ad Agnelli e a Ojetti, Balbo mi tratta con freddezza. Io me ne infischio, tanto più ora che sono in grado di farlo. Non gli è piaciuta la mia Technique? E a me che me ne importa? La verità è che ormai lo spirito rivoluzionario di Balbo è andato a farsi benedire. Italo è ingrassato, intendo fisicamente. Sarebbe un buon ministro di Luigi Filippo...". Sempre a Quilici, due mesi dopo: "Ti sei formalizzato perché ho detto che Balbo è ingrassato e mi rispondi che anch'io ho migliorato la mia posizione finanziaria in questi ultimi anni? Sì, ma con il mio lavoro di giornalista e con le percentuali, assai pingui, delle edizioni francese, tedesca, americana, spagnola, ecc. dei miei libri. Può dire Balbo altrettanto? Tu mi consigli di fare la pace con lui perché dici che è un uomo di grande avvenire e che egli è funesto agli avversari quanto fausto agli amici. So ben io che cosa vuol dire far la pace con Italo. L'amicizia di Balbo ha sempre fatalmente una ragione di complotto. E io sono contrario in modo assoluto a qualunque successore. Mussolini ha detto a Ludwig che il Paese non tollererebbe un secondo Mussolini. Figurati se tollererebbe un Balbo!... Al suo rivoluzionarismo io non credo. Non credo all'avvenire degli uomini grassi. E se fosse magro gli occorrerebbe un'altra testa e un altro cuore... Italo ha in sé la stoffa del tiranno di provincia, cioè del "cabotin" che ama l'oro e il potere. Brutto connubio. E tu sapessi quanto è ridicolo vedere Balbo atteggiarsi, da qualche tempo a campione della democrazia, del parlamentarismo, della libertà di stampa. Se ci fossero cinque minuti - oggi - di libertà di stampa, Balbo andrebbe in galera! Basta con i complotti balbiani, con le sue incomposte vociferazioni da marciapiede. La stoffa di Catilina non ce l'ha!". L'8 aprile 1933, questa volta da Londra, Malaparte scrive a Borelli, direttore del "Corriere", a proposito di un suo articolo che non è stato apprezzato "in alto loco". "Che ci posso fare? Quando le riviste sovvenzionate direttamente dal Capo e fornite da lui di spunti e argomenti escono con degli attacchi imbecilli contro di me, solo perché scrivo di Maurois, o perché mi faccio fare una giubba di lana scozzese da un sarto di Saville Row, o perché ho una macchina con targa straniera (che cosa si vorrebbe? che pagassi due bolli?), protesto io forse?... Mi attaccano? Io rispondo. L'unica disciplina che si può chiedermi, è che io non scriva quello che penso, ma mai che io scriva quello che non penso... Scriverò a Polverelli e gli chiederò il permesso di pubblicare in qualche rivista italiana il perché io stia all'estero. Io sono disoccupato. Sono stato cacciato da Torino col foglio di via. Quando vi sono tornato nel giugno 1931, mi hanno accompagnato in Questura e nuovamente diffidato. In tali condizioni non mi resta che vivere fuori... Mi lascino in pace. Diano ordine di non trattarmi come un fuoruscito, se non vogliono che un giorno o l'altro io mi consideri un fuoruscito... Non credo che a maggio tornerò in Italia. Sono sicuro che mi impedirebbero di Pagina 14
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt tornarmene via. Mi obbligherebbero a battere il lastrico a Roma, come un disoccupato. E so i pericoli che mi attenderebbero: spie intorno a me pronte a travisare ogni mia parola, inimicizie e gelosie pronte a scattare per il timore che io porti via il posto a qualcuno. Ormai il mio avvenire è fuori. In Italia per me è tutto bruciato". Le lettere di Malaparte finiscono ben presto sul tavolo di Balbo. Il "quadrumviro" non si limita a leggerle: per lui, quelle missive private sono più che sufficienti per costruire un capo d'accusa contro il giornalista. Il 7 giugno 1933 comunica la sua decisione a Mussolini con questo telegramma: "Duce, prima di partire per la seconda crociera atlantica ho denunciato al Tribunale Speciale Kurt Erik Suckert". Malaparte, che ignora questa denuncia, giunge a Roma per un breve soggiorno ai primi di ottobre. Italo Balbo è ai bagni di Salsomaggiore; ma ne è subito informato. Il 4 telegrafa a Mussolini: "Duce, ho il piacere di comunicarti che l'individuo del quale abbiamo parlato si trova a Roma presso l'hotel Bel Sito". Mussolini non perde tempo e, tre giorni dopo, il 7, si affretta a telegrafare a Balbo la bella notizia: "Caro Balbo, Malaparte è stato arrestato alle 14 di oggi all'albergo Bel Sito di Roma. Perquisito, ha dichiarato agli agenti che se avesse avuto documenti importanti non li avrebbe certo portati con sé". Poi, al fatto, seguì rapido il processo. Un mese dopo (ah vituperata lentezza della giustizia d'oggi!) da Palazzo Venezia partiva il telegramma conclusivo: "Roma 15 novembre 1933. Caro Balbo, ho il piacere di annunciarti che a Kurt Erik Suckert sono stati inflitti cinque anni di confino alle isole Lipari. Cordiali saluti, Mussolini". Malaparte resterà poco alle Lipari: di lì a qualche mese, grazie all'amico Ciano, potrà scontare il confino nella sua villa di Forte dei Marmi. VIII DUCE, FATEMI CONTE "Duce, mi segnalano che Italo Balbo si è fatto ricevere dal Pontefice in udienza privata. Io credo che egli, Quadrumviro della rivoluzione, inginocchiandosi davanti al Papa abbia voluto farsi perdonare la lunga appartenenza alla Massoneria o l'uccisione di don Minzoni. Balbo è sempre stato un mangiapreti, un bestemmiatore e un libertino. Non ti sembra che una visita del genere, in questi momenti abbia l'aspetto di un vero e proprio vento di fronda?" A scrivere in questi termini a Mussolini il 5 febbraio 1930, è Roberto Farinacci. Il ras di Cremona è invidioso della splendida carriera compiuta dal camerata ferrarese col quale, appena pochi anni prima, ha messo a ferro e fuoco la Bassa padana e l'Emilia. E ora, come se ce ne fosse bisogno, cerca di insinuare nella mente di Mussolini dubbi e sospetti che, in realtà, hanno già radici piuttosto profonde. Effettivamente, agli inizi degli anni Trenta, Balbo aveva tutte le caratteristiche per essere invidiato e temuto dagli altri gerarchi fascisti. Quadrumviro a 26 anni, capo della milizia a 27, sottosegretario a 29, generale a 32 e, non ancora trentaquattrenne, addirittura ministro dell'Aeronautica, l'ex repubblicano di Ferrara, trasformatosi in capitano di ventura del fascismo anche per calcolo economico (contrattò lo stipendio prima di iscriversi al partito), sta dimostrando di possedere oltre che la grinta del bastonatore anche la stoffa del leader. Mussolini stesso lo teme, ma non si sente ancora sufficientemente forte per metterlo da parte. Si limita, per il momento, a raccogliere lettere come quella di Farinacci, segnalazioni di polizia e altri documenti che potrebbero un giorno tornargli utili. È una documentazione copiosa e, spesso, pettegola sui trascorsi dell'uomo e che in parte già conosciamo. Una nota segnala che al campo estivo organizzato dalla Regia Aeronautica a Viareggio "S.E. Balbo si è fatto issare una tenda simile a quella di un sultano. Alla sua tavola si pasteggia con champagne e caviale. Tutto questo sfarzo è voluto da S.E. Balbo per fare colpo sulla contessa Sandra Spaletti che spesso è sua ospite". Un'altra informativa rivela che "S.E. Balbo ha acquistato presso Follonica, in località detta Punta Troia, un appezzamento di terreno di circa 37 ettari. Egli ha ribattezzato tale località Punta Ala, ha fatto costruire una strada provinciale (costo 600.000 lire), ma che provinciale lo è per modo di dire, visto che è chiusa e possono utilizzarla soltanto Balbo e i suoi ospiti. A spese della Pubblica Amministrazione, egli ha pure dotato la sua tenuta di acqua e Pagina 15
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt telefono (costo 300.000 lire) e ha ripopolato di selvaggina l'intera zona. In questa tenuta - continua la nota - esistevano due antiche torri abitabili che S.E. Balbo ha fatto ammodernare trasformandole in ville. La prima, detta Torre Troia, è diventata ora Torre Ala e viene utilizzata come residenza dallo stesso Balbo. L'altra, detta Torre Idalgo, che è munita di ponte levatoio, viene di volta in volta assegnata agli atlantici (i piloti che avevano partecipato alle trasvolate atlantiche, N.d.A.) e alle loro amanti. Ognuno di essi ha diritto a soggiornare in detta torre per 24 ore con la sua compagna ed è autorizzato a isolarsi, sollevando il ponte levatoio, dopo che si è provveduto a rifornirlo di cibi e vivande. In un primo tempo - rivela ancora la comunicazione - gli abitanti della zona erano convinti che si trattasse di lavori militari. Infatti, il porticciolo di Punta Ala e l'adiacente idroscalo sono stati eseguiti, per ordine di Balbo, da reparti speciali della Regia Marina giunti da La Spezia. S.E. Balbo si serve per i suoi spostamenti di, un idrovolante personale. Recentemente, questo velivolo è affondato perché era stato ormeggiato in maniera non eccellente. Nelle operazioni di ricupero un giovane aviere ha perduto la vita...". Mussolini non ignora neppure i trascorsi massonici di Balbo anche se Farinacci, nella sua lettera, ha l'aria di fargli una rivelazione. Conserva, fra le sue carte, una vibrata protesta del ras di Ferrara ("Duce, tu non hai il diritto di dubitare della mia lealtà. Sono offeso e addolorato che tu possa pensare che io appartenga alla Massoneria"), ma alla lettera di Balbo sono allegate le prove che concedono a Mussolini il diritto di dubitare quanto vuole. La prima è la fotocopia di un documento in cui risulta che Balbo è "oratore" della Loggia massonica ferrarese, la seconda: una lettera del Gran Maestro che si congratula per l'elezione di Balbo a deputato nel 1921 ("Con voi, 16 nostri fratelli sono onorevoli e, fra questi, i fascisti sono cinque: Bonelli, Bottai, Capanni, Farinacci e Terzaghi"). All'elenco saranno aggiunti: Acerbo, Caradonna, Chiostri, Lanfranconi, Lancellotti, Crisafulli, Mondio, Carnazza, Cipriani, Marinelli, Monchi e Mastino, con questa precisazione: "Acerbo presentò anche Ciano, ma poiché questi pretendeva un grado molto elevato, non fu ammesso". Fra i documenti conservati da Mussolini ve n'è uno che assume, nel suo valore storico, un tono beffardo. È la lettera scrittagli da Balbo la vigilia del clamoroso smacco di Parma. È l'estate del 1922. Dopo avere distrutto le organizzazioni democratiche nelle campagne del ferrarese, lasciando dietro di sé morti e feriti, Balbo punta con i suoi squadristi contro Parma. Ma i popolani dell'Oltretorrente, guidati da Guido Picelli, hanno alzato le barricate e sono decisi a resistere. Scrive Balbo da Borgo S. Donnino: "Carissimo Mussolini, come ti diranno Ponzi e Farinacci il convegno di stasera ha stabilito le modalità tattiche dell'azione di Parma. Per i borghi Naviglio e Valorio gli obiettivi non sono ancora stati precisati dagli amici parmensi, per l'Oltretorrente il piano è il seguente: all'alba del giorno fissato occupazione simultanea dei tre ponti Umberto, Caprazucca e di Mezzo, della Barriera Nino Bixio e D'Azeglio, della Clinina e dei Giardini, in modo che il quartiere sia completamente circondato. A occupazione avvenuta si concederà una tregua per l'esodo di vecchi, bimbi, donne ed estranei e si inizierà poscia la battaglia che terminerà con l'epurazione di Parma vecchia e con alte fiamme che saliranno al cielo. Alla truppa che eventualmente intervenisse, i fascisti risponderanno come la truppa rispose ai fascisti nell'agosto. Per quello che riguarda la preparazione morale tutti sono concordi nel chiederti almeno un'abile corrispondenza da Parma da pubblicarsi sul "Popolo" e da far riprodurre dal "Carlino", "Giornale d'Italia" e "Giornale di Roma"; corrispondenza che impressioni l'opinione pubblica per quanto si è commesso e si commette contro di noi. Anche ieri è stato ferito a morte uno dei nostri; ferrovieri fascisti delle altre città e carrettieri cremonesi vengono regolarmente bastonati; la situazione è pressoché insostenibile. La giornata fissata per l'inizio sarebbe sabato (notte dal venerdì al sabato), ti va? I milanesi parteciperanno anch'essi all'azione con i fascisti scelti di Piacenza, Cremona, Mantova, Reggio, Bologna, Modena e Ferrara. Per riserva farò muovere anche Carrara. Vedrai che l'azione riuscirà. L'unico ostacolo, per ora, è nelle finanze. Si potrebbe trovare all'uopo un po' di quattrini? Io rimango a Borgo a coordinare i piani e a preparare ogni particolare. Cordiali saluti, tuo Italo Balbo. P.S. Lettera scritta malissimo per molte buone ragioni, non ultima quella dell'ora avanzata e della grande stanchezza..." L'attacco contro Parma si rivelerà un clamoroso insuccesso per i fascisti e dovrà intervenire l'esercito per piegare i resistenti. Ma forse è proprio per Pagina 16
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt questo che Mussolini conserva la tracotante lettera scrittagli da Balbo alla vigilia. Balbo non è più tornato ad Argenta dall'agosto 1923, ossia da quando i suoi squadristi hanno ucciso a bastonate l'arciprete Giovanni Minzoni. Vi torna alfine il 10 ottobre 1932 per una "adunata", ma soprattutto per far cessare le dicerie, ormai correnti nel ferrarese, circa il suo imbarazzo a rimetter piede nella cittadina. A nove anni dalla morte del povero arciprete, Balbo è cambiato. Non è più il capobanda di Ferrara assoldato dagli agrari per distruggere le organizzazioni democratiche, non è più lo squadrista feroce e guascone della "Calibano", che si vantava di avere percorso l'Emilia come una colonna di fuoco. Ora è ministro, è un trasvolatore famoso e anche amico degli uomini più potenti del regime. Eppure, tornare ad Argenta gli fa un certo effetto. È nervoso, imbarazzato. Il suo discorso è un balbettio di gaffes e di inesattezze. Gli ascoltatori, per esempio, sono subito congelati all'esordio da questa frase: "Il mio saluto alla città di Argenta è soltanto un saluto stereotipato...". La battuta involontaria suscita commenti e malumori, tanto che lo stesso Mussolini chiede spiegazioni riservate. Il prefetto di Ferrara si affretta a rispondergli che "S.E. Balbo non intendeva offendere nessuno, solo che quel giorno era molto nervoso per via del fatto che era la prima volta che tornava ad Argenta dove, come è noto, fu ucciso don Minzoni...", e che Mussolini quindi lo scusasse. Ora che è ministro dell'Aeronautica, Italo Balbo intensifica la sua attività frondista. Ha un giornale suo, il "Corriere Padano", diretto da un giornalista di valore, Nello Quilici, che è anche il suo consigliere culturale. Ha una corte di amici fidati coi quali non perde occasione di dir male di Mussolini, che giudica un debole ("Fa gli occhiacci per sembrare energico, ma si affloscia alle prime difficoltà"). A Roma, gli amici lo chiamano, non proprio scherzosamente, "il successore", e lui li lascia dire. Si sente forte, quasi intoccabile. Come ministro, d'altra parte, sa il fatto suo. A lui si deve il grande sviluppo dell'aeronautica italiana e il prestigio che essa acquista agli occhi del mondo. Le sue trasvolate atlantiche, prima nel Sud (dicembre 1930 - gennaio 1931) e poi nel Nord America (luglio-agosto 1933) con idrovolanti in formazione, sono indubbiamente imprese eccezionali. "Gli aerei di Balbo lasciano ovunque una scia di sospiranti dame..." scrivono i giornali, ma fanno anche di lui un personaggio di fama internazionale. È il momento del suo maggiore successo. Mussolini, ingelosito dagli applausi ricevuti dal camerata ferrarese, per il momento incassa. Tuttavia gli nega il titolo nobiliare cui Balbo ambirebbe ("Hai fatto marchese De Pinedo, fammi almeno conte..."). Lo nomina maresciallo dell'Aria, ma gli toglie il dicastero dell'Aviazione. Mussolini continua intanto a collezionare rapporti e spiate sul neo maresciallo. Ora, a quanto sembra, Balbo ha un risveglio democratico e i suoi discorsi vengono riportati al Duce dai solerti delatori. "Balbo si lamenta del ritorno della pellagra nel Veneto. Dice che, di questo passo, saranno rimpianti i socialisti..." "Balbo è ormai considerato un nemico. Per i camerati veneti lui non è che il cugino dell'on. Pisenti e il protettore di noti antifascisti come Castelletti..." Anche il Diario, che Balbo ha dato alle stampe, suscita proteste fra gli alti esponenti fascisti che lo giudicano un plateale autoincensamento. Mussolini, che ha voluto esaminare preventivamente le bozze, si è però limitato a correggere la zoppicante sintassi. Alla fine Mussolini si libera anche di Balbo inviandolo a Tripoli come governatore generale della Libia. Balbo parte per il dorato esilio imprecando, ma poi si affeziona al nuovo ambiente. Fa un buon lavoro e si rende indubbiamente utile, sia preparando un'accoglienza e una sistemazione decorose alle migliaia di contadini affamati inviati a colonizzare la "quarta sponda", sia realizzando grandi opere pubbliche, fra le quali la grande strada costiera dall'Egitto alla Tunisia, che prenderà il suo nome. In Libia, Balbo vive da viceré, o meglio da signorotto orientale. Indossa divise sempre più sfarzose, i suoi ricevimenti sono fastosi, con ospiti di riguardo e signore affascinanti che giungono espressamente dall'Italia. Nei pomeriggi di noia salta sul suo aereo per essere in via Veneto all'ora dell'aperitivo. Fra Mussolini e Balbo, il tono ufficiale resta scherzoso e amichevole, ma in privato le cose vanno in maniera diversa. In occasione della guerra d'Etiopia (1935-1936) essi si scontrano violentemente. Balbo, sempre portato per le guasconate, vorrebbe, con un colpo di mano, attaccare la Home Fleet, la flotta Pagina 17
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt britannica che è entrata nel Mediterraneo. Mussolini respinge il puerile progetto. Gli nega anche il permesso di organizzare una colonna che dovrebbe attaccare Alessandria e riaprire Suez alle navi italiane. Anche la politica libica del maresciallo è seguita con sospetto da Roma. I suoi sforzi, autentici per la verità, di migliorare le condizioni dei coloni, e anche degli arabi, vengono spesso frustrati. Agli arabi di Libia Balbo ha promesso la cittadinanza italiana e persino una rappresentanza alla Camera dei Fasci. Quando la sua proposta è respinta, lui se la prende con Mussolini. "Balbo ha detto" riferisce un delatore "che in un Parlamento dove ci sono i siciliani possono starci anche un paio di arabi." In una velina indirizzata al Duce dal capo della polizia, il 25 aprile 1936, si legge: Monsignor Pellizzola di ritorno da Tripoli racconta agli amici che è stato squisitamente ricevuto da Balbo; che Balbo aveva proposto l'affondamento della Home Fleet, quando venne in Mediterraneo, ma che Mussolini non ha osato; che adesso si è saputo che non avevano (gli inglesi) munizioni, sicché il colpo sarebbe riuscito in pieno, e la Storia d'Italia e del mondo sarebbe stata cambiata umiliando Londra...; che fra due anni, quando Londra avrà potentemente riarmato e vorrà la rivincita, noi sconteremo questo errore e avremo un osso assai più duro dell'Abissinia da combattere; che nei rapporti fra italiani e arabi, i primi si lamentano che novanta volte su cento gli arabi sono favoriti dai sindacati in ogni questione; che gli arabi, che quest'anno hanno avuto per la prima volta la leva, partono volentieri a combattere in Africa orientale ma sono scontenti che dalla leva siano esclusi gli ebrei; che ha passato la Pasqua a Gurian dove ha trovato moltissimi ferraresi i quali nutrono per Balbo una vera adorazione; che sono tutti entusiasti della rinascita militare in Africa Orientale ma che sono piuttosto scettici sui risultati economici della nuova colonia. Negli anni successivi, Balbo continua a essere attentamente controllato. Ogni sua frase significativa viene puntualmente riferita a Mussolini. Ecco un breve campionario: "Il 4 febbraio 1937, Balbo si è incontrato all'Excelsior di Roma con Cini, Lusignoli, Fontanelli e Colapinto. Dopo essersi fatto promettere il segreto, Balbo ha rivelato di avere saputo dal comandante dell'aeronautica delle Baleari che Arconovaldo Bonaccorsi si sta comportando in modo orribile in Spagna" . "Balbo ha definito Baroncini l'uomo più in gamba di Bologna. Mi dispiace" ha aggiunto "di averlo sacrificato per far piacere a Grandi." Balbo ha detto: "Il popolo non ha alcun mezzo per far sentire la propria voce. Non ha lo sfogo necessario. Io sono contro le investiture dall'alto. Il Capo lo sa. Tutto l'ordinamento sindacale e corporativo non è che una sovrapposizione di funzionari. Le categorie devono essere rappresentate dai loro uomini". "Fontanelli gli ha così risposto: "Io sono invece per le assemblee dei chirurghi e non dei malati. Allentare le briglie al popolo significa rinunciare a contenerlo"". "E Balbo: "Io invece sono per le elezioni. Le elezioni sono un termometro, servono a misurare la temperatura del popolo. Nella mia ultima visita al Capo gli ho detto che avevo l'impressione che in Italia ci fossero più comunisti di quanti egli credesse"". Le segnalazioni della polizia e le lettere anonime dei delatori non sono certo prove valide a testimoniare un mutamento delle opinioni politiche di Balbo. Sta di fatto che il maresciallo dell'Aria cerca di prendere sempre più le distanze da Mussolini. Forse non ha mai rinunciato all'idea di essere il successore, anche se Galeazzo Ciano, suo avversario e suo privilegiato concorrente, gli ha tagliato da tempo la strada. Balbo, tuttavia, si rivela anglofilo e antitedesco molto prima di Ciano, anzi proprio quando costui, come ministro degli Esteri, sta realizzando quello che verrà chiamato il patto d'acciaio fra l'Italia e la Germania nazista. La sua avversione per la Germania è totale. "Io i tedeschi non li discuto: li odio", dichiara agli amici fidati credendo che la sua frase non venga riferita al Duce. Poi interviene vivacemente per bloccare sul nascere l'alleanza. "Finirete per fare i lustrascarpe ai tedeschi", grida in faccia a Ciano. E Ciano corre a riferire ogni cosa a Mussolini. "Lo fa per fare la fronda", riferisce il genero al suocero. "Ingegno scarso, grande ambizione, assoluta infedeltà, capace di tutto: ecco Balbo. Conviene tenerlo d'occhio." Allo sfogo di Ciano seguirà questo commento di Mussolini: "Balbo rimarrà sempre quel porco democratico che fu oratore della Loggia Girolamo Savonarola di Ferrara". Quando il 10 giugno 1940 scoppia la guerra che, o per spirito di fronda, o per Pagina 18
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt felice intuito, aveva inutilmente cercato di evitare, Balbo ne sarà anche la prima importante vittima. Muore 18 giorni dopo, il 28 giugno, precipitando col suo aereo nella zona di Tobruk dopo essere stato colpito per errore dall'antiaerea dell'incrociatore San Giorgio. L'"incidente" non manca di suscitare perplessità e sospetti soprattutto fra coloro che conoscevano la posizione di Balbo nei confronti del regime. Le voci che sia stato abbattuto per ordine di Roma si intensificano, tanto che la polizia non fa in tempo a raccoglierle tutte. Da Ferrara, dove vive la contessa Florio, vedova di Balbo, è lo stesso prefetto Temistocle Testa a chiedere provvedimenti. Egli scrive al capo della polizia Bocchini: "Caro Arturo, è opportuno sorvegliare attentamente la contessa Florio perché si lascia andare a dichiarazioni compromettenti. Dice, per esempio, a tutti coloro che vanno a farle visita: Lui mi manderà al confino, ma io dico tutto. Italo non voleva la guerra, si era sempre opposto. Diceva che non eravamo preparati. Proprio dieci giorni prima di morire aveva mandato mio fratello Gino a Roma a chiedere armi e carri armati...". Ma la morte di Balbo non è dovuta a un incidente preordinato. È stata una disgrazia. La prova è tuttora conservata fra le carte riservate di Mussolini. Si tratta della relazione, scritta per il Duce dal generale di brigata aerea Egisto Perino, il 1° luglio 1940. Eccola: Il 28 giugno, dopo aver conferito col Maresciallo Balbo, in Derna, circa le esigenze dei reparti e delle basi, fui invitato a colazione alla sua mensa. Erano presenti: il generale Tellera, il generale Porro, il generale Silvestri, il console Garetti, il tenente colonnello Sorrentino, il maggiore Frailich, il capitano Brunelli, il capitano Quilici (direttore del "Corriere Padano", N.d.A.), il tenente Lino Balbo (nipote di Italo e federale di Ferrara, N.d.A.). Pervenuta comunicazione dal comando delle truppe del settore Est della rioccupazione di alcuni terreni prossimi al confine, tra i quali quello dell'aeroporto di manovra di Sidi Azeis, il Maresciallo Balbo, che già da alcuni giorni aveva dimostrato desiderio di recarsi in quella località, decise immediatamente di portarcisi in volo, con l'intenzione principale di passare in rivista la Divisione libica - che aveva effettuato la rioccupazione - e tenere rapporto agli Ufficiali di quei reparti. I presenti - tutti - interpellati, manifestarono il desiderio di far parte della spedizione al seguito del Maresciallo. Seduta stante, S.E. Balbo impartì questi ordini: "Il generale Silvestri si rechi subito a Sidi Azeis con scorta di cinque apparecchi da caccia per avvertire i reparti libici dell'ispezione che fra qualche ora sarebbe stata loro passata dal Governatore. Lo stesso generale Silvestri, partendo con un apparecchio Ghibli dall'aeroporto di Tobruk, dia ordine ad altri cinque caccia di restare pronti a decollare dalle 17,15 in poi, per far scorta a due apparecchi S. 79 che, transitando su Tobruk, si sarebbero recati a Sidi Azeis". I due S. 79 erano quelli rispettivamente assegnati alle persone del Maresciallo Balbo e del generale Porro. Il Maresciallo, prima di lasciare la mensa, dette appuntamento per le 16,45 all'aeroporto di Derna dal quale sarebbe partito alle 17. Egli stesso stabilì la suddivisione dei presenti tra i due S. 79 e decise che sul suo velivolo, oltre al maggiore Frailich e agli specialisti, avrebbero dovuto prendere posto: il console Garetti, il capitano Brunelli, il capitano Quilici, il tenente Lino Balbo e il tenente Gino Florio, mentre i rimanenti vennero destinati all'S. 79 del generale Porro, sul quale, oltre al sottoscritto, al capitano Leardi e agli specialisti, salirono il generale Tellera, il tenente colonnello Sorrentino e il capitano Goldoni. Partiti dall'aeroporto di Derna alle 17, gli apparecchi diressero in sezione, ravvicinati, sull'aeroporto di Tobruk per rilevare i cinque caccia che dovevano scortarli. Appena giunti in prossimità di detto aeroporto (a quota poco superiore ai 1000 metri) ci accorgemmo che sull'aeroporto stesso stavano cadendo delle bombe i cui effetti già si dimostravano palesi, risultando che due degli apparecchi a terra erano in fiamme. L'aereo del Maresciallo non deviò dalla rotta e transitò alla stessa quota sul campo che, in quell'istante, era bersaglio dell'offensiva nemica. Due o tre bombe caddero ancora. Nessuno di noi, pur sforzandosi di farlo, riuscì a scorgere gli apparecchi inglesi che bombardavano. Essi dovevano essere ad altissima quota, in numero non grande a calcolare dal non rilevante numero di bombe da essi sganciate (circa 50). Quasi sulla verticale dell'aeroporto, fummo investiti da una centratissima Pagina 19
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt salva di artiglieria - sparavano le batterie costiere e quelle di una R. Nave della baia di Tobruk (era l'incrociatore San Giorgio, N.d.A.) - e da proiettili traccianti da mitragliera da 20 millimetri. Istintivamente gli apparecchi, disunendosi dalla formazione, scapparono in direzione opposta: noi verso il mare, l'apparecchio di Balbo, alla nostra destra, verso terra. Intanto, il tiro già aggiustato delle batterie continuava. Vedemmo l'aereo del Maresciallo scivolare repentinamente su un'ala e quindi precipitare verso il suolo dove, dopo l'urto, si incendiava. Anche il nostro velivolo era stato in varie parti colpito da schegge e da proiettili di mitragliatrice. Consigliammo perciò il generale Porro a dirigersi per l'atterraggio verso il più prossimo aeroporto onde toglierci da una posizione sempre più pericolosa. Poco dopo atterrammo nel campo di El Gazala da dove subito, in automobile, raggiungemmo Tobruk. Sul posto fu constatato che l'apparecchio del Maresciallo Balbo, colpito in pieno da un proiettile di artiglieria, era caduto in scivolata incendiandosi all'urto. Tutti i componenti dell'equipaggio erano deceduti all'istante. La sera stessa, il generale Porro partì per partecipare la notizia ai familiari del Maresciallo Balbo che si trovavano a Cirene. Lo scrivente, rientrato nella notte a El Gazala, proseguì il mattino seguente la missione di cui era stato incaricato. La morte di Balbo libera comunque il regime di un pericoloso "ribelle" e Mussolini di un insidioso candidato alla successione. Alcuni anni dopo, nelle squallide giornate della Repubblica di Salò, Mussolini ricorderà il suo quadrumviro con queste parole: "Balbo? Un bell'alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi". IX CREDEVA OBBEDIVA COMBATTEVA I fascisti di oggi lo disprezzano, giudicandolo un qualsiasi "colonnello Buttiglione" del regime. Eppure, a pensarci bene, dovrebbero sceglierlo come modello. Perché se il fascismo si proponeva di forgiare un italiano nuovo, Achille Starace ne fu indubbiamente il prototipo. Del fascista perfetto immaginato da Mussolini aveva infatti tutte le prerogative, credeva sul serio, obbediva sul serio, combatteva sul serio. Anche perché non sapeva far altro. Al libro preferiva il moschetto, agli atenei le palestre, ma era coraggioso, atletico e sempre pronto allo "scontro fisico" (anche se, come vedremo frugando fra le carte del Duce, pare avesse un difetto che mal s'adattava col mito del virilismo fascista da lui tanto esaltato). Privo in maniera assoluta del senso del ridicolo, amava le divise, i pennacchi e le medaglie. Fanatico della disciplina, nutriva verso il capo una fedeltà più che canina, sempre pronto a eseguire, senza discutere, gli ordini di lui. Per giunta era anche onesto e, al momento opportuno, seppe morir bene, a differenza di tanti suoi camerati che dopo aver intrallazzato per vent'anni, esaltando, a parole, la "bella morte", quando giunse l'ora dei conti cercarono vigliaccamente (e più di uno ci riuscì) di sfuggirla. Achille Starace avrebbe potuto sicuramente evitare di finire fucilato a piazzale Loreto con indosso quella sua curiosa divisa da ginnasta con la quale girava per Milano nei giorni della Liberazione. Da anni, infatti, era stato messo da parte e con la repubblica fascista non aveva nulla da spartire. La sua stella era tramontata nel 1939, sprofondando di colpo in un mare di barzellette e di pernacchie. Ma fino a quel momento, per circa otto anni, era stato il numero due del regime. Nessuno dei quattordici segretari che ebbe il partito fascista, durò a lungo come lui. Dal '31 al '39 - gli anni della grande retorica, del "decennale", della battaglia del grano, dell'avventura africana e spagnola, dell'abolizione del "lei", della campagna demografica, del passo romano e del Patto d'acciaio Achille Starace rimase saldamente in sella alla testa del PNF, Partito nazionale fascista. Protetto da Mussolini (che gli aveva ordinato di "instivalare l'Italia"), fece del suo meglio per rinvigorire l'italica stirpe. Fu il farneticante coreografo delle adunate oceaniche, il regista dei Littoriali, il campione di quella retorica e di quel formalismo che furono tanto utili al partito per colmare il vuoto lasciato dall'assenza di una vera dottrina. I suoi incredibili "fogli di disposizione" (debitamente vistati dal Duce e conservati in originale nei suoi dossier), testimoniano ancora oggi, nel loro sgangherato linguaggio da fureria, quali erano gli scopi che si prefiggeva. Poi, Pagina 20
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt come sappiamo, gli sforzi staraciani annegarono in un mare di risate. Licenziato su due piedi, come si licenzia un servo, Starace sarà l'unico capro espiatorio di quell'immenso sciocchezzaio. I cronisti dell'epoca ci tramanderanno le sue gaffes, le sue ridicole sortite, le sue illusioni puerili, facendo di lui una sorta di clown del grande circo Barnum fascista. Dimenticheranno però di sottolineare un importante dato di fatto. Che è questo: il pagliaccio Starace non muoveva un dito senza l'ordine di Mussolini. Di conseguenza, le sue assurde "disposizioni" erano forse farina del suo sacco, ma avevano l'approvazione del mugnaio. Ed è da questo punto di vista che dovrebbe essere riesaminata l'opera del più ottuso, ma anche del più obbediente gerarca di Mussolini. Nei dossier riservati del Duce c'è un curriculum di Starace redatto in occasione della sua nomina a segretario del partito. Eccolo: Achille Starace è nato a Gallipoli (Lecce) il 18 agosto 1889. Ragioniere, ufficiale dei bersaglieri, ha partecipato alla guerra, dal 24 maggio 1915 all'armistizio, sempre in zona di operazioni. Ha riportato due promozioni per merito di guerra, l'ordine militare di Savoia, una medaglia d'argento, quattro di bronzo e una croce di guerra. Finita la guerra iniziò la propaganda fascista nella Venezia Tridentina. Segretario politico del fascio di Trento, sostenne l'aspra lotta contro il governo del tempo, che culminò con le memorabili giornate di Bolzano e di Trento. Ha partecipato, come comandante, a numerose azioni squadristiche in diverse province del regno. Particolare importanza ebbero le giornate di Andria, con le quali fu definitivamente scardinata l'organizzazione rossa delle Puglie. Vicesegretario del partito dal 1921 al 1923, con Michele Bianchi, fu anche alto commissario del fascismo. Durante la marcia su Roma raggiunse tutti gli obiettivi assegnatigli. Da Verona, dove era il suo quartier generale, ebbe l'ordine di trasferirsi a Milano, che raggiunse con 1500 uomini perfettamente armati. Concorse all'assalto dell'"Avanti!", assunse il comando della piazza e partecipò al disarmo della guardia regia. A Milano istituì il primo nucleo della milizia. Dal 1924 al 1926 ebbe numerosi incarichi nella sua qualità di ispettore del partito. Nell'aprile del 1926 fu nuovamente nominato vicesegretario del partito. Oggi può sembrare incredibile che il nome di Starace, un uomo insediatosi fin dalla prima ora nelle alte sfere del partito, non compaia mai sui documenti e sui testi che si riferiscono ai primi anni della dittatura. Benché risulti sempre presente nelle sedi decisionali del partito, i verbali non segnalano mai i suoi interventi. Fu detto in seguito che egli preferì tacere per non prendere posizione, mirando esclusivamente a conquistarsi la fiducia di Mussolini, che già idolatrava. Probabilmente non parlò mai perché non sapeva assolutamente cosa dire. Premeditata o no che fosse, questa politica gli portò fortuna. All'inizio degli anni Trenta, quando Mussolini, ormai saldo al potere, decise di liberarsi di ogni possibile concorrente allontanando i vari Giovanni Giuriati, Italo Balbo e Roberto Farinacci, non esitò a scegliere quale nuovo segretario del partito il docile Starace. D'altra parte, un uomo privo di idee, di senso critico e portato per natura all'obbedienza cieca, pronta e assoluta, era proprio quello che Mussolini cercava per restare solo sulla scena politica. La nomina del nuovo segretario fece naturalmente molto rumore. Si racconta che Leandro Arpinati, allora sottosegretario all'Interno, corse da Mussolini per dirgli, con la sua abituale franchezza: "Ma lo sai che Starace è un cretino?". Al che il Duce rispose: "Lo so. Ma è un cretino ubbidiente". Il "cretino ubbidiente" si insedia a Palazzo Vidoni il 7 dicembre 1931. Non nasconde il suo proposito di elevare Mussolini al di sopra di tutti, di farne un semidio. Lo dimostra il giorno stesso della nomina quando, in attesa dell'arrivo del capo, ordina ai gerarchi di disporsi su due file e di provare con lui un nuovo rituale di sua invenzione. All'ingresso del capo, spiega Starace ai camerati, lui griderà: "Saluto al Duce!" e gli altri, in coro e col braccio teso, dovranno rispondere: "A noi!". L'innovazione non è bene accolta. "È una pagliacciata", si mormora. Altri pensano che Mussolini fermerà sul nascere la trovata carnevalesca. Ma si sbagliano: più tardi, quando, dopo avere provato e riprovato, tutti recitano la nuova formula di saluto, il Duce gonfierà il petto soddisfatto. Era proprio quello che lui si aspettava da Starace. Col nuovo segretario il fascismo cambia faccia. Nel partito non si fa più politica (a quella pensa soltanto lui, il Duce); ci si occupa invece di sagre e di adunate. Starace sogna di trasformare l'Italia in un Paese disciplinato e combattivo; una sorta di caserma in cui ogni uomo è un soldato e ogni donna una madre prolifica ed eternamente gravida. Dichiara guerra anche al costume, Pagina 21
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt all'arte astratta, agli spettacoli "infranciosati", ai film e ai libri stranieri, al tight, al cappello a cilindro, alla stretta di mano. Molti nomi e vocaboli di provenienza straniera, ma ormai di uso comune, sono tassativamente aboliti. Starace stesso, con la consulenza di illustri linguisti, si affanna per escogitare termini sostitutivi che segnala preventivamente a Mussolini: "panorama", diventerà "tuttochesivede", il "film" il "filmo", i "cotillons" i "cotiglioni", l'"ouverture" l'"apertura", il "cachemir" il "casimiro", il "dumping" dell'industria il "rinvilio", i magazzini "Standard" si chiameranno "Standa". (Paolo Monelli suggerirà di trasformare il francese "s'il vous plait" in "Silvio Pellico", e "Galileo Galilei" in "Galileo Galivoi"). Totò si impadronisce di queste battute per una sua rivista e la cosa giunge agli orecchi del Duce, che dapprima si arrabbia ma poi ci ride sopra. Anche i sigari e sigarette cambiano nome: le "Giubek" diventano "Giuba" , i "London", "Firenze", i "Trabucos" , "Macallé" . La stessa sorte tocca alle località italiane con nome straniero, come Courmayeur e Saint Vincent che diventano Cormaiore e San Vincenzo, e ai cittadini che sfoggiano appellativi esotici: Wanda Osiris diventerà Vanda Osiride, Lucy D'Albert, Lucia D'Alberto e Renato Rascel, Renato Rascele. Come capita sempre a chi fa carriera troppo in fretta, anche Starace diventa l'obiettivo preferito dei soliti diffamatori anonimi. Da tempo, per esempio, corrono voci maligne circa la sua manifesta ostentazione di virilismo fascista e del suo maschilismo sfrenato. Si mormora infatti nei salotti romani che il segretario del partito è in realtà un pederasta. L'accusa è grave, anzi, gravissima. È l'insulto peggiore che possa essere rivolto a un fascista. Così, quando queste dicerie giungono all'orecchio di Mussolini, gli agenti dell'OVRA sono subito messi al lavoro per accertarne la credibilità. Il risultato dell'inchiesta è riassunto in una nota anonima conservata nei dossier: "A Lecce, dove S.E. Starace ha trascorso la propria giovinezza, è molto diffusa la convinzione che il Segretario del Partito sia un pederasta passivo. Per questa sua debolezza egli sarebbe anche stato espulso dal Collegio Nazionale dove studiava da ragazzo. Inoltre" continua la nota informativa "c'è a Lecce un certo Ramundo che si vanta apertamente di essere stato il primo profittatore fisico della sua fanciullezza". Per fortuna di Starace, a controbilanciare questa pesante accusa giungono sul tavolo di Mussolini altre informative di tutt'altro tenore. In una si definisce il Segretario del Partito "un grande consumatore di ballerine". In un'altra si afferma che "l'attività di puttaniere di S.E. Starace non ha un attimo di sosta: tutte le compagnie di giro che passano dai teatri di Roma finiscono sempre per inviare le loro più belle rappresentanti a Palazzo Vidoni (sede della segreteria del PNF)". C'è anche una lettera di un vescovo, monsignor Goffredo Zaccherini, il quale scrive scandalizzato al Duce affermando che "in un castello di Santa Severa, presso Roma, Starace, Scorza e altri gerarchi organizzano orge neroniane". Poiché Mussolini gli ha ordinato di fascistizzare l'Italia, Starace trova che il modo più semplice di eseguire l'ordine è quello di rendere obbligatoria l'iscrizione al partito. Chi non si iscrive non troverà lavoro, e la tessera del fascio diventerà per molti la tessera del pane. In questa fase di "staracismo acuto" le strade d'Italia si popolano di uomini in divisa. È l'"operazione instivalamento" . "Petto in fuori, pancia in dentro, grinta dura", è il ritornello di quei giorni. Ma, per costituzione fisica, gli italiani non riescono a modificare le proprie sembianze. Gerarchi panciuti, cattedratici dai piedi piatti, funzionari statali dalle spalle ricurve sono comunque costretti a indossare una lugubre divisa d'orbace sardo e a inalberare folli copricapi. Per giunta, Starace li obbliga a correre alla bersagliera, a saltare le baionette, a cimentarsi in gare sportive, a gettarsi dentro il cerchio di fuoco. E i poverini ci provano: d'altra parte, ora, per fare carriera, sono più importanti le prove atletiche che quelle culturali. Il "grande coreografo del regime", come lo definisce Mussolini, prosegue con onesto impegno la sua opera. Sotto la sua regia (grazie anche alle cartoline precetto) le adunate diventano oceaniche. Bandisce anche campagne che dovrebbero galvanizzare il popolo, come la battaglia del grano o l'offerta dell'oro alla patria. Molta gente, perché non ammetterlo?, si entusiasma per davvero (lo stesso Benedetto Croce donerà la sua medaglietta di senatore). Poi, dopo l'oro, ci sarà la raccolta del ferro, della lana, degli stracci. Ma sono le divise il vero pallino di Starace: ne escogita per tutti, dal "figlio della lupa" alla "massaia rurale". Inventa anche i "moschettieri del duce", un corpo di pretoriani da Pagina 22
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt contrapporre ai corazzieri del re. Tuttavia sarebbe ingiusto attribuire a lui solo la responsabilità di questa carnevalata che sconvolge l'Italia degli anni Trenta. È infatti necessario ricordare ancora che tutte le "disposizioni" del segretario hanno l'approvazione del Duce. I due trascorrono ore insieme chini sui modellini delle divise come una coppia di moderni designer. Anche la campagna contro la "donna-crisi" è concordata fra i due. Se gli uomini devono essere atletici, le donne devono aumentare le misure del seno e dei fianchi (a Mussolini piacciono di chassis robusto). Poi verranno le "sagre littorie", i "littoriali", il premilitare, il passo romano, i campi Dux. Per incentivare la campagna demografica si istituiscono premi per le famiglie numerose e si intensifica l'esaltazione della virilità anche se, su questo punto, i fascisti non hanno mai avuto remore. Basti ricordare questo telegramma inviato a Mussolini in occasione della nascita del figlio Romano: "La Federazione dei fasci di Catanzaro saluta romanamente il romano virgulto prova provata di una virilità che è monito ed esempio a tutti gli italiani". Dopo la conquista dell'Etiopia (1936), Starace conia una nuova formula di saluto. Ora si deve gridare: "Salutate nel Duce il fondatore dell'Impero" e gli altri devono rispondere: "A noi!". Il nuovo rituale sembra non tornare gradito a Mussolini, che commenta: "Invece di "A noi" vien voglia di rispondere "Amen"". Sembra divertirsi anche quando lo informano che circola una storiella secondo la quale Starace si scriverebbe la formula sul palmo della mano perché non è in grado di ricordarla. Tuttavia l'accetta visibilmente lusingato. Rifiuta invece la proposta staraciana di far concludere ogni lettera con la frase "Viva il Duce" a imitazione dell'"Heil Hitler" dei tedeschi. In quell'occasione, infatti, Mussolini invia un cicchetto al Segretario del Partito. "Pensate", annota a matita rossa, "che bell'effetto faranno lettere come queste: Caro signore, da domani siete licenziato. Viva il Duce. Oppure: Cara signora, vi comunichiamo che vostro figlio è deceduto. Viva il Duce." Starace incassa il colpo, poi, come è sempre solito fare quando il suo idolo lo rimbrotta, si ritira nel suo studio a piangere. Se questo è l'aspetto buffonesco dell'attività staraciana, rimangono da esaminare gli altri aspetti dell'opera del Segretario del PNF; quali l'azione repressiva, l'organizzazione di vili azioni squadristiche (Mussolini le commentava spiegando che, di tanto in tanto, ordinava "a Starace di stappare qualche bottiglia per controllare se il vino squadrista era ancora buono") e l'esecuzione di numerosi "bassi servizi" ordinatigli dal suo capo, come la liquidazione dell'ingombrante Leandro Arpinati, l'ex anarchico bolognese che nell'ambiente fascista aveva conservato una certa autonomia. Mussolini non vede di buon occhio questo scomodo personaggio che, oltre a essere uno dei pochi a trattarlo col "tu", si ostina a denunciargli le malefatte dei suoi gerarchi. Ordina perciò a Starace di toglierlo di mezzo. Per Starace il compito è facile. Dopo pochi giorni egli presenta a Mussolini un rapporto contro il sottosegretario agli Interni, che è un vero e proprio atto d'accusa. Secondo Starace, Arpinati è, fra l'altro, responsabile di quanto segue: "Linguaggio violentissimo tenuto in occasione del Vostro discorso di Pistoia. In tale occasione si espresse nei vostri confronti in modo irriverente... Atteggiamento nettamente contrario a ogni espressione corporativa del regime. A ogni Vostra affermazione di carattere corporativo ha corrisposto, immancabilmente, una sua affermazione in senso contrario... In occasione della legge riguardante la facoltà di concedere al governo di autorizzare o meno nuovi impianti industriali, ha usato un linguaggio che, se usato da altri, avrebbe importato una legnatura o le manette... Ricordo l'episodio di Renato Ricci, accusato di avere preso un milione a certi fornitori. Da Voi fu difeso, ma da lui fu pubblicamente accusato... Voi avete ordinato che per partecipare ai concorsi statali è obbligatoria la tessera del PNF. Il Ministero dell'Interno non so se abbia ordinato il contrario; certo è che per i concorsi banditi dagli enti locali e parastatali la tessera non è richiesta... Nepotismo instaurato in tutta l'Italia. "L'amico di Arpinati" è una qualifica che suona abuso e prepotenza. Vi è noto che Arpinati è da tempo chiamato "il pontefice nero". Non è necessario il commento... Nella provincia di Bologna gli abbonamenti al "Popolo d'Italia" ammontano a trentasei!... Tipico il caso del professor Baldi, che egli ha difeso presso di me. Il Baldi, cervello indubbiamente torbido, Vi ha offeso con delle frasi volgari. Pagina 23
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Naturalmente, un bel giorno l'ho trovato tesserato nel fascio di Bologna... Arpinati ha addirittura osato, Duce, ricevere nel suo studio al ministero, dimostrandogli grande simpatia, quel sovversivo di Massarenti, organizzatore socialista di Molinella... Il suo comportamento verso i fuoriusciti antifascisti è assolutamente vergognoso... L'epilogo è rappresentato dal caso del giornalista Missiroli (sento una profonda ripugnanza soltanto a scrivere il nome di questo indegno, nome che, fino al marzo scorso, non avevo mai avuto occasione di scrivere). L'Arpinati ha affermato che se nelle file del fascismo non vi fosse posto per Missiroli "segno è che il Partito doveva considerarsi un'accozzaglia di buffoni"... L'atto di solidarietà compiuto dall'Arpinati verso il Missiroli mi ha fatto riflettere. I miei dubbi sono cessati. Arpinati ha dimostrato di possedere una mentalità diversa dalla mia e cioè una mentalità non fascista. E ve lo denunzio con sicura coscienza di avere, come sempre, compiuto il mio dovere". Informato della manovra, Arpinati non si difende. Si limita a inviare a Starace questo biglietto: "Starace, se avessi avuto bisogno di un elemento per giudicare della bassezza degli uomini, tu me l'hai offerta. Sei un mentitore e un vile". Invece di affrontare Arpinati sul terreno (poiché il biglietto è una chiara sfida a duello), Starace corre a farlo leggere a Mussolini. Questi, infuriato, ordina ad Arpinati di scusarsi per iscritto col Segretario del Partito. Arpinati gli risponde: "Duce, se dovessi scrivergli tutti i giorni, ripeterei sempre che Starace è un fesso". Per il "pontefice nero" è la fine. Licenziato dal ministero, sarà espulso dal partito e inviato al confino. La reazione degli altri gerarchi contro l'ormai onnipotente Segretario del Partito (lo chiamavano "Sua Eccedenza", e "Sant'Achille") si manifesta quasi sempre in forma anonima. Sul tavolo di Mussolini giungono infatti molte segnalazioni sui trascorsi di Starace. E anche un altro rapporto di polizia: Dopo la guerra, le accuse che si facevano al capitano Starace erano di varia indole. Nella Venezia Tridentina egli si era fatto notare come donnaiolo impenitente. Lo si accusava di trascurare la moglie e di tenere contatti con elementi notoriamente austriacanti e affaristi poco scrupolosi e più ancora di dedicarsi al commercio dei legnami con i privati mentre era ufficiale in servizio effettivo e, per di più, addetto all'ufficio legnami del Regio Esercito. C'è da premettere che a Trento in quell'epoca già funzionava la Loggia Massonica "Cesare Battisti"... di cui facevano parte molti ufficiali dell'Esercito fra i quali il capitano Starace, la quale non era estranea alla campagna per moralizzare l'ambiente... A un certo punto, quando la campagna stessa assunse un carattere più preciso, Starace chiese l'intervento della Massoneria affinché le accuse che lo toccavano avessero a cessare... In sede massonica si ebbe un vero processo, nel quale l'accusa è stata sostenuta dal tenente Razza... durante il dibattito la massoneria stessa ha chiesto a Razza di non insistere più... anche se si era avuta la sensazione che le accuse contro Starace non fossero assolutamente prive di fondamento. Poco tempo dopo il capitano Starace si è dimesso dall'Esercito rimanendo a Trento a commerciare in legnami insieme a quei tali di cui si è detto e per opera dei quali sarà nominato segretario del fascio di Trento... Durante la permanenza di Starace alla segreteria del fascio di Trento, gli venne fatta l'accusa di essersi intromesso nell'operazione di acquisto e di appalto dei Kurhaus di Merano, in altri affari del genere e di essersi troppo interessato a favore di cittadini facoltosi ex-nemici oltreché avere continuato a dare spettacolo immorale in materia di donne. I "rilievi a carico" del Segretario del Partito non sono, a dire il vero, molto gravi, almeno rispetto a quelli degli altri gerarchi. Mussolini, d'altra parte, sa che Starace, oltre a essere un "cretino ubbidiente", è anche un "cretino" relativamente onesto. Forse lo disprezza per questo, e comunque lo tartassa con veti e rimbrotti mentre si guarda bene dal frenare le ruberie di altri ras meno "ubbidienti", ma assai più voraci. Ecco un esempio: il 14 aprile 1937, Achille Starace, segretario in carica da circa sette anni, scrive al Duce: "I miei risparmi e la sopravvivenza attiva della vendita del mio libro (la Marcia su Gondar, N.d.A.) mi consentono ora di darmi una modestissima casa, una specie di casa colonica, che acquisterei alla periferia di Roma, senza contrarre obbligazioni materiali o morali. Potrei così abbandonare l'attuale alloggio, quasi inabitabile, situato in un caseggiato dove abitano oltre cento famiglie". Pagina 24
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Sulla stessa lettera, Mussolini annota: "Conferito e sconsigliato" e Starace rinuncia alla villa. Molto più divertenti sono le segnalazioni che giungono a Mussolini circa l'attività politica del Segretario del Partito. Ecco qualche esempio: "Mantova. Del discorso di S.E. Starace hanno male impressionato alcuni velati accenni alla necessità che tutti i fascisti, anche i più elevati in grado, obbediscano alle leggi del Fascismo pena l'energico intervento del Segretario del Partito e la perdita delle cariche. L'accenno all'on. Arpinati era abbastanza chiaro e l'inutile vanto è stato mal commentato. "Le donne fasciste presenti alla cerimonia hanno espresso la loro meraviglia per il frasario non troppo delicato di Starace il quale, a un certo punto, ebbe a dire che lui non dormiva mai, lavorava sempre, anche a letto. Siccome nella sala si è sentito qualche risolino, S.E. Starace, rivolgendosi a un gruppo di signore, ha aggiunto: "Se qualcuna non ci crede può sempre sincerarsene venendo... a vedere". "Così pure ha sollevato non pochi commenti l'autoincensamento di S.E. che ha parlato troppo di sé e poco del Fascismo". "Padova. Durante il suo discorso S.E. Starace, avendo perso il filo e avendo visto un'autorità dell'uditorio sorridere, se ne uscì con questa frase indicando col dito il suddetto: "Lei ride perché crede che io abbia perso il filo, ma io il filo non lo perdo mai". Naturalmente tale uscita fece ridere tutto l'uditorio. Continuando il suo dire, Starace a un certo punto si vide sfuggire il foglietto che aveva in mano e alcuni premurosi cercarono subito di raccoglierlo. Il Segretario del Partito non diede però loro il tempo di terminare il gesto e disse: "Volete raccogliere il foglietto perché credete che io non sappia più quello che vi è scritto. Invece lo ricordo benissimo. Lasciate stare". E continuò per un poco la sua dizione, se non che, inceppatosi nuovamente, si chinò egli stesso verso il foglietto dicendo: "Adesso lo raccolgo io!"." La caduta di Achille Starace è improvvisa e verticale. L'annuncio ufficiale della sua sostituzione o, come allora si diceva, del "cambio della guardia", è del 31 ottobre 1939. A reggere la segreteria del partito è chiamato Ettore Muti, come Mussolini aveva preannunciato due giorni prima con questa lettera al segretario uscente: "Caro Starace; la mia scelta è caduta definitivamente sul Muti, del quale vi accludo il curriculum vitae. Un uomo che ha quattro guerre al suo attivo, ha i numeri essenziali per reggere il partito. L'esperienza farà il resto. L'ultima guerra, quella spagnola, conferisce alla nomina del Muti un significato speciale. Voi passate alla Milizia". Il "cambio della guardia" cade a pochi giorni di distanza dalla conclusione vittoriosa dell'attacco tedesco alla Polonia che segna l'inizio della seconda guerra mondiale. La coincidenza potrebbe far presumere che Mussolini operò la sostituzione prevedendo che al lungo carnevale stava per seguire la quaresima, ma non è così. Lo stesso Ettore Muti, d'altra parte, è soltanto un "buon fascista", tutto muscoli e niente cervello. Galeazzo Ciano, col suo consueto cinismo, liquida l'avvenimento con poche battute: "Beghe di provincia", scrive sul suo diario il genero del Duce. "Credo che Starace sia geloso di Muti perché ha più medaglie di lui..." E ancora: "Il successore di Starace avrà un grande successo iniziale, se non altro per il fatto che è il successore di Starace, così odiato e spregiato dagli italiani...". La liquidazione di Starace non ha comunque una motivazione precisa. Probabilmente Mussolini volle liberarsi di questo servo sciocco e fedele per tema di essere travolto con lui nel ridicolo. Era infatti ormai chiaro che i loro comuni sforzi per rinnovare gli animi e il costume degli italiani non avevano dato i risultati previsti. Meglio quindi silurare l'infaticabile segretario trasformandolo in un comodo parafulmine sul quale riversare il malcontento popolare. Anche al comando della Milizia, dov'è stato trasferito allo scopo di rendere meno clamorosa la sua defenestrazione, Achille Starace non resta a lungo. Questa volta, Mussolini lo licenzia addirittura con brutalità. Gli scrive infatti il 16 maggio 1941: "Caro Starace, ritengo concluso il vostro ciclo nella funzione di capo di Stato Maggiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. L'opera svolta da voi, in questi ultimi tempi, non mi ha soddisfatto. Passate per il momento le consegne al sottocapo Giannantoni. Ci sarà ancora qualcosa da fare per voi al momento della nostra ripresa in Africa Orientale". Poiché la "ripresa" in Africa Orientale è assai improbabile (l'Impero fascista è Pagina 25
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt miseramente crollato sotto i colpi di un modestissimo corpo di riservisti britannici), per Achille Starace è la disoccupazione. L'uomo ora è solo, abbandonato dai pochissimi amici, deriso dagli innumerevoli avversari. Anche per il suo secondo siluramento esiste solo una spiegazione, quella fornita da Ciano nel suo diario: "Uno dei principali motivi che il Duce ha addotto è di aver saputo dalla moglie che Starace manda in giro quattro cani accompagnati da un milite. L'Italia, ha detto Mussolini, ha ancora le scatole piene dei cani di D'Annunzio per sopportare quelli di Starace! Starace ha ricevuto il siluro e devo dire che niente è stato fatto per rendergli il colpo men duro... Starace piange a lungo sulle sue sventure... Ne parlo col Duce: l'appunto più grave che gli muove è quello di essersi messo un distintivo di ferita senza autorizzazione". Privo di ogni incarico politico, impossibilitato a trovarsi un'altra occupazione (perché l'ex segretario del PNF non può svolgere un lavoro qualsiasi), il povero Starace trascorre a Roma le sue lunghe e vuote giornate. L'uomo "che lavorava anche a letto" è praticamente un disoccupato, e neanche di lusso, perché le sue condizioni economiche non sono floride. Tuttavia continua a idolatrare Mussolini; spera di essere da lui ricevuto per un chiarimento e gli scrive lunghe lettere con il tono patetico dell'amante tradito. Ecco alcuni brani di questi sfoghi staraciani che non riceveranno mai una risposta: "Scusatemi, Duce, se vi scrivo così; vi ho sempre aperto il mio cuore e mai ho mentito. Sono in preda allo stordimento del colpo irreparabile che ho ricevuto, dopo cinquantadue anni di vita intemerata... La condanna è grave e il dilemma è ora nettamente posto: Starace ha tradito o ha rubato. Sono rovinato nel senso più assoluto... Non ho paura, perché la mia coscienza è tranquilla, non mi tirerò una rivoltellata in un orecchio, perché non sono un vile. Che Iddio mi assista... Duce, in occasione del Ventennale (è il 28 ottobre 1942, N.d.A.) che trascorro da voi fisicamente, ma non spiritualmente, lontano... ritrovo quella serenità, che mi manca dal giorno in cui mi avete privato della vostra fiducia... Certamente ho errato, ma i miei errori che sconto amaramente non possono essere stati commessi da me che in assoluta buonafede... Mai sono venuto meno al mio dovere. Sono pertanto quello stesso squadrista che voi onoraste un giorno con la qualifica di "mattino della rivoluzione". Nel giorno del Ventennale questo vostro vecchio legionario, malgrado tutto, non piega... Duce, a me spiace importunarvi con le mie lettere in cui vi chiedo un colloquio e un posto di lavoro. La mancata risposta mi dice chiaramente che non devo insistere e, infatti, non insisto. Gradirei solo sapere se posso tentare di lavorare per mio conto... (in margine a questa supplica, Mussolini annotò. "Può lavorare. Basti sapere di che lavoro si tratti"). Duce, durante venti mesi vi ho visto tre o quattro volte in fotografie riportate dai giornali. Ho ferma fede che un giorno, spero non lontano, mi concederete l'alto onore di ritornare dinanzi a voi, sia pure per un solo istante... perché a voi sono indissolubilmente legato da un rispettoso affetto che non poteva non sorgere in me, dopo che per tanti anni avevo avuto l'alto privilegio di starvi vicino e di servirvi col cuore, più che col cervello e col braccio...". Dopo il 25 luglio e l'8 settembre del 1943, che attraversa quasi inosservato (scriverà poi al Duce di non avere reagito contro Badoglio "perché ero convinto che voi sareste rimasto alle sue spalle!"), Achille Starace, che avrebbe ottimi motivi per rimanere in disparte, si presenta invece puntuale a Salò. L'ex Segretario del Partito è pronto a "offrire il suo braccio" alla Repubblica Sociale. Ma neppure ora lo vogliono. Per i tragici fascisti di Salò, l'ex "coreografo del regime" è un personaggio anacronistico. Dapprima lo arrestano, poi lo internano a Lumezzane con altri personaggi scomodi. Ma lui non si arrende e continua a scrivere lettere supplici a Mussolini. I suoi sforzi, tesi a riguadagnarsi la fiducia del suo idolo, anche ora che il piedistallo sta cadendo a pezzi, sono spesso patetici. In uno dei suoi ultimi appelli cerca addirittura di far presa sul Duce con un trucco scaramantico. Gli scrive: "La mia segreteria politica coincise con la conquista dell'Impero, la vittoria di Spagna, l'occupazione dell'Albania, la resistenza alle sanzioni, con l'Italia fascista veramente grande, potente, temuta...". Tutto è inutile. Mussolini non lo vuole più fra i piedi, neppure per variare le sue ultime lugubri giornate nella villa-prigione di Desenzano. Gli ultimi mesi di guerra, Achille Starace li trascorre a Milano. Vive in un piccolo appartamento di Porta Genova, indossa una tuta blu, da ginnasta, per combattere il freddo persistente di quella primavera e mangia alle "mense di guerra" che funzionano nella città. Pagina 26
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Il suo Duce lo rivede soltanto il 29 aprile 1945, appeso a testa in giù a un distributore di benzina di piazzale Loreto. Starace, che è stato arrestato il giorno prima, è stato condotto lì da un gruppo di partigiani. L'ex segretario avrebbe potuto facilmente evitare l'arresto perché nella confusione di quei giorni nessuno l'avrebbe notato. D'altra parte, con la repubblica fascista egli non aveva effettivamente nulla a che fare. Ma non è fuggito: forse sperava di non figurare fra i ricercati ("Il mio caso deve essere esaminato", aveva detto ai partigiani), forse non si rendeva esattamente conto di quello che stava accadendo. Anche a piazzale Loreto, fra i cadaveri dei gerarchi e la folla, Starace sembra vivere in un altro mondo. Non grida, non implora. Solo quando qualcuno gli dice: "Saluta il tuo Duce", egli, senza un attimo di esitazione, scatta sull'attenti e leva il braccio teso nel saluto romano. Pochi minuti dopo, con la faccia al muro in attesa della scarica, si rivolgerà al plotone d'esecuzione con queste parole: "Per favore, fate presto". X VADEMECUM DI STILE FASCISTA Nel lungo periodo di tempo in cui Achille Starace occupò la carica di segretario del PNF, quasi ogni settimana egli inviò ai segretari federali delle circolari, che avevano lo scopo di indicare il nuovo stile di vita che tutti gli italiani avrebbero dovuto adottare. Le disposizioni del segretario, prima di essere divulgate, erano immancabilmente sottoposte alla supervisione del Duce, che spesso le modificava e le correggeva. Molte di queste sono ancora conservate fra le sue carte. Ne pubblichiamo un piccolo campionario: Alla parola "comizio" d'ora innanzi prego di sostituire la parola "raduno di propaganda". Il comizio ci ricorda tempi superati per sempre. Il saluto romano non impone l'obbligo di togliersi il cappello. Non frequentare di giorno, e meno di notte, i cosiddetti locali di lusso. Andare il più possibile a piedi e quando è necessario adoperare la macchina utilitaria. Meglio la moto. Nelle cerimonie ufficiali niente tubi di stufa sulla testa, ma la semplice camicia nera della rivoluzione. Annunziata la chiusura delle iscrizioni al PNF, sono spuntati gli immancabili ritardatari. Uno di costoro mi ha scritto di essersi deciso a chiedere di entrare nei ranghi per evitare interpretazioni malevole. Poi ha aggiunto testualmente: "Non so mentire! Desidero rimanere quale sono stato sempre, liberale di destra, della gloriosa destra che pur dette uomini eminenti". A mia volta, sulla stessa lettera ho scritto "fesso ritardatario". Spesso in luogo del prescritto pantalone nero lungo, o del pantalone nero corto, con stivali neri, viene indossato un pantalone a righe, residuo di tight!!! Il commento è superfluo. Il verbale di una vertenza fra camerati è stato chiuso con la formula: "Si sono riconciliati con una stretta di mano". La formula da adottare deve essere questa: "Si sono riconciliati salutandosi romanamente". Ricordo il divieto di retrodatare l'anzianità di iscrizione e di consegnare tessere con cerimonie solenni. Una sola è la tessera che si consegna, quella numero uno destinata al Duce! Ho letto in una mezza colonna di giornale sette volte il nome di un segretario federale. Nella corrispondenza fra camerati, anziché "all'Egregio", "all'Ill.mo", ecc. si scriva "al Fascista". Noto in proposito che la parola "fascista", pur essendo di natura aggettivale, quando si adopera come sostantivo va scritta con la iniziale maiuscola; va scritta minuscola quando invece si adopera come aggettivo. È fatto assoluto divieto di portare il collo della camicia nera inamidato. In qualche angolo morto, non solo si è rimasti ancorati alla stretta di mano, ma accade anche che qualcuno resti mortificato quando gli si fa notare che si saluta romanamente. Sono tipi da studiare, come quelli che, salutando romanamente con molta cautela, fanno anche la reverenza. Ricordo che l'anno fascista, quello che interessa, è cominciato il 29 ottobre. In questi giorni nelle cronache si è fatto largo uso del verbo "insediarsi". Che un gerarca debba come primo suo atto dare l'impressione di mettersi a sedere, proprio no. Si dica invece: "Ha assunto la carica o l'ufficio, o le funzioni, ecc.". Anche il frasario è un tratto del fronte sul quale, prima o poi, bisognerà decisamente puntare. Pagina 27
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Bisognerà decidersi a fare piazza pulita dei circoli, circoletti culturali e simili, nei quali si annidano spesso residuati dell'afascismo, se non dell'antifascismo. Noto che da qualche tempo a questa parte si criticano, generalizzando, i cosiddetti "gerarchetti". Premesso che i "gerarchetti" non esistono, debbo rilevare che la trovata è di cattivo gusto. Ammetto che fra tanti ve ne possa essere qualcuno non all'altezza, ma confondere l'eccezione con la regola significa vivere fuori della realtà o, peggio, essere affetti da insita malevolenza. Nell'uno e nell'altro caso, in materia di requisiti fascisti siamo all'ablativo assoluto. Alcuni elementi della cosiddetta "buona società" si abbandonano a melanconiche considerazioni contro l'incremento demografico che "rende più intensa la crisi" o contro la prole numerosa che "altera la linea". Si tratta di soggetti precocemente invecchiati che allo sport preferiscono il poker o il bridge, con relative bevande non certo di marca italiana. Costoro sono individui forse più infelici che colpevoli, ma il loro contegno diventa colpa delittuosa quando riveste carattere di propaganda contro la sanità e la potenza della stirpe. Non approvo che negli Istituti fascisti di cultura siano invitati a tenere conferenze Fascisti che domandano compensi per la loro prestazione. "Dedito alla stretta di mano", ecco la nota caratteristica da segnare nella cartella personale di chi persista in questa esteriorità caratteristica di scarso spirito fascista. L'annotazione è necessaria. L'esperienza fatta in questo campo ha dato eccellenti risultati per la valutazione di alcuni tesserati. Da qualche tempo a questa parte si vanno inventando "sabati" di ogni genere: dell'arte, della musica, della primavera, ecc. Ricordo che c'è solo il "sabato fascista". Titoli. "Il Segretario del Partito è giunto stamane a...". Questo è un titolo di stile fascista. "S.E. il Segretario del Partito Achille Starace è giunto...". Siamo allo stile fascista fortemente annacquato. "Starace è giunto stamane a...". Titolo di pessimo gusto! La corrispondenza deve essere aggiornata. Niente caro camerata, caro Tizio, cara eccellenza. L'indirizzo in testa alla lettera è sufficiente. Niente saluti cordiali, saluti fascisti, o peggio devoti saluti fascisti o vive e deferenti cordialità fasciste, che fanno pensare al saluto romano con la riverenza. 20 aprile 1938-XVI E.F. Faccio mia la proposta della "Cronaca Prealpina" sull'adozione del "tu" e del "voi". Ricordo che i gerarchi hanno l'obbligo di ricevere non soltanto i Fascisti, ai quali spetta la precedenza, ma anche tutti coloro che non militano nel PNF. L'uso di annunciare "la posa della prima pietra" ricorda vecchi tempi. Il Fascismo annuncia l'inizio dei lavori o il primo colpo di piccone: annuncio dinamico e concreto. Chissà perché ci si attarda ancora a considerare la fine dell'anno al metro del 31 dicembre piuttosto che a quello del 28 ottobre. L'attaccamento a questa consuetudine è indice di mentalità non fascista. In occasione delle adunate deve essere evitato in modo assoluto che si vedano in giro alfieri con i gagliardetti sotto il braccio o ravvolti nei giornali. Ho ricevuto un elenco di squadristi nel quale sono compresi dei tesserati del 1930! Non è possibile che vi siano squadristi tesserati dopo il 28 ottobre 1922. Anche coloro che hanno randellato nel 1924 non potevano essere che gli squadristi della vecchia guardia. La pressione che alcuni esercitano per ottenere la qualifica di squadrista trova la sua ragione anche nell'entità del premio. I Fascisti e coloro che militano nelle organizzazioni del Regime, validi, non bevano caffè o ne riducano al minimo il consumo. In questo modo fregheremo i paesi che, per vendercelo, vorrebbero il nostro oro. Vieto ai Fascisti di inoltrare raccomandazioni, di qualsiasi genere, a favore di giudei. È assurdo e riprovevole che dopo quanto è stato detto e scritto, anche dai giornali, si stenti qua e là ad adottare il "voi" e a respingere nettamente il "lei". Avverto che d'ora innanzi non è da escludere che, individuati i soggetti ostinatamente recidivi, si proceda a loro carico. XI FARINACCI DIPLOMATICO E STRATEGA All'epoca dello scandalo che ha travolto il segretario del partito fascista Augusto Turati (1932), i rapporti fra la Chiesa e il regime sono ufficialmente Pagina 28
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt ottimi. In superficie non si rivelano screzi di sorta, ma sott'acqua è tutto un lavorio di intrighi e di alleanze. Il Vaticano, per esempio, dispone di un ottimo servizio di informazioni che dispiega i suoi tentacoli persino negli ambienti molto vicini al Capo del Governo. Ciò risulta anche dalla seguente nota informativa della Pubblica Sicurezza che perviene a Mussolini il 14 agosto 1932: Diversi avvenimenti di questi giorni gettano una particolare luce sul funzionamento dei servizi di informazione della Città del Vaticano che non si esita a qualificare per ottimi e veramente degni di ogni elogio. In Vaticano si afferma, ad esempio, che la Segreteria di Stato era informata delle scandalose accuse che si rivolgono contro S.E. Turati, assai prima che esse fossero di dominio degli organi governativi. La notizia si baserebbe sul fatto che il primo annuncio dello scandalo sarebbe stato dato a certi organi governativi, ed in ispecie alla Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, direttamente dal Vaticano. Il rumore sollevato all'estero dallo scandalo sarebbe stato in certo modo preceduto dalle notizie pervenute - non si sa bene attraverso quale tramite - agli organi vaticani. Negli stessi ambienti vaticani favorevoli al Regime, la notizia e i particolari dello scandalo hanno sollevato viva indignazione e molto scoraggiamento. Si pensa, e lo si dice chiaramente, che l'episodio purtroppo non è isolato, ma salda una catena ininterrotta di altre manchevolezze morali veramente deplorevoli. I nemici del Regime, è intuitivo, gongolano. Vi è anzi chi avrebbe affermato che esso è destinato a scomparire perché moralmente impotente a reggersi. Mentre la generalità degli esponenti vaticani è disposta a riconoscere le "molte buone cose" fatte dal Capo, la maggioranza di essi non dimostra una eccessiva fiducia nei suoi collaboratori. Fra i personaggi vaticani favorevoli al regime figura in primissimo piano padre Agostino Gemelli, fondatore dell'Università Cattolica di Milano e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Padre Gemelli è in qualche modo legato a Roberto Farinacci, ma ignora che il ras di Cremona (il quale, come Mussolini, non ha mai rinnegato il suo incallito anticlericalismo anche se ora lo nasconde per opportunismo) è ben deciso a strumentalizzarlo per fini politici. Questo suo intendimento Farinacci lo rivela in due lettere riservate che indirizza al Duce. Nella prima, che è del 1934, afferma: Caro Presidente, come avrai visto, sono riuscito a far fare al mio Vescovo un discorso diverso dagli altri. Spero di avere persuaso Padre Gemelli a farne uno a Bologna sullo stesso stile. Il mio vivo desiderio sarebbe quello di creare un gran "casino" in mezzo a loro. Il Cardinale Schuster, mi dice don Corbella, piange come un vitellino: prima perché tempo fa fu chiamato a Roma e accusato di voler succedere a Starace; ora perché la sua virata di bordo non gli ha creato simpatia in mezzo agli stessi cattolici. P.S. Come avrai visto, è morto a Cremona don Illemo Canelli e la sua morte me la sono lavorata come meglio mi è stato possibile, anche perché non voglio chiudermi tutte le strade per il paradiso. Tuo, Farinacci. Nella seconda lettera, datata 20 marzo 1935, Roberto Farinacci perora la nomina di padre Gemelli a membro dell'Accademia d'Italia che, in quell'epoca, è presieduta dal suo nemico Luigi Federzoni: Caro Presidente. Ti mando, in via confidenziale, una lettera dell'Accademico Bottazzi. La nomina di Padre Gemelli farebbe un'ottima impressione, inoltre premieremmo un uomo di valore e di cui io conosco troppo intimamente il pensiero politico. Sarebbe opportuno che la cosa avvenisse prestissimo, anche perché è quasi certo che nel prossimo Conclave egli sarà nominato Cardinale. Con i tempi che corrono, avere un uomo veramente nostro attorno al successore di San Pietro sarebbe cosa utile. Bisogna che tu faccia un atto di autorità presso Federzoni il quale, più filo-giudaico che fascista, non ha eccessive simpatie per Gemelli. Dobbiamo, caro Presidente, valorizzare quegli uomini che in ogni momento ci possono servire. Ti aggiungo inoltre che in Germania mi hanno parlato di Gemelli con molta simpatia. Devoti e affettuosi saluti, Farinacci. In calce alla lettera si legge una nota di Mussolini a matita rossa: NO, non è ancora maturo. Gemelli non diventerà Accademico d'Italia e neppure Cardinale. Maturano invece altri eventi. Dopo un inizio difficile, l'aggressione militare all'Abissinia si conclude con la vittoria delle truppe italiane e la proclamazione dell'Impero. Il maresciallo Pietro Badoglio, considerato l'artefice di quell'impresa militare, è portato alle stelle dal regime. Ma Farinacci non è d'accordo. La suocera del fascismo, come viene da qualche tempo definito il ras di Cremona, non nasconde per niente la sua ostilità verso l'uomo che, dopo l'esito vittorioso del conflitto, ha riassunto l'incarico di Capo di Stato Maggiore Generale. A questo proposito c'è, fra le carte segrete del Duce, una lunga lettera in cui Farinacci, oltre a farsi portavoce degli ambienti fascisti antibadogliani, fornisce una inedita versione della campagna Pagina 29
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt d'Abissinia. È datata 11 settembre 1936. Caro Presidente. Non ti sembra che il Maresciallo Badoglio abbia perso ogni controllo? Il Fascismo mastica amaro perché sa benissimo due cose: Primo: che la guerra l'ha voluta, l'ha guidata e l'ha vinta Mussolini. Secondo: che Badoglio era contrario all'impresa e che nel suo primo periodo africano affermava che non si poteva avanzare più di 60 centimetri al giorno. La guerra, con lo spirito che animava le divisioni inviate laggiù e con la larghezza dei mezzi messi a disposizione dal Regime, l'avrebbe vinta chiunque. Badoglio aveva preparato la presa dell'Amba Aradam come fu organizzata la presa del Sabotino. Riversò su quel monticiattolo ben 80 milioni di lire in proiettili. Era evidente che sotto un fuoco di questo genere nessuna forza nemica avrebbe resistito. Ma è talmente vero che egli non credeva in ulteriori successi che neppure organizzò l'inseguimento del nemico, che si sbandò completamente dopo la battaglia. Fu soltanto dopo, e cioè quando l'Aviazione gli segnalò che per chilometri e chilometri il terreno era sgombro di nemici, che egli ideò le famose colonne celeri. Infatti, da Quoram a Dessié, da Dessié ad Addis Abeba e da Omager a Gondar, non fu sparato un solo colpo di fucile. Ti dirò anche che la battaglia di Passo Meccan gli andò bene per puro miracolo. Egli aveva preparato l'offensiva per l'8 di aprile e l'artiglieria e le truppe dovevano essere in posizione per il giorno 6. Fortunatamente, negli ultimi del mese di marzo fu intercettato un radio-telegramma del Negus alla moglie nel quale le annunciava che lui stesso, alla testa di 30 mila uomini, avrebbe attaccato le nostre truppe il primo di aprile. Si ebbe così il tempo di rafforzare immediatamente il fianco sinistro dove certamente l'armata imperiale avrebbe sfondato. L'unica occasione in cui Badoglio avrebbe potuto dimostrare le sue qualità dì stratega è stata la battaglia del Tembien. Egli annunciò clamorosamente l'accerchiamento di Ras Cassa e della sua armata, ma si accorse 48 ore dopo che Ras Cassa e quasi tutti i suoi uomini erano invece riusciti a liberarsi senza impegnare un serio combattimento. Come vedi dunque, chiunque altro, nelle sue condizioni, avrebbe fatto altrettanto. Siamo d'accordo nell'esaltare, per ragioni politiche, il Capo militare, ma penso che questa esaltazione non debba oltrepassare la misura. Badoglio ha ottenuto che gli assegni extra percepiti in Africa gli venissero assegnati a vita. Ha avuto ville e altri onori. Penso insomma che dovrebbe accontentarsi, lui che nel '22 ci voleva mitragliare tutti! È stato quasi un mese a Fiuggi, ed ha dedicato quattro ore al giorno per gli autografi. Si vanta di averne rilasciati 18 mila. Tu ora mi dirai: perché te la pigli? Me la piglio perché certe stonature urtano il mio sistema nervoso. E giacché avevo voglia di sfogarmi, l'ho fatto con te che a meraviglia conosci cose e uomini. Tuo Farinacci. Qualche tempo dopo scoppia la guerra civile in Spagna e l'Italia interviene militarmente al fianco delle truppe nazionaliste di Francisco Franco. Mussolini non conosce personalmente il generale ribelle e incarica Farinacci di avvicinarlo e di riferirgli il suo pensiero sull'uomo e sulla Spagna. Ecco un curioso ritratto di Franco e un'analisi della situazione spagnola tratteggiati col consueto stile rozzo, ma anche con scanzonato realismo dal ras di Cremona. La lettera "riservata per il Duce" è del 5 marzo 1937 e proviene da Salamanca. "Caro Presidente, ieri ho consegnato la tua lettera al generale Franco col quale mi sono intrattenuto a colloquio per circa due ore. Le mie impressioni non sono rosee. Fisicamente, forse un po' meglio perché più giovane e meno brutto, Franco assomiglia al nostro Puppini, già ministro delle Comunicazioni. È un uomo piuttosto timido e il suo volto non è certo quello del condottiero, anche se il suo entourage fa affiggere manifesti nei quali si dice che Franco è il più famoso stratega di tutti i tempi e che lotta per salvare el mundo. Non ha ancora nessuna idea precisa di quello che sarà la Spagna di domani. Si preoccupa soltanto di vincere la guerra e di mantenere poi per un lungo periodo un governo autoritario (o meglio, dittatoriale) per ripulire la nazione di tutti coloro che hanno avuto contatti diretti o indiretti o simpatie per i rossi. Alla mia domanda su come avrebbe poi organizzato il governo dittatoriale, ha risposto che applicherà il programma corporativo "così come è stato fatto in Italia, in Germania e in Portogallo". Circa i suoi rapporti con i falangisti e i requetés, ha affermato che non intende contare su questi partiti, perché essi non hanno capi di valore, specie dopo la quasi certa fucilazione di Primo de Rivera e l'esilio in Portogallo di Fal Conde. In quanto al problema della monarchia, egli non ha pregiudiziali: "prima debbo creare la nazione," mi ha detto "poi Pagina 30
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt penseremo se sarà il caso di nominare un re". Ho sostenuto la necessità che egli prepari un suo programma concreto per affrontare il governo del paese dopo la vittoria e per creare un Partito Nazionale Spagnolo che poggi per ora su pochi postulati, ma che assuma subito orientamenti decisi verso le classi lavoratrici. Su questo argomento ci siamo intrattenuti a lungo ed abbiamo deciso di riparlarne fra qualche giorno. Ma non ti nascondo che l'uomo è politicamente digiuno. Ho parlato con molta gente che conosce uomini e cose ed ho ricevuto l'impressione che Franco non abbia eccessiva simpatia né per i falangisti né per i requetés, e forse proprio questo suo atteggiamento potrebbe indurre i due partiti ad una intesa. Alcuni sostengono che la simpatia che egli dimostra per l'Italia non sia in fondo sincera, e che attenda invece ansiosamente il riconoscimento dell'Inghilterra e anche della Francia per bilanciare l'influenza nostra e loro e destreggiarsi fra di esse. A questo proposito, pare che i tedeschi non intendano più aspirare ad una influenza politica: si limiterebbero ad agire nel campo economico e commerciale. Il generale Franco mi ha confidato che è assolutamente sicuro della devozione dei due suoi principalissimi collaboratori, i generali De Mola e Queipo de Llano. Ma è impressione diffusa che potrà fidarsi di costoro fino a guerra ultimata, poi non più. Il Mola svolge una politica personale nel nord e tiene contatti molto riservati con esponenti della Falange e dei requetés. È molto astuto e più intelligente di Franco: difficilmente rimarrà quieto quando questi dovrà affrontare i problemi della ricostruzione. Il Queipo de Llano fa tutto fuorché il generale, sebbene rivendichi come sua gloria la presa di Malaga. Parla seralmente due ore alla radio, dice ogni sorta di corbellerie e preannuncia i programmi militari nei vari settori. Ultimamente, come saprai, ha rivelato che i nazionali possono contare su una legione già pronta a Madrid e su un'altra pure pronta a Valencia. Il governo rosso ha risposto facendo fucilare a Madrid oltre diecimila indiziati e a Valencia altre migliaia di sospetti. A Siviglia egli si appoggia a tutte le forze politiche, compreso il clero che è capeggiato da un vescovo di grande autorità ed ascendente. Non ama gli italiani. Ha sfruttato con intelligenza maligna alcuni fatti dolorosi provocati dai nostri ufficiali. Purtroppo qui la truppa italiana si è dimostrata superiore ai suoi comandanti che hanno, in genere, considerato la venuta in Spagna come un'avventura. A mio parere, Queipo de Llano sarà forse l'uomo che potrà sfruttare a proprio vantaggio i futuri dissidi fra Mola e Franco. Qui, nessuno (parlo naturalmente degli spagnoli) è animato dal desiderio di far finire questa carneficina. Nessuno ha fretta: ogni cosa viene rimandata, volentieri al domani. La popolazione si è già assuefatta a questo clima sanguinario. Molti vestono a lutto, ma nel loro volto non si rilevano segni di dolore. E raccontano con la massima indifferenza di avere avuto fucilato un fratello, un figlio, il marito, ecc. Giustamente tu ti preoccupi della fucilazione dei prigionieri. A dirti la verità, qui le barbarie rossa e nazionale si equivalgono. È una gara al massacro, che è diventata quasi uno sport. Sembra impossibile che possa trascorrere una giornata senza che un certo numero di persone venga mandato all'altro mondo. La vita nelle città trascorre tuttavia nella calma e tutti trovano conforto nella comida, nella siesta e nel descansar (mangiare e stare a pancia all'aria a riposare). Quanto ti dico sembra inverosimile, ma purtroppo è la realtà: in fin dei conti si ripete la vecchia storia della Spagna. Il generale Mola ha dichiarato che, dopo la vittoria, bisognerà fucilare almeno un milione di rossi non ancora ben individuati nella fretta dell'avanzata. Ma ti ripeto che le popolazioni sono già preparate a questo e non vi fanno caso. Siamo soltanto noi sentimentali che ci creiamo una tragedia intima per chi non lo merita. Io penso che proprio sulla questione delle fucilazioni in massa dovremmo puntare i piedi. Solo così potremo giustificare il nostro intervento, che è avvenuto unicamente per difendere il fascismo dall'attacco comunista, e non certo per aiutare le vendette e per dissetare di sangue gli uni e gli altri". Conclusa la guerra civile spagnola, un'altra guerra, ben più importante, ha inizio. Farinacci, che continua ad avversare il Maresciallo Badoglio (il suo candidato a Capo di S.M. è il generale Cavallero), morde il freno in attesa della buona occasione. Questa gli si offre al momento dell'attacco italiano alla Grecia. Come è noto, fin dal primo giorno le azioni militari sul confine greco-albanese si rivelano disastrose per l'esercito italiano che appare del tutto impreparato a un'operazione ritenuta più che facile. Pochi giorni prima, infatti, Mussolini aveva arrogantemente annunciato: spezzeremo le reni alla Grecia! e suo genero, il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, aveva confidato Pagina 31
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt che il problema più grave per le truppe italiane era di "trovare subito il carburante necessario per giungere in ventiquattro ore a Salonicco". Invece, pochi giorni dopo l'inizio delle ostilità, addirittura si combatte in territorio albanese. Farinacci si fa vivo con Mussolini il 9 novembre 1940. La sua lettera è rozza, ma anche franca, come d'altronde è il suo stile. "Caro Duce, quasi tutti gli italiani non celano il loro stupore per il procedere della guerra in Grecia. Essi credevano che, data la nostra lunga preparazione, le cose sarebbero state condotte a termine in una decina di giorni. E se nessuno dubita dell'esito finale, tutti si sentono però feriti nell'orgoglio, specie quando pensano ai successi dei nostri alleati tedeschi. Ma il più grave è che i capi militari - e sopra tutti Badoglio - vanno dichiarando che l'impresa è stata decisa contro la loro volontà. Se fossimo in Russia, questi signori avrebbero già finito di pontificare! Anche perché noi, fedeli, fedelissimi collaboratori, sappiamo benissimo che se l'azione fosse stata iniziata nel mese di agosto (l'attacco alla Grecia venne fissato il 28 ottobre 1940 per celebrare il diciottesimo anniversario della Marcia su Roma, N.d.A.) si sarebbe potuto procedere alla eliminazione totale dell'equivoco greco in modo rapidissimo. Ora questo accorrere laggiù di nuovi generali e di nuove forze mette in discussione il Capo di Stato Maggiore delle forze armate e i suoi più diretti collaboratori. Ognuno si chiede perché non si sia provveduto per tempo a concentrare le forze necessarie non tanto a combattere e vincere, ma a infrangere ogni resistenza in modo travolgente. Si dirà che siamo sfortunati per il tempo, per il terreno difficile, per le strade impraticabili. Ma tutti hanno presente il ricordo recentissimo dell'Olanda che, sebbene allagata, fu vinta in pochissimi giorni perché tutto era stato previsto e a tutto era stato provveduto. Si presenta dunque un caso di valutazione politica estremamente delicato. È possibile, allo stato delle cose, cambiare Badoglio e tutto il suo entourage? Quale reazione avrebbe in Italia e quale ripercussione all'estero? Io, considerando serenamente lo spirito pubblico, sono convinto che da un tuo gesto di forza ne trarremmo grandi vantaggi. Specialmente se dopo una tua decisione che colpisse duramente si potesse subito, in Grecia e in Africa, avanzare vittoriosamente. Nell'opinione pubblica italiana, Badoglio è molto discusso e, in Germania, egli è ben noto sia come nemico dell'Asse e sia come affetto da francofilia prima e da anglofilia acuta dopo. Non c'è bisogno poi che ti ricordi il giudizio dei fascisti nei riguardi di Badoglio: lo detestano e basta. Badoglio fu il principale responsabile di Caporetto. Sono in possesso di una lettera autografa di Cadorna in cui si accusa Badoglio di avere, col suo 27° corpo d'armata, permesso al nemico "di sfondare di fronte a Tolmino tre fortissime linee di difesa sebbene, il 23 ottobre 1917, egli avesse assicurato il Comando supremo di essere sicuro del fatto suo". E conclude la lettera: "La rotta di questo corpo d'armata fu quella che determinò la rottura sul fronte dell'intero esercito. Ma Badoglio la passa liscia: qui c'entra evidentemente la Massoneria. A queste dichiarazioni esplicite di Cadorna aggiungi l'atto d'accusa di Caviglia che avrebbe sepolto qualunque uomo con un minimo di dignità. Nel 1922 Badoglio, con una spavalderia, degna della sua faccia di tolla, si vantò di essere in grado di spazzare in cinque minuti, col fuoco delle mitragliatrici, tutte le Camicie Nere. Il Fascismo, eccessivamente generoso, dimenticò tutto questo e si affrettò a crearlo, non Marchese di Caporetto, ma Marchese del Sabotino. Alla nostra legittima reazione si rispose che, in fin dei conti, Badoglio era un uomo di valore e che, sorvegliato, avrebbe potuto rendere utili servigi all'esercito. Ed infatti i risultati dell'opera sua li abbiamo potuti valutare nel settembre scorso al momento della mobilitazione. Sebbene tu non abbia mai lesinato i miliardi all'esercito, l'esercito, tranne lo spirito di cui il merito appartiene al Fascismo, era armato molto, ma molto meno dell'esercito che andò in guerra nel 1915; dell'esercito cioè cui gli stanziamenti di bilancio venivano boicottati dai partiti di sinistra e avaramente concessi dai cosiddetti partiti dell'ordine. Venne l'impresa etiopica. Badoglio non la voleva e la criticò aspramente. E quel che avvenne poi meravigliò lui stesso. Ebbene, ritornato in Italia lo si creò Duca di Addis Abeba, gli si attribuirono onori eccezionali, gli fu data la tessera del Partito, oltre gli assegni a vita e cinque milioni affinché potesse costruirsi una villa nella capitale. Poi venne la guerra di Spagna. Con quella sua coerenza che merita quasi rispetto, si dichiarò nettamente contrario all'azione. Non dimenticare che in Pagina 32
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt quel tempo egli fornicava col povero Balbo, anch'esso contrario al nostro intervento. Si disse allora che avremmo scatenato la guerra mondiale e che avremmo pagato a caro prezzo la nostra iniziativa spagnola. Invece le cose andarono come noi le avevamo pronosticate. E si arriva così alla vigilia dell'attuale conflitto. Badoglio si dichiara con tutti antitedesco e francofilo, e confida a tutti di avere detto al Re che se Mussolini avesse giocata la carta tedesca, lui non sarebbe rimasto al proprio posto. Quando il Principe Umberto si recò dal Papa, Badoglio fece suggerire al Papa quello che avrebbe dovuto consigliare al Principe. Quando l'Italia dichiarò la guerra, Badoglio confermò a me e ad altri che non avrebbe mai marciato sul fronte occidentale. Se le operazioni contro la Francia ebbero inizio, ciò si deve a un ordine tuo. Se noi avessimo cominciata l'offensiva dieci giorni prima, avremmo anche potuto fare un'ottima figura: sfondata la linea avversaria in alcuni punti, potevamo avanzare rapidamente obbligando i francesi a usare un diverso linguaggio nei nostri riguardi. Avremmo avuto sicuramente un grande successo perché l'esercito francese, come non si è battuto contro i tedeschi, non si sarebbe battuto contro di noi. Tu decidi l'azione contro la Jugoslavia e lui la boicotta e te la fa rimandare mettendo in guardia l'avversario che così ha avuto il tempo per organizzarsi. Tu decidi di marciare contro la Grecia e lui ti ostacola per mesi l'azione così da permettere ai greci e agli inglesi di affrontare l'urto ben preparati. Tu decidi di agire contro l'Egitto, e stabilisci quali devono essere le tappe di marcia per il mese di agosto e lo Stato Maggiore ti crea tanti ostacoli da non poterti neanche assicurare nemmeno oggi, a metà novembre, se si marcerà. In agosto, come giustamente col tuo intuito avevi previsto, gli inglesi non avrebbero opposto seria resistenza. Lo stesso Churchill ha dovuto ammettere che, dopo la caduta della Francia, le forze inglesi in Egitto erano pochissime. Ora invece noi ci saremo sì rafforzati di altri uomini, di qualche servizio e di qualche strada, ma gli altri hanno triplicato le loro forze e i loro armamenti. Dobbiamo confessare che se non si è fatto molto di più la colpa è soprattutto dello Stato Maggiore. Badoglio e Graziani non hanno più nulla da guadagnare, hanno già avuto tutto e quindi non vogliono rischiare nulla. Graziani vuol marciare solo quando è sicuro al 150 per cento. Grave sciagura sarebbe se i Comandi e la situazione ci obbligassero a chiedere l'aiuto dei tedeschi! Senza dubbio non si può impedire ai fascisti di dire che, se la nostra Rivoluzione ha marciato in tutti i campi, è rimasta assente proprio nel campo più delicato e più importante: l'esercito. Alla testa dell'esercito vi è ancora la vecchia Italia con una mentalità ostinatamente antifascista e meglio ancora, per qualificare più esattamente Badoglio, una mentalità da Gamelin. Infatti - e questo in Germania è risaputo - quando Badoglio si incontrò con la Commissione di armistizio francese, si fece solcare il volto dalle lacrime e si preoccupò subito di abolire l'art. 21: la consegna immediata all'Italia dei fuoriusciti. Ora io ritengo, mio caro Duce, nell'interesse tuo e del fascismo, e soprattutto dell'Italia, che è suprema necessità liquidare tutto il passato con la liquidazione di quei capi militari che ormai non godono più la fiducia del Paese e neppure quella dell'esercito. È poi necessario che tu ti serva un po' di più degli uomini politici, i più fedeli e i più capaci, inviandoli dovunque perché i militari sappiano che qualcuno li sorveglia per conto di Mussolini. Per esempio, perché in Africa Orientale, con un comando qualsiasi, non mandi uno come me che potrebbe con abilità far intendere i tuoi intenti e la tua volontà, pronto a riferirti come stanno veramente le cose? In fin dei conti, noi abbiamo il preciso dovere di assumer di fronte al paese e al tuo fianco le nostre responsabilità. E con questo ho finito. Scusami lo sfogo, ma è necessario che ogni tanto ti arrivi brutalmente un'immagine della realtà da un uomo sicuro e sincero fra tanti che, per paura di farti inquietare o per tema di perdere le tue simpatie, preferiscono tacere con te e fare invece i supercritici nei loro conciliaboli. Tuo Farinacci." Questa volta, la lunga tirata di Farinacci avrà i suoi effetti: Badoglio verrà silurato e, al suo posto, sarà chiamato Ugo Cavallero. Ma il risultato non cambierà. Parte seconda SAPERNE UNA PIë DEL DUCE XII Pagina 33
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt MUSSOLINI FUORI TEMA Fra i tanti dossier riservati che compongono l'archivio della Segreteria Particolare del Duce ce n'è uno contrassegnato dal N. 100 che porta sul frontespizio il nome dello stesso Mussolini. È la sua cartella personale dove sono contenute scartoffie di ogni genere: certificati di nascita e di studio, vecchi documenti d'identità, foglio di congedo, insomma, tutte quelle carte che ogni persona usa mettere da parte perché, chissà, un giorno possono sempre servire... Ma il fascicolo contiene anche altro materiale, per così dire, non politico e che quindi merita di essere pubblicato a parte. Anno 1907: alla Regia Università di Bologna è tempo di esami. I pochi candidati non hanno l'aria di goliardi. Sono infatti dei maestri, di varia età, che intendono conseguire l'abilitazione all'insegnamento delle lingue nelle scuole secondarie. Uno di essi è il ventiquattrenne Mussolini, o meglio, "il devotissimo e obbligatissimo servo Mussolini Benito, maestro elementare" come lui stesso ha firmato la domanda di ammissione che ora figura, fra altre carte, in un fascicolo personale in cui il Duce, con la consueta precisione, fece raccogliere anche altri documenti e manoscritti relativi al suo periodo giovanile: quando difficilmente riusciva a legare il pranzo con la cena. Di concorsi, Mussolini ne ha già tentati un paio per conquistarsi un posto da maestro: il primo a Castelnuovo Scrivia, nel 1901, ma con esito negativo: il secondo, più fortunato (grazie all'appoggio dell'amministrazione comunale socialista) a Gualtieri dove ha insegnato per qualche tempo. Poi è fuggito in Svizzera per non assolvere agli obblighi di leva e lì ha svolto intensa attività politica e ha conosciuto molti famosi rivoluzionari: fra gli altri, Lenin e la Balabanof. Rientrato in Italia approfittando di un'amnistia concessa ai renitenti, ha fatto il servizio militare nei bersaglieri e ora pare deciso a mettere la testa a posto. Per questo si è presentato all'esame: vorrebbe ottenere l'abilitazione all'insegnamento del francese e del tedesco. Ma prima di tutto, il candidato se la deve vedere con la prova obbligatoria di italiano. Il tema che gli viene assegnato è il seguente: Il perder tempo a chi più fa, più spiace - disse Dante. - Con quanta ragione lo disse? Il candidato Mussolini si mette subito al lavoro e compita a mano con calligrafia sottile e nitida (non usavano ancora i famosi pennini a punta quadra). Ecco il suo svolgimento: La massima del sommo poeta non può essere intesa nel senso della morale utilitaristica inglese. Un popolo di mercanti e di trafficatori considera l'impiego del tempo in relazione alla rapidità del guadagno. Pel cervello di un solvibile rigattiere una dissertazione sulla metrica dei rapsodi antichi o delle ricerche sulla primitiva cultura degli Indi costituisce una perdita di tempo; l'onesto agente di cambio ritiene "parassiti a tutti quelli che" speculano col pensiero e non coi "valori industriali"; sarà molto difficile che un maresciallo della benemerita a riposo si convinca che gli "Studi Manzoniani" del d'Ovidio possano "anche" valere la carta sulla quale sono stampati. Oggi, malgrado i conati idealistici delle nuove scuole filosofiche è diffuso specie fra le masse - un sentimento di disdegno per chi non può mostrare le ormai troppo rettoriche e tribunizie mani incallite, per chi produce intellettualmente e non trasforma delle merci. Giorgio Sorel guarda dall'alto al basso les professionnels de la pensée ai quali - secondo le sue previsioni - non sarà certo facile di trovar posto e pane nella futura società composta esclusivamente di produttori sindacati. Per contro - notiamo in Italia - da qualche anno una specie di "pronunciamiento" contro questa concezione grettamente utilitaristica del tempo e della vita umana. C'è una rivista, "Caenobium", scritta da un uomo di vasto sapere - che ricordo con particolare gratitudine per l'aiuto prestatomi in una circostanza critica della mia vita - e ci sono dei giovani homines novi - che unitamente con Giuseppe Renzi bandiscono dalle colonne di "Caenobium" una specie di buddismo a uso e consumo dell'occidente. La loro dottrina è un attacco aperto e qualche volta ben condotto contro il valore che la morale corrente dà al lavoro "materiale". La vita dovrebbe essere contemplativa e riassumersi in una serie di "godimenti spirituali". Non voglio discutere qui il valore di questa concezione. Può essere un altro "segno dei tempi" ma temo molto che essa trovi degli aderenti. Per essere "contemplativi" senza rischiare il codice penale, bisogna avere una rendita di almeno lire 50 al giorno, altrimenti si passa per "vagabondi". La morale Pagina 34
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt tradizionale borghese poi non accoglierà mai nel suo grembo, per quanto capace, una dottrina che, nell'applicazione pratica, si risolverebbe precisamente in una "sistematica inattività", ergo in una assoluta, enorme, perdita di tempo. A questo punto però non posso resistere alla tentazione di fare una piccola incursione nel campo della filosofia. Che gli antichi e i moderni, che i sommi e i lillipuziani filosofi non mi serbino rancore se entro per poco nella loro repubblica. Ecco, la frase "perdere tempo" è un assurdo, è una contradictio in adiecto, quando non si riferisce alla vita umana, come fenomeno determinato e determinabile. Astraendo da tutte le considerazioni di ordine immediato, utilitario, pratico dall'empirismo cioè dall'enunciato - è possibile di perdere il tempo? E coloro che lo perdono potrebbero non perderlo? E quale appendice umoristica, se il tempo si perde, chi lo trova? Mi sembra che dopo aver convenientemente posta la questione nei suoi veri termini logici sia lecito concludere che: Non è possibile perdere il tempo, categoria dello spirito, nozione filosofica; è invece possibile, e biasimevole secondo i casi, trascurare l'impiego migliore della propria vita. Utilitaristi o idealisti, costruttori di ponti o cenobiti, operai del braccio o asceti, non possono però divergere nel dare un valore supremo al tempo in rapporto alla nostra vita. Sul valore più o meno dell'impiego di questo tempo si può dissentire, ma il tempo in sé è la vita. Senza la nozione dello spazio e del tempo non sapremmo di esistere. Perdere del tempo non significa altro che rinunciare parzialmente o completamente alla propria vita. Chi sente ciò ed è forzato dagli eventi a vegetare inattivo prova dolore acutissimo. Il verso di Dante è il risultato di meditazioni sul valore e sulla brevità della vita umana. La natura che dispone del tempo può economizzare lo sforzo ma gli umani no. Perdere tempo o più esattamente perdere delle energie è un delitto, è una dissipazione folle di un incalcolabile tesoro. Il danno prodotto da coloro che vegetano bestialmente ricade sulla stirpe. È una specie di furto del quale tutti possiamo dolerci. La nostra vita è una breve parentesi fra due eternità. Domani non saremo più. Ad altri sarà dato di passare per questi "odorosi colli" e di naufragare nelle nostre città. Consiglieremmo noi l'orazione: Ede, bibe, post mortem nulla voluptas? Questo, altro che importa? Importa di vivere intensamente - di diffondersi direbbe Gurjan - di "conquistare" direbbe Nietzsche, di utilizzare il tempo non in futilità puerili, ma per seguire un ideale di bellezza, di forza, d'amore... trarre dalla nostra anima come da un meraviglioso eptacordo tutti i suoni, tutti i canti e le nuove e le vecchie armonie... poi - giunti all'ultima sera - con la calma degli stoici antichi calare nel regno delle ombre. Lo svolgimento del tema è concluso: Mussolini Benito lo consegna alle 12,27 al professor Borghesi. L'esaminatore, evidentemente, non apprezza le citazioni erudite, le "incursioni nel campo della filosofia" e il finale lirico. Il suo giudizio, forse ingeneroso, è comunque lapidario: "mente squilibrata" scrive in calce al foglio. Poi segna il voto: "sei più". Alcuni giorni dopo il candidato affronta la prova di tedesco. Mussolini è convinto (e lo resterà come è noto per tutta la vita) di conoscere abbastanza bene quella lingua. Ma il suo esame è un vero disastro. I professori che compongono la commissione (Bertolini, Goidanich, Pullè, Gatti e Maggio) unanimemente lo respingono con un "quattro". Gli va molto meglio invece con il francese. La prova d'esame è questa: Lire et expliquer à des élèves de la troisième classe une poésie francaise. Dei tre esaminatori Bertolini gli dà "sette", Pullè "otto", Gatti "sette". E Mussolini viene dichiarato idoneo all'insegnamento della lingua francese. Andrà infatti ad insegnarla per qualche tempo a Oneglia, in Liguria. Più tardi, diventato giornalista e dirigente socialista, pretenderà di essere chiamato "professore" dai compagni. Rinuncerà al titolo solo quando gliene sarà attribuito un altro: quello che tutti conosciamo. XIII BENITO D'APPENDICE Don Benizio accompagnò gli altri preti in sulla porta. Ritornato nella stanza, non poté trattenere un gesto di trionfo. Mentre si vestiva per andare a dormire, pensieri di vendetta, di conquista, di godimento, gli turbavano il cervello. "A domani! A domani!" diceva fra sé. "La pecorella non potrà sfuggirmi. Impiegherò i mezzi buoni e cattivi. L'eloquenza gentile e la minacciosa, farò delle Pagina 35
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt promesse, delle grandi promesse. Ah, Claudia, domani tu sarai mia! Io lo voglio!" E la donna dalle nudità lungamente agognate, quali appaiono nei furori di un erotismo coartato, ai forzati della castità; la donna bella e impudica che domani gli avrebbe gettato le braccia al collo, Claudia dagli occhi neri come quelli del diavolo, dagli omeri rotondi, dai capelli odorosi, dalla bocca paradisiaca, dalla pelle bianca e tenera, Claudia la cortigiana turbò il sonno di don Benizio, coll'incubo dei desideri insoddisfatti, colla speranza di carezze ignorate, di voluttà ineffabili sino all'esaurimento, sino all'esasperazione. La carne di questo prete fremeva, come freme un dio silvano nel mirare una ninfa nuda che si specchi nell'acqua di un ruscello limpido e silenzioso... Il brano è tolto da "Claudia Particella, l'amante del cardinale", di Benito Mussolini, un romanzo à sensation, come lo definì lo stesso autore, che fu pubblicato in appendice dal "Popolo" di Trento, giornale socialista diretto da Cesare Battisti, per 57 giorni di seguito a partire dal 20 gennaio 1910 e che ottenne un grande successo di pubblico. Mussolini l'aveva scritto in poche settimane, sul finire del 1909 al suo ritorno in Romagna dopo una turbinosa esperienza come agitatore politico nel Trentino asburgico. Chiamatovi da Cesare Battisti, leader socialista locale, Mussolini si era trasferito a Trento il 6 febbraio 1909 e ne era stato espulso il 10 settembre dello stesso anno per via delle sue furiose polemiche con i cattolici "austriacanti" di Alcide De Gasperi. Erano gli anni del "Mussolini rivoluzionario". Il futuro Duce era un giovanotto pieno di interessi diversi e confusi. Incerto fra la carriera dello scrittore e quella del musicista (si portava sempre dietro un violino che suonava nei momenti di relax) si adattava a fare il politicante di mestiere e nascondeva le sue ambizioni piccolo-borghesi con clamorose prese di posizione volutamente dissacratorie. Psicologicamente, era un contestatore presuntuoso, convinto della sua superiorità intellettuale, mangiapreti, mangiapadroni e portato alla lotta di classe più dall'odio nei confronti dei ricchi e degli "arrivati" che dall'amore verso gli sfruttati. Prima di trasferirsi nella provincia asburgica aveva già vissuto un paio d'anni all'estero, in Svizzera. Lì, aveva studiato con Vilfredo Pareto, si era fatto un nome come oratore focoso e blasfemo (fu quella l'epoca della sua famosa sfida pubblica al Padre Eterno: "Dio, se veramente esisti, ti concedo due minuti per fulminarmi!"), aveva amato molte donne, fra le quali Angelica Balabanof, e conosciuto molti leader della sinistra internazionale, fra i quali Lenin di cui, più tardi, dirà: "Era un sentimentale. Come me, amava molto la musica...". Ma Mussolini non era tagliato per la vita del fuoriuscito. Alla prima occasione (un'amnistia per i disertori) tornò in fretta in Italia, dove però non trovò ugualmente l'agognato posto fisso. Campava dando lezioni di francese, e quando il compagno Battisti lo invitò a Trento, accettò senza esitazioni. Anche nella sonnolenta provincia dell'impero, il giovane Mussolini fece subito sensazione. Attivista infaticabile, si gettò a capofitto nell'azione politica, in quella giornalistica, nelle ricerche d'archivio e trovò anche il tempo per imbastire una fitta rete di relazioni galanti. Ma ecco come lui stesso riassume il suo soggiorno trentino: Diedi la mia collaborazione al "Popolo", il quotidiano socialista diretto da Cesare Battisti. Le violente polemiche che ebbi a sostenere con i clericali diedero luogo a molti incidenti e piccoli processi, terminati con lievissime condanne, che ho espiato. La mia azione tra le masse operaie, che guidai in alcune agitazioni fortunate (falegnami, terrazzieri) e in altre sfortunate (ricamatrici), la mia propaganda orale e la mia opera di giornalista avevano risvegliato l'ambiente. Un'intervista con la "santa" di Susà fece grande impressione (si tratta di un servizio giornalistico su una contadina, protagonista di scabrose vicende, che fabbricava miracoli con la complicità di un prete, N.d.A.). A mezza estate entrai come redattore capo del "Popolo". Questo fatto eccitò i clericali e i nazionalisti. Cominciarono le trame segrete per ottenere il mio sfratto. Io continuavo a battagliare violentemente, mi sottoponevo a un lavoro sfibrante, qual è quello di dirigere una Camera del lavoro e compilare quasi da solo un quotidiano, sia pure di formato modesto, e un settimanale. Vegliavo tutte le notti. Ebbi anche diverse relazioni col sesso gentile. Ma non faccio nomi. Mussolini non esagera in questa rievocazione. In quei sei mesi di permanenza a Trento trovò anche il tempo per collaborare alla rivista "Vita Trentina", per tradurre dal tedesco "Le memorie di un'operaia" e per raccogliere materiale d'archivio per il libro "Il Trentino visto da un socialista" (che pubblicherà Pagina 36
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt nel 1911) e per il romanzo su Claudia Particella, una ragazza trentina che fu effettivamente l'amante del cardinale Carlo Emanuele Madruzzo nel XVII secolo. L'idea di scrivere un feuilleton su questa storia d'amore fu suggerita all'autore da necessità economiche. Mussolini in quegli anni aveva sempre bisogno di denaro. Espulso da Trento, era tornato a vivere col padre Alessandro. L'ex fabbro, rimasto vedovo, aveva aperto una trattoria in via Giove Tonante, a Forlì, e conviveva con una vecchia amica che aveva una figlia di nome Rachele. La madre faceva la cuoca, Rachele la cameriera. Anche Benito, per campare, si adattò a servire ai clienti piadine e minestroni. I due si innamorarono fra i tavoli dell'osteria. La storia di Claudia Particella ottenne un successo imprevisto. La tiratura del quotidiano salì alle stelle, tanto che Battisti, per indurre l'autore ad allungare al massimo la vicenda, gli aumentò il compenso da 15 a 25 lire la puntata. Mussolini, che aveva un gran bisogno di soldi, non perdeva comunque occasione per battere cassa. Scriveva in quei giorni a Battisti: Caro Direttore, come avrai visto dal giornale che ti ho mandato, mio padre trovasi colpito da paralisi all'ospedale. Per installarcelo abbiamo vuotato la casa. Bisogna anticipare l'importo per un mese di degenza: 3 lire al giorno. La mia crisi finanziaria è acutizzata dal mio faux ménage iniziato a gennaio (si tratta della relazione con Rachele, N.d.A.). Puoi pensare che io non ho scritto Claudia Particella per i begli occhi delle Claudie trentine attuali, né del resto per speculare sul "Popolo". Verbis brevis, io ti chiedo 200 lire. Non spaventarti, amico mio. Leva da tal somma le 65 lire che ti debbo per la stampa della "Santa di Susà" e le 20 che mi consegnasti a Verona. Rimangono 115. Converrai che romanziere non deprezzò mai a tal punto la sua prova narrativa. Senti: per il 16 corrente ho uno di quegli impegni che torcono il collo. Mandami 65 lire. Le altre me le darai quando vorrai. Più che una ricompensa, mi farai un piacere e te ne sarò grato. Ad ogni modo scrivimi subito qualche cosa. Spero che non farai il sordo, ma ricordati che troncherò il romanzo. Absit iniuria verbis e ciao, Mussolini. La risposta di Battisti giunse pochi giorni dopo: Carissimo, spero che i denari, spediti non appena potei, ti saranno giunti in tempo. L'appendice è ora esaurita e vi è urgenza che tu mi mandi alcune puntate. Stabiliscimi poi per il tempo quando desideri il residuo importo. Saluti cordialissimi. Tuo Cesare Battisti. P.S. L'appendice è letta con molta avidità. I compensi finanziari sono scarsi, ma rischi di avere un monumento in piazza del Duomo. Ti par poco? A Mussolini non parve poco il compenso. Cominciò infatti a credere che la sua vocazione vera fosse quella dello scrittore. L'esistenza di un Mussolini feuilletoniste era ignota finora persino ai suoi più attenti biografi. Il romanzo di Claudia Particella era considerato un caso a sé, una sorta di divertissement che l'autore si era concesso in una breve paura della sua attività politica. Ora sappiamo che non è vero. Dopo il successo popolare dell'Amante del Cardinale, Mussolini si mise di buona lena a raccogliere materiale per scrivere una storia à sensation di Casa d'Austria. Dagli appunti conservati fra le sue "carte segrete" ora conosciamo anche i titoli dei quattro feuilletons che intendeva realizzare. Sono: La tragedia di Mayerling; Il fucilato di Queretaro; L'Imperatrice Elisabetta e Franz Joseph intimo. Ebbe però solo il tempo di scrivere La tragedia di Mayerling, che poi non pubblicò. Si tratta di un manoscritto di 40 pagine già pronto per essere passato in tipografia che lui scrisse presumibilmente nella prima metà del 1910. Lo stile non è diverso da quello usato per L'amante del cardinale e l'autore si sforza di spacciare per vero e per documentato ciò che invece è soltanto frutto della sua immaginazione o di voci raccolte qua e là. Ma questo accade in tutti i cosiddetti romanzi storici. Ciò che invece interessa di più è il taglio volutamente antiromantico che il ventisettenne Mussolini ha dato a una storia destinata a far lagrimare intere generazioni di ragazze sentimentali. Non mancano neppure le "rivelazioni sensazionali" che l'autore stesso annuncia sul frontespizio della sua opera. Ma ecco un ampio estratto del feuilleton mussoliniano. Gott erhalte Franz den Kaiser! Dio conservi Francesco Imperatore! Con queste parole comincia l'inno imperiale degli Asburgo musicato da Haydn un secolo fa, su parole di un gesuita tedesco. E Dio, il Dio dei troni, ha veramente conservato e conserva Francesco Giuseppe. Il vecchio Imperatore ha 79 anni compiuti. Il 1° di dicembre del 1908 si celebrò, in tutta la Monarchia Austroungarica, il giubileo imperiale: sessanta Pagina 37
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt anni di trono. Nessun monarca antico o moderno ha diretto per più lungo periodo di tempo il destino dei popoli. La sua vecchiaia è scevra l'acciacchi. Le forze fisiche non lo hanno abbandonato. Permangono in lui le tendenze della sua giovinezza avventurosa e libertina. Passione della caccia e munifici doni alle mantenute. Una di queste ha ricevuto due anni or sono, in regalo, una splendida villa nei dintorni di Vienna. Anche il sistema reazionario di governo, non è cessato. Alla corte di Vienna imperano i gesuiti. L'ordine di Ignazio è responsabile della miseranda fine di Elisabetta. Ma se il Dio dei troni ha concesso una longevità eccezionale a Francesco Giuseppe, v'è stato un altro dio, quello delle vendette, che ha macchiato, col sangue di molte misteriose tragedie domestiche, le pagine della storia degli Asburgo da Massimiliano fucilato a Queretaro, nel Messico, a Rodolfo suicidatosi a Mayerling, all'Imperatrice Elisabetta caduta a Ginevra sotto il pugnale di Luccheni, è un lungo seguito di sventure che non hanno tuttavia fiaccato l'anima chiusa del vecchio monarca, né lo hanno volto a sentimenti migliori... ... Il 30 gennaio del 1888, verso le dieci del mattino, in una stanza matrimoniale del castello di Mayerling, situato nelle vicinanze di Vienna, fu trovato morto Rodolfo d'Austria, principe ereditario della corona degli Asburgo. Accanto a lui, gelida nella compostezza suprema della morte, giaceva la baronessa diciottenne Maria di Vetsera, bellissima. Dopo la ferale scoperta che i fili del telegrafo annunciarono in tutto il mondo e che commosse ogni popolo civile, sorsero infinite versioni dell'avvenimento. La tragedia si era svolta nel cuore di una tenebrosa, lunga notte invernale e non aveva lasciato superstiti. Le fantasie si sbizzarrirono... ... Queste versioni e queste leggende sono arbitrarie creazioni della fantasia popolare. La verità è diversa e a ricostruire nei suoi precedenti la tragedia e a spiegarla nelle sue cause mediate e immediate molto giovarono le rivelazioni della principessa Odescalchi, nata contessa Zichy, e molto ci hanno giovato i documenti che siamo andati religiosamente accumulando con difficoltà non lieve, poiché la corte austriaca ha fatto sequestrare tutte le pubblicazioni che si riferivano alla tragedia di Mayerling... ... Sino all'età di diciotto anni, precettore di Rodolfo fu il conte di Gondrecourt, poi gli successe il conte di Bombelles. Il primo era un maestro severo, il secondo invece accoppiava la superbia dell'aristocratico alla vacua frivolità del cortigiano. Rodolfo conobbe e profittò della libertà. Cominciò a frequentare le donne. Nessuna gli resisteva. Ebbe baci di fanciulle e di spose. L'intrigo d'amore, la passione carnale, gli corrompevano a poco a poco l'animo e gli deprimevano la salute. Le sue avventure provocarono scandali e discordie in parecchie nobili famiglie. La corte comperò il silenzio coll'oro o lo impose colla violenza. Francesco Giuseppe tollerava la vita licenziosa del figlio. Anche il vecchio aveva avuto una tempestosa giovinezza e non poteva dettare regole di puritanismo. Quando però si avvide che la salute di Rodolfo deperiva minata dagli eccessi sessuali, si decise a dargli moglie... Alla fine la scelta cadde sulla principessa Stefania del Belgio, sorella minore della principessa Luisa di Coburgo... ... I primi tempi del matrimonio trascorsero lieti. Dopo nove mesi nacque una bambina. Rodolfo avrebbe preferito un maschio. Egli riprese allora gradatamente le sue vecchie abitudini da scapolo... ...L'arciduca e molti altri suoi compagni d'orgia conobbero gli amplessi della bella Elena Vetsera che, rimasta dopo qualche anno vedova, ebbe e concesse maggiore libertà alla schiera dei don Giovanni della corte austriaca. In breve dilapidò le ricchezze trasmessele dal padre, quelle accumulate dal marito e mentre nel suo volto comparivano le prime rughe della vecchiaia, la miseria batteva alla porta della sua principesca abitazione. Elena Vetsera non aveva che un'ultima via di scampo: sfruttare sapientemente la bellezza della figlia sedicenne Mary. Costei veniva chiamata Circe e questa reminiscenza mitologica era pienamente giustificata. La madre declinava rinunciando ormai per sempre al battagliare dei facili amori e, al suo posto, sorgeva la figlia. Accanto al tramonto malinconico, l'aurora gloriosa, fascinatrice. Dopo Elena, Mary - la Maga che doveva portare nei suoi baci la voluttà della morte. Mary si propose di conquistare Rodolfo d'Austria. La figlia della baronessa spiantata aveva concepito un superbo sogno. Lo realizzò... ... Da quel giorno Rodolfo fu un vinto. I baci di Mary Vetsera gli facevano dimenticare moglie, famiglia, amici e doveri della Corona. Nel castello di Mayerling, vecchio castello abbandonato nelle vicinanze di Vienna, i due amanti trascorsero parecchie lune di miele. Mary faceva ancora frequenti apparizioni a corte. Portava ricchissimi gioielli. Non si tardò molto a conoscere il donatore. Pagina 38
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Era Rodolfo... ... La situazione diventava ogni giorno più critica. Il principe osò fare l'ultimo passo. Chiese un'udienza al padre. Il drammatico colloquio si svolse nella biblioteca privata dell'Imperatore. "Padre," disse "io non potrò vivere senza Mary Vetsera... Sono disposto a rinunciare al trono. Mi ritirerò a vita privata in qualche villaggio..." "No!", gridò l'Imperatore, e le sue lunghe braccia tagliarono l'aria con un gesto tragico. "No! Mai! Mai!... Comprendete? Voi lascerete la femmina, non la corona..." I gesuiti della corte si posero intanto all'opera. Circondarono Rodolfo e dispiegarono, per ridurlo definitivamente alla volontà paterna, tutte le loro sottili, diaboliche arti. Riuscirono parzialmente allo scopo. Rodolfo aveva ormai deciso di abbandonare Mary... ma poi mancò alla promessa fatta a suo padre. Egli non ebbe il coraggio di cacciare Mary, non seppe resistere alle grazie di lei e finì per caderle ancora una volta fra le braccia. Ma ella aveva già meditato e risolto di compiere un'orrenda vendetta... ... Ventinove gennaio 1889! Ecco la data che la Storia doveva segnare con cifre di sangue... Dopo un'ora, Mayerling, l'antico chiostro, emerse dall'ombra. Molte delle sue finestre erano illuminate. Rodolfo era visibilmente preoccupato. Mary invece raggiava... Non appena furono soli, ella gli gettò le braccia al collo. Cercò colla sua, la bocca di lui e si baciarono lungamente. Rodolfo perduto taceva. Ma dopo un momento di tristezza e di riflessione, osò dire: "Mary, è necessario che io ritorni subito a Vienna. Stasera c'è un pranzo intimo a corte e mio padre mi ha quasi imposto di non mancare...". A queste parole Mary scattò in un improvviso movimento di collera, ma poi si ricompose. "Già lasciarmi, Rodolfo? E la tua parola? Non mi avevi promesso una notte, un'ultima notte d'amore? Ah! Rodolfo! Giustifica con un telegramma la tua assenza, non essere avaro verso la tua buona amica fedele delle ultime ore di gioia che le concedi. Dopo, domani... da domani la mia vita non avrà più scopo, più significato. Tornerò la baronessa di Vetsera, nell'attesa di un marito vecchio e rimbecillito che mi pagherà dei gioielli perché io lo tradisca. Dopo la nostra grande passione, la solita vita di mediocrità... Rodolfo non lasciarmi stasera qui, sola, in balia forse di qualche malvagio. No. Tu non partirai. Voglio averti ancora una volta fra le mie braccia. Avrò per te ineffabili voluttà supreme di cui il ricordo non potrà mai più cancellarsi dall'anima tua e dai tuoi sensi. Rodolfo, io ti amo, ti amo, ti amo...". E le bocche degli amanti s'incontrarono nuovamente... Dopo un'ora tutti i lumi si spensero alle finestre e il castello di Mayerling si addormentò nella tenebra della notte di sangue. Mary aveva già meditato la vendetta e una vendetta atroce quale solo può germinare l'animo di una femmina ambiziosa e dissoluta. Noi non sappiamo quanto sia accaduto tra i due amanti. Potremmo inventarlo, ricostruirlo, ma cadremmo nel romanzesco; e questa invece è narrazione documentaria. Probabilmente deve essere scoppiata una violenta crisi di gelosia esasperata dall'abbandono. Fatto si è che verso mezzanotte Rodolfo die' in un acutissimo straziante grido di dolore. Mary aveva effettuato la spaventosa minaccia e compiuto un'abbominazione: aveva evirato l'uomo addormentatosi poco prima al fianco di lei nella fiducia e nella dolce stanchezza de' baci. Il sangue correva per i lini candidissimi del letto, mentre Mary discinta cercava di raggiungere la porta per fuggire. Rodolfo, nello spasimo del sovrumano dolore, dopo le prime imprecazioni, non parlava più. Egli era ricaduto come morto sul letto. Mary intanto s'era vestita, e già stava per varcare la soglia della stanza fatale, quando Rodolfo la raggiunse e la finì con un colpo di revolver. Ella stramazzò a terra. Rodolfo l'aveva uccisa. La ripose sul letto, la coverse e le si mise al fianco. Dopo pochi minuti un'altra sorda detonazione... Rodolfo s'era ucciso. Egli non poteva sopravvivere all'onta infame. La scena fu rapidissima. Nessuno degli addormentati nel castello si svegliò. Alla mattina dopo, 30 gennaio, verso le 8, i cavalieri del seguito aspettavano il principe per ritornare insieme a Vienna. Il ritardo inquietava. Finalmente, verso mezzogiorno, l'ungherese conte Hoyos, intimo del principe, si decise a bussare alla porta per risvegliarlo. Ma nessuno rispose. Dopo ripetuti colpi, temendo qualche sventura, il conte Hoyos ordinò ai domestici di abbattere la porta. Sul letto giacevano i cadaveri di Rodolfo e di Mary, bellissima anche morta. Sul pavimento v'erano qua e là larghe chiazze di sangue. Nell'aria chiusa della stanza si diffondeva l'acre odore della strage. Negli angoli agonizzavano avvelenati dei grandi mazzi di fiori. Da una tempia di Rodolfo colava ancora lentissimamente un sottile filo di sangue. Mary invece aveva il volto intatto, le labbra atteggiate al sorriso della vittoria suprema. Pagina 39
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Elisabetta ha portato per tutta la vita il lutto del figlio spentosi a Mayerling. Rodolfo e Mary dormono insieme il sonno che non ha risveglio nel parco del castello che fu da quel giorno abbandonato." Per ragioni che ignoriamo, Mussolini non pubblicò il suo feuilleton. Anzi, rinunciò definitivamente alla sua vocazione di scrittore. Di questa sua segreta ambizione non parlerà mai con nessuno. Ne accennò soltanto, alcuni anni dopo, quando dirigeva l'"Avanti!" a Milano, a una delle sue amanti, l'anarchica Leda Rafanelli. Leda era una misteriosa livornese, cresciuta in Egitto, che aveva ammaliato il provinciale Mussolini con le sue pose di rivoluzionaria snob: diceva di professare la religione musulmana e riceveva gli amici in una casa arredata all'araba con bruciaprofumi e narghilè. Mussolini, che sognava di "fuggire con lei in Oriente per leggere insieme Nietzsche e il Corano", le confidò in una lettera: "Ho bisogno di essere qualcuno, mi capite? Non sono quello che sono. Ho bisogno di salire in alto, di fare un balzo in avanti. Da giovane volevo diventare un grande scrittore, ma compresi che sarei rimasto mediocre...". Molti anni dopo, compiuto il "balzo in avanti" e diventato Duce del fascismo, Mussolini impedì ai suoi biografi e apologeti di rievocare le sue esperienze di feuilletoniste. Consentì soltanto a un editore americano di pubblicare in inglese L'amante del cardinale, ma a patto che non venisse diffuso in Italia. Della sua Storia di Casa d'Austria, invece, non parlò mai con nessuno. XIV MUSSOLINI E LA SANTA Trento, giugno 1909, Benito Mussolini è redattore tuttofare de "Il Popolo"; il suo scopo più clamoroso di quei giorni fu la sua intervista alla "Santa di Susà", una povera montanara vittima di un prete disonesto che, oltre a farla sua amante, l'aveva costretta a recitare la parte di "santa" dispensatrice di miracoli. Per la verità, questo episodio era accaduto molti anni prima, ma era poco noto perché la stampa locale lo aveva a suo tempo ignorato. Venutone a conoscenza, Mussolini decise di rievocarlo pubblicamente intervistando la protagonista. L'articolo apparve sul "Popolo" il 12 giugno 1909 e suscitò tale interesse che il partito socialista trentino ritenne opportuno ripubblicarlo in opuscolo e metterlo in vendita al prezzo di centesimi 6. La modesta pubblicazione (di cui una copia è conservata nel fascicolo personale del Duce fra gli altri ricordi di gioventù) contiene la seguente prefazione scritta dallo stesso Mussolini: Per molte insistenze di compagni che non leggono o non possono leggere giornali quotidiani, mi sono deciso a ripubblicare in opuscolo l'intervista che vide la luce sulle colonne del "Popolo". Il processo e i casi per cui la povera contadina di Susà ebbe per qualche tempo gli onori della santità sono forse analoghi a quelli delle altre sante che la chiesa cattolica ha posto sugli altari. Superstizione, miseria, ingenuità da una parte; raggiro, abuso, furberia dall'altra, e una solenne documentale smentita a certi voti di castità che non possono essere mantenuti senza forzare la natura umana. Lo so che l'episodio non è unico, ma giova rilevarlo perché molti sono i ciechi che non vogliono vedere, i sordi che non vogliono sentire, gli ignavi che subiscono e si rassegnano invece di reagire e di lottare. Prescindete dai personaggi che vi figurano, e di questo racconto storico, o compagni, o lettori, riflettendo, voi troverete l'intima morale. Io credo di avere fatto opera utile per la nostra causa. m.b. Ed ecco ora il testo integrale dell'intervista di Mussolini: Come un pellegrino che muove a una Tebaide lontana per espiare nella solitudine bianca e sconfinata del deserto i dolci peccati di un tempo, sono partito da Trento all'alba sotto un cielo nubiloso e minacciante la pioggia. La strada dispiega il suo nastro fra le colline superbe dalla vegetazione in fiore; più in alto i declivi silvestri delle montagne sembrano di un verde tenero; le fosse profonde hanno ormai perduto ogni traccia della lunga dominazione iemale. C'è nell'aria una gamma di suoni e d'effluvi. Man mano che mi avvicino alla meta, i miei pensieri, forse inseguendo il moto delle mie gambe, diventano più gravi. Quando Susà - la mia Mecca - appare sotto la montagna rossa, un raggio di sole squarcia le nubi e il mio sguardo si bea in una magnifica panoramica visione. Sopra Pergine, il castello erge le sue mura merlate di cui le feritoie sembrano occhi socchiusi di un cadavere enorme: poco lungi una croce altissima, tutta bianca, profila le sue braccia gigantesche in atto di supremo comando; in fondo, il lago di Caldonazzo ride nella sua azzurra chiarità virgiliana, mentre sulle ultime montagne verso l'Italia sfioccano i cirri bianchi e turgidi dell'ora Pagina 40
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt mattinale. Vinto dalla commozione vorrei gridare con voce di mille toni la famosa ottava di Torquato, ma finisco per balbettare un verso di Gabriele D'Annunzio: "O natura, o immensa Sfinge, o mio eterno amore". Susà dista venti minuti di cammino da Pergine. Subito dopo il passaggio a livello della ferrovia valsuganese, il sentiero s'inoltra fra i campi con leggero pendio. Susà, come tutti i villaggi alpestri, è un mucchio di case. Avanti agli abituri è il solito catafascio di tronchi d'albero, di fascine e di rifiuti. Ah! come mi titilla dolcemente le pinne del naso il sano acre odore ammoniacale che si sprigiona dalle stalle e dal letame religiosamente conservato in grandi masse dalle quali escono rivoletti di un liquido giallo come il granturco, profumato come la menta. Come mi piacciono questi bambini seminudi, mocciosi e ruzzanti fra le pozzanghere; come sento d'amare questa umanità che cresce libera nell'ignoranza e nel sudiciume! Sinite parvulos venire ad me. E i parvoli mi guardano con occhi che esprimono un ingenuo punto interrogativo, mentre le loro labbra mi salutano con un "riverisco" dalla cadenza italiana e consolatrice. Prima di recarmi dalla "santa" faccio visita alla casa rovinata da un incendio, pochi giorni or sono. È un dovere d'ospitalità che compio. Dimostro di interessarmi alle vicende di Susà. Ne' piccoli villaggi un incendio è sempre un avvenimento memorabile, almeno sino a quattro generazioni. Una donna alta, grigia, dagli occhi rossi e gonfi di lagrime mi accompagna ai piani superiori della casa. Qui le fiamme hanno compiuto la loro opera devastatrice. Sopra le mura annerite dal fumo, le travi si incrociano ancora, ma dal tetto completamente scoperchiato una luce bianca e cruda sembra irridere a quella desolazione. La grande ruota che serviva a trasportare nel solaio il fieno non ha che pochi raggi mozzati; nell'angolo una falciatrice mostra i suoi ingranaggi d'acciaio che si sono contorti sotto la stretta ignea; i pavimenti che serbano accomunate le tracce del fuoco e dell'acqua, cedono sotto al passo con un'oscillazione ammonitrice. La buona donna mi dichiara singhiozzando: "Queste cose succedono solo a noi, poveri diavoli". Vorrei risponderle che anche in altri tempi e in altre parti del mondo sono scoppiati degli incendi e che è pur sempre una consolazione socios habere penantes; ma rimetto a un'altra volta questa frase perché le anime semplici e tutti coloro che non hanno letto Eduard van Hartmann credono a un "proprio" dolore e non al dolore universale. Dopo pochi minuti mi trovo davanti alla "Santa". Quali amarissime disillusioni sono riservate alle animule romantiche! Io m'aspettavo di vedere la Santa discendere dall'alto o montare da un sotterraneo in un globo di luce, adorna delle sacre costellazioni, e invece la "Santa" compare da un uscio cigolante e sgangherato. Il piccolo saluto che comincia con un Ave ho dovuto rientrarlo perché la Santa mi ha gelato con un esordio di questo genere: "I cavalieri (i bachi da seta) non mi lasciano neppure il tempo di morire". "Ma troverete una mezz'ora per me." La Santa, al secolo Rosa Broll, accoglie la mia preghiera e siede. È una donna bassa, dai lineamenti secchi, dagli occhietti chiari, grandi, vivaci. Le chiome sono grigie, ma ricche. Età presumibile: cinquant'anni. "Voi supponete forse lo scopo della mia visita... Ho saputo dei vostri casi giovanili... Desidererei qualche informazione esatta. La storia la conosco, però ignoro molti dettagli." "Oh!" esclama la Rosa "tutti sanno le mie avventure." "Ma voi sapete che passando di bocca in bocca la verità si altera fino a diventare una bugia. Ditemi, ricordate l'anno in cui avete conosciuto don Antonio Prudel?" "Fu nel 1874." "E vi conobbe subito." "Anca massa. Avevo allora sedici anni e lui ne aveva venti. Mi fece la corte alcune settimane e mi conquistò. Divenni la sua amante." "E la sua sposa." "Anca. Dopo due mesi andammo insieme a Trento a comprare le gioie." "Dove avete celebrato il matrimonio?" "Alla Madonna di Piné. Don Prudel mi accompagnò davanti all'altare e in presenza di due testimoni mi lesse una carta di dispensa che egli asseriva avere ricevuto dal Papa e colla quale poteva sposarmi. Alla sua domanda io risposi "sì". Egli aveva fatto chiudere le porte della chiesa e salvo i due testimoni nessuno al mondo avrebbe mai dovuto conoscere il mio matrimonio segreto. Dopo fui condotta in canonica e presentata come cugina di don Prudel dal lato materno. C'erano cinque o sei giovani preti che banchettavano... non osai entrare in loro Pagina 41
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt compagnia, malgrado i calorosi inviti. Restai un po' confusa e mi ritirai a mangiare in cucina con le serve. La sera stessa, a tarda ora, ritornammo a Susà. Il nostro appartamento era preparato nella Casa del Beneficio. Vi ho vissuto tre anni." Dopo una breve pausa di cui la Santa sembra avere bisogno per riordinare la trama delle memorie, il racconto prosegue. "Io stavo chiusa giorno e notte nella Casa del Beneficio. La gente cominciava a mormorare... Si trovava strana la mia reclusione... Allora don Antonio Prudel si mise a propagare la novella della mia santità. Due volte la settimana veniva a comunicarmi seguito da un gran codazzo di fedeli... Ogni venerdì, poi, regolarmente, mi faceva sudare sangue... Diventavo santa patoca. I contadini dei dintorni e dei paesi lontani muovevano in pellegrinaggio a Susà, mi chiedevano delle grazie e mi colmavano di regali... La gendarmeria nutriva forti sospetti sull'autenticità dei miei miracoli, ma affinché i rappresentanti della forza pubblica non mi trovassero in canonica, don Prudel aveva scavato un nascondiglio nel muro (esiste ancora) e quando si annunciavano i gendarmi io mi seppellivo in quella specie di armadio e sfuggivo a tutte le ricerche... Una sera, don Antonio organizzò un'apparizione in cui io avrei rappresentato la Madonna... Mi vestii di bianco e insieme con una mia compagna, la Beata Martini, mi posi dietro un filare nei prati ai Rastellani, presso Costasavina. Don Antonio soleva riunire seralmente i suoi coloni e distribuiva loro, con prodigalità, dell'acquavite... Era appunto intento a conversare quando un Martini, fratello della Beata, e già d'accordo nel trucco, corse ad annunciare l'apparizione... Subito vennero tutti quanti verso di noi, ma don Antonio li precedeva e a un certo punto li costrinse a inginocchiarsi. Dopo essere apparsa, io approfittai di quel momento per scomparire..." "Scusate, Rosa... Una domanda: il vostro matrimonio con don Prudel è stato fecondo?" "Oh sì, abbastanza, ma poco fortunato. Il primo figlio, un maschio, fu abbandonato sulla porta di una chiesa di Pergine da uno che non ricordo. Venne quindi raccolto e mantenuto dalla mamma Andreatta. Dopo 15 mesi morì." "Permettete: chi vi assisteva durante il parto?" "Ma lui! Don Prudel." "Funzionava allora da mammana?" "Come uno che abbia fatto le scuole." "E dopo?" "Abortii di quattro mesi e poi dopo un anno e mezzo circa ebbi una bambina. Questa fu portata di notte a Levico dentro una sporta e lasciata sulla soglia della chiesa. Ma i gendarmi che battevano a quell'epoca la campagna per trovare gli autori di una serie di furti, avevano notato l'individuo della sporta... Alla mattina il prete di Levico, aprendo la chiesa trovò la neonata che vagiva... Fatta immediatamente la denuncia, i gendarmi non tardarono a identificare l'uomo dal misterioso carico e, trattolo in arresto, ottennero da lui una confessione completa. In seguito al parto, io mi trovavo ancora a letto quando vennero i gendarmi. Che scena! Don Prudel sembrava fulminato. Mi adagiarono su di una barella e mi portarono a Pergine. Vi rimasi cinque giorni, poi fui condotta a Trento, ma non alla Vanga, bensì all'ospedale." "E la bambina?" interrompo io. "Venne raccolta e riportata a Susà da una Luisa Carlini. Morì dopo una ventina di mesi pora pupa e fu sepolta da don Giovanni Molinari." "Quanto tempo siete stata all'ospedale?" "Tutto il tempo dell'istruttoria, quasi tre mesi." "Di che eravate accusata?" "Oh! non mi ricordo. Sono passati tanti anni." "E veniva don Prudel a trovarvi?" "Mai. Capitò invece il parroco di Santa Maria Maggiore per spingermi a dichiarare davanti ai giudici che la bambina abbandonata non era di don Prudel, ma di un vagabondo, di un soldato che mi aveva preso per forza. Io promisi, per evitare lo scandalo, di non fare il nome di don Prudel. Venne il giorno del dibattimento che si svolse a porte chiuse. Don Antonio era seduto accanto a me e mi diede, per lusingarmi, un cartoccio di cannellini e garofani. Quando si trattò di giurare che non avevo avuto relazione con don Prudel, non fui capace e dichiarai: "È stato il prete e non altri. Lo possono dire i testimoni presenti". Uno di essi, mio zio, vive ancora (ha 88 anni). Il presidente allora mi domandò: "Chi vi ha suggerito il contrario?". Io confessai: "Il parroco di Santa Maria Maggiore". Chiamato questo prete, il presidente gli chiese: "Perché avete suggerito una bugia a Rosa Broll?". Egli rispose: "Per far cessare lo scandalo"." Pagina 42
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt "Ditemi, Rosa. E don Prudel non disse nulla?" "Nulla. Non fiatò." "Foste condannata?" "No." "E vostro marito?" "Neppure. Cioè il vescovo gli tolse la messa e lo tenne per qualche tempo nel Collegio Vescovile di Trento, forse a istruire i chierici..." Qui Rosa Broll si mette a ridere, non senza malizia. Poi accenna ad alzarsi. "Restate ancora qualche minuto, vi prego, e ho finito. Dopo questi avvenimenti qual sorte ebbe il vostro matrimonio?" "Passati alcuni anni, don Prudel partì. Non mi lasciò neppure le gioie di sposa. Mi portò via anche quattro abiti." "Sapete dove si trova adesso?" "A San Lorenzo di Banale, nelle Giudicarie." "Grazie Rosa... Ora potete andare a pelare gelsi per i vostri cavalieri, e vi auguro buona fortuna." "A buon rivederci, sior." La Santa scompare senza lasciare dietro di sé quel sottile profumo d'ambrosia che almeno un tempo distingueva le divinità dai miseri mortali. Io raccolgo melanconicamente le cartelle su cui ho gettato poche righe e mi affretto al ritorno. Nei campi è l'ultimo fervore dell'opera quotidiana. Incontro dei contadini carichi di foglie, le note di una canzone mi giungono da una vasta prateria sulla quale i rosolacci sembrano farfalle immobili; scendono le prime ombre crepuscolari; io accelero il passo. Strada facendo le avventure della Santa assumono un nesso logico nel mio spirito, e mi spiego e giustifico fino a un certo punto la condotta di don Prudel, di questo giovane prete che non può soffocare il grido ribelle del sesso trionfante sotto la stretta di un gelido e forzato voto di castità. Se la Santa non ha avuto e non avrà mai gli onori dell'altare, non dipende dal suo marito spirituale e materiale, ma dal secolo scettico, incredulo, beffardo, dal secolo delle interviste e dei... sequestri. Se Rosa Broll e compagno avessero interpretato un po' meno alla lettera il motto biblico crescite et multiplicamini, non ci sarebbe stato bisogno di abbandonare i marmocchi sulle porte delle chiese e di farsi processare a Trento. La bella fama di santità patoca, consolidandosi, avrebbe valicato i monti, forse i mari. Don Prudel non doveva ignorare che la prima condizione per diventar santi è d'essere sterili, se non casti. Vecchie storie che hanno valore di documenti umani, noi le registriamo col breve segno grafico poich'esse provano che la natura non si costringe e non si spezza. Da Povo, Trento costellata di mille luci, mi appare in una soffusa chiarità. È notte. Io distinguo la cascatella di Sardegna come una linea bianca, come un raggio di luna che filtri dalle profondità della roccia. Intorno l'anfiteatro nero cinge colle sue mura ciclopiche la città che dorme. Nel cielo le stelle hanno lunghi brividi. È l'ora in cui io accendo nel mio cuore la fiamma votiva per tutte le speranze, per tutte le fedi, per le rivolte inutili, per le passioni morte... Mussolini Benito XV DAI PARENTI MI GUARDI IDDIO... Verso la fine del 1942, Benito Mussolini decise di fare un po' di chiarezza in famiglia. Dispose infatti che venisse svolta un'attenta indagine sul conto dei numerosissimi "parenti del Duce" che avevano scritto o bussato alla porta di Palazzo Venezia nel precedente ventennio. Cosa lo spinse a dare il via ad una operazione così complessa, e per molti versi inutile, in un momento tanto difficile per l'Italia, proprio non si riesce a capire. Forse fu spinto dall'ennesima supplica di qualche famelico congiunto ("Voglio sapere quanti sono e quanti soldi mi hanno pompato!", pare abbia detto al segretario De Cesare). O forse fu soltanto una delle tante disposizioni dettate dalla sua mania di archiviare, catalogare e schedare tutto quanto lo riguardava. Qualunque sia stata la molla che ha avviato l'indagine, resta il fatto che i funzionari dell'ufficio investigativo della Presidenza lavorarono mesi per raccogliere i documenti e le informazioni necessarie alla compilazione delle schede personali di tutti coloro che vantavano l'illustre parentela. Mussolini, comunque, pare non abbia mai avuto il tempo di esaminare queste schede e, a quanto sembra, non le hanno viste neppure i suoi biografi dato che Pagina 43
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt lo schedario è stato scoperto poco tempo fa da Gaetano Contini in un fondo dell'Archivio Generale dello Stato. Le schede, tutte battute con la macchina per scrivere speciale, a caratteri grandi, che consentiva a Mussolini di leggere senza gli occhiali da presbite, sono esattamente 334. Di queste, 105 sono dedicate ai congiunti di Rachele Guidi, la moglie del Duce; le altre 229 sono dei parenti di Mussolini. Dallo schedario, mancano naturalmente i congiunti stretti, ossia i componenti della famiglia del Duce, della famiglia di suo fratello Arnaldo e di quella di sua sorella Edvige. Ma gli altri ci sono tutti, da Agnoletti Antonio a Zanetti Livio. Tutti con le loro storie, i loro triboli, i loro imbrogli, le loro ingenue speranze. Si tratta di nipoti, cognati, cugini di primo, secondo, terzo grado ma anche, soprattutto, di parenti acquisiti grazie a complicatissime ramificazioni genealogiche. Com'è il caso di certo Renato Filippetti, di Cisterna il quale, essendo - come spiega il funzionario schedatore "marito di Artusi Maria che è nipote di Artusi Luigi, fratello di Artusi Corrado marito di Guidi Augusta, sorella di S.E. Donna Rachele", si presenta come parente del Duce, pretende di sedere nei posti riservati alle autorità nel cinema "Littoria" e mantiene un comportamento sospetto "ospitando nella propria casa giovani donne di non buona condotta morale" (l'indesiderato parente sarà trasferito a Pistoia, presso l'Unione Provinciale dell'Agricoltura con uno stipendio di L. 1305,40 al mese). Da un sommario esame di questo schedario, emerge subito chiara, qualora fosse necessaria, la bassissima estrazione sociale del parentado mussoliniano. Abbondano i braccianti, i fittavoli, i mezzadri, i disoccupati. Moltissimi risultano analfabeti, molti non hanno superato gli studi elementari. In compenso, fra i congiunti acquisiti figurano tre nobili: i conti Piergiovanni e Rosetta Ricci Crisolini e il conte Giovanni Pozzo Teodorani, Fabbri, detto Vanni. Ci sono anche tre religiosi: frate Piergrisologo Artusi, don Colombo Bondanini e don Paride Mosconi e un solo laureato, il professor Guido Ruberti. I nomi che ricorrono più spesso nello schedario, oltre quelli dei Mussolini e dei Guidi, sono: Artusi, Celli, Gervasi, Gimelli, Lombardi, Moschi, Riceputi, Bortoletti, Buvoli, Casadei, Castellucci, Clabacchi, Gorini, Maltoni, Mancini, Milandri, Ravaioli, Raggi, Ruffili, Santini, Tomasini, Vasumi e Zanetti. Ogni scheda, com'è stato detto, contiene una rapida biografia del congiunto: generalità, grado di parentela, occupazione, reddito accertato, informazioni di polizia; poi c'è il riassunto delle lettere da lui scritte a Mussolini nell'arco del ventennio e le postille che Mussolini ha posto in calce alle stesse. La postilla più diffusa è questa: "100. M.", che significa pressappoco: mandategli cento lire e facciamola finita. Mussolini, infatti, almeno da quanto risulta dallo schedario, è molto stretto di manica e sua moglie Rachele lo è più di lui. Per esempio, quando Giovanna Campanini ("moglie di Guglielmo Caprincoli che è fratello di Pietra moglie di Alcide il quale era fratello di Alessandro, padre del Duce"), nell'aprile del 1932 scrive da Predappio per ottenere un sussidio, lo schedatore annota: "il Duce dice che sono dei profittatori e Donna Rachele non vuol saperne". Ma, in seguito, la Campanini otterrà qualcosa: 150 lire nel 1934, 200 lire nel 1937, 250 lire nel 1940 e 200 lire nel 1941 "per aiutarla a estinguere un debito di 700 lire contratto da suo marito che coltiva un podere a mezzadria e ha sei figli da mantenere". Altrettanta severità Mussolini dimostra col cognato Corrado Artusi ("marito di Augusta Guidi, sorella di donna Rachele"). L'Artusi, che lavora come becchino nel cimitero di Forlì "con uno stipendio mensile di 558 lire da cui deve detrarre L. 219 per l'affitto oltre il quinto per l'estinzione di un prestito", da quando suo cognato è diventato Capo del Governo ha cercato di trarne qualche profitto. "Dedito al vino", precisa lo schedatore, "con la moglie fisicamente minorata, l'Artusi usa presentarsi negli uffici per raccomandare le pratiche più svariate, esibendo una carta da visita con la scritta: "Cav. Corrado Artusi cognato del Duce". Mussolini postilla: "Per ora ammonirlo, poi si vedrà". In seguito, dopo essersi fatto coinvolgere in una serie di imprese poco pulite e dopo aver tentato di farsi ricevere dal Duce in compagnia di giovani donne, l'Artusi sarà ricoverato nell'istituto psichiatrico di Imola. Un'altra cognata terribile è la Augusta Guidi, moglie appunto di Corrado Artusi. Anche lei viene segnalata già nel 1926 perché "qualificandosi come cognata del Duce" si è rivolta al Prefetto di Forlì per delle raccomandazioni. E Mussolini postilla: "Cognata, Sì - raccomandazioni, No". Ma lei insiste, e negli anni successivi si rifà viva, ora per chiedere sussidi, ora per favorire imprese commerciali cui è stata associata. L'ultima nota che la riguarda è del 30 novembre 1941: l'Augusta Guidi, che è parte preminente di una ditta per la Pagina 44
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt macellazione dei suini, ha dei guai con la legge per via di una partita di prosciutti messi in vendita benché avariati. Il Prefetto di Forlì chiede al Duce come deve comportarsi e Mussolini postilla: "secondo legge e senza preoccupazioni". Ma non tutti i parenti sono così fastidiosi. Anche se dietro molte di queste schede si indovinano ristrette riunioni di famiglia, suocere avide, nipoti allupati tutti tesi a spingere il "Parente" fortunato a scrivere e a chiedere qualcosa a "Colui che tutto può", va anche detto che la maggioranza degli schedati è formata da brava gente che spesso si accontenta di un sussidio di cento lire o che invia confetti e partecipazioni sperando in un regalo che spesso non arriva. Come Benito Melandri, cugino del Duce, e commesso delle Regie Poste, che si accontenta di un trasferimento da Firenze a Ravenna, o come Giovanni Gimelli, bracciante di mestiere e cognato del Duce (per avere sposato una sorella di Rachele) che chiede e ottiene mille lire "in cambio di un biglietto di egual taglio scaduto" e che continua a vivere del suo lavoro - come segnalano i carabinieri - rifiutando di iscriversi al partito fascista. Anche Livia Gervasi, figlia di una sorella di donna Rachele, si accontenta di poco: il 12 giugno 1938 scrive alla zia chiedendo "qualche cosina visto che è povera, che suo fratello è disoccupato e che deve sposarsi". Mussolini postilla: "Sì. Mille". Due mesi dopo, la Livia invia una bomboniera con cinque confetti, ma non ottiene alcun regalo. In compenso, l'anno successivo riceve una macchina da cucire e una culla, oltre a 350 lire per il corredino del nascituro. Francesco Gervasi, altro cognato del Duce perché marito di un'altra sorella di Rachele, per alcuni anni si limita a chiedere inutilmente di essere ricevuto a Palazzo Venezia. "Non ho tempo, che scriva", annota Mussolini. E Gervasi alfine scrive: chiede di avere in mezzadria un podere detto "Filichetto" a Villa Carpena, ("Non è possibile. M."). Il suo nome riappare alcuni anni dopo, nel 1935: c'è da assegnare un podere con casa colonica nella zona di Ostia e qualcuno avrebbe proposto di assegnarlo alla famiglia Gervasi "perché" scrive lo schedatore "tale sistemazione sarebbe ben vista da Donna Rachele". Ma il Duce postilla: "non è vero" e Gervasi rimane a Predappio da dove si rifà vivo soltanto nel giugno del 1939 lamentandosi dei danni sofferti per la piena. ("1000. M."). Un ultimo sussidio lo riceve nel 1942 "per degenza nella clinica Villa Torri di Bologna". Viene pure disposto il pagamento di ulteriori spese di degenza ("ma non di quelle per eventuali permanenze di altre persone nella clinica stessa. M."). Più favorita risulta la figlia di Gervasi, Domenica. La ragazza ottiene dalla zia Rachele di essere aiutata per continuare gli studi presso il "Buon Pastore" di Forlì. Ottenuto il diploma da maestra, lo comunica allo Zio esprimendo gratitudine e chiedendo in regalo una bicicletta. È accontentata. L'anno successivo è ricevuta dal Duce e il 17 ottobre 1941 si iscrive alla facoltà di lingue dell'Università Ca' Foscari di Venezia. La retta (850 lire per il convitto e 150 per le tasse) è pagata con i fondi della Presidenza. La giovane Domenica si rifà viva il 6 gennaio 1942 per chiedere una proroga della licenza del suo fidanzato, l'allievo ufficiale Icilio Comparini. Gli vengono concessi dodici giorni. Non tutti i "parenti" si accontentano delle poche briciole che Mussolini vuole dispensare. Alcuni infatti riescono, ora con subdole manovre, ora con la minaccia di provocare scandali e diffamare "il nome che portano", a pompare molto denaro e molti privilegi. E il caso di tale Alfredo De Rosa, nato nel 1889 a S. Maria Capua Vetere, che vanta una sorta di parentela perché sua figlia Silvia ha sposato Vito Mussolini, figlio di Arnaldo. Questo De Rosa, da quanto risulta dalla scheda, non è proprio uno stinco di santo: separato dalla moglie, ha condotto per anni vita girovaga subendo denunce e condanne per bancarotta, appropriazione indebita, falso continuato, usurpazione di titoli e altro. Con Mussolini, De Rosa si fa vivo nel marzo del 1937 per scrivergli : "... mia figlia è oggi una delle donne più felici del mondo e ringrazio V.E. che ha evitato di umiliarmi e non ha permesso ad altri di sostituirmi". In seguito comunica che la Corte d'Appello di Milano lo ha riabilitato e ringrazia il Duce "per l'alto incarico che gli è stato affidato". Quale incarico sia non lo specifica, ma i carabinieri segnalano che la famiglia De Rosa abita in un lussuoso appartamento di via Fatebenefratelli per cui paga un affitto di 16 mila lire l'anno. Successivamente, De Rosa viene richiamato alle armi col grado di capitano ed è destinato a Roma come direttore dei conti all'Officina Militare. "È anche" precisano i carabinieri "procuratore della ditta Gardini di Omegna (caricatori per mitragliere Breda), procuratore della società Banfi (industrie saponi) e amministratore civile della Società Industriale e Commerciale fornitrice del R. Provveditorato dello Stato. La famiglia De Rosa" continua il Pagina 45
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt rapporto "mena vita lussuosa, ha due persone di servizio, serba regolare condotta, non figura tra i contribuenti dell'Ufficio Imposte." Nello schedario i "parenti" che hanno il privilegio di chiamarsi Mussolini sono esattamente diciassette, ma i più terribili sono i tre cugini Tullio, Venusta e Cleonice, figli di Alcide che era fratello del padre del Duce. La prima a farsi viva è la Venusta che ha aperto un negozio di stoffe a Predappio ma non fa buoni affari. "Per non infangare il nome che porto" scrive "mi occorrono 20 mila lire per pagare i debiti." E Mussolini postilla: "Cinquemila sono anche troppe". Ma la Venusta non si arrende, allarga il negozio, ordina pellicce, prende soldi a prestito dal Credito Romagnolo e, secondo quanto precisano i carabinieri, "invece di firmare le cambiali col nome del marito (Valicelli) preferisce usare quello da ragazza: Venusta Mussolini". E così, per non far finire il proprio nome sul bollettino dei protesti, il Duce paga. "La Venusta" segnalano ancora i carabinieri "non frequenta buone compagnie: compie spesso gite automobilistiche con un viaggiatore di commercio di nome Paolo Boschi, pregiudicato. Il suo comportamento ha sollevato anche lo sdegno del marito, Ernesto Valicelli, il quale una sera avendo trovato la casa chiusa e la moglie assente, fu udito imprecare: "Essa si va a divertire e non pensa neanche a lasciarmi la chiave di casa!". Segue una segnalazione dell'Arma in cui si annuncia che "accertati i cattivi precedenti del Boschi ne fu disposto l'arresto e l'invio al confino". Infine, in calce a un elenco di imprese sballate in cui la donna si è impegolata, si legge una nota del Duce: "impedire alla Venusta di occuparsi di affari!". Anche Cleonice Mussolini assilla la segretaria dell'illustre cugino con continue richieste di aiuto. La postilla del Duce: "non ne ha bisogno, visto che mantiene un segretario e due cameriere" non interrompe che per poco l'invio dei soliti contributi. Nel 1936 chiede 2000 lire per pagare un debito: ("500. M."). Nel '37 chiede aiuto perché sotto cura. Postilla: "500. M.". Nel '39 ottiene un sussidio mensile di 450 lire. Il 21 marzo dello stesso anno è investita da un'auto mentre passeggia per Ostia col segretario Adone Lampredi: ("Pagare il conto di L. 540,60. M."). Nel 1940 chiede la promozione del suo segretario a Centurione della Milizia: ("Diffidarla. M."). Più tardi pretende che la cantante Ebe Marini venga assunta dall'EIAR: ("No. M."). Nel '41 chiede ancora denaro poiché, "per il nome che porto sono costretta a fare delle opere buone unicamente per andare incontro al popolo..." ("1000, ma precisare che è un atto personale di S.E. Donna Rachele. M."). Successivamente, certi Luigi Rodelli e Lorenzo Vanni vengono inviati al confino "perché promettono impieghi avvalendosi del nome della signora Cleonice". Nel novembre del 1942 ottiene ancora un sussidio di 1500 lire ("che deve però apparire come iniziativa del Prefetto. M."). Tullio Mussolini, che nel '32 è sergente dell'aeronautica, chiede aiuto per iscriversi all'università ("800. M."). Subito dopo segnalano che il sottufficiale è partito per Roma senza autorizzazione, e Mussolini: "Punirlo severamente" (avrà un mese di fortezza, ma anche un sussidio di 1800 lire). Nel luglio dello stesso anno, Tullio vorrebbe 5000 lire per il corredo personale, e cure mediche. Alla risposta negativa ribatte arrogantemente che si farà curare lo stesso e non pagherà il conto ("2500. M."). Alcuni mesi dopo, il maresciallo Italo Balbo segnala che "l'allievo ufficiale Tullio Mussolini frequenta tutte le sere la Casina delle Rose, a Roma, e non in compagnie eccellenti". Rimproverato dal Duce, Tullio si scusa e ne approfitta per battere cassa ("1000. M."). Nell'aprile del '34 chiede ancora denaro "perché pieno di debiti". Gli mandano L. 4300 con questa annotazione del Duce: "Se non la smetti ti faccio arrestare". Tullio, precisa lo schedatore, ha già ottenuto fino a quel momento elargizioni per L. 15.000. Inviato in AOI, il tenente Mussolini lascia da sbrigare alla segreteria del Duce una penosa vicenda con protagonista la solita ragazza sedotta e abbandonata. "Cose del genere, col nome che porti, sono intollerabili", gli manda a dire "M". E Tullio ribatte : "Sono colpe che devono ascriversi a quel ciclo di avventure che ogni uomo, Voi compreso, credo abbia avuto in gioventù". Nel '39 comunicano che Tullio ha comprato una macchina "Astura" del valore di 20.000 lire, senza pagarla. E Mussolini: "Fategli sapere che deve subito saldare il conto. Altrimenti autorizzerò il creditore a procedere a norma di legge". Tullio risponde che pagherà appena "il governo locale rileverà la mia azienda in AOI" (l'anno prima aveva ottenuto una concessione agricola nell'Harar). A questo punto, la situazione economica di Tullio è la seguente: possiede un'azienda valutata 500 mila lire, ma ha 475.000 lire di debito con la Banca d'Italia, 310.000 col Banco di Roma "e probabilmente altri non conosciuti". Per pagare questi debiti, Tullio chiede che gli sia versato un milione di lire a liquidazione della sua azienda. Ma il Cugino non è d'accordo: "Non gli sia dato Pagina 46
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt nulla di più di quanto vale, senza arrotondamenti e senza larghezze. M.". Tullio incassa infatti 570.000 lire che però non bastano per pagare i suoi debiti. "Il suo scoperto è ancora di 310.000 lire" segnalano. Interviene la segreteria del Duce e Tullio ottiene una rateizzazione in cinque anni a rate mensili di lire 5.000. Ma non può pagare e chiede ancora aiuto. Questa volta, Mussolini acconsente: "... la liquidazione della sua azienda è andata com'è andata. Se non fosse stato un Mussolini gli avrei fatto dare almeno 200 mila lire di più. Sua moglie sta per avere un figlio, lui guadagna poco più di 2.000 lire il mese. Diamogli subito 5.000 lire e paghiamogli le prime cinque rate. Per il rimanente che si arrangi. M.". La scheda si conclude con la seguente annotazione: "Il capitano Tullio Mussolini non risulta iscritto all'Ufficio delle Imposte". Giovanni Pozzo Teodorani Fabbri, detto Vanni, si fa vivo per la prima volta nel 1937 per annunciare che vorrebbe assumere servizio presso la redazione romana del "Popolo d'Italia" ("Sì, venga. M."). L'anno successivo, alla vigilia del suo matrimonio con Rosina Mussolini, figlia di Arnaldo, il Duce annota: "perché si chiama Pozzo?". Gli rispondono che il giovane, nato nel 1916 dal primo matrimonio di sua madre Augusta Agnoletti con Ugo Pozzo, è stato poi adottato dal conte Pio Luigi Teodorani Fabbri, sposatosi con la signora Agnoletti dopo che questa aveva ottenuto il divorzio a Fiume il 9 luglio 1923. Nominato consigliere di amministrazione della società Arrigoni, il Teodorani nel 1938 chiede di lasciare l'incarico perché "pur volendo restare al suo posto nell'interesse delle masse lavoratrici, preferisce licenziarsi perché i consiglieri giudei continuano ad avere tutti i coltelli per il manico". Nel 1939 chiede di avere al suo servizio un agente-autista ("No. M."). Due mesi dopo Starace propone di nominarlo direttore del "Corriere Eritreo" ("Nulla Osta. M."). Rientrato in Italia nel maggio del 1940, Teodorani è segnalato dal Prefetto di Forlì quale elemento idoneo per assumere la direzione del "Resto del Carlino". "Quel posto" annota Mussolini "è in predicato per Stano Scorza." Successivamente, Teodorani si lamenta perché vogliono togliergli il trattamento da redattore del "Popolo d'Italia" lasciandogli solo l'assegno di 500 lire come corrispondente dall'Asmara: "Da tempo" scrive "esiste nel Giornale uno scarso spirito di cameratismo verso di me e, in definitiva, verso mia moglie...". Nel settembre del '40 scrive manifestando la propria gioia per essere stato nominato direttore dell'"Eclaireur" di Nizza. Nel gennaio del '41 si lamenta perché l'agente che gli è stato assegnato non è autorizzato a viaggiare in prima classe ("che viaggi in seconda! M."). Nell'aprile del '41 è nominato direttore della "Cronaca Prealpina" di Varese; ma lo stipendio è basso: può ottenere un'integrazione? ("Disinteressarsene. M."). La scheda finisce con una richiesta di Teodorani per ottenere 40 litri di benzina per trasferirsi con la sua auto a Varese. Mussolini postilla: "spedisca l'auto per ferrovia". L'ultima scheda di cui ci occuperemo (riassumerle tutte quante è ovviamente impossibile) è in realtà la prima dello schedario alfabetico. È anche la più curiosa. Lo schedato si chiama Antonio Agnoletti ed è un "parente" per modo di dire. Costui, infatti, anche se inizia tutte le sue lettere a Mussolini con la formula "Caro Zio", risulta essere figlio naturale di Ernesta Agnoletti, sorella di Augusta, consorte del conte Pio Teodorani Fabbri. L'Antonio, che non deve essere un tipo mite e remissivo, scrive allo "Zio" lamentandosi dei Teodorani che non lo aiuterebbero. Il suo tono è arrogante: "tengo a informarvi per l'ultima volta..."; "se questioni personali vi tengono obbligato con i Teodorani ciò non esclude che da vero gentiluomo quale siete non dobbiate aiutarmi..."; "... Vi garantisco che in caso contrario non potrei impegnarmi per una soluzione pacifica...". Mussolini risponde seccato: "nel modo più esplicito e definitivo non posso assolutamente ammettere il tono delle vostre lettere". Ma Antonio non molla e, alla fine, qualcosa ottiene. Prima 1.800 lire, poi 800 lire, poi un impiego a Genova presso un istituto laniero con stipendio di 800 lire il mese. Ma non si accontenta: nel marzo del 1940 si rifà vivo per chiedere "4 o 5 mila lire perché devo sposarmi". E Mussolini postilla: "Sì. Ma per l'ultima volta!". Il 20 giugno dello stesso anno, scrive per chiedere perdono, ma subito dopo riprende a battere cassa. La storia continua fino a quando l'Antonio non viene richiamato alle anni. È il 30 marzo 1941. Lui scrive al "Caro Zio" dicendosi fiero di indossare la camicia nera e di essere pronto a morire per la Patria. Il Duce non si fa sfuggire l'occasione: "mandatelo a combattere. Subito!", annota. Finirà in Libia in un reparto di arditi. XVI "CHI È QUESTA CLARETTA?" Pagina 47
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt "Duce, la mia vita è per te." Così scriveva, piena di entusiasmo infantile, la quattordicenne Claretta Petacci a Benito Mussolini. Era l'aprile del 1926 e la giovanissima Claretta era naturalmente ben lontana dall'immaginare che in un altro mese di aprile, diciannove anni più tardi, la sorte l'avrebbe obbligata a mantenere quel suo tragico impegno. Già allora comunque ella accarezzava il sogno di potere un giorno "posare la testa sul tuo petto per poter udire ancora vivi i palpiti del tuo cuore grande". Tutto questo emerge dalle sorprendenti lettere scritte da Claretta a Mussolini in epoca non sospetta e debitamente conservate in uno dei tanti fascicoli che il segretario del Duce, Alessandro Chiavolini, ordinò fra le carte riservate della Segreteria Particolare del Capo del Governo. La prima lettera di Claretta non è datata, ma fu scritta sicuramente dopo il 7 aprile 1926, ossia il giorno in cui un'attempata e un po' squilibrata signorina inglese, di nome Violet Gibson, sparò contro Mussolini un colpo di pistola (ferendolo di striscio al naso), mentre questi usciva dal Palazzo dei Conservatori, in Campidoglio, dove aveva pronunciato un discorso in occasione dell'inaugurazione del congresso internazionale di chirurgia. È infatti a questo attentato che Claretta si riferisce nella sua lettera di cui diamo ora il testo integrale: Duce. Per la seconda volta hanno attentato vigliaccamente alla Tua persona. Una donna! Quale ignominia, quale viltà, quale obbrobrio! Ma è una straniera e tanto basta! Duce amato, perché hanno tentato un'altra volta (pochi mesi prima, il 4 novembre 1925, c'era stato il fallito attentato di Tito Zaniboni, N.d.A.) di toglierti al nostro forte e sicuro amore? Duce, mio grandissimo Duce, nostra vita, nostra speranza, nostra gloria, come vi può essere un'anima così empia che attenti ai fulgidi destini della nostra bella Italia? O, Duce, perché non vi ero! Perché non ho potuto strangolare quella donna assassina che ha ferito Te, divino essere? Perché non ho potuto toglierla per sempre dalla terra Italiana, che è stata macchiata dal Tuo puro sangue, dal tuo grande, buono, sincero sangue Romagnolo! Duce, io voglio ripeterti come l'altra tristissima volta (evidentemente gli aveva già scritto, N.d.A.), che ardentemente desidererei di posare la testa sul Tuo petto per potere udire ancora vivi i palpiti del Tuo cuore grande (la frase è sottolineata dalla solita matita rossa di Mussolini, N.d.A.). Queste dolorose e memorabili date rimarranno impresse nel mio cuore: 4 novembre 1925, 7 aprile 1926. O, Duce, Tu che sei l'uomo del nostro avvenire, che sei l'uomo amato sempre con crescente fervore e passione dal popolo Italiano e da chi non desidera la sua decadenza, non devi mancarci mai. Quando ho appreso la triste notizia, ho creduto di morire perché Ti amo profondamente come una piccola Fascista della prima ora. Duce, quanto avrà sofferto il Tuo cuore buono e sensibile nell'accorgersi che una mano straniera ha tentato spezzare la Tua Santa opera rigeneratrice e potente. Amatissimo Duce, fedeltà immortale Ti hanno giurato di nuovo tutte le Tue Camicie Nere, ed io piccola, ma ardita Fascista, con il mio motto preferito comprendo tutto l'amore che il mio cuore giovanile sente per Te: Duce, la mia vita è per Te! Il Duce è salvo! W il Duce! - Clara Petacci (anni 14), Lungo Tevere Cenci N. 10. Ai primi di maggio dello stesso anno, la piccola fan di Mussolini si rifà viva. Questa volta invia al suo idolo un pacchetto legato con un nastrino tricolore (che è tuttora conservato nel fascicolo) contenente una decina di poesie scritte su fogli di carta a quadretti con grafia infantile, ma sufficientemente corrette, quasi da far sospettare la supervisione di un adulto. I versi sono ingenui, le rime zoppicanti. Ecco qualche scampolo: "Nell'era fulgida della sua gloria / Nell'imponenza dei monumenti / Nella frescura di Villa Doria / E di tant'altre tutte fiorenti / Roma è risorta coi nostri Eroi / Per Mussolini, Duce fra noi". E ancora: "Gesù conservalo cent'anni ancora / Al nostro amore forte e sicuro / Al tenue raggio del sol d'aurora / Al ciel sereno d'azzurro puro". Uniti alle poesie ci sono anche dei brevi componimenti in prosa grondanti retorica secondo uno stile allora molto diffuso non soltanto, purtroppo, fra i ragazzi. Scrive Claretta: "Io Ti amo con tutte le forze del mio giovane cuore e se Tu mi dicessi: se ti tagli le vene, l'Italia, la mia e la tua Patria, raggiungerà lo scopo agognato da te e da tutto il popolo, io fremente di emozione sarei pronta ad eseguire il tuo comando o Duce, perché Tu sei tutto per me". Ed ecco qualche altro brano di prosa della giovane Claretta: "Oh Duce, Duce! Tu che guidi con mano e con polso sicuro le redini delle glorie che in avvenire dovranno rifulgere sul suolo italiano, rivolgi uno dei Tuoi sguardi pieni di fierezza e di lealtà, una delle Tue parole piene di grandezza e di bontà verso questa piccola Fascista che ti adora e che si sente pronta anche a dare la vita per te...". Pagina 48
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt "La bandiera: Il rosso è la fiamma purissima del mio amore per Te che mi hai bruciato il cuore con i tuoi sguardi dal lampo acuto e tagliente, che affascinano ed esaltano i cuori giovanili... Il bianco è la fede nelle Tue opere sublimi di amor Patrio, nei Tuoi affascinanti discorsi, è la fede nella rinascita dell'Italia... Il verde è la speranza che un giorno Ti possa avvicinare per poterti guardare intensamente da vicino quei begli occhi di un nero così profondo e vivo, di poter udire la Tua voce che risuona così dolce, così calda, così vibrante al mio orecchio, di poterti ammirare in tutta la Tua fierezza e la Tua potenza..." La copiosa produzione letteraria di questa piccola fascista entusiasta (la quale, fra l'altro, non dimenticava mai di segnare in calce ad ogni suo brano il nome, l'età e l'indirizzo), deve avere incuriosito Mussolini. Chi è?, chiede infatti a Chiavolini, vergando la domanda di traverso a una poesia con la matita rossa. E Chiavolini risponde: "È la figlia dell'archiatro pontificio Francesco Saverio Petacci". "Risponderle", annota ancora Mussolini e il suo segretario esegue: "Gentile signorina, l'espressione della sua giovanile e fervida devozione, ricca di tanta ingenua confidenza, è giunta con i suoi versi a S.E. il Capo del Governo. Egli, sensibile alla gentilezza della piccola fascista, mi ha incaricato di rendermi interprete dei suoi sentiti ringraziamenti". Tutti coloro che si sono occupati della vicenda sentimentale di Mussolini e Claretta, fanno risalire il loro primo incontro all'8 settembre 1933 (qualcuno propende per il 1932) giorno in cui, casualmente, l'Alfa Romeo di Mussolini si affiancò sulla strada di Ostia a una "Balilla" sulla quale viaggiavano, con Claretta, i suoi genitori, sua sorella Maria, suo fratello Marcello e il suo fidanzato Riccardo Federici. Soltanto Franco Bandini, nella sua documentata biografia della Petacci, avanza dei sospetti. Dubita infatti che sia stato proprio quell'incontro fortuito a far sbocciare l'amore fra il quarantanovenne Mussolini e la ventenne Claretta. E scrive che "non ci vuole molta fantasia ad ammettere che, se anche fu realmente questo il primo incontro, qualcosa doveva pur essere accaduto prima, che aveva spianato la strada...". Ora, queste lettere ritrovate fra le carte segrete del Duce gli danno ragione. Purtroppo, i documenti conservati nel fascicolo non sono sufficienti a far luce completa su altri probabili contatti fra i due futuri amanti dall'epoca in cui Mussolini dettò al suo segretario la lettera di ringraziamento, al momento in cui essi si incontrarono sulla strada di Ostia. Le carte successive, infatti, sono tutte posteriori a questo incontro. C'è, per esempio, una lettera molto formale di Claretta al Duce, datata 25 settembre 1933, in cui ella chiede il suo autorevole interessamento affinché il suo fidanzato, capitano pilota Riccardo Federici, sia richiamato a Roma dalla sede di Brindisi dove è stato trasferito per punizione "avendo volato col suo idrovolante su Roma al di sotto della quota di sicurezza". "Vedere cosa si può fare", annota Mussolini con la matita rossa. "È la figlia dell'archiatro." Claretta scrive ancora nel novembre del 1933, ma questa volta la sua lettera è indirizzata personalmente al segretario del Duce, Alessandro Chiavolini. La ragazza annuncia che è sua intenzione sposare il capitano Riccardo Federici, ma che le nozze non possono avere luogo alla data desiderata perché il fidanzato non ha ancora compiuto il trentesimo anno di età come stabilisce il regolamento della Regia Aeronautica. Potrebbe Chiavolini intervenire presso il Duce allo scopo di indurlo a concedere una deroga? La lettera è curiosa e suscita alcuni interrogativi. Perché Claretta, visto che era già l'amante del Duce, non gli chiese direttamente questo favore? Forse fu consigliata di formalizzare la sua richiesta per non destare sospetti? O forse si trattò di un dispetto d'amore escogitato dalla fantasiosa fanciulla dopo un bisticcio col maturo amante? Le risposte possono essere molte, ma resta il fatto che in calce a questa lettera si legge la seguente nota scritta a matita rossa: "Rispondere alla signorina che i regolamenti vanno rispettati". Le nozze hanno comunque luogo alcuni mesi dopo, esattamente il 27 giugno 1934. Lo testimonia una partecipazione conservata nel fascicolo. Si tratta di un cartoncino che su un verso ha un disegno raffigurante due rondini che si librano nel cielo azzurro e sull'altro la seguente scritta: Clara - Riccardo, San Marco, ore 10. Vale la pena di precisare che la chiesa di San Marco è la cappella di Palazzo Venezia e fa parte dello stesso edificio. Evidentemente, quelle nozze furono organizzate con il permesso del padrone di casa. Fra le "carte segrete", l'ultima traccia. del passaggio di Claretta nella vita di Mussolini è costituita da un depliant illustrato che annuncia una mostra personale della pittrice Claretta Petacci, dal 19 dicembre 1936 al 1° gennaio 1937, nelle Sale dei cultori d'arte in piazza del Collegio Romano. Il Pagina 49
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt presentatore dell'artista, certo Piero Scarpa, afferma che le trenta opere esposte, "marine, vedute, paesaggi, composizioni, figure e fiori, sono pittoricamente trattate dalla nostra artista che ha viaggiato molto, in Italia e all'Estero, con passione e con particolare sentimentalità così che questa mostra costituisce l'essenza migliore della sua anima tormentata". XVII IL DIFENSORE DELL'AUSTRIA Fra Hitler e Dollfuss, i due "apprendisti" che lo avevano scelto come modello, Mussolini preferiva il secondo. A spingerlo in questo senso non era, naturalmente, uno spontaneo moto dell'animo, perché il disegno di diventare il protettore dei piccoli Stati del Centro-Europa lo coltivava da tempo; tuttavia anche il rapporto umano aveva avuto la sua parte. Della simpatia per il cancelliere austriaco e dell'antipatia per il F•hrer nazista, Mussolini ha lasciato ampia traccia nei suoi dossier riservati relativi al periodo 1932-1934. In quei giorni, sia Dollfuss sia Hitler, saliti quasi contemporaneamente al potere in Austria e Germania, non si stancavano di chieder lumi al "maestro". Quei fascicoli sono colmi soprattutto delle sommesse richieste del F•hrer: ora per ottenere una foto con dedica, ora per consigli politici, ora per implorare un invito a Roma. Dollfuss non è da meno, ma la sua voce è più ascoltata. Sarà lui infatti, nel 1933, a essere invitato per primo dal Duce, a Riccione. Hitler dovrà aspettare ancora un anno e il suo incontro, a Venezia, con il "maestro" non sarà felice. D'altra parte, preferire Dollfuss a Hitler non comporta per Mussolini una scelta ideologica. Entrambi sono fanaticamente antidemocratici e ben decisi a imitare il modello fascista. Se non vanno d'accordo fra loro è perché Hitler progetta di annettersi l'Austria, mentre Dollfuss respinge sì il nazismo, ma solo per motivi religiosi (è cattolicissimo: da giovane voleva farsi prete ma fu respinto dal seminario perché troppo basso di statura) Mussolini ha dunque più di un motivo per preferire Dollfuss: c'è la prospettiva di diventare il difensore dello "statu quo" europeo con l'appoggio di Francia e Inghilterra; c'è il motivo religioso, c'è infine la possibilità di far dispetto all'"apprendista" tedesco che ha già l'aria di voler superare il "maestro". Poi, nella politica, si inserisce il rapporto umano. Il piccolo Dollfuss, a differenza di Hitler, è più devoto, più espansivo, più desideroso di protezione. E di questo Mussolini si lusinga. I suoi rapporti con l'ex boscaiolo austriaco si fanno più intimi: i due si scambiano lettere confidenziali, le loro mogli fanno amicizia, i figli anche. Nell'estate del 1934 Rachele invita Alwine Dollfuss per le vacanze. Mussolini stesso si interessa di sceglierle una residenza adeguata: sarà la villa Franceschi, in viale Gorizia a Riccione: pochi passi da casa sua. Le procura anche una "Lancia"; un autista personale: il romagnolo Erinio Natali, e una cameriera: la sarda Maria Fai. Le attenzioni del Duce per la florida e piacente Alwine faranno sorgere anche voci circa un loro flirt. 25 luglio 1934. Il corrispondente dei "Popolo d'Italia" gli comunica da Vienna che Dollfuss è stato ucciso dai nazisti. Mussolini si infuria. In quel momento, Bibi ed Evi Dollfuss, di 4 e 6 anni, stanno giocando sulla spiaggia con Romano e Annamaria. In mattinata, dal suo telefono, Bibi ha parlate con il padre: "Come stai papà?", gli ha detto in italiano. È Mussolini stesso a informare Alwine della tragedia. Poi telegrafa al Ministero della Guerra: "Quattro divisioni devono essere inviate al Brennero. Faremo vedere a quei signori che gli amici dell'Italia non si toccano". Hitler mastica amaro, ma non ha il coraggio di andare avanti e il "putsch" nazista che doveva scattare a Vienna rientra. Francia e Inghilterra applaudono il "protettore dell'Austria". La breve parentesi antinazista dell'Italia fascista ha inizio pochi giorni dopo. È Mussolini ad avviarla. "Trenta secoli di storia" dichiara "ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura quando Roma già aveva Cesare, Virgilio, Augusto... In quei giorni si infittiscono nei dossier i rapporti di polizia relativi alle manifestazioni antinaziste. Si avverte, nella prosa poliziesca, un vago senso di timore, come se si volesse insinuare che le manifestazioni potrebbero anche non essere dirette soltanto contro il dittatore tedesco. Ma Mussolini lascia correre. Ordina all'ambasciatore a Parigi di provvedere all'acquisto di due "Bugatti baby" elettriche da inviare ai figli di Dollfuss (costano 8.900 franchi) e vuole che la cosa si risappia. Fa circolare anche una sua lettera ad Pagina 50
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Alwine in cui la rincuora promettendole il suo "impegno di difendere l'indipendenza austriaca". I giornali si sfogano. Per la prima volta gli italiani apprendono che a dar fuoco al Reichstag non è stato il comunista Dimitrov, ma provocatori nazisti. I settimanali umoristici satireggiano le tesi razziste di Hitler; i biondi SS, disegnati con profili femminei, vengono chiamati belli-nazi, alla genovese. Il questore di Padova segnala al Duce: "Gli studenti hanno manifestato per le strade. Uno di questi era camuffato da Hitler. Interrogato, lo studente ha detto che intendeva imitare Chariot, ma poiché esibiva una grossa chiusura lampo sul retro dei pantaloni, che apriva e chiudeva con mosse significative, è ben chiaro a chi si riferisse...". Ma la parentesi antinazista non dura molto. La guerra d'Etiopia, e il comune appoggio ai franchisti in Spagna, riavvicinano i due dittatori. Ora i nazisti sono ritornati maschi e virili come le camicie nere. Hitler capisce di avere via libera per l'Austria e, il 13 marzo 1938, ritenta il colpo con successo. Mussolini non si muove: si accontenta di riporre fra le sue carte il telegramma che Hitler gli ha inviato quello stesso giorno da Linz: "Mussolini, io non dimenticherò mai questo, Adolf Hitler". E i Dollfuss? Alwine è riuscita a fuggire con i figli in Svizzera. È ancora convinta di godere dell'amicizia del Duce. Fa scrivere dai suoi figli ai figli di lui patetiche lettere in stentato italiano sperando che lui le legga. "Rimpiangiamo tanto la nostra casa di Vienna, ma il tuo papà ci aiuterà", scrive Evi ad Annamaria, allegando varie fotografie con dedica. E ancora: "Purtroppo dovremo festeggiare il Natale in esilio. Rimpiangiamo tanto le nostre belle vacanze con voi a Riccione. Quando ci rivedremo?". Alwine scrive direttamente a Mussolini di cose più pratiche. Gli chiede aiuto per riavere la pensione che i nazisti le hanno tolto. Lo prega di intervenire per farle recuperare il poco denaro che aveva in banca a Vienna, ma anche di aiutare i "collaboratori di mio marito, in particolare il povero Kaewinski, che languono in carcere". Probabilmente non ottiene nulla, visto che le sue lettere si fanno sempre pili supplichevoli e sempre meno esigenti. Nell'ultima chiede l'interessamento del duce "almeno per riavere i miei mobili e le mie cose care che, nella fretta della fuga, ho lasciato a Vienna". Non otterrà neppure una risposta. Mussolini è ormai entrato nella sfera magica del F•hrer. L'"apprendista" ha già superato il maestro, ma Mussolini si illude ancora di essere il primo. XVIII L'APPRENDISTA Di tutti gli aspiranti dittatori europei che, sul finire degli anni Venti, presero a modello Benito Mussolini, quello che più si distingue è indubbiamente Adolfo Hitler. La sua ammirazione per il Duce rasentava, allora, l'idolatria. Eugenio Dollmann (futura eminenza grigia nazista a Roma durante l'ultima guerra) ammette che deve la sua carriera al fatto di essere stato il primo informatore dall'Italia dell'ancora oscuro F•hrer. "In quell'epoca," ha detto "io studiavo a Roma e ogni volta che tornavo a Monaco, Hitler mi invitava a pranzo all'Osteria Italiana per sentirmi parlare del Duce. Voleva sapere tutto di lui: come lavorava, cosa mangiava, a che ora andava a letto e mille altri particolari insignificanti. Sembrava un innamorato che chiede notizie della persona amata..." Ma tranne questa e poche altre testimonianze parziali, si conosce ancora pochissimo intorno ai primi contatti fra il futuro dittatore tedesco e il trionfante dittatore italiano. I testi storici forniscono scarse notizie, imprecise e contraddittorie. Attende ancora conferma, per esempio, una testimonianza diretta di Anton Giulio Bragaglia secondo la quale Hitler sarebbe venuto a Roma, in costume tirolese, fra il '26 e il '27, nella vana speranza di farsi ricevere da Mussolini. In quale misura, dunque, i fascisti contribuirono all'affermazione dei nazisti in Germania? A questo interrogativo si può rispondere con alcuni rapporti riservati della segreteria particolare del Duce. Queste carte potranno fornire agli storici un ampio materiale per approfondire lo studio dei primissimi contatti che si stabilirono tra il nazismo e il fascismo e per spiegare come nacque, fra Hitler e Mussolini, quella che poi sarà definita "la brutale amicizia". Il primo a tenere informato Mussolini sull'attività del nascente partito nazionalsocialista fu il maggiore Giuseppe Renzetti, originario di San Benedetto del Tronto. Renzetti, un ex ufficiale, già membro di una commissione alleata di Pagina 51
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt controllo in Polonia, si era stabilito in Germania alla fine della prima guerra mondiale. Non era un diplomatico di carriera (Mussolini non poteva, ovviamente, ufficializzare i suoi rapporti con un partito di opposizione), ma operava sotto la copertura di presidente della Camera di commercio italiana di Berlino. Fino alla conquista nazista del potere (31 gennaio 1933) egli fu l'uomo di Roma, l'ambasciatore-ombra di Mussolini presso il quartier generale di Hitler. Il suo primo rapporto è del giugno 1931. Renzetti si è incontrato con Hitler a Monaco e gli ha riferito i "consigli" del Duce, il quale riterrebbe opportuno il trasferimento a Berlino della centrale del partito. Scrive Renzetti: "Il signor Hitler si è dimostrato compiaciuto e commosso per i suggerimenti ricevuti. Questa, ha detto, è la prova del benevolo interessamento di Vostra Eccellenza nei riguardi del nazionalsocialismo germanico! Ma ha precisato di ritenere, per il momento, inopportuno il trasferimento a Berlino della direzione del partito. A Berlino, secondo Hitler, il nazismo conta troppi avversari, soprattutto da parte delle autorità prussiane. Berlino - dice Hitler - non è Roma. Da Roma alitano le tradizioni e la cultura di 2000 anni. Berlino invece è una città per metà americanizzata, per metà kultural e senza tradizioni. Circa l'azione politica da lui seguita, il signor Hitler mi ha riaffermato che ritiene di non poter arrivare al potere che attraverso le vie legali. Tentare un colpo di mano con la violenza - egli sostiene - sarebbe follia perché i suoi uomini, pur essendo fedelissimi e pronti a un suo cenno, si troverebbero di fronte non solo la polizia, ma la Reichswehr (l'esercito), entrambi strumenti ciechi, composti di mercenari, che sparerebbero senza pietà." Quattro mesi dopo la situazione politica tedesca è mutata. Già si delineano le alleanze e le complicità che porteranno Hitler al potere. Lo stesso presidente Hindenburg, che non nasconde le sue simpatie per un cancellierato forte, il 10 ottobre 1931 convoca Hitler per un colloquio riservato. Dopo l'incontro, Hitler riferisce l'esito a Renzetti e questi a Mussolini: "Hitler è stato molto lieto del colloquio avuto con Hindenburg, il quale lo avrebbe accolto e sentito con molta simpatia e gli avrebbe promesso, qualora il gabinetto Br•ning non ottenesse la necessaria maggioranza, di chiamare il partito nazionalsocialista. per affidargli l'incarico di costituire il nuovo gabinetto. Il Presidente ha riaffermato nel colloquio con Hitler la volontà di mantenersi sul terreno strettamente costituzionale. In seguito a questo colloquio, la posizione di Hitler è diventata legale. Hitler quindi mi ha detto che ora poteva fare una visita ufficiale al Capo del Governo italiano e mi ha pregato di esprimere questo suo desiderio al Duce. Hitler mi aveva già parlato alcuni mesi fa di tale suo divisamento: io gli ho detto che non avevo creduto opportuno farlo presente, date le difficoltà che allora si sarebbero frapposte per la sua visita. Hitler ha aggiunto che i capi del partito socialista fanno le loro visite a Londra e a Parigi: lui voleva farla prima a Roma per la simpatia per l'Italia, l'ammirazione per il Duce e per riaffermare la sua volontà di giungere a strette relazioni italo-tedesche da completarsi poi con quelle tedesco-inglesi. Cosa debbo rispondergli?" Mussolini non ha voglia di ricevere Hitler, e non soltanto per motivi diplomatici. Questo suo imitatore d'oltralpe gli è antipatico e pronuncia spesso battute ironiche sul suo conto. Inoltre non nutre eccessiva stima e fiducia nei nazisti. Ma non escludendo un loro successo, cerca, senza compromettersi troppo, di costituirsi una priorità. Tergiversa circa l'invito a Roma di Hitler, ma continua a fargli pervenire i suoi "consigli" come, per esempio, quello di raggruppare nel partito nazista anche gli altri movimenti di destra, compreso il gruppo paramilitare degli "Elmetti d'Acciaio". Il 20 novembre 1931, un anno prima delle elezioni generali tedesche, Renzetti riferisce al Duce: "Ho comunicato oggi a Hitler l'opinione del Duce sul pericolo che correrebbe il nazionalsocialismo se si legasse mani e piedi ai partiti di centro per formare una coalizione. Hitler mi ha pregato di informare il Capo del Governo italiano che terrà sommo conto del suo avvertimento e che non procederà ad accordi senza prima essersi assicurato di poter effettivamente comandare. Non farà neppure procedere ad accordi nei vari Lander finché non sarà risolta la questione centrale. Le trattative coi rappresentanti dei vari gruppi continuano e sono a buon punto; anche il partito economico, che poche settimane fa ha votato a favore di Br•ning, si sta schierando con Hitler. Non è però da attendersi prestissimo un mutamento di governo. Continuano gli screzi fra nazi e gli altri gruppi di destra. Per tentare di eliminarli, almeno in parte, riunirò a casa mia venerdì 27 i rappresentanti dei gruppi stessi. Io vorrei giungere a far fondere il partito tedesco-nazionale in quello nazionalsocialista e a far diventare gli "Elmetti d'Acciaio" la milizia del partito di Hitler." Pagina 52
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt Pochi giorni dopo, Mussolini fa sapere a Renzetti di essere propenso a ricevere Hitler a Roma. La notizia riempie di gioia il F•hrer che accarezza da anni questo sogno. Onde evitare un eventuale rinvio del viaggio egli cerca di organizzarlo in tutta fretta. Scrive Renzetti: "Hitler è felicissimo di poter venire a Roma a rendere omaggio al Duce e di essere considerato ospite del partito fascista. Egli vorrebbe partire la sera dell'11 dicembre da Monaco per giungere a Roma nel pomeriggio del giorno 12. Verrebbe accompagnato dal sottoscritto, da Goering, dal segretario Hess e da un funzionario del partito. Alla visita di Hitler seguiranno le visite, a scopo di studio, dei capi delle SA e delle organizzazioni giovanili... non solo per osservare le realizzazioni del fascismo, ma anche per fare affiatare nazionalsocialisti e fascisti." Ma Mussolini cambia idea. Per il momento non vuole più incontrarsi con Hitler e incarica Renzetti di abolire il progettato viaggio con la scusa che il Duce è troppo impegnato per la preparazione della Conferenza per il disarmo di Ginevra. Hitler incassa senza mostrarsi offeso, come riferisce Renzetti il 12 gennaio 1932: "Hitler mi ha detto che si rende perfettamente conto delle difficoltà che si frappongono alla realizzazione del suo desiderio e che pertanto non insisterà... Io gli ho ripetuto che il Duce pensa alla Germania e che agisce per facilitarla in tutte le maniere e che il Duce conosce perfettamente la situazione tedesca. Io mi permetto, allo scopo di far contenti costoro, di sottoporre all'esame delle superiori autorità la possibilità di far venire a Roma almeno Goering. Naturalmente il suo viaggio verrebbe tenuto nascosto o motivato da ragioni di salute (il Goering in Svezia è caduto e si è rotto una costola: ha poi effettivamente bisogno di riposo e perché è stanco del lavoro che compie e perché è ancora sotto l'impressione della perdita della moglie che amava appassionatamente). II viaggio di Goering non susciterebbe certo alcun allarme e i nazionalsocialisti sarebbero contenti e soddisfatti." Goering è accontentato. Egli può visitare Roma nella primavera dei 1932. Goffo e impacciato, in giubbone di pelle, sarà ricevuto dal Duce e dal suo collega pilota Italo Balbo. Hitler tuttavia non demorde e continua a supplicare di essere ricevuto da Mussolini. "Hitler mi ha detto" scrive ancora Renzetti il 12 giugno 1932 "che vuol rendere omaggio al Duce del fascismo e al capo della Nazione italiana con cui intende che la Germania stringa vincoli duraturi di amicizia: vuole cominciare le sue visite ai capi di Stato stranieri cominciando dall'Italia fascista verso cui si rivolgono le sue maggiori simpatie: ritiene infine che la visita al Duce sia decisamente favorevole al suo movimento presso le masse tedesche... Aggiungo che, a mio parere, la visita avrebbe le sue ripercussioni sul capo delle "camicie brune" (che, in fondo, è un sentimentale) perché avvenuta prima della sua forse prossima andata al potere..." Effettivamente, l'andata al potere dei nazisti sembra prossima. Le SA controllano con la violenza molte zone della Germania e molti gruppi economici già sovvenzionano il movimento nazista; anche se negli ambienti della destra tedesca non si nascondono delle perplessità per gli atteggiamenti "sinistrorsi" del luogotenente di Hitler e capo delle SA, Ernest Roem. Mussolini - che continua, quasi inconsciamente, a non desiderare di incontrarsi con Hitler - esprime parere favorevole per la sua visita in Italia, a patto che Hitler "venga in civile come ospite del segretario del partito, Starace, e che l'annuncio della visita venga dato dopo la Conferenza di Losanna (9 luglio 1932)" Per Hitler, naturalmente, tutto va bene. E ancora una volta si accinge al viaggio tanto desiderato. Renzetti è incaricato di curare i dettagli. Questi, infatti, segnala a Starace che "Hitler è vegetariano, non beve vino: ama immensamente la musica e vorrà visitare, se la temperatura non sarà elevata, i monumenti e i musei di Roma. È sensibilissimo, e le accoglienze cordiali alle quali potrebbe essere fatto segno gli lascerebbero certo un ricordo indelebile. Non parla che tedesco". A Mussolini (al quale sottolinea "di non avere fatto alcuna promessa a Hitler circa il progettato viaggio"), Renzetti riferisce in quegli stessi giorni (è il 21 giugno 1932) di avere comunicato a Hitler "i punti fissatimi dal Capo del Governo italiano. Egli ha ascoltato le comunicazioni con malcelata gioia e con vivissima attenzione, lieto e orgoglioso insieme dell'interessamento e della simpatia che il Duce nutre per la sua opera. Hitler, come ho detto altre volte, venera Mussolini... Hitler mi ha chiesto poi notizie del suo desiderato viaggio in Italia. Gli ho risposto che il Duce sarebbe lieto di riceverlo, ma che doveva riflettere se era il caso di incontrarlo prima del 31 luglio. La situazione Pagina 53
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt interna tedesca, gli ho detto, non mi pare consenta il suo allontanamento dalla Germania: né d'altra parte conviene disturbare le trattative che si svolgono a Losanna. Hitler, sebbene a malincuore (egli aveva già progettato i particolari del viaggio: un giorno a Firenze, due a Roma, uno o due a Napoli. Da Monaco a Verona, o a Milano, in aeroplano, poi in auto), ha dovuto arrendersi davanti alle osservazioni che io gli ho fatto a titolo personalissimo (Hitler muore dal desiderio di incontrare il Duce). Ho ritenuto opportuno agire così, per evitare quanto accadde lo scorso anno e per imputare alla situazione internazionale e a quella interna tedesca la mancata realizzazione del viaggio. Ho lasciato Hitler, che è permaloso, nella sua persuasione che non dipende da noi se il viaggio non può aver luogo. P.S. Hitler si distanzia sempre più dal gabinetto attuale. Come si constaterà, ha seguito i consigli che gli ho passato. Mi ha detto che i dirigenti attuali sono deboli, che farà di loro quello che vuole e che, più presto di quanto non si creda, raggiungerà la meta." La "meta" di Hitler si avvicina molto di più con le elezioni del novembre 1932. Il partito nazionalsocialista passa dai 6.500.000 voti del 1930 a 13.400.000, pari al 33,1 per cento del corpo elettorale. La violenza delle SA di Roem e il vuoto di potere creato dalla debolezza del governo, hanno favorito il successo nazista. Segue un breve periodo di tentativi convulsi per risolvere la crisi ministeriale con un governo di coalizione democratica diretto da Schleicher. Anche all'interno del nazismo si è scatenata la lotta fra le varie correnti. I più temibili concorrenti di Hitler sono Gregor Strasser, sostituto di Hitler a Berlino, ed Ernest Roem. Costoro, che godono nel partito una popolarità quasi uguale a quella del F•hrer, si oppongono all'accordo con gli "Elmetti d'Acciaio" e con la destra economica. Renzetti, il 23 gennaio 1933, scrive: "In questi ultimi giorni sono iniziate le trattative fra i gruppi di destra per la costituzione di un fronte nazionale. I tedeschi-nazionali, uscendo dal riserbo, hanno dichiarato guerra a Schleicher e gli "Elmetti" si sono posti in contatto con questi ultimi e con i nazi per essere inclusi nel blocco... Si spera che Hindenburg abbandoni Schleicher e chiami gli uomini del blocco al potere. Si conta molto per questo sull'opera di mediazione di Von Papen. Nelle intenzioni dei congiurati il nuovo gabinetto dovrebbe essere così composto: Cancelliere, Hitler; Vicecancelliere e ministro degli Esteri, Von Papen; Economia, Hugenberg; Lavoro, Seldte; Interni, un nazi; Finanze, Van Krosig; Guerra, il generale Beremberg. L'unione dei gruppi nazionali avverrebbe nella forma che ho tante volte proposto (la riunione in casa mia ha di mira di porre in contatto questi elementi). Hitler, col quale ho parlato oggi, ritiene di avere seguito la via giusta mostrandosi intransigente. Ed io non posso dargli torto. Il "caso Strasser" si può ormai considerare liquidato. Credo anzi doveroso segnalare che io, il 9 dicembre scorso, all'atto delle dichiarazioni dissidentistiche dello Strasser, dissi a Hitler - che quella sera era cogitabondo e di umore nerissimo - di non cedere. Per quanto possa essere doloroso - gli dissi - separarsi da un vecchio compagno di lotta, lei non deve esitare a statuire un esempio. Un movimento rivoluzionario - e tale principio l'ho sostenuto anche con altri nazi - non può avere che un solo capo e una sola idea. Un movimento rivoluzionario assomiglia a un movimento religioso e, come questo, non ammette diverse tendenze... Io non so se quanto ho detto possa avere avuto influenza su Hitler; certo è che questi, pochi minuti dopo, faceva dichiarazioni di intransigenza, dichiarazioni che ha ripetuto anche a S.E. Balbo... La crisi del partito delle camicie brune, a meno che non sopraggiungano nuove complicazioni, si può considerare superata. Che lo Strasser resti o no nel partito ha un'importanza secondaria in quanto ormai non riveste più alcuna carica. Un'altra crisi si presenterà presto quando Hitler sarà costretto ad affrontare il problema dell'allontanamento del capo di S.M. della milizia colonnello Roem, accusato di omosessualità. Finora Hitler non ha voluto cedere ai tentativi compiuti in tale senso: ma a lungo andare, soprattutto se si addiverrà a un accordo nazi-elmetti, egli dovrà decidersi a farlo. Roem è un magnifico organizzatore, un provato amico di Hitler, ma non può rimanere al suo posto senza danneggiare le compagnie e il buon nome della milizia stessa." La facile profezia di Renzetti si avvererà molto presto. Il 30 giugno 1934, con Hitler al potere, Strasser, Roem e centinaia di militi delle SA, tutti camerati della prima ora del F•hrer e punta di diamante della rivoluzione, saranno trucidati dalle SS nella località bavarese di Bad Wiessee. È la notte dei lunghi coltelli. Alla base di questo massacro (ancora oggi non si conosce il numero esatto delle vittime) non c'è comunque l'accusa di omosessualità rivolta a Roem e a molti altri membri delle SA, ma la posizione politica dei due oppositori, Pagina 54
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt nettamente in contrasto con la nuova linea decisa da Hitler. Alla fine del gennaio 1933 sembra ormai prossima la nomina di Hitler al cancellierato. Hindenburg appare sempre più deciso a mantenere la promessa fattagli prima delle elezioni. E l'appoggio di Hindenburg, ossia dei militari, rappresenta per Hitler la sicurezza del successo. Giuseppe Renzetti ha tuttavia ancora dei timori. "Ho ripetuto ai nazi" scrive a Mussolini "gli avvertimenti dati loro in passato: valutare bene i passi, non avere fretta. Se è difficile andare al potere, più difficile ancora è restarvi. Uno scacco significherebbe la fine. Io spero che costoro sappiano come agire e siano capaci di rimanere in sella per decenni in maniera da dar torto a coloro i quali già profetizzano che il regno di Hitler non durerà che tre mesi al massimo". Il 30 gennaio 1933 Hindenburg nomina Hitler Cancelliere del Reich. Un uomo che non ha mai fatto mistero della sua volontà di trasformare la Germania in uno Stato fondato sull'arbitrio e sulla violenza, arriva legalmente al potere. È la resa della democrazia. "Per evitare complicazioni" riferisce Renzetti la mattina del 31 gennaio "Hindenburg non solo ha nominato Hitler Cancelliere, ma ha immediatamente fatto giurare i nuovi ministri... Il punto debole del nuovo gabinetto è Hugenberg e io ho detto agli amici che essi debbono, senza provocare una crisi, liquidarlo o ridurlo all'obbedienza. Li ho anche consigliati di indire al più presto nuove elezioni (Hitler mi ha detto di essere di questa opinione) per ottenere una grandiosa affermazione che consenta loro eventualmente di fare a meno dei tedeschi-nazionali di Hugenberg. Seldte, Goering e Schacht mi hanno ringraziato per quanto ho fatto allo scopo di favorire l'unione delle forze nazionali. Il blocco, come ho già detto, è nato in casa mia e l'accordo con gli "Elmetti" è dovuto a me e agli incontri di Roma. Durante il grande corteo di questa notte, Hitler ha voluto avermi accanto a sé sul balcone, ma io ho preferito restare nascosto dietro una tenda. D'ora in poi tutte le misure mireranno a impedire azioni tipo quelle passate, a porre uomini fidati ai posti di responsabilità, a riorganizzare la polizia e a inferire colpi seri alle sinistre." Hitler è al potere da poche ore e subito convoca Renzetti alla Cancelleria. È la prima dichiarazione sulla politica estera che pronuncia in veste di Cancelliere. Ecco come la riporta Renzetti scrivendo a Mussolini la sera stessa. "Hitler mi ha convocato in Cancelleria per farmi questa dichiarazione: "Quale Cancelliere desidero dirle, perché ne faccia oggetto di comunicazione al Duce, che dal mio posto perseguirò con tutte le mie forze quella politica di amicizia verso l'Italia che ho sempre caldeggiato... Io vorrei avere subito un colloquio con Mussolini. Ora posso andare dove voglio! Eventualmente potrei recarmi in aeroplano a Roma, se occorre anche in via privata. Io sono arrivato a questo punto certo per il fascismo. Se è vero che i due movimenti sono diversi, è pur vero che Mussolini ha realizzato la Weltanschauung che unisce i movimenti stessi: senza tale realizzazione forse non avrei potuto raggiungere questo posto..."." Hitler dovrà invece attendere ancora prima di recarsi a Roma. Mussolini continua a nicchiare. Forse diffida del F•hrer, forse lo teme, forse ne è addirittura geloso visto che il collega tedesco, a differenza di lui, ha conquistato il potere legalmente. Ma nel comportamento riservato di Mussolini influiscono anche precisi motivi politici. Per giunta malgrado la sua manifesta venerazione per il maestro, Hitler non ha perso tempo per prendere contatto anche con gruppi separatisti altoatesini. A Roma giungono anche voci circa il sovvenzionamento di questi gruppi da parte dei nazisti. A questo proposito, esiste fra le carte segrete del Duce un curioso documento: si tratta di una intercettazione telefonica eseguita dalla polizia fascista il 18 maggio 1933. Parla, da Bolzano, l'avvocato Orlandi, di Roma, che si rivolge a un impiegato del suo studio. Ecco il testo stenografico: Orlandi: Una persona, che non è Hitler, perché Hitler non va nominato, effettua dei versamenti al Credito Marittimo di Bolzano; la persona che dovrebbe figurare come garante, nei confronti del Credito Marittimo, è il dottor Morini, segretario del sindacato. È il dottor Morini che prega il Credito di dare questa garanzia. L'accordo deve essere tenuto segreto - non si deve sapere che viene da Hitler - ma siccome cento persone già lo sanno... E il primo a dirlo sarà quel chiacchierone di Battistoni... X: Va bene. Orlandi: Questa gente che si intromette temo che faccia propagare la notizia del fatto. X : Va bene, ho capito, avvocato. In fondo al foglio c'è un appunto del Duce a matita rossa: parlarne. Ma mancano altri dettagli per chiarire il mistero. Sull'episodio si possono fare solo delle Pagina 55
ARRIGO PETACCO. RISERVATO PER IL DUCE.txt ipotesi: o si trattava di fondi destinati a gruppi altoatesini, o si trattava di denaro che Hitler pensava di mettere da parte per la vecchiaia... Purtroppo oggi è tardi per riprendere l'inchiesta: il Credito Marittimo fu liquidato prima della guerra e assorbito dal Banco di Roma. Dei "risparmi" di Hitler non è rimasta traccia. Un anno dopo, Hitler corona finalmente il suo sogno: il 14 giugno 1934 Mussolini lo invita in Italia, ma non a Roma. Si incontrano infatti a Venezia. Il primo approccio fra i due dittatori è freddo e imbarazzato. Hitler indossa un cappelluccio di feltro e un impermeabile giallo da impiegato, Mussolini gli si fa, invece, incontro in divisa di caporale d'onore della milizia circondato dai suoi collaboratori in alta uniforme. Il colloquio fra i due si svolge in tedesco e senza interprete. Parla quasi sempre Hitler. Al termine, Mussolini confida a Balbo: "Quello là, invece di parlarmi dei problemi attuali, mi ha ripetuto fino a sazietà il suo Mein Kampf, un mattone di libro che non sono mai riuscito a leggere". Agli altri collaboratori dichiara: "Ho dato a Hitler dei buoni consigli, ora mi seguirà dove voglio". Quindici giorni dopo, il 30 giugno, giunge a Roma l'eco della notte dei lunghi coltelli. Mussolini è sconcertato per tanta ferocia. "È come se io giungessi a uccidere di mia mano Balbo, Grandi, Bottai", scrive alla sorella Edvige.
Pagina 56