CECILIA DART-THORNTON L'ALBERO DI FERRO (The Iron Tree, 2004) Dedicato a Jacintha, modesta e vivace, entusiasta, diverte...
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CECILIA DART-THORNTON L'ALBERO DI FERRO (The Iron Tree, 2004) Dedicato a Jacintha, modesta e vivace, entusiasta, divertente, piena di talento e di tante cose meravigliose
PROLOGO Io, Adiuvo Constante Clementer, sono il cronista di questa vicenda. Non ho conosciuto personalmente la maggior parte di quelli che l'hanno vissuta, ma sapendo ciò che hanno fatto mi sono sentito spinto a scavare nella loro storia, per ricostruirla e registrarne i particolari in forma di racconto, affinché altri fossero informati delle peripezie e delle tribolazioni da loro affrontate e del trionfo infine conseguito. Spero di essere riuscito nel mio intento e confido che i lettori guarderanno con indulgenza il lavoro da me fatto per ricavare un resoconto preciso e completo dai frammenti di verità che ho potuto scoprire. Perché questa è una storia di gelosia e di vendetta, di malvagità e di giustizia. E d'amore. È una vicenda fuori del comune, straordinaria e tragica; tuttavia non c'è tragedia dalla quale non nasca qualcosa di buono, come il verde germoglio che spunta tra le ceneri fredde di un fuoco da campo. Questa è la storia di Lilith e Jarred, che ebbero la ventura di conoscersi e assieme lottarono contro terribili avversità. Alla fine oltrepassarono la soglia eterna, ma non prima di aver donato la vita a un'altra creatura, per la quale sacrificarono se stessi. Le loro vite non furono offerte invano... la causa per cui combatterono non fu persa, e in questo sta la loro vittoria. Essi sono andati, ora, Lilith e Jarred. Dormono nella terra fianco a fianco e sopra le loro tombe sono cresciuti due alberi rari, di un aspetto che mai si era visto nei Quattro Regni di Tir. I loro tronchi snelli si sono piegati, accostandosi fino a intrecciare i rami, e in primavera i boccioli dell'uno splendono come zaffiri azzurri, il colore della serenità, mentre quelli dell'altro sono rossi come la passione. Quando d'inverno la tramontana spazza le loro nude fronde, ne trae melodiose note di flauti e campanelle; e in autunno i rami si appesantiscono di dolci frutti, che si dice diano a chi li mangia gioia ed eterna felicità. Se ne sono andati ormai, Lilith e Jarred, ma la loro storia rimane. 1 FIORI Il sole stava rotolando verso occidente nella pesante afa pomeridiana. Oltre il cerchio di alture rocciose che chiudeva il villaggio, distese di terre desolate si perdevano in ogni direzione e il suolo, schiacciato sotto il crudo
bagliore del cielo, ne rifletteva la calura come uno specchio. Una lontana chiazza di foschia - forse fumo delle fornaci di Jhallavad - stagnava sull'orizzonte. Nel piccolo abitato, l'irritante schiamazzo delle galline in cerca di cibo e gli strilli dei bambini sovrastavano il quieto frinire degli insetti e il sospiro del vento tra le dune. Tutto, in quel luogo, pareva scolorito e bruciato dal cielo rovente. Il villaggio era una torta cotta dal sole e spolverata di farina. Le case di mattoni di fango e paglia, prive di finestre, avevano muri spessi e piccoli ingressi ad arco, dove ondeggianti tende di stoffa fungevano da porta. Il cielo pomeridiano incombeva sopra ogni cosa come un misero sudario color malva sbiadito dalla luce solare. Nelle viuzze si aggiravano poche persone. La strada principale era occupata da una dozzina di ragazzi dai piedi scalzi, che rifiutavano di lasciar sciogliere la loro esuberanza giovanile dall'alito di fornace del deserto. Erano occupati in un gioco che consisteva nel gettare a calci una specie di palla su e giù per la strada. La palla era un rozzo brandello di cotenna di capra, cucito a forma di sfera e imbottito di fibra vegetale. Polli starnazzanti, turbini di polvere e grovigli di arbusti secchi spinti dal vento ostacolavano ogni tanto le prodezze calcistiche dei giocatori. Senza preavviso, tutti i cani del villaggio iniziarono ad abbaiare. I ragazzi interruppero la partita, lasciando che la palla malridotta rotolasse per una breve discesa fino a una buca. Perplessi, scrutarono i dintorni con attenzione, ma non videro nulla d'insolito. Le stradicciole, i tetti bassi, le magre braccia dei mulini a vento e gli alberelli stenti non avevano niente di diverso. Tuttavia si sapeva che i cani avevano già dato l'allarme altre volte nello stesso modo, e un senso di premonizione salì come una febbre nelle vene di chi li aveva uditi. Un ruggito tonante si levò dal cuore delle colline ed echeggiò nell'aria. Le case cominciarono a tremare. I muri a secco che delimitavano i campi coltivati ondeggiarono come serpenti. Un profondo crepaccio fumante avanzò lungo la via principale, zigzagando rapidamente tra i giovani che fuggivano in preda al panico o lo fissavano come paralizzati. Il villaggio si trovò d'un tratto spaccato in due, coi ragazzi isolati sui lati opposti di quell'abisso appena comparso. Il più robusto di loro vacillò sull'orlo del crepaccio e, incapace di mantenere l'equilibrio, agitò le braccia, disperato, sbarrando gli occhi inorriditi dinanzi a quella prospettiva di morte senza scampo. Il villaggio sussultò. Ci furono tonfi squassanti, come se un gigantesco
mostro corresse a gran velocità in gallerie sconosciute sotto le strade, percuotendo la terra sopra di sé. Le tegole grandinavano dai tetti. La gente scappava fuori dalle fragili dimore. I bambini piangevano, gli onagri ragliavano, nitrivano i cavalli. Il ragazzo in bilico sull'orlo del crepaccio perse la sua battaglia per trovare l'equilibrio e cominciò a cadere, proprio mentre, con assurdo tempismo, la spaccatura si chiudeva rumorosamente. E all'improvviso si ritrovò salvo, disteso nella polvere. Poi la scossa tellurica giunta da sud passò oltre, allontanandosi a nord tra i Poggi dei Wight. Quando il suo rombo si fu affievolito verso l'orizzonte, sul villaggio tornò il silenzio. L'aria era piena di polvere. Le strade fumavano come se un fuoco invisibile le stesse ancora bruciando. Rincuorati, i giovani gridarono, risero, corsero su e giù tra le case per sfogare la tensione. Gli abitanti del villaggio si riunirono nella strada principale, interrogandosi ansiosamente a vicenda per sapere se fossero tutti sani e salvi. Si abbracciarono stupiti, increduli che il mondo avesse potuto spaccarsi in due proprio nel mezzo del loro piccolo borgo, per poi sigillarsi come se niente fosse successo. Le scosse telluriche non erano una novità da quelle parti, ma non se ne ricordavano di così sconvolgenti. Per fortuna nessuno era rimasto ferito. Il terremoto aveva colpito il villaggio di R'shael, nel regno di Ashqalêth, senza causare danni più seri della rottura di qualche anfora di coccio e del crollo di un mulino a vento per il pompaggio dell'acqua. I ragazzini contarono ad alta voce le deboli scosse d'assestamento successive, come fosse un gioco. La madre di uno dei giovani calciatori apparve accanto al figlio e scrutò con ansia la sua espressione. Il ragazzo era alto e forte, con un torace vigoroso e braccia robuste, abbronzate come lucido legno di noce. Era l'apprendista del fabbro del villaggio, un mestiere fisicamente impegnativo. Durante l'infanzia e l'adolescenza aveva imparato anche un altro lavoro, quello del carpentiere; ma il legno era scarso nel deserto, e inoltre il mastro carpentiere aveva ormai lasciato R'shael per andare altrove. «Stai bene, Jarred?» gli domandò subito la madre, senza fiato per l'apprensione. Il giovane annuì e si asciugò il sudore della fronte con una manica. «Si capisce! E tu? E zia Shahla?» «Sane e salve tutte e due.» «Sai che non devi mai preoccuparti per me», disse Jarred. Prese il sottile laccio di cuoio che portava al collo. Appeso a esso c'era un disco, che lui
sollevò davanti agli occhi della madre per mostrarglielo. «Vedi? Porto sempre l'amuleto. Te l'ho promesso. Non devi stare in pensiero.» «Lo so, ma non posso fare a meno di essere in ansia per te.» «Sciocca di una madre», la rimproverò dolcemente lui, chinandosi a baciarle una tempia con grande tenerezza. L'amore per quella donna fragile e segnata dagli stenti gli fece salire il cuore in gola. Lei indossava lo scialle tradizionale delle donne del deserto, color ocra e zafferano. La sua lunga veste con gli orli di seta colorata era stretta alla vita da un'ampia fascia di stoffa. Anelli di ottone le luccicavano alle dita e ai lobi delle orecchie. Aveva occhi scuri, miti, un volto dai lineamenti fini e capelli color cardamomo come quelli del figlio. «Non posso farne a meno», ripeté. «Preoccuparsi del benessere dei figli è l'eterno fardello di una madre. Darei qualunque cosa per essere certa che tu stai bene.» «Nessuno sta meglio di me», la rassicurò Jarred con un sorriso, e si rimise l'amuleto nella scollatura. Gli imprevedibili sussulti tellurici erano frequenti in quella zona del deserto. Almeno una volta ogni ciclo lunare si avvertiva un tremito, così debole da creare solo qualche increspatura in una tazza di kumiss. Di tanto in tanto una scossa più secca faceva traballare le stoviglie sugli scaffali. Una o due volte l'anno, invece, si scatenava un sisma così forte da far zigzagare follemente al suolo improvvisi crepacci, inclinare i recinti e riempire di crepe qualche muro. Quelle dimostrazioni della terribile potenza della natura spaventavano gli abitanti del villaggio, ma nessuno si sorprendeva di eventi così consueti, perché l'abitudine li aiutava ad accettarli con serenità. E in breve tempo la vita della piccola comunità riprendeva il suo corso normale. Quando le ombre iniziarono ad allungarsi, Jarred, sua madre e la sorella di lei sedettero a gambe incrociate su una stuoia nella loro casupola ben ventilata, per cenare assieme col solito stufato d'orzo, zucca e fagioli, insaporito col cumino. La stanza era arredata modestamente, con un basso tavolo e pochi scaffali. Una lira pendeva da due ganci fissati all'intonaco bianco di una parete, mentre a quella opposta altri ganci sostenevano una balestra e una scimitarra col fodero. Gli angoli che ospitavano i giacigli per la notte erano isolati da tende. In un secondo edificio ancor più piccolo a fianco di quello c'erano la cucina, che era il regno di Shahla, e la bottega di terrecotte della madre di Jarred. Dietro le due costruzioni si trovavano il
pollaio, la stalla dell'onagro e di Bathsheva - la giumenta di Jarred -, la carbonaia e l'orto. Il terreno era irrigato da uno dei molti canaletti che distribuivano nel villaggio l'acqua pompata dalle cisterne di raffreddamento sotterranee. Se non fosse stato per quelle ampie vasche di raffreddamento, l'acqua avrebbe ucciso la vegetazione, perché quando risaliva dalle profondità del suolo era quasi alla temperatura d'ebollizione. Nel deserto, se le giornate erano calde e polverose, le notti erano ugualmente polverose ma gelide. Riunita intorno a un braciere di carboni ardenti, la famiglia di Jarred concluse il pasto con un dessert di fichi cotti nel dolce sciroppo di miglio. «Quant'è strano che la strada si sia aperta in due, oggi», mormorò Shahla, la zia di Jarred, non per la prima volta quella sera. «Per poco Yaadosh non è caduto nelle profondità della terra. Oscillava proprio sull'orlo! Mentre lo guardavo credevo che sarei svenuta.» Si leccò lo sciroppo dalle dita. «E poi quel crepaccio si è chiuso di botto, come le fauci di un mostruoso unseelie. Se qualcuno ci fosse finito dentro sarebbe stato schiacciato all'istante. Non tu, naturalmente, Jarred», aggiunse, volgendosi al nipote. «Tu hai l'amuleto.» Corrugò la fronte, colpita da un pensiero improvviso. «Ma cosa ti sarebbe successo? Saresti rimasto imprigionato nel terreno sotto la strada per sempre, o almeno finché non fossimo riusciti a scavarti fuori... che cosa terribile!» La madre di Jarred placò la sorella posandole una mano su un braccio. «Ti prego, Shah, non dire queste cose. Mi fanno impressione.» Shahla si coprì la bocca con le dita. «Scusami, Sarayeh», disse contrita. Abbassò la testa. «Non volevo darti cattivi pensieri.» «Io ho l'amuleto», ricordò loro Jarred in tono baldanzoso. «E sono certo che, in qualche modo, mi avrebbe salvato dal restare intrappolato sottoterra.» Lo estrasse di nuovo da sotto la camicia e lo tenne sul palmo: un semplice disco d'osso con incise due rune intrecciate. Per qualche istante lo guardò, pensoso. Quindi disse: «Non potrò mai capire come funziona questo oggetto. La sua protezione è efficace sia quando lo porto a contatto della pelle sia quando lo tengo all'esterno, attraverso molti strati d'indumenti. A volte l'ho tenuto in tasca, o nella borsa appesa alla cintura, ma mi ha protetto dal male nello stesso modo. Forse emana un'aura invisibile di qualche genere». «Chi può sperare di comprendere i misteri del gramarye?» osservò sua zia, stringendosi nelle spalle. «Finché veglierà su di te, Jarred, io non starò neppure a domandarmi come accada. Sii lieto che ti protegga e non chie-
derti il perché.» Lui le sorrise. «Gramercie. Sono felice di avere l'amuleto, zia Shahla. Ma in qualche modo lo sento come una barriera che mi separa dai miei compagni. Fin da quando sono diventato abbastanza grande da capire il suo potere, voi due avete insistito sulla necessità di tenerlo nascosto. Io vi ho obbedito. Il vostro è un consiglio saggio, perché se la potenza di questo oggetto così raro fosse conosciuta avremmo certamente dei guai. Ogni mortale desidera essere al riparo dal male. Tutti vogliono proteggere le persone amate. L'amuleto ci procurerebbe senza dubbio gelosie, risentimenti e invidia. Fin dall'antichità la gente ha commesso terribili crimini per impadronirsi di tesori meno preziosi di questo. Io non desidero affatto causare lotte e sofferenze; perciò sono d'accordo di tenere segrete le doti dell'amuleto. Ma nel nasconderlo ho l'impressione di essere un impostore, perché l'inganno non è nella mia natura. E talvolta penso a me come un codardo che si rintana dietro uno scudo di gramarye.» «Tu hai fatto una promessa», disse con semplicità sua madre. «Devi continuare a portare l'amuleto. Sta a te decidere se i tuoi sentimenti devono essere governati dall'impressione di essere un diverso, o un codardo. Non c'è bisogno che tu la pensi così. Non sei un vile, né un impostore.» «Lo so. I pensieri che mi tormentano sono sciocchi, ma non è facile ignorarli.» Distrattamente, Jarred accarezzò l'orlo dell'amuleto. «Spesso mi chiedo dove mio padre abbia avuto questo oggetto.» Shahla si rivolse alla sorella. «Dove l'ha avuto?» «Mi ha detto soltanto che l'ha trovato da qualche parte, durante i suoi viaggi», rispose la madre di Jarred. «Non riusciva a rammentare dove.» Il ragazzo continuò a fissare pensosamente l'amuleto. «Io so così poco di mio padre. Non ricordo bene neppure il suo aspetto, ma quando penso a lui sento ancora l'eco di un senso di sicurezza. E di attesa. Lo rivedo quando usciva di casa per andare al mercato e io lo pregavo di portarmi con sé. Era sempre eccitante andare con lui da qualche parte.» Fece una pausa, evitando di dar voce ad altri pensieri simili per non addolorare la madre. Un giorno il mondo gli era crollato sotto i piedi, lasciandolo come stordito e inorridito sull'orlo di un precipizio vertiginoso. Aveva dieci anni quando suo padre se n'era andato per non tornare mai più. Quella perdita era una ferita che non voleva rimarginarsi. A volte chiedeva a sua madre: «Che aspetto aveva?» «Somigliava a te», gli rispondeva lei. «Dov'è andato?»
«Oltre le Montagne di Fuoco, nelle terre desolate.» «Perché?» Talora lei rispondeva: «A Jo serviva denaro per la nostra famiglia; era alla ricerca di metalli preziosi». Altre volte mormorava, come se parlasse tra sé: «Forse stava ancora fuggendo...» Jarred sapeva soltanto che il padre, da giovane, se n'era andato di casa dopo un dissidio coi genitori. Era sempre stato un uomo irrequieto, tormentato da preoccupazioni segrete. «Tornerà da noi?» continuava a chiedere alla madre. «Non lo so.» «I tuoi genitori sono nati qui a R'shael e hanno vissuto qui per tutta la vita. Dove abita la famiglia di mio padre?» «Non ha mai voluto parlare di loro. Tutto ciò che so è che Jo litigò con suo padre. Fuggì di casa e viaggiò per i Quattro Regni, alla ricerca di un posto lontano in cui rifarsi una vita, un posto dove non lo avrebbero trovato facilmente. Alla fine capitò qui. Rimase dodici anni. Poi fu ripreso dalla sua irrequietezza e se ne andò, ma disse che sarebbe tornato. Forse lo farà, un giorno. Possiamo soltanto aspettare e sperare.» Di lì a tre giorni era in programma una partita di calcio. Jarred e i suoi compagni, che dovevano giocare contro una squadra di ragazzi che abitavano dall'altra parte del villaggio, avevano deciso di perfezionare la loro tattica e provare alcune azioni d'attacco in un posto isolato, dove gli avversari non avrebbero potuto vederli. Il pomeriggio dopo il terremoto, quando rari brandelli di nubi evaporavano all'orizzonte occidentale e tutti avevano ormai finito il lavoro quotidiano, i ragazzi misero in atto il loro piano. Montarono sui nervosi cavalli e si allontanarono in direzioni diverse - allo scopo di confondere eventuali spie -, per poi cambiare strada e riunirsi in un posto fuori mano tra le colline. La zona, una depressione poco profonda chiusa tra creste rocciose nota come il Nido della Gallina, era bagnata da una sorgente stagionale dove i giocatori avrebbero potuto abbeverare i cavalli. Tra il villaggio e il Nido della Gallina la strada era interrotta da un crepaccio, una spaccatura non superiore ai trenta metri nel punto più largo, che incrinava la superficie del deserto per la lunghezza di un paio di leghe. Le sue pareti erano verticali. Nessuno l'aveva mai scandagliata, ma penetrava tanto nel terreno che la luce non ne raggiungeva il fondo. Il suo punto più stretto era al centro, dove i bordi opposti distavano appena cinque metri, e lì era stato gettato un
ponte sospeso fatto di corde e assicelle, ancorato alle estremità con pali conficcati nel terreno. Un tempo il ponte veniva mantenuto in buone condizioni, perché consentiva di accorciare la strada per il villaggio più vicino, distante cinquanta leghe. Sei mesi prima, tuttavia, quel percorso era stato abbandonato dagli esseri umani. Alcuni viaggiatori avevano perso la vita, aggrediti da un'ignota incarnazione unseelie mentre stavano attraversando il crepaccio. Quella, almeno, era l'opinione generale. Ma nessuno sapeva cosa fosse successo in realtà lì al ponte. Nessun testimone era sopravvissuto e a prova dei fatti non restavano che le mute conseguenze. L'arrivo di quei viaggiatori era atteso a R'shael per una certa ora e, quando il loro ritardo si era fatto pesante, una squadra di cinque uomini a cavallo era uscita a cercarli. Tutto ciò che i soccorritori avevano trovato erano impronte fresche sulla sabbia, dirette al ponte. Mentre gli uomini cercavano altri indizi nei dintorni, uno di loro, che si era allontanato dal crepaccio più degli altri, aveva improvvisamente notato uno strano silenzio e si era reso conto di non udire più le voci dei compagni. Stupefatto e smarrito, si era guardato intorno, chiamandoli per nome, ma essi erano scomparsi senza far rumore e senza lasciar traccia, assieme ai loro cavalli. Lui aveva visto soltanto che il ponte sul crepaccio oscillava leggermente, come se qualcuno o qualcosa ci fosse appena passato sopra. Nella zona non si scorgeva nessuno, e tuttavia, con un orribile senso di vuoto allo stomaco, l'uomo aveva intuito di non essere solo. Ansimando per il terrore, era fuggito a rotta di collo, senza fermarsi più fino al villaggio. Nei giorni successivi quel tratto di strada era stato sbarrato con pietre miliari, come avvertimento per i viaggiatori in arrivo. Da allora nessun essere umano aveva osato avvicinarvisi. Per evitare il ponte, Jarred e i suoi compagni girarono intorno a un'estremità del crepaccio. Mentre i ragazzi attraversavano una zona costellata di spinifex, una volpe della sabbia apparve proprio davanti agli zoccoli dei loro cavalli. L'animale fuggì per un breve tratto, poi si voltò a guardarli coi suoi occhi d'ambra. I ragazzi proseguirono senza badarle, così la volpe corse di nuovo verso di loro, per poi scappare via come poco prima. «Sta cercando di attirarci fuori del nostro percorso», disse Nasim. «Scommetto che la sua tana è poco più avanti. Questa è la stagione delle nascite. Deve avere dei cuccioli, laggiù.» Quando i ragazzi giunsero presso un assembramento di rocce, apparve un'altra volpe, che arruffò il pelo e scoprì i denti con fare minaccioso.
«Questa è la femmina», commentò Yaadosh, il migliore amico di Jarred, un ragazzo di due anni più anziano di lui, dal fisico robusto e dai lineamenti ruvidi. Qualcuno gridò: «Ehi, Jarred, tirale con la tua fionda!» Ma il giovane non gli prestò attenzione. Tre dei ragazzi iniziarono a urlare, agitando le braccia. Le due volpi della sabbia s'irrigidirono e abbassarono le orecchie, pronte a partire all'attacco. Era chiaro che, nonostante la paura, erano animate dall'istinto disperato di difendere la tana, mentre guardavano da una parte e dall'altra per capire quale dei loro tormentatori avrebbe attaccato per primo. Uno dei giovani saltò giù dal cavallo, raccolse alcuni sassi e prese a bersagliare la femmina. Quella lo caricò subito, ma lui fu svelto a rimontare in arcioni. «Ti sistemo io!» sbottò il ragazzo, tirando fuori una fionda dalla borsa da sella. «Lascia perdere!» gli gridò Jarred. «Andiamocene!» Spostò la sua giumenta davanti al compagno, si allungò verso di lui per mollargli un ceffone e galoppò via. Indignato, l'altro affondò i talloni nei fianchi del cavallo e partì al suo inseguimento. Gli altri fecero lo stesso. Quando i ragazzi giunsero al Nido della Gallina e scesero di sella, ci fu un breve alterco tra Jarred e quello che aveva tirato i sassi alle volpi, ma la questione fu presto dimenticata. «Dobbiamo fare la guardia, a turno, per controllare che non si avvicini qualche spione», disse Tsafrir. Basso e robusto, era il membro più anziano del gruppo e aveva visto quasi trenta cicli solari, dieci più di Jarred. «Quoll», aggiunse, rivolto a Michaiah, il cugino di Yaadosh, «tira fuori il cannocchiale del vecchio spilorcio e vai a piazzarti su quel dosso, tra i cespugli. Di lassù dovresti vedere se arriva qualcuno dalla parte del villaggio.» Michaiah impugnò il cannocchiale con riverenza. Era l'unico strumento di quel genere che ci fosse a R'shael; apparteneva al vecchio Saeed, il capo del villaggio. Saeed era assai geloso di quel suo piccolo tesoro e lo lasciava usare solo ai pochissimi che godevano della sua fiducia; di conseguenza i ragazzi l'avevano «preso in prestito» di nascosto dal proprietario, con l'intenzione di rimetterlo a posto prima che lui ne notasse la scomparsa. Quando i calciatori finirono di sperimentare le tattiche di gioco e si furono accordati su quelle più adatte per vincere la partita, all'orizzonte occidentale il sole si stava liquefacendo in rivoli rosa, dorati e iridescenti. Ansiosi di arrivare a casa prima che le creature della notte uscissero dalle ta-
ne, saltarono in sella e partirono al galoppo sul terreno arso dal sole, con gli zoccoli dei cavalli che scagliavano in aria turbini di polvere secca. Fu soltanto quando erano quasi arrivati al villaggio che Tsafrir gridò: «Fermatevi!» E tutti tirarono le redini per radunarsi in circolo intorno al più rispettato membro del gruppo. Tsafrir una volta aveva viaggiato fin oltre il confine di Ashqalêth; ciò, oltre all'età e al suo naturale buonsenso, gli conferiva una certa autorità. «Chi ha il cannocchiale?» volle sapere. «L'ultimo a usarlo è stato Caracal», rispose Gamliel. «Non è vero!» protestò Yaadosh. «Ce l'ha Gecko!» Nasim, soprannominato Gecko, negò quell'accusa, e subito tra i due nacque una discussione concitata. Alla fine Tsafrir chiese il silenzio gridando: «State zitti un momento!» I ragazzi si guardarono, preoccupati. Sapevano benissimo che, se fosse successo qualcosa al prezioso strumento, su di loro si sarebbe abbattuta l'ira di Saeed. Non era una cosa da prendere sottogamba. C'era da aspettarsi una dura punizione. Sul deserto stava già calando il velo del tramonto e di lì a poco le creature notturne avrebbero cominciato a vagare in cerca di prede. Era un pericolo cui nessuno pensava volentieri. I ragazzi avevano davanti un dilemma. Dovevano rientrare al villaggio senza il cannocchiale e affrontare l'ira di Saeed e degli altri anziani, oppure tornare a cercare lo strumento sfidando le insidie in agguato nella notte? «È chiaro che il cannocchiale è rimasto laggiù», decretò Tsafrir. «Tireremo a sorte. Chi prende la paglia più corta andrà a recuperarlo.» Scese dal cavallo, sfoderò il coltello e tagliò alcuni steli di spinifex da un cespuglio che cresceva lì accanto. Seduti in sella, gli altri si agitavano, visibilmente a disagio. La paura chiudeva loro la gola come una morsa. Chi fosse stato prescelto dalla sorte non avrebbe potuto rifiutare di tornare nel deserto. Mostrarsi codardi significava essere disonorati per la vita. Mentre Tsafrir preparava gli steli nel pugno, i compagni evitavano di guardarsi in faccia, deglutendo e asciugandosi il sudore freddo dalla fronte. Nessuno aprì bocca. Tsafrir offrì il mazzetto di steli al più vicino dei ragazzi ma, prima che questi scegliesse, Jarred disse: «Lascia stare! Vado io». Il giovane sentiva che era suo dovere affrontare il pericolo al posto di un compagno. Dopotutto lui era l'unico a godere dell'immunità. Perché lasciare che un amico rischiasse la vita in un'avventura che lui poteva superare senza danni? E, cosa più importante, affrontando una situazione aleatoria
avrebbe fatto tacere, per un poco, quel dubbio che gli rodeva le viscere: non era un codardo, lui lo sapeva, ma solo mettendosi alla prova poteva dimostrarlo realmente. Senza attendere la risposta girò il cavallo e lo spronò al galoppo verso il Nido della Gallina. Colti di sorpresa, i compagni lo seguirono con lo sguardo, a bocca aperta. Gli steli d'erba caddero dalla mano di Tsafrir. Dai cespugli spinosi si alzava il cinguettio dei passeri, tintinnante come una pioggerellina di vetri rotti. Una volpe della sabbia latrò in lontananza. «Al buio non riuscirà a trovare niente», disse Gamliel, a disagio. «Stanotte ci sarà la luna quasi piena», replicò Michaiah. «E sorgerà presto.» «Dobbiamo aspettarlo qui?» domandò Nasim, quando gli sgargianti colori del tramonto si spensero e il cielo iniziò a scurirsi. Tsafrir scosse il capo. «Se tardiamo, le nostre famiglie staranno in ansia. Gecko, non appena saremo al villaggio tu dirai alla madre di Jarred che lui mi ha accompagnato a casa e si tratterrà da me fino a tardi. È una semplice questione di correttezza», spiegò, ben consapevole dei dettami della dignità virile. «Non è necessario che degli uomini fatti e finiti raccontino dove vanno e cosa fanno alle loro madri. Tu dovrai solo assicurarle che rincaserà presto.» A quelle parole i ragazzi si guardarono e ciascuno lesse negli occhi degli altri: Potrebbe non rincasare mai più. L'unico a dare voce ai propri pensieri fu il robusto Yaadosh, che commentò: «Sono certo che i Fati hanno preso Jarred sotto la loro protezione. Per qualche motivo sfugge sempre a ogni incidente». Ma gli altri badarono poco alle sue parole e, mentre si avviavano verso casa, non fecero che voltarsi a guardare indietro. Jarred procedeva al galoppo tra le dune e le distese di roccia rossastra bruciata dal sole. Gli zoccoli del cavallo scagliavano in aria ventagli di sabbia, passando tra rotolanti cespugli d'erbacressa spinti dal vento, piante di spinifex e cespi di rovi contorti. Il pallido azzurro del cielo si era scurito e la sua cupa distesa d'indaco era già punteggiata di stelle. Una luce si spostava sul fianco di una duna, a poca distanza da Jarred, senza che nulla e nessuno la portasse avanti. La luce si fermò un poco presso la sommità della collina di sabbia, poi riprese ad avanzare, muovendosi a velocità impressionante. Il giovane sentì il cuore che accelerava e spronò il cavallo.
Il deserto pullulava di manifestazioni eldritch. Da un'altura sabbiosa di forma circolare si levava un fumo denso. La vorticante colonna saliva in verticale fino a una certa altezza, per poi dilatarsi come una testa di fungo. Per qualche istante il fumo si diradò, lasciando intravedere due file di uccelli bianchi fermi al suolo, a destra e a sinistra della duna. Avevano spalle e teste di cane. Poi si levò un tramestio mentre una voce grugniva: «Tornate più tardi!» E gli uccelli volarono via. Scuro in volto, il giovane si tenne ben saldo in arcioni sulla sua veloce giumenta. Non avrebbe saputo dire quanta parte di quelle strane voci e visioni fosse reale e quanta illusoria. L'incertezza lo disorientava. Un senso di nausea gli attanagliava lo stomaco. A qualche distanza, nell'ombra, si accese all'improvviso un falò le cui fiamme balzarono a una decina di metri d'altezza. Quando lui guardò di nuovo da quella parte non vide più niente, fuorché una tenebra vertiginosa e immagini retiniche sopravvissute nella memoria dei suoi occhi. Il sudore gli colava a rivoli lungo la schiena e il fiato si era fatto corto, ansimante. Giunto al Nido della Gallina, Jarred scivolò giù di sella lasciando le redini sul dorso della giumenta. Bathsheva era fedele e non si sarebbe allontanata; trotterellò fino alla sorgente, innervosita, immerse il lungo muso nell'acqua e bevve in fretta, continuando a girare le orecchie in ogni direzione e ad alzare il capo per guardarsi intorno. Il giovane fece un rapido esame preliminare dei versanti e del fondo della depressione, dove lui e i suoi compagni si erano allenati. Mise da parte l'apprensione e suddivise mentalmente il terreno in una griglia di linee parallele, lungo le quali condurre la sua ricerca con la massima efficienza, per non lasciare nessun tratto inesplorato. Il vento notturno si era rinforzato e sibilava lugubre tra le bizzarre sporgenze delle formazioni rocciose. Il freddo attraversava come un coltello la giubba sottile di Jarred, facendolo rabbrividire. Ciocche di capelli castani sfuggivano dal nastro nero che si era legato intorno alla fronte e gli finivano negli occhi. La giumenta scalpitava spaurita ogni volta che su di lei passava l'ombra di un gufo. Poi l'orlo della luna sbucò dall'orizzonte, arrotondato e bianco come un petalo di loto, e per un momento Jarred, nel guardarsi intorno, ebbe l'impressione che la luce di una stella palpitasse tra i rami di un cespuglio. Il chiaro di luna si rifletteva sulla superficie convessa di un tubo d'ottone. Senza esitare il ragazzo corse a recuperare il cannocchiale. Poi lo mise nella borsa da sella, montò sulla giumenta e ripartì verso casa.
Ma ormai si era fatto tardi, pericolosamente tardi, e lui se ne rendeva conto fin troppo bene. Ritrovare il cannocchiale gli era costato più tempo di quanto si aspettava. Se non fosse rientrato al più presto, sua madre e sua zia avrebbero capito che quell'assenza non era volontaria. Anche i suoi compagni si sarebbero preoccupati, probabilmente al punto di mettere in allarme l'intero villaggio e far uscire in tutta fretta una squadra di ricerca. E, a peggiorare le cose, Saeed, che aveva un carattere vendicativo, avrebbe scoperto la ragione del ritardo di Jarred. Accorgersi che il cannocchiale gli era stato sottratto senza permesso l'avrebbe fatto gridare al furto, e i ragazzi sarebbero stati accusati di quel reato. Jarred decise che doveva assolutamente arrivare a casa prima che fosse dato l'allarme. Si concentrò sul da farsi. Era necessario abbreviare il percorso e ciò non gli lasciava altra scelta che attraversare il vecchio ponte infestato sul crepaccio. Tirò le redini e la giumenta si fermò scalpitando, in una nuvola di polvere. Il giovane si tolse la giubba, la rivoltò con l'interno all'esterno e la indossò di nuovo. Portare indumenti rovesciati era uno degli stratagemmi più comuni per proteggersi dai wight unseelie. Non sarebbe servito a molto contro un'entità davvero potente, tuttavia Jarred sentiva il bisogno di ricorrere a ogni possibile forma di difesa. Alzò una mano a toccare un istante il piccolo disco duro appeso al collo. Sarebbe stato sufficiente quell'amuleto? Non c'era il tempo di pensarci. Fece voltare la giumenta verso il ponte. La luna, un fiore di loto ormai sbocciato su uno stelo di costellazioni, spandeva un lucore morbido sul territorio privo di alberi. Luce d'argento, ombre luttuose. Se la luna avesse avuto occhi - come qualcuno credeva possibile - non avrebbe faticato a scorgere la figurina a cavallo che si muoveva in quell'immensa distesa spoglia e desolata. Il lungo crepaccio era una striscia d'inchiostro sul terreno piatto. Quando Jarred fu a poca distanza dal ponte cominciò a fischiare con forza e senza stonare, perché fischiare era un altro ben noto espediente contro gli eldritch wight. Poi frenò la cavalcatura e la mise al passo. L'animale aveva già attraversato quel ponte in giorni più sicuri, ma un movimento sbagliato avrebbe potuto far dondolare troppo quella striscia di assi di legno. Doveva essere la giumenta a trovare il giusto equilibrio, procedendo col ritmo suggerito dal suo istinto. Augurandosi con tutta l'anima che l'amuleto li proteggesse entrambi, Jarred la incitò a proseguire con cautela. Il disastro li aggredì all'improvviso, nel modo più inatteso. Il cavallo aveva appena posato tutti e quattro gli zoccoli sul ponte, quando una risata
ultraterrena scaturì dall'abisso e, un istante dopo, un braccio freddo come il ghiaccio circondò il torace del giovane. Sbigottito, Jarred si rese conto che qualcuno era seduto alle sue spalle, di traverso. Sconvolta dal panico, la giumenta si gettò avanti attraverso il ponte e, non appena giunsero all'altro lato del crepaccio, balzò sul terreno solido e galoppò via nel deserto come mai aveva galoppato in vita sua, finché non furono tra i campi coltivati alla periferia del villaggio. Gli sforzi di Jarred per dirigerla nella strada principale tra le case furono inutili, ed essa proseguì follemente oltre l'abitato. Il giovane udì un'altra risata, stavolta proprio dietro la sua testa. Solo allora trovò il coraggio di voltarsi, e ciò che vide fu un bianco cranio scarnificato, con le orbite vuote e i denti scoperti. Sentì la pressione del braccio che lo cingeva farsi più insistente. Appellandosi a tutta la sua forza d'animo, abbassò una mano per scostare quell'arto e si accorse di toccare il radio e l'ulna di uno scheletro. L'ossuto braccio avvinghiato intorno alla sua cintura lo stringeva con la forza di un nodo scorsoio, mentre la giumenta non voleva saperne di rallentare l'andatura. Per quanto cercasse di divincolarsi, Jarred non fu capace di liberarsi da quella presa. Lui e il suo macabro passeggero si lasciarono alle spalle il villaggio e continuarono a galoppare nel deserto, finché la cavalla non inciampò e scaraventò via il suo carico. Il giovane si ritrovò disteso supino nella polvere, stordito e senza fiato, mezzo accecato dal sudore e dalla sporcizia. Di lì a non molto uno dei suoi compagni sopraggiunse a cavallo, gli si fermò accanto e saltò subito a terra. Era Yaadosh. «Stavo aspettando che tu rientrassi. Ti ho visto passare veloce come il vento», disse. «Per tutte le Barbe dei Druidi! Sembravi inseguito dall'incubo peggiore del mondo. Ce la fai a rialzarti?» Lui annuì e cercò di parlare, ma dalla gola gli uscì soltanto un gorgoglio. Yaadosh lo aiutò a mettersi in piedi. «Hai qualcosa di rotto?» volle sapere. Jarred scosse il capo. Non sentiva nessun dolore. Dopo una caduta così tremenda chiunque altro sarebbe stato pieno di ammaccature ed escoriazioni sanguinanti, ma, come sempre gli capitava dopo ogni incidente, anche stavolta lui ne era uscito senza un graffio. «Dov'è Bathsheva?» domandò, con voce roca. «È laggiù. Te la riporto io.» Jarred si asciugò il sudore dagli occhi e si guardò intorno, scrutando ogni ombra. Il vento faceva sussurrare le erbacce, investendole con vortici di sabbia. Quando Yaadosh fece ritorno conducendo la giumenta per le
redini, lui si affrettò a controllarne l'incolumità, tastandola con mani esperte. «È un miracolo che sia ancora illesa, povera bestia, ma è allo stremo. La porterò a casa. Caracal... hai visto qualcuno seduto in arcioni dietro di me?» «Nessuno. Mi sei passato davanti così in fretta che ti ho sentito, più che vederti.» «Ti è parso che qualcuno si aggirasse qui intorno? Hai notato qualcosa di strano?» «Ho visto soltanto te, sdraiato a terra come se dormissi, e il cespuglio spinoso che hai rovinato cadendoci sopra. Nient'altro.» «Meglio così.» Jarred controllò la borsa da sella. Con sollievo, constatò che il cilindro d'ottone era intatto. «Ho trovato il cannocchiale. Il vecchio si è accorto che l'abbiamo preso?» «Non ancora.» «La fortuna e la vittoria stanno ballando con noi, Carac! Torniamo a casa, svelti come saette!» Salirono entrambi sul cavallo di Yaadosh. Mentre si tiravano dietro la giumenta sfinita, l'amico volle sapere: «Perché diavolo hai aggirato il villaggio galoppando come un matto, senza fermarti?» E Jarred gli raccontò quello che era successo. «Ragazzo mio, già da qualche anno chi ti conosce sospetta che tu sia protetto da una forza misteriosa», disse Yaadosh, quando ebbe saputo del wight che si era seduto dietro di lui. «Io sono cresciuto con te e non ricordo di averti mai visto con un ginocchio ammaccato o un bernoccolo in testa. Hai mangiato la tua parte di polvere e sbattuto la faccia a terra come tutti noi, ma senza mai versare una goccia di sangue. Lo devi a quell'amuleto, ho ragione?» «Hai ragione», confessò Jarred. «Stai dicendo che anche gli altri se ne sono accorti?» «Naturalmente! Come puoi tenere segreta una cosa simile ai tuoi compagni di gioco? Ce l'hai appeso al collo fin da quando riesco a ricordare.» «Mi è stato dato quando ero ancora bambino. Io farei volentieri a meno di portarlo, ma mio padre me l'ha fatto promettere.» «Perché non ti va di portarlo?» «È una cosa da codardi.» «L'onore di un uomo richiede che mantenga la parola data», disse Yaadosh. «Specialmente al padre e alla madre», aggiunse, emanando rettitudi-
ne da tutti i pori. «E, poi, pensi davvero che una persona sana di mente non cercherebbe di utilizzare un simile amuleto, se ne avesse il diritto?» «Suppongo che tu dica bene», rispose Jarred. «Ma non è nel mio carattere ripararmi dietro il gramarye, come se fossi troppo debole e inetto per difendermi da solo.» Mentre i due proseguivano sulla via del ritorno, Jarred rifletté su ciò che gli aveva detto Yaadosh. Ovviamente avrebbe dovuto aspettarsi che i suoi amici finissero per venire a conoscenza di quel segreto. Erano un gruppo molto unito, condividevano la vita quotidiana, i giochi e gli interessi. Tuttavia era chiaro che, dopo aver saputo di quella faccenda, non potevano considerarlo un uomo completo. Forse era stata l'amicizia di lunga data a conservargli la loro stima. In quanto alla gelosia, non ne avevano mai dato nessun segno. I suoi compagni sapevano che lui si era impegnato a portare quell'amuleto, un dono di suo padre, e tra gli abitanti del deserto rispettare le promesse aveva molta importanza. Mancare alla parola data a un genitore era giudicato abominevole. Doveva considerare la possibilità che uno dei suoi compagni fosse tentato di rubargli l'amuleto, o di tradire il suo segreto? Tutti quanti erano circondati da genitori, fratelli, cugini, nipoti, zii e zie, che essi amavano molto. Non c'era nessuno, tra i suoi amici, che non avesse motivo di desiderare un oggetto di gramarye col potere di salvare la vita dei suoi parenti. Forse ne erano stati tentati, qualche volta. E quella era la prova che la loro integrità, la loro solidarietà e il loro rispetto avevano prevalso. I due giovani si separarono davanti alla casa di Jarred. Lui scostò la tenda ed entrò. La madre lo stava aspettando con l'ansia dipinta sul volto, pallida come il gesso, gli occhi cerchiati da un'ombra scura. Non appena lo vide, parve liberata da un peso. Sui suoi lineamenti si susseguirono le espressioni più diverse, che lui decifrò l'una dopo l'altra: sollievo, gioia, perplessità, desiderio di seppellirlo di domande, infine riserbo. La donna esibì un'aria noncurante e disse solo: «Finalmente ti sei deciso a rientrare. La cena è pronta». Ancora attanagliato dall'agitazione per l'incontro col wight unseelie, Jarred le fu grato di quell'atteggiamento comprensivo e misurato. Quando era bambino lei aveva l'abitudine di abbracciarlo e baciarlo con trasporto ogni volta che rientrava dalla più breve assenza. Lui poteva solo immaginare quanto le costasse trattenersi dal farlo ora che doveva trattarlo come un uomo adulto. Vederla sempre preoccupata per la sua salute lo infastidiva, anche se la amava per quello. Un tempo si era chiesto se quell'attaccamen-
to si sarebbe diluito se avesse dovuto suddividerlo tra più di un figlio. Ma crescendo, nel vedere la dolcezza con cui sua madre trattava gli altri bambini del villaggio, aveva cambiato opinione: l'istinto protettivo della sua natura femminile era inesauribile e la induceva a occuparsi di ogni creatura bisognosa di cure, a ogni costo. In un certo senso era un pesante fardello che gravava sulle sue spalle. La donna allungò una mano a toccare il laccio di cuoio che Jarred aveva al collo. «Sì, ho ancora l'amuleto», disse lui, con un sorriso. «Non vengo meno alla mia promessa.» «Questo cordone è troppo sottile e fragile. Ti comprerò una catenina di metallo.» Mentre cenava coi familiari, seduto a gambe incrociate sul pavimento, Jarred raccontò le sue vicende di quel pomeriggio, evitando di menzionare l'illecito prelievo del cannocchiale e il fatto che aveva dovuto attraversare il ponte infestato. L'immagine spettrale dello scheletro gli dava ancora i brividi, benché il ritorno in un ambiente amico l'avesse rincuorato. Pian piano il suo umore stava risalendo al solito livello. «Mentre andavamo a far pratica di gioco abbiamo visto due volpi della sabbia. Sono quasi certo che avessero appena avuto una nidiata di cuccioli. La femmina, in particolare, era ferocemente decisa a difendere la tana.» «Una femmina che protegge i suoi piccoli non è cosa da prendere alla leggera», commentò la madre, con un sorriso eloquente. «Io ho sentito dire», intervenne Shahla, aggiungendo un po' di sale al vassoio delle verdure, «che le lupe e le orse, le scrofe e le volpi sono disposte a dare la vita per la loro progenie, o a correre rischi gravissimi. Anche in circostanze che solitamente le indurrebbero a fuggire, se hanno una cucciolata restano dove sono e si battono fino alla morte contro chiunque.» «Immagino che tutti abbiano l'istinto di tutelare la sopravvivenza dei membri della propria specie», commentò la madre di Jarred. «Non Yaadosh e io», precisò lui, «perché la mattina del Giorno del Sale, quando giocheremo contro i nostri avversari, abbiamo la ferma intenzione di distruggerli.» Ma, nonostante quella battuta scherzosa, le parole di sua madre l'avevano colpito e, per quanto grande fosse l'amore che provava per lei, desiderò che nella sua vita ci fosse un padre. La partita di calcio fu più lunga e combattuta del previsto. Alla fine la
squadra di Jarred trionfò, ma con un margine molto ristretto, e forse solo perché lui aveva affrontato senza esitare i contrasti più duri con gli avversari, immune dalla paura di qualunque conseguenza fisica. Non era stato il più veloce né il più abile, ma al termine della gara i compagni gli batterono pacche sulle spalle e vollero soprannominarlo «l'Ardimentoso», appellativo che lui rifiutò subito con sorprendente energia dichiarando: «Io non ho più coraggio di chiunque altro». In quel momento desiderò quasi con ferocia che l'amuleto non fosse mai esistito. Il vantaggio che esso gli offriva era sleale; di certo i suoi amici lo capivano. La consapevolezza di non competere con loro su un piede di parità era dolorosa. Come poteva dimostrare di essere un buon compagno e un valido membro della squadra, in quella situazione? Per un poco, e ormai non era una cosa insolita, il leggero peso dell'amuleto sul petto gli risultò odioso. Quel pomeriggio, quando il vento arido chiamato Fyrflaume cominciò a soffiare dal Deserto delle Pietre Ardenti, a meridione, i giocatori di entrambe le squadre celebrarono la conclusione della partita assieme agli amici e ai parenti. Quelle festicciole erano una tradizione intesa a smorzare ogni animosità che fosse sorta durante la gara. Gli uomini e le donne del villaggio si mescolarono liberamente all'ombra degli alberi; quelli non sposati si scambiarono timidi sguardi d'intesa, poi cercarono ogni scusa possibile per appartarsi in qualche posto isolato e scambiarsi baci e tenerezze. Cinque fanciulle intraprendenti si affollarono intorno a Jarred, inventando motivi per accarezzargli i capelli con le mani morbide come fiori, o per dargli qualcosa da mangiare, o per strusciarsi contro le sue spalle. Per nulla intimidito, lui rise e scherzò con ciascuna. Il cibo non mancava e tutti erano di ottimo umore. Tazze di kumiss furono passate in giro. La gente bevve il latte di cammello fermentato, facendo smorfie al suo sapore acido e lodandone le virtù per altre ragioni. Mentre la festicciola proseguiva, Jarred e i suoi compagni di squadra si trovarono a riparlare di quello che da tempo era un loro comune desiderio. «Quest'anno dobbiamo andare a Jhallavad per il Festival del Vino e della Poesia!» proclamò Tsafrir, sollevando un boccale mezzo pieno di kumiss. «Io non ci sono mai stato neppure una volta, e tutti dicono che è una gran bella festa. Non è certo degno di uomini di mondo, quali noi siamo, mancare a uno dei più prestigiosi eventi mondani di tutto Tir!» «Sicuro! Hai ragione!» gridò Michaiah con entusiasmo, battendosi una
mano su una coscia. «Ogni anno che passa, la mia voglia di andare al festival è più ardente. Tu ci sei mai stato, mastro Saeed?» «Naturalmente», grugnì il capo del villaggio, contrariato nel sentirsi chiamare in causa con tanta familiarità da un giovanotto ubriaco. «E non dimenticare le buone maniere quando parli con me, poppante.» Michaiah si alzò in piedi, vacillando, e s'inchinò. «Sì, ricorderò le buone maniere, vostra signoria», farfugliò. «Ma le ricorderò ancora meglio se potrò andare al Festo... stivale dei Poeti e delle Sbornie. Voi che ne dite, amici miei?» aggiunse, spalancando le braccia verso i compagni con tanta espansività che per poco non cadde. «Vogliamo imbarcarci in questa nobile imp... impre... ripresa?» I ragazzi fecero udire il loro consenso in un coro entusiasta. «Io brindo a questo!» gridò Yaadosh. «Domattina avranno già dimenticato tutto», borbottò acidamente Saeed, mentre i giovani facevano girare l'otre di pelle per riempire di nuovo i boccali. Ma il mattino dopo né Jarred né i suoi compagni avevano dimenticato. Malgrado il mal di testa, cominciarono a progettare i dettagli, perché tutti erano dell'opinione che per partecipare all'annuale Festival del Vino e della Poesia sarebbero dovuti partire per Jhallavad la settimana successiva. Nei giorni che seguirono fecero i loro preparativi. Un viaggio nella capitale - in qualsiasi destinazione nelle terre aride non andava intrapreso alla leggera. Il deserto era spietato e non perdonava gli incauti. Per gente povera come quella di R'shael, imprese del genere erano possibili solo se sostenute da un po' di commercio; di conseguenza i ragazzi riempirono le borse da sella con mercanzie prodotte al villaggio. Gli abitanti di R'shael ricavavano di che vivere dal deserto. Ogni giorno i pastori portavano le loro capre ai magri pascoli di erbacce sulle colline. I minatori di sale lavoravano di pala e piccone per riempire i sacchi di zolle cristalline, sulle candide superfici dei laghi in secca sparsi nella regione. Le stesse case erano costruite sopra tre profonde cisterne, alimentate dalle riserve all'apparenza inesauribili di alcuni pozzi artesiani. I raccolti di datteri, fichi, zucche, arachidi, miglio, meloni, saggina, orzo e fagioli prosperavano sui terreni irrigati. Alcuni acri erano riservati alla coltivazione della spezia chiamata cumino e una volta all'anno si trasformavano in tappeti di minuscoli fiori bianchi e rosa su cui ronzavano le api. Verso la fine di quella stagione il profumo dei loro frutti piccoli come semi saturava l'aria. Gli artigiani del villaggio producevano articoli fatti per essere esportati. I
vasai erano specializzati in stoviglie e belle statuine di ceramica; gli scultori ricavavano dall'alabastro singolari forme geometriche; il fabbro faceva quasi soltanto utensili usati al villaggio, ma dalla fonderia dove si lavoravano l'ottone e il bronzo uscivano oggetti dall'aspetto elegante come daghe, vasi, fibbie per le cinture e altri ornamenti che venivano venduti al mercato di Jhallavad. Quelli furono i prodotti che Jarred e i suoi compagni impacchettarono nelle borse da sella. I viandanti che si recavano in qualunque parte dei Quattro Regni di Tir erano soggetti agli agguati dei briganti e dei wight unseelie e dovevano prendere ogni precauzione possibile. I ragazzi misero assieme una varietà di difese, compresi piccole campanelle, pugnali di ferro, bastoni di frassino e di palissandro, mazzi di foglie secche d'iberico legati con nastri rossi, talismani d'ambra. Quegli oggetti sarebbero probabilmente bastati ad allontanare dalla loro strada i wight unseelie minori, ma contro le specie più potenti i viaggiatori dovevano confidare solo nella fortuna. Consapevoli dell'incostanza della buona sorte, alcuni di loro si recarono dall'agente dei druidi assegnato al villaggio, un vecchio e rinsecchito avvoltoio d'uomo che viveva da solo e all'apparenza si accontentava di trascorrere le sue giornate in silenziosa comunione coi Fati, o - considerato il suo basso rango - con gli emissari dei Fati. In genere, ai visitatori poco informati sarebbe potuto sembrare che sonnecchiasse. I giovani gli diedero qualche moneta e lo pregarono d'intercedere per loro col Fato Àdh e con gli altri Fati, nella speranza di assicurarsi un viaggio tranquillo. «Sii prudente», disse la madre di Jarred, quando fu il momento di accomiatarsi. Il suo sguardo lo assorbiva come una spugna, come se, nel timore di non rivederlo più, volesse stamparselo nella mente. Con l'istinto dei figli molto amati, Jarred sapeva che lei si stava sforzando di non dire le cose che era solita ripetere prima di ogni separazione. Ci provò, ma alla fine non riuscì a resistere. «Sii prudente», ripeté, alzando le mani ad accarezzargli i capelli e a toccargli le spalle, nel malcelato impulso di abbracciarlo e tenerlo stretto come faceva quando era bambino. E diede voce alle sue raccomandazioni: «Attento ai briganti. Accertati che uno di voi stia di guardia, la notte. Se incontrate troppe difficoltà, torna subito a casa. Mandami un messaggio, se dovessi aver bisogno di qualcosa». Mentre parlava, lui poté sentire l'angoscia dietro quelle ipotesi. «Non toglierti l'amuleto», fu la sua ultima preghiera. Tutto ciò che Jarred poté fare fu sorriderle in modo rassicurante. «Andrà tutto bene», disse e, dopo un ultimo bacio su una guancia, partì.
La strada per Jhallavad era segnata da una serie di pietre miliari alte tre piedi. Qui e là sopravvivevano tratti di pavimentazione, ma altrove il fondo era in terra battuta. La mobile sabbia del deserto, che continuava a coprire e scoprire le opere dell'uomo, si era sempre inspiegabilmente trattenuta dall'obliarne il percorso. Alla gente piaceva supporre che ciò fosse dovuto a qualche antico incantesimo, in mancanza del quale la strada sarebbe scomparsa sotto le dune ormai da secoli. Fu dunque lungo quel tracciato che si avviarono i giovani di R'shael avidi di festeggiamenti e di vino, vestiti con abiti color ocra e zafferano, sui loro cavalli da deserto con le selle dipinte di rosso scuro e le briglie verdi come la salvia. Avevano le facce coperte da sciarpe di mussola, per proteggersi dalla polvere portata dall'alito afoso del Fyrflaume, e in testa turbanti o cappelli per ripararsi dal fulgido bagliore del sole. Ogni tanto incrociavano carovane di dromedari appartenenti a mercanti di vetro o venditori di seta, dirette verso terre esotiche e lontane. Nel passarsi accanto, i viaggiatori si gridavano allora qualche frase di saluto. Durante la notte assistevano all'attività furtiva di creature del buio come bilbie e scorpioni e all'improvvisa comparsa delle luci stregate e dei rumori degli eldritch wight, di specie diverse da quella che infestava la regione di R'shael. Le notti del deserto erano nitide e lucenti. Nell'atmosfera non stagnava foschia, né c'erano nuvole, così le stelle splendevano come se il cielo fosse una conca di cristallo spaccata in mille punti da piccoli martelli d'argento. Forse perché l'agente dei druidi di R'shael godesse del favore dei Fati grazie alla sua lunga e fedele militanza religiosa, o forse per qualche altro motivo, la buona sorte accompagnò Jarred e i suoi compagni. Nei dodici giorni del loro viaggio non ebbero incidenti. Mentre si avvicinavano alla città, il primo segno della sua presenza fu la vaga cappa di fumo che velava il cielo. Le ciminiere delle vetrerie vomitavano vapori in lunghe colonne che i venti portavano in prevalenza verso nord. Più vicino al centro abitato l'arido panorama lasciò il posto a terreni fertili e ben irrigati. Qua e là svettavano gruppi di alberi: palme da datteri, ulivi e fichi. Innumerevoli ruote di mulini a vento dall'ossatura d'acciaio giravano sopra le loro spoglie torri, pompando acqua dalle falde acquifere e dai pozzi artesiani di Jhallavad. Nei campi circostanti c'erano i verdi filari delle viti e i solchi paralleli degli aratri, fra i quali scintillavano come strisce metalliche i canali d'irrigazione. Capre, onagri e dromedari si aggiravano nei recinti. Alcune fattorie erano sollevate su palafitte, affinché il vento ne rinfrescasse il
pavimento. Cinta da bastioni di pietra e mattoni di paglia e fango, la città era stata costruita sopra e dentro una grande collina d'arenaria, traforata da profonde grotte e gallerie che restavano fresche malgrado la temperatura esterna. Le casupole dei popolani erano d'argilla cotta al sole e sterco di cammello, mentre le dimore dei benestanti, circondate da giardini e alti muri, esibivano colori sgargianti e tetti in lastre d'ardesia. Il santuario di Jhallavad comprendeva un palazzo con ampi colonnati e una ziggurat. Costruita in mattoni di fango, la grande piramide a gradoni era sormontata da un piccolo tempio, dove i druidi officiavano cerimonie segrete e comunicavano coi Fati. Le pareti esterne erano ornate da magnifici bassorilievi scolpiti nell'alabastro, che illustravano in quadri successivi la potenza dei druidi e ne narravano le cronache in caratteri cuneiformi. Gigantesche statue montavano la guardia agli ingressi del santuario. Jarred e i suoi compagni arrivarono a Jhallavad in tempo per l'apertura del festival, che sarebbe durato tre giorni. Non appena entrati nelle mura, cominciarono a guardarsi intorno con uno stupore che non cambiava mai, non importava quante volte uno avesse visitato quell'impressionante metropoli. Nel loro piccolo villaggio non c'era nulla di paragonabile ai bazar dove si vendeva la seta, alle botteghe del vino, alla folla vestita con abiti coloratissimi ornati da perline di vetro e tintinnanti gioielli d'ottone. L'edificio più spettacolare era il palazzo del re, adorno di sculture di fluorite, pietra che emanava fluorescenze spettrali quando era illuminata dalla luce celeste del mattino. Ricavata dalle cave del deserto, la fluorite locale era ricca di sfumature cangianti, dal verde al giallo chiaro. La torre più alta del palazzo era stata scolpita interamente nella fluorite bruna e i cortili erano famosi per le statue di giada e di nefrite. Lo sfarzoso edificio, risalente a quasi un secolo addietro, era stato costruito dal bisnonno dell'attuale re, di cui si diceva che fosse stato l'ultimo monarca davvero sano di mente della dinastia Shechem. Il festival era sempre molto popolare; dai distretti vicini e da terre straniere giungevano visitatori che portavano il loro contributo di vini e distillati. Da Grïmnørsland giungevano birre chiare e scure, d'orzo o di segale, ed estratti di malto; da Slievmordhu elisir, liquori di radici e di erbe, la bevanda fatta di tuberi di solano chiamata Fulmine Bianco, vini spremuti dalle bocche di leone, dalle bacche di sambuco e dalle primule, gin di susine e di ginepro. Ashqalêth contribuiva col kumiss e col kefir, col raro e pungente estratto di cactus alla pera e con un miscuglio chiamato «basili-
sco», che godeva fama di aver fatto uscire di senno molti bevitori. Tra tutti i regni quello di Narngalis era il maggior produttore di liquori. Dalle fertili colline del nord arrivavano una saporita malvasia e il melomel, il pimento e il cyser, il metheglin, l'hippocras, il braggot, il malmsey e il sidro, oltre al brandy, al vino di pere acerbe, al vino di mele e a botti piene di altri liquidi inebrianti. Durante le manifestazioni del festival ci furono recite di poesie, commedie e canzoni. Circolarono notizie portate da terre lontane. Si tennero discussioni pubbliche sugli stravaganti baccanali dell'anno precedente a Cathair Rua, tenuti in onore del secondo compleanno del primogenito di Re Maolmórdha Ó Maoldúin. Alcuni viaggiatori riferirono che l'intera città era stata tappezzata di fiori e frutti, si era ballato e suonato nelle strade, e il palazzo aveva offerto a tutti un banchetto con ogni genere di cibarie. «E si dice che quest'anno le libagioni saranno ancora più abbondanti che in passato», esclamò con entusiasmo uno dei festaioli di professione. «Per quella data noi saremo tutti a Cathair Rua, potete starne certi!» Si raccontavano inoltre fatti accaduti al villaggio di Füshgaard, in Grïmnørsland. Durante l'inverno precedente gli abitanti - uomini, donne e bambini - avevano cominciato ad avere straordinarie visioni e a udire voci misteriose. Dapprima avevano pensato che ciò fosse causato da qualche attività degli eldritch wight, ma poi l'avevano escluso. Allora la gente aveva pensato che si trattasse di spettri, ma anche quello non era risultato vero. I druidi del santuario a Trondelheim avevano risolto il mistero dichiarando che quel fenomeno era un miracolo benigno mandato dai Fati. In seguito la notizia si era sparsa nelle regioni circostanti e la gente aveva preso a recarsi in pellegrinaggio per udire le parole e le stupefacenti profezie dei visionari. I visitatori portavano però offerte in denaro e in vettovaglie alla gente di Füshgaard, e di conseguenza i druidi avevano ammesso di aver fatto una diagnosi erronea... di certo mandati fuori strada da forze infernali: le voci e le visioni non erano lo strumento dei Fati, bensì maligne imitazioni, simulacri fallaci, abominevoli inganni. Il santuario aveva definito gli abitanti di Füshgaard «vasi contaminati dai nemici dei Fati» e domandato che fossero prese severe misure contro quei profanatori. Il re tuttavia si era rifiutato d'imprigionare o punire in altri modi le confuse famiglie del villaggio. Aveva anzi incaricato un gruppo di studiosi e carlin di esaminare il mistero. Nel frattempo, incitate segretamente dai druidi - che invogliavano i loro seguaci con la promessa di grandi fortune per chi avesse difeso il Fato Àdh con le armi e a prezzo della propria vita -, bande di mercenari erano avan-
zante su Füshgaard. Il re aveva mandato i soldati a proteggere il villaggio. C'era stata una situazione di stallo, durante la quale una carlin che aveva indagato nei granai di Füshgaard aveva annunciato che gli abitanti erano stati vittima di un fungo tossico. Il raccolto dell'anno precedente era stato immagazzinato in locali troppo umidi e malsani, e il pane fatto con quel grano contaminato induceva allucinazioni in chi se ne nutriva. Il re aveva ordinato che i granai infestati fossero disinfettati col fuoco. Erano stati portati rifornimenti freschi e i granai erano stati ripuliti, ventilati e restaurati secondo criteri più igienici. Non appena fatto ciò, le voci e le visioni erano cessate. Una volta spazzata via la causa delle allucinazioni, la gente del villaggio aveva ritrovato l'equilibrio mentale. Per placare l'animosità dei druidi aveva chiesto scusa al santuario e inviato offerte e doni che poteva permettersi a stento. In cambio, i druidi avevano proclamato che Füshgaard era stato perdonato e godeva di nuovo del favore del Fato Àdh, benché rifiutassero di attribuire qualsiasi valore alla scoperta della carlin. I mercenari si erano dispersi. Nei Quattro Regni si era diffusa l'inquietante voce che solo l'intervento del re e la distruzione del grano infetto avessero risparmiato a Füshgaard di essere razziato e depredato. Con quella e altre storie, con svaghi e intrattenimenti, il Festival del Vino e della Poesia di Jhallavad si animò sempre più. Fanciulle dall'aspetto cittadino gravitavano intorno ai giovani di R'shael, incoraggiate dalla loro vitalità, dal loro simpatico atteggiamento e dalla novità che rappresentavano, forse attratte in particolare dall'avvenenza mascolina di Jarred. Nonostante le molteplici distrazioni offerte da Jhallavad, i giovani venuti da R'shael non dimenticarono i loro doveri e si preoccuparono di vendere a buon prezzo le mercanzie che avevano portato. Si lasciarono andare a qualche spesa giudiziosa, comprando regali per gli amici e i familiari. Michaiah, che aveva racimolato qualche soldo in più dai passanti che apprezzavano i suoi piccoli giochi di prestigio e trucchi «magici», acquistò parecchi bracciali e collane di perline di vetro. «Per farne dono a qualche ragazza di mia conoscenza», disse, infilandoli nella sacca. «Li darai via tutti prima di andarcene di qui», commentò Nasim. «No! Per le ragazze di Jhallavad questi oggetti sono roba comune. Li terrò da parte per quelle che li giudicheranno rari e ne saranno debitamente impressionate.» «Tu sogni. A R'shael questa roba non farà impressione a nessuno. Il vil-
laggio è già pieno di bigiotteria di Jhallavad.» «Sei tu che sogni», replicò Michaiah, «se pensi che io voglia passare il resto della vita a R'shael!» L'ultimo giorno del festival i ragazzi sedettero a bere con un gruppo di gitani dagli abiti mangiati dalle tarme. Questi raccontarono storie meravigliose di luoghi remoti e dissero che nei paesi lontani si poteva fare molto denaro, soprattutto nel regno del nord. «A Narngalis sono tutti così ricchi che possono permettersi di pagare borse piene d'oro e d'argento ai loro dipendenti, per farsi fare i servizi più semplici», dissero i gitani. E accettarono graziosamente di bere ancora a spese degli r'shaelani, che erano ansiosi di ascoltare altri racconti. Molto più tardi, mentre cavalcavano verso casa sulla strada del deserto, i ragazzi ripensarono alle informazioni avute dai gitani. Eccitati dalle recenti esperienze di vita nella grande città, iniziarono a discutere la possibilità di cercare fortuna a Narngalis. «Io voglio vedere il mondo!» gridò Michaiah. «Forse lui non vuol vedere te», lo prese in giro Gamliel. «Restandocene a R'shael, non realizzeremo mai le nostre vere possibilità», osservò Nasim. Yaadosh disse: «Ci basterebbe lavorare una settimana a Winterbourne e poi potremmo tornare a casa e vivere nel lusso per sempre!» I compagni risero, divertiti dal suo ingenuo ottimismo. «Non crederai a quello che hanno raccontato i gitani, vero?» disse Tsafrir. «Quelli sono dei raccontaballe nati.» Perplesso, Yaadosh domandò: «Ma allora perché stiamo parlando di andare a Narngalis, se le loro erano tutte bugie?» «Per il metheglin, Caracal! Per il metheglin!» ridacchiò Michaiah. «Ragazzi», disse Gamliel, «anche se metà di quello che hanno detto erano bugie, anche se i nove decimi erano bugie, varrebbe la pena di andare a Narngalis, per vedere quegli impressionanti castelli e le foreste senza fine e i fiumi che scorrono ovunque e i laghi più vasti del deserto stesso. Meraviglie come quelle possiamo soltanto sognarcele.» «E se fossero anch'esse bugie?» domandò Yaadosh. «Lo sapremo soltanto quando saremo là», disse Jarred. Yaadosh ci pensò. «Non credo, però, che il mio cavallo potrebbe portare i rifornimenti per molte settimane di viaggio.» «Dovremo acquistare il cibo lungo la strada, oppure procurarcelo cac-
ciando.» «Ma io non conosco la ricetta di mia nonna per il pollo in salsa piccante.» I compagni di Yaadosh risero ancora e Jarred, che cavalcava al suo fianco, gli diede una pacca su una spalla. «Carac, preferisci restare a casa per il resto della vita a mangiare il pollo in salsa di tua nonna, oppure andare alla ventura, in cerca di fortuna assieme a noi?» Yaadosh corrugò le sopracciglia. «Se hai bisogno di pensarci», gli disse Tsafrir, alla fine, «è segno che ti conviene restare a R'shael.» «Ma si capisce che vengo con voi!» si accalorò Yaadosh. «Mi stavo solo chiedendo se saprò convincere mia nonna a ripetermi la ricetta finché non l'avrò imparata a memoria, per poterla insegnare ai locandieri lungo la strada.» I compagni si batterono manate sulle cosce, piegandosi in due dalle risate. «Si può sapere cos'ho detto di tanto buffo?» sbottò Yaadosh, offeso. «La ricetta del pollo in salsa piccante sarà l'ultima delle nostre preoccupazioni, lungo la strada», rispose Nasim, quando ebbe ritrovato il fiato. Controllando la propria ilarità Jarred disse, in tono più serio: «In tutti i regni c'è abbondanza di wight unseelie e tagliagole da strada. Dovremo affinare le nostre capacità difensive». «Faremo pratica con la spada ogni due giorni!» esclamò Gamliel. «E il giorno libero ci eserciteremo con la fionda. Ben presto diventeremo i combattenti più capaci di Ashqalêth.» «C'è una differenza», osservò Tsafrir, «tra esercitarsi con gli amici usando scimitarre di legno e battersi a morte con lame d'acciaio.» «Ma il nostro mastro Behrooz è il migliore degli insegnanti, perché un tempo faceva parte delle Guardie Reali di Winterbourne», replicò Gamliel. «Io mi affiderò a lui!» esclamò con entusiasmo. Yaadosh e Michaiah ridacchiarono. «La strada sarà dura. È un territorio poco conosciuto», aggiunse Jarred. «Mio fratello conosce quelle zone», disse Nasim. Si volse a Tsafrir. «Tu no?» «Posso dire che ho una certa conoscenza dei regni dell'occidente e del settentrione», rispose Tsafrir. «Be'», disse Jarred, «quand'è così, Volpe del Deserto, con te a farci da guida arriveremo a Winterbourne svelti come il vento del sud!»
Gli altri giovani diedero voce alla loro approvazione. «Ma avremo bisogno di denaro, se vogliamo imbarcarci in questo viaggio», precisò Tsafrir, più anziano e più saggio. «Attraversando il deserto potremo cacciare e mantenerci coi nostri rifornimenti, ma arrivati a Narngalis saranno finiti, e là ci troveremo a passare in terre coltivate. Gli allevatori non ci daranno il benvenuto se cacceremo i polli e i maiali di loro proprietà!» «Ci daremo al commercio», dichiarò Jarred. «Porteremo merce da vendere durante il viaggio.» «Quale merce?» domandò Tsafrir. «Perle di vetro e altra bigiotteria!» suggerì Nasim. «Dicono che il vetro di Jhallavad sia famoso anche nelle terre straniere. Mastro Behrooz ha una grande quantità di gioielli di vetro. Una volta li collezionava per divertimento, ma ora stanno raccogliendo polvere in uno dei suoi sgabuzzini. Potremmo convincerlo a venderceli per pochi soldi.» «E i miei giochi di prestigio ci procureranno qualche moneta con gli avventori delle taverne», intervenne Michaiah. «Se poi le cose andassero male», disse Gamliel, «potremmo farci assumere per una settimana o due da qualche parte... come sterratori o manovali in una fattoria.» «Io potrei trovare lavoro come cuoco», aggiunse Yaadosh. I suoi amici si scambiarono un'occhiata cercando di mantenere un'espressione seria e non fecero commenti. Dopo quelle parole Jarred tacque. Lasciò scorrere liberi i pensieri sull'eccitante eventualità di viaggiare in lungo e in largo per il mondo. Non significava solo avventure e nuove esperienze: c'era anche la possibilità che ritrovasse suo padre. Il mattino del quarto giorno dalla partenza da Jhallavad, i giovani avvertirono una tensione nell'atmosfera. Il vento era cambiato e trascinava nell'aria nubi di sabbia e piccoli detriti. Voltandosi a guardare il deserto, videro che dall'orizzonte occidentale stava arrivando una tempesta di polvere. Nel cielo si levava una ribollente foschia che avanzava come un sipario di tenebra sul palcoscenico del mondo. «Si mette male», disse Tsafrir. «Male per Jhallavad», confermò Jarred. «Una tempesta di sabbia di queste dimensioni provocherà molti danni.» «E quando avrà oltrepassato la città», continuò Michaiah, «saremo noi a
vedercela brutta, qui all'aperto.» «Proprio così. Si dirige verso di noi a gran velocità», aggiunse in tono fosco Gamliel. I giovani tacquero, ripassando mentalmente la lista dei metodi di sopravvivenza nelle tempeste di sabbia. Gli abitanti del deserto erano sempre pronti ad affrontare ogni capriccio del clima. Quella particolare perturbazione si prospettava tra le più violente e li avrebbe sorpresi all'aperto. Proseguirono aguzzando gli occhi in cerca di formazioni rocciose fra cui trovare un rifugio. Il vento si fece più energico e incostante. Nel pomeriggio uno sciame di puntini chiari nel cielo attrasse il loro sguardo. Erano piccioni viaggiatori, diretti a nord. «Speriamo che le aquile lascino passare almeno uno di quei messaggeri», disse Nasim, socchiudendo le palpebre nella luce abbagliante mentre lo stormo spariva in lontananza. Verso sera, col sole perso nella foschia sanguigna dell'orizzonte, i giovani sentirono che il vento aumentava ancora d'intensità. Alzando lo sguardo ebbero poi la sorpresa di scoprire un enorme pallone aerostatico che passava poco distante, a non più di cento metri dal suolo. L'oggetto fluttuò via veloce, silenzioso come una luna piena, e in breve rimpiccolì verso Jhallavad. «Un vascello volante dei Signori del Clima», esclamò Tsafrir con voce soffocata. Ammutoliti, continuarono a seguire l'aerostato con lo sguardo pieno di timore finché poterono vederlo. Quello spettacolo era molto raro. R'shael non aveva mai ricevuto una visita dei Signori del Clima. Continuando il viaggio, parlarono di ciò che sapevano dei padroni del fuoco, dell'aria e dell'acqua, e del mistero che circondava la loro razza. «Ho sentito raccontare che loro nascono così», disse Michaiah. «Nascono con un potere nel sangue. Si dice che possano vedere il vento come la gente comune vede gli alberi e l'erba.» «Io ho saputo che sono capaci di afferrare i fulmini», aggiunse Yaadosh, «e scagliarli come mazze.» «Chi te l'ha detto?» sbuffò Nasim. «Be', potrebbe essere vero, noi che ne sappiamo?» replicò Yaadosh. «I Signori del Clima stanno lassù, chiusi nel loro circolo di montagne, e chissà quali segreti nascondono. Hanno deciso di abitare soltanto nella loro terra, là in alto. Forse è là che tengono i fulmini, immagazzinati in caverne
sotterranee.» «Io ho visto quei maghi in visita a Rua», disse Tsafrir, «vestiti coi loro ricchi abiti.» «Allora li vedremo anche noi, quando saremo là!» «Così, Caracal, potrai approfittarne per chiedere loro se tengono i fulmini in tasca!» «Non è inconcepibile che un uomo tenga l'elettricità in tasca», disse Jarred a difesa di Yaadosh, notando il suo disappunto. «Strofina l'ambra con un pezzo di pelle e vedrai cosa succede. Il mondo è pieno di meraviglie di cui la gente del deserto non sa niente. Non è forse il desiderio di conoscere tali meraviglie che ci spinge a intraprendere questo viaggio?» Jarred pensò a suo padre Jovan, che doveva aver appreso molte cose del mondo negli anni in cui era stato assente. Di nuovo provò un fortissimo desiderio di ritrovarlo. Un uomo intrepido che viaggiava in ogni terra alla ricerca di risposte... senza dubbio doveva aver scoperto molte verità. Mentre lasciava che la giumenta lo portasse avanti, Jarred fantasticò di ritrovarsi con lui, seduti assieme all'ombra della palma nel giardino di sua madre, e immaginò di porgli domande e ascoltarlo mentre lui descriveva le meraviglie dei Quattro Regni di Tir. Subito però scacciò quei pensieri, prima che la vecchia nostalgia ricominciasse a stringere i tentacoli intorno al suo cuore. Durante la notte il vento dell'ovest si placò. Al sorgere del sole, la tempesta di sabbia si era allontanata. Sapendo che erano stati i Signori del Clima a evitare il disastro, nel viaggiare i giovani tennero d'occhio il cielo, sperando di rivedere il pallone volante. Rimasero delusi e conclusero che doveva essere tornato ad Alta Darioneth per un'altra rotta; ma, quando avevano ormai abbandonato ogni speranza, Gamliel alzò improvvisamente un braccio verso l'orizzonte e gridò: «Laggiù! In fondo!» I suoi compagni aguzzarono lo sguardo. «Un puntino di luce», affermò Gamliel. «Ora si è spento. Era il pallone, ne sono certo.» Alla fine Jarred disse: «Tu hai gli occhi più acuti di tutti noi, Jerboa. Non dubitiamo della tua parola». Dopo essere tornati a R'shael, Jarred e i compagni informarono amici e parenti della loro decisione di emigrare - temporaneamente - a Narngalis. Quell'annuncio causò agitazione in tutto il villaggio. Molti dei più giovani non provarono neppure a nascondere la loro invidia, e tre ragazzini mani-
festarono l'intenzione di unirsi al gruppo; gli anziani, per contro, si lamentarono che in quei tempi moderni i figli, benché pigri e inefficienti rispetto a com'erano loro alla stessa età, si lasciavano trascinare dalle pericolose illusioni del mondo esterno, e affermarono, confortati dai generali cenni d'assenso, che non ci si poteva fidare di chi viveva fuori dei confini di R'shael; ma i giovani erano forse disposti ad ascoltarli? Oh, no, essi dovevano imparare nella maniera più dura, e chi restava a casa non poteva sorprendersi se fossero andati incontro a un destino crudele e nessuno li avesse mai più rivisti. «Be', io sono felice che tu voglia andare a conoscere il mondo», disse la madre di Jarred quando lui le parlò del progetto, e nella sua voce lui sentì che lo pensava davvero. Il volto le si era illuminato di gioia ed eccitazione sincere. «Temevo che saresti rimasto qui per sempre, perdendoti tutto ciò che il mondo esterno ha da offrire. Molta gente che trascorre l'intera vita nel villaggio è di mente ristretta. Ha opinioni meschine e pensieri tarati dall'ignoranza. È come se avessero sempre visto soltanto ombre grigie e mai scoperto i colori dell'arcobaleno. Viaggiare in altre terre, vedere cose nuove, apprendere le usanze degli stranieri: questo arricchirà la tua vita. Sono felice per te!» E di nuovo Jarred si trovò a pensare che l'amore di sua madre per lui trascendeva ogni possibile egoismo. Il desiderio di tenerlo al sicuro accanto a lei era secondario rispetto a quello di lasciarlo diventare l'uomo che sarebbe potuto diventare. Lei metteva da parte le sue preoccupazioni senza badare a ciò che le sarebbe costato, affinché lui potesse realizzarsi. Fu stupito dall'intensità delle emozioni della donna, dal suo affetto profondo, e si sentì orgoglioso che avesse una così alta opinione di lui. Le ragazze nubili del villaggio ne furono addolorate e se ne lamentarono. Anch'esse provavano invidia e dichiararono che non c'era giustizia in Ashqalêth, se i ragazzi erano liberi di viaggiare come e dove volevano mentre loro dovevano restare a casa o spostarsi solo se accompagnate dal padre o da un fratello. Molte di loro non nascosero che a rammaricarle era soprattutto l'essere private della compagnia di Jarred, che tante avevano in simpatia e che, per unanime opinione, era il più bel giovane di R'shael. «Perderemo il nostro passatempo preferito», sospirarono tra loro, compatendosi a vicenda, «perché per noi è un piacere innocente osservarlo quando passa nelle strade del villaggio, col suo passo elastico e coi capelli sciolti dietro le spalle. È una gioia guardarlo mentre gioca a pallone, o alla lotta con gli altri ragazzi, o fa il tiro al bersaglio con la fionda, cosa in cui
eccelle su tutti. Amiamo vederlo camminare con quella sua grazia agile e sicura. Soltanto il modo in cui si muove», rincararono, «può far svenire una donna.» Ma le sofferenze amorose delle ragazze del villaggio furono rimandate, perché le formiche avevano cominciato ad andare in grande agitazione in tutto il deserto, sigillando i loro alti castelli d'argilla con tappi di fango. Ogni segnale della natura indicava che stavano arrivando le Piogge. Quella era la notizia che più di ogni altra eccitava gli animi a R'shael. La pioggia non cadeva da oltre sette anni. Durante la vita di Jarred le Piogge erano venute soltanto due volte. «Adesso non potete partire», gli disse sua madre, «perché viaggiare è impossibile durante e dopo le Piogge.» Era la verità. Quando arrivavano le Piogge, si aprivano le cateratte del cielo. I laghi salati in secco si riempivano fino all'orlo e straripavano. I letti dei fiumi, solitamente asciutti, ruggivano di acque spumeggianti e nessuno li poteva attraversare. Su quegli antichi tracciati sempre vuoti non esistevano ponti, poiché non ce n'era nessuna necessità, e quando essi venivano riempiti dalle Piogge la corrente vorticava con tale rapidità e tale violenza che qualsiasi ponte sarebbe stato spazzato via. La sottile crosta bianca dei depositi di sale restava coperta di melma acquosa. Quando erano così ammorbidite, le vaste distese di sale diventavano impraticabili e qualunque essere vivente che osasse cercare di attraversarle ne veniva inghiottito. Nel deserto non si poteva viaggiare quando c'erano le Acque. Giunse ben presto il giorno in cui grandi masse di cumulonembi rotolarono avanti da ovest, come pesanti macchinari. Il cielo perse il suo abbagliante azzurro per farsi nero-purpureo; le nuvole erano così appesantite dal loro carico d'acqua che sembravano sfiorare il terreno con la pancia. L'atmosfera vibrava di elettricità. Fulmini bianchi sottili come dita tastavano gli scuri confini delle pianure. La lentezza con cui quelle energie si accumularono fu drammatica, il loro scatenarsi improvviso fu estasi pura. Piovve. Per sei giorni e sei notti torrenti d'acqua si abbatterono come cascate d'iridio fuso. E, quando la pioggia si assottigliò in fini cortine d'argento allontanandosi a oriente, il deserto fiorì. Soltanto due volte prima di allora Jarred aveva visto quelle distese aride trasformarsi in un panorama di struggente bellezza. L'acqua stagnava nelle depressioni argillose o scorreva lungo gli antichi corsi fluviali che sfocia-
vano nei laghi salati. L'intero territorio era uno scintillio di liquido in movimento. Ben presto sulle pianure spuntò un vero e proprio prato, ricco di stupefacenti e inattesi fiori selvatici, e lo spettacolo fu così emozionante che molti scoppiarono a piangere. Apparvero piante che si potevano vedere solo dopo le Piogge: il pisello scarlatto del deserto, con le sue foglioline verdi e uno spettacolare bulbo fiammeggiante dove campeggiava un occhio nero; la crepuscolare rosa del deserto, il ranuncolo locale ed erbe resistenti ai terreni salati come la parakeelia. Il deserto era pervaso da movimenti, come se fosse vivo. Passando tra le piante appena spuntate, il vento pettinava con rapide dita acri increspati di giallo, di bianco, di rosa. Alcuni animaletti, come il bizzarro granchio-scudo, potevano riprodursi soltanto in quelle condizioni di umidità. Quelle creature, che sembravano uscite dall'alba del tempo, trascorrevano la maggior parte della vita sotto forma di uova incistate, nell'attesa della pioggia. Quando le saline e le depressioni erano piene d'acqua, le uova si schiudevano. Gli animali raggiungevano l'età adulta e deponevano altre uova, il tutto nei pochi mesi che passavano prima che l'acqua svanisse di nuovo. Dopo la fine delle Piogge, quando le piante effimere sbocciavano di colori, si aprivano miriadi di uova e di bozzoli d'insetti. Locuste pienamente cresciute, vespe, farfalle, formiche e scarafaggi uscivano ad affrontare il mondo. Anche quegli insetti avevano vita breve; dovevano accoppiarsi e deporre le uova prima di morire per mancanza d'acqua. E a nutrirsi di quelle loro prede naturali sopraggiungevano milioni di uccelli: nibbi, aquile, pappagalli, crignole, bustardini, beccaerba, anatre zebrate e polli d'acqua. I fitti canneti ospitavano eleganti aironi e l'aria era agitata da innumerevoli ali. Stordito dalla meraviglia, Jarred studiò quel panorama miracoloso. «Senza l'acqua non può crescere niente», disse a sua madre, «neppure le piante più antiche del deserto che sopravvivono a lungo durante la Siccità. Ma la gente degli altri regni non ha mai visto il deserto dopo la pioggia. Non ha mai assistito a questa improvvisa esplosione di bellezza e forse non potrebbe capirla come noi. Siamo fortunati.» Sua madre sorrise. «L'ingegnosità della natura non cessa di stupirmi», disse. «Mi sbalordiscono soprattutto le creature più effimere, le piante che non possono sopravvivere dopo le inondazioni. Il loro ciclo vitale è innescato dalle piogge pesanti e prolungate. I semi sono coperti da una sostanza che impedisce loro di germinare. Quando piove essa si scioglie e i semi dormienti tornano alla vita. Una volta cresciuti prosperano solo per breve
tempo, prima di appassire e morire. Durante il periodo della fioritura producono semi leggeri, che sono presi e portati via dal vento. Vengono trasportati così anche a grandi distanze, affinché le nuove generazioni abbiano le migliori possibilità di sopravvivenza. Per me le piante effimere sono le più belle. Il loro ciclo vitale è rapido, violento e glorioso; il loro solo proposito è assicurare la sopravvivenza dei semi e quindi della specie.» Dopo il passaggio delle Piogge il cielo si schiarì. Occorsero altre settimane perché le strade fossero di nuovo transitabili, ma pian piano il clima secco e l'alta pressione si riassestarono sui livelli normali. Il deserto fumava. I laghi si restringevano. Le pozze d'acqua evaporavano. «Non potete ancora partire», disse la madre di Jarred. «Presto sarà il tempo delle cerimonie di Mezza Estate.» Al giovane parve di sentire un po' di sollievo nel suo tono; capì che dentro di lei si scontravano emozioni opposte: da una parte desiderava che lui fosse libero, dall'altra era in ansia per la sua sicurezza. Si disse che per sua madre tutto sarebbe stato più facile, dopo che lui se ne fosse andato. «Ci sarà sempre un motivo per rimandare la partenza», le rispose, non senza compassione. «Ma io partirò ugualmente.» A dispetto del rapido asciugarsi del deserto, stavano ancora sbocciando gli ultimi fiori selvatici quando le strade furono dichiarate transitabili e Jarred e i suoi compagni annunciarono che la partenza era imminente. Alla gente di R'shael bastava qualsiasi scusa per fare un po' di baldoria. In occasione della partenza di nove dei loro giovani per terre straniere, fu dunque organizzato un banchetto. Coi fiori selvatici ancora in boccio si fecero ghirlande coloratissime, che furono distese sui tavoli, appese alle pareti, cucite in corone da mettersi in testa e in collane e bouquet per ornare i vestiti. Ogni donna contribuì con qualche piatto. Frutta fresca, fagioli salati, pollo alla cacciatora, gelatina di fichi, crema caramellata di cinnamomo e varie altre specialità casalinghe riempirono i tavoli disposti all'aperto, sotto le palme. Gli ospiti d'onore stapparono le ultime preziose bottiglie di liquore che avevano portato da Jhallavad - appena sufficienti per un assaggio generale - e tutti ne ebbero un bicchierino. Poi ci furono il kumiss e le danze, i giochi di prestigio di Michaiah, molti allegri pettegolezzi e infine le chiacchiere sconnesse degli ubriachi. Tutti si divertirono molto. Le ragazze del villaggio ricominciarono a sospirare e a mugugnare al pensiero della partenza di Jarred. Ciascuna aveva sperato che lui la sposasse, anche se in fondo al cuore sentiva che un giorno o l'altro quel ragazzo
se ne sarebbe andato. «Tornerò», le rassicurò lui. «Non appena avrò fatto fortuna.» «Oh, sicuro, ti rivedremo di certo», risposero loro, annuendo ironicamente. «Senza dubbio ti ricorderai di noi, quando sarai tra le ricche dame e le principesse del nord. Possiamo scommettere una borsa piena di monete che ci avrai già dimenticato da un pezzo.» «Non vi dimenticherò.» «Oppure, se tornerai, non sarà prima di cent'anni, quando saremo delle vecchie ciabatte senza denti.» «È bello sapere che tra cent'anni sarete cambiate così poco», disse Jarred. Loro lo adornarono di fiori selvatici, una nevicata di petali bianchi che caddero su di lui e gli si appiccicarono alla faccia, come teneri baci floreali. Il mattino seguente, in attesa del sorgere del sole, i viaggiatori avevano impacchettato tutte le loro cose ed erano pronti a partire. Zia Shahla stava ancora dormendo; Jarred le aveva detto addio la sera prima. Nella debole luce della lampada di casa il ragazzo, vestito da viaggio, si accomiatò da sua madre. «Non piangere», le disse. «Ti prego, non soffrire per me.» Lei lo guardò un poco. «Dovrai aver cura di te», si raccomandò. «Starai attento, vero?» «Lo farò. È una promessa.» «Mantienila.» La donna chinò il capo. «L'amore materno», disse sottovoce, «è una cosa terribile e ha un potere immenso. È più forte di ogni altra emozione umana. La passione degli amanti è nulla al confronto. Gli amanti vanno e vengono, litigano, sono incostanti, ma l'amore di una madre per un figlio è un legame che dura tutta la vita. Sovrasta l'istinto della sopravvivenza personale. Unisce, ferisce, ti stringe nella sua morsa con più forza di una trappola d'acciaio.» «Lo fai sembrare una specie di eterno tormento.» Jarred si tolse il nastro che gli cingeva i lunghi capelli e se li sistemò meglio con le dita. «Può essere così», annuì sua madre. «Tuttavia la natura, nella sua perversità, ci infligge questo tormento in modo tale da costringerci a godere della vicinanza dei nostri figli, che ne sono la causa.» «Io non ti capirò mai», disse Jarred, mentre lei gli annodava i capelli dietro la nuca e li fissava saldamente col sottile nastro nero. Nel profondo sapeva tuttavia che la sua partenza sarebbe stata una liberazione per quella
donna, che fin dalla sua nascita non aveva smesso di stare in pensiero per lui. Ora non sarebbe più stata incatenata dalla responsabilità per ogni suo respiro. Ora avrebbe potuto mettere da parte quell'ansia, confidando che il mondo si sarebbe preso cura di lui, così come si prendeva cura di molti altri. Sarebbe riuscita a vivere più tranquilla e serena, non avendo altra scelta che fidarsi dell'universo. Jarred aveva consegnato alla madre la maggior parte dei suoi risparmi, affinché lei e zia Shahla non avessero troppe preoccupazioni economiche durante la sua assenza. Dapprima la donna si era rifiutata di accettare denaro da lui ma il giovane, contravvenendo ai suoi principi di onestà, l'aveva ingannata, raccontandole di averne guadagnato un bel po' a Jhallavad con la vendita delle terraglie e degli altri oggetti prodotti da loro. «Tu mi hai dato più che abbastanza. Ora ho io qualche regalo per te», disse sua madre. Si tolse dal dito un anello d'ottone, finemente intarsiato con disegni in filo di rame. «A me i gioielli non servono più. Sarei felice se tu portassi questo.» Jarred lo accettò con un inchino e se lo infilò al mignolo della sinistra. «E anche questa», continuò lei, porgendogli una catenina d'argento. «Appendici l'amuleto.» Jarred la ringraziò con qualche esitazione, timoroso di non riuscire a mostrarsi abbastanza grato. Un po' incerto, staccò il disco d'osso dal laccio di cuoio, lo fissò alla scintillante catenina e lasciò che lei gliela allacciasse al collo. «Madre, non è necessario che ti preoccupi tanto per la mia sicurezza», mormorò. «Anche se perdessi l'amuleto, non correrei nessun pericolo. Sono giovane e forte. So come cavarmela e con me ci sono i miei compagni.» Tacque e corrugò la fronte, come se fosse combattuto tra qualche dubbio. «Cosa ti preoccupa?» volle sapere lei. «Ti confesso che mi vergogno di portare questo oggetto», le rispose, «come se fossi un debole che ha bisogno di una guardia del corpo. Non mi piace portarlo e, ora che sto partendo e ti lascio senza la mia protezione, vorrei che lo tenessi tu.» Fece per togliersi l'amuleto, ma la madre gli posò con fermezza una mano sul braccio. «No», disse. «Preferirei che lo portassi tu», insistette lui. «No», ripeté la donna. «Tu sai bene perché devi tenerlo. Prima che tuo padre se ne andasse, gli hai promesso che l'avresti portato sempre con te.» «Ma ero un bambino!»
«Le promesse vanno mantenute. Se tu lo dessi a me, io lo getterei nel Burrone Orientale, te lo giuro.» Lui vide che stava parlando col cuore e si rassegnò. «Quand'è così», disse con un sospiro, scrollando le spalle, «lo porterò e continuerò a sentirmi come un fiorellino tremulo e delicato.» «Non lo sei e non lo sarai mai», disse la donna. «Tu sarai il soldato che esce senza un graffio da ogni scontro e che può soccorrere e assistere i suoi compagni feriti.» Jarred le sorrise. «E va bene, allora», disse. «Hai vinto. Tu trovi sempre le parole giuste.» La baciò con dolcezza sulla fronte. «Addio, madre. Che la buona salute sia con te.» «Possa la fortuna accompagnarti sempre», replicò lei. Mentre i nove giovani a cavallo lasciavano il villaggio, lei restò in prima fila tra coloro che si erano riuniti per salutarli e li seguì con lo sguardo mentre si allontanavano, tra veli di polvere fine, sotto il cielo laccato d'azzurro, finché non scomparvero alla vista. Alcune ragazze, agitando le mani per salutarli, cantavano la canzone del commiato: Rosa, tu che al deserto sei sbocciata sulla duna da pioggia ora baciata, sei sorprendente lampo, ahimè, fugace che troppo presto rinsecchisce e giace. Ricca di linfa, brilli di colori, principessa fragrante sei dei fiori, ma per tempo assai breve, tu sei stata a effimera esistenza condannata. Tu che così resisti sei sì forte da vivere dov'altri trovan morte. La tua preziosa e insolita semenza nella siccità dorme con pazienza. Di volta in volta la tua stirpe dura e una pausa attende nell'arsura finché la pioggia non torna a dilagare e il deserto non si trasforma in mare. Poi la tua veste indossi, la corolla,
le tue foglie che luce ora ingioiella. Che lusso, quale insolita eleganza che al sospiro del vento oscilla e danza. Dei ruscelli del cielo la rugiada bevi, quando sulla sabbia cada. La terra addobbi con colori belli, rosa polvere e giada, verdi e gialli. E, se come rapido bacio svanirai, nella mente di ciascuno resterai. Tutto ci ricorderà il Ballo dei Fiori quando saran scomparsi i tuoi odori. Il tuo seme sepolto in sabbia dura, è un'indomita sfida a quell'arsura. Il seme agogna l'acqua e il suo ritorno, e invincibile attende, notte e giorno. Figlia paziente del deserto è la rosa, che sempre a profumar torna ogni cosa. Poiché non c'è al mondo una contrada dove prima o poi pioggia non cada. 2 INCONTRO Un vento secco e freddo spazzava i fianchi della collina. Le raffiche facevano vacillare la donna che saliva lungo il pendio, lasciandosi alle spalle l'Acquitrino; le scuotevano lo scialle e piegavano le erbe grigio-verdi su cui camminava a piedi nudi, sfiorandole con l'orlo della veste. Ciocche di capelli grigi le sfuggivano da sotto il foulard. Il vento gliele gettava in faccia, ma lei non se ne accorgeva neppure. Il suo sguardo era fisso sulla nuda vetta dell'altura, più avanti. Talvolta si chinava senza rallentare il passo, per raccogliere i fiori selvatici dell'estate. Stava cantando. Cantava a voce spiegata, benché i vortici d'aria le strappassero le parole di bocca. C'era qualcosa di duro e risoluto in quel procedere in salita, come se il volume e l'energia della sua voce potessero scacciare il pensiero dei passi dietro di lei... come se le parole creassero un incantesimo per allontanare la follia
che la inseguiva con feroce determinazione. D'un tratto la donna si voltò a guardare alle proprie spalle, con un movimento fulmineo del capo, nello stesso modo di chi teme di essere pedinato da qualcosa di maligno. Ma tutto ciò che vide furono le erbe che si piegavano a ondate mostrando il lato argenteo dei loro steli, le vivide macchie gialle delle rose delle rocce, la costellazione di virginie dai petali rosati e le ali violette dei cardi. Pur sapendo che correre non sarebbe servito a niente, accelerò il passo e iniziò ad ansimare. «Io parlerò di te, sei-oh!» cantò senza gioia. «Verde e veloce cresce il pruno-oh! Tu cosa sei, sei-oh? Sei sta per i Prodi Viaggiatori, cinque per gli amuleti sopra la tua porta e quattro per i Fabbricanti di Fortuna. Tre, tre sono i Rivali. Due, due sono i fanciulli bianchi come gigli e vestiti di verde. Uno è uno, ed è solo, e sempre sarà così.» Alla sommità della cresta rocciosa, non c'era nessun altro posto dove andare. Il terreno precipitava in una scarpata così ripida che solo un uccello o una capra delle rocce avrebbero saputo trovare un percorso in discesa e arrivare vivi sul fondo. Per la donna quella non fu una sorpresa. Era stata in quello stesso luogo innumerevoli volte. Non le sarebbe servito a niente mettersi a correre, né scendere per un sentiero oltre la cresta. Tuttavia non era una via di fuga materiale ciò che stava cercando. Sulla sommità dell'altura, si sedette sull'erba. Le sue dita inquiete continuavano a palpeggiare i fiori, che si era posata in grembo come un raccolto di arcobaleni. Il suo viso, benché scavato e tormentato, era delizioso. Non dimostrava più di trentaquattro estati e aveva un corpo ancora snello e flessuoso come un ramo di salice. La sua bocca era un bocciolo di rosa, i suoi capelli seta d'ebano spolverata di ghiaccio. Sopra le palpebre, il candore della pelle era ravvivato da una tinta turchese, come se capillari di sangue verde-azzurro si diramassero in uno strato sottile come seta. Le ciglia inferiori erano fragili ali di farfalla Lycaenidae blu che le orlavano gli occhi. Sotto i suoi piedi impolverati si abbarbicavano alla roccia le radici di alcuni frassini di montagna, cresciuti sporgendosi in fuori quasi orizzontalmente da quella precaria posizione. La donna lasciò vagare lo sguardo sul territorio che si allargava ai piedi del precipizio: le vaste pianure ondulate dello Slievmordhu meridionale, ricoperte dal verde scuro dei boschi di betulle e di frassini, punteggiate in lontananza dalle pallide chiazze di greggi di capre al pascolo. A sud e a sud-est la valle si alzava gradatamente fino a incontrare le tondeggianti Colline di Bellaghmoon, mentre a ovest e a sud-ovest saliva a
confondersi coi lontani Poggi dei Wight. Il cielo tinto di pallido grigio-lilla stagnava basso su quel panorama e dall'orizzonte sopraggiungevano banchi di nebbia. Lontano da quella terra, troppo lontano per gli occhi umani, nove giovani provenienti dal regno di Ashqalêth cavalcavano sulla strada del deserto. Si erano lasciati alle spalle incroci e scorciatoie e, dopo dodici giorni di viaggio ad andatura sostenuta, avevano raggiunto le estreme propaggini dei monti orientali, avvicinandosi ai confini di Slievmordhu. Lì la Catena delle Rupi Spezzate piegava a nord-ovest e si abbassava fino a confondersi nelle aride pianure interne di Ashqalêth. Il territorio in quella regione era scosceso, molto irregolare, ma la strada del deserto consentiva di attraversarlo in fretta. Scintillanti come lame d'acciaio, sottili torrenti scendevano dalle rocce sino in fondo agli avvallamenti, dove i viaggiatori potevano usufruirne con facilità. I ragazzi guardavano quel fenomeno con reverenza e stupore: che l'acqua cadesse gratis dal cielo, per andare sprecata tra sabbia e rocce, sembrava loro una cosa straordinaria. Ogni viaggiatore indossava un mantello col cappuccio sopra una tunica ricamata, stretta in vita da un cinturone cui erano appese una scimitarra e una corta daga. Sotto le tuniche amuleti contro la stregoneria e le fatture. Il fondo dei loro pantaloni di pelle di cervo era infilato dentro lucidi stivali alti fino al ginocchio. Alcuni esibivano anelli e orecchini di ottone lucido. Portavano i capelli color cardamomo annodati in un concio dietro la nuca. I loro volti apparivano magri e duri nonostante la giovane età. Due di loro cavalcavano solitamente in testa al gruppo. Uno era un ragazzo attraente, con le spalle larghe, che emanava un'impressione di energia e vigore. Era l'unico armato anche di una balestra, che teneva di traverso dietro la schiena. Il suo compagno, dai lineamenti più rozzi, era però robusto come un toro, con spalle massicce e bicipiti possenti. Per ingannare il tempo i due chiacchieravano. «Ah, se penso che quest'anno mi sono perso la Festa di Mezza Estate!» esclamò il giovane più corpulento. «Niente mi fa soffrire quanto perdermi un po' di baldoria. E, invece di una bella ragazza, ho tra le gambe un cavallo che mi spacca la schiena coi suoi sobbalzi.» «Già, ma ci sarà una grande festa a Cathair Rua, per il terzo compleanno del principe ereditario», disse il giovane di bell'aspetto, in tono speranzoso. «Vorrei fare in modo di essere là quando si terranno le celebrazioni!» «Io mi auguro che il figlio si dimostri un uomo migliore del padre», os-
servò Yaadosh con enfasi. «A Jhallavad dicono che Re Maolmórdha Ó Maoldúin di Slievmordhu è un monarca debole, capace di cambiare idea come una banderuola, inadatto a governare.» «Queste sono cose risapute da anni, Caracal, amico mio», disse l'altro, abbassando la voce. «Io ho sentito di peggio... che ha ceduto il potere ai druidi. Si dice che lo manovrino per i loro scopi, senza curarsi del benessere del regno.» I rudi lineamenti del giovane robusto espressero stupore. «Per quale motivo li lascia fare?» esclamò. «Perché dovrebbe mettersi nelle mani dei suoi consiglieri? Senza dubbio, come uomo più potente di quella terra, dovrebbe poterli piegare ai propri comandi!» Jarred scosse il capo. «Come possiamo sapere noi cosa succede dietro un trono?» Yaadosh sbuffò. «Ah! E così stiamo uscendo dal regno di un monarca pazzoide per entrare in quello di uno debole e inetto. Prima arriveremo a Narngalis e meglio sarà, eh, Jarred?» «Taci! Perderai la lingua, o peggio, prima di arrivare nel nord, se spargi voci di questo genere per tutti i Quattro Regni di Tir», lo avvertì Jarred in tono prudente, guardandosi intorno. «Queste sono cose che si possono soltanto sussurrare all'orecchio. Non dimenticare che è reato di tradimento insinuare che un monarca non sia virtuoso sotto ogni aspetto.» «Chi può sentirci in questa terra selvaggia?» Nel petto del giovane robusto vibrò una risata, ma, mentre gettava occhiate a destra e a sinistra, la risata si spense e i due amici tacquero. I ragazzi si erano addentrati in una stretta gola fra le colline. Alte muraglie scoscese incombevano da entrambe le parti, bloccando la vista del cielo, di cui restava solo una striscia color lilla. Il senso di claustrofobia li metteva a disagio. Lo scalpiccio dei cavalli strappava echi dalle rocce e intorno a loro stagnava una fredda penombra. Il cavallo di Yaadosh rallentò, restando dietro quello di Jarred. Aveva appiattito le orecchie e continuava a girare la testa nervosamente. «Che ti prende, razza di mulo pigro?» brontolò Yaadosh allentando le redini, mentre cercava di spronarlo coi calcagni. «Ho sentito dire che questo posto è chiamato Via dei Predatori», disse un altro membro del gruppo. Nel sentir nominare i Predatori, quasi tutti i compagni ripensarono alla feroce masnada di tagliagole che infestava quella regione. Annidati in una base tra le montagne, nel lontano nord-est, costoro si spostavano anche su
lunghe distanze in bande che percorrevano i Quattro Regni, assalendo i viaggiatori. Si diceva che fossero subnormali, oppure supernormali, e comunque era cosa nota che non fossero più umani. Nel corso delle generazioni qualche abominevole influsso li aveva fisicamente mutati in un modo secondo alcuni sottile, secondo altri nauseante. Non avevano né un capo né un governo centrale e, se obbedivano a una legge, era soltanto la loro. Tutti dicevano che fossero privi di ogni virtù, spietati e inesorabili. Nell'aria ci fu una vibrazione, il lieve rumore di qualcosa che si spostava, seguito da un fruscio di ghiaia contro la roccia. Il rumore salì rapidamente di volume fino a riempire la gola e qualcuno gridò: «Guardate lassù!» I ragazzi alzarono la testa e videro un'enorme roccia che stava precipitando lungo la scarpata, seguita da molte altre. Il primo macigno rimbalzò poderosamente contro una sporgenza e precipitò dritto sopra il primo cavaliere del gruppo, che in quel momento era Jarred. In un caos di grida d'allarme gli altri affondarono i talloni nei fianchi dei cavalli e li spronarono avanti, nel tentativo di precedere la frana. Con un lungo e tremendo boato che pareva scaturire dalla gola di un gigante inferocito, sassi di ogni dimensione piombarono giù, portandosi dietro una nuvola di polvere. I cavalli s'impennarono, nitrendo furiosamente. Le urla dei cavalieri furono sommerse dal frastuono delle pietre, che si schiantavano con violenza così dirompente da far tremare il suolo. Mezza lega più a nord le pareti della gola si aprivano su una vasta distesa di terreno cosparsa di massi. Quando finalmente i cavalieri emersero dalla nube di polvere, dove i detriti rimbalzavano ancora in ogni direzione, furono aggrediti da una torma d'individui che sbucavano urlando da ogni parte, brandendo asce, bastoni di legno e spade. All'istante i ragazzi misero mano alle armi e le loro scimitarre intonarono sonanti note metalliche uscendo dai foderi. Vibrate a destra e a sinistra, le lame ricurve e affilate scintillarono, abbattendosi sugli scudi e sulle mazze degli aggressori, alcuni dei quali erano mascherati. I cavalli si ritraevano spaventati dinanzi a quelle figure minacciose, ma gli aggressori non avevano intenzione di ferire animali che avevano un considerevole valore di mercato. Ciò cui miravano era disarcionare i cavalieri, preferibilmente con qualche colpo mortale delle loro spade a lama dritta. Yaadosh balzò giù dal cavallo e gli mollò una sculacciata sul posteriore. Subito l'animale galoppò via lungo la strada, roteando gli occhi per lo spavento. Un brigante dalla faccia sfregiata corse ad affrontare il ragazzo, vibrandogli un fendente verso il petto. Lui parò e si scostò con un balzo,
quindi contrattaccò con tutta la violenza di cui era capace, infuriato e desideroso di vendetta dopo aver visto il suo giovane amico investito da quell'enorme macigno. Ciò che lo animava era tuttavia una rabbia fredda, non una bestiale avidità di sangue. La sua faccia esprimeva un impassibile disprezzo; per natura non provava nessuna gioia nel colpire e ferire un essere umano, ammesso che il suo avversario fosse tale. Avrebbe preferito che quell'individuo non l'avesse costretto in quella situazione. E ancor più che il povero Jarred non fosse rimasto stritolato dal macigno. Incalzato con ferocia, non aveva tempo per pensare alla perdita dell'amico e quella era una fortuna, perché altrimenti le lacrime l'avrebbero accecato al punto di non potersi difendere. Nella sua gelida furia il giovane mandò a vuoto l'avversario con una finta e lo colpì con un fendente alla testa, spaccandogli la mandibola e oltre metà dei denti. Girandosi fece in tempo a ferire un secondo bandito a un gomito, con lo stesso movimento con cui ritraeva l'arma dalla faccia del primo. Il braccio dell'individuo ricadde penzoloni, grondando sangue; la maschera che portava gli si spostò di lato e Yaadosh vide un volto orribile, animalesco, un muso sporgente con due narici da maiale. I giovani viaggiatori combattevano spalla a spalla. Benché fossero assai abili con le armi, non si erano mai trovati a lottare per la vita. L'età e l'esperienza favorivano i loro aggressori, che in breve riuscirono a metterli alle strette. Le cose sarebbero volte al peggio per Yaadosh e i suoi compagni, se il loro morale e la loro energia fisica non avessero ricevuto un'iniezione di fiducia da un intervento inaspettato. Proprio mentre lo scontro raggiungeva il culmine, un uomo alto e snello corse fuori della nuvola di polvere che ancora oscurava la gola. Gli aggressori se lo videro piombare addosso con un grido di guerra, la scimitarra sollevata. Si muoveva come il ballerino di una danza campestre: senza la consumata abilità del professionista, ma con grande sicurezza. Sferrando colpi a destra e sinistra, fintando, parando, la sua lama tagliava l'aria come una ruota vorticante dai riflessi argentei. L'orlo affilato mordeva la carne con la rapida ferocia del vento del nord, ritraendosene macchiato di sangue. L'indiavolato individuo disarmò un avversario con un abile colpo della scimitarra e subito gli appoggiò sotto il mento la punta della lama ricurva, costringendolo a restare immobile dinanzi a sé. «Non fare una mossa, miserabile!» gli gridò in faccia. «Io avrò pietà di te. Ma non alzare mai più un dito contro di noi!»
Detto ciò lo colpì con una piattonata su una tempia, abbastanza forte da ottenebrargli i sensi, e fece un passo indietro. Stordito, il brigante vacillò qualche istante, poi girò su se stesso e fuggì gemendo di terrore, come se la morte gli avesse appena respirato sulla faccia il suo alito di tenebra. Jarred - perché sotto la patina di sudore e polvere i suoi lineamenti erano ancora riconoscibili - continuò a battersi senza subire neppure un graffio. Affrontati da quell'apparizione, animata da una folle sete di sangue e così certa della propria micidiale abilità da non temere nulla, i briganti iniziarono a perdersi d'animo. Un individuo non mascherato, dal volto privo di mento, menò un fendente contro il petto di Yaadosh. Lui lo parò, spingendo a sinistra e in basso la lama dell'altro. Poi si spostò indietro, come temendo di essere colpito da un secondo assalto. Sapendo che l'avversario si sarebbe aspettato una contromossa immediata, d'istinto lui fece l'opposto e si trattenne. Dietro le ciocche di capelli sporchi che gli ricadevano sulle arcate sopracciliari sporgenti e deformi, gli occhi del bandito ebbero un lampo di trionfo. Si gettò avanti in un affondo deciso, pensando che l'avversario volesse ritirarsi. Invece Yaadosh si spostò di lato all'ultimo momento e, con un colpo obliquo, gli recise i tendini della gamba, dietro il ginocchio sinistro. Il malvivente vacillò, sbilanciato; un ruscello di sangue uscì dalla ferita. Girò su se stesso sulla gamba sana, ma troppo tardi: Yaadosh era già nella posizione di vantaggio che aveva voluto procurarsi e scostò senza difficoltà la spada che l'altro agitava disperatamente per difendersi. Il colpo preciso della sua lama gli tagliò la gola. Senza sprecare uno sguardo per vederlo abbattersi al suolo senza vita, Yaadosh corse in aiuto di suo cugino Michaiah. Alquanto sfiduciati per come si erano messe le cose, alcuni briganti iniziarono a indietreggiare, commettendo l'errore di credere che ciò sarebbe bastato per uscire facilmente dalla mischia. Già uno di loro giaceva nella polvere, sgozzato da Yaadosh. Il capo dei giovani ashqalêthani, Tsafrir, la cui scimitarra si era spezzata in due, usò la daga che aveva nell'altra mano per colpire al cuore un altro aggressore. Nello stesso momento un terzo brigante, col volto coperto da una maschera di cuoio, fu travolto dalla furia di Jarred. Mandò un grido quando la sua spada volò in alto, scaraventata via assieme a quattro dita mozzate. A quella vista i suoi compari compresero di trovarsi in una situazione disperata e si diedero alla fuga. Svelti come capre di montagna, saltarono i massi che delimitavano la strada e scomparvero tra le pendici scoscese delle alture, lasciando sul campo quel-
lo che doveva essere stato il loro capo. Il terreno argilloso era chiazzato di gocce e rivoletti rossi che già si scurivano. Jarred si appoggiò alla scimitarra, ansimando, e si asciugò il sudore dalla fronte con una manica. Le sue dita erano sporche del sangue colato lungo la lama, fin sull'elsa. Sulla faccia di Yaadosh si allargò un sogghigno. «Per le Barbe dei Druidi, amico mio! Non avrei mai pensato di rivederti vivo!» esclamò, mentre gli si avvicinava a lunghi passi. Lo afferrò per le spalle. «Ero convinto che quel pezzo di collina ti avesse seppellito così a fondo che non ci sarebbe più stato bisogno di romperci la schiena a scavarti la fossa!» «Spiacente di deluderti», borbottò Jarred. «Ha schiacciato Bathsheva, ma non me.» Il suo volto era irrigidito in una smorfia di sofferenza, perché aveva voluto bene alla giumenta quasi come a un'amica. «Allora il tuo amuleto funziona», disse l'altro, accennando alla catenella che lui portava al collo. «Per tutti i Barbuti, quella pietra dei druidi può sconfiggere anche una forza maligna molto potente, allora.» Jarred annuì distrattamente, continuando a pensare alla sua giumenta. «Se non altro, è morta all'istante. Non ha avuto il tempo di soffrire.» I suoi pensieri tornarono alle condizioni dei compagni. «Qualcuno di noi è ferito?» I due giovani andarono ad aiutare gli altri. Nonostante la ferocia dell'imboscata, le ferite riportate dai viaggiatori erano poche e non troppo gravi. La più preoccupante era quella di Nasim, il fratello del capogruppo. Il ragazzo era stato colpito a un avambraccio e il taglio sembrava profondo fino all'osso. Pallido in viso, si teneva chiusi i bordi sanguinanti della ferita con l'altra mano. Come i compagni, Jarred era coperto di polvere da capo a piedi. Quella sporcizia dava a tutti lo stesso aspetto e mascherava un po' il fatto che lui non aveva ricevuto neppure un graffio, cosa che non gli dispiacque. Nessuno degli altri manifestava la minima ombra di rancore per la sua situazione privilegiata... ma era pur vero che, prima di allora, non avevano mai lottato per la vita. Avrebbero cambiato atteggiamento verso il portatore dell'amuleto? Si sarebbero sentiti invidiosi o irritati per quell'evidente ingiustizia? Jarred provò ancora una volta un moto di ostilità verso l'oggetto che aveva al collo. I suoi compagni non rivelavano però nessun cenno di malevolenza contro di lui. «È impossibile curare subito la tua ferita», disse Tsafrir al fratello. «Non c'è tempo. Dobbiamo allontanarci al più presto da questo posto.
Chi lo sa... i Predatori potrebbero avere dei complici accampati nelle vicinanze. Può darsi che tornino in forze da un momento all'altro.» Nasim fu aiutato a salire in sella dietro Tsafrir e il suo cavallo fu preso da Jarred. Yaadosh chiamò il proprio con un fischio acutissimo e di lì a poco l'animale apparve tra le rocce, trotterellando docilmente fino a lui. «L'hai addestrato bene», commentò suo cugino Michaiah. Gamliel stava guardando i corpi senza vita dei briganti, con aria abbattuta. «Dobbiamo seppellire i cadaveri.» Il sogghigno disparve dalla faccia di Yaadosh. «Io non avevo mai ammazzato un uomo», disse. Andò a chinarsi su quello cui aveva tagliato la gola e scrutò da vicino la faccia grigiastra e gli occhi vuoti. «Togliere la vita a un uomo è una cosa grave. Qualcuno piangerà per lui.» «Per le Barbe dei Druidi, ma questo è un uomo?» borbottò Michaiah accennando verso l'altro cadavere, la cui proboscide nasale sporgeva come un fungo sopra i denti da suino. «Non ho nessun rimorso per averlo ammazzato», commentò in tono cupo Tsafrir. «E non per il suo aspetto. Sarebbe stato lui ad ammazzare me, se non mi fossi difeso con tutte le mie forze. Ora è più importante pensare alle nostre vite. Senza dubbio i Predatori torneranno a recuperare i loro morti e in quel momento io voglio essere lontano. In sella!» I viaggiatori si allontanarono al galoppo per poco più di una lega. Quando sembrò loro di essere a distanza di sicurezza, si fermarono in una radura tra i faggi, dove un piccolo ponte di pietra superava un ruscello. Sulla sponda, inginocchiati tra gli arbusti verdeggianti e le erbacce fiorite, si lavarono alla meglio le ferite e riempirono le borracce. Benché non cessassero di stupirsi per la novità di quell'acqua corrente, degli alti alberi e del cielo punteggiato di nuvole, nessuno di loro aveva voglia di sorridere. Erano capaci di difendersi con le armi, ma, come tutti gli uomini di Ashqalêth, apprezzavano la vita pacifica e non amavano combattere. «Abbiamo fatto un solo passo nei confini di Slievmordhu e i Predatori ci sono già piombati addosso», commentò il loro capo, di malumore, mentre tirava fuori dalla borsa da sella una tunica pulita. «Non promette bene.» «Tsafrir, come puoi essere certo che siano Predatori?» gli domandò Michaiah. «Non siamo troppo a ovest, per loro? Non potrebbero essere una comune banda di ladroni?» Da bambino Tsafrir aveva viaggiato con suo padre per tutto Slievmordhu. Tra loro, era il solo che poteva dire di sapere qualcosa di quella terra straniera e dei pericoli che infestavano i Quattro Regni di Tir.
«È per via delle maschere. Alcuni Predatori una volta avevano l'aspetto di uomini normali, ma oggi non più. Oggi si può dire che prima erano uomini, ma ormai non appartengono più alla nostra razza. Sono stati orribilmente contagiati dai posti in cui hanno vissuto. Le pendici delle montagne orientali sono impregnate dal male. Risale dal suolo e penetra nelle ossa e nel cuore di chi abita in quelle caverne. Molti di essi sono cambiati nel corpo. Ecco perché portano maschere che celano le loro deformità. E ciò che li induce a coprirsi non è la vergogna, ma l'orgoglio. Sono fieri di quelle aberrazioni fisiche e le nascondono perché pensano che gli altri non siano degni di vedere le loro particolari mutazioni. Si dice che eleggano i capi scegliendo tra i più robusti e mostruosi e, più questi deviano dalla normale forma umana, più vengono onorati. E, poi, non avete notato i tatuaggi rossi e neri che hanno sul dorso delle mani, il monile di rame intorno al collo e il modo bizzarro in cui si radono i capelli ai lati della testa?» Il giovane cominciò a strappare la tunica facendone delle strisce. «Io non ho notato niente del loro aspetto», borbottò cupamente Yaadosh. «Ero troppo occupato a liberarmi della loro presenza.» Si massaggiò una coscia, escoriata da un colpo di bastone. «Neppure io», aggiunse Jarred. «Però ho notato che avevano i denti neri e un alito così puzzolente da far vomitare.» Tsafrir bendò l'avambraccio di suo fratello, curandosi di far combaciare bene i bordi della ferita. «Hanno l'abitudine di masticare un'erba di qualche genere», spiegò. «Quanto tempo manca per arrivare a Winterbourne?» domandò Nasim, con un fremito. Il bendaggio improvvisato era già lordo di sangue. «Circa due mesi, se ricordo bene», rispose Tsafrir, finendo di fasciargli la ferita. «Dipende da quello che potrà succedere lungo la strada.» «E da qui a Rua?» volle sapere Gamliel. «Forse quattro settimane, se teniamo una buona media. La Via della Valle curva da una parte e dall'altra come una vipera della sabbia.» «Nasim ha bisogno delle cure di un medico al più presto», disse Jarred. «E i rifornimenti che erano nelle mie borse da sella hanno fatto una brutta fine. Dovremo sostituirli. Che ne pensate di fermarci in qualche villaggio lungo la strada?» «Buona idea», annuì Tsafrir. Rifletté un momento, quindi aggiunse: «Ci sono delle fattorie sparse sulle Colline di Bellaghmoon, ma si tratta di case isolate, abitate da pastori e contadini. Nel villaggio di Moss non troveremo nessun medico, potete starne certi. La città più vicina è Città dell'Acquitri-
no, sul Grande Acquitrino di Slievmordhu, e, benché si trovi fuori dalla nostra strada, è pur sempre a nord, nella direzione in cui stiamo andando. Forse vale la pena di deviare verso l'Acquitrino. Là ci sono senz'altro dei medici». «Ma se andiamo a nord prendendo la strada di Città dell'Acquitrino», intervenne Gamliel, «non passeremo da Rua.» «Poco male», disse seccamente Tsafrir. «E resteremo lontani dalla strada principale...» «Sono certo che troveremo altre piste.» «Più staremo lontani dalla strada principale, più saremo al sicuro dai tagliagole che la infestano», fece notare Michaiah. «Quanto è distante Città dell'Acquitrino?» domandò Nasim. Il suo viso era contratto dal dolore. «L'Acquitrino è a otto giorni di viaggio da qui, se non ricordo male», rispose Tsafrir. «Potrebbero occorrere tre o quattro giorni per attraversarlo, ma, quando ci saremo lasciati alle spalle la sua riva settentrionale, potremo raggiungere Winterbourne in poco più di un mese. Le strade di Narngalis sono lisce e diritte.» «Stai dicendo che in realtà si tratta di una scorciatoia!» esclamò Michaiah, eccitato. «Allora andiamo a Città dell'Acquitrino», disse Nasim. Respirava in fretta e aveva le guance insolitamente scavate. «Siamo tutti d'accordo?» Otto voci gli risposero all'unisono: «D'accordo!» Jarred si tolse dagli occhi una ciocca di capelli e si voltò a guardare verso nord. «Cosa sei tu, nove-oh? Nove come le Nove Splendenti Luminose, otto come le Piogge di Averil, sette come le Sette Stelle del cielo, sei sta per i Prodi Viaggiatori...» La donna, sulla sommità dell'altura, continuava a cantare. A volte pensava che il suo pedinatore incostante e intangibile fosse un'entità senza forma e senza nome; altre volte lo immaginava come una figura magra quanto uno scheletro, o una bestia mostruosa dai tentacoli vorticanti, o un motore di ferro con zanne affilate e voraci, o un fuoco fornito di cervello, o uno strumento da tortura pieno di ingranaggi, o una creatura senza volto, o una creatura con solo il volto e nient'altro... una testa sospesa nell'aria, con occhi ardenti e fauci sanguinanti. Talvolta immaginava che fosse soltanto un paio di piedi in marcia.
Molto più spesso se lo raffigurava come un'invisibile emanazione il cui passaggio sul terreno causava la comparsa di impronte artigliate, che schiacciavano le erbe e producevano un rumore di passi, ma senza che vi fossero altre prove della sua esistenza. Quella era la più terribile di ogni altra incarnazione. Ed era il suo segreto personale. Lei temeva, irrazionalmente, che se l'avesse confidato a qualcuno il cacciatore avrebbe incluso nella caccia anche il suo confidente. Era inoltre convinta che niente e nessuno potesse aiutarla e desiderava tenere le persone amate all'oscuro di quel suo fardello. Di conseguenza non aveva mai parlato a nessuno delle sue ricorrenti fughe dal terrore. Il terrore era cominciato quando sua figlia Lilith aveva undici estati. Ora ne aveva venti e la follia di Liadàn aveva continuato a peggiorare. Nel primo anno non era stata che un leggero palpito al limite della sua coscienza, un senso d'inquietudine che a volte l'assaliva, specialmente quando era sola. Nel secondo anno era giunto un chiaro rumore di passi, talvolta di stivali scricchiolanti, talaltra di zampe o di unghie di ragno svelte e ticchettanti; rumori che nessun altro poteva udire. In seguito aveva udito ogni tanto anche il suono di ruote. Il quarto anno l'inseguitore si era manifestato come una figura nebulosa e imprecisa, che camminava ora su due gambe, ora su quattro oppure su otto, visibile per un istante se lei girava un angolo troppo in fretta, o si voltava all'improvviso, o guardava inaspettatamente in uno specchio. Cinque anni dopo l'inizio della persecuzione, il tormentatore procedeva a circa duecento passi dietro le spalle di Liadàn, senza mai raggiungerla, non sempre presente ma ineluttabile nei suoi ritorni. Nei successivi quattro anni aveva guadagnato terreno, facendosi via via più vicino, mentre le sue sembianze si coagulavano in qualcosa di più solido benché ancora irriconoscibile e sfuggente. Ora la cosa camminava pochi passi dietro di lei. Di notte le sembrava di sentirla in piedi accanto al suo letto quando lei dormiva, e spesso si svegliava sconvolta dalla paura che si fosse chinata ad afferrarla, o penetrasse in lei come un veleno, o le azzannasse le viscere per divorarle, svuotandola come una zucca. Di giorno era sempre in preda all'angoscia. Quando sentiva vicino quella presenza, era indotta a immaginare che un arto cadaverico si sarebbe allungato a toccarla, forse per batterle su una spalla, o per avvolgersi come un tentacolo intorno al suo collo e strangolarla, o darle un colpo tra le scapole, o abbrancarla in un innominabile abbraccio. Le sembrava sempre di
avere una corrente d'aria fredda dietro di sé, forse il respiro di una creatura aliena, e un vago e monotono borbottio in qualche lingua incomprensibile. Aveva l'impressione che dietro di lei ci fosse un'intelligenza spietata, o una presenza disumana del tutto priva di compassione. Qualunque cosa fosse, ciò che seguiva Liadàn era l'incarnazione di una stranezza incomprensibile e lei sapeva soltanto che si avvicinava sempre di più, al punto che le sarebbe bastato fare un passo indietro per sbatterle addosso. Ora la donna si trovava sulla vetta dell'altura da cui si abbracciava l'intero panorama, un territorio che sembrava la rappresentazione stessa della libertà, così com'era libero il vento tra i capelli di lei. Alle sue spalle il pendio scendeva fino all'Acquitrino. Il Grande Acquitrino di Slievmordhu era un immenso arazzo di paludi, ruscelli, fitti boschi e lagune orlate di canneti. Occupava una depressione lussureggiante alimentata dai corsi d'acqua che scendevano dalle montagne intorno. Non si trattava di acque stagnanti e maleodoranti - salvo che in poche paludi situate ai margini della regione e nelle zone dove si riversavano i rifiuti di Città dell'Acquitrino -, anzi erano limpide e potabili, costantemente rinnovate dalla corrente che increspava appena la superficie dei laghi interni, delle polle scure, dei canali segreti e dei tranquilli fondali bassi intorno a più di tremila piccole isole. Nella complessa struttura dell'Acquitrino era cresciuta una città. Case di canne rosse poggiavano su tronchi conficcati nel fango; altre case erano state edificate su strisce di sabbia, oppure penzolavano sopra il loro stesso riflesso nell'acqua, appese a vasti intrecci di rami. Moltissime galleggiavano, costruite su grosse zattere di tronchi. Tutte quelle abitazioni erano collegate da ponti di legno, scale, stradicciole nascoste e un vasto intreccio di passerelle sospese, guadi dove si doveva saltare da una pietra all'altra, pontili, funicolari, liane e intrecci di corde, lungo cui si sviluppava il traffico consueto all'interno dell'Acquitrino. Qua e là c'erano file di grandi ninfee galleggianti, così solide che i ragazzini potevano correre sui loro dischi duri come il cuoio senza bagnarsi i piedi. Era l'acqua a proteggere gli abitanti dell'Acquitrino dagli attacchi esterni. Di notte i fragili ponti venivano ritirati e i segmenti delle strade galleggianti venivano staccati l'uno dall'altro. Tutte le barche restavano agli ormeggi nella città, mai sulle rive esterne dell'Acquitrino. Perché in buona parte del regno di Slievmordhu non si rispettava la legge. Abbondavano i briganti e i tagliagole da strada. Feroci bande di Predatori erano sempre pronte a organizzare attacchi di sorpresa contro i villaggi.
Nell'Acquitrino proliferavano le canne e i giunchi, che spuntavano dalla fanghiglia. Gli alberi crescevano alti. Ontani ricurvi e cipressi coperti di licheni alzavano cortine di foglie che formavano, tra i rami, cattedrali d'ombra in cui la luce s'insinuava con lame di smeraldo e di topazio. In primavera le coppereali punteggiavano i prati acquatici di stupefacenti corolle dorate e le ripide rive dei laghi interni, fitte di alberi, brillavano di iris gialle. Nei primi mesi dell'estate ogni polla si copriva di uno strato di candidi gigli d'acqua. Era l'ambiente prediletto dai pesci in cerca di cibo e brulicava di anfibi, insetti e folaghe. Le crestelunghe zampettavano tra le erbe acquatiche, simili a punte di freccia arroventate in una fornace. Le rane scintillavano come gocce di giada liquida e qui e là svolazzavano farfalle dalla livrea iridescente. Gemme di cobalto o verde smeraldo, fermandosi di colpo, si rivelavano per dardeggianti gazze pescatrici; gli aironi grigi si spostavano furtivi su zampe lunghe e sottili come stecchi; le anatre nuotavano e si tuffavano nei labirinti di canne rosse. Ma quegli animali non erano i soli abitanti dell'Acquitrino: esso ospitava anche le manifestazioni eldritch. Nelle polle profonde si celavano i cavalli d'acqua e i sottili asrai dai capelli verdi. I gruagach infestavano le isolette minori. Tutte le creature eldritch, seelie o unseelie che fossero, si lasciavano vedere difficilmente. Le razze immortali erano le più furtive; a volte i loro membri non venivano visti per anni. In effetti, scorgerli era così raro che gli uomini dell'Acquitrino più ardimentosi, o più incauti, osavano avventurarsi in zone pericolose e tuffarsi nelle polle infestate. S'immergevano in quelle acque verde scuro in cerca di tesori, o semplicemente per mietere le piante acquatiche commestibili che crescevano su quei fondali fangosi: i bulbi dei gigli d'acqua, i tuberi dei giunchi e le delicate spore dei nardi. Correre rischi simili sembrava un tratto caratteristico della natura umana. Il fatto che la morte fosse sempre in agguato rendeva i cercatori più ardimentosi, più vanitosi, più disposti a giocare con la sorte per dimostrare la loro fortuna e la loro abilità. La vasta Città dell'Acquitrino era costruita in zone che si ritenevano del tutto libere dai wight, o che erano abitate da wight seelie ben disposti verso gli umani e talvolta anche servizievoli. I wight non potevano essere espulsi facilmente dai loro antichi territori, benché i druidi ci avessero provato. Le creature eldritch erano parte del paesaggio. Gli uomini non avrebbero potuto liberare quelle terre dai wight, esattamente come non avrebbero potuto liberarle delle colline, dei corsi d'acqua e delle grotte. Di conseguenza la
gente evitava i posti in cui risiedevano i wight e non costruiva nelle vicinanze né vi si addentrava senza precauzioni. Tuttavia a volte capitava che un viandante scrutasse nelle verdi profondità del Lago dei Giunchi e vedesse snelle forme che nuotavano, simili a fanciulle in miniatura dai limpidi occhi color menta, vestite solo dei lunghi capelli fluttuanti, simili ad alghe sottili. Un pescatore di anguille poteva trovarsi davanti la testa di un cavallo dagli occhi vuoti che lentamente emergeva da uno stagno scuro, con erbe acquatiche impigliate alla criniera; e allora avrebbe saputo che doveva stare in guardia. Nel buio della notte i fuochi fatui fluttuavano sull'Acquitrino. Le Lanterne Jacky li infastidivano ma non facevano del male ai mortali di quella terra, che conoscevano le loro usanze. Per tenere a bada le incarnazioni unseelie, la maggior parte delle case aveva cinque amuleti appesi sopra la porta: la fronda di ramospino, la campanella, un ferro di cavallo, un gallo scolpito nel legno di frassino e una pietra con un foro di origine naturale. Lo scopo di questi oggetti simbolici era più teorico che pratico. Ognuno aveva un effetto protettivo contro le forze unseelie, ma anche in loro assenza sarebbe stato impossibile a un eldritch wight oltrepassare la soglia della casa di un mortale senza essere stato invitato. Una delle case differiva dalle altre: quella di un pescatore di anguille di nome Earnàn Kingfisher Mosswell. Non aveva amuleti appesi sopra la porta d'ingresso, perché a quella costruzione era accluso un urisk. Essendo legato alla casa, il wight non aveva bisogno di un permesso per entrare e uscire. Il piccolo essere umanoide dalle zampe di capra poteva essere avvistato ogni tanto, solitamente di notte. Gli urisk erano wight seelie di tipo domestico, di carattere solitario ma portati a cercare la compagnia degli umani. Quando giungeva l'ora di andare a letto, Lilith Heronswood Hawksburn, la figliastra di Earnàn, lasciava sempre davanti al caminetto una tazza di latte di capra o una focaccia d'avena cotta al forno. In cambio il wight avrebbe dovuto portare fortuna, o così si supponeva, e aiutare nei lavoretti domestici. Lilith aveva tuttavia abbandonato da tempo ogni speranza di svegliarsi la mattina e trovare il caminetto ripulito e il fuoco acceso, il pane già cotto, il latte munto e il burro fatto di fresco... quello scansafatiche di un urisk non faceva mai niente del genere. E non solo ignorava i suoi obblighi, ma era piuttosto scorbutico e a volte mostrava un brutto carattere; d'altra parte stava con la famiglia di Lilith da molti anni ed era ormai considerato insostituibile, dal
momento che nell'Acquitrino non si trovavano brownie domestici. I brownie, quei wight industriosi che erano la delizia di ogni donna di casa, non volevano abitare così vicino a vaste distese d'acqua. Gli urisk erano invece tradizionalmente legati a pozzi e laghetti. Tra tutti gli aiutanti seelie soltanto un urisk, con la sua attrazione per l'acqua, avrebbe potuto abitare nell'Acquitrino. Ma ovviamente i padroni della casa non dovevano appendere sopra la porta amuleti protettivi che lo respingessero. Per fortuna, nelle zone dell'Acquitrino più fittamente abitate dagli umani non si vedeva un wight unseelie da decenni, e ciò significava che per una casa non protetta il rischio era molto basso. Così basso, in effetti, che gli amuleti sopra le porte erano diventati più un elemento decorativo e tradizionale che difensivo. Inoltre la saggezza popolare affermava che in ogni casa in cui abitava una carlin c'era una specie di protezione invisibile contro le forze maligne degli eldritch. Casa Mosswell era costruita per metà su un'isoletta e per metà sull'acqua. Nel retro, sulla terraferma, era situato un capanno usato come affumicatoio. Accanto a esso c'erano alcuni barili di sale e di aceto, per la conservazione e il condimento del pesce. La stanza principale della casa conteneva una varietà di mobili e attrezzi. Presso il caminetto era arrotolato il giaciglio che di notte serviva al giovane Eoin Mosswell. Un arcolaio e un piccolo telaio a mano occupavano uno degli angoli, sotto i mazzi di erbe appesi al muro a essiccare. Accanto a quei bouquet di foglie pendeva in bella mostra una cotta di maglia lucida come l'argento. Si trattava di un oggetto di famiglia, ricavato dal guscio di un pesce corazzato che viveva nelle profondità del mare, bellissima ed eccezionalmente leggera, ma troppo piccola per un guerriero adulto di corporatura normale. Le scaglie, incastrate l'una nell'altra, luccicavano di riflessi verdi, azzurri e argentati. Il bellissimo cimelio, si diceva, era stato regalato al nonno di Lilith da una sirena che lo amava. Correva voce, inoltre, che nelle vene dei membri della famiglia ci fosse un po' di sangue del popolo del mare. A parte Lilith e sua madre Liadàn, seconda moglie di Earnàn, l'armatura in scaglie di pesce era la sola cosa bella nella povera casa del pescatore di anguille. In quella stanza sedevano al tavolo due donne, una giovane e una vecchia. Sopra le gonne indossavano entrambe semplici abiti di panno, stretti ai fianchi da una cintura di cuoio. La cintura della donna anziana era ornata da un disegno di rane-toro, mentre quella della giovane aveva un ricamo di gigli d'acqua. Non portavano scarpe: le tenevano da parte per i mesi freddi.
La donna anziana era Eolacha Kingfisher Arrowgrass, la madre di Earnàn. Aveva capelli bianco ghiaccio, folti come il pelo di una volpe delle nevi, e sul suo viso c'era un'espressione stanca, causata da anni di vita dura nell'Acquitrino. Gli occhi castani erano molto acuti e brillanti. Al collo portava un laccio di cuoio cui era appesa una piccola testa di cervo scolpita nell'ebano, con intarsi d'ambra e di madreperla. A un polso aveva un bracciale di perle di corallo. Il foulard annodato sui capelli era abbassato da un lato, per nascondere la cicatrice al posto dell'orecchio. Sulla sua fronte era tatuato un piccolo disco azzurro e su ogni manica era ricamata una testa di cervo. Tutto ciò indicava che lei era una carlin, una donna saggia prescelta per ricevere un bastone dalla Cailleach Bheur. Era stata la Cailleach Bheur, anche conosciuta come la Strega Invernale, a privare la donna dell'orecchio sinistro e del senso dell'olfatto. Quello era il prezzo che lei aveva dovuto pagare per il bastone da carlin e i poteri curativi e protettivi collegati allo strumento. Eolacha dell'Acquitrino era grata per aver potuto conservare la vista, la voce e l'udito. Il prezzo era imprevedibile: ogni anno venivano scelte nuove carlin e nessuna poteva sapere ciò che la Cailleach Bheur le avrebbe chiesto. Tuttavia nessuna di loro rifiutava mai, qualunque fosse la richiesta. Le carlin godevano di grande considerazione nella maggior parte di Tir, specialmente nelle regioni rurali, dove i druidi non si recavano e nessun farmacista andava a vendere le sue erbe medicinali. Il viso di Lilith Heronswood Hawksburn era dolce e affascinante come quello delle annegatrici unseelie che attiravano i mortali per chiuderli nelle loro tombe acquatiche. Aveva capelli neri colmi di riflessi quanto un lago sotto la luce delle stelle. Li portava riuniti in molte piccole trecce annodate fra loro in modo bizzarro, che quando erano libere dal foulard si allargavano come le foglioline appuntite di una pannocchia. La sua vita era snella come il gambo di un giglio, la pelle candida e le labbra turgide simili ai petali di una rosa sbocciata tra la neve. A differenza della madre aveva occhi di zaffiro, il colore della tristezza. Le sue palpebre sembravano cosparse di polvere azzurrina e, quando le abbassava, era come se due farfalle Lycaenidae blu le si fossero posate sugli occhi. Era tardo pomeriggio, nel mese di juyn. La carlin era appena tornata a casa dopo quattro giorni trascorsi nella parte occidentale dell'Acquitrino, dove aveva curato un malato. Ora sedeva al tavolo tenendo tra le mani una piccola tazza di tè alle erbe; ogni tanto ne beveva un sorso. Lilith stava schiacciando i bulbi secchi delle iris in un vecchio mortaio. Accanto a sé
aveva una scodella di tuberi di giunco, che attendevano di essere pelati e fatti arrosto. L'odore delle iris gialle, che lei prelevava da un vaso, riempiva l'aria. Un piccolo e peloso upial di palude si affilava le unghie su una gamba del tavolo, già tutta graffiata e spelacchiata dalle sue attenzioni. Non c'era molto su cui l'upial non lasciasse il segno, a parte la corazza in scaglie di pesce. «... ed è stato proprio un peccato che tu non fossi qui, per la vigilia di Mezza Estate», stava dicendo Lilith. «Oh, sapessi quante vigilie di Mezza Estate ho visto», ribatté la vecchia. «Dopo sessantacinque anni qui nell'Acquitrino, non c'è più niente di nuovo per me.» Lilith sorrise. «Be', il pomeriggio della vigilia io stavo spingendo il punt a fondo piatto lungo il corso del Cattail. Ero quasi arrivata al cruinniú, quando ho sentito un gran strepitare proveniente da quella parte.» «Molto strano», commentò Eolacha. «Qualcuno si era fatto male?» «Ho pensato di accertarmene, così ho attraccato e sono saltata giù, sul sentiero delle orchidee. Non immagineresti mai cos'ho visto una volta giunta al cruinniú.» «Che cosa? Cos'hai visto?» Oltre l'orlo della tazza di legno, i brillanti occhi di Eolacha guardarono la nipote con divertito interesse. «Sei giovani stavano correndo sui pontoni all'inseguimento di una palla e se la lanciavano a calci l'uno con l'altro. Alcune ragazze assistevano al gioco dalla riva e non sapevano se ridere o guardarli a occhi spalancati, perché, tra tutti quanti, quei giovani non avevano addosso neppure uno straccio d'indumento!» Lilith stava ridendo. «Per i Fati! Chi erano quei furfanti sfacciati?» Eolacha si concesse un sorriso dietro la tazza. «Nessuno lo sa, perché i giocatori si erano dipinti la faccia ed erano irriconoscibili. In vita mia non avevo mai visto una cosa più buffa! Ti giuro che Cuiva ha rischiato di cadere in acqua, tanto si stava scompisciando dalle risate. Poi sono arrivate le guardie e i ragazzi sono scappati.» Eolacha depose la tazza sul tavolo e cedette all'ilarità. «Potrei scommettere che un certo giovanotto a noi ben noto ha preso parte a quella bravata.» «Ma c'è dell'altro», disse Lilith, con uno scintillio negli occhi azzurri. «Più tardi, quella notte, dopo che le feste erano finite e con la luna alta nel cielo, quelli hanno ripetuto l'impresa... con grande indignazione degli anziani e naturalmente anche delle guardie, che non sono riuscite a ricono-
scerli né ad agguantarli. Oh, è stato uno spettacolo davvero straordinario!» Si asciugò gli occhi. La comicità della cosa l'aveva fatta piangere. A quel punto Eolacha cominciò a raccontare le cose decisamente meno straordinarie accadute negli ultimi giorni nelle zone più a occidente. Parlarono dei preparativi per l'annuale Cattura dei Cigni, in programma per il diciannovesimo giorno di jule, e si chiesero se il nuovo cignaio del re si sarebbe rivelato taciturno e acido come il precedente. Poi, per un poco, le due rimasero in silenzio. Fuori della finestra spalancata, stormi di volatili passavano come vele scure attraverso il cielo. I loro richiami, trasportati dal vento, parevano una musica selvaggia; le strida dei passeri, il cee-ee-ee dei paperi, il sonoro orc degli aironi in volo, il nero e secco tubare cu-ur delle tortore e il ripetitivo he-he he-he dei corvi. «Papero», mormorò la ragazza, alzando lo sguardo dietro gli stormi. «Papero, papero, papero.» «Che stai dicendo?» chiese distrattamente Eolacha. «Papero», ripeté Lilith. «È una delle parole che suonano buffe, non ti pare? Come 'carote' e 'blob'.» Il sorriso di Eolacha si allargò. «E 'tacchino'», continuò la ragazza. «E 'gallina' e 'puzzola'.» «Cos'hanno di tanto divertente?» «Ripetile più volte e lo scoprirai.» «Tacchino, tacchino, tacchino», disse Eolacha. «Al diavolo, ragazza, mi stai facendo borbottare come un'idiota. Se entrasse qualcuno e mi sentisse dire 'papero, papero, papero' o roba del genere, penserebbe che ne ho bevuto uno di troppo.» Di nuovo risero assieme. «Non riesco a immaginare da dove tiri fuori queste idee», disse Eolacha, scuotendo il capo con enfasi. Aveva finito di bere, così prese un coltello e iniziò ad affettare i teneri bulbi di giunco per farli in insalata. Mentre lavorava, mugugnava una canzoncina. «Eolacha, dov'è mia madre?» le domandò d'un tratto la ragazza, ripulendo il pestello sul bordo interno del mortaio. «L'ho vista che andava verso la Cresta del Sauro.» Il loro umore cambiò. Le due donne si scambiarono uno sguardo. Con un nodo in gola, Lilith smise di lavorare. «Credo che in questi anni l'abbia tormentata una segreta preoccupazione», mormorò Eolacha. «Negli ultimi mesi più di prima.» «Cos'è che avvelena i suoi sogni?» sussurrò Lilith. «Che sia...?»
In quel momento dall'Acquitrino provenne uno strano guaito, sottile e doloroso come lo spezzarsi di un osso. Faceva pensare al grido disperato di una creatura sperduta, triste fino al tremulo centro del suo essere. Benché avesse un tono animalesco, non era il verso di un uccello acquatico, né l'urlo di un avvisatore di tempesta o di qualche altro wight: era stato emesso da una gola umana. Doloroso al punto di dare i brividi, vibrò debolmente nell'aria fuori, quindi si spezzò. Eolacha si era voltata nella direzione del suono. «Devo andare da lui, a muirnìn. Tu resta qui ad aspettare che tua madre rincasi.» La carlin prese un sacchetto di erba in polvere e uscì, attraversando il ponte e le passerelle che conducevano alla vecchia baracca sul confine dell'Acquitrino. Là abitava il padre della madre di Lilith, perso nella sua follia privata, fisicamente torturato dal suo torturato spirito. Mentre andava da lui, Eolacha fu colta da un pensiero: che ci fosse un nesso tra la follia del vecchio e ciò che avvelenava l'anima di sua figlia? Il sole si stava dissolvendo all'orizzonte in una nebbia vermiglia. Adornata da una coroncina di fiori selvatici, la madre di Lilith scese lungo il versante della Cresta del Sauro, calpestando l'erba a piedi scalzi. L'aria si era già riempita di ombre quando giunse al bordo dell'Acquitrino, ma i suoi piedi conoscevano la strada, anche se gli occhi non avrebbero saputo distinguerla in quel crepuscolo. Si avviò verso la casa del suo secondo marito, Earnàn, passando su strette passerelle verdi chiuse tra prati di candide margherite d'acqua e felci a spina di pesce dai lunghi steli tremanti. Camminava in fretta e senza inciampare, perché conosceva quel percorso altrettanto bene della propria faccia. Anche con gli occhi bendati avrebbe potuto procedere con sicurezza. Girò alla larga dal canneto dello Stagno dell'Annegatrice, tristemente famoso per la maligna entità che abitava tra le alghe del fondale, e ciò la costrinse ad allungare alquanto la strada. L'annegatrice dello stagno non si faceva vedere da anni, tuttavia l'autunno precedente un ragazzo dell'Acquitrino era scomparso proprio in quella zona e non c'era madre che non raccomandasse ai figli di starne lontani. La bizzarra luce di un fuoco fatuo danzava tra i giunchi e, lontano sulla sua destra, ci fu un rintocco metallico. Era il campanaccio appeso al collo della capra-guida che stava riportando il resto del gregge al sicuro. Ogni sera le capre-guida facevano ritorno dai pascoli della terraferma con le altre, per pernottare sui pontoni coperti fuori della portata dei Predatori.
Le greggi erano importanti per la sopravvivenza degli abitanti dell'Acquitrino. Fornivano sterco per i focolari, morbida lana da tessere, latte e formaggio. Quando diventavano vecchie e artritiche venivano macellate per la carne; il loro grasso era ottimo per fare candele e lubrificante antiruggine; dagli zoccoli bolliti si ricavava la colla, dalle ossa aghi e pettini e altri utensili. Le corna tagliate diventavano boccali, fibbie e bottoni. Le capre dovevano essere tenute lontane dai pericoli della notte. Quando la madre di Lilith arrivò a casa, vide che stavano sopraggiungendo anche Earnàn Mosswell e suo figlio Eoin, a bordo del punt, con le ceste di anguille pescate quel giorno. Earnàn stava a poppa e manovrava il palo, spingendo l'imbarcazione verso il suo ormeggio allo staithe, come veniva chiamato il pontile. Era un uomo di statura media e corporatura massiccia, vestito con la tunica larga e il grembiule impermeabile dei pescatori, e aveva i piedi scalzi sporchi di fango fino ai polpacci. La barba e i capelli corti erano castani, appena sfumati di grigio. Una pallida cicatrice gli segnava il sopracciglio sinistro, dove una volta era stato colpito da un arpione. Il giovane Eoin attese sulla murata che la distanza tra la barca e lo staithe gli consentisse di saltare a terra. Era un ragazzo dal volto cavallino, con occhi grandi, guance rubizze e mento pronunciato. Quei lineamenti non gli permettevano di essere definito attraente, ma il suo sguardo era vivace e arguto. Padre e figlio avevano già pulito il pesce e non avrebbero atteso molto prima di appenderlo ai ganci nell'affumicatoio dietro la casa. Salutarono Liadàn, che rispose sorridendo. Lilith era ancora in casa, occupata nei preparativi della cena, e nel sentir entrare sua madre si voltò subito, scrutandola con ansia. «Dov'è Eolacha?» domandò lei, evitando il suo sguardo. «È andata dal nonno. Gli ha portato una pozione calmante, cercherà di fargli prendere sonno.» «Che sia benedetta. Questo è un compito che toccherebbe a me. Lei non è neppure sua parente.» I fiori bianchi che la madre di Lilith aveva tra i capelli caddero al suolo. L'upial cominciò ad annusarli e a gettarli qui e là per la stanza con le sue zampe vellutate. Tra di essi c'era anche qualche cardo. «Madre!» esclamò Lilith. «Sei andata a raccogliere fiori di cardo?» Prese le mani della donna. «Hai le dita arrossate e graffiate. Ti preparerò un balsamo disinfettante. Devi pulire queste escoriazioni.»
Liadàn sedette presso la finestra e umettò le dita nella ciotola di acqua e sale. All'esterno, Earnàn ed Eoin stavano ormeggiando il punt allo staithe. La donna si limitò a guardarli senza il minimo interesse; non si offrì di aiutare la figlia nelle faccende domestiche e alla ragazza non parve in vena di ridere o di parlare. Negli ultimi tempi quell'umore distaccato e malinconico l'aveva colta sempre più spesso. «Madre, cosa ti preoccupa?» le domandò Lilith, esitante, timorosa della risposta. La donna si voltò a guardarla con occhi turchese che sembravano ciechi. Dopo un momento prese fiato come se volesse parlare, ma prima che potesse farlo suo marito e il figliastro entrarono chiacchierando, e d'un tratto la casa, riempita dai movimenti e dai corpi degli uomini, sembrò troppo piccola per contenerli tutti. «Buonasera a te, sorella», esclamò Eoin, prendendo allegramente Lilith per la vita, e la baciò. Lei lo spinse via. «Ehi, un fratello non può neppure abbracciare sua sorella?» protestò lui, offeso. «Non quando lei ha in mano qualcosa da spaccargli sulla testa», replicò Lilith, agitando il grosso mestolo di legno. In realtà era consapevole del desiderio del ragazzo, che si stava facendo troppo ardente per i suoi gusti. Tuttavia esitava a respingerlo con decisione. Lei e la madre dipendevano da Eoin e da suo padre per il vitto e l'alloggio. Alla morte del padre di Lilith, erano rimaste senza nessun mezzo di sostentamento. Earnàn era buono e generoso; lei sapeva che nutriva per sua madre un affetto sincero. E la madre di Earnàn, Eolacha, era una fonte di saggezza e di conforto. Per amore di quei tre, Lilith tollerava le indesiderate attenzioni di Eoin e riusciva a scherzarci sopra. Non che Eoin avesse un brutto carattere, ma in certe cose era poco percettivo e sensibile. Earnàn salutò a sua volta Lilith, poi si chinò a baciare sua moglie. «Che tu sia benedetta, mia Liadàn», mormorò. Quella sera aveva la faccia stanca. Si girò a cercare la madre con lo sguardo. L'atteggiamento di Liadàn si era ravvivato all'ingresso del marito. Alzò una mano sottile a indicargli fuori della finestra. «Eolacha è là che sta arrivando. E con lei c'è la giovane Cuiva. Quella ragazza sta tutto il giorno appiccicata a tua madre. Ha intenzione di diventare una carlin, se non sbaglio.» Cuiva Featherfern Stillwater, la figlia del comandante dell'Acquitrino, era amica di Lilith e fervida ammiratrice di Eolacha. Non nascondeva il suo interesse per le conoscenze che la carlin talvolta condivideva con chi provava interesse per il suo lavoro. Rapida di mente e di gesti, aveva un
volto a forma di cuore incorniciato da una massa di riccioli color del miele scuro, occhi d'ambra, ciglia e sopracciglia castane che si tingeva di nero e guance spolverate di rosa. Quel giorno indossava un vestito di lana tinto in varie gradazioni di verde, come la brughiera, e sopra una mantellina verde chiaro. Sui capelli portava un foulard in lana d'angora. Cuiva era ospite frequente e benvenuta nella casa di Earnàn Mosswell. Di solito portava qualcosa da mangiare o da bere, che divideva con loro. Quella sera aveva infilato al braccio un cestello con del formaggio di capra, una piccola anfora di vino di more e una pagnotta. «Ho invitato Cuiva a cena da noi», annunciò Eolacha entrando. La ragazza fu accolta con grande cordialità e iniziò subito ad aiutare Lilith ad apparecchiare la tavola. Mentre gli uomini portavano il pesce nell'affumicatoio, Liadàn prese da parte Eolacha. «Come sta mio padre?» le domandò corrugando la fronte, preoccupata. «Non bene», rispose la carlin con serietà. «Non sta affatto bene. Temo che la follia lo mangerà vivo. Mugola frasi come 'Ora si sta avvicinando tanto che potrebbe allungarsi a toccarlo a ogni...'» «Lo stufato sta bollendo troppo!» esclamò Eoin dalla porta posteriore. Liadàn corse a togliere la pentola dal fuoco. Nello stufato di anguille scoppiettavano grosse bolle. «Venite, la tavola è pronta», annunciò Lilith, pulendosi le mani nel grembiule. «Tutti a cena.» Al termine del pasto i commensali spostarono le sedie e gli sgabelli più vicino al caminetto. Earnàn si appoggiò allo schienale e cominciò a scolpire un osso, mentre accanto a lui Liadàn rammendava una giubba scucita. La luce del fuoco gettava ombre morbide sui loro volti e vivaci barbagli dai boccali di vino di more. L'upial faceva le fusa sul tappeto. Con fare cordiale, Eoin si stava apprestando a conversare con le due donne più giovani, Lilith e Cuiva, quando Eolacha notò una serie di graffi freschi su un braccio del nipote. «Sembra che oggi un'anguilla abbia cercato di pescare te, Eoin», osservò. «Non è niente, a seanmhàtair.» Il ragazzo si tirò subito giù la manica per coprire i tagli. «È una cosa seria, invece. Sai bene che le spine di quei pesci possono essere velenose. Lascia che ti disinfetti.» Le proteste di Eoin furono vane. La nonna gli fece arrotolare la manica e lavò e fasciò la ferita. «Siediti vicino a me, Lilith», disse Cuiva, vedendo che gli altri erano oc-
cupati. «Parliamo un poco. Perché non mi canti qualcosa?» «Mi piacerebbe averne il tempo», rispose lei. In piedi, con le mani sui fianchi, stava guardando le stoviglie sporche sul tavolo. «Ma prima c'è del lavoro da fare. Se non lavo i piatti stasera, domattina li troverò coperti d'incrostazioni dure come la pietra.» «Lascia che ci pensi l'urisk di casa vostra», la esortò Cuiva, in tono leggero. «È ora che cominci a rendersi utile.» Lilith rise, scettica. «È più facile vedere la luna scendere dal cielo che quel wight alzare una pagliuzza in questa casa. E poi è un pezzo che non lo vedo, la notte. Dubito persino che sia ancora con noi.» «Allora ti aiuto io», si offrì volonterosamente Cuiva, balzando in piedi. «Vieni, diamoci da fare con la sabbia e col sapone. In due finiremo in un batter d'occhio.» Quella notte, dopo che Eoin ebbe accompagnato Cuiva a casa e che la famiglia di Earnàn fu andata a letto, Lilith rimase tesa e con gli occhi aperti a chiedersi se si sarebbero udite altre grida dalla baracca dove il nonno viveva con la sola compagnia dei propri incubi. Nessuno poteva trascorrere la notte assieme al vecchio Connick: la sua demenza lo rendeva lunatico, pericoloso e imprevedibile, inoltre era pressoché inutile cercare di comunicare con lui. Non permetteva a nessun altro di abitare in quella sua catapecchia. Tutto ciò che si poteva fare era portargli cibo e indumenti puliti e sperare che conservasse abbastanza consapevolezza della realtà da non affogare nella palude. Alle orecchie di Lilith giungevano i lievi rumori dell'Acquitrino: i gracidii delle rane piccole e grandi, il sussurro del vento tra il fogliame, le improvvise strida delle creature notturne. La nebbia che si alzava dalle marcite si condensava sulle foglie e tornava a piovere nell'acqua in goccioline tintinnanti come schegge di vetro. La minuscola stanza da letto che lei divideva con Eolacha si trovava nella parte di casa Mosswell costruita sul lago. Lilith poteva sentire la corrente che gorgogliava sotto il pavimento, trascinando via con sé i suoi segreti. Il respiro della vecchia era ritmico e appena udibile. Fuori della finestrella, Lilith vedeva il profilo nero dei cipressi stagliati sul cielo notturno spolverato di stelle. Tra i rami pendeva un terzetto di lanterne-spettro in miniatura. Guardando il firmamento, la ragazza ripensò a ciò che le aveva detto Eolacha sulla vastità di quello spazio pieno d'innumerevoli luci, che la carlin chiamava Uile. Alcune, a sentir lei, erano mondi come Tir, e le aveva detto il nome di due di esse: Eco e Aia. Quelle
misteriose conoscenze erano giunte a Eolacha grazie all'immortale Strega Invernale. Lilith sussultò: qualcosa di piccolo e veloce aveva attraversato il pavimento della stanza per balzare fuori della finestra; ma era soltanto l'upial di palude che andava a caccia d'insetti. Una zaffata di odore di uova marce entrò in casa quando il barcone della spazzatura passò lì davanti per vuotare i secchi dei rifiuti. Le chiome dei papiri mormoravano nella lieve brezza. Le canne si urtavano con un rumore d'ossa. Quasi fuori portata di udito, risuonò quello che a Lilith parve un gemito. Si domandò se la follia del nonno si stesse impadronendo anche di sua madre. Possibile che fosse così? Sua madre sarebbe stata preda della stessa degenerazione mentale del vecchio, scivolando in un mondo di terrore e allucinazioni? Quel pensiero era insopportabile. E, se la stessa follia avesse contagiato i due soli parenti che le restavano, ciò poteva celare qualche mostruosa verità? Pochi giorni dopo, mentre il sole pomeridiano si nascondeva dietro un banco di nuvole, un gruppo di viaggiatori giunse al limite meridionale dell'Acquitrino. Là, di fronte all'ultimo lembo di terraferma, una massiccia torre di guardia di pietra grigia si levava dalle acque nere del lago. La si poteva raggiungere solo tramite un ponte levatoio. Dall'altra parte della torre, un secondo ponte levatoio conduceva all'inizio del sentiero che si addentrava nell'Acquitrino. I viaggiatori fermarono i cavalli sulla riva del canale, dove le acque lambivano i sassi coperti di muschio e felci. «Ehilà, guardie dell'Acquitrino!» chiamò Tsafrir. «Veniamo in pace. Volete accordarci il permesso di proseguire e di cercare un rifugio per la notte?» Due cani cominciarono ad abbaiare. Alle strette finestre della torre si affacciarono due o tre uomini; le loro espressioni erano sospettose e ostili. «Uno di noi ha bisogno di un medico», spiegò Tsafrir. «Possiamo pagare per l'ospitalità. Noi non chiediamo la carità.» «Sarà meglio per voi, perché qui non riceverete la carità di nessuno», grugnì una delle guardie. «Noi siamo gente povera, qui nell'Acquitrino. Non abbiamo niente che valga la pena di rubare.» «Non siamo briganti», affermò con calore Jarred. «Anche se dei bastardi che invece lo sono ci hanno assalito, sul confine della vostra terra.» «Ah, sì?» disse la guardia con interesse.
«Sicuro, e abbiamo dovuto mozzare il capo a qualcuno di loro prima che imparassero a portarci più rispetto.» «Sembra che abbiate una storia da raccontare», commentò la guardia. «Da dove avete detto che venite?» «Da sud-ovest. Dal regno di Ashqalêth.» «Allora venite da lontano. Entrate. Vi condurremo a un alloggio e potrete raccontarci di Ashqalêth e dei vostri viaggi.» Il primo ponte levatoio fu abbassato e due guardie in tunica grigia e pantaloni, pesantemente armate, andarono incontro ai viaggiatori. Alle loro calcagna trottavano due cani da guardia, neri e robusti. Sulla torre un altro paio di uomini teneva d'occhio i nuovi venuti, con le frecce incoccate. «Io sono Tsafrir, figlio di Tsadik», disse il fratello di Nasim, smontando. «E questi sono i miei compagni.» «Il mio nome è Neasàn Longboat Willowfoil», disse la più alta delle due guardie, «e sono il capitano delle guardie. Sarà meglio che voi sappiate subito, figlio di Tsadik, che nell'Acquitrino non c'è niente da mangiare per i vostri cavalli. Le sole bestie che facciamo pascolare sono le nostre capre. Gli stranieri non hanno diritto di pascolo.» «Nelle borse da sella abbiamo razioni di foraggio per i cavalli», lo rassicurò Tsafrir. «Le portiamo per nutrirli nei territori desertici.» «L'Acquitrino non è desertico», replicò l'altro con voce fredda. «Se il pascolo non fa parte dell'ospitalità che noi offriamo, sono affari nostri.» «E quanto ci chiederete per la vostra ospitalità, capitano?» volle sapere Tsafrir, frenando il cavallo per le briglie, così come stava tenendo sotto controllo il suo temperamento. «Lo domando perché noi non accettiamo transazioni senza saperne il costo.» «Non ci sono costi», replicò Willowfoil. «Non è usanza dell'Acquitrino chiedere un pagamento per ciò che può essere dato gratis. È nostra tradizione mostrarci accoglienti con gli stranieri cui lasciamo oltrepassare il confine.» Tsafrir s'inchinò. «La generosità della gente dell'Acquitrino è molto apprezzata», dichiarò educatamente. «Gramercie», disse Willowfoil, restituendo l'inchino. «Entrate... quando attraverserete il nostro territorio dovrete restare in gruppo, ma prima è necessario che lasciate le lame e gli archi in nostra custodia. Non temete, vi saranno restituiti alla vostra partenza.» Esitanti e accigliati, i viaggiatori si tolsero le armi di dosso. «Io mi sento nudo senza la mia scimitarra», brontolò Yaadosh, seguendo
con lo sguardo la guardia che portava i loro oggetti nella torre. «Queste sono armi costose», continuò, a voce alta. «Quando chiederemo che ci siano restituite, sarà meglio che non ci raccontiate di averle perse, altrimenti vi aprirò la gola con le mie mani...» Allarmati dal tono dello straniero, i cani delle guardie scoprirono i denti e ringhiarono. «Tranquillo, mio caro Yaadosh», intervenne Jarred, con un gesto conciliante. Neasàn Willowfoil, gli occhi fiammeggianti, aveva subito portato una mano all'elsa della spada. «Non vogliamo metterci in lite coi nostri ospiti», continuò il ragazzo, rivolto all'amico. «Si dice che quelli dell'Acquitrino siano uomini d'onore.» Si rivolse alla guardia e aggiunse: «Abbiamo la vostra parola che le armi ci saranno restituite?» «L'avete.» Willowfoil annuì seccamente e lasciò l'elsa della spada, pur mantenendo un atteggiamento cauto. «Questa promessa è sufficiente per me.» Jarred inarcò un sopracciglio verso Yaadosh, con aria interrogativa. «Anche per me», borbottò questi. Coi cavalli a mano, i viaggiatori furono scortati sul ponte, attraverso il pianterreno della torre di guardia e di lì sul secondo ponte, che portava a un'isoletta. Un sentiero pavimentato con ciottoli di fiume piatti tagliava i cespugli e proseguiva in un bosco di querce che alzavano ampie chiome di foglie grigio-verdi. Willowfoil li precedette con uno dei cani, mentre un suo collega di nome Frognewton rimaneva in retroguardia. Quei sentieri potevano essere percorsi solo da chi li conosceva bene, da gente i cui occhi erano addestrati a scorgere i pericoli e le insidie dell'Acquitrino. A un forestiero un verde terreno erboso sarebbe potuto apparire abbastanza solido da sostenere il suo peso, ma spesso si trattava solo di un tappeto galleggiante sotto cui si celavano polle profonde o sabbie mobili. In fila indiana, i giovani si addentrarono nell'Acquitrino passando da un'isoletta all'altra, da un pontone all'altro. Il sentiero che seguivano era così contorto, così chiuso tra pareti di fronde lussureggianti o tra stagni e canali all'apparenza identici, che ben presto smarrirono il senso dell'orientamento. Non avevano più nessuna idea di dove stessero andando. Senza una guida sarebbero stati perduti; ed era proprio quello che, da molte generazioni, rendeva l'Acquitrino un rifugio sicuro per i suoi abitanti. A ogni svolta i viaggiatori si trovavano dinanzi uno spettacolo inatteso: lunghe strisce d'acqua orlate dal riflesso dei salici piangenti e dei cipressi di palude; prati acquatici dove fiorivano le coppereali, simili a boccali fatati d'oro zecchino; oscuri recessi in cui facevano bella mostra di sé i meda-
glioni verde pisello delle ninfee; polle silenti cinte da ontani neri e fitte giuncaie; paludi brulicanti di rospi che saltellavano tra felci sottili come i capelli di una fanciulla e si chiamavano tra loro con gracidanti arc-arc, o fischi acuti, o bassi, o rochi. Quindi i viaggiatori iniziarono a scorgere palafitte con tetti di canne rosse. Erano costruzioni che sembravano sospese sulle acque come strani e goffi uccelli di palude dalle zampe sottili. E c'era gente: alcuni spingevano i punt a fondo piatto tra le canne, altri remavano su imbarcazioni lunghe e sottili, fatte di corteccia e pelle di capra, altri ancora portavano carichi di diverso genere lungo sottili passerelle. I cavalli furono sistemati in un recinto per capre vuoto, su una delle isolette più interne. Willowfoil e Frognewton attesero che i loro ospiti dissellassero i quadrupedi, li nutrissero, li abbeverassero e li strigliassero per togliere la crosta di polvere e sudore dai loro mantelli. Yaadosh notò con indignazione l'impazienza degli uomini dell'Acquitrino. «Questi sono animali preziosi...» cominciò a dire, ma Jarred lo zittì con uno sguardo. Tsafrir mormorò in un orecchio di Jarred: «La lingua tagliente di Yaadosh ci metterà nei guai, un giorno o l'altro». Quando fu sceso il tramonto, il mantello di fiamma dispiegato nel cielo a occidente cominciò a spegnersi. Nella penombra azzurra fecero capolino le stelle e silenziosi stormi di idris s'involarono in cerca di luoghi dove appollaiarsi. Tsafrir e i suoi compagni furono condotti a un assembramento di case sulla riva di una laguna, tra i canneti. La notizia dell'arrivo di un gruppo di stranieri li aveva preceduti e nella più grande delle case, la dimora di Maghnus Butterwort Stiliwater, il comandante dell'Acquitrino, li attendeva un pasto caldo. Il ferito fu curato da una carlin, Eolacha, che era stata mandata a chiamare a casa di Mosswell. Il braccio di Nasim fu lavato e ben avvolto in un bendaggio pulito. La ferita non aveva fatto infezione e iniziava già a guarire. Presso la casa un ampio staithe di legno si spingeva nella laguna. A poca distanza dalla riva erano ancorati diversi pontoni, uniti l'uno all'altro; ognuno aveva una balaustra di canne e un leggero tetto di paglia sostenuto da giunchi intrecciati. Gli uomini dell'Acquitrino manovrarono i passaggi galleggianti in modo che gli ospiti potessero passare dalla riva a quelle piattaforme. Il loro insieme, comunemente chiamato cruinniú, era l'equivalente locale della piazza del villaggio: il luogo d'incontro della comunità.
Sulla cima di alti pali sporgenti dall'acqua ardevano torce dalla fiamma rossa come corolle di diafaneidi. Il loro riflesso sembrava ardere nel profondo del lago. Poiché era il Giorno del Sale, quella sera il comandante dell'Acquitrino e le altre famiglie più importanti avevano portato nel cruinniú vassoi coperti pieni di cibarie e giare di bevande. Poiché il Grande Acquitrino di Slievmordhu era evitato dalle principali strade di Tir, i suoi abitanti, sempre poco in contatto col mondo esterno, erano costretti a rivolgersi ai rari visitatori per avere notizie. Si radunò così un certo numero di persone, perché non capitava spesso di ospitare estranei a conoscenza degli avvenimenti accaduti in altri reami. Fu così che i viaggiatori giunti da Ashqalêth si trovarono seduti a gambe incrociate all'interno di un circolo di uomini ben disposti a offrire loro cibo e birra amara, che lì chiamavano succo di palude. I loro stivali ricamati e le tunichette dai colori vivaci contrastavano molto con gli abiti di panno verdi o bruni comuni in quella zona, e li facevano sentire sgargianti come pavoni in mezzo a uno stormo di piccioni. Dapprima gli uomini dell'Acquitrino si tennero sulla difensiva, non sapendo chi avevano davanti, ma poi la birra cominciò a scorrere e l'atmosfera si alleggerì. La cena assunse l'aria di una festicciola. «Cosa vi porta qui dal regno del sud?» domandarono alcuni uomini dell'Acquitrino. «Noi siamo gente del deserto», rispose Tsafrir. «Abbiamo sempre avuto il desiderio di lasciare il nostro villaggio per visitare terre straniere. Vogliamo commerciare, saperne di più sulle terre conosciute di Tir, cercare l'avventura e se possibile fare fortuna. Il nostro progetto è di viaggiare fino a Winterbourne.» L'idea fu approvata dai più giovani abitanti dell'Acquitrino, ma alcuni degli anziani la commentarono tra loro senza nessun favore. Fioccarono le domande sulla terra dei nuovi venuti, poi furono gli ashqalêthani a esprimere interesse per l'Acquitrino, la sua gente e i suoi abitanti non umani. «Se ricordo bene», disse Tsafrir, «il Grande Acquitrino di Slievmordhu è pieno di eldritch wight. E mi sembra che un posto come questo possa attrarne molti, bello com'è e con la sua abbondanza d'acqua. Non mi sbaglio, vero?» Maghnus Stillwater gli rispose con un cenno d'assenso. Il comandante dell'Acquitrino aveva la fronte profondamente corrugata e, intorno alla bocca, rughe dovute all'età, alle preoccupazioni e alle risate. I suoi occhi erano infossati nelle orbite e la barba, un tempo color del malto, era ormai
spolverata dal gelo di molti inverni. Aveva l'aria implacabile di un lago di montagna, freddo e immobile. «Vi prego, parlateci dei wight delle paludi», chiese Jarred. «Diteci dei cavalli d'acqua. Sono davvero infidi e pronti a uccidere come certi racconti vorrebbero far credere?» Gli uomini dell'Acquitrino furono compiaciuti dell'entusiasmo del giovane. «Ce ne sono di molti tipi», rispose un vecchio segaligno dal naso smozzicato che si era presentato come Ottersworth. «Per la maggior parte sono maligni. Tutti loro possono assumere due forme, l'una di cavallo e l'altra di uomo, entrambe attraenti. «I cavalli d'acqua unseelie si mostrano come belle cavalcature, per indurre gli umani a salire in groppa. Quando la vittima è montata, quell'essere parte al galoppo. È allora che il cavaliere scopre di non poter saltare giù: il cavallo d'acqua sa rendere la sua pelle molto appiccicosa. Il cavaliere viene così portato in una palude o in un lago, oppure, come dicono in Grïmnørsland, nel mare salato. Dopo che le acque si sono richiuse sopra la sua testa nessuno lo rivede mai più, anche se talvolta il suo fegato o gli occhi vengono gettati a riva.» «Alcuni cavalli d'acqua», aggiunse Maghnus Stillwater, «sono in parte seelie e in parte unseelie. Sono infidi e giocano brutti scherzi... sono antipatici, ma non pericolosi. Soltanto una specie è completamente seelie: il nygel. Ma i nygel non si sono mai visti nel Grande Acquitrino di Slievmordhu. Come regola generale, guardatevi dai cavalli d'acqua.» «Come li si può riconoscere?» domandò Yaadosh con voce impastata, come se avesse la bocca piena di peli. I suoi occhi erano arrossati: aveva già bevuto un bel po' di birra e continuava a chiedere che gli riempissero il boccale. L'uomo di nome Ottersworth si grattò ciò che restava del naso con fare pensoso. «Non si può vedere la differenza tra un cavallo d'acqua e un cavallo vero. L'unica cosa che si Può fare è non montare mai in groppa a una bestia dall'aria amichevole ma che non avete mai visto. Non mostratevi impauriti e allontanatevi. In quanto alla loro forma umana, tutti conoscono la regola: ogni wight in forma umana è sempre segnato da qualche difetto che lo fa scoprire per quello che è, se uno lo guarda bene da vicino... uno zoccolo, magari, o la coda, o le orecchie a punta, oppure artigli al posto delle unghie.» «Inoltre», aggiunse Frognewton, la cui faccia volpina era arrossata dalle torce, «potrete vedere le foglie di efedra e le alghe appiccicate alla criniera
dei cavalli d'acqua, che restano tra i capelli quando essi prendono forma umana.» Un giovane, che fino ad allora era rimasto in silenzio, disse ai viaggiatori: «Nell'Acquitrino abbiamo cavalli d'acqua, ma ci sono anche dei gruagach». «Questi nomi non ci suonano familiari», disse Yaadosh con aria un po' confusa, rischiando di rovesciare il boccale mentre si protendeva verso l'ultimo dolce al miele rimasto su un vassoio. «Mmm... sa di pollo», commentò. Gli uomini dell'Acquitrino lo guardarono di traverso. Michaiah alzò gli occhi al cielo. «Mio cugino dice sempre così», si scusò con un sorrisetto. «Ma cosa mi dite di questi gruagach?» domandò Jarred, asciugandosi la tunica dalla birra rovesciata da Yaadosh. «Che cosa sono?» «I gruagach sono seelie; sono dei guardiani di capre», rispose un individuo robusto di nome Fishbourne, seduto alla sinistra di Stillwater. «I loro maschi sono di due tipi: alcuni hanno l'aspetto di giovani snelli e attraenti, vestiti di rosso e verde, ma la maggior parte sono nudi e brutti, di bassa statura, con spalle larghe e braccia nerborute. Le loro femmine vestono di verde, hanno capelli dorati e talvolta sono belle, talaltra pallide e spettrali. Vivono nelle paludi e nei ruscelli e non possono asciugarsi mai. Dal volto e dal corpo grondano acqua che forma pozzanghere dove si fermano. Io lo so perché una notte, l'estate scorsa, mentre mi occupavo delle capre su Isola Boscosa, alcuni di loro mi hanno chiesto di scaldarsi presso il fuoco. Non possono asciugarsi, ma sembra che loro non lo sappiano. I wight sono strane creature.» «Come fate a vivere tra questi esseri stregati?» domandò Yaadosh con voce sempre più impastata, rigirandosi il boccale tra le grosse mani. «Noi non viviamo in mezzo agli esseri unseelie. Anzi evitiamo i luoghi in cui abitano», rispose il comandante Stillwater. Nei suoi occhi danzavano ombre profonde. «In quanto ai seelie, li vediamo abbastanza di rado, perché si tengono alla larga dagli esseri umani.» «Gli amuleti sopra le vostre porte...» Il comandante dell'Acquitrino annuì ancora. «Quelli danno una certa protezione. E, come tutti gli esseri umani sani di mente, portiamo dei talismani.» «Talismani!» esclamò Yaadosh. «C'è uno di noi che ha un amuleto come il mondo non ne ha mai visto uno!»
Stillwater inarcò le sopracciglia. «Cosa volete dire, amico mio?» Yaadosh si piegò in avanti con fare cospiratorio, investendo chi gli stava accanto con l'alito che sapeva di birra e di aglio. Dal suo atteggiamento tutti si aspettavano che parlasse a bassa voce, ma lui gridò all'improvviso: «Ah!» I presenti sussultarono. «Quando si avvicina un pericolo, il mio giovane amico Jarred ha questa fortuna. Soltanto sette giorni fa è stato stritolato davanti ai nostri occhi, ma è ancora vivo! E questo grazie a...» Nasim proruppe in un gemito; tutti si voltarono, stupiti. «Ah, questa ferita mi fa male», spiegò lui con voce lamentosa. Protese il boccale. «Per favore, datemi ancora da bere. Solo la vostra birra può lenire il dolore.» Mentre Ottersworth gli riempiva il boccale, Jarred rivolse un cenno quasi impercettibile a Nasim. Quest'ultimo glielo restituì, con discrezione. Soltanto un estraneo notò quello scambio: Eoin Mosswell. Il ragazzo gettò uno sguardo alla catenina al collo di Jarred e alzò un sopracciglio, ma non fece commenti. «Yaadosh stava parlando dell'imboscata dei Predatori», disse Tsafrir in tono discorsivo, quindi iniziò a raccontare del loro sgradevole incontro al confine di Slievmordhu, omettendo solo il modo miracoloso in cui era sopravvissuto Jarred. «Ne avete uccisi due», disse Stillwater, «e senza perdere nessuno dei vostri. Ben fatto. Eravate superiori di numero?» «Eravamo quanti loro, uno contro uno», rispose Nasim. «Ma quelli avevano più esperienza di noi», farfugliò Yaadosh. «Se non fosse stato per l'attacco di Jarred...» «Dalle nostre parti i giovani vengono addestrati a difendersi», lo interruppe Nasim. «L'addestramento vi ha mantenuto in buona forma», rispose il comandante dell'Acquitrino, «e senza dubbio continuerà a esservi utile mentre viaggiate in terre dove non c'è legge. I Predatori sono ovunque. Re Maolmórdha ha mandato truppe da Rua per pattugliare il confine orientale, ma sono troppo scarse per mettere freno alle razzie. Sembra che i consiglieri del re giudichino uno spreco di manodopera mandarne altre.» Yaadosh aveva ormai bevuto troppo per ricordare di cosa stesse parlando poco prima, però non abbastanza da avere la lingua legata. Alla fine trovò sufficiente lucidità per esclamare: «Questi druidi! Tutti sanno benissimo che ingrassano coi nostri sol...»
Jarred balzò in piedi, facendo ondeggiare il pontone con l'improvviso cambiamento nella distribuzione del peso. Sembrò perdere l'equilibrio e cadde addosso a Yaadosh, facendolo precipitare fuori bordo attraverso un varco nella balaustra. Il cruinniú rullò e beccheggiò con violenza. Jarred e Tsafrir corsero sul bordo, si sporsero ad afferrare Yaadosh e lo trassero di nuovo all'asciutto con l'aiuto di alcuni uomini. Lui restò disteso con un'espressione stordita, grondando rivoli d'acqua dagli abiti. Poi sputò una boccata di fango e mugolò: «Cos'è successo?» «È colpa mia», si scusò allegramente Jarred. «Quel succo di palude è più forte di quello che credevo. Devo averne bevuto un boccale di troppo e ti sono caduto addosso, amico mio, anche se mi sarebbe stato difficile mancare un grosso bue come te.» Yaadosh sbatté le palpebre e si tirò a sedere. I suoi capelli, appiccicati alla testa, erano pieni di erbe lacustri. Dietro le sue spalle alcuni uomini del posto stavano ridendo sotto i baffi. «In casa mia ci sono abiti asciutti a tua disposizione», offrì cortesemente Stillwater, reprimendo un sorriso. Inconsapevole dell'ilarità generale, Yaadosh declinò l'offerta con un gesto. «Gramercie, comandante Stillwater, ma la notte non è fredda e la vostra buona birra mi scalda le budella. Preferisco restare qui in piacevole compagnia.» Raccolse il suo boccale e si guardò intorno in cerca di una giara. Jarred glielo riempì di nuovo. Nel frattempo notò che Tsafrir si chinava con un sorriso a mormorare qualcosa in un orecchio di Yaadosh. Dopo quell'episodio il ragazzo non disse più una parola per il resto della serata. Toccò poi agli uomini dell'Acquitrino narrare ciò che sapevano dei Predatori, e furono raccontati aneddoti piuttosto truci. «Si direbbe che non siano esseri umani, questi Predatori», borbottò Tsafrir, lanciando un'occhiata al braccio ferito del fratello. «Sì, lo sono», disse Stillwater. Abbassò la voce. «Si dice che il male impregni la terra delle montagne a oriente di Slievmordhu, dove costoro abitano e da dove scendono per razziare le pianure. Alcuni sostengono che trapeli dal suolo come un fumo nero, impregnando le ossa di quelle tribù.» Tsafrir annuì. «Anche dalle nostre parti si dice la stessa cosa.» L'atmosfera del raduno si era fatta pesante. Per alleggerirla, Michaiah si alzò e cominciò a eseguire alcuni dei suoi giochi di prestigio. Era esperto e svelto di mano; ben presto il suo spettacolo attirò una folla di uomini, don-
ne e bambini da tutto il cruinniú. Ciò diede modo alle donne di osservare gli stranieri da vicino e non poche si mostrarono attratte in particolare dalle spalle atletiche e dai lucenti occhi scuri di Jarred. Il vasto pontone si era alquanto abbassato sull'acqua mentre Michaiah il più vivacemente vestito degli ashqalêthani - intratteneva il pubblico con la miracolosa apparizione di monete e foulard, eseguiva stupefacenti giochi di memoria con le carte da gioco, faceva sparire chicchi di grano chiusi in un ditale infilato al dito delle donne o sotto tazze rovesciate e tirava fuori oggetti vari dalle orecchie delle persone, quasi sempre scegliendo le ragazze più attraenti. Tra le risate e gli applausi, Jarred si voltò per dire qualcosa a Tsafrir e restò come paralizzato, mentre le parole gli evaporavano dalla bocca e dalla mente. Tra la folla dei presenti una ragazza lo stava guardando. Tsafrir seguì la direzione dello sguardo di Jarred. Anch'egli fece una pausa, colpito da quel viso, poi si girò e scoppiò a ridere. «Attento alle belle sconosciute, amico mio», mormorò con aria saputa. Jarred non lo sentì neppure. Si alzò e si fece strada fra la gente finché non giunse accanto alla fanciulla. Non aveva ancora distolto lo sguardo da lei. Non sapeva - né gli importava - se c'era qualcosa nel modo in cui quegli occhi lo studiavano, o se fosse uno scherzo del riflesso delle luci sull'acqua, o un effetto della birra, ma trovarsela davanti era come vedere l'alba per un uomo che avesse sempre vissuto nella penombra. La scura cornice dei suoi capelli appena schiariti dal sole faceva risaltare un viso pallido, dai lineamenti raffinati. Gli occhi di lei lo stupirono, saturi com'erano di un'intensa vibrazione azzurra. «Damigella, scusatemi», disse senza fiato, «ho notato che mi stavate guardando e mi sono chiesto... cioè, forse voi avete pensato che ci siamo già incontrati?» Lei fece per parlare, esitò un istante, poi disse: «Non ci siamo mai incontrati». «Allora, per caso, mi avete scambiato con qualcun altro?» «Non ho pensato che foste qualcun altro. Vi prego di perdonarmi se vi ho guardato; mi avrete giudicato scortese.» «Non potrei pensare male di una persona così gentile. Nel nome di tutto ciò che è bello, voi siete la creatura più amabile che io abbia mai visto.» Lei sorrise. Le pulsazioni di Jarred ribollirono come lava. D'un tratto ebbe l'impulso di stringerla fra le braccia, ma si trattenne.
«Posso chiedere qual è il vostro nome?» le domandò. «Lilith.» «Io sono Jarred, figlio di Jovan.» Lo sguardo attento di Tsafrir era su di loro. «Jarred!» chiamò in tono conviviale, rivolgendogli ampi gesti. «Non lasciarci soli! Vieni qui, abbiamo bisogno del tuo consiglio.» Senza nemmeno accorgersi di quei richiami, lui si rivolse ancora alla giovane donna: «Mi sembra che le vostre mani stiano tremando. Avete freddo?» «Oh, no. Anzi ho caldo.» «Anch'io», mormorò lui, avvicinandosi di più. Si sentiva avvampare in viso. Lei non si ritrasse; al contrario, parve piegarsi verso di lui. Stordito dall'assalto dei sensi, il giovane fu incapace di giudicare se l'espressione della fanciulla fosse di disappunto, meraviglia, delizia o paura. Era attanagliato e stordito, incapace di comprendere ciò che succedeva intorno. Le era abbastanza vicino da distinguere ogni dettaglio della sua pelle morbida, delle ciglia, dei petali tentatori della sua bocca. Gli sembrava quasi di avvertire le pulsazioni del suo cuore. «Jarred!» lo chiamò ancora Tsafrir. Lui non si mosse. Ripeté il nome della ragazza, con voce che ne accarezzava ogni sillaba come se fosse un dono, un fine nastro di suono che gli consentiva di legarsi a lei. «Rimarrete qui per qualche tempo?» domandò Lilith. «Io resterei per sempre, se potessi», rispose il giovane, prima di rendersi conto di ciò che le stava dicendo. «Oh», disse lei. Ma in quel momento una mano discese su una spalla di Jarred e accanto a lui comparve Tsafrir. L'amico rivolse un leggero inchino alla ragazza. «Vieni, Jarred», disse. «Non dobbiamo lasciare soli i nostri ospiti.» Lilith si allontanò. Quando Jarred la chiamò per nome fece per girarsi, ma Tsafrir stava già trascinando l'amico in mezzo alla folla e quello sguardo fugace andò perduto. Per il resto della serata il giovane si volse spesso a Lilith senza dare nell'occhio, e notò che lei faceva lo stesso. Tuttavia non riuscì a riprendere la loro conversazione. La sua bocca continuava a pronunciare parole adeguate al momento adatto, le sue gambe lo portavano con obbedienza qui e là, le sue pulsazioni erano tornate normali - a parte qualche sobbalzo -, eppure per lui niente era più come prima. Guardava i volti che aveva intor-
no, ma non li vedeva. Udiva le loro parole, ma non le ascoltava. Una ciocca di capelli gli pendeva su una guancia, ma non se ne accorgeva. Tutta la sua capacità di attenzione era concentrata sulla fanciulla dagli occhi azzurri e ogni sguardo che riusciva a gettarle gli dava un'estasi mai provata. Si sentiva in delirio, senza peso, come se fluttuasse nell'aria sopra la piattaforma di legno. La sua unica speranza era di trovare un'altra occasione per parlarle, per assaporare da vicino quel viso dall'ossatura delicata, quella densa nuvola di capelli color della notte, quella figura flessuosa. Ma la sua speranza si rivelò vana. La serata proseguì tranquillamente finché, all'ora in cui la gente cominciava a disperdersi per rientrare a casa, uno squittio disperato non echeggiò sulle acque. Tutti si voltarono verso la riva, dove un salice dalle radici nodose affondate tra l'erba e il muschio si piegava sul lago. Due occhi gialli come lanterne balenarono tra i rami. «È un maledetto saguaro!» sbottò qualcuno. «Ha preso un uccello, l'egretta piumata che aveva il nido laggiù, credo.» Il predatore scendeva a passi sicuri verso il tronco centrale. Dalle sue fauci pendevano due ali bianco vaniglia spalancate, che sbattevano ancora penosamente. Ci fu ancora uno squittio, debole e agonizzante, poi il silenzio. «Quei dannati felini!» grugnì Fishbourne con rabbia. «Stanno facendo scappare tutti gli uccelli e i piccoli animali da questa zona. Ci rubano il pesce dagli essiccatoi e minacciano persino i bambini piccoli che trovano da soli. E sono astuti. Così astuti che sanno evitare le trappole e sfuggire ai segugi.» Fishbourne non aveva ancora finito di pronunciare quelle accuse inviperite, che una fionda apparve tra le mani di Jarred. Il giovane la caricò con un sasso raccolto da un vaso di fiori e la fece roteare, prendendo la mira. Con un fruscio, troppo rapido per essere visto, il proiettile fendette l'aria della notte sopra la laguna. Uno degli occhi gialli parve spegnersi; il saguaro cadde dal ramo ed entrambi, predatore e preda, sparirono nell'acqua nera. I cerchi non si erano ancora allargati sulla loro liquida tomba quando un altro sasso sfrecciò verso una forma scura che si muoveva su un ramo e un secondo saguaro precipitò rumorosamente, lanciando un guaito. L'animale si trascinò via sull'erba nel tentativo di nascondersi tra i cespugli, ma un terzo sasso glielo impedì, colpendolo alla testa con un tonfo sordo. Gli uomini dell'Acquitrino guardarono Jarred a bocca aperta. «Che mi venga un colpo se quell'albero è a meno di cinquanta passi da
qui!» esclamò Ottersworth. L'uomo stava per congratularsi col giovane per la sua abilità, quando uno sguardo al volto incupito di Neasàn Willowfoil gli fece cambiare idea. Il capitano Willowfoil andò verso Jarred. «Avevate dato la vostra parola di consegnare le armi in nostra custodia. Che uomini d'onore siete, per tenere in tasca un'arma chiaramente mortale, che non potevamo trovare senza perquisirvi?» Jarred lo guardò dritto negli occhi. «Vi suggerisco di non tirare in ballo il nostro onore», replicò con voce piatta. «Ricordate: voi ci avete chiesto le lame e gli archi... soltanto le lame e gli archi. E vi sono stati consegnati.» Con la coda dell'occhio Jarred vide Tsafrir portare automaticamente una mano all'elsa della spada che non aveva più. Gamliel e Michaiah si erano irrigiditi. L'espressione di Willowfoil non mutò. Per un istante Jarred pensò che stesse per colpirlo e si preparò; ma d'un tratto l'altro cambiò atteggiamento, gettò indietro la testa e scoppiò in una risata. «Il meridionale ha ragione! Parola mia, ha detto il vero!» Afferrò Jarred per le spalle, con calore. «Vi prego di scusarmi. Devo ammettere che voi ashqalêthani siete non solo uomini d'onore, ma anche cacciatori dalla mira eccellente!» Dilagò una risata generale. Jarred sorrise, sollevato. «È cosi», disse, «e noi siamo i primi ad ammetterlo.» Cercò gli occhi azzurri di Lilith tra la gente. Quando infine la vide si affrettò a distogliere lo sguardo, perché lei non lo giudicasse uno sciocco. Il cuore gli batteva come un tamburo. «Noto che siete anche modesti», commentò allegramente Stillwater. Si rivolse a uno dei presenti: «Fishbourne, vai a recuperare le carcasse». Con un cenno d'assenso l'uomo si allontanò. Poi il comandante disse: «Mastro Jarred, voi avete colpito in un occhio almeno una delle due bestie. La pelliccia dev'essere rimasta intatta... cosa rara. Ed è morbida e bella. Al mercato spunterà un alto prezzo, specialmente se non è rovinata da una freccia. Questi animali non sono nativi dell'Acquitrino. Sono stati portati qui dalla giungla, molti anni fa, da mercanti di passaggio. Avevano con sé una gabbia con due cuccioli e l'hanno sfasciata. I cuccioli sono fuggiti nell'Acquitrino, dove hanno trovato abbondanza di prede e si sono moltiplicati in fretta. Sono animali astuti; quando vedono uno di loro finire in una trappola, gli altri non cadono più nello stesso tranello. Ora abbiamo esaurito gli espedienti e dobbiamo affidarci solo all'abilità dei cacciatori per limitare il
loro numero. Ma sono schivi, si lasciano vedere di rado e si riproducono in fretta. Questa notte ce ne sono due di meno e ne siamo contenti. Ma ora poniamo fine alla serata. Voi avete viaggiato su una strada difficile e sarete certo stanchi. È l'ora di augurarvi la buonanotte. Venite, potrete dormire in casa mia. Vogliamo condividere un ultimo boccale, prima di andare a letto?» «Voi siete troppo generoso, signore», rispose Tsafrir. «Vi ringrazio per l'offerta dell'ultimo boccale, ma dobbiamo rinunciare al piacere, altrimenti domani avremo un mal di testa così atroce che non riusciremo neppure a montare in sella.» Mentre stavano per lasciare il cruinniú, un altro gemito di dolore echeggiò nella notte. Ma non era come il primo. «Dev'essere qualche altra bestia», disse Tsafrir a Stillwater. Ma aveva un tono dubbioso. «Non è una bestia», rispose il comandante, accigliato. «È un uomo, un innocuo pazzoide che vive ai margini dell'Acquitrino.» Jarred cercò Lilith con lo sguardo, ma se n'era già andata. D'un tratto, la notte fu vuota come una conchiglia. Il mattino dopo una nebbia lanuginosa gravava sull'Acquitrino, intima come un'amante. L'acqua e il cielo si mescolavano in un morbido pallore simile alla luce lunare filtrata da un velo. Sembrava di essere dentro una perla. Era il Giorno del Sole e i viaggiatori lo iniziarono con la famiglia di Maghnus Stillwater. Cuiva, sua figlia, servì loro uova di anatra fritte, insalata di erbe e pane di loto. «Ha lo stesso odore del pollo», grugnì Yaadosh. Sedette con aria sofferente, senza toccare il cibo, e si massaggiò le tempie. Mentre mangiavano, il discorso scivolò sul commercio. I viaggiatori dovevano rinnovare i rifornimenti e sostituire il cavallo perso nell'imboscata. Anche la sella di Jarred era rimasta stritolata sotto il macigno. «Non possiamo fornirvi una cavalcatura», gli disse Stillwater, «e neppure un equipaggiamento da sella. Qui nell'Acquitrino abbiamo pochi animali da soma e ci servono tutti per il lavoro. Inoltre si tratta soltanto di pony di palude, che non potrebbero tenere il passo dei vostri agili cavalli del deserto. Ma, in ogni caso, vediamo cosa avete da offrire.» I viaggiatori avevano portato con sé parecchi articoli da barattare in cambio di cibo e ricovero in caso di necessità: spezie piccanti, frutta secca,
pelli squisitamente ricamate e le strane coloratissime perline che erano la specialità dei vetrai di Jhallavad. Dopo colazione altre famiglie del posto si riunirono intorno alla casa di Stillwater, allo scopo di guardare gli stranieri un'ultima volta. La gente acquistò volentieri le spezie e la frutta, perché i vegetali coltivati nell'Acquitrino erano insipidi. Ammirarono le pelli e le perline, ma non potevano permettersi quei lussi. «Per la fanciulla dalle guance di rosa», disse Michaiah, il prestigiatore dagli abiti variopinti, offrendo un braccialetto di perline a Cuiva Stillwater. Lei trattenne il fiato, rigirando tra le dita il monile che scintillava come una catena di gocce d'acqua. «Cuiva, restituiscilo», disse con fermezza Stillwater. Poi aggiunse, rivolto a Michaiah: «Buon signore, noi non facciamo pagare l'ospitalità. È la nostra usanza». «Non è un pagamento», disse Michaiah, «ma un regalo.» «Posso tenerlo, padre?» supplicò Cuiva. Stillwater ci pensò. Alla fine annuì. «Il dono è accettato. Grazie.» Quando gli affari furono conclusi con soddisfazione di tutti, i viaggiatori si prepararono alla partenza. Jarred prolungò la procedura il più possibile, senza smettere di guardarsi intorno nella speranza di vedere Lilith. Un dolore pressante gli tormentava il petto. Quel mattino gli sembrava che gli uccelli non cantassero, che le foglie degli alberi fossero color polvere e che l'acqua, prima viva e scintillante, ora languisse cupa come il piombo sotto un cielo cadaverico. Nei suoi occhi c'era il ricordo di lei e tutto il resto sfumava sullo sfondo. Sentiva che la sua anima sarebbe morta di fame se avesse lasciato l'Acquitrino senza nutrirla con l'immagine della fanciulla. Fu mentre prendevano commiato dalla famiglia di Stillwater che finalmente scorse l'oggetto dei suoi desideri, appoggiato alla balaustra di un ponte, e il suo cuore fece un balzo, come un pesce fuori dell'acqua. La guardò sorridendo e immaginò che lei gli restituisse il sorriso, pur non potendo esserne certo da quella distanza. Il sangue gli pulsava nelle vene quando si girò per seguire i suoi compagni. Si costrinse ad apparire indifferente e a non voltarsi. Il capitano Willowfoil e un'altra guardia condussero gli ashqalêthani e i loro cavalli in fila lungo i sentieri nascosti tra alte e graziose macchie di papiri, dai lunghi steli irti di foglie verdi che danzavano al vento. Si diressero a nord, verso la zona esterna dell'Acquitrino. Mentre Lilith faceva ritorno a casa incontrò Eoin.
«Oggi è un gran giorno», le disse il fratellastro. «Non ti pare, Lilith?» «Non direi», fu la sua risposta. «Perché no?» «Guarda il cielo, com'è coperto e pesante. Siamo in estate... perché il tempo dovrebbe essere guastato dalle nuvole?» «Si stanno diradando», ribatté Eoin, incamminandosi al suo fianco sulla passerella. «Nel frattempo possiamo essere lieti che quegli stranieri se ne siano andati, portandosi via i loro cavalli puzzolenti e i loro modi da ubriaconi maleducati. Se non fosse per rispetto della tradizione, Stillwater li avrebbe buttati subito fuori, non ho dubbi.» Lilith si voltò a guardarlo. «Vergognati!» esclamò, indignata. «Come puoi parlare così dei nostri ospiti? Si sono mostrati assai educati, invece, e anche generosi. Hanno dato a Cuiva un bellissimo dono per ringraziarla dell'ospitalità della sua famiglia. Ieri sera ci siamo divertiti coi loro racconti e coi loro giochi, e oggi il comandante Stillwater ha due pelli di saguaro sulla grata del suo essiccatoio.» «Tu parli così perché quel tipo che ha usato la fionda ti ha lusingato con le sue paroline mielate di straniero ingannatore. Avanti, Lily, sei troppo cresciuta per farti menare per il naso da un bellimbusto.» «Sono abbastanza cresciuta per buttarti nel Bogmere, se non tieni chiusa quella boccaccia», replicò lei. Lui rise, la prese per la vita e la fece girare intorno a sé. I piedi di lei sorvolarono l'orlo della passerella, sfiorando la superficie della laguna e facendo oscillare le ninfee che galleggiavano tra collane di fiori gialli. «Mettimi giù!» gridò la ragazza. «Guarda, c'è Cuiva che viene da questa parte. Andrà a dire a tutti quanto sei stupido.» Eoin la rimise delicatamente a terra. «Oh, Cuiva, che piacere!» disse, con un cenno di saluto. «Stavo giusto andando via... le anguille mi aspettano!» E si allontanò di corsa. Cuiva si fermò accanto all'amica. Il suo polso era adornato di scintille. «Cosa gli è preso?» domandò, accigliata. «Farti vorticare in aria a quel modo! Sei ancora tutta intera?» Lilith annuì. «È come un cucciolo di upial», disse. «Rude e sfrenato. Ma non aveva cattive intenzioni. Il bracciale degli ashqalêthani ti sta molto bene.» «Gramercie!» Cuiva alzò il braccio per farle ammirare le perline di vetro. «Tu però hai una faccia che non mi piace per niente.» «Può darsi», replicò Lilith. «Ma la colpa non è di Eoin.»
Cuiva schiacciò una zanzara che stava per posarsi su un suo braccio. «Scommetto che so chi è il responsabile.» Dopo una pausa Lilith disse: «Vorrei che non fosse stato obbligato a partire». «Ah, certo che è un bel ragazzo», annuì Cuiva in tono comprensivo. «Si muove con l'agilità felina di un saguaro, ma ha il viso di un principe.» «Forse non di un principe», la corresse Lilith, divertita. «Nessuno sa se il principino Uabhar sia bello, ma ho sentito dire che i fratelli di Re Maolmórdha sono tutt'altro che attraenti.» «Però è sorprendente come il titolo nobiliare e la ricchezza migliorino l'aspetto di un uomo», replicò Cuiva, con un sospiro melodrammatico. Per un poco camminarono in silenzio, mentre Lilith ripensava all'incontro con Jarred la sera prima, sul cruinniú. Non era certo rimasta indifferente al modo in cui la luce delle torce danzava tra i capelli di lui traendone splendidi riflessi. Né aveva mancato di notare la linea forte e snella del suo corpo. Anzi la vicinanza del giovane l'aveva quasi stordita; parlare le era costato uno sforzo. L'impatto della sua presenza era stato un tormento delizioso, di cui avrebbe volentieri sofferto ancora. Tornava di continuo con la mente al loro incontro e, ogni volta che ripensava alla sua immagine, era percorsa da un tremito. «Non te la prendere», le consigliò Cuiva mentre si chinavano per evitare una cortina di foglie di salice. «Lo dimenticherai prima di quanto credi. Ci saranno altri come lui, se non migliori.» «Sei gentile, Cui», ribatté Lilith, abbozzando un sorriso. «Ma non sai mentire.» Poi portò il discorso su un argomento assai meno piacevole: «Ahimè, se a farmi sospirare fosse solo un affascinante straniero sarei molto più serena». «Stai parlando della malattia di tuo nonno, immagino», disse Cuiva in tono compassionevole. «Sta peggiorando?» «È terribile», confessò Lilith, con le lacrime agli occhi. «Soffre molto. E ancor peggio è l'angoscia di mia madre, costretta com'è a vederlo sprofondare nella degradazione del corpo e della mente. Ho paura per lei.» Quando giunsero a casa Mosswell, Cuiva domandò, esitante: «Cos'è che lo spaventa? Perché grida così disperatamente?» «Preferirei non parlarne», rispose Lilith, rigida, «perché terrorizza anche me.» Il grigio effluvio dell'indefinibile paura che avvertiva da sempre ora stringeva il suo cuore ancor più da vicino.
A settentrione dell'Acquitrino un leggero vento che soffiava da est spazzò via le nuvole. Il cielo pomeridiano si schiarì in una piatta distesa di cobalto. Raggi di luce ambrata scaldarono i volti dei cavalieri ashqalêthani che attraversavano le paludi. I versi delle anatre e delle oche selvatiche risuonavano tra i canneti e le isolette. Mentre Jarred avanzava, i suoi pensieri non riuscivano a staccarsi dalla ragazza dell'Acquitrino. Gli sembrava di vederla in ogni movimento, in ogni riflesso, sentiva il suo nome cantato dalla voce dei torrenti, avvertiva l'immaginaria carezza della sua mano nel lieve contatto della brezza sulla pelle. Occorse un giorno intero per lasciarsi alle spalle la zona centrale dell'Acquitrino e raggiungerne il confine. Fu là, tra i boschetti di legnotubo, che le guardie restituirono solennemente le armi ai viaggiatori e i due gruppi si separarono. Gli uomini dell'Acquitrino indicarono ai ragazzi la pista che proseguiva sulla terraferma, in salita, quindi tornarono in silenzio tra la vegetazione lussureggiante e subito scomparvero alla vista. Si avvicinava il tramonto. Gli ashqalêthani spinsero i cavalli su per un sentiero serpeggiante che risaliva tra le colline, circondato da boschi di faggi. Erano sempre a corto di un cavallo e Nasim doveva viaggiare seduto dietro suo fratello. Mentre uscivano dall'Acquitrino non avevano parlato molto, ma, ora che si trovavano su un terreno più elevato e sentivano di essersi allontanati abbastanza, si rilassarono. Tsafrir si rivolse a Yaadosh in tono irritato: «Cosa ti è saltato in mente di parlar male del Re di Slievmordhu mentre eravamo accampati proprio alla sua porta?» «Per favore, non gridare», borbottò l'altro. «Ho mal di testa. La tua voce è una lama che mi attraversa il cranio.» «E poi le tue chiacchiere da ubriaco ci hanno messo tutti in pericolo, quando hai divulgato l'esistenza di una cosa preziosa come l'amuleto di Jarred!» rincarò Tsafrir, senza nessuna pietà per la sofferenza dell'altro. «E come sarebbe possibile?» chiese Yaadosh, perplesso. «Nessuno può fare del male a Jarred finché lui lo porta!» «Ma qualcuno può fare del male ai miei amici», intervenne Jarred. «Potrebbe costringermi a cedere l'amuleto per salvare un ostaggio.» Yaadosh tacque, contrito. Poi disse: «Io ti ho fatto torto, Jarred, a te e ai miei bravi compagni. Mi dispiace». Chinò il capo. La conversazione si spense.
La sera, mentre facevano il campo, lo sguardo di Jarred si girò verso l'Acquitrino. Un territorio ondulato nascondeva buona parte della depressione, che da lì quasi non si vedeva. Solo l'occhio di un'aquila avrebbe potuto scorgere la donna incoronata di fiori che saliva lungo la Cresta del Sauro, con la gonna e i capelli che svolazzavano al vento. Alla sommità rocciosa della collina, la madre di Lilith si fermò, dritta come un virgulto. Ai suoi piedi si apriva il mondo. Spostò lo sguardo sulla foschia color lavanda dell'orizzonte e poi sulla scarpata che aveva davanti, col suo terzetto di frassini incrostati di vischio. Stava ancora cantando, ma stiracchiava le parole della canzone con un ritmo nervoso, casuale. Era un ritornello che aveva composto lei stessa, nel tentativo di allontanare la paura nelle lunghe ore della notte, quando giaceva sveglia, in ascolto: Io canto per scacciare colui che non è qui. Senza armonia né ritmo la musica potrà confondere quei passi che nessun altro sente o li nasconderà la mia voce che grida. Per mandare via l'incubo, contro di esso canto. E passando mi chino a cogliere i papaveri che d'estate sono alti e rossi come il vino, e margherite e viole, campanule scarlatte. E la verbena e il calamo, l'asfodelo e la salvia mi daran gioia agli occhi, al tatto e all'odorato per liberarmi dalla tristezza che mi opprime. Musica e fiori, orsù, datemi il vostro aiuto, fermate chi mi segue con passi senza piedi... l'oscura cosa che mi assedia il cuore. Fiumi di musica, cascate di fiori e di colori, trascinate via la paura, affogate il terrore! Ma, già mentre pronunciava l'ultimo verso, Liadàn si sentì accapponare la pelle. Qualcosa le attraversò il cranio, dandole un leggero brivido. Di nuovo percepì di essere seguita da piedi che calpestavano inesorabilmente le erbacce dietro di lei. Non riuscì più a cantare. Tese le orecchie e ascoltò, i nervi tesi fino allo spasimo. Il suo corpo era rigido. Aveva l'impressione che degli scarafaggi
le camminassero tra i capelli, il collo le doleva per lo sforzo di non voltarsi. Sapeva fin troppo bene che, se l'avesse fatto, non avrebbe scorto nessuno. Un piccione si alzò in volo quasi sotto i suoi piedi; Liadàn gridò e balzò di lato. Sentì i passi fermarsi e rimase immobile, senza il coraggio di respirare. Poi, con un ansito; mise avanti un piede esitante e si spostò. Il ritmico fruscio riprese, tallonandola un passo dopo l'altro. Liadàn iniziò a tremare; violenti spasmi percorsero il suo corpo snello. Un singhiozzo le salì dal profondo del petto. All'improvviso si sentiva in pericolo, vulnerabile. Doveva trovare un rifugio. Chiuse gli occhi e si gettò di corsa giù per il pendio. Fuggì attraverso i cespugli, i rovi e le erbe selvatiche, senza badare alle spine e ai rami spezzati che le strappavano le vesti. Corse con velocità quasi soprannaturale, incalzata da un terrore accecante, ansimando, con gli occhi sbarrati, i capelli al vento, le braccia che si agitavano come se volesse artigliare l'aria. Era pallidissima, ma non lo sapeva e non le sarebbe importato. Desiderava soltanto fuggire, e l'unica luce nelle tenebre della sua mente era un urlo di terrore vivido come un lampo. Molto più a nord della Cresta del Sauro, lontano, chiurli e gazze trillavano il loro coro serotino tra le fronde verde-nebbia dei boschi di faggi. Su un tappeto di foglie cadute un fuoco da campo guizzava e sibilava come un nido di serpi di fiamma. Nove viaggiatori sedevano in cerchio intorno a esso, chiacchierando del più e del meno. Più tardi si arrotolarono nelle coperte e si addormentarono sotto le stelle. I riflessi delle stesse stelle palpitavano sulle distese del Grande Acquitrino di Slievmordhu, increspate dal vento. Le anatre nuotavano al riparo dei salici. Da un'isola coperta di vecchi ontani un gufo mascherato fece udire il suo verso roco. Più in basso, le ombre degli eldritch si muovevano nelle loro sale subacquee di vetro verde. La famiglia di Earnàn Mosswell si riunì per la cena. Un solo sgabello era rimasto vuoto. «Liadàn rientrerà fra poco», disse il capofamiglia, scrutando con ansia fuori della finestra. «Ne sono sicuro. Sta per arrivare.» «Io preferisco aspettarla», disse Lilith al patrigno. «Mangerò quando rientra. Ma voi cenate, intanto. Avrete appetito, dopo aver lavorato tutto il
giorno.» «L'hai detto», annuì Eoin, prendendo una fetta di torta al formaggio da intingere nella sua zuppa di pesce. Il patrigno di Lilith mangiò svogliatamente qualche cucchiaiata dalla sua ciotola, poi si alzò di nuovo, inquieto, per guardare dalla finestra. Sotto le tavole del pavimento l'acqua chiacchierava e gorgogliava. L'upial di palude, che prima si era addormentato sul tetto, si calò lungo il muro esterno conficcando gli artigli nel legno e atterrò sul davanzale. Con un miagolio che assordò i presenti, balzò in grembo a Eolacha, urtando il tavolo con un colpo che fece traballare le stoviglie. La carlin restò seduta, accarezzando il dorso peloso dell'animale. Alla fine trasse un profondo sospiro. «Cosa c'è?» domandò ansiosamente Lilith. Il volto rugoso della vecchia era contratto, come se avesse visto svolgersi una tragedia. «Non mi è giunta nessuna conoscenza», rispose Eolacha. «Ho solo la sensazione che sia accaduto qualcosa di terribile.» In quel momento, da oltre i muri della casa, forse da oltre i confini di ogni esperienza umana, un grido fendette l'aria della sera, gelido come la spada di un guerriero morto da secoli. Era un grido così angoscioso da spezzare il cuore, il grido di una donna disperata che stava piangendo lacrime di sangue. Ma non era una donna umana colei che si sfogava in quel modo; la gente dell'Acquitrino lo sapeva per esperienza. Quel gemito aveva un'origine eldritch e a emetterlo era la gola di una prefica wight. Col pelo ritto, l'upial di palude saltò a terra e fuggì. «Che i Fati ci salvino!» ansimò Eoin, abbassando la fetta di torta. «Questa è una prefica! Qualcuno sta per morire, o è già...» Earnàn staccò la giubba e il berretto dal loro gancio. «Ho aspettato troppo!» esclamò. «Non avrei dovuto esitare. Vado a cercarla.» E si precipitò fuori. Lilith lo seguì di corsa, assieme a Eolacha ed Eoin. «Dove pensi di cercarla?» gli gridò dietro. «Sulla Cresta», rispose lui, voltandosi appena. Sapeva che talvolta lei andava lassù, quando era di quell'umore cupo. Un'ondeggiante Lanterna Jacky fece capolino tra le canne e lontano sulla sinistra si udì il campanaccio di una capra. Dalle giuncaie emerse un gracidio, intenso come se un'orda di rane avesse dato il via al suo coro di clacclac-clac. La famiglia Mosswell evitò la scorciatoia che passava per lo Stagno dell'Annegatrice. Si precipitarono lungo una strada sospesa fatta di
assi tremolanti, sotto cui crescevano felci spina-di-pesce, quindi corsero per uno stretto sentiero tra i fiori albini delle eriche acquatiche. Le loro immagini frettolose venivano catturate per brevi istanti dalla superficie delle polle, nella penombra della sera. Oltre il bordo dell'Acquitrino, Earnàn proseguì in salita, tra le erbe sussurranti che coprivano il pendio. Lassù non si scorgeva nessuna figura di donna, né di uomo, né di animale, ma Earnàn salì fino alla cima della Cresta, col cuore che gli balzava in gola come un criceto. Stretto dal terrore di vedere qualcosa di tragico, guardò nel precipizio, ma vide solo rocce scoscese e tre frassini che si sporgevano sulla scarpata, agitando al vento le scarse foglie. Più avanti, null'altro che l'abisso vertiginoso e il cielo. L'uomo si volse e tornò giù di corsa, incontro a Lilith ed Eoin, che erano rimasti indietro. «Lassù non c'è», ansimò, con la fronte imperlata di sudore. «Forse è andata nel cruinniú, o in casa di Stillwater.» Nel crepuscolo sempre più scuro scesero di nuovo alla base dell'altura e tornarono indietro lungo lo stesso percorso. Prima dello Stagno dell'Annegatrice, il sentiero si divideva in tre diramazioni. Presero quella di destra, che conduceva al lago principale. Giunti all'incrocio scorsero una figura che si muoveva in fondo al sentiero di mezzo, oltre le erbacce che crescevano alte da quando non vi passava più nessuno: era la scorciatoia per lo Stagno dell'Annegatrice. «Lia!» gridò Earnàn con voce roca. Corse avanti scostando i giunchi e i rovi. «Lia!» Quando fu più vicino vide però che non si trattava di sua moglie, bensì di sua madre Eolacha. «Che stai facendo qui, màthair?» gridò, irritato e deluso. «Perché sei venuta in questo posto pericoloso?» Eolacha si voltò a guardare il figlio. Come una luna caduta, la sua faccia pallida sembrava fluttuare nell'aria scura. Non riuscì a parlare. Ogni parola che avrebbe potuto dirgli era scritta nei suoi occhi. Un gemito inarticolato eruppe dalla gola di Earnàn. Spinse da parte la madre e corse verso lo Stagno dell'Annegatrice. Alcune torce erano state accese intorno alla nera polla e spandevano sulla sua superficie un lucore cui la luna appena sorta aggiungeva un fremito argentato. Sulla riva i salici erano sagome chiare che imprigionavano le stelle tra i rami più alti. La madre di Lilith galleggiava nell'acqua. Era sostenuta dalle bolle opalescenti portate intorno a lei dai ragni d'acqua. Liberate dai loro ancoraggi
sommersi intorno agli steli fangosi delle alghe, le bolle erano salite in superficie e si erano riunite a formare un letto. Liadàn sembrava dormire su quell'etereo giaciglio, coi capelli aperti a ventaglio e con le vesti allargate intorno a sé, come grandi petali. E c'erano anche fiori, ciuffi d'alghe e piantine che cingevano la sua quieta figura: un bouquet di gigli d'acqua sul petto e una collana di margherite al collo. Sciami di petali di rose di palude si disperdevano lenti nello stagno. Liadàn aveva gli occhi chiusi, le palpebre simili a morbide ali di falena. Il suo viso sembrava scolpito nell'alabastro o nella cera. All'improvviso una raffica di vento scosse i salici. Uno stormo di anatre, disturbato dal grido di dolore di Earnàn, aveva preso il volo. Il pescatore di anguille entrò nell'acqua protendendo le braccia come se volesse raccogliere la moglie, ma lei galleggiava al centro dello stagno, irraggiungibile dalla riva. L'uomo si tolse la giubba e si sarebbe tuffato se Eolacha, che lo stava seguendo, non l'avesse afferrato per un gomito. «Attento!» lo avvertì, allarmata. Dalla parte opposta della polla era emersa fino alla vita una figura gocciolante; aveva l'aspetto di una fanciulla umana. La sua pelle era latte accarezzato dalla luna, i lunghi capelli appiccicati alla flessuosa nudità del corpo scintillavano verdi come alghe. Le braccia erano sottili e ben tornite, i seni alti. Aveva un viso attraente dai lineamenti fini, delicati, con sopracciglia arcuate e occhi a mandorla, un po' obliqui. La sua bocca era increspata di rughe, come se avesse freddo. Ma tutto era freddo nella wight acquatica, le cui vene ospitavano solo gelida linfa chiara. Eoin e Lilith avevano raggiunto Earnàn e sua madre sulla riva dello stagno. La paura dell'entità unseelie destava in ciascuno di loro una reazione diversa. Earnàn, sovreccitato, ignorava ogni cautela; Eolacha era troppo esperta per aver paura, Lilith troppo stordita. Soltanto Eoin fu colpito in pieno dal terrore e impallidì, raggelato. «Non mostrare paura, non mostrare paura», ripeté a se stesso, ma aveva la pelle d'oca e gli si rizzavano i peli delle braccia. Si sentiva minacciato da un orrore senza nome. La faccia di Earnàn si deformò mentre ruggiva rabbiosamente alla wight acquatica: «Abominio malvagio! Tu l'hai attirata qui! Tu l'hai trascinata giù nel tuo regno, assassina spietata!» L'annegatrice contrasse le labbra. All'improvviso il suo volto grazioso fu tagliato in due e scoprì una fila di denti verdi appuntiti come spine. Un tremito di panico mortale scosse Earnàn da capo a piedi. Nel suo smarrimento poté soltanto emettere un ansito disperato, mentre la creatura nega-
va l'accusa con voce fredda come un'alga: «Fuggendo da un nemico, disperata e in cerca di rifugio, la prudenza lei ha dimenticato. Nella sua cecità la figlia del pazzo è scivolata e nell'acqua è caduta. Così lei è venuta, e così io l'ho presa». «E poi?» gridò Earnàn, con voce roca. «Tu l'hai presa... e poi?» La wight acquatica rispose: «Giù tra le ombre dei prati sommersi l'ho trascinata, tra i granchi e le flessuose anguille, dove le alghe avvolgono, trattengono e lentamente strangolano. Poi, gorgoglianti e scintillanti, perle d'aria sono emerse dalla sua bocca... perle di vita morente, l'ultimo respiro che lei partoriva». «Dunque sei stata tu!» gridò selvaggiamente Earnàn. «L'hai affogata, come ti sentivi in diritto di fare! Ma io la vendicherò, non dubitarne! Ora restituiscimela, te lo ordino.» L'immortale dai capelli verdi non rispose con rabbia o con una risata sarcastica. Non essendo umana, non poteva reagire in modo umano. Senza rivelare nessuna emozione, alzò un braccio sottile e abbatté la mano sull'acqua, di piatto. Una nebbia di goccioline salì dal fondale come le ali di un uccello di cristallo e la zattera di bolle d'aria ondeggiò. «Pace lei cercava», disse l'annegatrice, «e pace io le ho dato. Nient'altro salvarla avrebbe potuto. Ma in questa piacevole tomba le sue ossa io non veglierò, con le altre che giacciono nelle nebbiose profondità sognanti, dai denti dei pesci ripulite, sul dolce grembo del fango addormentate.» Quindi la wight cominciò a spingere la zattera di Liadàn verso la riva opposta, dove stava Earnàn, mentre ciocche dei suoi lunghi capelli verdi ondeggiavano nell'acqua. «Sulla sua fronte ha scritto il destino, chiaro da leggere. Una dura sorte l'ha colpita. Dalla follia è stata aggredita. Così ho radunato i globi d'aria per sollevarla e porgerla alle tue tenere cure. Ora prendila... io non ti insidierò.» La zattera si fermò presso la riva. Rigida, stordita dal dolore, Lilith alzò lo sguardo. Eolacha assisteva alla scena con espressione sgomenta. Earnàn si piegò a raccogliere sua moglie e la sollevò tra le braccia. La portò via senza voltarsi nemmeno una volta; Eoin invece guardò di nuovo dall'altra parte dello stagno, ma la creatura eldritch era scomparsa e sulla superficie dello stagno non c'era la minima increspatura a rivelare che si fosse immersa. Il tap-tap-clachet delle rane ciabattine martellava il coperchio della notte. Mentre tornavano a casa, l'uno dietro l'altro, Lilith alzò gli occhi al cielo.
Se le stelle brillavano ancora lassù, non le vide neppure. Per lei tutta la bellezza era scomparsa dal mondo, ora che sua madre l'aveva lasciata. Pensò che non avrebbe sorriso mai più e che il sole non sarebbe più sorto. Invece sorse ancora. Il mattino dopo brillava sui nove viaggiatori di Ashqalêth, che procedevano al trotto sulla pista in un fitto bosco di pini. Il cielo si era schiarito; calde lame di luce tagliavano la penombra sotto le piante e l'aria profumava di resina, rinvigorendo i polmoni. Le pigne coniche cadute tra i sassi crepitavano sotto gli zoccoli dei cavalli. Jarred, che da qualche tempo era silenzioso, si volse a Yaadosh usando il suo soprannome. «Caracal, scommetto che colpirò quell'uccello con la fionda, restando in sella e senza neppure far rallentare il cavallo.» Yaadosh, che gli cavalcava accanto, seguì lo sguardo dell'amico e scrutò il cielo. Sopra di loro c'era un falco, appena una macchia nell'azzurro intenso. Stava sfruttando una corrente ascensionale ed era quasi fermo... ma non immobile, e piuttosto lontano. Si teneva pronto a piombare sulla preda, non appena ne avesse vista una uscire allo scoperto. Da un momento all'altro avrebbe potuto chiudere le ali e gettarsi in picchiata come una stella cadente. «Ah!» sbuffò Yaadosh. «Se tu fossi molto fortunato potresti colpirlo con una freccia, ma non con un sasso. Tu hai braccia robuste, caro mio, ma nessuna fionda può arrivare così lontano.» «Vogliamo scommettere?» Incuriosito dall'atteggiamento dell'amico, Yaadosh gli gettò un'occhiata di traverso. Poi sorrise. «Ah!» esclamò ancora. «D'accordo!» Jarred si sporse di lato e gli tese la mano. L'altro la afferrò nella sua grossa zampa e la scosse vigorosamente. «Razza di spaccone», ridacchiò. «L'amore ti ha dato alla testa!» «Scegli tu la posta», propose Jarred. «Cosa sei disposto a fare, se vinco io?» «Se vinci tu», rispose Yaadosh, «preparerò io tutti i nostri pasti per sette giorni. E sai che se c'è un lavoro che detesto è quello del cuoco.» «No, per favore!» protestò Tsafrir, fingendosi allarmato. «Preferisco patire la fame! Avete mai assaggiato la carne arrostita da Yaadosh? È un delitto contro lo stomaco di un uomo.» «Non c'è pericolo che tu debba assaggiarla», replicò il robusto giovane. «Jarred non riuscirà mai a colpire quell'uccello!»
«Se non ci riesco», disse questi, «pagherò una posta molto più onerosa della tua.» Nel Grande Acquitrino di Slievmordhu sei donne, tra cui Lilith, sotto la direzione di Eolacha si occuparono della preparazione rituale di Liadàn. Lavarono il corpo - una statua di marmo - con acqua odorosa mista a estratti di foglie tagliate dal bastone vivente della carlin, lo profumarono, lo vestirono col tradizionale abito di lino nero lungo fino alle caviglie e lo composero nella bara. Le misero sui capelli una coroncina cerimoniale riservata a quelle tristi occasioni e la adornarono di fiori. La bara venne poi esposta su un catafalco dove sarebbe rimasta per due giorni. Il volto di Liadàn era tranquillo e sereno, una maschera di alabastro da cui sembrava trapelare quasi un mesto sollievo. I visitatori che vennero a porgere le condoglianze a casa Mosswell, vestiti di scuro, deposero ghirlande e candele accese intorno alla bara. Nell'Acquitrino c'era l'usanza di cremare i defunti assieme a oggetti come vasi, stoviglie, specchi e altri effetti personali. Alcuni portarono in dono della frutta. Quelli che avevano avuto un rapporto stretto con Liadàn le offrirono ciocche dei loro capelli. Le amiche umettarono simbolicamente con le loro lacrime la sua mano destra. Per due notti i vicini si radunarono alla veglia funebre, cantarono le tradizionali lamentazioni e gemettero in coro. L'usanza voleva che le donne sostassero dalla parte della testa, passando accanto alla bara, e che gli uomini si fermassero dalla parte dei piedi, alzando la mano destra col palmo in avanti, come in un rispettoso saluto alla defunta. Il corpo di Liadàn fu portato via da casa Mosswell il terzo giorno dopo la sua morte, a mezzanotte, lungo un sentiero cosparso di foglie fresche. I portatori, che così facendo prestavano l'ultimo servizio alla defunta, erano Earnàn ed Eoin Mosswell, il capitano Willowfoil, il tenente Goosecroft, Muireadach Stillwater e Odhràn Rushford. La faccia di Earnàn sembrava indurita e secca come il cuoio e mentre l'uomo camminava sul sentiero di foglie, a spalle curve, dava l'impressione di nuotare controcorrente. Lilith aveva un aspetto così sofferente che la gente si sentiva colma di angoscia e di compassione solo a guardarla. Il comandante Maghnus Stillwater, con una bandiera bianca issata su un'asta, guidò la piccola processione fino al Lago Charnel. Era seguito da sei anziani che portavano ciotole piene di fiori, poi da Eolacha, che procedeva davanti alla bara reggendo un lungo nastro bianco cucito alla fascia
che cingeva la vita di Liadàn. Ufficialmente la parte più triste del rito funebre era ormai conclusa. Durante la processione si faceva ogni sforzo per scacciare il dolore intonando cori e scambiandosi frasi cordiali. Molte torce rallegravano quell'ora antelucana e la gente cantava e ballava lungo tutta la strada. Durante la conclusione della cerimonia, al Lago Charnel, Eolacha e gli altri anziani, assieme a Earnàn, Eoin e Lilith, sedettero di fronte alla bara, ricoperta da un telo multicolore. Alla fine del canto corale furono varate cinque barche nuove, mentre la salma veniva deposta su una catasta di legna da ardere al centro di una zattera. La gente si avvicinò coi bastoncini d'incenso e con le torce di legno profumato, che furono infilate sotto la pira funebre. Quando le fiamme si alzarono, la zattera fu spinta al centro dello specchio d'acqua e lasciata là a bruciare, come una grande stella solitaria. Le lamentatrici cantarono: Ora tu parti in viaggio sul lago mentre noi stiamo qui sulla riva. Benché allietati dalla tua salvezza, i nostri cuori sono tristi. Libera da ferite e da ogni male, tu vai per la tua strada. Noi che restiamo soli ora soffriamo, e sentiamo la tua mancanza. Addio! Tu sei andata a riposare dove non c'è più nessun dolore. Ma forse laggiù oltre la sponda ci incontreremo ancora. Che i gigli d'acqua fioriscano sopra il luogo del tuo ultimo riposo; un tranquillo e gradevole sudario di merletto vivente. Il sole e la pioggia hanno formato i fiori e tutto ciò che cresce al mondo. Il fuoco e l'acqua posson divorare,
ed entrambi rinnovano ogni cosa. La notte racchiudeva l'Acquitrino come una caverna dalle pareti incrostate di diamanti. Ma il buio era tenuto a distanza da un fuoco. Sul Lago Charnel galleggiava un piccolo sole che lasciava abbacinati gli occhi di chi lo guardava. Intorno alle rive del lago gruppi di persone cantavano. Cinque barche ornate dei paramenti funebri erano all'ancora intorno alla zattera ardente, a distanza di sicurezza dalle scintille trasportate dal vento, e in una di esse aveva preso posto la famiglia di Earnàn Mosswell. Mentre la pira alzava fiamme crepitanti verso il cielo, i quattro sparsero fiori sulle acque nere del lago, dove i riflessi balenavano come spettri. «Vorrei soltanto rivederla ancora. Credi che i fantasmi esistano davvero?» domandò Lilith a Eolacha, costringendo le parole a superare il nodo di angoscia nella sua gola. «È possibile che gli spiriti dei morti camminino nel mondo? Ho sempre creduto che fosse una favola. Vorrei cambiare idea, ma non vedo nulla che mi possa aiutare in questo.» «Quando ero giovane», rispose la carlin, appoggiandosi pesantemente al suo bastone, «ti avrei risposto che fai bene a non ascoltare le chiacchiere di chi crede alle ombre. Ma in seguito mio padre mi ha narrato una storia. Una notte lui stava percorrendo un sentiero poco frequentato, nella parte occidentale dell'Acquitrino, quando si è accorto che poco più avanti c'era una figura. Subito si è fermato, a bocca aperta per la meraviglia, perché poteva vedere attraverso di essa. Non si trattava di un eldritch wight, ne era certo. La figura era quella di un uomo. Mentre mio padre lo guardava, si è voltato come se qualcuno lo stesse chiamando. Dietro di lui c'era infatti un altro uomo, della stessa età, che gli correva incontro con un sorriso di gioia. Il primo ha aperto le braccia e, quando l'altro l'ha raggiunto, si sono abbracciati e sono rimasti stretti l'uno all'altro per qualche istante. Poi si sono incamminati assieme e sono svaniti, così pareva, in mezzo all'acqua e tra le canne. Mio padre mi ha detto che in lui è rimasta una sensazione difficile da descrivere. Era una gioia terribile, una tenerezza che spezzava il cuore, un dolore dolce-amaro e molto profondo. Non è riuscito a spiegarsi ciò che aveva visto, né a essere certo se stesse dormendo o se fosse sveglio, ma, quando infine ha raccontato ad altri quell'episodio, un uomo anziano gli ha detto che molti anni prima due fratelli erano affogati in quel luogo e che da allora lì nascevano fiori bellissimi che mai si erano visti altrove. Tuttavia la gente non passava volentieri da quel sentiero, perché
chi ci aveva provato era stato colto da emozioni di paura o di esultanza così sconvolgenti che dovevano scaturire da qualcosa che sta oltre le nostre cognizioni, se non oltre la tomba.» «Ma erano fantasmi veri?» «Di questo non ho conoscenza. Posso solo fare ipotesi. C'è il caso che un affetto straordinariamente forte non possa essere cancellato dall'energia del mondo e rimanga per sempre con noi, in una forma o nell'altra. Forse esseri viventi molto sensibili riescono a percepire quelle energie sopravvissute.» Avida di una speranza che la confortasse, non importava quanto fragile, Lilith costrinse ancora le parole a passare attraverso la sua gola, benché minacciassero di strozzarla. «Ma come possono queste cose immateriali ottenere una forma?» «Anche su questo, bambina, posso solo fare congetture. È possibile che ottengano una forma dai sogni di chi le percepisce, o dai ricordi dei morti stessi.» La vecchia carlin chinò il capo. «Credici o no, come preferisci. È un mistero. Questo è tutto ciò che posso dirti.» Il mattino successivo si preannunciò una giornata serena. Lilith prese la barca a remi e si recò da sola sul bordo dell'Acquitrino, alla baracca del nonno. Bastava il pensiero di quelle visite a metterla in apprensione. Era terribile dover assistere alla sofferenza del vecchio e non poter fare nulla per alleviarla. Quel giorno era anche gravata dal suo dolore: la morte di Liadàn le aveva fatto crollare il mondo intorno. Per tutta la vita la madre era stata moralmente e fisicamente al suo fianco, un appoggio nelle incertezze, un bastione contro i lati più brutali dell'esistenza, una difesa, o così lei la vedeva, contro la morte. Ora che l'aveva perduta si sentiva vulnerabile, come se la sua protettrice fosse caduta in battaglia lasciando aperta alla morte la strada verso di lei. Era forse un preludio allo stesso destino? Possibile che la morte mandasse un araldo a precederla? Lilith non bussò; rumori di quel genere potevano terrorizzare il nonno. Si annunciò chiamandolo per nome. Lui venne ad aprirle la porta: un vecchio, malridotto scheletro d'uomo, con dozzine di amuleti appesi al collo rugoso. Aveva gli occhi cerchiati e un tremito gli scuoteva la mandibola. Roteava gli occhi nelle orbite come un cavallo imbizzarrito. «Chi è? Che volete?» chiese, con voce tremula. «Nonno, sono io, Lilith.»
Il vecchio girò la testa a destra e a sinistra, come se temesse la vicinanza di un pericolo. «Tip-tap, tip-tap, tip-top», borbottò. «Loro dicono che l'anguilla è la figlia del fabbricante di candele. Se smetti di respirare non possono udirti. Sessa! Che cos'è questo?» Lilith si stringeva le mani così forte da fermare la circolazione del sangue. Sapeva che non sarebbe stato opportuno informare quel povero relitto della morte della figlia. Aveva già sofferto abbastanza. In ogni caso, probabilmente non avrebbe capito. «Questo è il pane che ho portato per te», rispose, sfilandosi il cestino dal braccio. «Oh, ah», disse il nonno, rientrando nella baracca. «È una buona giornata per un picnic, ma la luna è nel nido.» Lilith spazzò via i resti di cibo dal tavolo e vi depose ciò che aveva portato. «Qui c'è del pane», disse, cercando di assumere un tono allegro. «Poi ci sono una giara di birra, pesce in salamoia, formaggio e anguille affumicate. Guarda, qui c'è una cosa che ti piacerà: un po' di miele.» Tirò fuori il vasetto dal cestino. «Eoin ha trovato un alveare all'Isola dei Rospi Gialli.» «Strano pesce!» esclamò il vecchio. «Tip-tap, tip-tap, tip-tap... non mi lascerà mai in pace? Ai miei tempi ero un campione di corsa.» Guardò distrattamente il cibo. Lilith si chiese se lo vedesse. Camminava avanti e indietro in stretti circoli. Lei notò che il letto era rovesciato e le coperte giacevano sparse sul pavimento. «Hai dormito stanotte, a seanmàthair?» gli domandò, con gentilezza. «Ora ti rifaccio il letto.» «No, no!» gridò lui. «Non toccare quell'abominio!» Lei si fermò, sorpresa. «Non lo toccherò, se non vuoi», disse. «Ma è soltanto un letto.» Il vecchio le venne accanto. Aveva l'alito pesante e il suo corpo puzzava, ma Lilith non si ritrasse. Provò una stretta al cuore, anzi, nel ripensare che un tempo era stato un uomo di bell'aspetto e ben curato. Ricordava bene quando la teneva sulle ginocchia, da bambina. «Non avvicinarti a quel letto», le sussurrò in un orecchio. «Loro vengono. Loro vengono.» Lei non riuscì a parlare. Il cuore le batteva forte. «Lui segue», mormorò ancora il nonno. «Lascia impronte nel fango o nel muschio, o sul pavimento asciutto. Guarda là!» Alzò una mano a indicarle le tavole di legno. «E là! Lui segue. Lo senti? Tip-tap, tip-tap, tiptap. Ci trova sempre, non importa dove ci nascondiamo. Ogni anno è più
vicino. Presto mi prenderà, oh, sì. Ora è solo a un braccio di distanza. Una volta era molti passi più indietro. Molto tempo fa era assai lontano. Riesci a crederci, mia cara? Non dorme mai!» Lilith rabbrividì. Con uno sforzo mascherò il suo sgomento e gli riempì un bicchiere di birra. «Bevi», disse, offrendoglielo. Lui lo vuotò d'un sorso, avidamente. Lilith glielo riempì ancora e lui fece schioccare le labbra. «Ah! Come gira la ruota! Lei aveva un figlio che è morto con la spada in mano. Vieni, signora, ti mostrerò ai tuoi parenti. Il cuculo chiama nel bosco vicino. Chi è costui?» Il suo breve istante di semilucidità era passato. Lilith lo convinse a mangiare qualche boccone e poi si accomiatò, lasciandolo alle sue fantasie. Ma mentre remava sentì che il cuore rallentava, come se il sangue fosse diventato fango nelle arterie. Dopo aver appreso che sua madre era morta perché stava fuggendo da qualche immaginario inseguitore, e già consapevole da tempo che il nonno aveva il folle timore di essere seguito, Lilith si chiese se quelle allucinazioni fossero ereditarie. In tal caso, sarebbe stata preda anche lei di quel male? Non osava parlare del suo triste presagio ai familiari; le sembrava una cosa troppo terribile, troppo drammatica per poterla dire a voce. Il risultato era che non sapeva se loro condividessero i suoi sospetti su quella forma di pazzia. Sola con le sue preoccupazioni, si sentiva come se una sfera di ferro massiccio fosse sospesa a una catena sopra la sua testa. Una sfera che, se lasciata stare, avrebbe continuato a restare appesa dov'era, mentre, se disturbata, sarebbe esplosa come una vescica velenosa al minimo tocco, scatenando la catastrofe su tutti quelli che le stavano accanto. In qualche modo, evitare di pensare al problema e di dare un nome alla fonte della sua angoscia rendeva la paura meno assillante, meno vicina. Col passare del tempo la follia del vecchio Connick era sfociata in manifestazioni sempre più stravaganti. La filantropica dama di Corràin aveva mandato una quantità d'indumenti usati da distribuire ai poveri e ai bisognosi dell'Acquitrino. Alcuni erano finiti nella baracca del nonno di Lilith. Negli ultimi tempi il vecchio aveva indossato una camicia di broccato, con un calzino a strisce su un gomito e uno a tinta unita sull'altro, un paio di pantaloni infilato e un altro arrotolato intorno alla cintura, un vecchio giaccone di tela induritosi come uno straccio incatramato, un berretto da bambino e un guanto spaiato alla mano sinistra. Non portava scarpe, perché
aveva un timore irrazionale di tutto ciò che copriva i piedi. Con la pelle cosparsa di graffi e lividi, i capelli scarmigliati, il volto madido di sudore, gli occhi gialli come la crema striati di vene color zafferano e la bocca contorta che sbavava, costituiva uno spettacolo penoso. A volte aveva preso la sua vecchia spada arrugginita, piena di tacche, e si era aggirato nell'Acquitrino facendola roteare e gridando minacce contro nemici immaginari, in acqua e sulla terraferma. «Io ti attaccherò con furore e desterò spavento e meraviglia!» Le rane che suonavano le loro nacchere e i grilli che facevano frinire i loro violini si zittivano di botto all'avvicinarsi del vecchio. Pallide facce silenziose dai capelli verdi sbucavano da stagni di acqua torbida e strani occhi lo sbirciavano tra ciuffi di erbe palustri: occhi luminosi come lampade color menta o indaco, o rosso ciliegia, non umani. Alcuni di quegli esseri gli ringhiavano contro, altri gli dicevano qualcosa, ma lo lasciavano passare senza toccarlo. Forse percepivano la follia che cresceva in lui, ardendo e ribollendo nel suo sangue, e forse a qualche wight non sembrava un estraneo, perché il loro mondo era diverso da quello degli uomini e il vecchio viveva al confine tra le due realtà. Camminava, gesticolava, parlava, ma la sua mente si trovava altrove, lontano, e vagava solitaria in luoghi alieni. Nel frattempo la gente relativamente sana e normale dell'Acquitrino sbrigava le proprie faccende quotidiane. Eolacha lavorava in casa, facendo bollire corteccia di salice bianco per ricavarne decotti antidolorifici. Un paiolo di ferro fumava e gorgogliava sul fuoco. Quando suo figlio entrò, chinandosi per non battere la testa contro l'architrave, lei depose il cucchiaio con cui mescolava nella pentola della cena. Si asciugò le mani nel grembiule e riempì una ciotola di zuppa; poi andò a sedersi, coi gomiti appoggiati sul tavolo. «Vieni a mangiare», disse a Earnàn. «Non hai dormito», gli fece osservare, dimenticandosi di aggiungere: «da quando Liadàn è morta». Earnàn sedette sul solito sgabello, stringendo l'ampia scodella tra le mani callose. Sulla fronte c'erano rughe di sofferenza e di perplessità. Ai suoi piedi, l'upial si affilava energicamente gli artigli su una gamba del tavolo. «La sera che lei... quando è successo», cominciò Earnàn, inciampando nelle parole, «Lia aveva fatto visita a suo padre. Non è così?» «È così», annuì Eolacha. «Presumo che soltanto dopo sia andata sulla Cresta del Sauro.»
«Non c'è dubbio.» «E poi è corsa verso casa in preda allo spavento, uno spavento tale che ha preso la scorciatoia pericolosa; ma nella fretta è inciampata ed è caduta nello Stagno dell'Annegatrice.» La carlin restò seduta in silenzio, a capo chino. L'upial saltò fuori da sotto il tavolo e cominciò a inseguire la sua stessa coda. «Il vecchio Connick», disse Earnàn, a voce così bassa che si poteva udire appena, «sente un rumore di passi che lo seguono. Si muovono quando lui si muove, si fermano quando si ferma. Immagina di vedere impronte di piedi nel fango o sul muschio, o sul pavimento della baracca. Ma nessun altro riesce a vedere o a sentire ciò che lui sogna. Borbotta che ogni anno l'inseguitore invisibile si fa più vicino. Vive nella paura di essere raggiunto, un giorno o l'altro. Quando sono cominciate queste allucinazioni, lui ha viaggiato per tutti e quattro i regni in cerca di un rifugio. Tuttavia dice che i passi lo trovavano ovunque andasse. Gli incantesimi che gli hanno venduto gli agenti dei druidi e le erbe medicinali dei farmacisti non sono serviti a esorcizzare il suo incubo. Tu sei già al corrente di tutto questo, màthair, perché neppure tu hai potuto fare niente per lui. Poi è venuto il giorno in cui la mia cara moglie, che un tempo era sana e cristallina come la luce del sole, ha iniziato a sembrare distratta, triste, e non ha voluto dirmi il perché. Io pensavo che trovasse qualche sollievo nell'isolarsi là sulla Cresta, ma non ho saputo trovare il modo di aiutarla. Potevo solo sperare che, col tempo, quel suo comportamento febbrile si smorzasse. Invece le è stato fatale.» Si sforzò di trattenere le lacrime. La carlin posò una mano, simile a una foglia secca, su un braccio del figlio. Quel gesto riuscì a consolarlo un poco. L'upial saltò in grembo all'anziana donna conficcandole dolorosamente gli artigli nelle cosce e si accovacciò facendo le fusa. La voce di Earnàn suonò roca, come affaticata. «Cosa l'ha fatta fuggire così quella sera, màthair? Cos'ha visto sulla collina che l'ha spaventata in quel modo? È possibile che sia reale, dopotutto, il cacciatore eldritch che terrorizza il vecchio?» «Non era qualcosa che aveva incontrato sulla collina», rispose gravemente la carlin. «Era qualcosa che portava dentro di sé, nella sua testa... qualcosa di cui cercava di negare l'esistenza, ma che non poteva fermare.» La faccia del pescatore di anguille s'irrigidì per l'apprensione. «Te ne ha parlato?» «Sì, l'ha fatto. Ha voluto nasconderlo a te e a Lilith per amore, ma alla
fine ha parlato con me.» Eolacha esitò qualche istante, indecisa, poi aggiunse in tono brusco: «Il rumore di passi stava cominciando a entrare nei suoi sogni». Il fuoco crepitava. Un singhiozzo roco scosse il corpo dell'uomo. «Ha iniziato a vagabondare», continuò la vecchia, «cantando e raccogliendo fiori per scacciare i cattivi pensieri. Perché la terrorizzava l'idea di seguire la stessa strada di suo padre. Come sai, la follia di quell'uomo sta peggiorando molto, ultimamente. Quella sera, quando gli ha fatto visita, l'ha trovato ormai perduto in un abisso di disperazione; poi deve essere salita sulla collina in cerca di qualcosa che la consolasse o la distraesse. E là, forse, l'eco di quei passi è tornata a farsi udire e lei è fuggita verso il suo unico rifugio, la sua casa.» La donna diede al figlio un fazzoletto d'angora perché si asciugasse le lacrime, quindi proseguì: «Ora Liadàn riposa in pace e noi soffriamo perché ci manca. In vita sua ha sopportato molti dispiaceri. Sua madre era morta nel darla alla luce e suo marito è morto ancor prima che lei partorisse Lilith. Solo dopo il matrimonio con te ha ritrovato la serenità. Ma le condizioni di suo padre le stavano togliendo anche questo». Accarezzò distrattamente il dorso peloso dell'upial. «Sembra una cosa strana, molto pericolosa.» «Che vuoi dire? Perché pericolosa?» «A dire la verità, temo che...» Eolacha s'interruppe, tamburellò con le dita sul tavolo, poi riprese: «Temo che ci sia uno schema». Earnàn restò in silenzio. «Uno schema», ripeté la carlin. Il suo collo si incassò tra le spalle, come se un grave fardello pesasse su di lei. «È successo coi genitori di Lilith e coi nonni, materni e paterni; in ogni coppia, un membro è morto giovane e l'altro è stato afflitto dalla follia. Io non so se questo abbia un significato, ma è una strana coincidenza. È come se qualcosa fosse passato da una generazione all'altra...» Sul fuoco, il contenuto del paiolo gorgogliò. Eolacha si affrettò ad alzarsi, prese il cucchiaio e cominciò a mescolare. Il vapore si alzava in spire simili a ciocche di capelli, imperlando di goccioline di condensa la mensola del camino. La donna raddrizzò la schiena. «Non dobbiamo parlare di queste ipotesi con Lilith. Non farebbero che renderla inutilmente ansiosa. Le mie paure potrebbero essere infondate. Non le ho mai sentito dire di aver udito dei passi eldritch.»
Earnàn guardò la madre con aria dubbiosa. «E forse non li udirà mai», disse, sforzandosi d'infondere sicurezza in quelle parole. Un ramoscello secco di cardo sul pavimento attrasse lo sguardo della carlin. Sfuggito alla sua scopa, era rimasto là dov'era caduto dalla corona di fiori di Liadàn. «Forse», disse anche lei, annuendo con fervore. «Sulla mia vita, mi auguro che sia così.» La notte avanzò nel cielo come una carrozza veloce su ruote lunari, trainata da cavalli color malinconia. La seguì il giorno. Sotto un cielo nuvoloso, le acque della Laguna delle Sette Foglie sembravano una liscia pelle di mercurio. Gli alberi si riflettevano come scarabocchi nel suo bagliore metallico. Su una lingua di terreno sabbioso, Lilith e Cuiva stavano raccogliendo angelica selvatica, mughetti e foglie di menta. Inginocchiata tra le erbe profumate, Lilith aveva gli occhi umidi. Era stata la madre a insegnarle a riconoscere quelle piante. I ricordi la facevano soffrire. La sua perdita bruciava come una ferita aperta. Dalla sera in cui il corpo di Liadàn era stato trovato a galla nello stagno, non aveva più sorriso, né vissuto un attimo di serenità. Due gioielli le caddero dagli occhi, uno smeraldo e un diamante, impregnati del riflesso delle foglie verdi e dell'acqua argentata. Sentendo i passi di qualcuno che si avvicinava, le due ragazze alzarono la testa. Un giovane stava arrivando facendosi strada fra le canne. L'odoroso raccolto di Lilith cadde al suolo quando lei si alzò in piedi. Le si era mozzato il fiato. Ebbe l'impressione che anche il suo cuore si fermasse assieme al respiro, ma in quel momento non le importava di vivere o morire, purché non fosse un sogno. «Buongiorno, damigelle», disse Jarred. «Ho sentito che la gente dell'Acquitrino cerca un cacciatore di saguari, e penso di accettare il lavoro.» Sul suo volto attraente si aprì un sorriso. La luce del sole strappava barbagli alle acque, le allodole cinguettavano. Lilith dimenticò le lacrime e sorrise. 3 L'AMULETO
Jarred di Ashqalêth era tornato all'Acquitrino a piedi, portando in spalla le sue poche cose. Alle guardie di stanza nella torre di pietra grigia, sul confine settentrionale, aveva detto: «Sono stato costretto a tornare qui per motivi d'onore, come risultato di una scommessa. D'altra parte l'estate è troppo calda. Preferisco fermarmi in una zona fresca e irrigata come questa e abbandonare per qualche tempo le fatiche quotidiane del viaggio su strada». «Hai perso una scommessa?» aveva domandato il tenente Mayfly Goosecroft della torre di guardia settentrionale. «E il perdente doveva tornare a chiedere l'elemosina all'ingresso dell'Acquitrino?» «Vi sbagliate, signore», aveva replicato con calore Jarred. «Io ho vinto.» Nel suo cuore non era una menzogna. «E non sono tornato a chiedere l'elemosina... voglio unirmi alla gente dell'Acquitrino, abitare con voi e lavorare al vostro fianco.» «Noi accogliamo i visitatori, ma nessuno straniero può venire a vivere entro i confini dell'Acquitrino, salvo che non possieda qualche speciale capacità», l'aveva informato Goosecroft con voce piatta. «Questa è la nostra legge.» Jarred aveva proclamato con fierezza: «Io non sono inesperto dell'uso della balestra e forse avete sentito menzionare la mia abilità con la fionda». «Abbiamo già degli arcieri», era stata la fredda risposta del tenente. «Bravi come me?» «Quanto basta.» Jarred non si era lasciato scoraggiare. «A R'shael ero l'apprendista di un fabbro.» «Abbiamo già un fabbro.» Goosecroft gli sbarrava l'ingresso al ponte, con le braccia conserte e i piedi larghi. Sembrava truce e inamovibile quanto la sua torre. Alle sue spalle un paio di guardie strisciavano i piedi a terra, a disagio, e si guardavano intorno con aria melensa. Il giovane aveva riflettuto un momento. «Be'», aveva detto, «mio padre era carpentiere; ho imparato molto da lui.» «Abbiamo già dei carpentieri.» Jarred aveva stretto i denti, ingoiando la sua frustrazione. Alla fine aveva esclamato: «Sono un suonatore di lira! La mia lira è rimasta a R'shael, ma posso costruirne un'altra...» «Abbiamo già un bardo.» «E un poeta?» Sentendosi affondare, il giovane si aggrappava a ogni pagliuzza.
Impassibile, Goosecroft aveva scosso il capo. «Tutti i posti sono già occupati», aveva dichiarato, voltandosi per rientrare nella torre. Sembrava che non ci fosse più speranza. Jarred aveva esaurito la lista delle sue capacità. Ma non voleva rinunciare. Mentre le guardie scrollavano le spalle e si allontanavano sul muschioso ponte levatoio, si era lambiccato il cervello in cerca di un'ispirazione. «Aspettate!» li aveva chiamati. Goosecroft si era voltato, inarcando un sopracciglio con espressione scettica. Jarred aveva detto: «C'è tra voi un uomo che possiede queste capacità tutte assieme?» Il tenente aveva fatto per rispondere, poi si era fermato a pensarci meglio. Lì accanto, le altre due guardie avevano iniziato una discussione concitata, alla quale si era unito anche lui. Jarred aveva riconosciuto in una di loro uno dei partecipanti alla festicciola sul cruinniú, un simpatico giovane cui Tsafrir aveva venduto una cintura di cuoio. Sembrava che questi si stesse schierando in favore del visitatore ed era anche il più loquace e persuasivo dei tre. La discussione era degenerata in un diverbio, animato da un gran gesticolare. Jarred aveva atteso, col batticuore. Alla fine l'eccitazione si era placata e le tre guardie erano tornate all'estremità del ponte, dove lui stava aspettando. Con aria cupa, Goosecroft aveva esaminato l'ashqalêthano da capo a piedi. «No», aveva detto. «No?» Jarred era rimasto come stordito. «No. Non abbiamo un uomo che possieda tutte queste capacità assieme, come ci ha fatto notare la guardia Rushford. Quel posto è libero. Entrate.» Con un grido di esultanza, Jarred aveva attraversato il ponte. «Qui siete il benvenuto, ragazzo», gli aveva detto più tardi il capitano Stillwater, quando lui gli si era presentato formalmente. «Vi do il permesso di andare a caccia in questo regno. Sarete ben pagato se ci libererete di un buon numero di saguari, senza rovinare le loro pelli.» Ma tra la gente dell'Acquitrino c'erano alcuni che non faticavano a immaginare la vera ragione del ritorno di Jarred. Anche Lilith l'aveva capita e il dolore che le spezzava il cuore si fece meno atroce. Il ritorno del giovane non poteva farle dimenticare la sua perdita, ma ne alleggeriva il peso. Non tutti gli abitanti dell'Acquitrino erano contenti di quella novità, vuoi per innata sfiducia negli stranieri, vuoi per il sospetto che una delle loro
fanciulle più graziose potesse essere portata via, vuoi per altre ragioni... Un ragazzo in particolare si mostrò contrariato di dover accogliere quello straniero, ma le sue rabbiose lamentele non trovarono orecchie disposte ad ascoltarle. Così Jarred cominciò a corteggiare la figlia di Liadàn. L'estate proseguiva e la famiglia Mosswell continuava a portare il lutto. Lilith pensava spesso a sua madre, ne sentiva la mancanza, rievocava le conversazioni passate e avrebbe desiderato rivivere certi momenti della loro vita quotidiana. A volte le capitava di vedere qualcosa di notevole per esempio una piantina in fiore coperta di gocce d'acqua che un raggio di sole faceva scintillare come piccole perle trasparenti, o come lacrime di un profumo raro venuto da un altro mondo, o come fitte collane di diamanti purissimi - e si voltava, deliziata, per dire a sua madre: «Guarda!» Ma accanto a lei con c'era nessuno. Oppure terminava di tagliare e cucire un indumento con particolare precisione e provava il forte impulso di mostrarlo a Liadàn, perché fosse fiera di lei. Più di ogni altra cosa avrebbe desiderato far conoscere a sua madre il bel giovane che la corteggiava. C'erano due aspetti del rapporto con la madre di cui sentiva particolarmente la mancanza. Uno era la condivisione di cose che soltanto loro due avevano avuto in comune: alcuni gesti, particolari battute di spirito, il piacere di fare piccole scoperte nel mondo della natura, la capacità di vedere la bellezza in uno spettacolo che altri avrebbero trovato insignificante. Il secondo era l'orgoglio di sua madre quando lei riusciva in qualcosa. Lilith aveva finalmente capito che molti sacrifici fatti quando era bambina avevano avuto lo scopo di raggiungere il traguardo più ambito: l'approvazione e l'ammirazione della madre. Con sorpresa, scoprì che comprenderlo le dava consolazione; a volte si sentiva certa che sua madre potesse vederla, potesse sapere ciò che stava facendo ed essere fiera di lei. La malinconica atmosfera casalinga della famiglia era talvolta alleggerita da qualche sprazzo di buonumore. «I dolori vanno e vengono come la marea», diceva Eolacha. «È così che il mondo ci permette di sopportarli.» La guardia Rushford si era offerta di dividere la sua dimora col nuovo cacciatore di saguari, in cambio del contributo di quest'ultimo alla dispensa e dei suoi racconti di avventure e fatti accaduti in Ashqalêth. Jarred aveva accettato con gratitudine la sua ospitalità. Si era impegnato con diligenza nel lavoro e, in breve tempo, aveva procurato diverse pelli molto belle.
L'immagine della fanciulla dai capelli d'ombra lo torturava e lo deliziava giorno e notte. Quando era lontano da lei tentava di immaginare ciò che stava facendo, si chiedeva se trovasse il tempo di pensare a lui e cercava argomenti di conversazione con cui interessarla quando si sarebbero incontrati di nuovo. Invidiava molto Eoin, che poteva vivere nella casa di Lilith. Era come una spina nel fianco immaginarli assieme nella stessa stanza, mentre lei gli parlava o gli offriva una ciotola di zuppa, mentre lui le accarezzava una mano nell'accettarla; o mentre lei rideva a una sua battuta di spirito, o mentre lui osservava le sue movenze flessuose. Quando quelle immagini diventavano un tormento, Jarred le scacciava e si gettava con più energia nel lavoro. Se la gelosia gli impediva di prendere sonno la notte, era capace di alzarsi dal letto di giunchi, prendere la balestra e la faretra e andare a caccia nel buio. In una di quelle occasioni riuscì a prendere ben cinque saguari. Il suo lavoro stava già cominciando a ridurre il loro numero. Gli sembrava che in qualche modo il viso e la voce di Lilith si fossero marchiati a fuoco nel suo cervello e nei suoi occhi; non importava dove stesse guardando: vedeva e sentiva sempre qualcosa di lei. Nell'ondeggiare dei rami di biancospino, nei germogli dei vimini, nel volo degli aironi, nelle ombre tra le foglie. Persino il fruscio dell'acqua corrente gli ricordava i sussurri di Lilith. Escogitava modi per incontrarla come se fosse un caso. Lei capiva sempre i suoi stratagemmi: non era un artista nel metterli in atto e le sue tattiche erano trasparenti. Ma non fu costretto a usare quei mezzucci ancora per molto. Dal sorriso di lei e dalle parole con cui lo accoglieva, fin dall'inizio aveva potuto sperare, e poi sapere per certo, di avere un posto nel suo cuore. Così iniziarono a mettersi d'accordo su come incontrarsi il più spesso possibile. L'euforia lo catturò e lo proiettò al settimo cielo. Così come accade in amore, invece di raffreddare la fiamma della sua passione, la consapevolezza di essere ricambiato la fece bruciare più forte. Si offrì di aiutare Lilith in molti lavoretti, tra i quali la raccolta di ortiche per trasformarle in filo da tessitura. Munito di robusti guanti e di una falce affilata, Jarred tagliò le piante più alte, poi staccò e gettò via le foglie, mettendo i gambi in uno dei sacchi. «Non mi hai ancora raccontato di quella scommessa che hai vinto, o perduto, e che ti ha portato qui», gli ricordò Lilith mentre lavoravano. Lui le riferì di quando, cavalcando attraverso la pineta con gli altri a-
shqalêthani, aveva detto a Yaadosh: «Se mancherò il bersaglio mi impegno a lasciare questa bella compagnia e a tornare all'Acquitrino per cercare lavoro là, invece di proseguire per Narngalis». «Oh, no!» aveva disapprovato Yaadosh. «Non voglio averti sulla coscienza. Non in quella fogna infestata dai wight!» «Se mi vuoi bene, compagno, accetterai questa proposta», era stata la replica di Jarred. «Se perderai tu, considerala una riparazione per qualsiasi torto tu possa avermi fatto in passato.» Yaadosh aveva accettato con riluttanza; poi, colpito da un pensiero, si era accigliato e aveva aggiunto: «Un momento... tu mi stai imbrogliando! Dovrei essere io a scegliere la tua penitenza, se vincerò». «Ma tu hai già scelto la posta nel caso che tu perda», gli aveva ricordato Jarred. «E ormai ci siamo stretti la mano. L'accordo è fatto. Ora procediamo!» Messa una pietra nella tasca di cuoio della fionda, aveva fatto roteare rapidamente l'arma tre volte sopra la testa e poi aveva lanciato. Il proiettile era passato lontano dal bersaglio, che aveva continuato a volare in cerchio ad ali spalancate, come nulla fosse. Ancor prima che la pietra fosse ricaduta al suolo, Jarred era esploso in un grido di trionfo, esclamando: «Ho fallito il bersaglio! Ho perso la scommessa!» «Perché hai tirato nella direzione opposta!» aveva gridato Yaadosh. «A che gioco stai giocando?» «Semplicemente questo. Io voglio tornare all'Acquitrino e mi occorreva una ragione per farlo. A parte quella vera.» Yaadosh l'aveva guardato con tanto d'occhi. Anche gli altri membri del gruppo si erano fermati, radunandosi intorno a loro. Avevano assistito a tutta la scena. «Sospettavo che saremmo giunti a questo», era stato il commento di Tsafrir. Poi aveva dato voce alle sue preoccupazioni e ricordato al compagno tutti i motivi che li avevano indotti a partire in gruppo, nello sforzo di convincerlo a restare con loro. Jarred aveva ascoltato con cortesia, ma nulla poteva fargli cambiare idea. «Sei sicuro di voler prendere questa strada?» aveva domandato Tsafrir. «Sono sicuro.» Il capo del gruppo si era accigliato. «Allora vai.» Quindi, dopo una pausa, aveva aggiunto: «E che tu sia benedetto, amico mio. Spero che ci rivedremo e che la fortuna sia con noi». Si accordarono di cercarsi ancora non appena ne avessero avuto l'opportunità, poi Jarred aveva restituito il cavallo al proprietario ed era tornato a
piedi all'Acquitrino. «Nasim è stato felice di riavere il suo destriero», concluse. «Ha detto che tua nonna gli aveva curato il braccio ferito tanto bene da metterlo in grado di cavalcare agevolmente.» «Lei non è mia nonna per sangue», disse Lilith, «ma è vero, è una guaritrice meravigliosa.» Tolse le foglie a uno stelo d'ortica pieno di spine. «E qual è la vera ragione del tuo ritorno? Volevi diventare un raccoglitore di ortiche?» «Naturalmente», rispose Jarred. «Mi è sempre piaciuto farmi pungere da capo a piedi in mezzo alle erbacce.» Nel parlare le si era fatto vicino, insopportabilmente vicino. Il suo corpo era teso come una molla d'acciaio e nello stesso tempo sul punto di fondersi come cera. Sentiva il cuore che accelerava i battiti e ogni centimetro della sua pelle fremeva nell'attesa della carezza di un gomito di lei, di un tocco casuale delle sue dita. Il più leggero contatto gli avrebbe fermato il cuore e il respiro assieme, mandando brividi di deliziosa agonia in ogni parte del suo essere. Aveva rinunciato a molte cose per tornare da lei - la ricerca di suo padre, la speranza di un futuro prospero a Winterbourne, la compagnia dei suoi amici d'infanzia -, tuttavia quelle perdite non sembravano pesargli per niente. In un luogo che pareva uscito dai suoi sogni di bambino aveva trovato un tesoro più raro di quanto potesse immaginare. La ricerca di suo padre Jovan avrebbe dovuto aspettare. La giovane donna si era voltata a fare qualcos'altro, così lui ebbe modo di studiare il suo profilo per un poco. Lasciò vagare lo sguardo sulle linee sinuose delle sue forme e sul mistero di quei capelli d'ombra. Desiderava toccarla. Come ogni volta si meravigliò, fino a restarne stordito e quasi paralizzato, della perfezione di lei: la pelle finissima, la bocca turgida come una rosa canina, la curva delle guance sotto i diamanti azzurri degli occhi, la dolcezza dei fianchi... nella sua fantasia allungò una mano, insinuò le dita fra le trecce di Lilith e la trasse a sé, stringendola fino a sentirsi trapassare da fulmini di passione, affogare nel desiderio, avvelenarsi di lei, cieco e dimentico di tutte le cose che non fossero lei. Lilith si era voltata e lo stava osservando. Sconvolto nel piombare di nuovo coi piedi a terra, lui poté soltanto guardarla, muto. L'emozione gli gonfiava il petto. Per il sangue della mia vita, disse. Ti rendi conto di quanto sei bella? Ma era nel cuore e nella mente che le stava parlando, così lei non udì.
Tornato padrone di sé, la aiutò a caricare sulla canoa i sacchi d'ortica e remò fino a casa. Al pontile misero i sacchi nell'acqua e li legarono a un palo per non farli trascinare via dalla corrente. Gli steli dovevano restare a bagno alcuni giorni per ammorbidirsi. Poi Lilith li avrebbe messi ad asciugare, prima di schiacciarli per separarne le fibre e cominciare a filare. «Perché voialtri usate l'ortica, per la biancheria?» volle sapere Jarred, mentre si lavava la pelle dov'era stato punto. «Il lino non cresce nell'Acquitrino», spiegò Lilith. «Dobbiamo comprarlo al mercato e costa caro. Il filo d'ortica non è fine come il lino, ma è ottimo per tessere sacchi, corde, borse e anche gli indumenti intimi. Con questi steli tesserò un fazzoletto per te!» Lontano da lì, il nonno di Lilith si chiese come fosse finito in quel posto sconosciuto. Si era perso. Non si trovava nell'Acquitrino. Quello era un luogo che non aveva mai visto. Si guardò intorno nel cortile deserto, sopra il quale il sole stava sanguinando. Una torre a pianta quadrata con l'orologio sormontava l'edificio che sembrava guardarlo, con le sue finestre come occhi spalancati. Il quadrante dell'orologio era diviso in undici parti. Una scalinata saliva a un portone di quercia rinforzato con lastre di rame. Alla sua base il terreno era sporco di sangue. Presso il portone un cavallo a dondolo stava oscillando da solo e lì accanto, sulla pavimentazione cosparsa di foglie, c'erano due padelle: una piena di noci, l'altra vuota. Il vecchio Connick si portò le mani alle orecchie, ma non riuscì a far tacere il rumore di cardini cigolanti, di porte che sbattevano, di chiavi che giravano nelle serrature. L'orologio suonò tredici colpi e, proprio quando lui pensava che sarebbe svenuto per l'orrore, si alzò un lungo grido disperato. Poi un vento gelido soffiò lungo il muro esterno sollevando turbini di foglie in una folle danza. Le foglie lo investirono rabbiosamente e dietro il loro ansito impetuoso si udì uno scalpiccio di piedi in corsa. Il vecchio si voltò per fuggire, ma inciampò e cadde; si ritrovò in ginocchio sul pavimento della baracca, mentre gli echi dei passi si smorzavano nella sua testa. Col passare dei giorni il ragazzo del sud imparò a vivere nelle paludi. Odhràn Rushford gli insegnò ad arrostire i bulbi carnosi dei giunchi e dei loti con burro e cipolle, e a cucinare la zuppa con carne di anatra e radici di narciso, insaporendola con erbe e cremoso burro di capra. Jarred si faceva insalate miste con tenere foglie di indivia, finocchi selvatici e steli di gigli
d'acqua. Nel frattempo continuava a dare la caccia ai saguari e ad accompagnare Lilith nelle sue faccende quotidiane. Imparò ad aiutarla nella mungitura delle due capre dei Mosswell, nella macina delle radici di loto per ricavarne farina e nella bollitura dei semi di loto che, coperti di miele, diventavano ottimi canditi. L'affetto tra loro crebbe. Nessuno dei due aveva mai rivelato la propria passione; sapere che esisteva era sufficiente, non sembrava ancora necessario esprimerla a parole. Lilith si svegliava ogni mattina serena come non avrebbe creduto possibile, ansiosa di salutare il giorno nell'attesa del momento in cui avrebbe visto il giovane dai capelli color cardamomo venirle incontro a lunghi passi su uno dei fragili ponti, col viso sorridente. Ogni volta che posava lo sguardo su di lui si sentiva come colpita da un fulmine. La sola consapevolezza della sua esistenza le dava una dolce estasi, l'ardore più vibrante e sorprendente che avesse mai provato. Le attenzioni e la vivace compagnia di Jarred stavano riuscendo a scacciare la tristezza di Lilith, sostituendo il senso di perdita con la certezza di avere qualcosa di nuovo. A volte lei era così immersa in quell'atmosfera eccitante da dimenticare completamente il proprio lutto. Jarred era colui che ricostruiva il suo mondo crollato. La giovane donna sentiva di essere stata addormentata e intrappolata in un incubo finché non era arrivato lui a svegliarla, un pomeriggio d'estate. La sua compagnia riusciva quasi a scacciare la paura di essere predestinata a un tragico fato. Quasi. Quanto a Jarred, non si pentiva minimamente di aver deciso di lasciare i suoi amici... solo che talvolta gli mancava la loro compagnia. E non di rado pensava alla madre, a R'shael, augurandosi che non stesse in pena per il suo unico figlio. Gli sarebbe piaciuto trovare il modo di mandarle un messaggio per farle sapere che stava bene e che aveva trovato l'amore. Ogni giorno aveva la tentazione di prendere tra le braccia il suo tesoro dagli occhi azzurri e dirle che voleva sposarla, ma sentiva che era troppo presto per toccare quell'argomento... lei era ancora in lutto per la madre. C'era solo un aspetto di quella sua nuova vita che gli riusciva sgradito: l'irritante presenza di Eoin. Si scopriva a rizzare il pelo come un upial di palude ogni volta che vedeva il fratellastro di Lilith. Non era abituato ad avere quegli impulsi; a R'shael era sempre stato in buoni rapporti con tutti. Le antipatie non gli si addicevano. Faceva del suo meglio perché la cosa non si notasse e, come
risultato, si trovò a esibire eccessivi gesti di buona volontà e cortesie verso Eoin. Il figlio di Earnàn non era tipo da lasciarsi superare: la sua gentilezza scalò nuove altezze. In occasione del Giorno della Guerra, approfittando del tempo caldo e soleggiato, Lilith e Cuiva uscirono in cerca di vimini per fabbricare cesti, accompagnate da entrambi i giovani. I salici del tipo più adatto crescevano al centro di un'isola bassa e larga e non potevano essere avvicinati per via d'acqua. I tagliatori dovettero ormeggiare la barca sulla riva e proseguire lungo una serie di passatoie sospese. L'isola era piena di meravigliose libellule dai riflessi bronzei e dorati, che, saettando sulle loro rapide ali, sembravano fremiti lucenti nell'aria. In quel periodo dell'anno la zona era invasa dall'acqua e dalla fanghiglia. I salici da cui si potevano ricavare i vimini erano stati piantati in lunghe file. Ovunque spuntavano nuove pianticelle ancora verdi, troppo giovani per essere tagliate. Manovrando i loro larghi coltelli, i due giovani presero a recidere le piante più adatte a livello della radice, liberandole poi dal fogliame. Le ragazze raccoglievano i vimini e li legavano con corde d'ortica. Mentre lavoravano, Jarred non poté fare a meno di notare che Eoin continuava a ostacolare e infastidire Lilith. Urtava contro di lei spostandosi da una pianta all'altra, oppure arretrava bruscamente quando lei gli passava dietro le spalle, sbattendole addosso. L'ashqalêthano si accorse del modo in cui il giovane dell'Acquitrino sogghignava a Lilith, quando lei lo rimproverava: «Tu e i tuoi piedoni, sempre di mezzo!» Jarred si sentiva accelerare le pulsazioni nel reprimere l'istinto di gettarlo a terra con una spinta. Con una manovra astuta fece in modo di porsi tra Lilith e il fratellastro. Recise altri cinque vimini e li passò alla ragazza, continuando a fare conversazione: «Non riesco a capire come possano le mani delicate di una donna piegare bastoni duri come questi per intrecciare canestri». «Oh, i vimini appena tagliati devono essere ammorbiditi, prima che siano utilizzabili», rispose Lilith, spostando una ciocca di capelli che le pendeva su una guancia come l'ala di un corvo. «Devono restare a mollo sott'acqua per tre mesi. Poi viene tolta la corteccia. È solo allora che inizia il lavoro duro.» «Dovresti trascorrere una notte a intrecciare vimini, seduto sul pavimento della cucina», disse Cuiva con vivacità. «Se sei fortunato, alla luce dell'alba potrai vedere una pila di cestelli accanto a te... finiti dall'urisk!»
«Ah!» sbuffò Eoin. «È più facile che ai passeri crescano le corna, piuttosto che il buonsenso alle donne!» Cuiva lo frustò seccamente con la cima di un vimine. Per vendicarsi lui le tirò una ciocca di capelli. «Nella vostra casa c'è un urisk?» domandò Jarred a Lilith. Lei annuì. «A dire il vero, sì. Ogni sera Eolacha o io gli lasciamo una ciotola di buon latte e una pagnotta d'avena davanti al caminetto, ma lui non fa mai niente per la casa e si fa vedere di rado. A volte il pane e il latte restano lì, intatti, e ci chiediamo se sia ancora con noi. A Cuiva piace stuzzicarci su questo... il nostro utile wight casalingo!» E lanciò all'amica una manciata di foglie, che le si posarono sulle trecce che uscivano da sotto il foulard come piccole punte di lancia verdi. Cuiva rise, ma la lunga faccia ossuta di Eoin si scurì mentre guardava senza farlo notare la stretta vicinanza di Jarred e Lilith. Vibrò selvaggiamente il coltello contro le giovani piante, recidendone tre in un solo colpo. «Per ora ne abbiamo tagliati abbastanza di questi stecchi», disse ad alta voce. «Ancora qualcun altro e il punt affonderà sotto il loro peso.» E infilò il coltello nel fodero, appeso alla cintura. «Sì, sarà meglio rientrare», concordò Lilith, ripensando a quanto era cresciuto di volume il mucchio dei vimini già portati sulla spiaggia. «È passato ormai mezzogiorno e, prima che sia pomeriggio inoltrato, dovrò portare da mangiare a mio nonno.» «Già, tuo nonno», annuì Jarred. «Come sta?» Lo sguardo di lei divenne opaco. Lilith ebbe un istante d'incertezza: all'improvviso si era ricordata di non aver mai parlato di suo nonno a Jarred. Cosa avrebbe pensato il giovane scoprendo che lei si prendeva cura di un vecchio parente afflitto da demenza senile o da pazzia? Avrebbe provato per lei compassione o disprezzo? Il sangue le pulsava nelle tempie. E se Jarred l'avesse lasciata? Non poteva sopportare il pensiero di perderlo. Ma non c'era scelta: non poteva raccontargli una bugia. «Mio nonno è anziano», disse, esitante. «E non sta bene. In realtà, il senno l'ha del tutto abbandonato.» Alzò il mento per affrontare lo sguardo di Jarred e lui ebbe l'impressione che due raggi di zaffiro lo trafiggessero. Lo sguardo della ragazza era di nuovo tornato trasparente. Lui percepì la sua vulnerabilità e provò l'impulso di proteggerla. «Lo sapevo», replicò, semplicemente. «Me ne ha parlato Odhràn Rushford. Dice che tuo nonno sembra peggiorare giorno dopo giorno. Mi
chiedevo solo come sta in questi ultimi tempi.» Il suo sguardo le disse: Io non ti tradirò. Lilith sorrise e il suo sguardo rispose: Ora ho davvero fiducia in te. Quindi disse: «In effetti, ultimamente non è stato così male». E, dopo averci pensato meglio, aggiunse: «Ma ci preoccupano le sue piaghe da decubito». «Allora gli darò una pelle di saguaro su cui distendersi.» «Questo è gentile da parte tua. Gramercie!» «Lascia che sia io a portare tutto il carico», latrò Eoin in un orecchio di Jarred, a voce troppo alta. «In fede mia, sei molto premuroso... ma non preoccuparti», rispose lui, raccogliendo alacremente i fasci di vimini. I due si misero in spalla all'incirca metà del carico ciascuno e si avviarono sul sentiero verso l'ormeggio del punt. Una sezione di quelle passerelle sospese era più rudimentale delle altre, poiché consisteva semplicemente in una serie di tavole inchiodate sopra due file parallele di paletti piantati nel fango. Non aveva corrimano, non superava la larghezza di un piede e soltanto una persona alla volta vi si poteva avventurare. Le due ragazze andarono per prime, ridendo e chiacchierando mentre bilanciavano sulle spalle i loro leggeri fardelli, attente a come posavano i piedi su quel percorso così precario. Eoin e Jarred arrivarono alla strettoia assieme. Subito l'ashqalêthano si fece da parte. «Prego, prima tu», disse, accennando un inchino nonostante il peso dei fasci di vimini. «No, per carità», rispose l'altro con un sorriso educato. «A te la precedenza.» «No, no, insisto.» «Avanti, senza dubbio non vorrai che io mi senta scortese!» «Sarei io a meritare di essere chiamato scortese, se solo mi sognassi di non cederti il passo.» «Stai dicendo», domandò Eoin, «che preferisci che a passare per scortese sia io, invece di te?» «Essendo un uomo d'onore, non potrei mai chiamarti così», replicò Jarred, alzando la voce. Eoin lo spinse con impazienza verso la passerella. «Essendo un uomo d'onore, allora, prendi la precedenza.» Jarred strinse i denti. Gli restituì la spinta nella stessa direzione. «Lungi
da me essere così presuntuoso.» La faccia di Eoin avvampò, arrossendo. «Tu stai presumendo di potermi spingere avanti, signor mio!» disse, e mollò a Jarred un'altra spinta, così forte che lui vacillò e lasciò cadere i suoi fasci di vimini nella melma. «Spingerti? Io?» gridò Jarred. «Tu non sai ancora cosa significa essere spinto, caro signore!» E diede a Eoin uno spintone che lo fece volare giù dalla passerella, mandandolo a mollo nella fanghiglia con tutto il suo carico. Eoin si rialzò muggendo come un toro e si avventò contro il rivale a testa bassa. Jarred lo evitò con un balzo agile, ma scivolò e cadde a testa in giù nel fango, dove restò conficcato per qualche istante, con le gambe che si agitavano in aria. A quello spettacolo Eoin scoppiò a ridere, ma il suo divertimento durò poco, perché l'altro lo afferrò per le ginocchia e lo trascinò lungo disteso. Entrambi finirono sott'acqua, agitandosi e scalciando, e quando riemersero continuarono a sferrarsi pugni alla cieca. I due giovani caddero più volte nella melma, nella foga di mollarsi calci e spintoni. Il loro furibondo spreco di energie fu interrotto solo dall'arrivo di Lilith che, dopo aver constatato l'inutilità delle sue grida, aveva deciso di gettarsi in mezzo ai due combattenti. Pur nella loro brama di colpirsi i due non erano così ottenebrati da rischiare di farle del male, e alla fine si lasciarono separare, sia pure con riluttanza. Avevano i capelli e gli abiti pieni di erbacce ed erano coperti di fango da capo a piedi. L'unica cosa pulita era il bianco dei loro occhi. E quelle due paia di occhi si squadrarono, mandando lampi. «La lotta è uno sport bello e divertente», disse Lilith con voce piatta, «purché i due contendenti non cerchino di ammazzarsi. Voi sapete che il mio affetto per entrambi non mi permette di stare a guardare mentre vi fate del male. Se volete giocare alla lotta, siete pregati di farlo senza perdere il controllo.» Eoin la fulminò con lo sguardo. Sapendo con quanta veemenza detestava sentirsi dare ordini da una donna, la ragazza risalì prudentemente all'asciutto, raccolse il suo fardello e si allontanò. Cuiva, che aveva riso fino a cadere, si ficcò in bocca un fazzoletto perché i due non pensassero che li trovava ridicoli. «Muovetevi!» gridò, avviandosi dietro Lilith. I due giovani non dissero una parola mentre recuperavano i loro fasci di vimini. Il primo a rimetterseli in spalla fu Jarred, che lasciò perdere il problema della precedenza e s'incamminò in silenzio sulla passerella. Altrettanto taciturno, Eoin lo seguì.
Il Grande Acquitrino di Slievmordhu sognava ancora, immobile nella luce dell'alba. Il nonno di Lilith si svegliò nella sua baracca e scoprì di avere il letto pieno di pipistrelli, che svolazzarono via per tutta la stanza quando scosse le coperte in aria. Una lepre che portava un alto cappello fluttuò avanti sopra la spalliera. Si fermò a un braccio di distanza da Connick e agitò un bastone verso il suo petto con fare minaccioso, finché il vecchio non le sferrò un pugno mandandola a sbattere contro il muro più lontano. Là si trasformò in un cuscino. Strane facce sbucarono dal pavimento per sbirciarlo e dal tappeto si levò del fumo. Le pareti respiravano. Nel vano della finestra pendeva una ragnatela in cui erano imprigionate innumerevoli mezzelune di luce. Raggi azzurri la attraversavano e Connick poté udire i passi fermarsi all'esterno, oltre i muri. «Sul serio, ha causato molti mal di testa!» gridò il vecchio. «Non è il Giorno delle Ceneri. Chi c'è nella fossa?» Quando fu sicuro che per il momento i passi tacevano, si alzò dal letto, con cautela. Il pavimento era fatto di tavole di legno. Le pareti ora stavano immobili. Il tappeto non stava bruciando e non cantava. Non c'erano prove che creature alate fossero entrate nella stanza. «Tu pensi che questo sia tutto un sogno, ma poi si rivolterà, proprio come una focaccia imburrata», disse il vecchio. In un pomeriggio afoso, con un'aria umida che pesava sulle paludi, Jarred finì il lavoro della giornata e passò a casa Mosswell per fare visita a Lilith. «Ti va di venire in barca con me?» le domandò, esitante. «Potremmo prendere con noi qualcosa da mangiare e andare giù per uno dei canali laterali, dove l'ombra dei salici è fitta e rinfresca la riva.» «Mi piacerebbe», disse lei, con altrettanta timidezza. «Quando vorresti andare?» «Perché non ora?» rispose subito Jarred, cercando, senza riuscirci, di sembrare noncurante. «Se Eolacha per oggi non ha più bisogno del mio aiuto, d'accordo, verrò con te.» Lilith andò ad accertarsi di essere libera di uscire e stava per levarsi il grembiule quando le venne in mente una cosa. «Aspetta. Prenderò un cestino e ci metterò dentro qualcosa da mangiare», disse. «Non ce n'è bisogno», la fermò Jarred. «Ho provveduto io. C'è un panie-
re pieno di roba nella barca di Rushford, ormeggiata qui al vostro molo.» «Ah, eri davvero così sicuro che avrei accettato il tuo invito?» domandò Lilith. Appese il grembiule a un gancio e si lisciò la veste. «No, non ne ero sicuro. Ci speravo. Se avessi rifiutato, avrei regalato il cibo a Rushford, che è sempre affamato.» «O l'avresti mangiato tu!» suggerì lei, con una risata. «Questo no.» «Perché no?» «Se tu avessi rifiutato, avrei perso l'appetito.» A quelle parole, Lilith non seppe cosa dire. Arrossì e seguì Jarred sul molo. La barca di Rushford era legata a una bitta. I due salirono a bordo e salparono, con Jarred che affondava un po' goffamente i remi nell'acqua per spingere avanti il battello. «Come hai fatto a diventare un abile rematore così in fretta?» domandò Lilith, sorridendo del suo stile incerto. I remi lasciavano disordinati turbini di onde sulla superficie dell'acqua, liscia come il vetro. «Ho fatto un po' di pratica, ma i remi e io non andiamo ancora molto d'accordo. Se dovessi rovesciare la barca, comunque, spero che almeno tu ti salverai. Suppongo che tu sappia nuotare bene, visto che sei cresciuta con tutta quest'acqua intorno.» «Tu non sai nuotare?» «Non lo so. Non ho mai provato.» «Allora è probabile che tu non sia capace! Eolacha mi ha detto che solo gli animali, non essendo umani, sanno nuotare senza che venga loro insegnato. La nostra specie fa eccezione. Guarda laggiù, su quella spiaggia. Ci sono alcune donne che insegnano a stare a galla ai loro figlioletti.» Jarred si voltò. La barca stava costeggiando una zona che si sapeva libera dai wight unseelie. Cinque donne camminavano o stavano sedute nell'acqua bassa, mentre alcuni bambini di diverse età sguazzavano intorno. Uno strillava e continuava ad agitarsi istericamente, sebbene la madre cercasse di calmarlo. Un altro stava attaccato alla veste della mamma, che se lo trascinava dietro a fatica mentre cercava di raggiungere una ragazzina disobbediente, allontanatasi a nuoto in acque più fonde e pericolose. Una terza donna, piegata in due, manteneva a galla il figlio con le mani e lo faceva nuotare verso la riva; poi si raddrizzò massaggiandosi le reni con una smorfia, come se avesse mal di schiena. La quarta e la quinta donna sedevano sulla spiaggia e stavano chiacchierando, ma furono interrotte da una bambina che corse ad aggrapparsi al collo di una di loro e si mise a
urlare. Jarred ridacchiò. Lilith scosse il capo con aria incredula. «Quelle povere madri!» esclamò. «Mai un momento di tranquillità. Non capirò mai dove i genitori trovino la pazienza di sopportare le continue pretese dei figli.» «Tu dai l'impressione di avere un carattere paziente. Non è così?» disse Jarred, lottando con uno dei remi per costringere la barca a una deviazione. «Su molte cose sono tollerante, come chiunque altro. Ma sono certa che perderei la pazienza se una figlia mi si appendesse ai capelli in quel modo mentre sto parlando con un'amica», rispose Lilith, mentre le due madri sedute, sconfitte, rinunciavano alle loro chiacchiere per occuparsi dei bimbi. La barca a fondo piatto scivolò via lungo il canale e le rumorose famigliole sulla spiaggia scomparvero alla vista. Le rive divennero paludose, interrotte da polle d'acqua stagnante in cui giunchi alti e sottili si piegavano in due verso il proprio riflesso, cosicché ogni pianta sembrava lunga il doppio. File di bolle erano imprigionate presso la riva come smeraldi lattiginosi... nuvole sommerse fatte di uova di rana. «Non mi sono ancora abituato a tutta quest'acqua che evapora inutilizzata», confidò Jarred. «Per me è sempre stata una comodità preziosa oltre ogni immaginazione. Devo continuamente reprimere l'impulso di raccoglierla e metterla al sicuro.» «Eolacha dice che immergersi nell'acqua è il contatto più intimo con la Forza della Vita», disse Lilith. «È per istinto che diamo tanto valore all'acqua e desideriamo averla nelle vicinanze.» «Tua nonna è saggia.» «Non riesco a immaginare la vostra vita nel deserto», continuò la ragazza. «Un mondo senza laghi né fiumi né pioggia, dove tutto è caldo e secco, senza un albero in vista. Non è brutto e sgradevole un posto così?» «Al contrario», rispose lui. «Non ho mai visto colori vividi quanto l'ocra delle sabbie, il rosso delle rocce o l'azzurro luminoso del cielo del deserto.» «Parlami della vostra vita laggiù!» Sentendosi scaldare il cuore dal suo interesse, Jarred si lanciò in una serie di racconti dettagliati della propria infanzia a R'shael: degli anni in cui non pioveva mai e di quando il vento bollente chiamato Fyrflaume saliva dall'inospitale Deserto delle Pietre Ardenti, a sud, per spazzare Ashqalêth; delle scappatelle assieme ai suoi compagni; della comprensione di sua madre. Parlò a lungo e, mentre si concentrava sempre più sulla narrazione e
sempre meno sui remi, rallentò la voga fino a fermarsi del tutto. Poi tirò i remi in barca e si piegò in avanti verso Lilith, che lo ascoltava con attenzione. Erano entrambi così presi da quei racconti che dimenticarono il picnic. E non si accorsero nemmeno che una corrente pigra li stava portando via lungo un corso d'acqua chiuso tra grovigli di vegetazione oscuri e impenetrabili. Sotto quel cielo di foglie, l'ombra era fredda e umida come il limo. «Molto spesso, ogni volta che guardavo la mia terra natale», disse Jarred, concludendo il suo racconto, «mi sono trovato a dire a me stesso: 'Com'è bello questo luogo, com'è preziosa la vita, e com'è straordinario che ci sia dato godere di queste meraviglie!' E allora sentivo che per me non c'era nulla di più sacro.» Per nascondere il suo improvviso turbamento, Lilith si volse, fingendo d'interessarsi al paesaggio. Per un poco si guardò intorno con occhi storditi, senza capire dove si trovasse, ma d'un tratto si raddrizzò e gridò: «Santo cielo! Siamo stati risucchiati nella Palude degli Spettri!» Jarred mise subito i remi negli scalmi e li abbassò nell'acqua, ma si accorse che qualcosa ne tratteneva le pale sotto la torbida superficie, impedendogli di muoverle. Allora li afferrò e cercò di manovrarli con tutta la sua forza, imprecando. Dopo una breve e terribile lotta riuscì finalmente a estrarli dall'acqua e notò che erano incrostati di un fango appiccicoso e pieni di alghe impigliate, come fossero stati strappati dai tentacoli di un mostro vegetale. «Non rimettere i remi in acqua», lo esortò Lilith, allarmata. «È meglio proseguire così. Con un po' di fortuna la corrente ci porterà oltre, fuori da questo posto malefico.» «Perché malefico?» domandò Jarred, tirando di nuovo i remi a bordo. Si accorse che aveva parlato sottovoce, come per non farsi udire da qualcuno. E in effetti l'ombra degli alberi che s'infittivano intorno a loro trasudava un silenzio arcano. Era come trovarsi in una stanza piena di ascoltatori, nessuno dei quali emettesse un suono. «Tu credi negli spettri?» «Io no», rispose Lilith, mentre la barca scivolava lenta sui cupi riflessi dell'acqua. Il silenzio pendeva dai rami che li sovrastavano come una pesante ragnatela appiccicosa. Per un poco la ragazza non disse altro, poi mormorò: «Una volta il padre di Eolacha vide qualcosa che gli parve l'ombra della morte. Ma mi sembra chiaro che nessuno torna in questo mondo dopo averlo lasciato. La morte è definitiva, almeno in un senso». «E in quali sensi non lo è?» chiese Jarred perplesso.
«Tutti sopravvivono dopo la morte nei ricordi di chi resta, nelle cose che hanno fatto in vita e nel sangue dei loro discendenti. Solo grazie a questo essi diventano immortali... e non come immagini semitrasparenti che fluttuano a mezz'aria.» «Come puoi esserne certa?» «Per me è evidente.» Sembrava naturale parlare della morte, mentre la corrente li portava avanti in quel fiume silenzioso. Le ombre s'incollavano alla corteccia degli alberi e risucchiavano la luce dai tappeti di muschio. Radici possenti sporgevano dal fango della riva come mani adunche e costole di scheletri sepolti. «La Palude degli Spettri è il regno degli eldritch wight», sussurrò Lilith. «Molti sono unseelie. È un luogo pericoloso. Nessuno ci viene mai.» «Allora è un buon posto per pescare», commentò Jarred, con l'aria di scherzare solo a metà. Lei sorrise. «Meglio veder finire le tue scorte di cibo che gettare l'esca in queste acque e rischiare di attirare all'amo qualcosa capace di mangiarti.» Aprì il cestino e fece cenno a Jarred di sedersi accanto a lei. I due giovani mangiarono, guardandosi intorno. Poco dopo, incurante del pericolo, il ragazzo srotolò una lenza da pesca, ne innescò l'amo con un pezzetto di carne e la calò nell'acqua. Le canne agitavano le foglie come ali d'insetto. La vegetazione scivolava via nel crepuscolo; l'unico suono era il pigro fruscio della corrente. La lenza era completamente immobile, scossa da lievi fremiti solo quando l'amo s'impigliava in qualcosa sotto la superficie. Jarred guardò oltre il bordo della barca. L'acqua scivolava lungo lo scafo, traslucida, baluginante. Tra pannelli d'ambra si torcevano lunghi tendaggi di alghe. «Strano. Tanta acqua, che nasconde tanti segreti», mormorò. Giunsero in un tratto più largo. Poco più avanti il canale si apriva del tutto, allargandosi in un lago vasto qualche centinaio di metri. Su un lato di quel pigro specchio d'acqua, Jarred e Lilith videro uno spettacolo inatteso: una grande nave, fatta per attraversare gli oceani, era ancorata là. Un galeone. Che un vascello così poderoso alzasse i suoi grandi alberi nel cuore dell'Acquitrino era già abbastanza bizzarro, ma le sue condizioni facevano apparire la cosa ancor più fantastica. Pennoni corrosi e coffe si levavano sullo sfondo della vegetazione, assieme ai resti del sartiame. La nave era deserta e abbandonata, coperta di fango e muschio, silenziosa a parte il fruscio delle cime che strisciavano
sulle assi marce del ponte di coperta, il cigolio delle sovrastrutture, lo sbattere delle onde contro il vecchio scafo. Dalla stiva provenne un rumore che avrebbe potuto essere un clangore di catene. Quando la piccola barca si fu lasciata alle spalle il monumentale relitto, Lilith trasse un sospiro di sollievo. «Il galeone», disse, per indicarlo a Jarred col solo nome che conosceva. «Nessuno sa come sia arrivato qui, né perché.» Il giovane annuì e lei vide lo stupore sul suo volto. Stavano andando alla deriva da circa un'ora quando la barca cominciò inspiegabilmente a beccheggiare. Jarred ebbe un brivido di terrore. Subito balzò via dal suo posto e raggiunse Lilith sul sedile di poppa, stringendola tra le braccia per tenerla ferma. La ragazza fu come stordita dall'improvvisa vicinanza e dal contatto con la sua vitalità. Il calore di lui aveva una forza che la fece fremere. Sentiva l'odore maschile e pulito della sua pelle, un odore che sapeva di bergamotto. Con la fronte premuta contro il suo collo, poteva avvertire le pulsazioni di lui. Dimenticò dove si trovava, dimenticò che erano in pericolo; non era più consapevole di nulla fuorché del braccio robusto di Jarred intorno alla vita e della pressione di quel corpo virile contro di lei. Era come se i pensieri le fossero stati strappati via e nella sua testa ci fosse solo un liquore inebriante. Sembrava non ci fosse nessuna ragione che spiegasse la caotica instabilità della barca. Per un momento Lilith chiuse gli occhi e non volle chiedersi nulla, sommersa nella protezione di quell'abbraccio. Poi ci fu un urto squassante che per poco non li fece rotolare. Strappata dalla sua estasi, la ragazza gridò: «Guarda!» Due file di quattro dita ciascuna erano apparse sul bordo dell'imbarcazione, aggrappate a esso. Mentre sbarravano gli occhi, stupefatti, dall'acqua emerse una giovane donna che, con un movimento agile, scivolò a sedere davanti a loro. Era splendida, con lunghissimi capelli color ragnatela inzuppati e gocciolanti. Le sue trecce di seta si ripiegavano in fontane di filamenti sino alle ginocchia e coprivano la sua nudità. L'epidermide era bianca come la pancia di un pesce, senza traccia di un flusso sanguigno neppure sulle guance e sulle labbra, anemoni di cereo pallore. Ma, nonostante la sua stranezza, non ispirava paura, solo sconcerto. Lilith le rivolse la parola, coraggiosamente: «Cosa vuoi da noi?» Gli occhi della fanciulla acquatica erano grandi e luminosi, quiete polle nel grigiore dell'alba. Erano profondi e Jarred ebbe l'impressione di scorgervi il turbinare di un liquido. In risposta alla domanda di Lilith lei scosse
la testa e dai capelli si staccò una pioggia di gocce. Una colpì Jarred su un ginocchio, acuta come una puntura. La vista gli si oscurò, ma lui si spazzò via il liquido di dosso. «Cosa vuoi da noi?» ripeté Lilith, sforzandosi di mantenere un tono cortese. Prima ancora che lei finisse di parlare, la creatura wight balzò fuori della barca e scomparve nell'acqua. Le onde che aveva sollevato non si erano ancora allontanate che lei ricomparve. Dimostrando forza e agilità stupefacenti, salì di nuovo a bordo, ma stavolta aveva tra le braccia un infante. Si mise a sedere e lo cullò, guardandolo con tenerezza materna, sempre senza dire una parola. «Sei molto più abile di me», le disse Jarred. «Io ho gettato l'amo in molti fiumi, ma non ho mai pescato un bambino.» Tra le sue braccia Lilith si voltò a guardarlo e gli sorrise, ma la strana creatura continuò a cullare il suo piccolo in silenzio, mentre la barca scivolava via con la corrente. I suoi lunghi capelli bagnati lo avvolgevano in una coltre gocciolante e appiccicosa. «Cosa possiamo fare?» mormorò Jarred in un orecchio di Lilith. «Che intenzioni ha? Resterà seduta lì ancora per molto? Sta scendendo il buio e io vorrei andarmene da questo dannato posto.» «Loro non hanno il nostro stesso concetto del tempo. Credo che dovremmo spiegarle con calma la nostra situazione», rispose lei. Poi alzò la voce per rivolgersi alla loro silenziosa ospite. «Poiché oggi non abbiamo avuto una buona pesca, vorremmo lasciare questo luogo e tornare dove abbiamo il giaciglio e il focolare.» Sempre pronto a trovare qualcosa di umoristico in ogni situazione, Jarred non seppe resistere alla tentazione di buttare lì una facezia: «Cioè, a meno che tu non voglia fare un altro viaggio nell'acqua e portare a bordo un po' di pesce, invece di un bambino». Aveva appena finito di parlare che la barca oscillò con tale violenza da gettarli sul pagliolato, dove entrambi batterono la testa. Poco dopo, quando riuscirono di nuovo a guardarsi intorno, credettero di avere un'allucinazione, perché la ragazza acquatica e il suo bambino erano scomparsi. Al loro posto c'era un alto mucchio di pesci vivi e vegeti, che guizzavano in aria contorcendosi come lampi d'argento. La barca aveva intanto oltrepassato il confine della Palude degli Spettri e la corrente la stava portando via lungo un canale libero, aperto al cielo. «Torniamo a casa!» gridò Lilith.
Jarred si mise subito ai remi e cominciò a vogare con la massima energia. Di lì a poco la loro prua tagliava la superficie della laguna a buona velocità, senza nessun ostacolo, sebbene l'imbarcazione fosse molto appesantita e bassa sull'acqua. Quando furono in una zona più conosciuta il giovane si riposò un poco, poi cedette i remi a Lilith; proseguirono vogando a turno. Forme luccicanti continuavano a guizzare tra le loro gambe ed entrambi avevano la pelle cosparsa di appiccicose scaglie di pesce. «Abbiamo più pesci noi di quanti chiunque ne abbia mai pescati in una settimana!» esclamò Jarred. «Un regalo», disse Lilith. «Perché avrebbe dovuto farci un regalo?» «Non sono a conoscenza di questo», rispose la ragazza dell'Acquitrino, chinandosi sui remi. «Forse perché l'abbiamo trattata cortesemente e senza mostrare paura.» «Io avevo paura che ti succedesse qualcosa», disse Jarred. «Ma non avevi paura per te stesso.» Il volto attraente del giovane rivelò un certo disagio. «Tu sei stata più coraggiosa di me.» «Niente affatto», ribatté la ragazza, sorpresa. «Io ho una certa familiarità coi wight acquatici, mentre a te sono del tutto sconosciuti. Inoltre io so nuotare e tu no! A rigor di logica avrei dovuto essere io a cercar di salvare te», lo stuzzicò. Dentro di sé ripensò tuttavia alla sicurezza che le aveva dato il suo abbraccio e alla morbida carezza della sua camicia. «La prossima volta che uno di noi vorrà salvare l'altro, sarà il tuo turno», mormorò lui. Per un istante guardò Lilith in silenzio. Lei sorrise. Poco tempo dopo lo sconcertante ma remunerativo incidente nella Palude degli Spettri, in Città dell'Acquitrino fu data una festa in onore del ventiduesimo compleanno di Muireadach Reedmace Stillwater, figlio del comandante dell'Acquitrino e fratello di Cuiva. Il giovane aveva deciso che, per rendere più divertente l'evento, i partecipanti avrebbero dovuto indossare dei costumi, mascherandosi da personaggi o da oggetti particolari e, per un motivo noto soltanto a lui, aveva stabilito che i nomi di quei personaggi e di quegli oggetti dovevano cominciare per «B». Ai costumi migliori sarebbero stati assegnati dei premi. Gli amici e i parenti di Muireadach andarono dunque in cerca di vecchi abiti, pellicce, stoffe e roba di ogni genere e si travestirono da Banditi, Battellieri, Ballerini, Baroni, Bambini,
Balestrieri, Baccanti, Beccamorti, Bellimbusti, Bisce e via dicendo. Con sorpresa dei suoi amici, Odhràn Rushford tirò fuori una lunga parrucca di crine di cavallo giallastro, pettinata con stravaganti riccioletti, comprata a Cathair Rua da un ambulante che aveva poco altro da vendere. «Mi ero impietosito per quel miserabile», disse Rushford, per spiegare l'acquisto ai conoscenti. «Era povero in canna, aveva solo questa parrucca e una vecchia borsa di pelle da barattare con del cibo. Per non averlo sulla coscienza gli ho dato una manciata di monete e gli ho consigliato di mangiare qualcosa di sostanzioso, benché ci fosse poco da dubitare che sarebbe subito andato a riempirsi la pancia di birra fino a rotolare ubriaco sotto il tavolo. Così questa parrucca è diventata mia. Ho pensato che avrei potuto usarla per divertirmi un po'. Ma, sebbene mi piacesse, ho scoperto subito che io non piacevo a lei, perché quando me la sono messa ho iniziato a starnutire tanto che alla fine ho dovuto levarla. Jarred, ora la affido a te con l'incarico di regalarla a chi vuoi tu! Io intendo mascherarmi da Buffone di corte e andare alla festa con un costume vistoso e stravagante.» Jarred portò con sé la parrucca a casa Mosswell, dove quel garbuglio di riccioli gialli divertì molto Lilith. «Potresti indossarla e andare alla festa mascherata da Bellezza Bionda», le propose Jarred. «La proposta mi tenta», ridacchiò lei, «ma ho già progettato d'intervenire con un costume da Bucaniere. Però sarebbe una vergogna se questa splendida parrucca non fosse utilizzata. Perché non la metti tu? Potresti recitare la parte di Bellezza Bionda, una maliarda ardita e fascinosa!» Dopo averci pensato un momento, Jarred rispose: «Un uomo vestito da donna desterà di certo l'ilarità generale. D'altra parte non ho idea di come affrontare una simile impresa. Tu mi aiuteresti?» «Certo che lo farò!» Benché fosse snello e senza un filo di grasso, Jarred non poteva entrare in nessuna delle vesti a vita stretta di Lilith, così la giovane donna chiese alla levatrice Rathnait Alderfen se avesse un abito smesso da prestarle. «Potrai avere il mio vecchio abito da sposa», le rispose la signora Alderfen. «Sono trascorsi più anni di quanto mi fa piacere ricordare dal giorno in cui l'ho indossato e da allora è rimasto a marcire sul fondo di una cesta. In effetti me lo sono messo un paio di volte nella speranza d'invogliare alcune mie nipoti a indossarlo per le loro nozze, ma nel frattempo la moda dev'essere cambiata più di quanto credessi, oppure le giovani sono diventate più pretenziose, perché non hanno voluto saperne.»
Era una veste molto ricamata, ricca di orli pieghettati, mussola ormai corrosa dal tempo, merletti e nastri di velluto. Sembrava fatta con foglie di radicchiella, orecchie d'agnello e rete gessificata, come un cespuglio pieno d'insetti trovato in riva a un fiume. In effetti era un buon esempio di sartoria di cattivo gusto andata in rovina. Il giorno prima della festa Lilith portò Jarred a casa di Stiliwater, dove il giovane sedette pazientemente davanti allo specchio di Cuiva per lasciarsi applicare rossetto e strati di coloranti sulle guance e sugli occhi. A metà dell'opera fece schioccare le labbra con una smorfia infelice ed esclamò: «Questo rossetto ha un sapore a dir poco disgustoso». Cuiva scoppiò a ridere. «Naturalmente! È fatto con gusci d'insetti pestati. Caro Jarred, tu non hai ancora assaggiato gli amari bocconi che una ragazza deve mandare giù quando diventa donna. Aspetta finché non cercherai di metterti il tuo primo reggiseno, strapparti i peli delle sopracciglia, depilarti le gambe con la pelle di squalo o stritolarti lo stomaco in un corsetto!» «Le ragazze che si sottopongono a queste torture hanno pessimi consiglieri», disse Jarred. «Questo può essere vero», replicò lei con ironia, «ma difficilmente lo faremmo, se voialtri uomini non preferiste le ragazze col vitino di vespa a quelle un po' in carne. La colpa è vostra!» «Non mettermelo di cattivo umore, Cuiva», protestò Lilith. Ma anche Jarred stava ridendo. «Io ringrazio i Fati», disse, «se sono stati loro ad averne il merito, per avermi concesso di nascere uomo, perché oso dire che non avrei il coraggio di essere donna!» I partecipanti arrivarono alla festa mascherati da Barili, Baccelli, Boia, Biscotti e molto altro. «Ma chi è questa sensuale prostituta?» gridò Odhràn Rushford non appena gli capitò sott'occhio l'alta bionda dalle guance mal rasate che accompagnava Lilith e Cuiva. «Tieni giù le mani, razza di porco», lo avvertì Jarred. «Nonostante le apparenze, mia sorella è una donna virtuosa. Non permetterò che un uomo la conduca alla perdizione», intervenne Lilith. La ragazza non riuscì quasi a distogliere lo sguardo da Jarred durante quella serata. Per qualche motivo il travestimento femminile accentuava ulteriormente la sua virilità. Vedendosi davanti un abito da donna, chiunque si sarebbe aspettato di trovarci dentro una donna. Era dunque un po' sconvolgente accorgersi con un certo ritardo che in quella veste c'erano
energia e movimenti mascolini dove ci si sarebbe aspettati i gesti morbidi di una fanciulla. Quel contrasto aveva l'effetto di accentuare le linee robuste del corpo e rendere più evidente la sua vitalità. La cosa risaltava ancora di più grazie al colorante scuro che Lilith gli aveva sparso sopra gli occhi. Guardarlo finiva per essere divertente: era una pietra circondata di fiori, acciaio fasciato di pizzo. Che si fosse vestito da donna per far ridere gli altri lo legava ancor più a Lilith, come se stesse mostrando di essere così sicuro della propria virilità da non avere bisogno di provarla. Molti ragazzi scherzarono di gusto sul «seducente» aspetto di Jarred e lui, calandosi nella parte, accettò con arguzia ogni spiritosaggine. Il risultato fu che molte ragazze gli si fecero intorno, anch'esse ridacchiando e prendendolo in giro, tastando le sue strane chiome bionde, sistemandogli meglio l'abito, fingendo cameratismo femminile e usando quella mascherata come scusa per avvicinarlo e conoscerlo meglio. Ma lui danzò soltanto con Lilith. Nonostante una scazzottata fra cinque ubriachi, tra i quali Eoin, che si risolse rapidamente com'era cominciata, la maggior parte dei presenti si divertì molto. Verso la conclusione della festa, Muireadach Stillwater salì su uno sgabello e annunciò i nomi dei vincitori dei premi per i migliori costumi. «Il primo premio, quattro giare di succo di palude, viene attribuito a Doireann Tolpuddle per la sua sofisticata interpretazione di una Barbabietola.» Il pubblico fu chiassosamente d'accordo. «Il secondo premio, quattro giare di succo di palude, va a Eoin Mosswell per il suo spaventoso travestimento da Brigante.» Si alzarono altre grida d'approvazione. «E il terzo premio, ancora quattro ambite giare di succo di palude, è assegnato alle succose grazie femminili di Jarred Jovansson!» Dai presenti provennero ruggiti di entusiasmo. Poco prima dell'alba i partecipanti cominciarono ad avviarsi insonnoliti verso le proprie abitazioni, nella tiepida aria della notte. Eoin russava disteso sul pavimento, così Jarred, che si era tolto la parrucca lasciando ricadere i capelli scuri sul malconcio colletto dell'abito, accompagnò Lilith per non farla tornare da sola. «Fermiamoci un momento a casa di Rushford», le disse, lungo la strada. «Dal tetto si può godere lo spettacolo del sorgere del sole.» Lei accettò allegramente, mettendo da parte ogni pensiero sulla reazione dei suoi familiari se fosse rientrata in ritardo. Poco dopo la coppietta si trovò così a salire su una scala a pioli appoggiata a una parete della piccola
casa. Giunti sul tetto di canne rosse, coperto di stuoie di paglia, si misero a sedere sul punto più elevato, coi piedi appoggiati alla costolatura centrale per non scivolare. Sull'Acquitrino i colori della vegetazione si erano schiariti dal nero venato d'argento al grigio-azzurro, qui e là spruzzato di nebbia perlacea. A oriente l'alba aveva già lasciato il posto alle ricche tonalità dell'aurora e strisce orizzontali arancione si stavano riempiendo di pennellate rosa. I due giovani, seduti fianco a fianco, si meravigliarono della bellezza del mondo. Jarred indossava ancora il suo costume femminile, ma buona parte del trucco era venuta via, salvo il nero che gli impiastrava le orbite come la maschera di un brigante. Aveva con sé tre piccole mele rosse, portate via dalla casa di Stillwater, e le gettava in aria con esperti movimenti da giocoliere imparati da Michaiah. Nel farlo, gli accadde d'inclinarsi leggermente a sinistra. All'istante ogni intenzione dei due giovani di contemplare il giorno appena nato si dileguò come nebbia al sole. Quasi per caso le loro spalle erano venute a contatto. Da quel momento essi furono dimentichi di ogni cosa nell'universo fuorché quella piccola zona di leggera pressione e calore formatasi tra loro. Tuttavia nessuno disse una parola. Lilith continuò a guardare il cielo come se niente fosse, mentre Jarred non smise di far roteare i tre piccoli frutti rossi. Soltanto, lui si piegò un poco a sinistra e lei a destra. Per Lilith il punto in cui la sua spalla premeva contro quella di Jarred era il centro di una bruciante dolcezza, come se i suoi sensi fossero acutizzati e lei potesse avvertire con straordinaria precisione ogni fremito della muscolatura sotto la manica di lui. Il suo corpo era in fiamme e si rese conto di avere difficoltà a respirare. Non osò spostarsi di un millimetro, per timore che quel delizioso contatto s'interrompesse. I suoi pensieri erano un vorticante caos di sciocchezze; senza dubbio anche lui doveva essere consapevole di quel contatto fisico, ma cosa sarebbe successo se non lo fosse stato, se si fosse scostato lasciandola improvvisamente sola? E, se ne era consapevole, cosa poteva significare un eventuale distacco? Avrebbe testimoniato che non gli importava niente se si toccavano in modo casuale? E quella vicinanza era qualcosa di intimo oppure no? Ogni volta che lei cercava di portare avanti una riflessione di qualche genere, perdeva il controllo e i pensieri si dissolvevano ancora in quel piacere così indefinibile e tormentoso. «Prova tu», le disse d'un tratto Jarred, porgendole le mele. Lei se le lasciò consegnare e cercò di dominare le proprie emozioni per concentrarsi sui gesti che lui le insegnava, ma quando provò a gettare in
aria i tre frutti fece una gran confusione. Una mela le sfuggì ed entrambi si chinarono contemporaneamente per raccoglierla. Le loro mani si toccarono, esitarono e parvero avere difficoltà a staccarsi. Il sole avrebbe potuto salire o scendere, o mettersi a ballare nel cielo; ormai per Lilith non avrebbe fatto nessuna differenza. Nelle paludi tutto si schiariva sempre più, gli uccelli si svegliavano e iniziavano le loro sinfonie mattutine, ma in quel momento nulla di tutto ciò penetrava nella coscienza di Lilith. Lei non parlò, non ne era capace. Nemmeno lui disse una parola. Alla fine lei prese la mela dalla sua mano, ma se la lasciò cadere in grembo con le altre due e non cercò di ripetere il gioco di destrezza. Un arco di sole emerse dalle cime degli alberi, abbagliante come l'orlo di uno scudo metallico appena forgiato. Gli occhi di Lilith e Jarred erano rivolti al cielo, ma nessuno dei due ne vide la luce. Lilith si distese all'indietro. Jarred abbassò lo sguardo su una mano di lei, posata sul rivestimento di paglia, e ne sfiorò il dorso con un dito. Per un poco rimasero immobili, poi lei girò la mano a palmo in su e strinse la sua, voltandosi verso di lui. Jarred vide avvicinarsi il volto della ragazza e si chinò, sperando, oppure ormai certo. Lei sollevò il mento e le loro labbra si trovarono, leggere come piume. Poi, lentamente, Jarred appoggiò un gomito al tetto e si girò sopra il corpo di lei; i suoi capelli caddero come un sipario che nascondeva la gloria dell'aurora. Il loro bacio fu il posarsi di un colibrì su un bocciolo di rosa, fu la marea che entrava irresistibile nella scogliera, fu il tambureggiare di una musica, fu seta che scivolava sulla seta, fu un'umida dolcezza di rugiada. Lilith arrivò a casa quando il sole era sorto da un pezzo. Eoin sedeva sulla soglia ad aspettarla, accigliato. Non disse nulla a Jarred quando lo vide, ma, dopo che il giovane se ne fu andato, protestò adirato con lei rimproverandola per il ritardo, finché Eolacha non si alzò dal letto e lo fece tacere. Quando infine Lilith posò il capo sul cuscino, occorse molto prima che il sonno le chiudesse gli occhi, e non fu affatto un sonno riposante. Il momento in cui Jarred si era girato sopra di lei e il calore che quel contatto le aveva fatto dilagare nella carne continuarono a ripetersi come un'eco nei suoi sogni. Il mese di aoust fece bollire umidi vapori fuori dell'Acquitrino e fece nascere bizzarri fuochi fatui sulle sue acque. In quella stagione la maggior parte della gente si preparava all'annuale Festa dei Giunchi e tra le persone
più entusiaste c'era Cuiva Stillwater, perché quell'anno sarebbe stata lei la Regina dei Giunchi. Frattanto, per ingannare il tempo in quelle lunghe sere d'estate, molti giovani si riunivano al cruinniú per giocare a dadi. Eoin era tra quelli che si vedevano là più spesso e talora vinceva, talaltra perdeva. In genere però si manteneva sul pareggio. La posta in gioco in quelle partite non era denaro, poiché nell'Acquitrino circolavano poche monete. Così tutti mettevano in palio i propri servigi come rematore per i punt manovrati a palo, o carpentiere per la riparazione dei tetti di canne, oppure si giocavano il possesso di oggetti come coltelli, capi di vestiario e generi alimentari non deperibili. Tuttavia, quando qualcuno sembrava sul punto di perdere anche la camicia, i suoi amici intervenivano per farlo ragionare. «Per oggi hai giocato abbastanza», gli dicevano. «Lascia perdere. Ti rifarai domani.» In tal modo si evitavano drammi e si manteneva la quiete pubblica. Una sera Eoin disse a Jarred: «Sono disposto a giocarmi un barilotto di anguille affumicate contro quel ninnolo da quattro soldi che hai al collo». «Cosa? E quando l'hai visto?» Talvolta a Jarred capitava di toccarsi l'amuleto, sotto la camicia, per non farselo sbattere sul petto quando si muoveva. «L'ho visto qualche volta, quando dimentichi di nasconderlo. Ha una strana forma per un amuleto, no?» «Questo non me lo gioco», rispose Jarred. «Perché no?» volle sapere Eoin, irritato. «Non può valere un granché, stanne pur certo.» «Non vale molto, infatti.» «Be', allora, Possente Signore del Cielo», esclamò Eoin, allargando le braccia comicamente, «ti vanno bene un barilotto di anguille e mezza dozzina di buone punte di freccia?» «Ho detto no.» «Una dozzina.» «Piantatela con questa storia, ragazzi», intervenne un altro giocatore, seccato. «Cerchiamo di andare avanti con questa partita, eh?» Eoin ignorò l'esortazione. «Apri bene le orecchie», riprese, abbassando la voce. «Mi gioco la barca contro quell'amuleto. Il mio punt, lo sai, è solido, fatto a regola d'arte.» Jarred si scostò come se l'altro fosse un insetto nocivo. «Tu hai già un amuleto. Perché sei così ansioso di avere anche il mio?» «Il perché lo sai», rispose l'altro, guardandolo con aria di sfida. «Quello
non è una delle solite protezioni contro gli unseelie. Se lo fosse, non saresti così riluttante a separartene.» Jarred replicò seccamente: «È un regalo di mio padre. L'ho portato per tutta la vita. Se abbia un qualche valore in denaro non lo so, ma per me ha un valore d'altro genere e non intendo perderlo». «Ah!» sbuffò Eoin. «Quello è un regalo di tuo padre e il cignaio del re è un maiale vestito di rosso.» «Volete restare in gioco o no, voi due?» domandarono gli altri giocatori, irritati. «Io ci sono», disse freddamente Jarred, voltando le spalle a Eoin. «Io anche.» Per il resto della serata i due si ignorarono con ostentazione. Il mattino della Festa dei Giunchi, fiori e canne - sempre rigogliosi, ma in modo particolare alla fine dell'estate - furono raccolti in grande quantità. La gente dell'Acquitrino li usò per intrecciare complicati simboli chiamati «festoni», in forme diverse: anelli, croci, stelle, triangoli, pupazzi, bambole, uccelli, mammiferi e anfibi. Si prepararono festoni per i vari gruppi che avrebbero gareggiato tra loro, come i Guardiani, gli Occidentali, i Caprai, i Pescatori, i Tuffatori e chiunque altro si fosse associato e organizzato per presentarsi secondo la tradizione. Su ogni punt fu eretta un'alta piramide di giunchi, tenuti fermi da corde e intrecciati di fiori. Le squadre di battellieri continuarono a ornare le proprie imbarcazioni con campanelle appese ovunque. Il punt più grande fu riservato alla Regina dei Giunchi in tutta la sua gloria; lei avrebbe guidato la processione. La casa del comandante Stillwater era in preda a un allegro caos. Le amiche di Cuiva e sua sorella minore Keelin le stavano ancora ritoccando la corona di fiori, quando Lilith arrivò di corsa, trafelata e sconvolta. «È terribile!» gridò. «Ieri sera ho aiutato Eolacha a costruire il festone di casa Mosswell-Arrowgrass, ma avevo dovuto accudire mio nonno per tutto il giorno, così non ho potuto trovare neppure un fiore per decorarlo. Tutte le isole vicine e lontane erano già state spogliate dai raccoglitori. Qualcuna di voi può fare a meno di qualche fiore per darlo a me?» Le fanciulle allargarono le braccia costernate, agitandosi qui e là come una frotta di galline che non riuscissero più a trovare il becchime. «Io no», chiocciarono ansiosamente. «Ho dovuto usare persino il mio bouquet, per ornare la barca dei Caprai.»
«E i miei ultimi fiori se ne sono andati per il festone dei miei cugini.» «A me sono rimasti soltanto alcuni fiori, ma col gambo tagliato, troppo corto per usarli nei festoni.» «Puoi prendere i miei, dalla mia corona», si offrì Cuiva. «Oh, per favore, non lo farei neppure per salvarmi la vita. Spogliare la corona della Regina dei Giunchi? Per chi mi prendi?» replicò Lilith. «Ma allora come farai?» Lilith esitò, poi batté le mani. «Aspetta... mi è venuta un'idea. Non preoccuparti, ora so dove trovare un posto ancora pieno di fiori che nessuno ha toccato! Tornerò presto!» E corse via. Il sole era un foro al calor bianco scavato in un cielo di genziana. Su tutto l'Acquitrino ronzavano milioni di libellule, come una foschia di vapore colma di piccoli arcobaleni. Guidata dalla regina, la processione di natanti sfilò nelle zone popolate dell'Acquitrino. I fanciulli che stavano intorno alle piramidi floreali al centro di ogni barca scendevano a portare a riva gli elaborati festoni, per appenderli a ogni casa presso la quale passavano. Furono stese stuoie di giunchi sulle rive del Lago Charnel e sul cruinniú, mentre canditi di loto venivano distribuiti ai bambini e tutti gli altri mangiavano torte di semi e bevevano birra. Colpito dalla semplicità e dalla spontaneità di quelle manifestazioni, Jarred cercava con lo sguardo Lilith tra gli spettatori, ma non riusciva a vederla da nessuna parte. Pensò che avesse preferito festeggiare assieme ai suoi, o con Cuiva, invece di passare la giornata con lui. Disse a se stesso che quella scelta era probabilmente la più giusta e fece il possibile per scacciare il disappunto. Tuttavia i suoi occhi continuavano a frugare tra la gente nella speranza di scorgere il meraviglioso viso della fanciulla, o i capelli chiusi nel foulard scuro, segno del lutto. Fin dalla notte della festa in costume lui e Lilith avevano fatto il possibile per vedersi in segreto e avevano condiviso i baci e gli abbracci che ora li univano, così come li separavano dal resto del mondo. Più tempo trascorrevano assieme, Più capivano che non avrebbero sopportato di essere divisi. I loro pensieri erano fatti per intrecciarsi, i loro giorni e le loro notti profumavano di dolce follia. Il tempo stesso sembrava cambiare forma: alcuni momenti di vita si trascinavano all'infinito, mentre altri fuggivano su rapide ali. La sera distese il suo velo scuro. Qualche stella bucò la cupola del cielo. Jarred stava vagando con aria sconsolata nelle vicinanze del cruinniú, quando vide venire nella sua direzione Earnàn, il patrigno di Lilith. La
faccia del pescatore di anguille appariva grigiastra, quasi cadaverica, nel crepuscolo. Aveva un'espressione tesa, rigida, e cerchi scuri di stanchezza intorno agli occhi. «Hai visto Lilith, qui in giro?» gli domandò subito l'uomo. «No.» Amaro come la bile, il sapore della paura riempì la bocca di Jarred. «Credevo che fosse in vostra compagnia.» «Noi eravamo convinti che fosse con Cuiva, ma là non c'è. Non siamo riusciti a trovarla. Nessuno l'ha più vista da quando è andata a raccogliere fiori.» «Quali fiori? Dove?» «Nessuno lo sa.» Una sensazione gelida strinse le viscere del giovane, dandogli la nausea. Il lungo elenco dei wight, dei predatori e dei pericoli sempre in agguato nell'Acquitrino gli passò davanti agli occhi della mente. Si guardò intorno, incapace di pensare per il terrore, e in quel momento l'aria della sera fu attraversata da un gemito che, dopo essersi perduto in lontananza, tornò a vibrare tremulo, essenza stessa della disperazione. La terza volta che il lamento risuonò parve emergere dal cuore stesso dell'Acquitrino e tutti coloro che lo udirono trattennero il fiato in attesa di una tragica notizia, perché quello era il pianto luttuoso di una prefica wight. Earnàn non riusciva a parlare. Per un poco rimase fermo come se le sue gambe fossero di legno, poi si allontanò senza una parola. I cani furono fatti uscire dai canili e si formarono squadre di ricerca che si allontanarono in ogni direzione. Sulle passerelle e sui ponti si potevano vedere file di lanterne che si aggiravano tra le isole coperte di salici, specchiandosi nell'acqua nera come collane. Ovunque si alzavano richiami... ma non c'erano risposte, a parte il verso di un gufo o l'improvvisa risata stridula di un eldritch: nulla di cui stupirsi nelle ore notturne. «Fiori», sussurrò febbrilmente Jarred tra sé, avviandosi a lunghi passi su un'instabile passerella. «Dove può aver pensato di trovare dei fiori?» Scrutò i dintorni come se solo allora riuscisse a concentrarsi su qualcosa di concreto come la ricerca di indizi tra le canne e nel fango, dove tremule felci oscillavano al vento. Si stava alzando la nebbia. Il giovane scelse una direzione a caso e cominciò a correre, chiamando Lilith. Quando ebbe coperto una buona distanza si accorse che i piedi l'avevano portato alla casa dei Mosswell. Rallentò il passo, quindi si fermò davanti
alla porta. Cercare lì era senza dubbio una perdita di tempo. Mentre si voltava per andarsene, scorse con la coda dell'occhio un movimento nella giuncaia lì accanto. Guardò con attenzione. I giunchi si mossero ancora. Stavolta ondeggiarono come se qualcosa passasse in mezzo a loro. «Aspetta!» esclamò Jarred in tono perentorio. Non ci fu risposta. Lui corse avanti per non perdere il contatto con ciò che stava allontanandosi, qualunque cosa fosse. Arrivò al bordo interno della giuncaia con poco ritardo rispetto a quei movimenti e gli sembrò - anche se non era facile dirlo, nel buio e con la nebbia che arrivava fin lì - che un bambino, o qualcuno non più alto di un bambino, fosse sbucato dalle piante e si allontanasse svelto sul sentiero che spariva tra i cespugli. Jarred adesso era molto incuriosito. «Aspetta!» gridò ancora. «Per favore, aspetta! Tu sai dove possiamo trovare Lilith?» Il bambino, se era un bambino, non rallentò neppure. Al contrario, scomparve oltre una curva del sentiero. Jarred lo inseguì, terrorizzato al pensiero di perderlo e convinto - per un'insondabile ragione - che in qualche modo quell'individuo avesse la chiave del mistero della ragazza scomparsa. Cominciò una vera e propria caccia. Jarred era costretto a fare appello a tutta la sua forza fisica e alla sua abilità di cacciatore per avanzare al buio. Non aveva una torcia e l'Acquitrino era illuminato solo dal vago chiarore delle stelle e dalla saltuaria comparsa di qualche fuoco fatuo. L'essere che gli stava facendo da guida procedeva con una velocità incredibile, considerata la sua scarsa altezza. E che lo stesse guidando era certo, perché, ogni qualvolta il giovane lo perdeva di vista e si guardava intorno disperatamente, non mancava mai di scorgerlo poco più avanti, fermo in sua attesa, benché sempre assai poco visibile tra la nebbia. Quando il sentiero terminò sulla riva di una laguna, lui trovò una barca ormeggiata lì accanto. La prese in prestito, perché aveva visto - per impossibile che fosse - la forma del misterioso individuo già sulla sponda opposta, che lo aspettava tra le piante e la foschia. Attraverso stagni e paludi, sprofondando nella melma e inciampando tra i sassi, Jarred proseguì deciso; per lui il resto del mondo avrebbe anche potuto non esistere più. Ogni suo pensiero era fisso su colui che stava seguendo. Ritrovare la ragazza che amava, o morire nel tentativo, era l'unico suo desiderio. Non voleva neppure chiedersi se a farlo correre avanti in quel modo fosse solo un incanto maligno.
«Lilith!» gridava, aprendosi la strada fra i cespugli. «Lilith!» E d'un tratto udì una risposta ai suoi richiami. Un profumo di lavanda lo raggiunse e gli entrò nel naso come una tempesta. Attraversò un'ultima macchia di sempreverdi correndo verso quella voce così familiare... e la vide. Era seduta con la schiena appoggiata al tronco di un ontano, il bel viso chiuso tra due cascate di capelli così scuri che sembravano fatti di vuoto, di lontananze dove lui avrebbe potuto trovare le stelle, se si fosse abbandonato all'universo. Mai visione più dolce aveva inebriato il suo cuore. Si lasciò cadere in ginocchio dinanzi a lei, col fiato mozzo per la fatica. La ragazza lo scrutò con timore. «Tu sei umano?» Le parole che gli si affollavano alle labbra erano così tante che lui riuscì a dirne una sola: «Sì! Oh, sì!» Gli eldritch wight, sia seelie sia unseelie, non potevano mentire. Erano in grado di prendere forma umana, ma non di negare verbalmente la loro natura non umana. Jarred non fece a lei la stessa domanda. Non aveva bisogno di conferme: ogni cellula del suo corpo gli stava dicendo che quella di fronte a lui era Lilith, coi suoi occhi limpidi velati da lunghe ciglia scure, con le sopracciglia arcuate, le palpebre palpitanti come ali di una farfalla azzurra. Quindi aggiunse: «Per tutto quello che c'è di buono al mondo, tu sei viva! Sul mio onore, non ho mai conosciuto sollievo più grande». Un po' ridendo e un po' piangendo, lei si gettò tra le sue braccia e Jarred la strinse a sé con selvaggia tenerezza, immergendo il viso tra i suoi capelli. «Oh, vita mia, se ti avessi perduto non l'avrei sopportato. Sposami, che io non possa perderti mai più», le sussurrò. «Sarò felice di sposarti», rispose lei, quasi intorpidita dall'emozione. «Sarò tua per sempre e tu sarai mio. Questo è tutto ciò che posso desiderare.» Lui le sfiorò dolcemente la bocca con un bacio. «Ma prima», disse Lilith, «dovrai portarmi a casa, perché mi sono storta una caviglia e non riesco neppure a stare in piedi.» Senza perdere tempo lui la prese in braccio, la baciò ancora e la portò via. Durante il ritorno non parlarono molto; era abbastanza che si fossero ritrovati. Lilith appoggiava una guancia contro la camicia rammendata del
suo salvatore, ascoltando l'energia del suo corpo, il calore della pelle e i battiti del cuore sotto la stoffa malridotta. La curva di una spalla di lui si stagliava sullo sfondo del cielo stellato e una brezza malandrina le portava sul volto carezzevoli ciocche di capelli in cui si rincorrevano sfumature diverse: bronzo, castano scuro, mogano e nocciola. Alzando gli occhi lei poteva vedere la linea della mandibola di Jarred, appena velata di barba, e, sotto il mento, il collo robusto, il pomo d'adamo simile a un boccone che gli fosse rimasto in gola e l'ombra delle sue clavicole. Respirava il suo odore di muschio e di cuoio, oscillava con lui ogni volta che qualcosa gli faceva perdere l'equilibrio, avvertiva l'impatto dei suoi stivali che si posavano al suolo e il vigore delle sue membra. La consapevolezza del desiderio maschile di cui si sentiva oggetto era lo specchio del desiderio che quella vicinanza destava in lei. Avrebbe voluto che quel viaggio di ritorno durasse per sempre. Quando ebbe deposto l'amata nella barca, Jarred si portò le mani alla gola e sganciò la catenina da cui pendeva l'amuleto d'osso. Mentre la allacciava al collo di lei, disse: «Avrei dovuto darlo a te da tempo. Non so perché ho tardato tanto». «Ma io ho già un amuleto», gli fece notare lei, felice nonostante il dolore alla caviglia. «Porta anche quello, se vuoi. Ma giurami che terrai sempre il mio.» Lei corrugò la fronte, perplessa. «Questo oggetto ha una proprietà speciale», continuò il ragazzo. «A chi lo porta non può accadere niente di male. Io l'ho portato tutta la vita, durante incontri di lotta e incidenti di caccia, corse a cavallo e allenamenti con le armi. Nel corso di queste attività pericolose non ho mai riportato neppure un graffio. Non ho mai sentito parlare di altri amuleti come questo. Evita di parlare del suo potere alle tue amiche, perché nessun ladro sappia della sua esistenza. Molti sarebbero capaci di uccidere per un simile tesoro. Chi lo porta non può essere ferito, ma l'amuleto gli può essere rubato o tolto con la forza.» Lilith esclamò: «È un oggetto meraviglioso! Ma devi essere tu a portarlo, perché se qualcosa ti strappasse a questo mondo io non potrei sopravvivere». Lui scosse il capo, inflessibile. «Non voglio sentire un'altra parola. L'amuleto è tuo, altrimenti lo getterò nel lago. Ora giura che lo porterai.» Lei assaporava le sue premure come nettare. «Lo giuro!» Tornarono a casa per via d'acqua e di terra. Erano quasi arrivati quando
incontrarono Odhràn Rushford. «Sesso, Lilith!» esclamò il giovane, eccitato. «Torni tra noi, finalmente!» «Proprio così, Odhràn. Anche se un po' zoppicante», replicò lei sorridendo. «Stai certa che saresti tornata con una cavalcata più comoda e veloce, se a portarti fossi stato io. Il tuo accompagnatore mi sembra alquanto deboluccio», scherzò l'altro. «Cedimi il tuo fardello, Jovansson. La porterò io per il resto della strada.» «Pesa come una piuma, ma ti farebbe sprofondare fino alle ginocchia prima di aver fatto tre passi, mammoletta», lo prese in giro Jarred, benché l'amico fosse piuttosto robusto. Rushford alzò gli occhi al cielo e sospirò: «Vedo che non riuscirò ad avvicinarmi al Giglio dell'Acquitrino più di quanto una stella possa cadere nel mio piatto di zuppa. Vorrà dire che mi limiterò a divulgare la buona notizia, allora». E con un allegro cenno di saluto scomparve nel buio. I membri delle squadre di ricerca non vollero andare a letto prima di essere passati a casa dei Mosswell per accertarsi personalmente che la ragazza fosse sana e salva. Quando la folla si disperse era quasi mezzanotte. Dei visitatori rimase soltanto Jarred. Lilith sedeva con la caviglia dolorante sollevata su uno sgabello, mentre Eoin la aiutava a mangiare qualcosa. Al tavolo, Earnàn aveva la testa posata sulle braccia. Era mezzo addormentato, così esausto che non si mosse neppure quando l'upial gli si arrampicò addosso, come al solito, per acciambellarsi di traverso sulle sue spalle. Jarred si volse a Eolacha. «Ho sentito una prefica. Temevo che piangesse per Lilith.» «L'ho sentita anch'io. La wight si stava lamentando per un uomo ormai anziano», disse Eolacha. «Dopo una vita lunga e gioiosa è morto stanotte, nel sonno.» Prese il suo bastone dal posto in cui era solita deporlo, sulla mensola del camino. «Hai mai visto il bastone di una carlin al lavoro?» Lui scosse il capo. «Allora vieni con me.» La donna lo condusse fuori attraverso la porta posteriore e poi oltre l'affumicatoio. Sparsi laggiù, sulla piccola isola, erano cresciuti alcuni meli. Eolacha si fermò in mezzo al frutteto e conficcò il bastone al suolo con una forza che sorprese Jarred. Le mani contorte della donna tracciarono alcuni simboli nell'aria, mentre lei cantava qualche parola in una lingua a lui sconosciuta. Bagnato dalla luce delle stelle, il bastone era dritto e immobile,
del tutto spoglio, con tre nodi vicino all'estremità rivolta in alto. Jarred ebbe l'impressione che quell'oggetto si comportasse come una pianta viva, traendo nutrimento dalla terra e nello stesso tempo risucchiando una misteriosa energia. E d'un tratto, come se in un istante esplodesse la primavera, dal nodo più alto spuntarono boccioli. Davanti agli occhi del giovane essi crebbero, gettarono foglie e allungarono ramoscelli come dita brucianti di fiamma verde. La forza invisibile del suolo ne schizzava fuori producendo manciate di foglie, di due colori diversi. Alcune erano verde scuro come le felci nell'ombra, altre luccicavano dell'oro dei salici sul finire dell'estate. E tutte erano gonfie di linfa, umide, come se gli eldritch dell'acqua stessero respirando su di esse. «Se ti è venuto il dubbio che questa sia una cosa eldritch, sappi che lo è», disse la carlin, cominciando a staccare le foglie dai ramoscelli. «I bastoni sono un dono della Cailleach Bheur. Contengono tre poteri seelie e li cedono a chi ha la conoscenza. Danno lo Slàinte, il Cothú e lo Scàth: la guarigione, il nutrimento e la protezione, e il loro è il potere della terra.» Mormorò una parola. I ramoscelli rimasti, ora privi di foglie, caddero al suolo disseccati e il bastone rimase nudo e liscio come prima. La vecchia ne aveva ricavato due manciate di foglie fresche. «Come funziona il raccolto del bastone?» domandò Jarred, affascinato. «I rovi e le spine per la protezione, le foglie e le bacche per la guarigione, le noci e i frutti per il nutrimento. Un uomo può mangiare un solo frutto del bastone e avere la forza di correre un giorno e una notte senza nutrirsi d'altro. Un infuso di queste», disse la carlin mostrandogli le foglie verdi, «e un impiastro di queste», alzò le foglie dorate, «faranno sì che domattina Lilith si alzi senza nessun dolore.» Jarred guardò con rinnovato rispetto il piccolo simbolo sulla fronte della donna: un disco che rappresentava la luna piena, o il sole invernale, indelebilmente tatuato con l'azzurro della pervinca. «Sono impressionato», confessò. «Nel mio villaggio non c'è mai stata nessuna carlin. Avevo sentito parlare del vostro potere, ma è la prima volta che vedo una di voi al lavoro.» Eolacha estrasse il bastone dal suolo, e lo ripulì dal terriccio con un grande fazzoletto che aveva tratto di tasca. D'impulso, Jarred disse: «Voi siete molto saggia, signora Arrowgrass. Vi prego, rispondetemi, avete mai sentito parlare di un uomo di nome Jovan?» «Jovan?» La vecchia interruppe ciò che stava facendo. «È un nome inso-
lito. Dammi un momento per pensarci.» Scosse il fazzoletto per spolverarlo, lo ripiegò e se lo mise in una tasca del grembiule. «Sai, credo di aver sentito quel nome, ma posso dirti ben poco. Molto tempo fa, a Cathair Rua, si parlava di un viaggiatore che era passato di là. Il nome mi rimase impresso per la sua particolarità. Tutto ciò che ricordo è l'avvertimento di stare alla larga da chi lo portava. In quanto al motivo, non ne sono a conoscenza.» Tornò a guardare il bastone, lo accarezzò da un capo all'altro come per controllare che fosse di nuovo liscio e intatto, poi annuì soddisfatta e se lo mise sottobraccio. «Era un tuo parente?» «Mio padre.» «Ah. Mi dispiace di non esserti stata d'aiuto. Spero che un giorno tu riesca ad avere sue notizie. Forse ti converrebbe domandare in città. Ora, ragazzo mio, andiamo a vedere come sta Lilith.» Impugnando il bastone con fermezza, la carlin fece per tornare in casa, ma a metà strada si voltò ancora verso il giovane. «Prima che io me ne dimentichi, come hai fatto a trovare Lilith, persa nella notte com'era?» volle sapere, scrutandolo con aria interrogativa da sotto le sopracciglia candide. «Be', io...» Jarred ripensò all'accaduto. «Uno sconosciuto mi ha condotto da lei. Un bambino, suppongo.» Si accigliò. Gli era rimasta un'immagine molto vaga di quell'individuo, ma sospettava che non fosse affatto un bambino. In lui c'era qualcosa... si grattò la testa... di alieno. Senza dubbio si trattava di una creatura eldritch. «E poi è scomparso. Non so altro. E non l'ho più rivisto.» L'espressione di Eolacha era imperscrutabile. Commentò le sue parole con un cenno di assenso e un grugnito, senza compromettersi con una risposta qualsiasi, e rientrò in casa. Jarred andò a parlare con Earnàn e gli chiese il permesso di sposare Lilith. Se nel pescatore di anguille ci fu un'esitazione, fu dovuta solo all'affetto per suo figlio e a un presagio che non seppe spiegare neppure a se stesso. Tuttavia il rapporto tra Jarred e la sua figliastra gli era fin troppo chiaro e l'uomo non tardò molto a concedere la sua approvazione. Jarred si tolse l'anello d'ottone dal mignolo della mano sinistra e lo diede a Lilith. «Non è d'oro, ma luccica in modo quasi uguale, ed è meravigliosamente intarsiato col miglior filo di rame. Apparteneva a mia madre. Ora sarà della mia sposa», le disse. Stupita e felice, lei accettò il dono. «Ma io non ho niente di altrettanto
prezioso da darti. Come le carlin, tutti gli ornamenti che porto sono di materia che un tempo era viva: legno, corno, ossa, avorio, corallo e madreperla. Però... aspetta. A una parete della cucina è appesa un'armatura di scaglie di pesce. L'hai notata?» «L'ho notata. Ma non ho bisogno di avere doni da te, a parte la tua promessa.» «Apparteneva a mia nonna Laoise. Un'eredità. Dicono che è stata donata alla nostra famiglia dal popolo del mare. Ti prego, prendila.» «Cosa potrei fare di un oggetto come quello? Inoltre è troppo piccola per me. Probabilmente è stata costruita per un nano.» Jarred notò l'espressione delusa della sua amata e continuò: «Tu mi hai dato questo fazzoletto verde, tessuto dalle tue mani con filo d'ortica. Per me vale più di tutti i tesori sepolti sul fondo dei laghi». Lei capì dal tono che era sincero e ne fu soddisfatta. Il fidanzamento fu reso pubblico in modo formale. La novità fece strillare di eccitazione Cuiva e le altre amiche di Lilith. Earnàn ed Eolacha si congratularono con la coppia, ma in loro si avvertiva un filo di tristezza che Lilith pensò, giustamente, di poter attribuire alla preoccupazione per l'infelicità di Eoin. Il figlio di Earnàn non aveva reagito bene alla notizia. Era diventato scostante e silenzioso, soggetto a improvvisi accessi di rabbia. La coppia progettava di convolare a nozze la primavera successiva, nel mese di mars. Nel frattempo la salute del vecchio Connick si stava deteriorando in fretta. Sembrava incredibile che fosse riuscito ad aggrapparsi alla vita così a lungo, sconvolto com'era da continue e stupefacenti allucinazioni. I suoi parenti e altre persone caritatevoli lo accudivano secondo le loro possibilità. Quando Lilith andava a fargli visita, spesso Jarred la accompagnava portando anch'egli un po' di cibo per il poveretto. Per il privilegio di scortarla doveva tuttavia fare a turno col fratellastro della sua promessa sposa: Eoin aveva conservato un certo affetto per il vecchio, che conosceva fin dal tempo in cui era sano di mente. Le farneticazioni di Connick erano diventate, se possibile, ancora più incomprensibili. «Hanno eretto barriere invisibili nel cielo, per proteggersi dagli attacchi!» era capace di esclamare all'improvviso, mentre Lilith si occupava di lui. «Hai sentito che roba? Cosa? Non importa, ormai è andata.» «Calmati, nonno! Cerca di riposare, adesso.» Ma lui non trovava requie e farfugliava: «Avrò un guinzaglio di zampe
di gallina. Dobbiamo tirare su alcune costruzioni, e quelle sono le costruzioni che abbiamo tirato su da soli. Be', disse il cacciatore, manterrò il silenzio se voi la porterete fuori di qui». «Va tutto bene, nonno. Non c'è bisogno di agitarsi.» «Loro non sono riusciti a determinare la causa dell'incendio. Questo è tutto oro autentico, sai. Era soltanto la sua piccola faccia.» «Lo so. Naturalmente è oro autentico.» Eolacha poteva fare molte cose per alleviare le sofferenze fisiche, ma neppure le erbe, gli incantesimi e i decotti della carlin erano in grado di arrestare la rapida decadenza mentale del vecchio Connick. In una sera afosa, sul tardi, mentre remavano verso casa attraverso una distesa di acque sempre più scure, Odhràn Rushford raccontò a Jarred la curiosa ma ben nota storia di un kelpie che un tempo aveva infestato una certa località dell'Acquitrino. Il racconto non era ancora finito quando giunsero all'abitazione di Rushford e questi dovette occuparsi d'altro. I due amici ormeggiarono la barca a una piccola bitta, quindi entrarono e iniziarono a prepararsi la cena, alla luce di una lanterna a olio. Jarred era un po' distratto, poiché i suoi pensieri, come al solito, continuavano a tornare a Lilith. Il desiderio di essere accanto a lei, a volte così intenso da risultare tormentoso, non lo abbandonava mai; soltanto la fatica del lavoro lo distraeva dalla passione d'amore. Mentre mangiava una ciotola di formaggio caprino accompagnato da pane di loto, Rushford lo guardò con ironia. «Devo supporre che tu abbia altri pensieri per la testa, signor Futuro Sposo, perché non mi hai ancora chiesto cosa abbia indotto il kelpie ad andarsene.» Jarred si batté una mano su un ginocchio ed esclamò, a bocca piena: «Per tutti i fulmini, me ne stavo dimenticando! Ti prego, finisci la storia». Rushford ricominciò a raccontare l'episodio e la serata trascorse piacevolmente, anche se Jarred non vedeva l'ora che passasse la notte e venisse il momento di ritrovarsi in compagnia di Lilith. Il pomeriggio seguente il giovane si affrettò a finire il lavoro della giornata per arrivare il più presto possibile a casa dei Mosswell, che lo avevano invitato a cena. Più tardi, quando la cena fu terminata e per Jarred venne l'ora di accomiatarsi, Lilith lo accompagnò sulla riva fino all'estremità dello staithe, dove era ormeggiata la sua barca. Lì i due si fermarono a chiacchierare, senza far caso ai banchi di nebbia che la sera scivolavano sulle acque, al
fruscio della corrente tra i pali semisommersi sotto il pontile e all'upial di palude che li aveva seguiti e si strusciava affettuosamente contro le loro caviglie. «Sarai tu a scegliere dove andremo ad abitare dopo il matrimonio», disse Jarred, stringendo con dolcezza le mani dell'amata tra le sue. «Qualunque posto tu desideri, mi andrà bene.» «Tu dove vorresti vivere?» domandò la ragazza sorridendo. Il suo sguardo accarezzava i particolari del volto mascolino di lui, come per immagazzinarli nella memoria e non correre il rischio di soffrirne la dimenticanza quando non gli era accanto. «No, devi essere tu a decidere!» replicò Jarred. «No, tu!» E, come spesso accade tra innamorati, ingaggiarono un dolce diverbio che divertì e fece sorridere entrambi, finché non si trovarono d'accordo sul fatto che avrebbero preso dimora nell'Acquitrino. Jarred disse: «Il deserto è spettacolare, ma questo è il luogo più accogliente che io abbia mai conosciuto. È una terra di piante rigogliose, dove cantano gli uccelli e le rane e si ode sempre la musica dell'acqua. Ma ogni tanto dovrò tornare a vedere il mio villaggio. Mia madre vive là...» «Andremo assieme a far visita a tua madre! Le porterò i regali più belli che potrò farle e la amerò con tutto il cuore», esclamò Lilith. Benché nessuno dei due fosse più un bambino da un pezzo, erano entrambi consapevoli che si stavano comportando come bambini. E ciò non era affatto spiacevole, anzi era divertente. Conversarono di cose superficiali, allegramente, finché l'upial non si annoiò della loro compagnia e andò a caccia di lucciole. Eoin, invece, fino ad allora non visto dai due innamorati, abbandonò l'altro lato della spiaggia. Salì sul punt e in silenzio lo spinse via col lungo palo. Non avrebbe fatto ritorno prima dell'alba. Durante le ore più buie della notte, alcuni pescatori che passarono coi loro battelli dinanzi a un'isoletta solitaria credettero di vedere, stagliata sui riflessi delle acque, una figura umana che vegliava immobile, sulla cima di un promontorio. Pensarono che fosse un urisk occupato a studiare la laguna e manovrarono i remi per vederlo più da vicino, ma prima che potessero accostarsi abbastanza lui scomparve. La vita quotidiana nell'Acquitrino, fatta di lavoro e di sacrifici, era ricca di avvenimenti sociali. Sevember, il primo mese dell'autunno, era movi-
mentato dalle gare annuali dei coracle. Fatti di pelle di capra non conciata stesa sopra un telaio circolare di vimini, quei leggeri natanti, che un uomo poteva trasportare facilmente con una sola mano sulla terraferma, erano molto importanti per spostarsi nei percorsi interni dell'Acquitrino. Tuttavia erano instabili, difficili da manovrare. «Un uomo deve essere molto attento e svelto per riuscire a cavarsela con quelle barchette traditrici», disse Rushford a Jarred. «Noi dell'Acquitrino abbiamo l'esperienza di una vita. Ti auguro buona fortuna, amico, ma temo che non ce la farai a qualificarti per essere accettato nella squadra dei Guardiani!» La previsione di Rushford era ben motivata: i coracle galleggiavano come ciotole ed erano altrettanto goffi e pronti a capovolgersi. Con suo gran dispetto, Jarred non riuscì a padroneggiare il proprio sull'intera distanza della gara di qualificazione e, nella foga di recuperare lo svantaggio, rovesciò la barca. Poiché non aveva ancora imparato a nuotare fu già molto se seppe restare a galla in qualche modo, finché i suoi amici non vennero a recuperarlo. Inzuppato ma non scoraggiato, disse a Rushford: «Vuol dire che resterò a guardare e farò il tifo per te. E, se qui nell'Acquitrino si terrà mai una corsa di cavalli, giuro che vi farò dimenticare la mia inettitudine con quelle dannate bagnarole di pelle!» Il mattino delle gare, Eoin e suo padre uscirono presto per andare a prepararsi con le rispettive squadre. Lilith riempì un cestello con una pagnotta, una giara di zuppa e un po' di burro fresco. «Non vuoi più partecipare alle gare?» le domandò Eolacha. «Ho il dovere di occuparmi del nonno. Come sai, non si alza più dal letto e non mangia, se qualcuno non lo costringe. Spero di fargli venire appetito con questa roba appena cucinata.» «Lascia a me quel cestino, a stór. Penso io a lui», disse la carlin. «Non posso permetterlo, a seanmàthair!» protestò Lilith. «Credi che non abbia notato quanto hai lavorato nei giorni scorsi? Ieri hai dovuto restare fino a sera col figlio malato di Rathnait Alderfen. Ieri l'altro c'è stata quella famiglia nella parte occidentale dell'Acquitrino, colpita da artigli avvelenati o non so cos'altro. Tre giorni fa hai dormito solo un paio d'ore perché sono venuti a chiamarti in piena notte. Non devi fare anche il mio lavoro.» «Dimentichi che fai parte di una squadra di coracle... le tue amiche dovranno cercare un rimpiazzo.»
«Ci sono molte ragazze che sanno portare il coracle come me e che coglieranno al volo questa opportunità.» «Eoin sarà molto deluso se non andrai ad applaudirlo», gli ricordò dolcemente Eolacha. «Da qualche tempo è piuttosto depresso e ha bisogno di essere tirato su di morale. Anche Earnàn sarebbe felice di vedere la tua faccia tra la gente... e sono sicura che il tuo innamorato sentirebbe la tua mancanza. Il giorno delle gare dei coracle è un giorno importante. Vai, a stór, vai a divertirti in questa bella giornata, tu che sei giovane. Andrò io a tenere compagnia a tuo nonno.» Lo sguardo di Lilith corse alla finestra. Fuori i passeri cinguettavano lunghe e pigre canzoni. La luce giocava sull'acqua mandando reti di riflessi sul soffitto della stanza. Tenui refoli di nubi delicate, come semi volanti di radicchiella, fluttuavano nelle insondabili immensità dell'aria. «Andrò alle gare», decise la ragazza. Si slacciò il grembiule e d'impulso stampò un bacio sulla rugosa guancia della vecchia. «Be', vado. Che tu sia benedetta per la tua generosità.» Le corse, il cui programma avrebbe occupato tutto il pomeriggio, si tenevano nel Canale Sud-Ovest, una via d'acqua profonda e veloce, la maggiore tra quelle che attraversavano l'Acquitrino. La corsa più importante era quella in cui gareggiavano la squadra del sud e la sua rivale di sempre, quella della zona occidentale. Folti gruppi di spettatori incoraggiavano a gran voce i concorrenti, mentre quelli vogavano intorno a rocce semisommerse, attraverso canneti, paludi, vortici e altre insidie, a velocità impressionante. Lilith condusse a termine la sua gara e trascorse il resto del pomeriggio assieme a Jarred. Su tutte le spiagge si facevano picnic e la gente si stava divertendo. In un momento di tranquillità, mentre i due giovani erano distesi a riposare sull'erba e sonnecchiavano sotto il sole, Lilith guardò a occhi socchiusi il suo amato e cercò d'immaginarlo nelle vesti di marito. Visualizzò il loro futuro assieme come coppia sposata. Con la testa appoggiata a un cuscino di muschio, portò la sua curiosità all'estremo e iniziò a fare congetture sui figli che avrebbero potuto avere. Che aspetto avrebbero avuto? Come sarebbero stati i loro volti? E il colore dei capelli? E gli occhi? Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Le dita di quei figli avrebbero somigliato alle sue, piccole e forti, con le unghie ovali? E mentre si poneva quelle domande dilagò in lei un'improvvisa eccitazione. Si costruì un'immagine dei suoi futuri figli, che stavano aspettando da qualche parte immersi in una luce crepuscolare; non in una penombra minacciosa bensì in
Un luogo neutrale, d'attesa. Erano legati a quel luogo, ancora non visti e non conosciuti. Le vennero le lacrime agli occhi e il desiderio di aprire la porta che avrebbe concesso loro di uscire nel mondo dei vivi, affinché lei potesse apprendere tutto di essi e gioire della loro esistenza. Fu allora che comprese di amare quegli sconosciuti, ancora non nati, più della vita stessa. Sulle rive dei canali c'erano ragazzini che giocavano coi piedi nell'acqua. Le loro risate e le loro voci erano un cinguettio di passeri. Com'era strano, pensò Lilith, ricordare che in altri momenti aveva odiato l'idea di diventare madre. Ora quell'odio le appariva incomprensibile. Provava un intenso desiderio di sentire la voce di suo figlio, una voce che non aveva ancora parlato. Mentre i bambini diventavano adulti, quanto si poteva godere di quelle conversazioni! Che piacere sarebbe stato veder sbocciare quei fiori e avere il privilegio di rivelare le meraviglie del mondo a esseri nuovi, innocenti e stupiti; vedere il mondo attraverso i loro occhi giovani e rivivere il brivido della scoperta! Come si sarebbero sviluppate le loro personalità? Quali attività, quali spettacoli, quali suoni li avrebbero deliziati? Come si sarebbe sentita di fronte al sorriso di suo figlio? Il suo cuore, stupito e meravigliato, avrebbe smesso di battere? Cosa avrebbe provato nel vedere per la prima volta il viso di suo figlio, sapendo che era stata proprio lei a chiamarlo lì alla luce del giorno, fuori della penombra? Il calore della giornata si stava attenuando tra le ombre lunghe del tardo pomeriggio, quando Lilith giunse alla casupola del nonno. Trovò Eolacha che sonnecchiava sulla sedia di vimini, mentre il vecchio giaceva sul letto. Pallido, immobile, con gli occhi chiusi infossati nelle orbite bianche come il marmo, Connick appariva molto malato. La stanza sembrava piena fino all'orlo dell'ansito roco e faticoso del suo respiro. Eolacha si svegliò e vide Lilith china al capezzale del vecchio. «Credo che presto se ne andrà», mormorò tristemente la carlin. «Rinfrescagli la fronte con un panno bagnato. Non c'è altro che possiamo fare per lui, ormai.» Lilith annuì. Nella bacinella d'acqua che Eolacha aveva deposto accanto al letto galleggiavano foglie di menta. La ragazza bagnò un fazzoletto e umettò la fronte del nonno. «Vai a riposarti, ora. Resterò io con lui», disse alla carlin. Eolacha uscì. Trascorse circa un'ora. La ragazza sedeva sulla sedia di
vimini, persa nei ricordi. Un rumore di passi che si avvicinavano la fece sussultare e lei si alzò, col cuore che batteva come se volesse fuggirle dal petto. Dall'esterno un uomo la chiamò e Lilith riconobbe con sollievo la voce di Eoin. Andò ad aprirgli la porta. «Ho saputo che sta peggiorando rapidamente», disse il fratellastro sottovoce. La ragazza si scostò con un cenno d'assenso e lui andò a inginocchiarsi accanto al letto. Prese una mano del vecchio, se la portò alla fronte e chinò il capo. Dopo un istante mormorò: «Riposa, amico mio. Possa tu trovare la pace». Rimase in quella posizione per alcuni minuti, poi depose la mano di Connick sotto la coperta con attenzione e dolcezza e si alzò rigidamente in piedi. «Non c'è niente che io possa fare?» domandò a Lilith. Lei scosse il capo. «Allora resterò a vegliarlo assieme a te», disse, con gli occhi pieni di lacrime. Presa da compassione, lei replicò: «Eoin... tu hai già fatto ciò che dovevi. Ora basta che rimanga una persona a occuparsi di lui. Mi sembri stanco e, da come cammini, è chiaro che sei pieno di dolori dopo aver faticato al remo tutto il giorno. Spetta a me, che sono sua parente di sangue, stargli accanto nell'ultima parte del suo viaggio. Vai a casa a dormire. Se domattina sarà ancora con noi, verrai a prendere il mio posto.» Eoin era riluttante ad andarsene, ma alla fine si lasciò persuadere. Posò un ultimo bacio sulla fronte del vecchio e uscì. Per tutta la notte Lilith rimase seduta accanto al nonno e lui non si mosse né parlò. Il suo respiro affannoso sembrava permeare e avvolgere tutto, tenendo lontano ogni altro rumore notturno. Nervosa e scomoda, Lilith cercò di dormire, ma fu inutile. Ogni tanto bagnava la fronte del degente o gli sistemava meglio il cuscino e le coperte. Lui non mostrò nessuna reazione. I suoi occhi rimasero chiusi. Verso il mattino una mesta nota penetrò nella casupola: il lamento di una prefica. Dopo pochi istanti esso si spense in una serie di singhiozzi, ma ormai Lilith era stata strappata dal suo sonno precario. Ebbe un brivido; la stanza sembrava stranamente fredda. Dalle fessure delle imposte la debole luce dell'alba, bluastra, filtrava dentro come inchiostro annacquato. All'improvviso l'uomo aprì gli occhi e parlò con voce perfettamente chiara: «Loro sono ovunque, ma ora sono con noi, i passi. Qualcuno può
sentirli? Danno la caccia a me, come l'hanno data a mia madre, e come l'hanno data a mia figlia finché è vissuta. Ah, Liadàn, potrò mai rivederti?» Non sembrava consapevole della presenza della nipote mentre continuava a borbottare, disteso sul letto, nominando la sua folle madre e un padre che non aveva mai conosciuto. In qualche modo, nonostante le pietose condizioni, trovò la forza di sollevare a mezzo la sua macilenta figura: era una scena surreale, come quella di un cadavere che cercasse di resuscitare. Poi fissò lo sguardo su un punto dinanzi a sé, non lontano dal letto. Lilith era paralizzata dallo spavento. Sentiva il sangue pulsarle nelle orecchie e aveva la pelle d'oca. Il vecchio stava guardando qualcosa che lei non poteva vedere. «Vieni, allora», disse al suo immaginario interlocutore. «Mi hai tormentato anche troppo. Vieni a prendermi.» Aveva appena pronunciato quelle parole che il suo corpo s'inarcò, irrigidendosi orribilmente. Ansimò con forza, a occhi sbarrati. Sconvolta, Lilith non riuscì neppure a distogliere lo sguardo. Le sembrava che una mano invisibile avesse afferrato alla gola il nonno e lo stesse soffocando. La sua fragile cassa toracica palpitava come se non riuscisse a prendere fiato; dalla bocca non usciva nessun suono. Per un tempo interminabile, o forse solo per pochi istanti, quell'impressionante scena di strangolamento restò dinanzi agli occhi angosciati di Lilith; poi un gorgoglio uscì dalla gola dello sventurato e il suo corpo si afflosciò di colpo, con gli occhi rovesciati nelle orbite. Il lamento della prefica risuonò una terza volta tra le pareti, come se la creatura, dalla forma vagamente femminile, fosse proprio davanti alla porta della casupola. Quindi cadde il silenzio. Lilith aveva l'impressione che qualcosa stringesse la gola anche a lei. Troppo terrorizzata per muoversi, restò seduta dov'era, incapace di alzare un dito. Aveva già visto la morte e i suoi macabri risultati sugli esseri umani, ma l'orrore di ciò che era accaduto lì stava nel fatto che non esisteva nessuna spiegazione comprensibile. L'agente della morte era ancora nella cupa penombra di quella camera. Consapevole della sua disumana presenza a un passo di distanza da lei, la giovane donna, rigida come un pezzo di legno, non aveva la forza né il coraggio di voltarsi da quella parte. Rimase seduta, mentre la sua angoscia aumentava. I soli rumori che disturbavano l'immobilità dell'alba erano il gorgoglio dell'acqua da qualche parte, il tip-tip dell'umidità condensata che gocciolava dalle foglie e la cre-
pitante carezza del vento tra le canne. Poi un'assicella del pavimento scricchiolò. Lilith balzò in piedi, spalancò la porta facendola sbattere contro la parete e fuggì nella fioca luce. Eolacha, Earnàn ed Eoin stavano dormendo quando entrò di corsa in casa. Il suo corpo era scosso da singhiozzi selvaggi. I familiari si alzarono dal letto e vennero a radunarsi intorno a lei, davanti al caminetto, dove le braci rosseggiavano ancora sotto uno strato di cenere. «Se n'è andato», ansimò la ragazza, respirando in fretta e a fatica. «Se n'è andato, alla fine. I passi l'hanno portato via con sé.» Fece una pausa per riprendere fiato. «L'hanno preso, come avevano preso sua madre. E come avrebbero preso la mia, se fosse vissuta abbastanza. Lui se n'è andato ed è chiaro cosa succederà adesso.» Quindi si arrese alle lacrime e nessuno riuscì a consolarla. Dopo la cerimonia funebre, Lilith si consultò con Earnàn ed Eolacha. «È venuto il momento di parlare», disse, seduta in cucina, sul suo sgabello preferito. «Ci sono molte cose che devo sapere, adesso. Domande che non ho mai fatto, supposizioni cui nessuno di noi ha dato voce. È tempo di mettere in tavola la nuda verità, perché oggi più che mai ho paura di pensare al mio destino. Voi cosa sapete della vita di mio nonno?» La carlin si grattò il mento, pensierosa. Poi disse: «Tréan Connick era un ragazzo quando è arrivato nell'Acquitrino. Proveniva, se ricordo bene, da Rua, ed era solo. Poiché aveva buone doti di combattente, gli è stato permesso di restare. A quel tempo i Predatori stavano razziando con ferocia i nostri confini occidentali e avevamo un gran bisogno di guerrieri. Era un giovane baldanzoso e attraente e le ragazze dell'Acquitrino cercavano la sua compagnia. Tra tutte, lui ha deciso di sposare Laoise Heronswood Swanreach». Lilith annuì e mormorò: «Ne ero già a conoscenza». Un ibis squittì su un'isoletta lontana e un serpente di vento sibilò nel canneto. Lilith ebbe l'impressione, in quel momento, che gli occhi dell'anziana donna si riempissero dei riflessi dell'acqua e del cielo, come se stesse scrutando nei ricordi di un altro tempo. Inattesa, un'immagine si accese nella sua mente e vide Eolacha come doveva essere stata da fanciulla, fresca e piena di vita, mentre osservava un giovane che arrivava lungo le passerelle. A braccetto con lui c'era un'altra ragazza dell'Acquitrino e i due chiac-
chieravano e ridevano assieme. Tuttavia lei, che li osservava con attenzione - Eolacha, nella sua gioventù -, restava immobile e silenziosa. Con un'intuizione improvvisa Lilith gettò uno sguardo alla vecchia e provò un moto di compassione. «Dall'unione di Tréan e Laoise è nata tua madre Liadàn», continuò la carlin. «È stata data alla luce qui, in città. Dopo la morte di Laoise, causata dalla febbre di palude, tuo nonno ha cresciuto la figlia da solo. Liadàn aveva venti inverni quando ha sposato Ardagh Yellowflag Hawksburn. Era un bell'uomo, una delle migliori guardie che l'Acquitrino abbia mai avuto...» Di nuovo la donna s'interruppe. Era inutile tornare su ciò che Lilith già sapeva bene: la morte di suo padre in un incidente di caccia, avvenuto ancor prima che lei nascesse. Eolacha si schiarì la gola con un rapido colpo di tosse e riprese il suo racconto: «Poco dopo il tuo arrivo in questo mondo, abbiamo notato che il comportamento di tuo nonno era alquanto strano. È stato allora che ci ha rivelato di sentire dei passi. Ha lasciato l'Acquitrino, dicendo che voleva viaggiare nei Quattro Regni; la verità era che cercava una risposta per ciò che lo perseguitava. Non l'ha trovata. Quando alla fine ha fatto ritorno, sembrava irriconoscibile... non era più l'uomo attraente di una volta». I riflessi negli occhi della carlin si spensero. I capelli neri di Lilith le ricaddero intorno al viso come ali della notte, incorniciando la sua amarezza. L'upial le balzò in grembo e si accoccolò. Quando riuscì a controllare il dolore, la ragazza mormorò: «Non c'è da meravigliarsene, perché, come lui stesso mi ha detto, aveva visto sua madre sprofondare nella follia. Non aveva mai conosciuto suo padre, morto quando lui era bambino. E poi ha perso sua figlia, e un nipote... anche senza quelle allucinazioni, penso che simili tragedie possano consumare il raziocinio di un uomo». Un mantello di silenzio era sceso su Eolacha. «Tre generazioni», osservò Earnàn, con voce sottile. «Tre matrimoni. Ogni volta, uno dei coniugi ha incontrato una morte prematura e l'altro è stato condotto alla follia dall'illusione di essere seguito. Qui non siamo di fronte a una semplice coincidenza.» «Io ho cercato di negare la verità a me stessa, ma non c'è modo di sfuggirle», disse Lilith. «Sospetto che...» La carlin fece una pausa. Intrecciò le dita contorte e le fissò, come alla ricerca della parola più adatta. «... sia una situazione ricor-
rente.» Lilith riuscì a fare un cenno di assenso. Si era morsa le labbra così forte che una goccia di sangue le scivolò sul mento. L'upial si alzò, stiracchiandosi sulle ginocchia di lei, sbadigliò e si accovacciò di nuovo. «Si può solo dedurne che sia una maledizione legata alla discendenza», aggiunse Eolacha cupamente. «Trasmessa da una generazione all'altra. Lo sospetto da molto tempo, ma ormai ne sono certa.» «Be', qual è la soluzione a questo problema?» chiese Lilith. Eolacha sospirò. «Io sono solita dire che per ogni domanda c'è una risposta, ma in questo caso non ho le conoscenze necessarie. Forse i Signori del Clima hanno un rimedio, ma la loro terra è troppo lontana da qui. Sono anni che non vedo nessuno di loro. Quando ero giovane ne conoscevo bene parecchi, ma oggi non più.» L'upial borbottava nel sonno. «Be', se c'è uno schema, allora è semplice interromperlo. La maledizione segue la mia discendenza. Io non dovrò avere figli. Non dovrò mai sposarmi», disse Lilith. Nello sforzo di reprimere l'angoscia, la ragazza irrigidì il viso in una maschera inflessibile. Sentiva che, se avesse rivelato il più lieve sintomo di sofferenza con la contrazione di un solo muscolo, la diga sarebbe crollata e lei sarebbe stata travolta dalla disperazione. Per sconfiggere quella condanna avrebbe dovuto rinunciare a Jarred e a ogni speranza di una vita felice. Quel pensiero era insopportabile. Doveva chiuderlo dietro occhi duri e denti stretti, affinché non sfuggisse all'esterno e non facesse a pezzi la sua anima. La Collina Nera sovrastava le paludi circostanti; di tutti i rilievi dell'Acquitrino, soltanto la Cresta del Sauro la superava in altezza. L'autunno non aveva ancora cominciato a ingiallire le foglie nelle regioni meridionali di Tir, ma sulla Collina Nera si vedevano già sfumature rossastre fra i cespugli di bacche selvatiche e, mentre sui versanti s'infittivano i nerospini che davano il nome alla località, gli alberi del viaggiatore erano gremiti di piccoli frutti rossastri. Fu là che, dopo la conversazione con Earnàn ed Eolacha, Lilith s'incamminò in compagnia del suo amato. Erano una coppia ben assortita, lui dritto e fiero come un cipresso, lei piena di grazia come una cerbiatta, mentre il rustico abito da casa delle ragazze dell'Acquitrino contrastava con la tunica ricamata del giovane del sud.
«Mi rattrista vederti soffrire, amore mio», le disse Jarred con un sospiro, tenendola a braccetto mentre salivano tra gli alberi vestiti di corteccia a scaglie. «E anche altri hanno pianto per il vecchio Connick. Dev'essere stato un uomo assai apprezzato, ai suoi tempi. Vorrei averlo conosciuto meglio.» «Essere liberato dai suoi tormenti è stato un sollievo per lui. Voglio dire, io sento la sua mancanza ma non soffro soltanto per lui, non soltanto per mia madre, bensì per noi. Per te e per me.» «Perché dici questo?» si stupì Jarred. Si fermarono sotto i rami di un albero di mele selvatiche. La pallida luce del sole lavava le sue foglie come vino annacquato. «Prima di perdere del tutto la lucidità, mio nonno mi ha parlato della follia di sua madre e della prematura scomparsa di suo padre. Lo stesso schema si è ripetuto per tre generazioni. Eolacha ed Earnàn sono del parere che sulla mia famiglia gravi una maledizione.» Jarred la guardò in tralice. «Una maledizione? Impossibile!» Si passò una mano sulla fronte, come per schiarirsi le idee. «No. Niente può minacciarti! Earnàn ed Eolacha non sanno dell'amuleto. Esso ti protegge contro ogni male. Tu sei al sicuro da qualsiasi pericolo, Lilith, credimi.» «L'amuleto può dividersi in tre parti o più?» domandò lei sottovoce. «Perché dovrebbe?» Lo stupore irrigidì la sua voce con una nota rabbiosa. «Perché il pericolo non è diretto soltanto a me... esso minaccia il mio futuro marito e i miei futuri figli. Se io ti sposassi, trascinerei anche te sotto il potere della maledizione.» Dapprima Jarred rise, incapace di credere a quelle parole. «No, è impossibile», disse. Poi l'espressione grave di lei gli fece capire che non era uno scherzo. Ogni vitalità parve abbandonarlo. S'immobilizzò, come fuso nel ferro. Lilith ebbe un fremito di paura, come nel vedere una corrente calda improvvisamente congelarsi al tocco dell'inverno. «No, no, non può essere!» Sgomento e frustrazione fecero scattare il giovane, che assestò un calcio all'albero di mele, spezzando un ramoscello. «Non può essere! Se tu porti l'amuleto, questa maledizione... o qualunque cosa sia, sarà fermata, e non avrà più nessun potere su di te o sugli altri.» «Puoi esserne sicuro?» Lui non volle incontrare il suo sguardo e continuò a fissare cupamente oltre il lago. «No.»
Rapide ombre attraversarono la riva mentre uno stormo di rondini saliva nel cielo azzurro come le campanule. «La maledizione deve finire con me, mio caro. Ti amo troppo per sposarti», disse Lilith. Jarred imprecò contro il destino, contro il raziocinio, contro la stregoneria tutta, ma alla fine la sua rabbia si spense e fu sostituita da un umore freddo e duro come il ferro. I due innamorati camminarono fianco a fianco ancora per un poco, poi lui dichiarò, in tono convinto: «C'è una risposta a ogni enigma e tutte le maledizioni possono essere tolte. Non resta che trovare il modo». «Ma il modo è chiaro. Devo evitare di sposarmi.» «No, non questo, mio fiore. Io non rinuncerò a te.» «In questo caso, posso solo supporre che tu voglia cercare di scoprire l'origine della maledizione e il modo d'interrompere il suo corso.» «Tu mi leggi nei pensieri.» «Se l'ho fatto è perché anch'io mi pongo le stesse domande. Credo che la maledizione sia vecchia di oltre sessant'anni. Per quanto ne sappiamo, il suo inizio può risalire a un centinaio di anni fa. Oppure potrebbe perdersi nella nebbia dell'antichità. Come si può rintracciare la sua origine? Dove possiamo cercare? Sappiamo che mio nonno proveniva da Cathair Rua. Dei suoi genitori si sa ben poco, a parte che la maledizione era anche su di loro. Lui non ha mai parlato del suo passato... neppure a mia madre, né a Earnàn o a Eolacha, né a nessun altro. Non c'è dubbio che il tempo e le distanze siano contro di noi in questa impresa.» «Forse è vero, ma non avrò pace se non in un letto caldo con te tra le mie braccia, o in uno freddo sottoterra», disse lui con calma, e la guardò in modo tale che a lei parve di essere improvvisamente a un'altezza vertiginosa. E si sentì mozzare il respiro. Per mascherare l'emozione con una battuta di spirito, disse: «Voi meridionali non dovete dormire al freddo. Non ci siete abituati». «In tal caso, non ho scelta», annuì Jarred con un sorriso. «Dimmi, fiore mio, qual era il nome di battesimo del vecchio Connick?» «Tréan.» «Un nome slievmordhuano... dunque tutto torna! Non dovremo indagare troppo lontano. Posso andare a Rua e cercare informazioni sulla sua famiglia. Può darsi che qualche vecchio ricordi di aver frequentato Connick in gioventù. Le probabilità sono scarse, ma vale la pena di tentare. Anche se lui non avesse mai abitato là, anche se fosse stato soltanto di passaggio
proveniente da qualche altra terra, un uomo come lui si sarà fatto notare dai bravi cittadini. So che era un uomo d'arme, attraente e avventuroso, un combattente di grandi capacità.» «Sì, devi andare», disse lei, improvvisamente accigliata, «perché temo che il semplice fatto di essere legato a me porti questa sorte anche su di te. Può darsi che la maledizione cada sugli amanti dei discendenti dei Connick, che abbiano pronunciato o no il giuramento matrimoniale.» «Non può essere! Se fosse vero, cosa mi dici di Earnàn? Sposato a una discendente dei Connick, gode sempre di ottima salute.» «Forse la maledizione cade solo sul primo amore, o sul vero amore. Per mia madre, questo valeva per il mio defunto padre. Per me, questo vale per te.» L'aria balsamica era velata di polline in sospensione. «Andrò a Rua. Ma sarà per condurre questa ricerca, non per mettere della distanza tra me e il mio unico amore», disse Jarred con decisione. Tutto ciò che Lilith sapeva dei pericoli di quella città le passò davanti agli occhi. Si sentiva divisa tra il desiderio di allontanare Jarred dalla maledizione e quello di tenerlo al sicuro da ciò che poteva succedergli durante il viaggio. «Voglio che sia chiaro», disse, dopo aver riflettuto, «che questo fardello ereditario pesa sulle mie spalle, non sulle tue. Il compito di trovare una soluzione dovrebbe spettare a me. Presto, come sai, molta gente dell'Acquitrino si recherà a nord, lungo il Fiume Impetuoso, alla Fiera d'Autunno che si terrà in città. Io andrò con loro. Durante i tre giorni della fiera cercherò la risposta a questo enigma. Tu dovrai restare qui. Hai del lavoro da fare e...» «Due cercatori possono trovare la verità in metà tempo, rispetto a uno solo», la interruppe il giovane. «Andremo assieme alla fiera. Da quando sono qui, non ho mai visitato un mercato stagionale in città. È ora che io vada a visitare Cathair Rua... dopotutto, ho lasciato R'shael per vedere il mondo!» Nulla poté dissuaderlo. «Allora siamo felicemente d'accordo. Viaggeremo assieme», concluse Jarred, dopo aver discusso ancora. «Non felicemente», replicò Lilith. «Ma, visto che ti vuoi gettare in questa impresa e non intendi ascoltare ragione, cos'altro posso fare? Io devo andare alla Fiera d'Autunno, che tu mi accompagni o no. Earnàn avrà bisogno del mio aiuto alla sua bancarella e in questo periodo Eoin ed Eolacha
non possono abbandonare il loro lavoro all'Acquitrino. Se tu restassi qui io sentirei la tua mancanza come un uccello sente la mancanza del volo; tuttavia, sapendoti al sicuro, sarei più soddisfatta di un maiale nel fango. Ma, se verrai con me, mi sentirò felice quanto un'allodola in volo e nello stesso tempo sgomenta come un pesce sul greto di un fiume, col pensiero della tua sicurezza.» «La mia sicurezza dipende solo dalla tua! E ora io sono felice, perché tra poco noi due troveremo le risposte e poi torneremo ad abitare qui, per sposarci e crescere i nostri figli in questa terra d'amore senza confronti, dove creature invisibili stridono nel buio della notte.» I due ripresero a passeggiare pigramente. «Nella città sono molte le creature che stridono di notte», osservò Lilith. «Ma di solito sono umane.» «Sono molti gli esseri non umani che vivono nell'Acquitrino?» domandò Jarred. «Da quando sono qui ho visto solo un paio di wight, e anche quelli per pochi istanti.» «La ragazza acquatica e il suo bambino?» «Proprio così.» «È raro vederli. I wight dell'Acquitrino sono riservati. Ma se vieni con me ti mostrerò una cosa.» La ragazza lo condusse tra fitti ontani coperti di edera, cespugli di nerospini e sambuchi, fino a un tratto di spiaggia ombreggiato da un soffitto di fogliame. Lì, nell'umida semioscurità, un gruppo di grandi pietre piatte sporgeva dall'acqua presso la riva. Nei crepacci delle rocce crescevano a profusione i nontiscordardimé acquatici, come stelle d'ametista orlate di foglie verde limo. Lilith disse a bassa voce: «Nelle sere d'estate mi è capitato di vedere dei piccoli esseri che vengono qui a giocare. Si tuffano dalle rocce e sguazzano nell'acqua, ridono e strillano con vocette acute. Nessuno di loro è più grande del mio pollice». Gli occhi del suo compagno brillavano come alla vista di un incantesimo. «Chi sono?» sussurrò. «I siofra, wight seelie che non fanno del male ai mortali. Tuttavia hanno poteri magici e si sa che giocano strani scherzi alla gente.» «Cos'altro hai visto?» «Una volta mi sono accorta che c'era una femmina trow, sulla torbiera, al confine occidentale. Quel giorno io e altri stavamo raccogliendo torba da ardere, quando abbiamo visto una piccola donna grigia che si aggirava
nella zona come alla ricerca di qualcosa. Mugolava tra sé con aria accigliata e scontenta, in una lingua sconosciuta. Alcuni di noi si sono spaventati, ma io ero impietosita e desiderosa di aiutarla, tanto sembrava sconvolta. Allora ho deciso di parlarle, però quella si spostava qui e là così rapidamente che sono riuscita a raggiungerla soltanto verso sera. Stavo per rivolgerle la parola quando sono stata distratta da qualcosa, non ricordo cosa, forse lo squittio di un volatile, o il grido di uno dei miei compagni. Quando mi sono voltata di nuovo a cercarla, la femmina trow era sparita.» «Santo cielo!» esclamò Jarred. «È strano che quelle creature si manifestino alla luce del giorno! Credevo che i trow fossero notturni.» «Infatti lo sono, di preferenza, benché la luce del sole non li ferisca. Ma se un trow si trova all'aperto quando il sole si alza, è incapace di tornare a casa e diventa legato al giorno, costretto a restare tra i cespugli nelle vicinanze degli esseri umani, fino al tramonto.» «Vorrei essere stato con te», commentò Jarred. «Mi sarebbe piaciuto vedere uno spettacolo così raro.» «Una di queste sere verremo qui assieme, a spiare i siofra.» «E, che si facciano vedere o no, io sarò contento lo stesso.» «Ma attento!» aggiunse Lilith con un sorriso. «Earnàn è solito dire: Chi si lascia spingere dalla curiosità a cercare le creature eldritch, cammina su una strada pericolosa.» Lontano, sul lago, ribolliva una striscia d'acqua. Sopra quella turbolenza svolazzavano frotte di gabbiani, simili a briciole di carta agitate dal vento. Sotto di loro la superficie brulicava di pesci, freneticamente occupati a nutrirsi. I due innamorati erano inconsapevoli di quel gioco di vita e di morte. Lo sguardo di Jarred restò fisso su Lilith. «Ora non dire altro. La tua bocca è troppo bella per qualunque cosa che non sia questa.» La prese per le spalle e si piegò a baciarla. Ma la reazione di lei non fu quella delle altre volte. La ragazza si divincolò subito dal suo abbraccio, gridando: «Non devi baciarmi più!» Jarred rimase sbigottito. Lilith aggiunse: «Il mio bacio è morte! In questo dovrò fare a modo mio. Finché l'enigma non sarà risolto, se mai accadrà, non dovrà più esserci nessun contatto tra noi». Per nulla convinto, lui fece per prenderle una mano, ma lei la scostò. «Se mi ami, non toccarmi fino ad allora! Giuramelo!» Era divisa tra il terrore e il desiderio. Lui si accorse dell'emozione che
spaccava il suo animo in due. «Come vuoi», mormorò. Quando i due innamorati tornarono a casa Mosswell, quel pomeriggio, erano così occupati nei loro pensieri che non si accorsero dell'avvicinarsi di Earnàn ed Eoin, di ritorno dalla pesca. Spingendo col palo il punt tra le alte canne, Eoin vide Lilith e Jarred arrivare lungo una passerella sospesa, che oscillava al loro passaggio. La ragazza alzò il viso, mentre l'altro chinava la testa, e i loro profili quasi s'incontrarono. Lo sguardo di Eoin restò inchiodato su quella scena. Il suo cuore prese fuoco e s'incenerì, e nel fumo che gli saliva dal petto lui rischiò di soffocare. 4 IL RACCONTO L'aria era tiepida, dolce e odorosa di fieno come il fiato dei cavalli. Palpiti di stelle galleggiavano sull'acqua simili a fiori caduti e la fine di quella piacevole giornata s'intrecciava con le note argentine di migliaia di ruscelli, miste al gracidio delle rane. I quattro membri della famiglia Mosswell sedevano sul molo di legno davanti alla casa. Lilith ed Eoin agitavano i piedi nell'acqua. Alla luce di una lanterna, Eolacha stava tagliando aghi d'osso, mentre Earnàn rammendava una rete da pesca. «Lilith, non è necessario che tu venga con me anche stavolta alla Fiera d'Autunno», disse premurosamente Earnàn. «Chiunque può vedere che soffri ancora per i lutti che abbiamo avuto. Meglio che tu rimanga qui con mia madre. Come dice il proverbio: I violini di città suonano una musica troppo aspra per un cuore sensibile. Rua non è il posto giusto per chi ha bisogno di gentilezza e di conforto. Posso farmi aiutare da Eoin.» Nonostante la sua sofferenza, Lilith provò un impeto d'affetto per quell'uomo dall'animo gentile e disse: «Ti sono grata per la tua premura, patrigno. Tuttavia c'è bisogno di Eoin qui per portare avanti il lavoro nell'affumicatoio. Nessuno potrebbe sostituirlo. Inoltre credo che mi farà bene viaggiare. Posti nuovi, facce nuove, l'eccitazione della fiera... queste cose sollevano lo spirito e non lasciano il tempo di autocommiserarsi e di ruminare sui propri dispiaceri».
Earnàn annuì. «Forse hai ragione.» «Inoltre ho in programma un'importante ricerca che può essere intrapresa solo in città», aggiunse lei. «Ah, sì? E di cosa si tratta?» Earnàn abbassò la spola con cui stava cucendo la rete. Mulinelli d'acqua gorgogliavano sotto le tavole del pontile e refoli di nebbia allungavano i tentacoli sulla laguna. «Voglio trovare le origini di mio nonno, per cercare di scoprire quale maledizione sia stata scagliata sulla nostra discendenza e come la si possa rimuovere.» Eoin balzò in piedi ed esclamò: «Allora avrai bisogno di me al tuo fianco! Una ragazza giovane che si aggira in una città sconosciuta a fare domande... il rischio per te è troppo grosso. Solo i topi di fogna sanno quante carogne insidiano le strade di Rua. Avventurarsi senza protezione tra quegli avvoltoi sarebbe una follia». «Io non sarò senza protezione. Sarò con Earnàn», precisò Lilith. Preferì non rivelare che anche Jarred intendeva accompagnarla. «Mio padre avrà da fare tutto il giorno alla bancarella», replicò Eoin, contrariato. «E anche tu sarai occupata ad aiutarlo.» «Ma durante le lunghe serate potremo mescolarci alla gente nelle taverne e fare domande qui e là.» Eoin sedette a gambe incrociate, rivolto verso di lei. «E quali domande pensi di porre ai nobili personaggi che frequentano le osterie?» la provocò. «'Avete visto un giovane, un certo Tréan Connick, che è passato da queste parti sessant'anni fa?' Ah, non scommetterei molto sulle tue possibilità.» Le labbra di Lilith tremarono. «Cos'altro potrei domandare? Il suo passato è un mistero.» «Non del tutto», intervenne Eoin con decisione. «Non per me.» «Cosa vuoi dire?» Lei lo guardò con aria interrogativa. «Una volta mi disse il nome di suo padre.» «Te lo disse? Ti prego, rivelamelo subito!» «Non so se sia saggio, visto che desideri recarti in città facendo a meno di me», rispose Eoin con aria offesa. «Eoin, questo non è un gioco», intervenne con calma Eolacha. Il giovane arrossì fino alle orecchie. Si alzò in piedi e cominciò ad andare avanti e indietro sul pontile, accigliato, con le mani in tasca. Infine disse: «Scusami, Lilith. So che il nome di suo padre era Tornai». «Tornai», ripeté lei. «Gramercie, fratello. La mia ricerca sarà senza dubbio più agevole, ora. Ti ha detto altro?»
«Niente.» Piùit! Piùit! pigolò una pavoncella nel buio. O forse era il richiamo di Tiddy Mun, la guardia eldritch dell'Acquitrino. Lilith, pensierosa, si volse a scrutare la laguna in direzione di casa Rushford. Doveva considerare che andare in città assieme a Jarred sarebbe stato un tormento insopportabile, a causa della sua continua vicinanza; lei avrebbe dovuto lottare contro la tentazione di sedersi accanto a lui, baciarlo, passare le dita tra le sue chiome color cardamomo. La sua immaginazione volò attraverso l'acqua sino alle finestre illuminate di casa Rushford e con gli occhi chiusi lo vide disteso sul letto, col volto rilassato dal sonno del giusto, più bello che mai, i capelli sparpagliati sul cuscino e le palpebre abbassate sulle guance. Avrebbe voluto allargare le ali come una ragazzacigno per volare fino a lui, lasciarsi avvolgere dalle sue braccia, stringerlo con forza, fondere il proprio corpo col suo. Quattro volte all'anno molti abitanti dell'Acquitrino risalivano il corso del Fiume Impetuoso per partecipare alla fiera e vendere al mercato i loro prodotti: radici di iris in polvere o in pasta, da usare come dentifricio oppure come talco profumato per la pelle; piume d'oca, pelli e formaggi di capra; anguille salate, affumicate o marinate; erbe e oggetti artigianali di vario genere. Oltre a vendere, facevano baratti con merci introvabili nell'Acquitrino, per esempio il lino, il vasellame, la farina, l'aceto, l'olio e il sale. Alcuni portavano al mercato capelli con cui confezionare parrucche per gli aristocratici; altri noleggiavano le loro prestazioni come servi, facchini per ricchi mercanti e contadini per proprietari terrieri. Talvolta i giovani andavano a fare apprendistato per le gilde degli artigiani. A molti piaceva visitare Cathair Rua solo perché mescolarsi con gente non dell'Acquitrino era un'esperienza diversa e perché in città si potevano trovare cose e persone di ogni provenienza. In quelle occasioni una lunga processione di battelli risaliva la corrente piuttosto pigra del fiume conosciuto col nome di Impetuoso. Il percorso era di solito così congestionato dalla presenza di piante acquatiche e di canne da ostacolare il passaggio delle imbarcazioni più larghe. C'erano natanti di tutte le forme e dimensioni: scialuppe a remi, coracle, punt e barche a fondo piatto, zattere, chiatte, persino barconi a vela forniti di un singolo albero il cui equipaggio sfruttava con abilità il vento mai troppo favorevole. Tutte quelle barche erano adorne di campanelle, nastri rossi,
ferri di cavallo e altri talismani per tenere alla larga le manifestazioni unseelie. Earnàn Mosswell stava piegando la schiena ai remi della sua barca. Aveva la faccia imbrattata di polvere salina, che s'incrostava soprattutto nelle rughe a zampa di gallina intorno agli occhi, sulla barba e sulla punta del naso tonda e marroncina come una nocciola. La tunica senza maniche, adatta a quel clima caldo, gli lasciava scoperte le braccia arrossate dal sole. «Scommetto che i rematori dei cignai del re stanno sudando anche l'anima, di questi tempi», disse, rosso in viso e col fiato grosso. La barca era molto appesantita dal carico. «Le piante che crescono fitte lungo le rive devono averli rallentati.» «Probabilmente il re manderà una squadra di lavoranti a sgombrare il percorso, prima della prossima Cattura dei Cigni», disse Lilith, alzando un braccio a salutare Cuiva, a bordo della barca che li precedeva. L'amica unì le mani intorno alla bocca e gridò qualcosa d'incomprensibile. Lei allargò le braccia per segnalarle che non riusciva a capire. «E sarebbe ora!» grugnì il patrigno, piegandosi in avanti per dare un'altra vogata. Il terzo membro del loro equipaggio era Jarred, che intervenne dicendo allegramente: «Mettete giù i remi, mastro Mosswell. Ora tocca a me». I due uomini si scambiarono di posto. Il giovane iniziò a manovrare i remi con energia. «Sarebbe più facile andare in città con un carro, anche a pieno carico!» «Aspetta a dirlo quando torneremo giù per il fiume, con la corrente a favore», replicò Earnàn. «Solo allora capirai quant'è più comodo andare in barca. Se per risalire il fiume occorrono sette giorni di fatica, per tornare indietro ne bastano cinque, e di tutto riposo. E poi il fiume è molto più sicuro di quella vecchia strada piena di buche. I Predatori a cavallo infestano tutti i percorsi per via di terra, però non osano avventurarsi nella torbiera paludosa lungo il fiume.» Lilith osservava di nascosto Jarred. Aveva un aspetto così pieno di vita, coi muscoli che si gonfiavano sotto la pelle abbronzata mentre faceva avanzare nell'acqua la pesante barca... Ciocche di capelli scuri gli ricadevano sulla faccia e il sole sembrava brillare nei suoi occhi. Il corso piatto e regolare del Fiume Impetuoso si scavava la strada in un territorio appena ondulato, una torbiera cedevole e traditrice nei cui punti più solidi s'infittivano boschi impenetrabili. Gialle lisimachie contendevano lo spazio alle canne lungo le sponde, mentre nelle depressioni e tra le
rocce crescevano agrifogli e salvia. Stormi di cigni giungevano in volo da ovest per nuotare assieme alle anatre che cercavano cibo in quelle acque. A volte tra le canne s'intravedevano dei saltafossi, gruppi di wight che infestavano le acque più limpide, simili a grossi rospi gialli e verdi muniti di ali e di pericolose code pungenti. Nonostante le ali, erano del tutto incapaci di volare. I più piccoli non rappresentavano una minaccia, ma gli adulti tagliavano le reti dei pescatori e divoravano tutto il bestiame che osava entrare nel fiume. Il loro trucco più comune era l'emissione di versi improvvisi per far sussultare i pescatori, che, se perdevano l'equilibrio e cadevano in acqua, andavano incontro alla stessa drammatica sorte del bestiame. Quando poté riposarsi dalla fatica della voga, Earnàn tornò ai suoi pensieri. La situazione non lo rendeva felice. Eoin aveva reagito assai male alla notizia che sulla barca ci sarebbe stato anche Jarred e aveva subito chiesto al padre di poter venire anche lui. Oppresso da cattivi presagi, Earnàn si era rifiutato di accontentarlo. Era ben consapevole dei litigi che avrebbero potuto scoppiare tra i due rivali costretti a una vicinanza forzata per molti giorni. In fondo al cuore era ben lieto che Lilith non avesse scelto suo figlio come futuro marito. Un tempo aveva vagheggiato quell'unione, ma, dopo aver saputo del destino legato alla discendenza della ragazza, ringraziava i Fati che a Eoin fosse stato risparmiato quel pericolo. Tuttavia voleva bene a Lilith come a una figlia e avrebbe fatto il possibile per aiutarla a liberarsi dalla maledizione. Dal cielo cadde una pietra. «Guardate, un predatore di palude!» gridò Lilith, afferrando Earnàn per una manica. «Colpisce dall'alto le sue prede. Che ali grandi ha!» Il pescatore di anguille annuì, poi riabbassò lo sguardo sul viso della ragazza, con compassione. Capiva benissimo che anche lei faceva ogni sforzo per nascondere la sua sofferenza. L'uccello da preda che si era abbassato sull'acqua salì di nuovo verso il cielo, stringendo fra gli artigli un pesce che luccicava come un pezzo d'acciaio. Mentre lo guardavano allontanarsi in volo, Earnàn disse: «Permettetemi di darvi un consiglio. Finché ci tratterremo all'interno della città, o nelle sue vicinanze, non dite a nessuno che c'è una parentela tra Lilith e Connick. Un personaggio potente ha voluto colpire la sua famiglia. Se l'artefice della maledizione o i suoi agenti avessero conservato il loro potere, potrebbero essere ancora molto pericolosi. Tu, Lilith, non rivelare il tuo nome completo a nessuno che tu non conosca bene».
«È una precauzione ragionevole», annuì Lilith. Jarred cercò i suoi occhi. I due si scambiarono uno sguardo pieno di desiderio per tutto ciò che non poteva esserci tra loro e per le cose meravigliose che erano state rubate dal loro futuro. La prima notte dopo la partenza dei suoi familiari per la fiera, Eoin non riuscì a chiudere occhio. La sua mente era un campo di battaglia. Incapace di restare a letto, si alzò e si vestì, quindi prese la barca e si allontanò a remi senza una destinazione precisa. Le fatiche della voga lo aiutarono a mettere a fuoco i pensieri su ciò che lo stava preoccupando e in qualche modo la cosa diede alle sue braccia ritmo e forza. Dopo mezz'ora si distolse da quelle rabbiose elucubrazioni e si accorse di essere finito nella Zona Infestata dell'Acquitrino, solitamente preclusa ai mortali. Essere solo in un territorio pericoloso si confaceva al suo umore cupo. Mise la prua su un'isoletta, tirò i remi a bordo e scese a terra. I piedi lo condussero attraverso l'isola, in mezzo a boschi di alberi alti e snelli come danzatori d'argento coi capelli d'ombra. Alla sua destra scintillavano le acque. Lui proseguì in quel luogo solitario finché gli alberi non si diradarono e sbucò in uno spiazzo erboso. Poi un profondo brivido lo scosse e nel suo animo penetrò la consapevolezza di qualcosa di strano. Un misterioso e allarmante clamore si alzò da ogni direzione, come dalle bocche di una vasta folla, e con improvviso spavento Eoin comprese di essere circondato dagli eldritch wight, benché non potesse vederne neppure uno. Risuonavano risate acutissime e strilli divertiti, intercalati da singhiozzi: fenomeno nient'affatto stupefacente, se riguardava i wight; una di quelle voci gementi d'un tratto si lamentò: «È nato un bambino e non c'è niente da mettergli addosso!» Eoin fece un balzo di lato, perché la voce sembrava scaturire da sotto i suoi piedi. «È nato un bambino e non c'è niente da mettergli addosso!» squittì la voce dolente una seconda volta. Nel nome del buonsenso, cosa sto facendo qui? si domandò Eoin, sempre più preoccupato. Da solo, senza nessuno intorno per molte leghe, chi sentirebbe le mie grida d'aiuto se mi succedesse qualcosa di brutto? «È nato un bambino e non c'è niente da mettergli addosso!» urlò malinconicamente la voce, mentre la folla schiamazzava e rideva come per festeggiare la nascita dello stesso bambino, ignorando del tutto le due o tre misteriose creature cui sembrava tragico che mancassero le vesti per co-
prirlo. E il giovane pescatore di anguille non vedeva nulla, fuorché il cielo notturno incrostato di gemme, le erbe nere che si piegavano al vento e la luce delle stelle riflessa nell'acqua nera. La stranezza di quella situazione e le orribili conseguenze che avrebbero potuto derivarne lo colpirono con forza, raffreddando la sua rabbia e risvegliando la sua razionalità. Sapeva che avrebbe dovuto trovare una via d'uscita senza perdere altro tempo. Sganciò in fretta le due fibbie d'ottone del mantello e gettò l'indumento al suolo. «Prendete questo!» cercò di dire, ma le parole gli uscirono come un gorgoglio a malapena comprensibile. All'istante il mantello fu sollevato da una mano invisibile. I lamenti tacquero, ma il chiasso di chi stava festeggiando s'intensificò. Augurandosi che il suo gesto fosse sufficiente ad accontentare i wight, Eoin approfittò di quel momento e fuggì a gambe levate. Cathair Rua era anche conosciuta come la Città Rossa, perché era costruita in arenaria rossastra e le tegole dei tetti avevano una varietà di sfumature che la facevano apparire invasa dalla ruggine, oppure sommersa da una pioggia di sangue. La maggior parte delle abitazioni popolari era contenuta nella cinta di robuste mura merlate. Un conglomerato di torri e torrette, tetti e frontespizi, abbaini e comignoli sporgeva dall'intricato profilo superiore degli edifici. Strade e case ricoprivano la dorsale di una bassa collina sulla quale poggiavano tre grandi corone, ciascuna delle quali rappresentava un importante ed elaborato quartiere: la cittadella reale, il santuario e la Loggia Rossa dove avevano sede i Cavalieri del Brando, l'elite combattente del regno costruita in massiccio legname di quercia rossa. Il palazzo reale era annidato all'interno della cittadella ed esibiva torri di porfido rosso, una roccia formata da cristalli di feldspato incorporati in una matrice vermiglia. Le scalinate e le terrazze del grandioso edificio erano scolpite nel marmo scarlatto e nel diaspro. Sopra i suoi tetti sanguigni, frotte di stendardi sventolavano sullo sfondo azzurro del cielo proclamando con fierezza il bellicoso simbolo di Slievmordhu: il Brando Fiammeggiante. Molte erano le meraviglie della metropoli che facevano spalancare gli occhi, specialmente ai visitatori venuti dalla campagna. Una tra le più singolari era lo strano intreccio vegetale che cresceva davanti a un pozzo in una delle piazze: un indistruttibile cespuglio spinoso noto col nome di Albero di Ferro. Chiuso tra i suoi rami c'era un irraggiungibile gioiello di
stupefacente bellezza. I viaggiatori che passavano da Cathair Rua non mancavano mai di fermarsi dinanzi all'albero e il loro passatempo preferito era provare a spaccare una delle lunghe spine, o a stroncare un ramo, o bruciarlo, o almeno segare via pezzi di corteccia. Ma nessuno era mai riuscito neppure a scalfire l'Albero di Ferro, né tantomeno a toccare il gioiello protetto dai suoi rami. Dopo aver esaurito tutta la loro inventiva, stanchi di cercare di scavare passaggi sotto l'albero, i volonterosi rinunciavano e se ne andavano. La città dava l'impressione di essersi allargata al punto di non poter più contenere se stessa. Sobborghi di catapecchie di ogni materiale crescevano come funghi ai piedi delle mura esterne, all'ombra delle quali - ma separata dalle baraccopoli - si teneva la fiera. Il mercato era un caos tentacolare di bancarelle, tende, paraventi e veicoli di ogni sorta usati come banchi di vendita. Le strade erano ingombre di bighe per il trasporto di passeggeri, trainate a mano. Pagliacci e saltimbanchi, fanciulle poco vestite e adoni muscolosi davano spettacolo dinanzi a ricchi e poveri, popolane e cavalieri. In ogni angolo c'erano ragazzini che giocavano o litigavano. I cavalli lasciavano ovunque il loro sterco odoroso e i cani s'inseguivano fra intrichi di caviglie umane. Nell'aria aleggiava una nebbia di polvere calda, appesantita da odori di cucina e puzza di sudore. Una piccola zona presso la porta delle mura era riservata ai venditori di merci rare o di qualità superiore, affinché gli aristocratici sulle loro portantine non dovessero andare alla ricerca di articoli pregiati nelle stradicciole della fiera frequentate dai plebei. Lì gli acquirenti benestanti potevano trovare pezze di seta, damasco, mussola, merletti, velluti, lino, tessuti di lana fine, pellicce, pelli di coccodrillo, spezie, ornamenti e gioielli d'argento o bronzo, cristallerie, profumi, liquori, ceramiche dipinte, strumenti musicali e giocattoli meccanici. I mercanti pagavano dei mercenari per tenere i borsaioli alla larga da quel recinto. Tuttavia i visitatori che avessero sperato di dare uno sguardo ai membri della famiglia reale sarebbero rimasti delusi. I reali e gli aristocratici di rango più elevato non mettevano mai piede alla fiera. Erano i loro agenti ad aggirarsi tra le bancarelle per esaminare le merci e decidere quali venditori si sarebbero presentati a palazzo o nelle ricche dimore dei nobili per mostrare in privato le loro mercanzie. In tutto il resto della fiera la gente comune poteva esaminare gli animali vivi e i tagli di carne in vendita, i sacchi di farina, il pesce e la carne in conserva, le verdure secche e la frutta, i formaggi e gli insaccati, i barilotti
di bevande, le candele, le pentole, le lanterne, le punte di freccia, i coltelli, i cucchiai, i ramaioli, le zappe, gli aratri, le falci, gli ami da pesca, le lance, le accette, le catene, le campanelle, le seghe, i boccali, i secchi, le giare, le tazze, le cinture, le trappole, le balle di lana, le anfore d'olio e una quantità di altri articoli. I passanti affamati potevano acquistare focacce da un soldo, che una donna e sua figlia cucinavano alla griglia. Un arrotino chiedeva mezzo soldo per affilare lame di ogni genere su una mola circolare che il suo apprendista faceva girare con una maniglia. Chi voleva stupirsi delle proprietà di un cannocchiale poteva soddisfare la sua curiosità pagando una moneta da un soldo. Altri passatempi ed esperienze divertenti erano forniti dal combattimento di galli, dagli incontri di lotta, dalle gare con l'arco, dalle partite a dadi, dai giocolieri, dai cantastorie, dai musicanti, dai mangiatori di fuoco, dai teatrini di marionette e da chi affittava trampoli. In un angolo del mercato si potevano assumere servi e manovali. C'era una piattaforma a disposizione di coloro che intendevano offrire i propri servigi, in modo che la gente potesse osservarli. Gli uomini robusti e le donne giovani trovavano lavoro fin dalle prime ore della mattinata; gli altri potevano dover attendere là tutto il giorno, o vedersi addirittura ignorati; in tal caso il loro sarebbe stato un triste ritorno a casa, ammesso che avessero una casa in cui tornare. «Mia moglie ha bisogno di una balia per i bambini», gridò un uomo, rivolto a una ragazza dal volto rubizzo. «Tu sei una lavoratrice volonterosa?» «Lo sono, signore.» «Hai la consunzione o altre malattie?» «No, signore.» «Un denaro e otto soldi ogni settimana, compresi vitto e alloggio. Cosa ne dici?» «Posso chiedere dov'è la casa di vostra moglie, signore?» «A Carrickmore. Che ne dici?» ripeté l'altro. «Gramercie, signore.» La ragazza dalle guance rubizze scese dalla piattaforma. La maggior parte degli acquirenti era formata da slievmordhuani e talvolta c'erano anche i formidabili Cavalieri del Brando, della Loggia Rossa. Ma tra la gente del posto erano mescolati visitatori di altri regni: ashqalêthani dalle vesti esotiche marrone scuro o giallo mostarda, piene di tintinnanti gioielli d'ottone; abbronzati marinai e mercanti di Grïmnørsland, le cui collane erano state incrostate di verderame dai venti salmastri dell'oce-
ano. Più raramente si vedevano cavalieri del nord, distanti e dagli occhi d'acciaio, vestiti con cotte di maglia e mantelli color indaco, al cui fianco pendevano spade di superba fattura; o paladini dei deserti meridionali; o gladiatori dei reami marittimi dell'ovest. Tra le bancarelle potevano aggirarsi persino uno o due Signori del Clima, severi e contegnosi nei loro mantelli grigi, dalle cinture di platino forgiate presso i vulcani e con un triangolo di rune ricamato sul petto. La maggior parte degli stranieri era tuttavia gente comune; i loro abiti semplici non li distinguevano molto dai lavoratori di altri reami. Gli abitanti dell'Acquitrino avevano per tradizione una zona riservata nell'angolo sud-ovest della fiera, fuori delle mura, non lontano dai moli del fiume. Là essi montavano le loro tende, ammucchiavano in larghe piramidi le anguille affumicate, stendevano le pelli di felino e di capra, appendevano a pali i vassoi di pesce secco e ordinavano sui tavoli le loro mercanzie. Si davano i turni nella gestione delle bancarelle, attenti agli eventuali ladruncoli mescolati ai clienti e ai curiosi. Al loro arrivo, il comandante Stillwater e gli abitanti dell'Acquitrino più anziani furono salutati da altri mercanti. Col passare degli anni avevano fatto conoscenza con frequentatori della fiera che provenivano da ogni parte del continente. Era un'occasione per scambiarsi notizie, oltre che per commerciare. I loro conoscenti erano per lo più grïmnørslandiani. Provenienti dalla costa occidentale, quei duri uomini di mare avevano una gran quantità di nozioni da condividere sulla costruzione delle navi e sull'arte della navigazione. Gli abitanti dell'Acquitrino li consideravano quasi della loro stessa razza. Il primo giorno Jarred sfruttò tutto il tempo libero dal lavoro alla bancarella per aggirarsi nelle strade polverose della fiera. Il suo scopo era attaccare discorso con la gente del posto, scegliendo di preferenza gli anziani. Nel modo più casuale possibile chiese loro se avessero sentito parlare di un certo Tréan Connick, o del padre di lui, Tornai, che avevano abitato a Cathair Rua sessant'anni addietro. In risposta non ebbe che scuotimenti di testa, smorfie accigliate o perplesse, borbottii indifferenti, racconti privi di ogni interesse e secche negazioni. Poté incamerare così una quantità di espressioni del gergo locale, ma nessuno seppe dargli una notizia utile. «Lasciami andare con Jarred», supplicò Lilith, rivolgendosi a Earnàn. «È tutto il giorno che sto seduta qui, dietro la bancarella, e non ne posso più.» «Hai notato come ti guardano gli uomini? Se tu e Jarred andaste in giro assieme a fare domande, questo indurrebbe la gente a spettegolare su di
voi. E tu sai come si dice: Chi parla di te parla male di te.» «E va bene», sospirò Lilith. «Vuol dire che ingannerò il tempo spettegolando con Cuiva.» Quella sera, dopo che le bancarelle furono messe via per la notte e fu organizzata la sorveglianza intorno a esse, gli abitanti dell'Acquitrino entrarono in città dalla porta delle mura. Tra loro c'erano Lilith, Jarred, Earnàn e Cuiva, accompagnati da Muireadach, fratello di Cuiva, e da loro padre, il comandante Stillwater. «Resta vicino a me», mormorò Jarred a Lilith. Una manica del giovane le sfiorava una spalla e quel leggero contatto bastava a mozzarle il fiato. «Camminerò al tuo fianco, ma senza tenerti per mano», disse lei, determinata a proteggerlo dalla maledizione del suo amore, benché ogni cellula del suo corpo non desiderasse altro che fondersi con lui. All'interno dell'alta cinta di mura, Cathair Rua era una straordinaria mescolanza del meglio e del peggio del regno. In ciò non differiva da ogni altra metropoli. In una delle strade più povere i visitatori videro i resti di un cavallo in una fogna a cielo aperto, a poca distanza da un gruppo di ragazzini cenciosi che giocavano. La carogna dell'animale era spaccata in due all'altezza dei quarti posteriori; non restava che metà di essa. Non c'era traccia dell'altra metà, né segni evidenti da cui si capisse perché mancava. Quello spettacolo grottesco diede la nausea a Lilith. La testa dell'animale era infestata da mosconi affamati. Nei vicoli si aggiravano cani sparuti, con le costole che sporgevano come sul relitto di una nave priva del fasciame esterno. Baracche di legno si appoggiavano l'una all'altra con l'aria di volersi liberare a gomitate delle vicine. La puzza di rifiuti umani e di spazzatura era insopportabile. Nei quartieri popolari più benestanti c'era una gran quantità di taverne, davanti alle quali dondolavano al vento insegne di legno su cui erano dipinti in colori allegri nomi fantasiosi, come l'Arpa e il Trifoglio, la Pignatta del Nano, il Bastone Spinoso. Come nell'Acquitrino, su quasi tutte le porte erano inchiodati talismani per tenere alla larga le manifestazioni unseelie: ferri di cavallo, ramoscelli di cicuta e di iperico, campanelle, zampe di pollo... la loro varietà sembrava infinita. Nei quartieri più ricchi le case erano alte, costruite in granito grigio, e le strade selciate in ciottoli di fiume avevano un canaletto fognario centrale coperto da una grata. Sopra i muri dei cortili allungavano i loro rami verdeggianti aranci e, dal chiuso di quei giardini ombrosi, proveniva un gor-
goglio di fontane. Ogni tanto una carrozza trainata da una pariglia emergeva da un alto portone. All'interno di quei veicoli sedevano persone vestite con ricchi abiti di seta, dai colori caldi e delicati dell'autunno, e indosso a loro tintinnavano bracciali, collane e orecchini. Il bronzo era uno dei metalli più valutati e in Slievmordhu quella lega dorata si usava per le montature delle pietre preziose. All'angolo di una strada un trovatore pizzicava il suo liuto. Stava cantando con voce armoniosa, rivolto a tutti e a nessuno. Bella signora, non mi guardare. Il tuo sorriso per me non sprecare. Altro non sono che di strada un cantore, al tuo confronto senza nessun valore. Perché ammaliato da un tuo solo sguardo, ai tuoi piedi cadrebbe questo bardo, condannato alle pene dell'amore e a sognarti invano, e a disperare. Perciò distogli, signora, il tuo bel viso e per me non sprecare il tuo sorriso. Una moneta luccicante volò fuori del finestrino di una carrozza di passaggio e rimbalzò ai suoi piedi con un cinc! Il postiglione fece schioccare la sottile lingua di serpente della frusta e i cavalli accelerarono il passo, lasciandosi dietro una soffocante nuvola di polvere. «Che voi siate benedetta, mia signora!» gridò il menestrello, prima di essere colto da un accesso di tosse. Ai margini di quel quartiere esclusivo facevano bella mostra di sé le sedi delle gilde più prestigiose, tra cui quelle degli Argentieri e dei Bronzaioli, dei Gioiellieri, dei Profumieri, dei Sarti, dei Mercanti di Seta, dei Distillatori e degli Armaioli. I visitatori continuarono la loro passeggiata, godendosi la vista dei dintorni. In una delle zone meglio tenute, gente di tutte le classi sociali si era riunita intorno a un'insolita costruzione. Edificata in arenaria rossa, consisteva in un colonnato circolare a sostegno di una copertura a cupola, che riparava un palco cui si accedeva con una scalinata. Non c'erano muri. Jarred riconobbe la struttura tipica di un oratorium. Ce n'era uno in tutte le maggiori città di Ashqalêth: si trattava in pratica di palcoscenici riservati a chi intendeva tenere discorsi in pubblico. La gente comune non era autorizzata a salire tra le colonne dell'oratorium; soltanto i
druidi, i loro agenti, alcuni aristocratici e i membri della famiglia reale potevano farlo. «Guardate lassù», disse il comandante Stillwater, indicando il proscenio. «Qualcuno sta andando al posto dell'oratore. Mi sembra che indossi la veste dei druidi scrivani.» Attraverso la folla dilagarono energici inviti al silenzio. Sulla rossa piattaforma dell'oratorium era salito un uomo. Indossava una voluminosa toga rosso scuro col cappuccio di fustagno e una sciarpa di lino bianco drappeggiata intorno al collo e sulle spalle. Quello era l'unico contrassegno che ai druidi scrivani fosse consentito portare, a parte la candida penna d'oca ricamata su una manica, sotto l'emblema del Brando Fiammeggiante. Alle spalle del druido due uomini stazionavano come incrollabili monoliti, le facce nascoste nell'ombra della cupola. Erano le sue guardie del corpo. Di lato c'era un giovane snello vestito di fustagno rosso, col simbolo della penna d'oca su una spalla. Fu quel servo a farsi avanti, per gridare alla folla: «Fate silenzio e mostrate rispetto all'onorevole Tertius Acerbus!» Gli ultimi mormorii si spensero. Il druido alzò la testa e iniziò a parlare. «Udite ora le parole dei druidi del re», esordì con voce profonda. «E come i druidi profetizzano, così sia.» Eccitati, gli spettatori si agitavano e si scambiavano commenti. Il druido proseguì: «Verrà l'ultimo giorno, il giorno in cui il sole scenderà a oriente. I pozzi si disseccheranno, i ponti cadranno a pezzi, le tenebre copriranno la terra. Il sangue scorrerà dal cuore delle montagne e tutte le madri piangeranno per i loro figli. I cuori stessi... voglio dire, i fuochi... si congeleranno del tutto». Fece una pausa e percorse con uno sguardo minaccioso la prima fila del pubblico, dove un paio di individui avevano cominciato ad agitarsi in un modo che lui sembrava considerare irrispettoso. «Invero è stato detto: L'uomo saggio non bada allo sciocco», tuonò. La prima fila si calmò. Lui riprese: «La spada del cavaliere più valoroso sferrerà il colpo doloroso. Due amanti si sveglieranno da un sonno tormentato per trovarsi con la spada alla gola. Le lacrime della vergine saranno raccolte in un vassoio d'argento. Dodici nobili veglieranno la tomba. L'uomo più fidato tradirà l'amico nell'ora del bisogno. Il cervo bianco... ehm...» Le sopracciglia dell'oratore si corrugarono nella concentrazione. «Sì, invero il cervo bianco sarà cacciato attraverso il cortile del re, e il cavaliere tradito sarà esiliato presso la fontana.» Un brusio dalla prima fila attrasse la sua attenzione. Una volta ancora
indirizzò i suoi fulmini ai disturbatori: «Invero è stato detto: Non ascoltare la voce del corvo, poiché colui che cavalca davanti a te piangerà all'alba del giorno». Invece di placarsi, il pubblico si agitò ancora di più. Esplose un sonoro diverbio. Una delle guardie del druido uscì con aria minacciosa dall'ombra dell'oratorium e le grida cessarono. Senza aver dovuto alzare un dito, la guardia indietreggiò di nuovo. «Ma non tutto è perduto!» esclamò il druido. Gli anelli di elektrum scintillarono alle sue dita quando allargò le braccia in un gesto espansivo. «Perché verrà il giorno in cui gli uccelli della tempesta voleranno alti e il cavallo bianco galopperà sulle tombe degli Undici che... ehm...» S'interruppe. Il giovane snello al suo fianco gli mormorò qualche parola. «... che hanno viaggiato fino al Luogo Superiore», continuò il druido. «Quindi il brando fiammeggerà ancora, i Re di Slievmordhu si leveranno e prevarranno sui nemici di Tir, e tutto sarà illuminato!» Un drammatico silenzio incoronò quelle gloriose parole. Poi una voce dal pubblico domandò: «Cosa significa 'illuminato'?» «Non ho questa conoscenza. Qualcosa di buono, suppongo», gli rispose un ottimista. Avendo concluso il suo compito, il druido scomparve negli oscuri recessi dell'oratorium accompagnato dalle guardie del corpo e dal servo. Dopo qualche istante lo si vide scendere dalla scala sul retro. «Questo guasta molto l'effetto di poco fa, quando era sembrato che svanisse nella mistica penombra», commentò Jarred, mentre uno degli accompagnatori si chinava a sollevare la lunga toga dell'individuo perché non inciampasse. «Sono molto eloquenti i nostri druidi slievmordhuani, non è così?» disse cautamente il comandante Stillwater. «Non sono molto diversi da quelli di Ashqalêth», rispose Jarred. «Invero è stato detto: Il tamburo vuoto suona più forte.» La sua spiritosaggine suscitò le risate degli abitanti dell'Acquitrino. «Il brano degli uccelli della tempesta è stato di buon effetto, ma il resto era troppo vago. Troppi 'forse'», aggiunse il giovane. Cuiva, con aria allarmata, gli fece cenno di tacere. «Bada a come parli, uomo del deserto», sussurrò Lilith con enfasi. «Non farti sentire così irriverente. La gente di città ascolta molto i druidi. Quelli che vengono qui ad ascoltare i loro portavoce non devono sospettare che i soldi delle tasse saranno spesi per le comodità dei druidi.»
«Parlate piano», li avvertì Earnàn. «Si sta avvicinando una delle loro sanguisughe. Andiamocene.» «Cosa?» Jarred si guardò intorno. «Ah, in Ashqalêth li chiamiamo 'avvoltoi'», borbottò, mentre lui e i suoi compagni cercavano di sparire inosservati tra la folla. I raccoglitori di elemosine, con le loro inevitabili guardie del corpo, erano sempre in movimento tra la popolazione. S'informavano sui nomi di tutti - sembrava che fossero dotati di una memoria formidabile, poiché non mettevano niente per iscritto - e non dimenticavano mai la faccia di chi non dava un obolo. Ciò, oltre alle tasse obbligatorie, consentiva ai druidi di mantenere lo stile di vita loro dovuto, perché solo a quegli alti personaggi era concesso di intercedere presso i Fati per il bene della comunità. In quanto ai questuanti, bastava che i cittadini si raccomandassero per ottenere questa o quella grazia, con l'aggiunta di qualche moneta d'oro o d'argento, e un druido si sarebbe rivolto direttamente ai Fati per chiedere che il fedele fosse accontentato. I questuanti vendevano inoltre amuleti benedetti dai druidi, considerati assai efficaci per respingere gli esseri unseelie. «Non tutti gli uomini alle dipendenze dei druidi sono così... diciamo 'obliqui' come questo loro portavoce», osservò il comandante Stillwater, mentre i visitatori si allontanavano in fretta dalla zona dell'oratorium. «Ho sentito dire che c'è un druido scrivano capace di sciogliere maledizioni potenti, anche quelle che inducono mali come la pazzia.» Distratto dalla vista di un giocoliere che lanciava in aria ventitré uova, il comandante Stillwater non notò gli sguardi eloquenti che si scambiarono Earnàn, Lilith e Jarred. «Probabilmente sono uova sode», commentò Cuiva, voltandosi a guardare oltre la spalla di suo padre. Earnàn, Lilith e Jarred rimasero volutamente un po' indietro rispetto ai compagni. «Un trattamento contro la follia», disse a bassa voce Lilith. «Mi chiedo se esista davvero una cosa simile.» «Se tra i druidi ci sono dei veri guaritori, può darsi che il vecchio Connick abbia cercato il loro aiuto molto tempo fa. Nel santuario potremmo trovare informazioni utili», disse Jarred. «È poco probabile che uno come lui o gente come noi riesca a ottenere udienza da un membro del santuario», obiettò Earnàn. «Inoltre i servizi delle toghe bianche hanno un costo esorbitante e Connick non è mai stato un uomo ricco. È più facile che si sia rivolto ai farmacisti, o alle carlin, o
persino - se aveva gravi problemi economici - ai gitani.» «Dubito che abbia chiesto aiuto alle carlin. Dopotutto, le carlin dell'Acquitrino non hanno potuto far niente per lui», osservò Lilith. «Allora io andrei a fare un giro dei farmacisti», propose Jarred. «Dove posso trovare i più anziani?» «Nella via dei Farmacisti. Si trova da quella parte», rispose Earnàn, indicandogli la direzione. «Sull'altro lato di piazza Bellaghmoon. L'ora è tarda, ma se ci vai subito senza perdere altro tempo potresti trovare qualche bottega ancora aperta.» Il giovane salutò i compagni e si affrettò per le strade ancora molto frequentate. La sera tingeva l'aria con ombre ferrose e le finestre si erano già trasformate da scure orbite rettangolari in occhi gialli che aprivano i loro sguardi luminosi sulla notte. Nuvole basse avanzavano nel cielo; i passanti pronosticavano un temporale e brontolavano: «Perché i Signori del Clima non fanno qualcosa? Dovrebbero garantirci che i giorni della fiera non saranno rovinati dalla pioggia». Quando Jarred trovò la via dei Farmacisti, entrò nella bottega di aspetto più vetusto che poté vedere: un bugigattolo acquattato come un rospo del fango nella parte più miserabile del quartiere. La farmacia prendeva luce da una finestrella di pessimo vetro coperto da strati di sudiciume. Gli scaffali e gli armadi si curvavano sotto l'ormai insostenibile peso di vasi e giare, tazze di rame, corni di chissà quali bestie, bottiglie e altri contenitori pieni di cristalli e polveri, erbe e ossa. Ovunque erano appesi bastoni, martelletti, forbici chirurgiche, bisturi, pennelli, gong, scatole di cosmetici e cassette di pitture, aghi, candele, incensieri, corde, collane di denti e di artigli, teschi, pelli umane, organi sessuali secchi, calcoli renali, fibre vegetali e piume. La parete più interna della botteguccia era nascosta da alcuni armadi fatti di centinaia di piccoli cassetti. L'aria era ammorbata da fumo d'incenso, polvere e filamenti di grasso bruciato e ogni superficie sembrava coperta da una patina di olio rancido. L'odore prendeva alla gola. I pensieri più lucidi di Jarred sembravano essere rimasti fuori; era difficile concentrarsi e nello stesso tempo respirare quei miasmi. La porta, aprendosi, aveva fatto suonare un campanello. Una donna uscì da un antro oscuro del retrobottega a passi pesanti e lo soppesò con lo sguardo. «Cosa possiamo fare per voi, signore?» Jarred rispose: «Ho due domande. La prima: avete un trattamento contro la pazzia? La seconda ve la farò più tardi».
«Sicuro, bel giovanotto, abbiamo molti rimedi per la follia», rispose lei, col tono di chi sa come trattare coi gonzi, «e anche per tutte le altre malattie.» Gli sorrise, scoprendo due file di incisivi anneriti. «Muiris Ó'Cléirigh!» chiamò, voltandosi verso il retro. Dalla stessa porticina sbucò un uomo anziano, che masticava ritmicamente un grosso bolo di roba vegetale marroncina. Rivolse a Jarred un cenno del capo e contrasse le labbra in un sorriso professionale, mettendo in luce alcuni spuntoni di carbone che rivaleggiavano con gli incisivi della donna. La parte anteriore della sua tunica era chiazzata di liquami coagulati non identificabili. «Questo gentiluomo vuole una delle nostre specialità per la pazzia», lo informò lei, quindi sparì di nuovo nel retrobottega senza aggiungere altro. «Una specialità per la pazzia, eh?» Il gestore della bottega annuì. «Per curarla, non per farla venire», specificò Jarred. Il suo sarcasmo cadde nel vuoto. «Siete venuto nel posto giusto, signore», lo informò il farmacista, continuando a sorridere. «Qui abbiamo medicine contro tutti i mali.» E cominciò ad aprire cassettini qui e là nel vasto armadio tarlato, mettendo in mostra polveri, erbe, radici, incensi, foglie e una varietà di altre sostanze. «Cominciamo coi fumi e con gli effluvi, va bene?» Jarred annuì, incerto. «Respirando le nostre speciali miscele di erbe esotiche, i matti ritrovano in breve la buona salute», proclamò il farmacista, agitando una mano a indicare quei medicinali. «Grazie ai fumi opportuni adatti al caso, la mente si apre ai sentieri della chiarezza. Ecco, per esempio, la nostra antica miscela balsamica di dagga selvatica, e la polvere di kinni kinni mista a pelo d'orso, e poi abbiamo la corteccia di salice rosso, per non parlare della miracolosa radice di osha.» Aprì altri cassettini con rapidità, l'uno dopo l'altro. «Ed ecco qui la salvia sirius, la rarissima marahuanilla e il tabacco shisha che io posso fornire a un prezzo speciale. E non si dimentichi la calia rivelatrix, che, respirata durante il sonno, apre la strada per il reame dei sogni dove l'uomo può trovare la risposta che cerca. Ma per ottenere il massimo beneficio ogni sostanza va fumata nelle nostre speciali pipe di legno o di ceramica hookahs. Come potete vedere qui, signore, le pipe di legno sono ricavate dalla radica di legnosangue, mentre quelle di ceramica sono fatte con una speciale argilla mista a cenere vulcanica, sabbie segrete e acqua piovana distillata.» Senza prestare attenzione alle pipe, Jarred si scostò con una smorfia di disgusto da quelle puzzolenti sostanze vegetali che gli stavano dando il
voltastomaco e disse: «Niente fumigazioni. Cos'altro avete?» «Abbiamo gli elisir, signore, se sono più di vostro gusto.» Su alcuni scaffali erano allineate fiaschette metalliche, bottiglie di vetro e di ceramica. Il farmacista si tolse il dito dal naso per indicarle. «Qui potete vedere l'assenzio - ah, il più smeraldino dei liquori! - ottenuto distillandone gli oli essenziali dalle foglie di artemisia; oppure l'infuso chiamaricordi, fatto con oppio di papavero, erba calea, legnoverme, ambrosia e mimosa. No? Ah, il magico estratto di bulbo di calamo, pregiato per le sue proprietà stimolanti, signore, che è anche un afrodisiaco.» Nel dire ciò l'uomo gli fece l'occhiolino con un sorriso di complicità, che Jarred ignorò freddamente. «La radice di calamo è il tonico più efficace per promuovere le funzioni cerebrali, signore; inoltre lo si può usare contro l'emicrania, il mal di gola, il mal di denti e i disordini dell'apparato digerente.» «Davvero versatile», commentò il giovane. «Non mi meraviglia che voi siate in così buona salute.» Il gestore della bottega tossì vigorosamente e sputò in una vicina sputacchiera. Quindi riprese: «Per passare agli unguenti, noi siamo gli unici ad avere il balsamo notteviola, una miscela di valeriana, kava, luppolo e limone balsamico. Questo vi offrirà un profondo sonno riposante e allontanerà la follia di questo mondo frenetico». Le ultime luci del giorno si erano ormai dileguate. La bottega era immersa in una penombra così sepolcrale da sembrare un antro sotterraneo. Il gestore abbaiò un ordine e la donna dal passo pesante venne ad accendere due puzzolenti lampade a olio. Jarred preferì spostare altrove la sua attenzione. «A cosa servono quei bastoncelli e quei coni che sembrano fatti di letame secco?» «Questo è incenso onirico, signore. Erbe e resine speciali che producono un fumo purificante, l'atmosfera migliore per i vostri viaggi.» «Quali viaggi?» «I viaggi della mente, signore, per trovare le risposte che cercate. Abbiamo salvia selvatica del deserto, resina di coppale, incenso marino e mirra. Vi piacerebbe aspirare una boccata di cicuta rossa?» «No, grazie. Non sono portato per questi fumi e queste pozioni e questi incensi. Li ho già visti usare e lasciatemi dire che i risultati non mi sono piaciuti affatto.» «Ah, signore, ma il dosaggio è essenziale, come la purezza del prodotto. La Farmacia Ó'Cléirigh fornisce le sostanze più genuine dei Quattro Regni e qui voi potete avere i consigli migliori su come intraprendere viaggi oni-
rici...» «Vedo che avete molte pietre», lo interruppe Jarred. Raccolse un pezzo di quarzo traslucido. «Questa è una pietra divinatoria, signore», disse il farmacista, togliendola dalle dita di Jarred. «Si usa per cercare persone e cose scomparse. Basta guardarci dentro per trovare ciò che si desidera... ma naturalmente oggetti così preziosi devono essere acquistati prima dell'uso.» Scoprì i mozziconi dei denti in un altro sorriso, tenendo l'oggetto fuori della portata del giovane. «E cosa mi dite di questi sassi più piccoli?» «I cristalli rappresentano l'unità dei quattro elementi, signore: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. Emettono continue vibrazioni per riequilibrare i vostri scompensi. Portate i cristalli addosso tutto il giorno e vi sentirete ripulito, armonizzato, integrato, con tutte le energie allineate. Ogni cristallo ha le sue proprietà particolari.» Deposta la preziosa pietra divinatoria su una pelle di capra, il farmacista raccolse una manciata di frammenti opachi di vari colori e li mostrò al cliente. «Agata per la solidità e l'equilibrio mentale. Ambra nera per affrontare gli aspetti oscuri di voi stesso. Corallo per l'amore e l'armonia.» «Il corallo non è un cristallo», cominciò Jarred, ma l'altro proseguì senza farci caso. «L'acquemarina placa il cuore e ispira compassione. La giada smorza il dolore e guarisce. La celestite azzurra per una chiara visione delle cose.» «Per favore, lasciate perdere. Ho visto abbastanza.» Jarred cominciava a perdere la pazienza. Voleva solo uscire da quella bottega maleodorante, ma nonostante ciò provava pietà per quel vecchio miserabile che si sforzava d'ingraziarselo per smerciare la sua paccottiglia. «Quanto volete per questo pezzo di giada?» «Per voi, signore, un denaro», disse subito l'uomo. «È metà del suo costo di mercato, ma voglio farvi un prezzo di favore.» «Non ho bisogno di favori. Vi darò tre soldi, non uno di più, e questo solo se risponderete alla mia seconda domanda.» «Dieci soldi!» «Quattro.» «Otto!» «Sei soldi, e questa è la mia ultima offerta.» «Ah, signore, voi siete un uomo duro di cuore», sospirò il farmacista. «Forse non siete matto come volevate far credere, eh?»
«Non lo sono per niente», replicò brusco lui. «Da quanto tempo lavorate in questa farmacia?» «È questa la vostra domanda, signore? Perché la risposta è facile. Mio padre gestiva la bottega prima di me. Io sono cresciuto qui dentro ed è per questo che conosco così a fondo l'arte farmaceutica.» «La domanda non è questa. Ripensate a quel tempo. Quando voi eravate un ragazzino, avete mai conosciuto un cliente di nome Connick? So che era un uomo imponente... di aspetto formidabile, forse portato alle chiacchiere, ma deciso a trovare un rimedio alle sue condizioni mentali. Si è fermato a lungo in questa città ed è probabile che sia venuto in questa farmacia o in un'altra.» «Connick, Connick», disse l'uomo, alzando gli occhi al soffitto dove generazioni di ragni tessevano le loro tele fin da quei tempi lontani. «Potrei averlo conosciuto.» E agitò una mano come a rimestare tra i ricordi. Esasperato, Jarred si accorse che protendeva la mano verso di lui con fare fin troppo esplicito. Gli sbatté una moneta sul palmo. «I Connick erano due. Padre e figlio», precisò. «Erano entrambi matti, signore, questi vostri antenati?» grugnì il farmacista fingendosi accigliato e pensoso, dopo aver controllato platealmente che la moneta fosse buona. Jarred represse l'impulso di mollargli un ceffone. «No.» «Datemi il tempo di pensarci, signore.» Gli occhi del farmacista s'infossarono ancor di più nelle orbite. Alla fine disse: «Ah, sì, me lo ricordo bene. Connick. È venuto qui molto tempo fa, quando ero appena un infante. Era stato dai gitani, e non c'è bisogno di dire che non avevano potuto fare niente per lui, ma una volta entrato qui mio padre gli ha offerto la terapia migliore e quando è uscito da questa porta era un uomo nuovo». «È morto pazzo», disse stancamente Jarred. Il suo interlocutore era senza dubbio un bugiardo. Il farmacista si corresse subito: «È chiaro che sarebbe dovuto tornare per completare il trattamento, allo scopo di evitare una ricaduta... ah, ma lei mi ha appena detto che è successo proprio questo, no? Be', non me ne sorprendo, dato che non ha seguito i consigli di mio padre». «Che aspetto aveva?» «Oh, molto simile a voi, signore: alto e bello, coi capelli castani. Ora che mi ci fate pensare, è facile vedere che dovete essere suo parente...» «Ecco i vostri sei soldi. Datemi la giada.»
Il farmacista depose il lucido minerale verde su una mano di Jarred. «Desiderate qualcos'altro, signore?» domandò, incrollabilmente ottimista. Per un istante Jarred fu tentato di domandare a quell'individuo se avesse mai sentito menzionare un uomo col nome insolito di Jovan, ma ci rinunciò. «No, grazie. Vi auguro la buonasera.» «Buonasera, signore. Tornate presto.» Il farmacista s'inchinò. Jarred raggiunse la porta e si precipitò all'esterno, lasciando suonare istericamente il campanello dietro di sé. Quando fu in strada, poco più avanti, con gesto irritato scaraventò la pietra nel cielo ormai senza luce, mandandola a sparire oltre i tetti delle case. Nel frattempo tutte le altre farmacie avevano chiuso per la notte, così lui si affrettò a tornare nella zona della fiera. «Perché, in nome del cielo, la gente tollera l'esistenza delle farmacie?» chiese provocatoriamente Jarred più tardi, mentre cenava coi compagni di viaggio. «Non sono altro che un orto in cui si coltivano brutti sogni. Bisogna essere degli sconsiderati per acquistare ciò che vendono.» Earnàn scrutò il giovane per un momento, poi disse con indulgenza: «Non giudicare così in fretta, Jarred. Nessun uomo può sapere cosa succede dietro gli occhi di un altro. Ci sono poeti e scrittori che attingono la loro ispirazione in quegli 'orti di brutti sogni', sapendo che le sostanze farmaceutiche liberano la loro immaginazione e la stimolano a volare a grandi altezze. Le persone malate, o tormentate da forti dolori, hanno bisogno dell'analgesico estratto dal papavero. Altre, intrappolate in esistenze miserabili, sono felici di acquistare sogni di vita ultraterrena». «Certo, ci sono sempre i cercatori di emozioni», disse Jarred in tono polemico, senza però dirigere la sua polemica direttamente a Earnàn, «ai quali non importa di vivere poco, pur di vivere queste fantasie dentro le loro teste. Il mondo è un posto strano, dove alcuni cercano di sfuggire alle allucinazioni, mentre altri sono disposti a pagare denaro sonante per averle.» Gli abitanti dell'Acquitrino dormirono scomodamente nelle loro piccole tende. Per tutta la notte una pioggerellina sottile cadde sulla tela oleata. Alle prime luci dell'alba la coltre di nuvole si era aperta, lasciando varchi ai raggi del sole. Non era piovuto abbastanza per trasformare la polvere in fango. Non appena ebbe il tempo di allontanarsi, Jarred tornò nella via delle Farmacie e trascorse il resto della mattinata facendo domande in tutte le botteghe. Nonostante le sue peregrinazioni, non ottenne nessuna informa-
zione affidabile. Infine abbandonò ogni speranza di scoprire qualcosa in quella zona e tornò alla fiera. Nel pomeriggio, mentre i suoi compagni trattavano coi clienti alle bancarelle, o facevano baratti e acquisti, lui decise d'interrogare gli altri ambulanti ponendo domande discrete. Ma la sua ricerca si rivelò ancor più problematica. «Tornai Connick?» disse l'ultimo mercante della serie, grattandosi la testa. «Tréan Connick? Mai sentiti nominare, ragazzo. Ma, già che sei qui, guarda che belle accette abbiamo, nel miglior acciaio di Narngalis! E questo martello col cava-chiodi? Prova come si adatta l'impugnatura alla tua mano, senti quanto è bilanciato! Non t'interessa? Be', se quello che cerchi è una buona lancia, vai da mio cognato Cathal Weaponmonger, a quella bancarella laggiù. Lui ha solo gli articoli migliori e, se gli dici che ti mando io, ti farà uno sconto...» Sempre più frustrato, Jarred decise di cambiare terreno d'indagine. A volte, quando si parlava di guaritori, il discorso cadeva sui gitani, e in quei giorni c'era una loro carovana accampata al confine della fiera. Quel particolare gruppo lavorava assieme a una troupe teatrale, la Compagnia Viaggiante Oswaldtwistle. Dietro il palco smontabile su cui recitavano gli attori erano riuniti in cerchio i carrozzoni dei gitani, gaiamente dipinti, scolpiti e adornati di arazzi. I nomadi smerciavano anche articoli di lusso provenienti da terre lontane, essenza di rose e polveri di talco, torrone, spezie, bacche da cui si ricavava il pepe, frutti di cera, tartufi, liquori pregiati, vesti ricamate, pettini di madreperla e avorio, vasellame di ceramica fine dipinto a mano. Vendevano anche acchiappasogni e praticavano la divinazione usando rune, carte e monete. Jarred chiese a chi potesse rivolgersi e venne indirizzato a una delle loro abitazioni a ruote. Salito a bordo, fu invitato a sedersi su un tappeto, di fronte a una donna dagli occhi quieti e luminosi che portava orecchini ad anello di ottone scintillante. «Avete una cura per la pazzia?» le domandò senza preamboli. «Dipende da ciò che ha causato la pazzia.» «Forse una maledizione.» «Una maledizione può essere tolta solo se lo scopo per cui l'avevano lanciata è stato raggiunto, o se viene annullato da un paradosso, o se l'artefice della maledizione la ritira.» «Può anche darsi che non si tratti di una maledizione.» «Alcuni affermano che certe forme di pazzia possano essere curate, altri sono di parere diverso.»
«Questa pazzia si trasmette da un membro all'altro della stessa famiglia. Significa che è incurabile?» «Io dico che ogni malattia può essere curata. Il fatto è che non sempre sappiamo come affrontarla. Leggerò le carte per voi, signore. Potrebbero fornirvi una guida.» Detto ciò, la gitana iniziò a mescolare un mazzo di cartoncini rettangolari, dipinti da una parte sola. Jarred la interruppe: «Prima che lo facciate, vorrei chiedervi se voi o qualche vostro familiare avete mai sentito parlare di un uomo chiamato Tréan Connick. Si aggirava per Cathair Rua circa sessant'anni fa, alla ricerca di una cura per la sua mente, che stava sprofondando nella follia». La gitana raccolse la gonna, si alzò graziosamente in piedi e uscì, lasciandolo da solo sul carrozzone. Jarred restò ad aspettare con calma, a capo chino. Non desiderava affatto che la donna gli leggesse le carte e aveva accettato quel servizio soltanto per poterle domandare di Tréan e Tornai Connick. L'idea che il destino fosse già determinato e che potesse essere visto su dei pezzi di cartone mescolati a caso era assurda per lui. Nascita e morte erano fattori inevitabili, quello lo dava per certo, ma preferiva pensare che entro quei due limiti esistesse una relativa libertà di scelta. Dopo quella che gli parve un'attesa piuttosto lunga, la gitana riapparve. «Ho parlato con tutti», gli riferì. «Nessuno ricorda quel nome. Purtroppo non posso darvi le informazioni che cercate, ma voi potrete trovare un sollievo nelle mie parole.» Sedette di nuovo davanti a lui, sul tappeto. «Tenete in mente il vecchio detto: Noi siamo fatti per la gioia e per il dolore, e, più riusciamo ad accettare questo fatto, meglio è. State certo, giovanotto, che non c'è dolore che non si plachi col tempo. Sappiate pure che se domanderete aiuto esso vi sarà dato, benché non si possa prevedere in quale forma.» Lui non riuscì a trovare una risposta a quelle parole e restò seduto in silenzio, mentre la donna gli leggeva le carte. Più tardi non avrebbe ricordato molto di ciò che lei gli disse, ma lasciò il carrozzone con un umore più tranquillo, con un senso di pace interiore. Ma quella serenità se ne andò mentre tornava alle tende nella penombra del tramonto, quando comprese che non sapeva cos'altro tentare. Per tutta la sera Jarred fu taciturno, in preda a una sconsolata malinconia. Disteso sulla dura stuoia che fungeva da giaciglio, non riuscì a trovare riposo. Soffriva per Lilith, si chiedeva dove fosse finito quel futuro assieme a lei che aveva intravisto e che si era sgretolato come una zolla secca tra le sue dita. Essere così vicino a lei e non poterla toccare lo stava por-
tando alla disperazione. Domani cercheremo una soluzione, si disse, mentre il sonno si posava sulle sue palpebre pesante come un rospo alato. Il mattino seguente Jarred e Lilith s'inoltrarono nella fiera, fianco a fianco, la ragazza col foulard avvolto intorno alla parte inferiore della faccia come per proteggersi dalla polvere. Si fermarono a una larga bancarella gestita da cinque uomini, dove si vendevano tagli di stoffa. Come si aspettavano, dopo che Jarred ebbe fatto il nome di Tornai Connick i commessi scossero il capo e allargarono le braccia, ma uno di loro parve incerto e corrugò le sopracciglia, mordicchiandosi un labbro. I due giovani stavano per allontanarsi delusi quando l'uomo li fermò. «Mio nonno ha una memoria eccezionale per quello che riguarda il passato. Il passato remoto, devo precisare. Non riesce a ricordare fatti accaduti ieri, e ormai cammina con molta difficoltà, ma se volete fargli qualche domanda vi porterò da lui. Tuttavia dovrete aspettare che finiamo il lavoro della giornata. Per ora, qui c'è bisogno di me.» «Vi saremo grati per il vostro aiuto», disse Jarred, deciso a sfruttare ogni minima possibilità. «Torneremo qui all'ora di chiusura.» «Non preoccuparti del lavoro, Breasal», intervenne uno degli altri commessi, e venne a battere una pacca su una spalla dell'uomo che aveva parlato. «Non è necessario che tu stia qui continuamente. Vai pure con questi due giovani. Penseremo noi a vendere la stoffa, mentre tu sei via. Il Fato Àdh sa che tu hai già fatto la stessa cosa per qualcuno di noi, più di una volta.» «Sicuro», annuì uno degli altri. «Vai, Breasal, e torna pure quando avrai finito.» «Gramercie, ragazzi.» Breasal sorrise con gratitudine ai colleghi e si gettò il mantello sulle spalle. Poi precedette gli altri due verso l'interno della città. «I miei amici sanno che lavorare al banco non mi piace», spiegò, mentre conduceva Jarred e Lilith nell'intreccio di viuzze contorte. «Cerco sempre ogni opportunità per allontanarmi per un po'. È il dover mercanteggiare che mi infastidisce, soprattutto quando i clienti si mettono a cercare difetti nella stoffa per far calare il prezzo. Io sono un maestro tessitore e c'è gente che pretende di pagare le mie stoffe meno di quanto mi è costato tesserle, fingendo d'indignarsi se solo trova un filo fuori posto.» «Vi comprendiamo, signore. Anche noi abbiamo una bancarella. Io sono
la signora Hawksburn e il mio accompagnatore è mastro Jovansson», disse Lilith. «È un piacere conoscervi. Forse vi compiacerete di mangiare un boccone con noi, quando saremo a casa mia.» Era evidente che l'uomo si rallegrava al pensiero di poterli aiutare e ospitare. Lilith e Jarred si guardarono. Ecco qui un brav'uomo, onesto e generoso, dissero i loro occhi, ma sarà in grado di farci avere le risposte che cerchiamo? Il tessitore portò la giovane coppia in un modesto quartiere di periferia, dove abitavano molti mercanti. «Questa è la via dei Telai», li informò, precedendoli in uno stretto vicolo in cui giocavano alcuni bambini e molte galline razzolavano nella polvere. Tutto intorno a loro, il vento faceva sbattere i panni stesi ad asciugare. «Ecco, questa è la mia casa», disse, aprendo una porta che dava sulla strada. Entrarono in un esiguo vestibolo da cui si passava in una "stanza più vasta e confortevole. In un angolo un vecchio sonnecchiava su una malconcia sedia di vimini, con una coperta sulle ginocchia. In un altro c'era una culla in cui dormiva un pargoletto. Seduti sotto un tavolo, tre bambini giocherellavano con alcuni cucchiai da cucina, un setaccio e un ramaiolo. Oltre una porta si vedeva una stanzetta occupata da un telaio, su cui era stesa una tela in corso di tessitura da cui pendeva la spola. La stanza prendeva luce da una finestra che si apriva su un orto, dove le fronde di un albero di prugne frusciavano al vento. Nel caminetto un paiolo annerito bolliva sopra un ceppo acceso. La donna che ne stava mescolando il contenuto si voltò nel sentir arrivare i visitatori, si asciugò le mani sul grembiule e si ravviò i capelli. Breasal le diede un bacio e la presentò come Neasa. «Questi signori cercano notizie di un uomo che è stato qui in città molti anni fa», spiegò alla moglie. «Ho pensato che il nonno potrebbe ricordare qualcosa di utile.» Con fare espansivo, Breasal si volse di nuovo ai due ospiti, allargando le braccia a indicare intorno a sé. «Come vedete, ho la fortuna di abitare in una bella casa», disse con orgoglio. «Godiamo di una vita agiata. Questo si deve soprattutto al nostro brownie.» «È un onore essere accolti nella vostra dimora», disse Jarred, rivolgendo un inchino alla donna. Lilith seguì il suo esempio. Il tessitore li condusse attraverso la stanza fino al vecchio sulla sedia di vimini e lo scosse gentilmente per svegliarlo. «Nonno», sussurrò in una
delle sue orecchie accartocciate. «Abbiamo visite.» Tornato alla coscienza, il vecchio allungò le mani tremanti verso un paio di grucce, uscì per andare al bagno, sul retro dell'edificio, quindi tornò e sedette goffamente al tavolo. Neasa gli diede una ciotola di stufato e un pezzo di pane. «Te la senti di parlare con queste due brave persone, dopo pranzo?» gli domandò. Mentre il vecchio spezzava il pane con mani tremanti, i suoi occhi acquosi scrutarono i nuovi venuti. «Va bene», rispose con voce esitante. I bambini furono fatti sedere a tavola per il pasto. Poi Breasal si accomiatò per tornare alla fiera, dopo aver baciato moglie e figli e salutato i visitatori con un cenno cordiale. Jarred attese che il vecchio avesse finito lo stufato e poi gli spiegò ciò che desiderava, mentre Neasa allattava il neonato. Gli altri bambini corsero in cortile, dove la madre aveva lasciato dei panni a bagno in un mastello. Il suono delle loro risa e lo sciabordio dell'acqua si mescolarono al chiocciare delle galline, al sussurro del vento tra i rami dell'albero di prugne e al saltuario crepitio del ceppo che continuava ad ardere nel caminetto. Era evidente che il nonno di Breasal provava piacere nel rievocare il passato ed era felice che degli stranieri fossero venuti a interrogarlo. «Il nome di Connick non mi è sconosciuto», disse, dopo aver riflettuto un po' sulla domanda di Jarred. Gli occhi di Lilith si spalancarono per la sorpresa e l'eccitazione, e il giovane avvicinò di più la sedia a quella del vecchio. Questi riprese, lentamente: «Ricordo qualcosa di un certo Connick, perché una volta da queste parti c'era un uomo con questo nome, ed era piuttosto conosciuto. Oso dire che la maggior parte dei vecchi deve esserselo ormai dimenticato, mentre i giovani non hanno mai saputo chi fosse, perché a quel tempo non erano ancora nati. Questo Connick era un guerriero, un giramondo, uno di quelli che vanno sempre a cercare guai, e s'informava su tutte le medicine in vendita da queste parti. Era un attaccabrighe, con un brutto carattere, facile all'ira». «Voi ricordate il suo nome di battesimo?» domandò Jarred. «Non in questo momento, ma se mi date il tempo me ne ricorderò.» Mentre il vecchio parlava a Jarred dei tempi passati, la moglie del tessitore depose l'infante sul tappeto e chiamò dentro gli altri figli, per farli asciugare davanti al fuoco. La donna si affaccendò in casa per un poco, poi si avvicinò a Lilith e disse, esitante: «Devo fare il pane, ma ho finito la farina. Non vi dispiace tenere d'occhio questi diavoletti, mentre vado a prenderne in fondo alla strada, a casa di mia sorella?»
«Sarà un piacere», rispose la ragazza. Non appena la madre fu uscita, i bambini - ignorati dal loro bisnonno, occupatissimo a rivangare i ricordi di gioventù - cominciarono a litigare e a prendersi per i capelli. Allarmata, non volendo venir meno all'impegno preso con Neasa, Lilith li afferrò e li tenne fermi davanti a sé. Tre faccine contratte dalla rabbia la fissarono. «Ora ascoltatemi», disse lei, cercando di apparire autoritaria. «Se vi comporterete bene fino al ritorno di vostra madre, vi racconterò una bella favola.» Le tre faccine sorrisero. Lilith li fece sedere e frugò nella sua memoria. «Quella che voglio raccontarvi è la favola della Volpe e dei Quercianti», disse infine. «Forse il nome era Tréan», stava mormorando in quel momento il vecchio, seduto dall'altra parte del tavolo. «Sì, proprio così. Tréan Connick.» Quelle parole distrassero l'attenzione di Lilith. Jarred domandò: «Non è Tornai? Ne siete certo?» «Non l'ho mai udito chiamare così. Per quanto ne so io, il suo nome era Tréan.» «I due nomi hanno una certa somiglianza», commentò Jarred. «Io so quello che so», replicò ostinatamente il vecchio. «Se non credete a me, domandate a un altro. Voi chi siete? Dov'è Neasa? Dov'è Breasal?» Jarred si affrettò a dire: «Io non dubito di voi, signore. Io sono mastro Jovansson. È stato Breasal a portarci qui. Neasa tornerà subito. Va tutto bene. Ricordate qualcos'altro di Tréan Connick?» «Tréan Connick... ah, sì. Diceva di essere malato, ma chi lo guardava non l'avrebbe mai detto. Lui credeva che quella cosiddetta malattia fosse una punizione per la sua vita dissoluta. Se ricordo bene, negli ultimi anni si era redento; ma poi ha lasciato Rua e di lui non si è più saputo niente.» Lilith distolse l'attenzione dalle chiacchiere dei due uomini e iniziò a raccontare: «Il fattore Gregg dava la caccia a una piccola volpe rossa e ormai era tutto il giorno che stava cercando di prenderla. La volpe era furba, ma nonostante tutti i suoi trucchi non riusciva a liberarsi dei cani e, nel tardo pomeriggio, essi cominciarono a guadagnare terreno su di lei. Stordita dalla stanchezza, d'un tratto si trovò in un vicolo cieco, perché un'alta parete di roccia le bloccava ogni via di fuga. Un albero spinoso che cresceva accanto alla muraglia si piegò verso di lei e disse: 'Salta su, arrampicati sui miei rami. Da qui potrai passare sulla cima della parete e fuggire via'.
«'È tutto il giorno che fuggo', disse la volpe. 'Ormai sono priva di forze. Non posso arrampicarmi da nessuna parte, tantomeno sui tuoi rami. Ma ti sono grata della gentile offerta. Gramercie.' «'C'è un cunicolo sotto la roccia. Sbuca nella foresta oltre questa gola. Infilati in quel passaggio. I ricci lo fanno sempre.' «'Ahimè, io sono più grossa di un riccio', disse la volpe. 'Comunque, grazie per il tuo gentile consiglio.' «'Arù! Arù!' latravano i segugi. La volpe si spaventò, si fece più piccola che poté e cercò di spingersi nel cunicolo. Ma il passaggio era così stretto che vi s'incastrò e non riuscì più ad andare avanti». Accovacciati davanti alle ginocchia di Lilith, i tre bambini la guardavano a occhi spalancati, con aria triste. «Povera volpe», disse il più grande. «I cacciatori si avvicinavano sempre più e lei udiva lo scalpiccio dei cavalli, l'abbaiare dei cani e gli 'hallooo' dei cacciatori, così si schiacciò al suolo e si spinse ancora un po' più avanti nel passaggio.» Lilith fece una pausa a effetto. «E cosa successe?» domandò il bambino più grande. «I cacciatori non riuscirono a vederla.» «Andarono via, allora?» «No. Continuarono a cercarla. Pensavano che si fosse infilata nel cunicolo sotto la roccia. 'Metti il naso fuori dall'altra parte', la incitò l'albero spinoso. 'Continua a tentare. Il tempo non ti manca. Loro dovranno fare più di una lega intorno alla collina per trovare un altro passaggio, e poi un'altra lega per tornare allo sbocco di questo cunicolo.' «Incoraggiata dalle parole dell'albero, la piccola volpe si contorse e strisciò avanti, mentre la roccia la graffiava tanto da strapparle via il pelo. Ma alla fine riuscì a sbucare fuori del cunicolo. Benché la schiena le dolesse, si voltò per dire 'gramercie' all'albero spinoso, poi zampettò via. «Ma uno dei cani era rimasto a frugare nelle vicinanze del passaggio sotterraneo e udì la volpe che ringraziava l'albero.» I bambini ansimarono. «Il cane andò ad annusare l'imboccatura del cunicolo e sentì l'odore del pelo della volpe. Infilò una grossa zampa nel buco e sollevò il muso per chiamare i cacciatori. Ma l'albero scosse le foglie facendogli cadere della polvere nelle fauci e invece di abbaiare il cane cominciò a starnutire!» Le risate dei bambini riempirono la stanza. Divertita dalla loro ilarità, Lilith continuò: «'Cerca di essere leale', disse l'albero al cane. 'Tu sei grosso il doppio della piccola volpe. Comunque non sei abbastanza snello per
riuscire a passare nel cunicolo. Dovrai correre intorno alla collina, se la vuoi acchiappare.' «Il cane tossì e sputacchiò. «'Lei è solo una volpe, ma almeno è ben educata!' disse l'albero. 'Non gratta le mie radici e non mi sputa sulle foglie. Vattene via!' «Non appena ebbe ripreso fiato, il cane si allontanò. Era così scosso che voleva soltanto allontanarsi il più possibile da quell'albero!» La seconda risata dei bambini disturbò il lattante disteso sul tappeto, che cominciò a piangere e a scalciare con le gambette grasse. Lilith lo prese in braccio. Era pesante, caldo, con un vago odore di acqua di lavanda. La ragazza ricordava che fino a qualche anno addietro lei e le sue coetanee consideravano i bambini piccoli una vera seccatura. Tra le sue amiche più anziane c'erano quelle che li consideravano brutti e sgradevoli, con le loro boccucce bavose, le pretese egoistiche, il continuo frignare. I lattanti hanno il potere di gettare una stregoneria sulle donne, si disse. Usano le loro fattezze tenere per apparire indifesi, i loro bisogni per legarci a loro. Forse è destino che alla fine la donna cada preda del richiamo della natura, ma oggi questo bambinetto mi sembra un essere bello e amabile. E si sentì felice di poterlo cullare e tenere in grembo, mentre narrava il resto della favola. «La piccola volpe aveva corso tutto il giorno. Si sentiva sfinita e le sue zampe erano gonfie e graffiate. Aveva un disperato bisogno di riposare un po'; andò a nascondersi tra le felci e si distese al suolo. Ma subito, inorridita, sentì le voci di alcuni uomini che si avvicinavano nella foresta. Si accovacciò, tremante di paura. Quegli uomini, tuttavia, non si comportavano come cacciatori. Cercavano di fare meno rumore possibile, parlavano tra loro a sussurri benché si trovassero a grande distanza da altri uomini, e avevano grosse accette. «Acquattata tra le felci, la piccola volpe sentì ciò che dicevano e, quando gli uomini furono passati oltre, uscì dal suo nascondiglio e zampettò via. In lontananza si udivano però gli ululati dei cani e la volpe si allontanò più in fretta che poteva, perché sentiva con raggelante certezza che i cacciatori erano di nuovo sulle sue tracce. «Mentre barcollava avanti nella boscaglia, trovò un albero sacro. «'Oh, sacro albero', lo supplicò. 'Ti prego, puoi far sì che i cacciatori non mi trovino?' «'Se vuoi il mio aiuto, vieni da me', rispose l'albero sacro. «La volpe era esausta, ma non così stordita da non percepire qualcosa di
sinistro nella voce dell'albero. Notò che i suoi rami si abbassavano serpeggiando verso di lei. Allora capì che era un albero sconsacrato, la creatura più malvagia e feroce della foresta. «Fingendosi inconsapevole di questo, guardò l'albero con indifferenza e disse: 'I polpastrelli delle mie zampe sono gonfi e sanguinanti. Camminare sulle tue foglie pungenti sarebbe troppo doloroso'. Si alzò una folata di vento e le fronde dell'albero sconsacrato si mossero verso di lei come per afferrarla. Spostandosi fuori della loro portata, la volpe aggiunse: 'Inoltre tu potresti strangolarmi e io penzolerei impiccata ai tuoi rami'. «Quindi se ne andò in fretta, ma i cani si facevano sempre più vicini. Era ormai allo stremo delle forze; sentiva che non sarebbe riuscita a fuggire ancora per molto. Proprio quando il branco di segugi era sul punto di raggiungerla e lei stava per crollare al suolo sfinita, si trovò davanti una grande quercia e, con le ultime forze, s'insinuò tra le sue radici. Gemendo pietosamente, disse: 'O grande quercia, ti supplico, apri la tua corteccia e lasciami entrare nell'interno cavo! Ho importanti notizie per te!' «I wight delle querce, quei piccoli strani umanoidi chiamati quercianti, non davano molto ascolto alle volpi, perché sapevano che erano animali astuti e sornioni. Ma era loro dovere proteggere tutte le creature selvatiche, così aprirono un varco nella corteccia e la lasciarono entrare. Mentre la fessura si richiudeva, lei poté udire il chiasso dei cacciatori e i latrati passare oltre. Giacque al sicuro nell'interno cavo, ansimando forte, con la lingua penzoloni dalla bocca. Tre faccette stregate la guardavano nella penombra. I loro capelli erano simili a fronde di ramoscelli; i loro abiti di stoffa verde e bruna e gialla sembravano fatti con foglie di quercia cucite assieme. «Tra un ansito e l'altro, la volpe riferì le sue notizie: 'Stanno venendo i boscaioli... vogliono tagliare i vostri rami di vischio... li ho sentiti parlare... ma sono spaventati... sono arrivata in tempo?' «I quercianti si guardarono a bocca aperta, sbalorditi. 'Tu hai corso per tutta questa strada, su per le colline, sotto la muraglia di roccia e attraverso la foresta, solo per venire a dirci questo?' «'Proprio così', ansimò la volpe, sperando di guadagnarsi la riconoscenza dei wight e salvarsi la vita. «'In questo caso', dissero i quercianti, 'noi fingeremo di non sapere niente dei polli rubati al fattore Gregg. Non daremo assistenza ai ladri, ma aiuteremo un'amica sincera.' «I quercianti fecero una pausa e parvero ascoltare. Fuori delle pareti di
legno della quercia, i latrati si stavano allontanando. «'Ora i cacciatori sono andati via', dissero, 'e devi andartene anche tu. Prima di uscire, bagna le tue zampe ferite nella polla d'acqua piovana tra le nostre radici e dissetati pure.' «La corteccia dell'albero si riaprì e, prima di accorgersene, la volpe si ritrovò fuori, mentre il varco si chiudeva dietro di lei. Era sopra un mucchio di foglie marce tra le larghe radici della quercia. Il cielo si rifletteva nell'acqua stagnante. Lei la leccò e vi bagnò le zampe, e subito i suoi polpastrelli guarirono. La sua pelliccia insanguinata e strappata dalla roccia ricrebbe, più lucida e folta di prima. In lei tornarono forza e vitalità. «Poi, per l'ultima volta, udì le voci dei quercianti, attutite dalla spessa corteccia. «'Stai lontana dall'albero sconsacrato', la avvertirono. «'È quello che intendo fare', replicò lei con fervore. «'E non tornare più qui!' «La piccola volpe non aveva bisogno di quegli ammonimenti. Galoppò via veloce come un lampo rosso tra l'erba alta, corse per tutta la strada fino alla sua tana tra le colline rocciose. Non appena fu al sicuro si accovacciò nel suo giaciglio e prese sonno. «Si risvegliò in tempo per vedere suo marito, il signor Volpe, che stava entrando nella tana. Portava con sé una gran massa di piume bianche, strette fra i denti. La depose al suolo davanti a lei e disse: 'Ecco una bella oca grassa per te, amore mio. Apparteneva al fattore Gregg, ma ora lui non ne ha più bisogno, e un buon pasto ti farà bene'. «La piccola volpe leccò con gratitudine il muso del compagno. Ma prima di cominciare a mangiare domandò: 'Perché il fattore Gregg non avrà più bisogno della sua oca?' «'Lui e un altro cacciatore penzolano dai rami più alti di un albero sconsacrato, nella foresta. Ora goditi il pranzo, amore, mentre io esco a cercare una bella anatra per la cena.' «E questa è la fine della favola», disse Lilith. «I miei complimenti!» esclamò una voce dalla porta, e la moglie del tessitore uscì dal vestibolo, dove si era fermata ad ascoltare. La donna posò sul tavolo la giara di farina. Lilith le consegnò il pargoletto e la madre lo prese tra le braccia, cullandolo sino a farlo sorridere felice. Il vecchio, nel frattempo, aveva concluso le sue reminiscenze e si era appisolato sulla sedia imbottita. «Dormirà fino a sera», commentò Neasa, stringendosi il bimbo al petto.
Jarred si alzò in piedi e disse: «Vi ringrazio per la vostra ospitalità. Non vogliamo disturbarvi oltre». «Un'altra favola!» chiesero i bambini a Lilith, con fare supplichevole. La ragazza dell'Acquitrino si chinò finché il suo viso non fu all'altezza dei loro e disse: «Ora devo andare. Ma altre persone vi racconteranno le favole, se lo chiedete. E anche voi potete inventare delle belle favole, che saranno più divertenti di quelle narrate dagli altri, perché si concluderanno proprio come piace a voi. Per adesso, però, sarete fin troppo occupati ad aiutare vostra madre a fare il pane». I bambini non furono soddisfatti della risposta e continuarono a insistere finché la madre non li fece tacere. Dopo un altro breve scambio di formalità, Lilith e Jarred lasciarono la casa del tessitore e si avviarono per le strade cittadine verso la fiera. «Cos'hai scoperto?» volle sapere la ragazza, eccitata e impaziente. «Nulla», rispose lui, che per contrasto appariva depresso. «Quel poco l'hai sentito anche tu. Abbiamo scoperto solo che ai suoi tempi il vecchio Connick era un ubriacone dal carattere difficile e un ruffiano di strada.» «Mi dispiace sentirlo dire.» «Dicevano che si lamentasse di soffrire di qualche malattia non identificabile, ma secondo quel vecchio non piaceva a nessuno e suppongo che a nessuno interessasse il suo stato di salute.» «Non abbiamo altri indizi?» «Niente. Ho fatto molte domande, per portare alla luce anche minuscoli dettagli utilizzabili, ma i miei tentativi sono stati inutili.» I due proseguirono il cammino con aria abbattuta. «È una famiglia cordiale e generosa», disse Jarred alla fine. «Con tutte quelle bocche da sfamare hanno voluto anche invitarci a pranzo. Ho lasciato due monete da sei soldi sulla mensola del camino.» «Hai fatto una buona azione. Quei bambini sono deliziosi.» L'espressione di Jarred rimase cupa. «Deliziosa sei tu», disse. Aveva il tono amaro di chi ha visto svanire le sue ultime speranze. «Mentre ti guardavo, seduta là con quel bimbo in grembo e gli altri accovacciati davanti a te, incantati dalle tue parole, mi è parso che il mio cuore andasse in pezzi.» Gli occhi di Lilith si riempirono di lacrime. «Un giorno ti ho detto che non avrei avuto la pazienza di crescere un figlio. Ora devo ammettere che la vedo in modo meravigliosamente diverso. Sono stata catturata dal richiamo della natura e stento a credere che un tempo pensassi di essere immune da quell'incanto.»
E aggiunse mentalmente: Quanto vorrei avere un bambino nostro! E invece non mi sposerò mai, perché darei alla luce una nuova vita che sarebbe maledetta. Tutte le mie speranze sono distrutte. Ed è assai meglio che io non abbia mai figli, piuttosto che condannarli a un destino atroce. «Stai soffrendo troppo», disse Jarred, protendendo una mano come nell'impulso di consolarla. Lei balzò indietro, fuori della sua portata. «No, no! Non devi toccarmi!» «Io non ho paura.» «Non esporrò anche te al pericolo.» «Il solo pericolo è che tu mi spezzi il cuore.» «Preferisci la morte ad avere il cuore spezzato?» «Lilith, io non sopporto di starti lontano. Mi fa sentire...» S'interruppe. «Anch'io», disse lei. I suoi occhi azzurri erano colmi di tristezza. «Ma dobbiamo farlo. Dobbiamo.» Anche il terzo giorno della loro permanenza a Cathair Rua fu privo di risultati. Sembrava che in nessun posto della città e dei sobborghi ci fosse una sola persona, a parte il vecchio nonno del tessitore, che ricordasse il nome di Connick. O, se anche qualcuno c'era, non volle ammettere di ricordarlo. Al termine della giornata lavorativa ci fu molto da fare giù ai moli del Fiume Impetuoso. «Ripartiremo dopodomani», disse il comandante Stillwater alla gente dell'Acquitrino che stava ordinando sulle imbarcazioni e coprendo con teli impermeabili le merci acquistate. «Muireadach farà il primo turno di guardia alle barche, questa notte.» «Il secondo turno lo farò io», si offrì Jarred. «Ma può darsi che io non torni con voi all'Acquitrino.» «Che novità è questa? Non tornerai con noi?» esclamò Earnàn, sbalordito. Jarred scosse il capo. «Così come stanno le cose, non posso lasciare la città.» E con uno sguardo eloquente aggiunse: «Qui c'è ancora molto da imparare». «Tu hai cercato informazioni sugli antenati di Lilith. Perché l'hai fatto?» chiese Stillwater. Jarred esitò, ma solo un momento. Poi disse: «C'è motivo di credere che ci sia un'eredità che le spetta». «Bene, allora. Questa è una cosa che merita di essere approfondita e perseguita. Ti auguro buona fortuna», disse Stillwater.
Lilith condusse Jarred in disparte e gli domandò: «Devi proprio trattenerti qui?» La prospettiva di tornare all'Acquitrino senza di lui la riempiva di paura. Le sembrava tragica come una condanna a morte. «Devo farlo.» «Come farai a sopravvivere?» «Cercherò un lavoro.» «L'asta dei lavoranti è stata chiusa.» «Non importa. Si può sempre trovare lavoro... anche se la paga è misera. Posso tirare carretti, spazzare le strade...» «Non sono lavori degni di uno come te», protestò Lilith. «Mi adatterò. Se, come tu dici, non vuoi che io abbia una moglie gravata da una maledizione, questo è l'unico modo in cui potremo un giorno unirci. Inoltre, cosa ancora più importante, è la sola possibilità di salvarti.» «Io resterò con te. L'amuleto mi proteggerà.» Jarred sospirò. «Queste parole ce le siamo già dette. Credi che io non morirei per te, senza esitare? Credi che non ti legherei a me con una catena, se potessi? Quando non posso vederti è un tormento. Quando posso, brucio come se fossi dentro una fornace. Non so quale delle due cose mi fa soffrire di più. Ma tu non puoi restare qui, lo sai.» Lilith abbassò lo sguardo e disse: «Questo resta da vedere». Quella sera, nella taverna chiamata l'Arpa e il Trifoglio, gli abitanti dell'Acquitrino si unirono per fare un po' di baldoria a un gruppo di mercanti di lana delle Valli Orientali e ad alcuni marinai di Grïmnørsland. La taverna era piena di altri clienti venuti da regioni lontane, decisi a divertirsi in città nei momenti liberi. Il salone di mescita offriva uno spettacolo comune a tutti i locali pubblici dei Quattro Regni: un soffitto basso, sostenuto da travi dipinte, un ampio camino - spento in quel periodo dell'anno -, una quantità di tavoli e panche di legno grezzo, lampade appese a ganci che brillavano come farfalle-tigre intrappolate nel ghiaccio, finestre dai vetri piccoli e spessi pieni di difetti, angoli in ombra dove individui incappucciati discutevano sottovoce tra loro, zone molto illuminate in cui si affollavano clienti chiassosi e ridanciani. Cameriere frettolose e indaffarate si muovevano di traverso, sollevando i vassoi sopra le testa degli avventori e deponendoli senza la minima delicatezza sulle superfici già bagnate dei tavoli, facendo traboccare la schiuma della birra. Il brusio delle voci si alzava e si abbassava come il vento attraverso i fitti rami di una foresta invernale. Le bocche erano piene di vino e di canzoni. Un cliente in vena di roman-
ticismo alzò gli occhi al cielo e cominciò a cantare: Il mio amore è un fiume che scorre fino al mare, con acque che ribollono di dolci ricordi, e alla fine del tempo, quando tutti i mari seccheranno, il fiume del mio amore continuerà a... «Ah, chiudi la bocca», gridarono alcune voci spazientite. «Non siamo in vena di queste sciocchezze sdolcinate. Facci sentire una canzone vera!» Subito un uomo barbuto si alzò in piedi per intonare vivacemente una ballata popolare: C'era una volta il servo di un fattore, Jack Gambapigra da tutti era chiamato. Non era certo un gran lavoratore, la sua passione era dormir sul prato. Disse il padrone: «Oggi porta le capre là presso il fosso e falle pascolare. Su quella terra sì piena di sassi che non possiamo arar né seminare». Così Jack Gambapigra andò nei campi e chi trovò quando raggiunse il fosso? Seduto là sull'erba della riva c'era un ometto dal cappello rosso. Jack in silenzio gli girò alle spalle e con un balzo a prenderlo fu lesto. «Tutti dicono che tu abbia una pignatta piena d'oro», gridò. «Dammela, presto!» «Abbi pietà. Lasciami andare, amico!» pregò l'ometto da lui accalappiato. Ma Jack lo strinse forte. «Parla, dico, o sarai sul momento strangolato.» L'altro si arrese. «Ahimè, sia come vuoi», rispose, «è sottoterra la pignatta d'oro. Ti condurrò sul posto, ma dovrai scavarla fuori tu, col tuo lavoro.»
Jack fu guidato in una piana incolta di cespugli coperta e fitti rami. «Ecco», disse l'ometto, «qui è sepolta la pignatta dell'oro che tu brami.» E gli indicò un cespuglio fronzuto dicendo che doveva lì scavare. Jack rise forte, essendo risaputo che i wight non potevano mentire. Ma poi si guardò intorno e, con stupore, vide migliaia di cespi similari che pur diversi nella posizione erano uguali nei particolari. «Metterò un contrassegno», disse allora, «così la pianta io distinguerò.» E dal collo levossi il fazzoletto rosso e a quel cespuglio lo legò. «Ora ti lascio andare, amico bello. Ma», disse al wight, «in fede mia prima dovrai giurar che il fazzoletto da questa pianta non toglierai via.» «Giuro ciò che tu vuoi», disse l'ometto, «il contrassegno non sarà toccato.» «Allora vai», concesse il giovane. «Io sarò ricco e tu sei liberato!» Jack vide che il terreno era sassoso, gli occorreva un piccone per scavare. Lasciò l'ometto con gesto generoso e in paese andò a farselo prestare. «Non siete astuti come credevate», disse, «voi wight col vostro gramarye. Io so ben acchiapparvi nella rete, perciò non datevi più tante arie!» Ma quando tornò indietro sulla piana
pronto a scavar la terra col piccone, già pregustando la pignatta d'oro guadagnata con la sua furba azione, sentì che il cuor gli si fermava in petto dinanzi a uno scenario inaspettato: poiché un rosso sgargiante fazzoletto a tutti quanti i cespugli era legato! Risate e commenti divertiti si levarono dal gruppo dei suoi compagni di bevute. «Niente male, Donagh», esclamò uno di essi. «Ma lascia che sia io a cantare l'ultima strofa.» «Scaverò allora sotto ogni cespuglio!» gridò Jack Gambapigra furibondo. «Non illudetevi d'avermi giocato. Avrò il mio oro, quant'è vero il mondo!» Ma, se il piccone non si fosse rotto lasciandolo a metà nel suo lavoro, ancor là lui sarebbe come un matto a scavar buche in cerca di quell'oro. Mentre quel terzo cantore finiva di esibirsi, meritandosi un energico applauso, Jarred vide che un ragazzo dai capelli biondi, seduto tra la gente, lo stava guardando con strana attenzione. Pensandoci meglio, anzi, si rese conto che quel tipo lo scrutava a occhi socchiusi fin da quando lui era entrato. Non dimostrava più di quattordici anni e lo si notava solo per la sua sporcizia. Il biondo dei capelli scarmigliati era quasi nascosto da una patina di grasso scuro. Aveva chiazze nere sulla faccia, come se lavorasse tutto il giorno a spalare carbone, e indossava stracci così malridotti che non era facile identificarne il colore. Non appena il giovane vide che Jarred si voltava verso di lui, si affrettò a distogliere lo sguardo. «Quel ragazzino ci sta osservando», disse Lilith, che sedeva alla destra di Jarred. «Già.» La ragazza gli stava molto vicina. Ripensando alla morbidezza della sua bocca generosa, lui dovette lottare contro l'impulso di scostarle una ciocca di capelli dal volto adorabile e assaggiare ancora quelle labbra. Con uno sforzo chinò lo sguardo accigliato sul fondo del boccale, come per immer-
gersi nei propri pensieri. La maggior parte dei suoi compagni stava ascoltando il racconto di un grïmnørslandiano biondo e sudato, di nome Bjolf Sharkküller. Costui indossava una giubba aperta fatta con losanghe di pelle sovrapposte e un paio di pantaloni di lana azzurra, tinti con una sostanza che gli abitanti della costa estraevano da certe alghe. I suoi stivaloni di pelle di foca erano legati con cordicelle incrociate fra la caviglia e il ginocchio. Aveva braccia nerborute ornate di bracciali di rame e sul petto nudo gli pendeva un pesante amuleto di ferro. Sullo sterno esibiva il tatuaggio di una nave a vela quadra con molti remi, simbolo del suo regno. «Io sono arrivato in quella città durante i festeggiamenti per il terzo compleanno del principe Uabhar», stava dicendo Sharkküller al comandante Stillwater. «Re Maolmórdha sa cosa sia una festa. C'era un grande lusso e si tenevano molte cerimonie.» Bevve un lungo sorso, immergendo le punte dei mustacchi nella birra. «Tutti si aspettavano che il bambino comparisse al balcone del palazzo per salutare la gente, ma lui non si faceva vedere. Circolava la voce che si fosse rifiutato di farlo. Se fosse stato mio figlio gli avrei accarezzato il fondo della schiena con la mia cintura, per punirlo di una simile disobbedienza. Ah, sembra proprio che il giovane principe sia ancora più testardo di suo padre!» La risata di Sharkküller echeggiò tra le pareti. Earnàn, che aveva notato gli sguardi di disapprovazione dei mercanti di lana slievmordhuani seduti in fondo al tavolo, si affrettò a spostare il discorso sul commercio di perle in Grïmnørsland. In breve Sharkküller si trovò immerso in una discussione con un suo concorrente, un certo Bergelmir Hirrungwünner, circa l'origine delle perle più pregiate, quelle bianche, nere, rosa e crema. Quei segreti erano gelosamente protetti: Jarred sapeva benissimo che i due si stavano raccontando a vicenda bugie colossali, ciascuno nel tentativo di far crollare il castello di menzogne dell'altro. Con un sogghigno si voltò a cercare il proprio boccale e solo allora si accorse che il ragazzo dai capelli biondi si era insinuato nello spazio vuoto alla sua sinistra, sulla panca. Il giovane si piegò verso di lui e disse: «Ho sentito che state cercando un tale di nome Connick». Per la sorpresa Jarred rischiò di rovesciare metà della sua birra. Cercò di controllarsi e rispose, fingendo indifferenza: «Già». «Cosa siete disposto a dare per essere informato di alcuni fatti privati?» «Sarai pagato in denaro», disse Jarred senza esitare. «Purché si tratti del-
la verità.» «Prima fatemi vedere i vostri soldi.» Jarred tirò fuori una borsa di pelle da una tasca interna della blusa. La fece oscillare, ma senza aprire il cordone. Il contenuto tintinnò. «Come possiamo essere certi che tu dici la verità?» domandò, rimettendola subito via. Gli occhi chiari del ragazzo scivolarono di lato come fagioli unti. Ogni mossa del suo corpo sembrava rigida e tesa. A voce bassa rispose: «Mi chiamo Fionnbar Aonaràn. Il mio prozio è stato maggiordomo del più potente stregone che abbia mai vissuto nel regno di Slievmordhu. Quando lavorava per lui è venuto a conoscenza di molti segreti. Venite con me a casa sua e ve ne rivelerà uno». Lilith, che stava ascoltando, si piegò in avanti. La sua voce tremò per l'eccitazione. «Quale stregone? Non il Signore di Strang, per caso?» «Proprio lui.» Jarred guardò il ragazzo con aria insospettita. «E chi sarebbe questo Signore di Strang?» domandò. Ma, ancora prima di aver finito di porre la domanda, una vaga reminiscenza di quel nome risuonò come un campanello lontano nella sua memoria. Il ragazzo parve sconcertato. «Non l'avete mai sentito nominare, signore? Ah, ma dai vestiti e dalla parlata sembra che voi siate di Ashqalêth. Forse oggi si è perso il ricordo di lui, in quella terra lontana. Dopotutto sono trascorsi molti inverni dalla sua morte. Ah, ho una sete terribile.» Gettò uno sguardo allusivo al boccale di Jarred. «Mi offrite un sorso, signore?» «Bevilo pure tutto, se vuoi», disse lui, alzandosi in piedi. «E poi portaci da questo tuo zio, così sapremo se mai ha sentito il nome di Connick.» Il ragazzo afferrò il boccale a due mani, lo vuotò d'un sorso e si asciugò la bocca col dorso di una mano. «Aspetta!» Lilith fermò Jarred posandogli una mano su una spalla e si volse al ragazzo. «Perché tuo zio non è venuto qui a parlare con noi? A che gioco stai giocando? Mediti forse di metterci nelle mani dei mercanti di schiavi?» «Ruairc MacGabhann è il mio prozio», precisò il ragazzo, sulla difensiva. «È il fratello del padre di mia madre. È vecchio e malato e non può alzarsi dal letto.» Si accigliò e aggiunse adirato: «Se avete questo sospetto, vi saluto». Si voltò e fece per allontanarsi. «Non offenderti», si affrettò a rassicurarlo Jarred. Una moneta d'argento
luccicò sul palmo di una sua mano. Un istante dopo era scomparsa in una tasca del ragazzo. «Ce ne saranno altre, se ci procurerai notizie utili.» «Non tutti e due. Soltanto voi, signore. Uno solo.» Jarred scrutò la faccia sporca del ragazzo, poi si volse a Lilith e disse: «Me ne occupo io». Con un breve cenno d'assenso, rigida per la delusione e la paura, lei si tolse la catenina da cui pendeva l'amuleto e la mise al collo dell'amato. Quel lieve tocco delle sue dita morbide scivolò come un vortice di seta sulla pelle di Jarred. «Se proprio devi farlo», gli mormorò. Dopo essersi accomiatato da lei e dagli altri compagni, Jarred si fece strada fra gli avventori, seguito dal ragazzo. Una volta fuori della taverna, i due si avviarono lungo la strada nella vaga luce che usciva dalle finestre adorne di ferri di cavallo e altri portafortuna. Il ragazzo camminava in fretta, entrando e uscendo dalle chiazze di luce lunare e di ombra come la fiammella della lanterna a gas di un wight delle paludi. Nelle contorte stradicciole della città vecchia, Jarred gli si accostò di più e gli disse: «Dimmi qualcosa di questo Signore di Strang». Il ragazzo lo accontentò, mentre il suo petto magro si alzava e si abbassava in ansiti rapidi. «Nel nord-est di questo regno, a pochi giorni di viaggio da Rua, c'è una regione chiamata Orielthir. Si trova sulla grande catena di monti e di vulcani dormienti sul confine tra Slievmordhu e Narngalis. In Orielthir sorge un maestoso castello chiamato Cupola di Strang. È isolata lassù, abbandonata e sigillata. Un tempo era la fortezza del Signore di Strang. Egli era un uomo potente e misterioso, uno stregone venuto da oltre le Montagne di Fuoco. Ora su tutto il territorio che circonda la Cupola regna un silenzio minaccioso e stregato. Lo stregone è morto vent'anni fa.» S'interruppe per girare un angolo e condusse Jarred per un'altra stradicciola angusta. «Alcuni dicono che sia semplicemente andato altrove.» Svoltarono in una traversa. «Io non ho la conoscenza di ciò che è successo, ma tutti sanno che quella Cupola è stata chiusa e che da allora è sempre rimasta così. Nessuno ha mai trovato il modo di entrare. Si dice che là dentro ci siamo immensi tesori e terribili segreti.» Presero per un'altra viuzza immersa nel buio, addentrandosi sempre più nel quartiere povero della città. Lì le strade erano in terra battuta e le abitazioni nulla più che baracche o sordide topaie. «Molti hanno cercato di entrarci», continuò il ragazzo. Le sue costole magre sporgevano a ogni respiro affannoso. «Tutta gente che cercava potere e ricchezza. Ma neppure Re Maolmórdha c'è riuscito. Neppure i druidi.
Nessuno ha mai ottenuto niente. Quelli che hanno tentato di forzare la porta sono morti all'istante. C'è un incantesimo che la protegge.» Le viuzze sudice e buie erano immerse nel silenzio. Gli unici rumori erano il fruscio del vento tra quelle costruzioni instabili, il monotono abbaiare di un cane e il pianto di qualche bambino dietro le imposte chiuse. Fionnbar spinse un uscio sgangherato e fece cenno a Jarred di seguirlo in una casupola male illuminata. La stanza era piccola e priva di finestre. Di fronte alla porta c'era un caminetto annerito, intorno al quale erano sparsi pezzi di legno e un attizzatoio. Il fuoco era spento. Sulle ceneri fredde pendeva un paiolo, attaccato a un gancio. Sulla mensola c'erano due boccali ammaccati e una giara. Uno scaffale a muro ospitava alcune terraglie, due cucchiai e tre coltelli. Un paio di collane di cipolle brune erano appese a un chiodo. Il mobilio consisteva in un tavolo, una panca, un cestone e uno sgabello a tre gambe. Sul tavolo c'erano una lampada, una mezza pagnotta un po' ammuffita e un pezzo di formaggio. In un angolo erano deposti un secchio d'acqua con un corda legata al manico, un cestello di vimini malandato e un mucchio di stracci sporchi. Seduta a terra accanto al camino dormiva una serva, con la faccia mezza nascosta da ciocche di capelli mai lavati. «Ho portato qui l'uomo che fa domande», disse il ragazzo, rivolto alla stanza. «Ah!» Come un mostro marino sbucato da un letto d'alghe, un vecchio si sollevò dal mucchio di stracci. Uno dei suoi occhi era un bubbone sporgente, bianco come una sfera di gesso; l'altro aveva lo sguardo velato da una cateratta. Voltava la faccia ossuta e disseccata da una parte e dall'altra come ad annusare l'aria, captando la presenza dell'estraneo con un senso che non era la vista. «Siediti! Siediti!» gracchiò quello spettro d'uomo. Jarred non raccolse l'invito. «Io so tutto», continuò l'altro. «Tutto! Ma prima devo sentire il bacio dell'argento sulla mia mano.» «D'accordo. Due denari adesso e altri quattro dopo che avrai finito di parlare», rispose Jarred. Il vecchio emise un grugnito roco. Jarred pensò che stesse soffrendo, poi si accorse che invece rideva divertito. «Sei denari d'argento?» disse. Un accesso di tosse lo interruppe. «Mostragli la porta, ragazzo.» Fionnbar si limitò a inarcare un sopracciglio.
«Quattro subito e otto dopo», rilanciò Jarred. «Venti subito e trenta dopo!» sbottò lo spettro. «E quando mi pagherai dovrai anche ringraziarmi!» Jarred esclamò stupito: «Cinquanta denari d'argento? È dieci volte più di quello che un uomo può guadagnare in una settimana alla fiera. Che i Fati siano con te. Buonanotte». E s'incamminò verso la porta. «Quindici subito e quindici dopo!» gracidò l'animalesco individuo. Jarred si voltò con deliberata lentezza. «Ventisei denari d'argento è tutto ciò che ho.» «Non è abbastanza. Non è abbastanza. Ma mi accontenterò!» «Molto bene», disse Jarred. E prese tredici denari d'argento dalla sua borsa. «Qui! Qui!» lo incitò il vecchio accidioso, protendendo una zampa ossuta. «Dammeli qui!» Jarred depose le monete tra quegli artigli avidi. L'occhio annebbiato dalla cateratta si fissò sulla sua faccia. Quello sguardo, acuto in modo strano e sorprendente, sembrò scavare dentro di lui. Il vecchio grugnì qualcosa, forse più che altro a se stesso, poi l'occhio si abbassò verso le monete. Jarred fece un passo indietro. Avrebbe voluto allontanarsi dai due ripugnanti individui e da quella catapecchia da incubo. Il ragazzo si accovacciò accanto al caminetto, come per abitudine, e prese a smozzicare un pezzo di formaggio duro come la pietra. La serva dormiva ancora profondamente. «Ora parla!» disse Jarred al vecchio. «Ti racconterò una storia. La storia dell'uomo che stai cercando. Non Tornai Connick, oh, no!» Jarred strinse i pugni. Colto dalla rabbia, fu tentato di avvicinarsi all'impostore e di percuoterlo. «Oh, no!» gracidò ancora la bocca sdentata. «Non Tornai Connick, ma Tierney A'Connacht!» Subito l'ira del giovane si spense e lasciò il posto a un'improvvisa eccitazione. Quel nome dimostrava che il vecchio possedeva conoscenze insospettate. «Vai avanti! Prosegui!» lo incitò. L'individuo immerso negli stracci fece schioccare le labbra bavose e continuò soddisfatto: «Tierney A'Connacht. Il più giovane dei tre ardimentosi fratelli A'Connacht, il più bello e piacente. Tutti e tre erano pazzi di lei, sai?» «Pazzi di chi?» «Lei era la regina delle fanciulle, la più avvenente damigella che si fosse
mai vista nei Quattro Regni», disse il vecchio con voce sognante. «Alainna O'Lara Machnamh, la Rosa di Orielthir. Camminava leggera come la brezza e il suo sorriso era un fiore che sbocciava in juyn. Aveva un modo di fare così seducente che avrebbe convinto un verro affamato a darle una mela. La sua faccia era più amabile della luce del sole, i suoi occhi due farfalle azzurre.» Jarred fremette come se fosse stato colpito. La sua eccitazione crebbe. Affascinato, ascoltò in silenzio, mentre MacGabhann dipingeva un mondo sulle pagine della sua mente... Il vento ululava come uno sciacallo sulle colline di Orielthir, sospingendo nuvole grigie, che s'inseguivano come animali primitivi attraverso campi e foreste. Gravide di pioggia, esse svanirono lontano, a oriente, finché la voce del vento non si abbassò sino a diventare un debole gemito e poi svanì, lasciando il posto a una brezza autunnale. Una fila di cornacchie passò in volo nel cielo, che uno strato di vapori velava di drappi biancastri. Accarezzati da quella brezza, tre ragazzi e tre ragazze giocavano in un prato, sotto le chiome dei frassini, e gridavano e ridevano prendendo a calci una palla. Sprofondavano fino alle caviglie, ansimanti e senza fiato, nelle foglie cadute. I loro capelli erano scuri come l'ala di un corvo, le loro guance rosse come le bacche delle ginestre, la loro pelle chiara e trasparente. Gli occhi delle ragazze erano di un azzurro così intenso che quando abbassavano lo sguardo sembrava che sulle loro palpebre si fosse posato il bacio di una bocca di ghiaccio, così freddo da marchiarle con la patina bluastra delle labbra. Erano le figlie di Machnamh. Erano leggiadre quanto le wight dal fascino mortale e la più incantevole delle tre era la giovane Alainna. Le loro ormai anziane governanti e le cameriere, sedute tra le piante avvizzite, assistevano alla vivace partita. «Queste ragazze sono un po' troppo selvatiche», commentavano, sospirando. Sulla collina che sovrastava il prato sorgeva un'imponente dimora dalle molte finestre, ricca di terrazzi, torrette e alti camini: la casa dei Machnamh, chiamata Villa Ginestra. A una certa distanza, dall'altra parte della valle in dolce pendenza, sullo sfondo verde scuro dei boschi, era visibile un altro edificio. Si trattava di Villa Preclara, la dimora degli A'Connacht. I tre giovani venivano spesso lì con la loro madre ed erano ospiti sempre graditi a Villa Ginestra.
Mentre le serve stavano a guardare, uno dei ragazzi calciò la palla troppo in alto e troppo lontano. Essa passò sopra la testa delle ragazze e finì tra la vegetazione, nel bosco di frassini. «Vado io a cercarla!» gridò Alainna e, senza esitare, scomparve in mezzo agli alberi. Aspettando che tornasse, gli altri risero e scherzarono assieme. Trascorse il tempo ed essi iniziarono a chiedersi quando sarebbe tornata. Preoccupati per la sua sorte, andarono poi a cercarla, chiamandola per nome. Alainna non c'era più. Furono chiamati i servi: i cacciatori coi loro cani, i camerieri, i giardinieri e i garzoni di stalla. Tutti costoro perlustrarono freneticamente il bosco, ma trovarono soltanto la palla, abbandonata tra le felci. Si addentrarono nella vegetazione sempre più folta delle colline, esplorando oscuri grovigli di alberi centenari, radure colme di erbacce, grotte e buche profonde, ma non c'era nessuna traccia della ragazza: solo vegetazione intatta e mai calpestata, fronde intricate e umide zolle prive d'impronte. La sera scivolò sotto le chiome degli alberi succhiando la luce del sole. Furono chiamati contadini e boscaioli e venne organizzata una ricerca su vasta scala. Dozzine di torce dai riflessi rossi e dorati aggredirono l'oscurità della foresta per tutta la notte... senza nessun risultato. Tra i ricercatori non c'era uno dei giovani. Non appena sceso il buio, egli aveva preso con sé alcuni cavalli, era saltato in groppa al suo e l'aveva spronato via verso nord-ovest, così veloce che nessuno era riuscito a raggiungerlo. «Lasciatelo andare», disse la sua signora madre. «Ha lasciato detto allo stalliere che vuole viaggiare in tutta fretta fino ad Alta Darioneth. Tierney è sicuro che Alainna sia preda di un essere maligno e nel mio cuore sento che ha ragione. Lui va a cercare l'aiuto di Aglaval Stormbringer.» Così cominciò la famosa Galoppata di A'Connacht. Durante gli anni che seguirono essa divenne leggenda e ne fu tratta una ballata. Col tempo buono sarebbero occorsi ventisei giorni a un uomo a cavallo, sulla malridotta strada che partiva da Orielthir per attraversare i Colli di Confine e poi proseguire oltre il Fiume Canterbury fino alla sede dei Signori del Clima, ad Alta Darioneth. Senza fermarsi a dormire, galoppando a spron battuto finché uno dei suoi cavalli non gli era schiattato tra le gambe, Tierney A'Connacht aveva completato il tragitto in quattordici giorni. A quel tempo Aglaval Stormbringer era il Signore della Tempesta, colui che gli abitanti di quella terra chiamavano Maelstronnar, il capo e il più
potente di tutti i Signori del Clima. Era stato un grande amico del padre di Tierney, nei giorni in cui quell'uomo coraggioso abitava sulle verdi colline di Orielthir. Ora il vecchio A'Connacht giaceva nella tomba, ma il Signore della Tempesta aveva promesso di proteggere la sua famiglia in ogni modo possibile. Ad Alta Darioneth, sulla Piana dei Frassini sotto Wichwood Storth, il portone di Villa Ellen si aprì ad accoglierlo. Tierney A'Connacht corse dentro e si gettò ai piedi di Stormbringer. Il giovane aveva la vista confusa ed era sporco di sudore, polvere e sangue; la pioggia l'aveva inzuppato. Era entrato così a precipizio che il vento l'aveva seguito e ancora scompigliava i suoi lunghi capelli neri. La gente riunita in quell'augusta magione guardò con stupore il malridotto intruso. Gli occhi di giada del Signore della Tempesta avevano palpebre pesanti; il suo naso era adunco come il becco di un'aquila. Eretto e rigido, bianco di capelli, avvolto in una tunica color cenere, appariva forte e imperturbabile come un'antica quercia. Il giovane alzò lo sguardo in quegli occhi verdi e la voce gli uscì roca dalla gola straziata e torturata al punto da sembrare inumana, il grugnito di una bestia. «Signore, nel nome dell'amicizia che vi legava a mio padre, aiutatemi! Alainna è scomparsa. Potete trovarla?» Aglaval Stormbringer non ebbe bisogno di sentire altro. Non gli fu necessario domandare: «Chi è Alainna?» perché la bellezza di Alainna Machnamh era nota sino ai confini di Narngalis. E neppure domandò: «Com'è scomparsa?» perché le parole non dette dal messaggero e la disperazione di quel suo arrivo concitato gli avevano comunicato tutto ciò che aveva bisogno di sapere. Rispose: «Se la fanciulla è da qualche parte entro i Quattro Regni potrò trovarla, viva o morta che sia». A quelle parole, speranza e angoscia esplosero con tale impeto in Tierney A'Connacht che per poco il cuore non gli uscì dal petto, come un cervo inseguito fuori di un bosco. Il Signore della Tempesta ordinò ai suoi servi di preparare uno dei grandi palloni aerei, mettendo un cristallo solare nel cesto. Il cristallo, irradiò il calore assorbito dal sole e l'involucro di seta di ragno si gonfiò come una zucca. Appesa sotto il cristallo, la gondola di vimini tese le corde finché Aglaval Stormbringer non diede il segnale e gli ormeggi furono sciolti. Il pallone si alzò da Villa Ellen come una bolla perlacea e, quando fu a novemila piedi sopra Alta Darioneth, il Signore della Tempesta chiamò il
vento di nord-ovest per farsi portare dritto verso Orielthir. Attraversarono Narngalis e poi il Fiume Canterbury, verso i Colli di Confine. Disteso nella gondola, Tierney A'Connacht poté finalmente dormire, anche se i suoi sogni tormentati lo fecero gemere, ma Stormbringer rimase appoggiato alla balaustra a scrutare il cielo coi suoi occhi di giada, usando i poteri dei Signori del Clima per scandagliare l'orizzonte. La forma e il tipo di nuvole, gli invisibili fronti di pressione, le correnti termiche, l'evaporazione, la convezione, le inversioni di temperatura e gli altri fenomeni meteorologici: c'era assai poco che egli non notasse. Volarono per tutto il resto della notte e del giorno successivo. Il sole era rosso come una cometa che precipitasse a ovest quando giunsero sui colli di Orielthir. Banchi di nebbia viola stagnavano sulle alture e, all'arrivo del vento di nord-ovest che aveva portato lì i viaggiatori, quei vapori furono trascinati a sud-est. Il pallone aerostatico atterrò e Aglaval Stormbringer non perse tempo. «Dov'è stata vista l'ultima volta?» volle sapere, e i servi dei Machnamh e degli A'Connacht lo condussero oltre il prato, sotto le chiome fronzute dei frassini. Tra le radici contorte degli alberi scintillavano pozze d'acqua fangosa. A lungo Stormbringer guardò dentro di esse, come se vedesse più delle immagini degli alberi e delle nuvole simili a sospiri di spettri, come se le gocce d'acqua, nella loro discesa al suolo, avessero raccolto i ricordi dell'aria per conservarli e tenerli a disposizione di chi sapesse leggerli. A lungo scrutò quei riflessi argentei, a lungo rimase immobile come una statua, ascoltando il linguaggio del vento. L'aria autunnale filtrava attraverso i frassini facendo sussurrare e mormorare le foglie, che nella loro lingua frusciante raccontavano le storie di ciò che era passato nei boschi, leggende vegetali, favole d'ombra del mondo silvestre. Alla fine Aglaval Stormbringer fu in grado di dire agli A'Connacht e ai Machnamh ciò che era successo. «Alainna Machnamh è viva», dichiarò. A quelle parole fece eco un coro di grida gioiose e i membri dei due casati si gettarono l'uno nelle braccia dell'altro, piangendo di sollievo. Stormbringer continuò: «La ragazza è stata portata via con un incantesimo e ora si trova nel castello del Signore di Strang. Liberarla e portarla via di là sarebbe un'impresa troppo difficile e pericolosa anche per il più forte guerriero dei Quattro Regni». «Ma è possibile liberarla?» gridò Turlough A'Connacht, il più anziano dei tre fratelli.
«Possibile, sì», rispose Stormbringer. «Un drappello di armati, o un battaglione, non avrebbero molte probabilità di farcela contro le difese dello stregone. Tuttavia un uomo potrebbe scivolare attraverso di esse. Ma guai al figlio di donna che osasse provarci senza essere stato istruito su come comportarsi.» Turlough disse: «Io ci riuscirò, o morirò nel tentativo. Le mie gesta saranno cantate e si narrerà di come io avrò salvato la nobile damigella dal castello di Strang». «Resta a casa, fratello. Andrò io», si oppose Teague, il secondogenito. «No, spetta a me!» intervenne Tierney. «Non finché avrò vita!» gridò Turlough, con gli occhi scintillanti. «Come fratello maggiore è mio diritto e dovere! Ora vi prego di istruirmi, nobile Stormbringer... cosa devo fare?» Il Signore della Tempesta rispose: «Colui che vuole avere successo dovrà uccidere ogni persona che incontra dopo il suo ingresso nelle terre di Strang. E dovrà guardarsi dal mangiare e dal bere qualsiasi cosa in quelle terre, per quanta fame e sete egli abbia... perché se lo farà cadrà sotto il potere del Signore di Strang e metterà a rischio la propria vita». Impaziente di partire, Turlough disse: «Ho udito le vostre parole, mio signore». E ordinò allo stalliere di preparare il suo cavallo per il viaggio. Ma mentre il giovane si allacciava al cinturone la bella spada di suo padre, fatta del miglior acciaio di Narngalis, Stormbringer gli disse: «Prendi invece questa lama». E gli offrì la famosa spada dei Signori del Clima, Lannóir, chiamata Lamafulva. Nell'antichità il celebre mastro fabbro Alfardêne Maelstronnar l'aveva forgiata usando platino fuso al sole, ricoprendola poi d'oro puro. Si diceva che nella mischia lampeggiasse come un fulmine. Turlough guardò gli elaborati intarsi dell'elsa e dell'impugnatura di Lamafulva e scosse il capo. «Voi mi fate un grande onore, nobile signore, ma è il ferro freddo ciò che brucia e respinge i wight eldritch dei nostri tempi, non l'oro.» Il Signore del Clima replicò: «Un wight non avrebbe mai potuto entrare in un bosco di frassini. Lo stregone di Strang non è un wight, bensì un mortale, un uomo con la capacità di usare alcuni poteri del gramarye». «Tuttavia Lannóir è stata forgiata molto tempo fa, negli anni della guerra dei goblin», ribatté Turlough. «È stata fatta per uccidere i goblin, non i mortali o i wight. Le armi vecchie sono fatte per gli uomini vecchi e le battaglie del passato. Signore, la spada di mio padre è tutto ciò di cui ho
bisogno. È stata forgiata da Lorcàn il Fabbronero, e lui ha detto che non ne aveva mai fatta una migliore. Credetemi, Marfóir ha il filo più tagliente di qualsiasi lama d'oro.» «Come preferisci», disse Stormbringer. Il vento era cambiato. Il Signore del Clima si accomiatò dai due casati e ripartì per la Piana dei Frassini a bordo del pallone volante, ma lasciò lì la sua spada dorata, nell'eventualità che il più anziano dei tre A'Connacht cambiasse idea. Consapevole che suo figlio non l'avrebbe mai fatto, la madre di Turlough prese l'insolita arma e la fece appendere in casa, al posto d'onore, sulla mensola del caminetto. Fu così che il giovane Turlough A'Connacht riempì le borse da sella di rifornimenti e talismani protettivi contro i wight unseelie, indossò il suo mantello di finissima pelle di cammello e partì a cavallo verso le terre di Strang. Era di ottimo umore quando se ne andò, fiducioso e col cuore pieno di speranza; ma i suoi familiari e i suoi amici non lo rividero mai più. Invano essi attesero il suo ritorno. Dopo sette giorni di preoccupazioni e d'inattività il secondogenito, Teague, disse: «Provvederò io a riportare a casa Alainna, e con lei anche Turlough. E, se scoprirò che a uno dei due è stato fatto del male, la mia vendetta si abbatterà sul responsabile». «Non dimenticare ciò che ha detto Aglaval Stormbringer», gli raccomandò sua madre. «Uccidi tutti quelli che incontrerai nella terra di Strang. Nutriti solo del tuo cibo e della tua acqua.» «Non lo dimenticherò», le rispose il figlio. «Guardati dai wight, sia dagli unseelie sia da tutti quelli infidi.» «Starò attento.» «E prendi con te l'arma del Signore del Clima.» «Non ho bisogno di una lama elegante. L'acciaio è solido e affilato. Fa un servizio migliore.» «Turlough non è tornato indietro», disse la madre, inghiottendo le lacrime. «Turlough, senza dubbio, non ha dato ascolto ai consigli del Signore della Tempesta», replicò Teague. «Lui è sempre stato così. Io non sono Turlough.» Si allacciò alla cintura la spada, chiamata Búistéir, baciò la sua signora madre e partì per le terre di Strang, con gli amuleti che tintinnavano appesi alla sella. Neppure lui fece più ritorno. Il giorno stesso in cui Teague se ne andò, fu visto rientrare il cavallo di
Turlough, senza cavaliere. Sette giorni più tardi Tierney, il terzogenito e ultimo degli A'Connacht, andò dalla sua signora madre. «Ho paura di sentire ciò che stai per dire e ti prego di non dirlo», mormorò mestamente la nobildonna. «Devo chiederti perdono allora, madre», disse lui. «Ho deciso di andare.» «Io ti proibisco di farlo, con tutta la mia autorità. Vuoi che perda i miei figli dal primo all'ultimo?» Il giovane le espose i suoi argomenti con tutta la persuasione di cui fu capace. Parlarono per metà della notte e alla fine la signora madre di Tierney diede il suo consenso. «Che tu sia benedetto, Tierney», disse, desolata. «Se proprio devi partire per questa impresa, ti prego di fare una cosa per me... porta con te la spada dorata del Signore del Clima.» Lui le rivolse un inchino e disse: «È quello che farò». Il mattino dopo Tierney A'Connacht riempì le sue borse da sella, si mise il mantello di robusta lana e partì per la sua impresa. Questo è il racconto di ciò che accadde ai tre fratelli. Il più anziano, Turlough, aveva tenuto il cavallo a un buon ritmo, ma senza stancarlo troppo. Le campanelle della sella tintinnavano allegramente e quel suono respingeva le incarnazioni unseelie. Alla sera si accampava presso qualche torrente, accudiva la giumenta e mangiava la sua razione giornaliera di carne salata, formaggio duro, pane d'avena e frutta secca. Spargeva in circolo sul terreno un po' di sale, come barriera contro i wight, e poi si sdraiava all'interno di quel cerchio per dormire avvolto nel suo caldo mantello di pelo di cammello. Dormiva sotto le stelle e i suoi sogni erano spinti in direzioni surreali dal suono di risatine musicali, da gemiti e gorgoglii, da melodie che facevano rabbrividire, da profondi e inspiegabili silenzi e dalle grida improvvise dei wight notturni. A volte, in dormiveglia, socchiudeva le palpebre e intravedeva movimenti tra i cespugli di biancospino, le ginestre spinose e le fronde dei noccioli, dove coppie di occhi eldritch brillavano come immobili fiammelle. A un certo punto oltrepassò un antico filare di altissimi pini. Quegli alberi cupi e malinconici segnavano, com'era noto, il limite dell'immenso dominio di Strang. Prima di superare quel confine, si fermò a riempire la fiasca in un torrente impetuoso, memore del monito del Signore della Tempesta: E dovrà guardarsi dal mangiare e dal bere qualsiasi cosa in quelle terre, per quanta fame e sete egli abbia...
Proseguì verso la zona in cui presumeva si trovasse il castello di Strang, ma non era molto sicuro di conoscere la direzione giusta. Davanti a lui non c'era nessuna strada, nessun sentiero visibile e, benché il suo sguardo spaziasse su vaste estensioni di prati incolti e foreste, non riusciva a scorgere nessuna traccia di costruzioni fatte dall'uomo. Un pomeriggio s'imbatté in una vasta recinzione, circondata da alberi di nocciolo. Lì accanto era acceso un fuoco, da cui si levavano refoli di fumo nero. Nel recinto erano riuniti molti bei cavalli e un mandriano stava riempiendo di biada le loro mangiatoie. «Ehi, tu», lo chiamò Turlough. «Sai dirmi da che parte si va per il castello di Strang?» Il mandriano si voltò. Indossava un giubbotto sdrucito e un paio di brache unte e aveva capelli e barba pieni di fili d'erba. «No, non lo so», rispose. «Ma più avanti troverete un bovaro e forse lui saprà dirvelo.» Turlough fece per allontanarsi, poi tirò le redini della giumenta. Guardò il mandriano che si era rimesso al lavoro e pensò: Sono entrato nella terra di Strang, perciò, secondo le spietate istruzioni del Signore della Tempesta, dovrei uccidere quest'uomo. Impugnò l'elsa di Marfóir e fece per estrarre l'arma dal fodero, ma esitò. Costui è un povero popolano, rifletté. Non mi ha fatto nessun male. Sicuramente per un guerriero non è dignitoso ammazzare un plebeo disarmato. Lasciò la spada nel fodero, dicendo tra sé: Non sporcherò Marfóir col sangue di un bifolco. E si allontanò al galoppo. Ma il mandriano non era più al recinto, dove lui l'aveva lasciato. Al suo posto c'era uno stallone nero, che trottò via tra gli alberi. Turlough giunse dal bovaro, che stava distribuendo balle di paglia odorosa alle vacche. Poco distante, le fiammelle azzurrine di un fuoco accarezzavano come lingue d'acqua i fianchi di una pentola e alle narici di Turlough giunse il profumo pungente di ginepro bruciato. «Ehi, brav'uomo», disse il giovane. «Si va da questa parte per il castello di Strang?» «Non lo so», rispose il bovaro. «Ma più avanti troverete un pastore e forse lui saprà dirvelo.» Nella fretta di proseguire la ricerca, Turlough non notò la somiglianza tra le due risposte, né la vista di quel campagnolo miserabile modificò la sua opinione sull'opportunità di uccidere servi indifesi. Senza perdere altro tempo, proseguì. Dietro di lui, il bovaro non c'era più. Al suo posto stava ora un toro nero,
che rimase lì solo un istante prima di allontanarsi in un bosco di sicomori. Il pastore mandò Turlough da un capraio, che a sua volta lo mandò da un porcaro. Ormai stava scendendo la sera e Turlough cominciava a non poterne più dei villici ignoranti che in risposta alle sue domande lo indirizzavano in direzioni sempre diverse. «No, non lo so», rispose il porcaro. «Ma più avanti troverete una donna che si occupa delle galline e forse lei saprà dirvelo.» L'irritazione di Turlough stavolta lo indusse a colpire il porcaro sul fondo della schiena col piatto della spada. «Questo è per la tua impertinenza!» sbottò. «E ora, poiché sei senza dubbio al servizio del Signore di Strang, dimmi dove si trova questo castello!» Il porcaro indietreggiò con aria offesa e non volle dirgli altro. Il fumo acre del fuoco su cui si scaldava la cena entrava nella gola del suo aggressore a ogni respiro, soffocandolo. Furiosamente, Turlough fece girare la giumenta e se ne andò. «Questi dannati plebei sono forse degli idioti tutti quanti?» si domandò, spronando l'animale al trotto. «Ripetono la stessa filastrocca, come se gliel'avessero fatta imparare a memoria!» Mentre si allontanava, non vide il maiale nero affrettarsi via nel bosco. Le ultime luci del sole morente spandevano un annacquato lucore sanguigno alla sua sinistra, quando Turlough si fermò a pochi passi dalla vecchia che stava distribuendo manciate di granaglie a una frotta di galline starnazzanti. «Perché nutri i polli a quest'ora tarda?» le domandò. «Quando scende il sole, una contadina che conosca il suo mestiere dovrebbe mandarli tutti nel pollaio.» Lei aprì la bocca sdentata per lo stupore e restò a guardarlo, muta. I ramoscelli verdi che bruciavano sul suo fuoco emanavano un fumo acre verso la faccia del giovane. «Dico a te, donna. Sei sorda?» Quando neppure quella domanda la stimolò a rispondere, lui perse la pazienza. Strinse i denti. «Dimmi dov'è il castello di Strang!» «Proseguite da questa parte, fino in cima a quel colle», borbottò allora la vecchia. «Poi vedrete il castello.» Il giovane si era piegato in avanti sulla sella e stava per colpirla con un pugno in testa quando si fermò, accigliato. «Che mi colga la peste! Costei mi ha dato una risposta sensata!» Esultante, affondò i talloni nei fianchi della giumenta e la spronò su per
il pendio. Sulla dorsale, tirò le redini e guardò oltre. Laggiù, più in basso, sull'altro lato della valle, c'era un edificio straordinario. La costruzione principale, al centro, aveva la forma del guscio di una gigantesca tartaruga e campeggiava maestosa su quelle secondarie. Fatta di una sorta di metallo brunito, verdastro, era sormontata da un'alta cupola a forma di mammella. Ben distanziate lungo la parete esterna c'erano delle finestre ad arco. Intorno alla cupola principale sorgevano innumerevoli edifici più piccoli, del più diverso aspetto ma costruiti con la stessa lega metallica e anch'essi incoronati da cupolette simili. L'impressione che davano era quella di un assortimento di strutture surreali, su ciascuna delle quali fosse stata deposta una grossa campana. Sul terreno stagnava uno strato di nebbia grigia. Il castello sembrava fluttuare, privo di fondamenta, sopra una nuvola bassa. Le mura esterne e i tetti ardevano di un colore rosato, chiaro sul lato del sole non ancora del tutto scomparso e violaceo dalla parte opposta. Mentre Turlough A'Connacht sedeva lì, in groppa al suo cavallo, ancora cercando di comprendere con lo sguardo quello stupefacente panorama ultraterreno, la nebbia dilagò verso di lui risalendo il fianco dell'altura. Ben presto il giovane non riuscì più a vedere il terreno che aveva davanti; smontò, impugnò Marfóir e condusse la giumenta giù per il versante, tenendola per le redini. Fu allora che dalla foschia vide emergere alcune figure indistinte che gli venivano incontro. All'improvviso una morsa gelida gli attanagliò lo stomaco. Nelle volute di nebbia gli parve di scorgere un cavallo, un toro, una capra, una pecora, un maiale e una gallina. Al centro di quel gruppetto oscuro c'era una figura umana. Immerso nei miasmi, Turlough non riuscì a distinguerne il volto, ma la voce dell'uomo risuonò chiara: «Chi sei? Perché sei venuto nella mia terra?» Il giovane lasciò le redini del cavallo e sollevò la spada. «Mi chiamo Turlough A'Connacht, e sono qui per riportare a casa Alainna Machnamh.» «Vattene, o morirai», disse la voce nella nebbia. «Io non me ne andrò», disse Turlough A'Connacht. «Allora muori!» L'atmosfera crepitò come ghiaccio quando lo stregone sfoderò la sua spada. Quella di Turlough si alzò per parare il colpo, ma l'arma dello stregone spezzò la sua lama e squarciò fino al cuore il petto del giovane, che si abbatté al suolo senza vita, ancora stringendo in pugno Marfóir.
Il sole si nascose dietro le montagne a occidente. L'ultima esplosione scarlatta dilagò nel cielo e poi gocciolò sull'orizzonte, lenta come una colata di lava. Sette giorni dopo, Teague A'Connacht oltrepassò l'oscuro filare di pini del confine. Stava cavalcando sulle terre di Strane quando si trovò dinanzi a un recinto, chiuso tra alberi di nocciolo. Le foglie avevano assunto un colore di rame bruciato e le nocciole pendevano in mazzetti spinosi. In un circolo di pietre crepitava un fuoco, da cui si alzavano sbuffi di fumo nero. Sotto i curvi rami di un albero, un mandriano stava rifornendo le mangiatoie del bellissimo branco di cavalli chiusi nel recinto. «Buon pomeriggio, brav'uomo», disse cordialmente Teague. «Puoi dirmi da che parte si va per il castello di Strang?» Il mandriano lo guardò senza nessun interesse. «No, non lo so», rispose. «Ma più avanti troverete un bovaro e forse lui saprà dirvelo.» Teague osservò l'individuo, che si occupava pazientemente delle sue bestie. Notò il giubbotto liso e rammendato, i calzoni sporchi, i fili d'erba nella barba e nei capelli. E dopo averlo guardato bene estrasse la spada Búistéir e gli mozzò la testa di netto, perché le parole del Signore della Tempesta echeggiavano ancora nella sua mente: Colui che vuole avere successo dovrà uccidere ogni persona che incontra dopo il suo ingresso nelle terre di Strang. Mentre rotolava al suolo, la testa del mandriano si disintegrò in un vortice di nebbia e subito dopo il resto del corpo subì la stessa sorte. Quando quel vapore si dissipò, non restava più niente. «Ah!» esclamò Teague soddisfatto, rinfoderando la spada. «Uno spione di meno. Ora non può più correre ad avvertire il suo padrone!» Nel circolo di pietre il fuoco si spense. Teague proseguì fino alla radura dove lavorava il bovaro. Gli fece la stessa domanda e, dopo aver ricevuto la risposta, lo trattò nello stesso modo. Anche lì, dopo la decapitazione, i resti dell'individuo svanirono in fumo come quelli del mandriano. Teague ripulì Búistéir e la agitò nell'aria; la lama scintillante mandò bagliori sotto i raggi del sole. «L'acciaio è forte e taglia bene, questo è certo!» esclamò trionfante, e volse le spalle al bestiame e al mucchio di cenere che poco prima era stato un fuoco di ginepro verde. Eliminò i tre successivi bifolchi nello stesso modo; ammazzarli con quella facilità gli diede soddisfazione. Poi trovò la vecchia serva che si
occupava delle galline. «Brava donna», disse Teague, quando fu sceso di sella per scaldarsi le mani al suo fuoco, mentre le galline starnazzavano intorno a loro. «Sai dirmi dove si trova il castello di Strang?» Ma intanto si era rabbuiato, perché non aveva mai colpito una donna. Esitò, pur sapendo che non si trattava di un essere umano bensì di un simulacro, una cosa che non esisteva, creata dallo stregone con un incantesimo o coi foschi poteri del gramarye. «Proseguite da questa parte, fino in cima a quel colle. Poi vedrete il castello», borbottò la vecchia. Avvertendo l'indecisione del padrone, il cavallo di Teague si agitò e scalpitò innervosito. Per ritardare il momento, il ragazzo chiese ancora: «Brava donna, quando giungerò al castello, come farò a entrare?» La serva rispose: «Girategli intorno tre volte. E ogni volta gridate: 'Apriti, porta! Apriti, porta! E lasciami entrare!' La terza volta, la porta si aprirà e voi potrete varcarla». Teague mulinò nell'aria Búistéir e l'affilatissima lama decapitò la donna. Il corpo di lei, come quello degli altri, si trasformò in un refolo di fumo e volò via. Anche il fuocherello acceso davanti al pollaio si spense. Il giovane spronò il cavallo fino in cima alla collina. Più avanti, giù nella valle, l'immensa cupola del castello di Strang e la sua corte di costruzioni minori sorgevano dallo strato di nebbia. Un po' sudato per lo sforzo della cavalcata e dei sei fendenti con cui si era messo al sicuro dalle spie, Teague stappò la borraccia per rinfrescarsi la gola con un sorso d'acqua. Purtroppo, benché l'avesse rifornita al torrente prima di oltrepassare il filare di pini, da allora aveva bevuto più volte e ormai restavano soltanto poche gocce. Con un'imprecazione Teague scaraventò via la borraccia e si gettò al galoppo giù dalla collina. Per tre volte girò intorno al muro che circondava il castello di Strang e ogni volta che passò davanti all'ingresso gridò: «Apriti, porta! Apriti, porta! E lasciami entrare!» Con sua soddisfazione, la terza volta il portone si spalancò e lui poté oltrepassarlo. Oltre il muro di cinta c'era un ampio cortile. Subito il giovane capì perché nessuna guardia gli aveva bloccato l'ingresso. All'interno non c'era anima viva. Nella scuderia non si vedeva nessun garzone, stalliere o sellaio. Nessun paggio, servo o cameriere attraversava il cortile per le sue faccende. Nessuna donna delle cucine riempiva un secchio al pozzo. Uno strano orologio
guardava giù in silenzio dalla cima di una torre campanaria quadrata. L'unico dettaglio significativo avrebbe potuto essere il fumo azzurrino che ancora si alzava in vaghe spirali da un mucchio di legna sparpagliata intorno a chiazze di cenere scura, come se poco tempo prima lì ci fossero stati numerosi falò che qualcuno aveva spento a calci. Un'atmosfera inquietante, gravida di magia, permeava l'intera zona. L'intruso la sentiva pesare intorno a sé, innaturale, soffocante. Rivoli di sudore cominciarono a scendergli dalla fronte come catenelle d'argento. «Questo mi sta bene», mugolò tra sé Teague A'Connacht. «Nessuno mi ha visto. Nessuno viene a sbarrarmi la strada.» Assicurò il cavallo a una ringhiera e salì per una scalinata breve e larga. Alla sua sommità c'era un portone di quercia a due battenti, rinforzato con borchie d'ottone, aperto come a dargli il benvenuto. Con una mano sull'elsa di Búistéir oltrepassò l'ingresso e si trovò in una sala così vasta che avrebbe potuto contenere un bosco. Da lì un imponente scalone conduceva a un'altra porta maestosa a due battenti, anch'essa spalancata. Da quest'ultima si accedeva a un salone nel quale era apparecchiato un sontuoso banchetto, con vassoi d'oro pieni di cibarie prelibate, su un lungo tavolo circondato da sedie a schienale alto. Anche là non c'era nessuno. Pareva quasi che i commensali avessero dato inizio alla cena, ma poi l'avessero interrotta per andarsene tutti quanti, pochi istanti prima, perché le pietanze sembravano appena servite in tavola. Un frutto o due che mancavano da una piramide di albicocche, una fetta tagliata da una torta di mele, un cucchiaio sporco di crema, qualche briciola sparsa sulla tovaglia: erano gli unici segni che il banchetto appena iniziato era stato abbandonato all'improvviso. Invitante e appetitoso, quello spettacolo era una provocazione difficile da ignorare. Le tartine coperte di miele luccicavano; gli arrosti colavano sugo profumato; il pane era morbido, fragrante e dorato; c'erano vini color topazio, vassoi d'uva fresca come grappoli di ghiaccio verde... Teague pensò alla carne salata e al formaggio duro su cui si era quasi spezzato i denti in quei giorni. Aveva la lingua gonfia per la sete e lo stomaco così contratto che stentava a deglutire. Gli sembrava di non essere mai stato così assetato e affamato. Ma l'avvertimento di Aglaval Stormbringer gli echeggiò nella mente: E dovrà guardarsi dal mangiare e dal bere qualsiasi cosa in quelle terre, per quanta fame e sete egli abbia... Con uno sforzo supremo proseguì oltre il tavolo, ma subito si girò e tornò indietro. Lì, sconvolto dalla tentazione, lottò con se stesso, mentre i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dalla frutta succulenta, dallo scintillio
dei liquori, finché i suoi denti non si aprirono per far uscire tali parole: «Un'albicocca non può fare niente di male... la sua mancanza non sarà neppure notata». Detto ciò, raccolse un frutto vellutato, tenero e maturo, gonfio di polpa saporita, e lo addentò. Il succo che gli sommerse la lingua era dolce come una musica dopo il silenzio, rilassante come il silenzio dopo una cacofonia. Inghiottì lentamente la polpa e poi sputò il nocciolo sul palmo di una mano. Il nocciolo si spaccò in due. Dentro di esso c'era un verme, accoccolato come un feto. Nella sua bocca dilagò un sapore di cenere. Un nero malessere lo travolse. Stordito, Teague si afflosciò sul pavimento di pietra. Qualche tempo dopo lo stregone entrò nella sala da pranzo. Era accompagnato dal suo unico aiutante umano, un giovane maggiordomo dai capelli chiari. Vedendo Teague A'Connacht disteso al suolo, il Signore di Strang rifletté un poco, poi si rivolse al maggiordomo e ordinò: «Seppellisci costui accanto all'altro, nel bosco di cedri al confine meridionale». Il fratello più giovane, Tierney A'Connacht, attraversò a cavallo il lugubre filare di pini e giunse al recinto tra gli alberi di nocciolo. Molti splendidi cavalli si aggiravano nella radura, mentre un mandriano stava rifornendo le loro mangiatoie. Non lontano da lì scoppiettava un fuoco di rami di ginepro verde, dalle cui fiamme azzurrine si levava un denso fumo. «Buona giornata, amico», disse Tierney. «Sai dirmi se il castello di Strang è da queste parti?» «No, non lo so», rispose il mandriano. «Ma più avanti troverete un bovaro e forse lui saprà dirvelo.» «Gramercie», disse Tierney. Mentre era sul punto di andarsene, si volse a guardare ancora i cavalli nel recinto ed ebbe la conferma di aver visto bene: tra essi c'era la giumenta grigia di suo fratello Teague. «E buon lavoro a te», aggiunse, sguainando la spada con un gesto fulmineo. La testa del mandriano rotolò sull'erba, mozzata di netto. Il giovane aprì il recinto, liberò la giumenta e la fece allontanare nella direzione di Villa Preclara. Tierney si accorse pure che il fuoco del mandriano si era subito spento. Per nulla compiaciuto di ciò che gli toccava fare, il giovane interrogò tutti quelli che incontrò sulla sua strada, compresa la donna del pollaio, e tagliò loro la testa. Poi oltrepassò l'ultima collina. Girò tre volte intorno al castello di Strang, entrò dal portone, condusse il cavallo nel cortile ingombro dei resti di fuochi spenti e poco dopo giunse nella sala del banchetto.
Tuttavia non si fermò nemmeno un istante alla grande tavola imbandita. Aveva una sete terribile e la fame era un animale rabbioso che gli azzannava le viscere, ma nei suoi occhi ardeva soltanto una visione e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di fargli rallentare il passo. Attraversò le sale del castello di Strang portando con sé il cavallo, per le redini, senza degnare di un secondo sguardo il meraviglioso arredamento e le ricchezze che lo circondavano, benché ogni salone sembrasse lungo e largo come l'interno cavo di una collina. Le superbe colonne spiraliformi che sostenevano il soffitto erano alte come i giganti di una foresta; fuse nell'oro e nell'argento, brillavano di decorazioni floreali fatte con diamanti e altre pietre preziose. Dal centro di ogni soffitto, dove s'incontravano gli archi di sostegno, pendevano catene d'oro cui erano appese enormi lampade. Ogni lampada era costituita da una perla cava, dalla trasparenza perfetta, al centro della quale fluttuava un rubino che, intriso del potere del gramarye, ruotava senza sosta, spandendo la luce morbida di un sole calante. I mobili del castello di Strang erano splendidi quanto la sua architettura. All'estremità più lontana dell'ultima sala, sotto un baldacchino riccamente decorato, c'era un seggio di seta e velluto cosparso di gioielli. Vi sedeva Àlainna Machnamh, che si stava pettinando i capelli. Quando la ragazza si accorse dell'arrivo di Tierney A'Connacht, si alzò in piedi. Il pettine d'argento tintinnò sulle mattonelle, mentre lei esclamava: «Possano i Fati avere pietà di te e della tua follia, Tierney! Perché sei venuto qui?» «Sono venuto per te, Àlainna. Ti hanno fatto del male?» «Lui non mi ha mai toccato, perché io non ho voluto. Mi ha concesso fino a questa notte per cambiare idea e, se non lo farò, dice che metterà un incantesimo su di me.» «Sarà punito per averti imprigionato qui. Ci penserò io, stanne certa.» Il giovane tese le braccia e la ragazza corse verso di lui, ma un dubbio la fece fermare. Improvvisamente a disagio, lo scrutò e mormorò: «Ma forse mi sbaglio? Non sei un simulacro?» «Non lo sono.» «Dimmi cosa mi hai regalato per il mio sesto compleanno.» «Ti ho dato un mazzo di violette.» La fanciulla corse allora ad abbracciarlo e disse: «Ahimè, Tierney, sei davvero tu. Ma, se tu avessi mille vite, neppure una di esse potrebbe uscire salva da qui. Vorrei non essere nata, perché se lo stregone ti trovasse qui sarebbe la fine per te, e io non sopporterei questo dolore. I tuoi cari fratelli,
i miei amici, giacciono sotto la terra nel bosco di cedri». Il giovane replicò: «Saranno vendicati. E tu sarai liberata, oppure io morirò. Ora vieni con me». «Non posso!» disse lei. «C'è un incantesimo che mi impedisce di uscire da queste mura.» «Io spezzerò quell'incantesimo», disse A'Connacht. L'ultima parola aveva appena lasciato le sue labbra, quando la porta della sala si aprì con tremenda violenza ed entrò lo stregone. «Insolente bamboccio!» gridò, in preda all'ira. «Come osi entrare nella mia casa? Io ti strapperò il cervello dal cranio!» «Allora colpisci, figlio delle tenebre, se osi farlo!» esclamò senza nessun timore A'Connacht, e si fece avanti, sfoderando la spada dorata. Ebbe inizio un duello selvaggio. L'ira del Signore di Strang era feroce, ma quella del giovane era ancora più grande. Lui si batteva nel nome dei suoi fratelli e per Alainna; si batteva con ardore e abilità, senza permettere che la passione ottenebrasse il suo raziocinio. Si batteva con Lamafulva. La spada incantata dello stregone non aveva nessuna efficacia contro un'arma non fatta d'acciaio. Dinanzi alla furia dell'avversario, il Signore di Strang fu costretto a indietreggiare. Tierney capì che il momento era propizio. Si gettò avanti sotto la guardia dell'altro e colpì il suo braccio armato all'altezza del polso. Mozzata di netto, la mano cadde al suolo, ancora stretta all'impugnatura della spada. Ruggendo furiosamente, il Signore di Strang si afferrò il moncherino con l'altra mano, ma Tierney A'Connacht gli puntò la spada alla gola. «Lasciaci andare via liberi e salvi, altrimenti morirai qui dove ti trovi», disse. «Se tu mi uccidi, la ragazza resterà imprigionata qui per sempre. Soltanto io posso togliere l'incantesimo che la trattiene tra queste mura.» A'Connacht comprese che doveva scendere a patti col nemico. «Sul mio onore, giuro che non ti prenderò la vita, se tu la libererai subito e se non impedirai anche a me di fuggire da questo mausoleo», disse. «Hai la mia parola che potete andarvene liberi entrambi», ansimò lo stregone, e gridò al suo servo: «Arroventa i ferri, Ruairc. Questa ferita dev'essere cauterizzata, prima che io muoia dissanguato». Ma A'Connacht disse: «Tu non sei un wight, stregone, bensì un mortale. A differenza degli immortali hai la facoltà di mentire. Perciò io non mi fido della tua parola. Ci accompagnerai fuori del castello e solo allora permetterò che il tuo servo si avvicini a te o a me coi ferri roventi».
I quattro s'incamminarono attraverso le splendide e silenziose sale del castello di Strang, con Àlainna che teneva il cavallo di Tierney per le redini. Quando giunsero alla porta esterna lo stregone disse una parola, tracciò un segno nell'aria con la mano che gli era rimasta e la ragazza si accorse di essere in grado di uscire nel cortile. A'Connacht afferrò il Signore di Strang per i capelli, puntandogli tra le scapole la spada dorata. Oltrepassarono la porta e, quando furono cinquanta passi più avanti, Tierney lasciò il suo nemico. Il giovane e Àlainna balzarono in groppa al cavallo e galopparono via, scomparendo alla vista. Tenendosi stretto al corpo il braccio mutilato, lo stregone gridò dietro di loro una maledizione: «Àlainna, se mai tu sposerai quel miserabile, la morte e la follia cadranno su di voi e seguiranno i vostri discendenti sino alla fine dei tempi! Ascolta queste parole! Follia per te e morte per il tuo amante! Puoi fuggire da me, ma non eviterai la mia maledizione!» Lo stregone vacillò e cadde sulla scala, in una pozza del suo stesso sangue, ma il giovane servo portò i ferri scaldati al calor rosso e cauterizzò la ferita, da cui si levò una voluta di fumo e la puzza di carne bruciata. Poi mise il suo padrone su una barella, lo riportò nel castello e si prese cura di lui finché non fu guarito. La storia era finita. Nell'angolo del caminetto la serva si mosse e sospirò nel sonno. Accanto a lei il ragazzo, Fionnbar, si era addormentato e stava russando. La stanza era fredda come una caverna di ghiaccio. Il mucchio di stracci parlò ancora: «Quel servo ero io. Il suo unico servo vivente. Tutti gli altri non erano che raggi di luna e fumo, vestiti di sembianze reali. Soltanto io sono vissuto per raccontare la vera storia di Tierney A'Connacht e Àlainna Machnamh. «Si sono sposati?» domandò sottovoce Jarred, già sapendo la risposta. «Sì, naturalmente», confermò il vecchio dall'occhio bianco. «Come avrebbero potuto fare altrimenti? L'amore rende ciechi al pericolo. Si sono sposati e hanno avuto un figlio maschio. Forse hanno conosciuto la felicità, in quei giorni, ma erano anche molto preoccupati di sfuggire al Signore di Strang, così se ne sono andati da Slievmordhu e nessuno li ha più visti, per quanto ne so.» Jarred si allontanò per quanto possibile da Ruairc MacGabhann e dal suo puzzolente letto di stracci. Il vecchio lo guardò con disdegno e aggiunse: «In quell'epoca il potere del Signore di Strang era grande, ma non quanto è diventato in seguito. La coppia è sfuggita alla sua ira e si è nascosta. Ma
loro e i loro discendenti non potevano scampare a una maledizione di quel genere». «Per caso nel castello di Strang si trova il segreto che può liberare quella famiglia dalla maledizione?» chiese Jarred, rigido. «Ne dubito», ridacchiò l'ossuto vecchiaccio. «Dalla partenza del Signore, la Cupola è sorvegliata strettamente dai soldati di Re Maolmórdha, per evitare che i nemici entrino e trovino pericolosi segreti.» Fece schioccare di nuovo le labbra. «Ma neppure Maolmórdha può entrarci. In quanto alla maledizione, non si può fare niente», dichiarò in tono sicuro, e non senza sospettò Jarred - un po' di crudele soddisfazione. All'improvviso il giovane desiderò ancor più ardentemente uscire da quella disgustosa topaia. Senza dire altro, gettò la borsa di monete sul letto, aprì la porta e se ne andò. I versi solitari di qualche uccello notturno vagavano nell'aria della sera, lamentosi come note di violino. Simili a fiori di vetro rosso, i fuochi su cui si cucinava la cena punteggiavano in lungo e in largo la zona della fiera, dove i venditori ambulanti si preparavano a trascorrere la terza notte. Non erano tanti come la sera prima: alcuni avevano già fatto i bagagli ed erano partiti per le terre lontane da cui provenivano, e tra loro anche i Signori del Clima e i narngalisiani. Nei canneti del Fiume Impetuoso schiamazzavano gli aironi. Earnàn e Lilith sedevano accanto al fuoco, in attesa del ritorno di Jarred. Catene di silenzio li legavano, isolandoli ciascuno nel suo privato mondo di meditazioni. Earnàn era perso nei suoi ricordi di Liadàn: il suono della sua voce, le cose che avevano fatto assieme. I pensieri di Lilith indugiavano sulla vita familiare che lei e Jarred avrebbero potuto avere. Il desiderio le pesava addosso come una malattia. Nella sua immaginazione sognava di cantare al loro figlio non ancora nato; gli parlava e gli chiedeva perdono per non avergli aperto la porta alla vita. Il tormento le corrodeva l'anima come un acido. Jarred entrò nella luce del fuoco. Non appena fu accanto a Lilith, si tolse l'amuleto e lo rimise al collo della giovane donna. «Ora sei di nuovo al sicuro», disse con fermezza. «E tu sei tornato!» replicò Lilith, emozionata. La sua malinconia si sciolse e lei fece per abbracciarlo, ma all'ultimo momento ricordò la sua stessa proibizione ed evitò il contatto fisico. «Ci sono novità?» domandò Earnàn. Jarred raccontò loro la storia che gli era stata rivelata da Ruairc MacGa-
bhann e, quando ebbe finito, tutti e tre rimasero per un po' in silenzio. Alla fine Lilith disse: «Sembra che non si possa fare nulla». «Io andrò a questa Cupola...» cominciò Jarred. «Tu non farai niente del genere!» esclamò lei. «Vuoi privare tutti noi della tua vita? Ascoltami. In questo regno le leggende del castello di Strang sono ben note a tutti, benché molta gente le consideri soltanto favole per bambini. L'esistenza stessa di quel posto è ormai lontana dai pensieri quotidiani della gente. Chi volete che si preoccupi di una fortezza disabitata, rimasta impenetrabile per decenni e immutata a parte il lento consumarsi delle sue mura esterne? Tutti sanno che è ben sorvegliata. Re Maolmórdha coi suoi druidi non ha potuto trovare il modo di entrarci e, sospettoso com'è, non permetterà neppure ai Signori del Clima di provarci, perché vuole essere certo che nessuno dei suoi nemici metta mai piede nella fortezza. Si dice che dentro la Cupola ci siano tesori meravigliosi e segreti di gramarye. Può essere vero oppure no, ma un fatto è certo: le Guardie Reali non hanno pietà di chi cerca di entrare. Chiunque sia abbastanza astuto da passare oltre la loro sorveglianza, non tornerà mai indietro. Se riuscisse ad attraversare il portone, o a scalare il muro, o a penetrare in qualche modo nella Cupola, sarebbe ucciso all'istante, bruciato da una fiamma incantata o da un altro maleficio contenuto nelle stesse mura.» Jarred rifletté in silenzio, poi disse: «Be', pare che non servirebbe a niente cercare risposte in quel castello stregato. Tuttavia il mio cuore è triste, perché vorrei agire in qualche modo, e non vedo nessuna strada davanti a me». Il quarto e il quinto giorno della fiera furono lunghi e malinconici. L'ultima sera il gruppo dell'Acquitrino smontò le bancarelle e si preparò per partire di buon'ora il mattino successivo. «Ti prego di lasciare questo luogo assieme a noi», disse Lilith a Jarred, in tono supplichevole. «Non c'è motivo di restare qui. Hai già saputo tutto ciò che avresti potuto scoprire.» Lui era d'accordo, anche se ogni nervo del suo corpo desiderava ardentemente ciò che non avrebbe potuto essere; non poteva sopportare il pensiero del futuro che ora si prospettava dinanzi a loro. Tutte le speranze si erano spente. Restava solo la disperazione a riempire il resto dell'eternità. La maledizione era irrevocabile: la pazzia avrebbe colpito Lilith se si fosse sposata. Non c'era modo di sapere se ne sarebbe stata risparmiata, qualora avesse deciso di restare nubile.
Dal momento che non poteva sposare Lilith, Jarred rifletté sulla possibilità di lasciare l'Acquitrino. Da tempo ormai provava rimorso al pensiero di sua madre; la ricordava con nostalgia, si chiedeva come stesse, continuava a cercare il modo di mandarle un messaggio e accarezzava l'idea d'intraprendere il lungo viaggio fino a R'shael per farle visita. Tuttavia, se fosse partito, sarebbe stato certo tormentato dal ricordo del viso di Lilith e la voce di lei avrebbe riempito i suoi sogni; si sarebbe chiesto se stava bene, se era felice; avrebbe vissuto senza la gioia della sua conversazione, della sua compagnia, del suo amore puro e disinteressato. Se invece non fosse partito avrebbe dovuto sopportare la sofferenza continua della passione e dei desideri insoddisfatti, accettando la vicinanza quotidiana della ragazza senza poterla mai abbracciare e senza mai dimenticare la gioia che era preclusa a entrambi. Il dolore di Lilith era pari a quello del suo amato. Il solo pensiero di dover vivere senza di lui la trascinava alla disperazione. Non poteva fare a meno di guardarlo, di studiare la linea della sua mandibola, i suoi zigomi alti, i capelli che gli scendevano sulle spalle come un manto luminoso e pesante. Negli occhi azzurri di Jarred vedeva i suoi figli non nati, e piangeva per ciò che aveva perduto. Sapeva che lui avrebbe potuto lasciare l'Acquitrino. Doveva supplicarlo di restare? E se avesse rifiutato? Oppure, se fosse rimasto, non sarebbe spettato a lei andarsene per evitare la possibilità di contagiarlo? Tormentata dall'indecisione, col cuore spezzato dal dolore, Lilith non trovava più piacere in nulla. Lei e le persone che amava tornarono a casa dalla Fiera d'Autunno più scoraggiati che mai. 5 JEWEL L'anno successivo sembrava che l'estate non volesse più andarsene. Un vento tiepido soffiava da sud, portando con sé un profumo di rose. Gli uccelli migratori non avevano nessuna fretta di lasciare i lunghi raggi di sole distesi come fasci di grano maturo sulle paludi. Cinguettavano e pigolavano in ogni bosco e in ogni canneto e i loro colori balenavano in volo da un'isoletta all'altra riempiendo di riflessi le tranquille lagune. Quella natura idilliaca era in netto contrasto con l'umore di Lilith e Jarred. Per loro i mesi passavano come per due persone chiuse in carcere. Cercavano di tenere
alto il morale, ma, incapaci di rimanere separati non meno che di stare assieme facendosi casta compagnia, lo trovavano impossibile. Il sole continuava a splendere mentre si avvicinava la stagione fredda, quell'anno più mite del solito. Venne di nuovo la Fiera d'Autunno; gli abitanti dell'Acquitrino imbarcarono le mercanzie da vendere, partirono per Cathair Rua e montarono le loro bancarelle negli stessi posti dell'anno precedente. Una sera, mentre preparavano malinconicamente la cena, sentirono che qualcuno stava cantando tra le tende, a poca distanza da loro: Una volta progettavamo un giardino, sognavamo l'arrivo di grandi giorni, mentre i passeri salutavano l'alba e le api ronzavano sui fiori. Preparavamo gesta valorose e cantavamo di città splendenti, eccitanti ballate, opere d'arte, vera giustizia e astri di buon auspicio nell'oroscopo. Speravamo in un mondo più coraggioso, promettevamo a noi stessi un luminoso futuro. Ma ci siam bevuti gli anni nei boccali di vino e le nostre risa restavano legate al presente. Ditemi, dove sono le arpe che suonavano e le saghe narrate davanti alle fontane? Sono svanite come la nebbia del mattino, soffiate via come il vento sui monti. Cosa ne è stato delle nostre visioni di giardini? Cosa ne è stato dei piani che abbiam fatto? Sono dimenticati come la nostra infanzia, scomparsi come i sogni al risveglio. «Se quel cantore non la smette di piagnucolare, mi verrà la tentazione di andare a cercarlo e spaccargli l'arpa», disse Jarred con rabbia. «Chi nei Quattro Regni può sopportare canzoni così lagnose? Abbiamo bisogno di
ballate allegre. La vita è già abbastanza triste senza questa nenia funebre. Avanti, gente, cantate tutti in coro con me!» Le voci dei compagni si unirono alla sua, ma dopo aver cantato un paio di ballate tutti tacquero, l'uno dopo l'altro. Erano troppo depressi perché la musica potesse tirarli su di morale. Di lì a poco si udirono alcune voci ai margini del loro accampamento. La sentinella di turno venne verso i fuochi scortando una figura magra, un ragazzo biondo dall'aria sudicia e affamata. L'uomo si rivolse a Jarred: «Questo mendicante dice che sta cercando te, amico». «Fionnbar!» esclamò il giovane, alzandosi. «Cosa fai da queste parti?» «Il mio prozio vuole vedervi di nuovo», rispose Fionnbar, guardando in ogni direzione fuorché verso Jarred. «Perché?» Fionnbar scrollò le spalle. «Ha altre informazioni per voi», disse, con l'aria di voler restare nel vago. «O piuttosto desidera altro denaro», borbottò Earnàn, disgustato. Il ragazzo non rispose. Si limitò a guardare i piedi di Jarred. «Verrò con te, ma non ho altro denaro», disse lui alla fine. La testa sudicia e spettinata di Fionnbar annuì. «Jarred non ha niente che valga la pena di rubargli», lo apostrofò Lilith, seccata. «Vuoi ancora che venga con te?» Il ragazzo la guardò con la bocca aperta in un'espressione ottusa. Lei cominciò a pensare che quell'accattone fosse un mezzo scemo e si pentì di avergli parlato con durezza. «Prendi questa», disse, mettendogli in mano una mela. Lui intascò il frutto senza una parola di ringraziamento, poi volse le spalle e si allontanò. Jarred lo seguì. «Non starò via a lungo», disse ai compagni. Il ragazzo precedette Jarred attraverso la porta delle mura e poi nel labirinto di stradicciole della città. Mentre camminavano si rivelò assai più ciarliero che in passato. «Voi siete fortunato», dichiarò con voce inespressiva. «Voi e la vostra signora, coi vostri bei vestiti, tranquilli e ben nutriti come siete. Anche a me piacerebbe essere ricco. Se avessi dei soldi i druidi si occuperebbero di me e non mi lascerebbero morire di malattia. Potrei vivere fino a tarda età. Forse per sempre.» «Credo che tu abbia visto troppa gente soffrire e morire», disse Jarred, non senza un po' di compassione. «È così. Mia madre e mio padre sono morti di consunzione. Il mio pro-
zio ha sofferto di diverse malattie fin da quando ero piccolo. È triste dover vivere con un malato che non fa altro che lamentarsi, ma io non ho scelta, se voglio dormire sotto un tetto.» «Lui è generoso a tenerti con sé», osservò Jarred. «Generoso?» Gli occhi del ragazzo erano due spine di ferro quando, per la prima volta, incontrarono quelli di Jarred. Si voltò a sputare nella fogna. «Generoso lui? No, è un bastardo maligno, ecco cos'è. Mi usa per i suoi scopi e basta. Lo odio.» «Perché non ti cerchi un'altra sistemazione? Sono certo che qualche ricco mercante potrebbe assumerti come servo.» Gli occhi metallici di Fionnbar divennero ancora più opachi sotto le palpebre socchiuse. Il ragazzo fece spallucce e disse: «Non posso». «Perché non puoi?» «Lui non me lo permette.» «Come può impedirtelo?» Fionnbar girò in una stradina buia, mentre Jarred inciampava dietro di lui nella penombra. «Forse non potrebbe. Non ho la conoscenza di questo», disse, in tono vago. Le loro scarpe scivolavano tra sassi e pozzanghere. «Hai paura di lui?» domandò all'improvviso Jarred. Non ottenne risposta. «Perché hai paura di lui?» Girarono un angolo e proseguirono per un altro vicolo identico. I piani superiori di quelle casupole cadenti e mille volte rabberciate sporgevano sulla strada, oscurando la luna e le stelle. Dietro le porte e le finestre c'erano voci che litigavano, piangevano, ridevano. Rari gruppi di passanti, per lo più ubriachi, si scambiavano saluti e grida. Jarred doveva fare uno sforzo di concentrazione per udire le parole del ragazzo. «Il mio prozio abitava in quella Cupola», borbottò lui. «Era al servizio di quel potente stregone. A volte penso che forse ha imparato delle cose.» «Trucchi di gramarye, vuoi dire?» Jarred ridacchiò. «Se fosse così, pensi che vivrebbe in questo porcile?» Il ragazzo fece una smorfia cupa e per un poco si trincerò nel suo abituale mutismo. Un gufo passò sopra le loro teste e sparì tra i tetti, alla ricerca di topi. «Ehi, dove mi stai portando?» disse Jarred. La strada in cui si trovavano gli sembrava poco familiare. «A casa del mio prozio.» «L'altra volta non siamo passati da questo posto.»
«Ho preso un'altra strada.» Jarred si fermò. «Perché?» «Il quartiere dove siamo passati l'anno scorso è diventato pericoloso. Troppi ladri.» Prudentemente Jarred tenne una mano sull'elsa della daga che portava alla cintura. Sentiva di non potersi fidare molto di Fionnbar. In lui s'intuiva un'astuzia subdola e traditrice, poco comune per un giovane di quell'età; Jarred non si sarebbe sorpreso nel vedersi condotto in qualche trappola. Mentre lo seguiva, tutti i suoi sensi erano tesi e vigili. In quello stesso istante, alle tende della fiera, Earnàn e Lilith stavano cenando con pane e salsicce. Conversavano sottovoce. «Non mi fido di quel giovane accattone», disse Earnàn, tra un boccone e l'altro. «È scivoloso come un'anguilla e ancor meno prevedibile.» Lilith annuì. «Sono d'accordo. Tuttavia forse non è colpa sua. A giudicare da quanto è magro e sporco, si direbbe che viva in povertà. La gente come lui deve essere furba per sopravvivere. Mi ha dato l'impressione di non avere la testa a posto... ahi!» Il coltello con cui stava tagliando il pane le era scivolato, graffiandole l'indice della mano sinistra. «Così imparo a essere sbadata», commentò, e si succhiò la goccia di sangue che le imperlava il polpastrello come una gemma. Jarred continuava a seguire il ragazzo. Un chiaro velo d'argento cadde dal cielo quando la stradicciola si aprì in una piazza illuminata dalla luna. Al centro c'era un pozzo cinto da un basso muro, dinanzi al quale sorgeva un albero senza foglie. Da ogni ramo spuntavano robuste spine, lunghe e crudeli come un inverno del nord. Le spine erano così tante e così fitte, inclinate in ogni direzione, da formare un labirinto di pugnali acuminati. Ciò che però catturò subito lo sguardo di Jarred fu una luce al centro di quella strana pianta. Dava l'impressione che un raggio di luna fosse stato risucchiato là in mezzo per condensarsi nella pura essenza di un cristallo. «Per tutti i Fati!» ansimò il giovane. «Che cos'è quello?» Il concentrato di riflessi argentei oscillava piano, mosso dalla brezza che attraversava il groviglio di spine. Produceva bagliori diversi a ogni più lieve movimento, come se nel suo cuore fossero contenuti mille colori. «Quello?» disse Fionnbar, rallentando il passo fino a fermarsi lì accanto. «Oh, noi lo chiamiamo l'Albero di Ferro.»
Dall'ombra degli edifici che circondavano la piazza uscì una ragazza. Era magra e mal vestita ma piuttosto graziosa, coi capelli nascosti sotto un foulard tenuto fermo da una semplice spilla. Indossava un vestito di lino rosa ricamato a losanghe e una mantellina di velluto carminio sulle spalle. Con aria triste si fermò a guardare l'oggetto che luccicava nell'albero. «Ah, che gioiello», sospirò con desiderio. «Che gioiello...» Jarred si accorse che il cristallo all'interno dell'albero era una gemma appesa a una sottile catena d'argento, come il pendente di una collana. La catena era avvolta intorno a parecchie spine, come se fosse caduta là in mezzo e il vento non avesse fatto altro che ingarbugliarla sempre più. La fanciulla si voltò a guardare Jarred e gli chiese: «Signore, non vorreste cercare di recuperare il gioiello per me?» Jarred rimase stupito. Poi pensò che evidentemente era stata lei a perdere l'oggetto là dentro. Lanciò uno sguardo a Fionnbar, che sembrava sul punto di riprendere il cammino, e gli disse: «Aspetta un momento». Si arrotolò fino alla spalla la manica destra della camicia e infilò con cautela il braccio tra le spine. Quando raggiunse il gioiello, lo strinse fra le dita e lo sentì freddo e duro come un pezzo di luna. Con alcuni rapidi scossoni liberò la catena avvolta intorno alle spine, quindi ritrasse il braccio e la tirò fuori facilmente, senza riportare un solo graffio. «Ecco qua», disse alla ragazza, porgendole l'oggetto. Invece di prenderlo e di ringraziare Jarred, come lui si aspettava, lei lo fissò sbigottita. Il grido che le uscì di bocca lo colpì al cranio come un'accetta. Sempre continuando a urlare, la ragazza raccolse l'orlo della gonna e scappò via. Jarred rimase lì senza sapere cosa fare, col gioiello in mano. Si voltò verso Fionnbar e domandò perplesso: «Che cosa le ha preso?» Ma Fionnbar lo stava fissando con la stessa espressione inorridita. «Mi chiedo dove sia finito Jarred. Ma cosa ti sei fatta al dito?» domandò Cuiva Stillwater, unendosi a Earnàn e a Lilith accanto al loro fuoco. «Mi sono tagliata perché ero distratta», rispose la ragazza in tono discorsivo. «In quanto a Jarred, se n'è andato con quel ragazzo dai capelli biondi, lo stesso che abbiamo conosciuto l'anno scorso.» «L'accattone? Ancora lui?» «In persona.» «È uno strano tipo, se vuoi sapere come la penso io», disse Cuiva. «Giurerei che sia sporco dentro quanto lo è fuori. Per fortuna Jarred è uno che sa badare a se stesso. Ha preso la daga, vero?»
«Naturalmente, e anche il talismano...» Lilith si portò una mano alla gola e trovò la catenina da cui pendeva il liscio amuleto d'osso di Jarred. «Oh, santo cielo! Mi sono dimenticata di darglielo. È lui che dovrebbe portarlo, non io!» A Jarred era parso che la piazza fosse vuota, ma nelle città c'era sempre qualcuno poco lontano. I passanti avevano già iniziato a riunirsi, tenendosi a distanza di sicurezza da lui. Parlavano tra loro e se lo indicavano a vicenda con l'aria di accusarlo di qualche misfatto. «Dov'è il proprietario di questo pendente?» domandò il giovane un po' a tutti, mostrando il gioiello che aveva in mano. Cominciava a irritarsi dell'attenzione di cui era oggetto. «Come ci sei riuscito, straniero?» gli domandò uno dei presenti. «Nessuno aveva mai avuto successo.» «Ho allungato una mano e l'ho preso», rispose Jarred, esasperato. «Cos'ho fatto di male? Chiunque avrebbe fatto lo stesso al mio posto, mi sembra chiaro. A chi appartiene?» L'uomo ribatté, con tono sospettoso: «Credi che una quantità di gente non ci abbia già provato prima di te? Il gioiello stava appeso lì da più di una generazione. Credi che noi non abbiamo tentato di bruciare o spezzare l'Albero di Ferro, per prenderci il tesoro? Te lo chiedo ancora, come ci sei riuscito?» Con voce strozzata, Fionnbar squittì in un orecchio di Jarred: «Presto, venite con me. Subito!» Lieto di allontanarsi dagli sguardi e dai sussurri, Jarred corse via dietro il ragazzo. I due si addentrarono in fretta nel più squallido rione della città e infine giunsero alla catapecchia di MacGabhann. Entrarono e chiusero la porta. Il vecchio era seduto sul suo mucchio di stracci e strizzava l'unico occhio ancora non del tutto cieco verso i due nuovi venuti, come un avvoltoio che avesse avvistato una carogna. «Be'? E allora?» grugnì. Fionnbar si scostò il più possibile da Jarred! Si ritrasse nell'angolo del caminetto, piagnucolando come un neonato. «Lui... ha la... la Stella», balbettò. Disgustato Jarred gettò al suolo il gioiello, che rotolò tra la spazzatura. «Per tutte le pazzie del mondo, si può sapere cosa significa questa storia?» sbottò.
«Ha la Stella?» ripeté MacGabhann, vacillando come un burattino. Stranamente, né lui né il ragazzo accennarono a voler raccogliere il prezioso oggetto. I fuochi della gente dell'Acquitrino crepitavano pigri. «Non preoccuparti», disse Cuiva a Lilith, con fare rassicurante. «Nelle città abitano pochi wight, come sai. E sono quasi tutti seelie, come i brownie domestici. Jarred non corre pericoli, anche senza il talismano.» Dalla gola di Lilith uscì un suono come di stoffa stracciata. Gli occhi di lei erano fissi su un punto alle spalle di Cuiva, come se vedesse qualcosa d'invisibile agli altri. «Per la mia vita», mormorò. «Questo amuleto protegge chi lo porta contro ogni genere di male. Eppure io mi sono appena tagliata con una lama metallica. Com'è possibile? Mi sono ferita...» «Vieni più vicino! Più vicino!» esclamò il vecchio, agitandosi come se fosse stato morso dalle pulci. «Ah, io conosco la tua faccia.» Ridacchiò. «Ti ho guardato bene l'altra volta, quando ti ho raccontato quella storia. Qual è il nome di tuo padre?» «Non è affar tuo», replicò Jarred. Si mosse verso la porta, già sopraffatto dal desiderio di andarsene. «Se vuoi che ti spieghi il mistero, devo saperlo. Era per caso Jovan?» Jarred vacillò come sotto un colpo. Se non si fosse appoggiato allo stipite della porta sarebbe caduto. «Come fai a saperlo?» «Jovan era il figlio di Janus Jaravhor, il Signore di Strang. Tu, signore, sei il nipote dello stregone!» La luce del fuoco dipingeva ombre fluttuanti sulla faccia di Cuiva. «Non capisco», mormorò la ragazza. «Stai dicendo che l'amuleto di Jarred ha il potere di rendere invulnerabile chi lo porta?» Lilith rispose, ancora stordita: «Lui l'ha portato tutta la vita, durante gare di lotta e cadute da cavallo, addestramenti alle armi e giochi violenti coi suoi amici. Non ha mai subito il più piccolo graffio. Tuttavia ora sono io ad avere l'amuleto, eppure mi sono ferita». «Allora funziona solo addosso a lui!» concluse Cuiva. Lilith scosse il capo e disse: «Io suppongo invece che non funzioni, né per lui, né per altri. Non ha nessun potere». Cuiva la guardò a occhi spalancati, senza capire.
In ginocchio sul pavimento della catapecchia di MacGabhann, poteva sembrare che Jarred fosse prostrato dinanzi a un re o supplicasse di aver salva la vita. In un certo senso, in effetti, pregava per la propria vita, ma non era caduto in ginocchio per quel motivo: erano le gambe che rifiutavano di sostenerlo. «No», disse al vecchio, o al sudiciume sparso di fronte a quell'occhio cieco. «No!» «Pensaci», lo esortò MacGabhann. «Cosa sai dei tuoi antenati?» Una mano di Jarred salì alla gola con gesto automatico, in cerca dell'amuleto. La sua assenza lo sorprese. Fin da bambino era abituato a cercare il liscio, rassicurante contatto del dono prezioso di suo padre, l'invulnerabilità. Delle origini di Jovan sapeva poco o niente, a parte il fatto che era scappato di casa perché detestava suo padre. Aveva sempre evitato di parlare del suo passato. Jarred lo ricordava come un uomo irrequieto, che dietro modi apparentemente calmi sembrava celare una rabbia e una tristezza trattenute a stento. Quando lui aveva dieci anni, Jovan l'aveva lasciato a R'shael assieme alla madre e se n'era andato in cerca di fortuna, oltre le Montagne di Fuoco e le lande desolate che circondavano le terre conosciute di Tir, i deserti non cartografati da cui nessuno era mai tornato vivo. In quel sobborgo di Cathair Rua, inginocchiato su quel pavimento lurido, Jarred si coprì la faccia con le mani. La voce di MacGabhann era stridula come un cardine arrugginito. «L'ho sospettato la prima volta che ho visto il tuo volto», disse il vecchio rudere. «Tu credevi che io fossi cieco, eh? Be', lo sono quasi. Ma non del tutto. MacGabhann ci vede ancora, anche attraverso la cateratta. E MacGabhann ricorda bene la faccia e la voce di Janus Jaravhor. Lo stregone era un uomo aitante, di bell'aspetto, e così suo figlio. Quando tu sei venuto qui, l'anno scorso, non ho potuto fare a meno di sospettarlo... che il giovane Jovan, nel suo vagabondare, avesse generato figli? Quando è fuggito di casa aveva quattordici inverni. Suo padre, Jaravhor, l'aveva avuto all'età di quarant'anni da una donna di città, di stirpe nobile... Lei si era scioccamente infatuata e aveva accettato di sposarlo, ma dopo un anno trascorso al castello di Strang ha iniziato a capire il suo errore. Ha cercato di andarsene, ma Jaravhor glielo ha impedito... nessuno l'ha mai più rivista. Io sono il solo che sa cosa le è successo!» Nel vortice di domande formate a metà che gli si agitava nella mente, Jarred fu tentato di chiedergli cosa fosse accaduto a sua nonna. Per un
momento lottò col desiderio di scrollare quel ripugnante individuo fino a fargli uscire di bocca tutto ciò che sapeva, ma era così confuso e depresso che dimenticò subito l'idea. Una risatina gorgogliò fuori della carcassa macilenta di MacGabhann, che grugnì: «Ragazzo, dov'è la serva?» Il giovane dai capelli chiari accovacciato nell'angolo rispose: «Non è ancora tornata». «Be', vai a cercarla e portala qui!» sbottò il vecchio. Fionnbar girò alla larga da Jarred e corse fuori, come un cane scacciato a calci. Per la prima volta Jarred notò l'assenza della serva, che l'anno prima era lì. «Ti prego di scusare l'interruzione», riprese il vecchio in tono mellifluo. «Dunque, dov'ero rimasto?» Il suo ospite, sopraffatto, non riuscì a parlare. MacGabhann borbottò: «Ah, ora ricordo». E riprese il suo monologo. «Quando ha raggiunto l'età di quattordici inverni, Jovan ne ha avuto abbastanza delle depravazioni e dei vizi di suo padre. A differenza della madre, lui è riuscito a scappare. Jaravhor l'ha lasciato andare, sapendo che il ragazzo non poteva fargli nessun danno. Non fraintendermi: il mio padrone non provava nessun affetto per suo figlio; amava soltanto se stesso. In Jovan, Jaravhor vedeva la propria immortalità. Era preoccupato e desiderava che il suo unico erede prosperasse e mettesse al mondo un'altra generazione, per far vivere la sua discendenza. Jaravhor non aveva paura di nulla fuorché di una cosa... sparire dal mondo. Era convinto che attraverso suo figlio, e i figli di suo figlio, avrebbe perpetuato se stesso. Finché i suoi discendenti avessero camminato sotto il cielo, lui non sarebbe mai morto. Così ha messo certe protezioni addosso a tutti quelli del suo sangue che sarebbero venuti dopo di lui, affinché nulla potesse ferirli, o farli ammalare di epidemie, febbri o piaghe, e affinché fossero immuni ai wight eldritch, al capestro, al fuoco, all'acqua, al metallo e a tutte le piante che crescevano nel suolo di Tir, conosciute o sconosciute. Però ha trascurato una cosa, lasciandola fuori da queste precauzioni... ma, qualunque sia, io l'ho dimenticata. Niente d'importante, suppongo, altrimenti l'avrebbe inclusa. Si è assicurato che tutti quelli nati dal suo sangue sarebbero stati invulnerabili. Non immortali, bada, ma invulnerabili. Tutti i mortali hanno i giorni contati, e contro le conseguenze dell'invecchiamento anche lui era impotente.» MacGabhann fece una pausa. Un sorriso mellifluo deformò la sua faccia rovinata. Quindi riprese: «Sospettavo che tu fossi il suo erede, così ti ho preparato
un piccolo esame. Nella piazza della Fontana c'è l'Albero di Ferro, uno strano esempio di vegetale, privo di foglie, che solo in primavera butta fuori qualche fiorellino. Molta gente ne ha paura. Non può essere distrutto. È un'opera di Jaravhor, una delle sue preferite... è stato lui a mettere quel gioiello là tra le spine, quando era ancora giovane. Chi può dire quale fosse il suo scopo? Io di certo non lo so. Forse è stato solo un capriccio, o forse immaginava che un giorno un suo erede l'avrebbe trovato. Ma io non faccio ipotesi. MacGabhann non osava mai interrogare il suo padrone. Nessuno è mai riuscito a toccare il gioiello, fino a oggi. Tu l'hai fatto; tu hai il sangue dello stregone. Sei invulnerabile. La prova è chiara». Jarred si sentì colpire al fianco da qualcosa; abbassò lo sguardo e vide un oggetto cadere al suolo. Era un coltello: l'aveva lanciato MacGabhann, con forza e rapidità sorprendenti. «Vedi?» ridacchiò l'individuo. «Te l'avevo detto! La lama ti ha evitato, come fa qualunque altro oggetto pericoloso. Nulla può attraversare la tua protezione.» Troppo stordito per irritarsi per quell'attacco, Jarred guardò l'arma caduta a terra. La porta si aprì senza preavviso. Entrò Fionnbar, conducendo per mano una ragazza spaventatissima. Lei indossava un vestito di lino rosa ricamato a losanghe e una mantellina di velluto carminio; il foulard, sciolto sulle spalle, le lasciava ora scoperti i capelli biondi. Jarred la riconobbe: era colei che gli aveva rivolto la parola nella piazza della Fontana. Se era lei la serva, doveva essersi molto ripulita e aver trafugato un vestito decente in casa di persone abbienti. «Ho ordinato al ragazzo di portarti qui per una strada più lunga, caro signore», ridacchiò MacGabhann. «Non dubito che lui abbia saputo inventare una buona scusa per convincerti. È sempre stato un ottimo bugiardo, non è così, Fionnbar?» Il ragazzo scrollò le spalle. «Lei è la sorellastra del nostro giovane, Fionnuala», proseguì MacGabhann. «Ha l'aria di una personcina di buona famiglia, vero?» La ragazza guardava Jarred socchiudendo le ciglia pallide. «E non c'è da stupirsene, visto che sua madre era una concubina del re! Ma ti sorprenderebbe sapere che suo fratello, qui, è addirittura progenie non riconosciuta dei lombi di un re?» Fionnbar guardò MacGabhann con astio. «Al mio prozio piace prendere in giro la gente con le sue panzane», disse aspramente.
Ignorando l'accusa, MacGabhann si protese verso Jarred e gracidò: «Spero che tu non te la sia presa per questo piccolo stratagemma. Fionnuala doveva indurti a prendere il gioiello. Con la mia astuzia ho dimostrato che la Stella appartiene a te. Puoi portartela via». Jarred si alzò in piedi e disse con tono cupo: «Ho sentito abbastanza». «Aspetta», lo fermò il vecchio. «Ora che sai chi sei, dovresti mostrarti grato a un fedele servo della tua famiglia. Quali sono i tuoi poteri?» «Se ne avessi, non lo direi a te», rispose lui. «Se è una ricompensa quello che cerchi, prendi questo ciarpame che chiami Stella.» E con la punta di una scarpa spinse il gioiello verso il letto. MacGabhann si ritrasse come se avesse davanti un serpente velenoso. «Mai!» La sua faccia rugosa era distorta in una smorfia di terrore. «Appartiene ai discendenti di Jaravhor di Strang e ha proprietà eldritch... credo che lui l'abbia avuta da qualche wight. Portala via!» Un po' controvoglia, Jarred si chinò a raccogliere il gioiello. Tra le sue dita luccicava come un fiore ultraterreno. «Mi chiedo cosa ti abbia portato qui a Rua», mormorò il vecchiaccio. «Andavi in giro facendo domande su un A'Connacht... ti si è forse appiccicato addosso qualche antico incantesimo che ti sta chiamando verso la Cupola?» Il suo tono si alzò in un gemito. «Abbi pietà di noi, signore! Tu sei generoso... il tuo cuore ti indurrà a ricompensarci per queste preziose informazioni, non ho dubbi. Ricordati dei tuoi servi fedeli, quando aprirai la porta della Cupola.» «La Cupola!» esclamò Jarred. «Io non andrò mai ad aprire quel luogo di demoniache atrocità! Da quello che ho sentito di lui, Janus Jaravhor era un mostro, debosciato e corrotto. Mio padre aveva ragione. Io non voglio avere niente a che fare con la Cupola di Strang e col suo padrone. Che marcisca, sigillata per l'eternità!» «Ma i segreti...» Senza aspettare che il vecchio finisse la frase, Jarred spalancò la porta. Nell'uscire si accorse che Fionnuala lo stava guardando con espressione supplichevole. Mentre il rumore dei passi del giovane si allontanava nel vicolo, MacGabhann borbottò: «Ah! Ora ricordo. La protezione che Jaravhor ha dimenticato è quella contro il vischio». Ma ormai non c'era più nessuno ad ascoltarlo. Jarred si era incamminato lungo le stradicciole percorse poco prima, con
l'idea di ripassare dalla piazza della Fontana. Prima di arrivarci si fermò a sbirciare cautamente. Un presagio gli diceva che là poteva trovare guai. Certe notizie facevano presto a spargersi in città, anche di notte. Una piccola folla si era riunita davanti al muro e allo strano albero spinoso. La gente lo guardava e gesticolava, discutendo ad alta voce sul fatto che lo straordinario gioiello, appeso là in mezzo ad allettare la gente da più tempo di quanto molti potessero ricordare, non c'era più. Nella ressa, una fioraia dall'aria non troppo sconvolta vendeva la sua merce. Un paio di ubriachi stavano arringando un gruppo di popolani meno agitati degli altri. Mentre Jarred scrutava la scena, una pattuglia di sei guardie a cavallo comparve dall'altra parte della piazza e si avvicinò. Allarmata, la folla cominciò subito a disperdersi. I cavalieri, che indossavano l'uniforme della casa reale, partirono al galoppo e caricarono i pedoni in fuga. «Sgombrate la zona, pezzenti!» gridava il loro capo, roteando una mazza. «State disturbando la quiete pubblica! Andatevene a letto, o vi romperemo la testa a bastonate!» In men che non si dica la piazza rimase deserta e le guardie se ne andarono ridendo. Era chiaro che divertirsi a picchiare i popolani aveva richiesto tutta la loro attenzione ed essi non avevano fatto caso a ciò che mancava dall'albero spinoso. Jarred uscì dal suo nascondiglio e s'incamminò frettolosamente attraverso la piazza. Mentre passava accanto all'Albero di Ferro gettò il gioiello in mezzo ai rovi. All'istante la catena d'oro bianco andò ad arrotolarsi dove stava prima. Si era levato un vento freddo, insolito per quella stagione, e il pendente oscillò avanti e indietro fra le robuste spine. Il giovane proseguì senza guardarsi indietro lungo la strada che portava alla fiera. Se si fosse voltato avrebbe potuto vedere Fionnbar e Fionnuala che lo seguivano con lo sguardo dalle ombre all'imboccatura di un vicolo miserabile. La faccia del ragazzo era chiusa nel solito cipiglio; gli occhi della fanciulla brillavano come candele. Quando vide arrivare il suo amato, Lilith lasciò la tenda e gli corse incontro, agitatissima. Le parole le uscirono di bocca così freneticamente da accavallarsi tra loro. «L'amuleto!» ansimò. «Non l'hai preso con te, ce l'avevo io, eppure...» «Calmati», la placò il giovane. Nella sua confusione, Lilith dimenticò che si era imposta di non avere contatti fisici e lasciò che le braccia di lui la circondassero. «Calmati», le disse ancora Jarred. «Ho molte cose da raccontarti.»
Sopra la fiera, le costellazioni intarsiavano le profondità del cosmo. Jarred, Lilith ed Earnàn sedevano a conversare accanto al fuoco, coi volti seminascosti nelle ombre arancioni delle braci. Stavano molto vicini, protesi l'uno verso l'altro, e parlavano a bassa voce perché nessuno li potesse udire. Il giovane aveva esitato un poco prima di decidere di dire tutto a Lilith. Non voleva avere segreti né con lei né con Earnàn, tuttavia una paura nuova e inattesa gli strisciava nelle viscere. Ciò che doveva rivelare era un'eredità di aberrazioni e corruzione: lui discendeva in linea diretta da un uomo che, nella sua sete di ricchezza, non aveva avuto pietà per nessuno, un uomo che era riuscito a ottenere poteri solitamente preclusi ai comuni mortali e li aveva usati per impadronirsi di un vasto territorio, per costruire una dimora enorme, per rapire una fanciulla innocente e trattenerla contro la sua volontà, per sedurre una donna di nobili natali e legarla a sé con l'inganno; un uomo così sfrenato da distruggere chiunque gli si opponesse, compresa la sua stessa sposa; un uomo che, vedendo frustrate le sue brame, aveva maledetto la famiglia di Lilith sino alla fine dei tempi. Con espressione accigliata, Jarred raccontò del suo nuovo incontro con Ruairc MacGabhann. Quando ebbe finito, i tre restarono seduti senza parlare per qualche minuto. Una rete di pensieri angoscianti li univa, tetra e pesante. Le rivelazioni del vecchio erano troppo gravi e troppo importanti per poterle assorbire subito. Il fumo del fuoco da campo saliva dalle braci in rapide spirali. Una folata di vento lo portò negli occhi di Jarred, facendolo tossire. «Scusatemi», disse il ragazzo. Come un insetto, la parola s'impigliò nella rete dei loro pensieri. All'improvviso Lilith la squarciò, esclamando con voce tremante per l'emozione: «Ma è meraviglioso! Meraviglioso! Dunque non è mai stato l'amuleto a proteggerti!» La gioia della ragazza, così evidente, agì come una pioggia fresca sul turbamento che ottenebrava il raziocinio di Jarred e lo spazzò via. Nell'accorgersi dell'eccitazione che l'aveva scossa, anche lui capì e si sentì liberato dalla prigione in cui languiva. «È vero!» disse, mentre un sorriso si allargava sempre più sul suo volto. «Hai ragione. L'amuleto non ha nessun potere e non l'ha mai avuto. È un oggetto inutile. Suppongo che mio padre abbia inventato la storia delle sue virtù soltanto per nascondere a mia madre e a me una discendenza di cui non poteva vantarsi, o forse per tutelarmi dalla gelosia e dai pregiudizi altrui.»
«Essendo il nipote di Strang, tu sei invulnerabile», disse Lilith, a voce bassa per non essere sentita da estranei. «Il che significa che non posso essere colpito dalla sua maledizione!» «Tu e io possiamo sposarci!» Lilith stava ridendo piano, adesso, e sottili strisce di lacrime le rigavano le guance. Nel sollievo di quella rivelazione, Jarred si sentì come se gli fossero cresciute le ali e stesse volando fra le stelle come un cambiaforma eldritch. «È così!» sussurrò. «È vero!» «Ma certamente!» disse Earnàn battendosi una mano sulla fronte e sorridendo. «E anche i nostri figli saranno immuni.» Lilith piangeva, sconvolta. Jarred le passò un braccio intorno alle spalle, con fare protettivo. I capelli di lei gli riempirono la mano come la notte diventata concreta. Dopo lunghi mesi di separazione fisica, mitigata appena da qualche saltuario e frettoloso contatto, era bellissimo potersi sentire di nuovo una cosa sola. «E tu sarai salva», le disse Jarred all'orecchio. Ma, attraverso il calore di quella felicità, lo pungeva lo sgradevole ago di un dubbio. La sua invulnerabilità si sarebbe estesa anche a lei? «Lo sarò», disse la ragazza, come se gli avesse letto nei pensieri. «Con te sarò al sicuro.» E la felicità della sua amata era così esuberante che tutti i dubbi abbandonarono la mente del giovane. Il viaggio lungo il fiume sino all'Acquitrino fu allegro, e per Jarred e Lilith lo furono anche i giorni successivi. All'inizio entrambi stentavano a credere al dono dell'invulnerabilità. Era un concetto troppo stupefacente per poterlo accettare subito. Occorreva tempo, il tempo per metterlo alla prova e per meravigliarsi delle conseguenze di ogni piccolo miracolo. «Se è vero che l'eredità di Strang vive in te, allora ogni figlio generato da te dovrà essere invulnerabile», disse più volte Lilith, come se cercasse di convincersene. «Anche ogni figlio generato da te...» replicava Jarred ridendo, per prenderla in giro. «Purché io ne sia il padre, sarà al sicuro dalla maledizione di Strang. Sì, non c'è niente di più certo.» Nella sua mente, Lilith parlava al figlio non ancora nato: «Ora sono sicura che non ti accadrà niente di male. Ora sono libera di sposarmi». C'era una sola possibilità che la disturbava, ma la teneva per sé. Si chiedeva se, sposandosi, avrebbe firmato la propria condanna, perché la storia
dimostrava che la maledizione si attivava solo dopo la nascita di un figlio. Quello, a quanto pareva, era il modo in cui lo stregone si era assicurato che la dannazione continuasse nel tempo. E tuttavia lei non esitò ad accettare quel rischio. Se anche la maledizione l'avesse colpita ne sarebbe comunque valsa la pena, a patto che lei potesse unirsi a Jarred, a patto che potesse tenere tra le braccia il loro figlio, a patto che potesse dare la vita a quello sconosciuto chiamato alla luce dal loro amore, che non sarebbe più stato uno sconosciuto. La vita era un prezzo accettabile per quei doni. Era un periodo di prosperità per Earnàn Mosswell e suo figlio Eoin. Alla Fiera d'Autunno le loro anguille salate, affumicate e in salamoia avevano spuntato un ottimo prezzo ai mercanti che rivendevano quelle delicatezze agli aristocratici. Inoltre Eoin - che dopo il ritorno di suo padre dalla fiera aveva trascorso intere nottate giocando a dadi - era stato baciato dalla fortuna e aveva accumulato una somma non indifferente. I suoi amici iniziarono a prenderlo in giro dicendo che aveva avuto un talismano portafortuna da una femmina wight in cambio dei suoi favori. Alla fine tutti si rifiutarono di giocare ancora con lui, ma nel frattempo il figlio del pescatore di anguille aveva messo da parte un capitale e poté permettersi di far costruire una casa tutta per sé. Volle una casa galleggiante, edificata su un robusto zatterone di legnotubo, per poter cambiare ancoraggio di quando in quando, nel caso gli fosse venuta voglia di trasferirsi oppure di andare a far visita ad amici per lunghi periodi di tempo. A Cathair Rua acquistò una banderuola segnavento, la prima di quel genere mai vista nell'Acquitrino. La sua asta metallica verticale era sormontata da un gallo di ferro, appollaiato su una croce munita di quattro braccia orizzontali. All'estremità di ogni braccio c'era la lettera iniziale di un punto cardinale, per indicare l'est, l'ovest, il nord e il sud. Il gallo era montato su un cuscinetto girevole, cosicché, quando si levava il vento, l'uccello metallico ruotava indicando col becco la direzione in cui esso soffiava. L'unico inconveniente era che, se Eoin avesse spostato la casa, avrebbe dovuto allineare di nuovo la croce sui quattro punti cardinali; ma lui lo considerava un prezzo irrisorio da pagare per avere un ornamento tanto unico e pratico, che per di più si poteva scorgere da buona distanza svettare sopra le cime degli alberi. La casa fu completata; era solida e piuttosto spaziosa. Vantava persino due caminetti di mattoni, uno in cucina e l'altro nella camera da letto di Eoin. Perché quei lussi non causas-
sero problemi col loro peso, era stato necessario rafforzare lo zatterone con una quantità doppia di legnotubo. L'orgoglio di Eoin lo rendeva un ospite generoso e magniloquente ogni volta che riusciva a invitare a bordo Jarred. Quando ne aveva l'occasione invitava la coppia di promessi sposi a cena e faceva ammirare loro le sedie di vimini e i mobili leggeri con cui aveva arredato l'interno, o i nuovi cuscini di velluto ricamato di Grïmnørsland, mentre serviva loro da bere in boccali di ceramica finissima. Jarred sopportava il suo esibizionismo con pazienza. Se talvolta lo irritava sapeva nasconderlo, ben consapevole di chi tra loro due avesse ottenuto il premio più ambito. Per l'ashqalêthano la situazione non era facile: Jarred aveva possibilità economiche molto inferiori a quelle di Eoin. Data la natura del suo lavoro, i saguari erano diventati rari nell'Acquitrino. Nelle città le pellicce non andavano più molto di moda, come sempre accadeva con le mode, e i prezzi erano calati. Ora stava imparando a pescare e a riparare i tetti di paglia, e svolgeva ogni genere di lavoro che gli capitasse per le mani. Aveva condiviso il segreto della sua discendenza dallo stregone soltanto con Lilith, Earnàn ed Eolacha. Cuiva, che aveva sentito Lilith esprimere i suoi dubbi sull'efficacia dell'amuleto, fu persuasa a tenere la bocca chiusa su quell'argomento. Qualunque conclusione ne avesse tratto, non ne parlò con nessuno, assecondando la prudenza e la circospezione che aveva intuito in Lilith. I membri di casa Mosswell furono d'accordo sull'opportunità di non divulgare il segreto: rendere pubblica la notizia di quella discendenza stregonesca poteva attirare soltanto ostilità. Anche nel migliore dei casi, come avrebbe potuto un uomo invulnerabile a tutti i mali non accentrare su di sé invidia e gelosia? Come avrebbe potuto il nipote di un malefico incantatore non destare sospetti? Era già molto che la gente dell'Acquitrino fosse stata così tollerante da accettare un figlio di Ashqalêth; i due anziani Mosswell-Arrowgrass sapevano per esperienza che quella tolleranza non si sarebbe estesa ad altre caratteristiche di uno straniero. Se Jarred e Lilith volevano vivere tranquilli a Città dell'Acquitrino, ogni accenno alle straordinarie peculiarità del giovane avrebbe dovuto essere evitato. Vennero facilitati nel loro intento dal fatto che nessun emissario di MacGabhann venne da Cathair Rua per cercare Jarred. Nella metropoli e nella zona riservata alla fiera non si era sparsa nessuna voce sulla comparsa di un discendente di Strang. Se qualcuno degli ubriachi che avevano visto Jarred prelevare il gioiello dall'Albero di Ferro ricordava la scena cui aveva assistito, la sua testimonianza doveva essere stata subito screditata; se
qualcuno aveva preso il gioiello, infatti, perché esso pendeva come sempre tra le spine? Chi aveva visto quell'albero privo del suo ornamento aveva dunque motivo di dubitare dei propri stessi occhi. Se un uomo aveva avuto tra le mani un oggetto così prezioso, perché sarebbe stato così sciocco da rinunciarvi e rimetterlo al suo posto? Era perciò convinzione comune che il «gioiello mancante» fosse solo una beffa. «Mi è parso che il vecchio MacGabhann avesse un certo timore di me», disse Jarred a Lilith, mentre sedevano da soli presso il focolare acceso a casa Mosswell. «Senza dubbio il suo antico padrone gli ha inculcato una paura che lui non ha mai dimenticato, un sacro terrore per ciò che anch'io ho ereditato. Credo che voglia evitare di contrariarmi. Non mi cerca, né ha mai rivelato la mia identità, per timore che io mi offenda e gli rivolga contro i miei poteri... o quelli che immagina siano i miei poteri.» «Hai scoperto in te qualche capacità stregonesca?» volle sapere Lilith. Il fuoco ondeggiava e scaldava dolcemente. Fuori cadevano rapidi dardi di pioggia. L'upial di palude dormiva, accoccolato su un cuscino. Jarred sorrise e rispose: «L'incantesimo protettivo da cui sono avvolto mi stupisce. In questi ultimi tempi sto imparando molte cose su di esso. È una cosa di straordinaria potenza, ma ha tanti aspetti e io non ho ancora potuto esplorarli tutti». Il giovane andò alla porta e guardò fuori, esaminando le abitazioni circostanti, velate di una nebbia piovigginosa grigio argento. Quando si fu accertato che nelle vicinanze non c'era nessuno, tornò accanto a Lilith. «Guarda», disse, e mise entrambe le mani sul fuoco. D'istinto Lilith mandò un gridolino e si protese per fargliele spostare. «Stai tranquilla», disse lui, girando le mani da una parte e dall'altra per mostrargliele. «Vedi? Sono intatte.» La ragazza gli esaminò le mani con occhi spauriti. I palmi erano callosi, la pelle era abbronzata dal sole, ma non c'era nessun segno di ustione. La peluria bronzea sui dorsi scintillava lievemente nei riflessi del fuoco. Jarred immerse una seconda volta le mani nelle fiamme. Le tenne là. «Sono al fresco», disse. Il suo volto attraente era illuminato da un divertito stupore. «Sento una frescura morbida come la seta, o come acqua appena tiepida. Posso avvertire il contatto dell'energia che mi scivola tra le dita.» Ritirò le braccia. «È una cosa meravigliosa. Ho sempre avuto questo dono, ma senza saperlo. Le paure che ti inculcano fin da bambino sono più potenti di quanto si creda. Per tutta la vita ho creduto che il fuoco mi avrebbe bruciato, così come bruciava gli altri. Di conseguenza, quando una
fiamma mi sfiorava io immaginavo di sentire dolore, e non mi accorgevo che in realtà non rimanevo ustionato.» «Sì, è una cosa meravigliosa», commentò Lilith. «È tutto ciò che io potrei desiderare per l'uomo che amo: che sia protetto da un'armatura di gramarye! Ma a portare l'amuleto d'osso dovrai essere tu, non io. Questo ti eviterà sgradevoli sospetti, se gli altri ti vedessero scampare miracolosamente a qualche incidente. È meglio che la gente creda nel potere del tuo amuleto, piuttosto che sappia che sei l'erede di un malvagio stregone.» Jarred si convinse ancor più di essere in una situazione singolare. Era diverso da qualsiasi altra persona da lui conosciuta. Si fissò pensosamente le mani e disse: «Questo dono l'avevano soltanto due uomini prima di me... lo stregone che ha inventato questa magia, o che l'ha rubata, o che se l'è fatta dare in qualche reame eldritch, e mio padre. Mio padre! Se potessi trovarlo... Avrei tante domande da fargli! Una volta mi ero riproposto di seguirne le tracce e, anche se altri sogni hanno cambiato la mia strada, questo desiderio brucia ancora in me. Un giorno tornerò ad Ashqalêth per rivedere mia madre e mi farò raccontare tutto ciò che sa». «Io verrò con te. Da tempo desidero conoscerla», disse Lilith. Divenuto consapevole del suo dono, Jarred decise di esaminarlo meglio. Si arrampicò sull'albero più alto delle isole, allargò le braccia e saltò. Volare non poteva: cadde, ma non si fratturò neppure un osso. I rami e le frasche attraverso cui passò lo fecero rimbalzare qui e là, ma quando rotolò al suolo si rialzò subito, perfettamente sano, e rise. Era esaltante. S'immerse nell'acqua più profonda, scivolando giù fra sospensioni traslucide di tormalina, fino al mondo subacqueo di giardini d'alghe popolati da pesci e anguille, dove il terreno era un impasto gelatinoso e il cielo una lente da cui piovevano strisce di luce e cristalli di quarzo. Nuotò avanti, coi capelli che ondeggiavano come smossi dal vento. Bevve, ma non annegò. In quei mistici territori subacquei scorse piccole facce appuntite, pallide come fiori di neve. In cripte nascoste vide spettrali cavalli d'acqua che lo fissavano con occhi imperscrutabili. E incontrò annegatoci e altre wight acquatiche: dapprima esse cercarono d'intrappolarlo tra le alghe o nella rete dei loro lunghi capelli verdi, ma ben presto rinunciarono e lo lasciarono in pace, allontanandosi fuori vista. Da quegli esperimenti trasse una conoscenza sempre più completa del suo potere. Era invulnerabile. Era il signore del fuoco, dell'aria, dell'ac-
qua... e ancora di più. A un certo punto pensò d'interrogare Eolacha. «Signora Arrowgrass, cosa sanno le carlin del Signore di Strang?» Lei ci pensò un momento, poi rispose: «Era famoso in un tempo ormai passato. Era un uomo mortale, posseduto dal desiderio sfrenato di ottenere il gramarye. Ogni tanto, fra i mortali, ce ne sono alcuni attanagliati da questa insaziabile ambizione. Ma soltanto i Signori del Clima nascono con una vera potenza nel sangue, e in questo sono diversi dai mortali. «In ogni modo, se un uomo persegue la conoscenza con zelo e acume sufficienti, gli è possibile apprendere certi antichi segreti e di conseguenza esercitare una parte del gramarye dominandola con la propria volontà. «Janus Jaravhor, tuo nonno, era un uomo di questo genere. Da giovane è arrivato da oltre le Montagne di Fuoco e ha conquistato un vasto territorio in Orielthir, dove ha edificato la sua Cupola. «Per impadronirsi dei più profondi aspetti della sapienza arcana, ha studiato una grande quantità di antichi manoscritti. Mandava i suoi servi a frugare in tutti i Quattro Regni e oltre, in cerca di documenti e oggetti da riportare a lui, alla Cupola. Loro dovevano obbedirgli. Tuttavia a lungo andare quei servi non sono riusciti a portargli più nulla d'importante. Così, insaziabile, è andato a cercare lui stesso, talvolta sotto mentite spoglie, attraverso monti e valli, deserti e foreste, pianure e caverne, aggirandosi in borgate solitarie, paesi e grandi città. Col trascorrere degli anni la quantità di documenti che possedeva è aumentata sempre più, finché gli scaffali e i laboratori del castello di Strang non sono diventati così pieni di curiosità e di importanti segreti da acquistare un loro proprio potere. Si dice che apparissero sommersi da strati nebulosi di gramarye e illuminati da effetti cangianti simili a serpenti di luce. «L'accumularsi di queste capacità ha reso tuo nonno ancora più consapevole di ciò che non conosceva e di ciò che non riusciva a fare. Se un tempo era stato semplicemente curioso, adesso era davvero insaziabile. La sua autorità sui servi si è trasformata in tirannia, i suoi desideri sono divenuti rapaci, la sua durezza di carattere è sfociata in crudeltà. «Tuttavia la cripta della sapienza umana ha una capacità infinita, mentre i giorni dei mortali sono limitati. Alla fine lui non è riuscito a ottenere l'unica cosa che realmente voleva. Questo è tutto ciò che so». Jarred annuì e disse: «Vi ringrazio per le vostre parole, signora Arrowgrass».
Benché lieta della felicità della nipote, Eolacha non poteva essere del tutto tranquilla alla prospettiva del suo matrimonio. Si sentì in dovere di prendere da parte Lilith per dirle, in tono sinceramente appassionato: «Il mio vecchio cuore dice che l'immunità di Jarred non si estenderà a te, a gariníon. È probabile che sposandoti firmerai la tua condanna, portando la maledizione su di te». «Sono consapevole di questa possibilità», rispose Lilith. «I miei occhi sono aperti. Ma Jarred è la mia vita. Allontanarlo da me significherebbe mettere fine ai miei giorni. Come potrei esistere senza di lui?» Eolacha annuì. Si volse altrove, perché la ragazza non potesse vedere l'espressione della sua vecchia faccia. «E Jarred è l'unico uomo che può renderti madre di un figlio immune dalla maledizione», aggiunse. Le guance di Lilith si tinsero di rosa. «In verità tu mi hai compreso bene. Ma io lo amavo ancor prima che questo fosse a mia conoscenza», disse. «È vero, a muirnín, è vero.» «Quanto è strano», mormorò Lilith, facendo inconsciamente eco alle parole di MacGabhann. «È come se una forza l'abbia spinto qui nell'Acquitrino, proprio lui fra tanti. Forse i druidi hanno ragione. Forse il Fato disegna la nostra strada dinanzi a noi e non abbiamo altra scelta che seguirla.» Gli occhi di Eolacha s'illuminarono di una luce dura. «Non lasciarti mai incantare dai druidi!» disse con forza. «Non c'è niente di simile alla predestinazione. C'è solo la nostra possibilità di scelta, ciò che decidiamo per noi stessi.» «Allora come può spiegarsi questa coincidenza, quando le probabilità contrarie erano infinitamente maggiori?» «Io non credo nel Fato. Potrebbero essere in gioco altri fattori: il gramarye, oppure l'istinto. O forse qualcosa nelle ossa del tuo amato, qualcosa di Janus Jaravhor, attratto da una traccia residua di Àlainna Machnamh nel tuo sangue. Chi può dirlo?» L'autunno e l'inverno passarono e la primavera prese il loro posto. Le nozze di Jarred e Lilith si avvicinavano. Sarebbero state celebrate due settimane dopo il Giorno della Ghirlanda. Per tradizione, il Giorno della Ghirlanda veniva festeggiato con entusiasmo nel Grande Acquitrino di Slievmordhu. Secondo il calendario di Tir, il grande sole, il Sole Estivo, brillava dalla Festa della Ghirlanda alla vigilia della Lanterna. Dopo la vigilia della Lanterna, in otember, rimpiccoliva abbastanza da diventare Grianan, il Sole Invernale. In occasione del Gior-
no della Ghirlanda - che in altre terre chiamavano Beltane - la magra Cailleach Bheur dal volto azzurro gettava il suo bastone sotto un biancospino o una ginestra e si trasformava in un monolito grigio. La Cailleach rinasceva poi ogni vigilia della Lanterna e s'incamminava nelle zone selvagge col bastone in mano, ordinando alla terra di sospendere la crescita e chiamando il freddo e la neve; quella potente strega eldritch aveva lo scopo di aiutare la terra a rigenerarsi attraverso il riposo. Era anche la protettrice di alcuni animali: i cervi, i suini, le capre, il bestiame inselvatichito e i lupi; inoltre faceva la guardia ai pozzi e alle sorgenti. Pochi esseri umani l'avevano vista: solo quelli che lei sceglieva per diventare carlin. Quando Eolacha era stata scelta aveva incontrato come per caso la strega, che pescava in una remota polla dell'Acquitrino. Ma non era stato un caso. Il mattino del Giorno della Ghirlanda, Lilith e le sue amiche uscirono prima dell'alba per raccogliere una buona quantità di fiori d'arancio, che poi intrecciarono a formare una grossa sfera sostenuta da un telaio di vimini. Quell'anno l'incarico di costruire la Ghirlanda Fiorselvatico era toccato a loro. Altre ragazze confezionarono la Ghirlanda Fiorgiardino, a forma di corona, la Ghirlanda Fiordacqua, a forma di barca, e - più difficile di tutte, perché bisognava usare guanti in pelle di maiale per non graffiarsi - la Ghirlanda Fiordispina, a forma piramidale. Quando le quattro decorazioni furono pronte, vennero montate su una lunga portantina orizzontale e venti bambini le fecero sfilare in processione attraverso i ponti principali di Città dell'Acquitrino. Cantori e musicanti accompagnarono l'allegro corteo, che faceva una breve sosta dinanzi a ogni casa per augurare la buona fortuna agli abitanti. In cambio i bambini ricevevano monete di rame, che sarebbero poi state distribuite ai poveri dell'Acquitrino. Durante quel viaggio di porta in porta le ghirlande diventavano sempre più flaccide e appassite; il percorso della processione attraverso la città poteva essere ricostruito grazie ai fiori che restavano sparsi al suolo. Al termine della processione le ghirlande venivano appese nel cruinniú, dove le famiglie si riunivano per giocare e danzare. Più tardi, nel pomeriggio, i fiori morenti ma ancora utilizzabili erano appesi alla prua di quattro barche e, durante una breve cerimonia sulla laguna principale, venivano gettati nell'acqua, nella speranza che ciò portasse buoni frutti ai pescatori e prosperità all'Acquitrino. Le nozze di Lilith e di Jarred erano in programma per uno dei Giorni dell'Amore, nel mese di may. Cinque giorni prima, al mattino, Eoin partì in
barca col suo amico Suibhne Tolpuddle. I due avevano dichiarato di volersi recare in una zona lontana chiamata Lagovetro per cimentarsi nella pesca del luccio gigante, un pesce particolarmente difficile da catturare. Remoto e accuratamente evitato dai mortali, Lagovetro aveva fama di essere infestato dai wight, ma ciò non preoccupava i due giovani. «Correremo il rischio», esclamò baldanzosamente Eoin. «Non è così, Siv? Abbiamo a bordo abbastanza amuleti, campanelle da pollice, foglie d'iperico e ferro freddo da affondare la barca. Uno o due lucci giganti non possono mancare in un banchetto di nozze che si rispetti!» «Tolpuddle ha tenuto male quella barca», lo avvertì suo padre. «Ci sono assi marce e dal fondo filtra l'acqua.» «Aggottare un po' d'acqua non ci spaventa.» «Quel posto è infestato da Luideag», insistette Earnàn. Luideag, conosciuta anche come la Lamia, era una wight pericolosa quanto sgradevole d'aspetto. «Se vi addentrate nelle zone degli eldritch, cercate di non attirare l'attenzione su di voi.» «Credi che non sappiamo cosa fare?» replicò Eoin con decisione. Come a ogni mortale di Tir, anche a Eoin era stato insegnato come comportarsi coi wight. Se un uomo o una donna o un bambino ne incontrava uno poteva ottenere un certo grado d'immunità se riusciva a non mostrarsi impaurito, per quanto strano o terribile fosse ciò che si trovava davanti. Se un essere umano incontrava lo sguardo di un wight, per quella creatura diventava possibile ottenere un potere su di lui. Con alcune razze, come i trow, finché una persona guardava dritto verso di loro ma evitando di fissarli negli occhi, essi non potevano andarsene. Guai a chi rivelava il proprio vero nome a un wight malvagio, perché sarebbe caduto subito in suo potere. Viceversa, se durante una conversazione un umano veniva a conoscenza del vero nome di un wight, poteva diventare il suo padrone. Come tra i mortali, anche tra i wight ce n'erano di intelligenti e di sciocchi. Per un uomo astuto era possibile ingannare un wight ingenuo o malaccorto, oppure catturare uno di quelli piccoli con lo stratagemma di fissarlo negli occhi senza mai sbattere le palpebre, né distogliere lo sguardo. Una volta catturati, molti wight erano tenuti a esaudire un desiderio, oppure a rivelare dove nascondevano il loro oro, se ne avevano. Pur disponendo di quelle e di altre conoscenze, gli esseri umani non erano affatto al sicuro. I wight unseelie di tipo inferiore potevano essere tenuti alla larga col sale e con gli amuleti, fischiando motivetti o recitando rime apposite; ma per respingere quelli più grossi occorreva un potente gramar-
ye, del genere detenuto solo dai Signori del Clima, dalle carlin più esperte, da alcuni stregoni e - così si supponeva - dai druidi. «Anche se nessun wight unseelie vi aggredisse o vi facesse in qualche modo ritardare, non fareste in tempo a tornare da Lagovetro prima delle nozze», intervenne Eolacha. Eoin rise di quelle parole e salpò assieme a Tolpuddle, dicendo: «Due giorni per andare, due per tornare e una giornata intera per riempire la barca di lucci. Tra cinque giorni saremo qui, in tempo per il matrimonio della nostra Lily!» «Quel ragazzo mi sembra pallido», mormorò Eolacha a Earnàn, mentre salutavano con la mano i due pescatori in partenza. «La rabbia repressa consuma la vitalità.» Se la faccia di Eoin era meno florida del solito, Suibhne non se n'era accorto. Nello stesso modo, non gli parve che il comportamento dell'amico fosse particolarmente scriteriato o bizzarro. Pericolosamente in piedi nella barca, Eoin cominciò a intonare una canzone da taverna, mentre Tolpuddle remava verso Lagovetro nelle vie d'acqua chiuse tra pareti di salici piangenti. Una volta un bogie reclamò un campo del fattore Brown, un campo fertile e liscio senza dossi e buche. Al fattore non parve giusto che lui volesse il campo e i due discussero a lungo, fino a un compromesso. «Terrai tu il campo, ma a una condizione», disse il bogie. «Dovrai arare e seminare, irrigare e zappare e quando verrà il giorno del raccolto lo dovrai mietere, ma lo divideremo in due, metà a te, l'altra metà a me.» Il fattore non ebbe altra scelta che accettare il patto. A primavera disse al bogie: «È tempo di arare. E di seminare. Tu quale metà vuoi del raccolto? Dovrò darti la metà superiore o quella inferiore?» A quel punto Tolpuddle unì la propria voce, tanto squillante quanto stonata e fuori tempo, a quella dell'amico: «Quella inferiore!» gridò il bogie. «Quella inferiore!»
«Quella inferiore! Quella inferiore! Quella inferiore!» Eoin continuò: Così Brown seminò grano ed esso crebbe alto. E quando fu maturo chiamò il wight: «Ora lo mieterò». Con la falce mieté il raccolto e la sera disse: «Le spighe a me. Tu prendi pure la metà inferiore». Con grande entusiasmo, Tolpuddle ululò in coro con l'amico: Stoppia e radici, stoppia e radici, stoppia e radici. Tutto ciò che il bogie ebbe furono stoppia e radici! Disse il bogie: «Questo affare non è stato a mio vantaggio. Non mi farò gabbare più. La prossima volta sarò astuto». Di nuovo Eoin: Trascorse un anno e venne la primavera e il fattore Brown disse al bogie: «È tempo di arare. E di seminare. Tu quale metà vuoi del raccolto? Dovrò darti la metà superiore o quella inferiore?» Remando vigorosamente, Tolpuddle ruggì: «Quella superiore!» gridò il bogie. «Quella superiore!» «Quella superiore! Quella superiore! Quella superiore!» Eoin riprese: Così il fattore Brown seminò patate, annaffiò e zappò, e quando furono pronte disse: «È tempo di tirarle fuori!» Con le sue mani scavò poi nella terra e delle piante prese la parte inferiore, lasciando quella superiore al wight. «Stoppia e radici, stoppia e radici!» cantò a squarciagola Tolpuddle. «Tutto ciò che il bogie ebbe furono stoppia e radici!»
La barca cominciò a rollare selvaggiamente; Eoin perse l'equilibrio e cadde a sedere con un tonfo. Tolpuddle scoppiò a ridere. «Questa sì che è una bella canzone!» gridò allegramente. Era un giovane corpulento, con un gran faccione tondo. Aveva occhi piccoli, porcini, e guance simili a mele mature. I suoi amici più intimi lo chiamavano con affetto «il Maiale». Non poteva definirsi svelto e acuto di cervello, ma era di buon carattere e ciò compensava più che abbastanza quella deficienza. I due viaggiarono tutto il giorno, prestando attenzione a evitare certe lagune profonde e oscure dove gli alberi incrostati di muschio si protendevano su ombrose acque verdastre. Gli ambienti di quel genere suggerivano la presenza di incarnazioni unseelie. La sera i due si trovarono a remare attraverso una distesa lacustre vasta e sognante. La luna non era ancora sorta, ma la luce delle stelle e un vago bagliore di riflessi acquatici consentivano di vedere. I lunghi rami penduli dei salici piangenti tappezzavano le rive. Tra le loro radici contorte s'intrecciavano giunchi e zingarelle, misti ad avena lacustre e valeriana. Su una spiaggetta si materializzò una volpe, che abbassò il muso e bevve. Tolpuddle stava calando in acqua una rete a strascico, mentre Eoin faceva il suo turno ai remi. La luna si alzò. Eoin deviò verso la riva e la barca passò sotto l'ombra dei salici. «Per tutti i pesci, questa rete si è appesantita!» esclamò Tolpuddle, sorpreso. «Be', tirala a bordo tu», disse Eoin, seccato. «Io fatico abbastanza a portare avanti questa barca e le tue budella gonfie di stufato, senza bisogno di spaccarmi le mani con la rete, adesso.» Con lunghi sforzi, sbuffando e imprecando, Tolpuddle ritirò la rete. Mentre la stava issando sulla barca, la luna fece capolino tra le ombre degli alberi e lui ansimò come se stesse per affogare: dentro la rete c'era una fanciulla. Le sue lunghe trecce erano verdi, l'epidermide pallida come la pancia di un pesce. Dall'aspetto dimostrava una ventina d'anni. In lei non c'era niente che potesse spaventare i due mortali. «Ah», mormorò Eoin. «Hai pescato una asrai, Siv. Una bella ragazza acquatica; sembra una bambola di porcellana.» La wight seelie aveva forme perfette, benché le sue proporzioni non fossero del tutto umane: le sue dita erano troppo sottili, i piedi avevano una struttura fragile e le gambe erano esili come quelle di una bambina. Era
avvolta in un indumento che sembrava di garza, dagli orli irregolari e sfilacciati. «Ho sentito mio nonno dire che wight come questa risalgono dalle loro fredde profondità subacquee solo una volta ogni secolo», disse Tolpuddle, meravigliato. «Vengono su per guardare la luna, perché la sua luce le fa aumentare di altezza.» «Se fosse vero», disse Eoin, dubbioso, «questa dovrebbe avere già un bel po' di secoli.» «Sei davvero così vecchia, ragazza d'acqua?» domandò Tolpuddle alla wight. La timida asrai alzò il dolce viso verso i suoi catturatori, cadde in ginocchio e cominciò a parlare in una lingua incomprensibile, con le mani delicate giunte come se li stesse supplicando. Alle orecchie mortali, le sue parole suonavano come il fruscio delle onde tra i giunchi della riva. «Credo che voglia essere rimessa nell'acqua», ipotizzò Eoin. Tolpuddle scosse il capo e rispose, in tono deciso: «Io penso invece che ai ragazzini di Città dell'Acquitrino piacerà darle un'occhiata». «Vergognati. Come puoi essere così duro di cuore?» lo ammonì Eoin. L'altro continuò, testardo: «E penso inoltre che i ricchi nobili di Rua la terranno volentieri nelle loro vasche dei pesci. Mi pagheranno quattrini sonanti per questo privilegio». Si mise ai remi. «Andiamo a terra», disse, e cominciò a vogare verso la riva. La asrai districò dalla rete un sottile braccio di alabastro. Lo alzò più volte, indicando il cielo. Uno spesso banco di nubi gravide di pioggia stava per coprire la luna. Visto che Tolpuddle non si dava per inteso delle sue suppliche, lei gli posò una mano su un braccio. Sorpreso, il giovane gridò e lasciò andare i remi. La wight, come se il calore del sangue di lui l'avesse scottata, balzò indietro e si rannicchiò a prua, nascondendosi sotto le sue lunghe trecce di capelli smeraldini. Dalla bocca le uscirono alcuni fievoli gemiti. «Lasciala andare, Siv», sbottò Eoin, severo. «Il suo tocco è freddo e frizzante come la schiuma», disse Tolpuddle, accigliato, guardandosi il braccio dove la mano della wight l'aveva toccato. Quando furono scesi su una delle isolette, Tolpuddle lasciò la asrai sulla barca, dopo averla coperta con alghe umide e qualche bracciata di giunchi grondanti. «La luce del mattino potrebbe essere troppo forte per lei», dichiarò con aria saputa, «ma una coperta di roba bagnata la terrà al fresco.» Si esaminò preoccupato il braccio sinistro. «Ah, il tocco della sua piccola
mano mi ha conciato male», si lamentò. «Ho il braccio freddo come il fango a Mezzo Inverno.» I gemiti provenienti da sotto le alghe si stavano facendo più fievoli. «Io dico che è una vergogna tenere in prigionia una creatura così graziosa», grugnì Eoin. «È mia», replicò stizzito Tolpuddle. «L'ho presa io, e io me la tengo.» Il giovane non volle più sentire una parola sull'argomento e, benché Eoin compatisse la creatura acquatica, si mostrò sempre più agitato e indignato ogni volta che passava vicino alla barca. «Io non sono un uomo ricco», disse quando si distesero a dormire. «Ma presto lo sarò.» Il mattino dopo il suo braccio era ancora freddo; riusciva a muoverlo a stento. Il desiderio di esaminare la preda gli fece però dimenticare la preoccupazione. Andò a togliere i giunchi con cui aveva coperto la asrai e subito lanciò un grido di disperazione e si accovacciò sui talloni, piangendo e scuotendo il capo. La rete era vuota. Tutto ciò che restava della prigioniera era uno strato di limo sulle tavole. O si era sciolta lì, o era sparita. Una goccia di sudore gelido scivolò lungo la schiena di Eoin. Quella scomparsa era così inaspettata, così aliena, così eldritch. Com'era fuggita quella creatura? Possibile che si fosse sciolta nell'aria? O era perita nel modo sconosciuto in cui perivano gli esseri immortali? Lui non si sarebbe mai abituato alle strane leggi che governavano i wight. Tolpuddle fu taciturno e di cattivo umore per metà della mattinata, col braccio che gli pendeva inerte lungo il fianco. Ma il suo carattere era incostante e, quando il sole salì, il suo spirito fece altrettanto; di lì a poco sorrideva e si comportava come al solito. Invece Eoin, in fondo al cuore, si rammaricava per il destino di quell'innocua asrai. «Una bella bambola di porcellana», sospirò con aria nostalgica, guardando le piccole onde tra le canne in riva al lago. Due giorni dopo, verso il tramonto, Eoin e Tolpuddle si erano lasciati alle spalle da un pezzo le zone abitate dai mortali e navigavano in quelle degli eldritch. Ora stavano avanzando tra isolette sconosciute a entrambi, in lagune dove la corrente si muoveva lenta. I rami sottili dei salici piangenti, da cui si ricavavano i vimini, pendevano fin sulla superficie dell'acqua e si ripiegavano a galleggiare su di essa come flessuosi serpenti, in canali stretti come vicoli. I due giovani dovevano spingere da parte quei tendaggi per farsi strada. Eoin remava con energia, creando scompiglio nei
nidi degli aironi, delle cicogne e delle anatre selvatiche. Timide quaglie acquatiche saltellavano tra le canne rosse e sugli alberi trillavano merli e gazze. La barca, in cattive condizioni, continuava a riempirsi d'acqua. Ogni tanto Tolpuddle doveva aggottare col secchio, usando il braccio sano. «Siv, amico mio, abbiamo tenuto una buona media», dichiarò Eoin. «Secondo me Lagovetro è da queste parti, oltre quelle collinette erbose cosparse di papaveri. Fermiamoci nella baia di quella piccola isola coperta di ontani neri. Faremo il campo sotto gli alberi. Domattina andremo a sondare quelle acque in cerca del bisnonno di tutti i lucci, che avrà bisogno di molta fortuna per sfuggirci.» Come rudimentale riparo per la notte distesero un telo oleato su due rami orizzontali. Tolpuddle lavorava goffamente, con un braccio che penzolava flaccido e inerte. «Chiederò alla signora Arrowgrass di darmi un decotto per questo braccio, quando torneremo a casa», disse mentre scaricava la barca. Un attimo dopo aggiunse stupito: «Cosa abbiamo qui, Eoin? Sembra un barilotto! Non l'avevo notato!» «È un barilotto», rispose il compagno, che l'aveva nascosto sotto un telo per impedire che Tolpuddle lo scoprisse troppo presto. «L'ha fatto Alderfen, il miglior bottaio dell'Acquitrino. Ma ancor più del suo aspetto vale il suo contenuto, perché è pieno di buona birra scura.» «Succo di palude!» esclamò Tolpuddle con entusiasmo. «Per tutti i fulmini, questo scaccerà il freddo dal mio braccio!» Quella notte i due consumarono quasi metà del barilotto. Il mattino dopo Eoin riprese a vogare verso Lagovetro con notevole energia, fermandosi ogni tanto per bere un sorso da un boccale di peltro, e alla fine ciò lo indusse a cantare anche la seconda metà della canzone da taverna, quella del fattore e del bogie. Il bogie non era uno sciocco e cominciò a sospettare l'imbroglio del fattore. Così l'anno dopo in primavera disse: «Stavolta seminerai grano, poi tu e io mieteremo metà per ciascuno, e chi finirà prima avrà il campo!» «Una gara di mietitura, una gara con la falce!» gridò Tolpuddle, la cui ebbrezza non si era ancora spenta, nonostante il braccio paralizzato. «E chi finirà prima avrà il campo!» cantò Eoin. Il wight e l'uomo divisero quindi il campo in due.
Il fattore seminò entrambe le metà e innaffiò il grano. Ma quando il raccolto fu maturo andò dal fabbro e disse: «Voglio trecento chiodi, sottili come steli di grano». Il fattore prese i chiodi e quella notte andò nel campo, poi li piantò al suolo tra il grano nella metà del bogie. Il wight era sicuro di vincere la gara e il mattino dopo con baldanza gridò al fattore: «Pronto?... Via!» Ruotando le falci come lampi i due si gettarono sul grano. Brown andava veloce e il bogie non teneva il passo. «Questi dannati steli sono duri!» lo udirono ringhiare. E la sua falce si rovinò tanto da non poter tagliare il burro. «Da non poter tagliare il burro! Da non poter tagliare il burro! La sua falce si rovinò tanto da non poter tagliare il burro!» cantò ancora Tolpuddle. Trascorsa metà della mattina, il wight chiese al fattore: «Quando finirai?» E lui rispose: «Verso mezzogiorno». «Allora ho perso», rispose il bogie. E detto questo se ne andò, e non tornò più a seccare il fattore Brown. «E non tornò più a seccarlo! Non tornò più! Quel piccolo stupido wight non tornò più a seccarlo!» urlò Tolpuddle nelle paludi infestate dai wight. Non ci fu nessuna reazione a quell'incauta sfida, fuorché, comprensibilmente, un'atmosfera sospesa, come se qualcuno stesse osservando circospetto. Eoin abbassò i remi e bevve un altro sorso dal boccale. Tornato al lavoro, diede inizio a un'altra canzone; stava dispiegando la voce al massimo delle sue possibilità, quando la prua si arenò su un banco di sabbia. Lo scafo si sollevò con un tonfo. Il giovane prese a vogare in senso contrario, imprecando con rabbia. Alla fine riuscirono a sfangarsi via dalla sabbia, ma nel frattempo un'asse più malridotta delle altre aveva ceduto e la barca cominciò a fare acqua. I due pescatori si trovarono in breve immersi fino alle ginocchia, mentre il piccolo natante affondava di prua, e non restò loro che gettarsi a nuoto verso la riva più vicina. Tolpuddle imprecava ferocemente.
Raggiunsero la terraferma senza inconvenienti peggiori che rischiare di perdere gli stivali e riempirsi la bocca d'acqua sudicia e piena di larve. Poi si sedettero sulla fanghiglia, inzuppati e coi capelli appiccicati alla faccia, ormai del tutto sobri. Le rondini saettavano basse sulle acque, strappando via dall'aria gli insetti volanti. I loro versi acuti riempivano il cielo di tutta la regione. Sul lato opposto del canale, la riva era formata da una muraglia verticale di arenaria. Era piena di buchi, davanti ai quali le rondini si fermavano qualche istante per rifornire i loro nidi. La poppa della barca si alzò in verticale, poi s'inabissò. Sul soffitto acqueo della sua tomba si allargarono cerchi concentrici. «Uh», disse Tolpuddle dopo un lungo silenzio. «E adesso cosa facciamo, Eoin?» Il compagno si estrasse un brandello di alga dall'orecchio sinistro e rispose: «Be', Siv, potremmo pescare dalla riva». Non era quello che Tolpuddle voleva sapere. Si sforzò di trovare le parole giuste: «Ma come ci torniamo in città?» «Per tornare in città ci serve una barca. Non c'è altro modo. Non ci sono abbastanza ponti di collegamento.» «Ma una barca non ce l'abbiamo. Non più.» «Già.» Tolpuddle ebbe l'impressione che non stessero facendo molti progressi. «Allora, cosa facciamo adesso?» ripeté. Eoin assunse un'aria pensierosa e disse: «Forse sarà meglio tornare al campo. Abbiamo lasciato là l'acciarino, che ci farà comodo per accendere un fuoco e asciugare questi vestiti». Tolpuddle si disse d'accordo e un sorriso si allargò sulla sua faccia lunare. Dopo un po' aggiunse: «E come ci arriviamo là, Eoin?» «A nuoto. A meno che tu non sappia camminare sull'acqua, nel qual caso ti prego di portarmi sulle spalle.» Tolpuddle svuotò uno dei suoi stivali dal fango. «Non credo che riuscirei a farlo», disse in tono serio, come se avesse appena ricontrollato le proprie capacità nel caso che gliene fosse inavvertitamente sfuggita qualcuna. «Allora nuoteremo, amico!» gridò Eoin con tutto il fiato che aveva in corpo, per coprire il mal di testa che sentiva arrivare. Detto ciò, balzò in piedi e si tuffò. Se fossero stati del tutto sobri ci avrebbero pensato due volte prima d'immergersi in acque infestate dai wight. In qualche modo, tuttavia, la
loro buona sorte resse ed entrambi i nuotatori, quello con un solo braccio e quello con due, raggiunsero il loro campo sotto gli ontani neri. Accesero il fuoco e iniziarono ad asciugarsi. Tolpuddle tenne il braccio sinistro vicino alle fiamme, ma non riuscì a riscaldarlo. «Non abbiamo altra scelta che restare qui e costruire una zattera», disse Eoin. «Io prenderò l'accetta e cercherò il materiale adatto. Tu dovresti cercare dell'erba marram e dei rampicanti, un po' di han o roba simile, abbastanza resistente per legare i rami.» Tra le erbe selvatiche dell'isoletta facevano capolino orchidee e vulnerarie. L'ombra più fitta ospitava numerose varietà di felci, sassifraghe reali e cervine. Sopra la testa di Eoin, i salici grigi allargavano rami coperti di licheni verso un cielo color uovo di pettirosso. Mentre il giovane esplorava l'interno, scoprì che dal campo avrebbero potuto raggiungere Lagovetro per via di terra. Una serie di strette penisole e di lingue di sabbia creava un percorso che lui giudicò transitabile, per quanto tortuoso. Avrebbe potuto accorgersene anche prima, se i suoi sensi non fossero stati annebbiati dalla birra. Il figlio del pescatore di anguille proseguì dunque nella sua esplorazione finché, sbucando dai cespugli, non si trovò sulla spiaggia del lago che cercava. Vide subito che meritava il suo nome. Riparato dalla brezza grazie alle alture circostanti e alla fitta vegetazione che lo circondava, Lagovetro era perfettamente immobile sotto il cielo. Nessun fremito disturbava la sua superficie. Nessuna onda, nessun gorgo, nessuna bolla. Neppure le libellule andavano a scalfire quello specchio immoto. Era una piatta distesa di luce argentea, che racchiudeva nella sua tranquillità il riflesso di tutto ciò che si avventurava lì intorno. Sulla riva opposta c'era un macigno alto fino alla cintura di un uomo, immerso nelle felci. Su di esso erano incise delle rune, ma dalla sua posizione Eoin non riuscì a decifrarle. Un paio di capre selvatiche stava pascolando tra le erbacce. Su un lato c'era un bacino d'acqua più scura, seminascosto dai salici. Lì, sulla riva, Eoin trovò alcuni ciuffi di pelo di capra. Li esaminò da vicino. Alcuni erano sporchi di sangue. A disagio per quella scoperta, proseguì; poco più avanti trovò dei giovani salici delle dimensioni adatte e si mise subito al lavoro con l'accetta. Quando ebbe un fascio di rami dritti e lisci, se li mise in spalla e fece ritorno al campo, dove Tolpuddle lo stava aspettando. «Il materiale per costruire una buona zattera non ci mancherà», gli disse, deponendo il suo carico.
Benché ostacolato dal braccio inutilizzabile, Tolpuddle aveva messo assieme un bel mucchio di erba marram. Però aveva avuto il tempo di riflettere e aveva raggiunto conclusioni deprimenti. «Ci metteremo un sacco di tempo e resteremo inchiodati qui per chissà quante settimane», si lamentò. «Finito il poco cibo che abbiamo, dovremo accontentarci di masticare roba dura.» «Non c'è pericolo di patire la fame, qui», lo placò il compagno. «La zona è piena di capre selvatiche, facili da acchiappare e ottime da mangiare arrosto. E c'è abbondanza di anatre.» Non volle domandare cosa intendesse l'altro con «masticare roba dura». Tolpuddle annuì, ma era poco convinto. I due cominciarono a costruire la zattera e presto il lavoro li occupò tanto che dimenticarono il mal di testa dovuto alla birra. Per tutto il Giorno del Re si diedero da fare intorno alla zattera. Il Giorno del Tuono, nella nebbia del primo mattino, Eoin si allontanò in cerca di altri rami di salice. Mentre camminava lasciò vagare i pensieri ed esaminò con obiettività la sua situazione. Si rese conto che l'ipotesi di giungere in ritardo alle nozze di Lilith non lo preoccupava affatto. Anzi più ci pensava e più lo sollevava l'idea di non dover assistere al trionfo di Jarred. Si domandò persino se un istinto nascosto non l'avesse indotto a fracassare il fondo della barca su quella secca, un desiderio perverso di cui in quel momento non era consapevole. «Che la sposi pure», mugolò. «Che la sposi pure, ma io non sarò lì a ricoprirli di fiori e di felicitazioni.» Sapeva che il suo ritardo li avrebbe messi in ansia. Forse avrebbero addirittura rimandato le nozze! Be', se non altro la sua assenza inspiegabile avrebbe gettato un'ombra su quella giornata, anche se si trattava di una ben misera consolazione per lui. Un cuculo zufolava le solite due note tra i rami degli ontani. Oltre le fronde più alte una fila di oche selvatiche tagliava rapida la cupola del cielo, che nel mattino appariva di un celeste polveroso. Mentre il sole saliva la sua scala verso lo zenit, Eoin si fece cauto. Sulla riva di Lagovetro depose il carico e si distese pancia a terra, guardando nell'acqua. Anche la sua faccia sembrava risplendere dentro quel liquido. «L'acqua immobile assorbe la luce», mormorò. «Ferma e profonda. Cosa c'è là sotto? Cosa nasconde? Guarda in questa polla... che cosa vedi? Il viso di uno sciocco.» Fece una pausa, poi continuò sottovoce, serio: «Sono proprio io?»
Dicendo quelle parole non faceva altro che recitare l'iscrizione incisa sul macigno, all'altro lato della laguna, che era andato a leggere durante una precedente ricerca di legname. Una risata gli scaturì dalla gola, secca, priva d'ilarità. Poi Eoin immerse la faccia nell'acqua, come per schiarirsi le idee dopo un sogno. Quando scosse il capo, la sua barba sparse intorno una pioggia di schizzi. Lagovetro corrugava le sue lisce sopracciglia, finalmente disturbato. Si udì il belare di una capra. Eoin fece ritorno al campo con una dozzina di rami sulle spalle e un'espressione scura e pensosa. Sulla spiaggia Tolpuddle era occupato a legare altri rami con corde ricavate dall'erba marrani, usando la mano sana, i denti e i piedi. I due proseguirono alacremente il lavoro. Intorno a loro le paludi erano piene di vita e di movimenti. Libellule di una fragilità deliziosa sciamavano in gran numero sulla superficie dell'acqua, coi maschi che salivano e scendevano, impegnati nella loro danza nuziale. Le rondini piroettavano tra gli insetti in un balletto il cui scopo, ben più prosaico, era la cena. Api, vespe e calabroni ronzavano ovunque e i ragni d'acqua nuotavano tra le alghe fluttuanti, i gigli d'acqua e le canne a coda di volpe. Eoin e Tolpuddle continuarono a lavorare finché non ebbero costruito più di metà zattera e il crepuscolo alitò le sue ombre e i suoi vapori di nebbia. Le rane e i rospi diedero inizio al loro formidabile coro serotino. I pipistrelli ferro-di-cavallo emersero come spettri dalle loro grotte per svolazzare tra gli alberi senza un fruscio. Sulle paludi dilagò il colore della notte. Dopo aver mangiato, i due compagni si distesero sotto le fronde degli alberi e osservarono le stelle, senza parlare. Eoin non poté impedire ai propri pensieri di tornare sull'argomento che ormai gli era più consueto. Un uomo guarda crescere un fiore, giorno dopo giorno; lo osserva trasformarsi da un puntino verde in un florido germoglio e aspetta che sbocci. Finalmente il fiore dispiega i suoi petali, fragranti e profumati, ricchi di colori, e lui lo copre con una giara del vetro più trasparente per proteggerlo dagli insetti e dalla violenza del vento e della pioggia. «E poi cosa succede?» domandò Tolpuddle, ed Eoin si accorse di aver espresso quel pensiero ad alta voce. Piegò le labbra in un sorriso aspro. «Cosa succede? Arriva qualcun altro, vede il fiore e lo coglie. Ecco cosa succede.»
«Mi sembra una storia triste», commentò l'amico. «Lo è», disse Eoin. Il silenzio scese intorno a loro come un lenzuolo di fiori di cardo. D'un tratto nelle loro orecchie penetrò un sussurro. I due giovani si alzarono a sedere, guardandosi intorno. Eoin si portò un dito alle labbra per avvertire l'amico di non aprire bocca. Entrambi rimasero completamente immobili. Una minuscola regina stava viaggiando tra le felci a bordo di una carrozza in miniatura, ricavata da una conchiglia e trainata da insetti. I cavalieri della sua scorta, montati su grilli, portavano scudi di gusci di coccinelle e lance ricavate da rigidi steli d'erba, con punte di lingue di mosche cavalline. Li seguiva una processione di cortigiani con berretti di pelo di vacca. Avevano curiose cinture di foglioline di mirto, costellate di gocce d'ambra e di petali di margherite. Stavano trillando in coro, con vocette acute, nella lingua comune di Tir: Io vado nel bosco passando di fiore in fiore, poi salto su una mosca e lei mi porta in cielo, e io viaggio, e viaggio ancora. Continuando a cantare, la curiosa processione si allontanò nel sottobosco, tra gli ontani. Eoin lasciò uscire il fiato in un lungo sospiro. «Non vorrai prendere anche loro, spero», disse. «Non mi interessano», rispose Tolpuddle. «Quella è la regina dei siofra. E loro non hanno pentole d'oro, lo sanno tutti.» L'amico preferì non aggiungere altro. Un'ondata di risatine acutissime li fece voltare di scatto verso le tenebre alla loro destra, ma altrettanto improvvisamente tornò il silenzio. Poi da sinistra provenne un incomprensibile chiacchiericcio, che subito si allontanò a gran velocità, svanendo oltre la portata dell'orecchio. Eoin si accostò di più alla luce del fuoco. «Una pentola d'oro mi farebbe comodo», disse Tolpuddle, senza fare caso a quei rumori wight. «Se avessi dell'oro ne darei un po' a Lilith come regalo di nozze. Mi piacerebbe ballare con le ragazze, al matrimonio.» «Ce lo perderemo», tagliò corto Eoin. «Il Giorno dell'Amore è domani. Anche se finissimo la zattera stanotte, non riusciremmo a tornare in tempo.» «Ah», commentò Tolpuddle.
Un pesce balzò fuori dell'acqua, lasciandosi dietro una scia di spruzzi lucenti. Come un caldo sospiro, un gufo dalle orecchie corte passò in volo, a caccia di rane. Le falene-falco svolazzavano a balzi, come nuotatori sul punto di annegare. Nello stesso momento un luccio gigante stava avanzando lungo il fondale fangoso del canale, a poca distanza dal campo. I due pescatori non potevano sapere quanto fosse vicino, né il luccio poteva essere consapevole della loro esistenza; eppure probabilmente lo era. «Buonanotte», disse Tolpuddle con voce impastata, e si distese, coprendosi la faccia con un braccio. In lontananza, qualcosa di eldritch stridette come metallo squarciato. Sempre sul chi vive, Eoin non riuscì a prendere sonno. A Città dell'Acquitrino la gente doveva aver già finito di ritirare i ponti e mettere al sicuro le barche per la notte, isolando l'abitato e proteggendolo dai Predatori. Lilith era occupata con gli ultimi preparativi per le nozze; la nonna di Eoin doveva essersi già lavata i folti capelli bianchi in una conca odorosa di acqua e aceto; suo padre stava forse ripassando il programma delle cerimonie dell'indomani. Cuiva era probabilmente tentata d'implorare Lilith di provarsi ancora una volta il candido abito di lino e pizzi. Neasàn Willowfoil stava ispezionando le spade delle guardie d'onore; Odhràn Rushford doveva tenere un discorso al banchetto ed era senza dubbio intento a ripassarlo; Muireadach Stillwater si chiedeva se avesse addestrato bene i bambini che dovevano suonare i campanelli dopo la cerimonia; le amiche di Lilith erano di certo troppo eccitate per dormire, sapendo che il mattino dopo avrebbero anche dovuto alzarsi presto per riempire molti cestini di fiori. Jarred... Eoin rifiutò d'immaginare cosa stesse facendo Jarred. Quel gran bastardo era stato così sfacciato da farsi restituire da Lilith il potente amuleto che lui stesso le aveva dato. Quando Eoin era andato da Lilith a chiedere spiegazioni su quel fatto, lei si era limitata a scrollare le spalle. Come se non le importasse nulla. Eoin talvolta pensava a quell'amuleto al collo di Jarred e a come sarebbe stato vederlo strangolato proprio con la collana. Tolpuddle continuava a borbottare nel sonno qualcosa sui «passeri arrosto». Di malumore, Eoin si alzò e s'incamminò verso Lagovetro. Come già altre volte, pensò a quanto era contento di non dover partecipare al matrimonio di Lilith. Ora trovava più facile ammettere con se stesso che all'origine di quella spedizione di pesca improvvisata c'era stata la speranza che qualcosa ritardasse il suo ritorno. Con quel desiderio che gli rodeva l'anima era
diventato incauto nel condurre la barca... Sulla sinistra, uno scintillio di riflessi tra i rami di un salice attirò il suo sguardo. Sulla riva oscura della laguna c'erano alcune capre selvatiche, che si stavano abbeverando alla luce delle stelle. Uno scarabeo alato venne a impigliarsi tra i suoi capelli. Con un gesto impaziente lui se ne liberò e l'insetto volò via ronzando nel buio. Un gufo emise il suo richiamo lamentoso. E all'improvviso le acque ribollirono. Eoin vide una cosa mostruosa emergere dalla polla funerea presso i cipressi. L'orribile creatura azzannò una delle capre selvatiche, la fece a pezzi e poi tornò a immergersi, trascinando con sé la carcassa macellata della sua vittima. La superficie gorgogliò di bolle, quindi tornò ad appiattirsi immobile e nera come l'inchiostro. Per diversi secondi Eoin rimase paralizzato, come se i suoi piedi avessero messo radici nella terra molle. Lo stomaco gli era balzato in gola e, a giudicare dal sapore che gli riempiva la bocca, sembrava sul punto di schizzargli fuori del corpo. I wight unseelie carnivori erano notoriamente ghiotti di carne umana. Non c'era dubbio che il mostro che aveva appena visto sapesse con precisione dove trovarne. Eoin e Tolpuddle stavano correndo un terribile pericolo. Forse era già troppo tardi per tentare la fuga. Eoin girò su se stesso e se la diede a gambe. Il mattino del Giorno dell'Amore, le ragazze dell'Acquitrino decorarono il cruinniú appendendo a tutte le arcate fiori freschi e ghirlande di foglie e frutti di bosco. Le amiche di Lilith, mentre la vestivano e la adornavano davanti a un lungo specchio di bronzo lucido appartenente a Cuiva, chiacchieravano e ridevano; tutte eccetto Cuiva, che continuava a gettare sguardi preoccupati fuori dalla finestra. «Chissà dov'è Eoin», mormorò. «Speriamo che torni presto.» «Lo spero anch'io», disse Lilith, in bilico fra il timore per la sorte del fratellastro e la gioia di quel giorno tanto atteso. La ragazza tornò a guardarsi allo specchio. Il suo riflesso era un'immagine d'avorio. Come in omaggio al suo nome, Lilith era snella e bianca, con pizzi di Orielthir a tutti gli orli dell'abito e un velo dello stesso materiale sopra i capelli scuri. Intorno alla fronte, sul velo, aveva una coroncina di margherite e di nontiscordardimé intonati all'azzurro dei suoi occhi. Intorno alla vita portava una larga fascia color crema ornata di foglie scol-
pite nel corno e nell'osso, dono di Earnàn, che l'aveva fatta con le proprie mani. Eolacha porse alla sposa un bouquet di gigli-spada azzurri e nontiscordardimé acquatici, misti a foglioline di capelli-di-vergine. «Che il cielo ti benedica, a gariníon», sussurrò, e Lilith le baciò una guancia incartapecorita. Il comandante dell'Acquitrino Maghnus Stillwater unì in matrimonio Lilith e Jarred nel cruinniú, sotto festoni di ghirlande. La cerimonia fu seguita da un lungo tintinnio di campanelle, quando la coppia passò sotto l'arco di spade tenute alte dagli uomini della guardia d'onore. Quando giunsero sulla riva, i due furono investiti da una pioggia di petali; in risposta Jarred gettò qualche manciata di monete di bronzo ai bambini, che si precipitarono a raccoglierle strillando. Sulla veranda anteriore della casa di Stillwater e lungo la riva della laguna del cruinniú cominciò il banchetto nuziale. C'erano musica e molte cose da mangiare e da bere. Gli ospiti brindarono agli sposi esclamando: «Possiate vivere a lungo, essere felici, invecchiare bene ed essere liberi dalla sfortuna». Furono distribuite le fette della torta nuziale ed ebbero inizio le danze. «Quando tornerà Eoin?» si domandò Cuiva. «Mio figlio può essere uno sbruffone, ma non è uno sciocco», la rassicurò Earnàn. «Sono certo che lui e Suibhne hanno incontrato qualche imprevisto. Senza dubbio sapranno cavarsela e faranno ritorno al più presto.» Odhràn Rushford, il migliore amico di Jarred, fu il cavaliere di Cuiva durante le danze. Quella sera, dopo avere rispettato ogni altra tradizione, Jarred portò la sua sposa nella casa dei Mosswell. Consapevoli della povertà dei due giovani, Earnàn ed Eolacha li avevano invitati ad abitare con loro finché non avessero avuto migliori possibilità economiche. Lilith ne era stata felice; Jarred, visto che non aveva altra scelta, era stato costretto ad accettare, benché si vergognasse di non poter offrire una casa alla sua sposa. Lilith rise quando lui la portò in braccio oltre la soglia. «Non è una tradizione fondamentale, questa!» esclamò. «Ce n'è bisogno soltanto nelle case che hanno un wight domestico, e solo se la sposa è sconosciuta a quel wight. Il nostro urisk mi conosce fin troppo bene!» «Non è fondamentale, forse, ma divertente sì», ribatté il marito. «Così come lo saranno le nostre vite da oggi in poi, te lo prometto.» Il chiaro di luna illuminava dolcemente la stanza che Lilith divideva con Jarred.
La giovane sposa si distese sul letto. Vide le spalle larghe del marito stagliate contro il chiarore della finestra e ne ammirò la muscolatura morbida e ondulata. Jarred la guardò con le pupille dilatate, come un bambino che vedesse un miracolo, e fu come se i suoi occhi assorbissero assetati ogni particella dell'immagine di Lilith. La ragazza gli restituì lo sguardo con l'espressione di un fumatore di semi di papavero che avesse esagerato con la dose e vedesse, contro la propria volontà, mondi interiori dei quali non aveva mai sognato. Fuori della finestra una stella cadente disegnò un lungo arco verso l'orizzonte. Svanì come il pensiero che aveva tormentato Lilith, un pensiero riguardante la natura effimera di tutte le cose, che rendeva ancora più prezioso ciò che era bello e caro, perché sapere di essere destinati a perdere le persone amate rendeva l'amore mille volte più dolce. I morbidi capelli sciolti del suo sposo caddero in una pioggia scura sul viso di Lilith. Le loro punte sfiorarono come piume la sua pelle, facendola tremare come per il freddo, anche se era ben lontana dall'avere freddo. Per un istante il mondo cessò di respirare. «Sempre vicini, anche quando la distanza ci separa», mormorò Jarred, come ubriaco. «Ma non saremo mai più vicini di così.» Un dolore simile a un singhiozzo chiuse la gola di Lilith, mentre alzava le braccia per stringerlo a sé. Il Giorno del Sale e il Giorno del Sole passarono. La sera del secondo, nella casa dei Mosswell iniziò a serpeggiare la preoccupazione per la sorte di Eoin. Più tardi, sotto un cielo opaco e senza stelle, Odhràn Rushford venne a bussare alla porta. «Sono io, Odhràn!» gridò. «Porto notizie di Eoin e Suibhne!» Earnàn aprì e chiese: «Cos'è successo?» Rushford ansimò: «Sono tornati... Sono tornati sani e salvi. Io li ho preceduti... Eoin dovrebbe essere qui tra poco». Earnàn, Eolacha e Lilith si affrettarono a uscire di casa. Di lì a non molto comparve una barca a remi, condotta da due guardie, che manovrò per attraccare al pontile. Eoin sedeva tra i rematori, a capo chino. Quando la prua urtò i parabordi lui alzò lo sguardo e piegò la bocca in un sorriso. «Che bellezza!» disse debolmente. «Non ho preso neppure un luccio, ma sono a casa!» Dopo aver dormito una notte e un giorno, Eoin si alzò e dichiarò che sarebbe andato a casa sua. Prima di uscire raccontò ciò che era successo a Lagovetro. La comparsa di quella terribile creatura subacquea l'aveva in-
dotto a partire immediatamente. Lui e Tolpuddle avevano lavorato tutta la notte per finire la zattera, continuando a guardarsi intorno e sobbalzando per lo spavento a ogni più piccolo rumore. Il Giorno del Sale, tra la nebbia dell'alba, erano salpati. Il braccio di Tolpuddle era del tutto paralizzato. Manovrare e spingere avanti quel rozzo galleggiante era stato molto faticoso; tutte le loro cose si erano inzuppate. Alcune, come l'accetta, erano rotolate fuori bordo e affondate nelle acque. Non avevano osato dormire prima di aver messo una buona distanza tra loro e Lagovetro. Tolpuddle, ancora impressionato per la descrizione dello squartamento della capra, fece voto di non avventurarsi mai più in zone remote. E, quando Eolacha esaminò il suo braccio e disse che era incurabile, cadde in uno stato di depressione che impiegò molte settimane per dissiparsi. Così si concluse quella sfortunata partita di pesca. Il disappunto più grande di Eoin, comunque, non era dovuto alla menomazione dell'amico, né al viaggio a vuoto. Lui aveva sperato di assaporare un gusto di vendetta nel non essere presente alle nozze, perché così avrebbe tolto a Jarred la soddisfazione di sposare Lilith davanti agli occhi del rivale. Se avesse dovuto congratularsi pubblicamente con la coppia assieme a tutti gli altri, si sarebbe sentito sconfitto e umiliato. Dunque pensava di avere salvato la propria dignità. Tuttavia, la sua convinzione di avere rovinato la vittoria di Jarred subì un brutto colpo, quando Eoin si rese conto che la felicità dei due novelli sposi era così completa da renderli quasi dimentichi della sua assenza. Anche il racconto dei pericoli da lui affrontati non turbò Lilith più di un soffio di vento sul placido mare della sua serenità. Non appena la ragazza vide che era sano e salvo, cessò di preoccuparsi delle sue disavventure. C'è stato un tempo, pensò Eoin, in cui le importava qualcosa di me e, sapendo delle mie disavventure, avrebbe cercato di consolarmi. Un tempo, oggi non più. Le fervide attività della primavera si placarono col primo calore dell'estate. All'inizio del mese di jule, nel Grande Acquitrino di Slievmordhu si tenne l'annuale cerimonia della Cattura dei Cigni. In tutte le terre conosciute di Tir, i cigni erano considerati uccelli di esclusiva proprietà del re: il loro possesso era un privilegio rigorosamente riservato ai monarchi. Persino gli aristocratici avevano bisogno di un permesso speciale della corona, se volevano tenerne qualcuno nei loro laghi privati. In ogni regione del regno di Slievmordhu, la pena per chi uccideva
un cigno senza licenza era nove settimane di lavori forzati, più un'ammenda in denaro. «Tutti i cigni delle acque aperte appartengono a Re Maolmórdha», aveva spiegato Odhràn Rushford a Jarred durante il suo primo anno di permanenza nell'Acquitrino. «Da questa legge sono esclusi soltanto i cigni della nostra regione, che sono di proprietà degli anziani e delle guardie. Secoli fa, Re Urlàmhaí il Magnanimo concesse loro il diritto di possedere i cigni che vivevano qui nell'Acquitrino, e questo permesso reale non è mai stato ritirato. Perciò, fin da quei tempi antichi, i due gruppi sono soliti celebrare il privilegio percorrendo l'Acquitrino nell'annuale Viaggio del Cigno, che si tiene giusto in questa stagione, circa due mesi dopo che si sono schiuse le uova e sono nati i piccoli. Per l'occasione il cignaio del re scende da Cathair Rua lungo il Fiume Impetuoso assieme al suo nobile seguito. Durante la Festa della Cattura si tengono banchetti e cerimonie. La ricchezza di quei cortigiani è uno spettacolo: vale la pena di partecipare. Per l'occasione io remo sulla barca delle guardie.» Era il primo anno in cui Jarred e Lilith assistevano alla festività come marito e moglie. Il grande giorno arrivò. Nella sua magnifica barca ufficiale il cignaio del re, egli stesso di nobili natali, guidò la processione di sei barche a remi a forma di cigno che mosse dal luogo dove erano ormeggiate, nel canale principale. Sulla prua sventolava la bandiera ricamata con le iniziali del re, mentre a poppa pendeva un arazzo su cui campeggiava un cigno. Dietro di essa veniva la seconda barca reale. Rematori in livrea scarlatta, il colore in cui vestiva anche il cignaio del re, vogavano su entrambi i vascelli. Il marchiatore anziano dei cigni, avvolto in una toga azzurra, comandava le due imbarcazioni degli anziani dell'Acquitrino, sopra le quali erano issati gli stendardi ufficiali della città e molte bandierine raffiguranti cigni in volo. Non meno adorne e solenni, al seguito di quelle barche c'erano le due delle guardie, vestite nella loro uniforme verde. Ogni imbarcazione esibiva ricchi festoni di amuleti e talismani contro le creature unseelie. Da prua a poppa pendevano i nastrini rossi delle campanelle d'argento. Ferri di cavallo a forma di artiglio erano inchiodati persino al pagliolato. Ovunque c'erano piccoli cigni di legno dagli occhi d'ambra, mazzetti protettivi di margherite, di bacche rosse e di foglie d'iperico raccolte nelle paludi. Gli uomini avevano amuleti appesi al collo; per la maggior parte erano fatti di radica, di carbone e d'ambra, solo alcuni erano di ferro. Uno degli uomini possedeva una pietra cosiddetta «autoforata»; pie-
tre di quel tipo, in cui l'acqua corrente aveva scavato un buco, venivano trovate nei torrenti, ma erano così rare che spuntavano un prezzo assai elevato. Willowfoil, come capitano delle guardie, svolgeva anche l'incarico di marchiatore di cigni. Tra l'equipaggio della sua barca c'era Jarred, che si era offerto volontario come rematore. Seduto alle spalle dell'amico Odhràn Rushford, il giovane cacciatore già pregustava il divertimento, perché in Ashqalêth non aveva mai visto niente di simile e tutte le cerimonie di quel genere gli erano piaciute molto fin da quando era arrivato nell'Acquitrino. Annodato intorno a un braccio portava il fazzoletto di lino verde che Lilith aveva tessuto per lui. Quando la vide tra la gente che si affollava sulla riva per assistere alla partenza delle sei barche, agitò energicamente un braccio verso di lei. La ragazza gli restituì il saluto, ridendo. Al fianco di lei Cuiva Stillwater chiacchierava con vivacità, interrompendosi ogni tanto per mandare un bacio a questo o a quel rematore, mentre Eoin Mosswell era tra i suoi amici e osservava la scena con aria accigliata. La processione partì per quello che sarebbe stato un viaggio di sette giorni, accompagnata da lunghi suoni di corno e dall'abbaiare dei cani. Dopo che si furono addentrate nei canali secondari tra le paludi, nelle lagune sognanti e negli immensi canneti del Grande Acquitrino di Slievmordhu, le tre compagnie di catturatori iniziarono a collaborare strettamente. Per prima cosa dovevano fare manovra per aggirare e circondare una famigliola di cigni a galla sull'acqua. Quindi, muovendosi con velocità e astuzia, dovevano afferrare e issare a bordo ogni uccello, per poi legargli le zampe e le ali. Non era un lavoro agevole: quando erano minacciati i cigni sibilavano selvaggiamente, sbattevano le ali e attaccavano col becco. Una volta tirati fuori dell'acqua, i cigni adulti venivano esaminati per cercare i solchi sul becco, che differenziavano i volatili dell'Acquitrino da quelli reali non marchiati. A quel punto i marchiatori segnavano i becchi dei cigni piccoli, per collegarli ai genitori e ai legittimi proprietari, quindi i tarpatori recidevano loro la punta delle ali, affinché una volta cresciuti essi non fossero in grado di volare troppo lontano. Se entrambi i genitori risultavano cigni del re, senza cioè nessun marchio, la loro prole veniva slegata e liberata nell'acqua. I cigni con un solo solco appartenevano agli anziani, mentre quelli con due erano delle guardie. La prole riceveva lo stesso marchio dei genitori. Jarred, appoggiato al suo remo, osservava le operazioni con interesse. «Cosa succede se i piccoli cigni risultano nati da genitori misti?» domandò
a Odhràn. «In questo caso, metà della covata riceve il marchio della madre, l'altra metà quello del padre», ansimò questi, togliendosi dagli occhi i capelli bagnati di sudore. «E se sono in numero dispari?» «Quello in più appartiene al padre.» «Cigni a babordo!» gridò il timoniere. «Fuori i remi, ragazzi! Fate presto, perché ci stiamo avvicinando pericolosamente alla Curva dell'Impiccato!» Non erano solo i cigni arrabbiati a creare problemi ai catturatori. Bisognava tenere gli occhi bene aperti: alcune regioni dell'Acquitrino pullulavano di sinuosi serpenti d'acqua, lisci come la malachite. Certe zone andavano evitate perché infestate di creature unseelie, e un po' ovunque esistevano altre incarnazioni eldritch meno maligne ma imprevedibili, soprattutto quelle notturne. Erano tuttavia le ragazze-cigno, benché solitamente timide e per niente unseelie, a dare i maggiori fastidi ai cacciatori, perché detestavano a morte il rito annuale della Cattura dei Cigni. Gli uomini dovevano inoltre stare attenti a non ferirle. Fare del male a una ragazza-cigno aveva inevitabilmente delle conseguenze spiacevoli, perché le appartenenti a quella razza si vendicavano con rabbia, causando gravi danni alle attività dell'Acquitrino. Quando assumevano la loro forma umana, le ragazze-cigno apparivano come fanciulle di bellezza eterea, eternamente giovani. Di carattere erano scostanti; in genere detestavano i mortali e si nascondevano ai loro occhi. Solo per caso poteva accadere a un viandante solitario, o a un cacciatore, d'imbattersi in un gruppetto di ragazze-cigno in forma umana, che facevano il bagno al chiaro di luna o danzavano tra le felci. Non appena vedevano avvicinarsi un estraneo, le fanciulle afferravano i loro mantelli di piume e fuggivano al riparo tra gli alberi. Poi dalla vegetazione si alzava uno stormo di cigni neri, che volavano via sopra le paludi emettendo tristi richiami. Durante la cerimonia della Cattura, le ragazze-cigno si facevano più ardite. In forma di volatile andavano ad avvertire i cigni dell'avvicinarsi delle barche. Gridando e sibilando, conducevano poi i loro protetti in qualche zona in cui sapevano che i mortali non osavano avventurarsi: acque sinistre, chiuse tra ombre sepolcrali di alberi antichi e morenti, coperti di muschio; posti segreti come la Zona Infestata e la Palude degli Spettri, dove si
aggiravano i pericolosi fuathan. A volte, quando un equipaggio catturava una famiglia di cigni, le eldritch volanti piombavano giù dal cielo come uno stormo di aquile nere, agitando le ali con tale potenza da creare onde nell'acqua. Poi impazzavano sopra le teste dei marchiatori e dei tarpatori di ali. In particolare odiavano questi ultimi. Sotto forma umana, le ragazze-cigno si aggiravano intorno agli accampamenti dei catturatori nel buio della notte. Nel vedere fanciulle così attraenti fra i grigi tronchi degli alberi, qualcuno tra gli uomini più giovani poteva essere tentato di seguirle. Vestite solo dei mantelli di piume e dei loro lunghi capelli neri, le ragazze-cigno allora lo circondavano, mormorando con voci sibilanti: «Gentile, dolce signore, salva i cigni! Fai voto pietoso! A casa resta! Perché lontano andare cercando lotta? Ascolta... soccorri i cigni! Dolcemente noi cantiamo!» E ogni tanto un giovane dava loro ascolto. Se quei mormorii eldritch avevano effetto su di lui, rientrava al campo come in trance e il giorno successivo cercava di sabotare la Cattura remando male, cadendo fuori bordo, usando tutti i metodi che riusciva a escogitare. Per evitare situazioni di quel genere, gruppi di sentinelle facevano buona guardia nelle ore notturne, non solo per sventare i pericoli ma anche per salvarsi a vicenda dalle parole persuasive delle ragazze-cigno. Tuttavia alcuni, compreso Jarred, speravano segretamente di vedere qualcuna di loro. I giovani erano curiosi, inoltre i wight non si lasciavano vedere spesso e le femmine wight di bellezza così squisita erano molto rare. I cigni neri inferociti intervennero sulla scena molto spesso quell'anno, ma nessuna fanciulla dal mantello di piume si lasciò vedere. Le sei barche proseguirono nel loro lento giro intorno all'Acquitrino, fermandosi a fare il campo ogni notte su un'isoletta diversa. La spedizione si concluse col tradizionale banchetto sulle piattaforme del cruinniú centrale, dove si bevve alla salute di «Sua maestà il re, il Signore dei Cigni» e si fece infine un brindisi all'Acquitrino: «Possa prosperare, canali e isole, per sempre, con i Sette e il comandante», seguito da sette «urrà». Jarred e Lilith sedettero l'uno accanto all'altra durante il banchetto. Il piacere che trovavano nella reciproca compagnia era un fuoco che li scaldava nella notte, mentre discutevano degli avvenimenti della giornata e ridevano di battute sciocche che avevano un senso solo per loro. Non c'era nient'altro, e nessun altro, di cui avessero bisogno. A ciascuno dei due ba-
stava respirare la gioia della persona amata, nutrirsi del suo fascino, ubriacarsi della meraviglia di conoscersi in modo così pieno e completo. In quanto a Eoin Mosswell, quella festività tradizionale non gli dava nessun piacere. Il ragazzo ruminava i propri pensieri gettando di nascosto lunghi sguardi a Lilith; vedeva l'orgoglio di lei per il suo nuovo marito e la gioia con cui quell'intruso venuto dal deserto partecipava alla vita sociale dell'Acquitrino, come se fosse stato messo al mondo e cresciuto lì. Si sentì irritato oltre ogni sopportazione; il suo sorrisetto di circostanza era solo una maschera. Il giorno dopo le due imbarcazioni ufficiali del cignaio reale ripartirono per Cathair Rua. A bordo avevano alcune gabbie con una dozzina di giovani cigni per la mensa del re. L'autunno sopraggiunse quasi inavvertito e sparse strati di foglie secche. Cominciò a essere evidente che Lilith aspettava un bambino. La sua felicità era completa, così come quella di Jarred. Solo ogni tanto un velo di malinconia scendeva sulla futura mamma, al pensiero che la madre e il nonno non fossero lì a condividere la sua gioia. A Città dell'Acquitrino la vita continuava come sempre. Cuiva prese l'abitudine d'invitare Eoin a cena a casa di suo padre, Odhràn Rushford prese l'abitudine di regalare a Cuiva mazzi di fiori, e la casa di Eoin diventò più grande, grazie al capanno che il giovane costruì su un'isola disabitata. Eoin si era associato con Tolpuddle - il cui braccio si era in parte ripreso, ma sarebbe rimasto debole per il resto della sua vita - allo scopo di acquistare noce moscata e altre spezie per insaporire la carne arrosto. Le festività annuali venivano celebrate col solito entusiasmo. Molta gente si recò a Cathair Rua per partecipare alla fiera. Alla fine Cuiva abbandonò ogni speranza di sedurre Eoin e ripiegò su Rushford, il quale aveva continuato a corteggiarla con pazienza e ostinazione, benché lei avesse ignorato per anni le sue attenzioni. Si sposarono il Giorno del Sale, in sevember. L'inverno scivolò sull'Acquitrino e iniziò un nuovo anno. A sentire Eolacha, era l'anno 3453. Ciò non significava nulla per la gente del posto; per indicare il passaggio del tempo erano assai più importanti le stagioni e il clima che le contraddistingueva. Gli anni venivano distinti in base al nome: L'Anno dei Venti Forti, l'Anno delle Molte Incursioni, l'Anno delle Anguille Abbondanti e così via. Mentre il parto di Lilith si avvicinava, parve che un umore sempre più
bisbetico si fosse impadronito del suo fratellastro. Quando era in città, non passava giorno senza che spostasse la sua casa da un ancoraggio all'altro. La gente dell'Acquitrino cominciò a cercare con lo sguardo la banderuola segnavento col gallo di ferro sopra le cime degli alberi, facendo scommesse su dove sarebbe apparsa la volta successiva. Quando non si spostava qui e là con la dimora galleggiante, il figlio del pescatore di anguille s'impegnava in spedizioni negli angoli più lontani dell'Acquitrino o a Cathair Rua. «Quel ragazzo danza su una pentola bollente», dicevano i suoi conoscenti, citando uno dei loro proverbi preferiti, oppure, scherzando: «I trow hanno rubato il vero Eoin, sostituendolo con un burattino!» Tolpuddle, che non notava mai nessun cambiamento nell'amico, lo accompagnava nella caccia all'anatra. In quei casi portava con sé il suo cane acquatico, per il recupero delle prede colpite dalle frecce. A Tolpuddle Eoin confidava i propri pensieri, dicendo amaramente: «L'unione è ormai cementata, non c'è dubbio, adesso che lei aspetta un poppante». Tolpuddle si limitava ad annuire, per nulla preoccupato. Nel Giorno del Re, in mars, all'inizio della primavera, la gravidanza di Lilith giunse a termine. Per un giorno e una notte la ragazza sopportò il travaglio sul suo letto, nella casa dei Mosswell, indebolendosi sempre più col passar delle ore. Jarred ed Eolacha le restarono accanto. «Questo è il travaglio più difficile che abbia mai visto», mormorò Eolacha a Earnàn, in disparte. «Lilith sta rischiando la vita. Credo che l'unione del suo sangue con quello dello stregone abbia generato un infante di una forza e una testardaggine straordinarie, che rifiuta di essere spinto fuori nel freddo mondo senza lottare.» «È una lotta che svuota Lilith di ogni energia, così come il sangue esce da un'arteria recisa. Puoi salvarla?» domandò Earnàn. L'uomo non distoglieva lo sguardo preoccupato da Lilith, che era più pallida del cuscino su cui posava il capo. Scuri petali di capelli umidi s'irradiavano dal fiore del suo viso. Seduto al capezzale della moglie, Jarred le teneva una mano, piegandosi ogni tanto ad asciugarle la fronte e a mormorarle qualche parola. «Qualsiasi altra donna avrebbe già perso una battaglia così difficile, a quest'ora», commentò la carlin. «Ma due cose sono a suo favore... anzi tre. La prima: è forte. La seconda: l'ho trattata con inalazioni e tisane fatte con le foglie e le bacche del mio bastone... altrimenti l'avremmo già persa, nessun dubbio su questo. La terza: l'amore tra quei due. Ora userò di nuovo il bastone. Stavolta ricorrerò a misure estreme, senza le quali non arriverebbe a domattina.»
«Perché non hai impiegato queste misure fin dall'inizio?» «Comportano un grosso rischio.» «Quale?» «Se lei ce la farà e il bambino nascerà vivo, potrebbe non riuscire più ad averne altri.» Earnàn annuì, troppo angosciato per parlare. Il mattino del Giorno del Fulmine risuonò il vagito di una bambina. Lilith sopravvisse, benché sfinita. Quando i genitori guardarono la figlia per la prima volta, il suo viso rubò loro tutte le parole. Tacquero, con le guance inondate di lacrime. Alla fine la voce di Lilith ruppe la diga delle emozioni: «Ora siamo davvero benedetti dalla fortuna». Strinse a sé la bimba come se non volesse lasciarla mai più e Jarred le circondò entrambe con le braccia. La giovane donna osservò a lungo quel faccino dalla pelle morbida, con le sue delicate proporzioni, e sussurrò: «Così è questo il tuo aspetto, tesoro mio. Non sei più una sconosciuta. Non so dirti quanto sono felice di vederti, finalmente». Asciugandosi gli occhi arrossati, Jarred mormorò: «Com'è possibile che esista qualcosa di così perfetto?» Non riuscivano a distogliere lo sguardo dalla piccola, che ora sonnecchiava; la fissavano come ipnotizzati. Più tardi Jarred disse: «Lei è nostra, non appartiene a nessun altro». E comprese che, per proteggerla, era pronto a fare qualunque cosa. Battezzare la figlioletta era un privilegio che spettava a Lilith. Lei e Jarred decisero di chiamarla Jewel, perché era stata la scoperta del gioiello bianco nell'Albero di Ferro a consentire loro di sposarsi. E perché era la cosa più preziosa cui potessero pensare. 6 LA BAMBINA Ancora debole per le fatiche del parto, Lilith non era in grado di occuparsi da sola della neonata. Jarred la aiutava quando poteva, ma era spesso fuori in cerca di lavoro; ora più che mai desiderava dimostrarsi capace di mantenere la propria famiglia. Eolacha le dava una mano, tuttavia nelle sue funzioni di curatrice dell'Acquitrino era chiamata altrove ogni giorno. Cuiva, che a sua volta iniziava a desiderare un figlio, veniva spesso in visita.
«Non avrei mai pensato che una bambina così piccola potesse dare tanto lavoro», disse Lilith all'amica. Fece un sospiro. «Non ho un attimo di pausa dall'alba al tramonto e dal tramonto all'alba.» «La gente dice che sarebbe apprezzabile se il vostro urisk collaborasse ai lavori di casa, ora che hai una bambina», osservò Cuiva. «Lui non fa mai lavori domestici. In effetti, nessuno è riuscito a parlare con quel wight neppure una volta, a memoria d'uomo... non che io sappia, almeno. Negli ultimi anni non l'abbiamo praticamente visto.» La figlia del comandante dell'Acquitrino abbassò la voce e continuò: «Tutti dicono che gli urisk non portano affatto fortuna. La fortuna sta solo nell'aiuto che si suppone dovrebbero dare». «Taci! Sono abbastanza certa che lui non sta a origliare, ma se lo facesse potrebbe offendersi.» «Uff!» sbuffò Cuiva. L'elusivo urisk di casa Mosswell non entrava spesso nelle conversazioni della gente dell'Acquitrino. Le rare volte in cui qualcuno si rammentava per caso della sua esistenza, non era certo per apprezzarne le doti. Ogni tanto un conoscente suggeriva a Lilith o a Eolacha di disfarsi di quel pigro individuo regalandogli qualche indumento. Non era naturale, dicevano, che un wight domestico fosse così dimentico dei suoi doveri. «Te l'ho già detto, liberatevi di quella creatura», dichiarò Rathnait Alderfen, la moglie del bottaio, una donna grassottella e di poche parole nota per la sua propensione a dare alle giovani spose consigli sul modo di crescere i lattanti e su altre questioni domestiche. «Non si rende utile, sa soltanto mangiare il vostro cibo.» «Ma sta con la mia famiglia da tanti anni che nessuno sa più quanti sono di preciso», replicò Lilith, in tono mite. «Neppure Eolacha ricorda un tempo in cui l'urisk non fosse qui. Prima stava con la mia famiglia, gli Hawksburn, poi ha seguito mia madre e me a casa dei Mosswell.» «Le ragazze giovani hanno paura di lui», disse Rathnait, mentre gettava istintivamente uno sguardo intorno casomai il wight stesse origliando. «Ha l'abitudine di starsene seduto da solo sulla riva nelle notti di luna piena, specialmente d'autunno. Occorre un cuore saldo a chi lo vede, per passargli accanto come se nulla fosse.» «Non fa male a nessuno.» «A nessuno di casa vostra, forse.» «A nessuno. Gli urisk sono seelie.» «Il vostro ha un brutto carattere.»
«Forse è infelice...» Lilith aveva sentito molte storie sull'arte di liberarsi dei brownie. Perché qualcuno volesse cacciare via un servo assiduo e volonteroso, che non chiedeva nessuna paga fuorché una tazza di latte e una pagnotta appena sfornata, era difficile da capire... tuttavia accadeva, e non di rado. La cosa doveva avvenire sotto forma di un gesto di pietà e di generosità nei confronti di quegli industriosi wight dalle vesti tipicamente stracciate. Ogni offerta di ricompensa per i loro servigi allontanava i wight domestici, nessuno sapeva perché. Qualcuno aveva ipotizzato che si considerassero obbligati a servire finché erano in attesa della loro paga, altri dicevano che ricevere doni dai mortali fosse per loro un'offesa insopportabile. Offesi o compiaciuti che fossero, comunque, il risultato era lo stesso: i doni, soprattutto se si trattava di indumenti, inducevano subito i wight domestici a lasciare la casa per sempre. In quanto a Eoin, accampava scuse per non fare mai visita alla sorellastra e alla bambina. Lavorava spesso nelle zone periferiche del vasto territorio paludoso, lontano da Città dell'Acquitrino e da Lagovetro. «La figlia di Lilith ha gli occhi azzurri», gli disse Suibhne un giorno. «Ah, sì?» Eoin inarcò un sopracciglio. «E tu hai un naso che sembra un tubero di loto.» Ma era inevitabile che prima o poi gli capitasse l'occasione di dare un'occhiata alla piccola. Jewel aveva quattro settimane quando suo zio capitò da quelle parti, senza nessun preavviso, spettinato e malmesso come un gufo appena sbattuto fuori dal nido da una raffica di vento. Lilith stava appendendo i panni ad asciugare a una corda sul retro della casa, tra i cespugli di ribes. I boccioli primaverili avevano ricoperto i rami anneriti degli alberi di mele come stormi di farfalle bianche. Il vento capriccioso strappava quei petali per mandarli a svolazzare sul fango. I panni stesi sbattevano pigri contro i cespugli. «Sessa, Lilith», disse Eoin in tono perentorio. «Dov'è mio padre? Devo parlare con lui.» La ragazza era china sul cesto dei panni. Si raddrizzò e rispose: «È uscito. Mi fa piacere che tu sia venuto, Eoin. È un po' di tempo che non ti fai vivo». «I giorni passano svelti», borbottò lui, scostante. «Vedo che stai lavorando più che mai, in questo periodo.» Poi il giovane si decise a incontrare lo sguardo di lei e all'improvviso si
zittì. Le sue labbra tremarono, come se fosse sul punto di dirle qualcosa che gli stava molto a cuore. La ragazza lo incoraggiò con un sorriso affettuoso e gentile. Dall'interno della casa provenne un vagito. Lilith depose nel cestino la pezza quadrata di lino che aveva raccolto e disse: «Si è svegliata. Vuoi vederla? Perché non entri un momento?» Eoin inarcò le labbra, ma distolse lo sguardo. «Sto cercando mio padre. Quando tornerà?» «Presto. Anche Eolacha e Jarred sono fuori.» Eoin borbottò una risposta, ma a voce troppo bassa perché si potesse udire. «Vieni dentro, coraggio. Vuoi bere qualcosa?» Il giovane diede un calcetto a un cespuglio di ribes, scrollando le spalle. «Se ci tieni, sì, potrei bere qualcosa mentre aspetto», disse. I vagiti della bambina si fecero più forti, così acuti che lui se li sentì penetrare nella testa come un trapano. Un po' riluttante, seguì Lilith all'interno. Lei andò subito accanto a una culla di vimini e sollevò un fagottino. I vagiti cessarono. D'un tratto l'attenzione di Eoin si concentrò su ciò che vedeva. Era apparso un visetto, in una cornice di capelli neri. Due luci lattescenti, azzurrine, lo trafissero. Si aprì un anemone marino rosa pastello: una mano in miniatura. Fu come se Eoin fosse caduto sotto un incantesimo. I suoi occhi s'illuminarono. Tra lo spaventato e il meravigliato, alzò timidamente un dito e toccò la piccola mano, incapace di distogliere lo sguardo da quel faccino. Mormorò tra sé: «La figlia di Lilith. Un tesoro, un miracolo. Perfetta come una bambola di porcellana». Dopo quel primo incontro Eoin divenne un ospite abituale della sua vecchia casa. Che fosse un caso oppure no, la maggior parte delle sue visite avveniva quando Jarred non c'era, ma ogni volta che arrivava portava con sé un piccolo regalo. Poteva trattarsi di nacchere di gusci vuoti, coi semi chiusi all'interno; oppure di un coniglietto giocattolo fatto di pelliccia, o di una piccola coperta di lana d'angora, o di un insieme di sedici minuscole campanelle di bronzo da appendere sopra la culla, che il vento faceva tintinnare melodiosamente, o anche di una manciata di nastrini azzurri. «Per i suoi capelli, quando sarà più grandicella», diceva, ostentando indifferenza. Prendeva in braccio la bambina, la cullava, le canticchiava canzoni da taverna in tono suadente, come se fossero ninne-nanne. Quando poi usciva,
Eolacha scuoteva il capo con aria incredula e ridacchiava, dicendo a Lilith: «Quel ragazzo si è rimbecillito. Non c'è niente che non farebbe per la piccola. Chi l'avrebbe mai detto? Un grosso bastardo come lui, innamorato di una bambina!» Ma Eoin si sentiva divorare da una feroce gelosia ogni volta che vedeva Jarred prendere la figlioletta tra le braccia. All'età di dieci mesi, Jewel imparò a camminare. Col trascorrere delle stagioni si trasformò da una goffa pupattola in una graziosa bambinetta. Per la sua famiglia, lei era il centro del mondo. Lilith aveva ritrovato le forze, però, come Eolacha aveva previsto, era rimasta sterile. La consapevolezza di non poter avere altri figli la gettò nella depressione, ma non per molto; i sentimenti che provava per il marito e per la figlia spazzarono via la tristezza e tornarono a illuminare la sua vita. La bambina cresceva in fretta; quelle stagioni di serenità sembravano volare. Per Jarred l'esistenza era una coppa piena di gioia da cui poteva dissetarsi ogni giorno. A turbarlo era soltanto il pensiero di sua madre, là nel deserto di Ashqalêth; si chiedeva con preoccupazione se stesse bene ed era tormentato dal desiderio di rivederla. Ma sembrava che ogni volta, non appena aveva deciso di farle visita, qualcosa di urgente lo costringesse a pensare ad altro e a rimandare il viaggio. Quando sua figlia ebbe compiuto tre anni, Lilith parlò all'urisk. Successe in autunno, in una notte di ninember, mentre in cielo brillava la luna piena e tutti gli abitanti umani dell'Acquitrino erano a letto. La morbida luce che filtrava dalle finestre della casa incuriosì Lilith, che si alzò per guardare fuori. Oltre i rami seminudi dei salici, la luna stagnava bassa sull'orizzonte come il fantasma del sole, larga e gonfia, di un arancione polveroso. Dietro di essa palpitava la volta stellata. Tra gli alberi scivolavano le note lontane di un flauto eldritch, nitide come il mercurio, trillanti e incisive. Un alito di zefiro portava deboli echi di singhiozzi e di risate, mentre nelle vicinanze crepitavano i cori delle rane ciabattine. Una figura si alzò sullo sfondo del calderone di rame fuso della luna e, girandosi, rivelò una testa di riccioli da cui spuntavano due piccole corna. L'urisk era seduto a poca distanza dalla casa, su un vecchio ceppo di legno nero tra il sentiero e la riva. Mentre lei guardava, il wight gettò pigramente qualcosa nell'acqua... un sasso, forse. Lilith si sentì triste per lui, vedendolo seduto là tutto solo. Si gettò il
mantello sulle spalle, aprì la porta senza fare rumore e uscì. A piedi nudi si avviò sul sentiero fino al vecchio ceppo e sedette sull'erba, senza guardare l'urisk. Conosceva già i suoi lineamenti. Dalla cintola in su aveva l'aspetto di un ometto tozzo dalle orecchie pelose, appuntite, col naso rivolto verso l'alto e con gli occhi obliqui tipici dei wight. I suoi folti capelli riccioluti erano castani, le corna corte e smussate. Indossava una giubba malridotta, lisa ai polsi, e un sudicio grembiule di colore indefinibile. Le sue gambe caprine erano coperte da un paio di braghe sdrucite. Dopo un poco Lilith disse: «Buonasera, urisk». Lui non rispose. «Tu mi sei stato di grande aiuto», proseguì la ragazza, stando bene attenta a non ringraziarlo: i wight si offendevano molto nel sentirsi ringraziare. «Quattro estati fa avevo perso la strada di casa. Tu hai guidato Jarred fin dove io giacevo, con una caviglia slogata. Non lo dimenticherò mai.» L'urisk parve annuire impercettibilmente. Continuò a guardare con faccia impassibile la luna rovesciata che galleggiava sull'acqua. «Mi stavo chiedendo... forse non sei felice?» provò a domandare lei. Non ottenendo risposta, aggiunse: «Non sei costretto a restare con noi. Io so che mantenere un legame fisso con una casa è nella natura degli urisk, ma so pure che questo legame può essere spezzato». Lui si voltò a guardarla. La sua espressione sembrava interrogativa. «Voi siete un po' come i brownie, urisk. Scusa se sono rude. Non intendo offenderti. I brownie diventano liberi quando un membro mortale della casa dona loro degli indumenti. Se vuoi, io cucirò per te un paio di braghe, una giubba e un panciotto, e farò confezionare un paio di scarpe robuste e un berretto.» Sul volto da elfo del wight ci fu una smorfia sprezzante. Lilith cercò di riflettere. L'aveva in qualche modo insultato? Era sin troppo facile offendere i wight senza volerlo. Dopo averci pensato un po', riprese: «Naturalmente tu non vorrai sembrare un qualsiasi contadino. Forse c'è un altro modo. Aspetta, urisk, ti prego... tornerò fra un attimo». La giovane donna corse in casa. All'interno regnava il silenzio. Dopo un rapido sguardo al viso della figlia che dormiva tranquilla, Lilith staccò dalla parete la scintillante corazza di scaglie di pesce e tornò fuori, dove sedeva il wight. «Ti prego, prendi questa», gli disse porgendogliela. Liscia e dura come
la madreperla, priva di braccia, la corazza rifletteva in mille barbagli i raggi della luna. Sulla sua superficie scivolavano come un liquido tutti i colori dell'iride. L'urisk la guardò, poi la prese senza dire una parola e se ne andò. Fu l'ultima volta in cui occhi mortali videro l'urisk nel Grande Acquitrino di Slievmordhu. La ruota degli anni girava. L'ampio fazzoletto verde che Lilith aveva ricamato per Jarred si era consumato, così lei gliene fece un altro. Poi gli confezionò una giubba di panno color giada e un paio di pantaloni intonato. I vecchi indumenti ashqalêthani di Jarred erano ormai troppo rammendati e scoloriti, buoni solo per essere fatti a pezzi e usati come stracci. Circa dodici mesi dopo la partenza dell'urisk, gli uomini di casa Mosswell e di casa Stillwater, accompagnati da Odhràn Rushford, si unirono al solito gruppo di mercanti dell'Acquitrino per recarsi alla Fiera d'Autunno, a Cathair Rua. Erano partiti da un paio di giorni, quando Cuiva Stillwater fece una delle sue frequenti visite a Lilith. La stanza principale di casa Mosswell era illuminata dalla luce ambrata dell'equinozio. I raggi del sole entravano obliqui dalla finestra semiaperta, mettendo in risalto la ruota del filatoio, il telaio a mano e un mazzetto di fiori secchi che sembravano d'oro brunito. Il giaciglio di Earnàn, con le coperte di lana d'angora ricamate in marrone buccia-di-cipolla e verde erba, era arrotolato in un angolo, presso il caminetto. L'upial vi aveva deposto sopra una pelle di capra e vi si era acciambellato. Sulla mensola del caminetto c'era un vaso di terracotta contenente una composizione di foglie rosse e bronzee, raccolte da Jarred quel mattino. Cuiva sedette a tavola assieme a Lilith ed Eolacha, tenendo sulle ginocchia la sua secondogenita, Ciara. La maternità non aveva cambiato molto l'aspetto della figlia del comandante dell'Acquitrino: era sempre fresca e giovane, con le guance velate di rosa e gli occhi azzurri sparsi di pagliuzze d'oro. Solo i capelli color miele, un tempo assai riccioluti, ora pendevano dritti e lisci, e all'angolo esterno degli occhi erano comparse alcune piccole rughe. Cuiva indossava un abito di lana marrone, una mantellina con l'orlo di pelliccia e un fazzoletto per capelli acquistato in città. L'abito le stava largo: la giovane era incinta per la terza volta e doveva partorire di lì a due settimane. Il suo primogenito Oisín giocava sul pavimento con Jewel, i cui balocchi erano sparsi tutto intorno: una congerie di animali di legno dipinto, un car-
rettino con le ruote girevoli, una barca completa di rematori intagliati e altri ancora. Jewel lasciava che i suoi amichetti si sbizzarrissero con la sua vasta collezione di giocattoli, non perché fosse meno egoista della maggior parte dei bambini di quell'età, ma perché suo zio Eoin continuava a regalargliene tanti che lei ne aveva perso il conto da un pezzo. Cuiva, che aveva portato dei vestiti da rammendare, lavorava a uno strappo sulla tunica di suo marito e nel frattempo parlava animatamente con Eolacha di cose riguardanti la Sorellanza del Sole Invernale. «Ho in progetto di andare nelle terre selvagge il prossimo Mezzo Inverno, carlin Arrowgrass», le confidò. «Per me è venuto il tempo di sapere se la Cailleach Bheur mi sceglierà come Portatrice del Bastone.» «Non andare prima che i tuoi figli siano cresciuti», la avvertì la vecchia. «Cosa succederebbe se la Strega Invernale ti chiedesse come prezzo la voce, o la vista? Come potresti provvedere alla tua famiglia?» Detto ciò, alzò una mano sul lato sinistro della testa. Una ciocca di capelli nascondeva la cicatrice rimasta al posto dell'orecchio. Lo sguardo di Cuiva corse al disco azzurro tatuato sulla fronte della donna. Delusa dalla risposta della carlin, si morse un labbro, abbassò gli occhi sul suo lavoro di rammendo e cercò di pensare a un argomento convincente. Era ancora lì che cuciva quando una fitta di dolore inaspettata le attraversò il corpo. Ansimò e vacillò, piantandosi l'ago in un dito. Una goccia di sangue le fiorì sul polpastrello e le cadde sulla veste. «Oh!» esclamò stupita, gli occhi spalancati. «Il bambino sta venendo prima del tempo! Santo cielo! E mia madre è andata alla fiera, mentre mia sorella è nella zona occidentale dell'Acquitrino e non tornerà prima di due giorni...» «Non preoccuparti, Cuiva», disse con calma Eolacha. «Per ora, io sarò tua madre e Lilith tua sorella.» Il terzo figlio di Cuiva, un maschio, venne alla luce quel pomeriggio nella casa dei Mosswell, con l'aiuto di Eolacha. Lilith condusse gli altri due bambini dell'amica, assieme a Jewel, a fare un picnic su un'isoletta tranquilla, perché non assistessero al travaglio della madre. Il giaciglio presso il caminetto, dove si era trasferito a dormire Earnàn dopo le nozze di Lilith, fu reso più comodo per la puerpera e il neonato. Al termine del parto Eolacha esortò Cuiva a restare loro ospite finché non si fosse rimessa in forze. Quel pomeriggio, mentre le rane dell'Acquitrino si dedicavano ai loro cori e banchi di nebbia si aggiravano come spettri sulla laguna, la zia di
Cuiva - che era sempre la prima a sapere le novità - bussò alla porta; recava con sé alcuni regali per il neonato. La donna riferì pure che un gruppo di burattinai ambulanti di Grïmnørsland era arrivato nell'Acquitrino ed era stato condotto al cruinniú dalle guardie. «Questa è una grande notizia!» affermò la donna con entusiasmo. «Hanno già annunciato che metteranno in scena uno spettacolo di marionette! Lilith, tu devi portare là i tre bambini. Concedi a Cuiva e al suo pargoletto un po' di tranquillità. Carlin Arrowgrass, anche voi meritate un po' di riposo», aggiunse, con un cenno deferente in direzione di Eolacha. Nel crepuscolo scurito dalla nebbia, Lilith prese una lanterna di corno e portò i tre bambini a vedere lo straordinario spettacolo, che per l'Acquitrino era una novità senza precedenti. La ragazza lasciò Eolacha addormentata nella stanzetta un tempo usata da Earnàn, mentre Cuiva e il neonato sognavano sul giaciglio accanto alle braci calde del fuoco. L'upial era già andato a caccia. La notizia di quello spettacolo fuori del comune si era sparsa in fretta e ben presto il cruinniú fu affollato di spettatori. I burattinai di Grïmnørsland erano esperti e le loro marionette erano molto belle. I bambini dell'Acquitrino non avevano mai visto niente di simile. Seduti davanti al teatrino, guardavano e ascoltavano rapiti. Ogni tanto Lilith osservava con quieto orgoglio la sua figlioletta dai capelli neri, deliziandosi nel vedere la sua meraviglia. Jewel spiccava tra gli altri bambini per le sue labbra, che parevano una rosa in boccio, e per i suoi occhi, simili a due lucenti petali di iris-spada azzurra. «Màthair, guarda!» gridava stupita, agitando nell'aria un minuscolo dito indice. «Guarda com'è buffo quel signore col cappello!» Ogni tanto domandava: «Perché lui ha fatto così?» oppure: «Che cosa faranno adesso?» perché aveva un'assoluta fiducia che sua madre, essendo la più saggia di tutti i saggi, conoscesse la risposta a qualsiasi domanda. Lilith, che teneva molto a essere oggetto di quell'ingenua fiducia, faceva del suo meglio per meritarla. Accanto alla figlia di Lilith c'era Oisín, il figlio di Cuiva, che aveva già tre anni, mentre la piccola Ciara sedeva tranquillamente in grembo a Lilith, spaventata ma come ipnotizzata dalle marionette e dalle loro voci in falsetto. Lo spettacolo offerto dal teatrino riscosse un enorme successo. Dopo la recita, quando le marionette ebbero ricevuto il loro applauso e furono uscite di scena, mentre i burattinai si aggiravano tra gli spettatori col berretto in mano per raggranellare qualche moneta, uno degli stranieri tirò fuori
una cornamusa. La canzone che suonò, benché semplice e senza pretese, fu così gradevole che tutti chiesero il bis a gran voce. «Non si è mai sentita una melodia così straordinaria, signore!» gridò uno dei presenti. «Dove l'avete imparata?» «Ah», disse l'ambulante, toccandosi un lato del naso in gesto significativo. «Questa è una storia interessante, perché la canzone che avete ascoltato mi è stata insegnata dai trow!» Il pubblico espresse un doveroso stupore. I trow - o vicini grigi, come talvolta venivano chiamati - non erano malvagi assassini di mortali, ma non erano neppure completamente seelie. Possedevano alcune caratteristiche benevole e altre crudeli. Il più alto dei trow non superava il metro. Le loro teste, le mani e i piedi erano sproporzionatamente grandi. Avevano lunghi nasi con la punta ricurva verso il basso e sottili orecchie pendule, sopra le quali le femmine portavano scialli grigi con le frange. Vestivano di semplice panno grigio e camminavano con andatura barcollante, facendo tintinnare l'argento che portavano al collo e ai polsi. I trow erano conosciuti per la loro passione per l'argento, le tradizionali danze sotto la luna e l'abitudine di rapire gli esseri umani lasciando al loro posto immagini scolpite. Era stata una femmina trow quella che Lilith aveva visto vagare, una volta, sulla torbiera nella zona occidentale dell'Acquitrino, legata al giorno fino al tramonto. «Una notte stavo camminando su una collina, nella mia terra, quando ho sentito i trow suonare la loro musica, nel sottosuolo», raccontò l'ambulante. «Così sono stato ad ascoltare, finché non ho memorizzato tutta la canzone. Nella loro lingua è intitolata Be nort da Deks o'Voe.» Il burattinaio la suonò ancora due volte, con grande divertimento degli spettatori e soprattutto dei bambini, che si alzarono a ballare battendo le mani. Le piattaforme del cruinniú cominciarono a beccheggiare e gli stranieri si allarmarono alquanto; ciò fece ridere la gente dell'Acquitrino, che li tranquillizzò e offrì loro un letto caldo e una buona cena in cambio dello spettacolo. I burattinai accettarono subito l'offerta e la serata si concluse nell'allegria generale. Era buio quando Lilith riportò a casa i bambini. Teneva Ciara in braccio e con la mano libera reggeva la lanterna di corno, che irradiava intorno a loro petali di luce gialla. «Aggrappati alla mia veste, Oisín», disse la giovane donna. «E tu, Jewel, tieni per mano Oisín. Non è una notte adatta a fare una nuotata, se doveste scivolare giù dal bordo di un pontone.»
Jewel obbedì. «Perché non è una notte adatta a fare una nuotata?» domandò, prendendo ogni frase alla lettera, come è tipico dei bambini di quell'età. «Dicevo così per scherzare», rispose distrattamente sua madre. Doveva concentrarsi per non lasciar cadere la bambina o la lanterna e non perdere di vista gli altri due, mentre i pontoni oscillavano al loro passaggio. «Questo vuol dire che è una notte buona per nuotare?» chiese ancora Jewel, curiosa. Lilith non poté evitare di sorridere alla dimostrazione di logica, per quanto irritante, della figlia. «No, a stór, non lo è. Tu non lasciare la mano di Oisín e guarda dove metti i piedi. Non voglio che uno di voi cada, perché poi dovrei tuffarmi in acqua per salvarlo e così ci bagneremmo fino all'osso, col freddo che fa stanotte.» «Io so nuotare», protestò Jewel. «Però giù nell'acqua potrebbero esserci le annegataci unseelie», intervenne Oisín, dando voce alle paure inespresse di Lilith. «Io non ho paura delle annegatrici unseelie», replicò testardamente Jewel, «perché se cadessimo giù nell'acqua verrebbe a salvarci mio padre. Ci tirerebbe tutti fuori e farebbe scappare le annegatrici fin dall'altra parte dell'Acquitrino.» «Tuo padre non c'è!» esclamò Oisín. «Ma se ci fosse lui farebbe così», disse subito Jewel, accorgendosi della falla nel suo ragionamento e affrettandosi a coprirla. Prevedendo l'inizio di un litigio, Lilith intervenne: «Vi ricordate ancora la canzone che suonava l'uomo con la cornamusa?» E Jewel, che amava la musica, cominciò subito a mugolare le prime note. Le voci delle rane crepitavano nella solita sinfonia notturna delle paludi. Si era levato un po' di vento, che strapazzava la nebbia sui canneti e faceva piegare la testa ai giunchi rossastri. La falce di luna illuminava le isolette coperte di felci e le passerelle muschiose che si ramificavano verso la casa dei Mosswell. Lilith e i bambini seguirono l'oscillante percorso fino a un lungo ponte sospeso che collegava due tratti di terraferma. L'ampia stradicciola fatta di solide assi terminava bruscamente pochi passi dopo la riva, per riprendere sulla sponda opposta. Nel mezzo c'era soltanto una liscia distesa d'acqua scura. Il ponte era interrotto. Lilith sollevò la lanterna di corno per osservare meglio la situazione. «Questo ponte era troppo cedevole, negli ultimi tempi», disse, soprattutto a
se stessa. «Molti sospettavano che qualche palo di sostegno si fosse spezzato, sotto la superficie dell'acqua.» «Oppure l'ha rotto qualche wight cattivo», disse la figlioletta. «Forse è un dispetto.» In braccio a Lilith, Ciara scoppiò in lacrime. «Come facciamo a passare dall'altra parte?» domandò il piccolo Oisín, intimorito. «Dobbiamo tornare indietro e trovare qualcuno che ci traghetti», rispose Lilith. «Forse il capitano Willowfoil sarà così gentile da aiutarci.» Mentre facevano ritorno al cruinniú, Oisín iniziò a piagnucolare. «Smettila», lo redarguì Jewel. «Mi fai male alle orecchie, Oisín.» E in tono incoraggiante aggiunse: «Non devi disperarti. Non c'è bisogno di preoccuparsi. La mia mamma troverà la strada». «Non abbiate paura. Saremo a casa per l'ora di cena», li rincuorò Lilith. A casa Mosswell l'atmosfera tranquilla era disturbata solo dalla monotona tortura sonora degli anfibi e dai lontani latrati di un cane. Nel caminetto rosseggiava una montagnola di braci e nella stanza tutto era immobile. Cuiva non avrebbe saputo dire cosa l'avesse svegliata; forse un borbottio del neonato dormiente, forse un crepitio improvviso tra le braci, o forse un cambiamento di ritmo nella sinfonia delle rane. La giovane donna era distesa sul giaciglio, nel dormiveglia, quando nella stanza, tutto intorno a lei, si levò un tumultuoso chiacchiericcio. Terrorizzata, Cuiva si alzò a sedere, stringendo tra le braccia il prezioso fardello del suo neonato. Tuttavia, benché si guardasse intorno freneticamente, non vedeva niente e nessuno. La debole luce delle braci arrossava il caminetto e i pochi mobili. Accanto a lei, la tunica rammendata del marito giaceva su uno sgabello a tre gambe. La stanza appariva intatta, immobile, vuota, ma le orecchie le stavano dicendo che quel posto era pieno di una folla che discuteva e strepitava. Nella mente di Cuiva lampeggiò la consapevolezza che, nel periodo tra la nascita e il battesimo, un neonato correva il pericolo maggiore da parte dei wight. Ripensando a ciò che le aveva detto sua madre - Ogni indumento del padre è una salvaguardia per il figlio - prese la tunica di Odhràn e la avvolse intorno al piccolo. Allora risuonò un gemito e una voce gridò: «Siamo stati derubati del nostro bambino!» Subito dopo il silenzio tornò assoluto. Col cuore in gola, Cuiva sedeva immobile, il figlio stretto al petto. Non
osava fare un gesto né parlare, per timore di rivelare la propria paura. Il suo respiro era una successione di ansiti secchi. Aveva la fronte imperlata di sudore e riusciva solo a pensare che il cuore le batteva così forte da farle cadere il bambino dalle braccia. Dopo qualche istante di silenzio, dall'angolo accanto al camino provenne un rumore: un tonfo sordo, come se un oggetto pesante avesse urtato una superficie solida. Sbirciando nell'ombra, Cuiva intravide là per terra una bambola di cera, le cui fattezze erano identiche a quelle del suo bambino. Benché plasmata rozzamente, non c'era dubbio su cosa rappresentasse. Alla ragazza sfuggì un grido di orrore. Dentro di lei salì un'ondata di tenebra, ma, proprio mentre si sentiva sul punto di svenire, Eolacha irruppe come una furia, brandendo il suo bastone da carlin. «Cosa sta succedendo?» gridò rabbiosamente. «Cosa sta succedendo nella mia casa?» «La stanza era piena di voci», balbettò Cuiva. «Hanno cercato di prendere il mio bambino, ma io l'ho coperto con la tunica di Odhràn.» «Hanno cercato di prenderlo! Quelli dovevano essere trow, che siano maledetti!» esclamò la carlin. Guardò il simulacro, lo spezzò e lo gettò nel fuoco. La cera di cui sembrava fatto non si sciolse, ma evaporò subito in fumo e se ne andò per il camino, mentre nella casa echeggiavano risate wight. «Fatevi sotto!» gridò Eolacha ai muri. «Venite avanti, voialtri wight. Siete stati sconfitti.» Le risate cessarono all'improvviso, com'erano cominciate. Eolacha andò a esaminare le altre stanze, tenendo pronto il bastone. Quando fece ritorno disse a Cuiva: «Se ne sono andati. Non c'è più traccia di loro. Tu stai bene? E il bambino?» «Sì, stiamo bene, signora Arrowgrass. Ma com'è possibile che i trow estendano la loro influenza fin qui?» Sgomenta, Cuiva strinse a sé il piccolo, che stava piangendo. Eolacha era irritata con se stessa. «La colpa è mia! Il nostro wight domestico se n'è andato da una dozzina di mesi, e io non ho mai pensato di proteggere la casa con amuleti e formule magiche! Per tutto questo tempo siamo rimasti esposti al gramarye. Ora inchioderò qualche fronda d'iperico sopra la porta. Grazie ai Fati, tuo figlio è stato salvato dalla prontezza con cui hai reagito.» Lilith e i bambini arrivarono poco più tardi, in compagnia di Willowfoil. Trovarono Cuiva occupata ad allattare il neonato, mentre Eolacha beveva
una tisana di valeriana e camomilla. «Abbiamo fatto tardi, lo so, ma uno dei ponti era rotto», spiegò Lilith con un po' d'imbarazzo. «Il capitano Willowfoil è stato così gentile da accompagnarci in barca. Ma... Cuiva, cosa ti è successo? Hai pianto?» Oisín e Ciara, con la loro goffa andatura di bambini, si avvicinarono alla madre, che li strinse a sé col braccio libero. «Va tutto bene, Lilith», rispose, abbozzando un debole sorriso. «Ora va tutto bene. Ma dovrò battezzare questo bimbo. Lo chiamerò Ochlàn, che significa 'sospiro', per la terribile ansia che ha dato a sua madre subito dopo la nascita.» Il mattino dopo la carlin coprì gli architravi di tutte le porte e di tutte le finestre con un assortimento di potenti talismani. «Nessun gramarye di wight dovrà riuscire a toccare la mia famiglia, né chiunque sia ospite tra queste mura», borbottò. Scura di capelli e con gli occhi azzurri, Jewel somigliava in modo sorprendente a sua madre, ma, pur essendo bella quanto lei, era assai diversa di carattere. Lilith era mite, lei era selvaggia; Lilith sapeva controllarsi, lei si scatenava. La natura di Lilith - tollerante, altruista, incline al perdono e con una scarsa tendenza a cambiare umore - trovava la sua antitesi in Jewel. Viziata da tutti i parenti e i familiari, la bambina aveva un carattere focoso, egoista e testardo, capace di ogni capriccio. Poteva mostrarsi d'un tratto cinica ed egoista, e un attimo dopo generosa. D'altra parte i suoi difetti erano mitigati da qualità positive: il buonumore, la curiosità insaziabile, lo spirito arguto, la lealtà e una grande capacità di amare. L'insieme di quelle virtù e di quei difetti la rendeva estremamente vivace. A volte, quando si lasciava trasportare dalle passioni, sembrava che esse fossero così contrastanti da spaccarla in due. In ogni caso cresceva sana e vigorosa. I genitori l'avevano tenuta sotto costante osservazione fin dalla nascita. Sapevano dunque che, come il padre, era immune alle ferite fisiche. Le era capitata tutta la lista di incidenti dell'infanzia: mentre stava imparando a camminare cadeva spesso, ma sulla sua pelle non compariva mai neppure un graffio. Una volta un tizzone era schizzato via dal caminetto finendole su un ginocchio, ma lei era scoppiata a ridere, prendendolo tra le dita, e l'aveva guardato bruciare e scoppiettare. Aveva trovato il coltello da pescatore di Earnàn e si era messa a giocarci, prima che Lilith scoprisse cosa stava facendo e glielo confiscasse. La lama affilata passava sulla sua tenera carne senza scalfirla.
Non si era mai presa nessuna malattia. Né corda, né fuoco, né acqua, né pietra, né metallo, né spina, né pugno, né eldritch wight, niente poteva ferirla. Sembrava invulnerabile come suo padre: anche lei era una diretta discendente dello stregone. Se le cose stavano davvero così, allora la maledizione del Signore di Strang non avrebbe mai potuto colpirla, anche se solo il tempo poteva confermarlo. Ma era importante che quella sua dote non la isolasse dagli altri, perciò Jarred aveva messo in atto lo stesso stratagemma che suo padre aveva usato anni prima con lui: un oggetto che sviasse ogni sospetto. Per il secondo compleanno di Jewel, le aveva regalato un amuleto d'osso scolpito, uguale a quello che portava lui. Era appeso a una catenella d'argento sottile... così sottile che, se fosse rimasta impigliata da qualche parte, si sarebbe spezzata, evitando di strangolare colei che la portava. «Questo è un amuleto molto potente», le aveva detto, allacciandoglielo al collo. «Ti proteggerà da ogni male.» E da ogni male sarebbe stata protetta, ma non grazie all'amuleto. Quella fu la prima volta che Jarred dovette mentirle... non che lei potesse accorgersene, del resto. Non fu neppure l'ultima, perché ogni volta che Jewel restò vittima di qualche piccolo incidente - ed essendo una bambina avventurosa e spericolata accadeva piuttosto spesso - i suoi genitori dovettero inventare qualcosa sul motivo per cui ne era uscita senza danni. Rimandarono l'idea d'informarla della sua immunità a quando sarebbe stata più grande, più discreta, meno chiacchierona e impulsiva. Essi sapevano che, se il vero motivo di quell'invulnerabilità fosse diventato di dominio pubblico, la vita di Jewel si sarebbe fatta difficile. Anche l'affettuoso zio della bambina fu tenuto all'oscuro della verità. Crescendo, Jewel e i suoi amichetti presero l'abitudine di frequentare spesso l'abitazione galleggiante di Eoin. Il pescatore di anguille tornava sempre con qualche novità dai suoi viaggi in città in occasione della fiera: scatole musicali meccaniche e altri giochi che affascinavano i giovani visitatori. Suonava canzonacce da taverna per farli ridere, e alla Festa della Natalità li rimpinzava di pane di zenzero. Si era fatto crescere la barba. In quegli anni la barba era fuori moda, e ciò lo rendeva una curiosità per i bambini dell'Acquitrino, che si divertivano a tirargli i baffi. Costruì un granaio in casa sua e anche quello, essendo l'unico granaio della regione, divenne attrazione per i bambini. Eoin amava Jewel come una figlia. In ciò non era diverso da altri, che la trovavano una bambina affascinante, ma in più vedeva in lei qualcosa di Lilith e, quando era in sua compagnia, poteva
fingere di non aver perso del tutto la ragazza che aveva amato. L'affetto che Jewel provava per lui era inoltre, per Eoin, una forma di vendetta su Jarred, il quale non poteva permettersi regali di quel genere per la figlia. In modo sottile, dunque, Eoin cercava in ogni occasione di sminuire Jarred, ma in maniera, appunto, sottile, perché non si capisse che lo faceva apposta. Quando non stavano intorno a Eoin, i bambini giocavano sull'altalena o a nascondino, remavano sulle canoe, imparavano a cacciare, aiutavano nei lavoretti della vita quotidiana - ingegnandosi di evitare con ogni scusa quelli più noiosi -, andavano a scuola per apprendere le usanze dei wight, le rune e i numeri, e ascoltavano con rapita attenzione le storie di Tir. Jarred conosceva molte storie riguardanti i Quattro Regni e le raccontava quando la famiglia sedeva davanti al caminetto nelle lunghe sere invernali, o durante i picnic su qualche isoletta nei pomeriggi d'estate. Erano aneddoti che aveva appreso da bambino, seduto sulle ginocchia di suo padre. Jewel imparò così a conoscere i formidabili guerrieri della Loggia Rossa di Slievmordhu, il popolo di marinai di Grïmnørsland, i duri narngalisiani, i famosi cavalieri che formavano la Compagnia della Coppa, i fiammeggianti ashqalêthani dei deserti meridionali, i Predatori e le loro razzie, le guerre dei goblin dei tempi antichi, le Montagne di Fuoco i cui picchi addormentati e fumanti si levavano ai confini tra molti territori. A volte Jarred si trovava a ripensare all'improvviso, e sempre con la stessa angoscia, che sua figlia discendeva da un malvagio stregone. Lui sapeva di non aver ereditato altri poteri oltre all'invulnerabilità - di quello era certo -, ma lo preoccupava la possibilità che le spregevoli ambizioni di Strang si risvegliassero nel sangue della figlia. Quando Jewel ascoltava le storie del padre davanti al fuoco, spesso il suo sguardo si perdeva nel fumo. Quei refoli di luci e ombre, quei veli turbinosi e agitati, sembravano suggerirle forme evanescenti. E fantasticava di spettri, di esseri fantomatici, buoni o malvagi... Una volta Jarred la sorprese mentre fissava quei vapori amorfi e disse, con insolita rudezza: «Non guardare il fumo in quel modo!» Lei sobbalzò. Poiché rispettava suo padre, da quel giorno evitò di osservare il fumo in quel modo... anche se le sembrava di aver cominciato a vedere delle facce dentro di esso. Verso il tramonto del Giorno della Guerra, in jule, quando Jewel aveva cinque anni, un gruppo di ashqalêthani a cavallo giunse nell'Acquitrino.
Non fosse stato per l'accento, non sarebbe stato facile identificarli come meridionali, perché indossavano abiti di Slievmordhu e si presentarono al confine settentrionale. Il severo tenente Goosecroft li osservò avvicinarsi da una delle finestre superiori della torre di guardia settentrionale. «Sessa!» gridò in tono imperativo ai cinque cavalieri che si erano fermati sulla riva, oltre il canale. «Quali affari vi conducono qui?» «Nessuno, se Jarred figlio di Jovan non abita più in questa terra acquatica», rispose uno dei cavalieri, gettando indietro il cappuccio per scoprire il volto. «Mi sembra che ci siamo già visti!» esclamò Goosecroft. «Con quale nome siete chiamato?» «Io sono Nasim, figlio di Tsadik. I miei compagni e io siamo già passati da queste parti, sette estati or sono. La vostra gente ci ha offerto una gradita ospitalità.» «E volete approfittare della nostra ospitalità una seconda volta?» domandò Goosecroft. «Il vecchio porcospino non si è ammorbidito», borbottò Gamliel, alle spalle di Nasim. «No, signore», gridò quest'ultimo. «Portiamo doni e, se Jarred abita ancora qui, ci piacerebbe rivederlo.» «Abita ancora qui», confermò Goosecroft. I visitatori si scambiarono sguardi compiaciuti. «Siete disposti a consegnare le vostre armi, come garanzia, per il periodo del vostro soggiorno?» Nasim fece un sospiro. Dietro di lui Gamliel commentò: «Ha cambiato le parole, dall'ultima volta che siamo stati qui». «Siamo disposti», gridò Nasim, e il ponte levatoio fu abbassato. Goosecroft fece accompagnare i visitatori al cruinniú. La notizia del loro arrivo li aveva preceduti e la gente dell'Acquitrino si era subito recata al punto d'incontro centrale. Il comandante Stillwater diede il benvenuto agli ashqalêthani, i quali avevano portato doni per lui e per la carlin Arrowgrass, che aveva curato la ferita di Nasim. Distribuirono poi tra tutti i presenti molte borse di rete piene di noci e noccioline. Birra e cibarie furono portate per gli ospiti, apprezzati sia per la loro generosità sia perché recavano notizie del mondo esterno. «Vedo con piacere che ve la siete cavata bene!» si complimentò Rushford, battendo una pacca cordiale su una spalla di Gamliel. «Ma alcuni dei vostri compagni stavolta mancano. Dove sono?»
«Vedo che manca anche Jarred», disse Gamliel, seduto a gambe incrociate nel mezzo dello zatterone pavimentato di giunchi. «Perché non è ancora qui?» «Tolpuddle è andato ad avvisarlo del vostro arrivo. Verrà tra poco.» «Non appena sarà arrivato vi racconteremo la nostra storia e quella dei nostri compagni.» Seduto accanto a Gamliel, un colosso gonfio di muscoli guardò la ciotola che gli era stata messa davanti. «Mmm», disse sospettosamente, «questo sembra pollo.» «Yaadosh!» gridò una voce allegra; tutti si voltarono. Sul pontone Jarred stava correndo incontro ai vecchi amici. La riunione fu tumultuosa. Le pacche sulle spalle e gli abbracci furono così energici che l'insieme di zattere rullò e beccheggiò con violenza. Yaadosh si aggrappò alla balaustra di vimini. «Per tutti i Barbuti, Jarred!» disse, allarmato. «Che io sia impiccato se capisco come fai a stare in piedi su questi cosi galleggianti! Io avrei mal di mare dalla mattina alla sera.» «Reggiti forte e bada a non scivolare», replicò Jarred ridendo. «Cerca di non cadere in acqua, perché ora devo farvi conoscere mia moglie e mia figlia e dopo voglio che mi raccontiate tutte le vostre avventure... e soprattutto perché manca metà della nostra banda!» Quando Jarred presentò ai compagni Lilith e Jewel, gli ashqalêthani smisero di fare chiasso. Ci fu un attimo in cui rimasero zitti, goffamente, poi Nasim fece un passo avanti e rivolse un inchino a Lilith. «Scusateci, signora», disse. «Scusateci se vi guardiamo. Vi avevamo visto solo una volta, da lontano. Ora, conoscendovi, posso dirvi con sincerità che in tutti i nostri viaggi non abbiamo mai visto una donna bella come voi, e nel vedervi le nostre lingue di zotici meridionali si sono zittite.» Un rossore di pesca matura si diffuse sulle guance di Lilith. «E tu, signorina», aggiunse Nasim, inchinandosi galantemente a Jewel, «sei amabile come tua madre. Ah, sì. La somiglianza è eccezionale!» «Gramercie, signore», rispose la piccola, alzando su di lui uno sguardo baldanzoso e incuriosito. «Ne ho avute due al prezzo di una, come vedete», scherzò Jarred, con malcelato orgoglio. «Ma ora, amici miei, dovete raccontarmi tutto!» I visitatori e gli abitanti dell'Acquitrino sedettero assieme sui pontoni, pregustando piacevoli ore di narrazioni e di chiacchiere. Le loro aspettative non andarono deluse. Michaiah li informò di aver lavorato per qualche tempo alla corte del duca Cornocervo, il quale, ammirato per la sua abilità
nei giochetti di destrezza, l'aveva assunto come prestigiatore. Nasim riferì di come il loro gruppo aveva attraversato a cavallo Slievmordhu fino a Narngalis. Raccontò le disavventure che avevano dovuto superare lungo la strada e il grande dolore di quando uno di loro era stato affascinato e attirato verso la morte da alcuni boggart. Disse poi di come Tsafrir fosse entrato al servizio del Re di Narngalis, arruolandosi nel reggimento delle Guardie Reali di stanza a corte, a Winterbourne. «Ma la cosa più interessante che io abbia visto a Narngalis sono stati i nobili cavalieri della Compagnia della Coppa, uomini alti e dai modi pacati, saggi e onorati. Devo dire che non avevo mai visto guerrieri così fieri, eppure ho viaggiato su molte strade», concluse Yaadosh. «Sì, molte strade», annuì Nasim. «Abbiamo visitato Saxlingham e Netherby, il Comune di Ramsnest, Foresta Lontana e Ancoraggio della Flotta. Poi abbiamo attraversato Hintonnei-Campi, fino a Mulino della Fortuna e Piccola Wratting. Da lì siamo andati a Caccialverro Nord, a Vecchia Cascina delle Mogli e poi a Colle Pietrabianca di Sotto. E infine a Muro Boscogioioso, a Molte Betulle e a Bianche Signore Aston.» «Non dimenticare Frisby sul Wreacke», gli ricordò Yaadosh. «E Draycott nell'Argilla», aggiunse Gamliel. Ma la gente dell'Acquitrino stava ridendo. «Sono sicuro che questi nomi ve li siete inventati», esclamò Odhràn Rushford. «Ora verrete a raccontarci che ci sono paesi di nome... uh...» Fece una pausa in cerca dell'ispirazione. «Piccolo Culdipapero o Molti-Che-Russano!» Nasim si grattò la testa con aria pensosa. «Per caso siamo passati anche per quei posti?» domandò a Gamliel. «Ah, questi reami stranieri!» esclamò il vecchio Frognewton, dopo che l'ilarità generale si fu un po' placata. «Perché non possono avere nomi decenti, come qui in Slievmordhu? Cosa può esserci di più armonioso e gradevole all'orecchio di nomi come Bellaghmoon, Moràn Srannfach, Orielthir o Beagh Tóindúnnlacha?» «Una corda non è più ritorta di una lingua straniera», citò sagacemente Earnàn Mosswell. «Tuttavia i nomi di questi paesi narngalisiani hanno un suono piacevole, oso dire.» «Sì, ma dopo un po' ogni novità annoia», concluse Nasim. «Alcuni di noi hanno iniziato ad avere nostalgia di casa. Vogliamo sentire ancora sulla faccia il vento secco di Ashqalêth e così stiamo tornando in patria, anche se solo per breve tempo, credo.» «Casa!» sospirò Jarred, e una cascata d'immagini si riversò nella sua
mente. «Casa», ripeté. «Amici, vorreste portare un messaggio a mia madre? Ma... aspettate!» aggiunse, colpito da un'idea improvvisa. «No... verrò con voi e glielo dirò io stesso!» «Voglio venire anch'io», cinguettò subito Jewel. «Sicuro che verrai!» esclamò Jarred con entusiasmo. «Ci andremo tutti e tre!» Lilith cercò lo sguardo del marito e sorrise, annuendo. Fu così che Jarred, Lilith e Jewel accompagnarono il gruppo di amici nel loro viaggio di ritorno ad Ashqalêth, in groppa a tre dei più robusti pony dell'Acquitrino. Erano trascorsi quattro giorni dalla partenza di Lilith e della sua famiglia, quando Earnàn fece visita alla dimora errante di Eoin, all'alba. La casa galleggiante era ancorata in un tranquillo lago contornato di salici, alla periferia di Città dell'Acquitrino. Alcuni dicevano che un fuath abitasse nelle verdi e torbide profondità sotto Willowlinn, anche se non esistevano prove inconfutabili che fosse mai emerso. Nonostante ciò, il solo sospetto della presenza di qualcosa di unseelie bastava a indurre molta gente a evitare quella località. Ciò non valeva per Eoin. Sembrava che col passare degli anni lui fosse diventato sempre più sprezzante e irrequieto. Suo padre, arrivando a remi presso il pontile anteriore, lo trovò lì, seduto su una sedia a dondolo. Stava fumando la pipa. Il sole sorgeva giusto allora oltre i salici piangenti, le cui radici erano ancora immerse nella nebbia. I veli blu scuro della notte si ritiravano dolcemente dal cielo. Leggeri come coriandoli di carta, ala contro ala, stormi di uccelli migratori scivolavano via spinti dal vento, neri sullo sfondo pallido del cielo. Earnàn legò la sua barca a una bitta. «Buongiorno, àthair», lo salutò Eoin. «Ti prego, siediti qui con me.» E portò fuori una seconda sedia a dondolo. Entrambe le sedie erano famose nell'Acquitrino: le aveva acquistate a Cathair Rua e i bambini le trovavano molto divertenti. Un uomo non balla già abbastanza su queste acque senza il bisogno di beccheggiare così su una di quelle sedie? si domandavano i vecchi. Il vento si levò tra i salici e spazzò la superficie del lago, increspandola come una gonna di seta. Padre e figlio restarono un po' seduti senza parlare, mentre la canzone degli uccelli appena svegli riempiva le loro orecchie e dall'alto giungeva il cigolio della banderuola segnavento, che si girava
verso nord-ovest. Misto alla fragranza delle canne, si sparse un vago odore di noce. «Te la stai cavando bene, in questo periodo», disse infine Earnàn. «È così.» «Non ti mancano i soldi, né la compagnia.» «Dici il vero.» «Sono trascorse ventisei estati dalla tua nascita», continuò Earnàn. «Quando avevo la tua età, io ero ammogliato da cinque anni.» Eoin annuì, dondolando. La piattaforma su cui era costruita la casa ruotò leggermente, tendendo le catene delle ancore. Piantate nel fango profondo, queste ultime rimasero salde. Earnàn continuò: «I tuoi fratelli non sono sopravvissuti all'infanzia. Tu però sei cresciuto e sei diventato adulto, per la soddisfazione e l'orgoglio di tua madre». Eoin annuì di nuovo. «Lei sperava che tu facessi un buon matrimonio e mettessi su famiglia.» Questa volta Eoin non annuì. Continuò a fissare la riva opposta della distesa d'acqua, dove alcune anatre selvatiche si stavano immergendo. «Quando pensi di prendere moglie?» chiese suo padre. Lui tamburellò con le dita su un bracciolo della sedia, spazientito e annoiato, infine disse: «Àthair, quando io mi sposerò sarà per amore. Altrimenti non c'è scopo». «Non puoi trovare una donna da amare?» «L'ho trovata.» «E chi è la fortunata?» domandò Earnàn cautamente, già sospettando quale sarebbe stata la risposta. «Lilith.» «Tu dici sciocchezze», esclamò il padre, che iniziava a irritarsi. «Mi vergogno quando sento mio figlio parlare così. Lilith è sposata, e non c'è altro da dire. Devi cercare da un'altra parte.» «Ho cercato», replicò Eoin, accalorandosi. «Credi che non l'abbia fatto? Ho cercato nell'Acquitrino e anche a Cathair Rua. Ma Lilith è unica. Non c'è nessuna come lei. E, se non posso avere lei, non avrò nessun'altra.» «Questo è ancora più assurdo!» sbottò Earnàn alzandosi in piedi, esasperato. «Hai intenzione di languire da solo e senza eredi del tuo sangue? Che razza di uomo sei?» «Ciò che io decido di fare della mia vita è affar mio e non ti riguarda!» ribatté Eoin, alzandosi a sua volta. «Nessuno può venire a dirmi come de-
vo vivere!» Spaventate dalle loro voci, le anatre selvatiche presero il volo. Per un poco girarono qui e là sopra il lago, poi scomparvero oltre le cime degli alberi. «Colui che si crede migliore degli altri, si costruisce una torre d'argilla», sentenziò Earnàn. «Dalla quale prima o poi cascherà giù! aggiungo io.» «Sei pregato di portare altrove i tuoi proverbi ammuffiti», disse Eoin. «Non offendermi con queste sciocchezze.» A denti stretti, Earnàn attraversò lo staithe e saltò sulla sua barca. Un istante dopo aveva già sciolto la cima e stava remando via con colpi vigorosi. Eoin restò seduto sulla sedia a dondolo finché il sole non fu alto. Sotto la grondaia della sua casa pendeva una grossa ragnatela, umida di brina. Un raggio di sole la trafisse e scagliò manciate di diamanti negli occhi del giovane. A mezzogiorno Eoin salì a bordo della sua barca e si allontanò a remi. Il giorno successivo cambiò l'ancoraggio della casa. Il panorama di Willowlinn non era più di suo gradimento. Il viaggio attraverso il deserto di Ashqalêth fu un'esperienza stupefacente per Lilith e Jewel. Non erano mai state in un posto così privo d'acqua. Quelle erano le ossa del mondo seccate e messe a nudo; le pianure polverose sembravano ansimare di sete, sotto un cielo spietato che le martellava col suo calore. Per ingannare il tempo, Jarred e i suoi compagni narravano aneddoti e ricordi d'infanzia. «Non c'era mai un momento di noia quando eravamo ragazzi», disse Yaadosh a Lilith e Jewel. «A volte ci si metteva anche la terra, che tremava e si spaccava in due! Un giorno, un terremoto ha aperto un crepaccio nella strada principale del paese, proprio dove noi stavamo giocando a pallone! È stato impressionante!» «Sì, Yaadosh, impressionante», borbottò Jarred, che, per non allarmare la moglie e la figlia, aveva fatto loro un quadro rassicurante del deserto, descrivendolo come una regione in cui la vita scorreva tranquilla. Ma nessuno notò la sua irritazione. «Ah ah!» ridacchiò Nasim. «Per poco Yaadosh non c'è caduto dentro. Ha fatto un'ottima imitazione di un mulino a vento, mentre ballava in bili-
co sull'orlo!» «Non sarebbe mai caduto davvero», disse Gamliel. «Quel buffone stava solo facendo finta.» Yaadosh si unì alle risate degli altri, mentre Jarred alzava gli occhi al cielo chiedendo cosa avesse fatto per meritarsi compagni così privi di tatto. Era abbastanza certo che quell'ambiente alieno divertisse Lilith, ma a Jewel non piaceva per niente. Si augurò con fervore che la moglie e la figlia, nate e cresciute in una zona ricca d'acqua, riuscissero a vedere e ad apprezzare le bellezze della sua terra natia. Lungo la strada trovarono una tempesta di polvere, facilmente visibile da lontano, che spazzava la pianura arida. Jarred e i suoi compagni sapevano quale genere di formazione rocciosa avrebbe offerto il rifugio migliore. Ai piedi di una di quelle grandi sculture naturali alzarono le tende e ricoverarono i cavalli in un'insenatura ben protetta. Gli animali sentivano il pericolo che si avvicinava, tuttavia mantennero la calma e si lasciarono sistemare al sicuro. I viaggiatori si avvolsero sciarpe umide sulla faccia e ripararono nello stesso modo il muso delle bestie, per proteggerle dalla polvere e dalla sabbia fine. Per fortuna si trattava di una tempesta di poco conto, che in breve tempo passò oltre. «Questo posto è troppo caldo e secco, àthair», si lamentò Jewel, mentre riprendevano il viaggio dopo aver arrotolato le tende. «Specialmente di pomeriggio, quando soffia quel vento così infuocato, il Fyrflaume. Non è come le storie che ci hai raccontato tu. Io non ho visto neanche un animale, solo due o tre uccelli. Non capisco come faccia la gente a vivere qui. È brutto e piatto e terribile, con tutta questa polvere.» «Ah, ma dovresti vedere com'è dopo le Piogge, a stór», ribatté Jarred. E parlò alla moglie e alla figlia della straordinaria trasformazione delle terre aride quando il prezioso dono dell'acqua cadeva dal cielo. Descrisse l'aspetto meraviglioso che assumevano le piane; lo scintillio dello strato d'acqua che copriva l'intero territorio; l'improvviso fiorire di prati estesi a perdita d'occhio; le affascinanti esplosioni scarlatte dei piselli della sabbia, delle rose del deserto, delle coppe di burro, dei parakeelia, dei musi di porco e degli innumerevoli fiori selvatici che si affollavano, avidi di assorbire i raggi del sole. Con un gesto che abbracciava l'intero deserto, disse: «Dopo le Piogge, qui potreste vedere prati fioriti ovunque, rosa, gialli e bianchi, sui quali il vento crea onde. All'improvviso ci sono animali dove prima non si muoveva nulla. Gli scarabei nuotano e zampettano nelle paludi. L'aria è piena
d'insetti. Grandi stormi di uccelli arrivano a nutrirsi di tutto questo cibo. Ovunque si odono la musica dei loro richiami e il battito delle loro ali». «Mi piacerebbe vederlo», disse Jewel, guardando il padre a occhi spalancati. «È difficile credere che una landa così desolata possa trasformarsi in un giardino», commentò Lilith. «Ma se lo dici deve essere vero.» «Pioverà presto?» domandò la bambina. «Io voglio vedere il giardino, adesso!» «Ahimè», rispose Jarred, ridendo del suo ingenuo capriccio. «Nessuno può prevedere quando cadranno la Piogge, salvo forse i Signori del Clima, e in Ashqalêth non abita neppure uno di quei nobili personaggi. Tra l'una e l'altra delle Piogge passano anni. È molto improbabile che piova mentre noi siamo qui.» «Ma non impossibile, vero?» domandò Lilith. «Tu sei sempre ottimista, amore mio», la stuzzicò Jarred. «No, non è impossibile. La speranza c'è sempre.» Consapevoli all'improvviso che quelle parole avevano significati più profondi, Jarred e Lilith si scambiarono uno sguardo. Lei piegò le labbra e lui le restituì il sorriso con aria d'intesa. Sapevano comunicare anche senza bisogno delle parole. Tutti i viaggiatori si portavano dietro il solito assortimento di campanelle, coltelli, bastoncini di frassino e di palissandro, foglie secche d'iperico legate con nastrini rossi, talismani d'ambra. Le protezioni contro i wight erano necessarie in Ashqalêth come in ogni altro luogo di Tir. La sera, quando facevano il campo, gli uomini del deserto avvertivano Lilith e Jewel d'ignorare la vista degli strani wight notturni e i rumori da loro emessi. Una sera, cercando un posto adatto ad accamparsi, cavalcarono più a lungo del solito. Il sole era già tramontato e le incredibili stelle del deserto riempivano il grande cielo di un pulviscolo lucente. I viaggiatori oltrepassarono una depressione in cui crescevano ciuffi di cespugli mulga e samphire fruscianti, dai quali proveniva il chiasso di centinaia di persone, alcune che piangevano, altre che ridevano. Quel selvaggio miscuglio di sofferenza e ilarità era snervante. Dapprima Lilith e Jewel pensarono di essersi imbattute in un gruppo di pazzi, ma i loro compagni sussurrarono in tono cauto: «Quelle voci non sono umane. State attente. Fate finta di nulla e non mostrate paura». I cavalli scalpitarono e nitrirono, il mantello percorso da fremiti nervosi; tenevano le orecchie basse, ma gli uomini li condussero avanti con mano ferma. Dopo che si furono lasciati alle spalle i
cespugli, Jewel si voltò a guardare. C'era qualcosa che camminava sul bordo della depressione. In un primo momento la bambina credette che fosse un cane, poi si accorse che era troppo grosso e di aspetto strano. Il cuore le balzò nel petto e lei si affrettò a distogliere lo sguardo. Le stelle erano luminose, ma non c'era luna. Le piane erano soffuse di un pallore argenteo che in lontananza si confondeva nell'ombra. Più tardi, dopo che ebbero alzato le tende e acceso un fuoco per cucinare, i viaggiatori udirono qualcosa che attraversava di corsa il deserto. Non si riusciva a vedere niente, ma il rumore di zoccoli al galoppo era simile a quello prodotto da un cervo. In pochi istanti la cosa passò e si allontanò fuori della portata dell'udito. «I wight sono insolitamente attivi in questa zona», borbottò Yaadosh. «Sarò contento quando saremo arrivati a casa!» Ogni giorno di viaggio li avvicinava a R'shael. Fin dall'inizio Lilith e sua figlia si erano meravigliate della luce che pervadeva le notti nel deserto, dove il nitido fulgore delle stelle attraverso l'atmosfera non era annebbiato da vapori e foschie. Jewel tuttavia continuava a lamentarsi dell'aridità di quelle pianure spoglie e Jarred spiegava pazientemente alla sua famiglia gli aspetti del deserto che spesso sfuggivano ai nuovi venuti, come per esempio gli astuti metodi della flora e della fauna per conservare l'acqua. «Non dovete pensare che nel deserto non viva niente», disse. «Anche durante gli anni più secchi, il deserto è pieno di vita come ogni altra regione di Tir. La maggior parte delle sue creature è notturna; hanno l'intelligenza di evitare i raggi del sole. Quelle che si aggirano all'aperto durante il giorno sono ben camuffate e brave a nascondersi. Ma le si può vedere, purché si sappia dove e come guardare.» E insegnò a Lilith e a Jewel in che modo scoprire la presenza di alcuni animali mimetici e identificare piante che, a uno sguardo distratto, potevano sembrare semplici macchie grigio-verdi. A Jewel e a sua madre piaceva molto imparare a conoscere gli animali delle terre desertiche e Jarred era ben felice d'insegnare loro quelle cose. Le volpi della sabbia, le lucertole, i piccoli topi saltatori, i bilbie e gli astuti scorpioni affascinarono le visitatrici. «Non hai paura degli scorpioni?» domandò Yaadosh a Jewel. «La loro puntura può ammazzare un uomo, sai?» Jarred strinse i denti. Gli sarebbe piaciuto che l'amico si accostasse a quegli argomenti in modo meno brutale. «No, io non ho paura di loro», disse la bambina. «Mio padre me ne ha
già parlato. Dice che gli scorpioni hanno paura della gente e preferiscono scappare piuttosto che attaccare. Tutto ciò che si deve fare è scuotere bene il letto ogni sera, per essere sicuri che non ci siano scorpioni dentro, e scuotere i vestiti prima d'indossarli. In questo modo non si rischia di spaventarli al punto di farsi pungere, se ce n'è uno.» «Be', sei proprio una signorina molto saggia!» esclamò Yaadosh, ammirato. «Del resto, perché dovrei aver paura degli animali del deserto?» continuò Jewel. «Tu sei cresciuto nel deserto, Yaadosh, e sei ancora vivo. Questi animali non devono essere troppo pericolosi.» Nasim e Gamliel per poco non caddero di sella dalle risate. Attraverso gli occhi di Jarred, Lilith e Jewel impararono a vedere il deserto sotto una luce nuova e a capire che, sebbene decisamente diverso dalle terre fertili, non era meno bello. Quando infine le colline rocciose di R'shael apparvero all'orizzonte, la moglie e la figlia di Jarred erano già innamorate di quel territorio immenso, dei suoi vividi colori e delle sfuggenti creature che lo abitavano. I cavalieri proseguirono oltre le dune e le rugginose estensioni di roccia, ansiosi di arrivare, ora che la loro destinazione era in vista. Gli zoccoli dei cavalli sollevavano sbuffi di sabbia nel passare tra le piante grasse e gli spinifex. A occidente stavano prendendo consistenza i primi bagliori rosati del tramonto. Un filo di fumo - forse quello delle fornaci di Jhallavad saliva dalla linea dell'orizzonte. Tutto ciò che si poteva udire oltre i tonfi attutiti degli zoccoli dei cavalli era il quieto ronzio degli insetti del deserto e il sussurro del vento sulle dune. Ciò cambiò di colpo non appena i viaggiatori giunsero nelle strade del villaggio: i cani abbaiavano, le galline chiocciavano nel togliersi di mezzo e ovunque si udivano grida e richiami eccitati. I figli di R'shael si guardavano intorno estasiati: tutto era ancora lì, niente era cambiato. Ogni particolare sembrava sbiancato o abbrustolito dal cielo rovente. Quel villaggio era la loro culla, era come una pagnotta fragrante, cosparsa di farina e cotta dal sole. Lilith e Jewel guardavano le case intonacate color crema, che sembravano prive di finestre. Dai camini uscivano spirali di fumo. Le stradicciole polverose, i tetti bassi, i mulini a vento con le loro braccia sottili, tutto appariva strano alle figlie dell'Acquitrino, quasi surreale. La gente nelle strade correva verso di loro agitando le braccia e dalle case ne stavano uscendo altri ancora per dare il bentornato ai loro ragazzi.
Dopo molti abbracci e molte scene di gioia, i viaggiatori si separarono, ciascuno diretto alla propria casa. Il sole si era abbassato dietro le colline di roccia nuda e l'azzurro del cielo stava cedendo il posto a un viola intenso già punteggiato di stelle. La madre di Jarred li aspettava davanti alla porta di casa: aveva sentito la notizia del loro arrivo. Stava dritta, le mani unite davanti a sé. I suoi occhi sembravano stranamente grandi in quel viso dai lineamenti fini, e i capelli color cardamomo erano riuniti in un concio sopra il cappuccio gettato indietro. Aspettava con un'espressione un po' tesa, pallida come la polvere di limo, gli occhi cerchiati da ombre. Mentre suo figlio andava verso di lei portandosi dietro il pony per le redini, la donna scrutò il suo volto e si rilassò un poco. Come si era riproposta di fare, mantenne un atteggiamento composto e disse: «Sono contenta che tu sia tornato. La cena è pronta». Poi alzò le mani a toccare la catenella che lui aveva al collo. Jarred si piegò a baciarle la fronte. «Sì, porto ancora il talismano», disse con un sorriso affettuoso. «Ho mantenuto la promessa. Madre, questa è la mia sposa Lilith, e questa è mia figlia Jewel.» E alle figlie dell'Acquitrino disse: «Questa è Sarayeh, mia madre». Sopraffatta dalla meraviglia e dalla felicità, la donna diede il benvenuto alla nuova famiglia di Jarred. Restituì il loro educato inchino, poi subito si volse e condusse in casa gli ospiti, tenendo il viso girato perché non vedessero le lacrime di gioia che le offuscavano gli occhi. All'interno c'era ad accoglierli zia Shahla e, quando i nuovi arrivati si furono tolti la polvere dalle mani e dai piedi, tutti sedettero a gambe incrociate sulla stuoia della stanza principale, intorno al braciere, per consumare il pasto abituale a base di stufato d'orzo, zucca e fagioli, insaporito col cumino. Jarred notò che la camera era cambiata poco durante la sua assenza; era sempre ammobiliata in modo austero, col tavolo basso e con gli scaffali. La sua vecchia lira pendeva da due chiodi, sul muro verniciato di bianco. Le stesse tende ricamate chiudevano le porte delle stanze da letto. Sua madre e sua zia furono molto felici di conoscere Lilith e Jewel. In particolare si sentirono subito attratte dalla bambina: non riuscivano a distogliere gli occhi da lei, come se temessero che stesse per svanire, come un vortice di polvere portato via dal vento. «Cosa preferisci mangiare, Jewel?» le domandava la madre di Jarred, e: «Cosa ne pensi dei fichi immersi nello sciroppo?» e: «Ti piacerebbe vedere la nostra fabbrica di vasellame?» e: «Hai fame? Sete?»
Dapprima Jewel si teneva timidamente dietro la gonna di sua madre, incerta di fronte a quelle persone che non aveva mai visto, che indossavano abiti stranieri e vivevano in un posto così insolito. Osservava le tradizionali vesti color ocra e zafferano delle due donne e gli anelli d'ottone gialli e lucidi che scintillavano alle loro orecchie e alle loro dita. Ma non ci volle molto perché Jewel simpatizzasse con la nonna e con la zia. In effetti, nessuna bambina di sentimenti normali avrebbe mancato di corrispondere all'amore così evidente in ogni tenero sguardo della nonna e agli sforzi che lei faceva per mettere a proprio agio la famiglia del figlio, rispettandone cortesemente l'intimità e i desideri. Una volta superata l'iniziale timidezza, Jewel era impaziente che i suoi genitori mostrassero i doni portati dall'Acquitrino. «Àthair, màthair», disse, «fate vedere i regali!» La consegna di quegli oggetti scelti con cura eccitava la bambina, che fu deliziata dalla reazione della nonna e della zia, le quali esagerarono a suo beneficio il loro sincero piacere. Durante e dopo la cena, Jarred riferì ciò che gli era successo da quando aveva lasciato il villaggio. Il racconto fu interrotto spesso dalle domande della madre e della zia, interessate a ogni particolare. Lui parlò di quegli anni, senza però accennare alla maledizione dello stregone e alla sconcertante eredità dei suoi discendenti. Più tardi Jewel si addormentò con la testa in grembo a sua madre e Jarred la portò a letto. Anche zia Shahla, cui si chiudevano gli occhi, si ritirò in camera sua, e ciò lasciò Lilith e Jarred liberi di raccontare a Sarayeh il resto della storia. La donna rimase molto stupita nell'apprendere che l'amuleto di Jarred era in realtà soltanto uno stratagemma, privo in se stesso di ogni efficacia. Le parlarono dello stregone e del dono che costui aveva fatto ai suoi eredi; poi, nel vedere che lei non riusciva a credere a quelle parole, Jarred si tolse l'amuleto, allungò una mano sul braciere e le mostrò che poteva toccare i carboni ardenti senza nessun danno. Quando fu finalmente convinta, la madre rimase a fissare in silenzio le braci, come per riesaminare i ricordi del lontano passato da un diverso punto di vista e trarne un significato nuovo. Alla fine disse: «Ora molte cose si spiegano. Sì, sono certa che quanto avete detto è vero. Col senno di poi, mi sembra ovvio che il mio coraggioso Jo era invulnerabile come te, figlio mio». Poi alzò lo sguardo dal braciere e aggiunse: «Tutti i miei sogni si sono avverati». Lilith e Jarred si accorsero, dalla tensione del suo volto delicato, che faticava a mantenere la calma dopo quelle rivelazioni. «Cioè, tutti i miei vecchi sogni», aggiunse la donna del deserto, girandosi verso la
camera dove Jewel stava dormendo. «Non temete per lei», disse Lilith. «L'incantesimo la protegge, nella stessa misura in cui protegge suo padre.» A quelle parole, dagli occhi della madre di Jarred scesero due rivoletti d'argento. Sarayeh chinò il capo e nascose il viso nello scialle. «Scusatemi», ansimò. «Scusatemi.» Subito Lilith le si avvicinò e le strinse le mani tra le sue, mentre Jarred, dall'altra parte, le cingeva le spalle con un braccio e la stringeva a sé. «C'è solo un'altra grazia che potrei chiedere al mondo», disse infine Sarayeh, alzando lo sguardo in quello compassionevole di Lilith. «Spero che anche tu sia protetta, bambina. Tu hai portato una grande felicità nella vita di mio figlio. Le parole non possono esprimere quanto io sia grata al destino che tu sia parte della mia famiglia. Jarred ha scelto bene. Sei una cara ragazza e d'ora in poi sarai una figlia per me.» Lilith riuscì a dire soltanto: «Gramercie». «Mi chiedo se Jo sapesse della sua invulnerabilità. Credo di sì», continuò la donna, come riflettendo ad alta voce. «Forse è la ragione per cui se n'è andato, oppure è la ragione che l'aveva spinto a venire in questo posto sperduto. Mi è difficile immaginare cosa significhi vivere tra la gente e sapere di avere un dono unico, che non può essere reso noto per paura dei pregiudizi, e non poter dimenticare neanche per un momento di essere diversi dalle persone normali. Oltre a questo, il mio Jo era tormentato da incubi infernali che nascevano dalla sua infanzia travagliata. Non c'è da meravigliarsi che andasse sempre in cerca di una risposta, di una spiegazione.» Seduta sulla stuoia, raddrizzò le spalle e si tolse i capelli dalla fronte, come per riprendere il controllo dei propri pensieri. «Ma adesso è tardi e voi siete stanchi per il viaggio. Non voglio trattenervi oltre; dovete andare a riposare.» I tre si salutarono con grande affetto e si scambiarono il bacio della buonanotte, quindi andarono a dormire. Ma, mentre si tirava addosso la coperta, la madre di Jarred mormorò, rivolta al buio: «Forse lui aveva paura di perdere le persone amate con cui non poteva dividere il suo dono». Il giorno dopo, il villaggio di R'shael si preparò a festeggiare il ritorno dei suoi figli e a celebrare una veglia funebre per quelli che non erano tornati. Secondo l'usanza, ogni casa contribuì con del cibo. Quando scese la sera, tutto era pronto.
Sui tavoli disposti all'ombra delle palme gli abitanti del villaggio misero sette tipi di pane non lievitato, casseruole di prugne fritte, salsa di yogurt, polpette di pasta ripiene di fagioli e spezie, frutta secca, paste all'acqua di rose, datteri, noci e altri dolciumi. Quasi replicando la cena d'addio dopo la quale erano partiti per il loro viaggio, i festeggiati stapparono le anfore di coccio portate fin lì da Winterbourne e distribuirono boccali di vino. Il villaggio si scatenò in un sontuoso banchetto: la gente si riempì la pancia, cantò, bevve il kumiss e ballò. Le ragazze del villaggio restarono deluse nel venire a sapere che Jarred si era sposato, ma diedero il benvenuto a sua moglie e giudicarono incantevole Jewel, la bambina dell'Acquitrino dai grandi occhi azzurri, così somigliante alla madre. «È vero che le strade di Winterbourne sono lastricate con diamanti e rubini?» fu chiesto ai giovani viaggiatori. «E ne avete portato qualcuno per noi?» «Bisogna dire che la gente di Narngalis non è affatto ricca come ci era stato raccontato», rispose Gamliel. «Tuttavia siamo stati trattati bene e la nostra permanenza lassù è stata piacevole.» «Ma in Narngalis parlano la lingua della gente normale?» «Naturalmente. Parlano la lingua comune di Tir, proprio come tutti quanti, altrimenti come potrebbero capirsi l'uno con l'altro? In realtà le parole suonano diverse quando escono dalla bocca di quei settentrionali, sembrano tintinnare come il cristallo. Ma è un piacere sentirli parlare e, al confronto, il nostro accento appare piatto e poco melodioso. Inoltre usano esclamazioni strane come 'Ma non mi dire!' e 'In fede mia!'» I viaggiatori si misero poi a scimmiottare l'accento e i modi di dire dei narngalisiani, per il divertimento dei loro amici. «E tu ti sei sposato, prestigiatore?» domandarono le ragazze del villaggio radunate intorno a Michaiah, che stava intrattenendo la gente coi suoi magici giochi d'abilità manuale. «Non ancora, ragazze mie, perciò datevi da fare», disse lui, fingendo d'ingoiare una delle palle che faceva roteare nell'aria. «Questa sera farò felice la prima di voi che mi porterà un boccale di kumiss.» Ma loro lo tempestarono di noccioli d'oliva. «Per fortuna io sono tornato in tempo», disse Jarred alle ragazze. «Cosa vuoi dire?» «Voi mi avevate avvertito che, se fossi stato via troppo tempo, al mio ritorno sareste state delle vecchie ciabatte senza denti, e avevate scommesso
una borsa di monete che vi avrei dimenticato. Ma io ricordo bene ciascuna di voi, perciò mi dovete una borsa piena di soldi.» «Ah, ma tu ti sei sposato», replicarono loro, «perciò è come se non fossi tornato. Sei tu a doverci dei soldi!» E a Lilith dissero: «Non fare caso se scherziamo col tuo uomo. Per noi sei una nuova sorella». Come in tutte le festicciole di quel genere, si chiacchierò e si rise molto, con qualche interruzione dovuta ai litigi provocati dalle eccessive libagioni. Neppure la leggera scossa di terremoto che arrivò dal deserto disturbò l'allegro gozzovigliare. Era uno dei tanti eventi sismici minori consueti nella regione e non provocò nessun danno. La giornata che R'shael dedicò al ritorno dei ragazzi passò in fretta, perché fu un susseguirsi di ore spensierate. Poi per Jarred, Lilith e Jewel arrivò il momento di ripartire. Sarayeh parlò in privato a suo figlio. «Be', molto tempo fa non avrei mai immaginato che sarei stata felice come oggi», disse sorridendo. «Se nella mia vita ho fatto qualcosa di buono è stato questo: crescerti sano di corpo e di mente, abbastanza intraprendente da andare in giro per il mondo, capace di fare i più diversi lavori per guadagnarti da vivere, e col cuore così grande da saper amare e meritare di essere amato.» «Tu hai fatto molte cose più meritevoli di questa», protestò lui, commosso. «Sei sicura di non voler venire con noi nel Grande Acquitrino di Slievmordhu? L'offerta è sempre valida.» «Mi piacerebbe vivere sotto lo stesso tetto della tua nuova famiglia. Ma tu ti sei costruito una nuova vita in quella terra ricca d'acqua e io preferisco non lasciare il paese che amo e i miei vecchi amici. Questa è la mia scelta, ed è resa più facile dal sapere che, per quanto tu mi sia lontano, sarai al sicuro e felice. Ora vai, con la mia benedizione.» La separazione fu malinconica; si fecero molte promesse e si versarono molte lacrime. Alla fine i viaggiatori si misero in strada e continuarono a girarsi sulla sella finché riuscirono a vedere il villaggio, per agitare la mano un'ultima volta. Per la vigilia della Lanterna, in otember, Lilith e la sua famiglia non avevano ancora fatto ritorno nell'Acquitrino. Il clima era rimasto caldo, benché fosse autunno. La vigilia della Lanterna era un giorno festivo. Molte famiglie di Città dell'Acquitrino si stavano divertendo sulla spiaggia e nell'acqua della Laguna della Rana-Toro, un tranquillo specchio d'acqua noto per l'assenza di wight e di serpenti velenosi. I raggi del sole lambiva-
no dolcemente la riva erbosa e gli anfibi nascosti tra le felci riempivano l'aria di richiami che facevano pensare a bastoncini strisciati su una superficie ondulata. I cori delle rane si mescolavano alle risa della gente, ai richiami degli uccelli tra la vegetazione e al pacifico sospiro della brezza. Seduto sotto un salice piangente, Eoin guardava Odhràn Rushford e sua moglie Cuiva che sguazzavano assieme ai loro tre figlioletti, a poca distanza dalla riva di un canale dove altri stavano nuotando. Per insegnargli a stare a galla, Cuiva sosteneva sul pelo dell'acqua il più piccolo, Ochlàn, che si divertiva moltissimo. Un po' più lontano dalla riva Odhràn portava in groppa Ciara. L'altro bambino, Oisín, faceva finta di nuotare nella fanghiglia, in un punto troppo poco profondo per farlo. Eoin si alzò e andò a cercare suo padre. Trovò Earnàn sul pontone d'attracco di fronte a casa sua, occupato come al solito a rammendare una rete. Erano trascorse settimane da quando si erano separati in termini poco cordiali. Da allora si erano evitati con cura. Nessuno dei due aveva raccontato ad altri della discussione che avevano avuto a Willowlinn, ma tra padre e figlio c'era cattivo sangue. Ed entrambi ne erano angosciati, perché in passato erano sempre andati molto d'accordo. Eoin sedette sulla panca accanto a suo padre. «Buona vigilia della Lanterna», mormorò. «Altrettanto a te», disse Earnàn, sbirciando il figlio con la coda dell'occhio, mentre ricuciva le maglie della rete. Il suo cuore si riempì di sollievo. Per un poco i due rimasero in silenzio. Sull'altra riva del canale un airone bianco aveva posato le zampe sottili su un tronco semisommerso e stava del tutto immobile. Sotto di lui, il suo riflesso e quello del tronco erano perfetti, identici e simmetrici. «L'ultima volta che abbiamo parlato ci siamo detti cose che forse non dovevamo dire», cominciò Eoin, con voce piatta. Suo padre annuì. «Non è bene che ci sia malumore tra padre e figlio», continuò Eoin. «Il figlio dovrebbe obbedire al padre.» S'interruppe, inalò una lunga boccata d'aria e disse: «Mi cercherò una moglie». A quelle parole Earnàn, accorgendosi del dolore del figlio per aver perduto Lilith, scosse il capo e replicò: «Non voglio farti pesare questo obbligo. Sposati quando ti pare e con chi ti pare. Oppure no, come preferisci». Divertito da quel repentino cambiamento d'opinione, Eoin si lasciò sfuggire una risata ironica, secca come un latrato. Anche Earnàn sorrise.
«Àthair», disse Eoin, «vedremo cosa ci porteranno i Fati. Per ora mi accontento di essere di nuovo in buoni rapporti con te.» Earnàn annuì. Quella sera i bambini dell'Acquitrino indossarono maschere dipinte e andarono di casa in casa portando lanterne ricavate da zucche vuote. Dentro ogni punky, una candela accesa creava disegni di luce grazie ai fori praticati nella spessa scorza. Mentre raccoglievano dolciumi in ogni abitazione, i bambini cantavano: Questa è la notte dei punky, questa è la notte dei punky, dateci una candela, una luce, questa è la notte dei punky. Infine si radunarono sull'Isola Beacon per giudicare quale fosse il miglior disegno dei punky. Sulla riva fu acceso un falò, nel quale le più superstiziose tra le ragazze in età da marito gettarono semi di mela o noci, cantando: Se lui mi ama, scoppia e vola, se lui mi odia, giaci e muori. Lo scoppiettio o lo sfrigolio dei semi e delle noci era considerato presagio di matrimonio imminente. Se invece quegli oggetti restavano lì a carbonizzarsi in silenzio, significava che l'unione non avrebbe avuto luogo. Ogni anno c'erano lunghe discussioni sulla possibilità che i presagi andassero letti al contrario. C'era anche chi continuava a porsi domande sulle lontane origini di quei rituali. Alcuni dicevano che la vigilia della Lanterna era stata inventata per pacificare i rissosi wight dell'Acquitrino; altri teorizzavano che il 31 otember fosse l'ultimo giorno dell'anno secondo il vecchio calendario e che la festa fosse sopravvissuta anche dopo la modifica del calendario a opera di un antico re o druido. Neppure Eolacha era sicura di come stessero le cose. I riti della vigilia della Lanterna erano prossimi al termine e il falò cominciava a spegnersi, quando tra due isolette era apparsa la barca di una guardia. Su di essa, circondati da borse e pacchi, sedevano Lilith, Jarred e Jewel. Erano stanchi ma di ottimo umore, ansiosi di regalare ai loro amici il racconto del loro viaggio e del tempo trascorso con la nonna e la prozia
di Jewel nel lontano Ashqalêth, dove le sabbie erano spazzate dall'arido vento chiamato Fyrflaume, proveniente dal Deserto delle Pietre Ardenti. Nel vedere Lilith che tornava a casa, sorridente sulla prua della barca, Eoin sentì che il cuore gli diventava un diamante duro e freddo, come in passato. E seppe con certezza che, se non avesse potuto avere lei, non si sarebbe mai sposato. Dopo il ritorno da Ashqalêth, il padre di Jewel fu spesso assente. La situazione economica della famiglia non era migliorata. In quella terra paludosa c'era poco lavoro per lui, così, dopo aver esaurito ogni possibilità, cercò qualcosa da fare sulla terraferma, impiegandosi come tosatore di pecore nei pascoli adiacenti all'Acquitrino. Quello del tosatore era un lavoro stagionale, che veniva svolto solo in primavera e in autunno; tuttavia Jarred non poteva rifiutare nessuna possibilità di raggranellare qualche soldo. Durante la notte avrebbe dovuto dormire nelle baracche dei tosatori itineranti assieme ad altri uomini, ma non sopportava di restare troppo a lungo lontano dalla famiglia. Ciò significava dover tornare a casa a tarda notte percorrendo a piedi la via dei Carri, una strada che costeggiava la lunga diga che entrava nell'Acquitrino da nord-est. Ogni notte, col suo nuovo cane da pastore di nome Tralee alle calcagna, Jarred passava attraverso una vera e propria sala da ballo di fuochi fatui. Oisín e Ciara, i due figli maggiori di Cuiva, erano quelli che avevano salutato con più entusiasmo il ritorno di Jewel. Quei tre facevano gruppo fin da piccoli e, crescendo, la loro amicizia diventava sempre più forte e solida. Era un terzetto di ragazzini molto indipendenti e liberi di spirito e, come accadeva spesso ai loro coetanei, cresciuti in quella zona selvaggia, a forza di vederli assieme la gente li considerava ormai inseparabili. Quando Jewel aveva nove anni, cominciarono ad avventurarsi in varie località dell'Acquitrino in cerca di novità e di svago, o per svolgere i lavoretti quotidiani loro affidati, o anche per evitarli. I genitori avrebbero preferito che non si allontanassero, ma non potevano neppure tenerli legati e dovevano dunque affidarsi alla speranza che i tre ragazzini ricordassero le istruzioni ricevute sui pericoli sia naturali sia di origine eldritch e su come evitarli. L'Acquitrino, tuttavia, era così pervaso da eventi soprannaturali che, nonostante la tendenza dei wight a tenersi nascosti, per i ragazzini era impossibile non imbattersi in qualcuno di essi. In realtà, spiare le manifestazioni eldritch dava loro un brivido eccitante che li attraeva molto. Dei tre, i più
propensi all'avventura erano Jewel e Oisín, ma nella bambina quella temerarietà era temperata dalla ragione, mentre Oisín era incline ad agire prima di riflettere. Quella tendenza avrebbe avuto gravi conseguenze per lui. In un caldo crepuscolo estivo i tre ragazzini stavano tornando verso casa attraverso l'Isola Grig. Era una zona in cui potevano camminare a piedi nudi: nessun cardo spinoso cresceva su quel terreno umido. Presso un monticello erboso, un solitario albero di mele autoinseminante distendeva i suoi rami, sui quali alcuni merli cantavano melodie disumane, antiche oltre ogni possibilità di memoria e completamente aliene, più vicine alla musica wight di qualsiasi composizione dei mortali. Nelle acque basse le rane avevano già dato avvio alle loro crepitazioni serali, che andavano dai corposi e monotoni groach-groach-groach ai delicati e saltuari huai-huai-huaihuai che terminavano spesso in note più acute e tremolanti. «Quello è il primo fuoco fatuo che vedo stasera», disse Ciara, indicando gli alberi che costellavano la riva. Una luce bluastra aleggiava fra i tronchi, palpitando debolmente. «Là ce n'è un altro», disse Oisín, indicando verso sinistra. «Quante specie di fuochi fatui ci sono, Jewel? Lo sai?» Jewel ci pensò. Sua madre ed Eolacha glielo avevano insegnato. «Tra i seelie ci sono le Lanterne Jacky e i Batuffoli Joan. Tra gli unseelie ci sono gli hobby-lanterna, gli spunky, gli hinky-punk, le candele-cadavere, gli uomini-lanterna e i pinket. Alcuni di loro sono boggart traditori. La maggior parte non sono che bogle portati alle azioni malvagie.» I piedi dei tre ragazzini frusciavano tra le fitte felci capelli-di-fanciulla. Nelle ultime luci del giorno le piccole foglie verdi sembravano granuli caduti fra le maglie di un setaccio. «Questo significa che ben sei razze sono cattive e soltanto due amichevoli», commentò Ciara, un po' spaventata. «Io non ho paura delle stupide luci delle paludi», disse Jewel, sprezzante. «Sono soltanto dei vecchi wight molto prevedibili, fatti di gas. Tutte le volte che mio padre torna a casa, sulla via dei Carri, di notte, vede le candele-cadavere che ballano e sente le grida d'aiuto con cui attirano la gente nei trabocchetti, ma lui ci fa sopra una bella risata e dice 'buonanotte'. Non gli hanno mai fatto del male.» «Ehi, guardate qui che fortuna!» disse all'improvviso Oisín. «Un bel berretto rosso! Un po' piccolo, forse, ma penso che mi vada bene.» L'oggetto che avevano trovato giaceva al suolo tra le felci. Era un berret-
to rigido a forma di cono, con l'estremità piuttosto floscia, e Oisín stava sorridendo soddisfatto per quella scoperta. «Non toccarlo!» esclamò Ciara, preoccupata. «Smettila di dire sciocchezze. Ho bisogno di un berretto nuovo. I cani mi hanno mangiato quello vecchio, dopo che tu ci hai versato sopra il sugo.» «Non sono stata io a...» «Lascialo stare!» lo avvertì Jewel, mentre Oisín si chinava a raccogliere il berretto. Ma il ragazzino lo prese e se lo mise in testa, tirandoselo giù fino alle orecchie per sfidare gli ammonimenti delle sue compagne. Subito il berretto cominciò a torcersi e a gonfiarsi in tutte le direzioni. Oisín fece un balzo. «Dentro quest'affare c'è un'enorme vespa inferocita! Mi sta ammazzando!» gridò. Ma, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a togliersi il cappello dalla testa. Lo tirò, lo strattonò, lo prese a pugni, girando su se stesso finché non cadde per lo stordimento; poi continuò a contorcersi tra le felci, scalciando e battendo la testa al suolo e strappandosi i capelli, mentre le due bambine afferravano l'oggetto maligno con tutte le loro forze. Alla fine, fra tutti e tre, riuscirono a strapparglielo via dalla testa. In un istante il berretto rosso si liberò dalla loro presa. Qualcosa ne schizzò fuori e fuggì via, portandosi dietro il dannato oggetto e strillando con voce acuta: «Te l'avevano detto di lasciarlo stare!» Poi tra le felci si levarono risatine trillanti e i tre ragazzini corsero verso casa più veloci che poterono. «Devi avere raccolto il berretto di un grig», diagnosticò Eolacha, mentre cospargeva di unguento il malridotto cuoio capelluto di Oisín. «I grig usano vestirsi di verde e portare berretti rossi. Credo che quella gente stesse facendo festa tra le felci, quando voi tre bambini mortali siete capitati da quelle parti. La maggior parte di loro si è rimessa il berretto ed è sparita, come fanno di solito; ma forse uno era così terrorizzato dal vostro arrivo che se l'è ficcato in testa con troppa forza e ci è caduto dentro, come se fosse un sacco. Deve aver cercato di restare immobile finché non foste passati, ma voi avete visto il berretto.» «Vorrei non essermene mai accorto», gemette il bambino, sfregandosi la testa. «Molto probabilmente il grig se l'è vista peggio di te», disse Eolacha. «Di certo non riusciva più a respirare, quando hai indossato il berretto.» «Noi gli avevamo detto di non farlo», sospirò Jewel. «Oh, povero Oisín.» Aveva preso tra le sue una mano dell'amico e gliela accarezzava dol-
cemente, come se fosse un piccolo animale. «Ma è stato divertente vederlo contorcersi così!» ridacchiò Ciara. Suo fratello la fulminò con lo sguardo. Non tutti gli incontri dei ragazzini dell'Acquitrino coi wight avevano conseguenze di così poco conto e probabilmente, senza la protezione magica, Jewel avrebbe anche potuto non arrivare all'età adulta. Nelle profondità delle paludi c'era un'isola chiamata Gordale. Al centro di essa sorgeva una rupe oscura, tagliata in due da una stretta gola, le cui pareti di roccia arrivavano a venti metri d'altezza. Gordale aveva una pessima fama perché vi abitava un bargest. Ai bambini era proibito mettere piede sull'isola e gli adulti la evitavano. I bargest erano bogie, sinistri mutaforma. Spesso assumevano l'aspetto di grossi cani neri dal pelo lungo, con occhi brillanti come la fiamma. Un tardo pomeriggio i tre giovani amici stavano passando in barca accanto a Gordale. Erano muniti di retini per la cattura degli yabbie, che da quelle parti si trovavano in grande quantità. Mentre raccoglievano dall'acqua quei crostacei guizzanti, si voltavano spesso a guardare la rupe al centro dell'isola, scura contro lo sfondo del cielo. «E se il bargest salta fuori e ci prende?» disse Ciara. Poiché si credeva a distanza di sicurezza, non le dispiaceva il brivido di paura che le dava quell'ipotesi. «Io scommetto che lì non abita nessun bargest», disse Jewel, vuotando il suo retino in un secchio di legno. «Scommetto che sono soltanto favole, per impedire ai ragazzi di arrampicarsi su quelle rocce.» «È proprio così!» esclamò Oisín con convinzione. «Anch'io scommetto che laggiù non ci abita nessuno, salvo qualche capra rognosa. Andiamo a vedere!» «No!» gridò Ciara. Cercando di fare appello al buonsenso di Jewel, disse: «Sarebbe una pazzia, non sembra anche a te, Jewel? Se scoprissero le nostre orme in quel posto passeremmo dei guai. Tuo padre cosa direbbe?» «Io non posso disobbedire a mio padre», rispose Jewel, come Ciara aveva previsto. «Puah!» sbuffò Oisín. «Voialtre ragazze avete paura di tutto. Restate pure a casa, povere agnelline. Io domani verrò qui assieme ai ragazzi Alderfen e andrò a guardare in tutti gli angoli di Gordale. Se questo mostro esiste lo vedremo coi nostri occhi, perché io conosco un incantesimo per chiamare i wight!» Jewel s'irritò a quelle parole e sbottò, indignata: «Come osi dire che io
sono una codarda? Io posso andare su quest'isola come qualsiasi ragazzo». E diede di piglio ai remi, vogando energicamente verso la riva, senza badare alle proteste accorate di Ciara. Mentre i tre bambini scendevano a terra, si alzò un vento sostenuto che scosse i lunghi rami penduli dei salici. Gli alberi cominciarono a oscillare come in una lenta danza di ballerini dalle lunghe chiome. I ragazzi s'incamminarono cautamente verso la zona in cui i ripidi versanti della rupe scendevano sul terreno pianeggiante e cespuglioso. D'un tratto si accorsero che da quella direzione proveniva un brontolio, simile al rumore di un macchinario o al ruggito di una cascata. «Come fai a conoscere un incantesimo per chiamare i wight?» sussurrò Ciara al fratello. «Non è possibile.» «L'ho sentito. Ne parlavano quei venditori ambulanti, gli uomini di Bellaghmoon che hanno attraversato l'Acquitrino la settimana scorsa.» «Quelli raccontavano un sacco di balle», protestò Ciara. «Hanno inventato delle favole per far restare a bocca aperta la gente, ecco cosa.» «Forse, ma quella sera io ho pronunciato l'incantesimo ed è apparso un siofra.» «Dici sul serio?» «Poi è scappato via.» «Ma i siofra sono seelie. I bargest sono...» «Zitti!» sibilò Jewel, che camminava davanti a loro. «Ho sentito qualcosa!» Il cielo color peltro stava diventando di carbone e il vento si era rinforzato; soffiava nelle loro orecchie, sommergendo i cori senza fine delle rane e degli uccelli acquatici, o forse le creature selvatiche dell'isola erano ammutolite. «Cos'hai sentito?» domandò Ciara, nervosa. «Ho sentito... cioè, mi è sembrato di sentire un clangore, come di una catena trascinata.» La faccia di Ciara era pallida come la luna. «Dovremmo tornare indietro...» «Tiriamo dritto!» insistette suo fratello, e così fecero, finché non giunsero nell'ombra della massiccia rupe. Nei giorni precedenti era piovuto molto e l'acqua sgorgava fuori della stretta gola come un torrente impetuoso. La scarsa luce del crepuscolo non penetrava nella spaccatura fra le pareti a picco, e in quella penombra, dietro il ruggito dell'acqua, i tre udirono improvvisamente un grido.
«Badate a voi!» Ciara girò su se stessa e sarebbe scappata se il fratello non l'avesse afferrata per un braccio. «Codarda!» la derise. «Codarda!» «Non mi importa di esserlo», ribatté lei, lottando per divincolarsi dalla sua stretta. «Lasciami stare! Da quella gola oscura è uscita una voce per avvertirci e io voglio andarmene.» Con un sospiro esasperato lui la lasciò. Lei s'incamminò verso la barca, ma poi esitò e si voltò, riluttante ad allontanarsi dai suoi compagni. «Vattene di qui!» le ordinò Oisín, gridando per farsi udire sopra il rumore dell'acqua. «Ora traccerò il cerchio di sicurezza e, se tu resti fuori, è meglio che stia lontana!» Riluttante, Ciara si allontanò tra i salici. Il ragazzino si volse a Jewel e disse: «Laggiù vedo un vecchio fico, alto e fronzuto. È un albero di potere, buono per gli incantesimi». Lei annuì e i due si avviarono da quella parte. Sotto il fico, Oisín tracciò un solco circolare nel suolo molle, tra le erbacce, usando un ramo che aveva raccolto. Nel farlo cantò alcune parole dal suono arcaico. Quando il circolo fu completo, s'inginocchiò e baciò la terra tre volte; poi fece cenno a Jewel di raggiungerlo. Si voltò verso la gola, allargò le braccia e gridò: «Cane Spettro! Io ti ordino di apparire!» Una raffica di vento gelido come la morte arrivò dal nulla. Da ogni buco della grande parete rocciosa dinanzi a loro scaturirono getti di fiamma e con un selvaggio ululato balzò fuori della gola un animale simile a un grosso cane, con occhi di brace colmi di malvagità e di follia. Accovacciata fra i salici Ciara tremava, singhiozzando di terrore. Non seppe dire per quanto tempo il vento continuò a impazzare selvaggiamente, ma, quando si fu placato, lei osò uscire dal suo nascondiglio per guardarsi intorno. La notte si era chiusa sull'Isola di Gordale. Sotto l'albero di fico Jewel e Oisín erano distesi al suolo, privi di sensi. Sul corpo del ragazzino c'erano ferite così strane che nessuno strumento fatto dall'uomo avrebbe potuto produrle. Dopo un poco Jewel rinvenne e fu in grado di aiutare Ciara a trascinare Oisín alla barca e a remare fino a casa. Ma, sebbene fosse fisicamente sana, era così scossa che occorse una settimana prima che potesse ritrovare l'uso della parola, e anche allora non riuscì a dire cosa fosse successo sotto quel fico. In quanto a Oisín, per molte settimane restò in bilico tra la vita e la morte. Quando infine le cure di Eolacha riuscirono a rimetterlo in piedi,
non era più lo stesso di prima. Qualcosa in lui era cambiato per sempre. Nelle fredde sere invernali gli doleva tutto il lato sinistro del corpo, dove aveva quelle strane cicatrici, e non era più il ragazzino allegro e spiritoso di una volta. Su di lui era scesa una fosca malinconia; di rado lo si vedeva sorridere. Jewel, invece, si riprese completamente dalle conseguenze emotive. Ritrovò la sua vivacità e tornò a essere avventurosa e scriteriata come prima, anche se la addolorava vedere il cambiamento dell'amico e non trovava più lo stesso piacere nella sua compagnia. Nei primi tempi, quando soffriva di più per ciò che era accaduto al compagno di giochi, suo padre si preoccupava nel vederla così triste. «Noi siamo fatti per la gioia e per il dolore», le diceva allora. «Più riusciamo ad accettare questo, meglio riusciamo a tirare avanti. Me l'ha insegnato una donna saggia, che diceva anche: 'Stanne certo, non c'è dolore che non si attenui col tempo'. Ogni ferita dell'anima alla fine si cicatrizza.» Allora Jewel si sedeva sulle sue ginocchia e gli passava le braccia intorno al collo, seppellendo il viso contro il suo petto. Fra le braccia forti di suo padre si sentiva al sicuro; le crudeltà del mondo non potevano toccarla. La figlia di Jarred e Lilith imparò presto a capire i pensieri degli altri, a prevedere le loro reazioni e a intuire i loro propositi. Si accorse che Eoin amava sua madre. Un giorno, mentre si trovava nella casa galleggiante dello zio, gli domandò perché non si fosse ancora sposato. «Non ho trovato una donna adatta a me», rispose lui, riempiendosi la pipa di foglie. «Anch'io non trovo nessuno adatto a me», disse Jewel. «Perché no?» domandò Eoin, divertito al pensiero di una simile convinzione in una creatura tanto giovane. Jewel fece una pausa per riflettere, quindi concluse: «È solo che non lo trovo, tutto qui». «Che cosa mi dici del tuo amico, Oisín Rushford? Non va abbastanza bene per te?» Eoin pressò le foglie con un dito macchiato e si voltò a prendere l'acciarino. «È cambiato», rispose tristemente la bambina. Se zio Eoin non ammette la vera ragione per cui è rimasto scapolo, pensò, io non gli dirò la mia. «Io non mi sposerò mai», disse ancora, col tono enfatico di chi non si cura se la cosa interessi o no a qualcuno. «Io non mi sposerò mai», ripeté anche a sua madre, mentre camminavano fianco a fianco verso casa dopo
essere state sulla Cresta del Sauro. Avevano appena parlato dell'argomento, lasciando vagare lo sguardo sulla pianura fino alle verdi Colline di Bellaghmoon. «Perché no?» volle sapere Lilith, con lo stesso tono scettico del fratellastro. «Se te lo dico, tu devi tenerlo segreto.» «D'accordo, lo terrò segreto.» «Nessun uomo al mondo può essere perfetto come mio padre.» Un sorriso illuminò l'adorabile volto di Lilith. «Forse hai ragione. Ma io penso che da qualche parte nel mondo debba esserci un giovane che gli si avvicina. Earnàn dice sempre: 'Per ogni uomo e per ogni donna c'è qualcuno'.» «Non è vero. Lui dice: 'Per ogni schiena c'è un mantello e per ogni cappello c'è una testa'.» «Il che significa la stessa cosa!» «Màthair, tu come hai fatto a trovare un uomo come mio padre?» Non capitava spesso che Jewel chiedesse un consiglio. Lilith soppesò con cura le parole. «Se desideri un'unione felice e durevole, ascolta ciò che ti dico. Cerca un uomo che ama sua madre, al quale piacciono i bambini, che rispetta le donne anziane ed è cordiale con loro, che è gentile con gli uccelli e con le bestie, che è stimato da quanti lo conoscono e che guadagna onestamente il suo denaro e non lo spreca.» «Perché dovrei cercare tutte queste qualità?» chiese Jewel, seguendo la madre su uno dei cigolanti pontili di legno che portavano in direzione di casa Mosswell. «Un giorno, se i Fati lo vorranno, anche tu sarai madre. Trova un uomo che ama sua madre e lui ti tratterà con la stessa bontà con cui tratta lei. Tu amerai i tuoi figli più della vita e amerai uno sposo che la pensa allo stesso modo. Un giorno, se i Fati lo vorranno, diventerai vecchia. Anche lui sarà invecchiato con te, ma il vostro rispetto e il vostro affetto resteranno immutati. Amerai un uomo che tratta con gentilezza gli uccelli e le bestie, perché saprai che mostrerà la stessa generosità con gli esseri umani. Se entrambi saprete arricchire la vostra vita col buonumore e con le risate, il vostro affetto supererà la prova del tempo. E, se quanti lo conoscono parleranno bene di lui, saprai di aver fatto la scelta giusta... perché l'amore è cieco e sordo e la tua mente potrà essere annebbiata, ma il giudizio degli altri non sarà altrettanto miope.» Erano ormai giunte a casa. Entrarono.
«E i poveri? La gente povera non è capace di amare?» domandò ancora Jewel. «Loro sono capaci dell'amore più grande», rispose Lilith, togliendosi lo scialle e deponendolo sulla spalliera di una sedia. «Poiché l'amore e la vita stessa sono messi a dura prova dalle necessità, i legami devono essere più forti per sopravvivere.» «Io non ho mai incontrato nessuno fatto come dici tu, fuorché mio padre», osservò Jewel. «Tu non hai ancora undici estati.» Lilith le fece l'occhiolino. «Hai tutto il tempo. Oh...» Si voltò verso la porta, con un sussulto. «Non ti è sembrato di sentire dei passi?» «Li ho sentiti», rispose la bambina, stupita, come già altre volte, da quegli occasionali scatti di nervosismo da parte della madre. «Li ho sentiti. Mio padre è arrivato a casa e ha appena messo piede sullo staithe. Lo vedo dalla finestra.» Mentre si avvicinava la pubertà, Jewel aveva l'impressione che tutti volessero darle consigli; soprattutto Earnàn, che era sempre pronto a tirare fuori un saggio proverbio. «Per vivere una buona vita bisogna mantenere una buona salute», proclamava con enfasi. «Non camminare quando devi correre, non stare ferma quando devi muoverti, non sederti quando ti devi sdraiare. Tra il Giorno della Luna e il Giorno del Sole, mangia più di trentanove cibi diversi. E ricorda che la salute del corpo non è tutto. Per essere felici nella vita è necessario avere almeno queste tre cose: qualcosa da fare, qualcuno da amare e qualcosa in cui sperare.» Il trascorrere degli anni aveva schiarito in un tono grigio argenteo i capelli di Earnàn. Da ciò Jewel deduceva che era un uomo saggio. Eoin le dava molti consigli, ma le insegnava anche molte canzoni da taverna. «Tutti questi consigli mi confondono», disse Jewel a Eolacha, mentre filavano fibre vegetali sedute davanti alla finestra, in un mattino luminoso. «Fai questo, fai quello. Come si fa a sapere qual è la cosa giusta?» «Se ti rispondessi ti darei un altro consiglio», rispose la carlin, torcendo il filo con le dita nodose. «Così terrò per me quello che so.» «No, ti prego», disse subito la ragazzina. «Quando uno mi tiene nascosto qualcosa, devo fare di tutto per scoprirlo.» La carlin commentò con una risatina: «La curiosità è la tua forza ma an-
che la tua debolezza, bambina mia! Districa bene quei nodi! D'accordo, ti dirò allora che il segreto per fare la scelta giusta si trova dentro ciascuno di noi. Se devi fare una scelta, prima devi ottenere tutte le informazioni disponibili sull'argomento, da quante più fonti diverse sia possibile. Poi devi considerare quelle informazioni esaminandole da tutti gli angoli. Infine devi riflettere. Quando avrai la risposta giusta, lo saprai. Potrà occorrere del tempo... alcune soluzioni sono difficili da trovare. Ma tieni in mente che c'è una ragione per tutte le cose, una risposta per tutte le cose, ed è per questo che non devi mai rinunciare a cercarla». «Tu hai molta saggezza, a seanmhàthair. Dimmi ora come si fa per trovare il potere e la ricchezza.» «Potere e ricchezza non portano necessariamente la felicità.» «Oh, ma io li desidero con ardore», sospirò Jewel, lasciando rallentare fino a fermarsi la ruota del filatoio. «Non voglio dover lavorare duramente per vivere. Voglio una bella casa di pietra, abiti eleganti, e anche dei servi.» Il cucciolo dell'upial di palude giocava coi gomitoli, facendoli rotolare con le zampe sul pavimento. La vita media di quegli animali durava pochi anni, ma sua madre era morta dopo una lunga e gioiosa esistenza. Eolacha rispose: «Inseguendo la magia che sogniamo, corriamo il rischio di perdere di vista la vera magia». «Tu parli per enigmi. Quale magia?» «Guardati intorno.» Jewel fece scorrere lo sguardo intorno a sé. Sui canneti più lontani le oche stavano volando come grandi fiocchi di neve. Più vicino, l'acqua scintillava come un tappeto di diamanti; il cucciolo di upial la stava fissando con espressione adorante, di amore incondizionato; un ragno tesseva la sua tela in un angolo del soffitto; la brezza portava l'odore dei fiori e della terra umida; le libellule si mantenevano incredibilmente ferme nell'orbita delle loro ali scintillanti; i pulcini di anatra zampettavano come buffi mucchietti di peluria gialla al seguito delle loro madri. «Quale magia?» domandò ancora Jewel. Annoiata dal lavoro di filatura, non era molto in vena di osservare. La carlin scosse il capo, rinunciando a risponderle. «Tu parli di magia, a seanmhàthair. Dimmi della sapienza delle carlin.» «Non è molto ciò che mi è permesso divulgare. La nostra sapienza appartiene solo a noi e nessuna donna può conoscerla se la Cailleach Bheur non le dà il bastone.»
«Io non voglio il bastone. C'è troppo da fare con le pomate e i decotti, non si ha mai un momento libero. Dannazione!» Jewel si era accorta di avere una foglia fra le trecce. Cominciò a districarla, facendo una smorfia. «Cosa c'è?» «Mi sono rimaste impigliate in testa delle foglie di cardo. Ieri, sulla Cresta del Sauro, mi sono sdraiata senza accorgermene su alcuni cardi. Detesto quelle piante. Pungono i miei amici e, quando le strappiamo, ricrescono subito. È una pianta che non serve a niente. Perché l'hanno inventata?» «Tutto ha il suo scopo, che noi ne siamo consapevoli o no.» Jewel si tolse l'ultima foglia dai capelli e la gettò sulla brace. «Ma il cardo non ha nessun profumo e non ha colori. È un'erbaccia qualsiasi, per di più spinosa.» «Se si guardano i fiori da vicino, si può sempre vedere una certa bellezza. Le farfalle la pensano così, e anche le api. Senza i cardi esse avrebbero meno fonti di nutrimento. Devi capire che anche le erbacce più comuni e antipatiche hanno una loro utilità e una loro bellezza.» «A me i cardi continuano a non piacere», disse secca Jewel. Eolacha lasciò fermare la ruota del suo filatoio. «Abbiamo finito, per oggi?» domandò Jewel con un sorriso. «No, non ancora. È solo che sono stanca.» Il sole entrava dalla finestra. Per un momento Jewel immaginò che la figura della carlin fosse trasparente e che la luce passasse attraverso di lei. Il volto rugoso di Eolacha era pelle e ossa, le sue spalle più curve dell'ultima volta che Jewel le aveva guardate. All'improvviso le venne da pensare, con timore, che non voleva perdere quella donna ormai così fragile e incartapecorita. «A seanmhàthair, tu sei molto vecchia?» le domandò d'un tratto. «Sì, molto vecchia», fu la disinvolta risposta di lei. «Vecchia e saggia, perciò devi ascoltare le mie parole.» L'anno seguente le piogge primaverili furono pesanti e prolungate. L'acqua scese in cascate e torrenti giù dai versanti di Bellaghmoon, dai Poggi dei Wight e dalle alture al confine settentrionale. Spumeggiava fuori dalle gole rocciose, scivolava giù dai pendii, scorreva tra l'erba frusciando intorno ai tronchi degli alberi. Tutta l'acqua delle regioni circostanti scendeva inevitabilmente nell'immensa depressione che ospitava il Grande Acquitrino di Slievmordhu. E, quando il livello delle lagune e dei canali salì oltre il limite di pericolo, la gente iniziò a preoccuparsi.
«Non c'è fine a questa inondazione?» si chiedevano tutti. «Se continua così, presto l'acqua arriverà alla soglia delle nostre case.» Ma l'acqua continuava a salire, fangosa e gorgogliante. In pochi giorni le paure della gente divennero realtà e, benché fossero quasi tutte costruite su palafitte, le case cominciarono ad allagarsi. Ormai minacciati nelle loro stesse possibilità di sopravvivenza da quella marea inarrestabile, alcuni dissero: «Dobbiamo chiedere l'aiuto dei Signori del Clima». «Come facciamo a mandare qualcuno ad Alta Darioneth in tempo per salvare le nostre case?» obiettarono altri. «Occorrono più di sei settimane per arrivare alla città dei Signori del Clima. Chi tra noi possiede un cavallo con le ali?» «Inoltre», osservò Eolacha, «le piogge sono cessate. È solo l'afflusso di acqua da altre regioni che la fa salire di livello. I Signori del Clima possono comandare la pioggia, ma credo che non abbiano nessun potere sull'acqua già caduta.» «Cosa possiamo fare?» La gente dell'Acquitrino si appellava alla carlin, non al comandante, per avere aiuto. Il comandante di una provincia poteva difenderla contro un assalto di mortali; la carlin trattava con altre minacce, sia naturali sia stregonesche. Eolacha decise: «È tempo di chiamare il Tiddy Mun». Il Tiddy Mun era il guardiano eldritch dell'Acquitrino. Viveva nelle verdi profondità delle polle intorno a Isola Solitaria e ne emergeva soltanto al crepuscolo, quando pallide sciarpe di nebbia serpeggiavano sulle lagune e si torcevano lente intorno agli alberi. Nella foschia più densa il piccolo wight si muoveva furtivo tra le ombre, con andatura claudicante. Aveva l'aspetto di un vecchio dall'aria spettrale, con lunghi capelli bianchi, una barba scarmigliata e abiti malconci pieni di strappi. La sua palandrana dal colore indefinibile era difficile da scorgere nella penombra, ma chi gli passava a breve distanza poteva udirlo fischiare nel vento, ridere ed emettere un pittiti pittiti come il richiamo di una pavoncella. Era strano e poco tranquillizzante, ma non unseelie. Anzi era benevolo verso gli umani. Dopo il tramonto, con l'acqua più alta che mai, Eolacha e il comandante Stillwater condussero un piccolo gruppo di capifamiglia in quella zona selvaggia dell'Acquitrino. Era una sera umida e senza luna e tutti tremavano, per il freddo e per altre ragioni, ma non avevano intenzione di tornare indietro e tenevano alte le lanterne per cercare un percorso agibile. Quando furono dinanzi a Isola Solitaria si fermarono, si raggrupparono ed Eolacha
proseguì da sola fin sulla riva. «Tiddy Mun senza nome, l'acqua è alta!» gridò la vecchia. E subito i capifamiglia le fecero eco, in coro: «Tiddy Mun senza nome, l'acqua è alta!» Poi continuarono a gridarlo, più volte, finché non udirono un fievole verso - piùit! piùit!- provenire dalle oscure immensità inondate dell'Acquitrino. Allora tutti si voltarono e fecero ritorno a casa. Il mattino dopo le acque erano scese sotto il livello di guardia. Forse perché viveva con una carlin e imparava tutto ciò che a quella era concesso di insegnare, o forse perché aveva buona vista e una mente sveglia, sembrava che Jewel incontrasse dei wight più spesso di qualsiasi altro abitante dell'Acquitrino. Oppure erano la curiosità e la continua sete di nuove esperienze che la spingevano a cercarli nei posti in cui pochi osavano avventurarsi. Anche suo padre aveva potuto esaudire il pericoloso desiderio di vedere dei wight. Col tempo gli era accaduto non poche volte, com'era inevitabile per chi viaggiasse spesso in una regione infestata come l'Acquitrino. Nelle stagioni della tosatura delle pecore, il tragitto fra casa Mosswell e i pascoli esterni alle paludi lo portava attraverso ben tredici zone abitate da wight. Soprattutto la sera, quando tornava dal lavoro, gli accadeva di vedere strane cose, e non di rado ringraziava il cielo per l'insolita protezione di cui godeva. Dopo aver disceso la scala di pietra dalla via dei Carri, Jarred imboccava la Passerella Verde, una lunga serie di zatteroni che attraversava le paludi fino al pontile dove lo attendeva la barchetta con cui avrebbe percorso l'ultimo tratto fino a casa. La passerella attraversava anche la riva paludosa di un'isoletta deserta, sulla quale c'era un edificio in rovina conosciuto come «il vecchio mulino». Un ponte di pietra lungo una trentina di passi conduceva dalla passerella all'ingresso semicrollato di quei muri coperti di muschio. Nessuno sapeva se quell'antica rovina fosse stata davvero un mulino, ma era una delle poche costruzioni in muratura dell'Acquitrino e come tale meritava un nome. In una sera luminosa, con la luna alta nel cielo, Jarred s'incamminò su quella passerella, col suo bianco cane da pastore, Tralee, che gli trottava accanto. Nella zona c'erano i soliti rumori notturni. Tra le canne gracchiavano le rane e in lontananza si udivano ogni tanto risatine stridule, singhiozzi e strani gemiti. Lui non prestava mai troppa attenzione a quei ru-
mori, ma d'un tratto il suo cane iniziò a ringhiare. Jarred rallentò il passo e, voltandosi verso il mulino, vide una donna all'altra estremità del ponte. Indossava un mantello verde come le foglie dell'issopo, col cappuccio gettato dietro la schiena. Dai suoi capelli biondi, bagnati e appiccicati al collo, e dall'abito inzuppato l'acqua scivolava giù in rivoletti e gocce. Le aveva formato una pozza intorno ai piedi, come se fosse appena uscita dallo stagno. Ma continuava a colare e colare, senza che il suo corpo si asciugasse mai. Stava là, in piedi, e fissava Jarred. Dapprima lui pensò che fosse umana e si domandò cosa stesse facendo lì a un'ora così tarda. Poi si accorse di essersi fermato. Accovacciato ai suoi piedi, Tralee continuava a ringhiare leggermente, i denti scoperti in una smorfia minacciosa. Con un sussulto, Jarred riprese a camminare. «Su, vecchio mio, andiamo», disse in fretta. Seguito dal cane, oltrepassò l'incrocio col ponte del mulino e proseguì lungo la passerella, senza guardarsi indietro. Nove giorni dopo la vide ancora: gli accadde di seguirla senza volerlo lungo la Passerella Verde, finché lei non attraversò il ponte che portava alle rovine e scomparve nell'ombra. Era senza dubbio una wight piuttosto misteriosa. In quel periodo, per caso o per calcolo, Eoin aveva spostato l'ancoraggio della sua casa galleggiante presso quella stessa passerella, non lontano dalla scala che saliva alla via dei Carri. Era una zona lontana da Città dell'Acquitrino, raggiungibile solo navigando sui canali esterni. Suibhne Tolpuddle gli faceva comunque visita abbastanza regolarmente, accompagnato dalla sorella maggiore, Doireann. Avendo regalato a Eoin un cane - un cucciolo femmina, di una razza buona per la caccia e il riporto, - Doireann non mancava mai di accompagnare il fratello con la scusa di vedere se l'animale stava bene. Eoin sospettava che ci fosse qualcosa di più personale dietro l'interesse della ragazza per il cagnolino, ed era stato proprio per ridurre al minimo quelle visite che si era trasferito in una zona così fuori mano e faticosa da raggiungere. Tolpuddle infatti capitava sempre da lui prima di cena, non se ne andava mai prima di mezzanotte e, oltre a dimostrare un appetito insaziabile, aveva una conversazione assai poco stimolante. «Suibhne è fortunato ad avere me che gli dico quello che deve fare», dichiarò Doireann. «Lui non sa neppure che giorno è.» Il fratello annuì e disse: «Se qualcuno me lo chiede, io rispondo sempre
che è il Giorno della Guerra». «Perché il Giorno della Guerra?» chiese Eoin. «Perché so che viene sempre, una volta ogni settimana», bofonchiò Suibhne, con la bocca piena della torta di semi di Eoin. L'altro lo guardò senza cambiare espressione, scosse lentamente il capo e commentò: «Stupefacente». Poi si diede un buffetto e chiese: «Non sto dormendo?» In una di quelle serate di noia, tra uno sbadiglio e l'altro, Eoin stava riflettendo su quanto pesasse la parola «ospitalità»; quando finalmente Suibhne si spazzolò via le briciole dalla barba e disse: «Andiamo, Doireann. È ora di tornare a casa». Ciò svegliò subito Eoin, che sorprese se stesso con un ritorno di galanteria. Balzò in piedi, aprì la porta per i suoi ospiti, accese la loro lanterna e la mise in mano all'amico, li scortò fino al bordo della casa galleggiante e diede loro una mano a transitare sull'asse che la collegava alla Passerella Verde. «Non ci accompagni fino all'attracco della nostra barca?» chiese Doireann speranzosa. «Ehm... Sally sta dormendo», rispose Eoin, indicando il cucciolo accovacciato in un cesto, accanto alla balaustra. «Se si svegliasse, potrebbe cercare di seguirmi e cadere fuori bordo.» «Ma è legata...» «Buonanotte!» tagliò corto Eoin, tornando sulla soglia di casa. Il rettangolo di luce in cui era stagliata la sua figura si restrinse fino a una fessura e scomparve. «Andiamo», disse Suibhne. Doireann e il fratello s'incamminarono sulla passerella. A destra e a sinistra del percorso i gigli d'acqua emergevano dalla nera superficie sui loro steli biforcuti. L'aria era così gravida del loro profumo che a ogni respiro sembrava d'inghiottire una boccata di crema. I gufi volavano in silenzio attraverso fitti veli di tenebra. Mentre i due stavano per arrivare all'altezza del ponte del vecchio mulino, Suibhne colse un movimento e, alzando la lanterna, vide una figura che veniva verso di loro, una donna... o almeno quella che sembrava una donna. Indossava un mantello verde come le felci arboree, lungo fino alle caviglie, col cappuccio gettato indietro; aveva lunghi capelli biondi appiccicati alla faccia. L'acqua gocciolava copiosa dalle sue membra. Allarmato, ma non sapendo cos'altro fare, Suibhne continuò a camminare. La femmi-
na umanoide arrivò all'altezza dei due mortali, passò oltre e proseguì. Doireann non l'ha vista... dunque ho sognato, pensò Suibhne. Ma non le dirò niente, per non spaventarla. I due continuarono ad avanzare; erano ormai arrivati al pontile quando Doireann disse: «Suibhne, quella donna ti conosceva». Lui la guardò, stupito. «Quale donna?» «La donna che abbiamo incontrato poco fa. È passata proprio in mezzo a noi.» Un brivido fece accapponare la pelle di Suibhne. La paura gli leccava il petto come una lingua velenosa. Accelerò il passo. Il pontile era ormai vicino. «Vieni», ansimò, e non volle dire altro finché non furono al sicuro sulla barca. Dopo quell'episodio Suibhne, ogni volta che fece visita a Eoin nella Zona Infestata in cui si era trasferito, badò bene di andarsene sempre prima del tramonto. Quando Doireann la tirava per le lunghe e scendeva il crepuscolo, Suibhne non mancava mai di unirsi in tono supplichevole all'immancabile richiesta di lei: «Non ci accompagni fino al pontile dove abbiamo lasciato la barca?» Poi aggiungeva: «E porta il cane». Calcolando che si sarebbe liberato di loro più in fretta se li avesse accontentati, Eoin li scortava fino al pontile, tirandosi dietro anche la giovane cagna, rumorosa e vivace. Suibhne non gli permetteva di tornare indietro finché non avevano oltrepassato il punto del loro incontro con la donna dal mantello verde che grondava acqua. Quanto Jarred sentì narrare la vicenda da Earnàn, ci rise sopra. Più tardi raccontò a Lilith ciò che aveva visto lui sulla Passerella Verde. «La Signora Verde ha messo una gran paura addosso a Tolpuddle, ma quelle apparizioni a me non fanno né caldo né freddo», disse. «Anche se tu non fossi protetto dall'incantesimo d'invulnerabilità, credo che non avresti nessuna paura», replicò Lilith. «Hai molta fiducia nel mio coraggio», commentò lui sorridendo. «Stanne pur certo. E ho anche molta fiducia nei vantaggi che traggo dalla nostra vita assieme. Sono trascorsi oltre dodici anni dal nostro matrimonio. Dodici anni di felicità. E non mi sono mai sentita avvicinare da un rumore di passi, salvo che non fossero quelli del mio uomo di ritorno a casa o della mia bambina che correva tra le mia braccia. Sembra che abbiamo sconfitto la maledizione, dopotutto.»
«Certo che l'abbiamo sconfitta», mormorò Jarred stringendola tra le braccia con amore. «L'abbiamo sconfitta.» Era ciò che lui sperava con tutta l'anima. 7 FOLLIA Quando Eoin Mosswell aveva spostato la sua dimora nomade, non l'aveva fatto solo per rendersi meno accessibile ai visitatori indesiderati. La sera, mentre Jarred tornava a casa lungo la passerella con Tralee alle calcagna, Eoin sedeva sulla veranda di fronte allo staithe con una pipa piena d'erba tra i denti e lo guardava transitare nella nebbiosa penombra delle paludi, oltre i penduli rami dei salici. Ogni volta che lo vedeva arrivare a passo svelto dopo una giornata di lavoro, Eoin pensava alla sposa che lo attendeva e non si meravigliava della sua impazienza di arrivare a casa, né del suo allegro fischiettare. L'odio che provava per Jarred era aumentato con gli anni e stava alimentando in lui truci desideri. Per molto tempo aveva accarezzato l'idea di giocargli qualche brutto scherzo, per umiliarlo e farne un oggetto di scherno per la gente dell'Acquitrino. Jarred si sentiva tranquillo e sicuro nel passare in quei luoghi infestati, grazie all'incantesimo d'invulnerabilità che lo proteggeva. Consapevole del sangue dello stregone che gli scorreva nelle vene, non poteva avere nessun timore dei wight unseelie. Il fatto stesso di non mostrare paura era già una buona protezione contro i tiri mancini delle creature eldritch. Andando avanti e indietro nell'Acquitrino, aveva abituato i wight alla vista della sua noncuranza, della sua completa mancanza di timore. Col tempo in lui si era sviluppata una certa familiarità, addirittura una specie di amicizia unilaterale per quegli esseri, e Jarred aveva cominciato a comportarsi con loro in modo cameratesco. Avendo un carattere allegro per natura, non di rado lanciava loro battute scherzose e frasi salaci, tanto per distrarsi un po' durante il cammino. Nel farlo badava tuttavia a non farsi sentire da altri esseri umani, per evitare di stupirli con quella singolare temerarietà. Sporco e maleodorante dopo una giornata di duro lavoro, con la pelle unta per il continuo contatto con la lana intrisa di grasso animale, Jarred faceva ritorno a casa nel buio della notte. Camminando sulla diga che tagliava le marcite e gli stagni pieni di vaghi riflessi, vedeva le luci degli uomini-lanterna muoversi qui e là e udiva le loro ingannevoli richieste
d'aiuto, alle quali rispondeva augurando cordialmente la buonanotte e ridacchiando tra sé. Anche senza l'incantesimo protettivo, un modo di fare così baldanzoso avrebbe garantito l'immunità a qualsiasi mortale. Quando una figura grottesca si precipitava verso di lui sulla via dei Carri, Jarred non batteva ciglio. «Non correre così», gridava. «Se prendi una buca ti romperai il collo!» Oppure: «È sorprendente che tu riesca a camminare dritto, visto che sulle spalle non hai niente che somigli a una testa, povero sventurato. Vieni qui, che ti riporto a casa io». Nell'udire ciò, di solito il wight emetteva un grugnito di disappunto e si dileguava. Alcune di quelle creature eldritch si rifiutavano di riconoscere la disfatta. Le luci delle paludi erano attirate dai mortali solitari e, quando passava Jarred, si affollavano sulla via dei Carri. A volte lui aveva l'impressione di attraversare un fantomatico giardino di fiori dai colori pallidi, azzurro pastello, verde chiaro e bianco perlaceo. Naturalmente Eoin non sospettava affatto che Jarred avesse un buon motivo per sentirsi così sicuro quando attraversava la zona. Benché lo vedesse passare spesso, non l'aveva mai visto ridere dinanzi alle luci eldritch né sentito rivolgersi in tono scherzoso a quelle temibili creature. Eoin era nato e cresciuto nell'Acquitrino e non avrebbe mai sospettato che un comune mortale potesse affrontare i wight senza nessun timore. Inoltre a quell'ora lui era sempre un po' alticcio e aveva la vista confusa, mentre sedeva sullo staithe con la sua cagna da riporto accovacciata lì accanto, perché dopo la cena gli piaceva buttare giù anche cinque o sei boccali di succo di palude. Una sera di inizio autunno, nel Giorno del Re, Eoin fece l'errore di bere una decina di boccali invece dei soliti sei. Aveva ruminato a lungo sulla successiva vigilia della Lanterna, immaginando Jarred che si godeva la festa con Lilith e Jewel, mentre lui, Eoin, sarebbe stato costretto a girare alla larga per evitare la sorella di Suibhne Tolpuddle. Il succo di palude doveva essere più forte del solito - i metodi di distillazione, nell'Acquitrino, erano alquanto rudimentali -, così, grazie ai boccali extra, quando scese il tramonto Eoin era più che semplicemente brillo. Quella sera c'era la luna nuova e inoltre il cielo era coperto. L'Acquitrino sprofondò ben presto in una tenebra sepolcrale. Eoin pensò che gli sarebbe convenuto portare una lanterna accesa sulla riva e aspettare seduto là il passaggio di Jarred. Mentre il suo nemico si avvicinava lui avrebbe chiamato aiuto e, quando l'altro fosse accorso per soccorrerlo, lui l'avrebbe attirato fuori strada, dritto nella fanghiglia più profonda e pericolosa. Eoin non aveva mai percorso la via dei Carri in piena notte.
Già pregustando la figura che Jarred avrebbe fatto al suo ritorno a casa, coperto di sozza melma da capo a piedi, Eoin ridacchiò tra sé. La notte si stava facendo piuttosto fredda e il sentiero, benché largo, sembrava ondeggiare davanti ai suoi occhi. Decise di fermarsi e chiudere il coperchio metallico della lanterna, per non farne uscire la luce. Poi la assicurò alla cima di un lungo bastone, in modo da poterla protendere fuori della passerella. Non trascorse molto che udì avvicinarsi dei passi. Poiché non era possibile capire se fossero quelli di Jarred o di una creatura eldritch, per qualche istante si sentì nervoso, ma poi udì la voce di Jarred che canticchiava una canzone e fu certo che si trattava di lui. Eoin si portò le mani intorno alla bocca e gridò: «Aiuto!» stando su un lato della strada. Aprì la lanterna e sporse il bastone all'esterno, per far oscillare la luce sulla palude e ingannare l'uomo che arrivava, ignaro, nel buio. Poco dopo un'altra voce lì accanto gridò: «Aiuto!» ed Eoin si mosse in quella direzione, pensando che a chiamare fosse Jarred, già rotolato a capofitto nella melma. Era ansioso di vedere l'odiato rivale in difficoltà. Spostò la lanterna, ridacchiando tra sé, ma d'un tratto il terreno gli fu strappato da sotto i piedi e una gelida melma lo investì da ogni parte. La lanterna gli cadde di mano e si spense. Era immerso nella fanghiglia fino alla cintura. I suoi piedi non trovavano nessun punto d'appoggio; Eoin non riusciva neppure a muoverli nella poltiglia che gli circondava le gambe. Pian piano iniziò ad affondare e, quando sentì che la melma lo stava risucchiando giù, attanagliato da un panico mortale, lanciò un gemito stridulo. Era finito nelle sabbie mobili, fredde e implacabili come un animale affamato, e in pochi istanti si trovò immerso fino alle ascelle. Tra le nuvole che coprivano il cielo si aprì qualche varco, lasciando trapelare la luce delle stelle. Eoin si agitava come un forsennato e sentiva la presa maligna del fango che si rafforzava sempre più. Lo immaginò che gli saliva pian piano lungo la faccia, entrandogli in ogni orifizio, fino a colargli in gola e nei polmoni. Inalò tutta l'aria che poté, inorridito, e gridò ancora. «Mi sembrava infatti di aver sentito qualcuno», disse Jarred, dalla riva. «Non temere, brav'uomo, adesso mando i cani a salvarti.» Fece un fischio e sia il cane da pastore sia la cagna di Eoin si avvicinarono. I due animali si gettarono in acqua, trovarono il poveretto che si dibatteva ormai senza forze e lo addentarono per la camicia. Poi lo rimorchiarono fino alla riva, dove Jarred l'afferrò e lo tirò all'asciutto.
«Ah, ma questo è mastro Mosswell! Sei conciato male, caro mio. Ti conviene tornare a casa e asciugarti davanti al fuoco. Pensi di farcela da solo?» Eoin tremava da capo a piedi. I suoi occhi erano le uniche chiazze bianche in una maschera di limo puzzolente. Scivolando e barcollando, raggiunse la scala di pietra e si allontanò senza una parola. Jarred controllò che arrivasse a destinazione senza altri danni e poi riprese la strada di casa, canticchiando tra sé. La rabbia di Eoin superava ogni immaginazione. Jarred non parlò a nessuno del suo incidente e ciò gli risparmiò l'umiliazione di essere preso in giro dai conoscenti. Per quella sua gentilezza, Eoin lo odiò ancora di più. Avvelenato dal rancore, giurò a se stesso che un giorno gliel'avrebbe fatta pagare. Quella notte di ninember c'era la luna piena. Stava acquattata sull'orizzonte oltre i rami spogli dei salici, come un foro lasciato nel cielo dal sole. Larga, gonfia e arancione, era la luna un po' malata che la gente si aspettava in quella stagione. Le stelle palpitavano gelide e bianche, a trilioni. In lontananza la musica di un flauto eldritch serpeggiava tra i cipressi, pura come l'argento, conturbante. Voci non umane discutevano, gridavano, piangevano e litigavano negli angoli più reconditi dell'Acquitrino. Intorno alle isolette crepitavano le nacchere delle rane. Jewel stava tornando a casa da sola. Aveva sete. Nel passare accanto al vecchio ceppo rinsecchito di un albero reciso presso casa Mosswell, si fermò e guardò nell'acqua, dove galleggiava il riflesso della luna. Inginocchiata sull'erba, si piegò in avanti, raccolse un po' d'acqua con le mani e bevve. Poi, senza capirne il motivo, esitò. Mentre guardava la mobile superficie scura dell'acqua, si accorse di vedere una faccia. Ma non era la sua. Era un volto mascolino, pallido e singolarmente bello, incorniciato da lunghi capelli neri come il carbone. Le stelle del cielo sembravano impigliate in quella lucida chioma. Gli occhi, di un colore cangiante nella luce degli astri, erano schegge di diamante, o forse d'acciaio, ombreggiati da ciglia di un nero così intenso da far pensare che fossero state ripassate con l'antimonio. In quella visione c'era qualcosa che fece venire a Jewel la pelle d'oca, come se si fosse massaggiata le braccia col succo di limone. Le sembrava che una musica strana e conturbante risuonasse nelle profondità del suo essere. Quello che vedeva era davvero un uomo? No... di certo non poteva
essere un uomo, benché la sua mascolinità fosse chiara e palese... no, quella era un'entità troppo legata agli elementi, troppo nitida, troppo esperta e antica per essere umana. La corrente che pettinava i suoi capelli ne faceva qualcosa di travolgente, un fiume di perdizione sensuale. Jewel stava osservando un viso d'incredibile bellezza, ma non ne fu attratta, anzi si ritrasse: in quei lineamenti perfetti c'era qualcosa di terribile, qualcosa che parlava di un potere inimmaginabile, così alieno che la spaventò. E non succedeva spesso che lei avesse paura di qualcuno. Tuttavia non fu capace di distogliere lo sguardo da quell'immagine. Affascinata nonostante la paura, si sentì costretta a percorrere con gli occhi le sue fattezze, più volte, quasi per cercare in esse un difetto che non c'era, o come ipnotizzata dalla loro simmetrica perfezione. Solo quando il vento increspò la superficie e l'immagine si confuse e svanì, Jewel fu capace di distogliere lo sguardo dall'acqua. Lo stagno la derideva con la sua immobilità. All'improvviso si sentì fredda, minacciata e vulnerabile. Stava per balzare in piedi e correre in casa, ma un impulso perverso la spinse a intingere le dita nel liquido e a berne qualche goccia, come per sfidare il fantasma, quasi per mostrare a quell'acqua che lei non aveva paura dei suoi misteri. Poi si alzò frettolosamente ed entrò in casa. Riferì a Eolacha ciò che aveva visto e le domandò se qualcuno fosse mai annegato in quel punto dell'Acquitrino. «Non che io sappia», rispose la carlin, studiando il volto impaurito della ragazzina. «Jewel, sei certa che quello che hai visto non fosse un wight acquatico, fermo proprio sotto la superficie?» «Ne sono certa. La faccia era diversa da quella di qualsiasi wight acquatico che io abbia mai visto. Inoltre la laguna davanti a casa nostra è sempre evitata dai wight.» «Di solito», la corresse Eolacha. «Quello che ho visto io non era... così reale come un wight.» «Uno spettro?» «Più reale di uno spettro.» «Un sogno, forse.» «Avevo gli occhi aperti.» «Si può sognare anche a occhi aperti.» Jewel rifletté, poi concluse: «Forse hai ragione, a seanmhàthair. Lo spero, perché quella visione aveva qualcosa di spiacevole che mi ha innervosi-
to». «Probabilmente era uno dei misteri dell'Acquitrino, come il Galeone. Non tormentarti, bambina. Ricorda che tu sei ben protetta.» Jewel toccò l'amuleto che le aveva dato suo padre e si senti rassicurata. Ma quella stessa notte, mentre dormiva, un sogno molto realistico le fece visita. Le sembrava di essere in un luogo elevato, spazzato dal vento, vertiginoso, pericoloso ed esaltante, in mezzo a crepaci neri sotto le stelle splendenti. Un violino suonava una melodia strana e affascinante, ma era come se la musica nascesse all'interno del suo cuore, perché le riecheggiava nelle costole; le vibrazioni le scuotevano tutto il corpo e il suo sangue frizzava come se fosse pieno di minuscole scintille. Ciò la faceva quasi soffrire e, agognando di scoprire l'origine di quella musica, Jewel si avvicinò a un'altura cosparsa di macigni che si stagliavano contro le stelle. Alzò lo sguardo. Lassù, presso la vetta, coi capelli e con le vesti che ondeggiavano come scrollati dal vento, benché l'aria fosse immobile, c'era il suonatore. La luce della volta stellata lo rivestiva di un chiarore vitreo, argentato. Come strisce sottili di alghe agitate dalla corrente, le ciocche dei suoi capelli svolazzavano languidamente, in onde sinuose. Quello non era un bardo gitano dalle mani esperte che suonava uno strumento a corde. Al contrario, era un individuo alto e snello, una figura scattante pervasa di energia; le sue dita danzavano sulle corde, mentre l'archetto volava leggero e tutto il suo corpo si muoveva a ritmo con la musica. Era come se lui stesso fosse il ritmo e la musica scaturisse dalla sua pura e semplice esistenza fisica. Le stesse sfere siderali si piegavano intorno a lui per ascoltarlo, o così sembrava, e il mondo pareva trattenere il respiro. La musica aumentò di volume, come se un secondo violino si fosse unito al suo, e poi un terzo e un quarto, quest'ultimo con una nota così acuta che vibrava di toni ultraterreni. Ognuno di quegli strumenti in concerto s'intrecciava con l'altro costruendo la più affascinante delle armonie, tenera come il desiderio, tesa come il dolore. Poi entrò la voce morbida dei violoncelli, i ricchi toni sotterranei delle tube e quelli dei flauti carichi di passione. Eppure non c'erano altri strumenti, non c'era nessuna orchestra. L'unica fonte di ogni suono era il violino suonato dal musicista sulla cima dell'altura. Jewel fremeva dal desiderio di vedere chi fosse quel virtuoso; le parve di scivolare su verso di lui, ma la faccia dell'uomo restò seminascosta dai capelli fino all'ultimo, quando si girò di profilo e lei poté vederla.
Era, naturalmente, il volto che l'aveva guardata da sotto la superficie dell'acqua, bello oltre ogni immaginazione, forte, spietato, stupefacente. Terrorizzata, la bambina si ritrasse, o forse gridò nel sonno. Quegli occhi allungati erano pieni di violenza e di crudeltà. Ah, che occhi! Il loro colore era un viola acceso, rabbioso come un temporale. Ma l'infernale bellezza del musicista non riuscì a sedurre Jewel; al contrario, la spaventò. Ebbe l'impressione di vedere la quintessenza del pericolo e il suo unico desiderio fu di scappare. In qualsiasi momento l'uomo avrebbe potuto accorgersi della sua presenza, e allora senza dubbio sarebbe accaduto qualcosa di terribile al mondo intero. Jewel si ritrasse, si accorse di cadere, allargò d'istinto le braccia e si svegliò ansimante e sconvolta nel suo letto. Giurò a se stessa che non avrebbe mai più bevuto in quella polla. Per molti giorni e molte notti dopo quel fatto girò alla larga dal vecchio ceppo. Alla fine, pur smettendo di evitarlo, non cercò più di vedere nell'acqua quel viso o qualsiasi altra immagine sommersa. Passò il tempo e pian piano dimenticò l'episodio. In seguito Eolacha parlò con Lilith di ciò che Jewel aveva visto. «Non so proprio cosa pensare di un miraggio di quel genere, ammesso che fosse un miraggio», disse la carlin. «Forse si è trattato di qualche radice imbevuta d'acqua mista a una visione del futuro, o del passato, o di una favola.» «O era soltanto la sua fantasia di ragazzina inquieta», disse Lilith. L'inverno giunse in silenzio, camminando con scarpe di nebbia, vestito di gelida seta incrostata di brina. Tenember, l'ultimo mese dell'anno, prevedeva una ricorrenza colma di significato: il suo ventesimo giorno era la vigilia di Mezzo Inverno. In quella data Grianan, il Sole Invernale, raggiungeva la sua dimensione minima, appeso come un disco freddo nel cielo meridionale, e la forza della Cailleach Bheur era al massimo. La Strega Invernale eldritch si aggirava nei luoghi più selvaggi di Tir fin dalla vigilia della Lanterna, percorrendo le terre per renderle fertili e invocare un tempo freddo, e a Mezzo Inverno era pronta per scegliere tra le donne mortali che si sarebbero candidate per diventare carlin. Non era mai stata udita pronunciare una sola parola, la Cailleach Bheur. Non parlava ai mortali. Ma a Mezzo Inverno le donne che si recavano da sole nei luoghi disabitati avrebbero potuto incontrarla, oppure no. La si poteva trovare in qualunque luogo, occupata a pescare in un laghetto semicongelato, china a mungere una cerva o in piedi sotto le fronde dei biancospini. Quando una donna la incontrava, non c'era modo di prevedere cosa
sarebbe successo. La vecchia dalla faccia azzurra poteva gettarle appena un'occhiata e andarsene col solo rumore del crepitio della brina sotto i piedi, senza lasciarle altro che un brivido gelido nei nervi e nelle ossa. Oppure la Guardiana dell'Inverno poteva fermarsi a fissare la mortale con occhi terribili, così insondabili da sembrare cavità vuote attraversate da un vento freddo. E poi poteva allungare una mano e, se la mortale che aveva osato cercarla, non fuggiva, se restava coraggiosamente dov'era, la Cailleach Bheur le toglieva qualcosa. Qualcosa di prezioso, qualcosa che la strega eldritch voleva per sé. Ci sarebbe stata una breve, lancinante fitta di dolore, poi le scheletriche dita bluastre avrebbero sfiorato la fronte della candidata e, in cambio, quella avrebbe ricevuto il bastone, con tutto il potere che vi era racchiuso. Forse la Cailleach Bheur dava o faceva anche più di quello nella sua strana iniziazione, ma, se pure era successo, nessuna mortale era mai riuscita a parlarne. In ninember, l'ultimo mese dell'autunno, Eolacha era andata da Cuiva Stillwater. «I tuoi figli sono abbastanza cresciuti da poter fare a meno di te. Questo Mezzo Inverno potrebbe essere un buon momento per andare fuori.» Cuiva aveva sostenuto lo sguardo della carlin con fermezza. Un'onda di emozione e d'impazienza le aveva imporporato il viso, facendole brillare gli occhi. Si era limitata ad annuire, così colma di parole che non era riuscita a pronunciarne nemmeno una. Alla vigilia di Mezzo Inverno, Cuiva uscì di casa e restò assente tutta la notte. Suo marito Odhràn rimase sveglio ad attenderla in quelle lunghe ore di oscurità, mentre il fuoco si spegneva lentamente, le palpebre si appesantivano e le spalle s'incurvavano per la stanchezza. Aveva paura dell'arrivo del mattino e si chiedeva se sua moglie sarebbe tornata storpia o muta, cieca o col naso mozzato, o senza mani. Sarebbe meglio, pensò in quell'agonia, se fosse morta. Ottenere il bastone può anche essere il desiderio della sua vita, ma a quale prezzo? Continuava ad alzarsi, ad andare avanti e indietro di fronte alla finestra, a uscire a sedersi sulla soglia nel gelido silenzio di quella notte invernale e poi a rientrare in casa, mentre, distesi al calduccio nei loro letti, i suoi tre figli dormivano tranquilli. Il mattino si aprì come un fiore di ghiaccio, immoto e intirizzito, rubando pian piano i colori dal freddo occhio del giorno, per sgretolarli e gettarli via in una polvere di scintille che copriva tutto. Le folaghe tubavano tra le
canne. Ogni giunco era una rigida spada nera ingioiellata con cristalli in miniatura che crepitavano al vento. Infine Cuiva apparve sulla lunga passerella che univa le isole, procedendo leggera come la nebbia sull'acqua. Il suo volto era aperto in un sorriso lieto. Impugnava un bastone da carlin. Suo marito corse da lei, la strinse fra le braccia e la baciò, poi la tenne per le spalle e la guardò attentamente, con ansia, da capo a piedi. Ma aveva già visto. Fin da quando era bambina, una tumultuosa cascata di riccioli biondi come il miele impreziosiva la bellezza di Cuiva. Ora il suo viso era incorniciato da una nuvola candida. Tutto il colore le era stato tolto, dai capelli, dalle ciglia e dalle sopracciglia. I suoi occhi, prima dorati come l'ambra, erano cambiati anch'essi e nelle iridi le restava soltanto una vaga sfumatura violacea. Le sue guance, un tempo di una calda tonalità rosata, erano bianche come petali di gigli d'acqua. «Io sono una carlin», disse, esultante e meravigliata. «Lei mi ha preso soltanto i colori!» Suo marito non la udì neppure, sommerso com'era dal sollievo e dal suono di una voce - la propria - che ripeteva il nome di lei. La prese in braccio e la portò in casa. Da Ashqalêth arrivò un cavaliere: Yaadosh. Portava la dolorosa notizia che la madre di Jarred era morta nel sonno. «Ma non devi soffrire troppo», disse con ansia, posando una mano su una spalla del compagno, «perché la fine è giunta rapida e indolore.» Jarred non fu capace di rispondere. Stordito dalla notizia, riuscì solo ad annuire, a capo chino per l'angoscia. Yaadosh continuò: «Tua zia Shahla mi ha detto che tua madre era stata poco bene per qualche tempo, con dolori al braccio sinistro. Un mattino non si è svegliata e il nuovo agente dei druidi ha detto che il suo cuore si era fermato. Aveva già visto altre persone morire così. Shahla mi ha assicurato che il volto di lei era composto in un'espressione tranquilla e serena». In una borsa da sella Yaadosh aveva portato alcune monete di rame che la madre di Jarred era riuscita a mettere da parte in quegli anni per il suo unico figlio. Lui le accettò e le consegnò a Earnàn, come pagamento per l'affitto arretrato. Poi costruì una larga zattera, la caricò di legna secca raccolta nei pascoli e la coprì con foglie e bacche. Quando le diede fuoco, il riflesso della grossa pira fu visibile nel cielo della sera a distanza di molte
leghe. Lui la spinse alla deriva sul Lago Charnel, sospesa tra l'acqua senza luce e la cupola nera del cielo. Rimase lì sulla sponda a osservarla, eretto come un soldato di guardia al ricordo di sua madre, cantando una vecchia canzone ashqalêthana di commiato. Yaadosh non rimase molto tempo. «Sono partito per andare ancora in cerca di avventure», disse. «In Ashqalêth non c'è niente per me.» Quell'anno l'inverno sembrò ancora più lungo. La via dei Carri era la strada più ampia e spaziosa che attraversasse l'Acquitrino. Scorreva sulla sommità di un'antica diga. La superficie di quel percorso sopraelevato era così liscia e regolare che i carretti trainati da muli potevano usarla come strada; da lì veniva il suo nome. Era stata costruita in un tempo lontano da gente che intendeva prosciugare quella zona dell'Acquitrino e adibirla a pascolo. Ogni anno, in occasione dell'ultima luna piena invernale, gli uomini, le donne e i bambini del Grande Acquitrino di Slievmordhu andavano in processione sulla via dei Carri, portandosi dietro molte giare di terracotta piene d'acqua. Giunti all'estremità della strada, si disponevano in fila, quindi vuotavano l'acqua al suolo e percuotevano le giare con dei bastoni, cantando: Tiddy Mun senza nome, ecco l'acqua per te. Non colpirci col tuo incantesimo. Tiddy Mun senza nome, la diga è crollata. Fai tornare la buona sorte su di noi. Il rito era chiamato Ritorno delle Acque. A differenza di altre cerimonie annuali, la sua origine era ben nota e se ne tramandava il ricordo da una generazione all'altra. Molto tempo addietro i contadini della regione più asciutta avevano deciso di drenare l'Acquitrino, tentati dal beneficio economico che ne sarebbe derivato. «Prosciugando questo territorio lo renderemo coltivabile», dicevano. «Un suolo ricco che darà ottimi raccolti. Costruiremo una lunga diga qui a ovest, così un grande lago ricoprirà queste isolette erbose e tutto il resto dell'Acquitrino potrà essere prosciugato. Il corso di alcuni fiumi sarà deviato e finirà per alimentare quelli sotterranei. Che grande estensione di terra porteremo all'asciutto! E quanto ne trarrà giovamento la nostra vita!»
Ma gli abitanti dell'Acquitrino nutrivano forti dubbi su quelle promesse. Sapevano che il Tiddy Mun non avrebbe mai abitato in una palude prosciugata. E dove sarebbero andati tutti i pesci, le anatre e le anguille, e i wight d'acqua dolce? Tuttavia i coltivatori erano ricchi e in quell'impresa godevano dell'appoggio dei druidi, così misero al lavoro la loro manodopera nonostante le proteste degli abitanti dell'Acquitrino, che a quell'epoca erano pochi, guidati da un comandante debole e privi di una carlin. L'uno dopo l'altro i lavoratori che stavano costruendo la diga sparirono senza lasciar traccia, e la gente dell'Acquitrino capì che li aveva presi il Tiddy Mun. I coltivatori si limitarono a chiamare dei rimpiazzi. Furono spianati boschi e isolette, fatti arrivare carri con grandi quantità di pietrisco, e il lunghissimo terrapieno prese forma. Quando anche l'ultimo tratto fu terminato e le paludi iniziarono a essere prosciugate, l'ira del Tiddy Mun si rivolse anche contro gli abitanti dell'Acquitrino, oltre che verso i coltivatori e i manovali venuti da fuori. Le capre restarono senza latte e tutto il bestiame cominciò ad ammalarsi. I bambini caddero preda di febbri maligne e morirono tra le braccia delle madri. Fin dalla comparsa di quelle sventure, la gente ne aveva incolpato i bogle e altri wight unseelie, così appese nuovi talismani alle porte delle case e supplicò i druidi d'intervenire contro quelle stregonerie. Ma, per quanto essi facessero, la sfortuna continuò a colpire e a mietere vittime. Alla fine i più saggi si consultarono. «Forse la causa di tutti questi malanni e disgrazie è il Tiddy Mun», conclusero. Gli abitanti dell'Acquitrino si riunirono nel cruinniú. «Perché il Tiddy Mun dovrebbe prendersela con noi?» domandarono alcuni. «È sempre stato nostro amico.» «Forse lui pensa che la colpa sia nostra», disse un anziano. «Forse pensa che dietro il prosciugamento dell'Acquitrino ci siamo noi.» Tutti compresero la logica di quell'osservazione e decisero che dovevano fare qualcosa per dimostrare al Tiddy Mun che la scomparsa delle acque non era opera loro. Gli uomini, le donne e i bambini malati si avviarono in una solenne processione sopra la diga, ciascuno portando una giara d'acqua. Gli uomini avevano anche pale e picconi. Quando furono al centro della diga, scesero sul lato asciutto e cominciarono a scavare la terra e le pietre appena messe, finché non ebbero aperto una breccia. Pian piano l'acqua iniziò a scorrere attraverso il varco, allargandolo sempre più, ma il resto del terrapieno era solido e rimase intatto. Nel frattempo, sopra la diga, le donne e i bambini sofferenti versavano anche il contenuto delle gia-
re, gridando le loro suppliche per farsi udire dal Tiddy Mun. Quando ebbero finito, gli uomini risalirono sulla diga e attesero al buio, assieme alle loro famiglie. Erano stanchi e disperati e non sapevano cos'altro fare. A lungo tesero le orecchie nella speranza di udire un suono simile al richiamo della pavoncella, ma tutto ciò che si sentiva era il gorgoglio dell'acqua che scorreva attraverso lo squarcio del terrapieno. Poi intorno a loro si levò uno straordinario coro di vocine sottili. I padri e le madri piansero di sollievo e di gioia. «Queste sono le voci dei nostri bambini morti! Anche loro stanno pregando il Tiddy Mun di mettere fine al suo incantesimo!» «Come potete esserne certi?» chiesero gli uomini e le donne più giovani, stupefatti. «Sentiamo le loro piccole mani che ci stanno toccando», singhiozzarono i genitori dei bambini defunti. «Sentiamo le loro dolci carezze sulle nostre facce, le loro bocche morbide come petali che ci baciano, e ci sono tante piccole ali che volano intorno a noi, nel buio.» In quel momento sulla zona cadde il silenzio. Persino le cascate d'acqua tacquero, come se avessero perso le loro lingue gorgoglianti. Poi da lontano, oltre la palude fangosa, si udì il verso della pavoncella piùit! - e la gente dell'Acquitrino seppe che il Tiddy Mun aveva ritirato l'incantesimo. Tutti abbandonarono la diga, ridendo e piangendo di felicità. Nella loro eccitazione i giovani e le ragazze corsero a casa, esuberanti come bambini in un giorno di festa, ma i genitori li seguirono più lentamente, a lutto per i cari figli che avevano perduto. Da quella notte in poi, le disgrazie e le malattie lasciarono l'Acquitrino e i suoi abitanti cominciarono a prosperare. Non demolirono la diga, perché la sua sommità era una strada bella e comoda. I coltivatori ordinarono ai loro lavoranti di riparare lo squarcio, ma ogni notte esso si riapriva misteriosamente, e alla fine rinunciarono al progetto. Col passare degli anni l'acqua salì da entrambe le parti, fangosa e piena di vita, e i fuochi fatui proliferarono. Quella, dunque, era l'origine della via dei Carri. Per quel motivo, all'ultima luna piena di ogni inverno gli abitanti dell'Acquitrino andavano alla cerimonia dell'offerta dell'acqua con le giare e coi bastoni e ripetevano la canzone per ricordare al Tiddy Mun ciò che era successo. Quell'anno, dopo la processione, quando tutti ebbero lasciato la diga,
Eolacha rimase là. Nonostante l'età avanzata sembrava non accorgersi del vento gelido. I suoi familiari attesero con lei, a poca distanza, non sapendo cosa la trattenesse lì. Restarono a guardarla nel buio, magra e fragile nell'immensità delle paludi, illuminata dalla luna argentata. La vecchia mosse un braccio e gettò il bastone nell'acqua. L'oggetto vi affondò con strana lentezza, come in uno sciroppo. In lontananza, da qualche parte nel buio tra le isolette boscose, echeggiò un verso che si udiva raramente in quelle regioni: il lungo, interminabile, spettrale ululato di un lupo. «Io restituisco il bastone», gridò Eolacha, con voce sorprendentemente chiara e forte. Aggrappata a una manica di suo padre, Jewel ansimò e chiese: «Cosa sta dicendo?» Jarred scosse il capo, senza sapere cosa rispondere. Accanto a loro Earnàn, con le spalle curve, aveva un'espressione rigida e triste. I cinque tornarono a casa assieme, seguiti dal cane di Jarred. La vecchia appariva stanca, pallida come la luna. Lilith, a braccetto di suo marito, si accorse di essere calma e impaurita nello stesso tempo. L'atteggiamento della vecchia sembrava normale, tuttavia ciò che aveva fatto era inquietante. «Perché hai restituito il bastone?» le domandò sottovoce. «Alle carlin è dato sapere quando il loro tempo è giunto al termine.» «Non dire così. Non voglio sentire questi discorsi. Tu hai solo ottanta inverni. Vivrai fino a cento.» Eolacha la fece tacere con un gesto rassegnato. «Che tu sia benedetta, Lilith. Non c'è niente da fare. Il mio tempo si è concluso e io lo so. C'è un'altra carlin per l'Acquitrino. Ma aspetta a soffrire per me: il mio momento non è ancora giunto... non ancora.» Lilith la scrutò, preoccupata. Come ho fatto a non accorgermene? pensò. Ha solo un barlume della sua vitalità di un tempo. Ero così occupata con le mie cose da non vedere che la sua salute se ne stava andando. Non si è mai lamentata... I familiari condussero Eolacha in casa e lei sedette sul giaciglio accanto al caminetto. Il cane si accoccolò davanti al fuoco. Il giovane upial non si vedeva; era andato a caccia di lucciole. Jarred ravvivò le braci, mentre Earnàn portava a sua madre una ciotola di brodo. La donna sembrava debole come una larva di farfalla uscita dal bozzolo. Seduta di fronte al giaciglio, Jewel disse in tono grave: «Non puoi lasciarci, nonna».
«Bambina, io sono la tua bisnonna... in spirito, se non per sangue. Sono vecchia. Neppure il bastone di una carlin può sconfiggere l'inesorabile clessidra che misura i nostri giorni.» «Vorrei trovare quella clessidra», sospirò Jewel. «Così potrei romperla.» «Taci, taci», disse Eolacha, accarezzandole i capelli con affetto. «Sii serena, ora, se vuoi farmi felice.» Anche quell'inverno finì. Eoin spostò la sua casa. Gettò l'ancora dal lato opposto della stessa isola su cui sorgeva casa Mosswell. La banderuola segnavento cigolava, preda dei capricci del tempo, ma lui sembrava non accorgersene. Quando Lilith gli suggerì di ungerla, seguì il suo consiglio. Nella primavera del 3465 Jewel compì dodici anni. Quel mattino, davanti al caminetto di casa Mosswell, si tenne la breve cerimonia dei regali di compleanno. «Quanto ho desiderato che venisse questo giorno!» esclamò Jewel, ridacchiando per l'eccitazione. «Questo è il giorno più importante dell'anno!» Earnàn le consegnò un pacchetto floscio, avvolto nel feltro. Lei lo aprì subito e ne tirò fuori un foulard di lino ricamato. Balzò in piedi e se lo mise, annodandolo abilmente intorno ai capelli corvini. Jarred regalò alla figlia un paio di stivaletti di calda pelle di pecora, Lilith contribuì con una torta di compleanno fatta con farina acquistata in città, noci e uva passa, mentre Eolacha, seduta su una sedia a dondolo, le consegnò un libro di storie. Era il primo libro di Jewel e, mentre la ragazzina lo teneva tra le mani, l'allegria e la vivacità la abbandonarono. Rimase immobile e seria e guardò la gialla copertina di papiro con attenta meraviglia. «Questo è un tesoro!» sussurrò. «Grazie!» Con reverenza cominciò ad aprire le pagine, ma proprio allora il cane abbaiò per qualcosa che stava succedendo fuori ed Earnàn guardò dalla finestra. «Questo è il mio ragazzo!» gridò allegramente l'uomo. La porta si spalancò con un tonfo e suo figlio entrò in casa. «Buongiorno a tutti!» esclamò Eoin. Andò a baciare sua nonna e si scambiò una pacca sulle spalle col padre. Jarred gli rivolse un sorriso educato e incrociò le braccia, senza dire niente. Il cane si aggirava tra loro agitando la coda. «Vuoi un po' di vino di fragole?» offrì Lilith.
«Stai parlando con me, Lilith», rispose Eoin. «Non c'è bisogno di fare cerimonie. Ho saputo che oggi c'è una persona che compie gli anni, qui!» «Una persona c'è, zio Eoin», disse Jewel, lieta di vederlo. «Sono io!» Eoin prese Jewel sotto le ascelle e la sollevò dal pavimento, facendola girare intorno a sé. «Ah, ma tu sei diventata una ragazza grande, oggi, signorina Jewel. Non riuscirò a prenderti in braccio ancora per molto, se continui a crescere come un fungo.» «Cosa mi hai portato?» domandò la ragazzina tirandogli la barba, mentre lui la deponeva a terra. «Cosa ti ho portato? Be'...» Eoin corrugò le sopracciglia. «Perché, avrei dovuto portarti qualcosa?» «Proprio così!» esclamò lei con le mani sui fianchi e guardandolo da sotto in su, fingendosi arrabbiata. «Ma hai avuto già un bel po' di regali, a quanto vedo. Cos'è questo? Un nuovo fazzoletto per la testa. E questi... un bel paio di stivali. Cosa potrebbe desiderare di più una ragazzina come te?» «Il nonno mi ha regalato il fazzoletto e mio padre gli stivali. Ma ora ti stai prendendo gioco di me, zio Eoin. Io lo so che mi hai portato qualcosa. Lo fai sempre. Dov'è?» Eoin rise. «Questa diavoletta mi legge nel pensiero», disse a Lilith, divertito. «È furba come sua madre.» Si voltò e prese Jewel per mano, facendole l'occhiolino. «Allora, signorina, vieni un momento fuori.» Ridacchiando e saltellando per l'eccitazione, Jewel andò con Eoin sullo staithe, seguita dai suoi genitori, da Earnàn e dal cane. Là, assicurata a una bitta, c'era la barca di Eoin e sulla barca c'era un pony. Era legato saldamente per la testa e per le zampe, in modo da non potersi muovere, ma sembrava abbastanza comodo, accovacciato su uno strato di paglia. Era un roano, col dorso liscio color mogano. Jewel strillò di gioia e gli corse accanto. «È mio?» domandò ansiosamente. «È mio, zio Eoin?» «È tuo, sicuro, è tuo», rispose lui. «E guarda cos'altro c'è.» Dietro il punt era legata un'altra barca, ma non si trattava di un'imbarcazione qualsiasi. La prua era fornita di una polena di legno scolpito raffigurante una donna che suonava l'arpa e sullo scafo c'erano altre incisioni e altri disegni, cosicché si aveva l'impressione che fosse una variopinta opera d'arte galleggiante sull'acqua. «Oh», disse Jewel, sbalordita. «È mia anche quella?» «Anche quella!»
«Gramercie, gramercie, migliore di tutti gli zii!» E non era ancora tutto. Dall'interno della barca Eoin prese una scatola di legno di quercia scolpita con motivi floreali. La appoggiò sul molo e s'inginocchiò. «Aprila», disse, girandosi a guardare Jewel per godersi la sua reazione. Lei trattenne il fiato e alzò il coperchio. Senza riuscire ad aprire bocca, ne estrasse una boccetta di essenza di rose, un liuto di fattura perfetta e un liuto di legno di rosa. «Oh», mormorò con voce tremula, sopraffatta. «Gramercie mille volte, mio caro zio! Non ho mai visto cose tanto belle!» La sua espressione s'intristì quando fu colpita da un pensiero. «Ma io non so suonare il liuto. Chi mi insegnerà, qui nell'Acquitrino?» «Appendi lo strumento al muro, come ornamento», suggerì Eoin, imperturbabile. «Ma santo cielo!» esclamò Lilith, esterrefatta. «Eoin, che stravaganza è questa? Cos'hai fatto?» «Fatto? Non ho fatto altro che regalare alla mia nipote preferita delle cose che si adattano a lei», rispose Eoin. «Avanti, aiutatemi a far sbarcare il pony, e poi la sua nuova padrona gli darà un nome.» Il pony fu portato sulla terraferma e sistemato sul praticello dietro la casa. Eoin lo legò a un melo. L'animale abbassò la testa e cominciò a brucare l'erba. «Ora facciamo vedere queste belle cose anche a mia nonna», disse Eoin. Portò in casa la scatola intagliata e restò orgogliosamente a guardare mentre Jewel ne tirava fuori gli oggetti decantando le loro virtù. Eolacha ed Earnàn assistettero alla scena con volto imperscrutabile. Lilith era un po' corrucciata, ma l'espressione di Jarred era decisamente tempestosa. Mentre Jewel era occupata col liuto e si meravigliava delle sue note tintinnanti, lui mormorò a Eoin: «Perché hai speso tutti questi soldi?» Eoin parve stupito. A voce alta rispose: «Lascia che questa povera fanciulla abbia dei passatempi piacevoli! Che male possono farle? Quando una ragazzina cresce e si fa così bella, perché non dovrebbe avere di meglio che un misero paio di stivali di pelle di pecora?» Jarred ebbe l'impulso di colpirlo, ma si controllò. Il cane si accorse di quella tensione e iniziò a ringhiare. Nel sentire la voce dello zio, Jewel si era voltata. Alla vista di quella scena, tutto il piacere scomparve dal suo viso. «Padre, tu non approvi?» esclamò costernata, guardando le facce scure
dei due uomini. «Questi regali non ti piacciono. Oh, perché non me l'hai detto? Li restituirò subito!» Accorgendosi che ciò avrebbe messo in cattiva luce tutti fuorché Eoin, Jarred si affrettò a dire: «Puoi tenere i regali, Jewel, tienili e divertiti. Tuo zio è molto generoso». Si costrinse a sorridere. Jewel annuì, incerta. Il sorriso di Eoin era trionfante. Il giorno seguente, Eoin era occupato a pulire le anguille nella baracca dove salava il pesce, quando Jarred arrivò a remi sulla sua isoletta solitaria, legò la barca e scese a terra. Eoin alzò gli occhi dal lavoro e vide l'oggetto del suo odio stagliato nel rettangolo della porta. «Cosa vuoi?» disse sgarbatamente, gettando una manciata d'intestini in una conca accanto all'ingresso, ma con tanto impeto che il visitatore fu investito da schizzi di viscidume sanguinolento. Jarred non batté ciglio. Solo un fremito a un angolo della bocca rivelò la rabbia controllata a stento. «Te lo dirò subito», rispose a voce bassa. «Voglio che tu stia lontano dalla mia famiglia.» Eoin afferrò una grossa anguilla per le branchie, la mise sul tavolaccio e con un gesto esperto le aprì il ventre per l'intera lunghezza. «Proprio tu vieni a dirmi questo», borbottò accigliato. «Tu che abiti con mio padre e mia nonna. Perché non trovi una casa e te ne vai a vivere per conto tuo?» «Io non ho altra scelta che approfittare della loro generosità», disse Jarred a denti stretti. «E tu lo sai. Tu invece hai la fortuna di avere un'alternativa. In ogni modo, se loro hanno deciso di offrire un alloggio a me e alla mia famiglia, sono forse affari tuoi? Noi li ripaghiamo come possiamo. Lilith tiene la casa...» Eoin aveva affondato una mano nel corpo dell'anguilla e strappato via le interiora. Per la seconda volta le scaraventò senza nessun riguardo verso la conca accanto alla porta. E di nuovo Jarred fu investito da schizzi di liquame. Stavolta fece un passo avanti, rabbioso, ma si costrinse a fermarsi. «Bah!» sbottò Eoin. «Lilith deve lavorare come una schiava. Sei davvero un bel capofamiglia. Ora vattene, ho da fare.» Ogni finzione di cortesia si era dileguata, come grandine in una giornata di sole. Jarred replicò, in tono irato: «Non me ne andrò prima che tu mi abbia promesso di non fare mai più a Jewel regali così lussuosi... oggetti inutili che servono solo ad attirare l'invidia dei suoi conoscenti, sono costosi da mantenere e la portano a disprezzare i suoi genitori, che possono permettersi di farle soltanto regali di poco conto».
Eoin latrò una risata priva di allegria. «Proprio tu parli d'invidia. Quello che viene invidiato sei tu, per la tua bella faccia», disse, decapitando l'anguilla. «Tu sei invidioso dei miei regali? Be', cuoci nella tua invidia, come un'anguilla nel sugo...» Gettò la carcasse del pesce in un barile. «E apri bene le orecchie: io spendo i miei soldi come mi pare e faccio regali a chi voglio. Non è colpa mia se tu non riesci a mantenere come si deve la tua famiglia. E ho grandi progetti per il compleanno di Lilith: un abito di velluto azzurro come i suoi occhi. Ma devo conoscere le sue misure, per informare il sarto. Quanto misura la sua vita così snella, eh, bel signorino? È passato molto tempo da quando la stringevo fra le mie mani. Dovrò andare a misurargliela, se voglio che l'abito le vada bene...» Il pugno di Jarred lo colpì duramente sulla bocca. La testa di Eoin si piegò di lato. Quando tornò a voltarsi, un filo di sangue gli scendeva dal labbro inferiore, mescolandosi ai peli della barba. Ringhiando di rabbia, Eoin alzò la mano destra e fece saettare l'anguilla nell'aria come una frusta. Jarred si chinò. Il lungo corpo del pesce gli passò sopra la testa e urtò nel muro. Con un grido Eoin lasciò cadere la sua arma improvvisata e caricò l'avversario a testa bassa. Quest'ultimo l'abbrancò, indietreggiando per l'urto, e i due uomini lottarono vacillando qui e là come ubriachi, ciascuno cercando di gettare al suolo l'altro. Urtarono contro alcuni barili, facendoli rotolare via, contro i banchi di lavoro, rovesciandone a terra il contenuto, e contro gli scaffali, spaccando il legno. I loro stivali scivolavano in una poltiglia di intestini di pesce, anguille senza testa e liquami puzzolenti. Barcollarono da una parete a quella opposta, spingendosi come cervi incastrati per le corna. Poi Jarred mise un piede su un'anguilla e scivolò. D'istinto lasciò la presa per non perdere l'equilibrio. Mentre stava per cadere, Eoin gli sferrò un pugno alla mandibola e mise tutto il suo peso in una spallata che lo mandò a sbattere contro il muro. Jarred non cadde, ma rimase stordito mentre cercava di riprendere fiato. Eoin approfittò subito del suo vantaggio e colpì l'avversario con una rabbiosa scarica di pugni in faccia, usando tutta la sua forza. Jarred era immune alle ferite e al dolore, ma vulnerabile allo shock. La rabbia, comunque, gli smorzava la sensibilità; i tamburi dell'odio gli rullavano nelle orecchie, così come nel cranio di Eoin battevano i martelli della vendetta. Non appena riuscì a riprendere fiato, Jarred ruggì d'indignazione. Alzò un avambraccio per bloccare l'ultimo pugno e afferrò Eoin per i capelli, facendogli sbattere la testa contro il muro. Stava per ripetere l'operazione quando l'avversario gli mise un piede tra le gambe mentre era sbilanciato.
Jarred cadde in una massa viscida di anguille e putridume. Eoin lo scalciò malignamente nelle costole per quattro volte, prima che lui potesse agguantarlo per un piede e farlo cadere su un bancone rovesciato. Abbracciati sul pavimento, rotolarono su tutto ciò che lo ingombrava, entrambi irriconoscibili tanto erano imbrattati di porcherie e del sangue che usciva da un brutto taglio sulla fronte di Eoin. La lotta fu cruenta. Erano accecati da un'ira che, dopo essere lievitata per anni, ora esplodeva nella follia, oltre ogni ragione e ogni sofferenza, oltre ogni pietà. Ruzzolarono tra i barili rovesciati e contro le pareti, sbatterono sulla porta dell'affumicatoio e sopra le braci ardenti del fuoco non ancora spento. Dai loro abiti si alzarono spirali di fumo ed Eoin urlò nel sentirsi ustionare la schiena, divincolandosi come un'anguilla agonizzante presa all'amo. Quel dolore spinse la sua furia a nuove vette, così, quando vide sul pavimento il coltello per sventrare il pesce, lo impugnò. Muggendo, ormai incapace di ragionare, vibrò il colpo. Jarred vide arrivare il coltello nella mano destra di Eoin. Per la maggior parte della vita si era creduto vulnerabile come ogni altro uomo, così l'istinto prevalse e alzò un braccio, girandosi dalla parte opposta per proteggersi la faccia e gli occhi. Il gesto di Eoin fu molto violento; il braccio di Jarred deviò il coltello, ma non poté fermarlo del tutto. La lama sembrò penetrare nella sua gola. Eoin ritrasse l'arma. Esitò. Una fredda chiazza blu apparve nel rosso miasma della sua frenesia e, attraverso essa, lui vide lo spettro chiamato omicidio. Poi Jarred si alzò e gli si avventò addosso con la furia di un uragano, afferrandogli il polso e facendo sbattere la mano armata contro lo spigolo di un tavolo, finché il coltello non cadde dalle dita intorpidite. L'altra mano di Jarred era stretta alla gola di Eoin. Questi a sua volta protese la sinistra per cacciargli le dita negli occhi... e in quel momento altre mani intervennero nella lotta, cercando e fermando quelle dei due combattenti. Una voce gridò: «Basta! Basta con questa pazzia! Smettetela! Basta, ho detto!» Suibhne Tolpuddle si frappose tra loro, costringendoli a separarsi come meglio poteva, nonostante il braccio parzialmente invalido. Per un poco Eoin e Jarred si colpirono ancora, finché non furono costretti a rinunciare e si scostarono, ansanti. Solo i loro occhi continuarono a cercarsi, sanguigni e inferociti.
«Che vi colga la peste!» gridò Tolpuddle. «Guardate com'è ridotta questa stanza! Io arrivo qui con un carico di buona legna di ciliegio e cosa trovo? Tutto il nostro lavoro rovinato!» Gli rispose solo il respiro affannoso dei due uomini, che si fissavano con odio. Eoin aveva un occhio chiuso e gonfio, ancora più arrossato dal sangue che gli colava dalla fronte. «Siete conciati male, tutti e due», li rimproverò Tolpuddle. «Salite sulla mia barca; vi porterò dalla signora Arrowgrass... cioè, voglio dire, dalla signora Stillwater.» Jarred vacillava, ancora stordito. «Io non ne ho bisogno», grugnì, rischiando di cadere mentre usciva. Slegò la sua barca, salì a bordo e si allontanò lungo il canale. Seduto su un barile rovesciato nel caos della baracca, Eoin si schiarì la gola e sputò un dente nella sporcizia del pavimento. «Avanti, ragazzo mio», disse Tolpuddle. «Tirati su. Devo portarti dalla carlin.» Nel viaggio di ritorno a casa, Jarred deviò deliberatamente la barca verso il tronco orizzontale di un poderoso vecchio salice crollato nell'acqua. Per centinaia di anni quell'albero era cresciuto proprio sulla sponda del lago, radicato nel fango. L'inondazione di qualche anno prima aveva portato via una quantità di terreno intorno alle sue radici, facendolo crollare, e la sua venerabile massa ora galleggiava nel lago, con metà dei rami puntata al cielo e l'altra metà sommersa per sempre. Molte delle sue radici restavano ancora fisse nel suolo, da cui assorbivano nutrimento. In qualche modo, dunque, l'albero sopravviveva e i suoi rami emersi continuavano a germogliare in primavera. Le mosche cavalline proliferavano nel suo fogliame e le larve si pascevano della corteccia in decomposizione. Jarred tirò i remi in barca. Legò una cima a un ramo sporgente e si tuffò in acqua, completamente vestito, senza neppure togliersi gli stivali e il fazzoletto che aveva al collo. Si lasciò andare a fondo lentamente, con le braccia alzate sopra la testa. L'acqua gelida lo intorpidiva, era come una miriade di denti di pesce, e la luce solare si suddivideva in dozzine di raggi obliqui non più larghi di un bastone. Scese sempre più in basso. I suoi lunghi capelli ondeggiavano e intorno a lui roteavano bollicine di ogni dimensione, come una gabbia di perle. Per un poco agitò le braccia e le gambe, poi nuotò verso la superficie e riemerse. La barca galleggiava lì accanto. Con uno scatto del capo si scostò dagli occhi i capelli bagnati, quindi si aggrappò alla poppa e risalì a bordo. Era
infreddolito e tremante, ma aveva ottenuto il suo scopo. Si era tolto di dosso la sporcizia raccolta sul pavimento della baracca. Quello di cui non riusciva a liberarsi era l'emozione residua della lotta. Provava vergogna per aver picchiato il figlio di Earnàn e avrebbe voluto spazzare via quel ricordo con la stessa facilità con cui si era lavato. Eoin rifiutò di affidarsi a Cuiva Stillwater per la cura delle sue ferite. «Ho solo pochi graffi», borbottò a Tolpuddle, «e quel buffone ashqalêthano non sarebbe riuscito a farmi neanche quelli, se tu non ti fossi messo tra noi.» Facendo solo respiri corti per non sentire troppo il dolore di una costola rotta, aggiunse: «Però puoi portarmi a casa mia, visto che non sarai contento finché non avrai fatto qualcosa». Tolpuddle lo portò a casa manovrando i remi con sorprendente efficienza. Gli bendò alla meglio la fronte con uno straccio e poi lasciò il poco riconoscente collega in compagnia della sua cagna da riporto, Sally. Poco dopo mezzogiorno Sally si mise a latrare, sentendo dei passi. Jarred aprì la porta. Aveva in mano un pacchetto. «Ti ho portato erbe medicinali e bende...» cominciò. Eoin gli lanciò uno sgabello, che andò fuori bersaglio e ammaccò la porta, rotolando al suolo. «Vattene fuori da casa mia!» sibilò. «E ficcati bene in testa di non tornare mai più!» Senza una parola, Jarred depose il pacchetto sulla soglia e se ne andò. Al tramonto Lilith apparve sulla soglia, si fermò a raccogliere i medicinali ed entrò in casa. La cagna la accolse annusandola e agitando la coda e lei si chinò ad accarezzarle il muso. La pallida luce del tramonto illuminava il tavolo al centro della stanza principale, la scala a chiocciola che saliva al piano di sopra e la sedia a dondolo su cui si era abbandonato Eoin. Con uno sforzo l'uomo si portò la pipa alla bocca. Spirali di fumo opalescente salivano dall'erba che bruciava lenta nel fornello, addolcendo l'aria della stanza. La giovane donna notò l'occhio semichiuso del fratellastro, pesto e violaceo come una susina, lo sguardo dell'altro occhio, la testa bendata e il labbro gonfio e spaccato. Essere visto da lei in quelle condizioni esacerbò il rancore e l'umiliazione di Eoin. Senza preamboli, Lilith depose il pacchetto sul tavolo e disse: «Ti prego di mettere fine alla lite con mio marito. Jarred mi ha detto cos'è successo. Sono molto addolorata. Anche Jarred si rammarica dell'accaduto e vuole fare la pace». Eoin si accorse che la donna non si rendeva conto della profondità del
suo odio. «Fare la pace?» ripeté, con voce roca e spessa, come se avesse la lingua di legno. Tra gli incisivi superiori c'erano due spazi vuoti. «Lui ha la presunzione di dire che vuol fare la pace? Se mi viene ancora vicino, giuro che lo sbudello come un pesce. Ha portato soltanto disgrazie ai Mosswell.» «Ti prego!» esclamò Lilith, costernata. «Se hai un po' di affetto per me, non vuoi mostrare tolleranza verso mio marito? Se tu sapessi quanto gli dispiace...» «Io so solo quanti dispiaceri ha dato a te», sbottò Eoin. «Quel bastardo straniero incapace che tu chiami marito... Mi fa male vedere che vieni a cercare scuse per un individuo di quel genere. Non posso più sopportarlo.» Detto ciò lasciò cadere la pipa e si precipitò fuori di casa, barcollando un po' mentre attraversava lo staithe galleggiante che collegava l'abitazione alla riva. Sally trotterellò dietro di lui. Attraverso la porta aperta Lilith vide il fratellastro sparire tra gli alberi di mele, diretto alla passerella che conduceva al cruinniú. Rimasta sola, sedette al tavolo e si prese la testa fra le mani. Una gelida disperazione le impediva di pensare. Sul pavimento, la pipa di Eoin si spense. Era cominciato il coro serotino delle rane. I rapidi tic-tic-tic-tic si mescolavano coi più acuti cing... cing... cing... e coi lunghi e rochi cra... a... a... a... ac. Il sole, che si era abbassato come una vescica gonfia di sangue, scomparve. L'ombra invase il soggiorno della casa di Eoin. Sopra il tetto, la banderuola segnavento cigolava. E i passi vennero a fermarsi sulla veranda, all'esterno. «Chi c'è?» domandò Lilith, o piuttosto cercò di domandare, perché invece delle parole fu un gracidio di rana quello che le uscì dalla bocca. Cuscini di velluto sembravano battere contro le sue tempie. Andò alla porta e guardò fuori. Non c'era nessuno. «Chi c'è?» disse ancora, stavolta più chiaramente. Non ebbe risposta. Vacillando, tornò al tavolo e vi si aggrappò, per non cadere a terra se l'improvvisa debolezza che le attanagliava le gambe l'avesse sopraffatta. Sullo staithe, tre passi si avvicinarono alla porta e si fermarono sulla soglia. Terrorizzata, Lilith trattenne il fiato. La sinfonia delle rane sembrava quella di prima, e così anche i colori del tramonto rimasti nel cielo occidentale, sgombro di nuvole. Ma c'era qualcuno alla porta.
Lilith indietreggiò fino alla scala a chiocciola e salì al piano di sopra, troppo spaventata per restare al pianterreno. Con mani tremanti trovò l'acciarino di Eoin e accese ogni candela e ogni lampada che poté trovare in quella soffitta, come se allontanare il buio potesse allontanare la paura. Per un poco credette di esserci riuscita, ma non ebbe il coraggio di guardare nella camera sottostante. Rimase a sedere lì, immobile, augurandosi con fervore che Eoin tornasse. In fondo alla scala a chiocciola regnava il silenzio. D'un tratto i passi ripresero. Entrarono in casa e fecero subito il giro del tavolo, come se qualcuno avesse cominciato a correre, quindi salirono verso di lei due scalini alla volta, appoggiandovi tutto il loro peso per farli scricchiolare. La luce delle lampade illuminava debolmente il vano della scala. Lilith si sporse e non vide avvicinarsi nessuno; udiva soltanto i passi. La finestra della soffitta era aperta. Corse da quella parte, ma subito si fermò nel sentire che qualcuno le batteva un colpetto su una spalla. Senza osare voltarsi ansimò, con voce roca: «Chi sei? Chi c'è dietro di me?» Poi scivolò al suolo priva di sensi. Jarred trovò sua moglie rannicchiata in posizione fetale sul pavimento della soffitta di Eoin. Mentre la portava in braccio attraverso l'isoletta, verso casa Mosswell, i suoi occhi di farfalla si aprirono. «Lilith», disse lui, mettendo in ogni sillaba tutta la sua tenerezza. Entrò in casa e la depose sul giaciglio davanti al focolare. «Non preoccuparti», mormorò lei. Alzò una mano ad accarezzargli i capelli, mentre lui si sedeva accanto a lei. «È stata soltanto un po' di stanchezza. Ora sto di nuovo bene, come prima.» Ma la figlia di Liadàn sapeva con drammatica certezza che la maledizione ancestrale aveva raggiunto anche lei. In quello stesso momento Eoin stava tornando a casa sua. Cuiva Stillwater, cui era giunta notizia delle sue condizioni fisiche, gli fece visita poco più tardi e lo curò, nonostante lo scarso entusiasmo con cui fu accolta e il cattivo umore del paziente, che borbottò: «Carlin bianca, è quel farabutto di Ashqalêth che dovresti andare a medicare. L'ho conciato piuttosto male». «Allora è uno che guarisce in fretta, perché l'ho visto poco fa, e non gli ho trovato addosso neppure un graffio», replicò Cuiva. A quelle parole Eoin si accigliò e scrutò la giovane carlin con un'espressione insospettita negli occhi gonfi e sanguigni.
La manovra dei remi, che richiedeva un piegamento in avanti e uno sforzo per raddrizzare la schiena, per un uomo con una costola rotta era dolorosa come essere preso a pugnalate in un fianco. Eoin poteva però stare in piedi e spingere il suo punt con un lungo palo; così, non appena ne fu in grado, fece ritorno alla baracca dove lavorava il pesce. Suibhne Tolpuddle era già stato là e l'aveva pulita e sistemata alla meglio. Gli strumenti erano stati messi in fila su uno dei banconi. Eoin raccolse ed esaminò due coltelli con la lama lunga un palmo. «Robusti e affilati», mormorò, incidendo un solco a forma di X sul legno del bancone. «Eppure giurerei di...» Un'immagine s'illuminò e si spense nella sua mente: quella di una lama conficcata nella gola di Jarred. Aveva mal di testa. Sapeva che un colpo al capo poteva far vedere a un uomo cose strane. Ma continuava a pensare all'amuleto che Jarred aveva al collo. Con una scrollata di spalle e un'imprecazione, depose il coltello e uscì in fretta. Tolpuddle e un paio di altri amici vennero ad aiutare Eoin, che intendeva spostare di nuovo la sua casa, in un punto ancora più lontano da quella di Earnàn. Prima di salpare, il giovane ricevette la visita di sua nonna. «Devi riconciliarti con Jarred, altrimenti temo che succederà il peggio», gli disse Eolacha. Lui esibì un ostinato silenzio. «Sei diventato un po' arrogante, a garmhac», riprese la vecchia. «Forse è perché da tempo vivi come un uomo benestante. Non permettere che il denaro e le comodità ti guastino.» «Non succederà», rispose lui, evitando il suo sguardo. «Ciò che arriva facilmente, facilmente se ne va», sentenziò Eolacha. Suo nipote strisciò i piedi a terra. La vecchia continuò: «So che lavori duro e sei abile nel commercio e non ignoro che la fortuna ti aiuta quando giochi ai dadi. Ma il lavoro, il commercio e il gioco non spiegano del tutto la ricchezza che hai accumulato». Nell'occhio ancora sano di Eoin lampeggiò un'espressione furtiva. «Non hai mai sentito raccontare», proseguì Eolacha in tono discorsivo, «di persone che, avendo fatto un buon servizio a certi wight seelie, sono state ricompensate con due monete d'oro ogni giorno della loro vita?» «Taci, a seanmhàthair!» disse in fretta Eoin, gettando occhiate nervose all'ombra che stagnava negli angoli della stanza. «I segreti dei wight vanno rispettati. Chi può dire quali orecchie non eldritch ci stiano ascoltando,
mentre parliamo?» «Ma questo non dovrebbe preoccuparci, visto che noi non abbiamo segreti», replicò la donna. «Comunque, se io fossi uno di quelli che ricevono doni quotidiani da un wight riconoscente, baderei bene a mantenere il silenzio sull'argomento.» Si accostò di più al nipote. «Perché, come tutti sanno, i doni dei wight hanno subito fine, non appena la loro provenienza viene rivelata.» Lui la guardò con aria supplichevole. «Questo lo sanno tutti», balbettò. «Il sole sta per tramontare; devo tornare a casa», disse Eolacha. Alzò la voce. «Sono sicura che non abbiamo segreti, qui.» La abbassò di nuovo. «Inoltre, tu sai bene che non tradirei mai un consanguineo, in nessun caso.» Con espressione sollevata lui le baciò una guancia rugosa. «La tua saggezza è infinita, a seanmhàthair. Non ti sfugge nulla.» «In ogni modo, pensa bene a quello che ho detto di te e di Jarred.» Lui rispose con un grugnito. Per tutta la primavera e per tutta l'estate, Lilith tenne nascosta la verità sul suo stato di salute mentale a Jarred e al resto della famiglia. A volte, impaurita, si aspettava di udire l'eco dei passi arrivare dai lontani recessi della sua mente. Era nervosa, ogni più piccolo rumore la faceva sobbalzare, ma niente di sgradevole venne a tormentarla. Dopo qualche settimana si convinse che si era trattato di un episodio estemporaneo, destinato a non ripetersi. Le scuse che Jarred cercò in varie occasioni di porgere a Eoin furono ogni volta rifiutate. Eoin si comportava come se lui non esistesse, evitava di guardarlo e di rivolgergli la parola. Alla fine Jarred si rassegnò al suo evidente esilio dall'attenzione di Eoin. Nel frattempo Eolacha stava diventando sempre più debole e fu costretta a mettersi a letto. Talvolta a Lilith sembrava che la luce del sole, entrando dalla finestra, attraversasse l'anziana donna come se lei non ci fosse. I suoi capelli erano diventati una fragile ragnatela d'argento, la sua pelle si tendeva come uno strato di carta su ossa priva di carne. «Sono ormai alla fine del mio viaggio», disse, quando aveva ancora la forza di parlare. «Non datevi tanta pena per me.» Ma i suoi familiari le si riunivano intorno e si dicevano l'un l'altro che si sarebbe ripresa. Si spense la vigilia della Festa dei Giunchi. L'intera città ne fu profondamente addolorata e molti unirono le loro vo-
ci ai mesti canti funebri. Eolacha aveva svolto un ruolo importante tra la gente dell'Acquitrino. Era stata amata e riverita per la sua saggezza, le sue capacità, la gentilezza e il buonumore. Nei lunghi anni della sua vita innumerevoli bambini erano stati portati alla luce dalle sue mani premurose, e molte persone dovevano la loro salute e il loro vigore ai suoi medicamenti. La gente era abituata a chiederle consigli e a consultarla su ogni questione. La notte in cui morì cadde una pioggia torrenziale, per ore e ore, come se lo stesso Acquitrino stesse piangendo. Due sere dopo le fiamme di una pira sul Lago Charnel si alzarono così alte che parvero cantare alle stelle. Lo splendore della loro gloria avrebbe potuto essere visto dalle verdi Colline di Bellaghmoon. La perdita di Eolacha colpì molto Lilith. Fu come se, ancora una volta, un evento che la sconvolgeva fungesse da chiave per far entrare nella sua vita quei macabri passi. Dapprima furono soffocati e distanti, ma nei giorni successivi si avvicinarono con rapidità. Il terrore rialzò il suo muso cieco, le alitò sul collo, e Lilith cominciò - benché si sforzasse di non cedere - a voltarsi col cuore in tumulto. Ogni volta che i primi sottili accenni di quel tormento bussavano al margine della sua coscienza, lei cercava una scusa per uscire di casa. Poi correva, come aveva fatto sua madre prima di lei, su fino alla Cresta del Sauro. Per qualche motivo irrazionale si era convinta che, se avesse trovato un posto abbastanza elevato, dove l'aria spirava fresca e pulita, quei piedi mossi da un'entità disumana non avrebbero potuto seguirla. Un vento secco e freddo spazzava i fianchi della collina. Le raffiche facevano vacillare la donna che saliva lungo il pendio, lasciandosi alle spalle l'Acquitrino; le scuotevano lo scialle e piegavano le erbe grigio-verdi su cui camminava a piedi nudi, sfiorandole con l'orlo della veste. Ciocche di capelli grigi le sfuggivano da sotto il foulard. Il vento gliele gettava in faccia, ma lei non se ne accorgeva neppure. Il suo sguardo era fisso sulla nuda vetta dell'altura, più avanti. D'un tratto la donna si voltò a guardare alle proprie spalle, con un movimento fulmineo del capo, nello stesso modo di chi teme di essere pedinato da qualcosa di maligno. Ma tutto ciò che vide furono le erbe che si piegavano a ondate mostrando il lato argenteo dei loro steli, le vivide macchie gialle delle rose delle rocce, la costellazione di virginie dai petali rosati e le ali scarlatte dei corvospini. Pur sapendo che correre non sarebbe servito a niente, accelerò il passo e iniziò ad ansimare.
Ma qualcuno che la stava seguendo c'era. Un uomo si affrettava su per il pendio dietro di lei. Non aveva ancora trentacinque anni ed era attraente, snello e con le spalle larghe; dava un'impressione di forza fisica. Il suo volto era duro; i capelli color cardamomo erano legati in un concio dietro la nuca. Jarred raggiunse la moglie sulla cima della cresta, dove il versante scendeva a precipizio. Quando lei si accorse della sua presenza ebbe un sussulto, ma l'espressione di terrore che aveva sul viso si rilassò subito in un lieve sorriso. «Non puoi più nascondere il tuo segreto», disse Jarred, passandole un braccio intorno alla vita. «È più di una settimana ormai che sospetto la verità.» Il vento dispettoso intrecciò le sue parole e le portò via, giù per le ondulate praterie meridionali di Slievmordhu punteggiate di bianco dove pascolavano pecore e capre, tra boschi verdeggianti e cinture di frassini e betulle. Lilith alzò i suoi occhi di zaffiro verso il marito. «Sono contenta che ora tu divida con me questo fardello», disse con fervore. «Portarlo da sola è stato difficile.» «Col senno di poi, suppongo che ad aprire la porta alla maledizione sia stato il mio litigio col tuo fratellastro, e che la perdita di Eolacha abbia peggiorato le cose. Da tempo sono in pensiero per la tua salute, anche se fingi di stare bene.» «Non devi incolpare te stesso per l'inevitabile.» «Anche altri sono preoccupati per te. Earnàn, Cuiva, persino Jewel.» Lilith si morse un labbro. «La nostra cara bambina... ahimè, quanto avrei desiderato risparmiarle tutto questo.» Tacquero entrambi. Quasi sotto di loro i tre contorti frassini si sporgevano nel vuoto, radicati alla parete rocciosa. Le loro foglie annuivano e si agitavano al vento. «Da quanto tempo tu ti preoccupi?» domandò Lilith. «Dalla vigilia della Festa dei Giunchi.» «Non me ne hai mai parlato.» «Speravo che, lasciandoti tranquilla, potessi riuscire a respingere il tormento che ti assaliva, così ho finto che tu fossi riuscita a ingannarmi. Ma il tempo delle speranze è finito. Ora è il momento di passare all'azione.» «Quale azione potresti intraprendere?» lo interruppe lei con voce rotta. «Cosa può arrestare questa mia discesa verso la pazzia e la morte? Abbiamo già cercato risposte quando è successo a mio nonno e a mia madre.
Neppure Eolacha ha saputo darcele.» Il vento scuoteva la sua veste, le aggrediva il foulard, torturava le ciocche di capelli che ne sbucavano. «Ricordi la prima volta che sei venuta con me a Cathair Rua?» disse Jarred, traendola più vicina a sé. «Un druido stava tenendo un discorso all'oratorium. Poi sono passati tra la gente i suoi elemosinieri, o chiunque fossero. Noi abbiamo ridacchiato sotto i baffi e abbiamo commentato che i druidi erano degli avvoltoi, ma il comandante Stillwater ha detto: 'Non tutti gli uomini alle dipendenze dei druidi sono così... diciamo obliqui come questo loro portavoce. Ho sentito dire che c'è un druido scrivano capace di sciogliere maledizioni potenti, anche quelle che inducono mali come la pazzia'.» «Sì, ricordo», disse Lilith, alzando il viso bagnato di lacrime. «Oggi sono andato a parlare con Stillwater e gli ho riferito ciò che ci sta accadendo. La notizia l'ha molto colpito e addolorato. Scavando nella sua memoria è riuscito infine a ricordare che il nome di quel druido guaritore è Clementer. Dobbiamo andare in città a cercarlo.» «Non io!» esclamò lei. Jarred la guardò perplesso e chiese: «Perché no?» «Ora ho paura di viaggiare. Coi passi che attendono sempre alle mie spalle, ogni rumore non familiare mi mozza il fiato. Qui, dove conosco tutto, mi sento più sicura. Inoltre non possiamo essere certi che quel druido sia a Cathair Rua; potrebbe essere in chissà quale angolo dei Quattro Regni.» «E va bene, andrò in città da solo. Se questo curatore è ancora reperibile a Cathair Rua, lo porterò all'Acquitrino. Se non c'è, cercherò in tutte le terre conosciute fino a trovarlo.» «Ma tu riponi speranze dove non ce ne possono essere», disse Lilith, voltando le spalle al vento perché esso non prendesse in ostaggio le sue parole. «Anche se lo trovassi, questi druidi non si accontentano di essere pagati con qualche manciata di perline e dei formaggi di capra. Noi non abbiamo niente con cui pagarli. Vuoi forse mendicare i loro servigi?» «Non è questo che farò.» «E cosa farai, allora?» «Ho un piano.» Quando Lilith lo vide tacere capì che non voleva entrare nei particolari e non gli domandò altro. Lei era rassegnata al proprio destino. Se suo marito voleva fare qualcosa contro la maledizione dello stregone, per sconfiggere
almeno la frustrazione dell'inattività, non glielo avrebbe impedito. D'altra parte l'ottimismo di Jarred la contagiava e le dava un accenno di speranza, che la aiutava a sopportare il suo tormento. «Partirai con gli altri, per la Fiera d'Autunno?» «Sì, andrò con loro.» Non c'era altro da aggiungere. Per un poco restarono lì, sulla cresta dell'altura, dritti ed eleganti come due cipressi, lasciando vagare lo sguardo sulla foschia color lavanda dell'orizzonte. Il mondo si apriva ai loro piedi. Sullo strapiombo i tre frassini, adorni di poche manciate di foglie verde opaco, sfidavano le sferzate del vento. L'inondazione dell'anno precedente aveva trascinato immense quantità di fango giù dai Colli di Confine, intasando il corso del Fiume Impetuoso. Finita la piena, i banchi di melma si erano tanto ingranditi da rendere impossibile la navigazione fluviale. Quando la barca del cignaio del re aveva dovuto rinunciare a scendere a valle per la Cattura dei Cigni, l'anziano e grassoccio individuo era stato costretto a viaggiare su strada con una processione di carri, ammaccandosi le ossa su quel percorso pieno di buche. Poi aveva dovuto sopportare l'ignominia di dirigere la Cattura a bordo della barca delle guardie dell'Acquitrino. Poiché si poteva andare solo per via di terra, Jarred si rassegnò alle fatiche del viaggio in compagnia della gente dell'Acquitrino interessata alla Fiera d'Autunno. Tutti dovettero caricare le loro merci su carri trainati da muli o da buoi, o su barrocci a mano che ciascuno spingeva con le sue sole forze. Earnàn e Stillwater avevano un carro in comune. Tolpuddle guidava un veicolo trainato da una coppia di buoi, carico di barili di pesce in conserva. Accanto a lui sedeva Eoin, che si era rasato la barba allo scopo - così sosteneva - di presentare al mondo una faccia nuova. Al collo portava un fazzoletto verde regalatogli da Lilith per la Festa di Mezza Estate. «Doireann dice che Sally ulula quando tu sei via», lo informò Tolpuddle. «Sono certo che la tua brava sorella saprà badare al mio cane», tagliò corto Eoin. Una delle ruote anteriori del carro finì in una buca. I buoi lo tirarono fuori con uno sforzo vigoroso, facendo ballare i passeggeri da una parte e dall'altra. «Quando saremo in città comprerò un cavallo», grugnì il figlio di Ear-
nàn. «Non ne posso più di sobbalzare così. In questa strada ci sono più crateri che su tutte le Montagne di Fuoco messe assieme.» «Non c'è abbastanza pascolo per un altro cavallo, all'Acquitrino», osservò stolidamente Tolpuddle. «Così dice sempre Willowfoil. Secondo lui, l'erba basta appena per gli animali che abbiamo già e in inverno gli allevatori devono comprare la biada...» «Sui pascoli dei pecorai c'è foraggio in quantità», replicò Eoin, seccato. «Non affaticarti la testa con queste preoccupazioni e lascia che al cavallo ci pensi io. Guida il carro e tieni la bocca chiusa.» Talismani di ogni specie contro i wight oscillavano e tintinnavano sui veicoli dell'Acquitrino. Uomini armati fiancheggiavano il convoglio per difenderlo dalle bande di Predatori. Uno di loro era Jarred, col suo arco a tracolla e con una faretra piena di frecce. I suoi magri beni di scambio - un fagotto di pellicce di saguaro - erano riposti sul carro condotto da Odhràn Rushford. Il mattino del Giorno del Re la piccola carovana giunse alla periferia di Cathair Rua, dopo un viaggio senza troppi incidenti. Negli ultimi quattordici anni, durante le sue visite autunnali, Jarred aveva notato pochi cambiamenti. La Città Rossa, che sovrastava la zona della fiera con la sua cinta di mura corrose, era il solito guazzabuglio delle più diverse architetture. Alcuni edifici nuovi svettavano sui vecchi. Gli stendardi che garrivano al vento sui tetti del palazzo erano più numerosi. Le misere baracche di legno continuavano a moltiplicarsi e a cadere a pezzi sotto le mura esterne. La zona della Fiera d'Autunno era un vasto e polveroso mercato gremito di un caos di bancarelle, tende, stalli e banchi scoperti: un labirinto di stradicciole che si formavano spontaneamente a caso, percorse da carri, piccole carrozze per il trasporto di passeggeri, cavalieri, saltimbanchi. Una nube di polvere afosa incombeva su tutto, satura dell'odore di cibi cotti, bestiame e sudore umano. Come sempre la folla era composta da loquaci slievmordhuani, orgogliosi ashqalêthani dalle tuniche ricamate, duri grïmnørslandiani e taciturni narngalisiani. Gli aristocratici di ogni regno erano facilmente identificabili per le vesti e i gioielli. Anche gli ashqalêthani spiccavano tra i popolani per i colori degli abiti. Come nell'Acquitrino, la gente comune indossava tuniche e scarpe di fattura semplice e colori spenti. Le donne avevano scialli e vesti di panno. Identificarne la provenienza era quasi impossibile. Il gruppo venuto dall'Acquitrino montò le bancarelle al solito posto, sulla riva del fiume. Quando tutto fu pronto, Jarred lasciò le sue pelli sul ban-
co di Odhràn Rushford ed entrò in città a passi svelti. Si rivolse al primo individuo dall'aria affabile che incontrò. «Buon signore, sapete dirmi se il gioiello adorna ancora l'albero spinoso in piazza della Fontana?» gli domandò. L'altro rispose cordialmente: «È ancora là, amico mio, è ancora là. E ci resterà per sempre, non c'è dubbio. È una delle meraviglie della nostra città». Jarred lo ringraziò e proseguì per la sua strada. Si era levato un forte vento che gli scompigliava i lunghi capelli, benché se li fosse fermati con un nastro, faceva sbattere gli orli della tunica e gli soffiava polvere in faccia. In alto, sopra i profili frastagliati dei tetti, il cielo era scurito da una pesante nuvolaglia bruna. Nell'aria c'era un fremito che faceva presagire il temporale. La sede dei druidi, il santuario di Cathair Rua, si trovava entro la cinta della cittadella reale. Era l'unico edificio costruito in arenaria bianca, ma la purezza di quel materiale era guastata da depositi di polvere rossa. I muri erano corrosi e intorno alle grondaie erano colate lunghe incrostazioni rugginose, come se i tetti stessero sanguinando. Serpenti di marmo dagli occhi foschi erano avvolti intorno ad alte colonne. Le creste sulle loro schiene ne rivelavano l'origine per metà avicola. Altre bestie della loro razza ornavano i tetti consunti delle torri, delle torrette di guardia e delle terrazze merlate. Il muro che circondava l'intera cittadella era alto, sorvegliato da sentinelle e pieno di schegge di vetro cementate sulla sommità. Jarred si avvicinò al cancello d'ingresso e sbirciò attraverso le sbarre. Da lì non si vedeva altro che edifici rossastri e un cortile lastricato di pietra. «Buongiorno!» gridò verso il posto di guardia. «Chiedo di essere ricevuto.» La sola risposta fu un silenzio apatico. «Buongiorno!» gridò ancora. «Chiedo un'udienza con Secundus Adiuvo Constanto Clementer!» Dopo un po' uscì una guardia in cotta di maglia. Impugnava una picca e aveva la faccia butterata dal vaiolo. Quando vide l'aspetto contadinesco di Jarred, un angolo della sua bocca si piegò in una smorfia sprezzante. «Vattene, bifolco», borbottò in tono ostile. «Ma io devo essere ricevuto da...» «Ti ho detto di sparire. Credi che gli scrivani dei druidi non abbiano di meglio da fare che occuparsi di miserabili come te?» «Io posso pagare.»
«Puoi pagare con cosa?» sbuffò la guardia, passando la picca nell'altra mano. «Con qualche pesce e una pagnotta? Non farmi ridere. E ora vattene o dovrò mandarti via a calci.» Jarred si era aspettato di incontrare difficoltà e si esortò alla pazienza. «Sono in grado di offrire all'onorevole Secundus un gioiello molto raro e prezioso», disse. La guardia scoppiò a ridere, dandosi una manata su una coscia carnosa. «Allora sei davvero un piccolo furbacchione da strada! Ma dovresti sapere che qui nessuno è così idiota da lasciarsi infinocchiare. I bastardi come te mi fanno proprio ridere.» Suo malgrado, Jarred s'irritò. «Io non sono un truffatore.» «Allora mostrami questo oggetto così raro e prezioso.» «Non ce l'ho con me.» «L'avrei giurato!» Di nuovo l'altro scoppiò a ridere. «Ma potete almeno dirmi se Secundus c'è? Risiede qui o sta nel palazzo reale? Oppure si è messo in viaggio?» «Senti una cosa, pezzente», disse la guardia, senza più nessuna traccia di allegria nello sguardo. «Noi non riferiamo a cani e porci gli spostamenti dei nostri padroni. Ora, se vuoi consultare la saggezza dei druidi, vai all'oratorium più vicino e aspetta in fila con tutti gli altri di essere invitato a salire sulla piattaforma. E se ti fai rivedere qui offrendo qualche pezzo di vetro senza valore ti getteremo nella fossa dei rifiuti, dove resterai a marcire finché non ti sarà passata la voglia di fare il furbo. Fila via!» Negli occhi di Jarred si annidava un saguaro inferocito. La guardia dalla faccia butterata aggiunse: «E non tentare i tuoi trucchi a qualche altro ingresso, perché farò sapere ai miei colleghi di stare attenti a te». Jarred esitò un poco, trattenuto lì solo dalla voglia di allungare una mano attraverso le sbarre e spaccare la testa alla guardia. Poi, senza dire una parola, si allontanò a lunghi passi. Seguendo le mura esterne della cittadella arrivò al cancello principale del palazzo. Le sentinelle lo aprirono giusto in quel momento per far passare una carrozza trainata da quattro cavalli. Il cocchiere e i due paggi in piedi sul retro del veicolo indossavano una livrea scarlatta. I cavalli avevano sulla testa piumaggi dello stesso colore e gli sportelli recavano lo stemma di un nobile, forse residente in città. Con un clop clop di zoccoli e uno scalpiccio di ruote sulla pietra, l'elegante veicolo passò nei cortili del palazzo. Il cancello di bronzo si chiuse con un tonfo e le sentinelle rimise-
ro i pesanti catenacci. Jarred proseguì. Giunse davanti all'ingresso successivo, che dava anch'esso sui terreni del palazzo. Lì c'era un cortile molto più esteso. Alcune figure si affrettavano da una parte e dall'altra, in lontananza. Su piedistalli massicci, grandi vasi di ceramica si aprivano come calici di gigli giganteschi. Dalle loro corolle dardeggiavano fiamme rosse e dorate. Si diceva che quei fuochi non si spegnessero mai, notte e giorno, e che tuttavia il loro ardere non fosse alimentato né dal legno né dall'olio. Erano fiamme druidiche, tenute accese dal potere dei saggi. Alcuni sussurravano che al centro di quei piedistalli ci fossero delle tubazioni, collegate a qualche recesso sotterraneo da cui salivano fumi infiammabili. Ma non era un fatto provato e menzionarlo in pubblico veniva considerato tradimento. Di fronte alle sbarre del cancello Jarred si annunciò educatamente, parlando al vuoto. «Buona giornata! Mi chiamo Jarred Jovansson. Chiedo di essere ricevuto dal druido scrivano Secundus Clementer. Si trova qui?» Due guardie apparvero accanto a lui, fuori del cancello. «Questa è spazzatura ashqalêthana, a giudicare dall'accento», disse una di loro. Ignorando l'insulto, Jarred assunse un tono cordiale. «La buona salute sia con voi, gentiluomini. Sto cercando notizie del curatore Secundus Clementer. Risiede qui?» L'uomo che aveva parlato scrollò le spalle. «Cosa ti fa supporre che noi conosciamo i movimenti dei nostri superiori, eh?» grugnì. «In questo caso, potete indirizzarmi da qualcuno che li conosca?» osò domandare lui. «Se insisti, possiamo indirizzarti giù per lo scarico del cesso», rispose l'altro. «Più tardi, forse.» Jarred faticava a controllare la rabbia. «Ma per il momento vi prego di dirmi dove posso trovare Secundus. Non voglio sapere altro.» «Resta qui a consumare coi piedi questa preziosa pietra, accattone del deserto, e dovremo fartela consumare anche con la faccia. Le donne di casa tua potranno riconoscerti solo dalla voce, quando tornerai.» Entrambi gli uomini erano armati di alabarde. Jarred li gratificò di uno sguardo sprezzante. «Grazie della cortesia», disse freddamente. Diede loro le spalle e se ne andò, prima che la situazione precipitasse. Sapeva cosa gli restava da fare. Se quelle guardie così sgarbate avessero
avuto sotto gli occhi il gioiello dell'Albero di Ferro, si sarebbero rese conto che era un oggetto prezioso. Vedendo che aveva la possibilità di pagare, l'avrebbero senz'altro condotto dal druido Clementer. Dovevo prelevare il gioiello fin da prima, si disse. Avrei dovuto sapere che si sarebbero rifiutati di farmi entrare, se mi fossi presentato con le tasche vuote. Ma in fondo al cuore era riluttante a togliere per la seconda volta quel gioiello dall'Albero di Ferro. Sia il monile sia la pianta lo mettevano a disagio. Gli sembravano un'eredità lasciata da un antenato che lui rifiutava di riconoscere. Inoltre doveva agire in segreto. Chiunque l'avesse visto asportare quel tesoro avrebbe subito sospettato la sua discendenza stregonesca, così come l'aveva intuita MacGabhann. Rendere pubblica una verità così imbarazzante significava trasformare la sua vita tranquilla in un inferno di guai. Quella sera, all'accampamento della gente dell'Acquitrino, Jarred andò a letto presto. Prima di ritirarsi prese da parte Odhràn Rushford, il suo migliore amico. «Se stanotte ti svegli e scopri che io non ci sono, non allarmarti. C'è una cosa che devo fare in città... una cosa che richiede discrezione. Ti assicuro che non è niente di disonorevole o di cui io debba vergognarmi... comunque preferisco non darti preoccupazioni e non rivelartela.» Odhràn annuì. «Amico mio, ti conosco da troppo tempo per pensare che faresti qualcosa di male. Vai, dunque. Ma non ti farebbe comodo un compagno a guardarti le spalle, in caso di pericolo?» «Ti ringrazio, ma devo occuparmi da solo di questa faccenda», rispose Jarred commosso. Era una notte chiara. Un pallore argenteo illuminava la piazza, cinta da edifici di pietra che in quella luce apparivano neri. Al centro del vasto spazio quadrangolare l'albero senza foglie sorgeva ancora accanto al pozzo, coi grossi rami spinosi protesi verso il cielo come se volesse abbracciare la luna e farla prigioniera. Era già riuscito a prendere prigioniero suo figlio... o così poteva sembrare. Nel suo cuore acuminato pendeva un gioiello dai riflessi stupefacenti, grosso quanto l'occhio di un gatto. Un vento leggero faceva oscillare leggermente i rami, cullando una gemma che faceva pensare alla luce delle stelle condensata sulla neve. Nel muoversi creava lievi bagliori, che davano l'impressione di allargarsi come arcobaleni spezzati.
Molti decenni addietro Janus Jaravhor aveva gettato il gioiello nell'albero. Dopo la scomparsa dello stregone, i re, i nobili e i semplici cittadini avevano fatto di tutto per raggiungere quell'oggetto nella sua prigione. Bambini molto piccoli erano stati spinti là dentro, nella speranza che corpi sottili potessero passare in quegli spazi angusti. Le spine avevano punto le loro tenere carni e nessuno era arrivato al traguardo. Squadre di boscaioli avevano aggredito i rami con energia, ma le loro accette rimbalzavano sulla corteccia. Si era cercato di appiccare il fuoco all'albero, ma le fiamme non avevano neppure scaldato il suo legno nero. La gente aveva tentato allora con veleni, acidi fumanti e polveri corrosive, senza nessun risultato. A notte fonda Jarred si fermò nell'ombra di una casa. Esaminò la piazza. Tese le orecchie, trattenendo il respiro. Il gioiello che MacGabhann aveva chiamato «la Stella» palpitava nel suo rifugio stregato, come se volesse provocarlo. Nella Città Rossa tutto era silenzio. Neppure le strida degli uccelli notturni disturbavano la quiete di quelle ore. Jarred si accorse che gli riusciva sgradita l'idea di muoversi, di mettere le mani su quell'oggetto scintillante. Ma richiamare alla mente il volto amabile di sua moglie lo aiutò a ritrovare la decisione. Uscì dall'ombra. Non si rifiuteranno di ascoltarmi, quando avranno visto il gioiello! Senza fare rumore raggiunse l'Albero di Ferro. In quello spazio aperto, sotto la luce dell'occhio bianco della luna, si sentiva esposto e vulnerabile. Avvertì un fremito alla nuca. Dopo aver guardato a destra e a sinistra, allungò un braccio tra le spine. Le sue dita si chiusero intorno all'oggetto liscio e freddo e, quando ritrasse la mano, aveva la Stella. In fretta se la mise in tasca e si allontanò, silenzioso come quando era arrivato. Pochi istanti dopo era nell'ombra delle case. Si voltò un istante: un ratto stava attraversando il selciato della piazza deserta. Dalla parte opposta il frammento di una tegola, o forse un pezzo d'intonaco, cadde e si spaccò sulle pietre. Ma non era stato il ratto a farlo staccare. Nelle città c'era sempre qualcuno sveglio, a qualsiasi ora. Il mattino bruciò la livrea nera e argentea della notte e riportò alla luce la raffazzonata architettura di Cathair Rua. Ripensando alla guardia dalla faccia butterata, che aveva minacciato di gettarlo nella fossa dei rifiuti, Jarred decise di non tornare al santuario prima di mezzogiorno. Il personale di servizio aveva sempre gli stessi turni e lui sentiva che sarebbe stato
meglio aspettare il cambio della guardia, a metà del pomeriggio, prima di farsi vedere alla sede dei druidi. Sperava ardentemente che, dopo aver visto il gioiello, non l'avrebbero scacciato. Chiunque abbia gli occhi può capire che non è vetro, si disse, e gli parve di avvertire la scintillante luminosità della gemma come un fuoco freddo a contatto col petto. Non poteva però restare inattivo durante quell'attesa. Nella sua ansia di trovare aiuto per Lilith, l'impazienza lo bruciava come una febbre. Nel quartiere più ricco di Cathair Rua, dove le case dei nobili si stagliavano contro il cielo come gemme sfaccettate, Jarred andò di porta in porta chiedendo ai servi e ai sorveglianti: «Sapete dove si trova Secundus Adiuvo Clementer? L'avete visto passare? Per caso è in visita in questa dimora? Forse è a casa di un conoscente della vostra padrona o del vostro padrone? Potete dirmi qualcosa di lui?» In quanto al gioiello, stava bene attento a tenerlo fuori vista finché non si fosse trovato nelle vicinanze di Secundus. Dovunque andasse il nome del druido era ben conosciuto, ma non il luogo in cui si trovava. Jarred fu fatto allontanare bruscamente dal personale di servizio maschile. Le serve erano assai più propense a conversare con lui, sorridevano e chiedevano il suo nome, finché qualcun altro non le chiamava sgarbatamente dall'interno della casa. Alla fine Jarred veniva sempre mandato via. Di rado gli aristocratici lasciavano entrare nella loro dimora uomini malvestiti, per quanto fossero cortesi, simpatici e di bell'aspetto. Jarred, tuttavia, non era tipo da arrendersi facilmente. Cominciò a piovere. I nuvoloni gonfi d'acqua stagnavano bassi, e alla fine si ruppero. Gocce simili a chicchi d'uva in miniatura tambureggiarono al suolo, trasformandosi per un istante in coroncine di cristallo, prima di appiattirsi in monete liquide. Nel palazzo del Re di Slievmordhu, il diciassettenne principe della corona Uabhar Ó Maoldúin sedeva a ruminare davanti a una scacchiera, mentre lì accanto un musico suonava su un rebec una melodia di sottofondo. Il figlio primogenito di Re Maolmórdha era un giovane di statura media, con spalle massicce ma un po' cadenti. Il suo volto squadrato era ammorbidito dai contorni teneri dell'adolescenza. La fronte, larga e liscia, sovrastava due arcate sopracciliari leggermente sporgenti. Aveva un naso largo, con narici mobili, e il labbro superiore velato di rada peluria. Il mento era
fermo e tondo, le guance paffute. I lunghi capelli castani, impeccabilmente oliati e pettinati, erano scostati dalla faccia e tenuti dietro la nuca da un nastro di velluto nero. Indossava una maglia di rensa ornata con ricami di seta nera. Una camicia, anch'essa di seta nera e cosparsa di ricami dorati, la copriva quasi del tutto. Sopra quella portava una giubba di ermellino che gli arrivava quasi alle ginocchia. Le maniche, allacciate alle spalle con cordoncini, erano aperte a losanghe per lasciar vedere anche quelle della camicia. I calzoni erano di seta rossa e dorata, con lunghe treccioline di filo verde che scendevano fino alle scarpe di velluto e cuoio. In testa aveva un berretto morbido di vellutina, ricamato con seta rossa e broccato d'oro. Dalla cintura gli pendeva un fodero intarsiato, da cui sporgevano le impugnature di una corta daga e di un'accetta ornamentale. La scacchiera su cui stava meditando aveva le caselle di perla e di onice. I pezzi, di ebano nero e di cedro bianco, erano veri capolavori. Alti dieci centimetri e molto realistici, comprendevano castelli, druidi e alfieri a cavallo completi di speroni. L'avversario del principe era il siniscalco di palazzo, un uomo dai capelli grigi sui sessanta inverni, magro e con un lungo naso. Costui giocava stando in piedi, poiché ai servi non era permesso sedersi in presenza del re senza una speciale dispensa. Il locale in cui si trovavano era il salone dell'ala est, elegante e sfarzoso. Dalle pareti pendevano arazzi ricamati con scene di caccia popolate da cavalieri, cani e falchi. Armature e armi da cerimonia facevano bella mostra di sé ai lati di un caminetto di marmo. Candelabri più alti di un uomo sorreggevano foreste di bianche candele di cera d'api. Altrove, lampade in filigrana d'oro diffondevano una luce morbida. Tra i mobili spiccavano una scrivania di mogano, una cassapanca intarsiata d'oro e d'argento e due tavoli di quercia. Su uno di essi era deposto un vassoio d'argento contenente una caraffa di vino e artistici boccali. Lì accanto, piatti di giada e d'oro verde scintillavano alla luce delle candele. Erano colmi di fragole, olive, foglie d'insalata, fette di cocomero, limoni e meloni importati da Ashqalêth. Tutti i cibi erano di colore verde. Re Maolmórdha sedeva presso il caminetto su una sedia a schienale alto, coi piedi magri posati su uno sgabello di velluto rosso orlato d'oro. Alle sue spalle attendevano due cortigiani; un servo era in ginocchio e stava cospargendo i piedi del monarca con olio aromatico. Un elaborato pettorale copriva il re dalla gola alla cintura. Era imbottito, per evitare piegature. Sopra di esso il nobil'uomo portava una giacca di
stoffa purpurea, ricamata d'oro con motivi floreali e coroncine e con orli di damasco color avorio. Le voluminose maniche a tasca erano chiuse da spille d'oro ai polsi e bordate con un lungo pizzo che ricadeva sulle mani, uguale a quello del largo colletto. I bottoni erano incastonati con piccole gemme e intorno alla vita passava una cintura, anch'essa ingioiellata. Su un fianco pendeva una piccola borsa di pelle. La testa del re era calva, coperta da un cappello piumato a doppia tesa. Le scarpe, che gli erano state tolte e giacevano lì accanto, erano molto più lunghe dei suoi piedi e fornite di catenelle d'oro che andavano arrotolate alla gamba fin sopra il ginocchio. Semidistesa su un divano, la sua sposa stava guardando fuori, attraverso una finestra a tripla arcata i cui montanti di gesso erano decorati con frutta e fiori. In quel momento il cielo era gremito di formazioni nuvolose purpuree e violente gocce d'acqua tambureggiavano sui vetri. Le snelle forme della regina erano avvolte in tessuti verdi di diverse tonalità, damasco verde oliva, velluto verde foglia, tartarina e taffettà verde pisello. Intorno al collo, alle dita e alle orecchie portava gioielli che scintillavano di bagliori verdi: smeraldi, berilli e turchesi. Le sue unghie erano laccate di verde scuro. Anche i suoi capelli meticolosamente acconciati erano una lucida matassa verde bottiglia. Non c'era nulla che non fosse verde intorno a lei, a parte la sua pelle candida e gli occhi, bruni come il tek. Ai piedi aveva scarpette color verde muschio, accanto alle quali era accoccolato un saguaro alla catena, col pelo tinto di verde per intonarsi al guardaroba della padrona. Il suo collare era incrostato di acquemarine. Da un calice di cristallo verde mare la donna sorseggiava quello che, dal colore, si sarebbe detto vino di alghe. Un servo in livrea le presentò con un inchino il vassoio di giada coi dolciumi alla clorofilla. Lei lo mandò via con un gesto languido. «Dicono che intorno al santuario sono stati visti altri wight, nelle ore notturne», disse la regina rivolta all'aria. Dopo un po' il re rispose: «Negli ultimi tre mesi non pochi wight si sono aggirati intorno al santuario». «E i druidi non possono liberarsi di loro?» «Certo che possono», la informò in tono spazientito il re. «Ma sono soltanto innocue creature seelie. Perché i druidi dovrebbero perdere tempo con loro?» «Ah», fece la regina con indifferenza. Mormorò qualcosa al musico col rebec, che iniziò a cantare:
Oh, le ragazze e i giovani escono alla luce dell'alba e rientrano con cesti pieni di fiori profumati, nel dolce mese di mai-o. Poiché il numero di sillabe del secondo verso non corrispondeva alle note della musica, la frase ne venne fuori come alla-a-a a-luce-e-e dell'albaa-a. Il cantore cominciò a scaldarsi e passò al ritornello: Con un ehi-a-a-a e un nonny-nonny-no con un fa-la-la-la e un fol-la-de-do-do tutti colgono i fiori nel mese di mai-o. Due dei fratelli più giovani del principe Uabhar stavano oziando sulla pelliccia stesa davanti al caminetto. Uno scavava buchi in una fetta di torta zuccherata e spargeva con metodica pazienza le briciole al suolo. L'altro si strappava i bottoni dalla giubba e controllava la precisione della sua mira scagliandoli contro una piccola statua bronzea del Fato Àdh, che teneva le braccia sollevate per benedire - presumibilmente - la sala e il suo contenuto. Quando il musico aveva cominciato a cantare, i due industriosi principi si erano voltati a guardarlo, borbottando imprecazioni seccate. Essi vanno tra gli alberi e il verde e raccolgono fiori ahi-o e non c'è scena più gaia e felice nel dolcissimo mese di mai-o. Mentre poi ripeteva il ritornello del nonny-nonny-no, i due giovani principi si portarono le mani alle orecchie e rotolarono sulla pelliccia come se avessero i crampi. La regina annuiva e batteva a tempo il tacco di una scarpetta contro una gamba del divano. Il musico passò a un'altra strofa. Essi tutti danzano in lieto girotondo, ah, come ridono e giocano, ahi-o. A piena voce, oh, cantano sui prati
e ognuno nel... «Ah, sì? È questo che fanno?» gridò al musico il principe strappabottoni, che ormai non ne poteva più. «E io ti dico che, se sento un'altra volta questo nonny-no e fa-la-la-la, prendo quel dannato coso che stai strimpellando e te lo spacco sul groppone!» Il principe spargi-briciole si associò, con un grugnito minaccioso. «Ma, Gearóid», protestò in tono mite la regina, rivolgendosi al suo secondogenito, «a me piace tanto la canzone del Giorno della Ghirlanda. Luchóg l'ha composta per me e gli ho chiesto io di cantarla.» «Digli di cantare qualcos'altro», la esortò Gearóid, e suggerì il titolo di una ballata. Lo spargi-briciole contestò la scelta e i due principini cominciarono a litigare. Il principe Uabhar alzò gli occhi dalla scacchiera. I suoi fratelli si accorsero di quel movimento e smisero di prendersi a spintoni. Lui si limitò a guardarli e i due si zittirono. «Scacco matto», annunciò Uabhar al suo avversario. «Ah!» si lamentò il siniscalco, alzando le braccia al cielo. «Vedo che non c'è modo di sconfiggervi, altezza reale. Mi avete battuto di nuovo. Non merito più il titolo di 'campione'.» Gratificandolo di un distaccato cenno d'assenso, Uabhar lasciò il tavolo e andò a sedersi su uno scranno di mogano, ben lontano dalla finestra. «Adesso posso giocare contro Pàid?» gli domandò Gearóid. Il fratello maggiore gli accordò lo stesso cenno del capo, anche a significare approvazione e incoraggiamento. Mentre il siniscalco preparava la scacchiera per i due giocatori, il principe Pàid ingannò il tempo guardando fuori della finestra, nel cortile sottostante, dove alcuni soldati si esercitavano con le armi nonostante la pioggia. Al lato opposto della sala, il principe Uabhar parlava sottovoce a Gearóid, esaminandosi le unghie. «Questa partita devi vincerla tu. Non deludermi, fratello. Io cerco di essere sempre molto discreto, ma sono costretto a dirti che Pàid ti insulta odiosamente, dietro le spalle. Mi fa male dirti questo, ma un uomo onesto detesta la doppiezza. Devi sconfiggerlo. Mostragli che tu sei migliore.» «Quel cane!» sussurrò furiosamente Gearóid. «Quel serpente che morde alle spalle!» «Mantieni la calma», lo esortò Uabhar, gettando un'occhiata agli altri.
«Tu sei di gran lunga un giocatore migliore. Io so che lui perde tempo a muovere i druidi e ignora le possibilità dei cavalieri. È bravo all'attacco, ma si lascia scoperto in difesa. Tieni in mente questo consiglio.» «Gramercie», disse Gearóid. Fuori della porta una voce soffocata annunciò: «Chiediamo il permesso di entrare coi rinfreschi». Re Maolmórdha annuì verso uno dei paggi il quale rispose: «Entrate pure». Quattro camerieri portarono vassoi carichi di cibarie prelibate e, con estrema cura, li deposero sul tavolo accanto ai dolciumi verdi. Le dame di compagnia della regina li pregustarono con gli occhi. In casseruole d'oro facevano bella mostra di sé paste dolci, frutti maturi e dorati, paste alle mandorle e carne cucinata in quindici modi diversi. Gearóid si avvicinò al tavolo e indicò al proprio paggio i manicaretti che voleva sul suo piatto. Nel frattempo il principe Uabhar raggiunse il giovane Pàid, accanto alla finestra. «Ti auguro buona fortuna al gioco», mormorò grattandosi un gomito, mentre fingeva di guardare fuori. «Ma, per l'Ascia di Míchinniúint, tu non hai bisogno della fortuna, perché sei di gran lunga il giocatore migliore.» Un sorriso passò sul volto di Pàid. «E se c'è uno che merita di essere sconfitto è tuo fratello. Non dovrei dirti questo, io che sono sempre il più imparziale degli uomini, ma se posso contare sulla tua riservatezza...» «Parla, ti prego!» lo esortò Pàid, vedendo che esitava. «Quando tu sei fuori portata d'orecchio, Gearóid ti prende in giro in modo oltraggioso», disse Uabhar. «Fa insinuazioni velenose su di te. Sta giocando un suo gioco, come fanno tutti a corte, eccetto tu e io. Se mai ho visto un uomo con due facce, questi è lui.» Pàid scoccò uno sguardo velenoso in direzione del fratello, che puntava l'indice su un cappone in salsa di ciliegie. «Stai attento», continuò Uabhar, ispezionando un capello che gli si era posato su una manica. «Negli scacchi lui si preoccupa molto della difesa ed è timido in attacco. Ha molta fiducia nei due castelli e nei soldati appiedati, ma nella sua strategia pusillanime ignora le possibilità della regina.» «O migliore dei fratelli, io ti dico gramercie!» sussurrò Pàid. «Senza di te non avrei nessuno che mi ama, perché tutti gli altri si comportano male con me.» Il principe Uabhar lo gratificò dell'affettuoso sorriso che mascherava la
durezza dei suoi occhi sfuggenti. I due fratelli più giovani sedettero davanti alla scacchiera e iniziarono a giocare. Nel contemplare i pezzi, il principe Gearóid s'incupiva, rifletteva a lungo prima di ogni mossa e beveva frequenti sorsi di vino da un boccale. Trascorse un'ora. Alla fine, con un sorriso di trionfo, allungò una mano, prese la sua regina e la depose in un'altra posizione. «Credo che tu ne abbia per poco», disse a Pàid. Ma l'altro raccolse la propria regina, la spostò davanti al re avversario e disse: «Scacco matto». Il sorriso si dileguò dalla faccia di Gearóid. Il ragazzo si grattò il mento; poi prese l'uno dopo l'altro i pezzi bianchi e cominciò a mozzare la testa a tutti con l'accetta dal manico d'oro che gli pendeva dalla cintura. Quando ebbe terminato, scaraventò nel fuoco i pezzi neri coi quali aveva giocato, dichiarando: «Questi mi hanno negato la vittoria e devono morire». Come mobili sfoglie di garza e taffettà, le fiamme lambirono i cavalieri di legno e i soldati appiedati, i druidi intagliati e la coppia reale. Pàid assisteva con espressione stupita. «Sembri poco soddisfatto», gli disse Gearóid. «I pezzi di questa scacchiera erano nuovi e molto costosi. Mi sto solo chiedendo se...» In una mano di Gearóid apparve una bella daga. Con mossa svelta il giovane si portò alle spalle del fratello e gliela mise alla gola. Se l'elsa dell'arma appariva fin troppo decorativa, la lama era fatta per operazioni assai più truci. «Fratello, stai insinuando che l'esercito nero ha perso per colpa mia?» «Niente affatto, io...» «Fratello, tu non credi che sia dovere di un principe punire chi lo delude?» volle sapere Gearóid. «Credo che lo sia, sì», rispose Pàid, col freddo metallo a contatto della carne tiepida. Dall'altra parte della sala il re e gli altri membri della casa reale osservavano la scena in silenzio. La regina intervenne, querula: «Tesoro, non dare fastidio a tuo fratello». Gearóid disse: «Un uomo sopravvive grazie alle sue capacità, ma anche servendosi delle capacità di chi utilizza. Quando scopre di essere circondato da incapaci, deve farli fuori!» Attraverso la sala rotolò la metà di un melone ashqalêthano. Pezzi di polpa verde si dispersero in tutte le direzioni. Il musico squittì di sorpresa.
Mentre pronunciava l'ultima parola, il principe Gearóid si era mosso con velocità straordinaria, balzando verso il tavolo della regina, e con un colpo di daga aveva tagliato in due il frutto. Pàid riunì i pezzi della sua dignità e uscì dalla sala a passi rabbiosi, scostando il siniscalco con una spallata. Il vecchio cortigiano vacillò, allungò una mano per sorreggersi al montante del caminetto e se la ustionò. Gli sfuggì un grido di dolore. Con una risata, Gearóid ripulì la lama della daga sul mantello di lana bianca che il paggio del siniscalco teneva ripiegato su un braccio. Poi rimise l'arma nel suo fodero intarsiato. «Portate fuori della mia vista quei due cagnolini litigiosi», sbottò il re, spazientito. Le sue parole diedero il via a una febbrile attività. Prevedendo l'ordine, due paggi che stazionavano vicino a una parete si erano già fatti avanti. «Chiedete al maestro di scherma che si presenti subito all'armeria», disse Re Maolmórdha a uno dei cortigiani che stavano alle sue spalle. «Cerca il maestro di scherma», disse uno dei due all'altro. «Portalo immediatamente all'armeria.» L'uomo si accomiatò dal re con un inchino e uscì da una porta di quercia rinforzata con strisce di bronzo. «Ragazzo», disse Re Maolmórdha a Gearóid, che era tornato a sedersi sulla pelliccia presso il caminetto e se ne stava quieto. «Vai nell'armeria senza indugio. Troverai ad aspettarti il maestro di scherma. È importante esercitarsi spesso con le armi.» Risentito, Gearóid obbedì. Luchóg il musico si avvicinò prudentemente alla regina verde e cominciò a strimpellare molto piano, così piano che le sue dita sfioravano appena le corde del rebec. «Cantaci della guerra dei goblin», gli ordinò il principe Uabhar. «Cantaci della battaglia di Colle Argento, quando il cavaliere Sèan di Bellaghmoon ha trovato la morte, e di come i goblin gli hanno mozzato la testa e l'hanno infilata su una picca, per esibirla sopra la porta della loro cittadella montana.» Luchóg s'inchinò ossequiosamente, suonò gli accordi piuttosto drammatici di un'introduzione e cantò: In un tempo lontano i goblin malvagi scesero dalle montagne occidentali, le città dei mortali strinsero d'assedio e nella notte nera sparsero il terrore.
In molte battaglie gli uomini e i wight ferocemente si scontrarono fra loro. Ma quella che avvenne a Colle Argento tra le più grandi ancora è ricordata. Dai forti di montagna scesero le orde dei goblin levando orride grida. Ma pronti per la guerra furon saldi nella difesa i fanti slievmordhuani. Sempre a sud si volgevano gli uomini aspettandosi di vedere al più presto tre compagnie di rinforzi ben armati sopraggiungere per unirsi a loro. «Terremo duro», gridò un ufficiale, «finché le nostre truppe non verranno. Non cederemo mai Colle Argento! Difendetelo con le vostre vite! È il cavaliere Sèan di Bellaghmoon che ci comanda in questo duro scontro. Nessun uomo più prode e valoroso vide mai sorgere la luce del giorno.» Ma i goblin si lanciavano all'attacco a ondate in soverchiante quantità. E i ranghi dei mortali non vantavano ahimè che poche spade d'oro. I nemici erano migliaia più di loro ma senza cedere essi tennero il campo. «Presto le truppe dal nord arriveranno! Questa sera saremo vittoriosi!» Ma i goblin continuavano a sbucare dalle immense caverne senza sole. In segreto essi avevan sguinzagliato
gli astuti e truci coboldi loro schiavi, che di nascosto e protetti dal buio per terre senza sentieri eran sciamati. Furon costoro ad aggredir nel sonno le truppe giunte dal nord, e a sterminarle. Per tutta la notte sopra Colle Argento il cavaliere Sèan di Bellaghmoon si batté fianco a fianco con i suoi prodi, e quando sorse il sole furon lieti. Perché senza l'aiuto della notte i goblin eran costretti a ripararsi. Ma fu un'orrida scena di carnaio quella che i militi dovettero guardare. «Ahimè!» gridò il cavaliere Bellaghmoon, angosciato dal sangue che vedeva. «Un triste fato i rinforzi hanno incontrato, altrimenti ormai sarebbero tra noi!» «Dobbiamo ritirarci», dissero i capitani, «prima che il sole tramonti e ci abbandoni. Perché nel buio i goblin torneranno, ci schiacceranno col doppio delle forze.» Ma il coraggioso Sèan di Bellaghmoon gridò: «Mai volgerem le spalle nella fuga. Di difendere Colle Argento io ho giurato finché la morte non mi chiederà il suo prezzo» I soldati restaron dunque sull'altura, consapevoli che non c'era alternativa, e allorché all'occidente il sole scese essi affilarono bene spade e lance. Ma quando vennero i goblin quella notte
col loro numero travolsero i mortali. E non ci fu scampo per il cavaliere Bellaghmoon e i suoi eroici capitani. Di quei prodi il nemico volle issare sulle picche le nobili teste mozze e le portò tra le montagne impervie per esibirle sulle mura dei forti. Sopra le porte del regno dei goblin essi appesero quel funesto bottino. E sibilarono i venti quella notte e rotolarono sulle giogaie i tuoni. A quel punto il musico suonò una serie di accordi, mentre si frugava nella testa in cerca dei versi conclusivi. Quelli della ballata originale esprimevano dolore per l'uomo giusto che aveva sacrificato la vita a Colle Argento. Di recente, però, il finale era stato sostituito da frasi più adeguate a stimolare il compiacimento del re: Ma l'animoso Sèan che tanto bene seppe lottare non si sacrificò invano. E ancor oggi i menestrelli e i bardi nelle ballate elogiano il suo nome. Perché sapendo di non aver speranza obbedì all'ordine del suo sovrano e ignorando tutte le avversità volle restar fedele alla corona. Mentre gli ultimi versi svanivano nell'aria, entrò un messaggero. Mormorò qualcosa all'orecchio del siniscalco, quindi indietreggiò inchinandosi più volte verso i membri della famiglia reale, si fermò accanto a uno splendido arazzo e rimase lì, con l'aria di attendere istruzioni. Il siniscalco posò un ginocchio al suolo dinanzi al monarca. «Vostra maestà, un messaggero ha portato una notizia interessante», disse. «Parla», lo autorizzò Maolmórdha. «Il gioiello è stato asportato dall'Albero di Ferro.»
Il principe Uabhar si voltò di scatto. «Asportato, hai detto?» domandò il re, stupefatto. «Che cosa significa?» L'attenzione del principe era adesso concentrata sul siniscalco, che rispose: «Sire, l'uomo che l'ha rimosso è stato visto». «Ah», annuì il sovrano. «L'Albero di Ferro. Il gioiello. Ora ricordo. È prezioso?» «Così si suppone, maestà.» «Allora deve essere ritrovato, perché senza dubbio appartiene alla corona.» «Prezioso!» esclamò Uabhar. Si avvicinò al re a lunghi passi e abbassò lo sguardo su di lui. «Mio signore, ciò che importa non è tanto il valore del gioiello», dichiarò con enfasi. «Quel monile, come certo sapete, è stato messo là dallo stregone di Orielthir. Si è sempre pensato che quell'individuo sia morto senza lasciare eredi. Ma, se è vero che l'oggetto è stato asportato, chi l'ha fatto deve essere dello stesso sangue dello stregone!» Il re sorrise debolmente, annuì e disse: «Sì, certo». «Un erede dello stregone può dunque essere sbucato dal nulla, senza che nessuno sapesse della sua esistenza. Senza dubbio il mio sagace padre capisce cosa significa.» La voce del giovane principe vibrava di convinzione. Alzò un dito a sfiorare i contorni di una figura scolpita sul seggio del re. Un vago cipiglio corrugò la fronte di Maolmórdha. Nel corso degli anni si era reso conto che i modi del suo primogenito non gli piacevano, ma gli mancavano l'acume per capire perché fossero così irritanti e la capacità di porvi rimedio. «Naturalmente», disse. Uabhar emise uno sbuffo che poteva indicare derisione, ma forse si stava soltanto schiarendo la gola. Chinandosi verso il volto del padre, disse in tono deciso: «Se un uomo simile esiste, è certo in grado di aprire la Cupola di Strang». Il giovane attese che lo sconvolgente significato delle sue parole arrivasse al destinatario. «La cupola», sussurrò Re Maolmórdha. E poi a voce più alta, quando finalmente capì: «Ah, la Cupola!» «La Cupola, sì, con tutti i suoi tesori sconosciuti, un mistero diventato leggenda già da decenni», esclamò Uabhar, andando su e giù davanti al caminetto a passi lenti. «La Cupola, indistruttibile, inviolabile... ora forse non più.» «Tesori!» Il re assaporò quella parola. Sul divano, la regina stava man-
giucchiando una fetta di cocomero. Il suo angelico saguaro sonnecchiava sul pavimento. «Questo ladro di gioielli deve essere trovato subito», continuò Uabhar. «Catturato, messo in condizioni di non nuocere e portato a palazzo.» Cosa insolita per lui, stavolta aveva oltrepassato il segno. I giovani potevano essere impetuosi. Ma Uabhar non avrebbe tardato a vedere corretti i suoi errori. «Spetta al re decidere chi deve o non deve essere catturato», latrò il monarca in tono offeso. «Rimettimi le scarpe!» Quell'ordine era rivolto al cameriere, ancora in ginocchio davanti a lui. Con le lussuose calzature frettolosamente infilate ai piedi unti di olio e con le catene d'oro fissate alla meglio intorno alle ginocchia, Re Maolmórdha si diresse alla porta. «Mi troverete nel santuario», disse, rivolto a tutti coloro che restavano in sala. «Tu seguimi, siniscalco.» Il siniscalco, cinque cortigiani, due paggi e tre servi, più il messaggero, gli andarono dietro. La sala delle udienze nel santuario di Cathair Rua conteneva le statue marmoree dei quattro Fati, conosciuti in Slievmordhu coi nomi di Cinniúint, Míchinniúint, Àdh e Mí-Àdh. Àdh e Míchinniúint erano per tradizione figure maschili. Il primo, un giovane attraente con un asterisco sulla fronte, sorrideva benevolo e protendeva le mani come a elargire la fortuna. Il secondo, Signore del Destino, era raffigurato come un guerriero nobile e autoritario, con le possenti braccia conserte e l'ascia a doppia lama stretta in un pugno. Mí-Àdh era l'antitesi femminile di Àdh: la Signora della Malasorte, raffigurata come una voluttuosa sirena dal sorriso maligno, col suo gatto nero, Hex, su una spalla. Cinniúint era una vecchia strega dall'aria impenetrabile, anche lei reggitrice dei destini umani, che filava e tesseva sulla sua ruota, ma crudele e inesorabile. Perché alle ultime due truci entità fossero state associate immagini femminili era un antico segreto, noto solo ai druidi. Sotto lo sguardo dei Fati marmorei, Re Maolmórdha Ó Maoldúin consultò il primoris Asper Virosus, Druido Imperius di Slievmordhu e Lingua dei Fati, altrimenti conosciuto come Druido Capo. «Cosa bisogna fare?» domandò il re, dopo che il messaggero e il siniscalco ebbero riferito la notizia dell'asportazione del gioiello dall'Albero di Ferro. Il Druido Imperius era abbigliato con una tunica di baudekyn di un bian-
co purissimo, dagli orli di costoso samite. Basso di statura, magro e col petto incavato, a un primo sguardo non dava l'impressione di un personaggio potente. Solo chi cadeva sotto lo sguardo di quegli occhi penetranti intuiva la verità: nelle loro profondità si addensava un'intelligenza incredibilmente acuta. «Descrivi l'aspetto di questo predatore di gioielli», chiese il primoris al messaggero che aveva portato la notizia. «Sire, io non l'ho visto di persona», rispose questi nervosamente. «Mi è stato detto che era di alta statura, coi capelli bruni, vestito come la gente dell'Acquitrino.» «Tu non sai niente. Porta qui colui che ha visto quell'uomo coi propri occhi.» L'informatore fu subito fatto arrivare. Era un ladruncolo capace solo di accattare nei vicoli, avido e miserabile. L'avevano fatto aspettare in un'anticamera del palazzo, dove aveva ingannato il tempo pensando a quanto denaro avrebbe potuto chiedere per la sua spiata. «Io avevo già visto quel ladro, vostra grazia, durante la fiera», disse ai suoi titolati ascoltatori, inciampando nelle parole per la fretta di srotolarle dalla lingua. «Dall'aspetto sembra un semplice popolano senza arte né parte, ma è un tipo che si nota perché ha la fortuna di avere un bel viso. Le donne lo guardano. Direi che è alto più di un metro e ottanta e ha i capelli castani. L'ho sentito parlare, una volta... ha un accento meridionale, come quelli di Ashqalêth.» «Che età dimostra?» «Suppongo che abbia poco più di trenta inverni.» «Che abiti porta?» «Roba ordinaria, mio signore. No, aspettate... intorno al collo ha un fazzoletto verde.» «Il suo nome?» domandò il primoris. «Signore, temo che questa conoscenza non sia in me.» L'informatore si spezzò in due nel goffo tentativo di un inchino. «Hai licenza di andartene», disse il primoris. Lo stupore fece spalancare gli occhi e la bocca dell'individuo. «Ma io pensavo... mi aspettavo che...» Mentre il druido volgeva le spalle, una guardia del santuario si piazzò fra il suo padrone e il ladruncolo. «Ti aspettavi cosa? Forse di essere ricompensato, in questa bella mattina del Giorno del Fulmine?» L'altro fece scorrere lo sguardo sulla larghezza delle spalle della guardia,
sul fodero che le pendeva da un fianco e sulla luce crudele del suo sguardo. Deglutì. All'improvviso ricordò storie non confermate di messaggeri che avevano portato notizie a uomini potenti, i quali si erano assicurati che non le divulgassero ad altri facendo tagliare loro la lingua. Si sussurrava anche di uomini che, entrati nel santuario, non erano stati più rivisti. La sua bocca si asciugò come la polvere del deserto. Aveva la lingua paralizzata. Non riuscì a dire altro. Quando lasciò la sala delle udienze stava quasi correndo. Tutti ignorarono la sua uscita, eccetto la guardia. «A quanto ricordo, sire», disse il druido dagli occhi acuti, «un tale che corrisponde a questa descrizione è apparso in città una dozzina di anni fa. E a quel tempo circolava la storia di uno che aveva tolto il gioiello dell'albero per poi rimettercelo. Nessuno dava credito a quella sciocchezza, ma forse era la verità. Se le cose stanno così, è di fondamentale importanza contattare subito questo ladro di gioielli.» «Io ho sentito dire che l'unico figlio dello stregone è morto senza eredi.» «Questo ladro deve essere un bastardo del figlio, non c'è dubbio. Ed è la chiave che può aprire la Cupola.» «Proprio come pensavo», confermò il re. «Va sottolineato che, secondo le leggi dei Fati, tutti i gioielli stregati sono di proprietà del santuario, come vostra maestà sa benissimo.» «Naturalmente.» «È necessario che non sia resa pubblica la notizia, affinché costui non sia preso di mira da altri ladri prima che il gioiello sia nelle mani dei legittimi proprietari.» «Ah, ma la storia dell'asportazione del gioiello ha già fatto il giro della città...» «Però sono pochissimi a sapere chi l'ha preso. Per la maggior parte si trovano in questa stanza. Dobbiamo assicurarci il silenzio di chi è meno circospetto di noi. Compreso quel ladruncolo, che in questo momento le mie guardie stanno trattenendo in portineria, dove le sue proteste non disturbano le nostre orecchie.» «E l'individuo che cerchiamo?» «Sarebbe meglio se venisse qui di sua spontanea volontà, ma in caso contrario provvederemo noi. Gli diremo che non sarà punito per aver preso il gioiello e che il re vuole parlare con lui; nient'altro. Avrà la nostra parola che nessuno gli farà del male.» Quindi aggiunse, con un sorriso cinico: «Almeno finché si mostrerà disposto a collaborare».
«Questo è certo», annuì il re. Si volse ai cortigiani che l'avevano seguito e ordinò: «Trovatemi quell'individuo. Fate circolare la sua descrizione. Voglio che sia portato da me. Senza un graffio!» Poco dopo molti uomini furono sguinzagliati nelle vie della città, sotto la pioggia. 8 TRADIMENTO Mentre accadevano quei fatti, Eoin era comodamente seduto nella sala comune di una taverna. Piena di tavoli e sgabelli occupati da una chiassosa clientela, ammorbata da un'atmosfera in cui il fumo del caminetto e quello delle lampade a olio si alleavano per annerire le travi del soffitto, l'Asso di Coppe era considerata la migliore osteria della città, almeno in fatto di bevande. Di giorno era illuminata da numerose finestre a due luci, attraverso i cui vetri percossi dalla pioggia lampeggiavano in quel momento gli impressionanti bagliori azzurrini del temporale. L'Asso di Coppe aveva anche la fama di essere uno dei posti più frequentati dai giocatori d'azzardo. Se un uomo voleva divertirsi un po' coi dadi, con le carte da gioco, con una sfida a braccio di ferro o con una scommessa su uno scontro di pugilato o su un combattimento di galli, per non parlare di altre forme di gioco ancora più stravaganti, l'Asso di Coppe era il posto adatto a lui. Lì si riuniva gente disposta a puntare soldi su qualunque cosa, persino sui movimenti di due scarafaggi sul muro, in mancanza d'altro. In un angolo era in corso una sfida a chi ingollava più boccali di birra. In un altro un uomo stava reggendo in equilibrio sulla testa una pila di monete di rame che si allungava sempre più. «Ventuno!» gridava un fornaio erudito, capace di contare oltre il dodici. «Ventidue!» Alcuni ragazzi spiritosi facevano smorfie e si agitavano davanti all'equilibrista, nel tentativo di distrarlo. Era mattino inoltrato, ma gli avventori sembravano non aver niente di meglio da fare che buttare via il loro tempo con la birra e col gioco. La sala comune era occupata da gente che si trovava lì dalla sera precedente; alcune partite a carte durate tutta la notte erano ancora in pieno svolgimento, anche se qualche giocatore giaceva tra la spazzatura sotto i tavoli e russava della grossa. Gli altri, fortificati da una robusta colazione annaffiata di birra, continuavano a giocare.
Eoin aveva appena vinto un cavallo. A quanto pareva, il Fato Àdh aveva lasciato piovere la fortuna per l'intera nottata sul pescatore di anguille. Le vincite da lui accumulate non erano indifferenti. Per contro, uno dei mercanti di Grïmnørsland che continuava a giocare a carte e dimostrava di saper bere quanto una balena, doveva aver attratto la maligna attenzione della Signora della Malasorte, Mí-Àdh. A metà mattina gli erano rimasti appena i vestiti che aveva addosso, una solitaria moneta di rame e il suo cavallo, alloggiato nella scuderia della taverna. Poi, nell'ultimo disperato tentativo di recuperare qualcosa, si era deciso a giocarsi il quadrupede e l'aveva perso. Eoin si era complimentato con se stesso: la vincita gli risparmiava il disturbo di contrattare con uno degli astuti mercanti di cavalli della città, dei quali si diceva che conoscessero ogni trucco per trasformare un vecchio sacco di pulci in un puledro scalpitante, almeno per il tempo di venderlo. «Sarà meglio che adesso vada a dare un'occhiata al mio ronzino», disse Eoin con voce allegra, anche se ormai farfugliante. Aveva accettato la puntata del cavallo senza neppure averlo visto, basandosi sul presupposto che un animale arrivato a Cathair Rua da Grïmnørsland, e da cui ci si aspettava che tornasse indietro, doveva essere robusto e in buona salute. Si alzò vacillando, un po' sbilanciato dal peso della borsa che portava dentro la camicia. «Buona idea», approvò uno dei suoi concittadini, che si era ritirato dalla partita qualche ora prima ed era rimasto lì solo per bere e guardare. Avendo già venduto le loro merci, molti uomini dell'Acquitrino erano entrati in città per divertirsi e non sembravano voler dedicare al sonno neppure un istante del tempo che potevano impiegare nelle taverne e nei postriboli. «Buona idea», gli fecero eco alcuni altri. «Andiamo a esaminare la tua vincita, Mosswell.» Mentre Eoin barcollava verso la porta, rischiando d'inciampare sul corpo di un tizio che dormiva sotto un tavolo, il cervello ebbro dello sfortunato grïmnørslandiano arrivò alla fine della faticosa catena di pensieri che ruminava da quando Eoin aveva pronunciato la parola «ronzino». Fridleif Squüdfitcher era amareggiato dal modo in cui la sfortuna l'aveva perseguitato per tutta la notte. Si era giocato anche le entrate della sua bancarella al mercato. Restare privo dell'amato cavallo era stato il colpo di grazia. «Ronzino!» gridò, così all'improvviso da far sobbalzare tutti. «Non è un ronzino, ma il più nobile stallone mai partorito dai lombi di Orgoglio del Mare. Nessuno può permettersi di chiamare il mio cavallo 'ronzino'!»
«Be', non è più il tuo cavallo», sogghignò uno dei presenti. «Perciò cosa t'importa come lo chiamano?» Ma il grïmnørslandiano aveva già lanciato la sua sfida, sotto forma di se stesso, nell'aria ed era atterrato addosso all'uomo che stava sogghignando. Quel fracasso fece voltare Eoin, che aveva usato il termine «ronzino» con fare casuale e senza l'intenzione di offendere. Nel vedere uno dei suoi compagni di bevute steso a terra, si gettò in suo aiuto, subito però imitato da un altro grïmnørslandiano che si unì alla zuffa per pareggiare il numero. E in pochi istanti l'intera taverna si trasformò in un campo di battaglia. Boccali e bottiglie rimbalzavano sulle teste, gli sgabelli si spaccavano sulle schiene, solidi calci impattavano sulla tenera carne in una cacofonia di grugniti, ansiti e imprecazioni. Le panche venivano scaraventate qui e là. Un paio di quelli che dormivano sotto i tavoli non riuscirono a scrollarsi di dosso il torpore e l'ubriachezza e rimasero in uno stato di attonito stupore, ma gli altri ritrovarono sufficiente lucidità per trascinarsi al sicuro. Proprio quando il parapiglia aveva raggiunto lo zenit, la porta esplose all'interno e andò a sbattere contro il muro, con tale violenza da far cadere pezzi d'intonaco. Un attimo dopo nella sala comune c'era appena lo spazio per respirare, perché il locale si era riempito di guardie in uniforme coi colori del palazzo, inzuppate di pioggia. Alla vista di una così soverchiante esibizione di cotte di maglia e di armi sguainate, gli avventori dimenticarono il motivo per cui si stavano battendo, se mai l'avevano saputo. In quell'improvvisa tranquillità, un solitario boccale rotolato giù da un tavolo s'infranse sul pavimento col rumore di una campana. Il sergente delle guardie, riconoscibile per l'alta e un po' infangata piuma dell'elmo, si fece avanti. I suoi occhi duri scandagliarono le facce e gli abiti dei presenti. Poi puntò un dito su Eoin. «Quello lì. Prendetelo!» La mancanza di sonno, la stanchezza accumulata quella notte e la birra che aveva continuato a ingurgitare ingarbugliavano alquanto le facoltà mentali di Eoin. Nonostante ciò, quando vide un paio di militari corpulenti fare rotta su di lui, seppe con assoluta chiarezza ciò che doveva fare: si precipitò verso la cucina per filarsela dalla porta sul retro. Ma alcuni avventori non ebbero la prontezza di togliersi di mezzo prima di essere travolti, così le guardie riuscirono a raggiungerlo e ad agguantarlo per le braccia. «Cosa volete da me?» gridò contorcendosi, mentre i due lo trascinavano davanti al sergente. «Ho ammaccato qualche testa, tutto qui. È stato uno scontro leale, solo pugni, niente armi.»
Con aria imbarazzata, Fridleif Squüdfitcher nascose dietro la schiena il boccale di peltro con cui stava per spaccare la faccia all'uomo che l'aveva deriso. «La Divisione Guardie Reali di Bellaghmoon di servizio al palazzo reale non si occupa delle zuffe nelle bettole», disse con freddezza il sergente. «Stiamo cercando un certo individuo, uno straniero, che si trova qui a Cathair Rua. E tu, signore mio, sei tra i sospetti. Capelli castani, abiti da popolano con un fazzoletto verde al collo, età intorno ai trenta inverni... sì, tu corrispondi alla descrizione di un tizio visto questa notte dalle parti di piazza della Fontana.» «Questa notte, dite?» gemette Eoin. «Ma questa notte io non mi sono mosso da qui! E i miei compagni possono testimoniarlo!» Un coro d'assenso, simile a un gracchiare di corvi, si levò dagli avventori che affollavano il locale. «Lui è stato qui tutta la notte», confermò uno di quelli che avevano giocato con Eoin. «Vi do la mia parola.» «È come ha detto», rincarò Fridleif Squüdfitcher. «Se fosse andato in piazza della Fontana, io non avrei perduto il mio buon cavallo grigio.» «Taverniere! Questi uomini hanno detto la verità?» domandò il sergente. Il gestore del locale era un uomo grassoccio dall'aria apprensiva, con un cappello di panno grigio sulla testa calva e con una tunica rossa. Alla domanda rispose innanzitutto con un inchino, così profondo che il cappello gli cadde. Quindi disse: «Sì, signore, dicono il vero. Posso giurarlo». «Rilasciatelo!» Le due guardie si scostarono da Eoin, che si massaggiò le braccia dove le loro mani guantate l'avevano stretto. «Aprite le orecchie, voialtri», continuò il sergente. «Sua maestà Re Maolmórdha Ó Maoldúin, possa Àdh spargere la fortuna su di lui, vuole interrogare di persona un uomo che potrebbe dargli informazioni importanti. C'è un premio per chi darà notizie utili a rintracciarlo. Sia chiaro che quest'uomo non è accusato di nessun crimine e, se verrà a palazzo di sua iniziativa, sarà lui stesso a incassare la ricompensa. È come ve l'ho descritto.» Una delle guardie gli mormorò qualcosa all'orecchio. «E sembra che parli con accento ashqalêthano», aggiunse. Poi si aprì la strada fra i suoi uomini e uscì sotto la pioggia. Eoin seguì con lo sguardo i soldati che abbandonavano il locale dietro il loro sergente. Nei suoi occhi c'era una luce dura. Nella parte alta della città suonò la campana di mezzogiorno. Le sue no-
te melodiose s'inseguirono fin tra i tetti sghembi di uno dei quartieri più poveri, dove Jarred stava cercando un posto adatto ad aspettare il tramonto. Il giovane sedette sulla soglia di un androne buio che si apriva sulla strada, al riparo di un portico mezzo crollato. Appoggiò la testa al freddo montante di pietra e lasciò che i suoi pensieri tornassero al recente passato, all'Acquitrino. Si era accomiatato da Lilith mentre il convoglio si accingeva a partire per la fiera. Lei gli era sembrata più serena e tranquilla di quanto l'avesse mai vista. Se n'era meravigliato. Da qualche tempo non la vedeva più sobbalzare impaurita a ogni rumore inatteso. Al momento della separazione la giovane donna gli aveva detto: «Sono riuscita ad accettare questa maledizione, a stór. Se mi ucciderà, non avrà importanza. No, non guardarmi come se stessi vaneggiando. Devi capire che, decidendo di lasciarla cadere su di me, ho fatto la cosa giusta. Se non ci fossimo sposati e non avessi generato Jewel, forse sarei rimasta libera dalla maledizione. Forse. Ma in quel modo non sarei mai diventata tua moglie, non avrei mai conosciuto mia figlia... e sarebbe stato peggio di qualunque maleficio Jaravhor potesse gettare su di me. «Non far nascere mia figlia sarebbe stato come ucciderla, anzi peggio, perché così non avrebbe mai conosciuto il mondo. E noi non avremmo mai visto la sua faccia e udito la sua voce. Perciò credimi quando dico che ne è valsa la pena. Abbiamo trascorso tredici anni di felicità assieme, tu e io. Se le nostre vite si spegnessero domani, nessuno ci ruberebbe questi anni. Se la follia mi aggredirà la mente, se mi ucciderà, non sarà cancellata la gioia che abbiamo avuto, noi e la nostra bambina. Perciò, come vedi, sono riuscita ad accettare la maledizione». «Mi fa piacere per te», aveva detto Jarred, baciandola. «Ma, per quanto riguarda me, lotterò fino all'ultimo istante contro di essa.» Sotto il portico semicrollato, a Cathair Rua, mentre gli ultimi rintocchi della campana di mezzogiorno svanivano, Jarred ripercorse quei ricordi. Chiuse gli occhi solo per un momento. Un'ora e mezzo più tardi, lo svegliò il rumore delle ruote di un carro sul selciato. Con un riflesso automatico, Jarred si portò una mano al petto; la piccola sporgenza dura del gioiello dello stregone era ancora al suo posto. Sentì le pulsazioni rallentare. Il tesoro non gli era stato rubato durante il sonno. «Vedo che avete molta fiducia nel prossimo, giovane», disse una voce dall'ombra. «Solo un uomo assai sicuro di sé, o uno sciocco, si addormen-
terebbe per strada a Cathair Rua. Tuttavia, potete credermi o no, io ho vegliato su di voi.» A parlare era un uomo barbuto e dai capelli spettinati, bruni con qualche ciocca grigia. Dimostrava circa cinquanta inverni, anche se qualcuno avrebbe potuto trovare difficile stimare la sua età, perché aveva una pelle liscia e pura come quella di un bambino, non sciupata dal vento e dal sole, come se avesse trascorso la vita al coperto. Tuttavia aveva occhiaie pesanti e rughe sulla fronte, che lasciavano intendere che aveva raggiunto la mezz'età. Era robusto e atletico, con gli occhi scuri. «Perché dovrei credervi?» domandò Jarred, alzandosi in piedi. «Io non sono l'ingenuo che pensate. Forse mi sono addormentato senza preoccupazioni perché non ho niente che valga la pena di rubare.» Lo sconosciuto replicò: «Qui intorno ci sono ladri che, senza curarsi della vostra povertà, vi darebbero una botta in testa e poi vi frugherebbero nelle tasche, tanto per vedere cosa c'è. È sorprendente quante cose interessanti può portarsi dietro chi sembra povero in canna, a volte». Jarred s'irrigidì. Lo sconosciuto, tuttavia, non sembrava minaccioso. Inoltre era solo e non aveva armi, almeno non in vista. Era alto quanto Jarred. I suoi abiti di stoffa di buona qualità apparivano logori e sporchi; erano in una varietà di fogge diverse e davano l'impressione di essersi insudiciati in molte terre diverse. L'uomo sembrava un viaggiatore, abituato ad andarsene di continuo da un posto all'altro, e nei suoi occhi c'era lo sguardo di chi aveva visto molte cose. «Perché vi siete preso il disturbo di sorvegliarmi?» domandò Jarred. «Mi sono fatto la stessa domanda. Forse è stato il vostro aspetto indifeso. Io sono un tipo portato a proteggere gli inermi. O forse perché mi avete ricordato com'ero io alla vostra età.» Jarred lo scrutò con circospezione e non rispose. «Speravo che lo prendeste come un complimento», riprese lo sconosciuto. «Ma forse mi sono sbagliato. Comunque, se fossi in voi cercherei di essere più prudente.» Si voltò per andarsene, ma qualcosa nel suo modo di muoversi colpì Jarred, che disse: «Aspettate». L'altro si fermò e lui fece un gesto conciliante. «Lo prendo come un complimento, sì. Ho l'impressione che voi siate uno che ha girato il mondo e ha visto molte delle sue meraviglie.» Nel suo cuore l'incertezza lottava contro la speranza e l'incredulità; detestava se stesso per aver osato ripescare quella speranza, mentre si preparava mentalmente
a un'altra delusione. «In effetti di meraviglie ne ho viste, e forse ancor di più sono quelle che vedrò in futuro», disse l'uomo, annuendo. «Un viaggiatore percorre molte strade quando va alla ricerca di qualcosa. Se pensate che io stia parlando per enigmi, forse è vero. Ma per me queste parole hanno senso.» «Forse chi viaggia per trovare qualcosa d'impreciso cerca soltanto ciò che si è lasciato indietro», osò dire Jarred. «Un viaggiatore si lascia indietro molte cose, quando deve andare per la sua strada. Ciò che cerca potrebbe essere la prima che ha lasciato, quella che l'ha spinto a muoversi. Io non sono mai stato a lungo nello stesso posto.» A breve distanza da loro il carro si era fermato e il conducente ne stava rumorosamente scaricando del legname. Lo sconosciuto gettò uno sguardo alla causa di quei rumori irritanti. «Sono stato qui anche troppo. Ho da fare altrove, prima del tramonto.» Fece per andarsene, ma esitò. Concentrò la sua attenzione su Jarred e lo studiò per alcuni secondi, e in quegli attimi il ragazzo credette di vedergli negli occhi una luce di riconoscimento, o d'incredulità, o d'improvviso rimorso, che però sparì subito com'era apparsa. Ci fu una pausa di silenzio, poi lo sconosciuto disse in fretta: «In questo mondo ci sono molte domande cui gli esseri umani non possono rispondere». Le parole che Jarred avrebbe voluto dire sembravano incollate nella sua gola. Si sentiva paralizzato, costretto tra due forze, una delle quali voleva farlo avvicinare a quell'enigmatico individuo mentre l'altra cercava di spingerlo via. «Voi siete un brav'uomo», disse l'altro, pensieroso. «Addio.» E se ne andò, prima che Jarred riuscisse a ritrovare la voce o a fare un gesto. Mentre l'uomo spariva nel dedalo di stradicciole invase dall'ombra, svelto e silenzioso, il giovane riuscì finalmente a chiedere: «Qual è il vostro nome?» Ma non ci fu risposta. Una luce perlacea si spandeva sulla città, filtrando attraverso i varchi tra le nuvole simili a masse di fiori di cardo. Non era il momento d'indugiare sugli interrogativi di quell'incontro casuale; Jarred decise di allontanarlo dai propri pensieri, per rifletterci meglio più tardi, con calma. Da un venditore ambulante acquistò una fetta di carne cotta, ma dopo averla assaggiata si accorse che aveva un sapore rancido e preferì gettarla a un cane. Dall'altezza del sole giudicò che il turno della sentinella dalla faccia butterata stava per finire e s'incamminò ancora una volta verso il santuario.
Stava passando davanti all'imbocco di un vicolo pieno di pozzanghere, quando una donna spettinata e scalza sbucò frettolosamente dall'ombra e lo prese per un lembo del mantello. «Jarred!» sibilò in tono concitato. Lui si fermò, stupito. «Chi sei?» «Ah... ti sei dimenticato di me? Sono Fionnuala, la sorellastra di Fionnbar. C'è un grave pericolo che ti minaccia. Se tieni alla vita, vieni con me.» Solo allora lui riconobbe quella che, anni addietro, era stata una ragazza minuta ma attraente. Attraente non lo era più. Anni di vita miserabile nelle strade della città avevano guastato ciò che restava della sua bellezza. Era magra e ossuta, con le guance scavate e occhi cerchiati di scuro che sembravano aver già esaminato con cinica indifferenza tutte le brutture del mondo. Anche la sua timidezza di un tempo era sparita e ora si comportava con quella rude sfacciataggine che Jarred associava ai popolani, resi duri e spietati dalla miseria più nera. «Se hai intenzione di derubarmi, dimmelo e ti darò qualche moneta, così risparmiamo tempo.» «Non mi interessano i tuoi spiccioli.» La faccia di lei, sollevata verso la sua, sembrava molto schietta. Forse mentiva abilmente, ma lui sentì di poterle credere. Gli parve di vedere nei suoi occhi un'ansia sincera. «Gira voce che gli uomini del re ti stiano dando la caccia. Tu hai preso la Stella, no? Tutti sanno che è scomparsa, ma soltanto Finn e io abbiamo capito chi è stato. In ogni caso, non stiamo qui a discutere. Presto! Seguimi, ti porterò in un posto sicuro. Poi ti dirò di più.» Jarred esitò, ma solo per un istante. Poi capì cosa gli conveniva fare e si affrettò a seguire la ragazza, che si era incamminata per una stradicciola deserta. La zona non gli era del tutto sconosciuta e non occorse molto prima che giungesse per la terza volta nella sua vita davanti alla misera catapecchia di Ruairc MacGabhann. «Io qui non entro», disse, opponendo resistenza mentre la ragazza cercava di tirarselo dietro per una manica. «Lui è morto», lo informò bruscamente Fionnuala. «L'abbiamo sepolto qualche anno fa. Ora qui abitiamo soltanto io e Fionn, che in questo momento non è in casa. Non fare lo stupido! Muoviti, prima che qualcuno ti veda!» Con riluttanza, Jarred si lasciò condurre oltre la bassa soglia. La stanza priva di finestre era la stessa di quattordici anni addietro, solo
un po' più pulita e priva del lurido mucchio di stracci che MacGabhann usava come letto. Nel camino rosseggiavano poche braci. Sulla mensola c'erano sempre le giare e i boccali di un tempo e lo scaffale a muro ospitava ancora i piatti, anche se non tanti come prima. I mobili consistevano in un tavolo, una panca, un cestone e uno sgabello a tre gambe, più una grossa balla di paglia. Fionnuala fece cenno a Jarred di sedersi sulla balla, poi raccolse un attizzatoio e riportò un po' di vita nel focolare, riprendendo a raccontare: «Corre voce che il re stia cercando un uomo la cui descrizione corrisponde perfettamente a te. Costui è ricercato 'per il solo scopo di domandargli informazioni', questa è la spiegazione ufficiale. Ma la gente non è stupida. La Stella scompare e il giorno dopo le guardie del re si mettono a cercare un uomo dai capelli castani che porta al collo un fazzoletto verde... A proposito, toglitelo!» Con aria poco convinta, Jarred sciolse il nodo. Lei inarcò un sopracciglio e proseguì: «Questo può significare solo che sei stato visto mentre prelevavi la Stella. E fammi il favore di non guardarmi con quell'aria innocente! Tu sei l'unico che può averla presa. Io non ne ho dubitato neppure un istante». «Stai dicendo che il re vuole il gioiello da me?» «Niente affatto. Sto dicendo che il re vuole un discendente del Signore di Strang, perché solo costui può aprire la Cupola dove lui desidera tanto entrare. C'è una taglia su di te, ma l'ordine è di prenderti vivo. Oppure ti viene lasciata la scelta di presentarti spontaneamente e riscuotere il premio tu stesso, anche se non avrai modo di godertelo troppo quando sarai nelle loro mani. Non appena entrerai nel santuario o nel palazzo, il tuo destino sarà segnato. È da escludere che il Druido Imperius lasci andare via libero un discendente di quel potente stregone. E, dopo che avrai aperto per loro la Cupola di Strang, ti chiuderanno in una solida cella, stanne pur certo.» «Aprire la Cupola!» esclamò Jarred, inorridito. «Io non voglio avere niente a che fare con la terra di Strang, né con le cose appartenute al padre di mio padre. Dall'apertura di una cripta costruita da un essere così spietato può venire soltanto del male. E il cuore mi dice che in quella fortezza maledetta è nascosto qualcosa di malvagio. Se la cosa dipendesse da me, vorrei che quella Cupola restasse sigillata sino alla fine dei tempi.» «Nonostante ciò, ti danno la caccia. Le notizie si spargono in fretta, soprattutto quando è in gioco una ricompensa. Se tu osassi andartene in giro saresti subito riconosciuto, o almeno sospettato. Dovrai restare qui fin dopo il tramonto.»
«E poi?» «Con la protezione del buio, ti aiuterò a fuggire dalla città. Non credo che il re sappia già da dove provieni. Quando sarai lontano da qui, lui non saprà in che regione dei Quattro Regni farti cercare. Specialmente se non porterai questo», aggiunse, strappandogli di mano il fazzoletto verde e gettandolo nel fuoco. Jarred fece per recuperarlo, poi ci ripensò. «Come mi hai trovato?» domandò, guardando bruciare il dono di Lilith. Per la prima volta da quando l'aveva incontrata, Fionnuala sembrò a corto di parole. Imbarazzata, mormorò: «Ti confesso che ogni volta che c'è una fiera vado a cercarti là, in riva al fiume». Lui scosse il capo. «Non so cosa dovrei capire da ciò che stai dicendo.» «Per anni ti ho guardato da lontano, ogni volta che sei venuto in città. Quando sei arrivato alla Fiera d'Autunno io ero lì e ti ho seguito.» A disagio, Jarred domandò: «Perché?» «Mi sono innamorata di te.» L'ultimo lembo del fazzoletto verde diventò nero. Si trasformò in una spirale fumante e cadde in cenere. Minuscoli frammenti svolazzarono su per il camino come uno sciame di strani insetti. «Non ti andrebbe di portarmi con te?» disse Fionnuala, inginocchiandosi accanto a lui. «Fuggire assieme a settentrione, lontano da questa città e dall'Acquitrino? Oppure a occidente, verso la libertà del grande oceano? Potremmo vivere bene tu e io. Coi tuoi poteri stregoneschi... potremmo fare di tutto, avere tutto.» Dopo quella dichiarazione di quattordici anni d'amore non corrisposto, Jarred non riuscì ad affrontare gli occhi accesi di Fionnuala. Evitando il suo sguardo, disse: «Per il tuo aiuto, signora, gramercie. Tu dici di amarmi. Io non capisco come sia possibile, poiché non mi conosci. Vorrei che tu non provassi questo sentimento. Ma, se sai cos'è l'amore, devi comprendere che io voglio tornare da mia moglie e da mia figlia, nell'Acquitrino». La ragazza balzò in piedi in uno svolazzare di vesti logore e capelli scarmigliati, batté al suolo un piede calloso e disse: «Io ti ho salvato dalla cattura rischiando la vita per te e tu mi ripaghi col disprezzo?» «Il mio non è disprezzo...» Lei non lo lasciò finire. «Dici di avere una figlia? Be', allora sappi che il palazzo reale e il santuario saranno molto ansiosi di conoscerla, perché, se tu non vorrai aprire la Cupola per loro, forse riusciranno a convincere lei!» Anche Jarred si alzò in piedi. «In questo caso andrò subito ad avvisare la mia gente di nasconderla!»
«E quanto ci metterai ad arrivare là? Hai un cavallo? Io so che non ce l'hai. Dovrai andare a piedi.» «Allora bisogna che parta subito.» Jarred si mosse verso la porta. «Aspetta!» esclamò lei. «Con la luce del giorno non andrai lontano, prima di essere fermato. Io ti ho promesso di aiutarti e lo farò. Se aspetti fino a notte ti procurerò un cavallo e ti condurrò fuori città per strade poco frequentate, dove troveremo solo vecchi mezzi ciechi e malati o ubriachi che non baderanno a noi. Allora potrai andare ad avvisare tua figlia.» «Sei generosa.» «Ma in cambio devi promettermi una cosa.» «Che cosa?» «Se ti aiuto a fuggire dalla città, devi darmi la tua parola che lascerai tua moglie e tua figlia, per metterti con me.» «Non posso farlo!» sbottò lui. «In tal caso, vuol dire che andrò a palazzo. Dirò loro che l'uomo della Stella è uno dell'Acquitrino. Viaggiando a cavallo, gli uomini del re raggiungeranno tua figlia molto prima che tu possa arrivare a casa e avvertirla.» Jarred guardò quella creatura sciatta e, se prima aveva cercato di non mostrarlo, ora il suo sguardo era sprezzante. «È questo il tuo concetto di amore?» domandò sottovoce. Fionnuala ebbe un gesto indifferente. «Nelle strade di questa città s'impara solo a sopravvivere. Accetti l'offerta o no?» Nella mente di Jarred si accavallarono le più diverse possibilità, ma lei parve leggergli nei pensieri. «Potresti legarmi e lasciarmi qui, per impedirmi di andare a palazzo. Ma Finn rientrerà dopo cena e mi slegherà. Oppure potresti uccidermi, ma penso che non lo farai, perché sei un brav'uomo.» Aveva un atteggiamento sicuro e un tono di sfida. «Credi che io non ti conosca, ma sbagli. Ti ho osservato. Tu sei un uomo d'onore e non mi farai del male. Cosa preferisci... mettere al sicuro tua figlia o lasciarla in pericolo?» Jarred era scuro in volto. «Non mi lasci scelta», constatò cupamente. «Se mi aiuterai a fuggire e non mi tradirai, farò ciò che mi hai chiesto.» Nei pallidi occhi della ragazza brillò una luce di trionfo. «Andremo verso nord. Giura che verrai a incontrarmi sul lato orientale del Passo di Scamallach, la vigilia della Lanterna o anche prima. Io sarò là ad aspettarti.» «Lo giuro», si rassegnò lui, sputando le parole come se fossero rancide. «Allora aspettiamo che scenda il buio», concluse Fionnuala.
Un novizio in camice rosso stava facendo il giro delle candéle del santuario con un acciarino. Nel passare dall'una all'altra si muoveva tra mobili di fattura artistica. I massicci candelabri d'ottone erano alti sette piedi, irti di ramificazioni e pesantemente decorati. Gli armadi, gli scaffali e le scrivanie erano screziati, o levigati, o incisi a quadrifogli. Davanti a una larga finestra ricurva c'era un tavolo intarsiato, dai cui angoli sorgevano alti portacandele di mogano, su ciascuno dei quali stava una candela accesa. A quel tavolo, su una sedia dallo schienale di legno di rosa, sedeva Adiuvo Constanto Clementer. Era un uomo di media statura, prossimo alla trentina ma già calvo, che usava vestire quasi sempre la tunica bianca dei druidi. Il suo assistente Almus Agnellus, basso e grassoccio, gli stava riferendo ciò che avevano detto le guardie: «Sembra che questo postulante cercasse proprio voi, mio signore. Ha accennato alla sua necessità: si trattava di togliere un sortilegio di pazzia originato da una maledizione». «Davvero?» rispose Secundus. «Interessante. Sai, Agnellus, ho dovuto risolvere un caso dello stesso genere anni fa, nelle province orientali.» «E il mio signore è stato in grado di toglierlo?» «Proprio così. Non è stato facile, ma alla fine il sortilegio si è sciolto. Sai come sono solito dire...» «Lo so, mio signore. 'Per ogni domanda c'è una risposta. È solo questione di saperla cercare.'» «Mi spiace di non essere stato informato della visita di quest'uomo. Penso che avrei potuto aiutarlo.» «Era un povero.» «Non importa. Io ho già ciò che mi basta per vivere. Avrei potuto chiedergli qualche moneta o un pollo, o anche niente. Ma non dire al primoris che sono disposto a lavorare gratis, altrimenti mi farà un sermone sulla necessità di pensare alle casse del santuario.» L'assistente ridacchiò. «Forse allora al mio signore converrebbe mettere rimedio alla pazzia della regina.» «La regina non è pazza, Agnellus, è eccentrica. Questo è il termine che conviene usare quando si parla dei reali. Ha questa mania del colore verde. I giardinieri sono molto occupati a tagliare via tutti i fiori dalle piante e a potare le fronde che mostrano i colori dell'autunno.» Il novizio che accendeva le candele intervenne: «Signore, ho sentito dire che l'anno scorso la regina ha attraversato un periodo blu». «È vero!» rispose l'assistente del druido. «Ah! Quei poveri giardinieri.
Lei fece piantare ovunque campanule azzurre, giacinti, lillà, lupini, pervinche, lavanda e issopo. Ma non le bastava... ordinò che anche le foglie fossero dipinte di azzurro.» Il novizio boccheggiò. «Le piante morirono tutte, naturalmente», continuò Agnellus. «Ma lei ha imparato la lezione e ora permette che le foglie restino nel loro stato naturale, anche quando si compiace di abbandonare un colore per passare a un altro. L'autunno tuttavia rimane un problema per lei.» Sospirò. «È un momento importante per la casa reale, quando la regina passa a un colore nuovo. Le sue cameriere sono pallide e magre, perché continuano a mangiare solo verdura.» «Se saremo fortunati», disse Clementer, con un rispettoso cenno del capo verso la statua marmorea di Àdh, «la prossima volta sceglierà il bianco.» «Bianco?» si stupì Agnellus. «Non riesco a immaginare cosa si possa mangiare, limitandosi al bianco. Pesce, forse?» «Il pane di farina setacciata e le paste allo zucchero di canna dovrebbero mettere un po' di carne addosso alla servitù.» Clementer tamburellò con le dita sulla scrivania. «Forse dovrei suggerirle questo cambiamento. Con la dovuta sottigliezza, è ovvio.» L'assistente stava sorridendo. «Cipolle bianche, zuppa di cavolo, molti tipi di pesce, gelatine alla vaniglia, latte, formaggi, pasta di mandorle... per la mano destra di Àdh, l'elenco mi sta facendo venire l'acquolina in bocca.» Il novizio, che si era voltato verso la grande finestra, lanciò un'esclamazione. «Cosa succede?» domandò Clementer. «Mio signore, mi è sembrato di vedere una cosa strana giù nel cortile... una figura piccola, in qualche modo non umana.» «È probabile. Negli ultimi due o tre mesi, qui al santuario sono state viste numerose creature eldritch. Non farci caso. Sono seelie e non fanno niente di male. Forse un giorno o l'altro spariranno senza una spiegazione, così come sono arrivate.» Il novizio s'inchinò. Per tutto il pomeriggio Eoin era rimasto seduto nella taverna, col cappuccio tirato in avanti sulla faccia, perduto nei suoi pensieri. Coloro che gli rivolgevano la parola ricevevano in risposta qualche monosillabo e una
scontrosità scoraggiante. D'un tratto un uomo entrò nel locale e annunciò a tutti che la Stella era stata rubata dall'Albero di Ferro, a opera di un ladro sconosciuto, ma Eoin non era dell'umore di prestare attenzione alle faccende che non lo riguardavano. La luce di quella giornata piovosa stava scemando. Eoin si fece portare il conto e consegnò al gestore qualche moneta in più per risarcire parte dei danni inflitti al locale dalla zuffa di quel mattino. «Che voi siate benedetto, signore, per la vostra generosità», disse il taverniere. «Mi venderesti la tua giubba e il tuo berretto?» gli propose Eoin, in tono confidenziale. «Non voglio essere scambiato ancora per quell'uomo.» L'affare fu presto concluso. Eoin consegnò la sua giubba marrone scuro in cambio di quella rossa dell'altro e si coprì i capelli col largo berretto floscio. Poi uscì in strada a passi svelti. Stava ormai cessando di piovere, anche se le nuvole sfilavano basse e pesanti. Camminando, Eoin si tolse il fazzoletto verde, regalo di Lilith, e lo ficcò nella tasca della camicia dove teneva la borsa dei soldi. Non andò nella scuderia a vedere il suo nuovo cavallo, né all'accampamento dei suoi concittadini. Si avviò invece per le strade piene di pozzanghere verso il palazzo di Re Maolmórdha. Nel muro esterno c'erano quattro porte secondarie, per la servitù, le guardie e i fornitori. Eoin si diresse a una di quelle, la stessa da cui Jarred era stato fatto allontanare. «Come ti chiami? Cosa sei venuto a fare?» lo interrogò una guardia, attraverso le sbarre di ferro. «Il mio nome è Eoin Mosswell. Porto informazioni sull'uomo ricercato dal re.» «Entra.» Una chiave girò in una serratura e si udì il clangore di un catenaccio. Il metallo cigolò contro il metallo e il cancello si aprì, per poi richiudersi alle spalle del pescatore di anguille. Mezz'ora dopo si aprì di nuovo. Dopo aver salutato la guardia con un cenno del capo, Eoin uscì. La borsa in cui teneva le vincite al gioco era ancora nascosta sotto la giubba e, a ogni passo sul selciato sconnesso, faceva udire un tintinnio di monete. Il cancello si chiuse con un lungo rumore rotolante, come se fosse montato su ruote. La guardia, dietro le sbarre, lo seguì con lo sguardo finché Eoin non scomparve in direzione della taverna dell'Asso di Coppe.
Il sole era già tramontato. Non appena ebbe prelevato il suo cavallo grïmnørslandiano, il giovane se lo tirò dietro per le redini fino alla zona della fiera. Ormai non pioveva più, ma il cielo era sempre coperto di nubi, da un orizzonte all'altro, e qui e là continuavano ad accendersi lampi nella notte. Dalle finestre delle case usciva una luce giallastra troppo debole, ma lui era munito di una lanterna. La sua fiammella creava riflessi nelle pozzanghere e nelle fogne a cielo aperto, dove gorgogliava un'acqua fangosa. La strada che stava seguendo lo portò a passare davanti al santuario. Nella semioscurità le mura esterne si levavano come una barriera grigiastra. Ogni tanto la luce della lanterna rivelava il muso di qualche animale di marmo, arrotolato intorno alle colonne. In lontananza si udivano i passi delle guardie che percorrevano i camminamenti sulle mura. C'erano pochi passanti a quell'ora. Sulla strada che girava intorno al santuario restava soltanto un accattone vestito di stracci, seduto davanti al canaletto di una fogna. Vedendo avvicinarsi un viaggiatore con un cavallo, il mendicante assunse un'espressione supplichevole e si preparò a chiedergli una moneta. Ma, proprio mentre Eoin arrivava alla sua altezza, sulla torre del santuario cominciò a suonare una grossa campana. Dimenticando il suo proposito, il mendicante si alzò di scatto e fece un segno di scongiuro contro i demoni. Poi afferrò Eoin per un braccio. «Per le ossa di Àdh», disse, in tono spaventato. «Questa è la campana dei morti! Non l'avevo mai sentita suonare a un'ora così tarda!» Eoin si fermò di botto. Una subdola sensazione di orrore gli strisciava fra le scapole. «Cos'è questa campana dei morti?» sussurrò. «È la campana che suonano quando qualcuno muore», rispose il mendicante e, senza perdere tempo, abbandonò il suo posto e si allontanò. I rintocchi cupi e pesanti rimbombavano intorno a Eoin come se il suo cranio fosse di bronzo e un batacchio lo percuotesse con insistenza. Si sentì costretto a restare lì e a contare i colpi. «Ma non ci sono luci sulla torre campanaria!» strillò il mendicante con voce spaventata, mentre svoltava l'angolo e spariva alla vista. La lingua di bronzo nella bocca della campana faceva echeggiare la sua voce possente, che invocava: Cinniúint, Cinniúint, Cinniúint. Probabilmente era stata progettata così, per pronunciare il nome di uno dei Fati, quello che presiedeva al destino finale dell'uomo. Eoin contò i colpi. Dopo il trentasettesimo tacquero. Mentre le ultime vibrazioni si disperdevano sulla città, lui si rese conto che la campana aveva enumerato gli anni della
sua vita. Un torpore gli invase le membra. Dovette fare uno sforzo per prendere fiato. Tuttavia un impellente senso di urgenza lo obbligò a sollevare un piede e poi a posarlo, quindi a sollevare e posare l'altro. Fu così che si ritrovò a camminare, usando ogni stilla di forza; ma avanzava lentamente, come se lottasse contro una forza invisibile. La paura gli pesava sulla schiena come un idolo di pietra. Gli zoccoli ferrati del cavallo strappavano echi sepolcrali dalle mura del santuario. Mentre Eoin si avvicinava, un cancello si spalancò e ne uscì un individuo simile a un goffo nanerottolo, avvolto in un mantello nero col cappuccio scarlatto. Il cavallo appiattì le orecchie, roteò gli occhi e rifiutò di fare un altro passo. La faccia dello strano individuo non si scorgeva bene nell'ombra del cappuccio, ma sembrava quella di un vecchio incartapecorito col corpo di un bambino di sette anni. Mentre camminava, lo sconosciuto cantava in una lingua che Eoin non aveva mai sentito. A giudicare dal ritmo lento, quella nenia era senza dubbio una marcia funebre. «Ah, ho già visto wight di quella razza», disse d'un tratto la voce del mendicante, imprevedibilmente riapparso alle spalle di Eoin. «Non temere. Sono abbastanza seelie, purché i mortali non li infastidiscano.» Altre voci si unirono al requiem e due file di piccole figure vestite nello stesso modo sbucarono dal cancello. Erano seguite da altri sei di quegli esseri, a testa scoperta, che sorreggevano una cassa da morto di dimensioni normali, senza coperchio, e dietro i portatori vennero fuori ancora due file di incappucciati che cantavano in tono luttuoso. «Ma è impossibile», mormorò Eoin. «I wight sono immortali. Non muoiono nel vero senso della parola... eppure questo è un funerale.» Il mendicante si toccò il naso a indicare che qualcosa gli puzzava. «Deve essere uno dei loro trucchi.» «E che scopo avrebbe?» «Questo è un sortilegio di morte.» Una nausea improvvisa contrasse lo stomaco di Eoin. Il corteo di nanerottoli aveva intanto svoltato in direzione opposta e si stava allontanando, al centro della strada. Le note della marcia funebre si spandevano come fumo da un forno crematorio. «Voglio vedere chi c'è in quella bara», decise Eoin. «Tienimi il cavallo e ti guadagnerai sei soldi. Se cercherai di portarlo via, ti riprenderò prima che tu abbia fatto tre passi.» «Dammi le redini», borbottò il mendicante. «Ma ti avverto: quelli della
loro razza si offendono, se i mortali rivolgono loro la parola. Potrebbero aggredirti.» Eoin non replicò, gli gettò le redini e s'incamminò dietro la processione. Non appena ebbe affiancato la bara, ci guardò dentro. Una sensazione di calore bianco lo paralizzò. L'uomo che giaceva nella cassa aveva il suo volto. Comprese di essere dinanzi a un sortilegio di morte rivolto contro di lui. Dopo il muto grido di terrore che gli pervase l'anima, sentì che doveva saperne di più sul proprio destino. Incurante dell'avvertimento del mendicante, domandò ai portatori, con voce tremante: «Quando morirò?» Quelli non gli risposero. Lui raggiunse il loro capo, ma, mentre stava per toccarlo su una spalla, l'intera processione scomparve all'istante e una gelida folata di vento fece increspare le pozzanghere. Sui tetti delle case esplose un tuono assordante, così forte da scrollare le tegole, e il cielo impazzì di fulmini che saettarono in ogni direzione. Il mendicante mollò le redini e se la diede a gambe, senza aspettare la sua ricompensa. Eoin dovette correre dietro al cavallo, che si era imbizzarrito. Quando finalmente riuscì a calmarlo, la tempesta elettrica era finita e la città sembrava deserta e completamente buia. Le nuvole si assottigliarono e si aprirono. Il vento le spinse a oriente, mentre Eoin faceva ritorno al suo accampamento. Costellazione dopo costellazione, le stelle fecero la loro comparsa, diademi di perle cucite sul nero mantello della notte. Stava sorgendo la luna. Fionnuala l'aveva lasciato solo. Come un animale in gabbia, come un prigioniero in cella, Jarred camminava avanti e indietro. I muri di quella topaia sembravano volerlo schiacciare. Non vedeva l'ora di essere all'aperto, libero, in viaggio nel territorio che si estendeva tra la città e l'Acquitrino. Avrebbe voluto mettere le ali ai piedi per volare a casa, da Lilith e Jewel. Cosa avrebbe fatto il re se avesse scoperto che esistevano altri discendenti di Janus Jaravhor, oltre a lui? Senza dubbio avrebbe voluto prendere sotto controllo anche Jewel. Il pensiero della sua figlioletta innocente invischiata nei pericolosi giochi politici di palazzo, circondata da cortigiani intriganti e spietati, soggetta ai capricci di una regina folle, di un re avido e dell'ambizioso Druido Imperius... bastava quello a farlo stare male. L'idea che potessero costringerla ad aprire la Cupola gli faceva venire voglia di abbattere la porta con un calcio, usci-
re di lì e correre a prenderla tra le braccia per portarla in salvo. I minuti spesi ad aspettare il ritorno di Fionnuala si srotolavano lentamente, nastri neri distesi nell'eternità. Alla fine la porta si aprì. Le tenebre avevano calato un sipario fuori della soglia. Una figura magra lo attraversò. Jarred si era aspettato di vedere Fionnuala, ma a entrare fu il fratellastro. Fionnbar Aonaràn era cambiato ben poco nei quattordici anni trascorsi dall'ultima volta che si erano visti. Era sempre pelle e ossa, con una faccia smunta sotto il ciuffo di capelli color paglia, ma appariva più pulito e meglio vestito di come Jarred lo ricordava. «Buonasera, Jaravhor», lo salutò, per nulla stupito di trovarlo lì. Jarred corrugò la fronte. «Quello non è il mio nome.» «Eppure, signore mio, tu trai forza e vigore dal sangue di quello stregone. Tu, signore, sei la chiave della Cupola. Ho appena parlato con Fionnuala e ti propongo una cosa: quando tornerai da lei, come hai giurato, ce ne andremo tutti e tre ad aprire quella Cupola. E vivremo come nababbi per sempre.» Fissò su Jarred uno sguardo acceso; lo sguardo di un fanatico. Jarred gli disse: «Aonaràn, ficcati in testa che non lo farò mai. Se hai parlato con tua sorella, te l'avrà riferito anche lei». «Be', signore, potresti cambiare idea», disse l'altro, continuando a fissarlo con lo stesso sguardo. «Sarà meglio che non vi aspettiate niente da me, né tu né lei. Tua sorella non ha ancora tenuto fede alla sua parte del piano.» Ma, proprio mentre diceva quelle parole, sulle pietre della strada si avvicinò il clop clop degli zoccoli di un cavallo. «Vieni», disse Fionnbar, e uscì nella notte. Jarred lo seguì. Fionnuala era lì accanto e teneva per le redini uno dei cavalli più belli che lui avesse mai visto. Dalla sua linea snella e muscolosa, dalle zampe lunghe e forti, capì che si trattava di un purosangue di razza selezionata, veloce nella corsa. «Dove avete preso un animale così splendido?» «Questo non ti deve importare, signore», rispose Fionnbar. «Monta in sella senza perdere tempo, per favore, prima che troppa gente ci veda.» E si accostò all'animale, accarezzandogli il muso per tenerlo calmo. «Tirati il cappuccio sulla faccia», disse Fionnuala. «E non aprire bocca finché non saremo fuori città.» La ragazza strinse le redini, il fratello la imitò tenendosi dall'altra parte e
i due si avviarono nella strada buia conducendo l'animale a mano. Il firmamento si schiariva sempre più e l'ultimo strato di foschia lasciava il posto a un fitto pulviscolo d'argento. Il percorso che stavano seguendo attraversava la periferia più miserabile e abietta, dove i due sembravano orientarsi meglio al buio che alla luce. Alcuni vicoli erano veri e propri tunnel fangosi, dove la parte superiore delle case sporgeva al punto di nascondere il cielo. In giro non si vedeva quasi anima viva, tuttavia ogni tanto un solitario passante rivolgeva una domanda a Fionnbar o a Fionnuala, come se li avesse riconosciuti dall'odore, ed essi rispondevano inventando una scusa plausibile per soddisfare la sua curiosità. Con la visuale limitata dal cappuccio, Jarred si accorse a stento che uscivano dalle mura, in un tratto mezzo crollato e privo di sorveglianza. Avrebbe voluto muoversi più in fretta: procedere al passo era un tormento. Sotto di lui, il cavallo sembrava percepire il suo nervosismo. Aveva fremiti improvvisi, ruotava le orecchie al minimo rumore, era impaziente di lanciarsi al galoppo. Finalmente si fermarono sotto gli alberi, sulla strada che portava alla fiera. Il vento staccava qualche foglia secca. Una strana melodia eldritch scivolava nella notte e i cori delle rane indicavano la vicinanza del Fiume Impetuoso. «Ci è andata bene! Qui dobbiamo separarci», disse Fionnuala, voltandosi verso Jarred. «Ma non dimenticare che ci ritroveremo. Giurami di nuovo che verrai.» «Averlo giurato una volta è sufficiente», disse Jarred. Fionnbar e Fionnuala lasciarono le redini. «Mi troverai al Passo di Scamallach, mio caro», disse la ragazza. «Non farci aspettare troppo, Jaravhor», aggiunse Fionnbar. Jarred allentò le briglie e spostò il peso in avanti. Non ci fu bisogno di altro incitamento: sentì la poderosa massa muscolare del cavallo muoversi tra le sue gambe e, con uno scatto esplosivo, il purosangue partì al galoppo, con gli zoccoli che tambureggiavano sul terreno molle a un ritmo travolgente. Il vento strappò via il cappuccio dalla testa di Jarred. I suoi capelli sciolti svolazzavano dietro di lui come una bandiera inneggiante alla libertà. Più avanti, lungo la stessa strada, Eoin Mosswell stava viaggiando al trotto sul cavallo che aveva vinto a Fridleif Squüdfitcher. Era di pessimo umore: il finto funerale degli eldritch pesava sul suo morale in modo terribile. Non faceva altro che chiedersi cupamente quanti giorni gli restassero
da vivere. Non era così sciocco da illudersi che i wight avessero messo in scena uno spettacolo privo di significato. Quel poco che sapeva delle usanze eldritch lo rendeva certo che il suo destino si sarebbe concluso a breve scadenza: chi vedeva il proprio funerale recitato dai wight moriva sempre entro l'anno. Oltre a ciò, si stava tormentando per quello che aveva fatto. Non senza rimorso riviveva, con gli occhi della mente, il suo breve colloquio col cortigiano del re. Prima di parlargli si era chiesto quale fosse il modo migliore per assicurarsi che gli uomini del sovrano trovassero Jarred. Voleva che non ci fossero dubbi sul fatto che il ricercato era lui, il suo rivale. Se esisteva la possibilità che qualcun altro partecipante alla fiera corrispondesse alla descrizione del ladro, o se Jarred per qualche ragione fosse già ripartito verso casa, o se fosse sparito per uno dei suoi misteriosi giri per la città, in ciascuno di tali casi arrestarlo sarebbe stato difficile. Per evitare equivoci lui aveva detto al cortigiano anche dove si trovava la casa di Jarred, nel Grande Acquitrino di Slievmordhu. «Io conosco l'uomo che cercate», aveva precisato. In fondo al cuore Eoin sapeva di aver commesso un vergognoso atto di tradimento, tuttavia non avrebbe potuto sopportare la prospettiva che Jarred ricevesse un premio solo per essersi presentato a palazzo e aver fornito qualche informazione. Quale informazione? si domandò. Detestava l'idea che il suo rivale si rimpinguasse le tasche. La ricchezza, aveva pensato, era l'unica cosa in cui lui riusciva a superare Jarred. Rivelando al cortigiano il nome e la residenza del ricercato, Eoin non aveva mirato a guadagnare denaro. In effetti non gli era stato ancora pagato un soldo: avrebbe avuto la ricompensa solo quando il ricercato fosse stato portato a palazzo. Ma a Eoin non importava niente che lo pagassero. Si chiedeva per quale motivo il re volesse parlare con Jarred. Come poteva un misero abitante dell'Acquitrino aver destato l'interesse di Maolmórdha? Il sergente delle guardie aveva dichiarato che non lo si accusava di niente, ma poteva essere una bugia per attirare la preda nelle mani degli uomini del re. O Jarred aveva commesso un atto così virtuoso da fargli meritare un premio, oppure si era reso colpevole di un crimine per cui andava punito. Delle due possibilità, l'ultima sembrava di gran lunga la più probabile e, se Jarred era atteso da una punizione, Eoin intendeva far sì che la ricevesse al più presto. Se io devo morire, preferisco che succeda nell'Acquitrino, non qui in città. Voglio rivedere Lilith un'ultima volta, pensò. Al suo ritorno alle tende,
quella sera, aveva informato il padre che non sarebbe rimasto in città un'ora di più, senza dargli nessuna spiegazione. «È una decisione inaspettata», era stato il commento di Earnàn. «Ma vedo che hai un cavallo. Sei ansioso di portarlo a casa?» E, dato che il figlio non rispondeva, aveva chiesto: «Ti senti bene? Sembri preoccupato». «Va tutto bene, àthair», aveva risposto Eoin. Avrebbe voluto dirgli «Gramercie, àthair, per tutto ciò che hai fatto per me nella tua vita» e abbracciarlo. Ma quelle manifestazioni d'affetto non erano adatte a gente come loro. Una goffa stretta di mano, una pacca sulle spalle: era quanto di più vicino a un abbraccio ci fosse mai stato. Eoin aveva scoperto di essersi tenuto dentro così tante parole rivolte al padre che, al momento di dirle, non aveva saputo da dove cominciare. Perciò non ne aveva detta neppure una. «Addio», si era limitato a mormorare. Earnàn aveva annuito. «Addio.» Accadde così che Eoin si trovò a viaggiare in una notte stellata, il Giorno del Fulmine, coi rami degli alberi che s'incurvavano sopra la sua testa e con un cinguettio di voci wight che ogni tanto trapelava dai cespugli sulla sinistra, mentre le rane cantavano nel canale semiostruito dal fango che era diventato il Fiume Impetuoso. Dopo un po', trascinato dalle sue cupe meditazioni, si accorse che la cupola di sordità sotto cui si era trovato isolato senza rendersene conto si stava sollevando. Uno scalpiccio gli accarezzò le orecchie. Il rumore si fece più intenso, finché non capì che un cavaliere si avvicinava alle sue spalle divorando la strada a velocità indiavolata. Si voltò sulla sella. La luna, piena per tre quarti, era abbastanza alta sugli alberi da illuminare alcuni tratti della strada. Incuriosito da quella fretta, Eoin tenne lo sguardo sul cavaliere finché non fu abbastanza vicino da poterlo identificare. «Ah... Jovansson, sei tu.» Jarred l'aveva già visto e stava rallentando. Il suo cavallo sudava. «Non posso fermarmi», gli disse, col fiato grosso. «Se vuoi parlarmi, cavalca accanto a me.» Eoin spronò il cavallo a un trotto veloce per tenere il passo di Jarred. «Perché tanta fretta?» gli domandò, cercando d'ignorare il disagio e il senso di colpa che gli strisciavano nelle budella come serpenti. «Gli uomini del re mi stanno cercando», rispose Jarred. «Ma forse è una fortuna che io ti abbia incontrato qui, sulla strada di casa. Ho bisogno del
tuo aiuto, Mosswell. Tra noi c'è stato cattivo sangue in passato, ma ora ti prego di mettere da parte le nostre divergenze, per il bene di Jewel.» Nell'udire il nome di lei, Eoin sentì un fremito alla nuca, come se fosse stata punta da mille aghi. «Devo rivelarti un segreto conosciuto solo da pochi», continuò Jarred. «Io sono il nipote dello stregone Jaravhor. Il re crede che in me ci sia il potere di aprire la Cupola di Strang. Ma io sento che in quella fortezza è rinchiuso qualcosa di malvagio e non voglio avere niente a che fare con la sua riapertura.» «E Jewel piangerebbe, se gli uomini del re catturassero suo padre», commentò aspro Eoin, senza credere del tutto alle parole dell'altro. «Così, per amor suo, dovrei aiutarti a evitare la cattura.» «C'è di peggio», disse Jarred, troppo preoccupato per notare il tono sarcastico dell'altro. «Non è solo a me che danno la caccia. Anche Jewel è del sangue di Jaravhor. Se sapessero della sua esistenza, andrebbero a prendere lei. È un bene che non sappiano da dove provengo.» Gli aghi scesero dalla nuca di Eoin, pungendolo da capo a piedi. Il giovane vacillò in avanti sulla sella. Per una decina di secondi lottò contro lo stomaco che gli saliva in gola. «Nel nome del cielo!» ansimò. «Oh, che i Fati abbiano pietà di me! Cos'ho fatto?» Jarred si voltò a guardarlo, perplesso. «È troppo tardi! Io ti ho già tradito!» balbettò lui. I cavalli trottavano. La luna brillava. Poi Jarred strinse i talloni con uno scatto violento e spronò di nuovo il suo animale al galoppo. In pochi istanti cavallo e cavaliere accelerarono vertiginosamente, si lasciarono indietro l'altro viaggiatore e scomparvero oltre la curva successiva. Eoin continuò ad avanzare, sconvolto dall'angoscia e con gli occhi pieni di lacrime. I suoi singhiozzi disperati si alzavano alla luna come i guaiti di un animale ferito. La stessa luna spandeva il suo chiarore sul Grande Acquitrino di Slievmordhu, dove le foglie gialle dei salici continuavano a staccarsi dai rami. Con sognante lentezza esse volteggiavano lievi e si posavano sulla superficie dell'acqua, galleggiando via come barche degli elfi. Le canne secche ticchettavano l'una contro l'altra. A casa di Earnàn Mosswell, Lilith sentì un rumore che la fece sobbalzare.
«Qualcosa ci sta assalendo!» gridò. La figlia le si avvicinò e disse: «Madre, qui non c'è nessuno». Lilith corse alla finestra e guardò fuori. «Ne sei sicura?» «Ne sono sicura.» Il viso di Jewel era rigido per l'ansia. Negli ultimi tempi sua madre era stata molto più sensibile e nervosa del solito, tormentata dalla paura che cose invisibili la stessero inseguendo. Era difficile convincerla a rilassarsi. Lilith sussultò di nuovo. «Sento qualcuno che si avvicina. Vuole farci del male. Dobbiamo fuggire!» Jewel versò in una tazza la pozione che Cuiva aveva preparato per Lilith. «Bevi questo, madre. Ti aiuterà a stare tranquilla. Domattina andrò a chiamare Cuiva.» La ragazzina sedette al capezzale della madre e le accarezzò la fronte finché non vide che si era addormentata. Il purosangue di Jarred era veloce sui percorsi brevi, ma poco abituato alle lunghe distanze. Il cavallo appartenuto al grïmnørslandiano, al contrario, era tozzo, solido e dotato di maggiore resistenza. Quattordici leghe più avanti del luogo in cui Jarred l'aveva sorpassato, Eoin riprese contatto con lui. Alla sommità di un'altura i due fecero una sosta e si voltarono, aspettandosi di vedere un gruppo di cavalieri giù lungo la strada, neri sotto la bianca maschera della luna. Come in precedenza, non scorsero nessuno. «Non possono essere molto lontani», mormorò Jarred tra sé. Eoin aveva i denti stretti. Cavalcarono senza sosta per tutta la notte. Quando trovarono una locanda lasciarono là i loro cavalli, che vacillavano all'orlo dell'esaurimento, e li cambiarono con altri due. Per tutto il Giorno dell'Amore proseguirono verso sud e al tramonto, fermandosi su una collina a scrutare la strada che avevano appena percorso, ebbero la brutta sorpresa di vedere un drappello di cavalieri in uniforme. Gli inseguitori non avevano perso tempo. Dopo un ultimo tratto percorso alla massima velocità, i due giunsero alla grigia torre di guardia che sorvegliava l'ingresso settentrionale dell'Acquitrino. «Ehi, tenente Goosecroft!» gridò Jarred. «Abbassate il ponte levatoio. Sono inseguito, la mia famiglia è in pericolo!» Il tenente Goosecroft, che da una finestra aveva già visto arrivare i viag-
giatori, non fece domande. Era un uomo sveglio e aveva percepito la nota di allarme nella voce di Jarred. Il ponte si abbassò cigolando e i due l'attraversarono al galoppo. «Ci sono alle costole», ansimò Jarred, smontando. Il suo cavallo aveva la bava alla bocca. «Alzate il ponte!» «Lo stiamo già tirando su», gli fece notare Goosecroft. «Dovete trattenere i nostri inseguitori il più a lungo possibile», disse Jarred. «Sono uomini del re. Vogliono catturare me, e anche Jewel, se hanno saputo della sua esistenza.» «Jewel?» si stupì il tenente. «Non c'è tempo per le spiegazioni.» Jarred faticava a riprendere fiato. «Devo portarla via dall'Acquitrino; ho bisogno di tempo.» «Faremo il possibile.» «Quando vi interrogheranno, dovrete giurare che io non ho figli», si raccomandò lui. Aveva gli occhi pieni di sudore e i capelli appiccicati al collo. «Manderò due uomini a spargere la voce nell'Acquitrino. Tutti dovranno dire la stessa cosa. Non tradiremo tua figlia.» Anche Eoin era smontato e, nel sentire le parole di Goosecroft, provò un rinnovato odio per se stesso. I cavalli erano ormai sfiniti. «Nascondete questi due animali», disse ancora Jarred alle guardie. «Non abbiamo più bisogno di loro. Da qui in poi non si può proseguire in sella.» Attese che un paio di uomini prendessero in consegna i quadrupedi. «E ora addio, amici.» «Possa la fortuna accompagnarti, Jovansson», li salutarono le guardie, mentre Eoin e Jarred sparivano lungo il sentiero che attraversava l'isola della torre settentrionale. I due corsero via sulle passerelle e sui ponteggi che s'intrecciavano in percorsi complicati nel labirinto di canali e spiaggette. A fare strada era Eoin, che fin da ragazzino aveva esplorato ogni angolo della zona e sapeva orientarsi alla perfezione. Ogni tanto fecero uso delle barchette e delle zattere che venivano lasciate qui e là, per uso pubblico, e remarono freneticamente senza curarsi della stanchezza. In altri punti, disperati, per accorciare il percorso dovettero gettarsi a nuoto. Tutto intorno a loro la vegetazione esibiva sgargianti colori autunnali. Pesanti tende di frasche dorate pendevano tra gli alberi e tappeti galleggianti di foglie cadute andavano alla deriva sulle acque. I laghetti e i canali riflettevano dal basso l'immagine di quello splendore, mentre i raggi del
sole trafiggevano di mille riflessi le increspature create dal vento. Ma per Eoin e Jarred sarebbe stata la stessa cosa muoversi in un panorama di cenere morta. Uomini e donne li salutavano nel vederli passare, ma loro non se ne accorgevano neppure. Da quando Eoin aveva confessato il suo tradimento, non si erano più rivolti la parola. A dire il vero non avevano avuto tempo di tirare il fiato, ma in ogni caso non avrebbero saputo tradurre in parole ciò che pensavano. D'un tratto, però, un evento esterno riuscì a penetrare nel fosco malumore di Eoin: un lamento stregato che si levava fin dal loro arrivo a una distanza imprecisabile e che pareva seguirli mentre si addentravano nelle paludi. Una prefica stava lamentando la morte di qualcuno. Mentre si avvicinavano alla casa dei Mosswell, Jarred disse: «Devo portarle tutte e due fuori dell'Acquitrino. Tu cerca una barca veloce, mentre impacchettano le loro cose. Ce ne andremo per via d'acqua, dove quella gente non potrà seguirci a piedi». Eoin annuì. Un groppo in gola gli paralizzava le corde vocali. Si allontanò in fretta, alla ricerca di una canoa da corsa. Tralee abbaiò allegramente. Una voce gridò un saluto a Jarred e dalla casa uscì Odhràn Rushford, col cane alle calcagna. «È una fortuna che tu sia tornato», disse l'amico. «Lilith non sta bene e Cuiva si sta occupando di lei. Ma cosa sta succedendo?» domandò, accorgendosi dell'angoscia di Jarred. Quest'ultimo entrò subito in casa, spingendo da parte sia il cane sia l'upial di palude, anch'esso uscito a fargli le feste. Lilith era distesa sul giaciglio presso il caminetto. La candida chioma di Cuiva e quella nerissima di Jewel, chine su di lei, svolazzarono quando le due si voltarono bruscamente al suo ingresso. Non appena Lilith vide il marito, balzò in piedi e lo abbracciò con forza. «Oh, grazie ai Fati sei tornato!» esclamò. «Ora andrà tutto bene!» Jarred la baciò con tenerezza, poi disse gravemente: «Ascoltatemi, per favore». Tese una mano a Jewel, che la strinse fra le sue. Restarono uniti tenendosi stretti, tutti e tre, mentre lui raccontava in sintesi ciò che era successo, omettendo la parte che vi aveva avuto Eoin. Cuiva e Odhràn lo ascoltavano con attenzione. «Eoin è appena andato a cercare una barca. Gettate in qualche fagotto le cose che vi sembrano necessarie; ce ne andremo immediatamente. Non c'è tempo da perdere. Gli uomini del re devono essere già arrivati alla torre di guardia settentrionale.» «Ma, padre, quando torneremo?» domandò Jewel. Jarred si piegò verso di lei con espressione stanca. «Jewel, noi non tor-
neremo più nell'Acquitrino. Mai più. Capisci?» Lei annuì, confusa, con gli occhi spalancati come due conchiglie azzurre spruzzate d'acqua marina. Ciò che le aveva detto era troppo per essere compreso subito. «Ecco.» Lui tolse dalla tasca della camicia il gioiello bianco. «Questo ti aiuterà a sorridere. Tienilo con cura. Lo porteremo con noi.» Nella mano di Jewel la gemma solitaria brillava come il cuore di una stella. La ragazzina la esaminò con meraviglia. «Nascondilo», le raccomandò lui con enfasi. «E ora, presto, prendete le cose di cui avrete bisogno e partiamo.» «Ti aiuto io, Jewel», disse Cuiva. Lilith era ammutolita. Si strinse le braccia al petto e iniziò a ondeggiare. «Ci stanno inseguendo», disse, con gli occhi vacui. «Li sento arrivare. Dobbiamo fuggire.» «In nome del cielo!» mormorò Jarred, costernato. Cuiva lo prese in disparte e gli disse: «È così da qualche giorno. Sta peggiorando. La mia pozione la calma, ma non può allontanare la maledizione. La follia va e viene. Temo che le notizie che hai portato abbiano aggravato le sue condizioni». Jarred imprecò selvaggiamente. «Quando Lilith ha saputo di questa pazzia ereditaria, ha deciso che non avrebbe mai dovuto avere un marito e dei figli», disse. «È stata colpa mia se le cose sono andate diversamente. Io sono il responsabile della sua sofferenza e di ciò che le accadrà.» Stupita e sgomenta, la carlin esclamò: «Non addossarti la colpa!» Ma lui si era già voltato verso la moglie. La strinse tra le braccia. «A muirnín», le sussurrò, con tutta la dolcezza che poteva. «A muirnín, riusciremo a salvarci, se stiamo assieme.» Lilith sbatté le palpebre, come se cercasse di guardare attraverso una nebbia. «Sì, ce la faremo», disse. «Scusami. Metterò in un fagotto tutte le mie cose. Farò presto.» E corse nella stanza accanto. Odhràn, che guardava fuori tra le imposte socchiuse, disse: «Arriva Eoin con una canoa». E fece un passo indietro per lasciar passare l'upial, che uscì dalla finestra con un balzo. Pensando a come se la sarebbero cavata durante il viaggio, Jarred aveva già preso il suo acciarino, un rotolo di corda e un'accetta. In fretta mise gli utensili in una borsa di pelle. Odhràn vi aggiunse un gomitolo di lenza e del cavo da trappole. Seguiti dal cane, gli uomini uscirono e iniziarono a darsi da fare intorno alla barca, sullo staithe, mentre Cuiva prelevava un po' di cibo in conserva e aiutava Jewel a scegliere la roba da mettere in un sacco.
Rimasta sola, Lilith andò a cercare il suo mantello di lana marrone, appeso al muro. Mentre lo staccava dal gancio udì un rumore di passi, che subito si fermò alle sue spalle. Le erano sembrati passi disumani, come se a camminare fosse un gigantesco essere metallico coi piedi di roccia vulcanica. E si erano mossi velocemente. Era il tramonto quando la squadra di venticinque cavalieri in uniforme dovette fermarsi sulla riva, di fronte alla torre di guardia settentrionale. Due guardie erano già partite per diramare avvertimenti in tutto l'Acquitrino, sfruttando l'efficiente sistema di comunicazione che serviva a dare l'allarme ovunque nel caso di attacchi o d'invasione. Goosecroft e gli altri stavano preparando ostacoli da porre sul cammino degli uomini del re. «Chi va là?» gridò Goosecroft. «Te l'ho già detto, cialtrone!» rispose l'ufficiale. «Io sono il capitano Ó Labraí, dei Dragoni Reali di Slievmordhu. Siamo in missione al servizio del re. Un individuo di nome Jarred Jovansson è desiderato a Cathair Rua e noi siamo qui per prelevarlo. Nel nome del re, fateci passare.» «Chi è che state cercando?» «Sei sordo? Abbassate il ponte levatoio!» «Ripeti il tuo nome e il motivo della tua visita.» «Abbassa il ponte o, quanto è vero il Fato Àdh, ti farò impiccare!» Dalla torre provennero tonfi, cigolii e clangore di catene. «Il ponte levatoio è rotto!» replicò il capitano delle guardie. Seguì un'interminabile serie di martellate. «Che ti colga la peste, uomo! Volete decidervi a fare qualcosa? Abbassa questo maledetto ponte!» berciò l'ufficiale, spazientito. «Subito, signore!» Ci fu un'altra lunga serie di martellate. «E va bene, porteremo i cavalli a nuoto», disse l'ufficiale alla truppa. «Seguitemi, uomini!» Il suo cavallo entrò nella fanghiglia, profonda e insidiosa come le sabbie mobili. La squadra stava finalmente arrivando sulla riva opposta, quando una catena cedette e il ponte levatoio si abbassò di colpo, con un tonfo violentissimo. Jewel uscì dalla casa e corse sul pontile. «Mia madre non c'è più!» gridò. Eoin e Jarred lasciarono la barca a Odhràn; il primo si precipitò in casa chiamando Lilith, ma Jarred, più padrone di sé, si rivolse alla figlia: «Da quanto tempo è sparita?»
«Non molto. Cuiva e io l'abbiamo sentita muoversi nella camera di Eolacha. Poi mi è sembrato che qualcuno uscisse dalla porta posteriore, ma non ci ho fatto caso, e quando siamo andate a chiamarla non c'era più. Cuiva è andata a cercarla sull'isola.» «Io vado a vedere al cruinniú», disse Odhràn, e corse via. Eoin tornò fuori trafelato. «Qui non c'è!» esclamò con voce alterata. «Tu resta qui con Jewel», gli disse Jarred, in fretta. «Finite di caricare la roba e falla salire in barca, in modo che sia pronta a partire non appena torno. Lilith deve essere andata alla Cresta del Sauro. La riporterò qui.» «Vengo con te!» L'autocontrollo di Jarred si spezzò, e gli sfuggì un'imprecazione. «Come osi opporti a me, razza di furfante! Dopo quello che hai fatto!» La faccia di Jewel sembrava scolpita nel gesso, mentre spostava lo sguardo da un uomo all'altro. Eoin sembrava sul punto di piangere; ma poi strinse i denti. «Va bene, resterò qui con Jewel.» «Non lasciarla. Proteggila. È il minimo che tu possa fare.» Jarred rivolse un gesto di comando al suo cane. «Tralee, stai qui. Non muoverti.» Si piegò a baciare la figlia sulla fronte, poi si allontanò a passi svelti. Ancor prima che il calore del bacio svanisse dalla sua pelle, Jewel sentì che non l'avrebbe rivisto mai più, né lui né sua madre. Un terribile torpore la avvolse, come un mantello di ghiaccio. I lamenti di una prefica eldritch andavano e venivano sulle ali del vento. A Lilith era bastato un paio di minuti per prendere un buon vantaggio. Fuggiva dai passi che echeggiavano nella sua testa; correva svelta, terrorizzata, senza nessuno scopo razionale, e in breve oltrepassò lo Stagno dell'Annegatrice. Proseguì lungo una passerella di assi malferme fiancheggiata da felci e continuò a correre su ponteggi invasi da biancospini. L'acqua lucida come il mercurio catturava per brevi istanti la sua immagine snella. Poco dopo uscì dal confine dell'Acquitrino e iniziò a salire il versante della Cresta del Sauro. I fiori dell'estate non punteggiavano più le erbacce sussurranti. Il cielo ribolliva di vapori inquieti. Nuvole simili a uccelli d'ombra sciamavano verso est, come se qualcosa di spaventoso e innominabile desse loro la caccia. A occidente linee di fuoco bruciavano sull'orlo del mondo. Lilith non rallentò il passo nemmeno in salita, coi capelli e col vestito che le svolazzavano intorno. In passato, ogni volta che era fuggita verso luoghi elevati era riuscita a lasciarsi indietro quei passi. Le era sem-
brato che non osassero seguirla fin là. Ma questa volta era diverso. Il panico spazzò via ogni traccia di raziocinio dalla sua mente. Al rumore pesante di quegli stivali di pietra si era unita un'eco di zoccoli, e a Lilith parve che i versi degli uccelli in volo sull'altura diventassero le grida degli uomini del re, che risalivano a cavallo dietro di lei in una caccia febbrile. Non dubitava più che allontanarsi da suo marito e da sua figlia fosse l'unico modo per salvarli, portandosi dietro i loro inseguitori. Mentre correva si voltava spesso a guardare ed era tanto preoccupata di ciò che la seguiva da non curarsi di quello che aveva davanti. Fu così che, d'un tratto, i suoi piedi non trovarono nulla, fuorché il vuoto. Sull'orlo del precipizio parve restare immobile, come un airone sul punto di prendere il volo; poi l'inerzia la portò avanti, nello strapiombo. Cuiva riapparve sulla porta di casa. «Ho guardato in tutta l'isola, ma lei non c'è», disse a Eoin, che attendeva sul pontone galleggiante dello staithe. Jewel era seduta nella canoa, rigida e impassibile come una bambola di porcellana. Aveva sulle spalle il suo mantello da viaggio col cappuccio. «Jarred pensa che sia sulla Cresta del Sauro», disse Eoin. «È andato a cercarla là.» «Forse hanno bisogno di me», replicò Cuiva. Si sollevò l'orlo della gonna e corse via, prima che l'altro potesse dire una parola. Ai piedi della Cresta del Sauro, Jarred stava ancora correndo. La lunga cavalcata da Cathair Rua aveva minato le sue energie, ma lui era robusto e soprattutto animato dalla decisione di seguire la moglie fino alla soglia della morte. Quando alzò lo sguardo la vide, stagliata contro il grigiore del cielo. Una nuvola passò sul volto del sole. Per un attimo lei parve splendere come una fiamma, in un'aura di luce ambrata. Poi cadde. Jarred balzò avanti. Ansimò su per il pendio, fino alla sommità. Giunto sul bordo del precipizio, guardò in basso. Il corpo di lei aveva spezzato i rami del vischio cresciuto intorno a uno dei tre frassini di montagna, aggrappati alla parete obliqua. A parte gli alberelli stenti che avevano insinuato le radici nel granito e poche erbacce nate nelle fessure, là c'erano solo rocce spoglie. Lei giaceva poco più in basso, su uno stretto cornicione, in una posa scomposta. Il grido disperato che gli scaturì dal petto fu portato via dal vento. Tuttavia gli occhi di lei erano aperti, due coppe d'ametista colme di neve
sciolta, e Jarred capì che lo stava guardando. Nell'istante in cui vide che Lilith si aggrappava ancora alla vita, si sporse oltre il bordo del precipizio e iniziò a scendere verso di lei. La roccia era liscia, eccetto nei punti in cui erano penetrate le radici dei frassini e crescevano erbe rinsecchite. Jarred cercava con le dita quelle fessure e vi si aggrappava con tutta la forza che gli restava. Incapace di vedere dove metteva i piedi, doveva tastare alla cieca in cerca del più piccolo appiglio. Nel corso degli anni le radici delle erbe, con l'aiuto dell'escursione termica, avevano approfondito le spaccature indebolendo la roccia. Cosparsa di crepe, l'intera parete era instabile. Jarred lasciò andare il ramo di un frassino, si aggrappò a una sporgenza rocciosa e passò su un esiguo cornicione. La pietra sotto il suo piede resse soltanto per il tempo d'ingannarlo con la sua apparente solidità, poi cedette. Anch'egli cadde. Precipitò fin quasi al punto in cui si trovava Lilith, ma non la raggiunse. La sua caduta fu fermata dal tronco di un frassino inclinato verso l'esterno. Jarred era invulnerabile alla pietra, all'aria, all'acqua e al fuoco. Se nel cadere avesse urtato qualsiasi sostanza, fuorché una, non sarebbe rimasto ferito. Ma forse qualcosa nel suo sangue incantato aveva riconosciuto quell'unica nemesi. E forse qualcosa nel suo cuore era stato attratto da essa, avendo ormai compreso che gli restava soltanto la vita da perdere, per non perdere tutto. La sua caduta fu arrestata dal tronco del frassino e da un ramo spezzato del vischio rivolto all'insù, che gli si conficcò nel petto fino al cuore. Vischio: la sola cosa che poteva ferirlo. E mentre giaceva morente sul tronco dell'albero, un suo braccio ricadde penzoloni. Le dita accarezzarono il volto di Lilith. Gli occhi di lei erano ormai vuoti come il cielo, e così quelli di Jarred. Tuttavia un vago sorriso curvò le labbra della giovane donna. La stessa espressione si specchiò sul volto del suo sposo. Sembrava che fossero coperti da una coltre di petali rosa; lui disteso sul tronco a faccia in giù, lei rivolta in alto sul cornicione spoglio. Fu così che li trovò la carlin. Al crepuscolo la Carlin Bianca dell'Acquitrino fece ritorno a casa Mosswell. Si era costretta a correre, benché i piedi le pesassero come macigni e fosse immersa in un abisso d'orrore. Suo marito aspettava ancora sul pontile, assieme a Eoin e a Jewel. Quasi accecata dalle lacrime, Cuiva disse: «Eoin, devi partire subito con Jewel.
Portala via dall'Acquitrino. Lilith e Jarred sono morti». E riferì ciò che aveva visto. Seduta sulla canoa, Jewel non si era mossa, una bambola di porcellana sotto un mantello di ghiaccio. Le azzurre farfalle dei suoi occhi sembravano in trance. Eoin era pallidissimo. «Non posso proteggere Jewel», disse. «Mi resta poco da vivere. Ho visto un portento e so che morirò entro l'anno.» «Ascolta!» esclamò Cuiva. «La prefica ora tace. Il tuo giorno non è questo.» «Ma sarà presto!» «Chi altri può portare in salvo Jewel? Io sono la carlin dell'Acquitrino. Di Odhràn c'è bisogno qui. Earnàn non è ancora tornato dalla fiera e gli uomini del re stanno per arrivare nelle nostre case. Devi andare tu, anche se condurla in salvo dovesse essere l'ultima cosa che farai. Presto! Non c'è tempo per discutere!» I capelli argentei di Cuiva le chiudevano il viso come l'ala di un cigno. Era vestita di lino bianco e il suo totale albinismo la faceva risaltare nella penombra come una candela di cera. Un tempo era stata certa che Eoin fosse una persona per bene; ora lo conosceva meglio e rimpiangeva aspramente di averlo creduto. «D'accordo, lo farò», disse lui. Mentre l'imbarcazione si allontanava dallo staithe, dietro la casa si alzò un guaito stridulo. Il lamento che scaturiva dallo spirito semplice e fedele del cane da pastore si perse nella semioscurità nebbiosa dell'Acquitrino. Erano partiti appena in tempo. Di lì a poco i Dragoni Reali di Slievmordhu fecero irruzione nei canali della zona abitata, muniti di torce, latrando ordini alla gente. Si erano procurati zattere e barche senza fare complimenti, mettendo ai remi tutti gli uomini che non erano riusciti a defilarsi. Avevano perso metà del pomeriggio in lunghi giri, ignari che, ogni volta che erano costretti a scendere a guado nelle paludi, avrebbero dovuto ringraziarne i ragazzi dell'Acquitrino, che li avevano preceduti per staccare i ponti e ritardare così la loro marcia. Le ombre della sera si fecero più scure. Lungo le spiagge, rivestite di felci e vellutato muschio verde, fitte di vegetazione, le rane eseguivano il solito coro. Frotte di anatre nuotavano ai bordi dei canneti verdi e oro, tra i penduli tendaggi dei salici piangenti. Un cigno navigava verso un'isoletta tranquilla, scivolando sull'elegante simmetria del proprio riflesso.
La notte si addensò. Eoin continuava ad allontanarsi per vie d'acqua nascoste, note soltanto ai più intrepidi pescatori dell'Acquitrino. A poppa della canoa, Jewel sedeva rigida e immobile, senza dire una parola. La prua sottile tagliava rapida l'acqua di polle oscure, sinistre, chiuse tra alberi morenti coperti di funghi. Per tenere lontana la sofferenza, Jewel concentrava i pensieri su ciò che avevano intorno. Guardando l'acqua, immaginava di veder galleggiare forme spettrali, simili a fiori maligni, o facce. Le tornò in mente la notte d'autunno in cui aveva visto, o sognato, un bellissimo volto fluttuante sott'acqua. Un volto pericoloso, incorniciato da chiome nere come il peccato. Si augurò che quel viso non esistesse. Sullo staithe non illuminato davanti a casa Mosswell erano rimasti Cuiva e Odhràn, la luna pallida e l'abbronzato sole. Avevano facce tese, accigliate, ancora umide di pianto, e si sostenevano a vicenda. Potevano udire gli uomini del re che si muovevano, irritati e vocianti, qui e là per l'Acquitrino. Le rane gracchiavano. Le stelle galleggiavano sull'acqua, o forse erano solo fiori moribondi. «Dunque alla fine lo stregone ha avuto tutta la sua vendetta», sospirò Odhràn. Si voltarono a guardare nella direzione in cui Eoin e Jewel se n'erano andati, e dopo un poco Cuiva disse: «Mi chiedo cosa ne sarà di loro». Stava per sorgere il sole quando Eoin e Jewel giunsero al confine nordoccidentale dell'Acquitrino. Scesero a riva e tirarono la canoa all'asciutto. Poi scomparvero nel grigiore dei boschi coi loro fagotti in spalla, come trow ansiosi di lasciare le terre dei mortali prima dell'alba. EPILOGO Rosa, tu che al deserto sei sbocciata sulla duna da pioggia ora baciata, sei sorprendente lampo, ahimè, fugace che troppo presto rinsecchisce e giace. Ricca di linfa, brilli di colori, principessa fragrante sei dei fiori, ma per tempo assai breve, tu sei stata a effimera esistenza condannata.
Tu che così resisti sei sì forte da vivere dov'altri trovan morte. La tua preziosa e insolita semenza nella siccità dorme con pazienza. Di volta in volta la tua stirpe dura e una pausa attende nell'arsura finché la pioggia non torna a dilagare e il deserto non si trasforma in mare. Poi la tua veste indossi, la corolla, le tue foglie che luce ora ingioiella. Che lusso, quale insolita eleganza che al sospiro del vento oscilla e danza. Dei ruscelli del cielo la rugiada bevi, quando sulla sabbia cada. La terra addobbi con colori belli, rosa polvere e giada, verdi e gialli. E, se come rapido bacio svanirai, nella mente di ciascuno resterai. Tutto ci ricorderà il Ballo dei Fiori quando saran scomparsi i tuoi odori. Il tuo seme sepolto in sabbia dura, è un'indomita sfida a quell'arsura. Il seme agogna l'acqua e il suo ritorno, e invincibile attende, notte e giorno. Figlia paziente del deserto è la rosa, che sempre a profumar torna ogni cosa. Poiché non c'è al mondo una contrada dove prima o poi pioggia non cada. Io, Adiuvo Constanto Clementer, ora concludo la mia storia. Se nel narrarla sono stato inopportuno, o se ho recato dolore ai miei lettori, domando perdono. Ho interrogato molti testimoni oculari e ciò che non è venuto a mia conoscenza l'ho estrapolato come meglio potevo. Vi prego di consentirmi di aggiungere alcune brevi note conclusive. Rispettando i desideri della famiglia di Earnàn, Lilith e Jarred non furo-
no cremati sul Lago Charnel. La gente dell'Acquitrino li seppellì invece su un'isoletta, sotto una lapide che reca l'iscrizione: ASSIEME PER SEMPRE, OGNI AFFANNO È FINITO. Sulle loro tombe, come ho detto all'inizio di questa cronaca, crescono due alberi meravigliosi di cui non ho mai visto l'uguale nei Quattro Regni di Tir. Sono piegati l'uno verso l'altro, coi rami intrecciati, e in primavera si riempiono di fiori, quelli dell'uno color zaffiro come il cielo d'estate, quelli dell'altro rossi come la passione. I loro petali cadono leggeri sui tumuli affiancati, in una morbida pioggia fragrante e profumata che li copre di baci. Scrivendo questa storia, ho pianto. Lilith e Jarred non sono morti invano. Hanno vissuto anni brevi, ma intensi e ricchi, pieni di felicità. Alla fine si sono sacrificati per la figlia ed è questo a farne dei vincitori. Lilith aveva deciso di sposarsi pur sapendo che la maternità avrebbe portato la maledizione su di lei, ma sicura che il frutto del suo ventre ne sarebbe stato immune. E sua figlia ne è immune, perché Jewel Heronswood Jaravhor è sfuggita alla maledizione del Signore di Strang e la sua storia continua altrove. Se si troverà ancora di fronte quel volto attraente e pericoloso che scorse un giorno nell'acqua, sotto la luna, e se scoprirà cosa significa, va oltre la mia conoscenza. Il cuore, tuttavia - pieno di dubbi com'è -, mi dice che quella visione finirà per giocare un ruolo nella sua vita. Se la sua storia avrà un finale lieto oppure drammatico non so dirlo, perché quel futuro deve ancora venire e io non ho il dono della preveggenza. Ma di una cosa sono certo: la fanciulla ha ereditato lo spirito dei suoi antenati e in lei brucia un'inimmaginabile sete di avventure. Quando Jarred iniziò a scendere nel precipizio verso la sposa morente, doveva aver creduto che non ci fosse nessun rischio per la sua persona, a parte quello di scivolare oltre Lilith e precipitare nella valle, perdendosi così gli ultimi preziosi momenti della vita di lei; o, mentre correva su per la collina verso la sua amata, sentì che la morte gli stava per tendere un agguato ed ebbe la momentanea tentazione di evitarlo? Nessuno lo può sapere. Come cronista io posso soltanto immaginare i pensieri che attraversano la mente delle persone di cui scrivo. Consapevole di ciò che poteva ottenere e di ciò che poteva perdere, forse decise di gettare al vento ogni prudenza. Forse, mentre i suoi piedi perdevano la presa, avrebbe potuto fare uno sforzo maggiore per salvarsi. Inutile cercare d'indovinarlo. Ma senza dubbio era sicuro che la sua morte avrebbe significato la salvezza di Jewel, perché, dopo aver trovato il suo corpo, i soldati del re avrebbero
smesso di dare la caccia ai discendenti dello stregone di Strang. E inoltre, morendo, non si sarebbe più separato dalla moglie. In quanto a lei, visse i suoi ultimi istanti nella convinzione che stava salvando le persone amate. Come i fiori selvatici del deserto, Lilith e Jarred hanno avuto vite effimere, ma meravigliose. Sbocciati alla luce, si sono uniti per generare un altro seme, affinché la loro eredità continuasse attraverso le generazioni. Un'ultima cosa: io non sono tipo da dar corpo alle ombre, ma tra la gente dell'Acquitrino si dice che ogni tanto qualche nottambulo, aggirandosi insonne sulle lunghe passerelle oscillanti, oda il grido dell'airone che torna al nido e scorga le spettrali figure di due amanti che camminano sulla riva tenendosi per mano, senza mai distogliere lo sguardo l'una dall'altro. Lei ha le sembianze di una donna dagli occhi celesti come le ali di una farfalla, lui è un uomo alto e snello dai capelli color cardamomo. E sorridono, come se avessero infine realizzato il desiderio del loro cuore. Io, Adiuvo Constanto Clementer, sono soltanto uno scrivano, uno studioso itinerante in cerca della verità. Che l'amore trascenda anche l'oscura soglia della morte è un fenomeno che posso solo osservare con estrema umiltà, stupito sotto lo sguardo delle stelle. GLOSSARIO Àdh: fortuna, sorte (pron. ov) Aonaràn: eremita, recluso (pron. ai-an-ar-on) àthair: padre (pron. ah-hir) Búistéir: Squartatrice, nome di una spada (pron. bu-shter) Cailleach Bheur: la Strega Invernale (pron. cal-iac vear oppure cail-iac viur) cap-a-pie: dalla testa ai piedi carlin: donna saggia Cinniúint: destino, fato, casualità (pron. chin-iu-int) cruinniú: flotta di pontoni usata come luogo d'incontro centrale, dal vocabolo irlandese che significa «raduno», «adunata» (pron. crin-iu) Cuiva: in irlandese si scrive «Caoimhe» Doireann (pron. dir-rin) Earnàn (pron. er-non) eldritch: soprannaturale Eoin (pron. ou-in)
Eolacha (pron. o-la-ha) Fionnbar (pron. fin-bar oppure fiun-bar) Fionnuala (pron. fin-nu-la) firkin: un barile da un quarto, cioè trentasei litri Freemartins: giovenche a gariníon: nipote femmina (pron. a gar-in-i-an) a garmhac: nipote maschio (pron. a gar-voc) Gearóid (pron. ga-roid) gramarye: magia gramercie: grazie Lannóir: Lamadoro o Lamafulva, nome di una spada (pron. lann-or) Laoise (pron. li-sha) Liadàn (pron. li-don) luideag: straccio, brandello di stoffa (pron. li-diug) Maolmórdha (pron. mual-morga) Marfóir: Assassina, nome di una spada (pron. mar-for) màthair: madre (pron. mo-hir) Mí-àdh: malasorte, sfortuna (pron. mi-ov) Míchinniúint: condanna, destino crudele Muireadach (pron. muirr-a-doc) Muiris Ó'Cléirig (pron. muirr-ish o-cli-ree) a muirnín: cara Neasa (pron. na-sa) Neasàn (pron. nas-on) Ó Maoldúin (pron. o-mual-dun) Odhràn (pron. o-ron) Oisín (pron. ush-in) Pàid (pron. pod) a seanmhàthair: nonna (pron. a scian-o-hir) seelie: benevolo verso gli umani a stór: cara, caro Suibhne (pron. siv-na) Uile: il Tutto, l'universo (pron. ille) unseelie: malevolo verso gli umani widdershins: antiorario wittern: altro nome per il frassino di montagna FONTI
I wight del deserto - L'inquietante fenomeno osservato da Jarred mentre cavalcava verso il Nido della Gallina è ispirato ad aneddoti tratti da Lady LA. Gregory, Visions and Beliefs in the West of Ireland, Gerrards Cross, Colin Smythe, 1920. Il wight dietro la sella - Ispirato e parzialmente citato da The Pillion Lady, in J. Bowker, Goblin Tales of Lancashire, London, W. Swan Sonnenschein & Co., 1883. L'eldritch sulla barca - Ispirato a Ghosts in the Fen, in W.H. Barrett, More Tales front the Fens, London, Routledge & Kegan Paul, 1964. Tierney A'Connacht e l'Incantatore - Ispirato a un racconto di C. Rowland, riportato in H.W. Weber, R. Jamieson e W. Scott, Illustration of Northern Antiquities, Edinburgh, Longman, Hurst, Rees, Orme and Brown, 1814, p. 398. La volpe e i boscaioli - Ispirato a The Vixen and the Oakmen, in R.L. Tongue, Forgotten Folk Tales of the English Counties, London, Routledge & Kegan Paul, 1970. La vigilia della Lanterna - I due canti sono tradizionali e per secoli sono stati eseguiti nell'Inghilterra meridionale in occasione di Halloween, e a Hinton St. George, nel Somerset, durante la Punky Night. Il bargest di Gordale - Ispirato a The Bargest of Troller's Gill, in T. Parkinson, Yorkshire Legends and Traditions as told by her Ancient Chronicles, her Poets and Journalists, London, Elliot Stock, 1888-89. Il Tiddy Mun - Ispirato a Tiddy Mun, in M.C. Balfour, County FolkLore, Vol. II, London, Folk-Lore Society, 1891. Il canto «Tiddy Mun senza nome, l'acqua è alta!» è citato da questa fonte; «Tiddy Mun senza nome, ecco l'acqua per te. Non colpirci col tuo incantesimo» è adattato dalla stessa fonte. La donna col mantello verde - Ispirato a H. Henderson (a cura di), «True» Stories about Fairies, vol. VI, Edinburgh, School of Scottish Studies. Il berretto rosso del grig - Ispirato a The Grig's Red Cap, in R.L. Tongue, Forgotten Folk Tales of the English Counties, cit. L'agguato di Eoin a Jarred - Ispirato a The Lantern Lads, in R.L. Tongue, Forgotten Folk Tales of the English Counties, cit. Gli asrai - Ispirato a The Asrai, in R.L. Tongue, Forgotten Folk Tales of the English Counties, cit. L'originale è stato ricostruito da articoli apparsi in un giornale locale tra il 1915 e il 1922 nello Shropshire, nell'Inghilterra
occidentale. I trow cercano di rapire il bambino di Cuiva - Ispirato a The Danger Averted, in W. Henderson, Folk-Lore of the Northern Counties, London, Folk-Lore Society, 1879. È nato un bambino e non c'è niente da mettergli addosso! - Ispirato a Fairy Friends, in W.W. Gibbings, Folk-Lore and Legends, Scotland, London, 1889. Il funerale wight - Ispirato a The Fairies' Funeral, in J. Bowker, Goblin Tales of Lancashire, cit. Il vischio fatale - L'idea dell'invulnerabilità a tutto fuorché al vischio deriva da un'antica leggenda norvegese. Le descrizioni «una finestra a tripla arcata i cui montanti di gesso erano decorati con frutta e fiori» e «scene di caccia popolate da cavalieri, cani e falchi» sono ispirate e parzialmente citate dalla poesia La vigilia di Sant'Agnese di John Keats. «Parole bacia-orecchie» è una citazione da Shakespeare, Re Lear, atto II, scena I. Grazie per aver letto questa storia. Spero che vi sia piaciuta. CECILIA DART-THORNTON Agosto 2004 FINE