Wilbur Smith. LA VOLPE DORATA. (Golden Fox, 1990) Traduzione Di Roberta Rambelli.
Volpe Dorata è il nome dietro cui si ...
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Wilbur Smith. LA VOLPE DORATA. (Golden Fox, 1990) Traduzione Di Roberta Rambelli.
Volpe Dorata è il nome dietro cui si cela il più astuto e diabolico agente dello spionaggio mondiale, capace di concepire trame ed intrighi di eccezionale precisione ed efficacia. Siamo nel 1969. La Volpe dorata ha davanti a sé un decennio per raggiungere il suo obiettivo; e il suo campo di azione è l'intero continente africano. Ingranaggio decisivo del suo piano è la bellissima Isabella, nome in codice: Rosa Rossa, strumento ed insieme vittima di un ricatto industriale e politico di straordinaria portata. Ma dietro Isabella ci sono i Courteney: c'è la forza del loro potere, la saldezza dei loro vincoli di sangue: un muro compatto di solidarietà e tenacia capace di opporre all'attacco più micidiale un'altrettanto micidiale difesa. Cenni biografici. Wilbur Smith è nato nel 1933 nella Rhodesia del nord, l'attuale Zambia; ma è cresciuto ed ha studiato in Sudafrica. Si è dedicato a tempo pieno alla narrativa dal 1964, dopo il successo ottenuto con Il destino del leone. Da allora ha pubblicato numerosi romanzi basati su attente ricerche ed appassionanti esplorazioni condotte in ogni angolo del pianeta. E' ospite fisso delle classifiche dei best-seller in tutto il mondo ed è considerato il maestro incontrastato dell'avventura. Questo libro è dedicato: a Danielle Antoinette, che ha trasformato la mia vita in una gioiosa avventura. LA VOLPE DORATA. UN nugolo di farfalle s'innalzò nel sole, la brezza le sparpagliò nel cielo estivo e centomila volti giovani e splendenti si volsero per seguirne il volo. In prima fila tra quella folla immensa c'era una ragazza, la ragazza che lui stava osservando ormai da dieci giorni. Come un cacciatore che studia la preda, aveva finito per conoscere con una bizzarra intimità ogni suo gesto e movimento, il modo di voltare la testa quando qualcosa attirava la sua attenzione, il modo di inclinarla per ascoltare e di scuoterla in segno d'irritazione o d'impazienza. Ora, in un atteggiamento nuovo, la ragazza levava il volto verso la splendida nube d'insetti alati e, persino a quella distanza, l'uomo riusciva a scorgere il brillio dei denti mentre le labbra si atteggiavano in un morbido cerchio rosa di meraviglia. Sul podio davanti a lei la figura dalla camicia di raso bianco sollevò un'altra cassetta e, ridendo, la scosse per farne uscire un nuovo turbine di ali palpitanti. Gialle e bianche ed iridescenti, s'innalzarono nel cielo e la folla proruppe in nuove esclamazioni di stupore. Una delle farfalle si lanciò a tuffo; e sebbene cento mani si protendessero per afferrarla, scese volteggiando e si posò sul volto della ragazza. Nel brusio crescente della folla, l'uomo udì il grido di felicità della ragazza e si sorprese a sorridere in una
sorta di affinità con lei. La giovane alzò la mano verso la farfalla posata sulla sua fronte e con delicatezza quasi reverente la prese nelle mani tenute a coppa. Per un momento l'accostò al viso e l'osservò con gli occhi color indaco che l'uomo aveva imparato a conoscere tanto bene. La sua espressione divenne improvvisamente malinconica, e le labbra si mossero per sussurrare qualcosa, ma l'uomo non poté captare le parole. La tristezza svanì subito e le labbra incantevoli ripresero a sorridere. La ragazza si sollevò in punta di piedi e tenne le mani sopra la testa. La farfalla esitò, posata sulle dita protése, e agitò lievemente le ali sul punto di spiccare il volo. L'uomo udì la voce della ragazza. «Vola! Vola per mé!» E coloro che le stavano intorno ripresero il grido. «Vola! Vola per la pace!» Per un momento la ragazza aveva usurpato la luce della ribalta e tutti gli occhi erano fissi su di lei anziché sulla figura carismatica al centro del podio. Era alta e snella, le braccia e le gambe nude erano abbronzate e splendenti di salute. Portava, secondo la moda attuale, una gonna così corta che quando tendeva le braccia verso l'alto l'orlo saliva al di sopra dei solchi circolari dove i glutei impertinenti si saldano alle cosce in uno spumeggiare di pizzi bianchi. Per un momento, immobile in quella posa, parve rappresentare lo spirito della sua generazione, scatenato e libero e folle, e l'uomo provò un'immediata sintonia con tutti coloro che la osservavano. Persino l'uomo sul podio si sporse per vederla meglio; e le sue labbra, tumide e livide come se fossero state punte dalle api, si schiusero in un sorriso. «Pace!» gridò, e la sua voce fu ingigantita mille volte dalle grandi file di altoparlanti ai lati del palco. La farfalla prese il volo e la ragazza si premette le dita sulle labbra e le lanciò un bacio, mentre svolazzava verso l'alto e si smarriva nella nube vorticante d'insetti. Sul palco, Mick Jagger spalancò le braccia per imporre il silenzio. Quando l'ebbe ottenuto, parlò al microfono. La voce distorta dagli amplificatori era impastata e incoerente, l'accento così pesante che lo spettatore riusciva appena a capire l'omaggio balbettante al componente del complesso che pochi giorni prima era affogato in una piscina durante una festa sfrenata. Si diceva che la vittima fosse già ridotta in stato semicomatoso dalle droghe quando era entrata in acqua. Era una morte da eroe, perché quella era l'epoca delle droghe e degli eccessi sessuali, della marijuana e della pillola, della libertà e della pace e dell'overdose. Jagger terminò il discorsetto. Era stato così breve che non aveva neppure offuscato l'umore euforico del pubblico. Le chitarre elettriche suonarono qualche nota stridente e Jagger si lanciò in Wild Woman con ogni fibra del suo essere. Dopo pochi secondi centomila cuori batterono allo stesso ritmo del suo e duecentomila braccia si tesero verso l'alto, ondeggiando come spighe di grano in un campo investito dal vento. La musica era cosmica, brutale come un bombardamento d'artiglieria; feriva l'orecchio, penetrava nel cranio e sembrava stordire e schiacciare il cervello. In pochi minuti ridusse il pubblico in uno stato di frenesia cieca, trasformò la moltitudine in un unico organismo, come un'ameba gigantesca che palpitava e ondulava nell'atto della riproduzione, carica d'una passione apertamente sessuale; e da essa si levò il lezzo della polvere e del sudore, l'afrore malsano dell'hashish e l'odore travolgente e muschiato dei corpi giovani ed eccitati. L'osservatore era solo in mezzo alla folla, isolato e distaccato,
insensibile alle esplosioni sonore che l'investivano, Studiava la ragazza e attendeva il suo momento. La ragazza si dimenava a quel ritmo primordiale, si muoveva a tempo con i corpi che si accalcavano intorno a lei, ma con una grazia singolare che la distingueva da tutti. I suoi capelli brillavano, erano un getto scintillante dai riflessi di rubino che luccicava nel sole, ed erano raccolti sulla sommità del capo; alcune ciocche folte ricadevano in spire fumose e sottolineavano la linea elegante del collo e il portamento della testa, come un tulipano sullo stelo. Sotto il palcoscenico c'era un'area circondata da una bassa recinzione, una minuscola enclave per pochi privilegiati. Marianne Faithfull indossava un caffettano fluente, era scalza e sedeva lì con altre mogli e accompagnatrici. Era di una bellezza remota ed eterea. Gli occhi sembravano sognanti e spenti come quelli di una cieca, i movimenti erano lenti e assonnati. Intorno ai suoi piedi c'erano alcuni bambini che si muovevano carponi, protetti a vista da una falange di Hell's Angels. Con gli elmetti neri della Wehrmacht, le catene e le svastiche naziste, il vello del petto che spuntava dai gilet di pelle nera tempestati di borchie argentee, gli stivali da motociclista, le braccia coperte da tatuaggi, assumevano pose minacciose, con le braccia conserte, gli sfollagente infilati nella cintura, i pugni chiusi carichi di anelli d'acciaio. Sorvegliavano la folla con occhiate torve ed insolenti e attendevano qualche disordine... anzi, se l'auguravano. La musica continuò a martellare, per un'ora e poi per un'altra ancora. La frenesia cresceva e l'odore della folla era simile a quello di una gabbia dello zoo perché molti spettatori, uomini e donne, bloccati e riluttanti ad abbandonare il concerto per un solo momento, avevano orinato dove si trovavano. L'osservatore era disgustato da quella decadenza, dall'abbandono folle e dalla grossolana frenesia. La scena offendeva tutto ciò in cui credeva. Aveva gli occhi doloranti e la testa indolenzita martellava al ritmo ossessivo delle chitarre. Era il momento di andarsene. Un altro giorno perduto, un altro giorno trascorso ad attendere l'occasione che non arrivava. Ma era un cacciatore dotato di tutta la pazienza del predatore. Ci sarebbero stati altri giorni; non aveva fretta. Il momento doveva essere il più adatto al suo scopo. Incominciò a muoversi, attraversò il monticello dove aveva sostato e passò tra la folla, facendosi largo a spallate. Erano tutti immersi in una trance ipnotica e sembrava che non lo vedessero e non lo sentissero mentre si apriva un varco tra loro. Si voltò indietro e socchiuse le palpebre quando vide la ragazza parlare al giovane che le stava accanto, sorridere e scuotere la testa in risposta alla sua domanda, poi alzarsi in piedi. Anche lei cominciò a passare tra la folla: scavalcava quelli che erano seduti, si appoggiava con la mano sulla spalla di qualcuno per non perdere l'equilibrio, mormorava ridendo una parola di SCUSa. L'osservatore cambiò direzione e scese il leggero pendio per intercettarla. L'istinto del cacciatore lo avvertiva che il momento tanto atteso era giunto inaspettatamente. Dietro il palco c'erano i camion della televisione, file e file di veicoli alti quanto autobus a due piani e parcheggiati così vicini che tra l'uno e l'altro c'erano appena pochi centimetri. La ragazza tornò indietro, aggirò il basso recinto, passò a lato del palco cercando di tenersi lontana dalla folla, ma era così fitta che le bloccava il passo. Si guardava intorno con espressione disperata, prigioniera in quella ressa. All'improvviso si girò verso la recinzione, la raggiunse e poi, con un balzo atletico, la scavalcò e corse nello stretto spazio fra
due camion della televisione. Uno degli Hell's Angels la vide sfrecciare nell'area vietata, gridò e la seguì di corsa, girando le spalle per infilarsi nel varco dove lei era scomparsa. Quando si voltò, l'osservatore scorse per un attimo il sogghigno sul suo viso. L'osservatore impiegò quasi due minuti per aprirsi un passaggio fino al punto dov'era sparita la ragazza. Qualcuno cercò di fermarlo, ma l'uomo scostò bruscamente la mano tesa e passò, insinuandosi fra le alte pareti d'acciaio dei camion parcheggiati. Si muoveva di traverso: lo spazio era troppo scarso per l'ampiezza delle sue spalle. Era arrivato all'altezza della portiera della cabina di guida quando sentì, un po' più avanti, delle grida soffocate di protesta. Quel suono lo spronò; e quando girò intorno al muso del veicolo, si soffermò per un istante a osservare ciò che stava accadendo sotto i suoi occhi. L'Hell's Angel aveva afferrato la ragazza e la teneva inchiodata. Le torceva un braccio dietro la schiena, quasi all'altezza delle scapole. La ragazza era rivolta verso di lui, ma la schiacciava contro il camion con i fianchi e la pancia un po' sporgente. In quel momento si stava chinando per cercare di baciarla. Lei aveva inarcato la schiena e scuoteva furiosamente la testa per evitare la sua bocca. L'Hell's Angel rideva e dardeggiava la lingua nel tentativo di insinuargliela con la forza tra le labbra. Con la mano destra le aveva sollevato la minigonna fino alla vita e le dita pelose, macchiate di lubrificante da motocicletta, erano agganciate alle mutandine di pizzo. La ragazza cercava di colpirlo e di graffiarlo con la mano libera, ma lui ingobbiva le spalle per sfuggire alle unghiate, e i colpi cadevano sulla pelle nera e le borchie del giubbotto, sulle spalle imbottite di muscoli e di grasso. La risata dell'Hell's Angel era gutturale. Le mutandine di pizzo si strapparono con un suono lacerante quando tentò di farle scendere a forza dai fianchi, sulle cosce lisce ed abbronzate. L'osservatore si avvicinò e toccò la spalla dell'Angel, che si fermò di colpo e girò la testa. Gli occhi vitrei si schiarirono di colpo. Scagliò la ragazza da parte con un movimento così rabbioso da farla cadere sull'erba infangata tra i camion. L'Angel fece per afferrare lo sfollagente infilato nella cintura. L'osservatore tese di nuovo la mano e di nuovo lo toccò sotto l'orecchio, appena al di sotto dell'elmetto d'acciaio. Premette con due dita e l'Angel s'irrigidì, emise un suono gracchiante dal profondo della gola, fu scosso da uno scatto convulso, si accasciò e, come un epilettico, rimase a terra a fremere e sussultare spasmodicamente. La ragazza era in ginocchio; si stringeva addosso le mutandine lacere e guardava la scena con un'espressione di affascinato orrore. L'osservatore scavalcò l'Angel e l'aiutò a rimettersi in piedi. «Vieni», disse a voce bassa. «Prima che arrivino i suoi amici». La prese per mano e lei lo seguì fiduciosa, come una bambina. Al di là dei camion c'era un labirinto di vialetti che si snodavano fra i rododendri. E mentre correvano, lei chiese ansimando: «L'hai ammazzato?» «No.» L'osservatore non girò la testa. «Sarà di nuovo in piedi tra meno di cinque minuti.» «L'hai steso. Come hai fatto? Eppure l'hai appena toccato.» L'uomo non rispose. Ma quando ebbero superato un'altra curva del sentiero si fermò e si girò a guardarla. «Tutto bene?» chiese, e lei annuì, scossa, senza parlare. La studiò, continuando a tenerla per mano. Sapeva che aveva ventiquattro anni; e sebbene fosse appena sfuggita ad uno stupro, lo sguardo degli occhi azzurro scuri era calmo e indagatore.
Non piangeva, non dava segni d'isteria: le labbra rosa non tremavano, la mano era sottile, calda e sicura. Il rapporto dello psichiatra che l'osservatore aveva studiato era esatto almeno su questo punto: aveva una grande capacità di ripresa e si era riavuta quasi completamente dall'aggressione. Poi vide il rossore che le saliva a poco a poco alle guance ed alla base del collo elegante, e si accorse che il respiro diventava più affrettato. La ragazza era in preda ad un'altra emozione molto forte. «Come ti chiami?» gli chiese, fissandolo con un'intensità che non gli era sconosciuta. Le donne, al primo incontro, di solito lo guardavano così. «Ramon», rispose. «Ramon», ripeté lei a voce bassa, godendo il suono del nome. Dio, com'era bello. «Ramon e poi?» «Se te lo dicessi non lo crederesti.» Parlava un inglese perfetto, troppo perfetto. Doveva essere straniero, ma la voce era in armonia con il volto: bella, profonda, grave. «Prova un po'», lo invitò lei con un fremito nella voce. «Ramon de Santiago y Machado.» Lo disse come fosse una musica assurdamente romantica. Era il nome più bello che lei avesse sentito, perfetto per quel volto e per quella voce. «Dobbiamo andare», disse lui mentre la ragazza continuava a fissarlo. «Non posso correre», disse lei. «Non farmi correre.» «Se non corri, rischi di finire appesa come portafortuna al manubrio d'una motocicletta». La ragazza rise, poi si morse le labbra per trattenersi. «Smettila», protestò. «Non farmi ridere. Ho bisogno di trovare un gabinetto. Sono in condizioni critiche.» «Ah, ecco dove stavi andando quando il principe azzurro s'è innamorato di te.» «Te l'ho detto, non fare così.» La ragazza soffocò una risatina. Lui ebbe pietà. «C'è un gabinetto pubblico all'ingresso del parco. Ce la fai ad arrivare fin là?» «Non lo so.» «L'alternativa è un cespuglio di rododendri.» «No, grazie. Basta con le esibizioni in pubblico, per oggi.» «Allora andiamo.» Lui le prese il braccio. Girarono intorno alla Serpentina, e Ramon si voltò indietro. «Gli ardori del tuo amichetto si devono essere raffreddati», disse. «Non si vede. Che tipo incostante.» «Peccato. Mi piacerebbe vederti fare di nuovo quel giochino. E' ancora molto lontano?» «Eccoci arrivati.» Avevano raggiunto il cancello, e la ragazza liberò il braccio e si avviò verso la piccola costruzione di mattoni rossi annidata con discrezione fra i cespugli lungo il vialetto. Ma quando fu sulla porta, esitò. «Mi chiamo Isabella, Isabella Courteney, ma i miei amici mi chiamano Bella», disse, e si affrettò a entrare. «Sì», mormorò lui. «Lo so.» Persino nel gabinetto lei sentiva la musica, appena attutita dalla distanza e dai muri. Poi sentì il fragore di un elicottero che passava sopra il tetto. Ma non aveva importanza. Pensava a Ramon. Si guardò allo specchio appeso sopra il lavabo. Rimise in ordine i capelli scompigliati. Quelli di Ramon erano folti, scuri, ondulati; e lunghi, ma non troppo lunghi. Si tolse con un fazzolettino di carta il rossetto rosa, poi lo applicò di nuovo. La bocca di Ramon era carnosa ma mascolina, morbida ma forte. Si chiese che sapore aveva. Rimise il rossetto nella borsa e si accostò allo specchio per
guardarsi gli occhi. Non avevano bisogno di collirio. Il bianco era così puro da avere una lucentezza azzurrina, come gli occhi di un bimbo in buona salute. Sapeva che i suoi occhi erano la cosa più bella che avesse: erano dell'azzurro dei Courteney, una sfumatura intermedia fra il fiordaliso e lo zaffiro. Gli occhi di Ramon erano verdi. Erano la prima cosa che l'aveva colpita, in lui. Verdi, limpidi e sorprendenti, bellissimi eppure... bellissimi eppure letali. Ecco, era la definizione esatta. Non sarebbe stata necessaria la dimostrazione con l'Hell's Angel. Le era bastato guardare per un attimo quegli occhi per capire che era un uomo pericoloso. Un delizioso brivido di paura le corse lungo la nuca. Forse era lui, finalmente. In confronto alla sua immagine tutti gli altri sembravano impallidire e svanire. Forse era l'uomo che aveva cercato per tanto tempo. «Ramon de Santiago y Machado.» Lo disse in un mormorio gutturale come se facesse le fusa, assaporando quel nome e guardando le proprie labbra che formavano le parole. Poi si raddrizzò e si girò verso la porta imponendosi di non correre. Lentamente e languidamente, in equilibrio sugli alti tacchi a spillo che facevano ondeggiare i fianchi e i glutei come un metronomo lasciando intravvedere i pizzi sotto la minigonna, si avviò all'uscita. Atteggiò la bocca in un lieve broncio, abbassò le lunghe ciglia sugli occhi azzurri quando uscì nella luce obliqua e dorata del sole, e si fermò di colpo. Lui non c'era più. Trattenne il respiro e sentì un brivido di freddo scorrerle sullo stomaco come se avesse inghiottito un sasso. Si guardò intorno, incredula. «Ramon», disse incerta e corse sul vialetto. C'erano centinaia di altre persone che venivano verso di lei, i primi profughi dal concerto che cercavano di sottrarsi alla valanga umana. Ma nessuno era la figura elegante che cercava. «Ramon», ripeté e corse verso il cancello del parco. Il traffico rombava sulla Bayswater Road. Guardò freneticamente a destra e a sinistra. Si sentiva sopraffatta dall'incredulità. Se n'era andato e l'aveva abbandonata. Era inaudito. Gli aveva fatto capire che lo voleva, gliel'aveva fatto comprendere nel modo più chiaro... e lui se n'era andato. La prima reazione che l'assalì fu lo sdegno. Nessuno si comportava così con Isabella Courteney, mai. Si sentiva insultata e offesa. «Accidenti a lui», disse. «Accidenti.» La collera durò pochi secondi, poi si dileguò. Ora si sentiva sperduta e tradita, e per lei era una sensazione sconosciuta. «Non può andarsene così», disse a voce alta, e riconobbe nella propria voce l'autocommiserazione lagnosa della bambina viziata. Perciò lo ripeté in tono diverso, cercando di ritrovare la collera di poco prima; ma non era convincente. Dietro di lei sentì un fragore di risate e si voltò. Un gruppo di Hell's Angels arrivava baldanzoso lungo il viale. Erano ancora lontani un centinaio di metri, ma venivano verso di lei. Non poteva restare. Il concerto era terminato e la folla si disperdeva. L'elicottero che aveva sentito passare doveva essere venuto a prendere Jagger e i suoi Rolling Stones. Non aveva molte possibilità, ormai, di raggiungere di nuovo i suoi amici, che dovevano essere spersi nella moltitudine. Si guardò intorno un'ultima volta, senza speranza. Non c'era traccia di quella testa dai capelli bruni e ondulati. Scosse il capo e alzò il mento. «E chi ha bisogno di quel maledetto latino?» mormorò furiosamente, e si avviò con passo deciso. Dietro di lei si levò un coro di fischi e di richiami. Uno degli Angel incominciò a gridare per darle il passo: «Sinist', dest'...
sinist', dest'...» Sapeva che i tacchi alti le facevano ondeggiare furiosamente il didietro. Saltellando prima su un piede e poi sull'altro si sfilò le scarpe e fuggì scalza. Aveva lasciato la macchina nel parcheggio dell'ambasciata sullo Strand, e per raggiungerla dovette prendere la metropolitana alla stazione di Lancaster Square. La macchina era una Mini Cooper nuovissima, l'ultimo modello del 1969. Il padre gliel'aveva regalata per il compleanno, e l'aveva fatta personalizzare dalla stessa officina che aveva fatto il lavoro alla Mini di Anthony Armstrong-Jones. Avevano truccato il motore, rifatto i sedili in pelle bianca come fosse una Rolls e l'avevano riverniciata d'argento come la nuova Aston Martin del padre, con le sue iniziali in lamina d'oro sulla portiera. Tutti gli esponenti dello swinging set avevano la Mini; il sabato sera, davanti ad Annabel's, erano più numerose delle Rolls e delle Bentley. Bella buttò le scarpe sul sedile posteriore, accese il motore ed attese che l'ago raggiungesse il rosso. I pneumatici stridettero sull'asfalto e lasciarono tracce nere sulla rampa d'uscita del parcheggio. Alzò gli occhi e li fissò nello specchietto retrovisore con una soddisfazione tenebrosa, satanica. Guidava con frenesia: la targa diplomatica la proteggeva dalle ire della polizia metropolitana. Per la verità non ne avrebbe avuto il diritto, ma suo padre era riuscito a fargliela ottenere. Tornò a Highveld, la residenza ufficiale dell'ambasciatore a Chelsea, battendo tutti i suoi primati precedenti. La Bentley ufficiale di suo padre, con le bandierine sui parafanghi, era parcheggiata all'ingresso. Klonkie, lo chauffeur, la salutò con un sorriso. Suo padre aveva portato da Città del Capo quasi tutto il personale. Bella si dominò il tempo sufficiente per rîvolgere a Klonkie un sorriso gentile e lanciargli le chiavi. «Metti via la mia macchina, per favore.» Suo padre non transigeva sul modo in cui doveva trattare i servitori. Poteva sfogare i suoi malumori con chiunque, ma non con loro. «Fanno parte della famiglia, Bella.» In effetti, molti avevano lavorato a Weltevreden, la residenza di famiglia sul Capo di Buona Speranza, già prima che lei nascesse. Suo padre era alla scrivania nel suo studio del piano terreno, affacciato sul giardino. Non portava giacca e cravatta, e la scrivania era ingombra di documenti ufficiali. Posò la penna e girò la poltroncina nel sentirla entrare; s'illuminò in viso nel vederla. Bella gli sedette sulle ginocchia e lo baciò. «Dio», mormorò, «sei l'uomo più bello del mondo.» «Non sarò certo io a dubitare del tuo giudizio.» Shasa Courteney sorrise. «Ma posso chiedere perché ti è venuto in mente?» «Gli uomini sono tutti cafoni o noiosi», disse lei. «Tutti tranne te, è ovvio.» «Ah! Cos'ha fatto Roger per provocare la tua collera? A me sembra piuttosto inoffensivo, per non dire insipido.» Era stato Roger ad accompagnarla al concerto. Lo aveva abbandonato tra la folla davanti al palco; ma adesso ebbe bisogno di un momento per ricordarsi di lui. «Ho rinunciato agli uomini, per tutta la vita», dichiarò. «Con ogni probabilità andrò a chiudermi in convento.» «Potresti evitare di farti suora almeno fino a domani? Stasera ho bisogno che tu faccia la padrona di casa, e non abbiamo neppure fissato i posti a tavola.» «E' tutto sistemato da prima che andassi al concerto.» «Il menù?» «Io e il cuoco l'abbiamo deciso venerdi scorso. Non preoccuparti, papà. Ci sono tutte le cose che preferisci: Coquilles St.
Jacques e agnello di Camdeboo.» Shasa serviva soltanto agnello allevato nelle sue fattorie nel Karoo. I cespugli del deserto davano alla carne un inconfondibile gusto d'erbe aromatiche. Tutta la carne bovina dell'ambasciata proveniva dai suoi grandi allevamenti in Rhodesia, i vini dalle vigne di Weltevreden dove negli ultimi vent'anni l'esperto tedesco aveva lavorato con rara competenza e dedizione per portare la produzione a un tale livello che ora Shasa l'avrebbe potuta comparare con i secondi crus della Borgogna. La sua grande ambizione era produrre un vino in grado di reggere il confronto con alcune delle grandi, nobili case della Côte d'Or. E per trasportare questa merce dal Capo di Buona Speranza a Londra, la compagnia di navigazione dei Courteney faceva viaggiare una nave-frigorifero sulla rotta dell'Atlantico, una volta la settimana. «... e poi ho ritirato il tuo smoking in tintoria questa mattina, e poi ho detto a Budds di Piccadilly Arcade di confezionarti altre tre camicie da sera e una dozzina di toppe per l'occhio. Le altre sono ridotte da far pietà. Le ho buttate via». Bella aggiustò al padre la toppa che copriva la cavità oculare. Shasa aveva perso l'occhio sinistro quando pilotava gli Hurricane contro gli italiani in Abissinia durante la seconda guerra mondiale. La toppa di seta nera gli conferiva un'aria affascinante, da pirata. Shasa sorrise compiaciuto. Quando l'aveva invitata a recarsi a Londra con lui, Bella aveva appena ventun anni; e aveva riflettuto a lungo e seriamente prima di imporre il compito gravoso di padrona di casa ufficiale dell'ambasciata ad una ragazza tanto giovane. Ma aveva sbagliato a preoccuparsi. Dopotutto, era stata allevata dalla nonna. E poi avevano portato con loro da Città del Capo lo chef e il maggiordomo e metà del personale; quindi Bella aveva avuto fin dall'inizio collaboratori esperti. In tre anni, Isabella s'era fatta una reputazione negli ambienti diplomatici e i suoi inviti erano molto ricercati, se si escludevano le ambasciate dei paesi che non intrattenevano più relazioni con il Sudafrica. «Vuoi che ti copra le spalle mentre scappi per mezz'ora dopo cena con il tuo amicone israeliano per costruire un'atomica?» «Bella!» Shasa si accigliò. «Sai che non mi piace sentirti parlare così.» «Scherzavo, papà. E poi non c'è nessuno che ci ascolta.» «Anche in privato e anche se scherzi.» Shasa scosse la testa con fare severo. Il commento aveva sfiorato pericolosamente la verità. Ormai da quasi un anno l'addetto militare israeliano e Shasa erano presi da una sorta di danza del corteggiamento, ed erano già arrivati oltre la fase del flirt. Bella lo baciò, per placarlo. «Devo correre a fare il bagno.» Si alzò. «Gli inviti sono per le otto e mezzo. Verrò ad annodarti la cravatta alle otto e dieci.» Shasa s'era sempre fatto il nodo alla cravatta per quarant'anni, fino a quando Isabella aveva sentenziato che non lo sapeva fare. Shasa le squadrò le gambe. «Se le tue gonne continueranno ad accorciarsi, mademoiselle, fra poco il tuo ombelico ammiccherà alla luna.» «Su, non fare il vecchio barbogio. Non si addice a uno dei papà più swinging del ventesimo secolo.» Bella si avviò alla porta, accentuando di proposito il movimento dei fianchi sotto l'indumento scandaloso, e Shasa sospirò quando si chiuse la porta. «E' un carico di dinamite con la miccia molto corta», mormorò a se stesso. «Forse in un certo senso è bene che torniamo a casa.»
In settembre sarebbe scaduto il triennio della sua carica. Isabella sarebbe ritornata sotto il controllo di Centaine CourteneyMalcomess, la nonna. Shasa si rendeva conto che i suoi sforzi in quella direzione non avevano avuto molto successo; sarebbe stato un sollievo rinunciare a tanta responsabilità. Mentre pensava al ritorno imminente a Città del Capo, tornò a guardare i documenti sulla scrivania. Gli anni trascorsi all'ambasciata a Londra erano stati per lui una penitenza politica. Quando il Primo ministro Hendrik Verwoerd era stato assassinato nel 1966, Shasa aveva commesso un grave errore di calcolo e aveva appoggiato per la successione l'uomo sbagliato. Il risultato era stato che, quando John Vorster era diventato Primo ministro, Shasa era stato spedito in quella specie di confino politico; ma com'era accaduto molte volte in passato, aveva trasformato il disastro in trionfo. Aveva sfruttato tutti i suoi doni e le sue capacità naturali, l'acuto senso degli affari, la presenza e il bell'aspetto, il fascino e l'abilità persuasiva, e aveva fatto molto per allontanare dalla sua patria la crescente rabbia e il disprezzo del mondo, in particolare del governo laburista britannico e del Commonwealth, i cui membri erano quasi tutti nazioni con Primi ministri negri o asiatici. John Vorster aveva tenuto conto di questi successi. Prima di lasciare il Sudafrica, Shasa aveva mostrato un interesse profondo per l'ARMscor, e Vorster gli aveva offerto la carica di presidente al ritorno in patria. Per dirla in poche parole, l'ARMSCOR era la più grande impresa industriale mai esistita nel continente africano. Era la risposta che il paese aveva dato all'embargo sulle armi, avviato dal presidente americano Dwight Eisenhower e quindi adottato rapidamente da altre nazioni nella speranza di ridurre il Sudafrica alla vulnerabilità e all'impotenza. L'ARMSCOR, Armament Development and Production Company, era l'intera industria della difesa sotto un'unica gestione, finanziata dallo stato con miliardi e miliardi di dollari. Era una sfida enorme ed esaltante, soprattutto perché le numerose società che formavano l'impero finanziario dei Courteney erano ben gestite. Durante i tre anni di permanenza a Londra come ambasciatore, Shasa aveva lasciato che la direzione ed il controllo passassero a poco a poco, ordinatamente, nelle mani di suo figlio Garry Courteney. Garry stava ottenendo un successo sorprendente, per essere così giovane; ma d'altra parte Shasa non era molto più anziano quando era diventato presidente delle Courteney Enterprises. Garry aveva il sostegno quotidiano della nonna, Centaine Courteney-Malcomess, fondatrice e sovrana vedova dell'impero. E aveva ai suoi ordini il team di esperti che Centaine e Shasa avevano creato meticolosamente nei precedenti quarant'anni. Tutto ciò non sminuiva i risultati di Garry, non ultimo il modo in cui s'era destreggiato nel recente crollo della Borsa di Johannesburg, che aveva decurtato il valore di certe azioni fino al sessanta per cento. Con un intùito straordinario che avrebbe fatto onore a Shasa e a Centaine, Garry aveva previsto la fine della tendenza al rialzo che aveva preceduto il collasso. Anziché uscirne danneggiate o distrutte le Courteney Enterprises erano uscite dalla prova più potenti, con una maggiore liquidità e in posizione più favorevole per approfittare delle buone occasioni offerte dal mercato. No... Shasa sorrise e scosse la testa. Garry stava facendo grandi cose, e sarebbe stata un'ingiustizia metterlo di nuovo al guinzaglio. Ma Shasa era ancora giovane: aveva passato da poco la cinquantina. Al ritorno in patria avrebbe avuto bisogno di qualcosa che tenesse sveglia la sua mente. L'incarico all'ARMscoR sarebbe stato l'ideale.
Naturalmente avrebbe conservato il posto nel consiglio d'amministrazione della Courteney, ma avrebbe dedicato all'ARMSCOR quasi tutto il tempo e l'energia. Molti subappalti potevano essere destinati alle aziende della Courteney. Entrambe le società avrebbero tratto grandi benefìci da quella collaborazione; e Shasa avrebbe avuto in più la gioia di riscaldare il proprio ardore patriottico al fuoco degli utili capitalistici. Il commento di Isabella che poco prima aveva provocato la sua reazione era legato direttamente alla nuova nomina. S'era servito dei suoi legami diplomatici con l'ambasciata d'Israele per avviare e proseguire l'idea di un progetto nucleare congiunto fra i due stati. Quel giorno avrebbe consegnato un altro fascio di documenti all'addetto israeliano, da inoltrare a Tel Aviv tramite corriere diplomatico. Diede un'occhiata all'orologio. Aveva a disposizione venti minuti prima di salire a cambiarsi per il pranzo; tornò quindi a concentrarsi sui documenti che aveva davanti. Nanny aveva steso sul letto il modello di Zandra Rhodes e aveva riempito la vasca da bagno. «Sei in ritardo, signorina Bella. E devo ancora metterti in ordine i capelli.» Era una donna di colore di Città del Capo, e il suo sangue ottentotto era mescolato a quello della maggior parte delle nazioni marinare del mondo. «Non agitarti tanto, Nanny», protestò Isabella. Ma Nanny la trascinò nel bagno senza cerimonie, allo stesso modo di come faceva quando Isabella aveva appena cinque anni. Mentre Isabella s'immergeva con un sospiro di soddisfazione nella schiuma fumante, Nanny raccolse gli indumenti che s'era tolti. «Il vestito è tutto macchiato d'erba, piccola, e le mutandine nuove sono strappate. Che cos'hai combinato?» Nanny lavava a mano tutta la sua biancheria: non si fidava a mandarla in lavanderia. «Ho giocato a rugby con un Hell's Angel, Nanny. La nostra squadra ha vinto trenta a zero.» «Finirai per metterti in un guaio serio. Tutti i Courteney hanno il sangue caldo.» Nanny sollevò le mutandine strappate e le esaminò con aria di disapprovazione. «Sarebbe ora che ti sposassi.» «Hai una mentalità da sporcacciona. Adesso raccontami cos'è successo oggi. Cosa mi dici della nuova amichetta di Klonkie?» Isabella sapeva sempre come distrarla. Nanny era una pettegola inveterata, e di norma a quell'ora metteva Isabella al corrente dei fatti e misfatti di tutto il personale. Mentre chiacchierava, Isabella l'incoraggiava con mormorii sommessi, ascoltandola distrattamente. E quando si alzò per insaponarsi, studiò il proprio corpo nello specchio appannato a figura intera dall'altra parte della stanza. «Ti sembra che stia ingrassando, Nanny?» «Sei troppo magra. Ecco perché nessuno ti ha ancora sposata.» Nanny arricciò il naso e andò in camera da letto. Isabella si sforzò di essere assolutamente obiettiva mentre si osservava. C'era qualche possibilità di migliorare la sua figura? Avrebbe dovuto avere il seno un po' più grande? I capezzoli erano rivolti all'insù in un angolo troppo acuto? I fianchi erano troppo abbondanti e il sedere avrebbe dovuto essere più piccolo? Dopo un'attenta riflessione, scosse la testa. Sembrava tutto più o meno perfetto. «Ramon de Santiago y Machado», mormorò, «non saprai mai che cosa ti sei perso.» E perché quel pensiero la faceva sentire tanto depressa? «Ecco che ricominci a parlare da sola, piccola.» Nanny tornò con un asciugatoio da bagno grande come un lenzuolo, e
glielo porse. «Su, esci. Non abbiamo molto tempo.» Avvolse Isabella nell'asciugatoio mentre usciva dalla vasca e incominciò a massaggiarle la schiena con energia. Era inutile cercare di convincerla che poteva farlo da sé. «Non così forte.» Isabella aveva ripetuto quella protesta per vent'anni, e Nanny l'aveva sempre ignorata. «Quante volte sei stata sposata, Nanny?» «Sai benissimo che mi sono sposata quattro volte, ma una sola volta in chiesa.» Nanny la squadrò con un'attenzione nuova. «Perché t'interessa il matrimonio? Hai scoperto qualcosa d'interessante e per questo hai le mutandine strappate?» «Come sei volgare!» Isabella evitò di guardarla e afferrò la vestaglia di seta thailandese prima di tornare in camera da letto. Prese la spazzola ed ebbe il tempo di passarla una sola volta sui capelli prima che Nanny gliela togliesse di mano. «E' un lavoro che tocca a me piccola», disse con fermezza. Isabella sedette, chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere familiare di farsi spazzolare i capelli. «Sai, credo che farò un bambino, così avrai qualcun altro da curare e non mi starai più appiccicata.» Nanny si soffermò per un momento, affascinata dalla proposta; poi disse severamente: «Prima spòsati, poi parlerai di bambini». La creazione di Zandra Rhodes era una nuvola eterea dal colore delicato, tempestata di lustrini e perline. Persino Nanny approvò con aria compiaciuta mentre Isabella piroettava davanti a lei. Isabella stava scendendo la scala per un ultimo scambio di idee con lo chef quando la colpì un pensiero. Si fermò di colpo. L'incaricato d'affari spagnolo era uno degli invitati al pranzo di quella sera: le bastò solo un attimo per decidere una modifica nell'assegnazione dei posti a tavola. «Sì, certo.» L'incaricato spagnolo annuì subito, appena lei pronunciò il nome. «Una antica famiglia andalusa. Se non ricordo male, il marchese de Santiago y Machado lasciò la Spagna e si trasferì a Cuba dopo la guerra civile. Un tempo aveva interessi considerevoli nel settore dello zucchero e del tabacco, ma immagino che con l'avvento di Castro sia tutto cambiato.» Un marchese... la risposta fece ammutolire Isabella per un momento. La sua conoscenza della nobiltà spagnola era rudimentale, ma immaginava che il titolo di marchese venisse subito dopo quello di duca. «La marchesa Isabella de Santiago y Machado.» Considerò quella prospettiva con una certa soggezione e rivide quei letali occhi verdi. Per un momento stentò a respirare. La sua voce era ancora tremula quando domandò: «Quanti anni ha il marchese?» «Oh, dovrebbe essere piuttosto anziano. Se è ancora vivo. Deve avere settant'anni o poco meno.» «Aveva un figlio, per caso?» «Questo non lo so.» L'incaricato d'affari scosse la testa. «Ma non dev'essere difficile scoprirlo. Se vuole, posso informarmi.» «Oh, sarebbe davvero gentile.» Isabella gli posò la mano sul braccio e gli rivolse il suo sorriso più fulgido. Marchese o no, non scapperai tanto facilmente a Isabella Courteney, pensò con orgoglio. «Hai impiegato quasi due settimane per stabilire il contatto, e quando finalmente ci sei riuscito ti sei lasciato sfuggire il soggetto.» L'uomo seduto a capotavola spense la sigaretta nel portacenere traboccante e ne accese subito un'altra. L'indice ed il medio della mano destra erano macchiati di giallo scuro, e il fumo
delle sigarette ovali turche che fumava incessantemente aveva trasformato l'aria della stanzetta in una nebbiolina azzurra. «Era in conformità agli ordini ricevuti?» chiese. Ramon Machado scrollò leggermente le spalle. «Era l'unico modo sicuro per attirare e conservare la sua attenzione. Devi renderti conto che quella donna è abituata all'ammirazione maschile. Non deve far altro che alzare un dito per far accorrere gli uomini. Credo che dovrai fidarti del mio giudizio in proposito». «Le hai permesso di fuggire.» L'uomo più anziano sapeva che si stava ripetendo, ma il suo interlocutore lo provocava. Non gli era simpatico, e non lo conosceva ancora abbastanza per fidarsi. Per la verità, non s'era mai fidato pienamente dei suoi agenti. Ma costui era troppo sicuro di sé, troppo irrispettoso. Aveva respinto il rimprovero con una scrollata di spalle, mentre un altro avrebbe tremato. Aveva sfacciatamente anteposto il proprio giudizio a quello di un superiore. Joe Cicero abbassò leggermente le palpebre. Aveva gli occhi opachi come pozze di olio da motore vecchio, d'un nero sorprendente che contrastava con il pallore della pelle ed i capelli bianco-argentei che spiovevano sulle orecchie e sulla fronte. «Avevi l'ordine di stabilire il contatto e mantenerlo.» «Con tutto il rispetto, compagno direttore, io avevo l'ordine di ottenere la confidenza della donna e non di avventarmi su di lei abbaiando come un cane idrofobo.» No, Joe Cicero non lo trovava simpatico. Il suo atteggiamento era offensivo; ma non era l'unica ragione. Era uno straniero. Joe Cicero considerava straniero chiunque non fosse russo. Qualunque cosa affermasse il concetto dell'internazionalismo socialista, i tedeschi dell'Est, gli iugoslavi, gli ungheresi, i cubani e i polacchi erano per lui tutti stranieri. Lo esasperava dover cedere ad altri la responsabilità di gran parte della sezione che aveva diretto per quasi trent'anni. Soprattutto a individui come quello. Machado non era soltanto uno straniero, ma aveva radici e origini corrotte. Non era figlio del proletariato, neppure della disprezzata borghesia; faceva parte dell'odiato sistema di classe e di privilegi che era l'aristocrazia. Certo, Machado disprezzava e rinnegava le sue origini, e ormai usava il titolo solo per realizzare i suoi fini; ma per Joe Cicero la sua discendenza era contaminata e i suoi modi aristocratici e le sue affettazioni erano un insulto a tutto ciò in cui credeva. Per aggravare le cose era nato in Spagna, un paese fascista governato storicamente da una monarchia cattolica nemica del popolo, soprattutto ora, sotto il regime mostruoso di Franco che aveva domato la rivoluzione comunista. Poteva dire quanto voleva d'essere un socialista cubano, ma per Joe Cicero puzzava di fascismo spagnolo e d'aristocrazia. «L'hai lasciata fuggire», insistette. «Dopo tutto questo tempo e questo spreco di denaro.» Si rendeva conto di avere la mano pesante, e sapeva che le sue facoltà lo tradivano. La malattia lo rendeva meno lucido. Ramon gli rivolse quel sorriso condiscendente che Joe Cicero odiava. «Ha abboccato all'amo come un pesce. Può continuare a nuotare e a immergersi solo fino a quando sarò pronto a tirarla in secco.» Stava contraddicendo di nuovo il suo superiore, e Joe Cicero considerava questa la ragione più valida per detestarlo. Era giovane, bello, sano, e tutto questo lo rendeva dolorosamente consapevole della propria mortalità, perché Cicero stava morendo. Fin dall'infanzia aveva fumato quelle pestifere sigarette turche, una dietro l'altra; durante l'ultima visita a Mosca i dottori
avevano alla fine diagnosticato un cancro ai polmoni e gli avevano proposto di curarsi in una delle cliniche riservate agli ufficiali con la sua anzianità. Ma Joe Cicero aveva preferito restare in servizio per vedere il suo dipartimento affidato nelle mani sicure del successore. A quel tempo non sapeva che il successore doveva essere lo spagnolo. Se l'avesse saputo, forse avrebbe scelto la clinica. Ora si sentiva stanco e scoraggiato. Aveva dato fondo alle riserve d'entusiasmo e d'energia; qualche anno prima i suoi capelli erano nerissimi e folti, e adesso erano bianchi, sfumati di giallo come alghe disseccate al sole, e non riusciva a percorrere una dozzina di passi senza ansimare e tossire come un asmatico. Da qualche tempo si svegliava durante la notte, madido di terribili sudori, e mentre cercava di riprendere fiato restava immobile nell'oscurità, assalito da dubbi atroci. Era valsa la pena, tutta una vita di lavoro appassionato e meticoloso? Che risultati concreti aveva ottenuto? Che successi aveva raggiunto? Per quasi trent'anni aveva prestato servizio nel dipartimento africano della quarta direzione del KGB, e negli ultimi dieci era stato a capo della Stazione Sud, la divisione responsabile del continente africano al di sotto dell'equatore; e naturalmente quasi tutta l'attenzione sua e del dipartimento era stata rivolta al paese più ricco e civilizzato, la Repubblica del Sudafrica. L'altro uomo seduto al tavolo era sudafricano. Fino a quel momento aveva taciuto, ma ora disse a voce bassa: «Non capisco perché stiamo perdendo tanto tempo a parlare di questa donna. Spiegatemelo». I due bianchi rivolsero l'attenzione su di lui. Quando parlava Raleigh Tabaka, di solito gli altri ascoltavano. Aveva una intensità caratteristica, un'aria che incatenava l'interesse di tutti. Per tutta la vita, Joe Cicero aveva lavorato con negri africani, dirigenti nazionalisti delle forze di liberazione e della lotta socialista. Li aveva conosciuti tutti, Jomo Kenyatta e Kenneth Kaunda, Kwame Nkrumah e Julius Nyerere. Alcuni li aveva conosciuti intimamente: uomini come Moses Gama, che era stato mandato a morire da martire, e Nelson Mandela che languiva ancora nelle carceri del razzismo bianco. Cicero classificava Raleigh Tabaka nelle prime file di quell'illustre compagnia. Era il nipote di Moses Gama, ed era stato presente la notte in cui la polizia sudafricana aveva ucciso lo zio. Sembrava aver ereditato la personalità travolgente e la forza di carattere di Moses Gama; e s'era inserito energicamente nel vuoto che questi aveva lasciato. Aveva trent'anni ma era già vicedirettore dell'Umkhonto we Sizwe, «La Lancia della Nazione», l'ala militare del South African National Congress; e Joe Cicero sapeva che aveva dato molte volte buona prova di sé sul campo e nei consigli dell'ANC. Aveva il talento, il fegato e la forza per arrivare più in alto di qualunque altro africano. Joe Cicero lo preferiva all'aristocratico spagnolo, ma si rendeva conto che, nonostante la differenza del colore della pelle e della discendenza, erano due uomini forgiati dallo stesso stampo. Erano duri e pericolosi, abituati alla morte ed alla violenza, adepti del mondo sfuggente e mutevole del potere politico e dell'intrigo. Era a costoro che Joe Cicero doveva cedere le redini. Perciò gli ispiravano risentimento e odio. «La donna», disse, «potrebbe avere un valore straordinario, se viene controllata e sfruttata in tutto il suo potenziale. Ma lascerò che sia il marchese a spiegartelo. Il caso è suo, e lo ha studiato in modo approfondito.» Il sorriso di Ramon Machado divenne di colpo più tirato, i suoi occhi assunsero un'espressione ostile. «Preferirei che il compagno direttore non usasse quel titolo», disse freddamente. «Neppure per scherzo.»
Joe Cicero aveva scoperto che quello era probabilmente l'unico modo per trapassare la corazza dello spagnolo. «Scusami, compagno.» Joe inclinò la testa in segno d'ironica contrizione. «Ma non vorrei che il mio piccolo sbaglio interrompesse ciò che hai da dire.» Ramon Machado aprì il fascicolo che gli stava di fronte sul tavolo, ma non lo guardò. Conosceva a memoria ogni parola. «Abbiamo assegnato alla donna il nome in codice di Rosa Rossa e abbiamo incaricato i nostri psichiatri di preparare un profilo dettagliato. Secondo la valutazione, è molto suscettibile a un abile reclutamento. Ed è in una posizione eccezionale per diventare un'agente preziosissima.» Raleigh Tabaka si tese in avanti con aria attenta. Ramon notò che non faceva domande o commenti, in quella fase, e approvò tale riserbo. Non avevano ancora collaborato molto e quello era il loro terzo incontro. Entrambi si stavano ancora studiando a vicenda. «Rosa Rossa può venire posta in un dilemma emotivo. Da parte paterna è membro della classe dominante bianca sudafricana. Il padre sta per concludere il suo mandato come ambasciatore in Gran Bretagna, e al suo ritorno sarà nominato presidente dell'industria nazionale degli armamenti. Ha interessi enormi nelle miniere, nelle proprietà terriere e nella finanza. Dopo gli Oppenheimer e la Anglo-American Company, la sua famiglia è probabilmente la più ricca e influente dell'Africa meridionale. Inoltre il padre ha ottimi rapporti con i livelli più elevati del regime razzista. Ma la cosa più importante è che adora Rosa Rossa. La ragazza può ottenere dal padre, con pochissimo sforzo, tutto ciò che desidera. E questo può includere un'entrée a tutti i livelli del governo e a tutte le informazioni, comunque classificate, persino a quelle sulla nuova nomina nel campo degli armamenti.» Raleigh Tabaka annuì. Conosceva la famiglia Courteney e la valutazione gli sembrava esatta. «Ho conosciuto la madre di Rosa Rossa; ma politicamente sta dalla nostra parte», mormorò. Ramon annuì. «Appunto. Shasa Courteney divorziò sette anni fa dalla moglie Tara, che era stata complice di tuo zio Moses Gama nell'attentato dinamitardo contro il parlamento razzista bianco, per il quale fu arrestato e in séguito assassinato. Era l'amante di Gama e gli diede un figlio bastardo. Tara Courteney fuggì dal Sudafrica con il figlio di Gama dopo il fallimento dell'attentato. Oggi vive a Londra, ed è un'attivista del movimento antiapartheid. Fa parte dell'ANC ma non è considerata abbastanza efficiente ed equilibrata perché le venga assegnato qualcosa di più di un ruolo di routine. Attualmente gestisce una «casa sicura» per gli agenti dell'ANc a Londra, e ogni tanto svolge attività di corriere o collabora all'organizzazione di comizi e dimostrazioni. Il suo vero valore potenziale consiste nella sua influenza su Rosa Rossa.» «Sì», ammise spazientito Raleigh. «Conosco la donna, conosco la situazione, in particolare la sua relazione con mio zio; ma ha davvero influenza sulla figlia? Sembra che le simpatie di Rosa Rossa siano direzionate al padre ed a quel ramo della famiglia, no?» chiese Raleigh, e Ramon annuì di nuovo. «Attualmente è così. Ma a parte la madre, c'è un altro membro della famiglia che ha idee radicali: il fratello Michael, che ha su di lei un'influenza assai più grande. E ci sono altri sistemi per convertirla.» «Quali?» chiese Tabaka. «Uno è la trappola di miele», disse Joe Cicero. «Il marchese... scusami, il compagno Machado ha finalmente stabilito un primo contatto. La trappola di miele è una delle sue tante
specialità.» «Mi terrete informato dei progressi.» Quella di Raleigh era un'affermazione, e nessuno dei due rispose immediatamente. Anche se Raleigh Tabaka era un dirigente dell'ANC ed era iscritto al Partito comunista, diversamente dagli altri due non era ufficiale del KGB russo. Joe Cicero, invece, era innanzitutto un ufficiale del KGB anche se la sua promozione da colonnello a colonnello generale era stata confermata appena un mese prima, proprio quando la clinica moscovita aveva individuato il carcinoma in entrambi i polmoni. Joe Cicero sospettava che la promozione gli fosse stata concessa all'unico scopo di permettergli di ritirarsi con una pensione più alta, dopo tutta una vita di leale servizio. Tuttavia, il fatto di essere un dirigente dell'ANC veniva al secondo posto rispetto alla devozione verso la Madre Russia, e l'ANC avrebbe ricevuto soltanto le informazioni strettamente indispensabili. Anche la devozione di Ramon Machado aveva delimitazioni ben precise. Era nato in Spagna e il suo titolo nobiliare era spagnolo; ma la madre era una cubana dagli occhi scuri e dai capelli corvini. Ella aveva conosciuto il padre di Ramon quand'era una giovane governante nella tenuta dei Machado presso l'Avana. Dopo il matrimonio, il marchese aveva portato con sé in Spagna la bella moglie plebea. Durante la guerra civile spagnola, il marchese si era opposto ai nazionalisti del generale Francisco Franco. Nonostante le nobili origini e la ricchezza ereditata, il padre di Ramon era un liberale illuminato. S'era arruolato nell'esercito repubblicano e aveva comandato un battaglione all'assedio di Madrid, dov'era stato ferito gravemente. Dopo la guerra, la famiglia Machado aveva giudicato insopportabili l'oppressione e la discriminazione del regime franchista. La marchesa aveva convinto il marito a riportarla nella sua isola caraibica insieme al figlioletto. Sebbene fossero stati privati di quasi tutte le proprietà spagnole, i Machado avevano ancora le tenute cubane. Tuttavia la vita sotto la dittatura di Batista non rappresentava un grande miglioramento rispetto a quella sotto Francisco Franco. La madre di Ramon era zia del giovane estremista di sinistra Fidel Castro, ed era una delle sue più ardenti ammiratrici. Aveva partecipato alla campagna di agitazioni e d'intrighi contro il regime di Batista, e il giovane Ramon aveva assorbito le sue prime convinzioni politiche da lei e dal suo celebre nipote. Dopo che Fidel Castro era stato imprigionato per aver guidato il fallito tentativo di occupare le caserme di Santiago il 26 luglio 1953, il padre e la madre di Ramon erano stati arrestati con altri ribelli. La madre di Ramon era morta durante un interrogatorio in una cella della polizia all'Avana, il padre era morto poche settimane dopo nella stessa prigione per i maltrattamenti subiti e per il dolore. Anche le proprietà cubane della famiglia erano state confiscate, e a Ramon era rimasto soltanto il vuoto titolo di marchese. A quel tempo aveva quattordici anni. La famiglia Castro lo aveva accolto e aveva avuto cura di lui. Quando Fidel Castro era stato rilasciato in séguito a un'amnistia, Ramon l'aveva seguito in Messico e a sedici anni era stato una delle prime reclute dell'esercito di liberazione cubano in esilio. In Messico aveva imparato per la prima volta a sfruttare la sua bellezza straordinaria e a sviluppare i suoi modi accattivanti per conquistare le donne. Aveva appena diciassette anni quando i compagni l'avevano soprannominato El Zorro Dorado, la Volpe dorata, e la sua reputazione di amante irresistibile era diventata famosa. Prima che il padre venisse arrestato e morisse nella prigione
di Batista, Ramon aveva avuto la migliore educazione cui potesse aspirare il figlio unico di una famiglia ricca e aristocratica. Aveva frequentato un'esclusiva scuola preparatoria in Inghilterra, aveva trascorso due anni a Harrow, e perciò parlava l'inglese come uno del posto, oltre alla lingua madre, lo spagnolo. Aveva dimostrato doti eccezionali di apprendimento e aveva acquisito i modi e gli interessi di un giovane gentiluomo. Andava bene a cavallo, sapeva giocare a cricket e pescare il salmone. Era anche formidabile nella caccia alla pernice spagnola e alla tortora messicana. Sapeva sparare, cavalcare, cantare e ballare, ed era molto bello; e quando era tornato a Cuba con Fidel Castro e gli ottantadue eroi il 2 dicembre 1956, aveva dato prova del suo valore nei combattimenti sulle spiagge che erano costati la vita a molti di loro. Era stato uno dei superstiti che si erano rifugiati con Castro fra le montagne. Durante gli anni della guerriglia, El Zorro era stato mandato nei villaggi e nelle cittadine per usare le sue arti con dozzine di donne, giovani e meno giovani, belle e scialbe. Fra le braccia di Ramon diventavano figlie entusiaste della rivoluzione. Ad ogni conquista diveniva più esperto e sicuro di sé, al punto che le donne reclutate da lui avevano contribuito in modo significativo al trionfo finale della rivoluzione ed alla caduta del regime di Batista. Castro, nel frattempo, s'era reso conto del valore potenziale del giovane parente e protetto, e quand'era arrivato al potere l'aveva ricompensato mandandolo a completare gli studi sul continente americano. Mentre studiava storia politica e antropologia sociale all'università della Florida, Ramon aveva usato le sue arti amatorie per infiltrarsi nel gruppo degli esuli cubani che, con la collaborazione della cIA, facéva piani per la controrivoluzione e l'invasione dell'isola. Era stata soprattutto l'attività spionistica di Ramon a identificare il tempo e il luogo dello sbarco nella Baia dei Porci e a portare all'annientamento dei traditori. Ormai le sue doti straordinarie venivano riconosciute non solo dai suoi compatrioti ma anche dagli alleati. Quando s'era laureato cum laude all'università della Florida ed era rientrato all'Avana, il direttore del KGB a Cuba aveva convinto Castro a mandare Ramon a Mosca per un ulteriore addestramento. In Russia, Ramon aveva superato le stime fatte dal KGB circa le sue capacità e il suo valore potenziale. Era uno di quegli individui eccezionali che potevano inserirsi facilmente in ogni strato della società, dai campi dei guerriglieri nella giungla ai salotti e ai circoli privati delle capitali più sofisticate del mondo. Con l'approvazione di Fidel Castro era stato reclutato dal KGB. Grazie alla sua parentela, era logico che venisse nominato direttore del comitato congiunto che coordinava gli interessi russi e cubani in Africa. Nel corso di questo lavoro, Ramon aveva effettuato uno studio speciale sui movimenti socialisti di liberazione africani, e aveva avuto il compito di scegliere le organizzazioni che dovevano ricevere il pieno appoggio dei sovietici e di Cuba. Aveva dato l'avvio alla politica grazie alla quale Cuba era diventata un surrogato della Madre Russia nell'Africa meridionale, e molto presto era stato nominato responsabile dell'invio delle armi e dell'addestramento dei gruppi della resistenza. Era così diventato membro dell'ANC. In pochissimo tempo aveva visitato tutti i paesi africani sotto la sua giurisdizione, usando il passaporto spagnolo e il proprio titolo, spacciandosi per un finanziere capitalista e un dirigente d'una banca d'affari; questo grazie alle credenziali fornitegli dalla Quarta Direzione. Veniva accettato senza riserve dalle
amministrazioni coloniali bianche, ed era ricevuto cordialmente da tutti, dai governatori portoghesi dell'Angòla e del Mozambico al governatore generale britannico della Rhodesia. Andava addirittura a pranzo con il famigerato architetto sudafricano dell'apartheid, Hendrik Verwoerd. Quando s'era reso necessario nominare un nuovo capo stazione per la divisione africana, allo scopo di rimpiazzare il sofferente generale Cicero, le qualifiche e l'esperienza di Ramon avevano fatto di lui il successore naturale. E adesso si trovava in quell'ufficio del consolato russo in Bayswater Road, con l'uomo che stava per sostituire e quel capo guerrigliero africano: e la sua lealtà era delineata chiaramente quanto quella del superiore. Quando Raleigh Tabaka aveva detto: «Mi terrete informato dei progressi», s'era comportato da ingenuo. Sarebbe stato informato solo in base al principio del «bisogno di sapere». Nell'ottica di Ramon e del suo governo l'insediamento di quell'uomo e dell'organizzazione da lui rappresentata nell'élite dominante in Sudafrica non era altro che un passo sulla strada verso la meta finale del trionfo del socialismo universale nell'intero continente africano. «Naturalmente sarai tenuto al corrente di questa come di tutte le altre questioni di comune interesse», assicurò Ramon in un tono di sincerità così assoluta che il negro si assestò più comodamente sulla poltrona e ricambiò il sorriso. Pochissime persone, maschi o femmine che fossero, erano immuni al suo fascino. A Ramon dava un senso di solida soddisfazione vedere che la propria forza magica operava persino su un soggetto rude ed inflessibile come Tabaka. Raleigh Tabaka era perfettamente consapevole di quella soddisfazione anche se non lo lasciava capire. Aveva notato lo sguardo opaco negli occhi verdi del cubano. Soltanto chi possedeva l'acuto spirito d'osservazione di Raleigh avrebbe potuto accorgersene. Aveva lavorato per molti anni con bianchi, russi e cubani, e aveva compreso che nel trattare con loro esisteva solo un principio fisso e certo. Non bisognava mai fidarsi, in nessuna circostanza e neppure nel minimo dettaglio. Aveva imparato a fingere di accettarli, a dar loro falsi segnali di docilità, come il voluto rilassamento fisico e il sorriso franco e fiducioso. Ma non dimenticava neppure per un istante che erano bianchi. Come la stragrande maggioranza degli africani, era un razzista nato e aveva il culto della sua tribù. Odiava i bianchi che lo trattavano con condiscendente superiorità, seduti di fronte a lui al tavolo delle conferenze, come odiava il poliziotto bianco che aveva sparato a Sharpeville. Non aveva mai dimenticato quel giorno spaventoso quando, sotto l'azzurro cielo africano, aveva tenuto fra le braccia la ragazza che amava, l'adorabile negra che doveva diventare sua moglie. L'aveva tenuta fra le braccia e l'aveva vista morire, e prima che il suo corpo si raffreddasse aveva toccato con le dita le ferite e sul suo sangue aveva giurato vendetta. Il giuramento non era rivolto soltanto contro gli uccisori, ma contro tutti, contro ogni faccia bianca, contro ogni mano bianca che aveva imposto la schiavitù e la sottomissione alla sua tribù nel corso dei secoli. L'odio era il carburante vitale di Raleigh Tabaka. Guardò i volti dei due bianchi, sorrise ed attinse forza e decisione dal suo odio. «Quindi», disse, «tu ti occuperai della donna. D'accordo. Ora passiamo a...» «Un momento», Ramon alzò la mano per interromperlo e si rivolse a Joe Cicero. «Se devo procedere con Rosa Rossa, c'è da discutere il preventivo per l'operazione.» «Abbiamo già stanziato duemila sterline britanniche...»
protestò il generale Cicero. «Bastano appena per la fase preliminare. Lo stanziamento dovrà essere aumentato. Rosa Rossa è figlia d'un ricco capitalista, e per far colpo su di lei dovrò essere all'altezza del mio ruolo di grande di Spagna.» Discussero per qualche altro minuto mentre Raleigh Tabaka batteva spazientito la matita sul piano del tavolo. La divisione africana era la Cenerentola della Quarta Direzione, e bisognava contare ogni rublo. Era degradante, pensava Raleigh mentre li ascoltava mercanteggiare. Sembravano due vecchie che vendonn zucche lungo una polverosa strada africana, più che due uomini impegnati a pianificare il crollo di un impero malefico e la liberazione di quindici milioni di negri oppressi. Finalmente si misero d'accordo e Raleigh stentò a nascondere il disgusto mentre ripeteva: «Possiamo discutere il mio itinerario per il giro dell'Africa?» Aveva creduto che fosse quella, la ragione dell'incontro. «L'autorizzazione è arrivata da Mosca?» La discussione si protrasse nel pomeriggio. Consumarono un pranzo frugale mandato dalla mensa del consolato mentre continuavano a lavorare, e la nebbia della sigaretta di Joe Cicero offuscò il raggio di sole che penetrava dall'unica finestra. La stanza era un'unità di massima sicurezza all'ultimo piano, controllata regolarmente per scoprire eventuali congegni elettronici d'ascolto e protetta contro ogni forma di spionaggio. Finalmente Joe Cicero chiuse il fascicolo che aveva davanti e alzò la testa. Gli occhi scuri erano arrossati dal fumo e dalla fatica. «Credo che abbiamo preso in esame tutti i punti in discussione, a meno che ci sia qualcosa di nuovo.» Gli altri due scossero la testa. «Come al solito il compagno Machado uscirà per primo», disse Joe Cicero. Era una precauzione elementare: non dovevano mai farsi vedere insieme in pubblico. Ramon uscì dal consolato passando dall'ufficio visti, la zona più frequentata dell'edificio dove avrebbe dato meno nell'occhio in mezzo alla folla degli studenti e di altri che venivano a chiedere i documenti per recarsi nell'Unione Sovietica. C'era una fermata d'autobus davanti al consolato. Prese l'88 ma scese alla prima fermata e varcò in fretta l'entrata di Lancaster Gate dei Kensington Gardens. Indugiò nel roseto fino a che fu certo che nessuno lo seguisse, quindi attraversò il parco. Il suo appartamento si trovava in una stretta via laterale in Kensington High Street: era stato preso in affitto appositamente per l'operazione Rosa Rossa e, sebbene vi fosse una sola camera da letto, il soggiorno era spazioso e la zona alla moda. Durante le due settimane trascorse da quando vi era andato ad abitare, Ramon era riuscito a creare un'atmosfera di permanenza. I bauli personali erano arrivati da Cuba con il corriere diplomatico, e avevano contenuto i pochi quadri di valore lasciatigli dal padre ed altri oggetti d'arredamento, incluse le foto incorniciate d'argento dei genitori, del castello di famiglia e delle tenute in Andalusia. I cristalli, i servizi di bicchieri e di porcellane erano incompleti, ma ostentavano lo stemma dei Machado: il cervo e il cinghiale rampanti ai lati dello scudo inquartato. Le mazze da golf erano in mostra con noncuranza in un angolo nel piccolo ingresso; la semplice sacca di cuoio di Eiermés era un tantino logora e lo stemma quasi cancellato dall'uso. A giudicare da quanto aveva appreso su Rosa Rossa, sapeva che sarebbe stata attenta a quei dettagli. Diede un'occhiata al venerabile Cartier d'oro, un'altra eredità di famiglia che sembrava fuori posto al suo polso. Doveva affrettarsi. Aveva la barba lunga. Si rase in fretta ma scrupolosamente, fece la doccia e si lavò i capelli per liberarli dall'odore
insopportabile delle sigarette turche di Joe Cicero. Si guardò automaticamente allo specchio mentre attraversava la camera da letto. Quand'era arrivato dalla Russia tre settimane prima era in condizioni smaglianti. Il corso di aggiornamento per ufficiali alla scuola superiore del KGB Sulle rive del Mar Nero aveva temprato il suo corpo e, sebbene da allora non avesse fatto molta attività fisica, la mancanza d'esercizio non si notava. Era ancora snello e solido, con il ventre piatto coperto dal pelo nero e ricciuto. L'attenzione che dedicava alla propria immagine era del tutto priva di vanità. Il volto e il corpo erano semplici strumenti da usare per realizzare i compiti assegnatigli. Non si faceva illusioni sulla natura fuggevole dei suoi attributi fisici, ma si adoperava per prolungarne la durata come un guerriero ha cura delle proprie armi. «Domani, in palestra», si disse. Aveva a disposizione uno studio d'arti marziali a Bloomsbury, diretto da un profugo ungherese. Due ore di lavoro impegnativo un paio di volte la settimana l'avrebbero mantenuto nelle condizioni adatte all'operazione Rosa Rossa. I calzoni da equitazione erano di saia a tessitura diagonale, e portava una camicia di lana color salvia con la cravatta verde sotto la giacca di tweed. Gli stivali calzavano come una seconda pelle, e il cuoio si fletteva in grinze perfette sulle caviglie a ogni movimento. Il denaro e l'abilità artigianale non potevano raggiungere quell'effetto: potevano riuscirvi solo anni di attenzioni premurose. Sapeva che Rosa Rossa era un'amazzone esperta; nel suo mondo i cavalli rappresentavano una parte importante dell'esistenza. Avrebbe riconosciuto negli stivali un segno di appartenenza allo stesso gruppo esclusivo di cui ella faceva parte. Controllò di nuovo l'orologio. Aveva calcolato esattamente il tempo. Chiuse a chiave l'appartamento e scese in strada. I nembi carichi di pioggia che avevano minacciato l'inizio del pomeriggio s'erano dispersi, e la sera estiva era splendida. Persino gli elementi sembravano cospirare per assisterlo. Le scuderie erano in uno stretto vicolo dietro la caserma delle guardie. Il direttore lo riconobbe. Mentre firmava il registro, Ramon diede una rapida scorsa ai nomi che precedevano il suo e vide che la fortuna continuava a proteggerlo. Rosa Rossa aveva firmato per prendere il cavallo appena venti minuti prima. Andò alle scuderie, e il mozzo sellò la cavalla. Era una baia che Ramon aveva scelto con cura e per la quale aveva pagato cinquecento sterline attinte dal conto spese. Comunque era stato un ottimo affare, e sapeva che avrebbe potuto rifarsi dell'acquisto, e magari ricavare un certo profitto quando avesse deciso di rivenderla. Controllò il sottopancia e i finimenti, parlò sottovoce alla cavalla calmandola con le carezze; quindi ringraziò il mozzo con un cenno e montò in sella. In una serata così splendida c'era una cinquantina di cavalieri in Rotten Row. Ramon guidò la cavalla al passo sotto le querce, mentre gruppi di cavalieri correvano in entrambe le direzioni. La ragazza non era fra loro. Appena la cavalla si fu scaldata un po', la incitò per farla procedere al trotto. Aveva movimenti eleganti, e Ramon la montava come un centauro; la sua abilità appariva evidente persino agli esperti. Erano un'accoppiata sensazionale, e alcune delle donne che incontravano si giravano sulla sella per guardarli. All'estremità di Rotten Row, dalla parte di Park Lane, Ramon girò la cavalla e la lanciò al piccolo galoppo; il galoppo vero e proprio era proibito. Cento metri più avanti stava venendo verso di lui un gruppo di quattro cavalieri; erano due coppie di
giovani, tutti eleganti, ma la ragazza spiccava tra loro come un colibrì in uno stormo di passeri. Sotto il berretto da amazzone, i capelli sembravano l'ala di un uccello in volo e scintillavano nella luce burrosa del sole. Quando rideva i denti spiccavano candidi, e il volto era colorito dal moto e dal vento. Ramon riconobbe l'uomo che le cavalcava a fianco. L'aveva accompagnata in molte occasioni, durante le ultime due settimane. Ramon aveva chiesto informazioni su di lui. Era il secondogenito d'un ricchissimo industriale della birra, un playboy smidollato del tipo che a Londra soprannominavano «Gioia delle debuttanti», ed era andato con lei al concerto dei Rolling Stones quattro giorni prima. Da allora Rosa Rossa aveva trascorso due serate in sua compagnia, andando da un party all'altro in Kngithsbridge e Chelsea. Ramon aveva notato che lo trattava con divertita condiscendenza, come se fosse un cucciolo di San Bernardo troppo affettuoso, e che tutte le volte che li aveva seguiti lei non era mai rimasta sola in sua compagnia, se non quando la portava con la sua Mc da una festa all'altra. Ramon era quasi certo che non andavano a letto insieme e questo era molto insolito nell'estate del 1969, quando la licenziosità sessuale imperversava come un'epidemia. Sapeva che Isabella Courteney non era una vergine piagnucolosa. Nei tre anni passati a Highveld, secondo la documentazione aveva avuto almeno tre relazioni esplosive anche se di breve durata. Mentre la distanza tra loro si riduceva, Ramon concentrò l'attenzione sulla cavalla e si tese in avanti per accarezzarle il collo. «Su, cara.» Le parlava in spagnolo e con la coda dell'occhio sorvegliava la ragazza. Aveva l'abitudine di distogliere lo sguardo per dare l'impressione di non guardare mentre in realtà non si lasciava sfuggire il minimo dettaglio. S'erano quasi incrociati quando vide la ragazza alzare di scatto il mento e sgranare gli occhi. Ma la ignorò e passò oltre. «Ramon!» La voce era alta, imperiosa. «Aspetta!» Lui trattenne la cavalla e si voltò aggrottando leggermente la fronte con aria irritata. Rosa Rossa aveva girato il cavallo e stava tornando nella sua direzione. Ramon mantenne un'espressione riservata e piuttosto fredda, come se fosse risentito. Lei gli venne al fianco e mise il cavallo al passo. «Non ti ricordi di me? Isabella Courteney. Sei il mio salvatore.» Il sorriso era incerto, impacciato. Gli uomini la riconoscevano sempre, per quanto fosse stato fuggevole o distante il loro ultimo incontro. «Al concerto nel parco», concluse, un po' confusa. «Ah!» Ramon si permise finalmente di sorridere. «Il portafortuna del motociclista. Scusami. Quel giorno eri vestita in modo piuttosto diverso.» «Non hai neppure aspettato che ti ringraziassi», disse lei in tono d'accusa. Aveva represso l'impulso di ridere per il sollievo, quando lui l'aveva finalmente riconosciuta. «Non era necessario un ringraziamento. E poi, se non ricordo male, avevi qualcosa di urgente da sbrigare.» «Sei solo?» Lei cambiò in fretta argomento. «Perché non ti unisci a noi? Ti presento i miei amici.» «Oh, non voglio imporre la mia presenza.» «Ti prego», insistette lei. «Li troverai simpatici. Sono divertenti.» E Ramon s'inchinò leggermente sulla sella. «Come posso rifiutare un invito tanto gentile da una così bella signora?» Isabella ebbe la sensazione che una morsa le stringesse il cuore. Stentava a respirare mentre guardava quegli occhi verdi nel volto di angelo tenebroso. Gli altri tre s'erano fermati e li aspettavano. Prima ancora di avvicinarsi, lei vide che Roger era già seccato; e con un piccolo
fremito di gioia vendicativa disse: «Roger, posso presentarti il marchese de Santiago y Machado? Ramon, questo è Roger Coates-Grainger». Si accorse che Ramon la guardava con aria interrogativa, e solo in quel momento si rese conto di aver commesso una gaffe usando il titolo. Lui non ne aveva parlato in occasione del loro primo incontro. Ma il momentaneo disagio venne dimenticato quando presentò Ramon ad Harriet Beauchamp e vide in che modo reagiva Harriet. Si leccò letteralmente le labbra come il micio della pubblicità televisiva del cibo per gatti. Harriet era la migliore amica che Isabella aveva a Londra, più per motivi simbiotici che per autentico affetto reciproco. Lady Harriet era per Isabella il biglietto d'ingresso per i circoli più esclusivi della società londinese. Figlia d'un conte, era ben accetta dove Isabella nonostante la bellezza e l'importanza della sua famiglia sarebbe stata considerata un'arricchita, un'intrusa dall'accento ridicolo. D'altra parte Harriet aveva scoperto che dovunque andasse Isabella Courteney si raccoglieva in fretta una sovrabbondanza di maschi. L'aspetto esteriore blando e grassoccio della bionda incolore nascondeva un'indole ardente ed appassionata, e Isabella era felice di cederle i suoi scarti. Di solito il sistema funzionava alla perfezione: ma Ramon non era uno scarto, assolutamente, almeno per il momento, e Isabella mise il cavallo tra i due e lanciò ad Harriet un'occhiata di silenzioso avvertimento. Harriet si sentì molto lusingata. Sapeva che non avrebbe potuto aspirare a diventare la rivale di Isabella, ma era piacevole esser trattata come se lo fosse. «Marchese?» mormorò Ramon mentre proseguivano. «Sai di me molto più di quanto io sappia di te.» «Oh, devo aver visto la tua foto in qualche cronaca mondana», suggerì Isabella in tono spensierato mentre pensava: Dio, non deve credere mi sia interessata a lui. «Ah, il Tatler, naturalmente...» Ramon annuì. La sua foto non era mai apparsa da nessuna parte, se non forse negli schedari della cIA e di qualche altro servizio segreto. «Sì, il Tatler, ecco.» Grata, Isabella si lanciò sulla via d'uscita che le offriva, e s'impegnò per accattivarselo senza mostrare un interesse troppo ovvio e opprimente. Fu più facile di quanto avesse previsto. Ramon aveva un fascino disinvolto, un savoirfaire che s'inseriva benissimo nel gruppo. Ben presto tutti, eccettuato Roger che continuava ad essere imbronciato, presero a chiacchierare ed a ridere insieme come vecchi amici. Quando scese il crepuscolo e ritornarono verso le scuderie, Isabella spinse il cavallo più vicino a quello di Harriet e le sibilò: «Invitalo al party di stasera». «Chi?» Harriet spalancò gli occhi vacui con aria di finta incomprensione. «Sai benissimo di chi parlo, streghetta in calore! E' un'ora che punti su di lui gli occhi e le ovaie!» Lady Harriet Beauchamp aveva a disposizione la casa di famiglia a Belgravia durante tutta la settimana, quando i genitori erano in campagna, e organizzava alcune delle feste più riuscite della capitale. Quella notte quasi tutti gli interpreti di Hair, il musical di successo, fecero la loro comparsa dopo lo spettacolo. Erano ancora truccati e in costume di scena, e il complesso giamaicano che Harriet aveva scritturato li accolse con una versione di Aquarius trasformata in calypso. Prometteva di diventare uno dei party più memorabili di Harriet. C'era tanta gente che le coppie intenzionate a fare sul serio impiegavano venti minuti per salire dalla sala da ballo alle
camere da letto, e persino là erano costrette ad aspettare il loro turno. Isabella si chiedeva cosa avrebbe pensato il padre di Harriet, il decimo conte, se avesse immaginato tutto quel traffico nel suo letto a baldacchino. In mezzo a quell'allegria chiassosa, Isabella era ostinatamente isolata. S'era seduta a metà della grande scala di marmo, e da lì poteva tener d'occhio tutti i nuovi arrivati quando entravano dalla porta e anche sorvegliare quanto avveniva nella sala da ballo e nel salotto anteriore dove s'era raccolta una parte degli invitati. Si rifiutava di ballare, sebbene gli inviti si susseguissero incessantemente. Era stata così gelida di fronte alle attenzioni insistenti e alle spiritosaggini sprovvedute di Roger Coates-Grainger che lui, scoraggiato, era andato a rifugiarsi allo champagnebar sulla terrazza. Ormai doveva essere probabilmente ubriaco fradicio, pensava Isabella con stizzosa soddisfazione. Il successo della serata era tale che nessuno degli ospiti aveva voglia di andarsene per passare a un'altra festa. Il movimento all'ingresso si svolgeva in una sola direzione, e il chiasso e la ressa aumentavano di minuto in minuto. Un altro gruppo d'invitati arrivò fra gridolini ebbri di saluto, e Isabella si rallegrò per un momento quando scorse una testa di capelli bruni e ondulati: ma quasi subito si accorse che l'uomo era troppo basso. E quando sî voltò, poté scorgerne il viso, olivastro e con le gote cascanti. Sentiva di odiarlo, chiunque fosse. In una specie di penitenza masochista fece durare per tutta la serata un unico bicchiere di champagne. Ormai il vino aveva perduto l'effervescenza e s'era scaldato al contatto delle sue dita. Si girò per cercare Roger e mandarlo a prendere un altro bicchiere, ma vide che stava ballando con una ragazza alta e magra, dalle ciglia finte ed una risatina stridula e penetrante. «Dio, è orrenda», disse tra sé Isabella. «E Roger fa la figura dello scemo, a sbavarle dietro.» Lanciò un'occhiata all'orologio francese di porcellana e bronzo dorato sopra la porta del salotto. Mancavano venti minuti all'una. Sospirò. Quel giorno, alle dodici e mezzo, suo padre dava un pranzo importante per un gruppo di parlamentari influenti e relative signore. Come al solito, lei doveva fare gli onori di casa. Doveva dormire un po' per essere in forma... ma indugiava ancora. «Dove diavolo è?» si chiese irritata. «Aveva promesso di venire, accidenti a lui.» (Per la verità, aveva detto soltanto che avrebbe cercato di fare una scappata sul tardi.) «Ma andavamo così d'accordo, ed era come una promessa.» Rifiutò un altro invito a ballare senza neppure alzare la testa e assaggiò lo champagne. Faceva schifo. «Non ho intenzione di aspettare un minuto più dell'una», decise con fermezza. «Assolutamente.» Poi il suo cuore si fermò e riprese a battere all'impazzata. La musica parve assumere toni più dolci e sorridenti, la folla opprimente ed il chiasso sembrarono recedere, il malumore svanì come per miracolo, e si sentì sollevata su un'onda di eccitazione e di attesa fremente. Lui era là, all'entrata. Era così alto che torreggiava di mezza testa sopra quelli che lo circondavano. Una ciocca di capelli gli ricadeva sulla fronte come un punto interrogativo, e l'espressione era remota, quasi sprezzante. Avrebbe voluto gridare «Ramon, sono qui!» Ma si trattenne e posò il bicchiere senza guardare. Il bicchiere si rovesciò e la ragazza seduta sul gradino sotto di lei proruppe in un urletto quando lo champagne tiepido le piovve sulla schiena nuda. Isabella non l'udì neppure. Si alzò con un movimento fluido, e
subito gli occhi verdi di Ramon l'avvolsero. Si guardarono al di sopra delle teste dei ballerini e fu come se fossero completamente soli. Nessuno dei due sorrise. A isabella parve che fosse un momento di grande solennità. Lui era venuto: ed era vagamente consapevole del significato di ciò che stava accadendo. Era certa che in quell'istante la sua vita era cambiata. Nulla sarebbe più stato come prima. Incominciò a scendere, senza inciampare nelle coppie che si abbracciavano sulla scalinata. Sembravano scostarsi davanti a lei, e i suoi piedi trovavano automaticamente lo spazio dove posarsi. Continuava a fissare Ramon. Non le veniva incontro: stava immobile tra la folla. La sua immobilità le ricordava i grandi felini africani e le ispirava un lieve brivido di paura, un'esaltazione del sangue mentre scendeva per raggiungerlo. Quando arrivò davanti a lui nessuno dei due parlò. Dopo un momento Isabella gli tese le braccia nude ed abbronzate, e quando Ramon l'attirò al petto, gli cinse il collo. Ballarono: ogni movimento del corpo di lui si trasmetteva al corpo di Isabella come una corrente elettrica. La musica era superflua, si muovevano a un ritmo tutto loro. Lei gli premeva il seno contro i muscoli duri ed elastici del petto e sentiva il battito del suo cuore, mentre i capezzoli le si irrigidivano. Sapeva che Ramon li sentiva, perché adesso il suo cuore batteva più forte e gli occhi verdi s'erano fatti più scuri. Inarcò la schiena in un movimento voluttuoso che fece spiccare i muscoli a lato della spina dorsale. Ramon li accarezzò con la punta delle dita, sfiorando le vertebre come se suonasse uno strumento musicale. Isabella fremette a quel tocco e protése istintivamente i fianchi, appoggiandoli contro quelli di Ramon, e lo sentì irrigidirsi. Le sembrava che Ramon fosse un grande albero, e lei era la liana che l'avvolgeva; lui era uno scoglio e lei la corrente dell'oceano tropicale che l'accarezzava; lui era una vetta montana, lei la nube che la circondava dolcemente. Si sentiva libera e leggera, aveva l'impressione di fluttuare fra le sue braccia e quella era l'unica realtà. Erano soli nell'universo, al di là delle leggi dello spazio e del tempo; persino la gravità non esisteva più e i suoi piedi non toccavano più la terra. Ramon si spostò verso l'uscita, e Isabella vide Roger che muoveva la bocca per dirle qualcosa dall'altra parte della sala. La ragazza alta era sparita, e lui aveva il volto arrossato per l'indignazione; ma lo lasciò prigioniero della ressa come un pesce in una rete. Scesero la gradinata della casa, e Isabella prese la chiave della Mini Cooper dalla borsetta da sera e la mise nella mano di Ramon. Lui lanciò a tutta velocità la macchina per le vie deserte, e Isabella si tese per stargli vicino per quanto lo permettevano i sedili a pozzetto. Scrutava il suo viso con estrema concentrazione; non vedeva dove la stava portando e non se ne curava. Credeva di non poter resistere ancora un attimo senza toccarlo, senza sentire di nuovo le sue mani sul proprio corpo. E ricominciò a fremere. Poi Ramon accostò la macchina al marciapiedi e la fermò. Girò a grandi passi intorno alla Mini e Isabella comprese che era mosso da un desiderio ardente quasi quanto il suo. Si aggrappò al suo braccio senza sentire il terreno sotto ai piedi mentre attraversavano il marciapiedi e si avviavano all'entrata della casa di mattoni rossi in una fila di costruzioni simili. Lui la guidò su per la scala fino al secondo piano. Appena chiusa la porta dell'appartamento si voltò verso di lei, e per la prima volta la baciò. Il suo viso era irruvidito dalla
barba come la pelle d'uno squalo, ma le labbra erano morbide, ardenti e dolci come un frutto maturo, e la lingua era come una cosa viva. Isabella sentì qualcosa esplodere dentro di lei, e la razionalità e il ritegno furono travolti come da un'alluvione. Sentiva negli orecchi un suono simile al vento di bufera su un mare turbolento, mentre una follia s'impossessava di lei. Si mosse nell'abbraccio e si strappò gli indumenti in una frenesia d'impazienza, lasciandoli cadere sul parquet lucido della piccola anticamera. Ramon si spogliò altrettanto rapidamente; e Isabella lo fissò, avida, via via che si rivelava ogni squisito dettaglio del suo corpo. Non aveva mai immaginato che un corpo d'uomo potesse essere così bello. Mentre altri erano grossolani e irsuti e pieni di vene sporgenti, Ramon era levigato e perfetto. Sarebbe stata felice di restare a guardarlo per sempre, ma nello stesso tempo sapeva che se non avesse potuto sentirlo subito contro di lei avrebbe urlato per la frustrazione. Nuda, si avventò contro il suo petto nudo. Si strinse a lui di slancio e lo sentì solido e snello e caldo, anche se il vello del suo petto era insopportabilmente ruvido contro le punte inturgidite dei capezzoli. Gemette e gli coprì la bocca con la bocca per non urlare di desiderio disperato. Ramon la sollevò, e lei si sentì priva di peso tra le sue braccia; la portò a letto senza interrompere l'avido contatto delle bocche, l'una sull'altra. Quando si svegliò, Isabella provò un senso travolgente di benessere. Le sembrava d'essere sul punto di esplodere per la gioia. Tutto il suo corpo vibrava come se ogni muscolo e ogni nervo avessero una propria vita. Per lunghi istanti non riuscì a comprendere cosa le fosse accaduto. Restò distesa ad occhi chiusi, aggrappandosi a quel momento. Sapeva che una sensazione tanto magica doveva essere evanescente; ma non avrebbe voluto che finisse mai. Poi, a poco a poco, sentì l'odore d'uomo nelle narici, il sapore della sua bocca che le indugiava ancora sulla lingua. Sentì l'indolenzimento della penetrazione ed il calore dell'eritema che la barba ispida le aveva causato nella pelle delicata intorno alle labbra. Assaporò tutto, e quelle piccole sofferenze si trasformarono in un piacere profondo e gratificante. Quindi, con uno stupore nuovo, un pensiero implose nella sua coscienza: sono innamorata! E si svegliò completamente. La sua gioia era quasi un delirio. Si sollevò di scatto a sedere ed il lenzuolo le ricadde intorno alla vita. «Ramon», disse. Nel cuscino accanto al suo c'era la depressione lasciata dalla sua testa. Un pelo scuro era avvolto come una molla d'orologio sul lenzuolo candido. Lo toccò e si accorse che il lenzuolo era fresco: il tepore del corpo di Ramon s'era già dissipato. Si sentì sprofondare nella disperazione. «Ramon.» Si alzò dal letto e, scalza, andò verso il bagno. La porta era socchiusa, il bagno vuoto. Lui se n'era andato di nuovo; nuda, al centro della stanza, si guardò intorno con un'espressione sgomenta. Ramon era come un felino. Quella sua furtività era strana. La pelle le si accapponò intorno ai capezzoli. Incrociò le braccia sul petto e rabbrividì. Poi vide la lettera sul comodino. Era un foglio di carta lussuosa, color crème, con lo stemma di famiglia, ed era trattenuto dal portachiavi della LYim. Lo prese, impaziente. Non c'era il suo nome. Sei una donna straordinaria, eppure quando dormi sembri una bambina,
una bella bambina innocente. Non ho avuto il coraggio di svegliarti. Mi è dispiaciuto andarmene, ma ho dovuto farlo. Se puoi venire a Malaga con me per il fine settimana, tròvati qui alle nove domattina. Avrai bisogno del passaporto, ma non disturbarti a portare il pigiama. Ramon. Isabella rise di gioia e di sollievo; aveva ritrovato la spensieratezza del risveglio. Rilesse la lettera; la carta era liscia e fresca come il marmo e le dava un'impressione sensuale. Anche la pelle di Ramon era così levigata... I suoi occhi divennero assorti e sognanti mentre rievocava i piccoli episodi di quella notte. Ramon aveva trasceso tutte le sue esperienze precedenti. Con gli altri, anche con il più esperto e paziente, era sempre stata conscia dei loro corpi separati, delle esistenze divergenti, dei tentativi di dare e ricambiare il piacere. Con Ramon non c'erano state divisioni. Era come se si fosse impossessato della sua mente oltre che del suo corpo. Si erano fusi l'uno nell'altra come per un processo osmotico semidivino; i loro corpi e le loro menti erano divenuti una cosa sola. Tante volte, quella notte, aveva creduto che avessero raggiunto insieme la vetta; e poi aveva scoperto che erano ancora ai piedi delle colline e che sopra di loro troneggiava una cima, e poi un'altra e un'altra ancora, ognuna più imponente e magnifica delle altre. Non c'era stata una fine ma solo l'oblio del sonno, così profondo che era stato come una morte, e poi la resurrezione in quell'esistenza nuova e incantata. «Sono innamorata», mormorò con una reverenza quasi religiosa, e guardò il proprio corpo, stupita al pensiero che un contenitore tanto fragile potesse racchiudere una felicità così grande, un'emozione così traboccante. Poi notò il suo orologio accanto alle chiavi della macchina, sul comodino. «Oh, mio Dio!» mormorò. Erano le dieci e mezzo. «Il pranzo di papà!» Balzò in piedi e corse in bagno. Sul lavabo, Ramon aveva messo uno spazzolìno nuovo, ancora nella custodia di plastica sigillata, apposta per lei. E quel piccolo gesto premuroso la commosse sproporzionatamente. Canticchiò le parole di Faratoay Places con la bocca piena di dentifricio. Decise che aveva appena il tempo per fare il bagno in fretta. S'immerse nell'acqua calda e pensò a Ramon, e scoprì che nel suo corpo c'era un grande vuoto dolorante. «Basta», si disse ridendo. «Con un tocco di bacchetta magica, ti ha mandato in delirio.» Uscì d'un balzo dalla vasca e prese l'asciugatoio. Era ancora umido: ne premette un lembo contro la bocca e il naso e aspirò l'odore lieve ma inconfondibile della pelle di Ramon. L'eccitazione la riassalì. «Basta!» ordinò guardandosi nello specchio appannato. «Fra un'ora devi essere in Trafalgar Square.» Stava per uscire dall'appartamento quando lanciò un'esclamazione e tornò correndo in bagno. Frugò nella borsetta da sera, prese le pillole Ovanon nella confezione a calendario e ne estrasse una dallo scomparto sigillato. Mise la compressa bianca sulla lingua, riempì un bicchiere con l'acqua del rubinetto e brindò all'immagine riflessa nello specchio. «Alla vita, all'amore ed alla libertà», disse. «E a molti felici ritorni.» E inghiottì la pillola. Gli sport sanguinari non ispiravano disgusto a Isabella Courteney. Suo padre era sempre stato un cacciatore, e le pareti di Weltevreden, la loro casa sul Capo di Buona Speranza, erano
ornate da trofei. Fra le proprietà della famiglia c'era una società di safari, che aveva un'enorme riserva nella valle dello Zambesi. Appena l'anno precedente, lei aveva trascorso due settimane idilliache in quel territorio selvaggio e incantato in compagnîa del fratello maggiore, Sean, che era un cacciatore professionista e dirigeva l'organizzazione per conto della Courteney Enterprises. In diverse occasioni, Isabella aveva partecipato alle cacce a cui l'aveva invitata Harriet Beauchamp. Tirava discretamente con la bellissima doppietta intarsiata d'oro, l'Holland & Holland 20 che il padre le aveva regalato per il diciassettesimo compleanno. L'aveva usata per sparare ai beccaccini nel delta dell'Okavango, alle pernici delle sabbie nel Karoo, alle oche ed anitre sul grande Zampesi, alle pernici nelle brughiere delle Highlands, e ai fagiani, alle pernici e alle beccacce in alcune delle grandi tenute inglesi dov'era stata invitata con l'ambasciatore suo padre. Non inorridiva alla vista del sangue versato volutamente; e poiché aveva ereditato dalla famiglia la sua parte di passione per il gioco d'azzardo, quella sfida l'affascinava. Era il secondo giorno, e il campo iniziale di trecento partecipanti s'era ridotto a due, perché era una gara ad eliminazione diretta in cui il vincitore prendeva tutto. L'iscrizione costava mille dollari americani a testa; quindi la posta in palio superava il quarto di milione, e la tensione era al massimo quando l'americano si piazzò per tirare. L'americano e Ramon Machado erano i due soli concorrenti rimasti, e avevano ottenuto risultati di parità negli ultimi ventitré tiri. Alla fine, per spezzare l'impasse e incoronare il vincitore, i giudici spagnoli avevano deciso che d'ora in poi bisognava abbattere due piccioni a ogni tiro. L'americano era un professionista a tempo pieno. Faceva il giro delle gare in Spagna, Portogallo, Messico e Sudamerica, e fino all'anno prima aveva partecipato a quelle di Monaco. Ma nel principato i tornei erano stati aboliti dopo che un piccione ferito a morte era fuggito dallo stadio e aveva superato in volo le mura del palazzo per precipitare sul tavolo dove la principessa Grace stava prendendo il tè, macchiando di sangue la tovaglia e gli abiti delle signore. Il principe Ranieri aveva sentito le grida da lontano, e ciò aveva causato la fine dei tornei di tiro al volo a Monaco. L'americano aveva l'età di Isabella. Non aveva ancora compiuto venticinque anni, ma si calcolava che il suo reddito superasse i centomila dollari l'anno. Usava una doppietta a canne affiancate che era stata fabbricata quasi un secolo prima dal leggendario armaiolo James Manton. Naturalmente le canne erano state cambiate, ed erano state apportate alcune modifiche che permettevano l'uso delle cartucce moderne, più lunghe, e della polvere da sparo senza fumo. Ma il meccanismo, completo dei cani intarsiati, era originale e conservava l'equilibrio meraviglioso e l'efficienza che gli aveva conferito il vecchio James. Il giovane americano si piazzò al suo posto, alzò i cani, strinse il calcio sotto l'ascella destra e puntò le canne un po' al di sopra del centro del semicerchio di cinque ceste di vimini posate a trenta metri da lui. Ogni cesta conteneva un piccione vivo. Erano del tipo che viveva a stormi nel centro di tante grandi città: grossi, robusti e variegati, di color bronzo e blu ardesia e verde iridescente, alcuni con fasce scure intorno al collo o macchie di bianco sulle ali. Per avere sempre a disposizione un numero sufficiente di piccioni, il circolo del tiro al volo aveva costruito nei pressi un capanno dove c'erano vassoi che ogni giorno venivano riempiti di mais e chiusi da piccole saracinesche che si facevano scattare
con il telecomando per imprigionare gli uccelli discesi a mangiare. Spesso, un piccione che sfuggiva indenne ai tiratori tornava immediatamente verso il capanno. Molti erano stati presi a fucilate parecchie volte, in passato; ed erano i più astuti, quelli che avevano imparato trucchi sottili per disturbare la mira dei tiratori. E gli inservienti che li mettevano nelle ceste strappavano sempre un paio di penne dalle ali o dalla coda per farli volare in modo imprevedibile. Le ceste erano azionate da un meccanismo che rendeva casuale l'apertura, e prevedeva un ritardo che arrivava fino a cinque secondi dopo che il tiratore aveva gridato «Pull» per chiedere che venisse liberato un piccione. Cînque secondi, per un uomo con le mani sudate, il cuore che batte forte ed una posta di decine di migliaia di dollari in palio, potevano sembrare un'eternità. Le ceste erano a trenta metri, e in genere si calcolava che la portata effettiva di una doppietta del 12 fosse di quaranta metri. I piccioni, quindi, venivano liberati quasi al limite della portata, e la recinzione era appena dieci metri oltre la fila dei contenitori. La recinzione di legno molto bassa, non più di venti centimetri, e dipinta di bianco, segnava il confine della zona entro la quale si poteva uccidere un piccione. La carcassa dell'uccello o, nel caso che la rosa dei pallini l'avesse fatto a pezzi, la parte maggiore della carcassa calcolata a peso doveva cadere all'interno del recinto. Perciò il tiratore doveva uccidere il suo piccione quando si alzava in volo dalla cesta aperta, entro quei dieci metri prima che uscisse dal confine. Le ceste erano disposte in un semicerchio di quarantacinque gradi di fronte a lui, e niente indicava quale sportello si sarebbe aperto al comando «Pull», niente permetteva di immaginare la direzione che avrebbe preso l'uccello una volta liberato. Poteva volare verso sinistra o verso destra, allontanarsi direttamente oppure, ed era sempre la cosa più sconcertante, puntare verso il tiratore. I piccioni, inoltre, erano volatili veloci e rumorosi, capaci di cambiar rotta in pieno volo. E adesso i giudici avevano deciso di lanciarne simultaneamente due anziché uno solo. L'americano si piazzò, un po' protéso e curvo, con il piede sinistro leggermente avanzato come un pugile; Isabella prese la mano di Ramon e la strinse leggermente. Erano seduti nella fila più bassa della tribuna coperta, sulle sedie in pelle riservate ai concorrenti e ai dirigenti del club. «Pull!» disse l'americano. La voce texana echeggiò nel silenzio come una martellata su un'incudine d'acciaio. «Sbaglia!» mormorò Isabella. «Ti prego, sbaglia!» Per un secondo, per due secondi non accadde nulla. Poi con un suono secco gli sportelli di due ceste si aprirono, la numero due e la numero cinque, parzialmente a sinistra e completamente a destra rispetto alla posizione del tiratore; e i due piccioni, investiti dai getti d'aria compressa che uscivano dai tubi sul fondo delle ceste, si lancîarono subito in volo. Il numero due si diresse verso l'esterno, volando velocissimo e a bassa quota. L'americano puntò verso di lui, portandosi l'arma alla spalla, e sparò. A cinque metri dalla cesta, la sagoma del piccione venne distorta dalla gragnola di pallini, il battito delle ali si arrestò di colpo. Morì nell'aria, precipitò in un turbine di piume all'interno del cerchio e restò immobile sull'erba verde. L'americano puntò subito verso il secondo piccione che si era diretto a destra come un lampo lucente di bronzo brunito; ma il suono del primo sparo l'aveva fatto virare all'indietro, verso il centro, così fulmineamente che non riuscì a correggere la mira in tempo. Lo sparo fu quindi troppo spostato a sinistra
rispetto al centro, ma di pochissimo e anziché affondare nel cuore e nel cervello, i pallini strapparono l'ala destra del piccione che, orrendamente mutilato, svolazzò e cadde lasciando nell'aria una scia di penne. Piombò a una trentina di centimetri all'interno della bassa recinzione bianca, e dalla tribuna si levò un sospiro collettivo. Poi, incredibilmente, il piccione privo di un'ala mosse freneticamente l'altra e si rimise in piedi. Avanzò barcollando verso il recinto e batté invano l'aria con un'ala mentre dalla gola usciva un suono lamentoso. Gli spettatori si alzarono di scatto. L'americano, al centro, restò immobile con l'arma scarica ancora appoggiata alla spalla. Era autorizzato a usare due sole cartucce; se ora avesse ricaricato e avesse ucciso l'uccello con un terzo colpo, sarebbe stato squalificato e avrebbe perso il premio. Il piccione raggiunse la barriera e tentò, debolmente, di spiccare un salto per superarla. Urtò il legno con il petto a un paio di centimetri dalla sommità e ricadde lasciando uno spruzzo di sangue color rubino sulla tinta bianca. Metà degli spettatori gridò: «Muori!» mentre coloro che avevano scommesso contro l'americano urlarono: «Vai! Vai!» Il piccione si scosse, intontito, e balzò ancora una volta verso la barriera. Questa volta con sforzo evidente raggiunse la cima e rimase in equilibrio, pencolando avanti e indietro. Isabella era in piedi e urlava come gli altri. «Salta!» esclamò. « Non morire! Passa, passa!» All'improvviso il piccione agonizzante s'irrigidì, inarcò il collo all'indietro, cadde e rimase immobile, morto, sul prato. «Grazie!» mormorò Isabella, ributtandosi a sedere. Il piccione era caduto in avanti ed era morto al di fuori del cerchio. Sopra le loro teste, gli altoparlanti tuonarono il verdetto nelle frasi spagnole che Isabella aveva imparato benissimo negli ultimi due giorni. «Uno ucciso. Uno mancato.» «Il mio cuore non reggerà alla tensione.» Isabella si premette le mani sul seno in un gesto teatrale e Ramon le sorrise con i freddi occhi verdi. «Dovresti vederti!» esclamò lei. «L'uomo di ghiaccio. Non provi mai niente?» «No, fuori dal tuo letto», mormorò lui. Prima che Isabella potesse rispondere gli altoparlanti l'interruppero. «Il prossimo tiratore! Numero centodieci!» Ramon si alzò; mentre si assestava i paraorecchi la sua espressione era ancora fredda e remota. Aveva insegnato a Isabella a non fargli gli auguri, perciò lei non disse nulla mentre lo guardava avviarsi verso la panoplia dove l'unica arma rimasta era la sua. La prese, l'aprì, l'appoggiò all'incavo del gomito e uscì nel fulgido sole iberico. Agli occhi di Isabella era bellissimo e romantico. Il sole gli brillava sui capelli, e il giubbotto senza maniche con le toppe di pelle sulle spalle era tagliato su misura per il torace snello, e aderiva perfettamente in modo da evitare che il calcio della doppietta potesse impigliarsi in una piega della stoffa quando lo imbracciava per sparare. Arrivò in posizione, caricò le canne sovrapposte della Perazzi e richiuse l'arma. Soltanto allora girò la testa verso Isabella, come aveva fatto ogni volta prima di sparare negli ultimi due giorni. Lei attendeva quel gesto: alzò entrambe le mani stringendo con forza i pollici e gli mostrò i pugni chiusi. Ramon tornò a voltarsi e rimase completamente immobile. Ancora una volta le ricordava un felino africano, la particolare irrimobilità del leopardo che osserva la preda. Non si protése come aveva fatto l'americano. Rimase eretto, con eleganza, e
disse senza alzare la voce: «Pull!» I due piccioni balzarono dalle ceste aperte battendo fragorosamente le ali, e Ramon imbracciò il fucile con una economia di movimenti che appariva disinvolta e priva di fretta. Quando era stato in Messico con il cugino Fidel Castro, aveva finanziato in buona parte l'acquisto di armi dell'embrionale esercito di liberazione vincendo gare di tiro al piccione nei circoli di Guadalajara. Anche lui, come l'avversario americano, era un professionista con l'occhio esperto e i riflessi necessari per quell'attività. Il primo piccione aveva preso il volo obliquamente verso l'esterno e batteva le verdi ali iridescenti in direzione del recinto. Doveva ucciderlo per primo. Lo centrò con una rosa di pallini del sei sparata dalla canna inferiore, e il piccione esplose in uno sbuffo di piume come un cuscino scoppiato. Si girò verso l'altro piccione, piroettando come un ballerino. Quello era un veterano: in passato era stato usato come bersaglio una dozzina di volte, e si teneva basso al livello delle ceste. L'inserviente gli aveva spennato la coda in modo irregolare: e sebbene filasse a poco meno di cento all'ora, sbandava di continuo. Anziché dirigersi verso la recinzione, puntò direttamente verso la testa di Ramon riducendo la distanza a meno di tre metri e rendendo il tiro molto più difficile. Mentre gli sfrecciava davanti agli occhi, ebbe solo un centesimo di secondo per reagire, e l'estrema vicinanza non avrebbe dato alla rosa dei pallini la possibilità di allargarsi. Era come se sparasse con un'unica palla, e un errore d'una frazione gli avrebbe fatto mancare il colpo. Centrò in pieno la testa del piccione che si disintegrò. Il corpo esplose in un turbine di penne insanguinate, e solo le ali rimasero intatte. Discesero spiraleggiando e caddero ai piedi di Ramon. Con un urlo, Isabella scattò in piedi e, d'un balzo, scavalcò la barriera. Sebbene il direttore la richiamasse severamente in spagnolo, ignorò la disciplina e corse a gettare le braccia intorno al collo del vincitore. La folla era già eccitata dalla tensione della gara. Tutti risero e applaudirono mentre Ramon e Isabella si abbracciavano al centro dello stadio. Formavano una coppia splendida, assurdamente bella: alti e atletici, splendenti di salute e pieni di vigore giovanile. E quella manifestazione spontanea dî affetto era toccante per tutti coloro che vi assistevano. Andarono in città con la Mercedes che Isabella aveva noleggiato all'aeroporto. Ramon aprì un conto al Banco de España sulla piazza principale e depositò l'assegno del premio. Stranamente, avevano in comune l'atteggiamento nei confronti del denaro. Sembrava che Isabella non pensasse mai al prezzo o al valore delle cose; Ramon aveva notato che se un vestito od un gingillo le piaceva, non si prendeva mai il disturbo di chiederne il costo. Buttava sul banco una delle tante carte di credito, quindi firmava il foglietto e infilava la copia nella borsa senza neppure guardarla. Quando vuotava la borsa nella stanza d'albergo, raccoglieva in una palla tutte le ricevute, sempre senza controllarle, e le gettava nel cestino od in un portacenere perché la cameriera provvedesse a eliminarle. Portava per comodità anche un grosso fascio di biglietti di banca infilato nella capace borsa a tracolla. Ma era evidente che non si preoccupava del cambio ufficiale fra sterlina e peseta. Per pagare una tazza di caffè o un bicchiere di vino, sceglieva una banconota che riteneva appropriata per dimensioni e colore, e la lasciava sul tavolo, suscitando spesso nel cameriere un'espressione
sbalordita. Anche Ramon aveva per il denaro un disprezzo molto simile. In un certo modo lo aborriva quale simbolo e fondamento del sistema capitalista. Detestava farsi condizionare dalle leggi dell'economia e della ricchezza che per tutta la vita aveva cercato di abbattere. Si sentiva insozzato e sminuito quando doveva insistere e mercanteggiare con Mosca per ottenere i contanti necessari all'adempimento dei suoi doveri. Tuttavia fin dall'inizio della carriera s'era accorto che i superiori avevano per lui una maggiore approvazione quando provvedeva personalmente ai fondi per finanziare le sue operazioni. In Messico aveva praticato il tiro al piccione. Mentre frequentava l'università della Florida aveva importato droghe dal Sudamerica e le aveva vendute agli studenti. In Francia aveva fornito armi agli algerini. In Italia aveva praticato il contrabbando di valuta e aveva organizzato e portato a termine quattro redditizi sequestri di persona. E aveva reso meticolosamente conto all'Avana e a Mosca dei profitti di tutte quelle attività. L'approvazione dei superiori si era espressa nella rapidità con cui era stato promosso e nel fatto che un uomo della sua età fosse stato scelto per sostituire il generale Cicero a capo di una sezione della Quarta Direzione. Fin dall'inizio era apparso ovvio a Ramon che il modestissimo conto spese messo a disposizione dal generale Cicero per il progetto Rosa Rossa era del tutto inadeguato. Era stato costretto a rimediare a quella carenza nel miglior modo possibile, e la gita in Spagna gli aveva offerto anche un'occasione ideale per dare l'avvio alla seconda fase dell'operazione. Quella sera, per celebrare la vittoria di Ramon, cenarono in un minuscolo ristorante di mare, scrupolosamente nascosto alle orde dei turisti in uno dei vicoletti dove Isabella era l'unica straniera tra i clienti. C'era una paella squisita, cucinata secondo la tradizione classica e accompagnata dal vino di una delle proprietà appartenute un tempo alla famiglia di Ramon, la cui produzione limitata non era mai stata venduta fuori dalla Spagna. Era secco e profumato e alla luce delle candele aveva una luminosità verde pallida. «Che ne è stato delle tenute della tua famiglia?» chiese Isabella dopo aver assaggiato e piacevolmente approvato il vino. «Mio padre le perse tutte quando Franco prese il potere.» Ramon abbassò la voce. «E' stato, da sempre, un antifascista.» Isabella annuì con aria di approvazione. Anche suo padre aveva combattuto contro i fascisti; e lei abbracciava la convinzione alla moda nella sua generazione, la fede nella bontà essenziale di tutta l'umanità e il nebuloso ma fervido ideale della pace universale, di cui il fascismo costituiva l'antitesi. Teneva nella borsetta un distintivo del movimento contro la bomba atomica, anche se sarebbe stato troppo volgare portarlo appuntato all'abito. «Parlami di tuo padre, della tua famiglia», lo invitò. Si rendeva conto che, sebbene fosse stata con lui per circa una settimana, in realtà ne sapeva pochissimo, a parte ciò che le aveva detto a quel pranzo l'incaricato d'affari spagnolo. Ascoltò affascinata mentre Ramon le raccontava qualcosa della storia della sua famiglia. Uno dei suoi antenati aveva ricevuto il titolo poco dopo aver navigato con Colombo alla scoperta dell'America nel 1492 e Isabella fu molto colpita dall'antichità della sua stirpe. «Noi risaliamo soltanto al bisnonno Sean Courteney», osservò in tono di deprecazione. «E morì dopo il 1920.» Mentre lo diceva, si rese conto per la prima volta che, se Ramon ne fosse stato il padre, un giorno suo figlio avrebbe potuto vantare una discendenza illustre. Fino a quel momento s'era accontentata
di stare con Ramon; ma ora, mentre si tendeva verso di lui e gli scrutava gli occhi al lume di candela, l'orizzonte delle sue ambizioni si allargava. Lo desiderava come non aveva mai desiderato nulla in tutta la sua vita. «Quindi, Bella, nonostante tutto questo non sono ricco.» «Oh, sì che lo sei. Questo pomeriggio ti ho visto versare duecentomila dollari sul tuo conto in banca», ribatté allegramente lei. «Come minimo, puoi permetterti di offrirmi un'altra bottiglia di vino.» «Se tu non dovessi tornare domattina a Londra, avrei speso un po' di quei quattrini per portarti a Granada. Avrei potuto accompagnarti alla corrida e mostrarti il castello della mia famiglia nella Sierra Nevada...» «Ma anche tu devi rientrare a Londra», protestò lei. «Non è vero?» «Qualche giorno... qualche giorno sarei riuscito a concedermelo. Avrei fatto qualunque sacrificio pur di stare con te.» «Pensa, Ramon... non so neppure che cosa fai. Come ti guadagni da vivere?» «Una banca d'affari.» Ramon scrollò le spalle con noncuranza. «Lavoro per una banca privata e sono responsabile degli interessi africani. Concludiamo prestiti per aziende che intendono operare nell'Africa centrale e meridionale.» Ormai la mente di Isabella era lanciata alla massima velocità. La scarsa ricchezza di Ramon era pienamente controbilanciata dalle origini auguste: ed era banchiere. Ci sarebbe stato posto per un banchiere, senza dubbio, ai vertici della Courteney Enterprises. Tutto incominciava ad apparire meravigliosamente eccitante. «La cosa che più vorrei al mondo sarebbe vedere il tuo castello, Ramon caro», gli mormorò con voce vellutata, e pensò: chissà quanto costerebbe un castello, e chissà se riuscirei a convincere Garry a comprarlo. Suo fratello Garry era il presidente e la mente finanziaria della Courteney Enterprises. Non era insensibile al garbo e alle astuzie di Isabella più di quanto lo fossero gli altri maschi della famiglia. E come quasi tutti i Courteney, era anche un tremendo snob. Una marchesa doveva avere un castello... sì, forse avrebbe abboccato. «E tuo padre?» chiese Ramon. «Mi pare che gli avessi promesso di tornare lunedì.» «A mio padre penso io», rispose lei con fermezza. «Bella, è un'ora impossibile per svegliare un vecchio», protestò Shasa quando rispose al telefono. «Che ore sono, in nome del cielo?» «Sono le sei passate, noi siamo già andati a nuotare e tu non sei vecchio. Sei giovane e bello, anzi sei l'uomo più bello che conosco», mormorò Isabella in tono accattivante. «Tutto ciò non promette nulla di buono», mormorò Shasa. «Più il complimento è lusinghiero e più sarà esorbitante la richiesta. Cosa vuoi, madamigella? Cosa stai combinando?» «Sei proprio un vecchio cinico, pater», disse Isabella mentre attraversava con l'indice il vello del petto di Ramon, che era steso nudo sul letto accanto a lei, ancora velato d'umidità salmastra dopo il tuffo nel Mediterraneo. «Ho chiamato semplicemente per dirti che ti voglio bene.» Shasa rise. «Che figliola modello. Ti ho educata a meraviglia.» Si adagiò nuovamente sui cuscini e passò il braccio libero intorno alla donna che gli stava accanto. Lei sospirò, insonnolita, e si fece più vicina strusciandogli il viso contro il petto. «Come sta Harriet?» chiese Shasa. Harriet Beauchamp aveva promesso di fornire un alibi e una giustificazione per la spedizione spagnola di Isabella.
«Benone», fu la risposta. «Adesso è qui. Ci stiamo divertendo come matte.» «Salutala per me.» «Oh, certo», disse Isabella. Coprì il microfono con la mano, si tese e baciò le labbra di Ramon. «Anche lei ti saluta, papà, ma rifiuta di prendere l'aereo di questa mattina per Londra.» «Ah!» disse Shasa. «Finalmente siamo arrivati alla vera ragione di tanto affetto filiale.» «Non sono io, papà. E' Harriet. Vuole andare a Granada. C'è la corrida, e vuole che vada con lei...» Isabella lasciò in sospeso la frase. «Mercoledì io e te dobbiamo andare a Parigi. L'hai dimenticato? Devo tenere una conferenza al Club Dimanche.» «Papà, tu parli così bene e le signore francesi ti adorano. Sono sicura che non avrai bisogno di me.» Shasa non rispose. Sapeva che il silenzio era l'unico sistema sicuro per sconcertare la figlia. Coprì il microfono con la mano e chiese alla donna rannicchiata contro di lui: «Kitty, puoi venire a Parigi mercoledì?» Lei aprì gli occhi. «Sai che sabato devo andare in Etiopia per la conferenza dell'ONU.» «Farò in modo che torni in tempo.» La donna si sollevò su un gomito e lo guardò con aria pensierosa. «Indietro, Satana.» «Papà, mi senti?» la voce di Isabella aleggiò fra loro. «Dunque la mia creatura ha deciso di abbandonarmi, eh?» chiese Shasa in tono addolorato e offeso. «Tutto solo nella città meno romantica del mondo?» «Non posso deludere Harriet», spiegò Isabella. «Saprò farmi perdonare, lo prometto.» «Me lo auguro, madamigella», l'ammonì Shasa. «In futuro ti rammenterò il tuo debito.» «E' probabile che Granada sia noiosa da morire... e mi mancherai terribilmente, caro papà», disse Isabella in tono contrito. Passò l'indice sul corpo di Ramon, oltre l'ombelico e nell'intrico folto del pelo, e avvolse un ricciolo scuro intorno alla punta del dito. «E io mi sentirò desolato senza di te, Bella», disse Shasa. Posò il ricevitore sulla forcella e spinse delicatamente Kitty sui cuscini. «Ti ho detto di andare indietro, Satana», protestò lei con voce arrochita. «Non di venirmi addosso.» Isabella guidava velocemente e con abilità, forse con maggiore sicurezza di tutti gli uomini che aveva conosciuto. Ramon, comodamente sistemato sul sedile in pelle della Mercedes, la studiava apertamente. Lei si crogiolava nella sua attenzione e molto spesso, quando un rettilineo lo permetteva, gli lanciava un'occhiata o gli toccava la mano o la coscia. Diversamente da quanto era accaduto in molte delle missioni assegnategli nel corso degli anni, per Ramon questa volta non era difficile recitare la sua parte con quella donna. Sentiva in lei una forza, una riserva intatta di coraggio e di volontà che l'affascinavano. Si rendeva conto che era ancora insoddisfatta e irrequieta, ribelle alla sua esistenza facile e priva d'impegno, matura per le emozioni e le sfide ed alla ricerca di qualcosa, di una causa cui dedicarsi. Da un punto di vista fisico era molto attraente, e questo gli facilitava il simulare le tenere premure di un amante perfetto. Quando la guardava così, lo faceva di proposito. Conosceva il fascino del proprio sguardo, la contemplazione fredda del serpente che ipnotizza un uccello selvatico; tuttavia amava osservarla
come un'opera d'arte squisita. Sebbene sapesse dal suo dossier che era stata anche con altri uomini, in quegli ultimi giorni aveva scoperto che il nucleo del suo essere era ancora intarsio: e aveva qualcosa di stranamente virginale che lo eccitava. Come tanti amatori leggendari, Ramon era affetto da quella condizione nota come satiriasi. Il nome derivava dagli dèi silvani della mitologia romana, metà uomini e metà capri, dotati di un insaziabile appetito sessuale. Sebbene Ramon Machado reagisse in maniera anormale a ogni donna, attraente o no, per lui era insolito raggiungere l'orgasmo. In molti casi era semplicemente infaticabile, capace di durare più a lungo di una partner dalla libido più tardiva, e di ridurre una donna normale a invocare pietà. E poi riusciva a continuare non appena lei lasciava capire che lo desiderava; ed era sintonizzato con tanta sensibilità sulla sessualità femminile da riconoscere l'indizio prima ancora della donna. Ma Isabella era una di quelle rare creature che riuscivano ad accenderlo senza difficoltà. Con lei aveva già raggiunto il vero orgasmo parecchie volte e sapeva che sarebbe accaduto ancora. Naturalmente era indispensabile per i suoi piani. Mentre risalivano la costa in quella torrida giornata estiva, Isabella era felice ed euforica come non le era mai accaduto. Era innamorata. Non aveva il minimo dubbio, quella era la grande passione della sua vita. Non era mai esistito e non sarebbe esistito mai più qualcun altro come lui. Non avrebbe mai provato sentimenti più vivi di quelli che lui le ispirava. La sua presenza, gli occhi verdi fissi su di lei facevano apparire più fulgido il sole e davano all'aria secca della Sierra un sapore più dolce. Le vaste pianure e le montagne erano così simili a quelle della sua terra amatissima che la ritrasportavano fra gli orizzonti aperti del grande Karoo: la terra aveva lo stesso colore lionato, le rocce le stesse sfumature seppia. Mentre le guardava, si sentì ancora più euforica. Rise di gioia e dovette trattenersi per non gridare: «Oh, Ramon, tesoro, ti amo. Ti amo con tutto il cuore e con tutta l'anima, per sempre». Nonostante l'esaltazione euforica, era decisa a fare in modo che fosse lui a dirlo per primo. Così sarebbe stata doppiamente certa che era vero quanto già sapeva... che lui l'amava quanto lo amava lei. Ramon conosceva quelle montagne. Le dava istruzioni che li conducevano, lungo le polverose strade secondarie, a panorami grandiosi e bellissimi, lontani dai percorsi abituali dei turisti. Si fermarono in un paesino e Ramon scherzò con gli abitanti nel loro dialetto; venne via con un grosso pezzo di prosciutto serraño maturato nella neve, una pagnotta contadina e un otre pieno di vino di Malaga, dolce e scuro. Dopo il paesino, lasciarono la Mercedes accanto a un antico ponte di pietra e seguirono il corso d'acqua fra gli uliveti, tra le colline ai piedi della Sierra Nevada. Mentre un capretto barbuto li osservava sbalordito da una rupe, si tuffarono nudi in un'ansa riparata del fiume. Poi, ancora nudi, mangiarono seduti sulle pietre nere e levigate. Ramon mostrò come si teneva l'otre, col braccio teso, e si sprizzò nella bocca aperta il getto di vino. Quando tentò di farlo anche Isabella, il vino le innaffiò le guance e le sgocciolò dal mento: e come lei gli aveva chiesto, Ramon lambì con la lingua le gocciole di rubino che le spiccavano sul viso e sul seno sodo e candido. Era così piacevole che dimenticarono il resto del pranzo e fecero l'amore: Isabella era ancora seduta sulla roccia e Ramon era immerso nell'acqua fino al ginocchio. «Sei incredibile», sussurrò lei. «Le gambe non mi reggono. Probabilmente dovrai portarmi di peso alla macchina.»
Trascorsero gran parte del pomeriggio in riva alla lanca, e il sole toccava già le cime delle montagne e trasformava la neve in oro incandescente quando giunsero in vista del castello. Non era grande e maestoso come aveva immaginato Isabella. Era semplicemente una spoglia costruzione scura, alta sul pendio sopra i rossi tetti disordinati del villaggio. Quando si avvicinarono, Isabella vide che una parte del parapetto era crollata, e il giardino era abbandonato e invaso da erbacee. «A chi appartiene adesso?» chiese. «Allo stato.» Ramon alzò le spalle. «Qualche anno fa si parlava di trasformarlo in un albergo per turisti, ma poi non ne hanno fatto niente.» Il custode era un vecchio che ricordava ancora la famiglia di Ramon, e li guidò nelle stanze del piano terreno. Erano vuote: tutti i mobili erano stati venduti per pagare i debiti della famiglia, e i lampadari erano carichi di polvere e ragnatele. Le pareti dell'atrio erano macchiate dall'acqua piovana che penetrava dalle falle nel tetto. «E' così triste veder rovinato dall'incuria qualcosa che un tempo era stato magnifico», mormorò Isabella. «Non rattrista anche te?» «Vuoi andar via?» chiese Ramon. «Sì. Oggi non voglio essere triste.» Mentre scendevano gli stretti tornanti per raggiungere il villaggio, lo splendore del tramonto sulle vette montane restituì a Isabella l'umore euforico. Nella locanda del villaggio, il padrone riconobbe il cognome di Ramon. Mandò le due figlie a cambiare le lenzuola della stanza migliore, e ordinò alla moglie di preparare una delle specialità andaluse, il cocido madrileno, uno stufato di pollo e di piccole, saporite salsicce chiamate chorizo, servito su un letto di cabellos de angel, gli spaghettini sottilissimi. «In Spagna lo sherry è la bevanda del popolo», spiegò Ramon mentre le riempiva il bicchiere. Lì fra le montagne era abbastanza freddo per giustificare il fuoco acceso nel camino di pietra, e la luce delle fiamme giocava sui lineamenti di Ramon, facendolo apparire ancor più assurdamente bello. «A quanto sembra, non facciamo altro che una di queste tre cose», mormorò Isabella contemplando il vino dorato nel bicchiere. «Mangiare, bere o...» Bevve un sorso. «Ti lamenti?» «Al contrario.» Lo guardò di sotto le ciglia. «Mangia il cocido e bevi lo sherry, señor... avrai bisogno di tutte le tue forze.» Isabella si svegliò mentre il sole entrava dalla finestra aperta e per un momento temette che Ramon se ne fosse andato di nuovo. Invece era accanto a lei nel grande letto soffice e la osservava con quella sua espressione enigmatica. Isabella provò un altro brivido di dubbio; ma quando tese la mano, quasi con diffidenza, sentì che era già eccitato. «Oh, Dio!» mormorò felice. «Sei incredibile.» Nessun uomo l'aveva mai desiderata tanto. La faceva sentire la donna più affascinante dell'universo. Il locandiere aveva preparato la colazione nel cortile cintato: fichi violacei e formaggio di capra. Sedettero sotto il pergolato e Isabella sbucciò i fichi con le unghie laccate e imboccò Ramon con i pezzetti di polpa succulenta. Suo padre era l'unico altro uomo per il quale avesse compiuto quel gesto. Quando una delle ragazze portò una caffettiera fumante, Ramon si scusò e salì in camera. Dalla finestrella del bagno, poté vedere Isabella seduta nel cortile, e sentì le sue risate mentre cercava di farsi capire in uno spagnolo incerto. Poco prima l'aveva vista inghiottire una pillola anticoncezionale
mentre gli stava accanto, di fronte al lavabo. Era stato un piccolo rito ridicolo. Lei aveva brindato con il bicchier d'acqua: «Molti felici ritorni». Ma la confezione con le pillole non era più nel sacchetto degli oggetti da toeletta, sopra la mensola. Tornò nella camera. Il letto occupava quasi tutto lo spazio, e i bagagli erano stipati nel vano chiuso da una tenda, sopra la porta. La grossa borsa a tracolla era buttata con noncuranza sopra la valigia. Indugiò e ascoltò di nuovo. Sentiva vagamente la voce attraverso la finestra aperta. Mise la borsa sul letto e incominciò a vuotarla, disponendo il contenuto in sequenza per poterlo rimettere nello stesso ordine. Aveva frugato la borsetta da sera e aveva controllato la marca degli anticoncezionali già la prima mattina nell'appartamento di Kensington mentre lei dormiva. Più tardi ne aveva parlato con il dottore dell'ambasciata. «Se la donna interrompe il trattamento prima del decimo giorno del ciclo, quasi sicuramente tornerà ad essere fertile e diventerà molto più esposta ad una gravidanza, al momento dell'ovulazione», aveva assicurato il dottore. La confezione di pillole era in uno scomparto dell'astuccio di coccodrillo nero. Ramon si raddrizzò di nuovo e rimase in ascolto. Dal cortile non giungeva più il suono delle voci. Si affrettò a tornare alla finestra. Vide che Isabella era ancora seduta al tavolo: la sua attenzione era presa dal gatto del locandiere. La bestiola maestosa le era saltata sulle ginocchia e si lasciava grattare la schiena e dietro le orecchie. Ramon tornò in camera da letto. Mancavano sette pillole dai rispettivi scomparti datati. Dalla tasca interna della giacca, estrasse una confezione identica di Ovanon che gli aveva procurato il dottore dell'ambasciata. Tolse le prime sette pillole e le gettò nel gabinetto. Poi accostò i due pacchetti e li confrontò. Erano identici in tutto: ma il secondo conteneva soltanto aspirine truccate in modo da sembrare anticoncezionali. Mise la confezione di placebo nel portamonete di Isabella, e piazzò di nuovo nel vano la borsa a tracolla. Mise in tasca la confezione originale e fece scorrere l'acqua. Attese che le sette pillole fossero sparite prima di lavarsi le mani e scendere la scala per tornare in cortile da Isabella. A Granada, Ramon la condusse alla corrida de toros e le spiegò quanto erano fortunati perché avevano l'occasione di vedere all'opera El Cordobes. Se il padre di Ramon non fosse stato un patrono del matador più famoso del mondo quando era soltanto un novillero, non sarebbero riusciti a procurarsi i biglietti tanto in fretta. Invece, i due biglietti furono consegnati all'albergo la mattina dopo il loro arrivo. Non solo erano posti di prima fila, immediatamente a destra del palco reale, ma prima dell'inizio dello spettacolo furono invitati ad assistere alla vestizione di El Cordobes e ai preparativi per la corrida. Isabella, naturalmente, aveva letto Morte nel pomeriggio di Hemingway, e si rendeva conto dell'onore che rappresentava quell'invito. Ma era impreparata al profondo rispetto con cui Ramon s'incontrò con Manuel Benitez, El Cordobes, e alla solennità quasi religiosa del rituale della vestizione. «Bisogna essere spagnoli per capire i tori», le disse Ramon mentre sedevano nei posti riservati; e in effetti lei non l'aveva mai visto tanto commosso ed emozionato. Il suo coinvolgimento era così grande e contagioso che anche lei si sentiva eccitata. Gli squilli di tromba le fecero scorrere un brivido lungo la spina dorsale. Lo spettacolo era magnifico: i cavalli e i costumi con fregi in oro, argento e perline; i matador che incedevano solennemente con le corte giubbe ricamate ed i calzoni attillati
che mettevano sfacciatamente in risalto i glutei e i genitali. Anche i rasi color corallo e incarnato delle cappe splendevano dei toni lubrichi dell'intimità femminile e servivano a sottolineare il carattere sostanzialmente lascivo della frenesia che investiva gli spalti affollati di spettatori. Quando il toro si avventò nell'arena, con la testa alta, la massa delle spalle contratta per il furore mentre la sabbia bianca volava sotto gli zoccoli e lo scroto voluminoso ondeggiava al ritmo della carica, Isabella balzò in piedi e urlò con tutti gli altri. Mentre El Cordobes eseguiva i passi iniziali, Ramon le strinse ù braccio, si curvò verso di lei e cominciò a descrivere ed a spiegare il significato d'ogni evoluzione elegante, dalla pura raffinatezza della semplice veronica al quite più complicato. Attraverso gli occhi di Ramon, Isabella incominciò a vederlo come l'inizio di un rituale bellissimo ed esaltante, radicato nell'antica tradizione, che non cercava di mascherare la propria essenza crudele e tenebrosamente tragica. Quando le trombe salutarono l'ingresso dei picadores, Isabella gemette e si premette le nocche contro i denti. Aveva temuto il momento dell'apparizione dei cavalli. Aveva letto dell'orrore dei cavalli sventrati, con gli intestini impigliati nelle zampe. Per placare le sue paure, Ramon le indicò la massiccia armatura di cotone compresso, tela e cuoio che li proteggeva. Alla fine, nessuno dei cavalli venne ferito, neppure quando il toro li agganciò rabbiosamente con le corna e li spinse contro le barriere. Il picador si sporse dalla sella e piantò la punta d'acciaio nella groppa del toro. Il sangue zampillò in un nimbo di luce rosea, poi ricadde sulle spalle dell'animale facendo risplendere il vello come metallo al sole. Isabella rabbrividì, sconvolta e affascinata, e Ramon le mormorò: «Il sangue è vero, tutto ciò che vedi qui è vero, vero come la vita. Questa è la vita, tesoro, con tutta la sua bellezza, la sua crudeltà e la sua passione». E Isabella comprese, accettò e si lasciò trascinare dalla corrente. El Cordobes brandì le banderillas. Si piazzò nel sole ed alzò i lunghi dardi ornati di strisce di carta colorata. Chiamò il toro, e quando si mosse gli corse incontro a passi di danza. Quando si accostarono Isabella si lasciò sfuggire un grido soffocato. Il torero piantò le banderillas e si allontanò con una piroetta. Il toro abbassò la testa e s'impennò per il dolore delle punte piantate nella groppa; ma lo slancio l'aveva portato troppo lontano perché potesse ferire il matador. Le trombe suonarono l'ultimo lercio, l'ora della verità, e una tensione nuova discese sull'arena. El Cordobes e il toro s'impegnarono in una maestosa, intima danza di morte. Soltanto la cappa fluttuante li divideva e i passi erano così ravvicinati e pericolosi che il sangue fulgido del dorso della bestia macchiava le cosce del matador. Finalmente El Cordobes si presentò sotto il palco reale, si tolse la montera, il copricapo ornato di pompon di seta nera, e chiese il permesso di dedicare il toro. Isabella rimase strabiliata quando il torero si avvicinò e dedicò il toro alla sua bellezza. Poi le lanciò la montera, si voltò e tornò ad affrontare il toro. El Cordobes eseguì i passi finali al centro dell'arena, con eleganza sempre maggiore e sempre più vicino alle corna della bestia. Ogni volta il pubblico erompeva in un grido con un'unica voce primordiale, una grande esplosione sonora che punteggiava i silenzi tesi in cui veniva eseguito ogni passo. Alla fine, si preparò a uccidere il toro proprio sotto il punto dove stava Isabella. Quando prese la mira lungo la lama argentea, Ramon strinse con forza il braccio di Isabella e mormorò:
«Guarda! E' il rechiendo, il metodo più rischioso!» Quando il toro compì un'ultima carica disperata, anziché andargli incontro, El Cordobes restò immobile e colpì al di sopra delle corna. La punta luminosa dell'esloque recise la grande arteria del cuore, ed il sangue zampillò come una fontana. Nessuno dei due parlò mentre tornavano dall'arena all'albergo. Erano ipnotizzati, prigionieri di un'estasi mistica, quasi religiosa. La crudeltà e il sangue, la bellezza tragica dello spettacolo non avevano corrotto le loro emozioni, le avevano esaltate fino alla soglia di una sorta di sofferenza spirituale che invocava uno sfogo. Isabella sentiva che il desiderio di Ramon era ancora più grande ed incontrollabile del suo. Nella camera da letto il cui balcone di ferro battuto si affacciava sui giardini di una vecchia reggia moresca, Ramon la fermò proprio al centro. Mentre le pale del ventilatore antiquato appeso al soffitto continuavano a girare, la spogliò. Sembrava che compisse un altro rito, antico come quello della corrida. Quando Isabella fu nuda, le si inginocchiò ai piedi, le strinse i fianchi e affondò la faccia nel folto cuscino caldo del pelo pubico. Isabella gli accarezzò la testa con una tenerezza che non aveva mai provato per nessun altro essere umano, e che tuttavia era sfumata di tristezza e di umiltà. Sentiva che un amore simile era divino, e che non ne era degna. Era troppo grande per un essere mortale. Finalmente Ramon si rialzò, la sollevò fra le braccia come una bambina e la portò sul letto. Era come se non fosse mai accaduto prima, come se avesse raggiunto le profondità più segrete del suo essere fisico e spirituale di cui neppure lei aveva mai sospettato l'esistenza. Le leggi del tempo e dello spazio trovarono una nuova definizione mentre era fra le sue braccia. Durò un istante e durò un'eternità ardente. Come una cometa, si sentì trasportata nella cerchia dei cieli. Quando guardò quegli occhi verdi, comprese con una gioia travolgente che lo spirito di Ramon era unito al suo, profondamente, come la sua carne era imprigionata in lei in un'incredibile odissea. Quando credeva di non poter giungere più in alto, di non poter sopravvivere più a lungo, c'era dentro di lei un traboccare nuovo, rovente e copioso come un fiume di lava. Mentre l'ultima luce del giorno si dileguava e la camera si riempiva d'ombre, Isabella si sentì così devastata da non poter più parlare o muoversi. Le era rimasta soltanto la forza per piangere, e mentre piangeva per lo sfinimento e il piacere, finalmente il sonno l'avvolse. Tutto il mondo le appariva più luminoso e felice, ora che aveva Ramon. Londra, la città più affascinante e vitale del mondo, aveva trasceso se stessa ed era diventata per lei un paradiso terrestre. La vedeva attraverso una splendente nebbia dorata. Ogni minuto trascorso in compagnia di Ramon era una gemma preziosa incastonata in quell'oro. Quand'era arrivata a Londra tre anni prima, Isabella aveva ripreso a studiare e si era laureata. Sorpreso dal suo interesse inaspettato per gli studi, il padre l'aveva incoraggiata a continuare l'università con un dottorato presso la facoltà dî Studi Africani all'università di Londra, e Isabella aveva incominciato a preparare la tesi. Aveva scelto come argomento «Progetto di ordinamento per l'Africa postcoloniale». La tesi procedeva bene, ed aveva sperato di completarla prima che il padre lasciasse la carica di ambasciatore e tornasse a Città del Capo.
Ma tutto questo era avvenuto prima che Ramon entrasse nella sua vita. Da allora aveva trascurato vergognosamente lo studio. Nelle settimane passate dal rientro dalla Spagna, non era andata neppure una volta a parlare con il relatore della sua tesi e quasi non aveva trovato il tempo di aprire un libro. Invece di lavorare alla tesi, si alzava prima del levar del sole ed andava a cavalcare con Ramon nel parco od a fare jogging con lui lungo l'Embankment. A volte facevano ginnastica insieme nella piccola, modesta palestra di Bloomsbury, gestita da un ungherese fuggito dal suo paese dopo il fallimento dell'insurrezione. Nella palestra, Ramon aveva incominciato a istruirla nei misteri del judo e dell'autodifesa, arti in cui era spaventosamente esperto. A volte, tenendosi per mano, giravano per gallerie e musei. Sognavano davanti ai Turner della Tate Gallery, o commentavano in toni critici le nuove acquisizioni della Royal Academy. E finivano sempre a letto nell'appartamento di Ramon in Kensington. Isabella non voleva chiedergli come mai poteva passare tanto tempo con lei anziché alla banca. Accettava con gratitudine tanta fortuna. «Mi hai trasformata in una drogata», gli diceva in tono d'accusa. «Ho bisogno della mia dose con regolarità.» E in effetti, quando Ramon lasciò Londra per otto giorni, per svolgere un incarico misterioso per conto della sua banca, Isabella continuò a struggersi e a sentirsi male, al punto di vomitare quando si alzava al mattino. Teneva nell'appartamento di Ramon mezza dozzina di abiti e un assortimento completo di profumi e cosmetici, e si preoccupava di sistemare i fiori e di riempire ogni giorno il frigorifero. Era un'abile cuoca, e amava preparargli da mangiare. Incominciò a trascurare i suoi doveri all'ambasciata e a liberarsi degli inviti ufficiali. Spesso lasciava lo chef e i suoi collaboratori a sbrigarsela da soli. Il padre le rimproverava quello strano comportamento. «Non stai più in casa, Bella. Non posso contare mai su di te. Nanny dice che la settimana scorsa hai dormito nel tuo letto due volte appena.» «Nanny è una spia.» «Cosa sta succedendo, madamigella?» «Ho compiuto da un pezzo i ventun anni, pater caro, ed eravamo d'accordo che non sono tenuta a renderti conto della mia vita privata.» «Ma eravamo anche d'accordo che ti saresti fatta vedere ai miei ricevimenti, una volta tanto.» «Su, papà.» Isabella lo baciò. «Fra pochi mesi torneremo a Città del Capo. Allora non dovrai più preoccuparti per me.» Ma quella sera chiese a Ramon se non era disposto a venire al cocktail party che Shasa offriva all'ambasciata in Trafalgar Square per festeggiare l'arrivo a Londra del famoso scrittore sudafricano Alan Paton. Ramon rifletté per un intero minuto prima di scuotere la testa. «Non è ancora il momento giusto per conoscere tuo padre.» «Perché no, caro?» Fino a quel momento la cosa non le era sembrata importante; ma il rifiuto la indispettiva. «Ci sono diverse ragioni.» Spesso Ramon era così maledettamente misterioso. Avrebbe voluto farlo parlare, ma sapeva che sarebbe stato tempo perso. Era l'unico uomo capace di resisterle. Dietro la bella facciata c'era un animo d'acciaio. «Fa parte del suo fascino», si diceva con una risata malinconica. Certo, non desiderava dividerlo con altri, neppure con suo padre. Era felice di stare sola con lui: il loro amore era così esclusivo che evitavano l'altra gente.
Sì, ogni tanto cenavano a Les A o al White Elephant con Harriet o qualcun altro dei tanti conoscenti che Isabella aveva acquisito in quei tre anni. Un paio di volte erano andati con la comitiva a ballare da Annabel's; ma di solito sfuggivano gli altri per restare soli. Sembrava che Ramon non avesse amici; o se li aveva, non glieli faceva mai conoscere. Ma questo non la preoccupava. Durante i fine settimana, quando Isabella riusciva a sfuggire agli impegni all'ambasciata, lei e Ramon caricavano le valigette ventiquattr'ore e le racchette da tennis sul sedile posteriore della Mini Cooper e fuggivano in campagna. Di solito rientravano in città molto tardi, la domenica notte. All'inizio d'agosto rinunciarono alla solitudine e presero il treno per la Scozia. Il giorno dell'apertura della caccia alla pernice furono ospiti di Harriet Beauchamp nella brughiera della tenuta di famiglia. Il conte teneva moltissimo alla forma, e il primo giorno le signore non furono invitate a sparare: tuttavia vennero autorizzate e unirsi alla schiera dei battitori. Il conte non era neppure entusiasta degli stranieri, soprattutto se usavano armi a canne sovrapposte anziché affiancate, e preferivano quelle italiane alle inglesi. All'inizio, assegnò Ramon a un'estremità della linea. Inaspettatamente, tre piccoli stormi arrivarono da destra, a bassa quota sopra l'erica. Volavano come furie con un vento in coda di cinquanta chilometri all'ora. Isabella ricaricava per Ramon, che uccise quattro capi di selvaggina per ogni stormo. Ne uccise una coppia e poi, mentre lo stormo passava sopra di loro, Isabella gli consegnò il secondo fucile, e Ramon ne uccise altri due in coda. Dodici pernici con dodici colpi sparati. Persino il capo guardiacaccia scosse la testa brizzolata. «In trentatré stagioni non ho mai visto niente del genere», disse al conte in toni lugubri. «Ammazza gli uccelli come de Grey o Walsingham... morti in aria senza che riescano a battere le ali.» Era un grande elogio, essere paragonati aî migliori tiratori della storia inglese. Il conte si affrettò ad abrogare la consuetudine, e alla seconda battuta Ramon si trovò in una delle posizioni migliori al centro della linea. Quella sera, al grande tavolo da pranzo, fu ammesso alla conversazione con il conte che gli parlava al di sopra delle teste del vescovo e del baronetto seduti tra loro. Il fine settimana era cominciato magnificamente. Harriet aveva fatto assegnare a Ramon e Isabella due stanze adiacenti, in fondo al corridoio della vecchia, enorme casa di campagna. «Papà soffre d'insonnia», aveva spiegato. «E tu e Ramon in azione fate più chiasso della filarmonica di Berlino quando suona il Bolero di Ravel.» «Come sei scostumata», aveva protestato Isabella. «Senti chi parla, stella mia. Hai fatto a Ramon la tua sorpresina?» «Sto aspettando il momento opportuno.» Isabella s'era messa immediatamente sulla difensîva. «Te lo dico per esperienza: non c'è mai un momento opportuno per quel genere di cose.» Per una volta, Harriet aveva ragione. Durante il fine settimana non si presentò mai l'occasione. Stavano tornando a Londra quando Isabella rinunciò a ogni tentativo di ricorrere alla sottigliezza. Per fortuna avevano a disposizione uno scompartimento di prima classe tutto per loro. «Caro, mercoledì scorso sono andata da un dottore... non quello dell'ambasciata. Uno nuovo che mi ha consigliato Harriet. Ho fatto delle analisi, e venerdì sono arrivati i risultati...» S'interruppe per studiare la sua espressione. Non era cambiata: la guardava con quei remoti occhi verdi che all'improvviso le ispiravano una paura illogica. Senza dubbio nulla poteva offuscare
i loro sentimenti, nulla poteva rovinare la perfezione del loro amore, tuttavia sentiva in lui una diffidenza, un distacco spirituale. E finì per confidare tutto, convulsamente. «Sono incinta quasi di due mesi. Dev'essere successo in Spagna, probabilmente quel giorno a Granada dopo la corrida...» Era scossa e tremante, ma continuò. «Non so spiegarlo. Voglio dire, ho sempre preso regolarmente la pillola, lo giuro, mi hai visto anche tu...» Si accorse che stava cominciando a balbettare indecorosamente le spiegazioni. «Lo so, sono stata una stupida, ma non devi preoccuparti. La situazione è sotto controllo. Anche ad Harriet è capitato un piccolo incidente l'anno scorso. E' andata da un dottore di Amsterdam, e lui ha sistemato tutto con molta discrezione. Harriet ha preso il volo della sera un venerdì e la domenica è tornata a Londra rimessa a nuovo. Mi ha dato l'indirizzo e si è perfino offerta di venire con me per farmi coraggio...» «Isabella!» Ramon l'interruppe bruscamente. «Smettila. Smettila di parlare ed ascoltami.» Lei s'interruppe e lo guardò con gli occhi pieni di paura. «Non sai quello che dici.» La voce la feriva. «Quello che ti proponi di fare è mostruoso.» «Mi dispiace, Ramon.» Isabella era confusa. «Non avrei dovuto disturbarti. Io e Harriet avremmo potuto...» «Harriet è una sgualdrinella e una stupida. Se metti nelle sue mani la vita di mio figlio, ti rendi colpevole quanto lei.» Isabella lo fissò. Non era la risposta che si aspettava. «E' un miracolo, Isabella, il miracolo e il mistero più grande dell'universo. E tu parli di distruggerlo. Si tratta di nostro figlio, Isabella. E' una vita nuova e bellissima che io e te abbiamo creato con il nostro amore. Non lo capisci?» Le prese le mani, e Isabella vide che la freddezza era svanita dai suoi occhi. «E' la nostra meravigliosa creazione. Appartiene a noi due, al nostro amore.» «Non sei arrabbiato?» chiese lei esitando. «Pensavo che ti saresti infuriato moltissimo.» «Sono orgoglioso e umile», mormorò Ramon. «Ti amo. Mi sei infinitamente preziosa.» Le girò le mani tenendole per i polsi e gliele appoggiò sul ventre. «Amo ciò che hai lì dentro; anche quello mi è infinitamente prezioso.» L'aveva detto, finalmente. Aveva detto: «Ti amo». «Oh, Ramon.» Isabella aveva la vista offuscata. «Sei così meraviglioso, così buono. Il vero miracolo è che io abbia potuto incontrare un uomo come te.» «Metterai al mondo il nostro bambino, mia adorata Bella.» «Oh, sì! Oh, mille volte sì, tesoro. Mi hai resa così orgogliosa, così felice.» Tutta l'incertezza s'era dileguata, sostituita da un'eccitazione e da un'aspettativa che sembravano togliere il significato a ogni altra cosa. L'euforia la sostenne durante i giorni che seguirono e conferì una nuova ricchezza al suo amore per Ramon: ciò che fino a quel momento era stato travolgente ma casuale adesso aveva un orientamento e uno scopo. Era stata sul punto di dirlo a Nanny una dozzina di volte, ed era riuscita a trattenersi solo quando s'era resa conto che l'eccitazione della vecchia sarebbe stata tanto sfrenata che tutta l'ambasciata, incluso suo padre, sarebbero venuti a conoscenza del fatto in meno di ventiquattr'ore. E questo la portò finalmente alla considerazione obiettiva dei dettagli pratici da risolvere. Era già al secondo mese di gravidanza, e Nanny aveva occhi d'aquila e un istinto terreno. A casa, nella tenuta di Weltevreden, riconosceva le condizioni di cameriere e contadine con precisione infallibile. Nanny le faceva il bagno quand'era a casa, e se mai era sorprendente che non si fosse ancora accorta di nulla.
Quella sera Ramon aveva i biglietti per il festival del Flamenco al Drury Lane, ma Isabella gli telefonò al suo numero privato alla banca. «Ramon caro, stasera non mi sento di uscire. Voglio stare sola con te. Cucinerò io. Sarà pronto quando arriverai, e poi ascolteremo il disco dell'ultimo concerto di von Karajan.» Sentì la riluttanza nel tono della risposta. Ramon attendeva da una settimana di assistere al festival. A volte era spagnolo in modo aggressivo. Aveva persino insistito perché incominciasse a studiare la sua lingua, e le aveva regalato una serie di dischi della Linguaphone. Comunque, Isabella insistette e riuscì a farlo cedere. Mentre andava dall'ambasciata all'appartamento, parcheggiò la Mini in doppia fila per prelevare una bottiglia di Pol Roger e un'altra di Montrachet dalla riserva personale di suo padre dai Berry Brothers, i mercanti di vino di St. James Street. Poi, al reparto alimentari di Harrods, scelse due dozzine di ostriche Whitstable e un paio di magnifiche cotolette di vitello. Era alla finestra ad attendere quando Ramon svoltò l'angolo e si avviò a passo deciso verso il portoncino. Vestito in quel modo aveva un aspetto assolutamente inglese e quando era a Londra portava persino un ombrello nero chiuso e ostentava una bombetta: sembrava l'immagine vivente del giovane banchiere. Aveva lo strano dono di adattarsi perfettamente a qualunque ambiente, per quanto diverso, come se vi fosse nato. Stappò lo champagne e, quando sentì la chiave girare nella serratura, riempì i bicchieri e li mise accanto al vassoio d'argento pieno di ghiaccio tritato dove aveva disposto le ostriche già aperte. Si trattenne dal correre nella minuscola anticamera e gli andò incontro quando entrò nel soggiorno. Poi abbandonò ogni riserbo: il suo bacio fu lungo e ardente. «Un'occasione speciale?» chiese Ramon, cingendole la vita con un braccio quando vide le ostriche ed i due bicchieri a tulipano spumeggianti di vino biondo. Isabella andò a prenderne uno e glielo mise in mano, poi lo guardò al di sopra dell'orlo del secondo. «Bentornato a casa, Ramon. Volevo solo farti provare un piccolo assaggio di come sarà quando mi avrai sposata.» Vide il lampo nei suoi occhi, ed era tanto più significativo perché non l'aveva mai visto prima. Il suo sguardo era sempre sicuro, imperturbabile. Ramon non bevve il vino. Posò il bicchiere e lei ebbe l'agghiacciante premonizione di un disastro imminente. «Ramon... che cosa c'è?» Prima che Isabella potesse bere, le prese il bicchiere dalla mano e lo posò sul tavolo di noce. «Bella.» Si girò di nuovo verso di lei e le prese le mani. «Bella», ripeté a voce bassa con profondo rammarico. Le girò le mani e ne baciò le palme. «Cosa c'è, Ramon?» Isabella stentava a respirare per l'oppressione che le stringeva il petto. «Non posso sposarti, amore.» Lei lo fissò, e si sentì mancare. «Non posso sposarti, cara. Almeno per ora.» Lei ritrasse le mani e gli voltò le spalle, Andò a una poltrona e vi si lasciò cadere. «Perché?» chiese a voce bassa. Non lo guardò quando venne a inginocchiarsi davanti a lei. «Vuoi che abbia il tuo bambino... Allora, perché non puoi sposarmi?» «Bella, non c'è niente che desìderi al mondo più di averti come moglie ed essere padre di nostro figlio, ma...» «Allora perché?» ripeté lei, con voce quasi spenta. «Ti prego di ascoltarmi, tesoro. Non dire altro prima di avermi ascoltato fino in fondo.»
Lei alzò gli occhi e lo guardò. Era pallidissima. «Nove anni fa, sposai una ragazza cubana a Miami.» Isabella rabbrividì e chiuse gli occhi. «Il matrimonio fu un disastro fin dall'inizio. Restammo insieme pochi mesi e poi ci separammo. Ma siamo tutti e due cattolici...» Ramon s'interruppe e le sfiorò la guancia con una carezza. Lei si tirò indietro e Ramon sospirò. «Sono ancora sposato con lei», disse semplicemente. «Come si chiama?» chiese Isabella senza aprire gli occhi. «Perché vuoi saperlo?» «Dimmelo.» La voce di Isabella divenne più decisa. «Natalie.» Ramon scrollò le spalle. «Figli?» chiese lei. «Quanti figli avete?» «Nessuno», rispose Ramon. «Tu sarai la madre del mio primogenito.» Vide le guance riacquistare il colore dei petali di rosa. Dopo un momento lei riaprì gli occhi. Ma erano oscurati dalla disperazione, al punto che l'azzurro sembrava nero. «Oh, Ramon! Cosa faremo?» «Ho già cominciato a fare tutto il possibile. Quando siamo tornati dalla Spagna avevo già capito, prima che mi dicessi del bambino, che desideravo averti come moglie più di qualunque altra cosa al mondo.» «Oh, Ramon.» Isabella batté le palpebre e gli strinse forte le mani. «Natalie vive ancora a Miami con la famiglia. Sono riuscito a mettermi in contatto con lei. Abbiamo parlato al telefono più d'una volta. E' molto religiosa. Niente, ha detto, potrebbe convincerla a concedermi il divorzio.» Isabella, che lo stava fissando, a questo punto scosse la testa, avvilita. «L'ho chiamata per tre sere di séguito. Finalmente abbiamo scoperto qualcosa che per lei conta più di Dio.» «Che cosa?» «Il denaro», disse Ramon, con una sfumatura sprezzante nella voce. «Ho ancora la maggior parte di quel che ho vinto nella gara di tiro. Per cinquantamila dollari, ha finalmente accettato di andare a Reno e di presentare richiesta di divorzio.» «Tesoro!» mormorò Isabella mentre la gioia le rifioriva di nuovo negli occhi. «Oh, grazie a Dio! Quando partirà?» «E' proprio questo il problema. Ci vuole tempo. Non posso insistere troppo. Conosco Natalie. Se sapesse che tu esisti e indovinasse perché voglio il divorzio, sfrutterebbe al massimo il suo vantaggio. Ha promesso di partire per Reno all'inizio del mese prossimo. Dice che deve tener conto del lavoro e della famiglia. La madre non sta bene.» «Sì, sì», l'interruppe con impazienza Isabella. «Ma quanto tempo ci vorrà?» «Le leggi dello stato del Nevada fissano un periodo minimo di residenza a Reno. Devono passare tre mesi prima che concedano il divorzio.» «E così passeranno sei mesi.» Isabella si morse le nocche delle dita. Poi la sua espressione cambiò. «E io e papà dobbiamo partire per Città del Capo. Oh, Ramon, che pasticcio!» «Non puoi tornare a Città del Capo», disse seccamente Ramon. «Non potrei vivere senza di te, e poi la tua gravidanza risulterà evidente ai tuoi familiari e ai tuoi amici.» «Cosa vuoi che faccia?» «Resta con me finché il divorzio non sarà definitivo. Ti amo troppo per lasciarti andare. Non voglio perdermi un sol giorno della vita di mio figlio.» Finalmente Isabella sorrise. «Sei sicuro che sarà un maschio?» «Certo.» Ramon annuì con finta gravità. «Dobbiamo avere
un erede al titolo, no? Rimarrai con me, vero, Bella?» «Cosa dirò a mio padre ed a mia nonna? Papà è arrendevole, ma la nonna...» Isabella alzò gli occhi al cielo. «Centaine Courteney-Malcomess è il drago della famiglia. Lancia fuoco dalla bocca e sgranocchia le ossa delle vittime.» «Ci penserò io ad addomesticare il drago», promise lui. «Sì, ti credo.» Isabella era rassegnata. «Se c'è qualcuno che possa incantare Nana, sei proprio tu, tesoro.» Il fatto che Centaine Courteney-Malcomess fosse a diecimila chilometri di distanza rendeva il compito un poco più facile. Isabella preparò il terreno con la massima cura. Prima si lavorò il padre. Ridiventò di colpo la figlia premurosa e la perfetta padrona di casa d'un tempo. Si lanciò con tutto l'impegno nell'organizzazione delle ultîme settimane di incontri mondani che dovevano segnare la fine del mandato di Shasa Courteney a Londra. «Bentornata, dovunque fossi sparita», le disse Shasa in tono asciutto alla conclusione di un pranzo riuscito magnificamente. «Mi sei mancata, sai?» Stavano fianco a fianco sulla scalinata di Highveld e guardavano la berlina che si allontanava e portava via gli ultimi invitati. «La una del mattino.» Shasa diede un'occhiata all'orologio, ma Isabella lo prevenne. «E' troppo presto per andare a dormire.» Gli strinse il braccio. «Lascia che ti prepari il bicchiere della buonanotte ed un ultimo sigaro. Non abbiamo avuto occasione di scambiare due parole in tutta la serata.» Quel pomeriggio Davidoffs aveva consegnato una dozzina di sigari dalla scorta conservata appositamente per Shasa Courteney nel magazzino umidificato in St. James. Isabella ne accostò uno all'orecchio mentre lo rigirava tra le dita. «Perfetto», mormorò. Shasa sedette sulla poltrona di cuoio dall'altra parte della stanza. Gli invitati avevano fatto molto onore al claret e al porto, ma il suo unico occhio era ancora limpido e luminoso. La toppa di seta nera che copriva l'altra occhiaia era impeccabile come la cravatta a farfalla. Shasa guardò la figlia con sincera soddisfazione, come se fosse una cavalla purosangue della sua scuderia o la gemma della sua collezione d'opere d'arte. Era la più bella di tutti i Courteney, su questo non c'era dubbio. Da giovane, anche la madre di Shasa era stata una bellezza famosa. Gli anni avevano offuscato in lui il ricordo dello zenith del suo splendore, ma nel salotto di Weltevreden c'era un ritratto di Annigoni che la mostrava nel fiore degli anni. Anche tenendo conto della generosità dell'artista, doveva essere stata una donna straordinaria. La forza del carattere brillava negli occhi scuri del ritratto. A sessantanove anni era ancora una donna magnifica, bella e vigorosa; ma in nessun momento della sua vita poteva aver eguagliato la nipote, che adesso rifulgeva nel meriggio della giovinezza. Isabella tagliò la punta del sigaro con il trinciasigari d'oro che aveva preso dalla scrivania del padre. Accese al fuoco il lungo fiammifero di cedro e lo resse fino a che il sigaro prese a tirare regolarmente. Poi spense il fiammifero e andò a versare un po' di cognac nel bicchiere di cristallo. «Questa mattina il professor Symmonds ha letto l'ultima parte della mia tesi.» «Ah, onori ancora l'università della tua presenza, eh?» Shasa fissò le spalle nude della figlia nella luce tenue del fuoco. Aveva ereditato dalla madre la carnagione lucente ed immacolata come l'avorio.
Isabella non raccolse la frecciata. «Ritiene che sia buona.» «Se è tutta allo stesso livello delle prime cento pagine che mi avevi fatto vedere, è probabile che Symmonds abbia ragione.» «Vuole che rimanga qui a finirla.» Isabella non lo guardava. Shasa provò una fitta di timore nel petto. «Qui a Londra, tutta sola?» La reazione fu istantanea. «Tutta sola? Con cinquecento amici, il personale della filiale londinese, mia madre...» Isabella portò il bicchiere di cognac. «Non sarò completamente abbandonata in una città sconosciuta, papà.» Shasa mormorò senza sbilanciarsi e assaggiò il cognac mentre cercava una ragione valida per indurre la figlia ad accompagnarlo a Città del Capo. «E dove alloggeresti?» borbottò. «Questa è proprio buffa.» Lei rise apertamente e gli prese il sigaro dalle dita, aspirò una boccata sporgendo le labbra rosse, quindi gli soffiò in faccia un pennacchio di fumo. «In Cadogan Square c'è un appartamento che ti è costato quasi un milione di sterline. Ed è vuoto», concluse mentre restituiva il sigaro. Aveva ragione. Dato che la residenza ufficiale dell'ambasciatore era a disposizione, l'appartamento della famiglia non veniva utilizzato. Shasa rimase in silenzio mentre Isabella si preparava a sferrare il colpo di grazia. «Tenevi tanto al mio dottorato, pater. Non vorrai privarmene proprio adesso, vero?» Shasa si riprese prontamente. «Dato che a quanto sembra hai già pensato a tutto, immagino che ne avrai parlato con tua nonna.» Isabella si fermò al suo fianco e gli baciò i capelli. «Speravo che parlassi tu a Nana per me, mio carissimo papà.» Shasa sospirò. «Streghetta», mormorò. «Mi fai diventare complice della mia rovina.» Isabella poteva contare sul padre per sbrigare il problema con la nonna, ma c'era sempre Nanny. Comunque, la intenerì per un paio di giorni rammentandole i nomi e le virtù dei diciassette nipoti che attendevano con ansia il suo ritorno a Weltevreden. Nanny era rimasta lontana da casa per tre anni e per tre lunghi inverni inglesi. «Pensaci, Nanny. Quando la nave attraccherà al Capo sarà primavera, e Johannes ti aspetterà sul molo.» Johannes era il capo dei mozzi di scuderia di Weltevreden, e il figlio prediletto di Nanny. Alla vecchia brillavano gli occhi, e quando finalmente Isabella le diede la notizia, alzò le braccia al cielo e inveì contro l'ingratitudine e lo scarso senso del dovere della generazione moderna. Poi tenne il broncio per due giorni ma senza molta convinzione. Isabella andò a Southampton per accompagnarli. La nuova Aston Martin di Shasa fu caricata a bordo della nave dell'Union Castle da una gru; quindi i servitori si schierarono sul molo per gli addii. Isabella li abbracciò tutti, dallo chef a Klonkie lo chauffeur. Nanny scoppiò in lacrime quando Isabella la baciò. «Probabilmente non vedrai più questa povera vecchia. Sentirai la mia mancanza, quando sarò morta. Pensa che ho avuto cura di te quando eri piccina...» «Oh, Nanny, smettila. Avrai il tempo di allevare tutti i miei figli.» Era un argomento pericoloso, ma le percezioni acutissime di Nanny erano offuscate. La promessa riuscì a scacciare il presagio della morte imminente: s'illuminò subito. «Torna a casa presto, piccola, così la vecchia Nanny potrà tenerti d'occhio. Con quel sangue caldo dei Courteney... ti troveremo un bravo ragazzo sudafricano.» Quando venne il momento di salutare Shasa, inaspettatamente
Isabella si sciolse in un mare di lacrime. Lui le porse il fazzoletto del taschino e quando la figlia glielo rese dopo averlo usato per asciugarsi le lacrime, si soffiò rumorosamente il naso e si soffregò l'unico occhio. «Accidenti a questo ventaccio!» spiegò. «E' un granello di sabbia che mi dà fastidio.» Mentre la nave si staccava dal molo e incominciava a discendere il fiume, Shasa spiccava al parapetto, una figura alta ed elegante. Ma era solo, un po' separato dagli altri passeggeri. Non s'era risposato dopo il divorzio. Isabella sapeva che da allora aveva frequentato dozzine di donne, tutte raffinate, intelligenti e graziose, ma non si era legato a nessuna. «Non si sente mai solo?» si chiese Isabella, e continuò a salutare con la mano fino a che il padre divenne un puntino indistinguibile sulla tolda della nave. Mentre tornava a Londra con la macchina, la strada non finiva mai di dissolversi davanti ai suoi occhi in un vitreo miraggio di lacrime. «E' il bambino», pensò per giustificarsi. «Mi fa diventare sentimentale.» Si posò la mano sul ventre, cercando una protuberanza, e rimase un po' delusa perché i muscoli erano ancora lisci e compatti. «Dio, se fosse stato un falso allarme!» Quella possibilità accentuò la sua malinconia. Prese un pacchetto di Kleenex dal vano portaoggetti della Mini. Ma quando salì la scala dell'appartamento, la porta si aprì prima che la toccasse, e Ramon la prese fra le braccia. Isabella dimenticò le lacrime. L'appartamento della famiglia Courteney in Cadogan Square occupava i primi due piani di una casa vittoriana di mattoni. C'erano cinque camere matrimoniali, e le pareti della suite padronale erano rivestite da antichi pannelli azzurro-polvere e argento, che avevano abbellito il boudoir di madame de Pompadour. Il soffitto era decorato da gruppi di ninfe nude e di satiri sogghignanti. Con grande rincrescimento di Shasa, Isabella sosteneva che il décor era da «bordello Luigi Quindici». Isabella se ne serviva esclusivamente come d'un recapito, e vi andava il venerdì per ritirare la posta e prendere il tè con la governante nella dispensa al piano terreno. La governante era sua alleata e riceveva tutte le telefonate internazionali in arrivo da Weltevreden e da altre località lontane. Isabella s'era stabilita nell'appartamento di Ramon. Quando l'armadio che le aveva assegnato s'era rivelato insufficiente, aveva incominciato a far ruotare i suoi abiti tra quello e l'enorme guardaroba di Cadogan Square. Aveva trovato un elegante scrittoio da signora in un negozio d'antiquariato di Kensington Church Street che stava giusto nell'angolo accanto al letto, e lo usava come scrivania. S'erano abituati a una routine, come una coppia di sposi. Si alzavano prima di giorno per andare in palestra; il ginecologo di Isabella le aveva vietato lo jogging. «Quello che porta in grembo è un feto, non un trappé di latte, mia cara.» Poi, quando Ramon andava in banca, sedeva allo scrittoio e lavorava alla tesi fino all'ora di pranzo. S'incontravano da Justin de Blank o al bar salutista di Harrods perché Isabella aveva rinunciato all'alcol e osservava una dieta per il bene del bambino. «Non intendo ingrassar e come un rospo. Non voglio farti schifo.» «Sei la donna più desiderabile del mondo e la gravidanza ti ha fatta fiorire», la contraddisse Ramon toccandole il seno magnifico. «L'ho chiesto al ginecologo, e ha detto che possiamo benissimo fare l'amore», rise lei. «Spero che l'ambulanza che mi
porterà alla clinica abbia la barella doppia, così potremo fare una sveltina lungo la strada.» Dopo pranzo andava dal relatore della sua tesi, oppure passava il resto della giornata nella sala di lettura del British Museum. Poi si precipitava a casa con la Mini, in tempo per incominciare a preparare la cena per Ramon. Per fortuna, suo padre aveva fatto in modo che lei potesse conservare la targa del corpo diplomatico; perciò parcheggiava sul marciapiedi davanti al portone e sorrideva con aria accattivante al poliziotto addetto al traffico. La sera uscivano sempre più di rado, se non per andare a teatro od a cena con Harriet e il suo corteggiatore di turno. Di solito ammucchiavano i cuscini sul pavimento e si sdraiavano davanti alla televisione, a parlare, a discutere ed a vezzeggiarsi, ignorando le scemenze dei telefilm e dei telequiz. Quando finalmente il suo ventre incominciò a sporgere, Isabella aprì la vestaglia di seta e lo mostrò con orgoglio. «Toccalo!» disse a Ramon. «Non è meraviglioso?» Ramon tastò solennemente. «Sì», sentenziò, «è senza dubbio un maschio.» «Come fai a saperlo?» «Ecco.» Ramon le prese la mano. «Non senti?» «Ah, sporge un tantino. Deve aver preso dal padre. E' strano, solo a pensarci mi viene voglia di andare a letto.» «Hai sonno?» «No», rispose lei. Shasa le aveva lasciato la carta di credito di Harrods; e fu lì che ella acquistò quasi tutti gli abiti premaman, sebbene Harriet continuasse a scoprire sempre nuove boutiques alla moda specializzate nell'abbigliamento per le future madri. Avvolta in un fluente caffettano, si iscrisse a un corso preparto consigliato dal ginecologo. All'improvviso la compagnia e la conversazione delle altre allieve incinte, che un tempo l'avrebbero annoiata a morte, le sembravano piacevoli e interessanti. Almeno una volta al mese Ramon doveva lasciare la città per incarico della banca, e ogni volta stava assente per una settimana o più. Comunque le telefonava appena gli era possibile. Sebbene sentisse la sua mancanza più di quanto fosse disposta ad ammettere di fronte a se stessa, al ritorno la sua felicità ingigantiva cento volte. Dopo uno di quei viaggi andò a prenderlo a Heathrow e lo condusse subito all'appartamento. Ramon lasciò cadere la borsa da viaggio nell'anticamera e appese la giacca sulla spalliera della sedia prima di entrare in bagno. Il passaporto spagnolo scivolò dal taschino interno della giacca e cadde sulla moquette. Isabella lo raccolse e lo sfogliò fino a che trovò la fotografia. Non era male, ma l'obiettivo non poteva rendergli giustizia. Girò la pagina fino a che vide la data di nascita, e ricordò che mancavano appena due settimane al suo compleanno. Aveva deciso di fare in modo che fosse un'occasione memorabile. Aveva già visto una statuina di vetro in un negozio d'antiquario in Mayfair, un piccolo nudo squisito di René Lalique. Il corpo era molto simile al suo; aveva le stesse gambe lunghissime, le natiche compatte ed efebiche. Se non fosse stato perché era stata realizzata al culmine della fama di Lalique, negli anni '20, lei avrebbe potuto essere la modella. Ma il prezzo l'aveva un po' spaventata e stava ancora cercando di trovare il coraggio per acquistarla. Sfogliò ancora il passaporto, e un visto attirò la sua attenzione. Era stato apposto a Mosca quella stessa mattina. Isabella batté le palpebre per la sorpresa. «Tesoro», chiamò attraverso la porta del bagno, «credevo che fossi andato a Roma. Come mai sei finito a Mosca?» Tutto
ciò che aveva appreso nella sua educazione sudafricana indicava sempre nella Russia il Grande Anticristo. Persino il simbolo della falce e martello e la scritta in cirillico le ispiravano ripugnanza. Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi la porta si spalancò di colpo. Ramon uscì in maniche di camicia e le strappò dalla mano il passaporto. La sua espressione era di freddo furore. Gli occhi l'atterrirono. «Non curiosare mai più nei miei affari», disse a voce bassa. Anche se non riparlò dell'episodio, passò quasi una settimana prima che Isabella sentisse che l'aveva perdonata. Era rimasta così intimidita che aveva cercato di scacciare dalla mente quel ricordo. Poi all'inizio di novembre, quando andò nell'appartamento di Cadogan Square, la governante le consegnò la posta. Come sempre c'era una lettera di suo padre; ma sotto c'era un'altra busta con il timbro di Johannesburg: con uno slancio di piacere riconobbe la scrittura di suo fratello Michael. Ognuno dei suoi tre fratelli era così nettamente diverso nell'aspetto, nel carattere e nella personalità che le era impossibile prediligerne uno. Sean, il maggiore, era l'avventuriero. Era uno spirito selvaggio e, prima che incontrasse Ramon, l'aveva giudicato l'uomo più bello che avesse mai conosciuto. Sean era il soldato e il cacciatore. Era già stato insignito della Stella d'Argento per il valore dimostrato nella feroce guerricciola partigiana in Rhodesia. Quando non dava la caccia ai terroristi, dirigeva l'immensa concessione nella valle dello Zambesi per conto della Courteney Enterprises. Isabella lo adorava. Garrick era il secondogenito, il brutto anatroccolo miope ed asmatico che, durante l'infanzia infelice, era sempre stato chiamato «il povero Garry». Ma sebbene soffrisse di molte manchevolezze dal punto di vista fisico, aveva ereditato lo spirito, la perseveranza e l'acume dei Courteney. S'era impegnato fino a che il suo corpo era diventato quasi ridicolmente muscoloso, con il petto così possente e le braccia così forti che doveva farsi confezionare gli abiti su misura. Nonostante gli occhi miopi dietro le lenti spesse e la mancanza di doti sportive naturali, aveva sviluppato tali capacità di concentrazione da diventare un ottimo giocatore di polo e di golf e un tiratore straordinario. Inoltre, aveva preso il posto del padre come presidente della Courteney Enterprises. Non aveva ancora trent'anni e dirigeva un complesso di società valutate svariati miliardi di dollari, con la formidabile attenzione per il dettaglio e l'amore insaziabile per il lavoro che manifestava in tutte le sue attività. Tuttavia non dimenticava mai il compleanno della sorella, ed esaudiva tutte le sue richieste, per quanto potessero essere onerose o banali. Lei lo chiamava «orsacchiotto» perché era così robusto e peloso e tenero, e gli era profondamente affezionata. Poi c'era Michael, il dolce e gentile Michael, il pacificatore della famiglia, premuroso, compassionevole, poetico, l'unico Courteney che, nonostante l'incoraggiamento e l'esempio del padre e dei due fratelli, non aveva mai ucciso in tutta la sua vita un uccello od un animale selvatico. Invece aveva scritto e pubblicato tre libri di successo: una raccolta di poesie e due saggi sulla storia e la politica del Sudafrica. Gli ultimi due volumi erano stati messi al bando dagli zelanti censori per il modo in cui parlavano delle questioni razziali e per i toni radicali. Era anche un giornalista stimato, vicedirettore del Golden City Mail, un diffuso giornale di lingua inglese che si opponeva con aperta ostinazione al governo nazionalista afrikaner di John Vorster e all'apartheid. Naturalmente la Courteney Enterprises possedeva l'ottanta per cento delle azioni del Mail: altrimenti Michael non
avrebbe potuto raggiungere, così giovane, una posizione tanto importante. Quando Isabella era bambina, Michael era stato il suo protettore, consigliere e confidente e, dopo Nana, il suo prediletto narratore di storie. Si fidava di Michael più di chiunque altro; e se Sean non fosse stato così meraviglioso e Garrick così amabile, Michael sarebbe diventato senza dubbio il preferito. I tre erano classificati a pari merito nella scala del suo affetto; voleva bene a Michael quanto agli altri, e vedere la sua scrittura sulla busta le diede un senso di piacere ed una fitta di rimorso. Non gli aveva più scritto da quando aveva conosciuto Ramon, quasi sei mesi prima. Il secondo capoverso della prima pagina attirò il suo sguardo appena aperta la lettera. Saltò i convenevoli iniziali e arrivò subito a quel punto. Pater mi dice che sei comodamente insediata in Cadogan Square e sgobbi sulla tua tesi. Bravissima, Bella. Ma sono sicuro che al momento non occupi tutte le cinque camere da letto, quindi spero che tu possa ospitarmi. Prevedo di restare a Londra per tre settimane, a partire dal quindici del mese. Starò fuori tutto il giorno. Ho un programma molto intenso di interviste ed incontri, perciò prometto che non ti darò noia e non disturberò i tuoi studi... Era una complicazione: adesso sarebbe stata costretta a risiedere in Cadogan Square per la durata della visita di Michael. Per fortuna, quel periodo coincideva con uno dei viaggi di Ramon all'estero. Sarebbe stata sola comunque: adesso, almeno, avrebbe avuto la compagnia di Michael. Gli mandò un cablo presso la redazione del Mail di Johannesburg, e si accinse a fare in modo che Cadogan Square avesse l'aria d'essere abitata regolarmente. Aveva a disposizione una settimana per prepararsi all'arrivo di Michael. «Ci dovrà essere qualche spiegazione», disse a Ramon, intrecciandosi le mani sul ventre. «Per fortuna Michael è così comprensivo. Sono sicura che voi due andrete molto d'accordo. Mi farebbe piacere se lo conoscessi.» «Cercherò di stringere i tempi e le tappe del viaggio in modo da tornare a Londra finché c'è ancora tuo fratello.» «Oh, Ramon, tesoro, mi piacerebbe tanto. Vedi di fare il possibile.» Isabella era ad attenderlo quando Michael sospinse il carrello portabagagli oltre la barriera degli arrivi internazionali a Heathrow, e proruppe in un gridolino di gioia quando lo riconobbe. Michael la sollevò di peso; poi cambiò espressione quando sentì il ventre sporgente, e la posò con una esagerata delicatezza. Mentre lo accompagnava a casa con la Mini, continuò a guardarlo di straforo. Era abbronzato (quando si vive a Londra è un dettaglio che si nota immediatamente) e s'era fatto crescere i capelli come voleva la moda, fino a sfiorare il colletto della giacca di velluto a coste verde bottiglia. Ma il sorriso era sempre franco e fanciullesco, e gli occhi azzurri non avevano il duro, avido splendore di quelli degli altri Courteney... erano invece miti e pensosi. Isabella gli chiese notizie di casa, un po' per soddisfare la propria curiosità, ma soprattutto per evitare che la conversazione cadesse sulla sua gravidanza. Secondo Michael, loro padre era tutto preso dalle nuove mansioni di presidente dell'ARMSCOR. Nana diventava sempre più energica e imperiosa con il passare dei giorni, e governava Weltevreden con il pugno di ferro. Aveva persino incominciato ad allevare i retriever e ad addestrarli per i concorsi per cani da caccia. Sean continuava a sterminare plotoni di guerriglieri e orde di bufali. Di recente era stato promosso capitano dei Ballantyne Scouts, uno dei
reggimenti rhodesiani d'élite. Garry aveva appena presentato agli azionisti dell'azienda utili da primato per il sesto anno consecutivo. Sua moglie Holly stava per mettere al mondo un'altra creatura, e questa volta tutti si auguravano che fosse una femminuccia. Mentre diceva così, Michael le guardava lo stomaco con aria significativa; ma Isabella concentrava tutta l'attenzione sul traffico per evitare una spiegazione. Finalmente parcheggiò la Mini nel garage del vicolo dietro la piazza. Michael risentiva della stanchezza del viaggio; Isabella gli preparò un bagno di schiuma e gli portò un whisky allungato con la soda. Mentre lui stava immerso nell'acqua, sedette sul gabinetto e cominciò a chiacchierare. Non avrebbe mai pensato di restare presente mentre Sean o Garry facevano il bagno, ma tra lei e Michael la nudità era una cosa tanto normale da passare inosservata. «Ricordi quella canzoncina scema?» chiese finalmente Michael. «Come diceva?» «Da-da-da-dù, E suo padre disse: Cocca, Porti in pancia ben di più di quel che è entrato dalla bocca!» Isabella rise senza vergogna. «E' questo ciò che chiamano "l'occhio arguto del giornalista"? Non ti sfugge nulla, vero, Mickey?» «E come poteva sfuggirmi?» Michael rise con lei. «La tua pancia mi ha fatto quasi perdere l'occhio del giornalista.» «E' bello, vero?» Isabella spinse il ventre verso l'esterno e l'accarezzò con orgoglio. «Straordinario!» ammise Michael. «E sono sicuro che pater e Nana sarebbero d'accordo se potessero vederti.» «Non gliel'andrai a dire, vero, Mickey?» «Tu e io non riveliamo agli altri i segreti l'uno dell'altra. Non l'abbiamo mai fatto e non lo faremo mai. Ma che cosa intendi fare del... ehm... del risultato?» «E' mio figlio, tuo nipote... e tu lo chiami "risultato"? Vergognati, Mickey. Ramon dice che è il miracolo e il mistero più grande dell'universo.» «Ramon! Ecco il nome del colpevole. Spero che abbia addosso un paio di mutande antiproiettile quando Nana gli darà la caccia brandendo la vecchia e fida doppietta caricata a pallettoni.» «E' un marchese, Mickey. Il marchese de Santiago y Machado.» «Ah, questo potrebbe cambiare le cose. Nana è abbastanza snob per lasciarsi impressionare. Probabilmente anziché caricare il fucile a pallettoni, lo caricherà a pallini.» «Prima che Nana venga a saperlo, io sarò marchesa.» «Dunque: quel mascalzone di Ramon è deciso a fare di te una donna onesta, eh? Quando?» «Ecco, c'è una piccola difficoltà», ammise Isabella. «Vuoi dire che è già sposato.» «Come fai a saperlo, Mickey?» Lo guardò a bocca aperta. «E la moglie non vuol concedergli il divorzio?» «Mickey!» «Tesoro mio, è la frottola più antica del mondo.» Michael si alzò grondando acqua saponata e tese la mano per prendere l'asciugatoio. «Non lo conosci, Mickey. Non è un tipo così.» «Devo interpretarla come un'opinione obiettiva e non preconcetta?» Michael uscì dalla vasca e cominciò a massaggiarsi. «Mi ama.» «Lo vedo.»
«Non essere così impertinente.» «Per favore, Bella, promettimi che se qualcosa dovesse andare storto, ti rivolgi a me. D'accordo?» Isabella annuì. «Sì, certo. Sei sempre il mio migliore amico. Te lo prometto. Ma non andrà storto niente. Aspetta e vedrai.» Condusse il fratello a cena da Ma Cuisine in Walton Street. Il ristorante era così alla moda che non avrebbero trovato un tavolo libero se Isabella non avesse fatto la prenotazione il giorno stesso in cui aveva saputo che Michael sarebbe venuto a Londra. «E' divertente accompagnare una donna incinta», commentò Michael mentre sedevano. «Tutti mi sorridono come se fossi il responsabile.» «Che sciocchezza. Lo fanno perché sei così bello.» Parlarono del loro lavoro. Isabella fece promettere al fratello che avrebbe letto la sua tesi e le avrebbe dato qualche suggerimento. Poi Michael spiegò che la ragione principale della sua presenza a Londra era scrivere una serie di articoli sul movimento antiapartheid e sugli esuli politici sudafricani insediati in Gran Bretagna. «Mi sono accordato per le interviste con alcuni dei pezzi grossi: Oliver Tambo, Denis Brutus...» «Credi che i nostri censori ti lasceranno pubblicare gli articoli?» chiese Isabella. «Con ogni probabilità vieteranno l'intera edizione, e Garry s'infurierà. Tutto ciò che riduce i profitti lo fa infuriare.» Michael rise. «Povero vecchio Garry.» Era una definizione abituale, ma non più appropriata. «La vita è così semplice per lui... Non il bianco e il nero della morale, bensì il nero e il rosso dei rendiconti bancari.» Erano al dessert quando Michael chiese all'improvviso: «Come sta mater? L'hai vista di recente?» «Né mater, né mammina e nemmeno mamma», lo corresse Isabella in tono seccato. «Sai che questi termini le sembrano terribilmente borghesi. Ma per rispondere alla tua domanda... no, non vedo Tara da diverso tempo.» «E' nostra madre, Bella.» «Avrebbe dovuto ricordarsene quando abbandonò pater e tutti noi per correr dietro a un rivoluzionario negro e dargli un piccolo bastardo color caffelatte.» «E tu potresti essere un po' più caritatevole quando si parla di bastardi», disse Michael in tono blando; poi vide la sua espressione addolorata. «Scusami, Bella, ma come nel tuo caso ci sono sempre ragioni per tutto. Non dobbiamo giudicarla troppo duramente. Non deve essere una cosa facile vivere accanto a un uomo come pater, e non tutti se la sentono di giocare la partita secondo le regole fissate da Nana. Alcuni di noi non hanno un istinto del killer sviluppato a sufficienza. Credo che Tara non si fosse inserita nella famiglia fin dall'inizio. Non è mai stata un'elitaria. Le sue simpatie andavano sempre agli oppressi; e poi Moses Gama entrò nella sua vita...» «Mickey, caro.» Isabella si tese e gli prese la mano. «Tu sei l'essere più pietoso e comprensivo del mondo. Passi la vita a giustificare tutti noi e a proteggerci dal destino. Ti voglio tanto bene. Non voglio litigare o discutere con te.» «Bene.» Michael le strinse forte la mano. «Allora verrai con me a trovare Tara. Mi scrive regolarmente. Ti adora, Isabella, e sente molto la tua mancanza. Soffre, quando tu la eviti.» «Oh, Mickey! Mi hai teso una trappola, vecchio diavolo.» Isabella rifletté per un secondo. «Ma... nelle mie condizioni? Pensavo di dover essere un po' più discreta.» «Tara è tua madre, ti vuol bene, ed è una persona dalla mentalità molto larga. Non farà niente che possa ferirti, lo sai.»
«Per farti contento», sospirò Isabella arrendendosi. «Solo per farti contento, Mickey.» E quindi la mattina del sabato seguente si avviarono per Brompton Road, e Michael dovette allungare il passo per star dietro all'andatura atletica della sorella. «Ti stai allenando per una semplice gara o miri alle prossime Olimpiadi?» chiese con un sorriso. «Tu fumi troppo», ribatté Isabella. «E' il mio unico vizio.» Tara Courteney, o Tara Gama come si faceva chiamare, era direttrice di un piccolo hôtel-residence in Cromwell Road, e la sua clientela era formata quasi esclusivamente da espatriati e da nuovi immigrati provenienti dall'Africa, dall'India e dai Caraibi. Isabella si era sempre meravigliata che una zona come quella esistesse appena a venti minuti di cammino dalla grandiosità lussuosa di Cadogan Square. Il Lord Kitchener Hôtel era squallido e malridotto come la direttrice. Isabella stentava ancora a rendersi conto che sua madre era la stessa persona che un tempo aveva regnato sul grande chateau di Weltevreden. I suoi ricordi più remoti erano della madre in un abito lungo da sera, con i diamanti provenienti dalle miniere Courteney di H'ani che le brillavano sulla candida gola e le pendevano agli orecchi, i capelli fulvi raccolti sulla sommità della bella testa, mentre scendeva la scalinata di marmo. Isabella non aveva mai sospettato l'insoddisfazione terribile e l'infelicità che dovevano covare sotto quella facciata regale. Ormai i magnifici capelli erano ingrigiti, e lei li aveva ritoccati con una tintura scadente che li colorava di toni variegati di zenzero e prugna. La pelle, che Isabella aveva ereditato in tutta la perfezione serica, era diventata grinzosa, cascante e trascurata. C'erano piccoli punti neri nei pori allargati intorno alle pieghe tra il naso e le guance, e i denti falsi erano troppo grossi per la bocca e alteravano la linea dolce delle labbra. Scese correndo i gradini dell'albergo per abbracciare Isabella in una nuvola pungente di colonia. Isabella ricambiò l'abbracciò con lo slancio forzato di chi ha la coscienza un po' sporca. «Lasciami guardare la mia cara figliola.» Scostò Isabella, e abbassò subito gli occhi. «Sei diventata più bella, se mai era possibile, ma la ragione è ovvia. Vedo che porti in grembo un fagottino di gioia.» Isabella torse le labbra in una smorfia irritata, ma ignorò l'allusione. «Hai un aspetto magnifico, mamma... voglio dire, Tara.» La donna ostentava l'uniforme tipica delle militanti di sinistra: un cardigan grigio e informe, un abito lungo stampato a fregi minuscoli nello stile adatto alle vecchie nonne e sandali marroni da uomo. «Sono passati tanti mesi», protestò Tara, «quasi un anno, eppure vivi in fondo alla strada. Come puoi trascurare così la tua vecchia mamma?» Michael intervenne per frenare quell'autocommiserazione; abbracciò Tara con slancio sincero, e lei gli si rivolse con un teatrale affetto materno. «Mickey, sei sempre stato il più dolce e premuroso di tutti i miei figli.» Il sorriso di Isabella incominciò a diventare forzato. Si chiese per quanto tempo avrebbe dovuto trattenersi e quando, finalmente, avrebbe potuto fuggire. Capiva che non sarebbe stato facile e che per una volta non poteva aspettarsi un grande appoggio da parte di Michael. Tara li prese sottobraccio e li condusse nell'albergo. «Ho preparato tè e biscotti. Mi sono tanto emozionata quando Michael ha telefonato per dirmi che sareste venuti.»
Il sabato mattina la hall del Lord Kitchener era piena degli ospiti di Tara. L'aria era satura di fumo di tabacco e delle cadenze di swahili, gujarati e xhosa. Tara li presentò a tutti, anche se Isabella ne aveva già conosciuti parecchi nelle visite precedenti. «Mio figlio e mia figlia di Città del Capo, Sudafrica.» Molti occhi lampeggiarono nel sentire il nome della nazione. Al diavolo anche loro, concluse Isabella con un fremito di sfida. Era strano: in patria si considerava una progressista, ma quando era all'estero e incontrava quel genere di reazioni si considerava una patriota. Finalmente Tara li fece sedere in un angolo e, mentre versava il tè, chiese in tono vivace ed allegro che giungeva chiaramente a tutti i presenti: «Dunque, Bella, parlami del bambino. Quando nascerà? E chi è il padre?» «Non è il momento né ù luogo per parlarne, Tara.» Isabella impallidì per l'irritazione, ma sua madre rise. «Oh, qui al Lordy siamo un'unica, grande famiglia. Puoi parlare liberamente.» Questa volta Michael s'intromise con garbo: «Per la verità, Bella non desidera che tutto il mondo sia informato delle sue faccende personali. Ne parleremo più tardi, Tara». «Come seî antiquata.» Tara si allungò per cercare di abbracciare di nuovo la figlia, ma si rovesciò un po' di tè sulla gonna, e desistette. «Qui nessuno si preoccupa per le convenzioni borghesi.» «Basta, Tara», disse con fermezza Michael; e poi, per distrarla: «Dov'è Benjamin, e come va?» «Oh, Ben è il mio orgoglio e la mia gioia.» Tara abboccò all'amo. «E' uscito per pochi minuti: ha dovuto andare a scuola per consegnare un tema. E' così intelligente! Quest'anno si diplomerà. Ha appena sedici anni e il suo preside dice che è l'allievo più brillante che abbia avuto alla Ryham Grammar nell'ultimo decennio. Tutte le ragazze lo adorano. E' così bello.» Tara continuò a parlare; per Isabella era un sollievo non essere costretta a fare conversazione. Si limitò ad ascoltare la tirata sulle virtù del fratellastro. Benjamin Gama era una delle molte ragioni per cui Isabella si sentiva a disagio nel mondo della madre. La vergogna era stata così profonda, e così velenoso lo scandalo che Tara aveva causato alla famiglia Courteney che a Weltevreden il suo nome non veniva mai pronunciato. Nana l'aveva proibito. Soltanto Michael ne aveva parlato con lei, e in termini molto generici. «Scusami, Bella, non ho intenzione di ripetere certe chiacchiere crudeli. Se è questo che vuoi, devi rivolgerti ad altri. Io ti dirò solo i fatti: da quando Tara lasciò il Sudafrica dopo l'arresto di Moses Gama, nessuna accusa è mai stata formulata contro di lei, e non sono mai state fornite prove che la implichino in qualche attività criminosa.» «Ma non è stato pater a combinare tutto per proteggere la reputazione della famiglia?» «Perché non lo chiedi a lui?» In effetti, Isabella aveva provato ad affrontare l'argomento con il padre; ma Shasa, per una volta, s'era mostrato freddo e distaccato e non aveva risposto. Stranamente, quel rifiuto di parlarne era stato per Isabella una specie di sollievo. Isabella era abbastanza sincera con se stessa per riconoscere la propria vigliaccheria. In realtà non voleva conoscere le colpe della madre in tutta la loro gravità. Non voleva sapere se sua madre era stata complice dell'odioso complotto dinamitardo del suo amante Moses Gama per far saltare in aria il Parlamento sudafricano, il tentativo che aveva causato la morte del nonno di Isabella, padre di Tara. Forse sua madre era una traditrice, un'assassina parricida. Certo è che aveva commesso
adulterio e aveva messo al mondo un figlio di sangue misto, il che secondo le leggi sudafricane era un reato. E ancora una volta Isabella si chiese cosa faceva lì. All'improvviso Tara s'illuminò e per un momento parve ritrovare un barlume della bellezza perduta. «Ben!» esclamò. «Guarda chi è venuto a trovarci, Benjamin. Tuo fratello e tua sorella. Non è una meraviglia?» Isabella si girò. Il fratellastro era fermo sulla soglia, dietro di lei. Era cresciuto ancora nell'anno trascorso dall'ultima volta che l'aveva visto, e chiaramente aveva compiuto il grande balzo dalla pubertà all'età adulta. «Ciao, Benjamin!» esclamò con troppo entusiasmo, e sebbene lui le sorridesse, intuì il suo riserbo e lesse la diffidenza negli occhi scuri. Tara non era completamente accecata dall'istinto materno. Benjamin era davvero un bel ragazzo. La naturale grazia africana si armonizzava con i lineamenti delicati della madre. La pelle aveva toni di rame, e i capelli erano una calotta lanosa di fitti ricci neri. «Ciao, Isabella.» L'accento londinese sulle labbra di quel figlio dell'Africa la sorprese. Non si mosse per abbracciarlo. Fin dal primo incontro c'era stato tra loro un accordo tacito che escludeva le manifestazioni d'affetto simulato. Si strinsero in fretta la mano. E prima che Isabella trovasse qualcosa da dire, Benjamin s'era rivolto a Michael. Il suo sorriso era un bagliore di denti perfetti, uno scintillio di occhi scuri. «Mickey!» esclamò avvicinandosi al fratello maggiore. Si abbracciarono. Isabella invidiava a Michael l'eccezionale abilità di ispirare fiducia e simpatia in quanti gli stavano intorno. Sembrava che Benjamin lo accettasse davvero come fratello e amico senza il riserbo che mostrava nei confronti di Isabella. Molto presto tutti e tre, Tara, Ben e Mickey, cominciarono a parlare con animazione. Isabella si sentiva esclusa dalla loro piccola cerchia intima. Finalmente uno degli studenti negri sudafricani attraversò l'atrio e disse qualcosa a Tara che alzò gli occhi con aria costernata e poi lanciò uno sguardo all'orologio. «Santo cielo, grazie per avermelo ricordato, Nelson.» Sorrise allo studente. «Stavamo chiacchierando così piacevolmente da dimenticare l'ora.» Tara balzò in piedi. «Venite tutti quanti! Se dobbiamo andare in Trafalgar Square è meglio che ci muoviamo.» Vi fu un esodo generale dalla hall e Isabella si accostò a Michael. «Cos'è questa storia, Mickey? A quanto sembra, tu sai cosa sta succedendo. Spiegalo anche a me.» «C'è un comizio in Trafalgar Square.» «Oh, Dio, no! Un'altra di quelle chiassate antiapartheid. Perché non mi hai avvertita?» «Ti avrebbe dato un pretesto per squagliartela.» Michael le sorrise. «Non vieni anche tu?» «No, grazie. Ho dovuto sopportare queste sciocchezze per tre anni, da quando pater era diventato ambasciatore. Perché ti immischi in quelle stupidaggini?» «E' il mio lavoro, cara Bella. Sono venuto a Londra apposta per scrivere di queste stupidaggini, come le chiami tu. Vieni con noi.» «E perché dovrei?» «Per vedere il mondo dall'altra parte della barricata, tanto per cambiare... potrebbe essere interessante. E per stare con me. Potremmo divertirci.» Isabella esitò. Per quanto disprezzasse l'argomento, apprezzava la compagnia del fratello. Insieme
si divertivano davvero e, dato che Ramon era via, si sentiva sola. «A patto che viaggiamo sull'imperiale di un autobus, non con la metropolitana. Sai che non sono capace di resistere a una corsa in autobus.» Il gruppo del Lordy era formato da una ventina di persone incluso Nelson Litalongi, lo studente sudafricano. Michael trovò un posto per Isabella sull'imperiale dell'autobus rosso, e le rimase accanto con lo studente. Tara e Benjamin erano seduti di fronte a loro, ma stavano girati a ridere e scherzare. L'atmosfera era gaia e spensierata e nonostante tutto Isabella si divertiva veramente. Michael era il centro dell'attenzione, e lui e Nelson cominciarono a cantare. Avevano entrambi voci molto belle, e gli altri si unirono cantando ù ritornello di This Is My Island in the Sun. Nelson imitava benissimo Harry Belafonte, e gli somigliava perfino, anche se aveva la pelle color carbonella lucida. Era andato d'accordo con Michael fin dal primo momento. Quando scesero dall'autobus davanti alla National Gallery, i dimostranti si stavano già accalcando sotto la colonna, e Michael inventò una battuta divertente su Nelson e Horatio. Tutti risero, poi marciarono attraverso la strada, e i piccioni si alzarono in volo a nugoli. In fondo alla piazza era stato eretto un podio, di fronte alla South Africa House; nella zona recintata avevano trovato posto già centinaia di dimostranti. Raggiunsero le ultime file e Tara tirò fuori dalla borsa della spesa un cartello disegnato a mano e lo brandì. «L'apartheid è un crimine contro l'umanità.» Isabella si scostò da lei, fingendo di non conoscerla. «Non si vergogna di dare spettacolo, vero?» mormorò a Michael, e Michael rise. «Lo fa apposta!» Comunque, per Isabella era interessante partecipare a quel raduno eterogeneo. Ne aveva osservati molti altri con vivo disgusto dalle finestre dell'ufficio dell'ambasciatore, dall'altra parte della piazza; ma questo le dava una prospettiva completamente nuova. La folla era allegra e piuttosto disciplinata. Quattro poliziotti in uniforme assistevano affinché non accadesse niente di irregolare. Sorrisero con fare bonario quando uno degli oratori strepitò che a Londra vigeva uno stato di polizia feroce quanto quello di Pretoria. Per dissociarsi da quell'affermazione e mostrare la sua solidarietà, Isabella buttò un bacio al poliziotto più simpatico, e quello sorrise beato. I discorsi continuarono monotoni fra il rombo del traffico e degli autobus scarlatti. Isabella aveva già sentito tutti gli argomenti, e dovevano averli sentiti anche tutti gli altri partecipanti, a giudicare dalla loro apatia indifferente. Il momento più ilare venne quando un piccione che volteggiava sopra la piazza sporcò la testa pelata dell'oratore di turno e Bella gridò: «Piccione fascista! Agente del regime razzista di Pretoria!» Il comizio finì con l'approvazione della mozione secondo la quale John Vorster e il suo regime illegale dovevano dimettersi immediatamente e cedere il potere al governo popolar-democratico del Sudafrica. La mozione fu approvata all'unanimità e Michael commentò: «Chissà come tremerà John Vorster». Il comizio si sciolse più pacificamente di una folla all'uscita d'uno stadio dopo una partita di calcio. «Andiamo in cerca di un pub», propose Michael. «Far crollare i governi fascisti mi ha fatto venir sete.» «Ce n'è uno sullo Strand», suggerì Nelson Litalongi. «Guidaci tu», chiese Michael. Quando si allinearono al banco del bar, offrì da bere a tutti.
«Bene.» Isabella espresse il suo giudizio mentre sorseggiava una ginger beer. «E' stato il classico spreco di tempo. Duecento persone che sputano aria fritta non cambieranno niente.» «Non esserne troppo sicura.» Michael si terse la spuma della birra dal labbro superiore con il dorso della mano. «Forse è la prima increspatura che lambisce la base della diga... presto potrebbe diventare un'onda, poi un cavallone ed infine un maremoto.» «Oh, Mickey, che sciocchezza.» Isabella respinse bruscamente l'idea. «Il Sudafrica è troppo forte, troppo ricco, e l'America e la Gran Bretagna vi hanno investito troppo. Non ci abbandoneranno. Non possono pretendere che consegniamo ciò che è nostro a un branco di selvaggi marxisti.» Ripeteva le verità che aveva sentito tante volte negli ultimi tre anni dalla voce del padre ambasciatore. Si irritò per l'acrimonia con cui venne assalita dalla madre, dal fratellastro, da Nelson Litalongi e dagli altri venti residenti negri del Lord Kitchener Hôtel. Non fu un'esperienza gradevole. Quella sera, quando lei e Michael tornarono in Cadogan Square, era scossa e depressa. «Sono così rabbiosi, Mickey», protestò. «E' la nuova ondata, Bella. Se vogliamo sopravvivere, dobbiamo cercare di capirla e di arrivare a un compromesso.» «Non sono affatto maltrattati. Pensa a Nanny e Klonkie e Gamiet e tutti i nostri dipendenti di Weltevreden. Voglio dire, Mickey, stanno maledettamente meglio della maggioranza dei bianchi che vivono nello stesso paese.» «So che cosa provi, Bella. Puoi ammattire riflettendo sulle ragioni e sui torti, ma alla fine devi tornare a un punto fondamentale. Sono esseri umani, proprio come noi. Alcuni sono addirittura migliori. Con quale diritto divino o diabolico possiamo impedirgli di prendersi la loro parte del nostro paese natale?» «In teoria va bene: ma questo pomeriggio hanno parlato di lotta armata. E questo significa fare a pezzi donne e bambini, significa sangue e morte, Mickey. Sono come gli irlandesi. Tu cosa ne pensi?» «Non so cosa ne penso, Bella. A volte penso... No! Uccidere, mutilare, incendiare non hanno mai una giustificazione. Altre volte penso: sicuro, perché no? Gli uomini si ammazzano tra loro da milioni di anni per proteggere se stessi e la loro eredità. Pater, che inveisce all'idea della lotta armata in Sudafrica, nel 1940 salì su un Hurricane e andò a mitragliare italiani ed etiopici e tedeschi in difesa della libertà. Nana, la sostenitrice dell'imperio della legge e della santità della proprietà privata e del sistema del libero mercato, mormorò "Ben fatto" quando seppe della più spaventosa violenza commessa nella storia dell'umanità, i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. Perciò, fino a che punto sono immorali e sanguinari Tara e Benjamin e Nelson Litalongi in confronto a noi e alla nostra famiglia? Chi ha torto e chi ha ragione, Bella?» «Mi hai fatto venire il mal di testa.» Bella si alzò. «Vado a letto.» Il telefono la svegliò alle sei del mattino. Quando sentì la voce di Ramon l'ombra scura che incombeva sulla sua vita si dileguò. «Tesoro, dove sei?» «Ad Atene.» «Oh.» Isabella si demoralizzò. «Speravo che fossi a Heathrow.» «Sono stato trattenuto. Rimarrò qui per altri tre giorni. Perché non mi raggiungi?» «Ad Atene?» Era ancora semiaddormentata.
«Sì, perché no? Puoi prendere il volo della BA alle dieci. Potremmo avere tre giorni tutti per noi. Pensa all'Acropoli al chiaro di luna. Potremmo andare a visitare le isole, e poi ci sono alcune persone importanti che vorrei farti conoscere.» «Sì!» esclamò Isabella. «Perché no? Dammi il tuo numero di telefono. Ti chiamerò appena avrò fissato un posto sull'aereo.» Tutte le linee del servizio prenotazioni della British Airways erano occupate ed il tempo fuggiva; perciò Michael la portò a Heathrow con la Mini e la lasciò all'ingresso del terminal. «Aspetterò che abbia fatto la prenotazione», propose lui. «No, Mickey. Sei un tesoro ma non avrò difficoltà in questa stagione. Il periodo delle vacanze è finito. Vai a fare l'intervista. Ti telefonerò all'appartamento quando io e Ramon staremo per tornare.» Quando entrò nel terminal si accorse di aver peccato d'ottimismo. Orde di viaggiatori stanchi e sfiduciati bloccavano i passaggi con i bagagli. Arrivò finalmente al banco delle informazioni e si sentì rispondere che uno sciopero imprevisto dei controllori francesi del traffico aereo aveva fatto ritardare tutti i voli anche di cinque ore e che i posti sull'aereo per Atene erano tutti prenotati. Avrebbe dovuto mettersi in lista d'attesa persino per la prima classe. Isabella fece un'altra coda per arrivare a un telefono pubblico e finalmente riuscì a parlare con Ramon al numero di Atene che le aveva dato. Anche lui sembrava molto deluso. «Contavo molto sul tuo arrivo. Ho cantato le tue lodi alle persone che volevo farti conoscere.» «Non mi arrenderò», promise lei. «A costo di stare qui tutto il giorno.» Fu una giornata di disagio, avvilimento e frustrazione. Quando venne finalmente chiamato il volo alle cinque di sera, si presentò al banco del check-in pregando perché si fosse liberato un posto. Ma c'erano altre sei persone che la precedevano. Alla fine, l'impiegata scosse malinconicamente la testa. «Mi dispiace moltissimo, signorina Courteney.» Il volo successivo per Atene era fissato per le dieci dell'indomani mattina; ma sicuramente ci sarebbero stati altri ritardi e un'altra lista d'attesa. Alla fine Isabella si arrese e tornò a chiamare Atene. Ramon non c'era; lasciò un messaggio per lui a qualcuno che parlava un inglese atroce. Sperava che Ramon capisse perché era costretta a rinunciare al viaggio. Non c'erano tassì. Centinaia di altri passeggeri come lei avevano abbandonato ogni speranza e cercavano di tornare a casa. Trascinò la valigia sul marciapiedi e fece la coda per salire su un autobus diretto in città. Erano le otto passate quando arrivò e trovò finalmente un tassì per farsi portare in Cadogan Square. Aveva la schiena indolenzita e stava per piangere per la frustrazione quando rientrò finalmente nell'appartamento. Nell'atrio c'era un delizioso odore di cucina, e Isabella si rese conto d'essere affamata. Lasciò cadere la valigia nell'atrio, si sfilò le scarpe e si avviò. Era evidente che Michael s'era preparato la cena. I piatti sul tavolo nell'angolo della colazione erano ancora caldi, e nello scaldavivande era avanzata parecchia roba. Come lei, Michael sapeva cucinare molto bene. Isabella si servì i petti di pollo alla Kiev ed una fetta di torta di ricotta. Notò che erano stati usati due bicchieri da vino, e vide nel lavello una bottiglia vuota di Nuits St. George del '61. Sul momento non fece caso al significato di quei dettagli. Era troppo stanca e avvilita, e voleva che Michael la tirasse un po' su di morale. Sentì la musica che proveniva dalla camera di Michael al piano di sopra: un motivo sentimentale di Mantovani, uno dei preferiti del fratello. Salì le scale, a piedi scalzi, si avviò nel corridoio e aprì la porta della stanza di Michael.
Per un lungo istante non comprese ciò che vedeva: era troppo lontano dalla sua capacità d'immaginazione. Poi pensò che Michael fosse aggredito da qualcuno, e un grido le salì alla gola. Dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per trattenerlo. E finalmente comprese. Michael era uno, carponi al centro del grande letto. La trapunta di piumino e le lenzuola erano cadute sul pavimento e il letto era in disordine. Conosceva bene il suo corpo, agile e muscoloso, abbronzato dal sole africano che gli aveva dato il colore delle foglie di tabacco mature, tranne dove i calzoncini da bagno gli avevano lasciato la pelle più chiara. Nelson Litalongi, egualmente nudo, era inginocchiato accanto a lui. Il suo torace era lucido di sudore e brillava come carbone appena estratto. Il volto di Michael era contratto da un'angoscia profonda, la bocca era contorta in un rictus che la colpì fin nel profondo del suo essere. Per un momento le ricordò un animale ferito e in punto di morte. Poi Michael la vide. Davanti agli occhi di Isabella, la sua faccia parve fondersi come cera e rimodellarsi in un'espressione di terrore e di vergogna mortale. Con una torsione violenta, si liberò dalla stretta dell'uomo che lo teneva e rotolò via. Tese la mano e afferrò un cuscino gualcito per coprirsi l'inguine. Isabella si voltò e fuggì. Nonostante lo sfinimento, dormì di un sonno agitato e turbato da sogni confusi in cui vedeva Michael che lottava, nudo e atterrito, nella stretta di uno spaventoso mostro scuro. A un certo punto gridò così disperatamente nel sonno che si svegliò. Verso l'alba rinunciò al tentativo di riposare e scese in cucina. Vide subito che i piatti e le posate del pasto della sera precedente erano stati lavati e messi via. I bicchieri vuoti e la bottiglia erano scomparsi, e la cucina era immacolata. Mise in funzione la macchina per il caffè ed andò a controllare la cassetta delle lettere. Era troppo presto perché fosse già stato consegnato il giornale; quindi tornò e si versò una tazza di caffè. Sapeva che la caffeina non faceva bene al bambino; ma quella mattina aveva bisogno di qualcosa che le desse forza. Aveva appena assaggiato il primo sorso quando sentì l'odore del fumo di una sigaretta e alzò la testa. Michael era sulla soglia con l'immancabile sigaretta fra le labbra e socchiudeva gli occhi per proteggerli dalla spirale di fumo. «Ehi, il caffè ha un ottimo odore.» Era avvolto in una vestaglia di seta. Aveva profonde occhiaie scure e l'azzurro degli occhi era velato dalle ombre del rimorso. L'incertezza e la diffidenza gli contrassero gli angoli della bocca quando disse: «Credevo che tu fossi ad Atene... scusami». Si fissarono per pochi secondi, ma parve che fosse un'eternità. Poi Isabella si alzò e gli andò incontro. Si alzò in punta di piedi per abbracciarlo e lo baciò sulla bocca. Poi lo tenne stretto e premette la sua guancia contro quella di lui, ispida di barba. «Ti voglio bene, Mickey. Sei la persona più cara e più dolce della mia vita. Ti voglio bene senza riserve e senza condizioni.» Michael sospirò profondamente. «Grazie, Bella. Avrei dovuto saperlo che saresti stata comprensiva, ma avevo paura. Non immagini quanto ho temuto che mi respingessi.» «No, Mickey. Non avevi motivo di preoccuparti.» «Avevo intenzione di dirtelo. Aspettavo il momento opportuno.» «Non sei tenuto a dirlo, né a me né a nessuno. E' una questione che riguarda te solo.» «No, volevo che lo sapessi. Non ci sono mai stati segreti tra noi. Sapevo che l'avresti scoperto, prima o poi. Volevo... Oh,
Dio, avrei dato qualunque cosa purché non lo scoprissi in quel modo. Per te deve essere stato un brutto colpo.» Isabella chiuse gli occhi e gli premette più forte il viso contro il viso perché Michael non vedesse la sua espressione. Cercò di scacciare dalla mente la scena che aveva visto. Ma il volto di Michael, contratto in un'espressione estatica e angosciata, continuava ad aleggiarle davanti come uno spezzone di film dell'orrore. «Non ha importanza, Mickey. Non fa nessuna differenza per noi o per chiunque altro.» «Invece sì, Bella», la contraddisse Michael. La scostò gentilmente per studiarle il volto, e si oscurò. Le passò un braccio intorno alle spalle e la ricondusse a sedere al tavolo, poi sedette accanto a lei. «E' strano», disse. «In un certo senso è un sollievo che tu lo sappia. Mi dispiace per il modo in cui l'hai scoperto, ma finalmente c'è una persona al mondo con cui posso essere me stesso, senza essere più costretto a mentire e dissimulare.» «Perché nasconderlo, Mickey? Siamo nel 1969. Se sei fatto così, perché nasconderlo? Perché non dirlo apertamente? Nessuno si scandalizza più.» Michael prese un pacchetto di Camel dalla tasca della vestaglia e ne accese una. Per un momento fissò la brace, poi disse: «Potrebbe essere vero per altri, ma non per me». Scosse la testa. «Non per me. Mi piaccia o no, sono un Courteney. Ci sono Nana e pater, Garry e Sean, la famiglia e il nome.» Isabella avrebbe voluto negarlo, ma si rese conto che era inutile. «Nana e pater», ripeté Michael. «Loro ne soffrirebbero troppo. Non credere che non avessi pensato di uscire allo scoperto.» Sorrise, ironicamente. «Dio, che espressione orribile.» Lei gli strinse con forza la mano. Cominciava finalmente a capire la situazione del fratello. Sapeva che aveva ragione. Non avrebbe mai potuto farlo sapere a Nana e pater. Per loro sarebbe stato grave come... no, sarebbe stato peggio di Tara. Tara era un'estranea; Michael aveva nelle vene il sangue dei Courteney. Non sarebbero sopravvissuti al colpo. Li avrebbe distrutti e Michael era troppo buono, troppo altruista, troppo leale per permettere che accadesse. «Da quanto tempo lo... lo hai scoperto?» chiese a voce bassa. «Dalla scuola preparatoria», rispose lui con molta franchezza. «Fin dai primi brancolamenti preadolescenziali nelle docce...» S'interruppe. «Ho cercato di dominarmi. Ho cercato di evitarlo. A volte per mesi, addirittura per un anno... ma è come una belva dentro di me, una belva scatenata che non riesco a controllare.» Isabella sorrise con indulgenza. «Come direbbe Nanny, è il sangue bollente dei Courteney, Mickey. Ce l'abbiamo tutti, e nessuno può dominarlo molto bene... Pater e Garry e Sean... tu e io.» «Non ti dispiace parlarne?» chiese Michael in tono diffidente. «Me lo sono tenuto chiuso dentro per tanto tempo.» «Parlane quanto vuoi. Sono qui per ascoltare.» «Ormai è così da quindici anni e immagino che continuerà per altri cinquanta. La cosa strana, la cosa che peggiorerebbe la situazione agli occhi della famiglia, è che sono attratto dagli uomini di colore. Questo potrebbe aggravare la mia colpa e la mia degradazione agli occhi di Nana e pater, agli occhi dei nostri tribunali. Dio, che scandalo se venissi scoperto e incriminato ai sensi della legge contro l'immoralità varata dal nostro illuminato governo!» Rabbrividì e spense la sigaretta; subito ne accese un'altra prendendola dal pacchetto gualcito. «Non so perché i negri mi attirino tanto. Ci ho pensato molto.
Immagino che in un certo senso sono come Tara. Forse è una specie di senso di colpa, un desiderio inconscio di placare la loro rabbia.» Rise, sardonicamente. «Li abbiamo fregati per tanto tempo. Perché non dargli una possibilità di riprendere ciò che è loro?» «Non dire così!» mormorò isabella. «Non degradarti e non sminuirti parlando in questo modo, Mickey. Sei una cara persona. Nessuno di noi è responsabile dei propri istinti.» Isabella ricordava Michael bambino, gentile, timido e schivo ma con un affetto sconfinato per ogni essere che lo circondava e con quell'aria malinconica. Ora capiva l'origine di quella tristezza. Si rendeva conto del tormento spirituale che aveva subito e che subiva ancora. Si commosse per lui come non era mai avvenuto. Le ultime ombre della ripugnanza fisica svanirono. Sapeva che non avrebbe più odiato quanto era accaduto nella stanza al piano di sopra. Avrebbe pensato solo alle sofferenze che attendevano il fratello: adesso si sentiva più protettiva nei suoi confronti. «Mio povero, caro Mickey», mormorò. «Non sono più "il povero Mickey"», la corresse lui. «Ho il tuo affetto e la tua comprensione.» Due giorni dopo, mentre Mickey era uscito per un'intervista e lo scrittoio di Isabella era un caos di volumi aperti e di fogli sparsi, il telefono squillò. Rispose distrattamente, e per un momento non riconobbe la voce roca, non comprese le parole. «Ramon? Sei tu? E' successo qualcosa? Dove sei? Ad Atene?» «Sono nell'appartamento...» «Qui a Londra?» «Sì. Puoi venire subito? Ho bisogno di te.» Isabella lanciò la Mini nel traffico dell'ora di pranzo, e all'arrivo fece i gradini a due a due. Giunse sul pianerottolo affannata e rossa in viso. Pasticciò per un momento con le chiavi, e finalmente spalancò la porta. «Ramon!» Non ebbe risposta e corse verso la camera. Sul letto c'era la valigia aperta e sul pavimento una camicia gualcita. Era macchiata di sangue... chiazze di sangue secco d'un colore nero-violaceo, e altre chiazze d'un rosso vivo, più recenti. «Ramon! Oh, Dio! Ramon! Mi senti?» Si precipitò alla porta del bagno. Era chiusa dall'interno. Indietreggiò e sferrò un calcio alla serratura: era uno dei colpi di judo che Ramon le aveva insegnato, e la serratura fragile si ruppe subito, l'uscio si spalancò. Ramon giaceva sul pavimento accanto al gabinetto. Doveva essersi aggrappato alla mensola sopra il lavabo mentre cadeva, e i cosmetici erano piombati un po' dappertutto. Era nudo dalla cintura in su, ma aveva il petto avvolto in pesanti bendaggi. Isabella comprese al primo colpo d'occhio che la fasciatura era stata fatta da un professionista. Come la camicia, le bende bianche erano intrise di cerchi concentrici di sangue, alcuni scuri e vecchi, altri freschi e umidi. S'inginocchiò accanto a lui e gli girò la testa. La pelle era di un pallore opalescente, velata dal sudore. Sollevò la testa di Ramon e se l'appoggiò sulle ginocchia. Poi prese una salvietta appoggiata al bordo della vasca. Dal punto in cui si trovava riuscì appena a raggiungere il rubinetto. Inzuppò la salvietta e gliela passò sul volto e sul collo. Ramon aprì le palpebre e la guardò. «Ramon.» Gli occhi si schiarirono. «Sono caduto.» «Tesoro, che cosa ti è successo? Sei ferito gravemente.»
«Aiutami a stendermi sul letto», disse lui. Isabella lo sollevò a sedere. Era forte quasi come un uomo, grazie all'equitazione ed al tennis. Ma sapeva che non sarebbe riuscita a spostarlo senza un aiuto. «Ce la fai ad alzarti se ti sostengo?» Con un gemito, Ramon tentò di mettersi in piedi, ma fu scosso da un sussulto e strinse le mani sulle bende insanguinate mentre il dolore lo straziava. «Fai con calma», mormorò lei. Per un minuto rimase piegato in due, quindi si raddrizzò lentamente. «Bene.» Strinse i denti e lei lo sorresse, lo guidò e lo aiutò ad adagiarsi sul letto. «Sei venuto da Atene in queste condizioni?» gli chiese, incredula. Ramon annuì. Quel cenno era una menzogna. Aveva chiamato Isabella ad Atene perché gli facesse da corriere. La necessità s'era presentata d'urgenza, inaspettatamente. Non c'erano altri agenti a disposizione, ed era tempo che venisse messa alla prova sul campo. Era matura per quel lavoro. Ormai era condizionata ad accettare i suoi ordini senza discutere, ed era la prima missione facile che le aveva preparato. Era l'innocente ideale, una bella donna incinta che avrebbe ispirato una simpatia immediata. Era sconosciuta a tutti i servizi segreti del mondo, incluso il Mossad. Era vergine, nel gergo del mestiere. Inoltre aveva il passaporto sudafricano e Israele aveva rapporti cordiali e addirittura amichevoli con quel paese. Secondo il piano, Isabella avrebbe dovuto prendere il volo da Atene a Tel Aviv, ritirare il materiale e tornare indietro. Sarebbe stata in tutto una giornata di lavoro. Ma il piano era naufragato quando lei non aveva potuto partire per Atene. Il materiale da ritirare era fondamentale: riguardava certi dettagli della collaborazione tra gli scienziati israeliani e sudafricani per lo sviluppo di armi nucleari tattiche. Sebbene fosse quasi sicuramente «segnato» per il Mossad, Ramon era stato costretto ad andare di persona. Si era camuffato come aveva potuto, e ovviamente non aveva portato armi. Sarebbe stata una pazzia tentare di far passare un'arma attraverso i controlli della sicurezza israeliana. S'era servito di un passaporto messicano con un nome falso. Comunque, dovevano averlo individuato all'aeroporto Ben Gurion, e l'avevano seguito fino al luogo della consegna. Ramon s'era accorto dei pedinatori e aveva adottato la procedura d'emergenza per eluderli, ma l'avevano bloccato. Aveva spezzato il collo a un agente del Mossad, ed era stato ferito. Per quanto fosse in condizioni gravi, era riuscito a raggiungere un luogo «sicuro», una casa dell'OLP a Tel Aviv. Dodici ore più tardi l'avevano fatto uscire da Israele ed era arrivato in Siria. Ma il suo terreno sicuro era Londra. Nonostante i rischi e le ferite, era in gioco una posta troppo alta per restare a Damasco. Il capo della stazione locale del KGB lo aveva accompagnato sul volo dell'Aeroflot fino a Londra, e lui aveva chiamato Isabella non appena era entrato barcollando nell'appartamento. Poi era riuscito appena ad arrivare in bagno prima di stramazzare. «Devo chiamare un dottore», disse lei. «No!» Nonostante la debolezza, la voce di Ramon assunse quel tono freddo e sibilante cui lei era condizionata ad obbedire. «Cosa devo fare?» gli chiese. «Portami il telefono», ordinò Ramon, e lei si affrettò ad andare a prendere l'apparecchio in salotto. «Ramon, hai un aspetto da far paura. Lascia almeno che ti porti qualcosa... una tazza di brodo, caro?» Lui annuì ma non alzò gli occhi dal telefono mentre componeva il numero. isabella andò in cucina e scaldò un po' di crema
di verdura. Mentre lavorava, lo sentiva parlare in spagnolo: i recenti esercizi con il Linguaphone non bastavano a permetterle di seguire la conversazione. Gli portò il vassoio con la crema e dei crackers proprio mentre lui stava riattaccando. «Tesoro, che cosa ti è successo? Perché non vuoi che chiami un dottore?» Ramon fece una smorfia. Se un medico britannico avesse visto la ferita, sarebbe stato obbligato a denunciarla. Se fosse venuto nell'appartamento il dottore dell'ambasciata cubana, quasi sicuramente avrebbe compromesso quell'indirizzo e la sua copertura. Perciò aveva adottato misure alternative. Tuttavia non rispose direttamente alla domanda. «Voglio che tu esca subito. Raggiungi il marciapiedi ovest della stazione della metropolitana in Sloane Square e percorrilo lentamente. Qualcuno ti metterà in mano una busta...» «Chi? Come farò a riconoscerlo?» «Non lo riconoscerai», rispose bruscamente Ramon. «Sarà lui a riconoscerti. Non parlare e non dar segno d'esserti accorta della sua presenza. Nella busta ci saranno una ricetta e un elenco dettagliato d'istruzioni per curare la ferita. Potta la ricetta alla farmacia Underwoods in Knightsbridge, di fronte ad Harrods, e torna qui con tutta la roba.» «Sì, Ramon, ma non mi hai detto come mai sei ferito.» «Devi imparare a fare quello che ti viene detto... e senza fare domande. Va'!» «Sì, Ramon.» Isabella prese la giacca e la sciarpa, poi si chinò sul letto per baciarlo. «Ti amo», mormorò. Mentre scendeva la scala si fermò di colpo. Nessuno, eccettuata forse Nana, le aveva mai parlato con tanta autorità da quando era bambina. Persino suo padre le rivolgeva richieste: non le dava ordini. Eppure adesso stava correndo a perdifiato per obbedire. Con una smorfia, uscì sulla via. Non era ancora arrivata in fondo al marciapiedi della metropolitana quando sentì che qualcuno le toccava leggermente il polso da dietro e le infilava in mano una busta. Girò la testa, ma il messaggero si stava già allontanando. Aveva un berretto di lana blu e un soprabito scuro, ma non le riuscì di vederlo in faccia. Il farmacista esaminò la ricetta e commentò: «C'è qualcuno ferito gravemente?» Ma lei scosse la testa. «Io sono soltanto la receptionist del dottor Alves. Non lo so.» Il farmacista preparò il pacchetto delle medicine senza altri commenti. Ramon sembrava addormentato ma aprì gli occhi quando lei entrò in camera da letto. Tutte le precedenti paure la riassalirono quando lo vide in faccia. Gli occhi erano infossati e cerchiati di scuro e la pelle aveva il pallore di un cadavere. Tuttavia accantonò le preoccupazioni personali e s'impose di agire con calma. All'università aveva seguito un corso di pronto soccorso organizzato dalla Croce Rossa. A Weltevreden aveva aiutato spesso il dottore che veniva una volta la settimana all'ambulatorio per i dipendenti di colore. Aveva visto tante dita mutilate, piedi schiacciati e altre lesioni causate dalle macchine agricole e non si sentiva più sopraffare dal ribrezzo. Allineò il materiale acquistato in farmacia e lesse in fretta le semplici istruzioni dattiloscritte contenute nella busta. Si lavò le mani nel lavabo, aggiungendo all'acqua mezza tazza di disinfettante; poi fece sedere Ramon e incominciò a togliere le bende. Il sangue s'era coagulato e la medicazione s'era incollata ai labbri della ferita. Ramon chiuse gli occhi: un lieve sudore gli
imperlò la fronte ed il mento mentre lei staccava la fasciatura. «Scusami», gli mormorò. «Sto cercando di non farti male.» Finalmente la medicazione si staccò, e Isabella stentò a soffocare un grido quando vide le ferite. C'era una trafittura profonda sul petto, in basso, e una seconda corrispondente nei muscoli della schiena, ostruita da un grumo di sangue nero. La pelle intorno alle ferite era infiammata e scottante, ed esalava il vago odore nauseante dell'infezione. Isabella comprese immediatamente la causa delle ferite. Durante l'ultima visita alla riserva di caccia che suo fratello Sean aveva nella valle dello Zambesi, aveva risposto a una richiesta di aiuto giunta da un vicino villaggio batonka che era stato attaccato dai terroristi. E là aveva visto per la prima volta il caratteristico foro di entrata di un proiettile ed il foro d'uscita, più largo. Ramon la stava guardando in faccia; perciò non fece commenti e tentò di conservare un'espressione impassibile mentre puliva l'area intorno alle ferite con il disinfettante e sistemava la nuova medicazione con le bende candide. Sapeva di aver fatto un buon lavoro e Ramon, mentre lo riadagiava sui cuscini, le mormorò: «Bene. Sai quello che fai». «Non ho ancora finito. Devo farti un'iniezione. Ordine del dottore.» Poi, cercando di fare un po' di spirito, disse: «Mostrami il tuo affascinante sedere, amico!» Andò ai piedi del letto, gli tolse le scarpe e le calze, poi afferrò i risvolti dei calzoni e, mentre Ramon inarcava la schiena e si sollevava leggermente, glieli sfilò. «Adesso le mutande.» Sfilò anche quelle e sospirò d'ironico sollievo. «Almeno non hai danneggiato la mia merce speciale. Allora sì che mi sarei arrabbiata davvero.» Questa volta Ramon sorrise e si girò cautamente sul fianco. Isabella riempì la siringa monouso e iniettò il contenuto di un flaconcino di antibiotici a largo spettro nella curva compatta del gluteo. Poi lo coprì delicatamente con la trapunta di piumino. «Adesso», concluse con fermezza, «due di queste compresse... e riposo.» Ramon non protestò. Quando ebbe preso i sonniferi, lei lo baciò e spense la lampada accanto al letto. «Se hai bisogno di me, sono in salotto.» L'indomani mattina Ramon aveva già un colorito migliore. Evidentemente l'antibiotico aveva fatto subito effetto. La temperatura s'era abbassata, gli occhi erano limpidi. «Come hai dormito?» chiese Isabella. «Quei sonniferi sono dinamite. E' stato come cadere in un precipizio. Ora vorrei fare un bagno.» Lei gli riempì la vasca e lo aiutò. Dopo averlo fatto sedere, usò la spugna per pulire intorno alla fasciatura; poi la sua attenzione si concentrò più in basso. Adoperò abilmente la spugna insaponata. «Ah, sarai danneggiato al piano superiore, ma quaggiù tutto funziona alla perfezione. Ed è un piacere constatarlo.» «Per pura curiosità, infermiera, ciò che fai in questo momento è per dovere o per piacere?» «Un po' dell'uno ma, soprattutto, molto dell'altro», confessò lei. Quando tornò a letto, Ramon protestò fiaccamente nel vederla riempire di antibiotico un'altra siringa, ma lei obiettò in tono severo: «Perché gli uomini sono così fifoni? Su, il sedere!» Ramon si girò, obbediente. «Bravo», annuì Isabella estraendo l'ago e strofinandogli la parte con un batuffolo di cotone intriso d'alcol. «Hai meritato la colazione, e per ricompensa
ti ho preparato un'aringa.» Era piacevole curarlo. Per una volta poteva dargli ordini e farsi obbedire. Mentre lavorava in cucina, lo sentì parlare al telefono in spagnolo, troppo in fretta perché potesse capirlo. Rimase in ascolto e cercò, nonostante i suoi limiti, di ricavarne un senso; e i presentimenti spiacevoli che l'avevano assillata per quasi tutta la notte tornarono ad aggredirla. Per scacciarli, scese le scale e corse al chiosco di fiori e frutta all'angolo opposto all'entrata della metropolitana. Scelse con molta cura un bocciolo di rosa rosso scuro e una magnifica pesca dorata e si affrettò a rientrare: Ramon era ancora al telefono. Mise la rosa e la pesca sul vassoio della colazione. Quando glielo portò, lui alzò gli occhi dall'apparecchio e la ricompensò con uno dei suoi rari, preziosi sorrisi. Isabella sedette sul bordo del letto, staccò con cura la carne saporita dell'aringa dalla lisca e lo imboccò un poco alla volta mentre continuava a parlare al telefono. Quando Ramon ebbe finito, portò il vassoio in cucina; stava lavando le stoviglie quando lo sentì posare il ricevitore. Tornò subito in camera e sedette sulla sua metà del letto con le gambe ripiegate da un lato, in quella posa femminile che un uomo non può emulare. «Ramon», disse a voce bassa e seria, «è una ferita d'arma da fuoco.» Gli occhi verdi di lui divennero gelidi e la fissarono senza espressione. «Com'è successo?» insistette Isabella, e quando lui restò in silenzio, si fece coraggio per continuare. «Non sei un banchiere, vero?» «Sono un banchiere per gran parte del tempo», disse Ramon a voce bassa. «E nel resto del tempo, che cosa sei?» «Un patriota. Servo il mio paese.» Isabella si sentì sopraffare da un'ondata di sollievo. Durante la notte aveva immaginato cento orribili possibilità: che fosse un trafficante di droga, un rapinatore, un membro d'un'organizzazione criminale coinvolta in una guerra di bande. «La Spagna», disse Isabella. «Fai parte del servizio segreto spagnolo, è così?» Ramon tacque e la studiò con attenzione. Era un maestro in fatto di rivelazioni progressive. Doveva coinvolgerla gradualmente, un po' alla volta, perché non opponesse resistenza, come un insetto intrappolato e inghiottito a poco a poco da una pozza di miele. «Devi renderti conto, Bella, che se fosse così non potrei dirtelo.» «Certo.» Lei annuì, contenta. Aveva conosciuto un altro uomo appartenente al mondo pericoloso ed eccitante dello spionaggio e dell'intrigo. Era l'unico uomo, prima di Ramon, del quale aveva creduto d'essere innamorata. Era un generale di brigata della polizia di sicurezza sudafricana, un altro individuo implacabile e maestoso che riusciva a tenerle testa e a controllare i suoi eccessi emotivi più scatenati. Aveva vissuto come se fossero marito e moglie con Lothar De La Rey nell'appartamento di Johannesburg per sei mesi splendidi e tempestosi. Quando lui aveva troncato la relazione all'improvviso e senza dare spiegazioni, s'era sentita a pezzi. Ora però si rendeva conto che si era trattato di un'infatuazione superficiale, neppure lontanamente paragonabile a ciò che aveva trovato in Ramon Machado. «Capisco benissimo, Ramon caro, e puoi fidarti di me. Non ti farò altre domande sciocche.» «Ti ho già affidato la mia vita», disse lui. «Sei stata la prima
persona cui ho chiesto aiuto.» «Ne sono orgogliosa. Perché sei spagnolo e perché sei il mio amante ed il padre del mio bambino, anch'io ormai mi sento quasi spagnola. Desidero aiutarti per quanto mi è possibile.» «Sì», annuì Ramon. «Capisco. Ho pensato al bambino.» Tese la mano e le toccò il ventre con le dita fresche e dure. «Voglio che mio figlio nasca in Spagna; così anche lui sarà spagnolo e avrà diritto al titolo.» Isabella trasalì. Aveva dato per certo che avrebbe partorito a Londra e il ginecologo aveva già provveduto a una prenotazione nella principale clinica. «Lo farai per me, Bella? Farai di mio figlio un vero spagnolo?» chiese Ramon; e lei non esitò più. «Sì, naturalmente, tesoro. Farò tutto ciò che vuoi.» Si chinò a baciarlo. Poi si raggomitolò accanto a lui, attenta a non sfiorare le ferite. «Se è ciò che desìderi, dovremo cominciare a organizzarci», disse. «L'ho già fatto», ammise Ramon. «C'è un'ottima clinica privata vicino a Malaga. E ho un amico, alla sede centrale della banca in quella città, che ci troverà un appartamento e una cameriera. Mi sono fatto trasferire in sede, così starò con te quando nascerà il bambino.» «E' tutto molto emozionante», ammise Isabella. «E se tu scegli dove dovrà nascere il bambino, io sceglierò dove ci sposeremo quando potremo farlo. Ti sembra giusto?» Ramon sorrise. «Sì, molto giusto.» «Voglio sposarmi a Weltevreden. C'è una vecchia chiesa nella tenuta, che era stata degli schiavi. Fu costruita centocinquant'anni fa. Mia nonna, Nana, l'ha fatta restaurare e rinnovare per le nozze di mio fratello Garry. E' deliziosa, e per Garry e Holly, Nana l'aveva fatta riempire di fiori. Io voglio le calle. Dicono che portano sfortuna, ma sono i miei fiori preferiti e non sono superstiziosa, o almeno non molto...» Ramon la lasciò parlare, pazientemente; ogni tanto mormorava qualche parola d'incoraggiamento, in attesa del momento opportuno per una nuova rivelazione; e lei gliene offrì lo spunto. «Ma non c'è molto tempo, caro. Nana avrà bisogno di almeno sei settimane per organizzare tutto, e a quell'epoca sarò enorme come un pallone. Suoneranno la marcia dei piccoli elefanti, quando andrò all'altare.» «No, Bella», la contraddisse lui. «Quando ti sposerai sarai snella e bellissima... perché non sarai più incinta.» Isabella si sollevò di scatto a sedere sul letto. «Cosa stai cercando di dirmi, Ramon? E' successo qualcosa, vero?» «Sì. Hai ragione. Ci sono brutte notizie, purtroppo. Natalie si è fatta viva. E' ancora in Florida. Si sta ostinando e ci sono ritardi di carattere legale.» «Oh, Ramon!» «Dispiace forse più a me che a te. Se potessi fare qualcosa, credimi lo farei.» «La odio», bisbigliò Isabella. «Sì, a volte anch'io la penso così. Ma per la verità non è un disastro: è solo un inconveniente. Ci sposeremo nella tua chiesetta degli schiavi, circondati dalle tue calle. L'unica differenza è che mio figlio nascerà prima.» «Promettimelo, Ramon... giuralo: ci sposeremo appena tu sarai libero.» «Te lo giuro.» Lei si sdraiò accanto e gli appoggiò la testa sulla spalla indenne, nascondendo il viso perché non potesse vedere quanto era delusa. «La odio, però amo te», disse. E Ramon ebbe un sorriso di
maligna soddisfazione che lei però non poté scorgere. La ferita lo tenne bloccato nell'appartamento per un'altra settimana, e passarono gran parte del tempo a parlare. Isabella raccontò a Ramon di Michael, e fu lusingata dall'interesse che manifestò per suo fratello. Incominciò dalle virtù di Michael e dallo stretto rapporto che li univa. Ramon l'ascoltò e la indusse a confidarsi ancora di più. Era così facile intendersi con Michael; e lei lo considerava un'estensione di se stessa. Poi cominciò a raccontare del resto della famiglia, di ciò che stava dietro la facciata, dietro il volto pubblico, dei loro segreti e delle loro debolezze e dei loro scandali, e del divorzio di Shasa e Tara. Gli rivelò persino il sospetto tenebroso che in passato Nana avesse messo al mondo un figlio bastardo nei deserti meridionali dell'Africa. «Naturalmente nessuno ha mai potuto dimostrarlo. Non credo che qualcuno ne avrebbe il coraggio. Nana è una persona temibile.» Poi rise. «A dir poco. Comunque, senza dubbio successe qualcosa di poco chiaro, laggiù, negli anni '20.» Alla fine Ramon riportò la conversazione su Michael. «Se è a Londra, perché non ci hai presentati? Ti vergogni di me?» «Oh, posso davvero? Posso portarlo qui, Ramon? Gli ho parlato un po' di te, di noi. So che gli farebbe piacere conoscerti, e sono certa che lo troverai simpatico. E' l'unico Courteney veramente dolce e buono. Noialtri, invece...» Isabella alzò gli occhi al cielo con aria di comica disperazione. Michael arrivò con una bottiglia del Borgogna proveniente dalle cantine paterne. «Avevo pensato di portare un mazzo di fiori», spiegò. «Ma poi ho preferito qualcosa di utile.» Michael e Ramon si scrutarono attentamente e si strinsero la mano. Isabella li osservava ansiosa, augurandosi che facessero amicizia. «Come vanno le costole?» chiese Michael. Isabella gli aveva raccontato che Ramon s'era fratturato tre costole cadendo da cavallo. «Tua sorella mi tiene prigioniero. Non ho niente che un bicchiere di quell'ottimo Borgogna non possa guarire.» Ramon sfoggiava tutto il suo calore ed il suo fascino irresistibile. Isabella era stordita dal sollievo. Le due persone che più contavano per lei sembravano simpatizzare. Portò il Borgogna in cucina per cercare un cavatappi. Quando tornò con la bottiglia sturata e due bicchieri, Michael era seduto accanto al letto, e i due erano tutti presi dalla conversazione. «Alla banca riceviamo per via aerea il tuo giornale, il Golden City Mail», disse Ramon. «Mi piacciono in particolare i servizi finanziari ed economici.» «Ah, tu sei nelle banche», commentò Michael. «Bella non me l'aveva detto.» «E' una banca d'affari. Ci occupiamo specificamente dell'Africa a sud del Sahara.» E la conversazione divenne ancora più serrata. Bella si sfilò le scarpe a tacchi bassi, rimboccò i bleu jeans e sedette sul letto accanto a Ramon. Sebbene non intervenisse mai, ascoltava con estrema attenzione. Non immaginava che Ramon avesse una conoscenza tanto profonda delle realtà africane, dei personaggi, dei luoghi e degli eventi che formavano il ricco, affascinante mosaico della sua terra natale. In confronto a quella discussione, tutti i precedenti dialoghi con Ramon erano stati superficiali. Mentre li ascoltava, apprendeva fatti nuovi e sentiva esprimere idee che erano per lei altrettante rivelazioni. Michael era chiaramente impressionato non meno di lei. Non nascondeva il piacere che gli dava aver trovato un intelletto stimolante con cui confrontare le sue interpretazioni.
Era mezzanotte passata. La bottiglia portata da Michael e l'altra che Isabella aveva prelevato dalla sua piccola scorta erano ormai vuote. La camera da letto era invasa dal fumo delle Camel di Michael quando lei guardò l'orologio ed esclamò: «Ti avevamo invitato solo per un'ora, Michael, perché Ramon è invalido. Hai superato ogni tempo massimo. Adesso devi filare». E andò a prendergli il cappotto. Mentre lei aiutava il fratello a indossarlo, Ramon disse: «Se fai una serie sugli esuli politici, non sarà completa senza un articolo su Raleigh Tabaka». Mickey rise malinconicamente. «Darei l'anima per poter parlare con Tabaka, l'uomo del mistero. Ma non è possibile: come diceva il vecchio Rudyard Kipling, "Se riconosci le tracce della nebbia mattutina, allora sai dov'è il suo campo".» «Io l'ho conosciuto in banca, per ragioni di lavoro. Teniamo d'occhio tutti i partecipanti alla partita. Forse potrei combinarti un incontro», disse Ramon, e Michael si fermò di colpo, con un braccio infilato a metà nella manica. «Sono cinque anni che tento di contattarlo», disse. «Se tu potessi...» «Telefonami domani verso l'ora di pranzo», disse Ramon. «Vedrò cosa posso fare.» Alla porta, Michael baciò Isabella. «Immagino che stasera non verrai a casa.» «Casa mia è questa.» Isabella l'abbracciò. «La mia residenza temporanea in Cadogan Square aveva l'unico scopo di gettarti polvere negli occhi, ma ora non è più necessario.» «E' sensazionale, il tuo Ramon», disse Michael, e lei provò una fitta inaspettata e sconvolgente di gelosia, come se un'altra donna avesse cercato di rubarle l'affetto del suo uomo. Si sforzò di dominarla. Era l'unico sentimento sgradevole che avesse mai nutrito nei confronti di Mickey, ma l'ombra persistette quando tornò in camera da letto e divenne ancora più cupa quando Ramon disse: «Mi piace. Tuo fratello è un essere superiore... e sono molto rari». Isabella provò vergogna per la reazione nei confronti di Mickey. Come poteva dubitare che Ramon fosse un uomo, un vero uomo? Sapeva che aveva simpatia per Michael solo per il suo fascino e il suo intelletto, e perché era suo fratello... eppure, eppure quella sensazione subdola persisteva. Si accostò al letto e baciò Ramon con una passione che la sorprese. Dopo un primo momento di choc, lui aprì la bocca e le loro lingue si attorsero l'una all'altra, come due anguille che si accoppiano. Finalmente Isabella si staccò e alzò gli occhi verso di lui. «Te ne vai in giro per l'Europa per settimane e mi lasci qui a struggermi; e quando torni a casa poltrisci a letto, ti rimpinzi come un maiale e dormi», lo accusò con voce roca, fremente di desiderio. «E mai un pensiero per la domestica o l'infermiera. Bene, signor Ramon, è giorno di paga e sono venuta a incassare.» «Avrò bisogno di un aiuto», l'avvertì lui. «Tu resta immobile e non far niente. Ordine dell'infermiera. Penseremo noi ai dettagli.» Scostò le lenzuola e vi infilò le mani. La sua voce era languida. «Penseremo a tutto io e lui. Tu non immischiarti.» Lo inforcò delicatamente, attenta a non toccargli il petto fasciato. Mentre si calava sopra di lui, vide il proprio desiderio intenso rispecchiarsi nel verde dei suoi occhi, e sentì che i dubbi si dileguavano. Ramon apparteneva a lei, a lei sola. Più tardi si adagiò dal lato indenne, sicura e felice; parlarono tra loro, librati sul ciglio del sonno nell'oscurità. Quando Ramon nominò di nuovo Michael, lei provò rimorso per i dubbi
precedenti. Era rilassata e indifesa, e si fidava di Ramon come di se stessa. Voleva spiegare tutto, condividere con lui la verità. «Povero Mickey, non avevo mai sospettato quanto deve aver sofferto in tutti questi anni. Sono più vicina a lui che a qualunque altra persona al mondo, eppure non lo sapevo neppure io. Qualche giorno fa ho scoperto per puro caso che è omosessuale...» Le parole le uscirono dalle labbra prima che potesse trattenerle; all'improvviso si sgomentò di ciò che aveva fatto. Mickey s'era fidato di lei. Rabbrividì in attesa della reazione di Ramon che, tuttavia, non fu quella che si aspettava. «Sì», ammise lui con calma. «Lo sapevo. Ci sono certi indizi inequivocabili. L'avevo capito durante la prima mezz'ora.» Isabella si sentì sollevata. Ramon aveva capito, quindi non era un tradimento da parte sua. «Non ti ripugna?» «No, affatto», rispose Ramon. «Molti omosessuali sono persone intelligenti e creative.» «Sì, Mickey lo è», dichiarò prontamente lei. «All'inizio mi sono scandalizzata, ma ora non ha molta importanza. E' sempre il mio carissimo fratello. Comunque, ho paura che possa finire per ritrovarsi nei guai, con un'incriminazione addosso.» «Non credo sia molto probabile. La società ha accettato...» «Non hai capito, Ramon. A Michael piacciono i ragazzi negri e vive in Sudafrica.» «Sì», disse pensosamente Ramon. «Questo potrebbe presentare qualche problema.» Michael telefonò all'appartamento da una cabina di Fleet Street un po' prima di mezzogiorno, e Ramon rispose al secondo squillo. «Ho buone notizie», gli assicurò. «Raleigh Tabaka è a Londra e sa chi sei. Non hai scritto nel '60 una serie di articoli con il titolo Rabbia?» «Sì, una serie di sei articoli per il Mail; e per questo il giornale fu messo al bando dalla polizia.» «Tabaka li ha letti e gli sono piaciuti. Ha accettato d'incontrarsi con te.» «Mio Dio, Ramon! Non so dirti quanto ti sono riconoscente. E' l'occasione più straordinaria...» Ramon tagliò corto. «Ti vedrà questa sera, ma ha stabilito alcune condizioni.» «Qualunque cosa», dichiarò Michael. «Devi andare da solo all'appuntamento. Niente armi, ovviamente, niente registratore o macchina fotografica. Non vuole che la sua voce o la sua immagine rimangano come documentazione. C'è un pub in Shepherd's Bush.» Ramon diede l'indirizzo a Michael. «Tròvati là stasera alle sette. Porta un mazzo di fiori... garofani. Qualcuno verrà a prenderti per condurti all'appuntamento.» «D'accordo.» «Un'altra condizione. Tabaka vuole leggere il testo dell'intervista prima che tu la pubblichi.» Michael tacque per cinque secondi. La richiesta contravveniva a tutti i princìpi del giornalismo; equivaleva ad una forma di censura preventiva e costituiva una manifestazione di sfiducia nei confronti della sua etica professionale. Ma il compenso era un'intervista con uno degli uomini più ricercati dell'Africa. «Sta bene. Glielo farò leggere.» Poi si animò. «Ti devo un favore, Ramon. Domani sera verrò a raccontarti tutto.» «Non dimenticare la bottiglia di vino.» Michael tornò subito in Cadogan Square. Si mise al telefono e annullò tutti gli altri appuntamenti della giornata, poi preparò
il piano strategico per l'intervista. Le domande dovevano essere indagatrici ma non tanto pungenti da far passare a Tabaka la voglia di collaborare. Doveva mostrarsi sincero e comprensivo, e nello stesso tempo severo perché aveva a che fare con un uomo che aveva scelto la via della violenza e del sangue. Per essere credibili, le sue domande dovevano essere equilibrate e neutrali, e nello stesso tempo studiate per far parlare l'interlocutore. In particolare, non voleva ricavarne una semplice recita di slogan estremisti e di gergo rivoluzionario. «Il termine "terrorista" si applica generalmente a una persona che per motivi di coercizione politica commette un atto di violenza contro un bersaglio di natura non militare, durante il quale vi sono forti probabilità di ferire o uccidere un certo numero di innocenti. Accetta la definizione e, se sì, l'etichetta "terrorista" vale per l'Umkhonto we Sizwe?» Quella doveva essere la prima domanda. Michael accese un'altra Camel e la studiò. «Bene.» Era una specie di attacco diretto, ma forse avrebbe dovuto affinarla un po'. Continuò a lavorare, e prima delle cinque e mezzo aveva redatto venti domande che lo soddisfacevano. Si preparò un sandwich con il salmone affumicato e bevve una bottiglia di Guinness mentre riesaminava ciò che aveva scritto. Poi infilò il soprabito e si armò del mazzo di garofani comprati al chiosco d'angolo. Piovigginava. Trovò un tassì in Sloane Street. Il pub era affollato, e l'umidità condensata scorreva sulle finestre a vetri colorati in rivoletti iridescenti. Michael ostentò i garofani e sbirciò attraverso la nebbia azzurrina del fumo di tabacco. Quasi subito un uomo piuttosto elegante, in abito blu, lasciò il banco e si avviò verso di lui. «Signor Courteney, mi chiamo Govan.» «Del Natal?» Michael aveva riconosciuto l'accento. «Di Stanger.» L'uomo sorrise. «Ma sono partito sei anni fa.» Lanciò un'occhiata al soprabito di Michael. «Ha smesso di piovere? Bene, possiamo andare a piedi. Non è lontano.» L'uomo s'incamminò lungo la strada principale. Dopo un centinaio di metri svoltò in un vicoletto e accelerò il passo. Michael dovette trotterellare per stargli dietro, e quando arrivarono all'uscita del vicolo era quasi senza fiato. «Accidenti alle sigarette... devo fumare meno.» Govan uscì dal vicolo e si fermò appena girato l'angolo. Michael stava per dire qualcosa, ma l'altro gli strinse il braccio per farlo tacere. Attesero per cinque minuti. Solo quando fu certo che nessuno li seguiva, l'uomo allentò la stretta. «Non si fida di me.» Michael sorrise e buttò i garofani in un bidone della spazzatura. «Non ci fidiamo di nessuno.» Govan lo condusse via. «Soprattutto dei boeri. Imparano nuove cattiverie ogni giorno.» Dieci minuti più tardi si fermarono di nuovo davanti a un caseggiato moderno, in una strada ampia e illuminata. Accanto al marciapiedi erano parcheggiate una Mercedes e una Jaguar. Il prato e il giardinetto davanti al palazzo erano curatissimi. Senza dubbio era uno stabile residenziale e lussuoso. «La lascio qui», disse Govan. «Entri. Nell'atrio c'è il portiere. Gli dica che deve andare dal signor Kendrick, appartamento 505.» L'atrio era in armonia con la facciata: pavimento di marmo italiano, pareti pannellate di legno e ascensore con porte dorate. Il portiere in uniforme lo salutò. «Sì, signor Courteney, il signor Kendrick l'aspetta. Salga pure al quinto piano.» Quando le porte dell'ascensore si aprirono, Michael si trovò di fronte a due giovani negri dall'aria arcigna.
«Da questa parte, signor Courteney.» Lo condussero in fondo al corridoio fino al numero 505 e lo fecero entrare. Appena la porta si chiuse i due gli si accostarono e lo perquisirono in fretta. Michael alzò docilmente le braccia e allargò le gambe. Mentre lo frugavano, si guardò intorno con occhi attenti da giornalista. L'appartamento era stato arredato con gusto e senza badare a spese. I due si scostarono, convinti, e uno di loro gli aprì la porta. «Prego», disse. Michael entrò in una stanza spaziosa e magnificamente arredata. I divani e le poltrone erano rivestiti di cuoio color crème. La moquette era di una tinta cioccolata. I tavoli e il bar erano di cristallo e di metallo cromato. Alle pareti erano appesi quattro grandi quadri di Hockney, della serie della piscina. Cinquantamila sacchi l'uno, calcolò Michael... E poi il suo sguardo si posò sulla figura che stava al centro della stanza. Non esistevano foto recenti di quell'uomo; ma Michael lo riconobbe immediatamente da una fotografia sfuocata che aveva visto nell'archivio del Mail e che risaliva all'epoca di Sharpeville e alle successive inchieste. «Signor Tabaka», disse. Era alto quanto lui, circa un metro e ottantacinque, ma aveva le spalle più larghe e la vita più sottile. «Signor Courteney.» Raleigh Tabaka si avvicinò e gli tese la mano. Si muoveva come un pugile, agile ed aggressivo. «Vive davvero in questo lusso?» chiese Michael, e Raleigh Tabaka aggrottò la fronte. «E' l'appartamento di un simpatizzante. Non m'interessano queste frivolezze.» La voce era profonda, resa melodiosa dagli echi inequivocabili dell'Africa. Nonostante la smentita, portava un abito d'ottima stoffa e di taglio perfetto. Sulla cravatta di seta era riconoscibile il fregio di Gucci. Era un uomo sensazionale. «Le sono grato per avermi dato la possibilità d'incontrarla», disse Michael. «Avevo letto la sua serie Rabbia», disse Raleigh, studiandolo con occhi d'onice nero. «Lei capisce la mia gente. Ne ha esaminato le aspirazioni con mente imparziale.» «Non tutti sarebbero d'accordo con lei... specialmente le autorità sudafricane.» Raleigh sorrise. Aveva denti bianchi e regolari. «Ho ben poco da dirle che possa far loro piacere. Ma prima posso offrirle un drink?» «Un gin and tonic.» «Ah, sì, il carburante dei giornalisti.» Raleigh aveva un tono sprezzante. Andò al bar, versò il liquore trasparente da una bottiglia di cristallo e aggiunse il tonic per mezzo di uno spruzzatore collegato al bar da un tubo cromato. «Lei non beve?» chiese Michael, e Raleigh si accigliò di nuovo. «C'è tanto da fare: perché dovrei offuscarmi la mente?» Diede un'occhiata all'orologio. «Abbiamo appena un'ora; poi dovrò andare.» «Non sprecherò neppure un minuto», promise Michael. Mentre sedevano uno di fronte all'altro sulle poltrone di pelle, disse: «Ho tutti i dati preliminari: data e luogo di nascita, studi alla Waterford School nello Swaziland, i suoi legami con Moses Gama, la sua posizione attuale nell'ANC. Posso procedere da qui?» Raleigh chinò la testa in segno d'assenso. «Il termine "terrorista" si applica generalmente...» Michael ripeté la sua definizione, e il volto di Raleigh si contrasse per la rabbia.
«Non esistono innocenti in Sudafrica», sibilò bruscamente. «Siamo in guerra. Nessuno può proclamarsi neutrale. Siamo tutti combattenti.» «Anche i bambini e i vecchi? Anche se simpatizzano con le aspirazioni della sua gente?» «Non ci sono innocenti», ripeté Raleigh. «Dalla culla alla tomba, siamo tutti sul campo di battaglia. Apparteniamo a uno schieramento o all'altro, agli oppressi o agli oppressori.» «Nessuno ha possibilità di scelta, uomo, donna o bambino?» chiese Michael. «Sì, una possibilità di scelta c'è: schierarsi dall'altra parte. La neutralità non è possibile.» «Se scoppia una bomba in un supermarket affollato, possono morire o restare mutilati anche alcuni dei suoi, i suoi simpatizzanti. Proverebbe rimorso?» «Il rimorso non è un sentimento rivoluzionario, così come non è un sentimento dei propugnatori dell'apartheid. Quelli che muoiono sono nemici oppure vittime coraggiose ed onorevoli. In guerra gli uni e le altre sono inevitabili, anzi desiderabili.» La penna di Michael volava sui fogli del taccuino mentre cercava di catturare quelle dichiarazioni agghiaccianti. Si sentiva scosso, eccitato e terrorizzato da ciò che ascoltava. Aveva la sensazione che, come una falena che vola troppo vicina alla fiamma, si sarebbe scottato al fuoco della rabbia di quell'individuo. Sapeva di poter riportare fedelmente le parole, ma non avrebbe mai potuto rendere lo spirito feroce con cui venivano pronunciate. L'ora passò troppo presto, mentre Michael cercava di sfruttare al massimo ogni minuto; e quando alla fine Raleigh diede un'occhiata all'orologio e si alzò, Michael tentò di trattenerlo. «Ha parlato dei bambini guerrieri», disse. «Che età hanno?» «Le posso mostrare bambini di sette anni che portano armi, e comandanti di sezione che hanno dieci anni.» «Me li mostrerà?» chiese Michael. «E' possibile che me li mostri?» Raleigh lo fissò per un lungo istante. Le informazioni che gli aveva passato Ramon Machado sembravano valide. Quello era uno strumento utile, e poteva sfruttarlo per i suoi scopi. Forse sarebbe valsa la pena di coltivarlo pienamente. Era uno degli «utili idioti» di cui aveva parlato Lenin e che, tanto per cominciare, potevano venire usati per servire la causa inconsapevolmente. Più tardi le cose sarebbero cambiate. All'inizio sarebbe stato il vomere dell'aratro; solo più tardi, quando i tempi fossero maturi, sarebbe stato forgiato e trasformato in una spada da guerra. «Michael Courteney», disse a voce bassa, «sono disposto a fidarmi di lei. Penso che lei sia un uomo onesto e illuminato. Se si mostrerà degno della mia fiducia, le aprirò le porte di luoghi che non ha mai sognato esistessero. La condurrò per le vie e nei tuguri di Soweto. Nel cuore del mio popolo... e sì, le mostrerò i bambini.» «Quando?» chiese ansiosamente Michael. Sapeva che restava poco tempo a disposizione. «Presto», promise Raleigh. In quel momento si sentì aprire la porta dell'appartamento. «Come farò a trovarla?» insistette Michael. «Non mi troverà. Sarò io a trovare lei quando sarò pronto.» I battenti della porta del salotto si spalancarono. Un uomo apparve sulla soglia. Sebbene fosse preso dalla promessa di Raleigh Tabaka, Michael si distrasse: riconobbe subito l'uomo che era appena arrivato. Il cognome Kendrick avrebbe dovuto metterlo sull'avviso.
«Il nostro ospite, proprietario dell'appartamento», disse Raleigh Tabaka. «Oliver Kendrick, questo è Michael Courteney.» «L'ho vista nel balletto Spartacus», disse Michael, con voce smorzata dall'ammirazione. «Tre volte. Che virilità, che potenza atletica.» Oliver Kendrick sorrise, attraversò la sala con il passo elastico del danzatore, porse la mano a Michael. Era sorprendentemente affusolata e fresca, e le ossa parevano leggère come quelle d'un uccello. Era chiaro il perché lo chiamavano «il Cigno Nero». Il collo era lungo ed elegante, e gli occhi luminosi come un laghetto di montagna al chiaro di luna. La carnagione aveva la stessa lucentezza scura. Michael pensò che da vicino era ancora più bello che nell'illuminazione romantica del palcoscenico, e si sentì mancare il respiro. Il ballerino lasciò la mano abbandonata nella stretta di Michael, e girò la testa verso Raleigh. «Non scappar via, Raleigh», disse con l'accento melodioso. «Devo andare», Raleigh scosse la testa. «Purtroppo devo prendere l'aereo.» Oliver Kendrick si girò di nuovo verso Michael, senza lasciargli la mano. «Ho passato una giornata bestiale. Vorrei morire, lo giuro. Non lasciarmi solo, Michael. Resta e cerca di distrarmi un po'. Sai essere divertente, vero Michael?» Raleigh Tabaka uscì dall'appartamento. Uno dei suoi uomini lo aspettava appena fuori dalla porta. Ma non lasciarono il palazzo. L'uomo precedette Raleigh lungo il corridoio, fino a una porta meno vistosa. Il secondo appartamento era più piccolo e spartano. Raleigh passò nella stanza interna e il secondo dei suoi uomini accennò di alzarsi dalla sedia accanto alla finestra illuminata della parete laterale. Raleigh gli fece cenno di restare seduto e andò alla finestra. Era di dimensioni inconsuete, alta e stretta, come uno specchio da spogliatoio. Il vetro era sfumato di quella tinta leggermente opaca che caratterizza un finto specchio visto dall'interno. Al di là del vetro c'era una camera da letto, sontuosamente arredata come il resto dell'appartamento di Oliver Kendrick. I colori dominanti erano quelli dell'ostrica e del fungo, e la sovraccoperta di raso aveva la stessa sfumatura della ricca moquette. Le luci nascoste facevano brillare il rivestimento a specchio del soffitto. In una nîcchia di fronte al letto troneggiava un antico simbolo fallico scolpito in ossidiana color ambra, una reliquia preziosa proveniente da un tempio indù. La stanza era vuota, e Raleigh concentrò l'attenzione sull'attrezzatura video che era pronta, puntata verso il finto specchio. L'appartamento e l'attrezzatura appartenevano a Oliver Kendrick. Li aveva prestati a Raleigh già in altre occasioni. Era strano che un uomo famoso come Kendrick acconsentisse a simili manovre: ma lo faceva volentieri, anzi aveva offerto i suoi servigi a Raleigh. Partecipava con un entusiasmo così sincero e fantasioso da dimostrare che la cosa era davvero di suo gusto. L'unica condizione era che Raleigh gli consegnasse una copia dei videotapes e delle fotografie da aggiungere alla sua enorme collezione privata. L'attrezzatura video era della migliore qualità professionale. Raleigh era molto impressionato dalla fedeltà che si raggiungeva anche girando in quell'ambiente poco illuminato. Raleigh guardò di nuovo l'orologio. Poteva lasciare il resto alle sue guardie del corpo. Era un lavoro che avevano fatto altre volte. Ma una curiosità perversa lo indusse ad attendere. Passò quasi mezz'ora prima che la porta della camera da letto si aprisse. Entrarono Kendrick e Michael Courteney. I due assistenti di Raleigh si misero in posizione, uno dietro la telecamera, l'altro alla grossa Hasselblad nera montata su un treppiede. La macchina
fotografica era caricata con un rullino in bianco e nero a 3000 ASA che dava immagini nitide anche nelle peggiori condizioni di luce. Nella stanza da letto i due uomini si abbracciarono, un lungo bacio a bocca aperta, e la telecamera emise un lieve ronzio elettrico. Lo scatto dell'otturatore e dell'Hasselblad fu molto più forte, quasi esplosivo nel silenzio della stanza buia. Poi, mentre il bianco attendeva sdraiato sulla coperta di raso color ostrica, Kendrick si avvicinò tutto nudo al finto specchio. Finse di esaminare il proprio corpo: ma in realtà l'ostentava davanti agli uomini che l'osservavano dietro al vetro. La muscolatura era sviluppata in modo straordinario dalle lunghe ore di esercizi alla sbarra. I polpacci e le cosce avevano una struttura sproporzionatamente massiccia. Guardò con arroganza nello specchio e gli orecchini di diamanti scintillarono quando girò la testa sul lungo collo di cigno per assumere una posa teatrale. Si passò la punta della lingua all'interno delle labbra socchiuse e, attraverso lo specchio, incontrò gli occhi di Raleigh Tabaka. Era il gesto più lubrico che il terrorista avesse mai visto, così malefico da far rabbrividire persino lui. Kendrick si voltò e tornò verso il letto. Le natiche nere e vellutate ondeggiarono nella camminata stilizzata, e l'uomo sul letto tese entrambe le braccia. Raleigh si voltò e uscì dall'appartamento. Prese l'ascensore e si avventurò nel freddo della sera. Si strinse il cappotto sul petto e aspirò una boccata d'aria pura. Poi si scosse e si allontanò con il passo lungo e deciso di chi ha un lavoro importante da compiere. Quando Michael lasciò Londra portò via con sé un po' della gioia che aveva colmato la vita di Isabella in quelle ultime settimane. Lei lo accompagnò a Heathrow. «Sembra che non facciamo altro che dirci addio, Michael», mormorò. «Mi mancherai moltissimo... come sempre.» «Ci vedremo per il tuo matrimonio.» «Con ogni probabilità, prima ci sarà un battesimo», rispose Isabella, e Michael la scostò per guardarla meglio. «Non me l'avevi detto», mormorò in tono d'accusa. «La moglie», spiegò lei. «Ci trasferiremo in Spagna alla fine di gennaio. Ramon vuole che il bambino nasca là. Lo adotterà secondo le leggi spagnole.» «Devi farmi sapere dove sei... sempre. E ricorda la promessa.» Isabella annuì. «Sarai il primo che chiamerò, se avrò bisogno d'aiuto.» Alla porta della sala partenze, Michael si voltò per lanciarle un bacio. Quando lo vide sparire, Isabella fu assalita da un gelido senso di solitudine. Ma la sensazione si dileguò in fretta nel sole dell'Iberia. Ramon aveva trovato un appartamento in un piccolo villaggio di pescatori a pochi chilometri da Malaga. Occupava gli ultimi due piani, e aveva una grande terrazza che guardava sui pini e sul blu del Mediterraneo. Durante il giorno, mentre Ramon era in banca, Isabella si sdraiava nell'angolo più protetto della terrazza dove il vento freddo non poteva raggiungerla e stava al sole a scrivere la parte conclusiva della tesi. Nata in Africa, era una figlia del sole, e ne aveva sentito disperatamente la mancanza durante gli anni passati a Londra. La banca faceva viaggiare Ramon di frequente, come quando avevano vissuto a Londra. Le dispiaceva vederlo partire; ma tra un viaggio e l'altro c'erano interludi romantici. A Malaga le sue mansioni non erano impegnative e poteva spesso avere pomeriggi
liberi per condurla nelle calette deserte lungo la costa, o nei ristoranti fuorimano che servivano piatti di mare caratteristici e vini della zona. La ferita era perfettamente guarita. «Tutto merito della mia infermiera», diceva. Erano rimaste due cicatrici rosee, lucide e corrugate, sul petto e sulla schiena. Il sole lo aveva comunque abbronzato molto più di Isabella: sembrava mogano tirato a cera. E in contrasto con l'abbronzatura, gli occhi apparivano di un verde più chiaro e luminoso. Mentre Ramon era via, Isabella aveva la compagnia di Adra. Non era riuscita a scoprire dove Ramon l'avesse scovata. Ma era stata una scelta magistrale perché Adra Olivares era una meravigliosa sostituta di Nanny. In certe cose era anzi migliore, perché non era loquace, impicciona e autoritaria come la vecchia. Adra era snella ma robusta, poco oltre la quarantina. Aveva i capelli nerissimi con qualche ciocca bianca, e li portava raccolti in una crocchia grande come una palla da cricket. La faccia era scura e solenne, ma nel contempo gentile e spiritosa. Le mani brune erano tozze e forti quando sbrigava i lavori di casa, ma diventavano veloci come la luce quando cucinava o stirava alla perfezione gli indumenti di Isabella, e gentili e delicate quando le massaggiava la schiena dolorante e le ungeva con olio d'oliva il ventre gonfio per mantenere elastici e senza smagliature i muscoli e la pelle liscia e giovane. Adra s'era incaricata d'insegnare lo spagnolo a Isabella; i progressi furono così rapidi da sorprendere Ramon. Dopo un mese, Isabella leggeva i giornali locali e discuteva animatamente con l'idraulico e il tecnico che riparava i televisori, e spalleggiava Adra quando tirava sul prezzo al mercatino. Sebbene amasse interrogare Isabella sulla sua famiglia e sull'Africa, Adra non parlava delle proprie origini. Isabella credette che fosse del posto fino a che una mattina notò fra la posta una lettera indirizzata a lei con il francobollo e il timbro dell'Avana, Cuba. Quando chiese: «E' di tuo marito o di qualche parente, Adra? Chi ti scrive da Cuba?» la donna rispose bruscamente. «E' solo un amico, señora. Mio marito è morto.» Per il resto della giornata si mostrò chiusa e taciturna. Solo alla fine della settimana tornò alla normalità; e Isabella si guardò bene dall'accennare ancora alla lettera cubana. Con il passare delle settimane e l'avvicinarsi del parto, l'interesse di Adra crebbe. Si appassionò al corredìno che Isabella stava mettendo insieme. Il primo dono era venuto da Michael. Da Johannesburg era arrivato per via aerea un pacco con una serie di sei lenzuolini e di federe di cotone finissimo orlati di nastri di seta azzurra, e un paio di deliziosi vestitini di lana. Ogni giorno Isabella arricchiva la collezione ed Adra l'aiutava nelle scelte. Insieme giravano in tutti i negozi di abbigliamento per bambini in un raggio di un'ora di macchina da Malaga. Ogni volta che Ramon tornava dai suoi viaggi d'affari, portava sempre qualcosa. Anche se spesso gli indumenti erano abbastanza grandi per un adolescente, Isabella era così commossa da tanta premura che non osava far notare la discrepanza. Una volta, Ramon tornò con una carrozzina così perfetta e magnifica che sembrava uscita dalle officine della Rolls-Royce di Crewe. Adra regalò a Isabella una vestina di seta per il battesimo, confezionata da lei con i pizzi che, disse, avevano ornato l'abito da sposa di sua nonna. Isabella scoppiò a piangere. Le lacrime le venivano più facili con l'avanzare della gravidanza; e spesso pensava a Weltevreden. Quando telefonava al padre ed a Nana, faticava a trattenersi dal dire qualcosa di Ramon o del piccino: loro credevano che si fosse rifugiata in Spagna per poter finire in pace la tesi.
Diverse volte, prima che la gravidanza le impedisse di viaggiare, Ramon le chiese di sbrigare qualche commissione per lui durante le sue assenze. Ogni volta non doveva far altro che recarsi in aereo in qualche località dell'Europa, del Nordafrica o del Medio Oriente, incontrarsi con qualcuno, ritirare una busta o un pacchetto e tornare a casa. Quando andava a Tel Aviv usava il passaporto sudafricano, ma a Bengasi e al Cairo presentava quello britannico. I viaggi duravano appena un giorno e una notte e non erano per nulla emozionanti; ma le offrivano una distrazione e la possibilità di fare spese per il bambino. Appena una settimana dopo il suo viaggio a Bengasi, la monarchia di re Idris I fu rovesciata da un colpo di stato militare organizzato dal colonnello Muammar Gheddafi, e Isabella inorridì al pensiero che per poco lei e il piccino non s'erano trovati coinvolti nella rivoluzione. Ramon condivideva le sue preoccupazioni, e promise di non affidarle altri incarichi fino a che non fosse nato il bimbo. Isabella non gli chiedeva mai se i viaggi erano legati all'attività bancaria o agli aspetti clandestini della sua vita. Una volta la settimana andava per una visita di controllo nella clinica scelta da Ramon. Adra l'accompagnava sempre. Il ginecologo era uno spagnolo raffinato e colto dal volto austero e aristocratico e dalle mani pallide ed efficienti. «Va tutto alla perfezione, señora. La natura sta seguendo il suo corso, e lei è giovane e ben formata per mettere al mondo un figlio.» «Sarà un maschietto?» «Naturalmente, señora. Un bel maschietto sano. Posso garantirglielo.» La clinica era un ex palazzo moresco, completamente restaurato e dotato dell'attrezzatura medica più moderna. Dopo che il dottore gliela ebbe fatta visitare, Isabella comprese che Ramon aveva fatto un'ottima scelta. Era sicura che fosse la migliore disponibile. Durante una delle visite, quando il dottore ebbe terminato la visita e mentre Isabella si stava rivestendo nello stanzino, lo sentì discutere con Adra delle sue condizioni nella sala d'aspetto. Ormai Isabella conosceva lo spagnolo quanto bastava per capire che il dialogo era molto tecnico e preciso, tra due specialisti. E questo la sorprese. Mentre tornavano a casa si fermò a un ristorante sul mare e, secondo un'abitudine ormai consolidata, ordinò gelato in salsa di cioccolata per entrambe. «Ti ho sentita parlare con il dottore, Adra», disse mentre inghiottiva una cucchiaiata di gelato. «Devi aver fatto l'infermiera... sai tante cose, tutti quei termini tecnici.» Ancora una volta incontrò una strana reazione ostile. «Sono troppo stupida. Io sono soltanto una cameriera», disse Adra in tono aspro, e si chiuse in un silenzio scontroso che Isabella non riuscì a penetrare. Il dottore prevedeva che il bambino sarebbe nato nella prima settimana di aprile, e Isabella si affrettò a terminare la tesi. Batté a macchina le pagine conclusive l'ultimo giorno di marzo e la spedì a Londra. Non sapeva se era un mucchio di sciocchezze o un lavoro geniale. Dopo averla fatta partire cominciò a tormentarsi al pensiero delle possibili omissioni e dei miglioramenti che avrebbe dovuto apportare al testo. Si fece promettere solennemente da Ramon che d'ora in poi non l'avrebbe più lasciata sola. E quindi era tra le sue braccia mentre giacevano nudi sotto il lenzuolo nel chiaro di luna, con la porta della terrazza spalancata per far entrare la brezza marina, quando fu svegliata dalle prime doglie. Restò immobile per non svegliare Ramon e misurò gli intervalli tra le contrazioni: era orgogliosa e soddisfatta d'essere entrata
nella fase conclusiva di quel processo così affascinante. Quando finalmente svegliò Ramon, lui fu molto sollecito. Mise il pigiama e corse a chiamare Adra che dormiva nella camera della servitù al piano di sotto. La valigia di Isabella era pronta. Salirono tutti e tre sulla Mini: Isabella era sola sul sedile posteriore, Ramon era al volante. Come aveva predetto il dottore, tutto procedette rapidamente ed in modo naturale. Anche se il bambino era grosso e i fianchi di Isabella erano relativamente stretti, non vi furono complicazioni. Quando il dottore la esortò a fare un ultimo sforzo, spinse con tutte le sue energie e poi, mentre provava un senso enorme di liberazione, proruppe in un grido di gioia trionfante. Si sollevò su un gomito e si scostò dagli occhi i capelli madidi di sudore. «Che cos'è?» chiese. «E' maschio?» Il dottore sollevò in alto il corpicino rosso e lucido e tutti risero del vagito petulante. «Ecco qua.» Il dottore continuò a tenere il piccolo per le caviglie e lo girò in modo che Isabella potesse vederlo meglio. Il visino era scarlatto e rugoso, le palpebre gonfie e chiuse. I capelli folti e nerissimi erano incollati al cranio. Il pene, sporgeva in quella che, secondo il giudizio partigiano di Isabella, sembrava un'impressionante erezione. «E' un maschio!» esclamò. Poi, con una risatina di stupore: «E' un maschio e un Courteney». Era impreparata alla forza travolgente dell'istinto materno, quando le misero al seno il figlio primogenito e il piccolo strinse il capezzolo gonfio tra le gengive gommose e lo tirò con una forza animale che suscitò nel suo grembo un fremito di contrazioni e, nel cuore, una sofferenza più profonda e primordiale. Era la creatura più bella che avesse mai toccato; era bello come il padre. Durante quei primi giorni, non riusciva a staccare gli occhi da lui. Spesso si alzava di notte per chinarsi sulla culla e osservare il visino nel chiaro di luna; e quando lo allattava gli apriva i pugnetti rosei e studiava ogni dito minuscolo con una reverenza quasi religiosa. «E' mio. Appartiene a me», continuava a ripetersi. Non riusciva ancora a superare la meraviglia. Ramon trascorse gran parte dei primi tre giorni in loro compagnia, nella stanza privata della clinica. Sembrava anche lui affascinato dal piccino. Come avevano fatto nei mesi precedenti, discutevano sul nome da dargli. Alla fine, con un lento processo di eliminazione, esclusero Shasa e Sean dalla parte materna della famiglia, e Huesca e Mahon dalla parte paterna. Scelsero Nicholas Miguel Ramon de Santiago y Machado. Miguel era un compromesso, al posto di Michael come aveva proposto Isabella. Il quarto giorno, quando Ramon entrò nella stanza della clinica, era accompagnato da tre signori molto solenni e vestiti di scuro, ognuno con una borsa che conferiva un'aria importante. Uno era un avvocato, il secondo era l'ufficiale di Stato Civile, il terzo il magistrato locale. Il magistrato fece da testimone quando Isabella firmò l'ordine di adozione cedendo la custodia di Nicholas al marchese de Santiago y Machado; poi mise il visto ufficiale sul documento. Il certificato di nascita fornito dall'anagrafe indicava che il padre era Ramon. I tre signori brindarono con lo sherry alla salute della madre e del figlio e se ne andarono; e Ramon prese Isabella fra le braccia. «Il diritto di tuo figlio al titolo è assicurato», mormorò. «Nostro figlio», bisbigliò lei, e lo baciò. «I miei uomini, Nicky e Ramon.» Quando Ramon venne a prenderli alla clinica e li condusse
nell'appartamento, Isabella volle portare Nicky su per le scale. Adra aveva riempito le stanze di fiori. Nei giorni che seguirono, tra le due donne sorse una rivalità tacita ma intensa. Sebbene Isabella riconoscesse che Adra si occupava con efficienza del bimbo, quell'intrusione la irritava. Voleva Nicky tutto per sé, cercava di anticipare le sue esigenze e di precedere Adra. Il colorito rosso del viso di Nicky si attenuò in una perfetta tinta color pesca, e i capelli scuri si arricciarono. Quando aprì gli occhi per la prima volta, si vide che avevano lo stesso colore verde chiaro di quelli di Ramon. Isabella lo considerava come uno dei più grandi miracoli dell'universo. «Sei bello come tuo padre», gli diceva mentre lo allattava. Questo, almeno, Adra non poteva farlo. Durante i mesi trascorsi da quando erano venuti ad abitare nel villaggio, Isabella s'era fatta benvolere da tutti. La sua bellezza e i modi cordiali, la gravidanza e l'impegno sincero per imparare la lingua avevano incantato i bottegai e i venditori del mercato. Per cedere alle loro insistenze, quando Nicky aveva appena dieci giorni Isabella lo mise nella carrozzina e lo portò a fare il giro del villaggio. Fu un trionfo; tornarono all'appartamento carichi di piccoli doni e di complimenti. Quando telefonò a casa il giorno di Pasqua, la nonna le chiese in tono severo: «Cosa c'è di tanto importante in Spagna da impedirti di venire a casa a Weltevreden?» «Oh, Nana, voglio tanto bene a tutti voi, ma è impossibile. Perdonami, ti prego.» «Se non ti conosco male, signorina, hai in mente qualcosa di scandaloso, e quel qualcosa porta i pantaloni.» «Nana, è terribile! Come puoi pensare di me una cosa simile?» «Perché ho la mia età e la mia esperienza», ribatté in tono asciutto Centaine Courteney-Malcomess. «Non metterti in altri guai, bambina.» «No, no, te lo prometto», disse dolcemente Isabella, e si strinse al petto il bambino. Ah, se sapessi, pensò. Lui non porta i pantaloni. Almeno per ora. «Come va la tesi?» chiese suo padre quando venne all'apparecchio. Isabella non poteva dire che l'aveva già presentata, perché era il suo pretesto per restare in Spagna. «E' quasi finita», rispose. Non ci aveva più pensato da quando era nato Nicky. «Buona fortuna, allora.» Poi Shasa tacque per un momento. «Ricordi la promessa che mi hai fatto?» «Quale?» Isabella cercò di procrastinare: ma sapeva benissimo a cosa si riferiva il padre. «Hai promesso che se mai fossi in un guaio, un guaio qualunque, non cercherai di cavartela da sola e ti rivolgerai a me.» «Sì, certo che lo ricordo.» «Va tutto bene, Bella?» «Sì. Va tutto meravigliosamente, papà.» Shasa Courteney sentì la sincerità nella sua voce e sospirò, tranquillizzato. «Buona Pasqua, figliola cara.» Quando parlò con Michael, per lei fu un sollievo dire tutto. Rimasero all'apparecchio per quarantacinque minuti, e Isabella fece il solletico a Nicky in modo che lo zio lontano lo sentisse ciangottare. «Quando verrai a casa, Bella?» chiese finalmente Michael. «Ramon avrà il divorzio in giugno, ormai è certo. Ci sposeremo civilmente qui in Spagna e celebreremo il matrimonio religioso nella chiesetta di Weltevreden. Spero che sarai presente
in tutte e due le occasioni.» «Prova ad impedirmelo», disse Michael in tono di sfida. Il giorno di Pasqua pranzarono nel loro ristorante preferito in riva al mare, con la carrozzina di Nicky parcheggiata accanto al tavolo. La moglie del padrone aveva fatto un vestitino a maglia per il piccolo. Adra era con loro. Ormai faceva parte della famigliola, e fu lei a spingere la carrozzina quando si avviarono per rincasare. Isabella stringeva il braccio di Ramon. Si sentiva molto sposata e molto materna, ed era felice come non lo era mai stata in vita sua. Quando arrivarono nell'appartamento, Adra portò via Nicky per cambiarlo. Per una volta, Isabella non se ne risentì. Abbassò le imposte nella camera da letto e si avvicinò a Ramon. «Nicky è nato da tre settimane. Non sono di vetro, sai. Non mi romperò.» Ramon era troppo delicato e gentile per il suo ardore. Aveva dovuto rinunciare a lui per troppo tempo. «Credo che abbia dimenticato come si fa», gli disse, e lo rovesciò sul letto. «Lascia che ti rinfreschi la memoria, signore.» «Non farti male», le raccomandò ansiosamente Ramon. «Se c'è qualcuno che si farà male, molto probabilmente sarai tu, amico mio. Allàcciati la cintura: siamo pronti per il decollo.» Più tardi, nella stanza semibuia, rimase a giacere stretta a lui, in uno sfinimento languido. I loro corpi erano incollati leggermente insieme dal sudore. Ramon disse: «La settimana prossima dovrò andar via per quattro giorni». Isabella si sollevò a sedere. «Oh, Ramon, così presto!» protestò; e poi pensò che si comportava in modo possessivo e irragionevole. «Mi telefonerai tutti i giorni, vero?» chiese. «Farò di meglio. Dato che andrò a Parigi, cercherò di combinare le cose in modo che tu mi raggiunga. Andremo a cena da Laserre.» «Sarebbe meraviglioso ma... e Nicky?» «Nicky ha Adra che bada a lui.» Ramon rise. «Non gli succederà niente, e Adra sarà felice di averlo tutto per sé.» «Non so...» disse Isabella in tono dubbioso. Il pensiero di separarsi dal suo tesoro anche per un'ora soltanto la sgomentava. «Sarà per una notte appena, e hai meritato una piccola ricompensa. E poi anch'io ho bisogno di te, lo sai.» «Oh, amore mio.» Quelle parole la commossero. Aveva latte in abbondanza; poteva metterne da parte il necessario per le poppate che Nicky avrebbe dovuto fare durante la breve assenza. «Certo, mi piacerebbe venire con te. Hai ragione. Nicky e Adra sopravviveranno una notte senza di me: ti raggiungerò appena mi chiamerai.» «La donna ha partorito il marmocchio quasi un mese fa», bisbigliò con voce rauca il generale Joseph Cicero. «Perché questo ritardo? Avresti dovuto concludere l'operazione immediatamente. La spesa è stata sproporzionata!» «Il generale ricorderà che pago io le spese con fondi personali, e non con gli stanziamenti del dipartimento», ribatté Ramon senza alzare la voce. Cicero tossì e scosse il France Soir che teneva davanti alla faccia. Erano seduti fianco a fianco in una carrozza della metropolitana parigina. Cicero era salito alla fermata di Place de la Concorde e s'era seduto accanto a Ramon. Nessuno dei due aveva
mostrato di riconoscere l'altro. Il rombo del treno che correva nella galleria sotterranea sarebbe bastato a frustrare chi avesse tentato di origliare. Entrambi avevano i giornali aperti davanti alla faccia quando parlavano. Era una delle procedure abituali per gli incontri brevi. «Non mi riferivo solo al costo in rubli», ansimò Cicero. «Hai dedicato quasi un anno a questo progetto, a tutto danno delle altre attività del dipartimento.» Ramon era colpito dal corso rapido della malattia che stava uccidendo il suo superiore. Sembrava che a ogni incontro Joseph Cicero peggiorasse visibilmente. Non sarebbe durato ancora a lungo... qualche mese al massimo. «Quei pochi mesi di lavoro ci renderanno enormemente nel corso degli anni e dei decenni futuri.» «Lavoro!» sbuffò Cicero in tono sprezzante. «Far l'amore e niente altro. Se questo è lavoro, marchese, come definisci il piacere? E perché rimandi di mese in mese la conclusione?» «Se vogliamo che la donna abbia per noi il massimo valore, è indispensabile che si affezioni molto al bambino, prima che procediamo alla prossima fase dell'operazione.» «Quando?» chiese Cicero. «Già fatto. Il frutto è maturo. Tutto è pronto. Ho bisogno della tua collaborazione per la soluzione finale. Ecco perché ho scelto Parigi per questo incontro.» Cicero annuì. «Continua.» Ramon parlò a voce bassa per altri cinque minuti. Cicero ascoltò senza far commenti; ma doveva ammettere che il piano era infallibile. Ancora una volta, riconobbe tra sé che il suo successore era stato una buona scelta, nonostante i pregiudizi iniziali che gli aveva ispirato. «Sta bene», bisbigliò alla fine. «Sei autorizzato a procedere. E secondo la tua richiesta, seguirò il procedimento.» Cicero piegò il giornale e si alzò mentre il treno entrava nella stazione della Bastiglia. Quando le porte si aprirono, scese sulla banchina e si allontanò senza voltarsi indietro. La comunicazione dell'università di Londra arrivò il pomeriggio della partenza di Ramon. Era una lettera espresso con lo stemma dell'ateneo sulla falda della busta. «Il Cancelliere ed i Membri del corpo insegnante dell'università di Londra hanno il piacere d'informare Isabella Courteney che è stata insignita del titolo di dottore.» Isabella telefonò immediatamente a Weltevreden. Non c'era una grande differenza d'orario tra Malaga e Città del Capo, e Shasa era appena rientrato da un incontro di polo. Portava ancora la tenuta da gioco, e ricevette la chiamata nello studio al pianterreno, con le porte-finestre affacciate sul campo. «Accidentaccio!» gridò quando Isabella glielo disse. quell'esplosione così insolita era la prova della sua profonda soddisfazione. «Quando ci sarà la cerimonia della consegna del tocco, tesoro?» «Non prima di giugno o luglio. Dovrò restare fino ad allora.» Era il pretesto che le serviva. «Certo», disse Shasa. «Verrò anch'io.» «Oh, papà, è un viaggio così lungo.» «Non dire sciocchezze, dottoressa Courteney. Non vorrei perdermela per niente al mondo. E probabilmente anche tua nonna vorrà venire con me.» Era strano, ma quella prospettiva non l'allarmava troppo. Si rendeva conto che sarebbe stata l'occasione ideale per far conoscere Ramon e Nicky a suo padre ed a Nana. Centaine Courteney-Malcomess, lontana dal suo terreno, era meno temibile di quanto lo fosse nello splendore e nella
tradizione di Weltevreden. Più di ogni altra cosa, in quel momento, Isabella desiderava dividere la sua gioia con Ramon: ma quella sera egli non le telefonò e non la chiamò neppure il giorno seguente. Il giovedì mattina Isabella era quasi fuori di sé per la preoccupazione. Ramon non s'era mai comportato così: quando era lontano la chiamava ogni giorno. Quando finalmente squillò il telefono era nella piccola cucina e discuteva con Adra la quantità d'aglio da mettere nella paella. «Ti inietteresti l'aglio nelle vene, se ne avessi la possibilità», l'accusò in spagnolo. «Stiamo preparando la paella, non lo spezzatino irlandese», ribatté Adra. Poi il telefono trillò, e Isabella lasciò cadere il cucchiaio e rovesciò la sedia nel corridoio per la fretta di rispondere. «Ramon, amore, ero così preoccupata. Perché non mi hai chiamata?» «Scusami, Bella.» I toni cupi e vellutati erano suadenti, e la voce di Isabella divenne carezzevole. «Mi ami ancora?» «Vieni a Parigi e te lo dimostrerò.» «Quando?» «Subito. Ti ho fatto la prenotazione sul volo dell'Air France che parte alle undici. Troverai il biglietto all'aeroporto. Arriverai qui alle due.» «Dove ci vediamo?» «Al Plaza Athénée. Ho preso una suite.» «Tu mi vizi, Ramon caro.» «Non più di quanto meriti.» Isabella lasciò subito l'appartamento. Ma il decollo dell'Air France fu ritardato di quaranta minuti. A Parigi gli addetti ai bagagli lavoravano attenendosi ai regolamenti, e lei rimase ad aspettare con impazienza per quasi un'ora prima che le venisse consegnata la valigia. Erano le cinque passate quando il tassì si fermò in Avenue Montaigne davanti all'elegante facciata del Plaza Athénée con i vistosi tendoni scarlatti. Si aspettava di trovare Ramon ad attenderla nell'atrio splendente di marmi, e si guardò intorno ansiosa dopo aver varcato la porta girevole. Ramon non c'era. Isabella non badò all'individuo scarno seduto su una poltrona di broccato di fronte al banco della reception. L'uomo alzò per un momento la testa canuta e la guardò con gli occhi neri come il catrame e stranamente spenti. Poi tossì e concentrò l'attenzione sul giornale che stava leggendo. Isabella si avviò alla reception. «Il marchese de Santiago y Machado? Sono sua moglie.» «Un momento, madame.» Il concierge in uniforme consultò il registro, poi scosse la testa e aggrottò la fronte. «Mi dispiace, madame. Il marchese non alloggia qui.» «Forse è registrato come monsieur Machado.» «No, mi dispiace. Non c'è nessuno con quel cognome.» Isabella era confusa. «Non capisco. Ho parlato con lui proprio stamattina.» «Proverò a informarmi.» Il concierge si allontanò un momento per consultare l'addetto alle prenotazioni. Tornò subito. «Suo marito non alloggia qui e non ci sono prenotazioni a suo nome.» «Allora sarà stato trattenuto.» Isabella si sforzò di non tradire la preoccupazione. «Ha una stanza per me?» «E' tutto prenotato.» Il concierge allargò le mani in un gesto di rammarico. «E' primavera, vede. Sono desolato, madame, ma Parigi è invasa dai turisti.»
«Mio marito arriverà senz'altro», insistette Isabella. «Le dispiace se l'aspetto nella galleria?» «Prego, madame. Il cameriere le porterà un caffè o ciò che desidera. Il facchino custodirà la sua valigia.» Mentre Isabella si avviava verso la lunga hall che all'ora del cocktail era il ritrovo più alla moda per le tout Paris, l'uomo dai capelli bianchi si alzò dalla poltrona. Aveva l'andatura di un vecchio fragile ed ammalato; ma Isabella era così costernata che non lo guardò neppure. Cicero uscì in strada, e l'usciere chiamò un tassì che lo condusse in Rue Grenelle. Cicero percorse a piedi l'ultimo isolato e arrivò all'ambasciata sovietica. La guardia del turno di notte lo riconobbe subito. Dall'ufficio dell'addetto militare al secondo piano, Cicero chiamò un numero di Malaga. «La donna sta aspettando in albergo», bisbigliò. «Non tornerà prima di domani a mezzogiorno. Procedi secondo il piano.» Un po' prima delle sette, il concierge si presentò a Isabella nella hall. «C'è stata una disdetta, madame, e si è liberata una stanza. Ho già mandato di sopra il suo bagaglio.» Isabella l'avrebbe abbracciato. Gli diede cento franchi di mancia. Dalla sua camera, telefonò a Malaga. Sperava che Ramon avesse lasciato un messaggio ad Adra, dato che non aveva potuto incontrarsi con lei come d'accordo. Contò gli squilli dell'apparecchio fino a cento, ma non ebbe risposta. Questa volta si allarmò. Adra avrebbe dovuto essere in casa: il telefono era nel corridoio davanti alla porta della sua camera. Isabella richiamò altre due volte durante la notte, ma inutilmente. «Il telefono non funziona», si disse senza molta convinzione. Non riuscì a dormire. Appena aprì l'ufficio della linea aerea, prenotò un posto per rientrare a Malaga; e nonostante l'angoscia poté dormire un'ora durante il viaggio. Atterrò all'aeroporto di Malaga dopo mezzogiorno. Il tassì la lasciò davanti alla casa, e Isabella trascinò la valigetta fino alla porta. Con le dita che tremavano per la stanchezza e l'agitazione riuscì finalmente a inserire la chiave nella serratura. Nell'appartamento regnava uno strano silenzio. La sua voce echeggiò oltre la porta spalancata. «Adra, sono tornata. Dove sei?» Si affacciò in cucina, prima di correre nella stanza di Adra. La camera era vuota. Salì di corsa la scala e si fermò di colpo davanti alla porta della sua stanza da letto. Era aperta. Il lettino di Nicky era ancora nell'alcova di fronte alla finestra. Era stato spogliato delle lenzuola, dei cuscini e delle coperte che Michael aveva mandato da casa. Anche il tavolo dove di solito stava l'esercito di giocattoli di Nicky, orsacchiotti e coniglietti e bestiole varie, era nudo. Isabella andò alla porta della terrazza e guardò fuori. La carrozzina era sparita. «Adra!» gridò, con un tono acuto di panico. «Dove sei?» Corse nelle altre stanze. «Nicky! Bambino mio! Oh, Dio, ti prego! Dove hai portato Nicky?» Isabella si ritrovò nella camera padronale, accanto al lettino vuoto. «Non capisco», bisbigliò. «Cos'è successo?» Spinta da un impulso improvviso, si voltò e aprì i cassetti del comò di Nicky. Erano tutti vuoti. Erano scomparsi anche i pannolini, i vestitini e le camicine. «L'ospedale», singhiozzò. «E' successo qualcosa al mio bambino.»
Scese a precipizio le scale, afferrò il telefono. Poi restò immobile nel vedere la busta incollata alla forcella dell'apparecchio. Lasciò cadere il ricevitore ed aprì la busta. Le mani le tremavano tanto che stentava a leggere le parole scritte sul foglio. Tuttavia riconobbe subito la scrittura di Ramon e provò un ingannevole moto di sollievo, che svanì non appena lesse: Nicholas è con me. Per il momento è al sicuro. Se vuoi rivederlo, segui esattamente queste istruzioni. Non parlare con nessuno a Malaga. Ripeto, non parlare con nessuno. Lascia immediatamente l'appartamento e torna a Londra. Qualcuno ti contatterà in Cadogan Square. Non dire a nessuno ciò che è successo, neppure a tuo fratello Michael. Segui ciecamente queste istruzioni. La tua disobbedienza avrebbe conseguenze tragiche per Nicky. Potresti non rivederlo più. Distruggi questa lettera.R. Isabella si sentì mancare le gambe; si accasciò contro la parete e sedette sulle piastrelle come se le giunture delle anche si fossero disarticolate. Rilesse la lettera, pîù e più volte. Non aveva senso. «Il mio bambino», mormorò. «Il mio piccolo Nicky.» Poi lesse a voce alta le parole terribili: «La tua disobbedienza avrebbe conseguenze tragiche per Nicky. Potresti non rivederlo più». Lasciò ricadere la mano che stringeva la lettera e fissò la parete di fronte. Aveva l'impressione che il mondo e la sua intera esistenza fossero stati spazzati via. Si sentiva svuotata e priva di significato come il muro che le stava davanti. Non seppe per quanto tempo fosse rimasta così; alla fine si scosse con uno sforzo supremo. Si appoggiò alla parete e si rimise in piedi. Risalì in camera da letto e andò all'armadio di Ramon. Spalancò le ante: anche quello era vuoto. Erano sparite persino le stampelle appendiabiti. Andò ad aprire i cassetti del comò: erano vuoti. Ramon non aveva lasciato nul a. Tornò nell'alcova di Nicky. Si muoveva come la superstite di un bombardamento, stordita e scoordinata. S'inginocchiò accanto al lettino vuoto. «Bambino mio», mormorò. «Che cosa ti hanno fatto?» Poi vide che qualcosa era scivolato fra il materassino e le sbarre di legno. Lo prese e lo tenne con entrambe le mani. Inginocchiata davanti al lettino come se fosse un altare, continuò a tenere fra le dita quell'oggetto sacro. Era una delle scarpine di Nicky, lavorata a maglia, con un nastrino di raso azzurro per allacciarla intorno alla caviglia rosea. Se l'accostò al viso e aspirò l'odore delicato di suo figlio. Solo allora cominciò a piangere. Pianse con una rabbia e un'amarezza che la lasciarono esausta. Ormai le ombre della sera avevano invaso la terrazza e la camera da letto; ebbe appena la forza di trascinarsi fino al letto e di raggomitolarsi. Si addormentò stringendo contro la guancia la scarpina di lana. Quando si svegliò era ancora buio. Per lunghi secondi rimase immobile, sopraffatta da un senso tenebroso di catastrofe, incapace d'identificarne la causa. Poi all'improvviso ricordò tutto. Si alzò e si guardò intorno con orrore. La lettera di Ramon era sul comodino accanto al letto. La prese e la rîlesse, cercando ancora di ricavarne un senso. «Ramon, amor mio, perché l'hai fatto?» mormorò. Poi, obbedendo alle istruzioni, portò il foglio in bagno, lo fece a pezzettini e lo buttò nel gabinetto. Poi fece scorrere l'acqua. Sapeva che ogni parola sarebbe rimasta impressa per sempre nella sua mente. Non aveva né la necessità né il desiderio di conservare quel messaggio orribile. Fece la doccia, si vestì, preparò una fetta di pane tostato e un caffè. Non avevano sapore. Si sentiva la bocca intorpidita come se si fosse scottata con l'acqua bollente. Poi incominciò a frugare meticolosamente l'appartamento.
Incominciò dalla stanza di Adra. Non era rimasto nulla, né un capo di vestiario, né un vasetto od un tubetto di cosmetici nel suo bagno, neppure un capello sul cuscino. Poi ispezionò il soggiorno e la cucina. Anche lì non c'era nulla, a parte i mobili e le stoviglie ed i viveri nel frigo. Tornò in camera da letto. C'era una piccola cassaforte a muro dietro l'armadio di Ramon: ma lo sportello d'acciaio era socchiuso e tutti i documenti erano sparìti, inclusi il certificato di nascita di Nicky e le carte dell'adozione. Isabella sedette sul letto e si sforzò di riflettere, cercando disperatamente di trovare una spiegazione per quella follia. Insistette, tentando di considerare ogni angolazione possibile. C'era un'unica conclusione possibile. Ramon era in un guaio gravissimo. Erano stati colpiti da un disastro a causa della sua vita clandestina. Evidentemente era stato costretto a partire con Nicky. Capiva che doveva fare quanto era in suo potere per aiutare Ramon e Nicky, le due persone più importanti della sua vita. Sapeva di dover fare ciò che Ramon le aveva ordinato. La loro salvezza, forse le loro vite, dipendevano da lei. Ma non poteva andarsene così. Doveva scoprire qualcosa di più; ogni notizia avrebbe potuto essere utile. Lasciò l'appartamento e scese. Dall'altra parte della strada c'era un fornaio, e in quei mesi Isabella aveva fatto amicizia con la moglie del padrone. La donna stava aprendo quando la raggiunse correndo. «Sì», disse la fornaia, «dopo che è partita, giovedì, Adra è uscita con Nicholas nella carrozzina. Sono andati verso la spiaggia, e sono tornati indietro poco prima che chiudessi. Li ho visti entrare in casa, ma poi non li ho visti più.» Isabella si avviò lungo la strada, fermandosi per interrogare tutti i proprietari dei negozi vicini. Alcuni avevano notato Adra che rientrava con Nicky il giovedì sera; ma da allora non li aveva più visti nessuno. L'ultima speranza era il giovanissimo lustrascarpe che stava all'angolo del giardino pubblico. Ramon si faceva sempre pulire le scarpe da lui e gli dava ricche mance. Anche Isabella lo trovava simpatico. «Sì, señora», disse il ragazzo con un sorriso. «Il giovedì sera lavoro fino a tardi, per via del cinema e della sala giochi. Alle dieci ho visto il marchese. E' arrivato con una grossa macchina nera, insieme a due uomini. Hanno parcheggiato sotto la casa e sono saliti.» «Hai visto com'erano quei due, chico? Li conosci? Li avevi già visti?» «No, mai. Erano due tipi duri... poliziotti, credo. Brutta storia: a me i poliziotti non piacciono. Sono saliti tutti e sono scesi poco dopo. Tutti portavano le valigie... grosse valigie. Adra è andata con loro. Aveva in braccio il bambino, Nico. Sono saliti tutti in macchina e sono partiti. Ecco tutto. Poi non li ho più visti.» La presenza dei due tipi duri confermava il sospetto di Isabella: Ramon aveva agìto in stato di coercizione. Si rendeva conto che per lei l'unica possibilità consisteva nel seguire le istruzioni della lettera. Tornò all'appartamento e cominciò a fare i bagagli. Lasciò sul pavimento della camera gli abiti premaman che non servivano più; e gli abiti che le andavano bene riempirono soltanto due valigie. Quando aprì il cassetto dei cosmetici, vide che il grosso album di fotografie di Nicky era scomparso, insieme alle buste dei negativi. Non aveva più nulla del suo bambino, né una fotografia né un ricordo, a parte la scarpina di lana che aveva trovato nel lettino. Portò al piano terreno le valigie e le caricò sulla Mini. Poi attraversò la strada e andò a parlare con la fornaia.
«Se mio marito torna e chiede di me, gli dica che sono rientrata a Londra.» «E Nico? E' tutto a posto, señora?» chiese premurosamente la donna, e Isabella sorrise. «Nico è con mio marito. Li ritroverò presto a Londra. Muchas gracias por su ayuda, señora. Adios.» Il viaggio verso nord sembrava interminabile. Ogni episodio degli ultimi giorni trascorsi da quando aveva visto il figlio per l'ultima volta si ripeteva nella sua mente, fino a darle l'impressione di stare lentamente impazzendo. A bordo del traghetto della Manica, evitò il chiasso gioviale del salone affollato e salì sul ponte delle scialuppe. Era una giornata fredda e grigia, e il vento del nord coronava le onde di bianche creste di spuma. Il vento e la disperazione l'agghiacciavano completamente, e la facevano tremare sebbene fosse protetta dal giubbotto imbottito. Ma alla fine fu il dolore dei seni gonfi a costringerla a scendere sottocoperta. Andò nella toeletta delle signore e usò il tiralatte per estrarre il liquido che avrebbe dovuto essere destinato al figlio. «Oh, Nicky, Nicky!» gemette in silenzio mentre versava nel gabinetto il latte candido e immaginava ancora una volta la boccuccia calda sui suoi capezzoli, e il profumo tenero e la sensazione del contatto del bimbo contro il seno. Si accorse che stava piangendo e si dominò con uno sforzo immane. «Stai perdendo il senso della realtà», si disse. «Ora devi essere molto forte. Non devi lasciarti andare. Devi essere forte per Nicky. Non devi più piangere e struggerti... ora basta.» Pioveva quando arrivò in Cadogan Square. L'appartamento sembrava gelido e scostante. Mentre apriva le valigie, ricordò la promessa che aveva fatto al padre. Lasciò cadere l'abito che aveva in mano e corse in salotto. «Servizio internazionale? Vorrei parlare con Città del Capo, Sudafrica.» A quell'ora, per avere la comunicazione bastarono dieci minuti. Isabella sentì squillare l'apparecchio. Rispose uno dei servitori; e quando lei aprì la bocca per chiedere del padre, ricordò l'ingiunzione di Ramon in tutta la sua forza minacciosa: «La tua disobbedienza avrebbe conseguenze tragiche per Nicky.» Posò il ricevitore senza parlare e si rassegnò ad attendere il contatto promesso. Per sei giorni non accadde nulla. Isabella non lasciava mai l'appartamento per non allontanarsi dal telefono. Non chiamava nessuno, non parlava con nessuno oltre alla governante, e cercava di distrarsi leggendo e guardando la televisione. L'incertezza ingigantiva la sua disperazione, e si accorse che, per quanto fissasse le pagine del libro e il piccolo schermo del televisore, le parole stampate e le immagini non avevano alcun significato. Soltanto la sua angoscia era reale. Solo la sofferenza aveva un significato. Soltanto il dolore perdurava. Non se la sentiva di mangiare. E in tre giorni, il flusso del latte cessò. Dimagrì drammaticamente. I capelli, che erano stati una delle sue caratteristiche più belle, erano opachi e secchi. Il volto riflesso nello specchio era scarno, gli occhi infossati e cerchiati e la dorata abbronzatura mediterranea era diventata giallastra come la pelle d'un malato di malaria. Attendeva, e l'attesa era una tortura. Ogni ora sembrava un'eternità insopportabile. Il sesto giorno squillò il telefono. Afferrò il ricevitore con fretta disperata prima del secondo trillo. «Ho un messaggio da parte di Ramon.» Era una voce di donna dall'accento inclassificabile, forse centroeuropeo. «Esca
immediatamente. Prenda un tassì e si faccia portare all'incrocio di Royal Hospital Road con l'Embankment. Percorra a piedi l'Embankment verso Westminster. Qualcuno la chiamerà con il nome di Rosa Rossa. Obbedisca ai suoi ordini. Ripeta le istruzioni, prego.» Isabella obbedì, ansimando. «Bene», disse la donna, e tolse la comunicazione. Isabella aveva percorso appena un centinaio di metri lungo l'Embankment sopra il Tamigi quando un furgoncino senza scritte la superò procedendo lentamente nella stessa direzione. Si fermò accanto al marciapiedi, più avanti e, quando lei lo raggiunse, lo sportello posteriore si aprì, mostrando una donna di mezza età che indossava una tuta grigia ed era seduta su una panca. «Rosa Rossa», disse. Isabella riconobbe la voce: era quella che le aveva parlato al telefono. «Salga!» Isabella si affrettò a salire e sedette di fronte alla donna che sbatté lo sportello. Il furgoncino ripartì. Non c'erano finestrini né aperture, a parte il ventilatore nel tettuccio, sopra la testa di Isabella. Non poteva guardare fuori e, per quanto cercasse di tenere traccia del percorso in base alle svolte ed alle fermate, ben presto si confuse completamente e rinunciò al tentativo. «Dove mi sta portando?» chiese alla donna. «Silenzio, prego.» Isabella si rassegnò. Alzò il colletto e affondò le mani nelle tasche del giubbotto imbottito. Viaggiarono per ventitré minuti, secondo il suo orologio. Poi il furgone si fermò ancora una volta e lo sportello posteriore venne aperto dall'esterno. Erano in un garage. I pilastri di cemento che sostenevano il tetto basso e la ripida rampa d'accesso in fondo indicavano che doveva essere sotterraneo. La donna in tuta grigia le prese il braccio e l'aiutò a scendere dal furgone. Il contatto di quella mano diede a Isabella una misura precisa della sua forza: sembrava la zampa di un gorilla. E sotto la stoffa grigia, le spalle erano ampie e carnose. «Da questa parte», ordinò. Condusse Isabella alla porta di un ascensore. Nonostante la stretta dolorosa, Isabella si guardò rapidamente intorno. C'era una dozzina di veicoli parcheggiati a fianco del furgone, e almeno due avevano targhe del corpo diplomatico. La porta dell'ascensore si aprì e la donna spinse Isabella all'interno. Un'occhiata ai comandi rivelò che la sua supposizione era esatta. L'indicatore illuminato dei piani mostrava che erano nel sotterraneo, al secondo livello. La donna premette il pulsante del terzo piano. Salirono in silenzio fino a che l'ascensore si fermò, e la donna sospinse Isabella in un corridoio spoglio con il pavimento rivestito di sughero. Si avviarono fianco a fianco, sempre in silenzio. Il corridoio era vuoto, e le porte sui due lati erano chiuse. Quando stavano per arrivare in fondo, una porta si aprì. Un'altra femmina poderosa dalla faccia piatta e dai lineamenti slavi, egualmente insaccata in una tuta grigia, le fece entrare in quella che sembrava una sala per le conferenze o un cinema per pochi intimi. Una doppia fila di poltrone fronteggiava il palco e lo schermo che copriva la parete di fondo. L'accompagnatrice di Isabella la condusse a una poltroncina centrale della prima fila. «Sieda», disse, e Isabella si lasciò cadere sul freddo sedile di plastica imbottita. Le due donne si piazzarono in piedi dietro di lei. Il silenzio si protrasse per lunghi minuti. Poi si aprì la porticina a lato del palco. Entrò un uomo. Si muoveva adagio, a passi rigidi, come un vecchio fragile e
malato. I capelli erano d'un bianco spento sfumato di giallognolo e spiovevano sulla fronte e sugli orecchi. Il viso era pallidissimo, grinzoso e segnato dagli anni e dalla sofferenza, tanto che Isabella provò un guizzo di commiserazione per lui fino a che la luce non gli investì gli occhi. Con un sussulto d'intenso disgusto riconobbe quegli occhi. Una volta s'era trovata con il padre a bordo di un peschereccio preso a nolo e partito da Black River. Shasa era intento a pescare lungo la scarpata oceanica, all'ombra di Le Morne Brabant dell'isola Mauritius quando aveva preso all'amo un gigantesco squalo. Dopo una battaglia di due ore l'aveva trascinato a fianco dell'imbarcazione. Quando il muso appuntito era emerso, Isabella stava appoggiata al parapetto, e aveva guardato quegli occhi. Erano neri e spietati, senza una definizione tra iride e pupilla, due pozzi che sembravano discendere fin nell'inferno. Gli occhi che la scrutavano adesso erano identici. Isabella trattenne il respiro sotto quello sguardo implacabile, fino a che l'uomo parlò. La voce era sorprendente, bassa e roca. Lei dovette tendersi leggermente in avanti per capire ciò che diceva. «Isabella Courteney, d'ora in poi non useremo più questo nome nelle comunicazioni. La chiameremo Rosa Rossa, e parlerà di Rosa Rossa quando alluderà a se stessa. Ha capito?» Lei annuì. Non osava dir nulla. L'uomo alzò la sigaretta che si consumava tra le dita e aspirò profondamente. Parlò di nuovo, in una nube di fumo. «Ho un messaggio per lei sotto forma di videotape.» Scese dal palco e sedette in fondo alla fila, lontano da lei. In quel momento le luci si abbassarono. Isabella sentì il ronzio di un'apparecchiatura elettronica e lo schermo s'illuminò. Apparve una stanza dalle pareti piastrellate di bianco: un laboratorio o una sala operatoria. Al centro c'era un tavolo, e sul tavolo una vasca di vetro simile agli acquari che esponevano i pesci ornamentali nei negozi di animali. La vasca era piena d'acqua fino a pochi centimetri dalla sommità. Accanto c'erano una specie di quadro di comandi elettronici e un assortimento di strumenti e di attrezzature mediche. Isabella riconobbe una bombola d'ossigeno e una maschera per la somministrazione. La maschera era un modello piccolissimo, adatto per neonati e bambini in tenera età. Davanti al tavolo stava un uomo. Voltava la schiena all'obiettivo e il volto era nascosto. Indossava una specie di camice bianco. Si voltò verso la telecamera e Isabella vide che aveva una calotta di tela e una maschera da chirurgo. Cominciò a parlare con voce spassionata e con accento straniero, est europeo. Sembrava che si rivolgesse direttamente a Isabella. «Aveva avuto ordine di non parlare a nessuno, a Malaga e altrove. Ha disobbedito di proposito agli ordini.» La fissava dallo schermo con quegli occhi disincarnati. «Chiedo scusa», mormorò lei come se l'uomo potesse sentirla. «Ero così preoccupata. Non potevo...» «Silenzio!» sibilò una delle donne che stavano dietro di lei. Una mano si posò sulla sua spalla e le dita le affondarono nella carne con una forza che la fece trasalire. Sullo schermo l'uomo stava ancora parlando. «Era stata avvertita che la sua disobbedienza avrebbe avuto conseguenze tragiche per suo figlio. Ha ignorato l'avvertimento. Ora sta per assistere a una prima dimostrazione della serietà delle istruzioni.» Fece un gesto a qualcuno fuoricampo, e qualcuno entrò. Era impossibile capire se era un uomo o una donna, perché la calotta e la maschera coprivano completamente la faccia, lasciando
scoperti soltanto gli occhi. Il lungo camice da chirurgo scendeva al di sotto delle ginocchia ed era rimboccato negli stivali di gomma bianca. «Questo è un medico qualificato che seguirà la procedura», spiegò l'uomo. La figura portava un fagotto tra le braccia. Solo quando lo posò sul tavolo accanto alla vasca e un piedino nudo scalciò liberandosi dalla stoffa che l'avvolgeva, Isabella si rese conto che era un bimbo. Con mosse esperte il dottore tolse il drappo e la telecamera zumò, inquadrando Nicky che giaceva sul tavolo e agitava le gambe in aria, mentre i suoi gorgogli echeggiavano nella stanza. Isabella si portò la mano alla bocca e si morse con forza le dita per non gridare. Il dottore fissò due piccole ventose nere sul petto di Nicky, poi collegò i fili all'apparecchio elettronico e lo mise in funzione. Le cifre digitali sul pannello s'illuminarono di luce verde, e il commentatore spiegò con voce indifferente: «La respirazione e il battito cardiaco del bambino verranno registrati». Il dottore alzò gli occhi dall'apparecchio e annuì. Il commentatore girò intorno al tavolo e fissò l'obiettivo. «Lei è Rosa Rossa», disse accentuando il nome. «E in futuro obbedirà a tutti gli ordini che le verranno impartiti.» Poi afferrò con una mano le caviglie di Nicky e lo sollevò. Nicky lanciò uno strillo di sorpresa mentre penzolava a testa in giù come un piccolo pipistrello roseo privo d'ali. «Sta per assistere alle conseguenze della disobbedienza.» L'uomo spostò il bambino e lo tenne sospeso a testa in giù sopra la vasca. Nicky inarcò il dorso e cercò di alzare la testa, agitò le braccia e contrasse i pugni, emettendo suoni di allarme. Lentamente, il commentatore lo calò nell'acqua, e la vocina s'interruppe di colpo. La telecamera zumò attraverso la parete di vetro della vasca e inquadrò il visetto sotto la superficie dell'acqua. I colori,dell'immagine erano perfetti. Isabella urlò disperatamente e cercò di alzarsi. Le due donne l'afferrarono alle spalle e la costrinsero a sedersi. Sullo schermo, Nicky si dibatteva nella stretta del commentatore. Il viso era contorto e un torrente di bolle argentee gli usciva dalle narici. La faccia sembrò gonfiarsi e diventare più scura. Isabella stava ancora urlando e divincolandosi quando sullo schermo il dottore mascherato alzò gli occhi dal monitor e disse bruscamente in spagnolo: «Fermo! Basta così, compagno!» L'uomo estrasse il bimbo dalla vasca. L'acqua fiottava dalle narici e dalla bocca aperta di Nicky. Per lunghi secondi non riuscì a emettere suono che non fosse un respiro ansimante. Il commentatore lo posò sul tavolo e il dottore gli mise la maschera dell'ossigeno sul faccino gonfio e gli premette il petto con il palmo della mano per avviare una respirazione regolare. In meno di un minuto i dati digitali erano tornati alla normalità e i movimenti di Nicky erano più forti. Urlava nella maschera, indignato, e la sua voce diventava sempre più energica. Il dottore tolse la maschera e si scostò dal tavolo. Fece un cenno al commentatore che afferrò di nuovo Nicky per le caviglie e lo sollevò sopra la vasca. Il piccino parve intuire ciò che stava per accadere. Le sue grida di protesta divennero più acute e terrorizzate, e scalciò e si dinvincolò nella stretta dell'uomo. «E' mio figlio!» gridò Isabella. «Non potete... non dovete far questo al mio bambino!» Il commentatore immerse di nuovo la testa di Nicky, e il bimbo lottò con tutte le sue forze. Gli sforzi frenetici squassavano il corpicino, l'acqua traboccava dalla vasca. Ancora una volta il visetto cambiò rapidamente colore. Isabella urlò: «Basta! Farò tutto quel che volete, ma smettete
di torturare il mio bambino! Vi prego! Vi prego!» Il dottore intervenne di nuovo con un brusco avvertimento. Questa volta, quando Nicky fu estratto dall'acqua i suoi movimenti erano più deboli. Emetteva suoni soffocati. Dalla bocca aperta eruttò un miscuglio d'acqua e vomito, e fili argentei di muco colarono dalle narici dilatate. Il dottore lavorò in fretta, senza nascondere l'allarme, e disse qualcosa all'altro uomo. Il commentatore guardò l'obiettivo, come se fissasse direttamente Isabella. «Questa volta abbiamo quasi sbagliato i calcoli. Abbiamo superato i limiti di sicurezza.» Accostò la testa a quella del dottore. I due parlarono a voce così bassa che Isabella non riuscì ad afferrare le parole. Poi il commentatore si rivolse di nuovo a lei. «Questo conclude la nostra dimostrazione, per il momento. Mi auguro che non sia necessario farla assistere ad altre. Per lei sarebbe spiacevole dover vedere l'amputazione degli arti del piccino senza anestesia, o la sua morte per strangolamento davanti alla telecamera. Naturalmente questo dipenderà da lei e dalla cooperazione che è disposta a darci.» L'immagine svanì e lo schermo si spense. Nella saletta si udivano soltanto i singhiozzi di Isabella. Si protrassero a lungo. Quando finalmente si placarono, le luci si alzarono a poco a poco, e Joseph Cicero le si avvicinò. «Le assicuro che nessuno di noi trova un particolare piacere in questo genere di cose. Cercheremo di evitare una ripetizione.» «Come avete potuto?» mormorò Isabella con voce spezzata. Stava rannicchiata sulla poltrona. «Com'è possibile che un essere umano faccia una cosa simile a un bambino?» «Lo ripeto: questa necessità non ci diverte. Deve rimproverare se stessa, Rosa Rossa. E' stata la sua disobbedienza a causare questo disagio a suo figlio.» «Disagio! E' così che chiamate la tortura inflitta a un innocente...?» «Si controlli!» intimò brusco Cicero. «Nell'interesse di suo figlio, la smetta con questa insolenza.» «Mi scusi.» Isabella abbassò la voce. «Non succederà più. Non fate più del male a Nicky, per favore.» «Se coopererà, suo figlio non dovrà più soffrire. E' affidato alle cure di Adra Olivares, un'infermiera pediatrica qualificata. Avrà un'assistenza professionale che neppure lei sarebbe in grado di dargli. Più tardi avrà l'educazione migliore che possa sperare un bambino od un giovane.» Isabella lo fissò, con il viso stravolto dal dolore. «Parla come se me l'aveste tolto per sempre, come se non dovessi più rivedere il mio bambino.» Cicero tossì, scosse la testa, si sforzò di riprendere fiato, quindi bisbigliò con voce rauca: «Non è così, Rosa Rossa. Le sarà permesso di guadagnare il privilegio di avvicinare suo figlio. Tanto per cominciare riceverà rapporti regolari sui suoi progressi. Le verranno mostrate videoregistrazioni di come cresce... quando si metterà a sedere senza aiuto, quando comincerà a muoversi carponi e poi a camminare.» «Oh, no!» mormorò Isabella. «Non potete tenerlo lontano da me per tanto tempo. Passeranno mesi e mesi.» Cicero proseguì come se lei non avesse parlato. «Più tardi le verrà consentito di passare qualche tempo con lui ogni anno. E forse in futuro, se la sua condotta sarà soddisfacente, potrà trascorrere le vacanze con lui... giorni e settimane in compagnia di suo figlio.» «No.» La voce di Isabella era un singulto patetico. «Non potete essere così crudeli da tenerci separati.» «Chissà. Non è da escludere che un giorno si possano
rimuovere tutte le restrizioni e consentirle il libero accesso. Perché questo avvenga dovrà conquistarsi la nostra fiducia e la nostra gratitudine.» «Chi è lei?» chiese Isabella con un filo di voce. «Chi è Ramon Machado? Credevo di conoscerlo bene, e invece non lo conoscevo affatto. Dov'è Ramon? Fa parte di questo mostruoso...» La voce di Isabella si spezzò. Non riuscì a continuare. «Deve accantonare tutti i pensieri del genere. Non deve cercare di scoprire chi siamo», l'avvertì Cicero. «Ramon Machado è sotto il nostro controllo. Non si aspetti aiuto da lui. Il figlio è anche suo. Si trova nella stessa situazione in cui si trova lei.» «Cosa devo fare? Cosa volete da me?» chiese Isabella. Cicero annuì, soddisfatto. C'era stata la possibilità remota che la donna si dimostrasse testarda e incontrollabile. Il rapporto psichiatrico sul suo conto aveva accennato a quell'eventualità; ma Cicero non l'aveva preso troppo sul serio. L'amo con cui l'avevano presa era troppo acuminato. Anche se il bambino fosse morto, avrebbero trovato un sostituto da presentare nelle videocassette per continuare a tenerla sulle spine. No, aveva previsto che sarebbe stata arrendevole, ed era andata davvero così. «Innanzitutto devo complimentarmi con lei, Rosa Rossa, per il conseguimento del suo dottorato. Le renderà più facile lavorare con noi.» Isabella lo fissò. Le era difficile compiere il balzo mentale dal mondo terrificante della tortura e dello spionaggio per tornare alla quotidianità degli studi e degli onori accademici. Dovette concentrarsi per seguire ciò che stava dicendo quell'uomo. «Tornerà al più presto possibile a Città del Capo dalla sua famiglia, dopo essersi accordata con l'università per ricevere il diploma in absentia. E' chiaro?» isabella annuì. Non osava parlare. «Al ritorno in patria, comincerà a mostrare maggiore interesse per le attività della famiglia. Farà in modo di rendersi indispensabile per suo padre. Diventerà la sua collaboratrice e confidente in tutto, ma in particolare per quanto riguarda la sua nuova carica di presidente dell'industria degli armamenti. Cosa ancor più importante, incomincerà a dimostrare un interesse attivo per la politica sudafricana.» «Mio padre è un uomo autosufficiente. Non ha bisogno di me.» «Si sbaglia, Rosa Rossa. Suo padre è un uomo molto solo, sostanzialmente infelice. E' incapace di una relazione duratura con una donna, se si escludono la madre Centaine CourteneyMalcomess e lei, la figlia. Ha un profondo bisogno di questo rapporto... e lei glielo darà.» «Vuole che approfitti di mio padre?» mormorò lei, con gli occhi colmi di un nuovo orrore. «Per la sopravvivenza di suo figlio», confermò sottovoce Cicero. «A suo padre non succederà nulla, ma per suo figlio sarà una tragedia, se non collaborerà.» Isabella prese un fazzoletto dalla borsa e si soffiò il naso. La voce era carica di pianto. «Vuole che mi assicuri le confidenze di mio padre per procurarmi informazioni sul programma nazionale degli armamenti e passarle a voi?» «Vedo che impàra presto, Rosa Rossa. Tuttavia, questo non è tutto. Si servirà dei contatti politici di suo padre con il regime nazionalista africano per fare carriera nel partito.» Lei scosse la testa. «Non sono fatta per la politica.» «Ora sì», la contraddisse Cicero. «Ha un dottorato in teoria politica. Suo padre la introdurrà negli ambienti del potere.» Isabella lo smentì. «Mio padre è politicamente in fase d'eclisse. Ha puntato sul cavallo sbagliato quando John Vorster è
arrivato al potere in Sudafrica. Perciò era stato relegato qui come ambasciatore.» «Suo padre si è riscattato con il modo con cui ha svolto le sue mansioni qui a Londra. Lo dimostra la sua nomina ad una posizione di responsabilità quale presidente dell'ARMSCOR. Prevediamo che presto sarà reintegrato completamente nel partito, e riteniamo probabile che entro due anni tornerà a far parte del governo. Lei, Rosa Rossa, ne approfitterà. Fra vent'anni potrebbe diventare ministro.» «Vent'anni!» gli fece eco Isabella in tono incredulo. «Dovrò essere vostra schiava per tanto tempo?» «Non ha ancora capito?» chiese Cicero scuotendo la testa. «Lasci che glielo spieghi: ormai appartiene a noi, Rosa Rossa, lei, il suo amante Ramon Machado e suo figlio. Per sempre.» Per lunghi minuti Isabella fissò con occhi ciechi lo schermo vuoto, contemplando l'enormità della visione che l'uomo aveva evocato. Joe Cicero ruppe il silenzio. La sua voce era quasi gentile. «Ora la faremo riportare indietro. La lasceranno dove l'hanno prelevata sull'Embankment. Obbedisca agli ordini, e a lungo andare andrà tutto bene per lei e per suo figlio.» Le donne aiutarono Isabella ad alzarsi e la condussero alla porta. Appena fu uscita, la porta laterale della sala si aprì, ed entrò Ramon Machado. «Hai visto tutto?» chiese Joe Cicero, e Ramon annuì. «Mi congratulo con te», disse Joe in tono riluttante. «Ben fatto. Potremo ottenere molto da questa operazione. Come sta il bambino?» «Non ha subito alcun effetto negativo. Lui e la bambinaia sono arrivati all'Avana.» Joe Cicero accese un'altra sigaretta, tossì e si lasciò cadere pesantemente su una poltroncina di plastica. «Forse...» pensò. «Forse potrò lasciare il dipartimento in mani capaci.» Amber Joy stava per mancare il riporto. Lo capivano tutti. C'era un'atmosfera di tensione sul campo delle prove. Il campionato sudafricano per cani da riporto si svolgeva sulle colline ai piedi del Kabonkel Berg, lungo i confini occidentali della tenuta di Weltevreden. Il terreno era disagevole, e durante i quattro giorni delle prove il campo dei cani partecipanti si era ridotto ai quattro ancora impegnati nella caccia. Gli uccelli erano delle anatre selvatiche, allevate nei recinti di Weltevreden e messe in campo sotto la supervisione dei giudici prima di ogni riporto. Probabilmente quella sarebbe stata l'ultima occasione in cui avrebbero potuto servirsi delle anatre, pensò Shasa Courteney. I conservazionisti stavano facendo un chiasso tremendo perché quelle anatre che scampavano al campionato fuggivano nei terreni selvaggi, dove gli uccelli esotici apparivano loro come bocconcini prelibati. Queste anatre dal becco giallo erano dei veri e propri dongiovanni alati, pensò con un sorriso. I nati da quelle unioni illecite erano ibridi, e il dipartimento per la Conservazione della Natura aveva vietato di liberare le anatre selvatiche; la proibizione sarebbe entrata in vigore alla fine del mese. In séguito avrebbero dovuto usare tortore o faraone, e tutti erano d'accordo nel dire che sarebbe stato un peccato. Erano uccelli terrestri e non galleggiavano bene nei riporti sull'acqua. Shasa Courteney concentrò l'attenzione sulle operazioni di riporto in corso. Amber Joy rappresentava per il padrone la massima speranza di conquistare per la prima volta la coppa.
Era uno splendido Labrador biondo: il padre era stato campione americano per tre anni consecutivi. Finora tutti i riporti che aveva effettuato in quei due giorni erano stati rapidissimi, ma stavolta la fortuna gli era contraria. L'anatra s'era alzata in volo dalla gabbia ed era sfrecciata via lungo il bordo della diga. Garry Courteney e Shasa erano stati scelti come tiratori, in considerazione della loro bravura. L'anatra stava volando verso sinistra, dalla parte di Garry, che l'aveva lasciata proseguire per un bel pezzo prima di ucciderla con un tiro così perfetto che l'aveva obbligata a chiudere le ali facendola precipitare in picchiata come un kamikaze. Era caduta vicino ai canneti, tra le foglie delle ninfee e le piante acquatiche che infestavano quasi tutte le dighe nella zona del Capo di Buona Speranza. L'anatra si era inabissata ad una qualche profondità e non era ancora tornata a galla. Con ogni probabilità s'era impigliata negli steli delle piante, sotto la superficie scura e fangosa. Il giudice aveva chiamato il numero di Amber Joy, e Bunty Charles, il proprietario e addestratore, l'aveva lanciato. Mentre gli spettatori si affollavano per osservare, il cane s'era avventurato in acqua e stava nuotando verso il punto dov'era sparita l'anatra. Ma aveva deviato dalla linea retta, e stava passando a monte della posizione dove era caduto l'uccello, dove eventuali gocce di sangue sarebbero state trascinate via dalla debole corrente del fiume e dal vento di sud-est che spazzava l'acqua. Amber Joy, adesso, nuotava in cerchio tra le canne, e ogni tanto immergeva la testa ma la risollevava con le fauci vuote, ogni volta un po' più lontano dal punto dov'era caduta l'anatra. I suoi sforzi causavano una notevole costernazione a riva. Bunty Charles saltellava per la frustrazione. Se avesse fischiato e avesse diretto Amber Joy verso il luogo della caduta, avrebbe perso punti. E niente garantiva che Amber Joy avrebbe potuto trovare il capo di selvaggina, anche con la sua assistenza. D'altra parte, il tempo passava. I tre giudici stavano già consultando i cronometri. Amber Joy era in acqua da più di tre minuti. Bunty Charles lanciò un'occhiata ansiosa al cane ed al proprietario che venivano in fila subito dopo di lui. Centaine Courteney-Malcomess e Dandy Lass di Weltevreden erano le sue rivali più temibili. Fino a quel momento lui e Amber Joy erano riusciti a tenerle a bada, ma con un margine di dieci punti appena. Se non avessero riportato l'anatra, avrebbero perso sicuramente il vantaggio. Anche Centaine Courteney era sotto tensione. Non aveva i trent'anni d'esperienza di Bunty, anzi si era dedicata a quello sport solo di recente. Tuttavia l'aveva fatto con tutta la sua immensa energia e le sue facoltà di concentrazione. Dandy Lass era discendente di campioni, aveva il pelo dorato e un fisico molto slanciato: aveva le qualità del vero cane da caccia ed era forte e scattante, diversa dai cani da mostra, più pesanti, con le caratteristiche classiche della razza ma ormai privi degli istinti per il lavoro. Dandy Lass aveva il cuore e l'istinto necessari per entrare nella vegetazione più fitta e nell'acqua più fredda e per comportarsi come un'eroina. Aveva un olfatto magnifico che le permetteva di captare nell'aria il più vago odore di pennuti, e un'intelligenza eccezionale. Tra lei e Centaine s'era stabilito un rapporto quasi telepatico. Sebbene stesse eretta e assolutamente immobile, con il volto calmo e imperturbabile, Centaine fremeva per l'agitazione, e Dandy Lass ne era contagiata. I giudici avrebbero notato ogni parola e ogni gesto tra loro e li avrebbero segnati immediatamente. Ma Dandy Lass sembrava sui carboni ardenti per l'impazienza. I quarti posteriori dorati toccavano appena il suolo, e si bilanciava ora su un fianco ora su un altro con piccoli fremiti eccitati, non abbastanza vistosi per incorrere nella collera dei
giudici e nelle penalità. Se un cane guaìva o abbaiava, era un motivo sufficiente per eliminarlo dalla gara. Con uno sforzo enorme, Dandy si tratteneva dal far sentire la propria voce mentre guardava Amber Joy che tentava affannosamente di trovare l'anatra. Tuttavia fremeva e le grida represse le rombavano nella gola mentre attendeva il suo turno. A intervalli di pochi secondi guardava Centaine con occhi imploranti per invocare l'ordine di andare. Shasa Courteney osservava la madre dalla linea di tiro. Come sempre, gli ispirava il più profondo senso di ammirazione. Centaine Courteney-Malcomess aveva compiuto settant'anni quel capodanno; era stata chiamata Centaine in onore del primo giorno del ventesimo secolo, ma era ancora snella e diritta come un adolescente. La linea delle gambe e dei glutei sotto la stoffa di lana preziosa era aristocratica ed elegante. Chi altra sarebbe capace di indossare un paio di pantaloni di Chanel a una gara di riporto? si chiese sorridendo Shasa. E gli stivali di pelle di struzzo erano stati confezionati a mano da Hermès di Parigi. Aveva allevato Shasa da sola perché il padre era caduto in combattimento in Francia prima che lui nascesse. Sola nel deserto, aveva scoperto il primo diamante che aveva portato allo sfruttamento della favolosa miniera H'ani. Per trent'anni aveva diretto la miniera e costruito l'immenso impero economico che era diventato la Courteney Enterprises. Sebbene la presidenza fosse passata prima a Shasa e poi al nipote Garry Courteney, Centaine partecipava ancora regolarmente al consiglîo d'amministrazione. Ogni parola che ella pronunciava in quella sede, ogni pensiero che esprimeva veniva accolto con la massima attenzione e con il massimo rispetto. Tutti i componenti della famiglia, da Shasa alla nidiata dei pronipoti, i figli di Garry che andavano dai quattro anni ai pochi mesi, avevano la più grande soggezione di Centaine Courteney. Era l'unica che poteva dare ordini a Bella Courteney con la certezza di venire obbedita senza discussioni. Ora stava in piedi, a testa scoperta, nel sole dorato della primavera di Città del Capo, con la cagna acquattata al suo fianco. I raggi solari le brillavano sui capelli. Teneva molto ai suoi capelli, ancora folti e ricci, tagliati a calotta, di un colore forte, con sfumature di platino puro. Stava a testa alta, con un portamento vigile. Gli anni non avevano sciupato la sua bellezza ma l'avevano trasformata in una serenità dignitosa. Il tempo aveva avvizzito la carnagione impeccabile ma non aveva potuto toccare la linea energica della mascella, gli zigomi orgogliosi e la fronte alta e intelligente. Non aveva neppure offuscato gli occhi scuri, che in un momento potevano rispecchiare la ferocia di un predatore ed un attimo dopo brillare di allegria e di saggezza. Una donna formidabile, pensò Shasa. Bastava guardarla: era smaniosa di vincere come cinquant'anni prima. Uno dei giudici soffiò nel fischietto e Bunty Charles incurvò le spalle, deluso. Amber Joy non aveva trovato l'anatra e ora veniva richiamato. Bunty Charles convalidò il richiamo fischiando a sua volta e facendo un cenno brusco con la mano. Amber Joy, obbediente, tornò a riva e uscì dall'acqua. Si scrollò, lanciando nel sole una pioggia di gocce cristalline e poi, tra l'orrore del proprietario e il divertimento degli spettatori, alzò una zampa e innaffiò un ciuffo di canne come per esprimere succintamente ciò che pensava dell'anatra, della gara e dei giudici. Quel comportamento scorretto mentre era ancora agli ordini del giudice veniva considerato biasimevole, e sicuramente sarebbe costato qualche punto di penalizzazione. Ma Amber Joy sembrava l'immagine vivente della noncuranza mentre tornava
dal padrone a lingua penzoloni e dimenando la coda. Dandy Lass fremeva d'impazienza. Tremava e roteava gli occhi come impazzita. Stava per essere chiamata, e lo sforzo di restare seduta la distruggeva. Senza guardarla, Centaine stava usando tutti i suoi poteri di comunicazione telepatica per tenerla sotto controllo. I giudici si godevano sadicamente l'indugio; fingevano di consultarsi e di prendere appunti, ma in realtà mettevano alla prova Dandy Lass al limite estremo della sopportazione. Se fosse crollata, sarebbe stata eliminata dalla gara; un guaito o un latrato avrebbe comportato una dura penalizzazione. Bastardi! pensò rabbiosamente Centaine. Vi odio tutti. Lasciate partire il mio tesoro. Lasciatela partire! Un gemito soffocato sfuggì dalla gola di Dandy, un suono simile a quello di una rana che venisse aggredita da uno sciame d'api sotto una coperta. Senza dare l'impressione di muoversi, Centaine fece correre il dito lungo la cucitura laterale dei pantaloni di Chanel e Dandy tacque. Il giudice capo alzò gli occhi dal taccuino. «Grazie, numero tre», gridò e Centaine ordinò bruscamente: «Vai!» Dandy Lass sfrecciò via come un giavellotto dorato. Quando arrivò all'acqua, piegò le zampe anteriori sotto il petto e balzò dalla riva con un salto elegante, come un purosangue a una corsa ad ostacoli. Toccò l'acqua ad una distanza di tre passi, lontano dalle erbacee. Cominciò a nuotare e Centaine fremette d'orgoglio: solo un vero campione si buttava in acqua con tanto stile. Dandy Lass nuotava come una lontra. Serpeggiava nell'acqua e lasciava sulla superficie un'ampia v d'increspature. Poi l'orgoglio di Centaine si mutò nel gelo della paura quando si rese conto che Dandy stava facendo lo stesso errore di Amber Joy. Forse il lungo ritardo l'aveva disorientata; stava deviando leggermente di traverso al vento e alla corrente, nel punto cieco dove portavano l'odore lontano da lei. Per un istante, Centaine pensò di perdere qualche punto pur di dare un ordine alla cagna. Se Dandy avesse trovato l'anatra, sia pure con il suo aiuto, avrebbe avuto comunque la meglio su Amber Joy; ma avevano bisogno di tutti i punti se volevano vincere, e Centaine sentiva già sulla lingua il dolce sapore della vittoria. Restò immobile, con il fischietto appeso al collo. Dandy Lass sembrò calcolare la distanza e descrisse un cerchio vicino alla sponda opposta. Ma aveva sbagliato di tre metri. Nel punto dove Amber Joy aveva proseguito, allontanandosi ancor più dall'anatra, Dandy Lass si fermò e si voltò a guardare Centaine, ferma sulla riva lontana. Centaine infilò la mano sinistra nella tasca dei pantaloni. Neppure il giudice più rigoroso e dotato della vista più acuta avrebbe interpretato quel piccolissimo movimento come un segnale. Ma a Shasa non sfuggì. «La mia vecchia non è cambiata.» Scosse la testa con un sorriso. «Qualunque cosa pur di vincere, qualunque arma dell'arsenale: e l'unico peccato è farsi scoprire.» In acqua, Dandy Lass deviò immediatamente verso sinistra, seguendo la corrente e nuotando con forza; dopo due secondi alzò il naso. Aveva riconosciuto l'odore. Descrisse un altro cerchio, con l'odore del sangue caldo nelle narici, identificò la posizione dell'anatra e immerse la testa nell'acqua fredda e torbida. Un boato di approvazione si levò dalla riva quando Dandy alzò di nuovo la testa grondante, con le orecchie all'indietro e la carcassa dell'uccello tra le fauci. Si lasciò dietro una v di increspature mentre tornava a riva, con l'anatra tenuta correttamente ad ali piegate ed alta sull'acqua.
Appena sentì il fondo sotto le zampe, salì sulla riva. Non si fermò neppure per scrollarsi: senza sprecare un secondo, andò a effettuare il riporto. Nel momento in cui sedette di fronte alla padrona, Shasa si sentì soffocare. La vista gli si annebbiò. Era bellissimo vedere quella specie di rapporto tra una donna e un cane. Centaine prese la carcassa dalla bocca di Dandy e le chiazze iridescenti delle ali splendettero come zaffiri nella luce del sole. Consegnò il germano al giudice che lo esaminò scrupolosamente e scostò le piume per scoprire eventuali segni dei denti. Centaine trattenne il respiro fino a quando il giudice alzò di nuovo la testa e annuì. «Grazie, numero tre.» Centaine Courteney-Malcomess non aveva soltanto offerto la sede per le gare, ma era anche la padrona di casa per la cerimonia della consegna dei premi. La tenda a righe colorate che poteva accogliere cinquecento ospiti era stata innalzata nel campo da polo principale della tenuta, e l'assortimento pantagruelico del buffet veniva dalle cucine di Weltevreden. Le aragoste di roccia erano state catturate dai pescherecci della Courteney Fishing and Canning Company a Lambert's Bay; i tacchini erano stati allevati lì, a Weltevreden; gli squisiti agnelli del Karoo provenivano da Dragon's Fountain, l'allevamento di ovini dei Courteney nelle pianure di Camdeboo; e i vini erano il prodotto dei vigneti che incominciavano al confine del campo di polo, davanti al tendone. Il Primo ministro John Vorster aveva acconsentito a consegnare i premi. Questo era uno dei risultati delle macchinazioni di Centaine nel corso degli anni, un modo non molto sottile per far sapere al mondo che i Courteney non erano più una forza politica esaurita e che per loro i giorni dell'eclisse stavano per finire. Shasa Courteney aveva fatto parte della fazione che, nel governo Vorwoerd, s'era opposta alla nomina a premier di John Vorster; perciò era stato mandato in esilio. Ma durante gli anni in cui era stato a Londra, Centaine aveva operato con tutta la sua finezza e abilità all'interno del partito per realizzare la riabilitazione del figlio. Naturalmente, il fatto che la permanenza di Shasa a Londra fosse stata ricca di successi aveva favorito i suoi sforzi. Ma in gran parte il merito per la nomina alla presidenza dell'ARMSCOR spettava direttamente all'attività instancabile di Centaine, al rifiuto di accettare la sconfitta e al ricorso a tutta la sua influenza politica e finanziaria per favorire il figlio. Ora avrebbe fatto in modo che la presenza di John Vorster nella tenuta di Weltevreden preannunciasse una nuova età dell'oro per i Courteney. La faccia tonda e rossa del premier era il sole sorgente delle loro speranze ed aspirazioni, pensò soddisfatta mentre girava lo sguardo nella tenda affollata. Ancora una volta erano riuniti tutti a Weltevreden, i mediatori e i detentori del potere. Sebbene nessuno di loro fosse stato tanto sciocco od avventato da offendere direttamente Centaine Courteney-Malcomess o da trascurarla, c'era stato un periodo di freddezza mentre Shasa era a Londra. E alcuni erano stati più freddi di altri, pensò Centaine con un lampo d'acciaio negli occhi mentre li identificava in mezzo alla folla. E non li avrebbe dimenticati. Ora l'inverno del nostro scontento è divenuto una fulgida estate, pensò con gioia profonda; e quasi per fare eco ai suoi sentimenti, il presidente della Kennel Union sudafricana si alzò e invitò al silenzio dal podio in fondo alla tenda. Dopo aver reso omaggio al Primo ministro e aver dedicato qualche minuto alla gara in generale, il presidente incominciò a chiamare i
vincitori, e la fila dei luccicanti trofei d'argento si assottigliò fino a quando ne rimase uno solo al centro del tavolo coperto di panno verde. Era il più alto e ornato di tutti, sovrastato dalla statuetta di un cane da caccia in posizione di punta. «Eccoci finalmente al campione della gara.» Il presidente si guardò intorno sorridendo, fino a che vide Centaine in fondo, circondata dalla famiglia. «E per me è un grande piacere assegnare per la prima volta il titolo a una signora che nei pochi anni in cui si è dedicata al nostro sport lo ha fatto con tanta energia ed entusiasmo che il suo contributo eguaglia, e spesso supera, quanti si sono occupati di cani da caccia per tutta la vita. Signore e signori, un applauso per la signora Centaine CourteneyMalcomess e per Dandy Lass di Weltevreden.» Isabella era rimasta in attesa fuori dalla tenda con Dandy Lass al guinzaglio. Ora l'accompagnò e, tra gli applausi dei presenti, passò la cagna alla nonna. Dandy Lass portava una gualdrappa giallo-narciso, il colore della scuderia di Centaine, con il simbolo dei Courteney, un diamante stilizzato, ricamato in argento nell'angolo. Si affiancò alla padrona e l'accompagnò mentre si avviava verso il podio. La folla rise ed applaudì. La donna e la cagna erano un'elegante coppia di purosangue; Dandy Lass sembrava sorridere con la lingua penzolante, e agitava la coda divertita. Sul podio, Dandy Lass s'inchinò educatamente davanti al Primo ministro e a un comando di Centaine gli porse la zampa destra. Gli spettatori si entusiasmarono quando John Vorster si chinò per stringergliela. Mentre consegnava a Centaine il grande trofeo d'argento, il Primo ministro le sorrise. Per un uomo che aveva una fama di forza implacabile e volontà granitica, possedeva un sorriso fanciullesco e contagioso. Gli occhi azzurri brillavano. Strinse la mano di Centaine e si tese un po', in modo che lei sola poté sentire le sue parole. «Tu e la tua famiglia non trovate un po' monotona questa serie interminabile di successi, Centaine?» chiese. Erano passati a quelle forme confidenziali solo durante l'ultimo anno. «Cerchiamo di sopportarli con coraggio, zio John», assicurò lei con aria solenne. Il Primo ministro tenne un discorsetto di congratulazioni, poi fece il giro della tenda con l'alacrità dell'uomo politico esperto. Sorrideva, stringeva la mano agli invitati e passava oltre; e finalmente arrivò nell'angolo dove Centaine teneva corte. «Mi congratulo di nuovo, Centaine. Vorrei potermi trattenere di più per festeggiare la tua vittoria.» Diede un'occhiata all'orologio. «Sei stato generoso a concederci il tuo tempo», disse Centaine. «Ma prima che te ne vada, posso presentarti l'unica tra i miei nipoti che non conosci?» Fece un cenno a Isabella che le stava accanto. «Isabella era a Londra, a fare gli onori di casa per Shasa durante la sua permanenza a South Africa House.» Mentre Isabella si faceva avanti, Centaine osservò la faccia da mastino del Primo ministro. Sapeva che Vorster non era un donnaiolo; se lo fosse stato, non avrebbe potuto raggiungere la sua posizione nelle ferree spire calviniste del suo partito. Ma sebbene fosse felicemente sposato da vent'anni, era pur sempre un uomo; e nessun uomo poteva restare insensibile quando vedeva Isabella Courteney per la prima volta. Centaine notò come nascondeva un bagliore di interesse dietro il formidabile cipiglio. Centaine ed Isabella avevano pianificato con cura quell'incontro, da quando Isabella aveva sorpreso la nonna e il padre proclamando all'improvviso l'intenzione di entrare nell'arena politica.
«Le passerà», aveva predetto Shasa, ma Centaine aveva scosso la testa. «Bella è cambiata. Da quando è venuta a Londra con te, le è successo qualcosa. Era una carognetta capricciosa e viziata...» «Oh, mater.» Com'era prevedibile, Shasa era insorto in difesa della figlia, ma Centaine aveva continuato. «Adesso è una donna matura. Ma c'è qualcosa di più. Adesso è d'acciaio e...» Centaine aveva esitato, cercando le parole. «Ha abbandonato la visione romantica della vita; è come se avesse avuto una rivelazione, come se avesse sofferto e imparato a odiare, come se avesse vissuto una crisi gravissima e si fosse armata per prepararsi a ciò che l'attende.» «Non è da te abbandonarti a simili voli della fantasia», aveva ironizzato Shasa, ma Centaine aveva insistito. «Ricorda le mie parole: Bella ha trovato la sua strada, e si dimostrerà dura e implacabile come noi.» «Come te, mater?» «Divèrtiti pure alle mie spalle, Shasa Courteney, ma il tempo proverà che ho ragione.» Gli occhi di Centaine s'erano lievemente offuscati. Shasa conosceva molto bene l'espressione di quando sua madre si concentrava al massimo, diceva che erano «gli occhi dell'intrigo». Poi lo sguardo di Centaine era tornato normale. «Andrà lontano, Shasa, forse più di quanto possiamo sognare io e te... e intendo aiutarla.» Perciò Centaine aveva combinato quell'incontro, e ora vedeva la nipote che se la cavava con tutto l'aplomb desiderabile. Vorster chiese a Isabella: «Le sono piaciuti gli inverni inglesi?» Era evidente che si aspettava una risposta banale, ma Isabella disse: «Valeva la pena di sopportarli, se non altro per conoscere Harold Wilson e avere un'esposizione di prima mano dell'atteggiamento del governo laburista e delle sue intenzioni verso tutti noi che viviamo in Sudafrica». L'espressione di Vorster cambiò quando si rese conto che dietro quel bel viso giovane si nascondeva un'intelligenza acuta. Abbassò la voce. Si parlarono per qualche minuto prima che Centaine intervenisse di nuovo. «Isabella ha appena conseguito il dottorato in teoria politica all'università di Londra», disse, buttando là con noncuranza quella nuova esca. «Oh, davvero?» Vorster annuì. «Allora abbiamo tra noi una nuova Helen Susman?» Alludeva all'unica donna che faceva parte del parlamento sudafricano, sostenitrice instancabile dei diritti umani, l'unica vera spina «liberal» nel fianco della maggioranza nazionalista. Isabella rise: era quella risata roca e sexy con cui sapeva di poter scuotere anche il misogino più incallito. «Può darsi», ammise. «Un seggio parlamentare potrebbe rappresentare il mio traguardo finale: ma ci vuole ancora molto tempo, e non credo che sarei ingenua come la signora Susman, Primo ministro. La mia linea politica è in armonia con quella di mio padre e di mia nonna.» Naturalmente, questo la faceva schierare con i conservatori. Vorster la studiò con occhi attenti. «Il mondo sta cambiando, Primo ministro», disse Centaine, approfittando nel - momento. «Un giorno potrebbe esserci anche posto per una donna nel tuo governo, non credi?» Vorster sorrise e passò con disinvoltura dall'inglese all'afrikaans. «Persino la dottoressa Courteney ammette che quel giorno è ancora lontano. Comunque, riconosco che un viso tanto grazioso potrebbe illuminare la decisione di noi uomini così vecchi e brutti.» La transizione all'altra lingua, naturalmente, era una prova. Chi aveva aspirazioni politiche in Sudafrica non poteva sopravvivere se non conosceva perfettamente l'afrikaans, la lingua del
gruppo politicamente dominante. Isabella passò anche lei all'afrikaans con la stessa scioltezza. Il suo vocabolario era ricco, la grammatica perfetta, e l'accento aveva un suono dolce persino all'orecchio di un afrikaner. Vorster sorrise di piacere e continuò la conversazione per qualche altro minuto. Poi fissò l'orologio e si rivolse a Centaine. «Ora devo andare a un altro ricevimento.» Quindi, a Isabella: «Totsiens, dottoressa Courteney. Arrivederci. Seguirò con interesse i suoi progressi». Centaine e Shasa lo condussero fuori dalla tenda, fino alla macchina con autista che attendeva al bordo del campo di polo. «Totsiens, Centaine.» Vorster scosse la testa. «Mi congratulo per il modo in cui hai allevato tua nipote. Riconosco molti tratti che può aver ereditato soltanto da te.» Quando Centaine tornò sotto la tenda, si guardò subito intorno. Isabella era già al centro di una cerchia di uomini affascinanti. «Eccoli lì con la lingua fuori come tanti cani.» Centaine represse un sorriso e attirò lo sguardo della nipote. Isabella lasciò gli ammiratori e la raggiunse. Centaine le prese il braccio in un tranquillo gesto di proprietà. «Ben fatto, signorina. Ti sei comportata come una veterana. Sei riuscita simpatica allo zio John. Credo che siamo sulla strada giusta.» Quella sera c'erano solo i membri della famiglia, seduti intorno al lungo tavolo della sala da pranzo principale di Weltevreden; ma Centaine aveva ordinato di apparecchiare con l'antico servizio di Limoges e l'argenteria più bella. La tavola splendeva nella luce delle candele, in un trionfo di rose gialle. Come al solito in quelle serate in famiglia, le signore erano in lungo, gli uomini in abito scuro. Mancava soltanto Sean. Sean era stato invitato, o meglio, Centaine l'aveva convocato; ma era a caccia con uno dei suoi clienti più importanti nella riserva rhodesiana, e aveva mandato le sue scuse, che Centaine aveva accettato con riluttanza. Avrebbe voluto che fossero presenti tutti per celebrare la vittoria di Dandy Lass, ma era disposta a riconoscere che gli affari venivano al primo posto. L'industriale tedesco al quale Sean faceva da guida pagava ogni anno sessantatré giorni di caccia a cinquecento dollari al giorno. Naturalmente, gli impegni d'affari che aveva in Germania non gli avrebbero permesso di passare tutto quel tempo a caccia: si considerava fortunato se poteva concedersi un paio di settimane l'anno. Tuttavia pagava anche per gli altri giorni, per assicurarsi il diritto di cacciare tre elefanti anziché uno. Sean doveva tenersi a sua disposizione, anche se di regola preavvertiva del suo arrivo con qualche giorno d'anticipo. Centaine sentiva la mancanza del nipote primogenito. Era il più bello e scatenato dei tre, ma la sua presenza era sempre stimolante. Sembrava caricare l'aria dell'elettricità statica del pericolo e dell'emozione. A lei e alla famiglia era costato decine di migliaia di dollari tirarlo fuori dai vari pasticci in cui si metteva a causa del suo temperamento burrascoso. Sebbene manifestasse sempre indignazione nei termini più severi per quelle spese, in segreto non se ne risentiva. Il suo unico timore era che un giorno Sean si spingesse troppo oltre e si mettesse in un guaio tragico dal quale neppure Centaine avrebbe potuto liberarlo. Ma si affrettò a scacciare quel pensiero. Non era la serata adatta per le fantasie morbose. L'alto trofeo d'argento troneggiava al centro del tavolo, alla sommità di una piramide di rose gialle. Era strana, la soddisfazione che le dava quel gingillo. Le era costato innumerevoli
ore di duro lavoro all'aperto. Ma ne era valsa la pena. Per lei era sempre stato così. Aveva nel sangue il bisogno ardente di eccellere. E aveva trasmesso quel contagio divino a coloro che amava. All'estremità opposta della tavola, Shasa batté il cucchiaio d'argento sul bicchiere di cristallo, poi si alzò nel silenzio che seguì. Era alto ed elegante, con lo smoking e la cravatta nera. Incominciò uno dei discorsi per cui era famoso: disinvolto e fluente, con una mescolanza così abile di spirito e sentimento da suscitare in un attimo uno scroscio di risa e un attimo dopo le lacrime agli occhi di tutti con una frase ben tornita. Sebbene la coprisse di lodi e facesse volgere verso di lei l'attenzione di tutti i presenti, Centaine si distrasse e pensò agli altri nipoti. Tutti pendevano dalle labbra del padre; erano così presi dalle sue parole da non accorgersi che lei li stava studiando. Garry era seduto alla sua destra, come meritava la sua importanza nella gerarchia familiare. Il nanerottolo miope, sparuto e asmatico s'era trasformato con poco od alcun aiuto da parte loro in quel toro poderoso e sicuro di sé. Adesso era il timoniere della fortuna di famiglia, il presidente della Courteney Enterprises. La sua mole minacciava le gambe fragili della sedia Chippendal, i pollici erano agganciati nei taschini del sobrio panciotto di broccato. La camicia era una distesa nivea sul petto ampio e il colletto inamidato era troppo stretto per il suo collo tutto muscoli. I Folti capelli neri formavano una specie di cresta e gli occhiali dalle lenti spesse e dalla montatura d'osso scintillavano nella luce delle candele. La sua risata scuoteva la stanza; accoglieva fragorosamente ogni battuta di Shasa ed era così contagiosa da trasformare in un'ilarità sfrenata anche le osservazioni più blande del padre. Centaine girò lo sguardo sulla moglie di Garry. Holly era seduta a fianco di Shasa all'estremità della tavola. Aveva quasi dieci anni più di Garry. Centaine si era opposta al matrimonio con tutta la forza e l'astuzia di cui era capace. Naturalmente non era riuscita ad impedirlo. Adesso riconosceva che era stato un grave errore di giudizio da parte sua. Avrebbe avuto maggior potere ed influenza su Holly se non avesse fatto quel tentativo. Invece, aveva innalzato nella mente di Holly barriere di diffidenza che forse non sarebbe mai riuscita ad abbattere. S'era sbagliata: Holly aveva dimostrato d'essere per Garry la moglie ideale. Aveva riconosciuto in lui quelle qualità che nessuno, neppure Centaine, aveva percepìto pienamente. Lo aveva aiutato a sbocciare ed aveva coltivato con cura la fiducia di Garry in se stesso. Era responsabile per buona parte del successo del marito: gli aveva dato forza ed era stata un sostegno incrollabile, gli aveva donato amore e felicità, e tre figli e una figlia. Centaine sorrise al pensiero dei bricconcelli addormentati nella nursery al piano di sopra; poi sospirò e aggrottò la fronte. Le riserve che Holly aveva ancora nei suoi confronti formavano una barriera tra lei e i pronipoti. Garry e Holly vivevano a Johannesburg, il centro finanziario della nazione, a milleseicento chilometri da Weltevreden. La sede centrale della Courteney Enterprises era a Johannesburg, dov'era anche la Borsa. Garry era uno dei protagonisti, perciò doveva essere al centro dell'arena, e lui e Holly avevano tutte le ragioni per lasciare Weltevreden; tuttavia Centaine sentiva che Holly le teneva lontani i bambini. Sebbene fosse soltanto un volo di tre ore con il jet della compagnia che Garry amava pilotare personalmente, da diverso tempo Centaine li vedeva a Weltevreden molto di rado. Desiderava disperatamente avere i bambini vicino, per guidarli e influenzarli, per proteggerli e prepararli come aveva fatto con il loro padre; ma la chiave di
tutto era Holly. Avrebbe dovuto raddoppiare gli sforzi per accattivarsela. Cercò di proposito il suo sguardo e le sorrise con tutto il calore e l'affetto che era capace di esprimere. Bionda e serena, Holly ricambiò il sorriso; la sua bellezza riceveva una dimensione straordinaria dagli occhi di diverso colore, uno celeste, l'altro di un viola sensazionale. «Riuscirò a fare in modo che ti fidi di me», pensò Centaine. «Non potrai resistermi in eterno. Avrò quei bambini. La famiglia è mia, i bambini sono miei. Non potrai tenermeli lontani ancora per molto tempo.» Shasa aveva detto di lei qualcosa che le era sfuggito. Tutti, a tavola, s'erano voltati a guardarla e l'applaudivano con entusiasmo. Sorrise ed annuì in segno di gratitudine per il complimento che le aveva fatto il figlio, e quando l'applauso si smorzò, Shasa riprese a parlare. «Forse avete pensato, quando l'avete vista con Dandy Lass, oggi, che è stato un risultato straordinario. Per un'altra donna sarebbe stato così; ma siamo di fronte a una signora che ha affrontato un leone antropofago, con me bambino legato alla schiena...» Ancora una volta Shasa ricordava i vecchi episodi sul suo conto che costituivano la trama della leggenda della famiglia. Era una rievocazione che di per sé era diventata tradizionale nelle occasioni importanti e, sebbene tutti l'avessero ascoltata centinaia di volte, l'apprezzavano sempre. C'era una sola persona che sembrava lievemente imbarazzata dall'eloquenza dell'elogio di Shasa. Centaine sentì un soffio gelido che turbava la superficie serica della sua soddisfazione. Tra tutti i nipoti, l'unico per il quale provava meno affetto e interesse era Michael. Era seduto quasi al centro della lunga tavola, nella posizione meno importante, e non solo perché era il più giovane. Michael non rientrava nel suo schema naturale delle cose. Nel suo carattere c'erano profondità segrete e nascoste che lei non aveva ancora sondato, e questo la irritava. Non era mai riuscita a staccare Michael dalla "madre naturale". E il solo pensiero di Tara Courteney le faceva scorrere nelle viscere un torrente d'odio. Tara aveva oltraggiato ogni principio di decenza e di moralità che Centaine considerava sacri. Era marxista, aveva messo al mondo un mulatto, era una traditrice e una parricida. In una certa misura, i sentimenti di Centaine nei confronti di Tara erano ricaduti anche su quel figlio. La forza del suo sguardo doveva essere abbastanza rovente perché Michael la sentisse. Alzò la testa all'improvviso e impallidì sotto gli occhi scuri di Centaine; quindi distolse di nuovo lo sguardo in fretta, quasi con aria colpevole. In séguito alle insistenze di Shasa e nonostante le obiezioni di Centaine, la famiglia aveva acquistato il pacchetto di maggioranza della società che contava fra l'altro il giornale Golden City Mail. Shasa l'aveva fatto per assicurare a Michael un posto al vertice della professione prescelta. Il suo progetto era stato fare del Mail una voce della ragione, potente e conservatrice, e assicurarsi che Michael, quando si fosse fatto le ossa, diventasse l'editore ed il direttore. Quel giorno non era ancora venuto, e Michael era tuttora un semplice vicedirettore. Se Shasa avesse potuto decidere a modo suo, avrebbe spinto avanti il figlio già prima. Ma Garry e Centaine avevano frenato la sua indulgenza paterna. Entrambi pensavano che Michael non fosse ancora maturo per quel compito. I suoi istinti finanziari e amministrativi non erano abbastanza sviluppati e il suo giudizio politico era ingenuo, forse irreparabilmente tarato. Era l'influenza di Michael sulla linea editoriale a spingere di continuo il Mail lontano dalla via maestra, con pericolose sbandate a sinistra, tanto che adesso il giornale era visto con diffidenza non soltanto dal governo ma
anche dagli ambienti della finanza e dell'industria... quelli che pagavano la pubblicità. In tre precedenti occasioni il Mail era stato messo al bando dal governo, ogni volta con un costo finanziario che aveva infuriato Garry, e con una perdita di prestigio e d'influenza che metteva a disagio Centaine. Non è un vero Courteney, pensò Centaine mentre studiava i lineamenti graziosi di Michael. Persino Bella ha più energia in un dito di quanta ne abbia lui in tutto il corpo. Michael è incerto, facile alla commozione. Si preoccupa per gli estranei e i perdenti, non per la famiglia. Per Centaine, era la forma di tradimento più orribile. Non ha preso da noi; ha preso da sua madre. E quello era il giudizio inappellabile. Ha persino cercato di corrompere Bella. Centaine aveva saputo della presenza dei due nipoti al comizio antiapartheid in Trafalgar Square. Erano stati fotografati dal servizio segreto sudafricano, dalle finestre di South Africa House, e Centaine aveva ricevuto una telefonata d'avvertimento da uno dei suoi importanti contatti nel governo. Per fortuna, era riuscita ad appianare le cose. Bella aveva fatto qualche lavoro clandestino per il servizio segreto sudafricano quando aveva una relazione con Lothar De La Rey. A quel tempo Lothar era colonnello della polizia, e adesso era membro del parlamento e viceministro al ministero della Legge e l'Ordine. Centaine s'era rivolta personalmente a Lothar. Aveva su di lui un'influenza enorme: era a conoscenza di segreti che riguàrdavano il padre di Lothar e di altri misteri che lui poteva solo immaginare. Inoltre, era stato l'amante di Bella e, almeno così sospettava Centaine, era ancora innamorato di lei. «Includerò una spiegazione completa della sua presenza al comizio nel fascicolo di Isabella», le aveva assicurato Lothar. «Sappiamo che è una patriota e che ha già lavorato per noi. Ma non posso promettere nulla per Michael, tantie.» Lothar usava l'appellativo rispettoso che significava qualcosa più del semplice «zia». «Michael, purtroppo, ha già molti punti negativi al suo passivo.» Sì, pensò cupamente Centaine: Michael ha accumulato punti negativi come un cane accumula le pulci... e qualcuno schizza addosso anche a noi. In quel momento Shasa concluse il discorso e tutti si girarono verso Centaine con aria d'attesa. Come oratrice valeva non meno del figlio; ma spesso le sue parole erano più sferzanti, i suoi punti di vista più diretti. Tutti attendevano il consueto fuoco d'artificio mentre incominciava a rispondere... ma quella sera rimasero delusi. Centaine sembrava d'umore insolutamente mite e benevolo. Anziché critiche, aveva in serbo elogi e apprezzamenti per tutti. I successi finanziari di Garry, i risultati accademici di Isabella, i progetti architettonici di Holly per il nuovo, lussuoso albergo Courteney sulla costa dello Zululand e il suo imminente compleanno. «Mi dispiace che non possiate restare con noi per il gran giorno, Holly cara.» Persino Michael ebbe un elogio, sebbene fosse un elogio assai fiacco, per la pubblicazione del suo libro più recente. «Non è necessario essere d'accordo con le tue conclusioni o con le soluzioni che suggerisci, Mickey caro, per apprezzare il pensiero e l'impegno che hai dedicato alla tua opera.» Quando invitò ad alzarsi e a fare un brindisi «alla nostra famiglia e ai suoi componenti», tutti obbedirono di slancio. Poi Shasa andò ad offrirle il braccio per accompagnarla nel salotto azzurro dove attendevano caffè, liquori e sigari. Centaine non s'era mai piegata alla barbara usanza di lasciar soli gli uomini a fumare i sigari dopo cena. Se c'era qualcosa di cui valesse la pena
di parlare, voleva partecipare alla discussione. Michael si avvicinò a Isabella che si stava alzando e le prese il braccio. «Ho sentito molto la tua mancanza, Bella. Perché non hai risposto alle mie lettere? Ci sono tante cose che voglio sapere. Ramon e Nicky...» Vide la sorella cambiare espressione di colpo, e si allarmò. «E' successo qualcosa, Bella?» «Non ora, Mickey», l'avvertì lei. Era la prima volta che si parlavano in quasi sei mesi dopo la scomparsa di Nicky. Non gli aveva telefonato e non aveva risposto alle sue lettere. Inoltre, aveva evitato di restare sola con lui da quando era arrivato a Weltevreden quella mattina. «C'è qualcosa che non va», insistette Michael. «Sorridi!» gli ordinò Isabella, sorridendo a sua volta. «Non insistere. Più tardi verrò in camera tua. Ora non fare domande.» Gli strinse il braccio e rise allegramente mentre entravano tutti nel salotto azzurro e Centaine sedeva al solito posto sul lungo divano di fronte al fuoco acceso nel camino. «Questa sera voglio aver vicine le mie ragazze», decise, e si rivolse a HoLly. «Vieni a sedere qui, mia cara, da questa parte.» Batté la mano sul sofà, accanto a lei. «Bella, tu da quest'altra parte, prego.» Era difficile che Centaine facesse qualcosa senza una buona ragione, e quando i servitori ebbero portato il caffè e Shasa ebbe versato il cognac per i due figli, giocò la carta vincente. «Attendevo l'occasione per far questo, Holly», disse in un tono che incatenò l'attenzione di tutti. «E immagino che il tuo compleanno mi offra la scusa migliore. Tu sei la mia nipote più anziana: perciò stasera intendo stabilire una piccola tradizione di famiglia.» Centaine alzò le mani e aprì il fermaglio della collana, poî la sollevò. Era un tesoro abbagliante, più di mille carati di perfetti diamanti. Ogni pietra era stata scelta personalmente da lei tra la produzione della sua favolosa miniera H'ani, al nord. Aveva impiegato dieci anni per accumularli, e Garrards di Londra aveva disegnato e realizzato la montatura in platino. «Un gioiello così incantevole deve essere portato solo da una bella donna», mormorò Centaine in tono di rammarico. Le lacrime che le brillavano negli occhi erano sincere. «Purtroppo non corrispondo più a questo requisito, quindi è venuto il momento di passarlo a qualcuna che vi corrisponde.» Si girò verso Holly: «Portala con gioia», disse, e le mise il monile al collo. Holly rimase immobile, come stordita. Anche tutti gli altri tacevano; sapevano cosa significava quella collana per Centaine, sapevano che le attribuiva un valore ben superiore ai due milioni di sterline attribuiti di recente dagli stimatori del Lloyd's. Holly alzò la mano destra e accarezzò le stelle fulgide che le brillavano sulla gola con un'espressione d'incredulità sui lineamenti delicati; poi, con un singhiozzo, si girò verso Centaine e l'abbracciò. Le due donne rimasero strette per un momento prima che Holly ritrovasse la voce. Era soffocata, ma tutti l'udirono chiaramente. «Grazie, Nana.» Soltanto i membri più stretti della famiglia chiamavano così Centaine, e Holly non l'aveva mai fatto prima di quel giorno. Centaine la tenne stretta a sé; chiuse gli occhi e premette il volto contro i capelli dorati di Holly, in modo che nessuno vedesse il sorrisetto di trionfo sulle sue labbra e la luce di soddisfazione che brillava fra le lacrime nei suoi occhi. Nanny aspettava nell'appartamento di Isabella.
«E' la una passata», protestò Isabella al suo ritorno. «Ti avevo detto di non aspettarmi, vecchia sciocca.» «Ti ho aspettata alzata per venticinque anni.» Nanny le si avvicinò per aprirle i gancetti dell'abito. «Mi fai venire i rimorsi», insistette Isabella. «E invece a me fa piacere», borbottò Nanny. «Non sono tranquilla se non so che cosa hai combinato, signorinella. Ti preparo il bagno... Non l'ho fatto prima perché non volevo che l'acqua si freddasse.» «Il bagno alla una del mattino!» Isabella respinse l'idea con fermezza. Non aveva più permesso a Nanny di vederla nuda dopo il ritorno. La vecchia aveva gli occhi troppo acuti: avrebbe individuato i piccoli mutamenti causati dalla gravidanza: i capezzoli ingrossati e più scuri, la leggera striatura dove la pelle s'era stirata sui fianchi e sul basso ventre. Si rese conto che Nanny si stava insospettendo per quel comportamento diverso, e per distrarla disse: «Ora vàttene, Nanny. Va' a scaldare il letto di Bossie». Nanny la fissò scandalizzata. «Chi ti ha raccontato questi pettegolezzi vergognosi?» chiese. «Non sei la sola a sapere tutto quello che succede a Weltevreden», le rispose allegramente Isabella. «Il vecchio Bossie ti sta dietro da anni. E' ora che tu abbia pietà di lui. E' un brav'uomo.» Bossie era il maniscalco della tenuta, ed era andato a lavorare per Centaine come apprendista trentacinque anni prima. «Vai a battere il martello sulla sua incudine.» «Non dire queste sconcezze.» Nanny arricciò il naso. «Una vera signora non parla così.» Cercò di nascondere la confusione con un'aria virtuosa, ma indietreggiò in direzione della porta e Isabella sospirò di sollievo quando vide che se la chiudeva alle spalle. Andò in bagno, si struccò in fretta, buttò l'abito da sera sulla spalliera del sofà perché Nanny se ne occupasse al mattino e indossò una vestaglia di seta. Annodò la cintura, attraversò la stanza da letto e si soffermò, con le dita posate sulla maniglia. «Che cosa dirò a Mickey?» Se si fosse rivolta quella domanda appena tre giorni prima, la risposta sarebbe stata ovvia; ma le circostanze erano cambiate. Era arrivato il pacchetto. L'ultima comunicazione che aveva ricevuto da Joe Cicero era stata il giorno prima che lasciasse Londra per rientrare al Capo di Buona Speranza. Le aveva telefonato in Cadogan Square mentre stava facendo i bagagli. «Rosa Rossa.» Isabella aveva riconosciuto subito il tono ansimante, e come sempre l'odio e la paura l'avevano agghiacciata. «Le darò l'indirizzo del suo contatto. Lo usi solo in caso d'emergenza. E' un servizio di segreteria, quindi non sprechi tempo ed energia a controllarlo. Un telegramma o una lettera indirizzati a Hoffman, presso Mason's Agency, ro Blushing Lane, Soho, mi raggiungerà. Impàri a memoria l'indirizzo. Non lo scriva.» «Fatto», aveva bisbigliato Isabella. «Quando tornerà a casa, prenderà una casella postale in una località non associata con Weltevreden. Usi un nome fittizio e quando l'avrà fatto, mi informi all'indirizzo di Blushing Lane. E' chiaro?» Pochi giorni dopo l'arrivo a Weltevreden, Isabella aveva passato il valico di Constantiaberg e aveva raggiunto i sobborghi di Camps Bay sulla costa atlantica della penisola del Capo. L'ufficio postale era abbastanza lontano da Weltevreden perché nessuno degli impiegati la riconoscesse. Prese una casella con il nome di Rose Cohen e mandò una raccomandata in Blushing Lane con il numero. Controllava la casella ogni sera, quando rientrava dall'ufficio
di Centaine House nel centro di Città del Capo e passava con la Mini nella strettoia tra Signal Hill e la montagna, il percorso più lungo dietro il versante posteriore della Montagna della Tavola per arrivare a Weltevreden. Sebbene la casella fosse sempre vuota, non si scostava mai da quella routine. L'assenza di notizie di Nicky le consumava l'anima. Gli eventi quotidiani della sua vita le sembravano una finzione. Sebbene incanalasse tutta l'energia nel lavoro come assistente di Shasa, l'impegno non bastava a calmare la sofferenza come aveva sperato. Sorrideva, rideva, andava a cavallo con Nana e, durante i fine settimana, giocava a tennis o partecipava alle regate con i vecchi amici. Lavorava e si divertiva come se nulla fosse cambiato, ma era una finzione. Le notti erano lunghe e solitarie. A volte nelle ore più buie pensava di andare da Shasa per descrivere la rete che la teneva prigioniera; ma di giorno si diceva: «Che cosa può fare pater? Che cosa può fare chiunque per aiutarmi?» E ricordava il visino gonfio di Nicky, le bolle argentee che gli uscivano dal naso mentre affogava, e si rendeva conto di non poter permettere che accadesse ancora. Stranamente, il passare del tempo non attenuava il dolore; anzi, sembrava esacerbare le ferite, e la mancanza di notizie di Nicky le aggravava ancora di più. Ogni giorno la sofferenza si faceva più terribile. Poi aveva saputo che Michael sarebbe venuto da Johannesburg per le gare, e le era parso un buon presagio. Michael era il confidente ideale. Non pretendeva che tacesse niente di più se non condividere la sua sofferenza e alleviare il peso terribile che fino a quel momento aveva portato da sola. Il venerdì prima dell'arrivo di Michael, era andata a Camps Bay e aveva parcheggiato la Mini nella strada, poco lontano dalla posta. Era tornata indietro a passo lento e aveva sbirciato nel locale dove c'erano le caselle d'acciaio. Erano quasi le sei e la posta centrale era già chiusa. Nell'angolo c'erano due adolescenti che si sbaciucchiavano, ma erano corsi via con aria colpevole quando Isabella li aveva guardati severamente. Per precauzione, non si avvicinava mai alla sua casella quando nella sala c'era qualcuno. S'era voltata verso l'ingresso per assicurarsi d'essere sola, poi aveva inserito la chiave nella serratura dello sportellino nella quinta fila. Lo choc era stato ancora più forte perché si aspettava di trovare vuota la casella. L'adrenalina le era scorsa nel sangue; s'era sentita ardere le guance e mancare il respiro. Aveva preso la grossa busta marrone e l'aveva infilata nella borsa a tracolla. Poi, furtiva come una ladra, aveva richiuso lo sportello ed era corsa alla Mini. Tremava tanto che aveva stentato a girare la chiave nella serratura della portiera. Ansimava come se avesse sostenuto un lungo incontro sul campo da tennis, quando aveva avviato la Mini e l'aveva messa in moto. S'era fermata alla spiaggia, sotto le palme che fiancheggiano il viale. A quell'ora il lido era quasi deserto. Due coniugi anziani facevano correre un setter irlandese lungo la riva, e un unico bagnante sfidava il vento di sud-est e le gelide acque verdi della corrente di Benguela. Isabella aveva alzato i vetri e aveva messo la sicura alle due portiere della Mini prima di prendere la busta dalla borsa e posarla sulle ginocchia. L'indirizzo era battuto a macchina, Signora Rose Cohen, e i francobolli con l'effigie della regina avevano il timbro dell'ufficio postale di Trafalgar Square. Isabella aveva girato la busta, atterrita al pensiero di ciò che poteva contenere. Non c'era l'indirizzo del mittente. Cercando di ritardare il momento decisivo, aveva cercato il temperino d'oro nella borsetta e aveva tagliato
la busta con cura. Era scivolata fuori una foto a colori: ogni nervo del suo corpo aveva incominciato a fremere quando l'aveva girata e aveva riconosciuto suo figlio. Nicky era seduto su una coperta blu, in un prato. Indossava solo il pannolino. Era seduto senza bisogno di un appoggio, ormai aveva quasi sette mesi. Era cresciuto, le guance erano meno pienotte, gli arti più lunghi e snelli. L'espressione era interrogativa, ma un sorriso gli incurvava gli angoli della bocca e gli occhi erano verdi e luminosi come smeraldi. «Oh, Dio, è ancora più bello!» aveva mormorato Isabella accostando la foto alla luce per studiare ogni dettaglio. «E' così grande, e sta seduto da solo. Il mio ometto.» Aveva toccato la foto e poi s'era accorta con costernazione di aver lasciato un'impronta sulla superficie lucida. L'aveva cancellata accuratamente con un fazzolettino di carta. «Il mio bambino», aveva sussurrato mentre la sofferenza l'attanagliava con rinnovata ferocia. «Oh, il mio bambino!» Il sole era disceso all'orizzonte, lontano sull'Atlantico, prima che Isabella fosse riuscita a scuotersi. Solo allora, mentre rimetteva la foto nella busta, s'era accorta di aver dimenticato gli altri oggetti che conteneva. C'era la copia fotostatica di una pagina di qualcosa che doveva essere il registro di una clinica pediatrica; ma nome e indirizzo erano stati cancellati. Era scritto in spagnolo. Il nome era in alto: «Nicholas Miguel Ramon de Machado», seguito dalla data di nascita e dalle annotazioni delle visite settimanali alla clinica. Ogni annotazione era in una scrittura diversa ed era firmata da un medico o da un'infermiera. Vi erano annotati il peso, la dieta, la dentizione. Isabella aveva visto che il 15 luglio era stato curato per una forma di eruzione cutanea che il medico aveva diagnosticato come dovuta al caldo; e due settimane più tardi per una lieve forma di mughetto. A parte questo, era sano e normale. Con uno slancio d'orgoglio materno, Isabella aveva letto che a quattro mesi aveva messo i primi due dentini, e ormai pesava quasi otto chili. Isabella aveva preso l'altro foglio dalla busta e aveva riconosciuto immediatamente la scrittura. Era di Adra, ed era in spagnolo. Señorita Bella, Nicky diventa sempre più forte ed intelligente. Ha il carattere di un toro da corrida. Sa già muoversi carponi e va molto svelto, e mi aspetto che da un giorno all'altro si alzerà sulle gambe e camminerà. La prima parola che ha detto è stata «Mamma» e ogni giorno gli dico che lei è molto bella e che verrà a trovarlo. Non capisce ancora, ma in futuro capirà. Penso spesso a lei, señorita. Deve credermi: avrò cura di Nicky con la mia vita. La prego di non far niente che possa metterlo in pericolo. Rispettosamente, Adra Olivares. L'avvertimento contenuto nell'ultima riga era stato come una coltellata; era ancora più assillante perché espresso in modo blando. In quel momento Isabella aveva compreso che non poteva correre il rischio di dire la verità a qualcuno, pater o Nana o Michael. Ora esitò con le dita sulla maniglia della porta della sua camera. «Mi dispiace, Mickey, ma dovrò mentirti. Forse un giorno ti dirò la verità.» Rimase in ascolto per qualche attimo; ma la grande casa era immersa nel silenzio. Girò la maniglia e aprì la porta senza far rumore. La lunga galleria era deserta; solo le lampade da notte erano rimaste accese. Scalza, Isabella passò in silenzio sui tappeti persiani stesi sul parquet. Dato che veniva molto di rado a Weltevreden, Michael aveva conservato la sua camera nell'ala della
nursery. Era seduto sul letto e leggeva. Appena Isabella spinse la porta, lasciò cadere il libro sul comodino e sollevò le coperte per farle posto. Isabella s'infilò nel letto accanto a lui; Mickey le assestò la trapunta intorno alle spalle e lei gli si aggrappò tremando d'infelicità. Rimasero così a lungo, in silenzio, prima che Michael la esortasse gentilmente. «Dimmi, Bella.» Lei non fu capace di parlare subito. La decisione vacillava; provava la tentazione disperata di ignorare l'avvertimento di Adra. Mickey era l'unico, in famiglia, che conoscesse l'esistenza di Ramon e di Nicky. Provava l'impulso di dirgli tutto, per poter riempire il vuoto tremendo della sua anima con un dolce conforto. Poi le balenò davanti agli occhi, ancora una volta, l'immagine di Nicky che aveva visto sullo schermo. Trasse un respiro profondo e appoggiò il viso sul petto di Michael. «Nicky è morto», mormorò, e lo sentì trasalire. Mickey non rispose subito. «E' vero», si disse lei in silenzio. «Nicky è morto per tutti noi.» Eppure quelle parole sembravano un atroce tradimento nei confronti di Michael e di Nicky. Non osava fidarsi del fratello. Aveva smentito l'esistenza di suo figlio, e la menzogna sembrava aggravare la sua infelicità e il suo isolamento, se pure era possibile. «Come?» chiese finalmente Mickey. Lei si aspettava la domanda. «E' morto nel sonno», bisbigliò. «Ero andata a svegliarlo per allattarlo, ed era già freddo.» Sentì Michael rabbrividire. «Oh, Dio! Povera Bella! E' orribile! E' crudele!» La realtà era più crudele ed orribile di quanto lui potesse immaginare: ma non era possibile rivelargliela. Dopo un lungo istante, Michael chiese: «Ramon? Dov'è Ramon? Dovrebbe essere qui a consolarti». «... Ramon.» Isabella ripeté il nome, cercando di non tradire la paura. «Quando il bambino è morto, Ramon è cambiato completamente. Credo che desse la colpa a me. Il suo amore per me è morto con Nicky.» Cominciò a piangere. I singhiozzi strazianti esprimevano l'angoscia, il terrore e la solitudine che l'ossessionavano da tanto tempo. «Nicky non c'è più. Ramon non c'è più. Non li rivedrò più per tutta la vita.» Michael l'abbracciò più forte. Il suo corpo era caldo e solido; e la forza mascolina completamente priva di sessualità era ciò di cui Isabella aveva più bisogno. La sentiva scorrere in lei come acqua che colmava la diga svuotata del suo coraggio. Si aggrappò in silenzio al fratello. Dopo un poco, lui cominciò a parlare. Isabella lo ascoltò, con un orecchio premuto contro il suo petto, in modo che la voce era un sussurro vibrante. Parlò d'amore e di sofferenza, di solitudine e di speranza e infine di morte. «Il vero terrore della morte è la sua finalità. La conclusione così brusca, il vuoto così irrevocabile. Non puoi sfidare la morte o appellarti contro di essa. Se tenti di farlo, riesci solo a spezzarti il cuore.» Erano frasi fatte, vecchi cliché, gli stessi con cui l'uomo ha cercato di consolarsi per decine di migliaia di anni. Ma come tanti cliché, erano veri; ed erano l'unico conforto che le fosse accessibile. Più importante del senso delle parole era la musica suadente della voce di Michael, il calore e la forza della SUa ViCinanza e il suo affetto per lei. Finalmente Isabella si addormentò. Si destò prima dell'alba e si accorse che Michael era rimasto immobile per non disturbarla, ed era sveglio anche lui.
«Grazie, Mickey», gli sussurrò. «Non saprai mai quanto mi sentivo sola. Ne avevo un gran bisogno.» «Lo so, Bella. So cos'è la solitudine.» Isabella si sentì commossa; la sua sofferenza si placò momentaneamente. Desiderava dargli conforto. Ora toccava a lui. «Parlami del tuo nuovo libro, Mickey. Non l'ho ancora letto... scusami.» Le aveva mandato una copia pilota con una dedica affettuosa, ma lei era troppo chiusa nella sua sofferenza. Non aveva avuto tempo per nessuno, neppure per Mickey. Questa volta, mentre lo ascoltava, Mickey le parlò del libro e di sé, e della sua visione del mondo. «Ho parlato ancora con Raleigh Tabaka», disse all'improvviso, e Isabella trasalì. Non aveva pensato a quel nome da quando aveva lasciato Londra. «Dove? Dove l'hai incontrato?» Michael scosse la testa. «Non l'ho incontrato. Ci siamo parlati per telefono, molto brevemente. Credo che mi chiamasse da un'altra nazione, ma presto verrà qui. E' un fuoco fatuo, una primula nera. Va e viene attraverso i confini come un'ombra.» «Ti sei accordato per incontrarti con lui?» «Sì. E manterrà la parola.» «Stai attento, Mickey. Promettimi che sarai prudente. E' un individuo pericoloso.» «Non hai motivo di preoccuparti», le assicurò il fratello. «Non sono un eroe. Non sono come Sean o Garry. Sarò prudente, molto prudente. Te lo prometto.» Michael Courteney fermò la Valiant ammaccata nel parcheggio di un drive-in accanto a una rampa d'uscita dell'autostrada Johannesburg-Durban. Girò la chiave ma il motore continuò a funzionare ancora per qualche istante. Aveva continuato a comportarsi in modo irregolare lungo l'intero percorso dagli uffici del Golden City Mail nel centro di Johannesburg. Ormai la macchina aveva fatto centodiecimila chilometri, e avrebbe dovuto essere venduta due anni prima. Dato che era vicedirettore, il suo contratto prevedeva che avesse diritto a una nuova macchina «di lusso» ogni dodici mesi. Ma si era affezionato alla vecchia Valiant. Tutte le cicatrici e gli sfregi erano stati acquisiti con onore, e nel corso degli anni il sedile del guidatore aveva assunto i contorni del suo corpO. Studiò gli altri veicoli nel parcheggio, ma nessuno corrispondeva alla descrizione che gli era stata data. Diede un'occhiata all'orologio, un digitale giapponese che aveva pagato cinque dollari in occasione di un viaggio a Tokyo per il giornale, l'anno precedente. Era in anticipo di venti minuti per l'appuntamento; accese una sigaretta e si assestò sul vecchio, comodo sedile. Il pensiero della macchina e dell'orologio lo fece sorridere. Era davvero l'eccentrico della famiglia. Da Nana a Bella, erano tutti ossessionati dai beni materiali. Nana aveva la sua Daimler color narciso: il colore era sempre lo stesso anche se il modello cambiava ogni anno. Pater aveva un garage pieno di automobili classiche, soprattutto sportive inglesi come la Jaguar e la grande Bentley dello stesso verde delle macchine da corsa. Garry aveva le lussuosissime italiane, Ferrari e Maserati. Sean rafforzava la sua immagine di duro con fuoristrada da caccia attrezzatissime, e persino Bella guidava una macchinetta truccata che costava il doppio di una Valiant nuova. Nessuno di loro avrebbe mai portato un orologio digitale; né Nana con il suo Piaget tempestato di diamanti, né Sean con il suo virile Rolex d'oro. «Cose», pensò Mickey con un sorriso sprezzante. «Vedono soltanto le cose, non le persone. E' la
malattia del nostro paese.» Sentì bussare al finestrino e si voltò con un sussulto. Si aspettava che fosse il suo contatto. Non c'era nessuno. Era sconcertante. Poi una manina nera dal palmo roseo apparve e bussò sul vetro con l'indice. Michael abbassò il finestrino e si sporse. Un monello negro gli sorrise. Non poteva avere più di cinque o sei anni. Era scalzo e lacero. Sebbene avesse le narici incrostate dal bianco del moccio secco, il suo sorriso era raggiante. «Per favore, baas», pigolò, tendendo le mani in un gesto da mendicante. «Io fame. Per favore, dai me un cent, baas.» Michael aprì la portiera e vide che il bambino indietreggiava incerto. Prese il cardigan che aveva buttato sul sedile accanto e lo infilò sopra la testa del piccolo. Gli arrivava quasi alle caviglie e le maniche pendevano per trenta centimetri al di sotto delle punte delle dita. Michael le rimboccò e disse in xhosa: «Dove abiti, piccolo?» Il bambino era frastornato, non soltanto da quell'attenzione, ma anche dal fatto di sentire un bianco che parlava xhosa. Sei anni prima Michael s'era reso conto che era impossibile comprendere un uomo se non si parlava la sua lingua. Da allora aveva studiato e si era esercitato. Neppure un bianco su mille si prendeva quella briga. Tutti i negri dovevano imparare l'inglese o l'afrikaans, altrimenti era molto difficile che trovassero lavoro. Adesso Michael parlava tanto lo xhosa quanto lo zulu. Erano due lingue affini, usate dalla stragrande maggioranza della popolazione negra dell'Africa meridionale. «Vivo a Drake's Farm, nkosi.» Drake's Farm era una grande township negra con circa un milione di abitanti. Da quel punto era invisibile, a est dell'autostrada, ma il fumo che s'innalzava dalle migliaia di fuochi offuscava il cielo e lo colorava di un grigio plumbeo. I lavoratori di Drake's Farm andavano e venivano ogni giorno con treni e autobus, per raggiungere le case private, le fabbriche e le aziende nelle zone bianche del Witwatersrand. L'enorme complesso commerciale e minerario della grande Johannesburg era circondato da quelle townships dormitorio, Drake's Farm, Soweto e Alexandria. Secondo le norme bizzarre della legge sulle aree dei gruppi, l'intero paese era diviso in settori riservati a ognuno dei gruppi razziali. «Quando hai mangiato l'ultima volta?» chiese gentilmente Michael. «Ho mangiato ieri mattina, grande capo.» Michael prese dal portafoglio un biglietto da cinque rand. Il bambino sgranò gli occhi nel vederlo. Quasi certamente non aveva mai posseduto tanto denaro tutto in una volta. Michael gli porse la banconota. Il bambino l'afferrò, si voltò di scatto e corse via, inciampando nel cardigan. Non ringraziò. Aveva un'espressione di terrore, la paura che il dono gli venisse ritolto prima che potesse fuggire. Michael rise; poi il suo divertimento si trasformò in sdegno. C'era un altro paese nel Primo Mondo moderno, si chiese, dove i bambini erano ancora costretti a mendicare per le strade? Poi alla collera si unì un senso d'impotenza. C'era un altro paese che includesse i membri del Primo Mondo, come la sua famiglia con le proprietà immense e la sensazionale collezione di tesori, e la miseria disperata del Terzo Mondo, epitomizzata nelle toranships? Il contrasto era ancora più crudele perché era tanto evidente. «Se almeno potessi fare qualcosa», mormorò, e aspirò con tanta forza che un paio di centimetri di cenere della sigaretta risplendettero e una scintilla cadde sulla cravatta, lasciando una
bruciatura grande quanto una capocchia di spillo. Ma non faceva una grande differenza nel suo aspetto generale. Un furgoncino blu lasciò l'autostrada ed entrò nel parcheggio. Lo guidava un negro giovane, con il berretto a visiera. La scritta sulla fiancata diceva «Macelleria Phuza Muhle, Dodicesima Strada, Drake's Farm.» Il nome prometteva «buon mangiare». Michael fece lampeggiare i fari, secondo le istruzioni. Quando il furgone si fermò di fronte a lui, Michael scese e chiuse la portiera della Valiant prima di raggiungerlo. Gli sportelli posteriori non erano chiusi a chiave. Michael salì e li sbatté. L'interno era quasi pieno di ceste contenenti pacchi di carne, e dai ganci del tettuccio pendevano le carcasse scuoiate di numerose pecore. «Vieni qui», disse il guidatore in zulu, e Michael si avvicinò. Le carcasse appese lo sfiorarono, e le gocce di sangue gli macchiarono le ginocchia dei calzoni di velluto a coste. L'autista gli aveva preparato una nicchia fra due ceste di carne, dove sarebbe rimasto nascosto agli occhi di un osservatore casuale. «Non avremo problemi», assicurò allegramente l'autista. «Nessuno ferma mai questo furgone.» Ripartì, e Michael sedette sul pavimento lurido. Quelle precauzioni teatrali erano fastidiose ma necessarie. Nessun bianco poteva entrare nella township senza un permesso rilasciato dalla stazione della polizia locale dopo una consultazione con il consiglio di gestione. Normalmente non era difficile ottenere il permesso. Ma Michael Courteney era un uomo segnato. Per tre volte era incorso in contravvenzioni ai sensi della legge sulle pubblicazioni, e al suo giornale erano state inflitte multe pesanti. Ai sensi della legge, i censori del governo godevano di poteri quasi illimitati e potevano vietare o sopprimere ogni pubblicazione; e il partito Nazionale al potere li esortava a non desistere dall'esercitare tale autorità per sostenere i princìpi morali calvinisti della Chiesa Olandese riformata e proteggere lo status quo politico. Che speranze avevano gli scritti di Michael contro una simile vigilanza? Quando aveva chiesto il permesso per entrare in Drake's Farm, la domanda era stata subito respinta. Il furgone blu varcò i cancelli della township senza che nessuno lo ispezionasse; i negri in uniforme che stavano di guardia non alzarono neppure gli occhi dalla partita di ludo africano, giocato con i tappi della Coca-Cola su una tavola di legno intagliata. «Adesso puoi venire a sederti qui con me», gli urlò l'autista, e Michael scavalcò le ceste di carne per prendere posto sul sedile del passeggero. La township lo affascinava sempre. Era come visitare un pianeta alieno. Aveva visto Drake's Farm per l'ultima volta nel 1960, quasi undici anni prima. A quel tempo era allievo cronista del MaiL. Quell'anno aveva scritto la serie di articoli intitolata Rabbia che avevano costituito la base della sua fama giornalistica e della sua prima condanna ai sensi della legge sulla stampa. Sorrise al ricordo e si guardò intorno con interesse mentre attraversavano il settore più vecchio della township: risaliva al secolo precedente, all'epoca vittoriana durante la quale erano stati scoperti nelle vicinanze i favolosi giacimenti d'oro del Witwatersrand. La zona vecchia era un labirinto di vicoli e vicoletti e costruzioni raffazzonate, casupole e baracche di mattoni crudi e intonaco screpolato, tetti di lamiera ondulata dipinti di tutte le tinte della tavolozza. Quasi tutti i colori erano sbiaditi e corrosi dalla lebbra rossiccia della ruggine.
Le vie strette erano dissestate, piene di buche e pozzanghere di liquido indefinibile. I polli scarni raspavano tra l'immondizia. Una scrofa enorme, con la pelle così rosea da sembrare bollita, sguazzava in una delle pozzanghere: grugnì irritata quando passò il furgone. Il lezzo era incredibile. Il fetore acre dei rifiuti fermentati si mescolava a quello delle fogne scoperte e delle latrine che stavano accanto a ogni tugurio come tante garitte. L'ispettore sanitario del governo aveva abbandonato da molto tempo la speranza di normalizzare il settore vecchio di Drake's Farm. Un giorno sarebbero arrivate le ruspe ed il Mail avrebbe pubblicato in prima pagina le foto delle famiglie negre disperate che, accovacciate sui mucchi patetici dei loro averi, assistevano alla demolizione delle case. Un funzionario bianco in giacca nera avrebbe fatto alla televisione di stato una dichiarazione a proposito dell'«ambiente malsano e pericoloso che lasciava finalmente il posto a confortevoli casette moderne». Bastava quel pensiero per riaccendere la collera di Michael. Il furgone blu avanzava sobbalzando fra gli squallidi shebeens e i bordelli; quindi varcò il confine invisibile tra la zona vecchia e la nuova, che lo stesso funzionario statale avrebbe descritto come formata da confortevoli casette moderne. Migliaia di identici scatoloni di mattoni, con i tetti di asbesto, sorgevano in schiere interminabili sul veld privo d'alberi. A Michael ricordavano le file delle bianche croci di legno che aveva visto in Francia nei cimiteri di guerra. Comunque i residenti negri erano riusciti a conferire carattere ed individualità a quel paesaggio cittadino così scostante. Qua e là una casa era stata ridipinta di un colore vivace che spiccava nel bianco monotono. Rosa o celesti o arancione, attestavano l'amore africano per le tinte smaglianti. Michael ne notò una, decorata con i tradizionali fregi geometrici della tribù settentrionale dei ndebele. I giardinetti rispecchiavano lo stile degli abitanti. Uno era un riquadro di terra nuda; in un altro si vedevano i filari di piante di mais e una capretta da latte legata alla porta; un altro ancora ostentava una quantità di gerani in vecchie latte da venti litri; un altro era cintato dal filo spinato e pieno di erbacee, dove montava la guardia un cane bastardo, ossuto e feroce. Alcuni giardinetti erano separati da muri ornamentali di blocchi di cemento o di vecchi pneumatici dipinti di colori abbaglianti e semisepolti nella terra dura come il mattone. Quasi tutte le casette erano state ampliate, di solito con tettoie di legno e lamiera arrugginita, dove s'era insediata una famiglia di parenti del proprietario. C'erano automobili abbandonate, prive di motore e di ruote, ferme lungo il marciapiedi. Agli angoli sorgevano montagnole di vecchi materassi, scatoloni fatti a pezzi e altri oggetti che il servizio della nettezza urbana non aveva portato via. Quello era il palcoscenico su cui si muoveva la gente della township. Era la gente che Michael amava più della sua razza e della sua classe, la gente per la quale simpatizzava e si tormentava. Gli dava una grande gioia e un infinito motivo di stupore per la sua forza e la volontà di sopravvivere. C'erano bambini dovunque guardasse, bambini che si muovevano carponi o trotterellavano sulle gambette malferme, che si rotolavano e correvano per le vie come cucciolate di lucidi labrador neri o penzolavano dalla schiena delle madri, secondo la tradizione. I più grandicelli giocavano con le automobiline costruite con lattine di birra vuote e filo metallico. Le bambine saltavano alla corda in mezzo alla strada, o imitavano i giochi che avevano visto fare dai bimbi bianchi. Si spostavano sempre adagio e controvoglia dalla strada quando l'autista del furgone blu strombazzava.
Quando vedevano la faccia bianca di Michael saltellavano accanto al furgone e gridavano «Dolci! Dolci!» Michael s'era preparato, e lanciava le caramelle che aveva stipato nelle tasche. Anche se gran parte della popolazione adulta era in città a lavorare, le madri e i vecchi e i disoccupati erano rimasti nella township. Bande di ragazzotti lo fissavano con occhi inespressivi; erano fermi agli angoli in gruppi oziosi. Sebbene fosse consapevole che quei giovinastri erano gli sciacalli delle townships e depredavano i loro simili, Michael era tutto comprensione e simpatia nei loro confronti. Capiva la loro disperazione. Sapeva che prima ancora d'intraprendere il viaggio nella vita avevano scoperto che per loro non c'era speranza di tempi migliori. Poi c'erano le donne che appendevano ad asciugare il bucato come bandiere da preghiera o stavano chine sui paioli neri nei cortili, a cuocere l'immancabile polenta di mais sui fuochi aperti che preferivano alle stufe di ferro delle loro cucine. Il fumo dei fuochi si mescolava alla polvere alzata dal vento e formava la nube perpetua che incombeva sopra la township. I venditori ambulanti abusivi, gli spouzas, che avevano eluso le disposizioni governative sulla concessione delle licenze, spingevano le carriole e vantavano le loro mercanzie nelle strade affollate. Le massaie discutevano con loro per una patata, una sigaretta, una fetta di pane bianco od un'arancia, a seconda della disponibilità. Nonostante lo squallore e la presenza della miseria e della trascuratezza, Michael sentiva risate e musiche in ogni strada e ad ogni angolo. Le risate erano allegre e spontanee. Grida di saluto e scambi di battute erano spensierati. Dovunque guardasse, vedeva quegli incantevoli sorrisi africani che gli riempivano il cuore e lo stringevano fino a farlo soffrire. La musica usciva echeggiando dalle casette e, per le strade, dalle radioline a transistor che gli uomini e le donne tenevano in mano od in bilico sulla testa. I bambini suonavano i fischietti e i banjo fabbricati con latte di paraffina e pezzi di legno e di filo metallico. Ballavano e cantavano nell'espressione spontanea della gioia di vivere, anche in quell'ambiente malsano. Per Michael, le risate e la musica rappresentavano lo spirito indomabile del negro africano di fronte alle difficoltà. Per lui non esisteva sulla terra una razza che gli somigliasse. Li amava, tutti, indipendentemente dall'età e dal sesso, dalla tribù e dalle condizioni. Apparteneva all'Africa e quello era il suo popolo. «Cosa posso fare per voi, fratelli?» mormorò. «Cosa posso fare per aiutarvi? Vorrei saperlo. Tutto ciò che ho tentato di fare sinora è fallito. Tutti i miei sforzi si sono spenti come un grido disperato nel deserto. Se almeno potessi trovare il modo.» All'improvviso, qualcosa lo distrasse. Superarono un dosso nel veld ondulato e Michael si tese sul sedile. Undici anni prima, quando era passato da lì, non c'era altro che la prateria, con poche capre magre che pascolavano tra le ferite rosse aperte nella terra dall'erosione e dall'abbandono. «Nobs Hill.» L'autista rise della sua sorpresa. «Bello, eh?» La volontà e la forza d'animo degli uomini sono tali che persino di fronte alle circostanze più avverse vi sono quelli che non soltanto sopravvivono ma, con coraggio e ingegnosità superiori alla media, arricchiscono e si arrampicano al di sopra degli ostacoli di cui è costellato il loro cammino. Lungo il dosso, più in alto delle casupole di Drake's Farm, c'erano le case dell'élite negra. Erano cento o più uomini affermati, diversi dal milione di abitanti di Drake's Farm. Grazie all'abilità affaristica e all'impegno avevano strappato il successo materiale dalle mani dei politici bianchi, da coloro che cercavano di decidere del loro destino con una monumentale costruzione di leggi e regolamenti,
attuazione pratica dell'apartheid di Verwoerd. Ma le loro possibilità e quindi la vittoria erano limitate. La legge sulle aree dei gruppi li obbligava a vivere soltanto nelle zone fissate dagli ideatori dell'apartheid: le case che uomini d'affari, dottori, avvocati e criminali arricchiti avevano costruito per sé avrebbero fatto onore ai sobborghi eleganti di Sandton o La Lucia o Constantia, dove vivevano i loro colleghi bianchi. «Guarda!» disse con orgoglio l'autista, tendendo il braccio. «La casa rosa con le finestre grandi. E' di Josia Nrubu, il famoso stregone. Vende talismani, pozioni e incantesimi per posta in tutta l'Africa, persino in Nigeria e in Kenya. Vende un talismano che ti fa amare da tutti gli uomini e tutte le donne, e ossa di leone che ti assicurano il successo negli affari. Ti vende il grasso d'avvoltoio per la vista e una pozione ricavata dall'imene di una vergine che rende il tuo aratro di carne duro come il granito e instancabile come una zagaglia. Ha quattro Cadillac nuove ed i suoi figli studiano nelle università americane.» «A me andrebbero bene le ossa di leone», rise Michael. Il Golden City Mail aveva chiuso i bilanci in perdita negli ultimi quattro anni, con grande irritazione di Nana e di Garry. «Guarda la casa con il tetto verde ed il muro alto. Là vive Peter Ngonyama. La sua tribù coltiva l'erba che noi chiamiamo dagga o boom e che voi bianchi chiamate cannabis. Coltivano il dagga in posti segreti tra i monti e lo mandano con i camion a Città del Capo, a Johannesburg e Durban. Lui ha venticinque mogli ed è ricchissimo.» Lasciarono la superficie sgretolata della vecchia strada e passarono sull'asfalto levigato del nuovo viale. L'autista accelerò fra i prati verdi e gli alti muri di Nobs Hill, designata ufficialmente come ESTENSIONE IV di Drake's Farm. All'improvviso frenò davanti al cancello d'acciaio d'una delle residenze più sfarzose. Il cancello elettrico si aprì in silenzio e poi si chiuse di nuovo dietro di loro quando entrarono in un giardino tutto cespugli e prati verdi. C'era una piscina ai piedi della terrazza con una fontana rocciosa al centro. Sui prati erano in funzione gli annaffiatori automatici, e Michael notò due giardinieri negri in tuta che lavoravano tra le piante fiorite. La costruzione era ultramoderna, con finestre panoramiche a grandi vetrate e travature di legno a vista. Il tetto era diviso in vari livelli. L'autista parcheggiò davanti alla terrazza, e un'alta figura scese la scalinata per ricevere Michael quando scese dal furgone. «Michael!» l'accoglienza di Raleigh Tabaka lo colse impreparato, come il sorriso amichevole e la stretta di mano. Era così diversa dallo spirito del loro precedente incontro a Londra. Raleigh indossava pantaloni casual e una camicia bianca aperta che mettéva in risalto la pelle priva di difetti e i romantici lineamenti africani. Michael fu scosso da una scarica di elettricità sensuale che si irradiava dalla punta delle dita, quando si strinsero la mano. Raleigh era uno degli uomini più imponenti e affascinanti che avesse mai conosciuto. «Benvenuto», disse, e Michael si guardò intorno e inarcò un sopracciglio. «Niente male, Raleigh. Sempre il massimo dello stile.» «Non è mia.» Raleigh scosse la testa. «Io non possiedo altro che i vestiti che ho addosso.» «E tutto questo, a chi appartiene allora?» «Domande, sempre domande», lo rimproverò Raleigh con una sfumatura tagliente nella voce. «Sono giornalista», ribatté Michael. «Far domande è il mio mestiere.» «Capisco. Questa casa è stata costruita dalla Trans Africa Foundation of America per la signora che stai per incontrare.»
«Trans Africa... è un gruppo americano per la difesa dei diritti civili?» chiese Michael. «Non è diretta dal predicatore evangelico negro di Chicago, il dottor Rondall?» «Sei ben informato.» Raleigh gli prese il braccio e lo condusse sull'ampia terrazza. «Dev'essere costata un milione di dollari», insistette Michael, ma Raleigh alzò le spalle e cambiò argomento. «Ho promesso di mostrarti i figli dell'apartheid, Michael, ma prima voglio farti conoscere la loro madre, la madre della nazione.» Condusse Michael attraverso la terrazza. C'erano ombrelloni da spiaggia aperti al sole, come un campo di funghi colorati. Una dozzina di bambini negri sedevano ai tavolini di plastica bianca e bevevano Coca-Cola dalle lattine mentre ascoltavano una delle onnipresenti radioline a transistor che barriva i ritmi ossessivi del jazz africano. Erano ragazzi che andavano dagli otto o nove anni fino ai diciannove. Tutti portavano magliette giallo-canarino con la scritta GAMA ATHLETICS CLUB stampata sul petto. Nessuno si alzò al passaggio di Michael; lo osservarono con occhi freddi, privi di curiosità. Le porte a vetri della villa erano aperte, e Raleigh entrò in un soggiorno a piani sfalsati, con le pareti decorate da maschere di legno e feticci. Il pavimento di pietra era coperto da tappeti di pelli animali. «Vuoi bere qualcosa, Michael?» chiese Raleigh. «Caffè o tè?» Michael scosse la testa. «Niente. Ma ti dispiace se fumo?» «Ricordo le tue abitudini.» Raleigh sorrise. «Fuma pure. Purtroppo non posso darti da accendere.» Michael si soffermò con l'accendino in mano e girò lo sguardo verso il piano più alto dell'immensa stanza. Una donna scese i gradini e venne verso di loro. Michael si tolse la sigaretta ancora spenta dalle labbra e la fissò. Sapeva chi era, naturalmente. La chiamavano l'Evìta negra, la madre della nazione. Ma le fotografie non riuscivano a rendere giustizia alla sua bellezza tenebrosa e alla presenza regale. «Victoria Gama.» Raleigh li presentò. «Questo è Michael Courteney, il giornalista di cui ti ho parlato.» «Sì», disse Vicky Gama. «So chi è Michael Courteney.» Gli andò incontro con solenne dignità. Indossava un lungo caffettano verde, giallo e nero, i colori dell'African National Congress. Intorno alla testa era avvolto un turbante verde smeraldo: il caffettano e il turbante erano i suoi simboli. Tese la mano a Michael: le ossa erano sottili, ma la stretta delle lunghe dita era energica e fredda. La pelle vellutata aveva il colore dell'ambra scura. «Tua madre è stata la seconda moglie di mio marito», disse a Michael a voce bassa. «Ha dato un figlio a Moses Gama, come me. Tua madre è una vera donna, una di noi.» Michael si era sempre sorpreso della totale assenza di gelosia tra le varie mogli degli uomini africani. Non si consideravano rivali, ma sorelle, legate da vincoli familiari di lealtà. «Come sta Tara?» insistette Vicky mentre conduceva Michael a uno dei divani e lo invitava a sedere. «Non la vedo da molti anni. Vive ancora in Inghilterra? E come sta il figlio di Moses, Benjamin?» «Sì, vivono in Inghilterra», disse Michael. «Li ho visti tutti e due a Londra di recente. Benjamin è grande, ormai. E' molto bravo. Studia ingegneria chimica all'università di Leeds.» «Mi chiedo se tornerà mai in Africa.» Vicky gli sedette accanto. Per un po' parlarono tranquillamente. Michael si sentiva stregato da quella personalità affascinante.
Alla fine Vicky Gama chiese: «Dunque vuoi conoscere qualcuno dei miei figli, i figli dell'apartheid?» Michael pensò che quello sarebbe stato il titolo per il suo articolo, o forse per la serie di articoli che avrebbe scritto. «Chiamami Vicky, ti prego. Apparteniamo alla stessa famiglia, Michael. Posso credere che abbiamo in comune anche gli stessi sogni e le stesse speranze?» «Sì, credo che abbiamo molto in comune, Vicky.» Lei lo ricondusse sulla terrazza e chiamò intorno a sé i bambini e i ragazzi e li presentò a Michael. «E' un amico», disse. «Potete parlargli liberamente. Rispondete alle sue domande. Ditegli tutto ciò che vuole sapere.» Michael si tolse la giacca e la cravatta e sedette sotto uno degli ombrelloni. I ragazzi gli si affollarono intorno. Dopo le parole di Vicky Gama, sembrava che lo avessero accettato immediatamente, ed erano felici che Michael parlasse la loro lingua. Michael sapeva come indurli a confidarsi; e ben presto incominciarono a disputarsi la sua attenzione. Non si servì del taccuino per annotare ciò che gli dicevano, perché sapeva che questo li avrebbe bloccati. Apprezzava la loro spontaneità, la loro franchezza. E non aveva bisogno di appunti. Non avrebbe dimenticato le loro parole ed il suono delle loro voci giovani. Gli raccontarono episodi divertenti e altri agghiaccianti. Uno di loro s'era trovato a Sharpeville nel giorno fatale. Era molto piccolo, ed era legato alla schiena della madre. Il proiettile della polizia che l'aveva uccisa gli aveva fratturato una gamba. L'osso si era saldato malamente e gli altri ragazzi lo chiamavano «Pete lo Storpio». Michael avrebbe voluto piangere mentre ascoltava la sua storia. Quel pomeriggio trascorse troppo in fretta. Alcuni ragazzi lasciarono il gruppo per nuotare nella piscina. Si spogliarono completamente e si tuffarono nell'acqua limpida: poi, ridendo e gridando, cominciarono a giocare ed a spruzzarsi l'un l'altro. Raleigh stava seduto in disparte con Vicky Gama e osservava la scena. Notò il modo in cui Michael guardava i ragazzi nudi e disse alla donna: «Voglio che tu lo faccia restare qui, stasera». Lei annuì, e Raleigh continuò: «Gli piacciono i ragazzi. Ne hai uno per lui?» Vicky rise sottovoce. «Può scegliere chi vuole. I miei ragazzi fanno tutto quello che gli ordino.» Si alzò, si avvicinò a Michael e gli posò la mano sulla spalla. «Perché non scrivi qui i tuoi articoli? Resta con noi stanotte. Di sopra ho una macchina da scrivere. E trattieniti anche domani. I ragazzi ti trovano simpatico e ci sono tante storie da ascoltare...» Le dita di Michael volavano sui tasti della macchina da scrivere in un allegro esuberante, e le parole apparivano sulla pagina bianca in file serrate, come guerrieri della mente pronti ad andare in battaglia. L'articolo si scriveva praticamente da solo. Non fu il fumo che saliva dalla sigaretta stretta fra le labbra a far bruciare gli occhi di Michael quando rilesse ciò che stava scrivendo. Raramente aveva provato la stessa convinzione del valore vitale della sua opera. Sapeva con certezza viscerale che l'articolo era ottimo. Era la storia dei «figli» come doveva conoscerla il mondo. Finì l'articolo che, ormai ne era certo, sarebbe stato il primo di una serie trionfante, e si accorse che stava tremando per l'eccitazione. Diede un'occhiata all'orologio e vide che mancava poco a mezzanotte; ma sapeva che non avrebbe dormito. L'articolo gli frizzava nel sangue e nel cervello come uno champagne inebriante. Un tocco discreto alla porta lo fece trasalire. «E' aperto, avanti!» disse in xhosa. Uno dei ragazzi entrò nella stanza da
letto. Indossava soltanto un paio di calzoncini blu da calciatore. «Ti ho sentito battere a macchina», disse. «Ho pensato che forse ti andrebbe un po' di tè.» Era il ragazzo che Michael aveva più ammirato in piscina. Aveva detto di avere sedici anni. Era levigato e invitante come un gatto nero. «Grazie», rispose Michael con voce roca. «Con piacere.» «Cosa stai scrivendo?» Il ragazzo si accostò alla sedia e si chinò sopra di lui per leggere il foglio. «E' quello che ti ho raccontato oggi?» «Sì», mormorò Michael, e il ragazzo gli posò la mano sulla spalla e girò la testa per rivolgergli un sorriso timido. Il suo alito era caldo sul viso di Michael. «Mi piaci», disse. Raleigh Tabaka lesse l'articolo mentre stavano seduti accanto alla piscina, nella prima luce del mattino. Quando ebbe terminato, tenne il fascio di fogli tra le mani e rimase a lungo in silenZIO. «Hai una dote eccezionale», disse finalmente. «Non avevo mai letto un articolo così energico. Ma è troppo energico. Non avrai il coraggio di pubblicarlo.» «In questo paese no», ammise Michael. «Il Guardian di Londra mi ha chiesto di sottoporglielo.» «Farebbe una grande sensazione, lassù», riconobbe Raleigh. «Mi congratulo. Sono cose che trasformano in acqua i proiettili degli oppressori. Devi terminare la serie al più presto possibile. Resta almeno per un'altra notte. Lavori così bene quando sei vicino ai soggetti della tua inchiesta.» Quando Michael si sveglîò non seppe con certezza che cosa lo avesse disturbato. Allungò la mano e toccò il corpo caldo e liscio del ragazzo che gli stava accanto. Il ragazzo mormorò e si girò nel sonno, buttò un braccio contro il petto di Michael. Poi il suono che aveva svegliato Michael si ripeté. Era fievole e proveniva dal piano di sotto, all'interno della casa. Sembrava un grido di sofferenza terribile. Michael scostò il braccio del ragazzo addormentato e si alzò. C'era un barbaglio di chiaro di luna che entrava dalla finestra aperta, quanto bastava perché trovasse le mutande. Attraversò la camera da letto e uscì nel corridoio. Si avvicinò in punta di piedi alla scala e si fermò ad ascoltare. Il suono gli giunse, molto più forte: un altro grido disperato come la voce di un uccello marino, punteggiato da un rumore secco che Michael non riuscì a identificare. Incominciò a scendere le scale, ma una voce lo fermò. «Michael. Che cosa fai?» La voce di Raleigh Tabaka era secca e accusatrice. Con aria colpevole, Michael si voltò a guardarlo. Raleigh era sul pianerottolo, in vestaglia. «Ho sentito qualcosa», disse Michael. «Sembrava un...» «Non è niente. Torna in camera tua.» «Ma mi è parso di sentire...» «Torna in camera tua!» Raleigh parlava a voce bassa: ma era un ordine al quale Michael non poteva disobbedire. Si voltò e risalì la scala. Raleigh gli toccò il braccio mentre gli passava accanto. «A volte, la notte, l'udito gioca strani scherzi. Non hai sentito niente, Michael. Forse era un gatto... o il vento. Vai a dormire. Domattina parleremo.» Raleigh attese che Michael fosse rientrato nella sua camera, poi scese correndo le scale. Andò alla porta della cucina e la spalancò. Victoria Gama, l'Evita negra, la madre della nazione, era al centro della stanza, nuda fino alla cintola. I seni erano ben
modellati, lisci come il velluto, morbidi come la pelliccia dello zibellino e grossi come i meloni tsama del deserto del Kalahari. Stringeva nella destra una frusta di pelle d'ippopotamo, il terribile sjambok africano. Era sottile come un dito di Vicky e lungo come il suo braccio. Nell'altra mano teneva un bicchiere, e stava bevendo quando Raleigh fece irruzione nella cucina. La bottiglia del gin stava sul lavello. Con lei c'erano due membri del Gama Athletics Club, i più robusti delle sue guardie del corpo, entrambi prossimi ai vent'anni. Anche loro erano nudi fino alla cintola. Stavano alle due estremità del lungo tavolo e tenevano bloccato un corpo nudo. La fustigazione doveva essere in corso da tempo. I segni della frusta erano gonfi e violacei sulla pelle nera, e sanguinavano. Il sangue formava una pozza sotto il corpo e sgocciolava sul pavimento piastrellato. «Sei pazza?» sibilò Raleigh. «Con quel giornalista in casa?» «E' una spia della polizia», ringhiò Vicky. «Un traditore. Devo dargli una lezione.» «Sei di nuovo ubriaca.» Raleigh le sbalzò dalla mano il bicchiere che volò in un angolo e s'infranse contro la parete. «Non puoi divertirti con i tuoi ragazzini senza bisogno di scaldarti?» Gli occhi di Vicky lanciarono un lampo di furore. Alzò la frusta per colpirlo, ma Raleigh le afferrò il polso e la bloccò, le strappò la frusta dalle dita e la buttò nel lavello. Senza lasciarla, parlò alle due guardie del corpo. «Sbarazzatevi di quello.» Indicò la figura sanguinante. «Poi ripulite tutto. Queste cose non si devono ripetere finché c'è in casa il bianco. Capito?» I due sollevarono dalla tavola il ragazzo che gemeva e balbettava e lo portarono fuori. Appena rimasero soli, Raleigh si girò verso Vicky. «Tu porti un nome illustre. Se lo disonori, ti ucciderò con le mie mani. Ora torna in camera tua.» Vicky uscì. Nonostante il gin bevuto, il suo passo era regale. Reggeva bene il liquore. Se almeno avesse saputo reggere altrettanto bene la fama e le adulazioni dei media, pensò rabbiosamente Raleigh. L'aveva vista trasformarsi in pochi anni. Quando Moses Gama l'aveva sposata era una fiamma pura e luminosa, votata al marito e alla lotta. Poi la sinistra americana l'aveva scoperta, e i media l'avevano coperta di elogi e di denaro, al punto che adesso credeva a tutto ciò che si diceva di lei. La disintegrazione era stata rapida. Certo, la lotta era feroce. Certo, la libertà doveva essere conquistata facendo scorrere fiumi di sangue. Ma per Vicky Gama, spargere sangue era diventato un piacere e non un dovere, e la sua gloria personale aveva eclissato il richiamo della libertà. Era venuto il momento di considerare con attenzione che cosa si doveva fare di lei. Ricondussero Michael al parcheggio dove aveva lasciato la vecchia Valiant. Raleigh Tabaka era seduto accanto al guidatore nel furgoncino della macelleria mentre Michael stava rannicchiato dietro. Michael si sorprese nel vedere che la sua macchina era ancora dove l'aveva lasciata.«Nessuno ha voluto fare la fatica di rubarla», commentò. «No», disse Raleigh. «I nostri l'hanno sorvegliata. Abbiamo cura degli amici.» Si strinsero la mano, e Michael fece per allontanarsi, ma Raleigh non aveva ancora finito. «Mi pare che tu abbia un aereo, no, Michael?» chiese. «Una specie.» Michael rise. «E' un vecchio Centurion che
ha già volato per più di tremila ore.» «Ho un favore da chiederti.» «E io te lo devo», rispose Michael. «Che cosa vuoi che faccia?» «Andresti nel Botswana per me?» chiese Raleigh. «Con un passeggero?» «No. Dovresti andare da solo, e tornare da solo.» Michael esitò un momento. «Ha a che fare con la vostra lotta?» «Certo», rispose francamente Raleigh. «Tutto ha a che fare con la lotta, nella mia vita.» «Quando vuoi che parta?» chiese Michael, e Raleigh si dominò per nascondere un'espressione di sollievo. Forse, dopotutto, non sarebbe stato necessario usare il materiale che avevano filmato nell'appartamento del ballerino, a Londra. «Quando potrai assentarti per qualche giorno?» Diversamente dal padre e dai fratelli, Michael non aveva incominciato a volare giovanissimo. Ora, ripensandoci, si rendeva conto che era stato a causa della passione per gli aerei se si era allontanato da loro. Istintivamente s'era risentito per gli sforzi che il padre compiva per interessarlo e istruirlo. Non voleva essere come loro. Rifiutava di lasciarsi forgiare nello stampo che il padre gli aveva preparato. Più tardi, quando si era sottratto all'influenza soffocante della famiglia, aveva scoperto da sé il fascino del volo. Aveva comprato il Centurion con i suoi risparmi. Sebbene fosse molto vecchio, l'aereo era veloce e comodo e lo portò a Maun, nel Botswana settentrionale, in poco più di tre ore. Amava il Botswana. Era l'unico paese veramente democratico di tutta l'Africa. Non era mai stato colonizzato dalle potenze europee, anche se la Gran Bretagna l'aveva tenuto sotto il suo protettorato a partire dal 1880 circa, quando la Repubblica Boera aveva tentato di entrare con la forza e di strappare la terra alla tribù tswana. Dopo che la Gran Bretagna aveva rinunciato al protettorato e aveva restituito al popolo il paese, questo si era trasformato rapidamente in un modello per il resto del continente. Era una democrazia multipartito, con suffragio universale ed elezioni regolari. Il governo era veramente responsabile nei confronti dell'elettorato, e non c'erano tiranni o dittatori. E c'era poca corruzione, almeno a confronto della misura africana. La minoranza bianca era accettata come un utile segmento produttivo della popolazione: c'era poco razzismo o tribalismo. Dopo il Sudafrica era lo stato più prospero del continente. Anzi, aveva raggiunto quasi senza fatica la condizione che Michael si augurava venisse raggiunta un giorno dal suo paese, dopo tante sofferenze e tante lotte. Michael amava il Botswana ed era felice di esservi tornato. A Maun sbrigò le formalità nel piccolo edificio che era la sede della dogana e dell'Ufficio Immigrazione, poi ripartì per un'altra breve tappa verso nord, nel delta dell'Okavango. Il delta era una straordinaria zona umida dove il possente fiume Okavango sfociava nella parte settentrionale del Kalahari e formava un'immensa palude. Non era una palude di fetido fango nero e di distese desolate. L'acqua era limpida come un ruscello popolato di trote. I banchi e i fondali del labirinto dei canali erano di sabbia bianca come lo zucchero. Le isole erano ricche di palme e di vegetazione lussureggiante. I fichi selvatici erano carichi di frutti gialli, e sui rami si posavano a frotte i grassi piccioni verdi. Fra gli alti ebani facevano il nido gli strani, rari gufi pescatori, più somiglianti a scimmie che a uccelli.
I fiabeschi leoni dell'Okavango dalle criniere simili a pagliai rossicci si muovevano in quelle acque con l'agilità delle lontre. Grandi branchi di bufali pascolavano fra i canneti, sotto un baldacchino di egrette candide. Le antilopi sitatunga dagli zoccoli allungati, le corna a cavatappo e il vello irsuto, conducevano un'esistenza anfibia tra i papiri, e stormi di anitre ed oche ed altri uccelli acquatici ombreggiavano i tramonti sfolgoranti. Michael atterrò con il Centurion sulla pista di una delle isole maggiori. C'erano due boscimani a bordo di una canoa, che lo traghettarono attraverso una laguna profumata di ninfee e lo fecero sbarcare al campo. Il campo si chiamava Gay Goose Lodge, e poteva ospitare fino a quaranta persone nelle pittoresche capanne di giunchi. La ragione ufficiale della loro presenza era studiare e fotografare la fauna del delta o pescare gli splendidi pesci-tigre che popolavano i canali. Ogni mattina e ogni sera gruppi di ospiti si avventuravano a bordo di canoe primitive che venivano sospinte silenziosamente con le pertiche fra i canneti e i canali da uno dei barcaioli negri. Ma gli ospiti erano quasi esclusivamente maschi e il nome Gay Goose era stato scelto per una buona ragione. Tutti i dipendenti erano ragazzi tswana di bell'aspetto, scelti per ottimi motivi. Il campo era gestito da un profugo politico sudafricano. Brian Susskind era un uomo sui trentacinque anni, con i capelli lunghi e biondi, quasi sbiancati dal sole. Portava orecchini a cerchio, catene d'oro che gli tintinnavano sul petto nudo e muscoloso, e bracciali d'avorio e peli d'elefante. «Dio, tesoro», disse quando vide Michael. «Che gioia conoscerti. Raleigh mi ha detto tutto di te. Vedrai, ti piacerà. Abbiamo con noi tante persone divertenti: e smaniano di conoscerti, sai.» Michael trascorse al Gay Goose Camp un lungo, eccitante week-end, e quando venne il momento di ripartire Brian Susskind lo accompagnò in canoa attraverso la laguna. «E' stato così piacevole, Mickey», disse stringendogli la mano. «Credo che ci vedremo spesso. Non dimenticare di correggere l'assetto del tuo aereo. Può darsi che sia un po' pesante in coda, al decollo.» Michael ripartì senza guardare nel compartimento nascosto sotto i sedili dei passeggeri, ma notò la leggera alterazione dell'assetto preannunciata da Brian. Il carico che Brian aveva messo a bordo doveva essere molto pesante rispetto al volume. Gli era stato detto di non toccarlo e di non cercare di esaminarlo; e Michael obbedì rigorosamente alle istruzioni. Quando si presentò alla dogana, all'arrivo a Lanseria, aveva i nervi tesi e fumava affannosamente la sigaretta. Ma avrebbe potuto fare a meno di preoccuparsi. Il doganiere lo riconobbe e non si prese il disturbo di esaminare i suoi bagagli, e non pensò neppure di andare a ispezionare il Centurion. Quella notte uno dei guardiani negri dell'hangar scaricò una pesante cassetta dal Centurion e la passò al di sopra della recinzione all'autista di un furgoncino blu da macellaio. Nella cucina di Nobs Hill, nella township di Drake's Farm, Raleigh Tabaka esaminò i sigilli. Erano tutti intatti. Nessuno aveva manomesso il carico. Raleigh annuì soddisfatto e svitò il coperchio. La cassa conteneva settanta copie della Bibbia. Michael Courteney aveva superato un altro esame. Cinque settimane dopo Michael tornò al Gay Goose Camp. Questa volta, al ritorno, la cassa conteneva venti mine di fabbricazione russa. Nei due anni che seguirono fece altre nove visite al Gay Goose, e ogni volta il passaggio attraverso la dogana a Lanseria divenne meno tormentoso per i suoi nervi. Cinque anni dopo il suo primo incontro con Raleigh Tabaka,
Michael fu invitato a entrare nell'ANC come membro dell'ala militare, Umkhonto ve Sizwe, «La Lancia della Nazione». «Ci ho pensato molto, di recente», rispose a Raleigh. «E sono arrivato con rammarico alla conclusione che a volte la penna non basta. Mi sono reso conto che, anche se è contrario ai miei sentimenti più profondi, viene il momento in cui un uomo deve impugnare la spada. Ancora un anno fa avrei rifiutato la tua proposta; ma ora accetto i dettàmi della mia coscienza. Sono pronto a partecipare alla lotta armata.» «D'accordo, Bella», disse con fermezza Centaine Courteney-Malcomess. «Tu comincerai dall'altra estremità della strada, io da questa.» Poi fissò lo sguardo sulla nuca dell'autista. «Klonkie, lasciaci qui girato l'angolo e torna a prenderci all'ora di pranzo.» Klonkie fece rallentare la Daimler gialla, voltò all'angolo e si fermò accanto al marciapiedi. Le due donne scesero e indugiarono a guardare la berlina che si allontanava. «Non devi farti vedere dagli elettori con una macchina di lusso e lo chauffeur», spiegò Centaine. «L'invidia è un sentimento corrosivo e s'incontra a ogni livello della società.» Concentrò l'attenzione sulla nipote e la esaminò puntigliosamente dalla testa ai piedi. I capelli di Isabella, appena lavati, brillavano di riflessi color rubino nella luce del sole. Ma Centaine aveva insistito perché li pettinasse all'indietro, in una crocchia austera. Il trucco era limitato a una crema idratante che le dava una carnagione pulita. Non aveva messo rossetto, anche se le labbra erano del rosa naturale della giovinezza. Centaine annuì e continuò l'ispezione. Bella indossava un classico twin-set di cashmere e un paio di scarpe a tacco basso. Centaine annuì di nuovo, soddisfatta, e si assestò sui fianchi la gonna di tweed. «D'accordo, Bella. Ricorda che questa mattina ci rivolgiamo alle signore.» Avevano deciso di fare il giro a metà mattina quando gli uomini erano fuori casa, i figli a scuola, e i lavori più pesanti erano già stati sbrigati dalle casalinghe della fascia bassa del ceto medio che viveva in quel quartiere, alle pendici di Signal Hill, affacciata sull'abitato e sul porto di Città del Capo. La sera prima Isabella s'era rivolta ad un pubblico prevalentemente maschile nella sede massonica di Sea Point. Quasi tutti c'erano andati per la curiosità di ascoltare la prima donna candidata del partito Nazionale nel loro collegio elettorale. In quell'occasione l'abito e il trucco di Bella avevano suscitato un coro di fischi d'ammirazione, quando s'era alzata per parlare. Durante i primi minuti l'avevano interrotta allegramente, mentre cercava di vincere il nervosismo. Ma gli scherzi e le battute l'avevano irritata, e alla fine, arrossendo, aveva reagito in tono brusco. «Signori, il vostro comportamento non fa onore a nessuno di noi. Se avete il senso del fair play, datemi una possibilità.» Gli uomini avevano sorriso intimiditi ed erano piombati in un silenzio che via via era divenuto sempre più attento. Isabella e Centaine avevano studiato gli argomenti che più li interessavano; perciò l'avevano ascoltata. Era stato un buon battesimo del fuoco e Centaine era fiera di lei, anche se non lo manifestava apertamente. «Bene», disse ora. «Ce la farai, signorina. Andiamo... per san Giorgio, per Enrico e per l'Inghilterra.» Quel grido di battaglia era tutt'altro che appropriato per l'occasione, pensò ironicamente Isabella, e per giunta la citazione era sbagliata; ma chi avrebbe osato dirlo a Nana? Si separarono e si avviarono verso le due estremità della strada.
Il numero dodici era un cottage con il tetto di lamiera ondulata e un traliccio vittoriano di ferro battuto sotto la grondaia. Il giardinetto non era più largo di cinque passi, ma le dalie erano in fiore. Isabella si avviò sul vialetto e intimò silenzio al fox terrier che stava abbaiando sullo stoep. Aveva sempre saputo farsi obbedire dai cani e dai cavalli. La casalinga arrivò alla porta e sbirciò insospettita Isabella attraverso la zanzariera. Aveva i capelli avvolti in bigodini di plastica gialla. «Sì? Cosa vuole?» «Mi chiamo Isabella Courteney e sono candidata nel partito Nazionale alle elezioni suppletive del mese prossimo. Posso parlarle per qualche minuto?» «Aspetti.» La donna sparì e tornò dopo un minuto con un foulard avvolto sopra i bigodini. «Noi siamo del partito Unito», dichiarò. Ma Isabella la distrasse. «Che magnifiche dalie!» La zona era una roccaforte del partito d'opposizione ed Isabella era una novellina della politica. Il suo partito non le avrebbe mai permesso di candidarsi per un seggio assicurato in partenza ai nazionalisti; quelli erano riservati ad altri che avevano già dato prova del loro valore. Anche così, c'erano volute tutta l'influenza e la capacità di persuasione di Nana, oltre alla personalità e al fascino di Isabella, per ottenere che la macchina del partito autorizzasse quel tentativo condannato in partenza. Il massimo che Isabella poteva sperare era una bella figura e una sconfitta onorevole. Nana aveva fissato il loro obiettivo. Nelle ultime elezioni generali, in quella zona, il partito Unito aveva conquistato il seggio con un margine di cinquemila voti. «Se riusciremo a ridurre il margine a tremila, alle prossime elezioni potremo costringerli ad assegnarti un collegio migliore.» La casalinga si raddolcì, mentre Isabella ammirava le dalie. Esitò. «Posso entrare?» Isabella le rivolse il suo sorriso più garbato e accattivante, e la donna si scostò un po' riluttante. «Be', per qualche minuto...» «Che lavoro fa suo marito?» «E' meccanico motorista.» «Cosa pensa della frammentazione dell'attività e dei sindacati negri?» Isabella aveva attaccato con forza, e la donna assunse un'aria grave. Isabella stava parlando della sopravvivenza della sua famiglia, del pane per i suoi figli. «Posso offrirle un caffè, signora Courteney?» chiese. Isabella non la corresse. Dopo un quarto d'ora strinse la mano della casalinga e ripercorse il vialetto del giardino. Aveva seguito la raccomandazione di Nana: «Sii energica, ma breve». Era soddisfatta. La sua vittima aveva incominciato con un «no» deciso e a poco a poco aveva ceduto davanti alla sua logica suadente, fino ad arrivare a un «forse». Isabella lo annotò accanto al nome, sulla lista degli elettori. «Meno uno», mormorò. «Ne restavano ancora duemila.» Attraversò la strada, verso la porta del numero undici. Venne ad aprire un bambino. «C'è la tua mamma?» Il bambino aveva un viso lentigginoso, i capelli biondi e ricci e le labbra macchiate. Teneva in mano una fetta di pane e marmellata mangiata a metà e le sorrideva timidamente. Aveva almeno cinque anni; ma Isabella pensò a Nicky e si fece forza. «Sono Isabella Courteney», disse quando la madre venne alla porta. «E sono la candidata del partito Nazionale alle elezioni
suppletive del mese prossimo.» Dopo la terza visita scoprì, con grande stupore, che incominciava a divertirsi. Provava simpatia per quella gente semplice, e capiva i loro problemi e i loro timori, e il loro modo di vita, così lontano dalla sua esistenza. «Il privilegio comporta la responsabilità.» L'aveva sentito dire molto spesso da suo padre. Noblesse oblige. Non ci aveva mai pensato a fondo, ma credeva di comprendere il concetto. Naturalmente, non aveva mai avuto intenzione di fare qualcosa: fino a quel momento la sua vita era stata troppo occupata da altre cose. Le sue esigenze ed i suoi desideri erano stati troppo pressanti perché si preoccupasse di individui insignificanti come quelli. Adesso si sentiva attratta da loro. Provava un autentico calore umano, l'impulso di comprenderli e proteggerli. Forse la maternità mi ha un po' addolcita, pensò; e quel pensiero fu seguito immediatamente dalla sofferenza per la perdita subita. Era un sentimento rimosso, una diversione degli istinti materni frustrati? Non lo sapeva e non se ne curava veramente. L'importante era che desiderava farlo, desiderava veramente aiutare quelle persone. Desiderava conquistare un seggio in parlamento e usare al meglio, per scopi altruistici, il suo tempo e le sue qualità. Fu con rammarico sincero che, dopo l'ottava visita, quando guardò l'orologio vide che era l'ora di incontrarsi con Nana e concludere la giornata. Centaine l'aspettava all'angolo. Era fresca e vivace, e traboccava dell'energia di una donna molto più giovane. «Com'è andata, Bella?» chiese. «Quante visite hai fatto?» «Otto», rispose soddisfatta Bella. «Due sì e un forse. E tu, Nana?» «Quattordici visite e cinque sì. Io non conto i forse e i può darsi. Non l'ho mai fatto.» Prese il braccio di Isabella quando la Daimler gialla comparve e si fermò per farle salire. «Ora, appena arriveremo a casa manderai a ciascuna un biglietto personale scritto a mano... spero che avrai annotato i nomi, le età dei figli e qualche dettaglio personale di ciascuna.» «Devo scrivere a tutte?» «A tutte», confermò Centaine. «Ai sì, ai no e anche ai forse. Poi manderemo un altro biglietto qualche giorno prima delle votazioni, solo per rinfrescar loro la memoria.» «Lo fai diventare un lavoro duro, Nana», protestò Isabella. «Non c'è nulla di valore che si possa ottenere senza un duro lavoro, signorina.» Centaine salì sulla Daimler e sedette sullo strapuntino di pelle crème. «E non dimenticare il comizio di questa sera. Hai già preparato il discorso? Lo controlleremo insieme.» «Nana, ho ancora un mucchio di lavoro da fare per pater.» «Così non ti metterai nei guai,» disse Centaine con aria soddisfatta. «A casa a Weltevreden, Klonkie», ordinò all'autista. Isabella barò un poco. Fece scrivere a macchina dalla segretaria una lettera-tipo per tutti gli elettori che lei e Nana avevano visitato, ma le firmò a una a una. Grazie a quelle piccole economie di tempo riusciva a seguire le sue aspirazioni politiche e nel contempo a tenersi in pari con il lavoro che il padre le ammucchiava sulla scrivania. Shasa le aveva assegnato un ufficio d'angolo alla Centaine House. La nuova segretaria era una delle fedelissime che da vent'anni lavoravano per la Courteney Enterprises, e occupava l'anticamera della suite; l'ufficio di Isabella era rivestito di legno giallo indigeno che Shasa aveva fatto recuperare in un edificio
vecchio di duecento anni, demolito per far posto a un isolato di appartamenti moderni a Sea Point. Il legno aveva un magnifico splendore color burro. Shasa aveva prestato quattro quadri della sua collezione, due Pierneef e due paesaggi di Hugo Naudé. I colori spiccavano piacevolmente contro i toni chiari dei pannelli. Tutti i libri sugli scaffali erano rilegati in pelle azzurro reale, sebbene Isabella dubitasse di poter provare molto interesse per quel trentennio di documentazioni parlamentari. Le finestre della sua suite guardavano sul parco e sulla cattedrale di San Giorgio, sullo sfondo della Montagna della Tavola. C'era un detto: non eri un arrivato a Città del Capo se non potevi guardare la montagna dalla tua finestra. Isabella finì di firmare le lettere per gli elettori e le portò nell'ufficio della segretaria. L'ufficio era vuoto, e la macchina da scrivere Underwood era coperta. Isabella guardò l'orologio. «Santo cielo... sono già le cinque passate.» Per un momento si sentì sollevata al pensiero che il tempo fosse trascorso in modo così rapido e indolore. Non era sempre stato così da quando aveva perduto Nicky. Aveva finito per contare sul lavoro e sugli orari pesanti come l'unico sedativo per la sofferenza profonda. A Weltevreden la cena veniva servita alle otto e mezzo in punto, i cocktail mezz'ora prima. Aveva un po' di tempo libero, perciò tornò alla scrivania. Shasa le aveva lasciato una bozza del suo rapporto con un biglietto: «Ne ho bisogno per domani mattina. Ti abbraccio, pater». Nel periodo trascorso all'ambasciata di Londra avevano preso quell'abitudine; Isabella controllava i discorsi e i rapporti del padre per accertare che lo stile e la sintassi fossero perfetti. Shasa non aveva bisogno di molto aiuto: sapeva comporre una frase elegante meglio di molti altri. Ma era una consuetudine che faceva piacere a entrambi, e ogni tanto Shasa eccedeva con una metafora o inseriva un cliché inadatto. E come minimo, apprezzava molto le lodi della figlia. Lesse con attenzione il rapporto di dodici pagine e suggerì una modifica. Poi scrisse in margine «Che padre intelligente mi sono scelta!» e lo portò nell'ufficio di Shasa, in fondo al corridoio. Era chiuso. Lei aveva la chiave: entrò. L'ufficio di Shasa era quattro volte più grande e maestoso del suo. La scrivania proveniva dagli appartamenti del delfino a Versailles: c'era una ricevuta datata 1791 che attestava la sua origine. Isabella mise il rapporto corretto al centro della scrivania; poi cambiò idea. Il documento doveva essere letto soltanto dal Primo ministro e dai membri del governo. Alcuni dei dati e delle cifre che conteneva erano molto riservati, fondamentali per la sicurezza della nazione. Shasa non avrebbe dovuto lasciarglielo sulla scrivania: ma spesso era un po' imprudente anche con materiale di quell'importanza. Riprese il rapporto e lo portò alla camera blindata personale del padre, nascosta dietro una finta libreria. Il meccanismo era incorporato nell'applique sopra lo scaffale, e il comando aveva la forma di una ninfa di bronzo stile art déco, che reggeva la lampadina sopra la testa come fosse una torcia. Isabella fece ruotare l'applique, e la finta libreria si spostò senza far rumore, rivelando il massiccio sportello d'acciaio dipinto di verde. La scelta della combinazione, da parte di Shasa, era priva di sottigliezza e di originalità. Era semplicemente la sua data di nascita in sequenza invertita. A parte lo stesso Shasa, Isabella, nella sua qualità di assistente personale, era l'unica a conoscerla. Non la conoscevano neppure Nana e Garry.
Isabella formò la combinazione, aprì il pesante sportello d'acciaio ed entrò nella stanza blindata. Aveva dovuto spesso insistere con il padre perché vi tenesse un minimo di ordine, e adesso schioccò la lingua con fare di disapprovazione quando vide due fascicoli verdi dell'ARMSCOR buttati a casaccio sul tavolo centrale. Sistemò tutto in fretta, chiuse di nuovo la camera blindata e andò alla toeletta delle signore prima di rientrare in ufficio. Mentre sedeva al volante della Mini, sospirò. Era stata una giornata molto lunga, e dopo cena aveva ancora il comizio elettorale. Non sarebbe andata a letto prima di mezzanotte. Per un momento pensò di prendere la strada più corta per tornare a Weltevreden. Ma la Mini si avviò su per il pendio della montagna quasi fosse mossa da una volontà propria; e dopo un quarto d'ora Isabella la fermò nella strada laterale all'angolo dell'ufficio postale di Camps Bay. Mentre si avvicinava alla casella, sentiva alla bocca dello stomaco il solito peso opprimente della paura. L'avrebbe trovata vuota, come succedeva da tante settimane? Non avrebbe più avuto notizie di Nicky? Aprì la casella, e il cuore le balzò contro le costole. Come una ladra, afferrò la busta e l'infilò nella tasca della giacca. Com'era sua abitudine, fermò la macchina sopra la spiaggia, tra le palme, e lesse le quattro righe di istruzioni dattiloscritte con un miscuglio di paura e di attesa. Era qualcosa di nuovo. In obbedienza alle istruzioni generali, imparò a memoria il contenuto della lettera, poi la bruciò e disperse la cenere. Il venerdì mattina, tre giorni dopo aver ricevuto la lettera, Isabella lasciò la Mini nel parcheggio del nuovo supermercato Pick'n'Pay nel sobborgo di Claremont. Chiuse a chiave la portiera, ma lasciò il vetro del finestrino aperto per un paio di centimetri, come le era stato ordinato. Entrò nel supermercato affollatissimo. Era l'ultimo venerdì del mese, il giorno di paga per decine di migliaia di impiegati privati e di dipendenti statali. Le code alle casse erano lunghissime. Isabella uscì in fretta dall'ingresso anteriore, si trovò sulla strada principale del sobborgo e svoltò a sinistra. Si fece largo sui marciapiedi affollati fino a quando raggiunse il nuovo ufficio postale. C'erano due ragazze nella cabina di vetro del primo telefono pubblico a sinistra. Ridacchiavano nel ricevitore e facevano tintinnare gli orecchini di similoro e strabuzzavano gli occhi mentre ascoltavano insieme il ragazzo che parlava all'altro capo della linea. Isabella controllò l'orologio. Mancavano cinque minuti all'ora esatta e l'ansia la tormentava. Bussò imperiosamente sulla porta di vetro e una delle ragazze le mostrò la lingua e continuò a parlare. Dopo un minuto, Isabella bussò di nuovo. Le due ragazze riattaccarono con un gesto irritato e se ne andarono. Isabella si precipitò nella cabina e chiuse la porta. Non sollevò il ricevitore e finse di cercare gli spiccioli nella borsa. Fissò la lancetta dei minuti dell'orologio. Nel momento in cui toccò il trattino nel punto più alto del quadrante, il telefono squillò. Afferrò il ricevitore. «Rosa Rossa», bisbigliò ansimando una voce, «torni immediatamente alla macchina.» La comunicazione venne tolta. Nonostante la sua perplessità, Isabella credette di aver riconosciuto l'accento della donna grande e grossa che l'aveva presa a bordo del furgone chiuso sull'Embankment del Tamigi, quasi tre anni prima. Riappese il ricevitore ed uscì dalla cabina. Impiegò tre minuti
per raggiungere la Mini nel parcheggio del Pick'n'Pay. Quando inserì la chiave nella serratura della portiera vide la busta sul sedile del guidatore, e comprese. Aveva letto i libri di Le Carré e Len Deighton, e si rendeva conto che era quello che veniva chiamato «dead-letter drop». Sapeva che quasi sicuramente la stavano osservando in quel momento. Si guardò intorno. Il parcheggio era vasto poco meno di un ettaro, e c'erano centinaia di altri veicoli. Dozzine di compratori spingevano i carrelli carichi verso le macchine, e mendicanti e ragazzini usciti da scuola oziavano un po' dovunque. Le macchine entravano e uscivano dal cancello in un flusso ininterrotto. Sarebbe stato impossibile, in quella folla, scoprire chi la stava spiando. Si mise al volante e, guidando con prudenza, tornò a Weltevreden. Evidentemente la lettera era troppo importante per affidarla alla posta. Quella era una forma ingegnosa di recapito a mano. Chiusa nella sua stanza, finalmente Isabella aprì la busta. Innanzi tutto c'era una recente foto a colori di Nicky, in calzoncini da bagno. Era un bel bambino robusto, ormai prossimo ai tre anni. Era su una spiaggia di candida sabbia corallina con l'oceano azzurro alle spàlle. La lettera che accompagnava la foto era laconica e chiarissima. Al più presto possibile si procurerà tutti i dati tecnici della nuova rete del radar costiero computerizzato Siemens in corso di installazione ad opera dell'ARMSCOR nel comando della Marina di Silver Mine sulla penisola del Capo. Ci informi nel solito modo appena i piani saranno in sua mano. Dopo che li avrà consegnati verranno date disposizioni per il primo incontro con suo Figlio. Il foglio non era firmato. Isabella lo bruciò sopra il gabinetto e, quando le fiamme le scottarono le dita, lo lasciò cadere e fece scorrere l'acqua. Poi abbassò l'asse e sedette, fissando la parete piastrellata. Era arrivato, finalmente... come aveva sempre saputo. Per tre anni aveva atteso l'ordine di commettere un atto che l'avrebbe compromessa irrimediabilmente. Fino a quel momento aveva avuto come unica istruzione di conquistare la piena fiducia del padre. Le avevano detto di rendersi indispensabile, e l'aveva fatto. Aveva avuto l'ordine di iscriversi al partito Nazionale e cercare di farsi eleggere al parlamento. Con l'aiuto e la guida di Nana, aveva fatto anche questo. Ma il nuovo ordine era diverso. Si rendeva conto di essere arrivata al punto oltre il quale non avrebbe più potuto tornare indietro. Poteva rifiutarsi di tradire ed abbandonare suo figlio; oppure poteva avventurarsi nell'ignoto pericoloso. «Oh, Dio, aiutami», mormorò. «Cosa posso fare... cosa devo fare?» Sentiva le spire serpentine della paura e del rimorso che l'avvinghiavano. Sapeva quale doveva essere la risposta al suo interrogatIvo. Una copia del rapporto sulle installazioni radar della Siemens si trovava in quel momento nella camera blindata di suo padre alla Centaine House. Il lunedì, il fascicolo sarebbe stato restituito per corriere speciale al comando della Marina nel complesso-bunker antiatomico costruito nelle viscere del monte Silver Mine. Ma per il week-end suo padre sarebbe andato in aereo all'allevamento di ovini a Camdeboo. Aveva già rifiutato l'invito ad accompagnarlo perché doveva rimettersi in pari con il lavoro. Sabato e domenica Nana doveva fare da giudice a un concorso per cani da caccia. Garry era in Europa con Holly e i bambini.
Isabella avrebbe avuto l'ultimo piano della Centaine House tutto per sé durante l'intero fine settimana. Aveva l'autorizzazione della sicurezza e le guardie all'ingresso la conoscevano bene. Il vento soffiava dal nord. I primi fiocchi di neve scendevano turbinando, fulgidi come argento contro il ventre gonfio e grigio del cielo. Accanto alla tomba c'era una dozzina di uomini e nessuna donna. Non c'erano state donne nella vita di Joe Cicero, e non c'erano in occasione della sua morte. Tutti i presenti erano funzionari del dipartimento ed erano stati delegati a quel dovere. Erano schierati impassibili sull'attenti, in fila. Tutti indossavano i pastrani delle uniformi e i berretti con il bordo scarlatto. Avevano il naso arrossato, per il freddo anziché per le lacrime. Joe Cicero non aveva amici. Ai colleghi non aveva quasi mai ispirato altri sentimenti che ammirazione invidiosa e paura. Gli uomini della guardia d'onore si fecero avanti e, a un ordine, puntarono i fucili al cielo. La scarica echeggiò, punteggiata dal suono metallico dei meccanismi di sparo. A un nuovo ordine misero le armi in spalla e si allontanarono; gli stivali battevano sulla ghiaia, i pugni stretti ondeggiavano. I presenti ruppero la fila, si scambiarono frettolose strette di mano e tornarono alle loro macchine. Ramon Machado era l'unico rimasto accanto alla tomba. Anche lui indossava l'alta uniforme di colonnello del KGB, e sotto il pastrano le file delle vistose decorazioni arrivavano più in basso delle costole. «Finalmente il tuo gioco è finito, vecchio bastardo... ma ce ne hai messo di tempo, per uscire di scena.» Sebbene Ramon fosse caposezione ormai da due anni, non aveva mai avuto la convinzione di possedere veramente quel titolo finché Joe Cicero era ancora vivo. Il vecchio aveva tenuto duro prima di morire. Aveva tenuto testa al cancro per lunghi e tormentosi mesi. Aveva addirittura conservato il suo ufficio alla Lubyanka fino all'ultimo giorno. La sua presenza spettrale aveva presieduto ogni riunione dei capi sezione, la sua volontà e la sua inimicizia avevano inibito Ramon ad ogni passo. «Addio, Joe Cicero. Ora il diavolo può portarti via.» Ramon sorrise e provò la sensazione che le labbra stessero per lacerarsi per il freddo. Si allontanò dalla tomba. La sua macchina era l'ultima rimasta sotto il filare dei tassi. Con il suo grado, ora Ramon aveva diritto a una Cajka nera e a un caporale per autista. Il caporale gli aprì la portiera. Prima di prendere posto sul sedile posteriore, si scrollò con i guanti i fiocchi di neve dalle spalle. «Torniamo in ufficio», disse. Il caporale guidava veloce ma con abilità, e Ramon si rilassò e guardò le vie di Mosca snodarsi davanti alla bandierina sul lucido muso nero della Cajka. Ramon amava Mosca. Amava gli ampi boulevard fatti costruire da Stalin dopo la grande guerra per la salvezza della patria. Amava le pure linee classiche di alcuni palazzi, e il contrasto tra quelli in stile rococò e i grattacieli staliniani, sovrastati dalla stella rossa. Il concetto del gigantismo sovietico lo eccitava. Passarono davanti alle massicce statue bronzee degli eroi del popolo, figure mostruose di uomini e donne che marciavano affiancati brandendo mitra, falci e martelli e innalzavano la bandiera socialista. Non c'erano cartelloni pubblicitari, esortazioni a bere la Coca-Cola o a fumare le Marlboro, a investire con la Prudential Insurance e a leggere il Sun. Era la più sorprendente differenza fra le città della Madre Russia e quelle del crasso, avido
occidente capitalista. Ramon trovava offensivo che gli appetiti del popolo dovessero venire stimolati per quei prodotti volgari, che la capacità produttiva della nazione venisse distolta dall'essenziale per soddisfare le più triviali esigenze. Guardava il popolo russo dal sedile posteriore della Cajka e fremeva di virtuosa approvazione. Era un organizzatore del popolo, votato al bene dello stato, al miglioramento del tutto e non delle singole parti. Osservava quella gente, docile e paziente, che faceva la coda alle fermate degli autobus e davanti ai negozi di alimentari, doverosamente irreggimentata. La paragonò con il pensiero agli americani. L'America, quella nazione capricciosa e puerile dove ognuno si opponeva agli altri, e l'avidità era considerata la massima virtù, e la pazienza e la sottigliezza venivano giudicate come i massimi vizi. C'era un'altra nazione nella storia che avesse corrotto l'ideale della democrazia al punto che la libertà e i diritti dell'individuo erano diventati una tirannia sul resto della società. C'era un'altra nazione che glorificasse i suoi criminali... Bonny e Clide, Al Capone, Billy the Kid, la mafia, i trafficanti di droga? La Russia o qualsiasi altro governo sensato avrebbe evirato e imbavagliato le proprie forze armate con tante norme e con stanziamenti del bilancio discussi in pubblico? La Cajka si fermò a un semaforo. Era l'unico veicolo sull'ampia strada, a parte due autobus. Mentre ogni americano aveva un'automobile, nella società russa quella proprietà sprecona non era ammessa. Ramon guardò i pedoni che attraversavano la strada davanti a lui in una fiumana ordinata. Le facce erano belle ed intelligenti, le espressioni pazienti e riservate. L'abbigliamento non aveva la pazza eccentricità che sarebbe apparsa evidente in una qualunque strada americana. A parte la prevalenza delle uniformi militari, uomini e donne vestivano con austera sobrietà. In confronto a quella gente così istruita, gli americani erano analfabeti. Persino gli operai agricoli, in Russia, sapevano citare Puskin. I classici erano molto richiesti. Quando si visitava il cimitero al monastero di Aleksandr Nevskij a Leningrado, si vedevano le tombe di Dostoevskij e Chaikovskij coperte di fiori, tributi quotidiani della gente del popolo. Invece metà dei diplomati delle scuole medie superiori americane, soprattutto i negri, sapevano leggere appena quanto bastava per seguire i fumetti di Batman. Quella era la ricompensa per quasi un sessantennio di rivoluzione socialista. Una società stratificata, segreta e protetta. Spesso Ramon la paragonava alle matrioske che si vendevano nei negozi per turisti, quelle bamboline che entravano una nell'altra, con gli strati esterni che proteggevano e nascondevano il centro prezioso. Anche l'economia russa appariva ingannevole agli occhi degli occidentali. Gli americani vedevano le code davanti ai negozi di alimentari e la mancanza di beni di consumo nei giganteschi magazzini GUM, e con la loro stupida ingenuità vi scorgevano il segno di un sistema fallito o almeno traballante. Non vedevano l'economia interna della macchina della produzione militare, una struttura immane, efficiente e potentissima che non soltanto eguagliava, ma superava di molto la controparte capitalista americana. Ramon sorrise pensando all'aneddoto dell'astronauta americano che, in attesa del lancio, si sentiva chiedere dal centro di controllo se era nervoso e rispondeva: «Ti piacerebbe essere a bordo della produzione congiunta di mille aziende che all'asta d'appalto hanno fatto l'offerta più bassa?» Nell'industria degli armamenti russi non c'erano aziende che facevano offerte più basse. C'era soltanto il meglio.
E così pure negli alti gradi militari sovietici non c'erano gli scarti delle università, rifiutati dall'I B M e dalla G M. C'erano solo i migliori. Ramon sapeva di essere uno di loro, uno dei migliori in assoluto. Si assestò sul sedile quando la Cajka entrò in Ploscad' Dzerzinskogo e passò davanti alla statua eroica del fondatore dell'organizzazione per la sicurezza dello stato, poi proseguì su per la collina verso la costruzione elegante ma solida della Lubyanka. L'autista entrò nella via più stretta che passava dietro la sede centrale e parcheggiò fra le file degli altri veicoli ufficiali del KGB. Ramon attese che gli aprisse la portiera, poi attraversò la strada ed entrò dal pesante cancello dell'ingresso posteriore. Al banco c'erano altri due ufficiali del KGB davanti a lui. Attese il suo turno. Il capitano della sicurezza era meticoloso. Confrontò i lineamenti di Ramon con quelli della foto sul documento d'identità per ben tre volte, secondo il regolamento, prima di fargli firmare il registro. Ramon salì al secondo piano con il vecchio ascensore di vetro smerigliato e bronzo. L'ascensore e i lampadari erano reliquie dei tempi prerivoluzionari, quando l'edificio era un'ambasciata straniera. La segretaria si mise sull'attenti accanto alla scrivania quando entrò nell'ufficio e lo salutò mentre lui appendeva il pastrano accanto alla porta. «Buongiorno, compagno colonnello.» Ramon notò che durante la notte doveva aver messo i bigodini, perché aveva i capelli arricciati. Lui li preferiva più sciolti e morbidi. Katrina aveva gli occhi a mandorla, un'eredità di qualche lontano antenato tartaro. Aveva ventiquattro anni ed era vedova di un pilota dell'aviazione militare, morto mentre collaudava un prototipo della nuova serie MIG 26. Katrina indicò la scatola di cartone sull'angolo della scrivania. «Cosa ne devo fare, compagno colonnello?» Sollevò il coperchio e Ramon diede un'occhiata al contenuto. Era tutto ciò che restava della presenza del generale Cicero. Katrina aveva vuotato i cassetti della scrivania che ora, finalmente, apparteneva soltanto a Ramon. A parte una biro Parker placcata d'oro e un portafogli di pelle, non c'erano oggetti personali. Ramon prese il portafogli e l'aprì. Conteneva mezza dozzina di fotografie, e in ognuna Joe Cicero era in posa con un pezzo grosso africano, Nyerere, Kaunda, Nkrumah. Ributtò il portafogli nella scatola, sfiorando con la mano le dita pallide di Katrina. Lei tremò leggermente e trattenne il respiro. «Porti tutto giù all'Archivio. E si faccia fare una ricevuta,» ordinò Ramon. «Immediatamente, compagno colonnello.» Era una donna placida e attraente, con la vita sottile ed i fianchi abbondanti. Naturalmente aveva il più alto benestare della sicurezza, e Ramon aveva meticolosamente annotato la loro relazione sul diario. La relazione aveva la tacita approvazione del capo dipartimento. L'appartamento di Katrina era una comoda base per lui quando era a Mosca, sebbene Katrina dividesse quelle due stanze con i genitori anziani e il figlio di tre anni. «C'è un dispaccio urgente sulla sua scrivania, compagno colonnello», disse Katrina con voce arrochita mentre prendeva la scatola. Aveva le guance ancora rosse per il breve contatto fisico. Ramon provò un certo rammarico al pensiero di dover lasciare Mosca a mezzanotte. Ogni mese trascorreva solo pochi giorni nella città madre. Vedeva così poco Katrina che il suo fascino era ancora fresco sebbene fossero passati ormai due anni dall'inizio del loro rapporto.
Lei dovette leggergli nella mente perché abbassò la voce e bisbigliò: «Vuoi cenare da me stasera, prima di partire? Mamma ha trovato un'ottima salsiccia e una bottiglia di vodka». «D'accordo, piccola», disse lui, ed entrò nel suo ufficio. Il dispaccio urgente era sulla scrivania. Si sbottonò la tunica e aprì il sigillo di sicurezza dell'ufficio cifra. Quando lesse il nome in codice, Rosa Rossa, il suo polso accelerò nettamente. E questo lo irritò. Rosa Rossa non era altro che un agente come cento altri ai suoi ordini. Se avesse permesso che i fattori personali influissero, la sua efficienza ne sarebbe stata diminuita. Comunque, mentre prendeva il fascicolo di Rosa Rossa fu colpito dall'immagine mentale d'una ragazza nuda, seduta su un macigno nero in un ruscello montano della Spagna. L'immagine era straordinariamente vivida, fino al blu indaco degli occhi. Aprì il fascicolo e vide subito che si trattava del rapporto da lui richiesto sulla rete radar della Marina sudafricana. Era arrivato dall'ambasciata di Londra, per corriere diplomatico. Annuì soddisfatto e consultò la rubrica. Con il volume aperto davanti, sollevò il microfono dell'intercom e chiamò il servizio documenti. «Un printout. Protea, numero 1178. Urgente.» Mentre attendeva che il printout gli venisse consegnato, lasciò la scrivania e andò alla finestra. La veduta era abbastanza nuova per destare il suo interesse. Al di sopra della statua del fondatore e della selva maestosa di costruzioni, vedeva le cupole a cipolla della cattedrale di San Basilio e le mura del Cremlino. Era ancora turbato dalle memorie evocate dal dispaccio relativo a Rosa Rossa. La sua mente seguì una concatenazione logica di pensieri e passò al viaggio che per lui sarebbe incominciato a mezzanotte all'aeroporto e al bambino che l'attendeva all'arrivo. Non vedeva Nicholas da due mesi. Doveva essere cresciuto ancora, e senza dubbio avrebbe parlato in modo più fluente. Il suo vocabolario era molto ricco per quell'età. L'orgoglio paterno era un'emozione borghese, e Ramon cercò di reprimerlo. Non avrebbe dovuto stare alla finestra a fantasticare mentre c'era tanto lavoro da fare. Controllò l'orologio. Fra quarantotto minuti ci sarebbe stata una riunione, il cui esito avrebbe influenzato in modo decisivo la sua carriera durante il prossimo decennio. Tornò alla scrivania e prese gli appunti dal primo cassetto. Katrina li aveva battuti a macchina a spaziatura doppia. Li sfogliò e si accorse che ricordava a memoria ogni parola. Aveva imparato alla lettera l'esposizione ed un ulteriore studio ne avrebbe minato la spontaneità. Mise da parte il rapporto. In quel momento sentì bussare. Katrina fece entrare nell'ufficio l'impiegato addetto alla documentazione. Ramon firmò la ricevuta del printout del computer, e quando Katrina e l'impiegato uscirono aprì la busta e mise il foglio sulla scrivania. Protea era il nome in codice di un altro dei suoi agenti sudafricani. Si chiamava Dieter Reinhardt ed era di nazionalità tedesca, nato a Dresda nel 1930. Il padre aveva comandato onorevolmente uno degli v-BOOT dell'ammiraglio Doenitz. Dopo la spartizione della Germania, Reinhardt era entrato come allievo ufficiale nella nascente Marina della Repubblica Democratica Tedesca, e due anni dopo era stato reclutato dal KGB. In séguito, la sua «fuga» oltre il muro di Berlino era stata orchestrata personalmente da Joe Cicero. Reînhardt e la moglie erano emigrati in Sudafrica nel 1960, e dopo aver ottenuto la cittadinanza era entrato nella Marina militare dove aveva raggiunto il grado di kommandant. Attualmente era il capo delle
comunicazioni al quartier generale di Silver Mine. Il printout era una copia del rapporto che aveva inviato tre settimane prima, relativo alla rete radar della Siemens. Ramon posò il rapporto di Rosa Rossa sulla stessa installazione accanto a quella di Protea e cominciò a confrontarli voce per voce, paragrafo per paragrafo. In dieci minuti ebbe la certezza che erano in perfetta armonia, in generale e nei dettagli. L'affidabilità di Protea era del massimo ordine. Era stata messa alla prova ripetutamente durante un decennio e aveva meritato la cLASSE Prima, come fonte della categoria più alta. Rosa Rossa aveva appena superato il primo controllo della sicurezza. Ora si poteva considerarla attiva e includerla nella cLAssE Terza. Dopo quasi quattro anni di preparativi accuratamente eseguiti, Ramon riteneva il piano accettabile. Sorrise al ritratto di Leonid Ilic Breznev appeso al muro di fronte, e il segretario generale lo fissò con aria solenne sotto le sopracciglia ispide. Katrina lo chiamò sulla linea privata. «Compagno colonnello, è atteso al piano di sopra fra sei minuti.» «Grazie, compagna. Venga qui per assistere alla distruzione dei documenti.» Katrina gli rimase al fianco mentre infilava il printout del rapporto di Protea nell'apposita macchina, quindi controfirmò l'annotazione sull'agenda per attestare l'avvenuta distruzione. Lo guardò abbottonarsi la tunica e aggiustarsi le file dei nastrini di fronte al piccolo specchio a muro. Poi gli porse gli appunti per la riunione. «Buona fortuna, compagno colonnello.» Gli era vicina, con il viso levato verso di lui. «Grazie.» Ramon se ne andò senza toccarla. Non l'avrebbe mai fatto, in ufficio. Ramon attese, solo, nella sala per le conferenze all'ultimo piano. Lo fecero aspettare per dieci minuti. Le pareti erano intonacate di bianco. Non c'eranO pannelli che potessero nascondere un microfono. A parte gli inevitabili ritratti di Lenin e Breznev, non c'erano altre decorazioni. C'erano dodici sedie intorno al tavolo, e Ramon rimase in piedi per tutti i dieci minuti. Finalmente si aprì la porta dell'ufficio del direttore. Il generale Yuri Borodin era il capo della Quarta Direzione. Ramon, con la sua nuova carica, rispondeva a lui del suo operato. Era un settuagenario grasso con i capelli grigi, cauto e sfuggente, e indossava un abito gessato. Ramon lo ammirava e lo temeva. L'uomo che lo seguì nella sala delle conferenze meritava un rispetto anche più grande. Era più giovane di Borodin; aveva compiuto da poco i cinquant'anni ma era già membro del Praesidium del Soviet supremo e viceministro degli Esteri. Il rapporto di Ramon aveva causato una reazione più forte del previsto. Era stato invitato a difendere la sua tesi davanti a uno dei cento uomini più influenti dell'Unione Sovietica. Alekseij Yudenic era basso e magro ma aveva lo sguardo ardente e penetrante del mistico. Strinse in fretta la mano di Ramon e lo fissò negli occhi per un momento mentre Borodin li presentava; poi sedette, fiancheggiato dai suoi collaboratori. «Lei ha idee molto nuove, giovanotto», esordì bruscamente, e la scelta di quell'appellativo non era necessariamente complimentosa. Il ministero degli Esteri non attribuiva alle novità la stessa importanza che riconosceva alle politiche tradizionali e collaudate. «Vorrebbe che dopo tanto tempo ritirassimo il nostro appoggio ai movimenti di liberazione dell'Africa meridionale, l'African National Congress e il partito Comunista sudafricano, e alla lotta armata in generale?» «Con tutto il rispetto, compagno direttore», rispose con
calma Ramon, «non è questo che intendo proporre.» «Allora ho interpretato erroneamente la sua relazione. Non ha forse scritto che l'ANC si è rivelata l'organizzazione guerrigliera più inetta e meno producente della storia moderna?» «Ho indicato le ragioni e il modo in cui si potrebbero correggere gli errori del passato.» Yudenic borbottò e sfogliò la sua copia del rapporto. «Continui. Mi spieghi perché la lotta armata non dovrebbe avere in Sudafrica lo stesso successo che ha avuto, per esempio, in Algeria.» «Vi sono differenze fondamentali, compagno viceministro. I coloni d'Algeria, i pieds-noirs, erano francesi, e la Francia è vicina, appena al di là del Mediterraneo. L'afrikaner bianco non ha la stessa facile via di fuga. Ha alle spalle l'oceano Atlantico. Deve combattere, l'Africa è la sua patria.» «Sì.» Yudenic annuì. «Continui.» «I guerriglieri algerini dell'FLN erano uniti dalla religione musulmana e dalla lingua comune. Combattevano una guerra santa, una jihad. I negri africani non hanno la stessa ispirazione. Sono divisi dalla lingua e dalle inimicizie tribali. L'ANC, per esempio, è un'organizzazione quasi esclusivamente "xhosa" che esclude la tribù più numerosa e potente, quella degli zulu.» Yudenic ascoltò per quindici minuti senza interrompere e senza staccare mai lo sguardo dal volto di Ramon. Quando questi, finalmente, smise di parlare, gli chiese senza alzare la voce. «Quale alternativa propone?» «Non è un'alternativa», Ramon scosse la testa. «Naturalmente la lotta armata deve continuare. Ci sono uomini più giovani, più intelligenti e impegnati che si fanno strada nei suoi ranghi, uomini come Raleigh Tabaka. In futuro potranno conseguire successi maggiori. Ciò che propongo è un'aggiunta alla lotta, un attacco economico, una serie di boicottaggi e di sanzioni obbligatorie...» «Noi non abbiamo contatti economici con il Sudafrica», osservò bruscamente Yudenic. «Propongo di lasciare che siano i nostri arcinemìci a farlo per noi. Propongo di orchestrare in America e nell'Europa occidentale una campagna per distruggere l'economia sudafricana. Lasciamo che siano i nostri nemici a prepararci il terreno e a piantare i semi della rivoluzione. Noi ne coglieremo i frutti.» «Come suggerisce di procedere?» «Lei sa che abbiamo eccellenti infiltrazioni nel partito Democratico americano. Abbiamo accesso ai più alti livelli dei media statunitensi. La nostra influenza in organizzazioni come NAACP e Trans Africa Foundation è dominante. Propongo di fare in modo che il Sudafrica e l'apartheid diventino il grido di battaglia delle sinistre americane. Stanno cercando una causa che li unisca: noi gliela daremo. Faremo del Sudafrica una questione politica interna degli Stati Uniti. I negri americani accorreranno intorno a quella bandiera e, per assicurarsi i loro voti, i democratici si affretteranno a seguirli. Orchestreremo una campagna nei ghetti e nelle università americane per imporre sanzioni economiche obbligatorie tali da distruggere l'economia del Sudafrica e far crollare il suo governo rendendolo incapace di proteggersi e di tenere in campo le sue forze della sicurezza. Quando ciò accadrà, interverremo e metteremo al potere un governo scelto da noi.» Rimasero in silenzio per un po', contemplando la visione abbagliante. Alekseij Yudenic tossì e chiese: «Quanto costerà... in termini finanziari?» «Miliardi di dollari», ammise Ramon e, quando vide la faccia di Yudenic oscurarsi, continuò: «Miliardi di dollari americani, compagno viceministro. Lasceremo che sia il partito
Democratico a suonare la nostra musica, e il popolo americano a pagarla». Il viceministro Yudenic sorrise per la prima volta in quel pomeriggio. Le discussioni durarono ancora due ore, prima che Yuri Borodin suonasse il campanello per chiamare il suo assistente. «Vodka», ordinò. La vodka arrivò su un vassoio d'argento. La bottiglia era incrostata di ghiaccio. Alekseij Yudenic propose il primo di molti brindisi. «Al partito Democratico americano!» Risero, vuotarono i bicchieri e si scambiarono strette di mano e pacche sulle spalle. Il direttore Borodin si spostò e si portò a fianco di Ramon Machado. Il gesto non sfuggì a nessuno. Si stava schierando con il suo giovane, geniale subordinato. L'appartamento di Katrina era in uno dei quartieri più belli della città. Dalla finestra della camera da letto si vedeva il parco Gorki e il settore dei divertimenti, La grande ruota girava lentamente contro le nubi grigie, illuminata da una miriade di luci incantate, quando Ramon scese dalla Chaika ed entrò nel caseggiato. Era una reliquia della Russia zarista prerivoluzionaria, una specie di grande torta nuziale in stile rococò. Non c'era l'ascensore, e Ramon salì la scala a piedi fino al sesto piano. Il moto contribuì a diradare i fumi della vodka che gli offuscavano il cervello. La madre di Katrina aveva preparato amorevolmente la grossa salsiccia di maiale con contorno di cavoli... sempre cavoli. L'intero caseggiato puzzava di cavoli bolliti. I genitori di Katrina trattavano Ramon con rispetto servìle. La madre gli mise nel piatto la porzione più grossa di salsiccia mentre Katrina gli versava nel bicchiere la vodka al pepe. Quando ebbero mangiato, i genitori portarono con loro il bambino per andare a guardare la televisione in casa di un vicino, e lasciarono che Katrina e Ramon si dicessero addio senza testimoni. «Mi mancherai», mormorò Katrina. Lo condusse verso il letto della sua stanzetta e lasciò cadere la gonna intorno alle caviglie. «Torna presto, ti prego.» Avevano un'ora, prima che Ramon dovesse andare all'aeroporto. Katrina aveva la pelle vellutata e calda, e minuscole venuzze azzurre che s'irradiavano dai grossi capezzoli d'un bruno rosato. Ramon aveva tutto il tempo di dedicarsi a lei. Le lasciò appena la forza di accompagnarlo vacillando alla porta. La vestaglia lisa copriva le spalle perfette, e i riccioli erano spettinati. Sulla soglia, Katrina si appoggiò a lui e lo baciò a lungo. «Torna presto da me, ti prego. Oh, ti prego!» A quell'ora c'era poco traffico sulla strada dell'aeroporto: solo alcuni camion militari. Il tragitto portò via meno di mezz'ora. Ramon viaggiava così spesso che aveva adottato un suo sistema per ridurre al minimo gli effetti sgradevoli del salto dei fusi orari. Non mangiava e non beveva alcol durante il volo, e s'era abituato a dormire in ogni circostanza. Un uomo che riusciva ad addormentarsi su un letto di acuminate rocce etiopiche con una temperatura di quarantadue gradi, o nella serra umida di una foresta pluviale centroamericana con i millepiedi che gli camminavano addosso, poteva farlo anche sullo scomodo sedile di un jet. Sebbene il sole fosse ardente ed intridesse di sudore la camicia sportiva sulla schiena e sotto le ascelle, per lui era una notte d'inverno a Mosca e non un balsamico meriggio dei Caraibi,
quando scese all'aeroporto José Marti dell'Avana. Prese la coincidenza locale, un vecchio Dakota ad elica che lo portò a Cienfuegos. Uscì dall'aeroporto con la valigia, contrattò con il guidatore di uno dei vecchi tassì in attesa e si fece condurre all'accampamento militare di Buenaventura. Lungo il percorso fiancheggiarono l'acqua scintillante della Bahia de Cochinos e superarono il museo dedicato alla battaglia della Baia dei Porci. Gli dava sempre una sensazione di trionfo ricordare il ruolo che aveva avuto nell'umiliazione inflitta ai barbari americani. Era pomeriggio inoltrato quando il tassì lo lasciò al cancello del campo di Buenaventura. L'attività stava per concludersi, e le colonne del reggimento paracadutisti Che Guevara tornavano nelle caserme. Erano truppe scelte, nelle uniformi da fatica, addestrate soprattutto per un ruolo di assalto in ogni zona del mondo: ma dopo l'ultima riunione del Politburo all'Avana venivano preparate per l'impiego in Africa. Ramon si fermò per veder passare un'unità. Giovani e ragazze cantavano uno degli inni rivoluzionari che ricordava bene dai giorni amari délla Sierra Maestra. Terra dei senza terra era il titolo, e le parole gli facevano accapponare la pelle anche se ormai era passato tanto tempo. Presentò il lasciapassare al cancello degli alloggi riservati agli ufficiali sposati. Ramon indossava una camicia sportiva, pantaloni leggeri di cotone e sandali, ma il sergente della guardia lo salutò con deferenza quando riconobbe il nome ed il grado. Ramon era uno degli ottantadue eroi i cui nomi venivano recitati nelle scuole e cantati nelle bodegas. Il suo cottage sorgeva in una fila di abitazioni tutte eguali, con due camere da letto e il tetto piatto, fra le palme sopra la spiaggia. Le acque calme della Baia dei Porci luccicavano tra i lunghi tronchi curvi. Adra Olivares stava spazzando la piccola veranda; ma alzò gli occhi, lo vide quando era ancora a cento passi di distanza, e assunse un'espressione neutra. «Benvenuto, compagno colonnello», disse mentre lui saliva sulla veranda; e sebbene abbassasse lo sguardo non riuscì a nascondere la paura che era visibile nei suoi occhi. «Dov'è Nicholas?» chiese lui lasciando cadere la valigia sul pavimento. Per tutta risposta la donna girò la testa verso la spiaggia. C'era un gruppo di bambini che correvano sulla battigia. Le loro grida acute erano più forti del fruscio dell'aliseo tra le fronde delle palme. Tutti erano in costume da bagno, abbronzati e levigati dal sole e dall'acqua. Nicholas stava un po' in disparte dagli altri, e Ramon provò un guizzo al cuore quando riconobbe il figlio. Solo durante l'ultimo anno aveva incominciato a considerarlo tale. Prima era sempre stato «il bambino», e nei rapporti del suo dipartimento «il figlio di Rosa Rossa». Insidiosamente, era diventato «mio figlio», ma solo nella sua mente. Erano parole che non pronunciava e non scriveva mai. Ramon lasciò il cottage e scese fra le palme, verso la spiaggia. Sedette sulla piccola diga frangiflutti e guardò il figlio. Nicholas aveva tre anni. Era precoce, fisicamente ben sviluppato per la sua età. Sarebbe diventato alto: le sue membra erano già lunghe, senza tracce di grasso infantile. Stava con un fianco protéso in avanti, il peso appoggiato tutto su una gamba e la mano sull'anca in una posa che ricordava il Davide di Michelangelo. L'interesse di Ramon per il bambino s'era destato quando era apparso chiaro che possedeva un'intelligenza eccezionale. I rapporti
della maestra dell'asilo del campo erano euforici. Disegnava e parlava come un bambino di vari anni più grande. Fino a quel momento Ramon non aveva preso parte attiva all'educazione del figlio. Aveva trovato l'alloggio per Adra Olivares e Nicholas tramite la DGA dell'Avana. Adesso Adra era tenente della sicurezza dello stato. Era stato Ramon a ottenere anche questo. Era necessario che Adra avesse il grado di ufficiale per poter abitare in uno dei cottage di Buenaventura, e perché Nicholas potesse frequentare l'asilo della base militare. Per i primi due anni Ramon non aveva visto il piccino, anche se i vari rapporti dell'ambulatorio militare e del dipartimento dell'educazione erano passati sulla sua scrivania quando aveva preparato i dispacci per Rosa Rossa. Alla fine i rapporti e le foto allegate avevano stuzzicato il suo interesse. Era andato apposta a Buenaventura dalla capitale. Sembrava che il piccolo l'avesse riconosciuto immediatamente. S'era nascosto dietro le gambe di Adra e lo aveva sbirciato con aria impaurita. L'ultima volta che aveva visto il padre era stato nella camera operatoria della clinica militare di Buenaventura, dove Ramon aveva inscenato il suo annegamento parziale davanti alla telecamera per costringere Rosa Rossa ad accettare la sua autorità. Nicholas aveva poche settimane, a quel tempo. Era impossibile che ricordasse l'episodio... eppure la sua reazione nei confronti di Ramon era stata troppo intensa per essere una pura coincidenza. Ramon era stato colto di sorpresa dal modo in cui aveva reagito al terrore del bambino. Era abituato a vedere gli altri che trepidavano in sua presenza; raramente aveva bisogno d'una delle sue dimostrazioni spietate per ispirare paura in chi gli stava intorno; ma quella volta era stato diverso. A parte sua madre e suo cugino Fidel, non aveva mai provato affetto per alcun essere umano. E l'aveva sempre considerato uno dei suoi punti di forza. Era quasi impervio ai sentimenti e alle emozioni, e questo gli permetteva di fondare decisioni e azioni esclusivamente sul giudizio logico e intellettuale. Quando era necessario, era capace di sacrificare un compagno conosciuto da molti anni senza la minima esitazione e senza rimorsi inutili. Sapeva fare l'amore teneramente con una bella donna e poche ore più tardi, senza alcuno scrupolo, ordinare la sua esecuzione. Si era educato a essere superiore alle deboli considerazioni terrene. Si era temprato fino a diventare uno degli uomini d'acciaio di Lenin, e aveva forgiato la propria forza e la propria volontà fino a ottenerne un'arma terribile... e poi, inaspettatamente, aveva scoperto quell'incrinatura nel metallo della sua anima. «Un'incrinatura minuscola», pensò per consolarsi mentre sedeva sulla diga sotto il sole dei Caraibi e osservava il bambino. «Un'incrinatura minutissima nella lama, e solo perché fa parte di me. Sangue del mio sangue, carne della mia carne, e la mia speranza d'immortalità.» Ripensò all'episodio della clinica militare. Con l'immaginazione, rivide il piccino che si contorceva nella stretta del dottore, il respiro soffocato quando aveva sollevato la testolina fradicia dall'acqua della vasca. Il ricordo non lo fece inorridire. A quel tempo era necessario, pensò. Non bisognava mai pentirsi dell'azione necessaria, l'azione d'acciaio. Il bambino raccattò una conchiglia dalla sabbia. La rigirò tra le mani e chinò la testa per esaminare il frammento iridescente. Nicholas aveva i capelli scuri e ricciuti e, sebbene fossero bagnati d'acqua salmastra, nel sole brillavano di tante piccole scintille rossicce. Aveva ereditato molte caratteristiche dalla madre: erano riconoscibili il naso classico, cesellato, e la linea dolce
del mento. Ma gli occhi verdi erano quelli di Ramon. All'improvviso il bambino alzò il braccio e lanciò la conchiglia che rimbalzò sull'acqua immobile, lasciando una serie dî minuscole fossette dove toccava la superficie. Poi Nicholas si voltò e s'incamminò lungo la battigia, ma in quel momento si levò uno strillo angosciato dal gruppo dei bambini che giocavano sulla spiaggia. Una delle ragazzine era finita sulla sabbia bianca, e stava urlando. «Nicholas!» Con un sospiro paziente, Nicholas tornò da lei e la mise in piedi. Era una bimbetta graziosa, con una guancia sporca di sabbia e le lacrime che sgorgavano dai grandi occhi scuri. Il costume le era scivolato fino alle ginocchia, lasciando scoperta la fenditura fra le natiche tonde e rosee. Nicholas le rassettò il costume e la condusse per mano fino all'acqua. Le lavò la sabbia dalla guancia e le asciugò le lacrime. La bambina tirò su con il naso un'ultima volta e smise di strillare. Prese la mano di Nicholas e trottò al suo fianco mentre risalivano la spiaggia. «Ti porto dalla tua mamma», disse Nicholas; poi alzò la testa e vide il padre. Si fermò di colpo e lo fissò. Ramon vide nei suoi occhi il lampo di terrore, subito nascosto. Poi Nicholas alzò il mento in un gesto di sfida e la sua espressione divenne impassibile. A Ramon tutto questo piaceva. Era bene che il bambino avesse paura, perché la paura è la base del rispetto e dell'obbedienza. Era bene che sapesse anche nasconderla e controllarla. La capacità di nascondere la paura era una delle qualità della leadership. Nicholas mostrava già una forza e una volontà superiori ai suoi anni. E' mio figlio, pensò Ramon, e alzò una mano in un gesto di comando. «Vieni qui, bambino», disse. La bimbetta indietreggiò, lasciò la mano di Nicholas e fuggì riprendendo a strillare: ma questa volta invocava la madre. Ramon non guardò nella sua direzione. Faceva spesso quell'effetto sui bambini. Nicholas si fece forza e obbedì al richiamo. «Buongiorno, padre.» Tese la mano con aria solenne. «Buongiorno, Nicholas.» Ramon aveva insegnato al figlio a stringere la mano come un uomo, ma Adra gli aveva insegnato a chiamarlo «padre». Non avrebbe dovuto permetterlo, ma alla fine era contento di averlo fatto. Gli faceva provare un guizzo di sentimento sentirsi chiamare così; ma poteva concederselo. Erano molto poche le concessioni che faceva a se stesso. «Siediti qui.» Ramon indicò la diga e Nicholas si arrampicò e sedette lasciando penzolare le gambe. Per un po' rimasero in silenzio. Ramon non approvava che i bambini chiacchierassero. Quando finalmente chiese: «Come va?» Nicholas rifletté seriamente sulla domanda. «Sono andato a scuola tutti i giorni.» «Cosa v'insegnano a scuola?» «Impariamo le esercitazioni e i canti della rivoluzione.» Nicholas rifletté ancora un attimo. «E dipingiamo.» Rimasero a lungo in silenzio, fino a che Nicholas aggiunse: «El pomeriggio nuotiamo e giochiamo a calcio, e la sera aiuto Adra a fare i lavori di casa. Poi guardiamo insieme la tv». Aveva tre anni, si disse Ramon. Un bambino occidentale al quale fosse stata rivolta la stessa domanda avrebbe risposto «Niente», oppure «Tante cose». Nicholas aveva parlato come un uomo... come un vecchietto. «Ti ho portato un regalo», disse Ramon.
«Grazie, padre.» «Non vuoi sapere che cos'è?» «Me lo mostrerai tu», osservò Nicholas. «Allora vedrò che cosa è.» Era un modello in plastica di un fucile A K-47. Sebbene fosse una miniatura era perfetto nei dettagli, con il caricatore estraibile e pieno di proiettili dipinti. Ramon l'aveva comprato in un negozio di giocattoli durante l'ultima visita a Londra. Gli occhi di Nicholas brillarono quando lo imbracciò e lo puntò verso la spiaggia. A parte il primo lampo di paura, era l'unica vera emozione che aveva mostrato dall'arrivo di Ramon. Quando premette il grilletto, il giocattolo emise un crepitio debitamente bellicoso. «E' molto bello», disse Nicholas. «Grazie, padre.» «E' un bel giocattolo per un coraggioso figlio della rivoluzione», disse Ramon. «Io sono un corraggioso figlio della rivoluzione?» «Un giorno lo sarai», disse Ramon. «Compagno colonnello, è l'ora del bagno del bambino», intervenne Adra con fare diffidente. Prese per mano Nicholas e lo condusse in casa. Ramon resistette all'impulso di seguirli. Sarebbe stato indecoroso partecipare a un rito domestico borghese. Andò invece al tavolino in fondo alla veranda dove Adra aveva preparato una caraffa di spremuta di lime ed una bottiglia di rum Havana Club, indiscutibilmente il miglior rum del mondo. Ramon si preparò un mojito, poi scelse un sigaro dalla scatola sul tavolo. Fumava solo quand'era a casa, a Cuba, e soltanto i sigari migliori di Miguel Fernandez Roig, e Adra lo sapeva. Come l'Havana Club, erano i più raffinati del mondo. Ramon prese l'alto bicchiere zuccherato e il sigaro, andò a sedersi e guardò il tramonto che trasformava in oro insanguinato le acque della baia. Sentì il figlio che sguazzava e gridava allegramente nel bagno, e le risposte di Adra. Ramon era un guerriero e un nomade. Questo era ciò che avesse mai avuto di più vicino a una casa propria: forse era merito del bambino. Adra servì pollo e moros y cristianos, un misto di fagioli neri e riso bianco. Tramite la DGA, Ramon aveva procurato una tessera annonaria privilegiata per la famigliola. Voleva che il bambino crescesse forte e ben nutrito. «Presto farai un viaggio con me», gli disse mentre mangiavano. «Oltremare. Ti piacerebbe, Nicholas?» «Adra verrà con noi?» La domanda irritò Ramon: non si rese conto che l'irritazione era causata dalla gelosia. «Sì», rispose seccamente. «Allora mi piacerà», disse Nicholas. «Dove andremo?» «In Spagna», disse Ramon. «Nella terra dei tuoi antenati, la terra dove sei nato.» Dopo cena, Ramon fu autorizzato a guardare la televisione per un'ora. Quando vide che gli si chiudevano gli occhi, Adra lo portò nella sua camera. E quando tornò nel piccolo soggiorno spartano chiese a Ramon: «Mi vuoi, stanotte?» Ramon annuì. Adra aveva più di quarant'anni. Ma aveva il ventre piatto, le cosce sode e possenti. Non aveva mai avuto figli, e possedeva uno straordinario controllo muscolare. Quando Ramon glielo chiedeva, lo eccitava con un piccolo esercizio: lui reggeva l'estremità di una matita mentre lei la spezzava a metà con una contrazione spasmodica dello sfintere vaginale. Era un'esperta, una delle amanti più istintive che avesse mai conosciuto... e poi aveva terrore di lui, e questo accresceva il
piacere di entrambi. All'alba Ramon andò a nuotare, raggiunse la punta della baia e poi tornò lottando contro la marea, muovendosi faticosamente nell'acqua increspata. Quando risalì dalla spiaggia, trovò Nicholas pronto per andare all'asilo. E c'erano una jeep dell'esercito e un autista che aspettavano alla porta di servizio del cottage. Ramon aveva indossato la divisa da fatica dei paracadutisti e il berretto floscio. Era l'uniforme rivoluzionaria, molto diversa da quella russa, così sgargiante con i fregi dorati, i bordi scarlatti e i nastrini. Nicholas sedette orgogliosamente accanto a lui sulla jeep per il breve tragitto, fino a che lo fecero scendere all'asilo, accanto all'entrata principale. Il percorso fino all'Avana richiese un po' più di due ore, per via del raccolto della canna da zucchero. Il cielo sopra le colline era oscurato dal fumo dei fuochi e la strada era intasata dai camion colossali carichi di canne tagliate da consegnare alle raffinerie. Quando arrivarono in città, l'autista lasciò Ramon in fondo all'immensa Plaza de la Revolucion, con l'obelisco alto cento metri in memoria di José Marti, eroe del popolo che nel 1892 aveva fondato il partito Rivoluzionario Cubano. La piazza era il teatro di molti degli esaltanti comizi oceanici del partito, quando un milione e più di cubani accorrevano per ascoltare i discorsi di Fidel Castro. L'ufficio del presidente era nella sede del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba, di cui El Jefe era primo segretario. L'ufficio dove ricevette Ramon era austero come imponevano i princìpi rivoluzionari. Sotto il ventilatore, la scrivania massiccia era carica di documenti e rapporti. Le pareti bianche erano disadorne, a parte il ritratto di Lenin dietro la scrivania. Fidel Castro si alzò per abbracciare Ramon. «Mi Zorro dorado», rise in tono compiaciuto. «La mia Volpe dorata. E' un piacere vederti. Sei stato via troppo tempo, vecchio compagno. Troppo tempo.» «E' bello essere tornato, El Jefe.» Ramon era sincero. Amava e rispettava quell'uomo più di ogni altro. Restava sempre sorpreso dalla mole dell'uomo che chiamava Capo. Castro torreggiava sopra di lui. Lo soffocò in un abbraccio, poi lo scostò e lo scrutò in viso. «Mi sembri stanco, compagno. Hai lavorato molto?» «Con ottimi risultati», gli assicurò Ramon. «Vieni a sederti vicino alla finestra», lo invitò Castro. «Parlamene.» Scelse due sigari Roig dalla scatola sull'angolo della scrivania e ne porse uno a Ramon, l'accese, poi accese l'altro per sé prima di sedere sulla sedia e di tendersi in avanti, con il sigaro all'angolo della bocca. «Raccontami le novità di Mosca. Hai visto Yudenic?» «L'ho visto, El Jefe, e la riunione è andata bene...» Ramon incominciò il rapporto. Era tipico che tra loro non vi fossero chiacchiere o preamboli a una discussione seria. Nessuno dei due doveva manovrare per ottenere un vantaggio. Ramon poteva parlare con totale sincerità, senza timore di offendere l'interlocutore e senza cercare di migliorare la propria posizione: quella era inattaccabile. Erano fratelli di sangue e d'anima. Naturalmente, Castro era volubile. Poteva dimenticare l'affetto che aveva provato per una persona. Era accaduto con Che Guevara, un altro degli ottantadue eroi che erano sbarcati dal Gromma. Il Che era caduto in disgrazia dopo aver dissentito dalla politica economica di Castro ed era stato spedito a fare il cavaliere errante della rivoluzione, un Walt Whitman armato di
bombe a mano e A K-47. Sì, era accaduto al Che, ma non avrebbe mai potuto accadere a Ramon. «Yudenic ha promesso di sostenere le nostre nuove esportazioni», disse Ramon, e Castro rise. Era uno scherzo. Castro era un genio politico ispirato, con il raro dono di saper comunicare la sua visione appassionata alle masse popolari. Ma sebbene fosse un uomo istruito che aveva fatto l'avvocato prima che la rivoluzione lo innalzasse ai vertici, non era un economista. La sua comprensione della scienza arcana dell'economia era molto modesta. Non si preoccupava della bilancia dei pagamenti, dell'impiego e della produttività. La sua visione travolgente trascendeva gli aspetti meschini della politica concreta. Amava ciò che era grande ed audace. Ramon aveva concepito il suo piano in modo che piacesse a El Jefe; ed era un piano audace e diretto. Il problema consisteva nel fatto che la ricchezza di Cuba si basava su tre prodotti: zucchero, tabacco e caffè. E non erano sufficienti per procurare la valuta pregiata necessaria per finanziare gli ambiziosi progetti di Castro per il rinnovamento urbano e l'assistenza sociale, e soprattutto per assicurare il pieno impiego a una popolazione in fase di esplosione demografica. Dopo la rivoluzione, la popolazione era raddoppiata. Secondo le previsioni sarebbe raddoppiata ancora entro i prossimi dieci anni. Il piano di Ramon era stato studiato per ovviare a questi problemi. Avrebbe fornito valuta pregiata e avrebbe contribuito a ridurre la disoccupazione sull'isola. Le «nuove esportazioni» consistevano semplicemente nell'esportazione di mercenari, uomini e donne. Sarebbero stati inviati a decine di migliaia per realizzare la rivoluzione in tutti gli angoli della terra. Forse sarebbe stato possibile esportarne fino a centomila, un decimo della forza-lavoro totale dell'isola. Con un colpo di genio avrebbero posto fine alla disoccupazione e riempito le casse dello stato con le paghe di un esercito mercenario. Castro aveva apprezzato il piano dal primo giorno che Ramon glielo aveva esposto. Era l'unico tipo di manovra economica che sapeva capire ed approvare. «Yudenic lo raccomanderà a Breznev», assicurò Ramon. E Castro si accarezzò la barba come se fosse un gatto nero. «Se Yudenic lo raccomanda, non avremo preoccupazioni.» Si tese in avanti con le mani sulle ginocchia. «E sappiamo tutti e due dove vuol che vengano mandati.» «Ho un incontro questo pomeriggio all'ambasciata di Tanzania», disse. All'Avana c'erano diciassette ambasciate africane, e tutte rappresentavano governi socialisti di paesi appena liberati dall'oppressione coloniale. La Tanzania, dominata da Julius Nyerere, era il paese più marxista di tutti. Nyerere aveva già dichiarato che chiunque possedesse più di un acro di terreno era «un capitalista nemico del popolo» e per punizione tutti i suoi averi sarebbero stati confiscati dallo stato. I tanzaniani erano zelantissimi nell'appoggiare coloro che lottavano per liberare gli stati schiavi del resto dell'Africa. Fornivano asilo ai combattenti della libertà fuggiti dall'Angòla e dal Mozambico portoghesi, dal Sudafrica razzista e dall'Etiopia medievale dominata dall'imperatore tiranno Hailé Selassié. In tutti quei paesi ci sarebbe stato lavoro per l'esercito dei mercenari cubani. «Incontrerò diversi ufficiali dell'esercito etiopico votati alla causa del socialismo marxista, e pronti a rischiare la vita per spezzare il giogo dell'oppressore.» «Sì.» Castro annuì. «L'Etiopia è matura per noi.» Ramon fissò la cenere del sigaro: era compatta, lunga quasi
cinque centimetri. «Entrambi sappiamo che il destino ti ha assegnato un ruolo lontano dalle rive di quest'isola meravigliosa. L'Africa ti attende!» Castro si inclinò all'indietro, soddisfatto, e si appoggiò le mani enormi sulle ginocchia, mentre Ramon continuava: «Gli africani nutrono una diffidenza naturale per la Madre Russia. I russi del Cremlino sono tutti caucasici... la parola ha avuto origine in quel paese. Purtroppo, nonostante tutte le loro grandi virtù i russi sono in maggioranza razzisti. Non possiamo negarlo. Molti dei dirigenti africani, specialmente i giovani, che hanno studiato in Russia, sentivano mormorare la parola obezyana, "scimmia", quando passavano per i corridoi dell'università Patrice Lumumba. I russi sono bianchi e razzisti: l'africano non si fida di loro». Ramon tirò una boccata di fumo dal sigaro. Per un po' tacquero. Poi Castro ruppe il silenzio. «Continua.» «D'altra parte tu, El Jefe, sei un pronipote dell'Africa. Nelle tue vene scorre il sangue degli africani venduti al mercato degli schiavi dell'Avana. I tuoi antenati sopportavano le frustate degli intendenti e faticavano sotto il giogo dell'oppressore bianco. Se dimostrerai la tua solidarietà per la sorte di quell'enorme continente», suggerì Ramon, «la tua influenza potrebbe diventare vastissima.» Castro tacque, contemplando la prospettiva, e Ramon continuò abbassando la voce. «Dobbiamo organizzarti un giro di visite. Una cavalcata trionfale che comincerà in Egitto e procederà verso sud attraverso venti nazioni dove potrai proclamare il tuo interesse ed il tuo impegno al popolo africano. Se riuscirai a dimostrarli a duecento milioni di africani, pensa quali risultati otterrai.» Ramon si tese e gli toccò il polso. «Non sarai più il presidente di una piccola isola assediata, non sarai più il giocattolo dell'America, ma uno statista con un potere mondiale.» «La mia Volpe dorata», mormorò Castro. «Non è strano che ti voglia tanto bene.» L'ambasciata tanzaniana aveva sede temporaneamente in uno degli edifici coloniali spagnoli nella città vecchia. Gli etiopi stavano aspettando Ramon. Erano tre, tutti giovani ufficiali dell'esercito dell'imperatore Hailé Selassié. Uno solo dei tre interessava veramente Ramon Machado. Aveva incontrato il capitano Getachew Abebe in occasione di diversi viaggi ad Addis Abeba. In Etiopia è impossibile distinguere le linee etniche. Mille anni di invasioni e di unioni miste tra le tribù caucasiche giunte dall'altra parte del Mar Rosso e quelle del cuore del continente africano avevano prodotto un mélange inestricabile. Le definizioni come galla e amhara si riferivano a gruppi linguistici e culturali piuttosto che razziali. Nel capitano Getachew Abebe, tuttavia, dominava la pura influenza ancestrale africana. Aveva la pelle molto scura, con le labbra carnose e la pelle butterata. Era un prodotto dell'università di Addis Abeba. Joe Cicero era riuscito a infiltrare un gran numero di marxisti americani e britannici nell'università, nel ruolo di professori e assistenti. Uno degli studenti migliori, Getachew Abebe, era stato trasformato in un marxista-leninista fanatico. Ramon l'aveva studiato e corteggiato per anni, e adesso aveva deciso che era l'uomo giusto. Era intelligente, duro e spietato, e completamente fedele alla causa. Sebbene non avesse più di trentacinque anni, Ramon l'aveva scelto in via provvisoria quale nuovo padrone dell'Etiopia.
Mentre si scambiavano strette di mano nel salotto sul retro dell'ambasciata tanzaniana, Ramon lo ammonì con un'occhiata e un piccolo cenno in direzione della collezione di maschere tribali africane che coprivano le pareti. Ognuna poteva nascondere un microfono. La conversazione che seguì fu banale ed inconsistente e durò meno di mezz'ora. Mentre si salutavano, Ramon si tese verso Abebe e gli bisbigliò quattro parole: un luogo e un'ora. I due s'incontrarono di nuovo un'ora dopo nella Bodequita del Medio, il bar più famoso della città vecchia. Il pavimento era coperto di segatura, e i tavoli e le sedie erano sfregiati e malconci. Le pareti erano segnate da graffìti e firme di personaggi anche molto famosi; da Hemingway a Spencer Tracy al duca di Windsor, tutti avevano bevuto lì. Le loro foto ingiallite erano appese in semplici cornici di legno, sghembe e macchiate dalle mosche, sulle pareti luride. Il locale lungo e stretto era invaso dal fumo. La cacofonia di una radio portatile che trasmetteva musica folk bembe e delle grida delle conversazioni tra i clienti coprivano la loro discussione tranquilla. Si erano seduti nell'angolo più lontano, con un mojito davanti a ognuno di loro. La condensazione scorreva lungo i bicchieri e formava cerchi umidi sul legno; ma nessuno dei due assaggiava i drink. «Compagno, i tempi sono quasi maturi», disse Ramon, e Abebe annuì. «Il leone degli amhara è vecchio e sdentato; il figlio è un idiota debole e viziato. La nazione geme sotto il peso della sua tirannia e soffre la fame a causa della peggiore siccità dell'ultimo secolo. I tempi sono maturi.» «Ci sono due cose che dobbiamo evitare», raccomandò Ramon. «La prima è la rivoluzione armata. Se l'esercito insorge e giustizia immediatamente l'imperatore, tu verrai scavalcato. Hai un grado troppo modesto. Il potere sarà preso da uno dei generali.» «E allora?» chiese Abebe. «Qual è la soluzione?» «Una rivoluzione strisciante», disse Ramon. Era la prima volta che Abebe sentiva usare quel termine, anche se non era disposto a riconoscerlo. «Capisco», mormorò. E Ramon continuò a illuminarlo. «Il Dergue deve chiedere conto ad Hailé Selassié del suo operato e pretendere l'abdicazione. Come hai detto, il vecchio leone ha perso i denti. E' isolato. Dovrà piegarsi. Tu userai tutta la tua influenza nel Dergue, e io eserciterò la mia.» Il Dergue era il parlamento etiopico, un'assemblea di tutti i capi tribali e militari, i capi dei ministeri e gli anziani religiosi, al cui interno si erano infiltrati i giovani marxisti dell'università di Addis Abeba. Quasi tutti dipendevano direttamente dagli ordini della Quarta Direzione di Ramon. E tutti avevano accettato come capo Getachew Abebe. «Poi insedieremo una giunta militare provvisoria, e io farò entrare nel paese un grosso contingente di cubani. Così consolideremo la tua posizione. Quando sarà sicura, saremo pronti per un nuovo passo.» «Quale?» chiese Abebe. «L'imperatore dovrà essere eliminato», disse Ramon. «Per prevenire una reazione monarchica.» «Un'esecuzione?» «Le esecuzioni sono spettacoli troppo pubblici e clamorosi.» Ramon scosse la testa. «E' un vecchio malato. Morirà, molto semplicemente, e allora...» «E allora ci saranno le elezioni?» chiese Abebe. Ramon lo fissò: solo quando vide il sorriso cinico sulle grosse labbra violacee dell'etiope sorrise a denti stretti.
«Mi hai sorpreso, compagno», ammise. «Per un momento ho pensato che parlassi sul serio. L'ultima cosa che vogliamo è un'elezione prima di aver scelto il nuovo presidente e la forma di governo. Le masse non sono mai state capaci di governarsi, e ancor meno hanno saputo scegliere le persone che devono governarle. E' nostro dovere compiere la scelta in loro vece. Più tardi, molto più tardi, dopo che sarai stato proclamato presidente di un governo marxista-socialista, terremo elezioni strettamente controllate per confermare la nostra scelta.» «Avrò bisogno di te ad Addis Abeba, compagno», disse Abebe. «Avrò bisogno della tua guida e della mano forte di Cuba per gestire la lotta nei giorni pericolosi ed eccitanti che ci attendono.» «Ci sarò, compagno», promise Ramon. «Insieme, noi due mostreremo al mondo come si fa una rivoluzione.» C'erano sempre rischi, pensò Ramon, ma bisognava valutarli attentamente e compararli con i possibili risultati. Poi bisognava prendere ogni precauzione per minimizzare tali rischi. Era tempo che Rosa Rossa avesse accesso al bambino, così come le era stato dato tempo per stabilire il rapporto iniziale dopo la nascita di Nicholas e le era stato permesso di allattare il figlio, di conoscere ogni dettaglio del suo corpicino; ora il legame si stava senza dubbio indebolendo perché erano trascorsi tre anni. Ramon s'era servito del video minaccioso, delle fotografie e dei rapporti dell'ambulatorio e dell'asilo per rafforzare i suoi istinti materni. Tuttavia tre anni erano lunghi, e intuiva che il controllo su Rosa Rossa si infiacchiva. Doveva essere ricompensata perché aveva consegnato il rapporto autentico sui radar della Siemens, e doveva imparare che la cooperazione era l'unica strada aperta davanti a lei. D'altra parte, era bene non spingerla a tentare qualche pazzia. Aveva una personalità forte ed ostinata. Possedeva uno spirito pericoloso, un'energia che sarebbe stato difficile piegare. La si poteva intimorire; ma sarebbe stato possibile riuscire a soggiogarla completamente? Non ne era ancora certo. Il gioco doveva essere condotto con estrema delicatezza. Non bisognava indurla a credere che l'incontro con Nicholas fosse una manifestazione di clemenza. Si doveva farle capire che era trattenuta nella trappola da catene d'acciaio. Ramon aveva preso in esame tutte le possibili reazioni contrarie che la visita poteva generare. La più probabile era che Rosa Rossa concepisse l'idea pazzesca di fuggire con il bambino o di preparare un'operazione di recupero. Aveva preso le debite precauzioni. L'hacienda era in una località isolata; apparteneva ad un comunista spagnolo in viaggio a New York con tutta la famiglia. Ramon aveva trasferito una sezione dello staff del KGB per controllare l'incontro. C'erano dodici guardie piazzate in posizioni strategiche nell'hacienda e tutto intorno. Erano tutti armati. Le armi erano arrivate a Madrid con il corriere diplomatico insieme ai walkietalkie ed alle droghe che potevano rendersi necessarie se Rosa Rossa fosse diventata pericolosamente isterica nel vedere il figlio. Aveva scelto la Spagna per buone ragioni. Rosa Rossa non doveva vedere dove era tenuto Nicholas. Ramon conosceva il potere e l'influenza della famiglia Courteney. Se Rosa Rossa si fosse rivolta al padre, e se avessero saputo dov'era tenuto il bambino, avrebbero potuto ingaggiare una squadra di mercenari o convincere i servizi di sicurezza sudafricani a organizzare una specie di rapimento. Bisognava farle credere che Nicholas veniva tenuto sempre in Spagna.
Naturalmente era la cosa più logica, in quanto Nicholas vi era nato e Rosa Rossa sapeva che Ramon era spagnolo. L'ultima volta che aveva visto il bimbo era stato in Spagna. Non aveva motivo di sospettare che fosse stato portato in un altro paese, soprattutto oltre l'Atlantico. Erano arrivati con il volo dell'Aeroflot dall'Avana a Londra, e ad Heathrow s'erano imbarcati su un aereo delle Iberian Airways. Dopo l'incontro, Adra e il bambino sarebbero tornati indietro per la stessa strada con due guardie del KGB, mentre Ramon si sarebbe recato a sud, in Etiopia. Ramon stava accanto alla finestra della torre dell'hacienda. Attraverso la persiana vedeva il tetto di tegole rosse, scolorito e macchiato dai muschi e dai licheni che si erano accumulati nel corso di un secolo. Gli spessi muri intonacati di bianco sorgevano intorno a un cortile centrale, tenuto a prato, e al centro del cortile c'era la piscina. Una palma da dattero cresceva ad ogni angolo e sotto le lunghe fronde eleganti di ogni palma pendevano grossi grappoli di frutti biondi quasi maturi. Dalla torre Ramon poteva osservare non soltanto il cortile ma anche i campi e i vigneti che circondavano l'hacienda; ma era nascosto dalle imposte di legno. C'erano diversi veicoli mimetizzati nei viottoli che dividevano le vigne. Erano tutti pronti a reagire a un suo comando radio e a tagliare ogni via di fuga. Ramon aveva piazzato le altre otto guardie intorno alla proprietà e alle finestre affacciate sul cortile: una di loro era armata di un fucile di precisione, un'altra d'un fucile a dardi. Ma non credeva che sarebbe stato necessario usarli. L'intera operazione era stata molto costosa, tenuto conto delle spese dei biglietti aerei e del personale che vi prendeva parte. Comunque aveva potuto servirsi di guardie e veicoli dell'ambasciata russa a Madrid, e il proprietario dell'hacienda non aveva voluto essere pagato. Ramon si sentì riassalire dal bruciore allo stomaco quando pensò all'avarizia della sezione finanze ed al tempo che doveva sprecare riempiendo le note spese e giustificando ogni voce di fronte a uno dei revisori. Com'era possibile che un ragioniere capisse le necessità e le priorità delle operazioni sul campo? Sarebbe stato possibile realizzare molto di più, senza quel continuo controllo amministrativo? Quale prezzo potevano attribuire a una nazione guidata fra le braccia dell'Unione Sovietica? Il crepitio smorzato della radio interruppe quei pensieri sgradevoli. «Da? Sì?» disse in russo. «Qui è il Numero Tre. Il veicolo è in vista.» Era la guardia in fondo al viottolo sul lato meridionale della tenuta. Ramon si spostò alla finestra sud della torre. E vide la polvere gialla che la macchina sollevava sulle vigne. «Bene.» Tornò alla posizione di prima e fece un cenno all'addetta alle comunicazioni prestata dall'ambasciata; era seduta alla consolle elettronica, con il microfono direzionale puntato sul cortile. Ogni parola, ogni suono proferito in quel cortile sarebbe stato registrato, e l'incontro sarebbe stato ripreso su videotape. Naturalmente c'erano microfoni attivati a voce e telecamere nascoste in ogni stanza dell'hacienda dove avrebbe potuto entrare Rosa Rossa, inclusi i gabinetti e i bagni. Ramon aveva requisito l'apparecchiatura dell'ambasciata di Madrid. Le impronte vocali e le foto aggiornate avrebbero rappresentato un interessante prodotto secondario rispetto allo scopo principale dell'operazione. La macchina comparve dopo aver superato il cancello della tenuta. Era una Cortina blu con targa del corpo diplomatico. Si fermò alla porta principale dell'hacienda.
Isabella Courteney scese per prima, seguita dalla guardia dell'ambasciata che l'aveva scortata dall'aeroporto. Si soffermò sul viale lastricato e alzò gli occhi verso le finestre della torre, come se sentisse su di sé lo sguardo di Ramon. Ramon prese il binocolo e la osservò. Era cambiata in modo drammatico negli anni trascorsi dall'ultima volta che l'aveva vista. Era rimasto ben poco della ragazza sciocca e capricciosa. Adesso era una donna matura. I lineamenti sembravano più saldi. Era magra, troppo magra, e gli occhi erano cerchiati di scuro. Anche da quella distanza, non era difficile scorgere i primi segni lasciati dalle traversie della vita agli angoli della bocca, e la nuova linea dura della mascella. Aveva un'aria tragica, e irradiava un senso di sofferenza che lo affascinava. Non era più altrettanto graziosa, ma era molto più attraente ed interessante di quanto la ricordasse. Inaspettatamente ricordò che era la madre di Nicholas; e dopo un istante provò una fitta di pietà per lei. Le emozioni lo tradirono e questo lo irritò: represse l'impulso di commiserazione. Non ricordava di aver mai provato un sentimento così snervante verso un soggetto, neppure nelle celle degli interrogatori sotto la Lubyanka o davanti ai cavalletti di tortura nella giungla del Congo. La collera si ritorse verso se stesso, poi verso di lei. Era lei la responsabile di quella debolezza momentanea. Nascose la collera, come avrebbe riparato con le mani la fiamma di un cerino in una notte di vento. Isabella credette di aver scorto un movimento indistinto dietro le persiane dell'alta torre. Ma doveva essere uno scherzo dell'immaginazione. La donna che la scortava le toccò il braccio e disse, in un inglese dall'accento appena percettibile: «Venga. Ora entriamo». Isabella abbassò lo sguardo dalla torre alla porta di teak scolpita nell'istante in cui si apriva. C'era un'altra donna ad attenderla. Isabella si abbottonò la giacca del tailleur grigio, quasi dovesse proteggerla come un usbergo di maglia di ferro. Spinse le spalle all'indietro ed entrò. L'interno era semibuio e fresco. Sul pavimento di pietra c'erano tappeti logori e dai colori cupi, e i mobili erano scuri e pesanti. Le porte erano di quercia nera, tempestate di borchie; le finestre avevano grate e persiane. Nella casa regnava un'atmosfera tetra e scostante che la fece indugiare nell'atrio. «Da questa parte!» La donna la condusse in una piccola anticamera; la sua accompagnatrice la seguì, reggendo l'unica valigia e il grosso pacco che Isabella aveva portato con sé. Posò valigia e pacco sul massiccio tavolo di quercia, poi chiuse la porta. «Le chiavi.» Tese la mano. Isabella frugò nella borsetta e gliele porse. Metodicamente, le due donne esaminarono il contenuto della valigia. Si capiva subito che erano esperte in quel compito. Aprirono ogni indumento ed esaminarono le cuciture e le fodere. Stapparono ogni barattolo di cosmetici e vi frugarono con un ferro da calza. Palparono ogni tubetto e tolsero le batterie dal rasoio elettrico che Isabella usava per depilarsi le ascelle. Controllarono i tacchi delle scarpe di ricambio e la fodera della valigia. Poi rivolsero l'attenzione al pacco. Conteneva il regalo che aveva portato per Nicholas. Una tese la mano per prendere la borsetta e Isabella gliela passò. La esaminarono con la stessa attenzione. «Si spogli, prego.» Isabella scrollò le spalle e cominciò a svestirsi. Le donne presero ogni indumento e l'esaminarono minuziosamente. Tolsero le imbottiture dalle spalle della giacca e controllarono la fodera del reggiseno. Quando fu completamente nuda, una delle donne ordinò: «Alzi le braccia».
Obbedì e poi, con suo orrore, una delle donne infilò sulla mano destra un guanto chirurgico e intinse due dita in un barattolo di vaselina. «Si volti», ordinò. «No.» Isabella scosse la testa. «Vuol vedere il bambino?» chiese la donna, tendendo le due dita inguantate ed unte di vaselina. «Si volti.» Isabella rabbrividì e si sentì accapponare la pelle. «Per favore», mormorò. «Le do la mia parola. Non nascondo niente. Questo non è necessario.» «Si volti.» La voce della donna non cambiò. Isabella si voltò lentamente. «Ora si chini», disse la donna. «Metta le mani sul tavolo.» Isabella si chinò e strinse il bordo del tavolo, con forza. «Allarghi i piedi.» Isabella comprese che era un'umiliazione voluta. Faceva tutto parte del processo. Tentò di chiudere la mente, ma si lasciò sfuggire un grido quando sentì le dita della donna che frugavano dentro di lei, e fece per scostarsi. «Stia ferma.» Si morse le labbra e chiuse gli occhi. Il controllo fu lento e scrupoloso. «Bene.» La donna si allontanò. «Si rivesta.» Isabella aveva le guance rigate di lacrime. Prese un fazzolettino di carta dalla tasca della giacca e le asciugò. Erano lacrime di furore. «Aspetti qui.» La donna si tolse il guanto e lo buttò nel cestino. Poi tutte e due uscirono e chiusero la porta a chiave. Isabella si vestì in fretta e sedette sulla panca. Le tremavano le mani. Le strinse a pugno e le infilò nelle tasche della giacca. La fecero aspettare per quasi un'ora. Ramon aveva assistito alla perquisizione ed all'ispezione personale dal piccolo schermo della telecamera a circuito chiuso. La telecamera era sistemata in modo da permettergli di vedere bene la faccia di Isabella durante l'intero processo. E la sua espressione gli dava motivo d'inquietudine. Aveva sperato, ma senza contarci troppo, che fosse intimidita nel modo più completo. Invece vedeva quel furore freddo negli occhi, la linea ostinata della mascella. La studiò con attenzione, avvicinandosi allo schermo. Era una furia omicida o suicida? Non poteva esserne certo. In quel momento Isabella alzò la testa e fissò direttamente l'obiettivo della telecamera nascosta. La riconobbe; e Ramon la vide ritrovare l'autocontrollo. Un velo scese sugli splendidi occhi blu, e l'espressione divenne neutra. Ramon si raddrizzò con un sorriso. Come aveva sempre sospettato, non era possibile spingere il soggetto oltre un certo limite. E intuiva che quel limite era ormai molto vicino. La donna era sull'orlo della ribellione. Questo richiedeva un cambiamento di tattica. Benissimo: era preparato. Un cambiamento era una buona procedura, perché confondeva e disorientava il soggetto. Ramon era sempre flessibile e versatile. Si staccò dallo schermo e ordinò a voce bassa: «Porta il bambino». Adra entrò dalla stanza accanto, conducendo per mano Nicholas. Ramon lo studiò con la stessa attenzione che aveva dedicato alla madre del piccino. Adra gli aveva lavato i capelli quella mattina. I riccioli lucenti e vivaci gli ricadevano sulla fronte. Gli aveva fatto indossare una semplice camicia a maniche corte e calzoncini di cotone. Era snello e abbronzato, le labbra erano
di un delicato color rosa, le sopracciglia scure s'incurvavano sui grandi e solenni occhi. Avrebbe spezzato il cuore a qualunque madre. «Ricordi quello che ti ho detto, Nicholas?» «Sì, padre.» «Farai conoscenza con una signora molto gentile. Ti vuole molto bene. Ha un regalo per te. Sarai cortese con lei e la chiamerai mamma.» «Mi porterà via da Adra?» «No, Nicholas. E' venuta solo per parlarti per un po' e consegnarti il regalo. Poi se ne andrà. Sarai gentile con lei? Se lo sarai, stasera Adra ti lascerà vedere un cartone di Picchiatello alla televisione. Ti piacerebbe?» «Sì, padre.» Nicholas sorrise, felice di quella promessa. «Ora va'.» Ramon si voltò di nuovo verso la finestra e guardò tra le persiane. Nel cortile sotto di lui una delle donne del KGB stava conducendo Isabella verso la panca accanto alla piscina. La sua voce giunse nitida, amplificata dal microfono direzionale puntato verso di lei dall'addetta alle comunicazioni. «Aspetti qui. Ora verrà il bambino.» La donna le voltò le spalle ed Isabella sedette sulla panchina. Prese gli occhiali da sole dalla borsa e li mise. Dietro le lenti scure, studiò ciò che la circondava. Ramon premette il tasto della trasmissione del walkie-talkie. «A tutte le postazioni, qui il Numero Uno. All'erta. Il contatto è in corso.» A parte le apparecchiature di sorveglianza elettronica, in quel momento erano puntati su Isabella un fucile di precisione Dragunov da 7,62 mm e un fucile a dardi. Questo era caricato con il Tentanyl, e poteva immobilizzare in due minuti una vittima umana. Ramon teneva a portata di mano, come antidoto, due fiale di Nalorphine da 10 milligrammi. Non voleva correre il rischio di perdere un agente prezioso come Rosa Rossa. All'improvviso Isabella si alzò e guardò il lato opposto del cortile. Ramon abbassò gli occhi. Proprio sotto la torre erano comparsi Adra e Nicholas: vedeva la sommità delle loro teste. Con uno sforzo immane, Isabella si trattenne dall'attraversare correndo il prato per prendere il figlio tra le braccia. Intuiva che un simile gesto da parte sua avrebbe confuso e allarmato il bambino. A quell'età, nessun ragazzino sopportava di essere trattato come un marmocchietto. Isabella aveva studiato il libro del dottor Spock fino a sciuparlo. Si tolse gli occhiali e restò immobile. Nicholas, che continuava a stringere la mano di Adra, la studiò con grande interesse. Isabella aveva creduto di essere preparata al suo aspetto. L'ultima foto che aveva di lui risaliva appena a due mesi prima, ma era diversa dalla realtà. Non riusciva a rendere il colorito, la finezza della pelle, i riccioli... e gli occhi. Oh, quegli occhi! «Oh, Dio», mormorò. «E' un bimbo meraviglioso. Non può esisterne un altro come lui. Dio, ti prego, fai che mi voglia bene.» «Buenos dias, señorita Bella», disse Adra in spagnolo. «A Nicholas piace nuotare. Ci sono i costumi per tutti e due, se vuol nuotare con lui. Sono nella cabana.» Indicò la porta dello spogliatoio della piscina. «Può cambiarsi là dentro.» Poi guardò Nicholas. «Saluta la signora tua madre», gli disse gentilmente e gli lasciò la mano. Poi uscì a passo svelto dal cortile. Madre e figlio rimasero soli. Nicholas non aveva sorriso e non aveva staccato gli occhi dal volto d'Isabella. Ora si fece avanti e le tese la mano. «Buongiorno, mamma, mi chiamo Nicholas Machado e sono lieto di conoscerti.»
Isabella avrebbe voluto lasciarsi cadere in ginocchio e stringerlo con tutte le sue forze. La parola mamma le aveva trapassato il cuore come una baionetta. Invece gli prese la mano e la strinse. «Sei un bel giovanotto, Nicholas. Ho sentito che vai molto bene, all'asilo.» «Sì», disse Nicholas. «E l'anno prossimo mi iscriverò ai giovani pionieri.» «Oh, bene.» Isabella annuì. «Chi sono i giovani pionieri, Nicholas?» «Lo sanno tutti.» Il bimbo era chiaramente divertito della sua ignoranza. «Sono i figli e le figlie della rivoluzione.» «Magnifico.» Isabella proseguì in fretta: «Ti ho portato un regalo». «Grazie, mamma.» Gli occhi di Nicholas si volsero verso il pacco. Isabella sedette sulla panchina e gli porse il dono. Il bambino si accosciò davanti a lei e l'aprì con attenzione. Poi rimase in silenzio. «Ti piace?» chiese nervosamente Isabella. «E' un pallone per il calcio», sentenziò Nicholas. «Sì. Ti piace?» «E' il più bel regalo che ho mai avuto», disse il bambino. Alzò il viso, e lei gli lesse negli occhi che, nonostante quel modo di parlare così formale, lo pensava davvero. E' un vecchietto tutto autocontrollo, pensò. Quali avvenimenti terribili, quali incubi l'hanno fatto diventare così? «Io non ho mai giocato al calcio», disse Isabella. «M'insegni?» «Sei una donna.» Nicholas sembrava dubbioso. «Però mi piacerebbe provare.» «Bene.» Il bambino si alzò con il pallone sotto il braccio. «Ma devi toglierti le scarpe.» In pochi minuti tutte le riserve del bambino svanirono. Gridava eccitato mentre dribblava e rincorreva la palla. Era agile come un topolino dei campi; e Isabella lo inseguiva ridendo con lui e obbedendo alle sue istruzioni. Lasciò che segnasse cinque gol fra le gambe della panchina. Quando, alla fine, si lasciarono cadere sul prato, Nicholas dichiarò ansimando: «Sei proprio brava... per una donna». Misero i costumi da bagno, e Nicholas diede spettacolo. Prima fece una vasca nuotando come un cagnolino, e quando Isabella lo coprì di elogi, le disse: «So attraversare sott'acqua. Stai a vedere». Arrivò quasi ad attraversare in immersione la piscina nel senso della larghezza e riemerse a poca distanza dal bordo, tutto sbuffante e rosso in faccia. Isabella, seduta sui gradini dell'estremità meno profonda, provò un momento di ripugnanza fisica quando ricordò l'ultima volta che aveva visto il figlio sott'acqua; ma riuscì a sorridere ed a fingersi entusiasta. «Oh, bravissimo, Nicholas.» Il bambino la raggiunse sbuffando e, senza che nulla lo lasciasse presagire, le sedette sulle ginocchia. «Sei carina», disse. «Mi piaci.» Delicatamente, come se temesse di rompere un cristallo prezioso, lei lo cinse con le braccia. Sotto il velo freddo dell'acqua il suo corpo era caldo, e Isabella si sentiva mancare il cuore. «Nicholas», mormorò. «Oh, piccolo mio. Ti voglio tanto bene. Mi manchi tanto.» Il pomeriggio passò come un fulmine. Poi Adra venne a riprenderlo: «Nicholas deve cenare. Vuoi mangiare con lui, señorita?» Mangiarono all'aperto, a un tavolo che Adra apparecchiò nel
cortile. Mangiarono besugo, un pesce dell'Atlantico, e insalate. C'era un bicchiere di spremuta d'arancia per Nicholas e uno sherry per lei. Isabella fece a pezzi la polpa del pesce per togliere le spine, ma Nicholas mangiò da solo. Mentre il bambino finiva il gelato, la vista di Isabella cominciò a offuscarsi. Sentiva un ronzio nelle orecchie ed il viso di Nicholas sembrava ingrandito e sfuocato. Adra la sorresse prima che scivolasse dalla sedia, e Ramon uscì dalla porta dietro di lei, seguito dalle due agenti del KGB. «Sei stato bravo, Nicholas», disse Ramon. «Ora Adra ti porterà a letto.» «Che cos'ha la signora?» «Non ha niente», rispose Ramon. «Ha molto sonno. Anche tu hai sonno, Nicholas.» «Sì, padre.» Il bambino sbadigliò e si fregò gli occhi. Adra lo condusse via e Ramon fece un cenno alle due donne. «Portatela nella stanza.» Mentre le agenti del KGB sollevavano Isabella, Ramon prese dalla tavola il bicchiere di sherry vuoto e asciugò con il fazzoletto le ultime tracce del sonnifero. Isabella si svegliò in una camera da letto che non conosceva. Si sentiva riposata e serena. Il primo sole filtrava fra le stecche delle persiane. Batté le palpebre e si strinse il lenzuolo sulle spalle nude. Si chiese pigramente dov'era; ma aveva la memoria confusa. All'improvviso si accorse d'essere completamente spogliata. Alzò la testa. I suoi indumenti erano piegati in ordine sulla sedia accanto alla porta aperta del bagno. La valigia era sul ripiano dei bagagli. Poi, con la coda dell'occhio, scorse un movimento. S'irrigidì e si svegliò completamente. Nella stanza c'era un uomo. aprì la bocca per urlare ma lui le indicò di tacere con un cenno imperioso. «Ram...» Isabella cominciò a pronunciare il nome; ma con due passi rapidi lui si accostò al letto e le coprì la bocca con la mano. Lo fissò, stordita e frastornata. Ramon! La gioia crebbe in lei come una marea primaverile. Ramon la lasciò, si accostò alla parete più vicina, dove era appeso un quadro a olio nello stile di Goya. Lo girò a lato e rivelò un microfono nascosto grande come un dollaro d'argento e fissato alla parete. Ancora una volta le fece segno di tacere e tornò indietro. Tolse il paralume dalla lampada sul comodino e le mostrò il secondo microfono sul supporto. Poi si chinò, così vicino da sfiorarle la guancia con l'alito caldo. «Vieni.» Le toccò la spalla nuda attraverso il lenzuolo. Era passato tanto tempo che, nonostante la felicità, Isabella si sentiva stranita e timida in sua presenza. «Ti spiegherò... vieni.» Gli occhi di Ramon erano così colmi di sofferenza che Isabella sentì venir meno la gioia. Lui le prese la mano e la fece alzare, senza incontrare resistenza. La condusse, nuda, nel bagno. Dimentica della propria nudità, Isabella vacillava un poco per gli effetti ritardati del sonnifero. In bagno, Ramon fece scorrere l'acqua del gabinetto, aprì i rubinetti del lavabo e della vasca e fece spiovere l'acqua della doccia nella cabina di vetro. Poi le tornò accanto. Lei indietreggiò, timorosa di toccarlo, e premette la schiena nuda contro le piastrelle. «Cosa è successo? Sei uno di loro, Ramon? Sono così confusa. Ti prego, dimmi che cosa sta succedendo.»
Il volto meraviglioso si contrasse in una smorfia di sofferenza. «Sono nelle tue condizioni. Devo collaborare... per Nicky. Non posso spiegarti ora... sono forze più grandi di noi. Tutti e tre siamo finiti nella rete. Oh, amor mio, quanto ho desiderato abbracciarti e spiegarti tutto! Ma ho così poco tempo.» «Ramon, dimmi che mi ami ancora», bisbigliò timidamente Isabella. «Sì, tesoro mio. Ti amo più che mai. So che inferno dev'essere stata la tua vita. Ne sono stato partecipe in ogni momento. So cosa devi aver pensato di me. Un giorno capirai che tutto ciò che ho fatto è stato per Nicky e per te.» Isabella desiderava credergli, disperatamente. «Molto presto», mormorò lui, prendendole il viso tra le mani, «molto presto saremo insieme, solo noi tre... tu, io e Nicky. Devi fidarti di me.» «Ramon!» Con un singhiozzo soffocato gli cinse il collo con le braccia e gli si aggrappò con tutte le sue forze. Contro ogni ragione ed ogni logica, gLi credeva completamente. «Possiamo stare insieme solo pochi minuti. Non possiamo rischiare. E' troppo pericoloso. Non immagini in quale pericolo terribile si trova Nicky.» «E anche tu.» La voce di Isabella tremava. «La mia vita non conta. E' Nicky...» «Tutti e due», l'interruppe lei. «Mi siete così preziosi, tutti e due.» «Promettimi che non farai nulla che possa danneggiare Nicky.» Ramon la baciò sulla bocca. «Ti prego, fai tutto ciò che ti dicono. Non continuerà ancora per molto. Farò in modo di liberarci tutti, se mi aiuterai. Ma devi fidarti di me.» «Oh, amor mio! Oh, tesoro! Lo sapevo, lo sapevo che doveva esserci una ragione. Naturalmente mi fido di te, cuor mio.» «Devi essere forte, per tutti noi.» «Te lo giuro.» Isabella annuì energicamente, con il viso rigato dalle lacrime. «Oh, Dio, come ti amo. Ho dovuto reprimere il mio amore per tanto tempo.» «Lo so, cara, lo so.» «Ti prego, ti prego, Ramon, fai l'amore con me. Ho dovuto fare a meno di te per tanti anni. Stavo appassendo. Fai l'amore con me prima di andartene.» Ramon la prese in fretta; ma lei si sentì squassata, come travolta dai venti di un uragano. Quando se ne fu andato dopo un ultimo, lungo bacio, le gambe non la sostennero più. Si lasciò scivolare lentamente lungo la parete piastrellata e sedette sul pavimento. I rubinetti scrosciavano, e nubi di vapore riempivano il locale. Non capiva. Non doveva capire, non se ne curava più. Le sole cose che contavano erano Nicky e Ramon. «Oh, grazie a Dio», mormorò. «Non era vero. Tutti quegli orrori non erano veri. Ramon mi ama ancora. E tutti e tre usciremo da questa storia e staremo insieme, prima o poi.» Si rialzò con uno sforzo. «Ora devo riprendermi. Non devono sospettare...» Si avviò barcollando verso la doccia. Era ancora in mutandine e reggiseno quando la donna che l'aveva scortata dall'aeroporto entrò senza bussare. Guardò Isabella in un modo che la fece rabbrividire e la incitò ad indossare in fretta la gonna del tailleur grigio. «Cosa vuole?» «Fra venti minuti partirà per l'aeroporto.» «Dov'è Nicky? Dov'è mio figlio?» «Il bambino se n'è andato.» «Voglio vederlo. Per favore.» «Impossibile. Se n'è andato.» Isabella sentì svanire l'euforia e la speranza suscitate dal breve
interludio con Ramon. L'incubo ricominciava, pensò, e cercò di farsi forza per resistere alla disperazione. «Devo fidarmi di Ramon. Devo essere forte.» La donna sedette accanto a Isabella sul sedile posteriore della Cortina durante il tragitto di ritorno all'aeroporto. Era una mattinata calda e la macchina non aveva l'aria condizionata. La donna esalava un odore acre, mascolino. Isabella era sul punto di vomitare. Abbassò il vetro del finestrino e lasciò che il vento le soffiasse sul viso. L'autista si fermò davanti al terminal delle partenze internazionali e andò ad aprire il portabagagli per prendere la valigia di Isabella. La donna parlò per la prima volta da quando avevano lasciato l'hacienda. «Per lei», disse, e le consegnò una busta chiusa senza indirizzo. Isabella aprì la borsa e vi mise la busta. La donna guardava davanti a sé. Non disse una parola di saluto. Isabella scese dalla Cortina e prese la valigia. L'autista sbatté la portiera e ripartì. Ferma in mezzo alla folla di turisti, Isabella si sentiva sola, più sola e spaventata di quanto lo fosse prima di rivedere Nicky e Ramon. «Devo fidarmi di lui», ripeté a se stessa in una litania di fede, e andò al banco del check-in dell'Iberian. Nella sala di prima classe, andò nel gabinetto delle signore e si chiuse dentro. Sedette sull'asse e aprì la busta. Rosa Rossa, accerti con precisione lo stadio raggiunto nello sviluppo di un ordigno esplosivo atomico da parte dell'ARMSCOR e dell'istituto di ricerche nucleari di Pelindaba. Riferirà il luogo che è stato scelto e la data del collaudo preliminare dell'ordigno. All'arrivo di questi dati verrà organizzato un altro incontro con suo figlio. La durata dell'incontro dipenderà dall'importanza e dal valore delle informazioni che consegnerà. Come al solito il messaggio non era firmato, ed era battuto a macchina su un foglio di carta bianca. Isabella lo fissò senza vederlo. «Sempre peggio», mormorò. «Prima i radar.» Non le era parso tanto terribile. Il radar era un'arma difensiva... Ma questo? Una bomba atomica? Sarebbe mai finita? Scosse la testa. «Non posso... Dirò loro che non posso.» Suo padre non aveva mai neppure accennato a un possibile interesse per l'istituto di Pelindaba. Non aveva mai visto un fascicolo od una lettera che si riferisse a un ordigno esplosivo nucleare. Aveva letto sui giornali che le ricerche di Pelindaba riguardavano la raffinazione e la lavorazione dell'enorme produzione nazionale di uranio e la creazione di un reattore per una centrale elettrica nucleare; il Primo ministro aveva assicurato ripetutamente che il Sudafrica non intendeva costruire la bomba. Nonostante questo, gli ordini non le imponevano di accertare se la costruzione era in corso. Questo veniva dato per scontato. Le ordinavano di scoprire dove e quando sarebbe stato sperimentato il primo ordigno. Incominciò a strappare il messaggio con movimenti nervosi. «Non posso», mormorò. Si alzò e sollevò l'asse del gabinetto, vi buttò i pezzetti di carta uno dopo l'altro, e fece scorrere l'acqua. «Dirò loro che non posso.» Ma la sua mente era già all'opera. Dovrò lavorarmi pater, pensò. E subito incominciò a preparare un piano. Isabella aveva lasciato il paese per cinque giorni appena, per
il viaggio in Spagna. Ma Nana era in collera e arricciava il naso davanti alla sua fiacca giustificazione per quella partenza nel pieno della campagna elettorale. Il venerdì prima della votazione il Primo ministro John Vorster parlò a un'assemblea nel municipio di Sea Point per sostenere la candidata del partito Nazionale. Centaine Courteney-Malcomess aveva dovuto far ricorso a tutta la sua abilità per convincerlo ad annullare altri due impegni importanti per venire a tenere il discorso. La macchina organizzativa del partito sapeva bene che Sea Point era un collegio sicuro dell'opposizione e che la presentazione di una candidatura era un pro forma; perciò era riluttante a prestare il suo prestigio e il suo calibro. Ma Centaine la spuntò, come succedeva di solito. La sala consiliare era strapiena di gente accorsa per sentire parlare il Primo ministro. L'assemblea incominciò con le solite interruzioni da parte di molti presenti, ma tutto rimase entro i limiti della bonarietà. Isabella parlò per prima. Fu un discorso breve, dieci minuti, e fu il migliore che avesse tenuto nell'intera campagna. Aveva acquisito esperienza e sicurezza nelle settimane precedenti, e il viaggio in Spagna sembrava averla rivitalizzata. Nana e Shasa avevano esaminato il testo con lei, e Isabella s'era allenata a recitarlo in loro presenza: erano due veterani della politica e le avevano dato suggerimenti preziosi. Sul podio, di fronte alla sala affollata, Isabella, così esile e decisa, così giovane e graziosa, sembrava incantare gli ascoltatori. Alla fine l'applaudirono cordialmente, mentre John Vorster le stava a fianco, rosso in faccia e benevolo, e annuiva con aria di approvazione. La sera del mercoledì seguente, Shasa e Nana stavano al fianco di Isabella e sfoggiavano le coccarde con i colori del partito, quando furono letti i risultati della consultazione. Non vi furono sorprese. Il partito Progressista aveva riconquistato il seggio, ma Isabella era riuscita a ridurre il margine di vantaggio a soli milleduecento voti. I suoi sostenitori la portarono fuori issandola sulle spalle come se fosse stata vittoriosa, non sconfitta. Una settimana dopo, John Vorster la invitò a un incontro nel suo ufficio nel palazzo del parlamento. Isabella conosceva bene quell'edificio. Quando suo padre era stato ministro nel governo di Hendrik Verwoerd, aveva avuto l'ufficio a quel piano, poco lontano dal Primo ministro. Durante la permanenza in carica, Shasa l'aveva lasciata libera di servirsi dell'ufficio, e lei l'aveva usato come un club ogni volta che si trovava nel centro di Città del Capo. Ripercorrere quell'ampio corridoio risvegliava tanti ricordi. Da adolescente non aveva saputo comprendere l'atmosfera storica di cui era intriso quel vecchio, magnifico palazzo. Ora che le aspirazioni politiche le erano state imposte contro la sua volontà, era affascinata dai ritratti dei grandi uomini che ornavano le pareti. Il Primo ministro la fece attendere pochissimi minuti, e quando lei entrò nell'ufficio si alzò per andarle incontro. «E' molto gentile a volermi vedere, Oom John», disse Isabella in afrikaans impeccabile. Era un po' un'impertinenza usare quel termine familiare senza essere invitata a farlo. Ma «Oom» era come dire zio e corrispondeva a un'espressione di grande rispetto, e la manovra riuscì. Gli occhi azzurri di Vorster brillarono in segno di approvazione. «Volevo congratularmi con lei per il buon risultato ottenuto a Sea Point, Bella», le rispose, e Isabella fremette di gioia. Il fatto che la chiamasse con quel vezzeggiativo era un buon
segno. «Stavo per prendere il caffè.» Vorster indicò il servizio d'argento e porcellana su un tavolo. «Le dispiace versare per tutti e due?» «Ora, signorina», disse poi con aria severa, guardandola al di sopra della tazza, «cosa intende fare, dato che non entrerà in parlamento?» «Ecco, Oom John, lavoro con mio padre...» «Certo, lo so», l'interruppe il Primo ministro. «Ma non possiamo lascîare che sprechi un notevole talento politico. Ha mai pensato a un seggio al Senato?» «Al Senato?» Isabella deglutì e il caffè le scottò la lingua. «No, Primo ministro. Non ci ho pensato. Nessuno mi ha mai suggerito...» «Be', lo suggerisco io. Il mese prossimo il vecchio Kleinhans si ritirerà e dovrò nominare qualcuno che prenda il suo posto. Potrà bastare, fino a che le avremo trovato un seggio sicuro nella camera bassa.» Il Senato era la camera alta legislativa della Repubblica Sudafricana. Aveva compiti simili a quelli della Camera dei Lord, il potere di veto sulle leggi controverse e quello di rimandarle alla camera bassa. Era stato ampliato considerevolmente negli anni '50, quando l'allora Primo ministro Malan aveva deciso di togliere il diritto di voto agli elettori di colore che l'avevano. Aveva riempito la camera alta di senatori scelti da lui, per far passare la legge che toglieva ai coloured il voto. Alcuni dei seggi del Senato erano ancora a disposizione del Primo ministro che poteva assegnarli come voleva, e Vorster gliene offriva uno. Isabella posò la tazza del caffè e lo fissò, ammutolita, mentre cercava di seguire quel nuovo sviluppo. «Accetta la nomina?» chiese Vorster. Era una scorciatoia meravigliosa, che neppure Shasa e Nana avevano sognato. Anche Hendrik Verwoerd aveva incominciato la carriera politica in Senato. A ventotto anni, lei sarebbe stata sicuramente il più giovane e brillante e senza dubbio anche il più attraente dei senatori. Dopo la nomina sarebbe sicuramente entrata a far parte di varie commissioni parlamentari. E se si fosse dimostrata abile ed efficiente anche solo la metà di quel che sapeva di essere, il partito Nazionale l'avrebbe trasformata nella sua figura politica femminile di punta. L'ingresso negli ambienti più ristretti del potere e l'accesso ai segreti di stato più riservati sarebbero venuti molto presto. «Mi fa un grande onore, Primo ministro.» La sua voce era un sussurro. «So che servirà il suo paese con onore ancora più grande.» Vorster le tese la mano. «Congratulazioni, senatore.» Mentre gli stringeva la mano, Isabella sentì le dita diacce del rimorso scorrerle lungo la spina dorsale. Era il gelo del tradimento. Lo scacciò con uno sforzo. Subito venne la reazione... con uno slancio di ottimismo comprese che adesso la Rosa Rossa era diventata preziosissima per i suoi padroni. Fra poco tempo avrebbe potuto imporre le sue condizioni e pretendere le ricompense che voleva. Nicky e Ramon, pensò. Ramon e Nicky. Ormai avverrà presto. Molto prima di quanto avremmo creduto possibile. E saremo di nuovo insieme. Isabella aveva imparato ad amare la grandiosità austera del Karoo. Shasa aveva acquistato l'immenso allevamento di pecore quando lei era ancora piccola. Alla prima visita aveva detestato quelle colline di pietra e quelle pianure minacciose che si estendevano
verso l'orizzonte lontano velato dal sole e dalla polvere fino a nascondere la congiunzione tra la terra e il cielo latteo e luminoso. Poi, da adolescente, aveva letto Le pianure di Camdeboo di Eve Palmer e aveva cominciato a capire che il Karoo era in realtà un mondo meraviglioso. Con il padre era andata in cerca di fossili nei luoghi che una volta, nell'era dei grandi rettili, erano stati un'immensa palude e che ora erano affiorati, e aveva visto con stupore e soggezione le ossa e le zanne pietrificate. L'allevamento si chiamava Dragon's Fountain in onore di quegli esseri terribili e della sorgente d'acqua pura che sgorgava da una grotta alla base d'una delle montagne piatte. La muraglia di roccia rossa torreggiava sopra la grande casa con i prati verdi e i giardini lussureggianti alimentati dalla sorgente. Avvoltoi e aquile facevano il nido tra le rocce, e le loro deiezioni imbiancavano il precipizio corroso dal vento. L'allevamento si estendeva su sessantamila acri di affascinante territorio selvaggio. Ai greggi di pecore merino si mescolavano grandi branchi di springbok. Le piccole, eleganti antilopi danzavano sulle pianure come sbuffi di polvere portata dal vento. I corpi delicati erano d'un color cannella chiaro, segnato da barre cioccolata e bianche. Le belle teste e le corna a lira le facevano preferire a Isabella tra gli esseri che popolavano le pianure di Camdeboo. Pecore ed antilopi prosperavano nutrendosi dei bassi, duri arbusti del deserto, e quella dieta conferiva alla loro carne un sapore di salvia e di erbe aromatiche. Ogni inverno, all'inizio della stagione di caccia, Shasa invitava a Dragon's Fountain un gruppo di amici per partecipare allo sfoltimento annuale dei branchi di springbok. Se nel Karoo cadevano più di cento millimetri di pioggia, l'annata veniva considerata buona; e allora le femmine di springbok figliavano due volte. La conseguenza era un'esplosione dei branchi che doveva essere frenata. In un anno del genere, si rendeva necessario uccidere mille capi per proteggere dalle devastazioni la fragile vegetazione del deserto. Garry condusse un gruppo di amici da Johannesburg. La pista d'atterraggio di Dragon's Fountain era stata ampliata e asfaltata per poter accogliere il nuovo Lear a reazione,mentre Shasa portava gli altri invitati da Città del Capo con il Queenair bimotore. Isabella non aveva potuto lasciare Città del Capo prima della sospensione dei lavori del Senato. Quindi partì con Nana a bordo della Porsche argentea che il padre le aveva regalato in occasione del ventinovesimo compleanno per rimpiazzare la vecchia Mini. Le piaceva avere Nana come passeggera: raccontava sempre episodi interessanti che servivano a far passare il tempo e, diversamente da Shasa, non teneva d'occhio il tachimetro. A un certo punto, sul rettilineo tra Beaufort West e l'allevamento, Isabella aveva lanciato la Porsche a quasi duecentocinquanta all'ora senza che Nana pronunciasse una parola di protesta. Era metà pomeriggio quando si fermarono nello spiazzo della cucina di Dragon's Fountain. Servitori e cani accorsero da ogni parte per far loro un'accoglienza chiassosa. Quando finalmente Isabella si rifugiò nella sua stanza, Nanny stava già preparando il bagno e aprendo le tre valigie. «Dio, sono esausta, Nanny. Dormirò per una settimana.» «Non nominare il nome di Dio invano», l'ammonì cupamente Nanny. «Smettila, Nanny. Tu sei musulmana.» «Abbiamo gli stessi comandamenti», ribatté altezzosa la vecchia. «Dove sono tutti gli uomini?» Isabella si buttò sul letto. «Fuori, a caccia, naturalmente.»
«Ce n'è qualcuno simpatico, Nanny?» «Sì, ma sono sposati. Dovevi portarne uno tutto per te, signorina Bella.» Nanny s'interruppe. «Adesso che ci penso, ce n'è uno nuovo che non ha moglie.» Poi scosse la testa. «Non ti piacerà.» «Perché?» «Non ha un capello in testa.» Nanny sghignazzò allegramente. «Pelato come un uovo.» Nanny aveva ragione. L'uomo non solleticava la fantasia di Isabella, sebbene avesse un viso gentile e sensibile e bellissimi occhi scuri da ebreo. La testa calva rovinava tutto. Era abbronzata e lentigginosa come un uovo di piviere, con una fitta frangia di riccioli scuri nello stile di frate Tuck. Stava parlando con Garry sull'ampia veranda. Isabella si sentiva magnificamente, quando scese per il cocktail prima di cena. Era riuscita a dormire un'ora, dopo aver fatto un bagno caldo. Indossava un tubino di seta azzurra fintamente semplice e con una scollatura vertiginosa che attirava lo sguardo di tutti gli uomini presenti, scapoli e sposati. Andò a raggiungere Garry che non vedeva da mesi. «Il mio orsacchiotto», disse abbracciandolo. Garry le cinse la vita con un braccio e fece le presentazioni. «Bella, questo è il professor Aaron Friedman. Aaron, questa è la mia sorellina, senatore dottoressa Isabella Courteney.» «Oh, andiamo, Garry», protestò lei nel sentirlo elencare i suoi titoli, e strinse la mano di Friedman: aveva l'ossatura forte ma sottile, come la mano di un pianista o di un chirurgo. «Aaron è in vacanza sabbatica. Insegna all'università di Gerusalemme.» «Io amo Gerusalemme», disse cortesemente Isabella. «Anzi, amo Israele. E' un paese così eccitante, così ricco di storia e di religione.» Si occupò di Friedman ancora per un minuto, poi si allontanò in cerca del padre. Lo trovò circondato da tre delle signore più graziose, che ridevano delle sue battute di spirito. «Il mio bellissimo papà.» Lo baciò, poi gli prese il braccio con aria da padrona. Sapeva che insieme facevano una splendida figura; e come al solito diventarono subito il centro del piccolo, elegante raduno. Bevvero lo champagne, risero e chiacchierarono mentre il fulgido tramonto del Karoo illuminava le colline di uno splendore rosso e incendiava le nubi. Uno degli uomini commentò distrattamente: «Ho ascoltato la radio mentre mi vestivo. A quanto pare gli etiopi hanno costretto Hailé Selassié ad abdicare». «Un maledetto branco di predoni», disse un altro. «Ero là con la Sesta Divisione durante la guerra... noi andavamo a piedi, purtroppo, mentre Shasa svolazzava con il suo Hurricane.» Shasa si toccò la toppa di seta nera. «A quel tempo la chiamavamo Abissinia. Eravamo andati per tenerli d'occhio, e mi venga un colpo se non ce ne ho rimesso uno.» Tutti risero, e un altro osservò. «Hailé Selassié era un vecchio straordinario. Chissà cosa succederà adesso.» «Quello che sta succedendo al resto dell'Africa nera... caos, confusione e comunismo, massacri, marasma e marxismo.» Vi fu un mormorio generale di approvazione; poi abbandonarono quell'argomento per rivolgere l'attenzione allo splendore dei momenti finali del tramonto. La notte scese con la rapidità di un sipario, e subito il freddo della sera si fece sentire attraverso gli abiti leggeri. Con tempismo perfetto, suonò il gong. Centaine si alzò dalla poltrona in fondo alla veranda per guidare tutti nella lunga sala da pranzo, dove la luce delle candele brillava sull'argento, e i cristalli e il
legno di noce levigato avevano una preziosa lucentezza antica. Isabella trovò il cartellino segna posto e guardò quelli a destra e a sinistra: Garry e Aaron Friedman. Accidenti, pensò. S'era accorta che la teneva d'occhio da quando Garry li aveva presentati. Ed era naturale che Nana l'abbinasse all'unico scapolo della compagnia. Aaron si affrettò a scostarle la sedia, e Isabella decise di mostrarsi cordiale con lui. Scoprì quasi subito che era un conversatore delizioso, dotato di uno spirito ironico e divertente. Non notò più la testa calva. Garry aveva conversato a lungo con la signora seduta accanto a lui, ma ad un certo punto si voltò e si sporse per parlare ad Aaron. «A proposito, se proprio devi tornare a Pelindaba lunedì pomeriggio, ti porterò io con il Lear.» Quando comprese il significato di quell'allusione noncurante, Isabella si sentì agghiacciare. L'istituto per le ricerche nucleari aveva sede a Pelindaba. «Ti senti bene, Bella?» Garry la osservava con aria preoccupata. «Certo.» «Per un momento hai avuto un'aria così strana.» «Sciocchezze, Garry. Ha lavorato d'immaginazione.» Ma Isabella stava riflettendo furiosamente, mentre Garry e Aaron si mettevano d'accordo. Quando Garry tornò a rivolgersi alla sua vicina di tavola, Isabella si era ricomposta. «Ho dimenticato di chiederle che cosa insegna, professore.» «Perché non mi chiama Aaron, dottoressa?» Lei sorrise. «Solo se mi chiama Isabella.» «Sono un fisico, Isabella. Un fisico nucleare. Molto noioso, purtroppo.» «Non dica così, Aaron.» Isabella gli toccò leggermente il polso. «E' la scienza del futuro, in guerra e in pace.» Si girò leggermente e si tese verso di lui in modo che la seta della scollatura si scostasse un poco. Non portava reggiseno. Quando Aaron spalancò gli occhi, lei comprese che le fissava il capezzolo. Gli lasciò altri due secondi prima di raddrizzarsi per interrompere lo spettacolo, e gli tolse le dita dal polso. In quei due secondi Aaron Friedman aveva subìto un cambiamento profondo. Era stregato. «Dov'è sua moglie, Aaron?» chiese Isabella. «Abbiamo divorziato quasi cinque anni fa.» «Oh, mi dispiace.» Isabella abbassò la voce in un mormorio roco e lo guardò negli occhi con aria di profonda comprensione. Più tardi, mentre si preparava ad andare a letto, sedette davanti al tavolo da toeletta e si guardò allo specchio mentre si struccava. «Israele, Pehndaba, fisica nucleare...» mormorò. «Deve avere a che fare con la bomba.» Negli ultimi due anni non era mai trascorso un mese senza che potesse inviare qualche informazione ai suoi padroni. Erano quasi sempre rapporti di routine e verbali di riunioni. Ma questo poteva affrettare il prossimo incontro con Nicholas. Durante la cena Aaron aveva confessato una grande passione per i cavalli e l'equitazione... ma con ogni probabilità avrebbe dichiarato di adorare le esplorazioni polari e di masticare lame di rasoio, se avesse pensato che era ciò che lei voleva sentire. Così avrebbe visto se sapeva stare in sella. Avevano appuntamento per uscire a cavallo l'indomani mattina presto. «Fin dove arriverai?» si chiese guardandosi allo specchio. Rifletté profondamente prima di rispondere: «Be', è molto divertente e simpatico, e dicono che gli uomini calvi abbiano una
libido tremenda». Poi fece una smorfia. «Sei una puttanella, no? Una vera Mata Hari.» Quando aveva quattordici anni suo fratello Sean le aveva insegnato una canzoncina scollacciata su Mata Hari. Come diceva? Si sforzò di ricordare. Imparò l'ubicazione d'una certa postazione al momento dell'emissione nella ventitreesima posizione. Quando gli aveva chiesto cosa voleva dire «emissione», Sean aveva ridacchiato maliziosamente, e lei aveva dovuto cercare la parola sul dizionario, che però non chiariva molto le cose. «Saresti disposta ad arrivare a tanto?» si chiese, e sorrise di nuovo. «Be', forse non fino alla ventitreesima posizione. La seconda o la terza dovrebbero bastare.» Ma sapeva che sarebbe stata disposta a fare di tutto per Nicky e Ramon. L'alba era ancora una pallida promessa ad oriente quando scese alle scuderie l'indomani mattina. Aaron la stava già aspettando in tenuta da equitazione. Il fatto che fosse attrezzato nel modo adatto era incoraggiante. Il mozzo di scuderia stava facendo camminare i cavalli sellati. A Dragon's Fountain gli animali non facevano abbastanza moto, e c'erano ricchi prati di erba medica e di avena irrigati dalla sorgente. Di solito, i cavalli erano molto vivaci, ma Isabella aveva ordinato di portare ad Aaron il castrone più tranquillo. Si augurava che riuscisse a farsi obbedire e rimase a osservare un po' inquieta mentre si avvicinava alla cavalcatura. Non avrebbe dovuto preoccuparsi. Aaron montò in sella, e si capì subito che vi stava saldamente e teneva il cavallo con mani gentili. Girarono intorno alle colline mentre il sole si affacciava all'orizzonte. Era abbastanza fresco perché Isabella si rallegrasse di aver indossato il giubbotto di cotone cerato. L'aria immobile aveva quella particolare luminosità del deserto che dava la sensazione di poter vedere fino all'estremità della terra. Gli avvoltoi lasciavano i nidi sulla parete rocciosa e volteggiavano sulle grandi ali eleganti. Lontano, sulla pianura, i branchi di springbok erano ancora innervositi dalla caccia del giorno prima. Allarmati, rizzavano il pelo candido lungo la spina dorsale e fuggivano, leggeri come fumo, tra i fiori violacei della salvia. L'aria pulita e dolce sembrava frizzante come champagne, e Isabella si sentiva allegra e spensierata. Quando i cavalli si furono scaldati, Isabella lanciò la sua al galoppo, lungo il vecchio fiume in secca, fino alla diga. Grandi stormi di oche egiziane si alzarono strillando dall'acqua fangosa quando si fermarono sulla riva. Isabella smontò e si soffregò un occhio, drammaticamente, con l'estremità della sciarpa di seta. Aaron balzò dalla sella con doverosa premura. «Tutto bene, Isabella?» «Ho qualcosa nell'occhio.» «Posso vedere?» Isabella alzò il viso, e lui lo prese delicatamente fra le mani per guardarle l'occhio. «Non vedo niente.» Lei batté le lunghe ciglia scure, e la prima luce del sole s'infranse in una miriade di punti di zaffiro nella profondità delle iridi. «Sicuro?» chiese lei. L'alito era dolce, e l'odore del suo corpo era pulito e virile. Isabella lo guardò negli occhi. Erano scuri e splendenti come miele selvatico bruciato. Aaron le toccò la palpebra inferiore e massaggiò delicatamente
il globo oculare attraverso la pelle. «Come va?» chiese, e lei batté di nuovo le ciglia. «Hai un tocco magico. Va molto meglio, grazie», e lo baciò con le labbra umide ed aperte. Aaron rabbrividì, poi si riprese in fretta e le cinse la vita. Isabella protése i fianchi e lasciò che per qualche secondo le esplorasse con la lingua l'interno della bocca. Nel momento in cui sentì il fremito nell'inguine dell'uomo, si staccò. «Facciamo a chi arriva prima alle scuderie.» Gli lanciò una calda risata sexy e balzò in sella con un movimento agile. Il castrone non era un avversario degno della sua cavalla baia; e inoltre aveva duecento metri di vantaggio. Durante i tre giorni che seguirono, Isabella trasformò la vita di Aaron Friedman in un tormento squisito. Gli toccava la coscia sotto il tavolo, a cena. Lasciava che la stringesse quando giocavano a pallanuoto nella piscina alimentata dalla sorgente. Con fare ingenuo, si assestava davanti a lui il reggiseno del bikini mentre stavano sdraiati sul prato e Aaron le leggeva Shelley. Quando la aiutava a salire sulla Land-Rover da caccia, faceva in modo di mostrargli le mutandine trasparenti Janet Reger che aveva indossato per l'occasione. Quando ballavano sulla veranda, muoveva pigramente le anche in ondeggiamenti lubrichi; e intrappolato tra loro c'era qualcosa che sembrava l'impugnatura di una mazza da cricket. La notte prima che Aaron lasciasse Dragon's Fountain per tornare nel Transvaal con Garry, gli permise di accompagnarla fino alla sua stanza e di augurarle la buonanotte davanti alla porta. Senza interrompere il bacio, Aaron la spostò fino a spingerla contro il muro e le sollevò la gonna fino alla cintura. Una volta trovato il ritmo, era davvero magistrale. A Isabella piacque; molto presto si accorse che ansimava quasi quanto lui. Non voleva che smettesse. La prima impressione era stata esatta, con quelle dita avrebbe dovuto diventare un pianista, e il suo tocco era leggero e artistico. Involontariamente, si ritrovò sulla soglia. «Perché non lasci aperta la porta, stanotte?» le sussurrò Aaron all'orecchio. Con uno sforzo, lei si strappò a una trance di desiderio e lo respinse. «Sei pazzo?» bisbigliò mentre si assestava la gonna con dita tremanti. «In casa ci sono tutti i miei... mio padre, mio fratello, mia nonna, la mia governante.» «Sì... sono pazzo... mi stai facendo impazzire. Ti amo. Ti voglio. E' una tortura, Bella. Non posso continuare così.» «Lo so», disse lei. «E' così anche per me. Verrò a JohanneSbUrg.» «Quando? Oh, dimmelo, amore!» «Ti telefonerò. Lasciami il tuo numero.» Isabella faceva parte della commissione senatoriale che indagava sulle pensioni dei dipendenti statali; e lei e altri due colleghi andarono a raccogliere prove e testimonianze nel Transvaal, il mese seguente. Raggiunse Johannesburg con la Porsche e fu ospitata da Garry e Holly nella loro splendida casa nuova di Sandton. Telefonò ad Aaron all'istituto di Pelindaba la mattina stessa dell'arrivo. Andò a prenderlo con la macchina e cenarono in un piccolo ristorante molto chic. Mentre mangiavano il cocktail di scampi, lo sondò abilmente per farlo parlare del lavoro che svolgeva all'istituto per le ricerche nucleari. «Oh, per la verità è molto noioso. Antiparticelle e quark.» Aaron era allegramente evasivo. «Sapevi che il nome deriva da una citazione di James Joyce, "Three Quarks for Muster Mark", e si dovrebbe pronunciare "Quart"?»
«Affascinante.» Gli toccò la coscia sotto il tavolo e Aaron le prese la mano. «Quello che fai dev'essere veramente molto duro», gli disse. «Sì.» Aaron le spostò le dita di qualche centimetro più in alto. «Appunto.» «Capisco cosa vuoi dire.» Isabella sgranò gli occhi. «Vuoi proprio andare a ballare dopo cena?» «Potremmo andare a casa mia a prendere il caffè.» «Non ho molta fame. Gli scampi mi sono bastati. Saltiamo il secondo», propose lei. «Cameriere, il conto per favore.» Aaron aveva un appartamento nel complesso residenziale dell'istituto. Sebbene la sorveglianza non fosse rigorosa come nella zona delle ricerche e del reattore, Aaron fu obbligato a mostrare il lasciapassare al cancello e Isabella dovette andare con lui nell'ufficio della sicurezza per firmare il registro dei visitatori e annotare tutto, inclusi il numero telefonico e l'indirizzo. La guardia la squadrò con aria saputa mentre le consegnava un «pass» per visitatori. Era rimasta troppo a lungo senza amare, e Aaron era un amante molto soddisfacente. All'inizio fu gentile e delicato, poi, via via che la passione di Isabella si accendeva sotto le sue labbra e le sue dita, diventò energico e imperioso. La spinse fino all'orlo mezza dozzina di volte e poi la trattenne all'ultimo istante, fino a farla gridare per la frustrazione. Quando finalmente Isabella precipitò oltre la cresta dell'onda si slanciò con lei e la fece discendere dolcemente. La tenne abbracciata, l'accarezzò e mormorò parole lusinghiere sino a che, compiaciuta, chiese con un sospiro felice: «Di che segno sei?» «Scorpione.» «Ah, sì... sono sempre amanti meravigliosi. La data?» «Sette novembre.» Al mattino fecero colazione insieme: uova strapazzate ed allegria. Quando Isabella accompagnò Aaron alla porta dell'appartamento perché doveva andare al lavoro, aveva indossato la giacca di uno dei pigiami di lui, con le maniche rimboccate e le falde che le arrivavano alle ginocchia. «Sistemerò tutto con la guardia all'ingresso principale... non dovrai andare prima d'essere pronta.» Aaron la baciò. «Anzi, se sarai ancora qui all'ora di pranzo, non mi dispiacerà affatto.» «Impossibile.» Lei scosse la testa. «Oggi devo lavorare.» Mise il catenaccio alla porta appena Aaron fu uscito. La cassaforte era nello studio. L'aveva cercata appena era entrata, la sera prima. Non era nascosta: anzi, era in piena vista accanto alla scrivania. Era una Chubb pesante e costosa del tipo usato dai gioiellieri, con una combinazione a sei cifre. Sedette a gambe incrociate davanti allo sportello. «Sette novembre», mormorò. «E ha quarantatré o quarantaquattro anni. Quindi è del 1931 o del 1932.» Riuscì al quarto tentativo. Aaron non aveva avuto neppure l'astuzia di Shasa che, almeno, aveva invertito la data di nascita. «Perché tanti uomini di genio sono così ingenui e idioti?» si chiese. Prima di aprire il pesante sportello d'acciaio, passò il dito intorno alla chiusura. C'era un pezzettino di nastro adesivo su un cardine. «Forse non è poi tanto idiota, dopotutto.» Evidentemente ad Aaron piaceva lavorare a casa. La cassaforte era piena di fascicoli, e quasi tutti avevano la copertina del caratteristico verde ARMSCOR. Dal giorno in cui a Rosa Rossa era stato affidato quell'incarico all'aeroporto di Madrid, Isabella aveva incominciato a studiare le armi nucleari e il loro sviluppo.
S'era fermata due giorni a Londra e li aveva trascorsi nella sala di lettura del British Museum. Aveva ancora la tessera dei tempi in cui era studentessa, Aveva letto tutti i volumi elencati su quell'argomento nel catalogo della biblioteca e aveva riempito due taccuini di appunti. Adesso, per una profana, aveva un'eccezionale conoscenza dei misteri del processo più temibile finora ideato dall'intelligenza infernale dell'uomo. Il fascicolo verde dell'ARMSCOR in cima al mucchio portava il timbro della massima sicurezza. Esistevano solo otto copie, e quella era la numero quattro. Sulla copertina erano elencati i nomi delle otto persone autorizzate a consultare il fascicolo, e includevano il ministro della Difesa e il comandante in capo delle forze armate, Shasa Courteney quale presidente dell'ARMSCOR, il professor A. Friedman e altri quattro che, a giudicare dalle qualifiche, erano tutti scienziati. Isabella riconobbe uno dei quattro: era il capo ingegnere elettronico dell'ARMSCOR, spesso ospite a Weltevreden. Non era strano che suo padre non le avesse mai fatto vedere quegli incartamenti. Il nome in codice scritto sulla copertina del fascicolo era «Progetto Skylight». Lo prese, stando attenta a non muovere niente altro nella cassaforte. L'aprì e incominciò a esaminarne il contenuto. Mentre raccoglieva il materiale per il dottorato, aveva appreso una tecnica di lettura rapida, e adesso girava le pagine con un ritmo svelto e regolare. La maggior parte del materiale era così tecnica da non avere alcun significato per lei, nonostante tutti i suoi studi. Ma capiva quanto bastava per rendersi conto che si trattava di una serie di rapporti sui progressi in atto a Pelindaba per l'arricchimento dell'isotopo di uranio più comune, l'Uranio zg8, con il fissionabile Uranio 235. Sapeva che era il passo fondamentale nella produzione delle armi a fissione nucleare. I rapporti erano in ordine cronologico; e prima di arrivare all'ultima pagina Isabella comprese che il successo era stato raggiunto quasi tre anni prima, e che era stato già accumulato Uranio 235 a sufficienza per fabbricare circa duecento ordigni esplosivi nucleari di una potenza che poteva giungere fino a cinquanta kilotoni. A quanto pareva, la massima parte era stata esportata in Israele in cambio dell'assistenza tecnica per la produzione dell'uranio. Isabella batté le palpebre. La bomba che aveva annientato Hiroshima, con i suoi venti kilotoni, aveva avuto una potenza inferiore alla metà di quella di uno degli ordigni. Posò il fascicolo e ne prese un altro. Si preoccupò di annotare l'ordine esatto e la posizione di ciascuno, per poterli rimettere nella cassaforte senza far sospettare che erano stati toccati. Continuò la lettura. Lo scopo principale del progetto Skylight era lo sviluppo d'una serie di testate nucleari tattiche di varia potenza e applicazione, che potevano essere lanciate non soltanto da aerei ma anche dall'artiglieria. Sapeva che l'ARMSCOR stava già costruendo un obice da 155 millimetri, designato come c5, che avrebbe potuto sparare un proiettile di quarantasette chili con un carico esplosivo di undici chili a una distanza massima di trentanove chilometri a livello del mare. Sarebbe stato il sistema ideale per una testata nucleare. Il rapporto assegnava un'alta priorità alla realizzazione di un proiettile nucleare per il c5. I princìpi fondamentali dell'arma nucleare erano noti a tutti. Bastava assemblare due masse subcritiche di uranio arricchito. Una era la carica femmina, con un recesso vaginale; la seconda era la carica maschio, che veniva lanciata per mezzo di un esplosivo convenzionale in modo da implodere nel recesso della carica femmina, a velocità tale da rendere instantaneamente supercritica l'intera massa e avviare la fissione.
C'erano tuttavia molti ostacoli e trabocchetti tecnici sulla strada della fabbricazione di un ordigno efficiente, soprattutto per quanto riguardava la creazione di una testata che pesava meno di undici chili e doveva essere contenuta nell'involucro di un proiettile d'artiglieria da 155 millimetri. Isabella esaminò in fretta la serie dei rapporti e dei documenti con un senso di eccitazione crescente. Provava un bizzarro orgoglio al pensiero dell'ingegnosità e della dedizione dell'équipe che stava sviluppando l'arma. Dozzine di volte riconobbe il tocco e l'influenza di suo padre quando leggeva in che modo era stato aggirato ogni trabocchetto e il progetto aveva acquistato slancio e si era avviato verso il successo. L'ultimo rapporto nel fascicolo portava la data di cinque giorni prima. Lo lesse in fretta e lo rilesse. La prima bomba atomica sudafricana sarebbe stata collaudata un po' meno di due mesi da quel giorno. «Ma dove?» mormorò disperatamente. Aprì un altro fascicolo, che le diede la risposta. Rimise nella cassaforte gli incartamenti nell'ordine in cui li aveva trovati e non dimenticò di ricollocare sul cardine il pezzetto di nastro adesivo e di rimettere a posto la combinazione della serratura nella stessa sequenza in cui l'aveva trovata. Erano stati necessari due anni di studi e di riflessioni per scegliere la località per l'esperimento. La prima considerazione aveva riguardato la contaminazione che avrebbe causato il fallout radioattivo. Il Sudafrica aveva una stazione meteorologica sull'isola Gough nell'Antartico. Avevano pensato a quella località, ma l'avevano subito scartata. Non solo la contaminazione sarebbe stata difficile da controllare, ma era scontato che l'esplosione sarebbe stata scoperta, prima o dopo il test. Molti altri, soprattutto gli australiani, erano interessati a quel continente desolato e bellissimo ai piedi del mondo. Per motivi di sicurezza, quindi, l'esperimento si doveva svolgere sul territorio nazionale o nello spazio aereo sudafricano. L'idea di un collaudo aereo era stata abbandonata molto presto: anche in quel caso c'era il rischio di venire scoperti, e il pericolo della contaminazione del fallout sarebbe stato un suicidio. Alla fine si era optato per un esperimento sotterraneo. Le miniere d'oro sudafricane sono le più profonde del mondo. Da sessant'anni i sudafricani erano all'avanguardia nelle tecniche minerarie di profondità; e alle miniere erano associate l'arte e la scienza delle trivellazioni. La Courteney Enterprises era proprietaria della Orion Explorations, una società specializzata in tali attività. I vecchi maghi della Orion erano capaci di scavare fino a oltre tre chilometri e di portare in superficie campioni di roccia. Sapevano effettuare una perforazione diritta o inclinata, o scendere per due chilometri e mezzo e poi deviare con un angolo di quarantacinque gradi. Quell'abilità incredibile ispirava a Shasa Courteney un senso di soggezione e di rispetto, mentre si trovava sul luogo dell'esperimento in una giornata di sole e girava lo sguardo sulle colossali macchine del complesso di scavo. Il complesso era autoalimentato. Un camion grande quanto quelli dei vigili del fuoco trasportava l'impianto elettrico, un motore diesel che avrebbe potuto far viaggiare un transatlantico. Un altro camion ospitava la sala comando e le apparecchiature elettroniche. Un terzo incorporava la trivella vera e propria e la base. Un quarto era la perforatrice idraulica e la gru per le aste d'acciaio.
Il sito della trivellazione era circondato da una folla di roulotte e camion dei rifornimenti. Le aste erano ammucchiate in un'area vasta qualche ettaro. La notte l'intera zona era illuminata dal crudo chiarore bianco-azzurro delle lampade, perché il lavoro continuava ventiquattr'ore su ventiquattro. Una volta completato, quel foro sarebbe venuto a costare circa trecentomila dollari americani. Shasa si tolse il cappello e si asciugò la fronte con l'avambraccio. Faceva molto caldo. Erano al margine del Kalahari, il deserto che i piccoli boscimani gialli chiamano «Il Grande Luogo Arido». Le dune basse di sabbia rossastra sembravano le onde di un oceano turbolento che si perdevano in lontananza. L'erba del deserto era rada, secca e argentata. Negli avvallamenti fra le dune crescevano isolate le acacie del veld, con il fogliame verde scuro e la corteccia ruvida come il dorso del coccodrillo. Sull'albero più vicino una colonia di uccelli tessitori aveva costruito il nido comune: centinaia di coppie di uccelletti bruni avevano dato il contributo del loro impegno, e il risultato era un edificio informe delle dimensioni d'un pagliaio, che faceva sfigurare le acacie che lo sostenevano. Ogni coppia di tessitori occupava una camera separata del nido e collaborava per tenere in buone condizioni la struttura durante l'intero anno. Un nido nei pressi di Upington, sul fiume Orange, era stato occupato per generazioni e generazioni di tessitori per oltre un secolo. Il distretto era un deserto vastissimo e scarsamente popolato. La Courteney Mineral Exploration Company era proprietaria della concessione di centocinquantamila acri su cui si trovava ora l'impianto di trivellazione. L'intera proprietà era recintata. C'erano guardie a tutti i punti di accesso e a tutti i cancelli. Nessun estraneo avrebbe mai visto l'accampamento... e se anche l'avesse visto, be', si trattava di una delle tante attività di ricerca di minerali. Shasa alzò gli occhi al cielo. Neppure una nuvola deturpava l'altissima volta azzurra. Quella parte del Kalahari era zona militare ed era vietato agli aerei commerciali e privati sorvolarla. Spesso veniva usato per le esercitazioni della scuola d'artiglieria e dei mezzi corazzati che aveva sede a Kimberley, poche centinaia di chilometri più a sud. Shasa, comunque, si preoccupava. Mancavano otto giorni alla data decisiva. La trivellazione doveva essere completata per quel fine settimana. Il sabato, un convoglio adeguatamente scortato proveniente da Pelindaba, avrebbe portato l'équipe di scienziati e la bomba. La bomba per l'esperimento sarebbe stata calata nella trivellazione entro il lunedì sera. Il ministro della Difesa e il generale Malan sarebbero arrivati in aereo da Città del Capo alla vigilia del test. Shasa scosse la testa. «Sta andando tutto benone», si disse, e salì i gradini d'acciaio della sala comando mobile. L'ingegnere capo delle operazioni di trivellazione lavorava per la Orion da dodici anni. Si alzò e tese a Shasa la grossa mano callosa. «Come va, Mick?» «Bak gat, signor Courteney!» L'ingegnere aveva usato un'espressione afrikaans un po' volgare che esprimeva approvazione. «Stamattina alle nove siamo arrivati a tremila metri.» Indicò il tracciato sullo schermo: illustrava graficamente la deviazione nel pozzo che doveva contribuire a contenere l'esplosione. «Non voglio disturbarla.» Shasa sedette accanto all'ingegnere. «Prosegua pure.» Mick rivolse tutta l'attenzione alla consolle dei comandi.
Shasa accese un sigaro e immaginò il flessibile verme d'acciaio che si faceva strada nelle viscere della terra, fino al confine della crosta terrestre, molto al di sotto delle falde acquifere, fino ai margini del magma, dove la temperatura era molto prossima a quella d'un forno. Squillò il telefono, ma Shasa era sprofondato nelle sue fantasie. Il tecnico che rispose dovette chiamarlo due volte. «Signor Courteney, per lei.» «Chieda chi è», ribatté irritato Shasa. «Si faccia lasciare un messaggio.» «E' il signor Vorster, signore.» «Quale signor Vorster?» «Il Primo ministro, signore. In persona.» Shasa gli strappò di mano il ricevitore, assalito da un'improvvisa, sconvolgente premonizione. «Ja, Oom John?» chiese. «Shasa, in quest'ultima ora gli ambasciatori della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e della Francia hanno presentato note di protesta dei rispettivi governi.» «E perché?» «Stamattina alle nove un satellite americano ha fotografato il sito delle trivellazioni. Ons is in die kuk... siamo nella merda. Non si sa come, hanno scoperto tutto di Skylight e pretendono che rinunciamo all'esperimento. Quanto tempo ti occorre per tornare a Città del Capo?» «Il mio jet è pronto sulla pista. Sarò nel tuo ufficio fra quattro ore.» «Ho convocato il consiglio dei ministri. Voglio che tu li ragguagli.» «Ci sarò.» Shasa non aveva mai visto John Vorster così preoccupato e furioso. Mentre gli stringeva la mano, ringhiò: «Dopo la nostra telefonata, i russi hanno chiesto la convocazione urgente del Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Minacciano sanzioni obbligatorie immediate se procederemo con l'esperimento». «Non hai ammesso niente, Primo ministro?» «No, è ovvio», ringhiò Vorster. «Ma vogliono ispezionare il luogo della trivellazione. Hanno fotografie aeree... e sanno che il nome in codice è Skylight.» «Hanno il nostro codice?» Shasa lo fissò, e Vorster annuì cupamente. «Ja, hanno il codice.» «Sai cosa significa, vero? C'è una spia... e ad altissimo livello. Proprio in vetta.» All'ONU i rappresentanti del Terzo Mondo e dei paesi non allineati si alzarono uno dopo l'altro nell'aula dell'Assemblea Generale per condannare il Sudafrica e il suo tentativo di entrare a far parte del cosiddetto «club nucleare». Il Sudafrica fu giudicato colpevole non appena vennero formulate le accuse. Sia l'India sia la Cina avevano sperimentato bombe nucleari negli ultimi due anni, ma loro potevano farlo. Nonostante le assicurazioni del Primo ministro sudafricano, secondo il quale non era stato effettuato nessun test, i rappresentanti di Gran Bretagna e Stati Uniti insistevano per compiere una ricognizione personale. E così furono portati nel Kalahari da un elicottero Puma dell'aviazione militare. Quando arrivarono, l'impianto di trivellazione ed ogni altro veicolo erano sparìti. Era rimasto soltanto un foro coperto di cemento fresco, in un'area di terreno solcato e calpestato. «Che scopo aveva questa trivellazione?» chiese il rappresentante britannico a Shasa. E non era la prima volta. Sir Percy era
un vecchio amico che andava a cena a Weltevreden e a caccia a Dragon's Fountain. «Prospezioni petrolifere», rispose impassibile Shasa; l'inglese inarcò un sopracciglio e non fece commenti. Ma tre giorni dopo la Gran Bretagna oppose il veto alle proposte di sanzioni presentate al Consiglio di Sicurezza e la tempesta incominciò a placarsi. Aaron Friedman telefonò a Isabella per annunciarle la sua immediata partenza per Israele. Le chiese di andare con lui. Non aggiunse che gli Stati Uniti avevano esercitato pressioni enormi sul governo israeliano perché lo richiamasse a Gerusalemme. «Sei un tesoro, Aaron», disse Isabella, «e non avrei voluto perdere quei momenti per niente al mondo, ma tu hai la tua vita e io la mia. Forse un giorno ci rivedremo.» «Non ti dimenticherò mai, Bella.» Il Bureau per la Sicurezza di Stato incominciò una caccia al traditore che si protrasse per mesi senza risultati conclusivi. Alla fine si accettò l'idea che il responsabile doveva essere stato uno dei guattro scienziati israeliani che nel frattempo avevano lasciato il paese. Quando Shasa lesse il rapporto segreto sull'esito dell'indagine, rimase imbarazzato nello scoprire che sua figlia era entrata nel complesso residenziale di Pelindaba e apparentemente s'era trattenuta tutta la notte come ospite del buon professore. «Be', non avrai pensato che fosse vergine», disse Centaine quando gliene parlò. «O sì?» «No, no», ammise Shasa. «Però non è molto piacevole sbattere clamorosamente il muso in questo modo.» «Non è stata una faccenda clamorosa», lo corresse Centaine. «Sembra che Bella, anzi, sia stata eccezionalmente discreta una volta tanto.» «Comunque è bene che se ne sia andato.» «Avrebbe potuto essere un buon partito», disse scherzando Centaine ed il figlio le rivolse uno sguardo scandalizzato. «Santo cielo, è abbastanza vecchio per essere suo padre.» «Bella ha trent'anni», osservò Centaine. «E' quasi una zitella.» «E' davvero così vecchia?» Shasa sembrava stupito. «Spesso dimentico che gli anni passano in fretta.» «Dobbiamo darci da fare per trovarle un marito.» «Non c'è fretta.» Shasa non era entusiasta della prospettiva di perdere la figlia. Si era abituato alle cose come stavano. Per Isabella, la ricompensa venne presto. Pochi mesi dopo le fu promessa una vacanza con Nicky e ricevette l'ordine di organizzarsi per un'assenza di due settimane dal Sudafrica. «Due settimane!» pensò, euforica. «Con il mio bambino! Non riesco a credere che succeda, finalmente.» L'euforia era abbastanza intensa per scacciare il senso di colpa che l'ossessionava da quando la crisi di Skylight era finita sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Cercava di placare la propria coscienza dicendosi che aveva contribuito a scongiurare un'escalation della minaccia nucleare e che a lungo andare il suo tradimento avrebbe dato risultati benefici per l'umanità. Naturalmente, si mostrava patriotticamente indignata quando discuteva l'argomento con i familiari o con gli altri senatori nei corridoi del palazzo del parlamento, ma la verità la perseguitava nel sonno. Era una traditrice... e la punizione era la morte. Disse a Nana e a Shasa che sarebbe andata ad incontrarsi con Harriet Beauchamp a Zurigo. Contavano di girare la Svizzera
per due settimane, andare dove c'era la neve adatta a sciare, mangiare la fondue e provare le piste più famose. «Non avrete mie notizie prima del ritorno», annunciò. «Hai denaro a sufficienza, Bella?» chiese Shasa. «Che domanda sciocca, pater.» Gli diede un bacio. «Non sei stato tu a istituire il mio fondo vincolato che mi dà un reddito assurdo ogni mese, il doppio del mio stipendio di senatore?» «Bene, ti darò il nome di qualcuno al Crédit Suisse di Losanna, caso mai dovessi restare a corto.» «Sei molto caro, ma non ho più sedici anni.» «A volte vorrei che li avessi, tesoro mio.» Isabella prese il volo della Swissair per Zurigo, ma scese a Nairobi. Prese alloggio al Norfolk Hôtel e la mattina seguente telefonò a Weltevreden e parlò con Nana, fingendo di chiamare da Zurigo. «Divèrtiti e tieni gli occhi aperti per accalappiare un simpatico milionario», disse Centaine. «Per te o per me, Nana?» «Finiscila con queste impertinenze, signorina.» Secondo gli ordini ricevuti, Isabella prese il volo dell'Ari Kenya per Lusaka nello Zambia, quindi l'autobus delle linee aeree la portò dall'aeroporto al Ridgeway Hôtel, dove fu informata che c'era una stanza singola prenotata a suo nome. Le istruzioni ricevute non andavano oltre. Prima di cena andò a sedere sulla terrazza della piscina e ordinò un gin tonic. Pochi minuti più tardi, un negro alto e di bell'aspetto che era seduto al bar raggiunse il suo tavolo. «Rosa Rossa», disse. «Sieda.» Isabella fece un cenno. Il cuore le batteva forte ed aveva le mani sudate. «Mi chiamo Paul.» Il negro rifiutò il drink che lei gli offrì. «Non la disturberò più del necessario. Si faccia trovare pronta domattina alle nove. L'aspetterò con un mezzo davanti all'entrata principale dell'albergo.» «Dove mi condurrà?» «Non lo so», rispose lui alzandosi. «E lei non deve chiederlo.» Isabella lo attese secondo gli ordini. Il negro la ricondusse all'aeroporto con una Volkswagen scalcinata, ma aggirò l'area commerciale e proseguì fino ai cancelli della zona militare. Ciò che restava della squadriglia di caccia MIG dello Zambia era lì, sotto il sole. Soltanto il mese prima c'erano stati quattro incidenti. I piloti zambiani erano stati male addestrati nella Germania comunista, e non si erano abituati alle difficoltà del volo supersonico. Inoltre, i MIG avevano fatto già quasi vent'anni di servizio nell'Europa orientale prima di essere venduti allo Zambia. L'economia zambiana, basata sul rame, aveva subìto un duro colpo dalla caduta del prezzo del metallo e da due decenni di amministrazione rovinosa. Erano state ridotte le spese per la manutenzione della squadriglia dei caccia, che erano stati soprannominati «Bombe Volanti». Al di là dei caccia era fermo un enorme aereo senza simboli con quattro motori a turboelica e una coda più alta d'una casa a due piani. Isabella non lo riconobbe, ma era un Ilyushin 11 76, chiamato «Candid» dalla NATO, il tipico aereo da trasporto pesante militare russo. Paul disse qualcosa alle guardie al cancello e mostrò un documento. Il comandante lo studiò ed entrò per telefonare a un superiore; quindi rese il foglio a Paul, aprì il cancello e li lasciò passare. Due piloti in tuta di volo stavano controllando e rifornendo il colossale Candid. Paul parcheggiò la Volkswagen a fianco
dell'hangar principale e raggiunse a piedi l'aereo. Parlò con uno dei piloti e fece segno a Isabella di seguirlo. I tre la guardarono mentre faticava a portare la valigia, ma non l'aiutarono. «Partirà con l'aereo», disse Paul. «E la valigia?» chiese lei. Il capo pilota alzò le spalle e rispose con un forte accento. «Lasci qui. Penso io. Viene.» Isabella si guardò intorno, ma Paul stava già tornando alla Volkswagen. Seguì il pilota su per la rampa di carico. La stiva era piena di merce sistemata su supporti di legno e trattenuta da pesanti reti di nailon. Erano centinaia di casse di varie dimensioni, quasi tutte portavano stampigliati in nero lettere in cirillico e numeri. Il pilota la precedette su per la scaletta che portava al ponte di volo. «Siede.» Indicò uno dei seggiolini pieghevoli fissati alla paratia di fondo. Non ci furono formalità quando il Candid decollò un'ora dopo. Dal punto dove sedeva, Isabella vedeva chiaramente la plancia dei comandi al di sopra della spalla del pilota. Il Candid si portò in assetto orizzontale all'altitudine di crociera di trentamila piedi e si avviò su una rotta di trecento gradi magnetici. Furtivamente, controllò l'orologio. Voleva sapere per quanto tempo avrebbero volato in direzione nord-ovest. Evocò nella mente una mappa dell'Africa; sebbene non avesse idea della velocità effettiva, l'ago dell'indicatore della velocità relativa vibrava intorno ai 475 nodi. Dopo un'ora di volo intuì che avevano lasciato lo Zambia per entrare nello spazio aereo dell'Angòla, e rabbrividì. L'Angòla non era l'ideale per una vacanza. Di recente era entrata a far parte della Commissione Esteri del Senato e aveva assistito alle riunioni informative sull'Angòla; e aveva letto i rapporti riservati forniti dal servizio segreto militare su quel paese. Guardò il mosaico della savana e dei monti e della giungla che passavano sotto il Candid e cercò di ricordare ogni dettaglio che aveva letto su quella terra tormentata. Per molto tempo l'Angòla era stata la perla dell'impero portoghese. Dopo il Sudafrica, era il più ricco e il più bello dei paesi africani. Si estendeva per milleseicento chilometri sulla costa atlantica ed era ricco di risorse marine. Immensi branchi di pesci pelagici brulicavano nei pressi di porti naturali ben protetti. Le ricerche effettuate offshore da compagnie americane avevano dimostrato recentemente l'esistenza di enormi giacimenti di petrolio e di gas naturale. Nell'entroterra c'erano pianure e valli fertili, meravigliose foreste di essenze pregiate, altopiani ameni e ricchi d'acqua da cui scendevano numerosi grandi fiumi. In Africa l'acqua era una risorsa naturale preziosa quasi quanto il petrolio. Inoltre, l'Angòla estraeva oro, diamanti e minerali di ferro. Il clima era temperato e benigno. Nonostante ciò, da un decennio l'Angòla era dilaniata da una feroce guerra civile. Le popolazioni indigene avevano lottato per liberarsi dalla dominazione di Lisbona, dopo secoli di colonialismo. La lotta di liberazione non era unitaria. Molti eserciti, sotto i soliti nomi bellicosi, avevano combattuto non soltanto contro i portoghesi ma anche tra loro. C'erano l'MPLA, il Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angòla; l'FNLA, il Fronte Nazionale per la Liberazione dell'Angòla; l'UNITA, l'Unione Nazionale per l'Indipendenza Totale dell'Angòla; e una quantità di altri eserciti privati e di movimenti guerriglieri. I portoghesi avevano cercato di tenersi stretta la colonia. Decine di migliaia di giovani coscritti erano venuti in Africa, e molti erano caduti, uccisi da proiettili, mine e malattie tropicali, lontano dalla patria. Poi in Portogallo era avvenuto l'improvviso
colpo di stato della giunta militare, e poco dopo aveva annunciato che avrebbe concesso l'indipendenza all'Angòla e avrebbe organizzato elezioni popolari per scegliere un nuovo governo e redigere una costituzione. Adesso, nei mesi che precedevano le elezioni annunciate, il paese era in preda ad un tumulto ancora più grande di quanto lo fosse stato durante la guerra civile: le varie fazioni giostravano per arrivare al potere, gli altri governi africani e le grandi potenze sostenevano i rispettivi favoriti e i capi guerriglieri si abbandonavano a orge di intrighi, torture ed intimidazioni contro una popolazione già stremata dagli anni di guerra. Isabella, leggendo fra le righe dei rapporti segreti, aveva intuito che in realtà nessuno sapeva cosa stesse succedendo a Luanda, la capitale, e soprattutto tra le giungle e le montagne più remote. L'ammiraglio Rosa Coutinho, l'Ammiraglio Rosso, nominato governatore generale dal movimento delle forze armate dopo il colpo di stato, era favorevole ad Agostinho Neto e al suo MPLA «epurato». Il processo di epurazione stava nell'uccidere fra le torture gli esponenti di tutte le altre fazioni del partito: il sistema consisteva nello stringere una cornice di legno intorno alla testa della vittima fino a fratturare il cranio. La ciA, che come sempre pareva non avere contatti diretti con la situazione, sembrava sostenere l'FNLA, il movimento più debole, più tribale e corrotto dei tre, e passava di nascosto modesti aiuti finanziari che il Senato degli Stati Uniti, se ne fosse stato informato, non avrebbe assolutamente approvato. Anche i cinesi, come i nordcoreani, puntavano sull'FNLA. Il corteo delle Cajka nere attraversò il ponte sul fossato ed entrò nella fortezza del Cremlino dalla porta sotto la torre Borovitskaya. I due generali cubani erano a bordo della prima berlina. Senen Casas Requerion era capo di stato maggiore dell'esercito cubano, e con lui c'era il suo capo logistico. Il colonnello generale Ramon Machado era sulla seconda vettura con il presidente Fidel Castro, e faceva da guida e da interprete al capo di stato. La promozione di Ramon era stata annunciata poche settimane dopo il suo ritorno dall'Etiopia, dove aveva diretto le operazioni che avevano portato all'abdicazione dell'imperatore Hailé Selassié, all'abolizione della monarchia e all'istituzione ufficiale, da parte del Dergue, di uno stato socialista marxista. Adesso era il secondo generale più giovane delle forze armate russe, e il più giovane del KGB. Il suo superiore immediato nel servizio segreto aveva cinquantatré anni. Il suo predecessore Joe Cicero era stato promosso generale poco prima di ritirarsi. Quell'avanzamento era ancora più straordinario per il fatto che Ramon non era russo di nascita. Era stato naturalizzato appena otto anni prima. Per lui l'Etiopia era stata un trionfo. Aveva pilotato la prima fase della rivoluzione senza alcuna presenza visibile russa nel paese e, cosa ancora più importante, con la spesa di pochi milioni di rubli. Subito dopo c'era stata la sua visita clandestina ma egualmente positiva a Luanda in Angòla, dove s'era incontrato con l'Ammiraglio Rosso, Rosa Coutinho. Coutinho era iscritto al partito Comunista portoghese. Era stato nominato governatore dell'Angòla dalla giunta militare di sinistra che adesso comandava in Portogallo; e aveva avuto l'incarico di organizzare le elezioni per scegliere un governo africano con il compito di portare all'indipendenza l'ex colonia. Durante l'incontro con Ramon s'era dimostrato, da un punto di vista politico, una vera anima gemella.
«Dobbiamo fare in modo che le elezioni non avvengano in nessun caso», aveva detto a Ramon. «Altrimenti Jonas Savimbi diventerà il primo presidente dell'Angòla, se non altro perché la sua tribù ominbundu è la più numerosa del paese.» «Non possiamo permetterlo», aveva riconosciuto Ramon. Non c'era bisogno di spiegazioni. Jonas Savimbi era il più audace ed efficiente capo della guerriglia angolana. L'esercito della sua UNITA aveva combattuto i portoghesi con abilità e tenacia per un decennio. Era intelligente, colto, volitivo. Sebbene non avesse mai proclamato le sue idee politiche, non era certamente marxista, e con ogni probabilità non era neppure socialista. Non potevano correre il rischio che arrivasse al potere. «L'unica soluzione possibile», aveva continuato Ramon, «è questa. Lei dichiarerà che, dato lo stato di caos del paese, è impossibile tenere le elezioni. Poi annuncerà che non rimane altro che riconoscere l'MPLA come unico partito capace di assumere le redini del governo e convincere Lisbona a trasferire al più presto i poteri ad Agostinho Neto e all'MPLA.» Neto era l'uomo scelto dai sovietici. Era subdolo, debole, crudele e malleabile. Poteva essere controllato, mentre non sarebbe stato possibile fare altrettanto con Savimbi. «Sono d'accordo.» Coutinho aveva annuito. «Ma posso contare sul pieno appoggio dell'Unione Sovietica e di Cuba?» «Se potrò prometterle questo appoggio, ci consegnerà le basi strategiche militari e gli aeroporti che ci serviranno per far pervenire truppe e rifornimenti?» aveva ribattuto Ramon. «Ha la mia parola.» L'Ammiraglio Rosso aveva teso la mano e Ramon l'aveva stretta con un senso di trionfo. Stava per consegnare due nazioni alla sovranità sovietica. Nessun altro, sicuramente, aveva fatto tanto in Africa. «Mi recherò direttamente all'Avana», aveva assicurato a Coutinho. «Prevedo che tra pochi giorni si avvieranno colloqui al massimo livello possibile tra Cuba e Mosca. Le darò una risposta entro la fine del mese.» Coutinho si era alzato. «Lei è un uomo straordinario, compagno colonnello generale. Ho avuto raramente il privilegio di collaborare con un uomo che vede con tanta chiarezza il nòcciolo di un problema ed è disposto a intervenire decisamente con bisturi da chirurgo.» Adesso Ramon stava sul sedile posteriore della Cajka a fianco del presidente Fidel Castro mentre entravano nella cittadella del socialismo sovietico. Il corteo, preceduto dalla scorta in motocicletta, proseguì sull'ampio viale. Passarono davanti al famoso museo storico della Russia imperiale che custodiva ancora una sorprendente quantità di doni di ambasciatori e di insegne imperiali zariste, dalla corona di Ivan il Terribile agli abiti di corte incrostati di gemme ed appartenuti alla grande Caterina. I turisti stranieri che facevano la coda davanti al museo li guardarono passare. Le loro espressioni s'illuminarono di curiosità quando riconobbero sulla seconda macchina la figura imponente e barbuta di Fidel Castro. Passarono oltre, lasciandosi sulla sinistra la piazza intorno alla quale sorgevano le cattedrali dell'Arcangelo, dell'Annunciazione e dell'Assunzione. Le altissime guglie, le torri e le cupole dorate parevano ardere nel pallido sole primaverile. I peschi e i ciliegi erano in fiore nei giardini. Entrarono nella piazza, passarono davanti al palazzo del Praesidium del Soviet Supremo e si fermarono all'entrata principale del palazzo del Consiglio dei Ministri. C'erano ad attenderli una guardia d'onore ed una dozzina di dignitari politici e militari. Il viceministro Alekseij Yudenic si fece avanti per abbracciare Castro e condurlo all'interno del palazzo. Nella Sala degli
Specchi, Fidel Castro incominciò a parlare, seduto a capo del lungo tavolo. Parlava con chiarezza e indugiava al termine di ogni frase per lasciare tempo all'interprete russo. Persino Ramon, il vecchio compagno d'armi, era affascinato dalla sua conoscenza della situazione africana e dalla valutazione calcolata dei rischi e delle possibilità. Aveva assorbito ogni parola del rapporto di Ramon. «Gli europei occidentali sono divisi e privi di spina dorsale. La NATO dipende militarmente dall'America. Non riusciranno mai a dare una risposta organizzata alla nostra entrata nell'arena angolana. Non dobbiamo preoccuparci di loro.» «E l'America?» chiese laconicamente Yudenic. «L'America sta ancora sanguinando per l'umiliazione subita nel Vietnam. Il Congresso non permetterà mai alle truppe americane di operare in Africa. Gli americani sono stati sconfitti, e piagnucolano ancora con la coda fra le gambe. L'unico pericolo è che potrebbero scegliere un esercito surrogato per farlo combattere per loro.» «Il Sudafrica», lo anticipò Yudenic. «Sì. Il Sudafrica ha l'esercito più pericoloso del continente. Kissinger potrebbe reclutarlo e mandarlo oltre il confine angolàno.» «Possiamo permetterci di combattere contro i sudafricani? Le loro linee di rifornimento sono più brevi delle nostre di ben sedicimila chilometri, e i loro uomini sono considerati i migliori combattenti della savana. Se fossero equipaggiati e riforniti dall'America...» «Non avremo bisogno di combatterli», promise Castro. «Appena attraverseranno il confine, America e Sudafrica saranno immediatamente sconfitti, non dalla potenza sovietica e cubana, ma dall'esistenza del governo della minoranza bianca e dalla politica dell'apartheid.» «Si spieghi meglio, signor presidente», lo invitò Yudenic. «In Occidente i progressisti americani e il movimento europeo antiapartheid sono così desiderosi di distruggere il regime bianco sudafricano che saranno disposti a qualunque sacrificio. Sacrificheranno l'Angòla piuttosto di permettere che i sudafricani la difendano. Nel momento in cui il primo sudafricano varcherà il confine, avremo vinto la guerra. Il partito Democratico americano e i campioni della cosiddetta democrazia d'Europa faranno un tale chiasso che i sudafricani non avranno la possibilità di combattere. Saranno costretti a ritirarsi di fronte all'isterica condanna mondiale. Il tentativo d'intervento tornerà a nostro favore. Quando il Sudafrica avrà insozzato lo scudo, i politicanti occidentali non oseranno più imbracciarlo. L'Angòla sarà nostra.» Tutti annuivano in segno d'approvazione, generali e ministri. Ancora una volta Ramon era sbalordito dalla retorica persuasiva di Castro. Era per questo, soprattutto, che lo aveva convinto a recarsi a Mosca di persona. Nessuno dei suoi generali o ministri sarebbe riuscito a ottenere quel successo. La sua visione astuta e subdola non poteva fare a meno di affascinare la mentalità russa. «Mi chiamano Volpe dorata», pensò Ramon sorridendo tra sé. «Ma lui è il re di tutte le volpi.» Castro, però, non aveva ancora finito. Era di un tempismo perfetto. Sorrise giovialmente accarezzandosi la barba folta. «L'Angòla sarà nostra, ma questo sarà solo l'inizio. Dopo l'Angòla, la nostra preda sarà appunto il Sudafrica.» Tutti si tesero in avanti, interessati e con gli occhi che brillavano, come un branco di lupi che fiuta l'odore del sangue. «Quando avremo l'Angòla, avremo circondato il Sudafrica; e ai suoi confini avremo le basi dalle quali i nostri combattenti
negri per la libertà potranno colpire impunemente. Il Sudafrica è lo stato più ricco ed economicamente più potente di tutta l'Africa. Quando lo avremo in pugno, il resto del continente ci cadrà sulle ginocchia.» Appoggiò le mani enormi sul piano del tavolo e si tese in avanti. «Io vi fornirò tutti i combattenti di cui avremo bisogno, anche centomila se sarà necessario. Se voi fornirete armi, equipaggiamento e mezzi di trasporto, potremo cogliere un frutto maturo. Lo faremo, compagni? Sferreremo insieme questo colpo audace e coraggioso?» Un mese più tardi un gruppo di militari portoghesi fedeli all'Ammiraglio Rosso Coutinho consegnò la base aerea strategica di Saurimo al colonnello Angel Botello, capo della logistica delle forze aeree cubane. Saurimo era ottocento chilometri all'interno della capitale, Luanda, quindi relativamente al sicuro dalla sorveglianza da parte della ciA e di altri servizi segreti occidentali. Il primo Candid Ilyushin atterrò a Saurimo ventiquattr'ore dopo. A bordo c'era un carico completo di equipaggiamento militare e cinquanta «consiglieri» cubani. L'osservatore militare russo arrivato con lo stesso aereo era il colonnello generale Ramon Machado. Per Ramon fu un periodo faticoso ma esaltante. La sua reputazione ed il suo soprannome si stavano diffondendo in tutto il continente; i cubani li avevano portati dall'Avana. «El Zorro», mormoravano. «E' arrivato El Zorro. Adesso ne vedremo di belle.» Come la volpe, era sempre in movimento. Raramente dormiva nello stesso letto per due notti consecutive. Spesso non c'era neppure un letto, e allora dormiva sul pavimento sterrato d'una capanna di paglia, sullo scomodo sedile di un aereo leggero o sulla lurida tolda lignea di una piccola lancia che avanzava tra le paludi e le barene di un remoto fiume africano. El Jefe aveva avuto ragione, come al solito. Non vi fu una reazione occidentale concertata all'intervento cubano. L'ammiraglio Coutinho riuscì a sventare le poche e timide richieste di spiegazioni, mentre ai giornalisti occidentali veniva abilmente impedito di raccogliere prove concrete sul campo. Le armi e gli uomini arrivavano in volo a Saurimo, oppure venivano inviati a Brazzaville nel Congo, e là distribuiti per mezzo di aerei leggeri e di lance fluviali fino a raggiungere i quadri dell'MPLA negli accampamenti della boscaglia più fitta. L'Angòla era solo una delle molte operazioni che Ramon stava dirigendo simultaneamente. Doveva occuparsi anche dell'Etiopia e del Mozambico, della sua rete di agenti e del coordinamento delle attività dei combattenti sudafricani per la libertà. L'Angòla era un nuovo, magnifico trampolino di lancio per i movimenti di liberazione. Ramon creò nuovi campi di addestramento per la SWAPo, la South-West African People's Organization, e l'ANC, l'African National Congress. Le sedi centrali delle due organizzazioni si trovavano in aree separate del paese. La SWAPO era a sud, dove aveva già potuto attraversare facilmente il confine della Namibia e operare tra le proprie tribù, gli ovahimbo e gli ovambo. Ramon, tuttavia, nutriva un interesse particolare per l'ANC. Non aveva mai perso di vista il fatto che il Sudafrica costituiva la porta dell'intero continente e che quelli dell'ANC erano i combattenti per la libertà del Sudafrica. Raleigh Tabaka, il suo vecchio compagno di Londra, era stato promosso capo della logistica dell'ANC in Angòla. Insieme, scelsero la località per la principale base dell'ANC nell'Angòla settentrionale.
Volarono per centinaia di ore a bordo di un ricognitore militare Antonov, ed esplorarono la provincia settentrionale di Kungo prima di trovare una località adatta per la loro base. Era un piccolo villaggio di pescatori situato su una laguna, nell'estuario del fiume Chicamba. L'imboccatura della laguna si apriva sull'Atlantico, e con l'alta marea i battelli da circa duecento tonnellate potevano penetrare nel fiume. Inoltre c'erano vasti campi coltivati, qualche chilometro più a monte; sebbene fossero stati trascurati durante il decennio selvaggio della guerra civile, non sarebbe stato necessario un grande sforzo per aprire una pista d'atterraggio sui terreni disboscati. Anche il villaggio di pescatori era stato abbandonato durante la guerra e non c'era popolazione locale, che altrimenti avrebbe dovuto essere evacuata o eliminata. Ma il pregio maggiore della località era la distanza dal confine e dalle basi del Sudafrica. I sudafricani erano avversari temibili. Come gli israeliani, non avrebbero esitato a violare un confine internazionale per dare la caccia a un'unità guerrigliera. Chicamba era fuori dalla portata degli elicotteri Alouette sudafricani, e migliaia di chilometri di montagna l'isolavano dal pericolo di una spedizione dei boeri via terra. Alla base fu dato il nome di Tercio. Raleigh Tabaka portò le prime cinquecento reclute dell'ANC alla base Tercio a bordo di un peschereccio che l'ammiraglio Coutinho aveva requisito allo stabilimento portoghese di conservazione del pesce a Luanda. Incominciarono immediatamente la costruzione della pista e del campo di addestramento. Quando Ramon arrivò in aereo dieci giorni dopo la pista era stata sgomberata e spianata, e stava per venire pavimentata di argilla rossa e ghiaia, che avrebbero assunto la compattezza del cemento e avrebbero garantito un fondo buono per tutte le condizioni meteorologiche. Alla seconda ispezione, Ramon fu così impressionato dall'isolamento e dalla sicurezza dell'area che decise di creare un complesso separato presso la foce del fiume, in vista della spiaggia. Intendeva farne il suo quartier generale personale. Aveva sempre bisogno di una base sicura per le comunicazioni, dove fosse possibile intraprendere l'addestramento e la pianificazione per conto del KGB, e dove si potesse provvedere a interrogare ed eliminare i prigionieri senza il rischio di essere scoperti. Ordinò agli uomini di Raleigh Tabaka di dare la precedenza assoluta alla costruzione del suo complesso. In occasione della visita successiva scoprì che le recinzioni e le difese erano già state predisposte e che i lavori per il blocco destinato agli interrogatori e agli alloggi degli ufficiali erano piuttosto avanzati. Al ritorno all'Avana, requisì il materiale radio ed elettronico necessario, e lo fece mandare alla base di Tercio con il primo trasporto aereo disponibile. Nelle frequenti visite all'Avana e a Mosca, Ramon si teneva al corrente di tutte le dozzine di progetti che aveva in corso in tutto il continente africano, e soprattutto il suo caso personale, il controllo di Rosa Rossa. Ogni volta che pensava al tempo del reclutamento a Londra e in Spagna, si rendeva conto di aver sottovalutato quanto sarebbe diventata preziosa, un giorno. Da quando era entrata al Senato sudafricano aveva fatto parte di cinque commissioni; e ogni volta aveva fornito informazioni straordinarie, sotto forma di rapporti e raccomandazioni su tutti i vari argomenti di competenza delle commissioni. Poi, nel febbraio 1975, era stata chiamata a far parte della Commissione Consultiva senatoriale per gli Affari Africani. Per suo tramite, Ramon ricevette l'informazione, non più vecchia di
qualche ora, che il presidente Ford ed Henry Kissinger avevano fatto sapere a Pretoria per mezzo della CIA che non si sarebbero opposti a un'avventura militare dell'esercito sudafricano nell'Angòla meridionale. Seppe da Rosa Rossa che la ciA aveva promesso al Sudafrica appoggi diplomatici ed equipaggiamento militare per sostenere l'avanzata verso Luanda. Dopo aver avvertito i superiori alla Lubyanka, Ramon partì in aereo e si recò all'Avana per consultarsi con Castro. «Avevi ragione, El Jefe», gli disse in tono d'ammirazione. «Gli yankee stanno mandando i boeri a fare il lavoro più sporco per conto loro.» «Dobbiamo lasciare che infilino la testa nella trappola.» Castro sorrise. «Voglio che torni in Angòla immediatamente. Porterai i miei ordini personali. Richiama le nostre forze e schierale in una linea difensiva sui fiumi a sud della capitale. Lascia che quellî avanzino, prima di tirare la barba allo Zio Sam e di prendere i boeri a calci nei cojones.» In ottobre la cavalleria sudafricana attraversò il fiume Cunene e compì un'avanzata spettacolosa verso nord con i mezzi corazzati veloci Panhard. In pochi giorni arrivarono a meno di duecentocinquanta chilometri dalla capitale. Erano uomini superbamente addestrati e comandati, e avevano il morale altissimo; ma non disponevano dell'attrezzatura per gettare ponti sui fiumi e dell'artiglieria per impegnare i carri armati. Quando arrivarono al fiume, Ramon inviò un messaggio all'Avana. «Adesso», rispose rabbiosamente Castro, «gli strapperemo il tappeto sotto i piedi. Scatena i mezzi corazzati.» I sudafricani furono bloccati sui fiumi dai carri armati russi T-54 e dagli elicotteri d'assalto. Ramon comunicò la presenza sudafricana ai media occidentali; e scoppiò la tempesta diplomatica che Castro aveva previsto. La Nigeria, che dopo il Sudafrica era la nazione più potente dell'Africa, cambiò schieramento pochi giorni dopo che i servizi segreti russi e cubani avevano rivelato al mondo la presenza dei sudafricani. Abbandonò Savimbi e l'UNITA e riconobbe ufficialmente il governo dell'MPLA sostenuto dai sovietici. A conferma della nuova posizione, la Nigeria mandò trenta milioni di dollari, a titolo di aiuti, ad Agostinho Neto a Luanda. Al Senato degli Stati Uniti, il rappresentante democratico dell'Iowa, Dick Clark, cominciò a darsi da fare affinché il corpo di spedizione sudafricano in Angòla restasse isolato e privo di appoggi. Accusò la CIA di collaborare illegalmente con il Sudafrica, e Kissinger e la CIA adottarono una tattica evasiva. Alcuni membri del Consiglio Congiunto dei Capi di Stato Maggiore minacciarono di dimettersi se l'appoggio americano non fosse stato ritirato immediatamente. In dicembre l'emendamento Clark fu precipitosamente presentato al Senato e gli aiuti militari americani in Angòla furono interrotti. Era andato tutto secondo i piani di Castro. E così un'altra nazione africana fu consegnata, legata e imbavagliata, alla sovranità sovietica, e milioni di negri angolani furono condannati a un altro decennio di brutale guerra civile. A Mosca, il colonnello generale Ramon Machado fu insignito dell'Ordine di Lenin di prima classe, e la medaglia gli fu appuntata al petto personalmente dal presidente Breznev. Poi Ramon fu chiamato d'urgenza in Etiopia. La rivoluzione strisciante aveva raggiunto una fase cruciale. Quando l'Ilyushin incominciò la discesa verso Addis Abeba, Ramon era seduto dietro il pilota russo e poteva vedere il selvaggio panorama montuoso. Nel corso dei secoli tutti gli alberi nei dintorni della capitale
erano stati abbattuti per essere bruciati, e quindi le colline erano brulle e desolate. Nella distanza azzurra e velata s'innalzavano le montagne piatte, chiamate ambe, caratteristiche di quell'angolo misterioso dell'Africa orientale. Le pareti ripide delle ambe scendevano a picco per centinaia di metri verso le valli rocciose, dove i grandi torrenti scavavano ancora più profondamente nella terra rossa. Era una terra antica, dove i faraoni egizi avevano mandato le loro armate per procurarsi schiavi e avorio e tesori esotici. Gli etiopi erano un popolo fiero e bellicoso; erano quasi tutti cristiani ma appartenevano alla Chiesa copta, un'antica ramificazione della Chiesa cattolica che aveva avuto origine in Alessandria. Dal 1930 sul paese aveva regnato il negus neghesti, l'imperatore Hailé Selassié, l'ultimo sovrano assoluto della storia che governava per decreti. Tutti i suoi decreti venivano ratificati formalmente dal Dergue, un consiglio formato da nobili, grandi ras e capi tribù. Il suo potere era così completo che dava personalmente ordini relativamente a ogni aspetto del governo del paese, dalle più importanti decisioni di stato alla nomina dei funzionari provinciali di medio rango. Nonostante i poteri assoluti e l'organizzazione feudale del governo, il negus era un dittatore benevolo, molto amato dalla gente per le sue virtù e la sua incorruttibilità. Era piccolo di statura e aveva ossa sottili, piedi e mani minuscoli e lineamenti delicati. Era astemio e aveva abitudini molto sobrie. Quando non doveva partecipare a cerimonie ufficiali, vestiva molto semplicemente e mangiava cibi frugali. Diversamente da tanti governanti africani non aveva accumulato grandi ricchezze personali. La sua preoccupazione principale, forse l'unica, era il benessere del suo popolo. Nei quarantacinque anni trascorsi dall'incoronazione, aveva guidato l'Etiopia, attraverso la ribellione e l'invasione straniera e i tempi turbolenti con calma saggezza e senso del dovere. Appena cinque anni dopo la sua incoronazione, il regno montagnoso era stato invaso dai generali di Mussolini, che l'avevano costretto a rifugiarsi in Inghilterra. La sua nazione aveva resistito agli invasori e aveva combattuto gli aerei, i carri armati e i gas velenosi con fucili ad avancarica, spade e spesso con le mani nude. Dopo la sconfitta delle forze dell'Asse, Hailé Selassié era tornato sul trono etiopico e aveva ripreso a regnare benignamente come un tempo. Ma nel mondo s'erano scatenate forze nuove. Nei suoi sforzi prudenti per modernizzare il paese e condurre una società sostanzialmente pastorale ed agricola al livello del secolo ventesimo, Hailé Selassié aveva lasciato che il virus penetrasse nel regno. Il contagio era incominciato nella nuova università che aveva creato ad Addis Abeba. Gli europei con i capelli lunghi e gli occhi fanatici avevano incominciato a predicare ai giovani studenti una filosofia ubriacante, secondo la quale tutti gli uomini erano eguali, e i re ed i nobili non avevano diritti divini. Mentre le forze del vecchio imperatore venivano meno, persino gli elementi parevano cospirare contro di lui. L'Africa è una terra di estremi selvaggi, dove il caldo segue il freddo rigido, la siccità succede alle alluvioni e la terra diventa fertile od ostile senza un'apparente ragione. Una siccità terribile aveva colpito l'Etiopia; e al suo fianco cavalcava un altro cavaliere spettrale, la carestia. I seminati non davano raccolti, i fiumi e i pozzi s'inaridivano, la terra si riduceva in polvere e si disperdeva nei venti del deserto. Le mandrie e le greggi erano state decimate, e i bimbi appesi al petto inaridito
delle madri erano minuscole figure spettrali dai grandi occhi dolorosi e dalle teste simili a teschi e troppo grandi per i corpicini emaciati. Il paese era in agonia. Una carestia in Africa era storia vecchia e non destava particolare interesse; inoltre, l'Africa era lontana. Il mondo non vi badò fino a che la BBC mandò in Etiopia Richard Dimbleby con un'équipe televisiva. Dimbleby filmò le sofferenze spaventose dei villaggi, e partecipò a un banchetto ufficiale ad Addis Abeba. Con calcolata astuzia alternò nel montaggio le scene della carestia a quelle dei nobili vestiti di scarlatto, trine d'oro e fluenti vesti candide che sedevano con l'imperatore intorno a una tavola carica di ricche vivande. Dimbleby aveva un séguito enorme. Il mondo gli prestò attenzione. I giovani studenti dell'università di Addis Abeba, indottrinati da docenti selezionati con cura, organizzarono marce ed agitazioni. La Chiesa e i missionari si scagliarono contro il potere assoluto incarnato in un uomo e sognarono l'utopia irraggiungibile dove tutti gli uomini avrebbero amato il loro prossimo e il leone sarebbe giaciuto a fianco dell'agnello. Molti membri del Dergue pensarono che si offrisse l'occasione per sfogare vecchi rancori e conquistare nuovo potere. Nel contempo, in uno sviluppo irrelato ma significativo, i paesi arabi produttori di petrolio ne raddoppiarono il prezzo e ricattarono il mondo. In Etiopia il costo della vita salì alle stelle, imponendo disagi e privazioni insopportabili a una popolazione già colpita dalla carestia. L'inflazione galoppava. Coloro che ne avevano la possibilità accaparravano generi alimentari, e coloro che non l'avevano scioperavano, si abbandonavano ad atti di rivolta e saccheggiavano i negozi. Molti giovani ufficiali dell'esercito erano un prodotto dell'università di Addis Abeba; e guidarono l'ammutinamento dei militari. Formarono un comitato rivoluzionario e presero il controllo del Dergue. Arrestarono il Primo ministro e i membri della famiglia reale, e isolarono l'imperatore nel suo palazzo. Sparsero la voce che Hailé Selassié aveva rubato somme enormi di denaro pubblico e le aveva trasferite sul suo conto bancario in Svizzera. Si organizzarono dimostrazioni di studenti e di contestatori davanti alla reggia. La folla chiese l'abdicazione. I preti della Chiesa copta e i capi religiosi musulmani si unirono al coro delle accuse e chiesero anch'essi l'abdicazione e l'istituzione di una democrazia popolare. La giunta militare si sentiva ormai abbastanza forte per compiere un nuovo passo significativo. Emanò, tramite il Dergue, una dichiarazione formale che deponeva l'imperatore e mandò una deputazione di giovani ufficiali ad arrestarlo e a portarlo lontano dalla reggia. Mentre lo conducevano giù per la scalinata del palazzo imperiale, quel vecchio fragile osservò con calma: «Se ciò che fate è per il bene del mio popolo, me ne vado con animo sereno, e prego per il successo della vostra rivoluzione». Per umiliarlo, lo rinchiusero in una sordida casupola alla periferia della città: ma la gente del popolo si raccolse a migliaia davanti alla costruzione miserabile per testimoniare la propria fedeltà. Per ordine del consiglio militare, le guardie scacciarono i manifestanti con le baionette. La situazione era matura ma ancora incerta quando l'Ilyushin atterrò ad Addis Abeba e andò a fermarsi in fondo al campo dove erano in attesa venti veicoli dell'esercito etiope, fra jeep e camion per il trasporto delle truppe. Ramon fu il primo a scendere dall'aereo quando la rampa
toccò il suolo. «Benvenuto, colonnello generale.» Il colonnello Getachew Abebe balzò dalla jeep e gli andò incontro. Si strinsero la mano. «Il suo arrivo è molto tempestivo», disse Abebe. I due si voltarono e si schermarono gli occhi per guardare contro sole. Il secondo Ilyushin atterrò. Mentre veniva verso di loro, anche il terzo e il quarto apparecchio virarono e atterrarono uno dopo l'altro. Si fermarono in una fila scalare e spensero i motori, mentre gli uomini uscivano dalle stive enormi. Erano paracadutisti del reggimento Che Guevara. «Qual è la situazione?» chiese laconicamente Ramon. «Il Dergue ha votato per Andom», rispose Abebe, e Ramon si oscurò. Il generale Aman Andom era il comandante supremo dell'esercito. Era un uomo onesto e intelligente, e godeva di notevole stima tra i militari e la popolazione civile. La sua elezione a nuovo capo della nazione non era una sorpresa. «Dov'è ora?» «Nel suo palazzo... a otto chilometri da qui.» «Quanti uomini?» «Cinquanta o sessanta guardie del corpo...» Ramon si voltò a guardare i paracadutisti che sbarcavano. «Quanti membri del Dergue sono dalla vostra parte?» Abebe citò una dozzina di nomi: erano tutti giovani ufficiali di sinistra. «Tafu?» chiese Ramon, e Abebe annuì. Il colonnello Tafu comandava una squadra di carri armati russi T-53, l'unità più moderna dell'intero esercito. «Bene», disse Ramon a bassa voce. «Possiamo farcela... ma dobbiamo agire in fretta.» Diede l'ordine al comandante dei paracadutisti cubani. Le lunghe file di militari in tuta mimetica si mossero in fretta per salire sui camion. Ramon sedette a fianco di Abebe sulla jeep e la lunga colonna si avviò verso la città. La polvere rossa, che la siccità e il sole cocente avevano reso impalpabile come talco, si sollevò in una nube fitta dietro gli automezzi e si disperse nel vento che spirava caldissimo dai deserti del nord. Alla periferia della capitale incontrarono carovane di dromedari e muli. Gli uomini che le scortavano guardarono passare la colonna senza mostrare la minima emozione. In quei giorni pericolosi seguiti alla deposizione dell'imperatore, si erano abituati al movimento di uomini armati sulle strade, uomini venuti dal deserto di Danakil e dalle montagne, musulmani con i turbanti e le vesti fluenti, copti barbuti con gli spadoni alla cintura e scudi d'acciaio rotondi sulle spalle. A un ordine del colonnello Abebe, la jeep svoltò in una strada laterale e aggirò la città, correndo fra le casupole dai tetti piatti. Abebe parlò rapidamente in amarico alla radio, quindi spiegò a Ramon: «I miei uomini sorvegliano il palazzo di Andom. Sembra che abbia indetto una riunione di tutti gli ufficiali che fanno parte del Dergue e che lo sostengono. Stanno arrivando proprio ora». «Benissimo. Troveremo tutti i pulcini nel nido.» La colonna si allontanò dalla città e procedette in mezzo ai campi spogli e inariditi. La siccità non aveva lasciato un filo d'erba o una foglia verde. I sassi gessosi che costellavano il terreno erano bianchi come teschi. «Là.» Abebe tese il braccio per indicare. Il generale apparteneva alla nobiltà, e la sua residenza sorgeva a qualche chilometro dalla città sulla prima d'una serie di colline basse. Le colline erano tutte brulle, a parte il boschetto
di eucalipti australiani che circondava il palazzo, e anche quello era intristito dal caldo e dalla siccità. Il palazzo era circondato da un robusto muro di terracotta rossa, e Ramon si rese conto a prima vista che si trattava di una fortificazione formidabile. Per sfondarlo sarebbe stato necessario ricorrere all'artiglieria. Abebe sembrò leggergli nel pensiero. «Abbiamo dalla nostra il fattore sorpresa», osservò. «Ci sono buone probabilità che riusciamo a passare dal portone...» «No», lo contraddisse Ramon. «Avranno visto arrivare gli aerei. Probabilmente è appunto per questo che Andom ha convocato il suo consiglio.» Su un tratto pianeggiante e sassoso tra la colonna e il palazzo, una macchina dello stato maggiore correva verso il portone spalancato. «Fermiamoci qui», ordinò Ramon, e la colonna si arrestò in un avvallamento del terreno. Ramon salì sul sedile posteriore della jeep scoperta e puntò il binocolo sul portone. Vide la macchina dello stato maggiore che passava. Poi i massicci battenti di legno vennero chiusi. «Dove sono Tafu e i suoi carri armati?» «Sono ancora in caserma, dall'altra parte della città.» «Quanto ci vorrà perché arrivino qui?» «Due ore.» «Ogni minuto ha un'importanza vitale.» Ramon parlò senza abbassare il binocolo. «Ordini a Tafu di condurre qui i suoi mezzi corazzati al più presto possibile... ma non possiamo attendere il suo arrivo.» Abebe cominciò a dare ordini per radio, e Ramon si lasciò ricadere il binocolo sul petto e saltò dalla jeep. Il comandante dei paracadutisti e i suoi ufficiali lo circondarono: impartì gli ordini in fretta, indicando via via le caratteristiche del terreno. Abebe riagganciò il microfono della radio e li raggiunse. «Il colonnello Tafu ha un T-53 in città, di guardia davanti alla reggia imperiale. Lo manderà immediatamente, e sarà qui entro un'ora. Il resto della squadra lo seguirà.» «Molto bene.» Ramon annuì. «Ora mi descriva l'interno del palazzo. Dove potremo trovare Andom?» Si accosciarono in cerchio e Abebe tracciò uno schizzo nella polvere. Poi Ramon diede gli ordini definitivi. Ancora una volta la colonna si mise in moto; ma adesso sul cofano della jeep del comandante c'era una grande bandiera bianca, un lenzuolo che svolazzava su un'asta improvvisata. I camion procedevano in formazione serrata. I paracadutisti erano nascosti sotto i teloni dei trasporti, così come le armi. Quando si avvicinarono al palazzo una fila di teste apparve sul muro sopra il portone, ma la bandiera della tregua ebbe un effetto inibitore, e nessuno sparò. La prima jeep si fermò davanti al portone, e Ramon ne valutò la solidità. Era di legno spesso una trentina di centimetri e rinforzato da fasce di ferro battuto. I cardini erano ribattuti nelle colonne ai lati del varco. Era impossibile pensare di sfondarlo con un camion. Dall'alto del muro il capitano della guardia li apostrofò in amarico e Abebe si alzò per rispondere. Discussero per pochi minuti. Abebe continuò a ripetere che aveva un dispaccio urgente per il generale Andom e chiese di entrare. Il comandante della guardia rifiutò. La discussione divenne accesa. Appena Ramon ebbe la certezza che l'attenzione delle guardie era concentrata sulla jeep, impartì un ordine per radio. I camion che seguivano la jeep avanzarono rombando e si divisero in parte a destra e in parte a sinistra. Procedettero sobbalzando sul terreno pietroso ai due lati della strada e si fermarono sotto il muro. I paracadutisti uscirono dal riparo dei teloni e si
arrampicarono sui veicoli. Dieci erano armati di grappini; li fecero roteare sopra la testa e li lanciarono oltre la sommità del muro. Le corde di nailon si svolsero e penzolarono. «Fuoco!» ordinò Ramon alla radio, e una tempesta di proiettili spazzò la parte superiore del muro e fece schizzar via frammenti di argilla e mattoni. Le pallottole di rimbalzo si persero sibilando fra i rami degli eucalipti. Subito le teste delle guardie sparirono: alcune s'erano chinate per ripararsi, ma almeno una era stata colpita. Ramon vide l'elmetto roteare e la calotta cranica esplodere in una pioggia di sangue e materia cerebrale che rimase sospesa nell'aria per un istante. I paracadutisti si stavano arrampicando sul muro, a tre o quattro per ognuna delle corde. Erano agili come scimmie. In pochi secondi balzarono all'interno del recinto. Si sentirono le raffiche delle armi automatiche e l'esplosione di una bomba a mano. Dopo pochi secondi il grande portone di legno si spalancò, e Ramon diede all'autista della jeep l'ordine di avanzare. I corpi delle guardie giacevano nel cortile dov'erano caduti. Ramon vide uno dei suoi paracadutisti che, rannicchiato accanto al passaggio, si stringeva il ventre: il sangue gli colava tra le dita. Gli altri paracadutisti si aggrapparono alla jeep mentre passava. Ramon era in piedi dietro la mitragliatrice pesante, una Browning calibro 50 montata sopra il sedile dell'autista. Sparò una lunga raffica contro le guardie superstiti che fuggivano come conigli nel meandro di costruzioni in fondo al cortile. Una delle guardie si girò di scatto e s'inginocchiò, imbracciò il lanciarazzi RGP 7, e mirò alla jeep. Ramon puntò la Browning verso di lui, ma in quel momento le ruote anteriori investirono uno dei caduti. La jeep sobbalzò con violenza e la raffica fu deviata verso l'alto. Il razzo sparato dalla guardia sibilò attraverso il cortile, centrò in pieno il radiatore della jeep, ed esplose con un lampo e un rombo violento. Anche se il blocco motore assorbì in gran parte l'esplosione, le sospensioni anteriori cedettero e il veicolo roteò su se stesso. Tutti gli occupanti furono sbalzati fuori, e la carcassa fracassata della jeep bloccò l'entrata. I camion con i paracadutisti rimasero al di là del portone aperto. L'attacco stava già perdendo lo slancio e i difensori cominciavano a organizzarsi. Dalle finestre e dalle porte del palazzo stavano sparando con le armi automatiche. I paracadutisti cubani saltarono a terra dai camion fermi e avanzarono correndo, ma un altro razzo partì sibilando. Sfrecciò pochi centimetri al di sopra della testa di Ramon, lo accecò con il fumo, poi colpì il primo camion, sventrò il cofano e fracassò il parabrezza. Il gasolio sgorgò dal serbatoio sfondato e prese fuoco con un rombo sordo. Il fumo nero invase il cortile. Si sentivano grida e altri spari davanti a loro. A fianco di Ramon un altro parà fu colpito e stramazzò a terra. Ramon impugnò la machine-pistol e la brandì per ordinare di proseguire l'attacco mentre una mitragliatrice pesante apriva il fuoco contro di loro da una delle finestre. Rotolò a terra e si rialzò contro il muro d'argilla. La mitragliatrice sparava sopra la sua testa e il crepitio gli martellava nei timpani. Ramon si sganciò dalla cintura una bomba a mano, strappò la sicura e si sollevò su un ginocchio per lanciarla all'interno della finestra, quindi si acquattò e si coprì le orecchie. Vi fu un grido terribile e la mitragliatrice tacque. Dopo pochi attimi la bomba a mano esplose con una vampata rovente. «Avanti!» gridò Ramon, e guidò mezza dozzina di parà oltre la finestra sventrata. La mitragliatrice era rovesciata e il sangue rendeva sdrucciolevole il pavimento.
Adesso il combattimento si svolgeva di stanza in stanza. Il vantaggio era passato ai difensori che si ritiravano nel labirinto di stanze, passaggi e cortili, e resistevano ostinatamente in ogni postazione fino a che non ne venivano scacciati. A poco a poco l'attacco perse l'impeto e, sebbene Ramon minacciasse ed imprecasse e cercasse di guidarli con l'esempio, i paracadutisti s'impantanarono nell'intrico dei corridoi e delle stanze. Si rendeva conto che sicuramente Andom stava chiamando i rinforzi via radio: ogni minuto perduto poteva significare la sconfitta e il fallimento della rivoluzione. Sentì che Abebe alzava rabbiosamente la voce ed incitava i suoi uomini ad avanzare in una nebbia di fumo e di polvere; lo raggiunse strisciando e gli strinse la mano sulla spalla. Faccia a faccia, gridarono per farsi sentire nel fragore degli spari. «Dov'è quel maledetto carro armato?» «Quanto tempo fa ho chiamato?» «Più di un'ora.» Possibile? Sembrava che fossero trascorsi pochi minuti dall'inizio dell'assalto. «Li richiami alla radio», urlò Ramon. «Gli dica...» In quel momento entrambi sentirono lo stridore metallico e il rombo dei cingoli. «Avanti!» Ramon balzò in piedi. Corsero affiancati, piegati in due, fra i proiettili che sibilavano intorno alle loro teste, e riattraversarono le stanze macchiate di sangue con le pareti crivellate dai colpi. Quando arrivarono nel cortile, videro che il carro armato stava forzando un varco attraverso il portone bloccato. La torretta era girata e il lungo cannone da 55 millimetri era puntato all'indietro. La carcassa della jeep fracassata dal razzo fu spinta in avanti dalla mole corazzata e scostata dal passaggio. Il T-53 fece irruzione nel cortile con i motori diesel che ruggivano. La torretta era aperta e dal portello spuntava la testa del comandante. Ramon agitò il braccio destro per dargli il segnale di avanzare ed indicò l'intrico dei passaggi e degli edifici. Il carro armato girò sui cingoli d'acciaio e si avventò contro il muro più vicino. I mattoni di fango si sgretolarono, il tetto s'inclinò e franò, e seppellì il T-53. Ma il mezzo corazzato si liberò e continuò ad avanzare rombando. Ramon e i suoi parà passarono nella breccia. I muri crollavano e le travi si schiantavano mentre il mostro d'acciaio avanzava lentamente, traballando un po' sui mucchi di macerie e di cadaveri. Le urla dei difensori si levarono più forti del fragore. Gli spari si diradarono. Uscirono barcollando dagli edifici in rovina, buttarono le armi e alzarono le braccia in atto di resa. «Dov'è Andom?» Ramon aveva la gola riarsa e dolorante per la polvere e lo sforzo di gridare. «Dobbiamo prenderlo. Non lasciatevelo scappare.» Il generale fu tra gli ultimi ad arrendersi. Solo quando il T-53 abbatté i robusti muri d'argilla dell'edificio principale uscì con quattro alti ufficiali. Una benda intrisa di sangue gli copriva la fronte e l'occhio sinistro. La barba era incrostata di polvere e sangue ed una delle mostrine rosse era stata strappata dal colletto. L'occhio illeso aveva un'espressione ardente. Nonostante la ferita, aveva una voce ferma e un portamento dignitoso. «Colonnello Abebe», disse in tono di sfida, «questo è un ammutinamento e un tradimento. Io sono il presidente dell'Etiopia... la mia nomina è stata confermata stamattina dal Dergue.» Ramon fece un cenno ai paracadutisti che afferrarono il generale per le braccia e lo costrinsero a inginocchiarsi. Ramon aprì la fondina e porse ad Abebe la pistola Tokarev. Il colonnello la puntò tra gli occhi del prigioniero e disse con
calma: «Presidente Aman Andom, in nome della rivoluzione popolare le chiedo di dare le dimissioni». E fece saltare le cervella del generale. Il corpo stramazzò bocconi, e la materia cerebrale giallastra si sparse sugli stivali di Abebe. Abebe rimise la sicura alla Tokarev e la riconsegnò a Ramon tenendola per la canna. «Grazie, colonnello generale», disse. «E' un onore essere stato utile.» Ramon s'inchinò e riprese l'arma. «Quanti membri del Dergue hanno votato per Andom?» chiese mentre la colonna tornava verso Addis Abeba. «Sessantatré.» «Allora ci resta molto da fare prima che la rivoluzione sia al sicuro da ogni sorpresa». Abebe avvertì via radio le squadre dei T-53 del colonnello Tafu che stavano entrando dal lato orientale della città; e ordinò di circondare il palazzo del Dergue e di tenerlo sotto la mira dei cannoni. L'esercito ebbe l'ordine di isolare tutte le ambasciate ed i consolati stranieri: i diplomatici non erano autorizzati a uscire, e la misura veniva presa per la loro protezione. Tutti gli stranieri presenti nel paese, soprattutto i giornalisti e i componenti delle équipe televisive, furono rastrellati e scortàti all'aeroporto per venire evacuati immediatamente. Quanto stava per accadere non doveva avere testimoni. Piccole unità di militari fedelissimi ad Abebe, appoggiate dai paracadutisti cubani, si presentarono nelle case dei membri del consiglio militare e del Dergue che si erano pronunciati per Andom. Furono privati delle armi e delle insegne del grado, trascinati fuori, caricati a forza sui camion e trasportati al Dergue, dove un tribunale rivoluzionario li attendeva nell'aula principale. Il tribunale era formato da Abebe e da due dei suoi ufficiali. «Sei accusato di atti criminali controrivoluzionari contro il governo democratico popolare. Hai qualcosa da dire prima che venga pronunciata la tua condanna a morte?» Dopo il processo venivano portati nel cortile, messi al muro e giustiziati dal plotone d'esecuzione. Il massacro si svolgeva sotto gli occhi dei giudici rivoluzionari e dei prigionieri ancora in attesa di giudizio. Le scariche interrompevano di continuo i procedimenti del tribunale. I cadaveri furono legati a gruppi per i piedi e trascinati dietro un camion attraverso la città fino alla discarica dei rifiuti in periferia. «Il popolo deve vedere la giustizia rivoluzionaria e il prezzo della disobbedienza», disse Ramon per spiegare la necessità di quelle dimostrazioni. Il tribunale sentenziò che i cadaveri non dovevano essere rimossi dalla discarica e vietò ai familiari delle vittime di portare il lutto e di manifestare pubblicamente il loro dolore. Il massacro continuò fino a mezzanotte; gli ultimi «criminali» furono giustiziati alla luce dei fari dei camion che attendevano per trascinarli alla discarica. Sebbene fossero entrambi esausti, Ramon e il futuro presidente non potevano prendersi il lusso di dormire prima che la rivoluzione avesse messo saldamente radici. Ramon aveva nello zaino una bottiglia di vodka; la spartì con Abebe mentre ascoltavano i rapporti che arrivavano via radio. Al sorgere del sole avevano preso il controllo dell'aeroporto e della ferrovia, la sede della radio e della televisione, tutte le fortezze e le caserme. Soltanto allora poterono concedersi qualche ora di sonno. Protetti dai parà cubani, si sdraiarono sui materassi stesi sul pavimento; ma a mezzogiorno indossarono uniformi
pulite per la riunione del Dergue «epurato». C'erano paracadutisti armati davanti alla porta dell'aula, e i carri armati T-53 erano schierati fuori, lungo la strada. Mentre si congratulava con Abebe, il colonnello generale Machado disse a voce bassa: «Se uccidi Bruto, devi uccidere anche tutti i figli di Bruto. Nicolò Machiavelli lo disse nel 1510, signor presidente, e ancora oggi è il consiglio migliore». «Quindi dobbiamo incominciare subito.» «Sì», confermò Ramon. «Il Terrore Rosso deve fare il suo corso.» IL TERRORE ROSSO TRIONFERA': questa frase appariva sui manifesti in quattro lingue stampati frettolosamente, che erano affissi a tutti gli angoli delle strade, e a ogni ora le trasmissioni della radio e della televisione esaltavano il nuovo presidente ed esortavano il popolo a denunciare tutti i traditori e i controrivoluzionari. C'era così tanto da fare che Abebe divise la città in quaranta cellule e nominò per ognuna di esse un tribunale rivoluzionario. I presidenti erano giovani ufficiali a lui fedeli, autorizzati a «intraprendere azioni rivoluzionarie». Ognuno aveva ai suoi ordini una squadra di carnefici. Incominciarono dai nobili, i ras e i capi tribù e tutte le loro famiglie. «Il Terrore Rosso è un valido strumento della rivoluzione», spiegò Ramon Machado. «Conosciamo coloro che in futuro ci causeranno difficoltà. Conosciamo coloro che si opporranno alla dottrina marxista. E' più pratico eliminarli subito, nel caos della vittoria, anziché occuparci di loro a uno a uno in séguito.» Si tolse il berretto e si passò le dita tra i folti riccioli scuri. Era stanco e il bel viso classico era teso e tirato. Gli occhi erano cerchiati, ma non tradivano la minima incertezza. Abebe gli era riconoscente per la forza di cui dava prova e nel contempo era intimorito dalla sua volontà ferrea. «Dobbiamo togliere dal barile ogni mela marcia. Dobbiamo eliminare non soltanto l'opposizione ma persino ogni possibile intenzione di opporsi a noi. Dobbiamo fiaccare la volontà di resistenza della nazione. Il popolo deve essere abbrutito, privato di ogni senso d'identità e di autodeterminazione. Dobbiamo fare tabula rasa. Soltanto allora potremo ricostruire la nazione secondo un'immagine nuova e splendente.» I cadaveri dei nobili, dei capi e dei loro familiari erano ammucchiati come immondizia agli angoli delle strade. Le pattuglie rivoluzionarie battevano la città e catturavano a casaccio i bambini che sorprendevano a giocare per le strade. «Dove abiti? Portaci a casa dei tuoi genitori.» I genitori venivano trascinati fuori dalle case e costretti ad assistere mentre i rivoluzionari sparavano alla testa dei loro figli. I bambini uccisi venivano abbandonati davanti alla porta, a gonfiarsi e imputridire sotto il sole. Ai genitori era proibito rimuoverli e piangerli. IL TERRORE ROSSO TRIONFERA', gridavano i manifesti. Ma tra le montagne alcuni dei vecchi guerrieri, insieme ai familiari, opponevano resistenza alle squadre della morte. I carri armati circondavano i villaggi e le donne ed i bambini e i vecchi venivano rinchiusi nelle capanne. Poi le capanne venivano incendiate e le urla si mescolavano al crepitio delle fiamme. I rivoluzionari conducevano gli uomini nei campi e li costringevano a sdraiarsi in fila per terra. I carri armati li schiacciavano e bloccavano i cingoli per girarsi sui mucchi dei cadaveri e ridurli in una poltiglia che si mescolava alla terra riarsa dalla siccità. «Adesso tocca ai preti», disse Ramon. «I preti hanno dato un contributo decisivo al rovesciamento
della monarchia», osservò Abebe. «Sì, la chiesa e la moschea, i vescovi e i preti e gli imam e gli ayatollah sono sempre utili, all'inizio. La rivoluzione può essere alimentata dal pulpito, perché i preti sono per natura idealisti pronti a reagire favorevolmente a una visione di libertà, di eguaglianza e di amore fraterno. E' facile convincerli: ma ricordi sempre che sono anche in concorrenza con noi per il dominio psicologico sugli uomini. Quando vedranno la rivoluzione in atto, ci sfideranno. Non possiamo tollerare una simile possibilità. I preti devono essere ridotti all'obbedienza... esattamente come tutti gli altri.» Entrarono nella grande moschea e arrestarono la figlia quattordicenne dell'imam. Le strapparono gli occhi, le tagliarono la lingua e le riempirono la vagina di peperoni rossi, poi la riportarono a casa dal padre. La chiusero in una stanza e misero le guardie alla porta. I genitori furono costretti ad accovacciarsi davanti all'uscio e ad ascoltare i gemiti della ragazzina morente. I figli dell'abuna, l'arcivescovo della Chiesa copta, furono portati in uno dei tribunali rivoluzionari e torturati. Gli schiacciarono le mani e i piedi con morse d'acciaio, li ustionarono con l'elettricità. Gli strapparono gli occhi e li lasciarono a penzolare sulle guance. Gli tagliarono i genitali e glieli infilarono in bocca. Poi li portarono a casa e li abbandonarono davanti alla porta; e vietarono ai genitori di dar loro una sepoltura cristiana. La radio e la televisione trasmettevano violenti attacchi alla decadenza e al revisionismo delle chiese, e le squadre della morte attendevano davanti alla moschea quando il muezzin lanciava il richiamo alla preghiera. I fedeli restavano a casa. «Tutti i figli di Bruto sono morti», disse Abebe a Ramon mentre giravano per la città ridotta al silenzio. «Non tutti», replicò Ramon, e Abebe si voltò a guardarlo. Sapeva cosa intendeva dire. «E' necessario», insistette Ramon. «Allora non sarà più possibile tornare indietro. Il vecchio tabù borghese sarà distrutto per sempre, come fu distrutto dalla ghigliottina di Place de la Concorde e nella cantina russa dove morirono lo zar Nicola e i suoi familiari. Quando ciò sarà fatto, non si tornerà indietro e la rivoluzione sarà sicura.» «Chi lo farà?» chiese Abebe, e Ramon rispose senza esitazioni. «Io.» «Sarebbe meglio così», rispose Abebe, e distolse gli occhi per nascondere il sollievo. «Lo faccia al più presto possibile.» Ramon attraversò il quartiere vecchio della capitale. Era solo, al volante della jeep scoperta. Nelle strade deserte circolavano solo le pattuglie rivoluzionarie. Le finestre delle case erano sbarrate; nessuno l'osservava, i bambini non giocavano nei cortili, e dalle modeste abitazioni non uscivano voci o risate. I manifesti rivoluzionari erano affissi ai muri dall'intonaco sgretolato: IL TERRORE ROSSO TRIONFERA'. Dall'inizio del Terrore Rosso non c'erano più stati servizi di nettezza urbana. Il sudiciume intasava le strade ed il liquame traboccava lungo i canaletti di scolo. I corpi delle vittime del Terrore erano ammucchiati agli angoli come cataste di legna da ardere. Erano così gonfi e crivellati dai proiettili che non sembravano più umani. I ventri enfiati dal gas tiravano gli indumenti fino a lacerarli, e la carne diventava violacea e nera sotto la sferza del sole. I soli esseri viventi erano i corvi e gli avvoltoi che saltellavano e dilaniavano i morti, e i ratti grassi e sazi che fuggivano davanti alla jeep. Ramon si coprì la bocca e il naso con la sciarpa di seta per proteggersi dal lezzo, ma a parte questo restava impassibile di fronte allo spettacolo che gli si offriva, come un generale vittorioso
rimane imperturbabile davanti alla carneficina sul campo di battaglia. La casupola era in fondo a un vicolo lurido, e c'erano due guardie alla porta. Riconobbero Ramon quando fermò la jeep e avanzò con prudenza in mezzo al sudiciume. Lo salutarono rispettosamente. «Siete sollevati dai vostri compiti. Potete andare», ordinò Ramon. Li guardò correre verso l'imboccatura del vicolo, poi aprì la porta e si chinò per entrare. La stanza era semibuia, e si tolse gli occhiali da sole. Le pareti erano intonacate ma spoglie, a parte una croce copta d'argento appesa sopra il letto. Sul pavimento di pietra c'erano stuoie di canne, e c'era un odore sgradevole d'infermità e di vecchiaia. Una donna anziana sedeva sul pavimento ai piedi del letto. Quando vide Ramon gemette e si coprì la testa con il cappuccio. «Vàttene.» Ramon indicò la porta, e la donna strisciò sul pavimento con la testa coperta, mugolando e sbavando per il terrore. Con il tacco dello stivale, Ramon le chiuse la porta alle spalle e studiò la figura che giaceva sul letto. «Negus neghesti, re dei re», disse con ironia pungente, e il vecchio si scosse e lo guardò. Indossava una veste bianca immacolata, ma aveva la testa nuda. Era magro, incredibilmente magro. Ramon sapeva che soffriva per gli acciacchi della vecchiaia e per i disturbi alla prostata e all'apparato digerente, ma aveva la mente lucida. I piedi e le mani che spuntavano dalle pieghe della veste bianca erano emaciati, piccoli come quelli d'un bambino, e le ossa trasparivano attraverso la pelle cerea. La barba e i capelli erano lunghi e così bianchi da avere la lucentezza del platino. Il viso era scavato, il naso sottile ed aquilino, le labbra contratte e rattrappìte; i denti ingialliti erano troppo grandi per le ossa delicate delle guance. Gli occhi enormi, neri come il catrame, sembravano quelli d'un profeta biblico. «Ti riconosco», disse sottovoce. «Non ci siamo mai incontrati», lo corresse Ramon. «Ma io ti conosco bene. Riconosco il tuo odore. Riconosco ogni linea della tua faccia e l'inflessione ed il timbro della tua voce.» «E allora chi sono?» chiese Ramon in tono di sfida. «Sei il primo di una legione... e il tuo nome è Morte.» «Sei saggio e acuto, vecchio», disse Ramon, e si avvicinò al letto. «Ti perdono per ciò che fai a me», disse Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia. «Ma non posso perdonarti per ciò che hai fatto al mio popolo.» «Raccomàndati al tuo dio, vecchio», disse Ramon mentre prendeva un cuscino dal letto. «Questo mondo non è più per te.» Premette il cuscino sulla faccia del vecchio e si appoggiò con tutto il suo peso. Hailé Selassié si dibatté come un uccello in trappola. Le dita sottili strinsero debolmente i polsi di Ramon e tirarono la stoffa delle sue maniche. Scalciò e si divincolò, e la veste si sollevò oltre le ginocchia. Le gambe erano magrissime e scure come steli di tabacco secco, le ginocchia nodose erano sproporzionate alle caviglie esili. A poco a poco i movimenti s'infiacchirono. Vi fu un suono gorgogliante sotto la veste quando lo sfintere si decontrasse e gli intestini si svuotarono. Ramon continuò a premere sul cuscino per cinque minuti fino a che il vecchio restò completamente
immobile. Si sentiva invadere da un'estasi quasi religiosa. Nulla di ciò che aveva fatto in passato gli aveva mai dato quel senso di gratificazione. Era fisica ed emotiva; era spirituale e nel contempo profondamente sensuale. Aveva ucciso un re. Si raddrizzò e rimosse il cuscino. Lo sprimacciò, lo infilò sotto la testa del vecchio. Abbassò l'orlo della veste fino alle caviglie ed incrociò sul petto le mani infantili dell'imperatore. Infine, con il pollice e l'indice, gli abbassò le palpebre. Rimase a lungo immobile a osservare la maschera di morte di Hailé Selassié. Voleva imprimersi l'immagine nella mente, per sempre. Aveva dimenticato il caldo e il lezzo della stanza chiusa. Sentiva che era uno dei momenti culminanti della sua vita. Quel corpo fragile rappresentava tutto ciò che aveva giurato di annientare. Voleva che il ricordo di quell'annientamento fosse abbastanza vivido e forte per durare tutta una vita. Tutti gli oppositori potenziali erano stati eliminati. La voce del dissenso era stata soffocata. Tutti i figli di Bruto erano morti e la rivoluzione non correva pericoli. C'erano molte altre questioni importanti che richiedevano l'attenzione di Ramon in altre parti dell'Africa. Adesso, con la coscienza a posto, poteva cedere ad altri l'incarico di consigliere per la sicurezza del governo democratico popolare dell'Etiopia. Il suo successore era un generale della polizia politica della Germania democratica, esperto quasi quanto lui nell'imporre la democrazia pragmatica alle popolazioni recalcitranti. Ramon abbracciò Abebe e salì a bordo di uno degli Ilyushin da trasporto che adesso andavano e venivano regolarmente da Addis Abeba. Era un comodo porto d'entrata per tutto il continente. Fecero rifornimento a Brazzaville e poi si diressero verso sud-ovest, per atterrare sulla nuova pista della base Tercio sul fiume Chicamba mentre il sole tramontava nell'azzurro dell'oceano Atlantico. Raleigh Tabaka era ad attenderlo. Durante il tragitto dalla pista al nuovo quartier generale di Ramon nel palmeto sopra la candida spiaggia corallina, lo mise al corrente degli sviluppi che si erano verificati durante la sua assenza. L'alloggio privato di Ramon era austero. Un tetto di paglia e grandi finestre senza vetri, con le tapparelle avvolgibili di bambù, il pavimento nudo e mobili tozzi ma comodi che un falegname del posto aveva costruito con legname indigeno segato a mano. L'unica cosa moderna era il complesso degli strumenti elettronici di comunicazione: aveva collegamenti diretti via satellite con Mosca e Luanda, l'Avana e Lisbona. Quando Ramon entrò in quell'abitazione così semplice rammentò il cottage di Buenaventura, nell'isola di Cuba. Lì si sentiva a casa sua, con gli alisei che soffiavano tra le palme e l'oceano che respirava pesantemente sulla sabbia bianca sotto la sua finestra. Era esausto, sopraffatto da una stanchezza profonda che si era accumulata nel corso delle settimane e dei mesi. Appena Raleigh Tabaka lo lasciò solo, buttò l'uniforme da combattimento sul pavimento di terra e s'infilò sotto la zanzariera. L'alito tiepido e dolce del vento gonfiava la rete finissima e gli accarezzava il corpo nudo. Era soddisfatto. Aveva svolto con abilità e successo un compito difficile ma infinitamente importante. Sapeva di aver meritato nuovi onori e ricompense: ma nulla poteva essere piacevole come quel senso di gratificazione che esaltava lo spirito stanco.
La sua creazione superava quella di un Mozart o di un Michelangelo. Aveva usato come materie prime una terra e un popolo, montagne e laghi e fiumi e pianure e milioni di esseri umani. Li aveva mescolati sulla sua tavolozza e poi, con il sangue e le fiamme e le sparatorie, li aveva plasmati e trasformati in un capolavoro. La sua opera superava quella di ogni altro artista vissuto prima di lui. Sapeva che non esisteva nessun dio... o almeno non esisteva come lo immaginavano i vescovi e gli imam che di recente aveva umiliato e costretto all'obbedienza. Il dio che Ramon riconosceva era di questo mondo: era il dio bifronte del potere e della maestria politica... e lui ne era il profeta. L'opera era appena incominciata. Prima una nazione, pensò, poi un'altra e un'altra ancora, e infine un intero continente. L'euforia tenne lontano il sonno ancora per qualche minuto, ma nel momento in cui si arrese la sua mente si avviò lungo un'altra strada. Forse erano la capanna e il vento e la voce del mare... qualunque fosse l'associazione d'idee, pensò a Nicholas. Quella notte sognò il figlio. Rivide il sorriso timido e riluttante, udì la sua voce e la sua risata, sentì la piccola mano calda stretta nella sua mano come una creaturina timorosa. Quando si svegliò, la nostalgia divenne ancora più intensa. Mentre lavorava alla scrivania, il viso del figlio sbiadì; e poté concentrarsi sui messaggi in codice trasmessi dall'Avana e da Mosca per mezzo del satellite. Ma quando si alzò e guardò la spiaggia dalla finestra, immaginò di vedere un ragazzino snello e abbronzato che sguazzava nell'acqua verde e di udire le sue dolci grida di gioia. Forse era soltanto una reazione al massacro per le vie di Addis Abeba, o il ricordo di quei piccoli cadaveri con i globi oculari pendenti sulle guance e i genitali immaturi infilati nella bocca... ma nei giorni che seguirono il desiderio di vedere il figlio divenne un'ossessione. Non poteva lasciare la base di Tercio proprio ora, quando c'erano in gioco tante poste fondamentali sulla grande scacchiera dell'Africa. Mandò un messaggio all'Avana via satellite, ed entro un'ora ricevette la risposta. Dopo l'Etiopia non potevano negargli nulla. Nicholas e Adra arrivarono con il primo volo da Cuba. Ramon attendeva sulla pista quando l'Ilyushin atterrò alla base di Tercio. Guardò il figlio che scendeva la rampa. Precedeva Adra e non le stringeva più la mano come un bambino piccolo. Il modo in cui teneva la testa era altero, il passo scattante, e gli occhi brillavano di curiosità e d'intelligenza quando si soffermò ai piedi della rampa e si guardò intorno. Ramon provò un'emozione straordinaria, un'intensificazione della nostalgia e dell'orgoglio con cui aveva atteso l'arrivo del bambino. Nessun altro essere umano l'aveva mai commosso tanto. Per lunghi momenti osservò il figlio in segreto, restando nascosto tra la folla di militari che sbarcavano e di facchini, con gli occhi nascosti dietro le lenti scure. Esitava a dare un nome a ciò che provava: e non avrebbe mai pensato alla parola amore. Poi Nicholas lo vide, e cambiò completamente atteggiamento. Si mise a correre ma dopo una dozzina di passi si controllò e mascherò prontamente l'espressione di gioia. Era impassibile quando si accostò con calma al fianco della jeep di Ramon e gli tese la mano. «Buongiorno, padre», disse. «Come stai?» Ramon provò l'impulso quasi irresistibile di abbracciarlo, ma lo superò, quindi prese la mano del figlio e ricambiò il saluto formale. Nicholas salì sulla jeep a fianco del padre, Adra dietro. Girarono intorno al campo dei guerriglieri mentre lasciavano la pista
per raggiungere il complesso sulla spiaggia, e il bambino non riuscì a frenare la curiosità. Fece la prima domanda a voce bassa ed esitante. «Perché sono qui tutti questi uomini? Sono figli della rivoluzione come noi, padre?» Quando Ramon rispose senza dar segno d'irritazione, la domanda successiva fu più audace: e quando ottenne un'altra risposta benevola, si rilassò ancora di più e dimostrò un vivo interesse per tutto ciò che li circondava. Gli uomini sul bordo della strada salutarono Ramon al passaggio della jeep. Con la coda dell'occhio, vide Nicholas irrigidirsi sul sedile e ricambiare il saluto con la naturalezza di un veterano, e dovette girare la testa per nascondere un sorriso. Anche gli uomini l'avevano notato e si voltavano ridendo per seguire il veicolo con lo sguardo. Quando arrivarono al complesso, l'attendente di Ramon aveva un fascio di messaggi arrivati via satellite da consegnargli. Ma non erano molto importanti, e Ramon li sbrigò in fretta. Andò alla casetta accanto alla sua, che era stata assegnata a Nicholas e Adra; sentì la voce eccitata del bambino mentre attraversava la veranda, ma quando apparve sulla soglia scese un silenzio improvviso. Nicholas era ridiventato chiuso e riservato, e lo fissava con diffidenza. «Hai portato il costume da bagno?» chiese Ramon. «Sì, padre.» «Bene. Mettilo. Andremo a fare il bagno insieme.» All'interno della scogliera l'acqua era calma e tiepida. «Guarda, padre, ora so nuotare a stile libero... non più come un bambino piccolo», si vantò Nicholas. A fianco di Ramon, arrivò alla scogliera dopo aver sostato appena una mezza dozzina di volte per riprendere fiato. Sedettero fianco a fianco sul promontorio corallino, e mentre parlavano seriamente del modo in cui era formato da milioni di minuscoli esseri viventi, Ramon studiò attentamente il bambino. Era alto e forte per la sua età; e il suo vocabolario si era arricchito ancora dopo il loro ultimo incontro. A volte sembrava quasi di parlare con un adulto. Cenarono insieme sulla veranda, e Ramon si accorse di aver sentito la mancanza della cucina di Adra. Nicholas sembrava di minuto in minuto più disinvolto. Mangiava di buon appetito: chiese una seconda porzione di muggine al forno. Ramon gli permise di bere mezzo bicchiere di vino molto annacquato. Nicholas lo sorseggiò come un intenditore e si gonfiò d'orgoglio nel vedersi trattato come un grande. Quando Adra venne a prenderlo per condurlo a letto, si alzò senza protestare, ma si liberò dalla sua mano e si avvicinò al padre. «Sono molto felice di essere qui», disse in tono solenne e tese la mano. Mentre gliela stringeva, Ramon provò un senso fisico di costrizione al petto. Nel giro di una settimana, Nicholas diventò il beniamino del campo di Tercio. Alcuni degli istruttori e delle reclute dell'ANC avevano con loro le famiglie. Una delle mogli era una maestra elementare che aveva studiato all'università di Western Cape, nel Sudafrica. E aveva creato una scuola per i bambini del campo. Ramon mandò Nicholas a seguire le lezioni. La scuola era una costruzione indigena aperta ai lati, con la tettoia di paglia e file di banchi ricavati dal legname locale piallato rozzamente. Quasi subito fu chiaro che Nicholas era intelligente quanto molti bambini che avevano tre o quattro anni più di lui. La lingua adottata per l'insegnamento era l'inglese, e Nicky faceva rapidi progressi. Aveva una voce limpida e dolce e guidava i cori.
Insegnò ai compagni Terra dei senza terra e altre canzoni rivoluzionarie che la maestra traduceva in inglese. Aveva portato con sé il pallone da calcio, che gli assicurava un immenso prestigio sociale fra i coetanei. Per ordine del colonnello generale Machado, una squadra di operai livellò un campo di football per la scuola, tracciò le linee con calce e montò le porte. Nicholas era così bravo che lo soprannominarono Pelé, e gli incontri quotidiani divennero un'abitudine molto apprezzata. Nicholas, poiché era figlio del generale, aveva speciali privilegi. Poteva andare dovunque, nel campo, incluse le classi per le nuove reclute, e gli istruttori gli permettevano di maneggiare le armi. Ramon rimase a osservare con orgoglio scrupolosamente mascherato mentre il figlio di cinque anni, davanti a una classe di reclute adulte, mostrava come si smontava e si rimontava un fucile d'assalto A K47. Poi si piazzò nel poligono e sparò un intero caricatore di proiettili veri. Dodici dei venti colpi centrarono il bersaglio a sagoma d'uomo al quale aveva mirato. All'insaputa di Ramon l'autista cubano, José, insegnò a Nicholas a guidare la jeep. La prima volta che Ramon Machado venne a conoscenza di quella nuova impresa del figlio fu quando Nicholas, seduto su un cuscino, lo condusse alla pista per ricevere l'Ilyushin da trasporto che stava per arrivare. Gli uomini lungo il percorso acclamarono al loro passaggio e gridarono «Viva Pelé!» Il sarto del campo confezionò per Nicholas un'uniforme mimetica da combattimento con un berretto floscio alla cubana che il bambino portava inclinato su un occhio, come il padre. Imitava gli atteggiamenti di Ramon: alzava il berretto per passarsi le dita tra i capelli e agganciava i pollici alla cintura quando stava fermo. Diventò l'autista non ufficiale del padre; e dovunque andassero, erano accolti da grandi sorrisi. A volte, nel pomeriggio, Ramon e Nicholas prendevano una delle barche con motore fuoribordo da cinquanta cavalli e si avventuravano oltre il varco nella barriera corallina per spingersi sulle acque azzurre dell'Atlantico. Ancoravano la barca sopra una delle scogliere sommerse e pescavano con le lenze. Il mare brulicava di pesci d'ogni forma, dimensione e colore. Ramon insegnò a Nicholas a tritare finemente la carcassa di un grosso pesce conservato dalla spedizione precedente: mescolavano quella poltiglia con la sabbia perché affondasse in fretta e in quel modo pasturavano la scogliera sotto l'imbarcazione. Quasi subito scorgevano le sagome indistinte dei grandi pesci che sfrecciavano nelle profondità azzurre diciotto metri più sotto. L'odore delle esche maciullate li faceva diventare frenetici. Quando calavano gli ami, si sentivano strappare le lenze dalle dita e Nicholas gridava per l'entusiasmo. I pesci della scogliera brillavano di tinte azzurro pavone e verde iridescente, giallo narciso e scarlatto intenso. Erano maculati di giada e di zaffiro, striati come zebre e spruzzati di rubino e d'opale. Avevano la forma di proiettili e di farfalle, e possedevano ali come uccelli esotici. Erano armati di aculei e dardi seghettati e file di zanne candide come porcellana. Squittivano e grugnivano come maiali quando venivano issati nella barca. Alcuni erano così grossi che Ramon doveva dare una mano a Nicholas per tirarli fuori dall'acqua. Il bambino detestava l'idea che qualcuno l'aiutasse, incluso il padre; e detestava di dover smettere di pescare al calar della sera. «Ancora uno, padre... ancora uno!» esclamava ansioso, e Ramon era costretto a togliergli la lenza dalle mani. Una sera si trattennero più a lungo del solito. Stava scendendo l'oscurità quando salparono l'àncora e avviarono il motore fuoribordo. Il vento era diventato freddo e l'aria smossa dal
passaggio della barca soffiava su di loro mentre balzavano sulla cresta delle onde per tornare alla foce del fiume. Nicholas aveva la pelle d'oca e teneva le braccia incrociate sul petto; rabbrividiva per il freddo, lo sfinimento e la reazione al sole. Ramon pilotò con una mano e gli passò l'altro braccio intorno alle spalle. Per un momento il bambino rimase come paralizzato da quel contatto inatteso; poi si rilassò, si avvicinò al padre e gli si rannicchiò contro il petto. Mentre guidava la barca nell'oscurità e stringeva a sé il corpo piccolo e tremante di Nicholas, Ramon fu riassalito dal ricordo di quel bambino abbandonato contro il muro della casa paterna con le occhiaie vuote ed il minuscolo pene scuro che sporgeva come un dito tra le labbra morte. Il rimorso non lo sfiorava. Era stato necessario, come un tempo lo era stato affogare per metà il bambino che adesso gli stava raggomitolato contro il petto. Spesso il dovere era duro e crudele, ma non s'era mai tirato indietro. Tuttavia non aveva mai neppure provato sentimenti come quelli che scopriva adesso. Tirarono in secco la barca e l'affidarono a José, l'autista cubano. Poi, alla luce d'una lanterna, attraversarono il palmeto e si diressero verso la palizzata di cinta del complesso. Nicholas barcollò nel buio e Ramon gli prese la mano per guidarlo. Il piccolo non cercò di ritrarsi. Camminarono senza parlare fino a che raggiunsero il cancello del complesso, poi Nicholas mormorò: «Mi piacerebbe poter restare sempre qui a Tercio con te». Ramon finse di non aver sentito, ma si accorse che gli era difficile respirare. L'addetto alle comunicazioni lo svegliò dieci minuti dopo mezzanotte. Bastò un colpo leggero battuto alla porta della casetta perché si destasse completamente, con la pistola Tokarev in mano. «Cosa c'è?» «Un messaggio di Rosa Rossa ritrasmesso da Mosca», rispose l'addetto. Avevano l'ordine preciso di chiamarlo a qualunque ora del giorno o della notte per una comunicazione che riguardasse Rosa Rossa. «Vengo immediatamente.» Il messaggio era cifrato e Ramon prese la copia del codice dalla cassaforte. Usavano un codice ad accesso unico, generato a caso dal computer per ogni foglio. Lui e Rosa Rossa avevano le uniche copie esistenti e usavano un foglio per messaggio. Incominciò a decifrare il testo. «Il progetto è chiamato Skylight», diceva il messaggio. «Primo esperimento sotterraneo di ordigno nucleare da trenta megatoni fissato per ventisei ottobre. Località situata 27° 35' S, 24° 25' E. Dati completi su ordigno a disposizione.» Ramon mandò il suo autista al campo principale dell'ANC, più a monte lungo il fiume, e quaranta minuti più tardi Raleigh Tabaka entrò nel suo ufficio. «Dobbiamo partire immediatamente per Londra», disse Ramon mentre l'altro leggeva il messaggio. «E' troppo importante per coordinare l'azione da qui. L'orchestreremo tramite l'ambasciata a Londra e l'ufficio dell'ANC nel Regno Unito.» Ramon sorrise, soddisfatto. «Manderemo al tappeto i boeri davanti al Consiglio di Sicurezza prima della fine della settimana. Ancora una volta hanno fatto il nostro gioco.» Svegliò Nicholas per salutarlo. «Quando tornerai, padre?» chiese il bambino, nascondendo il dispiacere. «Non lo so, Nicky.» Ramon usò il diminutivo per la prima volta e si sentì impacciato. «Tornerai, vero, padre?»
«Sì, tornerò. Te lo prometto.» «E lascerai che io e Adra restiamo qui a Tercio? Non ci manderai via?» «Sì, Nicky. Tu e Adra resterete qui.» «Grazie. Sono contento», disse Nicholas. «Arrivederci, padre.» Si strinsero solennemente la mano; poi Ramon si voltò e scese correndo i gradini per salire sulla jeep che l'attendeva. Impedire l'esperimento Skylight era una questione di secondaria importanza. Erano passati quasi tre anni da quando avevano avuto notizia per la prima volta dei piani dei sudafricani per la costruzione di una bomba nucleare; e Ramon sapeva che era un ordigno efficiente. Tuttavia un'arma nucleare aveva scarsi impieghi pratici nel tipo di guerriglia africana. La cosa davvero essenziale consisteva nell'isolare ancor più il Sudafrica dagli ultimi appoggi che gli restavano nel mondo occidentale. Era già politicamente un paria; e quella era l'occasione che si stava aspettando per bollarlo come un paese colpevole di volersi dare un armamento nucleare. S'incontrarono nella sala sotterranea anti-intercettazione nella cantina dell'ambasciata sovietica, situata nell'intima enclave diplomatica dietro Kensington Palace. Il generale Borodin e Alekseij Yudenic erano arrivati in volo da Mosca e la loro presenza dava peso alle decisioni: sottolineava l'interesse rinnovato del ministero degli Esteri e del KGB per la sezione africana, e conferiva al colonnello generale Ramon Machado un immenso prestigio. Gli africani erano rappresentati da Raleigh Tabaka e dal segretario generale dell'ANC. Oliver Tambo, il presidente dell'ANC, si trovava in visita nella Germania Est e non aveva potuto tornare a Londra in tempo per la riunione. Era una questione urgente, perché i sudafricani avrebbero collaudato Skylight prima della fine della settimana entrante. Rosa Rossa aveva fatto seguire al dispaccio iniziale ampie informazioni che riguardavano l'arricchimento dell'uranio, le caratteristiche della bomba, il previsto uso del nuovo proietto d'artiglieria G5, la posizione e la profondità della trivellazione ed il sistema di ignizione che avrebbe fatto detonare l'ordigno. «Oggi dobbiamo decidere», disse Yudenic aprendo la discussione, «il modo migliore per sfruttare queste informazioni.» «Io credo, compagno», intervenne il segretario generale dell'ANC, «che dovreste permetterci di indire una conferenza stampa qui a Londra.» Ramon aggricciò le labbra in un sorrisetto cinico. Era naturale che lo desiderassero. Per l'ANC sarebbe stata una pubblicità clamorosa. «Compagno segretario generale», disse Yudenic con un gran sorriso, «ritengo che l'annuncio avrebbe maggior peso se venisse dato dal presidente dell'Unione Sovietica anziché da quello dell'ANC.» Il tono era carico di sarcasmo: Yudenic non aveva nessuna simpatia per i negri. In privato, prima della riunione, aveva confidato a Ramon che era una seccatura essere stati costretti a invitare gli «scimmioni» anziché risolvere la faccenda tra esseri umani civili. «E' difficile abbassarsi a ragionare al loro livello», aveva detto ridendo. «Ma lei li conosce bene, compagno: crede che dovrei portargli un sacchetto di noccioline?» Ramon non partecipò alla discussione per una ventina di minuti. Le voci di Yudenic e del segretario generale diventavano via via più forti e tese. Alla fine, Borodin suggerì in tono blando: «Perché non chiediamo il parere del compagno generale Machado? E' stata una sua fonte a fornire le informazioni... forse
ha un'idea circa il modo migliore di sfruttarle». Tutti si voltarono a guardarlo. Ramon aveva già preparato la risposta. «Compagni, tutto ciò che avete detto è giusto e ragionevole. Tuttavia, se a dare l'annuncio sarà l'ANC o il presidente dell'Unione Sovietica, sarà una sensazione destinata a durare poco. Io penso che per trarne il massimo beneficio dovremmo prolungare il processo. Dovremmo diffondere qualche notizia frammentaria per volta, e fare in modo che l'interesse continui a crescere per un lungo periodo.» Gli astanti assunsero espressioni assorte, e Ramon proseguì. «Inoltre, credo che se daremo l'annuncio noi, tramite Mosca oppure l'ANC, verrà considerata un'informazione non del tutto attendibile, o almeno fortemente prevenuta. Penso che dovremmo passare la rivelazione alla voce più potente dell'America perché la diffonda. La voce che governa gli Stati Uniti... e per suo tramite, il mondo occidentale.» Yudenic sembrava confuso. «Gerald Ford? Il presidente degli Stati Uniti?» «No, compagno ministro. I mass media. Il vero governo dell'America. Ossessionati in modo maniacale dalla libertà di parola, gli americani hanno creato una dittatura più potente di quelle che sappiamo ideare noi. Facciamo pervenire la notizia ai network della televisione americana. Non diamo annunci, non convochiamo conferenze stampa. Facciamo semplicemente fiutare la cosa ad uno dei tanti, mostriamo le orme della lepre e lasciamo che l'inseguano e la facciano a pezzi. Sa bene come funziona: come un branco di segugi, la loro sete di sangue si scatenerà maggiormente se crederanno che la preda sia loro in esclusiva. Lo chiamano "giornalismo investigativo" e assegnano premi a chi riesce a causare più danno al loro governo, agli alleati e al sistema capitalista che li mantiene.» Yudenic lo fissò ancora per qualche istante, poi ridacchiò. «Ho sentito dire che in Africa la chiamano la Volpe, compagno generale.» «La Volpe dorata», lo corresse Borodin, e Yudenic scoppiò in una risata fragorosa. «Vedo che merita quel soprannome, compagno generale. Lasceremo che ancora una volta siano gli americani e i britannici a fare tutto il lavoro per noi.» Il posto più sicuro, al di fuori di Cuba e della Russia, era la base di Tercio sul fiume Chicamba. Era remoto e ben protetto; e non c'erano ambasciate straniere entro un raggio di millecinquecento chilometri. Si poteva portare là Rosa Rossa quasi senza disturbo. Una volta arrivata a Tercio sarebbe stata completamente sotto il suo controllo, più che in qualunque altro luogo della terra. Sì, Tercio andava bene. Il successo totale dell'operazione Skylight centuplicò il valore di Rosa Rossa, ma portò con sé diversi problemi. Più Rosa Rossa diventava preziosa, e più era necessario controllarla con abilità e prudenza. Bisognava prendere ogni precauzione per proteggerla e sorvegliarla sul campo, e darle l'incentivo a continuare. Bisognava ricompensarla immediatamente e darle accesso a Nicholas non appena possibile. Ma questo complicava ancora di più l'atteggiamento di Ramon nei confronti del figlio. Era certo che i malsani sentimenti borghesi, incrufolatisi di recente nella sua decisione, non dovevano interferire con il dovere. Sapeva che se fosse stato necessario e nelle giuste circostanze, doveva essere pronto a sacrificare Nicholas, come era
completamente rassegnato a sacrificare la propria vita se il dovere lo imponeva. Ma fino a quel giorno Nicholas non doveva mai trovarsi in una posizione di pericolo. E soprattutto non doveva esserci la minima possibilità che Rosa Rossa o qualche altra persona mettesse le mani sul bambino e lo sottraesse alla sua custodia. Considerò ancora una volta la possibilità di organizzare il prossimo accesso nell'hacienda in Spagna. Questo significava lasciare Tercio, e comportava un certo rischio... limitato, certo, ma reale. Era possibile che Rosa Rossa, magari con l'aiuto di agenti sudafricani, riuscisse a portare il bambino nell'ambasciata britannica di Madrid. Sapeva che Rosa Rossa aveva passaporto britannico e doppia nazionalità. La Spagna non era più abbastanza sicura per soddisfare le esigenze di Ramon. Naturalmente poteva organizzare l'incontro all'Avana o a Mosca. Questo comportava considerevoli problemi logistici per portare Rosa Rossa sul luogo designato. E le avrebbe rivelato, al di là di ogni possibile dubbio, chi erano i suoi veri padroni. Desiderava evitarlo, se possibile. Isabella si svegliò con un trasalimento e un senso di colpa. Non sapeva dov'era e che cosa l'aveva svegliata. Poi ricordò e si rese conto che a destarla erano stati il cambiamento nel rombo dei motori dell'Ilyushin e l'inclinazione del ponte. Nonostante le migliori intenzioni, si era addormentata sullo scomodissimo seggiolino pieghevole. Diede un'occhiata all'orologio. Erano trascorse due ore e cinquanta minuti da quando erano decollati da Lusaka. Si sollevò leggermente e controllò gli strumenti al di sopra delle spalle del pilota. La direzione era sempre la stessa ma stavano iniziando la discesa. L'altimetro cominciò ad abbassarsi con un ritmo costante. Guardò davanti, oltre il parabrezza della cabina. Era pomeriggio inoltrato e c'era foschia, ma all'improvviso il sole basso balenò su una grande distesa d'acqua. Un lago? pensò. Frugò nella memoria per cercarne uno così vasto. Tutti i laghi africani erano situati lungo la Great Rift Valley, migliaia di chilometri nella direzione opposta. Poi all'improvviso comprese. «L'Atlantico! Abbiamo raggiunto la costa occidentale.» Ricompose mentalmente la mappa dell'Africa. «Angòla o Zaire, oppure...» Il Candid virò per iniziare la manovra d'atterraggio. Il carrello si abbassò vibrando. Più avanti, Isabella vide le spiagge coralline bianche, e il tracciato delle scogliere sotto le acque azzurre dell'Atlantico. C'era la foce di un fiume, con le onde basse che s'infrangevano sulla barriera e un canale serpentino più profondo che penetrava nella laguna. Il fiume era ampio e marrone, ma non abbastanza largo per essere uno dei maggiori corsi d'acqua africani, il Congo o il Luanda. Cercò di imprimere ogni dettaglio nella memoria. Pochi chilometri a monte della laguna, il fiume formava una doppia S. Direttamente davanti all'aereo c'era una lunga pista d'atterraggio di argilla rossa, e più oltre erano visibili i tetti di paglia di un abitato. Il Candid toccò terra e si portò all'estremità della pista. Quando il pilota spense i motori, un convoglio di camion sopraggiunse e circondò l'apparecchio. Isabella vide molti uomini armati in tute mimetiche. «Aspetta», disse il pilota. «Uomini viene prendere lei.» Due ufficiali entrarono nella cabina. Uno era un maggiore. Tutti e due avevano la carnagione olivastra e i baffi. Erano in uniforme mimetica senza mostrine: portavano soltanto i gradi.
Sudamericani, pensò Isabella. O messicani. Il sospetto trovò conferma quando il maggiore le parlò in spagnolo. «Benvenuta, señora. Venga con noi, prego.» «La mia valigia.» Isabella indicò il bagaglio con tutta l'alterigia di cui era capace, e il maggiore diede un ordine all'altro. Il tenente portò la valigia giù per la rampa e la caricò su un camion. Viaggiarono in silenzio per venti minuti, e superarono la recinzione di filo spinato oltre la quale stavano gli edifici con i tetti di paglia che Isabella aveva visto per la prima volta dall'alto. Al cancello c'erano guardie armate. Seguirono una strada molto stretta, e lei intravvide il fiume tra gli alberi. Il fondo stradale divenne sempre più soffice e sabbioso: evidentemente erano diretti verso la foce del fiume e l'oceano. Arrivarono a un'altra recinzione più piccola. Il cancello era sorvegliato, ma le guardie li lasciarono passare senza fermarli. Le casette avevano i tetti di paglia ma sembravano più piccole e graziose delle altre che aveva visto. Erano nove in tutto, lungo la spiaggia. Quando scese dal camion Isabella si guardò intorno. Era un posto molto bello che ricordava i dépliant pubblicitari di una vacanza in un Club Mediterranée... mare, palme, sabbia, tetti di paglia. Il maggiore la scortò educatamente alla costruzione più grande; e appena Isabella vide le due donne in uniforme che l'aspettavano si sentì accapponare la pelle al ricordo della perquisizione umiliante che le era stata inflitta nell'occasione precedente. Le sue paure erano infondate. Le due giovani donne avevano quasi l'aria di scusarsi mentre frugavano nella valigia e nella borsa. Le passarono le mani sul vestito, ma non la costrinsero a spogliarsi. Ci fu un momento di costernazione quando scoprirono la sua macchina fotografica, una piccola Kodak. Ne discussero in toni allarmati, e Isabella si rassegnò a perderla. «Non ha nessun valore», disse in spagnolo. «Potete tenerla, se volete.» Alla fine una delle donne prese la macchina fotografica e i due rullini di ricambio e li portò via uscendo dalla porta in fondo alla stanza. Ramon osservava attraverso lo spioncino nella parete mentre le due donne effettuavano la perquisizione. Aveva ordinato di comportarsi con circospezione per non offendere Rosa Rossa, e annuì quando una di loro venne a consegnargli la macchina e i rullini. Li esaminò in fretta ma con attenzione. Fece scattare l'otturatore per assicurarsi che il meccanismo funzionasse e che la pellicola girasse regolarmente. Poi annuì e restituì la macchina alla donna. Isabella fu sorpresa e compiaciuta quando se la vide riconsegnare. Attraverso lo spioncino, Ramon studiò con interesse la sua espressione. Aveva i capelli più lunghi e il viso era più maturo ed energico. Era più posata e sicura di sé dell'ultima volta che l'aveva vista in Spagna. Reggeva bene il peso dell'autorità e del successo; Ramon rammentò i considerevoli risultati e la posizione importante che si era conquistata in pochi anni. Evidentemente s'era tenuta in ottime condizioni fisiche. Era snella e in forma. Le braccia e le gambe, sotto la camicetta di cotone ed i bermuda, erano abbronzate e ben fatte; e il tono muscolare non aveva nulla da invidiare a quello di un'atleta professionista. La studiò obiettivamente, e pensò che era una delle tre o quattro donne più attraenti fra le centinaia che aveva conosciuto. Era molto soddisfatto di lei: in buona misura era responsabile del successo della sua carriera.
Le due donne finirono la perquisizione: rimisero in ordine la valigia di Isabella e la richiusero. Poi una la prese ed invitò Isabella a seguirla. La condusse in fondo al complesso, fino a un cancello nella recinzione formata da fronde di palma secche. Isabella si trovò in una piccola area chiusa che conteneva soltanto due casette. La donna la precedette verso la più vicina e la fece entrare in un grande soggiorno, con un letto protetto da una zanzariera in un'alcova laterale; posò la valigia e se ne andò. Isabella esplorò in fretta e scoprì una doccia e un gabinetto sul retro: era tutto molto bucolico, ma più che sufficiente per le sue esigenze. Le ricordava uno dei campi per safari di Sean nella concessione di Chizora. Aprì la valigia. C'erano ripiani e appendiabiti dietro una tenda; ma prima che finisse di sistemare gli indumenti le giunse un suono attraverso la finestra aperta affacciata sulla spiaggia. Era un suono che le trapassò l'anima, un grido gioioso di bambino che avrebbe riconosciuto dovunque l'avesse udito. Si precipitò alla finestra. Nicholas era sulla spiaggia. Indossava soltanto un paio di calzoncini da bagno, e si vedeva subito che era cresciuto di parecchi centimetri dall'ultimo incontro in Spagna. Era accompagnato da un cucciolo, un bastardo bianco e nero con il muso affilato e una lunga coda sferzante. Nicholas correva sulla battigia e teneva un fuscello fuori dalla portata della bestiola, che spiccava salti per cercare di afferrarlo. Il bambino rideva e rideva, e il cucciolo abbaiava istericamente. Nicholas scagliò il bastoncino in mare e gridò: «Prendilo!» Il cagnetto si tuffò audacemente, raggiunse a nuoto il pezzo di legno, lo prese tra i denti e tornò indietro. «Bravo! Vieni!» lo incoraggiò Nicholas, e il cagnetto giunse a riva e si scrollò, innaffiandolo di spruzzi. Nicholas gridò e afferrò un'estremità del fuscello: cane e bambino incominciarono una specie di tiro alla fune tra ringhi e risate. Gli occhi di Isabella si appannarono; dovette battere in fretta le palpebre per scacciare le lacrime. Lasciò la casetta e scese in silenzio fino alla battigia. Nicholas era così preso dal gioco che poté restare a osservarlo per quasi dieci minuti prima che si accorgesse di lei. Immediatamente cambiò modo di fare. Scostò il cagnetto. «Giù!» ordinò in tono severo e quello obbedì. «Seduto! Resta lì!» Lasciò la bestiola sulla battigia e andò incontro a Isabella. «Buongiorno, mamma.» Tese la mano con fare solenne. «Come stai?» «Sapevi che sarei venuta?» «Sì, e devo essere buono e gentile con te», rispose francamente il bambino. «Ma finché tu sarai qui non potrò andare a scuola.» «La scuola ti piace, Nicholas?» «Sì, mamma, moltissimo. Adesso so leggere. E impariamo l'inglese», rispose Nicholas, proprio in quella lingua. «Lo parli molto bene, Nicky. Per fortuna ti ho portato qualche libro in inglese», disse Isabella, cercando di farsi perdonare il fatto che a causa sua il bambino avrebbe perduto il piacere di andare a scuola. «Spero che ti piacciano.» «Grazie.» Isabella si sentiva respinta: un'intrusa nel piccolo mondo di Nicholas. «Come si chiama il tuo cagnolino?» «Ventisei Luglio.» «Che nome strano per un cane. Perché l'hai chiamato così?»
Nicholas era sbalordito da tanta ignoranza. «Ventisei luglio, è la data d'inizio della rivoluzione. Lo sanno tutti.» «Ma certo. Che sciocca.» Nicholas s'impietosì. «Io lo chiamo solo Ventisei.» Fischiò e il cagnetto arrivò correndo. «Siedi!» gli ordinò. «Dài la zampa.» Il cucciolo tese la zampa. «Ventisei è molto intelligente. L'hai addestrato bene.» «Sì», ammise Nicholas con calma. «E' il cane più intelligente del mondo.» «Bambino mio», pensò Isabella, «che cosa ti stanno facendo? Hanno condizionato la tua testolina al punto che hai dato al tuo cagnetto un nome in ricordo di un evento politico violento!» Non sapeva a quale rivoluzione si riferisse Nicholas: ma l'angoscia dovette contrarle i lineamenti perché lui chiese: «Ti senti bene, mamma?» «Oh, sì.» «Ti accompagno da Adra», propose Nicholas. Mentre attraversavano il palmeto, Isabella cercò di prendergli la mano; ma lui si svincolò con educata fermezza. «Ho ancora il pallone che mi hai regalato», disse poi. Isabella comprese che avrebbe dovuto riconquistare la sua confidenza e la sua simpatia, e quel pensiero le riempì nuovamente gli occhi di lacrime. «Devo andarci piano», si disse. «Non devo insistere troppo.» Era del tutto impreparata allo choc che provò nel vedere Nicholas in tuta da combattimento. Con il berretto inclinato su un occhio e i pollici infilati nella cintura, si pavoneggiò davanti a lei con il passo marziale del legionario, in attesa della sua approvazione. Isabella nascose lo sgomento e proruppe in mormorii di ammirazione. Gli aveva portato un assortimento di libri che sperava potessero piacere a un bambino di quell'età. Per un caso fortunato, tra gli altri c'era anche un classico africano, Jock della Savana, la storia di un uomo e del suo cane. Nicholas fu molto colpito dalle illustrazioni e dichiarò che Jock somigliava al suo Ventisei. Ne discussero a lungo, poi il bambino volle leggere il resto: la storia era semplice, ma scritta molto bene, e Nicholas la lesse a voce alta. Isabella fu colpita dalla sua bravura anche se un paio di volte le chiese aiuto per una parola difficile o il nome di un animale africano che non gli era familiare. Quando Adra venne a prenderlo per portarlo a letto, avevano recuperato gran parte del tempo perduto, ed erano di nuovo sul terreno incerto di una cauta amicizia. «Non correre troppo», continuava a ripetersi Isabella. Quando la salutò e le strinse la mano con fare solenne, Nicholas esclamò all'improvviso: «E' un bel libro. Jock mi piace e sono contento che sei tornata a trovarmi. Non mi rincresce di non poter andare a scuola». Quella confessione dovette metterlo in imbarazzo, perché corse via. Isabella attese fino a che vide la luce spegnersi nella stanza del figlio, poi andò in cerca di Adra. Voleva parlarle da sola, e cercare di capire che parte aveva avuto nel rapimento di Nicholas e per conto di chi agiva adesso. Voleva anche notizie di Ramon e sperava che Adra le dicesse quando l'avrebbe rivisto. Adra era in cucina e lavava i piatti della cena; ma quando Isabella entrò, si chiuse dietro un gelido riserbo. Rispose a monosillabi ed evitò di guardarla negli occhi. Molto presto Isabella decise di non insistere e tornò nella sua casetta. Nonostante la stanchezza del viaggio dormì d'un sonno inquieto e si svegliò alla luce dell'alba, ansiosa di trascorrere la prima
giornata piena con suo figlio. Trascorsero tutto il giorno sulla spiaggia con Ventisei. Fra i regali che Isabella aveva portato c'era anche una palla da tennis che tenne impegnati per ore il bambino e il cane. Poi raggiunsero a nuoto la barriera, e Nicholas mostrò alla madre come si estraevano i pesci dalle tane nel corallo, e si divertì moltissimo nel vedere il suo orrore di fronte ai tentacoli viscidi dei minuscoli polpi e ai loro grandi occhi luminosi. «Adra li cucinerà per cena», promise. «Vuoi bene ad Adra, vero?» chiese Isabella. «Certo», rispose Nicholas. «Adra è mia madre.» Poi si corresse appena si rese conto della gaffe. «Voglio dire, tu sei la mia mamma, ma la mia vera madre è Adra.» isabella avrebbe voluto piangere. La seconda mattina Nicholas andò a svegliarla quando era ancora buio. «Andiamo a pesca!» annunciò esultante. «José ci porta al largo con la barca.» José era una delle guardie del campo che Isabella aveva notato all'arrivo: era un giovane dalla pelle scura, i denti storti e la faccia butterata. Era evidentemente uno dei prediletti di Nicholas: chiacchieravano con disinvoltura mentre preparavano la barca e le lenze. «Perché lo chiama Pelé?» chiese Isabella a José in spagnolo. Ma fu Nicholas a rispondere. «Perché sono l'asso del calcio della scuola... vero, José?» Nicholas insegnò a Isabella come si agganciava l'esca, e mostrò un'indulgenza paternalistica quando vide che non riusciva a togliere l'amo dalla bocca d'un pesce vivo e guizzante. La sera lessero insieme un altro capitolo di Jock. Quando il bambino andò a letto, Isabella tentò ancora di intavolare una conversazione amichevole con Adra, ma ricevette la stessa reazione ostile e taciturna. Però, quando desistette e uscì dalla cucina, Adra la seguì nel buio e le strinse il braccio, le accostò le labbra all'orecchio e sibilò: «Non posso parlare con lei. Ci sorvegliano di continuo». Prima che Isabella potesse riprendersi, Adra era tornata in cucina. Al mattino, Nicholas le fece un'altra sorpresa. La condusse alla spiaggia dove li aspettava José. A un ordine di Nicholas, José gli consegnò la sua arma e rimase a guardare, sogghignando con i denti storti, mentre il bambino smontava l'A K 47 con dita agili e svelte e nominava ogni parte dell'arma via via che la staccava. «Quanto ci ho messo?» chiese a José quando ebbe finito. «Venticinque secondi, Pelé.» La guardia rise in tono d'ammirazione. «Bravissimo. Faremo di te un parà.» «Venticinque secondi, mamma», ripeté Nicholas a Isabella in tono d'orgoglio; e sebbene lei si sentisse agghiacciata da quella dimostrazione si sforzò perché le sue congratulazioni avessero un tono sincero. «Adesso, José, prendi il tempo mentre lo rimonto», ordinò Nicholas. «E tu devi fotografarmi, mamma.» La macchina fotografica era una grande attrazione, e Isabella obbedì. Poi Nicholas posò il fucile e chiese un'altra foto. Mentre lo osservava attraverso la lente, Isabella pensò alle fotografie che aveva visto dei bambini guerriglieri addestrati dai Vietcong. Sembravano più piccoli delle armi che portavano, ed erano bambini e bambine dai visi di cherubini e dai grandi occhi innocenti. E aveva letto le atrocità commesse da quei piccoli mostri aberranti. Nicholas si stava trasformando in uno di loro? Il pensiero le diede un senso di nausea. «Posso sparare, José?» chiese Nicholas; discussero allegramente ed alla fine José si lasciò convincere.
Lanciò una bottiglia vuota nella laguna, e Nicholas si fermò sulla battigia e sparò con il selettore dell'arma regolato sul colpo singolo. Il rumore fece accorrere dal complesso mezza dozzina di paracadutisti e di donne addette alle comunicazioni, che si fermarono sulla spiaggia ad incoraggiarlo. Al quinto sparo la bottiglia esplose e tutti gridarono «Viva Pelé!» e «Bravo Pelé!» «Fammi un'altra foto, mamma», chiese Nicholas, e posò fra gli ammiratori, con il fucile tenuto di traverso sul petto. Adra portò sulla spiaggia il pranzo: frutta e pesce affumicato. Mentre mangiavano, Nicholas commentò all'improvviso: «José ha fatto molte battaglie. Ha ucciso cinque uomini con il suo fucile. Un giorno anch'io sarò un vero figlio della rivoluzione, come lui». Quella notte, distesa sotto la zanzariera, Isabella cercò di scacciare le ondate di disperazione e d'impotenza che l'assalivano. «Stanno trasformando il mio bambino in un mostro. Come posso fermarli? Come posso portarlo via a quella gente?» Ma non sapeva neppure chi fosse, quella gente; e il senso d'impotenza era schiacciante. «Oh, dov'è Ramon? Se venisse da me! Con il suo aiuto, so che potrei essere abbastanza forte. Insieme potremmo trovare una soluzione per questa realtà atroce.» Cercò di abbordare di nuovo Adra, ma fu inutile. Nicholas diventava irrequieto. Sebbene ancora educato e amichevole, non era difficile capire che si annoiava in sua compagnia. Parlava della scuola e delle partite di calcio, degli amici e di ciò che avrebbero fatto quando sarebbe tornato con loro. Isabella cercava disperatamente di distrarlo, ma c'era un limite ai giochi che poteva inventare ed al fascino dei libri e delle storie che gli raccontava. Si sentì sopraffatta da una disperazione furiosa. Sognava di fuggire con il figlio nel mondo sicuro e razionale di Weltevreden. Lo immaginava nell'uniforme di un'ottima scuola, anziché in tuta mimetica militare. Fantasticava di concludere un accordo con le forze misteriose che controllavano il loro destino in modo così completo. «Farei qualunque cosa... se mi rendessero il mio bambino.» Eppure già mentre lo pensava si rendeva conto che era inutile. Poi, nelle ore buie ed angosciose della notte, la sua immaginazione divenne morbosa. Pensò di farla finita, di porre termine al tormento per sé e per il figlio. «Sarebbe l'unico modo di salvarlo, l'unica via d'uscita per tutti e due.» Poteva usare il fucile di José. Avrebbe chiesto a Nicholas di mostrarglielo e quando l'avrebbe avuto tra le mani... Rabbrividì al pensiero e non osò continuare. Il colonnello generale Ramon Machado si accorse del cambiamento. Comunque l'aveva previsto. La osservava con attenzione da dieci giorni. Nelle casette c'erano telecamere e microfoni che Isabella non aveva scoperto. Quando lei e il bambino erano sulla spiaggia o in barca, venivano filmati con una potentissima lente telescopica. Per ore ed ore Ramon la studiava con il binocolo da punti accuratamente predisposti al di sopra della spiaggia. Aveva visto l'euforia iniziale trasformarsi a poco a poco nella semplice gioia per la vicinanza del figlio e poi svanire nella disperazione e nello sgomento, quando s'era resa conto della situazione in cui si trovava. Intuiva che con ogni probabilità aveva raggiunto lo stadio in cui sarebbe stata capace di tentare qualcosa che avrebbe distrutto tutti gli effetti benefici prodotti fino a quel momento
dalla visita. Diede ordini nuovi ad Adra. Mentre serviva la cena quella sera, Adra mandò Nicholas a sbrigare una commissione che lo tenne lontano dalla casetta per qualche minuto. Poi, mentre versava la zuppa di pesce nel piatto di Isabella, si chinò verso di lei, così vicina da sfiorarle la guancia con una ciocca di capelli. «Non dica niente e non mi guardi», bisbigliò. «Ho un messaggio del marchese.» Isabella lasciò cadere rumorosamente il cucchiaio. «Attenta. Non si tradisca. Dice che cercherà di venire da lei, ma è difficile e pericoloso. Dice che l'ama. Dice che dev'essere coraggiosa.» Isabella non pensò più al suicidio. Ramon era vicino. Ramon l'amava. Sapeva, nel profondo del cuore, che tutto sarebbe andato per il meglio purché avesse la forza d'animo di andare fino in fondo, purché Ramon la sostenesse. Quella certezza l'aiutò a tirare avanti per due giorni. Era animata da uno slancio nuovo e riusciva a farne partecipe Nicholas. L'irrequietezza e la noia strisciante che avevano cominciato a insinuarsi nei loro rapporti svanirono. Insieme, erano di nuovo felici. La notte restava sveglia a lungo nella casetta: non era più divorata dai dubbi e dalle paure. Attendeva Ramon. «Verrà. So che verrà.» Poi una delle donne che avevano perquisito il suo bagaglio all'arrivo venne a portarle un messaggio. «C'è un aereo che parte domani alle nove. Andrà con quello.» «Il bambino?» chiese Isabella. «Nicholas... Pelé?» La donna scosse la testa. «Il bambino resta qui. La visita è terminata. Passeranno a prenderla domattina alle otto. Si faccia trovare pronta. Questi sono gli ordini.» Isabella decise di portare con sé un ricordo del figlio. Dopo aver fatto la doccia ed essersi cambiata per la cena, prese dal nécessaire un paio di forbicine per unghie e le nascose nella tasca dei bermuda. Quando Nicholas sedette a tavola, gli si avvicinò e, prima che potesse scostarsi, gli tagliò un ricciolo scuro sulla nuca. «Ehi», protestò lui fiaccamente. «Perché l'hai fatto?» «Voglio qualcosa che mi aiuti a ricordarmi di te quando sarò andata via.» Nicholas rifletté per qualche istante, poi chiese timidamente: «Posso avere anch'io una ciocca dei tuoi capelli... per ricordarti?» Senza una parola gli porse le forbicine. Nicholas si fermò davanti a lei e fece scorrere una ciocca fra le dita. «Non troppo lunga», lo avvertì Isabella. Il bambino rise, tagliò una ciocca e l'avvolse intorno all'indice. «Hai i capelli così morbidi... e così belli», mormorò. «Davvero te ne devi andare, mamma?» «Purtroppo sì, Nicholas.» «Tornerai ancora a trovarmi?» «Sì. Te lo prometto.» «Terrò i tuoi capelli nel libro di Jock.» Nicholas prese il volume e mise il ricciolo fra le pagine. «Ogni volta che leggerò questa storia penserò a te.» La luna era quasi piena. Il chiarore argenteo entrava dai lati aperti della casetta e gettava ombre crude che si muovevano lentamente sul pavimento segnando il trascorrere delle ore. «Lui deve venire», si disse Isabella mentre giaceva irrigidita sul materasso duro. «Ti prego, fa' che venga.» All'improvviso si sollevò a sedere di scatto. Non aveva udito nulla, non aveva visto nulla ma sapeva con certezza assoluta che
lui era vicino. Dovette compiere uno sforzo per non gridare il suo nome. Attese, con i sensi vigili... e all'improvviso, senza far rumore, lui apparve. Apparve come un fantasma nel chiaro di luna e Isabella soffocò il grido che le saliva alla gola. Scostò la zanzariera e con tre passi svelti gli si buttò fra le braccia. Il bacio parve durare un momento e un'eternità; poi, sempre senza parlare, Ramon la condusse giù per i gradini della casetta, nel riparo del palmeto. «Non abbiamo molto tempo», le sussurrò; e Isabella represse un grido e si strinse a lui. «Cosa ci sta succedendo, amor mio?» implorò. «Non capisco. Perché fai tutto questo?» «Per la stessa ragione che ti costringe a obbedire. Per Nicholas e per te.» «Non capisco. Non posso più continuare, Ramon. Sono arrivata allo stremo delle mie forze.» «Non ci vorrà ancora molto tempo, tesoro. Te lo assicuro. Presto sarà finita, e staremo insieme.» «L'hai detto anche l'ultima volta, amore. Io ho fatto ciò che potevo...» «Lo so, Bella. Ciò che hai fatto ci ha salvati. Tutti e due, me e Nicholas. Senza di te ci avrebbero uccisi da un pezzo. Hai guadagnato tempo e ci hai salvato la vita.» «Mi hanno costretta a fare cose orribili, orribili, Ramon. Mi hanno fatto tradire la mia famiglia e il mio paese.» «Sono soddisfatti di te, Bella. Questa visita lo prova. Ti hanno concesso due settimane con Nicholas. Se potessi resistere ancora un po'... dargli ancora per un po' quello che vogliono.» «Non mi lasceranno mai andare, Ramon. Lo so. Mi terranno in pugno per sempre e mi dissangueranno fino all'ultima goccia.» «Bella, tesoro.» Ramon l'accarezzò attraverso la seta sottile della camicia da notte. «Ho un piano. Se riuscirai ad accontentarli ancora per un po', la prossima volta saranno più clementi. Si fideranno un po' più di te. Diventeranno imprudenti... e allora, te lo prometto, ti porterò Nicky.» «Chi sono?» mormorò Isabella. Ma Ramon stava cominciando a far l'amore con lei: e non insistette sulla domanda. «Taci, amore. Non chiederlo. E' meglio che tu non lo sappia.» «All'inizio credevo che fossero i russi, ma sono stati gli americani a reagire al mio messaggio a proposito di Skylight. E sono sempre stati loro a sfruttare le mie informazioni sul raid in Angòla. Si tratta della CIA, Ramon?» «Forse sì, amor mio. Ma per il bene di Nicky, non provocarli.» «Oh, Dio, Ramon, sono così infelice. Non credevo che la gente civile potesse trattare gli esseri umani in questo modo.» «Non sarà per molto», mormorò lui. «Sii forte. Dàgli ciò che vogliono ancora per qualche tempo: poi io e Nicky ti raggiungeremo.» «Fai l'amore con me, Ramon. E' la sola cosa al mondo che può impedirmi d'impazzire.» L'indomani mattina fu Nicholas a portarla alla pista. Era fierissimo della sua abilità di guidatore, e Isabella lo coprì di elogi. José e l'autista sedevano dietro, e lei sentì il commento che uno rivolse all'altro: sul momento non aveva senso, ma le restò fisso, inchiodato nella mente. «Pelé è il vero cucciolo della Volpe, El Zorro.» Si salutarono ai piedi della rampa dell'Ilyushin. «Hai promesso di tornare a trovarmi, mamma», le rammentò Nicholas. «Certo, Nicky. Che regalo vuoi che ti porti?»
«Il mio pallone è rovinato. Dobbiamo gonfiarlo molte volte durante le partite.» «Te ne porterò un altro.» «Grazie, mamma.» Nicholas le porse la mano, ma Isabella non seppe trattenersi. Si lasciò cadere in ginocchio e lo strinse al cuore. Per un attimo Nicholas rimase immobile, sbigottito, poi si strappò con violenza all'abbraccio. Era scarlatto per l'umiliazione. La guardò male, girò sui tacchi e corse alla jeep. Isabella guardò dal finestrino laterale della cabina dell'Ilyushin, ma Nicholas se n'era andato. Vide la nuvola di polvere che aleggiava sopra la strada della spiaggia e sentì un gran vuoto nell'anima. Scese dall'Ilyushin in Libia quando atterrò per il rifornimento, e prese un volo della Swissair per Zurigo. Spedì cartoline per via aerea a tutti i componenti della famiglia, inclusa Nanny, e si servì delle carte di credito per avallare la sua presenza in Svizzera. Telefonò ai banchieri di Shasa a Losanna per ritirare diecimila franchi e sopire i sospetti che suo padre poteva avere a proposito di quella vacanza. Le foto che aveva fatto a Nicholas erano molto belle: aveva catturato le sue espressioni tipiche, le pose caratteristiche. Persino quelle che lo mostravano in tuta mimetica con lo spaventoso fucile d'assalto le davano più gioia che angoscia. Isabella teneva un diario per Nicholas. Era un grosso volume che conteneva i ricordi del figlio, accumulati nel corso degli anni. C'era una copia del certificato di nascita spagnolo e delle carte dell'adozione. Si era rivolta ad uno studio specializzato di Londra che aveva seguito a ritroso per tre secoli le tracce della famiglia Machado, e nelle prime pagine dell'album c'erano le copie dell'albero genealogico e lo stemma dei Machado. C'era anche la scarpina che aveva trovato sotto il lettino nell'appartamento di Malaga; e aveva incollato le copie dei rapporti dell'asilo e dell'ambulatorio pediatrico, insieme a tutte le foto che le avevano spedito. A pagine alterne, scriveva i suoi commenti e una descrizione dei suoi sentimenti di amore e di disperazione e di speranza. Quando tornò a Weltevreden, aggiunse al suo tesoro la ciocca di capelli e le nuove fotografie, e incluse una descrizione del tempo trascorso insieme: annotò anche la loro conversazione ed ogni commento divertente o toccante del figlio. Quando si sentiva profondamente depressa si chiudeva nella sua suite, estraeva il diario dalla cassaforte personale e si consolava con ciò che conteneva. Le dava la forza di tirare avanti. Il Beechcraft virò e iniziò la discesa, e l'attenuazione della forza di gravità diede a Isabella la sensazione d'essere più leggera. «Ecco là!» gridò Garry dal sedile di sinistra «Li vedi? Ai piedi della collina. Sono tre.» Isabella guardò la foresta e il terreno accidentato lungo l'orlo della scarpata. La roccia era frammentata in bastioni e torri, strapiombi vertiginosi e guglie crollate come le rovine di un castello incantato. La foresta riempiva d'uno splendido caos le valli e i burroni. I grandi tronchi si ergevano fino a trenta metri e più con i rami allargati rivestiti della livrea autunnale, sfumati di tutti i colori dell'oro, del rame e del bronzo. Altri alberi giganteschi erano già spogli, i baobàb rigonfi dalla corteccia squamosa stavano acquattati grottescamente come creature dell'èra dei dinosauri. Sotto la punta dell'ala del Beechcraft passò un colossale ebano
africano, con le fronde ancora verde scuro e i rami più alti carichi di gialli frutti maturi. Uno stormo di piccioni verdi prese il volo freneticamente, e sfrecciò così vicino che Isabella poté vedere i becchi gialli e gli occhi lucenti. Poi la foresta finì all'improvviso e sotto di loro si estese una radura di pallida erba invernale. Il Beechcraft puntò rombando verso un'altra parete di roccia. «Là! Li vedi, Bella?» gridò di nuovo Garry. «Sì! Sì! Non sono magnifici?» gridò lei di rimando. In fondo alla radura tre elefanti maschi correvano in fila. Le orecchie erano spiegate come le vele latine dei dhow arabi. Le schiene erano ingobbìte, e si scorgeva la cresta curva della spina dorsale sotto la pelle grigia, e il luccichio delle lunghe zanne d'avorio. Quando saettarono sei metri sopra di lui, il primo maschio si girò per affrontarli e protése la proboscide serpentina come per strapparli dal cielo. Garry azionò il timone di profondità. La gravità azzannò le viscere di Isabella, e l'aereo si avventò verso l'alto sfiorando il granito bluastro, e salì nell'incolore cielo africano. «Quello grosso deve averne più di trenta chili.» Garry stava stimando il peso delle zanne dell'elefante mentre si girava a guardarlo e continuava a pilotare per istinto anche in quella fase critica. «Sono nella nostra area, pater?» chiese, mentre puntava verso il basso e poi proseguiva in assetto orizzontale. «Al margine.» Shasa se ne stava tranquillo sul sedile di destra. Aveva insegnato a volare a Garry e conosceva le sue capacità. «Quello è il Parco Nazionale... si può vedere la linea disboscata che segna il confine.» «I vecchi jumbo stanno andando diritti da quella parte.» Isabella si appoggiò alla spalliera del sedile del padre che si voltò a sorridere. «Ci puoi scommettere.» «Vuoi dire che sanno quale territorio è una concessione di caccia e quale è un parco?» «Come tu conosci la strada per andare al tuo bagno. Al primo sentore di guai, corrono a casa da mammina.» «Vedi il campo?» chiese Garry. «A sud delle colline,» Shasa indicò. «Ecco, si vede il fumo. La pista d'atterraggio è parallela a quella macchia di cespugli di jesse.» Garry ridusse di nuovo la potenza e discese, volando a bassa quota per assicurarsi che la pista fosse sgombra. Un piccolo branco di zebre che stava pascolando sulla pista erbosa si disperse al loro avvicinarsi e fuggì al gran galoppo. Ogni animale era seguito da un pennacchio di polvere. «Maledetti somari», borbottò Garry. «Se ne urti uno, ci rimetti un'ala.» Isabella scorse un camion scoperto fermo accanto alla rudimentale manica a vento. Guardò per accertarsi che al volante fosse il fratello maggiore; ma era uno degli autisti negri. Provò un fremito di delusione. Non vedeva Sean da più di due anni e sentiva la sua mancanza. Garry pilotò il bimotore Beechcraft per prepararsi all'atterraggio e lo allineò con la pista. Abbassò il carrello, e sulla plancia si accesero tre spie verdi. Con mani sicure e poderose completò i controlli e discese in un angolo molto netto per evitare le cime degli alberi che bordavano il terreno sgombro. «E' un pilota magnifico.» Isabella ammirava la sua tecnica. «Quasi come pater.» Garry li aveva portati da Johannesburg con ù jet della compagnia. A Salisbury avevano alloggiato al Monomatapa Hôtel.
Shasa e Garry avevano avuto un incontro con Ian Smith, il Primo ministro rhodesiano; quindi erano partiti per l'ultima tappa con il piccolo Beechcraft. Il jet aveva bisogno di mille metri di pista asfaltata per atterrare, mentre il bimotore poteva farcela sulla corta pista erbosa di Chizora, con un pilota abile ai comandi. Garry atterrò con fermezza, ad alettoni completamente abbassati e senza sobbalzi. L'apparecchio oscillò sulla superficie sconnessa, e Garry frenò al massimo mentre la muraglia di alberi all'estremità opposta pareva correre loro incontro. Poi girò il Beechcraft ridando potenza ai motori e, in un vortice di polvere, lo portò verso il camion. I dipendenti del campo circondarono il Beechcraft nel momento in cui Garry spense i motori. Shasa aprì il portello e balzò dall'ala per stringere le mani a tutti e salutarli in ordine di anzianità. Quasi tutti erano con la compagnia fin dall'inizio, e quindi li conosceva per nome. La gioia del personale divenne ancora più grande quando Isabella saltò giù dall'ala: i magnifici sorrisi africani si allargarono ancora di più. Sebbene le sue visite a Chizora fossero intermittenti era molto benvoluta. La chiamavano Kwezi, stella del mattino. «Ho lattuga e pomodori freschi per te, Kwezi», le assicurò Lot, il capo ortolano. L'orto del campo di Chizora veniva concimato con letame di bufali ed elefanti e produceva frutta e verdura che avrebbero vinto premi in qualunque fiera agricola. Tutti sapevano che a Kwezi piacevano molto le insalate. «Ho montato la tua tenda in fondo, Kwezi», le disse Isaac, il maggiordomo del campo. «Così potrai ascoltare il canto degli uccelli alla mattina. E lo chef ti ha preparato il tè che preferisci, quello di rooibos.» Il tè d'erbe dei monti del Capo era egualmente molto apprezzato da Isabella. Garry portò il Beechcraft nell'hangar per impedire che durante la notte leoni e iene distruggessero i pneumatici. Il personale caricò i bagagli su un camion scoperto. Poi, con Garry al volante del Toyota, si avviarono sobbalzando lungo la pista accidentata che attraversava la foresta di combreti. La stagione delle piogge era stata buona e la selvaggina abbondava. La pista sassosa era costellata d'impronte. Quando arrivarono all'ampia radura di fronte al campo, videro branchi di zebre e di impala bruno-rossicci che restavano tranquilli sul pascolo d'argentea erba invernale senza dar segno di paura. Una delle regole imposte da Sean stabiliva che non si doveva mai sparare a meno di tre chilometri dal campo: non era una restrizione limitatrice, dato che la concessione di Chizora si estendeva su diecimila chilometri quadrati. Il campo era affacciato sulla radura e sullo stagno fangoso al centro. Nella stagione inoltrata, quando l'acqua si prosciugava, Sean sarebbe stato costretto a smontare il campo e a seguirla giù per la scarpata, fino all'altro campo sulla riva del lago Kariba. La fila delle tende verdi era disposta all'interno della foresta; ognuna aveva una doccia e una latrina sul retro. La tenda-sala da pranzo era circondata da un boma scoperto. Le sedie pieghevoli erano disposte intorno al fuoco del bivacco, dove bruciavano notte e giorno grossi tronchi di mopane. I servitori portavano linde uniformi bianche inamidate ed Isaac, nella sua qualità di maggiordomo, ostentava una vistosa fusciacca cremisi. Il generatore portatile forniva la luce e l'energia per i frigoriferi e i congelatori contenuti nella dispensa dai muri d'argilla. Nella cucina con il tetto di ramaglie lo chef preparava una vasta gamma di piatti per gourmet. C'erano tutte le comodità di quello che veniva chiamato «campo alla Hemingway»; le più
importanti, forse, erano i grandi secchi di ghiaccio sul tavolo del bar e i reggimenti di bottiglie di liquore allineate in perfetto ordine. C'erano cinque marche diverse di blended whisky e tre della varietà al malto. Uno Chablis Vaudésir grand cru riposava in un secchiello d'argento. C'erano anche gli ingredienti per i Pimm's No. 1 e i Bloody Mary, a disposizione di coloro che avevano gusti più mondani. Tutti i bicchieri erano di cristallo Stuart. I clienti che potevano pagarsi i safari esigevano che si provvedesse alle loro esigenze fondamentali. Gli inservienti avevano riempito d'acqua caldissima i serbatoi delle docce; e mentre gli ospiti si lavavano per togliersi di dosso la polvere ed il sudore del viaggio, disfacevano le valigie e preparavano in ogni tenda gli abiti da safari. Lavati e ristorati, i Courteney si radunarono intorno al fuoco e Shasa diede un'occhiata all'orologio. «E' presto per bere qualcosa?» «Sciocchezze», disse Garry. «Siamo in vacanza.» E chiamò il barista perché prendesse le ordinazioni. Isabella bevve lentamente il vino bianco freddo. Per la prima volta dopo quasi due anni si sentiva sicura e serena. Incongruamente pensò a Michael. Era l'unico che mancava. Seguì con lo sguardo la processione di bellissimi animali selvatici che scendevano all'abbeverata e ascoltò distrattamente il padre e Garry. Stavano parlando del cliente di Sean, un industriale tedesco che si chiamava Otto Heider. «Ha vent'anni più di Sean ma vanno magnificamente d'accordo. Sono due temerari. Dio, corrono certi rischi!» disse Shasa. «Più l'azione è pericolosa e più il vecchio Otto è felice. Non vuole andare a caccia con altri che Sean.» «Ho incaricato i servizi speciali di raccogliere informazioni su di lui.» Garry annuì. I servizi speciali erano una sezione della Courteney Enterprises il cui direttore rispondeva direttamente a Garry. Era il suo sistema di spionaggio privato, e si occupava di tutto, dalla sicurezza dell'azienda all'acquisizione più o meno illecita d'informazioni industriali. «Otto Heider è un vero giocatore. L'elenco delle sue proprietà e delle sue partecipazioni azionarie è lungo quattro pagine dattiloscritte; ma è imprevedibile. Non credo che dovremmo fare affari con lui. Si espone troppo. Secondo i miei calcoli, è sottocapitalizzato almeno di tre miliardi di marchi.» «Sono d'accordo.» Shasa inclinò la testa. «E' un personaggio interessante ma non fa per noi. Sapete che quando fa un safari si porta dietro una banca del sangue personale nell'eventualità di venir travolto da un elefante o incornato da un bufalo?» «No, non lo sapevo.» Garry si sporse in avanti sulla sedia pieghevole. «Sangue fresco.» Shasa sorrise. «Sull'unghia, per così dire. Trasfusioni a portata di mano.» «Cosa significa?» Persino Isabella era incuriosita. «Si fa accompagnare da due infermiere diplomate, bionde, belle e di venticinque anni al massimo, gruppo sanguigno A B positivo. Se ha bisogno di sangue, può farselo donare da una delle due e ricevere nel contempo cure efficienti.» Garry rise con ammirazione. «E anche se non ha bisogno di sangue, è sempre utile averle al fianco in un safari. Le trasfusioni funzionano nella direzione opposta.» «Garry, sei scandaloso!» Isabella sorrise. «Oh, no. E' scandaloso il vecchio Otto. Comincio a cambiare opinione su di lui. Potremmo fare affari insieme: tanta preveggenza è lodevole.» «Non ci pensare. Otto partirà domattina con le due infermiere. Il cliente che ci interessa davvero arriverà domani pomeriggio. Sean condurrà Otto a Salisbury e porterà qui l'altro...»
Shasa s'interruppe e si schermò gli occhi, scrutando la radura davanti al campo. «Sento il camion di Sean. Sì, eccolo.» La sagoma del veicolo da caccia uscì sfrecciando dalla foresta a un chilometro e mezzo di distanza, nella prateria. «Il signorino Sean va di fretta.» Il rombo del motore diventò più possente. Un'alta colonna di polvere si innalzò nel cielo serotino. Gli animali all'abbeverata si spaventarono e galopparono verso gli alberi. Mentre la distanza si riduceva, scorsero gli altri passeggeri del Toyota scoperto. La carrozzeria era stata asportata e il parabrezza era ripiegato sul cofano. Sull'alto sedile posteriore c'erano quattro persone, due cacciatori negri e due donne bianche. Dovevano essere le infermiere tedesche, pensò Isabella, perché corrispondevano alla descrizione: erano giovani, bionde e carine. Sul sedile passeggeri anteriore c'era un uomo di mezza età in tenuta da safari confezionata su misura, con occhiali dalla montatura d'oro e una fascia di pelle di leopardo intorno allo Stetson. L'aria baldanzosa lo identificava come Otto Heider, il cliente di cui avevano appena parlato. Sean era al volante del Toyota, e Isabella non seppe trattenersi. Si alzò di scatto dalla sedia pieghevole e corse al cancello del boma. Sean indossava una camicia da safari con due cartucce di grosso calibro infilate nel portaproiettili. Le maniche erano tagliate alla spalla e le braccia erano nude, abbronzate e muscolose, lucide come se fossero lubrificate. I capelli che scendevano sulle spalle erano tagliati alla Principe Valiant. La fascia di cuoio stile comanche che portava intorno alla fronte non bastava a trattenere le lucide ciocche nerissime che svolazzavano intorno alla testa come una bandiera mentre guidava a tutta velocità verso l'entrata del boma. Frenò con tanta violenza che il veicolo pesante sbandò e si arrestò in una nube di polvere. Sean balzò a terra e si avviò a passo deciso. «Sean!» esclamò Isabella, felice, ma lui le passò accanto con un'espressione di furore. Lo guardò sbalordita. Sean ignorò il padre come aveva ignorato la sorella e si fermò di fronte al fratello minore. «A che diavolo di gioco credi di giocare?» chiese in tono di gelida furia, e il sorriso soddisfatto di Garry svanì. «Lieto di vederti.» Il tono di Garry era blando, ma dietro le lenti gli occhi lampeggiavano d'irritazione. Sean si chinò e lo afferrò per la camicia. Lo sollevò con uno strattone dalla sedia pieghevole. Era un'impresa notevole perché Garry era un uomo robusto e solido. «Lascia che ti riveli un piccolo segreto», disse Sean. «Io passo quattro giorni per arrivare alla posizione ideale per sparare all'unico maschio decente che ho visto in tutta la stagione, e al momento decisivo tu arrivi in picchiata come von Richthofen e fai un baccano d'inferno.» «Senti, Sean, io non...» Garry cercò di placarlo, ma Sean non ascoltava neppure. «Maledetto burocrate, turista rammollito che ti diverti a fare il duro! Chi cavolo cerchi d'impressionare?» «Sean.» Garry tese entrambe le mani con le palme aperte. «Andiamo, sii ragionevole. Come potevo saperlo?» «Ragionevole? Quando piombi come un pazzo nella mia concessione e fai scappare il mio jumbo? Ragionevole? Quando deludi il mio miglior cliente e rovini l'ultima possibilità che abbiamo di sparare a un grosso maschio in questo safari?» «Ho detto che mi dispiace.»
«Se ti dispiace adesso, immagina quanto ti dispiacerà fra cinque minuti», disse Sean. Continuò a stringere con la sinistra la camicia di Garry e lo spinse indietro. Istintivamente, Garry resistette: subito Sean invertì la pressione e lo colse di sorpresa. Non tirò molto indietro la mano destra. Sferrò il pugno da una dozzina di centimetri; ma lo fece con tutta la forza dei muscoli delle spalle, e Garry si stava muovendo nella sua direzione. I denti sbatterono. Indietreggiò barcollando e gli occhiali gli schizzarono via, Urtò con la parte posteriore delle ginocchia contro la sedia pieghevole, e cadde riverso, goffamente. «Accidenti, così va bene», disse Sean mentre contraeva e decontraeva la mano destra e girava intorno alla sedia rovesciata per arrivare di nuovo al fratello. «Sean!» Isabella si riprese dallo choc. «Finiscila, Sean! Làscialo stare!» Corse per mettersi tra i fratelli, ma Shasa la trattenne per il braccio. Garry si sollevò a sedere. Sembrava stordito. Un filo di sangue gli colava da una narice e cercava di bloccarlo aspirando. Poi alzò la mano e se la passò sul labbro superiore, se l'accostò, insanguinata, agli occhi miopi e la esaminò con aria incredula. «Fatti sotto, pezzo grosso.» Sean era in piedi davanti a lui. «Alzati. Ti sto aspettando.» «Làscialo stare, Sean. Ti prego!» Isabella odiava la violenza e il sangue e quella collera terrificante tra due uomini che le erano cari. «Basta! Basta!» «Taci, Bella.» Il padre la scosse. «Non immischiarti.» Garry, ancora seduto nella polvere, si scrollò come un grosso San Bernardo. «Fatti sotto, signor presidente del consiglio d'amministrazione», lo sfidò Sean. «Alzati in piedi, signor Uomo d'Affari dell'Anno. Vediamo un po' il tuo stile, signor magnate della finanza.» «Làsciali fare, Bella.» Shasa continuò a trattenerla. «Doveva succedere. E' qualcosa che covava da vent'anni. Lascia che si sfoghino.» All'improvviso Isabella comprese. Gli insulti di Sean erano un'espressione dell'invidia e del risentimento che aveva accumulato in tutta una vita. Sean era il primogenito, il principino d'oro, il fior fiore della nidiata. Tutti quegli onori e quei titoli avrebbero dovuto spettare a lui. Avrebbe dovuto essere il prediletto del padre, e invece aveva perso tutto. Era stato derubato dal nanerottolo della famiglia. «Piscialletto», disse Sean. «Quattrocchi.» Erano insulti infantili. Isabella ricordava bene l'imperiosa superiorità del fratello maggiore. Ricordava che durante gli inverni al Capo della loro infanzia, quando la neve formava una spessa coltre sui monti Hottentots Holland, Sean buttava Garry giù dal letto all'alba e lo mandava a scaldargli l'asse del gabinetto. Ricordava cento altri episodi di umiliazioni e di prepotenze con cui Sean aveva rafforzato il suo dominio sul fratello più debole. Garry si rialzò. S'era impegnato per vent'anni per trasformare l'organismo malaticcio che aveva dalla nascita. Adesso il suo torace era un barile di muscoli e il vello ruvido spuntava a riccioli dalla camicia. Gli arti erano ipersviluppati in modo quasi grottesco; ma era più basso di quasi dieci centimetri del fratello maggiore. «Questa è l'ultima volta», disse senza alzare la voce. «Non succederà mai più. Capisci?» «No.» Sean scosse la testa, mascherando la rabbia con un sorriso beffardo. «Non capisco, Piscialletto. Devi spiegarmelo.» Il cliente tedesco e le belle infermiere erano scesi dal Toyota e avevano seguito Sean; adesso assistevano alla scena con aria di
divertita partecipazione. Privo degli occhiali, Garry sbatteva gli occhi come un gufo, ma stringeva così forte i denti che due grovigli di muscoli grossi come noci spiccavano dall'incardinatura della mandibola, sotto gli orecchi. Sean si tese in avanti, quasi in punta di piedi e gli diede uno schiaffetto continuando a sorridere. E Garry si avventò. Era molto svelto per il suo peso, come lo è un bufalo maschio od un vecchio coccodrillo; ma Sean era veloce come un leopardo. Si chinò per evitare la carica di Garry e gli sferrò un sinistro al ventre, appena sotto lo sterno. Fu come scagliare un mattone contro un carro armato. Garry non fiatò. Aggobbì le spalle e ritornò all'attacco. Sean gli saltellava davanti senza abbandonare il sorriso insolente. Lasciava che Garry attaccasse e poi contrattaccava. I suoi colpi martellavano sui muscoli elastici; era come se percuotesse il pneumatico di un camion con una mazza da baseball. Le infermiere tedesche lanciavano gridolini di beato orrore. I servitori accorsero dalla cucina e si affacciarono lungo il basso recinto, con gli occhi sgranati. «Falli smettere, papà», implorò Isabella. Ma Shasa stava valutando i due figli con occhio calcolatore. Fino a quel momento, le cose andavano secondo le sue previsioni. Sean era tutto fuoco e stile. Ributtava all'indietro i capelli lucidi dopo ogni colpo e indugiava per lanciare occhiate agli spettatori, soprattutto alle infermiere bionde. Garry, invece, martellava senza sosta e costringeva il fratello a saltellare e guizzare per tenersi fuori della portata delle sue braccia massicce. Evidentemente era disposto a incassare tutti i colpi che Sean riusciva a tirargli; ma per Sean era sorprendentemente difficile centrarlo alla testa. All'ultimo istante aggobbiva le spalle muscolose e defletteva i pugni del fratello. Ma era anche sveltissimo nel muovere le braccia; e alcuni dei migliori colpi di Sean alla testa venivano parati dai bicipiti massicci o dagli avambracci pelosi. All'inizio, le cariche di Garry sembravano prive di scopo. Poi Shasa si accorse che stava spingendo implacabilmente Sean contro un angolo della recinzione per cercare di bloccarlo e avvinghiarlo. Ogni volta il fratello riusciva a disimpegnarsi, e Garry ricominciava. Era paziente come un cane pastore: lo costringeva nella posizione che voleva, e accettava con sopportazione i colpi di Sean. Il sangue gli colava dalla narice alla bocca e gli sgocciolava dal mento sulla camicia color cachi. Il sogghigno beffardo di Sean, adesso, era un po' forzato, e il fiume delle invettive s'era inaridito. I movimenti non erano più tanto guizzanti. Garry, invece, si muoveva con lo stesso ritmo poderoso e lo spingeva indietro, indietro, sempre più indietro. I pugni di Sean perdevano energia ed erano meno numerosi. Poi Garry lo bloccò mentre cercava di piroettare via sulla destra, anticipando esattamente il tentativo. Sean arretrò in fretta per ritrovare la stabilità, e sentì la paglia della recinzione toccargli la schiena. Si curvò di scatto per passare al di sotto del braccio protéso di Garry, e Garry sferrò il primo pugno. Tutti gli spettatori mormorarono e una delle infermiere proruppe in uno strillo. Il pugno di Garry fu un fulmine, guidato da novanta chili di muscoli, ossa e forza di volontà. Sibilò nell'aria e, sebbene Sean lo ricevesse sulla guardia, riuscì a sfondarla. Arrivò sulla calotta cranica, sopra l'attaccatura dei capelli, con tanta forza che fece turbinare le lunghe ciocche lucenti come se le avesse investite una forte raffica di vento. Per un attimo gli occhi di Sean rotearono all'interno, lasciando visibile soltanto il bianco. Le ginocchia si piegarono. Poi si riprese parzialmente; ma la faccia era impietrita dal dolore e la
bocca contratta dal panico mentre tentava un'altra carica, violenta come quella di un orso. Garry si avventò, approfittando del momento che aveva costruito con tenacia. Tenne le braccia aperte come per accogliere un vecchio amico od una persona amata. All'improvviso scalciò e scattò come un mezzofondista che sente la campana dell'ultimo giro. Aveva ingannato tutti, incluso Sean. Avevano pensato che quelle cariche poderose segnassero il limite massimo della sua velocità; e invece mostrò di essere capace di ben altro. Un bufalo carica nello stesso modo; si muove di sbieco davanti alla vittima, l'illude l'induce a dubitare di essere veramente il bersaglio di quell'aggressività poderosa. Poi all'ultimo momento si scaglia con velocità sbalorditiva per incornarla e calpestarla. Semistordito, Sean non riuscì a evitare il fratello. Le braccia di Garry lo strinsero in un abbraccio omicida, e lo slancio della carica li trascinò entrambi nella tenda-sala da pranzo. Il tavolobar si rovesciò in una pioggia di liquori pregiati, vini nobili e cristalli eleganti. Calpestarono le schegge lucenti, e una nube di vapori alcolici li avvolse per un momento prima che piombassero oltre. Il lungo tavolo da pranzo, apparecchiato con una tovaglia di pizzo di Madera, crollò a terra, il servizio Rosenthal andò in pezzi. Mentre, portati dallo slancio, uscivano dalla parte posteriore della tenda, strapparono le corde e la tela si afflosciò. I servitori si dispersero con grida di allarme, d'eccitazione e d'incoraggiamento. I due fratelli volteggiavano in un valzer feroce. La stretta di Garry era irremovibile, aveva serrato le mani intorno ai polsi dietro il dorso di Sean. Le sue braccia fremevano convulsamente, gonfie di muscoli, e si contraevano come pitoni che stritolano la preda. Un braccio di Sean era imprigionato in quel cerchio mortale. Con il pugno libero martellò furiosamente la testa di Garry, ma i colpi non erano abbastanza violenti. Anche se uno lo centrò alla bocca e gli spaccò il labbro, lasciò intatti i grossi denti candidi. Garry chinò la testa, socchiuse gli occhi, e strinse e strinse ancora. Tra i ruggiti di approvazione degli spettatori negri e gli strilletti delle infermiere, andarono a sbattere contro il lato opposto del recinto e lo sfondarono. Ancora avvinghiati, tornarono verso la scena centrale. Una delle infermiere non si scansò in tempo, e finì a terra in un agitarsi di gambe snelle ed abbronzate, gonne sventolanti e mutandine di pizzo che sarebbero bastate per far interrompere una battaglia meno accanita. Nessuno la guardò. Garry cercava di rovesciare Sean; a ogni giro lo sollevava in alto. Ma, sebbene la faccia di Sean fosse gonfia e scura per la costrizione del petto e la difficoltà di respirazione, ogni volta riusciva a ricadere in piedi come un gatto, fino a che Garry lo spinse in mezzo al fuoco. Sean aveva le gambe nude: e le fiamme lo lambirono, bruciando i pelî dei polpacci e le scarpe di pelle. Con un urlo di dolore Sean balzò in alto, fra le braccia del fratello. Riuscì a scostarsi dal fuoco ma la stretta di Garry era inesorabile. Con un grugnito di fatica, piegò lentamente Sean all'indietro come se fosse un arco. Le gambe bruciacchiate di Sean si piegarono. Le ginocchia toccarono il suolo, e Garry si chinò su di lui e, con un altro grugnito, strinse le braccia ancora più forte. L'aria fuoriuscì dai polmoni di Sean in un lungo gemito cavernoso e il volto avvampò di sangue paonazzo. Garry grugnì ancora e strinse più forte, implacabile come una pressa d'acciaio.
Gli occhi di Sean cominciarono a sporgere dalle orbite. Aprì la bocca, lasciando penzolare la lingua fra i denti. «Garry! Così lo uccidi!» urlò Isabella, trasferendo la preoccupazione da un fratello all'altro. Il padre continuò a trattenerla e Garry non mostrò di averla udita: grugnì di nuovo e strinse. Questa volta si sentirono le costole di Sean scricchiolare come rami secchi. Si afflosciò con un gemito e si abbandonò come un sacco semivuoto fra le braccia di Garry, che lo lasciò cadere ed indietreggiò ansando. Anche lui aveva la faccia arrossata e gonfia per lo sforzo. Sean tentò di sollevarsi a sedere, ma il dolore per le costole incrinate lo dilaniò. Gemette di nuovo e si strinse le mani sul petto. Garry si allisciò i capelli, ma la cresta disordinata alla sommità del capo si rialzò di scatto. «Bene», disse con molta calma. «D'ora in poi ti comporterai come si deve. Mi hai sentito?» Sean riuscì a sollevarsi sulle ginocchia puntellandosi con una mano, mentre teneva l'altra premuta sul torace. «Mi hai sentito?» ripeté Garry. «Vai a farti fottere», sibilò Sean. Lo sforzo di parlare gli fece male alle costole. Garry si chinò e gli premette con forza il pollice sul petto lesionato. «Mi hai sentito?» «D'accordo, d'accordo», gemette Sean. «Ti ho sentito.» «Bene.» Garry annuì e si girò verso le due infermiere. «Fraulein», disse in discreto tedesco, «credo che abbia bisogno del vostro intervento.» Le due ragazze accorsero, schioccando la lingua. Sollevarono Sean e lo condussero nella sua tenda. Shasa lasciò il braccio di Isabella. «Be'», mormorò. «Sembra che la questione sia risolta, finalmente.» Poi lanciò uno sguardo al disastro nella tenda-sala da pranzo. «Spero che non fosse l'ultima bottiglia di Chivas.» Garry era seduto sulla branda, nudo fino alla cintura, mentre Isabella gli ungeva i lividi con una pomata all'amica. Le chiazze lasciate dai pugni di Sean gli coprivano le braccia e il torace come quelle di una giraffa. Il naso era gonfio, il labbro tumefatto e incrostato di sangue. «Credo che sia un miglioramento», commentò Isabella. «Prima la tua faccia era naso per metà, adesso è tutta naso.» Garry ridacchiò e ne toccò delicatamente la punta. «Abbiamo sistemato il signorino Sean. Pare che adesso dovrò insegnare un po' di rispetto anche a te.» Isabella gli baciò il ciuffo sulla sommità della testa. «Orsacchiotto», disse. «Sai, Garry, Holly è una donna fortunata: sei un uomo straordinario.» Garry arrossì, letteralmente, e Isabella sentì di volergli ancora più bene. Non era più buffo, neppure con il naso deformato e il labbro gonfio. Sean gemette teatralmente ancora una volta e Otto Heider rovesciò la testa all'indietro e rise. «Ecco qui.» Versò altre tre dita di whisky nel bicchiere che stava sul comodino. «Questo è per il dolore; funziona come il cloroformio.» Sean si tese, prese il bicchiere e tracannò il whisky. «Mi è capitato di venire travolto da un bufalo e colpito da un elefante, ma questo... Ehi, Trudi, vacci piano.» Trudi si soffermò con il cerotto tra le mani e lo baciò sulle labbra. «Zitto», gli disse. «Ti sto sistemando.» Aveva un accento tedesco molto sexy e labbra rosse e morbide.
«Sì, ci sai fare, tu, a sistemare un uomo», ammise Sean. La ragazza rise e riprese a lavorare. Gli passò il cerotto sotto l'ascella perché lo prendesse Erica, seduta dietro al ferito sul letto a due piazze. «Niente bumsen per te», disse Erica con un sorriso severo. «Per molto, molto tempo.» E gli passò il cerotto sotto l'altra ascella perché Trudi lo riprendesse. Otto Heider scoppiò di nuovo a ridere. «Hai intenzione di ritirarti in buon ordine e di lasciarmi tutto solo a occuparmi di queste due volpacchiotte?» Otto era straordinariamente generoso con gli amici e Sean era un vecchio amico. Loro quattro, Otto, Trudi, Erica e Sean, non si limitavano ad andare a caccia. Era stato un safari molto piacevole. Se si escludeva l'elefante che Garry aveva fatto scappare, s'erano divertiti parecchio. «Tu non puoi più combinare niente. Ma tuo fratello... ah, è forte come un toro.» Trudi strabuzzò gli occhi maliziosamente. «Si batte bene. Credi che sia altrettanto bravo anche a...» Sean la fissò per un momento con aria pensierosa, poi sogghignò. «Mio fratello è un puritano, un bacchettone. Scommetto che era vergine quando ha sposato quella faccia da scema della moglie. Non credo che saprebbe cosa fare di un bel bumsen se glielo mettessi sotto il naso.» «Possiamo insegnarglielo noi», promise Trudi. «Io ed Erica possiamo insegnarglielo benissimo.» «Cosa ne dici, Otto?» Sean si voltò a guardare il cliente. «Posso prendere in prestito le signore, stasera? Non ci vorrà molto. Le rimanderò nella tua tenda prima di mezzanotte.» Otto scosse la testa in segno d'ammirazione. «Amico mio, sei tutto da ridere. Ne inventi sempre una buona. Ehi, ragazze, vi piace? Cosa ve ne sembra, eh? Divertente, vero?» Sean rise con loro, stringendosi le costole lesionate per proteggerle. Ma aveva una luce vendicativa negli occhi. Comprendeva meglio di chiunque cos'era accaduto quel giorno. Era stata ben più di una normale rissa tra fratelli, quella che aveva provocato. Era stato lo scontro territoriale decisivo tra due giovani animali maschi per disputarsi il potere ed il rango. Aveva perduto e la sconfitta gli bruciava terribilmente. Sapeva che non avrebbe più potuto lanciare una sfida seria. Garry l'aveva battuto in ogni campo, dal consiglio di amministrazione all'arena del confronto fisico. Garry era diventato inattaccabile. Sean, ormai, poteva al massimo adulterare il suo potere. Voleva precostituirsi una specie di assicurazione, in vista dei giorni tempestosi che sicuramente lo attendevano. Garry stava facendo un sogno. Era straordinariamente nitido e realistico. Veniva inseguito in un prato da un'orda di gaie ninfe dei boschi, e si sentiva le gambe di piombo. Ogni passo costituiva uno sforzo, come se avanzasse a guado in una palude di melassa calda. Vedeva Holly e i bambini all'estremità opposta del prato. Lei teneva fra le braccia l'ultimo nato, e gli altri figli le si stringevano intorno alle gambe e si aggrappavano alla gonna. Holly gli gridava qualcosa, ma gli era impossibile udire le parole. E i bellissimi occhi bicolori grondavano di lacrime. Cercava di raggiungerla, ma sentiva le mani morbide e calde delle ninfe che lo trattenevano. Cercò di svincolarsi, ma senza troppa convinzione. Disperato, vide Holly e i bambini che gli voltavano le spalle. Lei radunò i piccoli e insieme si dileguarono nel bosco al limitare del prato. Garry cercò di gridare perché lo aspettassero; ma sentiva che pensieri e sentimenti erano confusi. Le mani che lo toccavano erano seducenti. All'improvviso l'eccitazione divenne travolgente. Non desiderava più fuggire. Non voleva che il sogno finisse,
perché anche nel sonno si rendeva conto che era un sogno. Si abbandonò alla fantasia, e sentì i corpi morbidi e caldi stringersi a lui. L'odore della femminilità giovane ed eccitata era dolce ed irresistibile. Sentiva le loro risate soffocate contro la pelle ed il contatto delle bocche calde e lubriche. Holly e i bambini se n'erano andati e li aveva dimenticati: la libidine cancellava le loro immagini e lo sommergeva completamente. All'improvviso si svegliò e si accorse che non era un sogno. Il suo letto era pieno di corpi frementi che gli si stringevano addosso. Non sapeva quante mani lo accarezzavano e lo toccavano, premevano e tiravano. Ciocche di capelli serici passavano sul volto come acqua marina, lingue calde ed umide lo leccavano e lo solleticavano, membra snelle e levigate lo avvinghiavano. Restò immobile ancora per un momento poi, con un grido, si sollevò di scatto. Il chiaro di luna entrava nella tenda e i corpi femminili nudi splendevano come opali mentre si stringevano a lui. Il fratello maggiore era seduto ai piedi del letto. Sean aveva il petto fasciato da cerotti bianchi, ma il volto ostentava un sogghigno fanciullesco. «Hai vinto il primo premio, vecchio mio. Le spoglie vanno al vincitore. Divèrtiti, ragazzo, divèrtiti!» «Bastardo!» Garry si tese per afferrarlo. Ma Sean era già sparito con una prontezza che sembrava smentire le lesioni al torace. Le due ragazze balzarono dal letto sfatto in una confusione di gambe e di braccia, di seni colmi e di natiche bianche. Garry le afferrò, le sollevò tenendole ognuna sotto un braccio come se fossero due gattine, e le portò fuori dalla tenda mentre strillavano e scalciavano invano. Poi vide il padre che, sulla soglia della sua tenda, si annodava la cintura della vestaglia. «Ehi, vecchio mio, cosa succede?» «Il mio caro fratello mi ha messo nel letto due intruse. Ma me ne sto liberando», rispose educatamente Garry. «Che peccato», commentò Shasa. «Sprecare tutto quel ben di Dio.» Ma Garry non si fermò. Shasa lo seguì con le mani affondate nelle tasche della vestaglia e un sorriso divertito. Isabella, in camicia da notte corta di pizzo e con gli occhi sgranati, uscì dalla sua tenda. «Garry, ma che cosa stai portando?» «Credevo che fosse evidente.» «Due, Garry? Non sono troppe?» «Chiedilo a Sean. E' stata un'idea sua.» «Cosa intendi farne? Posso venire a vedere?» «Certo. Così tu e pater potrete riferire a Holly.» Garry uscì dal campo, attraversò la radura e scese all'abbeverata. La notte era fredda e la brina scricchiolava sotto i piedi. Intorno allo stagno il terreno era ridotto a una untuosa poltiglia nera dagli zoccoli degli animali. «Per favore! Era solo uno scherzo!» strillò Trudi, che si dibatteva fiaccamente sotto il braccio di Garry. «Sì, uno scherzo», confermò Erica, piangendo. «Lasciami andare.» Era scivolata e pendeva a testa in giù nella stretta di Garry. Il sedere nudo brillava nel chiaro di luna mentre la ragazza scalciava. «Anche per me», disse Garry. «Anch'io voglio fare uno scherzo. E più divertente del vostro.» Il primo lancio non fu il migliore: appena sei metri. Ma Erica era la più rotondetta e la più pesante delle due. Il secondo lancio fu assai migliore, dieci metri, e Trudi strillò durante il volo. La voce si spense di colpo quando piombò nell'acqua gelida. Le due ragazze risalirono a galla sputando e gemendo sotto
una coltre di lucido fango nero. «Ecco», disse Garry. «Questo sì che è un vero scherzo.» Sean si presentò tardi per la colazione. Si soffermò all'ingresso della tenda-sala da pranzo e si guardò intorno socchiudendo gli occhi. I servitori avevano rimediato a gran parte dei danni. I mobili fracassati erano stati riparati durante la notte. Isaac aveva messo insieme un servizio di piatti e di bicchieri per sostituire i pezzi rotti. Trudi ed Erica si erano ripulite dal fango, ma avevano ancora i capelli avvolti nei bigodini di plastica colorata. Non fu questo, però, a colpire la sua attenzione. Puntò gli occhi a capotavola. Era il suo campo, e quel posto era suo per tradizione. Lo sapevano tutti. Sullo schienale di tela della sedia era scritto il suo nome. Su quella sedia stava Garry. Il naso s'era sgonfiato notevolmente. Aveva riparato la montatura degli occhiali. I capelli erano ancora bagnati dopo la doccia. Appariva colossale, baldanzoso e soddisfatto, e s'era appropriato del posto di Sean. Alzò gli occhi dalla colazione, fegato con cipolle e uova strapazzate. «Buongiorno, Sean», disse allegramente. «Giacché ci sei, portami una tazza di caffè.» Intorno al tavolo scese un silenzio improvviso. Tutti fissavano Sean, in attesa della sua reazione. A poco a poco la smorfia di Sean svanì e fu sostituita da un sorriso. «Quante zollette di zucchero?» chiese. Andò alla credenza e prese la caffettiera dalle mani di Isaac. «Due basteranno.» Garry riprese a mangiare, e un brusio di sollievo corse intorno al tavolo. Tutti ripresero a parlare contemporaneamente. Sean portò la tazza e Garry annuì. «Grazie, Sean. Siedi.» Indicò la sedia vuota accanto alla sua. «Abbiamo diverse cose da discutere.» Isabella desiderava ascoltare la conversazione, ma le due tedesche chiacchieravano e ridevano e civettavano indiscriminatamente con Shasa e Otto. Sapeva che Garry stava fissando il programma degli incontri che si sarebbero svolti al campo nei giorni successivi. I nomi dei visitatori e tutti i dettagli erano importanti per lei e per Nicky. «E l'italiana? E' già stata tua cliente. Che tipo è?» chiese Garry, e Sean alzò le spalle. «Elsa Pignatelli? E' una svizzera italiana. Tira bene, quando si riesce a convincerla a sparare. Non lo fa a caso, ma quando preme il grilletto abbatte sempre qualcosa. Non l'ho mai vista sbagliare.» Garry rifletté per un momento e annuì. «Altro?» «Ha un caratterino. Vuole che le cose vadano a modo suo, ed è impossibile fargliela. Ha gli occhi dietro la testa. Ho cercato di gonfiare un po' il suo conto, ma se n'è accorta subito.» Garry annuì. «Non mi sorprende. E' una delle donne più ricche d'Europa. Farmaceutica e chimica. Ingegneria pesante, motori a reazione, armamenti. Manda avanti la baracca da quando suo marito è morto sette anni fa. Ha fama di essere un tipetto duro.» «La stagione scorsa un elefante ferito ci ha caricati in mezzo ai cespugli. Lei non si è spostata di un passo e lo ha steso con un colpo frontale al cervello da venti passi. Poi si è girata verso di me e mi ha fatto una sfuriata. Mi ha accusato di aver sparato al suo elefante. E' dura per davvero.» «C'è altro? Qualche debolezza? Le piace bere?» chiese Garry. Sean scosse la testa. «Un solo bicchiere di champagne ogni sera. Ogni volta, una bottiglia di Dom Pérignon appena stappata.
Beve un bicchiere e fa portar via il resto. Cinquanta dollari la bottiglia.» «C'è altro?» Garry lo fissò attraverso le lenti, e Sean sogghignò. «Su, Garry. E' vecchia... avrà cinquant'anni.» «Per la verità ne ha solo quarantadue», lo contraddisse il fratello. Sean sospirò. «Ho capito. Vuoi sapere se ce la siamo spassata insieme. Senti, io ho fatto la proposta. Diavolo, era previsto. Fa parte del servizio. Mi ha riso in faccia e ha detto che non voleva finire al fresco per corruzione di minorenne.» Scosse la testa. Non gli piaceva confessare i suoi insuccessi. «Peccato. Dobbiamo concludere vari affari con lei», osservò Garry. «Ho bisogno di tutti i mezzi di convinzione possibili.» «La porterò al campo questo pomeriggio alle cinque», promise Sean. «Poi sarà tutta tua. E ti auguro buona fortuna.» Andarono tutti alla pista per veder partire Otto e le sue infermiere. L'atmosfera era allegra. Le tedesche avevano perdonato a Garry l'imprevisto bagno notturno; non solo, ma a quanto pareva aveva conquistato la loro stima e stuzzicato il loro interesse con il rifiuto della proposta. Lo abbracciarono e lo baciarono e gli scompigliarono i capelli fino a che Garry arrossì di nuovo. «La prossima volta faremo qualche altro bello scherzo», gli promisero, e agitarono le mani dai finestrini mentre il Beechcraft si avventava rombando sulla pista e prendeva il volo. Dopo circa un chilometro, all'altezza di sessanta metri, Sean virò alla massima velocità e tornò indietro in picchiata, passando a sei metri appena sopra le teste di quelli che stavano a terra. Le ragazze continuavano a salutare. «Cowboy!» borbottò Garry mentre si metteva al volante del Toyota. «Vieni, Bella?» «Torno con pater», gridò lei. Sapeva che le sarebbe stato più facile far parlare il padre che il fratello. Corse al secondo camion e balzò a fianco di Shasa. Avevano percorso metà del tragitto di ritorno prima che le capitasse l'occasione di chiedere ciò che le interessava. «Allora, chi è Elsa Pignatelli?» chiese dolcemente. «E perché non l'avevo mai sentita nominare?» Shasa la guardò, sorpreso. «Come hai saputo di lei?» «Non ti fidi di me, pater? Sono o non sono la tua assistente personale?» Era una mossa astuta, ispirargli un senso di colpa. Subito Shasa cercò di giustificarsi. «Perdonami, Bella. Non è che non mi fidi di te. E' una faccenda piuttosto segreta.» «E lei è la ragione principale della nostra presenza qui, vero?» Shasa continuò a comportarsi in modo evasivo. «Elsa Pignatelli è una cacciatrice appassionata, una vera Diana. Ha fatto i safari con Sean negli ultimi tre anni. La sua passione è la caccia ai felini... leoni e leopardi. Sai che Sean è famoso per questo.» «Non siamo certo venuti per vederla sparare ai felini», insistette Isabella, e Shasa scosse la testa e cedette. «Fra le proprietà Pignatelli ci sono diverse fabbriche chimiche... farmaceutiche, di fertilizzanti e pesticidi agricoli, di plastiche e vernici. Detengono certi brevetti che ci interessano.» «Allora perché Garry non è andato a Ginevra o a Roma, o dove vive la signora?» «Sta a Losanna.» «Be', perché non è andato da lei, o perché lei non ha mandato un suo collaboratore a parlargli a Johannesburg? C'era
bisogno di una messinscena alla Tarzan in mezzo alla giungla? Cosa significa questo mistero?» Shasa rallentò e si concentrò con tutta l'attenzione per guadare il fiume. Non rispose fino a che non risalirono sulla riva opposta con le quattro ruote motrici. «Scusami se non te ne ho parlato. Stavo per farlo. I nostri interessi non si limitano ai pesticidi agricoli. Nel vasto mondo c'è tanta gente ostile che sarebbe molto curiosa di sapere qualcosa delle discussioni tra la Pignatelli Industrie e il presidente dell'ARMSCOR.» «Ah. Se parli dell'ARMSCOR deve trattarsi di armamenti.» Shasa lanciò un'occhiata alla figlia. Isabella portava una sciarpa colorata avvolta intorno ai capelli come un turbante, e il vento le arrossava le guance. Era bellissima, e Sasha provò una fitta di rimorso al pensiero di non essersi fidato di lei. Doveva fidarsi di sua figlia come di se stesso. «Io e te abbiamo già parlato delle armi da usare come estrema risorsa», mormorò. «Non saranno armi nucleari!» esclamò Isabella. «Avete già la bomba... quella chiassata per l'operazione Skylight!» «No, non si tratta di armi nucleari», sospirò Shasa. «Ma è qualcosa di altrettanto terribile, purtroppo. Sai che condivido la tua disapprovazione per le armi di distruzione di massa. Ma non sono destinate a venire usate. La loro efficacia sta nel fatto che esistono.» «Se esistono, prima o poi qualche pazzo le userà», disse seccamente Isabella, e Shasa scosse di nuovo la testa. «Ne abbiamo già parlato, tesoro. Ma resta il fatto che mi è stato affidato il compito di fornire alla nostra nazione tutti i mezzi possibili per difendersi. Non mi è dato di decidere quali armi sono accettabili moralmente.» «Abbiamo davvero bisogno di qualche altra mostruosità?» insistette Isabella. «Contro il nostro paese sta crescendo un'ondata d'odio, orchestrata abilmente da un piccolo gruppo di nemici. Stanno facendo il lavaggio del cervello a un'intera generazione di giovani di tutto il mondo perché ci considerino mostri da annientare a qualunque costo. Molto presto quei giovani perverranno a posizioni di potere. Sono coloro che domani avranno i poteri decisionali. Un giorno potrebbe capitarci di vedere una task-force della marina americana che blocca le nostre coste. Potremmo trovarci ad affrontare, poniamo, un'invasione di truppe appoggiate da Australia e Canada e da tutti i membri del Commonwealth.» «Oh, papà, è assurdo, vero?» «Per ora è una possibilità remota», riconobbe Shasa. «Ma tu hai parlato con vari membri influenti del governo laburista britannico, quando eravamo a Londra. Hai parlato con esponenti del partito Democratico americano... Teddy Kennedy, per esempio. Ricordi che cosa ti ha detto?» «Sì, ricordo», disse Isabella, sopraffatta da quel pensiero. «Dobbiamo fare in modo che nessuna nazione, neppure una delle superpotenze, possa mai considerare impunemente la possibilità di un intervento armato nei nostri affari interni.» «Abbiamo già la bomba», osservò Isabella. «Le armi nucleari sono costose, è difficile farle arrivare sul luogo dove debbono deflagrare, e limitare o controllare gli effetti è addirittura impossibile. Ci sono altri deterrenti efficaci.» «E sarà Elsa Pignatelli a fornirli? Perché dovrebbe aiutarci?» «La signora Pignatelli è una simpatizzante. Fa parte dell'Italian South Africa Society. Conosce e comprende l'Africa. E' una cacciatrice appassionata e ha altri legami con il continente. Il
padre faceva parte dello stato maggiore del generale De Bono, quando nel 1935 fu invasa l'Abissinia. Il marito combatté nel deserto agli ordini di Rommel e fu catturato a Bengasi. Passò tre anni in Sudafrica come prigioniero di guerra, e si affezionò al nostro paese. E più tardi trasmise questi sentimenti alla moglie, che visita l'Africa regolarmente, per cacciare o concludere affari. Capisce i problemi che abbiamo di fronte e, come noi, respinge le soluzioni semplicistiche che il resto del mondo pretende di imporci. L'incontro è stato organizzato su sua richiesta.» Isabella avrebbe voluto fare molte domande, ma sapeva che era meglio lasciar parlare il padre. Rimase in silenzio a fissare la pista sconnessa, e notò appena il branco d'impala che l'attraversava, più avanti, a grandi balzi agili. Erano bellissimi, ma incorporei come fumo in mezzo alla foresta. «Solo quattro persone sanno dell'incontro, Bella. La signora Pignatelli non si è fidata d'informare i suoi collaboratori. A parte Garry e me, solo il Primo ministro è al corrente del tema delle discussioni.» Isabella represse il senso di nausea che le attanagliava la bocca dello stomaco. Voleva pregare il padre di non dire nulla... poi pensò a Nicky e tacque. «Cinque anni fa, la NATO aveva stipulato contratti con due grandi aziende chimiche dell'Europa occidentale perché realizzassero un gas nervino da utilizzare sui campi di battaglia. Lo scorso autunno i contratti sono stati disdetti, soprattutto in séguito alle pressioni dei governi socialisti della Scandinavia e dell'Olanda. Ma era già stato fatto molto in vista dello sviluppo di queste armi; e un'azienda aveva prodotto e sperimentato un gas che rispondeva a tutti i requisiti.» «Era la Pignatelli Chemicals?» chiese Isabella. Quando Shasa annuì, continuò: «Quali erano i requisiti richiesti dalla NATO?» «L'arma non deve essere pericolosa da immagazzinare e trasportare. La Pignatelli Chemicals ha realizzato due sostanze separate, ognuna inerte ed innocua. Si possono trasportare in grandi serbatoi su strada o per ferrovia, senza il minimo rischio. Ma quando si combinano formano un gas più pesante dell'aria che è circa undici volte più tossico del cianuro usato per le esecuzioni in America.» Shasa lasciò la pista e fermò il camion. Poi prese dalla rastrelliera dietro il sedile il 557 Gibbs a due canne di Sean e lo caricò con due grosse cartucce estratte dalla bandoliera. «Andiamo al laghetto degli ippopotami», suggerì. Isabella lo seguì sul sentiero fino al laghetto verde e profondo formato dal fiume. Il fucile doveva servire come protezione, perché gli ippopotami avevano ucciso più esseri umani in Africa dei serpenti, leoni e bufali sommati insieme. Eppure non sembravano pericolosi mentre sguazzavano sotto la riva. Soltanto i dorsi affioravano come grandi macigni neri. Poi un maschio spalancò la gigantesca bocca rosea e mise in mostra le zanne d'avorio ricurve che potevano tranciare le canne del papiro o fare a pezzi un bue. Girò verso di loro gli occhi porcini e iniettati di sangue e li fissò con aria malevola. Padre e figlia sedettero fianco a fianco su un tronco morto, e Shasa posò il fucile ma lo tenne a portata di mano. Dopo un momento, l'ippopotamo richiuse le fauci e tornò a immergersi, lasciando affiorare soltanto gli occhi e le punte degli orecchi rotondi. Shasa ricambiò il suo sguardo con lo stesso risentimento. «Undici volte più tossico del cianuro», ripeté. «E' tremendo.»
«Perché, pater? E' davvero atroce. Perché?» Shasa alzò le spalle. «Per difenderci dall'odio.» Prese un sasso e lo lanciò all'ippopotamo. Il sasso cadde a una distanza di sei metri, ma l'animale s'immerse completamente. Shasa continuò a parlare. «Il gas è chiamato in codice Cyndex 25 ed ha altre qualità, oltre al fatto che uccide in fretta e senza far rumore.» «Consolante», mormorò Isabella. «E quali sono?» «E' inodoro. Non c'è preavviso. La morte sopravviene senza che nulla l'annunci. Tuttavia è possibile dargli un odore, uno qualunque... per esempio quello delle mele mature o del gelsomino, o magari di Chanel numero cinque, se si vuole.» «E' macabro, pater. Non è nel tuo solito stile.» Shasa non reagì al rimprovero. «Inoltre è molto instabile. Si decompone dopo tre ore appena: in séguito è del tutto innocuo. E questo è vantaggioso. Puoi eliminare con il gas l'esercito nemico, e mandare le tue truppe a occupare l'area tre ore dopo.» «Meraviglioso», mormorò Isabella. «Sono sicura che al Primo ministro non saranno sfuggite le possibilità politiche... per esempio, se si scatenassero un milione di negri.» Shasa sospirò. «Preferisco non pensarci.» «Ma ci hai pensato, no, pater?» Lui rimase in silenzio. «Hai detto che la NATO ha annullato i contratti. Soltanto la Pignatelli Chemicals produce il Cyndex 25?» «No. Ha fabbricato e collaudato il gas. Era il venticinquesimo prototipo, perciò porta questo numero. Ma quando la NATo ha annullato il contratto, ha sospeso la produzione ed ha lasciato che le scorte degenerassero.» Isabella lo guardò di sotto le ciglia. «E come?» «L'ho già detto. E' un prodotto molto instabile. Ha una vita molto breve... sei mesi. E' necessario produrre nuove scorte per sostituire via via quelle che si deteriorano.» «Sarebbe molto redditizio per la Capricorn Chemicals», osservò Isabella, ma Shasa non raccolse la frecciata. «La signora Pignatelli potrà fornirci i progetti per la fabbricazione: è una procedura di produzione complicata, con limiti di tolleranza molto delicati.» «Quando incomincerete a produrre?» chiese Isabella, e Shasa ridacchiò. «Calma, calma. Non siamo neppure certi che la signora Pignatelli sia disposta a venderci i progetti e la formula. E' appunto questo che dovremo discutere.» Diede un'occhiata all'orologio. «E' quasi ora di pranzo, e ci vogliono ancora trenta minuti per raggiungere il campo.» Sean chiamò la radio del campo quando mancavano ancora quaranta minuti all'atterraggio. Perciò erano ad attendere sulla pista quando, quella sera, il Beechcraft incominciò la discesa. Shasa si schermò gli occhi per ripararli dal sole basso e distinse dietro il parabrezza la testa della passeggera. Un fremito elettrico gli scorse lungo la nuca: era qualcosa più della semplice curiosità. Era straordinario che lui ed Elsa Pignatelli non si fossero mai incontrati, perché appartenevano allo stesso mondo, il mondo esclusivo della ricchezza, del potere e dei privilegi che non era circoscritto dai confini nazionali. Avevano dozzine di amici e conoscenti in comune, e Shasa immaginava che in numerose occasioni nel corso degli anni erano giunti a pochi minuti o a pochi chilometri dalla possibilità d'incontrarsi. Shasa era stato piuttosto amico del marito defunto. Un pomeriggio s'erano trovati a sciare insieme con lo stesso gruppo, a Klosters, e avevano affrontato insieme la terribile Wang, la muraglia di ghiaccio che incombe sul paese. Bruno
Pignatelli si era scusato per l'assenza della moglie ed aveva spiegato che era andata a Roma per far visita alla vecchia madre. Lei e Shasa dovevano essersi incrociati all'aeroporto di Zurigo, avviati in due direzioni diverse. Un'altra volta, quando Shasa era ambasciatore a Londra, erano stati invitati tutti a una cena all'ambasciata svizzera. Più tardi Shasa aveva saputo che avrebbero dovuto sedere allo stesso tavolo; ma Elsa Pignatelli, per motivi di famiglia, era stata costretta a disdire l'impegno il giorno prima. In séguito aveva sentito parlare di Elsa Pignatelli in occasione di ricevimenti e feste, spesso in toni indispettiti e vendicativi, spesso con ammirazione ed invidia. Aveva visto le sue foto sulle riviste di moda cui Centaine ed Isabella erano abbonate. La Courteney Enterprises aveva trattato per vent'anni con il gruppo Pignatelli, con soddisfazione di entrambi. Perciò nelle settimane precedenti all'incontro, Shasa aveva studiato tutte le informazioni contenute nel fascicolo che era stato preparato dai servizi speciali. Sean portò il Beechcraft fino alla zona di parcheggio di argilla rossa e spense i motori. Elsa Pignatelli montò sull'ala e balzò a terra. Si muoveva con l'agile eleganza di una giovane ginnasta, pur essendo molto alta. Shasa sapeva che aveva fatto l'indossatrice per Yves St.-Laurent prima di sposare Bruno Pignatelli. Sebbene avesse la sensazione di conoscerla, non era preparato alla reazione che ispirava la sua presenza fisica. Il fremito elettrico si diffuse dal collo alle braccia mentre Elsa Pignatelli si guardava intorno, sfiorava con lo sguardo Garry, Isabella e i servitori e lo fissava su di lui. Aveva i capelli molto scuri, con riflessi bluastri nel sole del tardo pomeriggio, pettinati austeramente all'indietro e raccolti in un nodo ordinato. La pettinatura metteva in risalto la splendida struttura ossea, la fronte alta e leggermente bombata e gli zigomi alti. I lineamenti, tuttavia, erano molto femminili; la bocca era generosa e morbida. «Shasa Courteney», disse, andandogli incontro con il passo ancheggiante dell'indossatrice. Sorrideva. La linea della mascella era perfetta; e anche se nel luglio dell'anno successivo avrebbe compiuto quarantatré anni, aveva una carnagione impeccabile e molto curata sotto il trucco leggero dai toni naturali. «Signora Pignatelli...» Shasa le prese la mano: era fresca e salda e affusolata. La stretta fu rapida ma energica. Erano mani fatte per impugnare il manico di una racchetta o le redini di un purosangue. Shasa si rammaricò che il contatto fosse stato tanto fuggevole, ma gli occhi di Elsa Pignatelli lo ricompensarono. Erano stellanti, con tanti raggi marrone ed oro che s'irradiavano dalla pupilla, vivaci e intelligenti e incorniciati da lunghe ciglia nere e curve. «Mi dispiace che non ci siamo conosciuti prima», disse Shasa in un italiano dalla pronuncia approssimativa; lei sorrise e rispose in un inglese perfetto, appena appena sfumato da un accento affascinante. «Oh, ma ci siamo già incontrati.» I denti erano candidi, ma un incisivo era leggermente storto, quanto bastava per rivelare che erano veri, e non creati da un odontotecnico. «Dove?» chiese Shasa, sorpreso. «Windsor Park. Al Polo Club delle Guardie.» Elsa Pignatelli era divertita nel vederlo confuso. «Lei aveva il numero due nella squadra del duca di Edimburgo.» «Santo cielo! E' stato dieci anni fa.» «Undici», lo corresse lei. «Non ci presentarono ma c'incontrammo per circa tre secondi al buffet dopo la partita. E lei mi offrì un sandwich al salmone affumicato.»
«Ha una memoria prodigiosa.» Shasa si dichiarò sconfitto. «E... accettò il sandwich?» «Non lo ricorda? E' poco galante», disse scherzosamente Elsa. Poi si rivolse agli altri: «Lei dev'essere Garrick Courteney». Shasa si affrettò a presentarle prima Garry e poi Isabella. I servitori caricarono i bagagli su un camion. Erano di cuoio pesante, con gli spigoli rinforzati di bronzo, ed erano molto numerosi. Soltanto coloro che volavano con jet personali e non erano soggetti alle norme capricciose delle compagnie aeree potevano permettersi valigie di quel tipo e in quella quantità. E c'erano anche quattro custodie per fucili. «Venga con me, signora.» Sean ributtò i capelli all'indietro e la chiamò mentre si metteva al volante. Elsa Pignatelli ignorò l'invito e si affiancò con naturalezza a Shasa che si avviava verso il secondo camion. Isabella fece per seguirli, ma Garry le prese il braccio e la guidò a prendere il posto rifiutato da Elsa sul camion di Sean. «Vieni, Bella. Fatti furba!» mormorò Garry. «In tre sareste troppi.» Isabella trasalì. Non ci aveva pensato... pater e la vedova! Si appoggiò per un istante al braccio del fratello. «Non sapevo che fra i tuoi tanti talenti ci fosse anche quello del paraninfo.» All'ora dei cocktail, Isaac portò a Elsa Pignatelli una flûte di Dom Pérignon versato da una bottiglia appena stappata, senza bisogno che qualcuno glielo ordinasse. Conosceva tutti i gusti dei clienti abituali. Mentre sedevano in semicerchio intorno al fuoco, Sean chiamò i suoi due cacciatori per la conferenza serale. Era un rituale che si svolgeva soprattutto a beneficio del cliente, perché ciò che aveva davvero importanza veniva discusso prima, in sua assenza. Ma i clienti normali, in particolare quelli che partecipavano a un safari per la prima volta, si lasciavano impressionare dal torrente di frasi in swahili fra Sean e i suoi collaboratori. E poi, venire inclusi nel rituale dava loro la sensazione di essere veri partecipanti alla caccia, e non una specie di bagaglio extra. I cacciatori, che erano con Sean da quando aveva fatto l'apprendistato in Kenya al tempo della ribellione dei Mau Mau, erano attori nati e recitavano spendidamente. Si accosciarono con fare rispettoso ai lati della sedia pieghevole di Sean e lo chiamarono Bwana Mkubwa, Grande Capo. Mimarono i movimenti degli animali di cui parlavano, tracciarono le loro impronte nella polvere, rotearono gli occhi e scossero la testa, poi tossirono e sputarono nel fuoco. Era una coppia piuttosto strana. Uno era un samburu alto e taciturno, con la testa rasata e i lineamenti nilotici, e portava due talleri d'argento di Maria Teresa infilati nei lobi degli orecchi. L'altro era uno gnomo dalla faccia da folletto e gli occhietti vivaci. Matatu era uno dei pochi membri superstiti degli ndorobo, un popolo famoso per la magica conoscenza della foresta e che purtroppo non era riuscito a resistere all'impatto del progresso che aveva annientato la giungla e li aveva contagiati di tutti i mali della civiltà, dalla tubercolosi all'alcol e alle malattie veneree. Sean l'aveva chiamato Matatu, o Numero Tre, perché il suo nome tribale era impronunciabile e perché era il terzo cacciatore da lui assunto. Gli altri due non avevano resistito più d'una settimana. Matatu era con Sean da moltissimi anni. Matatu disse «Ngwi», roteò gli occhi e tracciò nella polvere un'orma perfetta di leopardo. Sean l'interrogò in sonante swahili, e lui rispose in toni lirici e pigolanti, poi sputò energicamente nel fuoco. Sean si girò verso Elsa Pignatelli per fare da
interprete. «Una settimana fa ho appeso cinque esche per leopardi, due sul fiume e tre lungo la scarpata che guarda il Parco Nazionale.» Elsa annuì; aveva conosciuto l'area durante i suoi safari precedenti. «Solo un'esca è stata toccata qualche giorno fa. Una vecchia femmina è uscita dal parco, ha mangiato una sola volta e poi se n'è andata. Abbiamo seguito le sue tracce ed abbiamo visto che è ritornata nel parco. Da allora tutto è rimasto tranquillo.» Sean fece un'altra domanda a Matatu; il piccolo ndorobo diede una lunga risposta; evidentemente gli piaceva essere al centro dell'attenzione. «Matatu è andato oggi a controllare le esche mentre io venivo a Salisbury. E' fortunata, signora. Una delle esche sul fiume è stata attaccata. Matatu dice che si tratta di un grosso maschio che ha mangiato in abbondanza questa notte. L'impala era appeso là da una settimana, e nonostante il fresco è frollato a dovere. Se il maschio torna a mangiare questa notte, andremo ad attenderlo domani sera.» «Sì.» Elsa annuì. «Va bene.» «Perciò domattina potremo controllare l'esca e sparare a qualche altro impala, nell'eventualità che occorra. Dopo pranzo riposeremo un'ora, quindi andremo ad appostarci verso le tre del pomeriggio.» «Pensi lei a controllare l'esca e a sparare agli impala», disse Elsa. «Domattina devo partecipare a una riunione.» Sorrise a Shasa che le sedeva accanto. «Abbiamo parecchie cose da discutere.» La discussione occupò tutta la mattina. Garry aveva preso tutte le disposizioni necessarie con ingannevole facilità. Aveva mandato Isabella con il Toyota insieme a Sean per controllare le esche, poi aveva ordinato a Isaac e agli altri servitori di sistemare tre sedie ed un tavolo pieghevole sotto un msasa al margine della radura, lontano dal campo. Sotto il msasa, Garry, Shasa ed Elsa Pignatelli erano al riparo dal pericolo che qualcuno origliasse. Era strano, pensava Shasa, discutere un argomento tanto terrificante in un posto tranquillo e bellissimo. D'altra parte i negoziati non seguirono il corso sperato da Shasa e Garry. Sebbene Elsa avesse con sé una splendida cartella di cinghiale, la tenne chiusa mentre giravano prudentemente intorno all'argomento fondamentale. Quasi subito divenne ovvio che Elsa non aveva ancora deciso cosa fare a proposito del Cyndex 25. Al contrario, era chiaramente assalita da dubbi e scrupoli; quindi sarebbe stato necessario riuscire a persuaderla. «E' orribile, scatenare nel mondo un'arma simile», disse a un certo punto. «Per me è stato un grande sollievo quando la NATO ha rescisso il contratto originale e ci ha ordinato di lasciar degradare le scorte e smantellare lo stabilimento. Non so perché ho preso in considerazione la possibilità di attrezzare un'altra fabbrica, soprattutto una fabbrica sulla quale non potrei esercitare un controllo diretto.» Per tutta la mattina, Shasa e Garry si prodigarono per placare i suoi timori, e cercarono di trovare una soluzione che soddisfacesse la sua richiesta di conservare il controllo e stabilisse le condizioni in cui sarebbe stato permesso l'uso del Cyndex. «Se incominciaste la produzione, qualunque esperto della NATO che ispezionasse lo stabilimento e analizzasse un campione del gas capirebbe subito chi vi ha fornito la tecnologia», osservò. «E se questo accadesse e si risalisse alla Pignatelli...»
Non terminò la frase, e si limitò ad allargare le mani affusolate ed eleganti in un gesto espressivo e tipicamente italiano. A poco a poco, mentre la discussione continuava, Elsa si girava sempre più spesso sulla sedia per rivolgersi a Shasa. Ormai rivolgeva a lui solo osservazioni e domande. Quasi inconsciamente stava escludendo Garry dal dialogo. Sotto l'apparenza ruvida, Garry era un negoziatore intuitivo e sensibile; prima ancora che gli interessati se ne rendessero conto, aveva percepìto le correnti che vibravano tra i due. Capiva che, appartenendo alla stessa generazione ed alla stessa casta, avevano molti valori in comune ed usavano un codice particolare per lui inaccessibile. Intuiva che Elsa Pignatelli desiderava essere rassicurata, non da lui bensì dall'uomo che l'attraeva inesorabilmente. Con molto tatto, si rifugiò nel silenzio e li guardò innamorarsi senza che capissero quanto stava accadendo. Il rombo del Toyota che ritornava li fece trasalire. Shasa diede un'occhiata incredula all'orologio. «Santo cielo, è già ora di pranzo e non abbiamo risolto nulla.» «Abbiamo a disposizione due settimane», osservò Elsa, e si alzò. «Potremo continuare domattina.» Rientrarono tutti e tre nel boma. Sean era già al bar e preparava i Pimm's No. 1 in una caraffa di cristallo. Era molto orgoglioso della sua ricetta personale. «Buone notizie, signora» esclamò. «Posso convincerla a bere un Pimm's per festeggiare?» Elsa rifiutò con un sorriso. «Prenderò la solita acqua Badoit con una scorza di limone. Ora mi dia le buone notizie.» «Il leopardo è tornato a mangiare questa notte. A giudicare dalle tracce è arrivato presto, mezz'ora prima del tramonto: quindi incomincia a diventare imprudente. E' enorme. Le orme sembrano quelle di un paio di racchette da neve.» «Grazie, Sean. Mi ha sempre trovato felini magnifici, ma non così in fretta. E' il primo giorno del safari.» «Faccia un sonnellino dopo pranzo per distendere i nervi, e andremo ad appostarci verso le tre del pomeriggio.» Isaac portò a Elsa l'acqua minerale su un vassoio d'argento, poi distribuì i grandi bicchieri di Pimm's con l'accompagnamento musicale del tintinnio dei cubetti di ghiaccio; e Sean propose un brindisi. «Alla morte di un grosso leopardo maschio ai piedi di un albero.» Il terrore del cacciatore professionista era che il felino scendesse dall'albero e attendesse, ferito, tra l'erba alta. Tutti bevvero; subito dopo Shasa ed Elsa incominciarono a discorrere a voce bassa, escludendo dalla conversazione i Courteney più giovani. Garry ne approfittò per prendere per il braccio il fratello e condurlo a una certa distanza. «Come va, Sean?» chiese. «Benone. Mai stato meglio.» Sean era sconcertato da quella premura fraterna così inconsueta. «A me non sembra», Garry scosse la testa. «Anzi, è evidente che stai per avere un attacco di malaria. E quelle costole...» «Che razza di fesserie stai dicendo?» Sean si irritò. «Le mie costole non hanno niente che un po' di codeina non possa rimediare.» «Questa sera non potrai andare a caccia con la signora Pignatelli.» «Un accidente. Ho trovato io il leopardo, ed è magnifico...» «Questa sera resterai nella tua tenda con una boccetta di compresse di Chloroquin a portata di mano. Se qualcuno te lo chiedesse, tu hai la febbre a trentanove.» «Sta' a sentire, pezzo grosso, hai già rovinato la caccia del
mio elefante. Non ti permetterò di fare altrettanto con il mio leopardo.» «Sarà pater ad andare a caccia con la cliente», disse Garry con fermezza. «Tu resterai al campo.» «Pater?» Sean lo fissò un momento, poi cominciò a sogghignare. «Quel vecchio caprone! Ha le caldane per la vedova, eh?» «Perché devi sempre far sembrare tutto volgare?» chiese Garry in tono blando. «Stiamo cercando di combinare degli affari con la signora Pignatelli, e pater deve far maturare i rapporti in modo da instaurare una fiducia reciproca. Tutto qui.» «E quando quei due tardoni ninfomani avranno combinato un disastro con il leopardo, toccherà a Sean sistemare tutto.» «Sei stato tu a dirmi che la signora Pignatelli non sbaglia mai la mira, e come cacciatore pater vale quanto te. E poi, l'intrepido Sean Courteney non avrà paura di un leopardo ferito?» Sean fece una smorfia a quella provocazione, ma non la raccolse. «Andrò a preparare tutto», disse. Poi sorrise. «E per rispondere alla tua domanda... no, Garry, non ho paura d'un leopardo ferito o di nient'altro al mondo. Non dimenticarlo, vecchio mio.» Shasa era disteso sulla branda con un libro in mano. Il campo era uno dei pochi posti dove aveva la possibilità di leggere per suo piacere anziché per affari o per necessità politica. Leggeva Il Nilo Azzurro di Alan Moorehead per la quarta volta e ne assaporava ogni parola quando Garry si affacciò nella tenda. «C'è un piccolo problema, pater. Sean ha un attacco di malaria.» Shasa si sollevò a sedere e lasciò cadere il libro. «E' grave?» Sapeva che Sean non prendeva mai antimalarici come il Paludrin o il Maloprim. Preferiva crearsi un'immunità alla malattia e si limitava a curare i sintomi. E Shasa sapeva che lungo lo Zambesi era apparso di recente un nuovo ceppo di P Falciparum che era resistente alle solite medicine, e aveva la tendenza pericolosa a mutarsi nella perniciosa forma cerebrale. «Devo andare da lui.» «Non ti preoccupare. Il Chloroquin sta già facendo effetto. Adesso dorme. Non devi disturbarlo.» Shasa sembrò sollevato, e Garry continuò: «Però qualcuno deve andare a caccia con la signora Pignatelli questa sera, e tu hai più esperienza di me». La postazione era sui rami più bassi di un ebano, a non più di tre metri dal suolo. Sean l'aveva innalzata non per proteggere il cacciatore, dato che il leopardo sapeva arrampicarsi e poteva raggiungerlo in un batter d'occhio, ma per offrire la possibilità di vedere meglio al di là del fiumicello, fino all'albero con l'esca. Sean aveva scelto con immensa cura quell'albero; e Shasa annuì con aria d'approvazione mentre l'osservava. Era situato sopravvento rispetto alla brezza della sera, che quindi avrebbe portato via l'odore dei cacciatori; inoltre era circondato da alti cespugli rivieraschi che avrebbero dato al leopardo in avvicinamento un maggior senso di sicurezza. Il tronco principale s'inclinava sul corso d'acqua con una leggera angolazione che permetteva al felino di salire agevolmente fino al ramo orizzontale all'altezza di sei metri da terra, dove la carcassa dell'impala era appesa ad una corta catena. Il fogliame dell'ebano era fitto e verde, e questo avrebbe incoraggiato il leopardo ad arrampicarsi. Ma il ramo orizzontale era scoperto, con uno squarcio di cielo azzurro contro il quale la belva sarebbe apparsa profilata quando si fosse protésa per sollevare l'esca puzzolente.
Il nascondiglio era a sessantacinque metri esatti dall'albero con l'esca. Sean aveva misurato la distanza con un metro da muratore, mentre nel primo pomeriggio Elsa Pignatelli si era allenata a sparare nel poligono dietro il campo. Shasa aveva piazzato il bersaglio a sessantacinque metri, e lei aveva fatto tre centri formando un trifoglio perfetto con i tre fori dei proiettili che si sovrapponevano leggermente l'uno all'altro. La postazione era formata da pali di mopane e da fronde, ed era una comoda casetta. All'interno c'erano due sedie pieghevoli davanti alle feritoie nella parete di paglia. Matatu e il cacciatore samburu sistemarono coperte e sacchi a pelo, un cesto con gli spuntini e un thermos pieno di caffè caldo. La veglia poteva durare fino all'alba; perciò si erano muniti di una potente torcia elettrica alimentata da una batteria d'automobile da dodici volt; una ricetrasmittente per comunicare con i cacciatori indigeni e persino un vaso da notte con un elegante fregio floreale che avrebbe permesso loro di resistere per tutta la notte senza disagi. Quando Matatu ebbe finito di arredare il nascondiglio, scese in fretta la scala; poi lui e Shasa tennero un ultimo, breve colloquio accanto al Toyota. «Credo che verrà prima dell'alba», disse Matatu in swahili. «E' un diavolo spudorato e s'ingozza come un porco. Credo che stanotte avrà fame e non saprà resistere alla tentazione.» «Se non verrà, aspetteremo fino all'aurora. Non tornare qui fino a che non ti chiamerò per radio. Ora va' in pace, Matatu.» «Resta in pace, bwana. Preghiamo perché la memsahib lo uccida al primo colpo. Non voglio che quel diavolo maculato banchetti con il mio fegato.» I cacciatori indigeni attesero che i due bianchi fossero saliti nel nascondiglio e si fossero sistemati, prima di allontanarsi con il Toyota. Si sarebbero fermati sulla cresta della valle, a tre chilometri di distanza, e avrebbero atteso gli spari o la chiamata via radio. Shasa ed Elsa sedettero affiancati sulle due sedie di tela. I loro gomiti quasi si toccavano. I sacchi a pelo erano appoggiati agli schienali, in modo che potessero drappeggiarli agevolmente intorno alle spalle quando la temperatura avesse incominciato a scendere. Avevano i plaid sulle gambe, e indossavano giubbotti di cuoio che dovevano proteggerli non soltanto dal freddo ma anche dalle unghie affilate del leopardo, in caso d'emergenza. Elsa teneva la canna del fucile infilata nella feritoia, pronta a portarsi il calcio alla spalla con un movimento minimo. Era un Remington magnum da 7 millimetri, caricato con un proiettile Nosler da 175 grani che avrebbe percorso i sessantacinque metri fino all'albero dell'esca alla velocità di mille metri al secondo. Shasa aveva un grosso fucile calibro 8 come arma di rincalzo. Costruito per sparare da lontano alle oche selvatiche, era un'arma devastante quando veniva impiegata a distanza ravvicinata. Quando il rombo del motore del Toyota si smorzò, il silenzio del bushveld discese sulla valle. Era un silenzio che sussurrava di suoni lievi e intimi: il sospiro dolce della brezza tra il fogliame, il movimento di un uccello nel sottobosco lungo il fiume, il lontano grido tonante di un babbuino maschio che echeggiava lungo gli strapiombi rocciosi, e il rumore delle legioni di termìti che rodevano le pertiche di mopane della postazione. Entrambi avevano portato qualche libro per ingannare le ore dell'attesa, ma non li aprirono. Stavano seduti vicini, consapevoli di quella prossimità. Shasa si sentiva sereno e soddisfatto come se fossero vecchi, fidati amici. Sorrise di quella fantasia. Girò furtivamente la testa per guardarla; ma lei l'aveva anticipato e già gli sorrideva.
Poi Elsa girò a palmo in su la mano posata sul bracciolo; Shasa la prese e fu sorpreso dal contatto caldo della pelle, dall'emozione intensa che gli ispirava. Non aveva provato nulla di simile da molti, moltissimi anni. Restarono seduti fianco a fianco come una coppia di adolescenti al primo appuntamento, e attesero l'arrivo del leopardo. Sebbene i suoi sensi fossero rivolti ai suoni e ai segnali appena percettibili della giungla, la mente di Shasa restava libera di vagare tra i ricordi. Pensò a molte cose in quelle ore di calma, mentre il sole attraversava la volta azzurra del cielo e discendeva verso la linea dentellata delle colline. Pensò alle altre donne che aveva conosciuto. Erano molte. Non riusciva a rammentare quante fossero, perché il trascorrere del tempo le aveva private quasi tutte del volto e del nome. Solo alcune erano rimaste impresse nella sua mente. La prima era una puttanella dalla faccia furba. Quando Centaine li aveva colti sul fatto, l'aveva lavato in una tinozza bollente con il Lysol e il sapone carbolico che gli avevano spellato le parti più delicate. Shasa sorrise a quel ricordo ormai lontano. L'altra donna che spiccava nella sua memoria era Tara, la madre dei suoi figli. Erano stati antagonisti fin dall'inizio; e l'aveva sempre considerata un'amata nemica. Poi l'amore aveva vinto, e per qualche tempo erano stati felici insieme; alla fine erano ridiventati nemici, nemici veri. L'ostilità era stata fomentata anziché mitigata da quel periodo illusorio di felicità. Dopo Tara ne erano venute altre cinquanta o cento... non aveva molta importanza. Nessuna era riuscita a dargli ciò che cercava, nessuna aveva saputo alleviare la sua solitudine. Di recente, giunto alla mezza età, era caduto nell'eterna trappola che l'aveva spinto a cercare l'immortalità nel corpo di donne nel fiore della giovinezza. Sebbene la loro carne fosse morbida e soda, non aveva trovato contatti per la mente, e non era più in grado di star dietro alla loro energia. Con un senso di tristezza le aveva abbandonate alla loro musica tonante e spensierata, alla ricerca frenetica di chissà cosa. E aveva proseguito da solo la sua strada. Pensò alla solitudine, come gli avveniva spesso in quei giorni. Nel corso degli anni aveva scoperto che era il più devastante e corrosivo male dell'uomo. Per quasi tutta la vita era stato solo. Sebbene avesse un fratellastro non l'aveva mai conosciuto come consanguineo; e Centaine l'aveva allevato come figlio unico. Fra tutti gli esseri umani che avevano popolato la sua vita, i servitori e i collaboratori, i conoscenti e gli adulatori, e persino i suoi figli, c'era una sola persona con la quale era riuscito a dividere tutti i trionfi e i disastri dell'esistenza, e che gli aveva sempre dato incoraggiamento, comprensione ed affetto. Ma Centaine aveva settantasei anni e invecchiava rapidamente. Shasa era afflitto dalla solitudine e temeva ancora di più la solitudine più grande che inevitabilmente l'attendeva. In quel momento la donna che gli sedeva accanto gli strinse più forte la mano come se intuisse per empatia la sua disperazione. Quando girò la testa per guardarla negli occhi color miele dorato, lei non sorrideva più. Aveva un'espressione seria, e sosteneva il suo sguardo senza imbarazzo. Il senso di solitudine si dissolse, e si sentì calmo e in pace come gli era capitato raramente in tutti i suoi cinquantotto anni. Fuori dalla casetta arborea, la luce si addolcì nel chiarore del crepuscolo africano. Era un momento di silenzi magici, quando il mondo tratteneva il respiro e tutti i colori della foresta erano più ricchi e intensi. Il sole si abbandonò come un gladiatore morente e chinò la testa insanguinata al di sotto delle cime degli alberi. La luce l'accompagnò e i contorni dei tronchi e dei rami sfumarono e si smorzarono.
Un francolino chiamò dalla semioscurità. Shasa si protése a guardare attraverso la feritoia. Vide l'uccello scuro, simile a una pernice, posato su un ramo morto sulla riva opposta del fiumicello. Le guance nude erano di uno scarlatto acceso. Inclinò la testa e guardò giù, emettendo quel suono stridente da cardine arrugginito, che era un avvertimento: «Attenzione! Vedo un grosso felino!» Elsa sentì il richiamo e, poiché conosceva l'Africa e ne capiva il significato, strinse per un attimo la mano di Shasa, poi la lasciò. Tese lentamente la destra per sollevare il fucile alla spalla. La tensione, nel nascondiglio, era una carica elettrica che li teneva prigionieri entrambi. Il leopardo era là fuori, silenzioso e misterioso come un'ombra aurea e maculata. Entrambi erano esperti nell'arte della caccia: muovevano soltanto le palpebre per vedere chiaramente nella luce che si spegneva. Traevano ed esalavano ogni respiro con infinita prudenza, e ascoltavano il martellare del cuore che rimbombava nei timpani. La luce spariva rapidamente, mentre il leopardo ancora invisibile girava intorno all'albero dell'esca. Shasa immaginava ogni passo lento, con la zampa sollevata, tenuta alta e poi posata di nuovo delicatamente, gli occhi gialli che dardeggiavano, le orecchie tonde dalla punta nera che fremevano per captare il minimo segnale di pericolo. I contorni dell'albero dell'esca si dissolsero. La carcassa dell'impala appesa alla catena era una massa scura e amorfa. Lo squarcio aperto sul cielo sopra il ramo spoglio scolorò fino ad assumere la tinta del piombo corroso; e intanto il leopardo continuava ad aggirarsi tra le piante. La luce era scomparsa quasi completamente, e la notte stava calando. All'improvviso il leopardo fu sull'albero. Non c'erano stati suoni né movimenti premonitori. La subitaneità del movimento fu un piccolo miracolo che arrestò per un attimo i loro cuori e poi li fece riprendere a battere con un ritmo folle. Il leopardo era sul ramo. Ma era soltanto una sagoma scura nel buio; e quando Elsa accostò la guancia al legno di noce levigato del calcio, l'oscurità era già completa e la forma del leopardo era stata inghiottita dalla notte. Shasa, più che vederla, sentì Elsa abbassare il fucile. Scrutò dalla feritoia, ma non c'era nulla da vedere. Girò la testa e accostò le labbra all'orecchio della compagna. «Dobbiamo attendere fino a domattina», sussurrò, e lei gli toccò la guancia in segno di consenso. Dal buio giunse il tintinnio della catena. Shasa immaginò il leopardo acquattato sul ramo: tendeva una zampa anteriore per agganciare la carcassa e sollevarla, poi la tratteneva con le unghie, fiutava la carne putrescente, affondava il muso nella cavità del ventre per arrivare ai polmoni, al fegato e al cuore. Nel silenzio ascoltarono il suono lacerante delle zanne che affondavano, lo scricchiolio delle costole spezzate ed il sibilo della pelle umida mentre il leopardo incominciava a mangiare. La notte era lunga, e Shasa non poteva dormire. Era il cacciatore, e aveva il dovere di sorvegliare ogni movimento della belva. Dopo le prime ore, Elsa gli appoggiò la testa sulla spalla. Lui la cinse delicatamente con un braccio, le drappeggiò sulle spalle il sacco imbottito di piumino e la tenne accanto. Elsa dormiva serena, come una bimba stanca, e gli sfiorava la guancia con il respiro leggero e caldo. Non voleva disturbarla anche se aveva il braccio informicolito e insensibile. Si sentiva felice e virtuoso nonostante il disagio. Durante la notte il leopardo continuò a mangiare a intervalli. La catena tintinnava, le ossa si spezzavano. Vi erano lunghi periodi di silenzio, quando Shasa temeva che se ne fosse andato,
prima che i suoni ricominciassero. Naturalmente avrebbe potuto accendere il potente riflettore e illuminare la belva. Probabilmente sarebbe rimasta abbagliata a sbattere le palpebre nel fascio intensissimo. Ma l'idea non gli sfiorò la mente; e sarebbe rimasto deluso se Elsa avesse preso in considerazione la possibilità di adottare una tattica così poco sportiva. In fondo, Shasa disapprovava la tecnica di disporre le esche per i grandi felini. Personalmente, non ne aveva mai ucciso uno ricorrendo a quel sistema. Sebbene in Rhodesia fosse legale, la sua etica sportiva non si conciliava con l'idea di attirare gli animali in una posizione accuratamente preparata per offrire un facile bersaglio a un tiratore appostato. I leoni e i leopardi che aveva ucciso li aveva seguiti a piedi, spesso tra la vegetazione più folta; e l'animale era sempre stato conscio della sua presenza. Appunto per questo aveva collezionato cento fiaschi e non più di una dozzina di successi in tutti gli anni di caccia. Ma ogni trionfo era stato un culmine dell'esperienza, un ricordo così intenso da durare per tutta la vita. Non disprezzava Elsa e gli altri clienti che uccidevano i grandi felini dopo averli attirati con le esche. Non erano africani come lui, e potevano restare appena pochi giorni nel bushveld. Pagavano somme enormi per quel privilegio, e gran parte del denaro veniva destinata alla protezione ed alla conservazione delle specie da loro cacciate. Perciò avevano diritto alle migliori possibilità di successo. Non provava risentimento nei loro confronti: ma il suo sistema non era quello. Mentre stava seduto accanto a Elsa nel nascondiglio buio, all'improvviso si rese conto che per lui i tempi della caccia ai felini erano finiti per sempre. Come tanti cacciatori veterani, ne aveva abbastanza del sangue. Amava la selvaggina, come sempre e forse anche di più; ma ne aveva abbastanza. Aveva ucciso il suo ultimo elefante, l'ultimo leone e l'ultimo leopardo. Quel pensiero lo rallegrava e lo rattristava nel contempo; era una malinconia calda e dolce che si mescolava bene al nuovo sentimento per la bella donna addormentata contro la sua spalla. Pensava che in futuro avrebbe provato il piacere della caccia per suo tramite, come adesso; e sognava di viaggiare con lei nelle più esclusive località venatorie del mondo: il pensiero di quei piaceri vicari lo sostenne per tutta la lunga notte. Poi una coppia di pettirossi di Heighlin attaccò un duetto nel sottobosco lungo il fiume, una supplica melodiosa che suonava come una cantilena di «No, No!» ripetuta all'infinito, dapprima sommessamente e poi in un crescendo eccitato. A quell'annuncio sicuro dell'alba, Shasa alzò gli occhi e distinse i rami più alti dell'ebano contro il cielo che si rischiarava. Entro un quarto d'ora ci sarebbe stata luce a sufficienza per sparare: in Africa il sole sorge rapidamente. Toccò la guancia di Elsa per destarla, e lei si fece più vicina. Shasa intuì che da qualche minuto doveva fingere d'essere addormentata: s'era svegliata in segreto, senza che lui se ne accorgesse. E da allora gli era rimasta stretta assaporando quel contatto intimo, come stava facendo lui stesso. «Il leopardo c'è ancora?» chiese Elsa in un sussurro vicinissimo al suo orecchio. «Non so», rispose Shasa a voce altrettanto bassa. Forse era già andato via. «Si tenga pronta», disse. Elsa si raddrizzò sulla sedia e si tese verso il fucile, sostenuto dal supporto a forcella. Sebbene non si toccassero più, Shasa si sentiva vicinissimo a lei, e aveva il braccio informicolito dalla ripresa della circolazione che era rimasta bloccata così a lungo. La luce si ravvivò. Shasa riuscì a scorgere lo squarcio tra il fogliame dell'ebano. Batté le palpebre e guardò meglio. I contorni
del ramo si delinearono nella semioscurità. Il ramo era nudo, e quella vista gli ispirò un senso di delusione. Il leopardo se n'era andato. Girò la testa lentamente per dirlo a Elsa ma senza staccare gli occhi dal ramo. Tacque e guardò meglio; l'eccitazione gli fremeva sulle terminazioni nervose come una miriade di minuscole formiche. Il contorno del ramo era più nitido, ma era stranamente ingrossato e deforme. Riusciva a distinguere la carcassa informe dell'impala. Era stata divorata quasi completamente. Era una massa dilaniata di ossa spolpate e di pelle strappata: ma c'era qualcosa d'altro che pendeva dal ramo, come un lungo nastro serpentino. Non comprese che cosa fosse fino a che si incurvò e oscillò pigramente. E allora capì. «La coda. La coda del leopardo.» Come la creatura nascosta in un puzzle, l'immagine intera si mise a fuoco. Il leopardo era ancora appiattito sul ramo, con il collo protéso. Il mento era appoggiato alla corteccia ruvida. Doveva essere intorpidito dal peso della carne ingerita, troppo pigro per spostarsi. Soltanto la lunga coda penzolava nel vuoto. Shasa sentì Elsa irrigidirsi quando scorse la sagoma del felino. Tese la mano per trattenerla. La luce era ancora troppo scarsa: dovevano aspettare. Quando le toccò il braccio, percepì la tensione attraverso la punta delle dita. Elsa sembrava vibrare come le corde di un violino toccato leggermente dall'archetto. La luce fiorì. La forma del leopardo divenne più nitida. Il manto si tinse di un color oro burroso costellato di rosette nere. La coda oscillava dolcemente come un metronomo al minimo. Alzò appena la testa e rizzò gli orecchi. La luce gli investì gli occhi in uno sfolgorio giallo, come il bagliore lontano di un fulmine. Guardò verso di loro e batté le palpebre con regale, assonnata indolenza. Era così bello che Shasa si sentì mancare il respiro. Era venuto il momento di ucciderlo. Toccò Elsa battendole le dita sul braccio in un segnale lieve ma imperioso. Lei si curvò verso il mirino telescopico del fucile. Shasa si preparò allo sparo e fissò il leopardo, augurandosi che il proiettile gli trapassasse il cuore e lo facesse precipitare privo di vita dal ramo. I secondi si sgranavano, e ognuno era un'eternità. Lo sparo non venne. Il leopardo si alzò, rimase eretto agilmente sul ramo. Si stirò inarcando il dorso e affondò nella corteccia gli artigli sguainati. «Ora!» comandò in silenzio Shasa. «Sparagli ora!» Il leopardo sbadigliò. La lingua rosata s'inarcò fra le zanne. Le sottili labbra nere si aggricciarono in un rictus feroce. «Ora!» Con uno slancio telepatico, Shasa cercò di forzare Elsa a sparare. Non osava sottolineare l'ordine con una parola o un tocco per timore d'interrompere la concentrazione mentre stava per premere il grilletto. Il leopardo si raddrizzò e agitò la coda al di sopra della schiena. Poi spiccò un balzo e atterrò sei metri più sotto, sul suolo soffice della foresta. Era un balzo così controllato ed elegante che quando atterrò non fece rumore. Il sottobosco lo inghiottì immediatamente. Restarono seduti per quasi un minuto in un silenzio totale. Finalmente Elsa rimise la sicura con un lieve scatto, abbassò il fucile che non aveva sparato e girò la testa verso di lui. Nella luce dell'alba, le lacrime brillavano come perline sulle lunghe ciglia delle palpebre inferiori. «Era così bello», sussurrò. «Non potevo ucciderlo... oggi, proprio oggi.» Shasa comprese. Quello era il loro giorno, il loro primo giorno d'innamorati. Elsa aveva rifiutato di profanarlo. «Ti dedico il leopardo», disse.
«Mi fai un onore grande», rispose Shasa e la baciò. Il loro abbraccio fu stranamente innocente, quasi infantile, ancora privo di passione sensuale. Era un atto dello spirito più che del corpo. Per quello vi sarebbe stato tempo più tardi, tutto il tempo del mondo... ma non in quel giorno benedetto. Sean era miracolosamente guarito dalla malaria e attendeva all'entrata del boma per accogliere i cacciatori. La reputazione di una organizzazione di safari si basava sulla qualità dei trofei che offriva ai clienti, soprattutto a quelli importanti. Quando il Toyota si fermò, guardò speranzoso e subito strinse la bocca per la delusione. Si rivolse a Matatu, e il piccolo cacciatore ndorobo scosse mestamente la testa. «Il diavolo è arrivato tardi e se n'è andato presto.» «Mi dispiace, signora.» Sean si girò verso Elsa e l'aiutò a scendere dal camion. «Cose che succedono a caccia», mormorò lei. Sean non l'aveva mai vista prendere un insuccesso con tanta filosofia. Di solito era irritata e spazientita quanto lui. «La doccia è pronta, calda come piace a lei. La colazione le verrà servita appena si sarà cambiata.» Gli altri si affrettarono a formulare frasi di circostanza quando Shasa ed Elsa comparvero nella tenda-sala da pranzo dopo la doccia, rivestiti di tenute cachi pulitissime e ben stirate. Shasa s'era rasato ed esalava un gradevole profumo di dopobarba. «Che sfortuna, pater. Mi dispiace, signora», dissero in coro tutti, e rimasero sconcertati nel vedere che i due avevano un'aria soddisfatta e affrontavano di buon appetito la colazione come se nel capanno della scuoiatura ci fosse un leopardo da primato mondiale. «Potremo continuare la riunione dopo colazione», propose Garry mentre bevevano il caffè. «E questa mattina io cambierò le esche», intervenne Sean. «Matatu dice che il leopardo non si è spaventato o allarmato. Possiamo riprovare stanotte, e questa volta verrò con lei, signora. Ci vuole il tocco del maestro.» Anziché accogliere subito la proposta, Elsa si voltò verso Shasa, poi abbassò pudicamente gli occhi sulla tazza del caffè. «Ecco, per la verità», disse Shasa, «avevamo pensato, cioè, io ed Elsa, cioè, la signora Pignatelli e io...» Mentre cercava a tentoni le parole, i tre figli lo fissarono sbigottiti. Era quello, il maestro del savoir-faire che conoscevano così bene? L'uomo imperturbabile? «Vostro padre mi ha promesso di mostrarmi le cascate Vittoria», s'intromise Elsa; e Shasa, con aria di sollievo, si riprese bravamente. «Prenderemo il Beechcraft», annunciò. «La signora Pignatelli non ha mai visto le cascate. Mi sembra che sia una buona occasione.» I tre figli si riebbero dalla confusione con la stessa prontezza. «E' un'idea magnifica», esclamò Isabella. «Vedrà, è uno spettacolo impressionante, signora. Le piacerà.» «E' appena un'ora di volo.» Garry annuì. «Potrete pranzare al Vic Falls Hôtel ed essere di ritorno all'ora del tè.» «E potrà essere pronta per entrare nella postazione alle quattro del pomeriggio,» disse Sean, e attese la conferma della cliente. Ancora una volta Elsa lanciò un'occhiata a Shasa, che aspirò profondamente. «Ecco, forse ci fermeremo al Vic Falls Hôtel per un giorno o due.» A poco a poco, sui volti dei tre giovani spuntarono espressioni comprensive. «Giustissimo. Ci vuole un po' di tempo.» Isabella fu la prima
a riprendersi. «Immagino che vorrete fare qualche passeggiata nella foresta pluviale e magari una gita in zattera nella gola a valle delle cascate.» «Bella ha ragione: ci vorranno tre o quattro giorni. Ci sono tante cose interessanti da fare e da vedere.» «E questo, Garry, vecchio mio, è l'eufemismo della settimana», mormorò Sean. Garry e Isabella lo fulminarono a occhiatacce. Nell'aria fresca e pulita, non ancora inquinata dal fumo degli incendi della boscaglia del tardo inverno, la nuvola di spruzzi delle cascate Vittoria era visibile a chilometri di distanza. S'innalzava nell'aria fino a seicento metri in una montagna argentea, brillante come neve alpina. Shasa fece abbassare l'apparecchio via via che si avvicinavano. Davanti a loro il grande Zambesi scintillava nel sole, ampio e tranquillo, costellato da isole dove sorgevano le foreste delle eleganti palme dum-dum. Poi sotto di loro si schiuse la gola principale: guardarono in basso, meravigliati, e videro il grande fiume, largo più di un chilometro e mezzo, lanciarsi oltre il ciglio dell'abisso in una caduta di un centinaio di metri tra il ribollire di acque spumeggianti e di spruzzi. Lungo l'orlo del precipizio, neri castelli di roccia spezzavano il corso del fiume, e in alto troneggiava l'immensa nube di spruzzi, trapassata da arcobaleni incredibilmente colorati. Sotto le cascate l'intera massa d'acqua, tremilacinquecento metri cubi al secondo, restava imprigionata tra le pareti verticali di roccia e si avventava furiosa nella stretta gola. Shasa fece virare l'aereo verso destra, puntando un'ala verso l'abisso, ed Elsa poté guardare senza che nulla le ostruisse la visuale. Ad ogni giro, Shasa portava il Beechcraft sempre più in basso, fino a che vi fu il pericolo che venissero inghiottiti dallo splendido caos di rocce e d'acqua. Gli spruzzi argentei volarono sopra l'abitacolo e li accecarono per un momento prima che irrompessero di nuovo nel sole e gli arcobaleni inghirlandassero il cielo tutto intorno. Shasa atterrò nel piccolo aeroporto privato di Sprayview, alla periferia del villaggio, e puntò verso la zona di parcheggio. Spense i motori e si girò verso Elsa. Lei aveva ancora gli occhi colmi di stupore, e un'espressione solenne, quasi dominata da una reverenza religiosa. «Ecco, sei entrata nella cattedrale dell'Africa», disse Shasa a voce bassa. «Il luogo che rappresenta davvero tutta la grandiosità e il mistero e lo spirito selvaggio del continente.» Ebbero la fortuna di trovare libera all'albergo la suite Livingstone. L'edificio aveva lo stile e le dimensioni di un'èra superata. I muri erano robusti e le stanze immense, ma fresche e confortevoli. La suite era decorata di stampe ricavate dai disegni che l'esploratore Thomas Baines aveva fatto delle cascate pochi anni dopo la scoperta di David Livingstone. Dalle finestre del salotto si vedeva la gola e il ponte ferroviario che la scavalcava. La struttura d'acciaio del ponte arcuato sembrava delicata come una trina, e l'intera struttura era leggera ed elegante come l'ala di un'aquila in volo. Lasciarono la suite e scesero il sentiero che conduceva al ciglio della gola, passeggiarono tenendosi per mano nella foresta pluviale, dove gli spruzzi ricadevano in una pioggia eterna e la vegetazione era verde e lussureggiante. La roccia tremava sotto i loro piedi, e l'aria fremeva del rombo della cascata. Gli spruzzi
intridevano gli indumenti e i capelli e scorrevano sui loro visi, ed entrambi ridevano gioiosamente. Seguirono verso valle il ciglio della gola, fuori dalla nube di spruzzi. Il sole fulgido asciugò i capelli e gli abiti quasi con la stessa rapidità con cui gli spruzzi li avevano infradiciati. Trovarono una roccia dove poterono sedersi fianco a fianco, con i piedi penzoloni sull'abisso terrificante, mentre l'acqua impazzita vorticava sotto di loro in turbini verdi. «Guarda!» esclamò Shasa, e indicò con un gesto un piccolo rapace che scendeva sfrecciando nel sole e, piombando sulle ali affilate, si avventava verso lo stormo di rondoni neri che volteggiavano lungo la parete a strapiombo. «Un falcone di Taita», disse trionfante Shasa. «Uno degli uccelli più rari dell'Africa.» Il falcone afferrò un rondone e l'uccise istantaneamente in un'esplosione di piume. Poi, tenendo stretta la preda, si lasciò cadere nel vuoto e scomparve nella semioscurità sottostante. Quella sera mangiarono bistecche di coda di coccodrillo che avevano lo stesso sapore delle aragoste; ma quando salirono in camera erano entrambi intimiditi e nervosi. Shasa indugiò in salotto per bere un cognac. Quando finalmente andò in camera da letto, Elsa era già semiadagiata sui cuscini. I capelli sciolti sulle spalline della camicia da notte di pizzo erano neri e splendenti. Shasa fu sopraffatto da un senso di panico. Aveva cinquantotto anni e di recente c'erano state alcune occasioni con altre donne che avevano scosso la sua fiducia in se stesso. Elsa sorrise e gli tese le braccia in un gesto d'invito. Shasa pensò che non avrebbe dovuto preoccuparsi. Lei lo rendeva virile come non era mai riuscito a nessuna donna. La mattina, quando si svegliarono abbracciati, la luce del sole ruscellava attraverso le grandi finestre. Lei sospirò e sorrise languidamente, soddisfatta. «Il mio uomo», disse, e lo baciò. Quella luna di miele irregolare si protrasse di giorno in giorno. Facevano insieme tante piccole cose sciocche per le quali Shasa non aveva avuto tempo e voglia per moltissimi anni. Si svegliavano tardi al mattino e oziavano in costume sui bordi della piscina. Leggevano per ore, stesi al sole, in un silenzio affettuoso. Ogni tanto si spalmavano a vicenda di olio solare, e ne approfittavano per toccarsi e guardarsi l'un l'altra. Elsa era snella e abhronzata. Il tono e le condizioni dei muscoli e della carnagione erano il risultato di lunghe ore dedicate all'aerobica, alla ginnastica e alle cure di bellezza. Era chiaramente orgogliosa del suo corpo; e Shasa condivideva quell'orgoglio quando la confrontava con le altre donne seminude che prendevano il sole sotto i msasa e sui prati verdi. Solo da vicino erano visibili i segni che la vita e la maternità avevano lasciato su di lei. Shasa trovava affascinanti anche quei minimi difetti: sottolineavano la maturità di Elsa, la sua esperienza e la sua comprensione della vita. Era una donna, matura e completa. E questo risultava ancora più evidente quando si parlavano. Parlavano per ore ed ore. Erano conversazioni pigre e piacevoli, e ognuno esplorava la mente dell'altro, così come ne aveva esplorato il corpo nel letto matrimoniale della Livingstone Suite. Elsa gli parlava di sé con incantevole sincerità. Gli descrisse la morte lenta e crudele di Bruno, divorato vivo dal cancro, e la propria sofferenza mentre era costretta ad assistere impotente. Parlò della solitudine dei sette lunghi anni successivi. Non aveva bisogno di dirgli che sperava di avervi posto fine: le bastò
toccargli la mano per averne la certezza. Gli parlò dei figli: il maschio, che si chiamava anche lui Bruno, e le tre femmine. Due erano sposate, la più giovane studiava in un'università milanese, mentre Bruno s'era laureato ad Harvard e adesso lavorava a Roma per la Pignatelli Industries. «Non ha il fuoco di suo padre», disse francamente a Shasa. «Non credo che potrà mai indossarne i panni: gli vanno troppo grandi.» I suoi discorsi indussero Shasa a pensare ai propri figli. Si parlarono dei dispiaceri e delle delusioni causati dai loro figli e delle rare gioie che avévano loro donato. Discutevano del loro amore per i cavalli e la caccia, la musica e l'arte e le cose belle, i libri e il teatro. Parlavano del potere e del denaro, e confessavano apertamente di non potervi rinunciare. Non si nascondevano nulla. A un certo punto Elsa fissò Shasa con aria solenne. «E' troppo presto per averne la certezza assoluta, ma credo che io e te staremo bene insieme.» «Lo credo anch'io», rispose Shasa con la stessa solennità, e fu come se avessero confermato un impegno reciproco. Ballavano nelle tiepide, profumate notti africane. Accostavano le guance ancora accaldate dal sole e si muovevano al ritmo della steel band. Dopo mezzanotte salivano finalmente la scalinata tenendosi per mano per raggiungere la suite e il letto ampio e morbido. «Santo cielo!» esclamò Shasa con stupore sincero. «E' giovedì. Siamo qui da quattro giorni. I ragazzi si chiederanno che fine abbiamo fatto.» Stavano consumando il brunch sulla terrazza. «Penso che l'intuiscano.» Elsa alzò gli occhi dal mango che gli stava sbucciando e sorrise. «E non mi pare che "ragazzi" sia il termine più adatto per i tuoi figli.» «Van Wyk arriverà domani a Chizora», osservò Shasa. «Lo so.» Elsa sospirò. «Mi dispiace andar via, ma dobbiamo incontrarci con lui.» Sir Clarence Van Wyk era uno di quegli esseri straordinari prodotti a volte dall'evoluzione africana. Era un afrikaner purosangue. Il padre era stato giudice supremo del Sudafrica quando faceva parte dell'Impero Britannico, e lui aveva ricevuto il titolo ereditario quando era ancora ammissibile che un sudafricano accettasse tale onore. Sir Clarence era un tipico prodotto di Eton e Sandhurst. Era stato ufficiale di un famoso reggimento delle Guardie, ed era l'erede di considerevoli proprietà terriere al Capo di Buona Speranza. Era anche il ministro del governo di Ian Smith incaricato di finanziare la sfibrante guerriglia che dilaniava la Rhodesia e di evadere le feroci sanzioni che il governo laburista britannico, gli Stati Uniti e l'ONU avevano applicato contro un paese colpevole di aver scelto unilateralmente l'indipendenza. Garry e Shasa avevano organizzato l'incontro durante la sosta a Salisbury mentre si recavano a Chizora. Sir Clarence era appassionato di caccia grossa, e gli avevano promesso di farlo divertire negli intervalli delle discussioni. Sir Clarence arrivò a Chizora a bordo di un elicottero militare rhodesiano. Aveva con sé due collaboratori e due guardie del corpo, e la loro presenza minacciava di causare una crisi nel funzionamento del campo. Il personale e gli impianti erano organizzati per accogliere un numero di ospiti molto più ridotto. Tuttavia, Sean era stato avvertito con molto anticipo e da Salisbury erano arrivati con i camion altre provviste, equipaggiamento e servitori. Il tavolo delle conferenze sotto il msasa fu allungato e vennero
aggiunte sedie per sir Clarence e i suoi collaboratori. Isabella era presente come assistente personale del padre. Fin dal primo momento sir Clarence non tentò di nascondere il suo interesse per lei. Era alto un metro e novantacinque e torreggiava persino a fianco di Shasa e Sean. Era un uomo imponente, e l'accento aristocratico inglese ed i lineamenti classici sembravano smentire l'origine afrikaner. Aveva una eccezionale competenza in fatto di finanze e di politica, e la reputazione di fortunato donnaiolo. Seduti sotto il msasa, discussero il marketing e i trasporti delle ricchezze e dei prodotti, le commissioni e le tariffe spettanti a ognuno di loro. La Rhodesia era soprattutto produttrice di beni primari, e questo semplificava di molto le trattative. Tuttavia, le sue miniere che sfruttavano i limitati filoni di quarzo aurifero producevano una considerevole quantità d'oro: questo comunque non li riguardava perché l'oro era anonimo. Non portava il timbro «Made in Rhodesia», e il suo alto valore in rapporto al volume faceva in modo che fosse facile da trasportare e collocare. La situazione era diversa per quanto riguardava gli altri prodotti primari del paese, tabacco e metalli rari, soprattutto cromo. Erano voluminosi da trasportare, era necessario tenere segreto il paese di origine e dovevano essere disseminati sui vari mercati mondiali. Le ferrovie che partivano dalla Rhodesia correvano verso sud, fino ai porti di Durban e di Città del Capo nella Repubblica Sudafricana: era il percorso naturale per quei tesori. Da anni, dopo la dichiarazione d'indipendenza del governo di Ian Smith, Garry Courteney e la Courteney Enterprises avevano avuto un ruolo fondamentale nell'aiutare la Rhodesia ad eludere la campagna delle restrizioni. Ora occorreva sviluppare una strategia nuova e ambiziosa. Dopo aver studiato con attenzione le industrie del gruppo Pignatelli, Garry e sir Clarence offrivano a Elsa Pignatelli l'occasione lucrosa di partecipare alle attività anti sanzioni. La Pignatelli Industries era proprietaria della seconda azienda più importante per la lavorazione del tabacco che esistesse in Europa dopo la British American Tobacco Company. Inoltre, deteneva il pacchetto di maggioranza della Winnipeg Mining canadese ed un'acciaieria e una raffineria di vanadio nell'Italia meridionale, presso Taranto. Tutto questo collimava a meraviglia con le esigenze della Rhodesia che aveva bisogno di trovare un mercato per i suoi prodotti. Ma i negoziati si preannunciavano difficili. Sebbene la discussione si svolgesse in un'atmosfera apparentemente civile ed amichevole, tutti i presenti erano predatori abili e spietati, impegnati in un confronto di intelligenze e di volontà. Isabella li osservava con un senso di soggezione. Suo fratello usava i suoi modi quasi sprovveduti, lo sguardo ingenuo da miope e la risata cordiale per nascondere una mente ferrea e calcolatrice. Bella e serena, Elsa Pignatelli sfruttava senza ritegno il suo fascino e brandiva femminilmente un fioretto per tener testa alle sciabolate degli uomini, e ci riusciva con disinvoltura. Sir Clarence era compìto come un cortigiano. Difendeva le sue posizioni da vero ufficiale della guardia e costringeva gli altri a pagare a caro prezzo ogni centimetro che era costretto a cedere. Poi contrattaccava con tempismo consumato. Shasa era seduto a capotavola con aria distaccata, e lasciava quasi sempre a Garry il compito di trattare. Ma quando parlava i suoi commenti erano calzanti, e spesso servivano a superare un punto morto nei negoziati e a proporre un compromesso equo.
Le somme di denaro in discussione erano di entità astronomica. Mentre Isabella redigeva il verbale della conferenza, si divertiva a calcolare il due e mezzo per cento di tre miliardi di dollari. Sarebbe stata quella, infatti, la parte del bottino spettante alla Courteney Enterprises nei prossimi dodici mesi, da guadagnare senza investimenti addizionali da parte loro. Quando ebbe sotto gli occhi il totale, guardò il fratello con un rispetto nuovo. A mezzogiorno la conferenza fu sospesa per il pranzo. Con l'Alouette militare, sir Clarence aveva portato un grosso taglio scelto del miglior manzo rhodesiano. Sean e il suo chef avevano trascorso la mattinata ad arrostirlo alla perfezione su un fuoco di mopane. I presenti prepararono il palato con un bicchiere di Dom Pérignon mentre Sean tagliava le fette rosate ed il sugo sfrigolava e sprizzava intorno alla lama. Durante il pranzo sir Clarence, con la stessa abilità e astuzia di cui aveva dato prova al tavolo delle trattative, si diede da fare per cercare di isolare Isabella dal branco e di metterle il suo marchio. Isabella era lusingata e piuttosto tentata da quelle attenzioni. Sir Clarence era un uomo superiore, un maschio dominante; ed il potere è un forte afrodisiaco per ogni donna. E poi, sir Clarence aveva i capelli scuri, folti e ondulati, appena sfumati di grigio alle tempie. Gli occhi erano molto belli. Era così alto, e la divertiva con il suo spirito garbato. Isabella si sorprese a sorridere alle sue sortite. A un certo momento gli guardò i piedi. Dovevano essere della massima misura, in quei lucidi stivali da polo confezionati a mano; e lei sorrise di nuovo, pensosamente. Forse era un errore, ma la possibilità era affascinante. Quasi le sembrava di sentire i rimproveri di Nanny. «Tutti i Courteney hanno il sangue caldo. Stai attenta, e ricorda che sei una signora.» Sapeva che sir Clarence era sposato; ma da tanto tempo non aveva avuto il conforto del corpo di un uomo, e lui era così forte ed imponente. Se sir Clarence avesse continuato a dar prova di classe ed energia... allora forse, forse avrebbe avuto una possibilità. Dopo pranzo tornarono al tavolo delle trattative. Isabella ebbe l'impressione che il Dom Pérignon, anziché annebbiarle, avesse reso più acute le loro menti. Alle quattro del pomeriggio Garry diede un'occhiata all'orologio. «Se non vogliamo perdere il passaggio della sera, propongo di rimandare la nostra discussione a domani mattina.» Partirono per gli stagni lungo il fiume con i due camion per sparare alle tortore che a quell'ora arrivavano per bere. Senza dare troppo nell'occhio, sir Clarence si era seduto accanto a Isabella sul primo camion. Ma all'ultimo momento, proprio mentre stavano per partire, lei saltò a terra e tornò indietro per prendere posto sul secondo a fianco di Garry. Non voleva facilitargli troppo le cose ed intuiva che la caccia lo divertiva non meno della cattura. Garry era euforico. Mentre guidava, le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse. «Dio, è magnifico», disse in tono esultante. «Adoro Harold Wilson e James Callaghan e tutti quei piccoli bigotti santimoniosi dell'Assemblea Generale dell'ONU. Mi piace violare le sanzioni. E' eccitante e romantico, mi fa sentire come Al Capone o capitan Blood. Yo ho ho e una bottiglia di rum...! Mi dà una splendida sensazione di patriottismo e l'occasione di fare un'eloquente affermazione politica, mentre incasso settantacinque milioni di sterline in valuta pregiata che il fisco non vedrà mai. E' magnifico. Adoro tutti i padri delle sanzioni e del proibizionismo.»
«Sei incorreggibile.» Isabella rise. «La tua sete di ricchezze non ha limiti?» Garry ridivenne serio e le staccò il braccio dalle spalle. «Mi credi così avido?» chiese. «Non lo sono, Bella. La verità è che partecipo al grande gioco. Non lo faccio per il premio in denaro, ma per la gioia di vincere. Sono stato un perdente per troppi anni della mia vita. Adesso ho bisogno di sentirmi vincitore.» «Tutto qui?» Anche Isabella era ridiventata seria. «Stai giocando con la ricchezza e il benessere di milioni di piccoli individui per soddisfare il tuo ego.» «Quando vinco, vince anche quella piccola gente. Gli autori delle sanzioni cercano di infliggere la fame e la miseria a milioni di persone comuni per imporre le loro personali idee politiche. E questo è un crimine contro l'umanità. Quando svento i loro sforzi, faccio qualcosa nell'interesse della piccola gente.» «Oh, Garry, tu non sei un cavaliere bianco. Non fingere di esserlo... ti prego!» «Oh, sì, lo sono», la contraddisse Garry. «Sono uno dei cavalieri bianchi del sistema capitalista. Non capisci? L'unico modo per uscire dal dilemma nell'Africa meridionale consiste nell'istruire e far progredire la gente, soprattutto i negri, e nel creare ricchezza. Dobbiamo puntare su una società basata non sulla classe, la casta, la razza o la fede, ma sul merito. Una società dove ognuno possa far sentire il suo peso ed essere ricompensato in misura proporzionale al suo impegno... Il sistema capitalista è questo.» «Garry, non ti ho mai sentito parlare così, come un liberal.» «Non come un liberal: come un capitalista. L'apartheid è un sistema feudale primitivo. Come capitalista, lo detesto quanto e più dei fautori delle sanzioni. Fu il capitalismo a distruggere il feudalesimo dell'Europa medioevale. E non può coesistere con un sistema che riserva il potere ed il privilegio a una minoranza ereditaria, un sistema che sopprime i princìpi del libero mercato di manodopera e beni. Il capitalismo distruggerà l'apartheid, se lo si lascerà fare. Gli ideatori delle sanzioni vogliono inibire tale processo, e con le loro azioni fomentano l'apartheid e fanno il gioco di chi l'impone.» Isabella lo fissò. «Non ci avevo mai pensato.» «La miseria porta alla repressione. E' facile opprimere i poveri. E' quasi impossibile opprimere per sempre gente istruita e prospera.» «Quindi, per te la via della libertà passa per l'economia anziché per la politica.» «Precisamente.» Garry annuì, poi proruppe in una delle sue risate tonanti. «E darò un magnifico esempio capitalista guadagnando settantacinque milioni di sterline in un anno.» Frenò e lasciò la pista per seguire l'altro Toyota che, con Sean al volante, scendeva verso gli stagni nella foresta di mopane. Erano depressioni poco profonde, che in Africa venivano chiamate pans, piene d'acqua grigia e torbida, riscaldata dal sole e mescolata all'urina acida degli elefanti che venivano regolarmente a branchi per bere e fare il bagno. Nonostante la temperatura e il sapore dell'acqua, le tortore la preferivano a quella pura e corrente del fiume, lontano poco più di tre chilometri. Arrivarono un'ora prima del tramonto, in stormi che riempivano l'aria come fumo grigiazzurro. A decine di migliaia, seguivano le rotte di volo consuete. Sean piazzò i cacciatori lungo quelle rotte, a cinque o seicento metri dall'acqua. Non intendeva impedire agli uccelli di bere piazzando i tiratori vicino ai pans: voleva invece costringerli a passare in quel corridoio forzato per arrivare all'acqua. Per una
questione d'onore, ogni cacciatore doveva rispettare il limite quotidiano di cinquanta capi e sparare soltanto alle tortore che passavano veloci sopra la sua testa. I tiratori erano piazzati a coppie, non solo per farsi compagnia, ma anche per controllarsi a vicenda e far rispettare la lealtà del gioco, nonché per fornire un pubblico ammirato per i colpi migliori, come quelli che abbattevano due tortore alla volta o centravano un lampo azzurro mentre sfrecciava a un'altezza di trenta metri e a centodieci chilometri orari. Naturalmente, Elsa era in coppia con Shasa, e le loro grida di «Bello! Molto bello!» e «Ottimo tiro! Brava!» echeggiavano tra i mopane mentre si scambiavano incoraggiamenti. Garry e Sean s'erano piazzati sul lato occidentale dei pans, dietro un alto filare di piante, in modo che le tortore erano costrette a volare più in alto e apparivano all'improvviso sopra le cime degli alberi, offrendo bersagli che richiedevano riflessi fulminei e un calcolo istintivo del tiro. A un certo punto Sean mancò la tortora cui aveva mirato, sparando mezzo metro più indietro. Garry si girò con il Purdy imbracciato e fece precipitare la tortora in una scia di piume. Poi guardò il fratello maggiore e rise. Sean ributtò i capelli all'indietro e si sforzò di non badargli; ma il suo viso era oscurato dalla rabbia. Isabella era con sir Clarence all'estremità sud di una valletta erbosa, nascosta al resto del gruppo. Usava l'Holland & Holland calibro venti intarsiato d'oro che le aveva regalato il padre; ma non sparava da quasi un anno e la mancanza d'allenamento appariva evidente dai risultati. Mancò nettamente le prime tre tortore, poi ne ferì una. «Accidenti! Accidenti!» esclamò. Detestava ferire gli animali senza ucciderli. Sir Clarence centrò due tortore con un solo colpo, poi appoggiò il fucile a un tronco e si avvicinò. «Le dispiace se le do qualche suggerimento?» chiese. Quando Isabella si voltò a sorridergli, le venne alle spalle. «La mano destra tende ad avere il sopravvento sull'arma.» La cinse con le braccia e le prese le mani nei pugni enormi. «Ricordi: la sinistra deve sempre dominare. La destra ha la sola funzione di premere il grilletto.» Sollevò il fucile e glielo appoggiò alla spalla, poi le strinse la mano sinistra, per spiegarsi meglio. «Su la testa», disse. «Tenga aperti tutti e due gli occhi. Guardi la tortora, non il fucile.» Aveva un odore mascolino. Il profumo del dopobarba non mascherava del tutto il sentore del sudore. Le braccia che la cingevano davano a Isabella una sensazione gradevole. «Oh», disse. «Così?» E spinse all'indietro, delicatamente, con i glutei sodi e tondi mentre prendeva la mira. «Esattamente.» La voce di sir Clarence s'incrinò. «Ha capito esattamente.» «Bontà divina!» pensò Isabella, usando una delle espressioni preferite di Nana. «E' taglia massima dappertutto!» Era uno sforzo, trattenersi dal ridere come una ragazzina. Sir Clarence si stava entusiasmando nel ruolo di mentore; ma Isabella si disse con fermezza: «Basta, per ora. Non devo viziarlo troppo». Si liberò con garbo dall'abbraccio. «Mi lasci provare», chiese, e centrò una tortora con tanta esattezza da non darle neppure la possibilità di sbattere un'ala. «E' proprio fatta per queste cose», disse sir Clarence, e lei girò la testa per nascondere il sorriso ispirato da quel doppio senso. «Suo fratello mi ha detto che è anche un'amazzone di prim'ordine», insistette sir Clarence, e non attese una risposta.
«Ho comprato di recente un magnifico stallone arabo. Non credo che ce ne sia un altro simile in tutta l'Africa. Mi piacerebbe mostrarglielo.» «Oh!» disse Isabella con simulato disinteresse, mentre caricava il fucile. «E dov'è?» «Nel mio ranch a Rusape. Potremmo farci sbarcare là dall'Alouette durante il volo di ritorno a Salisbury, domani nel pomeriggio.» «Sarebbe piacevole», disse Isabella. «Sarò lieta di conoscere sua moglie. So che è una signora deliziosa.» Sir Clarence incassò senza batter ciglio. «Purtroppo mia moglie si trova in Europa, in questo momento, e starà via almeno per un altro mese. Dovrà accontentarsi della mia compagnia.» Diede a quell'ultima frase un'altra enfasi sottile, e questa volta Isabella non seppe trattenere un sorriso. «Dovrò pensarci, sir Clarence», disse. «Immagino che la sua compagnia possa essere piuttosto impegnativa.» Questa volta anche lui abbandonò l'aria seria e sorrise a sua volta. «Ma lei sarebbe sicuramente all'altezza, mia cara.» Isabella si chiese quale sarebbe stata la ricompensa dei suoi padroni misteriosi se avesse offerto loro non soltanto la strategia antisanzioni ma anche l'ordine di battaglia rhodesiano al completo. «Tutto in nome del dovere», si disse. «Carniere pieno!» gridò Shasa ad Elsa. Aprì il fucile e lo mise sotto il braccio. Poi chiamò i due ragazzetti negri: «Pakamisa! Raccoglietele!» I ragazzi corsero a raccogliere le ultime due tortore. Shasa ed Elsa tornarono ai camion fermi. Il sole stava quasi per toccare le cime degli alberi, e lo strato sottile di nubi sembrava d'oro vivo... il colore di una fede nuziale, pensò Shasa senza una ragione. «Sta bene», disse all'improvviso Elsa, come se fosse pervenuta ad una decisione difficile. «Scusami...» mormorò Shasa, un po' perplesso. «Che cosa sta bene?» «Mi fido di te», disse lei. «Ci saranno certe condizioni, ma ti darò il progetto per lo stabilimento e la formula del Cyndex 25.» Shasa aspirò lentamente. «Cercherò di essere degno della tua fiducia.» Quella sera, mentre sedevano accanto al fuoco, un po' staccati dagli altri, Elsa dettò le sue condizioni. «Mi devi garantire personalmente che il Cyndex non verrà mai usato se non per ordine esplicito del Primo ministro o dei suoi successori in quella carica.» Shasa lanciò un'occhiata oltre le fiamme per essere certo che nessuno ascoltasse. «Te lo giuro. Otterrò il consenso scritto del Primo ministro.» «Le regole d'impiego. Il Cyndex non sarà mai usato contro il popolo sudafricano», continuò Elsa. «Non sarà mai usato in un conflitto civile o politico interno. Non sarà mai usato per reprimere un'insurrezione popolare o in una futura guerra civile.» «D'accordo.» «Potrà essere usato solo per respingere un'invasione militare da parte di truppe d'una potenza straniera, e solo nel caso che le armi convenzionali falliscano.» «D'accordo.» «C'è un'altra condizione... un po' più personale.» «Ti ascolto.» «Verrai a Losanna per discutere i dettagli.» «Lo farò con il più grande piacere.» Era l'ultima mattina del safari. Gli ospiti avevano fatto le
valigie ed erano pronti a lasciare Chizora. I bagagli erano ammucchiati davanti a ogni tenda in attesa che i servitori li ritirassero. Le trattative erano concluse, i contratti erano stati firmati. Elsa Pignatelli aveva accettato di collaborare al marketing del tabacco e del cromo rhodesiani, in cambio di una percentuale principesca, mentre Garry Courteney s'era impegnato a fornire mezzi di trasporto e documentazioni false per le merci in partenza dai porti sudafricani. Le ricompense per i suoi servizi includevano l'estensione delle concessioni di caccia di Chizora oltre alle percentuali. Tutti avrebbero raggiunto Salisbury a bordo dell'elicottero militare rhodesiano, che si era messo in contatto radio con il campo mentre era in volo e a cento miglia nautiche di distanza. Avrebbe dovuto atterrare nella radura davanti al campo già mezz'ora prima. Era in ritardo, questo preoccupava tutti. Stavano in piccoli gruppi intorno al fuoco al centro del boma a bere l'ultimo Pimm's No. 1. Istintivamente, continuavano a guardare il cielo, in attesa di sentire il rombo dei motori dell'Alouette. Sean e Bella erano insieme. «Quando verrai a Città del Capo?» chiese lei. «Cercherò di venire al termine della stagione, se prometti che mi farai trovare qualche ragazza carina.» «Quando mai hai avuto bisogno di aiuto per queste cose?» chiese Isabella, e Sean sorrise e le diede un bacio. «Non sono come pater», protestò. «Guarda un po' il vecchio. Se ne va in Europa con la vedova, a quel che ho sentito.» Si voltarono a guardare Elsa e Shasa. «Fanno schifo, alla loro età», commentò ironicamente Sean, e Isabella insorse in difesa del padre. «Papà è uno degli uomini più affascinanti che...» «Calma, Bella.» Sean le strinse il braccio. «Pensa al tuo sir. Sarà un miracolo se riuscirai a salvare la tua virtù. Non per niente lo chiamano Clarence il Seduttore.» Come se avesse sentito il suo nome, sir Clarence si avvicinò a Isabella e la prese in disparte. «Faremo scendere gli altri a Salisbury», mormorò, curvandosi verso di lei. «Poi l'elicottero ci porterà al mio ranch. Non è necessario dare pubblicità alla nostra escursione, vero?» «Naturalmente», acconsentì Isabella. «Non vogliamo che il mio papà e lady Van Wyk rovinino un interludio innocente consacrato all'ammirazione dei cavalli.» «Appunto», disse sir Clarence. «E' meglio che certe cose...» S'interruppe quando la radio, nella tenda di Sean, crepitò e fece sentire la sua voce. Sean sparì sotto la tenda. Si era preoccupato più degli altri per il ritardo dell'elicottero. Lo sentirono rispondere alla chiamata dell'apparecchio che si stava avvicinando. «Tugboat, qui è Big Foot. Parlate pure.» «Big Foot. C'è un cambiamento di piano. Informi il ministro che il suo volo deve lasciare il posto a un'operazione urgente. Verremo a prelevarla per la ricognizione tra sedici minuti. Ho dieci scout a bordo. Saranno date al più presto possibile disposizioni alternative per portare a destinazione il ministro. Passo e chiudo.» «Roger, Tugboat. Saremo pronti.» «La guerra è una maledetta seccatura», sospirò sir Clarence. Tutti avevano ascoltato il dialogo via radio. «Dovremo restarcene qui fino a che potranno mandare un altro elicottero.» «Cos'è successo?» chiese Isabella. «Un'azione terroristica», spiegò sir Clarence. «Probabilmente un attacco contro una fattoria di bianchi. Il nostro elicottero viene destinato ad altri usi. L'inseguimento ha la precedenza
assoluta. Non possiamo lasciare che quei porci assassini la facciano franca... dobbiamo tener alto il morale degli agricoltori.» Non disse che le forze aeree rhodesiane erano disperatamente a corto di elicotteri. Scrollò le spalle. «Sembra che il destino cospiri contro di noi.» «Forse dovremo rimandare la nostra spedizione...» Isabella s'interruppe quando Sean uscì dalla tenda indossando l'attrezzatura leggera con le tasche per le munizioni e le bombe a mano e le borracce. Portava appeso alla spalla il fucile FN, e stava gridando. «Matatu! Vieni qui, piccoletto. Abbiamo un vero lavoro, adesso. Un inseguimento.» Il piccolo cacciatore ndorobo comparve come un sorridente pupazzo a molla. «Hai, bwana», pigolò in swahili. «Stasera arrostiremo sul fuoco i testicoli di qualcuno della ZANLA.» «Piccolo diavolo sanguinario! Ti diverte, eh?» Sean sorrise con una gioia feroce. Poi si rivolse agli altri: «Scusate. Dovrete arrangiarvi per tornare a Salisbury. Io e Matatu abbiamo un appuntamento». Fissò gli occhi su Garry. «Perché non li trasporti tu a Salisbury con il Beechcraft? Con tutti quei bagagli ci vorrà un paio di viaggi, ma è sempre meglio che star qui ad aspettare finché l'elicottero sarà libero.» S'interruppe ed inclinò la testa per ascoltare meglio. «Eccolo, sta arrivando.» Poi si aggirò in mezzo agli altri e strinse loro la mano pronunciando brevi frasi di commiato. «La rivedremo nella prossima stagione, signora? Le prometto un leopardo enorme...» «Mi dispiace di rubarle l'elicottero, sir Clarence.» «Su con la vita, papà. Non combinare guai...» Sean strizzò l'occhio e lanciò uno sguardo a Elsa Pignatelli. «Ciao, sorellina.» Baciò Isabella che si strinse a lui. «Sii prudente, Sean. Non voglio che ti succeda niente.» Sean l'abbracciò e rise dell'assurdità dell'idea. «Corri più rischi tu con sir Clarence.» Alzò gli occhi al cielo: l'elicottero era un insetto nero sopra gli alberi. Sean andò a stringere la mano al fratello minore. «Accidenti, Garry! Chi vuole il tuo posto... quando posso fare questo?» Mentre attendevano che l'elicottero scendesse, Sean andò con Matatu all'ingresso del boma. Isabella aveva la gola stretta e gli occhi pieni di lacrime. Erano un duo così incongruo, la figura alta ed eroica di suo fratello con i capelli fluenti e le membra muscolose ed abbronzate e lo gnomo nero e grinzoso che gli stava al fianco. Sean posò una mano sulla spalla del ndorobo in un gesto affettuoso, una riconferma della fiducia nata tra loro in cento avventure disperate e del legame tra i due guerrieri cacciatori. Poi corsero nella nube di polvere sollevata dall'elicottero, chinandosi per passare sotto le pale rotanti, e balzarono a bordo. Subito l'apparecchio s'innalzò e sfrecciò verso sud-est, tenendosi basso sopra le cime degli alberi per non perdere neppure un momento prendendo quota. I dieci scout erano seduti sulle panche nella cabina principale dell'elicottero. Tutti erano carichi di zaini e bandoliere, nastri di munizioni, bombe a mano e borracce. Le braccia nude e le gambe erano tinte di nero. Soltanto i denti balenavano candidi nelle facce naturalmente scure o spalmate di crema mimetica. Almeno metà di loro erano matabele.
Tutti sapevano che quando bianchi e negri combattevano fianco a fianco finivano per mettere in mostra le qualità migliori. Gli scout di Ballantyne erano l'unità d'élite delle forze armate della Rhodesia, anche se i Selous scouts e gli Special Air Services e il Reggimento rhodesiano avrebbero spaccato il muso a chiunque avesse osato affermarlo. Quando salì a bordo, Sean riconobbe tutti e li salutò per nome. Gli uomini ricambiarono il saluto con una laconicità che nascondeva rispetto e soggezione: Sean e Matatu erano già delle leggende viventi. Erano stati loro ad addestrare quasi tutti quei giovani veterani. Roland Ballantyne, fondatore e colonnello comandante degli scout, aveva tentato di tutto per indurre Sean ad accettare la nomina a vicecomandante, ma finora non c'era riuscito. Intanto, comunque, chiamava Sean e Matatu ogni volta che si preparava uno scontro pesante. Sean si lasciò cadere sul sedile accanto a lui e agganciò la cintura. Mentre cominciava a spalmarsi sulla faccia la crema mimetica, gridò per farsi sentire nel fragore dei rotori: «Salve, Skipper. Cos'è successo?» «Una banda di terroristi ha attaccato ieri sera una piantagione di tabacco nei pressi di Karoi. Hanno teso un agguato all'agricoltore, al cancello di casa. Gli hanno sparato mentre la moglie usciva sulla veranda per andargli incontro. Li ha tenuti a bada da sola per tutta la notte, anche se quelli sparavano persino con i bazooka. Un coraggio incredibile. Poco dopo mezzanotte hanno rinunciato e sono scappati.» «Quanti erano?» «Più di venti.» «Da che parte sono andati?» «A nord, nella valle.» «Contatto?» «Non ancora.» Roland scosse la testa. La faccia dal mento allungato era imponente. Aveva circa cinque anni più di Sean, e come lui s'era fatto una reputazione nei pochi anni trascorsi dall'inizio della guerra nella boscaglia. «Un'unità locale li sta seguendo, ma perde terreno. I terroristi corrono svelti.» «Cercheranno di perdersi tra la popolazione negra locale nell'area del Tribal Trust», disse Sean mentre si annodava un pezzo di rete mimetica sui capelli lucenti. «Portaci dall'unità che li insegue, Skipper.» «Siamo in contatto radio...» Roland s'interruppe quando il motorista gli accennò di prendere il microfono. «Vieni.» Sganciò la cintura di sicurezza e si avviò nel passaggio tra le panche. Sean lo seguì e gli rimase accanto, puntellandosi contro la paratia vibrante e tendendo il collo per ascoltare la voce metallica e disincarnata della radio. «Bushbuck, qui Striker Uno», disse Roland. «Avete stabilito il contatto?» «Striker Uno, qui Bushbuck. Negativo. Ripeto, negativo.» «Siete sulle tracce, Bushbuck?» «Affermativo, ma la selvaggina si è dispersa.» I terroristi si erano divisi per rendere più difficile l'inseguimento. «Roger, Bushbuck. Appena sentite i nostri motori, lanciate una fumata gialla.» «Ricevuto, una fumata gialla, Striker Uno.» Dopo tre quarti d'ora il pilota avvistò il segnale di fumo, un pennacchio giallo canarino che aleggiava sopra la foresta verde scuro. L'elicottero discese in quella direzione e restò librato sull'erba in una radura fra gli alberi. Sean vide l'unità della polizia che fino a quel momento aveva inseguito i terroristi: era evidente alla prima occhiata che non erano combattenti esperti, ma truppe della guarnigione di Karoi. Erano cittadini e riservisti
che facevano il loro turno, e non erano affatto entusiasti del compito che gli era toccato. Sean e Matatu scesero insieme: spiccarono un balzo e atterrarono due metri più sotto come due gatti, con le armi imbracciate. Si divisero e si misero al coperto mentre l'elicottero risaliva e si fermava sessanta metri più in alto. Bastarono quindici secondi per accertarsi che la polizia avesse saldamente in pugno l'area, poi Sean corse dal comandante. «Bene, sergente», ordinò. «Beva! Beva subito.» Il sergente aveva la faccia rossa, bruciata dal sole, ed era grasso. Nonostante il caldo della valle, non sudava più; il sudore s'era asciugato sulla camicia in cerchi bianchi e irregolari di cristalli di sale. Non era abbastanza esperto per sapere che era pericoloso disidratarsi. Se avesse continuato per un'ora sarebbe probabilmente morto. «L'acqua è finita.» Il sergente aveva la voce rauca. Sean gli lanciò una borraccia e, mentre quello beveva, gli chiese: «Dove si dirigono le tracce?» Il sergente indicò a terra, più avanti: ma Matatu aveva già scoperto i segni lasciati dalla banda in fuga. Li seguì, inclinando la testa per studiare i dettagli visibili soltanto per un occhio eccezionale. Li seguì per cinquanta passi, poi tornò da Sean. «Cinque», trillò. «Uno è ferito alla gamba sinistra...» «La vedova dell'agricoltore deve averli conciati a dovere.» «... Ma le tracce sono fredde. Dobbiamo usare la tattica del salto della lepre.» Sean annuì. Era una tecnica che aveva messo a punto con Matatu, ed era efficace solo con un esperto del calibro del ndorobo. Dovevano essere in grado di indovinare dove si dirigeva la selvaggina, e avere una buona idea della direzione e della velocità della marcia prima di poter procedere a balzi come lepri. In quel caso non c'erano dubbi. I terroristi dovevano proseguire a nord verso lo Zambesi e le terre del Tribal Trust, dove avrebbero trovato cibo e rifugio e cure mediche rudimentali per i feriti. Avevano molti simpatizzanti nelle tribù negre di shona e batonka che vivevano lungo il bordo della valle. E quelli che non erano disposti a collaborare spontaneamente sarebbero stati costretti a farlo dagli A K 47. Dunque dovevano procedere verso il nord. Ma il territorio selvaggio era vastissimo; e c'erano tratti accidentati, valli rocciose e colline di granito. Se la banda dei fuggitivi aveva deviato di pochi gradi dalla linea di marcia più ovvia, poteva essere sparita senza lasciar traccia. Sean corse al centro della radura e fece un segnale all'Alouette chiudendo le braccia in croce. L'elicottero obbedì subito. «Bene, sergente», gridò Sean. «Continui a seguirli. Noi andremo avanti e cercheremo di bloccarli. Mantenga i contatti radio... e non dimentichi di bere.» «Certo, signore.» Il sergente sogghignò. Quel breve incontro aveva ridato coraggio a lui e ai suoi uomini. Tutti sapevano che Sean e Matatu erano leggendari. «Gli faccia la festa, signore!» gridò il sergente a Sean, che agitò il braccio dal portello dell'Alouette in segno di saluto. Sean inghiottì mezza dozzina di compresse di codeina perché le costole cominciavano a dolere, e bevve un sorso d'acqua. Poi, insieme a Matatu, si accosciò nel vano del portello e scrutò la coltre della foresta, centocinquanta metri più sotto. Soltanto in momenti come quelli, quando era impegnato nella caccia, Matatu riusciva a vincere il terrore del volo. Ma adesso si sporgeva tanto che Sean doveva trattenerlo con un braccio intorno alla cintura. Matatu fremeva, come un buon cane da caccia che sente l'usta della preda. All'improvviso tese il braccio e Sean gridò al motorista:
«Dieci gradi a sinistra». Il motorista trasmise l'ordine di cambiare rotta al pilota per mezzo della radio. Sean non vedeva nulla che spiegasse perché Matatu aveva chiesto di puntare verso ovest. Sotto di loro la foresta era una distesa tutta eguale e amorfa. Le colline rocciose che ne spezzavano la monotonia erano lontane molti chilometri l'una dall'altra, e non avevano nulla che le distinguesse. Due minuti più tardi, Matatu tese di nuovo il braccio e Sean gli fece da interprete: «Indietro di cinque gradi a destra». L'Alouette virò docilmente. Matatu stava compiendo la sua magia. Seguiva le tracce dei fuggitivi mentre volava centocinquanta metri al di sopra delle cime degli alberi, senza basarsi su segni o suoni, ma affidandosi a uno strano intùito cui Sean non avrebbe creduto se non l'avesse visto funzionare in centinaia di altre occasioni. Matatu fremette e girò la faccia verso di Sean. Sorrideva malignamente e le labbra gli tremavano per l'eccitazione. La violenza dell'aria smossa gli aveva riempito gli occhi di lacrime che gli scorrevano sulle guance. «Giù», gridò, indicando di nuovo. «Giù!» ripeté Sean al motorista. Mentre l'elicottero scendeva, si voltò a guardare Roland Ballantyne. «Pronti a sparare!» avvertì, e Roland diede un segnale ai suoi uomini, che si tesero in avanti sulle panche, come cani da caccia che tirano il guinzaglio. Alzarono all'unisono le armi e, con un clangore metallico quasi più forte dei motori turbo, si affrettarono a caricare. L'elicottero si fermò, restò librato a meno di due metri dal terreno arido e calcinato dal sole. Sean e Matatu balzarono insieme e si allontanarono dalla zona di lancio. Si misero al coperto, restando rivolti verso l'esterno. Con l'FN imbracciato scrutò la vegetazione intorno a sé. Gli scout si lanciarono dal portello e si dispersero per schierarsi in un perimetro difensivo. L'elicottero risalì, vuoto. Nell'attimo in cui furono in posizione, Roland Ballantyne diede il segnale a Sean, a pugno chiuso: «Via!» Sean e Matatu avanzarono tenendosi separati. Gli scout si sparsero e li coprirono. Gli occhi brillavano, le dita inquiete erano accostate ai grilletti. Matatu li aveva fatti scendere in una strozzatura dove una serie di ripide creste rocciose formava un imbuto. Il vertice della V era tagliato dal letto asciutto di un fiume. Nel corso dei millenni l'acqua dei temporali aveva scolpito una scalinata naturale che saliva verso la cresta, e le mandrie degli elefanti che s'erano servite di quel valico naturale ne avevano spianato i gradini. La banda in fuga aveva rinunciato a una parte del vantaggio per avere la possibilità di nascondersi? Aveva scelto la strada degli elefanti anziché salire sul ripido pendio roccioso in un punto meno ovvio? Matatu abbassò le dita per segnalare a Sean di controllare l'approccio orientale al valico. Sean era forse il miglior cercatore di tracce bianco che esistesse al mondo; e per risparmiare tempo prezioso, Matatu gli affidava quel compito così semplice. Sean si mosse in modo da piazzare il sole tra sé e il terreno che andava studiando. Era un vecchio trucco dei cacciatori per vedere meglio le tracce. Concentrò tutta l'attenzione sul terreno, contando sugli scout perché gli coprissero le spalle. Erano uomini in gamba: li aveva addestrati lui. Fu scosso da un fremito elettrico quando trovò la traccia. Era vicina alla parete rocciosa. Uno dei grossi sassi rotondi e levigati dall'acqua del fiume era stato spostato. Adesso era in una posizione sghemba di circa un centimetro nella conca naturale
di terra che l'aveva contenuto. Lo toccò con la punta d'un dito per accertarsi. Non intendeva chiamare Matatu, con il rischio di dover ascoltare commenti sprezzanti, se prima non fosse stato sicuro. «Quel piccolo diavolo mi prenderebbe in giro per una settimana se lo chiamassi per niente.» Il sasso era grande quanto la sua testa e si muoveva leggermente sotto la pressione. Sì, era stato spostato da poco. Sean fischiò e Matatu apparve al suo fianco come il genio della lampada. Sean non ebbe bisogno di indicarglielo: lo notò immediatamente ed annuì in segno di approvazione. I terroristi erano piuttosto abili. Avevano risalito il corso d'acqua in fila indiana, tenendosi vicini al precipizio roccioso, e s'erano mossi passando sui sassi per nascondere le tracce, ma quello era stato spostato leggermente dal peso dell'uomo che l'aveva calpestato. Matatu corse via. Un centinaio di passi più avanti trovò il punto dove il piede del terrorista ferito era scivolato da una delle pietre ed aveva toccato la soffice sabbia bianca. Era rimasto un segno leggero. Solo un occhio molto esercitato poteva notare la minima differenza di colore tra i granelli della superficie e quelli appena messi allo scoperto. Matatu s'inginocchiò e studiò il segno, quindi soffiò delicatamente sulla sabbia circostante per valutarne la friabilità. Si dondolò sui calcagni mentre considerava i fattori che avevano prodotto la differenza di tinta... l'umidità della sabbia, l'angolo del sole, la forza della brezza e soprattutto il tempo trascorso da quando la sabbia era stata toccata. «Due ore», sentenziò con assoluta certezza, e Sean l'accettò senza discutere. «Hanno due ore di vantaggio», riferì a Roland Ballantyne. «Ma come fa?» Roland scosse la testa, meravigliato. «Ci ha condotti qui e adesso ci dà il tempo esatto. In quindici minuti ci ha fatto guadagnare otto ore. Come fa, Sean?» «Non lo so», ammise Sean. «Per me è un miracolo color cioccolato.» «Può usare di nuovo la tattica del salto della lepre?» chiese Roland. Non parlava swahili e Sean dovette tradurre. «Salto della lepre, Matatu?» «Ndio, bwana.» Matatu annuì, soddisfatto, pavoneggiandosi di fronte all'aperta ammirazione del colonnello. «Lascia quattro uomini perché proseguano a terra», consigliò Sean. «Digli che seguano il corso d'acqua. E' probabile che ritrovino le tracce più avanti.» Roland diede gli ordini e i quattro scout si allontanarono nella strozzatura. Sean chiamò l'elicottero, e si inerpicarono a bordo. Continuarono il volo verso nord. Ma erano in aria da non più di dieci minuti quando Matatu guaì: «Gira! Torna indietro!» Sean trasmise l'indicazione e l'elicottero descrisse un ampio cerchio, mentre Matatu penzolava dal portello. Girava la testa da una parte all'altra mentre guardava giù: per la prima volta sembrava incerto. «Giù!» gridò all'improvviso e indicò una lunga fascia di vegetazione d'un verde più scuro che riempiva una depressione a forma di fagiolo, un po' più avanti. L'Alouette discese adagio, cautamente. Matatu indicò una zona per l'atterraggio all'estremità opposta della depressione. La boscaglia era fitta e spinosa, e il suolo era costellato di formicai, torri nude di argilla rossa e dura come il cemento che arrivavano all'altezza delle spalle di un uomo e sembravano lapidi d'un cimitero. Avrebbero reso difficile e pericoloso
l'atterraggio. Il piccoletto ci sta portando nella peggior zona possibile, pensò amaramente Sean. Perché ha scelto proprio questo punto? L'elicottero si fermò a mezz'aria. Sean girò la testa e gridò a Roland: «Pronti a sparare!» Poi seguì Matatu. Atterrarono fianco a fianco e corsero avanti, buttandosi al riparo dietro uno dei formicai. Non girò la testa per vedere gli altri scout che si lanciavano dal portello. Osservava l'intrico spinoso, più avanti, e scrutava sui fianchi con attenzione mentre teneva l'FN spianato e il pollice sulla sicura. C'era una probabilità su un milione di trovare un terrorista a meno di otto chilometri dal luogo dell'atterraggio, ma la procedura normale era per tutti loro una seconda natura. «Qui non ci sono», disse Sean. E poi, incredibilmente, sorprendentemente, furono sotto il fuoco. Dai cespugli spinosi sulla sinistra crepitarono le raffiche degli A K, con un suono secco e caratteristico. La polvere e le schegge di argilla rossa volarono dal fianco del formicaio a pochi centimetri dalla sua faccia. Sean reagì immediatamente. Rotolò su se stesso e si rimise in posizione per sparare; e mentre prendeva la mira con l'FN, scorse con la coda dell'occhio un piccolo, macabro cammeo di morte. Uno degli scout, l'ultimo che era saltato dal portello, venne colpito. Mentre toccava il suolo con i piedi, una raffica di A K lo falciò al ventre, lo fece piegare in due ed arretrare di tre passi. I proiettili che uscivano dalla schiena deformarono il suo corpo, strapparono via metà degli intestini e li scagliarono nell'aria assolata in una nebbiosa striatura rosea. Poi l'uomo stramazzò tra i cespugli. Mentre Sean rispondeva al fuoco, la rivelazione lo abbagliò: Matatu ci ha fatti scendere in contatto diretto. Intervallò i propri pensieri con brevi raffiche dell'FN. Il piccoletto è stato troppo bravo, questa volta. Ci ha fatto scendere sulla testa dei terroristi. Nello stesso tempo stava valutando la situazione. La banda era stata colta di sorpresa quanto loro: non aveva potuto preparare una difesa e non aveva avuto il tempo di tendere un'imboscata. Con ogni probabilità i terroristi avevano sentito avvicinarsi l'elicottero, e dopo pochi secondi gli scout avevano cominciato a piovere in mezzo a loro. Sorpresa! pensò Sean, e sparò contro i lampi di un A K che facevano svolazzare le fronde di un arbusto spinoso a trenta passi di distanza. Sapeva per esperienza che i guerriglieri shona, i suoi avversari, erano soldati di prim'ordine, coraggiosi e tenaci. Ma avevano due punti deboli. Innanzi tutto, il loro controllo del fuoco era pessimo. Credevano che il suo volume bastasse a rimediare all'imprecisione. L'altra debolezza era l'incapacità di reagire in fretta al fattore sorpresa. Sapeva che almeno per un altro minuto i terroristi nascosti tra i cespugli davanti a lui sarebbero rimasti disorganizzati e disorientati. Sistemali subito, si disse. Sganciò dalla bandoliera una bomba al fosforo. Mentre strappava la sicura, aprì la bocca per gridare a Ballantyne: «Roland, avanti! All'attacco! Caricate quei porci prima che si riprendano». Roland lo batté sul tempo. Doveva aver avuto la stessa idea. «Sotto, ragazzi! Carica!» Sean balzò in piedi e con lo stesso movimento scagliò la bomba a mano in un'alta traiettoria ad arco. Cadde trenta metri più avanti e gli arbusti spinosi eruppero in un'accecante nube di fumi fosforosi. Tutto intorno piovvero frammenti fiammeggianti
che bruciavano con un'intensa luminosità bianca. Sean si lanciò a corsa, mentre una piccola sagoma scura gli sfrecciava alle calcagna. Matatu era la sua ombra. Altre bombe a mano esplodevano attraverso il fronte, e la distesa di cespugli era dilaniata dagli scoppi e dalle raffiche sparate dagli scout. I terroristi apparvero davanti a loro. Uno uscì dalla macchia a dieci passi da Sean. Era un adolescente con i blue jeans laceri e un berretto floscio mimetico. La metà superiore del suo corpo era tempestata di globuli di fosforo incendiato, che sfrigolavano e scoppiettavano lasciando chiazze nere e fumanti sulle braccia e sul torso. Il fumo aveva l'odore della carne arrostita. Sean gli sparò, ma la raffica era troppo bassa. Gli fracassò l'anca sinistra, e il ragazzo stramazzò. L'A K gli schizzò via dalle mani. Rotolò sulla schiena e alzò le mani davanti alla faccia. «No, mambo!» urlò in inglese. «Non uccidermi! Sono cristiano... per amor di Dio, risparmiami!» «Matatu», ordinò Sean senza fermarsi e senza voltarsi indietro. «Kufa!» Scavalcò con un balzo il guerrigliero ferito. Il caricatore del SUO FN era quasi vuoto. Non poteva sprecare un sol colpo, e Matatu aveva il coltello da caccia che ogni giorno affilava per ore ed ore. Se fosse stato un caposezione, Sean avrebbe potuto tenerlo in vita per interrogarlo: ma a quello, Matatu poteva tagliare la gola. La carne da cannone non era di nessuna utilità, e le cure mediche erano dispendiose. Gli scout batterono la macchia e tutto finì in meno di due minuti. Era una battaglia impari; come opporre una cucciolata di pechinesi a un branco di cani selvatici. Gli scout caricarono, poi tornarono indietro. «Controllate la zona», ordinò Roland Ballantyne. Era a meno di venti metri da Sean. Teneva la canna del fucile puntata verso il cielo, e il metallo surriscaldato distorceva l'aria tutto intorno come un miraggio tremulo. «Bravo, Sean. Quel tuo piccolo diavolo nero è miracoloso.» Si girò a guardare Matatu. Matatu si stava rialzando dal cadavere del terrorista ferito all'anca. Gli aveva tagliato la gola con un colpo solo sotto l'orecchio per recidere la carotide. Asciugò la lama del coltello contro la coscia mentre tornava correndo al fianco di Sean, ma rivolse un gran sorriso a Roland Ballantyne. Erano tutti e due ancora ebbri dell'euforia della violenza e del sangue. Tra loro c'era il corpo di un altro guerrigliero. La carne e gli indumenti erano bruciacchiati dal fosforo, e la stoffa era macchiata dal sangue rosso sgorgato dalle ferite d'arma da fuoco. Roland Ballantyne gli passò accanto e lo guardò appena. Era impossibile che il terrorista potesse essere sopravvissuto a ferite tanto terribili. Ma all'improvviso il terrorista si girò. Aveva tenuto nascosta una pistola Tokarev sotto il petto dilaniato. Con l'ultimo guizzo di vita alzò l'arma. Era abbastanza vicino per toccare Roland con la canna. «Roland!» urlò Sean. Anche se Roland avesse reagito immediatamente, sarebbe stato troppo tardi. Lo sparo l'avrebbe colpito alla spina dorsale da una distanza di un metro. Sean non ebbe il tempo di imbracciare l'FN. Sparò dall'altezza del fianco, prendendo la mira d'istinto. Il proiettile centrò la faccia del terrorista, e la testa esplose come un cocomero troppo maturo colpito da una picconata. Piombò riverso. La Tokarev gli scivolò dalle dita inerti. Roland Ballantyne si raddrizzò lentamente. Per un lungo istante fissò il cadavere. Le gambe scalciavano e tremavano convulsamente. Distolse lo sguardo e lo girò verso Sean.
«Ho un debito con te», disse laconicamente. «Puoi esigerlo quando vuoi.» Poi si voltò per gridare ordini ai suoi scout. A bordo dell'Alouette c'erano sacchi di plastica verde per chiudervi i morti. La Morne Brabant era una montagna dentellata di nera lava vulcanica che sembrava torreggiare minacciosamente sopra di loro, sebbene fossero lontani più di sei chilometri. Le correnti di zaffiro che fluivano intorno alla punta dell'isola Mauritius creavano una fauna marina così ricca che i pescatori sportivi di tutto il mondo riconoscevano la zona come un hot spot. C'erano altre zone altrettanto famose al largo della Grande Barriera Corallina, a Cabo San Lucas sulla costa californiana o sottovento all'isola della Nuova Scozia. In tutti quei punti, la concentrazione di enormi banchi di pesci attirava i predatori oceanici... i marlin giganteschi e i tonni. I pescatori sportivi di tutto il mondo accorrevano per contrapporre la loro abilità e la loro forza a quella degli agili mostri del mare. Shasa Courteney pretendeva sempre di noleggiare la stessa imbarcazione con lo stesso equipaggio isolano. Ogni barca crea nell'acqua una vibrazione particolare, una combinazione del motore, dell'elica e della configurazione dello scafo, unica com'è unica l'impronta digitale di un uomo. E quelle vibrazioni attirano o respingono i pesci. Le Bonheur era una barca fortunata. Richiamava i pesci, e il suo capitano aveva una vista acutissima. Riusciva a scorgere il lampo di un uccello marino che si tuffava su un banco di pesci all'orizzonte, e a riconoscere a un chilometro e mezzo di distanza la pinna dorsale falcata di un marlin e stimare il peso del pesce con un'approssimazione inferiore ai dieci chili. Ma quel giorno avevano il disperato bisogno di un'esca. Erano in mare da quasi due ore e non avevano ancora preso le esche. Dovunque guardassero c'erano banchi di pesci adatti allo scopo. L'Oceano Indiano sembrava brulîcarne. Oscuravano l'acqua come le ombre gettate dalle nubi, e in alto volteggiavano fitti stormi di uccelli marini che si gettavano in picchiata fra strida di avida isteria. A intervalli di pochi minuti si scorgevano le sagome luccicanti dei bonito che schizzavano in aria e ricadevano dopo aver descritto una scintillante parabola argentea nel fulgido sole tropicale. Erano atterriti e spinti alla fuga dai grandi pesci pelagici che si aggiravano in profondità al di sotto dei banchi: una di quelle giornate pazze che càpitano troppo raramente nella vita d'un pescatore, quando i pesci sono troppi. I predatori affamati assediavano così rabbiosamente i banchi che questi non riuscivano a mangiare. Tutta la loro energia era impegnata per evitare la carica dei mostri voraci che si avventavano in mezzo a loro. Ignoravano le piccole esche piumate usate per tentarli dall'equipaggio del Bonheur. Sul ponte di comando, cinque metri al di sopra della tolda, Shasa poteva vedere nelle limpide acque azzurre fino a una profondità notevole. Distingueva chiaramente le orde dei bonito, simili a grossi sigari lunghi quanto il suo avambraccio, sfrecciare nella scia dell'imbarcazione, e quasi sfiorare le esche piumate nel passargli accanto. «Ce ne occorre uno... un'esca soltanto», gemette Shasa. «In una giornata simile sarebbe la garanzia certa della cattura di un marlin.» Elsa Pignatelli stava appoggiata al parapetto accanto a lui. Indossava soltanto un ridottissimo bikini scarlatto ed era abbronzata e levigata come una focaccia al miele appena uscita dal forno.
«Guarda!» esclamò, e Shasa si girò di scatto, in tempo per vedere un marlin che usciva dall'acqua a fianco del Bonheur. Era stato spinto in aria dalla velocità e dalla potenza dello slancio, mentre fendeva il banco di bonito. Gli occhi erano grandi come palle da tennis e la spada aveva la lunghezza e lo spessore di una mazza da baseball. L'acqua gli grondava dai fianchi in cascate argentee mentre scuoteva nell'aria la testa enorme. Nell'eccitazione del pasto aveva cambiato colore come un camaleonte, e ardeva di fasce blu elettrico e lilla che facevano sbiadire al confronto l'azzurro tropicale del cielo. «Un colosso!» Shasa gridò il nome abitualmente dato a un pesce che avrebbe fatto salire l'ago della bilancia oltre il limite fatidico delle mille libbre, quattrocentocinquanta chili. Il marlin ricadde nell'acqua, sul fianco, con un fragore simile a una cannonata. «Un'esca!» gridò Shasa, stringendosi la fronte come un attore shakespeariano. «Il mio regno per un'esca!» A bordo della mezza dozzina di barche della flotta di Black River, sgranate all'orizzonte, i pescatori erano in preda alla stessa ansia. Si sentivano attraverso la radio i lamenti degli skipper frustrati. Nessuno aveva un'esca mentre i marlin non chiedevano altro che di suicidarsi. «Cosa posso fare?» chiese Elsa. «Vuoi che usi la mia stregoneria per fartî un incantesimo?» «Non so se sarebbe strettamente etico», sorrise Shasa. «Ma sono disposto a tentare di tutto. Avanti con l'incantesimo, mia adorabile strega!» Elsa aprì la borsa e prese il rossetto. «Tom Pollice, Tommaso Beckett, Raperonzoletto!» intonò solennemente, e gli tracciò sul petto nudo un geroglifico dai contorni fallici. «Ti canto! T'incanto! Ti marco e ti marchio!» «Oh, sì, bellissimo!» Shasa rise a gran voce. «E' un tipo di magia molto affascinante.» «Ma tu devi crederci», lo avvertì lei. «Altrimenti è inutile.» «Ci credo!» disse fervidamente Shasa. «Oh, ci credo!» Sulla tolda, sotto di loro, un uomo dell'equipaggio gettò un grido. Poi si sentì il ronzio del mulinello di una delle piccole canne. La risata di Shasa s'interruppe di colpo. Per un istante fissò Elsa con soggezione. «Accidenti! Sei davvero una strega», mormorò, e si lanciò per scendere la scaletta. Il marinaio tirò a bordo il bonito e lo strinse amorevolmente fra le braccia. Il pesce fremeva e si dibatteva, ma l'uomo lo teneva stretto al petto. Era blu metallico e argento, con il muso a punta e le pinne caudali affilate. La parte inferiore del corpo era striata da linee nere. Shasa notò con sollievo che l'amo era agganciato leggermente all'incardinatura della mascella. Le branchie non erano danneggiate. Sfilò dalla mascella il piccolo ago metallico e ordinò al mozzo: «Giralo!» Scelse l'amo lungo a uncinetto e lo inserì delicatamente nell'occhiaia del pesce. La tozza punta d'acciaio spostò il globo oculare senza lederlo. Shasa guidò l'uncino nel canale naturale attraverso l'osso nel cranio, e la punta uscì dall'altra cavità. Il pesce non mostrò segni di sofferenza, e rimase tranquillo nelle braccia del marinaio. Shasa annodò un cappio di lenza al gancio e lo fece scorrere piano attraverso la ferita; lasciò cadere l'uncino e prese l'enorme amo per marlin. Con una serie di movimenti esperti lo fissò tra gli occhi del bonito, che era ancora vivo e virtualmente indenne. La sua vista non era menomata. Shasa si scostò e fece un cenno al marinaio che s'inginocchiò accanto alla frisata e calò il bonito in acqua, premuroso come una bambinaia. Appena libero, il pesce guizzò via trascinandosi
dietro il pesante setale d'acciaio e la lenza che vi era fissata. Quasi subito sparì nelle profondità azzurre. Shasa attese a fianco della poltrona da combattimento. La robusta canna era inserita nel sostegno. Il mulinello Fin Nor Tycoon era di una lega d'alluminio anodizzato e dorato, che pesava oltre cinque chili e conteneva più di mille metri di lenza intrecciata. La lenza sibilava sommessamente nello svolgersi. Shasa regolò la tensione con un tocco leggero delle dita. Aveva annodato alla lenza avvolgimenti di filo di seta a intervalli di cinquanta metri. Ne fece scorrere cento metri prima di stringere la leva del mulinello. Il mozzo stava già abbassando la drizza di uno dei buttafuori di sei metri che sporgevano come sferzanti antenne d'acciaio ai due lati dello scafo. Il buttafuori aveva la funzione di tenere separate le lenze e di permettere che la parte lenta ricadesse quando il marlin avesse attaccato. «No», disse Shasa. «Lo terrò io.» Era un metodo più preciso per determinare la profondità cui era discesa l'esca viva. Ma ci volevano pazienza, esperienza e forza d'animo per tenere a mano la lenza anziché starsene seduto in poltrona e lasciarla affidata al buttafuori. Cautamente, Shasa fece scorrere altri trenta metri di lenza dal grosso Fin Nor e li avvolse sul ponte. Poi si sporse dalla poppa del Bonheur e gridò allo skipper: «Allez!» Lo skipper azionò la leva, e l'elica incominciò a girare pigramente. Il motore diesel rombò e la barca si mosse piano, incontro alle onde. A poco a poco la barca acquistò una velocità moderata. La tensione della lenza nella mano di Shasa crebbe. Sentiva il peso del bonito all'estremità opposta. Il pesce prese a seguire la barca come un cane al guinzaglio. Shasa calcolava la profondità dell'esca in base all'angolo con cui la lenza entrava in acqua, e poteva capire le condizioni e la vivacità del bonito dalle leggère vibrazioni della coda e dagli strattoni intermittenti quando cercava di virare o di scendere ancora di più. In pochi minuti Shasa si sentì il braccio intorpidito e tormentato dai crampi; ma ignorò quel fastidio e gridò a Elsa che era rimasta sul ponte di comando: «Mi faresti un'altra piccola magia?» «Funziona una volta sola.» Elsa scosse la testa. «Ora ti devi arrangiare.» Le Bonheur rollava adagio sulle onde lunghe. A un ordine di Shasa incominciò a descrivere un'ampia curva verso nord. A metà della curva, la lenza si allentò nella mano di Shasa, che si alzò in piedi di scatto. «Cosa c'è?» gli gridò Elsa. «Niente, forse...» borbottò lui. Ma tutta la sua attenzione era concentrata sulla lenza. La sentì tendersi di nuovo. Adesso i movimenti del bonito erano alterati. Sentiva i divincolamenti frenetici attraverso i polpastrelli. Si tuffava e cercava di tornare indietro, ma la lenza avanzata della barca lo trascinava implacabilmente. «Attenzione!» gridò Shasa all'equipaggio. «Cosa succede?» chiese di nuovo Elsa. «C'è qualcosa che spaventa il bonito», rispose Shasa. «Ha visto qualcosa, là sotto.» Immaginava il terrore del piccolo pesce mentre l'ombra gigantesca gli girava furtivamente intorno nell'azzurro mondo sottomarino. Il marlin doveva essere diffidente: il bonito si comportava in modo innaturale... avrebbe dovuto fuggire immediatamente. Il marlin gli girava intorno con prudenza; ma presto l'appetito avrebbe vinto. Shasa attese sporgendosi dal parapetto. Un minuto, un altro minuto. Era irrigidito dalla
tensione. All'improvviso la lenza gli fu strappata dalle dita, ma per un istante sentì il peso immane e la maestà del marlin mentre colpiva il bonito con il lato smussato della spada. «Ha attaccato!» urlò Shasa, alzando le braccia sopra la testa. «Ferma i motori!» Obbediente, lo skipper spostò la leva in folle, e Le Bonheur si bloccò, immobile sull'acqua. Shasa riprese la lenza e la tenne con una pressione lievissima dei polpastrelli. Era allentata: nessun segno di vita. Il bonito era stato ucciso istantaneamente dal colpo poderoso. Shasa immaginò ciò che stava accadendo nelle misteriose profondità azzurre. Il marlin aveva ucciso la preda e adesso le girava ancora intorno. Poteva perdere ogni interesse, oppure allarmarsi per lo spostamento innaturale della carcassa. L'importante era non spaventarlo con un movimento della lenza. I secondi sgocciolavano come melassa, lenti e viscosi. «Sta facendo un altro giro», si disse Shasa per darsi coraggio. Ma non accadde nulla. «Il est parti», annunciò lo skipper in tono lugubre. «Il a refusé.» «La prendo a calci nel sedere, se è questo che mi augura!» gli gridò furioso Shasa. «Non è affatto parti! Gli sta girando intorno.» La lenza gli sussultò fra le dita, strappandogli un'esclamazione di sollievo. «Le voilà! Eccolo!» Elsa batté le mani. «Mangia, pesce. Senti che odore meraviglioso ha quel bonito. Màngialo», implorò. La lenza sobbalzò e tirò leggermente, e Shasa la lasciò scivolare fra le dita per qualche centimetro. Immaginava il marlin che afferrava la carcassa nel becco corneo e la girava con la testa in avanti per inghiottirla. «Fa' che non senta l'amo», pregò Shasa. Il cappio doveva fare in modo che la punta dell'amo restasse appiattita contro la testa del bonito mentre scendeva nelle fauci del marlin. Ma se il cappio s'era girato... Shasa preferiva non pensarci. Vi fu un'altra lunga pausa, poi la lenza si tese di nuovo e cominciò a scorrere con un movimento lento ma deciso. «L'ha inghiottito», esultò Shasa, e lasciò filare la lenza fra le dita. Gli avvolgimenti si scioglievano sulla tolda e scivolavano oltre il parapetto. Shasa si lanciò sulla poltroncina girevole e sedette, e agganciò l'imbracatura agli anelli dello scintillante mulinello Fin Nor. L'imbracatura formava una specie di amaca che gli fasciava le reni e i glutei ed era fissata direttamente al mulinello. Solo gli ignoranti o i male informati credevano che il pescatore fosse bloccato sulla poltroncina con la cintura di sicurezza come il pilota di un caccia e che questo gli assicurasse un vantaggio assai poco sportivo. Le sole cose che lo tenevano sulla poltrona erano la sua forza e il senso d'equilibrio. Se commetteva un errore, il pesce che pesava più di quattrocento chili ed era veloce e potente come un motore diesel, poteva trascinare in mare lui e la canna senza il minimo sforzo, giù giù fino nel profondo abisso. Quando Shasa si piazzò dietro la canna e innestò il freno, la lenza si arrestò e la punta della canna s'inchinò come per rendere omaggio alla forza bruta del pesce. Shasa puntò i piedi, reggendo la tensione con le gambe. «Allez!» gridò a Martin, lo skipper. «Via!» Il motore diesel rombò quando Martin diede potenza al massimo e una nube densa di fumo nero e oleoso eruttò dagli scarichi. Le Bonheur balzò in avanti, scagliandosi contro l'onda
lunga. Nessun uomo al mondo aveva la forza necessaria per affondare la punta dell'enorme amo nelle fauci ferree di un marlin. Shasa sfruttava la potenza e la velocità dell'imbarcazione per far penetrare l'amo e piantarne la punta uncinata nel becco corneo. L'avvolgimento della lenza ronzava e fremeva, trattenuto dai cuscinetti dei freni, e la lenza sfrecciava via in un lampo candido. «Arretez-vous!» Shasa calcolò che l'amo era penetrato. «Fermo!» gridò, e Martin azionò la leva. Si fermarono. La canna era inarcata come se la lenza fosse ancorata al fondo dell'oceano; ma il mulinello era immobile, trattenuto dal freno. Poi il pesce scosse la testa e la potenza del movimento sbatacchiò la base della canna entro il supporto come se fosse un fuscello al vento. «Ecco che va!» urlò Shasa. Il pesce era stato colto di sorpresa dalla trazione inaspettata della lenza; ma neppure Le Bonheur era riuscito a smuoverne il corpo massiccio. Adesso, finalmente, si rendeva conto che qualcosa non andava. E si lanciò nella prima fuga pazza. Ancora una volta la lenza schizzò via dal mulinello, e Shasa si sentì sollevare dal sedile come un fantino che incita il cavallo verso il traguardo. L'attrito era così forte che il massiccio mulinello Fin Nor incominciò a fumare. Il lubrificante della montatura si sciolse e ribollì, sprizzando in getti fumanti. Shasa s'inclinò all'indietro con tutto il suo peso e tenne le mani lontane dal mulinello ronzante. La lenza era pericolosa come la lama d'una sega da macellaio, e poteva troncargli un dito senza fatica oppure tagliare la pelle, la carne ed i muscoli fino all'osso. Il pesce fuggiva come se nulla lo trattenesse. La lenza scorreva e scorreva. Se ne svolsero trecento metri, poi quattrocento. E in pochi secondi, mezzo chilometro era già sparito fuoribordo. «E' un cinese e vuol correre a casa da papà!» gridò Shasa. «Non ha intenzione di fermarsi!» All'improvviso l'oceano si squarciò in un turbine d'acqua bianca e il pesce apparve. Era così enorme da dare l'illusione che si muovesse al rallentatore. Si sollevò nell'aria e l'acqua grondò dal suo corpo come dallo scafo di un sottomarino che emerge. Uscì completamente e, sebbene fosse a cinquecento metri dal Bonheur, parve oscurare metà del cielo. «Qu'il est grand!» urlò Martin. «Je n'ai jamais vu un autre comme ça!» E Shasa sapeva che era vero... non aveva mai visto un pesce lontanamente simile a quello. Sembrava illuminare il cielo d'uno splendore azzurro riflesso, il bagliore di un fulmine lontano. Poi, come un cavallo che supera una siepe in uno steeplechase, il pesce raggiunse lo zenith del balzo e ripiombò verso la superficie dell'oceano. L'acqua si aprì in un'onda d'urto e il marlin scomparve, lasciando tutti scossi dal ricordo della sua maestà. La lenza scorreva veloce dal mulinello. Sebbene Shasa stringesse pericolosamente il freno fino ad avvicinarsi al punto di rottura di circa sessanta chili, continuava a scorrere ed a scorrere come se nulla la trattenesse. «Turnez-vous! Giri!» C'era una sfumatura di panico nella voce di Shasa mentre gridava allo skipper. «Giri e l'insegua!» Martin girò il timone e con l'azione contrapposta del motore, fece virare l'imbarcazione e la lanciò all'inseguimento del pesce. Le Bonheur procedeva contro il vento e la corrente, e le onde lo martellavano. Vi affondava la prua e squarciava l'acqua in spruzzi candidi. E poi balzava sopra le creste come se volasse, e ricadeva negli avvallamenti. Shasa veniva sbatacchiato implacabilmente sulla poltrona. Si
teneva aggrappato ai braccioli e reggeva l'impeto delle onde con le gambe senza toccare il sedile con i glutei. La canna era incurvata come un arco teso al massimo. Sebbene Le Bonheur filasse a tutta potenza, la lenza continuava a svolgersi. Il marlin superava di dieci nodi la loro velocità. La lenza si srotolava fulminea dal mulinello e Shasa non poteva far altro che assistere. «Shasa!» gridò Elsa dal ponte di comando «E' tornato indietro!» Era così emozionata che aveva parlato in italiano: ma Shasa, ormai, lo capiva abbastanza per afferrare l'avvertimento. «Stop! Arretez!» urlò allo skipper. Senza una ragione apparente, il marlin aveva cambiato completamente rotta e adesso sfrecciava verso di loro. Ma questo non risultava ancora evidente dalla direzione in cui la lenza stava scorrendo nell'acqua. Il marlin aveva tracciato nella lenza una curva di ottocento metri, ed era potenzialmente una catastrofe. La deriva laterale dell'arco nell'acqua poteva spezzare la pesante lenza come fosse un filo di cotone, se il marlin l'avesse investita in pieno. Elsa si era accorta appena in tempo dell'inversione di rotta. Shasa doveva riavvolgere la lenza in eccesso prima che il marlin passasse sotto l'imbarcazione. Mosse le gambe con un ritmo meccanico e potente, guadagnò trenta centimetri di lenza, la lasciò andare per poterla avvolgere sul mulinello con due rapidi giri della manovella. Continuava ad ansimare per riempirsi d'aria i polmoni, muovendo in sintonia braccia e gambe. La lenza bagnata si riavvolgeva sulla spola con una tale tensione da sprizzare tutto intorno una minuta pioggia di gocciole. La lenza tagliava l'acqua trasversalmente e sollevava in superficie un minuscolo pennacchio di spuma. L'ampiezza della curva si ridusse. Il marlin passò sotto l'imbarcazione e la lenza cominciò a raddrizzarsi. Shasa si mosse a ritmi frenetici e avvolse ancora la lenza sul mulinello. «Adesso giri!» gridò. Il sudore gli grondava sul petto nudo, scoloriva il disegno che Elsa aveva tracciato con il rossetto e scorreva a macchiare la cintura dei calzoncini. «Presto! Presto!» Il pesce sfrecciava nella direzione opposta. Lo skipper fece virare Le Bonheur appena in tempo mentre la lenza si tendeva completamente. Il peso del marlin gravò di colpo sulla punta della canna, che scattò come un salice investito da un vento di bufera. Shasa fu sollevato dalla poltrona per tutta l'estensione delle gambe. La trazione era così forte che minacciava di spezzare la lenza. Tolse il freno per attenuare la tensione, e la lenza si svolse sibilando dalla spola alla velocità di ottanta chilometri l'ora. Con un senso di disperazione Shasa guardava quei metri preziosi, riconquistati con tanto sforzo, che scorrevano e sparivano fuori bordo. «Inseguilo!» urlò. Le Bonheur si lanciò all'inseguimento del marlin. Adesso era diventato un lavoro di squadra. Un uomo solo non poteva sottomettere un pesce come quello. Il governo dell'imbarcazione era un fattore importantissimo: ogni virata, ogni avanzata e ogni indietreggiamento dovevano essere pronti e precisi. Qualche secondo prima che se ne accorgessero gli uomini sulla tolda sotto di lei, Elsa gridava per avvertire di ogni nuova evoluzione del marlin. Per un'ora, quelle corse irresistibili non smisero mai. Ad ogni secondo la lenza era sottoposta a pressioni immense, e Shasa sfruttava il proprio peso per contrastarle, azionava la canna e girava il mulinello. Recuperava la lenza in un avvolgimento dopo l'altro, faticosamente, e poi vedeva dissipare
di nuovo il suo vantaggio quando il pesce si avventava in un'altra carica. Uno dei marinai gli versò sulle spalle un secchio d'acqua marina per rinfrescarlo, e il sale bruciò sulle abrasioni intorno alla vita, dove le cinghie di nailon dell'imbracatura avevano scalfito la pelle. Il sangue spicciava e macchiava i calzoncini di un rosa annacquato. Ogni volta che il pesce fuggiva, le cinghie azzannavano un po' più a fondo. La seconda ora fu terribile. Il pesce non dava segno d'indebolirsi. Shasa grondava di sudore ed aveva i capelli fradici come se fosse sotto una doccia. Le abrasioni intorno alla vita sanguinavano parecchio. Il movimento dell'imbarcazione gli sbatteva le cosce contro i braccioli, e lo riempiva di lividi. Elsa scese dal ponte di comando e cercò d'infilare un cuscino fra l'imbracatura e la pelle lacerata. Gli porse una manciata di tavolette di sale e gli fece bere due lattine di Coca, accostandogliele alla bocca. «Dimmi una cosa.» Shasa le rivolse un sorriso contratto, mentre l'unico occhio aveva una luce tormentata. «Perché diavolo lo faccio?» «Perché sei un macho pazzo. E perché ci sono certe cose che un uomo deve fare assolutamente.» Gli asciugò il viso con una salvietta e lo baciò in uno slancio di orgoglio protettivo. Durante la terza ora, Shasa ritrovò il fiato. Vent'anni prima l'avrebbe ritrovato molto più velocemente e sarebbe durato più a lungo. Era una sensazione straordinaria. I dolori causati dall'attrito dell'imbracatura si attenuarono, i crampi alle braccia e alle gambe sparirono, si sentiva inebriato e invincibile. Le gambe non erano più scosse dagli scatti automatici dei muscoli, e poteva piantare i piedi più saldamente. «Sta bene, pesce», disse a voce bassa. «Hai vinto le tue riprese. Adesso tocca a me.» S'inclinò all'indietro con tutte le sue forze, e sentì che il marlin cedeva. Fu solo un fremito leggero di movimento, ma laggiù, nelle profondità azzurre, il grande marlin era incespicato. «Sì, pesce», mormorò Shasa, euforico. «Adesso fa male anche a te, no?» Puntellò le gambe che avevano ritrovato la forza e avvolse la lenza per quattro giri. sapeva che questa volta non li avrebbe perduti. Finalmente il pesce stava per arrendersi. Al termine della quarta ora il marlin non faceva più folli tentativi di fuga. Lottava in profondità, descriveva cerchi lenti, cento metri sotto l'imbarcazione. Si teneva sul fianco per offrire la massima resistenza possibile alla pressione della canna e della lenza. Era largo nel punto massimo quasi un metro e venti e pesava poco meno di tre quarti di tonnellata. La grande mezzaluna della coda si muoveva avanti e indietro con un ritmo lento, e gli occhi enormi brillavano come opali nella semioscurità. Onde di fiamma celeste e lilla guizzavano sul suo corpo come le aurore boreali nei cieli dell'Artide. Girava e girava in ampi cerchi costanti. Shasa Courteney stava rannicchiato sulla poltrona da combattimento, curvo come un gobbo sulla canna. Tutta l'euforia del fiato ritrovato era svanita. Piegava e tendeva le gambe con la lentezza tormentosa di un artritico, e muscoli e nervi urlavano per protestare contro ogni movimento. Tra pesce e uomo s'era stabilito uno schema di comportamento terribile in quell'ultima fase della battaglia. Il pesce arrivava alla distanza massima del cerchio e l'uomo resisteva rabbiosamente, con i tendini forzati al massimo come la lenza. Poi il pesce tornava indietro, sotto l'imbarcazione, e per qualche attimo la tensione sulla lenza si allentava e la canna incurvata si raddrizzava. Shasa avvolse rapidamente la lenza per due giri di mulinello, poi resistette mentre il marlin puntava verso l'esterno. Ad ogni
giro recuperava un metro o due di lenza, ma pagava un duro prezzo in sudore e sofferenze. Sapeva d'essere allo stremo delle sue capacità di resistenza, sapeva che correva il rischio d'incorrere in lesioni permanenti. Sentiva il cuore che palpitava nel petto come un sacco gonfio e fragile, e fitte di fuoco gli trapassavano la spina dorsale. Ben presto qualcosa sarebbe esploso nel suo organismo. Ma tirò con tutte le forze e sentì il pesce cedere ancora una volta. «Ti prego», gli bisbigliò. «Ci stai facendo morire tutti e due. Ti prego, arrenditi.» Si scosse e tirò di nuovo... e il pesce affiorò. Ondeggiò come un tronco fradicio d'acqua e soccombette alla pressione della canna. Emerse, torpido e pesante, e sporse la testa dalla superficie, così vicino alla poppa dell'imbarcazione da dare a Shasa la sensazione che, se avesse teso le mani, avrebbe potuto toccare uno dei grandi occhi splendenti con la punta della canna. Il marlin si erse sulla coda e puntò la spada al cielo, e scrollò la testa come un cocker che ritorna a riva e si scuote l'acqua dagli orecchi. Il pesante setale di acciaio saettava sibilando intorno alla testa e la canna ondeggiava, sbatacchiata da parte a parte. La base sussultava rumorosamente nel supporto e la lenza balenava e si avvolgeva e tracciava archi nell'aria. Il pesce rimase in verticale nell'acqua, spalancò la poderosa bocca triangolare e continuò a scuotere la testa. Shasa si sentiva impotente di fronte a tanta forza maestosa. Non riusciva a domarla. La canna oscillava con violenza nella sua stretta, e il setale d'acciaio guizzava come una frusta. Con un senso di disperazione, vide la lunga asta dell'amo torcersi nell'incardinatura delle fauci spalancate. I movimenti furiosi del pesce lo stavano disincagliando. «Fèrmati!» gridò al marlin, e cercò di girarlo sul fianco. Sentì l'amo staccarsi e scivolare sull'osso prima che si agganciasse di nuovo. Il pesce girò la bocca aperta verso di lui e Shasa vide l'amo che reggeva ancora, sull'orlo della ferrea bocca nera. Ancora uno scrollone della testa e sarebbe stato catapultato lontano sul setale d'acciaio oscillante. Shasa si alzò e chiamò a raccolta tutte le forze che gli restavano. Tirò all'indietro il marlin, che si rovesciò e ricadde nel mare in un vortice di spuma. «Il setale», sibilò al marinaio. «Prendi il setale.» Uno strattone diretto al setale di filo d'acciaio avrebbe portato il pesce sotto controllo. Durante le quattro ore della battaglia nessuno, tranne il pescatore, aveva potuto toccare la canna o la lenza per collaborare alla cattura. Erano le norme dell'etica sportiva fissate dall'International Game Fishing Association. Adesso che il pesce era esausto e galleggiava sconfitto in superficie, l'equipaggio era autorizzato a maneggiare il setale di dieci metri attaccato all'estremità della lenza, e a servirsene per tenere bloccata la preda mentre le veniva affondato il raffio nella carne. «Il setale!» supplicò Shasa, mentre il marinaio con le mani protette da pesanti guanti di pelle si sporgeva da prua e cercava di afferrare lo snodo superiore del setale che sfuggiva di pochissimo alla portata delle sue dita. Il marlin galleggiava in superficie e rollava e beccheggiava sulle onde come un tronco morto. «Ancora.» Shasa si alzò e si puntellò dietro la canna. Tirò con una pressione costante. L'amo teneva soltanto per la punta, non era affondato... sarebbe bastata una torsione per liberarlo. Il secondo marinaio si teneva pronto con il raffio, un massiccio uncino di acciaio inossidabile fissato a una pertica. Quando quell'uncino fosse penetrato nella spalla del marlin, la lotta
sarebbe finita. Lo snodo superiore del setale era a quindici centimetri dalle dita inguantate. Il marlin agitò la coda in un ultimo sforzo esausto. La punta della canna s'inclinò leggermente, come se approvasse lo spirito battagliero del pesce... e l'amo si sganciò. La canna si raddrizzò di colpo e l'amo sfrecciò nell'aria e sbatté contro la frisata del Bonheur. Shasa ricadde con un tonfo sulla poltrona. A dodici metri di distanza, il marlin galleggiava con il dorso e l'alta pinna dorsale allo scoperto. Era libero, ma troppo sfinito per allontanarsi a nuoto. La coda compiva solo movimenti spasmodici, convulsi. Tutti rimasero a fissarlo. Poi Martin, lo skipper, ritrovò la presenza di spirito. Fece procedere l'imbarcazione a macchina indietro e l'accostò al mostro. «On l'aura! Lo prenderemo!» gridò al marinaio che impugnava il raffio mentre il marlin urtava contro la poppa. Il marinaio balzò al parapetto e sollevò in alto il raffio luccicante per affondarne la punta nel dorso indifeso del marlin. Shasa balzò dalla poltrona e sentì le gambe piegarsi. Appena in tempo, riuscì ad abbrancare l'uomo per la spalla e a impedirgli di sferrare il colpo. «No», sibilò, rauco. «No.» Strappò il raffio dalla mano dell'uomo e lo buttò sulla tolda. L'equipaggio lo guardava, sbalordito. Tutti avevano lavorato quasi con lo stesso impegno di Shasa, per catturare quel pesce. Non aveva importanza. Più tardi avrebbe spiegato loro che era immorale colpire con il raffio un pesce che si era liberato. Nel momento in cui s'era sganciato dall'amo, lo scontro era finito. Il marlin aveva vinto. Ucciderlo adesso sarebbe stata una violazione grossolana dell'etica sportiva. Le gambe non riuscivano più a sostenere il peso di Shasa. Si abbandonò contro il parapetto. Il pesce giaceva ancora in superficie, sotto la poppa. Shasa si sporse e gli toccò l'enorme pinna dorsale. Era tagliente come una spada. «Bravo, pesce», mormorò Shasa. Gli occhi gli bruciavano per il sale del sudore e, forse, delle lacrime. «E' stata una battaglia magnifica. Bravo, pesce.» Accarezzò la pinna come se fosse il corpo di una bella donna. Il contatto parve galvanizzare il marlin. I colpi di coda divennero più energici e regolari. Le branchie si aprirono e si chiusero come mantici quando respirò e si allontanò lentamente. Lo seguirono per circa ottocento metri, mentre nuotava in superficie con la pinna che si ergeva come una torre sul mare azzurro. Shasa ed Elsa si tenevano per mano in silenzio, accanto al parapetto, e guardavano il grande pesce che ritrovava via via forza e vigore. La coda batté più rapidamente. Il marlin avanzò contro le onde con tutta la maestà iniziale. A poco a poco la pinna affondò sotto la superficie. Videro la lunga sagoma scura recedere in profondità. Vi fu un ultimo lampo di luce, come il riflesso d'uno specchio nell'acqua blu. Poi il pesce sparì. Quando Le Bonheur entrò nel porto di Black River ed attraccò, le altre imbarcazioni della flottiglia erano già ammarate. Sulla travatura davanti alla clubhouse erano appese le carcasse di due marlin: nessuno dei due era grande neppure la metà del pesce che Shasa aveva perduto. Tutto intorno s'era radunata una piccola folla di ammiratori. I pescatori fortunati posavano con le canne in pugno, e i loro nomi e il peso dei marlin erano scritti in gesso sulla lavagna d'onore. Il fotografo di Port Louis era chino sul treppiede per immortalare quel momento di trionfo. «Non vorresti che ci fosse anche il tuo pesce?» chiese sottovoce
Elsa mentre si soffermavano per osservare la scena. «Un marlin è bellissimo quand'è vivo», mormorò Shasa. «E quando è morto, è brutto.» Scosse la testa. «Il mio pesce merita qualcosa di meglio.» «Anche tu», disse Elsa, e lo precedette nel bar della clubhouse. Shasa si muoveva a passi rigidi, come un vecchio, ma i lividi gli davano un bizzarro orgoglio masochista. Elsa gli ordinò un rum and lime Green Island. «Dovrebbe darti la forza per arrivare a casa, vecchio mio», disse affettuosamente. Per casa, Elsa intendeva la Maison des Alizés, una vecchia, grande residenza di piantatori costruita un secolo prima da uno dei baroni francesi dello zucchero. Gli architetti di Shasa l'avevano rimodernata e restaurata rispettandone l'autenticità. Troneggiava come una splendente torta nuziale in mezzo a un giardino di oltre otto ettari. Il vecchio barone francese aveva dato inizio a una collezione di piante tropicali, e nel corso degli anni Shasa l'aveva arricchita. L'orgoglio della collezione erano le ninfee Victoria règia, con le foglie che galleggiavano sui laghetti; avevano un diametro di un metro e venti e agli orli erano incurvate come piatti enormi, e i fiori erano grandi quanto la testa di un uomo. La Maison des Alizés era situata sotto il massiccio di Le Morne Brabant, a non più di venti minuti di macchina dalla clubhouse del porto di Black River. Era quella la ragione principale che aveva spinto Shasa ad acquistarla. La chiamava «il mio capanno da pesca». Mentre passavano sotto i rami fronzuti dei fichi, Shasa commentò: «A quanto pare, gli altri sono arrivati sani e salvi». C'era una mezza dozzina di macchine, parcheggiate lungo la curva del viale di fronte all'ingresso principale. Il pilota di Elsa aveva portato i due ingegneri da Zurigo con il jet personale della signora. Erano i direttori tecnici della Pignatelli Chemicals, che avevano messo a punto il processo e avevano progettato lo stabilimento per la produzione del Cyndex 25. Shasa aveva già conosciuto Werner Stolz, il direttore tedesco, durante le delicate discussioni preliminari in Europa che, con l'abile regia di Elsa, si erano svolte senza problemi. I direttori tecnici della Capricorn Chemical Industries erano arrivati da Johannesburg per partecipare all'incontro. La Capricorn Chemical Industries era una sussidiaria, interamente di proprietà della Courteney Industrial Holding. Sotto la presidenza di Garry, la Capricorn era la massima produttrice di fertilizzanti agricoli e di pesticidi del continente africano. L'azienda aveva lo stabilimento principale nei pressi di Germiston, nel triangolo industriale del Transvaal. Gli impianti esistenti includevano già una sezione ad alta sicurezza che fabbricava pesticidi fortemente tossici. C'era spazio sufficiente per raddoppiare l'impianto: quello del Cyndex poteva venire creato senza dare nell'occhio all'opinione pubblica. I rappresentanti tecnici della Pignatelli e della Capricorn s'erano riuniti lì per discutere i progetti e le specifiche per il nuovo stabilimento. Per ovvie ragioni sarebbe stato imprudente che l'incontro si svolgesse in Sudafrica; anzi Elsa aveva preteso che nessuno dei suoi collaboratori dovesse mai visitare lo stabilimento od avesse comunque legami ufficiali che potessero venire fatti risalire alla Pignatelli. Mauritius offriva il posto ideale per la conferenza. Shasa possedeva la Maison des Alizés da vent'anni, e vi si recava spesso con i familiari e amici vari. Nessuno faceva caso alla loro presenza, e Shasa era in ottimi rapporti con il governo di Mauritius e quasi tutti i personaggi importanti dell'isola. I mauriziani trattavano i Courteney come ospiti graditi e privilegiati.
Prima di ammalarsi anche Bruno Pignatelli era stato un pescatore appassionato, e s'era recato regolarmente a Mauritius: perciò anche Elsa era conosciuta e rispettata sull'isola. Nessuno avrebbe ficcato il naso nei suoi affari o avrebbe fatto domande indiscrete sui motivi della sua presenza alla Maison des Alizés con un gruppo di suoi ingegneri e consulenti. Shasa ed Elsa salvavano ancora le apparenze, al punto di occupare due suites separate ma intercomunicanti all'ultimo piano della casa. La famiglia giudicava divertente quella commedia. Tutti stavano aspettando i due nel gazebo sul prato sovrastante i laghetti quando scesero per il cocktail serale. Elsa aveva fatto il bagno a Shasa e gli aveva medicato i lividi e le scalfitture, e lui appariva ristorato e zoppicava appena mentre scendeva la scalinata con lei. Indossava un abito di seta tropical crème, ed Elsa aveva un abito lungo di chiffon con un rametto di gelsomino tra i capelli. «Guardate quei due. Credete davvero che siano soltanto buoni amici?» chiese Garry con un lampo negli occhi; e Isabella e Holly risero tanto che dovettero appoggiarsi l'una all'altra. Persino Centaine nascose un sorriso dietro il ventaglio giapponese e girò la testa per dire qualcosa ad uno degli ingegneri. Isabella aveva ogni motivo valido per essere alla Maison des Alizés anche se il Senato era aperto. Faceva parte del consiglio d'amministrazione della Capricorn Chemicals. Dopo il safari nella concessione di Chizora, quando era venuta a conoscenza per la prima volta del progetto Cyndex, Isabella aveva mostrato un improvviso interesse per la cc'. Era riuscita ad entrare nella commissione senatoriale per l'agricoltura; poi erano state sufficienti poche abili allusioni perché Garry le offrisse un seggio nel consiglio d'amministrazione dell'azienda. Era diventata in poco tempo una presenza attiva e preziosa e non era mai mancata ad una riunione. Poi aveva dimostrato un interesse particolare per il progetto Cyndex, e naturalmente Garry l'aveva inclusa in quell'incontro. Garry aveva approfittato dell'occasione per condurre con sé Holly e i figli in una vacanza fuori programma. Anche se sapeva che sarebbe stato molto occupato con le discussioni tecniche, sperava di poter dedicare ogni giorno un po' di tempo alla famiglia. Di recente Holly s'era lamentata perché lo vedeva poco, e i bambini crescevano così in fretta che gli sfuggiva una parte importante della loro infanzia. Centaine Courteney-Malcomess non perdeva mai l'occasione di stare in compagnia dei pronipoti, e aveva insistito per imbarcarsi sul Lear quando era partito dall'aeroporto privato di Lanseria alla periferia di Johannesburg. Anzi, la famiglia era così numerosa e aveva al séguito tanti bagagli che gli altri dirigenti della Capricorn erano stati costretti a prendere il volo commerciale dell'Air Mauritius. La Maison des Alizés era affollata. Ogni letto era occupato, ed era stato necessario aggiungere due lettini nella nursery per i bambini più piccoli. Centaine s'era fatta prestare altro personale da La Pirogue, l'albergo a cinque stelle che sorgeva sulla costa a Flic e Flac, per poter affrontare quell'invasione. Poi aveva rimandato il Lear a Johannesburg perché portasse le provviste indispensabili come il caviale Imperial e lo champagne Krug d'annata e la frutta fresca e i cibi speciali per bambini che sull'isola non si trovavano. Il Krug scorreva allegramente quando Shasa ed Elsa raggiunsero gli altri sotto il frivolo tetto traforato del gazebo. Vi fu un turbine esuberante di baci e strette di mano e pacche sulle spalle ed allegre esclamazioni di saluto. Elsa era stata presentata a Centaine molto brevemente la sera prima, quando la vecchia signora era arrivata. Sebbene Centaine
fosse stanca dopo il lungo volo, tra loro s'era stabilita una cordialità immediata. Centaine aveva squadrato Elsa strabuzzando gli occhi in quel modo particolare che tradiva una profonda concentrazione. Poi aveva raddrizzato gli occhi e aveva teso la mano sorridendo. «Shasa mi ha detto molte belle cose di lei, ma sospetto che non siano neppure la metà del vero», aveva detto in italiano, ed Elsa aveva sorriso di gioia per il complimento. «Non sapevo che parlasse italiano, signora Courteney-Malcomess.» «Ci sono tante cose che dobbiamo imparare l'una dell'altra», aveva risposto Centaine. «Sarà un piacere», aveva detto Elsa. Avevano riconosciuto a prima vista un'affinità di spirito. Ora, sotto il gazebo, Elsa si accostò con naturalezza a Centaine e le baciò la guancia. Bene, pensò soddisfatta Centaine mentre le prendeva il braccio. Shasa ce ne ha messo a trovarla, ma valeva la pena di aspettare. I figli di Garry si rincorrevano e con i loro strilli guastavano un po' l'atmosfera sofisticata. «Devo ammetterlo», commentò Shasa mentre fissava cupamente i nipotini. «Sto diventando sempre di più come Enrico Ottavo... I bambini piccoli li preferisco in astratto.» «Alla loro età eri altrettanto terribile.» Centaine si schierò subito in difesa della nidiata dei pronipoti, ma in quel momento uno strillo più penetrante degli altri fece rabbrividire Shasa. «Se l'avessi fatto io, mi avresti buttato nell'olio bollente. Mater, stai diventando una bisnonna troppo permissiva.» «Fra poco la smetteranno.» Centaine sorrise con affetto ai bambini. «Si stancheranno, vedrai.» «Mi stancherò prima io, ti assicuro», borbottò Shasa, e andò a raggiungere Bella che conversava con gli ingegneri della Pignatelli. Isabella aveva deciso di essere particolarmente garbata con il direttore tedesco, che ormai sprizzava scintille. Lo scenario le dava un bizzarro senso d'irrealtà. Si sentiva come un'attrice in un film di Franco Zeffirelli. La splendida casa color avorio, le forme strane degli alberi e delle piante tropicali, le foglie gigantesche della Victoria règia che galleggiavano nei laghetti e le carpe ornamentali multicolori che nuotavano fra gli steli... tutto contribuiva a creare un fantastico set di sogno. Le risate e le enigmatiche conversazioni frammentarie in lingue diverse e le grida dei bambini erano così assurde, quando le si contrapponeva alla vera ragione di quell'incontro. Nana teneva corte come un'imperatrice vedova, e Holly ed Elsa Pignatelli sfoggiavano chiffon e sete preziose che costavano quanto un anno del salario di un operaio. E intanto, chissà dove, il suo piccolo Nicholas indossava l'uniforme mimetica da combattimento, giocava con le terribili armi da guerra e aveva per compagni militari e terroristi. E Isabella civettava con quell'uomo semicalvo di mezza età che sembrava un droghiere o un barista, ma che in realtà aveva creato la morte in uno dei suoi aspetti più odiosi. Sorrideva al fratello Garry e teneva il braccio del padre amatissimo mentre cospirava per tradirli entrambi e tradire il suo paese. All'apparenza era una giovane donna bella, curata, intelligente, affermata, padrona del proprio destino e del mondo che l'attorniava; ma dentro di lei c'era una creatura terrorizzata e confusa, sofferente e tormentata, pedina di forze potenti e misteriose in un gioco che non riusciva a comprendere. «Un giorno alla volta», si disse. «Un passo alla volta.» E il prossimo passo era il progetto Cyndex 25. Forse sarebbe stata quella l'ultima operazione, secondo le promesse di Ramon. Quando avesse dato loro il progetto Cyndex,
forse sarebbero riusciti a sottrarsi alla rete, lei, Ramon e Nicholas. E forse allora l'incubo sarebbe finito. La conferenza ebbe inizio l'in domani mattina nella sala da pranzo della Maison des Alizés. Sedettero sotto i ventilatori rotanti, intorno al lungo tavolo di noce dove potevano cenare trenta persone, e discussero di morte. Discussero la meccanica e la struttura chimica della morte. Discussero la confezione ed il controllo di qualità e il rapporto costo-efficienza della morte, come se parlassero di produrre patatine o creme per il viso. Isabella si sforzava di non mostrare la minima reazione a ciò che sentiva discutere. Doveva imparare a non sottovalutare mai le doti d'osservazione di suo fratello Garry. Dietro gli occhiali dalla montatura d'osso e la facciata gioviale, non si lasciava sfuggire quasi nulla. Isabella sapeva che avrebbe notato in lei il minimo segno di orrore o di ripugnanza. E con ogni probabilità questo avrebbe messo fine alla sua partecipazione al progetto. I tecnici della Pignatelli avevano preparato un dossier. Le copie erano contenute in cartellette di cinghiale prive di dicitura, posate davanti a ognuno dei partecipanti. Il dossier era esauriente e copriva ogni aspetto dei problemi della produzione, l'immagazzinaggio e l'uso del gas nervino. Werner Stolz, il direttore tecnico, spiegò ogni singolo paragrafo. Mentre gli orrori si aggiungevano agli orrori nel sibilante accento tedesco di Werner, Isabella si accorse che doveva fare appello a tutto il suo autocontrollo per conservare un'espressione neutra e impassibile. «Il Cyndex 25 è un gas volatile consistente di un composto organofosforoso del gruppo dell'acido alchilfosfonico-fluoridrico. I gas di questa composizione sono noti come agenti G e includono il Sarin e il Somar.» «Tuttavia il Cyndex 25 ha caratteristiche desiderabili che differiscono notevolmente dai tipi più vecchi di gas nervino...» Via via che Stolz enumerava quelle caratteristiche, Isabella inorridiva della scelta dell'aggettivo «desiderabile»; ma annuiva pensosamente e teneva gli occhi sul dossier. «Il Cyndex 25 possiede una combinazione di proprietà uniche e fortemente aggressive, e cioè alta tossicità, azione rapida, efficacia percutanea e non solo mediante l'assorbimento attraverso i polmoni e le mucose del corpo umano. Altri vantaggi sono l'elevata proporzione tra costi ed efficienza. Grazie alla struttura chimica doppia, si può produrre, immagazzinare e maneggiare senza pericolo. Quando i due agenti che formano il Cyndex 25 si mescolano, il gas diventa estremamente instabile e la sua efficacia ha una durata molto breve. Perciò si può controllare più facilmente sul campo. Dopo l'eliminazione della popolazione, il terreno così trattato può venire occupato rapidamente dalle forze amiche.» Stolz si guardò intorno con un sorriso soddisfatto. «Ora vorrei discutere più dettagliatamente ognuna di queste proprietà. Prendiamo la questione della tossicità. Il Cyndex in forma di vapore o di aerosol, assorbito attraverso i polmoni, ha una dose letale superiore a cinquanta...» Sorrise con l'aria di scusarsi. «Il che significa che ucciderà in due minuti il cinquanta per cento della popolazione minacciata di uomini adulti moderatamente attivi e il cento per cento della popolazione in dieci minuti. Non è molto più rapido del Sarin, ma il Cyndex si distingue per l'effetto percutaneo. Viene assorbito molto più rapidamente del Sarin attraverso la pelle, gli occhi, il naso, la gola e l'apparato digerente. Un micron di Cyndex, una quantità davvero minima, se applicato alla pelle nuda mette fuori combattimento un uomo in due minuti e l'uccide in quindici. Perciò è circa quattro volte più potente del Sarin. Sebbene l'atropina
iniettata per via intravenosa entro trenta secondi possa inibire il processo e ridurre alcuni dei sintomi, non arresta il collasso spontaneo dell'apparato respiratorio e la susseguente morte per soffocamento. Più tardi tornerò sui sintomi specifici dell'esposizione all'agente; ma ora discutiamo i costi della produzione. Vi prego di passare a pagina dodici del dossier.» Obbedirono tutti come studentelli e Werner Stolz continuò: «Come potete vedere nell'ultima riga, a questo punto prevediamo che lo stabilimento costerà all'incirca venti milioni di dollari americani e il costo diretto della produzione sarà di venti dollari al chilo». Nonostante la tensione ispirata dai dettagli orribili, Isabella si chiese perché quel linguaggio tecnico-burocratico la infastidiva. Vorrei che parlasse in termini normali, pensò, come se questo potesse rendere più accettabile la realtà. Werner continuò a spiegare. «Tradotto in termini relativi, ciò significa che l'intero stabilimento costerebbe quanto un solo caccia Harriet a reazione prodotto dalla British Aerospace mentre il costo della produzione di una scorta di Cyndex sufficiente ad assicurare la difesa del paese per dodici mesi corrisponderebbe all'acquisto di cinquanta missili Sidewinder aria-aria...» «E' un'offerta che non possiamo rifiutare», disse ridendo Garry, e Isabella provò per lui una fitta d'odio che la sconvolse per la sua intensità. Come poteva scherzare su un argomento simile? Non osava guardarlo. Avrebbe potuto leggerle nel pensiero. Werner annuì e sorrise per dare ragione a Garry. «Naturalmente il Cyndex non richiede uno speciale veicolo per la disseminazione. E' possibile adattare allo scopo i comunissimi aerei per la disinfestazione dei campi, come quelli usati quotidianamente in agricoltura. Il gas può essere anche lanciato sul bersaglio per mezzo di proietti d'artiglieria. Il nuovo obice G5 a lunga gittata che viene realizzato proprio ora dall'ARMSCOR sarebbe l'ideale.» A mezzogiorno interruppero la riunione per nuotare nella piscina e pranzare: sulla terrazza era stato preparato un buffet. La conversazione generale era imperniata soprattutto sul recente viaggio che Elsa e Shasa avevano fatto a Salisburgo per il Festival, dove Herbert von Karajan aveva diretto la Filarmonica di Berlino. Poi rientrarono in sala da pranzo per ascoltare una descrizione dei sintomi dell'avvelenamento da Cyndex 25. «Sebbene non sia mai stato sperimentato su soggetti umani, abbiamo stabilito che i sintomi di un'esposizione moderata all'aerosol Cyndex non differiscono molto da quelli degli altri gas nervini del gruppo G», spiegò Werner. «Incominciano con un senso d'oppressione al petto e difficoltà di respirazione, seguiti da un'abbondante fuoriuscita di catarro dal naso, da un dolore pungente agli occhi e da un affievolimento della vista.» Isabella si sentì bruciare gli occhi per effetto della suggestione e li asciugò di nascosto. «Via via che questi sintomi diventano progressivamente più intensi, sopravvengono una forte salivazione e bava alla bocca, sudori e tremiti, nausea e rutti, bruciori e crampi allo stomaco che portano rapidamente a vomito e diarrea violenta. Seguono poi minzione involontaria, emorragia delle mucose degli occhi, del naso, della bocca e dei genitali. Tremiti, vertigine e crampi muscolari portano alla paralisi e alle convulsioni.» «La causa immediata della morte, tuttavia, sarà un collasso totale dell'apparato respiratorio. Il Cyndex deve la sua superiore tossicità al fatto che supera facilmente la barriera tra sangue e cervello nel sistema nervoso centrale.» Tutti rimasero ammutoliti per un intero minuto dopo che
Werner ebbe terminato. Poi Garry chiese a voce bassa: «Se il Cyndex non è mai stato sperimentato su soggetti umani, com'è possibile prevedere che questi saranno i sintomi?» «Inizialmente per mezzo dell'estrapolazione degli effetti dei gas nervini del gruppo G, in particolare del Sarin.» Werner Stolz fece un attimo di pausa, e per la prima volta mostrò un certo imbarazzo. «In séguito il gas è stato collaudato su primati.» Si schiarì la gola. «Nei test di laboratorio si sono usati gli scimpanzé.» Isabella dovette compiere uno sforzo per trattenere un gesto di disgusto e d'indignazione. Ma il suo orrore divenne quasi incontrollabile quando il direttore continuò implacabilmente: «Tuttavia abbiamo constatato che gli scimpanzé erano animali troppo costosi. Voi siete fortunati perché avete accesso a una quantità quasi illimitata di animali da laboratorio a buon mercato e del tutto soddisfacenti: si trattava del Papio ursinus, un babbuino indigeno dell'Africa meridionale ancora presente in gran numero.» «Non faremo esperimenti su animali vivi!» La voce di Isabella suonava stridula; subito si pentì di quello scatto e cercò di ritrovare la calma. «Voglio dire, è proprio necessario?» Tutti la fissavano. Isabella arrossì di collera per aver dimenticato l'autocontrollo. Fu Garry a spezzare il silenzio. Parlò in tono leggero, ma dietro le lenti c'era una luce d'acciaio. «I babbuini non sono i miei animali prediletti. A Camdeboo li ho visti uccidere gli agnellini appena nati per mangiare il latte cagliato contenuto nei loro stomaci. Nana può raccontare che cosa fanno alle sue rose e al suo orto. Condividiamo tutti la tua ripugnanza all'idea di sofferenze inflitte senza ragione a qualunque essere vivente.» Poi tacque un momento. «Ma in questo caso stiamo parlando della difesa della nostra patria, della salvezza della nazione... e della spesa di molti milioni del denaro dei Courteney.» Garry lanciò un'occhiata a Shasa, che annuì in segno di assenso. «In breve, purtroppo la risposta è sì. Dobbiamo effettuare gli esperimenti. Meglio che muoia qualche animale, piuttosto che la nostra gente. Non è un pensiero gradevole, ma è essenziale. Mi dispiace, Bella. Se ti offende, non sei obbligata ad avere a che fare con il progetto. Puoi rinunciare al tuo seggio nel consiglio d'amministrazione della Capricorn e non se ne parlerà più. Tutti noi capiremo e rispetteremo i tuoi sentimenti.» «No.» Isabella scosse la testa. «Mi rendo conto della necessità. Chiedo scusa se ho sollevato la questione.» Capiva che era stata sul punto di abbandonare Nicholas e Ramon al loro destino. La loro salvezza e la loro libertà valevano qualunque prezzo. S'impose di sorridere e di assumere un tono leggero. «Non ti sbarazzerai di me con tanta facilità. Conserverò il mio posto, grazie.» Garry le scrutò il viso ancora per un secondo, e annuì. «Bene. Sono contento che l'abbiamo chiarito.» Poi tornò a rivolgere l'attenzione a Werner Stolz. Isabella assunse un'espressione di educato interesse e strînse le mani sulle ginocchia. «Questo è l'unico progetto che Rosa Rossa riferirà senza rimorsi di coscienza», si disse. Isabella mandò il dispaccio di Rosa Rossa tre giorni dopo il ritorno a Città del Capo. Con il passare degli anni tra lei e le forze che la controllavano si era stabilita una routine. Quando aveva informazioni, mandava un telegramma all'indirizzo di Londra e di solito entro ventiquattr'ore riceveva le istruzioni per il contatto. Le cose andavano sempre nello stesso modo. Le venivano indicati l'ora e il luogo dove parcheggiare la Porsche. Il posto era sempre un
parcheggio pubblico: a volte la Parade del forte vecchio, oppure un drive-in, o uno dei grandi supermercati dei sobborghi. Isabella scriveva i messaggi su fogli del codice ad accesso unico e li lasciava in una busta sotto il sedile di guida, senza chiudere la portiera. Quando tornava alla Porsche dopo circa mezz'ora, la busta era sparita. Quando avevano un messaggio od istruzioni per lei, adottavano lo stesso metodo: ma quando tornava alla Porsche trovava sotto il sedile una busta con la comunicazione dattiloscritta. Al termine della conferenza alla Maison des Alizés, Garry aveva raccolto personalmente i dossier dalle copertine di cinghiale e ne aveva distrutto il contenuto. Voleva assolutamente evitare che nessun dettaglio del progetto Cyndex finisse in mani non autorizzate. Isabella aveva preso qualche appunto durante le discussioni, ma Garry aveva ritirato anche quelli. «Non ti fidi di me, orsacchiotto?» gli aveva chiesto in tono scherzoso. E anche se Garry aveva riso, era stato inflessibile. «Non mi fido neppure di me stesso.» E aveva teso la mano per farsi consegnare il blocco. «Se vuoi ripassarti qualche dettaglio, vieni a chiederlo a me, Bella. Ma non mettere niente per iscritto... niente.» Isabella sapeva che non era il caso di discutere. Sebbene non avesse appunti su cui basarsi, il rapporto che inoltrò era impreciso solo per quanto riguardava la composizione chimica del Cyndex 25. Sapeva che era un organofosfato del gruppo G dei gas nervini, ma non riusciva a ricordare l'esatta struttura atomica dei componenti e la sequenza della produzione. Tuttavia aveva fornito l'ubicazione prevista per lo stabilimento e la tabella dei tempi della sua costruzione. Secondo le previsioni, la fabbrica sarebbe entrata in funzione dopo un termine di sette mesi. A quel punto c'era un unico ingrediente che doveva essere importato, e, anche per questo, Isabella non era sicura dell'esatta struttura atomica. Tuttavia fu in grado di riferire che il catalizzatore non poteva essere prodotto in Sudafrica, almeno per il momento, perché il tipo necessario di acciaio inossidabile per l'impianto di lavorazione non era ottenibile sul posto. Però le acciaierie statali ISCOR avrebbero provveduto a produrre acciaio di quel tipo ed era previsto che sarebbero state in grado di fornirlo entro diciotto mesi. In séguito il Cyndex sarebbe stato prodotto al cento per cento nel paese. Nel frattempo sarebbe stato fornito tramite una società di comodo della Pignatelli con sede a Taipei, che già aveva una scorta sufficiente per il primo anno di produzione della Capricorn. A parte il problema della fornitura di acciaio inossidabile del tipo richiesto, l'altra difficoltà che era stata prevista nel corso della conferenza stava nella disponibilità di tecnici esperti per far funzionare lo stabilimento. La Pignatelli Chemicals aveva rifiutato di prestare il suo personale. Si prevedeva che sarebbe stato reclutato in Gran Bretagna o in Israele; e la conferenza aveva messo in risalto la necessità che tutti i tecnici stranieri assunti dovessero avere il nulla osta della sicurezza. Il resto del rapporto di Isabella riguardava il trasporto, l'immagazzinamento e la disseminazione del gas sui campi di battaglia. Sia gli elicotteri Puma, sia i caccia Impala delle forze aeree sudafricane potevano venire adattati allo scopo. Inoltre, si sarebbe incominciato subito a progettare e collaudare un proietto per l'obice G5 che sarebbe stato designato «155 mm cw (Chemical Warfare) ERFB Cargo.» Il proietto poteva trasportare undici chili di Cyndex 25 fino a una gittata massima di venticinque chilometri. La rotazione del proietto durante il volo avrebbe, per un effetto centrifugo, aperto le valvole della testata e mescolato i due ingredienti del gas prima dell'impatto con il
bersaglio. Isabella era pienamente consapevole del valore di queste informazioni. Perciò si fece coraggio e aggiunse un'ultima riga alle ventisei pagine della relazione. «Rosa Rossa richiede accesso al più presto possibile.» Attese ansiosamente una reazione alla sua richiesta dopo averla consegnata. Ma non l'ottenne. Via via che il tempo passava senza notizie, comprese che la stavano punendo per la sua impertinenza; e all'inizio la prese come una sfida. Poi quando le settimane divennero mesi cominciò a preoccuparsi veramente. Al termine del secondo mese inviò una lettera di scuse all'indirizzo di Londra. «Rosa Rossa si rammarica dell'importuna richiesta di accesso. Non voleva commettere un'insubordinazione. In attesa di ulteriori ordini.» Passò un altro mese prima che gli ordini arrivassero. Poi le venne ingiunto di usare tutti i mezzi necessari per entrare a far parte del gruppo che, per conto della Capricorn Chemical, si sarebbe recato a Londra e in Israele per intervistare e reclutare il personale per lo stabilimento destinato a produrre il Cyndex. Isabella non riusciva ad immaginare come avrebbe potuto giustificare la richiesta di far parte della piccola commissione reclutatrice. Che possibile ragione poteva dare a Garry senza destare sospetti? Si tormentò per settimane, fino alla prima riunione del consiglio d'amministrazione della cc'; e in quell'occasione tutto andò a posto con una facilità che la sorprese. La questione del reclutamento fu discussa nella riunione sebbene non figurasse all'ordine del giorno; e Isabella approfittò dell'occasione per esporre i suoi punti di vista in proposito con un breve discorso improvvisato ma calzante. Quando ebbe finito, si accorse di aver fatto colpo su Garry, che osservò in tono non del tutto scherzoso: «Forse dovremmo mandare te a occuparti della cosa, dottoressa Courteney». Isabella alzò le spalle per non rivelare il suo interesse. «Perché no? Potrei approfittarne per fare qualche spesuccia... ho bisogno di abiti nuovi.» «Tipicamente femminile», sospirò Garry; ma sei settimane più tardi Isabella tornò nell'appartamento di Cadogan Square. Il direttore del personale della cc' era alloggiato al Berkeley Hôtel, a poca distanza; e tutti e due svolsero i colloqui preliminari con i candidati nella sala da pranzo dell'appartamento. La sera del suo arrivo a Londra ricevette una telefonata anonima. Non conosceva la voce. Il messaggio era semplice. «Rosa Rossa, domani intervisterà Benjamin Afrika. Faccia in modo che sia assunto.» A Isabella il nome non diceva nulla; quindi controllò la domanda di assunzione. Con sua sorpresa, vide che Benjamin Afrika era nato a Città del Capo. Ma questo sembrava il suo titolo più valido al posto che desiderava. Sebbene avesse buone qualificazioni accademiche era troppo giovane; appena ventiquattro anni. Aveva una laurea in ingegneria chimica conseguita all'università di Leeds, e due anni d'esperienza come assistente scientifico presso una fabbrica dell'Imperial Chemical Industries. Con lo stipendio che offriva la cc', Isabella avrebbe potuto trovare in Sudafrica cento candidati più qualificati di lui. Non avrebbe certo potuto collocarlo in uno dei posti vacanti del livello superiore. Ma ce n'erano liberi di minore importanza. Benjamin Afrika era il terzo intervistato di quella mattina. Entrò nella sala da pranzo di Cadogan Square alle undici del mattino, e Isabella si sentì agghiacciare per il panico. Benjamin Afrika era un mulatto, ma non era questo a causarle tanta costernazione. Era suo fratello, l'uomo che conosceva
come Ben Gama, il figlio illegittimo di sua madre e del famigerato terrorista e rivoluzionario negro Moses Gama. Lo choc di vederlo fu così grande che non riuscì a pronunciare una parola. Una quantità di pensieri le turbinò nella mente quando fissò Benjamin. Sapeva che il suo nome e quello di sua madre, Tara Courteney, non venivano mai pronunciati a Weltevreden: anche dopo tutti quegli anni, lo scandalo e la tragedia che li circondavano gettava un'omhra buia sulla famiglia. Come avrebbe potuto dare un posto a Benjamin in una delle aziende Courteney? A Nana sarebbe venuto un colpo, a pater una crisi di nervi. E poi c'era Garry... Per fortuna di Isabella, anche il direttore del personale del cc' dava segni di vivo disagio, ma il motivo della sua preoccupazione era molto più semplice: era il colore della pelle di Benjamin. Nella lunga pausa che seguì l'ingresso del nuovo candidato Isabella riuscì a controllarsi e a riportare un po' d'ordine nelle sue emozioni confuse. Benjamin non aveva mostrato di riconoscerla, e lei fece altrettanto. Il direttore del personale della cc' si alzò di scatto. Poi, per compensare quella reazione iniziale, divenne fin troppo espansivo e girò intorno alla scrivania per stringere la mano di Benjamin. «Sono David Meekin, capo del personale della cc'. Lieto di conoscerla, giovanotto», disse con entusiasmo, e offrì una sedia a Benjamin. «Abbiamo studiato le sue credenziali e il suo curriculum vitae. Notevoli... davvero molto notevoli.» Fece sedere Benjamin e gli offrì una sigaretta. «Questa è la dottoressa Courteney, che fa parte del consiglio d'amministrazione della cc'.» Isabella non osava parlare. Annuì e concentrò tutta l'attenzione sulla domanda d'assunzione di Benjamin, mentre Meekin incominciava il colloquio. Meekin fece le solite domande sul lavoro che Benjamin aveva svolto all'ICI e sui motivi che lo spingevano a chiedere d'essere assunto; ma chiaramente non era per nulla convinto. Non vedeva l'ora di finirla. Isabella, intanto, stava preparando un piano. Se non aveva riconosciuto il cognome di Ben, Afrika, era molto improbabile che lo riconoscesse qualcun altro. A parte Michael, nessuno della famiglia aveva mai visto Ben, a quanto le risultava. E non c'era motivo perché lo incontrassero. Sarebbe stato un dipendente in una delle cento fabbriche, in una città a più di millecinquecento chilometri da Weltevreden. Michael, ovviamente, avrebbe sostenuto completamente lei e Ben. David Meekin non aveva altre domande da fare. Lanciò un'occhiata interrogativa ad Isabella. «Vedo che è nato a Città del Capo, signor Afrika», disse lei. Era la prima volta che parlava. «Ha ancora la cittadinanza sudafricana. Non si è naturalizzato britannico?» «No, dottoressa Courteney.» Ben scosse la testa. «Sono ancora sudafricano, e ho un passaporto sudafricano rilasciato dalla South Africa House, qui a Londra.» «Bene. Può dirci qualcosa della sua famiglia? Vive ancora a Città del Capo?» «Mio padre e mia madre erano insegnanti. Morirono in un incidente d'auto a Città del Capo nel 1969.» «Mi dispiace.» Isabella guardò il fascicolo. Era possibile che sua madre, Tara, fosse riuscita a nascondere la verità circa la nascita di Ben per mezzo d'un certificato falso. Questo avrebbe potuto controllarlo facilmente. Alzò di nuovo la testa. «Spero che perdonerà la mia prossima domanda, signor Afrika, perché può sembrarle impertinente. La Capricorn Chemical lavora spesso su appalto della Difesa per conto dell'ARMSCOR, e tutti i suoi dipendenti devono avere il nullaosta della
polizia sudafricana per la sicurezza. Sarebbe bene se ci dicesse subito se ha fatto o fa parte di qualche organizzazione politica.» Ben sorrise. Era davvero un bel giovane. Sembrava che per un caso fortunato avesse ereditato le caratteristiche migliori di entrambe le razze. «Vuol sapere se appartengo all'ANC?» chiese, e Isabella strinse le labbra, irritata. «O a qualunque altra organizzazione politica radicale», disse bruscamente. «Non sono portato alla politica, dottoressa Courteney. Sono scienziato e ingegnere. Sono iscritto all'Albo degli ingegneri, ma non ad altri organismi.» Dunque Ben non s'interessava di politica? Isabella ricordò l'accanita discussione politica intavolata nel corso dell'ultimo loro incontro... quando? Quasi otto anni prima, pensò con stupore. Naturalmente le istruzioni ricevute smentivano le affermazioni di Ben: tuttavia doveva coprirsi le spalle. «Mi perdoni il carattere personale delle mie domande, ma le sue risposte possono risparmiare a tutti un grande imbarazzo. Lei dev'essere al corrente della situazione sudafricana. Come persona di colore non avrà diritto di voto, e inoltre sarà soggetto a una legislazione nota come apartheid che limita molte delle libertà da lei considerate normali qui in Inghilterra.» «Sì, so tutto dell'apartheid», ammise Ben. «Allora, perché vuol rinunciare a ciò di cui gode qui per tornare in un paese dove sarà trattato come cittadino di seconda categoria e dove avrà prospettive di avanzamento limitate dal colore della sua pelle?» «Sono africano, dottoressa Courteney. Voglio tornare a casa mia. Penso di poter essere utile al mio paese ed alla mia gente. Credo di potermi fare una vita nella mia terra natale.» Si fissarono per lunghi secondi, quindi Isabella disse a voce bassa: «Non trovo nulla da eccepire su questi sentimenti, signor Afrika. La ringrazio per essere venuto. Abbiamo il suo indirizzo e il numero di telefono. Ci metteremo in contatto con lei in un modo o nell'altro al più presto possibile». Quando Ben fu uscito, Isabella e Meekin rimasero a lungo in silenzio. Lei si alzò e andò alla finestra. Guardò la piazza e vide Ben che usciva e, mentre si abbottonava il cappotto, alzava gli occhi verso di lei, abbozzava un cenno di saluto, poi si avviava verso Pont Street e svoltava all'angolo. «Bene», disse David Meekin, «quello possiamo cancellarlo dall'elenco.» «Perché?» chiese Isabella. Meekin rimase sconcertato. Si era aspettato che si dichiarasse d'accordo. «Le qualifiche... l'esperienza...» «Il colore della pelle?» suggerì lei. «Sì, anche.» Meekin annuì. «Alla Capricorn potrebbe trovarsi nella posizione di dar ordini a dipendenti bianchi, e addirittura di avere donne bianche alle sue dipendenze. Questo causerebbe molti risentimenti.» «Vi sono almeno dodici dirigenti negri e coloured in altre aziende della Courteney.» «Sì, lo so», riconobbe frettolosamente Meekin. «Ma hanno ai loro ordini negri e coloured, non bianchi.» «Mio padre e mio fratello desiderano assegnare a negri e coloured posizioni dirigenziali. In particolare, mio fratello pensa che portare alla prosperità e alla responsabilità tutte le sezioni della nostra comunità sia l'unîca ricetta per la pace e l'armonia nel nostro paese.» «Su questo sono d'accordo al cento per cento.»
«Il signor Afrika mi è sembrato un uomo molto a posto. Ammetto che è un po' giovane e privo dell'esperienza per uno dei due posti più importanti, tuttavia...» Meekin cambiò tattica, dato che era un esperto nell'arte di sopravvivere all'interno d'una grande azienda. «Proporrei di includere Afrika nell'elenco ristretto dei candidati al posto di assistente tecnico del direttore.» «Sono perfettamente d'accordo con lei.» Isabella sfoggiò il suo sorriso più gentile ed accattivante. La sua valutazione si rivelava esatta. I princìpi più saldi di David Meekin erano negoziabili. Conclusero il colloquio con l'ultimo candidato alle quattro del pomeriggio e, non appena Meekin ebbe lasciato Cadogan Square per tornare al Berkeley Hôtel, Isabella telefonò alla madre. «Lord Kitchener Hôtel, buonasera.» Era la voce di Tara. «Ciao, sono Isabella.» Poi aggiunse: «Isabella Courteney, tua figlia». «Bella, bambina mia. Quanto tempo! Vediamo... almeno otto anni. Credevo che avessi dimenticato la tua vecchia madre.» Tara riusciva sempre a far sentire in colpa Isabella, che buttò là una scusa zoppicante. «Mi dispiace, Tara. Il ritmo della mia vita... non trovo mai tempo per niente...» «Sì, Mickey mi dice che ti sei affermata. Dice che ora sei dottoressa e senatore», continuò Tara. «Ma senti, Bella, come puoi avere a che fare con quella banda di fanatici razzisti del partito Nazionale? In una società civile, John Vorster sarebbe finito sulla forca già da un pezzo.» «Tara, Ben è lì?» l'interruppe Isabella. «Mi pareva che fosse troppo bello per essere vero, che mia figlia volesse parlare con me.» Tara aveva il tono della martire. «Chiamo subito Ben.» «Ciao, Bella.» Ben venne quasi subito al telefono. «Dobbiamo parlare», disse lei. «Dove?» chiese Ben, e Isabella rifletté in fretta. «Hatchards?» «La libreria in Piccadilly? Sta bene. Quando?» «Domani alle dieci.» Ben era nel reparto narrativa africana e sfogliava un romanzo di Nadine Gordimer. Isabella lo raggiunse e prese un libro a caso dallo scaffale. «Ben, non so cosa sia questa storia.» «Ho presentato domanda d'assunzione, Bella. E' molto semplice.» Lui sorrise con disinvoltura. «E non voglio neppure saperlo», continuò in fretta lei. «Spiegami una cosa: hai davvero documenti validi intestati al cognome Afrika?» «Tara denunciò la mia nascita a nome di una coppia di neri amici suoi. Non era sposata con mio padre... e naturalmente la loro relazione era illegale. Avrebbe potuto finire in carcere solo perché era innamorata di Moses Gama e mi aveva messo al mondo.» Il tono era noncurante; c'era persino un lieve sorriso sulle sue labbra. Isabella cercò qualche traccia di amarezza o di collera, ma non la trovò. «Ufficialmente il mio nome è Benjamin Afrika. Ho un certificato di nascita e un passaporto sudafricano con questo nome.» «Devo metterti in guardia, Ben. C'è molta amarezza e molto odio, da parte dei Courteney. Tuo padre fu condannato per l'assassinio del secondo marito di Nana... di Centaine Courteney Malcomess, voglio dire.» «Sì, lo so.» «Io e te non potremo mai riconoscerci apertamente in
Sudafrica.» «Capisco.» «Se mia nonna e mio padre scoprissero chi sei... ecco, non so quali sarebbero le conseguenze.» «Da me non lo sapranno certo.» «Se stesse in me, io non...» Isabella s'interruppe ed abbassò la voce. «Ben, sii prudente. Non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscerci: siamo divisi da un abisso. Ma sei mio fratello. Non voglio che ti succeda niente di male.» «Grazie, Bella.» Ben continuava a sorridere, e Isabella comprese che non sarebbe mai riuscita a penetrare quella barriera invalicabile. Continuò a voce bassa: «Avvertirò Mickey che stai per tornare in patria. Devi credermi: ti aiuterò in tutti i modi possibili. Se hai bisogno di me, fallo sapere a Michael. Sarebbe meglio se non ci fossero contatti fra noi, dopo che sarai arrivato in Sudafrica». D'impulso, Isabella lasciò cadere il libro che aveva in mano e lo abbracciò. «Oh, Ben, Ben! Viviamo in un mondo terribile. Siamo fratello e sorella, eppure... E' crudele ed inumano... Non lo sopportO.» «Forse potremo contribuire a trasformare il mondo.» Ben ricambiò in fretta l'abbraccio. Si staccarono. «Vi sono molte cose che non potrò mai dirti, Ben. Ci sono forze che trascendono il nostro controllo. Se cercassimo di opporci, finiremmo schiacciati. Sono troppo potenti per noi.» «Eppure qualcuno di noi deve tentare.» «Oh, Dio, Ben. Quando parli così mi fai paura.» «Addio, Bella», disse mestamente Ben. «Credo che avremmo potuto essere amici... se le cose fossero andate diversamente.» Rimise sullo scaffale il romanzo della Gordimer e uscì in Piccadilly senza voltarsi indietro. Nel corso degli anni era diventata una tradizione; quando Isabella andava a Johannesburg, alloggiava in casa di Garry e Holly. Prima di rinunciare alla carriera per diventare moglie e madre a tempo pieno, Holly era stata fra i più notevoli architetti del paese. Alcuni suoi progetti avevano avuto riconoscimenti internazionali. Al momento di costruire la loro casa, Garry, che non lesinava mai, le aveva dato carta bianca e l'aveva pregata di creare il suo capolavoro finale. Holly era riuscita a combinare spazio e opulenza con tanto buon gusto e tanta fantasia che quella casa era il rifugio preferito di Isabella. La preferiva persino a Weltevreden. Come sempre, la famiglia fece colazione suLl'isola artificiale al centro del laghetto. In una mattina come quella, quando il sole dell'highveld rivestiva di splendore il mondo, il tetto della pagoda era stato aperto dal meccanismo elettrico e si schiudeva al sole. I fenicotteri sulla riva erano liberi, e si erano lasciati indurre a interrompere le loro migrazioni continentali da quello specchio d'acqua cristallino. I bambini più grandi indossavano le uniformi della scuola e si preparavano a uscire. Isabella dava da mangiare all'ultima arrivata della famiglia di Garry, la sua figlioccia di due anni... Era un impegno che piaceva molto a entrambe, e riaccendeva l'istinto materno frustrato di Isabella. Garry, in maniche di camicia e bretelle colorate, era seduto a capotavola e aveva acceso il primo sigaro della giornata. «Chi mi ha accusata d'essere schizzinosa?» gli chiese isabella mentre accostava alla boccuccia della figlioccia un cucchiaino pieno d'uovo e le puliva il mento.
«Non si tratta di schizzinosità», protestò Garry a voce troppo alta. «Stamattina ho cinque riunioni, e questa sera c'è il ballo di beneficenza di Holly. Cerca di capire, Bella.» «Potevi rimandare una delle riunioni», osservò Isabella. «O magari tutte.» «Senti, mavourneen, ci saranno tanti politici e tanti generali che la mia presenza non potrebbe aggiungere niente.» «Non metterti a fare l'irlandese con me, orsacchiotto. Sei un fifone che vuole scapolarsela, e lo sappiamo tutti e due.» Garry proruppe in una delle sue risate evasive e si rivolse a Holly. «A che ora dobbiamo arrivare al ballo stasera, amore?» Ma Holly si schierò dalla parte di Isabella. «Perché vuoi costringere Bella ad un'esperienza così atroce?» gli chiese. «Non è vero.» La reazione indignata di Garry non era convincente. «Lo ha deciso lei.» Diede un'occhiata all'orologio e si rivolse ai figli con aria teatralmente minacciosa. «Voi, mostri, arriverete tardi a scuola. Fuori dai piedi!» Imperterriti, i bambini fecero la fila per baciarlo, poi attraversarono il ponticello con il fragore di una brigata di cavalleria. «Devo andare anch'io.» Isabella pulì il visino della figlioccia e si alzò, ma Garry la trattenne. «Scusami. So che avevo insinuato che non avresti saputo sopportarla. Sei forte come un uomo... non è necessario che lo dimostri.» «Allora ammetti che ti chiami fuori per fifa?» chiese lei. «E va bene.» Garry capitolò. «Non voglio vedere quelle scene. E tu non sei obbligata.» «Faccio parte del consiglio d'amministrazione della Capricorn», disse Isabella, prendendo la cartella e la borsetta. «Ci vediamo alle otto.» Mentre saliva a bordo della Porsche, fu assalita da un senso di colpa. La vera ragione per cui intendeva assistere ai test del Cyndex 25 non aveva nulla a che vedere con il dovere o con il desiderio di dimostrare la sua forza d'animo. L'ultima comunicazione che aveva ricevuto come Rosa Rossa le prometteva accesso a Nicky non appena avesse riferito che i test erano stati effettuati con risultati positivi. Il viaggio a Germiston portò via poco più di un'ora sulla nuova autostrada. Era stata Holly a progettare lo stabilimento della Capricorn Chemicals, e il suo gusto era riconoscibile. Non sembrava neppure una fabbrica. C'erano prati e alberi, e il terreno era sfruttato abilmente in modo che le caratteristiche meno gradevoli degli edifici industriali fossero mascherate o nascoste. Erano bene in vista soprattutto le costruzioni che Holly aveva potuto ammantare d'erba e di pietra naturale, e il tutto era sparso su alcune centinaia di ettari. La figura rampante del logo della Capricorn sovrastava l'ingresso. Isabella inserì il tesserìno elettronico e il cancello si aprì pesantemente. Le guardie in uniforme la salutarono. Tutti i posti riservati ai visitatori nel parcheggio dietro al blocco di edifici dell'amministrazione erano occupati. I veicoli erano nella stragrande maggioranza berline nere con targhe ministeriali o bandierine militari. Isabella salì con l'ascensore, e quando entrò nella suite del direttore si guardò rapidamente in giro. Sembrava quasi una riunione privata. Non erano presenti più di venti persone, e lei era l'unica donna. I politici e i dirigenti statali erano vestiti di scuro, i militari in divisa. Erano rappresentate tutte le armi, inclusa la polizia di sicurezza, e tutti erano generali o membri dello Stato Maggiore. Isabella conosceva più di metà dei presenti, inclusi il ministro e due viceministri. C'era una tavola con i rinfreschi che
offriva anche bevande alcoliche, ma nessuno beveva nulla di più forte del caffè. Le conversazioni si svolgevano esclusivamente in afrikaans, e ancora una volta Isabella fu colpita dalla differenza fondamentale tra le due razze bianche. Gli inglesi pensavano ai lussi e ai beni materiali, alla finanza e al commercio. Gli afrikaner tenevano al potere politico e militare. In quella stanza erano presenti alcuni degli uomini più potenti del paese. Sebbene fossero poveri in confronto ai Courteney, la loro influenza politica dominava l'intera società. Nella cittadella del potere i militari, un po' come i loro colleghi russi, formavano una casta a sé; e davanti alla loro forza piegava la testa anche il presidente dello stato. In pochi secondi, Isabella aveva identificato gli uomini più influenti. Si avviò verso di loro, scambiando saluti e strette di mano e sorrisi con gli altri mentre passava. In quella società patriarcale s'era assicurata una nicchia tutta sua: l'accettavano quasi come un'eguale. Sono una specie di maschio onorario, pensò con un sorriso, e strinse la mano al ministro della Difesa; quindi si rivolse al suo vice con un sorriso controllato e amichevole. «Buongiorno, generale De La Rey», gli disse in afrikaans. Lothar De La Rey era stato la prima, grande passione della sua vita. Aveva vissuto con lui per sei mesi, prima che la lasciasse per sposare una giovane afrikaner appartenente alla Chiesa Olandese Riformata. Se non l'avesse fatto, non sarebbe diventato viceministro... e adesso si diceva che avesse uno splendido futuro politico. «Buongiorno, dottoressa Courteney.» Anche il generale era compìto, ma non riuscì a tenere lo sguardo fisso sul suo volto, e la squadrò in fretta, affascinato. Fai pure, cocco, pensò Isabella: sapeva di non essere stata più splendida in tutta la sua vita. Roditi il cuore... e poi torna a casa dalla tua cicciona campagnola. Nonostante il risentimento incancellabile, doveva ammettere che anche Lothar aveva un ottimo aspetto. Molti afrikaner ingrassavano quando smettevano di giocare a rugby. Lothar era snello come dieci anni prima. Probabilmente era maturo per un'avventura sentimentale, pensò Isabella; e una volta a letto, avrebbe potuto lasciarsi sfuggire molte notizie interessanti. Mi piacerebbe vendicarmi di te, pensò. Un tempo aveva deciso di suicidarsi per lui: adesso sarebbe stato piacevole metterlo nell'elenco degli informatori di Rosa Rossa. Poi, improvvisamente la sua mente corse a Ramon, il suo Ramon, e ogni interesse fisico per Lothar si spense... Soltanto per dovere, decise... e in quel momento il direttore generale della Capricorn attirò la sua attenzione. Isabella tenne un breve discorso di saluto ai presenti e si scusò per l'assenza del presidente. Poi li invitò a entrare nella saletta di proiezione. Il video preparato dalla Capricorn era di elevata qualità professionale. Includeva simulazioni computerizzate e disegni animati che prospettavano l'impiego e la disseminazione del Cyndex 25 in condizioni di combattimento. Via via che le immagini scorrevano, Isabella girava lo sguardo nella saletta semibuia. Tutti i militari mostravano un interesse vivissimo per la nuova arma; osservavano lo schermo con una concentrazione intensa, e quando la proiezione terminò cominciarono a discutere animatamente tra loro. Quando Paul Serle, il direttore tecnico israeliano che Isabella aveva reclutato a Tel Aviv, si alzò e invitò a fare commenti, i militari lo tempestarono di domande. Isabella notò che fino a quel momento Ben non s'era visto. La sua faccia bruna veniva tenuta nascosta con discrezione in un'altra stanza. Com'era inevitabile,
uno dei generali fece la domanda che Isabella temeva. La fece bruscamente: «Il gas è mai stato usato su una popolazione umana? In questo caso, può fornirci qualche dettaglio?» «Forse il generale può fornirci qualche prigioniero cubano proveniente dall'Angòla?» ribatté il direttore, e tutti risero divertiti da quella battuta macabra. «Seriamente, generale, la risposta è no. Tuttavia è stato sperimentato oltremare in laboratorio con risultati eccellenti. Inoltre, abbiamo organizzato tutto perché oggi possiate assistere al nostro primo esperimento.» La divisione pesticidi e veleni della Capricorn Chemicals si trovava ad ottocento metri dalla sede dell'amministrazione. Il gruppo la raggiunse in corteo, con la Cadillac nera del ministro in testa. Isabella era seduta al suo fianco sul sedile posteriore ed indicava le varie costruzioni dello stabilimento. «Questa sezione è l'impianto per l'arricchimento dell'uranio. Come vede, sembra semplicemente un'estensione della raffineria principale dei fosfati...» Il ministro della Difesa aveva fama di possedere un caratteraccio. Isabella, però, era sempre andata d'accordo con lui e lo rispettava per la sua dedizione ed il suo acume politico. Parlarono amichevolmente durante il breve tragitto fino a che si fermarono all'ingresso della fabbrica di pesticidi e veleni agricoli. Era un complesso separato all'interno del complesso generale. Era circondato da una recinzione di rete alta tre metri e mezzo, e c'erano vistosi cartelli ammonitori tutto intorno, con teschi e tibie incrociate e scritte in tre lingue: «Danger! Gevaar! Ingozi!» Le guardie al cancello tenevano al guinzaglio i Rottweiler. Lo stabilimento era nascosto da un boschetto artificiale; era lungo e basso, con i muri di pietra naturale e tutte le finestre esterne di vetro fumé tipo finto specchio. All'entrata vi fu un altro controllo di sicurezza e persino il ministro fu invitato a passare attraverso lo scanner elettronico. Il direttore israeliano li guidò lungo una serie di corridoi separati da paratie stagne contro il fuoco e i gas; e finalmente entrarono nel nuovo reparto Cyndex. L'edificio era così nuovo che aveva ancora odore di cemento fresco. Si fermarono in un piccolo atrio. Le porte antigas si chiusero dietro di loro e il direttore cominciò a parlare. «In questo settore vengono adottate rigorose procedure di sicurezza. Potete notare l'impianto di condizionamento.» E indicò i pannelli alle pareti. «La qualità dell'aria che circola nell'edificio viene sempre sorvegliata. Nell'eventualità estremamente improbabile di una perdita, l'aria può essere estratta per mezzo di pompe e sostituita in dieci secondi.» Per qualche minuto si diffuse sulle caratteristiche si sicurezza dell'edificio. «Ma per ulteriore vostra sicurezza, prima di entrare nello stabilimento principale siete pregati di indossare tute protettive.» C'erano spogliatoi separati per i due sessi. In quello per le signore un'inserviente di colore aiutò Isabella a spogliarsi e appese il suo tailleur in un armadietto, quindi le fece indossare una tuta bianca, con stivali e guanti di plastica, e le mostrò come calzare il casco e mettere in funzione la bombola. La visiera era trasparente e la bombola dell'aria compressa era inclusa in uno zainetto. Le cuffie permettevano di comunicare normalmente. Isabella tornò nell'atrio per raggiungere gli altri. «Siamo tutti pronti?» Il direttore si girò verso la porta in fondo. Quando si aprì entrarono tutti. Quattro tecnici erano in attesa. Isabella notò che, mentre i visitatori portavano tute bianche, quelle dei tecnici erano giallo-cromo e quella del direttore era rossa, per facilitare l'identificazione. Uno dei tecnici in tuta gialla li ammise in un altro corridoio e
si affiancò a Isabella. «Buongiorno, dottoressa Courteney», disse a voce bassa. Con un trasalimento, lei riconobbe la voce e guardò attraverso la visiera. «Buongiorno, signor Afrika», mormorò. «Le piace lavorare con la Capricorn?» Era la prima volta che lo vedeva dopo l'incontro di Londra. «E' molto interessante, grazie.» Fu tutto ciò che si dissero prima di entrare nella sala degli esperimenti. Ma Lothar De La Rey stava osservando Isabella; quando sedettero sulle poltrone di pelle, prese posto accanto a lei e chiese: «Wie is die kaffir? Chi è quel negro?» «Si chiama Afrika. E' laureato in ingegneria chimica.» «Come mai lo conosci?» «Facevo parte della commissione che lo ha scelto.» «Ha l'autorizzazione della sicurezza, vero?» «Naturalmente. Ha provveduto il tuo dipartimento», soggiunse lei con aria ingenua. Lothar annuì ed entrambi rivolsero l'attenzione al direttore. «Questi sono i cubicoli per gli esperimenti.» In fondo alla stanza, quattro vetrate guardavano su altrettante camere separate: ognuna aveva le dimensioni di una cabina telefonica... o di un gabinetto. «Le vetrate sono doppie ed infrangibili», spiegò il direttore. «E noterete che sopra ognuna ci sono dei monitor.» Indicò i quadri elettronici dove apparivano in verde le indicazioni relative alle funzioni vitali. Dietro i vetri, legati a nude sedie di plastica, c'erano quattro piccole figure umanoidi. Per un momento Isabella pensò che fossero bambini... poi il direttore continuò a spiegare. «I soggetti dell'esperimento appartengono al genere Papio ursinus. Vi sembreranno poco familiari perché sono stati rasati per somigliare di più agli esseri umani. Noterete che il Numero Uno è quasi completamente privo di protezione.» Il corpo nudo e rasato nel primo cubicolo aveva un aspetto pateticamente vulnerabile. Il pannolino per neonati era l'unica cosa che aveva indosso e metteva in risalto quella sua condizione. «Il Numero Due indossa abiti simili alla comune uniforme militare.» Il secondo babbuino portava una piccola tuta da combattimento, ma aveva le braccia e la testa prive di protezione. «Il Numero Tre è completamente coperto, a parte gli occhi, la bocca e il naso.» La scimmia aveva i guanti e un cappuccio di plastica morbida che lasciava scoperto soltanto il muso. «Il Numero Quattro ha una tuta protettiva completa, simile a quelle che sono state distribuite a tutti voi, e che verranno indossate dalle forze amiche quando maneggeranno o dissemineranno il Cyndex 25.» Il direttore s'interruppe per qualche attimo. «Posso aggiungere che ai soggetti Uno, Due e Tre sono stati somministrati sedativi. Vi saranno sintomi fisici all'applicazione dell'agente; ma si tratterà di reazioni riflesse del sistema nervoso centrale e non saranno interpretabili come indicazioni delle sofferenze dell'animale.» Isabella si sentì stringere i muscoli dello stomaco. Nonostante l'aria filtrata che respirava, una morsa le opprimeva il petto. «Il Cyndex 25 è incolore ed inodore. Tuttavia, per motivi di sicurezza, abbiamo aggiunto al nostro gas odore di mandorle. Non appariranno nebbie aerosol o altre indicazioni della sua applicazione, se non tramite le apparecchiature di controllo. Il readout rivelerà le parti del Cyndex 25 per centomila parti d'aria.» Il direttore s'interruppe e si schiarì la gola. «Ora, signori... e signora... se siete pronti, procederemo con la
dimostrazione.» Il ministro annuì, e il direttore impartì un ordine laconico nel microfono sulla sua scrivania. Isabella immaginò che Ben o uno degli altri tecnici regolasse i comandi, nell'altra stanza. Per qualche secondo non accadde nulla. Il respiro e il battito del cuore dei quattro babbuini continuarono a tracciare segni luminosi verdi e regolari sugli schermi. Poi il quadro che mostrava la concentrazione del Cyndex 25 passò da 0 a 5... cinque parti di gas nervino su centomila parti d'aria. Dopo pochi secondi i displays incominciarono ad alterarsi... tutti tranne quelli relativi al babbuino con la tuta. I battiti cardiaci accelerarono rapidamente, il respiro divenne rapido e profondo. I cambiamenti erano più netti nel quadro relativo alla scimmia nuda. Isabella sgranò gli occhi, inorridita. Vide le palpebre che sbattevano, le lacrime che incominciavano a scorrere sul muso rasato. Il babbuino boccheggiava per aspirare l'aria, e la lingua penzolava tra le labbra. Fili di saliva argentea gli colavano sul petto. «Quindici secondi», annunciò il direttore. «Il soggetto Numero Uno è ridotto in condizioni d'incapacità. Il Numero Quattro non risente la minima conseguenza, mentre il Due ed il Tre registrano sintomi da medi ad acuti.» Il babbuino nudo cominciò a contorcersi e a dibattersi come per liberarsi dalle cinghie. Isabella sentì il sapore amaro della bile salirle in fondo alla gola, e la trangugiò. All'improvviso il babbuino spalancò la bocca e urlò. L'urlo di sofferenza giunse fino ai testimoni attraverso i doppi vetri e dilaniò i nervi di Isabella che strinse i pugni e sentì un sudore malsano spuntarle sulla pelle, sotto l'attillata tuta bianca. Sentì Lothar De La Rey agitarsi al suo fianco; tutto intorno gli altri testimoni facevano piccoli gesti istintivi di ripugnanza e di disagio. Erano militari e poliziotti abituati alle atrocità e alle sofferenze altrui, tuttavia scalpicciavano, contraevano le mani guantate e giravano la testa. Tutti e tre gli animali privi di protezione si contorcevano e scalciavano, muovevano la testa e inarcavano la spina dorsale in convulsioni spasmodiche. Le mucose della lingua e delle bocche aperte ed urlanti erano diventate di un color scarlatto intenso e gli occhi stralunati erano velati da una rete di vene rosse. Incominciarono a vomitare. Il pannolino della prima scimmia si macchiò di urina e feci. Isabella si sforzò di reprimere le ondate di nausea che minacciavano di travolgerla. Avrebbe voluto urlare, fuggire, sottrarsi a quell'orrore. «Un minuto e cinque secondi. Tutti i segni vitali del Numero Uno sono cessati.» Il corpicino patetico pendeva dalle cinghie. La sua nudità era aberrante ed oscena. «Due minuti e quindici secondi. Sono cessati i segni vitali del Numero Due.» «Tre minuti e otto secondi. Sono cessati i segni vitali del Numero Tre.» «Come potete notare, il Numero Quattro non risente alcun effetto negativo. La tuta gli ha assicurato una protezione totale.» Isabella si alzò. «Scusatemi», mormorò. S'era ripromessa di resistere più a lungo degli uomini presenti, ma adesso l'aveva dimenticato. Fuggì lungo il corridoio e si precipitò nello spogliatoio delle signore. Si tolse il casco, si buttò in ginocchio e strinse con entrambe le mani il bordo di porcellana del gabinetto. Singhiozzò; e l'orrore, la pietà e il rimorso le salirono alla gola in un fiotto amaro
e acido e piovvero nell'acqua. Dopo ciò cui aveva assistito, Isabella non trovava la forza di tornare nel sereno ambiente domestico della casa di Garry e Holly. Lasciò la Capricorn senza rivedere il ministro, Lothar e gli altri personaggi. Si mise al volante e guidò senza badare a ciò che la circondava. Correva troppo veloce, spingendo quasi al massimo la Porsche. Cercava di liberarsi dalla vergogna nella sensazione elementare e purificatrice della velocità. Fu un tentativo inutile. Dopo un'ora tornò verso Johannesburg e portò la Porsche a un'andatura più moderata. Il serbatoio era quasi vuoto; si fermò al primo distributore. Mentre l'inserviente faceva il pieno, Isabella si rese conto che non sapeva dov'era. Non era la sua città. Si trovava in qualche punto della rete di strade e del labirinto di sobborghi residenziali che attorniavano l'enorme complesso industriale e minerario di Johannesburg. Chiese all'inserviente quale fosse il percorso più breve per tornare a Sandton; e quando quello le spiegò dov'era, Isabella si rese conto che a guidarla era stato il destino... o forse l'inconscio. Era a meno di cinque chilometri dalla casa di Michael. Qualche anno prima, Michael s'era comprato una piccola proprietà di venti ettari che includeva una casa molto malconcia. Era abbastanza vicina agli uffici del Golden City Mail perché potesse fare il pendolare. Michael aveva incominciato a restaurare la casa arrangiandosi da solo. Aveva piantato un centinaio d'alberi da frutto con grande gioia di uccelli, locuste ed afidi, e teneva una quantità di polli che entravano in cucina e sporcavano nel lavello e sul frigorifero. «Be', la casa è anche loro», aveva spiegato Michael a Isabella quando gli aveva fatto le sue rimostranze. «Qualche stronzo non ha mai fatto male a nessuno.» Sebbene all'inizio Michael si fosse proposto di trasformare i polli in una serie interminabile dî poulet rôti e di coq au-vin, finora non aveva trovato il coraggio di ammazzarne neppure uno. Alcuni erano già morti di vecchiaia. «Michael!» Isabella s'illuminò e diede un'occhiata all'orologio. Erano le sei passate. Michael doveva essere a casa. «E' proprio la persona che ho bisogno di vedere in questo momento.» Mentre percorreva il sentiero tortuoso in mezzo ai blue-gums che segnavano il confine della tenuta di Michael, vide la Volkswagen Kombi ferma davanti alla casa. La vecchia Valiant aveva finalmente reso l'anima. Isabella sorrise nel ricordare il racconto del fratello: in mezzo al traffico dell'ora di punta c'era stato un corto circuito, e il vecchio veicolo si era organizzato da sé un funerale vichingo, creando un ingorgo di otto chilometri. Ma la Kombi, acquistata di seconda mano, non sembrava in condizioni molto migliori. Soltanto una metà del tetto di lamiera della casa di Michael era stata ridipinta di un vistoso color verde-mela; l'altra metà era di ruggine autentica. Michael s'era perso d'animo a metà dei lavori. Comunque, aveva creato una pista d'atterraggio lungo un confine della sua proprietà e l'aveva fatta registrare come aeroporto privato presso la direzione dell'aviazione civile. Teneva il vecchio Cessna Centurion in un hangar in fondo al frutteto: era una costruzione di lamiere ondulate di seconda mano, acquistate d'occasione in un magazzino di rottami. Il risultato era in armonia con lo stile abituale di Michael. Lo trovò nell'hangar, occupato a lavorare all'interno dell'aereo bianco e azzurro. Lo tirò per la tuta, e Michael uscì a ritroso e manifestò sorpresa e gioia. Non si vedevano da circa un
anno. Michael le diede un bacio; andò a prendere una bottiglia di vino dal vecchio frigorifero arrugginito e riempì due bicchieri. Solo in quel momento Isabella notò che sembrava nervoso e distratto. Continuava a guardare l'orologio e ad andare alla porta dell'hangar. Quel comportamento la deluse e l'offese un po'. «Stai aspettando qualcuno», gli disse. «Scusami, Mickey. Avrei dovuto telefonarti prima. Spero di non averti disturbato.» «No, naturalmente. No», le assicurò Michael, ma si alzò con evidente sollievo. «Però... ecco, per dire la verità...» Non finì la frase e guardò in direzione della porta. Uno dei suoi amanti, pensò amaramente Isabella. Teme che io incontri il suo ultimo amichetto. Provava risentimento perché Michael non era a sua disposizione quando ne aveva tanto bisogno; e tagliò corto con i saluti. Lo guardò nello specchietto retrovisore mentre ripassava tra gli alberi. Michael sembrava così solo e vulnerabile che non riuscì a restare in collera. Povero, caro Mickey, pensò. Sei sperduto e infelice come me. Fermò per un istante la Porsche al cancello della proprietà, quindi svoltò verso est per tornare verso Sandton. C'era un altro veicolo che si avvicinava, un anonimo furgone grigio. Quando le passò accanto, Isabella lanciò un'occhiata al guidatore e si tese di scatto. Era suo fratello Ben. Non l'aveva notata, parlava con il negro che gli sedeva accanto. Era un uomo dalla pelle molto più scura: doveva essere uno zulu o uno xhosa purosangue, con i lineamenti notevoli e un'espressione torva. Non era una faccia che si dimenticava facilmente. Isabella rallentò e guardò nello specchietto retrovisore il veicolo che si allontanava. All'improvviso gli stop del furgone si accesero e la freccia cominciò a lampeggiare. Il furgone svoltò sul sentiero che portava alla casa di Michael e sparì fra i blue-gums. «Mistero risolto», mormorò Isabella, e accelerò. «Anche se non capisco perché Michael non voleva che vedessi Ben. Sa che sono stata io a fargli ottenere il posto alla Capricorn.» Rifletté ancora per un momento. «Deve trattarsi dell'uomo che era con Ben. E' una faccia da ricordare. Chissà chi è?» Erano quasi le otto e il sole era tramontato quando entrò nel garage sotto la casa di Garry a Sandton. «Accidenti!» esclamò Garry quando la vide entrare in soggiorno. «Dove diavolo sei stata? Sai che ore sono?» Garry e Holly erano in abito da sera. Non le capitava spesso di vedere Garry così irritato. «Oh, mio Dio! Il ballo! Scusatemi.» Garry la guardò in faccia, e si calmò di colpo. «Povera Bella. Si vede che hai passato una giornata orribile. Aspetteremo mentre ti cambi.» «No, no», protestò lei. «Andate pure avanti. Vi raggiungerò.» Per Isabella la serata fu un disastro. Il cavaliere che le aveva trovato Holly era un professore universitario noiosissimo: dato che lei era senatore, pretendeva di parlare di politica per tutta la serata. «Non pensa che io ne abbia abbastanza?» gli chiese un po' irritata, e il professore s'imbronciò. Isabella se ne andò presto. Passò una notte agitata e popolata dagli incubi. Sognò la scimmia rasata in uniforme militare, legata alla sedia bianca. Nel sogno, l'animale torturato cambiava identità e diventava il piccolo Nicky in tuta mimetica. Isabella si svegliò tremante e sudata.
Non osava riaddormentarsi, per timore delle fantasie che il sonno avrebbe potuto portare. Andò a sedere e lesse fino a che l'alba mostrò i contorni delle finestre. Riempì d'acqua la vasca da bagno ma, quando stava per entrarvi, sentì bussare alla porta della suite. L'aprì e si trovò davanti Garry in vestaglia di seta. Aveva i capelli in disordine, gli occhi gonfi di sonno. «Ho appena ricevuto una chiamata da Weltevreden. Era pater», le disse. «A quest'ora? E' successo qualcosa? Nana...?» «No, mi ha detto di riferirti che stanno bene tutti e due.» «Allora che cosa vuole?» «Vuole che io e te raggiungiamo Weltevreden immediatamente.» «Tutti e due?» «Sì. Io e te. Immediatamente.» «Ma perché?» «Non ha voluto dirlo. Ha detto solo che è questione di vita o di morte.» Isabella fissò il fratello. «Cosa può essere?» «Fra quanto puoi essere pronta per partire? Fra mezz'ora?» «Sì, certo.» «Telefonerò all'aeroporto di Lanseria e dirò di tenere pronto il Lear e di avvertire i piloti.» Garry diede un'occhiata all'orologio. «Potremo arrivare a Città del Capo prima delle dieci.» Quando atterrarono all'aeroporto D.F. Malan di Città del Capo, trovarono ad attenderli Klonkie, lo chauffeur, che li condusse direttamente a Weltevreden. Shasa e Centaine li aspettavano nell'armeria. Secondo la tradizione di famiglia l'armeria era la stanza dove venivano affrontati gli argomenti più sgradevoli. Era stato lì, sulla grande poltrona di cuoio, che Shasa aveva somministrato ai tre figli maschi le punizioni corporali. Una convocazione nell'armeria non veniva mai presa alla leggera, e Isabella provò un fremito d'apprensione quando vi entrò con Garry. Nana e Shasa erano in piedi, affiancati, dietro la vecchia scrivania. Le loro espressioni erano così cupe che Isabella si fermò di colpo; Garry la urtò, ma lei non se ne accorse neppure. «Cos'è successo?» chiese intimorita. Poi vide che c'era anche Nanny, accanto al camino di pietra. Aveva pianto: il viso era gonfio, gli occhi iniettati di sangue. In una mano stringeva un fazzoletto fradicio. «Oh, signorina Bella», singhiozzò. «Mi dispiace, piccola. Ho dovuto farlo... per il tuo bene...» «Cosa stai dicendo, Nanny?» Isabella si avviò verso la vecchia per confortarla... e si fermò di nuovo. Una sensazione catastrofica la sopraffece quando vide ciò che stava sulla scrivania davanti a Nana e Shasa. «Cos'hai fatto, Nanny?» mormorò, agghiacciata e sopraffatta dalla disperazione. «Ci hai rovinati.» Sulla scrivania c'era il suo diario rilegato in pelle. Nanny aveva frugato nella sua cassaforte. «Hai rovinato me ed il mio bambino. Oh, Nanny, come hai potuto fare una cosa simile?» Il volume era aperto alla pagina che conteneva la ciocca dei capelli di Nicky. E accanto, sulla scrivania, c'erano la scarpina di lana e la copia del certificato di nascita. «Stupida vecchia ficcanaso!» La collera di Isabella traboccò. «Non saprai mai quanto male hai fatto. Hai ucciso il mio Nicky. Non te lo perdonerò mai, mai.» Nanny gemette disperatamente; poi si coprì la bocca con il fazzoletto bagnato e scappò via. «L'ha fatto perché ti vuole bene, Bella», disse severamente Shasa. «Ha fatto ciò che tu avresti dovuto fare otto anni fa.»
«Non era affar suo. Non riguarda nessuno di voi. Voi non potete capire. Se v'immischiate, farete correre pericoli terribili a Nicky e a Ramon.» Isabella corse alla scrivania, afferrò il diario e se lo strinse al petto. «E' mio! Non avete il diritto d'intromettervi.» «Cosa sta succedendo?» Garry si avvicinò a fianco d'Isabella. «Su, Bella. Se sei nei guai, riguarda tutti. Siamo una famiglia. Siamo tutti uniti.» «Sì, Bella. Garry ha ragione. Siamo tutti uniti.» «Se ti fossi rivolta subito a noi...» Centaine s'interruppe e sedette alla scrivania. «Ma le recriminazioni sono inutili. Dobbiamo risolvere il problema... tutti insieme. Siedi, Bella. Possiamo indovinare quasi tutto. Tu devi dirci il resto. Parlaci di Nicky e Ramon.» Isabella barcollò, confusa e dilaniata dalle emozioni. Garry le cinse le spalle con un braccio muscoloso per sostenerla. «Va tutto bene, Bella. Siamo tutti dalla tua parte. Chi è Nicky? Chi è Ramon?» «Nicky è mio figlio e Ramon il padre», disse sottovoce Isabella e nascose il volto contro l'ampio torace del fratello. La lasciarono piangere per un po'; poi Centaine sollevò il telefono. «Chiamo il dottor Saunders. Potrà farle un'iniezione per calmarla.» Isabella si voltò di scatto. «No, Nana. Non ho bisogno di nulla. Mi riprenderò. Lasciami un minuto.» Centaine posò il telefono e Garry condusse Isabella al divano di pelle e le sedette accanto. Shasa sedette dall'altra parte e la sostenne. «Bene», disse finalmente Centaine. «Basta così. Potremo piangere più tardi. Adesso dobbiamo metterci al lavoro.» Isabella si raddrizzò, e Shasa si tolse il fazzoletto dal taschino e glielo porse. «Racconta com'è successo», ordinò Centaine. Isabella trasse un respiro profondo. «Conobbi Ramon al concerto dei Rolling Stones in Hyde Park, quando vivevo a Londra con papà», mormorò. Poi continuò, con voce un po' più forte. Parlò per quasi mezz'ora. Spiegò perché lei e Ramon non avevano potuto sposarsi ed erano andati in Spagna per la nascita di Nicky. «Avevo intenzione di portarlo qui a Weltevreden. Io e Ramon contavamo di sposarci appena fosse stato libero.» Raccontò che Ramon e Nicky erano stati sequestrati e descrisse la tortura inflitta al bambino, e l'incubo che era diventata la sua esistenza da quel momento. «Cosa volevano da te quegli individui misteriosi? Che prezzo hai dovuto pagare per la salvezza di Ramon e Nicky? Cos'hai dovuto dargli in cambio della possibilità di vedere Nicky?» chiese Shasa con voce dura. Centaine batté il bastone sul parquet. «Per il momento questo non ha importanza. Ne discuteremo più tardi.» «No.» Isabella scosse la testa. «Tanto vale che risponda. Non volevano niente da me. Credo che intendessero costringere Ramon a fare qualcosa per loro; e lo ricompensavano permettendo a me di andare a visitarli tutti e due... Ramon e Nicholas.» «E' una menzogna, Bella», l'accusò Shasa. «Ramon Machado si serve di te. Sei costretta a lavorare per lui e i suoi padroni.» «No!» La sgomentava che suo padre avesse scoperto con tanta facilità le sue menzogne. «Ramon è indifeso quanto me. Ci ricattano e ci minacciano...» «Basta, Bella», l'interruppe Shasa. «Sei tu, quella che viene costretta a pagare il prezzo. L'ostaggio è Nicholas. Ramon è il
burattinaio che tira i fili.» «No!» gridò angosciata Isabella. «Ti sbagli! Ramon è...» «Te lo dirò io chi è Ramon de Santiago y Machado. Sì, tu ci hai fornito l'albero genealogico, il nome completo e la data di nascita», osservò Shasa, e Isabella si strinse il diario al petto. «Sai che abbiamo qualche amico in Israele. E uno è il direttore del Mossad. Gli ho telefonato e ha passato il nome di Ramon al loro computer, che è collegato a quello della cIA. E anche le nostre forze della sicurezza hanno un dossier intestato a Ramon de Santiago y Machado. Nei tre giorni trascorsi da quando Nanny mi ha consegnato il tuo diario, ho scoperto diversi fatti interessanti sul tuo Ramon.» Si alzò di scatto e andò alla scrivania. Aprì un cassetto e tornò con un fascicolo che buttò sul tavolino davanti alla figlia. Dalla copertina traboccavano ritagli stampa, fotografie, documenti e fogli di computer. «E' arrivato ieri sera da Tel Aviv con il corriere diplomatico. Non ti ho chiamata prima di averlo studiato. E' una lettura interessante.» Shasa prese una foto dal mucchio. «L'ingresso vittorioso di Fidel Castro all'Avana nel gennaio 1959. Sulla seconda jeep ci sono il Che Guevara e Ramon.» Poi Shasa girò un'altra foto in bianco e nero. «Congo 1965. Brigata Patrice Lumumba. Ramon è il secondo bianco da sinistra. I cadaveri sono di ribelli simba massacrati.» Ne prese un'altra. «Ramon con il cugino Fidel Castro dopo la Baia dei Porci. Sembra che Ramon avesse avuto una parte decisiva nel raccogliere informazioni segrete sull'organizzazione dello sbarco.» Girò altre foto. «Questa è abbastanza recente. Il colonnello generale Ramon de Santiago y Machado, capo della sezione africana della Quarta Direzione del KGB, riceve da Breznev l'Ordine di Lenin. Sta bene in uniforme, eh, Bella? Guarda quante medaglie.» Isabella si tirò indietro come se la foto che il padre le porgeva fosse un mamba nero. Garry si tese e prese la foto dalla mano di Shasa. «Questo è Ramon?» chiese alla sorella, mettendogliela davanti agli occhi. Lei abbassò gli occhi e non rispose. «Avanti, Bella. Devi dire la verità. E' questo il tuo Ramon?» Isabella continuò a tacere. Shasa proseguì: «E' tutto un inganno. Probabilmente ti aveva scelta come vittima, ed è quasi certo che sia stato lui a organizzare il sequestro e la tortura di tuo figlio. Da allora si è fatto gioco di te. Sapevi che è soprannominato El Zorro Dorado? Sembra che sia stato lo stesso Castro a chiamarlo così, la Volpe dorata». Isabella alzò la testa di scatto. Ricordava il commento del paracadutista José, che a quel tempo l'aveva sconcertata: «Pelé è il cucciolo della Volpe, El Zorro». E fu quel minuscolo dettaglio a costringerla ad affrontare la verità. «El Zorro... sì.» Il suo volto divenne duro. Il primo bagliore d'odio ardente le apparve negli occhi. D'istinto si rivolse alla nonna. «Che cosa faremo, Nana?» chiese. «Ecco, per prima cosa metteremo in salvo Nicholas», disse energicamente Centaine. «Non sai quel che dici, Nana», obiettò Garry. Era sconcertato. «Io so sempre quello che dico», ribatté con fermezza Centaine Courteney-Malcomess. «Affido il compito a te, Garry. E questo ha la precedenza su tutto. Potrai avere tutto ciò che ti occorre. La spesa non ha importanza. Portami quel bambino: è la sola cosa che conta. Sono stata chiara, giovanotto?» L'espressione frastornata di Garry si schiarì a poco a poco, e un sorriso gli spuntò sul volto. «Sì, Nana, sei stata chiarissima.»
Garry trasformò l'armeria di Weltevreden nella base delle operazioni. Avrebbe potuto scegliere tra una dozzina di centri per conferenze della Courteney, ma nessuno aveva la sicura atmosfera familiare di quella stanza che per tanto tempo era stata il centro delle loro vite. Nessuno degli altri mise in discussione la scelta. «E' una questione circoscritta alla famiglia. Non coinvolgeremo nessun altro a meno che sia assolutamente necessario», avvertì. Piazzò due tabelloni su cavalletti ai lati della scrivania. Uno era una carta su grande scala dell'Africa, a sud del Sahara. Il secondo restò bianco per il momento, a parte una foto che aveva appuntato in alto. Era la foto di Nicholas che Isabella aveva fatto sulla spiaggia. Il bambino era in calzoncini da bagno, con i capelli spettinati dalla salsedine e dal vento, e guardava ridendo l'obiettivo. «Per ricordarmi di cosa si tratta», spiegò Garry. «Voglio imprimermi nella mente quella faccia. Come ha detto Nana... d'ora in poi è la sola cosa che conta. Quella faccia. Quel bambino.» Fece una smorfia. «Allora, piccolo Nicky, dove sei?» Si rivolse a Isabella che era seduta alla scrivania e le mise davanti il grosso volume dedicato agli aerei di tutto il mondo. «Dunque, Bella. Presumiamo che sia stato un trasporto militare russo a condurti da Lusaka a questa base dove hai incontrato Nicky. Vediamo che aereo era.» Aprì il libro e cominciò a girare le pagine. «Ecco», disse Isabella, indicando un'illustrazione. «Sei certa?» chiese Garry, chinandosi sopra la sua spalla. «Ilyushin 11 76, chiamato Candid dalla NATO», disse leggendo ad alta voce. «Secondo l'annuario, ha una velocità di crociera stimata tra i 750 e gli 800 chilometri all'ora.» Prese un appunto sul blocco. «Tu dici che la rotta era di 300 gradi magnetici e che il volo è durato due ore e cinquantasei minuti. Sappiamo che la località è sulla costa dell'Atlantico... lo segnerò sulla carta.» Garry si avvicinò alla carta e si mise al lavoro con goniometro e compasso a punte fisse. «Garry...» Isabella era preoccupata. «Se Nicky era là lo scorso anno, non significa che ci sia anche adesso, vero?» «No, certo», ammise Garry senza voltarsi. «Ma a quanto ci hai detto, sembra che Nicky fosse insediato stabilmente in quel campo. Andava a scuola, e vi viveva da tempo sufficiente per fare amicizie ed acquistare notorietà come giocatore di calcio... Pelé?» Si voltò a sorriderle attraverso gli occhiali come un pesce rosso affettuoso. «Sappiamo da fonti dei servizi segreti israeliani e sudafricani che il tuo amico El Zorro opera tuttora in Angòla. E' stato avvistato a Luanda da un agente della CIA non più di due settimane fa. E dobbiamo cominciare a pianificare da qualche parte. Fino a che non sapremo con certezza che Nicky non è là, presumeremo che ci sia.» Si scostò dalla carta. «Ecco», borbottò. «Dev'essere a nord di Luanda e a sud del confine con lo Zaire. In quell'area ci sono cinque, no, sei foci di fiumi a circa centocinquanta chilometri l'una dall'altra. I venti trasversali potrebbero aver causato una deviazione di dieci gradi nella rotta del Candid in una direzione o nell'altra.» Tornò alla scrivania e prese il foglio di carta da disegno dove Isabella aveva tracciato a memoria una mappa della pista d'atterraggio e della foce del fiume. Lo studiò con aria dubbiosa, poi scosse la testa. «Può essere uno qualunque dei sei fiumi che appaiono sulla carta.» La studiò più attentamente. «Sono il Tabi, l'Ambriz, il Catacahna, il Chicamba, il Mabubas e il
Quicabo... qualcuno di questi nomi ti ricorda qualcosa, Bella?» Lei scosse la testa. «Nicky chiamava Tercio la base.» «Probabilmente è un nome in codice», disse Garry, e appuntò lo schizzo accanto alla foto di Nicky. «Qualche commento?» Si girò verso Centaine e Shasa. «Cosa ne dici, pater?» «E' a mille chilometri dal confine della Namibia, il territorio amico più vicino a noi. Possiamo escludere un tentativo di arrivare a Nicky per via di terra.» «E gli elicotteri?» chiese Centaine. I due uomini scossero simultaneamente la testa. «Troppo lontani, senza la possibilità di fare rifornimento», disse Garry, e Shasa confermò. «Dovremmo sorvolare una zona di combattimenti. Secondo le informazioni più recenti, i cubani hanno una solida catena di radar che sorveglia il confine namibiano e almeno una squadriglia di caccia MIG 23 con base appena a nord della frontiera, a Lubango.» «E se usaste il Lear?» insistette Centaine. Padre e figlio risero. «Non possiamo distanziare un MIG, Nana», rispose Garry. «E loro sono armati meglio di noi.» «Sì, ma potreste girargli intorno, portarvi al largo sull'Atlantico e tornare indietro alle loro spalle. Conosco tanti caccia che non hanno una grande autonomia, e il Lear può arrivare fino a Mauritius.» Padre e figlio smisero di ridere e si guardarono in faccia. «Pensi che sia diventata ricca perché era stupida?» chiese Garry, quindi si rivolse direttamente a Centaine. «Supponiamo che si possa arrivare fin là con il Lear. E poi? Non potremo atterrare né decollare... il Lear ha bisogno d'una pista di mille metri. A quanto ha detto Bella, là ci sono una pista corta e un centro d'addestramento per guerriglieri sorvegliato da paracadutisti sudamericani, quasi certamente cubani. Non ci consegneranno certo Nicky senza opporre resistenza.» «Sì, prevedo che dovremo combattere», disse Centaine. «Quindi è venuto il momento di mandare a chiamare Sean.» «Sean?» Shasa annuì. «Ma certo!» «Nana, ti adoro!» disse Isabella, e prese il telefono. «Servizio internazionale? Voglio una comunicazione urgente con Ballantyne Barracks, Bulawayo, Rhodesia.» Ci vollero quasi due ore per avere la comunicazione. Nel frattempo Garry aveva contattato l'aeroporto e parlato con i suoi piloti. Il Lear era già in viaggio per Bulawayo quando finalmente Sean rispose. Garry disse: «Gli parlo io». Prese il ricevitore dalle mani di Isabella. Discussero meno di un minuto, poi Garry ringhiò: «Non raccontarmi fesserie, Sean. Il Lear sarà entro un'ora all'aeroporto di Bulawayo per prenderti a bordo. Muovi quel culo e parti in fretta. Se è necessario, chiamerò il generale Walls o Ian Smith. Abbiamo bisogno di te, qui. La famiglia ha bisogno di te». Riattaccò e si rivolse a Centaine: «Scusa, Nana». «Ho già sentito quell'espressione», mormorò lei. «E a volte un certo linguaggio fa miracoli.» Il maggiore Sean Courteney dei Ballantyne Scouts stava davanti al quadro della situazione nell'armeria di Weltevreden e studiava la foto del nipote. Appena tre mesi prima era stato promosso maggiore e vicecomandante degli scout. Roland Ballantyne era finalmente riuscito a farlo entrare in via permanente nel reggimento. «Si vede subito che è figlio di Bella. Ha preso da lei. Un brutto marmocchio.» Sean sorrise. «Non mi sorprende che
l'abbia tenuto così ben nascosto.» Isabella gli mostrò la lingua. La presenza di Sean le faceva bene: le riportava la speranza. Era così duro, efficiente e bello, e inoltre traboccava d'una tale sublime fiducia nella propria forza e nella propria immortalità che anche lei era costretta a crederci. «Quando ti permetteranno di rivedere Nicky?» chiese Sean. Lei rifletté per un istante. Non poteva parlargli della promessa di darle accesso al bambino non appena fossero stati completati gli esperimenti con il Cyndex 25. Sarebbe stato come ammettere il suo tradimento di fronte a tutti. «Credo che sarà presto. Non vedo Nicky da quasi un anno. Dev'essere presto. Ormai sarà questione di giorni, più che di settimane.» «Non dovrai andare», intervenne Garry. «Non abbiamo intenzione di lasciarti cadere ancora una volta nelle loro grinfie.» «Oh, Garry, sta' un po' zitto», scattò Sean. «Naturalmente dovrà andare. Come diavolo sapremo dove tengono Nicky, se non andrà?» «Pensavo che...» attaccò Garry, con la faccia arrossata per la collera. «D'accordo, facciamo un patto, e subito. Io dirigo l'operazione... e tu sei responsabile per la logistica e le attività di supporto. Ti va?» «Bene!» intervenne Centaine. «Faremo così. Procedi, Sean. Spiega come condurrai l'operazione di salvataggio.» «Eccola, in linea generale. Successivamente studieremo i dettagli. Innanzi tutto dobbiamo accettare l'idea che si tratta di una regolare operazione offensiva. E' certo che incontreremo un'opposizione massiccia. Tenteranno di ucciderci... quindi dovremo ucciderli prima che ci riescano. Non possiamo illuderci. Se vogliamo Nicky, dobbiamo batterci per portarlo via. Tuttavia, se le cose andranno male, rischieremo di trovarci ad affrontare un uragano politico e legale, qui e all'estero. Potremmo essere ritenuti responsabili di qualunque reato, dal terrorismo all'omicidio. Siamo disposti ad accettarlo?» Sean girò lo sguardo sulle facce rivolte verso di lui. Tutti annuirono senza esitazioni. «Bene. Allora questo è risolto. Ora passiamo ai problemi pratici. Noi presumiamo che Nicky venga tenuto nell'Angòla del nord, in quella base sulla costa. Bella vi andrà come l'ultima volta. Quando sarà in posizione con Nicky, ci chiamerà.» «E come?» chiese Garry. «Questo è un problema tuo. Hai a tua disposizione la Courteney Communications. Fai in modo che preparino una radio miniaturizzata oppure un transponder. Appena sarà in posizione, Bella l'attiverà e così avremo modo di rintracciarla.» «Bene», dichiarò Garry. «Abbiamo quei rivelatori di posizione elettronici che usiamo per le ricognizioni geologiche aeree. Dovremmo essere in grado di adattarne uno. Come riuscirà Bella a farlo passare?» «Anche questo è un tuo problema», ribatté bruscamente Sean. «Andiamo avanti. Dunque, Bella è nella zona bersaglio. Ci rivela la posizione. Noi interveniamo...» «Come?» insistette di nuovo Garry. «C'è un unico modo... dal mare.» Sean passò la mano sulla mappa dell'Atlantico meridionale, fino alla punta del continente. «Abbiamo il centro di pesca e l'impianto d'inscatolamento del pesce in Walvis Bay. Uno dei tuoi nuovi pescherecci a grande autonomia, Garry, quelli che mandi a Veema Seamount. Sono in grado di fare circa trenta nodi, e hanno un'autonomia di seimilacinquecento chilometri.»
«Sì, accidenti!» Garry sorrise, raggiante. «Il Lancer ha appena concluso un periodo di manutenzione e riattrezzatura a Città del Capo. In questo momento è in mare, per tornare a Walvis Bay. Dirò che lo tengano là, con pieno carico di carburante e pronto per riprendere il mare. Il capitano Van Der Berg è un marinaio di prim'ordine.» «Digli di scaricare le reti e tutte le altre attrezzature pesanti che non ci serviranno», soggiunse Sean. «Giusto. E poi stipulerò una polizza assicurativa per coprire gli eventuali rischi bellici. So bene come riduci l'equipaggiamento.» Garry aveva un tono indignato. «Diavolo, l'anno scorso hai distrutto quattro Landcruiser.» «Finitela di litigare.» Centaine li riportò in argomento con fermezza. «Sentiamo, Sean. Hai intenzione di risalire il fiume con il Lancer?» «No, Nana. Useremo i mezzi da sbarco per raggiungere la spiaggia: gommoni gonfiabili con motori fuoribordo. Conosci qualcuno alla base navale di Simonstown?» «Conosco il ministro della Difesa», intervenne Bella. «E' l'ammiraglio Keyter.» «Magnifico!» Sean annuì. «Dato che fornirai i mezzi da sbarco, vedi di ottenere anche l'autorizzazione perché una dozzina di marinai si offrano volontari per un piccolo divertimento fuori programma. I commandos della marina sono tipi audaci, e si fanno in quattro pur di partecipare a uno scontro come si deve. Punta sul fatto che andremo a far la festa ad una base d'addestramento dell'ANC, e che gli faremo un favore.» «Anch'io conosco il ministro. Andrò a parlargli insieme a Bella», disse Centaine. «Ti garantisco che avrai tutto l'equipaggiamento necessario. Basta che mi dia un elenco, Sean.» «Te lo farò avere pronto domattina.» «E le armi... e gli uomini?» «Scout», rispose Sean. «Non esiste nulla di meglio. Li ho addestrati personalmente. Mi occorreranno una ventina di uomini, e so quali mi andranno bene. Parlerò subito con Roland Ballantyne. Al momento la situazione in Rhodesia è calma... è la stagione delle piogge. Me li presterà. Forse sarò costretto a spaccargli una gamba, ma me li presterà. Avranno bisogno di un paio di giorni di addestramento sui mezzi da sbarco, ma alla fine della settimana prossima saranno pronti ad entrare in azione.» Girò la testa verso Isabella. «Adesso tutto dipende da te, Bella. Tu sarai il nostro cane da caccia. Guidaci da loro, ragazza mia.» Undici giorni dopo avere inviato la conferma in codice che la Capricorn Chemicals aveva sperimentato con successo il Cyndex 25, Isabella ricevette il permesso e le istruzioni per far visita a Nicholas. Ebbe l'ordine di prendere il volo della South African Airways per Londra, che faceva rifornimento a Kinshasa sul fiume Congo, e di sbarcare in quello scalo anziché proseguire per Londra. Qualcuno l'avrebbe attesa all'aeroporto di Kinshasa. «Promette bene.» Sean era entusiasta, mentre puntava l'indice sulla carta. «Kinshasa è qui, a tre o quattrocento chilometri dall'obiettivo previsto. Verranno a prenderti alla loro porta di casa, non ti faranno fare il percorso via Nairobi e Lusaka come l'ultima volta.» Guardò la sorella. «Vogliono che parti con il volo di venerdì prossimo? Se funziona, ciò significa che probabilmente sarai sul posto entro sabato, o al massimo domenica. Noi salperemo da Walvis Bay con il Lancer non appena arriverò lassù. I ragazzi hanno concluso l'addestramento, e tutto l'equipaggiamento è a bordo del Lancer. Stanno aspettando senza far niente da quasi una settimana... saranno felici di
muoversi.» Studiò la mappa e batté sui tasti del calcolatore. «Possiamo essere in posizione a cento miglia nautiche dalla foce del Congo entro lunedì dodici. Cosa ne pensi, Garry?» Garry si alzò e si avvicinò alla carta. «Aspetterò con il Lear all'aeroporto di Windhoek... qui. Effettuerò il primo sorvolo durante la notte di lunedì dodici. Dovrò puntare verso il largo almeno per ottocento chilometri prima di poter tornare indietro. E' la portata attribuita alla rete dei radar cubani nell'Angòla meridionale. Ottocento chilometri sono una distanza al di fuori dell'autonomia della squadriglia dei MIG con base a Lubango.» Indicò la base cubana sulla mappa. «Bene, allora raggiungerò la costa alla foce del Congo, qui, e volerò a sud lungo la costa fino a che capterò il segnale del transponder di Bella.» «Un momento, Garry,» intervenne Shasa. «Come sta andando, a proposito?» «I ragazzi della Courteney Communications hanno fatto un ottimo lavoro nel pochissimo tempo che hanno avuto a disposizione.» Aprì la borsa. «Ecco!» «Una pompa per bicicletta?» chiese Shasa. «Sembra che Nicky sia un asso del calcio. Ha chiesto a Bella di portargli un pallone nuovo e si è lamentato perché devono continuare a gonfiare quello vecchio. La pompa è un accessorio naturale per il pallone e non dovrebbe destare sospetti. Questa funziona perfettamente.» Garry diede una dimostrazione con qualche colpo della pompa: l'aria uscì sibilando. «Il transponder è inserito nel manico della pompa, e ha una batteria che dura trenta giorni. Si attiva girando il manico... così.» Garry diede una dimostrazione. «C'è un solo svantaggio. Abbiamo dovuto farlo abbastanza piccolo perché stesse nel manico, e di conseguenza abbiamo anche dovuto ridurre la potenza d'emissione. Ha una portata inferiore ai dodici chilometri, anche con l'antenna sensibilissima che abbiamo montato sul Lear. Dovrò avvicinarmi molto per captare il segnale.» «E i caccia cubani a nord?» chiese ansioso Shasa. «Secondo il servizio segreto sudafricano, la squadriglia più vicina ha base a Saurimo. Farò una corsa lungo la costa: appena capterò il segnale di Bella, tornerò al largo. Ho studiato tutto sulla carta: anche se i radar cubani mi individuano mentre entro nello spazio aereo angolàno e fanno alzare i MIG da Saurimo, dovrei essere in grado di tornare indietro prima che mi raggiungano.» «E i SAM?» insistette Shasa. «Sempre secondo il servizio segreto, i reggimenti cubani SAM sono tutti al sud.» «E se il servizio segreto sbagliasse?» «Oh, pater! Sean corre un rischio ben più grande di me.» «Ma è più o meno il lavoro di Sean, e lui non ha una moglie ed una nidiata di figli.» «Vogliamo portare in salvo Nicky oppure no?» Garry voltò le spalle al padre per chiudere la discussione. «Dunque, dov'ero arrivato? Ah, sì, io capto il segnale di Bella, torno al largo e mi metto in contatto radio con il Lancer alla foce del Congo. Comunico la posizione della base e rientro a casa.» «Penso», disse Shasa in tono noncurante, «che verrò con te, Garry.» «Andiamo, pater. Tu risali ai tempi della battaglia d'Inghilterra. Compòrtati come si conviene a uno della tua età.» «Sono stato io che ti ho insegnato a volare, figliolo, e sono ancora più abile di te.» Garry lanciò un'occhiata a Nana per chiedere il suo appoggio, ma quando la vide impassibile, alzò le braccia al cielo e sorrise.
«Benvenuto a bordo, skipper», disse. «Arrivederci, Nana.» Isabella abbracciò la vecchia signora con uno slancio disperato. «Prega per noi.» «Tu pensa a portarmi il mio pronipote, signorina. Io e lui dovremo recuperare tutto il tempo perduto.» Isabella si rivolse a Shasa. «Ti voglio bene, papà.» «Meno di quanto ne voglio io a te.» «Sono stata una stupida. Avrei dovuto fidarmi di te, avrei dovuto dirti tutto fin dall'inizio.» Isabella deglutì. «Ho fatto tante cose terribili, papà, e non te ne ho ancora parlato. Non so se potrai perdonarmi.» «Tu sei la mia bambina.» Shasa aveva la voce roca. «La mia cara, unica figlia. Torna sana e salva... e porta con te il tuo piccolo.» Isabella lo baciò e lo strinse forte. Poi si voltò e quasi correndo varcò il cancello delle partenze dei voli internazionali dell'aeroporto Jan Smuts. Centaine e Shasa restarono immobili a lungo. Gli altoparlanti stavano già annunciando il volo. «Ultima chiamata per tutti i passeggeri del volo SA 516 della South African Airways per Kinshasa e Londra.» Centaine si voltò e prese il braccio del figlio. Zoppicava appoggiandosi al bastone. La gamba sembrava peggiorare sempre quando era preoccupata o sotto pressione. Lo chauffeur aveva parcheggiato la macchina all'ingresso principale ed un agente addetto al traffico cercava di farlo allontanare. Shasa fece accomodare Centaine sul sedile posteriore, poi andò ad aprire l'altra portiera e prese posto accanto a lei. «C'è qualcosa di cui non abbiamo ancora parlato.» Centaine gli prese la mano. «Sì», riconobbe Shasa. «So cosa stai per chiedere. Che cosa hanno estorto a Bella? Che prezzo l'hanno costretta a pagare?» «Ha lavorato per loro per anni e anni, fin dalla nascita del bambino. E' evidente.» «Non voglio neppure pensarci.» Shasa sospirò. «Ma so che dovremo affrontare questa realtà, prima o poi. Il bastardo che l'ha messa in questa situazione tragica è un generale del KGB... quindi sappiamo chi sono i padroni di Bella.» «Shasa.» Centaine esitò, poi la sua voce ridivenne sicura. «Ricordi lo scandalo Skylight?» «Non lo dimenticherò mai.» «Ci fu una fuga di notizie... un tradimento», incalzò Centaine. «Bella non sapeva niente di Skylight. L'avevo tenuta fuori.» La reazione di Shasa fu uno scatto. «Ricordi lo scienziato nucleare israeliano che venne a Dragon's Fountain? Come si chiamava... Aaron non so cosa? Bella ebbe un'avventura con lui. Me lo dicesti tu che il suo nome figurava sul registro della sicurezza di Pelindaba. Era andata a passare la notte con lo scienziato.» «Mamma, non vorrai insinuare...» Shasa s'interruppe. «Mio Dio, pensa alle informazioni cui ha avuto accesso per anni! Come senatore e come mia assistente, quasi tutti i progetti più segreti dell'ARMSCOR sono passati sulla sua scrivania!» «Il progetto Cyndex alla Capricorn.» Centaine annuì. «Appena poche settimane fa ha assistito agli esperimenti. Perché le permettono di vedere Nicholas proprio ora? Ha passato un'informazione molto importante, secondo te?» Rimasero a lungo in silenzio, quando Shasa chiese a voce bassa: «Dove finisce la lealtà verso la famiglia e uno dei nostri figli... e dove incomincia il dovere verso il nostro paese?» «Penso che tu e io dovremo affrontare molto presto il problema»,
sospirò la vecchia signora. «Ma prima vediamo di concludere quest'altra faccenda.» Il Lancer era attraccato al molo accanto allo stabilimento conserviero della Courteney a Walvis Bay. Era un peschereccio lungo un'ottantina di metri, ma aveva le linee agili di una moderna nave da crociera. Era stato costruito per operare in ogni zona di pesca d'ogni oceano e per raggiungerla velocemente, restare in mare per mesi e mesi consecutivi e tornare in porto con la stessa velocità. Sean l'osservava dal molo. Non gli piaceva il colore giallo vivo: era troppo visibile. D'altra parte, lo scivolo di poppa avrebbe facilitato il lancio e il recupero dei mezzi da sbarco. Comunque, ormai era tardi per farlo ridipingere, pensò. Metà degli scout erano schierati lungo il parapetto del peschereccio: e appena lo riconobbero attaccarono a cantare Why Was He Born So BeautifuL? Sean fece un gesto osceno. «Non avete rispetto!» protestò, e scese di corsa la passerella. Felici di rivederlo, gli scout gli si affollarono intorno per stringergli la mano. In gran parte il loro entusiasmo era un sintomo di noia: per quei combattenti una settimana d'inattività era stata quasi insopportabile. Erano vestiti da pescatori, con jeans lisi e stinti, maglioni laceri e berretti o passamontagna. Il sergente maggiore Esaù Gondele era un matabele purosangue ed un vecchio commilitone d'una dozzina di scontri e di battaglie. Salutò militarmente Sean, quindi gli rivolse un gran sorriso. Sean gli diede un pugno sul braccio. «Non sei in uniforme, Esaù. Prendila calma, fratello.» Dodici dei venti scout scelti da Sean erano matabele, gli altri erano giovani rhodesiani bianchi, quasi tutti figli di allevatori, guardiacaccia e minatori e cresciuti nella boscaglia. Tra gli scout il colore della pelle non contava. Una volta Esaù Gondele aveva detto a Sean: «La cura migliore per il razzismo è trovarti di fronte a qualcuno che ti spara addosso. Cribbio, allora non importa il colore della pelle di chi viene a salvare la tua... bianco o negro, sei disposto ad abbracciarlo». Sean s'era un po' preoccupato per i commandos della Marina che erano arrivati da Simonstown per occuparsi dei gommoni gonfiabili. Erano tutti afrikaner, giovani e duri, e potevano avere qualche difficoltà ad inserirsi in quel gruppo multirazziale. «Andate d'accordo con i rock spiders?» chiese Sean a Esaù Gondele, usando l'insultante espressione slang per indicare gli afrikaner. «Certuni sono già diventati miei amici, ma non vorrei che uno di loro sposasse mia sorella», rispose ridendo il matabele. «No, davvero, Sean, sono tipi a posto. Conoscono il loro mestiere. Gli ho detto che non sono obbligati a chiamarmi "baasie" e hanno capito lo scherzo.» «Bene, sergente maggiore. Lasceremo il porto al calar della notte. E' poco probabile che qui qualcuno s'interessi a noi. Ma è meglio non correre rischi. Tu e io controlleremo l'equipaggiamento prima di salpare, e appena partiti daremo le istruzioni ai ragazzi.» Gli alloggi dell'equipaggio erano spartani e poco spaziosi. Gli scout e i sei commandos stavano affollati nella mensa, appollaiati sul tavolo e sulle cuccette. In pochi minuti l'aria si riempì del fumo delle sigarette mentre il Lancer beccheggiava e rollava pesantemente sotto la spinta della verde, fredda corrente di Benguela. Tutti gli scout scelti da Sean erano marinai provetti che avevano effettuato il servizio di pattuglia sulle acque agitate del lago di Kariba. Non aveva mandato a chiamare Matatu perché
soffriva il mal di mare; se fosse stato a bordo, il piccolo ndorobo avrebbe vomitato anche l'anima. Era strano partire per un'operazione senza Matatu al fianco, come intraprendere un viaggio senza il talismano di san Cristoforo. Matatu era il suo portafortuna. Sean scacciò quel pensiero e girò lo sguardo sulla mensa affollata. «Vedete bene, tutti?» Sean aveva fissato con le puntine le carte geografiche alla paratia. Vi fu un coro d'assensi. «Siamo diretti qui.» Sean indicò una carta. «La missione consiste nel prelevare due prigionieri, una donna e un bambino.» Vi furono gemiti e pernacchie e Sean sogghignò. «Tutto regolare, non abbiate paura. Ci sarà abbondanza di nemici, e potrete sparare a volontà, signori. La stagione della caccia è aperta.» I gemiti lasciarono posto ad acclamazioni ironiche. Sean attese che si ristabilisse il silenzio. «Ecco uno schizzo dell'area che costituisce il nostro obiettivo. Come potete vedere è rudimentale, ma ci dà un'idea di ciò che dobbiamo aspettarci. Prevedo che troveremo i prigionieri in questo complesso vicino alla spiaggia, con ogni probabilità in questa casetta. Io guiderò la squadra per il salvataggio. Andremo a terra con tre gommoni.» Sean notò Esaù Gondele, acquattato su una cuccetta fra due commandos sudafricani. I tre si passavano di mano in mano una sigaretta mentre lo ascoltavano. «Cosa conta l'apartheid, adesso?» Sean sorrise tra sé e continuò. «Se ci saranno problemi seri, li avremo lungo questa strada a fianco del fiume che passa dal campo dei terroristi accanto alla pista d'atterraggio, qui e qui. Il sergente maggiore Gondele guiderà l'unità d'appoggio che risalirà il fiume con gli altri tre gommoni e piazzerà un blocco stradale per impedire ai nemici di passare. Dovrete tener duro per trenta minuti dopo che avrete sentito il primo sparo. Così noi avremo il tempo di liberare i prigionieri. Poi vi ritirerete, ridiscenderete il fiume e correrete al largo, al rendez-vous con il Lancer. E' semplice, ma bisogna agire in fretta. Non ci tratterremo un secondo più del necessario; ma se farete fuori qualche nemico dacché ci siete, nessuno di noi si lamenterà. Bene, adesso riesamineremo il tutto in dettaglio, e domani ci eserciteremo a calare i gommoni e a recuperarli con il mare grosso. Lo faremo ogni giorno, e inoltre ci addestreremo con le armi e controlleremo l'equipaggiamento... non avrete molto tempo per scrivere a casa prima che arriviamo alla spiaggia la notte di martedì tredici. Tenetevi liberi per quella data. Prendete nota.» Il volo commerciale atterrò a Kinshasa durante un acquazzone tropicale. L'acqua piovana ruscellava sui finestrini mentre l'aereo rullava sulla pista, e Isabella s'infradiciò nei pochi secondi che ci vollero per lasciare l'aereo e salire sul pulmino. Come le era stato promesso, c'era qualcuno ad attenderla quando uscì dalla barriera Dogana e Immigrazione. Era un giovane pilota di bell'aspetto, in tuta da volo senza mostrìne né gradi. Quando la salutò in spagnolo Isabella riconobbe l'accento cubano. Il pilota insistette per portarle la valigia e lo scatolone con i regali per Nicky e flirtò sfacciatamente con lei a bordo del tassì scassatissimo che li portò dal terminal principale dell'aeroporto fino al settore privato. La pioggia cessò prima che arrivassero. Anche se il cielo era ancora coperto da grandi nubi, c'erano un caldo e un umido soffocanti. Il pilota caricò i bagagli su un piccolo monomotore. Isabella non riconobbe il modello: portava soltanto un numero
enigmatico, ed era dipinto di un monotono color sabbia. «Dobbiamo volare con questo tempo?» chiese Isabella. «Non è pericoloso?» «Ah, signora, se morirà, sarà fra le mie braccia... che fine splendida!» Appena furono in volo le posò la mano sulla coscia per indicarle il panorama. «Tenga le mani sui comandi e gli occhi sul percorso.» Isabella respinse la mano del pilota, che fece lampeggiare i denti e gli occhi e rise come se avesse fatto una grande conquista. Isabella non rimase in collera a lungo. Ogni minuto di volo confermava che era diretta alla base dove aveva visto Nicky per l'ultima volta. Due ore dopo scorse la distesa grigia dell'Atlantico sotto i bassi banchi di nubi, più avanti. Il pilota virò verso sud lungo la costa. Isabella si assestò sul sedile. Era euforica. Riconosceva le tortuosità del fiume e la foce. Il pilota abbassò gli alettoni e si portò in posizione per scendere sulla pista di terra rossa. Nicky, pensò. Fra poco, bambino mio, fra poco saremo di nuovo liberi. Lo vide mentre l'aereo correva sulla pista prima di fermarsi. Era in piedi sul sedile anteriore della jeep. Era cresciuto di altri cinque centimetri e aveva le gambe troppo sgraziate e magre per il resto del corpo. I capelli erano più lunghi e uscivano arricciolandosi dal berretto mimetico, ma gli occhi erano immutati, di quel meraviglioso verde limpido che scintillava persino così lontano. Appena la riconobbe, agitò le mani sopra la testa e i denti candidi balenarono nel bel viso abbronzato. Con lui, sulla jeep, c'erano anche l'autista e José, il paracadutista cubano. Sorrisero allegramente come Nicky, quando Isabella scese dall'aereo. Nicky balzò a terra e le corse incontro. Per un momento inebriante, Isabella pensò che si sarebbe precipitato fra le sue braccia: invece si dominò e le tese la mano. «Benvenuta, mamma.» Isabella si sentì soffocare. «E' una gioia rivederti.» «Ciao, Nicky», gli disse con voce arrochita dall'emozione. «Sei tanto cresciuto che quasi non ti riconoscevo. Stai diventando uomo.» Nicky apprezzò quell'osservazione. Infilò i pollici nella cintura e disse imperiosamente a José ed all'autista: «Venite a prendere i bagagli di mia madre». «Subito, generale Pelé.» José gli fece uno scherzoso saluto militare e si rivolse a Isabella. «Salve, señora. Non vedevamo l'ora che arrivasse.» Ora sono la beniamina di tutti, pensò cinicamente lei. Prese dallo scatolone due stecche di sigarette Marlboro e ne diede una a José e una all'autista. La sua popolarità crebbe ancora: in Angòla le sigarette occidentali erano valuta pregiata. Mentre Nicholas guidava la jeep verso la spiaggia continuò a chiacchierare allegramente Sebbene Isabella ostentasse il più vivo interesse per tutto ciò che il figlio aveva fatto dopo il loro ultimo incontro, si guardava intorno con attenzione maggiore di quanto avesse fatto la volta precedente. Ora si rendeva conto di aver commesso seri errori nella mappa approssimativa che aveva disegnato per Sean. La base d'addestramento era stata ampliata: adesso doveva ospitare diverse migliaia di soldati, e si scorgevano alcuni pezzi d'artiglieria sotto le reti mimetiche: sembravano cannoncini contraerei a canna lunga. Più oltre Isabella notò diversi camion parcheggiati con le antenne discoidali del radar puntate verso il cielo, e pensò a suo padre ed a Garry che avrebbero dovuto sorvolare il campo con il Lear. Non aveva
modo di avvertirli di tutti quei cambiamenti. Quando arrivarono al complesso sulla spiaggia, Isabella controllò la distanza indicata dal contachilometri: erano 3,6 dalla pista al mare... molto meno di quanto avesse stimato. Si chiese se questo poteva mettere in pericolo l'operazione di salvataggio. I rinforzi potevano intervenire molto più in fretta di quanto avesse calcolato Sean. José portò il bagaglio nella guardiola. Ad attendere Isabella c'erano le due donne che l'avevano ricevuta durante l'altra visita; ma erano più amichevoli e informali. «Vi ho portato un regalo», disse Isabella, e consegnò a ognuna di loro una bottiglia di profumo, scelta più per le dimensioni che per la fragranza. Le due donne si misero tanto di quel profumo che l'aria divenne quasi irrespirabile. Solo dopo qualche minuto si decisero a perquisire il bagaglio. Questa volta la macchina fotografica passò senza commenti, anche se tutte e due indugiarono sui cosmetici. Isabella le invitò a provare il rossetto; quelle accettarono con alacrità, poi ammirarono il risultato nello specchietto del suo portacipria. L'atmosfera era quella di un incontro tra vecchie amiche, più che d'un controllo di sicurezza. Quando fu il momento di esaminare lo scatolone con i regali per Nicholas, le due donne erano chiaramente distratte. Una prese il pallone sgonfio. «Ah, a Pelé piacerà molto», esclamò. Poi Isabella si sentì tendere i nervi quando la vide prendere la pompa. «E' per il pallone», spiegò. «Sì, lo so, per gonfiarlo.» La donna azionò distrattamente la pompa e la rimise nello scatolone. «Scusi il disturbo, señora. Ma dobbiamo fare il nostro dovere.» «Certo. Capisco,» disse Isabella. «Resterà con noi due settimane. Pelé attendeva con ansia il suo arrivo. E' un bravo bambino. Tutti gli sono affezionati, tutti sono fieri di lui.» Aiutò Isabella a portare i bagagli nella stessa casetta che le era stata assegnata durante l'ultima visita. Nicholas era seduto sul suo letto, e indossava già i calzoncini da bagno. «Vieni, mamma, andiamo a nuotare. Facciamo a chi arriva prima alla scogliera.» Quella sera, quando rimasero soli, Isabella diede i regali al figlio. Anche se il più gradito fu il pallone da calcio, Nicholas apprezzò molto anche i libri e i capi d'abbigliamento. Gli aveva portato una serie di calzoni colorati da surfer e di magliette che lo entusiasmarono, un mangiacassette Sony e una quantità di nastri. I preferiti di Nicky erano i Creedence Clearwater Revival e i Beatles. «Sai ballare il rock'n'roll?» chiese Isabella. «T'insegno io.» E inserì una cassetta di Johnny Halliday. Piroettarono nella casetta in costume da bagno, ridendo fragorosamente, fino a che Adra li chiamò perché la cena era pronta. Adra era chiusa e taciturna come sempre; Isabella la ignorò e concentrò l'attenzione sul figlio. Aveva imparato tutta una serie di battute sugli elefanti per farlo ridere. «Come si fa a capire che l'elefante è entrato nel frigo? Si vedono le orme nel burro.» A Nicky quella piacque molto e a sua volta le raccontò una barzelletta che aveva sentito da José, il paracadutista. Isabella restò senza fiato. «Ma sai che cosa significa?» chiese, nervosa e allarmata. «Certo. Me l'ha mostrato una delle ragazze grandi, a scuola.» Isabella ritenne più prudente non approfondire. Quando lo ebbero messo a letto, mentre Adra la accompagnava
alla sua casetta, Isabella chiese: «Dov'è il marchese Ramon? E' qui?» Adra si guardò intorno cautamente prima di rispondere. «No. Verrà presto, credo domani o dopodomani. Dice che verrà da lei, e che l'ama sempre.» Rimasta sola, Isabella si accorse che stava tremando alla prospettiva di rivedere Ramon, ora che sapeva chi era veramente. Non credeva che sarebbe riuscita a comportarsi in modo naturale. Il pensiero di far l'amore con lui l'atterriva: senza dubbio sarebbe riuscito a percepire che i suoi sentimenti erano cambiati. E avrebbe potuto portar via Nicholas, o farla imprigionare. «Dio, ti prego, fa' che Sean mi raggiunga prima che arrivi Ramon. Tienilo lontano fino a quel momento.» La notte restò sveglia, agghiacciata dal timore che Ramon apparisse all'improvviso e che lei dovesse accoglierlo nel suo letto. Come l'altra volta, Isabella e Nicholas trascorsero due giorni nuotando, pescando e giocando sulla spiaggia con Ventisei. Il cucciolo era diventato un cane dinoccolato con la coda lunga, gli occhi strabici, le orecchie cascanti. Nicholas l'adorava. Se lo portava a letto; Isabella non poteva vietarglielo anche se le gambe del bambino erano costellate di morsicature di pulci. Lunedi sera, mentre guardava Nicholas che si preparava per andare a letto, Isabella prese la pompa per bicicletta dallo scaffale dove adesso il pallone nuovo troneggiava al posto d'onore. Girò il manico e sentì il fievole scatto quando si attivò il transponder. Rimise la pompa sullo scaffale proprio mentre Nicholas tornava dal bagno tutto odoroso del dentifricio alla menta che gli aveva portato da Città del Capo. Mentre Isabella si chinava sul letto per rimboccare la zanzariera, il bambino le buttò inaspettatamente le braccia al collo. «Ti voglio bene, mamma», mormorò quasi timidamente, e lei lo baciò. Nicholas aveva la bocca morbida e umida e profumata di dentifricio, e lei si sentì scoppiare il cuore. Imbarazzato dalla sua manifestazione d'affetto, il bambino si girò, tirò il lenzuolo fino al mento, chiuse gli occhi e finse di russare. «Dormi bene, Nicky. Anch'io ti voglio bene... con tutto il cuore», sussurrò Isabella. Si avviò per tornare alla sua casetta. Il tuono borbottava e i lampi guizzavano nel cielo notturno. Alzò il viso e una grossa goccia tiepida di pioggia le cadde al centro della fronte. A bordo del Lear c'era un gran silenzio. Erano a dodicimila metri, quasi all'altitudine massima che potessero raggiungere per ottenere la maggiore autonomia e velocità. «Costa nemica davanti a noi», disse Shasa a voce bassa, e Garry rise. «Su, pater. Queste cose le dicono solo nei film sulla Seconda Guerra Mondiale.» Erano sopra le nubi, in un mondo incantato e inargentato dal chiaro di luna. Sotto di loro, le nubi avevano lo stesso splendore dei nevai alpini. «Siamo a cento miglia marine dalla foce del Congo.» Shasa controllò la posizione sullo schermo del sistema di navigazione. «Dovremmo trovarci quasi a perpendicolo sulla posizione del Lancer.» «E' meglio chiamarli», propose Garry, e Shasa cambiò la frequenza radio. «Ehi, Donald Duck, qui è Magie Dragon. Mi sentite?» «Salve, Dragon. Qui Donald Duck. Vi sentiamo dieci e dieci.» La risposta fu immediata, e Shasa sorrise sollevato nel riconoscere la voce del figlio maggiore. «Dev'essere Sean con il pollice sul pulsante», mormorò, e regolò il microfono. «Tenetevi
pronti, Duck. Siamo diretti a Disneyland.» «Buon viaggio. Duck si terrà pronto.» Shasa si girò sul sedile del secondo pilota e si voltò verso la cabina passeggeri del Lear. I due tecnici della Courteney Communications stavano chini sulle apparecchiature. C'erano voluti dieci giorni per installare tutti gli strumenti elettronici speciali, quasi tutti nuovissimi e in fase di collaudo all'ARMSCOR, non ancora distribuiti alle forze aeree. Non erano fissati alla struttura del Lear, ma trattenuti con cinghie e bulloni al pavimento. I due visi assorti erano colorati d'un verde velenoso dalla luce del display, e le cuffie enormi deformavano i contorni delle teste. Shasa mise in funzione l'intercom. «Come va, Len?» L'ingegnere capo alzò gli occhi. «Niente passate del radar. Riceviamo il normale traffico radio da Luanda, Kinshasa e Brazzaville. Nessun segnale dal bersaglio.» «Insistete.» Shasa si voltò. Sapeva che il nuovo strumento per la ricerca della frequenza stava setacciando le varie bande. Avrebbe dovuto captare tutto il traffico militare di Luanda e della base di Saurimo. L'antenna montata sotto il ventre del Lear li avrebbe avvertiti se fossero stati inquadrati da un radar ostile. Len, il radiotecnico, era stato scelto perché parlava perfettamente lo spagnolo, e avrebbe potuto seguire il traffico radio fra i cubani. «Bene, Garry.» Shasa toccò il braccio del figlio. «Siamo sopra la foce del Congo. La nuova rotta è 175.» «Nuova rotta 175.» Garry fece virare il Lear sulla punta di un'ala e si portò in direzione sud-est per procedere parallelamente alla costa. Per un capriccio imprevedibile del vento, uno squarcio profondo si aprì nella massa nuvolosa sotto di loro. La luna brillava allo zenith, a due giorni dal plenilunio, e la sua luce penetrava in quell'abisso. Dodicimila metri più sotto si scorgevano lo splendore platinato dell'acqua e la massa scura della costa africana. «La foce dell'Ambriz a quattro minuti», annunciò Shasa. «Abbiamo iniziato a cercare il segnale del bersaglio», confermò Len. «Siamo sull'Ambriz», disse Shasa. «Non riceviamo segnale dal bersaglio.» «La foce del Catacahna a sei minuti», disse Shasa. Per la verità, non si aspettava di trovare qualcosa sull'Ambriz, situato al limite esterno del ventaglio delle ricerche. Guardò avanti e fece una smorfia. Direttamente davanti a loro una montagna minacciosa di nubi nere s'innalzava verso la stratosfera. Calcolò che l'altezza doveva essere tra i diciottomila e i ventunmila metri, molto al di sopra dell'altitudine massima del Lear. «Cosa ne pensi, Charlie Bravo?» chiese. Garry scosse la testa e guardò lo schermo del radar meteorologico. L'enorme sistema temporalesco appariva come un cancro cremisi, livido e minaccioso. «E' circa centocinquanta chilometri più avanti, ed è colossale. Mi pare che sia proprio sopra la foce di un possibile bersaglio, il fiume Chicamba.» «Se è così, assorbirà il segnale del transponder di Bella.» Shasa aveva l'aria preoccupata. «Tanto, non potremmo attraversarlo», ringhiò Garry. «Siamo sopra il Catacahna, Len. Capta qualcosa dal nostro bersaglio?» «Negativo, signor Courteney.» Poi Len cambiò tono. «Un momento! Oh, merda! Qualcuno ci ha inquadrati sul radar.» «Garry...» Shasa toccò la spalla del figlio. «Ci hanno inquadrati sul radar.»
«Passate alla frequenza internazionale», disse Garry. «E restate in ascolto.» Rimasero immobili ad ascoltare le scariche della grande, turbolenta massa temporalesca. All'improvviso la banda portante fece udire un sibilo e una voce risuonò nitida. «Aereo non identificato. Qui controllo di Luanda. Siete in uno spazio aereo vietato. Identificatevi immediatamente. Ripeto, siete in uno spazio aereo vietato.» «Controllo di Luanda, qui il volo BA 051 della British Airways. Abbiamo un guasto a un motore. Richiedo la posizione.» Shasa attaccò una discussione con Luanda per guadagnare tempo. Ogni secondo poteva essere decisivo. Chiese l'autorizzazione di atterrare a Luanda, e finse di non ricevere e di non capire i rifiuti e l'ordine urgente di abbandonare lo spazio aereo nazionale. «Non ci sono cascati, signor Courteney», lo avvertì Len mentre setacciava le frequenze militari. «Hanno fatto alzare i MIG dall'aeroporto di Saurimo, e li stanno mandando verso di noi.» «Quanto tempo prima che passiamo sopra la foce del Chicamba?» chiese Garry. «Quattordici minuti», rispose Shasa. «Bene, bene!» Garry sogghignò. «Siamo in rotta di collisione con i MIG. Stanno arrivando a Mach 2. Ci sarà da divertirsi.» Continuarono a sfrecciare verso sud nel chiaro di luna. «Signor Courteney, un'altra passata del radar. Credo che i MIG ci tengano sui loro radar d'attacco.» «Grazie, Len. Saremo sul Chicamba tra un minuto e trenta secondi.» «Signor Courteney.» La voce di Len aveva un tono stridente. «il leader dei MIG segnala l'acquisizione del bersaglio. Stanno per piombarci addosso, signore. Il radar d'attacco è più forte. Il leader chiede l'autorizzazione a usare le armi.» «Non avevi detto che non avrebbero potuto intercettarci?» chiese Shasa a Garry. «Non dovevamo essere fuori dal loro raggio operativo?» «Diavolo, papà, chiunque può sbagliare.» «Signor Courteney!» La voce di Len era un urlo. «Ho il segnale del bersaglio, debole ed intermittente. A circa sei chilometri e direttamente davanti a noi!» «Sicuro, Len?» «E' il nostro transponder.» «La foce del Chicamba. Bella è alla foce del Chicamba!» gridò Shasa. «Andiamo via, in fretta.» «Signor Courteney, i MIG stanno per attaccarci. La loro passata radar è fortissima e aumenta ancora.» «Aggrappatevi», gridò Garry. «E tenetevi il cappello.» E lanciò il Lear in picchiata. «Cosa diavolo fai?» gli urlò Shasa mentre la gravità lo schiacciava contro la spalliera del sedile. «Vira e punta verso il largo.» «Ci inchioderebbero prima che avessimo percorso un chilometro.» Garry continuò la picchiata. «Cristo, Garry, così perderemo le ali.» L'indicatore della velocità assoluta puntava lentamente verso il limite contrassegnato dalla scritta rossa NON SUPERARE. «Scegli tu, pater. O rischiamo di perdere le ali... o i MIG ci fanno a pezzi.» «Signor Courteney, il leader segnala che i missili sono agganciati al bersaglio.» Len balbettava per il terrore. «Cosa hai intenzione di fare, Garry?» Shasa afferrò il braccio del figlio. «Voglio entrare là dentro.» Garry indicò la montagna di
nembi temporaleschi illuminati dalla luna. Era un precipizio turbolento che oscurava il cielo davanti a loro. Le nubi ribollivano, agitate dai venti e dalle correnti d'aria: nel ventre della tempesta i lampi balenavano. «Sei pazzo», mormorò Shasa. «Nessun MIG ci seguirà là dentro», disse Garry. «Nessun missile potrà restare puntato su di noi con tutte quelle scariche elettriche.» «Signor Courteney, il leader dei MIG ha lanciato un missile... un altro. Due missili che c'inseguono...» «Prega per noi peccatori», mormorò Garry, e continuò la picchiata. L'ago della velocità assoluta valicò la barriera del NON SUPERARE. «Credo che ci siamo.» La voce di Shasa era calma. Mentre pronunciava quelle parole, qualcosa urtò con violenza il Lear che si rovesciò sul dorso. La pallina del flight director ruotò come una trottola nella gabbia, e piombarono in mezzo alla tempesta. La visibilità cessò completamente. Erano sommersi da dense nubi grigie simili a ovatta fradicia. L'uragano attaccò il Lear, sbatacchiandoli contro le cinture di sicurezza: era come una belva famelica che li aggrediva ad unghiate e sferzate. Il Lear volteggiava come una foglia morta afferrata da un mulinello. Gli aghi degli strumenti roteavano come impazziti, l'altimetro saltava come uno yo-yo mentre precipitavano nel vuoto e poi incontravano una violenta corrente ascensionale che li riportava in alto per seicento metri e li faceva turbinare. All'improvviso l'interno della nube fu rischiarata dal fulmine che li abbagliò e rombò nelle loro teste, sommergendo lo stridore tormentato dei jet del Lear. Un fuoco azzurro guizzò sul metallo dell'apparecchio come se fosse avvolto dalle fiamme. Giunsero sul fondo di un altro vuoto d'aria con una forza che li inchiodò contro i sedili e squassò le loro spine dorsali. Poi furono sbalzati in aria per riprecipitare subito dopo. Intorno a loro la struttura del Lear scricchiolava e gemeva mentre l'uragano cercava di dilaniarla. Garry non poteva far nulla. Sapeva che era inutile lottare con i comandi e i timoni, e accrescere lo stress brutale sulla superficie dell'apparecchio. Il Lear lottava per sopravvivere. Garry gli sussurrava parole d'incoraggiamento e teneva i comandi con un tocco leggero e affettuoso, cercando di riportarlo con il muso verso l'alto per farlo uscire dalla spirale di morte. «Coraggio, piccolo», bisbigliava. «Su. Puoi farcela.» Shasa si teneva aggrappato ai braccioli e fissava l'altimetro. Erano scesi a quattromilacinquecento metri e continuavano a precipitare. I dati degli strumenti non avevano senso, e l'aereo sussultava e tremava e trabalzava. Si concentrò sull'altimetro che si spostava a scatti. Diecimila piedi, settemila, quattromila. La forza della tempesta crebbe, sbatacchiò le loro teste avanti e indietro, minacciando di spezzare le spine dorsali. Le cinghie che bloccavano le spalle affondavano dolorosamente nella carne. Qualcosa si spezzò nella fusoliera con un tonfo lacerante. Shasa lo ignorò e cercò di concentrare l'attenzione sull'altimetro. Mille stelle gli balenavano davanti agli occhi, e le picchiate rabbiose del Lear lo disorientavano. Duemila piedi, mille... zero. Avrebbero dovuto schiantarsi al suolo, ma gli enormi cambiamenti della pressione barometrica nella massa temporalesca avevano sbilanciato l'apparecchio. All'improvviso il Lear si assestò e la turbolenza diminuì. Garry premette il timone e la cloche, e l'aereo obbedì. Il flight director si stabilizzò e roteò verso la verticale mentre il Lear si riportava in assetto orizzontale. Eruppero dalle nubi.
Il mutamento fu sconvolgente. Il fragore della tempesta lasciò il posto al rombo smorzato dei jet. Il chiaro di luna inondò l'abitacolo e Shasa soffocò un'esclamazione. Erano quasi sulla superficie del mare, la sfioravano come un pesce volante, più che come un uccello. Una discesa di altri cento piedi li avrebbe fatti piombare sotto le onde verdi dell'Atlantico. «C'è mancato un pelo, figliolo.» Shasa aveva la voce rauca. Si sforzò di sorridere, ma la toppa era caduta dall'occhio e gli pendeva sotto l'orecchio. La riassestò con dita tremanti. «Su, navigatore», ridacchiò Garry con un'allegria non molto convincente. «Dammi una rotta.» «La nuova rotta è 260 gradi. Come si comporta il Lear?» «Come un sogno.» Garry virò delicatamente. Il Lear sfrecciò sull'Atlantico, lasciandosi in coda la scura massa continentale. «Len.» Shasa si voltò a guardare nella cabina. I tecnici erano pallidissimi, madidi di sudore. «Cosa mi dice dei MIG?» Len lo fissò con gli occhi sbarrati come un gufo, e cercò di abituarsi all'idea d'essere ancora vivo. «Si scuota», intimò Shasa, e Len si chinò prontamente sul quadro dei comandi. «Sì, non abbiamo perso i contatti. Il leader dei MIG ha segnalato che il bersaglio è stato distrutto... E' a corto di carburante e sta rientrando alla base.» «Addio, Fidel. Grazie al cielo hai una pessima mira», mormorò Garry, e mantenne il Lear a bassa quota, dove il radar sulla costa avrebbe avuto difficoltà ad individuarlo. «Dov'è il Lancer?» «Dovrebbe essere direttamente davanti a noi.» Shasa attivò il microfono. «Donald Duck, qui Magie Dragon.» «Vi ascolto, Dragon.» «E' il Chicamba. Ripeto, il Chicamba. Ricevuto? Passo.» «Ricevuto. Chicamba. Ripeto, Chicamba. Avete avuto qualche difficoltà? Abbiamo sentito il traffico dei jet a sud-est. Passo.» «Roba da niente. Una scampagnata. Adesso tocca a voi vîsitare Disneyland. Passo.» «Stiamo andando, Dragon.» «In bocca al lupo, Duck. Passo e chiudo.» Erano le cinque e mezzo del martedi mattina quando Garry atterrò con il Lear all'aeroporto di Windhoek. Scesero con movimenti un po' rigidi e si fermarono in gruppo ai piedi della scaletta, sopraffatti dalla caduta della tensione. Poi Garry si accostò al motore più vicino che scoppiettava sommessamente via via che si raffreddava. «Pater», chiamò. «Vieni a dare un'occhiata.» Shasa fissò l'oggetto che si era piantato nella fusoliera metallica sotto il motore turbo-elica Garrett. Era dipinto d'un vistoso giallo industriale, ed era una specie di tubo allungato e munito di alette che sporgeva per circa due metri dal metallo del Lear. «Cosa diavolo è?» chiese Shasa. «Quello, signor Courteney», disse Len che l'aveva seguito, «è un missile ATOLL aria-aria sovietico che non è esploso.» «Bene, Garry», mormorò Shasa. «La mira di Fidel non era poi pessima, dopotutto.» «Benedetta l'inefficienza russa», disse Garry. «Forse è un po' presto, papà, ma ti andrebbe un bicchiere di champagne?» «E' un'idea magnifica», rispose Shasa. «Il fiume Chicamba.» Spalla a spalla, Sean ed Esaù Gondele si chinarono sul tavolo delle carte. «Eccolo.» Sean puntò l'indice sulla minuscola rientranza insignificante
nella costa continentale. «Appena a sud del Catacahna.» Alzò la testa e guardò il comandante del peschereccio. Van Der Berg aveva la figura di un lottatore di sumo, tozza e pesante, con la carnagione coriacea conciata dal sole e dal vento. «Cosa ne sa, Van?» chiese. «Non mi sono mai avvicinato molto.» Van alzò le spalle. «Un altro pisciangolo. Ma vi porterò vicini quanto volete.» «Andrà bene a un miglio dalla scogliera corallina.» «D'accordo,» promise Van. «Quando?» «Voglio che si tenga sotto l'orizzonte per tutta la giornata di domani; e a notte ci porterà vicino a riva a zero due ore.» Per gli scout, l'ora delle streghe era sempre le due dopo mezzanotte. Allora il nemico era al minimo dell'efficienza, fisicamente e mentalmente. Alla una del mattino Sean tenne l'ultima riunione nella mensa del Lancer. Controllò gli uomini a uno a uno. Tutti erano vestiti di blu, con jeans e maglioni da pescatore, e calzavano stivali da combattimento di tela con la suola di gomma. In testa avevano berretti di lana nera, e le facce e le mani erano nere, naturalmente o grazie a uno strato di crema mimetica. Gli unici oggetti da uniforme erano le bandoliere, fornite dalle forze della difesa sudafricana e provenienti dall'equipaggiamento dei cubani catturati in Angòla. Le armi erano fucili d'assalto sovietici A K M, pistole Tokarev e granate antiuomo bulgare M 75. Tre uomini della sezione di Esaù Gondele avrebbero portato i lanciarazzi RPG 7 anticarro. Una parte dell'accordo con i sudafricani stabiliva che, in cambio della loro collaborazione, non vi fosse nulla che permettesse di risalire fino a loro. Uno alla volta gli uomini si accostarono al tavolo e consegnarono gli oggetti personali, anelli con sigillo, targhette con i nomi e libretti paga, portafogli e orologi e ogni altra cosa che avrebbe potuto identificarli. Esaù Gondele li chiudeva in buste separate e distribuiva a ciascuno un orologio digitale impermeabile, identico per tutti. A un certo momento il capitano del peschereccio chiamò dal ponte di comando: «Siamo a sette miglia marine dalla foce del fiume. Il fondo sale dolcemente. Vi porterò in posizione con qualche minuto d'anticipo sul previsto». «Bene», disse Sean, e tornò a girarsi verso il cerchio di facce annerite. «D'accordo, signori. Sapete cosa vogliamo. Eccovi qualche pensierino per tenere occupate le vostre menti... se dovete far fuori qualcuno, state attenti che non siano la donna e il bambino. La donna è mia sorella.» Tacque un momento perché tutti s'imprimessero quel dato nella mente. «Secondo pensiero. Gli schizzi che vi ho mostrato sono piuttosto fantasiosi. Non dovete fidarvi troppo. Terzo pensiero. Non restate sulla spiaggia quando ce ne andremo. Il Chicamba non è il posto adatto per una vacanza. Vitto e alloggio fanno schifo.» Prese il fucile dalla cuccetta. «Dunque, figlioli, andiamo e diamoci da fare.» Il Lancer avanzava a tentoni verso la riva guidandosi con il radar e l'ecoscandaglio. Tutte le luci erano spente e le macchine erano al minimo, quindi si muoveva lentamente. Nell'oscurità davanti a lui, Sean scorgeva i lampi intermittenti delle onde che s'infrangevano sulla scogliera corallina. A riva non si vedevano luci, e il terreno sembrava assorbito dalla notte. In cielo la coltre di nubi era ininterrotta, e non lasciava filtrare neppure il barbaglio delle stelle o della luna. Van Der Berg alzò la testa dal radar. «Siamo a un miglio», disse a voce bassa. «L'acqua è sei braccia e la profondità diminuisce.» Lanciò un'occhiata alla sagoma scura del timoniere. «Ferma le macchine.» Il tremore delle macchine che faceva vibrare la tolda sotto i
loro piedi cessò, e il Lancer restò a galleggiare come un tronco. «Grazie, Van», disse Sean. «Le porterò un bel regalo.» Poi scese correndo la scaletta e raggiunse il ponte principale. Lo aspettavano a prua. Ogni team era accanto a un gommone nero da sbarco. Sean sentì nell'aria l'odore muschiato e fece una smorfia. Non l'approvava: ma l'uso del «boom» prima di uno scontro era diventato una tradizione per gli scout. «E' una vecchia usanza africana», si disse per consolarsi. «I seguàci del Mahdi pazzo lo fumavano prima di attaccare il vecchio Kitchener a Khartoum.» «Sergente maggiore, s'è acceso il cartello con il divieto di fumare», sibilò. Sentì gli uomini scalpicciare nell'oscurità per calpestare le sigarette all'hashish. Sean si rendeva conto che la droga attenuava la paura e potenziava la spavalderia che faceva egualmente parte della tradizione degli scout; ma non l'aveva mai fumata. Amava la sensazione della paura che gli palpitava nel sangue e martellava nel cervello. Non si sentiva mai tanto vivo come in un momento come quello, quando stava per affrontare la battaglia e il pericolo; e non intendeva smorzare quella fiamma purissima. Uno alla volta i gommoni flessibili, carichi di uomini e di equipaggiamento, sdrucciolarono lungo lo scivolo di poppa del peschereccio e caddero nell'acqua con tonfi appena percettibili. I motori fuoribordo Toyota gorgogliarono sommessamente nel buio: anche in una notte calma e senza vento come quella, il suono non giungeva al di là d'un centinaio di metri. Si disposero in un lungo serpente nero, sgranati a intervalli di distanza corrispondenti a un gommone. Sean era a bordo del primo con tre dei suoi uomini migliori. Il timoniere accese una minuscola torcia elettrica a poppa per guidare gli altri, e si avviarono in silenzio verso riva. Sean era in piedi a poppa. Portava appesa al collo una piccola bussola luminosa, ma contava soprattutto sul nightscope perché li portasse a terra: era uno Zeiss che potenziava le immagini e sembrava un grosso binocolo rivestito di plastica. Davanti a lui le onde che si rompevano sulla barriera brillavano nelle lenti come fuochi verdi, e si distingueva facilmente il tratto scuro che indicava la foce del fiume. Toccò la spalla del timoniere per segnalargli di cambiare direzione. Un'ondata li sollevò, scivolò sotto lo scafo, e tutti sentirono il fruscio sordo quando passarono nel varco e raggiunsero le acque più calme della laguna. Attraverso le lenti dello Zeiss, Sean vide le chiome frastagliate delle palme profilarsi contro i banchi di nubi e, più avanti, la gola aperta del fiume. Segnalò con la torcia tascabile ed il gommone di Esaù Gondele si affiancò al suo. «Ecco là.» Sean si sporse a parlare bisbigliando al colossale matabele ed indicò la foce. «La vedo.» Esaù s'era accostato il nightscope agli occhi. «Strappategli le palle!» Il gruppo dei tre gommoni si mosse. Sean li guardò sparire sul fiume e confondersi con il buio del terreno. Bisbigliò un ordine al timoniere, e il gommone si girò parallelamente alla spiaggia. Mentre avanzavano nella laguna, Sean scrutò la spiaggia con lo Zeiss. A ottocento metri dalla foce intravvide in mezzo al palmeto il contorno squadrato di una casetta; e poi, poco oltre, una seconda. «Corrisponde alla descrizione di Bella», decise. Puntarono verso la spiaggia. Ora si scorgeva il baluginio del metallo sopra la casetta più vicina. Erano l'antenna ad albero di Natale e il disco di un centro di comunicazioni via satellite. «Ecco.» La sabbia stridette sommessamente sotto la chiglia del gommone,
e tutti balzarono nell'acqua tiepida che arrivava alle ginocchia. Sean li condusse a riva. La sabbia era così bianca che poteva vedere i piccoli granchi correre via un poco più avanti. Gli uomini sfrecciarono fino al palmeto e si buttarono al riparo sotto la cresta rialzata. Sean impiegò qualche istante per orientarsi. Secondo la descrizione di Isabella, in occasione della prima visita l'avevano ricevuta e perquisita nel centro comunicazioni. Gli aveva detto che c'erano due o tre operatrici: inoltre aveva contato una ventina di paracadutisti di guardia che alloggiavano nella baracca oltre la recinzione. Il cancello del complesso veniva sempre chiuso a chiave al tramonto: Isabella l'aveva avvertito. E c'era sempre una sentinella che andava avanti e indietro, e che veniva sostituita ogni quattro ore. «Sta arrivando», mormorò Sean quando vide la sagoma scura della sentinella che si muoveva lungo il filo spinato. Abbassò il nightscope e bisbigliò allo scout disteso al suo fianco: «Venti passi avanti, Porky. Va da sinistra a destra». «Visto.» Porky Soaves era un rhodesiano d'origine portoghese, specialista di tiro con la fionda. Era capace di colpire a cinquanta metri una colomba in volo, e a dieci metri poteva trapassare con una bilia d'acciaio il cranio di un uomo. Porky avanzò silenzioso come una vipera notturna, e quando il cubano arrivò alla sua altezza, si sollevò su un ginocchio e tirò. Gli elastici della fionda schioccarono e la sentinella stramazzò senza un grido sulla soffice sabbia candida. «Va'!» ordinò Sean a voce bassa, e il secondo scout avanzò con un pesante tronchese. I fili spinati si tranciarono con lievi suoni musicali. Sean corse a quel varco. Via via che ogni scout s'infilava nella breccia, Sean gli batteva la mano sulla spalla e gli indicava l'obiettivo. Ne mandò due all'ingresso principale per eliminare le sentinelle, due a paralizzare il centro comunicazioni, gli altri a sparar raffiche nelle baracche sul retro e a eliminare le guardie della guarnigione. Se le cose stavano come l'ultima volta, la prima casetta a destra del centro radio doveva essere quella di Isabella. Nicky doveva essere nella seconda con la governante cubana che Isabella chiamava Adra. Secondo la stima di Sean, la governante era una nemica. Doveva morire. L'avrebbe tolta di mezzo alla prima occasione. Corse verso la fila delle casette, ma prima che le raggiungesse una donna si mise a urlare nel centro comunicazioni. Le grida isteriche gli dilaniarono i nervi fino a quando furono stroncate da una breve raffica di fuoco automatico. Ci siamo! pensò Sean, e la notte eruttò di spari e di fiamme e delle emozioni mortali del combattimento. Isabella dormì d'un sonno agitato e si svegliò un po' prima di mezzanotte. Sentì il tuono e il fragore di aerei a reazione che passavano ad alta quota. Scostò la zanzariera e corse fuori. Il vento generato dal temporale che giungeva da sud le faceva sventolare la camicia da notte intorno alle gambe nude e squassava le fronde delle palme. Il rombo degli aerei divenne più intenso e si smorzò, sommerso dal vento e dalle nubi. Sembrava che ci fosse più di un aereo lassù, sopra le nubi. Isabella si augurò che uno fosse il Lear con suo padre e Garry a bordo. Avete captato il segnale? pensò, e aguzzò lo sguardo per scrutare il cielo nero. Mi senti, papà? Sai che sono qui? Non vide nulla, neppure una stella, e il suono dei motori svanì, lasciando soltanto il rumore del vento e il fragore del temporale che sparava le bordate iniziali.
Ricominciò a piovere, e Isabella tornò in fretta nella casetta. Si asciugò i capelli e i piedi scalzi e si accostò alla finestra, con lo sguardo rivolto alla spiaggia. «Dio, ti prego. Fa' che sappiano che siamo qui. Aiuta Sean a trovarci.» A colazione, Nicholas le disse: «Non ho ancora potuto provare il pallone nuovo». «Ma ci abbiamo giocato tutti i giorni, Nicky.» «Sì, ma... io voglio dire con giocatori bravi.» Poi si rese conto di ciò che aveva detto. «Tu sei brava... per una donna. Penso che saresti un ottimo portiere... con un po' di allenamento. Però, mamma, mi piacerebbe giocare con qualche amico della scuola.» «Non so.» Isabella guardò Adra. «I suoi amici possono venire qui?» Adra, che stava accanto alla stufa, non si voltò. «Bisogna chiederlo a José», rispose. «Forse si può avere il permesso.» Quel pomeriggio José e Nicholas arrivarono nel complesso con la jeep carica di ragazzini negri. La partita di calcio sulla spiaggia fu rumorosa e accanita. In tre occasioni Isabella e José dovettero districare un groviglio di ragazzetti che si prendevano a pugni e a calci. Dopo ogni scontro la partita riprendeva come se non fosse accaduto nulla. Isabella era stata scelta come portiere dei Figli della Rivoluzione; ma dopo che aveva incassato cinque gol, Nicholas, il capitano della squadra, le disse con molto tatto: «Credo che sei stanca, mamma, e che adesso vorrai riposare». E la mandò ai bordi del campo. I Figli della Rivoluzione batterono i Tigrotti Angolani per ventisei a cinque, e Isabella era piena di rimorsi per quelle cinque reti al passivo. Dopo il fischio finale, prese dallo scatolone dei regali un sacco da due chili di caramelle e cioccolatini, e la sua mancanza di abilità atletica fu subito perdonata dal suo capitano e da entrambe le squadre. A cena Nicholas chiacchîerò con disinvoltura e Isabella cercò di comportarsi con la stessa naturalezza, ma i suoi occhi continuavano a volgersi verso la finestra e la spiaggia. Se Sean fosse venuto, sarebbe stato quella notte. Aveva notato che Adra l'osservava pensierosa; fece un altro sforzo per seguire la conversazione di Nicky, ma ora pensava ad Adra. Avrebbero potuto portarla con loro? si chiese. E Adra avrebbe voluto venire? Era così reticente e misteriosa che sarebbe stato impossibile capire quali fossero i suoi veri sentimenti... a parte l'indiscutibile affetto per Nicky. Poteva fidarsi abbastanza per avvertirla dell'operazione di salvataggio? Doveva offrirle la possibilità di scegliere... andare o rimanere? Onestamente, poteva portarle via Nicky dopo tutti quegli anni di devozione? Senza dubbio le si sarebbe spezzato il cuore; ma poteva fidarsi abbastanza di lei per dirle la verità? Poteva mettere in pericolo la sua libertà e quella di Nicky, e la vita di suo fratello e di tutti gli altri giovani coraggiosi che avrebbero tentato di portarli in salvo? Più di una volta, durante la cena, fu sul punto di parlare con Adra, ma ogni volta si trattenne all'ultimo momento. Quando mise a letto Nicky, lui le offrì il viso; lo baciò con naturalezza, tenendolo stretto a sé per un momento. «Dovrai andare via ancora, mamma?» le chiese Nicky. «Verresti con me, se potessi?» ribatté lei. «E lasciare mio padre ed Adra?» Nicky si chiuse nel silenzio. Era la prima volta che parlava di Ramon, e la turbava profondamente. Era rispetto o paura, ciò che percepiva nella sua voce? Non poteva esserne certa. D'impulso, cominciò a dire: «Nicky, stanotte... se succede
qualcosa, non aver paura». «Cosa succederà?» Nicky si sollevò a sedere, incuriosito. «Non lo so. Probabilmente nulla.» Lui la guardò un po' deluso e si riadagiò. «Buonanotte, Nicky», bisbigliò Isabella. Adra l'aspettava al buio tra le casette. Era l'occasione che lei aveva atteso. «Adra», bisbigliò. «Devo parlarti. Questa notte...» E s'interruppe. «Questa notte?» chiese Adra e, quando la vide esitare, continuò: «Oh, sì, questa notte lui verrà. Le manda a dire di aspettarlo. Non ha potuto venire prima, ma questa notte verrà a trovarla». Isabella fu assalita da un panico che travolse ogni razionalità. «Oh, Dio... sei sicura?» Poi si riprese. «E' meraviglioso. Ho atteso per tanto tempo...» Ormai non pensava più ad avvertire Adra del tentativo di salvataggio. Come poteva affrontare Ramon... ora sapeva che in realtà era un mostro malvagio e crudele. Come poteva permettere che la toccasse senza essere travolta da un tremito? «Adesso devo andare», bisbigliò Adra; e si dileguò nel buio, lasciandola sola con il suo terrore. Aveva deciso di indossare i jeans e un maglioncino sotto la camicia da notte per essere pronta a fuggire all'arrivo di Sean: ma ormai non osava più farlo. Rimase distesa al buio sotto la zanzariera così a lungo che incominciò a sperare che Sean la raggiungesse prima di Ramon, o che almeno la salvasse lo spuntar del sole. Poi all'improvviso comprese che era nella casetta, lì con lei. Sentì il suo odore prima di udirlo muoversi. L'odore lieve ma inconfondibile del suo corpo, l'odore che l'aveva sempre eccitata. Si sentì fremere in ogni nervo: le narici si contrassero e una morsa alla gola le mozzò il respiro. sentì lo scalpiccio leggero dei passi sul pavimento, poi il tocco sul letto. «Ramon.» Il respiro le sfuggì con violenza dalle labbra. «Sì, sono io.» La voce la colpì come uno schiaffo. Lo sentì sollevare la zanzariera e restò immobile, irrigidita. Lui le sfiorò il viso con la punta delle dita e Isabella si trattenne a stento dall'urlare. Non sapeva come comportarsi, che cosa dire. Ramon avrebbe capito. Sentiva d'essere in preda al panico, e non osava muoversi, non osava parlare. «Bella?» chiese lui, e Isabella sentì una prima sfumatura di sospetto nel tono della sua voce. Con un'ispirazione improvvisa, tese le braccia e lo afferrò. «Non parlare», mormorò con ardore. «Non posso più attendere. Non dire nulla. Prendimi, Ramon.» Sapeva di agire in carattere con se stessa. Molte volte, nel lontano passato felice, s'era comportata così... smaniosa, in preda al desiderio più sfrenato. Si sollevò a sedere ed incominciò a strappargli di dosso gli indumenti. Devo impedirgli di parlare, di fare domande, pensò disperatamente. Devo tranquillizzarlo e fargli credere che non è cambiato nulla. Con il terrore nel cuore e l'odore di Ramon nelle narici, lasciò che le sollevasse la camicia da notte. Poi lo sentì infilarsi nel letto al suo fianco, nudo, solido e levigato. «Bella», sussurrò Ramon con voce aspra. «Ti ho desiderata troppo, per troppo tempo.» Le coprì la bocca con la bocca, e fu come se risucchiasse tutto il suo essere attraverso le labbra, come avrebbe succhiato succo e polpa da un'arancia matura. Nonostante la vergogna che l'assaliva per il tradimento del proprio corpo, Isabella si sentì sopraffare da una cruda passione
sessuale. Stava facendo l'amore con uno splendido animale, inumano e crudele ed infinitamente pericoloso. La paura si unì al desiderio, e la spronò. Si sentiva come quel toro condannato nell'arena di Granada... la sua lotta tragica e la morte lenta l'avevano tanto sconvolta molto tempo addietro, quando lei e il suo amore erano ancora freschi e giovani. Quando furono entrambi esausti, Ramon restò abbandonato su di lei come se fosse morto. Isabella non riusciva a muoversi; il rimorso e il peso di Ramon minacciavano di soffocarla. Odiava se stessa quasi quanto odiava quell'uomo. «Non era mai stato così», bisbigliò Ramon. «Non eri mai stata così, con me.» Isabella non osò rispondere. Non sapeva cosa poteva accadere, se avesse cominciato a parlare. Si rendeva conto di essere sull'orlo di una tremenda follia distruttrice... eppure, quando Ramon le giacque accanto e l'accarezzò dolcemente e toccò le parti più intime del suo corpo, allargò le cosce e si sentì dissolvere. Ramon incominciò a parlare sottovoce. Le disse che l'amava. Parlò di un futuro in cui tutti e tre sarebbero stati felici in un luogo sicuro e segreto. Erano menzogne splendide, ed evocavano immagini meravigliose nella mente di Isabella. Sebbene ne conoscesse la falsità, desiderava disperatamente credergli. Quando finalmente Ramon si addormentò tenendole il viso tra i seni nudi, gli accarezzò i riccioli con un senso di terribile rimpianto, con il desiderio di una realtà che sapeva inesistente. L'angoscia profonda aveva scacciato ogni altro pensiero dalla sua coscienza... e all'improvviso la notte fu lacerata dalle urla di una donna e dal crepitio degli spari. Sentì Ramon svegliarsi e balzare dal letto nello stesso istante, nudo e agile come un felino della giungla. Sentì lo scatto metallico della sicura quando Ramon prese la pistola dalla fondina posata sul pavimento accanto al letto. La notte fu illuminata da fiamme ed esplosioni. Lo scorse profilato contro la luce che entrava dalla finestra: teneva la pistola a livello degli occhi, puntata verso il tetto e pronta per l'uso immediato. Poi sentì la cara voce di Sean che gridava chiamandola dall'oscurità. «Bella, dove sei?» Isabella vide la sagoma scura di Ramon avventarsi alla finestra e spianare la pistola nella luce dell'esplosione d'una bomba a mano. «Attento, Sean!» urlò. «Un uomo armato!» Ramon sparò due volte e cambiò posizione tra un colpo e l'altro. Nessuno rispose al fuoco dall'esterno: Sean non osava sparare per timore di colpire lei o Nicky. Isabella si rotolò dal letto e si buttò carponi sul pavimento. Strisciò freneticamente verso la porta. Voleva raggiungere Nicky. Doveva raggiungerlo. S'era mossa per un breve tratto quando sentì il braccio nudo e muscoloso di Ramon cingerle il collo da tergo e costringerla ad alzarsi. Con l'ultimo fiato che le restava, urlò: «Sean! Mi ha presa!» «Puttana!» le sibilò all'orecchio Ramon. «Puttana traditrice.» Poi alzò la voce. «L'ammazzerò», disse. «Le farò saltare le cervella.» La trascinò alla porta, la costrinse a scendere i gradini. «Muoviti, puttana», gracchiò. «Muoviti. So chi è Sean. Non sparerà... finché mi faccio scudo di te. Muoviti!» La pressione alla gola la soffocava, e non poteva resistere. Ramon la trascinò verso la casetta di Nicky. La baracca delle comunicazioni bruciava. Dal tetto di paglia le fiamme e le scintille salivano nel cielo notturno, e la scena era illuminata come un palcoscenico. Le ombre serpentine delle palme si contorcevano
sulla terra chiara e sabbiosa. Piombarono nella casetta di Nicky. Adra e il bambino erano rannicchiati al centro della stanza, e Adra lo copriva con il suo corpo. «Padre!» urlò Nicky. «Vieni con Adra», gli ordinò Ramon. «Restale vicino. Seguimi.» Lasciarono la casetta in un gruppo serrato e si diressero verso il parcheggio. Ramon teneva stretta Isabella da tergo e con la mano libera le puntava la pistola alla testa. «Le farò saltare le cervella», urlò alle ombre palpitanti. «Stai lontano.» «Ti prego, padre, non far male a mamma», gemette Nicky. «Zitto, tu», ringhiò Ramon. Poi alzò di nuovo la voce. «Richiama i tuoi cani, Sean, se non vuoi veder morire tua sorella e suo figlio.» Dopo un momento la voce di Sean risuonò dalle ombre. «Non sparate, scout! Indietro, scout!» Ramon continuò a muoversi verso una delle jeep. Isabella si sentiva soffocare. La canna della pistola premeva così forte contro l'orecchio che le aveva lacerato la pelle. Un filo di sangue le scorreva sul collo. «Ti prego! Mi fai male!» ansimò. «Non far male alla mamma!» gridò Nicholas, e si svincolò dalla stretta di Adra. Corse a fianco di Isabella e per un momento Adra rimase isolata, e offrì un bersaglio facile. Nell'oscurità al di là del chiarore dell'incendio fiorì la fiamma di un fucile, e un proiettile sibilò attraverso trenta metri di terreno scoperto. Una parte della testa di Adra sparì in una liquida chiazza rossa. Piombò riversa a terra con le braccia spalancate. «Adra!» urlò Nicky. Ma prima che potesse correre accanto alla donna, Ramon lo abbrancò con un braccio intorno alla vita. «No, lascia stare Adra», ordinò. «Resta vicino a me, Nicky.» I tre erano al centro di un palcoscenico illuminato a giorno. Non c'era in vista anima viva. Il cadavere di una delle cubane addette alle comunicazioni giaceva raggomitolato contro l'edificio incendiato, e due paracadutisti morti erano stesi accanto al cancello. Ramon gridò un ordine in spagnolo a quelli dei suoi paracadutisti che potevano essere ancora vivi: ma sapeva che era inutile. Sapeva che tipi erano gli attaccanti. Aveva riconosciuto il nome del fratello di Isabella non appena lei l'aveva chiamato; e immaginava che tutti i suoi uomini fossero morti. Probabilmente erano stati falciati già dalle prime raffiche. Quelli erano i famosi Ballantyne Scouts, ne era certo. Ma non capiva come fossero giunti fin là. Sapeva soltanto che, chissà come, Isabella era riuscita a chiamarli. Erano là, nell'ombra, e avrebbero colpito con la stessa prontezza e con la stessa precisione con cui avevano ucciso Adra, se avesse offerto loro l'occasione. Aveva dalla sua un unico vantaggio: il tempo. Sapeva che Raleigh Tabaka doveva aver sentito gli spari; avrebbe guidato dall'aeroporto una colonna di guerriglieri per dargli man forte. Ormai era questione di pochi minuti. A ritroso, si accostò alla più vicina delle tre jeep. Sean li seguì attraverso il mirino dell'A K M. Era sdraiato bocconi ai piedi di una palma, e il profilo della sua testa era mascherato da un mucchio di fronde morte. A distanza di quaranta metri il fucile d'assalto con il selettore sul colpo singolo era preciso solo quanto bastava per piazzare un proiettile entro un disco di cinque centimetri. Aveva mirato all'attaccatura del naso
di Adra e l'aveva colpita all'occhio sinistro. Il proiettile le aveva strappato un lato del cranio. Non era una precisione sufficiente per arrischiarsi a sparare a Ramon Machado. Quell'uomo sapeva il fatto suo. Usava i due ostaggi per coprirsi, e si muoveva con la prontezza di un pugile: Sean non riusciva mai a prendergli di mira la testa. Per Sean, la vista della sorella nuda era sconcertante e sconvolgente nella luce gialla del fuoco. I seni erano candidi e delicati e il triangolo nero spiccava nettamente alla base del ventre. Sapeva che i suoi scout la stavano guardando... Persino nella tensione della battaglia, il modo in cui Ramon Machado la teneva stretta a sé faceva infuriare Sean e minacciava d'incrinare la sua capacità di giudizio. Provava l'impulso di tentare di sparare. Mancava pochissimo alla pressione dell'indice sul grilletto... ma Ramon abbassò la testa dietro la spalla di Isabella nel momento in cui raggiunsero la jeep. Ramon s'infilò dietro il volante e trascinò con sé Isabella e il bambino. Il motore si accese con un rombo, e la sabbia zampillò sotto le ruote posteriori quando sfrecciò verso il cancello. Sean sparò una raffica bassa contro le ruote posteriori, e vide che un proiettile strappava una pioggia di scintille dal mozzo d'acciaio. Poi la jeep si avventò sul cancello e divelse uno dei pali. Il cancello si accartocciò, il veicolo passò oltre e si allontanò rombando sulla pista, trascinandosi dietro come una slitta un groviglio di rete metallica e di supporti. Sean balzò in piedi e corse alla seconda jeep. Quattro dei suoi scout lo imitarono e si ammucchiarono sui sedili posteriori mentre Sean accendeva il motore e faceva girare il veicolo in un ampio cerchio per lanciarlo oltre il cancello sfondato. Passarono con un sobbalzo e inseguirono Ramon e gli ostaggi. Se lo schizzo di Isabella era esatto, quella pista doveva portarli lungo il fiume, verso la pista d'atterraggio e il blocco stradale di Esaù Gondele. Esaù avrebbe sparato a raffica contro qualunque cosa vedesse arrivare, da qualunque direzione. Un razzo RPG avrebbe sfracellato Isabella e il bambino. Sean premette la mano sul clacson e lanciò un lungo segnale. Si augurava che Esaù Gondele capisse l'avvertimento e non sparasse; ma sapeva che era molto improbabile. Esaltati dalla droga, gli scout dovevano avere il grilletto facile. Quindi non poteva far altro che raggiungerli. Premette l'acceleratore al massimo e si avventò nella muraglia di polvere bianca sollevata dal veicolo che lo precedeva sulla stretta pista. Il sentiero svoltava bruscamente a destra: per un attimo lo perse di vista e sbandò. La jeep s'inclinò sulle ruote esterne e piombò per un breve tratto fra i cespugli prima che Sean riuscisse a riportarla sulla strada. L'angolo del vento cambiò quando svoltarono. La polvere si diradò. Sean vide, appena cinquanta metri più avanti, i fanalini di coda dell'altra jeep, e la investì con gli abbaglianti. Ramon Machado, sul sedile anteriore, guidava con una mano sola. Con l'altro braccio cingeva le spalle di Isabella e la teneva bloccata in una posizione contorta: la testa era girata sul collo, i capelli si agitavano nel vento, gli occhi erano dilatati e oscurati dal terrore nell'ovale pallido del viso. Gli stava gridando qualcosa... ma il vento portava via le parole. Nicky era aggrappato al sedile di Isabella. Indossava un paio di calzoncini e una maglietta bianca; anche lui stava voltato a guardare la jeep inseguitrice, e persino in quegli istanti disperati Sean fu colpito dalla rassomiglianza tra il figlio e la madre. Il furore contro l'uomo che li minacciava ardeva come un fuoco nella sua mente e gli conferiva un coraggio temerario. Poi si accorse che l'altra jeep era sbilanciata da una parte. La
sua raffica aveva dilaniato una delle ruote posteriori, e lunghi brandelli di gomma nera si staccavano dal cerchione. Il groviglio di rete metallica e di tubi spezzati del cancello si trascinava dietro al veicolo danneggiato: sollevava zampilli di sabbia e di polvere e lo faceva rallentare. Sean stava riducendo in fretta le distanze. Il sentiero s'era allontanato dalla spiaggia e procedeva parallelo alla riva scoscesa del fiume. Le mangrovie torreggiavano nella luce dei fari delle due jeep, e in mezzo ai tronchi si scorgeva il bagliore cupo dell'acqua. Ramon girò la testa e si accorse che la jeep inseguitrice era ad un metro da lui. Chinò la testa e allentò la stretta che tratteneva Isabella. Impugnò la pistola e si girò per mirare alla faccia di Sean. La distanza era inferiore ai tre metri e mezzo, ma i due veicoli sobbalzavano troppo sulla pista accidentata. Il proiettile colpì il supporto laterale del parabrezza e si perse sibilando nell'oscurità. Uno degli scout imbracciò il fucile per rispondere al fuoco, ma Sean alzò bruscamente la canna. «Non sparare!» urlò, e andò a sbattere contro la coda dell'altra jeep con uno schianto fragoroso. L'urto rovesciò all'indietro le teste dei tre. Nicky fu scagliato oltre il sedîle posteriore, con le gambe che scalciavano in aria nel tentativo di recuperare l'equilibrio. «Salta!» urlò Sean a Isabella. Ma prima che lei potesse obbedire, Ramon l'afferrò di nuovo e la tenne stretta. Ancora una volta Sean urtò con il muso della sua jeep la coda dell'altra, le schiacciò la ribalta e la fece sbandare. Ramon si sforzava di restare in strada, guidando con una mano sola. La coda del veicolo oscillava all'impazzata. Una nube di polvere si alzò dalle ruote posteriori, minacciando di accecare Sean. Isabella urlava. Nicky si risollevò e si acquattò sul sedile posteriore. Era pallidissimo, terrorizzato. Un'altra curva della pista scagliò il primo veicolo verso il bordo. Mentre Ramon tentava disperatamente di non perdere il controllo, Sean intravvide la sua grande occasione: accelerò e si affiancò. Per un momento i due veicolî corsero accostati come una pariglia di cavalli. Ramon Machado e Sean Courteney si guardarono negli occhi da una distanza inferiore ai due metri, e l'odio scoccò tra loro come una scintilla di elettricità statica. Era un sentimento primordiale, una profonda comprensione atavica... due maschi dominanti s'incontravano e si rendevano conto che uno dei due, inevitabilmente, doveva uccidere l'altro. Sean girò bruscamente il volante e urtò l'altra jeep, in modo che le ruote dal lato opposto furono sbalzate dalla strada. Il tronco di una palma scortecciò la vernice e raschiò il metallo lungo l'intera fiancata. Ramon sterzò a sua volta per urtare la jeep di Sean con la stessa violenza. Poi lasciò Isabella, riprese la pistola che aveva posato sulle gambe nude e la puntò contro la faccia di Sean, tendendosi nel vuoto tra i veicoli. Il suo volto era una maschera tenebrosa di furore e di odio. Isabella si buttò e afferrò il volante. Nell'attimo in cui Ramon sparava, lo girò con tutte le sue forze. Il proiettile si perse nella notte, la jeep slittò pericolosamente e piombò oltre la riva del fiume. Un attimo prima che scomparisse, Sean vide Isabella e Ramon scagliati a capofitto contro il parabrezza. Dal sedile posteriore, la figuretta di Nicky fu catapultata in alto, nell'oscurità. Poi Sean passò oltre, lottando con il volante mentre la sua jeep sbandava e si piazzava di traverso. Non appena ebbe ripreso il controllo, innestò la marcia indietro e tornò rombando verso il punto dov'era sparito l'altro mezzo.
La polvere aleggiava ancora nell'aria, e sul bordo della riva il terreno era dilaniato dal passaggio delle gomme rotanti. Sean balzò a terra e corse sulla riva. La jeep era nel fiume, sotto di lui. I fari erano ancora accesi sotto la superficie come due lune sommerse. S'era capovolta e le ruote posteriori giravano in un turbine di spuma bianca. Nicky giaceva inerte sulla riva. Sean si lanciò giù per l'erto pendio. Slittò, scivolò, ma si tenne in equilibrio con l'agilità d'un gatto, e sfruttò la forza d'inerzia per arrivare più rapidamente in fondo. Piombò nell'acqua come un nuotatore olimpionico. Si immerse in profondità. I fari brillavano nell'acqua torbida, e la visibilità non era perfetta. Raggiunse la carcassa del veicolo rovesciato e s'infilò al disotto. L'aria contenuta nel serbatoio posteriore del carburante teneva sollevata la jeep dal fondale, e Sean passò da quel varco. Qualcosa di pallido gli stava davanti: tese la mano e toccò un corpo nudo, due seni torniti e levigati. Afferrò Isabella per i capelli e la trascinò fuori dal rottame. Risalì a galla stringendola fra le braccia e si accorse con immenso sollievo che tossiva e ansimava e si dibatteva debolmente. La tirò sulla riva. Uno degli scout aveva avuto la presenza di spirito di portare la jeep sul ciglio dell'erta, quindi il fascio di luce dei fari gli permetteva di vedere. Nuda e grondante d'acqua, Isabella si trascinò verso Nicky e lo strinse fra le braccia. Il bambino incominciò a dibattersi e a scalciare. «Mio padre!» gemette. «Mio padre!» Sean, immerso nel fango fino alle ginocchia, guardò nel fiume. L'acqua era penetrata nel motore della jeep e l'aveva bloccato, ma i fari erano ancora accesi. Molto rapidamente valutò la necessità di agire in fretta e la soppesò contro il suo desiderio di trovare Ramon Machado. Sapeva che ormai i rinforzi dovevano essere partiti dal campo dei guerriglieri. Restavano pochi minuti. Stava per girarsi per andare ad aiutare Isabella e condurre lei e il bambino su per il pendio, quando notò un movimento nell'acqua. Scorse un'ombra, come se uno squalo fosse passato tra lui e i fari sommersi. Bastardo! pensò e gridò agli uomini che stavano più in alto, sulla riva: «Portatemi il fucile!» Uno degli scout scese slittando l'erta. Prima che riuscisse a raggiungere Sean e a consegnargli l'A K M, vi fu un guizzo nell'acqua fangosa. Era lontano, nel fiume, al limitare del raggio dei fari. La testa di Ramon affiorò. «Sparate!» ruggì Sean. «Beccate quel bastardo!» I capelli spiovevano sulla fronte di Ramon e l'acqua gli grondava sulla faccia mentre ansava affannosamente per riprendere fiato. Dalla riva uno scout sparò una breve raffica e i proiettili sollevarono spruzzi tutto intorno alla sua testa. Ramon trasse un altro respiro e s'immerse. Per un momento i piedi scalzi affiorarono e scalciarono nell'aria. Poi sparì. «Bastardo! Bastardo!» imprecò Sean, e strappò l'A K M dalle mani dello scout che glielo porgeva. Sparò una lunga raffica rabbiosa e inutile contro il fiume, e i proiettili tracciarono una chiazza di spuma convulsa nel punto dov'era scomparso Ramon. Poi si dominò e attese che la testa di Ramon Machado riaffiorasse; ma la marea si stava ritirando e trascinava tutto con sé. C'erano le mangrovie scure e nodose che offrivano innumerevoli ripari; e al di fuori della portata dei fari, l'acqua era troppo buia. Dopo qualche attimo si rese conto che Ramon gli era sfuggito. Doveva rassegnarsi. Represse la frustrazione e l'odio e si girò verso Isabella. Era bagnata fradicia e sporca di fango. Il bordo
del parabrezza le aveva causato un taglio all'attaccatura dei capelli, e adesso le scorreva sul viso un filo di sangue diluito dall'acqua del fiume. Sean si sfilò il maglione fradicio e l'aiutò a indossarlo. Mentre Isabella infilava le braccia nelle maniche, chiese ansimando: «Dov'è finito Ramon?» «E' scappato, quel bastardo.» Sean la rimise in piedi. «Ci resta poco tempo. Dobbiamo andar via.» Nicky si svincolò dalla stretta della madre e corse verso l'acqua. «Mio padre... non voglio lasciare mio padre!» Sean l'afferrò per un braccio. «Vieni, Nicky.» Nicholas si girò di scatto e gli piantò nel polso i denti candidi. «Carogna!» Sean gli diede una sberla alla testa che per poco non lo fece cadere. «Basta con questi scherzetti, amico.» Lo sollevò di peso, sebbene il bambino scalciasse e lottasse, e se lo caricò sulla spalla. «Non voglio venire! Voglio stare con mio padre!» Sean prese la mano di Isabella e, reggendo Nicky senza fatica, la tirò su per il pendio. Intorno alla jeep c'erano altre figure, e in un primo momento Sean non le riconobbe. Lasciò la mano di Isabella e impugnò l'A K M. «Calma, Sean», disse Esaù Gondele correndogli incontro. «E tu da dove salti fuori?» «Per poco non sei finito addosso al nostro posto di blocco», rispose Esaù. «Ancora un secondo e ti saresti beccato un razzo RPG nel didietro. Siamo là.» E indicò il sentiero. «Dove sono i vostri gommoni?» «Duecento metri più a monte.» «Richiama i tuoi uomini. Torneremo con voi.» Sean s'interruppe ed inclinò la testa. «Spegni i fari!» ordinò Esaù Gondele a uno dei suoi, che si tese all'interno della jeep e fece scattare l'interruttore. I fari si spensero. Rimasero in ascolto nell'oscurità. «Camion... stanno arrivando a tutta velocità dalla direzione della pista.» Si sentiva chiaramente nell'oscurità. «Altri nemici», disse Esaù. «Portaci ai gommoni», ordinò Sean. «Tout de suite!» Corsero in gruppo lungo il sentiero. Dopo un centinaio di metri Esaù Gondele fischiò, emettendo il doppio suono flautato di un dikkop notturno: era uno dei segnali di riconoscimento degli scout. Il fischio venne ripetuto dal buio poco più avanti, e Sean andò a urtare i tronchi delle palme che erano stati trascinati attraverso la pista per bloccarla. «Venite!» Esaù Gondele li chiamò. «I gommoni sono da questa parte.» In quel momento videro i fari in movimento tra gli alberi. Un convoglio correva verso di loro dalla direzione della pista di atterraggio. Nicholas continuava a scalciare ed a dibattersi nella stretta di Sean, e Isabella cercava disperatamente di tranquillizzarlo. «Andrà tutto bene, Nicky, tesoro. Sono amici. Ci portano a casa, al sicuro.» «La mia casa è questa... voglio mio padre! Hanno ammazzato Adra. Li odio! Ti odio! Li odio!» urlò il bambino in spagnolo. Sean lo scrollò con violenza. «Se ti azzardi ancora a fiatare, bello mio, ti spacco la testa.» «Di qua,» Esaù Gondele li condusse correndo lontano dalla barricata. Cinquanta metri più avanti raggiunsero il tratto della riva dov'erano ormeggiati i gommoni. Sean si voltò e vide il convoglio dei camion che superava
rombando una curva della strada. I fasci luminosi dei fari sciabolarono l'aria sopra di loro: ma erano nascosti dall'angolo della riva. In quella luce Sean vide che ogni camion era affollato d'uomini armati. Sollevò Isabella e la posò sul gommone più vicino; lei inciampò nelle pieghe bagnate del maglione che le pendeva intorno alle gambe e cadde lunga distesa. «Stupida», sibilò Sean, e buttò a bordo Nicky. Fu un errore. Nicky rimbalzò come una palla di gomma e, quando Sean cercò di riafferrarlo, gli sfrecciò sotto il braccio e corse su per il pendio. «Che diavolo!» Sean si voltò di scatto e lo inseguì. «Il mio bambino!» gemette Isabella, balzando dal gommone. Si avviò nel fango e salì correndo sulla riva per raggiungere il fratello e il figlio. «Torna indietro, Nicky! Ti prego, torna indietro!» Nicky stava correndo verso il convoglio. Saltava come una lepre fra i cespugli, precedendo Sean. Era arrivato a meno di sei metri dalla pista quando Sean si lanciò in tuffo e l'afferrò per una caviglia. Dopo pochi secondi Isabella inciampò addosso ai due e finì lunga distesa sulla sabbia soffice. I fari del convoglio passarono sopra di loro: ma erano distesi dietro un gruppo di arbusti bassi, nascosti alla vista degli uomini neLla cabina del primo camion. Nicky urlò di nuovo e cercò di allontanarsi, ma Sean lo tenne bloccato e gli coprì la bocca con la mano. I camion si avvicinarono ancora, quindi frenarono a poca distanza dai tronchi che bloccavano il passaggio. Il primo si arrestò a meno di sei metri dal punto dov'erano acquattati nell'oscurità. Sean, che continuava a tenere bloccato Nicky con tutto il suo peso, allungò il braccio e premette contro il suolo la testa di Isabella. Una faccia bianca, nell'oscurità, brillò come uno specchio. Un uomo saltò giù dalla cabina del primo camion e corse a ispezionare la barricata; quindi si voltò e gridò un ordine. Una dozzina di guerriglieri in tuta mimetica scese a terra e incominciò a rimuovere i tronchi. Mentre li sollevavano e li portavano via, la luce dei fari investì la faccia dell'ufficiale che li comandava. Isabella alzò la testa e lo vide chiaramente. E subito lo riconobbe. Era una faccia indimenticabile. L'ultima volta che aveva visto quell'uomo, era a bordo del furgone guidato dal suo fratellastro Ben Afrika. I due stavano andando a far visita a Michael Courteney. Probabilmente era il negro più bello che avesse mai visto: alto, regale e fiero come un falco. L'uomo girò la testa e per un momento parve fissarla. Poi si voltò di nuovo a guardare gli uomini che facevano rotolare via i tronchi. Non appena la strada fu sgombra, risalì nella cabina. Sbatté la portiera e il camion ripartì rombando. Il convoglio lo seguì. Quando l'ultima coppia di fari passò oltre, Sean strinse Nicky sotto il braccio, rimise in piedi Isabella e, correndo, la guidò verso la riva. Sean tenne saldamente Nicky per la collottola a bordo del primo gommone, mentre la flottiglia ridiscendeva il fiume. La luce delle fiamme che divoravano le baracche illuminava il ventre delle nubi, e tra il rumore dei motori fuoribordo si sentivano le grida e il crepitio delle armi automatiche. «A cosa sparano?» chiese Isabella, che stava rannicchiata contro Sean per riscaldarsi. «Probabilmente alle ombre... o si sparano tra di loro», ridacchiò Sean. «Per sprecare le munizioni non c'è niente di meglio di un negro innervosito.»
Il deflusso della marea li portò rapidamente oltre la foce, nella laguna. Attraverso il nightscope, Esaù Gondele scorse la scia degli altri gommoni che si staccavano dalla spiaggia. S'incontrarono al varco nella barriera e, in fila, puntarono verso il largo. Il Lancer, vistosamente dipinto di giallo, apparve nelle lenti del nightscope a meno d'un chilometro di distanza. Non appena ebbero riportato a bordo l'ultimo gommone trainandolo su per lo scivolo, il peschereccio mise le macchine al massimo e si diresse verso l'oceano aperto. Sean si girò verso Esaù Gondele. «Com'è il conto del macellaio, sergente maggiore?» «Abbiamo perso un uomo, maggiore Courteney», rispose il matabele con la stessa formalità. «Jeremiah Masoga. L'abbiamo portato con noi.» Gli scout non abbandonavano mai i loro morti sul campo di battaglia. Sean si sentì attanagliare dalla solita angoscia. Un altro uomo in gamba se n'era andato. Jeremiah aveva appena diciannove anni, e Sean aveva contato di promuoverlo molto presto. Adesso rimpiangeva di non averlo fatto prima della spedizione. Non si può mai fare ammenda nei confronti dei morti. «Tre feriti, ma non sono tanto gravi da dover rinunciare alla festa di stasera.» «Fai mettere Jeremiah nella stiva frigorifera», ordinò Sean. «Lo manderemo a casa appena raggiungeremo Città del Capo. Avrà un funerale con tutti gli onori.» Erano ancora a duecento miglia marine da Table Bay quando Centaine mandò un elicottero della Courteney a prelevare Sean, Isabella e Nicky. La vecchia signora non vedeva l'ora di conoscere il pronipote. Ramon si aggrappò alle radici di una mangrovia per resistere alla forza del deflusso della marea, incanalata nella foce del fiume. I bordi taglienti delle conchiglie d'acqua dolce che coprivano la radice gli ferivano la mano, ma avvertiva appena il dolore. Stava guardando l'altra riva del fiume. Il riflesso delle fiamme che divoravano il complesso costellava di mille monete d'oro la superficie scura dell'acqua. I gommoni passarono a meno di quindici metri dal punto dove stava acquattato, immerso nel fango fino al mento. I motori ronzavano nel silenzio della notte. Le sagome erano indistinte, tre forme scure di ippopotami che passarono in fretta, trascinate dalla marea, verso la foce ed il mare aperto... ma gli sembrò che una delle figure a bordo della prima imbarcazione fosse più piccola delle altre ed indossasse una maglietta chiara. Soltanto allora, nel momento in cui stava per perdere Nicky, si rese conto che, dopotutto, era un padre come gli altri. Per la prima volta in vita sua riconobbe il proprio affetto e la dipendenza da quell'affetto. Amava suo figlio e lo stava perdendo. Si lasciò sfuggire un gemito d'angoscia. Poi la rabbia lo riassalì e consumò ogni altro sentimento. Era una collera divorante contro tutti coloro che gli avevano inflitto quella perdita. Fissò l'oscurità vuota che aveva inghiottito suo figlio, e il fuoco della vendetta divampò in ogni fibra del suo essere. Avrebbe voluto urlare il suo furore, inveire contro la donna, scagliare maledizioni e sfogare la sua frustrazione. Ma si trattenne. Non era nel suo carattere. Adesso doveva essere freddo e lucido come l'acciaio. Doveva pensare chiaramente, con gelida fermezza. Il suo primo pensiero fu che aveva perso ogni potere su Rosa Rossa. Ora non valeva più nulla per lui e per la causa. Era una vittima da sacrificare. Sapeva come annientarla, lei e tutti coloro che le stavano intorno. L'arma era nella sua mente, e restava soltanto da sfoderarla.
Si staccò dalla mangrovia e lasciò che la corrente lo trascinasse all'ansa del fiume. L'attraversò a nuoto. Il fondale salì dolcemente sotto di lui. Toccò la sabbia con i piedi e s'inerpicò a riva. Raleigh Tabaka l'aspettava accanto alle rovine fumanti del centro comunicazioni. Ramon si fece prestare pantaloni e giubbotto, e si vestì in fretta. Aveva ancora i capelli infradiciati e incrostati dal fango del fiume. Il fumo degli edifici incendiati velava la prima luce grigia dell'alba. Gli uomini di Raleigh Tabaka stavano recuperando i morti e li allineavano in una lunga fila sotto le palme. Il rigor mortis li bloccava negli atteggiamenti in cui erano spirati. Era uno spettacolo grottesco. José, il paracadutista, teneva un braccio sul viso come per proteggere gli occhi, e aveva il petto dilaniato dallo scoppio d'una bomba a mano. Adra aveva le braccia allargate come un crocifisso: metà della testa era sfracellata. Ramon la guardò senza particolare interesse, come se fosse un indumento smesso, ormai privo di utilità. «Quanti?» chiese a Raleigh Tabaka. «Ventisei», rispose quello. «Tutti. Non ci sono superstiti. Chiunque sia stato, ha fatto un lavoro completo. Chi erano? Ne hai un'idea?» «Sì.» Ramon annuì. «Ne ho un'idea ben precisa.» E prima che Raleigh potesse dire qualcosa, continuò: «Assumo personalmente il progetto Cyndex». «Compagno generale...» Raleigh aggrottò indignato la fronte. «E' stata la mia operazione fin dall'inizio. Sono io, quello che controlla i due fratelli.» «Sì.» Ramon annuì, implacabile. «E hai fatto un ottimo lavoro. Riceverai tutti i riconoscimenti meritati. Ma ora assumo la direzione del progetto. Partirò per il sud non appena sarà disponibile un aereo. E mi accompagnerai.» «Non finisce così, Bella», disse Shasa con aria molto seria. «Non possiamo fingere che non sia successo niente altro. Non volevo complicare l'operazione di salvataggio considerando a fondo gli aspetti più tenebrosi di questa faccenda atroce. Tuttavia, ora che Nicholas è al sicuro qui a Weltevreden, siamo costretti a farlo. Molte persone, inclusi i componenti della tua famiglia, hanno rischiato la vita per te e Nicholas. Un giovane valoroso, un estraneo che faceva parte del reggimento di Sean, è morto per salvarti. Ora devi rivelarci la verità.» Erano riuniti ancora una volta nell'armeria, e Isabella si trovava di fronte al tribunale di famiglia. Centaine era seduta sulla poltrona accanto al camino. Si teneva molto eretta. La mano posata sul pomo d'avorio del bastone rivelava le vene azzurre sotto la pelle sottile come pergamena. I capelli, un tempo folti e indomabili, adesso erano un caschetto di purissimo argento sfumato d'azzurro. L'espressione del volto era severa. «Voglio sapere tutto, Isabella. Non uscirai da questa stanza se non ci avrai rivelato ogni dettaglio.» «Nana, mi vergogno tremendamente. Non avevo scelta.» «Non ho chiesto giustificazioni o atti di costrizione, signorina. Voglio la verità.» «Devi capire, Bella. Sappiamo che hai causato danni tremendi agli interessi nazionali, alla famiglia, a te stessa. Ora è nostro dovere limitare tali disastri.» Shasa era in piedi davanti al camino, con le mani strette sotto le falde del blazer. Il suo tono era meno brusco. «Desideriamo aiutarti, ma dobbiamo conoscere la verità, per poterlo fare.» Isabella lo fissò con l'espressione di un animale braccato.
«Posso parlare con te e Nana, da soli?» Lanciò un'occhiata ai fratelli. Garry era sprofondato nella poltrona sotto la finestra con i pollici infilati sotto le bretelle sgargianti, e faceva girare il sigaro da un angolo della bocca all'altro. Sean era seduto sul davanzale, con le gambe allungate e le braccia nude, abbronzate e muscolose incrociate sul petto. «No», disse con fermezza Centaine. «I ragazzi hanno rischiato la vita per te e per Nicky. Se hai causato altri guai a te stessa e alla famiglia, loro saranno chiamati a tirarti fuori. No, non te la caverai tanto facilmente. Meritano di ascoltare tutto ciò che hai da dire. Non tacere nulla... mi hai capito?» Isabella abbassò il viso e lo nascose fra le mani. «Mi avevano dato un nome in codice, Rosa Rossa.» «Parla chiaro, ragazza mia. Non mormorare.» Centaine batté il bastone sul pavimento, e Isabella alzò la testa di scatto. «Facevo tutto ciò che mi ordinavano», ammise, guardando in faccia la vecchia signora. «Quando Nicky aveva poco più di un mese mi fecero vedere un filmato. Quasi lo annegarono... Lo tenevano per i piedi e lo immergevano nell'acqua...» S'interruppe, poi trasse un respiro profondo. «Mi avvertirono che nel filmato successivo gli avrebbero amputato varie parti del corpo e me le avrebbero mandate... le dita delle mani e dei piedi, le braccia e le gambe e poi... e poi la testa.» Tutti tacquero, inorriditi. Finalmente Centaine parlò. «Continua.» «Mi dissero che dovevo lavorare per papà e interessarmi alla sua attività nell'ARMSCOR.» Shasa trasalì, e Isabella si torse le mani. «Perdonami, papà. Mi dissero che dovevo darmi alla politica, candidarmi al parlamento, sfruttare le amicizie della famiglia.» «Avrei dovuto insospettirmi delle tue improvvise aspirazioni politiche», osservò amaramente Centaine. «Perdonami, Nana.» «E' inutile che continui a chiedere perdono», scattò Centaine. «Non serve a niente ed è irritante. Prosegui, bambina.» «Per un po' non mi chiesero niente... per quasi due anni. Poi incominciarono ad arrivare gli ordini. Il primo riguardava la catena dei radar Siemens.» Shasa fece per parlare, poi si trattenne e prese il fazzoletto dal taschino del blazer. «Poi hanno preteso sempre di più.» «Il progetto Skylight?» chiese Shasa. E quando Isabella annuì, si rivolse a Centaine. «Avevi ragione, mater.» Poi tornò a guardare la figlia. «Dovrai mettere tutto per iscritto. Tutto quello che gli hai passato. Voglio un elenco... date, documenti, incontri, tutto. Dobbiamo sapere esattamente che cosa hai compromesso.» «Papà...» cominciò Isabella. Ma non trovò la forza di continuare. «Sputa l'osso, signorina», ordinò Centaine. «Il Cyndex 25», disse Isabella. «Oh, Dio... no!» gemette Shasa. «Perciò mi hanno permesso di andare da Nicky quest'ultima volta... I dati del Cyndex e Ben.» «Ben?» Garry si alzò. «Chi è Ben?» «Ben Gama», disse Centaine in tono aspro. «Il piccolo bastardo negro di Tara, il figlio di Moses Gama. L'uomo che uccise il mio Blaine, l'uomo che disonorò la nostra famiglia.» E guardò Isabella per chiedere conferma. «Sì, Nana. Il mio fratellastro Ben.» Isabella guardò i fratelli. «E' anche il vostro fratellastro. Ma non si chiama Ben Gama: si chiama Benjamin Afrika.»
«Perché conosco questo nome?» chiese Garry. «Perché lavora per te», disse Isabella. «Mi hanno costretta a farlo assumere alla Capricorn, quando ero a Londra. Lavora per la Capricorn Chemicals come tecnico di laboratorio, nella divisione Veleni.» «Nella fabbrica del Cyndex?» chiese Shasa, incredulo. «Non sarai stata tu a farlo assumere?» «Sì, pater, sono stata io.» Isabella stava per scusarsi ancora, ma poi guardò la faccia della nonna. Garry si accostò alla scrivania. Prese il telefono e parlò con il centralino di Weltevreden. «Mi passi la Capricorn Chemicals... ha il numero, vero? Voglio parlare immediatamente con il direttore. E' urgente, urgentissimo. Mi richiami appena è in linea.» Posò il ricevitore. «Dobbiamo prendere Ben, dobbiamo prenderlo per interrogarlo, e subito. Se quelli lo hanno infiltrato nello stabilimento, l'hanno fatto per una buona ragione... o meglio, per una ragione nefanda.» «E' uno di loro», scattò Centaine. Nessuno aveva mai sentito una simile amarezza nel suo tono, o aveva visto tanto odio sul suo viso. Tutti la fissavano inorriditi. «E' un rivoluzionario, un distruttore. Con quel Satana nero del padre e con Tara che gli hanno avvelenato la mente per anni, dev'essere uno di loro. Dio voglia che possiamo impedire ciò che stanno progettando di fare, perché dev'essere terribile.» Tutti ammutolirono, schiacciati dall'orrore dell'immaginazione. Il telefono lacerò il silenzio, e Garry alzò il ricevitore. «Ho in linea il direttore della Capricorn.» «Bene. Me lo passi. Salve, Paul. Grazie a Dio l'ho trovata. Aspetti un attimo.» Premette il tasto dell'amplificatore perché tutti potessero ascoltare la conversazione. «Senta, Paul. C'è un dipendente nella divisione Veleni. Nel nuovo stabilimento dei pesticidi. Benjamin Afrika.» «Sì, signor Courteney. Non lo conosco personalmente, ma il nome mi è vagamente familiare. Aspetti, controllo al computer. Sì, ecco. Benjamin Afrika. E' venuto a lavorare con noi in aprile.» «Bene, Paul. Voglio che sia arrestato e trattenuto dal servizio di sicurezza dell'azienda. Non deve comunicare con nessuno, chiaro? Niente telefonate. Niente avvocati. Niente stampa. Niente.» «Possiamo fare una cosa simile, signor Courteney?» «Posso fare tutto ciò che voglio, Paul. Lo tenga presente. Dia subito l'ordine di arrestarlo. Rimango in linea.» «Basteranno due secondi», promise il direttore. Sentirono la sua voce in sottofondo mentre parlava con il servizio di sicurezza sul circuito interno. «Bene, signor Courteney. Stanno andando a fermare Afrika.» «Ora mi ascolti, Paul. Com'è la situazione del programma di produzione del Cyndex? Avete già incominciato le spedizioni all'esercito?» «Non ancora, signor Courteney. La prima deve partire il prossimo martedì. L'artiglieria manderà i camion a ritirarla.» «Bene, Paul. Che scorte avete, al momento?» «Mi lasci controllare al computer.» Il tono di Paul incominciava a tradire l'agitazione. «In questo momento, di taniche da cinque chili per l'artiglieria ne abbiamo 635 della formula A, ed altrettante della formula B. Abbiamo ventisei bombole per formula del tipo da cinquanta chili per uso aereo: verranno consegnate all'aeronautica alla fine della settimana prossima...» Garry l'interruppe. «Voglio un conteggio preciso di ogni tanica e di ogni bombola. Voglio che mandi immediatamente i suoi esperti in magazzino a controllare i numeri di serie di ogni
contenitore sul manifesto dello stabilimento... E deve essere fatto entro un'ora.» «E' successo qualcosa, signor Courteney?» «Glielo dirò quando mi riferirà i risultati dell'inventario. Aspetterò a questo numero; Mi richiami al più presto possibile... o anche prima.» Mentre Garry riattaccava, Sean chiese: «Fra quanto tempo puoi portarci alla Capricorn?» «Il Lear è fuori uso. La DCA vuole una revisione totale ed un nuovo certificato di abilitazione al volo, dopo che l'aereo è stato colpito dal missile.» «Fra quanto tempo, Garry?» insistette Sean, e Garry rifletté per un secondo. «Il Queenair è lento, ma impiegheremo comunque meno tempo che se aspettassimo il volo regolare per Johannesburg. Almeno potremo atterrare direttamente sulla pista della Capricorn. Se partiamo tra mezz'ora, potremo arrivare nelle prime ore del pomeriggio.» «Non dovremmo avvertire la polizia?» chiese Shasa, e Centaine batté imperiosamente il bastone sul pavimento. «Niente polizia. Per ora... o meglio ancora, non la chiameremo mai in causa, se potremo evitarlo. Prendiamo il bastardo negro di Tara e costringiamolo a sputare la verità; ma dobbiamo cercare di fare in modo che la cosa rimanga in famiglia.» S'interruppe quando il telefono squillò. Garry sollevò il ricevitore e rimase in ascolto per qualche secondo. Poi disse: «Capisco. Grazie, Paul. Arriverò al più presto. Dovrei atterrare sulla pista della Capricorn per la una del pomeriggio». Riattaccò e girò lo sguardo sui volti ansiosi dei presenti. «L'uccellino è scappato. Benjamin Afrika non si fa vedere in fabbrica da quattro giorni. Non ha più dato sue notizie e nessuno sa dove sia.» «E le scorte di Cyndex?» chiese Shasa. «Le stanno controllando. Ci daranno i risultati quando atterreremo alla Capricorn», rispose Garry. «Pater e Nana devono restare a Weltevreden per tenere i collegamenti. Se avete bisogno di farri pervenire un messaggio mentre siamo in volo, potete telefonare alla torre di controllo dell'aeroporto Jan Smuts e chiedere che ci mettano in contatto.» Lanciò un'occhiata al fratello. «Sean verrà con me. Potrei aver bisogno di ricorrere alla forza.» Sean si avvicinò al padre e tese la mano. «Le chiavi del ripostiglio delle armi, Pater.» Shasa gliele porse; Sean fece scattare la serratura della pesante anta di acciaio e l'aprì. Entrò nella camera blindata e studiò la panoplia di pistole e revolver per qualche istante prima di scegliere una Smith & Wesson 357 magnum. Prese un pacchetto di munizioni dal ripiano e infilò l'arma nella cintura. «E' meglio che ne prenda una anch'io.» Garry lo raggiunse. «Garry», lo chiamò Isabella, «vengo con te e con Sean.» «Non ci pensare neppure, mavourneen.» Garry non si voltò a guardarla. Scelse un parabellum Heckler & Koch da 9 millimetri. «Non puoi darci altre indicazioni utili.» «E invece sì. Voi non sapete che aspetto ha Ben. Io sono in grado di riconoscerlo... e c'è qualcosa d'altro che ancora non vi ho detto.» «Che cosa?» «Lo dirò quando saremo in volo.» Garry portò in assetto orizzontale il bimotore Beechcraft Queenair sulla rotta verso nord e si girò per chiamare con un cenno Isabella, che era seduta nella cabina passeggeri.
Isabella sganciò la cintura e andò a chinarsi sullo schienale del suo sedile. «Dunque, Bella, sentiamo. Che altro ci puoi dire?» Lei guardò Sean, sul sedile del secondo pilota. «Ricordi quella notte alla foce del Chicamba, quando Nicky ha cercato di scappare ed io sono tornata indietro per riprenderlo?» Quando Sean annuì, lei continuò: «Ricordi l'ufficiale dei guerriglieri del primo camion, quello che ha fatto rimuovere il blocco stradale? Ecco, l'ho visto molto bene in faccia e ho avuto la certezza di averlo già visto. Ne ero assolutamente sicura... ma non aveva senso, almeno fino ad ora». «Quando e dove l'avevi visto?» «Era con Ben... e stavano andando alla fattoria di Michael a Firgrove.» «Michael?» intervenne Garry. «Il nostro Michael?» «Sì. Nostro fratello Michael Courteney.» «Credi che Michael sia immischiato in questa storia?» «Non lo pensate anche voi? Altrimenti, perché dovrebbe avere qualcosa a che fare con un terrorista dell'ANC... e Ben?» Per qualche istante rifletterono in silenzio. Poi Isabella continuò: «Garry, evidentemente tu sospetti che Ben abbia rubato una bombola o due di Cyndex. Se è legato ai terroristi, come pensi che l'userebbero? Potrebbero lanciarlo da un aereo?» «Sì, sarebbe il sistema più probabile.» «Michael tiene un aereo a Firgrove.» «Merda», bisbigliò Garry. «Dio, fa' che non sia vero. Fa' che non c'entri Mickey... ti prego.» «Da anni Michael pubblica quel giornalaccio comunista», osservò irosamente Sean. «E dacché c'era ha fatto amicizia con una quantità di terroristi.» Nessuno gli rispose. Garry disse: «Bella, porta una Coca per ognuno di noi, per favore». Isabella andò al bar e prese due lattine dal frigo. Bevvero, poi Sean abbassò la lattina e ruttò. «Questa mattina si è aperta la Fiera pasquale del Rand», disse. Garry si voltò a fissarlo. «Cosa diavolo c'entra?» «Niente.» Sean sogghignò. «La Fiera pasquale del Rand... la più grande e nota manifestazione del nostro paese. Mezzo milione di persone, tutte radunate in un unico posto. Tutta l'industria che presenta i suoi prodotti, e gli agricoltori, gli uomini d'affari... saranno presenti tutti i capi del Sudafrica. L'inaugurazione ufficiale è questa sera alle otto, con fuochi d'artificio, la banda militare, le corse automobilistiche ed i salti. Il Primo ministro terrà un discorso, e ci saranno tutti i pezzi grossi in doppiopetto scuro con il garofano all'occhiello. Certo, che diavolo, non vuol dir niente.» «Taglia corto, Sean», sibilò Garry. «Hai assolutamente ragione, Garry.» Sean continuò a sorridere con aria maligna. «Voglio dire, quelli dell'ANC sono persone civili e perbene. Anche se fanno saltare in aria qualche automobile ed ammazzano la gente mettendogli intorno al collo un copertone incendiato, non significa che non siano anime belle. Diavolo, non dobbiamo giudicarli troppo duramente. Una mina magnetica russa in un supermarket affollato è una cosa, ma non penserebbero mai di irrorare la Fiera pasquale del Rand con il Cyndex 25, vero?» «No.» Garry scosse la testa. «Voglio dîre, Ben e Mickey sono nostri fratelli. Non farebbero mai... no...» Non finì la frase, poi scattò irosamente: «Maledizione, se avessimo il Lear saremmo già arrivati». La radio gracidò e Garry regolò la cuffia. «Charlie Sierra X-Ray, qui le informazioni del Jan Smuts.
Ho un messaggio per voi trasmesso dalla Capricorn. Pronti a riceverlo?» «Siamo in ascolto, informazioni.» «Ecco il messaggio: "Tutte le scorte ed i numeri di serie corrispondono". Fine del messaggio.» «Dio sia ringraziato», mormorò Garry. «Chiedi di controllare cosa c'è nelle bombole», intervenne Sean, e Garry cambiò espressione. «Informazioni, per favore, comunicate alla Capricorn il seguente messaggio: "Prelevare campioni da tutti i contenitori". Fine del messaggio.» Garry si tolse la cuffia. «Vorrei tanto che non fosse vero», disse. «Ma hai ragione tu, Sean. Non sono idioti. Sarebbe molto semplice stampigliare falsi numeri di serie su un paio di bombole vuote e scambiarle.» «Tra quanto arriveremo?» Garry controllò. «Fra un'ora... grazie a Dio abbiamo il vento in coda.» Sean si voltò verso la sorella. «Fammi un favore, tesoro. La prossima volta che hai voglia di un maschiaccio, scegli qualcuno un po' meno pericoloso... come Jack lo Squartatore, per esempio.» La pista di atterraggio della Capricorn era contraddistinta dalla figura gigantesca del caprone, tracciata artisticamente in quarzo bianco. Spiccava nitida in mezzo al veld bruniccio, e si vedeva da una distanza di otto chilometri. Garry atterrò agilmente e raggiunse l'hangar dove li attendevano quattro veicoli e un gruppo di funzionari dell'azienda capeggiati da Paul, il direttore generale. Mentre Garry e Sean balzavano al suolo e si voltavano per aiutare Isabella, Paul li raggiunse correndo. «Aveva ragione, signor Courteney. Due delle bombole piccole contengono soltanto ossigeno. Qualcuno le ha scambiate. Chissà dove ci sono in giro dieci chili di Cyndex 25!» Lo fissarono inorriditi. Dieci chili bastavano ad annientare un esercito. «E' ora di chiamare la polizia. Devono trovare Ben Afrika. Abbiamo il suo indirizzo?» chiese Sean. «Ho già mandato qualcuno a casa sua», intervenne Paul. «Non c'è. La padrona di casa dice che non l'ha visto in questi ultimi giorni. Non è tornato a mangiare né a dormire.» «Firgrove», disse sottovoce Isabella. «Giusto», scattò Garry. «Sean, è meglio che tu ci vada subito. Porta con te Bella; ti mostrerà la strada e identificherà Ben, se l'incontrerete. Io dirigerò le operazioni da qui. Mi troverete nella sala del consiglio. Chiamatemi appena arriverete a Firgrove. Chiederò alla polizia di appoggiarvi e di scatenare la caccia. Dobbiamo recuperare le taniche scomparse.» Sean si girò verso Paul. «Ho bisogno di una macchina... una macchina molto veloce.» «Prenda la mia.» Paul indicò una BMW nuova parcheggiata a fianco dell'hangar. «Il serbatoio è pieno. Ecco le chiavi.» «Vieni, Bella.» Corsero verso la BMW. «Non farti fermare dagli agenti della stradale, Fangio», raccomandò Bella mentre Sean lanciava sull'autostrada la macchina sportiva. «Avremmo dovuto mandare la polizia a Firgrove prima di partire da Città del Capo. Dio, sono già le tre.» «Non potevamo far niente prima di essere sicuri che qualcuno aveva rubato un paio di bombole di Cyndex», osservò Sean. Poi allungò la mano e accese la radio. Bella gli rivolse un'occhiata interrogativa. «Il notiziario delle tre», spiegò lui, e si sintonizzò su Radio Highveld. La fiera era il terzo titolo.
«Fin da questa mattina una folla da primato ha varcato i cancelli della Fiera pasquale del Rand che si inaugura oggi. Il portavoce del comitato organizzatore ha dichiarato che oggi a mezzogiorno i visitatori avevano già superato le duecentomila unità.» Sean spense la radio e batté il pugno sulla plancia della BMW. «Michael!» gridò. «Sono sempre i cuori sensibili, quelli capaci degli eccessi più mostruosi! Quanti innocenti sono stati torturati e assassinati in nome di Dio, della pace e della fratellanza fra gli uomini?» Batté ancora il pugno, e Bella gli toccò il braccio per cercare di placarlo. «Rallenta, Sean. Devi svoltare a destra alla prossima uscita.» Si aggrappò alla maniglia della portiera quando Sean lanciò la BMW in una curva strettissima. «E' ancora lontano?» «Poco più di tre chilometri.» Sean si aprì la giacca e sfilò dalla cintura la Smith & Wesson. Fece girare il tamburo con il pollice. «Cosa hai intenzione di fare con quella pistola?» chiese nervosamente Bella. «Ben e Mickey...» «Ben e Mickey hanno amici molto perbene», disse lui, e rimise l'arma alla cintura. «Ecco là.» Bella si tese ed indicò. «Ecco il cancello della proprietà di Mickey.» Sean rallentò e svoltò nella strada sterrata. Procedette ad andatura moderata fino a quando scorsero gli edifici della fattoria. Si fermò e invertì la marcia della BMW, piazzandola di traverso sul viale. «Perché fai così?» chiese Bella. «Vado a piedi», rispose Sean. «Non ha senso annunciare il mio arrivo.» «Ma perché hai fermato la macchina in mezzo alla strada?» «Per bloccare chiunque cercasse di filar via in fretta.» Sean tolse le chiavi e scese. «Tu aspetta qui. No, non in macchina. Nasconditi là, fra gli alberi, e non mettere fuori la testa se non ti chiamo io. Chiaro?» «Sì, Sean.» «E non sbattere la portiera», le raccomandò il fratello mentre lei scendeva. «E adesso sentiamo. Dov'è che Mickey tiene il suo aereo?» «Dietro la casa, in fondo al frutteto.» Isabella tese il braccio. «Da qui non puoi vederlo, ma non ti sfuggirà. E' un capannone di lamiera ondulata, tutto arrugginito e malconcio.» «Tipico del nostro Mickey», borbottò Sean. «Ora ricorda quel che ti ho detto. Non farti vedere.» E si mise a correre. Procedette fuori dal viale, tenendo fra sé e le costruzioni gli alberi del frutteto e il pollaio. Era ad un centinaio di metri dalla veranda della casa. I polli razzolavano intorno ai suoi piedi quando si acquattò dietro il muro ed esaminò l'edificio. La porta e tutte le finestre erano spalancate ma sembrava che non ci fosse nessuno. Sean scavalcò il muretto ed entrò. Il salotto e la cucina erano vuoti, anche se nell'acquaio erano ammucchiati piatti e bicchieri sporchi. Le camere da letto erano tre, e tutte erano state occupate di recente. I letti erano sfatti, e c'erano indumenti sul pavimento, e oggetti da toeletta maschile nei bagni e sui comò. Sean raccolse una camicia e girò il colletto. All'interno era cucita un'etichetta ricamata in rosso con un nome: «B. Afrika». Lasciò cadere la camicia e, senza far rumore, tornò in fretta alla porta della cucina: era aperta e dava sul frutteto pieno di alberi devastati dagli insetti. Più oltre si scorgeva il tetto in lamiera ondulata di un capannone, e da un'asta pendeva una manica a vento che oscillava tristemente come un preservativo
usato. Sean corse fra gli alberi da frutta fino a che raggiunse il capannone. Si appiattì contro la lamiera e vi appoggiò l'orecchio. Sentì un brusio di voci d'uomo, troppo indistinte perché fosse possibile capire le parole. Controllò la pistola per assicurarsi che il calcio fosse sistemato in modo da permettergli d'impugnarla in fretta e avanzò piano piano verso la porticina di legno verde. Prima che la raggiungesse, la porta si spalancò e due uomini uscirono nel sole. Ben Afrika era molto orgoglioso della sua abilità manuale. S'inginocchiò sul sedile del pilota del Cessna Centurion e strinse gli ultimi bulloni che fissavano le bombole gemelle al pavimento, davanti al sedile del passeggero di destra. Aveva praticato i fori con il trapano, molto accuratamente, per non danneggiare i cavi dei comandi che scorrevano sotto il pavimento. Naturalmente avrebbe potuto lasciare le bombole senza fissarle, ma sarebbe stato in contrasto con i suoi istinti. C'era sempre il pericolo che una turbolenza durante il volo danneggiasse la valvola o i tubi. Aveva sistemato le bombole d'acciaio in modo che il pilota o il suo passeggero potesse raggiungere senza difficoltà la maniglia della valvola. La bombola che conteneva l'elemento A era dipinta a scacchi bianchi e neri, con tre cerchi rossi intorno alla parte centrale. L'elemento B era in una bombola cremisi con un unico anello nero. Ogni contenitore portava stampigliato il numero di serie. Ben aveva dovuto fare ricorso a tutta la sua abilità per truccare due comuni bombole d'ossigeno per uso medico in modo che avessero lo stesso aspetto. Aveva inciso i numeri di serie a mano. Le bombole erano abbastanza piccole perché fosse possibile farle entrare ed uscire dallo stabilimento Capricorn dentro speciali tasche cucite all'interno del soprabito. Erano stati necessari molta ingegnosità e un tempismo perfetto per farle passare attraverso i controlli di sicurezza all'entrata principale. Le bombole erano congiunte da un pezzo a T di acciaio inossidabile che si avvitava ad entrambe le bocche. Ben l'aveva preparato al piccolo tornio di seconda mano, in fondo all'hangar. Al momento decisivo, per prima cosa dovevano venire aperte le valvole delle bombole; quindi un mezzo giro della leva del pezzo a T permetteva ai due elementi di mescolarsi e diventare attivi. Il gas nervino fluiva sotto pressione nel tubo flessibile e corazzato che passava tra i sedili anteriori e proseguiva nello scompartimento bagagli. Ben aveva praticato un foro di tre centimetri attraverso il pavimento e la fusoliera metallica del Centurion. L'estremità del tubo passava dal foro e sporgeva per dieci centimetri; Ben l'aveva fissato saldamente ed aveva sigillato il foro con stucco Pratley che, indurendo, diventava compatto come il ferro. Il gas si sarebbe sparso nell'aria sotto l'aereo, molto più indietro dei sedili anteriori, e sarebbe stato portato via dal movimento dell'aria senza il rischio che raggiungesse gli occupanti del Centurion. Comunque, per maggior sicurezza avrebbero indossato le tute protettive ed avrebbero respirato ossigeno in bombole durante la diffusione del gas. Le tute erano appese nell'hangar, pronte per venire indossate. Erano del tipo commerciale, approvato dal Servizio antincendi, da usare per i primi interventi di soccorso nelle miniere d'oro. Per la seconda volta, Ben strinse con una chiave inglese le giunture del pezzo a T per assicurarsi che non vi fossero perdite. Finalmente borbottò soddisfatto e uscì a ritroso dal portello
della cabina. Si pulì le mani con uno straccio e andò al banco da lavoro. Gli altri due uomini stavano chini sulla carta topografica. Ben raggiunse Michael Courteney e gli passò affettuosamente il braccio intorno alle spalle. «Tutto pronto, Mickey», disse con quel suo incongruo accento londinese. Poi si rivolse a Ramon Machado. Ben lo venerava. Quando era solo con Michael parlava di lui con la reverenza di un seminarista che disserta sull'infallibilità del papa. Michael, d'altra parte, era consapevole del carattere atroce della missione; e c'erano voluti mesi di esami di coscienza per convincersi che doveva essere compiuta assolutamente, perché la lotta fosse coronata dalla vittoria. Ramon parve intuire la sua riluttanza. «Michael, telefona al servizio meteorologico e fatti dire quali sono le previsioni del tempo per questa sera.» Michael prese il telefono dal banco e compose il numero delle informazioni meteorologiche dell'aeroporto Jan Smuts, poi ascoltò l'annuncio registrato. «Il vento è sempre a 290 gradi e cinque nodi», ripeté. «Nessun cambiamento da stamattina. Il tempo è stabile, la pressione barometrica costante.» «Bene.» Ramon prese il pennarello rosso e tracciò un circolo intorno alla posizione della fiera sulla carta aeronautica. Poi annotò la direzione del vento. «Ecco. Questa sarà la vostra linea di avvicinamento, circa un chilometro e mezzo sopravvento rispetto al bersaglio. Cercate di mantenervi a circa trecento metri dal livello del suolo. Aprite la valvola del gas quando superate le torri dell'acqua. Sono illuminate vistosamente per evitare che gli aerei in transito le urtino.» «Sì», disse Michael. «Ho sorvolato la zona proprio ieri. Lo stadio sarà rischiarato dai riflettori e ci sarà uno spettacolo di laser... non potrò sbagliare.» «Bravo, compagno.» Ramon gli rivolse uno dei suoi rari, irresistibili sorrisi. «I tuoi preparativi sono stati ammirevoli.» Michael abbassò lo sguardo e Ben intervenne: «Ho sentito al giornale radio della una che a mezzogiorno c'erano già alla fiera più di duecentomila visitatori. Saranno probabilmente mezzo milione quando Vorster terrà il discorso ufficiale per l'inaugurazione. Oggi sferreremo un colpo molto importante per la causa della libertà». «Il discorso di Vorster deve cominciare alle sette di sera.» Ramon prese uno dei programmi distribuiti dall'organizzazione della fiera, e lo studiò. «Ma potrebbe esserci qualche minuto di ritardo e dobbiamo tenerne conto. E' probabile che parli per una quarantina di minuti, al massimo un'ora. La parata militare comincerà alle otto. Quando decollerete?» «Se decolleremo alle sei e tre quarti», rispose Michael dopo un breve calcolo, «tenendo conto che ci vogliono quarantotto minuti di volo come ho cronometrato ieri, saremo sul bersaglio alle sette e trentatré minuti.» «Dovrebbe andar bene», ammise Ramon. «Vorster starà ancora parlando. Farai due passaggi sull'obiettivo. Trecento metri di quota, un chilometro e mezzo sopravvento. Dopo il secondo passaggio, vira verso ovest e punta direttamente verso il confine con il Botswana. Qual è la durata del volo prevista per il rendez-vous con Raleigh Tabaka?» «Tre ore e quindici minuti», rispose Michael, «Quindi arriverò intorno alle undici di stasera. Nel frattempo, il gas residuo si sarà degradato.» «Raleigh Tabaka illuminerà la pista con i bengala. Appena
atterrate, rimuovete l'attrezzatura del gas e incendiate l'aereo. Poi penserà Raleigh a farvi raggiungere lo Zambia e la base Tercio.» Ramon studiò i volti dei due interlocutori. «E' tutto. So che abbiamo discusso ogni dettaglio una dozzina di volte, ma c'è qualche domanda?» I due fratelli scossero la testa e Ramon sorrise ironicamente. Nonostante la diversità del colore della pelle e della consistenza dei capelli, la rassomiglianza era notevole. La rivoluzione non avrebbe potuto trionfare senza quell'obbedienza e quella fede cieca, pensò Ramon, e provò un senso inconsueto di invidia per quelle certezze così prive di complicazioni. Lasciamogli credere che il loro atto cambierà il mondo e schiuderà l'alba del socialismo universale e dell'amore fraterno... Ramon sapeva che la realtà non era così semplice. Invidiava la fede di quei due, ma si domandava se avessero davvero il coraggio di sopportare la cruda realtà del massacro di mezzo milione di persone ed il Terrore Rosso che sarebbe seguito al trionfo della rivoluzione. La fede sublime nella giustizia della loro azione poteva permettere loro di aprire la valvola di un paio di bombole dall'aspetto innocuo: ma avrebbero resistito alla visione di mezzo milione di cadaveri contorti dallo strazio di una morte atroce? Sopravvivevano solo gli uomini d'acciaio, e i due fratelli non ne avevano la tempra. Il Terrore Rosso li avrebbe eliminati, come eliminava tutti i deboli. Dopo quella sera, la loro utilità sarebbe finita e sarebbero diventati sacrificabili. Toccò gentilmente la spalla di Michael. Sapeva che gli piaceva farsi toccare da un altro uomo, e fece in modo che il tocco diventasse una carezza. «Vi siete comportati magnificamente. Ora dovete mangiare e riposare. Vi lascerò prima del decollo. Onore a voi.» Si avviarono in gruppo alla porta posteriore del capannone. Ma prima che la raggiungessero, Michael si fermò. «Voglio vedere come Ben ha installato le bombole, e controllare l'aereo», annunciò. «Devo essere assolutamente sicuro.» «E' giusto che tu voglia che tutto sia perfetto, compagno», ammise Ramon. «Ti faremo trovare qualcosa da mangiare quando verrai in casa.» Rimasero a guardarlo mentre saliva nell'abitacolo del Centurion e cominciava a controllare gli strumenti. Poi si avviarono insieme all'uscita. Ramon spalancò la porticina. Quando uscì nel sole con Ben, Sean Courteney stava rannicchiato contro l'hangar, sulla loro sinistra, e li osservava. Ramon e Sean erano separati da mèno di due metri. Si riconobbero al primo sguardo. Sean infilò la mano sotto la giacca ed estrasse la grossa magnum. La doppia azione del grilletto fece ritardare lo sparo per una frazione di secondo, e Ramon afferrò il braccio di Ben Afrika e lo tirò di fronte a sé per farsene scudo. Con un lampo più fulgido del sole, il proiettile sparato da Sean si piantò nel corpo di Ben. Il proiettile a punta cava lo colpì al gomito sinistro ma non si arrestò. Penetrò nel braccio e nel fianco. La ferita d'entrata era grande come un portauovo. Il proiettile urtò l'ultima costola e si frantumò. Vari frammenti finirono nei polmoni, altri dilaniarono gli intestini. Una scheggia del rivestimento di rame si piantò fra le vertebre e recise per metà il midollo spinale. Ben fu scagliato da un lato e scivolò contro l'hangar, lasciando una macchia di sangue rosso sulla lamiera arrugginita. Ramon Machado rientrò d'un balzo nell'hangar prima che Sean potesse riabbassare l'arma, sollevata dal potente rinculo. Chiuse
la porta con un calcio ed estrasse la Tokarev automatica dalla fondina. Sparò due colpi in rapida successione attraverso la parete sottile, mirando al punto dove pensava si trovasse Sean. Ma Sean l'aveva previsto: s'era buttato a terra ed era rotolato due volte su se stesso. Calcolò la posizione di Ramon dal suono degli spari e dall'angolo dei proiettili che perforavano la lamiera ondulata. Sparò a sua volta stringendo l'arma con entrambe le mani e il proiettile attraversò la parete e mancò d'una trentina di centimetri la testa di Ramon. Ramon si acquattò dietro un bidone di Avgas e gridò a Michael, che era seduto ai comandi dell'aereo: «Metti in moto!» Michael era rimasto immobilizzato per lo choc sul sedile del pilota, ma all'ordine di Ramon si scosse, fece scattare gli interruttori, attivò i magneti e girò la chiave. Il motore del Centurion si accese. Michael spinse la manetta e l'aereo rombò e sembrò voler forzare i freni delle ruote. «Ora fallo rollare», gridò Ramon, e sparò altri due colpi a casaccio attraverso la parete di lamiera. Il Centurion avanzò verso la porta aperta dell'hangar, acquistando velocità in fretta, e Ramon lo rincorse, passò sotto l'ala e spalancò il portello dalla parte del passeggero. «Dov'è Ben?» gli gridò Michael mentre si assestava sul sedile. «Ben è spacciato», gridò Ramon. «Vai!» «Come sarebbe, spacciato?» Michael si girò sul sedile e chiuse la manetta. «Non possiamo abbandonarlo.» «Ben è morto.» Ramon gli afferrò la mano. «Gli hanno sparato. E' finito. Dobbiamo uscire da qui.» «Ben...» «Andiamo via!» Michael azionò di nuovo la manetta e lanciò il Centurion sulla pista. Il suo viso era contratto dall'angoscia. «Ben», bisbigliò, e accelerò fino a che il Centurion sfrecciò a coda alta lungo la pista. Arrivarono in fondo, e Mickey lavorò di freno e motore per farlo girare controvento. «Il motore è freddo», spiegò. «Non ho potuto scaldarlo.» «Dobbiamo rischiare», disse Ramon. «Fra poco arriverà la polizia. Sono sulle nostre tracce. Non so come, ma ci hanno scoperti.» «E Ben?» «Lascia perdere Ben», ordinò Ramon. «Ti ho detto di decollare.» «Dove andiamo... nel Botswana?» Michael esitava ancora. «Sì. Prima porteremo a termine l'operazione. Dirigiti verso la fiera.» «Ma... hai detto che la polizia è sulle nostre tracce», protestò Michael. «E come può fermarci, ormai? Ci vorrà un'ora per far alzare in volo un Impala delle forze aeree... vai, vai!» Michael diede potenza al massimo e aprì la manetta. Il Centurion si lanciò sulla pista. Mentre acceleravano, videro una figura che usciva correndo dietro l'hangar. Michael riconobbe il fratello. «Sean!» gridò. «Continua!» ordinò Ramon. Sean si buttò con un ginocchio a terra sul bordo della pista, e quando il Centurion corse verso di lui tese entrambe le braccia nella posa classica a due mani e sparò tre colpi. Ogni volta il rinculo violento alzò la canna verso il cielo. L'ultimo colpo centrò il parabrezza, ed entrambi si chinarono istintivamente. Il proiettile lasciò una ragnatela argentea nel perspex, poi Michael fece ruotare il muso del Centurion. Superarono
la recinzione e puntarono verso il limpido cielo azzurro dell'highveld. A una sessantina di metri di altitudine il motore freddo s'impuntò, quindi riprese a funzionare normalmente. «Dirigiti verso la fiera», ripeté Ramon. «Non potremo uccidere Vorster, ma è pur sempre un buon bersaglio. Ci sono duecentomila persone.» Michael portò il Centurion in assetto orizzontale a trecento metri d'altitudine e virò. Mentre il Centurion gli passava sopra la testa, Sean scaricò la pistola contro il ventre dell'apparecchio. Nulla indicò che i proiettili avessero colpito il bersaglio. Le ruote rientrarono mentre l'aereo s'innalzava indenne nel cielo. Sean balzò in piedi e si precipitò nell'hangar. Vide il telefono sul banco da lavoro. «Dio sia ringraziato!» Corse a sollevare il ricevitore. Mentre componeva il numero della Capricorn notò la carta geografica aperta e il dépliant della Fiera pasquale del Rand. I segni in rosso sulla mappa cingevano la località della fiera, e una freccia indicava la direzione e la velocità del vento. Il centralinista rispose al terzo squillo. «Qui Capricorn Chemicals Industries, buongiorno. Desidera?» «Mi passi il signor Garry Courteney, in sala del consiglio. Sono suo fratello. E' urgente.» «Sta aspettando la sua chiamata. Glielo passo subito.» Mentre attendeva, Sean si guardò intorno. Vide le tute protettive appese alla parete accanto alla porta. «Sei tu, Sean?» La voce di Garry era tesa. «Sì, sono io. Sono a Firgrove. E' come temevamo. Michael, Ben e la Volpe. La fiera è il loro obiettivo.» «Li hai fermati, Sean?» «No. Michael e la Volpe sono in volo. Sono decollati due minuti fa. Quasi certamente si dirigono verso la fiera.» «Sei sicuro, Sean?» «Certo che sono sicuro. Sono nell'hangar di Mickey e in questo momento ho sotto gli occhi la mappa. La fiera è segnata, e ci sono la velocità e la direzione del vento. Ci sono due tute antifumo appese alla parete... non hanno avuto il tempo d'indossarle.» «Avverto la polizia e le forze aeree.» «Non fare il fesso, Garry. Vorranno un ordine del capo della Difesa e del ministro prima di far alzare in volo un caccia o un elicottero armato. Ci metteranno un secolo. E intanto duecentomila persone moriranno.» «Cosa dobbiamo fare, Sean?» Finalmente l'amministratore chiedeva consiglio all'uomo d'azione. «Prendi il Queenair», disse Sean. «E' più veloce e potente del piccolo Centurion. Devi intercettarli e costringerli ad atterrare prima che raggiungano la sede della fiera.» «Descrivi il Centurion di Mickey», ordinò sbrigativamente Garry. «Azzurro sopra, bianco sotto. La sigla è ZS-RRW, Romeo Romeo Whisky. Conosci già la posizione di Firgrove e la rotta che seguiranno per arrivare alla fiera.» «Parto immediatamente», disse Garry. E tolse la comunicazione. Sean riprese la Smith & Wesson dal banco dove l'aveva posata ed estrasse i bossoli vuoti. Si tolse dalla tasca la scatola di munizioni e ricaricò in fretta. Tornò correndo alla porta e, con l'arma spianata, si tenne da un lato e l'aprì con un calcio; poi si acquattò immediatamente e puntò la pistola all'esterno. Ben s'era trascinato per pochi metri prima di crollare. Era
stramazzato ai piedi di un pesco. Perdeva molto sangue arterioso e rosso vivo che aveva intriso la camicia e i pantaloni. Il braccio sinistro pendeva dalla spalla per Un brandello di carne straziata, e l'osso spuntava come uno spiedo. Sean si raddrizzò e mise la sicura alla Smith & Wesson. Varcò la porta e si fermò a guardare Ben. Ben era ancora vivo. Si girò a fatica per guardarlo. Gli occhi color zucchero bruciato erano colmi d'una sofferenza terribile. «Sono partiti, vero?» mormorò. «Ce la faranno. Non potete fermarci. Il futuro ci appartiene.» Isabella arrivò fra gli alberi. Scorse Sean e si diresse verso di lui. «Ti avevo detto di stare nascosta», ringhiò Sean. «Perché non mi dai mai ascolto?» Isabella vide Ben a terra e si fermò. «E' Ben! Oh, Dio, che cosa gli hai fatto?» Si mosse di nuovo e si lasciò cadere in ginocchio davanti al corpo prostrato. Sollevò con delicatezza la testa di Ben, ma quel movimento gli lacerò qualcosa nel polmone lesionato. Incominciò a tossire. Un fiotto di sangue sgorgò tra le labbra aperte e gli scorse sul mento. «Oh, Dio, Sean. L'hai ucciso!» singhiozzò Isabella. «Lo spero», disse Sean a voce bassa. «Lo spero con tutto il mio cuore.» «Sean, è tuo fratello.» «No», disse Sean. «Non è mio fratello. E' uno stronzo.» Mentre accendeva i motori del Queenair, Garry Courteney faceva frettolosamente i calcoli. La Capricorn era circa un centinaio di chilometri più vicina di Firgrove alla fiera, e inoltre il Queenair aveva una velocità di crociera superiore di settanta od ottanta nodi a quella del Centurion. Erano trascorsi sette minuti da quando Sean lo aveva chiamato, nove da quando Mickey era decollato. Non c'era molto tempo, comunque. Non osava tentare d'indovinare dove avrebbe intercettato il Centurion per cercare di tagliargli la strada. C'era un'unica possibilità sicura. Doveva portarsi direttamente alla fiera, quindi tornare indietro, incontro a Michael. Doveva puntare tutto su un intercettamento faccia a faccia. Mentre apriva la manetta e lanciava il Queenair sulla pista si accorse con un vago senso di sorpresa che aveva ancora fra i denti un sigaro fumato per metà. Lanciò il grosso bimotore nell'aria e aspirò a pieni polmoni. Era un ottimo avana, e il pensiero di quell'ironia lo fece sorridere. Il fumo fragrante gli calmò un poco i nervi. «In queste cose non valgo certo Sean», si disse. «Preferisco una giornata convulsa in Borsa o una bella acquisizione.» Diede più gas al Queenair, accelerando di altri quindici nodi. Scorse l'area della fiera quando era lontano più d'una decina di chilometri. Una quantità di giganteschi palloni fluttuava nell'aria come un branco di balene colorate. I parcheggi sterminati luccicavano dei riflessi del sole su migliaia di veicoli. Virò e tornò direttamente in direzione di Firgrove. Si tese in avanti sul sedile. Sbirciava attraverso il parabrezza e aspirava il sigaro, mentre continuava a calcolare mentalmente la velocità, il tempo e la distanza. «Se li incontrerò sarà fra cinque o sei minuti...» Garry s'interruppe quando il suo sguardo fu attratto da un raggio riflesso su qualcosa, più avanti e più in basso. Si assestò sul naso gli occhiali e maledisse ancora una volta la sua miopia. Scrutò con attenzione, cercando di individuare di nuovo quel lampo.
S'era lasciato indietro le aree residenziali e stava sorvolando l'aperta campagna, costellata di minuscoli villaggi e attraversata da una rete di strade. La scacchiera dei terreni arati e delle piantagioni gli disturbava la vista e creava cento illusioni ottiche per confonderlo. Cercò freneticamente, scrutando per qualche istante il cielo, per poi concentrarsi sul terreno. Si aspettava che il Centurion fosse molto al di sotto di lui. Prima vide l'ombra. Svolazzava e saltava sui campi come una cavalletta. Dopo un istante scorse il minuscolo aereo azzurro. Era trecento metri sotto di lui e tre chilometri più avanti. Garry fece inclinare il muso del Queenair e si lanciò in picchiata per intercettarlo. I due aerei stavano convergendo alla velocità di quasi cinquecento nodi; e prima che Garry potesse portare il Queenair alla stessa altitudine del Centurion, questo era passato sotto di lui come un lampo azzurro. Garry alzò un'ala per virare a tutta potenza, girò dietro il Centurion e sfruttò la velocità del Queenair per raggiungerlo. «Arriveremo fra una decina di minuti», disse Michael a Ramon. «Prepàrati.» Ramon si tese in avanti e toccò le bombole colorate ed imbullonate tra i suoi piedi. Cautamente, aprì le valvole sul collo di entrambe. Sentì il flusso della pressione interna, subito frenato dalla valvola principale del giunto a T. Ora gli bastava muovere la leva, mezzo giro in senso antiorario, perché il gas mescolato e attivato passasse sibilando nel lungo tubo e scaturisse attraverso il bocchettone sotto il ventre dell'aereo. Ramon si raddrizzò e lanciò un'occhiata a Michael, seduto ai comandi. «Tutto pronto...» comunicò. Poi s'interruppe e guardò sbalordito attraverso l'ampio finestrino laterale accanto alla testa di Michael. Un'enorme fusoliera argentea riempiva l'intelaiatura del finestrino. Un altro aereo volava affiancato a loro, e il pilota li stava fissando. Era un uomo massiccio con la faccia da bambino, gli occhiali dalla montatura d'osso e il mozzicone d'un sigaro stretto in un angolo della bocca. «Garry!» gridò costernato Michael. Garry alzò la mano destra e indicò il suolo con il pollice in un segnale inequivocabile. Istintivamente, Michael lanciò il Centurion in una stretta virata discendente e piombò verso terra come un masso, poi si rimise in assetto orizzontale poco al di sopra delle cime degli alberi. Sbirciò nello specchietto e vide l'argenteo muso rotondo del Queenair a cento metri dalla sua coda e in rapido avvicinamento. Riportò il Centurion verso l'alto e virò bruscamente. Ma nel momento in cui si rimise in assetto orizzontale l'aereo argenteo torreggiò sopra di lui. Garry era sempre stato un pilota più abile ed il Queenair era più veloce e più agile. «Non posso sfuggirgli!» «Punta sul bersaglio», ordinò bruscamente Ramon. «Non potrà far nulla.» Michael aveva sperato che a quel punto Ramon rinunciasse all'operazione; ma tornò con riluttanza sulla rotta iniziale. Era a sessanta metri, sopra le cime degli alberi più alti. Garry lo seguì nella virata e gli si affiancò. Le punte delle loro ali erano distanziate da appena un metro. Garry gli fece nuovamente segno di atterrare. Invece, Michael afferrò il microfono della radio. Sapeva che Garry era sintonizzato su 1187 megaherz. «Mi dispiace, Garry», gridò. «Devo farlo. Mi dispiace!»
La voce di Garry rimbombò nella cabina attraverso l'altoparlante. «Atterra immediatamente, Mickey. Non è ancora troppo tardi. Possiamo tirarti fuori da questa storia. Non fare l'idiota.» Michael scosse la testa con veemenza e continuò a procedere. Il volto di Garry s'indurì. Si lasciò distanziare leggermente e, prima che Michael potesse reagire, si accostò di lato e insinuò la punta dell'ala del Queenair sotto la coda del Centurion. Poi, con un movimento brusco, scagliò verso l'alto la coda del piccolo aereo, facendolo piombare in una picchiata quasi verticale. Il Centurion era troppo basso e la picchiata troppo ripida perché Michael potesse riprendersi prima di urtare i rami più alti di un grosso albero. Michael alzò le mani quando lo vide: ma un ramo secco, spesso come il braccio di un uomo, trapassò il parabrezza già indebolito dallo sparo di Sean. La punta del ramo lo colpì alla base della gola, s'infilò tra le clavicole, lo trapassò con la facilità di un ago ipodermico e uscì tra le scapole. La forza d'inerzia dell'aereo che precipitava stroncò il ramo, e lo spezzone rimase a sporgere dalla gola di Michael come una lancia nodosa. Il Centurion continuò il volo, fragorosamente, sbattendo tra le cime degli alberi. Le ali furono strappate via, una dopo l'altra, e la velocità diminuì. Finalmente superò gli alberi; la fusoliera priva d'ali colpì il terreno, rimbalzò e slittò e andò a fermarsi al margine di un campo di mais. Ramon Machado si sollevò eretto sul sedile, sorpreso d'essere ancora vivo. Guardò Michael: aveva la bocca spalancata in un urlo silenzioso, il ramo spezzato gli sporgeva dalla gola e uno zampillo di sangue eruttava sui frammenti del parabrezza. Ramon sganciò la cintura di sicurezza e cercò di alzarsi. Si accorse d'essere bloccato e abbassò lo sguardo. La gamba sinistra era fratturata. Era contorta come uno spaghetto scotto fra il sedile e le bombole del gas. Il calzone era strappato fino al ginocchio, e la leva d'acciaio inossidabile della valvola era affondata nel polpaccio. E mentre la fissava, si accorse del sibilo sommesso del gas. La gamba aveva aperto la valvola. Il Cyndex 25 passava nel tubo e fuoriusciva dal bocchettone sotto la fusoliera. Ramon si afferrò alla maniglia del portello e cercò di smuoverla con tutto il suo peso. Era incastrata. Infilò le mani sotto il ginocchio della gamba fratturata e cercò di liberarlo. La gamba si allungò, e sentì le estremità dei monconi delle ossa stridere uno contro l'altro; ma era bloccato inesorabilmente, come in una trappola per orsi, dalla leva d'acciaio inossidabile della valvola. All'improvviso sentì l'odore di mandorle. Le narici cominciarono a bruciare, a lasciare scorrere un muco argenteo che discendeva sulle labbra e sul mento. Gli occhi divennero braci ardenti, e la vista si oscurò. La sofferenza atroce l'assalì nella tenebra. Superava ogni concezione che avesse mai avuto del dolore. Incominciò a urlare. Urlò e urlò, seduto in una pozza di urina e di feci, fino a che i suoi polmoni si afflosciarono e non poté più urlare. Centaine Courteney-Malcomess era seduta su un tronco morto al limitare della foresta e guardava il cane ed il ragazzetto che giocavano. La cagna era la più bella dell'ultima cucciolata che Dandy Lass di Weltevreden aveva avuto prima che Centaine fosse stata costretta a far sopprimere la vecchia campionessa. La figlia aveva ereditato tutte le qualità migliori della madre. Anche lei sarebbe diventata una campionessa; Centaine ne era convinta. Nicky la faceva lavorare con una vecchia calza di seta piena
di penne di faraona. Imparava con la stessa rapidità della cagna, e sembrava avere il dono istintivo d'intendersi con cani e cavalli. Ce l'ha nel sangue, pensò soddisfatta Centaine. E' un vero Courteney, nonostante il nome ed il titolo spagnolo. Poi pensò agli altri Courteney. L'indomani Shasa ed Elsa Pignatelli si sarebbero sposati nella chiesa degli schiavi che Centaine aveva fatto restaurare con tanta cura. Sarebbe stato uno dei matrimoni più memorabili celebrati al Capo di Buona Speranza in quel decennio. Gli invitati stavano arrivando dall'Inghilterra e dall'Europa, da Israele e dall'America. Non molti anni prima, Centaine avrebbe preteso di fare personalmente tutti i piani e di sovrintendere ai preparativi per le nozze. Ma adesso si accontentava di lasciare fare a Bella e ad Elsa. «Lasciamo che si divertano», disse con fermezza. «Io ho già tanto da fare con le mie rose, i miei cani e Nicky.» Pensò a Bella: era contrita e umile, ma Centaine non era certa che questo fosse sufficiente. Aveva discusso a lungo con se stessa e con Shasa prima di acconsentire a coprire la nipote ed a proteggerla dalle conseguenze dei suoi tradimenti e dai giusti rigori della legge. Ma dovrà fare penitenza. Con decisione, Centaine giustificò la propria magnanimità. Per tutta la vita dovrà considerarsi al servizio di ogni componente della nostra famiglia e del popolo di questa nostra terra meravigliosa che lei ha tradito. Farò in modo che paghi in pieno i suoi debiti, pensò. Poi si voltò a guardare la giovane cagna che aveva trovato il sacco di penne nascosto da Nicky tra i canneti in riva al fiumicello. Agitava la lunga coda serica come una bandiera vittoriosa, mentre andava a consegnare il sacchetto al padroncino. Finalmente il ragazzo e la cagna vennero a sedersi insieme ai piedi di Centaine. Nicky passò un braccio nudo e abbronzato intorno al collo dell'animale e lo strinse a sé. «Hai scelto il nome da darle?» chiese Centaine. Aveva impiegato quasi due anni per spezzare la resistenza del ragazzetto, ma intuiva di averlo ormai strappato ai ricordi di Adra e della vita precedente. «Sì, Nana. Voglio chiamarla Ventisei.» L'inglese di Nicky era migliorato moltissimo da quando Centaine l'aveva iscritto alla Western Province Junior School. «E' un nome poco comune. Perché l'hai scelto?» «Una volta avevo un altro cane... si chiamava Ventisei.» Eppure i ricordi di quel tempo erano quasi completamente svaniti dalla mente di Nicky. «Mi sembra un'ottima ragione... ed è un bel nome. Dandy Ventisei di Weltevreden.» «Sì! Sì!» Nicky abbracciò la cagna. «Dandy Ventisei.» Centaine lo guardò con tenerezza. Era ancora confuso e frastornato, ma era di buona razza e aveva sangue di campioni nelle vene. Lasciami un po' di tempo, pensò. Lasciami un altro po' di tempo da passare con lui. «Vuoi che ti racconti una storia, Nicholas?» chiese. Sapeva raccontare storie straordinarie di cacce agli elefanti e ai leoni, guerre con i boeri e gli zulu e i tedeschi, miniere di diamanti perdute e duelli aerei e mille altre cose che affascinavano un ragazzino. Perciò gli raccontò la storia di un naufragio e di qualcuno che era finito su una spiaggia rovente. Gli parlò di un viaggio attraverso un deserto crudele in compagnia di certi folletti gialli... e Nicholas percorse con loro, passo per passo, quella strada incantata.
Alla fine Centaine guardò l'orologio e disse: «Per oggi basta, signorino Nicholas. Tua madre si starà chiedendo dove siamo finiti». Nicholas si alzò prontamente per aiutarla. Scesero insieme la collina verso la grande casa, mentre la giovane retriever balzellava e correva intorno a loro. Camminavano adagio perché Nana aveva una gamba che le faceva male, e Nicky le teneva la mano per aiutarla nei punti più accidentati. FINE. Finito di stampare nel mese di febbraio 2001, per conto della TEA S.p.A. dalla Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento N.S.M. - Cles (TN). Printed in Italy. _