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MARGARET ATWOOD L'ALTRA GRACE (Alias Grace, 1996) Qualunque cosa sia successa in questi anni, Dio sa che dico il vero, dicendo che mentite. William Morris, La difesa di Ginevra Io non ho Tribunali. Emily Dickinson, Lettere Non posso dirvi che cos'è la luce, ma posso dirvi che cosa non è... Qual è la causa della luce? Che cos'è la luce? Eugene Marias, L'anima della formica bianca I Orlo dentato All'epoca della mia visita, c'erano soltanto quaranta donne nel penitenziario, il che la dice lunga sulla superiorità del senso morale del sesso debole. Il mio scopo principale, nel visitare la sezione femminile, era vedere la celebre assassina Grace Marks, di cui avevo sentito tanto parlare, non solo dai giornali, ma dall'uomo che l'aveva difesa al processo, e che con la sua abile requisitoria l'aveva salvata dal patibolo, su cui il suo sciagurato complice aveva concluso la sua carriera di reo. Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 Vieni a vedere i veri fiori di questo mondo di pena. Bashō 1 Sulla ghiaia crescono le peonie. Spuntano in mezzo ai sassolini grigi, i
boccioli esplorano l'aria come antenne di lumaca, poi si gonfiano e si aprono, grossi fiori rosso scuro lucidi e brillanti come seta. Poi scoppiano e cadono per terra. Nell'esatto momento prima di disfarsi sono come le peonie nel giardino del signor Kinnear, il primo giorno, solo che quelle erano bianche. Nancy stava tagliando le ultime. Portava un vestito chiaro a roselline rosa e una gonna con tre balze, e un cappello di paglia che le nascondeva la faccia. Aveva un cestino per metterci dentro i fiori; si chinava piegando il bacino, come una vera signora, senza incurvare il busto. Quando ci sentì arrivare e si voltò a guardarci, portò le mani alla gola, trasalendo. Cammino a testa china, al passo con le altre, con gli occhi bassi, silenziose in fila per due attorno al cortile, nello spazio quadrato tra le alte mura di pietra. Tengo le mani unite sul petto; sono screpolate, con le nocche rosse. Sono state sempre così, da quando mi ricordo. La punta delle mie scarpe appare e scompare sotto l'orlo della gonna, blu e bianco, blu e bianco, scricchiolano sul sentiero. Queste scarpe mi vanno meglio di tutte quelle che ho mai avuto. È l'anno 1851. Tra qualche mese compirò ventiquattro anni. È da quando ne avevo sedici che sono rinchiusa qui. Sono una prigioniera modello, non creo problemi. È così che dice la moglie del Direttore, l'ho sentita. Sono brava a sentire quel che la gente dice senza farmene accorgere. Se sto abbastanza buona e tranquilla, forse mi lasceranno andare, dopotutto; ma non è facile stare tranquilla e buona, è come stare appesa all'orlo di un ponte dopo che sei già caduta: sembra che non ti muovi, che stai solo lì penzoloni, eppure ci vuole tutta la tua forza per stare lì. Guardo le peonie con la coda dell'occhio. So che non dovrebbero esserci: è aprile; e le peonie non fioriscono in aprile. Ora ce ne sono altre tre, proprio davanti a me, crescono direttamente sul sentiero. Allungo furtivamente la mano per toccarne una. È secca al tatto, e mi accorgo che è fatta di stoffa. Poi più avanti vedo Nancy, in ginocchio, con i capelli che le ricadono sulla faccia e il sangue che le scorre giù negli occhi. Attorno al collo ha un fazzoletto di cotone bianco stampato a fiori blu, nontiscordardimé, è mio. Alza il viso, mi tende le braccia, chiede pietà; alle orecchie ha i piccoli orecchini d'oro che le ho sempre invidiato, ma ora non me ne importa più, Nancy può tenerli, perché questa volta tutto sarà diverso, questa volta correrò ad aiutarla, la rialzerò e le asciugherò il sangue con la gonna, strapperò la sottoveste e farò una benda, e non sarà successo niente. Il signor Kin-
near tornerà a casa nel pomeriggio, verrà su lungo il viale e McDermott porterà via il cavallo, e il signor Kinnear andrà nel salotto e io gli farò il caffè, e Nancy glielo porterà su un vassoio, le piace farlo, e lui dirà: Che buon caffè; e la notte ci saranno le lucciole nell'orto e la musica alla luce delle lampade. Jamie Walsh, il ragazzo col flauto. Sono quasi arrivata nel punto in cui Nancy è inginocchiata. Ma resto al passo, non mi metto a correre, continuo a camminare in fila per due; e allora Nancy sorride, solo con la bocca, gli occhi sono nascosti dal sangue e dai capelli, e poi si disfa in chiazze di colore, una pioggia di petali di stoffa rossa sulle pietre. Mi copro gli occhi con le mani perché improvvisamente è buio, e c'è un uomo con una candela che mi impedisce di salire le scale; e le mura della cantina mi circondano, e so che non ne uscirò mai. Questo è quello che ho raccontato al dottor Jordan, quando siamo arrivati a questo punto della storia. II Strada sassosa Martedì, alle dodici e dieci circa, nella prigione nuova di questa città, a James McDermott, assassino del signor Kinnear, è stata applicata la più grave pena prevista dalla legge. Una folla immensa di uomini, donne e bambini aspettava con ansia di poter assistere agli ultimi travagliati istanti del colpevole. Quali possano essere i sentimenti di quelle donne che sono accorse numerose da vicino e da lontano, nel fango e sotto la pioggia, per presenziare all'orribile spettacolo, non arriviamo a immaginarlo. Osiamo tuttavia affermare che non erano precisamente gentili né raffinati. Lo sciagurato criminale, in quel terribile momento, ha dato prova della stessa freddezza e temerarietà che ha caratterizzato il suo contegno fin dall'arresto. «Toronto Mirror», 23 novembre 1843 Colpa Ridere e parlare
Punizione 6 frustate; gatto a nove code
Parlare nel lavatoio Minacciare di spaccare la testa a una detenuta Parlare alle secondine di cose non inerenti al loro lavoro Lamentarsi delle razioni quando la guardia ordina di sedersi Guardarsi intorno ed essere disattente a colazione Lasciare il lavoro e andare al gabinetto quando c'è un'altra detenuta dentro
6 frustate; frusta di cuoio 24 frustate; gatto a nove code 6 frustate; gatto a nove code 6 frustate; frusta di cuoio e pane e acqua Pane e acqua 36 ore in cella di punizione, e pane e acqua Libro delle punizioni, Penitenziario di Kingston, 1843
Grace Marks alias Mary Whitney James McDermott Come comparvero in Tribunale, accusati degli omicidi del signor Thomas Kinnear e di Nancy Montgomery 2 L'ASSASSINIO DI THOMAS KINNEAR, PROPRIETARIO, E DELLA SUA GOVERNANTE NANCY MONTGOMERY A RICHMOND HILL
E IL PROCESSO DI GRACE MARKS E JAMES McDERMOTT E L'IMPICCAGIONE DI JAMES McDERMOTT NELLA PRIGIONE NUOVA DI TORONTO, IL 21 NOVEMBRE 1843 Grace Marks era una cameriera Di sedici anni appena McDermott era lo stalliere Di Thomas Kinnear al servizio. Thomas Kinnear, benestante, Viveva come un signore E amava la sua governante La bella Nancy Montgomery. Oh cara Nancy non disperare Ora in città io devo andare Ti porterò denaro contante Dalla Banca di Toronto. Nancy non è una gran signora Nancy non è certo una regina Però si veste di seta e bambagina Che di meglio non ce n'è. Grace amava il buon Kinnear E McDermott amava Grace E l'amore a entrambi fu fatale Li portò alla rovina. Amami, Grace, come io ti amo, No, amarti io non posso A meno che per amor mio La bella Nancy tu non uccida. Un colpo d'ascia lui vibrò Sulla testa della bionda Nancy La buttò giù per le scale
La trascinò in cantina. Oh McDermott ti scongiuro Non togliermi la vita, disse lei La vita non togliermi, Grace I miei tre vestiti ti darò. Non per me ti imploro Né per il bimbo che nascerà Ma per Thomas Kinnear, l'uomo che amo Lasciami vivere ancora. McDermott l'afferrò per i capelli Grace la teneva per il collo E i due spietati criminali La strozzarono finché morì. Che ho fatto, la mia anima è perduta, E temo per la mia vita! Ora per salvarci Thomas Kinnear Al suo ritorno dovremo uccidere. Oh no ti prego, lascialo vivere È col cuore che te lo chiedo. No, deve morire, perché hai giurato Che la mia amante tu sarai. Thomas Kinnear arrivò a cavallo E quando in cucina fu entrato McDermott gli sparò al petto E nel suo sangue lui si accasciò. Venne l'ambulante, bussò alla porta: Un bel vestito lo vuoi comprare? O vattene, ambulante, vattene via, Di vestiti ne ho per tre. Venne il macellaio, bussò alla porta,
Come ogni settimana soleva fare: Vattene, macellaio, vattene via, carne fresca ce n'è in quantità. Di Kinnear rubarono l'argento, Gli rubarono tutto il suo oro; Poi presero cavallo e calesse E per Toronto partirono al galoppo. Così nel mezzo della notte Per Toronto presero la fuga Poi oltre il lago negli Stati Uniti Pensando di farla franca. Lei prese McDermott per mano, Spavalda, senza fare una piega, E scesero al Lewiston Hotel Dove diede il nome di Mary Whitney. Trovarono i cadaveri in cantina, Lei aveva la faccia tutta nera Sotto il mastello era nascosta, Lì accanto lui giaceva supino. Lo sceriffo Kingsmill si lanciò All'inseguimento, prese un battello Veloce che partì in tutta fretta Per Lewiston, di là dal lago. Da appena sei ore erano a letto, Da sei ore o poco più, Quando arrivò all'albergo E alla porta lui bussò. La bella Grace disse: Chi è, Cosa ti porta qui, che vuoi da me? Tu hai ucciso il buon Thomas Kinnear E Nancy Montgomery insieme a lui.
Grace Marks quando fu alla sbarra Si alzò e negò ogni cosa. Non ho visto lei strozzata morire Non ho visto Kinnear cadere. Lui, lui mi ha costretta a seguirlo, Mi ha detto: Se parli è finita Per te, con un colpo di fucile Ti mando dritta all'Inferno. McDermott quando fu alla sbarra Disse: Non da solo ho agito, Ma per le grazie del suo bel corpo, Grace Marks, lei mi ha istigato. Il ragazzo Jamie Walsh andò a deporre E giurò di dire il vero: Oh quel vestito che Grace indossa, È di Nancy, e così la cuffia! McDermott fu appeso per il collo Lassù in alto sul patibolo, Grace nella nera prigione fu gettata Dove piange e si dispera. Per un'ora fu appeso, o forse due, Poi il suo corpo tirarono giù E a pezzi lo tagliarono Nelle aule dell'Università. Sulla tomba di Nancy spuntò una rosa Su quella di Kinnear un tralcio di vite, E lassù in alto le piante si allacciano, Così in morte i due si ricongiungono. Ma Grace Marks è condannata A consumare in prigione la sua vita,
Per quell'infame peccato e delitto, Là nel penitenziario di Kingston. Ma se Grace Marks infine si pente, E dei suoi peccati chiede perdono, Allora alla sua morte lei giungerà Davanti al trono del Redentore. Al trono del Redentore lei giungerà E finiranno pena e dolore, Lavate dal sangue le sue mani, Bianca come la neve lei sarà. Lei sarà bianca come la neve, E la porta del cielo si aprirà Il Paradiso sarà la sua dimora, Il Paradiso, dopo tanto soffrire. III I quattro cantoni È una donna di statura media e di corporatura snella e aggraziata. Le si legge in faccia un'inconsolabile malinconia, che dà molta pena a guardarla. Ha la carnagione chiara, che dev'essere stata molto luminosa prima che quell'ombra di sofferenza inconsolabile la oscurasse. Ha gli occhi azzurri, i capelli color rosso scuro e un viso che sarebbe piuttosto bello se non fosse per il mento pronunciato e ricurvo, che le conferisce, come quasi sempre a chi ha questo difetto facciale, un'espressione astuta e crudele. Grace Marks ti osserva con uno sguardo furtivo, in tralice; i suoi occhi non incontrano mai i tuoi, e, dopo un'occhiata di sottecchi, invariabilmente si volgono al suolo. Ha l'aspetto di una donna piuttosto al di sopra della sua modesta posizione sociale... Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 La prigioniera alzò il viso; era tenero e gentile Come una santa di marmo scolpita, come un bimbo che dorme;
Era così tenero e gentile, così dolce e così bello Che il dolore non v'imprimeva una ruga, né l'adombrava la pena. La prigioniera alzò la mano, e la portò alla fronte; «Sotto i vostri colpi», disse, «ora io soffro; Ma a che valgono, le vostre catene e i ferri che mi legano: Fossero pure acciaio, non mi stringerebbero a lungo.» Emily Brontë, La prigioniera, 1845 3 1859 Siedo sul divano di velluto viola nel salotto del Direttore, anzi della moglie del Direttore; è sempre stato il salotto della moglie del Direttore anche se non è sempre la stessa moglie, dato che i Direttori cambiano a seconda di come va la politica. Tengo le mani compostamente unite in grembo, anche se non ho guanti. I guanti che vorrei sono bianchi e morbidi, e calzano senza una piega. Ci sto spesso, in questo salotto, riordino dopo che hanno preso il tè e spolvero i tavolini e il lungo specchio con la cornice intagliata a foglie e grappoli, e il pianoforte; e quell'orologio alto che viene dall'Europa, con il sole dorato e la luna d'argento, che escono e rientrano a seconda dell'ora e del giorno. L'orologio è la cosa che mi piace di più in tutto il salotto, anche se misura il tempo, e di tempo ne ho già abbastanza per conto mio. Ma non mi sono mai seduta sul divano prima, è per gli ospiti. L'Assessora Parkinson diceva che una signora non deve mai sedersi su una sedia da cui si è appena alzato un uomo, però non diceva il perché; ma Mary Whitney mi spiegò: perché è ancora caldo del suo sedere, scema; una cosa volgare da dirsi. Così, non riesco a star seduta qui senza pensare ai sederi delle signore che si sono seduti su questo stesso divano, tutti bianchi e delicati, come tremolanti uova alla coque. Le visitatrici indossano vestiti da pomeriggio con lunghe file di bottoncini davanti, e crinoline rigide di filo di ferro, dietro. C'è da stupirsi che riescano a sedersi, e quando camminano non c'è niente che gli tocca le gambe sotto le gonne ondeggianti, a parte la sottoveste e le calze. Sembrano cigni, che scivolano sull'acqua senza mostrare le zampe; o le meduse
nell'acqua del porticciolo roccioso vicino a casa, quand'ero piccola, prima di fare quel lungo e triste viaggio attraverso l'oceano. Erano come campane increspate, così eleganti quando dondolavano nel mare; ma se si arenavano sulla spiaggia e si seccavano al sole, sparivano, non restava più niente. Ed è così che sono le signore: quasi solo acqua. Quando mi hanno portata qui non c'erano le crinoline di filo di ferro. Erano di crine di cavallo, allora, quelle di filo di ferro non le avevano ancora inventate. Le ho osservate, appese negli armadi, quando vado a riordinare le stanze e vuotare i vasi da notte. Sono come gabbie per gli uccelli; ma cos'è che viene rinchiuso dentro? Gambe, le gambe delle signore; gambe chiuse lì perché non possano uscire e strofinarsi contro i pantaloni degli uomini. La moglie del Direttore non dice mai la parola gambe, però i giornali hanno detto gambe quando hanno parlato di Nancy, delle sue gambe senza vita che spuntavano da sotto il mastello. Non vengono solo le signore-medusa. Il martedì abbiamo la Questione Femminile, e l'emancipazione di una cosa o dell'altra, con riformatori di ambo i sessi; e il giovedì il Circolo Spiritualista, che viene a prendere il tè e a conversare con i morti, cosa che dà conforto alla moglie del Direttore per via del suo figlioletto defunto. Ma le signore sono la maggioranza. Siedono sorseggiando dalle tazze delicate, e la moglie del Direttore suona un campanellino di porcellana. Non le piace essere la moglie del Direttore, preferirebbe che il Direttore fosse direttore di qualcos'altro, non di una prigione. Il Direttore aveva degli amici che sono riusciti a farlo diventare Direttore, ma non di qualcos'altro. E così lei è qui, e deve sfruttare al massimo la sua posizione sociale e i suoi vantaggi, e benché io faccia paura, e allo stesso tempo pietà, sono anch'io uno dei suoi vantaggi. Entro nella stanza e faccio l'inchino e cammino senza sorridere, a testa bassa, mentre raccolgo le tazze o le appoggio, a seconda; e loro mi osservano facendo finta di niente, da sotto le cuffie. Il motivo per cui sono curiose di vedermi è che sono una celebre assassina. Perlomeno, è questo che hanno scritto. La prima volta che l'ho letto ero stupita, perché si dice celebre cantante e celebre poetessa e celebre spiritualista e celebre attrice, ma cosa c'è da celebrare in un assassinio? Comunque, assassina è una parola pesante da portarsi dietro. Ha un odore, quella parola, un odore muschiato e opprimente, come di fiori morti in vaso. Qualche volta, di notte, me lo ripeto a bassa voce: Assassina, assassina. Fruscia, come una gonna di taffetà sul pavimento.
Assassino evoca solo violenza. È come un martello, o un pezzo di metallo. Preferisco essere un'assassina che un assassino, se questa è l'unica alternativa. A volte mentre spolvero lo specchio con i grappoli mi ci guardo, anche se so che questa è vanità. Nella luce pomeridiana del salotto la mia pelle è viola pallido, come un livido sbiadito, e i denti sono verdastri. Penso a tutto quello che è stato scritto su di me: che sono un demonio disumano, che sono la vittima innocente di un farabutto e ho agito contro la mia volontà e dietro minaccia di morte, che ero troppo ignorante per saper dissimulare e che impiccarmi sarebbe un crimine giudiziario, che amo gli animali, che sono molto bella e ho una carnagione luminosa, che ho gli occhi azzurri, che ho gli occhi verdi, che i miei capelli sono rosso scuro e anche bruni, che sono alta e che non supero la statura media, che sono vestita bene e con decoro, che per raggiungere questo risultato ho derubato una donna morta, che so lavorare bene e in fretta, che ho un brutto carattere e un temperamento litigioso, che sembro una donna al di sopra della mia modesta posizione sociale, che sono una brava ragazza di indole docile e con una buona reputazione, che sono astuta e scaltra, che sono un po' scema e poco meno che idiota. E mi chiedo: come faccio a essere tutte queste cose diverse, tutte insieme? È stato il mio avvocato, l'Egregio Signor Kenneth MacKenzie, a dirgli che ero una specie di idiota. Io mi sono arrabbiata, ma lui mi ha detto che quella era la mia possibilità più favorevole in assoluto, e che non dovevo sembrare troppo intelligente. Mi ha detto che avrebbe usato tutta la sua abilità per difendermi, perché comunque fossero andate le cose in realtà io a quell'epoca ero poco più che una bambina, e riteneva che in fin dei conti tutto si riducesse a un problema di libero arbitrio su cui potevano essere d'accordo o no. Era un signore gentile anche se quando parlava non riuscivo quasi mai a capire dove andava a parare, ma deve aver fatto una buona difesa. I giornali hanno scritto che si è battuto eroicamente pur non avendo possibilità di vittoria. Però non capisco perché la chiamavano difesa, perché lui non difendeva ma cercava di far apparire tutti i testimoni immorali o in malafede, oppure in errore. Mi chiedo se abbia mai creduto a una parola di quel che dicevo. Dopo che sono uscita dalla stanza con il vassoio, le signore sfogliano l'album della moglie del Direttore. Ma pensa un po', sto quasi per svenire,
dicono, e: Ma quella donna tu la lasci girare tranquillamente per casa tua, devi avere dei nervi d'acciaio, i miei non lo reggerebbero. Oh be', a certe cose ci si deve abituare nella nostra situazione, siamo virtualmente prigionieri noi stessi, sai, anche se bisogna avere pietà di queste povere creature ottenebrate, e poi dopotutto è stata istruita a fare la domestica, ed è meglio tenerle occupate, sa cucire che è una meraviglia, svelta e precisa, e in quel campo è un grande aiuto, soprattutto con i vestiti delle ragazze, ha un occhio per le finiture, e in circostanze più fortunate avrebbe potuto essere un'ottima aiuto-modista. Però ovviamente può stare qui solo di giorno, non ce la vorrei proprio in casa di notte. Certamente sapete che è stata per un certo periodo nel Manicomio di Toronto, sarà un setteotto anni fa, e anche se sembra perfettamente guarita non sai mai quand'è che possono avere un'altra crisi, a volte parla da sola e canta ad alta voce in un modo proprio strano. Non si può rischiare, la sera i secondini la riportano indietro e la mettono sotto chiave, altrimenti non potrei chiudere occhio. Oh, non ti biasimo, anche la carità cristiana ha un limite, il lupo perde il pelo ma non il vizio, e nessuno può dire che non hai fatto il tuo dovere e non hai dimostrato la giusta compassione. L'album della moglie del Direttore sta sul tavolo rotondo, coperto dallo scialle di seta, rami che si intrecciano come viticci, con fiori e frutti rossi e uccelli azzurri, in realtà è un solo grande albero e se lo fissi abbastanza a lungo i rami cominciano a dondolare come se fossero agitati dal vento. Gliel'ha mandato dall'India la figlia maggiore, che ha sposato un missionario, una cosa che io non farei mai. Saresti sicura di morire giovane, o per via degli indigeni ribelli come a Cawnpore, dove orribili offese sono state commesse sulle persone di gentildonne rispettabili, e meno male che le hanno massacrate tutte mettendo così fine alle loro sofferenze, non oso pensare alla vergogna; o per via della malaria, che ti fa diventare tutta gialla, e muori tra accessi di delirio; insomma in ogni caso, prima che tu te ne accorga ti ritroveresti sepolta sotto una palma, in terra straniera. Ho visto dei disegni di missionari nel libro di stampe orientali che la moglie del Direttore tira fuori quando ha voglia di farsi un pianto. Sullo stesso tavolo rotondo c'è la pila dei Godey's Ladies' Books con le mode che vengono su dagli Stati Uniti, e anche gli album delle due figlie più giovani. La signorina Lydia mi dice che sono una figura romantica; d'altra parte, sono tutte e due così giovani che non sanno che cosa dicono. A volte ficcano il naso e mi prendono in giro; mi dicono: Grace, perché non sorridi mai e non ridi, non ti vediamo mai sorridere, e io dico: Ho per-
so l'abitudine, signorina, la mia faccia non ne è più capace. Ma se mi mettessi a ridere forte, magari non riuscirei più a smettere; e così gli rovinerei l'idea romantica che si sono fatte di me. La gente romantica non ride, lo so perché ho visto le figure. Le figlie mettono qualunque cosa nei loro album, pezzetti di stoffa dei loro vestiti, scampoli di nastro, figure ritagliate dalle riviste: le rovine di Roma Antica, i Pittoreschi Monasteri delle Alpi Francesi, il Ponte Vecchio di Londra, le Cascate del Niagara d'estate e d'inverno, una cosa che mi piacerebbe vedere perché tutti dicono che sono molto imponenti, e i ritratti di Lady Tale e Lord Talaltro che stanno in Inghilterra. E le loro amiche scrivono delle cose con la loro scrittura aggraziata: Alla Carissima Lydia dalla sua Eterna Amica Clara Richards, Alla Carissima Marianne in Ricordo del Nostro Splendido Picnic sulle Rive dell'Azzurrissimo Lago Ontano. E anche poesie: Come attorno alla quercia possente S'avvince l'Edera Amorosa, Così la mia Amicizia per sempre dono A Te, e a Te soltanto, La Tua Fedele Laura. Oppure: Anche se me ne andrò lontana Da te, non disperare: Noi siamo un'Anima sola, E nessuno ci potrà separare. La Tua Lucy. Questa ragazza annegò poco tempo dopo nel lago quando la sua nave fece naufragio in una bufera, e non trovarono più niente tranne il suo baule con le cifre in borchie d'argento; era ancora chiuso, perciò si era bagnato ma non si era perso niente, e la signorina Lydia ricevette una sciarpa che c'era dentro, come ricordo. Quando sarò morta e sepolta E le mie ossa disfatte sottoterra Quando vedi questo, ricordami Perché di me resti la memoria.
Questa qui è firmata: Sarò sempre con te in Spirito, la tua affezionata «Nancy», Hannah Edmonds e devo dire che la prima volta che l'ho vista mi sono presa una bella paura, anche se naturalmente si trattava di un'altra Nancy. Oddio, le ossa disfatte sottoterra. Lo saranno, a quest'ora. Aveva la faccia tutta nera quando l'hanno trovata, dev'esserci stato un odore spaventoso. Faceva così caldo, era luglio, però è sorprendente come si è deteriorata in fretta, c'era da credere che si conservasse più a lungo giù dove tenevamo il latte, di solito fa fresco là sotto. Sono proprio contenta che non c'ero, sarebbe stato molto penoso. Non so perché sono tutte così ansiose di essere ricordate. Che cosa gliene viene? Ci sono cose che tutti quanti dovrebbero dimenticare, e non parlarne mai più. L'album della moglie del Direttore è molto diverso. Naturalmente, lei è una donna adulta e non una ragazzina, perciò, pur avendo anche lei la smania di ricordare, non le interessa ricordare violette o picnic. Niente Carissima, Tesoro Mio e Mia Bella, nessuna Amica Eterna, niente di tutto ciò per lei; l'album, invece, contiene tutti i famosi criminali: quelli che sono stati impiccati, oppure portati qui a scontare la pena, perché questo è un Penitenziario e quando ci sei dentro ti devi pentire, ed è meglio per te se dici che l'hai fatto, che tu abbia o no qualcosa di cui pentirti. La moglie del Direttore ritaglia questi delitti dai giornali e li incolla; e si fa perfino mandare giornali vecchi, con delitti commessi prima del suo arrivo. È la sua collezione, è una signora e tutte le signore collezionano qualcosa al giorno d'oggi, perciò deve farlo anche lei, e fa questo invece di andare a raccogliere felci o far seccare fiori, e comunque le piace far rabbrividire d'orrore le sue conoscenze. Così ho letto quello che hanno scritto di me. È stata lei stessa a farmi vedere l'album, immagino che volesse osservare la mia reazione; ma ho imparato a mantenere un'espressione impassibile, non ho battuto ciglio, gli occhi inespressivi, come un gufo davanti a una lampada, e ho detto che mi ero pentita con amare lacrime e ora ero un'altra persona, e se adesso voleva che portassi via le tazze del tè; ma sono andata a riguardarlo parecchie volte, quand'ero sola nel salotto. Ci sono un sacco di bugie. Sul giornale hanno detto che ero analfabeta, ma già allora sapevo leggere un po'. Mi ha insegnato mia madre quand'ero piccola, prima che fosse troppo stanca per farlo, e come tutte le bambine ho ricamato anch'io l'alfabeto, con del filo avanzato: A come Ape, B come
Barca; e anche Mary Whitney leggeva con me, dall'Assessora Parkinson, mentre rammendavamo; e da quando sono qui ho imparato molto di più, perché te l'insegnano apposta. Vogliono che tu sappia leggere la Bibbia, e anche gli opuscoli, perché la religione e le botte sono gli unici rimedi per una natura corrotta e bisogna agire per il bene delle nostre anime immortali. È incredibile quanti delitti ci sono nella Bibbia. La moglie del Direttore dovrebbe ritagliarli tutti e incollarli nel suo album. Qualcosa di vero l'hanno detto. Hanno detto che avevo una buona reputazione, e questo era vero, perché nessuno si era mai approfittato di me, anche se ci avevano provato. Ma hanno definito James McDermott il mio amante. L'hanno scritto, lì, sul giornale. Penso che sia disgustoso scrivere certe cose. È questo quello che gli interessa davvero, uomini e donne perbene, tutti quanti. Non gli importa veramente se ho ammazzato qualcuno, potrei aver tagliato un centinaio di gole, per i soldati questo va benissimo, li ammirano, non batterebbero ciglio. No, la loro preoccupazione principale è se ero davvero la sua amante, e non sanno neanche loro se vogliono che la risposta sia sì o no. Ora non sto sfogliando l'album, perché possono entrare da un momento all'altro. Siedo, con le mani ruvide unite in grembo, gli occhi bassi, fisso i fiori sul tappeto turco. Perlomeno dovrebbero essere fiori. I loro petali hanno la forma dei quadri delle carte da gioco; sono come le carte sparse sul tavolo a casa del signor Kinnear, dopo che i signori avevano giocato la sera prima. Duri e spigolosi; ma rossi, di un rosso denso e profondo. Lingue spesse e strozzate. Non sono le signore che verranno oggi, è un dottore. Sta scrivendo un libro; alla moglie del Direttore piace conoscere la gente che scrive libri, libri con intenti progressisti, dimostra che lei è una donna di mentalità liberale e di idee avanzate, e la scienza sta facendo tali progressi, e con tutte queste invenzioni moderne e il Palazzo di Cristallo e tutte le conoscenze scientifiche mondiali messe insieme, chissà dove saremo fra cent'anni. Un dottore è sempre cattivo segno. Anche quando non ti ammazzano loro personalmente, vuoi dire che la morte è vicina, e da quel punto di vista sono come corvi o cornacchie. Ma questo dottore non mi farà del male, la moglie del Direttore l'ha promesso. Vuole solo misurarmi la testa. Sta misurando le teste di tutti i criminali del Penitenziario, per vedere se riesce a dire, dai bozzi che hanno sul cranio, che tipo di criminali sono, borseggia-
tori o truffatori o malversatori o pazzi criminali o assassini, ma non ha detto: Come te, Grace. Così potrebbero rinchiudere tutta quella gente prima che avesse la possibilità di commettere delitti, e pensa a quanto il mondo sarebbe migliore. Dopo che James McDermott è stato impiccato, hanno fatto un calco di gesso della sua testa. Anche questo l'ho letto sull'album. Immagino che la volessero per lo stesso scopo, per migliorare il mondo. E il suo corpo è stato dissezionato. La prima volta che l'ho letto non sapevo cosa fosse dissezionare, ma l'ho scoperto fin troppo presto. Sono stati i dottori a farlo. L'hanno tagliato a pezzi come un maiale da mettere sotto sale, avrebbe potuto essere pancetta, per loro, nessuna differenza. Il suo corpo che ho sentito respirare, col cuore che batteva - tagliato da un coltello - non posso pensarci. Mi chiedo cosa ne hanno fatto della sua camicia. Era una delle quattro che gli vendette Jeremiah l'ambulante? Avrebbe dovuto comprarne tre, oppure cinque, perché i numeri dispari portano fortuna. Jeremiah mi augurava sempre buona fortuna, ma non l'ha augurata a James McDermott. Non ho visto l'impiccagione. L'hanno impiccato di fronte alla Prigione di Toronto, e avresti dovuto esserci, Grace, mi dicevano le secondine, sarebbe stata una lezione per te. Me la sono immaginata tante volte, il povero James lì in piedi con le mani legate e il collo nudo, mentre gli mettono il cappuccio sulla testa come se fosse un gattino da affogare. Perlomeno c'era un prete con lui, non era del tutto solo. Se non fosse stato per Grace Marks, ha detto, non sarebbe successo niente di tutto questo. Pioveva, e c'era una gran folla che si pigiava nel fango, alcuni erano venuti da lontano. Se la mia sentenza di morte non fosse stata commutata all'ultimo minuto, avrebbero guardato penzolare anche me con lo stesso piacere ingordo. C'erano molte donne e signore; tutti quanti volevano mettere gli occhi addosso alla morte, volevano respirarla come un profumo raro, e quando l'ho letto ho pensato: Se questa è una lezione per me, che cos'è che dovrei imparare? Ora sento i loro passi, e mi alzo in fretta e mi liscio il grembiule. Poi la voce di uno sconosciuto: Molto gentile da parte sua, signora, e la moglie del Direttore che dice: Sono così felice di esserle d'aiuto, e lui dice di nuovo: Molto gentile. Poi lui entra dalla porta, grossa pancia, giacca nera, gilè aderente, bottoni d'argento, cravatta annodata con cura, io alzo gli occhi solo fino al suo
mento, e lui dice: Non ci vorrà molto ma le sarei grato signora se rimanesse nella stanza, non basta essere virtuosi, bisogna anche apparirlo. Ride della sua battuta, e dalla sua voce sento che ha paura di me. Una donna come me è sempre una tentazione, se si possono sistemare le cose in modo che nessuno ti veda; perché qualunque cosa noi diciamo dopo, non verremo credute. E poi vedo la sua mano, una mano che sembra un guanto, un guanto ripieno di carne cruda, la sua mano che si immerge nella bocca spalancata della borsa di pelle. Ne esce con un luccichio, e so di aver già visto una mano così; allora alzo la testa e lo guardo dritto negli occhi, e dentro il cuore mi batte all'impazzata, e poi comincio a gridare. Perché è lo stesso dottore, lo stesso, proprio lo stesso dottore con la giacca nera e la borsa piena di coltelli luccicanti. 4 Mi hanno fatta rinvenire gettandomi in faccia un bicchiere d'acqua fredda, ma ho continuato a gridare, anche se il dottore non c'era più; perciò due sguattere mi hanno tenuta ferma e il ragazzo che aiuta il giardiniere mi si è seduto sulle gambe. La moglie del Direttore aveva mandato a chiamare la Capoguardiana del Penitenziario, che è arrivata con due secondini, e mi ha assestato un ceffone in faccia, al che ho smesso. In ogni caso, non era lo stesso dottore, gli somigliava soltanto. Lo stesso sguardo freddo e avido, lo stesso odio. Non c'è altro modo con le isteriche, stia sicura signora, ha detto la Capoguardiana, ne abbiamo viste tante di crisi così, questa qui una volta ci andava soggetta ma non gliel'abbiamo mai fatta passare liscia, abbiamo lavorato per correggerla e pensavamo che l'avesse piantata, magari è il suo vecchio problema che ritorna, perché qualunque cosa ne dicessero su a Toronto quella volta, sette anni fa, era una pazza furiosa, e lei è fortunata che non c'erano in giro forbici né niente di tagliente. Poi i secondini mi hanno riportata quasi di peso nell'ala principale della prigione, e mi hanno chiusa in questa stanza, finché non tornerò in me, così hanno detto, anche se io gli ho detto che stavo meglio ora che non c'era più il dottore con i suoi coltelli. Ho detto che avevo paura dei dottori, tutto qui; paura che mi aprissero la pancia, come altri hanno paura dei serpenti; ma loro hanno detto: Basta con le tue storie, Grace, volevi solo attirare l'attenzione, non ti avrebbe aperto la pancia, non aveva nessun coltello, quello
che hai visto era solo un compasso, serve a misurare le teste. Hai fatto prendere un bello spavento alla moglie del Direttore, ma le sta bene, ti ha viziata troppo e questo è male per te. sei diventata la sua cocca, non è vero? ormai noi non siamo più alla tua altezza. Be' peggio per te, ci dovrai sopportare perché ora ti sei attirata un altro tipo di attenzione per un po'. Finché non avranno deciso cosa farne di te. In questa stanza c'è solo una finestrella su in alto con sbarre all'interno, e un materasso pieno di paglia. C'è una crosta di pane su un piatto di latta, una ciotola di pietra piena d'acqua, e un secchio di legno vuoto che deve servire da vaso da notte. Mi avevano messa in una stanza così prima di mandarmi al Manicomio. Gli dicevo che non ero pazza, non ero io quella, ma non mi ascoltavano. Comunque non riconoscevano una matta neanche a vederla, perché metà delle donne del Manicomio non erano più matte della regina d'Inghilterra. Molte erano del tutto sane di mente quand'erano sobrie, perché la loro pazzia veniva dalla bottiglia, e io la conoscevo bene. Una di loro era lì per sfuggire al marito, che la faceva nera di botte, il matto era lui ma nessuno l'ha mai rinchiuso; e un'altra diceva che impazziva in autunno, perché non aveva casa e al Manicomio faceva caldo, e se non fosse impazzita come si deve sarebbe congelata; poi, in primavera, rinsaviva di nuovo perché faceva bello e poteva uscire e gironzolare per i boschi e pescare, e siccome era mezza pellerossa era in gamba per queste cose. Anche a me piacerebbe fare così se ne fossi capace, e non avessi paura degli orsi. Ma alcune non facevano finta. C'era una povera irlandese a cui era morta tutta la famiglia, metà di fame nella grande carestia e l'altra metà di colera sulla nave che li portava qui; gironzolava chiamandoli per nome. Sono contenta di essere partita dall'Irlanda prima di quel periodo, perché parlava di sofferenze orribili, e di cadaveri ammucchiati ovunque senza nessuno che li seppellisse. C'era un'altra che aveva ucciso il suo bambino, che la seguiva ovunque tirandola per la gonna; e qualche volta lo prendeva in braccio e lo baciava, altre volte si metteva a urlare e lo cacciava menando colpi. Quella mi faceva paura. Ce n'era una molto religiosa, che pregava e cantava sempre, e quando scoprì quel che secondo loro avevo fatto, mi tormentava ogni volta che poteva. In ginocchio, diceva, Quinto non uccidere, ma c'è sempre la grazia di Dio per i peccatori, pèntiti, pèntiti finché sei in tempo o la dannazione ti attende. Era proprio come un predicatore in chiesa, e una volta cercò di bat-
tezzarmi con la minestra, era una minestra leggera, con del cavolo, e lei me ne versò una cucchiaiata sulla testa. Quando mi lamentai, la guardiana mi diede un'occhiataccia con la bocca stretta e serrata come il coperchio di un baule, e disse: Be', Grace, forse dovresti darle retta, non ho mai sentito dire che tu ti sia veramente pentita, per quanto il tuo cuore duro ne abbia un gran bisogno; e allora di colpo fui assalita dalla rabbia e gridai: Non ho fatto niente, non ho fatto niente, è stata lei, è stata colpa sua! Di chi parli, Grace, disse, ricomponiti o ti aspettano i bagni freddi e la camicia di forza, e ha lanciato uno sguardo all'altra guardiana: Ecco! Cosa ti dicevo? Matta come una serpe. Le guardiane del Manicomio erano tutte grasse e forti, con braccione robuste e doppi menti appoggiati sul collo e sul colletto bianco inamidato, e i capelli intrecciati sulla testa come vecchie corde. Devi essere forte per fare la guardiana lì dentro, nel caso che una pazza ti salti addosso e ti strappi i capelli, ma ciò non le rendeva più simpatiche. A volte ci provocavano, soprattutto prima che avessimo visite. Volevano far vedere quanto eravamo pericolose, ma anche com'erano brave loro a tenerci sotto controllo, perché così mettevano in risalto pregi e capacità della categoria. Perciò smisi di parlare con loro. E col Dottor Bannerling, che entrava nella cella quando ero legata al buio con le mani coperte da grossi guanti: Stai ferma, sono venuto a esaminarti, non ti serve a niente mentirmi. E con gli altri dottori che venivano in visita: Oh ma guarda, che caso affascinante, come se fossi un vitello con due teste. Alla fine smisi del tutto di parlare, tranne quando mi rivolgevano la parola e allora molto civilmente: Sì signora, No signora, Sì e No signore. E poi venni rispedita indietro al Penitenziario, dopo che si erano incontrati tutti quanti con le loro giacche nere: Ahem, aha, nella mia opinione, e Mio esimio collega, mi permetto di dissentire. Ovviamente non potevano ammettere neanche per un istante che si erano sbagliati a mettermi lì dentro. La gente vestita in un certo modo non ha mai torto. E non scorreggia nemmeno. Mary Whitney diceva così: Se qualcuno scorreggia nella stanza dove ci sono loro, puoi star certa che sei stata tu. E anche se non sei stata tu, è meglio che non lo dici, altrimenti ti ritrovi con un: Maledetta insolente, un calcio in culo e via! ti gettano in strada. Parlava spesso in modo sboccato e rozzo. Diceva: Vadi, invece di: Vada. Nessuno le aveva mai insegnato. Anch'io parlavo così, ma in prigione ho imparato maniere più fini.
Mi siedo sul materasso di paglia. Fa un rumore come: Shh! Sembra acqua sulla spiaggia. Mi sposto da un lato all'altro, per ascoltarlo. Potrei chiudere gli occhi e pensare di essere sulla riva del mare, in una giornata asciutta e non troppo ventosa. Fuori dalla finestra, in lontananza, c'è qualcuno che taglia legna, la scure cala con un lampo che non vedo, e poi il tonfo sordo, ma come faccio a sapere che è legna? Fa freddo qui dentro. Non ho scialle, mi abbraccio da sola perché chi altro potrebbe farlo? Quand'ero più giovane pensavo che se fossi riuscita ad abbracciarmi abbastanza stretta mi sarei fatta più piccola, perché non c'era mai posto per me, né in casa né altrove, ma se fossi stata più piccola allora potevo starci. I miei capelli spuntano da sotto la cuffia. Capelli rossi da strega. Una bestia selvaggia, diceva il giornale. Un mostro. Quando vengono a portarmi la cena mi metterò il secchio sulla testa e mi nasconderò dietro la porta, per fargli paura. Se proprio vogliono il mostro, bisogna darglielo. No, queste cose non le faccio mai. Mi limito a pensarci. Se le facessi, avrebbero la certezza che sono impazzita di nuovo. Impazzita, dicono, e a volte andata via con la testa, come se la pazzia fosse una direzione, come l'ovest; come se essere matti fosse un'altra casa in cui si può entrare, o un paese a sé. Ma quando si impazzisce non si va in nessun altro posto, si sta dove si è. E qualcun altro entra. Non voglio che mi lascino sola in questa stanza. Le pareti sono troppo vuote, non ci sono quadri appesi né tende davanti alla finestrella lassù, non c'è niente da guardare, così guardi il muro, e dopo che l'hai fissato per un po', vedi che alla fin fine i quadri ci sono, e ci crescono anche dei fiori rossi. Penso che dormirò. Ora è mattina, ma di che giorno? Del secondo o del terzo. Fuori dalla finestra c'è una luce di mattina presto, è quella che mi ha svegliata. Mi tiro su a fatica, mi do un pizzicotto e strizzo gli occhi, e mi alzo tutta indolenzita dal materasso scricchiolante. Poi canto, giusto per sentire una voce e per farmi compagnia: Santo, santo, santo Signore Iddio Onnipotente, All'alba del giorno a te si leva il nostro canto, Santo, santo, santo, Iddio di forza e di pietà, Dio in tre persone, Santissima Trinità.
Non possono dirmi niente se è un inno. Un inno al mattino. Mi è sempre piaciuto tanto il sorgere del sole. Poi bevo l'acqua che resta; poi cammino per la stanza; poi mi tiro su la gonna e faccio pipì nel secchio. Tra qualche ora puzzerà come una fogna, qui dentro. Dormire vestita stanca. I vestiti sono stropicciati e, sotto, anche il tuo corpo è stropicciato. Mi sento come se mi avessero fatta su come un fagotto e gettata sul pavimento. Come vorrei un grembiule pulito. Non viene nessuno. Mi lasciano riflettere sui miei peccati e sulla mia cattiva condotta, e in solitudine si riflette meglio, o perlomeno questa è la nostra motivata e ponderata opinione, Grace, dopo lunga esperienza in materia. In certe prigioni ti tengono chiusa per anni, senza mai poter dare un'occhiata a un albero, a un cavallo, a una faccia umana. C'è chi dice che rende la pelle più bianca. Non è la prima volta che mi mettono in isolamento. Incorreggibile, ha detto il Dottor Bannerling, un'astuta simulatrice. Stai buona, sono qui per esaminare la tua configurazione cerebrale, e prima misurerò il battito cardiaco e la respirazione, ma io sapevo dove andava a parare. Toglimi quelle mani dalle tette, sporco bastardo, avrebbe detto Mary Whitney, ma io riuscii solo a dire: Oh no, oh no, e non serviva dimenarsi e divincolarsi, perché mi avevano immobilizzata, legata come un salame alla sedia con le maniche incrociate sul davanti e fermate dietro; perciò non c'era altro da fare che piantargli i denti nelle dita, ed ecco che cadiamo tutti e due all'indietro, rovesciati sul pavimento, urlando come due gatti in un sacco. Sapeva di salsiccia cruda e di biancheria di lana umida. Avrebbe avuto un sapore molto migliore se l'avessero passato in acqua bollente e poi appeso al sole a sbiancare. Niente cena ieri sera né la sera prima, solo pane, neanche un po' di cavolo; be', c'era da aspettarselo. Il digiuno calma i nervi. Oggi sarà di nuovo pane e acqua, perché la carne eccita i criminali e i maniaci, l'odore gli arriva alle narici, proprio come ai lupi, e poi te la sei voluta. Ma l'acqua di ieri è finita e io ho molta sete, sto morendo di sete, ho la bocca secca e la lingua gonfia. È quello che capita ai naufraghi, l'ho letto nelle cronache dei processi, sono persi in mare e bevono il sangue uno dell'altro. Tirano a sorte per stabilire a chi tocca. Atrocità cannibalistiche incollate sull'album.
Sono sicura che non farei mai una cosa del genere, per quanta fame avessi. Si sono dimenticati che sono qui? Devono portarmi qualcosa da mangiare, o almeno dell'acqua, se no morirò di fame, diventerò tutta rinsecchita, la mia pelle si seccherà, gialla come lino vecchio; mi trasformerò in uno scheletro, mi troveranno fra mesi, anni, secoli, e diranno: Questa chi è, dev'esserci passata di mente, be', spazzate via nell'angolo le ossa e i resti?, ma tenete i bottoni, non ha senso sprecarli, tanto ormai non c'è più niente da fare. Quando cominci a provare compassione per te stessa, ti hanno cucinata al punto giusto. È allora che mandano a chiamare il prete. Oh vieni tra le mie braccia, povera anima smarrita. C'è più gioia in cielo per una sola pecorella. Confidami quel che ti turba. Inginocchiati ai miei piedi. Torciti le mani dal dolore. Descrivi come la coscienza ti tormenta giorno e notte, e gli occhi delle tue vittime ti seguono ovunque, ti bruciano come carboni ardenti. Piangi lacrime di rimorso. Confessa, confessa. Lascia che ti perdoni e ti compianga. Lascia che scriva una petizione per te. Dimmi tutto. E poi che cosa ha fatto? Oh, incredibile. E poi cos'altro? La mano sinistra o la destra? Su fino a dove, esattamente? Fammi vedere dove. Forse sento bisbigliare. Ora c'è un occhio che mi guarda attraverso lo spioncino della porta. Non lo vedo ma so che c'è. Poi bussano. E penso: Chi può essere? La Capoguardiana? Il Direttore, che viene a darmi una lavata di capo? Ma non possono essere loro, perché qui nessuno ti fa la cortesia di bussare, ti guardano dallo spioncino ed entrano, semplicemente. Prima bussa sempre, diceva Mary Whitney. Poi aspetta che ti diano il permesso di entrare. Non si sa mai cosa stanno combinando, e spesso non vogliono che tu veda, potrebbero avere le dita nel naso o in qualche altro posto, perché anche una gran signora sente il bisogno di grattarsi quando le prude, e se vedi un paio di piedi che spuntano da sotto il letto è meglio far finta di niente. Di giorno saranno anche gigli di purezza, ma di notte sono tutte sudicione. Mary era una persona di vedute democratiche. Bussano di nuovo. Come se potessi scegliere. Mi tiro i capelli sotto la cuffia, mi alzo dal materasso di paglia e mi li-
scio vestito e grembiule, poi vado a mettermi più lontano che posso nell'angolo della stanza, e dico, con voce ferma perché tanto vale mantenere la dignità se possibile: Prego, entri. 5 La porta si apre e un uomo entra. È giovane, della mia età o appena più vecchio, che significa giovane per un uomo ma non per una donna, perché alla mia età una donna è una vecchia zitella ma un uomo non è un vecchio scapolone fino ai cinquanta; e anche allora, c'è ancora speranza per le signore, come diceva Mary Whitney. È alto, con gambe e braccia lunghe, ma non è quello che le figlie del Direttore definirebbero bello; a loro piacciono quelli languidi dei giornali illustrati, tutti eleganti e che sembrano tante gattemorte, con i piedi piccoli inguainati in scarpine a punta. Quest'uomo ha un'aria attiva che non è di moda, e ha anche i piedi piuttosto grandi, anche se è un signore, o giù di lì. Non credo sia inglese, perciò non saprei dire. Ha i capelli castani, ondulati, e che si potrebbero definire indisciplinati, come se non riuscisse a lisciarli col pettine. Ha un bel soprabito, di buon taglio, ma non è nuovo, è liso sui gomiti. Ha una giacca di tartan, il tartan è in auge da quando la regina ha cominciato ad andare in Scozia e si è costruita un castello là, pieno di teste di cervo, a quanto dicono; ma ora vedo che non è vero tartan, solo una stoffa a quadri. Gialli e marrone. Ha una catena da orologio in oro, quindi, anche se è stropicciato e trascurato, non è povero. Non ha le basette, come hanno cominciato a portarle adesso; personalmente non le apprezzo granché, preferisco baffi o barba, oppure niente del tutto. James McDermott e il signor Kinnear avevano entrambi la faccia ben rasata, e Jamie Walsh anche - non che avesse molto da radere, lui - però il signor Kinnear aveva i baffi. La mattina, quando vuotavo la bacinella dopo che si era fatto la barba, prendevo un po' della schiuma di sapone, ne usava uno buono, che veniva da Londra, e me la strofinavo sulla pelle, sulla pelle dei polsi, così mi restava l'odore per tutto il giorno, o almeno finché non era ora di lavare i pavimenti. L'uomo si chiude la porta alle spalle. Non la chiude a chiave, ma qualcun altro, dall'esterno, lo fa. Siamo chiusi insieme in questa stanza. Buon giorno, Grace, dice. Mi dicono che hai paura dei dottori. Devo dir-
ti fin da ora che sono anch'io un dottore. Mi chiamo Jordan, Dottor Simon Jordan. Gli getto una rapida occhiata, poi abbasso gli occhi. Dico: Torna anche l'altro dottore? Quello che ti ha fatto paura? dice. No, non torna. Dico: Allora suppongo che lei sia venuto a misurarmi la testa. Non me lo sogno neppure, dice lui sorridendo; però, lancia uno sguardo misuratore alla mia testa. In ogni caso, io ho la cuffia, quindi non può vedere niente. Ora che ha parlato penso che dev'essere americano. I suoi denti sono bianchi, e non gliene manca nessuno, quantomeno non davanti, e ha una faccia lunga e ossuta. Mi piace il suo sorriso, anche se sorride di più con un angolo della bocca che con l'altro, e sembra che ti prenda in giro. Gli guardo le mani. Sono vuote. Niente del tutto. Nessun anello alle dita. Ha una borsa con i coltelli? chiedo. Una borsa di pelle. No, dice, non sono il solito tipo di dottore. Non taglio la pancia alla gente. Hai paura di me, Grace? Non so ancora se ho paura di lui. È troppo presto; troppo presto per dire cosa vuole. Nessuno viene a trovarmi se non vuole qualcosa. Mi piacerebbe che mi dicesse che tipo di dottore è, visto che non è del solito tipo, ma lui dice invece: Vengo dal Massachusetts. O meglio, è lì che sono nato. Ho viaggiato molto da allora. Ho percorso la terra e mi sono aggirato per essa. E mi guarda, per vedere se capisco. So che è il Libro di Giobbe, prima che Giobbe sia colpito dalle piaghe maligne e dai turbini di vento. È quello che Satana dice a Dio. Sicuramente vuol dire che è venuto a mettermi alla prova, anche se è tardi, Dio mi ha già messo alla prova un bel po', dovrebbe essersi stufato ormai. Ma questo non lo dico. Lo guardo come una stupida. La faccia da stupida mi viene bene, sono esercitata. Dico: È stato in Francia? È da lì che vengono tutte le mode. Vedo che l'ho deluso. Sì, dice. E in Inghilterra, e anche in Italia, e così pure in Germania e in Svizzera. È così strano essere in una stanza chiusa a chiave nel Penitenziario, a parlare con uno sconosciuto della Francia e dell'Italia e della Germania. Dev'essere un vagabondo, come Jeremiah l'ambulante. Ma Jeremiah viaggiava per sbarcare il lunario, mentre questi altri sono già abbastanza ricchi. Vanno in viaggio perché sono curiosi. Girano il mondo e osservano, attraversano l'oceano in nave come se niente fosse, e se un posto non gli va
prendono su e se ne vanno in un altro. Ma ora tocca a me dire qualcosa. Dico: Non so come fa, signore, tra tutti quegli stranieri, non si sa mai cosa dicono. Appena arrivati qui, quei poveracci starnazzano come oche, anche se i bambini imparano a parlare in fretta. È vero, i bambini di ogni specie imparano velocemente. Sorride, e poi fa una cosa strana. Mette la mano sinistra in tasca e tira fuori una mela. Mi si avvicina lentamente, tendendo la mela come se tendesse un osso a un cane pericoloso, per farselo amico. Questa è per te, dice. Ho tanta sete che la mela mi appare come una grossa, rotonda goccia d'acqua, fredda e rossa. Potrei bermela in un sorso. Esito; ma poi penso: Non c'è niente di male in una mela, e così la prendo. È tanto tempo che non ho una mela tutta per me. Questa dev'essere dell'autunno scorso, tenuta in cantina in un barile, ma ha l'aria fresca. Non sono un cane, gli dico. Altri mi chiederebbero che cosa intendo dire, ma lui ride. Una risata breve come un respiro: Ah, come se avesse trovato una cosa che aveva perso. E dice: No, Grace, vedo che non sei un cane. Cosa sta pensando? Io sono immobile e tengo la mela fra le mani. È preziosa al tatto, un tesoro pesante. La sollevo e l'annuso. Ha un odore così intenso di aria aperta che mi viene da piangere. Non la mangi? dice lui. No, non ancora, dico. Perché no? dice. Perché se la mangio non c'è più, dico. La verità è che non voglio che mi veda mangiare. Non voglio che veda che ho fame. Se hai un bisogno o un desiderio e loro lo scoprono, lo useranno contro di te. La cosa migliore è non volere più niente. Lui fa la sua risata breve. Mi sai dire cos'è? dice. Lo guardo, poi distolgo gli occhi. Una mela, dico. Sicuramente pensa che sono una ritardata; oppure è un trucco; oppure è pazzo, ed è per quello che hanno chiuso la porta a chiave: mi hanno chiusa in questa stanza con un pazzo. Ma gli uomini che portano abiti come i suoi non possono essere pazzi, soprattutto per la catena d'oro dell'orologio - i parenti oppure i guardiani gliel'avrebbero fatta sparire in un batter d'occhio. Mi rivolge il suo sorrisetto sghembo. A che cosa ti fa pensare «mela»? chiede.
Chiedo scusa, signore, dico. Non ho capito. Dev'essere un indovinello. Penso a Mary Whitney e alle bucce di mela che ci siamo gettate dietro le spalle, quella sera, per scoprire chi avremmo sposato. Ma questo non glielo dico. Credo che tu capisca, dice lui. Al mio ricamo, dico. Ora è il suo turno di non capirci niente. Il tuo cosa? dice. Da bambina ho ricamato l'alfabeto, dico. M come mela, P come pera. Oh, sì, dice lui. Ma a che altro? Gli lancio una delle mie occhiate stupide. Alla torta di mele, dico. Ah, dice lui. Una cosa che si mangia. Be', lo spero bene, signore. Una torta di mele è fatta per essere mangiata. E c'è un tipo di mela che non si deve mangiare? chiede. Una mela marcia, penso, dico io. Sta giocando agli indovinelli, come il Dottor Bannerling al Manicomio. C'è sempre una risposta giusta, ed è giusta perché è quella che vogliono loro, lo capisci dalle loro facce se hai indovinato o no; anche se col Dottor Bannerling tutte le risposte erano sbagliate. O magari è un dottore in Teologia: anche a loro piacciono tanto questi interrogatori. Ne ho fatto il pieno, di quelli, e mi basteranno per un po'. La mela dell'albero della conoscenza, è quello che vuol dire. Il bene e il male. Lo indovinerebbe anche un bambino. Ma non voglio andargli incontro. Ritorno alla mia faccia da stupida. Lei è un predicatore? chiedo. No, dice, non sono un predicatore. Sono un dottore che non lavora con il corpo, ma con la mente. Le malattie della mente e del cervello, e dei nervi. Metto le mani dietro la schiena, e la mela con loro. Non mi fido per niente di lui. No, dico, là non ci torno. Nel Manicomio no. Un essere umano non può sopportarlo. Non aver paura, dice. Non sei pazza in realtà, vero, Grace? No, signore, non lo sono, dico io. Quindi non c'è ragione che tu torni in Manicomio, no? Quelli non danno retta alla ragione, signore, dico io. Be', io sono qui proprio per questo. Sono qui per dar retta alla ragione. Ma se devo ascoltarti, bisogna che tu mi parli. Capisco dove vuole arrivare. È un collezionista. Pensa che non deve far altro che darmi una mela, e poi può mettermi nella sua collezione. Forse è un giornalista. Oppure un viaggiatore, che sta facendo un giro da queste
parti. Entrano e ti fissano, e sotto il loro sguardo ti senti piccola come una formica, e loro ti prendono fra l'indice e il pollice e ti rigirano. Poi ti rimettono giù e se ne vanno. Lei non mi crederebbe, signore, dico. E comunque tutto è stato già deciso, il processo è finito da un pezzo e quel che dico non cambierà niente. Dovrebbe chiedere agli avvocati e ai giudici, e ai giornalisti, sembra che conoscano la mia storia meglio di me. In ogni caso io non ricordo, ricordo altre cose ma ho perso completamente la memoria di quelle. Devono averglielo detto. Vorrei aiutarti, Grace, dice lui. È così che si fanno aprire la porta. Ti offrono aiuto ma in realtà vogliono gratitudine, ci si rivoltolano come gatti nell'erba gatta. Quel che vuole è andare a casa e dire a se stesso: Ho allungato la mano e la pera matura ci è caduta dentro, come sono bravo. Ma io non voglio essere la pera matura di nessuno. Non dico niente. Se tu cerchi di parlare, continua lui, io cercherò di ascoltare. Il mio scopo è puramente scientifico. Non sono solo gli omicidi che ci interessano. La sua voce è gentile, gentile in apparenza ma con altri desideri nascosti sotto. Posso anche raccontarle delle bugie, dico. Non dice: Che pensiero perfido, Grace, hai una fantasia peccaminosa. Dice: Forse. Forse mi racconterai delle bugie involontariamente, e forse anche deliberatamente. Forse sei una bugiarda. Lo guardo. C'è chi ha detto che lo sono, dico. Dovremo correre quel rischio, dice lui. Abbasso gli occhi a terra. Mi riporteranno in Manicomio? dico. O mi metteranno in isolamento, senza mangiare nient'altro che pane? Dice: Ti do la mia parola che finché continui a parlare con me, e non perdi il controllo di te stessa e non diventi violenta, tutto resterà com'era. Il Direttore me l'ha promesso. Lo guardo. Distolgo gli occhi. Lo guardo di nuovo. Tengo la mela fra le mani. Lui aspetta. Infine alzo la mela e la premo contro la fronte. IV Capricci di un giovanotto Fra questi pazzi furiosi riconobbi il viso singolare di Grace
Marks, non più triste e senza speranza ma acceso dal fuoco della follia, e animato da una mostruosa e demoniaca allegria. Quando si accorse che degli sconosciuti la osservavano, sparì come un fantasma, strillando, in una delle stanze adiacenti. Pare che anche nelle più violente crisi della sua terribile malattia sia continuamente ossessionata dai ricordi del passato. Infelice ragazza! Quando finirà il lungo orrore della sua punizione e del suo rimorso? Quando siederà ai piedi di Gesù, rivestita degli immacolati panni della Sua virtù, la macchia di sangue lavata dalle sue mani, l'anima redenta e perdonata, e la ragione intatta? Speriamo che tutte le sue precedenti colpe siano da attribuirsi al primo manifestarsi di questa spaventosa malattia. Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 È un vero peccato che ci manchino le conoscenze per curare questi sfortunati pazienti. Un chirurgo può aprire un addome ed esibire la milza. I muscoli possono essere resecati e mostrati agli studenti. La psiche umana non può essere dissezionata né si può esporre su un tavolo il funzionamento del cervello. Da bambino, facevo dei giochi in cui una benda sugli occhi mi impediva di vedere. Ora sono come il bambino di allora. Bendato, avanzo a tentoni, senza sapere dove sto andando, né se vado nella direzione giusta. Un giorno, qualcuno toglierà quella benda. Dottor Joseph Workman, Medico Primario, Manicomio Provinciale di Toronto; Lettera a «Henry», un giovane corrispondente turbato, 1866 Non occorre essere una stanza, per avere fantasmi Non occorre essere una casa. La mente ha corridoi, che vanno oltre Lo spazio materiale ... Noi stessi dietro di noi, celati
Dovrebbe farci più paura: Un assassino nascosto in casa nostra È il minore degli orrori... Emily Dickinson, ca. 1863 6 Al Dottor Simon Jordan, Laburnum Home, Loomisville, Massachusetts, Stati Uniti d'America; dal Dottor Joseph Workman, Medico Primario, Manicomio Provinciale, Toronto, Canada Occidentale 15 aprile 1859 Caro Dottor Jordan, ho ricevuto la sua del 2 scorso e la ringrazio per la lettera di presentazione a firma del mio stimato collega, il Dottor Binswanger, dalla Svizzera; ho seguito con grande interesse il sorgere della sua nuova clinica. Mi permetta di dirle che, in qualità di conoscente del Dottor Binswanger, lei sarà il benvenuto quando vorrà, in qualunque momento, prendere visione dell'Istituto di cui sono il Primario. Mi farà molto piacere farle da guida io stesso, e spiegarle i nostri metodi. Poiché intende aprire una clinica sua, devo mettere l'accento sul fatto che l'igiene e un buon sistema di condutture sono della massima importanza, dato che non serve a niente cercare di curare una mente malata, mentre il corpo è affetto da infezioni. Questo aspetto della questione viene troppo spesso trascurato. Al tempo del mio arrivo qui, abbiamo avuto molti casi di Colera, di Dissenteria Perforante, di Diarrea incurabile, e tutta la mortale famiglia delle malattie Tifoidi, che infestavano il manicomio. Durante le mie indagini sulle origini di questi mali, ho scoperto un vasto e micidiale ristagno di liquami che si estendeva sotto tutte le cantine, e in alcuni punti aveva la consistenza di un tè nero e forte, in altri di un sapone liquido e viscoso, e non aveva via di scolo perché i costruttori non erano riusciti a collegare i tubi alla rete fognaria principale; in aggiunta a ciò, la provvista d'acqua, sia potabile sia per lavarsi, proveniva da un tubo di carico che pescava nel lago, in una insenatura di acque stagnanti, vicino al tubo con cui la rete fognaria principale scaricava le sue acque putride. Non c'è da stupirsi che i ricoverati si lamentassero spesso che l'acqua che bevevano aveva gusto di una sostanza che pochi fra loro avevano mai desiderato assag-
giare! Qui sono ricoverati uomini e donne più o meno nello stesso numero; per quanto riguarda i sintomi, c'è una gran varietà. Ho constatato che il fanatismo religioso, come causa scatenante della pazzia, è efficace quanto l'intemperanza, ma tendo a credere che né la religione né l'intemperanza bastino a provocare la pazzia in una mente sana, e penso che ci sia sempre una causa che predispone l'individuo e lo rende vulnerabile alla malattia, quando è esposto ad agenti disturbanti, sia mentali sia fisici. Tuttavia, temo che lei debba cercare altrove le informazioni concernenti l'oggetto principale delle sue richieste. Grace Marks, la prigioniera condannata per omicidio, è stata riportata al Penitenziario di Kingston nell'agosto del 1853, dopo un soggiorno di quindici mesi. Poiché io ho ricevuto questo incarico soltanto tre settimane circa prima della sua partenza, non ho avuto molte possibilità di studiare a fondo il suo caso. Ho quindi girato la sua lettera al Dottor Samuel Bannerling, che si occupava di lei sotto il mio predecessore. Circa la gravità della follia da cui era affetta in un primo tempo, non sono in grado di pronunciarmi. La mia impressione fu che da un considerevole periodo di tempo a quella parte fosse sufficientemente sana da poter essere tolta dal Manicomio. Io avevo raccomandato caldamente di usare con lei la dolcezza come metodo disciplinare; e credo che attualmente passi parte del giorno come domestica nella famiglia del Direttore. Verso la fine del suo soggiorno, il suo comportamento era stato molto corretto, mentre la sua operosità e cortesia verso i pazienti avevano fatto di lei un membro utile e produttivo della comunità. Soffre occasionalmente di sovreccitazione nervosa, e di una fastidiosa accelerazione del battito cardiaco. Uno dei problemi principali cui si trova di fronte il primario di un'istituzione pubblica come questa, è la tendenza da parte dei responsabili delle prigioni a far carico a noi di molti delinquenti molesti, fra cui gli autori di atroci assassini, ladri, rapinatori, gente che non fa parte dei nostri innocenti e incontaminati malati di mente, al puro e semplice scopo di liberarsene. È impossibile che un edificio costruito avendo in mente il benessere e la guarigione dei malati di mente, possa essere un luogo di reclusione per i pazzi criminali; e sicuramente ancor meno per gli impostori criminali, e personalmente tendo a sospettare che quest'ultima categoria sia molto più numerosa di quanto si possa pensare in genere. Oltre alle conseguenze negative della commistione fra pazzi innocenti e pazzi criminali, che ricadono inevitabilmente sui pazienti, c'è anche motivo di temere l'influenza negativa
sul carattere e sui comportamenti dei guardiani e del personale del Manicomio, che di conseguenza non è più in grado di accudire con attenzione e umanità ai pazienti. Ma poiché lei si ripropone di metter su una clinica privata, andrà incontro, mi auguro, a minori difficoltà di questa natura, e risentirà meno delle irritanti interferenze politiche che spesso impediscono di rimuovere tali difficoltà; e in questo, come in tutto il resto, le auguro che i suoi sforzi abbiano pieno successo. In questo momento, sfortunatamente, c'è molto bisogno di imprese come la sua, sia nel nostro Paese sia nel suo, perché, visto l'aumento dei livelli di ansia nella vita moderna, e del conseguente stress sui nervi, il ritmo con cui le cliniche vengono costruite non tiene il passo con le richieste di ricovero; e mi permetto di offrirle tutti quei piccoli servigi che può essere in mio potere renderle. Devotamente suo, Dottor Joseph Workman Dalla signora William P. Jordan, Laburnum House, Loomisville, Massachusetts, al Dottor Simon Jordan, presso il Maggiore C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale. 29 aprile 1859 Carissimo Figlio mio, La tanto attesa lettera in cui mi comunichi il tuo attuale indirizzo e mi mandi le istruzioni per la pomata antireumatica è arrivata oggi. È stata una gioia rivedere la tua cara scrittura, anche se erano poche righe, e sei così buono a interessarti della salute declinante della tua povera Mamma. Colgo l'occasione per scriverti poche parole, mentre ti accludo la lettera che è arrivata qui per te il giorno dopo che te ne sei andato. La tua recente visita è stata così breve, troppo! quando possiamo aspettarci di rivederti di nuovo in mezzo alla famiglia e agli amici? Viaggiare così tanto non può farti bene, né alla salute né per la tua pace mentale. Non vedo l'ora che arrivi il giorno in cui ti deciderai a stabilirti fra noi, e a sistemarti convenientemente e in modo adeguato. Non ho potuto non notare che la lettera che ti allego viene dal Manicomio di Toronto. Immagino che tu voglia visitarlo, anche se ormai devi aver visto tutti i manicomi possibili e immaginabili del mondo, e non capisco a che ti serva vederne un altro. La tua descrizione di quelli francesi e inglesi,
e perfino di quello svizzero, che è molto più pulito, mi ha riempita di orrore. Dobbiamo pregare tutti quanti che la nostra salute mentale ci venga conservata; ma io ho dei grossi dubbi sui tuoi progetti per il futuro, se tu dovessi mettere in pratica i tuoi propositi. Devi perdonarmi se ti dico, caro Figlio mio, che non sono mai riuscita a capire perché ti interessano tanto certe cose. Finora nessuno in famiglia si è mai occupato di pazzi, anche se tuo nonno era un sacerdote Quacchero. È lodevole desiderare di dar sollievo alle umane sofferenze, ma certamente i pazzi, come gli idioti e gli storpi, debbono la loro condizione alla Divina Provvidenza, e non si dovrebbe cercare di interferire con decisioni che sono sicuramente giuste, anche se ci appaiono imperscrutabili. Inoltre, non riesco a credere che un Manicomio privato possa mai rendere, dato che, come ben sappiamo, i parenti dei matti, una volta che il malato è stato messo via, tendono a dimenticarlo, e non vogliono più vederlo né sentirne parlare; e questo atteggiamento investe anche il pagamento dei conti; e poi c'è il costo del cibo e del combustibile, e delle persone che devono occuparsi di loro. Ci sono tante considerazioni da fare, e certamente stare ogni giorno in compagnia dei matti non è il modo migliore per assicurarsi un'esistenza tranquilla. E devi pensare anche alla tua futura moglie e ai tuoi figli, che non dovrebbero trovarsi gomito a gomito con un branco di matti pericolosi. So che non compete a me indicarti la strada da seguire nella vita, ma insisto con tutte le mie forze che sarebbe preferibile un'industria, anche se le fabbriche tessili non sono più quelle di una volta, grazie alla cattiva gestione dei politici, che approfittano senza pietà della fiducia del pubblico e peggiorano ogni anno che passa; però in questo momento ci sono tante altre opportunità, e alcuni hanno saputo coglierle molto bene, si sente tutti i giorni di gente che ha fatto fortuna, e io sono sicura che tu non sei da meno in fatto di energia e di abilità. Si parla di una nuova Macchina da Cucire per uso domestico, che avrebbe un gran successo se si potesse produrre a basso costo, perché ogni donna vorrebbe possedere una cosa così, le risparmierebbe tante ore di lavoro monotono e ripetitivo, e farebbe anche tanto comodo alle povere sarte. Non potresti investire la piccola eredità che ti resta dopo la vendita dell'attività del tuo povero Padre in un'impresa meritoria ma sicura come questa? Sono sicura che una Macchina da Cucire allevierebbe le sofferenze umane quanto cento manicomi, e forse anche di più. Certo tu sei sempre stato un idealista, pieno di sogni ottimistici; ma pri-
ma o poi bisogna prendere in considerazione la realtà, e hai già compiuto trent'anni. Queste cose le dico, non perché io voglia immischiarmi o interferire, ma perché una Madre è per forza ansiosa sul futuro del suo unico e amato Figlio. Spero così tanto di vederti ben sistemato prima che io muoia, come sarebbe anche il desiderio del tuo caro Padre; lo sai che vivo solo in funzione di te, perché tu stia bene. La mia salute è peggiorata dopo la tua partenza; la tua presenza mi tira sempre su il morale. Ieri tossivo così tanto che la mia fedele Maureen quasi non riusciva a farmi salire le scale; è vecchia e debole quasi come me, e dovevamo sembrare due vecchie streghe che arrancavano su per un colle. Nonostante i decotti che prendo più volte al giorno, preparati dalla mia buona Samantha giù in cucina - sono cattivissimi, proprio come devono essere le medicine, e lei giura che hanno fatto guarire sua Madre - sono sempre più o meno nelle stesse condizioni; oggi però stavo abbastanza bene da ricevere in salotto, come al solito. Sono venuti diversi visitatori, gente che aveva sentito della mia indisposizione, fra cui la signora Henry Cartwright, che ha tanto buon cuore, anche se le sue maniere non sono sempre raffinate, come spesso succede a quelli che sono diventati ricchi di recente; ma queste cose verranno col tempo. L'accompagnava sua figlia Faith, che ti ricorderai come una goffa ragazzina di tredici anni, ma che ora è cresciuta ed è tornata da poco da Boston, dove stava a casa di sua Zia, per completare la sua educazione. È diventata una deliziosa giovane donna, con tutte le qualità che si possono desiderare, e ha mostrato una cortesia, una gentilezza che chiunque ammirerebbe, e che vale tanto di più di una bellezza vistosa. Hanno portato un cestino di cose buone - la signora Cartwright mi sta proprio viziando - per cui io ho espresso molta gratitudine, anche se non sono quasi riuscita ad assaggiare niente, perché in questo periodo non ho appetito. È brutto essere invalidi, e io prego ogni sera che non tocchi mai a te, e che tu abbia cura di non stancarti troppo con lo studio e la tensione nervosa, e restando alzato tutta la notte alla luce della lampada, a rovinarti gli occhi e arrovellarti il cervello, e che porti la maglia di lana sulla pelle finché non arriva la bella stagione. Sono spuntate le prime lattughe, e il melo è coperto di gemme; immagino che lì dove sei tu sia ancora tutto sepolto sotto la neve. Non credo che Kingston, così a nord e vicino al lago, sia un posto salutare per i polmoni, perché dev'essere molto freddo e umido. Il tuo appartamento è ben riscaldato? Spero che tu mangi cibo nutriente, e
che ci sia un buon macellaio, lì. Ti mando tutto il mio affetto, caro Figlio, e Maureen e Samantha ti mandano i loro saluti; aspettiamo tutte la notizia, che speriamo arrivi prestissimo, di una tua prossima visita, e fino ad allora io resto, come sempre, La tua affezionatissima Mamma Dal Dottor Simon Jordan, presso il Maggiore C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale, al Dottor Edward Murchie, Dorchester, Massachusetts, Stati Uniti d'America. 1 maggio 1859 Caro Edward, Mi è spiaciuto di non poter fare una visita a Dorchester, a vedere come ti andavano le cose, adesso che hai appeso la tua targhetta al muro e ti dai da fare per alleviare le sofferenze degli zoppi e dei ciechi del posto, mentre io facevo la bohème per l'Europa alla ricerca del metodo per esorcizzare i diavoli, metodo di cui, detto fra noi, non ho ancora scoperto il segreto; ma, come puoi immaginare, il tempo fra il mio arrivo e la mia partenza da Loomisville è stato quasi tutto occupato dai preparativi, e per forza di cose i pomeriggi sono stati dedicati a mia madre. Ma al mio ritorno dobbiamo fare in modo di vederci, e di alzare i calici ai bei vecchi tempi, e parlare delle avventure passate e degli attuali progetti. Dopo una traversata del lago moderatamente tranquilla, sono arrivato sano e salvo a destinazione. Finora non ho incontrato il mio corrispondente, che in effetti è anche il mio datore di lavoro, il Reverendo Verringer, che si trova in visita a Toronto, e pertanto ho ancora questo piacere da pregustare; anche se, a giudicare dalle sue lettere, come molti altri religiosi soffre di una deplorevole mancanza di senso dell'umorismo e del desiderio di trattarci tutti quanti come pecorelle smarrite, facendoci da pastore. Comunque, è a lui - e al buon Dottor Binswanger, che mi ha presentato come l'uomo più adatto allo scopo sulla costa occidentale dell'Atlantico - per un prezzo per niente alto, dato che i Metodisti sono notoriamente frugali - che devo questa splendida opportunità; un'opportunità che spero di saper sfruttare al meglio, nell'interesse del progresso della conoscenza, perché la mente e il suo funzionamento sono ancora, nonostante i considerevoli progressi, una terra incognita.
Quanto alla vita che faccio... Kingston non è granché come città, perché è stata distrutta da un incendio una ventina di anni fa ed è stata ricostruita in fretta e furia senza badare all'estetica. I nuovi edifici sono di pietra o di mattoni, il che, si spera, dovrebbe impedir loro di andare a fuoco in un batter d'occhio. Il Penitenziario è nello stile di un tempio greco, e qui ne sono orgogliosissimi, anche se io non ho ancora scoperto quale dio pagano si dovrebbe adorare lì dentro. Mi sono procurato un alloggio a casa di un certo Maggiore C.D. Humphrey; pur non essendo lussuoso, è sufficientemente comodo per quel che mi serve. Però ho paura che il mio padrone di casa sia un dipsomane; nelle due occasioni in cui l'ho incontrato, aveva dei problemi a infilarsi i guanti, o a sfilarseli, sembrava incerto su quale delle due cose; e mi ha lanciato un'occhiataccia con occhi iniettati di sangue, come se si chiedesse che diavolo ci facevo a casa sua. Prevedo che finirà per diventare un pensionante della clinica privata che continuo a sognare di metter su; ma devo tenere a freno la mia tendenza a vedere in ogni persona nuova un futuro ospite pagante. È interessante notare quanto spesso i militari, quando vanno in pensione con metà stipendio, finiscano male; è come se, essendosi abituati all'eccitazione nervosa e alle emozioni violente, debbano riprodurre queste cose nella vita civile. Comunque, io i miei accordi non li ho presi col Maggiore, che non sarebbe certamente riuscito a ricordarsene, ma con quella povera donna piena di sopportazione di sua moglie. I pasti li prendo - a eccezione della colazione, che finora è stata ancora più scadente di quelle che condividevamo quando studiavamo medicina a Londra - in una squallida osteria situata nelle vicinanze, dove ogni pasto è un olocausto bruciacchiato, e dove si ritiene che un po' di polvere e di sporco, e qualche insetto per condimento, non danneggino nessun piatto. Dal fatto che io rimanga qui nonostante questa parodia dell'arte culinaria, confido che tu sarai in grado di dedurre l'entità della mia reale devozione alla causa della scienza. Quanto alla gente che frequento, devo segnalare che qui ci sono ragazze carine esattamente come in altri posti, pur se vestite alla moda di Parigi di tre anni fa, vale a dire quella di New York di due anni fa. Nonostante le tendenze riformiste dell'attuale governo del Paese, la città abbonda sia in conservatori ingrugnati, sia in meschini snobismi di provincia; e prevedo che il tuo amico un po' orso e trasandato nel vestire, e soprattutto yankee e democratico, sarà guardato con un certo sospetto dai suoi abitanti più di parte.
Ciononostante, il Direttore - dietro insistenza del Reverendo Verringer, suppongo - si è dato un gran da fare per venirmi incontro, e ha fatto in modo che Grace Marks sia messa a mia disposizione per diverse ore ogni pomeriggio. Sembra che faccia da domestica non pagata in casa, anche se non ho ancora capito se questo lavoro lei lo interpreta come un favore che le viene accordato o come una punizione; né sarà facile capirlo, perché la dolce Grace, essendo stata temprata nel fuoco da ormai quindici anni o giù di lì, sarà un osso veramente duro. Il tipo di ricerca che faccio io non serve a niente, a meno che non si riesca a ottenere la fiducia del soggetto; ma a giudicare dalla mia conoscenza delle istituzioni penali, sospetto che Grace abbia avuto ben pochi motivi di accordare fiducia a qualcuno da un bel po' di tempo. Finora ho potuto vedere una volta sola l'oggetto delle mie indagini, quindi è troppo presto per metter giù le mie impressioni. Per il momento, diciamo solo che ho qualche speranza; e, dato che sei stato tanto gentile da chiedermi di farti avere notizie dei miei progressi, ti terrò senz'altro al corrente; e nel frattempo, mio caro Edward, resto Il tuo vecchio amico e compagno dei bei tempi, Simon 7 Simon siede allo scrittoio, intento a masticare l'estremità della penna e a guardare, oltre la finestra, l'acqua grigia e increspata del lago Ontario. Al di là della baia c'è Wolfe Island, così chiamata, immagina, in onore del famoso generale poeta. È un panorama che non gli piace: troppo esasperatamente orizzontale; ma la monotonia visiva a volte può stimolare il pensiero. Una raffica di pioggia tamburella contro il vetro; nuvole basse e sfrangiate corrono veloci sul lago. Il lago stesso si agita e si gonfia; le onde si infrangono contro la riva, ricadono, tornano a infrangersi; e in basso i salici si scuotono come teste dai lunghi capelli verdi, si piegano e si dimenano. Qualcosa di chiaro passa in volo: sembra una sciarpa o il velo bianco di una donna, ma poi vede che è solo un gabbiano, che lotta contro il vento. L'incosciente tumulto della Natura, pensa; le zanne e gli artigli di cui parla Tennyson. Non è affatto speranzoso e pimpante come ha appena scritto. È a disagio, invece, e non poco scoraggiato. Il suo motivo per essere qui sembra
quantomeno precario; ma è quanto di meglio possa fare al momento. Quando ha intrapreso gli studi medici, è stato per giovanile spirito di contraddizione. A quel tempo suo padre era un ricco industriale, e si aspettava senz'altro che Simon prendesse il suo posto a tempo debito; e anche Simon se lo aspettava. Prima, però, si sarebbe ribellato un po', sarebbe uscito dal seminato, avrebbe viaggiato, studiato, si sarebbe messo alla prova nel mondo, compreso quello della scienza e della medicina, che lo aveva sempre attratto. Poi sarebbe tornato a casa, con un bel giocattolo da usare, e la confortante certezza di non essere costretto a giocare per soldi. Molti dei migliori scienziati, lui lo sa, hanno una rendita personale, che consente loro di condurre ricerche senza scopo di lucro. Non si era aspettato il crollo di suo padre, né dell'industria tessile di suo padre; non sa bene quale dei due sia avvenuto prima. Invece di farsi una bella remata lungo un tranquillo ruscello, è stato colto di sorpresa da un naufragio in mare aperto, ed è rimasto aggrappato all'albero spezzato. In altre parole, può contare soltanto sulle proprie risorse, precisamente quello che desiderava di più, stando alle discussioni avute con suo padre nell'adolescenza. La fabbrica è stata venduta, e anche la maestosa casa della sua infanzia, insieme con tutto il personale: le cameriere, le sguattere, le domestiche, quella schiera composita e cangiante di ragazze o donne sorridenti che si chiamavano Alice o Effie o nomi così, che l'avevano coccolato e tiranneggiato nell'infanzia e nella gioventù; gli sembra quasi che debbano essere state vendute anche loro insieme alla casa. Avevano odore di fragole e di sale; avevano lunghi capelli ondulati, quando li scioglievano, o perlomeno, una di loro li aveva, forse Effie. Quanto all'eredità, è meno di quanto pensa sua madre, e gran parte della rendita che ne ricava passa a lei. Lei si considera decaduta, il che è vero, in rapporto a come vivevano prima. Crede di fare dei sacrifici per Simon, e lui non vuole toglierle l'illusione. Suo padre si era fatto da sé, ma sua madre è stata costruita da altri, e gli edifici di questo tipo sono notoriamente fragili. Perciò attualmente la clinica privata è molto al di là delle sue possibilità. Per ottenere i finanziamenti dovrebbe essere in grado di offrire qualcosa di nuovo, qualche nuova scoperta o cura, in un campo che è già affollato e anche molto competitivo. Forse, quando si sarà fatto un nome, riuscirà a vendere delle quote. Ma senza perdere il controllo: dev'essere libero, assolutamente libero di seguire i suoi metodi, una volta che abbia deciso con precisione quali saranno. Metterà giù un opuscolo pubblicitario: ampie e
confortevoli stanze, aerazione e tubature adeguate, e un grande parco con un fiume che scorre nel mezzo, perché il rumore dell'acqua distende i nervi. Niente macchinari e roba all'ultimo grido, però: nessun aggeggio elettrico, niente che abbia dei magneti. È vero che il pubblico americano si lascia indebitamente impressionare da cose così: piacciono le cure che si possono somministrare tirando una leva o schiacciando un bottone, ma Simon non crede alla loro efficacia. Nonostante la tentazione, deve rifiutarsi di scendere a compromessi e mantenere la sua integrità. Per il momento tutto questo è soltanto una chimera. Ma deve pur avere un progetto da sventolare sotto il naso di sua madre. Lei ha bisogno di credere che lui lavora per uno scopo, anche se è uno scopo che disapprova. Ovviamente potrebbe sempre fare un buon matrimonio, come ha fatto lei stessa. Lei ha barattato il nome e le conoscenze di famiglia per un mucchio di soldi freschi di conio, e si presterebbe più che volentieri a combinare una cosa del genere per lui: quella specie di mercato dei cavalli che sta diventando sempre più frequente fra gli aristocratici europei squattrinati e i milionari americani che si sono fatti dal niente, non è sconosciuto, su una scala più modesta, a Loomismille, Massachusetts. Lui pensa ai denti in fuori e al collo da papera della signorina Faith Cartwright, e rabbrividisce. Consulta l'orologio: la colazione è di nuovo in ritardo. La fa in camera sua, dove gli arriva ogni mattina, portata su un vassoio di legno da Dora, la ragazza tuttofare della sua padrona di casa. Con un tonfo e un tintinnio di piatti mette giù il vassoio su un tavolino in fondo al soggiorno, dove, non appena lei se n'è andata, lui si siede a divorarne il contenuto, o meglio quelle parti di esso che gli sembrano commestibili. Ha preso l'abitudine di scrivere prima di colazione, all'altro tavolo, il più grande, cosicché appare chino sul suo lavoro e non è obbligato a guardarla. Dora è robusta e ha una faccia di luna piena, con una boccuccia girata all'ingiù, come una bambina scontenta. Le sue spesse sopracciglia nere si incontrano sopra il naso, conferendole un cipiglio permanente che esprime un senso di offesa e disapprovazione. È ovvio che detesta essere una ragazza tuttofare; lui si chiede se c'è qualcos'altro che le piaccia di più. Ha cercato di immaginarla nei panni di una prostituta - fa spesso questo giochetto privato, con parecchie delle donne che incontra - ma non riesce a immaginare nessun uomo che voglia pagare per i suoi servigi. Sarebbe come pagare per essere travolto da un carro, e, proprio come quell'esperienza, sarebbe un vero e proprio attentato alla salute. Dora è una creatura
possente, potrebbe spezzare in due la spina dorsale di un uomo con un guizzo di cosce, che Simon immagina grigiastre, come salsicce bollite, e cosparse di corti peli ispidi, come un tacchino fiammeggiato; ed enormi, delle dimensioni di un maialino ciascuna. Dora ricambia la sua avversione. Sembra ritenere che lui abbia affittato questo appartamento al solo e unico scopo di darle fastidio. Fa bollire e stufare le sue sciarpe e mette troppo amido nelle sue camicie, dopo averne perso i bottoni, che senza dubbio stacca lei stessa abitualmente. L'ha anche sospettata di fare apposta a bruciare il suo pane tostato e stracuocere le sue uova. Dopo aver lasciato cadere di schianto il vassoio, bercia «Qui c'è da mangiare», come se chiamasse un maiale; poi esce con passo pesante sbatacchiando la porta. Dopo i domestici europei, che sanno stare al loro posto fin dalla nascita, Simon non si è ancora riabituato a quelle rancorose dimostrazioni di uguaglianza così frequentemente messe in atto da questa parte dell'oceano. Tranne che negli Stati del Sud, naturalmente, ma lui, lì, non ci va. Si poteva trovare un alloggio migliore di questo, a Kingston, ma non voleva pagare di più. Questo andrà benissimo per il poco tempo che intende rimanere. Inoltre, non ci sono altri pensionanti, e per lui sono importanti la sua privacy e la tranquillità che gli permette di concentrarsi. La casa è di pietra, e quindi fredda e umida; ma Simon, per temperamento - dev'essere la sua eredità del New England - prova un certo disprezzo per le comodità materiali; quand'era studente in medicina si è abituato a un'austerità monacale e a lavorare fino a tardi in condizioni disagevoli. Si rimette al tavolo. Mamma carissima, esordisce. Grazie per la tua lunga lettera piena di notizie. Io sto benissimo qui, e sto facendo notevoli progressi nello studio delle malattie nervose e cerebrali fra i pazienti criminali, studio che, se di tali malattie si può scoprire la causa, farebbe molto per alleviare... Non ce la fa a continuare; si sente troppo disonesto. Ma qualcosa deve pur scrivere, o lei penserà che sia annegato, o morto improvvisamente di tisi, o sia caduto vittima di un agguato dei rapinatori. Il tempo è sempre un buon argomento; ma non riesce a parlare del tempo a stomaco vuoto. Dal cassetto dello scrittoio tira fuori un opuscoletto che risale all'epoca degli omicidi, e che gli è stato mandato dal Reverendo Verringer. Contiene le confessioni di Grace Marks e James McDermott, e anche un riassunto
del processo. Sul frontespizio c'è un ritratto di Grace, che potrebbe benissimo passare per l'eroina di un romanzo sentimentale; all'epoca aveva appena sedici anni, ma la donna dell'incisione sembra più vecchia di almeno cinque anni. Ha le spalle coperte da una mantellina, e il bordo della cuffia le disegna un'aureola scura intorno alla testa. Ha il naso diritto, la bocca leggiadra, l'espressione intensa e malinconica che è di rigore: una Maddalena assorta e vacua, con i grandi occhi persi nel nulla. A fianco, il ritratto di James McDermott, con uno di quei colletti rigonfi che andavano di moda allora e i capelli riportati in avanti con una pettinatura che fa pensare a quella di Napoleone, e che dovrebbe dare l'idea di un'indole burrascosa. È corrucciato e meditabondo, alla Byron; evidentemente l'artista lo ammirava. Sotto i due ritratti è scritto, in un corsivo ornato: Grace Marks, alias Mary Whitney; James McDermott. Come comparvero in Tribunale, accusati degli omicidi del Signor Thomas Kinnear e di Nancy Montgomery. Il tutto ricorda in modo inquietante una partecipazione di matrimonio; a parte i ritratti, s'intende. Mentre si preparava al primo colloquio con Grace, Simon non ha prestato alcuna attenzione a questo ritratto. Ora sarà completamente diversa, ha pensato; più trasandata, meno composta, più simile a una postulante; e forse anche pazza. È stato condotto nella sua cella temporanea da un secondino, che lo ha chiuso dentro con lei, dopo averlo avvisato che è più forte di quel che sembra e morde come un'indemoniata, e avergli consigliato di chiedere aiuto se diventa violenta. Non appena l'ha vista, ha capito che non sarebbe successo. La luce del mattino entrava obliquamente dalla finestrella lassù in alto, illuminando l'angolo in cui lei si trovava. Un'immagine che aveva qualcosa di medievale nella semplicità delle linee, nell'angolosa nitidezza: una monaca in un chiostro, una fanciulla rinchiusa in una torre, in attesa di essere mandata al rogo il giorno dopo, o di essere salvata da un cavaliere all'ultimo momento. La donna con le spalle al muro; il vestito penitenziale che scendeva diritto, nascondendo piedi certamente nudi; il materasso di paglia sul pavimento; le spalle incurvate dal timore; le braccia strette contro il corpo sottile, le lunghe ciocche di capelli rosso scuro, sfuggenti da quella che a prima vista sembrava una coroncina di fiori bianchi; e soprattutto gli occhi, enormi nel pallore della faccia, dilatati dalla paura, o colmi di muta supplica; tutto era come doveva essere. A Parigi, alla Salpètrière, aveva visto molte isteriche proprio come lei.
Si è avvicinato con espressione calma e sorridente, offrendole un'immagine di benevolenza: un'immagine vera, dopotutto, perché si sentiva effettivamente benevolo. È importante convincere questi pazienti che tu perlomeno non li credi pazzi, dato che loro non si ritengono tali. Ma poi Grace ha fatto un passo avanti, fuori dal raggio di luce, e la donna che aveva visto un attimo prima improvvisamente non c'era più. Al suo posto c'era una donna diversa: più eretta, più alta, più padrona di sé, che indossava il solito vestito del Penitenziario, con una gonna a righe blu e bianche sotto la quale spuntavano due piedi niente affatto nudi, ma infilati in comunissime scarpe. Perfino i capelli non erano così scomposti come aveva pensato, ma al contrario quasi tutti raccolti sotto una cuffia bianca. Aveva occhi insolitamente grandi, questo era vero, ma non erano affatto occhi di pazza. Invece, lo stavano apertamente esaminando. Era come se contemplasse il soggetto di qualche esperimento sconosciuto; come se fosse lui, e non lei, a essere sotto osservazione. Al ricordo di quella scena, Simon trasale. Mi sono lasciato andare, pensa. Immaginazione e fantasia. Devo attenermi ai fatti visibili, devo procedere con cautela. Un esperimento per essere valido deve avere risultati verificabili. Non devo lasciarmi trasportare dal melodramma, e da una mente sovreccitata. Un trapestio dietro la porta, poi dei colpi. Dev'essere la colazione. Volta la schiena, e sente che il collo gli si ritrae nel colletto come quello di una tartaruga nel guscio. «Qui c'è da mangiare», sbraita Dora. Il vassoio cala con fracasso; lei se ne va a passo di carica, e la porta si richiude con un colpo secco alle sue spalle. Simon ha un'involontaria e rapida visione di lei, appesa per le caviglie in una macelleria, con chiodi di garofano infilzati e coperta di cotenna come un prosciutto. Le associazioni di idee sono davvero interessanti, pensa, una volta che si comincia a osservare come funzionano nella nostra testa. Per esempio: Dora - maiale - prosciutto. Il secondo termine è essenziale per passare dal primo al terzo, anche se dal primo al secondo, e dal secondo al terzo, il salto non è grande. Bisogna che si prenda un appunto: Termine mediano essenziale. Forse un malato mentale è solo uno per cui questi giochetti di associazione mentale passano il confine che separa il letterale dal puramente immaginario, come può succedere sotto l'influsso della febbre, della trance sonnambolica, e di certe droghe. Ma qual è il meccanismo? Perché ci deve essere un meccanismo. Si deve cercare la chiave nel sistema nervoso, o nello stesso
cervello? Che cosa dev'essere danneggiato per primo, e in che modo, perché si arrivi alla pazzia? La colazione si starà raffreddando, ammesso che Dora non l'abbia fatta raffreddare prima apposta. Si tira su dalla sedia, districando le lunghe gambe, si stira, sbadiglia e si sposta all'altro tavolo, quello su cui c'è il vassoio. Ieri il suo uovo era duro come gomma; ne ha parlato alla padrona di casa, la scialba signora Humphrey, e lei deve aver ammonito Dora, perché oggi l'uovo è così poco cotto da non essere quasi rappreso, e ha un colorito bluastro che lo fa somigliare a un globo oculare. Maledizione a quella donna, pensa. Musona, animalesca, vendicativa; una mente che non ha un'esistenza razionale, però astuta, sfuggente ed elusiva. Non c'è modo di metterla alle strette. È un maiale da ingrasso. Un pezzo di pane tostato si spezza sotto i suoi denti col rumore di una tegola in frantumi. Cara Mamma, compone mentalmente, il tempo qui è bellissimo, non c'è quasi più neve, la primavera è nell'aria, il lago è tiepido di sole, e ormai i vigorosi germogli verdi dei... Di che cosa? Non ne ha mai saputo granché, di fiori. 8 Sono nella stanza del cucito, su in cima alle scale in casa della moglie del Direttore, siedo sulla solita sedia al solito tavolo, con il necessario per cucire nel cestino, come sempre, a parte le forbici. Quelle, insistono nel tenerle fuori dalla mia portata, così se ho da tagliare un filo o rifilare un orlo devo chiederle al Dottor Jordan, che le tira fuori dalla tasca della giacca e ce le rimette quando ho finito. Lui dice che a suo parere tutta questa tiritera non è necessaria, in quanto mi considera del tutto innocua e padrona di me stessa. Sembra un uomo fiducioso. Ma certe volte mi limito a spezzare il filo coi denti. Il Dottor Jordan ha detto loro che desidera un'atmosfera calma e rilassata, è più utile per arrivare al suo scopo, qualunque sia, perciò si è raccomandato di lasciare inalterata, per quanto possibile, la mia routine giornaliera. Continuo a dormire nella mia cella, indosso gli stessi vestiti e faccio la stessa colazione, in silenzio, se si può chiamarlo silenzio, con quaranta donne, quasi tutte dentro per aver rubato, niente di più, che siedono masticando il loro pane a bocca aperta e sorbendo rumorosamente il tè, tanto per fare un po' di chiasso visto che non possono parlare, mentre viene letto ad alta voce un brano edificante della Bibbia.
In quei momenti puoi immergerti nei tuoi pensieri, ma se ridi devi far finta di tossire, o che ti è andato qualcosa per traverso, il che è meglio, perché in tal caso ti battono sulla schiena, mentre se tossisci chiamano il dottore. Un tozzo di pane, una tazza di tè leggero, carne a cena ma non tanta, perché mangiare troppo cibo nutriente stimola gli organi criminali del cervello, o perlomeno così dicono i dottori, e le guardiane e le secondine poi lo ripetono a noi. In tal caso, perché i loro organi criminali non vengono stimolati di più? Si ingozzano di carne e pollo e pancetta e uova e formaggio. Ecco perché sono così grasse. Io sono convinta che a volte prendano anche quello che è destinato a noi, cosa che non mi sorprenderebbe nemmeno un po', dato che qui dentro vige la regola cane mangia cane, e i cani più grossi sono loro. Dopo colazione vengo scortata a casa del Direttore come al solito, da due secondini, due uomini, che non disdegnano di scherzare tra loro quando chi sta in alto non può sentirli. Be' Grace, dice uno, vedo che hai un nuovo innamorato, un dottore nientemeno, si è già messo in ginocchio davanti a te o sei tu che hai alzato le ginocchia per lui, è meglio che stia ben attento o si ritrova coricato per terra. Sì, dice l'altro, coricato in cantina senza stivali e con una pallottola nel cuore. Allora si mettono a ridere; ritengono che tutto ciò sia molto divertente. Io cerco di pensare a che cosa avrebbe detto Mary Whitney, e qualche volta mi viene e lo dico. Se davvero pensate questo di me dovreste tenere a freno la vostra linguaccia, gli ho detto, o una notte al buio ve la strappo tutta quanta dalla bocca, non ho bisogno di coltelli, mi basta afferrarla coi denti e tirare, e a parte questo vi sarei grata se metteste giù le vostre sporche manacce. Ma perché non ti diverti un po', io sarei ben contenta se fossi in te, dice il primo, siamo i soli uomini che mai ti metteranno le mani addosso per il resto della tua vita, sei chiusa là dentro come una suora, su, andiamo, confessa che avresti voglia di una scopata, non ti tiravi indietro con quella mezza cartuccia di McDermott prima che gli stirassero il collo, al bastardo assassino; e: Così si fa, Grace, dice il secondo, tientela alta, proprio come una fanciulla illibata, gambe? ma tu non ce l'hai, sei pura come un angelo sei, col cavolo, come se non avessi mai visto la camera da letto di un uomo nella locanda di Lewiston, ne abbiamo sentito parlare, ti stavi mettendo il busto e le calze quando ti hanno beccata, ma mi fa piacere vedere che ti è rimasto ancora qualcosa del tuo temperamento, non te l'hanno ancora fatto passare. Mi piace che una donna abbia un po' di spirito, dice il primo, O
magari una bottiglia intera, dice il secondo, il gin conduce al peccato, che Dio lo benedica, non c'è niente come un po' di combustibile per far ardere il fuoco. Più sono ubriache meglio è, dice il primo, e meglio ancora sbronze fatte e dure, così non devi ascoltarle, non c'è niente di peggio che una puttana che strilla. Facevi rumore, Grace, dice il secondo, gridavi e gemevi, ti agitavi sotto quel piccolo bastardo scuro di pelle, e mi guarda per vedere che cosa dirò. A volte dico che non tollero questo genere di discorsi, cosa che li fa ridere di cuore, ma di solito non dico niente. Ed è così che passiamo il tempo, fino al cancello della prigione, Chi va là, ah sei solo tu, buongiorno Grace, ti porti dietro i tuoi due giovanotti, non è così, legati ai lacci del tuo grembiule, una strizzatina d'occhio e un cenno e poi lungo le strade, ognuno dei due mi tiene stretta per un braccio, non ce n'è bisogno ma gli piace farlo, mi stanno addosso, sempre più addosso finché resto schiacciata in mezzo a loro, nel fango, nelle pozzanghere, costeggiando i mucchi di sterco di cavallo, oltre gli alberi in fiore nei cortili cintati, con le loro gemme, i fiori come bruchi di un pallido gialloverde che si spenzolano, e i cani che abbaiano e i carri e le carrozze che passano sollevando spruzzi d'acqua per la strada, e la gente che ci guarda fisso perché si capisce subito da dove veniamo, si vede dai miei vestiti, finché risaliamo il lungo viale d'accesso con le sue bordure fiorite e svoltiamo verso l'ingresso di servizio, ed Eccola qui, sana e salva, ha cercato di fuggire, non è vero Grace, voleva scapparci, è una gran furba con quei suoi occhioni blu, be', sarai più fortunata la prossima volta, ragazza mia, avresti dovuto tirarti più su le gonne e farci vedere un bel paio di tacchi e un po' di caviglia, tanto che c'eri, dice il primo. Oh no, ancora più su, dice il secondo, dovevi alzartele fino al collo, avresti dovuto prendere il largo come una nave a vele spiegate, culo al vento, noi saremmo stati folgorati dalle tue abbaglianti grazie, una botta in testa come agnelli al macello, colpiti dal fulmine saremmo stati, e tu te la saresti squagliata senza fatica. Ammiccano fra loro e ridono, hanno fatto il loro spettacolino. Per tutto questo tempo si sono parlati fra di loro, non hanno parlato con me. È gente di bassa levatura. Non posso muovermi liberamente per la casa come prima. La moglie del Direttore è ancora spaventata; ha paura che io abbia un'altra crisi, e non vuole che le sue migliori tazze da tè vadano rotte; si direbbe che non abbia mai sentito urlare nessuno prima d'ora. Così in questi giorni non spolvero, non porto il vassoio del tè, non svuoto i vasi da notte e non rifaccio i letti.
Invece, mi hanno piazzata a lavorare nel retrocucina, a lavare pentole e tegami nel lavandino, oppure sto nella lavanderia. Non mi dà fastidio, mi è sempre piaciuto lavare i panni, è un lavoraccio e ti screpola le mani, ma mi piace l'odore di pulito che si sente dopo. Aiuto la lavandaia in carica, la vecchia Clarrie, che è una meticcia e una volta era una schiava, prima che eliminassero la faccenda da queste parti. Non ha paura di me, lei, non la disturbo né le importa di quel che posso aver fatto, anche se ho ammazzato un uomo ricco, si limita a fare un cenno con la testa, come per dire: Uno di meno. Dice che lavoro sodo e faccio la mia parte e non spreco sapone, e sono capace a maneggiare la biancheria delicata, ci so fare, e so anche come far andare via le macchie, perfino dai pizzi di seta cruda, che non è facile smacchiare; e che sono brava a inamidare, e ci si può fidare di me perché non brucio i panni mentre li stiro, e questo le basta. A mezzogiorno andiamo in cucina e la cuoca ci dà quel che è rimasto nella dispensa; come minimo pane e formaggio e brodo di carne, ma di solito qualcosa in più, perché Clarrie le sta simpatica e poi si sa che si arrabbia se la contrariano, e la moglie del Direttore si fida ciecamente di lei, soprattutto per i pizzi e le arricciature, e dice che è un tesoro senza uguali, e le seccherebbe molto perderla, perciò con lei non lesinano; e siccome io sono insieme a lei, non lesinano neanche con me. Il cibo è migliore di quello che mi darebbero là dentro. Ieri abbiamo mangiato la carcassa del pollo con tutto quel che c'era rimasto attaccato. Sedevamo lì a tavola come due volpi nel pollaio, a rosicchiare le ossa. Fanno tanta scena per le forbici, di sopra, ma la cucina è irta come un porcospino di coltelli e di spiedi, potrei farmene scivolare uno nella tasca del grembiule, sarebbe facile come bere un bicchier d'acqua, ma a questo naturalmente non ci pensano neanche. Occhio che non vede, cuore che non duole, è il loro motto, e qui da basso per loro è come se fosse sottoterra, e non lo sanno che i domestici, con un cucchiaio, portano via dall'ingresso di servizio più di quanto il padrone possa portar dentro con una pala dall'entrata principale; il trucco è farlo poco alla volta. Nessuno si accorgerebbe mai che manca un coltellino, e il posto migliore per nasconderlo sarebbe fra i capelli, sotto la cuffia, ben infilato, perché sarebbe una sorpresa poco piacevole se cadesse nel momento sbagliato. Abbiamo tagliato la carcassa del pollo con un coltello, e Clarrie ha mangiato i due bottoncini in fondo alla schiena, quelli che stanno vicino alla pancia, se avanzano se li prende, è la più anziana e tocca a lei scegliere per
prima. Non ci siamo scambiate molte parole, solo un sorriso, perché sgranocchiare questo pollo era un vero piacere. Io ho mangiato il grasso che era rimasto attaccato alla schiena e alla pelle, ho succhiato le costole, poi mi sono leccata le dita come una gatta; e quando abbiamo finito, Clarrie si è fatta una fumatina con la sua pipa sul gradino della porta posteriore, e poi di nuovo al lavoro. Fra tutte e due, la signorina Lydia e la signorina Marianne sporcano un sacco di biancheria, anche se per la maggior parte non la definirei sporca; credo che al mattino si provino le cose, poi cambino idea e se le tolgano; le lasciano cadere a terra, sbadatamente, e ci camminano sopra, così poi bisogna lavarle. Dopo che le ore sono passate e il sole sull'orologio del piano di sopra si è spostato fin verso la metà del pomeriggio, il Dottor Jordan arriva all'ingresso principale. Ascolto aspettando il rumore dei colpi battuti alla porta, il campanello, i passi della cameriera, e poi mi fanno salire dalle scale di servizio, con le mani lavate e bianche come neve per via del sapone del bucato e le dita tutte rugose per l'acqua calda, come una che sia appena affogata, ma sempre rosse e screpolate; e allora è tempo di cucire. Il Dottor Jordan si siede sulla sedia di fronte a me; appoggia il taccuino sul tavolo. Porta sempre qualcosa; il primo giorno un fiore secco, non so quale, era blu, il secondo giorno una pera invernale, il terzo una cipolla, non si sa mai cosa porterà, anche se propende per la frutta e verdura; e ogni volta comincia chiedendomi che ne penso di quella cosa che ha portato, e io dico qualcosa giusto per farlo contento, e lui scrive. La porta deve restare sempre aperta perché non dev'esserci neppure un vago sospetto, nessuna sconvenienza a porte chiuse; che ridere se solo sapessero quel che succede ogni giorno durante la strada per arrivare qui. La signorina Lydia e la signorina Marianne passano lungo le scale e sbirciano dentro, vogliono dare un'occhiata al dottore, sono curiose come passeri. Oh, credo di aver lasciato qui il ditale, Buon giorno Grace, spero che tu stia meglio, Ci scusi, la prego, Dottor Jordan, non volevamo disturbarla. Gli lanciano sorrisi ammalianti, si è sparsa la voce che non è sposato e ha soldi, anche se penso che nessuna delle due si accontenterebbe di un dottore yankee se potesse trovare qualcosa di meglio; comunque, gli piace sperimentare su di lui i loro fascini e le loro attrattive. Ma lui, dopo aver risposto col suo sorriso sbilenco, si acciglia. Non presta loro molta attenzione, sono solo due sciocchine, e non è per loro che lui è qui. È per me. Quindi, non vuole che i nostri discorsi vengano interrotti.
Nei primi due giorni, non c'erano molti discorsi da interrompere. Io tenevo la testa china, senza guardarlo, lavoravo ai riquadri della trapunta, la trapunta che sto facendo per la moglie del Direttore, mi mancano solo cinque riquadri per finirla. Osservavo l'ago entrare e uscire dalla stoffa, anche se credo che potrei cucire perfino dormendo, cucio da quando avevo quattro anni, piccoli punti che sembrano fatti da un topino. Bisogna cominciare giovanissime per esserne capaci, altrimenti non riesci a prenderci la mano. I colori dominanti sono una doppia tonalità di rosa, con un ramo fiorito rosa più chiaro, e indaco con colombe bianche e grappoli d'uva. Oppure guardavo sopra la testa del Dottor Jordan, fissavo il muro dietro di lui. C'è un quadro incorniciato appeso lì, fiori in vaso e una fruttiera, a punto croce, fatto dalla moglie del Direttore, e fatto malamente, perché le mele e le pesche sembrano spigolose e dure, come se fossero intagliate nel legno. Non è una delle sue prove più riuscite, dev'essere per questo che l'ha appeso qui e non in una delle stanze per gli ospiti. Io saprei fare di meglio a occhi chiusi. È stato difficile cominciare a parlare. Io non avevo parlato molto negli ultimi quindici anni, parlato veramente come parlavo con Mary Whitney, e Jeremiah l'ambulante, e anche con Jamie Walsh, prima che diventasse così traditore verso di me; e si può dire che avevo dimenticato come si fa. Ho detto al Dottor Jordan che non sapevo cosa voleva che dicessi. Lui ha detto che non si trattava di quel che lui voleva che dicessi, ma di quel che volevo dire io stessa: questo lo interessava. Ho detto che non avevo nessun desiderio di quel genere, perché non ero nella posizione di desiderare di dire qualcosa. Senti Grace, ha detto lui, non è così che devi fare, abbiamo fatto un patto. Sì signore, ho detto io. Ma non mi viene in mente niente. Allora parliamo del tempo, ha detto lui, devi pur avere qualche osservazione da fare sul tempo, visto che tutti gli altri cominciano in questo modo. Allora ho sorriso, ma ero ancora diffidente. Non ero abituata a sentirmi chiedere la mia opinione, neppure sul tempo, e soprattutto da un uomo con un taccuino. I soli uomini di quel tipo che abbia mai incontrato erano l'Egregio Signor Kenneth MacKenzie, l'avvocato, e di lui avevo paura; e quelli che erano in aula al processo, e nella prigione; erano giornalisti, e si sono inventati delle bugie sul mio conto. Dato che io non riuscivo a cominciare, il Dottor Jordan si è messo a par-
lare lui. Mi ha raccontato che ora stanno costruendo ferrovie dappertutto, e come si mettono giù le rotaie, e come funzionano i motori, con la caldaia e il vapore. Questo ha avuto il risultato di mettermi più a mio agio, e ho detto che mi sarebbe piaciuto viaggiare su un treno così; e lui ha detto che forse un giorno lo farò. Penso di no, ho detto, perché sono stata condannata a restare qui per la vita, ma d'altra parte non si può mai dire che cosa ti riserva il futuro. Poi mi ha parlato della città dove vive, che si chiama Loomisville, negli Stati Uniti d'America, e ha detto che era una città industriale anche se non così prospera come prima che arrivassero le stoffe a buon prezzo dall'India. Ha detto che suo padre un tempo era proprietario di un'industria tessile, e le ragazze che ci lavoravano venivano dalla campagna, e facevano una vita molto ordinata, in pensionati apposta per loro, con padrone di casa rispettabili e sobrie e niente alcolici e a volte un pianoforte in salotto, e soltanto dodici ore di lavoro al giorno e la domenica mattina libera per andare in chiesa; e dallo sguardo umido e reminiscente dei suoi occhi, non mi sorprenderebbe se una volta avesse avuto un'innamorata fra di loro. Poi ha detto che a queste ragazze veniva insegnato a leggere, e che avevano una rivista che pubblicavano loro stesse, con contributi letterari. E io ho detto che cosa intendeva per: contributi letterari, e lui ha detto che loro scrivevano storie e poesie che mettevano nella rivista, e io ho detto: firmate col loro nome? Lui ha detto di sì, e io ho detto che era una cosa molto audace da parte loro, e se non faceva scappare i giovanotti, perché chi mai vorrebbe una moglie così, che scrive cose che poi tutti possono leggere, e per di più cose inventate, e che io non sarei mai stata così sfacciata. E lui ha sorriso, e ha detto che i giovanotti non sembravano turbati, perché le ragazze mettevano da parte lo stipendio per farsi la dote, e una dote è sempre benvenuta. E io ho detto che perlomeno dopo che si erano sposate avrebbero avuto troppo da fare per inventare altre storie, per via dei bambini. Poi mi sono sentita triste, perché mi è venuto in mente che ormai non mi sposerò mai più, né avrò bambini miei; d'altra parte anche con le cose belle non bisogna esagerare, e non mi piacerebbe averne nove o dieci e poi morire di parto, come succede a tante. Comunque, il rimpianto resta. Quando sei triste è meglio cambiare argomento. Gli ho chiesto se sua madre era viva, e lui ha detto di sì, anche se non era in buona salute; e io ho detto che era fortunato ad avere sua madre viva, e che la mia non lo era. E poi ho cambiato di nuovo argomento, e ho detto che mi piacevano molto i cavalli, e lui mi ha parlato della cavalla Bess, che aveva da ragazzo. E
dopo un po', non so come, poco per volta ho scoperto che riuscivo a parlargli più facilmente, e a pensare a qualcosa da dire. Ed ecco come procediamo. Lui fa una domanda, io rispondo, e lui scrive la risposta. Nell'aula del tribunale, ogni parola che mi usciva di bocca era come impressa a fuoco sui giornali dove loro la scrivevano, e una volta detta una cosa sapevo che non avrei mai più potuto rimangiarmi le parole; solo che erano le parole sbagliate, perché qualunque cosa dicessi sarebbe stata stravolta, anche se era la verità pura e semplice. E col Dottor Bannerling al manicomio era lo stesso. Ma ora mi sembra che tutto quel che dico sia giusto. Basta che dica qualcosa, una cosa qualunque, e il Dottor Jordan sorride e la scrive, e mi dice che così va bene. Mentre scrive, mi sento come se stesse disegnandomi; no, non disegnando me, ma disegnando su di me - sulla mia pelle - non con la matita che usa in realtà, ma con una vecchia penna d'oca, e non col pennino ma con la piuma. Come se centinaia di farfalle si fossero posate sulla mia faccia, e aprissero e chiudessero piano le ali. Ma sotto a quella sensazione ce n'è un'altra, la sensazione di essere sveglia e all'erta e con gli occhi bene aperti. È come essere svegliati nel mezzo della notte da una mano sulla faccia, e ti tiri su a sedere col cuore che batte forte, ma non c'è nessuno. E sotto c'è un'altra sensazione ancora, come di essere spaccata, aperta; non come un corpo di carne, non è così doloroso, ma come una pesca; e neppure tagliata, ma una pesca troppo matura che si spacca da sola. E dentro la pesca c'è il nocciolo. 9 Dal Dottor Samuel Bannerling, The Maples, Front Street, Toronto, Canada Occidentale, al Dottor Simon Jordan, presso la signora William P. Jordan, Laburnum House, Loomisville, Massachusetts, Stati Uniti d'America. Nuovo indirizzo: presso il Maggiore C. D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale. 20 aprile 1859 Caro Dottor Jordan,
Accuso ricevuta della sua richiesta del 2 aprile scorso, rivolta al Dottor Workman e riguardante la detenuta Grace Marks, e di un biglietto da parte di Workman con cui mi chiede di fornirle tutte le ulteriori informazioni di cui dispongo. Devo informarla prima di tutto che il Dottor Workman e io non abbiamo sempre avuto le stesse opinioni. A mio giudizio - e io sono stato presso il Manicomio per più anni di lui - la sua politica di indulgenza lo ha portato a lanciarsi in un'impresa insensata, consistente nell'elargire perle ai porci. La maggior parte di quelli che soffrono dei più gravi disordini nervosi e cerebrali non sono curabili, ma solo controllabili; e a questo scopo, la costrizione fisica e la correzione, una dieta contenuta e l'applicazione di ventose e salassi per ridurre l'eccesso di vitalità, si sono rivelati sufficientemente efficaci in passato. Nonostante il Dottor Workman sostenga di aver ottenuto risultati positivi in vari casi prima considerati senza speranza, col tempo queste cosiddette guarigioni si riveleranno senza dubbio superficiali e temporanee. Il marchio della follia è nel sangue, e non si può cancellarlo con un po' di flanella morbida e col sapone. Il Dottor Workman ha avuto l'opportunità di esaminare Grace Marks soltanto per poche settimane, mentre io l'ho avuta in cura per più di un anno; e quindi le sue opinioni circa la sua personalità non possono valere granché. È stato, tuttavia, abbastanza perspicace da scoprire almeno un fatto pertinente, vale a dire che, come pazza, Grace Marks era una simulatrice: un'idea a cui ero già giunto io, anche se chi era in carica a quell'epoca si rifiutò di agire di conseguenza. La continua osservazione di lei e delle sue artificiose messinscene mi portò a dedurre che in realtà non era pazza, come fingeva di essere, ma stava cercando di darmela a bere in modo premeditato e flagrante. Per parlare chiaro, la sua pazzia era una frode e un'impostura, da lei messa in atto per soddisfare i suoi capricci e farli accettare dagli altri, dato che la severa regola di vita del penitenziario, dov'era stata collocata in giusta punizione per i suoi atroci crimini, non era di suo gradimento. È un'attrice consumata e un'espertissima bugiarda. Quando era fra noi, si è divertita a inscenare un certo numero di presunte crisi, allucinazioni, capriole e gorgheggi e via dicendo, e alla sua recitazione non mancavano se non i fiori di campo di Ofelia intrecciati fra i capelli; ma non ne ha sentito la mancanza, visto che è riuscita a prendere per il naso, non solo la degna signora Moodie che, come molte altre femmine di animo nobile del suo genere, è propensa a prendere sul serio qualunque sproloquio istrionico le
venga propinato, purché sia abbastanza patetico, e il cui inaccurato e isterico resoconto di tutta la triste faccenda lei avrà senz'altro letto; ma anche parecchi dei miei colleghi, e quest'ultimo è un esempio probante di quel che volevasi dimostrare, cioè che quando una bella donna entra dalla porta, il giudizio esce dalla finestra. Se nonostante tutto lei decidesse di esaminare Grace Marks nel suo attuale luogo di residenza, voglia ritenersi ampiamente messo in guardia. Molte teste più vecchie e più sagge sono cadute nelle sue trappole, e lei farebbe bene a turarsi le orecchie con la cera, come Ulisse fece fare ai suoi marinai, per scampare alle sirene. Quella non sa cosa sia la moralità, per non parlare degli scrupoli, e non esiterà a servirsi di qualunque sprovveduto le capiti sottomano. Dovrei metterla in guardia anche contro la possibilità che, una volta immischiato nel suo caso, lei sia preso d'assedio da una folla di persone di ambo i sessi, benintenzionate ma senza cervello, come pure dai preti, che si sono dati da fare per lei. Assillano il governo con petizioni per il suo scarceramento, e in nome della carità cercheranno di abbordarla e di tirarla dalla loro parte. Io sono stato costretto a cacciarli più volte dalla mia porta, informandoli al tempo stesso che Grace Marks è stata incarcerata per un'ottima ragione, e cioé per le azioni scellerate che ha compiuto, e che sono state ispirate dalla sua personalità depravata e dalla sua immaginazione morbosa. Lasciarla a piede libero in mezzo alla gente ignara sarebbe un gesto di estrema irresponsabilità, perché le offrirebbe semplicemente l'opportunità di soddisfare le sue tendenze sanguinarie. Ho fiducia che, se lei dovesse scegliere di approfondire la questione, arriverà alle stesse conclusioni a cui è già arrivato il Suo devoto servitore, Samuel Bannerling, Dottore in Medicina 10 Stamattina Simon deve incontrare il Reverendo Verringer. La prospettiva non lo attrae: è un uomo che ha studiato in Inghilterra, e sicuramente si darà delle arie. Il peggior asino è l'asino istruito, e Simon sarà obbligato a esibire anche lui le sue credenziali europee, a sbandierare la sua erudizione e a giustificarsi. Sarà un colloquio irritante, e Simon sarà tentato di mettersi a parlare con accento strascicato, a dire Ritengo che e a recitare la versione britannica coloniale dello yankee venditore di fumo, giusto per
dare fastidio. Ma deve darsi un contegno, invece; se non si comporta bene, potrebbe costargli troppo cara. Continua a dimenticarsi che non è più ricco, e di conseguenza non è più del tutto padrone di fare quel che vuole. In piedi davanti allo specchio, tenta di annodarsi la cravatta. Odia le cravatte di ogni tipo, le manderebbe tutte al diavolo; anche i pantaloni che indossa lo impacciano, e in generale tutti i capi di abbigliamento inamidati e formali. Perché mai l'uomo civilizzato sente la necessità di torturare il proprio corpo costringendolo nella camicia di forza dell'abito da società? Forse è una mortificazione della carne, come un cilicio. Gli uomini dovrebbero nascere con un abitino di lana che cresce con loro di anno in anno, evitando così tutta la solfa dei sarti, con il loro incessante trambusto e i loro snobismi. Perlomeno non è una donna, e quindi non è obbligato a portare il busto e a deformarsi a forza di stringere i lacci. L'opinione largamente diffusa secondo la quale le donne sono per natura sprovviste di spina dorsale e gelatinose, e se non fossero legate strette cadrebbero e si squaglierebbero come formaggio fuso, non suscita in lui che disprezzo. Quand'era studente in medicina, ha dissezionato un bel po' di donne - della classe lavoratrice, naturalmente - e la loro spina dorsale e muscolatura non erano meno robuste, mediamente, di quelle degli uomini, anche se molte soffrivano di rachitismo. Dopo aspra lotta è riuscito a farsi una specie di nodo alla cravatta. È storto, ma è il massimo che sa fare; ormai non può più permettersi un cameriere personale. Liscia con la spazzola i capelli indisciplinati, che immediatamente tornano ad arricciarsi. Poi prende il soprabito, ci ripensa e prende anche l'ombrello. Dalle finestre entra qualche debole raggio di sole, ma è eccessivo sperare che non piova. Kingston è umida, in primavera. Scende furtivamente per la scala principale, ma non abbastanza furtivamente: la sua padrona di casa ha preso l'abitudine di fargli la posta per qualche banalità, e infatti ora scivola fuori dal salotto, col suo vestito di seta nera stinta e il colletto di pizzo, stringendo l'immancabile fazzoletto nella mano scarna, come se le lacrime fossero sempre in agguato. È evidente che fino a poco tempo fa era una gran bella donna, e lo sarebbe ancora se si desse la pena di esserlo, e se i suoi capelli biondi spartiti in metà non fossero così tirati. Ha la faccia a cuore, la pelle lattea, gli occhi grandi e magnetici; ma nonostante la sua vita sia sottile, ha qualcosa di metallico, come se invece delle stecche usasse un pezzo di tubo di stufa. Oggi ha la solita espressione tirata e ansiosa; odora di violetta, e anche di canfora - si-
curamente va soggetta alle emicranie - e di qualcos'altro che non riesce a individuare. Un odore caldo e asciutto. Un lenzuolo appena stirato? Di norma, Simon evita quel genere di femmine rarefatte e in preda a una quieta follia, anche se i dottori attraggono queste donne come calamite. Però, c'è in lei un'eleganza severa e disadorna, come in un tempio di quaccheri, che ha un suo fascino; un fascino puramente estetico, per lui. Non si fa la corte a un edificio religioso di secondaria importanza. «Dottor Jordan», dice, «volevo chiederle...» Esita. Simon sorride, sollecitandola a proseguire. «Il suo uovo stamattina... andava bene? L'ho cucinato io, stavolta.» Simon mente. Fare altrimenti sarebbe un'imperdonabile scortesia. «Delizioso, grazie», dice. In realtà l'uovo aveva la consistenza di un tumore asportato che un altro studente di medicina gli aveva ficcato in tasca per scherzo una volta: duro e spugnoso allo stesso tempo. Ci vuole un talento perverso per ridurre un uovo in quello stato. «Sono così contenta», dice lei. «È talmente difficile trovare del buon personale. Sta uscendo?» È talmente ovvio che Simon si limita a un cenno con la testa. «C'è un'altra lettera per lei», dice. «La domestica l'aveva persa, ma io l'ho ritrovata. L'ho messa sul tavolo dell'ingresso.» Lo dice con voce tremula, come se ogni lettera indirizzata a Simon dovesse contenere qualcosa di tragico. Ha le labbra carnose, ma malferme, come una rosa languente sul punto di disfarsi. Simon la ringrazia, dice arrivederci, prende la lettera (è di sua madre) e se ne va. Non desidera incoraggiare lunghe conversazioni con la signora Humphrey. Si sente sola - e come non esserlo, con quell'ubriacone sbandato di suo marito il Maggiore? - e una donna sola è come un cane affamato. Non ha nessuna intenzione di diventare il ricettacolo di penose confidenze pomeridiane, in salotto, a tende chiuse. Comunque è un soggetto interessante. Il concetto che ha di sé, per esempio, è quello di una donna in posizione sociale molto superiore al suo status attuale. Nella sua infanzia c'è stata sicuramente una governante: lo dimostrano le spalle diritte. Quando ha preso gli accordi per l'alloggio, lei era talmente schiva e rigida che lui ha trovato imbarazzante chiedere se era compreso il servizio di lavanderia. L'atteggiamento di lei lasciava capire che non aveva l'abitudine di parlare con un uomo dei suoi capi di vestiario, e che era meglio lasciare ai domestici argomenti così sgradevoli. Aveva fatto intendere, anche se non esplicitamente, di essere stata costretta ad affittare stanze contro la sua volontà. Era la prima volta che lo
faceva, e a motivo di difficoltà economiche che si sarebbero sicuramente rivelate temporanee. Inoltre, era molto esigente: «Un gentiluomo che faccia vita ritirata, purché disposto a prendere i pasti altrove», recitava il suo annuncio. Quando Simon, esaminate le stanze, aveva detto che le prendeva, lei, dopo una breve esitazione, gli aveva chiesto due mesi anticipati di affitto. Gli altri appartamenti sul mercato erano troppo cari per lui o molto più sporchi, perciò Simon aveva accettato. Aveva con sé la somma, in contanti. Aveva notato con interesse la mistura di riluttanza e bramosia che emanava da lei, e il rossore nervoso che questo conflitto le aveva fatto salire alle guance. Era una faccenda disgustosa per lei, quasi indecente; non avrebbe voluto toccare i suoi soldi così, nudi e crudi, e avrebbe preferito che fossero chiusi in una busta; eppure aveva dovuto trattenersi dall'afferrarli. Era un atteggiamento molto simile - questa ritrosia in fatto di scambi monetari, il far finta che in realtà non fossero avvenuti, e l'avidità che ci stava sotto - a quello tipico delle prostitute francesi di alto bordo, anche se le prostitute erano meno maldestre. Simon non si considera un'autorità in materia, ma non avrebbe fatto il suo dovere nei confronti della sua vocazione, se si fosse rifiutato di approfittare delle opportunità che l'Europa gli offriva, opportunità che nella Nuova Inghilterra non erano né così a portata di mano, né così varie. Per guarire l'umanità bisogna conoscerla, e non si può conoscerla a distanza; bisogna, per così dire, calarcisi in mezzo, gomito a gomito. Ritiene che sia dovere di chi svolge la sua professione esplorare gli abissi più profondi della vita, e benché lui per ora non ne abbia ancora esplorati molti, perlomeno ha cominciato. Naturalmente, ha preso le debite precauzioni contro le malattie. Uscito di casa incontra il Maggiore, che lo fissa come se fosse immerso in una densa nebbia. Ha gli occhi arrossati, la cravatta di traverso, e gli manca un guanto. Simon cerca di immaginare in quale genere di deboscia sia stato impegnato, e quanto sia durata. Deve darti un certo senso di libertà, il fatto di non avere una reputazione da perdere. Lo saluta con un cenno, e solleva il cappello. Il Maggiore fa una faccia offesissima. Simon si mette in cammino verso la casa del Reverendo Verringer, che si trova in Sydenham Street. Non ha noleggiato una carrozza, e neppure un cavallo; sarebbe una spesa ingiustificata, perché Kingston non è una grande città. Le strade sono fangose e cosparse di sterco di cavallo, ma ha scarpe robuste.
La porta dell'imponente casa parrocchiale del Reverendo Verringer viene aperta da una donna anziana con una faccia che sembra un'asse di abete; il Reverendo non è sposato, quindi gli serve una governante al di sopra di ogni sospetto. Simon viene scortato nella biblioteca. La biblioteca esprime una tale coscienza della propria assoluta adeguatezza da fargli sorgere il desiderio impellente di darle fuoco. Il Reverendo Verringer si alza da una poltrona foderata di cuoio, e gli porge una mano da stringere. Benché i capelli e la pelle siano ugualmente sottili e slavati, la stretta di mano è sorprendentemente energica; e nonostante la bocca piccola, sgraziata e con le labbra sporgenti - come quella di un girino, pensa Simon - il naso romano indica un carattere forte, la fronte alta e convessa un intelletto ben sviluppato, e gli occhi un po' sporgenti sono acuti e brillanti. Non può avere più di trentacinque anni; sicuramente ha le conoscenze giuste, pensa Simon, per essere salito in alto così in fretta nella gerarchia metodista, ed essersi procacciato una congregazione così benestante. A giudicare dai libri, deve avere una rendita sua. «Sono contento che sia potuto venire, Dottor Jordan», dice; la sua voce è meno affettata di quanto Simon temesse. «È gentile da parte sua farci questo favore. Il suo tempo è certamente prezioso.» Si siedono, e compare il caffè, servito dalla governante con la faccia piatta su un vassoio dalla linea disadorna, ma d'argento. Un vassoio metodista: non appariscente, ma che afferma con tranquilla sicurezza il suo valore. «Per me è una questione molto interessante, dal punto di vista professionale», dice Simon. «Un caso del genere, con così tanti aspetti curiosi, non si presenta spesso.» Parla come se avesse seguito personalmente centinaia di casi. Il punto è apparire interessato, ma non troppo ansioso, come se fosse lui a fare un favore a loro. Spera di non arrossire. «Una sua relazione sarebbe un aiuto notevole per il nostro Comitato», dice il Reverendo Verringer, «se tale relazione sostenesse la tesi dell'innocenza. La allegheremmo alla nostra petizione; le autorità governative oggigiorno sono molto più inclini a prendere in considerazione il parere degli esperti. Naturalmente», aggiunge con un'occhiata penetrante, «le verrà pagata la somma stabilita, qualunque siano le sue conclusioni.» «Capisco benìssimo», disse Simon, con quel che spera sia un sorriso di cortesia. «Lei ha studiato in Inghilterra, vero?» «In un primo momento ho seguito la mia vocazione in qualità di membro della Chiesa di Stato», dice il Reverendo Verringer, «ma in seguito ho avuto una crisi di coscienza. Sicuramente anche quelli che sono al di fuori
della Chiesa d'Inghilterra possono ricevere la luce della parola e della grazia di Dio, e tramite mezzi più diretti della liturgia.» «Senz'altro, lo spero», dice urbanamente Simon. «L'insigne Reverendo Egerton Ryerson, di Toronto, ha fatto si può dire la stessa strada. È un leader nella crociata per la scuola pubblica gratuita, e per l'abolizione delle bevande alcoliche. Ne avrà sentito parlare, naturalmente.» Simon non ne ha sentito parlare; emette un ambiguo hmm che spera sia interpretato come risposta positiva. «E lei è...?» Simon elude. «La famiglia di mio padre è stata quacchera», dice. «Per molti anni. Mia madre è un'unitaria.» «Ah, sì», dice il Reverendo Verringer. «Ovviamente, è tutto così diverso negli Stati Uniti.» Una pausa, durante la quale entrambi meditano su questo. «Ma lei crede nell'immortalità dell'anima?» Ecco la domanda trabocchetto; è la trappola che potrebbe distruggere tutte le sue possibilità. «Oh sì, naturalmente», dice Simon. «Non si può dubitarne.» Verringer sembra sollevato. «Ci sono tanti uomini di scienza che spargono il dubbio. Lascia il corpo ai dottori, dico io, e l'anima a Dio. Un po' come dare a Cesare quel che è di Cesare.» «Certo, certo.» «Il Dottor Binswanger mi ha parlato benissimo di lei. Ho avuto il piacere di incontrarlo mentre viaggiavo attraverso il vecchio continente - mi interessa molto la Svizzera, per motivi storici - e ho parlato con lui del suo lavoro; quindi mi è venuto spontaneo consultarlo, quando cercavo una persona competente da questa parte dell'Atlantico. Una persona competente», esita, «che fosse alla portata dei nostri mezzi. Lui mi disse che lei se ne intende di malattie cerebrali e affezioni nervose, e che diventerà certamente un esperto riconosciuto in fatto di amnesie. Afferma che lei è uno degli uomini emergenti della nostra epoca.» «È gentile da parte sua», mormora Simon. «È una materia controversa. Ma ho pubblicato due o tre cosette.» «Speriamo che, alla fine della sua indagine, lei possa incrementare il loro numero, e far luce su quello che è oscuro e inquietante; la società gliene sarà debitamente grata, ne sono certo. Soprattutto in un caso così famoso.» Simon prende mentalmente nota del fatto che, pur avendo una bocca da girino, il Reverendo Verringer non è uno stupido. Ha sicuramente un buon
fiuto per le ambizioni degli altri. Che il suo passaggio dalla Chiesa d'Inghilterra ai metodisti abbia coinciso con il tramonto dell'influenza politica della prima in questo Paese, e il sorgere della seconda? «Ha letto i resoconti che le ho mandato?» Simon fa segno di sì. «Capisco le sue difficoltà», dice. «È difficile sapere a cosa credere. Sembra che Grace abbia raccontato una storia durante l'inchiesta, un'altra al processo, e una terza ancora dopo che la sua sentenza capitale era stata trasformata in ergastolo. In tutte e tre, comunque, ha negato di aver mai torto un capello a Nancy Montgomery. Ma poi, qualche anno dopo, abbiamo la versione della signora Moodie, ovvero la confessione, da parte di Grace, di aver commesso il delitto; e questa storia conferma le ultime parole pronunciate da James McDermott, subito prima di essere impiccato. Ma da quando è tornata dal Manicomio, tuttavia, lei mi dice che lo nega.» Il Reverendo Verringer sorseggia il caffè. «Nega di ricordarsene», dice. «Ah, sì. Di ricordarsene», dice Simon. «Giusta puntualizzazione.» «Potrebbe benissimo essere stata convinta da altri di aver fatto qualcosa di cui in realtà è innocente», dice il Reverendo Verringer. «È già successo. La cosiddetta confessione fatta nel Penitenziario, di cui la signora Moodie ha fornito una descrizione tanto colorita, avvenne dopo diversi anni di permanenza in carcere, sotto la direzione di Smith, che durò a lungo. Era un uomo notoriamente corrotto, e del tutto inadatto a quella posizione. Fu accusato di comportamenti inconcepibili e brutali; permetteva a suo figlio, per esempio, di giocare al tiro al bersaglio con i detenuti, e una volta uno perse un occhio. Si disse anche che aveva abusato delle prigioniere, lei può ben immaginare come, e temo che su questo non ci siano dubbi; fu fatta un'inchiesta in piena regola. È ai maltrattamenti subiti da Grace Marks per opera sua, che io attribuisco la sua temporanea pazzia.» «Qualcuno nega che sia mai stata realmente pazza», dice Simon. Il Reverendo Verringer sorride. «Ha sentito la versione del Dottor Bannerling, immagino. È stato contro di lei fin dal principio. Noi del Comitato ci siamo rivolti a lui (una sua relazione favorevole sarebbe stata di incommensurabile valore per la nostra causa) ma è un intransigente. Un conservatore, ovviamente, e dei più fanatici; se fosse per lui, tutti quei poveri matti sarebbero incatenati su un mucchio di paglia, e chi ha un'aria appena sospetta verrebbe subito impiccato. Sono spiacente di dover dire che lo ritengo parte di quel sistema corrotto che fu responsabile di aver affidato la carica a un uomo rozzo e incompetente come il Direttore Smith. Pare che
ci fossero irregolarità anche al Manicomio, a tal punto che si sospettò che Grace Marks, quando ne uscì, fosse in stato interessante. Fortunatamente le dicerie erano senza fondamento; ma che vigliaccheria, che insensibilità! cercare di approfittarsi di chi non è padrone di sè! Ho passato molto tempo in preghiera con Grace Marks, a cercare di guarire le ferite che le hanno inferto questi sleali e vergognosi traditori della pubblica fiducia.» «Deplorevole», dice Simon. Chiedere maggiori dettagli potrebbe essere considerato una curiosità morbosa. Un pensiero illuminante lo colpisce all'improvviso: il Reverendo Verringer è innamorato di Grace Marks! Ecco da dove vengono la sua indignazione, il suo fervore, la sua assiduità, la fatica che profonde in petizioni e comitati; e soprattutto il suo desiderio di crederla innocente. Vuole forse strapparla alla prigione, ristabilire la sua innocenza senza macchia, e poi sposarla? È ancora una bella donna, e sicuramente proverebbe una toccante gratitudine per il suo salvatore. Una gratitudine abietta; e nell'ambito degli scambi spirituali di Verringer, la gratitudine abietta di una moglie è senza dubbio una merce pregiata. «Per fortuna c'è stato un cambio di governo», dice il Reverendo Verringer. «Ciononostante, non desideriamo andare avanti con la nostra attuale petizione finché non siamo certi di poggiare su un terreno assolutamente solido; ecco perché abbiamo deciso di rivolgerci a lei. Devo dirle francamente che non tutti i membri del nostro Comitato erano a favore, ma sono riuscito a convincerli che c'è bisogno di un parere documentato e oggettivo. In ogni caso, occorre procedere con la massima prudenza e correttezza. Buona parte dell'opinione pubblica è ancora contro Grace Marks; e questo è un Paese fazioso. Sembra che i conservatori abbiano scambiato Grace per la questione irlandese, anche se è protestante; e che considerino l'assassinio di un singolo esponente della classe benestante e conservatrice - per quanto degno l'uomo, e per quanto deplorevole l'assassinio - equivalente all'insurrezione di tutta una razza.» «Tutti i Paesi sono infestati dalle fazioni», dice Simon con tatto. «Ma anche a parte questo», dice il Reverendo Verringer, «ci ritroviamo da un lato di fronte a una donna che potrebbe essere innocente, e che molti credono colpevole, e dall'altro a una donna che potrebbe essere colpevole, e che alcuni credono innocente. Non vogliamo certo offrire agli oppositori della riforma il destro per cantare vittoria su di noi. Ma, come dice Nostro Signore, "La verità vi renderà liberi".» «La verità potrebbe anche risultare più strana di quanto pensiamo», dice
Simon. «Può darsi che molto di quel che siamo abituati a definire il Male, un Male liberamente scelto, sia invece una malattia dovuta a una lesione del sistema nervoso, e che anche il Diavolo sia solo una malformazione cerebrale.» Il Reverendo Verringer sorride. «Oh, dubito che arriveremo a questo punto», dice. «Qualunque risultato possa raggiungere la scienza in futuro, il Diavolo sarà sempre in circolazione. Lei è stato invitato a casa del Direttore per domenica pomeriggio, mi pare?» «Ho avuto questo onore», dice cortesemente Simon. Aveva intenzione di fare le sue scuse e non andarci. «Spero proprio che ci rivedremo lì», dice il Reverendo Verringer. «Sono stato io a farla invitare. La moglie del Direttore, quell'ottima signora, è un prezioso membro del nostro Comitato.» 11 A casa del Direttore, Simon viene fatto accomodare nel salotto, che si potrebbe quasi chiamare salone da quant'è grande. Ogni possibile superficie è tappezzata, e i colori sono quelli dell'interno del corpo: il marrone rossastro dei reni, il rosso violaceo del cuore, il blu opaco delle vene, l'avorio dei denti e delle ossa. Immagina la reazione dei presenti se mai annunciasse ad alta voce questo suo aperçu. La moglie del Direttore lo riceve. È una bella donna di circa quarantacinque anni, palesemente rispettabile, ma vestita nel modo sovraccarico tipico della provincia, dove apparentemente le signore pensano che se una balza di merletto e nido d'ape va bene, tre vanno ancora meglio. Ha gli occhi irrequieti e leggermente sporgenti che indicano o un temperamento sovreccitabile o una disfunzione della tiroide. «Sono così felice che abbia potuto farci questo onore», dice. Gli fa sapere che purtroppo il Direttore è via per lavoro, ma che lei personalmente è molto interessata al lavoro che lui sta facendo; ha un grande rispetto per la scienza moderna, e soprattutto per la medicina moderna; si sono fatti tanti di quei progressi. Specialmente l'etere, che ha risparmiato tante sofferenze. Fissa su di lui uno sguardo intenso e pieno di significato, e Simon, dentro di sé, sospira. Conosce quell'espressione: sta per fargli il dono non richiesto dei suoi sintomi. Quando si era laureato in medicina, non era preparato all'effetto che questa laurea avrebbe avuto sulle donne; donne delle classi superiori, soprat-
tutto signore sposate, dalla reputazione immacolata. Sembravano attratte da lui come se possedesse qualche impagabile ma infernale segreto. Ah, era un interessamento innocente, non avevano nessuna intenzione di sacrificargli la loro virtù, eppure non vedevano l'ora di attirarlo negli angoli bui per conversare con lui a voce bassa, per confidarsi, tutte timorose e tremanti, perché gli ispirava anche paura. Qual era il segreto del suo fascino? Non lo doveva certo alla faccia che vedeva allo specchio, né bella né brutta. Dopo un po' gli parve di aver capito. Erano assetate di sapere; ma non potevano ammetterlo, perché era un sapere proibito, un sapere con un alone sinistro, che si otteneva scendendo nel pozzo profondo. Lui era stato dove loro non sarebbero mai potute andare, aveva visto quel che non avrebbero mai potuto vedere; aveva aperto corpi di donna, e ci aveva guardato dentro. Quella stessa mano, che un minuto fa ha portato la loro mano alle labbra, forse una volta ha tenuto fra le dita un cuore pulsante di donna. Lui, quindi, fa parte di quell'oscuro terzetto - dottore, giudice, boia - con cui condivide il potere di vita e di morte. Essere portata in stato di incoscienza; giacere esposta, senza vergogna, alla mercé degli altri; essere toccata, tagliata, saccheggiata, rifatta nuova: è a questo che pensano quando lo guardano, con quegli occhi spalancati e le labbra socchiuse. «Soffro tremendamente», esordisce la voce della moglie del Direttore. Con ritrosia, come se dovesse mostrare una caviglia, espone un sintomo: respiro affannoso, un senso di oppressione al cuore, che sembra voler preludere ad altri e più succosi. Ha un dolore - be', non vuol dire esattamente dove. Quale può essere la causa? Simon sorride, e dice che non pratica più la medicina generica. La moglie del Direttore trattiene una smorfia di disappunto, poi sorride anche lei, e dice che vuole presentargli la signora Quennell, la celebre Spiritualista e paladina della partecipazione delle donne alla vita sociale, nonché faro delle discussioni del gruppo del martedì, come pure dei giovedì spirituali; una persona così raffinata, e che ha viaggiato molto, è stata a Boston e altrove. La signora Quennell, con la sua enorme gonna sostenuta dalla crinolina, sembra una bavarese color lavanda; sulla testa ha qualcosa che somiglia a un minuscolo barboncino grigio. A sua volta lei presenta Simon al Dottor Jerome DuPont, di New York, che è qui in visita, e che ha promesso di dare una dimostrazione dei suoi straordinari poteri. È molto conosciuto, dice la signora Quennell, e ha frequentato i reali d'Inghilterra. O se non proprio i reali, le famiglie dell'aristocrazia, il che è lo stesso.
«Straordinari poteri?» dice Simon cortesemente. Gli piacerebbe sapere quali sono. Magari quel tipo sostiene che è in grado di levitare, o è la reincarnazione di una divinità indiana, o fa battere colpi agli spiriti, come le celebri sorelle Fox. La media borghesia impazzisce per lo spiritismo, soprattutto le donne; si riuniscono in stanze buie e giocano a far ballare i tavoli come le loro nonne giocavano a whist, o producono fiumi di scrittura automatica, dettati da Mozart o Shakespeare; nel qual caso il fatto che sono morti, pensa Simon, influisce molto negativamente sul loro stile prosastico. Se non fosse gente così benestante, verrebbe internata per comportamenti del genere. E quel che è peggio, riempiono i loro salotti di fachiri e imbonitori, tutti quanti sporchi e malconci come si addice alla loro presunta quasi-santità, e le regole del vivere civile ti impongono di trattarli cortesemente. Il Dottor Jerome DuPont ha gli occhi liquidi e profondi e lo sguardo intenso del ciarlatano professionale; ma fa un sorriso contrito e sminuisce con una scrollata di spalle. «Non troppo straordinari, temo», dice. Ha un lievissimo accento straniero. «Queste cose sono semplicemente un altro linguaggio; se lo si parla, lo si dà per scontato. Sono gli altri che lo trovano straordinario.» «Lei parla con i morti?» chiede Simon, con la bocca contratta per la voglia di ridere. Il Dottor DuPont sorride. «No», dice. «Sono quel che potrebbe definire un professionista della medicina. O uno scienziato che indaga, come lei. Di mestiere faccio il Neuro-ipnotista, della scuola di James Braid.» «Ne ho sentito parlare», dice Simon. «È scozzese, no? Un'autorità riconosciuta sul piede equino e lo strabismo, ritengo. Ma certamente la medicina ufficiale non riconosce queste sue altre pretese. Il neuro-ipnotismo non è forse semplicemente il cadavere resuscitato del tanto screditato magnetismo animale di Mesmer?» «Mesmer postulava l'esistenza di un fluido magnetico attorno al corpo, il che era senz'altro erroneo», dice il Dottor DuPont. «Braid opera sul solo sistema nervoso. Potrei anche aggiungere che chi contesta il suo metodo, non l'ha provato. È più accettato in Francia, dove i medici sono meno schiavi dell'ortodossia. È più utile nei casi di isteria che negli altri, ovviamente; non può fare molto per una gamba rotta. Ma in caso di amnesia», e accenna un sorriso, «ha dato spesso risultati sorprendenti e, si può dire, molto rapidi.» Simon si sente in svantaggio, e cambia argomento. «DuPont è un nome
francese?» «La famiglia era di francesi protestanti», dice DuPont. «Ma solo da parte di padre. Era un chimico dilettante. Io sono americano. Sono qui in veste professionale, naturalmente.» «Forse al Dottor Jordan non spiacerebbe entrare a far parte del nostro gruppo», si inserisce la signora Quennell. «Nei nostri giovedì spirituali. Sono un tale conforto per la nostra cara signora Direttrice; sapere che il suo piccolo, lassù, sta bene ed è felice. Sono sicura che il Dottor Jordan è scettico - ma gli scettici sono sempre benvenuti tra noi!» I piccoli occhi lustri sotto quella pettinatura da can barbone brillano provocatori. «Non uno scettico», dice Simon, «solo un medico.» Non ha nessuna intenzione di lasciarsi trascinare in sproloqui compromettenti e fuori luogo. Si chiede come mai Verringer abbia fatto entrare una donna come quella nel suo Comitato. Ma evidentemente è ricca. «Medico, cura te stesso», dice DuPont. Probabilmente è una battuta. «Qual è la sua posizione nella questione abolizionista, Dottor Jordan?» dice la signora Quennell. Ora quella la mette sull'intellettuale, e insisterà certamente per fare una bella discussione animata sulla politica, e senza dubbio gli ordinerà di abolire seduta stante la schiavitù negli Stati del Sud. Simon è stufo di essere costantemente accusato, lui personalmente, di tutti i peccati del suo Paese, e soprattutto da questi discendenti degli inglesi, che evidentemente pensano che una coscienza acquisita di recente li scusi per non avere avuto alcuna coscienza in passato. Su che cosa è costruita la loro attuale ricchezza, se non sulla tratta degli schiavi? e dove sarebbero le loro grandi città industriali, senza il cotone del Sud? «Mio nonno era quacchero», dice. «Da ragazzo, mi ha insegnato a non aprire mai gli armadi, nell'eventualità che dentro fosse nascosto qualche povero fuggiasco. Per lui, rischiare di persona aveva molto più valore che non abbaiare agli altri stando al riparo dietro uno steccato.» «Non sono le mura a fare la prigione», dice allegramente la signora Quennell. «Ma tutti gli scienziati devono mantenere un'apertura mentale», dice DuPont. Sembra essere tornato al discorso di prima. «Sono sicura che la mente del Dottor Jordan è aperta come un libro», dice la signora Quennell. «Ci dicono che lei si sta occupando della nostra Grace. Da un punto di vista spirituale.» Simon si rende conto che se tenta di spiegare la differenza fra lo spirito, come lo intende lei, e la mente inconscia, come la intende lui, si ingarbu-
glierà senza speranza; perciò si limita a sorridere e fare cenno di sì. «Qual è il suo approccio?» dice Jerome DuPont. «Per farle tornare la memoria perduta.» «Ho cominciato» dice Simon, «con un metodo basato sulla suggestione, e sull'associazione di idee. Sto tentando, pian piano e con gradualità, di ristabilire la concatenazione dei pensieri, che è stata interrotta, forse, dallo shock degli avvenimenti violenti in cui è stata coinvolta.» «Ah», dice DuPont, con un sorriso di superiorità, «chi va piano va sano e va lontano!» Simon vorrebbe prenderlo a calci. «Noi siamo sicuri della sua innocenza», dice la signora Quennell. «Tutti noi del Comitato! Ne siamo convinti! Il Reverendo Verringer sta preparando una petizione. Non è la prima, ma abbiamo buone speranze che questa volta avrà successo. «Di nuovo sulla breccia» è il nostro motto.» Con una mossetta da ragazzina: «Ci dica che è dalla nostra parte!» «Se non riesce subito nell'impresa», dice solennemente DuPont. «Non ho ancora tratto alcuna conclusione, per ora», dice Simon. «In ogni caso, non mi interessa tanto la sua colpevolezza o innocenza, quanto...» «Quanto il meccanismo in funzione», dice DuPont. «Non la metterei proprio così», dice Simon. «Quel che la riguarda non è la musica che suona il carillon, ma i dentini e le rotelle che ha dentro.» «E lei?» dice Simon, che comincia a trovare DuPont più interessante. «Ah», dice DuPont, «per me non è neppure il carillon, con i suoi graziosi disegni all'esterno. Per me, è solo la musica. La musica è suonata da un oggetto materiale; eppure la musica non è quell'oggetto. Come dicono le Scritture, "Il vento soffia dove sceglie di soffiare".» «San Giovanni», dice la signora Quennell. «"Quel che è nato dallo Spirito, è spirito."» «"E quel che è nato dalla carne, è carne"», dice DuPont. Tutti e due lo guardano con un'espressione di cortese ma definitivo trionfo, e a Simon sembra di soffocare sotto un materasso. «Dottor Jordan», dice una voce sommessa alle sue spalle. È la signorina Lydia, una delle due figlie della moglie del Direttore. «La mamma mi manda a chiederle se ha già visto il suo album.» Simon invia una benedizione silenziosa alla padrona di casa, e dice che non ha ancora avuto il piacere. Di solito la prospettiva di sfogliare nebulose stampe delle bellezze d'Europa con i bordi decorati da felci di carta non
lo attira, ma in quel momento lo alletta come una via di fuga. Si lascia portar via con un sorriso e un cenno. Lydia lo fa sedere su un divano color lingua, poi va a prendere dal tavolo vicino un pesante librone e si siede accanto a lui. «Pensa che possa trovarlo interessante, per via di quel che sta facendo con Grace.» «Oh?» dice Simon. «Dentro ci sono tutti gli omicidi famosi», spiega Lydia. «Mia madre li ritaglia e li incolla, e anche le impiccagioni.» «Ma davvero?» chiede Simon. Quella donna, oltre a essere ipocondriaca, ha una passione per il macabro. «La aiuta a decidere chi fra i prigionieri si merita di essere beneficato», dice Lydia. «Ecco Grace.» Apre il libro che tiene sulle ginocchia e si china verso di lui, seria e didattica. «Io mi interesso a lei; ha un talento straordinario.» «Come il Dottor DuPont?» dice Simon. Lydia lo fissa. «Oh, no. Io non le faccio quelle cose lì. Non mi lascerei mai ipnotizzare, è così indecente! Voglio dire che Grace ha un talento straordinario come sarta.» C'è in lei un'impulsività trattenuta, pensa Simon; quando sorride, scopre anche i denti di sotto. Ma perlomeno è mentalmente sana, a differenza della madre. Un giovane animale sano. Simon ha notato il suo collo bianco, circondato da un modesto nastro adorno di un bocciolo di rosa, come si conviene a una ragazza nubile. Attraverso strati di stoffa impalpabile, il braccio di lei preme contro il suo. Lui non è un pezzo di legno, e Lydia, nonostante debba avere, come tutte queste ragazze, un carattere immaturo e infantile, ha una vita di vespa. Una nube di profumo esala da lei, mughetto, e lo avvolge in una specie di garza olfattiva. Ma Lydia sicuramente non si rende conto dell'effetto che fa su di lui, perché di necessità ignora la natura di tali effetti. Lui accavalla le gambe. «Ecco l'esecuzione», dice Lydia. «Di James McDermott. Era in diversi giornali. Questo è l'"Examiner".» Simon legge: Che morboso appetito deve esistere nella società per tali visioni, se pur con il cattivo stato attuale delle nostre strade, un consesso così ampio si era riunito per assistere all'ultima agonia di un essere umano sciagurato quanto colpevole! Si può ritenere che la moralità pubblica tragga giovamento, o che la tendenza a commettere
azioni delittuose venga repressa, da pubblici spettacoli come questo? «Direi che sono d'accordo», dice Simon. «Io ci sarei andata se fossi stata lì», dice Lydia. «Lei no?» Simon viene messo a tacere da tanta franchezza. Disapprova le esecuzioni pubbliche, che costituiscono un'eccitazione malsana e generano fantasie sanguinarie in quella parte della popolazione intellettualmente meno dotata. Ma si conosce, e sa che se ne avesse avuto l'occasione, la curiosità avrebbe trionfato sugli scrupoli. «In veste professionale, forse», dice con cautela. «Ma non avrei permesso a mia sorella di assistere, se ne avessi una.» Lydia sgrana gli occhi. «Ma perché no?» dice. «Le donne non dovrebbero assistere a questi spettacoli raccapriccianti», dice. «Sono un pericolo per la loro natura delicata.» Si rende conto che le sue parole suonano pompose. Nel corso dei suoi viaggi, ha incontrato molte donne che non si potrebbero mai accusare di avere una natura delicata. Ha visto pazze strapparsi i vestiti ed esibire il corpo nudo; ha visto prostitute di infimo rango fare lo stesso. Ha visto donne ubriache imprecare e strapparsi i capelli una con l'altra. Le strade di Londra e Parigi brulicano di donne così; e sa che sono capaci di sopprimere i propri bambini neonati, e di vendere le giovani figlie a uomini ricchi che sperano, stuprando bambine, di evitare le malattie. Perciò non si fa illusioni circa l'innata delicatezza delle donne; ma è un motivo in più per salvaguardare la purezza di quelle che sono ancora pure. In una causa come questa, l'ipocrisia è senz'altro giustificata: bisogna presentare ciò che dovrebbe essere vero come se fosse vero. «Lei pensa che io abbia una natura delicata?» dice Lydia. «Ne sono certo», dice Simon. Si chiede se è la sua coscia, quella che sente contro di sé, o solo il suo vestito. «A volte non ne sono così sicura», dice Lydia. «Certa gente dice che Florence Nightingale non ha una natura delicata, altrimenti non avrebbe potuto essere testimone di spettacoli così degradanti senza risentirne nella salute. Però è un'eroina.» «Di questo non c'è dubbio», dice Simon. Sospetta che stia flirtando con lui. È tutt'altro che spiacevole, ma, perversamente, lo fa pensare a sua madre. Quante ragazze matrimoniabili gli ha fatto ballonzolare davanti, come mosche piumate all'amo? Le mette in
posa, immancabilmente, vicino a un vaso di fiori bianchi. La loro moralità è sempre irreprensibile, il loro contegno limpido come acqua di fonte; le loro menti gli vengono presentate come pasta da pane non ancora cotta, che sarà sua prerogativa plasmare e formare. Mentre il raccolto di una stagione di ragazze si avvia verso il fidanzamento e il matrimonio, altre più giovani continuano a spuntare, come tulipani in maggio. Ormai sono così giovani rispetto a Simon, che conversare con loro è un problema; è come parlare a una nidiata di gattini. Ma sua madre ha sempre confuso gioventù con malleabilità. Quello che vuole in realtà è una nuora che possa essere plasmata, non da Simon, ma da lei; perciò le ragazze continuano a sfilargli davanti, e lui continua a girarsi dall'altra parte, indifferente, e a essere amabilmente accusato da sua madre di pigrizia e ingratitudine. Si rimprovera per questo (è solitario come un orso e freddo come un pesce) e si premura di ringraziare sua madre per il disturbo che si prende, e di rassicurarla: prima o poi si sposerà, ma non è ancora pronto. Prima deve portare avanti le sue ricerche; deve fare qualcosa che abbia un valore, scoprire qualcosa d'importante; deve farsi un nome. Un nome ce l'ha già, sospira lei con aria di rampogna; un nome rispettabilissimo, che sembra deciso a estinguere rifiutandosi di trasmetterlo. A questo punto lei tossisce sempre un po', a indicare che la sua nascita è stata travagliata, l'ha quasi uccisa e ha definitivamente danneggiato i suoi polmoni: un effetto poco plausibile, dal punto di vista medico, che nella sua infanzia lo ha schiacciato sotto il senso di colpa. Se solo lui mettesse al mondo un figlio, prosegue - dopo essersi, naturalmente, sposato - lei morirebbe felice. Lui la prende in giro dicendo che in tal caso sarebbe un peccato grave da parte sua sposarsi, perché equivarrebbe a un matricidio; e per smussare gli angoli - aggiunge che può fare a meno di una moglie molto più facilmente che di una madre, soprattutto una madre perfetta come lei; al che lei gli lancia un'occhiata tagliente da cui si deduce che di trucchetti così, anzi meglio, ne conosce tanti, e non si fa infinocchiare. Gli dice che è troppo intelligente e sarebbe meglio che lo fosse di meno, e che non pensi di smontarla con l'adulazione. Però si placa. A volte gli viene la tentazione di soccombere. Potrebbe scegliere una delle giovani donne che gli vengono offerte, la più ricca. La sua vita quotidiana sarebbe scandita dall'ordine, le sue colazioni mangiabili, i suoi bambini rispettosi. L'atto della procreazione verrebbe compiuto nel buio, prudentemente schermato da bianco cotone - lei ubbidiente ma debitamente ri-
luttante, lui nel suo pieno diritto - ma senza bisogno di parlarne. La sua casa avrebbe tutti i moderni comfort, e lui dormirebbe fra due guanciali. Ci sono destini peggiori. «Pensa che Grace ce l'abbia?» dice Lydia. «Una natura delicata? Sono sicura che non ha commesso quegli omicidi; anche se si è pentita di non averne parlato a nessuno, dopo. James McDermott deve aver mentito sul suo conto. Però dicono che era la sua amante. È vero?» Simon si sente salire una vampata di rossore. Se sta flirtando, lo fa inconsapevolmente. È troppo innocente per comprendere la propria mancanza di innocenza. «Non saprei», mormora. «Forse è stata rapita», dice Lydia sognante. «Nei libri, le donne vengono sempre rapite. Ma io personalmente non ne ho mai conosciuta una che lo sia stata. E lei?» Simon dice che non ha mai fatto questa esperienza. «Gli hanno tagliato la testa», dice Lydia abbassando la voce. «A McDermott. Ce l'hanno dentro un vaso, all'Università di Toronto.» «Non posso crederci», dice Simon, nuovamente sconcertato. «Possono aver conservato il cranio, ma di sicuro non tutta la testa!» «Come un grosso cetriolo», dice Lydia gongolante. «Oh, guardi, la mamma vuole che vada a parlare col Reverendo Verringer. Preferirei parlare con lei; lui è così pedagogico. Mamma pensa che contribuisca a elevarmi spiritualmente.» E infatti il Reverendo Verringer è appena entrato nella stanza, e sta sorridendo a Simon con fastidiosa benevolenza, come se fosse il suo protetto. O forse è a Lydia che sta sorridendo. Simon osserva Lydia mentre scivola attraverso la stanza; cammina come se pattinasse, come insegnano alle ragazze. Rimasto solo sul divano, si ritrova a pensare a Grace, come la vede ogni giorno feriale, seduta davanti a lui nella stanza del cucito. Nel ritratto sembra più vecchia di quanto non fosse allora, ma adesso pare più giovane. Ha la carnagione pallida, la pelle liscia e senza rughe e di una grana finissima, forse perché, per forza maggiore, non esce mai all'aperto; o magari è la dieta spartana della prigione. Ora è più magra, ha la faccia meno piena; e, mentre il ritratto mostra una donna graziosa, ora è qualcosa di più che graziosa. O qualcosa di diverso. Il contorno delle sue guance ha una semplicità marmorea, classica; guardandola si è portati a credere che la sofferenza purifica davvero.
Ma nel chiuso della stanza, vicino a lei, Simon non solo la guarda, sente anche il suo odore. Cerca di non badarci, ma è presente, una vibrazione nascosta che lo disturba. Odora di fumo; fumo, e sapone da bucato, e il salato della pelle; la sua pelle ha diversi odori, umidi, pieni, maturi - di cosa? Di felci e funghi, di frutti schiacciati, che fermentano. Si chiede quanto sovente venga concesso alle prigioniere di farsi un bagno. Anche dai suoi capelli, nonostante siano intrecciati e raccolti sotto la cuffia, emana un odore, un odore forte e muschiato. Quel che ha di fronte è un animale femmina, una specie di volpe, vibrante e allerta. E in lui risponde un'analoga vibrazione a fior di pelle, una sensazione come di pelo che si alza. A volte gli sembra di camminare sulle sabbie mobili. Ogni giorno le ha messo davanti un piccolo oggetto, e le ha chiesto di dire che cosa le fa venire in mente. Questa settimana ha provato con diversi tuberi, sperando in una associazione che porti verso il basso, per esempio: barbabietola - cantina dove si tengono i tuberi - cadaveri; o anche: rapa - sottoterra - tomba. Secondo le sue teorie, l'oggetto giusto dovrebbe evocare in lei una catena di associazioni che la turbano; ma finora lei non ha visto nei suoi piccoli regali altro che il loro significato più banale, e tutto quel che è riuscito a spremerle è stata una serie di ricette di cucina. Il venerdì ha tentato un approccio più diretto: «Puoi essere perfettamente sincera con me, Grace», le ha detto. «Non c'è niente che tu debba nascondermi.» «Non ho nessun motivo per non essere sincera con lei, signore», ha risposto. «Una signora può avere delle cose da nascondere, per non perdere la reputazione, ma io sono al di là di tutto questo.» «Che vuoi dire, Grace?» ha detto lui. «Solo che non sono mai stata una signora, e che ho già perso quel po' di reputazione che avevo. Posso dire tutto quello che mi pare; e se non ne ho voglia, non sono tenuta a dire niente.» «Non ti importa della mia buona opinione di te, Grace?» Lei gli ha lanciato una breve occhiata penetrante, poi ha continuato a cucire. «Sono già stata giudicata, signore. Qualunque cosa lei pensi di me, fa lo stesso.» «Giustamente giudicata, Grace?» non ha resistito a chiedere. «Giustamente o no, non importa», ha detto lei. «La gente vuole un colpevole. Se c'è stato un delitto, vuole sapere chi lo ha commesso. Non le piace non sapere.»
«Allora hai perso ogni speranza?» «Speranza di che, signore?» ha chiesto lei, blandamente. Simon si è sentito un po' stupido, come se avesse fatto una gaffe. «Be'... speranza di tornare in libertà.» «Ma perché mai dovrebbero concedermelo, signore?» ha detto lei. «Un'assassina non è una cosa di tutti i giorni. In quanto alle speranze, le riservo per cose meno importanti. Vivo nella speranza di fare domani una colazione migliore di quella di oggi.» Ha accennato a un sorriso. «A quell'epoca hanno detto che volevano fare di me un esempio. Ecco il perché della condanna a morte, e poi della condanna a vita.» Ma che cosa fa un esempio, dopo? si è chiesto Simon. La sua storia è finita. La storia che conta, naturalmente: quella che ha fatto di lei ciò che è diventata. E come dovrebbe passare ora il resto del suo tempo? «Non ti sembra di essere stata trattata ingiustamente?» ha detto. «Non so cosa vuol dire, signore». Ora stava infilando l'ago; ha inumidito il capo del filo con la bocca, per farlo entrare più facilmente, e questo gesto a lui è parso completamente naturale e al tempo stesso insopportabilmente intimo. È stato come se la osservasse mentre si spogliava, attraverso una fessura nel muro; come se si stesse lavando con la lingua, come una gatta. V Piatti rotti Mi chiamo Grace Marks, e sono la figlia di John Marks, che vive nella città di Toronto, e di mestiere fa il muratore; siamo venuti in questo Paese dall'Irlanda del Nord circa tre anni fa; ho quattro sorelle e quattro fratelli, una sorella e un fratello più vecchi di me; ho compiuto sedici anni nel luglio scorso. Nei tre anni trascorsi in Canada ha fatto la domestica, in vari posti... Confessione spontanea di Grace Marks al signor George Walton, nella Prigione, il 17 novembre 1843, «Star and Transcript», Toronto ... In questi diciassette anni Non una volta il sospetto mi è venuto Di quanto diversa sia la mia sorte
Da quella di ogni altra donna al mondo. La ragione dev'essere che passo a passo È diventata così terribile e strana: Queste strane sventure si insinuarono Pian piano accanto a me, nella mia vita, Per sedermisi al fianco, giacermi vicino; E mi trovarono famigliare alla paura Gli amici quando irruppero con le torce Gridando: «Tu, Pompilia, così nella caverna, E quel tuo braccio attorno al lupo? E quel che fra i piedi ti si avvolge E il ginocchio ti lambisce - è un serpe!» Robert Browning, L'Anello e il Libro, 1869 12 Sono nove giorni con oggi che ricevo la visita del Dottor Jordan in questa stanza. I giorni non sono stati tutti in fila, perché ci sono le domeniche, e qualche volta non è venuto. Una volta contavo il tempo dal mio compleanno, poi dal mio primo giorno in questo Paese, poi dall'ultimo giorno in terra di Mary Whitney, e dopo da quel giorno di luglio quando sono successe le cose più brutte, e poi da allora ho contato a partire dal mio primo giorno in prigione. Ma ora conto dal primo giorno che ho passato col Dottor Jordan nella stanza del cucito, perché non si può sempre contare a partire dalla stessa cosa, diventa troppo noioso e il tempo si allunga all'infinito, e non riesci più a sopportarlo. Il Dottor Jordan siede di fronte a me. Odora di sapone da barba, quello alla lavanda, e di spighe; e del cuoio delle scarpe. È un odore rassicurante e lo pregusto ogni volta, perché gli uomini che si lavano, da questo punto di vista, sono preferibili a quelli che non si lavano. Quel che ha messo sul tavolo oggi è una patata, ma non mi ha ancora chiesto niente in proposito, quindi ora ce ne stiamo semplicemente qui a sedere. Non so cosa si aspetta che gli dica, a parte che ai miei tempi ne ho pelate un bel po', e anche mangiate, una patata nuova fresca fresca è un piacere con un po' di burro e sale, e prezzemolo se c'è, e anche quelle vecchie e grosse sono buonissime al forno; ma non sono un grande argomento di conversazione. Ci sono patate che sembrano facce di neonati, o animali, e una volta ne ho visto una a
forma di gatto. Ma questa è semplicemente a forma di patata, né più né meno. A volte penso che il Dottor Jordan sia un po' picchiatello. Ma preferisco parlare con lui di patate, se è questo che vuole, piuttosto che non parlargli affatto. Oggi ha una cravatta diversa, rossa a macchie blu o blu a macchie rosse, un po' vistosa per i miei gusti, ma non posso fissarlo e quindi non so precisare meglio. Ho bisogno delle forbici e gliele chiedo, e allora vuole che cominci a parlare, perciò dico: Oggi finirò l'ultimo riquadro della trapunta, dopodiché i riquadri verranno cuciti tutti assieme e trapuntati, è per una delle figlie del Direttore. Rappresenta un Capanno di Tronchi. Ogni giovane donna dovrebbe avere un Capanno di Tronchi prima del matrimonio, perché significa la casa; e c'è sempre un quadrato rosso in mezzo, che rappresenta il camino acceso. Me l'ha detto Mary Whitney. Ma questo non lo dico, perché non penso che gli interessi, è troppo banale. Non più banale di una patata, d'altronde. E lui dice: Che cosa cucirà dopo? E io dico: Non lo so, penso che me lo diranno, non mi fanno fare le trapunte, ma solo i riquadri perché è un lavoro di fino, e la moglie del Direttore dice che sono sprecata per il cucito normale come quello che fanno al Penitenziario, le borse per la posta e le uniformi e così via; ma in ogni caso la trapunta la cuciono insieme la sera, si fa in compagnia, e io non sono invitata. E lui dice: Se potessi fare una trapunta per te, che disegno faresti? Be', su questo non c'è dubbio, so la risposta. Ne farei una con l'Albero del Paradiso come quella che c'è nella cassapanca a casa dell'Assessora Parkinson, la tiravo sempre fuori col pretesto di vedere se aveva bisogno di un rammendo, solo per ammirarla, era proprio bella, tutta fatta di triangoli, scuri per le foglie e chiari per le mele, un lavoro finissimo, punti piccoli quasi come quelli che faccio io, però alla mia farei un bordo diverso. Il suo è il modello che chiamano Caccia all'Oca Selvatica, piccoli triangoli uno dietro l'altro, ma il mio lo farei intrecciato, un colore chiaro e uno scuro, lo chiamano bordo a tralcio di vite, tralci allacciati come quelli sullo specchio del salotto. Sarebbe un lavoro lungo e ci vorrebbe un sacco di tempo, ma se fosse mia, per mio uso personale, lo farei volentieri. Ma quel che dico a lui è diverso. Dico: Non so, signore. Forse sarebbero le Lacrime di Giobbe, o un Albero del Paradiso, o uno Steccato Serpeggiante; oppure un Rompicapo della Zitella, perché io sono una zitella, non è d'accordo, signore? e di sicuro ho avuto di che rompermi il capo. Quest'ultima cosa l'ho detta per fare la furba. Non gli ho dato una risposta chia-
ra, perché dire forte quel che desideri davvero porta sfortuna, e quella cosa poi non succede più. Potrebbe non succedere comunque, ma per sicurezza devi stare attenta a non dire quel che desideri, e anche a non desiderare niente, perché potresti essere punita. È quel che è capitato a Mary Whitney. Lui scrive i nomi delle trapunte. Dice: Albero del Paradiso, o Alberi? Albero, signore, gli dico. Ci può essere una trapunta con diversi alberi sopra, ne ho vista una che ne aveva quattro con le chiome che convergevano nel mezzo, ma si chiama sempre Albero. Perché è così, cosa ne pensi, Grace? dice. A volte è come un bambino, chiede continuamente perché. Perché è il nome del disegno, signore. C'è anche l'Albero della Vita, ma è diverso. E poi c'è l'Albero della Tentazione, e c'è l'Albero del Pino, che è anche molto carino. Lui scrive. Poi prende in mano la patata e la guarda. Dice: Non è meraviglioso che questa cosa cresca sottoterra, diresti quasi che cresce nel sonno, nell'oscurità, nascosta ai nostri occhi. Be', non so dove vorrebbe che crescessero le patate, non le ho mai viste penzolare dai cespugli. Non dico niente, e lui dice: Cos'altro c'è sottoterra, Grace? Ci saranno le barbabietole, dico. E anche le carote fanno così, signore. È la loro natura. Sembra deluso da questa risposta, e non la scrive. Mi guarda e pensa. Poi dice: Non fai mai dei sogni, Grace? E io dico: Che cosa intende, signore? Penso che intenda se faccio dei sogni per il futuro, se ho progetti per quel che farò nella vita, e penso che è una domanda crudele; visto che sarò qui dentro finché muoio, non ho molte brillanti prospettive a cui pensare. O forse intende dire se fantastico, se mi faccio delle fantasie su qualche uomo, come una ragazzina, e quest'idea è altrettanto crudele o ancora di più; e dico, con un po' di rabbia e di rimprovero: Che me ne farei dei sogni? non è molto gentile da parte sua chiedermelo. E lui dice: No, vedo che mi hai frainteso. Quel che ti sto chiedendo è se fai dei sogni di notte, quando dormi. Dico, un po' brusca perché questa è un'altra delle sue stupidaggini da giovanotto per bene, e poi sono ancora arrabbiata: Tutti sognano, signore, o almeno credo. Sì, Grace, ma tu, sogni? dice. O non ha notato il mio tono o ha deciso di
non notarlo. Posso dirgli qualunque cosa, non si scoraggia né si scandalizza, non si sorprende neanche troppo, si limita a scriverlo. Suppongo che sia interessato ai miei sogni perché un sogno può avere un significato, o almeno così dice la Bibbia, come il Faraone con le vacche grasse e le vacche magre, e Giacobbe e gli angeli che vanno su e giù per la scala. C'è un tipo di trapunta che si chiama così, la Scala di Giacobbe. Sì, signore, dico. Lui dice: Che cosa hai sognato stanotte? Ho sognato che ero sulla porta della cucina in casa del signor Kinnear. Era la cucina estiva; avevo appena lavato il pavimento, lo so perché avevo ancora la gonna rimboccata e i piedi nudi e bagnati, e non mi ero ancora rimessa gli zoccoli. C'era un uomo, proprio lì fuori sul gradino, era un venditore ambulante, come quel Jeremiah da cui una volta comprai i bottoni per il mio vestito nuovo, e McDermott comprò le quattro camicie. Ma non era Jeremiah, era un altro uomo. Il suo fagotto era aperto e le cose sparpagliate a terra, nastri, bottoni, pettini e pezze di stoffa, erano molto vivaci nel sogno, scialli di seta e cachemire e di cotone stampato che brillavano al sole, perché era di giorno e in piena estate. Sapevo che era uno che conoscevo, ma teneva la faccia voltata e non vedevo chi era. Sentivo che guardava in basso, mi guardava le gambe nude, nude fino al ginocchio e non troppo pulite dopo aver lavato il pavimento, ma le gambe sono pur sempre gambe, sporche o pulite che siano, e non ho tirato giù la gonna. Ho pensato: Che guardi, pover'uomo, non c'è niente del genere nel posto da cui viene. Doveva essere un forestiero, aveva camminato molto, era scuro di pelle e con l'aria affamata, o almeno così mi pareva in sogno. Ma poi lui non guardava più, cercava di vendermi qualcosa. Aveva una cosa mia, e io la rivolevo indietro, ma non avevo soldi e non potevo comprarla. Allora facciamo un baratto, ha detto lui, mettiamoci d'accordo. Su, che cosa mi dai, ha detto, provocandomi. Aveva una delle mie mani. Ora la vedevo, bianca e rattrappita, la teneva penzoloni per il polso come un guanto. Ma poi mi sono guardata le mani, e ho visto che erano due, attaccate ai polsi, che uscivano dalla manica come sempre, e ho capito che quella terza mano doveva essere di un'altra. Sarebbe certamente venuta a cercarla, e se l'avessi avuta io avrebbe detto che l'avevo rubata; ma ora non la volevo più, perché sicuramente era stata tagliata. E infatti ora c'era sangue che gocciolava, denso come sciroppo; ma
non mi faceva orrore, come sangue vero se fossi stata sveglia; ero ansiosa per qualcos'altro, invece. Dietro di me sentivo musica di flauto, ed ero molto nervosa per questo. Va' via, ho detto al venditore, devi andartene subito. Ma lui teneva la testa voltata e non si muoveva, e mi è venuto il sospetto che ridesse di me. E ho pensato: Cadrà sul pavimento pulito. Dico: Non ricordo, signore. Non ricordo che cosa ho sognato stanotte. Una cosa che mi ha disorientata. E lui scrive. Ho già così poco di mio, niente mi appartiene, non possiedo niente, nessuna privacy, devo pur tenermi qualcosa per me; e comunque, cosa se ne farebbe lui dei miei sogni? Poi dice: Be', non c'è un solo modo per pelare un gatto. Mi sembra strano che abbia scelto quelle parole, e dico: Non sono un gatto, signore. E lui dice: Oh, me lo ricordo, e neppure un cane. E sorride. Dice: La questione è, Grace, chi sei tu? Carne o pesce o una bella aringa? E io dico: Scusi, non ho capito, signore. Non mi piace essere chiamata pesce, uscirei dalla stanza ma non oso farlo. E lui dice: Cominciamo dal principio. E io dico: Il principio di cosa, signore? E lui dice: Il principio della tua vita. Sono nata, signore, come chiunque altro, dico ancora offesa con lui. Ho qui la tua confessione, dice, lascia che ti legga quel che hai detto. Quella non è la mia confessione in realtà, dico, è solo quel che l'avvocato mi ha detto di dire, e quel che si sono inventati i giornalisti, se ci crede allora può anche credere a quelle porcherie di opuscoli che smerciavano in giro. La prima volta che ho visto un giornalista ho pensato: Ma lo sa tua madre che sei fuori casa? Era quasi giovane come me, che vuole che scrivesse sui giornali, non aveva ancora imparato a radersi. Erano tutti così, nati ieri, incapaci di vedere la verità anche se ci fossero inciampati dentro. Hanno detto che avevo diciotto anni o diciannove o non più di venti, quando io ne avevo appena compiuti sedici, e non riuscivano neanche a metter giù i nomi giusti, hanno scritto il nome di Jamie Walsh in tre modi diversi, Walsh, Welch, Walch, e anche quello di McDermott, con Mc e Mac, con una t e con due t, e hanno scritto che Nancy si chiamava Ann, ma nessuno l'ha mai chiamata così, quindi come può aspettarsi che abbiano capito tutto
il resto? Avrebbero inventato qualunque cosa gli facesse comodo. Grace, dice allora lui, chi è Mary Whitney? Gli lancio una rapida occhiata. Mary Whitney, signore? E dove ha preso quel nome? dico. Era scritto sotto il tuo ritratto, dice. Sul frontespizio della tua confessione. Grace Marks, alias Mary Whitney. Ah sì, dico. Non è un ritratto somigliante. E Mary Whitney? dice. Oh, quello è solo il nome che ho dato alla locanda di Lewiston, signore, quando James McDermott stava scappando portandomi con sé. Mi disse che non dovevo dare il mio nome vero, in caso fossero venuti a cercarci. In quel momento mi stringeva forte il braccio, me lo ricordo. Per essere sicuro che facessi come diceva. E tu hai detto il primo nome che ti è venuto in mente? dice. Oh no, signore, dico. Mary Whitney una volta era una mia cara amica. A quell'epoca era morta, signore, e ho pensato che non le sarebbe importato che usassi il suo nome. A volte mi prestava anche i suoi vestiti. Mi fermo per un minuto, pensando al modo giusto di spiegare. È sempre stata gentile con me, dico; e senza di lei, sarebbe stata tutta un'altra storia. 13 Mi ricordo una strofetta di quand'ero piccola: Pestelli e mortai, pestelli e mortai, Quando un uomo si sposa cominciano i guai. Non dice quando cominciano i guai di una donna. Forse i miei sono cominciati quando sono nata, perché, come si dice, signore, i genitori non te li scegli, e di mia volontà io non avrei scelto quelli che Dio mi ha dato. Quel che è detto all'inizio della mia confessione è vero. Io vengo dal Nord dell'Irlanda; anche se mi è sembrato molto ingiusto quando hanno scritto che entrambi gli accusati, per loro stessa ammissione, provenivano dall'lrlanda. Detto così suona come un delitto, e non mi pare che venire dall'lrlanda sia un delitto, anche se l'ho visto spesso trattare come tale. Ma naturalmente la nostra famiglia era protestante, il che cambia le cose. Quel che ricordo è un porticciolo roccioso davanti al mare, la terra coi
colori del verde e del grigio, e in fatto di alberi, ben poco; è per quel motivo che mi spaventai quando vidi per la prima volta alberi grandi come quelli che ci sono qui, perché non capivo come facesse un albero a essere così alto. Non ricordo bene il posto, perché ero bambina quando sono partita; solo frammenti, come un piatto rotto. Ci sono sempre pezzi che sembrano appartenere a un piatto completamente diverso; e poi ci sono spazi vuoti, che non riesci a riempire. Vivevamo in una casetta col tetto bucato e due piccole stanze, ai margini di un villaggio vicino a una città di cui non ho detto il nome per via dei giornali, dato che mia zia Pauline forse è ancora viva e non vorrei mai trascinare il suo nome nello scandalo. Lei ha sempre avuto una buona opinione di me, anche se una volta l'ho sentita che chiedeva a mia madre cosa mai ci si poteva aspettare da me, senza prospettive o quasi, e con un padre come quello. Secondo lei mia madre si era sposata con un uomo di ceto inferiore; diceva che nella nostra famiglia le cose andavano così, e si aspettava che toccasse anche a me; però a me diceva che dovevo tener duro, farmi pagare a caro prezzo e non buttarmi via col primo venuto, come mia madre, senza sapere chi fosse e da dove venisse, e che dovevo diffidare degli sconosciuti. A otto anni, non capivo granché di tutto questo, anche se erano comunque buoni consigli. Mia madre diceva che zia Pauline era in buona fede, ma aveva delle pretese, cosa che andava benissimo per chi poteva permettersele. Zia Pauline e suo marito, mio zio Roy, un uomo con le spalle cadenti e senza peli sulla lingua, avevano una merceria in città; vendevano stoffe per abiti e pizzi e anche tela di Belfast, e se la cavavano piuttosto bene. Mia madre era la sorella minore di zia Pauline, ed era più graziosa di Pauline, che aveva una pelle ruvida come carta vetrata ed era tutt'ossa, con certe nocche grosse come ginocchia di pollo; mia madre invece aveva lunghi capelli rosso scuro, è da lei che li ho presi, e occhioni azzurri come quelli di una bambola, e prima di sposarsi viveva con zia Pauline e zio Roy e li aiutava in negozio. Mia madre e zia Pauline erano figlie di un pastore, che era morto, e si diceva che avesse fatto qualcosa che non doveva coi soldi della chiesa, e in seguito non era più riuscito a trovare lavoro; e quando lui morì le lasciò senza un soldo, e dovettero arrangiarsi da sole. Ma erano state educate bene, tutte e due, e sapevano ricamare e suonare il piano; è per questo che anche zia Pauline riteneva di aver sposato un uomo di ceto inferiore, per-
ché una vera signora non dovrebbe stare in un negozio; ma zio Roy era un brav'uomo, anche se grezzo, e la rispettava, il che aveva il suo valore; e ogni volta che guardava dentro il suo armadio della biancheria, o contava i piatti dei suoi due servizi, uno per tutti i giorni e uno di vera porcellana per le grandi occasioni, ringraziava la sua buona stella, perché ci sono donne a cui tocca di peggio; e si riferiva a mia madre. Non credo che dicesse queste cose per mortificare mia madre, ma l'effetto era quello, e dopo lei si metteva a piangere. Per tutta la vita era stata dominata da zia Pauline, e lo era anche adesso, solo che ora c'era anche mio padre a dominarla. Zia Pauline non faceva che dirle di tener testa a mio padre, e mio padre le diceva di tener testa a zia Pauline, e fra tutti e due la schiacciavano come una mosca. Era una creatura timida, esitante, debole e vulnerabile, cosa che mi mandava in bestia. Volevo che fosse più forte, per non essere costretta a esserlo sempre io. In quanto a mio padre, non era nemmeno irlandese. Veniva dal Nord dell'Inghilterra, e come mai fosse capitato in Irlanda non si sa, perché in genere chi si metteva in viaggio andava dall'altra parte. Zia Pauline diceva che probabilmente si era messo nei guai in Inghilterra, e se l'era svignata in fretta e furia per mare. Magari Marks non era neppure il suo vero nome, diceva; avrebbe dovuto chiamarsi Marchio, come il marchio di Caino, perché aveva una faccia da assassino. Ma questo lo disse solo dopo, quando le cose andavano ormai malissimo. In principio, secondo mia madre, sembrava che fosse un bravo ragazzo, con la testa a posto, e perfino zia Pauline doveva ammettere che era bello, alto, coi capelli biondi, e quasi tutti i suoi denti in bocca; quando si sposarono, lui aveva dei soldi in tasca, e anche buone prospettive, perché era proprio un muratore, come hanno scritto i giornali. Ciononostante, zia Pauline diceva che mia madre non l'avrebbe sposato se non fosse stata costretta, e tutto fu messo a tacere, anche se correva voce che la mia sorella maggiore Martha fosse molto grossa per essere nata di sette mesi; e che questo era successo perché mia madre era stata troppo condiscendente, e troppe ragazze si facevano abbindolare in quel modo; e che me lo diceva solo perché non ci cascassi anch'io. Diceva che mia madre era stata molto fortunata che mio padre avesse accettato di sposarla, di questo bisognava dargli atto, perché tanti altri, non appena venuto a sapere il fatto, si sarebbero imbarcati sul primo battello in partenza da Belfast e l'avrebbero lasciata lì sulla spiaggia e chi s'è visto s'è visto, e allora cosa mai avrebbe potuto fare per lei zia Pauline, doveva pur pensare al suo buon nome e al negozio.
Così mia madre e mio padre si sentivano presi in trappola uno dall'altra. Non credo che mio padre fosse cattivo, in sé; ma si lasciò fuorviare senza resistere, e del resto le circostanze erano contro di lui. Come inglese, non era accettato facilmente neppure dai protestanti, che non amavano i forestieri. Inoltre affermava che mio zio andava dicendo che lui aveva incastrato mia madre per passarsela bene, fare la bella vita e mungergli i soldi che guadagnava col negozio; il che in parte era vero, dato che loro non potevano stringere i cordoni per via di mia madre e dei bambini. Tutto questo l'ho imparato da piccola. A casa nostra le porte non erano spesse, e io avevo le orecchie lunghe, e mio padre alzava la voce, quand'era ubriaco; e una volta che si scaldava, non faceva caso a chi poteva esserci dietro l'angolo o fuori dalla finestra, zitta come un topolino. Una delle cose che diceva era che i bambini erano troppi, e lo sarebbero stati anche per un uomo più ricco di lui. Come hanno scritto nei giornali, eravamo in nove, nove vivi, intendo. Non hanno parlato di quelli morti, che erano tre, senza contare il bambino perso prima di nascere, che non ha mai avuto un nome. Mia madre e zia Pauline lo chiamavano il bambino perduto, e da piccola mi chiedevo dove mai era stato perduto, perché pensavo che l'avessero perso, come una monetina; e se era perso, magari un giorno o l'altro l'avrebbero trovato. Gli altri tre morti erano sepolti nel cimitero. Anche se mia madre pregava sempre di più, noi andavamo in chiesa sempre meno, perché lei diceva che non voleva che i suoi poveri bambini sbrindellati e senza scarpe fossero esposti agli sguardi di tutti, come spaventapasseri. Era solo una chiesa parrocchiale ma nonostante il suo carattere remissivo aveva anche lei il suo orgoglio, e come figlia di un pastore sapeva che in chiesa bisogna essere presentabili. Avrebbe tanto voluto essere ancora presentabile, e che lo fossimo anche noi. Ma è molto difficile essere presentabili, signore, senza i vestiti adatti. Io però andavo al cimitero. La chiesa non era più grande di una stalla, e il cimitero era quasi tutto invaso dalle erbacce. Un tempo il nostro villaggio era più popoloso, ma molti se n'erano andati, a Belfast dove c'erano le fabbriche, oppure oltreoceano; e spesso, di una famiglia, non restava nessuno a occuparsi delle tombe. Il camposanto era uno dei posti dove portavo i bambini più piccoli quando mia madre mi diceva di toglierglieli di casa; andavamo a vedere i tre che erano morti, e anche le altre tombe. Alcune erano molto vecchie, e avevano lapidi con teste di angelo sopra, anche se sembravano più che altro focaccine con due occhi sgranati, e un'ala
che spuntava dalle due parti, dove dovrebbero esserci le orecchie. Non riuscivo a capire come facesse una testa a volare senza un corpo attaccato; e non capivo nemmeno come una persona potesse essere in cielo, e contemporaneamente nel cimitero; ma tutti sostenevano che era così. I nostri tre bambini morti non avevano lapidi, ma solo croci di legno. A quest'ora saranno sparite sotto le erbacce. Quando ebbi nove anni, la mia sorella maggiore Martha partì per andare a servizio, e così tutto il lavoro che Martha faceva in casa ora toccava a me; poi, due anni dopo, mio fratello Robert si imbarcò su una nave mercantile, e non mandò mai più sue notizie; ma siccome traslocammo poco dopo, anche se ce le avesse mandate, non ci sarebbero arrivate. A quel punto eravamo rimasti in cinque, con un altro in arrivo. Mia madre non me la ricordo se non in quelle condizioni che chiamano delicate, anche se non vedo cosa ci sia di delicato. Dicono anche che sono condizioni infelici, è questo si avvicina di più alla verità: condizioni infelici seguite da un lieto evento, anche se l'evento non è sempre lieto, no, per niente. A quell'epoca nostro padre era stufo marcio. Diceva: Perché mai vuoi mettere al mondo un altro marmocchio, non ne hai ancora abbastanza, ma no, non riesci a smettere, un'altra bocca da sfamare, come se lui non c'entrasse per niente in quella faccenda. Una volta, da bambina, a sei o sette anni, misi la mano sulla pancia di mia madre, tonda tonda e dura, e dissi: Che cosa c'è qui? un'altra bocca da sfamare, e mia madre fece un sorriso triste e disse: Sì, ho paura di sì, e io ebbi la visione di un'enorme bocca, in una testa un po' come le teste d'angeli svolazzanti sulle lapidi, ma con i denti e tutto quanto, che mangiava mia madre dal di dentro, e mi misi a piangere perché pensai che l'avrebbe uccisa. Nostro padre andava lontano, anche fino a Belfast, a lavorare per le imprese che lo assumevano; poi quando il lavoro era finito veniva a casa per qualche giorno, e di nuovo se ne andava a cercare un altro lavoro. Quand'era a casa andava all'osteria, per togliersi da quel chiasso. Diceva che non si riusciva neanche a pensare in tanto baccano, e che doveva guardarsi attorno, con una famiglia così numerosa, e non sapeva proprio come avrebbe fatto a sbarcare il lunario. Ma per lui guardarsi attorno voleva dire guardare nel fondo del bicchiere, e trovava sempre qualcuno disposto ad aiutarlo; poi quand'era ubriaco si arrabbiava e cominciava a maledire gli irlandesi, li insultava dicendo che erano un branco di malfattori vigliacchi ladri e buoni
a niente, e finiva a botte. Aveva le braccia robuste, e presto non gli restarono molti amici, perché anche se non si tiravano indietro quando si trattava di bere, non volevano trovarsi di fronte ai suoi pugni al momento buono. Così beveva da solo, sempre di più, e a forza di bere le notti si allungavano, e cominciò a perdere giornate di lavoro. Così si fece la fama di essere inaffidabile, e riceveva sempre meno offerte di lavoro, e sempre meno spesso. Quand'era a casa era peggio che quando non c'era, perché ormai le sue furie non erano più limitate all'osteria. Diceva che non sapeva perché mai Dio gli aveva appioppato una tale nidiata, non c'era posto per noi al mondo, avremmo dovuto essere affogati come gattini, in un sacco, tutti quanti, e allora i più piccoli si spaventavano. Così io portavo fuori quelli che erano abbastanza grandi per camminare, e in fila, tenendoci per mano, andavamo al cimitero a strappare le erbacce, o giù al porto ad arrampicarci sugli scogli lungo la riva e a punzecchiare le meduse arenate coi bastoni, o a cercare quel che si poteva trovare nelle pozze lasciate dalla marea. Oppure andavamo sul piccolo molo dov'erano attraccate le barche da pesca. Ci era proibito andare, perché nostra madre aveva paura che scivolassimo in acqua e affogassimo, ma io ci portavo lo stesso i bambini, perché a volte i pescatori ci davano qualche pesce, una bella aringa o uno sgombro, e a casa c'era un gran bisogno di cibo, qualunque cibo; certe volte non sapevamo neppure se l'indomani avremmo mangiato o no. Nostra madre ci vietava di chiedere l'elemosina, e noi non la chiedevamo, non a parole; ma cinque bambini cenciosi con gli occhi affamati non sono uno spettacolo davanti a cui si resta insensibili, perlomeno nel nostro villaggio, a quei tempi. Perciò il più delle volte ci procuravamo il nostro pesce, e lo portavamo a casa tutti orgogliosi, come se lo avessimo pescato noi. Devo confessare che mi veniva un'idea satanica, quando facevo sedere i più piccoli in fila sul molo, con le gambette nude penzoloni. Pensavo: Potrei spingerne giù uno o due, così ce ne sarebbero meno da sfamare, e meno vestiti da lavare. Perché ormai ero io che mi occupavo di quasi tutto il bucato. Ma era solo un'idea, ed era il diavolo che me la metteva in testa, di sicuro. O forse era mio padre, perché a quell'epoca cercavo ancora di guadagnarmi la sua approvazione. Qualche tempo dopo cominciò a frequentare gente equivoca, e si fece vedere in compagnia di protestanti nazionalisti, e a venti miglia di distanza venne incendiata la casa di un protestante che si era schierato con i cattolici, e un altro fu trovato con la testa rotta. Mia madre e mio padre ebbero
una discussione, e lui disse come diavolo si aspettava che riuscisse a mettere insieme quattro soldi, e che il meno che poteva fare era tenerlo segreto, anche se delle donne non ci si poteva fidare neanche a morire, perché ti tradiscono come niente, e si meritano ben altro che l'Inferno. E quando chiesi a mia madre qual era il segreto, lei andò a prendere la Bibbia e disse che dovevo giurare di mantenere anch'io il segreto, e che se non mantenevo quella sacra promessa Dio mi avrebbe punita; questo mi riempì di terrore, perché correvo il rischio di svelarlo senza rendermene conto, dato che non avevo idea di cosa fosse. Ed essere punita da Dio doveva essere una cosa tremenda, dato che era molto più grosso di mio padre; da allora feci molta attenzione a mantenere i segreti altrui, qualunque fossero. Per un po' ci furono soldi, ma la situazione non migliorò, e dalle discussioni si passò alle botte, anche se la mia povera mamma non faceva niente per provocarle; e quando zia Pauline veniva a trovarci, mia madre le parlava a bassa voce e le faceva vedere i lividi sulle braccia, e piangeva; diceva: Una volta non era così; e zia Pauline diceva: Ma guardalo adesso, è una scarpa bucata, più ne versi da sopra, più ne esce da sotto, è una vergogna e un disonore. Mio zio Roy veniva con lei sul calessino, portando delle uova delle loro galline e un pezzo di pancetta, perché noi da un bel po' non avevamo più galline né maiali; e si sedevano nella stanza sul davanti, drappeggiata di vestiti stesi ad asciugare, perché in quel clima appena finivi di lavare i panni e li stendevi fuori al sole, il cielo si annuvolava e cominciava a piovere; e zio Roy, che non usava mezzi termini, diceva che non conosceva nessuno capace di trasformare i soldi in piscio di cavallo più in fretta di mio padre. E zia Pauline lo costringeva a chiedere scusa per il linguaggio, anche se mia madre ne aveva sentite ben di peggio, perché quando nostro padre beveva aveva una boccaccia peggio di una fogna. Ormai non erano più quei pochi soldi che portava a casa mio padre a mantenerci. Erano le camicie che cuciva mia madre, e io l'aiutavo, e anche la mia sorella minore Annie; ed era zia Pauline che le procurava il lavoro, glielo portava a casa e lo riportava via, e per lei doveva essere una spesa, per via del cavallo, e del tempo e della pena che si dava. Ma portava sempre qualcosa da mangiare, perché pur avendo il nostro campetto di patate, e i cavoli, non ci bastavano proprio; e portava anche scampoli dal negozio, per farci dei vestiti, alla bell'e meglio. Nostro padre non si preoccupava più da un pezzo di chiedere da dove veniva quella roba. A quei tempi, signore, per un uomo mantenere la fami-
glia era una questione d'orgoglio, qualunque cosa ne pensasse, di questa famiglia; e mia madre, nonostante fosse una donna debole, era troppo saggia per parlargliene. E l'altra persona che non sapeva tutto quello che c'era da sapere era zio Roy, anche se deve averlo capito, vedendo che certe cose sparivano da casa sua e riapparivano a casa nostra. Ma zia Pauline era una donna capace di farsi rispettare. Il nuovo bambino arrivò, e io ebbi più roba da lavare, come succedeva sempre con un bambino, e nostra madre stette male più a lungo del solito; e io dovetti preparare la cena, oltre alla colazione, come già facevo; e nostro padre disse che avremmo dovuto dargli una botta in testa e interrarlo in una buca in mezzo ai cavoli, perché sarebbe stato molto meglio sottoterra che sopra. Poi disse che solo a guardarlo gli veniva fame, se lo vedeva bene su un vassoio con patate arrosto tutt'attorno e una mela in bocca. E poi chiese cosa avevamo da fissarlo a quel modo. In quel periodo successe una cosa sorprendente. Zia Pauline non sperava più di avere bambini, perciò ci considerava come figli suoi; ma ora sembrava proprio che fosse incinta. E ne era molto felice, e mia madre era felice per lei. Ma zio Roy disse a zia Pauline che le cose dovevano cambiare, che non poteva continuare a mantenere la nostra famiglia ora che aveva la sua a cui pensare, e si doveva studiare una soluzione diversa. Zia Pauline disse che non poteva lasciarci morire di fame, per disgraziato che fosse nostro padre, perché sua sorella era sangue del suo sangue e i bambini erano innocenti; e zio Roy disse: Chi ha mai parlato di morire di fame, e che stava pensando all'emigrazione. Tanti lo facevano, e in Canada si poteva avere terra gratis, e ciò di cui mio padre aveva bisogno era un bel colpo di spugna. Lì i muratori erano ricercatissimi perché c'era tanto lavoro, e lui sapeva da fonte sicura che presto avrebbero dovuto costruire molte stazioni ferroviarie; un uomo che si dava da fare poteva cavarsela egregiamente. Zia Pauline disse che tutto questo andava benissimo, ma chi pagava la traversata? E zio Roy disse che aveva dei risparmi e che avrebbe tirato fuori lui i soldi, sufficienti non solo per la traversata ma anche per mangiare durante il viaggio; e aveva sottomano un tizio che avrebbe sistemato tutto, pagando s'intende. Aveva già fatto tutti i suoi piani prima di tirar fuori l'argomento, perché a zio Roy piaceva avere tutte le sue carte belle e pronte prima di metterle in tavola. Così fu deciso, e zia Pauline venne apposta col calesse nonostante le sue condizioni, e riferì tutto a mia madre, e mia madre disse che doveva par-
larne a mio padre e avere il suo consenso, ma era solo una formalità. Non erano nella posizione di poter scegliere, e non avevano altre strade aperte; inoltre, nel villaggio erano comparsi alcuni forestieri che parlavano della casa bruciata e dell'uomo ucciso, e facevano domande; quindi mio padre aveva fretta di sgombrare il campo. Così fece buon viso e disse che avrebbe ricominciato da zero, e che era generoso da parte di zio Roy, e che considerava il denaro per la traversata come un prestito e l'avrebbe restituito non appena avesse cominciato a far soldi; e zio Roy fece finta di credergli. Non voleva umiliare mio padre, solo toglierselo di torno. Era stato generoso, sì, perché secondo me aveva pensato che era meglio cavarsi il dente una volte per tutte, e sborsare una grossa somma di denaro, invece di venire dissanguato goccia a goccia, anno dopo anno; nei suoi panni io avrei fatto lo stesso. Così tutto quanto si mise in moto. Si decise che saremmo partiti alla fine di aprile, perché in questo modo saremmo arrivati in Canada al principio dell'estate, e avremmo potuto sistemarci durante i mesi caldi. Zia Pauline e mia madre non la finivano più di fare progetti, di scegliere e impacchettare; e cercavano tutte e due di essere di buonumore, ma avevano il cuore grosso. Dopotutto erano sorelle, ne avevano passate, di belle e di brutte, e sapevano che una volta partita la nave probabilmente non si sarebbero più riviste, in questa vita. Zia Pauline portò dal negozio un bel lenzuolo di lino, con solo una piccola falla; e uno scialle spesso e caldo, perché aveva sentito dire che faceva freddo, dall'altra parte dell'oceano; e un cofanetto di vimini con dentro una teiera di porcellana, imballata nella paglia, con due tazze e due piattini, con un disegno di rose. E mia madre la ringraziò tanto, e disse che era sempre stata buona con lei, e che quella teiera l'avrebbe tenuta sempre come un gioiello, in suo ricordo. E piansero a lungo in silenzio. 14 Andammo su a Belfast su un carretto noleggiato da mio zio; fu un viaggio lungo e scomodo, ma non piovve molto. Belfast era una grande città con palazzi di pietra, la più grande in cui fossi mai stata, rumorosa di vetture e carrozze. C'erano alcuni edifici imponenti, ma anche tanta povera gente, che lavorava notte e giorno nelle fabbriche tessili. La sera, quando arrivammo, erano accesi i lampioni a gas, i primi che abbia mai visto; era
come la luce della luna, ma di un colore più verdastro. Dormimmo in una locanda così piena di pulci che sembrava un canile; e ci portammo in camera tutti i bauli, per non essere derubati dei nostri possedimenti terreni. Non potei vedere granché di più, perché la mattina dovevamo imbarcarci immediatamente sulla nave, perciò misi subito in marcia i bambini. Non sapevano dove stessimo andando, e per dirle la verità, signore, credo che nessuno di noi lo sapesse. La nave era accostata alla banchina; era una grossa bestia da soma arrivata da Liverpool, e più tardi mi dissero che portava tronchi dal Canada all'Est, ed emigranti all'Ovest al ritorno, e le due cose venivano viste allo stesso modo, come un carico da trasportare. La gente stava già salendo a bordo con fagotti e scatole, e alcune donne piangevano a calde lacrime; ma io non piansi, perché non ne vedevo l'utilità, e nostro padre aveva un'aria cupa ed era meglio starsene buoni e zitti, o non avrebbe esitato a mollare ceffoni. La nave rollava su e giù con il movimento delle onde, e io non mi fidavo per niente. I bambini più piccoli erano eccitati, soprattutto i maschi, ma io mi sentivo mancare il cuore perché non ero mai stata su una nave, neanche sulle barchette da pesca del nostro porto, e sapevo che avremmo attraversato l'oceano, lontano dalla terraferma, e che se mai fossimo naufragati o caduti in mare, nessuno di noi sapeva nuotare. Vidi tre corvi appollaiati uno accanto all'altro sulla traversa dell'albero maestro, e anche mia madre li vide, e disse che portavano sfortuna, perché tre corvi in fila significavano che qualcuno doveva morire. Mi sorprese che dicesse questo, perché non era superstiziosa; ma credo che fosse per la malinconia, perché ho notato che quando si è giù di morale si tende a dar peso ai brutti presagi. Ma ne fui spaventatissima, anche se non lo lasciai vedere per via dei bambini: se mi avessero vista frignare, ci si sarebbero messi anche loro, e di chiasso e di trambusto ce n'erano già abbastanza. Nostro padre prese il coraggio a due mani e salì per primo sulla passerella, portando il fagotto più grosso dei vestiti e delle coperte, e guardandosi attorno come se conoscesse tutto e non avesse paura; ma nostra madre venne su tutta triste, imbaccuccata nello scialle, versando qualche lacrima di nascosto, e torcendosi le mani mi disse: Oh, come mai siamo arrivati a questo punto, e quando fummo sulla nave disse: I miei piedi non toccheranno mai più la terra. E io dissi: Mamma, perché dici così? e lei disse: Me lo sento nelle ossa. E fu quel che accadde.
Nostro padre pagò per il trasporto fin nella stiva dei bauli più grossi; era un peccato sprecare i soldi, ma non c'era altro mezzo, non poteva portarli su tutti da solo, perché i facchini erano villani e insistenti, e non gliel'avrebbero permesso. Il ponte era affollatissimo, con una folla che andava e veniva, e gli uomini che ci gridavano di toglierci dai piedi. I bauli che non ci servivano a bordo vennero messi in una stanza apposita, che doveva restare chiusa a chiave per impedire i furti; e c'era un posto anche per la scorta di cibo che ci eravamo portati appresso per il viaggio; ma le coperte e le lenzuola vennero portate di sotto, nei nostri letti; e la mamma insisté per tenere con sé la teiera di zia Pauline, perché non voleva perderla di vista; e legò il cofanetto di vimini in alto sopra il letto con un pezzo di spago. Il posto dove dormivamo era sottocoperta, dove una scala sudicia portava giù in quella che chiamavano la stiva, tutta ingombra di letti. Erano plance dure di legno grezzo, inchiodate insieme alla bell'e meglio, un metro e ottanta di larghezza per un metro e ottanta di lunghezza, due persone per ognuna, oppure tre o quattro bambini; ed erano a castello, una sull'altra, con uno spazio appena sufficiente a strisciare dentro. Nel letto di sotto non potevi metterti a sedere, perché sbattevi la testa in quello di sopra; e nel letto in cima avevi più probabilità di cadere, e di cadere dall'alto per di più. Tutti insieme, stipati come aringhe in scatola, senza finestre né aria che arrivava da nessuna parte, tranne il boccaporto da cui si scendeva. L'aria era già abbastanza greve così, ma era niente rispetto a come sarebbe stata dopo. Dovemmo impadronirci subito dei letti e metterci le nostre cose sopra, c'era un tale parapiglia, e io non volevo che venissimo separati, con i bambini da soli e spaventati, in un posto sconosciuto, di notte. Salpammo a mezzogiorno, quando tutto fu portato a bordo. Una volta issata la passerella, quando ormai non potevamo più scendere a terra, la campana suonò per chiamarci a sentire il discorso del Capitano, che veniva dal Sud della Scozia e aveva la pelle cotta dal sole. Ci disse che dovevamo obbedire alle regole della nave, e che non si dovevano accendere fuochi per cucinare, perché tètto il nostro cibo sarebbe stato cucinato dal cuoco di bordo, se glielo portavamo subito quando suonava la campana; e non si poteva fumare la pipa, soprattutto sottocoperta, perché poteva causare incendi, e chi non poteva fare a meno del tabacco poteva sempre masticarlo e sputarlo. E niente bucato, tranne nei giorni in cui il tempo lo permetteva, cosa di cui avrebbe giudicato lui; perché se era troppo ventoso la nostra
roba sarebbe volata via, e se pioveva la stiva di notte si sarebbe riempita di vestiti umidi e di vapore, e non ci sarebbe piaciuto, potevamo credergli sulla parola. E non bisognava neanche portar su le coperte sul ponte per fargli prendere aria senza il permesso, e tutti dovevano obbedire ai suoi ordini e a quelli del Primo Ufficiale, e di tutti gli altri ufficiali, perché ne andava della sicurezza della nave; e in caso di insubordinazione saremmo stati rinchiusi in una celletta, perciò sperava che a nessuno venisse l'idea di mettere alla prova la sua pazienza. Inoltre, disse, l'ubriachezza non era permessa, perché poteva causare cadute; una volta a terra potevamo ubriacarci come dei lord, ma non sulla sua nave; e per la nostra stessa sicurezza non potevamo salire sul ponte di notte, perché avremmo potuto cadere in mare. Non si doveva intralciare il lavoro dei marinai, né corromperli per ottenere dei favori; e lui aveva occhi anche sulla schiena, e se ci avessimo provato se ne sarebbe accorto subito. Come i suoi uomini potevano confermare, lui aveva un pugno di ferro, e in mare aperto la parola del Capitano era legge. In caso di malattia, a bordo c'era un dottore; ma era normale che molti di noi stessero male finché non si abituavano a navigare, e non dovevamo infastidire il dottore per sciocchezze come un po' di mal di mare; e se tutto andava bene, saremmo stati di nuovo sulla terraferma tra sei o otto settimane. In conclusione, voleva dire ancora che non c'è nave che non abbia qualche topo a bordo, ed era segno che le cose andavano bene, perché i topi sapevano per primi quando una nave era destinata ad affondare, e quindi non lo seccassimo se per caso capitavano sotto gli occhi di qualche signora di gusti delicati. Sicuramente nessuno di noi aveva mai visto un topo - e qui ci fu una risata - ma se per caso eravamo curiosi, ne aveva uno appena ammazzato, con un'aria molto appetitosa, per chi avesse fame. Ci furono altre risate, come se stesse scherzando per metterci a nostro agio. Quando la risata si smorzò disse che, per farla breve, la sua nave non era Buckingham Palace, e noi non eravamo la regina di Francia, e che, come sempre nella vita, se si vuol pagare poco si prende quel che c'è. E ci augurò un piacevole viaggio. Poi si ritirò nella sua cabina e ci lasciò a cavarcela uno con l'altro come meglio potevamo. Probabilmente in cuor suo si augurava che finissimo tutti in fondo al mare, sempreché lui potesse tenersi i soldi dei nostri biglietti. Ma perlomeno sembrava sapere il fatto suo, e questo mi tranquillizzò. Non c'è bisogno che le dica che molte delle sue istruzioni non vennero rispettate, soprattutto quelle riguardanti il fumare e il bere; ma chi trasgrediva doveva farlo con furbizia.
In principio le cose non andarono troppo male. Le nuvole si aprirono e ci fu qualche sprazzo di sole; io rimasi sul ponte a guardare mentre la nave usciva dal porto, e finché restammo vicini a terra il movimento della nave non mi diede fastidio. Ma non appena fummo fuori, nel mare dell'Irlanda, e altre vele vennero spiegate, cominciai a sentirmi male, mi venne la nausea e dopo pochi minuti rigettai tutta la colazione negli ombrinali, tenendo per mano due dei bambini che facevano lo stesso. Non ero affatto la sola, c'erano molti altri, tutti in fila come maiali al truogolo. Nostra madre non era in condizioni di muoversi, e nostro padre era scosso dai conati ancor più di me, quindi nessuno dei due mi aiutò con i bambini. Per fortuna non avevamo mangiato niente a pranzo, se no saremmo stati ancora peggio. I marinai erano preparati a questa scena, l'avevano già vista prima, e tirarono su secchi d'acqua salata in quantità per lavar via tutto. Dopo un po' mi sentii meglio; forse era l'aria fresca di mare, oppure mi stavo abituando al rollare e beccheggiare della nave; inoltre, e lei signore mi perdonerà per la franchezza, non avevo più niente nello stomaco da tirar fuori; e finché rimasi sopracoperta non mi sentii più così male. Di cena non era il caso di parlarne, stavamo tutti troppo male; ma un marinaio mi disse che avremmo fatto meglio a bere un po' d'acqua e buttar giù una galletta, e dato che, dietro suggerimento dello zio, avevamo una scorta di gallette, cercammo di mangiare qualcosa. Così, la sera, la situazione era leggermente migliorata, ma quando dovemmo scendere di sotto peggiorò di nuovo, e molto. Come ho detto, tutti i passeggeri erano stipati insieme, senza pareti di mezzo, e molti stavano male come cani; così non solo sentivi i tuoi vicini vomitare e gemere, cosa che bastava a farti tornare la nausea, ma ti mancava l'aria, e la puzza nella stiva diventava sempre più disgustosa, da rivoltarti lo stomaco. E se mi consente, signore, non c'era modo di trovare sollievo decentemente. Ci avevano dato dei secchi, ma erano lì in bella vista, o lo sarebbero stati se ci fosse stata luce; al buio, c'era gente che annaspava in giro imprecando, rovesciando i secchi per sbaglio, e anche se non li rovesciavano, quel che non ci finiva dentro finiva sul pavimento. Per fortuna non era un pavimento troppo solido, così perlomeno una parte filtrava giù nella sentina. Mi fece riflettere, signore, che certe volte le donne con le loro sottane se la cavano meglio degli uomini con i pantaloni, perché noi almeno ci portiamo attorno una specie di tenda naturale, mentre quei poveracci devono brancolare in giro con i pantaloni arrotolati sulle caviglie. Ma come di-
cevo, c'era poca luce. Tra la nave che andava su e giù, gli scricchiolii, il frangersi delle onde, il rumore e la puzza, e i topi che correvano di qua e di là come se fossero i padroni di casa, sembrava di essere anime dannate nell'Inferno. Pensai a Giona nella pancia della balena, ma lui perlomeno doveva starci soltanto tre giorni, mentre noi avevamo otto settimane davanti a noi; e poi nella pancia era solo, e non era costretto a sentire gli altri lamentarsi e vomitare. Dopo diversi giorni la situazione migliorò, perché molti guarirono dal mal di mare; ma di notte c'era sempre un gran tanfo, e molto rumore. Meno conati, certo, ma più colpi di tosse e gente che russava; e c'era anche chi piangeva e pregava, il che è comprensibile date le circostanze. Ma non volevo urtare la sua sensibilità, signore. Dopotutto la nave era soltanto una specie di ghetto per i poveri in movimento, l'unica differenza è che non c'erano bettole; ho sentito dire che adesso le navi sono meglio. Forse vorrebbe aprire la finestra? Tutto questo patire ebbe almeno un effetto positivo. I passeggeri erano cattolici e protestanti, senza distinzione, con in più alcuni inglesi e scozzesi venuti da Liverpool; se fossero stati bene, avrebbero litigato e fatto a botte, perché non si vogliono troppo bene fra di loro. Ma non c'è niente come un bell'attacco di mal di mare per farti passare la voglia di menar le mani; si vedevano uomini che in terraferma si sarebbero tagliati allegramente la gola a vicenda, tenersi la testa uno con l'altro sopra gli ombrinali, come madri amorevoli; certe volte ho notato la stessa cosa anche in prigione, perché la necessità rende solidali le persone più incompatibili. Magari Dio si serve dei viaggi per mare e delle prigioni per rammentarci che siamo carne, tutti quanti, e che la carne non è altro che polvere, ed è debole. Almeno, mi piace pensare che sia così. Dopo alcuni giorni mi ero abituata a navigare, e così potevo salire e scendere dal ponte e occuparmi dei pasti. Ogni famiglia si era portata il suo cibo, che veniva consegnato al cuoco della nave, messo dentro una rete, immerso in un paiolo di acqua bollente e cotto insieme a quello degli altri; perciò insieme alla tua cena ti portavi via anche un assaggio di quelle altrui. Noi avevamo carne salata di maiale e di manzo; avevamo cipolle e patate, ma non troppe per via del peso; e piselli secchi, e un cavolo che se ne andò in fretta, perché pensavo che dovevamo mangiarlo prima che andasse a male. La farina d'avena non potevamo farla bollire nel paiolo, ma la lasciavamo a mollo in acqua calda, come anche il tè. E, come ho già det-
to, avevamo delle gallette. Zia Pauline aveva dato alla mamma tre limoni, che valevano tanto oro quanto pesavano, diceva, perché erano notoriamente efficaci contro lo scorbuto; e io li conservavo con cura nel caso ne avessimo avuto bisogno. Tutto sommato avevamo di che mantenerci in forze, vale a dire più di altri, che avevano speso quasi tutti i loro soldi per il biglietto; anzi, ci avanzava ancora qualcosa, secondo me, perché i nostri genitori non stavano abbastanza bene per mangiare tutta la loro parte. Perciò diedi alcune gallette alla nostra vicina, che era una donna anziana, la signora Phelan; lei mi ringraziò molto e mi disse: Dio ti benedica. Era una cattolica, e viaggiava con i due bambini di sua figlia, lasciati a casa quando la famiglia era emigrata; ora li portava a Montreal, e il biglietto l'aveva pagato suo genero; io l'aiutai con i bambini, e più avanti fui contenta di averlo fatto. Il pane che dai agli altri ti torna indietro dieci volte, come certamente avrà sentito dire spesso, signore. E quando ci dissero che potevamo fare il bucato, perché c'era bel tempo e il vento era asciutto - a quel punto ce n'era proprio bisogno, dopo tutto quel mal di mare - lavai una delle sue coperte insieme alla nostra roba. Non fu un gran bucato, perché tutto quel che avevamo per lavare erano secchi pieni d'acqua di mare, ma almeno ripulì il peggio, anche se, dopo, tutto puzzava di sale. Dopo una settimana e mezza di viaggio una feroce bufera si abbatté su di noi, la nave ballava come un tappo in un mastello, e le preghiere e le grida si fecero assordanti. Di cucinare non se ne parlava neppure, e di notte era impossibile dormire, perché se non ti tenevi forte venivi sbalzato fuori dal letto; il Capitano mandò il Primo Ufficiale a dirci di restare calmi, che era una normalissima bufera e non era il caso di agitarsi, anche perché ci stava spingendo nella direzione in cui volevamo andare. Ma l'acqua entrava dai boccaporti, perciò li chiusero; e restammo tutti tappati in quel buio pesto con ancora meno aria di prima, e pensai che saremmo morti tutti soffocati. Ma evidentemente il Capitano conosceva il rischio, perché di tanto in tanto i boccaporti venivano aperti. Quelli che dormivano vicino si inzupparono; era il loro turno di pagare per tutta l'aria fresca che si erano goduti finora. La bufera si calmò dopo due giorni, e ci fu una grande funzione di ringraziamento per i protestanti, e un prete che era a bordo disse una messa per i cattolici; in quella ressa era impossibile evitare di assistere a entrambe, per così dire; ma nessuno protestò perché, come dicevo, gli uni e gli al-
tri si sopportavano di più che a terra. Io per esempio avevo fatto amicizia con la vecchia signora Phelan; e a quel punto lei era di nuovo in piedi e arzilla, contrariamente a mia madre, che continuava a essere debole. Dopo la bufera, venne il freddo. Cominciammo a trovare la nebbia, e poi gli iceberg, e dicevano che ce n'era più del solito, in quella stagione; perciò rallentammo per timore di scontrarci con loro; i marinai infatti dicevano che la parte più grossa degli iceberg era sott'acqua, invisibile, e meno male che non c'era troppo vento o avremmo potuto finire contro uno di loro, e schiantarci; ma io non mi stancavo di guardarli. Grandi montagne di ghiaccio, erano, con cime e guglie, bianche e luccicanti quando il sole le accendeva di una luce azzurra nel centro; e io pensai che le porte del cielo dovevano essere fatte di quel ghiaccio, ma non così freddo. Ma fu in mezzo agli iceberg che nostra madre si ammalò gravemente. Era rimasta quasi sempre a letto col mal di mare, e non aveva mangiato che gallette e acqua, e un po' di pappa di farina d'avena. Nostro padre non stava granché meglio, anzi, a giudicare dal livello dei lamenti, anche peggio; e tutto era sporco e in disordine, perché durante la tempesta non avevamo potuto fare il bucato né arieggiare le coperte. Perciò non mi accorsi subito di quanto mia madre fosse peggiorata. Ma disse che aveva un mal di testa così violento che quasi non ci vedeva più, e io le portai dei panni bagnati e glieli misi sulla fronte; e mi accorsi che aveva la febbre. Poi prese a lamentarsi che le faceva molto male lo stomaco, e io lo tastai. C'era qualcosa di duro e gonfio, e pensai che fosse un'altra bocca da sfamare, anche se non mi capacitavo di come avesse potuto crescere così in fretta. Lo dissi alla signora Phelan, che mi aveva raccontato di aver fatto nascere sedici bambini, di cui nove suoi; lei venne subito, e tastò quella cosa, spingendo e palpando, mentre mia madre gridava; e la signora Phelan mi disse di mandare a chiamare il dottore di bordo. Io non volevo, perché il Capitano aveva detto di non dargli fastidio per delle cose da niente; ma la signora Phelan disse che non era una cosa da niente, e non era neanche un bambino. Chiesi a nostro padre, ma mi disse di fare quel che diavolo volevo, perché lui stava troppo male per pensarci; così alla fine lo mandai a chiamare. Ma il dottore non venne, e la mia povera mamma stava peggio di ora in ora. Ormai non riusciva quasi più a parlare, e quel che diceva era senza senso. La signora Phelan disse che era una vergogna, che l'avrebbero trattata
meglio se fosse stata una mucca, e che il modo migliore per far venire il dottore era dire che poteva essere tifo, o colera, perché era la cosa che temevano di più al mondo, a bordo di una nave. Perciò dissi così, e il dottore venne immediatamente. Ma non servì a niente, proprio come - se lei mi consente, signore - le tette a un gallo, per usare le parole di Mary Whitney, perché dopo aver preso il polso di mia madre e averle toccato la fronte, e aver fatto domande a cui non c'era risposta, tutto quel che ci disse fu che non aveva il colera, e io lo sapevo già, dato che me l'ero inventato. Quello che aveva, lui non lo sapeva; molto probabilmente un tumore, o una ciste, o forse l'appendice perforata; le avrebbe dato qualcosa per il dolore. E lo fece; credo fosse laudano, e una bella dose, perché mia madre presto si calmò, e questo era sicuramente il suo scopo. Aggiunse che potevamo solo sperare che superasse la crisi, ma che non si poteva dire che cosa fosse se non aprendole la pancia, e questo l'avrebbe sicuramente uccisa. Chiesi se si poteva portarla di sopra sul ponte, a prendere aria, ma lui disse che sarebbe stato un errore muoverla. E poi se ne andò più in fretta che poteva, osservando, senza rivolgersi a nessuno in particolare, che quaggiù c'era un fetore da soffocare. E anche questo lo sapevo già. Mia madre morì quella notte. Vorrei poterle dire che all'ultimo ebbe visioni angeliche e che prima di spirare ci fece un bel discorsetto, come capita nei libri; ma se ebbe delle visioni se le tenne per sé, perché non disse una parola, né di quello né di altro. Io mi addormentai, anche se volevo vegliarla, e quando mi svegliai al mattino era morta e fredda come un pesce, con gli occhi aperti e fissi. E la signora Phelan mi mise un braccio sulle spalle, mi avvolse nel suo scialle e mi fece bere un sorso da una fiaschetta di liquore che teneva come medicina; e disse che mi avrebbe fatto bene piangere, che almeno quella poveretta aveva smesso di soffrire e ora era in cielo con i santi, pur essendo protestante. La signora Phelan disse anche che non avevamo aperto la finestra per lasciar uscire l'anima, secondo l'usanza; ma forse la mia povera mamma sarebbe stata scusata, perché al fondo della nave non c'erano finestre, e quindi non si poteva aprirle. Non avevo mai sentito parlare di quell'usanza. Non piansi. Mi sembrava di essere morta io, non mia madre; sedevo come paralizzata, e non sapevo cosa fare. Ma la signora Phelan disse che non potevamo lasciarla lì, e se avevo un lenzuolo bianco per seppellirla. E allora cominciai a preoccuparmi tremendamente, perché avevamo solo tre len-
zuola. Ce n'erano due vecchie e logore che erano state tagliate a metà e rigirate, e poi il lenzuolo nuovo che ci aveva dato zia Pauline; e non sapevo quale usare. Sembrava poco rispettoso usarne uno vecchio, ma se usavo quello nuovo sarebbe stato uno spreco per i vivi; tutto il mio dolore si concentrò sulla questione delle lenzuola. Alla fine mi chiesi che cosa avrebbe preferito mia madre, e dato che da viva lei si era sempre messa in secondo piano, decisi per quello vecchio; perlomeno era quasi pulito. Avvisato il Capitano, vennero due marinai e portarono mia madre sul ponte; la signora Phelan venne su con me, e la sistemammo, con gli occhi chiusi e i suoi bei capelli sciolti, perché la signora Phelan disse che non si doveva seppellire una morta coi capelli legati. Le lasciai i vestiti che aveva addosso, tranne le scarpe. Le scarpe le tenni, e anche lo scialle, perché non ne aveva più bisogno ormai. Era pallida e delicata come un fiore di primavera, e i bambini le stavano attorno e piangevano; dissi a ognuno di loro di darle un bacio sulla fronte, cosa che non avrei fatto se avessi pensato che era morta di una malattia infettiva. E un marinaio esperto in queste cose la avvolse ben bene nel lenzuolo e lo cucì stretto come un salame, con un pezzo di vecchia catena di ferro ai piedi, per farla andar giù. Mi ero dimenticata di tagliarle una ciocca di capelli da conservare, come avrei dovuto; ma ero troppo confusa per ricordarmene. Non appena il lenzuolo le coprì la faccia pensai che quella lì sotto non era davvero mia madre, era un'altra donna; oppure mia madre era cambiata, e se avessi tolto il lenzuolo adesso, lei sarebbe stata un'altra. Dev'essere stato lo shock a mettermi in testa queste cose. Per fortuna a bordo c'era un sacerdote, che faceva la traversata in cabina; era quello che aveva officiato la funzione di ringraziamento dopo la bufera; lesse una breve preghiera, e mio padre riuscì a trascinarsi su per la scala della stiva, e rimase lì a testa china, malmesso e con la barba lunga, ma almeno era lì. E poi, con gli iceberg che galleggiavano tutt'attorno nella nebbia, la mia povera mamma venne lasciata cadere in mare. Fino a quel momento non avevo pensato a dove sarebbe andata a finire, e c'era qualcosa di tremendo nell'immaginaria che si inabissava pian piano, nel suo lenzuolo bianco, in mezzo ai pesci con i loro occhi fissi. Era peggio che essere messi nella terra, perché se una persona è nella terra almeno sai dov'è. E poi tutto fu finito, in fretta e furia, e il giorno dopo passò come i precedenti, ma senza mia madre. Quella sera presi uno dei limoni, lo tagliai, ne feci mangiare un pezzo a ciascuno dei bambini, e ne mangiai un pezzo anch'io. Era così aspro che
sentivi che doveva farti bene per forza. Non mi venne in mente nient'altro, da fare. E ora mi resta solo una cosa da dirle, su questo viaggio. Mentre eravamo ancora in piena bonaccia, e con un gran nebbione, il cestino di vimini con la teiera di zia Pauline cadde per terra e la teiera si ruppe. Pensi un po', quel cestino era rimasto dov'era durante la tempesta, in quel rollare e agitarsi e beccheggiare; ed era legato alla testiera del letto. La signora Phelan disse che senz'altro qualcuno che cercava di rubarlo l'aveva slegato, ma poi si era fermato perché rischiava di farsi sorprendere, e non sarebbe stata la prima cosa a cambiare padrone in quel modo. Ma io non la pensavo così. Pensavo che fosse lo spirito di mia madre, intrappolato in fondo alla nave perché non avevamo potuto aprire una finestra, e arrabbiato con me a causa del lenzuolo vecchio. E ora sarebbe rimasta chiusa qui dentro per sempre, giù nella stiva come un moscerino in una bottiglia, a navigare avanti e indietro attraverso l'orrido e oscuro oceano, con gli emigranti all'andata e i tronchi al ritorno. E questo mi diede molta infelicità. Vede che idee bizzarre si fa una persona. Ma allora ero solo una ragazzina, e molto ignorante per di più. 15 Fu una fortuna che la bonaccia non durasse più a lungo, altrimenti saremmo rimasti a corto di cibo e acqua; invece si alzò il vento e la nebbia svanì, e ci dissero che avevamo doppiato senza problemi Terranova, ma io non riuscii a vedere proprio niente, e non capii se si trattava di una città o di un paese; poco dopo imboccammo l'estuario del fiume St. Laurence, anche se ci volle un bel po' prima che avvistassimo la terraferma. E quando la vedemmo, a nord della nave, era solo rocce e alberi, con un'aria scura e minacciosa, ben poco invitante per abitarci; c'erano nugoli di uccelli che gridavano come anime perse, e io sperai che non ci costringessero a vivere in un posto così. Ma dopo un po' sulla costa apparvero fattorie e case, e la terra aveva un aspetto più accogliente, più addomesticato, si potrebbe dire. Ci fecero fermare su un'isola e ci sottoposero a un'ispezione per il colera, perché molti prima di noi l'avevano portato a terra dalle navi; ma siccome i morti sulla nostra nave erano morti per altri motivi (quattro persone oltre mia madre, due di consunzione e una per un colpo apoplettico, mentre un'altra si era
buttata in mare) ci lasciarono procedere. In quell'occasione potei dare una bella strigliata ai bambini nell'acqua del fiume, anche se era freddissima; gli lavai almeno il viso e le braccia, e ne avevano davvero bisogno. Il giorno dopo vedemmo la città di Quebec, su una ripida scogliera che sovrastava il fiume. Le case erano di pietra, e al porto lungo la banchina c'erano mercanti e venditrici ambulanti che offrivano le loro merci, e io riuscii a comprare delle cipolle fresche da una di loro, anche se parlava solo francese; contrattammo con le dita, e credo che ci abbia fatto un prezzo migliore per via dei bambini, con quelle loro facce smunte. Avevamo una tal voglia di queste cipolle che le mangiammo crude, come fossero mele, e dopo ci si gonfiò lo stomaco, ma non avevo mai mangiato una cipolla così buona. Alcuni passeggeri sbarcarono a Quebec, per tentare la fortuna lì, ma noi proseguimmo. Non mi viene in mente nient'altro degno di menzione durante il resto del percorso. Non facemmo altro che viaggiare, quasi sempre scomodi, e qualche volta per terra per evitare le rapide, e poi su un'altra nave sul lago Ontario, che sembrava più un mare che un lago. C'erano sciami di moscerini che mordevano, e zanzare grosse come topi; i bambini si grattarono quasi a morte. Nostro padre era di umore cupo e malinconico, e diceva spesso che non sapeva come avrebbe fatto, ora che nostra madre era morta. Meglio non dire niente, in quei casi. Alla fine arrivammo a Toronto, cioè dove dicevano che si potevano avere terreni gratuitamente. La città, in mezzo a una pianura piatta e umida, non era in un posto felice; quel giorno pioveva, e c'erano tante vetture e tanta gente che si muoveva in fretta, e fango dappertutto, tranne nelle strade principali che erano lastricate. La pioggia era mite e tiepida, e l'aria era densa, come quella di un acquitrino, sembrava olio che ti si condensa sulla pelle, e più tardi ho imparato che era normale in quella stagione, e causava molte febbri e malanni estivi. C'erano i lampioni a gas, ma non un'illuminazione grandiosa come quella di Belfast. Si vedeva un gran miscuglio di razze, molti scozzesi e qualche irlandese, inglesi naturalmente, tanti americani e alcuni francesi; e indiani pellerossa, ma senza piume; e anche dei tedeschi; con la pelle di tante diverse sfumature di colore, il che per me era una cosa nuova; e non sapevi mai che lingua ti dovevi preparare a sentire. C'erano molte bettole e tanti ubriachi nella zona del porto, per via dei marinai, insomma, per farla breve era una
specie di torre di Babele. Ma quel primo giorno non vedemmo granché della città, perché dovevamo procurarci un tetto sotto cui dormire spendendo il meno possibile. Sulla nave nostro padre aveva fatto conoscenza con un uomo che ci diede alcune informazioni; così ci lasciò con un boccale di sidro da dividerci fra tutti, stipati insieme ai bauli in una stanza di una locanda che era più lurida di un porcile, e uscì per scoprire qualcosa di più. Tornò la mattina dopo e ci disse che aveva trovato un alloggio, e andammo lì. Era a est del porto, dietro Lot Street, sul retro di una casa piuttosto decaduta. La padrona di casa era la signora Burt, rispettabile vedova di un uomo di mare, almeno così ci disse; una donna robusta e rossa in faccia, che mandava odore di anguilla affumicata e aveva qualche anno in più di mio padre. Viveva nella parte anteriore della casa, che aveva un gran bisogno di essere ridipinta, e noi in due stanze costruite più tardi sul retro. Erano senza fondamenta, e io ero contenta che non fosse inverno, perché sarebbero state spazzate dal vento. Il pavimento era di assi, posate troppo vicine al suolo, e così gli scarafaggi e altre bestioline salivano su dalle fessure, soprattutto dopo che era piovuto, e una mattina trovai anche un verme vivo. Le stanze venivano affittate senza mobili, ma la signora Burt ci prestò due letti con materassi di granturco, finché - disse - mio padre non si fosse rimesso in sesto dopo il brutto colpo che gli era capitato. Per l'acqua c'era una pompa nel cortile, e per cucinare potevamo usare una stufa di ferro nel corridoio tra le due parti della casa. Non era una stufa per cucinare, in realtà serviva a riscaldare, ma io mi ingegnai e dopo aver battagliato per un po' capii come funzionava e riuscii a convincerla a farmi bollire l'acqua. Era la prima stufa di ferro con cui avessi a che fare, così può ben capire che ci furono momenti difficili, per non parlare del fumo. Ma il combustibile non mancava certo, perché il Paese era letteralmente coperto di alberi, che la gente stava facendo del suo meglio per abbattere e togliere di mezzo. E c'erano anche pezzi di assi che avanzavano dalle case in costruzione, e i muratori te li davano per un sorriso e la fatica di portarteli via. Ma per dirle la verità, signore, non c'era molto da mettere in pentola, perché nostro padre diceva che doveva risparmiare i pochi soldi che aveva, per sistemarsi decentemente una volta che si fosse guardato attorno; perciò in principio vivevamo quasi solo di porridge. Ma la signora Burt teneva una capra in un capanno in fondo al cortile, e ci dava il latte fresco e, siccome era fine giugno, anche le cipolle dell'orto, e noi in cambio glielo ri-
pulivamo dalle erbacce, che ricrescevano in continuazione; e quando faceva il pane, ne faceva una pagnotta in più per noi. Diceva che le facevamo pena perché nostra madre era morta. Non aveva figli, il suo unico bambino era morto di colera insieme al suo compianto marito, e le mancava lo scalpiccio dei suoi piedini, almeno così diceva a nostro padre. Ci lanciava occhiate meste e ci chiamava poveri agnellini senza mamma oppure angioletti, nonostante la nostra aria cenciosa e non troppo pulita. Credo si fosse fatta l'idea di sposare mio padre; lui con lei dava il meglio di sé, si rendeva perfino presentabile; un uomo del genere, con un lutto così recente e tanti bambini a carico, dev'essere sembrato alla signora Burt una pera matura pronta a cadere dall'albero. Lo invitava nella parte nobile della casa per consolarlo; diceva che nessuno meglio di una vedova come lei sapeva che cosa significa perdere il consorte, ti buttava a terra, e avevi bisogno di un'amica sincera e comprensiva con cui condividere il tuo dolore; e lasciava capire che la più adatta alla bisogna era per l'appunto lei, e magari aveva ragione, visto che non c'erano altre aspiranti. Nostro padre, da parte sua, stava al gioco; se ne andava in giro che sembrava stravolto, col fazzoletto sempre alla mano, e diceva che gli avevano strappato il cuore, e cosa avrebbe mai fatto senza la sua amata compagna che ora era in cielo, perché era troppo buona per questa terra, e tutte queste piccole bocche innocenti da nutrire. Io ascoltavo le sue tiritere nel salotto della signora Burt, perché le pareti che dividevano le due parti della casa non erano per niente spesse, e se mettevi un bicchiere contro il muro e ci appoggiavi l'orecchio sentivi ancora meglio. Di bicchieri ne avevamo tre, ce li aveva prestati la signora Burt, li provai tutti e tre e poi scelsi il più adatto allo scopo. Era già stata abbastanza dura per me quando nostra madre era morta, ma avevo cercato di farmi forza e di mandare avanti la baracca; sentire mio padre che piagnucolava in quel modo mi dava il voltastomaco. Credo di aver cominciato soltanto allora a odiarlo davvero, soprattutto considerando come aveva trattato nostra madre da viva, come se fosse stata uno straccio per pulircisi le scarpe. E, anche se la signora Burt non lo sapeva, io sapevo che era tutta una finta, che cercava di commuoverla perché era in arretrato con l'affitto, dato che i soldi li aveva spesi alla più vicina osteria; poi vendette le tazze di porcellana di mia madre, quelle con le rose, e nonostante lo pregassi di non farlo vendette anche la teiera rotta, che secondo lui si poteva aggiustare. E le scarpe di nostra madre fecero la stessa fine, e così
pure il lenzuolo buono; avrei ben potuto usarlo come sudario per lei, sarebbe stato appena giusto. Se ne usciva di casa arzillo come un galletto, sostenendo che andava a cercar lavoro, ma io sapevo dove andava, si capiva dall'odore quando rientrava. Lo guardavo allontanarsi impettito lungo il viale e ricacciarsi in tasca il fazzoletto; e dopo un po' la signora Burt rinunciò ai suoi piani consolatori, non ci furono più inviti a prendere il tè in salotto, smise di regalarci latte e pane e chiese che le restituissimo i bicchieri e pagassimo l'affitto, se no ci avrebbe sbattuti fuori, armi e bagagli. Fu allora che mio padre cominciò a dirmi che ormai ero una donna ed era ora che andassi per il mondo a guadagnarmi il pane, come aveva fatto mia sorella prima di me, anche se non aveva mai mandato a casa soldi sufficienti, quella sgualdrina ingrata. E quando chiesi chi avrebbe badato ai bambini, disse che toccava a mia sorella Katey. Aveva nove anni, nove e mezzo per la precisione. E io mi resi conto che non potevo fare altrimenti. Non avevo la più pallida idea di come procurarmi un lavoro, ma chiesi alla signora Burt; era l'unica persona che conoscevo, in città. Ormai lei si voleva sbarazzare di noi, e non si può darle torto; ma vedeva in me una possibilità di rifarsi del danno subito. Una sua amica conosceva la governante dell'Assessora Parkinson, e aveva sentito dire che cercavano una persona in più; perciò mi disse di darmi una sistemata, mi prestò una cuffia pulita, mi accompagnò e mi presentò alla governante. Disse che ero una brava lavoratrice, volenterosa e di buon carattere, e che garantiva per me. Poi raccontò che mia madre era morta sulla nave ed era stata sepolta in mare, e la governante disse che sì, era proprio una vergogna, e mi osservò meglio. Ho notato che non c'è niente come una morte in famiglia per farti aprire le porte. La governante si chiamava signora Honey, ma era dolce solo di nome, perché era una donna segaligna col naso appuntito come uno smoccolatoio. A vederla avresti detto che viveva di pane secco e croste di formaggio, e probabilmente l'aveva fatto nella vita, essendo una gentildonna inglese decaduta costretta a fare la governante perché dopo la morte del marito si era ritrovata sola e senza un soldo in questo Paese. La signora Burt le disse che avevo tredici anni, e io non la smentii; mi aveva avvisata che era meglio così, avrei avuto più probabilità di essere assunta, e comunque non era del tutto falso, mi mancava meno di un mese per compiere tredici anni.
La signora Honey mi guardò stringendo le labbra e disse che ero pelle e ossa, e sperava che non fossi malata, e di cosa era morta mia madre? Ma la signora Burt disse niente di contagioso, e che ero solo poco sviluppata per la mia età e non avevo ancora finito di crescere, ma ero forte pur essendo magra e mi aveva vista trasportare bracciate di legna proprio come un uomo. La signora Honey prese tutto con beneficio d'inventario, tirò sul col naso e chiese se avevo un cattivo carattere, come capita spesso a quelli che hanno i capelli rossi; la signora Burt disse che avevo l'indole più docile del mondo e che avevo sopportato tutti i miei guai con cristiana rassegnazione, come una santa. Questo rammentò alla signora Honey di chiedere se ero cattolica, dato che quelli che vengono dall'Irlanda in genere lo sono; in tal caso non voleva aver niente a che fare con me, perché i cattolici erano papisti superstiziosi e ribelli che stavano rovinando il Paese; ma fu sollevata nell'apprendere che non lo ero. Poi chiese se sapevo cucire, e la signora Burt disse che cucivo veloce come il vento; la signora Honey si rivolse a me e chiese se era vero; io aprii finalmente bocca, tutta nervosa, e dissi che avevo aiutato mia madre a fare camicie fin da piccola, e sapevo fare benissimo le asole e rammendare calze, e mi ricordai perfino di chiamarla signora. Allora la signora Honey esitò, come se calcolasse mentalmente; poi volle vedere le mie mani. Forse voleva controllare se erano le mani di una che lavorava sodo; ma su questo non doveva farsi problemi, erano rosse e screpolate che di più non poteva desiderare, e sembrò soddisfatta. Si sarebbe detto che stesse comprando un cavallo, anzi fui sorpresa che non mi guardasse i denti; d'altra parte, chi tira fuori i soldi per pagare qualcuno, vuole che siano ben investiti. Il risultato fu che il giorno seguente la signora Honey, dopo aver parlato con l'Assessora Parkinson, mandò a dire che mi prendevano. La mia paga, oltre al vitto e alloggio, era di un dollaro al mese, il minimo che potessero pagare, in coscienza; ma la signora Burt disse che avrei potuto pretendere di più quando fossi stata più esperta e più vecchia. E a quell'epoca un dollaro valeva più di adesso. Io da parte mia ero contentissima di guadagnarmi dei soldi, e mi sembrò una fortuna. Mio padre si era messo in testa che avrei fatto la spola tra le due case, e dormito a casa nostra (era così che chiamava le nostre due stanze sgangherate) continuando ad alzarmi presto al mattino per accendere quella brutta bestia di stufa e mettere l'acqua a bollire, e poi avrei fatto le pulizie la sera
e anche il bucato tanto che c'ero, se bucato si poteva definirlo, visto che non avevamo nemmeno un paiolo per scaldare l'acqua ed era inutile chiedere a mio padre di spendere i soldi per il sapone, anche di infimo ordine. Invece, mi richiedevano di vivere in casa dell'Assessora Parkinson; avrei cominciato fin dalla settimana successiva. Benché mi spiacesse separarmi dai miei fratelli e sorelle, ringraziavo il cielo di dovermene andare, perché altrimenti presto sarei venuta ai ferri corti con mio padre. Più diventavo grande, meno riuscivo a contentarlo, e d'altra parte avevo perso la naturale fiducia che si ha da bambini verso i genitori, perché lui per bere toglieva il pane di bocca ai suoi figli e presto ci avrebbe costretti a chiedere l'elemosina e a rubare, o peggio. Inoltre era di nuovo violento, peggio che prima della morte di mia madre. Avevo già le braccia coperte di lividi, e una notte mi gettò contro il muro, come faceva a volte con mia madre, urlando che ero una sgualdrina e una puttana, e io svenni; dopo questo episodio avevo paura che mi rompesse la schiena, una volta o l'altra, e mi rovinasse per la vita. Ma dopo queste crisi di furia si svegliava al mattino e diceva che non ricordava niente, che non era in sé e non sapeva cosa gli era preso. Nonostante la stanchezza tremenda alla fine della giornata, di notte stavo sveglia a pensarci. Il fatto è che non si sapeva mai quando avrebbe perso la testa e si sarebbe scatenato, minacciando di ammazzare questo o quello, compresi i suoi stessi figli, senza un motivo al mondo, tranne la sua ubriachezza. Stavo cominciando a farmi certe idee sulla pentola di ferro, e su quanto era pesante; se per caso gli fosse caduta addosso mentre dormiva, avrebbe potuto spaccargli la testa, e lasciarlo morto stecchito; io avrei detto che era stato un incidente; non volevo lasciarmi andare a un peccato così grave, anche se avevo paura che la rabbia che mi ardeva nel cuore prima o poi mi avrebbe spinta a farlo. Così mentre mi preparavo ad andare a casa dell'Assessora Parkinson, ringraziai Dio per avermi tolto dal luogo della tentazione, e lo pregai di tenerla lontana da me in futuro. La signora Burt mi salutò con un bacio e mi fece gli auguri, e io ne fui felice nonostante la sua faccia grassa e chiazzata e il suo odore di pesce affumicato, perché in questo mondo se trovi una briciola di gentilezza devi prenderla senza fare tante storie, non cresce mica sugli alberi. I piccoli piansero quando me ne andai col mio fagottino, che comprendeva anche lo scialle di mia madre, e io dissi che sarei tornata a trovarli, e in quel momento ne avevo davvero intenzione.
Mio padre non era in casa quando partii. Meglio così, perché mi spiace dire che probabilmente ci saremmo insultati a vicenda, anche se da parte mia solo mentalmente. È sempre un errore rispondere agli insulti di chi è più forte di te, a meno che non ci sia un recinto alto e robusto di mezzo. 16 Da Simon Jordan, Dottore in Medicina, presso il Maggiore C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale, a Edward Murchie, Dottore in Medicina, Dorchester, Massachusetts. 15 maggio 1859 Mio caro Edward, ti scrivo alla luce dell'olio di mezzanotte, che abbiamo bruciato tanto spesso insieme, in questa casa maledettamente fredda, che per questo aspetto non è da meno del nostro ex alloggio di Londra. Ma presto esploderà il caldo, ci piomberanno addosso gli umidi miasmi e le malattie estive, di cui mi lamenterò a tempo debito. Ti ringrazio della tua lettera e della gradita notizia che contiene. Così ti sei dichiarato alla bella Cornelia, e sei stato accettato! Perdonerai un vecchio amico se non si dimostra troppo sorpreso, perché la cosa era scritta molto leggibilmente fra le righe delle tue lettere, e poteva essere indovinata senza fatica anche da un lettore non troppo perspicace. Ti prego di accettare le mie sentite congratulazioni. Da quel che so della signorina Rutherford, puoi dirti baciato dalla fortuna. È in questi momenti che invidio quelli che hanno trovato un rifugio sicuro a cui affidare il loro cuore; o forse li invidio perché hanno un cuore da affidare. Spesso a me sembra di esserne sprovvisto, e di possedere invece al suo posto una pietra a forma di cuore; e di essere pertanto destinato a «vagare solitario come una nuvola», per dirla con Wordsworth. La notizia del tuo fidanzamento darà sicuramente nuova energia alla mia cara mamma, e la spronerà a rinnovare i suoi sforzi matrimoniali nei miei confronti; non ho dubbi che tu verrai usato contro di me, come un esempio lampante di rettitudine, e come bastone per pungolarmi a ogni occasione. Be', ha senz'altro ragione. Prima o poi dovrò mettere da parte i miei scrupoli e obbedire all'ordine biblico: «Andate e moltiplicatevi». Dovrò consegnare il mio cuore di pietra a qualche gentile damigella, a cui non importe-
rà troppo che non sia un vero cuore di carne, e che avrà anche i mezzi materiali necessari a prendersene cura; perché i cuori di pietra sono notoriamente più esigenti degli altri in fatto di comfort. Nonostante questa mia menomazione, la mia cara mamma continua la sua campagna matrimoniale. In questo momento sta cantando le lodi della signorina Faith Cartwright, che ricorderai di aver incontrato qualche anno fa durante una delle tue visite. Pare che abbia tratto grande giovamento da un soggiorno a Boston, che per quanto ne so - e per quanto ne sai anche tu, mio caro Edward, perché eri studente con me ad Harvard - non ha mai giovato a nessun altro; ma dal modo in cui mia madre decanta le virtù morali della signorina, temo che fra i giovamenti non siano comprese migliorie ai suoi scarsi fascini fisici. Ahimè, è un genere di fanciulla ben diverso dalla degna e candida Faith, quello che avrebbe il potere di trasformare quel vecchio cinico del tuo amico in qualcosa di simile a un innamorato. Ma basta mugugnare e lamentarsi. Sono veramente contento per te, caro ragazzo, e danzerò al tuo matrimonio con tutto lo zelo di questo mondo, sempreché mi trovi dalle tue parti al momento delle nozze. Hai avuto la gentilezza - pur preso come sei dai tuoi trasporti amorosi di chiedermi come vanno le cose con Grace Marks. Per ora non c'è molto da raccontare, ma siccome i metodi che uso sono graduali e con effetti cumulativi, non mi aspettavo nessun rapido risultato. Il mio scopo è di risvegliare quella parte della sua mente che dorme, di gettare una sonda al disotto del livello di coscienza, e di scoprire i ricordi che devono, per forza, trovarsi lì sepolti. Mi avvicino alla sua mente come a una cassaforte chiusa, per cui devo trovare la chiave giusta; ma finora ammetto di non aver fatto grandi progressi. Mi sarebbe d'aiuto se fosse davvero matta, o perlomeno un po' più matta di quanto sembra; ma per il momento ha dimostrato un aplomb che qualunque duchessa potrebbe invidiarle. Non ho mai conosciuto una donna così completamente padrona di sé. A parte l'incidente prima del mio arrivo, a cui io disgraziatamente non ho potuto assistere, non ci sono stati accessi violenti. Ha una voce bassa e armoniosa, non una voce da serva ma quasi da signora (un trucchetto che ha sicuramente imparato durante il suo lungo servizio in casa di gente di ceto sociale superiore) e con appena una lieve traccia dell'accento dell'Irlanda del Nord che doveva avere quand'è arrivata, ma questo non è così strano perché a quell'epoca era una bambina e ormai ha passato più di metà della sua vita su questo continente. Lei «siede su un cuscino e cuce a piccoli punti», imperturbabile e con
una smorfietta sussiegosa, come una governante, e io di fronte a lei con i gomiti sul tavolo mi strizzo le meningi e cerco invano di aprirla come un'ostrica. Anche se chiacchiera con apparente franchezza, riesce a dirmi il meno possibile, soprattutto di quel che io voglio sapere; benché sia riuscito ad appurare parecchie cose sulla sua infanzia e situazione famigliare e sulla traversata dell'Atlantico, quando è emigrata, niente di tutto ciò si discosta granché dall'ordinario: la solita povertà, gli stenti eccetera. Chi crede nell'ereditarietà della pazzia potrebbe essere confortato dal fatto che suo padre era un alcolista, e forse anche un piromane; ma nonostante le numerose teorie contrarie, io non sono per niente convinto che queste tendenze debbano essere per forza ereditarie. Da parte mia, se non fosse perché il suo caso mi intriga, impazzirei anch'io, dalla noia; qui c'è ben poca gente frequentabile, e nessuno che condivida le mie opinioni e i miei interessi, a parte forse un certo Dottor DuPont, che è anche lui di passaggio; ma è un fanatico di quel balordo di scozzese, Braid, ed è un tipo strampalato pure lui. In quanto a passatempi e divertimenti, c'è poco da scialare; ho deciso di chiedere alla mia padrona di casa se posso zappare il suo orto (trascuratissimo) e piantare qualche cavolo e roba del genere, giusto per distrarmi un po' e fare del movimento. Vedi a cosa sono ridotto, io che non ho mai preso in mano una zappa in vita mia! Ma ora è mezzanotte passata, e devo concludere questa lettera e coricarmi nel mio freddo letto solitario. Ti mando i miei migliori e più affettuosi auguri, nella fiducia che tu conduca una vita più produttiva, e meno confusa, di quella del Tuo vecchio amico, Simon VI Cassetto segreto Isteria: gli attacchi hanno luogo, quasi sempre, in donne giovani, nervose, non sposate... Le giovani donne che ne sono soggette pensano sovente di soffrire di «tutti i mali che affliggono la carne»; e i falsi sintomi che manifestano sono così simili a quelli veri, che spesso è difficilissimo scoprire la differenza. Gli attacchi veri e propri sono di solito preceduti da umore molto depresso, facilità al pianto, nausee, palpitazioni cardiache eccetera... Poi la
paziente, di norma, perde conoscenza e sviene; il corpo si divincola in tutte le direzioni, esce bava dalla bocca, vengono espresse frasi senza senso, e si verificano parossismi di riso, di pianto o di grida. Al termine della crisi parossistica, la paziente per lo più piange sconsolatamente, e a volte ricorda tutto quel che è avvenuto, a volte niente... Isabella Beeton, Il Libro del Buon Governo della Casa, 1859-61 Se il mio cuore terra in un letto di terra Fosse, saprebbe, palpitando, il suo arrivo Se da cent'anni io morto giacessi Saprebbe la mia polvere, palpitando, il suo arrivo Sorgerebbe tremando sotto i piedi di lei In porpora e in rosso per lei sboccerebbe. Lord Alfred Tennyson, Maud, 1855 17 Simon sogna un corridoio. È quello dell'ultimo piano di casa sua, la vecchia casa, quella dell'infanzia; la grande casa che avevano prima del fallimento e della morte di suo padre. Lassù dormivano le cameriere. Era un mondo segreto, che un ragazzo come lui non avrebbe dovuto esplorare; invece lui ci andava di nascosto, scalzo, silenzioso come una spia. Ascoltava dietro le porte socchiuse. Di cosa parlavano quando pensavano che nessuno le sentisse? Nei momenti di massima temerarietà si avventurava nelle loro stanze, mentre erano di sotto. Con un brivido di eccitazione ispezionava le loro cose, le cose proibite; apriva pian piano i cassetti, toccava il pettine di legno con due denti rotti, il nastro avvolto con cura; frugava negli angoli, dietro la porta: la sottogonna sgualcita, la calza di cotone, una sola. La toccava: era tiepida. Il corridoio del sogno è lo stesso, ma più grande. Le pareti sono più alte, e più gialle; sono luminose, come se il sole ci passasse attraverso. Ma le porte sono chiuse, a chiave. Tenta di aprire una porta dopo l'altra, sollevando il chiavistello, spingendo piano, ma nessuna cede. Eppure c'è qual-
cuno dentro, lo sa. Donne. Le cameriere. Siedono sul bordo dei loro lettini, indossano sottovesti di cotone bianco, i capelli sciolti ondulati sulle spalle, le labbra semiaperte, gli occhi lucidi. Lo aspettano. La porta in fondo si apre. Dentro, c'è il mare. Non riesce a fermarsi, cade giù, l'acqua si richiude sulla sua testa, da lui si leva una striscia di bollicine argentee. Alle sue orecchie risuona una vaga risata tremolante; poi molte mani lo accarezzano. Sono loro, le cameriere, e sanno nuotare. Ma subito lo abbandonano, se ne vanno via, nuotando. Aiuto grida lui, ma sono già sparite. È aggrappato a qualcosa: una sedia rotta. Le onde si gonfiano e si frangono. Nonostante questo tumulto, non c'è vento, e l'aria è di una limpidezza assoluta. Appena più in là, ma troppo lontani per raggiungerli, galleggiano diversi oggetti: un vassoio d'argento, due candelieri, uno specchio, una tabacchiera intarsiata, un orologio d'oro, che stride come un grillo. Cose che un tempo erano di suo padre, e sono state vendute dopo la sua morte. Salgono dal profondo, come bolle d'aria, e ce ne sono sempre di più; quando arrivano in superficie girano lentamente su se stesse, come pesci morti. Non sono dure come il metallo, ma morbide e coperte di pelle squamosa, simile a quella dell'anguilla. Lui le fissa inorridito, perché ora si raggrumano, si fondono, si riformano. Tentacoli crescono. Una mano morta. È suo padre, che sta tornando in vita in questo agitarsi serpentino. È sopraffatto dalla sensazione di aver trasgredito. Si sveglia col cuore in gola, in un viluppo di lenzuola e coperte; i cuscini sono sul pavimento. È grondante di sudore. Dopo essere rimasto sdraiato calmo a riflettere per un po', pensa di aver capito la sequenza di associazioni che ha provocato il sogno. È stata la storia di Grace, con la traversata dell'Atlantico, la sepoltura in mare, l'elenco di oggetti di uso domestico; e la figura schiacciante del padre, naturalmente. Da un padre si passa a un altro. Controlla l'ora sull'orologio da taschino, che si trova sul comodino: ha dormito più del solito. Per fortuna la colazione è in ritardo, ma l'arcigna Dora potrebbe arrivare da un momento all'altro, e non vuole che lo sorprenda mentre poltrisce in camicia da notte. Si infila la vestaglia e si siede in fretta allo scrittoio, dando le spalle alla porta. Annoterà il sogno che ha fatto nell'apposito diario. Una scuola di aliénistes francesi raccomanda di prendere nota dei sogni e usarli come strumento diagnostico; anche i propri, non solo quelli dei pazienti, così da poterli
paragonare. Per loro i sogni, come il sonnambulismo, sono una manifestazione della vita animale che si estende oltre la coscienza, dove la volontà non può scoprirla né controllarla. Forse è lì che si trovano gli anelli perduti della catena della memoria, o i cardini delle sue porte? Deve rileggere il testo di Thomas Brown sull'associazione e la suggestione, e la teoria di Herbat sulla soglia della coscienza, la linea che divide le idee che vengono pensate alla luce del giorno da quelle altre che si acquattano, dimenticate, nell'ombra interiore. Moreau de Tours considera il sogno la chiave per la conoscenza della malattia mentale, e Maine de Biran riteneva che la vita conscia fosse soltanto una specie di isola galleggiante su un subconscio molto più vasto, da cui pescava idee come fossero pesci. Quel che percepiamo come conosciuto è solo una piccola parte di ciò che questo oscuro serbatoio può contenere. Laggiù si trovano ricordi perduti, come tesori sommersi, da recuperare poco alla volta, se mai ci si riesce; e la stessa amnesia può essere, in effetti, una specie di sogno al contrario; un affondare del ricordo, un tuffarsi nel profondo... Alle sue spalle la porta si apre: sta entrando la colazione. Immerge solerte la penna nell'inchiostro. Aspetta il tonfo del vassoio, il rumore delle stoviglie sbattute con malagrazia sul legno, ma non lo sente. «Lo metta sul tavolo, le spiace?» dice senza voltarsi. Un suono, come aria pompata fuori da un piccolo mantice; poi il fracasso di qualcosa che va in pezzi. Per un attimo Simon pensa che Dora gli abbia scagliato contro il vassoio (l'ha sempre vista come una criminale potenziale che reprime a stento la sua carica di violenza). Lancia un grido involontario, balza in piedi e si gira di scatto. Lunga distesa sul pavimento c'è la padrona di casa, la signora Humphrey, in uno sconquasso di piatti rotti e cibo spiaccicato. Si precipita da lei, si inginocchia e le tasta il polso. Perlomeno è ancora viva. Le solleva una palpebra, vede la cornea opaca. Slaccia rapidamente la pettorina del grembiule non troppo pulito che, nota, è lo stesso che indossa di solito la sciatta Dora; poi le sbottona il vestito e si accorge che manca un bottone, ed è rimasto solo il filo. Fruga alla cieca tra gli strati di stoffa e riesce infine a tagliare i lacci del busto col temperino; ne emana un odore di colonia alla violetta, foglie d'autunno e pelle umida. Non è poi così striminzita come pensava, anche se non si può certo dire in carne. La trasporta in camera da letto (il divano del soggiorno non va bene, è troppo stretto) e la distende sul letto, con un cuscino sotto i piedi per far af-
fluire il sangue alla testa. Si chiede se è il caso di toglierle le scarpe (che oggi non sono state lustrate) ma decide che sarebbe una familiarità ingiustificata. La signora Humphrey ha delle belle caviglie, e lui distoglie lo sguardo; la caduta le ha scompigliato i capelli. Vista così è più giovane di quanto pensasse; e anche molto più attraente, ora che lo stato di incoscienza le ha cancellato dalla faccia quell'aria tesa e ansiosa. Le appoggia l'orecchio al petto, ausculta: il battito è regolare. Un semplice svenimento, quindi. Bagna una salvietta con l'acqua della brocca e le strofina faccia e collo. Lei sbatte le palpebre. Simon riempie a metà un bicchiere dalla bottiglia d'acqua sul comodino, aggiunge venti gocce di sale volatile (una medicina che si porta sempre appresso nelle sue visite pomeridiane, nel caso Grace Marks dia prova di femminile fragilità, perché dicono che va soggetta agli svenimenti) e, mentre con un braccio solleva la signora Humphrey, le accosta il bicchiere alle labbra. «Mandi giù questo.» Lei trangugia con difficoltà, poi si porta una mano alla testa. In quel momento lui si accorge che ha un segno rosso sulla guancia. Forse quel farabutto del marito oltre che un ubriacone è anche un violento. Questo però sembra più un ceffone, mentre uno come il maggiore le avrebbe probabilmente mollato un pugno. Simon sente gonfiarsi un'ondata di pietà protettiva nei suoi confronti, una pietà che non può permettersi. Quella donna è solo la sua padrona di casa; a parte ciò, è una completa sconosciuta. E lui non vuole che la situazione cambi, anche se gli balena improvvisa alla mente, senza dubbio suscitata dalla vista di una donna inerme sdraiata sul suo letto sfatta, l'immagine di una signora Humphrey semisvenuta, senza busto e con la camiciola lacerata, i piedi - curiosamente, ancora infilati nelle scarpe - che tirano spasmodici calci in aria, intenta ad agitare invano le braccia e a emettere vaghi miagolii, mentre viene brutalizzata da un tipo grande e grosso che non somiglia per niente a lui; anche se indossa una vestaglia trapuntata che, vista dall'alto, e da dietro, da dove sembra trovarsi lui durante questa sordida scena, appare identica alla sua. Queste stranezze dell'immaginazione, così come ha potuto osservarle in se stesso, lo hanno sempre incuriosito. Da dove vengono? Se capitano a lui, devono capitare anche alla maggior parte degli uomini. Lui è sano e normale, e le facoltà razionali della sua mente sono altamente sviluppate; eppure non riesce sempre a controllare queste fantasie. Forse la differenza
tra un uomo civilizzato e un selvaggio indemoniato, diciamo pure un pazzo, consiste semplicemente in questa sottile patina di autocontrollo. «È al sicuro», le dice gentilmente. «È svenuta. Deve riposare tranquilla finché non si sente meglio.» «Ma... sono in un letto.» Lei si guarda attorno. «È il mio, signora Humphrey. Sono stato costretto a portarla qui perché non c'era un altro posto adatto.» La pelle del suo viso si è fatta rosea. Ha visto che lui è in vestaglia. «Devo andar via subito.» «La prego di ricordare che io sono un dottore, e in questo momento lei è la mia paziente. Se cercasse di alzarsi adesso, potrebbe avere una ricaduta.» «Ricaduta?» «Ha avuto un collasso, mentre portava...», sembra sconveniente parlarne, «... il vassoio della colazione. Se posso chiederglielo: dov'è finita Dora?» Con sua grande costernazione, ma non sorpresa, lei si mette a piangere. «Non potevo pagarla. Le dovevo tre mesi di salario; ero riuscita a vendere delle... delle cose mie personali, ma mio marito mi ha preso i soldi, due giorni fa. Da allora non è più tornato. Non so dove sia.» Fa un visibile sforzo per controllare le lacrime. «E stamattina?» «Abbiamo avuto... una discussione. Lei voleva essere pagata. Le ho detto che non potevo, che non era possibile. Ha detto che in tal caso si sarebbe pagata da sola. Ha cominciato a rovistare nei cassetti del mio comò, in cerca di gioielli, credo. Siccome non ne ha trovati, ha detto che voleva la mia fede. Era d'oro, anche se molto semplice. Ho cercato di impedirglielo. Ha detto che io non ero onesta. Mi ha... colpita. E poi l'ha presa, e ha detto che non mi avrebbe più fatto da schiava gratis, e se n'è andata. Dopo, ho preparato la sua colazione, e l'ho portata su. Che altro potevo fare?» Non è stato il marito, allora, pensa Simon. È stata quella scrofa di Dora. La signora Humphrey ricomincia a piangere, singhiozzando piano, con la dolcezza di un uccello che canta. «Lei avrà sicuramente qualche amica fidata da cui può andare. O che può venire da lei.» Simon è ansioso di trasferire la signora Humphrey dalle sue spalle a quelle di qualcun altro. Le donne si aiutano a vicenda; prendersi cura degli afflitti è terreno loro. Fanno brodi ristretti e budini. Confezionano scialli di lana. Accarezzano e consolano.
«Non ho amiche qui. Siamo venuti da poco in questa città, dopo aver subito... aver affrontato difficoltà finanziarie nel posto dove stavamo prima. Mio marito è contrario alle visite. Non vuole che io esca.» Simon è folgorato da un pensiero. «Deve mangiare qualcosa. Si sentirà più in forze.» Al che lei gli rivolge un sorriso esangue. «Non c'è niente da mangiare in casa, Dottor Jordan. La sua colazione era tutto quel che c'era. Sono due giorni che non mangio, da quando mio marito se n'è andato. Quel poco che c'era, se l'è mangiato Dora. Non ho buttato giù nient'altro che acqua.» E così Simon si ritrova al mercato, a comprare provviste per la sopravvivenza fisica della sua padrona di casa, coi suoi soldi. Ha scortato la signora Humphrey di sotto, nella sua parte della casa; lei ha insistito, dicendo che non poteva farsi trovare in camera del suo inquilino, nel caso che suo marito tornasse. Non si è stupito di trovare stanze quasi prive di mobili: nel salotto non restavano che un tavolo e due sedie. Ma c'era ancora un letto nella camera sul retro, e su quello aveva sistemato la signora Humphrey, prossima al crollo nervoso. E alla morte per fame, anche: niente da stupirsi che fosse tutt'ossa. Ha cercato di non pensare al letto e alle scene di miseria coniugale che su di esso devono essersi svolte. Poi è risalito nel suo alloggio, con un catino che ha trovato da qualche parte; la cucina era un macello. Ha ripulito il pavimento dalla colazione spiaccicata e dai piatti rotti, notando che per una volta l'uovo, ormai immangiabile, era stato cotto alla perfezione. Immagina che dovrà dare il preavviso alla signora Humphrey e cercarsi un altro alloggio, il che sarà un fastidio; ma pur sempre preferibile all'effetto di disturbo sulla sua vita e sul suo lavoro che avrebbe il restare lì. Disordine, caos, l'ufficiale giudiziario coi suoi uomini che viene a prendersi i mobili delle sue stanze, non c'è dubbio. Ma se lui se ne va, che ne sarà di quella sventurata donna? Non vuole averla sulla coscienza, e ce l'avrà se morirà di fame a un angolo di strada. Dalla bancarella di una vecchia contadina compra uova, pancetta, formaggio e del burro dall'aspetto non troppo pulito; e, in un negozio, un cartoccio di tè. Vorrebbe del pane, ma in giro non se ne vede. Non è che sappia come si fanno queste cose. È già stato al mercato, ma solo di corsa, per procurarsi le verdure con cui ha sperato di pungolare la memoria di Grace. Ora la sua posizione è completamente diversa. Dove si compra il latte? Perché non ci sono mele? Questo è un universo che non ha mai esplorato,
perché non è mai stato curioso di sapere da dove arrivava il suo cibo, gli bastava che arrivasse. Le altre clienti al mercato sono domestiche col cesto della padrona al braccio, o donne delle classi meno abbienti, con cuffie flosce e scialli inzaccherati. Sente che stanno ridendo alle sue spalle. Quando torna, la signora Humphrey non è più a letto. Si è avvolta in una trapunta e si è pettinata, e ora siede accanto alla stufa, che fortunatamente è accesa (lui non saprebbe da che parte cominciare), e si strofina le mani rabbrividendo. Lui riesce a prepararle un tè, a friggere uova e pancetta e a tostare un panino raffermo che ha poi trovato al mercato. Mangiano insieme, sull'unico tavolo rimasto. Gli piacerebbe che ci fosse la marmellata, ma non c'è. «È gentile da parte sua, Dottor Jordan.» «Non stia a pensarci. Non posso lasciarla morire di fame.» La sua voce è più cordiale di quanto vorrebbe, la voce di uno zio allegrone e ipocrita che non vede l'ora di elargire l'atteso quarto di dollaro alla nipote povera che si umilia davanti a lui, di darle un buffetto sulla guancia e scappar via per andare all'opera. Simon si chiede cosa starà facendo in questo momento il perfido Maggiore Humphrey, lo insulta fra sé, e lo invidia. Qualunque cosa stia facendo, sarà più piacevole di questa. La signora Humphrey sospira. «Ho paura che finirà così. Non ho più risorse.» Ora è calma, e osserva con obiettività la sua situazione. «L'affitto della casa dev'essere pagato, e i soldi non ci sono. Presto piomberanno su quel che resta come avvoltoi, e mi butteranno fuori. Forse mi arresteranno anche per debiti. Preferirei morire.» «Ci sarà sicuramente qualcosa che può fare», dice Simon. «Per guadagnarsi da vivere.» L'ammira, sta tentando disperatamente di mantenere la sua dignità. Lei gli lancia un'occhiata. Con questa luce, i suoi occhi hanno una strana sfumatura verdemare. «Cosa mi suggerisce, Dottor Jordan? Il ricamo? Le donne come me non hanno molti talenti da vendere.» C'è un accenno di ironia maliziosa nella sua voce. Forse sa quel che gli passava per la testa mentre lei giaceva svenuta sul letto disfatto? «Le pagherò altri due mesi d'affitto in anticipo», si scopre a dire. È uno stupido, un idiota dal cuore tenero; se avesse un po' di buon senso fuggirebbe di qui come se avesse il diavolo alle calcagna. «Dovrebbe bastare per tenere a bada i lupi, e darle il tempo di prendere in considerazione le sue prospettive.» Gli occhi di lei si riempiono di lacrime. Senza una parola, solleva la sua
mano dal tavolo e se la porta delicatamente alle labbra. Il bacio è appena inumidito dalla traccia di burro che le è rimasto sulla bocca. 18 Oggi il Dottor Jordan è più scarruffato del solito, e deve avere qualcosa per la testa; sembra non sapere da dove cominciare. E non ha portato nessuna verdura. Perciò continuo a cucire per dargli il tempo di ricomporsi; poi lui dice: È una nuova trapunta quella che stai facendo, Grace? E io dico: Sì, signore, è un Vaso di Pandora per la signorina Lydia. Questo lo mette di umore didattico, e capisco che sta per insegnarmi qualcosa, come amano fare gli uomini istruiti. Anche il signor Kinnear era così. Dice: E tu lo sai chi era Pandora, Grace? E io dico: Sì, era una greca dei tempi antichi, che guardò dentro un vaso dove le avevano detto di non guardare, e ne uscirono un sacco di malattie, e guerre, e altri mali dell'umanità; l'avevo imparato tanto tempo fa, a casa dell'Assessora Parkinson. A Mary Whitney questa storia pareva scema, diceva: Perché mai hanno lasciato quel vaso in giro, se non volevano che venisse aperto? Lui è sorpreso che io lo sappia, e dice: Ma sai cosa c'era al fondo del vaso? Sì, signore, dico, c'era la speranza. E si può fare una battuta, e dire che quando raschi il fondo del barile ti resta la speranza, come capita a quelle che alla fine si sposano per disperazione. O magari è in fondo al cassetto. Comunque è solo una favola; però è un bel modello di trapunta. Be' suppongo che tutti abbiamo bisogno di un po' di speranza ogni tanto, dice lui. Io sto per dire che è da un po' che ne faccio a meno, ma mi trattengo; poi dico: Oggi non è lei, signore, spero che non stia male. E lui fa il suo sorriso sbilenco e dice che non sta male, è solo preoccupato; ma che se continuo con la mia storia gli sarò d'aiuto, perché lo distrarrò dai suoi pensieri; però non dice quali sono questi pensieri. Così continuo. Ora signore, dico, viene una parte più felice nella mia storia; e in questa parte le racconterò di Mary Whitney, così capirà perché ho preso in prestito il suo nome, quando ne avevo bisogno; perché lei non si tirava mai indietro se un'amica aveva bisogno, e anch'io spero di aver fatto altrettanto
per lei, quando è venuto il momento. La casa dove mi avevano assunta era davvero grandiosa, ed era nota come una delle più belle case di Toronto. Si trovava sulla Front Street, con vista sul lago, nella zona delle grandi ville; e la facciata aveva un porticato semicircolare, con colonne bianche. La sala da pranzo era di forma ovale, come pure il salone, ed era una meraviglia, anche se piena di correnti d'aria. E c'era una biblioteca grossa come una sala da ballo, con scaffali che arrivavano al soffitto stipati di libri rilegati in pelle, con tante di quelle parole dentro che non ti basterebbe una vita per leggerle. E nelle camere da letto c'erano letti alti, a baldacchino, con i tendaggi e le zanzariere per tener lontani gli insetti d'estate, e tavole da toletta con specchi, comò di mogano e cassettoni pieni di roba. Loro appartenevano alla Chiesa d'Inghilterra, come tutta la gente più in vista a quei tempi, e anche quelli che in vista avrebbero voluto esserci, perché era la Chiesa ufficiale. La famiglia consisteva in: primo, l'Assessore Parkinson, che si faceva vedere poco, perché era occupatissimo con gli affari e la politica; sembrava una mela con due stecchi piantati dentro a mo' di gambe. Aveva tante di quelle catene d'orologio d'oro e fermacravatte d'oro e tabacchiere d'oro e altri gingilli, che avresti potuto fonderlo e ricavarne cinque collane, con gli orecchini intonati. Poi c'era l'Assessora Parkinson, e Mary Whitney diceva che avrebbe dovuto essere lei l'Assessore, perché era lei l'uomo di casa. Era una donna imponente, di forma molto diversa a seconda che avesse il busto oppure no; ma quando ce l'aveva allacciato ben bene, il petto le sporgeva in fuori come una mensola, e avrebbe potuto portarci su un intero servizio da tè, senza versarne una goccia. Veniva dagli Stati Uniti d'America, ed era stata una vedova abbiente prima di essere, come si esprimeva, sopraffatta dal fascino dell'Assessore Parkinson; che spettacolo dev'essere stato; Mary Whitney diceva che c'era da stupirsi che l'Assessore Parkinson ne fosse uscito vivo. Aveva due figli grandi che erano in un college negli Stati Uniti; e anche una spaniel di nome Bevelina, che faceva parte della famiglia perché la trattavano come una di loro. Di solito gli animali mi piacciono, ma con questa qui dovevo sforzarmi. Poi c'erano i domestici, che erano tanti; e mentre ero lì alcuni se ne andarono, e altri arrivarono, ma di questi non ne parlo nemmeno. C'era la cameriera personale dell'Assessora Parkinson, che sosteneva di essere francese anche se noi avevamo i nostri dubbi, e se ne stava per conto suo; e la signora Honey, la governante, che aveva una stanza bella grande al pri-
mo piano, sul retro della casa, come anche il maggiordomo; la cuoca e la lavandaia vivevano vicino alla cucina. Il giardiniere e lo stalliere vivevano nelle dépendance, come pure le due sguattere, vicino alla stalla con i cavalli e tre mucche; io a volte ci andavo per aiutare a mungere. A me mi sistemarono nell'attico, proprio in cima alla scala di servizio; dividevo il letto con Mary Whitney, che aiutava in lavanderia. La stanza non era grande, era calda d'estate e fredda d'inverno, perché era sotto il tetto e non c'era camino né stufa; dentro c'era un letto con un materasso riempito di paglia, un piccolo cassettone, una bacinella sbeccata per lavarsi e un vaso da notte; e anche una sedia con lo schienale alto, verniciata di verde chiaro, su cui la sera piegavamo i vestiti. Dall'altra parte del corridoio c'erano Agnes e Effie, che facevano pulizia nelle camere. Agnes era portata per la religione, però era di buon cuore e servizievole. Da giovane aveva provato un preparato per togliere il giallo dai denti, ma le aveva tolto anche il bianco, e forse era per quello che sorrideva poco, e sempre a labbra chiuse. Mary Whitney diceva che pregava così tanto perché stava pregando Dio di farle ricrescere i denti bianchi, ma senza risultato, finora. Effie si era intristita quando il suo ragazzo era stato spedito in Australia per aver partecipato alla Rivolta, tre anni prima; e quando ricevette una lettera che diceva che era morto laggiù, cercò di impiccarsi con i lacci del grembiule, ma si ruppero; la trovarono per terra mezza soffocata e fuori di testa, e dovettero rinchiuderla. Io non sapevo niente della Rivolta, perché a quell'epoca non ero qui, così Mary Whitney mi spiegò. Era contro i possidenti, che comandavano tutto, e si tenevano per sé tutto il denaro e la terra; ed era capeggiata da William Lyon Mackenzie, che era un radicale, e dopo che la Rivolta fallì fuggì, vestito da donna, nel ghiaccio e nella neve, oltre il lago fin negli Stati Uniti, e avrebbero potuto tradirlo molte volte ma non lo fecero, perché era un uomo come si deve che stava sempre dalla parte dei contadini; ma molti dei ribelli erano stati presi ed esiliati o impiccati, e avevano perso i loro beni oppure se n'erano andati al Sud, e quasi tutti quelli che erano rimasti qui erano Tory, o dicevano di esserlo; quindi era meglio non parlare di politica, a meno di essere fra amici. Io dissi che di politica non ne capivo niente, perciò non ne avrei parlato comunque; e chiesi a Mary se era una radicale. E lei disse che non dovevo dirlo ai Parkinson, a cui era stata raccontata una storia ben diversa, ma era per quello che suo padre aveva perso la terra dissodata da lui stesso con tanta fatica; gli avevano bruciato la casa di tronchi che aveva costruito con
le sue mani, tenendo a bada gli orsi e altri animali; e poi aveva perso anche la vita, con la malattia che gli era venuta dopo aver passato l'inverno nascosto nei boschi; e sua madre era morta di crepacuore. Ma sarebbe venuto il loro momento, si sarebbero vendicati; e aveva un'aria indomita mentre lo diceva. Ero contenta di essere con Mary Whitney, perché mi era piaciuta subito. Era la più giovane, a parte me, aveva sedici anni; era una ragazza carina e allegra, sempre ordinata, con capelli scuri, occhi neri lucenti, e guance rosse con due fossette; profumava di noce moscata e di garofani. Volle sapere tutto di me, e io le raccontai del viaggio per nave, che mia madre era morta, e che era scivolata giù nel mare in mezzo agli iceberg. E Mary disse che era molto triste. Poi le dissi di mio padre, ma il peggio me lo tenni per me, perché non sta bene parlar male dei genitori; dissi che temevo volesse prendersi tutto il mio salario; e lei rispose che non dovevo dargli i miei soldi perché non era lui che se li era guadagnati, tanto non avrebbero fatto del bene ai miei fratelli e sorelle, se li sarebbe spesi tutti per sé e sicuramente per il bere. Dissi che avevo paura di lui, e lei mi rassicurò: qui non poteva farmi niente, e se ci provava ne avrebbe parlato con Jim giù alle stalle, che era grande e grosso e aveva degli amici. E io cominciai a sentirmi più tranquilla. Mary disse che sarò anche stata giovane, e ignorante come un uovo di giornata, ma ero intelligente, e la differenza tra uno stupido e un'ignorante era che l'ignorante poteva sempre imparare. Disse che le sembravo una che non si tira indietro di fronte al lavoro, e che saremmo andate d'accordo; lei era stata a servizio in altre due case, e se proprio dovevi fare la domestica, allora tanto valeva farlo dai Parkinson, che almeno non lesinavano sul mangiare. Questo era vero, e io cominciai presto a mettere su peso e a crescere. Ah, certo che si mangiava meglio qui in Canada che dall'altra parte dell'oceano, e con più varietà; perfino la servitù mangiava carne tutti i giorni, magari solo maiale salato o pancetta, ma pur sempre carne; e il pane era buono, di grano e di granturco indiano; e la casa aveva le sue tre mucche, l'orto e il frutteto, e fragole, ribes e uva; e anche aiuole fiorite. A Mary Whitney piaceva scherzare, e quando eravamo sole era molto irriverente e audace nel parlare. Ma con i più anziani e i superiori, assumeva un contegno rispettoso e modesto; perciò, e anche perché era efficiente sul lavoro, era la beniamina di tutti. Ma quando voltavano le spalle faceva battute e imitava le loro espressioni e il modo di camminare e di muoversi. Spesso ero sbalordita dalle parole che le uscivano di bocca, molte delle
quali proprio volgari; non che non avessi mai sentito quel linguaggio, perché a casa mia ce n'era da vendere quando mio padre si ubriacava, e anche durante la traversata in nave, e giù al porto davanti alle osterie e alle locande; ma mi stupiva sentirlo da una ragazza, così giovane e carina perdipiù, così pulita e tirata a lucido. Ma ci feci presto il callo, e lo attribuii al fatto che era una canadese purosangue, e non aveva troppo rispetto per le gerarchie. Qualche volta, quando mi scandalizzavo, mi diceva che un giorno o l'altro mi sarei messa a cantare inni funebri come Agnes, e me ne sarei andata in giro immusonita con la bocca all'ingiù e tutta cascante come il didietro di una zitella; allora io protestavo, e alla fine ci mettevamo a ridere. Ma il fatto che certa gente ha così tanto e gli altri così poco la mandava in bestia, perché non ci vedeva nessun disegno divino. Sosteneva che sua nonna era una pellerossa, ecco perché aveva i capelli così neri; e che appena avesse potuto se ne sarebbe scappata nei boschi, e sarebbe andata in giro con arco e frecce, e basta con questa storia di pettinarsi e portare il busto; se volevo potevo andare con lei. Allora ci mettevamo a fare progetti di nasconderci nella foresta, tendere agguati ai viaggiatori e scalparli, come aveva letto nei libri; diceva che le sarebbe piaciuto scalpare l'Assessora Parkinson, però non ne valeva la pena perché tanto i capelli non erano suoi, e nello spogliatoio ne teneva a mucchi e a matasse; una volta aveva visto la cameriera francese che li spazzolava, e li aveva scambiati per il cane. Ma era solo per ridere, non facevamo sul serio. Mary mi prese sotto la sua ala fin dal primo momento. Indovinò quasi subito che non avevo l'età che dichiaravo, e mi promise di non dirlo a nessuno; poi ispezionò i miei vestiti e disse che erano quasi tutti troppo piccoli per me e comunque erano stracci da buttar via, e che non avrei potuto passare l'inverno solo con lo scialle di mia madre, perché il vento ci sarebbe passato in mezzo come a un setaccio; che mi avrebbe aiutata a procurarmi i vestiti che mi occorrevano, e che la signora Honey le aveva detto che sembravo una stracciona e che bisognava rendermi presentabile, perché l'Assessora Parkinson aveva un prestigio da salvaguardare, nel circondario. Ma prima di tutto si doveva darmi una bella strigliata, sporca com'ero. Disse che avrebbe chiesto in prestito la tinozza da bagno della signora Honey; io ne fui allarmata, perché non avevo mai fatto un bagno prima, e inoltre avevo paura della signora Honey; ma Mary disse che abbaiava più di quanto mordesse, e che comunque non poteva coglierti di sorpresa, per-
ché con tutte quelle chiavi che si portava addosso sferragliava come un carretto di rigattiere; in ogni caso, se si metteva a discutere, avrebbe minacciato di farmi il bagno fuori, sotto la pompa del cortile, nuda come un verme. Io ne fui sconvolta, e dissi che non l'avrei mai permesso; ovviamente non avrebbe mai fatto una cosa del genere, rispose lei, ma la signora Honey solo a sentirne parlare avrebbe ceduto. Tornò prestissimo e disse che potevamo prendere la tinozza a patto di strofinarla ben bene dopo; la portammo nella lavanderia, pompammo l'acqua, la facemmo intiepidire sulla stufa e la versammo dentro. Chiesi a Mary di stare dietro la porta perché nessuno entrasse, e di voltarsi dall'altra parte, perché non mi ero mai tolta tutti i vestiti prima di allora, e in ogni caso, per modestia, mi tenni la sottoveste. L'acqua non era molto calda, e prima della fine ero tutta un brivido; per fortuna era estate, se no sarei morta di freddo. Mary mi disse che dovevo lavarmi anche i capelli; era vero che lavarli troppo ti indeboliva il fisico, e aveva conosciuto una ragazza che si era consumata ed era morta a forza di lavarsi i capelli, però, ogni tre o quattro mesi, bisognava farlo; mi guardò in testa e disse che almeno non avevo i pidocchi, ma se per caso spuntavano avrei dovuto metterci su zolfo e trementina, come aveva fatto lei una volta, che poi le era rimasta per giorni e giorni la puzza di uova marce. Mary mi prestò una camicia da notte mentre la mia si asciugava, perché mi aveva lavato tutti i vestiti; mi avvolse in un lenzuolo per farmi uscire dalla lavanderia e salire su per le scale di servizio; e disse che avevo un aspetto davvero buffo, sembravo una pazza. Mary chiese alla signora Honey di darmi un anticipo sul salario, per un vestito decente; e chiedemmo il permesso di andare in città il giorno dopo. Prima che uscissimo la signora Honey ci fece la predica, disse che dovevamo mantenere un contegno decoroso, andare e tornare difilato, senza parlare agli sconosciuti, soprattutto agli uomini; e noi promettemmo di farlo. Temo, però, che abbiamo preso invece la strada più lunga, per guardare i fiori nei giardini delle case, dietro gli steccati, e i negozi, che, da quel poco che avevo visto, non erano così tanti né così lussuosi come quelli di Belfast. Poi Mary mi domandò se volevo vedere la strada dove vivevano le puttane; io avevo paura, ma lei disse che non c'era nessun pericolo. In effetti ero curiosa di vedere le donne che si mantenevano vendendo il loro corpo, perché pensavo che, al peggio, se proprio avessi fatto la fame, mi
restava pur sempre qualcosa da vendere; e volevo vedere com'erano. Così andammo in Lombard Street, ma siccome era mattina non c'era granché da vedere. Mary disse che lì c'erano parecchi bordelli, anche se da fuori non si distinguevano; ma si diceva che dentro fossero tutti eleganti, con tappeti persiani e candelabri di cristallo e tende di velluto, e le puttane che ci vivevano avevano ognuna la propria camera, con le cameriere che gli portavano la colazione e lavavano i pavimenti e facevano i letti e portavano via i vasi da notte, e tutto quel che avevano da fare era mettersi i vestiti e poi toglierseli di nuovo, e stare sdraiate sulla schiena, e certo non era faticoso come andare in miniera o in fabbrica. Quelle che stavano nelle case erano le puttane di lusso, le più costose, e gli uomini erano tutti gentiluomini, o perlomeno clienti che pagavano bene. Ma poi c'erano quelle da poco prezzo, che dovevano star fuori e camminare, e usare camere affittate a ore; e molte si prendevano delle malattie, e a vent'anni erano già vecchie, e dovevano impiastricciarsi la faccia di belletto per accalappiare i poveri marinai ubriachi. E anche se da lontano potevano sembrare delle elegantone, con le loro sete e piume, da vicino si vedeva che i vestiti erano sporchi e non della loro misura, perché tutto quel che avevano addosso era noleggiato a giornata, e magari non gli restavano neppure i quattrini per il pane; era una gran brutta vita, e lei si chiedeva come mai non si buttavano nel lago; qualcuna infatti si buttava, e la trovavano che galleggiava nel porto. Mi domandavo come facesse Mary a sapere tutte queste cose; ma lei rise e disse che avrei imparato molto se avessi tenuto le orecchie aperte, soprattutto in cucina; inoltre, una ragazza che conosceva quando abitava in campagna era andata a finir male, e l'aveva incontrata più volte in strada; non sapeva che ne fosse stato di lei, ma temeva che avesse fatto una brutta fine. Dopodiché andammo in King Street, in una merceria dove vendevano scampoli a poco prezzo; c'erano sete e cotoni, rasatelli e flanelle, satin e tartan, e tutto quel che si poteva desiderare; ma dovevamo guardare al costo, e all'uso che si doveva farne. Alla fine comprammo una tela robusta di cotone a quadrettini bianchi e blu, e Mary disse che mi avrebbe aiutata a cucirla; fu sorpresa quando, al momento buono, scoprì che sapevo cucire così bene e a punti così piccoli, e disse che ero sprecata come domestica, e avrei dovuto mettermi in proprio e fare la sarta. Il filo per il vestito, e anche i bottoni, li comprammo da un ambulante che passò di lì il giorno dopo. Lo conoscevano tutti, e la cuoca, che aveva una simpatia per lui, gli preparò una tazza di tè e gli tagliò una fetta di dol-
ce mentre lui apriva la sua sacca e metteva in mostra le merci. Si chiamava Jeremiah, e quando arrivava lungo il vialetto dell'ingresso di servizio, una banda di cinque o sei ragazzotti cenciosi, uno dei quali batteva colpi di cucchiaio su una pentola, gli veniva dietro, come un corteo; e tutti cantavano: Jeremiah, soffia sul camino Soffia soffia soffia, Prima soffi forte Poi soffi piano piano! A quel fracasso, tutte ci affacciammo alla finestra; quando arrivarono alla porta di servizio, lui diede un penny ai bambini, che scapparono via; e quando la cuoca gli chiese cos'era quel cancan, lui disse che preferiva essere seguito e obbedito piuttosto che preso di mira con fango e sterco di cavallo, come facevano di solito con i venditori ambulanti, che non potevano corrergli dietro senza mollare la loro roba, e allora quei piccoli ruffiani facevano man bassa; quindi gli era sembrato più saggio reclutarli, e insegnargli quella canzoncina. Questo Jeremiah era un uomo sveglio e agile, con il naso e le gambe lunghe, la pelle brunita dal sole e una barbetta nera riccia, e Mary disse che, anche se sembrava un ebreo o uno zingaro, come tanti che facevano lo stesso mestiere, era uno yankee con un padre italiano che era venuto in America a lavorare in fabbrica, nel Massachusetts, e di cognome si chiamava Pontelli, però era simpatico a tutti. Parlava bene l'inglese, ma con una traccia di accento straniero; aveva occhi neri penetranti e un sorriso largo e attraente, e adulava le donne senza ritegno. Aveva tante cose che avrei comprato volentieri, ma non potevo, anche se mi disse che si accontentava di metà della somma, e l'altra metà la prossima volta; ma non mi piace fare debiti. Aveva nastri e pizzi, filo e bottoni di metallo, di madreperla, di legno e d'osso; io scelsi quelli d'osso; aveva anche calze di cotone bianco, colletti e polsini, cravatte e fazzoletti, diverse sottogonne, e due busti, usati ma ben lavati e quasi come nuovi; e anche guanti estivi in colori pastello, di buona fattura. E orecchini, color argento e oro, ma Mary disse che il colore sarebbe venuto via; e una tabacchiera d'argento vero; e flaconi di profumo con un odore fortissimo di rosa. La cuoca ne comprò alcuni, e Jeremiah disse che non ne aveva bisogno, perché era già profumata come una principessa; e lei arrossì e si mise a ridac-
chiare benché avesse quasi cinquant'anni e non fosse per niente bella, e disse: Sì, di cipolla, e lui disse che aveva un odore così buono che era da mangiare, e che per arrivare al cuore di un uomo si passa per lo stomaco, poi sorrise coi suoi dentoni bianchi, che sembravano ancora più grossi e più bianchi per via della barba scura, e le lanciò un'occhiata famelica leccandosi le labbra, come se lei fosse una torta squisita e lui avesse l'acquolina in bocca, e la cuoca diventò ancora più rossa. Poi ci chiese se avevamo niente da vendere, perché, come sapevamo, lui pagava bene; Agnes vendette gli orecchini di corallo che le aveva regalato una zia, dicendo che erano una cosa futile, ma noi sapevamo che aveva bisogno dei soldi per sua sorella, che era in difficoltà; e arrivò Jim lo stalliere e disse che voleva scambiare una delle sue camicie, con in più un grosso fazzoletto colorato, con una camicia migliore e che gli piaceva di più; e l'affare fu concluso con l'aggiunta di un coltello da tasca col manico di legno. Con Jeremiah in cucina, era come se ci fosse una festa, e la signora Honey venne a vedere che cos'era questo trambusto. E disse: Be' Jeremiah, vedo che ti dai da fare come tuo solito, stai approfittando di queste donne. Ma sorrideva nel dirlo, uno spettacolo davvero raro. E lui disse che sì, era proprio così, non poteva resistere a tante donne così carine, ma la più carina era lei; e lei comprò due fazzoletti di lino, e gli disse di darsi una mossa e non star lì tutto il giorno, perché le ragazze dovevano lavorare. Poi se ne uscì sferragliando dalla cucina. Qualcuna voleva farsi leggere la mano; ma Agnes disse di non tirare in ballo il Diavolo e che all'Assessora Parkinson non sarebbe piaciuto se si veniva a sapere in giro che nella sua cucina si facevano quelle cose da zingari. Così non ci lesse la mano. Però, dopo essersi fatto pregare, fece l'imitazione di un gentiluomo, voce, atteggiamento e tutto, ed era così realistico che battemmo le mani dalla gioia; poi tirò fuori una moneta d'argento dall'orecchio della cuoca e ci fece vedere come faceva a ingoiare una forchetta, o a far finta di ingoiarla. Disse che questi trucchi da prestigiatore li aveva imparati al tempo della sua gioventù dissoluta, quand'era un giovanotto scapestrato e lavorava nelle fiere, prima di diventare un onesto commerciante e di farsi sfilare il protafoglio e spezzare il cuore cinquanta volte dalle belle ragazze crudeli come noi; e tutte le presenti risero. Ma dopo che ebbe riposto di nuovo tutto nella sua sacca, bevuto la tazza di tè e mangiato la torta, e detto che nessuno faceva torte buone come quelle della cuoca, mentre se ne stava andando, mi fece cenno di avvicinarmi e
mi regalò un bottone d'osso in più, come quelli che avevo comprato. Me lo mise in mano e ci richiuse sopra le mie dita; le sue erano dure e asciutte come sabbia; ma prima gettò un'occhiata veloce alla mia mano, poi disse: Il cinque porta fortuna; perché quella gente considera il quattro un numero sfortunato, e i dispari più fortunati dei pari. Mi lanciò un rapido sguardo penetrante con i suoi occhi neri lucidi e disse, molto piano per non farsi sentire dalle altre: Ci saranno tempi duri. Ma ce ne sono sempre, secondo me, signore, e d'altra parte per me ce n'erano già stati, ed ero sopravvissuta; quindi non mi spaventai troppo. Ma poi mi disse una cosa stranissima. Disse: Sei una di noi. Poi si gettò la sacca in spalla, prese il bastone e se ne andò; e io rimasi lì a pensare a cosa voleva dire. Ma dopo averci rimuginato sopra, decisi che si riferiva al fatto che anch'io ero senza casa, una vagabonda, come gli ambulanti e quelli che lavorano nelle fiere; non riuscivo a immaginare cos'altro potesse intendere. Dopo che se ne fu andato, ci sentivamo tutte un po' abbattute e svuotate, perché non capitava spesso che noi della servitù potessimo goderci una tale baldoria, guardare delle belle cose e ridere e divertirci, in pieno giorno. Ma il vestito riuscì molto bene, e siccome c'erano cinque bottoni invece di quattro, ne usammo tre sul davanti e uno per ogni polsino; e perfino la signora Honey disse che faceva una bella differenza, e che ora che ero vestita decentemente avevo un'aria linda e rispettabile. 19 Mio padre comparve alla fine del primo mese; voleva tutto il mio salario; ma io gli diedi solo un quarto di dollaro, perché il resto l'avevo speso. Allora cominciò a lanciare improperi e bestemmiare, e mi afferrò per un braccio; ma Mary gli sguinzagliò contro i garzoni di scuderia. E tornò alla fine del secondo mese, e gli diedi di nuovo un quarto di dollaro, e Mary gli disse che non doveva più venire. Lui la insultò, e lei lo insultò ancora peggio, e chiamò gli uomini con un fischio; lo cacciarono via. Io non ero del tutto convinta, perché mi spiaceva per i bambini; più tardi cercai di mandar loro un po' di denaro, tramite la signora Burt; ma non credo che l'abbiano mai ricevuto. In principio mi misero a fare la sguattera, a strofinare pentole e padelle, ma presto si accorsero che i paioli di ferro erano troppo pesanti per me; poi la nostra lavandaia se ne andò a lavorare da un'altra parte, e ne venne una
nuova, meno svelta, e la signora Honey disse che dovevo aiutare Mary a sciacquare e strizzare i panni, e ne fummo entrambe molto contente. Mary disse che mi avrebbe insegnato quel che c'era da sapere, e siccome ero intelligente avrei imparato in fretta. Quando facevo uno sbaglio e mi veniva l'ansia, Mary mi consolava e diceva che non dovevo prenderla tanto sul serio, e che se non sbagli mai, non impari neppure; e quando avevo le lacrime agli occhi per le parole brusche della signora Honey, Mary diceva di non darle retta, era fatta così, aveva ingoiato una bottiglia di aceto e doveva pur risputarlo fuori. Inoltre, dovevo ricordarmi che non eravamo schiave, e che servi non si nasce, né si è costretti a restarlo per sempre; era solo un lavoro. Diceva che in questo Paese era normale che le ragazze andassero a servizio, per guadagnarsi i soldi della dote; poi si sposavano, e se gli affari dei loro mariti andavano bene, presto anche loro avrebbero assunto dei domestici, perlomeno una ragazza tuttofare; e che un giorno sarei stata indipendente e padrona di una bella fattoria, e avrei sorriso ripensando ai miei affanni e alle mie tribolazioni sotto le grinfie della signora Honey. E che una persona valeva quanto un'altra, e che da questa parte dell'oceano la gente si faceva un posto nel mondo a forza di lavoro, non perché suo nonno era stato questo o quello, ed era così che doveva essere. Diceva che per fare la domestica, come per ogni cosa, c'è un segreto che molte non imparano mai, e consiste nel tuo punto di vista. Per esempio, ci dicevano sempre di usare le scale di servizio per non intralciare quelli di casa, ma la verità era il contrario: le scale principali esistevano perché quelli di casa non intralciassero noi. Le padrone potevano sgambettare su e giù per le scale principali, tutte infronzolate e ingioiellate, senza interferire, immischiarsi né dare fastidio, mentre il vero lavoro procedeva dietro le loro spalle. Erano creature incapaci e ignoranti, benché ricche, e quasi nessuna di loro sarebbe stata in grado di accendere un fuoco, neppure se avesse avuto le dita dei piedi congelate, perché non sapevano, e c'era da stupirsi che riuscissero a soffiarsi il naso o pulirsi il didietro da sole, erano per loro natura inutili come il pisello per un prete - lei mi scuserà, signore, ma era così che diceva - e se domani avessero perso tutti i loro soldi e si fossero trovate in mezzo a una strada, non sarebbero neanche state capaci di mantenersi come oneste puttane, perché non sapevano cosa si metteva dove, e avrebbero finito per farsi - non dico la parola - nelle orecchie; non distinguevano il loro culo da un buco per terra. E diceva un'altra cosa, riguardo alle donne, che non ripeto perché è troppo volgare, signore, ma ci
faceva tanto ridere. Diceva che il trucco è fare il lavoro senza mai farsi vedere; e se uno di loro dovesse sorprenderti all'opera, tu semplicemente te ne vai subito subito. Alla fine, diceva, eravamo noi in vantaggio, perché lavavamo la loro biancheria sporca e quindi sapevamo molte cose su di loro; ma loro non lavavano la nostra, e non sapevano niente di noi. C'erano ben pochi segreti che potessero nascondere ai domestici; e se mai io avessi fatto pulizia in camera, avrei imparato a portare un secchio pieno di schifezze come un vaso di rose, perché la cosa che questa gente odiava di più era che le ricordassero che aveva un corpo, e che la loro merda puzzava come quella di tutti quanti, o anche di più. E poi diceva una poesia: Al tempo che Adamo arava ed Eva filava, Chi era il servo e chi il padrone? Come ho detto, signore, Mary era una ragazza senza peli sulla lingua, e non la mandava a dire a nessuno; aveva delle idee molto democratiche, e mi ci volle un po' per abituarmici. Proprio in cima alla casa c'era un grosso attico abitabile; se salivi le scale, passavi oltre le stanze in cui dormivamo noi e scendevi da un'altra scala, arrivavi nello stenditoio. Era pieno di fili tesi, e aveva parecchie finestrelle che si aprivano sotto le gronde. La canna fumaria del camino di cucina passava nella parete. Veniva usato per asciugare i panni d'inverno, e quando pioveva. Di solito, se minacciava pioggia, non facevamo il bucato; ma poteva succedere, soprattutto d'estate, che una bella giornata si annuvolasse di colpo, e giù tuoni e pioggia; i temporali erano violentissimi, con potenti scoppi di tuono e lampi accecanti, da farti pensare che era arrivata la fine del mondo. La prima volta ne fui atterrita, strisciai sotto il tavolo e mi misi a piangere, e Mary disse che non era niente, solo un temporale; poi però mi raccontò storie di gente fulminata dal lampo mentre era fuori nei campi o perfino dentro i fienili, per non parlare di una vacca sotto un albero. Quando avevamo il bucato steso e cominciavano a cadere le prime gocce, ci precipitavamo fuori con le ceste a raccoglierlo il più in fretta possibile, poi trasportavamo tutto di sopra e lo appendevamo di nuovo nello stenditoio, perché non poteva restare a lungo nelle ceste o sarebbero comparse macchie di umidità. Mi piaceva l'odore della biancheria asciugata all'aperto, era un odore buono e fresco; e le camicie svolazzanti alla brezza in una giornata di sole erano come grossi uccelli bianchi, o angeli festosi, anche se senza testa.
Ma quando appendevamo le stesse cose dentro, nella penombra grigia dello stenditoio, erano diversi, erano come pallidi fantasmi di se stessi, sospesi a mezz'aria nel buio, tremuli e baluginanti; e mi facevano paura a guardarli, così silenziosi e spettrali. Mary, che si accorgeva subito di certe cose, lo scoprì presto, e si nascondeva dietro le lenzuola, ci premeva la faccia contro, così si disegnava in rilievo, e mandava gemiti; oppure si metteva dietro le camicie da notte e muoveva le maniche. Lo faceva per spaventarmi, e ci riusciva; mi mettevo a gridare, poi ci rincorrevamo in mezzo alla biancheria stesa, ridendo e strillando, ma cercando di non farci sentire, e se la prendevo le facevo il solletico, perché era molto sensibile al solletico; e qualche volta ci provavamo i busti dell'Assessora Parkinson, sopra i vestiti, andavamo su e giù impettite e col naso in aria, finché non ne potevamo più dal ridere e ci lasciavamo cadere dentro le ceste di biancheria, e ce ne stavamo lì, boccheggianti come pesci, fino a quando non riuscivamo a ricomporci. Era solo la vivacità tipica della gioventù, che non sempre si comporta in modo molto decoroso, come lei, signore, avrà certamente avuto modo di osservare. L'Assessora Parkinson aveva più trapunte di quante ne avessi mai visto in vita mia, anche perché dall'altra parte dell'oceano non erano così tanto di moda, e il cotone stampato non era così abbondante e a buon prezzo. Mary disse che qui una ragazza non si considerava pronta per il matrimonio finché non aveva tre trapunte, fatte con le sue mani; e le più decorative erano quelle fatte apposta per le nozze, come l'Albero del Paradiso e il Cesto di Fiori. Altre, come la Caccia all'Oca Selvatica e il Vaso di Pandora, avevano molti pezzi, e richiedevano abilità; invece quelle come il Capanno di Tronchi e i Nove Riquadri erano per tutti i giorni, e le si faceva molto più in fretta. Mary non aveva ancora cominciato la sua trapunta di nozze, perché non aveva tempo, mentre lavorava come domestica; ma aveva già finito una Nove Riquadri. Una bella giornata di metà settembre, la signora Honey disse che era ora di arieggiare le trapunte per l'inverno e le coperte, in preparazione per il freddo, e di rammendare quelle che erano strappate o scucite; e incaricò Mary e me di farlo. Le trapunte erano riposte nell'attico, lontano dallo stenditoio per evitare l'umidità, in una cassapanca di legno di cedro, con un velo di mussolina fra una e l'altra e tanta canfora da ammazzare un gatto; l'odore mi diede alla testa. Dovevamo portarle di sotto, stenderle e spazzo-
larle per vedere se erano passate le tarme; perché certe volte, alla faccia delle cassapanche di cedro e della canfora, le tarme entravano lo stesso, e le trapunte invernali avevano la lana dentro, anziché il cotone come quelle estive. Le trapunte invernali erano a colori più vivaci di quelle estive: rosso, arancione, blu, viola; e alcune avevano inserti di seta, velluto e broccato. In tutti questi anni in prigione, quand'ero sola, e lo sono quasi sempre, mi capitava di chiudere gli occhi e girare la testa verso il sole, e vedere un rosso e un arancione che hanno la vividezza di quelle trapunte; dopo che Mary e io ne avevamo appese una mezza dozzina, una dietro l'altra sul filo, pensai che sembravano bandiere, come quelle di un esercito che va in guerra. E da allora mi sono chiesta come mai le donne hanno voluto cucire queste bandiere, e stenderle sopra i letti? Così, il letto diventa la cosa più visibile della stanza. E allora ho pensato: è un avvertimento. Perché lei, signore, può pensare che un letto sia una cosa pacifica, e magari per lei significa riposo, comodità, una bella notte di sonno. Ma non è così per tutti; molte cose pericolose possono succedere in un letto. È lì che nasciamo, affrontando il primo pericolo della nostra vita; ed è lì che le donne partoriscono, affrontando quello che spesso è l'ultimo, per loro. Ed è lì che avviene l'atto fra uomo e donna, di cui non le dico il nome, signore, ma suppongo che lo sappia; qualcuna lo chiama amore, altre disperazione, altre semplicemente un'umiliazione che devono subire. E infine, è nei letti che dormiamo, sogniamo, e spesso moriamo. Ma tutte queste idee sulle trapunte non le ho avute che quando ero già in prigione. È un posto dove si ha un sacco di tempo per pensare, e nessuno a cui raccontare i propri pensieri; così li si racconta a se stessi. Qui il Dottor Jordan mi chiede di fare una pausa per permettergli di scrivere tutto; dice che gli interessa molto quello che ho appena riferito. Ne sono contenta, perché a me è piaciuto parlare di quel periodo, e se potessi fare a modo mio resterei lì il più a lungo possibile. Perciò aspetto, e guardo la sua mano che si muove sulla carta, e penso che dev'essere piacevole saper scrivere così in fretta, ma ci vuole pratica, come per suonare il piano. Chissà se ha una bella voce, e se canta duetti con le signorine, la sera, quando io sono chiusa in cella, da sola. Probabilmente sì, dato che è di bella presenza, simpatico e celibe. Così, Grace, dice alzando la testa, ritieni che un letto sia un luogo pericoloso?
Ha cambiato tono; forse mi sta prendendo in giro. Non dovrei parlargli tanto liberamente, e decido che non lo farò più, se usa questo tono. Be' sicuramente non tutte le volte che ci si va, signore, solo nelle occasioni di cui ho parlato. Poi resto in silenzio, e continuo a cucire. Ti ho offesa in qualche modo, Grace? dice. Non ne avevo intenzione. Cucio in silenzio ancora per qualche istante. Poi dico: Le credo, signore, e la prendo in parola; come spero farà lei per il futuro. Certo, certo, dice lui calorosamente. Ti prego, va' avanti con la tua storia. Non avrei dovuto interromperti. Ma a lei non interesseranno queste cose banali, la vita di tutti i giorni, dico. Mi interessa tutto quello che mi dici, Grace, dice lui. I piccoli dettagli della vita spesso sono molto significativi. Non so bene cosa intenda dire, ma proseguo. Finalmente tutte le trapunte erano di sotto, appese al sole, e spazzolate; ne riportammo dentro due, per rammendarle. Ci sistemammo nella lavanderia, che in quel momento non era occupata, perché era più fresca dell'attico; e c'era anche un grosso tavolo su cui potevamo allargare le coperte. Una delle due era molto strana; aveva quattro urne grigie da cui spuntavano quattro salici piangenti, e una colomba bianca in ogni angolo, almeno credo che fossero colombe, anche se sembravano più che altro dei polli; e in mezzo c'era un nome di donna ricamato in nero: Flora. Mary disse che era una Trapunta Commemorativa, fatta dall'Assessora Parkinson in memoria di una cara amica defunta; stavano diventando di moda. E l'altra trapunta si chiamava le Vetrate dell'Attico; aveva molti pezzi, e se la guardavi in un modo vedevi delle scatole chiuse, se la guardavi in un altro modo le scatole erano aperte, e immagino che le scatole chiuse fossero l'attico e quelle aperte le vetrate; ed è così per tutte le trapunte, puoi vederle in due modi diversi, a seconda se guardi i pezzi scuri o quelli chiari. Ma quando Mary mi disse il nome io non capii bene, e pensai che avesse detto: le Vedove dell'Attico, e dissi: le Vedove dell'Attico, è un nome molto strano per una trapunta. Allora Mary mi disse il nome giusto, e scoppiammo a ridere, immaginando un attico tutto pieno di vedove, coi loro abiti neri e le loro cuffie da vedova e i veli neri penzolanti, con facce lunghe lunghe e intente a torcersi le mani, a scrivere lettere sui fogli col bordo nero e ad asciugarsi gli occhi coi fazzoletti orlati di nero. E Mary disse: E i bauli e le cassapanche dell'attico sono pieni fino all'orlo delle ciocche di
capelli dei loro cari mariti estinti; e io dissi: E magari i cari estinti sono anche loro dentro le cassapanche. Questo ci fece nuovamente piegare in due. Non riuscivamo a smettere di ridere, neppure quando sentimmo la signora Honey e le sue chiavi rumoreggiare lungo il corridoio. Nascondemmo la faccia nelle trapunte, e quando lei aprì la porta Mary si era data un contegno, ma io ero a faccia in giù con le spalle che sobbalzavano, e la signora Honey disse: Cosa c'è, ragazze? e Mary si alzò e disse: Ci scusi, signora Honey, Grace sta piangendo per la sua cara mamma, e la signora Honey disse: Be', allora puoi portarla in cucina a prendere una tazza di tè, ma non perdete troppo tempo, e disse anche che le ragazze piangono spesso e volentieri ma Mary non doveva darmi quel vizio e lasciare che perdessi il controllo. E quando fu uscita ci abbracciammo e ridemmo così tanto, che credetti che saremmo morte dal ridere. Ora, signore, lei penserà che fosse irriguardoso, da parte nostra, scherzare sulle vedove; e con tutti quei lutti nella mia famiglia, avrei dovuto sapere che non era una cosa da prendere alla leggera. Se ci fosse stata una vedova nelle vicinanze non l'avremmo fatto, perché è brutto prendersi gioco delle sofferenze altrui. Ma nessuna vedova ci sentiva, e posso solo dirle, signore, che eravamo ragazze giovani, e le ragazze giovani sono spesso sciocchine come eravamo noi; d'altra parte, meglio ridere che scoppiare. Poi pensai alle vedove: alle vedove e agli orfani, all'obolo della vedova di cui parla la Bibbia, che noi domestici venivamo sempre esortati a tirar fuori dal nostro salario per darlo ai poveri; e pensai anche che gli uomini ammiccano e si danno di gomito quando si parla di una vedova giovane e ricca, e che essere una vedova è una cosa rispettabile se si è vecchie e povere, altrimenti no; ed è piuttosto strano, se ci pensa. In settembre il tempo fu bello, con giornate ancora estive, poi in ottobre molti degli alberi diventarono rossi, gialli o arancione, come se fossero in fiamme, e io non riuscivo a staccare gli occhi da loro. E un pomeriggio, verso sera, mentre ero fuori con Mary a tirar giù le lenzuola stese, sentimmo un suono come di tante voci rauche che gridavano tutte insieme, e Mary disse: Guarda lassù, sono le oche selvatiche che volano a sud per l'inverno. Oscuravano il cielo sopra la nostra testa, e Mary disse: Domattina i cacciatori saranno appostati. Ed era triste pensare che queste creature selvatiche stavano per essere uccise. Una notte verso la fine di ottobre mi successe una cosa che mi spaventò.
Se lei non fosse un medico non glielo direi, signore, ma lo sa già, quindi non si scandalizzerà. Avevo usato il vaso da notte, perché ero già in camicia, pronta per infilarmi a letto, e non volevo uscire nel buio per andare al gabinetto; e quando per caso guardai giù, c'era del sangue, e ce n'era anche sulla camicia da notte. Sanguinavo fra le gambe, pensai che stavo per morire e scoppiai a piangere. Mary entrò nella stanza e mi trovò in quello stato, e disse: Cosa c'è? e io dissi che avevo una malattia tremenda, e sarei morta di sicuro; avevo anche mal di pancia, ma prima non ci avevo fatto caso, pensando che dipendesse da tutto quel pane fresco che avevo mangiato, perché era il giorno che si cuoceva il pane. Ma ora mi ricordai di mia madre, che prima di morire aveva avuto mal di pancia, e piansi ancora più forte. Mary guardò e, sia detto a suo onore, non rise di me; mi spiegò tutto. Lei si stupirà che non lo sapessi, con tutti i figli che mia madre aveva messo al mondo; ma in effetti io sapevo tutto dei bambini, come vengono fuori, e anche come vengono messi dentro, dato che avevo visto i cani farlo per strada; ma non sapevo niente di quest'altra cosa. Non avevo mai avuto amiche della mia età, se no credo che me l'avrebbero detto. E Mary disse: Ora sei una donna, al che mi rimisi a piangere. Ma lei mi abbracciò e mi consolò, meglio di quanto avrebbe fatto mia madre, che era sempre troppo indaffarata o stanca o malata. Poi mi prestò la sua sottogonna di flanella rossa fino a quando non me ne fossi procurata una mia, e mi insegnò a ripiegare e appuntare il pannolino, e disse che qualcuno lo chiamava la maledizione di Eva, ma secondo lei era stupido, la vera maledizione di Eva era sopportare le scemenze di Adamo, che appena sentiva odore di guai dava la colpa a lei. Mi disse anche che se avevo troppo male mi avrebbe dato della corteccia di salice da masticare, per farmelo passare; e che mi avrebbe scaldato un mattone sulla stufa e l'avrebbe avvolto in un asciugamano, contro il dolore. E io gliene fui molto grata, perché era davvero una buona amica, piena di riguardi. Poi mi fece sedere e mi pettinò i capelli, piano piano, per rilassarmi, e disse: Grace, diventerai una vera bellezza, presto farai girare la testa agli uomini. I peggiori sono i signori, che pensano di poter fare tutto quello che vogliono; quando vai al gabinetto la sera, loro, che a quell'ora sono ubriachi, si appostano per aspettarti e ti mettono le mani addosso; con loro non ci ragioni, e se è il caso gli devi dare un calcio in mezzo alle gambe dove fa più male; è sempre meglio chiudere la porta e usare il vaso da notte. Ma comunque tutti gli uomini ci proveranno; cominciano a fare promesse, di-
cono che faranno tutto quello che vuoi, ma devi stare molto attenta a quello che chiedi, e non devi far niente per loro finché non hanno mantenuto la promessa; e se ti fanno vedere un anello, insieme dev'esserci anche il prete. Io le chiesi ingenuamente: Ma perché? e lei disse che era perché gli uomini sono bugiardi di natura, e direbbero qualunque cosa per ottenere quel che vogliono, poi ci ripensano e via! con la prima barca che passa. Così capii che era la stessa cosa che diceva zia Pauline quando parlava di mia madre, e feci di sì con la testa, saggiamente, e dissi che aveva ragione, anche se non ero ancora sicura di aver capito bene. E lei mi abbacciò, e disse che ero una brava ragazza. La sera del 31 ottobre (che come lei sa, signore, è la sera di Halloween, quando si dice che gli spiriti dei morti escono dalla tomba, anche se è solo una superstizione), quella sera Mary arrivò in camera nascondendo qualcosa nel grembiule, e disse: Guarda, ho quattro mele, le ho chieste alla cuoca. In quel periodo dell'anno c'erano mele in abbondanza, e ne avevamo a barili in cantina. Oh, dissi, sono da mangiare? e lei disse: Dopo le mangeremo, ma questa è la notte in cui puoi sapere chi sposerai. Disse che ne aveva prese quattro, perché così avevamo due possibilità a testa. Mi fece vedere un coltellino che si era fatto dare sempre dalla cuoca, perlomeno così disse. La verità è che a volte prendeva le cose senza chiederle, e io mi sentivo a disagio; lei però diceva che, se le cose le restituisci, non è come rubare. Ma qualche volta non le restituiva. In biblioteca c'erano cinque copie della Signora del lago di Walter Scott, e lei ne aveva presa una, e me la leggeva ad alta voce; aveva anche una scorta di mozziconi di candela che faceva sparire uno per uno dalla sala da pranzo, e li nascondeva sotto un'asse del pavimento; se le avessero dato il permesso di prenderli, non li avrebbe rubati. Una candela ce la concedevano, per svestirci la sera, ma la signora Honey diceva che non dovevamo farne un uso sregolato, ogni candela doveva durarci una settimana, e a Mary non bastava. Aveva anche dei fiammiferi Lucifero che teneva nascosti, così dopo aver spento la nostra candela ufficiale per risparmiarla, poteva accenderne un'altra quando voleva; e ora accese due mozziconi. Ecco il coltello e la mela, disse, devi sbucciarla ottenendo un bel nastro intero; poi, senza guardare, lo getti dietro la spalla sinistra. Formerà l'iniziale dell'uomo che sposerai; e stanotte lo sognerai. Io ero troppo giovane per pensare ai mariti, ma Mary ne parlava continuamente. Non appena avesse accumulato abbastanza risparmi, avrebbe
sposato un agricoltore bello e giovane, con terre già disboscate e una casa in muratura; se non ne trovava uno così, si accontentava di uno con una casa di tronchi, e quella in muratura l'avrebbero costruita poi. Sapeva anche che razza di galline e di vacche avrebbero avuto: voleva delle Leghorns bianche e rosse, e una vacca Jersey per la panna e il formaggio, perché diceva che sono le migliori. Così presi la mela e la sbucciai, senza rompere la buccia. Poi la gettai dietro di me, e guardammo com'era caduta. Non si capiva bene come leggerla, ma alla fine decidemmo che era una J. E Mary cominciò a prendermi in giro dicendo il nome di tutti quelli che conosceva e che cominciavano per J; disse che avrei sposato Jim lo stalliere, che era strabico e puzzava orrendamente; oppure Jeremiah l'ambulante, che era molto più bello, però avrei dovuto scarpinare per tutto il Paese, senza casa tranne la sacca che mi portavo in spalla, come una lumaca. E disse che avrei attraversato l'acqua tre volte prima che capitasse, e io le dissi che se lo stava inventando: sorrise, l'avevo smascherata. Poi venne il suo turno, e cominciò a sbucciare. Ma la buccia della prima mela si ruppe, e anche quella della seconda; le diedi quella che mi era rimasta, ma era così nervosa che la tranciò in due non appena cominciò a pelarla. Allora si mise a ridere e disse che erano frottole superstiziose, mangiò la terza mela e mise le altre due sul davanzale per la mattina dopo; anch'io mangiai la mia mela, e ci mettemmo a fare battute sui busti dell'Assessora Parkinson; ma era turbata, anche se fingeva di divertirsi. Quando andammo a letto, capii che non dormiva; se ne stava supina accanto a me a fissare il soffitto; quando mi addormentai, non sognai mariti. Sognai mia madre avvolta nel suo lenzuolo, che scendeva giù nell'acqua fredda, verdeazzurra; le falde del lenzuolo si aprirono in alto, svolazzando come se soffiasse il vento, e ne sbucarono fuori i suoi capelli, come alghe fluttuanti; ma le coprivano la faccia, così non potei vederla, ed erano più scuri dei capelli di mia madre; allora capii che quella non era mia madre, ma un'altra donna, e che dentro il lenzuolo quella donna non era morta, ma viva. Ebbi paura; mi svegliai col cuore che batteva forte, coperta di sudore freddo. Ma Mary dormiva, adesso, il suo respiro era regolare; spuntava la prima luce grigia e rosa dell'alba, fuori i galli cantavano già, ed era tutto come sempre. Mi sentii meglio. 20
E così passò il novembre, quando le foglie cadono dagli alberi e fa buio presto; il tempo era grigio e opprimente, e pioveva a dirotto; poi venne dicembre, la terra gelò e diventò dura come pietra, e ci furono nevicate. Ora la nostra stanza su nell'attico era freddissima, specialmente al mattino, quando dovevamo alzarci che era ancora buio e appoggiare i piedi nudi sul pavimento gelido; e Mary disse che quando avesse avuto una casa sua, avrebbe messo uno scendiletto bello spesso accanto a ogni letto, e per sé avrebbe avuto un paio di calde pantofole di panno. Ci portavamo i vestiti nel letto, per riscaldarli prima di metterli, e ci vestivamo sotto le coperte; e di notte scaldavamo dei mattoni sulla stufa e li infilavamo nel letto, avvolti nella flanella, per impedire che le dita dei piedi ci si trasformassero in ghiaccioli. L'acqua nella bacinella era così gelata che mentre mi lavavo le mani il freddo mi mordeva le braccia; ero contenta che fossimo in due, nel letto. Ma Mary disse che questo non era niente e che il vero inverno, quando avrebbe fatto molto più freddo, non era ancora arrivato; unico vantaggio, che in casa avrebbero dovuto accendere i camini e lasciarli accesi più a lungo. Ed era meglio essere una domestica, perlomeno di giorno, perché si poteva sempre scaldarsi in cucina, mentre il salotto era pieno di spifferi neanche fosse un fienile e il camino non serviva a niente a meno di non piazzarcisi proprio davanti, e infatti l'Assessora Parkinson quand'era sola nella stanza si alzava le gonne per scaldarsi il sedere; l'inverno scorso le aveva preso fuoco la sottana, e Agnes, la cameriera, l'aveva sentita gridare, era corsa dentro e aveva dato in smanie per lo spavento, e Jim lo stalliere aveva gettato una coperta sull'Assessora e l'aveva rotolata per terra come un barile. Per fortuna non era andata arrosto, si era solo bruciacchiata un po'. A metà dicembre, mio padre mandò la mia povera sorella Katey a chiedere altri soldi; non venne lui di persona. Mi dispiaceva per Katey, perché ora era lei a sobbarcarsi il peso che prima era stato sulle mie spalle; la portai in cucina a scaldarsi accanto alla stufa, e chiesi un pezzo di pane alla cuoca, che disse che non toccava a lei sfamare tutti gli orfani famelici della città, ma comunque me lo diede; e Katey pianse, e disse che avrebbe tanto voluto che tornassi a casa. Le diedi un quarto di dollaro, dicendole di riferire a nostro padre che non avevo altro, cosa che, mi dispiace confessarlo, era una bugia; ma ormai avevo capito che non ero tenuta a dirgli la verità. Le diedi altri dieci centesimi, dicendole di tenerseli da parte in caso di bi-
sogno, come se di bisogno non ne avesse già abbastanza. E anche una delle mie sottovesti che non mi andava più. Disse che nostro padre non aveva trovato un lavoro fisso, ma aveva la prospettiva di andare al Nord durante l'inverno, ad abbattere alberi; aveva sentito parlare di terre da occupare verso ovest, e ci sarebbe andato all'arrivo della primavera. E infatti se ne andò senza preavviso, perché la signora Burt venne a dirmi che mio padre era sparito senza pagare neanche un soldo di quel che le doveva. La sua idea era che regolassi io i conti, ma Mary le disse che non poteva costringere una ragazza di tredici anni a pagare i debiti di un uomo adulto; la signora Burt, che in fondo non era cattiva, alla fine convenne che non era colpa mia. Non so che ne è stato di mio padre e dei bambini. Non ho mai ricevuto una lettera, né si sono fatti vivi all'epoca del processo. All'avvicinarsi del Natale, l'atmosfera si fece più allegra; c'era più legna nei camini, e il droghiere consegnava ceste piene di ogni ben di Dio e il macellaio grossi tagli di manzo e un maiale intero da arrostire; in cucina c'era un gran da fare a preparare, e chiamavano me e Mary dalla lavanderia per dare una mano, girare e mescolare, sbucciare e affettare le mele, nettare l'uva passa, grattugiare la noce moscata e sbattere le uova, agli ordini della cuoca. Ci piaceva molto, si poteva assaggiare e spilluzzicare di qua e di là, e non appena possibile facevamo sparire un po' di zucchero; la cuoca non se ne accorgeva e non diceva niente, con tutto quello che aveva per la testa. Fummo Mary e io a preparare la pasta per rivestire il fondo di tutti i pasticci di carne, la cuoca però preparò quella per ricoprirli, perché disse che per quella ci voleva un'arte, e noi eravamo ancora troppo giovani; e li decorò con stelle di pasta e altri disegni. Ci fece scartare i dolci di Natale da tutti gli strati di mussola che li fasciavano, per versarci sopra brandy e whisky, e poi avvolgerli di nuovo; l'odore di quei dolci è uno dei miei ricordi più belli. Pasticci e dolci ne servivano tanti, perché era tempo di visite, di cene, feste e balli. I due figli maschi vennero a casa dalla loro scuola (Harvard, a Boston); si chiamavano signor George e signor Richard, e sembravano tutti e due piuttosto simpatici, belli e alti di statura. Io non ci badavo granché, per me significavano solo altri bucati e camicie in più da inamidare e stirare; ma Mary sbirciava continuamente giù in cortile dalla finestra, caso mai potesse vederli mentre uscivano a cavallo, oppure ascoltava nei corridoi
quando loro cantavano i duetti con le signore in visita; la canzone che preferiva era La Rosa di Tralee, perché c'era il suo nome dentro, là dove dice: Oh no, gli occhi suoi erano sempre sinceri, Ecco perché amavo Mary, la Rosa di Tralee. Anche lei cantava bene, e sapeva molte canzoni a memoria; a volte quei due venivano in cucina e ridendo e scherzando la convincevano a cantare. Lei li chiamava giovani discoli, anche se erano tutti e due un po' più vecchi di lei. Il giorno di Natale, Mary mi regalò un paio di guanti di lana belli caldi fatti da lei. L'avevo vista lavorare a maglia, ma era stata molto furba, mi aveva detto che erano per una sua giovane amica; non avevo pensato neanche per un attimo di essere io, la giovane amica. Erano di un bel blu scuro, con fiori rossi ricamati. Io le regalai un astuccio per gli aghi fatto con cinque quadratini di flanella rossa, cuciti insieme in cima e chiusi da due pezzi di nastro. Mary mi ringraziò, mi abbracciò e mi baciò, e disse che era il più bell'astuccio per gli aghi del mondo, una cosa così non la compravi in un negozio, non ne aveva mai visto uno uguale, e l'avrebbe sempre tenuto da conto. Quel giorno era nevicato molto, e la gente era uscita con le slitte, i cavalli avevano i campanelli, era bello sentirli suonare. E dopo che la famiglia ebbe finito il pranzo di Natale, anche i domestici mangiarono il loro tacchino e i loro pasticci di carne, e poi cantammo degli inni insieme, ed eravamo tutti contenti. Fu il Natale più felice che abbia mai passato, in tutta la mia vita. Dopo le vacanze il signor Richard tornò a scuola, ma il signor George rimase a casa. Si era preso un raffreddore di petto, e tossiva molto; l'Assessora Parkinson e suo marito giravano con certe facce lunghe, poi venne il dottore e io mi preoccupai. Ma dissero che non aveva la tubercolosi, solo un raffreddore con febbre e lombaggine e doveva stare a riposo e bere bevande calde; non gliele fecero mancare di sicuro, perché tutta la servitù aveva un debole per lui. Mary scaldava un pezzo di ferro sulla stufa, che secondo lei era il rimedio migliore per la lombaggine, se lo mettevi nel punto giusto, e glielo portava di sopra. Quando guarì era metà febbraio, e aveva ormai perso una buona parte del semestre scolastico, così disse che non sarebbe tornato fino al prossimo; l'Assessora Parkinson fu d'accordo, disse che doveva rimettersi in forze. E così eccolo lì, coccolato da tutti, con tanto tempo a disposizione e poco da fare, una brutta situazione per un giovanotto pieno di vivacità.
Non mancavano le feste a cui andare, e le ragazze con cui ballare, né le madri che progettassero matrimoni a sua insaputa. Temo che fosse molto viziato, non ultimo da se stesso. Perché se il mondo la tratta bene, signore, ben presto lei crederà di meritarselo. Era vero quel che Mary diceva sull'inverno. A Natale la neve era caduta abbondante, ma era come una coperta di piume, e l'aria sembrava più tiepida dopo la nevicata; gli stallieri scherzavano e lanciavano palle di neve, che, morbide com'erano, si sgretolavano contro il bersaglio. Ma presto arrivò l'inverno vero, e la neve cominciò a cadere sul serio. Non era più soffice, ma dura e pungente, come tanti piccoli proiettili di ghiaccio; e un vento forte e rabbioso la sollevava e ne faceva densi cumuli; avevo paura che restassimo tutti sepolti vivi. Dal tetto si allungavano i ghiaccioli, e dovevi stare attenta passandoci sotto, perché potevano cadere, ed erano appuntiti e aguzzi; Mary aveva sentito dire di una donna uccisa da un ghiacciolo, che l'aveva trapassata come uno spiedo. Un giorno cadeva il nevischio e ricopriva i rami degli alberi di uno strato di ghiaccio, che il giorno dopo scintillava al sole come migliaia di diamanti; ma molti rami si rompevano sotto il peso. Tutto il mondo era duro e bianco, e quando c'era il sole la luce era talmente abbagliante che dovevi ripararti gli occhi, e non fissare a lungo. Stavamo in casa il più possibile, perché c'era pericolo di congelamento, soprattutto alle dita delle mani e dei piedi; gli uomini uscivano con le orecchie e i nasi fasciati dalle sciarpe, e il loro respiro faceva nuvolette bianche. Quelli della famiglia avevano fatto mettere le coperte di pelliccia nella slitta, e partivano per visite tutti imbaccuccati e ammantellati; ma noi non avevamo abiti così caldi. Di notte Mary e io mettevamo gli scialli sopra le coperte, e andavamo a letto con le calze e due sottovesti; ma anche così, non riuscivamo a scaldarci. Al mattino i fuochi erano spenti, i nostri mattoni caldi si erano raffreddati, e noi tremavamo come conigli. L'ultimo giorno di febbraio il tempo migliorò un po', e ci arrischiammo fuori per commissioni, con i piedi ben avviluppati in panni di flanella e infilati negli stivali chiesti in prestito agli stallieri, e avvolte in tutti gli scialli che eravamo riuscite a trovare e a farci prestare; arrivammo fino al porto. Era una massa ghiacciata, con grandi blocchi e tranci di ghiaccio ammucchiati contro la riva; e, nella parte sgombra di neve, le signore pattinavano con i loro cavalieri. Scivolavano con grazia, come se si muovessero su rotelle nascoste sotto le gonne, e io dissi a Mary che doveva essere un
gran piacere. C'era il signor George, che pattinava tenendo per mano una signorina con una stola di pelliccia; ci vide e ci salutò allegramente. Chiesi a Mary se non aveva mai pattinato, e lei disse di no. Fu verso quell'epoca che cominciai a notare un cambiamento in Mary. Spesso tardava a venire a letto; e quando arrivava, non aveva più voglia di parlare. Non sentiva quel che le dicevo, sembrava assorta nell'ascolto di altre voci; e continuava a sbirciare attraverso le porte, le finestre, o sopra la mia spalla. Una notte, mentre pensava che dormissi, la vidi nascondere una cosa avvolta in un fazzoletto sotto il piancito dove teneva i mozziconi di candela e i fiammiferi. Il giorno dopo in sua assenza guardai e scoprii che era un anello d'oro. Subito pensai che l'avesse rubato; non aveva mai rubato una cosa di tale valore finora, ed era molto grave se la prendevano; però nessuno in casa parlava di un anello sparito. Non rideva più come prima, non giocava, non lavorava più con foga; cominciai a preoccuparmi. Ma quando le facevo delle domande, le chiedevo se c'era qualcosa che non andava, lei rideva e diceva: Chissà come ti vengono certe idee. Ma non aveva più lo stesso odore, ora invece che di noce moscata sapeva di pesce salato. La neve e il ghiaccio cominciarono a sciogliersi, ricomparvero i primi uccelli e ci furono di nuovo canti e richiami; la primavera stava per arrivare. E un giorno, verso la fine di marzo, mentre portavamo su per la scala di servizio i cesti di biancheria pulita da stendere, Mary disse che stava male; si precipitò di sotto e uscì nel cortile posteriore, dietro le scuderie. Io misi giù il cesto e le corsi dietro, così com'ero, senza scialle; la trovai in ginocchio sulla neve bagnata vicino al gabinetto, che non aveva raggiunto in tempo, in preda a violenti conati di vomito. L'aiutai ad alzarsi; aveva la fronte coperta di sudore freddo, e le dissi che doveva mettersi a letto; ma lei allora si arrabbiò e disse che era per via di qualcosa che aveva mangiato, probabilmente lo stufato di montone del giorno prima, e ormai si era liberata. Ma l'avevo mangiato anch'io, e stavo benissimo. Mi fece promettere di non parlarne, e mantenni la promessa. Ma quando le capitò di nuovo qualche giorno dopo, e poi ancora la mattina seguente, ne fui davvero allarmata; avevo visto troppo spesso mia madre in quelle stesse condizioni, e conoscevo quel certo odore di latte; sapevo bene cosa aveva Mary. Ci pensai su, rimuginai a lungo, e verso la fine di aprile la misi alle strette, giurando solennemente che se si fosse confidata con me non l'avrei det-
to a nessuno; credo che avesse un gran bisogno di confidarsi con qualcuno, visto che di notte si rigirava nel letto e aveva le occhiaie scure ed era oppressa dal peso del suo segreto. Allora crollò e si mise a piangere, e disse che i miei sospetti erano fin troppo veri; che quell'uomo aveva promesso di sposarla, le aveva dato un anello, e in via del tutto eccezionale lei gli aveva creduto, perché pensava che non fosse come gli altri; ma poi si era rimangiato la promessa, e ora non le rivolgeva più la parola; era disperata e non sapeva cosa fare. Le chiesi chi era lui, ma non volle dirmelo; disse anche che, non appena fossero venuti a sapere delle sue condizioni l'avrebbero cacciata via, perché l'Assessora Parkinson era molto rigida in materia; e allora che ne sarebbe stato di lei? Altre ragazze al suo posto sarebbero tornate dalle loro famiglie, ma lei la famiglia non l'aveva più; e ora nessun uomo perbene l'avrebbe più sposata, sarebbe finita in mezzo a una strada e diventata una prostituta di infimo rango, perché non aveva altro mezzo per mantenere se stessa e il bambino. E una vita così l'avrebbe portata ben presto alla tomba. Ero molto in pena per lei, e anche per me, perché era la mia amica più fidata, anzi la sola che avessi al mondo. La confortai come potevo, ma non sapevo che dirle. Per tutto il mese di maggio, Mary e io parlammo continuamente delle sue prospettive. Le dissi che doveva esserci qualche istituto o roba del genere che poteva accoglierla, e lei disse che non ne conosceva, ma che comunque le ragazze che andavano in posti così morivano sempre, perché si ammalavano dopo aver partorito; era anche convinta che in quei posti soffocassero in segreto i bambini, per non farli pesare sulla pubblica assistenza; quindi preferiva rischiare la morte da qualche altra parte. Parlammo della possibilità di far nascere il bambino noi due sole, nasconderlo e darlo via come orfano; ma lei disse che presto si sarebbe notato che era incinta, la signora Honey si accorgeva di tutto e aveva già osservato che Mary stava ingrassando, quindi non c'era speranza di passare inosservata. Dissi che doveva cercare di parlare un'ultima volta con l'uomo in questione, e fare appello ai suoi buoni sentimenti. Lo fece; ma quando tornò dal colloquio - che doveva essersi svolto nelle vicinanze, perché non ci mise molto - era più arrabbiata che mai. Disse che lui le aveva dato cinque dollari; e lei gli aveva chiesto se suo figlio valeva così poco. E lui aveva risposto che non pensasse di accalappiarlo a quel modo, non era neanche sicuro che fosse suo figlio, perché se era stata tanto disponibile con lui, so-
spettava che lo fosse anche con altri; e se lo minacciava di fare uno scandalo, o di rivolgersi alla sua famiglia, lui avrebbe negato, rovinandole quel poco di reputazione che le restava; se voleva rimediare alla svelta a tutti i suoi guai poteva sempre annegarsi. Disse che un tempo lo aveva amato davvero, ma ora non più; scagliò i cinque dollari a terra, e singhiozzò disperatamente per un'ora; ma più tardi la vidi riporre con cura quei soldi sotto l'asse del pavimento. La domenica successiva disse che invece di andare in chiesa avrebbe fatto una passeggiata da sola; e quando tornò, raccontò che era andata giù al porto con l'intenzione di gettarsi nel lago e farla finita. La scongiurai con le lacrime agli occhi di non fare una cosa così sciagurata. Due giorni dopo disse che era stata in Lombard Street e aveva sentito parlare di un dottore che poteva aiutarla; era il dottore da cui andavano le puttane, quando ne avevano bisogno. Le chiesi in che modo l'avrebbe aiutata, e lei disse che non dovevo fare domande; non sapevo di cosa parlasse, né che esistessero dottori come quello. Mi chiese se le prestavo i miei risparmi, che a quell'epoca ammontavano a tre dollari, con cui pensavo di comprarmi un vestito nuovo per l'estate. Risposi che glieli prestavo con tutto il cuore. Poi tirò fuori un foglio di carta da lettere preso giù in biblioteca, penna e inchiostro, e scrisse: Se muoio, tutte le mie cose devono andare a Grace Marks. E firmò col suo nome. E poi disse: Forse presto sarò morta. Ma tu sarai ancora viva. E mi lanciò un'occhiata fredda e risentita, come l'avevo vista lanciarle ad altri quando non la vedevano, ma mai a me. Ne fui allarmatissima, e le strinsi forte la mano pregandola di non andare da quel dottore, chiunque fosse; ma lei ribadì che doveva farlo; mi disse di smetterla e riporre invece penna e inchiostro sullo scrittoio della biblioteca senza farmi vedere, e tornare a lavorare. L'indomani sarebbe scappata via dopo il pasto di mezzogiorno, e se mi chiedevano dovevo rispondere che era andata un momento al gabinetto, oppure che era di sopra nello stenditoio, o la prima scusa che mi veniva in mente; e poi dovevo filar via anch'io e raggiungerla, perché poteva avere difficoltà a tornare a casa. Quella notte non dormimmo bene, nessuna delle due; il giorno dopo fece quello che aveva detto, e riuscì ad andarsene di casa senza farsi scoprire, con i soldi legati nel fazzoletto; la seguii poco più tardi e la raggiunsi. Il dottore viveva in una casa piuttosto grande, in un bel quartiere. Entrammo dalla porta di servizio, e ci ricevette il dottore in persona. Per prima cosa
contò i soldi. Era un omone vestito di nero, e ci squadrò con gran severità; a me disse di aspettare nel retrocucina, e aggiunse che se mi lasciavo scappare una sola parola lui avrebbe detto che non mi aveva mai vista né conosciuta. Poi si tolse la giacca, l'appese a un gancio e cominciò a rimboccarsi le maniche della camicia, come se si preparasse a lottare. Somigliava proprio a quel dottore che misura le teste, signore, quello che mi ha fatto venire un attacco per lo spavento, prima che lei arrivasse. Mary lo seguì in un'altra stanza, bianca come un lenzuolo, poi la sentii gridare e piangere, e dopo un po' il dottore la spinse fuori dalla porta del retrocucina. Aveva il vestito tutto bagnato, appiccicato alla pelle come una benda umida, e non ce la faceva quasi a camminare; le misi un braccio attorno alle spalle e l'aiutai a venir via come potevo. Quando arrivammo a casa era piegata in due e si teneva la pancia; dissi che l'avrei portata di sopra. Sembrava debolissima. Le misi la camicia da notte e la infilai a letto; si tenne la sottogonna, appallottolata fra le gambe. Le chiesi cos'era successo, lei disse che il dottore le aveva ficcato dentro un coltello e aveva tagliato via qualcosa; l'aveva avvertita che ci sarebbe stato sangue e dolore per qualche ora, ma che poi sarebbe stata bene di nuovo. Lei gli aveva dato un nome falso. Cominciai a rendermi conto: quel che il dottore le aveva tagliato via era il bambino, che cosa brutta! pensai; d'altra parte, o ne muore uno o muoiono in due, pensai anche, perché altrimenti lei si sarebbe annegata di sicuro; perciò in cuor mio non me la sentii di darle addosso. Aveva molto male, e la sera scaldai un mattone e glielo portai di sopra; ma non volle che chiamassi nessuno. Dissi che per farla stare più comoda avrei dormito per terra; lei disse che ero la migliore amica che avesse mai avuto e che non mi avrebbe mai dimenticata, qualunque cosa succedesse. Mi avvolsi nello scialle, col grembiule per cuscino, e mi sdraiai a terra; tra il pavimento durissimo e i gemiti di dolore di Mary, per un po' non riuscii a prendere sonno. Ma poi lei si calmò e io mi addormentai e non mi svegliai fino all'alba. Quando mi alzai, Mary era morta nel letto, con gli occhi spalancati. La toccai; era fredda. Rimasi paralizzata dalla paura; ma poi mi scrollai, uscii nel corridoio, svegliai Agnes, la cameriera, e caddi fra le sue braccia piangendo. Che cosa c'è? disse. Io non riuscivo a parlare; la presi per mano e la portai in camera nostra, davanti a Mary. Agnes l'afferrò, la scosse per la spalla; e poi disse: Santo cielo, è morta. E io dissi: Oh, Agnes, cosa farò adesso? Non sapevo che sarebbe morta,
ora daranno la colpa a me, perché non ho detto prima che stava male; ma mi ha fatto promettere di non dirlo. E intanto singhiozzavo e mi torcevo le mani. Agnes sollevò le coperte e guardò sotto. La camicia da notte e la sottogonna erano fradicie di sangue, e il lenzuolo era tutto rosso e marrone dove il sangue era ormai secco. Disse: È una brutta storia, mi ordinò di restare lì e andò immediatamente a chiamare la signora Honey. Sentii i suoi passi che si allontanavano, e mi sembrò che stesse via un'eternità. Sedetti sulla sedia che c'era in camera e guardai Mary in faccia; aveva gli occhi aperti, e mi sembrava che anche lei mi sbirciasse. Mi parve di vederla muoversi, e dissi: Mary, stai facendo finta? Perché qualche volta, nello stenditoio, dietro le lenzuola, faceva finta di essere morta per spaventarmi. Ma stavolta non fingeva. Poi sentii due passi diversi precipitarsi nel corridoio, e fui invasa dal timore. Mi alzai in piedi. La signora Honey entrò; non aveva l'aria triste, ma arrabbiata, e anche disgustata, come se fiutasse un cattivo odore. E infatti c'era odore nella stanza: di paglia umida del materasso e anche odore salato di sangue; un po' come quello che si sente dal macellaio. Questo è un affronto e un disonore, fece la signora Honey, devo andare a dirlo alla signora Parkinson. Aspettammo, e l'Assessora Parkinson arrivò e disse: Sotto il mio tetto, che ragazza sleale. E intanto fissava me, anche se parlava di Mary. Poi disse: Perché non mi hai informata, Grace? E io dissi: La prego, signora, Mary mi aveva chiesto di non farlo. Diceva che al mattino si sarebbe sentita meglio. Mi misi a piangere, e dissi: Non sapevo che stava per morire! Agnes, che come le ho detto era molto pia, disse: La morte è il prezzo del peccato. L'Assessora Parkinson disse: Ti sei comportata male, Grace, e Agnes disse: È solo una bambina, è molto obbediente, ha solo fatto come le hanno detto di fare. Pensai che l'Assessora Parkinson l'avrebbe rimproverata perché si immischiava, ma non lo fece. Mi prese delicatamente per un braccio, mi guardò negli occhi e disse: Chi era l'uomo? Quel mascalzone dev'essere denunciato, e pagare per il suo delitto. Sarà stato qualche marinaio, giù al porto, non hanno più coscienza delle bestie. Tu lo sai, Grace? Dissi: Mary non conosceva nessun marinaio. Si incontrava con un signore, ed erano fidanzati. Solo che lui si è rimangiato la promessa, e non ha voluto sposarla.
E l'Assessora Parkinson disse brusca: Che signore? La prego, signora, dissi io, non lo so. Però diceva che lei non sarebbe stata per niente contenta, se scopriva chi era. Mary non aveva mai detto questo, ma io avevo i miei sospetti. Allora l'Assessora Parkinson si mise a camminare su e giù per la stanza, pensierosa; poi disse: Agnes e Grace, ora non parliamone più, perché ci renderebbe solo infelici e ci farebbe soffrire di più, e non serve piangere sul latte versato; per rispetto verso la defunta non diremo di che cosa è morta Mary. Diremo che aveva le febbri. È meglio per tutti. E ci puntò gli occhi in faccia, a tutte e due; le facemmo una riverenza. Per tutto il tempo Mary restò lì, sul letto, ad ascoltarci, a sentire i nostri progetti e le bugie che avremmo detto sul suo conto; Non le farà piacere, pensai. Non accennai al dottore, e loro non me lo chiesero. Forse non gli venne nemmeno in mente. Devono aver pensato che si trattava di un aborto spontaneo, come succede spesso alle donne; e che Mary ne era morta, come spesso fanno le donne. Lei è la prima persona a cui parlo di quel dottore, signore; ma sono convinta che è stato lui, col suo coltello, a ucciderla; lui e quell'altro signore, tutti e due insieme. Perché il vero assassino non è sempre quello che colpisce materialmente; è stato quello sconosciuto gentiluomo a spacciare Mary, esattamente come se avesse preso un coltello e gliel'avesse infilzato nella pancia di persona. L'Assessora Parkinson uscì e dopo un po' venne la signora Honey e ci disse di togliere le lenzuola dal letto, di levarle la camicia e la sottogonna e lavar via il sangue; di lavare la salma, bruciare il materasso, e fare tutto quanto personalmente; nell'armadio delle trapunte c'era un'altra fodera per il materasso, potevamo riempirla di paglia e poi andare a prendere un lenzuolo pulito. Chiese se c'era un'altra camicia da mettere a Mary, e io dissi che c'era, perché Mary ne aveva due; però l'altra era tra la biancheria sporca. Allora dissi che le avrei dato una delle mie. Lei ci ordinò di non parlare a nessuno della morte di Mary finché non l'avessimo resa presentabile, coperta con la trapunta e con gli occhi chiusi, i capelli pettinati e in ordine. Poi uscì anche lei, e Agnes e io facemmo quello che aveva detto; Mary, quando la sollevammo, era leggera, ma quando la vestimmo era pesante. Poi Agnes disse: Qui sotto c'è qualcosa, e mi chiedo chi è quell'uomo. E mi guardò. E io dissi: Chiunque sia, ora è vivo e sta bene, e probabilmente in questo momento sta facendo una buona colazione, e alla povera Mary non ci pensa proprio, per lui non è più importante di una bestia morta ap-
pesa dal macellaio. Agnes disse: È la maledizione di Eva che ricade su tutte noi, e io sapevo che Mary avrebbe riso di questa uscita. E poi sentii la sua voce, chiarissima, proprio vicina all'orecchio, che diceva: Fammi entrare. Sbigottita, fissai Mary, che in quel momento era sdraiata a terra, perché stavamo rifacendo il letto. Ma no, lei non aveva detto niente, era lì con gli occhi aperti, fissi al soffitto. Poi pensai, con un sussulto di paura: Ma non ho aperto la finestra! Corsi ad aprirla; dovevo aver sentito male, lei aveva sicuramente detto: Fammi uscire. Agnes disse: Ma cosa fai? fa un freddo cane qui dentro, e io risposi: C'è un odore che mi fa star male. E lei convenne che la stanza in effetti aveva bisogno di essere arieggiata. Speravo che ora l'anima di Mary volasse via dalla finestra, e non restasse dentro, a sussurrare al mio orecchio. Ma chissà se non era troppo tardi? Finalmente, quando tutto fu fatto, arrotolai lenzuolo e camicia e li portai giù in lavanderia, dove riempii un mastello di acqua fredda, perché per far andare via il sangue ci vuole acqua fredda, quella calda rende le macchie più tenaci. Per fortuna la lavandaia non c'era, era in cucina a scaldare i ferri per stirare e a chiacchierare con la cuoca. Strofinai ben bene, e il sangue venne via quasi tutto, arrossando l'acqua; allora la versai via, riempii di nuovo il mastello e lasciai il tutto a bagno, versandoci dentro un po' di aceto per togliere l'odore. Non so se per il freddo o per lo shock, stavo battendo i denti; e mentre risalivo le scale di corsa mi sentii girare la testa. Agnes era rimasta ad aspettare in camera con Mary, che ora era ben aggiustata con gli occhi chiusi come se dormisse, e le mani incrociate sul petto. Dissi ad Agnes che avevo finito, e mi mandò a dire all'Assessora Parkinson che era tutto pronto. Obbedii e tornai di sopra, e quasi subito i domestici vennero su a vedere, qualcuno piangeva e aveva una faccia triste, come si conviene; ma nonostante tutto la morte provoca sempre una strana eccitazione, e vedevo che quel giorno il sangue scorreva più veloce del solito nelle loro vene. Fu Agnes a parlare, e disse che era stata una malattia improvvisa, e per essere una donna così pia, se la cavò molto bene a mentire; io rimasi ai piedi di Mary, in silenzio. E qualcuno disse: Povera Grace, svegliarsi al mattino e trovarsela accanto nel letto fredda e rigida, così, all'improvviso. E qualcun altro disse: Ti fa venire la pelle d'oca a pensarci, i miei nervi non lo reggerebbero. E allora fu come se fosse capitato davvero; mi vidi la scena, io che mi
sveglio con Mary nel letto al mio fianco, e la tocco, e scopro che non parla, e l'orrore e l'angoscia che provo; e in quel momento caddi a terra, svenuta. Dicono che rimasi in quello stato per dieci ore, e che nessuno riuscì a svegliarmi, né coi pizzicotti né a ceffoni, né con l'acqua fredda né bruciandomi una penna d'oca sotto il naso; che quando mi svegliai sembrava che non sapessi dov'ero, e cosa era successo; che continuavo a chiedere dov'era andata Grace. E che quando mi dissero che ero io Grace, non ci credevo, piangevo e cercavo di scappar via di casa, perché dicevo che Grace si era persa, era finita dentro il lago, e dovevo andarla a cercare. Più tardi mi dissero che temevano fossi impazzita per via di quel che era successo; e non ci sarebbe stato da stupirsi. Poi caddi di nuovo in un sonno pesante. Quando mi svegliai, era il giorno dopo, e sapevo nuovamente di essere Grace, e che Mary era morta. Ripensai alla notte che avevamo gettato le bucce di mela dietro le spalle, e che quelle di Mary si erano spezzate tre volte; tutto si era avverato, non aveva sposato nessuno, né l'avrebbe fatto mai più. Ma non ricordavo niente di quel che avevo detto o fatto mentre ero sveglia, nell'intervallo tra quei due lunghi sonni; e questo mi angustiava. E fu così che il periodo più bello della mia vita finì per sempre. VII Steccato serpeggiante McDermot... era scontroso e villano. C'era ben poco di ammirevole nella sua indole... Era un giovanotto svelto, così agile che poteva correre sul bordo di uno steccato a zigzag come uno scoiattolo, e preferiva saltare sopra un cancello chiuso piuttosto che aprirlo o scavalcarlo... Grace era espansiva e affabile e può essere stata oggetto della gelosia di Nancy... C'è ampia ragione di supporre che invece di essere lei l'istigatrice e l'ideatrice del terribile atto perpetrato, fosse soltanto la sfortunata vittima di un'odiosa macchinazione. Di sicuro nella personalità della ragazza non sembravano esserci i presupposti per farla diventare quell'incarnazione di tutte le malvagità che cercava di far credere McDermot, ammesso che abbia davvero pronunciato la metà delle affermazioni che gli vengono attribuite nella sua confessione. Il suo disprezzo per la verità era ben noto...
William Harrison, Ricordo del tragico caso Kinnear scritto per «Newmarket Era», 1908 Ma se tu dovessi dimenticarmi per un po' E poi ricordarmi, non ti affliggere: Che se nel buio e nel disfarsi ancora resta Traccia dei pensieri che ebbi un tempo, Meglio sarà per me che tu dimentichi e sorrida Piuttosto che con tristezza mi ricordi. Christina Rossetti, Ricorda, 1849 21 Simon prende cappello e bastone che la cameriera della moglie del Direttore gli porge, ed esce barcollando alla luce del sole. È troppo vivida per lui, troppo cruda, come se fosse stato chiuso a lungo in una stanza buia, anche se la stanza del cucito non è affatto buia. È la storia di Grace che lo è; gli sembra di tornare da una visita a un macello. Come mai il racconto di questa morte lo colpisce tanto? Ovviamente sa che queste cose capitano; dottori così esistono, e non è che non abbia mai visto una donna morta. Ne ha viste tante; ma erano appunto così morte. Erano esemplari da laboratorio. Non le ha mai colte, come si suol dire, sul fatto. Questa Mary Withney, che non aveva ancora - quanti anni? diciassette? Una ragazzina. Deplorevole! Sente il bisogno di lavarsi le mani. Non c'è dubbio, la piega che hanno preso i fatti lo ha colto alla sprovvista. Stava seguendo la sua storia con un certo piacere, lo deve ammettere anche lui ha avuto i suoi giorni più felici e relativi ricordi, e anche nei suoi ci sono visioni di lenzuola pulite e vacanze felici, e giovani servette allegre - e poi, nel bel mezzo, questa tremenda sorpresa. E lei ha anche perso la memoria; anche se solo per qualche ora, e durante un attacco isterico del tutto normale; comunque, potrebbe essere importante. È la sola cosa che sembra non ricordare, finora; per il resto, non c'è bottone e mozzicone di candela che le sfugga. Ma, ripensandoci, come fa lui a esserne certo? ha la sgradevole sensazione che proprio la sovrabbondanza dei ricordi possa essere una specie di manovra diversiva, un modo di distogliere la mente da qualche fatto nascosto ma essenziale, come fiori variopinti piantati su una
tomba. Inoltre, si dice, la sola testimone che potrebbe corroborare la sua versione dei fatti - se si fosse in tribunale - sarebbe Mary Whitney in persona, che non è più reperibile. Lungo il viale sulla sinistra avanza Grace, è proprio lei, cammina a testa bassa in mezzo a due uomini piuttosto ripugnanti, che immagina siano guardie carcerarie. Le stanno addosso, come se non fosse un'assassina, ma un prezioso tesoro da custodire. Non gli piace il modo in cui si strusciano contro di lei; ma d'altra parte loro sarebbero nei guai, se mai dovesse scappare. Anche se ha sempre saputo che la riportano indietro tutte le sere e la chiudono in una cella angusta, oggi quel fatto gli sembra un'incongruità. Hanno chiacchierato tutto il pomeriggio, come in un salotto; e ora lui è libero come l'aria e può fare quel che gli pare e piace, mentre lei dev'essere messa sottochiave. Rinchiusa in una squallida prigione. Volutamente squallida, perché se una prigione non è squallida, che punizione è? Perfino la parola punizione oggi gli suona stridente. Non riesce a distogliere il pensiero da Mary Whitney, che giace avvolta nel suo lenzuolo insanguinato. Oggi si è fermato più a lungo del solito. È atteso a cena fra mezz'ora dal Reverendo Verringer. Non ha per niente fame. Decide di camminare lungo la riva del lago; il venticello fresco gli farà bene, e magari gli farà anche venire appetito. Meno male, pensa, che non ha proseguito gli studi da chirurgo. Il più terribile dei suoi insegnanti al Guy's Hospital di Londra, il celebre Dottor Branby Cooper, diceva sempre che per un buon chirurgo, come per un buon scultore, la capacità di distaccarsi dal materiale che aveva sottomano era un requisito necessario. Uno scultore non deve farsi distrarre dai fascini passeggeri della sua modella, ma deve guardarla con oggettività, come pura materia prima o argilla con cui dare forma alla sua opera d'arte. Allo stesso modo, il chirurgo scolpiva la carne viva; doveva essere in grado di affondare la lama in un corpo umano con determinazione e precisione, come se stesse incidendo un cammeo. Mano ferma e occhio imperturbabile, ecco cosa ci voleva. Quelli che si impietosivano troppo per le sofferenze del paziente erano quelli a cui il bisturi scivolava di mano. I malati non avevano bisogno di compassione, ma di tecnica. Mi sta bene, pensa Simon; ma uomini e donne non sono statue senza vita, come il marmo, anche se spesso poi lo diventano nella sala operatoria di un ospedale, dopo un tormentoso periodo in cui si agitano, fanno rumore
e gocciolano come rubinetti rotti. Non ci aveva messo molto a scoprire, al Guy's Hospital, che non amava il sangue. Ma aveva comunque imparato qualche utile lezione. Come la gente muore facilmente, per esempio; e frequentemente. Che filo sottile e sapiente congiunge spirito e corpo. Se la lama ti sfugge, fabbrichi un idiota. E allora perché non il contrario? Si potrebbe mettere insieme un genio, tagliando e cucendo? Quanti misteri ancora da rivelare nel sistema nervoso, questa trama di strutture materiali ed eteree, questa rete di fibre sottili che corrono attraverso il corpo, come migliaia di fili di Arianna, che portano tutti al cervello, l'oscura tana centrale dove giacciono sparpagliate ossa umane, e i mostri sono in agguato... Ma anche gli angeli, dice a se stesso. Anche gli angeli. Vede una donna che cammina a una certa distanza. È vestita di nero; la gonna, una soffice campana increspata dal vento, il velo una nuvola di fumo scuro alle sue spalle. Si volta, getta una rapida occhiata: è la signora Humphrey, la sua malinconica padrona di casa. Per fortuna sta andando nell'altra direzione; o forse lo evita di proposito. Meglio così, non è dell'umore giusto per fare conversazione, né tantomeno per ricevere gratitudine. Chissà perché insiste a vestirsi come una vedova. Per mantener viva la speranza, forse. Finora nessuna notizia del Maggiore. Simon cammina lungo la riva, e immagina cosa sta facendo il Maggiore - corse di cavalli, un bordello, una taverna; una delle tre cose. Poi, di punto in bianco, pensa che potrebbe togliersi le scarpe e bagnarsi i piedi nel lago. Improvvisamente emerge un ricordo: lui che sguazza nel ruscello in fondo alla tenuta, da ragazzino, insieme alla tata - una delle operaie giovani assunte come domestiche, come quasi tutte le loro cameriere, a quell'epoca - e si sporca, e viene rimproverato dalla madre, e la tata anche, perché non gliel'ha impedito. Come si chiamava? Alice? O quella è venuta dopo, quando lui andava già a scuola e portava i calzoni lunghi, ed era salito nell'attico per una delle sue esplorazioni clandestine, ed era stato scoperto in camera dalla ragazza? Con le mani nel sacco - stava accarezzando una delle sue sottovesti. Era arrabbiata con lui, ma non poteva sfogare la sua rabbia, ovviamente, perché non voleva perdere il posto; così aveva fatto come fanno le donne, era scoppiata in lacrime. Le aveva messo un braccio sulle spalle per consolarla, e avevano finito per baciarsi. Le era caduta la cuffia e i capelli si erano sciolti; lunghi capelli biondo scuro, voluttuosi, non troppo puliti, con un
odore di latte cagliato. Aveva le mani rosse, perché stava pulendo fragole; la sua bocca sapeva di fragola. Dopo, c'erano macchie rosse sulla sua camicia, là dove lei aveva cominciato a slacciargli i bottoni; ma era la prima volta che baciava una donna, era imbarazzato e anche spaventato, e non sapeva cosa fare dopo il bacio. Probabilmente aveva riso di lui. Era proprio di primo pelo, allora, un vero broccolo. Il ricordo lo fa sorridere. È un'immagine che viene da giorni più innocenti, e prima che la mezz'ora sia passata si sente già molto meglio. La governante del Reverendo Verringer lo saluta con un cenno di disapprovazione. Se mai sorridesse, la faccia le si creperebbe come un guscio d'uovo. Dev'esserci una scuola di bruttezza, pensa Simon, dove mandano questo genere di donne. Lei lo fa accomodare in biblioteca, dove il camino è acceso e ci sono due bicchieri pieni di un qualche sconosciuto cordiale. Quel che gli andrebbe è un buon whisky liscio, ma non c'è speranza di averlo, da questi metodisti astemi. Il Reverendo Verringer, immerso nei suoi libri rilegati in pelle, avanza e dà il benvenuto a Simon. Siedono e sorseggiare il liquido, che sa di erbacce, con un sottofondo di lampone. «Purifica il sangue. Lo fa la mia governante, secondo una vecchia ricetta», dice il Reverendo Verringer. Oh, vecchissima, aggiunge mentalmente Simon; e pensa alle streghe. «Ci sono progressi col... nostro progetto?» chiede Verringer. Simon sapeva che questa domanda sarebbe arrivata; ma s'imbroglia comunque nella risposta. «Sto procedendo con grande cautela», dice. «Ci sono sicuramente molte tracce che vale la pena di seguire. Come prima cosa dovevo stabilire un rapporto di fiducia, e credo di esserci riuscito. Dopodiché, ho cercato di far venire fuori la storia famigliare. A quanto pare il nostro soggetto ricorda la sua vita, prima di arrivare da Kinnear, con vivida precisione e in modo molto dettagliato, il che significa che il problema non riguarda la sua memoria in generale. Sono venuto a conoscenza di quanto riguarda il suo viaggio verso questo Paese, e anche il primo anno di servizio, che non è stato segnato da nessun infausto episodio, con una sola eccezione.» «E cioè?» chiede il Reverendo, alzando le rade sopracciglia. «Conosce una famiglia di nome Parkinson, a Toronto?» «Mi pare di ricordarmeli», dice Verringer, «quando ero giovane. Lui era Assessore, se ricordo bene. Ma è morto qualche anno fa; e la moglie credo
sia tornata in patria. Era un'americana, come lei. Trovava gli inverni troppo freddi.» «È un peccato», dice Simon. «Speravo di poter parlare con loro, per confermare certi fatti. Il primo impiego di Grace era presso questa famiglia. Aveva un'amica - un'altra domestica - che si chiamava Mary Whitney, che è, come lei ricorderà, il nome falso che ha dato quando è scappata negli Stati Uniti, con il suo... con James McDermott. Se di fuga si è trattata, poi, e non di una forma di emigrazione forzata. Comunque, questa giovane donna è morta, in circostanze che possiamo definire repentine, e mentre vegliava la salma, il nostro soggetto ha avuto l'impressione di sentire l'amica morta che le parlava. Un'allucinazione uditiva, naturalmente.» «Non è affatto raro», dice Verringer. «Ho preso parte a molte veglie funebri, e la gente, soprattutto i tipi sentimentali o superstiziosi, considera un disonore non sentir parlare il defunto. Se si riesce a sentire anche un coro angelico, tanto meglio.» Il tono è secco, forse perfino ironico. Simon è un po' sorpreso: non è un dovere dei preti incoraggiare queste pie fandonie? «In seguito», continua, «c'è stato un episodio di mancamento, e poi di isteria, insieme a quel che sembra essere stato sonnambulismo; dopodiché un sonno profondo e prolungato, e successiva amnesia.» «Ah», dice Verringer sporgendosi in avanti, «quindi c'è una storia di amnesia!» «Non dobbiamo tirare subito le conclusioni», dice giudizioso Simon. «In questo momento lei è la mia sola fonte di informazioni.» Fa una pausa; non vuole sembrare senza tatto. «Mi sarebbe enormemente utile, per formarmi un'opinione professionale, poter parlare con quelli che conoscevano Grace ai tempi del... dei fatti in questione, e che sono stati più tardi testimoni del suo comportamento nel Penitenziario, durante i primi anni di carcere, e anche nel Manicomio.» «Io non ero presente in quelle occasioni», dice il Reverendo Verringer. «Ho letto il resoconto della signora Moodie», dice Simon. «Dice molte cose che mi interessano. Secondo lei, Kenneth MacKenzie, l'avvocato, fece visita a Grace nel Penitenziario, sei o sette anni dopo l'incarcerazione, e Grace gli disse che Nancy Montgomery la perseguitava: che i suoi occhi accesi e iniettati di sangue la seguivano dappertutto, e le apparivano perfino in grembo o nel piatto della minestra. La signora Moodie in persona ha visto Grace al Manicomio, nell'ala dei pazienti violenti, credo, e la ritrae come una pazza farneticante, che lancia urla da far accapponare la pelle e scorrazza come una scimmia con la coda in fiamme. Naturalmente, il pez-
zo venne scritto prima che lei sapesse che in meno di un anno Grace sarebbe stata dimessa dal Manicomio in quanto sana di mente, se non del tutto, almeno quanto basta per rimandarla al Penitenziario.» «Non c'è bisogno di essere molto sani di mente per quello», dice Verringer, con una risatina stridula come una porta che cigola. «Pensavo di andare a trovare la signora Moodie», dice Simon. «Ma le chiedo consiglio. Non so bene come interrogarla senza apparire denigratorio circa la veridicità di quel che ha scritto.» «Veridicità?» dice Verringer senza scomporsi. Non sembra affatto sorpreso. «Ci sono discrepanze indiscutibili», dice Simon. «Per esempio, la signora Moodie non localizza chiaramente Richmond Hill, non è accurata nei nomi e nelle date, chiama diversi protagonisti della tragedia con nomi sbagliati, e attribuisce a Kinnear un grado militare che lui non si è mai guadagnato.» «Una medaglia post mortem, forse», mormora Verringer. Simon sorride. «Inoltre, fa tagliare a pezzi il corpo di Nancy Montgomery dagli assassini, prima di nasconderlo sotto il mastello, cosa che sicuramente non è avvenuta. I giornali non avrebbero certo omesso un dettaglio così sensazionale. Temo che quella brava donna non si renda conto di quanto è difficile tagliare a pezzi un cadavere, non avendolo mai fatto lei stessa. E, in conclusione, ti vengono dei dubbi anche sulle altre cose. Il movente per gli omicidi, per esempio: lei lo riduce a una violenta gelosia da parte di Grace, che invidiava a Nancy il rapporto con Kinnear, e ai desideri lascivi di McDermott, a cui sarebbe stato promesso un quid pro quo in cambio dei suoi servigi come macellaio, sotto forma dei favori di Grace.» «Erano le opinioni correnti all'epoca.» «Senza dubbio», dice Simon. «Il pubblico preferirà sempre un melodramma pruriginoso a una storia nuda e cruda di furto. Ma lei capisce che si possono fare delle riserve anche a proposito degli occhi iniettati di sangue.» «La signora Moodie», dice il Reverendo Verringer, «ha affermato pubblicamente che ha una passione per Charles Dickens, e soprattutto per Oliver Twist. Mi sembra di ricordare che c'erano due occhi così in quel libro, che appartenevano anche quelli a una donna morta di nome Nancy. La signora Moodie si lascia - come dire? - influenzare facilmente. Potrebbe leggere la poesia della signora Moodie intitolata La Pazza, se ha un debole
per Walter Scott. La poesia contiene tutti gli elementi: la scogliera, la luna, il mare in tempesta, una fanciulla tradita che canta una folle canzone, vestita di abiti assai poco igienicamente fradici, e con le chiome al vento inghirlandate, se ricordo bene, di varie specie botaniche. Credo che finisca col saltare giù dalla pittoresca scogliera che la sua previdente autrice le ha fornito. Mi lasci pensare...» E, a occhi chiusi e battendo il tempo con la mano destra, recita: Scomposti dal vento i vestiti, e la pioggia nel lampo Luceva come gemme tra i capelli adorni di fiori di campo; Il nudo petto esposto al notturno furor del temporale Che senza pietà infuriava sul fragile corpo gentile; Dai lampeggianti occhi neri ogni ragione era fuggita, Ella apparve al mio sguardo come ombra d'un'anima dipartita; Cantava una folle canzone davanti ai ribollenti flutti Che al mio orecchio suonava come un triste canto di lutto. E colui che l'abbandonò alla vergogna e alla follia, Che la macchiò d'infamia e l'onore le portò via, Rivolse forse allora un pensiero al cuor che aveva infranto, Alle mancate promesse, alla pena di lei, al suo pianto? E dov'era il bimbo che nascendo causò l'agonia Di sua madre, e dal dolore la condusse alla pazzia? Riapre gli occhi. «Già, dov'era?» dice. «Sono sbalordito», dice Simon. «Lei deve avere una memoria straordinaria.» «Per un certo tipo di versi, disgraziatamente, sì; è colpa di tutti questi inni che canto», dice il Reverendo Verringer. «Anche se Dio stesso ha scelto di scrivere la maggior parte della Bibbia in forma poetica, il che dimostra che approva la poesia in quanto tale, ciò non toglie che la si possa usare in modo molto mediocre. Comunque, non c'è niente da eccepire sui principi morali della signora Moodie. Ma sono sicuro che capisce quel che intendo dire. La signora Moodie è una letterata, e come tutte le sue pari, anzi tutte le donne, tende a...» «Ricamare», dice Simon. «Precisamente», dice il Reverendo Verringer. «Tutto quel che le dico in questa sede è strettamente confidenziale, è ovvio. Nonostante all'epoca
della Rivolta fossero conservatori, in seguito i Moodie hanno compreso il loro errore, e ora sono convinti riformisti; e hanno dovuto pagarne le conseguenze, a opera di gente maligna la cui posizione le permette di tormentarli con cause giudiziarie eccetera. Non ho niente da dire sul conto della signora. Ma non consiglierei di andarla a trovare. Ho sentito dire, tra l'altro, che si è fatta accalappiare dagli Spiritualisti.» «Davvero?» dice Simon. «Così dicono. Lei era scettica, ed è stato suo marito a farsi convertire per primo. Sicuramente lei si è stufata di passare le serate da sola, mentre lui era fuori a sentire le trombe angeliche e a conversare con gli spiriti di Goethe e Shakespeare.» «Ne deduco che lei non approva.» «Sacerdoti del mio credo sono stati espulsi dalla Chiesa per essersi dilettati in queste faccende, a mio parere sacrileghe», dice il Reverendo Verringer. «È vero che alcuni membri del nostro Comitato ne sono coinvolti, anzi sono dei patiti; ma io devo lasciar correre, in attesa che questa mania abbia fatto il suo tempo, e che rinsaviscano. Come ha detto Nathaniel Hawthorne, è un'impostura, e se non lo è, tanto peggio per noi; perché gli spiriti che si presentano a rovesciare i tavoli e cose del genere, devono essere quelli che non sono riusciti a entrare nel mondo eterno, e sono ancora qui a ingombrare il nostro, come una specie di polvere spirituale. È improbabile che ci facciano del bene, e meno abbiamo a che fare con loro, meglio è.» «Hawthorne?» dice Simon. È sorpreso di trovare un sacerdote che legge Hawthorne: è stato accusato di sensualismo e, soprattutto dopo La lettera scarlatta, di lassismo morale. «Bisogna stare al passo col proprio gregge. Ma per quanto concerne Grace Marks e la sua personalità di un tempo, farebbe meglio a consultare l'avvocato Kenneth MacKenzie, che la difese durante il processo e che, a quanto mi dicono, è un uomo con la testa sul collo. Attualmente è socio di uno studio legale di Toronto, ha fatto carriera in fretta. Le scriverò una lettera di presentazione per lui; sono sicuro che verrà incontro alle sue richieste.» «Grazie», dice Simon. «Sono contento di aver avuto l'opportunità di parlare con lei a quattr'occhi, prima che siano qui le signore. Ma sento che stanno arrivando.» «Le signore?» dice Simon. «La moglie del Direttore e le sue figlie ci concedono il piacere della loro compagnia, stasera», dice Verringer. «Il Direttore purtroppo è via per lavo-
ro. Non gliel'ho detto?» Due macchie di rossore compaiono sulle sue pallide guance. «Andiamo a riceverle, le va?» C'è solo una delle figlie. Marianne, dice la madre, è a letto col raffreddore. Simon sta all'erta: conosce bene queste piccole astuzie, i complotti materni. La moglie del Direttore ha deciso di dare a Lydia l'occasione di provarci con lui, senza interventi diversivi da parte di Marianne. Forse dovrebbe rivelare immediatamente l'esiguità della sua rendita, bloccando così tutti i suoi piani. Ma Lydia è una chicca, e lui non vuole privarsi troppo presto di questo piacere estetico. Finché non si fa una dichiarazione, non c'è niente di irreparabile; e gli piace trovarsi sotto lo sguardo di quegli occhi luminosi. Ormai la stagione è ufficialmente cambiata: Lydia è in fiore, come la primavera. Balze di stoffe floreali in colori pastello sono sbocciate su di lei, e le ondeggiano sulle spalle come ali diafane. Simon mangia il pesce (è stracotto, ma su questo continente nessuno sa cucinare il pesce in umido come si deve) e ammira i contorni lisci e bianchi del suo collo, e quel che si può vedere del seno. È come una scultura di panna montata. Dovrebbe esserci lei sul vassoio, invece del pesce. Ha sentito raccontare di una famosa cortigiana di Parigi che si è presentata a un banchetto in questo modo; nuda, naturalmente. Si assorbe nell'occupazione di svestire e decorare Lydia; la vorrebbe inghirlandata di fiori, color avorio e rosa carne, e magari con un contorno di grappoli e pesche di serra. La sua ipertiroidea madre è nervosa come sempre; si tormenta la collana di giaietto e si lancia quasi subito nella questione più importante della serata. Il circolo del martedì desidera ardentemente sentire una conferenza del Dottor Jordan. Niente di formale, una chiacchierata tra amici - amici anche del Dottore, e spera che tali li consideri - che sono interessati alle stesse importanti questioni. Forse potrebbe dire qualche parola sul problema dell'abolizione della schiavitù? è una cosa che sta così a cuore a tutti quanti. Simon dice che non è un esperto; anzi, non è per niente informato, dato che ha passato questi ultimi anni in Europa. In questo caso, suggerisce il Reverendo Verringer, forse il Dottor Jordan sarebbe così gentile da metterli al corrente sulle ultime teorie riguardanti le malattie nervose e mentali? Anche questo sarebbe molto gradito, visto che uno dei progetti su cui sono impegnati da lunga data, come gruppo, è la riforma dei pubblici manicomi. «Il Dottor DuPont dice che sarebbe particolarmente interessato», afferma la moglie del Direttore. «Il Dottor Jerome DuPont, vi siete già cono-
sciuti. Ha una tale ampiezza di... un così vasto campo di... di interessi.» «Oh, per me sarebbe una cosa affascinante», dice Lydia, guardando Simon da sotto le lunghe ciglia. «Spero proprio che dirà di sì!» Non ha parlato molto, stasera; ma in effetti non ne ha avuto l'occasione, tranne che per rifiutare una seconda porzione di pesce, che il Reverendo Verringer ha insistito a offrirle. «Mi sono sempre chiesta che effetto faccia, impazzire. Grace non vuole dirmelo.» Simon ha la visione di se stesso in un angolo buio con Lydia. Dietro una tenda; un pesante broccato lilla. Se lui le mettesse un braccio attorno alla vita (piano, per non spaventarla), sospirerebbe? Si lascerebbe andare, o lo respingerebbe? O tutte e due le cose? Tornato al suo alloggio, si versa un bicchierone di sherry dalla bottiglia che tiene nell'armadio. Non ha bevuto alcol per tutta la sera - durante la cena dal Reverendo Verringer è stata servita acqua - ma chissà perché gli sembra di essere brillo. Perché mai ha acconsentito a fare la conferenza allo stramaledetto circolo del martedì? Che cosa gliene importa di quella gente, e a loro di lui? Cosa può significare per loro quel che lui può dirgli, visto che non sono addentro alla materia? È stata Lydia, Lydia che lo ammira e che lo attrae. Gli sembra di essere caduto in un'imboscata tesa da un cespuglio in fiore. È troppo esausto per restare alzato fino a tardi a leggere e lavorare, come fa di solito. Va a letto e si addormenta subito. E fa un sogno inquietante. È in un cortile recintato dove c'è un bucato appeso. Non c'è nessun altro lì, e questo gli dà una sensazione di piacere clandestino. Lenzuola e biancheria ondeggiano al vento, come se invisibili fianchi si muovessero dentro di essi, come se fossero vivi. Mentre guarda - dev'essere bambino, è piccolo e deve alzare la testa - un fazzoletto o un velo di mussola bianca si stacca dal filo e fluttua con grazia nell'aria, come una lunga benda che si srotola, o come vernice nell'acqua. Lo rincorre, oltre il cortile, lungo la strada - ah, ma allora si trova in campagna - e in un campo. Un frutteto. La sciarpa si è impigliata nei rami di un alberello coperto di mele verdi. Lui la tira verso di sé e gli cade sulla faccia; allora capisce che non è una sciarpa ma sono capelli, i lunghi capelli profumati di una donna che non si vede, e gli si attorcigliano attorno al collo. Lotta; si sente stretto in un abbraccio soffocante; non riesce quasi a respirare. È una sensazione dolorosa ed erotica in modo quasi insopportabile, e si sveglia di soprassalto.
22 Oggi sono nella stanza del cucito davanti al Dottor Jordan. Sarebbe assurdo chiedergli perché è arrivato tardi; gli uomini come lui sono padroni del proprio tempo. Perciò continuo a cucire, mentre canticchio fra me e me. Roccia eterna, che per me ti apri, Lascia che in te trovi rifugio; Fa' che l'acqua e il Sangue Che sgorgò dal tuo fianco ferito Lavino da me il peccato Mi liberino da colpa e tentazione. Mi piace questo inno, perché mi fa pensare alle rocce, all'acqua, alla riva del mare, che sono là fuori; e pensarci è quasi come essere là. Non sapevo che cantassi così bene, Grace, dice il Dottor Jordan, entrando. Hai una bella voce. Ha le occhiaie scure e la faccia di uno che non ha dormito. Grazie, signore. Una volta cantavo più spesso. Si siede, tira fuori il taccuino e la matita, e anche una pastinaca, e la mette sul tavolo. Al suo posto non avrei preso quella, è arancione, il che significa che è vecchia. Oh, una pastinaca, dico. Ti fa venire in mente qualcosa? chiede. Be', c'è quel modo di dire, Le belle parole non imburrano le pastinache, dico io. Inoltre, sono difficili da pelare. Si conservano in cantina, credo, dice lui. Oh, no, signore, rispondo. All'aperto, in una buca coperta di paglia, perché sono molto migliori se gelano. Mi guarda con aria stanca, e mi chiedo cosa lo ha tenuto sveglio. Forse ha per la testa una ragazza che non lo ricambia; oppure mangia in modo disordinato. Vogliamo continuare con la tua storia dal punto dove eravamo rimasti? dice. Non ricordo dove eravamo arrivati, dico io. Non è vero, ma voglio vedere se mi ha ascoltato davvero, o ha solo fatto finta. Alla morte di Mary, dice. La tua povera amica Mary Whitney.
Ah, sì, dico. A Mary. Be', signore, il modo come Mary era morta venne messo a tacere il più possibile. La gente poteva credere o non credere che fosse morta di malattia, ma nessuno lo smentì mai apertamente. E nessuno mise in questione che aveva lasciato a me le sue cose, visto che l'aveva scritto; anche se qualcuno si mostrò perplesso dal fatto che l'avesse scritto, come se avesse saputo che stava per morire. Ma io dissi che i ricchi fanno testamento per tempo, perciò perché Mary non poteva farlo anche lei? e nessuno fiatò. Né ci furono commenti sulla carta da lettere, e come ne era venuta in possesso. Vendetti a Jeremiah, quando passò dopo la sua morte, il suo baule, che era di buona qualità, e anche il suo vestito buono; e gli vendetti anche l'anello d'oro che teneva nascosto sotto il pavimento. Gli dissi che dovevo ricavarne i soldi per un funerale decente, e lui mi fece un prezzo da amico. Disse che aveva visto la morte scritta in faccia a Mary, ma d'altronde si fa presto a far pronostici a cose fatte. Disse anche che gli spiaceva che fosse morta, e che avrebbe pregato per lei, anche se non capivo che razza di preghiera potesse fare, lui così miscredente, con i suoi trucchetti e le sue predizioni. D'altra parte, col tempo mi sono convinta che Dio non fa distinzioni sul modo in cui si prega, ma solo sull'intenzione, buona o cattiva. Fu Agnes che mi aiutò per il funerale. Nella bara mettemmo dei fiori presi dal giardino dell'Assessora Parkinson, dopo aver chiesto il permesso; e siccome era giugno, c'erano rose col gambo lungo, e peonie; prendemmo solo quelle bianche. Io la cosparsi di petali, e feci scivolare dentro anche l'astuccio per gli aghi e lo nascosi perché poteva sembrare poco appropriato, rosso com'era; le tagliai anche una ciocca di capelli sulla nuca per ricordo, e la legai con un filo. Fu sepolta in camicia da notte, quella buona, e non sembrava morta per niente, sembrava addormentata e molto pallida; tutta vestita di bianco com'era, pareva una sposa. La bara era di abete, semplicissima, perché io con quei soldi volevo pagarci anche una lapide; ma ne avevo appena abbastanza per far incidere il suo nome. Mi sarebbe piaciuta una poesia, tipo Tu che dalla Terra oscura sei fuggita, di me ricordati nella Celeste Vita, ma non potevo permettermelo. La misero nel cimitero metodista in Adelaide Street, in un angolo vicino alle tombe dei poveri, ma comunque in terra consacrata, e io avevo la coscienza a posto, perché di più non potevo fare. Erano presenti solo Agnes e altre due domestiche, perché dovevano essersi diffusi dei sospetti
sulla sua morte; e quando gettarono palate di terra sulla bara, e il giovane prete disse: Tutto ciò che è polvere, polvere ritornerà, piansi da spezzarmi il cuore. Pensavo anche alla mia povera mamma, che non era neanche stata sepolta nella terra, come si deve, ma gettata in mare. Non riuscivo a credere che Mary fosse davvero morta. Mi aspettavo sempre che entrasse in camera, e a volte di notte, quand'ero a letto, mi sembrava di sentirla respirare, o ridere fuori dalla porta. Ogni domenica portavo fiori sulla sua tomba, non quelli del giardino dell'Assessora, perché il permesso valeva solo per quell'occasione; fiori selvatici che raccoglievo nei terreni abbandonati o lungo la riva del lago, ovunque li trovassi. Andai via dalla casa dell'Assessora Parkinson poco dopo la morte di Mary. Non ci stavo più bene, perché da quando lei era morta l'Assessora e la signora Honey mi trattavano con ostilità. Probabilmente pensavano che fossi complice di Mary nella sua relazione con quel signore, e che sapessi il nome di lui; non era vero, ma è difficile dissipare i sospetti una volta formati. Quando dissi che volevo licenziarmi, l'Assessora Parkinson non protestò, ma mi chiamò in biblioteca e mi chiese ancora una volta, con insistenza, se sapevo chi era quell'uomo; e quando dissi che non lo sapevo, mi fece giurare sulla Bibbia che, anche se l'avessi saputo, non l'avrei mai rivelato, e in cambio mi avrebbe dato buone referenze. Non mi piaceva la sua sfiducia, ma feci quello che chiedeva, e l'Assessora scrisse le referenze, mi disse garbatamente che avevo sempre lavorato bene, mi diede una generosa buonuscita di cinque dollari e mi trovò un altro posto, a casa del signor Dixon, che era anche lui Assessore. Dai Dixon mi pagavano di più, perché ormai avevo esperienza e referenze. Non si trovavano facilmente domestici affidabili, perché molti se ne erano andati negli Stati Uniti dopo la Rivolta, e anche se c'erano nuovi immigrati che arrivavano in continuazione, le carenze non erano ancora state colmate; perciò sapevo che, se un posto non mi piaceva, non ero obbligata a restarci. E non mi piaceva stare dal signor Dixon, perché mi pareva che sapessero troppo di quella faccenda, e mi trattassero in modo strano; perciò diedi il preavviso e andai dal signor McManus; ma anche lì non mi trovavo bene, perché eravamo solo in due a servizio, e l'altro era un uomo a giornata che parlava sempre della fine del mondo, delle tribolazioni e dello stridore di denti, e a tavola non era una bella compagnia. Rimasi solo tre mesi, e poi fui assunta dal signor Coates; ma lì c'era un'altra domestica che era gelosa
di me, perché io ero più accurata di lei nel lavoro; perciò quando mi si presentò l'occasione mi feci assumere dal signor Haraghy, per la stessa paga. Per un po' di tempo le cose andarono bene, ma poi cominciai a stare sulle mie, perché il signor Haraghy cercava di prendersi delle libertà nel corridoio, mentre portavo via i piatti dalla sala da pranzo; e pur ricordando il consiglio di Mary di mollare calci in mezzo alle gambe, pensavo che non mi conveniva prendere a calci il mio datore di lavoro, perché poteva anche mandarmi via senza referenze. Una notte, però, sentii che era fuori dalla porta della mia stanza, su nell'attico; lo riconobbi dalla tosse stizzosa. Stava trafficando con il chiavistello. Io mi chiudevo sempre dentro di notte, ma sapevo che, chiave o non chiave, prima o poi avrebbe trovato un modo per entrare, alla peggio appoggiando una scala alla finestra, e questo pensiero mi guastava il sonno; e io avevo bisogno di dormire, alla fine di una giornata di lavoro; una volta che ti trovano con un uomo in camera, non importa come ci è entrato, la colpevole sei tu. Come diceva Mary, certi padroni pensano che devi servirli ventiquattr'ore al giorno, e che devi lavorare anche a letto. Credo che la signora Haraghy sospettasse qualcosa. Veniva da una buona famiglia impoverita, e non aveva potuto guardare per il sottile in fatto di marito; il signor Haraghy aveva fatto fortuna con la carne di maiale. Non penso che fosse la prima volta che il signor Haraghy si comportava così, perché quando mi licenziai la signora Haraghy non mi chiese neanche perché, sospirò, mi disse che ero una brava ragazza, e mi scrisse immediatamente le referenze sulla sua carta migliore. Me ne andai a casa del signor Watson. Avrei potuto trovare di meglio se avessi avuto tempo di guardarmi attorno, ma avevo dovuto fare in fretta, perché il signor Haraghy era piombato tutto ansimante e tossicchiante nel retrocucina mentre pulivo le padelle, e aveva cercato di abbracciarmi nonostante avessi le mani coperte di unto e di fuliggine, e questo era segno che ormai era pronto a tutto. Il signor Watson era un calzolaio e aveva un gran bisogno di aiuto in casa, con una moglie, tre bambini e un quarto in arrivo; aveva una sola domestica, che non ce la faceva con il bucato, anche se se la cavava bene in cucina; perciò era disposto a pagarmi due dollari e cinquanta centesimi al mese più un paio di scarpe. Avevo bisogno di scarpe, perché quelle che mi aveva lasciato Mary non mi andavano bene e le mie erano ormai in pezzi; le scarpe nuove costavano care. Ero lì da poco quando feci conoscenza con Nancy Montgomery, che venne a farci visita perché lei e la cuoca della signora Watson, Sally, erano
cresciute insieme, in campagna. Nancy era a Toronto per fare acquisti a un'asta di tessuti giù ai magazzini Clarkson; ci fece vedere della bella seta cremisi che si era comprata per un abito invernale, e io mi chiesi cosa se ne faceva una governante di un vestito così; e anche dei bei guanti, e una tovaglia di lino irlandese acquistata per conto del suo datore di lavoro. Disse che era meglio comprare alle aste piuttosto che nei negozi, perché la roba costava meno, e al suo padrone piaceva fare buoni affari. Non era venuta con la diligenza, il padrone l'aveva portata col calesse, era molto più comodo, non dovevi farti sballottare in mezzo a sconosciuti. Nancy Montgomery era una bella donna di circa ventiquattro anni, con i capelli scuri e begli occhi castani; rideva e scherzava proprio come Mary Whitney, e sembrava di buon carattere. Venne a sedersi in cucina, bevve una tazza di tè e parlò con Sally dei vecchi tempi. Erano andate a scuola insieme a nord della città, nella prima scuola creata nel distretto, dove il prete del posto insegnava il sabato mattina, quando i ragazzini erano liberi dal lavoro. La scuola era in una baracca di tronchi, che sembrava piuttosto una stalla, disse Nancy; per arrivarci dovevano attraversare la foresta, e avevano sempre paura degli orsi, che allora erano più numerosi; un giorno ne avevano visto uno, e Nancy era corsa via urlando e si era arrampicata su un albero. Sally disse che il più impaurito era l'orso, e Nancy disse che probabilmente era un orso maschio ed era scappato via da quella cosa pericolosa mai vista in vita sua, a cui forse aveva gettato un'occhiata mentre lei saliva sull'albero; e qui risero come matte. Raccontarono di quella volta che i ragazzi avevano scoperchiato il gabinetto dietro la scuola mentre c'era dentro una delle ragazze, e loro non l'avevano avvertita, erano invece rimaste a guardare insieme agli altri, e poi si erano sentite in colpa. Sally disse che erano sempre le sprovvedute ad andarci di mezzo, e Nancy disse sì è vero, ma devi anche imparare a difenderti, nella vita; e io pensai che aveva ragione. Mentre si rimetteva lo scialle e si preparava a uscire - aveva un bell'ombrellino, rosa, anche se non troppo pulito - Nancy mi disse che faceva la governante dal signor Thomas Kinnear, che viveva a Richmond Hill, su per la Yonge Street dopo Gallow's Hill e Hogg's Hollow. Disse che aveva bisogno di un'altra domestica che la aiutasse, perché la casa era grande e la ragazza che c'era prima se n'era andata perché si sposava. Il signor Kinnear era un gentiluomo, veniva da una buona famiglia scozzese, era alla mano e di poche pretese, e non era sposato; perciò c'era meno lavoro, e nessuna padrona di casa che trovasse da ridire e criticasse: ero interessata?
Affermò che sentiva la mancanza di una compagnia femminile, perché la fattoria del signor Kinnear era distante dalla città; inoltre non le piaceva starsene lì soletta, una donna sola insieme a un uomo, perché la gente parla; e mi parve giusto e corretto che la pensasse così. Disse che il signor Kinnear era un padrone generoso, e quand'era contento lo dimostrava; accettando avrei fatto un buon affare e un passo avanti nel mondo. Poi mi chiese com'era il mio salario attuale, e disse che mi avrebbe pagata tre dollari al mese, cosa che mi sembrò più che vantaggiosa. Nancy disse che doveva tornare in città di lì a una settimana, e che poteva aspettare fino ad allora per sentire la mia decisione; passai quella settimana a rimuginare sulla faccenda. Mi preoccupava l'idea di stare in campagna, perché ormai mi ero abituata a vivere a Toronto; c'erano così tante cose da vedere quando si usciva per commissioni, e di tanto in tanto c'erano spettacoli e fiere, anche se in quelle occasioni bisognava stare attenti ai ladri; e poi gente che predicava in strada, e sempre qualche ragazzo o qualche donna che cantava e faceva la questua. Avevo visto un mangiatore di fuoco, un ventriloquo, un maiale che sapeva contare e un orso con la museruola che ballava, anche se in realtà era più un barcollare qua e là, con dei ragazzacci che lo punzecchiavano con un bastone. E poi in campagna c'era il fango, e non c'erano quei bei marciapiedi rialzati; e niente lampioni di sera, né magnifici negozi, né tutti quei campanili, le carrozze eleganti e i palazzi delle banche, con i colonnati. Ma riflettei che se la campagna non mi piaceva, avrei sempre potuto tornare indietro. Quando chiesi a Sally il suo parere, disse che non sapeva se era un lavoro adatto a una ragazza giovane come me; e quando le chiesi perché no, disse che Nancy era sempre stata gentile con lei, che non le piaceva sparlare, e che ognuno doveva assumersi i propri rischi; meno si diceva meglio era, e siccome non sapeva niente di sicuro, non era giusto che dicesse di più; comunque sentiva di aver fatto il suo dovere verso di me dicendomi quel poco che mi aveva detto, visto che non avevo una madre che mi consigliasse. Non capii di cosa parlasse, non ne avevo la più pallida idea. Le chiesi se avesse mai sentito dire qualcosa di brutto sul conto del signor Kinnear, e lei disse: Niente di male, agli occhi del mondo. Era un enigma e io non indovinai la soluzione; sarebbe stato meglio per tutti se avesse parlato apertamente. Ma la paga era più alta di quanto avessi mai guadagnato, e questo per me era importante; ma ancora più importante era Nancy Montgomery. Somigliava un po' a Mary Whitney, o perlomeno così mi parve allora; e io ero sempre stata triste e depressa, dalla morte di
Mary. Perciò decisi di andare. 23 Nancy mi aveva dato i soldi per il viaggio, perciò il giorno stabilito presi la diligenza del mattino. Era un lungo tragitto, perché Richmond Hill si trovava a sedici miglia di distanza sulla Yonge Street. Immediatamente a nord della città la strada non era malaccio, anche se più di una volta dovemmo scendere e andare a piedi per le salite ripide, o i cavalli non ce l'avrebbero fatta. Oltre i fossi c'erano campi fioriti di margherite e altri fiori, su cui volavano farfalle; quei tratti di strada erano davvero belli. Pensai di farmi un mazzolino, ma sarebbe sicuramente appassito prima che arrivassi. Dopo un po' la strada peggiorò, c'erano solchi profondi e pietre, sobbalzi e scossoni da scardinarti le ossa, polvere da soffocarti in cima alle colline, e giù in basso fango, con tronchi gettati alla meglio sulle buche. Dicevano che quando pioveva la strada diventava un pantano, e che in marzo, all'epoca del disgelo, era quasi impossibile viaggiare. L'epoca migliore era l'inverno, quando era tutto gelato e una slitta poteva filare senza impacci; però d'inverno c'era rischio di tormente, e di morire congelati se la slitta si rovesciava; a volte le tempeste creavano montagne di neve alte come case, e allora la tua sola speranza era qualche preghiera e un bel po' di whisky. Tutto questo e altro ancora me lo disse l'uomo che sedeva tutto pigiato accanto a me, che sostenne di essere un commerciante di attrezzi agricoli e sementi e di conoscere bene la strada. Alcune delle case che oltrepassammo erano grandi ed eleganti, ma altre erano semplici capanni, col tetto basso e l'aria misera. Gli steccati attorno ai campi erano di diversi tipi, alcuni di quelli che si chiamano serpeggianti, cioè file di tronchi spaccati a metà che correvano a zigzag, altri fatti con le radici degli alberi, che sembravano giganteschi ciuffi di capelli di legno. Di tanto in tanto c'era un crocevia con un gruppetto di case e una locanda, dove si potevano far riposare i cavalli o cambiarli e bere un bicchiere di whisky. C'erano alcuni uomini che ciondolavano lì attorno che ne avevano già bevuto più d'uno; erano malvestiti e insolenti, e si avvicinarono alla diligenza dove me ne stavo seduta e cercarono di sbirciare sotto la tesa del mio cappello. Quando ci fermammo a mezzogiorno, il commerciante di attrezzi agricoli mi invitò a entrare con lui a bere un bicchiere e mangiare qualcosa, ma io dissi di no, perché una donna che si rispetti non va in posti così in compagnia di uno sconosciuto. Mi ero portata pane e formaggio e
potevo bere l'acqua del pozzo nel cortile, e tanto mi bastava. Per il viaggio mi ero messa i migliori abiti estivi. Avevo una cuffia di paglia, con un nastro azzurro che veniva dal baule di Mary, e sotto una cuffietta di tela; un vestito di cotone con le maniche a gigot che allora stavano già passando di moda, ma non avevo avuto il tempo di rifarle; una volta era stato a pallini rossi, però a forza di lavarlo erano diventati rosa; me l'avevano dato i Coates, in conto salario. Due sottogonne, una strappata ma debitamente rammendata, l'altra ormai troppo corta, ma tanto chi la vedeva? una camiciola di cotone e un bustino, comprato usato da Jeremiah; calze bianche di cotone, rammendate ma ancora buone. Le scarpe del signor Watson, il calzolaio; non erano della miglior qualità, e neanche della mia misura, perché le scarpe migliori venivano dall'Inghilterra. Uno scialle estivo di mussola verde, e il fazzoletto lasciatomi da Mary, che era stato di sua madre, fiorellini azzurri (nontiscordardimé) su fondo bianco, piegato a triangolo e gettato sul collo per ripararmi dal sole e non farmi venire le lentiggini. Mi dava conforto avere questi ricordi di lei. Ma ero senza guanti. Nessuno me ne aveva mai regalati, ed erano troppo cari per comprarli. I vestiti invernali, la sottogonna di flanella rossa e il vestito pesante, le calze di lana e la camicia da notte di flanella, insieme ad altre due estive di cotone, al vestito leggero da lavoro, agli zoccoli, due cuffie e un grembiule e all'altra sottoveste, erano legati con lo scialle di mia madre e il fardello viaggiava sul tetto della diligenza. Era saldamente assicurato con le cinghie, ma io rimasi in ansia per tutto il viaggio, preoccupata che cadesse giù e si perdesse nel tragitto, e continuavo a voltarmi indietro a guardare. Non voltarti mai a guardare indietro, disse il commerciante di attrezzi agricoli. Perché no? chiesi. Lo sapevo che non si doveva parlare con gli sconosciuti, ma era difficile evitarlo, pigiati stretti stretti come eravamo. Perché il passato è passato, disse lui, e i rimpianti non servono a niente, quel che è stato è stato. Lo sai cos'è capitato alla moglie di Lot, proseguì. Trasformata in una statua di sale, ecco cosa, una donna come si deve, che spreco, non che un po' di sale gli faccia male, e si mise a ridere. Non sapevo cosa intendeva dire, ma sospettavo che fossero cose poco perbene, perciò decisi di non parlargli più. Le zanzare erano terribili, soprattutto vicino agli acquitrini e ai margini delle foreste, perché anche se una parte dei terreni vicini alla strada erano stati disboscati, c'erano ancora grandi distese di alberi, altissimi e scuri. Nelle foreste l'aria aveva un odore diverso; era fresca e umida, e sapeva di muschio, di terra e di foglie morte. Diffidavo delle foreste, perché erano
piene di animali selvatici come gli orsi e i lupi; e mi venne in mente la storia di Nancy sull'orso. Il commerciante di attrezzi agricoli disse: Avresti paura ad andare nella foresta, signorina? e io dissi: No, non avrei paura, ma non ci andrei se potessi farne a meno. E lui disse: Meglio così, le donne giovani non dovrebbero andare nella foresta da sole, non si sa mai cosa può capitargli; di recente ne hanno trovata una con i vestiti tutti strappati e la testa a una certa distanza dal corpo, e io dissi: Oh, sono stati gli orsi? e lui disse: O gli orsi o i pellerossa, questi boschi ne sono pieni, sai, potrebbero saltar fuori da un momento all'altro e tirarti via il cappello in quattro e quattr'otto e poi lo scalpo, gli piace sai tagliare i capelli alle donne, negli Stati Uniti si vendono bene. E poi disse: Immagino che hai dei gran bei capelli, lì sotto la cuffia; e per tutto il tempo si strusciava contro di me in un modo che trovavo offensivo. Sapevo che mentiva, se non sugli orsi sicuramente sui pellerossa, e che stava solo cercando di terrorizzarmi. Perciò, con una certa insolenza, dissi: I miei capelli li farei vedere piuttosto ai pellerossa che a lei, e lui si mise a ridere; ma io dicevo sul serio. I pellerossa li avevo visti a Toronto, dove andavano di tanto in tanto a ritirare i soldi che lo Stato gli doveva per trattato; e a volte si presentavano alla porta di servizio dell'Assessora Parkinson a vendere cesti di vimini, o pesce. Avevano sempre facce impassibili, perciò non si poteva sapere cosa pensassero, ma quando gli dicevi di andarsene se ne andavano. Comunque, fui sollevata quando uscimmo dalla foresta e rivedemmo steccati e case e biancheria stesa, e sentimmo l'odore del fumo delle cucine e degli alberi che venivano bruciati per usare la cenere. A un certo punto superammo un edificio in rovine, di cui restavano solo qualche muro annerito dal fuoco, e il commerciante me lo indicò e mi disse che era la famosa taverna Montgomery, dove Mackenzie e la sua banda di straccioni tenevano le loro adunate sediziose, e da dove erano partiti per marciare giù lungo la Yonge Street, durante la Rivolta. Proprio lì davanti avevano sparato a un uomo che stava andando a dare l'allarme alle truppe del Governatore e poi la taverna era stata incendiata. Qualcuno di quei traditori l'avevano impiccato, ma non abbastanza, disse il commerciante, e quel vigliacco farabutto di Mackenzie dovrebbero portarlo via a forza dagli Stati Uniti, dove è scappato, lasciando i suoi amici a penzolare dalla corda al posto suo. Il commerciante aveva una fiasca in tasca, e ormai l'alcol lo aveva reso ardito, si sentiva dall'alito, e quando sono in quello stato è me-
glio non provocarli; perciò non risposi. Arrivammo a Richmond Hill nel tardo pomeriggio. Come città non era un granché; più che altro sembrava un villaggio, con le case dispose in fila lungo Yonge Street. Scesi lì alla locanda della posta, il luogo convenuto con Nancy, e il cocchiere tirò giù il mio fagotto. Il commerciante di attrezzi agricoli scese anche lui, e voleva sapere dove mi fermavo; gli dissi che per non sentirsi dire di no, non aveva che da non chiedere. Allora lui mi prese per un braccio e disse che dovevo andare a brindare con lui alla nostra amicizia, visto che ormai avevamo fatto conoscenza; cercai di svincolarmi, ma non mi lasciava andare, anzi si prendeva delle confidenze, tentava di abbracciarmi; e diversi uomini se ne stavano a guardare e lo incoraggiavano ridendo. Mi guardai attorno cercando Nancy, ma non la vidi da nessuna parte. Che brutta impressione farebbe, pensai, se mi trovassero intenta a lottare con un ubriaco in una locanda. In quel momento dalla porta aperta uscì Jeremiah, il venditore ambulante, con la sacca sulla schiena e il suo lungo bastone in mano. Fui così felice di vederlo; lo chiamai, e lui guardò dalla mia parte perplesso, poi mi corse incontro. Ehi, ma tu sei Grace Marks, disse. Non mi aspettavo di vederti qui. Neanch'io, dissi sorridendo; ma ero agitata per via del commerciante di attrezzi agricoli, che continuava a starmi appiccicato. Questo qui è un amico tuo? disse Jeremiah. No, non è un amico mio, dissi. La signora non gradisce la sua compagnia, disse Jeremiah facendo l'imitazione di un gentiluomo di mondo; e il commerciante di attrezzi agricoli disse che io non ero una signora, e aggiunse altre cose poco complimentose, e per finire alcune parole pesanti sulla madre di Jeremiah. Jeremiah prese il bastone e lo calò sul braccio dell'uomo, che mi lasciò andare; poi Jeremiah gli diede uno spintone, e lui vacillò e cadde a sedere sopra un mucchio di sterco di cavallo, contro il muro della locanda; e gli altri si misero a sfotterlo, perché erano di quella razza che dà addosso a chi perde. Lavori da queste parti? chiese Jeremiah, dopo che lo ebbi ringraziato. Dissi di sì, e lui disse che sarebbe venuto a trovarmi e a vendermi qualcosa; proprio in quel momento si fece avanti un terzo uomo. Disse: Ti chiami per caso Grace Marks? o qualcosa del genere; non ricordo le parole precise. Risposi di sì, e lui disse che era Thomas Kinnear, il mio nuovo datore
di lavoro, ed era venuto a prendermi. Aveva un calessino con un cavallo; più tardi scoprii che si chiamava Charley, Charley Cavallo; era un castrone baio, molto bello, con una splendida criniera e una splendida coda e grandi occhi marroni, e gli volli subito bene, fin dalla prima volta che lo vidi. Il signor Kinnear fece mettere su il mio fagotto dallo stalliere nel retro del calesse, dove c'erano già altri pacchi, e disse: Insomma, sei in città da meno di cinque minuti e già due gentiluomini sono diventati tuoi ammiratori; e io dissi che non era vero, e lui disse: Non è vero che sono gentiluomini, o che sono tuoi ammiratori? Ero confusa, non sapevo cosa voleva che dicessi. Poi disse: Salta su, Grace, e io: Ma vuol dire che devo sedermi davanti? e lui: Be' non possiamo mica metterti dietro come se fossi un bagaglio, e mi aiutò a salire sul sedile accanto al suo. Ero imbarazzata, non avevo l'abitudine di sedere accanto ai signori, specialmente ai miei datori di lavoro, ma lui sembrava non farci caso, salì dall'altra parte, schioccò la lingua al cavallo ed eccoci in strada per la Yonge Street, come se fossi una gran signora; pensai che tutti quelli che ci guardavano dalla finestra avrebbero avuto di che parlare. Ma come scoprii più tardi, il signor Kinnear non era uomo da curarsi dei pettegolezzi, e non gli importava un fico secco di quello che la gente diceva di lui. Aveva soldi a sufficienza per essere indipendente e non voleva fare carriera in politica, quindi poteva permettersi di ignorare quel genere di cose. Com'era il signor Kinnear, fisicamente? chiede il Dottor Jordan. Aveva un portamento signorile, e i baffi, signore. Tutto qui? dice il Dottor Jordan. Non l'hai certo osservato nei minimi dettagli! Non volevo mettermi a fissarlo, dico, e una volta salita sul calesse non l'ho più guardato, naturalmente. Avrei dovuto girare completamente la testa, per via della cuffia. Immagino che lei non abbia mai indossato una cuffia da donna, vero, signore? No, mai, dice il Dottor Jordan, con uno dei suoi sorrisi sbilenchi. Dev'essere una specie di gabbia. Proprio così, signore, dico. Però vedevo i suoi guanti, sulle mani che reggevano le redini; guanti giallo chiaro, di pelle morbida e così ben tagliati che non facevano una grinza, erano come una seconda pelle. Mi spiaceva ancora di più di non averli anch'io, i guanti, e tenevo le mani ben nascoste sotto lo scialle. Sarai molto stanca, Grace, disse, e io dissi: Sì, signore, e lui: Fa piuttosto
caldo, e io: Sì, signore, e via di seguito, e a dir la verità fu più faticoso che viaggiare in diligenza e farsi sballottare accanto al commerciante di attrezzi agricoli; non c'è un perché, visto che lui era molto più gentile ed educato. Ma Richmond Hill era un posto piccolo, e lo attraversammo in fretta. Lui viveva oltre i confini del villaggio, un miglio e più a nord. Finalmente passammo davanti al suo frutteto e imboccammo il viale d'ingresso, che era curvo e lungo un centinaio di metri, e correva tra due file di aceri di media grandezza. In fondo al viale c'era la casa, con una veranda sul davanti e colonne bianche, una casa grande, ma non come quella dell'Assessora Parkinson. Da dietro la casa arrivava il rumore di un'accetta che spaccava legna. Sullo steccato sedeva un ragazzo (poteva avere quattordici anni) che al nostro arrivo salto giù e venne a tenere il cavallo; aveva i capelli rossi, tagliati alla bell'e meglio, e le lentiggini che hanno di solito i rossi di capelli. Il signor Kinnear gli disse: Salve Jamie, questa è Grace Marks che è venuta fin qui da Toronto, sono andato a prenderla alla locanda, e il ragazzo alzò gli occhi a guardarmi e ridacchiò, come se mi trovasse divertente; ma era solo timido e impacciato. Davanti alla veranda c'erano piante fiorite, peonie bianche e rose rosa, e una signora elegante con un abito a tre balze li stava tagliando e li metteva in un cesto che teneva al braccio. Quando sentì il rumore delle ruote e degli zoccoli del cavallo sulla ghiaia, si raddrizzò e si riparò gli occhi con la mano, e vidi che portava i guanti; e poi mi accorsi che quella donna era Nancy Montgomery. Portava un cappellino dello stesso colore pastello dell'abito; sembrava che avesse indossato il vestito della festa per uscire a tagliare fiori. Mi salutò graziosamente con la mano, ma non accennò ad avvicinarsi; sentii una stretta al cuore. Salire sul calesse era una cosa, ma scendere era un altro paio di maniche, dato che il signor Kinnear non mi aiutò, ma scivolò giù agilmente, si affrettò lungo il viale davanti a casa e si piegò sul cappellino di Nancy, lasciandomi la scelta tra restare lì seduta come un sacco di patate o sbrogliarmela da sola a venir giù dal calesse; e così feci. Un uomo era apparso da dietro la casa; teneva in mano un'ascia, perciò doveva essere lui quello che spaccava legna. Aveva una giacca di stoffa grezza gettata su una spalla, le maniche della camicia rimboccate, un fazzoletto rosso attorno al collo e pantaloni larghi infilati negli stivali. Era bruno e snello e non troppo alto, e non gli avrei dato più di ventun anni. Non disse nulla, ma mi fissò accigliato e sospettoso, come se fossi una nemica; però non sembrava fis-
sare me, bensì qualcun altro dietro di me. Jamie, il ragazzo, gli disse: Questa è Grace Marks, ma lui continuò a restare in silenzio; poi Nancy lo chiamò: McDermott, porta il cavallo nella stalla, ti spiace, e anche il bagaglio di Grace, portalo nella sua stanza e falle vedere dov'è. Al che lui, scuro in faccia come se fosse arrabbiato, mi fece cenno di seguirlo. Rimasi ferma per un istante con il sole del tardo pomeriggio negli occhi, a guardare Nancy e il signor Kinnear dietro le peonie; erano immersi in una luce dorata, come se una polvere d'oro fosse caduta su di loro dal cielo; sentii che lei rideva. Io ero accaldata, stanca e affamata, e tutta impolverata dal viaggio, e lei non mi aveva neppure salutata. Poi seguii il cavallo e il calesse sul retro della casa. Jamie camminava accanto a me, e mi disse timidamente: È grossa Toronto? merita vederla? io non ci sono mai stato, ma io dissi solo: Sì, merita abbastanza. Non me la sentivo di descrivergli Toronto, perché in quel preciso momento rimpiangevo amaramente di averla lasciata. Se chiudo gli occhi rivedo i minimi particolari di quella casa, chiari come in un quadro: la veranda con i fiori, le finestre e le colonne bianche, illuminate dal sole; e potrei girare tutte le stanze a occhi chiusi, anche se, allora, non provavo niente di particolare e tutto quel che volevo era un bicchiere d'acqua. È strano pensare che di tutti quelli che abitavano in quella casa, sei mesi dopo io ero l'unica che fosse ancora viva. Tranne Jamie Walsh, ovviamente; lui però non viveva lì. 24 McDermott mi fece vedere la mia camera, che si trovava accanto alla cucina invernale. Non fu molto cordiale, si limitò a dire: Tu dormi qui. Mentre slegavo il mio fagotto entrò Nancy, che ora era tutta sorrisi. Disse: Sono così contenta di vederti, Grace, sono contenta che sei venuta. Mi fece sedere al tavolo della cucina invernale, che era più fresca di quella estiva perché la stufa non era accesa, mi mostrò il lavandino dove potevo lavarmi le mani e la faccia, poi mi diede un bicchiere di birra leggera e della carne fredda presa dalla dispensa, e disse: Devi essere stanca dopo il viaggio, è faticoso, e sedette con me mentre mangiavo, tutta gentile. Aveva un bellissimo paio di orecchini, d'oro vero, ne ero sicura, e mi chiesi come aveva fatto a comprarseli, con uno stipendio da governante. Quando ebbi finito, mi fece vedere la casa. La cucina estiva era in un e-
dificio separato dalla casa principale, per non trasmetterle il calore, una soluzione intelligente che tutti dovrebbero adottare. Entrambe le cucine avevano il pavimento di pietra e grosse stufe di ferro, che allora erano l'ultimo modello, con uno scaldavivande per tenere le cose in caldo; e ognuna aveva il suo lavandino con un tubo che scaricava le acque nella fogna, il suo sgabuzzino e la sua dispensa. La pompa per l'acqua era nel cortile fra le due cucine; constatai con piacere che non c'era un pozzo aperto, perché i pozzi così sono molto pericolosi, può sempre caderci dentro qualcosa e magari ci vivono i topi. Dietro alla cucina estiva c'era la stalla, accanto alla rimessa dove tenevano il calesse. Nella rimessa c'era posto per due carrozze, ma il signor Kinnear aveva solo quel calessino, e penso che con quelle strade una vera carrozza sarebbe stata inutile. Nella stalla c'erano quattro box, ma il signor Kinnear ci teneva soltanto una vacca e due cavalli, Charley e un puledro che da grande sarebbe diventato un cavallo da sella. I finimenti venivano tenuti in una stanza adiacente alla cucina invernale, una sistemazione insolita e anche scomoda. Sopra la stalla c'era un sottotetto dove dormiva McDermott. Nancy mi disse che era lì soltanto da una settimana circa, e anche se obbediva prontamente agli ordini del signor Kinnear, sembrava che ce l'avesse con lei, e le mancava di rispetto; io dissi che forse ce l'aveva con tutto il mondo, perché anche con me era stato sgarbato. Nancy disse che per quanto la riguardava o si dava una regolata o levava le tende, perché di ex soldati come lui non ne mancavano in giro, c'era solo l'imbarazzo della scelta. Mi è sempre piaciuto l'odore delle stalle. Accarezzai il muso del puledro e salutai Charley e anche la vacca, perché siccome sarebbe toccato a me mungerla, speravo di stabilire subito un buon rapporto. McDermott stava sistemando la paglia per le bestie; non ci rivolse la parola, a parte un grugnito, e lanciò a Nancy un'occhiata truce; vidi che c'era in effetti un certo malanimo, e mentre uscivamo dalla stalla Nancy disse: È più scontroso che mai, be' faccia pure, o si decide a sorridere o si trova in mezzo a una strada, anzi in fondo a un fosso, è più probabile, e si mise a ridere; sperai che lui non avesse sentito. Dopodiché visitammo il pollaio, che aveva una griglia di rami di salice tutt'attorno per non fare uscire i polli, anche se non era molto efficace per non far entrare le volpi, le faine e i procioni, che sono notoriamente grandi ladri di uova; poi l'orto, che era ben coltivato ma aveva bisogno di essere ripulito dalle erbacce; e laggiù in lontananza, al fondo di un sentierino, c'e-
ra il gabinetto. Il signor Kinnear aveva molte terre, un pascolo riservato alla vacca e ai cavalli, un orticello lungo la Yonge Street, e diversi altri campi lavorati o in via di disboscamento. Era il padre di Jamie Walsh che se ne occupava, disse Nancy; avevano un cottage dentro la tenuta, a un quarto di miglio di distanza. Da lì vedevamo soltanto la cima del tetto e il camino che spuntava sopra gli alberi. In quanto a Jamie, era un ragazzino sveglio che prometteva bene, e faceva commissioni per il signor Kinnear; sapeva suonare il flauto; be', lo chiamava flauto, ma era più che altro un piffero. Nancy disse che una sera o l'altra sarebbe venuto a suonare per noi, veniva volentieri, e anche a lei piaceva sentire un po' di musica, stava imparando a suonare il piano. Questo mi sorprese, perché era piuttosto insolito per una governante. Ma non dissi niente. Nel cortile fra le due cucine c'erano tre fili per il bucato. Non c'era una lavanderia separata dal resto, ma le cose per il bucato, tutte di buona qualità - paioli, tinozza e asse - in quel momento si trovavano nella cucina estiva accanto alla stufa; vidi con piacere che non facevano il sapone in casa, ma usavano quello che si compra, che rovina molto meno le mani. Non tenevano maiali, e anche questo mi fece piacere, perché i maiali sono un po' troppo furbi e amano scappare dalle porcilaie, per non parlare della puzza poco simpatica. C'erano due gatti, che vivevano nella stalla, per tener lontani i topi, ma nessun cane, perché Fancy, la vecchia cagna del signor Kinnear, era morta. Nancy disse che si sarebbe sentita più tranquilla con un cane per casa che abbaiasse agli sconosciuti, e il signor Kinnear stava cercando un buon cane da caccia; non che fosse un patito, ma d'autunno gli piaceva prendere qualche anatra, o un'oca selvatica, ce n'erano tante, ma la carne era troppo filacciosa per i suoi gusti. Tornammo nella cucina invernale, poi lungo il corridoio fino all'ingresso, che era ampio e aveva un camino con corna di cervo sopra, una tappezzeria verde ben tenuta e un bel tappeto turco. La botola che scendeva in cantina era qui, nell'ingresso, e per aprirla bisognava sollevare un angolo del tappeto; che strano posto, pensai, sarebbe più comodo in cucina; ma sotto la cucina non c'era cantina. La scala era ripidissima e disagevole, e la cantina era divisa in due da un muretto basso: da una parte il posto dove si tenevano il burro e i formaggi, e dall'altra i barili di vino e di birra, le mele, le carote, i cavoli, le bietole e le patate, che d'inverno venivano conservate in cassette piene di sabbia; e anche i barili vuoti. C'era una finestra, ma Nancy disse che dovevo sempre prendere una candela o una lampada per-
ché era buio laggiù, e si rischiava di inciampare e cadere dalla scala spezzandosi l'osso del collo. Non scendemmo in cantina, quella volta. Dall'ingresso si entrava nel salotto buono, che aveva la sua stufa e due quadri, uno era un gruppo di famiglia, immagino che fossero gli antenati, perché avevano cipigli contegnosi e vestiti fuori moda, e l'altro era un grosso e grasso toro con le gambe corte; c'era anche il piano, non a coda ma solo un piano verticale da salotto, e la lampada a globo per cui ci voleva il miglior olio di balena, che veniva dagli Stati Uniti; a quei tempi non si usava il kerosene per le lampade. Dietro, c'era la sala da pranzo, con un altro camino, e con candelieri d'argento e il servizio buono e l'argenteria dentro una credenza chiusa a chiave, e sopra la mensola del camino un quadro con fagiani morti, che secondo me non erano una visione piacevole mentre si mangiava. Questa stanza comunicava col salotto attraverso una doppia porta, e si poteva raggiungere anche dal corridoio, tramite un'altra porta, che serviva per portare le vivande dalla cucina. Sull'altro lato del corridoio c'era la biblioteca del signor Kinnear, ma quella volta non ci entrammo, perché lui era dentro che leggeva; oltre quella, c'era un piccolo studio o ufficio con una scrivania, ed era lì che lui scriveva lettere e trattava tutti i suoi affari. Dall'ingresso partiva una scala elegante, con il mancorrente di legno levigato; salimmo, e al secondo piano c'era la camera da letto del signor Kinnear con un letto a due piazze, lo spogliatoio comunicante, una tavola da toeletta con uno specchio ovale e un guardaroba con intagli; e nella camera c'era un quadro con una donna senza vestiti, sdraiata su un divano e vista da dietro, con la testa voltata e una specie di turbante e un ventaglio di penne di pavone. Tenere in casa penne di pavone porta sfortuna, lo sanno tutti. Quelle erano solo dipinte, ma io non le avrei mai messe in casa mia. Poi c'era un altro quadro, anche quello una donna nuda che faceva il bagno, ma non potei guardarlo bene. Ci restai un po' male a vedere che il signor Kinnear aveva due donne nude in camera da letto, perché dall'Assessora Parkinson c'erano per lo più paesaggi e fiori. Lungo il corridoio nella parte posteriore c'era la stanza di Nancy, che non era così grande; tutte le stanze avevano un tappeto. Questi tappeti avrebbero dovuto essere battuti, ripuliti e riposti durante l'estate, ma Nancy non ce l'aveva fatta, senza nessuno che l'aiutasse. Mi stupii che la sua stanza fosse sullo stesso piano di quella del signor Kinnear, ma d'altra parte la
casa non aveva un secondo piano, né un attico come quella dell'Assessora Parkinson, che era molto più imponente. C'era anche una camera per gli eventuali ospiti. In fondo al corridoio c'era un armadio per i cappotti e roba invernale e uno per la biancheria, ben fornito e con parecchi ripiani; e accanto alla stanza di Nancy c'era una cameretta che lei chiamava la sua stanza del cucito, con un tavolo e una sedia. Dopo aver visto il piano superiore, tornammo giù e parlammo dei miei compiti; e io pensai fra me che per fortuna era estate, altrimenti avrei dovuto preparare e accendere tutti quei fuochi, e ripulire tutti quei camini e quelle stufe; e Nancy disse che ovviamente non avrei cominciato quel giorno, ma l'indomani, e che senz'altro desideravo andare a letto presto, perché dovevo essere esausta. Era proprio così, e dato che il sole stava tramontando, andai a letto. E poi tutto andò avanti normalmente per quindici giorni, dice il Dottor Jordan, leggendo ad alta voce dalla mia confessione. Sì, signore, dico, abbastanza normalmente. Tutto cosa? Come andò avanti? Le chiedo scusa, signore? Che cosa facevi durante la giornata? Oh, le solite cose, signore, dico io. Svolgevo i miei compiti. Mi devi scusare, dice il Dottor Jordan. In che consistevano questi compiti? Lo guardo. Porta una cravatta gialla a quadrettini bianchi. Non sta scherzando. Non lo sa davvero. Gli uomini come lui non sono costretti a pulire quello che sporcano, siamo noi che dobbiamo pulire quello che sporchiamo, e perdipiù anche quello che sporcano loro. In questo senso sono come dei bambini, non pensano a quel che verrà dopo, non si preoccupano delle conseguenze di ciò che fanno. Ma non è colpa loro, è il modo come li allevano. 25 La mattina dopo mi svegliai all'alba. Nella mia stanzetta faceva caldo, perché ormai era estate; ed era anche buio, perché di notte le imposte restavano chiuse per tener fuori gli intrusi. Anche le finestre erano chiuse, per via delle zanzare e delle mosche; pensai che dovevo procurarmi un pezzo di mussola da mettere contro le finestre, oppure sul mio letto, e che
ne avrei parlato a Nancy. Avevo dormito in sottoveste, per via del caldo. Mi alzai dal letto e aprii la finestra e le imposte per far entrare la luce, rivoltai le coperte per arieggiarle, poi mi misi il vestito da lavoro e un grembiule, mi appuntai i capelli e mi sistemai la cuffia. Avevo intenzione di pettinarmi meglio dopo, quando avessi potuto usare lo specchio sopra il lavandino della cucina, perché nella mia stanza non c'era specchio. Mi rimboccai le maniche, infilai gli zoccoli e tirai il chiavistello della porta. Tenevo la mia camera sempre chiusa, perché se mai qualche ladro fosse entrato in casa, la mia stanza era la prima sul suo percorso. Mi piaceva alzarmi presto; così potevo fingere per un po' che la casa fosse mia. Come prima cosa, svuotai il mio vaso da notte nel secchio; poi uscii col secchio dalla porta della cucina invernale, prendendo mentalmente nota che il pavimento aveva bisogno di una bella pulita, perché Nancy era rimasta indietro col lavoro, e c'era parecchio fango indurito da spazzare via. Fuori in cortile l'aria era fresca; a oriente c'era una luce rosea, e dai campi si alzava una nebbiolina grigio chiaro. Lì vicino, da qualche parte, un uccello cantava - uno scricciolo, pensai - e un po' più lontano si sentiva il richiamo delle cornacchie. La mattina all'alba, è come se tutto cominciasse per la prima volta. I cavalli dovevano aver sentito aprirsi la porta della cucina, perché si misero a nitrire; ma non era compito mio dargli da mangiare né portarli al pascolo, anche se l'avrei fatto volentieri. Anche la vacca muggì, perché aveva sicuramente le poppe piene, ma doveva aspettare, non potevo fare tutto in una volta. Seguii il sentiero, oltre il pollaio e l'orto e ancora oltre in mezzo all'erba bagnata di rugiada, spingendo via le sottili ragnatele tessute nella notte. Non ucciderei mai un ragno. Mary Whitney diceva che porta sfortuna, e non era la sola a dirlo. Quando ne trovavo una in casa la sollevavo con il manico della scopa e la scuotevo fuori, ma devo averne ucciso lo stesso qualcuno per sbaglio, perché la sfortuna l'ho avuta comunque. Arrivai al gabinetto e svuotai il secchio, eccetera. Eccetera, Grace? chiede il Dottor Jordan. Lo guardo. Davvero, se non sa cosa si fa in un gabinetto non c'è proprio speranza. Ecco quel che feci: mi tirai su le gonne e sedetti sopra le mosche che ronzavano, sullo stesso sedile su cui si sedevano tutti in casa, padrona e cameriera, pisciano entrambe e l'odore è lo stesso, e non precisamente di
lillà, come diceva Mary Whitney. Lì per pulirsi c'era una vecchia copia del Godey's Ladies' Book; io guardavo sempre le figure prima di adoperarle. Erano quasi tutte di moda, ma ce n'erano anche di duchesse inglesi e signore dell'alta società di New York e così via. Non si dovrebbe mai farsi mettere il ritratto sul giornale, se si può farne a meno, perché una volta che non sei lì a controllare non sai mai a quali fini gli altri possono usare la tua faccia. Ma non dico niente di tutto ciò al Dottor Jordan. Eccetera, dico invece con fermezza, perché Eccetera è tutto quel che gli compete di sentire. Solo perché mi assilla per sapere tutto, non è un motivo perché io glielo dica. Poi, dico, andai con il secchio alla pompa del cortile, e versai nella pompa un po' dell'acqua che veniva tenuta lì apposta in un altro secchio, perché a una pompa bisogna concedere un po' d'acqua se vuoi che lei ti dia la sua, e Mary Whitney diceva sempre che questo era esattamente quello che facevano gli uomini quando la contavano soave a una donna con certi scopi in mente. Una volta partita la pompa risciacquai il mio secchio e mi lavai la faccia, poi tesi le mani e bevvi. L'acqua del pozzo del signor Kinnear era buona, non sapeva di ferro né di zolfo. Ormai stava spuntando il sole, e la nebbia si asciugava; si capiva che sarebbe stata una bella mattina. Quindi entrai nella cucina estiva e accesi il fuoco nella stufa. Tolsi via la cenere del giorno prima e la misi da parte per spruzzarla nel gabinetto, oppure per l'orto, dove serve a tenere lontane chiocciole e lumache. La stufa era nuova ma cocciuta, e non appena accesa mi sbuffò in faccia fumo nero come una strega in fiamme. Dovetti prenderla con le buone, gettarle tra le fauci carta di giornale - al signor Kinnear piaceva leggere il giornale, e ne comprava diversi - e anche rametti spezzati; lei tossiva, io soffiavo dalla grata, e finalmente il fuoco prese e cominciò a bruciare come si deve. La legna da ardere era tagliata a pezzi troppo grossi per la stufa, e dovetti cacciarli dentro a forza con l'attizzatoio. Avrei dovuto parlarne a Nancy più tardi, e lei ne avrebbe parlato a McDermott, il responsabile. Poi tornai in cortile, pompai un secchio d'acqua, lo trascinai in cucina e con il mestolo riempii il bollitore e lo misi sulla stufa. Poi andai a prendere due carote nella cassetta che c'era nella stanza dei finimenti, dietro la cucina invernale, me le misi in tasca e mi diressi verso la stalla con il secchio per il latte. Le carote erano per i cavalli, e gliele davo di nascosto; erano solo carote da cavalli, ma non avevo chiesto il permesso di prenderle. Tesi le orecchie: nessun rumore che indicasse che McDermott stava stiracchiando le sue ossa su nel sottotetto, neanche un
fruscio, evidentemente era morto al mondo o faceva finta di esserlo. Poi munsi la vacca. Era una brava vacca, e mi prese subito in simpatia. Ci sono certe vacche con un brutto carattere che ti prendono a cornate o a calci, ma lei non era così, e una volta che ebbi appoggiato la fronte contro il suo fianco si mise all'opera con serietà. I gatti del fienile arrivarono miagolando a chiedere latte, e gliene diedi un po'. Poi salutai i cavalli, e Charley abbassò la testa puntando la tasca del mio grembiule. Ah, lo sapeva dov'erano le carote! Mentre uscivo sentii uno strano rumore che veniva da sopra. Era come se qualcuno stesse battendo furiosamente con due martelli, o picchiando su un tamburo di legno. Non capii subito, ma dopo aver ascoltato per un po' realizzai che doveva essere McDermott che ballava battendo i tacchi sulle nude assi del sottotetto. Dal rumore, sembrava in gamba; ma perché diamine ballava da solo lassù, a quell'ora di mattina? Forse per manifestare la sua gioia, o dare sfogo alla sovrabbondanza di energie; questo però non mi sembrava probabile. Portai il latte nella cucina estiva e ne versai un po' da parte per il tè; poi coprii il secchio con un panno per via delle mosche, e lo lasciai riposare per far affiorare la panna. Volevo fare il burro, più avanti nella giornata, sempreché non ci fossero temporali in giro, perché il burro non riesce quando ci sono i lampi e i tuoni. Poi mi presi un momento per riordinare la mia camera. Non era una gran camera, niente tappezzeria né quadri, e neanche tende. La spazzai rapidamente con la scopa, sciacquai il vaso da notte e lo feci scivolare sotto il letto. Con tutte le matassine di polvere che c'erano lì sotto si sarebbe potuto ricoprire una pecora, insomma si capiva che non era stata scopata via da un bel po'. Scossi il materasso, tirai le lenzuola ben tese, sprimacciai il cuscino e ci distesi sopra la trapunta. Era una vecchia trapunta logora, ma da nuova doveva esser bella; era una Caccia all'Oca Selvatica; pensai alle trapunte che mi sarei fatta, non appena avessi risparmiato abbastanza sul mio salario, mi fossi sposata e avessi avuto una casa mia. Mi diede soddisfazione avere una stanza in ordine. Tornandoci più tardi, alla fine della giornata, l'avrei trovata tutta linda e lustra, proprio come se una domestica me l'avesse preparata per bene. Poi presi il cesto per le uova e un secchio mezzo pieno d'acqua e andai nel pollaio. James McDermott era in cortile, aveva cacciato la testa sotto la pompa, ma evidentemente mi sentì alle sue spalle perché la sua faccia emerse dall'acqua e per un attimo ebbe un'espressione sgomenta, selvaggia
e terrorizzata, come un bambino che annega, e io mi chiesi da chi mai pensava di essere inseguito. Ma poi vide che ero io e tutto ringalluzzito mi salutò con la mano, il primo segno amichevole che mi avesse rivolto. Io avevo entrambe le mani occupate, così mi limitai a un cenno con la testa. Versai l'acqua nell'abbeveratoio per le galline e le feci uscire, e mentre loro bevevano e battagliavano su chi doveva bere per prima, io entrai a raccogliere le uova; erano belle grosse, era la stagione buona. Poi lanciai loro manciate di grano e gli avanzi di cucina del giorno prima. Non andavo pazza per le galline, ho sempre preferito gli animali con la pelliccia a un branco di uccellacci sporchi e starnazzanti che razzolano nella terra; ma se vuoi le uova devi sorbirti anche queste bestie indisciplinate. Il gallo mi speronò le caviglie per scacciarmi via dalle sue mogli, ma io gli diedi un calcio e così facendo quasi persi uno zoccolo. Un gallo per pollaio tiene allegre le galline, dicono, ma per quanto mi concerne è uno di troppo. Sta' attento a te o ti tiro il collo, gli dissi; anche se in realtà non sarei mai stata capace di fare una cosa del genere. In quel momento McDermott mi stava osservando da sopra lo steccato, con un largo sorriso stampato in faccia. Non era brutto quando sorrideva, questo dovevo concederglielo, anche se era così scuro e la bocca aveva una piega canagliesca. Ma forse, signore, questo me lo sto immaginando alla luce di quel che è successo poi. Parli con me per caso? disse McDermott. No, per caso no, dissi con indifferenza passandogli accanto. Pensavo di sapere cosa aveva in mente, e non era affatto originale. Non volevo nessun fastidio di questo genere, e mantenere cordialmente le distanze era la cosa migliore. Finalmente l'acqua stava bollendo. Misi sulla stufa la pentola del porridge, con la farina dentro già mescolata all'acqua; poi feci il tè e lo lasciai in infusione mentre uscivo nel cortile a tirar su dalla pompa un altro secchio d'acqua, lo riportai dentro, issai il grosso paiolo di rame sul bordo della stufa e lo riempii, perché mi serviva una buona scorta d'acqua calda per i piatti sporchi e altre cose. A quel punto arrivò Nancy, con indosso un vestito di cotone stampato e un grembiule, non più l'abito elegante del giorno prima. Mi diede il buongiorno e io lo ricambiai. È pronto il tè? disse, e io dissi che era pronto. Oh, al mattino finché non ho preso la mia tazza di tè non esisto, disse, e io glielo versai. Il signor Kinnear prende il tè in camera, mi disse, ma io lo sapevo già perché la sera prima aveva preparato il vassoio con una piccola teiera, una
tazza e un piattino; non il vassoio d'argento con lo stemma di famiglia, uno di legno dipinto. E, aggiunse, ne prende un'altra tazza quando scende, prima di colazione, è abituato così. Misi il latte fresco in un bricchetto, lo zucchero, e sollevai il vassoio. Lo porto su io, disse Nancy. Ne fui sorpresa, e dissi che a casa dell'Assessora Parkinson la governante non si sarebbe mai sognata di portar su un vassoio del tè, non era da lei, era un lavoro da cameriere. Nancy mi fissò per un momento, seccata; ma poi disse che ovviamente lei portava su il vassoio solo quando non c'erano altri domestici in casa, e così negli ultimi tempi ci aveva fatto l'abitudine. Lo portai su io. La porta della camera del signor Kinnear era in cima alle scale. Non c'era nessun posto dove appoggiare il vassoio, da quelle parti, quindi lo tenni in equilibrio su un braccio mentre bussavo. Il suo tè, signore, dissi. Ci fu un brontolio all'interno e io entrai. Era buio nella stanza, così posai il vassoio sul tavolino basso e rotondo accanto al letto e andai alla finestra a scostare un po' le tende. Erano tende di broccato marrone scuro lisce e morbide come seta, con le frange; ma secondo la mia opinione d'estate sono meglio le tende bianche, di cotone o di mussola, perché il bianco assorbe meno il calore e quindi scalda meno in casa, e dà una sensazione di fresco a guardarlo. Non vedevo il signor Kinnear, perché era nell'angolo più buio della stanza, con la faccia in ombra. Sul letto non c'era una trapunta, ma un copriletto scuro della stessa stoffa delle tende; l'aveva tirato via, ed era coperto solo dal lenzuolo. La sua voce mi arrivava appunto da sotto le lenzuola. Grazie Grace, disse. Non si scordava mai di dire grazie e prego. Bisogna dire che sapeva parlare. Non c'è di che, signore, dissi io, e lo pensavo davvero, di cuore. Non mi è mai pesato fare le cose per lui, e anche se mi pagava per farle, era come se le facessi spontaneamente. Ci sono delle belle uova stamattina, signore, dissi. Ne vorrebbe uno per colazione? Sì, disse lui esitante. Grazie Grace. Mi farà sicuramente bene. Non mi piacque il modo in cui lo disse, parlava come se fosse malato. Ma Nancy non mi aveva accennato niente in proposito. Quando tornai di sotto dissi a Nancy: Il signor Kinnear prende un uovo per colazione. E lei disse: Anch'io. Il suo lo vuole fritto, con la pancetta, ma io non mangio uova fritte, il mio lo voglio sodo. Faremo colazione insieme, in sala da pranzo, lui vuole che gli faccia compagnia, non gli piace mangiare da solo. Questo mi sembrò curioso, ma non era la prima volta che sentivo una
cosa del genere. Poi dissi: Ma il signor Kinnear è malato? Nancy fece una risatina e disse: A volte s'immagina di esserlo. Ma è tutto nella sua testa. Vuole farsi coccolare. Chissà perché non si è sposato, dissi, un bell'uomo come lui. Stavo tirando fuori la padella per le uova, e questa era solo una domanda casuale, senza nessun particolare significato; ma lei mi rispose con rabbia, o almeno così mi parve. Ci sono uomini che non sono portati per il matrimonio, disse. Stanno benissimo così come sono, e ritengono di poterne fare a meno. Be', penso proprio di sì, dissi. Certo che possono, se sono abbastanza ricchi, disse. Se vogliono qualcosa, non hanno che da pagare. Non fa differenza, per loro. Ed ecco il primo battibecco che ebbi con Nancy. Fu mentre stavo rassettando la camera del signor Kinnear, il primo giorno, e avevo indosso un grembiule pulito che mettevo per rifare i letti, per non sporcare le lenzuola di fuliggine. Nancy mi gironzolava attorno dicendomi dove mettere questo e quello, come rincalzare le lenzuola e far prendere aria alla camicia da notte del signor Kinnear, come disporre le spazzole sul tavolo da toeletta e quanto spesso lucidare i dorsi d'argento, e su quali ripiani lui voleva che si mettessero le camicie ripiegate e la biancheria pronta da indossare; insomma si comportava come se non avessi mai fatto prima quel lavoro. E allora riflettei, e ci ho ripensato anche in seguito, che è più difficile lavorare per una donna che è stata anche lei una domestica; perché vuole che le cose siano fatte a modo suo, e conosce anche le piccole scappatoie, come il fatto di lasciar cadere qualche mosca morta dietro il letto, o scopare un po' di polvere sotto il tappeto, cose che nessuno noterebbe a meno di non ispezionare con cura quel posto preciso; ma lei è molto più attenta, ed è più probabile che ti scopra. Non che io fossi così approssimativa, di solito, ma capita a tutti di avere fretta, ogni tanto. E quando io dicevo a proposito di qualcosa, che a casa dell'Assessora Parkinson non si faceva così, Nancy replicava bruscamente che non gliene importava niente, e che adesso ero qui, non dall'Assessora. Non le piaceva che le ricordassi che una volta avevo lavorato in una casa di signori, e frequentato gente più altolocata di lei. Ma più tardi ho capito che il motivo per cui mi stava addosso era che non voleva lasciarmi sola nella stanza del signor Kinnear, nel caso che lui arrivasse. Per distrarla da quell'agitazione la feci parlare del quadro alla parete;
non quello con il ventaglio di penne di pavone, ma l'altro, quello con la ragazza che fa il bagno in giardino (strano posto) con i capelli raccolti sulla nuca e una cameriera che le porge un grosso asciugamano, e diversi uomini anziani con la barba che la spiano da dietro i cespugli. Dai vestiti capivo che si svolgeva nei tempi antichi. Nancy disse che era un'incisione colorata a mano, una copia di un famoso dipinto che rappresentava Susanna e i vecchioni, un soggetto biblico. Era molto orgogliosa di saperla così lunga. Ma io ero seccata con lei per tutte le sue critiche e i suoi appunti, e dissi che io la Bibbia la conoscevo a memoria - il che non era poi tanto esagerato - e che quella storia lì non c'era. Quindi non poteva essere un soggetto biblico. Lei disse che lo era; e io dissi di no, e che ero pronta a provarlo; e lei disse che non ero lì per dire la mia sui quadri, ma per fare il letto. E in quel momento il signor Kinnear entrò. Doveva essere rimasto ad ascoltare nel corridoio, perché sembrava divertito. Come, disse, state discutendo di teologia, e perdipiù di mattina presto? E voleva che gli raccontassimo tutto. Nancy disse che non valeva la pena che lui se ne occupasse, ma lui insisteva, e disse: Be' Grace, vedo che Nancy vuole tenermi segreta la cosa, ma tu me la devi dire; io ero intimidita, ma alla fine gli chiesi se il quadro rappresentava un soggetto biblico, come diceva Nancy. Lui si mise a ridere e disse che a rigore non era così, perché la storia si trovava nelle Scritture Apocrife. Sorpresa, chiesi cosa mai fossero; e capii che neppure Nancy ne aveva mai sentito parlare. Ma lei, indispettita perché aveva torto, stava mettendo su il broncio. Il signor Kinnear disse che ero molto indagatrice per una ragazza così giovane, e che presto avrebbe avuto la domestica più istruita di Richmond Hill e avrebbe dovuto esibirmi e far pagare il biglietto, come per il maiale che sapeva contare, a Toronto. Poi disse che le Scritture Apocrife erano un libro dove avevano messo tutte le storie dei tempi biblici che avevano deciso di non mettere nella Bibbia. Io ne fui sbalordita, e dissi: Chi ha deciso? Perché avevo sempre creduto che la Bibbia fosse stata scritta da Dio, dato che tutti la chiamavano la Parola di Dio. Lui sorrise e disse che, anche se forse era stato Dio a scriverla, l'avevano scritta materialmente degli uomini; il che era un po' diverso. Ma si diceva che questi uomini fossero ispirati, cioè che Dio gli aveva parlato e gli aveva detto quel che dovevano fare. Così gli chiesi se sentivano le voci, e lui disse di sì. Fui contenta che fosse capitato anche ad altri, però non dissi niente, e comunque la voce che
avevo sentito io, quell'unica volta, non era di Dio ma di Mary Whitney. Lui mi chiese se sapevo la storia di Susanna, e io dissi di no; raccontò che era una ragazza che alcuni vecchi avevano accusato falsamente di aver peccato con un giovane, perché si era rifiutata di commettere lo stesso peccato con loro; e rischiava di essere condannata alla lapidazione, ma per fortuna aveva un bravo avvocato che riuscì a dimostrare che i vecchi mentivano, facendo loro rendere testimonianze contraddittorie. Poi mi chiese quale era secondo me la morale. E io dissi che la morale era: non fare il bagno in giardino; lui rise, e disse che secondo lui la morale era di prendersi un buon avvocato. E disse a Nancy: Ma in fin dei conti questa ragazza non è una scema, per cui capii che lei gli aveva detto che lo ero. E Nancy mi guardò storto. Poi lui disse che aveva trovato una camicia stirata e riposta senza un bottone; e che era molto seccante mettersi una camicia pulita e poi scoprire che non si poteva abbottonarla perché mancavano i bottoni; e quindi per favore facessimo attenzione che non capitasse più. Dopodiché prese quel che era venuto a cercare, la sua tabacchiera d'oro, e uscì dalla stanza. Ma ora Nancy era stata messa per ben due volte dalla parte del torto, perché doveva essere stata per forza lei a lavare e stirare quella camicia, prima del mio arrivo; perciò mi diede una lista di cose da fare lunga come il mio braccio, uscì con uno scatto rabbioso e scese in cortile, dove cominciò a rimproverare McDermott per non averle lucidato bene le scarpe quella mattina. Dissi fra me e me che c'erano guai in vista, e che dovevo legarmi la lingua, perché a Nancy non piaceva essere contraddetta, e men che meno le piaceva che il signor Kinnear le desse torto. Quando mi aveva convinta a venir via dai Watson, pensavo che saremmo state come sorelle, o perlomeno buone amiche e che avremmo lavorato insieme, come con Mary Whitney. Ora sapevo che le cose non sarebbero andate così. 26 Ormai erano tre anni che facevo la domestica, e sapevo recitare bene la mia parte. Ma Nancy era lunatica, si potrebbe dire che aveva due facce, e non era facile capire da un momento all'altro cosa voleva. Un minuto saliva sul cavallo matto e mi dava ordini dall'alto e criticava tutto, il minuto dopo era la mia migliore amica, o fingeva di esserlo, mi prendeva sotto-
braccio, diceva che avevo l'aria stanca e dovevo sedermi e prendere una tazza di tè con lei. È difficilissimo lavorare per una persona così, perché proprio mentre tu le fai la riverenza e le dici Sissignora lei si gira e ti sgrida perché sei così rigida e formale, e vuole confidarsi con te e si aspetta che tu faccia altrettanto. Non fai mai la cosa giusta, con lei. Il giorno dopo era una bella giornata di sole e c'era un po' di vento, perciò feci il bucato, era proprio ora, non c'era quasi più biancheria pulita. Ero tutta accaldata, perché dovevo continuamente ravvivare il fuoco nella stufa della cucina estiva; inoltre non ero riuscita a dividere e mettere a bagno i panni la sera prima; ma non potevo aspettare, era rischioso perché in quella stagione il tempo può cambiare da un momento all'altro. Perciò sfregai e strofinai e alla fine appesi tutto perbene, con i tovaglioli e i fazzoletti bianchi ben distesi sull'erba perché il sole li sbiancasse. C'erano macchie di tabacco da fiuto, macchie d'inchiostro, e macchie d'erba su una sottogonna di Nancy - mi chiesi come aveva fatto a macchiarsi, ma probabilmente era scivolata e caduta - e parecchie macchie di muffa, su cose che erano state giù in fondo alla pila, nell'umidità; e altre di vino sulle tovaglie, risalenti a una cena con ospiti, macchie che non erano state subito ricoperte di sale, come si deve fare; ma a furia di insistere con un buon liquido sbiancante fatto di liscivia e cloruro di calce, che avevo imparato a fare dalla lavandaia dell'Assessora Parkinson, le feci venir via quasi tutte, e mi affidai al sole per terminare l'opera. Rimasi ad ammirare per un momento il risultato del mio lavoro; è così piacevole un bucato bello pulito, che si agita al vento, come i gagliardetti durante una corsa, o le vele di una nave; e fa un rumore come se le schiere angeliche, lassù, lontano lontano, applaudissero. In fondo si suol dire che la pulizia è un passo verso la santità; e qualche volta, quando vedevo le nuvole candide e rigonfie in cielo dopo la pioggia, pensavo che era come se anche gli angeli avessero steso il bucato; perché, mi dicevo, qualcuno deve pur farlo, visto che in paradiso tutto dev'essere fresco e pulito. Ma queste erano fantasticherie infantili, ai bambini piace raccontarsi storie sulle cose che non si vedono; e io ero poco più che una bambina allora, anche se mi ritenevo una donna adulta, dato che avevo soldi miei, guadagnati da me. Mentre ero lì fuori, Jamie Walsh sbucò da dietro l'angolo della casa e mi chiese se c'erano commissioni da fare; mi disse anche, tutto timido, che se Nancy o il signor Kinnear lo mandavano in paese, e se io avevo bisogno di qualcosa, bastava che gli dessi i soldi e lui me la comprava volentieri. Era
impacciato, ma faceva del suo meglio per essere gentile, e si tolse perfino il cappello, un vecchio cappello di paglia che era sicuramente di suo padre, perché gli andava largo. Gli dissi che era molto premuroso, ma al momento non mi serviva niente. Poi però mi venne in mente che non c'era bile di bue in casa, per fissare le tinte durante il lavaggio, e che me ne serviva un po' per lavare la roba scura; quella mattina infatti avevo lavato solo roba bianca. Andai con lui da Nancy, che aveva parecchie altre cose da comprare, mentre il signor Kinnear aveva un messaggio da riferire a uno dei suoi amici; così partì per andare in paese. Nancy gli disse di tornare quel pomeriggio e portare il flauto; quando se ne fu andato, disse che suonava così bene che era un piacere sentirlo. Ora era di nuovo di buon umore, e mi aiutò a preparare il pranzo, freddo, con prosciutto e sottaceti e insalata dell'orto; avevamo lattughe ed erba cipollina. Ma lei mangiò in sala da pranzo col signor Kinnear, come prima, e io dovetti accontentarmi di McDermott. È fastidioso guardare un altro che mangia, e ascoltarlo anche, soprattutto se tende a ingollare rumorosamente; ma McDermott non sembrava incline a fare conversazione, era di nuovo scorbutico; gli chiesi se gli piaceva ballare. Perché me lo chiedi? disse sospettoso; per non fargli sapere che lo avevo sentito esercitarsi, gli dissi che era risaputo che era un bravo ballerino. Lui disse: Forse, può anche darsi, però sembrava compiaciuto; così cercai di saperne di più sul suo conto, e gli chiesi cosa faceva nella vita prima di lavorare per il signor Kinnear. Lui disse: E a chi gliene importa di saperlo? Dissi che importava a me, che le storie di vita mi interessavano sempre; e lui si mise a raccontare. Disse che la sua era una famiglia rispettabile, veniva da Waterford nel Sud dell'Irlanda, dove suo padre era fattore, ma lui era sempre stato uno scapestrato, non aveva mai leccato gli stivali ai ricchi e si cacciava di continuo nei guai, e di tutto ciò sembrava più orgoglioso che altro. Gli chiesi se sua madre era viva, e lui disse che viva o morta per lui era lo stesso, perché lei non lo stimava e gli aveva sempre detto che sarebbe andato a finir male; per quel che ne sapeva o gli importava poteva anche essere morta. Ma la voce non era risoluta come le parole. Era scappato di casa da giovanissimo e si era fatto arruolare nell'esercito inglese, dichiarando un'età che non aveva; ma siccome secondo lui si faceva una vita troppo dura, con una disciplina eccessiva e un trattamento troppo rude, aveva disertato e si era imbarcato clandestinamente su una
nave diretta in America; una volta scoperto, aveva lavorato per il resto del viaggio, ma l'avevano fatto sbarcare in Canada anziché negli Stati Uniti. Poi aveva trovato un lavoro sui battelli che facevano servizio su e giù per il Lawrence River, e quindi sui battelli che traversavano il lago, dove l'avevano assunto volentieri perché era molto forte e resistente ed era in grado di lavorare senza fermarsi, come un motore a vapore; per un po' era stato bene così. Poi aveva cominciato ad annoiarsi; siccome gli piaceva cambiare, si era di nuovo arruolato, questa volta nel reggimento di fanteria leggera Glengarry, quello che, come sapevo da Mary Whitney, si era guadagnato una così cattiva reputazione con i contadini, perché ai tempi della Rivolta aveva incendiato tante fattorie, e le donne e i bambini li avevano sbattuti fuori nella neve, e gli avevano fatto anche di peggio, ma questo i giornali non l'avevano mai scritto. Insomma, erano un branco di uomini indisciplinati, che facevano una vita dissoluta, dediti al gioco, al bere eccetera, tutte cose che per lui erano virtù virili. Ma intanto la Rivolta era stata domata, e non c'era più molto da fare; McDermott non era un vero soldato, era cameriere personale del Capitano Alexander Macdonald. Faceva una vita facile, con una paga decente, e gli era spiaciuto quando il reggimento era stato smobilitato e gli era toccato ancora una volta cavarsela da solo. Era andato a Toronto ed era vissuto senza far niente, mangiandosi i risparmi; ma quando i fondi avevano cominciato a scarseggiare, aveva dovuto guardarsi intorno; era venuto su per la Yonge Street, fino a Richmond Hill, alla ricerca di un impiego. In una delle locande aveva sentito che il signor Kinnear aveva bisogno di un uomo, si era presentato, e Nancy lo aveva assunto; ma lui pensava di lavorare per il padrone, di fargli da domestico come aveva fatto per il Capitano Macdonald; si era scocciato quando invece aveva scoperto che sopra di lui c'era una donna, e per di più una che non la finiva di dare ordini e che criticava di continuo. Io credetti a tutto quello che diceva; ma più tardi, facendo mentalmente il calcolo del tempo, capii che o aveva diversi anni in più dei ventuno che diceva di avere, o mentiva. E quando più tardi sentii dire da altra gente del posto, compreso Jamie Walsh, che McDermott aveva una solida reputazione di bugiardo e millantatore, non ne fui sorpresa. Poi cominciai a pensare di aver sbagliato nel mostrare tanto interesse per la sua storia; lui infatti l'aveva preso per interesse personale verso di lui. Dopo aver bevuto diversi bicchieri di birra, cominciò a farmi gli occhi da pesce lesso, e mi chiese se avevo un innamorato, perché una ragazza carina
come me doveva averlo di sicuro. Avrei dovuto rispondergli che il mio innamorato era alto un metro e ottanta ed era campione di boxe; ma ero giovane e ingenua, e gli dissi la verità. Dissi che non solo non avevo innamorati, ma non ne sentivo neppure il bisogno. Osservò che era un peccato, ma c'era sempre una prima volta, dovevo solo essere domata, come una puledra, poi avrei funzionato bene come tutte le altre; lui era proprio l'uomo che ci voleva. Questo mi irritò molto; mi alzai immediatamente da tavola e cominciai a sparecchiare sbatacchiando i piatti, e gli dissi che lo pregavo di tenersi per sé queste osservazioni offensive, perché io non ero una cavalla. Allora disse che non aveva intenzione, che stava solo scherzando, voleva soltanto vedere che tipo di ragazza ero. Gli feci notare che non era affar suo decidere che tipo di ragazza ero io, e a questo punto mise il broncio, come se fossi stata io a insultare lui, uscì nel cortile e cominciò a tagliar legna. Finii di lavare i piatti, li ricoprii perbene con un panno per via delle mosche, che altrimenti avrebbero camminato sulle stoviglie pulite sporcandole, uscii a vedere come si asciugava il mio bucato, spruzzai d'acqua i fazzoletti e i tovaglioli, perché restassero più bianchi; poi fu ora di scremare il latte e di fare il burro. Lo feci all'aperto, all'ombra, per prendere un po' d'aria; e siccome la zangola era di quelle che vanno a pedale, intanto che pedalavo mi misi a rammendare. Certa gente fa il burro con zangole che funzionano grazie a un cane chiuso in gabbia, costretto a correre su una ruota da un carbone ardente legato sotto la coda; io ritengo che sia una cosa crudele. Mentre sedevo lì aspettando che il burro venisse, e cucendo un bottone su una camicia del signor Kinnear, il signor Kinnear in persona mi passò davanti diretto alla stalla. Feci per alzarmi, ma mi disse di restare dov'ero, perché preferiva avere del buon burro piuttosto che una riverenza. Vedo che sei sempre occupata, Grace, disse. Sì signore, dissi, a chi resta in ozio il lavoro glielo trova il Diavolo. Lui rise e disse: Spero che non parli di me, che sono ozioso sì, ma non abbastanza diabolico per i miei gusti; io, imbarazzata, dissi: Oh no, signore, non intendevo lei. Lui sorrise, e disse che il rossore dona alle ragazze. Non c'era niente da rispondere, perciò non dissi niente; lui proseguì, e poco dopo uscì con Charley e imboccò il viale. Nancy era venuta a vedere come me la cavavo col burro, e le chiesi dove andava il signor Kinnear. A Toronto, disse; ci va tutti i giovedì e si ferma a dormire là, va a fare delle cose in banca e degli acquisti; ma prima va dal Colonnello Bridgeford,
perché sua moglie non c'è, e neanche le due figlie, perciò può andare a trovarlo; ma quando la moglie è in casa, non lo ricevono. Sorpresa, chiesi perché; e Nancy disse che la signora Bridgeford considerava il signor Kinnear una cattiva compagnia; si riteneva la regina di Francia, quella, e tutti gli altri secondo lei non erano nemmeno degni di allacciarle le scarpe; e si mise a ridere. Ma non sembrava veramente divertita. Ma perché, cos'ha fatto? chiesi. Ma proprio allora mi accorsi che il burro stava venendo - lo si sente addensarsi - e lasciai cadere il discorso. Nancy mi aiutò col burro, la maggior parte lo salammo e lo mettemmo via coperto d'acqua fredda, mentre il resto lo pressammo negli stampini; due avevano un cardo disegnato sopra, e il terzo aveva lo stemma dei Kinnear, con il motto Vivo nella speranza. Nancy disse che se per caso il fratello maggiore del signor Kinnear, che stava in Scozia e in realtà era solo un fratellastro, fosse morto, il signor Kinnear avrebbe ereditato una grande casa e delle terre laggiù; ma disse che lui non ci faceva conto, e sosteneva di essere felice così, o perlomeno lo diceva quando si sentiva in buona salute. Ma tra lui e il fratellastro non correva buon sangue, com'è normale in questi casi; e io immaginai che il signor Kinnear fosse stato spedito nelle colonie per toglierlo di mezzo. Fatto il burro, lo portammo giù per le scale, fino in cantina; ma lasciammo una parte del latticello di sopra, per farne dei biscotti. Nancy disse che non le piaceva andare in cantina, perché c'era odore di terra, di topi e di verdure vecchie; e io dissi che magari avremmo potuto farle prendere aria un giorno o l'altro, se riuscivamo ad aprire la finestra. Tornammo di sopra, e dopo che ebbi raccolto il bucato ci sedemmo fuori insieme sulla veranda a rammendare, proprio come due amiche del cuore. In seguito mi accorsi che lei era sempre cordialissima quando il signor Kinnear non c'era, e nervosa come un gatto quando lui era presente, o quando io ero nella stessa stanza con lui; ma allora non l'avevo ancora notato. Mentre eravamo lì sedute, arrivò McDermott, correndo sopra lo steccato a zigzag e saltando sui tronchi, guizzante come uno scoiattolo. Stupita, dissi: Cosa mai sta facendo? e Nancy disse: Oh, a volte fa così, dice che è per tenersi in forma ma in realtà vuole solo farsi ammirare, non farci caso. Feci finta di niente, ma lo osservai di nascosto; era davvero molto agile; dopo essere corso su e giù, balzò a terra e saltò lo steccato, appoggiandosi con una mano sola.
Io ero lì che fingevo di non guardarlo, e lui era lì che fingeva di non mettersi in mostra: esattamente quello che può vedere, signore, in ogni occasione mondana in cui uomini e donne s'incontrano. Quante cose si possono vedere con la coda dell'occhio! e lo fanno soprattutto le signore, che non vogliono essere colte a fissare. Riescono a vedere attraverso le velette, le tendine, e sopra l'orlo dei ventagli; e meno male che vedono in questo modo, se no non vedrebbero mai niente. Ma quelle fra noi che non hanno il fastidio di velette e ventagli riescono a vedere ancora di più. Poco dopo apparve Jamie Walsh; era passato attraverso i campi, e si era portato il flauto, come richiesto. Nancy lo salutò calorosamente e lo ringraziò di essere venuto. Mi mandò a prendere un boccale di birra per lui; e mentre la versavo, McDermott entrò e disse che ne voleva anche lui. Allora fu più forte di me, dissi: Non mi avevi detto che discendevi dalle scimmie, saltellavi proprio come uno scimmiotto. E lui non sapeva se essere compiaciuto perché l'avevo visto, o arrabbiato perché gli davo dello scimmiotto. Disse che quando il gatto è via i topi ballano, e che quando Kinnear andava in città Nancy faceva sempre delle festicciole, e ora ovviamente quel ragazzotto si sarebbe messo a miagolare col suo fischietto di latta; gli dissi che aveva proprio ragione, e che mi sarei presa il piacere di ascoltarlo; secondo lui non era per niente un piacere; facesse pure come gli pareva, dissi. Allora mi prese per un braccio, mi guardò negli occhi e disse che non voleva offendermi, prima; ma era stato per tanto tempo in mezzo a uomini grezzi, i cui modi non erano dei migliori, e certe cose gli sfuggivano, non era capace di parlare; sperava che lo perdonassi e che fossimo amici. Dissi che ero sempre disposta a essere amica di tutte le persone sincere; in quanto al perdono, ce lo ordinava la Bibbia, no? Quindi speravo di saper perdonare, esattamente come speravo di essere perdonata in futuro. E lo dissi con molta compostezza. Dopodiché portai la birra sulla veranda, insieme al pane e formaggio che avremmo mangiato per cena, e mi sedetti lì fuori con Nancy e Jamie Walsh mentre il sole se ne andava, e pian piano diventava troppo buio per rammendare. Era una bella sera senza vento, gli uccelli cinguettavano e gli alberi del frutteto a fianco della strada erano indorati dalla luce del tramonto, e si sentiva l'odore dolce delle belle di notte viola che crescevano lungo il viale, e delle ultime peonie vicino alla veranda, e delle rose rampicanti; l'aria si riempì di frescura, mentre Jamie suonava il suo flauto, con tanta malinconia che ti faceva bene al cuore. Dopo un po' McDermott arrivò di
soppiatto da dietro l'angolo della casa, come un lupo addomesticato, si appoggiò al muro e rimase ad ascoltare anche lui. Eravamo là, si può dire in armonia; e la sera era così bella, che mi faceva male al cuore, come quando non sai se sei felice o triste; pensai che se avessi potuto esprimere un desiderio, avrei chiesto che niente cambiasse mai, che restassimo per sempre così. Ma non si può fermare il sole, solo Dio lo può, l'ha fatto una volta e non lo farà mai più fino alla fine del mondo; e quella sera il sole tramontò come al solito, lasciandosi dietro una luce di un rosso intenso, che per un momento colorò di rosa la facciata della casa. Poi col buio uscirono le lucciole, perché era la loro stagione; brillavano tra i cespugli e sull'erba, a intermittenza, come stelle fra le nuvole. Jamie Walsh ne catturò una in un bicchiere, e lo tenne chiuso con la mano, per farmela vedere da vicino; lampeggiava lentamente, con una luce fredda dai riflessi verdi, e pensai che se avessi potuto mettermi due lucciole alle orecchie non avrei invidiato gli orecchini d'oro di Nancy. Poi l'oscurità si addensò, si propagò da dietro gli alberi e gli arbusti, venne su dai campi, le ombre si allungarono e si fusero insieme; pensai che sembrava acqua che salisse dal terreno, e montasse pian piano come la marea; caddi in una fantasticheria, ricordai quando avevo attraversato il grande oceano, e che a quell'ora mare e cielo erano dello stesso color indaco, da non sapere dove uno finiva e l'altro cominciava. Nella mia memoria fluttuava un iceberg, di un bianco assoluto; e nonostante il tepore della sera, sentii freddo. Ma in quel momento Jamie Walsh disse che doveva andare a casa, perché suo padre sicuramente lo stava cercando; e io mi ricordai che non avevo munto la vacca né rinchiuso le galline per la notte e mi precipitai a fare l'uno e l'altro con gli ultimi barlumi di luce. Quando tornai in cucina, Nancy era ancora lì, e aveva acceso una candela. Le chiesi perché non era andata a letto, e lei disse che quando il signor Kinnear era fuori aveva paura a stare da sola, e mi chiese di dormire con lei. Dissi di sì, ma chiesi di cosa aveva paura. Dei ladri? O forse, dissi, era McDermott che la spaventava? era solo una battuta. Lei disse furbescamente che a giudicare dallo sguardo di lui, quella che doveva avere paura ero io, a meno che non desiderassi un nuovo moroso. E io dissi che il vecchio gallo del pollaio mi faceva più paura di lui; e in quanto a morosi, non sapevo proprio cosa farmene. Lei si mise a ridere, e ce ne andammo di sopra a dormire d'amore e d'ac-
cordo; ma prima mi accertai che tutte le porte fossero chiuse a chiave. VIII La volpe e le oche Tutto procedette normalmente per un paio di settimane, tranne che la governante rimproverò più volte McDermott di non aver fatto bene il suo lavoro, e gli diede i quindici giorni di preavviso... Dopodiché lui mi disse spesso che era contento di andar via, perché non voleva più vivere con un branco di p....e, ma che si sarebbe vendicato prima di andarsene, e mi disse anche che era sicuro che Kinnear e la governante, Nancy, andassero a letto insieme; io ero decisa a scoprire se era vero, e in seguito mi convinsi che era proprio così, perché il letto di lei era sempre intatto tranne quando il signor Kinnear era assente, e in quelle occasioni io dormivo con lei. Confessione di Grace Marks, «Star and Transcript», Toronto, novembre 1843 «Grace Marks era... una ragazza graziosa, molto brava nel lavoro, ma di indole taciturna e scontrosa. Era molto difficile sapere se una cosa le faceva piacere o no... Alla fine della giornata, di solito lei e io restavamo soli in cucina, perché [la governante] era occupata col padrone. Grace era molto gelosa della differenza di trattamento fra lei e la governante, che odiava, e con cui era spesso insolente e sfacciata... «Cos'ha più di noi», diceva, «da essere trattata come una signora, e mangiare e bere solo il meglio? Non è di famiglia più su della nostra, né più istruita...» Siccome Grace era carina, stavo dalla sua parte; e anche se quella ragazza aveva qualcosa che non mi piaceva del tutto, io ero sempre stato sregolato e dissoluto, e se una donna era giovane e bella, mi curavo ben poco del suo carattere. Grace era scontrosa e orgogliosa, e non era facile conquistarla; ma per guadagnarmi la sua simpatia, prestai orecchio a tutte le sue scontentezze e recriminazioni.» James McDermott, a Kenneth MacKenzie, come riferito da Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853
Eppure mi pareva di sapere che un trucco Un inganno mi fosse occorso, Dio sa quando Forse in un brutto sogno. E qui finì, dunque, Il mio andare. Quando, nel momento stesso Che volgevo indietro, una volta ancora, venne Un clic! come di trappola che scatta. Chiuso dentro! Robert Browning, Il giovane Rolando è giunto alla Torre Oscura», 1855 27 Stamattina quando mi sono svegliata c'era una bella alba rosa, con la nebbiolina come un velo di garza sottile sui campi, e il sole ci scintillava attraverso, sfocato e roseo come una pesca incandescente. In realtà non ho idea di come sia stata l'alba. In prigione le finestre le mettono in alto, così non puoi scavalcarle, immagino, ma non puoi nemmeno guardare fuori, o perlomeno non il mondo di fuori. Non vogliono che tu guardi, non vogliono che pensi alla parola fuori, non vogliono che guardi l'orizzonte e pensi che magari un giorno anche tu scomparirai oltre quella linea, come la vela di una nave in partenza o un cavaliere che svanisce col suo cavallo sul fianco lontano di una collina. Perciò stamattina ho visto solo la solita luce, senza forma, che entra dalle finestre alte, grigie e sporche, e sembra che non provenga né dal sole né dalla luna, né da una lampada o da una candela. Semplicemente una luce che fascia tutto, uguale e opaca, come lardo. Mi sono tolta la mia camicia da notte da prigioniera, che è di stoffa ruvida e tutta ingiallita; non dovrei definirla mia, perché non siamo proprietarie di niente, qui, tutto è in comune, come tra i primi cristiani, e la camicia da notte che indossi questa settimana, a contatto della pelle mentre dormi, magari due settimane prima è stata sul petto della tua peggiore nemica, sul suo cuore, e poi l'hanno lavata e rammendata altre che ti vogliono male. Mentre mi vestivo e mi pettinavo un motivetto mi ronzava per la testa, una canzoncina che Jamie Walsh qualche volta suonava sul flauto: Tom, Tom, il figlio del pifferaio, Rubò un porco e scappò via, Prese il volo dal granaio,
Di lui rimase solo una melodia. Sapevo che non ricordavo bene le parole, e che in realtà la canzone diceva che il porco fu mangiato, e Tom fu picchiato, e fuggì gridando attraverso il prato; ma non c'era motivo per non farla finire meglio; se non dicevo a nessuno quel che mi passava per la testa, nessuno mi avrebbe chiesto conto di niente, né mi avrebbe corretta, proprio come nessuno poteva dirmi che la vera alba non era come quella che mi ero inventata, bensì era soltanto un bianco sporco e giallastro, come un pesce morto che galleggia giù al porto. Perlomeno al Manicomio si poteva guardare fuori. Quando non ti sbattevano in una stanza senza finestre. Prima di colazione c'è stata una fustigazione, fuori in cortile; lo fanno prima di colazione, perché se i fustigati hanno già mangiato, è probabile che rigettino tutto, il che crea sporcizia, e poi è uno spreco di buon cibo; e i secondini e le guardie dicono che a loro piace fare un po' di esercizio fisico a quell'ora, gli fa venire appetito. Era solo una normale fustigazione, niente di speciale, perciò non siamo stati chiamati a vedere; solo due o tre, tutti uomini; le donne non vengono fustigate tanto spesso. Il primo era giovane, dal timbro delle urla; ormai queste cose le capisco, con la pratica che ho. Ho cercato di non ascoltare, e di pensare invece al porco rubato dal ladro Tom, e poi mangiato; ma la canzone non diceva chi l'aveva mangiato, se lo stesso Tom o quelli che lo avevano beccato. Ci vuole un ladro per beccare un ladro, diceva Mary Whitney. Mi sono chiesta: e se il porco fosse stato morto fin dal principio? Probabilmente no; probabilmente aveva una corda al collo, o un anello al naso, e venne costretto a scappar via con Tom. Questo sarebbe più logico, non c'è bisogno di trasportarlo. In tutta la canzone, il povero maiale è l'unico che non ha fatto niente di male, ma anche l'unico che muore. Ho notato che molte canzoni sono piene di ingiustizie, come questa qui. A colazione c'era silenzio, a parte il rumore di mandibole che masticavano pane e labbra che sorbivano tè, a parte lo strascinamento di piedi e il tirare su col naso, e il monotono blabla della Bibbia letta ad alta voce, oggi c'erano Giacobbe, Esaù e quel pasticcio delle lenticchie, con tutte le bugie che vennero dette, le benedizioni e le eredità vendute, gli inganni e i travestimenti, tutta roba che a Dio non dispiaceva, anzi. Proprio mentre il vecchio Isacco stava tastando il suo pelosissimo figlio, che non era affatto suo figlio ma una pelle di capra, Annie Little mi ha dato un forte pizzicotto
sulla coscia, sotto il tavolo in modo da non farsi vedere. Sapevo dove voleva arrivare, voleva che gridassi così sarei stata punita oppure avrebbero pensato che avevo un altro attacco di pazzia, ma io ero preparata, un po' me l'aspettavo. Ieri nei lavatoi, davanti ai lavandini, lei si è chinata e mi ha sussurrato: La cocca del dottore, la puttana viziata; le voci corrono, tutti sanno delle visite del Dottor Jordan e c'è chi pensa che mi prendano troppo sul serio, e che io mi inorgoglisca. Qui dentro, se la pensano così, cercano di farti abbassare la cresta; e non sarebbe la prima volta, dato che anche il fatto che vado a servizio in casa del Direttore non è visto di buon occhio; ma hanno paura di agire troppo scopertamente, pensano che potrei parlarne a qualcuno che sta in alto. Non c'è niente di peggio di una prigione per le piccole gelosie, e ho visto gente picchiarsi, e perfino rischiare di ammazzarsi, per un nulla, per un pezzo di formaggio. Ma non ero tanto ingenua da lamentarmi con le sorveglianti. Non solo disprezzano le spione, dato che preferiscono vivere in pace, ma potrebbero anche non credermi, o dire che non mi credono, perché il Direttore dice che la parola di un detenuto non costituisce una prova sufficiente; inoltre, sicuramente Annie Little si vendicherebbe di me in qualche altro modo. Bisognerebbe sopportare tutto pazientemente, come parte del castigo che dobbiamo scontare; a meno di trovare un modo per fare lo sgambetto alla tua nemica senza farti scoprire. Prenderla per i capelli è sconsigliabile, perché il baccano fa accorrere i secondini, ed entrambe le litiganti vengono punite per aver creato disturbo. Farle scivolare un po' di terra nel mangiare, dalla manica, come un prestigiatore, è una cosa fattibile senza troppo chiasso, e può darti una certa soddisfazione. Ma Annie Little era nel Manicomio con me, condannata per omicidio colposo: aveva colpito e ucciso uno stalliere con un pezzo di legno; si diceva che soffrisse di sovreccitazione nervosa, e venne rispedita indietro insieme a me; non avrebbero dovuto rimandarla qui, perché secondo me non è a posto con la testa; quindi decisi di perdonarla per stavolta, a meno che ne combinasse di peggio. Sembrava che il pizzicotto le avesse dato sollievo. Poi è venuta l'ora dei secondini e della nostra passeggiata fuori dai cancelli, Ah Grace, te ne vai a spasso con i tuoi spasimanti, che fortunata. Oh no, siamo noi i fortunati, siamo noi i ragazzi fortunati, con un bocconcino così tra le braccia, dice il primo. Che ne dici Grace, dice il secondo, facciamo un salto in una stradina fuorimano, in una stalla, sul fieno, non ci vuole molto se stai giù ferma, e ancora meno se ti agiti. Oh ma perché met-
terla giù, dice il primo, l'appoggi contro il muro, la tiri su e le alzi le gonne, una bella sveltina in piedi, sempre che ti reggano le ginocchia; su Grace, basta una parola e siamo pronti per te, uno vale l'altro e perché accontentarsi di uno quando puoi averne due? Noi siamo sempre pronti, qui, dammi la mano e senti se non ti dico la verità. E non ti faremo pagare nemmeno una lira, dice il secondo, ci si diverte fra amici, eh? Voi non siete amici miei, dico, voi con le vostre parole sporche, siete nati in una fogna e in una fogna morirete. Oh oh, dice il primo, come mi piace un po' di pepe in una donna, un po' di fuoco, si dice che va d'accordo coi capelli rossi. Ma devono essere rossi laggiù dove conta di più, dice l'altro, il fuoco sulla cima di un albero non ti serve a niente, per scaldarti dev'essere nel camino, in una stufetta che ti scaldi il pisello, lo sai perché Dio ha fatto le donne con le sottane, perché si possa rovesciargliele sulla testa e legarle, così non fanno tanto rumore, odio una puttana starnazzante, le donne dovrebbero nascere senza bocca, l'unica cosa utile che hanno è dalla vita in giù. Vergognatevi a parlare così, dico, mentre aggiriamo una pozzanghera e attraversiamo la strada, le vostre madri erano donne, o perlomeno immagino che lo fossero. E che il cielo maledica la mia, dice il primo, quella vecchia strega di una puttana, la sola cosa di me che le piacesse vedere era il mio culo nudo coperto di lividi, ora sta bruciando all'inferno e mi spiace solo di non avercela mandata io, è stato un marinaio ubriaco che lei ha cercato di derubare, e che le ha sfondato la testa con una bottiglia. Be', dice l'altro, mia madre era un angelo, si può starne certi, una vera santa, secondo lei, e non mi ha mai permesso di dimenticarmene; e non so quale sia peggio delle due. Io sono filosofo, dice il primo, per me è la moderazione che conta, non troppo magra né troppo grassa, ed è meglio non sprecare i doni di Dio; a proposito, Grace, sei abbastanza matura per essere colta, perché vuoi restare sull'albero, tanto comunque cadrai giù e marcirai. Verissimo, dice l'altro, perché lasciare che il latte inacidisca nella scodella, e le noci si devono schiacciare finché sono ancora buone, perché non c'è niente di peggio che una vecchia noce stantia. Su dai, mi hai già fatto venire l'acquolina in bocca, sei capace di trasformare un onest'uomo in un cannibale, vorrei darti un bel morso coi miei denti, solo un assaggino, un morsettino su per la coscia, tanto di ciccia ne hai da vendere. Giusto, dice l'altro, guarda, ha una vita da vespa ma sta mettendo su carne qua sotto, è la buona tavola della prigione, la nutrono di panna, ma senti qui, questo fianco sarebbe degno della tavola
del Papa. E si è messo a tastare e palpare, con la mano nascosta sotto le pieghe della gonna. Ti sarei grata se non ti prendessi delle libertà, dico spingendolo via. Ah ma io sono a favore della libertà, dice lui, io non so che farmene della Regina d'Inghilterra, a parte per gli usi naturali, e anche se ha un bel paio di tette e le farei il complimento di strizzargliele ogni volta che volesse, non ha proprio mento, è come una papera; e quel che sostengo, è che un uomo non dev'essere al di sopra di un altro, e tutti devono dividersi tutto allo stesso modo, e niente preferenze; e una volta che l'hai data a uno di noi, be' allora anche gli altri devono fare a turno da veri democratici, e perché mai quella mezza cartuccia di McDermott dovrebbe godersi ciò che gente migliore di lui non può avere? Sì, dice l'altro, a lui di libertà ne hai concesse abbastanza, te la sei goduta non ne dubito, con lui che ci dava sotto tutta la notte nella taverna di Lewiston e si fermava solo per prendere un po' di fiato, perché dicono che era un atleta in piena forma, ci sapeva fare con l'ascia e si arrampicava sulla corda come una scimmia. E già, dice l'altro, e alla fine quel furbacchione ha cercato di arrampicarsi fino in Paradiso, e ha fatto un tale salto in aria che è rimasto appeso per due ore, e non voleva più venire giù, avevano un bel chiamarlo, hanno dovuto tirarlo giù a forza. E mentre era là ballava la giga con la figlia del cordaio, vispo come un galletto col collo appena tirato, era proprio un bello spettacolo. E poi dicono che sia rimasto rigido come un'asse, dice il primo; ma è così che piace alle signore. E qui si sono messi a ridere come matti, pensando di aver fatto la battuta più intelligente del mondo; ma era crudele da parte loro ridere di uno solo perché era morto; e porta anche sfortuna, perché ai morti non piace essere presi in giro; fra me pensai che sanno come proteggersi dalle offese, loro, e che avrebbero fatto i conti con i secondini a tempo debito, in questa vita o nell'altra. Ho passato la mattina a rammendare una guarnizione di pizzo che la signorina Lydia ha strappato a una festa; tende a essere sbadata con i suoi vestiti, e qualcuno dovrebbe dirle che abiti belli come i suoi non crescono sugli alberi. Era un lavoro delicato e mi ha stancato gli occhi, ma alla fine l'ho terminato. Il Dottor Jordan è arrivato nel pomeriggio, come al solito; sembrava stanco, e anche preoccupato. Non aveva portato nessuna verdura, per chiedermi cosa ne pensavo; e ne sono rimasta un po' delusa, ormai mi ero abi-
tuata a questo momento del pomeriggio, mi piaceva chiedermi cosa avrebbe portato la prossima volta, e cosa voleva che dicessi in proposito. E così, signore, gli ho detto, oggi non ha con sé nessun esemplare. E lui ha detto: Esemplare, Grace? Niente patate o carote, ho detto. O cipolle. O bietole, ho aggiunto. E lui ha detto: Sì, Grace, ho deciso di seguire un altro metodo. E quale sarebbe, signore? ho chiesto. Ho deciso di chiedere a te che cosa vorresti che ti portassi. Be', signore, ho detto, è davvero un altro metodo. Devo pensarci. Così lui ha detto che ci pensassi pure con calma; e, nel frattempo, avevo fatto dei sogni? Siccome aveva un'aria derelitta e sperduta, e sospettavo che ci fosse qualcosa che non andava, non ho detto: Non ricordo. Ho detto invece che un sogno l'avevo fatto. E com'era? ha detto lui, rianimandosi e giocherellando con la matita. Gli ho detto che ho sognato dei fiori, e lui si è dato da fare a scrivere, e mi ha chiesto che tipo di fiori. Fiori rossi, ho detto, piuttosto grandi, con i petali lucidi come le peonie. Ma non gli ho detto che erano di stoffa, né quando li avevo visti per l'ultima volta; e neppure che non erano un sogno. E dove crescono? ha chiesto lui. Qui, ho detto. Qui, in questa stanza? ha chiesto lui, attentissimo. No, fuori nel cortile, dove usciamo a prendere aria. E ha scritto anche questo. Almeno, penso che l'abbia scritto. Non ne sono sicura, perché non vedo mai quello che scrive; e a volte immagino che, qualunque cosa scriva, non può essere quello che è uscito dalla mia bocca, perché non capisce granché di quel che dico, anche se cerco di spiegarmi più chiaramente che posso. È come se fosse sordo, e non avesse ancora imparato a leggere le labbra. Ma altre volte sembra che capisca abbastanza bene, anche se, come quasi tutti gli uomini, spesso attribuisce alle cose significati che non hanno. Quando finisce di scrivere, dico: Ho pensato a quello che vorrei la prossima volta, signore. E che cos'è, Grace? dice lui. Rapanelli, dico. Rapanelli, ripete lui. Rapanelli rossi? E perché li hai scelti? Era tutto accigliato, come se fosse una cosa da ponderare attentamente. Be' signore, ho detto, le altre cose che mi ha portato non erano da mangiare, o perlomeno così sembrava; perché quasi tutte erano da cuocere
prima, e inoltre lei se le è riportate via, tranne la mela del primo giorno, che era molto buona. Ma pensavo che se lei mi porta dei rapanelli, si possono mangiare senza cucinarli; e adesso è la loro stagione; nel Penitenziario non ci danno quasi mai verdura fresca, e anche quando mangio nella cucina di questa casa non mi danno le verdure dell'orto, sono riservate ai padroni. Perciò sarebbe una festa, per me; e lei mi farebbe una vera cortesia, se mi portasse anche un po' di sale. Lui ha mandato un sospiro, e poi ha detto: C'erano rapanelli dal signor Kinnear? Oh sì, signore, c'erano; ma quando io sono arrivata lì non erano più di stagione; i rapanelli vanno mangiati in primavera, perché quando arriva il caldo diventano filacciosi e rosicchiati dai vermi, e fanno il seme. Questo non l'ha scritto. Mentre si preparava a uscire, ha detto: Grazie per avermi raccontato il tuo sogno, Grace. Forse presto me ne racconterai un altro. Forse, signore. E poi ho detto: Farò il possibile per ricordarli, signore, se questo può aiutarla a risolvere i suoi problemi; mi faceva pena, sembrava talmente giù di corda. E lui ha detto: Che cosa ti fa pensare che abbia dei problemi, Grace? E io ho detto: Chi ha passato dei guai certe cose le nota anche negli altri, signore. Lui ha detto che era gentile da parte mia; poi ha esitato un momento, come se avesse qualcos'altro da dirmi; ma ci ha ripensato, e mi ha salutata con un cenno. Quando esce fa sempre lo stesso piccolo cenno con la testa. Non avevo finito il mio quotidiano pezzo di trapunta, perché lui non era rimasto con me a lungo come al solito; perciò sono rimasta seduta e ho continuato a cucire. Poco dopo è entrata la signorina Lydia. Il Dottor Jordan se n'è andato? ha chiesto. Ho detto di sì. Indossava un vestito nuovo che avevo cucito anch'io, viola a disegni bianchi di uccellini e fiori, le sta molto bene; la gonna è gonfia che pare una mezza zucca; ho pensato che sicuramente prevedeva un pubblico più importante che non la sola sottoscritta. Si è seduta di fronte a me, sulla sedia del Dottor Jordan, e ha cominciato a frugare nel cestino del cucito. Non trovo il mio ditale, credevo di averlo messo qui, ha detto. Poi: Oh, si è dimenticato delle forbici; pensavo che non dovesse lasciartele a portata di mano. Non ci preoccupiamo di cose così, ho detto. Lo sa che non gli farei mai del male. È rimasta per un po' a sedere con il cestino in grembo. Lo sai che hai un
ammiratore, Grace? ha detto. Oh, e chi sarebbe? ho chiesto, pensando che fosse uno stalliere o un giovane domestico, che aveva sentito raccontare la mia storia e la trovava romantica. Il Dottor Jerome DuPont, ha detto lei. Attualmente sta dalla signora Quennell. Dice che hai avuto una vita notevole, e ti trova molto interessante. Non conosco questo signore. Immagino che legga i giornali, che sia in viaggio di piacere e che mi consideri uno spettacolo da non perdere, ho detto piuttosto bruscamente, perché sospettavo che mi prendesse in giro. Le piace scherzare, e a volte passa il segno. È un uomo serissimo, ha detto. Studia Neuro-ipnotismo. E che cos'è? ho chiesto. Oh, è come il Mesmerismo, ma molto più scientifico, ha detto lei, c'entra con i nervi. Ma lui ti conosce, o quanto meno ti ha vista, perché ha detto che sei ancora una bella donna. Forse ti ha incontrata per strada, mentre vieni qui la mattina. Forse; che bello spettacolo devo essere, ho pensato, in mezzo a due ruffiani ghignanti. Ha certi occhi, ha detto lei, tenebrosi e ardenti, sembra che ti guardino dentro. Ma non so se mi piace. Ovviamente è vecchio. È come la mamma e quegli altri, immagino che vada alle loro sedute di tavolini che ballano. Io non credo a quelle cose, e neppure il Dottor Jordan. L'ha detto lui? ho chiesto. Vuol dire che è un uomo di buon senso. Non sono faccende con cui scherzare. Un uomo di buon senso, che freddezza, ha ripetuto con un sospiro. Buon senso! sembra che parli di un banchiere. Poi ha detto: Grace, con te parla più che con tutti noi messi insieme. Che razza d'uomo è, alla fin fine? Un signore, ho detto. Be', questo lo sapevo, ha replicato brusca. Ma com'è? Un americano, ho detto, e anche questo lei lo sapeva già. Poi, per venirle incontro, ho detto: Sembra un giovanotto perbene. Oh, non mi interessa che sia troppo perbene, ha detto lei. Il Reverendo Verringer è perbene. Tra me e me le ho dato ragione, ma siccome il Reverendo Verringer sta cercando di farmi ottenere la grazia, ho detto: Il Reverendo Verringer è un uomo di chiesa, e loro devono essere perbene. Penso che il Dottor Jordan sia molto sarcastico, ha detto la signorina
Lydia. È sarcastico anche con te, Grace? Se lo fosse, non credo che me ne accorgerei, signorina. Lei ha sospirato di nuovo, e ha detto: Farà una conferenza a uno dei martedì della mamma. Io di solito non ci vado perché sono così noiosi, anche se la mamma dice che dovrei interessarmi di più ai problemi sociali, e anche il Reverendo Verringer lo dice; ma stavolta ci andrò, perché sono sicura che sarà emozionante sentire il dottor Jordan che parla dei manicomi. Però preferirei che mi invitasse a prendere il tè nel suo appartamento. Con la mamma e Marianne, ovviamente, perché devo avere uno chaperon. È sempre consigliabile per una ragazza, ho detto. Grace, a volte sei una vecchia bacchettona, ha detto lei. Io inoltre non sono più una ragazzina, ho già diciannove anni. Per te sarà una cosa da niente, tu hai fatto di tutto, ma io non ho mai preso il tè nell'appartamento di un uomo. Solo perché non ha mai fatto una cosa, signorina, non è un motivo per farla, ho detto io. Ma se ci va anche sua madre, sono sicura che sarà una situazione più che decorosa. Si è alzata e ha fatto scorrere la mano sul tavolo da cucito. Sì, ha detto. Sarebbe più che decorosa. Sembrava che quest'idea la demoralizzasse. Poi ha detto: Mi aiuti col mio vestito nuovo? È per il circolo del martedì; voglio fare bella figura. Ho detto che ero ben contenta di aiutarla; e lei ha detto che ero un tesoro, e che sperava che non mi facessero mai uscire di prigione, perché voleva che fossi sempre lì disponibile a dedicarmi al suo guardaroba. Suppongo che in un certo senso fosse un complimento. Ma non mi è piaciuto lo sguardo perso dei suoi occhi, né il tono abbattuto della sua voce; e ho pensato che c'erano guai in vista, come succede sempre quando uno ama, e l'altro no. 28 Il giorno successivo, il Dottor Jordan mi porta i rapanelli promessi. Sono lavati, con le foglie tagliate, freschi e croccanti, non gommosi come diventano da vecchi. Si è dimenticato il sale, ma non glielo faccio notare, perché a caval donato non si guarda in bocca. Mangio in fretta i miei rapanelli - in prigione ho preso l'abitudine di trangugiare il cibo in fretta e furia, perché devi mangiarlo prima che te lo portino via - e ne assaporo il gusto pungente, che somiglia all'odore pepato del nasturzio. Gli chiedo come se lo è
procurato, e lui dice che viene dal mercato; però ha intenzione di piantare un orticello nella casa dove sta a pensione, perché il posto c'è, e ha già cominciato a zappare. Ecco, questa è una cosa che invidio. Poi dico: La ringrazio di cuore, questi rapanelli erano come il nettare degli Dei. Lui fa una faccia sorpresa a sentirmi usare un'espressione così; ma è solo perché non ricorda che ho letto le poesie di Sir Walter Scott. Siccome ha avuto la premura di portarmi questi rapanelli, mi metto di buona volontà a raccontargli la mia storia, cercando di renderla interessante quanto mi riesce e ricca di avvenimenti, per ricambiargli il regalo; ho sempre ritenuto che una buona azione ne meriti un'altra in cambio. L'altra volta, mi pare, signore, ero arrivata al punto in cui il signor Kinnear se n'era andato a Toronto, e poi Jamie Walsh era venuto a suonare il flauto, e c'era un bel tramonto, poi io ero andata a dormire con Nancy, perché lei aveva paura dei ladri, senza un uomo in casa. McDermott non lo contava, perché non dormiva in casa; forse non lo riteneva un uomo; o magari pensava che probabilmente si sarebbe messo dalla parte dei ladri, e non contro. Chissà. Così eccoci lì, a salire le scale con le nostre candele. La camera da letto di Nancy, come ho detto, era sul lato posteriore della casa, ed era molto più grande e bella della mia, anche se non aveva uno spogliatoio annesso come quella del signor Kinnear. Ma c'era un letto comodo, con una bella trapunta sopra, una trapunta estiva a disegni rosa pallido e azzurro su fondo bianco; era una Scala Rotta. Aveva un guardaroba con i vestiti dentro, e io mi chiesi come aveva potuto risparmiare i soldi per comprarsene così tanti; ma lei disse che il signor Kinnear era un padrone generoso quando era di luna buona. Aveva anche un tavolino da toeletta coperto da un panno ricamato a fiori rampicanti, rose e gigli in boccio, e una scatola di legno di sandalo con dentro gli orecchini e una spilla; lì sopra c'erano i suoi vasetti di creme e lozioni, perché prima di andare a letto si ungeva la pelle del viso come fosse uno stivale. Aveva anche una boccetta di acqua di rose, e me la fece provare: un profumo delizioso (quella sera era particolarmente socievole); e poi un piattino pieno di pomata per i capelli; se ne spalmò un po' in testa, dicendo che li rendeva lucidi, e mi chiese di spazzolarglieli, proprio come se fossi la sua cameriera personale e lei una signora, cosa che feci volentieri. Aveva bei capelli lunghi, castano scuro, ondulati. Oh, Grace, mi disse, che sensazione piacevole, hai la mano delicata; e questo mi lusingò. Ma mi venne in mente Mary Whitney, che aveva l'abitudi-
ne di spazzolarmi i capelli; e in realtà non avevo mai davvero smesso di pensare a lei. Eccoci qui, comode come due bachi nel bozzolo, disse lei amichevolmente quando fummo a letto. Ma nello spegnere la candela sospirò, e non era il sospiro di una donna felice, al contrario, di una che sta cercando di far buon viso alla sorte. Il signor Kinnear tornò il sabato mattina. Aveva intenzione di tornare il venerdì, ma gli affari lo avevano trattenuto a Toronto, disse; al ritorno si era fermato a dormire in una locanda non lontana dal primo posto di pedaggio. Nancy non fu contenta di questa notizia, perché, come mi disse in cucina, quel posto aveva una cattiva fama e si diceva che ospitasse donne facili. Cercai di calmarla replicando che un uomo poteva anche passare la notte in posti così senza rischiare di perdere la reputazione. Era nervosissima, perché nel viaggio di ritorno il signor Kinnear aveva incontrato due conoscenti, il Colonnello Bridgeford e il Capitano Boyd, e li aveva invitati a cena; e quel giorno sarebbe dovuto passare Jefferson, il macellaio, ma non era ancora passato, e in casa non c'era carne fresca. Oh, Grace, disse Nancy, dovremo ammazzare un pollo, fai un salto fuori e chiedi a McDermott di ammazzarlo. Dissi che sicuramente di polli ce ne volevano due, perché sarebbero stati in sei a cena, comprese le signore; ma lei, contrariata, rispose che non c'era nessuna signora, le mogli di quei signori non si sarebbero mai degnate di mettere piede in casa, e in quanto a lei non avrebbe cenato in sala da pranzo con loro, perché non avrebbero fatto altro che bere, fumare e raccontarsi le loro belle imprese ai tempi della Rivolta, e dopo si sarebbero fermati fino a tardi a giocare a carte e poi il signor Kinnear sarebbe stato male, gli sarebbe venuta la tosse, come succedeva sempre quando questa gente veniva a trovarlo. Quando le faceva comodo, Nancy ammetteva che lui era di salute delicata. Uscii a cercare McDermott, ma non lo trovai da nessuna parte. Lo chiamai forte, e arrivai perfino a salire su nel sottotetto dove dormiva. Non era neppure lì; ma non era scappato, perché le poche cose che possedeva c'erano ancora; non sarebbe scappato senza prima riscuotere la paga. Mentre scendevo la scala a pioli trovai Jamie Walsh, che mi guardò in modo strano, pensando forse che fossi andata a trovare McDermott; ma quando gli chiesi dove poteva essersi cacciato McDermott, perché c'era bisogno di lui, Jamie Walsh si sgelò e mi sorrise e disse che non sapeva, ma che magari
era dall'altra parte della strada da Harvey, un tipo tozzo che viveva in un capanno di tronchi, una specie di baracca, insieme a una donna che non era sua moglie - la conoscevo di vista, si chiamava Hannah Upton, aveva un'aria rustica e quasi tutti la evitavano. Harvey e McDermott si frequentavano, anche se non li avrei definiti amici, e avevano l'abitudine di sbronzarsi insieme; e poi Jamie chiese se c'erano commissioni da fare. Tornai in cucina e dissi che McDermott era irreperibile, e Nancy disse che ne aveva abbastanza della sua svogliatezza, quando c'era bisogno di lui spariva sempre e la lasciava nelle peste, e che il pollo lo dovevo ammazzare io. Oh no, dissi, non posso, non l'ho mai fatto e non lo so fare; mi ripugnava spargere il sangue di una creatura viva, anche se non avevo problemi a spennare un uccello una volta che era morto; lei mi disse di non fare la stupida, era una cosa semplicissima, bastava prendere l'ascia e dargli una botta in testa, e poi un colpo forte sul collo. Ma io non sopportavo l'idea, e mi misi a piangere; e mi spiace dire - perché non sta bene parlar male dei morti - che mi scrollò e mi diede uno schiaffo, poi mi spinse fuori nel cortile e mi disse di non tornare senza un pollo morto, e anche in fretta, perché non c'era molto tempo per prepararlo, e al signor Kinnear piaceva che i pasti venissero serviti puntualmente. Andai nel pollaio e catturai un giovane galletto grasso, di colore bianco, e sempre piangendo me lo misi sotto il braccio e mi diressi verso la legnaia e il ceppo, asciugandomi le lacrime col grembiule; non sapevo proprio come decidermi a fare una cosa così. Jamie Walsh mi seguì e mi chiese con gentilezza che cos'avevo; io gli dissi se per favore poteva ammazzarmi il pollo; niente di più facile, rispose lui, l'avrebbe fatto ben volentieri, visto che ero così sensibile e tenera di cuore. Così mi prese il pollo di mano e gli tagliò via la testa con un colpo solo; per qualche istante la bestia scorrazzò senza testa, poi cadde a terra scalciante; pensai che era una scena davvero patetica. Poi lo spennammo insieme, seduti vicini su uno dei tronchi dello steccato, in un gran svolazzare di piume; quindi lo ringraziai sinceramente per il suo aiuto e gli dissi che non avevo niente da dargli in cambio, ma me lo sarei ricordato in futuro. Lui mi fece un sorriso impacciato e disse che mi avrebbe dato volentieri una mano quando volevo. Verso la fine delle operazioni Nancy era uscita e ora se ne stava sulla porta di cucina, riparandosi gli occhi con una mano e aspettando impaziente che il pollo fosse pronto da cucinare; perciò lo ripulii più in fretta che potevo, trattenendo il fiato per non sentire l'odore e conservando le interiora in caso servissero per la salsa; poi lo lavai sotto la pompa e lo portai
dentro. In cucina, mentre lo facevamo ripieno, lei disse: Vedo che hai fatto una conquista, e io le chiesi cosa intendeva; Jamie Walsh, disse lei, è cotto di te, ce l'ha scritto in faccia, prima era un mio ammiratore ma ora vedo che spasima per te. Capii che cercava di fare la pace, dopo che era stata così sgarbata, perciò mi misi a ridere e dissi che non era una gran conquista, era solo un ragazzino, per di più con i capelli color carota e pieno di lentiggini come un uovo, anche se era alto per la sua età. E lei disse: Be', alla fine anche i vermi si ribellano, frase che mi parve misteriosa, ma non le chiesi cosa intendeva dire per non essere giudicata ignorante. Per arrostire il pollo dovemmo scaldare ben bene la stufa nella cucina estiva, perciò il resto del lavoro lo facemmo in quella invernale. Come contorno preparammo un piatto di cipolle e carote in umido, e per dessert c'erano delle fragole, con la panna di nostra produzione, e per ultimo il nostro formaggio. Il signor Kinnear teneva il vino in cantina, in parte nelle botti e in parte imbottigliato; Nancy mi mandò a prenderne cinque bottiglie. Non le era mai piaciuto scendere laggiù, diceva che c'erano troppi ragni. Mentre ci davamo da fare, James McDermott se ne arrivò tranquillo come una pasqua; e quando Nancy gli chiese in tono irascibile dove si era cacciato, disse che non erano affari suoi e che prima di andarsene aveva sbrigato tutti i suoi compiti mattutini; ma se proprio voleva saperlo, aveva fatto una commissione speciale affidatagli dal signor Kinnear prima di andare a Toronto; Nancy rispose che avrebbe controllato, e che lui non aveva il diritto di andare e venire, e di sparire dalla faccia della terra proprio quando c'era più bisogno; ma come faceva a saperlo, disse lui, non leggeva mica il futuro; e lei replicò che se l'avesse letto, avrebbe visto che non gli restava molto tempo da passare in quella casa. Ma siccome in quel momento aveva da fare, gli avrebbe parlato dopo; adesso poteva occuparsi del cavallo del signor Kinnear, che aveva bisogno di essere strigliato dopo quella lunga cavalcata, se non considerava questa occupazione troppo al di sotto di Sua Altezza Reale. E lui uscì e andò nella stalla tutto ingrugnato. Il Colonnello Bridgeford e il Capitano Boyd arrivarono, come promesso, e si comportarono esattamente come Nancy aveva preannunciato; in sala da pranzo ci furono conversazioni animate e si rise molto; Nancy mandò me a servire a tavola. Non aveva voglia di farlo lei; sedette in cucina, bevve un bicchiere di vino e ne versò uno anche per me; mi parve risentita contro quei signori. Disse che secondo lei il Capitano Boyd non era un vero Capitano, perché ce n'erano di quelli che si erano presi il grado solo per aver appoggiato il sedere su un cavallo il giorno della Rivolta; io le chiesi
come stavano le cose col signor Kinnear, perché da quelle parti qualcuno chiamava Capitano anche lui; disse che a lei non risultava, lui non si era mai fregiato di quel titolo e sul suo biglietto da visita c'era un semplice Signor; comunque, se fosse stato Capitano, sarebbe stato sicuramente dalla parte del Governo. Ed era evidente che neanche questo le faceva piacere. Si versò un secondo bicchiere di vino e disse che a volte il signor Kinnear la prendeva in giro per il suo nome, la chiamava una piccola focosa ribelle, perché di cognome faceva Montgomery, come quel John Montgomery, il padrone dell'osteria in cui si incontravano i rivoltosi, quella che adesso era in rovina; lui, Montgomery, aveva proclamato che quando i suoi nemici fossero andati a rosolarsi all'inferno, avrebbe aperto un'altra osteria in Yonge Street, cosa che in seguito si avverò, signore, perlomeno per quanto riguarda l'osteria; ma in quell'epoca era ancora negli Stati Uniti, dopo una fuga spericolata dal Penitenziario di Kingston. Il che dimostra che non è poi una cosa impossibile, scappare. Nancy si versò un terzo bicchiere di vino, e disse che stava ingrassando, cosa ci poteva fare, e lasciò cadere la testa sulle braccia; ma per me era ora di portare di là il caffè, così non le chiesi come mai si era immalinconita di colpo. In sala da pranzo erano tutti allegri, si erano scolati le cinque bottiglie e ne avevano richieste altre; il Capitano Boyd chiese al signor Kinnear dove mi aveva trovata, e se per caso ce n'erano altre che crescevano sullo stesso albero, e se erano già mature; il Colonnello Bridgeford chiese cosa ne aveva fatto Tom Kinnear della sua Nancy, era chiusa a chiave in un armadio con il resto dell'harem? e il Capitano Boyd disse che dovevo stare attenta ai miei begli occhioni blu, che Nancy non me li cavasse se il vecchio Tom si arrischiava a strizzarmi l'occhio di nascosto. Stavano solo scherzando, ma sperai che Nancy non avesse sentito. La domenica mattina Nancy disse che dovevo andare in chiesa con lei. Risposi che non avevo niente di decente da mettermi, ma era una scusa: non avevo molta voglia di andarci, sarei stata in mezzo a sconosciuti e tutti mi avrebbero squadrata da capo a piedi. Ma lei disse che mi prestava uno dei suoi vestiti, e così fece, anche se fece attenzione a non darmi uno dei migliori, certo non bello come quello che indossava lei. Mi prestò anche una cuffia, e disse che avevo un'aria molto rispettabile; poi mi diede un paio di guanti, che però non erano della mia misura, dato che lei aveva le mani più grandi. Tutte e due portavamo scialli leggeri di seta fantasia. Il signor Kinnear aveva mal di testa, e disse che non ci andava - non era
mai stato di chiesa, lui - ma che McDermott poteva portarci col calesse e poi tornare a prenderci, dato che a messa non ci veniva neanche lui, perché era cattolico mentre la chiesa era presbiteriana. A quei tempi non ce n'erano altre, e ci andavano anche molti che non erano membri di quella congregazione, perché era pur sempre meglio di niente; inoltre possedeva l'unico cimitero della città, per cui aveva anche il monopolio dei morti, oltreché dei vivi. Sedemmo nel calesse come due signore; era una giornata serena e luminosa, gli uccelli cantavano, e io mi sentivo in pace col mondo più che mai, proprio come si conveniva a una domenica di sole. Entrando in chiesa Nancy mi prese a braccetto; per amicizia, credevo io. Qualche testa si voltò, ma pensai che fosse perché non mi conoscevano. C'era ogni sorta di gente, contadini poveri con le mogli, domestici, i commercianti del paese, e poi quelli che, a giudicare dagli abiti e dal fatto che si erano sistemati nei primi banchi, si ritenevano dei signori, o comunque importanti. Noi sedemmo negli ultimi banchi, come ci competeva. Il prete sembrava un airone, con un naso simile a un becco aguzzo, un lungo collo nudo e un ciuffo di capelli irto sulla cima della testa. La predica era sulla Grazia Divina, che sola può salvarci, indipendentemente dagli sforzi che facciamo e dalle nostre buone opere. Ciò non significava che dovevamo smettere di sforzarci, né di compiere buone azioni; ma non dovevamo contarci, né essere certi di essere stati salvati solo perché il mondo ci rispettava per l'impegno e per le buone opere; la Grazia Divina era un mistero, e i suoi eletti erano noti a Dio soltanto; benché le Scritture dicessero che li si riconosceva dai loro frutti, si intendevano i frutti spirituali, invisibili a tutti fuorché a Dio; pertanto, pur essendo tenuti a pregare per la Divina Grazia, non dovevamo essere così tronfi e vanitosi da credere che le nostre preghiere servissero a qualcosa, perché l'uomo propone ma Dio dispone, e non competeva certo alle nostre meschine e peccaminose anime mortali determinare il corso degli eventi. I primi sarebbero stati gli ultimi e gli ultimi i primi, e certa gente che per anni si era scaldata al fuoco della mondanità presto si sarebbe trovata ad arrostire tra fiamme ben più roventi, con sua grande indignazione e sorpresa; fra noi c'erano tanti sepolcri imbiancati, ripuliti di fuori ma pieni di putredine e corruzione di dentro; dovevamo stare attenti alla donna che siede sulla soglia di casa, contro cui Proverbi, 9 ci mette in guardia, e a tutti coloro che possono tentarci dicendo che le acque rubate sono dolci, e il pane mangiato in segreto è delizioso; perché, come dicono le Scritture, qui vi sono i morti, e i suoi ospiti
sono nel profondo dell'Inferno; e più di tutto dovevamo guardarci dall'autocompiacimento, e non lasciare, come le vergini folli, che le nostre lampade si spegnessero, perché nessuno sapeva il giorno e l'ora della venuta; dovevamo attendere, pieni di tremore e spavento. Andò avanti così per un po', e io mi sorpresi ad adocchiare le cuffie delle signore presenti, quelle che potevo osservare dalla mia postazione, e i colori dei loro scialli; e dissi a me stessa che se la Divina Grazia non la ottieni pregando, né in alcun altro modo, e non puoi neanche sapere se ti è stata data o no, allora tanto vale non pensarci più e farti i fatti tuoi, visto che non puoi immischiarti nella tua salvezza o dannazione. Inutile piangere sul latte versato, soprattutto se non sai se è stato versato oppure no, e se lo sa solo Dio, allora solo lui può ripulire, se necessario. Ma questi pensieri mi facevano venir sonno, e il prete aveva una voce così monotona; stavo per appisolarmi quando ci alzammo tutti per cantare Resta con me; non che la congregazione lo cantasse benissimo, ma era pur sempre musica, e la musica è consolante. Nessuno ci salutò calorosamente all'uscita, anzi ci evitarono; solo qualcuno fra i poveracci ci fece un cenno di saluto, e ci furono bisbigli al nostro passaggio, il che mi parve strano, perché anche se io ero un'estranea, Nancy dovevano conoscerla bene; e anche se i signori, o quelli che si ritenevano tali, non erano tenuti a rivolgerle la parola, non si meritava un tale trattamento dai contadini e dalle mogli, né dagli altri domestici. Nancy procedette a testa alta, senza guardare a destra né a sinistra; e io pensai: È gente fredda e boriosa, non sono buoni vicini. Sono degli ipocriti, pensano che la chiesa sia una gabbia in cui tenere Dio, che se ne stia chiuso lì e non se ne vada in giro durante la settimana a cacciare il naso nelle loro faccende e a guardare nel profondo dei loro cuori oscuri e pieni di doppiezza, che non conoscono la vera carità; credono che gli basti occuparsi di lui la domenica, con i loro vestiti della festa indosso, le facce serie serie, le mani lavate e guantate, e le loro storie bell'e pronte. Ma Dio è dappertutto, e non si può metterlo in gabbia come si fa con gli uomini. Nancy mi ringraziò per essere andata in chiesa con lei, e disse che la mia compagnia le aveva fatto piacere. Ma rivolle indietro il vestito e la cuffia quel giorno stesso, per paura che glieli sporcassi. Qualche giorno dopo, McDermott arrivò in cucina per il pranzo con una faccia lunga e immusonita. Nancy gli aveva dato il preavviso, doveva andarsene alla fine del mese. Disse che era ben contento, perché non gli pia-
ceva farsi comandare da una donna, e non gli era mai capitato quand'era nell'esercito o sui battelli; si era lamentato, ma il signor Kinnear si era limitato a dirgli che Nancy era la padrona di casa ed era pagata per occuparsi di tutto, quindi McDermott doveva prendere ordini da lei, perché lui non poteva occuparsi dei minimi dettagli. Questa in sé era già una disgrazia, che diventava ancora più incresciosa visto il tipo di donna che lei era. E lui non ci teneva proprio a restare ancora con un tale branco di puttane. Io ne fui scioccata, e pensai che era proprio da lui, era il suo modo di parlare, sempre esagerato e menzognero; e gli chiesi indignata cosa intendeva dire. Non lo sapevo, mi rispose, che Nancy e il signor Kinnear andavano a letto assieme, alla faccia di tutti quanti, e vivevano segretamente come marito e moglie, anche se erano sposati quanto lui? non era un segreto, lo sapevano tutti nel circondario. Rimasi allibita, e lo dissi; e McDermott mi disse che ero un'idiota, e che nonostante la mia Assessora Parkinson di qua e Assessora Parkinson di là e le mie arie da cittadina, non ero così furba come mi credevo, e non vedevo più in là del mio naso; ci voleva un'ingenua come me per non accorgersi subito che Nancy era una puttana, dato che era di dominio pubblico che Nancy aveva avuto un bambino quando lavorava giù dai Wrights, con un giovinastro sfaccendato che l'aveva mollata ed era scappato, solo che il bambino era morto. Ma il signor Kinnear l'aveva assunta e se l'era portata in casa comunque, cosa che nessun uomo rispettabile avrebbe fatto; ed era chiaro fin dal principio che intenzioni aveva, perché non serviva chiudere la stalla una volta che i buoi erano scappati, e quando una donna cadeva sulla schiena era come una tartaruga, non riusciva più a rigirarsi per il verso giusto, e chiunque poteva fare quello che voleva. Continuai a protestare, ma fui folgorata dall'idea che forse una volta tanto diceva la verità; e in un lampo capii il senso delle teste voltate in chiesa, dei bisbigli e di tante altre piccole cose a cui non avevo fatto molto caso; capii i bei vestiti e gli orecchini: erano, come si suol dire, il prezzo del peccato; e anche gli avvertimenti che Sally, la cuoca della signora Watson, mi aveva lanciato prima che acconsentissi alla proposta di assunzione. Dopo questa rivelazione tenni occhi e orecchie aperte, girai per casa come una spia, e verificai che Nancy non dormiva mai nel suo letto, quando il signor Kinnear era in casa. E mi vergognai di me stessa per essermi lasciata ingannare e prendere in giro così, e per essere stata tanto cieca e stupida. 29
Mi spiace dover dire che questo mi fece perdere buona parte del rispetto che avevo per Nancy, in quanto più grande di me e padrona di casa; non nascosi il mio disprezzo, le diedi delle rispostacce che non avrei dovuto darle, e ci furono litigate in cui arrivammo ad alzare la voce, e lei mi prese a ceffoni un paio di volte, perché era irascibile e svelta di mano. Ma per il momento non arrivai fino al punto di restituirle gli schiaffi; e se avessi tenuto a freno la lingua, le mie orecchie non sarebbero diventate rosse tanto spesso. Quindi, insomma, era anche colpa mia. Il signor Kinnear non sembrava accorgersi di niente. Anzi, fu più gentile che mai con me, si fermava a guardarmi lavorare e mi chiedeva come stavo, e io gli dicevo sempre: Benissimo, signore, perché non c'è niente di cui un gentiluomo come lui si sbarazzerebbe più in fretta che una domestica scontenta; si è pagate per sorridere, è bene ricordarsene. Allora mi diceva che ero una brava ragazza, e svelta nel lavoro. Una volta che portavo un secchio d'acqua su per le scale, perché il signor Kinnear mi aveva chiesto di riempirgli la vasca nello spogliatoio, disse che era troppo pesante per me, e come mai non lo faceva McDermott. Risposi che era compito mio; allora lui cercò di prendermi il secchio e di portarlo su personalmente, e mise la mano sul manico, sopra la mia. Oh no, signore, dissi, non posso permetterlo; lui rise e disse che toccava a lui permettere o non permettere, era o non era il padrone di casa? Dovetti riconoscere che lo era. E mentre eravamo lì, uno accanto all'altra sulle scale e lui con la mano sulla mia, Nancy entrò nell'ingresso e ci vide; questo non migliorò i suoi sentimenti verso di me. Ho pensato spesso che le cose non sarebbero andate così male se ci fosse stata una scala separata per la servitù, sul retro della casa, come si usa di solito; ma non c'era. Ciò significava che eravamo tutti costretti a vivere vicini, gomito a gomito, e non era una cosa piacevole; in quella casa non potevi tossire né ridere senza che ti sentissero, specialmente dall'ingresso, giù a pianterreno. In quanto a McDermott, diventava ogni giorno più rancoroso e vendicativo; disse che Nancy aveva in mente di mandarlo via prima della fine del mese, senza dargli la paga, ma che lui non ci stava; se trattava così lui, presto avrebbe trattato anche me allo stesso modo, e che dovevamo unire le forze e far rispettare i nostri diritti. Quando il signor Kinnear era fuori casa e Nancy andava a trovare i suoi amici Wrights - le erano rimasti amici, loro e qualche altro vicino - lui attingeva sempre più spesso al whisky del si-
gnor Kinnear; lo comprava a barilotti, quindi ce n'era sempre una buona scorta, e nessuno si accorgeva se ne mancava un po'. In quelle occasioni diceva di odiare tutti gli inglesi, e anche se Kinnear era del Sud della Scozia faceva lo stesso, erano tutti ladri e puttane, rubavano la terra e schiacciavano i poveri ovunque andassero; e quel che il signor Kinnear e Nancy si meritavano tutti e due era un colpo in testa e poi buttarli giù in cantina, e ci avrebbe pensato lui! Secondo me erano solo parole; era uno sbruffone, sempre lì a parlare delle grandi cose che stava per fare; anche mio padre, quand'era ubriaco, minacciava spesso di servire mia madre a questo modo, ma non l'aveva mai fatto. La cosa migliore in quei momenti era dire di sì e dargli ragione, senza prestargli attenzione. Il Dottor Jordan alza la testa dagli appunti. Quindi tu in principio non gli credevi? dice. Per niente, signore, dico. Neanche lei gli avrebbe creduto, se l'avesse sentito. Per me erano tutte minacce gratuite. Prima di essere impiccato, McDermott ha detto che sei stata tu a sobillarlo, dice il Dottor Jordan. Ha sostenuto che intendevi uccidere Nancy e il signor Kinnear mettendo del veleno nel loro porridge, e che gli hai chiesto più volte di aiutarti; lui, da bravo ragazzo, si è rifiutato. Chi le ha detto questa bugia? dico. È scritto nella confessione di McDermott, dice il Dottor Jordan; lo so benissimo anch'io, l'ho letto nell'album della moglie del Direttore. Solo perché una cosa è scritta, signore, non vuol dire che sia la verità sacrosanta, dico io. Lui abbaia la sua risata, Ah, e mi dice che ho proprio ragione. Comunque, Grace, tu che hai da dire in merito? chiede. Be', signore, penso che sia una delle cose più stupide che ho mai sentito. Perché, Grace? dice lui. Mi concedo un sorriso. Se avessi voluto mettere del veleno in una scodella di porridge, signore, che bisogno avrei avuto di farmi aiutare da lui? Avrei potuto farlo da sola, e metterlo anche nel suo porridge, tanto per gradire. Non ci vuole più forza che a mettere un cucchiaio di zucchero. Ne parli molto freddamente, Grace, dice il Dottor Jordan. Ma perché pensi che l'abbia detto, se era falso? Suppongo che volesse dare la colpa a me, dico lentamente. Non gli è mai piaciuto essere dalla parte del torto. E forse voleva che gli tenessi
compagnia nel viaggio. La strada per la morte è solitaria, e più lunga di quanto sembri, anche quando porta giù dritto dal patibolo, appeso a una corda; ed è una strada buia, dove non c'è mai la luna che splende e ti fa luce. Sembra che tu la conosca bene, Grace, per essere una che non c'è mai stata, dice lui col suo sorriso sbilenco. Non ci sono stata, dico io, ma in sogno sì; e poi l'ho contemplata per molte notti. Sono stata condannata anch'io all'impiccagione, e ho avuto modo di pensarci; è stato solo per fortuna che me la sono cavata, e grazie alla bravura del signor MacKenzie, che ha chiesto le attenuanti per la mia giovane età. Quando credi di doverla percorrere presto anche tu quella strada, devi imparare a orientartici. È vero, dice lui pensieroso. E non me la prendo con il povero James McDermott, dico. Non per quel desiderio. Non potrei mai prendermela con un essere umano che ha paura della solitudine. Il mercoledì successivo era il mio compleanno. Siccome in quel momento fra Nancy e me non correva buon sangue, non mi aspettavo che dimostrasse di ricordarsene, anche se sapeva perfettamente la data, perché all'atto dell'assunzione le avevo detto la mia età, e il giorno in cui avrei compiuto sedici anni; ma con mia grande sorpresa quella mattina quando entrò in cucina si mostrò molto ben disposta, mi fece gli auguri di buon compleanno, andò a cogliere un mazzolino di rose rampicanti sulla facciata della casa e le mise in un bicchiere perché me le portassi in camera. Le fui così grata di quella gentilezza - ormai rara, dato che litigavamo di continuo che per poco non mi misi a piangere. Poi disse che siccome era il mio compleanno, quel pomeriggio ero libera. La ringraziai molto. Dissi però che non avrei saputo cosa fare, perché non avevo amici da andare a trovare nei paraggi, e non c'erano dei veri negozi, né niente da vedere; quindi, forse, avrei fatto meglio a stare a casa a cucire, o a lucidare l'argenteria, come progettavo di fare. E lei disse che se mi andava potevo arrivare fino al paese, oppure fare una bella passeggiata in campagna; e che mi prestava il suo cappello di paglia a tesa larga. Ma più tardi scoprii che quel pomeriggio il signor Kinnear sarebbe stato in casa; e sospettai che Nancy avesse voluto mandarmi fuori dai piedi per restare sola con lui senza la preoccupazione che io piombassi nella stanza o salissi di sopra, né che il signor Kinnear capitasse in cucina mentre c'ero
io e si fermasse lì a parlare del più e del meno, come tendeva a fare ultimamente. Comunque, dopo aver servito il pranzo per il signor Kinnear e per Nancy, vale a dire roastbeef freddo e insalata, perché faceva caldo, e dopo aver mangiato anch'io in compagnia di McDermott nella cucina d'inverno, aver lavato i piatti ed essermi lavata le mani e la faccia, mi tolsi il grembiule e lo appesi, mi misi il cappello di paglia di Nancy e il fazzoletto bianco e azzurro per non prendere il sole sul collo; e McDermott, che era ancora seduto a tavola, mi chiese dove andavo. Dissi che era il mio compleanno, perciò Nancy mi aveva dato il permesso di fare una passeggiata. Lui disse che sarebbe venuto con me, perché per strada c'erano molti tipi violenti e vagabondi e avevo bisogno di protezione. Stavo per dirgli che l'unico tipo violento e vagabondo che conoscevo stava seduto proprio lì con me in cucina; ce l'avevo sulla punta della lingua, ma siccome McDermott aveva fatto uno sforzo per essere cortese, me la morsi e lo ringraziai del pensiero gentile, ma non ce n'era bisogno. Disse che veniva comunque, perché io ero giovane e sventata e non sapevo cos'era meglio per me; gli feci presente che non era il suo compleanno, e aveva delle cose da fare; lui disse alla malora i compleanni, non gliene importava un fico dei compleanni, non c'era proprio niente da celebrare, non ringraziava certo sua madre di averlo messo al mondo; comunque, anche se fosse stato il suo compleanno, a lui Nancy non avrebbe dato il pomeriggio libero. E io ribattei che non doveva prendersela con me, perché non avevo chiesto niente e non volevo favoritismi. Scappai via alla svelta dalla cucina. Non avevo la più pallida idea di dove andare. Non volevo capitare nel centro del paese, dove non conoscevo nessuno; e all'improvviso mi resi conto di quanto fossi sola, perché non avevo amici tranne Nancy, se potevo definirla amica, dato che era una tal banderuola, amica un giorno e nemica il giorno dopo; e forse Jamie Walsh, ma era solo un ragazzino. C'era Charley, ma era un cavallo, e anche se sapeva ascoltare e consolare, non mi serviva a granché quando avevo bisogno di un consiglio. La mia famiglia non sapevo dov'era, il che equivaleva a non avercela; non che avessi il desiderio di rivedere mio padre, ma mi avrebbe fatto piacere avere notizie dei bambini. C'era la zia Pauline, avrei potuto scriverle, se avessi avuto i soldi per i francobolli; perché si era prima delle riforme, e spedire una lettera oltreoceano era molto costoso. A guardare la verità in faccia, ero sola al mondo, senza altre prospettive se non il lavoro ingrato che avevo fatto finora; potevo sempre trovarmi un altro posto, ma il lavoro
sarebbe stato lo stesso, dall'alba fino a sera, e sempre con una padrona a darmi ordini. Con questi pensieri mi allontanai a passi veloci lungo il viale, perché magari McDermott mi stava osservando; e infatti quando mi voltai lui era là, sulla porta della cucina. Poteva prendere qualunque indugio come un invito a seguirmi. Ma quando arrivai al frutteto mi ritenni al sicuro dagli sguardi, e rallentai. Di solito tenevo i miei sentimenti sotto controllo, ma c'è qualcosa di deprimente in un compleanno, soprattutto quando sei sola; svoltai nel frutteto e sedetti appoggiando la schiena a uno dei grossi vecchi ceppi rimasti lì dal disboscamento. Attorno a me gli uccelli cantavano, ma mi venne in mente che perfino gli uccelli erano degli sconosciuti per me, perché non sapevo come si chiamavano; questo mi sembrò il colmo della tristezza, e le lacrime cominciarono a scendermi giù per le guance; invece di asciugarle, mi abbandonai al pianto per qualche minuto. Ma poi mi dissi: Disperarsi non serve a niente; guardai le margherite bianche attorno a me e i calici ancora chiusi delle belle di notte, che hanno un profumo così dolce, e le artemisie coperte di farfalle arancione; alzai la testa e guardai i rami del melo sopra di me, con le meline verdi che cominciavano a prendere forma, e le chiazze di cielo azzurro che si vedevano oltre i rami, e tentai di rincuorarmi riflettendo che solo un Dio benevolo, che aveva a cuore la nostra felicità, poteva aver creato tanta bellezza, e che tutti i fardelli che mi venivano messi sulle spalle servivano a mettere alla prova la mia forza e la mia fede, come era successo ai primi cristiani, a Giobbe e ai martiri. Ma, come ho già detto, quando penso a Dio spesso mi viene sonno; così mi addormentai. È strano, ma per quanto profondamente io dorma, mi accorgo sempre se qualcuno mi si avvicina, o mi osserva. È come se ci fosse una parte di me che non dorme mai, e tiene sempre un occhio socchiuso; quand'ero più giovane pensavo che fosse il mio angelo custode. Ma forse è un'abitudine rimasta dall'infanzia, quando, se non mi alzavo all'ora fissata e non mi mettevo subito al lavoro in casa, mio padre cominciava a urlare e a insultarmi, mi svegliava di brutto e mi tirava via dal letto per un braccio, o per i capelli. In ogni caso, stavo sognando che c'era un orso uscito dalla foresta che mi guardava. A quel punto mi svegliai di soprassalto, come se una mano si fosse posata su di me; lì vicino c'era un uomo, era controsole e non distinguevo la sua faccia. Lanciai uno strillo, e feci per tirarmi su. Poi però vidi che non era un uomo, era solo Jamie Walsh; e rimasi dov'ero. Oh, Jamie, dissi, mi hai fatto paura.
Non volevo, disse lui. E si sedette accanto a me sotto l'albero. Poi disse: Cosa ci fai qui a quest'ora? Nancy non ti sgriderà? Era un ragazzo molto curioso, faceva continuamente domande. Gli spiegai del mio compleanno, e dissi che Nancy era stata gentile a lasciarmi il pomeriggio libero. Lui mi fece gli auguri. Poi disse: Ti ho vista piangere. E dov'eri tu, che mi spiavi? dissi io. Disse che veniva spesso nel frutteto, quando il signor Kinnear non vedeva; verso la fine dell'estate a volte il signor Kinnear si metteva sulla veranda col cannocchiale e controllava che i ragazzi del circondario non gli rubassero la frutta; ma adesso le mele e le pere adesso erano ancora troppo acerbe. Poi disse: Perché sei triste, Grace? Mi vennero di nuovo le lacrime agli occhi, e dissi semplicemente: Non ho amici, qui. Jamie disse: Io sono tuo amico. Poi, dopo una pausa: Ce l'hai il moroso, Grace? Io dissi di no. E lui: Mi piacerebbe essere il tuo moroso. E tra qualche anno, quando sarò più vecchio e avrò risparmiato i soldi, ci sposeremo. Non mi trattenni dal sorridere. Dissi, scherzando: Ma non eri innamorato di Nancy? E lui disse: No, anche se mi piace abbastanza. E poi: Allora, cosa ne dici? Ma Jamie, dissi io, sono molto più vecchia di te; e mantenni un tono scherzoso, perché non credevo che facesse sul serio. Un anno e un po', disse lui. Un anno non è niente. Però tu sei ancora un ragazzino, dissi. Sono più alto di te, ribatté. Era vero. Ma, non so come mai, una ragazza di quindici o sedici anni è ormai ritenuta una donna, mentre un ragazzo della stessa età è solo un ragazzo. Questo non lo dissi, però; capivo che per lui era un punto dolente; perciò lo ringraziai con molta serietà della sua offerta, e gli dissi che l'avrei presa in considerazione, perché non volevo offenderlo. Su, disse, siccome è il tuo compleanno ti suonerò una canzone. Tirò fuori il piffero e suonò Il soldatino è andato alla guerra, la suonò molto bene e con sentimento, anche se le note alte erano un po' troppo acute. Poi suonò Credimi se queste giovani grazie amabili. Capii che erano pezzi nuovi del suo repertorio, e che ne era fiero; perciò gli feci i complimenti. Dopodiché disse che voleva farmi una coroncina di margherite, per festeggiare; ci mettemmo a fare ghirlande, con grande attenzione e serietà, proprio come due bambini piccoli; non mi divertivo così dai tempi di Mary
Whitney. Una volta finite, me ne mise solennemente una attorno al cappello, e un'altra al collo, come una collana, e disse che ero la Regina di Maggio; replicai che siccome era luglio, avrei dovuto accontentarmi di essere la Regina di Luglio, e scoppiammo a ridere. Mi chiese se poteva darmi un bacio sulla guancia; dissi di sì, ma solo uno; me lo diede. Gli dissi che mi aveva fatto passare un bel compleanno dopotutto, perché mi aveva distratta dai miei brutti pensieri; lui sorrise. Il tempo era volato, il pomeriggio stava già finendo. Mentre tornavo lungo il viale vidi il signor Kinnear sulla veranda, che mi guardava col cannocchiale; mentre stavo per entrare dalla porta posteriore, lui apparve da dietro l'angolo e disse: Buon pomeriggio, Grace. Ricambiai il saluto, e lui chiese: Chi era quell'uomo con te nel frutteto? E che ci facevi con lui? Sentivo dalla sua voce che razza di sospetti aveva; dissi che era solo Jamie Walsh, e che facevamo ghirlande di margherite perché era il mio compleanno. Lui accettò la spiegazione, ma non era contento lo stesso. E quando entrai in cucina per cominciare a preparare la cena, Nancy disse: Cosa fai con quel fiore appassito fra i capelli? È ridicolo. Era una margherita, era rimasta impigliata mentre mi toglievo la collana. Questi due episodi guastarono l'innocenza della mia giornata. Mi misi a cucinare; quando McDermott arrivò, più tardi, con una bracciata di legna per la stufa, disse beffardo: E così, ti sei rotolata nell'erba e hai baciato il ragazzo che fa le commissioni, bisognerebbe spaccargli la testa per questo, lo farei io stesso se non fosse solo un bambino. È chiaro che preferisci i bambini agli uomini, te li vai a scegliere nella culla. Gli dissi che non era affatto vero, ma lui non mi credette. Mi sentii come se il pomeriggio non mi fosse appartenuto, come se non fosse stata una cosa bella e privata, ma tutti l'avessero spiata di nascosto (compreso il signor Kinnear, che mai avrei pensato capace di abbassarsi a tanto), esattamente come se fossero stati tutti in fila sulla porta della mia stanza, e avessero fatto a turno a guardare dal buco della serratura; ne fui molto triste, e anche arrabbiata. 30 Passarono alcuni giorni senza che succedesse niente. Erano quasi due settimane che mi trovavo a casa del signor Kinnear, ma sembrava molto di più, perché il tempo passava lentamente per me, come tende a fare, signo-
re, quando non si è felici. Il signor Kinnear era uscito a cavallo, credo che fosse andato a Thornhill, e Nancy era andata a trovare la sua amica, la signora Wrights. Negli ultimi giorni Jamie Walsh non si era fatto vedere in casa, e mi chiedevo se McDermott lo avesse minacciato, dicendogli di stare alla larga. Non sapevo dove fosse McDermott; forse dormiva nel granaio. Non ero in buona con lui, perché quella mattina aveva attaccato la solfa dei miei begli occhi, che mi servivano a fare gli occhi dolci ai ragazzini coi denti di latte, e io gli avevo detto di tenersi per sé i suoi apprezzamenti perché lì dentro era l'unico che li trovasse divertenti, e lui mi aveva detto che avevo una lingua da vipera, e io che se voleva una che non gli rispondesse non aveva che da andare a corteggiare la vacca giù nella stalla, che era più o meno quel che avrebbe detto Mary Whitney, o perlomeno così pensai fra me. Ero nell'orto e raccoglievo piselli, rimuginando rabbiosamente - ero ancora arrabbiata per essere stata sospettata e spiata, e anche per le sfottiture sgradevoli di McDermott - quando sentii fischiare un motivetto, e vidi un uomo che risaliva il viale con una sacca sulle spalle, un vecchio cappellaccio in testa e un lungo bastone in mano. Era Jeremiah. Ero così contenta di rivedere una faccia conosciuta che aprii il grembiule e lasciai cadere i piselli per terra, agitai le braccia e gli corsi incontro. Era un vecchio amico, ormai lo consideravo così. In un posto nuovo, gli amici fanno in fretta a diventare vecchi amici. Eccomi Grace, disse, te l'avevo detto che sarei venuto. E io sono proprio contenta di vederti, Jeremiah. Girammo dietro casa, e gli dissi: Che cos'hai portato oggi? Perché mi piaceva sempre tanto vedere quel che c'era nella sua sacca, anche se non potevo permettermi di comprare quasi niente. E lui: Non mi inviti in cucina, Grace, all'ombra e al fresco? Ricordai che era così che facevamo dall'Assessora Parkinson, e lo feci entrare; dentro, gli dissi di sedersi al tavolo, andai a prendergli un po' di birra in dispensa e una tazza d'acqua fresca e gli tagliai una fetta di pane e formaggio. Volevo fare bella figura, era mio ospite, e io la padrona di casa, e dovevo riceverlo secondo le regole dell'ospitalità. Presi un bicchiere di birra anch'io, per tenergli compagnia. Alla tua salute, Grace, disse. Lo ringraziai e brindai alla sua. Stai bene qui? chiese. La casa è molto bella, dissi, ci sono dei quadri e un pianoforte. Non mi
andava di parlar male di nessuno, soprattutto del padrone e della padrona. Ma è tranquilla e appartata, disse lui guardandomi con quegli occhi lucidi e brillanti. Erano neri come le more, e sembravano sempre vedere quel che gli altri non vedevano; capivo che stava cercando di leggermi nel pensiero; ma lo faceva con delicatezza. Credo che abbia sempre avuto una certa stima per me. È tranquilla, ammisi. Ma il signor Kinnear è un vero signore. E con dei gusti da signore, disse lui, lanciandomi un'occhiata penetrante. In giro si dice che ha un debole per le servette, specialmente quelle che si trova sottomano. Spero che tu non faccia la fine di Mary Whitney. Questo mi lasciò di sasso, perché pensavo di essere la sola a sapere la verità su quella storia, chi era l'uomo, e quanto sottomano era stata lei, e non l'avevo mai detto a nessuno. Come fai a saperlo? chiesi. Si mise un dito accanto al naso, in un gesto che significava che la sapeva lunga e stava zitto; e disse: Il futuro è compreso nel presente, per chi sa leggerlo. E siccome sapeva già tante cose, mi sfogai con lui e gli dissi tutto quello che ho detto a lei, signore, anche di quando avevo sentito la voce di Mary ed ero svenuta, e avevo girato per la casa senza memoria; ma non parlai del dottore, perché sapevo che Mary non avrebbe voluto. Però credo che Jeremiah indovinò anche quello, aveva un talento speciale per capire quel che ti passava per la testa, anche se non lo dicevi ad alta voce. Che storia triste, disse Jeremiah quando ebbi finito. Quanto a te, Grace, donna avvisata mezza salvata. Lo sai che Nancy era la domestica, qui, mica tanto tempo fa, e faceva tutti i lavori pesanti che adesso fai tu. Era detto senza mezzi termini, e io abbassai lo sguardo. No, non lo sapevo, dissi. Una volta che un uomo prende un'abitudine, è difficile togliergliela, disse. È come un cane che si fa lupo: ammazzata una pecora, il cane ci prende gusto, e deve ammazzarne un'altra. Hai viaggiato molto? gli chiesi. Questi discorsi di ammazzamenti non mi piacevano. Sì, disse, sono sempre in movimento. Recentemente sono stato giù negli Stati Uniti, dove posso comprare articoli di merceria a buon prezzo, e poi rivenderli qui e guadagnarci; è così che noi ambulanti ci guadagnamo il pane. Dobbiamo pagarci le scarpe che consumiamo. E com'è laggiù? Qualcuno dice che si sta meglio. Per molti versi è come qui, disse lui. Ci sono mascalzoni e delinquenti dappertutto, ma usano un altro linguaggio per giustificarsi; e là si riempio-
no la bocca con la democrazia, proprio come qui blaterano sull'ordine sociale e la lealtà alla regina; i poveri però restano sempre poveri. Ma quando passi il confine, è solo aria, non te ne accorgi; gli alberi sono gli stessi, da una parte e dall'altra. E di solito è dagli alberi che passo io, e di notte; pagare la dogana sulle mie merci non mi farebbe comodo; poi dovrei aumentare il prezzo alle buone clienti come te, disse con un sorriso. Ma così infrangi la legge, dissi io. Cosa ti faranno se ti prendono? Le leggi sono fatte per essere infrante, disse lui, e queste leggi qui non le ho fatte io né quelli come me, le ha fatte chi ha il potere, per il suo profitto. Qualunque uomo che abbia un po' di intraprendenza ama le sfide, e gli piace farla in barba agli altri; non mi prenderanno, sono una vecchia volpe, sono troppi anni che lo faccio. E poi sono un uomo fortunato, ce l'ho scritto nelle mani. Mi fece vedere una croce sul palmo della mano destra, e una anche sulla sinistra, tutte e due a forma di X; disse che era protetto sia da sveglio sia nel sonno, perché la mano sinistra era quella dei sogni. Io mi guardai le mani, ma non ci vidi nessuna croce. La fortuna non dura per sempre, dissi io. Spero che tu faccia attenzione. Ma come, Grace, ti preoccupi per me? disse lui con un sorriso; e io abbassai gli occhi. A dir la verità, proseguì più serio, ho pensato di cambiare mestiere, perché adesso c'è più competizione di una volta e le strade sono migliori e così tanti vanno a fare acquisti in città, invece di restarsene a casa e comprare da me. Mi dispiacque sentire che forse non avrebbe più fatto l'ambulante, perché voleva dire che non sarebbe più arrivato con la sua sacca. Ma allora che farai? dissi. Potrei andare per fiere, disse lui, e fare il mangiatore di fuoco, oppure il guaritore, e darmi al Mesmerismo e al Magnetismo, è una cosa che attira sempre. Da giovane ero in società con una donna del mestiere, perché di solito in quel campo si lavora in coppia; io ero quello che agganciava la gente e incassava i soldi, e lei si faceva mettere un velo di mussola addosso, andava in trance e parlava con voce cavernosa; diagnosticava i malanni della gente, e si faceva pagare, ovviamente. È un sistema quasi inattaccabile, perché siccome nessuno può vedersi dentro, chi ti può dire se hai detto giusto o sbagliato? Ma quella donna si stancò del lavoro, o forse di me; e se ne andò giù per il Mississippi su un battello. O magari potrei diventare predicatore, continuò. Oltre il confine c'è grande richiesta, soprattutto d'estate, quando si predica all'aria aperta, o sotto i tendoni; alla gente di laggiù piace rotolarsi per terra in preda a un attacco di furore religioso, essere
invasati e salvati una volta l'anno, o anche di più se possibile; e per questo sono disposti a dimostrare la loro gratitudine con belle manciatone di spiccioli. È un campo di attività promettente, e se ben sfruttato rende molto più di questa. Non sapevo che fossi religioso, dissi. Non lo sono, disse lui; ma non ce n'è bisogno, a quel che mi consta. Molti di quei predicatori non hanno più fede in Dio che in un sasso. Dissi che era una brutta cosa parlare così, ma lui rise. Che importa, se la gente ottiene quel che vuole? disse. Io ce la metterei tutta. Un predicatore miscredente con belle maniere e voce suadente farà sempre più conversioni di uno sciocco impalato e serioso, foss'anche santo. Poi assunse un atteggiamento solenne e intonò: Quelli che hanno una fede salda sanno che nelle mani di Dio anche un indegno strumento serve al giusto fine. Vedo che hai già fatto uno studio, dissi, perché sembrava proprio un predicatore; e lui rise di nuovo. Ma poi, con espressione più seria, si sporse verso di me attraverso il tavolo. Credo che dovresti venire via con me, Grace, disse. Non mi piace l'aria che tira qui. Venire via? dissi. Che cosa intendi? Con me saresti più al sicuro che qui, disse lui. Io rabbrividii, perché era un po' quel che sentivo anch'io, anche se me ne rendevo conto solo in quel momento. Ma cosa farei? chiesi. Viaggeresti con me, disse. Potresti fare la guaritrice; io ti insegnerei, ti direi cosa devi dire, e come andare in trance. Vedo dalla tua mano che hai talento per queste cose; e con i capelli sciolti saresti perfetta. Ti assicuro che in quel modo guadagneresti di più in due giorni di quanto guadagni qui a strofinare pavimenti in due mesi. Dovresti cambiare nome, si capisce; un nome francese, o straniero, perché da questa parte dell'oceano la gente non crederebbe mai che una con un nome normale come Grace ha dei poteri misteriosi. Quel che non conoscono per loro è sempre più straordinario di quel che conoscono, e anche più convincente. Ma non sarebbe un inganno, un trucco? dissi io. E Jeremiah disse: Non più che a teatro. Se la gente vuole credere in qualcosa e desidera ardentemente che sia la verità, e si sente meglio di conseguenza, ti sembra un inganno aiutarla a crederci tramite una cosa così inessenziale come un nome? Non è piuttosto carità, e gentilezza verso il tuo prossimo? E quando mise le cose in questa luce, avevano un aspetto migliore. Dissi che cambiare nome non sarebbe stato un problema per me, non ero molto affezionata al vecchio, che era poi quello di mio padre. Lui sorrise e
disse: Allora, qua la mano. Non le nasconderò, signore, che l'idea mi tentava molto; Jeremiah era un bell'uomo, con i suoi denti bianchi e gli occhi neri, e io ricordavo che avrei dovuto sposare un uomo col nome che cominciava per J; pensavo anche ai soldi che avrei avuto e ai vestiti che mi sarei comprata, e anche orecchini d'oro, forse; inoltre avrei visto tanti altri posti e tante città, invece di stare sempre a lavare i panni sporchi degli altri. Ma poi mi venne in mente quel che era capitato a Mary Whitney; Jeremiah sembrava gentile, sì, ma l'apparenza può ingannare, come Mary aveva scoperto a sue spese. E se le cose andavano male, e io mi ritrovavo sola e nei guai in qualche posto sconosciuto? Ma allora ci sposeremmo? dissi. Che bisogno c'è? disse lui. Per quanto ne so, sposarsi non è mai servito a niente; se due hanno voglia di stare insieme, ci stanno; e se no, uno dei due se ne va, e finisce lì. Questo mi mise in allarme. Penso che sia meglio se rimango qui, dissi. E comunque sono troppo giovane per sposarmi. Pensaci, Grace, disse lui. Io ti voglio bene, e sarei contento di aiutarti e di proteggerti. E ti dico che qui sei circondata da pericoli. In quel momento entrò McDermott, e io mi chiesi se fosse stato a origliare alla porta, e per quanto tempo; sembrava molto arrabbiato. Chiese a Jeremiah chi diavolo era, e cosa diavolo faceva in cucina. Dissi che Jeremiah era un venditore ambulante, e che lo conoscevo bene; e McDermott guardò la sacca - Jeremiah l'aveva aperta mentre parlavamo, ma non aveva tirato fuori il contenuto - e disse: Benone, ma al signor Kinnear non piacerà che tu elargisca della buona birra e del formaggio a un poco di buono di venditore ambulante. Non che gli importasse un fico di quel che poteva pensare il signor Kinnear; lo disse solo per insultare Jeremiah. Io replicai che il signor Kinnear era generoso e non avrebbe rifiutato un sorso di birra a un onest'uomo, in una giornata così calda. McDermott si rabbuiò ancora di più, perché gli dava fastidio che cantassi le lodi del signor Kinnear. Allora Jeremiah si interpose e, per riportare la pace, disse che aveva delle camicie usate ma ancora buone, un vero affare; erano giusto della misura di McDermott; e nonostante i mugugni di quell'altro, le tirò fuori e ne decantò le qualità; io sapevo che McDermott aveva bisogno di camicie nuove, perché una l'aveva strappata che non si poteva più rammendare, e
un'altra l'aveva rovinata lasciandola in giro umida e sporca di fango, così aveva fatto la muffa. Mi accorsi che la sua attenzione era stata catturata, e senza dir nulla portai un boccale di birra anche per lui. Sulle camicie c'erano le cifre H.C., e Jeremiah disse che erano appartenute a un soldato, un combattente coraggioso; ma non morto, perché avrebbe portato sfortuna indossare le camicie di un morto; e fece un prezzo per tutte e quattro in blocco. McDermott disse che a quel prezzo poteva comprarne solo tre, e ribassò l'offerta, e andarono avanti a contrattare finché Jeremiah disse va bene, d'accordo, gliele avrebbe date tutte e quattro al prezzo di tre, ma non un centesimo di meno, e comunque era una rapina e se andava avanti così sarebbe fallito in pochi giorni; McDermott era soddisfattissimo di se stesso al pensiero di aver fatto un affare coi fiocchi. Ma dal luccichio nello sguardo di Jeremiah capivo che fingeva soltanto di darla vinta all'altro, mentre in realtà ci stava guadagnando. E quelle, signore, erano le stesse camicie di cui si parlò tanto al processo; ci fu molta confusione in proposito, in primo luogo perché McDermott disse di averle comprate da un ambulante, poi cambiò musica e disse: Da un soldato. Ma in un certo senso erano vere entrambe le versioni; credo che abbia rigirato la storia a quel modo perché non voleva ritrovarsi Jeremiah contro davanti ai giudici, perché sapeva che era un mio amico e avrebbe aiutato me, testimoniando contro di lui; o perlomeno questo dev'essere stato il suo pensiero. E in secondo luogo, perché i giornali sbagliarono il numero delle camicie. Erano quattro, non tre, come dissero; due erano nella borsa di tela di McDermott, e una venne ritrovata coperta di sangue dietro la porta della cucina; era quella che McDermott aveva addosso quando nascose il corpo del signor Kinnear. E la quarta era addosso al signor Kinnear, perché gliel'aveva messa McDermott. E fa quattro, non tre. Accompagnai Jeremiah lungo un tratto del viale, con McDermott che ci guardava bieco dalla porta di cucina; ma non mi importava quel che pensava lui, non ero mica di sua proprietà. Al momento di lasciarci, Jeremiah mi fissò intensamente e disse che sarebbe tornato presto a sentire la mia risposta, e sperava, per me come per se stesso, che fosse sì. Lo ringraziai della sua premura. Il solo sapere che, se volevo, potevo andarmene, mi faceva sentire più al sicuro e anche più contenta. Quando tornai dentro, McDermott disse che quello lì era meglio perderlo che trovarlo, e non gli piaceva, con quell'aria plebea e forestiera; sicuramente era venuto ad annusarmi come un cane con una cagna in calore. Non risposi a questa osservazione, perché la trovavo molto volgare, e fui
sorpresa dalla violenza delle sue parole; gli chiesi di togliersi dalla cucina, per cortesia, perché ormai era ora di mettermi a preparare la cena. Fu solo in quel momento che mi ricordai dei piselli che avevo lasciato cadere nell'orto, e andai a raccoglierli. 31 Alcuni giorni dopo, il dottore venne a trovarci. Si chiamava Dottor Reid, ed era un signore anziano, o lo sembrava; con i dottori non si sa mai, perché fanno delle facce serissime e si portano dietro ogni sorta di malattia, in quelle borse di pelle dove tengono i coltelli, e questo li fa invecchiare prima del tempo; è come per i corvi, quando ne vedi due o tre riuniti sai che qualcuno sta per morire, e che stanno parlando di quello. I corvi discutono quali parti devono beccare e portarsi via, e i dottori anche. Non parlo di lei, signore, lei la borsa di pelle non ce l'ha, e neanche i coltelli. Quando vidi il dottore che arrivava lungo il viale con il suo carrozzino a un cavallo, il cuore mi fece un tuffo e credetti di svenire; ma non svenni, perché ero al pianterreno, sola, e avrei dovuto soccorrermi da me. Nancy non mi sarebbe stata d'aiuto; era di sopra, a letto. Il giorno prima, l'avevo aiutata a provarsi il vestito nuovo che si stava facendo, e avevo passato un'ora in ginocchio sul pavimento con la bocca piena di spilli mentre lei si girava da una parte e dall'altra e si rimirava allo specchio. Aveva osservato che stava ingrassando troppo, e io le avevo detto che non era male metter su un po' di ciccia, non c'era niente di bello nell'essere pelle e ossa, e al giorno d'oggi le ragazze ricche facevano la fame per essere alla moda, vale a dire pallide e consunte, e si stringevano talmente il busto che svenivano solo a guardarle. Mary Whitney diceva sempre che gli uomini non vogliono uno scheletro, che gli piace mettere le mani su qualcosa, sia davanti sia dietro, e più ce n'è meglio è; ma questo non lo ripetei a Nancy. Il vestito che si. stava facendo era una stoffa stampata color crema chiaro, con disegni all'americana di fiori e ramoscelli, un corpetto a pieghe che scendeva giù sotto la vita, e la gonna con tre balze; le dissi che le stava molto bene. Nancy si guardò allo specchio corrucciata e osservò che comunque era ingrassata troppo in vita, se continuava così avrebbe avuto bisogno di un busto nuovo e presto sarebbe diventata una comare grassa e sfondata. Mi morsi la lingua e non dissi che se non voleva diventarlo non aveva
che da tener le mani lontane dal burro. Mezza pagnotta di pane aveva ingurgitato prima di colazione, con un dito di burro sopra, per non parlare della marmellata di prugne. E il giorno prima l'avevo vista che mangiava una fetta di grasso puro tagliata da un prosciutto, in dispensa. Mi aveva chiesto di riallacciarle il bustino appena più stretto, e poi riprendere le misure; ma mentre lo stavo facendo disse che si sentiva male. Niente da stupirsi, considerando quanto aveva mangiato, anche se ritenevo dipendesse in parte dal busto stretto. Ma disse che la testa le girava anche quella mattina, prima di fare colazione e senza busto. Stavo cominciando a chiedermi cos'avesse mai, e pensai che forse il dottore era venuto per Nancy. Quando lo vidi arrivare, ero fuori nel cortile che pompavo un altro secchio d'acqua per il bucato, perché era una bella mattina, l'aria era chiara e limpida e il sole era caldo; una buona giornata per stendere. Il signor Kinnear andò incontro al dottore, che legò il cavallo allo steccato, e poi tutti e due entrarono in casa dalla porta principale. Continuai col mio lavoro e ben presto tutto il bucato fu steso; era tutta roba bianca, camicie, sottogonne, camicie da notte e cose del genere, ma niente lenzuola; e nel frattempo continuavo a chiedermi che ci faceva il dottore col signor Kinnear. Erano entrati nell'ufficio del signor Kinnear, e avevano chiuso la porta; ci pensai su un attimo, poi mi infilai in biblioteca, proprio a fianco, e mi misi a spolverare i libri; ma non sentii niente, solo un mormorio di voci provenienti dall'ufficio. Mi immaginavo ogni sorta di cose, per esempio il signor Kinnear che sputava sangue, soffocato dalla tosse, ed ero già tutta agitata; perciò quando sentii girare la maniglia della porta mi spostai rapidamente nel salotto insieme ai miei stracci e piumini, passando per la sala da pranzo, perché è sempre meglio sapere il peggio. Il signor Kinnear accompagnò il Dottor Reid sulla soglia, e il dottore disse che era certo che avrebbero avuto il piacere della compagnia del signor Kinnear ancora per molti anni, e che il signor Kinnear aveva letto troppe pubblicazioni mediche e la sua fantasia sbrigliata gli aveva messo in testa idee strane. Non c'era niente che non andasse in lui, niente che una dieta sana e orari regolari non potessero curare; ma per il bene del suo fegato doveva limitarsi nel bere. Questo discorsetto mi rassicurò; però pensai anche che magari queste sono cose che un dottore può dire a un uomo che sta morendo, per risparmiargli una sofferenza. Lanciai un'occhiata cauta dalla finestra laterale del salotto. Il Dottor Reid andò verso il suo carrozzino e un attimo dopo Nancy era lì, stretta
nello scialle e coi capelli mezzi sciolti sulle spalle, che confabulava con lui. Doveva essere scesa senza che io la sentissi, il che significava che non voleva farsi sentire nemmeno dal signor Kinnear. Pensai che forse cercava di sapere se il signor Kinnear era davvero malato o no; ma mi passò per la testa che forse stava consultando il dottore a proposito dei suoi improvvisi malori. Il Dottor Reid se ne andò, e Nancy svoltò verso il retro della casa. Sentii il signor Kinnear che la chiamava dalla biblioteca; ma siccome lei era ancora fuori, e forse non voleva che lui sapesse quel che aveva fatto, andai io. Non sembrava proprio che il signor Kinnear stesse peggio del solito; stava leggendo una copia del «Bisturi», su uno scaffale ne aveva una grossa pila. Qualche volta mentre facevo le pulizie nella stanza ci avevo dato un'occhiata anch'io, ma non mi raccapezzavo, capivo solo che si parlava tra l'altro di funzioni corporali che non si dovrebbero menzionare su carta stampata, neanche con tutti quei nomi arzigogolati. Be', Grace, disse il signor Kinnear, dov'è la tua padrona? Dissi che non stava bene, e si era stesa sul letto di sopra, ma se c'era qualcosa da portargli, glielo portavo io. Disse che voleva un caffè, se non era troppo disturbo. No, risposi, però forse ci sarebbe voluto un po' di tempo, perché dovevo riaccendere il fuoco; lui disse di portarglielo quand'era pronto, e mi ringraziò, come sempre. Attraversai il cortile e andai nella cucina estiva. Nancy era lì, seduta a tavola con un'aria stanca e triste; era molto pallida. Dissi che speravo si sentisse meglio, e lei fece di sì, poi mi chiese cosa stavo facendo, dato che stavo ravvivando il fuoco quasi spento. Dissi che il signor Kinnear aveva chiesto un caffè. Ma sono sempre io che gli porto il caffè, disse Nancy. Perché l'ha chiesto a te? Sicuramente perché non aveva trovato lei, dissi. Aggiunsi che cercavo solo di risparmiarle lavoro, perché sapevo che stava male. Glielo porto io, disse. E Grace, oggi nel pomeriggio vorrei che tu lavassi questo pavimento. È sporchissimo, e sono stufa di vivere in un porcile. Non pensavo che la sporcizia del pavimento c'entrasse, sapevo che mi stava punendo per essere entrata nell'ufficio del signor Kinnear, da sola; era molto ingiusto, io stavo solo cercando di aiutarla. Era cominciata come una giornata limpida, ma per mezzogiorno si era fatta oppressiva e soffocante. Non soffiava un alito di vento, l'aria era den-
sa di umidità, e il cielo era coperto di nuvole di color grigio giallastro, ma dietro le nuvole era incandescente e minaccioso come metallo arroventato. Con un tempo così, si fa fatica a respirare. E con quel tempo io, a metà pomeriggio, nel momento in cui normalmente mi sarei messa a sedere con qualcosa da rammendare, magari fuori, per prendere un po' d'aria e per riposare un po' i piedi, visto che ci stavo ritta sopra per la maggior parte del giorno, mi trovavo invece in ginocchio a strofinare il pavimento di pietra della cucina estiva. Aveva effettivamente bisogno di una pulita, ma gliel'avrei data più volentieri in un'ora un po' più fresca, perché in quel momento faceva così caldo che si sarebbe potuto cuocere un uovo senza accendere il fuoco; grondavo sudore come una papera gronda acqua, se mi perdona l'espressione, signore. Ero preoccupata per la carne che si trovava in dispensa, perché c'erano più mosche del solito che le ronzavano attorno. Al posto di Nancy, non avrei mai ordinato un pezzo di carne così grosso con un caldo simile, perché ero sicura che sarebbe andata a male, ed era uno spreco e una vergogna; avremmo dovuto metterla giù in cantina, dove faceva più fresco. Ma sapevo che non era il caso di suggerirglielo, mi sarebbe saltata agli occhi. Il pavimento era sporco come quello di una stalla, e mi chiesi qual era l'ultima volta che l'avevano lavato. Prima l'avevo spazzato, naturalmente, e ora lo stavo lavando come si deve, con le ginocchia a terra, poggiate su vecchi stracci per non ammaccarmele sulla pietra dura, senza scarpe né calze, perché per fare un buon lavoro devi darci dentro, e con le maniche rimboccate fin sopra i gomiti e la gonna e le sottogonne tirate indietro in mezzo alle ginocchia e rincalzate dietro nei lacci del grembiule, perché è così che si fa, signore, per non sporcarsi calze e vestiti, come sa benissimo chi ha mai lavato un pavimento. Strofinavo con una spazzola robusta di setole e ripassavo con uno straccio; avevo cominciato dall'angolo opposto e procedevo a ritroso verso la porta, perché quando si fa questo lavoro, signore, non è il caso di ritrovarsi intrappolata in un angolo. Sentii qualcuno entrare in cucina, alle mie spalle. Avevo lasciato la porta aperta per far circolare quella poca aria che c'era, così il pavimento asciugava prima. Pensai che fosse McDermott. Non camminare sul pavimento pulito, tu, con le tue scarpacce fangose, gli dissi; e continuai a strofinare. Lui non rispose, ma non se ne andò neppure. Rimase in piedi nel vano della porta, e capii che mi stava guardando le caviglie nude e le gambe, sporche com'erano, e anche - mi scuserà, signore - il sedere che andava a-
vanti e indietro mentre strofinavo, come quello di un cane che scodinzola. Non hai niente di meglio da fare? gli dissi. Non sei pagato per stare lì a guardare a bocca aperta. Girai la testa e diedi un'occhiata: non era McDermott, era il signor Kinnear, con un sorrisetto furbo stampato in faccia, come per dire: Ma che bello scherzo. Mi tirai su in fretta e furia, aggiustandomi la gonna con una mano, mentre con l'altra tenevo la spazzola, e l'acqua sporca mi scorreva sul vestito. Oh, sono spiacente, signore, dissi. Ma pensai: Perché non poteva avere la decenza di dire che era lui? Niente di male, disse lui, a guardare non si paga pegno, e in quell'istante Nancy entrò, con la faccia bianca come gesso e le occhiaie verdognole, ma con gli occhi aguzzi come aghi. Cosa c'è? Cosa fai qui? mi disse, ma era a lui che parlava. Lavo il pavimento, dissi. Signora. Come lei mi ha ordinato di fare. Cosa le sembra che stia facendo, pensai, ballando? Non rispondermi male, disse Nancy, non ne posso più della tua insolenza. Ma non ero insolente, stavo solo rispondendo alla sua domanda. Il signor Kinnear disse, in tono di scusa - ma di cosa si scusava? -: Volevo solo un'altra tazza di caffè. Lo faccio io, disse Nancy. Grace, tu puoi andare. Ma dove, signora? dissi io. Col pavimento mezzo lavato e mezzo no. Vattene dove vuoi ma fuori di qui, disse Nancy. Era arrabbiatissima con me. E per l'amor del cielo pettinati, aggiunse. Sembri una donna di strada. Il signor Kinnear disse: Sono in biblioteca, e uscì. Nancy agitò l'attizzatoio nella stufa come se volesse ucciderla. Chiudi la bocca, mi disse, o ci entrano le mosche. E tienila chiusa anche in futuro, ti conviene. Ebbi il pensiero di tirarle la spazzola, e anche il secchio, per buona misura, acqua sporca e tutto. Me la immaginai lì in piedi con i capelli disfatti sulla faccia, come un'annegata. Ma poi, all'improvviso, capii cos'aveva. L'avevo già visto succedere tante volte. Quella strana voglia di mangiare a ore insolite, la nausea, il colorito verdognolo, quel suo gonfiarsi come un chicco d'uva secca nell'acqua calda, l'umore bisbetico e irritabile. Era incinta. Aspettava un bambino. Era nei guai. Rimasi lì a fissarla, come se mi avessero dato un pugno nello stomaco. Oh no, oh no, pensai. Il cuore mi si fece pesante come un sasso. Non può essere.
Quella sera il signor Kinnear era in casa, e lui e Nancy cenarono in sala da pranzo; io li servivo. Lo osservavo, cercando di leggergli in faccia la consapevolezza delle condizioni di Nancy: no, non sapeva. Mi chiedevo che cosa avrebbe fatto, quando l'avesse scoperto. L'avrebbe gettata in mezzo alla strada. O sposata. Non ne avevo idea, e nessuno di questi due possibili futuri mi dava pace. Non volevo male a Nancy, né le auguravo di essere cacciata via e abbandonata su una strada, in preda al primo farabutto che passava di lì; ma non sarebbe neppure stato giusto che diventasse una rispettabile donna sposata con un anello al dito, e perdipiù anche ricca. No, non sarebbe stato giusto. Mary Whitney aveva fatto come lei, e ne era morta. Perché una doveva essere premiata mentre l'altra era stata punita, per lo stesso peccato? Quando se ne furono andati in salotto sparecchiai come al solito. Sembrava di essere in un forno, dal caldo, e nonostante il sole non fosse ancora tramontato, nuvoloni grigi oscuravano il cielo; l'aria era immobile e pesante come una tomba, senza un filo di vento, ma con intermittenti lampi di calore all'orizzonte, e lontani rumori di tuono. Con un tempo così, senti il cuore che ti martella dentro; è come giocare a nascondino, e aspettare che qualcuno ti trovi, senza sapere chi. Accesi una candela per vederci mentre mangiavo, in compagnia di McDermott; c'era arrosto freddo per cena, non avevo la forza di cucinare qualcosa di caldo anche per noi. Mangiammo nella cucina invernale; da bere c'era della birra, e poi del pane, ancora fresco e buono, e qualche fetta di formaggio. Poi lavai i piatti, li asciugai e li rimisi a posto. McDermott stava lucidando le scarpe; a cena aveva fatto il muso e si era lamentato perché non mangiavamo anche noi roba cucinata, come le bistecche coi piselli che avevano mangiato gli altri due, e io gli avevo fatto presente che i piselli non crescono sugli alberi, e visto che ce n'era appena abbastanza per due, sapeva benissimo a chi toccavano; e comunque io ero la domestica del signor Kinnear, non la sua; e lui disse che se fossi stata la sua non sarei durata a lungo, perché per una strega scorbutica come me l'unica cura erano le frustate; e io gli dissi che a parlar male non si combina niente. Sentivo la voce di Nancy in salotto, stava leggendo ad alta voce. Le piaceva farlo, la riteneva un'attività raffinata; ma sosteneva sempre che era il signor Kinnear a chiederglielo. Avevano lasciato aperta la finestra del salotto, anche se così entravano gli insetti, ecco perché la sentivo.
Accesi un'altra candela e dissi a McDermott che me ne andavo a dormire; lui per tutta risposta grugnì, prese la sua candela e se ne andò. Quando fu uscito aprii la porta sul corridoio e gettai un'occhiata. La luce della lampada arrivava attraverso la porta semiaperta e disegnava una macchia più chiara sul pavimento, e la voce di Nancy si sentiva anche dall'ingresso. Percorsi silenziosamente il corridoio, lasciando la candela sul tavolo di cucina, e rimasi appoggiata al muro. Volevo sentire la storia che stava leggendo. Era La Signora del Lago; una volta l'avevo letta insieme a Mary Whitney, e quel ricordo mi rendeva triste. Nancy leggeva abbastanza bene, ma lentamente, e di tanto in tanto incespicava su una parola. Avevano appena sparato per sbaglio alla povera pazza, che stava spirando, intanto che declamava alcuni versi; una parte molto malinconica, secondo me, ma il signor Kinnear non era d'accordo; disse che nei posti romantici, come la Scozia, c'era da stupirsi se non si incontrava una pazza dietro ogni angolo, intenta a offrire il petto a frecce e pallottole non destinate a lei, che avevano perlomeno il merito di mettere fine ai suoi vagabondaggi e alle sue sofferenze; o in alternativa si gettava senza soste nell'oceano, a un ritmo tale che ben presto il mare sarebbe stato intasato di corpi annegati, con grave pericolo per la navigazione. Allora Nancy disse che non aveva nessuna sensibilità; e il signor Kinnear disse che no, non ce l'aveva, ma d'altronde era notorio che Sir Walter Scott aveva stipato i suoi libri di morti ammazzati per piacere alle signore, perché le signore vogliono il sangue, e non c'è niente che gli piaccia come un bel cadavere inzuppato di sangue. Nancy gli disse allegramente di stare zitto e comportarsi bene, o sarebbe stata costretta a punirlo smettendo di leggere e mettendosi a suonare il piano; il signor Kinnear rise e disse che poteva sopportare qualunque tortura ma non quella. Si sentì il rumore di uno schiaffetto, e un fruscio di stoffa, e decisi che doveva essersi seduta sulle sue ginocchia. Ci fu silenzio per un po', fin quando il signor Kinnear chiese a Nancy se il gatto le aveva mangiato la lingua, e perché era così pensierosa. Mi sporsi in avanti, pensando che lei stesse per metterlo al corrente delle sue condizioni, e che presto avrei saputo l'esito della faccenda; ma lei non lo fece. Gli disse invece che era preoccupata per i domestici. Quale dei domestici, chiese il signor Kinnear; e Nancy disse tutti e due; il signor Kinnear rise e disse che di domestici in casa ce n'erano tre, non due, perché lo era anche lei; Nancy disse che era gentile da parte sua ricordarglielo, e che ora doveva lasciarlo perché aveva delle cose da fare in cu-
cina, e ci fu ancora fruscio di stoffa e anche un rumore di lotta, come se lei cercasse di alzarsi. Il signor Kinnear rise di nuovo e disse che doveva restare dov'era, così voleva il suo padrone, e Nancy replicò con amarezza che allora era per quello che la pagava; e a quel punto lui cercò di placarla e le chiese che preoccupazioni aveva riguardo ai domestici. Il lavoro lo facevano? questa era la cosa più importante, disse, e a lui non importava granché chi gli lucidava gli stivali, bastava che qualcuno lo facesse, perché pagava dei buoni stipendi e voleva ottenere in cambio un buon servizio. Sì, disse Nancy, il lavoro lo facevano, ma nel caso di McDermott, solo perché lei lo pungolava continuamente; e quando lo rimproverava per la sua pigrizia, la insolentiva, perciò gli aveva dato il preavviso. Il signor Kinnear disse che era uno scioperato grossolano e scorbutico, che non gli era mai piaciuto. E poi disse: E Grace? e io allungai le orecchie per sentire meglio le parole di Nancy. Disse che lavoravo velocemente e con metodo, ma che negli ultimi tempi ero diventata attaccabrighe, e che stava pensando di licenziare anche me; quando lo sentii, la faccia mi avvampò. Poi disse che c'era qualcosa in me che non le quadrava, e si chiedeva se ero a posto con la testa, dato che mi aveva sentita spesso parlare da sola. Il signor Kinnear si mise a ridere e disse che non significava niente; anche lui parlava sovente da solo, perché era il miglior conversatore che conoscesse; e che io ero senz'ombra di dubbio una bella ragazza, con un portamento elegante e un profilo greco, e se mi avesse messo i vestiti giusti e detto di tenere la testa alta e la bocca chiusa, chiunque mi avrebbe presa per una signora. Nancy disse che si augurava che queste affermazioni lusinghiere non arrivassero mai fino a me, perché mi sarei montata la testa e fatta chissà quali idee, il che non mi avrebbe fatto certamente del bene. Poi disse che non aveva mai parlato così bene di lei, e lui rispose qualcosa che non sentii, e poi ancora silenzio e fruscii. Quindi il signor Kinnear disse che era ora di andare a letto. Io mi rifugiai velocemente in cucina, e mi sedetti al tavolo; ci mancava che Nancy mi cogliesse a origliare. Ma continuai ad ascoltare anche dopo che erano saliti di sopra; sentii il signor Kinnear che diceva: Lo so che ti nascondi, vieni fuori subito, ragazzaccia, fa' come ti dico altrimenti dovrò venire a prenderti, e quando ti prendo... E poi una risata di Nancy, e un gridolino.
Il tuono si avvicinava. Non mi sono mai piaciuti i temporali. Quando andai a letto, chiusi bene le imposte per non far entrare i lampi, e mi tirai le coperte sulla testa, nonostante il caldo. Pensavo che non sarei riuscita a dormire, invece mi addormentai. Un boato tremendo mi svegliò nel buio pesto, come se fosse arrivata la fine del mondo. C'era un temporale violentissimo, una furia di colpi nel vento che ruggiva, e io ero fuori di me dal terrore e me ne stavo rannicchiata nel letto pregando che finisse e serrando gli occhi per non vedere i lampi attraverso le fessure delle imposte. Pioveva a dirotto, e nel vento la casa era tutta un cigolio, come un digrignare di denti, ero sicura che fra un attimo si sarebbe spaccata in due come una nave nella tempesta, e sarebbe stata inghiottita dalla terra. E poi sentii una voce che mi sussurrava all'orecchio: Non può essere. Devo aver perso i sensi dallo spavento, perché non ricordo nient'altro, dopo. Feci un sogno stranissimo. Sognai che il temporale era passato e io mi ero alzata dal letto, in camicia da notte, avevo aperto la porta della stanza e attraversato la cucina invernale a piedi nudi, per uscire nel cortile. Il vento aveva spazzato le nuvole, c'era una bella luna lucente e le foglie degli alberi erano come piume argentee; l'aria era fresca e morbida come velluto; i grilli cantavano. Sentivo l'odore della terra umida dell'orto, e quello pungente del pollaio; e sentivo anche il nitrito lontano di Charley nella stalla: lui sapeva che c'era qualcuno nei paraggi. Stavo ferma nel cortile vicino alla pompa, con la luce della luna che mi bagnava come acqua; era come se non potessi muovermi. Poi due braccia mi circondarono lentamente da dietro, e cominciarono a carezzarmi. Erano le braccia di un uomo; sentivo la sua bocca sul collo e sulle guance, mi dava baci ardenti, e il suo corpo mi premeva contro la schiena; ma era come quando da bambini si gioca allo schiaffo del soldato, perché non sapevo chi era e non potevo voltarmi a guardare. Colsi un vago sentore di polvere e di cuoio, e pensai che forse era Jeremiah; poi diventò un odore di stalla, e pensai che fosse McDermott. Ma non avevo la forza di mandarlo via. Cambiò di nuovo, ora era odore di tabacco e del sapone da barba del signor Kinnear, e non ne fui sorpresa, perché mi aspettavo una mossa del genere da lui; nel frattempo la bocca dello sconosciuto era sempre sul mio collo, sentivo il suo alito tra i capelli. E poi capii che non era nessuno dei tre, era un altro uomo, uno che conoscevo bene e da tempo, fin da bambina, ma me n'ero dimenticata; e questa non era la prima volta che mi trovavo così con lui. Mi sentii invadere da un calore e da un abbandono
sonnolento, che mi spingeva a lasciarmi andare, ad arrendermi; sarebbe stato tanto più facile che resistere. Ma in quel momento sentii il nitrito di un cavallo; e seppi che non era Charley, né il puledro nel fienile, ma un altro cavallo ancora. Un grande spavento mi colse, diventai fredda come il ghiaccio e inerte, paralizzata dalla paura: sapevo che quel cavallo non era un animale vivente, ma il cavallo bianco che arriverà nel giorno del Giudizio, portando in groppa la Morte; ed era la Morte l'uomo dietro di me, erano sue le braccia che mi stringevano come sbarre di ferro, sua la bocca senza labbra che mi baciava sul collo, come la bocca di un amante. Ma insieme all'orrore, provavo anche un desiderio strano. E spuntò il sole, non poco per volta come quando siamo svegli, signore, ma di colpo, con una gran vampa di luce. Se fosse stato un suono, sarebbe stato lo squillo di infinite trombe; e le braccia che mi tenevano si sciolsero nell'aria. Ero abbagliata dalla luce; ma alzando la testa vidi che, sugli alberi attorno alla casa, e anche su quelli del frutteto, erano appollaiati molti uccelli, enormi uccelli bianchi come la neve. Era una visione minacciosa e di cattivo augurio, perché sembravano sul punto di spiccare il volo per distruggere; era come un'adunata di corvi, corvi bianchi. Ma, quando potei vedere meglio, capii che non erano affatto uccelli. Avevano un aspetto umano, ed erano gli angeli dai bianchi mantelli lavati nel sangue, come dice alla fine della Bibbia; e sedevano in muta condanna sulla casa del signor Kinnear, e su tutti i suoi abitanti. E in quel momento vidi che erano senza testa. A quel punto del sogno persi conoscenza, per il terrore; quando tornai in me, ero a letto, nella mia stanzetta, con la trapunta sugli occhi. Mi alzai era già l'alba - e scoprii che avevo l'orlo della camicia umido, e macchie di terra e d'erba sui piedi, e pensai che dovevo essere uscita e aver camminato senza saperlo, da sonnambula, come mi era già capitato quell'altra volta, il giorno della morte di Mary Whitney; il cuore mi si fece pesante. Mi vestii, come sempre, giurando a me stessa di tenere per me il sogno, e d'altronde con chi avrei potuto confidarmi, in quella casa? Se l'avessi riferito come avvertimento, mi avrebbero riso in faccia. Ma quando uscii per tirar su il primo secchio d'acqua dalla pompa, ecco! tutto il mio bucato del giorno prima, il temporale l'aveva fatto volare sugli alberi. Mi ero dimenticata di ritirarlo; non era da me una simile dimenticanza, soprattutto trattandosi di biancheria, e dopo averla strofinata tanto, per far andar via le macchie. Anche questo mi sembrò un brutto presagio. In effetti le camicie
e le sottovesti impigliate nei rami sembravano angeli senza testa; era come se il nostro guardaroba ci giudicasse dall'alto. Non riuscii a liberarmi da una sensazione di predestinazione che pesava sulla casa; ero convinta che qualcuno di noi doveva morire. Se avessi potuto farlo in quel preciso momento, avrei corso il rischio e sarei partita con Jeremiah; anzi, avevo voglia di corrergli dietro, e magari l'avessi fatto. Ma non sapevo dov'era andato. Il Dottor Jordan è impegnatissimo a scrivere, la sua mano non ce la fa quasi a stargli dietro, non l'ho mai visto così animato. Mi fa bene al cuore sapere che posso dare un po' di piacere a un altro essere umano; e mi chiedo, chissà cosa se ne farà di tutto questo. IX Cuori e frattaglie Quella sera venne Jamie Walsh, portando con sé il flauto; Nancy disse: Tanto vale che ci divertiamo, perché il signor Kinnear non c'era. Nancy disse a McDermott: Tu che ti vanti sempre di saper ballare, su vieni, balliamo; lui era stato di pessimo umore per tutta la sera, e disse che non ballava. Verso le dieci andammo a letto. Dormii con Nancy quella notte; prima di andare a dormire, McDermott mi disse che era deciso a ucciderla quella notte stessa, con l'ascia, nel suo letto. Lo pregai di non farlo quella notte, poteva colpire me invece di lei. Lui disse: Maledizione a lei, allora l'ammazzerò domattina per prima cosa. Il sabato mattina mi alzai presto, e quando entrai in cucina McDermott stava lucidando le scarpe, il fuoco era acceso, mi chiese dov'era Nancy, dissi che si stava vestendo, e gli dissi: L'ammazzi stamattina? Disse di sì. Dissi: McDermott, per l'amor del cielo non ammazzarla qui dentro, mi sporcherai il pavimento di sangue. Va bene, dice lui, non lo farò qui, ma non appena esce l'accoppo con l'ascia. Confessione di Grace Marks, «Star and Transcript», Toronto, novembre 1843 In cantina c'era uno spettacolo orribile... [Nancy] Montgomery non era morta, come pensavo; il colpo l'aveva solo stordita. Aveva in parte ripreso i sensi, e mentre noi scendevamo la scala con
la lampada si era tirata su in ginocchio. Non so se ci vide, perché il sangue che le scorreva sulla faccia l'accecava; ma ci sentì sicuramente, e alzò le mani giunte, come per implorare grazia. Mi voltai verso Grace. L'espressione sulla sua faccia pallidissima era ancora più tremenda di quella della sventurata. Non gridò, ma si portò le mani alla testa, e disse: «Dio mi ha dannata per questo». «Allora non hai più niente da temere», dico io. «Dammi quel fazzoletto che hai al collo.» Me lo diede senza fiatare. Mi gettai sul corpo della governante, e piantandole un ginocchio sul petto, le legai il fazzoletto attorno al collo con un nodo semplice, dandone un capo da tenere a Grace mentre tiravo l'altro stringendolo abbastanza da portare a termine la mia terribile opera. Gli occhi le schizzarono letteralmente fuori dalla testa, mandò un lamento, e tutto fu finito. Poi tagliai il corpo in quattro pezzi, e ci rovesciai sopra un grosso mastello. James McDermott, a Kenneth MacKenzie, come riferito da Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 ... e quindi la morte di una bella donna è, senz'ombra di dubbio, il soggetto più poetico che ci sia al mondo... Edgar Allan Poe, La filosofia della composizione, 1846 32 L'estate è arrivata senza preavviso. Un giorno la fredda primavera era ancora qui, con i suoi scrosci di pioggia e le gelide nuvole bianche lassù in alto sopra il blu glaciale del lago; poi all'improvviso le giunchiglie sono sfiorite, i tulipani sono esplosi rovesciandosi in grandi sbadigli, poi hanno lasciato cadere i petali. Dai cortili e dai fossati di scarico si alzano vapori maleodoranti, e nugoli di zanzare ti si addensano attorno alla testa mentre cammini. A mezzogiorno l'aria ribolle, come sopra una griglia arroventata, e il lago ti abbaglia, mentre dalle rive arriva un vago fetore di pesce morto e di girini. La sera la lampada di Simon è presa d'assedio dalle falene, che gli svolazzano intorno sfiorandolo con le ali leggere come labbra seriche. Questo cambiamento lo sconvolge. A forza di vivere nelle stagioni più graduali dell'Europa, si è scordato di questi brutali passaggi. Gli abiti gli
pesano come pellicce, gli sembra di essere sempre sudato. Ha l'impressione di puzzare di grasso di prosciutto e latte acido; o forse è la sua camera che puzza. È da un pezzo che nessuno fa le pulizie, né cambia le lenzuola; non si è ancora reperita una ragazza tuttofare adatta alla bisogna, nonostante la signora Humphrey lo aggiorni ogni mattina sui suoi tentativi in merito. Secondo lei, la disertrice Dora ha raccontato storie in giro per la città, o quantomeno fra le potenziali candidate al posto, sul fatto che la signora Humphrey non l'ha pagata, e sta per essere gettata sul lastrico perché non ha un soldo; e, cosa ancora più disonorevole, anche sulla fuga del Maggiore. Quindi non c'è da stupirsi, dice lei a Simon, se nessuna domestica osa arrischiarsi in quella casa. E sorride, patetica. Prepara personalmente la colazione, che continua a essere servita di sotto, dietro suo suggerimento; lui è d'accordo, perché sarebbe umiliante per lei dovergli portare su il vassoio. Oggi Simon l'ascolta impaziente, disattento, giocherellando col suo pane tostato moscio e con l'uovo - ora lo mangia fritto. Con un uovo fritto almeno non ci sono sorprese. La colazione è tutto quel che riesce a fare; va soggetta a crisi di prostrazione nervosa e di emicrania, determinate dalla reazione allo shock - è così che la pensa lui, e gliel'ha detto - e il pomeriggio la trova invariabilmente distesa sul letto con un panno umido sulla fronte, che manda un forte odore di canfora. Non può lasciarla morire di fame, quindi, nonostante prenda quasi tutti i suoi pasti nella malefica locanda, di tanto in tanto cerca di nutrirla. Ieri ha comprato un pollo da una vecchiaccia rancorosa giù al mercato, ma non si è accorto finché non è arrivato a casa che, benché spennato, non era svuotato. Impensabile farlo lui: non ha mai sventrato un pollo in vita sua, quindi ha pensato di sbarazzarsi del cadavere. Una passeggiata lungo il lago, un lancio veloce e noncurante... Ma poi gli è venuto in mente che dopotutto si trattava solo di una dissezione, e che ha dissezionato ben altro che polli; una volta impugnato il bisturi - si è portato con sé gli strumenti del suo mestiere precedente, in una borsa di pelle - si è sentito padrone della situazione, ed è riuscito a fare un bel taglio netto. Dopodiché è venuto il peggio, l'ha affrontato trattenendo il fiato per non sentire l'odore. Ha cucinato il pollo tagliandolo a pezzi e facendoli fritti. La signora Humphrey si è seduta a tavola dicendo che stava un po' meglio, e ha mangiato un bel po', per una creatura così eterea; ma al momento di lavare i piatti è ricaduta, e ha dovuto lavarli Simon. La cucina è ancora più bisunta della prima volta che ci è entrato. Biocco-
li di polvere sotto la stufa, ragni negli angoli, briciole accanto al lavandino; in dispensa si è stabilita una famiglia di scarafaggi. È allarmante la velocità con cui si può precipitare nello squallore. Bisogna fare qualcosa subito, procurarsi una schiava o un lacché. Oltre allo sporco, c'è anche la questione delle apparenze. Non può continuare a vivere solo con la padrona di casa; soprattutto non con una padrona di casa così tremula, e abbandonata dal marito. Se la cosa è risaputa in giro e la gente comincia a chiacchierare, per quanto prive di fondamento siano le chiacchiere, la sua reputazione e il suo prestigio professionale possono soffrirne. Il Reverendo Verringer ha detto senza mezzi termini che i nemici dei riformatori sono disposti a servirsi di qualunque mezzo, anche i più vili, per gettare il discredito sugli avversari, e se ci fosse uno scandalo lui verrebbe congedato su due piedi. Potrebbe almeno fare qualcosa per ripulire la casa, chiamando a raccolta tutta la sua forza di volontà. In caso di emergenza potrebbe spazzare i pavimenti e le scale, e spolverare i mobili nelle sue stanze; ma resterebbe pur sempre quel sentore di sommesso disastro, di lenta e sconsolata decadenza, che spira dalle tende flosce e si accumula nei cuscini e sui mobili. L'arrivo della calura estiva ha peggiorato le cose. Ricorda con nostalgia il fracasso della pattumiera di Dora; ha acquisito un nuovo rispetto per tutte le Dore di questo mondo, ma nonostante speri ardentemente che questi problemi domestici si risolvano da soli, non ha idea di come affrontarli. Un paio di volte ha pensato di chiedere consiglio a Grace Marks: come si fa ad assumere una cameriera, a pulire un pollo, ma ci ha ripensato. Davanti a lei deve mantenere la sua posizione di autorità onnisciente. La signora Humphrey sta parlando di nuovo; l'argomento è la sua gratitudine per lui, un argomento che torna spesso a colazione. Lei aspetta che lui abbia la bocca piena, poi si lancia. Lui lascia vagare lo sguardo su di lei: il pallido ovale del viso, i capelli tirati e senza nerbo, il corpetto di seta scricchiolante, da cui emergono all'improvviso gli orli di pizzo bianco. Sotto quella corazza di vestito devono esserci dei seni, non inamidati e con la forma delle coppe del bustino, ma fatti di carne morbida, con dei capezzoli; si ritrova perso in un'oziosa fantasticheria sul colore dei capezzoli, alla luce del sole o di una lampada, e sulla loro grandezza. Capezzoli piccoli e rosei come musi di animaletti, di conigli o magari di topolini; rosseggianti come bacche mature; bruni e squamosi come i cappucci delle ghiande. Nota che l'immaginazione corre a particolari boschivi, a creature selvatiche o spaventate. In realtà questa donna non lo attrae; queste immagini gli si presentano contro la sua volontà. Si sente un peso sugli occhi; non un
mal di testa, non ancora, ma un senso di sorda oppressione. Che abbia qualche linea di febbre? stamattina si è guardato la lingua allo specchio alla ricerca di patine e macchie rivelatrici. Una brutta lingua è come un pezzo di carne di vitello cotta: grigiastra, con la schiuma sopra. La vita che fa non è sana. Sua madre ha ragione, dovrebbe sposarsi. Sposarsi o ardere, come dice San Paolo; o cercare i rimedi consueti. Ci sono case di malaffare a Kingston, come dappertutto, ma non può approfittarne, come farebbe a Londra o a Parigi. La città è troppo piccola, e lui è troppo in vista, la sua posizione troppo precaria, la moglie del Direttore troppo devota, i nemici della riforma troppo onnipresenti. Non vale la pena di rischiare, e comunque le case di qui saranno senz'altro deprimenti. Tristemente pretenziose, con malinconiche sedie imbottite che trasudano un concetto tutto provinciale della seduzione. Troppi broccati e troppe frange. Ma anche efficienti e utilitaristiche: gestite in base al principio dell'industria nordamericana, la lavorazione veloce, e dedicate a fabbricare la maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di clienti, e non importa se la qualità del prodotto, la felicità appunto, è bassa e scadente. Sottogonne sporche, la carne biancastra di puttane che non vedono mai il sole, pallida come pastafrolla cruda, con le ditate lasciate dalle mani incatramate dei marinai; o da quelle, più curate, di qualche parlamentare che passa di lì, guardingo, in incognito. Meglio evitarli, questi posti. Esperienze così ti risucchiano le energie mentali. «Non si sente bene, Dottor Jordan?» chiede la signora Humphrey, porgendogli una seconda tazza di tè che lui non ha richiesto. I suoi occhi sono immobili, verdi come acqua di mare, le pupille piccole e nere. Torna in sé con uno scossone. Si è addormentato? «Si stava passando la mano sulla fronte», dice lei. «Ha mal di testa?» Ha l'abitudine di materializzarsi fuori dalla sua porta mentre cerca di lavorare, chiedendo se ha bisogno di qualcosa. Lo tratta con premura, quasi con tenerezza, eppure c'è in lei un che di spaventato e servile, come se si aspettasse un ceffone, un calcio, un manrovescio, che prima o poi arriverà, glielo dice il suo tetro fatalismo. Ma non da me, non da me, protesta una voce dentro di lui. Non è un violento, non mena le mani, non ha impeti di rabbia. Nessuna notizia del Maggiore. Pensa ai piedi di lei, nudi e fragili, esposti, vulnerabili, legati con - ma da dove viene questa visione? - con un comune pezzo di spago. Come un pacco. Se il suo subconscio deve proprio gingillarsi con queste pose esotiche, dovrebbe almeno essere in grado di
immaginare una catena d'argento... Beve il tè. Sa di acquitrino, di radici di giunco. Di intricate e oscure matasse. Ultimamente ha avuto problemi intestinali, e si sta curando con il laudano; per fortuna ne ha una buona scorta. Sospetta l'acqua della casa; forse i suoi scavi intermittenti nel cortile hanno disturbato il pozzo. Il suo progetto di creare un piccolo orto è andato in fumo, ma in compenso ha smosso un bel po' di fango. Dopo aver passato giornate a combattere contro le ombre, prova un curioso sollievo nel mettere mano a qualcosa di concreto, come la terra. Ma ora fa troppo caldo anche per quell'attività. «Devo andare», dice, e si alza, spinge indietro la sedia, si pulisce bruscamente la bocca, come uno che ha un sacco di cose da fare, mentre in realtà non ha nessun appuntamento fino al pomeriggio. È inutile restare in questa stanza, cercare di lavorare; alla scrivania non farebbe altro che sonnecchiare, ma a orecchie tese, come un gatto assopito che segue il rumore dei passi sulle scale. Esce, gironzola senza meta. Gli sembra che il suo corpo sia privo di sostanza, come una vescica vuota, senza volontà. Si ritrova sul lungolago; socchiude gli occhi nella luce immensa del mattino, incontra di tanto in tanto un pescatore solitario che getta l'esca nelle onde tiepide e indolenti. Quando è con Grace, le cose vanno un po' meglio, riesce ancora a illudersi sbandierando davanti a se stesso l'idea di avere uno scopo. Grace perlomeno rappresenta una meta raggiunta, un risultato. Ma oggi, mentre ascolta la sua voce bassa e tranquilla, come la voce di una bambinaia che racconta una delle favole preferite, quasi si addormenta; è solo il rumore della matita caduta per terra a risvegliarlo. Per un attimo pensa di esser diventato sordo, o di aver avuto un piccolo colpo apoplettico: vede le labbra di lei muoversi, ma non capisce quel che dice. Ma è solo una perturbazione dello stato cosciente, perché, non appena ci si applica, riesce a ricordare ogni parola che ha pronunciato. In mezzo a loro, sul tavolo, una piccola rapa intristita; nessuno dei due l'ha ancora degnata di uno sguardo. Deve chiamare a raccolta le sue energie intellettuali; non può permettersi la resa, proprio adesso, non può abbandonarsi all'inerzia, perdere il filo che ha seguito nelle settimane passate, perché finalmente si stanno avvicinando al cuore del racconto di Grace. Stanno per arrivare al mistero senza faccia, al luogo della cancellazione; stanno per entrare nella foresta dell'amnesia, dove le cose hanno perso il loro nome. In altre parole, stanno ripercorrendo
(giorno dopo giorno, ora dopo ora) gli eventi che hanno preceduto immediatamente gli omicidi. Ogni parola che lei dice adesso, ogni gesto che fa, ogni cambiamento di espressione, può essere un indizio. Lei sa; lei sa tutto. Forse non sa di sapere, ma quel che sa è là, dentro di lei, sepolto nel profondo. Il problema è che più lei ricorda, più racconta, e più lui è in difficoltà. Non riesce a seguirla. È come se gli succhiasse via la forza, usando la sua energia mentale per materializzare i personaggi della sua storia, come si dice che facciano i medium quando vanno in trance. Tutte stupidaggini, è ovvio. Non deve lasciarsi trascinare in queste fantasticherie morbose. Ma non c'era di mezzo un uomo, nella notte? se lo è perso? Uno di quelli: McDermott o Kinnear. Sul taccuino ha scritto la parola bisbiglio, e l'ha sottolineata tre volte. Cos'è che voleva tenere a mente? Figlio mio carissimo, sono preoccupata perché non ho tue notizie da tanto tempo. Forse non stai bene? Nei posti dove c'è nebbia e foschia, ci sono per forza malattie infettive; e so che Kingston si trova in una depressione in mezzo agli acquitrini. Non si fa mai abbastanza attenzione in una città di guarnigione, perché soldati e marinai hanno abitudini promiscue. Spero che prenderai la precauzione di rimanere in casa il più possibile durante questa ondata di calore, e di non esporti al sole. La signora Henry Cartwright ha comperato una delle nuove Macchine per Cucire per uso domestico, per la servitù; e la signorina Faith Cartwright ne è stata così incuriosita che l'ha provata personalmente, ed è riuscita a orlare una sottogonna in brevissimo tempo; ieri ha avuto la gentilezza di portarmela, per farmi vedere i punti, perché sa che sono interessata alle invenzioni moderne. La Macchina funziona benino, ma dev'essere ancora migliorata: il filo si ingarbuglia troppo spesso, e allora bisogna sbrogliarlo o tagliarlo; ma questi aggeggi non sono mai perfetti, in principio; la signora Cartwright dice che secondo l'opinione di suo marito comprare azioni della fabbrica che produce queste macchine si rivelerebbe, col tempo, un buon investimento. È un padre molto affettuoso e previdente, e si preoccupa molto del futuro benessere di sua figlia, la sua unica erede. Ma non voglio annoiarti parlando di soldi, perché so che l'argomento non ti attira; però, mio caro figlio, i soldi mantengono la dispensa piena, e ce n'è bisogno per procurarsi tutte quelle piccole comodità che fanno la differenza fra una vita stentata e una modestamente agiata; e, come diceva sempre il tuo povero padre, i soldi non crescono sugli alberi...
Il tempo non scorre con il suo solito ritmo eguale; fa strani balzi. Ora, all'improvviso, è sera. Simon siede allo scrittoio, il taccuino aperto, e guarda il crepuscolo fuori dalla finestra, inebetito. Del tramonto torrido non resta che una macchia viola, sbiadita; fuori l'aria vibra del brusio degli insetti e del gracidare delle rane. Si sente tutto gonfio, come legna fradicia di pioggia. Dal prato gli arriva un odore di lillà appassiti, un odore bruciacchiato, come di pelle scottata dal sole. Domani è martedì, il giorno in cui deve fare la conferenza a casa della moglie del Direttore. Cosa mai dirà? Deve buttar giù qualche appunto, prepararsi un discorso minimamente coerente. Ma non c'è niente da fare: non riesce a combinare nulla, non stasera. Non è in grado di pensare. Le falene sbattono contro la lampada. Accantona il problema della riunione del martedì, e si applica alla lettera cominciata. Cara mamma, io sto benissimo come sempre. Grazie per avermi mandato il portaorologio ricamato che ha fatto per te la signorina Cartwright; mi sorprende che tu abbia voluto privartene, anche se dici che era troppo grosso per il tuo orologio; è assolutamente delizioso. Credo che finirò presto il mio lavoro... Bugie e reticenze da parte di lui, complotti e lusinghe da parte di lei. Cosa gliene importa a lui della signorina Cartwright e del suo ininterrotto e diabolico cucire e sferruzzare? A quest'ora ogni tavolo, ogni sedia, ogni lampada e ogni pianoforte di casa Cartwright devono essere sepolti sotto chilometri quadrati di frange e fiocchetti, con mostruosi fiori di lana che sbocciano in ogni angolo. Ma sua madre crede davvero che lui possa essere attratto da questa visione di se stesso, sposato con Faith Cartwright e imprigionato su una poltrona accanto al caminetto, paralizzato in una specie di ebetudine, mentre la sua cara mogliettina lo avvolge sempre più in una matassa di sete colorate, come un baco nel bozzolo, o come una mosca avviluppata in una tela di ragno? Accartoccia la pagina e la butta per terra. Non è questa la lettera che vuole scrivere. Mio caro Edward, spero che tu stia bene. Io sono ancora a Kingston, dove continuo a... Continua a far che? Che cosa sta facendo qui, esattamente? Non ce la fa a mantenere il solito tono spigliato. Cosa può scrivere a Edward, che trofeo può fargli vedere? o che indizio, se non altro? È a mani vuote; non ha scoperto niente. Ha proceduto alla cieca, non sa neppure in che direzione, senza scoprire niente tranne che non ha ancora scoperto niente, tranne l'ampiezza della propria ignoranza insomma, come quelli che hanno cercato invano le sorgenti del Nilo. Come loro, deve
prendere in considerazione l'idea della sconfitta. Messaggi disperati, scarabocchiati su pezzi di corteccia, spediti su rami spezzati dal profondo della giungla avvolgente. Preso la malaria. Morso da un serpente. Mandate ancora medicine. Le mappe sono sbagliate. Non ha niente di sicuro da riferire. Domattina si sentirà meglio. Si rimetterà in sesto. Quando farà un po' più fresco. Per il momento, se ne va a letto. Il ronzio sordo degli insetti gli riempie le orecchie. Un caldo umido gli copre la faccia, come una mano, e per un istante la sua coscienza sembra spalancarsi: che cosa sta per ricordare? ma subito si richiude. Si sveglia di colpo. C'è luce nella stanza, luce di candela che riverbera sulla porta. Dietro, una fioca figura: la padrona di casa, vestita di bianco, avvolta in uno scialle a tinte chiare. A lume di candela i lunghi capelli biondi sembrano grigi. Si tira il lenzuolo sul mento; è senza camicia da notte. «Che c'è?» chiede. La sua voce suona arrabbiata, ma in realtà è spaventato. Non da lei, certamente; ma che diavolo ci fa in camera sua? D'ora in poi chiuderà la porta a chiave. «Dottor Jordan, mi spiace disturbarla», dice lei, «ma ho sentito un rumore. Come se qualcuno cercasse di entrare dalla finestra. Ho avuto paura.» La voce non trema, non balbetta. Quella donna ha un bel sangue freddo. Le dice che scenderà da lei fra un minuto, che controllerà serrature e imposte; le chiede di attenderlo nell'altra stanza. Si infila brancolando la vestaglia, che immediatamente gli aderisce alla pelle umida, e si dirige a tentoni nel buio verso la porta. Questa storia deve finire, dice a se stesso. Non può continuare così. Ma siccome non c'è nessuna storia che continui, non c'è niente che possa finire. 33 È notte piena, ma il tempo continua a scorrere, e anche a girare in tondo, come il sole e la luna sull'orologio a pendolo nel corridoio. Presto sarà l'alba. Presto farà giorno. Non posso impedire al giorno di entrare, come fa sempre, né di spandere la sua luce sporca; è sempre lo stesso giorno, che gira e rigira, come un orologio a molla. Comincia col giorno prima del giorno prima, poi viene il giorno prima, e poi arriva il giorno. Un sabato. Il
giorno in cui tutto si è fermato. Il giorno che viene il macellaio. Che cosa posso dire al Dottor Jordan su quel giorno? Perché ormai ci siamo quasi. Mi ricordo quel che ho detto quando mi hanno arrestata, e quel che l'avvocato, il signor MacKenzie, mi ha detto di dire, e quel che non ho detto neanche a lui; e quel che ho detto al processo, e quel che ho detto dopo, che era diverso. E quel che McDermott ha detto che io avevo detto, e quel che gli altri hanno detto che dovevo aver detto, perché c'è sempre qualcuno che ti fornisce i discorsi già bell'e fatti, e te li mette in bocca; sono come i ventriloqui delle fiere, e tu sei come la loro bambolina di legno. È così che ero io al processo, ero là nel banco degli imputati, ma avrei anche potuto essere una bambola di pezza, impagliata e con la testa di porcellana; ero chiusa dentro quella bambola che ero io, e la mia vera voce non veniva fuori. Dissi che ricordavo alcune delle cose che avevo fatto. Ma c'erano altre cose che loro dissero che avevo fatto, e io dissi che non le ricordavo proprio. Lui ha forse detto: Ti ho vista fuori di notte, in camicia, al chiaro di luna? Ha detto: Cosa cercavi? Un uomo? Ha detto: Ti pago un buon stipendio, ma voglio un buon servizio in cambio? Ha detto: Non preoccuparti, non lo dirò alla tua padrona, sarà il nostro segreto? Ha detto: Sei una brava ragazza? Forse l'ha detto. O forse dormivo. E lei, ha detto: Non pensare che io non sappia cos'hai combinato? Ha detto: Ti darò la tua paga sabato, e poi te ne vai, è tutto finito, ne ho abbastanza di te? Sì, l'ha detto. E dopo, me ne stavo rannicchiata dietro la porta di cucina, a piangere? L'ho lasciato fare? Ha detto: Perché piangi, Grace? Ho detto che avrei voluto che fosse morta? Oh, no. Non l'ho detto, sicuramente no. Non ad alta voce. E non volevo davvero che fosse morta. Volevo soltanto non vederla lì, come lei non voleva vedere me. L'ho respinto? Mi ha detto che presto mi avrebbe fatto cambiare idea sul suo conto? Mi ha detto ti rivelerò un segreto se mi prometti di mantenerlo? E se non lo mantieni, la tua vita varrà meno di un soldo? Forse è così che è andata. Cerco di ricordare com'era il signor Kinnear, per raccontarlo al Dottor
Jordan. È stato sempre gentile con me, diciamo che lo è stato. Ma non ricordo bene. La verità è che nonostante tutto quel che posso aver pensato di lui, la sua immagine è svanita; è svanita col tempo, come un vestito lavato tante volte, fin quando non resta che una stoffa sbiadita. Un bottone o due. Qualche volta la voce; ma niente occhi, niente bocca. Com'era lui, nella realtà, in carne e ossa? Non l'ha scritto nessuno, neppure sui giornali; hanno detto tutto di McDermott, e anche di me, sulla nostra faccia e il nostro aspetto, ma niente su Kinnear, perché essere un'assassina è più importante che essere una vittima, la gente ti guarda di più; e ora lui è sparito. Lo penso addormentato e immerso nei sogni, nel suo letto, con la faccia coperta dal lenzuolo, la mattina quando gli portavo il tè. Nell'oscurità vedo altre cose, ma non vedo lui. Richiamo alla mente gli oggetti, li conto. La tabacchiera d'oro, il cannocchiale, la bussola tascabile, il temperino; l'orologio d'oro, i cucchiai d'argento che lucidavo, il candelabro con il motto di famiglia: Vivo nella speranza. La giacca di tartan. Non so che fine hanno fatto. Sono sdraiata sul letto duro e stretto, sul materasso di tela grezza. Il materasso è pieno di paglia secca che crepita come una fiamma quando mi giro su un fianco, e se mi sposto mi sussurra: ssh, ssh. Questa stanza è buia come pietra e calda come un cuore che va arrosto; se apri gli occhi e li tieni fissi nell'oscurità, sicuramente vedrai qualcosa, dopo un po'. Spero che non siano fiori. Però, è a quest'ora che crescono, le peonie rosse e lucide come seta, che sembrano pennellate di vernice. La terra in cui crescono è il vuoto, lo spazio vuoto e il silenzio. Sussurro: Parlami, perché preferisco sentir parlare che guardare i petali cadere in silenzio, lentamente, lungo il muro, come gocce. Sto dormendo, credo. Sono nel corridoio sul retro della casa, striscio lungo la parete. Distinguo a stento la tappezzeria; era verde, una volta. Ecco le scale, ecco la balaustra. La porta della camera da letto è semiaperta, posso ascoltare. Piedi nudi sul tappeto a fiori rossi. Lo so che ti nascondi, vieni subito fuori o vengo a prenderti, e quando ti prendo, lo sai cosa ti faccio. Immobile dietro la porta, sento il mio cuore che batte. Oh no, oh no, oh no. Guarda che vengo, sto venendo. Non mi obbedisci mai, non fai mai quello che ti dico, ragazzaccia. Ora dovrò punirti.
Non è colpa mia. Cosa posso fare adesso, dove posso andare? Devi aprire la porta, aprire la finestra, devi lasciarmi entrare. Oh guarda, guarda i petali caduti, cos'hai fatto? Sto dormendo, credo. Sono fuori, è notte. Ci sono gli alberi, il sentiero e lo steccato con una mezzaluna lucente, e i miei piedi nudi sulla ghiaia. Ma quando arrivo sul davanti della casa, il sole sta scendendo; il colonnato bianco è tinto di rosa, e le peonie bianche sono di un rosso acceso nella luce del tramonto. Ho le mani intorpidite, non mi sento le punte delle dita. C'è odore di carne fresca, viene dal terreno e da ogni parte, anche se ho detto al macellaio che non ne avevamo bisogno. Sul palmo della mia mano c'è un disastro. Devo esserci nata, con quello. Me lo porto appresso dappertutto. Quando mi ha toccata, la sfortuna lo ha contagiato. Sto dormendo, credo. Mi sveglio al canto del gallo e so dove sono. Sono nel salotto. Sono nel retrocucina. Sono in cantina. Sono nella mia cella, sotto la coperta ruvida del carcere, che probabilmente ho cucito io stessa. Qui, tutto quel che adoperiamo o indossiamo, di giorno come di notte, lo facciamo noi stesse; quindi sono io che ho fatto questo letto, e ora ci dormo. È mattina, ora di alzarsi; oggi devo proseguire con la mia storia. O la storia deve proseguire con me, portarmi dentro di sé lungo i binari obbligati, dritto fino alla fine, come un treno che fischia, sordo e sigillato, con il suo unico occhio acceso, anche se io mi getto contro le pareti e grido e urlo, e imploro Dio di farmi uscire. Una storia, quando ci sei nel mezzo non è una storia, è solo confusione; un fragore indistinto, un andare alla cieca, tra vetri rotti e schegge di legno; è come una casa che vortica in una tromba d'aria, una nave che si schianta contro gli iceberg o precipita giù per le rapide, e nessuno a bordo può fermarla. È soltanto dopo che diventa una storia, prende una forma. È quando la racconti, a te stessa o a qualcun altro. 34 Simon accetta la tazza di tè che la moglie del Direttore gli porge. Non gli piace molto il tè, ma ritiene che berlo sia un dovere sociale, in questo Pae-
se; proprio come lo è l'ascoltare con un sorrisetto di indulgente superiorità le ormai scontatissime battute sul tè di Boston. Il suo malessere sembra superato. Oggi si sente meglio, anche se ha dormito poco. È riuscito a fare il suo discorsetto al gruppo del martedì, e sente di essersela cavata piuttosto bene. Ha cominciato con una perorazione in favore della riforma dei manicomi, che in troppi casi sono ancora quei covi di squallore e iniquità che erano nel secolo scorso. È stata ben accolta. Poi ha continuato con alcune osservazioni sul fermento intellettuale in questo campo di ricerche, e sui contrasti tra le varie scuole di pensiero dei medici alienisti. Prima si è soffermato sulla scuola materialista. I suoi sostenitori affermano che i disturbi mentali hanno un'origine organica: derivano, per esempio, da lesioni nervose o cerebrali, da mali ereditari ben definiti, come l'epilessia, o da malattie contratte in seguito, incluse quelle che si trasmettono per contatto sessuale (qui non si è dilungato, perché erano presenti delle signore, ma tutti hanno capito che cosa intendeva). Quindi ha descritto l'approccio della scuola mentale, che crede in cause molto più difficili da isolare. Come misurare, per esempio, gli effetti di uno shock? Come diagnosticare le amnesie, in assenza di manifestazioni fisiche di qualunque tipo, oppure certe inesplicabili e radicali alterazioni della personalità? Qual è, si è domandato a quel punto, il ruolo che gioca la Volontà, e qual è quello dell'Anima? Qui la signora Quennell si è sporta ansiosamente in avanti, per rimettersi poi comoda non appena lui ha detto che non lo sapeva. In seguito è passato alle numerose scoperte fatte di recente: per esempio la terapia del Dottor Laycock per gli epilettici, a base di bromuro, terapia che dovrebbe metter fine a molte credenze erronee e superstiziose; le ricerche sulla struttura del cervello; l'uso di droghe sia per indurre sia per alleviare allucinazioni di vari tipi. L'opera dei pionieri avanzava costantemente; e qui gli era gradito menzionare il coraggioso Dottor Charcot, di Parigi, che negli ultimi tempi si era dedicato allo studio dell'isteria; e le ricerche sui sogni come chiave per le diagnosi, e il loro rapporto con l'amnesia, un campo al quale lui personalmente sperava di apportare a tempo debito il suo modesto contributo. Tutte queste teorie erano ancora agli inizi, ma c'erano grandi aspettative su di esse. Come aveva detto l'eminente filosofo e scienziato francese Maine de Biran, c'era un Nuovo Mondo interiore da scoprire, per il quale si doveva «immergersi nelle grotte sotterranee dell'animo». Il XIX secolo, aveva concluso, sarebbe stato nello studio della Mente
quel che il XVII era stato nello studio della Materia: un'Età dei Lumi. Era orgoglioso di far parte di questo avamposto della conoscenza, per quanto piccolo e umile fosse il suo ruolo. Ah, se non ci fosse stato un tale caldo, e una tale umidità. Alla fine era fradicio, e ancora adesso si sente addosso un odore di acqua stagnante, viene dalle sue mani. Dev'essere perché ha spalato terra nel cortile, ancora stamattina, prima che facesse troppo caldo. Il gruppo del martedì lo ha applaudito garbatamente, e il Reverendo Verringer lo ha ringraziato. Bisognava congratularsi col Dottor Jordan, ha detto, per le edificanti osservazioni con cui li aveva onorati oggi. Aveva dato a tutti loro ampia materia di riflessione. L'Universo era un luogo misterioso, ma Dio aveva elargito all'uomo la benedizione del pensiero, per comprendere meglio quei misteri che alla sua comprensione erano accessibili. Era implicito che ce n'erano altri, non accessibili. Questo, apparentemente, aveva lasciato tutti soddisfatti. Dopodiché Simon aveva ricevuto i ringraziamenti individuali. La signora Quennell lo aveva fatto sentire in colpa dicendogli che il suo discorso era stato sentito e commosso, mentre lui sapeva benissimo di aver tirato via con la sola intenzione di finirla il più in fretta possibile. Lydia, adorabile in un abito estivo arricciato e frusciante, era senza fiato, così piena di femminile ammirazione che un uomo non poteva chiedere di più; però continuava ad avere l'impressione che non avesse capito una parola di quel che aveva detto. «Davvero appassionante», dice ora Jerome DuPont, al fianco di Simon. «Ho notato che non ha detto niente sulla prostituzione, che, insieme all'alcol, è sicuramente una delle maggiori piaghe sociali del nostro tempo.» «Non volevo introdurre l'argomento», dice Simon, «visto il pubblico.» «Naturalmente. Mi interesserebbe la sua opinione circa la teoria di alcuni colleghi europei, che la tendenza alla prostituzione è una forma di malattia. La mettono in rapporto con l'isteria e la neurastenia.» «Lo so», dice Simon, con un sorriso. Quand'era studente, sosteneva sempre che se una donna non ha alternative a parte morire di fame, prostituirsi o gettarsi da un ponte, in quel caso sicuramente la prostituta, che ha dimostrato di possedere l'istinto di autoconservazione più tenace, dev'essere considerata più forte e più sana delle sue fragili e defunte sorelle. È un serpente che si morde la coda, faceva notare: una donna sedotta e abbandonata non ha altra scelta se non impazzire, ma se invece sopravvive e se-
duce a sua volta, allora dev'essere pazza fin dal principio. Era un ragionamento che faceva acqua, secondo lui; e questo gli era valso una fama di cinico o di ipocrita puritano, a seconda di chi lo stava a sentire. «Personalmente», dice DuPont, «tendo a collocare la prostituzione nella stessa classe delle manie omicide e religiose; possono essere considerate tutte quante, credo, come un impulso incontrollato a recitare una parte. Situazioni del genere si sono osservate nel teatro, fra gli attori, i quali sostengono di diventare realmente il personaggio che rappresentano. Le cantanti d'opera ne vanno particolarmente soggette. C'è il caso di una Lucia che ha ucciso davvero il suo amante.» «È una possibilità interessante», dice Simon. «Lei non si compromette», dice DuPont, fissando Simon con i suoi occhi neri e lucenti. «Ma vorrà almeno ammettere che le donne in generale hanno un sistema nervoso più fragile, e di conseguenza sono più suggestionabili.» «Forse», dice Simon. «Sicuramente è questa l'opinione comune.» «Le rende, per esempio, molto più facili da ipnotizzare.» Ah, pensa Simon. Ognuno tira l'acqua al suo mulino. Ecco che ci sta arrivando. «Come sta la sua graziosa paziente, se posso chiamarla così?» dice DuPont. «Qualche progresso?» «Niente di definitivo per ora», dice Simon. «Ci sono parecchie possibili strade che spero di seguire.» «Sarei onorato se mi permettesse di provare il mio metodo. Solo a titolo di esperimento; di dimostrazione, se preferisce.» «Sono in un punto cruciale», dice Simon. Non vuole apparire maleducato, ma non desidera l'intervento di costui. Grace è territorio suo; deve tenere alla larga i bracconieri. «Potrebbe sconvolgerla, e distruggere il lavoro di settimane.» «A sua disposizione», dice il Dottor DuPont. «Rimarrò qui ancora per un mese almeno. Mi piacerebbe essere d'aiuto.» «Sta dalla signora Quennell, non è vero?» dice Simon. «Una generosissima padrona di casa. Ma infatuata per gli Spiritualisti, come tanti al giorno d'oggi. Una teoria assolutamente infondata, glielo assicuro. D'altra parte, si fa in fretta ad approfittare di chi ha perso una persona cara.» Simon si trattiene dal dire che non ha bisogno delle sue assicurazioni. «Lei ha partecipato a qualcuna delle sue... delle sue serate - o dovrei chia-
marle sedute?» «Un paio. Sono un ospite, dopotutto; e dal punto di vista clinico questi falsi prodigi sono estremamente interessanti. Ma lei non è affatto chiusa nei confronti della scienza, anzi, è pronta a finanziare la ricerca che abbia delle basi.» «Ah», dice Simon. «Le piacerebbe che facessi una seduta di Neuro-ipnosi con la signorina Marks», dice bonario il Dottor DuPont. «Per conto del Comitato. Lei non ha obiezioni?» Maledizione a tutti quanti, pensa Simon. Si vede che hanno perso la pazienza con me; pensano che la tiro per le lunghe. Ma se si immischiano troppo, romperanno le uova nel paniere, rovineranno tutto. Perché non possono lasciarmi fare a modo mio? Oggi c'è la riunione del martedì, e siccome il Dottor Jordan fa un discorso, nel pomeriggio non ci siamo visti, doveva prepararsi. La moglie del Direttore ha chiesto se poteva tenermi un po' di più, perché non c'era abbastanza personale e voleva che aiutassi con i rinfreschi, l'ho fatto spesso. Naturalmente la richiesta era una pura formalità, la Capoguardiana era tenuta a dire di sì, e l'ha detto. E dopo cenerò in cucina, come una domestica, perché quando tornerò al Penitenziario ormai avranno finito di cenare. È una bella prospettiva, sarà come ai vecchi tempi, quand'ero libera di andare e venire, le mie giornate erano più varie, e c'erano momenti piacevoli da pregustare. Però sapevo che avrei dovuto aspettarmi qualche dispetto, e occhiatacce e battute cattive. Non da Clarrie, che mi è sempre stata amica anche se parla poco, e neanche dalla cuoca, che ormai mi conosce. Ma c'è una delle cameriere che mi ha presa in antipatia, perché sono qui da più tempo di lei, so come vanno le cose e sono in confidenza con le signorine Lydia e Marianne, e lei no; sicuramente farà delle allusioni ai delitti, agli strangolamenti e ad altre cose disgustose. E poi c'è Dora, che da un po' di tempo aiuta in lavanderia, ma non è assunta, è pagata a ore. È una donnona con le braccia robuste, che le tornano utili per trasportare i cesti pesanti con la roba lavata; ma non c'è da fidarsi di lei, perché sparla continuamente della sua padrona precedente e del padrone, dice che non l'hanno mai pagata e che facevano una vita scandalosa, lui era così andato a forza di bere che non capiva più niente, e faceva gli occhi neri alla moglie un giorno sì e l'altro no; e lei che si ammalava a ogni soffio di vento, e Dora non si stupi-
rebbe se venisse fuori che sotto tutti quei vapori e quelle emicranie c'era la bottiglia, anche lì. Ma nonostante tutte queste cose che dice, Dora ha accettato di tornare in quella casa come tuttofare, anzi ha già ripreso servizio; e quando la cuoca le ha chiesto perché c'è andata, visto che è gente così da poco, ha strizzato l'occhio e ha detto che l'ultima parola spetta ai soldi; e che il giovane dottore che sta a pensione lì le ha pagato gli arretrati e le ha chiesto quasi in ginocchio di tornare, perché non trovavano nessun'altra. A lui piace stare tranquillo, e che tutto sia pulito e in ordine, ed è disposto a pagare, anche se la padrona di casa non ce la fa, perché il marito l'ha piantata in asso, e adesso è una vedova bianca, e anche povera in canna. Dora dice che non prende più ordini da lei, perché è sempre stata pronta a criticare e a trovare da ridire; ora comanda il Dottor Jordan, perché è chi paga i suonatori che fa la musica. Ma anche lui non è mica a posto, dice, con quell'aria da avvelenatore, come quasi tutti i dottori, con le loro boccette, pozioni e pillole, e lei ringrazia il buon Dio tutti i giorni di non essere una ricca vecchietta in cura da lui, perché non resterebbe a lungo su questa terra; in più ha la mania strampalata di zappare in giardino, anche se ormai è troppo tardi per piantare qualunque cosa, ma lui va avanti imperterrito, come un becchino, ormai ha rivoltato quasi tutto il cortile; poi tocca lei spazzare il fango che lui porta in casa, lavargli via la terra dalle camicie e scaldargli l'acqua per il bagno. Ero allibita quando ho capito che questo Dottor Jordan di cui parlava era il mio Dottor Jordan; ma ero anche curiosa, perché non sapevo tutte queste cose sulla sua padrona di casa, anzi non sapevo proprio niente. Così ho chiesto a Dora che tipo di donna era, e Dora ha detto: Magra come uno stecco e pallida come una morta, con lunghi capelli così gialli che sembrano bianchi, ma nonostante questo e tutte le sue arie da gran signora, è una poco di buono, lei non ne ha le prove, ma questa signora Humphrey rotea gli occhi come una pazza e si muove a scatti, nervosamente, due cose che segnalano sempre un'intensa attività a porte chiuse; il Dottor Jordan dovrebbe stare attento, perché se c'è una decisa a togliergli i pantaloni, è la signora Humphrey; ora fanno colazione insieme tutte le mattine, cosa che secondo lei è innaturale. Questo mi è sembrato volgare, perlomeno l'accenno ai pantaloni. E penso: se questo è quel che dice della gente per cui lavora, alle sue spalle, allora che dirà di te, Grace? La sorprendo a fissarmi con i suoi oc-
chietti arrossati: sta fabbricando le storie sensazionali che racconterà alle sue amiche, se ne ha; dirà che ha preso il tè con una celebre assassina, una che avrebbe dovuto essere stata impiccata tanto tempo fa, e poi tagliata a fette dai dottori, come quando i macellai tagliano una bestia morta, e poi quel che restava di me avrebbero dovuto farlo su in un sacco, come un budino di sugna, e lasciarlo marcire in una tomba non consacrata, su cui crescono soltanto cardi ed erbacce. Ma io sono a favore del quieto vivere, quindi non dico niente. Perché se mai dovessi litigare con lei, so già a chi darebbero la colpa. Avevamo ordine di tenere le orecchie aperte per la fine della riunione, l'avremmo capito dall'applauso, e dal discorso di ringraziamento al Dottor Jordan per le sue edificanti osservazioni, che viene fatto a tutti i conferenzieri in queste occasioni; quello era il segnale per servire i rinfreschi; una delle cameriere è stata piazzata alla porta ad ascoltare. Dopo un po' è tornata e ha detto che stavano facendo i ringraziamenti; allora abbiamo contato fino a venti, e poi portato dentro la prima teiera e il primo vassoio di pasticcini. Io sono rimasta indietro, a tagliare la torta e sistemare le fette su un vassoio rotondo, al centro del quale la moglie del Direttore aveva detto di piazzare un paio di rose; era proprio bello. Poi mi sono venuti a dire che dovevo servire io quel piatto, cosa che mi è parsa strana; ma mi sono ravviata i capelli, sono scesa insieme alla torta e sono entrata nel salotto, senza sospettare niente. Lì fra gli altri c'era la signora Quennell, con i capelli che sembravano un piumino da cipria e un vestito di mussola rosa, troppo giovanile per lei; la moglie del Direttore, in grigio; il Reverendo Verringer, che guardava dall'alto in basso come suo solito; il Dottor Jordan, smorto e sbattuto come se il discorso l'avesse spompato; e la signorina Lydia, col vestito che l'avevo aiutata a fare, bella come un quadro. E chi ti vedo, che mi fissa con un sorrisetto, se non Jeremiah, l'ambulante! Con capelli e barba freschi di parrucchiere, tutto in ghingheri come un signore, con un bel completo beige e una catena d'oro sul panciotto; reggeva una tazza di tè con modi affettati, proprio come quando faceva l'imitazione di un gentiluomo, nella cucina dell'Assessora Parkinson; ma io lo avrei riconosciuto anche in capo al mondo. Ero così esterrefatta che ho cacciato uno strillo e mi sono immobilizzata a bocca aperta, come un pesce, e quasi mi cadeva di mano il piatto; a dir la verità, qualche fetta di torta è caduta per terra, e anche le rose. Ma non
prima che Jeremiah avesse posato la tazza e si fosse passato un dito sul naso, come per grattarlo; non credo che nessun altro abbia visto, guardavano tutti me; ma da quel gesto ho capito che dovevo tenere la bocca chiusa, e non parlare per non tradirlo. Non ho fiatato, mi sono scusata per aver fatto cadere la torta, ho appoggiato il piatto sul tavolino e mi sono inginocchiata a raccogliere le fette cadute nel grembiule. Ma la moglie del Direttore ha detto: Lascia stare, Grace, voglio presentarti a una persona. Mi ha presa per il braccio e mi ha spinta avanti. Questo è il Dottor Jerome DuPont, ha detto, è un medico famoso, e Jeremiah mi ha fatto un cenno e ha detto: Come sta, signorina Marks? Ero ancora confusa, ma sono riuscita a darmi un contegno; la moglie del Direttore gli stava dicendo: Spesso gli estranei la scombussolano. E a me: Il Dottor DuPont è un amico, non ti farà del male. Per poco non mi mettevo a ridere, ma invece ho detto: Sì, signora, e ho abbassato gli occhi. Deve aver avuto paura che si ripetesse la scena dell'altra volta, quando è venuto il dottore che voleva misurarmi la testa, e io ho urlato come una matta. Ma non aveva motivo di preoccuparsi. Devo guardarla negli occhi, ha detto Jeremiah. Se ne ricava spesso un indizio sull'esito del procedimento. Mi ha sollevato il mento, e ci siamo guardati. Benissimo, ha detto, tutto solenne e contegnoso, proprio come se fosse quel che faceva finta di essere; l'ho ammirato. Poi ha detto: Grace, sei mai stata ipnotizzata? E ha continuato a tenermi per il mento, perché non mi muovessi, e avessi il tempo di ricompormi. Ma certo che no, signore, ho detto io indignata. Non so neanche bene cosa voglia dire. È un procedimento assolutamente scientifico, ha detto lui. Vorresti provarlo? Se fosse d'aiuto ai tuoi amici, e al Comitato, e se loro decidessero in tal senso? E mi ha dato una strizzatina al mento, muovendo gli occhi in su e in giù rapidamente, per segnalarmi che dovevo dire di sì. Farò tutto quel che posso, signore, ho detto; se ce n'è bisogno. Bene, bene, ha detto lui, pomposo come un vero dottore. Ma perché la cosa abbia successo, devi riporre in me la tua fiducia. Pensi di poterlo fare, Grace? Il Reverendo Verringer, la signorina Lydia, la signora Quennell e la moglie del Direttore, tutti mi guardavano con grandi sorrisi di incoraggiamento. Ci proverò, signore, ho detto. Allora si è fatto avanti il Dottor Jordan, dicendo che per oggi avevo già avuto abbastanza emozioni, e non bisognava sovraccaricare i miei nervi, perché erano delicati e non si doveva danneggiarli; e Jeremiah ha replicato:
Naturalmente, naturalmente. Ma sembrava compiaciuto di se stesso. Anche se stimo il Dottor Jordan, che è stato gentile con me, ho pensato che sembrava proprio un povero diavolo in confronto a Jeremiah, era come uno a cui hanno rubato il portafoglio nella ressa, e non se n'è ancora accorto. In quanto a me, ero così contenta che avevo voglia di ridere; Jeremiah aveva fatto un gioco di prestigio, come se mi avesse tirato fuori una moneta dall'orecchio, o avesse fatto finta di ingoiare una forchetta; una volta era capace di fare questi giochi sotto gli occhi di tutti quanti, senza che nessuno scoprisse il trucco, e ora aveva fatto lo stesso, aveva stretto un patto con me sotto i loro occhi, e nessuno lo sapeva. Ma poi mi venne in mente che un tempo era andato in giro a fare l'ipnotizzatore, aveva fatto il guaritore nelle fiere, quindi quelle cose le sapeva fare davvero, ed era capace di farmi andare realmente in trance. Questo frenò la mia contentezza, e mi diede da riflettere. 35 «Quel che mi interessa non è se sei colpevole o innocente», dice Simon. «Sono un medico, non un giudice. Voglio semplicemente sapere che cosa riesci a ricordare.» Sono finalmente arrivati al momento dei delitti. Lui si è riletto tutti i documenti di cui dispone: le cronache del processo, le opinioni dei giornali, le confessioni, perfino i fantasiosi resoconti della signora Moodie. È preparatissimo, ma anche nervoso: dal suo comportamento di oggi dipende la possibilità che Grace finalmente si apra, rivelando i suoi tesori nascosti, oppure si spaventi e si ritragga, richiudendosi come un'ostrica. Quel che ha portato oggi non è una verdura. È un candeliere d'argento, stavolta, fornitogli dal Reverendo Verringer e simile, spera, a quelli usati in casa Kinnear e trafugati da James McDermott. Non l'ha ancora tirato fuori; è in un cesto di vimini - un cesto per la spesa, in realtà, prestato da Dora - che ha piazzato in un angolo, vicino alla sedia. Non sa ancora bene cosa ne farà. Grace continua a cucire. Non alza gli occhi. «Nessuno se n'è mai preoccupato prima, signore», dice. «Mi hanno detto che sicuramente mentivo; insistevano per saperne di più. Tutti tranne l'avvocato, il signor MacKenzie. Ma sono certa che neppure lui mi credeva.» «Io ti crederò», dice Simon. E si rende conto che si tratta di una promes-
sa impegnativa. Grace stringe le labbra, corruga la fronte e tace. Lui attacca a bruciapelo. «Il signor Kinnear partì per la città quel giovedì, vero?» «Sì, signore», dice Grace. «Alle tre? A cavallo?» «Esattamente a quell'ora, signore. Doveva tornare il sabato. Io ero fuori, stavo spruzzando i fazzoletti di lino stesi ad asciugare al sole. McDermott gli preparò il cavallo. Il signor Kinnear partiva in sella a Charley, perché il calesse era giù in paese, lo stavano riverniciando.» «Ti disse qualcosa, in quel momento?» «Disse: "Ecco il tuo spasimante preferito, Grace, vieni a dargli il bacio della partenza".» «Parlava di McDermott? Ma McDermott non andava da nessuna parte», dice Simon. Grace alza gli occhi e gli rivolge un'occhiata interrogativa e vagamente compassionevole. «Parlava del cavallo, signore. Sapeva che ero molto affezionata a Charley.» «E tu che hai fatto?» «Sono andata ad accarezzare Charley, signore, sul naso. Ma Nancy ci stava guardando dalla finestra della cucina invernale, e quel che aveva sentito non le piaceva. E neanche a McDermott. Anche se non c'era niente di male. Al signor Kinnear piaceva scherzare.» Simon fa un respiro lungo. «Il signor Kinnear non ti ha mai fatto delle proposte indecenti, Grace?» Lei alza nuovamente gli occhi su di lui; questa volta con un lieve sorriso. «Non so cosa intenda per indecenti, signore. Non ha mai usato parole scurrili con me.» «Non ti ha mai toccata? Non si è mai preso delle libertà?» «Nei limiti della norma, signore.» «Della norma?» fa eco Simon. È sconcertato. Non sa come esprimere quel che intende senza diventare troppo esplicito: c'è una forte vena di pruderie, in Grace. «Con una domestica, signore. Era un buon padrone, signore», dice Grace sussiegosa. «E generoso, quando voleva.» Simon si lascia travolgere dall'impazienza. Cosa sta dicendo? Che la pagava per i suoi favori? «Ti metteva le mani sotto i vestiti?» chiede. «Eri sdraiata?» Grace si alza. «Ne ho abbastanza di questi discorsi», dice. «Non sono tenuta a stare qui. Lei è come quelli del Manicomio, come i preti della pri-
gione, come il Dottor Bannerling con le sue sudice idee!» Simon si ritrova a chiederle scusa, senza aver saputo quel che voleva sapere. «Per favore, siediti», dice, quando lei si è placata. «Torniamo ai fatti. Il signor Kinnear partì a cavallo alle tre di giovedì. Cosa successe dopo?» «Nancy disse che dovevamo andarcene tutti e due il sabato, e che aveva i soldi per pagarci. Disse che il signor Kinnear era d'accordo con lei.» «Tu ci hai creduto?» «Per McDermott, sì. Ma non per me.» «Non per te?» dice Simon. «Aveva paura che il signor Kinnear la lasciasse per me. Come ho detto, signore, lei aspettava un bambino, e queste cose spesso succedono, agli uomini: piantano la donna che si trova in quelle condizioni e si mettono con un'altra; capita anche tra le vacche e i cavalli; se fosse successo, lei si sarebbe trovata in mezzo a una strada, insieme al suo bastardo. Era ovvio che voleva sbarazzarsi di me, mandarmi via prima che il signor Kinnear tornasse a casa. Credo che lui non ne sapesse niente.» «E allora cos'hai fatto, Grace?» «Ho pianto, signore. In cucina. Non volevo andarmene, non avevo nessun posto dove andare. Era tutto così improvviso, non avevo avuto il tempo di cercarmi un altro lavoro. E poi avevo paura che lei non mi pagasse e che mi mandasse via senza referenze, e allora cos'avrei fatto? E per McDermott era lo stesso.» «E poi?» dice Simon, visto che lei non prosegue. «Fu allora, signore, che McDermott disse che aveva un segreto, e io promisi di non dirlo a nessuno; e una volta promesso, lei lo sa signore, dovevo mantenere. Allora mi disse che aveva deciso di uccidere Nancy con l'ascia e poi finirla strangolandola, di sparare al signor Kinnear non appena tornava, e di prendersi le cose di valore; e che se io sapevo fare i miei interessi l'avrei aiutato e sarei andata via con lui, altrimenti avrebbero dato a me la colpa di tutto quanto. Se non fossi stata così sconvolta mi sarei messa a ridere, ma non risi invece; a dir la verità, avevamo bevuto entrambi qualche bicchiere del whisky del signor Kinnear; pensavamo che non ci fosse motivo di non servirci, visto che tanto ci avrebbero sbattuti fuori comunque. Nancy era andata dai Wrights, quindi avevamo via libera.» «Eri convinta che McDermott avrebbe fatto quel che diceva?» «Non del tutto, signore. Da un lato, pensavo che le stesse sparando grosse su quanto era bravo lui e cosa sapeva fare, com'era sua abitudine quand'era ubriaco; anche mio padre faceva così. Ma allo stesso tempo sembrava
proprio che dicesse sul serio, e mi faceva paura; avevo la sensazione che le cose sarebbero andate come dovevano andare comunque, indipendentemente da me.» «Non hai avvertito nessuno? Neppure Nancy, quando è tornata a casa?» «E perché avrebbe dovuto credermi, signore?» dice Grace. «Detta ad alta voce, sarebbe sembrata una gran stupidaggine. Avrebbe pensato che mi vendicavo perché mi aveva detto di andar via; o che era una bega tra domestici, e che stavo cercando di fare le scarpe a McDermott. Non avevo che la mia parola, lui poteva smentirmi tranquillamente, dire che ero solo una scemetta isterica. D'altra parte, McDermott poteva anche ammazzarci tutte e due seduta stante, se ne aveva davvero l'intenzione; e io non volevo farmi ammazzare. La cosa migliore da fare era cercare di trattenerlo fino al ritorno del signor Kinnear. In principio disse che l'avrebbe fatto quella notte stessa, e io lo persuasi a cambiare idea.» «Come hai fatto?» dice Simon. «Dissi che se Nancy veniva uccisa il giovedì, per un giorno e mezzo avremmo dovuto giustificare la sua assenza a chiunque chiedesse di lei. Invece, se l'ammazzava più tardi, avrebbe sollevato meno sospetti.» «Capisco», dice Simon. «Un ragionamento di grande buon senso.» «La prego di non prendermi in giro, signore», dice Grace dignitosamente. «È una cosa che mi urta profondamente, soprattutto in considerazione di ciò che mi si chiede di ricordare.» Simon dice che non intendeva prenderla in giro. Gli sembra di non fare altro che scusarsi con lei. «E cosa è successo poi?» chiede, cercando di mantenere un tono affabile e non troppo ansioso. «Poi Nancy è tornata a casa, era allegra. Era così lei, prima andava in collera poi faceva finta di niente, come se fossimo tutti amiconi; perlomeno quando il signor Kinnear non c'era. Si comportò come se non ci avesse detto di andarcene né presi a male parole, e tutto andò avanti come al solito. Cenammo insieme in cucina, tutti e tre, con prosciutto freddo e insalata di patate, con l'erba cipollina dell'orto; lei rise e chiacchierò del più e del meno. McDermott era imbronciato e silenzioso, ma questo era normale; poi Nancy e io andammo a coricarci insieme, come succedeva sempre quando il signor Kinnear era via, perché lei aveva paura dei ladri; Nancy non aveva alcun sospetto. Ma io mi accertai che la porta della stanza fosse chiusa a chiave.» «Come mai?» «Come le ho detto, chiudo sempre la porta a chiave quando vado a dor-
mire. Ma a parte questo, McDermott si era messo in testa l'idea cretina di infilarsi in casa di notte con l'ascia. Voleva uccidere Nancy mentre dormiva. Gli dissi che non poteva fare una cosa del genere, rischiava di colpire me per sbaglio; ma era dura convincerlo. Disse che non voleva che lei lo guardasse mentre la uccideva.» «Questo lo posso capire», dice Simon asciutto. «E poi cos'è successo?» «Oh, il venerdì in principio sembrava un giorno come un altro, a guardarlo da fuori. Nancy era di ottimo umore, e non brontolò affatto, o meno del solito; perfino McDermott era meno ingrugnato, la mattina, perché gli avevo detto che se andava in giro con quella faccia incanaglita Nancy avrebbe sicuramente sospettato che aveva brutte intenzioni. «A metà pomeriggio il giovane Jamie Walsh arrivò col suo flauto; era Nancy che gliel'aveva chiesto. Visto che il signor Kinnear non c'era, avremmo festeggiato, disse lei. Non so bene cosa dovessimo festeggiare; ma a Nancy piaceva cantare e ballare, quand'era in vena. Facemmo una buona cena, con pollo arrosto freddo e birra per mandarlo giù; poi Nancy disse a Jamie di suonare per noi e lui mi chiese se volevo una canzone in particolare e fu molto attento e gentile con me, cosa che non piacque a McDermott, che gli disse di piantarla di farmi gli occhi dolci, perché gli rivoltava lo stomaco; il povero Jamie diventò rosso come un peperone. Allora Nancy disse a McDermott di lasciar stare il ragazzo; non si ricordava più di quand'era stato giovane anche lui? e disse a Jamie che sarebbe diventato un bell'uomo, lei se ne intendeva, molto più bello di McDermott con le sue smorfie e i suoi musi, perché la bellezza viene dal cuore; e McDermott le lanciò un'occhiata carica di odio, che lei fece finta di non vedere. Poi mi mandò giù in cantina a prendere dell'altro whisky, perché avevamo ormai svuotato le bottiglie che c'erano di sopra. «Poi cantammo e ridemmo; Nancy cantò e rise, e io le tenni dietro. Cantammo La Rosa di Tralee, e pensai a Mary Whitney; come avrei voluto che fosse lì! lei avrebbe saputo cosa fare e mi avrebbe aiutato a cavarmi d'impiccio. McDermott non cantava, era di umor nero; si rifiutò di ballare quando Nancy glielo chiese, dicendo che era il momento di dimostrare che era davvero quel bravo ballerino che si vantava di essere. Lei avrebbe voluto che ci lasciassimo in amicizia, senza rancore, ma lui da quell'orecchio non ci sentiva. «Dopo un po' la nostra festicciola si sgonfiò. Jamie disse che era stanco di suonare, Nancy disse che era ora di andare a letto, e McDermott disse che accompagnava Jamie a casa, attraverso i campi - per assicurarsi che si
togliesse davvero dai piedi, immagino. Ma quando tornò, Nancy e io eravamo già di sopra, nella stanza del signor Kinnear, con la porta sprangata.» «Nella stanza del signor Kinnear?» dice Simon. «Fu un'idea di Nancy», dice Grace. «Disse che il suo letto era più grosso, e più fresco d'estate, e che io scalciavo nel sonno; e che in ogni caso il signor Kinnear non se ne sarebbe accorto, perché eravamo noi che rifacevamo i letti, mica lui; e anche se l'avesse scoperto, non si sarebbe arrabbiato, anzi, gli sarebbe piaciuta l'idea di avere due serve nel letto in una volta sola. Aveva bevuto parecchi bicchieri di whisky, e non teneva a freno la lingua. «Comunque io la misi in guardia, signore. Mentre si spazzolava i capelli, le dissi: McDermott vuole ucciderti. Lei si mise a ridere e disse: Ci credo. Anch'io lo ucciderei volentieri. Non ci stiamo simpatici. Fa sul serio, dissi io. Non fa mai sul serio, disse lei con noncuranza. È sempre lì che si vanta e fa lo spaccone, è tutta aria fritta. «E allora capii che non potevo fare niente per salvarla. «Non appena a letto, si addormentò. Io rimasi seduta a spazzolarmi i capelli, alla luce di una candela, con quella donna nuda nel quadro che mi guardava, quella che stava facendo il bagno in giardino, e anche l'altra con le penne di pavone; mi sorridevano tutte e due, in un modo che non mi piaceva per niente.» «Quella notte Mary Whitney mi apparve in sogno. Non era la prima volta che veniva a trovarmi, ma non mi aveva mai detto niente; stendeva il bucato e rideva, o sbucciava una mela, o si nascondeva dietro un lenzuolo appeso su nell'attico, tutte cose che faceva prima di trovarsi nei guai; quando la sognavo così mi svegliavo con un senso di conforto, come se lei fosse ancora viva e felice. «Ma quelle erano scene del passato. Questa volta lei era nella stanza insieme a me, in quella stessa stanza, la camera da letto del signor Kinnear. Era in piedi accanto al letto, in camicia da notte, coi capelli sciolti sulle spalle, come quando l'avevano seppellita; e nella parte sinistra del petto le vedevo il cuore, rosso acceso attraverso la stoffa bianca. Ma poi vidi che non era il cuore in realtà, ma l'astuccio per gli aghi di panno rosso che le avevo fatto per Natale, e che le avevo messo nella bara, sotto i fiori e i petali sparsi; ed ero contenta che ee l'avesse ancora, e non mi avesse dimenticata. «Teneva in mano un bicchiere, e dentro era prigioniera una lucciola, che
brillava di una luce fredda e verdognola. Lei era pallidissima, ma mi guardò e sorrise; poi alzò la mano dal bicchiere e la lucciola ne uscì e svolazzò per la stanza; sapevo che era la sua anima, e che voleva uscire, ma la finestra era chiusa; poi sparì e non sapevo dov'era andata. Allora mi svegliai, con lacrime di tristezza che mi scorrevano sulla faccia, perché avevo perso Mary un'altra volta.» «Rimasi lì al buio, a sentir respirare Nancy; i battiti del mio cuore mi risuonavano all'orecchio, come passi pesanti su una strada lunga e faticosa che dovevo percorrere per forza, e chissà quando sarei arrivata alla fine. Avevo paura di addormentarmi di nuovo, perché potevo fare un altro sogno come quello; e la mia paura non era ingiustificata, perché le cose andarono proprio così. «In questo nuovo sogno, sognai che camminavo in un posto mai visto prima, tutto circondato da alte mura di pietra, grigia e desolata proprio come le pietre del paese dove sono nata, laggiù dall'altra parte dell'oceano. Per terra c'era una ghiaia grigia, e in mezzo alla ghiaia crescevano le peonie. Spuntavano con i boccioli nudi, piccoli e duri come mele acerbe, poi si aprivano, diventavano enormi fiori rosso scuro con petali lucidi, come seta; infine si aprivano come in un'esplosione, e cadevano a terra. «Erano rosse, ma a parte questo erano del tutto uguali alle peonie del giardino, il giorno del mio arrivo a casa del signor Kinnear, quando Nancy stava tagliando gli ultimi fiori; e nel sogno la vidi com'era allora, col vestito color pastello con le roselline rosa e la gonna a tre balze, e il cappello di paglia che le nascondeva il viso. Aveva un cesto sul braccio, per metterci i fiori; poi si voltò, e si portò una mano alla gola, come se fosse spaventata. «Poi mi ritrovai di nuovo nel cortile di pietra, a camminare, e le punte delle mie scarpe andavano avanti e indietro sotto l'orlo della gonna, a righe bianche e blu. Sapevo di non aver mai posseduto una gonna così, e quando la vidi provai una sensazione di grande stanchezza e desolazione. Ma le peonie continuavano a spuntare tra le pietre; sapevo che erano fuori posto, in quel luogo. Allungai la mano per toccarne una; era secca, mi resi conto che era di stoffa. «Poi lì davanti vidi Nancy, in ginocchio, scarmigliata e con il sangue che le scorreva sulla faccia e negli occhi. Attorno al collo aveva un fazzoletto di cotone bianco con un disegno a fiori azzurri, nontiscordardimé; era il mio. Mi tendeva le mani implorante; alle orecchie aveva i piccoli orecchini d'oro che le avevo invidiato. Volevo correre in suo aiuto, ma non potevo; i
miei piedi continuavano a camminare con ritmo uguale, come se non mi appartenessero. Quando le arrivai vicina, lei, sempre in ginocchio, mi sorrise. Solo la bocca sorrideva, gli occhi erano nascosti dal sangue e dai capelli, e poi si dissolse in macchie di colore, si disfece, come una pioggia di petali di stoffa, bianchi e rossi, sulle pietre. «Poi all'improvviso fu tutto buio, e c'era un uomo con una candela in mano in cima alla scala, che bloccava il passaggio, e attorno a me c'erano le mura della cantina, e seppi che non ne sarei mai più uscita.» «Hai sognato questo prima del fatto?» dice Simon. Sta prendendo appunti febbrilmente. «Sì, signore», dice Grace. «E anche dopo, molte volte.» La sua voce si è fatta un sussurro. «È per questo che mi hanno rinchiusa.» «Rinchiusa?» la incalza Simon. «Nel Manicomio, signore. Per via dei brutti sogni.» Ha posato il cucito, e si guarda le mani. «Solo per via dei sogni?» chiede Simon con dolcezza. «Dicevano che non sognavo, signore. Dicevano che ero sveglia. Ma non voglio parlarne più.» 36 «Il sabato mattina mi svegliai all'alba. Giù nel pollaio il gallo stava cantando; aveva una voce roca e gracchiante, come se si sentisse già una mano stretta attorno al collo, e io pensai: Lo sai che presto finirai in pentola. Presto sarai solo una carcassa. E benché pensassi al gallo, non nego che pensavo anche a Nancy. Ero stordita, non ero in me; il mio corpo era presente, ma era come se io non ci fossi. «So che sono strani pensieri questi che le confesso, signore, ma non voglio mentire né tacerli, anche se potrei farlo tranquillamente, dato che non li ho mai rivelati a nessuno prima d'ora. Voglio raccontarle tutto esattamente come accadde; e questi erano i miei pensieri. «Nancy dormiva ancora, e io feci attenzione a non disturbarla. Era meglio che dormisse, finché restava a letto non poteva capitare niente di brutto, né a lei né a me. Mentre strisciavo fuori dal letto del signor Kinnear lei mugolò e si agitò, e mi chiesi se per caso stava facendo un brutto sogno. «La sera precedente, prima di salire con la candela, avevo indossato la camicia da notte nella mia stanzetta accanto alla cucina invernale, perciò tornai là e mi rivestii, come ogni giorno. Tutto era come sempre eppure era
diverso, e quando andai a lavarmi la faccia e pettinarmi, quasi non riconobbi la mia faccia nello specchio sopra il lavandino di cucina. Era più rotonda e più bianca, con due enormi occhi spalancati, e non mi piaceva per niente guardarla. «Entrai in cucina e aprii le imposte. I piatti e i bicchieri della sera prima erano ancora sul tavolo, e avevano un'aria derelitta e abbandonata, come se una grande catastrofe inaspettata avesse inghiottito tutti quelli che avevano mangiato e bevuto con quelle stoviglie, e io li trovassi ora per caso, anni e anni dopo; mi fecero molta tristezza. Li presi su e li portai nel lavandino del retrocucina. «Quando tornai, c'era una luce strana in cucina, come se una patina d'argento coprisse tutto, simile a ghiaccio, però più liscia, come una lama sottile d'acqua che scorre su pietre piatte; allora mi si aprirono gli occhi e capii che questo accadeva perché Dio era entrato in casa, e quello era l'argento che ricopriva i cieli. Dio era entrato perché Dio è dappertutto, non puoi tenerlo fuori, è parte di ogni cosa che esiste, perciò non puoi costruire un muro, o quattro mura, o una porta o una finestra chiusa, e pensare che lui non possa passarci attraverso come fosse aria. «Dissi: Che cosa vuoi? ma non rispose, e rimase lì, con la sua luce d'argento, e io uscii a mungere la vacca; perché con Dio non puoi fare altro che continuare a fare quel che facevi prima, non puoi fermarlo né farlo ragionare. Dio ti dice Fa questo e Fa quello, ma non ti spiega mai perché. «Quando tornai indietro con i secchi del latte vidi McDermott in cucina. Stava lucidando le scarpe. Dov'è Nancy? chiese. «Si sta vestendo, dissi. Vuoi ucciderla stamattina? «Sì, disse, maledizione a lei, ora vado a prendere l'ascia e le do un colpo in testa. «Lo presi per un braccio e lo guardai negli occhi. No, tu non lo fai, non sei capace di fare una cosa così orribile, dissi. Ma lui non capì, pensò che lo provocassi. Pensò che gli stessi dando del vigliacco. «Fra un minuto vedrai se non sono capace, disse rabbioso. «Oh, per l'amor del cielo, non ucciderla nella stanza, dissi, sporcherai di sangue il pavimento. Era una cosa ben stupida da dire, ma è quello che mi venne in mente, come lei sa, signore, toccava a me pulire i pavimenti in quella casa, e nella stanza di Nancy c'era un tappeto. Non avevo mai provato a togliere macchie di sangue da un tappeto, ma le avevo tolte da altre cose, e non è un lavoro da prendere alla leggera. «McDermott mi lanciò uno sguardo schifato, come se fossi una povera
scema, e probabilmente lo sembravo. Poi uscì e andò a prendere l'ascia che stava accanto al ceppo. «Non riuscivo a pensare. Andai nell'orto a raccogliere l'erba cipollina, perché Nancy aveva ordinato un'omelette per colazione. Le lumache stavano smerlando le lattughe ormai fiorite. Mi inginocchiai a guardarle, con i loro occhietti in cima alle antenne; allungai la mano per prendere l'erba cipollina, e mi parve che non fosse la mia mano, ma solo un guscio, una pelle dentro cui cresceva un'altra mano. «Cercai di pregare, ma non mi venivano le parole, e credo che fosse perché avevo fatto cattivi pensieri su Nancy, le avevo augurato la morte, anche se in quel momento non gliel'auguravo. Ma che bisogno c'era di pregare, se Dio era lì, incombeva su di noi come l'Angelo della Morte sugli egiziani, sentivo il suo alito freddo, sentivo battere le sue ali oscure dentro il mio cuore. Dio è dappertutto, pensai, perciò Dio è in cucina, e Dio è in Nancy, e Dio è in McDermott, e nelle mani di McDermott, e Dio è anche nell'ascia. Poi sentii un tonfo sordo dentro casa, come una porta pesante che si chiude di colpo, e dopo questo non ricordo nient'altro per alcune ore.» «Non ti ricordi della cantina?» dice Simon. «Né di aver visto McDermott trascinare Nancy per i capelli fino alla botola e buttarla giù per le scale? È scritto nella tua confessione.» Grace si stringe la testa fra le mani. «Questo è quel che volevano farmi dire. Il signor MacKenzie mi disse che dovevo dire così, per salvarmi la vita.» Sta tremando, stavolta. «Disse che non era una bugia, perché le cose dovevano essere andate così, che io me ne ricordassi o no.» «Hai dato a McDermott il fazzoletto che avevi attorno al collo?» Simon si rende conto che parla come un avvocato in tribunale, ma insiste. «Quello che è stato usato per strangolare la povera Nancy? Era il mio, lo so. Ma non ricordo di averglielo dato.» «Né di essere scesa in cantina?» dice Simon. «Né di averlo aiutato a ucciderla? E neppure di aver voluto rubare gli orecchini d'oro del cadavere, come disse lui?» Grace si passa rapidamente una mano sugli occhi. «Quelle ore per me sono solo buio, signore», dice. «E a ogni modo, non venne rubato nessun orecchino. Non dico che non ci abbia pensato, dopo, mentre stavamo facendo i bagagli; ma pensare una cosa non è come farla. Se dovessero processarci per i nostri pensieri, ci impiccherebbero tutti.» Simon deve ammettere che questo è vero. Tenta un altro approccio. «Jef-
ferson, il macellaio, testimoniò di aver parlato con te, quella mattina.» «Lo so, signore. Ma io non ricordo.» «Dice che era sorpreso, perché di solito non eri tu a fare gli ordini, ma Nancy; e fu ancora più sorpreso quando tu dicesti che non avevate bisogno di carne fresca quella settimana. Una cosa molto inconsueta, secondo lui.» «Se fossi stata io, signore, e in possesso delle mie facoltà, avrei fatto lavorare il cervello, e ordinato la carne come al solito. Sarebbe stato meno sospetto.» Simon è costretto a darle ragione. «Be', allora, qual è la prima cosa che ricordi?» «Mi ritrovai di fronte alla casa, signore, dove c'erano i fiori. Mi girava la testa, e avevo l'emicrania. Continuavo a pensare: Devo aprire la finestra, ma era assurdo, perché ero all'aperto. Dovevano essere circa le tre. Il signor Kinnear stava arrivando, era lungo il viale sul suo calessino tutto dipinto di fresco, giallo e verde. McDermott spuntò da dietro casa, e tutti e due aiutammo a scaricare i pacchi, e McDermott mi lanciò un'occhiata minacciosa; poi il signor Kinnear entrò in casa, e sapevo che stava cercando Nancy. Un pensiero mi ronzò per la testa: Non la troverai lì, devi guardare di sotto, ormai è solo una carcassa - e mi spaventai a morte. «Allora McDermott mi disse: So che parlerai, ma se parli la tua vita non vale un soldo. Non capii. Cos'hai fatto? dissi. Lo sai benissimo, disse lui con una risata. Non lo sapevo; ma sospettai il peggio. Poi mi fece promettere di aiutarlo a uccidere il signor Kinnear, e io dissi di sì; se non l'avessi detto avrebbe ucciso anche me, glielo leggevo negli occhi. Poi portò cavallo e calesse nella stalla. «Entrai in cucina e mi misi a lavorare come se non ci fosse niente che non andava. Il signor Kinnear entrò e chiese: Dov'è Nancy? Dissi che era andata in città con la diligenza. Lui disse che era strano, perché aveva incrociato la diligenza per strada, e lei non l'aveva vista. Gli chiesi se voleva qualcosa da mangiare, lui disse di sì e domandò se Jefferson aveva portato la carne fresca; no, dissi. Curioso, osservò, poi disse che voleva del tè con pane tostato e uova. «Glielo preparai. Glielo portai in sala da pranzo; lui nell'attesa leggeva un libro che aveva portato dalla città. Era l'ultimo numero del Godey's Ladies' Book, che piaceva alla povera Nancy, per via dei disegni di moda; e il signor Kinnear, pur sostenendo che c'erano solo frivolezze per signore, spesso gli dava uno sguardo anche lui, quando Nancy non era nei paraggi, perché non c'erano soltanto vestiti; gli piaceva osservare i nuovi stili di
biancheria intima, e leggere gli articoli su come doveva comportarsi una vera signora, e quando gli portavo il caffè spesso lo trovavo lì a ridacchiare per conto suo. «Tornai in cucina, e ci trovai McDermott. Disse: Penso che ora vado e lo ammazzo. Ma io dissi: Santo cielo, McDermott, è troppo presto, aspetta finché fa buio. «Poi il signor Kinnear salì a fare un pisolino, senza spogliarsi, e così McDermott fu costretto ad aspettare, controvoglia. Sparare a un uomo addormentato era troppo anche per lui. McDermott mi rimase appicciccato come colla per tutto il pomeriggio, perché era sicuro che scappassi e parlassi. Aveva con sé il fucile, non lo mollava un attimo. Era il vecchio fucile da caccia a doppia canna con cui il signor Kinnear sparava alle anitre, ma non era caricato a pallini. Disse che ci aveva messo dentro due pallottole; una l'aveva trovata, e l'altra l'aveva fabbricata con un pezzo di piombo; la polvere l'aveva presa dall'altra parte della strada, dal suo amico John Harvey, anche se quella brutta sgualdrina di Hannah Upton - la donna che viveva con Harvey - gliel'aveva rifiutata. Lui l'aveva presa comunque, alla faccia sua. Ormai era sovreccitato e nervoso, e anche pieno di arroganza e orgoglioso della propria audacia. Non faceva che imprecare, ma io non lo rimproveravo, avevo troppa paura.» «Verso le sette il signor Kinnear scese di sotto, prese il tè, e cominciò a preoccuparsi seriamente per Nancy. Ora lo faccio, disse McDermott, tu devi entrare e dirgli di venire in cucina, così gli sparo qui, sul pavimento di pietra. Ma io dissi che non andavo. «Disse che in tal caso andava lui. Lo avrebbe fatto venire qui, dicendogli che c'era un problema con la sella nuova, che il cuoio era tutto tagliato. «Non volevo averci niente a che fare. Passando attraverso il cortile portai il vassoio del tè nella cucina sul retro, quella dove la stufa era accesa, perché avrei lavato i piatti lì; e mentre lo appoggiavo sul tavolo sentii il rumore di uno sparo. «Corsi nella cucina sul davanti della casa e vidi il signor Kinnear per terra, morto, e McDermott in piedi davanti a lui. Il fucile era sul pavimento. Tentai di scappar via, e lui urlò e imprecò, e disse che dovevo aprire la botola dell'ingresso. Dissi: No, non lo faccio; e lui disse: Sì che lo fai. Lo feci infatti, e McDermott buttò il corpo giù per le scale. Ero così atterrita che corsi via dalla porta principale, attraversai il prato, superai la pompa e arrivai nella cucina sul retro, e McDermott uscì dall'al-
tra cucina con il fucile, fece fuoco contro di me e io caddi a terra svenuta. E questo è tutto quel che ricordo, signore, fino a molto più tardi quella sera.» «Jamie Walsh ha testimoniato di essere entrato nel cortile verso le otto, cioè poco dopo che sei svenuta. Disse che McDermott aveva ancora il fucile in mano, e che sosteneva di essere andato a caccia.» «Lo so, signore.» «Disse che tu eri vicino alla pompa, e gli dicesti che il signor Kinnear non era ancora tornato, e che Nancy era andata dai Wrights.» «Non ho spiegazioni da dare, signore.» «Disse che tu stavi bene, ed eri di buon umore. Disse che eri vestita meglio del solito, e portavi delle calze bianche. Lasciò capire che potevano essere di Nancy.» «Io c'ero al processo, signore. Ho sentito quello che ha detto; le calze comunque erano mie. Ma allora lui si era già dimenticato dei sentimenti che aveva provato per me, voleva soltanto farmi del male e vedermi impiccata, se possibile. Non posso farci niente su quel che dice la gente.» Il suo tono è così sconsolato che Simon prova tenerezza e pietà per lei. Sente l'impulso di prenderla fra le braccia, consolarla, accarezzarle i capelli. «Bene, Grace», dice animatamente, «vedo che sei stanca. Continueremo domani.» «Sì, signore. Spero di averne la forza.» «Prima o poi arriveremo al nocciolo.» «Lo spero, signore», dice lei debolmente. «Sarebbe un gran sollievo per me, sapere finalmente tutta la verità.» 37 Le foglie degli alberi hanno già quell'aria da agosto, sono opache, polverose e senza vita anche se non è ancora agosto. Simon torna lentamente a casa attraverso la calura soffocante del pomeriggio. Ha con sé il candeliere d'argento; non gli è venuto in mente di servirsene. Gli stanca il braccio; in realtà, tutte e due le braccia sono stranamente indolenzite, come se avesse tirato con tutte le sue forze una fune pesantissima. Cosa si aspettava? Il tassello mancante, naturalmente: il ricordo di quelle poche ore cruciali. Ebbene, non l'ha ottenuto. Gli torna alla mente una sera di tanto tempo fa, quand'era ancora studen-
te ad Harvard. Era andato in gita a New York con suo padre, che allora era ancora ricco, e ancora vivo; erano andati all'opera. Era la Sonnambula di Bellini: una semplice e casta fanciulla di paese, Amina, viene ritrovata addormentata nella camera da letto del conte; ci è arrivata camminando nel sonno. Il suo fidanzato e gli abitanti del paese la dichiarano una puttana, a dispetto delle proteste del conte, basate sulle sue superiori conoscenze scientifiche; ma quando Amina viene vista attraversare nel sonno un ponte pericolante, che subito dopo il suo passaggio si schianta nel ruscello sottostante, la sua innocenza è provata al di là di ogni dubbio, e lei si sveglia e ritrova la felicità. Una parabola sull'anima, come aveva fatto saccentemente notare il suo professore di latino, dove Amina è un rozzo anagramma di anima. Ma perché, si è chiesto Simon, l'anima viene rappresentata in stato di incoscienza? E, ancor più inquietante: mentre Amina dorme, chi è che cammina? Le implicazioni di questa domanda, per lui, oggi sono ancora più importanti di allora. Grace era incosciente in quelle ore, come sostiene, o era del tutto sveglia, come ha testimoniato Jamie Walsh? Fino a che punto può arrischiarsi a credere alla sua storia? Va presa con beneficio di inventario? È un vero caso di amnesia, di tipo sonnambolico, oppure lui è vittima di una furba impostora? Deve stare attento a non cadere nell'assolutismo: non c'è motivo di aspettarsi che lei dica soltanto la pura, cristallina e intera verità. Nella sua posizione, chiunque darebbe una versione purgata e riaggiustata, per fare buona impressione. In suo favore, bisogna dire che quasi tutto quel che ha detto concorda con la sua confessione a stampa; ma è davvero a suo favore? Forse la concordanza è eccessiva. Magari lei ha studiato sul suo stesso testo, per convincerlo meglio. Il fatto è, che lui desidera lasciarsi convincere. Vuole che lei sia Amina. Vuole che venga scagionata. Attenzione, dice a se stesso. Deve essere più distaccato. Da un punto di vista obiettivo, quello che c'è stato fra loro, nonostante l'evidente malessere di lei riguardo agli omicidi e la sua superficiale buona volontà, non è altro che una lotta fra due volontà opposte. Lei non si è rifiutata di parlare, ah, neanche per sogno. Gli ha detto un sacco di cose; ma solo quelle che voleva dirgli. Quel che lui vuole, è quello che lei si rifiuta di dire, e che forse sceglie perfino di non sapere. La coscienza della colpa, o dell'innocenza: tutte e due si possono nascondere. Ma riuscirà a fargliela sputar fuori. Ormai le ha fatto ingoiare l'amo, ora si tratta di tirarla a galla. Su, fuori
dall'abisso, alla luce del giorno. Fuori dal profondo mare azzurro. Si chiede il perché di queste drastiche metafore. Si ripete che vuole il suo bene. Quel che ha in mente è una riabilitazione, certo che lo è. Ma - e lei? Se ha qualcosa da nascondere, forse vuole restare nell'acqua, nelle tenebre, nel suo elemento. Magari ha paura di non riuscire a respirare, fuori. Simon dice a se stesso che è ora di smetterla con queste idee drastiche e istrioniche. Può darsi benissimo che Grace sia una vera amnesiaca. Oppure semplicemente il contrario. Semplicemente colpevole. Potrebbe anche essere matta, è chiaro, e dotata dell'incredibile capacità dei folli inveterati, di inventare in modo plausibile. Alcuni dei suoi ricordi, soprattutto quelli del giorno dei delitti, farebbero pensare a un fanatismo di tipo religioso. D'altra parte, potrebbero anche essere interpretati come le ingenue paure e superstizioni di un'anima semplice. Quel che lui vuole è la certezza, di una cosa o dell'altra; ed è precisamente quello che lei si rifiuta di dargli. Forse è il suo metodo che è sbagliato. Di sicuro la sua tecnica associativa non ha dato risultati: le verdure si sono rivelate un misero fallimento. Forse è stato troppo esitante, troppo conciliante; magari ci voleva qualcosa di più drastico. Forse dovrebbe incoraggiare gli esperimenti neuro-ipnotici di Jerome DuPont, e fare in modo di esserne testimone, anzi di scegliere lui le domande. Non ha fiducia in quei metodi. Però, potrebbe emergere qualcosa di nuovo; si potrebbe scoprire qualcosa che lui finora non è stato in grado di scoprire. Perlomeno vale la pena di provarci. Arriva a casa e si fruga in tasca alla ricerca della chiave, ma Dora gli apre la porta. Lui la guarda disgustato: una donna così porcina, e, con questo caldo, così innegabilmente sudata, non dovrebbe farsi vedere in pubblico. Scredita tutto il suo sesso. È stato proprio per opera sua che è tornata a lavorare qui, anzi si può dire che l'ha corrotta per farla tornare, ma ciò non significa che gli piaccia più di prima. E lui non piace a lei, a giudicare dall'occhiata velenosa che gli lancia, con i suoi occhietti rossi. «Quella vuole vederla», dice, accennando con la testa alle stanze sul retro. I suoi modi sono più democratici che mai. La signora Humphrey si è opposta fieramente al ritorno di Dora, e non sopporta di stare nella stessa stanza con lei, il che non è sorprendente. Simon, però, le ha fatto notare che lui non può andare avanti senza ordine e pulizia, e che qualcuno deve pur fare i lavori di casa, e siccome non si è
trovata nessun'altra, bisogna accontentarsi di Dora. Finché la si paga, ha detto, sarà abbastanza mansueta; in quanto a gentilezza, sarebbe troppo aspettarsela da lei; e i fatti gli hanno dato ragione. «Dov'è?» dice Simon. Non avrebbe dovuto dire così, suona troppo intimo. Era meglio dire: Dov'è la signora Humphrey? «Sdraiata sul sofà, credo», dice Dora sprezzante. «Come suo solito.» Ma quando Simon entra nel salotto, ancora misteriosamente spoglio, benché alcuni dei pezzi originali siano riapparsi, non si sa come, trova la signora Humphrey in piedi davanti al caminetto, con un braccio e una mano graziosamente reclinati sulla mensola. La mano è quella che regge il fazzolettino di pizzo. C'è odore di violetta. «Dottor Jordan», dice lei, sciogliendosi dalla posa, «pensavo che forse poteva farle piacere cenare con me stasera; è poco, lo so, ma vorrei ricambiare tutto quel che ha fatto per me. Non vorrei che mi credesse un'ingrata. Dora ha preparato un po' di pollo freddo.» Pronuncia con cura ogni parola, come se avesse imparato a memoria il discorsetto. Simon declina l'invito, con tutta la cortesia di cui è capace. La ringrazia molto, ma stasera è impegnato. È vero, almeno in parte: ha quasi accettato un invito di Lydia a una gita in barca, in compagnia di gente giovane, giù al porto. La signora Humphrey accoglie il suo rifiuto con un sorriso amabile, e dice che ceneranno insieme un'altra volta. C'è qualcosa nel suo portamento, e nella deliberata lentezza con cui parla, che lo lascia perplesso. Non avrà mica bevuto? Ha lo sguardo fisso e le mani che tremano lievemente. Di sopra, apre la borsa di pelle. Sembra tutto in ordine. Le sue tre boccette di laudano ci sono, e nessuna è stata svuotata. Svita i tappi e assaggia il contenuto di ognuna: una è piena d'acqua. Ha fatto man bassa sulle sue scorte, e Dio solo sa quando ha cominciato. Le emicranie pomeridiane assumono ora un altro significato. Avrebbe dovuto saperlo: con un marito così, doveva pur cercare conforto in qualcosa. Quando ha soldi lo compra, non c'è dubbio, dice a se stesso; ma ultimamente si è trovata al verde, e lui è stato sbadato. Avrebbe dovuto chiudere a chiave la stanza, ma ormai è troppo tardi per cominciare a farlo. Ovviamente, non potrà mai parlargliene. È una donna suscettibile. Accusarla di furto non sarebbe solo un gesto brutale, ma anche volgare. In ogni caso, lui si è fatto fregare. Simon va alla gita in barca. È una notte tiepida e serena, e c'è la luna.
Beve un po' di champagne - non ce n'è molto - siede in barca vicino a Lydia e flirta con lei senza troppa convinzione. Lei almeno è normale, sana, e anche carina. Magari dovrebbe chiederle di sposarlo. Accetterebbe, probabilmente. Portarla a casa come offerta propiziatoria a sua madre, consegnarla e lasciare che quelle due, insieme, si diano da fare per il suo benessere. Sarebbe un modo di decidere il suo destino, di ridursi al silenzio; o forse di tenersi lontano dai guai. Ma non lo farà; non è così pigro, né così stanco; non ancora. X La signora del lago Allora cominciammo a impacchettare tutte le cose di valore che riuscimmo a trovare; scendemmo tutti e due in cantina; il signor Kinnear era disteso sulla schiena in mezzo ai barili di vino; io tenevo la candela; McDermott prese le chiavi e del denaro dalle sue tasche; non si parlò di Nancy; io non la vidi, ma sapevo che era in cantina; verso le undici, McDermott attaccò il cavallo; caricammo i bauli sul calesse e partimmo per Toronto; disse che saremmo andati negli Stati Uniti e che mi avrebbe sposata. Io accettai di andare; arrivammo a Toronto, al City Hotel, verso le cinque; svegliammo quelli dell'albergo, facemmo colazione; io aprii il baule di Nancy e indossai uno dei suoi vestiti, e partimmo col battello alle otto, e arrivammo a Lewiston verso le tre; andammo alla locanda; la sera cenammo in sala da pranzo, e io andai a dormire in una stanza, e McDermott in un'altra; prima di andare a letto, dissi a McDermott che intendevo fermarmi a Lewiston, senza proseguire oltre; disse che mi avrebbe costretta ad andare con lui, e verso le cinque del mattino il signor Kingsmill, lo sceriffo, venne ad arrestarci, e ci riportò a Toronto. Confessione di Grace Marks, «Star and Transcript», Toronto, Novembre 1843 Egli incontra, per un divino fortuito caso, La fanciulla del destino; una nascosta mano A lui solo quella bellezza svela Che nessun altro vede né comprende.
Davanti a lei il merito di lui risplende E gli occhi lei ha pieni di promesse; Dove il suo lieto passo posa, soffia Un alito di paradiso... Coventry Patmore, L'Angelo della Casa, 1854 38 Più tardi McDermott mi raccontò che, dopo aver sparato contro di me, e dopo che ero svenuta, riempì un secchio d'acqua fredda alla pompa e me la gettò in faccia e mi fece bere dell'acqua con sciroppo di menta, e io ripresi i sensi immediatamente, fresca come una rosa e tutta allegra; dopodiché avrei acceso il fuoco e preparato la cena per lui, uova e prosciutto, seguiti da un tè e da un goccio di whisky per rimetterci in sesto; e avremmo mangiato insieme con appetito, e brindato al successo della nostra avventura. Ma io non ricordo niente di tutto ciò. Non avrei mai potuto comportarmi con tanta indifferenza, con il signor Kinnear morto giù in cantina, per non parlare di Nancy, che doveva essere morta pure lei, anche se non sapevo con certezza cosa le fosse successo. Ma McDermott era un gran bugiardo. Devo essere rimasta svenuta a lungo, perché quando mi svegliai era già il crepuscolo. Ero sdraiata sulla schiena, sul mio letto, in camera mia; ero senza cuffia e avevo i capelli spettinati e sciolti sulle spalle, e bagnati, come pure il corpetto del vestito; dev'essere stato per via dell'acqua che James mi aveva buttato addosso; quindi, almeno quello sarà stato vero. Rimasi lì distesa, a cercare di ricordare che cosa era successo, perché non mi capacitavo di come fossi arrivata fino in camera. Doveva avermi trasportata James, perché la porta era aperta, e se fossi entrata di mia volontà, e cosciente, l'avrei chiusa a chiave. Volevo alzarmi e chiuderla, ma avevo un gran mal di testa e la stanza era caldissima e soffocante; mi addormentai di nuovo e sicuramente mi agitai nel sonno, perché al risveglio le lenzuola erano tutte ammucchiate e la coperta era caduta a terra. Stavolta mi svegliai di colpo e mi drizzai a sedere; nonostante il caldo, ero coperta di sudore freddo. Il fatto è che nella stanza c'era un uomo, che mi fissava. Era James McDermott, pensai che fosse venuto per strangolarmi nel sonno, dopo aver ucciso gli altri. Il terrore mi strinse la gola e non riuscii a spiccicare una parola. Ma lui mi chiese, con una certa gentilezza, se mi ero riposata e mi senti-
vo meglio; ritrovai la voce e dissi di sì. Sapevo che sarebbe stato un errore mostrarmi troppo spaventata e perdere la testa; lui avrebbe pensato di non potersi fidare di me né contare sul mio sangue freddo, avrebbe avuto paura che io crollassi e mi mettessi a piangere o a gridare in presenza di altri, e che dicessi tutto; era per quei motivi che mi aveva sparato contro; se pensava questo, mi avrebbe fatta fuori senza battere ciglio, per non avere testimoni. Poi sedette sul bordo del letto e disse che era ora di mantenere la promessa; chiesi quale promessa, e lui disse che lo sapevo benissimo, gli avevo promesso me stessa in cambio della morte di Nancy. Non ricordavo di aver detto niente del genere; ma siccome ormai ero convinta che fosse pazzo, pensai che avesse interpretato così qualcosa che avevo detto, una frase innocente, che chiunque potrebbe dire; come per esempio che avrei dato qualunque cosa per vederla morta. Nancy mi aveva trattata molto duramente, in certe situazioni. Tutti i domestici dicono frasi del genere, quando i padroni non sentono; bisogna pure sfogarsi in qualche modo, quando non si può dirgliele in faccia, le cose. Ma McDermott aveva dato a queste parole un senso che io non intendevo affatto, e ora voleva che tenessi fede a un patto mai stipulato. E faceva sul serio; mi mise una mano sulla spalla e mi spinse all'indietro, contro il letto. Intanto, con l'altra mano mi alzava la gonna; capii, dal suo odore, che si era scolato il whisky del signor Kinnear, e non poco. Sapevo di doverlo tenere buono. Oh no, dissi ridendo, non in questo letto, è stretto e scomodo per due. Andiamo in un altro. Con mia sorpresa, lui pensò che fosse una buona idea, e disse che gli sarebbe piaciuto molto dormire nel letto del signor Kinnear, dove Nancy aveva fatto tante volte la puttana; e io riflettei che, se cedevo, avrebbe considerato anche me una puttana e di conseguenza la mia vita per lui non avrebbe avuto alcun valore, e probabilmente mi avrebbe uccisa con l'ascia e gettata in cantina, perché diceva sempre che una puttana serve solo a pulirtici gli stivali prendendola a calci, la sporcacciona. Così decisi di guadagnare tempo e di resistergli il più a lungo possibile. Mi fece alzare, accendemmo la candela che c'era in cucina e salimmo le scale; entrammo nella stanza del signor Kinnear, che era tutta ordinata e col letto rifatto, come l'avevo lasciato quella mattina; scostò le coperte, e mi fece sedere accanto a lui. Niente paglia per i signori, disse, solo piume d'oca per loro, non c'è da stupirsi che a Nancy piacesse tanto questo letto; e per un momento sembrò sopraffatto, non da quello che aveva commesso,
ma dalla magnificenza del letto in cui si trovava. Ma subito si mise a baciarmi, e disse: Su, ragazza mia, è ora; e cominciò a sbottonarmi il vestito; io ricordai che il prezzo del peccato è la morte, e mi senti mancare. Ma sapevo che se fossi svenuta ero bell'e morta, con lui in quello stato. Scoppiai in lacrime, e dissi: No, qui non posso, non nel letto di un uomo morto, non è giusto, con lui giù in cantina tutto rigido; e mi misi a singhiozzare. Lui ne fu seccatissimo, mi disse di smetterla immediatamente o mi prendeva a ceffoni; ma non lo fece. Le mie parole avevano fatto sbollire i suoi ardori, come dicono nei libri; o, come avrebbe detto Mary Whitney, aveva perso la bacchetta. In quel momento il signor Kinnear, morto stecchito, era il più rigido fra i due. Mi tirò su dal letto, e mi trascinò per un braccio nel corridoio, mentre io continuavo a piangere e strepitare con tutte le mie forze. Se non ti piace quel letto, lo farò in quello di Nancy, perché tu sei una sgualdrina come lei, né più né meno. Capii da che parte tirava il vento, e pensai che fosse arrivata la mia ultima ora; mi aspettavo di essere atterrata e trascinata per i capelli da un momento all'altro. Spalancò la porta e mi buttò dentro; la stanza era in disordine, era rimasta come Nancy l'aveva lasciata; io non avevo fatto le pulizie, perché non c'era tempo né bisogno di farle. Ma quando alzò il copriletto, il lenzuolo era tutto macchiato di sangue marrone, e c'era un libro nel letto, anche quello coperto di sangue. Io cacciai un urlo di terrore; McDermott si fermò, gli occhi fissi sul libro, e disse: Me n'ero dimenticato. Gli chiesi cos'era, in nome di Dio, e cosa ci faceva lì. Disse che era la rivista che il signor Kinnear stava leggendo, se l'era portata appresso in cucina, dove lui gli aveva sparato; nella caduta, aveva stretto le braccia al petto, sempre col libro in mano; ecco perché i primi schizzi di sangue c'erano finiti sopra. McDermott l'aveva buttato nel letto di Nancy, per toglierlo di mezzo, e anche perché quello era il suo posto: era per lei che l'aveva portato dalla città, ed era sulla sua testa che sarebbe ricaduto il sangue di Kinnear, perché se lei non fosse stata una stramaledetta puttana e un'arpia, le cose sarebbero andate diversamente, e il signor Kinnear non sarebbe morto. Ecco il significato del libro. A quelle parole si fece il segno della croce; fu l'unica volta che lo vidi fare una cosa da papista come quella. Be', pensai che era matto come un alce in calore, come diceva sempre Mary Whitney; ma il libro era stato una doccia fredda, e gli aveva tolto
dalla testa l'idea di quel che stava per fare. Avvicinai la candela, girai il libro con due dita, e vidi che era proprio il Godey's Ladies' Book che aveva tanto divertito il signor Kinnear, qualche ora prima. A quel ricordo per poco non scoppiavo di nuovo a piangere. Ma non si sapeva fin quando McDermott sarebbe rimasto di quell'umore. Perciò dissi: Questo gli confonderà le idee; quando lo troveranno, non capiranno come abbia fatto ad arrivare qui. E lui disse che sì, gli avrebbe dato filo da torcere; e si sforzò di ridere. Poi aggiunsi: Dobbiamo fare in fretta, potrebbe arrivare qualcuno e trovarci qui; dobbiamo sbrigarci a fare i bagagli. Dovremo viaggiare di notte, o potrebbero vederci per strada, sulla vettura del signor Kinnear, e capire che c'è qualcosa che non va. Ci metteremo molto ad arrivare a Toronto, al buio; e poi Charley è stanco, perché lui quel viaggio l'ha già fatto una volta, oggi. McDermott acconsentì; sembrava mezzo addormentato; ci mettemmo a setacciare la casa e a imballare la roba. Io non volevo portar via molto, solo le cose piccole e di valore, come la tabacchiera d'oro del signor Kinnear, il suo cannocchiale, la bussola tascabile, il temperino d'oro, e tutti i soldi che trovavamo; ma McDermott disse che, se avevamo fatto trenta, potevamo fare trentuno, e che tanto valeva guadagnarsela, la forca; finimmo per saccheggiare la casa e prendere l'argenteria, i candelabri, i coltelli, le forchette, perfino quelli con lo stemma di famiglia; McDermott disse che si potevano sempre fondere. Guardai i vestiti nel baule di Nancy; pensai: Non è il caso che vadano sprecati, la povera Nancy non ne ha più bisogno. Perciò presi il baule con tutto quello che conteneva, compresa la roba invernale; ma lasciai il vestito che stava cucendo, perché, non essendo finito, era ancora troppo legato a lei; avevo sentito dire che i morti tornano per terminare quello che hanno lasciato a metà, e non volevo che lo cercasse senza trovarlo, e magari mi seguisse. A questo punto, ero quasi sicura che fosse morta. Prima di partire, misi tutto in ordine e lavai i piatti della cena; rifeci anche il letto del signor Kinnear e tirai il copriletto su quello di Nancy, ma il libro ce lo lasciai dentro, perché non volevo macchiarmi le mani col sangue del signor Kinnear; poi svuotai il vaso da notte, perché non mi sembrava carino lasciarlo, sarebbe stato poco rispettoso. Nel frattempo McDermott attaccava Charley e caricava i bauli e la borsa di tela sul calesse; ma a un certo punto lo trovai seduto fuori sul gradino, con lo sguardo perso nel vuoto. Gli dissi di darsi una regolata e comportarsi da uomo. L'ultima cosa
che volevo era restare bloccata in quella casa con lui, soprattutto ora che era completamente fuori di testa. Dirgli di comportarsi da uomo gli fece effetto; si riscosse, si alzò e disse che avevo ragione. In ultimo, mi tolsi i vestiti che avevo indossato durante il giorno e me ne misi uno di Nancy, quello chiaro con lo sfondo bianco e i fiorellini stampati, lo stesso che aveva il giorno del mio arrivo. Misi anche la sua sottogonna con l'orlo di pizzo, insieme alla mia, quella pulita che tenevo di riserva, e le sue scarpe estive di pelle chiara, che avevo ammirato tanto, anche se non erano della mia misura. E infine il suo cappello di paglia, quello della festa; e presi il suo scialle leggero di cachemire, anche se non pensavo di averne bisogno, perché era una notte tiepida. Mi passai un po' d'acqua di rose, quella che c'era nella bottiglia sul suo tavolo da toeletta, dietro le orecchie e sui polsi; aveva un buon odore, mi dava un po' di conforto. Quindi indossai un grembiule pulito, ravvivai il fuoco nella stufa della cucina estiva - c'era ancora qualche tizzone che ardeva - e bruciai i miei vestiti; non li avrei mai più messi, mi avrebbero ricordato cose che preferivo dimenticare. Forse fu pura immaginazione, ma venne su un odore di carne bruciata; era come se mandassi a fuoco la mia pelle sporca e usata. Mentre facevo questo, McDermott entrò e mi disse che era pronto, perché perdevo tempo? Gli dissi che non trovavo il mio fazzoletto grande, quello bianco a fiori azzurri; mi serviva l'indomani, durante la traversata del lago sul traghetto, per ripararmi il collo dal sole. Lui rise sbalordito e disse che era giù in cantina, a riparare dal sole il collo di Nancy; e che avrei dovuto ricordarmene, visto che ero stata io a fare il nodo e a tirare forte. Questo mi colpì come uno schiaffo; ma non volevo contraddirlo, perché è pericoloso contraddire i matti. Gli dissi che me n'ero dimenticata. Erano circa le undici di sera quando partimmo; era una bella notte, con un venticello fresco e non troppe zanzare. C'era uno spicchio di luna, non ricordo se calante o crescente; mentre percorrevamo il viale, fra le file di aceri e oltre il frutteto, mi voltai a guardare; la casa era là, tranquilla, illuminata dal chiarore lieve della luna. Pensai: Chi mai indovinerebbe, guardandola, quel che c'è dentro? Sospirai, e mi preparai a un lungo viaggio. Andavamo piano, anche se Charley conosceva la strada; ma sapeva anche che a condurlo non era il suo padrone, e che qualcosa non andava; si fermò diverse volte, rifiutandosi di proseguire se non incitato a colpi di frusta. Ma dopo aver percorso alcune miglia, ed essersi lasciato alle spalle i luoghi che conosceva meglio, si mise al passo; viaggiammo tra campi si-
lenziosi, inargentati dalla luna, tra steccati che li solcavano come trecce scure e qua e là le macchie nere e dense dei boschi, mentre i pipistrelli ci svolazzavano sulla testa; e una volta un gufo ci tagliò la strada, grigio e morbido come una falena. In principio avevo paura di incontrare qualcuno che conoscevamo, che ci avrebbe chiesto dove stavamo andando a quell'ora, alla chetichella; ma non c'era anima viva. James si fece più ardito e più allegro, e si mise a parlare di quello che avremmo fatto negli Stati Uniti; avrebbe venduto tutto e comprato una piccola fattoria, così saremmo stati indipendenti; e se i soldi non ci fossero bastati, saremmo andati a servizio e avremmo messo da parte la paga. Io non dicevo né sì né no, ma non avevo intenzione di restare con lui un minuto di troppo, una volta che fossimo al sicuro al di là del lago, in mezzo alla gente. Ma dopo un po' tacque, e non si sentì che il suono degli zoccoli di Charley sulla strada e il fruscio leggero del vento. Pensai che potevo saltar giù dal calesse e scappare nei boschi; ma sapevo che non sarei andata lontano, e se anche ci arrivavo, mi avrebbero divorata gli orsi e i lupi. E pensai: Sto attraversando la Valle dove si stende l'Ombra della Morte, come dice il salmo; e cercai di non aver paura del male, ma era molto difficile, perché il male era lì con me sul calesse, ci avvolgeva come una nebbia. Cercai di pensare ad altro. Alzai gli occhi al cielo, stellato e senza una nuvola; sembrava così vicino da poterlo toccare, e così lieve da poterci passare una mano attraverso, come una ragnatela cosparsa di rugiada. Ma mentre guardavo, un pezzo di cielo si raggrinzì; sembrava la pellicina che si forma sul latte quando bolle, ma più dura e più fragile, e increspata, come una spiaggia scura, o come seta grezza, nera; il cielo si assottigliò, divenne carta bruciata, ridotta in cenere. E dietro c'era una fredda tenebra; non era il Paradiso e neppure l'Inferno quel che stavo guardando, ma solo il vuoto. Era più spaventoso di qualunque altra cosa, e pregai silenziosamente Dio di perdonare i miei peccati; ma, e se non c'era nessun Dio che mi perdonasse? Allora riflettei che forse quella era la tenebra estrema, dove non si sentivano che gemiti e stridore di denti, e da cui Dio era assente. Non appena formulato questo pensiero, il cielo si richiuse, come acqua dopo che ci è caduto un sasso; ed era di nuovo liscio e compatto, pieno di stelle. Ma la luna continuava a scendere, e il calesse andava. Fui presa da una sonnolenza; l'aria notturna era fresca, perciò mi avvolsi nello scialle di ca-
chemire; devo essermi addormentata, lasciando ciondolare la testa contro McDermott, perché l'ultima cosa che ricordo era la sensazione di lui che mi aggiustava delicatamente lo scialle sulle spalle. Quando tornai in me ero sdraiata per terra sull'erba a lato della strada, schiacciata da un peso che mi teneva giù, mentre una mano mi frugava tra le sottogonne; mi misi a lottare e a strillare. Allora una mano mi chiuse la bocca, e la voce di James chiese rabbiosamente dove volevo arrivare, con tutto quel chiasso, volevo che ci scoprissero? Mi calmai, lui tolse la mano, e gli dissi di tirarsi via subito perché volevo alzarmi. Lui allora andò su tutte le furie; sostenne che gli avevo chiesto di fermare il calesse, per poter scendere a fare sul ciglio della strada; e che dopo, vale a dire un paio di minuti fa, avevo disteso lo scialle a terra e l'avevo invitato a raggiungermi, da quella cagna in calore che ero, dicendo che volevo mantenere la promessa. Sapevo di non aver fatto niente del genere, perché dormivo profondamente; glielo dissi. Lui rispose che non si lasciava prendere in giro, che ero una maledetta sgualdrina e un demonio e che per me non bastava neanche l'Inferno, perché lo avevo menato per il naso e irretito, e per causa mia si era dannato l'anima; mi misi a piangere, convinta di non meritarmi parole così dure. Lui disse che stavolta non se le beveva, le mie lacrime di coccodrillo, ormai aveva fatto il pieno; e riprese a strattonarmi la gonna, mentre mi inchiodava la testa a terra tirandomi per i capelli. Non mi restò quindi che mordergli forte un orecchio. Lanciò un urlo da belva ferita, e pensai che mi avrebbe uccisa seduta stante. Invece mi lasciò andare, si alzò e mi aiutò a tirarmi su; disse che in fin dei conti ero una brava ragazza, e avrebbe aspettato fin dopo il matrimonio, perché era meglio, era più decoroso; mi aveva solo messa alla prova. Poi disse che avevo proprio dei buoni denti, gli avevo dato un morso da farlo sanguinare; pareva piuttosto soddisfatto di questo. Ne fui molto sorpresa, ma non dissi niente, perché ero pur sempre sola con lui su una strada deserta, e il viaggio era ancora lungo. 39 Viaggiammo per tutta la notte, finché il cielo si schiarì; arrivammo a Toronto un po' dopo le cinque del mattino. McDermott disse che saremmo andati al City Hotel, li avremmo svegliati e ci saremmo fatti servire la colazione, perché stava morendo di fame. Dissi che non era una buona idea, e
che dovevamo aspettare che ci fosse gente in giro, perché altrimenti avremmo attratto troppa attenzione e si sarebbero ricordati di noi. Lui mi chiese perché mai dovevo sempre discutere, c'era di che far impazzire un uomo; lui i soldi in tasca li aveva, poteva pagarsi la colazione, e così avrebbe fatto. È una cosa davvero notevole, l'ho pensato spesso, che non appena un uomo ha qualche soldo, non importa come se lo è procurato, pensa immediatamente che sia suo di diritto, e che ci può comprare qualunque cosa, e si comporta come il gallo del pollaio. Facemmo come aveva detto lui; non tanto per la colazione, ora ne sono convinta, quanto perché voleva farmi vedere chi comandava. Mangiammo uova e pancetta; era incredibile, quante arie si dava, come si gonfiava e dava ordini a destra e a sinistra e si lamentava perché il suo uovo non era cotto a dovere. Ma io non riuscii quasi a mandar giù un boccone; tremavo dall'ansia per come ci stavamo facendo notare. Poi scoprimmo che il primo traghetto per gli Stati Uniti partiva alle otto, e che dovevamo aspettare ancora circa due ore a Toronto. Era una cosa molto pericolosa; qualcuno avrebbe sicuramente riconosciuto il cavallo e il calesse del signor Kinnear, lui ci veniva così spesso, in città. Convinsi McDermott a lasciare il calesse nel posto più fuorimano che potei scovare, una stradina appartata; lui invece avrebbe voluto andare in giro e mettersi in mostra; più tardi comunque scoprii che, nonostante le mie precauzioni, qualcuno l'aveva notato. Quando il sole fu spuntato esaminai McDermott alla luce del sole, e mi accorsi che si era messo le scarpe del signor Kinnear. Gli chiesi se gliele aveva tolte quando era già cadavere, in cantina; disse di sì, e che anche la camicia era di Kinnear, l'aveva presa nell'armadio in camera sua, era una camicia di buona qualità, non ne aveva mai avuta una così bella. Aveva pensato di prendere anche quella che l'altro aveva indosso, ma era tutta insanguinata, perciò l'aveva buttata dietro la porta. Inorridita, gli chiesi come aveva potuto; che intendevo dire, ribatté lui, io che indossavo il vestito e il cappello di Nancy. Dissi che non era lo stesso, lui disse che lo era; ma io, gli dissi, perlomeno non avevo tolto le scarpe a un cadavere. Lui disse che non c'era differenza; e comunque, siccome non voleva lasciare nuda la salma, gli aveva infilato la propria camicia. Gli chiesi quale, e lui disse una di quelle che aveva comprato dall'ambulante. Ora daranno la colpa a Jeremiah, dissi angosciata, risaliranno fino a lui; e mi spiaceva, perché era mio amico.
McDermott disse che era un amico troppo intimo, secondo lui; cosa intendeva? chiesi io. Disse che non gli piaceva come Jeremiah mi aveva guardata, e che non avrebbe permesso a sua moglie di farsela con degli ambulanti ebrei e di ciacolare e civettare con loro sulla porta di cucina; nel caso, le avrebbe fatto gli occhi neri e le avrebbe rigirato la testa a furia di sberle. Mi stavo arrabbiando davvero; stavo quasi per dirgli che Jeremiah non era un ebreo, ma anche se lo fosse stato, avrei preferito di gran lunga sposare un ambulante ebreo piuttosto che lui; ma sapevo che metterci a litigare non avrebbe giovato a nessuno dei due, soprattutto se fossimo venuti alle mani. Quindi mi morsi la lingua; il mio piano era arrivare negli Stati Uniti senza fare chiasso, e poi piantare in asso McDermott. Gli dissi di cambiarsi il vestito, e che mi sarei cambiata anch'io; se qualcuno veniva a cercarci, gli avrebbe confuso le idee. Non pensavamo che potesse accadere prima di lunedì, perché non sapevamo che il signor Kinnear aveva invitato gente a cena per la domenica. Mi cambiai al City Hotel, e James si mise una giacca estiva del signor Kinnear. Mi disse con un certo sarcasmo che ero molto elegante, con quell'ombrellino rosa e tutto quanto sembravo proprio una signora. Poi andò a farsi radere; quello fu il momento in cui avrei potuto scappare in cerca di aiuto. Ma lui mi aveva detto e ripetuto che, se non stavamo uniti, ci aspettava la forca; io mi sentivo innocente, ma sapevo bene che le apparenze erano contro di me. E anche ammesso che avessero impiccato solo lui, per quanto ne avessi abbastanza della sua compagnia e mi facesse paura, non volevo essere io a tradirlo. C'è qualcosa di degradante nel tradimento; avevo sentito il suo cuore battere vicino al mio, anche se contro la mia volontà, ma era pur sempre un cuore umano; e non volevo contribuire a fermarlo per sempre, a meno che non mi avessero costretta. E riflettei che nella Bibbia sta scritto: Mia è la vendetta, dice il Signore. Non stava a me, farmi carico di una cosa così grave come la vendetta; perciò rimasi dov'ero finché lui non tornò indietro. Alle otto eravamo a bordo del vaporetto Transit, con il calesse, Charley, i bauli e tutto quanto, e ci stavamo staccando dalla riva; ero molto sollevata. Era una bella giornata, con una brezza leggera, e il sole scintillava sulle onde azzurre; James ormai era di ottimo umore e molto fiero di sé; temevo che, se lo perdevo d'occhio, andasse in giro a vantarsi, a pavoneggiarsi nei vestiti nuovi e a mettere in mostra l'orologio d'oro del signor Kinnear; ma
lui non mi mollava un istante, per paura che parlassi con qualcuno, mi restava appiccicato come una sanguisuga. Eravamo sul ponte inferiore, per via di Charley; non volevo lasciarlo solo, perché era nervoso, e sospettavo che non fosse mai stato su un vaporetto; doveva essere spaventato dal rumore del motore e della ruota a pale che girava. Restai con lui e gli diedi delle gallette; gli piacevano perché erano salate. Una ragazza e un cavallo attirano sempre l'attenzione dei giovanotti, che fanno finta di interessarsi al cavallo; infatti ben presto ci notarono, e io mi trovai a dover rispondere alle loro domande. James mi aveva detto di dire che eravamo fratello e sorella e avevamo lasciato dei parenti antipatici, dopo un litigio; scelsi quindi di essere Mary Whitney, e dissi che lui era David Whitney e stavamo andando a Rochester. I ragazzi non vedevano il motivo per non fare i galanti con me, dato che James era solo mio fratello; io sostenni la mia parte rispondendo di buon grado, anche se questo venne portato come prova a mio carico al processo, e sul momento mi valse qualche occhiata furibonda da parte di James. Ma stavo solo cercando di tener lontani i sospetti, i suoi e quelli dei giovanotti; sotto la mia maschera di allegria in realtà avevo il morale a terra. Ci fermammo a Niagara, ma le cascate erano da tutt'altra parte, quindi non riuscii a vederle. James scese a terra, fece scendere anche me, e mangiò una bistecca. Io non presi niente, ero troppo nervosa. Ma non successe niente, e proseguimmo. Un ragazzo indicò un altro vaporetto in lontananza, e disse che era La Signora del Lago, una nave statunitense che fino a poco tempo prima era ritenuta la più veloce fra quelle in servizio sul lago; ma aveva appena perso una gara di velocità con l'Eclisse, il nuovo battello della Royal Mail Standard, che l'aveva battuta di quattro minuti e mezzo. Gli chiesi se questo non lo rendeva orgoglioso, e lui disse di no, perché aveva scommesso un dollaro sulla Signora. Tutti scoppiarono a ridere. Allora mi fu chiara una cosa che non avevo mai capito. C'è un disegno di trapunta che si chiama La Signora del Lago, e io pensavo che il nome venisse dalla poesia; ma non riuscivo a vederci né signore né laghi. Ora mi resi conto che era la nave ad aver preso il nome dalla poesia, e la trapunta l'aveva preso dalla nave; infatti era un motivo a girandola, che rappresentava sicuramente la ruota a pale che girava. Pensai che tutte le cose hanno un senso, e formano un disegno, se solo ci rifletti abbastanza. E forse era così anche per i recenti avvenimenti, che in quel momento mi sembravano
del tutto privi di senso; scoprire il significato di quel motivo per la trapunta fu una lezione per me, mi insegnò ad avere fede. Mi venne in mente quando Mary Whitney e io leggevamo quella poesia, saltando le parti noiose sul corteggiamento, e andando a cercare quelle appassionanti, e i versi sul combattimento; ma il pezzo che mi ricordavo meglio era quando quella povera donna veniva portata via dalla chiesa, nel giorno del suo matrimonio, rapita per il piacere di un nobiluomo, e poi impazziva e vagava cogliendo fiori selvatici e cantando tra sé. E pensai che anch'io, in un certo senso, venivo rapita, anche se non era il giorno del mio matrimonio; ed ebbi paura di fare la stessa fine. Intanto stavamo arrivando a Lewiston. James aveva tentato di vendere il cavallo e il calesse alla gente che c'era a bordo, nonostante io non fossi d'accordo; ma aveva chiesto troppo poco, e questo aveva suscitato sospetti. E, siccome li aveva messi in vendita, l'ufficiale della Dogana di Lewiston ci mise sopra una tassa, e li trattenne perché non avevamo i soldi per pagarla. James in principio si arrabbiò, ma presto sminuì la faccenda, disse che non aveva importanza, avremmo venduto qualcos'altro e saremmo tornati il giorno dopo a riprenderci la vettura. Ma io ero in grande apprensione; questo voleva dire passare la notte lì, e anche se eravamo negli Stati Uniti, e potevamo ritenerci al sicuro in un Paese straniero, d'altra parte niente aveva mai impedito ai proprietari di schiavi di andar su a riprendersi i fuggitivi che sostenevano essere di loro proprietà; comunque eravamo troppo vicini al confine per stare tranquilli. Cercai di fargli promettere di non vendere Charley; del calesse non mi importava, poteva fare quel che voleva. Ma lui disse: Al diavolo il cavallo! credo che fosse geloso di quel povero cavallo, perché io gli ero affezionata. Negli Stati Uniti la campagna era proprio uguale a quella da cui venivamo, però era un altro posto, c'era una bandiera diversa. Ricordai quello che mi aveva detto Jeremiah su com'era facile passare il confine. Mi sembrava che fosse passata un'infinità di tempo, una vita intera, da quando me l'aveva detto, nella cucina del signor Kinnear; ma in realtà era stato poco più di una settimana prima. Andammo alla locanda più vicina, che non era affatto un albergo, come diceva il volantino con la poesia su di me, ma solo una locanda da poco prezzo vicino all'imbarcadero. Lì, James ingoiò quanto prima una gran quantità di birra e di brandy, e poi, mentre cenavamo, continuò a bere.
Quando fu ora di coricarci, voleva che fingessimo di essere marito e moglie, e prendessimo una stanza insieme; disse che così avremmo pagato la metà. Ma io capii dove voleva arrivare, e dissi che, siccome sulla nave ci eravamo presentati come fratello e sorella, ora non potevamo più cambiare, magari c'era qualcuno che ci aveva visti a bordo. Perciò lui lo misero in una stanza con un altro uomo, e a me ne diedero una singola. Cercò di entrarci anche lui, dicendo che in ogni modo ci saremmo sposati presto. Neanche per sogno, dissi io, piuttosto avrei sposato il Diavolo; lui ribatté che mi avrebbe costretta a mantenere la promessa. Allora dissi che mi sarei messa a urlare, qui non eravamo in una casa solitaria con due cadaveri, ma in un posto pieno di gente. E lui mi disse di chiudere la bocca, per l'amor del cielo, e mi diede della sgualdrina e della puttana; e io gli dissi di pensare qualche nuovo insulto, perché di quelli ero stufa marcia. Se ne andò imbestialito. Decisi di alzarmi prestissimo, vestirmi e scappar via. Se fossi stata costretta a sposarlo, sarei stata morta e sepolta in un batter d'occhio; se sospettava di me adesso, figuriamoci in seguito. Una volta che mi avesse portata in una fattoria, in un posto nuovo dove non conoscevo nessuno, la mia vita non sarebbe valsa un soldo; una botta in testa e via, nell'orto, sotto due metri di terra, a ingrassare le patate e le carote, molto più presto di quanto non immaginassi. Per fortuna la porta aveva un chiavistello; lo tirai; poi mi tolsi i vestiti, tutti tranne la sottoveste, e li ripiegai con cura sulla spalliera della sedia, come facevo sempre nella stanzetta dove dormivo con Mary, a casa dell'Assessora Parkinson. Quindi soffiai sulla candela e mi infilai fra le lenzuola, che miracolosamente erano quasi pulite; e chiusi gli occhi. All'interno delle palpebre vidi acqua in movimento, le onde azzurre che si alzavano durante la traversata del lago, scintillanti di luce; ma erano onde molto più grandi, e più scure, come colline rotolanti; erano le onde dell'oceano su cui avevo viaggiato tre anni prima, anche se mi sembrava un secolo. Mi chiesi che ne sarebbe stato di me, e mi consolai al pensiero che tra cent'anni avrei riposato in pace, nella tomba; pensai che forse sarebbe stato meglio andarci anche prima. Ma le onde continuavano a infrangersi; la scia bianca della nave restava visibile per un istante, poi veniva cancellata dall'acqua. Era come se le impronte dei miei passi venissero cancellate dietro di me, i passi che avevo fatto da piccola sulle spiagge e sui sentieri della terra che avevo lasciato, e i passi fatti su questo lato dell'oceano, da quand'ero qui; ogni mia traccia,
dissolta e cancellata come se non fosse mai esistita, come quando lucidi l'argento per togliere la patina scura, o quando passi una mano sulla sabbia asciutta. A metà tra la veglia e il sonno, pensai: È come se non fossi mai esistita, perché non resta traccia di me, non ho lasciato alcun segno. Così nessuno mi può seguire. È quasi come essere innocente. E poi dormii. 40 Ecco cosa sognai, mentre dormivo fra le lenzuola quasi pulite, nella locanda di Lewiston. Camminavo lungo il viale curvo che portava alla casa del signor Kinnear, fra le due file di aceri che lo fiancheggiavano. Vedevo ogni cosa per la prima volta, ma sapevo anche di esserci già stata, come succede nei sogni. E pensavo: Chissà chi vive in quella casa? Poi capii di non essere sola lungo il viale. Dietro di me, sulla sinistra, camminava il signor Kinnear; era lì per proteggermi dai pericoli. Poi si accese una lampada dietro la finestra del salotto, e sapevo che dentro c'era Nancy, che mi aspettava per darmi il benvenuto dopo il mio viaggio; perché ero andata in viaggio, di questo ero sicura, ed ero stata via per molto tempo. Però non era Nancy, era Mary Whitney che mi aspettava; fui così felice all'idea di rivederla, sana e allegra come un tempo. Vidi che la casa era molto bella, tutta bianca, con le colonne davanti e le peonie bianche fiorite accanto alla veranda, luminose nella semioscurità, e la lampada che splendeva alla finestra. Provai una gran nostalgia per quel luogo, anche se nel sogno mi trovavo proprio lì; ma quel posto io lo desideravo immensamente, perché era la mia vera casa. E mentre provavo questa sensazione, la lampada fu spenta e la casa rimase al buio; vidi che c'erano le lucciole, e che brillavano; dai campi lì attorno arrivava l'odore delle belle di notte in fiore, e l'aria tiepida e umida della sera d'estate mi accarezzava la guancia, dolcemente. E una mano scivolò nella mia. Proprio allora qualcuno bussò alla porta. XI Alberi caduti
La ragazza non dà segno di aver passato una notte insonne né di avere una colpa sulla coscienza; appare anzi molto calma, e ha lo sguardo limpido e sereno di chi ha fatto un lungo sonno tranquillo; sembra ansiosa soltanto di farsi mandare i suoi vestiti, e il suo baule. Di vestiti non ne ha mai avuti molti; quello che indossa ora è della donna assassinata, e anche il baule che reclama apparteneva alla povera sventurata. «Chronicle and Gazette», Kingston, 12 agosto 1843 «Ma benché io mi sia amaramente pentita della mia malvagità, Dio ha voluto far sì che io non conosca più un istante di pace. Da quando ho aiutato Macdermot a strangolare (Nancy) Montgomery, il suo volto terribile, e quei tremendi occhi iniettati di sangue non mi hanno abbandonata per un attimo. Sono puntati su di me giorno e notte, e quando chiudo gli occhi, disperata, li vedo guardarmi nell'anima: è impossibile sfuggirgli... la notte, nel silenzio e nella solitudine della mia cella, quegli occhi sfolgoranti illuminano a giorno la prigione. No, non a giorno: la loro luce è incandescente, non è una cosa di questa terra...» Grace Marks, a Kenneth MacKenzie, come riferito da Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 Non era amore, anche se la sontuosa bellezza di lei lo faceva impazzire; né orrore, neppure quando immaginava il suo spirito saturo della stessa funesta essenza che sembrava pervadere il suo corpo; era il rampollo irrefrenabile sorto da amore e da orrore, che aveva le sembianze di entrambi i genitori, e come l'uno ardeva, come l'altro rabbrividiva... Benedette le emozioni semplici, oscure o luminose che siano! È il sinistro connubio delle due, che produce la vampa che illumina le regioni infernali. Nathaniel Hawthorne, La figlia di Rappaccini, 1844 41
Al Dottor Simon Jordan, presso il Maggiore C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale, dalla signora William P. Jordan, Laburnum House, Loomisville, Massachusetts, Stati Uniti d'America. 3 agosto 1859 Figlio mio carissimo, Sono in uno stato di profondissima ansia, non avendo ricevuto una tua lettera da tanto tempo. Mandami almeno una parola, ti prego, per farmi sapere che non ti è successo niente di brutto. In questi giorni bui, in cui una guerra disastrosa incombe sempre più da vicino, la prima speranza di una madre è che i suoi cari - e a me non resti che tu - siano sani e salvi. Forse sarebbe meglio che tu rimanessi all'estero, per evitare l'inevitabile; ma è solo un debole cuore di madre che lo chiede, perché in coscienza non potrei mai sostenere le ragioni della viltà, quando tante altre madri saranno sicuramente preparate a fronteggiare quel che il destino riserva loro. Ho tanto desiderio di rivedere ancora una volta il tuo caro viso, figlio mio. La leggera tosse che mi affligge fin dalla tua nascita, ultimamente è peggiorata, e la sera ho delle crisi piuttosto violente; i miei nervi sono straziati, ogni giorno che tu passi lontano da noi, dalla paura che io possa andarmene all'improvviso, magari nel cuore della notte, senza avere l'opportunità di darti l'ultimo amoroso addio, l'ultima benedizione materna. Se mai la guerra non ci sarà, come dobbiamo sperare tutti quanti, prego ardentemente di vederti sistemato, in una casa tua, prima di quel giorno inevitabile. Ma non voglio che le mie paure senz'altro vane e le mie ubbie ti distraggano dai tuoi studi, dalle tue ricerche e dai tuoi matti, da qualunque cosa tu faccia insomma, che sarà sicuramente molto importante. Spero che tu ti nutra in modo adeguato, e ti mantenga in forze. La buona salute è una benedizione senza pari, e se uno non l'ha ereditata, deve starci ancora più attento. La signora Cartwright dice che è una gran fortuna che sua figlia non è mai stata malata un giorno in vita sua, ed è forte come un cavallo. Una mente salda in un corpo sano sarebbe la migliore eredità da lasciare ai figli; la tua povera madre, ahimè, non è stata in grado di lasciarla al suo caro ragazzo, ma non certo perché non lo volesse. Dobbiamo accontentarci, tutti quanti, di quello che la Provvidenza ci ha dato, in questa vita. Le mie fedeli Maureen e Samantha ti mandano i loro cari saluti, e spera-
no che tu le ricordi. Samantha dice che la sua marmellata di fragole, che da ragazzo ti piaceva tanto, è sempre buona come un tempo, e che dovresti affrettarti a tornare per assaggiarla, prima che lei «attraversi il fiume», per usare le sue parole; e la mia povera Maureen, che forse presto sarà un'invalida come tua madre, dice che ogni volta che la mangia ti pensa, e ricorda i bei tempi; tutte e due aspettano con ansia il momento di rivedere il tuo amato viso; e così pure, mille volte di più, La tua sempre affezionata e devota Mamma. 42 Simon si trova di nuovo nel corridoio su nell'attico, dove vivono le cameriere. Le sente aspettare dietro le porte chiuse, in ascolto, con gli occhi che brillano nella penombra, in un silenzio perfetto. I suoi piedi calzati delle spesse scarpe da studente fanno risuonare il pavimento di legno. Non dovrebbe esserci un tappeto qui, una stuoia? sicuramente lo sentono tutti, in casa. Apre una porta a caso, sperando di trovare Alice, o si chiamava Effie? Invece, rieccolo al Guy's Hospital. Ne sente l'odore, si può dire quasi il sapore: quell'odore denso, pesante, di pietra umida, di lana umida, di alitosi, di carne umana infetta. È il sentore della prova e della disapprovazione; sta per essere esaminato. Davanti a lui, un tavolo coperto da un lenzuolo: deve fare una dissezione, anche se è solo uno studente, nessuno gli ha insegnato, non sa come fare. La stanza è vuota, ma lui sa che quelli che sono venuti per giudicarlo lo stanno guardando. C'è una donna, sotto il lenzuolo; lo capisce dai contorni del corpo. Spera che non sia troppo vecchia, perché sarebbe ancora peggio. Una povera donna, morta di qualche malattia sconosciuta. Nessuno sa dove si procurano i cadaveri; perlomeno, nessuno lo sa con certezza. Li dissotterrano al cimitero, al chiaro di luna; no, non li dissotterrano, scemo: li fanno risorgere, è la battuta che circola fra gli studenti. Si avvicina al tavolo, passo a passo. Sono pronti gli strumenti? Sì, ecco il candeliere; ma lui è senza scarpe, ha i piedi bagnati. Deve sollevare il lenzuolo, poi sollevare la pelle di lei, chiunque sia, o fosse, quella donna, uno strato dopo l'altro. Tirar via la pelle dura come gomma, sbucciarla, svuotarla come un pesce. Trema dal terrore. Lei sarà fredda, inflessibile. Le tengono nel ghiaccio.
Ma sotto il lenzuolo c'è un altro lenzuolo, e sotto un altro ancora. Sembra una tenda di mussola bianca. Poi c'è un velo nero, quindi - ma è proprio vero? - una sottogonna. La donna dev'essere lì sotto, da qualche parte; si mette a rovistare freneticamente. E invece no; sotto l'ultimo lenzuolo non c'è niente, tranne un letto. E l'impronta di qualcuno che ci stava sdraiato. È ancora caldo. Sta fallendo senza scampo, fallendo l'esame, davanti a tutti; ma in questo momento non gliene importa. È come se lo avessero graziato. Da ora in poi andrà tutto bene, si prenderanno cura di lui. Fuori dalla porta, la stessa da cui è entrato, c'è un prato verde, con un ruscello che scorre. Il rumore dell'acqua corrente gli calma i nervi. Sente il respiro spezzato di qualcuno che trasale, un odore di fragole, e una mano gli si posa sulla spalla. Si sveglia, o sogna di svegliarsi. Sa che sta ancora dormendo, perché Grace Marks è china su di lui nell'oscurità, i suoi capelli gli sfiorano la faccia. Non ne è sorpreso, né le chiede come ha fatto a venire fin qui dalla prigione. Se la tira accanto - ha solo la camicia da notte addosso - cade su di lei e si spinge dentro di lei con un gemito di piacere, senza tanti complimenti, perché in sogno tutto è permesso. La sua schiena sussulta, sembra un pesce preso all'amo, poi si calma. Ha il fiato corto. Solo allora si rende conto che non sta sognando; la donna, almeno, non l'ha sognata. È lì davvero, in carne e ossa, sdraiata immobile accanto a lui nel letto dove regna un'improvvisa quiete, con le braccia distese lungo i fianchi, come una statua; ma non è Grace Marks. La sua magrezza, le costole sporgenti, l'odore di biancheria strinata, di canfora e violette: impossibile sbagliarsi. Il sapore d'oppio della sua bocca. È la sua diafana padrona di casa, di cui non conosce neppure il nome di battesimo. Quando l'ha penetrata non ha emesso un suono, né di protesta né di piacere. Ma almeno respira? La bacia di nuovo, cautamente, più volte, piccoli baci lievi. Lo fa per evitare di tastarle apertamente il polso. La esplora finché trova una vena, quella del collo, che pulsa. Ha la pelle tiepida, un po' appiccicosa, come sciroppo; dietro le orecchie, i suoi capelli profumano di cera. Non è morta quindi. Oh no, pensa. E adesso? Che cosa ho fatto? 43
Il Dottor Jordan è andato a Toronto. Non so quanto tempo starà via; spero non molto, perché ormai è diventato un po' un'abitudine per me, e temo che quando se ne andrà, come prima o poi deve succedere, mi sentirò triste e vuota. Che gli dirò, quando torna? Vorrà sapere dell'arresto, del processo, di quello che si è detto. Alcune cose per me sono ricordi confusi, ma potrei tirar fuori qualche episodio per lui, come quando frughi tra gli stracci alla ricerca di qualcosa che faccia al caso tuo, che dia una nota di colore, e trovi un pezzo di stoffa ancora buono. Potrei dirgli così: Be', signore, arrestarono prima me e poi James. Lui era ancora a letto addormentato, e la prima cosa che fece quando lo svegliarono fu tentare di dar la colpa a Nancy. Se trovate Nancy saprete tutto, disse, è stata colpa sua. Pensai che fosse un comportamento molto stupido, perché prima o poi l'avrebbero scovata, non foss'altro che per l'odore; infatti la trovarono il giorno dopo. James faceva finta di non sapere né dov'era né che era morta; ma avrebbe fatto meglio a non nominarla. Era mattina presto quando ci arrestarono. Ci trascinarono via dalla locanda di Lewiston in fretta e furia. Temevano, credo, che gli uomini nel locale li bloccassero e chiamassero gente per liberarci, e magari l'avrebbero fatto se a McDermott fosse venuto in mente di gridare che era un rivoluzionario o un repubblicano o qualcosa del genere, e che aveva i suoi diritti, e abbasso gli inglesi; perché allora la causa di William Lyon Mackenzie e dei rivoltosi godeva ancora di molte simpatie, e negli Stati Uniti c'era perfino chi voleva invadere il Canada. Gli uomini che ci arrestarono, inoltre, in realtà non erano autorizzati. Ma McDermott era troppo intimorito per protestare, oppure non aveva la presenza di spirito; e dopo averci fatto passare la Dogana dicendo che eravamo ricercati in quanto sospetti di omicidio, il nostro gruppetto procedette spedito e venne imbarcato senza tante storie. Durante la traversata del lago ero molto avvilita, nonostante il tempo fosse bello e l'acqua calma; cercai di tirarmi su di morale dicendomi che la giustizia non avrebbe consentito che mi impiccassero per una cosa che non avevo commesso, e che mi sarebbe bastato raccontare i fatti così come si erano svolti, perlomeno quelli che mi ricordavo. McDermott, secondo me, non aveva molte possibilità di cavarsela; però continuava a negare tutto e a dire che avevamo con noi gli oggetti di proprietà del signor Kinnear solo
perché Nancy si era rifiutata di pagarci il dovuto, e quindi ci eravamo ripagati da soli. Diceva che se qualcuno aveva ammazzato Kinnear, probabilmente era stato un vagabondo; c'era un tipo sospetto che gironzolava da quelle parti, diceva di essere un venditore ambulante e gli aveva venduto delle camicie: avrebbero dovuto dare la caccia a quello lì, e non a un onest'uomo come lui, il cui solo delitto era stato di volersi costruire una vita migliore col duro lavoro e l'immigrazione. Per mentire, mentiva, questo è sicuro; ma non sapeva farlo bene. Non gli credettero. Sarebbe stato meglio che tacesse; e poi non mi sembrava giusto da parte sua cercare di incolpare dell'omicidio il mio vecchio amico Jeremiah, che non mi risultava avesse mai commesso un'azione del genere in vita sua. Ci misero nella prigione di Toronto, chiusi in cella come bestie in gabbia, ma non abbastanza vicini da poter parlare; poi ci interrogarono separatamente. Mi fecero tantissime domande; ero spaventata, non sapevo bene cosa dire. Non avevo ancora un avvocato, il signor MacKenzie non comparve se non molto più tardi. Chiesi il mio baule, quello di cui i giornali hanno parlato a proposito e a sproposito, facendo del sarcasmo su di me perché dicevo che era mio, e perché non possedevo praticamente niente di mio; sì, è vero che il baule e i vestiti che c'erano dentro erano stati di Nancy, ma non lo erano più, perché i morti di certe cose non sanno che farsene. Giocò a mio sfavore anche il fatto che da principio ero calma e serena, con gli occhi asciutti e limpidi; lo presero per un segno di insensibilità; ma se avessi pianto a calde lacrime, avrebbero detto che ciò dimostrava la mia colpevolezza. Avevano già deciso che ero colpevole, e una volta che la gente si convince che hai commesso un reato, tutto quello che fai è considerato una prova a tuo carico. Credo che non avrei potuto grattarmi né soffiarmi il naso senza che i giornali lo scrivessero, facendo commenti maligni in linguaggio altisonante. E fu allora che mi definirono l'amante di McDermott, e la sua complice; scrissero anche che dovevo averlo aiutato a strangolare Nancy, perché bisognava essere in due per farlo. Ai giornalisti piace dare per scontato il peggio; così vendono più giornali, me l'ha detto uno di loro; perché anche alla gente rispettabile e perbene piace moltissimo leggere gli orrori commessi da altri. E poi ci fu l'inchiesta, signore; avvenne poco dopo il nostro arresto. Era per stabilire come erano morti Nancy e il signor Kinnear, se si trattava di un incidente o di omicidio; a questo scopo mi interrogarono in tribunale.
Ormai ero terrorizzata, perché sentivo l'ostilità della gente nei miei confronti; a Toronto i secondini facevano battute crudeli quando mi portavano da mangiare: speravano che il patibolo fosse alto, dicevano, così quando mi impiccavano avrebbero potuto guardarmi le caviglie. E uno di loro cercò di approfittare di me, e disse che era meglio che me la godessi finché potevo, perché là dove stavo andando non avrei più avuto un altro amante bravo e vigoroso come lui tra le ginocchia; ma io gli dissi di tirar via le sue sporche manacce; le cose sarebbero degenerate, se non fosse arrivato il suo collega e non avesse detto che io non ero ancora stata processata, né tantomeno condannata, e che se l'altro ci teneva al suo lavoro doveva stare alla larga da me. E l'altro infatti si tenne alla larga, quasi sempre. Questo lo dirò al Dottor Jordan, perché gli piace sentir raccontare episodi così, e prendere appunti. Bene, signore - riprenderò poi - giunse il giorno dell'inchiesta, e io mi premurai di avere un'aria pulita e ordinata, perché so quanto contano le apparenze; è come quando ti presenti per un lavoro nuovo, e ti guardano immancabilmente i polsini, per vedere se sei una persona pulita; infatti i giornali riportarono che ero vestita decorosamente. L'inchiesta fu tenuta nella sala del Municipio; c'erano molti giudici, e tutti mi fissavano accigliati; e c'era una folla immensa di spettatori, per non parlare dei giornalisti, che si pigiavano e spintonavano per guadagnarsi un posto migliore; furono ripresi più volte perché disturbavano. Non capivo come poteva starci ancora altra gente nella stanza, era piena da scoppiare, eppure c'era sempre ancora qualcuno che tentava di intrufolarsi. Cercai di non tremare e di affrontare la situazione con tutto il coraggio di cui disponevo, ma, per dirle la verità signore, non me ne restava molto. C'era anche McDermott, con la solita aria ingrugnata; era la prima volta che lo vedevo, dopo l'arresto. I giornali dissero che il suo atteggiamento era di tetra caparbietà e temeraria sfida; è il loro linguaggio, immagino. Ma il suo aspetto non era affatto diverso da quello che aveva ogni mattina a colazione. Poi cominciarono a interrogarmi sugli omicidi, e mi trovai in difficoltà. Come lei sa, signore, non ricordo con esattezza gli avvenimenti di quel giorno terribile, ho la sensazione di non essere stata presente, di essere rimasta in stato di incoscienza per molte ore; ma sapevo bene che se l'avessi detto mi avrebbero riso in faccia; Jefferson, il macellaio, testimoniò di avermi vista e di aver parlato con me, io gli avrei detto che non avevamo bi-
sogno di carne fresca. Su questa cosa della carne, e dei corpi in cantina, ci scherzarono sopra in quella poesia che vendevano per strada all'epoca dell'impiccagione di McDermott; un atteggiamento molto volgare, secondo me, che dimostra mancanza di rispetto nei confronti di un essere umano in lotta contro la morte. In sostanza, dissi che avevo visto Nancy per l'ultima volta verso l'ora di pranzo, guardando dalla porta di cucina l'avevo vista chiudere gli anatroccoli nel pollaio; poi, McDermott aveva detto che era entrata in casa, io gli avevo risposto che in casa non c'era, e lui aveva ribattuto di farmi i fatti miei. Poi, sempre secondo lui, era andata dalla signora Wrights. Ero insospettita e continuavo a chiedere di lei a McDermott durante il viaggio verso gli Stati Uniti, e lui ribadiva che stava bene; ma non avevo avuto la certezza della sua morte fino al lunedì mattina in cui la trovarono. Poi dissi che avevo sentito uno sparo, e visto il corpo del signor Kinnear disteso a terra; avevo gridato ed ero scappata via, McDermott mi aveva sparato contro ed ero svenuta. Questo lo ricordavo. E infatti trovarono il proiettile, conficcato nel telaio della porta della cucina estiva; era la prova che non mentivo. Il processo che dovevamo subire non si sarebbe svolto che in novembre, perciò rimasi chiusa per tre lunghi mesi nel carcere di Toronto; era peggio che stare qui nel Penitenziario, perché ero sola nella mia cella, e la gente veniva a vedermi e spiarmi con un pretesto qualunque. Ero molto abbattuta. Fuori, una stagione finiva e un'altra cominciava, ma per me era soltanto una luce diversa che arrivava dalla finestrella sbarrata, troppo alta per affacciarmi, e l'aria che entrava portandomi odori e profumi di ciò che non potevo vedere. In agosto, odore di fieno falciato, e poi di pesche e uva matura; in settembre di mele, in ottobre di foglie cadute; e poi il freddo che preannuncia la neve. Non avevo niente da fare, solo star seduta in cella e angustiarmi per il futuro, chiedendomi se mi avrebbero impiccata davvero, come mi dicevano ogni giorno i secondini; bisogna dire che gli piaceva moltissimo predire morte e catastrofe. Non so se l'ha notato, signore, ma certa gente è veramente contenta di vedere un'altra creatura in difficoltà, soprattutto se pensa che abbia commesso un peccato, questo dà più gusto alla faccenda. Ma chi non ha mai peccato, tra di noi, come dice la Bibbia? Io mi vergognerei, a godere così tanto della sofferenza altrui. In ottobre mi assegnarono un avvocato, il signor MacKenzie. Non era una bellezza, aveva un naso a bottiglia. Mi sembrò molto giovane e ine-
sperto, anche perché quello era il suo primo caso; qualche volta si comportava in modo troppo confidenziale, sembrava che gli piacesse restare chiuso in cella con me, da solo, e cercava un po' troppo spesso di consolarmi tenendomi la mano; d'altra parte ero contenta di avere un avvocato, uno qualunque, che prendesse le mie difese e interpretasse i fatti in modo favorevole a me; perciò non mi lamentavo, ma facevo del mio meglio per sorridere e mostrare gratitudine. Voleva che raccontassi la mia storia in quello che definiva un modo coerente, e mi accusava spesso di divagare; alla fine, seccato, disse che la cosa giusta da farsi non era raccontare la storia come la ricordavo, perché nessuno ci avrebbe mai capito niente, ma una storia che avesse un senso e qualche probabilità di essere creduta. Dovevo lasciar stare tutto ciò che non ricordavo, e soprattutto non menzionare il fatto che non lo ricordavo. Avrei detto quel che doveva essere capitato, perché era logico e plausibile, e non quello che ricordavo io. E io cercai di fare così. Ero spesso sola, e passavo molte ore a rimuginare su quel che mi aspettava, cosa si provava a essere impiccati, quanto poteva essere lunga e solitaria la strada della morte che forse avrei dovuto percorrere, e cosa avrei trovato in fondo a quella strada. Pregai Dio, ma non ottenni risposta; mi consolai riflettendo che il suo silenzio era soltanto un'altra delle sue vie misteriose. Cercai di pensare a tutte le cattive azioni che avevo commesso, per potermene pentire: non avevo scelto il lenzuolo migliore per mia madre, non ero restata sveglia mentre Mary Whitney stava morendo. E quando fosse toccato a me, magari non mi avrebbero neanche sotterrata in un lenzuolo, ma sarei stata tagliuzzata a pezzi e pezzetti dai dottori, come dicono che succede agli impiccati. Era quello che mi spaventava di più. Poi cercavo di tirarmi su rivivendo momenti del passato. Ripensavo a Mary Whitney che aveva progettato il suo matrimonio e la fattoria, e aveva già scelto perfino le tendine, ma niente di tutto ciò si era realizzato, e lei era morta tra grandi sofferenze; quando arrivò l'ultimo giorno di ottobre, ripensai alla sera che avevamo sbucciato le mele, e lei aveva detto che avrei attraversato l'acqua tre volte e poi sposato un uomo il cui nome cominciava per J. Ora mi sembrava tutto un gioco da bambine, non ci credevo più. Oh Mary, dicevo, vorrei tanto essere di nuovo nella nostra stanzetta fredda a casa dell'Assessora Parkinson, con la catinella sbrecciata e quell'unica sedia, invece che qui, in questa cella buia, in pericolo di vita. A volte, dopo, mi sentivo riconfortata, come se lei mi avesse risposto; una volta la sentii perfino ridere. Ma quando si sta soli così a lungo, l'immaginazione
prende spesso il sopravvento. Fu a quell'epoca che cominciarono a crescere le peonie rosse. L'ultima volta che ho visto il Dottor Jordan, mi ha chiesto se mi ricordavo di Susanna Moodie, che era venuta in visita al Penitenziario. Saranno circa sette anni fa, poco prima che mi mandassero al Manicomio. Sì che me la ricordavo. Mi ha chiesto cosa ne pensavo, e ho detto che sembrava uno scarafaggio. Uno scarafaggio? ha detto il Dottor Jordan. Mi sono accorta di averlo lasciato sbigottito. Sì, signore, uno scarafaggio. Piccola, rotonda, vestita di nero, con quei passettini veloci e quegli occhi neri e lucidi. Non lo intendevo come un insulto, signore, ho aggiunto, perché lui si era messo a ridere. Si riferisce solo al suo aspetto. E ti ricordi quando è andata a trovarti, poco dopo, nel Manicomio Provinciale? Non bene, signore, ho detto. C'era tanta gente che veniva. Dice che eri scatenata, che urlavi. Ti avevano messo nel reparto dei pazienti violenti. Può darsi, signore. Non ricordo di essere mai stata violenta con nessuno, se non per difendermi. E che cantavi, mi pare, ha detto lui. Mi piace cantare, ho detto bruscamente; non mi andava questo genere di domande. Un bell'inno o una ballata tirano su di morale. Hai detto a Kenneth MacKenzie che vedevi gli occhi di Nancy Montgomery seguirti ovunque? mi ha chiesto. Ho letto quello che ha scritto la signora Moodie, signore. Non mi piace dare del bugiardo a qualcuno. Diciamo che il signor MacKenzie ha interpretato a modo suo quel che gli ho detto. E cioè? Vedevo delle macchie rosse, in principio, signore. Ed era proprio vero. Sembravano macchie rosse. E poi? E poi, quando volle a tutti i costi che mi spiegassi, gli dissi cosa pensavo che fossero. Ma non ho mai detto occhi. Sì? vai avanti! ha detto il Dottor Jordan, cercando di apparire calmo; era proteso verso di me come se aspettasse la rivelazione di un gran segreto. Ma non era un gran segreto. Gliel'avrei detto anche prima, se me l'avesse
chiesto. Non ho mai detto occhi, signore, ho detto peonie. Ma al signor MacKenzie è sempre piaciuto di più ascoltare la propria voce che quella degli altri. E suppongo che essere perseguitati da occhi iniettati di sangue sia più comune. È più appropriato alle circostanze, mi segue, signore? Immagino che sia per questo che il signor MacKenzie non ha sentito bene, e la signora Moodie ha scritto quel che ha scritto. Volevano che le cose fossero a regola d'arte. In ogni caso, si trattava di peonie. Rosse. Non posso sbagliarmi. Capisco, ha detto il Dottor Jordan. Ma sembrava più sbalordito che mai. E poi vorrà sapere del processo. Cominciò il tre di novembre, e c'era così tanta gente stipata nell'aula che il pavimento cedette. Quando mi misero nel banco degli imputati, dapprima dovetti stare in piedi, ma poi mi portarono una sedia. Non si respirava, e c'era un brusio ininterrotto di voci, sembrava di essere in un alveare. Diverse persone si alzarono a parlare, alcune in mio favore, per dire che non avevo precedenti, che ero una grande lavoratrice e la mia reputazione era buona; altri, invece, parlarono contro di me, e questi ultimi erano più numerosi. Mi guardai intorno alla ricerca di Jeremiah, ma non c'era. Lui perlomeno avrebbe intuito in che ginepraio ero andata a cacciarmi, e avrebbe cercato di tirarmici fuori, perché aveva detto che eravamo simili, noi due. Quantomeno, così pensavo. Poi fecero entrare Jamie Walsh. Speravo in un cenno di simpatia da parte sua, ma mi lanciò un'occhiata così carica di rimprovero, di angoscia e di rabbia, che mi tolse ogni illusione. Si riteneva tradito nell'amore, perché ero scappata con McDermott; da quell'angelo che ero ai suoi occhi, ora ero diventata un demonio, e se prima mi aveva venerata e adorata, adesso avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per distruggermi. Mi sentii mancare il cuore; avevo contato proprio su di lui, unico fra la gente che conoscevo a Richmond Hill, perché mettesse una buona parola per me; aveva un'aria così giovane e fresca, così candida e innocente, che ne provai una fitta di dolore; la sua stima era importante per me, e perderla mi faceva soffrire. Si alzò per testimoniare e fece il giuramento; il modo in cui giurò sulla Bibbia, con grande solennità ma con la voce indurita dalla rabbia, non preannunciava niente di buono. Raccontò della nostra festicciola della vigilia, disse che aveva suonato il flauto e che McDermott si era rifiutato di ballare, e l'aveva accompagnato per un pezzo sulla strada di casa; che Nancy era viva quando lui era andato via, e stava andando a letto. Poi disse che
era venuto il pomeriggio seguente, aveva visto McDermott con la doppietta in mano, e l'altro aveva sostenuto che la usava per sparare agli uccelli. Disse che io ero in piedi accanto alla pompa a braccia conserte, e portavo calze bianche di cotone; quando mi aveva chiesto dov'era Nancy, io avevo riso e detto scherzosamente che voleva sempre sapere tutto; Nancy era andata dai Wrights, uno di loro era malato, avevano mandato un uomo a prenderla. Io non ricordo nulla di tutto ciò, signore, ma Jamie Walsh rese la sua testimonianza con tanta schiettezza che era difficile dubitarne. Ma a quel punto l'emozione ebbe il sopravvento, e mi puntò il dito contro dicendo: «Porta il vestito di Nancy, e anche i nastri della sua cuffia sono di Nancy, e la mantellina, e l'ombrello che ha in mano». A queste parole nell'aula scoppiò un finimondo di urla e schiamazzi, sembrava il giorno del giudizio; e io seppi che ero condannata. Quando venne il mio turno, dissi quel che MacKenzie mi aveva detto di dire; avevo una gran confusione in testa, a furia di cercare di ricordare le risposte giuste; volevano a tutti i costi che spiegassi perché non avevo avvertito Nancy e il signor Kinnear delle intenzioni di McDermott. Il signor MacKenzie disse che temevo per la mia vita, e fu molto eloquente, nonostante il suo naso. Disse che ero poco più che una bambina, una povera bambina senza mamma e praticamente orfana, gettata allo sbaraglio nel mondo senza che nessuno mi insegnasse niente; avevo dovuto lavorare sodo per guadagnarmi il pane, fin dall'infanzia, ed ero laboriosissima; ero anche molto ignorante e incolta, un'analfabeta mezza scimunita; ero debole e docile, facile da manipolare. Ma a dispetto di tutto quel che disse e fece, signore, il verdetto fu contro di me. La giuria mi ritenne colpevole di omicidio, in quanto complice sia prima sia dopo il fatto, e il giudice pronunciò la sentenza di morte. Mi avevano fatta alzare in piedi per ascoltare la sentenza; quando disse Morte, svenni e caddi sulle picche aguzze delle sbarre che circondavano il banco degli accusati; una delle picche mi si conficcò nel seno, proprio accanto al cuore. Potrei fargli vedere la cicatrice. 44 Simon ha preso il treno del mattino per Toronto. Viaggia in seconda classe; sta spendendo troppo, negli ultimi tempi, e si sente in dovere di fare
economia. Ha parecchie aspettative sul colloquio con Kenneth MacKenzie: potrebbe scoprire qualche dettaglio di cui Grace non ha parlato, o perché la metterebbe in cattiva luce, o perché se n'è davvero dimenticata. La mente, pensa, è come una casa; i pensieri che il proprietario non vuole più mostrare agli altri, o quelli che suscitano ricordi dolorosi, vengono gettati in un angolo, in soffitta o in cantina; c'è qualcosa di volontario nel dimenticare, come nel metter via i mobili rotti. La volontà di Grace appartiene a quel genere di volontà femminile negativa che rifiuta e respinge molto più facilmente di quanto affermi o accetti. Dentro di sé, sa che sta nascondendo qualcosa - l'ha visto, lui, quello sguardo consapevole, quasi furbesco, che le balena per un attimo negli occhi. Mentre se ne sta lì a cucire, un punto dopo l'altro, esternamente calma come una madonna di marmo, in realtà gli oppone la sua ostinata resistenza passiva. La prigione non si limita a chiudere dentro i carcerati, chiude anche fuori tutti gli altri. La prigione più robusta è quella che lei stessa si è costruita. Certe volte vorrebbe prenderla a schiaffi. La tentazione è quasi irresistibile. Ma cadrebbe nella sua trappola, e lei da quel momento avrebbe un motivo per resistergli. Gli rivolgerebbe quello sguardo da cerva ferita che ogni donna tiene in serbo per occasioni del genere. Si metterebbe a piangere. Eppure non gli sembra che le loro conversazioni siano sgradevoli, per lei. Al contrario, sembra che le accolga bene, che le piacciano; come può piacerti un gioco, quando stai vincendo, dice cupamente a se stesso. L'emozione che gli mostra più apertamente è una pacata gratitudine. Sta cominciando a odiare la gratitudine delle donne. È come se dei conigli si mettessero a scodinzolare, come venir ricoperto di sciroppo: non riesci più a togliertelo di dosso. Ti impaccia i movimenti, ti mette in svantaggio. Ogni volta che una donna gli è grata, ha voglia di farsi un bagno freddo. La loro gratitudine non è autentica; quel che intendono, è che lui dovrebbe essere grato a loro. In segreto, lo disprezzano. Ripensa con imbarazzo, e con un brivido di repulsione per se stesso, alla rozza e infantile condiscendenza con cui gli è capitato di pagare qualche povera ragazza di strada male in arnese: lei che gli rivolge uno sguardo da postulante, e lui che si sente ricco e misericordioso, come se fosse lui a concederle i suoi favori, e non viceversa. Quanto disprezzo devono aver nascosto, tutte quante, sotto i ringraziamenti e i sorrisi!
Il treno fischia; fuori dai finestrini, nubi di fumo grigio. A sinistra, oltre i campi piatti, la piattezza del lago, increspata come una lastra di metallo sbalzata. Qua e là una baracca di tronchi, un bucato steso al vento, una grassa madre che sicuramente lancia maledizioni a quel fumo, un gruppetto di bambini a occhi spalancati. Alberi appena tagliati, vecchi ceppi; un falò fumigante. Il motore batte come un cuore di ferro, il treno corre senza fermarsi, verso ovest. Via da Kingston; via dalla signora Humphrey. Da Rachel, come l'ha pregato di chiamarla. Più distanza riesce a mettere tra sé e Rachel Humphrey, più leggero e meno turbato si sente. Si è impegolato fino al collo in questa faccenda. Si dibatte, come se fosse intrappolato nelle sabbie mobili, ma non vede la possibilità di tirarsene fuori, non ancora. Avere un'amante perché è questo che è diventata, e non c'è voluto molto! - è peggio che avere una moglie. Comporta responsabilità più pesanti e più nebulose. La prima volta è stato un malaugurato caso: è caduto in un tranello mentre dormiva. La natura lo ha sopraffatto, si è insinuata in lui mentre era in stato di incoscienza, privo della corazza che lo protegge durante il giorno, e i suoi stessi sogni lo hanno tradito. E Rachel fornisce per sé la stessa versione: dice che era in stato di sonnambulismo. Credeva di essere all'aperto, intenta a raccogliere fiori in una bella giornata di sole, e invece si è ritrovata nella sua stanza, al buio, fra le braccia di lui, e ormai era troppo tardi, era perduta. Perduta è una parola che le piace molto. Ha sempre avuto un'indole molto sensibile, così gli ha detto, e va soggetta al sonnambulismo fin da bambina. Di notte dovevano chiuderla a chiave in camera, per impedirle di gironzolare al chiaro di luna. Lui non si beve questa storia neanche per un istante; d'altra parte, immagina che sia l'unico modo di salvare la faccia, per una donna beneducata, della sua classe sociale. Non osa neanche pensare a quel che deve esserle passato per la testa quella notte, né a quel che le passa ora. Da allora, si è presentata in camera sua quasi ogni sera, in camicia da notte, con uno scialletto bianco con i pizzi gettato sulle spalle. La camicia sbottonata, il nastro sul collo slacciato. Arriva con una sola candela in mano; sembra più giovane, nella penombra. Gli occhi verdi scintillano, i lunghi capelli biondi ricadono sulle spalle come un velo luminescente. Oppure, se lui passeggia fino a tardi lungo il fiume per godersi il fresco della sera, e lo fa sempre più spesso negli ultimi tempi, lei sta sveglia ad aspettarlo. La sua prima reazione è di tedio: bisogna passare attraverso un
balletto rituale che lo annoia profondamente. In principio ci sono lacrime, tremori e riluttanze: singhiozza, si rimprovera, si vede già rovinata, precipitata nella vergogna, un'anima condannata. Non è mai stata l'amante di nessuno prima, non è mai caduta così in basso, non si è mai degradata fino a quel punto; se suo marito li scopre, che ne sarà di lei? La colpa è sempre della donna. Simon la lascia proseguire su questo tono per un po'; poi la consola, la rassicura in termini quanto più possibile vaghi che tutto andrà bene, le dice che non pensa male di lei per quello che ha fatto in stato di incoscienza. Prosegue dicendo che nessuno li scoprirà, se saranno prudenti. Devono fare molta attenzione a non tradirsi con parole o sguardi, davanti agli altri, soprattutto davanti a Dora, perché i domestici sono dei pettegoli, come Rachel saprà sicuramente; precauzioni che non servono solo a proteggere lei, ma anche lui. Immagina quel che direbbe il Reverendo Verringer; per non parlare degli altri. All'idea di essere scoperta, lei piange con più lena, freme per l'umiliazione. Probabilmente non sta prendendo il laudano, perlomeno non molto, o non si agiterebbe tanto. Se fosse vedova, prosegue, quel che sta facendo non sarebbe così condannabile. Se il Maggiore fosse morto, non tradirebbe la fedeltà coniugale; ma non lo è... Lui le dice che il Maggiore l'ha trattata in modo abominevole, che è una canaglia, un mascalzone, un cane, e si merita anche di peggio. Ha mantenuto almeno una parvenza di cautela: non le ha mai promesso di sposarla all'istante, nel caso disgraziato che il Maggiore si rompesse l'osso del collo cadendo in un fosso. Fra sé, gli augura salute e lunga vita. Le asciuga gli occhi con il suo fazzolettino, sempre pulito e stirato, odoroso di violetta e infilato previdentemente nella manica. Lei lo abbraccia, gli si avvinghia; lui sente i seni premuti contro il suo petto, i fianchi, il corpo intero che gli aderisce. Ha un vitino sorprendentemente minuscolo. Le sue labbra sfiorano il collo di lui. Poi si ritrae, inorridita da quel che ha fatto, in una posa da ninfa pudica, e il suo busto s'incarca in un atteggiamento di fuga; ma a questo punto lui non è più annoiato. Rachel è diversa da tutte le donne che ha avuto. Per cominciare, è una donna perbene, la prima; e questo, come ha scoperto, complica notevolmente le cose. Le donne perbene sono per natura frigide, non conoscono la lussuria perversa e i desideri neurastenici che spingono le loro degenerate sorelle alla prostituzione; questo è quel che sostiene la teoria scientifica. La sua esperienza gli suggerisce invece che le prostitute siano motivate più
dalla povertà che dalla depravazione, ma in ogni caso devono darsi l'aria di essere come i loro clienti vogliono vederle. Una puttana deve saper fingere il desiderio e il piacere, che li provi o no; è per questa finzione che la pagano. Una cattiva puttana non è cattiva perché è brutta o vecchia, ma perché non sa recitare. Ma con Rachel è tutto il contrario. Lei finge ripugnanza; il suo ruolo è quello di opporre resistenza, quello di lui, di sopraffarla. Vuole essere sedotta, travolta, presa contro la sua volontà. Nel momento dell'orgasmo, immancabilmente, con un'espressione di sofferenza, dice no. Inoltre, il senso implicito di quel tirarsi indietro e offrirsi, di quelle suppliche mortificanti, è che gli sta offrendo il suo corpo in pagamento, glielo deve in cambio dei soldi che ha speso per lei, come in quei melodrammi a fosche tinte in cui appaiono malvagi banchieri e fanciulle virtuose ma squattrinate. L'altro suo gioco è quello di essere intrappolata, in sua balia, come nei romanzi osceni che si trovano dagli infimi bouquinistes di Parigi, pieni di sultani baffuti e di timide schiave. Argentei tendaggi, catene alle caviglie. Seni come meloni. Occhi di gazzella. Immagini banali, ma non per questo meno suggestive. Quali idiozie si è lasciato sfuggire, nel corso delle sue notturne debosce? Non se ne ricorda. Parole di passione e amore ardente, dell'attrazione irresistibile che prova per lei; strano a dirsi, ma mentre le dice, ci crede. Durante il giorno, Rachel è un fardello, un ingombro di cui vorrebbe sbarazzarsi; ma di notte è un'altra persona, e anche lui. Anche lui dice no quando intende sì. Intende: di più, ancora, più a fondo. Gli piacerebbe farle un taglietto - piccolo, s'intende - per poter assaggiare il suo sangue, e nella semioscurità della camera da letto gli sembra un desiderio normale. Un desiderio apparentemente incontrollabile si impadronisce di lui; ma in disparte - in disparte da se stesso, in quei momenti, quando le lenzuola si agitano come onde e lui si dimena e si rotola senza fiato - c'è un altro se stesso che se ne sta a braccia conserte, vestito di tutto punto, e lo osserva con curiosità. Fino a che punto arriverà, esattamente? Quanto sprofonderà? Il treno arriva alla stazione di Toronto, e Simon cerca di cacciar via questi pensieri. Alla stazione sale su una vettura di piazza e dà al vetturino l'indirizzo del suo albergo; non il migliore, non vuole scialacquare denaro inutilmente, ma neppure una stamberga perché non ha voglia di farsi mordere dalle cimici e derubare dai ladri. Mentre percorrono strade arroventate e polverose, affollate di veicoli di ogni tipo, carri di legname, diligenze,
carrozze private, si guarda attorno con interesse. Tutto è nuovo e sgargiante, pieno di vita e di movimento, tutto è pacchiano e ostentato, e puzza di denaro fresco e vernice fresca. C'è gente qui che ha fatto fortuna in brevissimo tempo, e altra che la sta facendo. Ci sono i soliti negozi e imprese commerciali, e un numero sorprendente di banche. Tra i ristoranti, nessuno sembra allettante. La gente sui marciapiedi sembra per lo più benestante, non ci sono le orde di mendicanti, gli sciami di bambini sporchi e cenciosi né i plotoni di prostitute inzaccherate o vistose che deturpano così tante città europee; eppure, tale è la sua perversità che preferirebbe essere a Londra o a Parigi. Là sarebbe anonimo, senza responsabilità. Nessun legame, nessun impiccio. Potrebbe perdersi completamente. XII Il tempio di Salomone «La guardai attonito. "Santo cielo!" pensai. "E questa sarebbe una donna? Una donna graziosa, con quell'aria dolce - una ragazzina! Che razza di cuore avrà?" Ed ebbi la tentazione di dirle che era un demonio, e che non volevo avere niente a che fare con quella faccenda orribile; ma lei era così bella, che cedetti alla tentazione, non so come...» James McDermott, a Kenneth MacKenzie, come riferito da Susanna Moodie, Ai margini delle foreste, 1853 ...perché è il destino di una donna Tacere a lungo, paziente, aspettare come un muto fantasma Finché una voce non spezza l'incanto del suo silenzio. La vita interiore di tante donne che soffrono È muta e profonda e oscura, come fiumi sotterranei Che scorrono tra caverne di tenebra... Henry Wadsworth Longfellow, Il corteggiamento di Miles Standish, 1858 45 L'ufficio legale di Bradley, Porter e MacKenzie si trova in un edificio nuovo, in mattoni rossi, piuttosto pretenzioso, sulla King Street West. In
anticamera un biondino smilzo siede a un alto scrittoio e gratta la carta con una penna dal pennino d'acciaio. All'ingresso di Simon scatta in piedi, spruzzando inchiostro come un cane che si scuote. «Il signor MacKenzie la aspetta, signore», dice. Pronuncia MacKenzie con reverente enfasi. Com'è giovane, pensa Simon; dev'essere al suo primo lavoro. Scorta Simon lungo un corridoio munito di tappeto, e bussa a una porta di quercia massiccia. Kenneth MacKenzie è nel suo tempio privato. Si è circondato di scaffali laccati, tomi di diritto costosamente rilegati, tre quadri che raffigurano corse di cavalli. Sulla scrivania, un calamaio di bizantina complessità e splendore. Lui non è proprio quello che Simon si aspettava: non è un eroico Perseo liberatore, né un cavaliere rossocrociato. È un ometto fatto a pera spalle strette, e una confortevole pancetta sotto la giacca scozzese - con un naso a patata butterato e, dietro gli occhiali d'argento, due occhi piccoli ma attenti. Si alza e tende la mano, sorridendo; ha due lunghi incisivi da castoro. Simon cerca di immaginare come poteva essere sedici anni fa, quand'era giovane, più giovane di lui adesso, ma non ci riesce. Probabilmente Kenneth MacKenzie già da bambino sembrava un cinquantenne. Questo, dunque, è l'uomo che un tempo ha salvato la vita di Grace Marks, superando ogni ostacolo: l'evidenza dei fatti, la pubblica opinione contraria, e la sua stessa testimonianza confusa e poco plausibile. Simon è curioso di sapere come ha fatto. «Piacere, Dottor Jordan.» «È stato gentile a dedicarmi il suo tempo», dice Simon. «Ma si figuri. Ho ricevuto la lettera del Reverendo Verringer; parla benissimo di lei, e mi ha accennato ai suoi metodi. Sono felice di essere d'aiuto, nell'interesse della scienza; e poi, l'avrà sentito dire, a noi avvocati piace metterci in mostra. Ma prima di cominciare...» Appaiono una bottiglia e dei sigari. Lo sherry è eccellente; il signor MacKenzie si tratta bene. «Lei non è parente del famoso ribelle?» chiede Simon, per rompere il ghiaccio. «Per niente, anche se quasi quasi preferirei esserlo; ormai non è più così penalizzante, l'hanno riabilitato da un pezzo, lo considerano il padre delle riforme. Ma a quei tempi era molto malvisto; sarebbe bastato quello a mettere il cappio al collo di Grace Marks.» «Come mai?» dice Simon. «Se ha letto i giornali dell'epoca, avrà notato che i sostenitori di Mackenzie e del suo partito furono gli unici a mettere una buona parola per
Grace. Tutti quanti gli altri volevano impiccarla, e con lei William Lyon Mackenzie, e chiunque fosse sospetto di simpatie repubblicane.» «Ma non c'era alcun rapporto fra i due!» «Nessuno. Non c'è mai bisogno di un rapporto, in questi casi. Il signor Kinnear era un conservatore, e William Lyon Mackenzie stava dalla parte dei poveri scozzesi e irlandesi, e in generale dei coloni emigrati. Gente della stessa risma, ecco quel che pensavano. Ho sudato sangue al processo, glielo garantisco. Era il mio primo caso, sa, il primissimo; ero appena diventato avvocato. Sapevo che mi giocavo la carriera, e, come poi risultò, fu un inizio promettente.» «Come mai ha assunto il patrocinio di Grace?» «Mio caro signore, me l'hanno sbolognata. Era una patata bollente. Nessun altro la voleva. Lo studio se ne fece carico gratis et amore - i due imputati non avevano un soldo, ovviamente - e siccome ero il più giovane, toccò a me; e all'ultimo minuto, per di più, con un mese scarso per prepararmi. "Be', ragazzo mio", disse il vecchio Bradley, "ecco qui. Tutti sanno che perderai, perché non c'è dubbio sulla loro colpevolezza; ma quel che conta sarà lo stile con cui perderai. C'è modo e modo: si può perdere ignominiosamente, e si può perdere con eleganza. Facci vedere che sai perdere con eleganza. Saremo tutti lì ad applaudirti." Il vecchio pensava di farmi un piacere, e magari aveva ragione.» «Li ha difesi entrambi, quindi.» «Sì. A posteriori, è stato un errore, perché i loro interessi erano in conflitto. C'erano molte cose che non andavano in quel processo; ma a quei tempi la pratica della giurisprudenza era molto meno rigorosa.» MacKenzie guarda accigliato il suo sigaro, che si è spento. Simon realizza che al poveraccio in realtà fumare non piace, ma si sente in dovere di farlo, per essere in tono con i quadri delle corse di cavalli. «E così ha incontrato Nostra Signora dei Silenzi?» chiede MacKenzie. «È così che la chiama? Sì, ho passato un bel po' di tempo con lei, a cercare di stabilire...» «Se è innocente?» «Se è pazza. O lo era, all'epoca degli omicidi. E questa, suppongo, sarebbe una specie di innocenza.» «Buona fortuna», dice MacKenzie. «È una cosa su cui non saprei pronunciarmi.» «Lei sostiene di non ricordare i delitti; o quantomeno quello della Montgomery.»
«Mio caro signore», dice MacKenzie, «lei si stupirebbe se sapesse quanto sono comuni queste perdite di memoria, fra i criminali. Pochissimi si ricordano di aver fatto qualcosa di male. Possono picchiare a sangue un uomo, e tagliarlo a pezzettini, e poi affermano di avergli dato solo uno schiaffetto. Dimenticare, in questi casi, è molto più conveniente che ricordare.» «L'amnesia di Grace sembra abbastanza genuina», dice Simon, «ne sono convinto alla luce della mia precedente esperienza clinica. D'altra parte, pur non essendo in grado di richiamare alla memoria il delitto, ricorda minuziosamente tutti i dettagli che lo riguardano, tutti i bucati che ha fatto, per esempio, o la gara nautica di velocità che avvenne prima della sua fuga attraverso il lago. Ricorda perfino i nomi delle navi.» «Lei ha verificato quel che dice? E come? Sui giornali, immagino», dice MacKenzie. «Ha mai pensato che lei possa aver ricavato tutti quei dettagli che adduce come prova dalla stessa fonte? I criminali non si stancherebbero mai di leggere quel che si scrive di loro. Da questo punto di vista, sono vani come gli scrittori. Quando McDermott asserì che Grace lo aveva aiutato nella sua bravata di strangolare la ragazza, può benissimo aver preso l'idea dalla «Chronicle and Gazette» di Kingston, che l'ha proposta come un dato di fatto, già prima dell'inchiesta. Dissero che era evidente che il nodo attorno al collo della morta era stato fatto da due persone. Un'idiozia bella e buona; da un nodo come quello non si può desumere se l'ha fatto una persona sola, o due, o venti. Naturalmente, al processo sgonfiai questa teoria.» «Ora ha fatto un voltafaccia, è passato dall'altra parte», osserva Simon. «Bisogna sempre tenere a mente entrambe le parti; è il solo modo per prevedere le mosse dell'avversario. Non che il mio abbia avuto la vita dura, in questo caso. Ma ho fatto quel che potevo; un uomo può solo fare del suo meglio, come ha detto Walter Scott da qualche parte. L'aula era affollata come l'Inferno, e, benché fosse novembre, altrettanto calda; l'aria era irrespirabile. Ciononostante, controinterrogai alcuni dei testimoni per più di tre ore. Devo dire che c'è voluta una gran resistenza; ma allora ero più giovane.» «Ha cominciato col mettere in discussione l'arresto, se ricordo bene.» «Sì. Marks e McDermott furono fermati su suolo americano, e senza mandato. Feci un bel discorso sulla violazione delle frontiere internazionali, sull'habeas corpus e via dicendo, ma il Giudice Robinson non ne volle sapere. «Poi tentai di dimostrare che Kinnear era una specie di pecora nera, e te-
neva una condotta immorale, il che era sicuramente vero. Era anche un ipocondriaco. Nessuna delle due cose aveva a che fare col delitto, ma io le gonfiai più che potevo, soprattutto la condotta immorale; ed è vero che quei quattro continuavano a saltabeccare da un letto all'altro, come in una farsa francese, ed era difficile capirci qualcosa su chi dormiva dove. «Quindi procedetti ad annientare la reputazione di quella sventurata Montgomery. Non mi sentivo in colpa per le calunnie, perché a quella povera creatura ormai non facevano né caldo né freddo. In precedenza aveva avuto un bambino, come lei saprà, che era morto, grazie alle levatrici, immagino, e durante l'autopsia scoprirono che era incinta. Senza dubbio il padre era Kinnear, ma io feci il possibile per tirare in ballo un qualche Romeo che aveva strangolato quella poveretta per gelosia. Ma sta di fatto che, per quanto tirassi, il coniglio non venne fuori dal cappello.» «Forse perché non c'era nessun coniglio», dice Simon. «Proprio così. Il mio inghippo successivo fu un tentato colpo di mano con le camicie. Chi indossava quale camicia, quando, e perché? Avevano beccato McDermott con una delle camicie di Kinnear: e allora? Dimostrai che Nancy vendeva ai domestici gli abiti smessi del suo datore di lavoro, col permesso del padrone o anche senza; quindi McDermott avrebbe potuto procurarsi onestamente la sua camicia di Nesso. Sfortunatamente, sul corpo di Kinnear era stata irrispettosamente infilata una camicia di McDermott, e questo fu un bell'intoppo. Feci del mio meglio per evitarlo, ma l'accusa mi inchiodò, e non ci fu niente da fare. «Allora appuntai i sospetti sull'ambulante a cui erano risaliti dalla camicia insanguinata gettata dietro la porta, perché aveva cercato di rifilare quella merce anche ad altri. Ma neppure questo servì; c'erano le testimonianze che l'ambulante aveva venduto proprio quella camicia a McDermott, anzi per essere precisi un poker d'assi di camicie, e poi era dispettosamente svanito nel nulla. Per qualche ragione, non desiderava comparire al processo e correre il rischio di farsi tirare il collo.» «Che vigliacco», dice Simon. «E già», dice MacKenzie ridendo. «E, quando fu il momento di Grace, devo dire che non mi fu di grande aiuto. Quella stupida si ostinò a mettersi in ghingheri con i vestiti della morta, cosa che fece inorridire la stampa e il pubblico; se fossi stato più astuto, avrei addotto il fatto come prova di una coscienza innocente e pulita, o, meglio ancora, di infermità mentale. Ma a quel tempo non ci arrivai. «In più, Grace aveva confuso notevolmente le acque. Al momento del-
l'arresto aveva detto che non sapeva dove fosse Nancy. Poi, all'inchiesta, disse che sospettava che Nancy fosse in cantina, morta, ma che non aveva visto McDermott mettercela. Ma al processo, e nella sua presunta confessione - quell'opuscolo pubblicato dallo "Star", che ci guadagnò una bella sommetta - affermò di aver visto McDermott trascinare Nancy per i capelli e buttarla giù per le scale. Però non si è mai spinta fino ad ammettere di averla strangolata.» «Ma l'ha ammesso con lei, più tardi», dice Simon. «Davvero? Non ricordo...» «Nel Penitenziario», dice Simon. «Le disse che era perseguitata dagli occhi iniettati di sangue di Nancy; è quanto riferì la signora Moodie.» MacKenzie si agita sulla sedia, a disagio, e abbassa gli occhi. «Grace era molto turbata, è chiaro», dice. «Confusa e depressa.» «Ma gli occhi?» «La signora Moodie, per cui nutro la massima stima», dice MacKenzie, «ha un'immaginazione un tantino convenzionale, e la tendenza a esagerare. Ha fatto pronunciare ai suoi personaggi discorsi piuttosto improbabili, visto che McDermott era un buzzurro senza speranza - perfino io che lo difendevo ho faticato a mettere insieme qualche buona parola sul suo conto e Grace poco più che una bambina, senza nessuna educazione. Quanto agli occhi, quando la mente immagina fortemente qualcosa, spesso lo crea anche. Lo si constata ogni giorno sul banco dei testimoni.» «Quindi, niente occhi?» MacKenzie si agita di nuovo. «Sugli occhi non potrei giurarci», dice. «Grace non disse niente di preciso, niente che un tribunale considererebbe una confessione, disse solo che le spiaceva che Nancy fosse morta. Ma questo avrebbe potuto dirlo chiunque.» «Ah, è così?» dice Simon. Ora sospetta che gli occhi non siano opera della signora Moodie, e si chiede quali altre parti del suo racconto siano dovute ai gusti narrativi sensazionalistici di MacKenzie. «Ma abbiamo anche le dichiarazioni fatte da McDermott prima di essere impiccato.» «Sì, sì, le ultime parole dette sul patibolo finiscono sempre sui giornali.» «Mi chiedo perché ha aspettato così tanto.» «Ha sperato fino all'ultimo che la pena fosse commutata, come quella di Grace. Secondo lui erano ugualmente colpevoli, e quindi anche le sentenze avrebbero dovuto essere uguali; e d'altronde non poteva accusare lei senza stringersi ancora di più il cappio al collo, perché doveva ammettere di aver colpito la ragazza con l'ascia e tutto il resto.»
«Mentre Grace poteva accusare lui con relativa impunità», dice Simon. «Esattamente», dice MacKenzie. «E non ha esitato a farlo, quand'è stato il momento. Sauve qui peut! Quella donna ha dei nervi d'acciaio. Sarebbe stata un buon avvocato, se fosse stata un uomo.» «Ma la pena di McDermott non venne commutata», osserva Simon. «Certo che no! Era una follia aspettarselo, ma lui comunque s'inferocì. Ritenne che anche questo fosse colpa di Grace, che aveva monopolizzato il mercato della grazia, e decise di vendicarsi, secondo la mia opinione.» «È abbastanza comprensibile», dice Simon. «Se ricordo bene, sostenne che Grace era scesa in cantina con lui, e aveva strangolato Nancy col suo fazzoletto.» «Be', il fazzoletto in effetti si trovò. Ma del resto non ci sono prove. Lui aveva già raccontato parecchie versioni diverse, ed era anche un noto bugiardo.» «Ma», dice Simon, «giusto per fare l'avvocato del diavolo, anche se un uomo è un noto bugiardo, non ne consegue che menta sempre.» «Precisamente», dice MacKenzie. «Bene, vedo che si è divertito cercando di acchiappare l'affascinante Grace.» «Non poi tanto», dice Simon. «Devo ammettere che sono sconcertato. Quello che dice suona vero; sembra sincera, in buona fede; eppure non riesco a liberarmi dal sospetto che in qualche modo, non so come, mi stia mentendo.» «Mentendo», ripete MacKenzie. «Una parola forte, no? Lei si chiede se le sta mentendo? Mi lasci girare la domanda in questo modo: Shéhérazade mentiva? Secondo lei, no; anzi, le storie che raccontava non dovrebbero essere viste alla cruda luce della verità o della menzogna. Appartengono a un'altra sfera. Forse Grace Marks le ha semplicemente raccontato quel che ha bisogno di raccontare, per raggiungere il suo scopo.» «E cioè?» chiede Simon. «Divertire il sultano», dice MacKenzie. «Allontanare ciò che sta per colpirla. Impedirle di andarsene, trattenerla il più a lungo possibile nella stanza, con lei.» «E a che diavolo le servirebbe?» dice Simon. «Divertire me non la tirerà fuori di prigione.» «Non credo che se lo aspetti davvero», dice MacKenzie. «Ma non è ovvio? Quella poveraccia si è innamorata di lei. Un uomo libero, abbastanza giovane, non brutto, compare davanti a una donna relegata fuori dal mondo, privata della compagnia maschile. Non c'è dubbio che lei sia oggetto
delle sue fantasticherie.» «Ma no», dice Simon, arrossendo suo malgrado. Se Grace è innamorata di lui, ha mantenuto il segreto benissimo. «Ma certo, dico io! L'ho fatta anch'io, quell'esperienza, o una del tutto simile. Ho dovuto passare molte ore con lei, nella sua cella nella prigione di Toronto, e lei me la contava in tutti i modi che sapeva. Era infatuata di me, non avrebbe voluto che mi allontanassi un attimo. Che dolcezza, che occhiate languide! Bastava prenderle la mano, e si sarebbe gettata fra le mie braccia.» Simon è disgustato. Ma senti questo mostriciattolo, con la sua giacchetta azzimata e il suo naso a patata! «Ma davvero?» dice, cercando di controllare la collera. «Ah, sì», dice MacKenzie. «Sa, credeva che sarebbe stata impiccata. La paura è un grande afrodisiaco; le consiglio di provarla, una volta o l'altra. Noi avvocati recitiamo spesso il ruolo di San Giorgio, almeno temporaneamente. Trovi una fanciulla incatenata a una roccia e in procinto di essere divorata dal mostro, la salvi, e poi te la mangi tu. È così che succede con le fanciulle, non crede? Non dico di non essere stato tentato. Era molto giovane e tenerella, a quei tempi; ma sicuramente il carcere l'ha indurita, ora.» Simon tossisce, per nascondere la rabbia. Come ha fatto a non accorgersi che quest'uomo ha la bocca di un vecchio sporcaccione depravato? Un frequentatore di bordelli di provincia. Un libertino calcolatore. «Non c'è mai stato il minimo segno di ciò», dice, «non nel mio caso.» Finora ha pensato che le fantasticherie fossero solo sue, ma sta già cominciando a dubitarne. Cosa pensava Grace di lui, in realtà, mentre cuciva e raccontava? «Sono stato veramente fortunato», dice MacKenzie, «e anche Grace lo è stata, naturalmente, perché il processo per l'omicidio di Kinnear si è fatto prima dell'altro. Era evidente per tutti che lei non poteva aver concorso nello sparare a Kinnear; e per l'omicidio di Nancy - anzi, per tutti e due - le prove erano solo circostanziali. Lei venne condannata non per omicidio, ma per complicità in omicidio, perché la sola cosa che si poté provare contro di lei fu che conosceva le intenzioni di McDermott e non le rivelò a nessuno; e che trascurò di rendere pubblico il fatto compiuto. Perfino il Giudice raccomandò la clemenza, e con l'aiuto di parecchie energiche petizioni in suo favore, riuscii a salvarle la vita. Ormai la sentenza di morte era stata pronunciata per tutti e due e il processo era chiuso, perché si era ritenuto innecessario addentrarsi nei dettagli del secondo caso; quindi Grace non venne mai processata per l'omicidio di Nancy Montgomery.»
«E se lo fosse stata?» chiede Simon. «Non avrei potuto tirarla fuori. La pubblica opinione sarebbe stata troppo forte per me. L'avrebbero impiccata.» «Ma secondo lei era innocente», dice Simon. «Al contrario», dice MacKenzie. Beve un sorso di sherry, si asciuga forbitamente le labbra, sorride dolcemente al ricordo. «Secondo me, era colpevole al cento per cento.» 46 Cosa sta facendo il Dottor Jordan, e quando tornerà? Ma credo di sapere cosa sta facendo. Sta parlando con qualcuno a Toronto, cercando di scoprire se sono colpevole; ma non lo scoprirà mai, in questo modo. Non ha ancora capito che la colpevolezza non deriva da quello che hai fatto, ma da quello che gli altri hanno fatto a te. Si chiama Simon. Chissà perché sua madre, o magari suo padre, lo ha chiamato così. Mio padre non si è mai impicciato dei nostri nomi, se ne occupavano la mamma e zia Pauline. C'è Simon Pietro, l'apostolo, che il Signore trasformò in pescatore di uomini. Ma c'è anche Simon il Sempliciotto, quello che incontrò il pasticciere che andava alla fiera, e gli disse: fammi assaggiare, ma non aveva una lira. McDermott era così, pensava di poter prendere quel che voleva senza pagare; e anche il Dottor Jordan è così. Però mi dispiace per lui. È sempre stato magrolino, ma adesso mi sembra che sia dimagrito ancora. Credo che qualcosa lo roda dentro. Per quanto riguarda il mio nome, magari viene dall'inno. Mia madre non me l'ha mai detto, ma ci sono tante cose che non mi ha mai detto. Meravigliosa Grazia! Com'è dolce il suono Che mi ha salvata nella sventura! Un tempo ero perduta, ma ora sono ritrovata, Un tempo ero cieca, ma ora ci vedo. Spero che il mio nome venga di lì. Mi piacerebbe essere trovata. Mi piacerebbe vedere. O essere vista. Mi domando se, agli occhi Dio, le due cose sono una. Come dice nella Bibbia, Perché ora vediamo confusamente, attraverso un velo; ma allora vedremo faccia a faccia. Per vedersi faccia a faccia, bisogna essere in due a guardarsi.
Oggi era giorno di bagno. Corrono voci che vogliano farci fare il bagno nude, a gruppi, invece che due a due, in sottoveste; dicono che si risparmierebbe tempo e denaro, perché si userebbe meno acqua, ma io penso che sia un'idea indecente, e se ci provano protesterò presso le autorità. O forse no, perché queste cose ci vengono mandate per metterci alla prova, e forse dovrei accettare senza lamentarmi, come faccio con tutto il resto, o quasi tutto. Il bagno è già abbastanza sgradevole così, con quel pavimento di pietra cosparso di vecchio sapone sporco e scivoloso, che sembra gelatina, e poi c'è sempre una guardiana che controlla; ma forse è meglio, altrimenti si butterebbero l'acqua addosso. D'inverno si gela, ma ora, col caldo dell'estate, il sudore e la sporcizia, che raddoppia quando lavori in cucina, l'acqua fredda non mi dispiace, mi rinfresca. Dopo il bagno, ho passato qualche ora a cucire. Sono indietro con le uniformi degli uomini, perché in prigione entrano sempre più criminali, soprattutto d'estate, con la canicola, quando la gente fa in fretta a perdere la pazienza e diventa vendicativa; quindi hanno bisogno anche delle mie mani. Hanno ordini da evadere e quantità da produrre, proprio come in una fabbrica. Annie Little era seduta accanto a me sulla panca, mi si è accostata e mi ha bisbigliato: Grace, Grace, è bello il tuo dottorino? Ti tirerà fuori di qui? Sei innamorata di lui? sì che lo sei. Non fare la stupida, ho bisbigliato io, non dire scemenze, non sono mai stata innamorata di un uomo in vita mia e non voglio cominciare adesso. Devo scontare una condanna a vita e qui dentro non c'è tempo per quelle cose, e neanche spazio. Annie ha trentacinque anni, è più vecchia di me, e non solo ogni tanto va fuori di testa, non è neanche mai cresciuta. Succede, qui al Penitenziario; alcune si fermano all'età che avevano quando le hanno messe dentro. Non darti tante arie, ha detto lei, mollandomi una gomitata. Ti piacerebbe, eh, un pezzo duro in quel posticino, non fa mai male; e tu sei così furba, ha bisbigliato, troveresti il tempo e il posto se volessi, Bertha Flood l'ha fatto con un secondino nel ripostiglio degli attrezzi ma l'hanno presa, te non ti prenderebbero mai, tu hai la mano ferma, potresti assassinare tua nonna nel suo letto senza battere ciglio. E ha fatto una risata che sembrava un grugnito. Temo che abbia condotto una vita molto poco rispettabile. Silenzio laggiù, ha detto la guardiana di turno, o vi prendo i nomi. Stanno diventando di nuovo severe, perché c'è una nuova Capoguardia-
na; e se hai troppe note negative ti tagliano i capelli. Dopo il pasto di mezzogiorno mi hanno mandata a casa del Direttore. Dora era di nuovo lì, perché si è messa d'accordo con la padrona di casa del Dottor Jordan per venire da noi i giorni di bucato; ha spettegolato come al solito. Ha detto che se dicesse tutto quel che sa, qualcuno dovrebbe smetterla di darsi tante arie, e ci sono certi sepolcri imbiancati che si vestono di seta nera e girano con fazzolettini di pizzo, e hanno l'emicrania di pomeriggio, neanche fossero donne rispettabilissime; gli altri possono fare come gli pare, ma lei non ha mica gli occhi foderati di prosciutto. Ha detto che da quando il Dottor Jordan è partito, la sua padrona passeggia avanti e indietro per ore, e guarda dalla finestra, o se ne sta seduta imbambolata; non c'è da stupirsi, ha paura che la pianti anche lui, come ha fatto quell'altro. E allora chi pagherebbe per tutti i suoi ghiribizzi, perché venga servita e riverita? Clarrie di solito non dà retta a quel che dice Dora. Non le interessano i pettegolezzi sui signori; si limita a fumare la pipa e a fare: Hm. Ma oggi ha detto che cosa gliene importa a lei di cosa combinano quelli lì, tanto vale mettersi a guardare i galli e le galline nel pollaio, e per quanto la riguarda Dio ha messo quella gente sulla terra solo per sporcare i panni, perché lei non riesce proprio a capire che altro ci stanno a fare. E Dora ha detto: Be', questo lo fanno altroché, non faccio in tempo a lavare che sporcano di nuovo, e, se bisogna proprio dire la verità, li sporcano insieme, i panni. A queste parole mi è venuto freddo, e non le ho chiesto spiegazioni. Non volevo che dicesse delle cattiverie sul Dottor Jordan, perché in complesso è stato molto gentile con me, ed è anche una distrazione non indifferente nella mia vita di monotonia e duro lavoro. Quando il Dottor Jordan torna, verrò ipnotizzata. È tutto deciso: Jeremiah, o magari farei meglio a dire il Dottor DuPont perché è così che devo ricordarmi di chiamarlo, mi ipnotizzerà, e gli altri osserveranno e ascolteranno. La moglie del Direttore mi ha spiegato tutto, e ha detto che non devo avere paura, perché sarò fra amici che mi vogliono bene, non dovrò far altro che sedermi su una sedia e addormentarmi quando il Dottor DuPont me lo dirà. Quando sarò addormentata mi faranno delle domande. Sperano di farmi tornare la memoria con questo sistema. Io le ho detto che non ero sicura di volerlo, ma che naturalmente avrei fatto come loro mi dicevano. Lei ha risposto che era contenta che avessi un
atteggiamento cooperativo, che aveva molta fiducia in me ed era sicura che la mia innocenza sarebbe stata provata. Dopo cena la guardiana ci ha dato del lavoro straordinario a maglia da portarci in cella, perché sono indietro con le calze. D'estate c'è luce fino a tardi, quindi non c'è bisogno di sprecare candele per noi. Così adesso lavoro a maglia. Sono veloce con i ferri, e finché si tratta di calze e roba semplice, lo so fare senza guardare. Mentre lavoro, penso: Cosa metterei nel mio album, se ce l'avessi? Una frangia dello scialle di mia madre. Una matassina di lana rossa dei guanti a fiori che mi aveva fatto Mary Whitney. Un ritaglio di seta, dello scialle della festa di Nancy. Un bottone d'osso, di Jeremiah. Una margherita, dalla coroncina che mi aveva fatto Jamie Walsh. Di McDermott niente, perché non voglio ricordarlo. Ma come dovrebbe essere un album? Dovrebbero esserci solo le cose belle della tua vita, oppure tutto? Molti ci mettono figure di paesaggi e di avvenimenti che non hanno mai visto di persona, per esempio duchi, o le cascate del Niagara, ma per me questo vuol dire barare. Lo farei, io? O sarei fedele alla mia vera vita? Un pezzo di tela grezza, preso dalla camicia da notte del Penitenziario. Un quadratino di sottoveste macchiata di sangue. Una striscia di fazzoletto a fiori azzurri. Nontiscordardimé. 47 La mattina seguente, poco dopo l'alba, Simon si mette in viaggio verso Richmond Hill, su un cavallo noleggiato a una scuderia dietro l'albergo. È una bestia ostinata, come tutti i cavalli abituati a cavalieri sempre diversi e sconosciuti, è duro di bocca e cerca per due volte di mandarlo a sbattere contro una staccionata. Dopodiché si mette al passo, e arranca a testa bassa al piccolo galoppo, alternandolo ogni tanto con un trotto vivace tutto scrolloni. La strada, pur se polverosa e con solchi profondi qua e là, è meglio di quanto Simon si aspettasse, e dopo varie soste nelle locande lungo il percorso per far riposare e bere il cavallo, arriva a Richmond Hill che è appena passato mezzogiorno. Anche adesso non è una gran città. C'è un emporio, un fabbro, una serie di case sparse. La locanda dev'essere la stessa che Grace ricorda. Entra, ordina arrosto e birra e chiede dove si trova la casa del fu signor Kinnear.
Il padrone non si stupisce: Simon non è certo il primo a fare quella domanda. Anzi, dice, all'epoca dei delitti arrivavano a frotte, e da allora c'è sempre qualche curioso che vuol vedere il posto. In città sono stufi di essere conosciuti solo per quello: che i morti sotterrino i morti, ecco come la pensa lui. Ma alla gente piace sentir odore di tragedia, è un'indecenza. Se lasciassero perdere le disgrazie! invece no, vogliono cacciarsi in mezzo. Certi arrivano al punto di portarsi via qualcosa: la ghiaia del viale, i fiori delle aiuole. L'attuale proprietario lo lasciano abbastanza in pace, perché ormai viene meno gente. Comunque, non gli piace che si vada a curiosare. Simon gli assicura che non è un curioso qualunque: è un dottore, e sta esaminando Grace. Perde tempo, dice il padrone, tanto Grace è colpevole. «Era una bella donna», aggiunge, come se fosse orgoglioso di averla conosciuta. «Una gattamorta. Non avresti mai indovinato cosa le passava per la testa, dietro quella faccia d'angelo.» «Aveva solo quindici anni, allora, no?» dice Simon. «Ma gliene avresti dati diciotto. Che vergogna, essere così perfida, a quell'età.» Dice che il signor Kinnear era un vero signore, anche se faceva una vita disordinata, e Nancy Montgomery era simpatica a molti, benché vivesse nel peccato. Aveva conosciuto anche McDermott; un vero atleta, e si sarebbe messo in carreggiata alla fine, se non fosse stato per Grace. «È stata lei a menarlo per il naso e a mettergli il cappio attorno al collo.» Dice che le donne se la cavano sempre con poco. Simon chiede di Jamie Walsh, ma Jamie Walsh è andato via. Qualcuno dice in città, qualcun altro negli Stati Uniti. Quando la proprietà di Kinnear venne venduta, i Walsh dovettero trasferirsi. In effetti, di quelli che ci abitavano all'epoca non ne restano molti in quella zona, perché da allora c'è stato un gran comprare e vendere, e un gran andare e venire, perché, come si suol dire, l'erba del vicino è sempre più verde. Simon si dirige verso nord, e non fatica a trovare la proprietà di Kinnear. Non intendeva arrivare fino alla casa, solo dare un'occhiata da lontano; ma il frutteto che ai tempi di Grace era giovane ora è cresciuto, e blocca la visuale. Si ritrova lungo il viale d'accesso, e prima di rendersene conto ha legato il cavallo allo steccato fra le due cucine, ed è di fronte alla porta principale. La casa è più piccola e peggio tenuta di come l'immaginava. La veranda con le colonnine ha bisogno di una mano di vernice, sui cespugli di rose, trascurati, i fiori sono pochi e infestati dagli afidi. Cosa ne ricavo dal vede-
re con i miei occhi? si chiede Simon; tranne, ovviamente, il volgare brivido di lasciarsi andare a un interesse morboso? È come visitare il sito di una battaglia: non c'è niente da vedere, se non con gli occhi della mente. In questi casi il confronto con la realtà attuale è sempre deludente. Ciononostante, bussa alla porta, e poi bussa di nuovo. Nessuno risponde. Sta per andarsene quando la porta si apre. Appare una donna, esile, intristita; non è vecchia ma lo sarà presto, è sobriamente vestita di un abito nero e di un grembiule. Simon ha la sensazione che Nancy Montgomery sarebbe diventata così, se fosse vissuta. «È qui per vedere la casa», dice. Non è una domanda. «Il padrone non c'è, ma ha lasciato detto di farle vedere.» Simon è sconcertato: come facevano a sapere del suo arrivo? Forse hanno ancora molti visitatori, a differenza di quel che gli ha detto l'oste? Che il posto sia diventato un macabro museo? La governante, perché di una governante deve trattarsi, si scosta per farlo passare nell'ingresso. «Vorrà sapere del pozzo, immagino», dice. «Lo chiedono tutti.» «Il pozzo?» chiede Simon. Non ha mai sentito parlare di un pozzo. Forse dopotutto la sua visita gli renderà qualche dettaglio fresco, mai tirato in ballo prima. «Cosa c'entra il pozzo?» La donna lo guarda stranita. «È un pozzo coperto, signore, con una pompa nuova. Lei vorrà sicuramente sapere com'è il pozzo, se intende comprare una casa.» «Ma non intendo comprarla», dice Simon confuso. «È in vendita?» «E se no perché gliela farei vedere? Certo che è in vendita, e non è la prima volta. Chi vive qui si sente sempre un po' a disagio. Non che ci siano fantasmi né niente, anche se magari ti viene da pensarlo, e andare giù in cantina non mi è mai piaciuto. Ma attira i curiosi.» Lo esamina: se non è un compratore, cosa ci fa qui? Simon non vuole essere messo nella categoria dei curiosi. «Sono un dottore», dice. «Ah», fa lei, con un cenno e un'occhiata saputa, come se questo spiegasse tutto. «Così, vuole vedere la casa. Ci sono un sacco di dottori che vogliono vederla. Più di tutti gli altri, perfino degli avvocati. Be', visto che è qui, tanto vale. Qui c'è il salotto, dove si dice che, all'epoca del signor Kinnear, tenevano il piano che suonava la signorina Nancy Montgomery. Dicono che cantasse come un canarino. Era un'amante della musica.» Sorride a Simon, è il primo sorriso che gli concede. Il giro turistico di Simon è completo. Vede la sala da pranzo, la bibliote-
ca, la cucina invernale; la cucina estiva, la stalla e il sottotetto «dove dormiva quella canaglia di McDermott». Le camere da letto, al piano di sopra, «Dio solo sa cosa succedeva qui», e la stanzetta di Grace. L'arredamento ora è diverso, ovviamente. Più povero, più trasandato. Simon cerca di immaginare come doveva essere allora, ma non ci riesce. Con innato senso dello spettacolo, la governante tiene per ultima la cantina. Accende una candela e lo precede sulle scale, mettendolo in guardia perché non scivoli. La luce è fioca, i ragni hanno lavorato negli angoli. C'è odore di umido, di terra e verdure. «È proprio qui che l'hanno trovato», annuncia con gusto la governante, «e lei era nascosta dietro quel muretto. Non so come mai si siano presi la briga di nasconderla. Il delitto viene sempre alla luce, e così è stato. È un peccato che non abbiano impiccato quella Grace, e non sono la sola a dirlo.» «Sono sicuro di no», dice Simon. Ha visto anche troppo, vuole andarsene. Sulla porta le dà una moneta - gli sembra la cosa giusta da fare - e lei la intasca con un cenno. «Può vedere anche le tombe, al cimitero, in città», gli dice. «Non ci sono i nomi, ma non può sbagliarsi. Sono le uniche coi paletti attorno.» Simon la ringrazia. Si sente come uno che sgattaiola via dopo aver assistito a uno spettacolo osceno. Che razza di voyeur sta diventando? Un incallito, evidentemente, perché si avvia direttamente alla chiesa presbiteriana; è facile trovarla, non ci sono altri campanili in vista. Dietro c'è il cimitero, verde e ben tenuto, con i morti sotto controllo. Niente erbacce invadenti, qui, niente corone sbrindellate, niente disordine né confusione, niente che somigli alla barocca opulenza dell'Europa. Né angeli, né calvari, né altre stupidaggini. Il paradiso, per i presbiteriani, dev'essere un po' come una banca, dove ogni anima è etichettata e quietanzata, e sistemata nell'apposita casella. Le tombe che cerca sono in vista. Sono entrambe cintate da steccati di legno, gli unici del cimitero; senza dubbio per impedire agli occupanti di uscire, dato che gli assassinati hanno la reputazione di andarsene a zonzo. Evidentemente neppure i presbiteriani sono immuni dalla superstizione. Lo steccato di Thomas Kinnear è verniciato di bianco, quello di Nancy Montgomery di nero, forse come segnale del giudizio dei concittadini sul suo conto: vittima o non vittima, era pur sempre una cattiva ragazza. Non li hanno sepolti nella stessa tomba; non volevano avallare lo scandalo. La tomba di Nancy è stata curiosamente piazzata ai piedi di quella di Kinnear, ad angolo retto, come un tappeto davanti a un letto. Un grosso cespuglio di
rose occupa quasi per intero la recinzione di Nancy (la vecchia ballata, quindi, è stata profetica) ma in quella di Kinnear non c'è nessun rampicante. Simon coglie una rosa dalla tomba di Nancy, con una mezza idea di portarla a Grace, ma poi ci ripensa. Passa la notte in una locanda poco confortevole sulla strada per Toronto. I vetri alle finestre sono talmente sporchi che quasi non si vede fuori, le lenzuola odorano di muffa; proprio sotto la sua stanza, un gruppo di vocianti ubriaconi schiamazza fino a mezzanotte passata. Succede, a viaggiare in provincia. Spinge una sedia contro la porta, per impedire visite sgradite. La mattina si alza presto e ispeziona le varie morsicature di insetti che si è beccato durante la notte. Si lava la faccia nel catino di acqua tiepida che gli ha portato la cameriera, la quale funge anche da sguattera; l'acqua sa di cipolle. Dopo aver fatto colazione con una fetta di prosciutto antidiluviano e un uovo di dubbia freschezza, si rimette in strada. Non c'è molta gente in circolazione; incontra un carro, un boscaiolo che abbatte un albero secco in un campo, un contadino che piscia in un fosso. I piccoli banchi di nebbia sospesi qua e là sui campi svaniscono come sogni alla luce del sole. C'è foschia nell'aria, sul ciglio della strada l'erba è bagnata di rugiada; il cavallo ne strappa qualche ciuffo passando. Simon tira le redini senza troppa convinzione, poi lo lascia procedere lemme lemme, al passo. È invaso dall'inerzia, privo di energia e di scopo. Prima di prendere il treno del pomeriggio, c'è ancora una cosa che deve fare. Vuole vedere la tomba di Mary Whitney. Vuole accertarsi che sia davvero esistita. Ha controllato i suoi appunti: la chiesa metodista di Adelaide Street è quella di cui ha parlato Grace. Nel cimitero, il granito levigato sta sostituendo il marmo, e i versi ormai scarseggiano; l'ostentazione viene affidata alla solidità e alla mole dei materiali, non più alle decorazioni. Ai metodisti piace che i monumenti siano monumentali, imponenti, inequivocabili come le spesse righe nere tirate sotto le chiusure dei conti sul libro mastro di suo padre: Saldato. Passeggia lungo le file di tombe, leggendo i nomi dei vari Biggs e Stewart, Fluke e Chamber, Cook e Randolph e Stalworthy. Alla fine la trova, in un angolo: una piccola lapide grigia, che sembra più vecchia dei suoi di-
ciannove anni. Mary Whitney, soltanto il nome, nient'altro. Ma Grace l'ha detto, che poteva permettersi solo il nome. La certezza si accende in lui come una fiamma: allora la sua storia è vera! ma altrettanto rapidamente si spegne. Che valore hanno questi segni materiali? Un mago tira fuori una moneta da un cappello, e siccome si tratta di una vera moneta e di un vero cappello, il pubblico crede che anche l'illusione sia reale. Ma questa pietra è solo una pietra. Tanto per cominciare, non c'è nessuna data, e la Mary Whitney sepolta qui sotto potrebbe non avere alcun rapporto con Grace Marks. Potrebbe non essere altro che un nome che Grace ha visto su una lapide, e che ha usato per imbastirci una storia. Potrebbe essere una vecchia, una madre di famiglia, una bambina, chiunque. Non ha trovato prove. Ma neppure smentite. Nel viaggio di ritorno a Kingston, Simon viaggia in prima classe. Il treno è quasi pieno, e vale la pena di spendere di più per evitare la ressa. Mentre avanza verso est lasciandosi alle spalle Toronto e Richmond Hill con le sue fattorie e i suoi prati, si sorprende a immaginare una vita laggiù, in quella campagna rigogliosa e tranquilla; nella casa di Thomas Kinnear, per esempio, con Grace come governante. E non solo governante, ma amante prigioniera e segreta. La terrebbe nascosta, sotto falso nome. Che vita indolente e senza affanni sarebbe, piena di pigri piaceri. Se la vede, seduta in poltrona nel salotto, intenta a cucire, mentre la luce della lampada illumina il suo profilo. Ma perché solo amante? Gli viene in mente che Grace Marks è la sola donna che abbia mai incontrato che vorrebbe sposare. L'idea arriva come una folgorazione improvvisa, ma poi la esamina con calma. Pensa, con una certa amara ironia, che forse è anche l'unica che soddisferebbe tutti gli impliciti requisiti di sua madre, o quasi tutti, dato che non è ricca. Ma è bella senza essere leziosa, possiede le virtù domestiche pur essendo tutt'altro che limitata, è semplice e diretta, prudente e ponderata. Inoltre sa cucire divinamente, e di sicuro saprebbe dare dei punti alla signorina Faith Cartwright in una gara di uncinetto. Da quel lato, sua madre non potrebbe lamentarsi. E poi ci sono i suoi requisiti. Grace nasconde una natura passionale, ne è certo, anche se bisognerebbe stanarla. E lei gliene sarebbe grata, pur nella sua riluttanza. La gratitudine in sé non lo attira, la riluttanza sì. Ma c'è sempre James McDermott. Gli ha detto la verità su di lui? È vero che le ripugnava e lo temeva come sostiene? Lui l'avrà toccata, sicuramen-
te; ma quanto, e con quanto consenso da parte sua? Episodi così, visti a posteriori, appaiono in una luce differente da come li si vede a caldo, sul momento; nessuno può saperlo meglio di lui, e perché mai per una donna dovrebbe essere diverso? Diventi evasivo, ti fabbrichi delle scuse, te ne tiri fuori come meglio puoi. Ma, e se una sera, in salotto, sotto la lampada, dovesse rivelargli qualcosa che lui non vuol sapere? Ma lui vuole sapere. Una follia, è ovvio; una fantasia perversa, quella di sposare una sospetta assassina. E se l'avesse incontrata prima dei delitti? Ci riflette, e conclude che non gli interessa. Prima dei delitti, Grace sarebbe stata diversissima dalla donna che lui conosce. Una ragazzina, ancora informe, senza calore né nerbo, insipida. Un paesaggio piatto. Assassina, assassina, sussurra tra sé. Ha un suo fascino, diresti quasi un suo profumo. Gardenie di serra. È sgargiante, ma anche furtivo. Immagina di sussurrarlo mentre attira a sé Grace, premendo la bocca contro di lei. Assassina. Glielo imprime sul collo, come un marchio. XIII Il vaso di Pandora Mio marito aveva ideato una specie di Spiritoscopio molto ingegnoso... Io mi ero sempre rifiutata di mettere le mani su questa tavoletta, che si muoveva per gli interroganti sotto una qualche influenza, e compitava messaggi e nomi, lettera per lettera. Ma, un giorno che ero sola, ci misi le mani sopra, e chiesi: «È uno spirito che ha sollevato la mia mano?» e la tavoletta si inclinò in avanti e formò un «Sì»... Lei forse penserà, come ho pensato spesso anch'io, che tutto ciò è un prodotto della mia mente, ma allora la mia mente dev'essere molto più brillante di quanto io, la sua proprietaria, non supponga, se può mettere insieme, lettera dopo lettera, pagine intere su argomenti coerenti e talvolta astrusi, di cui io non conosco una parola, perché fino al momento in cui il signor Moodie non mi legge il contenuto, una volta sospesa la comunicazione, io non so neanche di cosa si tratta. Mia sorella, la signora Traili, è una medium molto potente per queste comunicazioni, e le riceve in lingue straniere. I suoi spiriti spesso la maltrattano, e la insultano con brutte parole... Ora, non pensi che sono matta o posseduta da
spiriti maligni. Potrei augurarle di essere posseduto anche lei da una tale gloriosa follia. Susanna Moodie, Lettera a Richard Bentley, 1858 Un'ombra davanti a me balena, Non tu, ma la tua sembianza. Oh, Cristo, se si potesse Per un'ora soltanto vedere Le anime amate, il tempo di dirci Dove sono, e cosa! Lord Alfred Tennyson, Maud, 1855 Una fenditura ho sentito aprirsi nella mente Come se il cervello si fosse spaccato Ho cercato di ricucirlo - pezzo a pezzo Ma le due parti non combaciavano. Emily Dickinson, 1860 circa 48 Sono in biblioteca, a casa della signora Quennell, in attesa; siedono su sedie dallo schienale rigido, e tengono d'occhio discretamente la porta socchiusa. Le tende, di velluto rosso cupo con nappe e guarnizioni nere, sono tirate; a Simon fanno venire in mente un funerale episcopaliano. Una lampada a globo è accesa. Sta nel mezzo della tavola di quercia ovale, e loro siedono attorno, in silenzio, attenti, dignitosi e guardinghi, come una giuria prima del processo. Solo la signora Quennell è in atteggiamento rilassato, con le mani placidamente giunte in grembo; si aspetta dei prodigi, che non riusciranno a coglierla di sorpresa. Sembra una guida professionale per cui le meraviglie delle cascate del Niagara, tanto per fare un esempio, sono diventate routine, ma che spera di godere vicariamente delle estasi dei neofiti in visita. La moglie del Direttore ha un'espressione ansiosa e devota, ma anche rassegnata, mentre il Reverendo Verringer riesce ad apparire contemporaneamente benevolo e pieno di disapprovazione; c'è un luccichio attorno ai suoi
occhi, come se portasse gli occhiali, ma non li porta. Lydia, seduta alla sinistra di Simon, indossa un vestito vaporoso e lucente, color lilla striato di bianco, con una scollatura che mette in mostra le clavicole delicate; emana una fragranza di mughetto. Stringe nervosamente il fazzoletto, ma sorride ogni volta che i suoi occhi incontrano quelli di Simon. Lui, da parte sua, sa di avere stampata in faccia una smorfia scettica e sgradevolmente sarcastica, ma sa anche che è falsa, perché dentro di sé è eccitato come un bambino al luna park. Non crede a niente, si aspetta che ci sia il trucco e vorrebbe scoprire come funziona, ma allo stesso tempo desidera essere strabiliato. Sa che è pericoloso, come stato mentale: deve mantenersi oggettivo. Qualcuno bussa alla porta, che si spalanca, ed entra il Dottor Jerome DuPont, tenendo Grace per mano. Non porta la cuffia, e la sua crocchia manda un riflesso rosso alla luce della lampada. Ha un colletto bianco, non l'ha mai vista portarne uno, finora; sembra incredibilmente giovane. Cammina a passi incerti, come se fosse cieca, ma ha gli occhi aperti, fissi su DuPont con quel timore e quel tremore, quella pallida e muta supplica, che Simon, ora se ne rende conto, ha sempre sperato invano. «Vedo che siete tutti riuniti», dice DuPont. «Sono onorato del vostro interesse e, spero di poterlo affermare, della vostra fiducia. Quella lampada va tolta dal tavolo. Signora Quennell, posso approfittare della sua bontà? E va anche abbassata, grazie. E la porta chiusa.» La signora Quennell si alza e sposta in silenzio la lampada su un tavolino nell'angolo. Il Reverendo Verringer chiude la porta con fermezza. «Grace siederà qui», dice il Dottor DuPont. La sistema con la schiena alle tende. «Sei comoda? Bene. Non avere paura, nessuno di noi vuoi farti del male. Le ho spiegato che non deve fare altro che ascoltarmi, e addormentarsi. Hai capito, Grace?» Grace fa cenno di sì. Siede rigida, a labbra strette, le pupille dilatate nella semioscurità e le mani serrate sui braccioli della sedia. Simon ha visto gente in posizioni come quella negli ambulatori degli ospedali: gente che soffre, o che aspetta di essere operata. In preda a una paura animale. «Questo è un procedimento del tutto scientifico», dice il Dottor DuPont. È a loro che parla, non a Grace. «Vi prego di non fare paragoni col Mesmerismo o altri procedimenti fraudolenti come quello. Il sistema Braidiano è assolutamente logico e sicuro, ed è stato messo alla prova dagli esperti europei oltre ogni ragionevole dubbio. Comporta il rilassamento guidato dei nervi e il loro riallineamento, così da indurre un sonno neuro-ipnotico.
Lo stesso processo si può osservare nei pesci, quando viene massaggiata la pinna dorsale, e anche nei gatti; ma negli organismi più evoluti i risultati ovviamente sono più complessi. Devo chiedervi di evitare movimenti bruschi e rumori forti, perché possono provocare un trauma nel soggetto, e perfino danneggiarlo. Vi chiedo di restare in silenzio finché Grace non si addormenta, poi potrete conversare a bassa voce.» Grace lancia uno sguardo alla porta chiusa come se pensasse alla fuga. È talmente nervosa che Simon riesce quasi a sentirla vibrare come una corda tesa. Non l'ha mai vista così terrorizzata. Che cosa le ha fatto o detto DuPont prima di portarla qui? Sembra quasi che l'abbia minacciata; eppure quando le parla alza gli occhi verso di lui fiduciosa. Di qualunque cosa abbia paura, non è di DuPont. DuPont abbassa la lampada. Sembra che l'aria della stanza si impregni di un fumo appena visibile. Ora la faccia di lei è in ombra, si vede solo il luccicare vitreo degli occhi. DuPont comincia il procedimento. Le suggerisce un senso di pesantezza, di sonno incombente; poi dice a Grace che il suo corpo fluttua, galleggia, che sta affondando, che va giù, giù, giù come se fosse in acqua. Parla con voce monocorde e suadente. Le palpebre di Grace si abbassano; il respiro è calmo e profondo. «Dormi, Grace?» le chiede DuPont. «Sì», dice lei con voce bassa e assonnata, ma chiaramente udibile. «Mi senti.» «Sì.» «Senti solo me? Bene. Quando ti svegli, non ricorderai niente di quel che sarà successo. Ora, scendi ancora più giù.» Una pausa. «Per favore, alza il braccio destro.» Il braccio si alza lentamente come se fosse attaccato a una corda, finché è in posizione orizzontale. «Il tuo braccio», dice DuPont, «è una sbarra di ferro. Nessuno può piegarla.» Fa scorrere lo sguardo su di loro. «Qualcuno vuol provare?» Simon è tentato, ma decide di non rischiare; a questo punto, non desidera né essere convinto, né venire disilluso. «No?» dice DuPont. «Allora, permettetemi.» Posa entrambe le mani sul braccio teso di Grace, ci si appoggia. «Sto usando tutta la mia forza», dice. Il braccio non si piega. «Bene. Puoi abbassarlo.» «Ha gli occhi aperti», dice Lydia, allarmata. E in effetti tra le palpebre sono visibili due mezzelune bianche. «È normale», dice DuPont, «non ha importanza. In questa condizione il
soggetto è in grado di distinguere certi oggetti anche a occhi chiusi. È una caratteristica del sistema nervoso che sicuramente riguarda qualche organo sensoriale non ancora misurabile dall'intervento umano. Ma procediamo.» Si china su Grace come per auscultarle il cuore. Poi prende da una tasca nascosta un pezzo di stoffa - un comune velo da donna, grigio chiaro - e lo lascia cadere delicatamente sulla sua testa; il velo ondeggia e si posa. Ora non c'è altro che una testa, il vaghissimo contorno di una faccia. È impossibile non pensare a un sudario. È troppo teatrale, troppo pacchiano, pensa Simon; puzza di sala di provincia di quindici anni fa, col suo pubblico di commessi creduloni e agricoltori di poche parole con le mogli malvestite, puzza di ciarlatani dalla parlantina facile che ammannivano alla gente scemenze trascendentali e consigli medici da strapazzo come pretesto per svuotargli le tasche. Si sforza di mettere il tutto in ridicolo, ma ha la pelle d'oca sulla nuca. «Ha un'aria così... così strana», bisbiglia Lydia. «Che speranza di risposta o riparazione? Dietro il velo, dietro il velo», dice il Reverendo Verringer, nel tono che riserva alle citazioni. Simon non capisce se sta scherzando o no. «Scusi?» dice la moglie del Direttore. «Ah, già: il caro Tennyson.» «Favorisce la concentrazione», dice a bassa voce il Dottor DuPont. «La vista interiore è più chiara quando non comunica con quella esterna. Ora, Dottor Jordan, possiamo tranquillamente viaggiare nel passato. Cosa vuole che le chieda?» Simon non sa da che parte cominciare. «Le chieda della casa di Kinnear», dice. «Di quale parte?» dice DuPont. «Bisogna essere precisi.» «La veranda», dice Simon, che crede nell'andare per gradi. «Grace», dice DuPont, «sei nella veranda, a casa del signor Kinnear. Che cosa vedi?» «Vedo dei fiori», dice Grace con voce impastata, velata. «È il tramonto. Sono tanto felice. Voglio restare qui.» «Ora le chieda di alzarsi», dice Simon, «e di entrare in casa. Le dica di andare verso la botola nell'ingresso, quella che porta in cantina.» «Grace», dice DuPont, «ora devi...» Un unico colpo improvviso, forte, come una piccola esplosione. Viene dal tavolo, o dalla porta? Lydia manda uno strilletto e si aggrappa alla mano di Simon; sarebbe villano da parte sua tirarla via, quindi non lo fa, anche perché lei sta tremando come una foglia.
«Ssh!» dice la signora Quennell in un penetrante sussurro. «Abbiamo un visitatore!» «William!» grida flebilmente la moglie del Direttore. «È il mio tesoro, lo so! Il mio piccino!» «Vi prego», dice DuPont irritato, «questa non è una seduta spiritica!» Grace si agita a disagio sotto il velo. La moglie del Direttore nasconde il naso nel fazzoletto. Simon occhieggia il Reverendo Verringer. Nella penombra la sua espressione non è facilmente leggibile; sembra un sorriso tirato, come di un bambino che ha mal di pancia. «Ho paura», dice Lydia, «accendete la luce!» «Non ancora», bisbiglia Simon. Le dà qualche colpetto sulla mano. Altri tre colpi secchi, come se qualcuno bussasse alla porta, chiedendo imperiosamente di entrare. «Questo è inaccettabile», dice DuPont. «Per favore, gli dica di andarsene.» «Ci provo», dice la signora Quennell. «Ma oggi è giovedì. Sono abituati a venire di giovedì.» China la testa e giunge le mani. Dopo un momento si sente una serie di brevi tonfi in successione, come una manciata di sassi che precipitano dentro una grondaia. «Ecco», dice, «penso che ora siamo a posto.» Dev'esserci un compare, pensa Simon, un complice o una qualche diavoleria fuori dalla porta o sotto il tavolo. Dopotutto, questa è la casa della signora Quennell. Chi lo sa che montatura può aver preparato? Ma sotto il tavolo non c'è niente, a parte i loro piedi. Com'è congegnata la faccenda? Il solo fatto di sedere qui lo mette in una posizione assurda, fa di lui una pedina, un gonzo da abbindolare. Ma non può andarsene proprio adesso. «Grazie», dice DuPont. «Dottore, la prego di scusare l'interruzione. Procediamo.» La mano di Lydia nella sua è un disagio crescente per Simon. È una mano piccola e caldissima. Nella stanza fa troppo caldo. Vorrebbe liberarsene, ma Lydia lo stringe in una morsa d'acciaio. Spera che nessuno veda. Sente un formicolio nel braccio; accavalla le gambe. Gli balena improvvisa la visione delle gambe di Rachel Humphrey, nude sotto le calze, e delle sue mani che la tengono ferma mentre lei si divincola. Si divincola con intenzione, e intanto lo guarda fra le ciglia per vedere l'effetto che gli fa. Si contorce furbescamente, come un'anguilla. Implora, come una schiava. Scivolosa sotto una patina di sudore, il suo o quello di lui, i capelli umidi sulla faccia, sulla bocca di lui, ogni notte. Imprigionata. La pelle che lui ha leccato è lucida come seta. Non può andare avanti così.
«Le chieda», dice, «se ha mai avuto rapporti con James McDermott.» Non intendeva fare questa domanda; sicuramente non subito, e mai in modo così diretto. Ma non è forse questo, ora se ne rende conto, ciò che veramente conta? DuPont ripete la domanda a Grace senza scomporsi. Una pausa, poi Grace si mette a ridere. O meglio, qualcuno, che non sembra lei, si mette a ridere. «Rapporti, Dottore? Cosa vuol dire?» È una voce sottile e tremula, ma presente, attenta. «Che ipocrita è lei, Dottore! Vuol sapere se l'ho baciato, se sono andata a letto con lui. Se ero la sua amante. E questo che vuol sapere?» «Sì», dice Simon. È interdetto, ma deve cercare di nasconderlo. Si aspettava una serie di monosillabi, dei sì o dei no estratti a forza dal suo stato di ebetudine e letargo, una serie di risposte faticose e sonnolente alle sue domande chiare e nette. Non certo questo aperto sarcasmo. Non può essere la voce di Grace; ma allora, di chi è? «Se ho fatto quello che a lei piacerebbe fare con quella sgualdrinella che le tiene la mano?» Con una risatina asciutta. Lydia sussulta e ritira la mano come se si fosse scottata. Grace ride di nuovo. «Vuol saperlo, e io glielo dico. Sì. Ci incontravamo fuori, nel cortile, al chiaro di luna, io ero in camicia da notte. Mi strusciavo contro di lui, mi lasciavo baciare, e anche toccare, dappertutto, Dottore, negli stessi posti in cui anche lei vorrebbe toccarmi, perché lo so, lo so che cosa pensa quand'è con me a respirare l'aria viziata di quella stanzetta. Ma questo è tutto, Dottore. Non gli lasciavo fare altro. Lo tenevo sulla corda, e anche il signor Kinnear. Me li giravo tutti e due attorno al dito.» «Le chieda perché», dice Simon. Non capisce cosa stia succedendo, ma potrebbe essere la sua ultima possibilità di capire. Deve evitare di perdere la testa, e agire con metodo. La sua voce gli risuona roca, spezzata. «Respiravo così», dice Grace. Manda un gemito sonoro, sensuale. «Muovevo i fianchi e mi dimenavo. E lui diceva che avrebbe fatto qualunque cosa.» Fa un risolino. «Perché? Oh, Dottore, lei non fa che chiedere perché. Non fa che ficcare il naso, e non solo il naso. Che uomo curioso! È la curiosità che ha ammazzato il gatto, lo sa? E lei dovrebbe stare attento a quel topolino che le siede accanto; e anche alla sua trappoletta pelosa!» Simon, esterrefatto, sente ridacchiare il Reverendo Verringer; o forse ha un attacco di tosse. «È scandaloso!» dice la moglie del Direttore. «Non intendo restar qui a sentire queste porcherie! Vieni, Lydia!» Fa per alzarsi, con gran fruscio di
sottane. «La prego», dice DuPont. «Abbia pazienza. Il pudore deve passare in secondo piano di fronte agli interessi della scienza.» Simon sta perdendo il controllo della situazione. Deve prendere l'iniziativa, o perlomeno provarci; deve impedire a Grace di leggere i suoi pensieri. Gli hanno parlato della chiaroveggenza di quelli che sono sotto ipnosi, ma non ci ha mai creduto. «Le chieda», dice severo, «se è stata nella cantina di casa Kinnear, sabato 23 luglio 1843.» «La cantina», dice DuPont. «Cerca di vedere la cantina, Grace. Torna indietro nel tempo, scendi giù, nello spazio...» «Sì», dice Grace, con quella sua vocetta nuova. «Nell'ingresso, la botola, la scala che porta in cantina. Le botti, il whisky, le verdure nelle casse piene di sabbia. Là, sul pavimento. Sì, sono stata in cantina.» «Le chieda se ha visto Nancy.» «Oh, sì, l'ho vista.» Silenzio. Poi: «Come vedo lei, Dottore. Da dietro il velo. E la sento, anche.» DuPont fa una faccia sorpresa. «Irregolare», borbotta tra sé. «Ma non senza precedenti.» «Era viva?» chiede Simon. «Era ancora viva, quando l'hai vista?» «Era mezza viva», dice la voce con un risolino. «O mezza morta. Non si poteva lasciarla soffrire così», cinguetta. Il Reverendo Verringer resta senza fiato. Il cuore di Simon batte all'impazzata. «L'hai aiutato a strangolarla?» dice. «È il mio fazzoletto che l'ha strangolata.» E, con un'altra risatina acuta: «Che bel disegno di fiori che aveva!» «Infame», mormora Verringer. Starà sicuramente pensando a tutte le preghiere che ha sprecato per lei, per non parlare della carta e dell'inchiostro. Alle lettere, alle petizioni, alla sua fiducia tradita. «Che peccato, perdere quel fazzoletto! Ce l'avevo da tanto. Era di mia madre. Avrei dovuto tirarlo via dal collo di Nancy. Ma James non me l'ha lasciato prendere, e neanche i suoi orecchini. Era macchiato di sangue, ma bastava lavarlo.» «L'hai uccisa», dice Lydia con un filo di voce. «L'ho sempre pensato.» Nel suo tono c'è più ammirazione che altro. «È il fazzoletto che l'ha uccisa. Delle mani lo tenevano», dice la voce. «Doveva morire. Il prezzo del peccato è la morte. E anche l'uomo è morto, una volta tanto. In due a peccare, in due a morire.» «Oh, Grace», geme la moglie del Direttore. «Avevo un'altra opinione di
te! Ci hai ingannati per tutti questi anni!» «La smetta di dire scemenze», dice allegramente la voce. «Si è ingannata da sola! Io non sono Grace! Grace non ne sapeva niente!» Tutti restano senza parole. Ora la voce si mette a canticchiare, manda un ronzio acuto e sommesso, come un'ape. «Roccia eterna, che per me ti apri, Lascia che in te trovi rifugio! Fa' che l'acqua e il sangue...» «Non sei Grace», dice Simon. Nonostante il calore della stanza, la sua pelle è gelata. «E chi sei, se non sei Grace?» «Che per me ti apri... Lascia che in te trovi rifugio...» «Devi rispondere», dice DuPont, «te lo ordino!» Un'altra serie di colpi, pesanti, ritmici, come se qualcuno ballasse sul tavolo con gli zoccoli. Poi un sussurro: «Non puoi dare ordini. Indovina.» «Lo so che sei uno spirito», dice la signora Quennell. «Parlano tramite quelli che sono in trance. Si servono dei nostri organi fisici. Questo sta parlando tramite Grace. Ma a volte mentono, sapete.» «Io non mento!» dice la voce. «Cosa m'importa ormai di mentire? Non ho più bisogno di mentire.» «Non si può sempre dargli retta», dice la signora Quennell, come se parlasse di un bambino o di un domestico. «Potrebbe essere James McDermott, venuto a infangare la reputazione di Grace, ad accusarla. È stata la sua ultima azione da vivo, e quelli che muoiono con la vendetta nel cuore rimangono sovente intrappolati al livello terrestre.» «Per favore, signora Quennell», dice DuPont. «Qui non ci sono spiriti. Quello a cui stiamo assistendo è per forza un fenomeno naturale.» Sembra un po' disperato. «No, vecchia impostora», dice la voce, «non sono James.» «Nancy, allora», dice la signora Quennell, per nulla turbata dall'insulto. «Spesso sono villani», dice. «Ci insultano. Alcuni sono arrabbiati; sono quegli spiriti legati alla terra, che non tollerano di essere morti.» «Non Nancy, stupida! Nancy non può dire niente, non una parola, col collo conciato così. Che bel collo aveva! Ma Nancy non è più arrabbiata, non ce l'ha con me, Nancy è amica mia. Ora ha capito, vuole che stiamo insieme. Su, Dottore», blandisce adesso la voce, «a lei piacciono gli indovinelli. Lei sa la risposta. Le ho detto che era il mio fazzoletto, quello che ho lasciato a Grace quando... quando...» Riprende a cantare: «Oh, no, gli occhi suoi erano sempre sinceri, Ecco perché amavo Mary...» «Non Mary», dice Simon, «non Mary Whitney!» Un colpo secco, che sembra venire dal soffitto. «Ho detto io a James di
farlo. Sono io che l'ho spinto. Io c'ero, ero lì!» «Lì?» dice DuPont. «Qui! Con Grace, dove sono ora. Faceva così freddo, a stare distesa sul pavimento, e mi sentivo sola; volevo stare al caldo. Ma Grace non lo sa, non l'ha mai saputo!» La voce non è più sfottente, ora. «Per poco non la impiccavano, ma avrebbero sbagliato. Lei non sapeva niente! Ho solo preso a prestito i suoi abiti per un po'.» «I suoi abiti?» dice Simon. «La sua sembianza terrena. Il suo involucro di carne. Lei si è dimenticata di aprire la finestra, e io non ho potuto uscire! Ma non voglio farle del male. Non dovete dirglielo!» La vocina si è fatta supplichevole. «Perché no?» chiede Simon. «Lo sa il perché, Dottor Jordan. Vuole vederla di nuovo in Manicomio? A me piaceva nei primi tempi, potevo parlare ad alta voce. Potevo ridere. Potevo raccontare quello che era successo. Ma nessuno mi ascoltava.» Un breve singhiozzo. «Non mi sentivano.» «Grace», dice Simon, «smettila di prenderci in giro!» «Io non sono Grace», dice la voce, meno sicura. «Sei veramente tu?» chiede Simon. «Dici la verità? Non avere paura.» «Lo vedi?» si lamenta la voce. «Sei come loro, non mi ascolti, non mi credi, vuoi che le cose siano come pensi tu, non senti...» Si assottiglia e si perde; segue un silenzio. «Se n'è andata», dice la signora Quennell. «Si capisce quando se ne tornano nella loro sfera. Si sente nell'aria; è un fatto di elettricità.» Per un lungo momento nessuno dice niente. Poi il Dottor DuPont si riscuote. «Grace», dice chinandosi su di lei, «Grace Marks, mi senti?» Le mette le mani sulle spalle. Un'altra lunga pausa, durante la quale sentono il respiro di Grace, che ora è agitato, come se dormisse un sonno inquieto. «Sì», dice alla fine con la sua solita voce. «Ora ti riporterò su», dice DuPont. Le toglie dolcemente il velo dalla testa. La sua faccia è tranquilla, serena. «Galleggi, vieni su, su. Vieni su dal profondo. Non ricorderai quello che è successo qui. Quando schiocco le dita, ti sveglierai.» Si accosta alla lampada, alza la luce, poi torna e avvicina le mani alla testa di Grace. Fa schioccare le dita. Grace si muove, apre gli occhi, si guarda intorno meravigliata, sorride. È un sorriso calmo, non più teso e spaurito. Il sorriso di una bambina che è stata buona. «Devo aver dormito», dice.
«Ricordi qualcosa?» chiede ansioso DuPont. «Qualcosa di quel che è capitato?» «No», dice Grace, «dormivo. Ma devo aver sognato. Ho sognato mia madre. Galleggiava nel mare. Era in pace.» Simon è sollevato; e anche DuPont, si direbbe. Le prende la mano, la aiuta ad alzarsi. «Forse ti sentirai un po' stordita», le dice con dolcezza. «Succede spesso. Signora Quennell, vuole assicurarsi che la portino in una camera, perché possa stendersi?» La signora Quennell esce insieme a Grace, sorreggendola come un'invalida, anche se ora cammina con passo sciolto, e sembra quasi felice. 49 Gli uomini si trattengono in biblioteca. Simon è contento di essere seduto; in questo momento niente gli sarebbe più gradito di un bel bicchiere di brandy liscio per calmargli i nervi, ma vista la compagnia non c'è molta speranza. Gli gira la testa, e si chiede se gli stia tornando la febbre. «Signori», esordisce DuPont, «non so che dire. Non ho mai fatto un'esperienza come questa. I risultati sono del tutto imprevisti. Di norma, il soggetto rimane sotto il controllo dell'operatore». È davvero scosso. «Duecento anni fa avrebbero saputo cosa dire», commenta il Reverendo Verringer. «Sarebbe stato un chiaro caso di possessione. Avrebbero constatato che Mary Whitney si era insinuata nel corpo di Grace Marks, ed era quindi responsabile di incitazione al delitto e di complicità nello strangolamento di Nancy Montgomery. Un esorcismo sarebbe stato di rigore.» «Ma questo è il XIX secolo», dice Simon. «Può trattarsi di una malattia neurologica.» Vorrebbe dire deve trattarsi, ma non vuole contraddire apertamente Verringer. E poi, è ancora sconvolto, e le sue certezze intellettuali sono scosse. «Ci sono stati casi di questo genere», dice DuPont. «Già nel 1816 ci fu Mary Reynolds, con le sue bizzarre alternanze di personalità, descritte dal Dottor S.L. Mitchill di New York; conosce il caso, Dottor Jordan? No? In seguito, Wakley del "Lancet" ha scritto esaustivamente sul fenomeno; lo chiama doppia coscienza, pur rigettando fermamente la possibilità di raggiungere la cosiddetta personalità secondaria tramite il Neuro-ipnotismo, perché il rischio che il soggetto venga influenzato dall'ipnotizzatore è troppo rilevante. È sempre stato un grande nemico del Mesmerismo e affini; da questo punto di vista, è un conservatore.»
«Puysegeur descrive qualcosa di analogo, se ricordo bene», dice Simon. «Può essere un caso di quello che si definisce dédoublement: il soggetto, nello stato di trance, ha mostrato una personalità completamente diversa da quella in stato di veglia, e le due metà non comunicano.» «È molto difficile crederci, signori», dice Verringer. «Eppure, sono successe cose anche più strane.» «La natura a volte mette due teste su un solo corpo», dice DuPont. «E allora perché non due persone in un solo cervello? Possono esistere esempi, non solo di stati di coscienza che si alternano, come afferma Puysegeur, ma di due personalità distinte che coesistono nello stesso corpo eppure hanno ricordi diversi e sono, agli effetti pratici, due individui separati. Sempre se, naturalmente, accettate la teoria, in sé discutibile, che noi siamo quel che ricordiamo.» «Forse», dice Simon, «noi siamo anche, e soprattutto, quel che dimentichiamo.» «Se lei è nel giusto», dice il Reverendo Verringer, «dove la mettiamo, l'anima? Non possiamo essere una serie di parti cucite insieme! È un pensiero che fa rabbrividire, e che, se fosse vero, renderebbe ridicolo il concetto di responsabilità morale, anzi della moralità stessa, come correntemente definita.» «L'altra voce, qualunque cosa fosse», dice Simon, «era impressionante per la sua violenza.» «Ma non sprovvista di una certa logica», dice Verringer asciutto, «e della capacità di vedere al buio.» Simon ricorda la mano calda di Lydia, e arrossisce. Si augura che la terra si apra e inghiotta Verringer. «Se ci sono due persone, perché non due anime?» riprende DuPont. «Se proprio dobbiamo tirare in ballo l'anima. O tre anime e tre persone, a questo punto. Pensiamo alla Trinità.» «Dottor Jordan», dice il Reverendo Verringer, ignorando questa sfida teologica, «che ne dirà di questo, nella sua relazione? Ciò che si è fatto stasera è sicuramente poco ortodosso, dal punto di vista medico.» «Dovrò vagliare attentamente la mia posizione», dice Simon. «D'altronde lei si rende conto che se accettiamo le premesse del Dottor DuPont, Grace Marks viene scagionata.» «Ammettere una tale possibilità richiederebbe una fede cieca», dice il Reverendo Verringer. «Pregherò per avere la forza di arrivarci, perché ho sempre creduto nell'innocenza di Grace; o sperato, piuttosto, anche se devo
confessare di essere un po' scosso. Ma se quello di cui siamo stati testimoni è un fenomeno naturale, chi siamo noi per metterlo in dubbio? Tutti i fenomeni vengono da Dio, e Dio deve avere le sue ragioni, per oscure che possano apparire a occhi mortali.» Simon torna a casa a piedi, da solo. È una notte tiepida e serena, con una luna quasi piena circondata da un alone di foschia; nell'aria c'è odore di erba tagliata e di sterco di cavallo, con un leggero sentore di cane. Per tutta la sera ha mantenuto un autocontrollo accettabile, ma ora sembra che il cervello gli vada a fuoco. Urla silenziose gli esplodono dentro; qualcosa in lui si agita confusamente, freneticamente, corre alla cieca come un animale col pelo in fiamme. Che cosa è successo in biblioteca? Grace era davvero in trance, o recitava, prendendosi gioco di loro? Magari quel che ha visto e sentito era solo una messinscena, ma non potrà mai provarlo. Sa che, se descrive nella relazione i fatti a cui ha assistito, e se la sua relazione viene inclusa in una petizione in favore di Grace Marks, ogni possibilità di successo verrà immediatamente stroncata. Le petizioni le leggono i Ministri della Giustizia e i loro collaboratori, uomini razionali e pratici, che vogliono prove sicure. Se poi la relazione venisse pubblicata, se circolasse, lui diventerebbe immediatamente uno zimbello, soprattutto tra i più noti rappresentanti della professione medica. Il che significherebbe dire addio ai suoi progetti per il Manicomio; chi mai darebbe fiducia a un'istituzione del genere, sapendo che è diretta da un pazzoide che crede alle voci mistiche? Non c'è modo di scrivere la relazione che Verringer desidera senza darsi la zappa sui piedi. La cosa meno rischiosa sarebbe non scrivere proprio niente, ma Verringer non gli permetterà mai di cavarsela così facilmente. Comunque, il fatto è che non può affermare niente con la certezza della verità, perché la verità gli sfugge. Anzi, è Grace che gli sfugge. Lo elude, imprendibile, lo precede voltando la testa per accertarsi che continui a seguirla. La accantona bruscamente e volge i suoi pensieri a Rachel. Lei, almeno, è qualcosa che si può afferrare, tenere stretto. Non gli scivola fra le dita. La casa è tutta buia; Rachel dev'essere addormentata. Non ha voglia di vederla, non la desidera, stasera, anzi; l'immagine di lei, del suo corpo pallido e nervoso, del suo profumo di canfora e violette appassite, gli dà una vaga nausea; ma sa che non appena passata la soglia non sarà più così. Si
incamminerà su per le scale in punta di piedi, con l'intenzione di evitarla. Poi farà dietrofront e andrà nella sua stanza, la sveglierà senza complimenti. Stanotte la picchierà; è lei che gliel'ha chiesto; non l'ha mai fatto, è una cosa nuova. Vuole punirla per essersi assuefatto a lei. Vuole farla piangere; ma non troppo forte, se no Dora li sente e starnazza allo scandalo. È un miracolo che non li abbia ancora sentiti, stanno diventando sempre più imprudenti. Sa che sta arrivando alla fine del repertorio, alla fine di quel che Rachel può offrirgli; alla fine di Rachel. Ma cosa ci sarà prima della fine? E la fine stessa, come sarà? Dev'esserci una qualche conclusione, un ultimo atto. Non riesce a immaginarlo. Forse, stanotte, dovrebbe astenersi. Apre con la sua chiave ed entra il più silenziosamente possibile. Lei è lì che lo aspetta nell'ingresso, al buio, con il suo scialletto a balze che manda un vago chiarore alla luce della luna. Lo cinge con le braccia e lo attira a sè, si stringe contro di lui. È scossa da un tremito. Lui prova l'impulso di scagliarla lontano, come se fosse una ragnatela che gli è caduta in faccia, o un viluppo di materia viscosa che lo avvolge. Invece, la bacia. Ha la faccia umida; ha pianto. Sta piangendo. «Ssh», mormora lui, carezzandole i capelli. «Ssh, Rachel.» Così vorrebbe che facesse Grace: che tremasse e si stringesse a lui. Se lo è immaginato fin troppo spesso, anche se, ora se ne rende conto, in modo falso, teatrale. Le scene erano sempre illuminate ad arte, i gesti, anche quelli di lui, languidi e pieni di eleganza, pervasi da un sontuoso fremito, come le scene di morte nei balletti. L'angoscia che si scioglie in lacrime è molto meno attraente ora che se la ritrova di fronte in carne e ossa. Asciugare i suoi occhi da cerbiatta è un conto, asciugarle il naso da cerbiatta un altro. Si fruga in tasca alla ricerca del fazzoletto. «Sta tornando», dice Rachel in un sussurro ardente. «Ho ricevuto una sua lettera.» Per un istante Simon non capisce di chi stia parlando. Ma del Maggiore, ovviamente. Nella sua immaginazione, Simon lo ha relegato nel profondo di sconosciute bisbocce, e se l'è dimenticato. «Oh, che ne sarà di noi?» sospira lei. L'espressione non è meno sentita perché melodrammatica, perlomeno per lei. «Quando?» sussurra Simon. «Mi ha scritto una lettera», singhiozza lei. «Dice che devo perdonarlo. Dice che ha cambiato vita, che vuole ricominciare da capo; dice sempre così. E ora ti perderò - è intollerabile!» Le sue spalle sobbalzano, le braccia si stringono convulse attorno a lui.
«Quando viene?» chiede di nuovo Simon. La scena che si è figurata varie volte, con un piacevole brivido di paura (lui sprofondato in Rachel, il Maggiore che appare sulla soglia, tutto onore oltraggiato e spada sguainata), ricompare più vivida. «Fra due giorni», dice Rachel con voce soffocata. «Dopodomani sera. Col treno.» «Vieni», dice Simon. La sospinge nel corridoio, verso la camera da letto. Ora che sa che la fuga non è solo possibile, ma necessaria, prova per lei un desiderio intenso. Una candela è accesa; lei conosce i suoi gusti. Non restano che poche ore; c'è il pericolo di essere scoperti; si dice che la paura e il panico accelerino il battito cardiaco e acuiscano il desiderio. Prende mentalmente un appunto (è vero) mentre, forse per l'ultima volta, la spinge sul letto e le cade pesantemente addosso, annaspando fra gli strati di stoffa che la ricoprono. «Non lasciarmi», mugola lei. «Non lasciarmi sola con lui! Tu non sai cosa mi farà!» Questa volta il suo agitarsi affannoso è reale. «Lo odio! Oh, se fosse morto!» «Ssh!» bisbiglia Simon. «Dora potrebbe sentire.» Quasi quasi spera che senta: in questo momento vorrebbe proprio un pubblico. Sistema attorno al letto una platea di invisibili osservatori: non solo il Maggiore, ma il Reverendo Verringer, Jerome DuPont e Lydia. E soprattutto Grace Marks. Vuole farla ingelosire. Rachel si immobilizza. Gli occhi verdi spalancati sono fissi in quelli di Simon. «Potrebbe non tornare», dice. Le iridi sono immense, le pupille piccole come capocchie di spillo; che abbia preso di nuovo il laudano? «Potrebbe avere un incidente. Se nessuno lo vede. Potrebbe avere un incidente, in casa; potresti sotterrarlo nel giardino.» Non è un'improvvisazione del momento: deve aver meditato un piano. «Non rimarremmo qui, potrebbero scoprirlo. Ce ne andremmo negli Stati Uniti. Col treno! E staremmo insieme. Non ci troverebbero mai!» Simon preme le labbra sulle sue, per farla tacere. Lei pensa che questo voglia dire che è d'accordo. «Oh, Simon», sospira. «Lo sapevo che non mi avresti mai lasciata! Ti amo più della mia vita!» Gli copre il viso di baci, muovendosi a scatti, come un'epilettica. È un'altra delle sue trovate per stimolare la passione, in se stessa prima di tutto. Poco dopo, mentre riposa al suo fianco, Simon cerca di figurarsi quel che deve aver immaginato. È come in un libro di uno scrittore di feuilleton di terza categoria, Ainsworth o Bulwer-Lytton nella loro vena
più sanguinaria e banale: il Maggiore ubriaco arranca su per i gradini, solo, nel crepuscolo, entra nell'ingresso. Rachel è lì; lui le molla un pugno, poi abbranca il suo corpo riluttante con lussuria da avvinazzato. Lei grida e chiede pietà, lui ride, demoniaco. Ma la riscossa non tarda a venire: alle sue spalle una vanga gli si abbatte sul capo con un colpo secco. Cade con un tonfo e viene trascinato per le caviglie lungo il corridoio che porta alla cucina, dove la borsa di pelle di Simon è in attesa. Un rapido taglio alla giugulare con un bisturi; il sangue zampilla dentro il secchio; è tutto finito. Un gran scavare al chiaro di luna, ed eccolo nell'orto, sotto i cavoli, mentre Rachel, elegantemente avvolta in uno scialle e con una lanterna oscurata in mano, gli giura che sarà sua per sempre, dopo quello che ha fatto per lei. Ma c'è Dora che guarda dalla finestra di cucina. Non si può permetterle di scappar via; Simon le dà la caccia per tutta la casa, la spinge nel retrocucina, spalle al muro, e la infilza come un maiale, con Rachel che trema e sviene, ma poi si fa forza, come una vera eroina, e gli viene in aiuto. Ecco quindi una seconda buca, più profonda, per Dora, seguita da una scena orgiastica sul pavimento di cucina. E qui finisce la farsa di mezzanotte. Poi cosa succede? Lui è un assassino, e Rachel la sua sola testimone. Lui la sposa; è incatenato a lei, è una cosa sola con lei, precisamente ciò che lei vuole. Non sarà mai libero. Ma ora viene la parte che lei sicuramente ha trascurato: una volta negli Stati Uniti, lei è in incognito. Non ha un nome. È una donna sconosciuta, una di quelle che si trovano spesso a mollo nei canali o altri specchi d'acqua: Trovata donna non identificata in un canale. Chi sospetterebbe di lui? Che metodo userà? A letto, nel momento dell'estasi, i suoi stessi capelli arrotolati attorno al collo, una leggera pressione è sufficiente. Qui il brivido non manca davvero, è una vera scena da romanzo d'appendice. Domattina lei non si ricorderà più niente di tutto ciò. Si volta di nuovo, la sistema. Le carezza il collo. Si sveglia con la luce del sole; è ancora accanto a lei, nel suo letto. Si è dimenticato di tornare in camera sua, stanotte, e non c'è da stupirsi, stanco com'era. Sente Dora muoversi rumorosamente in cucina. Rachel è distesa accanto a lui, appoggiata sul gomito, e lo guarda; è nuda, ma si è drappeggiata nel lenzuolo. Sull'avambraccio ha un livido che non ricorda di averle fatto. Si tira su a sedere. «Devo andare», bisbiglia. «Dora mi sentirà.» «Non me ne importa», dice lei. «Ma la tua reputazione...»
«Non ha importanza. Resteremo qui solo per altri due giorni.» Parla con tono pratico; per lei la cosa è stabilita, come un accordo commerciale. Gli balena il pensiero - come mai non gli è venuto prima? - che sia pazza, o comunque non sana di mente; oppure come minimo moralmente degenerata. Sale le scale di soppiatto, con le scarpe e la giacca in mano, come uno studente indisciplinato che torna da una scappatella. Suda freddo. Quello che per lui era solo una specie di commedia, lei lo prende per realtà. Pensa davvero che lui, Simon, assassinerà suo marito, per amor suo. Cosa farà se si rifiuta? Gli gira la testa; gli sembra che il pavimento sotto i piedi sia irreale, che stia per dissolversi da un momento all'altro. Va a cercarla prima di colazione. È nel salotto buono, sul divano; si alza e lo saluta con un bacio appassionato. Simon si libera e le dice che è malato; ha una febbre ricorrente di tipo malarico, l'ha presa a Parigi. Se devono portare a compimento i loro piani - la mette così, per non darle appigli - bisogna che si procuri la medicina adatta, immediatamente, o non risponde delle conseguenze. Lei gli tasta la fronte, che lui di sopra ha inumidito con la spugna, per precauzione. È doverosamente preoccupata, ma con un sottofondo di esultanza: si sta preparando a fargli da infermiera, a giocare un altro piacevole ruolo. Sa cosa ha in mente: preparargli brodini e creme, impacchettarlo in coperte e cataplasmi, bendare ogni sua sporgenza, ogni appiglio. Indebolito e inerme, senza forze, sarà in suo totale possesso: questo è il suo scopo. Deve mettersi in salvo finché può. Le bacia la punta delle dita. Le dice teneramente che ha bisogno del suo aiuto. La sua vita dipende da lei. Le caccia in mano un biglietto indirizzato alla moglie del Direttore, in cui chiede il nome di un medico, perché non conosce nessuno qui. Una volta procuratasi il nome, dovrà correre dal dottore e farsi dare la medicina. Ha scritto la prescrizione, uno scarabocchio illeggibile; le dà i soldi per comprarla. Non può andare Dora, aggiunge, perché non ci si può fidare che faccia in fretta. Il tempo è essenziale: il trattamento deve cominciare immediatamente. Lei fa di sì con la testa, sì, capisce; gli dice con ardore che farà qualunque cosa. Pallida e tremante, ma con espressione determinata, si infila la cuffia e parte di corsa. Non appena è scomparsa, Simon si asciuga la faccia e comincia a fare le valigie. Manda Dora a chiamare una vettura di piazza, corrompendola con una generosa mancia. Mentre aspetta che torni compone una lettera per Rachel, in cui la saluta educatamente, adducendo una malat-
tia di sua madre. Non la chiama Rachel, nella lettera. Acclude alcune banconote, ma nessuna parola affettuosa. È un uomo di mondo, e non si farà certamente mettere in trappola, né ricattare: niente cause per rottura di fidanzamento, se per caso suo marito muore. Forse lo ucciderà lei stessa; ne sarebbe capacissima. Pensa di scrivere un biglietto anche a Lydia, ma scarta l'idea. Meno male che non ha mai fatto una dichiarazione ufficiale. Arriva la carrozza, che sembra piuttosto una carretta; ci butta sopra le due valigie. «Alla stazione», dice. Una volta lontano, al sicuro, scriverà a Verringer, gli prometterà di fare la relazione, temporeggerà. Forse, dopo tutto, riuscirà a escogitare qualcosa di non troppo compromettente. Ma la cosa più importante ora è chiudere con fermezza questa disastrosa parentesi. Dopo una breve visita a sua madre, in cui sistemerà le sue faccende economiche, se ne andrà in Europa. Ammesso che sua madre possa ridurre il suo tenore di vita - ma sì che può - avrà appena appena il denaro sufficiente. Comincia a tirare il fiato solo quando è nello scompartimento, con le porte ben chiuse. La presenza del capotreno in uniforme lo rassicura. È il principio del ritorno all'ordine. In Europa proseguirà le sue ricerche. Studierà le più importanti scuole di pensiero, ma non darà il suo contributo; non ancora. È arrivato fin sulla soglia dell'inconscio, e ha guardato dentro, o meglio, ha guardato giù. Ha rischiato di cadere. Ha rischiato di caderci dentro. Di annegare. Forse però è meglio lasciar perdere le teorie e concentrarsi sulla pratica, sui metodi. Al suo ritorno in America si darà da fare. Terrà conferenze, cercherà sottoscrizioni. Costruirà un Manicomio modello, in mezzo a un bel parco e con il meglio che c'è in fatto di impianti idraulici e fognari. Agli Americani piace soprattutto l'idea che qualunque tipo di istituzione sia dotata di tutti i comfort. Quel che ci vuole è un Manicomio con camere grandi e confortevoli, impianti per l'idroterapia e un bel po' di apparecchiature meccaniche. Ci dovranno essere rotelle che si muovono ronzando, e ventose di gomma. Fili da attaccare al cranio. Apparati misuratori. Inserirà la parola «elettrico» nel pieghevole illustrativo. La cosa principale sarà mantenere i pazienti puliti e docili - con l'aiuto delle droghe - e i parenti ammirati e soddisfatti. Come nelle scuole per bambini, non è a chi le frequenta che bisogna fare buona impressione, ma a chi paga il conto. Tutto ciò sarà un compromesso. Ma lui ha ormai raggiunto, (di colpo, a quanto pare) l'età giusta per fare compromessi.
Il treno esce dalla stazione. Si alza una nuvola di fumo nero, poi un lungo fischio lamentoso, che lo segue lungo i binari, come un incerto fantasma. Non si sofferma a riflettere su Grace finché non si trova a metà strada tra Kingston e Cornwall. Penserà che l'ha abbandonata? Che ha perso la fiducia in lei? Se davvero ignora ciò è successo la sera prima, lo penserà con ragione. Sarà il suo turno di rimanere sconcertata. Ora non può ancora sapere che lui è partito. Se la immagina seduta sulla solita sedia, intenta a cucire la trapunta; forse canta; aspetta di sentire il rumore dei suoi passi. Fuori è cominciato a piovere. Finisce per assopirsi al dondolio del treno, appoggiato contro la parete. Ora Grace attraversa un grande prato soleggiato, viene verso di lui; è vestita di bianco, regge una bracciata di fiori rossi; l'immagine è così vivida che distingue le gocce di rugiada sui petali. Ha i capelli sciolti, i piedi nudi; sorride. Allora si accorge che non sta camminando sull'erba, ma sull'acqua; tenta di abbracciarla, e lei si dissolve come nebbia. Si sveglia; è sempre sul treno; oltre il finestrino, nuvole di fumo grigio. Preme la bocca contro il vetro. XIV La lettera X 1 aprile 1863. La detenuta Grace Marks si è resa colpevole di un duplice omicidio. La sua arroganza non è certo indice di sensibilità e la sua mancanza di gratitudine è una prova convincente del suo sciagurato carattere. 1 agosto 1863. Questa sciagurata donna è diventata un pericolo, e temo grandemente che ne vedremo delle belle da parte sua. Disgraziatamente, c'è gente che la protegge. Non oserebbe mentire come fa, se non fosse sostenuta da gente che le sta vicina. Diario del Direttore, Penitenziario Provinciale di Kingston, Canada Occidentale, 1863 ... la sua condotta esemplare per tutti i trent'anni della sua detenzione nel penitenziario; il fatto che abbia trascorso l'ultima parte
di tale periodo quale fidata domestica nella casa del Direttore, e che un gran numero di personalità influenti di Kingston abbiano ritenuto che si era meritata la grazia, tutto tende a dimostrare che si possono avanzare fondati dubbi che sia stata davvero quel terribile demonio incarnato che McDermott cercò di far credere. William Harrison, Ricostruzione del tragico caso Kinnear, scritta per il «Newmarket Era», 1908 Le mie lettere! Morta carta, bianca e muta! Eppure paiono vive e palpitanti Alla mia tremula mano che scioglie il nastro... Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese, 1850 50 Alla signora C.D. Humphrey, dal Dottor Simon Jordan, Kingston, Canada Occidentale. 15 agosto 1859 Cara signora Humphrey, Le scrivo in fretta e furia, perché sono stato richiamato a casa con la massima urgenza da una questione famigliare a cui devo assolutamente far fronte. La salute già minata della mia cara Mamma ha avuto un imprevisto tracollo, e lei si trova ora tra la vita e la morte. Prego solo di arrivare in tempo per assisterla negli ultimi istanti. Sono spiacente di non potermi trattenere per salutarla di persona, e ringraziarla delle gentili premure che mi ha dimostrato durante il mio soggiorno; ma sono certo che il suo cuore e la sua sensibilità di donna le faranno capire la necessità della mia partenza immediata. Non so quanto starò via, né se potrò mai tornare a Kingston. Se mia Madre dovesse mancare, io sarei tenuto a occuparmi degli affari di famiglia; se invece rimane ancora tra noi, il mio posto è al suo fianco. Una donna che ha fatto tanti sacrifici per suo figlio, merita sicuramente che lui a sua volta ne faccia per lei. È molto improbabile che io torni in futuro nella sua città; ma serberò
sempre il ricordo dei giorni passati a Kingston; ricordo di cui lei costituisce una parte preziosa. Lei sa quanto ammiro il suo coraggio di fronte alle avversità, e quanto la rispetto; e spero che il suo cuore la spinga a fare altrettanto verso il Sinceramente Suo, Simon Jordan P.S. Nella busta allegata le lascio una somma che ritengo possa coprire qualunque eventuale piccolo scoperto fra di noi. P.P.S. Spero che suo marito torni presto e felicemente da lei. Dalla signora William P. Jordan, Laburnum House, Loomisville, Massachusetts, Stati Uniti d'America, alla signora C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale. 29 settembre 1859 Cara signora Humphrey, mi permetto di restituirle le sette lettere che ha spedito al mio caro figlio, e che si sono accumulate qui in sua assenza; sono state aperte per errore dalla domestica, il che spiega la presenza del mio sigillo, al posto del suo. Mio figlio al momento sta facendo visita ai Manicomi privati e alle Cliniche europee, un'indagine di prima necessità per il lavoro in cui è impegnato - lavoro di estrema rilevanza, che allevierà le sofferenze umane, e che non deve venir interrotto per motivi di minore importanza, per quanto pressanti tali motivi possano sembrare a coloro che non comprendono il valore della sua missione. Siccome viaggia continuamente, non ho potuto inoltrargli le sue lettere; ora gliele restituisco, e immagino che lei vorrà sapere il motivo della mancata risposta; d'altra parte, mi consenta di osservare che non rispondere è già in sé una risposta. Mio figlio mi aveva accennato che lei avrebbe potuto tentare di riallacciare i rapporti con lui; e benché, molto correttamente, non abbia aggiunto altro, io non sono tanto invalida, né tanto segregata dal mondo, da non saper leggere tra le righe. Se lei accetta un franco ma benevolo consiglio da una vecchia, mi permetta di osservare che, nelle unioni permanenti fra i sessi, le differenze di età e di patrimonio costituiscono per forza uno svantaggio; ma questo vale anche, e ancora di più, per le differenze di princìpi morali. Una condotta impulsiva e avventata è comprensibile in una donna
nella sua posizione: capisco perfettamente quanto possa essere sgradevole non sapere dove possa trovarsi il proprio marito; ma lei certamente è consapevole del fatto che, in caso il marito di cui sopra defunga, nessun uomo con dei princìpi morali prenderebbe mai come moglie una donna che si è comportata prematuramente come tale. Agli uomini la natura e il volere della Provvidenza hanno concesso una certa libertà d'azione; ma la fedeltà ai voti matrimoniali è senza alcun dubbio il primo requisito per una donna. Nei primi tempi della mia vedovanza, ho riscontrato che la lettura quotidiana della Bibbia arreca un certo sollievo spirituale; anche un po' di cucito aiuta a tenere occupata la mente. In aggiunta a questi rimedi, lei magari avrà un'amica rispettabile, che può confortarla nelle sue angustie, senza insistere per conoscerne la ragione. L'opinione del mondo non è sempre vera, ma quando si tratta della reputazione di una donna, le due cose sono una sola. Pertanto conviene premurarsi di conservare intatta tale reputazione, senza dar sfogo ai propri dolori a destra e a manca, perché possono diventare oggetto di maligni pettegolezzi; a questo scopo, è saggio evitare di esprimere i propri sentimenti per lettera, perché le lettere devono passare attraverso l'ordalia delle pubbliche poste, e rischiano di cadere nelle mani di persone che possono essere tentate di leggerle all'insaputa del mittente. La prego di accettare, signora Humphrey, i sentimenti che le ho manifestato, come espressione del mio sincero augurio per il suo futuro benessere, perché è così che glieli porge la Sua devota, (Signora) Constance Jordan Da Grace Marks, Penitenziario Provinciale, Kingston, Canada Occidentale, al Dottor Simon Jordan. 19 dicembre 1859 Caro Dottor Jordan, Le scrivo con l'aiuto di Clarrie, che mi è sempre stata amica, e mi ha procurato la carta, e la imbucherà quando sarà ora, se io in cambio le do una mano con i pizzi e le macchie. Il guaio è che non so dove spedirla, perché non so dov'è lei. Ma se lo scopro, gliela mando. Spero che riesca a leggere la mia scrittura, perché non sono tanto abituata, e posso dedicarmici solo per qualche minuto al giorno. Quando ho sentito che se n'era andato così in fretta, e senza mandarmi a
dire niente, mi sono preoccupata tanto, perché ho pensato che si fosse ammalato. Non mi capacitavo che fosse andato via senza salutare, dopo il gran parlare che abbiamo fatto insieme; sono svenuta lunga tirata nel corridoio di sopra, la cameriera è stata presa dal panico e mi ha gettato un vaso di fiori in faccia, acqua, vaso e tutto; io sono rinvenuta subito, ma il vaso si è rotto. Ha pensato che avessi un attacco, e stessi per impazzire di nuovo; ma non era così, ho ripreso il controllo di me; era solo lo shock di questa notizia improvvisa, e le palpitazioni di cuore che mi affliggono sovente. Il vaso mi ha fatto un taglio in fronte. È incredibile la quantità di sangue che può uscire da una ferita in testa, anche se poco profonda. Mi è dispiaciuto tanto che se n'è andato, perché mi piacevano le nostre chiacchierate; e poi dicevano che lei doveva scrivere una lettera al Governo perché mi mettesse in libertà, e ho avuto paura che ormai lei non lo farà più. Non c'è niente di più scoraggiante che far nascere la speranza e poi spegnerla di nuovo, è quasi peggio che non averla del tutto. Spero proprio tanto che lei possa scrivere la lettera in mio favore, gliene sarei gratissima, e tanti auguri di buona salute, Da Grace Marks Dal Dottor Simon P. Jordan, presso il Dottor Binswanger, Bellevue, Kreutzlinger, Svizzera, al Dottor Edward Murchie, Dorchester, Massachusetts, Stati Uniti d'America. 12 gennaio 1860 Caro Ed, Perdonami per averci messo tanto a scriverti e a comunicarti il cambio di indirizzo. Il fatto è che c'è stata una certa confusione, e mi ci è voluto un po' di tempo per rimettermi in sesto. Come ha osservato Burns, «Uomini e topi sperano e tramano, ma spesso invano», e io sono stato costretto a tagliare velocemente la corda da Kingston, perché mi sono trovato in circostanze complesse che avrebbero potuto diventare in breve tempo molto dannose, sia per me sia per le mie prospettive future. Un giorno o l'altro, mentre ci beviamo uno sherry, forse ti racconterò tutta la storia; anche se in questo momento non mi sembra tanto una storia quanto un sogno inquietante. Fra gli altri elementi, c'è il fatto che il mio studio di Grace Marks ha
avuto alla fine una svolta così sconcertante, che non riesco neppure a capire se ero sveglio o addormentato. Quando penso alle grandi speranze con cui mi sono lanciato in questa impresa, determinato, puoi starne certo, a fare importantissime rivelazioni che avrebbero riempito il mondo di meraviglia e ammirazione - be', c'è di che disperarsi. Ma erano davvero grandi speranze, o solo ambizioni egoistiche? Attualmente, non saprei; ma nel caso peggiore, ho ricevuto quel che meritavo, perché in tutta questa faccenda probabilmente mi sono trovato a combattere contro i mulini a vento, o a dare la caccia alle ombre, e sono arrivato quasi a mettere a repentaglio il mio cervello, nel tentativo di mettere a nudo quello di un'altra. Come l'apostolo mio omonimo, ho gettato la rete in acque profonde; ma, a differenza di lui, credo di aver pescato una sirena, che non è né carne né pesce ma entrambe le cose, e il cui canto è dolce ma fatale. Non so se devo considerarmi una ignara vittima o, peggio ancora, uno stupido autoilluso; ma anche questi dubbi forse non sono altro che ubbie, e può darsi che io mi sia trovato fin dal principio di fronte a una donna la cui palese innocenza, nella mia ipersottigliezza, non ho avuto la presenza di spirito di riconoscere. Devo ammettere - ma a te soltanto - che in questa faccenda sono arrivato sull'orlo dell'esaurimento nervoso. Non sapere, inseguire accenni e segni premonitori, indizi, allettanti sussurri - è come essere perseguitato dagli spiriti. Certe volte di notte la sua faccia mi appare nell'oscurità, simile a un miraggio attraente ed enigmatico... Ma scusa queste pazzesche divagazioni. Ho ancora come il presagio di una qualche grossa scoperta, se solo avessi le idee chiare; ma per ora brancolo nel buio, guidato solo da fuochi fatui. Veniamo ad argomenti più concreti: la clinica qui è gestita con criteri di grande pulizia ed efficienza, e sta sperimentando vari metodi di cura, compresa la terapia dell'acqua; potrebbe essere un modello per il mio progetto, se mai si realizzasse. Il Dottor Binswanger è stato estremamente ospitale, e mi ha consentito l'accesso ad alcuni dei casi più interessanti. Con mio grande sollievo, qui non ci sono celebri assassine, ma solo quelli che lo stimato Dottor Workman di Toronto definisce «i pazzi innocenti», e con loro i soliti sofferenti di malattie nervose, etilisti e sifilitici; anche se ovviamente non si riscontrano gli stessi mali tra i ricchi e i poveri. Sono felicissimo di sentire che presto regalerai al mondo una copia in miniatura di te stesso, grazie ai buoni uffici della tua stimata moglie, alla quale ti prego di porgere i miei rispettosi omaggi. Come dev'essere rasserenante, avere una vita famigliare ordinata, garantita da una donna sicura e
affidabile! La tranquillità viene molto sottovalutata dagli uomini, tranne da quelli che non ce l'hanno. T'invidio! Quanto a me, temo di essere predestinato a vagare solo per il mondo, come uno dei più tristi e lugubri reietti byroniani; ma mi sarebbe di grande conforto, mio caro ragazzo, poter stringere ancora una volta la mano di un vero amico come te. L'occasione può presentarsi presto, perché a quanto ne so le prospettive di una risoluzione pacifica dell'attuale contrasto fra Nord e Sud sono scarse, e gli Stati del Sud parlano seriamente di secessione. Se mai scoppiassero le ostilità, non c'è dubbio su quale sia il mio dovere verso il mio Paese. Come dice Tennyson, alla sua maniera un tantino botanica, è ora di raccogliere «i fiori rosso sangue della guerra». Visto il mio attuale stato mentale turbato e morboso, sarà un sollievo avere un dovere da compiere, per quanto deplorevole l'occasione che me lo fornisce. Il tuo esaurito e provato, ma affezionato amico, Simon Da Grace Marks, Penitenziario Provinciale di Kingston, al Signor Geraldo Ponti, Maestro di Neuro-Ipnotismo, Ventriloquo e Lettore del Pensiero, presso il Teatro Principe di Galles, Queen Street, Toronto, Canada Occidentale. 25 settembre 1861 Caro Jeremiah, c'era un manifesto del tuo spettacolo, l'ha portato Dora e l'ha attaccato al muro della lavanderia, per dare un po' di vivacità all'ambiente; ho capito subito che eri tu, anche se hai un altro nome e ti sei fatto crescere un gran barbone. Uno dei signori che fanno la ronda alla signorina Marianne ha visto lo spettacolo quando è passato da Kingston, e ha detto che Il Futuro a Lettere di Fuoco era un numero di prim'ordine, che valeva da solo il prezzo del biglietto, tant'è vero che due signore sono svenute; ha detto che la tua barba è di un bel rosso acceso. Perciò immagino che te la sarai tinta, a meno che sia falsa. Non ho cercato di mettermi in contatto con te quando eri a Kingston, perché potevano esserci dei problemi se lo scoprivano. Ma ho visto qual era il prossimo posto dello spettacolo, ecco perché mando questa lettera presso il Teatro di Toronto, nella speranza di trovarti. Dev'essere un Teatro nuovo, perché quando abitavo là non c'era nessun Teatro che si chiamasse
così; ma ormai sono passati vent'anni, anche se a me sembrano cento. Quanto mi piacerebbe rivederti, e parlare dei vecchi tempi, nella cucina dell'Assessora Parkinson, dove ci divertivamo tanto, prima che Mary Whitney morisse e che cominciassero le mie sfortune! Ma per non farti scoprire qui, dovresti mascherarti di più, perché una barba rossa non basterebbe, da vicino. E se ti beccassero, penserebbero che li hai imbrogliati, perché una cosa fatta sul palcoscenico non è accettabile come la stessa cosa fatta in una biblioteca; e poi, vorrebbero sapere come mai non sei più Jerome DuPont. Ma immagino che ti renda di più essere Geraldo Ponti. Dopo l'Ipnotismo, qui sembra che mi trattino meglio, con più stima, ma forse è solo che hanno più paura di me; a volte è difficile distinguere le due cose. Non parlano di quello che è stato detto in quell'occasione, perché ritengono che potrebbe sconvolgere la mia mente; cosa di cui dubito. Ma anche se posso di nuovo circolare liberamente per casa, e pulire le camere e servire il tè come una volta, di liberarmi non si parla proprio. Ho riflettuto spesso sul perché il Dottor Jordan se n'è andato di colpo, subito dopo; ma siccome te ne sei andato anche tu prestissimo, immagino che non ne sai niente. La signorina Lydia è rimasta sconcertata dalla partenza del Dottor Jordan, per una settimana si è fatta servire i pasti in camera, e non è scesa di sotto; se ne stava a letto come una malata, con la faccia pallidissima, le occhiaie scure e un'aria da tragedia, cosicché era difficile pulire la sua stanza. Ma alle ragazze di buona famiglia è permesso questo e altro. Dopo si è lanciata nelle feste più di prima, con più giovanotti ancora, e soprattutto con un certo Capitano, che però poi non se n'è fatto niente; ormai aveva una bella fama tra gli ufficiali, e ci sono stati dei litigi con sua madre, e poi dopo un altro mese hanno annunciato il suo fidanzamento col Reverendo Verringer; una vera sorpresa, visto che lei gli rideva sempre dietro e diceva che sembrava una rana. La data del matrimonio è stata fissata molto prima del consueto, e io ho avuto un gran da fare a cucire dal mattino alla sera. Il vestito da viaggio della signorina Lydia era di seta blu, con bottoni foderati e una gonna a due strati; pensavo di diventare cieca a forza di orli. Hanno fatto la luna di miele alle cascate del Niagara, dicono che è un'esperienza da non perdere, io le ho viste solo dipinte; e quando è tornata era un'altra persona, tutta pallida e sommessa, senza più brio. Non è una buona idea sposare un uomo che non ami, ma molte si abituano, col tempo. Altre invece si sposano per amore, e hanno tutto il tempo per pentirsi, come si suol dire.
Per un po' ho pensato che avesse una simpatia per il Dottor Jordan; ma non sarebbe stata felice con lui, né lui con lei, perché non avrebbe mai capito il suo interesse per i matti, né le sue curiosità o le domande strane che faceva sulle verdure. Quindi, meglio così. Quanto all'aiuto che mi aveva promesso il Dottor Jordan, non ne ho più saputo niente, e neanche di lui, tranne il fatto che è andato a combattere nel Sud (questa notizia me l'ha data il Reverendo Verringer) ma non so se è vivo o morto. Inoltre, c'erano molte voci che correvano su di lui e la sua padrona di casa, una specie di vedova; dopo la sua partenza, lei si è fatta vedere tutta stralunata che vagava sulla riva del lago, con un vestito nero e un mantello e un velo nero al vento, e qualcuno diceva che aveva intenzione di buttarcisi dentro. Se n'è parlato tanto, soprattutto in cucina e nella lavanderia; Dora, che una volta era a servizio lì, ci ha rintronato le orecchie. Cosa non diceva! da non crederci, e di due persone così rispettabili, poi: grida, gemiti e cose tremende che capitavano di notte, come in una casa infestata dagli spettri, e tutte le mattine le lenzuola in disordine, e ridotte in uno stato da farla arrossire solo a vederle. Dora diceva che c'era da stupirsi che non avesse ammazzato questa signora e l'avesse sotterrata nel cortile, perché aveva visto la vanga già bell'e pronta e la tomba scavata, e le si era gelato il sangue; e che lui era quel tipo d'uomo che rovina una donna dopo l'altra e poi si stanca e le fa fuori per liberarsene, e ogni volta che guardava la vedova aveva certi occhi accesi e spaventosi, da tigre, come se stesse per balzarle addosso e azzannarla. E lo stesso con Dora, e chi dice che non sarebbe stata lei la prossima vittima delle sue fantasie selvagge? In cucina trovava sempre un pubblico attento, perché a tanta gente piace ascoltare storie scandalose, e devo dire che raccontava bene. Ma personalmente ritengo che si facesse prendere un po' la mano. Proprio in quel periodo la moglie del Direttore mi ha fatto chiamare in salotto e mi ha chiesto tutta seria se il Dottor Jordan mi aveva mai fatto delle proposte indecenti; e io ho detto di no, e che comunque la porta della stanza era sempre rimasta aperta. Allora lei ha detto che l'aveva giudicato male, e che si era allevata una serpe in seno alla famiglia; e poi ha detto che la povera signora in nero era stata importunata da lui, mentre era sola in casa senza la domestica, però non dovevo parlarne, perché avrei fatto più male che bene; anche se quella era una signora sposata, e il marito l'aveva trattata in modo abominevole, e quindi la cosa non era così grave come se fosse stata una ragazza, in ogni caso il Dottor Jordan si era comportato molto male, ed era una fortuna che non si fosse mai arrivati a un
fidanzamento con la signorina Lydia. Ma io non credo che lui avesse in mente una cosa simile; così come non credo a tutto quel che è stato detto contro di lui, perché so cosa vuol dire quando mentono sul tuo conto, e tu non sei in grado di difenderti. E poi le vedove cercano sempre di mettere nel sacco qualcuno, finché non diventano troppo vecchie. Ma queste sono solo chiacchiere. Ecco quello che volevo chiederti in particolare: Hai veramente visto il futuro, quella volta che mi hai guardato la mano e hai detto cinque porta fortuna, e io l'ho preso nel senso che tutto sarebbe andato a finir bene? O stavi solo cercando di consolarmi? Mi piacerebbe tanto saperlo, perché certe volte il tempo non passa più, e faccio fatica a sopportarlo. Ho paura di perdere ogni speranza e cadere nella disperazione per questa mia vita sprecata, eppure ancora non so come sia successo. Il Reverendo Verringer prega sovente con me, anzi dovrei dire che lui prega e io ascolto; ma non mi serve a molto, mi stanca solo. Dice che farà un'altra petizione, ma io temo che sarà inutile come le precedenti, e che potrebbe anche evitare di sprecare la carta. L'altra cosa che vorrei sapere è: perché mi volevi aiutare? Era una sfida, per far vedere agli altri quanto sei bravo, come quando facevi il contrabbandiere? o era per affetto e comprensione? Una volta hai detto che noi due siamo della stessa razza, e io ci ho pensato spesso. Spero che questa lettera ti arrivi, ma se ti arriva non so come farai a farmelo sapere, perché se mai ricevessi una lettera la aprirebbero di sicuro. Però penso che tu un messaggio me l'hai mandato, perché qualche mese fa ho ricevuto un bottone d'osso indirizzato a me, senza firma, e la guardiana ha detto: Grace, perché mai qualcuno ti manda un bottone? E io ho detto che non lo sapevo. Ma siccome era dello stesso tipo di quelli che mi avevi dato nella cucina dell'Assessora Parkinson, ho capito che dovevi essere tu, per farmi sapere che non ti eri dimenticato di me. Forse il messaggio era anche un altro; i bottoni servono per chiudere e aprire, e tu magari mi volevi dire di stare abbottonata su certe cose che sappiamo. Il Dottor Jordan credeva che anche gli oggetti più comuni e banali possono avere un significato, o farti tornare in mente qualcosa che hai dimenticato; tu forse volevi che mi ricordassi di te, ma non ce n'era bisogno, non ti ho mai dimenticato, e neppure la tua gentilezza verso di me, né mai ti dimenticherò. Spero che tu sia in buona salute, caro Jeremiah, e che il tuo Spettacolo di Magia abbia un grande successo, Dalla tua vecchia amica
Grace Marks Dalla signora William P. Jordan, Laburnum House, Loomisville, Massachusetts, Stati Uniti d'America, alla signora C.D. Humphrey, Lower Union Street, Kingston, Canada Occidentale. 15 maggio 1862 Cara Signora Humphrey, La sua lettera a mio figlio è giunta stamattina. Io apro tutte le sue lettere, in questo periodo, per ragioni che presto le dirò. Ma prima mi permetta di osservare che avrei preferito che lei si esprimesse in modo meno stravagante. Minacciare di farsi del male, buttandosi giù da un ponte o da altro luogo sopraelevato, può fare impressione a un giovane sensibile e dal cuore tenero, ma non ne fa certamente alla sua più esperta madre. In ogni caso, la sua speranza di un colloquio con lui deve andare delusa. Allo scoppio di questa esecrabile guerra, mio figlio si è arruolato nell'esercito unionista per combattere per il suo Paese in qualità di medico militare, ed è stato immediatamente mandato in un ospedale da campo vicino al fronte. Purtroppo i servizi postali sono discontinui, e le truppe vengono spostate molto rapidamente, grazie alle ferrovie, e io non ho ricevuto sue notizie per alcuni mesi; non era da lui, era sempre stato un corrispondente regolare e fedele; ho temuto il peggio. Nel frattempo, ho fatto quel che potevo nella mia limitata sfera. Questa malaugurata guerra aveva già fatto tanti morti e feriti, e ne vedevamo i risultati quotidianamente: uomini e ragazzi in numero crescente venivano trasportati al nostro ospedale improvvisato, mutilati o ciechi, o deliranti per le febbri da infezione; e ognuno di essi era l'amato Figlio di una Madre. Le signore della città si sono date molto da fare a visitarli e a farli sentire a casa loro con tutti quei piccoli conforti che era in nostro potere fornire; io stessa ho fatto del mio meglio per aiutarle, nonostante il mio precario stato di salute; potevo solo sperare, infatti, che se il mio caro Figlio fosse stato malato e sofferente altrove, qualche altra Madre facesse lo stesso per lui. Finalmente, un soldato convalescente della nostra città ha riferito di aver sentito dire che mio figlio era stato colpito alla testa da una scheggia, e che secondo le ultime notizie si trovava tra la vita e la morte. Naturalmente, sono caduta in un'angoscia mortale, e ho mosso cielo e terra per scoprire
dove si trovava; finché, con mia grande gioia, ci è stato restituito, vivo ma fortemente provato nel corpo come nello spirito. In conseguenza della ferita ha perso parte della sua memoria; si ricorda della sua devota mamma e dei fatti della sua infanzia, ma le sue esperienze più recenti sono state completamente cancellate, e fra esse il suo interesse per i manicomi e il periodo di tempo trascorso a Kingston, compresi i rapporti che può aver avuto con lei, di qualunque genere fossero. Le racconto questo perché possa vedere le cose con una visuale più ampia, e direi anche meno egoistica. Come sembrano insignificanti le proprie faccende personali, se paragonate ai gravi travagli della Storia, intesi, come speriamo, al più grande bene comune! Tra parentesi, mi congratulo con lei per aver finalmente scoperto dove si trovava suo marito, e mi condolgo altresì per le sventurate circostanze del caso. Non dev'essere stato piacevole scoprire che il proprio coniuge è deceduto per intossicazione prolungata e conseguente delirio. Sono felice di apprendere che non aveva dato fondo a tutti i suoi beni; e, parlando di cose pratiche, le suggerirei una rendita sicura oppure, cosa che mi è stata molto utile nelle avversità, un modesto investimento in azioni di qualche compagnia ferroviaria, purché solida, o anche in Macchine per Cucire, che hanno sicuramente un gran futuro di fronte a sé. Tornando a noi, il progetto che lei propone a mio figlio non è desiderabile né attuabile, neppure se lui fosse in condizione di metterlo in pratica. Mio figlio non ha contratto fidanzamento con lei, né ha alcun obbligo in merito. Quello che lei può aver compreso, non costituisce un accordo tra le parti. È inoltre mio dovere informarla che, prima della sua partenza, mio figlio si è praticamente fidanzato con la signorina Faith Cartwright, una giovane di buona famiglia e impeccabile moralità; il solo ostacolo alle nozze è stato il suo onore, che gli ha impedito di chiedere alla signorina Cartwright di legarsi a un uomo che stava andando a mettere a repentaglio la propria vita; nonostante le lesioni da lui subite e il suo stato a volte delirante, lei è decisa a rispettare la volontà delle due famiglie, nonché quella del proprio cuore, e attualmente mi aiuta a curarlo con leale devozione. Lui ancora non si ricorda bene di lei, e continua a credere che si chiami Grace: confusione comprensibile, perché Faith e Grace, fede e grazia, si somigliano molto. Ma noi perseveriamo nello sforzo, e ogni giorno gli facciamo vedere piccoli oggetti domestici che gli sono stati cari, e lo portiamo a passeggio tra le bellezze naturali del luogo, con crescente speranza che recuperi rapidamente tutti i suoi ricordi, o perlomeno quelli che gli servo-
no, e che sia presto in grado di mantenere i suoi impegni in qualità di marito. La signorina Cartwright prega con grande sollecitudine che gli venga restituita la salute e il pieno uso delle sue facoltà mentali, e così dovrebbero fare tutti quelli che lo amano disinteressatamente. In conclusione, vorrei aggiungere che spero che la sua vita futura sia più costruttiva e felice di quanto lo è stato il suo recente passato; che l'autunno della vita le porti quella serenità che spesso le vane e tempestose passioni della gioventù sfortunatamente, anche se non disastrosamente, precludono. Sinceramente Sua, (Signora) Constance P. Jordan P.S. Ogni sua ulteriore comunicazione verrà distrutta senza essere letta. Dal Reverendo Enoch Verringer, Presidente del Comitato per la Grazia a Grace Marks, Chiesa Metodista di Sydenham Street, Kingston, Ontano, Dominion del Canada, al Dottor Samuel Bannerling, The Maples, Front Street, Toronto, Ontano, Dominion del Canada. Kingston, 15 ottobre 1967 Caro Dottor Bannerling, Mi permetto di scriverLe, signore, per conto del Comitato di cui sono Presidente, e in relazione a una degna missione che Lei sicuramente conoscerà. So che Lei, nella sua qualità di medico a suo tempo responsabile di Grace Marks, quand'era nel Manicomio di Toronto quasi quindici anni fa, ha ricevuto appelli dai rappresentanti di diversi precedenti Comitati che si sono incaricati di sottomettere petizioni al Governo a favore di questa donna sventurata e infelice, e secondo alcuni ingiustamente condannata, nella speranza che Lei apponesse la Sua firma alle suddette petizioni - firma che, come Lei certamente saprà, avrebbe considerevole peso presso le autorità governative, che tendono ad accogliere con rispetto i pareri medici qualificati come il Suo. Il nostro Comitato comprende un certo numero di signore, tra cui la mia diletta moglie, e alcuni gentiluomini di rango, oltre a sacerdoti di tre culti, compreso il Cappellano del carcere, i cui nomi troverà in appendice. In passato tali petizioni non hanno avuto esito, ma il Comitato si aspetta, e ha buone speranze, che con i recenti mutamenti politici, e soprattutto con l'avvento di un Parlamento rappresentativo al cento per cento sotto la guida
di John A. Macdonald, quest'ultima riceverà l'accoglienza favorevole che è stata negata alle precedenti. Inoltre abbiamo il vantaggio della scienza moderna e dei progressi fatti nello studio delle malattie cerebrali e dei disordini mentali, progressi che sono sicuramente a favore di Grace Marks. Alcuni anni fa, il nostro Comitato si rivolse a uno specialista di malattie nervose, il Dottor Simon Jordan, che era provvisto di ottime referenze. Egli passò alcuni mesi in questa città e fece un esame approfondito di Grace Marks, con particolare attenzione ai suoi vuoti di memoria riguardo agli omicidi. In un tentativo di farle recuperare tali ricordi, l'ha sottoposta a Neuro-ipnosi, tramite un abile esperto di questa scienza - scienza che, dopo una lunga eclisse, sembra essere tornata in auge, come metodo sia diagnostico sia curativo, anche se per il momento è più apprezzata in Francia che in questo emisfero. Come risultato di quella sessione e delle sorprendenti rivelazioni che ne derivarono, il Dottor Jordan espresse l'opinione che la perdita di memoria di Grace Marks era autentica, non simulata: che in quel giorno fatale lei risentiva degli effetti di un attacco isterico causato dallo spavento, sfociato in una forma di sonnambulismo auto-ipnotico, non molto conosciuto venticinque anni fa, ma che in seguito è stato ben documentato; e questo fatto spiega la successiva amnesia. Nel corso della trance neuro-ipnotica, a cui hanno assistito alcuni membri del nostro Comitato, Grace Marks non solo testimoniò un ricordo completo degli eventi, ma fornì anche con le sue parole la prova di una doppia coscienza sonnambulistica, con una personalità secondaria ben distinta, capace di agire all'insaputa della prima. Preso atto dei risultati, il Dottor Jordan giunse alla conclusione che la donna nota come «Grace Marks» al momento dell'assassinio di Nancy Montgomery non era né cosciente né responsabile delle sue azioni; e infatti soltanto la sua personalità secondaria e nascosta conservava il ricordo di tali azioni. Il Dottor Jordan riteneva inoltre che questa altra personalità avesse dato inequivocabili prove della sua esistenza durante il periodo dei suoi disturbi mentali, nel 1852, se si vogliono tenere in considerazione le testimonianze oculari della signora Moodie e di altri. Avevo sperato di poterle presentare una relazione scritta, e in attesa di tale documento il nostro Comitato ha rimandato di anno in anno l'inoltro della petizione. Era ferma intenzione del Dottor Jordan preparare tale relazione; ma egli venne richiamato in famiglia da una malattia improvvisa, seguita da affari urgenti sul Continente; dopodiché lo scoppio della guerra civile, in cui servì in qualità di medico militare, si interpose tra lui e i suoi
progetti. Ho saputo che è stato ferito durante le ostilità, e anche se fortunatamente si sta riprendendo, non ha ancora riacquistato forza sufficiente per portare a termine la sua opera. Altrimenti non ho dubbi che avrebbe unito le sue sincere e sentite perorazioni alle nostre. Fui personalmente presente alla sessione neuro-ipnotica di cui sopra, come pure la signora che ha in seguito acconsentito a diventare la mia diletta moglie; e fummo entrambi profondamente colpiti da ciò che potemmo vedere e sentire. Mi commuove fino alle lacrime il pensiero di come questa povera donna sia stata vittima della mancanza di conoscenze scientifiche. L'animo umano è un mistero che incute timore e soggezione, e le cui profondità cominciano appena a essere sondate. Ha detto bene San Paolo: «Ora vediamo confusamente, attraverso un velo; ma allora vedremo faccia a faccia». Non si può che cercare di indovinare gli intenti del nostro Creatore, nel fare dell'Umanità un tale complesso e gordiano nodo. Ma quale che sia il Suo giudizio sull'opinione professionale del Dottor Jordan - e io mi rendo ben conto che possa essere difficile dare credito alle sue conclusioni, per chi non sia addentro alla pratica della Neuro-ipnosi, e non sia stato presente agli eventi di cui parlo - una cosa è certa: Grace Marks ha trascorso in carcere molti anni, più che sufficienti a espiare i suoi misfatti. Ha patito indicibili sofferenze mentali, e anche fisiche; e si è amaramente pentita della parte che può aver sostenuto, consciamente o no, in quel grande crimine. Non è più giovane, e la sua salute è precaria. Se fosse in libertà, si potrebbe sicuramente fare qualcosa per il suo benessere temporale e spirituale, e lei avrebbe un'opportunità di meditare sul passato, e di prepararsi a una vita futura. Vorrà Lei - potrà Lei, in nome della carità - persistere nel rifiutarsi di aggiungere la Sua firma alla petizione per il suo rilascio, e chiudere così le porte del Paradiso a una peccatrice pentita? Sicuramente no! Io La invito - La prego ancora una volta - di aiutarci in questa meritevole impresa. Sinceramente Suo, Reverendo Enoch Verringer Dal Dottor Samuel Bannerling, The Maples, Front Street, Toronto, al Reverendo Enoch Verringer, Chiesa Metodista di Sydenham Street, Kingston, Ontano. 1 novembre 1867
Caro Signore, accuso ricevuta della Sua lettera del 10 ottobre scorso, e del relativo resoconto delle Sue puerili pagliacciate riguardanti Grace Marks. Il Dottor Jordan mi ha deluso; a suo tempo gli avevo scritto mettendolo esplicitamente in guardia contro quella scaltra donna. Dicono che il peggior stupido è un vecchio stupido, ma secondo me invece è un giovane; e non mi capacito che un individuo in possesso di una laurea in medicina si lasci abbindolare da un esempio così palese di ciarlataneria e da una tale assurda scemenza come la «trance Neuro-ipnotica», che in quanto a imbecillità è seconda soltanto allo Spiritismo, al Suffragio Universale e simili fandonie. Questa porcheria del «Neuro-ipnotismo», per quanto infiocchettata di nuove terminologie, altro non è che Mesmerismo, o Magnetismo Animale, riveduto e corretto; una stupidaggine priva di fondamento screditata già da tempo in quanto risultò essere semplicemente un altisonante paravento dietro il quale uomini dai dubbi precedenti e dall'indole lasciva riuscivano ad approfittare di giovani donne simili a loro, facendo domande indiscrete e offensive e ordinando loro di compiere atti indecenti, senza che queste ultime fossero, in apparenza, consenzienti. Temo quindi che il Suo Dottor Jordan sia affetto da una credulità infantile, o sia lui stesso un impostore; e che la presunta «relazione», se mai l'avesse scritta, non sarebbe stata che uno spreco di carta. Sospetto che la ferita di cui parla non sia stata ricevuta durante la guerra, ma prima, e che sia consistita in un forte colpo in testa, che solo renderebbe ragione di tanta idiozia. Se il Dottor Jordan va avanti su questa strada, si troverà ben presto nel manicomio privato che, se ben ricordo, aveva intenzione di creare. Ho letto la cosiddetta «testimonianza» della signora Moodie, come pure altri suoi sgorbi, e li ho gettati nel fuoco che è il posto dove devono stare, e l'unico nel quale possono produrre un po' di luce. Come tutte le sue pari, la signora Moodie tende a blaterare sopra le righe, e a impastocchiare convenienti favolette; tanto varrebbe cercare la verità nella «testimonianza oculare» di un'oca. In quanto alle porte del Paradiso di cui fa menzione, non ho alcun potere su di esse, e se Grace Marks si merita di entrarci, sarà sicuramente ammessa senza interferenze da parte mia. Ma quel che è certo è che non contribuirò a farle aprire le porte del Penitenziario. L'ho studiata ben bene, e conosco il suo carattere e la sua indole meglio di quanto possa conoscerlo Lei. È una creatura sprovvista di qualunque moralità, e con una sviluppa-
tissima propensione all'omicidio. È pericoloso concederle i comuni privilegi della vita sociale, e se le venisse restituita la libertà è probabile che prima o poi altre vite verrebbero sacrificate. In conclusione, Signore, mi permetta di osservare che non si addice a Lei, uomo di tonaca, infiorare i Suoi sproloqui con riferimenti alla «scienza moderna». Un'infarinatura di qualunque materia è pericolosa, come credo abbia osservato una volta Pope. Si occupi della cura delle anime, faccia prediche edificanti per il miglioramento della vita pubblica e della morale privata, e Dio sa se questo Paese ne ha bisogno, e lasci il cervello dei degenerati agli specialisti che sanno come trattarlo. E soprattutto, in futuro, voglia per favore desistere dall'importunare con questi molesti e ridicoli appelli, Il Suo umilissimo e obbediente servitore, (Dottor) Samuel Bannerling XV L'albero del Paradiso Ma la perseveranza venne infine premiata. Una petizione dopo l'altra venne mandata al Governo, e senza dubbio altre voci influenti si fecero sentire. La nostra più unica che rara delinquente ricevette la grazia, e venne trasferita a New York, dove cambiò nome e poco dopo si sposò. Per quanto consta allo scrivente, è ancora in vita. Non si sa se nel frattempo le sue tendenze omicide abbiano trovato espressione, perché probabilmente nasconde la sua identità sotto diversi alias. Autore ignoto, Storia di Toronto e della Contea di York, Ontario, 1885 Venerdì 2 agosto 1872. Sono stato in Città fra le 12 e le 2 per vedere il Ministro della Giustizia in rapporto a Grace Marks, la cui grazia ho ricevuto stamattina. Sir John ha richiesto che io e una delle mie figlie accompagniamo questa donna a New York, in una casa dove verrà accolta. Martedì 7 agosto 1872. Esaminata e scarcerata Grace Marks, che ha ricevuto il perdono dopo aver trascorso 28 anni e 10 mesi in questo Penitenziario. Partito con lei e mia figlia per New York al-
l'una di pomeriggio, per ordine del Ministro della Giustizia... Diario del Direttore, Penitenziario Provinciale di Kingston, Ontario, Dominion del Canada. E così questo è il Paradiso in Terra, E vi prego di scusarmi e di comprendere I miei sforzi verso un'irreale isola felice In mezzo al frangersi dell'iroso mare, Che i cuori degli uomini con sé trascina... William Morris, Il Paradiso Terrestre, 1868 L'imperfetto è il nostro paradiso. Wallace Stevens, Poemi dei nostri climi, 1938 51 Ho pensato spesso di scriverle e di informarla della mia buona sorte, e le ho scritto molte lettere, nella mia testa; quando sarò arrivata al modo giusto di esprimere le cose prenderò carta e penna, e lei avrà mie notizie, se è ancora nel mondo dei vivi. E se non lo è, be', allora sa già tutto senza bisogno che glielo dica. Forse ha saputo che sono stata graziata, o forse no. Non l'ho visto su nessun giornale, ma non è strano, perché quando mi hanno finalmente liberata la mia era ormai una storia vecchia, che non interessava più a nessuno. Meglio così comunque. Quando me l'hanno detto, ho capito che lei doveva averla poi mandata, quella lettera al Governo, perché alla lunga i suoi risultati li ha dati, insieme a tutte le petizioni; anche se devo dire che ci hanno messo un bel po' di tempo, e della sua lettera non hanno parlato, hanno detto solo che era un'amnistia generale. La notizia della grazia me l'ha data la figlia maggiore del Direttore, che si chiama Janet. Lei questo Direttore non l'ha mai visto, perché ci sono stati cambiamenti dopo la sua partenza, fra cui appunto questo nuovo Direttore e prima di lui un paio di altri, e così tante guardiane e secondini che c'era da perdere il conto. Io ero nella stanza del cucito, dove facevamo le nostre chiacchierate pomeridiane, e rammendavo calze (ho sempre continuato
a servire i nuovi Direttori, come prima) quando Janet entrò. Era una ragazza gentile e mi sorrideva sempre, a differenza di certe altre, e anche se non era una bellezza era riuscita a fidanzarsi con un giovane agricoltore più che rispettabile, cosa per cui le facevo i miei più sentiti auguri. Certi uomini, quelli meno sofisticati e senza tante pretese, preferiscono avere una moglie ordinaria piuttosto che una bella, perché lavora sodo e si lamenta di meno, e non c'è molto rischio che scappi con un altro uomo, dato che nessuno si prenderebbe la briga di portarsela via. Quel giorno Janet si precipitò nella stanza, eccitatissima. Grace, disse, ho una notizia strabiliante. Io non alzai neanche la testa dal cucito, perché le notizie strabilianti che la gente mi raccontava riguardavano sempre qualcun altro. Volevo sentirla, è naturale, ma non volevo sbagliare un punto per quello, se mi capisce, signore. Ah sì? ho detto. È arrivata la grazia per te, ha detto. Dal Signor John Macdonald, e dal Ministro della Giustizia, a Ottawa. Non è meraviglioso? Giunse le mani, e in quel momento sembrava una bambina, una bambina grossa e brutta, che contempla un bel regalo. Era una sentimentale dal cuore tenero, e quindi apparteneva alla categoria di quelli che non hanno mai creduto nella mia colpevolezza. A questa notizia, misi giù il cucito. Mi sentii gelare il sangue, come se stessi per svenire, cosa che non mi succedeva da tempo, da quando lei se n'era andato, signore. Ma è vero? dissi. Se fosse stata un'altra persona avrei pensato che mi faceva uno scherzo maligno, ma a Janet non piacevano gli scherzi, di nessun tipo. Sì, disse, è proprio vero. Ti hanno graziata! Sono così felice per te! Capii che era il caso di spargere qualche lacrima, e lo feci. Quella sera, anche se suo padre, il Direttore, non aveva ancora ricevuto il documento, ma solo una lettera, non ci fu niente da fare: dovettero spostarmi dalla mia cella alla stanza degli ospiti in casa del Direttore. Fu opera di Janet, quell'anima buona, con l'appoggio di sua madre; la mia grazia in effetti era un evento insolito nel tran tran della prigione, e alla gente piace trovarsi a contatto con questi eventi, così dopo possono parlarne con gli amici; quindi mi fecero un gran polverone attorno. Dopo aver spento la candela mi distesi nel letto migliore, con una delle camicie da notte di cotone di Janet indosso, invece di quella grezza e ingiallita della prigione, e guardai il soffitto. Mi rigirai da tutte le parti senza
riuscire a mettermi comoda; alla fin fine, la comodità è ciò a cui sei abituata, e ormai ero più abituata al mio lettino del carcere che non a una camera degli ospiti con le lenzuola pulite. La stanza era così grande che quasi mi faceva paura, e mi tirai le lenzuola in testa per stare più al buio; allora mi sembrò che la mia faccia si dissolvesse e si trasformasse in un'altra, e mi venne in mente mia madre avvolta nel sudario, mentre la calavano in mare, e ricordai che avevo pensato che fosse già cambiata dentro quel lenzuolo, che fosse diventata un'altra donna, e ora capitava lo stesso anche a me. Non stavo morendo, è ovvio, ma quel che mi succedeva non era tanto diverso. La mattina dopo a colazione, tutta la famiglia del Direttore mi guardava con grandi sorrisi e occhi lucidi, come se fossi qualcosa di raro e di prezioso, una neonata salvata dalle acque; e il Direttore disse che dovevamo rendere grazie per la pecorella smarrita che era stata portata in salvo, e tutti risposero con fervore: Amen! Eccoci qui, pensai fra me. Sono stata salvata, e ora devo comportarmi come una che è stata salvata. Ci provai. Era davvero strano rendersi conto che ormai non ero più una celebre assassina, ma che mi avrebbero vista forse come un'innocente accusata e imprigionata ingiustamente, o perlomeno troppo a lungo, che avrei suscitato pena anziché orrore o paura. Ci misi dei giorni ad abituarmi all'idea; in effetti, non ci sono ancora arrivata del tutto. Richiede una diversa espressione della faccia; ma immagino che col tempo diventerà più facile. Naturalmente, per quelli che non sanno la mia storia, non sarò niente di particolare. Quel giorno, dopo colazione, mi sentii stranamente abbattuta. Janet se ne accorse e mi chiese perché; Sono stata in questa prigione per quasi ventinove anni, dissi, fuori non ho amici né parenti, dove andrò? cosa farò? Non ho soldi, né mezzi per guadagnarne, non ho niente da mettermi addosso, ed è molto improbabile che trovi lavoro da queste parti, perché la mia storia è troppo conosciuta; va bene la grazia, ma nessuna padrona di casa con un po' di sale in zucca mi vorrebbe nella sua famiglia, avrebbe paura per la vita dei suoi cari, ce l'avrei anch'io al suo posto. Non le dissi: E poi sono troppo vecchia per andare sul marciapiede, non volevo traumatizzarla, è una ragazza beneducata e metodista. Ma devo dirle, signore, che quel pensiero mi passò per la testa. Che probabilità avrei avuto, alla mia età e con tanta concorrenza? mi sarei ridotta a un penny per
volta con i peggiori marinai ubriachi in qualche angolo di strada, e sarei morta di malattia entro un anno; la sola idea mi rendeva il cuore pesante come un sasso. In quel momento, quindi, invece di essere il mio passaporto per la libertà, la grazia mi sembrava una sentenza di morte. Mi avrebbero gettata in mezzo a una strada, sola e abbandonata da tutti, lasciata lì in disparte a morire di fame e di freddo, con nient'altro che i vestiti che avevo indosso, gli stessi con cui ero entrata in prigione; e forse neanche quelli, perché chissà che ne era stato di loro; magari erano stati venduti o dati via anni fa. Oh no, Grace cara, disse Janet. Hanno pensato a ogni cosa. Non volevo dirti tutto in una volta, perché temevamo che lo shock di una felicità troppo grande dopo tanta sofferenza ti stroncasse, a volte succede. Ma c'è una bella casa pronta per accoglierti, è negli Stati Uniti, e una volta là potrai lasciarti alle spalle il tuo triste passato, perché nessuno ne saprà niente. Sarà una nuova vita. Non usò esattamente queste parole, ma il senso era questo. Ma non ho niente da mettermi, dissi io, sempre disperata. Forse in effetti ero un po' fuori di testa, perché una persona in possesso delle sue facoltà si sarebbe informata prima sulla bella casa che doveva accoglierla, dov'era, e cosa avrei fatto lì. Più tardi pensai a come si era espressa: Una bella casa pronta per accoglierti, è quel che diresti a un cane o a un cavallo ormai troppo vecchio per lavorare, che non vuoi più tenere ma neanche sopprimere. Ho pensato anche a questo, disse Janet. Una creatura davvero premurosa. Ho guardato nel deposito, e per un miracolo il tuo baule era ancora lì, col tuo nome sull'etichetta, penso che sia per via di tutte le petizioni inoltrate in tuo favore dopo il processo. In principio devono aver tenuto le tue cose perché pensavano che saresti stata rilasciata presto, e poi probabilmente se ne sono dimenticati. Te lo faccio portare su in camera e lo apriamo, ti va? Mi sentii un po' sollevata, nonostante le mie apprensioni. Purtroppo erano giustificate, perché quando aprimmo il baule scoprimmo che le tarme si erano mangiate tutti i capi di lana, compreso lo scialle invernale di mia madre, e che alcuni altri erano scoloriti e puzzavano di muffa per essere rimasti così a lungo rinchiusi in un luogo umido; la stoffa di certi vestiti era quasi marcita, ci potevi passare una mano attraverso. Tutti i vestiti hanno bisogno di essere arieggiati, di tanto in tanto, e i miei non lo erano stati.
Li tirammo fuori tutti e li dispiegammo per la stanza, per vedere cosa si poteva salvare. C'erano i vestiti di Nancy, così belli da nuovi, e ora quasi tutti rovinati, e le cose che avevo ereditato da Mary Whitney; erano state tanto preziose per me, allora, e adesso mi sembravano dozzinali e fuori moda. C'era il vestito che mi ero fatta a casa dell'Assessora Parkinson, con i bottoni d'osso di Jeremiah, ma non si poteva salvare niente tranne appunto i bottoni. Trovai la ciocca di capelli di Mary, legata con un filo e avvolta in un fazzoletto come l'avevo lasciata, ma le tarme avevano mangiato anche quella, mangiano anche i capelli se non trovano di meglio e se non sono conservati in legno di cedro. Provai emozioni intense e dolorose. Mi sembrò che la stanza si oscurasse, e mi pareva di vedere Nancy e Mary riprendere forma dentro i vestiti, ma non era una bella visione, perché ormai anche quel che restava di loro era in disfacimento. Fui sul punto di svenire, dovetti sedermi, chiedere un bicchiere d'acqua e far aprire la finestra. Janet ci restò male; era troppo giovane per immaginarsi l'effetto che potevano farmi ventinove anni di vita rinchiusi in un baule, ma fece del suo meglio, secondo il suo carattere. Disse che comunque ormai quei vestiti erano assolutamente fuori moda e che non si poteva farmi cominciare una nuova vita vestita come uno spaventapasseri, ma che qualcosa si poteva ancora adoperare, per esempio la sottogonna di flanella rossa e alcune di quelle bianche, si potevano lavare nell'aceto per far andar via quell'odore di muffa e poi stendere al sole, e sarebbero venute bianchissime. Non fu esattamente così, perché una volta lavate e asciugate risultarono sì più chiare, ma non proprio bianche. Per il resto, disse, dovevamo guardarci attorno. Avevo bisogno di un guardaroba. Non so come abbia fatto, sospetto che abbia chiesto un vestito a sua madre, e raccolto altre cose fra le sue conoscenti, e credo anche che il Direttore abbia dato dei soldi per le calze e le scarpe; fatto sta che mise insieme un certo numero di indumenti. I colori erano troppo vivaci per i miei gusti; cotone stampato a disegni verdi, lanetta a strisce rosso scuro su un fondo azzurro cielo; sono quelle nuove tinture chimiche che si usano adesso. Non mi stavano benissimo; ma d'altra parte non sempre si è nella posizione di scegliere, come avevo imparato fin troppo bene. Ci mettemmo tutte e due all'opera per accomodare i vestiti. Eravamo come madre e figlia che preparano un corredo, d'amore e d'accordo, e dopo un po' mi tirai su di morale. Il mio unico rimpianto erano le crinoline; non si portavano più, ormai c'erano soltanto sellini di fil di ferro e gran drap-
peggi sul didietro, con balze e frange, che secondo me ti facevano somigliare a un sofà; insomma, avevo perso l'occasione di indossare una crinolina. Ma non si può avere tutto, nella vita. Sparite anche le cuffie. Ora soltanto cappellini, legati sotto il mento, piatti e inclinati in avanti, come barchette con le vele spiegate in cima alla testa, e dietro una scia di veli fluttuanti. Janet me ne procurò uno e la prima volta che me lo misi e mi guardai allo specchio, mi sentii proprio strana. Non mi nascondeva i capelli grigi, anche se Janet diceva che sembravo più giovane di dieci anni, anzi, una ragazzina; be', è vero che ho mantenuto la mia silhouette e quasi tutti i miei denti. Diceva che sembravo una vera signora; è possibile, perché ora c'è meno differenza nel modo in cui si vestono le signore e le cameriere, e le mode si possono copiare facilmente. Ci divertimmo parecchio a ornare il cappellino con gale e fiori di seta, anche se io scoppiai a piangere a più riprese, tanto ero sopraffatta dall'emozione. Un brusco cambiamento di fortuna fa spesso quell'effetto, sia che si cambi in meglio o in peggio, sono certa che l'avrà notato anche lei. Mentre facevamo i bagagli, tagliai dei pezzi dai vari vestiti che avevo indossato tanti anni fa, e che ora erano da buttar via; e chiesi se potevo avere per ricordo una camicia da notte di quelle che usavo in prigione. Janet disse che era un ricordo bizzarro, ma la chiese e la ottenne. Vede, avevo bisogno di qualcosa di mio da portarmi via. Quando tutto fu pronto ringraziai Janet con profonda gratitudine. Avevo ancora paura del futuro, ma perlomeno avevo l'aspetto di una persona qualunque, e nessuno mi avrebbe guardata male, il che è già una gran cosa. Janet mi regalò un paio di guanti estivi, quasi nuovi, non so dove li avesse presi. Poi si mise a piangere, e quando le chiesi perché, disse perché la mia storia andava a finir bene, proprio come nei libri; mi domandai che razza di libri leggesse. 52 Il 7 agosto del 1872 fu il giorno della mia partenza, e non me lo scorderò finché vivo. Dopo aver fatto colazione con la famiglia del Direttore (ma non riuscii a ingoiare quasi niente, tanto ero nervosa), indossai il vestito da viaggio, quello verde, con il cappellino di paglia intonato e i guanti regalatimi da Janet. Il baule era pronto; non era quello di Nancy, quello ormai puzzava troppo di muffa; era un altro, di pelle, abbastanza in buono stato, che ve-
niva anche lui dal Penitenziario. Probabilmente apparteneva a qualche poveraccia che era morta lì, ma ormai sapevo che a caval donato non si guarda in bocca. Mi portarono a salutare il Direttore, era una formalità e lui non aveva granché da dirmi, tranne che si congratulava per il mio rilascio; in ogni caso, lui e Janet mi avrebbero accompagnato alla casa che doveva accogliermi, dietro particolare richiesta del Signor John Macdonald in persona, perché dovevo arrivarci sana e salva e loro sapevano bene che non ero abituata ai moderni mezzi di trasporto, dopo tanti anni di reclusione; e poi c'era tanta gentaglia in giro, ex soldati della guerra civile, invalidi e altri senza mezzi di sostentamento, che potevano essere pericolosi. Pertanto, fui molto contenta della compagnia. Oltrepassai per l'ultima volta la porta del Penitenziario mentre l'orologio suonava mezzogiorno, e mi riecheggiò nella testa come mille campane. Fino a quel momento era come se non mi fidassi dei sensi; mentre mi vestivo per il viaggio ero come assente, ottusa, e gli oggetti mi apparivano piatti e sbiaditi; ma in quell'istante tutto prese vita di colpo. Il sole splendeva e ogni singola pietra del muro era brillante come vetro e splendente come una lampada, era come passare attraverso le porte dell'Inferno ed entrare in Paradiso, secondo me sono più vicini di quanto si pensi. Fuori dai cancelli c'era un castagno, e ogni sua foglia sembrava aureolata di fuoco; sui rami c'erano tre piccioni bianchi, candidi e smaglianti come gli angeli della Pentecoste, e in quell'attimo seppi che ero stata liberata per davvero. In momenti così, più luminosi o più bui del consueto, di solito svenivo, ma quel giorno chiesi i sali a Janet e rimasi in piedi, anche se appoggiata al suo braccio; lei disse che sarebbe stato innaturale non commuovermi, in un'occasione tanto solenne. Avrei voluto voltarmi indietro a guardare, ma pensai alla moglie di Lot trasformata in statua di sale, e mi trattenni. Voltarmi a guardare avrebbe significato anche rimpiangere la mia partenza, e desiderare il ritorno, e non era certo il mio caso, come può immaginare, signore; ma la sorprenderà sentirmi dire che in un certo senso qualche rimpianto ce l'avevo. Il Penitenziario non era un posto accogliente, questo è sicuro, però era stata la mia sola e unica casa per quasi trent'anni; è tanto tempo, più di quello che molta gente passa sulla terra, e benché fosse un luogo tetro, di sofferenza e punizione, perlomeno lo conoscevo. Lasciare quel che si conosce, per quanto poco desiderabile, per l'ignoto, ti spaventa sempre un po'; penso
che sia per questo che tanta gente ha paura di morire. Passato il momento, mi ritrovai fuori, alla normale luce del giorno, pur se stordita. Era una giornata calda e umida, tipica del clima dei laghi in agosto, ma siccome c'era una brezza che arrivava dall'acqua, la calura non era troppo opprimente; c'erano anche nuvole in cielo, ma quelle bianche, che non preannunciano pioggia né lampi. Janet aveva un parasole, sotto cui ci riparammo tutte e due camminando. Un parasole, ecco una cosa che mi mancava; quello di seta rosa di Nancy era tutto rovinato. Andammo alla stazione ferroviaria su un calessino guidato dal domestico del Direttore. Il treno partiva soltanto all'una e trenta, ma io ero ansiosa e temevo di essere in ritardo; una volta arrivata, non riuscii a stare seduta tranquilla nella sala d'attesa per le signore, ma dovetti camminare su e giù lungo le banchine, fuori; ero agitatissima. Finalmente arrivò il treno, un enorme mostro di metallo scintillante che soffiava fumo. Non avevo mai visto da vicino un treno, e nonostante le assicurazioni di Janet che non era pericoloso, dovettero aiutarmi a salire gli scalini. Andammo solo fino a Cornwell in treno, ma nonostante la brevità del viaggio, sentii che non sarei sopravvissuta. Faceva così tanto rumore e si muoveva così in fretta che pensai di diventare sorda; c'era un gran fumo nero, e il fischio del treno mi spaventò a morte, anche se mi feci forza e non gridai. Mi sentii meglio quando scendemmo alla stazione di Cornwell e da lì andammo al molo su un carrettino tirato da un pony, e poi attraversammo il lago su un vaporetto; era un modo di viaggiare che conoscevo già, e almeno si poteva respirare un po' d'aria fresca. Da principio il riflesso del sole sulle onde mi fece girare la testa, ma smisi di guardare e mi passò. Mi offrirono una merenda, che il Direttore si era portato dietro in un cestino, e riuscii a mangiare un po' di pollo freddo e a bere del tè tiepido. Mi tenni occupata osservando le toilette delle signore a bordo, che erano di varie fogge e colori. Avevo qualche problema a sedermi e ad alzarmi col mio sellino, ci vuole pratica per una cosa così, e temo di non essere stata molto aggraziata; mi sembrava di avere un secondo sedere legato sopra al primo, e di dovermeli tirar dietro tutti e due, come un maiale che abbia un secchio di latta legato sulla schiena, ma ovviamente non dissi nulla di così volgare a Janet. Sull'altra riva del lago passammo per la Dogana degli Stati Uniti, e il Direttore disse che non avevamo nulla da dichiarare. Poi prendemmo un altro
treno; meno male che era venuto anche il Direttore, o non avrei saputo come comportarmi con i facchini e il bagaglio. Quando fummo su quest'altro treno, che sferragliava meno del precedente, chiesi notizie a Janet sulla mia destinazione. Stavamo andando a Ithaca, nello Stato di New York, questo me l'avevano detto; ma, una volta lì, cosa mi aspettava? Com'era la casa che mi avrebbe accolta? e come, in qualità di domestica? che cosa sapeva di me la gente di quella casa? Vede, signore, non volevo venirmi a trovare in una falsa posizione, né essere obbligata a nascondere la verità sul mio passato. Janet disse che c'era una sorpresa in serbo per me, ma era un segreto e non poteva svelarlo; era una bella sorpresa, o almeno lo sperava. Si spinse fino a dirmi che c'era di mezzo un uomo, anzi, un signore, disse; ma siccome usava questa parola per chiunque portasse i pantaloni e non fosse proprio un cameriere, non era molto illuminante. Quando le chiesi quale signore, rispose che non poteva dirmelo; comunque, per quanto ne sapeva lei, era un mio vecchio amico. Diventò tutta ritrosa, e non riuscii a spremerle una parola in più. Ripensai a tutti gli uomini che avevo conosciuto; non molti, perché si può dire che mi erano mancate le occasioni; e i due che avevo conosciuto meglio, anche se non li avevo frequentati a lungo, erano morti: intendo il signor Kinnear e James McDermott. C'era Jeremiah, ma non mi sembrava il tipo da fornire case accoglienti, non era mai stato il suo genere. Poi c'erano i miei precedenti datori di lavoro, come il signor Coates e il signor Haraghy, ma sicuramente ormai erano tutti morti anche loro, o vecchissimi. La sola altra persona che mi venne in mente, signore, era lei. Devo ammettere che quest'idea mi passò per la testa. Fu quindi con ansia ma anche piena di aspettative che scesi infine sulla banchina della stazione di Ithaca. C'era una gran ressa di gente che aspettava il treno; tutti parlavano contemporaneamente, e c'era un tale viavai di facchini e di bauli e valigie trasportati a mano e su carrettini che restarsene lì fermi era a proprio rischio e pericolo. Io non mi allontanai di un passo da Janet, intanto che il Direttore si occupava dei bagagli, e poi ci guidò sull'altro lato della stazione, quello dove non c'erano i treni, e cominciò a guardarsi attorno. Si accigliò perché non trovava quello che cercava, diede un'occhiata al suo orologio, e a quello della stazione; poi prese di tasca una lettera e la scorse, e io cominciai a perdermi d'animo. Ma lui alzò gli occhi, sorrise e disse: Ecco il nostro uomo, e infatti c'era un uomo che arrivava di corsa.
Era molto alto di statura, grosso ma allo stesso tempo allampanato; intendo dire che aveva braccia e gambe lunghe, ma che la parte di mezzo del corpo era più solida e robusta. Aveva i capelli rossi e una gran barba rossa, e portava un abito nero, tipo vestito della festa, come ormai ce l'hanno tutti quelli che hanno fatto un minimo di fortuna, con una camicia bianca e una cravatta scura; il cappello ce l'aveva in mano, lo teneva davanti a sé come uno scudo, e da questo capii che era nervoso e insicuro anche lui. Io non l'avevo mai visto in vita mia, ma non appena arrivò davanti a noi mi lanciò un'occhiata indagatrice e cadde in ginocchio ai miei piedi. Mi afferrò la mano, guanto e tutto, e disse: Grace, Grace, potrai mai perdonarmi? Anzi, lo gridò a pieni polmoni, come se si fosse esercitato ben bene prima. Io tentai di tirar via la mano, pensando che fosse un pazzo, ma quando mi voltai verso Janet cercando aiuto vidi che piangeva come la madre della sposa a un matrimonio, mentre il Direttore era radioso, quasi non potesse sperare di meglio; mi resi conto che ero l'unica a non capirci niente. L'uomo mollò la mia mano e si alzò. Non mi riconosce, disse tutto triste. Grace, non mi riconosci? Io ti riconoscerei fra mille. Lo guardai, e in effetti c'era qualcosa di familiare in lui, ma non riuscivo a individuare cosa. Allora lui disse: Sono Jamie Walsh. E mi accorsi che era proprio lui. Ce ne andammo in un albergo costruito da poco vicino alla stazione, dove il Direttore aveva prenotato delle camere, e mangiammo qualcosa tutti insieme. Come può ben immaginare, signore, ci fu bisogno di un bel po' di spiegazioni, perché l'ultima volta che avevo visto Jamie Walsh era stato al mio processo per omicidio, dove la sua testimonianza mi aveva messo contro il giudice e la giuria in quanto indossavo i vestiti di una donna morta. Il signor Walsh, d'ora in poi lo chiamerò così, mi disse che allora mi aveva creduta colpevole, e gli dispiaceva molto, perché aveva sempre avuto un debole per me, e questo in effetti era vero; ma, a forza di invecchiare e di pensarci sopra, si era convinto del contrario, e si era sentito orribilmente in colpa per aver contribuito a farmi condannare; anche se a quel tempo era solo un ragazzino, e si era fatto menare per il naso dagli avvocati, che l'avevano convinto a dire cose di cui non aveva compreso che più tardi le conseguenze. Io lo consolai, e gli dissi che una cosa così potrebbe capitare a chiunque. Dopo la morte del signor Kinnear, lui e suo padre erano stati costretti ad andarsene, perché il nuovo proprietario non sapeva che farsene di loro; lui aveva trovato lavoro a Toronto, grazie alla buona impressione fatta al pro-
cesso, dove i giornali l'avevano descritto come un ragazzo sveglio e promettente. Quindi, si può dire che era merito mio se aveva fatto carriera nella vita. Aveva risparmiato per diversi anni, poi era venuto negli Stati Uniti, perché riteneva che quaggiù ci fossero più opportunità per chi partiva da zero: qui tu eri quel che avevi, non quello da cui venivi, e nessuno ti faceva domande. Aveva lavorato nelle ferrovie e anche all'Ovest, sempre risparmiando, e ora era proprietario di una fattoria e di due cavalli. Dei cavalli fece in modo di parlarne quasi subito, perché si ricordava del bene che avevo voluto a Charley. Si era sposato, ma ora era vedovo, senza figli; e non aveva mai cessato di tormentarsi per quel che ne era stato di me, per colpa sua, e aveva scritto parecchie volte al Penitenziario per avere mie notizie; ma mai direttamente a me, per non scombussolarmi. Così era venuto a sapere della grazia, e aveva combinato tutto quanto col Direttore. La conclusione della faccenda fu che mi chiese di perdonarlo, e io lo perdonai senza problemi. Non riuscivo ad avercela con lui, gli dissi che tanto mi avrebbero messa in prigione comunque, anche se lui non avesse tirato in ballo i vestiti di Nancy. E dopo aver parlato a sazietà di tutto questo, sempre tenendomi la mano, mi chiese di sposarlo. Disse che non era milionario ma poteva pur sempre offrirmi una bella casa, con tutto il necessario, perché aveva un po' di soldi in banca. Io feci un gran sfoggio di ritrosia ed esitazione, ma la realtà dei fatti era che non avevo altra scelta, e sarebbe stata nera ingratitudine da parte mia dire di no, dopo tutto il disturbo che si era preso. Dissi che non volevo che mi sposasse solo per senso di colpa e del dovere, lui negò che i suoi motivi fossero quelli, affermò che aveva sempre nutrito un grande affetto per me, e che ero cambiata pochissimo da quand'ero ragazza; disse che ero ancora una bellezza, queste furono le sue parole. Mi tornarono in mente le margherite nel frutteto del signor Kinnear, in mezzo ai ceppi, e capii che pensava davvero quello che diceva. Il più difficile, per me, era considerarlo un uomo adulto, perché l'avevo conosciuto solo come quel ragazzetto goffo che suonava il flauto la notte prima che Nancy morisse, e stava seduto sullo steccato il giorno del mio arrivo a casa del signor Kinnear. Alla fine dissi sì. Lui aveva l'anello pronto, in una scatoletta dentro la tasca, ed era così travolto dall'emozione che lo fece cadere due volte sulla tovaglia prima di infilarmelo al dito; da parte mia, fui costretta a togliermi il guanto.
I preparativi per il matrimonio vennero fatti il più in fretta possibile, e nel frattempo restammo all'albergo, dove ogni mattina ci portavano l'acqua calda in camera, e Janet rimase con me, come si conveniva. Tutte le spese furono a carico del signor Walsh. Ci fu una semplice cerimonia davanti al Giudice di Pace, e mi ricordai di zia Pauline che tanti anni prima aveva detto che sicuramente avrei sposato un uomo di ceto inferiore, e mi chiesi cosa avrebbe pensato, ora; Janet fece da damigella, e si sciolse in lacrime. La barba del signor Walsh era immensa e rossa, ma mi rassicurai pensando che col tempo si sarebbe potuto fare qualcosa. 53 Sono quasi trent'anni esatti dal giorno in cui, non ancora sedicenne, risalii il lungo viale che portava alla casa del signor Kinnear. Era giugno, come adesso. Ora siedo nella mia veranda, sulla mia sedia a dondolo; è pomeriggio tardi, e la vista che ho di fronte è così calma e serena che sembra un quadro. Le rose davanti a casa sono in piena fioritura; sono della varietà Lady Hamilton, molto belle, anche se vanno soggette agli afidi. Dicono che la cosa migliore sia spruzzarle di arsenico, ma non mi va di avere per casa una cosa così. Stanno fiorendo le ultime peonie, sono rosa e bianche, con tanti petali. Non so come si chiamano, non le ho piantate io; il profumo mi fa pensare al sapone da barba del signor Kinnear. La facciata della nostra casa è rivolta a sud-ovest e la luce è calda e dorata; io però non sono seduta al sole, perché scurisce la pelle. In giorni come questo penso: Mi sembra di essere in Paradiso. E pensare che non ho mai creduto di poterci andare, in Paradiso. Ora è quasi un anno che sono sposata col signor Walsh; certo non è come tante ragazze immaginano da giovani, però in un certo senso è meglio così: perlomeno noi due sappiamo in che cosa ci siamo imbarcati. Quando ci si sposa giovani, spesso invecchiando si cambia, ma siccome noi due siamo già invecchiati, non andremo incontro a tante delusioni. Il carattere di un uomo di mezza età ormai è formato, ed è improbabile che si metta a bere o prenda altri vizi, se non li ha presi finora; questo è quel che penso io, e spero che il tempo mi darà ragione. Sono riuscita a convincere il signor Walsh ad accorciarsi un po' la barba e a fumare la pipa solo all'aperto, e forse col tempo e la pazienza le due cose, barba e pipa, spariranno del
tutto; ma non conviene mai assillare un uomo e incalzarlo, diventa solo più ostinato. Il signor Walsh non mastica tabacco e non sputa, come fanno alcuni, e io sono sempre grata per queste piccole fortune. La nostra casa è una fattoria come tante altre, dipinta di bianco, con le persiane verdi, ma abbastanza spaziosa per noi due. C'è un ingresso principale con una fila di attaccapanni per appenderci i cappotti d'inverno; di solito però passiamo dalla porta di cucina; poi c'è scala con una balaustra liscia. In cima alla scala c'è una una cassapanca di legno di cedro per le trapunte e le coperte. Al piano superiore ci sono quattro stanze: la più piccola, che in origine era la stanza dei bambini, poi la camera da letto padronale e un'altra per gli ospiti, anche se non ne aspettiamo, né ne sentiamo la mancanza; e una quarta, che per ora è vuota. Le due camere da letto arredate hanno ciascuna un catino e una brocca, e un tappeto ovale di lana; non voglio tappeti pesanti, sono troppo difficili da portar giù per le scale per batterli in primavera, e più invecchio peggio sarebbe. Sopra ciascuno dei letti c'è un quadretto a punto croce, li ho fatti io, fiori in vaso nella stanza degli ospiti, e una fruttiera nella nostra. La trapunta degli ospiti è una Ruota del Mistero, la nostra un Capanno di Tronchi; le ho comprate a una svendita, da gente che era fallita e se ne andava a Ovest; ma la donna mi faceva pena, e le ho pagate più del giusto. Ho dovuto tirarmi su le maniche, per rendere la casa confortevole, perché il signor Walsh dopo la morte di sua moglie era diventato un po' uno scapolone, e certe cose erano state davvero trascurate. Ho spazzato via da sotto i letti tante di quelle ragnatele e di quella polvere, per non parlare di quanto ho strofinato e sfregato. In tutte e due le camere le tende estive sono bianche. Mi piacciono le tende bianche. Di sotto, abbiamo un salotto buono con una stufa, e una cucina completa, con la dispensa e il retrocucina, e la pompa dentro casa, che d'inverno è una bella comodità. C'è anche la sala da pranzo, ma non abbiamo spesso occasione di usarla. Per lo più mangiamo in cucina; abbiamo due lampade a cherosene, è molto intimo. Il tavolo in sala da pranzo lo uso per cucire, è comodo soprattutto per tagliare i modelli. Ora ho una Macchina per Cucire, basta far girare una ruota e funziona, è una specie di magia; sono ben contenta di averla, mi risparmia un sacco di lavoro, soprattutto le cose meno complicate, come cucire le tende e orlare le lenzuola. Le parti più difficili preferisco ancora farle a mano, anche se i miei occhi non sono più quelli di una volta.
A parte quello che ho già detto, abbiamo le solite cose: l'orto, con le erbe aromatiche, i cavoli e le radici, e in primavera i piselli; le galline e le anatre, una vacca nella stalla, una carrozzella e due cavalli, Charley e Nell, che per me sono un grande piacere, e mi tengono compagnia quando Il signor Walsh non c'è; ma Charley purtroppo lavora troppo, tira anche l'aratro. Dicono che presto ci saranno delle macchine che faranno anche quello, e allora il povero Charley potrà pascolare tranquillo. Io non permetterei mai che venisse venduto per farne colla e cibo per cani, come usa fare certa gente. C'è un bracciante che aiuta nella fattoria, ma non vive qui. Il signor Walsh voleva anche assumere una ragazza, ma ho detto che preferivo fare io stessa i lavori di casa. Non mi piace avere una domestica installata qui, ficcano il naso dappertutto e origliano alle porte; e poi per me è meno faticoso fare le cose personalmente, piuttosto che doverle rifare dopo che un'altra le ha fatte nel modo sbagliato. Il nostro gatto si chiama Tabby ed è del colore consueto; è bravo a prendere i topi; il cane si chiama Rex, è un setter e non è tanto intelligente, però è buono, e ha una bellissima tinta rossobruna, come legno di castagno levigato. Non sono nomi originali, ma non vogliamo farci una fama di originali nel vicinato. Frequentiamo la chiesa metodista; il predicatore si dà da fare, e la domenica non toglietegli il suo Fuoco Infernale; io però non credo che abbia la più pallida idea di cosa sia davvero l'Inferno, e così pure tutta la congregazione; è brava gente, ma di mentalità ristretta. Abbiamo pensato bene di non svelare troppo il nostro passato, né a loro né ad altri; non farebbe che provocare curiosità e pettegolezzi, e di lì false dicerie. Abbiamo lasciato intendere che il signor Walsh era il mio fidanzatino, quand'ero piccola, e che io ho sposato un altro ma poi sono rimasta vedova; dopo la morte della moglie del signor Walsh, abbiamo deciso di rivederci, e di sposarci. È una storia credibile, e ha il vantaggio di essere romantica, e di non fare del male a nessuno. La nostra chiesetta è molto provinciale e all'antica; ma in Ithaca città ce ne sono di più moderne, e ci sono anche tanti Spiritualisti, con famosi medium che vengono in visita e sono accolti presso le migliori famiglie. Io per me non ci tengo a queste cose, non si sa mai cosa può venirne fuori; se voglio comunicare con i morti posso farlo benissimo da sola; inoltre, temo ci siano un sacco di trucchi e di imbrogli lì sotto. In aprile ho visto la pubblicità di un celebre medium, un uomo, c'era un suo ritratto; la stampa non era chiara, ma ho pensato: Questo dev'essere Je-
remiah, l'ambulante; ed era proprio lui! il signor Walsh e io siamo andati per caso in città a fare spese, e l'ho visto per strada. Era più elegante che mai, con i capelli di nuovo neri e una barbetta stile militare, per ispirare fiducia; ora si chiama Gerald Bridges. Imitava alla perfezione un uomo distinto e di mondo, ma la cui mente è rivolta alle supreme verità; anche lui mi ha vista, mi ha riconosciuta e ha alzato rispettosamente il cappello in segno di saluto, ma appena appena, per non farsi notare; mi ha anche strizzato l'occhio; io l'ho salutato con la mano, velocemente, senza togliermi il guanto (li metto sempre, quando vado in città). Fortunatamente il signor Walsh non ha notato nulla di tutto questo, si sarebbe allarmato. Non vorrei proprio che il mio vero nome si risapesse qui; ma so che con Jeremiah i miei segreti sono al sicuro, come i suoi con me. E ho pensato a quando avrei potuto fuggire con lui, e diventare una zingara o una chiaroveggente; sono stata tentata di farlo, oh, certo; e in tal caso il mio destino sarebbe stato ben diverso. Ma solo Dio sa se sarebbe stato meglio o peggio; e in quanto a fughe, ormai non ho più tempo per fuggire ancora, in questa vita. Nel complesso, il signor Walsh e io andiamo d'accordo, e stiamo molto bene insieme. Ma c'è una cosa che mi ha turbata, signore, e siccome non ho un'amica intima di cui fidarmi, ne parlo con lei, e so che manterrà il riserbo. È questo. Di tanto in tanto il signor Walsh diventa molto triste; mi prende la mano e mi fissa con gli occhi pieni di lacrime, e dice: E pensare quanto hai sofferto per colpa mia. Io gli dico che non ho sofferto per colpa sua - è stato per colpa di altri, e anche della sfortuna e della mancanza di giudizio - ma a lui piace pensare di essere stato la causa di tutto, e credo che se trovasse una scusa plausibile, si incolperebbe anche della morte della mia povera mamma. Gli piace immaginarsele, quelle sofferenze, e non c'è niente da fare, gli devo raccontare qualche episodio della Prigione o del Manicomio di Toronto. Più la minestra è una sbobba e più rancido è il formaggio, e più i secondini sono volgari e allungano le mani, più gli piace. Ascolta con l'attenzione di un bambino che sente raccontare una fiaba, come se gli dicessi cose meravigliose, e mi supplica di andare avanti. Se ci metto anche i geloni e i brividi di freddo, la notte, sotto le coperte leggere, e le frustate a chi si lamenta, va in visibilio; se poi aggiungo il contegno indecente del Dottor Bannerling, i bagni in acqua fredda, con me nuda avvolta in un lenzuolo, e la camicia di
forza nella stanza senza finestre, cade in estasi; ma la parte che preferisce è quella dove il povero James McDermott mi trascina qua e là per la casa del signor Kinnear, cercando un letto adatto ai suoi malvagi scopi, con Nancy e il signor Kinnear morti giù in cantina, e io fuori dalla grazia di Dio per il terrore; e si rimprovera di non essere stato lì a salvarmi. Per me, questo pezzo della mia vita preferirei dimenticarmelo, piuttosto che tornarci e rattristarmi ogni volta. È vero che mi piaceva quando lei era al Penitenziario, signore; portava un po' di novità nelle mie giornate, che allora erano tutte uguali. Ora che ci penso, lei non era meno desideroso del signor Walsh di sentir raccontare le sofferenze e i travagli della mia vita; non solo, in più lei li scriveva, anche. Mi accorgevo sempre quando perdeva interesse, perché il suo sguardo vagava qua e là; ma ero così contenta ogni volta che tiravo fuori qualcosa che la interessava veramente. Allora le si colorivano le guance e sorrideva come sorride il sole sull'orologio del salotto, e se avesse avuto le orecchie come i cani, le avrebbe drizzate, con gli occhi luccicanti e la lingua di fuori, neanche avesse stanato una pernice da un cespuglio. Mi dava la sensazione di servire a qualcosa in questo mondo, anche se non ho mai capito dove esattamente lei volesse andare a parare. Il signor Walsh, lui, dopo che gli ho raccontato un po' di storie di dolori e di miserie, mi stringe tra le braccia, mi accarezza i capelli, e comincia a sbottonarmi la camicia da notte, perché queste scene spesso si svolgono di notte; e dice: Mi perdonerai mai? In principio questo mi dava molto fastidio, anche se non lo dicevo. Il fatto è che pochissimi capiscono che cos'è veramente da perdonare. Non sono i colpevoli che devono essere perdonati, sono le vittime, sono loro la causa di tutto lo scompiglio. Se solo fossero meno deboli e più attente, se pensassero alle conseguenze, se la smettessero di cacciarsi nei guai, pensi a quanto dolore risparmiato, nel mondo. Per molti anni ho avuto una gran rabbia dentro di me, verso Mary Whitney e soprattutto verso Nancy Montgomery; verso tutte e due, per essersi lasciate ammazzare a quel modo, e per avermi mollata qui con tutto il peso sulle spalle. Per molto tempo non ho avuto cuore di perdonarle. Sarebbe molto meglio se il signor Walsh perdonasse me, invece di insistere testardamente per il contrario; ma forse, col tempo, vedrà le cose nella giusta luce. Quando cominciò a comportarsi così, io dissi che non avevo niente da perdonargli, e di non farsene un cruccio; ma non era questa la risposta che
voleva. Insiste nel voler essere perdonato, ne ha bisogno per sentirsi bene, e chi sono io per rifiutargli una cosa così semplice? Così adesso ogni volta che succede gli dico che lo perdono. Gli prendo la testa fra le mani, come fanno nei libri, alzo gli occhi al cielo e assumo un'aria solenne, poi lo bacio e piango un po'; il giorno dopo che l'ho perdonato, lui è di nuovo se stesso, suona il flauto come se avesse ancora quattordici anni e io quindici, e fossimo nel frutteto del signor Kinnear a intrecciare ghirlande di margherite. Ma non mi sembra giusto continuare a perdonarlo così; so che sto dicendo una bugia. D'altra parte, non è la prima, immagino; e, come diceva sempre Mary Whitney, una piccola bugia innocente come quelle che dicono gli angeli è un prezzo modesto da pagare per la pace e la tranquillità. In questi giorni penso spesso a Mary Whitney, e a quella volta che ci gettammo dietro le spalle le bucce di mela; in un certo senso, si è avverato tutto. Io ho sposato un uomo il cui nome comincia per J, proprio come diceva lei; diceva anche che prima dovevo attraversare l'acqua per tre volte, e così è stato: due volte sul vaporetto per Lewiston, all'andata e al ritorno, e poi un'altra volta per venire qui. Qualche volta sogno di essere di nuovo nella mia stanzetta a casa del signor Kinnear, prima dell'orrore e della tragedia; e mi sento così al sicuro, non so niente di quel che sta per succedere. Altre volte sogno di essere ancora nel Penitenziario, e che presto mi sveglierò e mi ritroverò di nuovo chiusa in cella, sul materasso di paglia, tutta infreddolita in una gelida mattina d'inverno, con i secondini che ridono giù in cortile. Ma in realtà sono qui, nella mia casa, sulla mia sedia, seduta nella veranda. Apro e chiudo gli occhi e mi do un pizzicotto, ma rimane tutto vero. E c'è un'altra cosa che non ho detto a nessuno. Quando sono uscita dal Penitenziario avevo appena compiuto quarantacinque anni, e tra meno di un mese ne compirò quarantasei, quindi pensavo di aver superato da un pezzo l'età in cui si possono avere bambini. Ma, a meno che mi sbagli di grosso, ho tre mesi di ritardo; o è quello, o è il climaterio. È dura da credere, ma nella mia vita c'è già stato un miracolo, quindi perché dovrei sorprendermi se ce ne fosse un altro? Nella Bibbia si parla di casi così; forse Dio si è messo in testa di ricompensarmi per tutto quello che ho passato da giovane. Però potrebbe benissimo essere un tumore, come quello che uccise la mia povera mamma; infatti, mi sento pe-
sante ma non ho nausee, la mattina. È strano sapere che ti porti dentro la vita o la morte, senza sapere quale delle due. È vero che il dubbio si può risolvere andando da un dottore, ma io sono restia a compiere questo passo; quindi, non mi resta che aspettare per sapere. Mentre siedo fuori nella veranda, di pomeriggio, lavoro alla mia trapunta. Ne ho fatte tante, nella vita, ma questa è la prima che faccio per me. È un Albero del Paradiso; ma ho cambiato un po' il disegno, l'ho fatto a modo mio. Ho pensato molto a lei e alla sua mela, signore, e all'indovinello che mi ha fatto una volta, durante il nostro primo incontro. Allora non avevo capito, ma sicuramente lei voleva insegnarmi qualcosa, e forse adesso ci sono arrivata. Secondo la mia modesta opinione, la Bibbia sarà anche stata pensata da Dio, ma è stata scritta da uomini. E come in tutto quello che scrivono gli uomini, per esempio sui giornali, la storia nel complesso è quella, ma c'è qualche dettaglio sbagliato. Il disegno di questa trapunta si chiama l'Albero del Paradiso, e chiunque sia stata a inventare questo nome ha detto giusto, anche se non lo sapeva; la Bibbia infatti parla di Alberi. Dice che c'erano due alberi diversi, l'Albero della Vita e l'Albero della Conoscenza; ma io credo che ce ne fosse uno solo, e che il Frutto della Vita e il Frutto del Bene e del Male fossero la stessa cosa. Se lo mangi, morirai, ma se non lo mangi morirai lo stesso; se lo mangi, però, sarai un po' meno ignorante quando verrà il tuo momento. Mi sembra che così rispecchi di più la realtà della vita. Questo non lo dico a nessuno, a parte lei, perché so bene che non è l'interpretazione ufficiale. Nel mio Albero del Paradiso, metterò un bordo di serpenti allacciati; chi li guarda li prenderà per tralci o per un semplice disegno decorativo, perché gli occhi li farò molto piccoli, ma io saprò che sono serpenti; se mancasse un serpente, mancherebbe la parte principale della storia. A volte chi usa questo disegno fa parecchi alberi, quattro o anche più, dentro un quadrato o un cerchio, ma io ne faccio solo uno, grande, su uno sfondo bianco. L'Albero vero e proprio è fatto di triangoli, in due colori, più scuro per le foglie, più chiaro per i frutti; io uso il viola per le foglie e il rosso per i frutti. Ci sono tanti bei colori vivaci adesso, con quelle nuove tinture chimiche; credo che riuscirà molto carino. Ma nel mio Albero ci saranno tre triangoli diversi dagli altri. Uno bianco, dalla sottogonna di Mary Whitney, che ho conservato; uno giallino
sbiadito, dalla camicia da notte della prigione, quella che ho chiesto per ricordo quando sono partita. E il terzo sarà di una stoffa chiara di cotone, a fiori bianchi e rosa, tagliata dal vestito che aveva Nancy nel mio primo giorno in casa Kinnear, e che io indossai sul traghetto verso Lewiston, quando fuggii. Attorno a ciascuno farò un ricamo con filo rosso, perché si intonino al resto del disegno. E così saremo tutte insieme. Nota dell'Autrice Alias Grace è un'opera di finzione, pur se basata su eventi reali. La protagonista, Grace Marks, condannata per omicidio a sedici anni, fu una delle donne più note e chiacchierate del Canada verso la metà dell'Ottocento. Gli omicidi di Kinnear e Montgomery furono commessi il 23 luglio 1843, e i giornali non solo canadesi ma anche americani e inglesi ne parlarono diffusamente. I particolari fecero sensazione: Grace Marks, oltreché giovanissima, era molto graziosa; la governante di Kinnear, Nancy Montgomery, in passato aveva dato alla luce un figlio illegittimo ed era l'amante di Thomas Kinnear; l'autopsia accertò che era incinta. Grace e l'altro domestico James McDermott erano fuggiti insieme negli Stati Uniti, e la stampa diede per scontato che fossero amanti. La miscela di sesso, violenza e sciagurata insubordinazione dei ceti inferiori stimolò moltissimo la fantasia dei giornalisti dell'epoca. Il processo avvenne ai primi di novembre. Venne portato in giudizio soltanto l'omicidio di Kinnear; dato che entrambi gli accusati vennero condannati a morte, non si ritenne necessario un secondo processo per l'assassinio di Nancy Montgomery. McDermott venne impiccato il 21 novembre, di fronte a una grandissima folla; ma su Grace i pareri furono discordi fin dal principio, e grazie al suo avvocato, Kenneth MacKenzie, e a un gruppo di rispettabili personaggi che presentarono una petizione, invocando la giovane età, l'appartenenza al sesso debole e una presunta incapacità mentale, la sentenza di morte venne commutata in ergastolo. Grace entrò nel Penitenziario Provinciale di Kingston il 19 novembre 1843. Si continuò a scrivere di lei, da opposti fronti, fino alla fine del secolo. Le diverse prese di posizione riflettevano l'ambiguità dei suoi contemporanei circa la natura della donna: Grace era un demonio, una tentatrice, l'istigatrice del delitto e la vera assassina di Nancy Montgomery? o era la pove-
ra vittima costretta al silenzio dalle minacce di McDermott e dalla paura di essere uccisa? Il fatto che avesse dato tre versioni differenti del suo ruolo nel caso Montgomery - mentre McDermott ne diede due - non fu di giovamento. Mi sono imbattuta per la prima volta nella storia di Grace Marks nel libro di Susanna Moodie Ai margini delle foreste (1853). Moodie era già nota per la sua opera precedente Vita difficile dei coloni, uno scoraggiante resoconto della vita dei pionieri in quello che si chiamava allora Canada Superiore ed è oggi l'Ontario. Il secondo libro, Ai margini delle foreste, intendeva rappresentare l'aspetto più civilizzato di quello che nel frattempo era diventato il «Canada Occidentale», e comprendeva descrizioni elogiative del Penitenziario Provinciale di Kingston e del Manicomio di Toronto. Istituzioni pubbliche di quel genere venivano visitate alla stregua di giardini zoologici, e in entrambi Moodie chiese di vedere la star incontrastata, Grace Marks. L'omicidio come lo racconta Moodie è una storia di terza mano. L'autrice identifica in Grace l'ideatrice e la causa prima; sarebbe stata spinta dall'amore per Thomas Kinnear e dalla gelosia verso Nancy, e avrebbe sobillato McDermott promettendogli favori sessuali. McDermott viene dipinto come irretito e facilmente manipolabile. Moodie non resiste alla tentazione di costruire un melodramma letterario, e il particolare del corpo di Nancy tagliato in quattro pezzi non solo è pura invenzione, è anche pura letteratura nello stile di Harrison Ainsworth. L'influsso di Oliver Twist di Dickens, un libro che Moodie amava molto, è invece evidente nel particolare degli occhi iniettati di sangue che perseguiterebbero Grace Marks. Poco dopo aver visto Grace nel Penitenziario, Susanna Moodie la incontrò nel Manicomio di Toronto, dov'era rinchiusa nel reparto dei pazienti violenti. Ciò che Moodie attesta per esperienza personale è di solito veritiero, quindi se descrive una Grace urlante e scatenata, l'avrà sicuramente vista. D'altra parte, poco tempo dopo la pubblicazione del libro di Moodie - e a brevissima distanza dalla nomina a Sovrintendente Medico del Manicomio del più umano Joseph Workman - Grace venne ritenuta sufficientemente sana di mente per tornare in prigione; dove, secondo quanto attestano i documenti, si sospettò che durante la sua assenza fosse diventata gravida. Fu un falso allarme, ma chi avrebbe potuto essere il colpevole, al manicomio? L'accesso ai reparti era consentito a pochi; gli uomini che potevano avvicinarsi più facilmente alle pazienti donne erano i dottori. Nei vent'anni successivi, Grace riappare di tanto in tanto nelle cronache
del penitenziario. Sapeva sicuramente leggere e scrivere, perché i registri del direttore riportano che scriveva lettere. Furono molte le persone rispettabili - tra cui anche sacerdoti - che ebbero di lei un'impressione favorevole e si adoperarono instancabilmente in suo favore, inoltrando numerose petizioni in cui chiedevano il suo rilascio, appoggiandosi anche su pareri medici. Due scrittori riferiscono che fu per molti anni fidata domestica in casa del «Direttore» - probabilmente il direttore del penitenziario - anche se i registri della prigione, palesemente incompleti, non ne fanno menzione. All'epoca comunque, nell'America del Nord, impiegare prigionieri a giornata era un'usanza comune. Nel 1872, la grazia venne finalmente concessa a Grace Marks; i documenti provano che andò nello Stato di New York, in compagnia del Direttore e della figlia, «per essere accolta in una casa». Scrittori di epoca più tarda sostengono che si sposò, ma di questo non esistono prove; dopo quella data, non restano tracce di lei. Se sia stata davvero colpevole, insieme a McDermott, dell'assassinio di Nancy Montgomery, e se fosse l'amante di lui, non è affatto chiaro; come non si può dire se fosse autenticamente «pazza» o se recitasse soltanto, come facevano molti altri, per procurarsi condizioni di vita migliori. La vera personalità della Grace Marks realmente esistita rimane un enigma. Sembra che Thomas Kinnear provenisse da una famiglia di Kinloch, vicino a Cupar, nella zona di Fife nell'Est della Scozia, e che fosse il fratellastro più giovane dell'erede della proprietà; anche se, stranamente, un'edizione di fine Ottocento del Libro araldico di Burke lo dà per morto più o meno alla stessa epoca in cui fece la sua comparsa nel Canada Occidentale. Casa Kinnear a Richmond Hill rimase in piedi fin verso fine secolo e diventò meta di curiosi. La visita di Simon Jordan è basata sul resoconto di uno di essi. Le tombe di Thomas Kinnear e di Nancy Montgomery, anonime, si trovano nel cimitero presbiteriano di Richmond Hill. Nel 1908 William Harrison riferì che gli steccati di legno che le circondavano erano stati abbattuti, insieme a ogni altra recinzione. Anche il cespuglio di rose di Nancy non esiste più. E ancora: i dettagli sulla vita in prigione e nel manicomio sono tratti dai documenti reperibili. Quasi tutto ciò che il Dottor Workman dice nelle sue lettere è autentico. Il «Dottor Bannerling» esprime opinioni che vennero attribuite al Dottor Workman dopo la sua morte, ma che non potevano appartenergli.
La struttura della villa dei Parkinson ha molto in comune con quella di Dundurn Castle, a Hamilton, nell'Ontano. Una parte dell'attuale Queen Street di Toronto si chiamava Lot Street. La storia economica di Loomisville e il trattamento riservato alle ragazze che lavoravano nelle industrie tessili si rifanno a quanto accadeva a Lowell, nel Massachusetts. Il destino di Mary Whitney riecheggia un caso che compare nei registri del Dottor Langstaff di Richmond Hill. I ritratti di Grace Marks e James McDermott provengono dalle loro confessioni, pubblicate dallo «Star and Transcript» di Toronto. La voga dello Spiritualismo in America cominciò nel Nord dello Stato di New York verso il 1850 attorno al tavolino delle sorelle Fox, originarie di Belleville, dove risiedeva allora Susanna Moodie, che divenne un'adepta dello Spiritualismo. Il movimento si espanse rapidamente a macchia d'olio, nonostante attraesse da subito un gran numero di ciarlatani, e raggiunse l'apice della sua diffusione verso il 1860; l'epicentro rimase sempre però la regione nord dello Stato di New York e l'area tra Kingston e Belleville. Lo Spiritualismo fu la sola attività pseudo-religiosa di quel tempo in cui le donne potessero raggiungere posizioni di potere, anche se non troppo solide, in quanto venivano considerate mero tramite della volontà degli spiriti. Il Mesmerismo non godeva più credito di disciplina scientifica seria fin dai primi del secolo, ma era ampiamente praticato in pubblico da sedicenti esperti fino al 1840. Conobbe poi un ritorno di credibilità risorgendo sotto le spoglie del «Neuro-ipnotismo» di James Braid, che non contemplava più l'idea del «fluido magnetico», e negli anni 1850 si era conquistato un certo seguito fra i medici europei; ma fu solo negli ultimi decenni del secolo che venne largamente impiegato come tecnica psichiatrica. La rapida produzione di nuove teorie sulla malattia mentale fu una caratteristica di metà Ottocento, così come la creazione di cliniche e manicomi, sia pubblici sia privati. Scienziati e scrittori erano incuriositi e affascinati da fenomeni come la memoria e l'amnesia, il sonnambulismo, l'«isteria», gli stati di trance, le «malattie nervose» e il significato dei sogni. L'interesse della medicina per i sogni era così diffuso che perfino un medico di campagna come il Dottor Langstaff prendeva nota dei sogni dei suoi pazienti. La «dissociazione della personalità», o dédoublement, venne descritta al principio del secolo e seriamente dibattuta negli anni 1840, ma diventò una teoria veramente alla moda soltanto nelle ultime tre decadi del secolo. Ho cercato di basare le speculazioni del Dottor Jordan sulle idee a lui contemporanee che aveva a disposizione.
Naturalmente ho romanzato gli eventi storici (come hanno fatto molti commentatori di questo caso, pur sostenendo di essere perfettamente oggettivi). Non ho alterato nessuno dei fatti noti, anche se i documenti sono così contraddittori che sono pochi i fatti che risultano inequivocabilmente «noti». Grace stava mungendo la vacca o raccogliendo erba cipollina, quando Nancy fu colpita con l'ascia? Perché il cadavere di Kinnear indossava la camicia di McDermott, e dove l'aveva presa, McDermott, quella camicia? Da un venditore ambulante, o da un amico conosciuto nell'esercito? Com'era arrivato nel letto di Nancy il libro insanguinato, o rivista che fosse? Quale dei diversi Kenneth MacKenzie esistenti era l'avvocato di cui stiamo parlando? Nei casi dubbi, ho cercato di scegliere la cosa più probabile, e ho dato spazio a tutte le possibilità non appena era fattibile. Laddove nei documenti si trovano solo accenni, o mancano del tutto i dati, mi sono presa la libertà di inventare. Ringraziamenti È con grande piacere che ringrazio i seguenti archivisti e bibliotecari, che mi hanno aiutata a trovare alcuni dei pezzi mancanti, e senza la cui esperienza e professionalità questo romanzo non sarebbe mai stato scritto: Dave St. Onge, Curatore e Archivista del Correctional Service of Canada Museum, Kingston, Ontario; Mary Lloyd, Locai History and Genealogy Librarian della Biblioteca Pubblica di Richmond Hill, Ontario; Karen Bergsteinsson, Reference Archivist, Archivi dell'Ontano, Toronto; Heather G. Macmillan, Archivist, Government Archives Division, Archivi Nazionali del Canada, Ottawa; Betty Jo Moore, Archivist, Archives of the History of Canadian Psychiatry and Mental Health Service, Centro di salute mentale di Quenn Street, Toronto; Anne-Marie Langlois e Gabrielle Earnshaw, Archivists, Law Society of Upper Canada Archives, Osgoode Hall, Toronto; Karen Teeple, Senior Archivist, e Glenda Williams, Reception, City of Toronto Archives; Ken Wilson, degli United Church Archives, Victoria University, Toronto; e Neil Semple, che sta scrivendo una storia del Metodismo in Canada. Voglio anche ringraziare Aileen Christianson, dell'Università di Edinburgo, Scozia, e Ali Lumsden, che mi hanno aiutata a rintracciare le origini di Thomas Kinnear. Oltre ai materiali degli archivi sopra citati, ho consultato i giornali del-
l'epoca, soprattutto lo «Star and Trascript» (Toronto), il «Chronicle and Gazette» (Kingston), Il «Caledonian Mercury» (Edinburgo, Scozia), il «Times» (Londra, Inghilterra), il «British Colonist» (Toronto), l'«Examiner» (Toronto), il «Toronto Mirror» e il «Rochester Democrat». Molti libri mi sono stati utili, ma soprattutto Ai margini delle foreste di Susanna Moodie (1853, ripubblicato da Macmillan nel 1959) e Lettere della mia vita, della stessa autrice, curato da Ballstadt, Hopkins e Peterman, University of Toronto Press, 1985; il Capitolo IV, di Anonimo, della Storia di Toronto e della Contea di York, Ontano, Volume I, Toronto, C. Blackett Robinson, 1885; il Libro del Buon Governo della Casa di Isabella Beeton, 1859-61, ristampato da Chancellor Press nel 1994; Langstaff: Vita di un medico del diciannovesimo secolo, di Jacalyn Duffin, University of Toronto Press, 1993; Trapunte e altre coperte nella tradizione canadese di Ruth McKendry, Key Porter Books, 1979; Trecento anni di trapunte canadesi di Mary Conway, Griffin House, 1976; Le trapunte tradizionali dell'Ontano di Marilyn L. Walker, Stoddart, 1992; Kingston, costruire sul passato di Osborne e Swainson, Butternut Press, 1988; Moda femminile agli albori dell'Ontano, di K.B. Brett, Royal Ontario Museum/University of Toronto, 1966; Studi sulla storia della medicina canadese, curato da Mitchinson e McGinnis, McClelland & Stewart, 1988; Vivere nel Canada Superiore di Jeanne Minhinnick, Clarke, Irwin, 1970; Il tetto ancestrale di Marion Macrae e Anthony Adamson, Clarke, Irwin, 1963; La città e il Manicomio, Museum of Mental Health Services, Toronto, 1993; La scoperta dell'inconscio di Henry F. Ellenberger, Harper Collins, 1970; Riscrivere l'anima di Ian Hacking, Princeton University Press, 1995; Da Mesmer a Freud: Il sonno magnetico e le radici della terapia psicologica di Adam Crabtree, Yale University Press, 1993; e La passione per l'occulto nel diciannovesimo e ventesimo secolo di Ruth Brandon, Knopf, 1983. La storia del caso Kinnear è stata romanzata due volte in precedenza: in Assassinio di un Padrone, di Ronald Hambleton (1978), imperniato sull'inseguimento dei sospetti; e da Margaret Atwood nel dramma televisivo della CBC La serva (1974, diretto da George Jonas), che si basava esclusivamente sulla versione di Moodie e non può quindi essere considerato come definitivo. Infine, vorrei ringraziare la mia ricercatrice principale, Ruth Atwood, e Erica Heron, che ha copiato i disegni delle trapunte; la mia preziosa assistente Sarah Cooper; Ramsay Cook, Eleanor Cook e Rosalie Abella, che hanno letto il manoscritto e fornito utili suggerimenti; le mie agenti, Phoe-
be Larmore e Vivienne Schuster, e i miei editor, Ellen Seligman, Nan A. Talese e Liz Calder; Marly Rusoff, Becky Shaw, Jeanette Kong, Tania Charzewski e Heather Sangster; Jay Macpherson e Jerome H. Buckley, che mi hanno insegnato a leggere criticamente la letteratura del diciannovesimo secolo; Michael Bradley, Alison Parker, Arthur Gelgoot, Gene Goldberg e Bob Clark; il dottor George Poulakakis, John e Christiane O'Keeffe, Joseph Wetmore, il Black Creek Pionier Village e Annex Books; e Rose Tornato. FINE