RUTH RENDELL LA VILLA DEI RICORDI CATTIVI (The Brimstone Wedding, 1996) Ringraziamenti Molte delle superstizioni in ques...
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RUTH RENDELL LA VILLA DEI RICORDI CATTIVI (The Brimstone Wedding, 1996) Ringraziamenti Molte delle superstizioni in questo romanzo provengono da A Dictionary of Superstitions di Iona Opie e Moira Tatem, che hanno tutta la mia gratitudine per le loro nozioni e la loro esperienza. PARTE PRIMA 1 I vestiti dei morti si sciupano in fretta. È come se, a logorarli, sia l'afflizione per la persona che li possedeva, e adesso non c'è più. Stella rise quando glielo dissi. Buttò indietro la testa e scoppiò a ridere in quel modo incredibile, da ragazzina, che le è caratteristico. Le stavo raccontando che Edith Webster era morta durante la notte lasciandosi indietro armadi pieni di vestiti; rise e dichiarò di non aver mai conosciuto nessuna persona al mondo che fosse superstiziosa come me. «Adesso c'è qui la nipote» dissi «e regala via le sue cose a tutti quelli che le vogliono. Sa anche lei quello che loro dicono: man mano che il corpo si consuma, i vestiti si consumano.» «È davvero così che dicono, Genevieve? E chi sarebbero questi loro?» Non le risposi. Mi stava prendendo in giro e non si aspettava una risposta. Però mi piace quando Stella mi chiama Genevieve, perché anche se per chiunque altro io sono Jenny, e lo sono sempre stata dal giorno della nascita, il mio nome di battesimo è proprio Genevieve. È stato mio papà a chiamarmi così perché era il nome di un'automobile d'epoca in un film, una cosa da non crederci, vero?, e per la maggior parte della gente è un po' imbarazzante, ma come Stella lo pronuncia prende un suono molto carino. D'accordo, Stella ha una voce simpatica, quella che si potrebbe definire una gran bella voce, anche se ormai è vecchia e, a dir la verità, si è lasciata dietro le spalle tutto quello che si può definire carino o bello in una persona. Le raccontai qualcos'altro sul conto di Edith, per esempio che Sharon l'aveva trovata così alle sette quando era entrata da lei con il suo tè e che la
nipote si era precipitata ad arrivare nel giro di un'ora, anche se non era mai stata tanto coscienziosa nelle visite alla sua nonnina quando lei era viva; non sono una persona particolarmente insensibile o priva di tatto e avrei smesso se avessi pensato che Stella poteva rimanere sconvolta a sentir parlare di un'altra vecchia signora che se ne andava per sempre. Invece capivo che era interessata. La verità, ecco il mio sospetto, è che Stella si considera giovanissima a confronto di Edith, che aveva novantaquattro anni, ed è persuasa che le rimanga ancora un sacco di tempo perché lei è una di quelle malate di cancro che continueranno ancora a vivere per anni e anni. Si trova da sei mesi a Middleton Hall. Ci occupiamo, tutte indistintamente, dell'assistenza ai nostri ospiti, però ognuna di noi ne ha tre che le sono stati affidati in modo speciale e Stella è una dei miei, insieme ad Arthur Harrison e a Edith. Adesso che Edith se ne è andata immagino che me ne daranno uno nuovo ma mi auguro che non sia uno di quelli che hanno bisogno di un mucchio di cure. E non perché io non ci metta anche l'anima nel mio lavoro, non mi siedo un momento per buona parte del mio turno di otto ore, a 3.50 sterline l'ora, e non si può davvero dire che sia una cifra da capogiro, e Arthur suona il campanello in continuazione per chiamarmi, ma la verità è che non vorrei esser costretta ad avere meno tempo da dedicare a Stella. Le voglio bene, capite. Le voglio bene sul serio, mentre non posso dire la stessa cosa di Arthur o di Maud Vernon o di uno qualsiasi degli altri. Mi fanno pena, voglio contribuire a rendere la loro esistenza il più gradevole possibile, ma quanto a suscitare il mio affetto o la mia simpatia, ci vuol altro. Ormai è come se fossero entrati in un mondo crepuscolare nel quale hanno dimenticato tutto; in fondo, non sanno proprio bene dove sono per una buona metà del tempo e ti chiamano con il nome di tutti i loro parenti fino a quando sei tu a ricordargli che ti chiami Jenny. Ma Stella è diversa. Stella è ancora una persona che sta nel mondo dei viventi. L'altro giorno mi disse: «Non penso a te come a un'infermiera, Genevieve. Ma come a un'amica». Mi fece piacere. Forse si può spiegare col fatto che è il classico tipo della gentildonna, o almeno così la chiamerebbe la mia nonna, e comunque una persona che appartiene a una classe diversa dalla mia; ad ogni modo mi limitai a risponderle che aveva ragione a non considerarmi un'infermiera, sono soltanto un'inserviente, e dell'infermiera posso dire di avere l'esperienza ma non la vera e propria qualifica. Mi sorrise. Ha un bel sorriso, i denti sono tutti suoi, ancora bianchissimi. «Sono venuta qui perché ci sei tu, sai.»
Lo dice sempre. È una sciocchezza naturalmente, non è vero, ma la diverte dirlo. Suo figlio l'ha condotta in giro per un bel numero di queste case per anziani del Suffolk e del Norfolk perché scegliesse quella che preferiva. Ero nella sala di soggiorno con Edith quando arrivarono, e adesso per Stella è diventata una battuta abituale quella di dire che mi ha subito preso in simpatia, le sono piaciuta, e la sua scelta è caduta su Middleton Hall perché ci lavoro io. Non sono stati la casa in sé e per sé o il giardino o come si mangia o la stanza da bagno privata a farla decidere, no. Soltanto io. «E avevo ragione» disse. «Per me, averti qui, ha fatto tutta la differenza.» Le piace sentirmi parlare del villaggio e dei miei, e lo sa Dio se non siamo una famiglia numerosa, vero?, così le raccontai della mia mamma e di Len il suo amante e della madre di Len che aveva ereditato una pelliccia dalla sorella, e che la pelliccia era andata a brandelli, letteralmente, la prima volta che lei l'aveva messa addosso. E le stavo raccontando anche dei buchi comparsi nei vestiti di una donna morta, come se una tarma ne avesse fatto una scorpacciata, quando, con mia grande meraviglia, si allungò a prendermi una mano. Prima me la strinse con forza e poi continuò a tenerla nella sua, ma piano, con delicatezza. Dev'essere rimasta così almeno cinque minuti prima di darle di nuovo un'altra stretta; poi l'ha lasciata andare. A quel punto Lena cacciò dentro la testa dalla porta e si mise a farmi un mucchio di brutte facce, come al solito, così io mi alzai, ma non di scatto, in fretta e furia, no, questa soddisfazione non gliela ho voluta dare, e quando guardai Stella, mi accorsi che mi stava facendo l'occhiolino. Mi strizzò l'occhio e mi sorrise e, per un attimo, si è visto come doveva essere quando aveva la mia età. Spero che mi mostrerà qualche sua fotografia di quando era giovane, sono molto curiosa di vederle. Ho detto che non le era rimasto più niente né di bello né di carino, ma forse ho esagerato un po', perché non è proprio vero del tutto. Anzi, a dir la verità, per avere settant'anni è magnifica. La sua pelle non è per niente rugosa salvo intorno agli occhi e gli occhi sono ancora di un bell'azzurro vivo e luminoso. Naturalmente ha i capelli bianchi ma sono folti e ondulati e non dovrà mai portare la parrucca come fa qualcun'altra. È triste dirlo, ma non vivrà abbastanza a lungo per dover ricorrere a soluzioni del genere. Si veste sempre con cura, con abito, calze e scarpe eleganti, e non riesco a capire perché, ma a Lena questo non va proprio a genio. Quando lei non può sentirla, ma a volte anche quando la sente benissimo, si mette a chiamarla "Lady Newland" oppure "la duchessa" e ridacchia perché la sua battuta non sembri
troppo pungente. Ho il vago sospetto che preferirebbe vedere Stella in tuta di felpa e giacca di maglia come quasi tutte le altre. Non so come spiegarlo ma penso che le persone dovrebbero prendersi maggior cura di sé quando invecchiano, impegnarsi come meglio possono per riuscirci. A Stella piace quando le faccio le unghie, o la piega ai capelli, e io sono contenta di farlo. Così, potete capire che è un personaggio un po' speciale. Se io sono sua amica, lei è un'amica per me, anche se finora non so molto sul suo conto, mentre lei sa un mucchio di cose su di me: da quanto tempo sono sposata, per esempio, che vivo a Stoke Tharby da quando sono nata, che mio marito si chiama Mike e fa il capomastro, che la mia mamma ha in gestione il pub e che il mio papà abita a Diss, e un mucchio di altre cose. E se c'è una cosa che non sa, la più grande della mia vita, in fondo, anche se non dovrebbe esserlo, non è escluso che un giorno o l'altro gliene parli. Invece tutto quello che io so sul conto di Stella è che ha dovuto vendere la casa che aveva a Bury St Edmunds perché altrimenti non avrebbe potuto pagarsi la retta che chiedono qui, e naturalmente so qualcosa dei suoi ragazzi perché vengono a trovarla. Be', non proprio ragazzi... uno ha la mia età, e i figli di sua figlia sono praticamente ormai degli adolescenti. Bury si trova a una trentina di chilometri a sud di qui, al di là del Breckland e di tutta quella campagna che noi chiamiamo i terreni arati. L'ha venduta quando ha cominciato a sentirsi troppo stanca e troppo malata per continuare a vivere per conto proprio e il fatto di avere qualcuno che si occupasse di lei le è sembrato che potesse essere allettante. È quello che viene definito, come ho letto non so più dove, un fenomeno sociale, il numero di queste residenze per anziani che sorgono oggigiorno, e le centinaia di persone che le riempiono. E c'è di più: quasi tutti sono stati costretti a vendere la propria casa per potersi sobbarcare la retta che pagano, privando così i loro discendenti, se vogliamo vedere le cose da questo punto di vista, di ciò che avrebbero potuto ereditare. Tutta roba, invece, che finisce nelle tasche di persone come Lena. Eppure, Middleton Hall è una delle migliori, una ex residenza di campagna di gran lusso, con un parco stupendo, giardini con aiuole fiorite che hanno la forma dei cuori e dei quadri delle carte, siepi di cipressi e siepi di tassi, uno stagno con le ninfee e folte macchie di antichi castagni. A tutto merito di Lena devo dire che le piacciono gli animali, e qui abbiamo due labrador e tre gatti: dicono che sono proprio quelli che ci vogliono nelle case di cura geriatriche. E badate bene che per quello che pagano alla settimana dovrebbero avere ogni genere di comfort e potersi tenere vicino ciascuno la
sua bestiola preferita, e vedersi servire cibi prelibati, da veri e propri buongustai, come minimo. È stata una vera e propria sorpresa per me vedere Sharon che serviva gli aperitivi ai nostri ospiti, prima di cena, il giorno in cui ho cominciato a lavorare qui, ed erano martini dry... nientemeno! Cose che si leggono nei romanzi americani, con salatini croccanti a base di riso soffiato e noci di macadamia in tanti piccoli piattini. Ma perché no? Non sopporto di vedere i vecchi trattati come bambini. Stella ha una delle camere più belle, con un panorama aperto e grandioso che le consente di spaziare con gli occhi per i prati giù giù fino al fiume e ai boschi più oltre. La sua camera ha una portafinestra dalla quale può uscire direttamente sulla terrazza e scendere nel prato, se vuole, anche se lo fa di rado. Naturalmente va nella sala comune con gli altri ed è sempre lì per l'aperitivo prima di cena, che tutte le volte è gin-e-qualcosa, cioè un drink che andava di moda quando era giovane. Di solito per cena si ferma in sala da pranzo, ma siede a un tavolo separato, solo per lei, non le piace dividerlo con altri, è piuttosto riservata e passa moltissimo tempo nella sua camera, a leggere libri, a guardare la televisione, e ogni giorno fa un cruciverba, uno di quelli impegnativi, difficili, che io non saprei neanche da che parte incominciare. Tutte le camere sono arredate con un letto a una piazza, un armadio, un tavolino basso e un paio di poltrone, e a volte i nostri ospiti portano anche qualcuno dei loro mobili. Stella ha portato uno scrittoio. È di noce con venature complicate, lucidissimo. Deve pensarci lei a lucidarlo, con le sue mani, perché sono sicura che Mary non lo fa. Ha le sue fotografie e i suoi libri e ha appeso qualche quadro alle pareti. Non c'è niente di misterioso nelle sue foto, ce n'è una di Marianne che a guardarla si direbbe l'abbia fatta per il suo agente, da mandare ai produttori o quel che sono, della TV, e un'altra di Richard con quella specie di mantello nero addosso e il tocco, come si portano nelle università, e poi ce n'è anche una dei figli di Marianne quando erano piccoli, prima che cominciassero ad andare matti per i vestiti di pelle nera e a mettersi più anellini nelle orecchie di quelli che ci sono in una delle aste per le tende. Quanto a un qualsiasi ritratto del defunto marito di Stella, brilla, come suol dirsi, per la sua assenza. Non so come si chiamasse o cosa facesse o quando è morto, non so proprio niente sul suo conto, ecco una di quelle cose che per me sono un po' misteriose. Stella è un mistero. Non parla mai del marito, non accenna mai, neanche, al fatto di averne avuto uno. Potrei aggiungere che non parla mai del passato, ed è proprio straordinario in un posto come questo perché il
passato è l'unica cosa della quale parla la maggior parte di loro. È il loro unico argomento di conversazione. E per qualcuno, come Maud Vernon, per esempio, si tratta di un lontano passato, un po' come se il mondo si fosse fermato al 1955. L'altro giorno mi ha chiesto se la cioccolata è ancora razionata. Ma Stella vive nel presente ed è del presente che noi parliamo. Parliamo di quelle che sono le notizie del giorno e di quello che si vede alla televisione, dei nuovi film che sono usciti, anche se nessuna delle due probabilmente li vedrà fino a quando non li daranno alla televisione, se le gonne saliranno ancora fino ad almeno una dozzina di centimetri sopra il ginocchio oppure se scenderanno a trenta centimetri sotto, parliamo di quello che succede al villaggio e di quello che succede a Middleton Hall, e parliamo di quello che io sto facendo... o perlomeno di quello che io le permetto di sapere delle cose che faccio. Lei dice che le manco nelle mie giornate di libertà e, da parte mia, devo ammettere che anche lei mi manca. La verità è che parla pochissimo di sé; e, allora, come va che sto cominciando ad avere questa strana sensazione che lei, invece, vorrebbe parlare molto di sé? Forse per il modo in cui mi guarda, qualche volta, come se mi valutasse? Forse perché a volte cambia argomento di colpo, come se avesse intenzione di mettersi a confessare improvvisamente qualcosa? O, forse, è più logico spiegarselo con il fatto che, a volte, comincia una frase e poi si interrompe, sorridendo o scrollando il capo. Il mio turno comincia alle otto, e mi torna molto comodo perché sono abituata ad alzarmi presto e quando Mike è via, come capita quasi sempre durante i giorni della settimana adesso che ha questo nuovo lavoro, a casa non ho molto da fare. Sono soltanto tre chilometri, poco più poco meno, dal villaggio alla casa di cura. La prima cosa che faccio quando ci arrivo è ritirare la posta. I giornali e la corrispondenza vengono depositati in una cassetta di metallo, chiusa e attaccata al retro dell'insegna che abbiamo al cancello, che porta la dicitura "Middleton Hall: Residenza per Anziani", e, per chissà quale misterioso motivo, è anche decorata con il disegno di un tasso da una parte e di una campanula dall'altro. Nella cassetta della posta c'è sempre un gran fascio di giornali, ma le lettere e le cartoline sono poche. Qualcuno dei nostri vecchi non riceve mai lettere e anche gli altri è raro che ne ricevano più di una alla settimana. La mattina del funerale di Edith Webster, che per combinazione era il tredici del mese, nella cassetta ho trovato appena tre buste, due per la si-
gnora Eileen Keep, che è il vero nome di Lena, e una per la signora S.M. Newland. Naturalmente c'era anche il solito mucchio di giornali e riviste, fra i quali l'Economist di Arthur e il Woman's Own di Lois Freeman. La lettera per Stella era chiusa in una busta di spessa carta marrone, larga circa una decina di centimetri e lunga forse trenta. Era corposa, come se dentro ci fosse ripiegato qualcosa di rigido. Subito ho creduto di sapere di che si trattasse, e non mi è piaciuto molto. I cani mi sono venuti incontro festosi, come fanno sempre, spiccando salti, e Ben, che è un po' più sfacciato degli altri, ha cercato di leccarmi la faccia. Le inservienti non portano l'uniforme, come le infermiere vere e proprie, ma semplicemente un grembiule con la pettorina, di nailon bianco, sul loro solito vestito; io però mi ero messa un po' più elegante per il funerale di Edith, così li ho scostati, me li sono tenuti alla larga, e sono stata proprio severa con loro. Poi sono andata a infilare il grembiule, e le scarpe con la suola di gomma, e ho sistemato in bell'ordine i giornali, segnati con il nome di ciascuno, sul tavolo della sala di soggiorno. E infine ho proseguito diretta verso la camera di Stella con la sua lettera. Era già alzata, ma non si era ancora vestita. Sharon, o forse Carolyn, le avevano portato la colazione e lei se ne stava seduta davanti al tavolo in vestaglia. Stella ha una vestaglia di satin nero imbottita, con un bordino di satin rosso intorno al colletto e ai risvolti delle maniche. A dir la verità è quello che la mia mamma chiamerebbe una veste da casa. Ad ogni modo era chiaro che aveva già fatto il bagno e si era pettinata ma aveva l'aria un po' sbattuta, e mi è sembrata pallida, ma - in fondo - aveva più o meno l'aria che hanno al mattino tutte le persone della sua età. Anche se non si era ancora truccata, si era dipinta le unghie con uno smalto rosso cupo. Preferirei che non lo facesse e che non mi chiedesse di metterglielo io, come qualche volta capita. Sta così male sulle mani delle persone vecchie con quelle vene violacee... ma non posso dirglielo. Si tratta di qualcosa che neanche un'amica ti può dire. Non è aspra la voce di Stella, anzi, non sembra neanche la voce di una vecchia ma piuttosto di una ragazza intelligente, che studia in una di quelle scuole private, per gente ricca, che non ha nessuna esperienza della vita e non immagina neanche come possa essere dura e difficile. Ha il timbro di voce di chi non è mai stato ancora toccato da niente, sempreché una cosa del genere sia possibile. Mi disse: «Buongiorno, Genevieve» come fa sempre, e mi sorrise e mi domandò come stavo e io le risposi come faccio sempre, cioè chiedendole se aveva passato una buona nottata e come si
sentiva. Anche se dovrei lasciarlo nella sala comune insieme agli altri giornali, perché è una mansione che non mi tocca, le avevo portato il suo Times e glielo consegnai insieme a quella busta di spessa carta marrone. È strano come quando le persone sono veramente ansiose di guardare qualcosa la loro faccia non si illumini e neanche socchiudano gli occhi come fanno gli attori della televisione. Invece prendono un'aria vacua, anonima. La faccia di Stella è diventata assolutamente inespressiva quando le ho messo la busta fra le mani. Ho avuto la sensazione che volesse aprirla in fretta e furia, strappandola lungo il bordo, ma proprio perché c'ero lì io con lei, si sforzava, invece, di staccarne la linguetta, ben incollata, molto lentamente e metodicamente. Anzi, addirittura con indifferenza. Capita spesso che Stella pensi a rifarsi il letto da sola, ma quella mattina no, era ancora disfatto. Così ho cominciato a occuparmene io. Le ho voltato le spalle per tirare il lenzuolo con gli angoli ma, quando ho girato intorno al letto e mi sono ritrovata dall'altra parte, ho notato che lei aveva tirato fuori dalla busta quello che c'era dentro, di qualsiasi cosa si trattasse, e adesso lo teneva in grembo. Ho detto "di qualsiasi cosa si trattasse" ma, naturalmente, ero convinta di saperlo perfettamente. Lo avevo capito fin dal primo momento, quando avevo estratto la busta dalla cassetta della posta. L'unica cosa che arriva in una busta di quella forma, ed è scritta su carta spessa e rigida come la pergamena, non può che essere un testamento. Evidentemente Stella aveva avuto la soddisfazione di vedere che tutto andava per il meglio, che si trattava proprio di quello a cui lei pensava e adesso sentiva di poter rimandare il momento in cui sarebbe stato necessario esaminare quel documento più a fondo. Ci posò sopra una mano e mi domandò se avevo intenzione di andare al funerale di Edith. Le risposi che ci andavo sempre se si trattava di uno dei miei, ma ho preferito non dilungarmi troppo sull'argomento. Avrei voluto che ci fosse un modo più delicato di poterlo dire. Comunque, Stella si limitò ad assentire. «Perché non ti vesti di nero, Genevieve? In tante cose sei molto conservatrice, sai? Ero sicura che ti saresti vestita di nero.» Avrei potuto dirle la verità, che non ho niente di nero, ma l'avrebbe semplicemente imbarazzata, così mi tolsi il grembiule con la pettorina per mostrarle la giacchetta di cotone, come la gonna, e poi le confessai quella che, in fondo, era la verità. «L'azzurro protegge. È un colore fortunato.» «Avrei dovuto immaginarlo che c'era sotto qualche superstizione. Ma non vorrai dirmi che hai bisogno di essere protetta a un funerale, vero?»
Secondo me, si ha bisogno di protezione dappertutto, e in ogni momento, ma non l'ho detto. E invece le raccontai la storia della mia nonna che porta una collana di perline di vetro azzurre per tenere lontano l'artrite. «E funziona?» «Non ha mai avuto il più piccolo dolore in vita sua» risposi, sapendo benissimo che l'avrei fatta ridere, perché magari la mia nonna non avrebbe mai sofferto di artrite anche senza portare la collana di perline di vetro azzurre. Stella si mise a ridere, ma senza cattiveria. Tutti noi, in famiglia, abbiamo il più profondo rispetto per i poteri che ci custodiscono e proteggono, la mia nonna e la mamma e mia sorella Janis e mio fratello Nick e perfino il mio papà, anche se dice che non è vero. Ma se rifiutarsi di togliersi un calzino e metterlo al diritto quando lo si è infilato a rovescio, e dare la colpa di tutti i tuoi guai a un'automobile verde non sono superstizioni, non so proprio cos'altro potrebbero essere! Ad ogni modo, non è una parola che a noi piace. Preferiamo parlare di poteri soprannaturali o del destino. Stella non ha badato alla data, immagino, e anche se ci avesse badato, non ci avrebbe pensato su molto. A me invece ha fatto sentire la necessità di una protezione speciale, avevo bisogno che la fortuna mi assistesse quel giorno, perché avevo bisogno che, alla sera, succedesse quella bella cosa. E a meno di non prendere le precauzioni necessarie, che speranze potevo avere in un giorno come il 13? Finito di rifare il letto, cominciai a mettere insieme tutta la biancheria di Stella da mandare in lavanderia. Lei piega sempre tutto e lo mette nel sacco della biancheria, così che non è un gran fastidio. Invece quella mattina c'era qualcosa di insolito, cioè che lei mi stava osservando, e mi osservava con molta attenzione. Me ne accorgevo anche quando non la stavo guardando. Così cominciai ad avere una sensazione forte, ma proprio fortissima, che da un minuto all'altro lei avrebbe fatto crollare la barriera e mi avrebbe detto che voleva fare un discorso serio con me. Ad ogni minuto che passava mi sentivo sempre più a disagio. Passai in bagno a sostituire gli asciugamani con quelli puliti e intanto continuavo a toccar legno, e sfioravo con la punta delle dita il lato inferiore del ripiano dell'armadietto, il portarotolo della carta igienica, perfino la spazzola per capelli di Stella, con il dorso in legno. Quando venni fuori dal bagno lei girò il testamento, o voltò una pagina; poi alzò gli occhi verso di me e mi sorrise. Non volevo che succedesse, quello che sapevo stava per succedere. Insomma, guardiamo bene in faccia la realtà e cerchiamo di essere pratici; in
questi posti i vecchi vengono... ecco, credo che la parola giusta sia influenzati... perché si ricordino dell'infermiera o dell'inserviente nel testamento. In tutti gli anni da quando ho cominciato a lavorare a Middleton Hall, l'ho visto succedere di tanto in tanto; ho visto perfino Lena stessa che tentava di influenzare in questo senso almeno un paio dei nostri residenti. Può anche darsi che ci sia riuscita con Edith, vedremo; certo che le parlava sempre di come disporre del proprio denaro in modo di fare il maggior bene possibile e ricordarsi di chi ci era stato realmente utile "durante il tramonto dei nostri giorni". Quello, diceva; e poi andava avanti a ripeterle che se voleva avrebbe potuto chiamarle il suo notaio lì, a Middleton Hall, bastava che lo chiedesse. Ho visto abbastanza per decidere che non voglio avere a che fare con tutta questa storia. Mi venivano i brividi a pensare che c'era qualcuno, magari, capace di dire che passavo tanto tempo con Stella solamente perché stavo dietro ai suoi soldi. Mi veniva la nausea a pensare che avrei dovuto affrontare la realtà dei fatti, magari, e che forse era stato proprio così... se si parlava anche di me in quel testamento. Quindi avevo tutte le intenzioni di badare bene che il mio nome non ci comparisse. Sarei diventata brusca, scortese, perfino villana, e naturalmente non volevo farlo, anzi lo trovavo orribile. Ma per quale altro motivo, allora, lei avrebbe dovuto chiedere ai suoi legali di spedirle il testamento? E chi altri avrebbe potuto essere un come-si-chiama, un beneficiario, all'infuori di me che appena il giorno prima lei aveva chiamato la sua amica? Così non ricambiai quel sorriso. Le chiesi se voleva che le aprissi la portafinestra, sarebbe stata un'altra giornata molto calda, e lei annuì, semplicemente, dicendo sì per favore. Mentre spalancavo la portafinestra, mi aggrappai di nuovo al legno. Ci schiacciai contro le dita, e avevo quasi paura di staccarle di lì, e poi ringraziai la mia buona stella, e il mio angelo custode, perché mi ero vestita di azzurro. Stella disse: «Genevieve?» «Sì?» risposi, e avevo un tono brusco che più di così non era possibile. «Lo sai che sei proprio carina?» Ecco, un vero shock! Vedete se non funziona la faccenda di toccare legno? Qualcosa aveva deviato il pensiero di Stella dal testamento e da quel che aveva intenzione di dire. I poteri del legno avevano fatto prendere un'altra direzione alle sue riflessioni e il completino di tela azzurra che portavo mi aveva protetto. Naturalmente non risposi, non sapevo cosa dire. «Non carina» riprese Stella «no, non è la parola giusta. Bella. Sei una
bella ragazza, Genevieve.» «Non sono una ragazza» obiettai. «Ho trentadue anni.» Lei rise. La sua voce era dolce come il miele, innocua come il latte. «Il che significa che sei giovanissima, anche se adesso non lo capisci. Ma è un peccato che tu non lo capisca.» Sospirò, non saprei spiegare il perché. «Siediti un minuto, Genevieve.» «Non posso trattenermi molto» dissi, mentre non è quello che le rispondo di solito quando mi prega di fermarmi un momento. Ma continuavo ad avere gli occhi su quel testamento. Mi pareva che diventasse sempre più grande, e vistoso. Mi pareva quasi di poter leggere "Queste sono le ultime volontà, questo è il testamento di...", cioè quello che doveva esserci scritto sopra. «È una mattina molto impegnata» dissi «per via del fatto che io e Lena e Sharon andiamo tutte al funerale alle due.» «È a Londra tuo marito questa settimana?» «Torna venerdì» dissi. «Si può sapere esattamente qual è il lavoro di un capomastro?» Allora io le raccontai delle tre grandi case che costeggiavano Regent's Park e dovevano essere interamente svuotate e poi trasformate in appartamenti di lusso. E lei volle sapere dove alloggiavano gli operai, se in un albergo oppure in un pensionato e io le risposi che si trattava di uno di quei posti dove ti danno la camera e la prima colazione, in una località di nome Kilburn. Ormai il lavoro andava già avanti così da settimane e non pensavano di finire prima di Natale. «Devi sentire la sua mancanza.» Il buffo è che la sentivo, in un certo senso. Non si può capire come facessi, vista la mia situazione; come io potessi amare un uomo e sentire la mancanza di un altro, quando lui era via, ma quasi quasi ero contenta che Mike mi mancasse. D'altra parte non sopportavo di fare l'ipocrita. Così non me la sentivo di star lì seduta con Stella a raccontarle che mi struggevo per la mancanza di mio marito, che non vedevo l'ora che arrivasse il venerdì. Lei mi stava guardando con due occhi penetranti, così pensai, come faccio a dirglielo? Era una pazzia pensare di poterglielo dire, anche se lei era l'unica persona con la quale capivo di poterlo fare. Ma cosa può sapere, lei? Sposata, vedova, ha questi due figli, è così vecchia. Avrà dimenticato che cos'è il sesso, anche se le era piaciuto, mentre a un mucchio di donne della sua generazione non piaceva. Poi mi fece provare un vero shock. «Una volta mi hai raccontato che ti sarebbe piaciuto avere dei figli» disse. «C'è qualche motivo perché non puoi? Forse non dovrei domandarlo.
Se sono stata impertinente non sentirti obbligata a rispondere.» Non mi era mai capitato, ma proprio mai, che qualcuno mi domandasse se, per caso, era stato impertinente con me. Così, mi venne da ridere. Non riuscii a trattenermi. Stella inarcò le sopracciglia abbozzando un buffo sorrisino, un po' incerto. Capii che dovevo pur rispondere qualcosa; così dissi: «Sa anche lei come vanno queste cose, se si aspetta troppo a lungo, voglio dire, per noi sono tredici anni, e si continua a rimandare. Credo che non si voglia perdere la propria libertà. Ci si pensa e poi ci si dice, d'accordo, un giorno, abbiamo tutto il tempo che vogliamo, ma c'è poi realmente tutto questo tempo?» «No.» Quasi tutto quello che le avevo risposto non era vero. Per raccontarle la verità ci sarebbe voluto una buona mezz'ora e non sapevo quale sarebbe stata la sua reazione. Così mi alzai in piedi; e intanto lei aveva fatto scivolare di nuovo quel testamento nella busta. Giuro che provai un gran sollievo. «Non credo che lei avrà voglia di venire, questo pomeriggio, vero?» dissi. «Al funerale di Edith?» Mi parve sorpresa, e forse era logico. Glielo avevo domandato soltanto per cambiare discorso. «Abbiamo un posto vuoto in macchina. E potrebbe fare a meno di andare fino al crem se non ne ha voglia. Sarà una giornata splendida e, intorno al crem, ci sono giardini magnifici.» «Al crem?» disse lei. Ci volle un paio di secondi perché capissi che non sapeva di che si trattasse. «Il crematorio» risposi, anche se è una parola lunga da pronunciare senza inciampare nelle sillabe. Lei fu scossa da un brivido. Lo sapete anche voi come capita a volte, quando si ha freddo, e ci si stringe un po' le spalle e ci si dà una scrollatina, lo si fa di proposito, immagino che serva a sentirsi un po' più caldi. Stella non rabbrividì a quel modo ma fu come se qualcosa le avesse dato una scossa - qualcosa che al primo momento la fece sussultare, e poi tremare in tutto il corpo, da capo a piedi. «E perché mai non ha scelto di essere seppellita in terra?» «Non lo so» dissi. Non sapevo neanche se fosse stata lei a sceglierlo o se invece non si trattasse di una decisione presa da Lena. «La cremazione è più igienica.» Stella disse, e lo disse con un tono concitato che, di solito, non adoperava mai: «È orribile!»
«È semplicemente una questione di opinioni» risposi. «Non tutti la pensiamo allo stesso modo. Allora non vuole venire? Potrebbe rimanere seduta fuori all'ombra.» «Non credo proprio, Genevieve. Il giardino, qui, è già abbastanza bello.» Non me lo disse chiaro e tondo ma capii che rispondeva così perché non le piace andare in auto. Ci va soltanto se è proprio necessario. Cioè, ha dovuto adattarsi quando è venuta qui, per esempio. Il treno più vicino ferma a Diss e noi siamo distanti una quindicina di chilometri, così non aveva molta scelta. Ma non va mai in macchina per divertimento, e non ho mai capito perché, forse perché soffre di mal d'auto. Ma non glielo chiederei, comunque, perché non sono affari che mi riguardano. La mia nonna dice che, a un funerale, bisogna sempre che venga versato del sangue. In caso contrario, il fantasma della persona morta torna indietro. Bene, io so che c'è molto di vero in queste cose, so che bisogna proteggersi e proteggere gli altri in questa nostra vita, però... tutto ha un limite. Ricordo che mi sentii rivoltare lo stomaco dopo il funerale del nonno quando vidi quella ferita profonda sulla mano della nonna dove lei aveva fatto uscire il sangue per impedirgli di andare in giro, e di tornare. Con tutto ciò, e malgrado quello che ho detto, mi venne qualche dubbio dopo aver visto la bara di Edith scivolar via e i tendaggi della cappella richiudersi. In fondo, è una cosetta da niente, ma non proprio da niente se uno non la fa, e poi magari succede che ti capita qualcosa di brutto. Così mentre Lena e Sharon si mettevano come un po' piegate in avanti, ai loro posti, e si coprivano la faccia per dire una preghiera, mi tirai via la spilla dal risvolto della giacca e, dopo aver respirato a fondo, me ne cacciai la punta ben affilata nel polpastrello del pollice. Sentii male per un attimo. E ne venne fuori una grossa goccia di sangue. Tornammo tutte in macchina; sembrava un forno che fosse stato puntato sul numero sette, cioè il massimo della cottura, per via del fatto che era rimasta tutta chiusa in pieno sole per tre quarti d'ora. Sharon preso posto davanti, vicino a Lena, e io dietro; ma per me non è affatto scomodo perché Lena guida come un pazza. Quello dove si era seduta Sharon, Mike lo chiama il posto dei suicidi, mentre mio papà dice che bisogna sempre stare in guardia, come a essere seduti su una bomba. Ad ogni modo, chiamatelo pure come volete ma è il posto più pericoloso, eppure quelli che soffrono di mal d'auto in genere soffrono proprio quando stanno seduti dietro. Può darsi che Stella, una volta, abbia avuto un incidente e forse stava seduta
proprio lì, al posto dei suicidi. Andando al crematorio avevamo fatto la circonvallazione esterna ma per tornare indietro Lena decise di passare attraverso il villaggio. Attraverso Stoke Tharby, intendo, il mio villaggio. Così imboccò quella strada che sbuca nella High Street proprio di fianco al pub e quando vidi dove stava andando, capii che saremmo passati dalla casa. Ha un nome, si chiama I Sorbi Selvatici ma chissà per quale motivo... be', il motivo lo so... io la chiamo la casa. Lena, affrontato il pendio del colle, scese dall'altra parte come minimo a novanta all'ora. È una pazzia perché la strada è troppo stretta perché ci passino due automobili affiancate. La sua macchina è troppo vecchia e non ci sono le cinture di sicurezza, dietro, così mi aggrappai forte al sedile davanti e, se a Lena non è andato a genio, peggio per lei. Ero contentissima di essermi punta quel dito al funerale e ancor più contenta di essermi vestita di azzurro. Sul sedile posteriore della macchina di Lena non c'era legno da toccare, ma solo plastica, plastica dappertutto. Lena continuava a ripetere che era qualcosa di esaltante guidare così forte, andare in fretta, e non vedeva l'ora di avere la macchina nuova perché, con quella, avrebbe potuto andare a più di cento all'ora come se niente fosse, e così ho capito che intendeva dire quando avrebbe ereditato quel che Edith, qualsiasi somma fosse, le aveva lasciato. Ad ogni modo arrivammo in fondo alla discesa sane e salve. Per un vero e proprio colpo di fortuna non ci veniva niente incontro. Sharon non è di queste parti, fa la pendolare da Norwich, così Lena cominciò a indicarle i diversi posti. Ecco, là è dove abita Jenny, disse, le case popolari, anche se il comune le ha vendute dalla prima all'ultima, compresa la nostra, e adesso tutti le chiamano Chandler Gardens. Le chiamano tutti così, salvo Lena, veramente. Poi indicò a Sharon la chiesa, St Bartholomew's, la casa parrocchiale e il municipio. E rallentò; adesso andava a passo di lumaca. Stavano rifacendo il tetto di una casetta, lo coprivano di paglia, e lei voleva che Sharon lo vedesse. Ho sentito raccontare che la gente... be', gli amanti... provano sempre qualcosa, qualcosa di forte, per il posto o la casa dove abita la persona che amano. Come in quella canzone di My Fair Lady a proposito della strada dove si abita. Lo trovavo ridicolo, una volta, come si fa a provare qualcosa del genere per mattoni e calce? Come può essere che un posto qualsiasi sembri più grande e più bello e più importante di tutti gli altri posti che gli stanno intorno? Non ci credevo, pensavo che fossero tutte scioc-
chezze. Adesso so che è vero. E se poi penso che lui non ci abita neanche! È uno di quei villini da week-end, ma lui e sua moglie non ci vengono proprio tutti i week-end. Naturalmente lui ci viene a metà settimana per vedere me, e una volta ci siamo anche trovati lì. Ma perché il mio cuore si mette a battere così forte soltanto quando vedo la casa? E perché mi sento la bocca arida? Devo prendermi le mani e stringerle forte per farle smettere, tanto sono scosse da un tremito. Se ti capita di salvare un uccellino e quello ti muore fra le mani, le mani continuano a tremarti per sempre. Stella non vuole crederci, ma è la verità. Ecco come mi sento quando guardo la casa, la casa di Ned, e ho una strana impressione, come se dovessi continuare a tremare per sempre. Non è una casa molto bella, in fondo non è neanche antica, e non ha il tetto coperto di paglia. È quasi completamente in legno, sembra che faccia un tutto unico con quella in mattoni alla quale è unita. Lena non si degnerebbe neanche di darle una seconda occhiata, e infatti non lo fa. E allora perché la sua vista mi lascia più incantata e affascinata di quel che mi succederebbe davanti a qualsiasi palazzo? Perché adesso mi sto voltando e, anzi, mi metto praticamente in ginocchio sul sedile per continuare a vederla fino a quando scompare dalla mia vista? A Lena verrebbe un attacco isterico, e anche a Stella, credo. Sul pollice la piccola puntura, che ho fatto con la spilla, ormai è guarita ma il sangue è stato ugualmente versato. Stasera, se ho un po' di fortuna, oh, devo averla, mi telefonerà per dirmi quando possiamo vederci. Avevo ancora gli occhi fissi sulla casa e la guardavo con tale intensità che per poco non rotolai giù dal sedile andando a finire sul fondo della macchina quando Lena imboccò una curva troppo in fretta. Se si rendeva conto che stavamo per arrivare a una strada più importante e più grande, non ne diede il minimo segno. La High Street era affollata di automobili parcheggiate ai lati, come al solito, ma credo che Lena la guardasse con gli occhi socchiusi. «Pittoresco, vero?» disse. «Un po' come certi coperchi delle scatole di cioccolatini, ma questo non è che un particolare. È vero che l'anno scorso ha vinto la gara per il villaggio meglio conservato del Norfolk, Jenny?» «Non l'anno scorso, quello prima ancora» le risposi. «E poi c'è anche un pub che ha un nome stranissimo, il Thundering Legion. Ecco, mi domando, da dove viene?» Non feci niente per spiegarglielo. A dir la verità, non credo che nemmeno la mia mamma lo sappia. Per anni ha creduto che il soldato romano
sull'insegna fosse una donna per via del fatto che portava un gonnellino di cuoio. È stato Ned a spiegarmelo... e chi altri, se non lui? Lena indicò puntandoci un dito le Weavers' Houses e Sharon allungò il collo per vederle meglio ma io chiusi gli occhi stringendo fra le dita quelle foglioline di felce, che portano fortuna e che avevo raccolto mentre uscivamo dalla cappella. 2 Quando si inganna una persona, è come se si volesse prenderla in giro. Si finisce per farla comportare da stupida, come se certe cose che sono in un determinato modo non siano così, e altre che non lo sono invece lo siano. Ma a questo modo si comportano gli stupidi e gli imbecilli, oppure le persone che non hanno il cervello proprio del tutto a posto e noi le guardiamo dall'alto in basso per questo, oppure, se siamo scortesi, ridiamo di loro. C'è un film che la mia amica Philippa ha in videocassetta sul naufragio del Titanic. È successo moltissimo tempo fa, ottanta o novant'anni, e a quell'epoca gli uomini erano abituati a trattare le donne come se fossero creature fragili che dovevano essere protette e difese da ogni fatto orribile o sgradevole. Nel film gli uomini non dicono mai alle donne che la nave sta per naufragare nel giro di un'ora e che non ci sono abbastanza scialuppe di salvataggio. Continuano a ripetere, arriveremo a New York con un po' di ritardo e così le donne ignorano totalmente la verità e danno l'impressione di essere delle perfette cretine. E dicono fa così male ai bambini essere svegliati all'improvviso, che forse dovrebbero annullare l'appuntamento dal parrucchiere. Ogni genere di inganno è più o meno simile. Quello che stai ingannando chiede se ti senti male o magari sei stanca quando non vuoi fare l'amore con lui. Non hai sentito il telefono quando lui ti ha chiamato la sera prima perché non eri in casa, ma lui non lo sa, ignora di essere ingannato, e dice che forse dovremmo fare una prolunga all'impianto e mettere un altro apparecchio vicino al letto così tu puoi sempre sentirlo suonare quando sei di sopra. A meno di non essere una carogna fatta e finita, ti rifiuti di pensare che lui sta facendo la figura dello stupido, però quell'idea rimane, ben nascosta, sotto sotto, dentro di te. È l'inizio del disprezzo. Non sopporto di dire queste cose e non sopporto di fare quello che devo fare, ma devo farlo ugualmente. Almeno per un po'. Fino a quando qualcosa non cambia.
In genere, non racconto bugie a Mike. Cioè, non affermo cose non vere. Mi limito semplicemente a non raccontare tutta la verità. Quando lui torna a casa e mi domanda che cosa ho fatto, gli racconto tutto salvo quell'unica cosa. Ma non sono tanto cattiva da non capire che è una bugia anche quella, un inganno deliberato. Ad ogni modo c'è una cosa che ho stabilito, non permetterò mai a Ned di venire in casa nostra perché, per metà, è anche di Mike. Io, a casa sua, una volta ci andai. Faceva buio e sono stata bene attenta ma il giorno dopo quando passai dal Legion con la spesa per la mamma, lei era sola dietro il banco del bar, avevano appena aperto, mi disse: «Shirley Foster mi ha raccontato che ti ha visto entrare ai Sorbi Selvatici ieri sera» guardandomi fissa, con gli occhi socchiusi. «Le ho risposto che avevi fatto un salto a portare le uova.» La mamma tiene qualche gallina Bantam, così calcolai che non correvo nessun pericolo. «Va bene, me ne ricorderò» risposi. «Dovresti stare attenta a quello che fai.» Era addirittura gelida. Dopo il mio papà ha avuto altri due mariti e il secondo un giorno l'ha sorpresa a letto con Len che adesso è quello con il quale lei vive, così non è molto probabile che si metta a farmi certi discorsetti sulla morale. «E guai a te se ti azzardi a far venire il principe azzurro a casa tua. Myra Fletcher lo racconterebbe a tutto il Norfolk il giorno dopo.» Non trovai le parole adatte per rispondere. La mamma ha tutte le ragioni del mondo; non aprirebbe bocca, non si lascerebbe sfuggire neanche un vago accenno alla faccenda con anima viva, ma non me la sento di confidarmi con lei. Non potrei dire, lo amo, devo vederlo, dobbiamo trovarci, è come quello che si mangia e si beve e senza di lui morirei di fame, perché si metterebbe a ridere. Scoppierebbe in una di quelle sue grasse risate, e mi direbbe che si è combinato tutto proprio per benino, il signore, eh?, tutto che gli va a pennello, vero? Una moglie e una bambina a Norwich e la morosa in campagna che però deve stare attenta anche lei a quello che fa, perché è sposata. Niente spese salvo quelle per la benzina, non può neanche portarti fuori a bere qualcosa. Oh, so che cosa direbbe lei e non mi crederebbe se provassi a farle capire che non è così, proprio per niente, che lui prova le stesse cose che provo io, che sono tutta la sua vita e, senza di me, morirebbe. Non faccio fatica a immaginare quali sarebbero i suoi commenti in merito. Quanti anni hai, Jenny? Trentadue o quindici? Da allora in poi continuiamo a trovarci qui, ma non a casa sua e naturalmente neanche a casa mia. Lui viene giù in macchina a metà settimana
e, dato che siamo d'estate, ed è un'estate particolarmente bella, io riesco sempre a scoprire certi posti dove andare ai quali la maggior parte della gente non pensa, posti segreti nella palude e nei boschi. Non vediamo mai anima viva. I braccianti delle fattorie non stanno più fuori, nei campi, come usava quando io ero piccola, adesso fanno tutto con le macchine, e la gente non va più in giro a passeggiare. La campagna è deserta e nelle serate estive ci sdraiamo fra l'erba alta oppure in una radura fra gli alberi e facciamo l'amore. Oggigiorno quasi nessuno ammucchia più il fieno in covoni; lo si arrotola stretto stretto e così prende la forma di certi dolci, come quei rotoli morbidi di pan di Spagna, però ci sono gli artigiani specializzati nella copertura dei tetti che raccolgono in covoni le spighe lunghe di grano, loro sì che fanno come all'antica, e la settimana scorsa ho trovato un covone con un'apertura e sembrava che dentro ci fosse una stanza. Le serate estive sono lunghe e calde e io cerco di non pensare a quello che succederà all'arrivo dell'inverno. Non raccontai niente di tutto questo alla mamma, naturalmente. E cambiai argomento. Però, mentre stavo per andarmene, mi corse dietro per farmi mettere il suo amuleto di biancospino. Dovrebbe portare fortuna perché dicono che Gesù sia nato sotto un cespuglio di biancospino, anche se io ho vissuto in campagna tutta la vita e non ho mai visto un biancospino crescere dentro una stalla. L'amuleto della mamma è un pezzo di legno scolpito che si porta al collo, appeso a un cordoncino di cuoio; a dir la verità non è che fosse proprio bello, ma io lo tenni ugualmente per salvare me e Ned da tutte le Shirley Foster e le Myra Fletcher di questo mondo. Lo portai anche il giorno dopo e Stella osservò che "aveva un aspetto interessante". Così mi tornò una gran voglia di raccontarle tutto sul nostro conto, cioè di Ned e mio. Sarebbe un gran sollievo parlarne e non c'è nessuno con cui possa farlo. Tanto che quando lei accennò a Mike e volle sapere se sarebbe rimasto via un'altra settimana, mi scoprii ad avere proprio sulla punta delle lingua le parole per dirglielo. Che cosa mi trattiene? Penso che sia qualcosa di ingenuo, di innocente, che c'è nei suoi occhi, quasi di bambinesco. Ma Stella non è infantile, non è questo che intendo. Non l'ho mai sentita fare un'osservazione stupida né l'ho mai vista mettersi a fare i capricci. Invece la sua voce è soave, ha un'intonazione davvero giovanile, semplice e schietta... mi spiego, dice quello che pensa, non ci sono sottintesi nelle sue parole, e quei limpidi occhi azzurri ti contemplano come se non sapessero che cosa sono i segreti.
Non le dico niente perché penso che rimarrebbe scandalizzata. Il mondo nel quale ha vissuto non aveva spazi per le relazioni d'amore, anzi immagino che farei meglio a dire le relazioni d'amore adulterine. Stella è la persona più raffinata che mi sia mai capitato di conoscere. "Raffinata" è la parola che la mia nonna userebbe per descriverla. È quasi come se non fosse di carne e ossa ma una bambola di porcellana, se le fanno ancora, poi, certe bambole che non sembrano bambine piccole ma assomigliano, piuttosto, a donne vecchie. Si porta una mano davanti alla bocca quando tossisce e si asciuga le labbra con un fazzoletto sul quale sono stampati tanti bocciolini di rosa. Eppure niente di tutto ciò sembra che vada d'accordo con quelle sue lunghe unghie scarlatte. Quando le guardo mi viene un colpo. Come se ci fosse qualcosa di stonato: i capelli bianchi ondulati, quel tocco di cipria e rosso sulle guance, il filo di perle al collo, il vestito di seta a fiori e, abbandonate in grembo, quelle vecchie mani nodose con gli anelli di zaffiri e brillanti e le unghie rosso sangue. Poi ci sono il gin che beve e le sigarette che fuma quando gliene capita l'occasione. Mi parlò più di una volta della sua abitudine di fumare, di come ne fumasse quaranta al giorno, e da tempo immemorabile perché aveva cominciato a diciassette anni. Non saprei spiegarne il perché, ma andava d'accordo, questo fatto del fumo, con le unghie scarlatte. Ma non con la voce soave e gli occhi azzurri. Ho visto vecchi film di Hollywood in videocassetta quanto basta per sapere esattamente che aspetto doveva avere sui quarant'anni, con i capelli biondi lunghi e arricciati, e la sigaretta infilata nel bocchino. Comunque rimasi ugualmente un bel po' sconcertata da quello che disse poi. «Ecco perché adesso ho il cancro al polmone, ma a quei tempi non sapevano che faceva male. Fumavano tutti. E quei pochi che non fumavano... be', erano i pivelli.» Dovetti chiederle cosa voleva dire quella parola. «Gli sciocchi. Gli inesperti. I non sofisticati.» Stavo portando via il vassoio della prima colazione e girai intorno al letto per andare a ritirare dal comodino la tazza del tè, quello che prende sempre al mattino, quando vidi la lunga busta contenente il testamento. Era stata infilata nel libro che Stella stava leggendo. Mi domandavo dove fosse finito, se magari aveva fatto venire uno dei suoi legali intanto che io ero via, per la mia giornata di libertà, e cominciavo ad avere la speranza che fosse sparito e non ne avremmo mai più sentito parlare. Quando aprì la bocca di nuovo, pronunciò qualche parola tanto piano che dovetti chiederle
di ripeterle. «Ho detto che non sono pentita di aver fumato. Mi piaceva. Non so come avrei fatto ad affrontare e superare certe cose senza una sigaretta.» Non c'era molto che potessi rispondere, così mi limitai a sorridere e andai ad aprirle la portafinestra. «Se potessi tornare indietro nel tempo ricomincerei a fumare, anche sapendo quello che so adesso.» «Meglio così, le pare?» osservai. Lei mi rivolse una di quelle sue occhiate così dirette. «No, non ho nessun pentimento in proposito. Ci sono certe cose della mia vita delle quali mi rammarico, e qualcuna per la quale provo un gran dispiacere; ma questa, no.» «Verrà Richard a trovarla oggi?» domandai. Era un'osservazione un po' stupida ma credo di averla fatta per cambiare discorso e allontanarci da quel terreno minato. Del resto, capita spesso che Richard venga al lunedì. «Me lo auguro. Forse nel pomeriggio. Ho ricevuto una cartolina da Marianne, da Corfu. È vicino al letto, vai a darle un'occhiata.» Sembravano tutte chiacchiere fatte apposta perché io mi cullassi in un falso senso di sicurezza! «E già che sei lì, vorresti passarmi quella busta, per favore, Genevieve? Quella dentro il libro.» Gliela passai. Cos'altro potevo fare? «Adesso io continuo con le mie faccende» dissi. «Arthur vuole che gli spinga fuori la sua poltrona a rotelle, è una giornata tanto bella!» «A spingergli fuori la poltrona a rotelle può pensarci qualcun altro» osservò lei, e prese fra le mani la lunga busta. «Siedi qui un minuto, Genevieve.» E così dalla busta tornarono fuori di nuovo quei lunghi fogli di carta ripiegati. Stavo riflettendo che probabilmente non avrei avuto la forza di dire no, di dire, la prego non mi lasci niente, perché mi venne da pensare, come faccio sempre, a Ned e a me e che i soldi di sicuro ci avrebbero aiutato in qualche modo. Stella prese in mano il documento e disse, alzandolo come per mostrarmelo: «Sai cos'è questo?» E io, in tono brusco: «Il suo testamento?» «Il mio testamento? Santo cielo, no. Da' un'occhiata. È il rogito notarile di una casa.» Che sollievo. La tentazione si era presentata ma io le avevo tenuto testa. Sapevo che non sarei stata capace di resistere, però ero contenta di non es-
sere stata messa alla prova. Così sollevai la mano verso l'amuleto di biancospino e lo strinsi per un momento. Lei dovette giudicarmi una bella ignorante perché non sapevo che cosa fosse il rogito di una casa e il primo foglio che mi mise in mano per me non significava niente. Era stato scritto con una calligrafia inclinata, tutta riccioli e svolazzi, un po' simile a quella con la quale scriveva mio nonno. Cominciai a leggere ad alta voce. «"Questo atto di cessione di proprietà si esegue addì ventinove luglio millenovecentoquarantanove, fra Thomas Archibald Wainwright di Palings, Hemingford Grey nella Contea di Huntingdon, ufficiale della Marina da guerra, (che d'ora in avanti verrà chiamato 'il Venditore'), da una parte e William John Rogerson, di..."» Lei mi interruppe. «Sì, questo l'ho letto. Da' un po' un'occhiata a quest'altro. Era scritto a macchina e sembrava molto più moderno anche se la data era quella di quindici anni dopo soltanto. Non sembrava che Stella avesse voglia di ascoltare, così lo lessi per conto mio, non tutto ma per una parte. Fuori c'era scritto: "W.J. Rogerson Esq. alla signora S.M. Newland", e sotto "Atto di cessione totale e assoluta della proprietà fondiaria conosciuta come La Molucca e situata a Thelmarsh nella Contea di Norfolk". Dentro c'era più o meno scritto qualcosa di simile a quello che avevo già letto ad alta voce solo che stavolta "il Venditore" era questo William John Rogerson e "l'Acquirente" era Stella.» «Si tratta di una casa che ho comperato nel 1964» lei disse, e la sua voce era diventata improvvisamente seria, e molto grave. Come se volesse parlare di un passo molto importante che aveva compiuto, uno dei più importanti della sua vita. Forse era così. Alzò gli occhi dal secondo documento che reggeva fra le mani, mi guardò e girò la testa dall'altra parte. «Questo deve rimanere soltanto fra te e me, Genevieve. Non è...» esitò per un attimo, come se cercasse la parola giusta «... non è di dominio pubblico.» Come rispondere a una frase del genere? Le restituii i documenti. Lei li infilò nella busta insieme agli altri. «Non verresti di sopra con me?» «Come ha detto, scusi?» le domandai. «Voglio mostrarti qualcosa.» Stella può camminare molto bene. Non in fretta perché le manca un po' il fiato, ma non c'è niente che non funzioni nelle sue gambe, non è artritica come Maud o come Gracie. Le offrii il braccio ma lei scrollò la testa. Lo scalone principale di Middleton Hall è largo e i gradini sono molto bassi ma difficili da salire perché in legno lucidissimo e non c'è la passatoia. In principio ero rimasta un po' sconcertata e continuavo a chiedermi per quale
motivo non avessero pensato a metterne una; poi intuii che il motivo era diverso, cioè Lena non vuole che i vecchi vadano su e giù per le scale con troppa disinvoltura. Preferisce che lo facciano lentamente, aggrappati alla balaustra o, ancora meglio, che rimangano nelle loro camere o nella sala di soggiorno di modo che lei può sapere sempre dove sono. Stella si spostò di lato e cominciò ad aggrapparsi al corrimano. A vedere la sua vecchia mano con quelle dita dalle unghie rosse, da ragazza giovane, che si tenevano strette al legno scivoloso della balaustra provai di nuovo un po' di pena per lei. E rabbia contro Lena perché non ci fa installare uno di quei sedili che funzionano elettricamente e fanno da ascensore. Considerato quello che pagano, sono sicura che potrebbe trovare le poche centinaia di sterline necessarie. In cima alla scala Stella dovette fermarsi per riprendere fiato. Non avevo la più pallida idea di dove mi volesse condurre perché mi ero dimenticata che lì, di sopra, non ci sono soltanto le stanze dei nostri ospiti fissi. Ma in fondo al corridoio c'è anche un locale che viene chiamato sala di soggiorno del primo piano. Il guaio è che nessuno di quelli che occupano le stanze del piano superiore mi sembra che pensi di servirsene. Sono tutti troppo decrepiti per lasciare le loro camere oppure preferiscono arrischiarsi a salire e scendere quelle scale così pericolose due volte al giorno per godersi la compagnia che possono trovare al pianterreno. La sala di soggiorno del primo piano è molto piccola, con il solito arredamento composto dai tre pezzi caratteristici, divano e due poltrone, e qualche altra seggiola scompagnata, tutti rivolti verso la televisione. Ma la televisione è in bianco e nero e l'immagine sullo schermo poco chiara, e balla in continuazione. La cosa migliore della sala di soggiorno del primo piano è la vista: chilometri e chilometri di panorama. Stella mi condusse alla finestra. Restammo lì a guardare i campi e la palude, fino a Little Ouse che diventa il fiume Waveney in quel punto ed è anche il confine della contea, con il Suffolk dall'altra parte. La giornata era calda ma limpida, e si poteva vedere l'orizzonte. Non era né coperto di foschia né nebbioso come capita spesso, o tanto meno oscurato dal fumo come succedeva una volta in quest'epoca dell'anno. Il cielo era di un pallido azzurro con masse enormi di nuvole alte e il paesaggio quello di sempre, verso la fine dell'estate, campi verdeggianti dove crescono le bietole e campi che hanno il colore dei capelli biondi dove il grano è stato tagliato e prati che sembrano pieni di vele bianche ondeggianti nell'aria, e sono quelli degli allevamenti di oche. Le siepi sono file e file di qualcosa che sembra fioccoso, come ciuffi
d'erba, e segnano, scure, il confine dei campi mentre la palude più oltre sembra azzurra, un azzurro delicato e nebuloso. «Si ricorda» dissi «che una volta avevano l'abitudine di dar fuoco ai campi in quest'epoca dell'anno? A volte non si riusciva quasi a vedere il cielo con tutte quelle nuvole di fumo. E l'aria era piena di pezzettini di cenere nera.» Lei mi guardò con occhi vacui come se non capisse. «I contadini» dissi «dopo che il grano era tagliato, appiccavano il fuoco ai campi. Hanno cominciato a farlo subito dopo la Seconda guerra mondiale, me lo raccontava il nonno. Però avrebbero dovuto lasciare uno spazio di quasi due metri fra le stoppie e le siepi di confine, ma non essendo obbligatorio, molti finivano per bruciare anche le siepi. Adesso hanno smesso, è il primo anno che non si può più fare, non danno il permesso.» La sua testa era girata dall'altra parte. Non credo che mi stesse ascoltando. «Ed ora guarda dritto davanti a te» disse. «Vedi il campanile della chiesa, quella specie di torre quadra?» «È St John's, a Breckenhall» feci io. «Questo non lo so, Genevieve, però sono sicura che hai ragione. E adesso guarda a sinistra del campanile, di quella che come tu dici è la chiesa di Breckenhall, e vieni un po' avanti con gli occhi e vedrai una casa bianca. Sembra un cubo bianco, molto semplice. Lo vedi? Vai ancora un po' più a sinistra e sono sicura che riesci a distinguere appena appena qualcosa di marrone con il tetto rosso.» «Sì che la vedo» dissi. E stavo per continuare spiegandole che la vedevo benissimo quando mi resi conto che c'era una bella differenza di età fra i nostri occhi. «Una costruzione quadrata con il tetto rosso. Deve essere sulla strada di Curton.» «Infatti. Quella è la mia casa.» «"Atto di cessione totale e assoluta della proprietà fondiaria» dissi «situata a Thelmarsh nella Contea di Norfolk."» «Precisamente.» «E lei è venuta a Middleton Hall perché, di qui, poteva vedere la casa?» «Il contrario, piuttosto. Voglio dire che se lo avessi saputo, forse non sarei venuta.» Scoppiò in una risatina nervosa. «Anche se c'eri qui tu...» e di nuovo quella risatina, forse imbarazzata o semplicemente timida, in ogni caso non allegra. «Sono venuta in questa stanza un giorno, non ricordo perché... oh, sì, qualcuno aveva detto che c'era una libreria con dei libri, solo che non c'era... e ho guardato fuori dalla finestra e... ho pensato che
quella era la mia casa, capisci. Poi ho pregato Richard di portarmi una carta topografica, la tavola giusta dell'Istituto Geografico Militare.» Lei parla a questo modo, molto preciso e corretto. Non credo che in tutta la sua vita abbia mai fatto un errore di grammatica. A volte è come se leggesse qualcosa che è già stato messo per iscritto. «Naturalmente gli spiegai che la volevo soltanto per cercare di orizzontarmi un po' e capire dove mi trovavo. Lui non immagina neanche lontanamente che io sia già stata in questa regione, come non lo immagina Marianne. Loro non ne sanno proprio niente, nel modo più assoluto.» Si stava sporgendo fuori dal davanzale con lo sguardo fisso verso il posto dove c'era la sua casa. Poi sollevò le spalle e mi sembrò che fossero scosse da un piccolo brivido, ma forse me lo immaginavo. Le domandai se avrebbe avuto piacere di rimanere sola per un po'. Io dovevo andare avanti col mio lavoro, dovevo proprio; e ho pensato che le facesse piacere rimanere sola. Con i ricordi. Con qualche cosa. Lei si voltò e provai la sensazione che la sua faccia fosse invecchiata. «Forse sì. Per un pochino» disse, ma quando arrivai alla porta, mentre la aprivo, aveva già cambiato idea. «No, vengo anch'io. Sprecherei del tempo, e non ne ho molto, e non posso dire che contemplare questo panorama mi dia un gran piacere.» Stavolta mi prese per il braccio. Dalla sua espressione, inquieta, a disagio o forse soltanto indecisa, pensai che fosse lì lì per dire qualcosa di strabiliante, qualcosa che mi avrebbe veramente lasciato di stucco; che avrebbe fatto chissà quale dichiarazione a proposito di quella casa con il tetto rosso laggiù, sulla strada di Curton. Invece mi domandò semplicemente perché avevo menzionato le stoppie che bruciavano e quando glielo spiegai mi sembrò insoddisfatta della risposta. Cominciammo a camminare per il corridoio, e andavamo piano per forza, con Stella che si aggrappava al mio braccio. Sentivo le sue unghie che si affondavano nella carne, poi ci sarebbero rimasti i lividi, ma preferii tacere perché lei non se ne accorgeva. Poi, invece, mi lasciò senza fiato... quello che disse fu talmente imprevisto... anche se ormai dovrei essere abituata al modo in cui cambia improvvisamente argomento. «Stamattina alla radio hanno messo una musica che mi piaceva, Genevieve, e mi sono detta che peccato non poterla più ascoltare un'altra volta. Secondo te esiste qualche modo per registrare la musica che mi piace?» Risposi di sì, certamente, poteva farlo, poteva procurarsi un registratore. Se ne trovano anche di molto piccoli che non richiedono un grande spazio.
Lei fece segno di sì con la testa. Lo avrebbe chiesto a Richard o a Marianne. E un'altra cosa che voleva era un leggio, uno di quegli aggeggi che tengono su un libro, da adoperare quando era seduta a letto. E cominciò a raccontare che si sentiva le braccia stanche e le mani le diventavano fredde, se doveva tenerle fuori dalle coperte. Era strano, soggiunse, lo capiva, avere le mani fredde in agosto, e in un agosto così caldo, per di più. Intanto avevamo svoltato l'angolo in cima allo scalone dove c'è una galleria e di lì si può guardare giù nel vestibolo. Ecco Richard. Stava chiacchierando con Stanley, il marito di Lena. Sembrava che fosse appena entrato. Ci voltavano le spalle e non si erano accorti di noi. Richard è magrissimo, alto un metro e ottanta, e Stanley, invece, uno degli uomini più grassi che io abbia mai visto: così vicini uno all'altro erano proprio uno spettacolo da non credere. Stella di solito è felice di vedere i suoi figli. Li chiama "tesoro" e li accoglie sempre con entusiasmo, invece mi sono meravigliata quando non provò a chiamarlo e mi strinse il braccio ancora più forte. Poi mi bisbigliò: «Genevieve, non una parola della mia casa a Richard.» Mi limitai a guardarla. «Lui non lo sa, capisci. Lui non lo sa e neanche Marianne lo sa che sono la proprietaria di quella casa.» «Non dirò niente» le risposi, ma mi sentivo un po' sbalordita. Stella lo aveva raccontato a me, e non a loro? Se devo dirvi la verità, per un momento mi sentii sfiorare dal dubbio che cominciasse ad avere il cervello confuso, che avesse perso la sua lucidità mentale. È triste quando succede, ma a volte capita con i malati di cancro se il tumore maligno arriva anche al cervello. D'altra parte, avevo le prove di quei rogiti, e chiunque avrebbe potuto constatare che Stella era totalmente compos mentis (come Lena dice sempre) quando raggiunse Richard, lo abbracciò stretto e gli disse che lo trovava in gran forma. Richard non assomiglia per niente a sua sorella, salvo per il fatto che sono tutti e due alti e magri. È biondissimo, una di quelle persone che da bambini dovevano avere i capelli quasi bianchi, e ha gli occhi celesti. Stella mi ha detto che fa il medico, l'internista, e che ha lo studio insieme a un gruppo di altri medici a Norwich. Porta quel tipo di occhiali che non hanno la montatura e gli danno l'aspetto dello studioso ma la sua faccia è proprio quella di un ragazzo e quando sorride sembra che abbia diciott'anni. Con Stella è adorabile e mi fa pensare, se mai avessi un figlio e se riuscissi a diventare vecchia, che mi augurerei che il mio ragazzo fosse altrettanto
gentile e carino con me. Le aveva portato un mazzo di gigli rosa e Gypsophila con tutti quei fiorellini. Scovai un vaso di porcellana rosa dove metterli e quando li portai nella sua camera lei e Richard erano seduti e stavano parlando, Richard le teneva la mano, e i rogiti della casa, chiusi nella busta, che lei aveva lasciato sullo scrittoio, non si vedevano da nessuna parte. Pensò Sharon a servire il caffè a tutti e due, io dovevo andare a vedere come stava Gracie, la mia nuova vecchietta, così non riuscii a controllare dove fossero finiti quei documenti. Ma continuai a pensare a quel che aveva detto. Cioè che i suoi figli non sapevano come lei fosse proprietaria di quella casa. Che era un segreto. Poi mi tornò in mente la data sull'ultimo atto di vendita: 1964. Possedeva una casa e aveva continuato a tenere il segreto per trent'anni? Gracie non è come Stella. È una vecchia signora grigia, corpulenta e triste. Un colpo apoplettico le ha tirato giù la faccia da una parte così adesso la dentiera non le sta più a posto come dovrebbe, e lei si vergogna e cerca di non parlare se appena appena può farlo, e non mangia quasi niente. Per scusarsi non fa che indicare la bocca. Che abbia dei figli, o magari un nipote o una nipote, non so; ancora non li ho visti. Nessuno ha pensato di fissarle un appuntamento da un dentista perché le metta a posto la dentiera così ci pensai io con il telefono che c'è nella sua camera e combinai di accompagnarla con la macchina a Diss, venerdì. A Lena non è piaciuto, no, proprio per niente; mi davo troppo da fare e mi accollavo troppi impegni, mi fece osservare, guardandosi bene, però, dall'annullare l'appuntamento col dentista, preso da me, perché è troppo piena di rispetto e di timore per medici o dentisti per fare una cosa del genere. Chiama Richard "dottore" e quando parla con lui lo mette dentro, nel discorso, ogni due parole. Di tanto in tanto, a tratti, durante la giornata, il mio cervello continuò a tornare alla casa di Stella; una volta arrivai addirittura al punto di salire di sopra, nella sala di soggiorno, a darle un'altra occhiata dalla finestra. Davanti, c'era un prato pieno di sagome bianche in continuo movimento, le oche; dietro, il buio della palude. Ned e io ci siamo stati una volta, in quella zona della palude voglio dire, e abbiamo camminato a lungo, inoltrandoci fra le piante di sanguinello e le olmarie, adesso me ne ricordo, e so con precisione dov'era la casa. Credo perfino di aver notato, mentre ci passavamo davanti, che sembrava abbandonata, come se nessuno ci abitasse più da anni. Richard uscì appena prima che Sharon entrasse a servire il pranzo a Stella. Mi domandò come stava sua madre, secondo me, e io gli risposi, bene,
almeno per quanto era possibile nelle sue condizioni. «C'è qualcosa che posso procurarle, Jenny, che ho dimenticato oppure che lei non mi ha chiesto?» È un uomo molto simpatico. Premuroso, come una donna. Be', come certe donne. «Aveva accennato a un registratore» dissi. «Per registrare un po' di musica? Sì, le piace la musica. La musica da camera, sai, si tratta di musica dolce, suonata da pochi strumenti.» Mi piace il modo in cui capisce che io lo so, certo che lo so, e che per il semplice fatto che lavoro come inserviente in una casa di riposo per anziani non sono una completa ignorante. «Avrebbe dovuto venirmi in mente» disse. «Ne ho uno piccolo, che potrei dare a lei. Ma no, adesso che ci penso, sarebbe meglio se gliene comperassi addirittura uno, un bel registratore magari con l'auricolare, cosa ne dici?» Sarebbe stata la cosa migliore, risposi, e anche portarle qualche cassetta della musica che le piaceva. «Me ne ricorderò. Non è il classico tipo della teledipendente, vero?» «Le piace una buona commedia» dissi «e anche, come piace a me, qualche vecchio film.» «Come a tutte le persone migliori» rispose. Poi mi ringraziò per il consiglio e mi salutò con molta gentilezza tanto che per un momento quasi mi venne in mente, non importa quello che Stella mi ha detto, forse dovrei parlargliene. Avrei fatto bene a corrergli dietro e a dirglielo. Poteva esserci qualcosa di molto sbagliato in tutta quella faccenda, e se Stella fosse morta, se Stella fosse morta quella notte stessa, cosa che poteva succedere facilmente, ci sarebbero stati quei documenti e quella casa di cui nessuno sapeva niente... invece, no. Seguii con lo sguardo la sua automobile che si allontanava, un'automobile sportiva, bassa, dalla linea stranamente allungata per un dottore, ma lui la guidava con delicatezza, non a scatti, a sobbalzi e a scossoni, come avrebbe fatto Lena. Il mio turno finiva alle quattro. Ned sarebbe arrivato da Norwich e avevo combinato di trovarmi con lui alle sette, e quando questo succede non riesco quasi a pensare ad altro. È lui che occupa totalmente i miei pensieri, e se non stessi un po' attenta andrei in giro come una sonnambula. Ma di solito cerco di passare l'ultima mezz'ora del mio turno con Stella, nella sua camera a chiacchierare con lei oppure nella sala di soggiorno se lei è dell'umore adatto e ha voglia di andarci. Arthur stava facendo il suo solito pisolino e ho trovato una di quelle tra-
smissioni di quiz a premi alla televisione per Gracie, e avevano già preso il tè tutti e due, così ho bussato leggermente alla porta di Stella alle tre e venti ma lei non c'era. L'ho trovata nella sala di soggiorno, tutta sola, e se l'aveste veduta lì come l'ho veduta io senza che lei mi vedesse, non avreste mai pensato che era una povera vecchia, una povera creatura che stava morendo di cancro. Vi descriverò il suo aspetto, sembrava una gentildonna che aspettasse le gentildonne sue amiche che dovevano venire a prendere il tè con lei. Sedeva in una poltrona con un giornale illustrato in grembo ma non lo stava guardando, guardava fuori dalla finestra il giardino verdeggiante e le farfalle su un cespuglio di Buddleia. Teneva il mento appoggiato a una delle mani e con l'altra si reggeva il polso; a questo modo il sangue non gonfiava più le vene e le sue mani sembravano lisce e giovani. C'era stata la parrucchiera, da noi, e le aveva fatto uno shampoo e la piega; aveva anche indossato il vestito che a me piace di più, quello di seta blu con certe macchie tonde a forma di monete, color crema. Le calze chiarissime che porta sempre, e farebbero assomigliare le gambe di altre donne a veri e propri tronchi d'albero, su di lei stavano benissimo perché le sue sono lisce e affusolate. Quando cominciai a dare qualche colpetto di tosse, più che altro per una questione di tatto, lei si voltò. E come fu incantevole il sorriso che mi rivolse, lo stesso sorriso che si vede rivolgere Richard, e non credo che lei lo dedichi a nessun altro. Si era truccata un po' le guance con quello che lei chiama rouge e si era anche data un po' di ombretto azzurro sulle palpebre ma non commette mai l'errore della povera vecchia Maud che si trucca le labbra con un rossetto scarlatto talmente vivo da sembrare una ferita aperta. Quello di Stella è rosa pallido e credo che se lo metta con un pennellino. «Speravo che tu arrivassi, Jenny» disse. Le risposi che era quello che facevo sempre, se appena appena ne avevo l'opportunità, mi sedetti di fianco a lei e cominciammo a guardare le farfalle, contandone dieci piccole di quelle che si chiamano tartaruga, sette pavonie, una vanessa atalanta, e un'altra che Stella ha detto era una comma. Sa un sacco di cose su argomenti del genere, la natura, e la fauna e la flora delle specie protette. Mi disse che le sarebbe piaciuto vedere una di quelle che si chiamano macaone, aveva sentito dire che si potevano vedere soltanto nel Norfolk, chissà, forse qui l'avrebbe vista. «Prima di morire» disse. «Forse vedrò una farfalla macaone e morirò felice.»
A questo non avevo risposta. «Suppongo che non potrei avere una sigaretta, vero, Genevieve? Oh, come mi piacerebbe fumare una sigaretta.» «Meglio di no» risposi. «Qui da noi, in tutto il residence, non si dovrebbe assolutamente fumare.» Bastò questo pensiero a farmi scoppiare in una risatina convulsa. «E in ogni caso, qui dentro assolutamente no.» «In ogni caso assolutamente no anche quando si ha il cancro ai polmoni. Ma è abbastanza sciocco, non trovi? Ormai è troppo tardi, il danno è stato fatto, non dovrebbe avere più importanza. Ecco un'altra vanessa atalanta. Ha un così bel nome latino Vanessa atalanta...» Aveva distolto lo sguardo dalla finestra e si era voltata a osservare me. «Voglio domandarti una cosa. Cioè, voglio che tu faccia qualcosa per me, se accetti.» «Lo farò se è appena possibile» risposi, ma avevo già la sensazione, non capisco perché, che non sarebbe stata cosa da poco. «Devi dirlo se non vuoi.» «Va bene.» «Genevieve, se io ti dò la chiave e ti spiego esattamente dove si trova, vuoi andare nella mia casa, dare un'occhiata in giro e dirmi... dirmi in che stato è?» «Allude alla casa sulla strada di Curton?» «Sì, quella. Si chiama La Molucca. Credo che il capitano Wainwright, che era il proprietario prima del signor Rogerson, fosse un marinaio o un viaggiatore e deve essere stato nelle Indie orientali.» Mi sorrise e continuò, con gentilezza: «Lo faresti per me? Andare a darle un'occhiata? E poi dirmi cosa ne pensi?» «Sì, suppongo di sì,» le risposi, e dal momento che non mi era sembrato di avere un tono molto cortese, soggiunsi: «naturalmente lo farò, Stella.» Poi esitai, non sapevo come dirlo ma dovevo provare ugualmente. «Stella, non sarebbe meglio se fosse Richard a farlo? Non potrebbe parlare a lui della casa e pregarlo di andarci? È così carino e gentile, che accetterà subito, non crede? E non si arrabbierà, non rimarrà sconvolto o niente del genere.» A lei dovette far piacere sentirmi dire che suo figlio era carino e gentile. Arrossì lievemente. «Voglio che sia tu ad andarci, Jenny» disse. «La cosa migliore è che Marianne e Richard non lo sappiano. Non ancora. E se non ti sembra troppo melodrammatico, è meglio che non lo sappiano fin dopo che io sarò morta.» Evitò di guardarmi, a quel punto, ma non riportò gli occhi in direzione della finestra, e si mise invece a fissare una parete vuota.
«Mi imbarazza» disse con voce quieta, sommessa. «Mi spiace, ma... non è quel genere di cose che si vorrebbe... che si vuole far sapere ai propri figli. Andrai a vedere la casa per me?» «Ci andrò stasera» dissi. «Oh, e... Genevieve? Starai attenta a come guidi, vero?» 3 Con l'automobile, c'era da fare una dozzina di chilometri. In linea d'aria, naturalmente, era molto più vicina. Capii che, con Stella, dalla finestra del piano di sopra avevamo individuato la casa in una posizione che non doveva essere più in là di due o tre chilometri di campagna a vol d'uccello. La strada mi portò fuori da Tharby e oltre Thelmarsh Mill; perfettamente dritta, e le siepi ai lati scompaiono, è una strada romana, sulla quale le tonanti legioni marciarono risalendo l'Inghilterra lungo il lato orientale. Attraversai Newall Pomeroy e poi seguii i cartelli segnaletici per raggiungere Breckenhall. Ero quasi sicura di ricordare il posto preciso, e mi accorsi di aver ragione. La strada era stretta, dritta e piana, con le case che si trovavano un po' rientrate rispetto a essa, prima quella bianca che Stella aveva visto confusamente e io con chiarezza; poi, un centinaio di metri più oltre, la sua. La casa bianca aveva un giardino con uno steccato che lo separava da una striscia di prato, e poi dalla strada; invece la palude arrivava addirittura a ridosso della casa di Stella, fino ai muri e alla porta d'ingresso padronale. Ha preso a poco a poco possesso del prato con ginestre spinose e piante di assenzio, ortiche, rose e sambuco, e si è insinuata fino a quello che una volta doveva essere il giardino di modo che adesso la casa ne è, praticamente, del tutto circondata. Lungo il lato sinistro una volta doveva esserci un sentiero che correva a fianco di un fosso pieno di code di gatto e agrimonia, con i fiorellini gialli sugli steli aguzzi, ma adesso questo sentiero era letteralmente nascosto dalle pianticelle di cardo selvatico. Ned dice che le infiorescenze a capolino dei semi, su quelle piante che noi, qui nella zona, chiamiamo mazze d'oro, assomigliano a un ciuffo di lana filata sulla conocchia. Ce n'erano dappertutto, e se ne staccava la lanugine bianca. Era una serata calda, l'aria torbida, il tempo uggioso. Il sole, ormai, scomparso del tutto. Imboccai il sentiero nascosto dai cardi selvatici e andai avanti ancora per un pezzetto, seguendolo, perché la macchina non rimanesse parcheggiata sulla strada. Tutt'intorno c'è un gran silenzio, qui,
quando gli uccelli, appollaiati sugli alberi, dormono già, e perfino lo schiamazzo delle oche era cessato. Se conoscete la nostra campagna saprete già fino a che punto può essere silenziosa, alla Sera, dolcemente tacita, quasi come se tendesse l'orecchio per ascoltare qualcosa. Dal suo terreno basso e piatto s'innalzano grandi alberi ma, per la massima parte, la palude assomiglia a una foresta di rovi, l'acqua si trova appena sotto la superficie del terreno, e tutte le canne e i giunchi, i noccioli e il corniolo selvatico ondeggiano appena appena, con le loro fronde, fra sommessi sussurrii e fruscii. Quando tutto intorno è in silenzio, quieto e in pace, si può sentire anche il gorgoglio dell'acqua. Mi accorsi di essere molto attenta a tutto questo intanto che mi avvicinavo alla casa. Era l'unica che mi fosse mai capitato di vedere situata in mezzo alla palude vera e propria o di cui la palude, col tempo, avesse preso possesso. Proprio a ridosso della porta era cresciuto, da una pianticella seminata lì dal vento, un grande sorbo selvatico e le sue bacche avevano lo stesso colore delle tegole di argilla rossa del tetto. Quattro finestre ricambiarono il mio sguardo. Avevano la forma dei finestroni da chiesa con la parte superiore che finiva a punta, ma i vetri erano chiari, non colorati. La porta d'ingresso si trovava sotto un piccolo portico con il tetto a punta e alla sua sinistra c'era un garage costruito in quelle assi nere, di legno, che si usano solitamente per la copertura esterna dei fabbricati. Era una casa tutta in selce; i muri, pezzi di selce di forma irregolare, grezza, assomigliavano ai sassi che si trovano sulla spiaggia, ma questi sassi, invece, provenivano da un terreno roccioso. La mamma della mia nonna, quand'era ragazza, riceveva mezzo penny di pagamento per una cesta colma di pezzi di selce che andava a raccogliere nei campi perché non affiorassero dal terreno, ammaccando o spuntando il filo delle lame dell'aratro. I pezzi di selce dei muri della casa di Stella erano bruni e grigi e bianchi e quasi neri, tutti mischiati insieme, però scelti il più possibile della stessa misura e disposti in belle file parallele. Proprio sopra la porta padronale c'era un ovale in quella specie di intonaco di un colore biancastro, che i muratori come Mike chiamano placca, con "La Molucca" scritto sopra, e tutt'intorno una corona di foglie decorate in gesso. Dovetti calpestare le piante di ortiche per arrivare alla porta; non volevo che mi pungessero le gambe. La porta era coperta di ragnatele; in una, c'era un calabrone morto, impigliato nei fili. Infilai la chiave girandola nella serratura senza difficoltà. Chissà da quanto tempo... non avevo assolutamente pensato a chiederlo... non ci entrava più nessuno. Magari non
proprio da trent'anni, no, assolutamente, ma da venti, forse? Dentro, l'anticamera aveva i muri tappezzati di una carta con un motivo di fiori azzurri sbiaditi su fondo d'argento, e una passatoia blu sul pavimento di legno, coperto di polvere. L'aria era stantia ma non si sentiva cattivo odore. La porta si richiuse da sola alle mie spalle dolcemente, senza cigolii, senza bloccarsi. Mi trovai in quel genere di casa che già sai come sarà anche guardandola dal di fuori, cioè con una stanza ai due lati della porta d'ingresso, un corridoio al centro, sul retro una cucina e un'altra stanza, e la scala che sale al piano di sopra contro la parete di destra. Si impara a conoscere l'età delle case se si vive da queste parti; così calcolai che dovesse avere, come minimo, centovent'anni. La prima stanza in cui entrai mi sembrò una specie di salotto. Si trovava sulla destra ed era molto ampia e arredata come... be', non so come potrei spiegarmi..., diciamo come la classe media e i vacanzieri da fine settimana sono abituati ad arredare i posti dove vanno; è lo stesso modo in cui arredano le loro case le persone che la mia nonna chiamava sempre "la gente bene", e che non sono quelli come noi. Cioè, mi spiego, non hanno mobili nuovi ma quelli che loro credono antichi, o se non altro vecchi, e si fanno foderare le poltrone con una stoffa chiamata chintz, e ci mettono tappeti indiani e porcellane d'epoca. La casa di Stella era così. Comunque si trattava di una stanza molto carina, come certe fotografie delle riviste di arredamento, quelle che a volte ti capita di sfogliare se devi aspettare un po' all'ambulatorio medico. Chissà cosa direbbero i miei vicini se io arredassi la mia casa a questo modo? C'erano piatti di porcellana appesi alle pareti e quadri di fiori e frutta, ma quello più grande era un ritratto di donna. Si poteva capire subito che si trattava di un quadro che qualcuno aveva dipinto con i colori a olio, non una riproduzione o la fotografia di un quadro o quelli che si fanno adesso, con qualche altro procedimento. Sarà stato largo un metro, e lungo un paio. La donna aveva i capelli scuri e un viso pallido, grazioso, indossava un vestito di seta di un bel rosa carico, con una gran scollatura e la gonna ampia, a pieghe fitte e profonde, e intorno al collo portava un doppio filo di perle. In mano reggeva una rosa, una soltanto, di un pallido colore rosato. Era stato fissato con i chiodini intorno a una pura e semplice intelaiatura di legno e non aveva né una cornice né un vetro a coprirlo. Non so cosa avesse, eppure mi diede subito la sensazione che il pittore avesse amato la donna che vi era raffigurata, che fosse stato innamorato di lei, forse per l'atten-
ta premura, quasi la tenerezza, con la quale le aveva dipinto la bocca e messo un guizzo di luce negli occhi. I pezzi di argenteria, disposti qua e là sui mobili, si erano talmente ossidati da diventare marrone, una ciotola d'argento aveva un'intaccatura più scura da un lato, e l'ottone era addirittura nero. Qualcuno aveva lasciato in un vaso un ciuffo di nigella e di pisello odoroso anche se l'acqua ormai si era asciugata da chissà quanto tempo. I fiori erano morti e sembrava che fossero morti almeno da vent'anni tanto che si aveva la sensazione che si sarebbero sbriciolati, riducendosi in polvere, a toccarli. Nella libreria c'era una quantità di libri. A me i libri piacciono, cosa che meraviglia un po' parecchia gente. Mi piace maneggiarli oltre che leggerli, così ne ho tirato fuori uno e ho visto che la carta era ingiallita e puzzava di muffa. La polvere copriva ogni cosa, azzurrina sulle superfici di legno e grigia, quasi una lanugine, sulle imbottiture dei mobili. E quando ho toccato con la punta delle dita le tende, ne è venuta fuori una nuvola. Anche in sala da pranzo tutto era più o meno nelle stesse condizioni. Impossibile dire di che colore fosse il tavolo, tanto era spesso lo strato di polvere che ne copriva la superficie, come un soffice tessuto che fosse stato disteso sul legno. Spalancai gli sportelli della credenza e mi accorsi che era piena di quadri in cornice. Qualcuno li aveva staccati dalle pareti per cacciarli lì dentro. Adesso mi rendevo conto del perché sui muri si vedessero ancora dei riquadri più chiari al posto dov'erano stati appesi. C'erano dipinti di bambini e animali, abbastanza belli, ma non vi prestai molta attenzione. In fondo al mucchio trovai la fotografia di un uomo e di una donna in piedi, vicini. Non era poi così vecchia! Voglio dire che doveva essere stata scattata dopo la mia nascita, magari negli anni Sessanta. Me lo fece pensare la pettinatura della donna. Capelli neri tutti buttati all'indietro con due ciocche che scendevano arricciate fin sulle guance. Era la stessa donna del quadro a olio e portava lo stesso abito da sera rosa. Lo trovai strano perché era evidente che dovevano trovarsi all'aperto, lo sfondo era quello di una scogliera o di una ripida parete di roccia, eppure lei indossava quell'abito di seta dalla scollatura profonda e lui aveva un paio di jeans e la camicia a quadretti. Era alto e magro, biondo e con l'espressione di chi ha sempre il sorriso pronto. Per lui sorridere doveva essere la cosa più naturale del mondo e si potevano vedere i segni che i sorrisi si erano lasciati indietro sulla sua faccia. Lo strano era che avevo la sensazione di averlo già visto in qualche posto anche se non lo conoscevo. Ridicolo, vero?, perché si può ben immaginare che non mi capita spesso di conoscere gente
nuova. E poi, è triste pensare che se quello era il suo ritratto e aveva quell'aspetto quando io ero piccola, adesso non lo avrebbe più avuto di sicuro. Passai al piano superiore dove c'erano tre camere da letto. Il caldo tende a salire, dicono, e di sopra faceva molto caldo. Quanto alla polvere, poi, era ancora peggio. Da basso le stanze erano state arredate completamente ma qui, al primo piano, soltanto la camera da letto principale, quella che dava sulla facciata, aveva un po' di mobili, un letto matrimoniale, un armadio, un tavolino da toilette, un paio di poltrone, tutti pezzi vittoriani. Il copriletto era a patchwork, cucito a mano, avrei detto, in tutta una serie di sfumature di azzurro e rosso. Lo scostai leggermente sollevando un'altra nuvola di polvere e vidi che c'erano ancora le lenzuola sul letto, e le federe. L'estate era stata calda ma quando ci infilai le dita, le lenzuola mi sembrarono umide, come ghiacciate, contro il palmo della mano. Già da un po' mi stavo domandando come riscaldassero una casa del genere perché non c'erano radiatori ma soltanto camini, ma lì trovai una stufetta a kerosene, di quelle proprio antiquate che assomigliano a un tubo nero con le gambe. Come ho appena detto, non c'erano mobili nelle altre due camere da letto. Né moquette sul pavimento. Era come se chi ci aveva vissuto avesse fatto il ragionamento, qui non abiterà mai nessun altro all'infuori di noi, non avremo mai amici da ospitare, e allora perché arredare anche quelle due camere? La stanza da bagno era antiquata e un po' sporca, più o meno allo stesso modo della cucina, che aveva un gran bisogno di essere rimessa totalmente a nuovo. Un'altra stufetta a kerosene, ma del tipo più piatto, rettangolare, era stata spinta contro la parete. Provai ad aprire uno dei rubinetti del lavello ma naturalmente avevano tolto l'acqua già da chissà quanti anni. Stavo pensando di avere esplorato l'intera casa e nello stesso tempo mi chiedevo per quale motivo l'avessi esplorata, che cosa si presumeva che dovessi scoprire, quando mi accorsi che, in cucina, c'era un'altra porta oltre a quella che dava fuori, in giardino... anche se, a dir la verità, dovrei dire nella palude. Quest'altra porta doveva comunicare con il garage. Era chiusa a chiave. Aprii un paio di cassetti per vedere se riuscivo a trovarla ma erano tutti completamente vuoti, a parte la carta di cui erano rivestiti. In questo caso specifico si trattava di un giornale, il Times, e la data stampata sopra era quella del 1965. Ma anche questo non mi sembrò particolarmente strano. Fu a quel punto che guardando l'orologio mi accorsi che erano le sei e
mezzo. Dovevo trovarmi con Ned a tre chilometri da lì, alle sette; quindi avevo tempo a sufficienza ma capita sempre che succeda qualcosa alla tua capacità di misurare il tempo quando, nel giro di una mezz'ora, sai che avverrà una bella cosa, ed è lì ad aspettarti. Devi prepararti, devi trovarti nello stato mentale giusto. Per me questo significava arrivare per prima, godermi l'attesa, stare all'erta con gli occhi fissi sulla strada sulla quale sarebbe apparsa la sua automobile. Si possono allungare gli occhi fin molto lontano su queste strade dove marciarono le legioni romane, si può vedere il paesaggio per chilometri e chilometri. Per me era un'esperienza magnifica quella di star lì seduta a osservare le automobili che arrivavano, non molte perché non c'è, poi, tutto questo traffico, a sperare e a desiderare, a rimanere delusa, a sperare ancora, e poi finalmente a vedere la sua auto, a vedere lui. Uscii dalla casa richiudendomi la porta alle spalle. Non so per quale motivo girai intorno al garage, forse perché un'intera mezz'ora era troppo per arrivare a Thelmarsh Cross e mi sarei trovata ancora non soltanto con dieci, ma con venti minuti da far passare. Lì la palude era tutta alberi, oltre che pianticelle selvatiche e rovi, noccioli e sorbo selvatico e un labirinto di salici bianchi. Fui costretta ad aprirmi un varco in qualche modo attraverso un fitto boschetto per riuscire a girare fin dietro la casa. Sulla parete di fondo del garage c'era un finestrino: e se si vede una finestra bisogna anche guardare attraverso il vetro, non è così? Dentro c'era un'automobile. Un garage è fatto per tenerci l'automobile, cos'altro ci si può aspettare di vederci? Però, non capita mai Con quelli delle case vuote e abbandonate. Era rossa, una Ford Anglia, e doveva avere pochi anni più di me. Lo sapevo perché una volta il mio papà aveva proprio lo stesso modello, con il muso a griglia come una gran bocca con gli angoli piegati all'ingiù e il finestrino posteriore inclinato verso l'interno a forma di Z, solo che la sua era blu scuro. E questa aveva le gomme sgonfie. Ed era coperta da un fitto strato di polvere. Chissà se Stella lo sapeva. Tornai alla mia, mi misi al volante e partii prendendo una strada più lunga, una specie di circonvallazione per raggiungere Thelmarsh Cross passando per Breckenhall, Curton e anche davanti all'autorimessa della quale mio papà è comproprietario. La strada principale del villaggio, a Curton, quella che passa attraverso l'abitato, è larga ma i viottoli interni sono stretti, incassati fra alti argini coperti di cespugli e non si può correre. Se si va a più di trenta chilometri l'ora c'è il rischio di finire dritti dritti addosso a qualcuno che sta arrivando dalla parte opposta, cosa che è successa a mio
fratello quando aveva diciassette anni. L'altro se l'è cavata senza un graffio ma lui si è fratturato due costole e il braccio sinistro. A me andava benissimo viaggiare lentamente, perché dovevo far passare il tempo in qualche modo. Thelmarsh Cross era uno dei posti dove ci davamo appuntamento di solito, ma quando mi ritrovai lì ferma, seduta in macchina, pensai che forse, da quel giorno in avanti, avremmo fatto meglio a evitarlo. Era troppo in vista, il posto in cui due strade si incrociavano riparate da una zona boscosa soltanto per un quarto, e il resto esposto agli occhi di tutti. Immagino che l'avessimo scelto perché non c'erano case nei dintorni e perché nessuno avrebbe mai pensato di passare di lì, andando o tornando da Tharby. Ma non sì può mai fare proprio conto con sicurezza su cose del genere. Sarà anche vero che per certe persone il pericolo aggiunge un pizzico di brivido in più a una relazione amorosa ma io non ne ho affatto bisogno; la nostra non è una di quelle relazioni lì, e se pericolo vuol dire che si rischia di venire scoperti, mi mette paura. Mi spavento al pensiero di quelle che sarebbero le conseguenze, cioè di non rivederlo più. Così dal mio posto d'osservazione cominciai a guardare le automobili che scendevano dalla lunga strada bianca. Non erano molte, in massima parte la strada rimaneva vuota. C'era anche un gran silenzio fino al momento in cui qualcuno non sparò un colpo di doppietta in lontananza, e i pivieri si levarono in volo da un campo, come una nuvola di ali fruscianti. Vidi un'automobile che assomigliava alla sua, stessa marca, stesso colore, scendere dal culmine del colle e provai un tuffo al cuore. Naturalmente non è il cuore, è un nervo che ti dà una stretta allo stomaco o alla pancia. Posai la mano sull'amuleto di legno e ce la lasciai. L'automobile non era quella di Ned, al volante c'era una donna, ma non la conoscevo. Quando lui finalmente comparve con due minuti di ritardo, non arrivò affatto da quella direzione bensì dall'altra strada; io non ero preparata, così non me ne accorsi fino a quando la sua automobile non si venne ad arrestare di fianco alla mia. Ci guardammo in faccia e ci sorridemmo. In quel momento, per me, non esistette più né il passato né il futuro, ma solo il presente, l'"adesso" nel senso più completo e assoluto. Lui ripartì imboccando quella specie di strada sterrata che attraversa il bosco e io gli andai dietro. Ci fermammo soltanto dopo aver avuto la sicurezza che le nostre automobili sarebbero rimaste nascoste sotto gli alberi. Quando ci vediamo, in principio, non parliamo mai molto. Ci buttammo le braccia al collo, tenendoci stretti stretti e baciandoci. È sempre stato co-
sì. Fuori, all'aperto, nell'aria calda dell'estate. Ci baciammo come se fosse la prima volta, come se tornassimo a rivivere da cima a fondo quella notte nella quale io gli donai l'amuleto, quello che porta fortuna in amore, e ci scambiammo il primo bacio nel buio. Dopo un po' lui disse: «Dove mi conduci?» «In un posto nei boschi» risposi. «Un posto segreto. L'ho trovato quando ero bambina.» «Niente più covoni?» «Lo hanno portato via per rifare la copertura al tetto dei Fletcher.» Lo presi per mano. E ci incamminammo così, mano nella mano. «Ti amo» dissi. «Lo so» disse lui. «E io ho bisogno che tu mi ami. Se dirai solamente quella parola, una parola, lascerò Jane e verrò a stare con te.» Avevamo già fatto questo discorso, adesso lo avremmo rifatto. «Per sempre?» «Per sempre, almeno per quanto posso dire io. Sì, per sempre. Perché no? Brucerò a uno a uno tutti i miei vascelli per te, Jenny. Avvelenerò i pozzi e saccheggerò la città e, una volta varcato il fiume, darò alle fiamme i ponti alle mia spalle.» «Allora devo stare attenta a non dire quella parola per caso» gli risposi, e intanto stringevo l'amuleto così forte che la mano mi faceva male. «Andremo a vivere nel villino e faremo scoppiare uno di quegli scandali...!» Ha una fantasia incredibile. «La tua mamma sarà costretta a cedere il Legion. Il Bury Free Press mi chiederà un'intervista e scatterà qualche foto. Ma noi vivremo nella felicità più totale.» «Sai che non posso.» «Per via di Hannah?» «No, tu non puoi per via di Hannah. Lo capisci questo, vero? Sai che non puoi.» «Certo» disse lui. «Beh, credo di saperlo. Ma ci deve essere pur un modo. C'è sempre un modo, ti pare?» «No» dissi, per evitare di rispondere di sì. Così scostammo i rami per entrare in quella piccola radura erbosa, nascosta e protetta, e facemmo l'amore sul terreno caldo e asciutto. Quando raccontai a Stella che ero stata a casa sua, diventò rossa. Ero abituata a pensare che i vecchi non potessero arrossire e invece sì, arrossiscono come chiunque altro.
Era in camera e stava bevendo il solito caffè che le viene servito a metà mattina; così sedetti a tenerle compagnia. Era il giorno della radioterapia di Maud, all'ospedale; Arthur era stato condotto fuori da suo figlio e io non avevo molto di cui occuparmi dopo aver sistemato Gracie davanti alla televisione dove avevo messo la videocassetta della Locanda della sesta felicità. Mi aspettavo che Stella mi facesse ogni sorta di domande sulla casa e invece mi sembrò un po' schiva, più imbarazzata che altro. Poi le sue guance tornarono pallide e lei mi rivolse una lunga occhiata incuriosita come se fossi cambiata, insomma, diventata un'altra, diversa da quella che lei conosceva, come se vedere la sua casa mi avesse potuto, in qualche modo, trasformare. «Non vuole sentirne parlare?» mi decisi a domandarle. Fu una strana risposta quella che mi diede. «Immagino di doverlo fare.» «Allora posso cominciare a raccontarglielo?» C'è una parola che di solito non avrei mai associato a Stella, "imbronciata", e invece ecco che adesso dava l'impressione quasi di esserlo, almeno un po'. Come una bambina che ha avuto una delusione. «Non ci credevo, sai, quando mi hai detto che ci saresti andata con tanta prontezza» disse. «Se preferisce non parlarne, Stella, non importa. Non è stata nessuna fatica andarci. Possiamo dimenticarcene.» E mi guardai in giro per la stanza in cerca di ispirazione. «Vedo che ha ricevuto un'altra cartolina da Corfù. Si diverte, sua figlia?» «Non cercare di assecondarmi in questo modo, per favore, Genevieve. Non sono proprio rimbecillita.» Non mi aveva mai parlato in modo così tagliente, anzi non era mai stata brusca con me, neanche una volta; e ci rimasi male. Non avrei mai sospettato che una voce come la sua potesse avere una tonalità tanto aspra e dura. «Mi spiace» dissi. Lei mi lasciò subito capire di provare un po' di rimorso. «Oh, Genevieve, è a me che dovrebbe dispiacere. Non dovrei parlarti in questo modo. Se c'è una cosa che mi piace in te, soprattutto, è il modo in cui mi parli, non come fanno gli altri, a volte, cercando di darmi sempre ragione. È un atteggiamento molto comune nei confronti dei vecchi, come se quando si toccano i settant'anni, e non ha importanza che tipo di persona tu sia o quanta intelligenza ovviamente ti rimanga, devi essere trattata come una bambina. Specialmente se sei ricoverata in una di queste case di riposo. Nessuno ti rivolge più la parola come se tu fossi un essere razionale; inve-
ce tutti ragionano che bisogna persuaderti con la dolcezza a fare le cose oppure costringerti con la prepotenza, e che bisogna anche raccontarti le bugie.» Tirò il fiato, le sfuggì un ansito un po' roco, il suo viso si arrossò di nuovo, e stavolta diventò di un rosso più cupo. «Ti prego, non cambiare e non diventare così. Sarebbe troppo. Non potrei... credo davvero che non potrei sopportarlo.» Questo sfogo fu un autentico shock per me. Così inaspettato! E soprattutto una dimostrazione tanto chiara di fino a che punto fosse sconvolta. Provai una gran voglia di buttarle le braccia al collo e di tenerla stretta fino a quando il battito troppo affrettato del suo cuore non fosse tornato più lento. Ma sarebbe stato un disastro. Sarebbe stato proprio come fare quello contro cui mi aveva appena messo in guardia. Non mi rimase che chiederle scusa e aspettare che fosse lei a fare la mossa successiva. «Stella, mi spiace, mi spiace davvero. Sono stata maldestra ma l'ho fatto perché non sapevo cosa dire.» Poi azzardai qualcosa di più, mentre continuavo: «Non... ecco, non capisco questo atteggiamento nei confronti della sua casa. E allora diciamo che... è come se brancolassi nel buio, non so che cosa dire o fare.» Lei chinò gli occhi scrollando leggermente la testa. Il colpo di tosse che diede mi fece ricordare che, dopo tutto, aveva il cancro ai polmoni, ne stava morendo. Poi allungò una mano, la posò sulla mia e me la strinse. «Racconta, allora.» «Per la verità non c'è molto da raccontare. Tutto è a posto là dentro. Solamente coperto di polvere.» «Immagino che la palude si sarà spinta con la sua vegetazione fin sotto i muri, vero?» «Sì, ma anche lì è tutto a posto. Di fianco alla porta d'ingresso c'è un sorbo selvatico coperto di bacche.» Lei per un attimo chiuse gli occhi. «Che strano. Come è strano tutto questo.» Dopo una piccola esitazione, continuò: «Non hai guardato in nessun armadio, in nessun cassetto?» Sarà curioso ma, proprio per il motivo che devo raccontare bugie sul conto di Ned o, perlomeno, non dire mai tutta la verità, sono diventata molto attenta a non mentire per quello che riguarda le altre parti della mia vita. Ma in quel momento provai ugualmente una gran voglia di raccontarle una bugia. Non avevo nessun motivo di guardare in quel cassetto, ero semplicemente curiosa. Non ti fa piacere vederti costretta ad ammettere di essere stata una gran ficcanaso, perché finisci per sentirti sullo stesso piano
di Shirley Foster. Poi, però, mi dissi che non potevo permettermi di essere orgogliosa e risposi sì, avevo guardato, avevo guardato nella credenza e ci avevo trovato un certo numero di quadri e la fotografia di un uomo e una donna. I vecchi ripetono sempre di sapere benissimo che sono cambiati, e molto anche, ma non è del tutto vero. Non sanno che la faccia che avevano trenta o quaranta anni prima non è proprio per niente una versione più giovane della faccia che hanno adesso, è totalmente diversa, potrebbe essere quella di una persona diversa. Ecco il motivo per cui Stella mi sembrò incredula quando le parlai di "una donna". Sorrise, perfino, scrollando il capo. «Non mi hai riconosciuto, Genevieve? Ero io, quella donna. Immagino che, con i capelli bianchi...» Un briciolo di tatto, anche se con un po' di ritardo, mi costrinse a rispondere in fretta che avevo pensato si potesse trattare di lei. A dir la verità, un'idea del genere non mi era neanche passata per la testa. Tanto per cominciare, e non so il perché, avevo sempre avuto l'impressione che dovesse essere stata bionda. Così, mi sembrò opportuno cambiare argomento e cominciai a parlarle dell'automobile. E, avendo cominciato a raccontare tutta la verità, continuai... è stupefacente come si fa in fretta a continuare con le buone abitudini, una volta che si è provato... e dissi che avevo cercato di aprire la porta del garage ma non ero riuscita a trovare la chiave e allora avevo fatto la cosa che viene subito in mente in questi casi, cioè avevo guardato dentro dal finestrino. «La sua automobile è ancora lì, sana e salva. Presto diventerà d'epoca.» Lei non sorrise. «Non è mia» disse. «Non è la mia automobile. Ma non importa.» «Ecco, qui c'è la chiave, gliela restituisco» dissi. Sembrò che Stella si tirasse indietro con una specie di brivido invece di toccarla. Ma dev'essere tutta immaginazione, la mia. «No, puoi tenerla tu. Voglio che sia tu a conservarla.» Una frase del genere esigeva qualche spiegazione e, dopo essere rimasta esitante per un attimo, lei continuò: «Se mi decidessi a venderla ci dovrà pur essere qualcuno che abbia la chiave a disposizione per gli agenti...» Ma, dal suo tono, si sarebbe detto che considerasse questa possibilità come qualcosa di molto vago, in un improbabile futuro. Lei, però, non aveva un futuro, solo qualche mese. «Vuole che pensi io a telefonare a un agente immobiliare a nome suo?» «Non ancora. Forse, neanche mai. Non lo so. In fondo, non so neanche per quale motivo ho chiesto ai miei legali di mandarmi quei rogiti.» Si
schiarì la gola. «Non è come se ne avessi bisogno.» «Posso rimandarli indietro. Non c'è problema.» Lei non rispose. E poi riprese, ma quasi con il tono di chi vuole tener viva la conversazione parlando di cose banali: «Mio marito era avvocato. Non te l'ho mai detto?» Sul suo conto non mi aveva mai raccontato niente. «E dove? A Bury?» dissi. «A Bury. Nello studio legale di famiglia. Lo aveva aperto suo nonno. Si chiamavano Newland, Newland e Bosanquet. Successivamente hanno cambiato la denominazione ma in principio, quando io ho cominciato a lavorare per loro, il nome era quello. Chissà perché gli studi legali hanno sempre nomi ridicoli di questo genere, eh? Il nome di battesimo di mio marito era Rex e la prima volta che l'ho sentito mi è sembrato che avesse un po' un suono che assomigliava al nome di un cane. Ero la sua segretaria, è stato così che ci siamo conosciuti. Aveva ventidue anni più di me. Ed è troppo, Genevieve. Mike è più vecchio di te?» Mi prese un po' di paura che adesso passasse a parlare di me. Mike aveva solo sei mesi più di me, le spiegai, e poi: «Ed è stato questo studio legale, lo studio Newland, Newland e Bosanquet che...» ho dovuto cercare la parola giusta «... l'ha rappresentata per la... con la... per l'acquisto della sua casa?» A quel punto mi vidi scoccare una strana occhiata. «Non sarebbe proprio stato il caso. Santo cielo, no. Mi sono servita di qualcun altro che stava a Ipswich. Ma non ti sembra che, per quest'oggi, abbiamo parlato abbastanza di me? Si direbbe che sia sempre io l'argomento dominante di tutte le nostre conversazioni.» Era ciarliera, spiritosa, la voce più limpida, non più roca come prima. Sharon mise dentro la testa dalla porta, poi entrò per ritirare il vassoio del caffè. Stella attese che fosse uscita e poi abbassò gli occhi sulle sue unghie rosso cupo. «Come hai conosciuto tuo marito, Genevieve?» «Ecco, non c'è stata una conoscenza di quelle che pensa lei. Direi che lo conosco da sempre. È quello che succede in un villaggio. Andavamo a scuola insieme prima che costruissero una sola grande scuola per tutti questi villaggi, a Thelmarsh.» «Era il ragazzo della porta accanto?» «Non proprio della porta accanto» dissi. «Ma abbastanza vicino.» Adesso ero io ad arrossire, e ne rimasi indispettita. Mi pareva di avere la faccia letteralmente in fiamme. Stella non mi mollava un attimo con gli occhi e
aveva preso un'espressione di profonda simpatia, di comprensione e gentilezza, anche se non riesco a capire per quale motivo dovesse pensare che io avevo bisogno di tutte queste cose. «Poi siamo andati alle superiori insieme e io ho continuato fino all'ultimo anno. Lui ha smesso quando ne aveva sedici. E allora cominciavamo già ad andar fuori insieme. Lui voleva fare un corso di edilizia, di quelli comunali, per procurarsi un diploma.» Chissà perché diavolo andavo avanti a raccontarle tutta quella storia? In fondo, non me lo aveva chiesto. Ma già che c'ero, tirai avanti, e sempre più impacciata. «Ma lui doveva cominciare a guadagnare. È bravo a portare soldi a casa. Ci siamo sposati quando avevamo diciannove anni tutti e due.» Alzai la testa a guardarla, dritto negli occhi. «Ma per favore non dica che è romantico, non lo dica, ecco.» «Non lo dirò» fece lei, e la sua mano che aveva un po' mollato la stretta sulla mia, la rafforzò. «Quest'anno festeggeremo il tredicesimo anniversario del nostro matrimonio. Non è mai stato romantico.» Girai gli occhi dall'altra parte, mettendomi a fissare il giardino, fuori dalla finestra, e le rose che sfiorivano lasciando cadere gli ultimi petali, quelli della fine dell'estate. «E adesso non so quello che succederà perché sono innamorata di qualcun altro.» 4 La vita in un villaggio sembra strana alla gente di città e si può dire che nessuno la conosca veramente fino a quando non la prova direttamente. È l'unica vita che io abbia mai vissuto ma ho parlato con persone a sufficienza e ho letto abbastanza libri per capire che è diversa. Noi, gli abitanti, in un posto come Tharby sembriamo una grande famiglia. Saremo circa quattrocento ma ci conosciamo tutti e ci chiamiamo col nome di battesimo. Tu sei andata a scuola con tutta la tua generazione, i tuoi genitori con la loro generazione e i nonni con la loro. E finisci per sposare il ragazzo della porta accanto, come l'ha chiamato Stella. Prendiamo la mia mamma, per esempio. Non si direbbe una cosa di quelle che si fanno abitualmente, in un villaggio, aver avuto tre mariti e convivere con l'amante, eppure il mio papà e quello che è venuto dopo di lui erano tutti e due ragazzi di Tharby e Len l'amante ha una piccola proprietà terriera a Tharby Heat. Soltanto il terzo marito era uno che veniva da fuori, ma soltanto da Eye, e non si può davvero dire che sia un paese straniero. Adesso è molta la gente che se ne va, più di una volta, perché, tanto per
dire, non riesce a trovare un alloggio, ma non arriva neanche gente nuova. In ogni caso, non ne arriva del nostro tipo. C'è qualcuno che viene qui quando ha smesso di lavorare ed è andato in pensione, ma tutta gente che se ne sta per conto proprio. Non è troppo lontano da Londra per i pendolari, anche se, a dir la verità, c'è chi è disposto a fare il pendolare anche per e da qualsiasi altro posto, ma non sono molti, e quanto a gente che ci viene per il week-end, ne abbiamo soltanto due gruppi. Perfino di questi tempi il signor Thorn, che abita su al castello, viene chiamato squire, e quasi sempre con rispetto, senza malizia. Ho detto che siamo come una famiglia ma non bisogna dimenticare che le famiglie sono quelle da cui cominciano quasi tutti i guai del mondo. Non andiamo tutti d'accordo, per carità, però credo di poter dire che saremmo tutti disposti a far quadrato contro un nemico. Ad ogni modo, immagino che dicessero la stessa cosa anche in Bosnia, e guardate adesso quello che è successo. Comunque, nel bene o nel male, ci conosciamo reciprocamente meglio di quanto si possa conoscere chiunque altro, sappiamo chi è la mamma di uno di noi e chi è la nipote di questo o il cognato di quello. Sono quel genere di cose sulle quali non facciamo mai errori. Ma c'è qualcosa di ancora più importante, ci sentiamo bene l'uno in compagnia dell'altro. Andando a una serata di musica country nella sala comunale del nostro villaggio, come quella alla quale ho conosciuto Ned, sai già chi ci sarà, e non ti senti intimidita come ti capiterebbe se dovessi andare a qualche riunione a Bury oppure a Thetford, perché ci troverai le stesse vecchie facce e le stesse persone alle quali sedevi vicino a scuola, quando avevi cinque anni. Solo che, stavolta, a quella serata c'erano anche Ned e Jane. Lo scopo era di raccogliere fondi per non so che, probabilmente le campane della chiesa. Non riesco a capire come possa costare centomila sterline far fondere alcune vecchie campane e appenderle di nuovo nel campanile, ma è quello che ci hanno detto. Così non facciamo che organizzare serate musicali e feste da ballo e riunioni per giocare a bingo e vendite di anticaglie per raggranellare i soldi necessari. È capitato di sabato e Mike era a casa. Ci andammo un po' presto. Mike va sempre dappertutto con un po' di anticipo, è una di quelle persone che credono nella puntualità in modo addirittura ossessivo. Lui scelse un bel completo, giacca e pantaloni; ma io non volli saperne di mettermi in ghingheri. Non è assurdo andare con un vestito elegante a una serata di musica country? Avendoli, mi sarebbe piaciuto presentarmi in stivali da cowboy e giacca con le frange, ma non li
avevo, così preferii un buon paio di Levi's e una camicia a scacchi. C'era anche mia sorella Janis, e c'era mio fratello Nick con Tanya, la sua ragazza. La mamma aveva incaricato Shirley Foster di sostituirla al Legion per occuparsi del banco delle bibite. Assomigliava un po' a uno di quei tipi che arrivano dritti dritti da Nashville, anche lei, la mia mamma, in minigonna e giacca di cuoio e cappello da cowboy. Janis le aveva detto di smetterla di portare la mini, che alla sua età c'era un limite a certe cose, e quando la mamma le rispose che aveva soltanto cinquantatré anni e le sue gambe ne dimostravano trenta di meno, Janis ribatté: «Non sono le gambe, è la faccia» cosa molto poco gentile, ma è sembrato che alla mamma non importasse proprio niente. E continua con le minigonne. C'erano anche un mucchio dei parenti di Mike; c'era Philippa che è sempre stata la mia migliore amica da quando ci hanno messo nome insieme a uno di quei battesimi di massa organizzati dal parroco. Si è presentato perfino il mio papà con la sua ragazza, Suzanne, che è più giovane di me. C'erano tutti, inclusi i Thorn e una di quelle persone che si sono ritirate a vivere qui da noi, e si chiama Lady Tal dei Tali, e tutti i pendolari e quei vacanzieri da week-end che avevano comprato il mulino. Naturalmente avevano fatto gruppo e stavano tutti insieme. Come sempre. Il signor Thorn chiamò Mike e lo pregò di mettere due tavoli uno di fianco all'altro e, intorno, tutte le seggiole in modo che ci potessero sedere loro, che erano nove. Lo chiamò perché andasse da lui come se fosse stato un suo domestico, e quando lui ebbe fatto quello che voleva, non lo ringraziò neanche. Dovrei essere abituata a cose di questo genere, le ho viste tutta la mia vita, ma continuano a non piacermi e se fossi stata io quella che aveva chiamato mi piace pensare che avrei avuto il fegato di rispondergli lo faccia lei, da solo. O magari, invece, avrei ubbidito anch'io, avrei fatto quello che mi chiedeva buona buona, tutta gentile, come Mike. Quando arrivarono gli altri, quelli che vengono per il week-end, mi aspettavo che andassero dritti dritti a sedersi a quei due tavoli uniti. Non li avevo mai visti, e non erano in molti quelli di noi che li avevano già visti, così li fissammo tutti con tanto d'occhi, qualcuno sfacciatamente, qualche altro con un po' più di discrezione. La donna era alta e magra, sui trentacinque anni, con la faccia lunga, affilata, una di quelle facce un po' volpine, e una gran massa di capelli color zenzero. E quando dico zenzero intendo proprio zenzero, non rosso o carota o ramato. Non era bella ed era vestita molto semplicemente in pantaloni e giacca di lino nero, con una maglietta bianca, però bastava guardarla per capire che era la donna più e-
legante della sala. L'uomo era Ned. Il signor Thorn si alzò in piedi, quando li vide, e anche la coppia del mulino. Non potevo sentire quello che si dicevano, ma era chiaro che si stavano presentando e invitavano i nuovi arrivati al loro tavolo. Invece no. Molto tempo dopo domandai a Ned come avesse fatto a evitare di sedersi con lo squire e il resto della banda e lui mi rispose di aver detto la verità, che avrebbe dato troppo disturbo. La loro bambina non stava bene e se anche l'avevano lasciata a letto con una babysitter, a casa, lui non si sarebbe sentito tranquillo se non fosse tornato a controllare come stava almeno qualche volta durante il corso della serata. La verità, o quasi. «L'anno scorso ho realizzato una trasmissione su gente del tipo di James Thorn» mi raccontò molto tempo dopo. «Era orchestrata su un esame di quanto resta ancora di certa piccola nobiltà di campagna, e l'abbiamo intitolata Il ricco nel suo castello.» «Proprio come nell'inno sacro» osservai. Sono molto fiera di me se riesco a tenermi al passo con Ned. «È un verso di quello che si intitola "Da tutte le cose luminose e belle".» «Non credo che le cose sarebbero state troppo luminose e belle per me se si fosse ricordato chi ero.» Ma questo succedeva in maggio e la serata di musica country era stata organizzata in febbraio. Sarebbe ridicolo dire che mi innamorai di Ned nel momento stesso in cui lo vidi. Lo si fa soltanto se si pensa che l'amore si riduca semplicemente ad andare a letto con qualcuno. Quando vidi Ned non ebbi nessuna reazione immediata. Pensai, chissà come dev'essere vivere con qualcuno come lui, vedere la sua faccia sul guanciale quando ti svegli al mattino, sapere che ti appartiene? Be', ha finito per diventare mio. In un certo senso. Sempreché qualcuno possa appartenere a qualcun altro. Un mese dopo ero innamorata pazza, ma allora no. Non ancora. Come il resto degli abitanti del villaggio, voltai anch'io la testa a osservare Ned e Jane, a vedere che cosa avrebbero fatto. E quel che fecero fu di venire a unirsi al nostro gruppo. Ned mi raccontò in seguito, ma molto tempo dopo, che lui e Jane erano abituati a far conoscenza con la gente alle feste e ai ricevimenti, semplicemente presentandosi. Erano addestrati a farlo. Nel loro lavoro, lei è direttrice del cast che si occupa degli attori e della distribuzione delle parti, conoscevano gente nuova in continuazione. Non potevano permettersi di aspettare di essere presentati, non potevano rimanere lì fermi, in piedi, in silenzio (come avremmo fatto Mike e io) ad aspettare che qualcuno avesse compassione di
loro. Disse che mi aveva visto e "gli era piaciuto il mio aspetto", furono quelle le sue parole, e anche il resto di noi, cioè Philippa e suo marito Steve e Janis e suo marito Peter, avevamo tutti l'aria delle persone perbene ed eravamo anche più o meno della loro stessa età. Non gli dovette neanche passare per la testa che non appartenevamo alla sua classe sociale ma se per caso gli fosse venuto in mente non credo che se ne sarebbe preoccupato. Eravamo senz'altro un gruppo migliore dello squire e di quella coppia snobbona del mulino e così lui ci raggiunse e disse: «Salve. Sono Ned Saraman e questa è mia moglie Jane Beaumont». Mi bastò guardare in faccia i miei amici per capire che tutti stavano assimilando questa notizia, e intanto riflettevano rapidamente. Non è proprio la cosa più normale del mondo che le donne sposate, a Tharby, abbiano un cognome diverso da quello del marito. «Abbiamo affittato quella casa che si chiama I Sorbi Selvatici» disse lui. Io fui la prima a tendergli la mano. Volevo scoprire che cosa si provasse con quella mossa, il senso di quel contatto. Aveva una stretta di mano salda... ce l'ha ancora, suppongo, anche se non mi è mai più capitato di stringergli di nuovo la mano. In fondo, non sono una persona timida ma con lui mi accorsi di esserlo. Capita alle donne, credo, con gli uomini per i quali sentono attrazione. Mike non era timido, e neanche Steve. Così cominciarono a dare consigli sui Sorbi Selvatici anche se Ned e Jane non li avevano chiesti, ma proprio per niente, e si misero a parlare del fatto che ci sarebbe stato bisogno di rifare completamente l'impianto elettrico, e che erano passati almeno vent'anni da quando erano state cambiate le tegole del tetto, che era stato lo zio di Steve a fare quel lavoro, e gli descrissero tutti i problemi che ci sarebbero stati se non avessero pensato a risolvere in qualche modo la questione dell'umidità. Janis, per non essere da meno, cominciò a snocciolare i nomi di tutte le persone che potevano essere disposte alla consegna dei giornali a domicilio oppure a occuparsi della lavatura a secco. Philippa, invece, taceva come me. Avrei potuto dire, e senza sbagliarmi, cosa le stava passando per la testa, mi capita spesso, stava pensando la stessa cosa che pensavo io, cioè che se ben ricordava era la prima volta, e le pareva di esserne sicura, che persone come quelle (la gente bene, come la chiama la mia nonna) faceva comunella con gente come noi a uno di questi spettacoli. Era la prima volta che ci capitava di vedere quel genere di persone comportarsi come se appartenessero alla nostra stessa classe. Non appena ci fu una pausa nella conversazione Ned guardò i nostri bic-
chieri e domandò se poteva offrire a tutti qualcos'altro da bere. Soltanto Janis e io rispondemmo che accettavamo e chiedemmo tutte e due del vino bianco. E fu soltanto allora che praticamente per la prima volta Jane aprì bocca. «Bene, tesoro, vai un po' a vedere che cosa ha da offrirti, come scelta, quella specie di Dolly Parton obsoleta.» Ci fu una specie di silenzio imbarazzato. Non sapevo che cosa significasse "obsoleta" ma capivo che non era una parola gentile; e capii che stavo per perdere il lume degli occhi per la rabbia. Ned stava già avviandosi verso il banco del bar, dove c'era la mamma a dar via da bere, quando gli corsi dietro. «Mi scusi» dissi. Lui si voltò a sorridermi. Era molto alto e doveva curvarsi un po' per parlare con me. I suoi occhi erano grigio scuro, limpidi e chiari, con un cerchio nero intorno alle iridi. «Jenny?» «Forse fareste meglio a sapere che bisogna stare attenti a quello che si dice sul conto delle persone che abitano qui, in questo villaggio, parlando con qualcun altro degli abitanti. Voglio dire che dovrebbe farlo sua moglie.» Non parlai né a voce alta né con il tono di chi è offeso. Anzi, mi accorsi che cercavo di tenere la voce bassa, e calma. «Qui siamo tutti imparentati, ecco. Quella Dolly Parton, e cos'altro ha detto su di lei, è la mia mamma.» Lui rimase immobile, per assimilare tutto ciò che aveva appena ascoltato. E poi: «Me ne duole sinceramente. Glielo dirò». Mi resi conto di essere arrossita. Mi sentivo la faccia in fiamme. Poi tornai dagli altri. Stavano parlando a tutto spiano dei vini, dei meriti dello Chardonnay francese a confronto di quello australiano, e cose del genere, tutti all'infuori di Jane. Jane aveva l'aria di annoiarsi. Quando avesse scoperto che cosa aveva detto, non credo che gliene sarebbe importato granché. Fu proprio in quel momento che Ned tornò con i nostri bicchieri di vino e la musica cominciò. C'erano Len l'amante alla chitarra, Paul Fletcher al sax e suo cugino, un altro Mike, ma questo di Curton, alla batteria. La sorella di Philippa, Karen, cominciò a cantare Stand by Your Man, facendo una discreta imitazione di Tammy Wynette, e ci mettemmo tutti a sedere. Un paio di canzoni dopo Ned disse che avrebbe fatto un salto a casa a vedere come stava Hannah. La madre di Hannah non mostrò una particolare preoccupazione, almeno così pensai, ma forse era colpa del fatto che
continuavo ancora a sentirmi in collera con lei. Lo seguii con gli occhi mentre si allontanava. Arrivato alla porta si voltò, mi vide che lo fissavo e inarcò le sopracciglia. Sorrisi e lui ricambiò il mio sorriso come se si sentisse sollevato. Poi andai a chiacchierare un po' con papà perché è una cosa che gli fa un tale piacere! Non è mai riuscito a superare completamente il senso di colpa per essersi diviso dalla mamma e aver lasciato noi ragazzi, ed è felice come una pasqua se uno di noi lo tratta come un vero padre. Dopo essere andata a prendere Gracie dal dentista e averla riaccompagnata a casa, mi misi in cerca di Stella. Il giorno prima era stato quello di libertà, per me, e quello prima ancora le avevo parlato di Ned. Confidarsi con qualcuno, come mi ero confidata io con lei, è qualcosa che dovrebbe renderti simpatica quella persona, farti venir voglia di ritrovarti con lei. Invece, no. È un po' come aver rovesciato quello che avevi nel cuore in un recipiente, essertene liberata, e adesso avere soltanto voglia di buttarlo via e, poi, di stargli alla larga. Ecco il motivo per cui dovevo assolutamente trovarla e liberarmi di quella sensazione, superare l'imbarazzo. Sapevo che mi sarei sentita profondamente a disagio in sua compagnia. Be', avrei dovuto pensarci prima di aprire la bocca e mettermi a ciarlare a vanvera, non punirla per essere stata lì ad ascoltarmi, per avermi lasciato chiacchierare. Si era mostrata così paziente e io le avevo raccontato tanto, anzi proprio tutto su come non avessi più visto Ned per quasi un mese dopo quella serata di musica country, fino a quando ci eravamo incontrati per caso nel negozio del villaggio. E tutti i particolari di quello che era successo dopo. Quel sabato, di cui parlo, stavo passando davanti a casa sua e lui era lì, in giardino, e cercava di potare le rose. Dico "cercava" perché non sapeva assolutamente neanche da che parte cominciare, si accontentava soltanto di tagliuzzar via le punte dei ramoscelli. Così, naturalmente, pensai di prendere il suo posto e farlo per lui, e lui mi invitò a entrare in casa a prendere una tazza di tè. Non dirò che avrei rifiutato se avessi pensato che Jane non c'era, ma lei aveva accompagnato Hannah da sua madre, così prendemmo il tè insieme e rimanemmo lì seduti a chiacchierare. Ho vissuto trentadue anni a questo mondo ma non mi era mai capitato di parlare con qualcuno come Ned e io ci siamo parlati quella volta. C'è Philippa, naturalmente, noi due parliamo, ma non molto, sulle grandi cose della vita, è più facile che ci capiti di parlare di andare a far spese e di quello che pensiamo di preparare per cena e dei vecchi film, che sono la sua
grande passione. Ned e io parlammo di quello in cui credevamo e di quello che volevamo e speravamo di ottenere e di come avrebbe dovuto essere la vita. Tutte cose che erano sempre rimaste chiuse dentro di me. Ci pensavo, ci pensavo tutto il tempo e avevo anche provato a descriverlo con le parole nel mio cervello, però senza mai pronunciarle ad alta voce. Lui riuscì a tirarmi fuori questi pensieri semplicemente chiacchierando e, dopo, mi confessò che gli avevo tirato fuori anch'io certe cose che lui non aveva mai raccontato ad anima viva. Stella mi ascoltò mentre le dicevo tutto questo, come in principio avessi creduto di aver trovato un amico, come il fatto che lui fosse del sesso opposto non aveva importanza, avremmo potuto continuare a vederci quando lui veniva giù al week-end e non sarebbe assolutamente stato necessario che nel nostro rapporto entrasse anche il sesso; mi ascoltò e mi disse che capiva. Capiva fin troppo bene, ecco quali furono le sue parole, fino a che punto ci si può ingannare imboccando questa strada e lo shock che si provava quando si scopriva di aver soltanto preso una bella cantonata. Così andai a cercarla. Non era nella sua camera e neanche nella sala di soggiorno. Pensai che, magari, era andata di sopra a dare un'altra occhiata alla sua casa là, in fondo ai campi, invece non la trovai neanche nella sala di soggiorno del piano di sopra. A Stella non piaceva molto andar fuori, a sedersi all'aria aperta, doveva trovare un motivo valido per uscire, e che il tempo fosse bello non le bastava. Annusai quel motivo prima ancora di trovarla. Seduta su una panchina in pietra dietro l'alta siepe di cipressi se ne stava fumando una sigaretta. Avrebbe potuto offrirmi una buona battuta d'attacco per nascondere il mio imbarazzo. Lena avrebbe fatto un sacco di storie, si sarebbe comportata come se Stella fosse stata una bambina di dieci anni e l'avesse sorpresa a fumare nella baracca degli attrezzi, in giardino. Ma che senso aveva? Sarebbe morta ugualmente, povera Stella, e tanto valeva che se la godesse un po', prima del buio. Quando mi vide, sorrise sollevando la sigaretta con un gesto da diva del cinema, con le dita tese. Mi fece venire in mente la Bette Davis di certi vecchi film. «Non vorrai rimproverarmi, Genevieve? Ma devo assolutamente avere una sigaretta di tanto in tanto. Tanto vale che te lo dica subito, fumo occasionalmente, quando nessuno mi guarda.» «Quello che lei fa, sono affari suoi» le risposi, e se fu una battuta un po' brusca, posso dire che mi aiutò a sentirmi meno imbarazzata.
«Neanche i cavalli selvaggi riusciranno a strapparmi di bocca il nome di chi mi ha procurato queste belle Silk Cut.» Richard, no, pensai. E neanche il dottore. Marianne. Io avrei fatto la stessa cosa per la mia mamma. «Lena non le manderebbe dietro i cavalli selvaggi» dissi «però, bene o male, riuscirebbe a non farle più mettere le mani neanche su una sigaretta, d'ora in avanti. Quindi stia in guardia.» Lei sbuffò un po' di fumo dal naso. Non avevo mai visto nessuno fare una cosa del genere, salvo nei film. Era pallidissima e il suo pallore non si poteva spiegare soltanto con la cipria che si era messa. Era il colorito che a poco a poco l'abbandonava. Perfino quei suoi occhi verde-azzurro diventavano più slavati. Le labbra si socchiusero: una sottile nuvola di fumo azzurrino ne uscì e rimase come sospesa nell'aria. Lei la scostò con un gesto della mano. «Genevieve?» La guardai. «Vorresti andare a casa mia a prendere quella fotografia che hai trovato e portarmela qui? In qualsiasi momento andrà bene. Ti capitasse di passare da quelle parti, basterebbe che tu entrassi a prendere la fotografia.» «Stella,» dissi «da quanto tempo quella casa non è più abitata da nessuno?» Non le fu necessario riflettere o fare qualche calcolo. «Da ventiquattro anni.» «Ventiquattro anni?» «Un mucchio di tempo, vero?» Rimase assorta nelle sue riflessioni. «E non è giusto dire che qualcuno ci ha abitato, Genevieve. Ventiquattro anni, ecco, da quando qualcuno ci ha messo piede per l'ultima volta.» L'espressione della mia faccia dovette divertirla perché sorrise. «Ho pagato le tasse, naturalmente. Cioè, mi spiego, ho pagato le imposte, poi le tasse elettorali pro capite e infine quelle municipali. Ho pagato fino all'ultimo centesimo. Oh, e ho anche pensato a far rifare il tetto. Quei muri di selce sono molto solidi e robusti e naturalmente non hanno bisogno di una mano di vernice.» «Ma non ha mai avuto inquilini?» le domandai e, quando lei scrollò il capo: «E perché mai non si è decisa a venderla?» Stavo esagerando. Avevo parlato andando al sodo, molto più schiettamente di quanto non faccia di solito, e lei si ritirò un poco, come se si chiudesse nel suo guscio. «Non volevo.»
È facile per le persone come me provare risentimento per le persone come Stella. Per noi il denaro è un problema di tutti i giorni. Troviamo già abbastanza pesante pagare la tassa municipale sull'unica proprietà che abbiamo... oppure di cui è proprietaria la società costruttrice... e quando qualcuno si mette a parlare come lei, in un modo così disinvolto e noncurante, delle tasse che si pagano su una casa nella quale non abita nessuno, e che lei non si è mai nemmeno presa il fastidio di dare in affitto e addirittura non si sente di vendere, a noi la faccenda non si può proprio dire che vada molto a genio. «Era mia, Genevieve. Avevo il diritto di tenerla vuota, se preferivo. L'ho comprata io, con quello che mio padre mi lasciò morendo nel 1963. Mio marito non ci mise mai nemmeno un soldo.» Come spiegarle che il nocciolo della questione non era quello? Meglio tacere, naturalmente. Era così pallida e, tutto d'un tratto, così fragile, addirittura trasparente, scheletrica, come una foglia di cui si vedono le nervature, lì seduta, con quel mozzicone di sigaretta stretto fra le dita dalle unghie laccate di rosso. «Può venderla adesso» dissi. «Me ne occuperò io per lei, se vuole.» «So che lo faresti.» Schiacciò, per spegnerlo, il mozzicone della sigaretta sul sedile di pietra, tirò fuori un fazzolettino di carta dalla borsetta, avvolse il mozzicone nel fazzolettino e lo mise nella borsetta. Ogni cosa venne fatta con la massima accuratezza, quasi con meticolosità, e una volta completata l'operazione, Stella strofinò, persino, quella macchia un po' più scura con la punta della sua elegante scarpina blu scuro, dal tacco alto. Quando si fu alzata, appoggiandosi alla spalliera della panchina e ansando un po' per lo sforzo, disse con l'affanno nella voce: «Se dovessi vender la casa, Genevieve, ci sarebbe questo vantaggio, che Marianne e Richard non dovrebbero mai sapere niente. Ci sarebbe semplicemente parecchio denaro in più di quello che si aspettano, da ereditare.» «Vuole che la prenda sottobraccio?» le domandai. «Grazie. Sì, credo che accetterò. Sei troppo cortese e bene educata per domandarmi il motivo per il quale non voglio che loro sappiano, vero? E può darsi che io te lo racconti uno di questi giorni. Ma non adesso, non oggi. Il fatto è, Genevieve, che ho paura di venderla.» La guardai. Ci eravamo incamminate sul sentiero, lungo la bordura erbosa. I prati, da quel punto, scendono lentamente a grandi terrazze verdeggianti e c'è perfino un albereto di antichi castagni. Lei si aggrappò al mio
braccio, camminando lentamente. L'odore del fumo di sigaretta le rimaneva ancora attaccato addosso, mescolato con quello del suo profumo, il White Linen, che mette sempre. «Oh, non intendo che ho paura perché c'è qualcosa là dentro che non voglio sia scoperto da nessuno. Ormai è passato troppo tempo.» Scrollò il capo. «Perlomeno, io la penso così. Non ci sono mai state lettere e solamente quella fotografia.» Nella lotta contro il fiato corto, il bisogno di esprimersi, di raccontare qualcosa, pareva che adesso avesse vinto - tanto che si mise a parlare con voce normale, ferma, bassa ma piena di serenità, di distensione. «Ho l'impressione che sto dicendo di aver paura perché sento che tutto dovrebbe essere lasciato com'era, nascosto, in pace, invece di essere tirato fuori e portato alla luce... cioè, mi spiego, non far ripulire il giardino strappando tutta quelle piante della palude che ci sono cresciute e falciare l'erba del prato, organizzare le cose perché la casa venga ristrutturata in un modo o nell'altro, e che ci vadano i muratori. E non posso sopportare il pensiero delle mie cose, dei miei mobili... be', buttati fuori o venduti praticamente per nulla. Di solito ci mandano dentro quegli uomini che ripuliscono e svuotano le case per il prezzo che possono ottenere da un negozio di rigattiere, non è così? Ho visto i cartelli nelle vetrine: "Si sgomberano case senza spese extra". Lo so che può sembrarti ridicolo, ma credo che non lo sopporterei.» Le risposi che non mi sembrava affatto ridicolo e stavo proprio per continuare soggiungendo che non era assolutamente necessario venderla se lei non se la sentiva e cercavo il modo migliore di dirle, con tutto il tatto possibile, che in ogni caso lei non avrebbe mai saputo quello che Marianne o Richard ne potevano pensare, no di certo, non sarebbe stato possibile dopo che era morta, quando un cane sbucò improvvisamente a balzi dal folto dei castagni e attraversò correndo all'impazzata il prato, venendo nella nostra direzione. Un cane bianco a macchie nere, un dalmata; lo riconobbi perché era della sorella di Lena. Doveva essere venuta a trovarla. Stella si tirò indietro leggermente, aggrappandosi più forte a me, ma questo cane è così buono e tenero, un giuggiolone, e voleva soltanto venirmi vicino perché lo accarezzassi sulla testa e gli parlassi. Stella volle sapere per quale motivo avevo incrociato le dita. «Porta fortuna vedere un dalmata» le spiegai. «Incroci le dita e faccia un desiderio. Su, coraggio.» Lei ubbidì anche se sembrava dubbiosa. «E non mi dica qual era il suo desiderio» continuai «e io non le dirò il
mio. Ce lo diremo soltanto dopo, se si avvera. Cosa ne pensa, le pare una buona soluzione?» Io, naturalmente, avevo espresso il desiderio che le cose andassero nel modo migliore per Ned e per me, anche se non vedevo come. Non si può essere come il mio papà, avere una bambina e poi andarsene e lasciarla. L'unica possibilità che il mio desiderio si avverasse era che Jane morisse, ma per quale motivo Jane avrebbe dovuto morire? Era una donna normale e sana di trentasette anni e con ogni probabilità ne avrebbe vissuti almeno altri cinquanta. Non volevo che morisse e non era questo il desiderio che avevo espresso. Anzi, avevo perfino aggiunto una riserva mentale, e cioè "ma non al prezzo della morte di Jane". Non facevo fatica a immaginare il rimorso che avrei provato, il senso di colpa continuo, se le avessi augurato la morte mentre accarezzavo il cane col mantello maculato e incrociavo le dita e poi succedeva sul serio. Stella e io rientrammo in casa incontrando Lena mentre attraversavamo la sala di soggiorno dove eravamo entrate dalla portafinestra. Lena rivolse un'occhiata a Stella e disse con quel suo modo di fare che ha sempre quando vuole essere spiritosa: «E come si sente oggi "Lady" Newland?» Stella rispose tranquillamente che si sentiva molto bene, grazie. «Ascolti, Stella, queste scarpe che porta oggi non mi sembrano un'idea così brillante. I tacchi devono essere alti non più di sei centimetri. Tutta vanità, vero, cara? In fondo ecco a che cosa si riduce, a pura e semplice vanità.» «Purtroppo io ho soltanto scarpe di questo genere.» «E il suo bilancio non le consente proprio di far rientrare fra le spese anche un paio di quelle scarpe basse con la suola di gomma che hanno anche tutte le altre signore? Ci pensi un po', cara, lo dico per il suo bene, mi creda.» Quando arrivammo a metà delle scale Stella accennò al fatto che a chiunque dovrebbe essere consentito di mettere addosso quello che preferisce, quando si paga quello che pagava lei. Quattrocento sterline alla settimana, anche se non lo disse. Le avevano insegnato, mi spiegò una volta, a non parlare mai di denaro, e anche se, dopo, aveva perso quell'abitudine, non le è mai piaciuto menzionare somme specifiche. Secondo me si dovrebbe avere il permesso di mettere quello che si vuole anche se non si paga, anche se si è a carico del National Health Service, è qualcosa di cui abbiamo parlato con Ned, la libertà e la dignità ma, con Stella, non avevo voglia di buttare la cosa in politica.
Lei era letteralmente senza fiato quando arrivammo alla sua camera. Si mise a sedere e disse: «Richard ha telefonato per dirmi che mi ha comprato un registratore. Me lo porterà sabato.» La rapidità con la quale cambiò argomento, e non solo quello, mi lasciarono strabiliata. «Cosa volevi dire, Genevieve, con quel "ma non al prezzo della morte di Jane"?» «L'ho detto ad alta voce?» Lei scoppiò in una risatina nervosa. «Temo proprio di sì. Non importa. Io non so neanche chi sia Jane.» «È la moglie di Ned.» Girai la faccia dall'altra parte. «È stato il desiderio che ho fatto... cioè, non desidero la sua morte in modo di poter...» «So quello che intendevi dire. E non la desidera neanche lui, vero?» Rimasi allibita e, nello stesso tempo, cominciai a sentirmi a disagio. «Non ne abbiamo mai discusso. Lei è giovane e sana. Per quale motivo dovrebbe morire?» La risposta di Stella fu un'altra risata, ma una risata di quelle che sembrano quasi un singhiozzo, ad ascoltarle senza guardare chi ride. E poi soggiunse molto in fretta, troppo in fretta: «Non hai mai sentito parlare di Gilda Brent?» Adesso fissava il vuoto davanti a sé. «Non credo» dissi guardinga. «Dovrei?» Stella continuò. «Mi dici che ti piacciono i vecchi film. Continui a registrarli su videocassetta. Gilda Brent era un'attrice, recitava nei film. Un'attrice cinematografica inglese.» «Mi spiace, Stella, non ne ho mai sentito parlare.» «Allora conosci qualcuno che potrebbe averne sentito parlare. Un, come li chiamano... patiti di cinema? Ecco, sì, un patito di cinema?» «C'è la mia amica Philippa» dissi. Era diventata molto rossa in faccia. Non si fa più atletica alla sua età eppure era quella l'impressione che dava, di qualcuno che avesse appena tentato di fare una corsa o di salire in cima a un colle, e che non ci era riuscito. «Potresti domandare a lei» disse. «Domandale un po' di Gilda Brent.» 5 Stella si era messa un po' a scrivere con una penna stilografica di quelle all'antica, azzurra marmorizzata, con il pennino d'oro. A giudicare dai risultati, sembrava che qualcuno, totalmente ignorante di arabo, avesse fatto
un tentativo di scrivere qualcosa in quella lingua. Oppure, secondo una definizione di Richard, quando era un adolescente precoce, come ragni in copula. Respirò a fondo, o perlomeno a fondo per quanto le era possibile. Riportò di nuovo la sua attenzione sulle istruzioni allegate al registratore, ma stavolta perseverò. Tolse l'involucro a una delle nuove cassette, un'operazione che richiese l'uso della lima per le unghie per incidere la carta trasparente. Era già qualcosa aver scoperto come aprire l'apparecchio. La cassetta vi si inserì in modo soddisfacente al terzo tentativo. Fuori dalla sua porta, lungo il corridoio, ci fu un suono di passi. Stella appallottolò il pezzo di carta sul quale stava scrivendo. Infilò il cappuccio sulla penna stilografica. Poi andò alla porta, tendendo l'orecchio per un attimo, senza far rumore, prima di allungare una mano verso l'unica seggiola con lo schienale rigido che ci fosse nella sua camera. Poi la spinse contro la porta, il dorso sotto la maniglia, in modo da immobilizzarla. Tutto questo trafficare la fece rimanere senza fiato al punto che fu costretta a mettersi di nuovo seduta. Dopo qualche minuto, quando pensò di essere in grado di parlare con l'adeguato timbro di voce, premette il bottone rosso sul registratore e cominciò a parlare, un po' insicura al primo momento. "Sto parlando" disse "in un apparecchio che si definisce registratore a cassetta e registratore di dati computerizzati, qualsiasi cosa possano essere. Non ho mai fatto niente di tutto ciò, prima, e ancora non so dire se questo congegno funzioni oppure no. Adesso lo fermerò e cercherò di riascoltare la registrazione." "Sto parlando" disse il registratore "in un apparecchio che si definisce..." Stella ascoltò la propria voce e pensò che suonava molto più tenue di quanto non si fosse aspettata. Le parve tenue e precisa e antiquata e vecchia. Era ancora vanitosa, fu la sua riflessione, perfino adesso. Morente, mentre stava davvero per morire, probabilmente avrebbe continuato ancora a preoccuparsi di qual era il suo aspetto esteriore, di quale poteva essere il suono della sua voce. Chiuse gli occhi per un attimo poi schiacciò il bottone rosso e ricominciò. "Il mio scopo" disse "è di incidere qui sopra qualcosa che nessuno sa all'infuori di me ma di cui si dovrebbe essere a conoscenza, una domanda alla quale non si potrà mai dare risposta se non lo faccio io. Un modo più ovvio di farlo sarebbe di metterla per iscritto. E mi ci sono provata ma i risultati non mi hanno lasciato soddisfatta non solo perché, in
fondo, io non sono una scrittrice, ma anche perché la mia calligrafia non è particolarmente leggibile. L'alternativa sarebbe stata quella di pregare Richard di procurarmi una macchina per scrivere. Sono sicura di poter scrivere a macchina ancora in modo perfetto, ma come spiegargli una richiesta del genere? Che motivo addurre? Moltissimi scrittori, o così almeno mi dicono, pronunciano le loro parole in un microfono e hanno una segretaria che le trascrive. Nessuno trascriverà mai le mie, ma può darsi che una o due persone le ascoltino. Scrivere, comunque, è un'attività silenziosa. La si può fare di nascosto, e poi nascondere quello che si è scritto. Se non sbaglio, devo aver letto in qualche posto che faceva così anche Jane Austen, infilava i fogli sui quali stava scrivendo sotto un libro e faceva finta di essere assorta nella lettura se qualcuno entrava nella stanza. Non si può escludere che una delle persone che ci sono qui, soffermandosi fuori dalla mia porta in perfetta innocenza, o deliberatamente per ascoltare, possa udire la mia voce, se non quello che sto dicendo. Per fortuna, in un certo senso, non sono più in grado di parlare a voce molto alta. E tutto sommato non me ne importa un bel niente se dovessero udire un mormorio continuo che proviene dall'interno. Penseranno semplicemente che sto parlando tra me e me e non rimarranno particolarmente meravigliati. Qui alla casa di riposo tutti, salvo Genevieve, danno per scontato che i loro ospiti abbiano il cervello rammollito oppure stiano vivendo una seconda infanzia. Ho messo una seggiola sotto la maniglia della porta per impedire a chiunque di entrare. Se ci riesco. Inutile dire che, come se fossimo bambini che vanno al gabinetto, qui ci sono serrature sulle porte ma non sono disponibili le chiavi per quelli che occupano le stanze. Ecco fatto. Ci sono riuscita. E adesso che ci sono riuscita, mi sto domandando come iniziare. A dire la verità, sto ancora facendo qualche prova, e adesso voglio risentire da capo la registrazione." "Il mio scopo" ascoltò "è di incidere qui sopra qualcosa che nessuno sa all'infuori di me..." "La porta è ben chiusa, e bloccata, il registratore funziona, e io ho la sensazione di non dover perdere altro tempo. Perché, anche se ho intenzione di raccontare a Genevieve un mucchio di cose sul mio conto e molto che le serva per inquadrare bene questa storia, c'è tanto che, per quanto io possa parlarne ad alta voce in privato, so di non poter realmente raccontare a un'altra persona. E forse non ho nemmeno tanto tempo per raccontare tutto. Così inizierò spiegando il motivo per il quale ho mandato a chiedere
quei rogiti che riguardano la mia casa, oppure partirò da quel necrologio sul Times. No, niente affatto. Comincerò con Genevieve. Richard e io dobbiamo aver visitato come minimo dieci di queste residenze per anziani. Che cosa stavo cercando, al di là delle comodità e di un ambiente piacevole e che non fosse troppo lontano da dove vive lui? Qualcuno che non mi trattasse dall'alto in basso, o con condiscendenza, forse qualcuno giovane e carino e onesto. Una persona, fra quelle che avrebbero dovuto assistermi, con cui poter parlare. Se non so bene quel che cercavo, so che cosa ho trovato. Lei probabilmente direbbe che è stato il destino. Eppure non l'avrei mai conosciuta, non avrei mai pensato a lei fin da quel giorno, ma quando ho sentito il suo nome... La signora Keepe, Lena, non è una donna cattiva. Fondamentalmente è piena di buon cuore, e dirige questo posto con efficienza e... riguardo. Però manca di sensibilità per la vulnerabilità degli altri, o forse dovrei dire che secondo lei la vulnerabilità non dovrebbe essere permessa. Il suo senso dell'umorismo, sono sicura che è convinta di averne in abbondanza, è piuttosto semplice e volgarotto, del genere di chi si sganascia letteralmente se qualcuno scivola su una buccia di banana. Si concentra soprattutto nel far passare per sciocchi gli altri o, piuttosto, nello scoprire i punti nei quali differiscono dalla gente comune per mettere in risalto queste singolarità. A me, per esempio, deve essere dato, ad ogni costo, un finto titolo nobiliare perché mi vesto come mi sono sempre vestita e mi trucco un pochino e non parlo con l'accento locale. Ma questo... questa sua propensione, mi è servita ottimamente il giorno in cui Richard e io entrammo nella sala comune di soggiorno per la nostra visita esplorativa. Probabilmente lei ha sempre avuto l'abitudine di chiamare Jenny l'inserviente, che era lì seduta con uno degli anziani ricoverati, ma ecco che, quel giorno, le si presentava l'occasione di mettere a nudo il punto un po' sensibile di qualcuno di fronte a Richard e a me. «Questa è una delle nostre aiutanti, Jenny Warner, o Genevieve, se vi piace uno di quei bei paroloni che riempiono la bocca!» In quel momento mi tornò alla memoria il giorno che so di non poter mai dimenticare, e l'odore di fumo e quelle piccole ferite che il vetro mi aveva fatto sulle mani. Mi sembrò quasi di vedere il sangue sulle dita. Ma la guardai e la giudicai una persona di quelle che incuriosiscono. Nel suo bel viso ritrovai qualcosa di un viso di molto, molto tempo fa, una piega agli angoli degli occhi, un colorito, una curva del labbro. E così dissi a Richard, mentre risalivamo in automobile: «Penso che
questo sia il posto per me, non ti pare?». "Semplicemente a motivo di Genevieve? Solo in parte. Come facevo a sapere che genere di persona sarebbe stata? Che sarei arrivata addirittura al punto di trovarla simpatica e di affezionarmi a lei? Può darsi che mi sbagli, che quel nome di battesimo sia stato uno dei preferiti nella valle di Waveney trent'anni fa. La verità era che cominciavo ad essere stanca di andare in cerca di un posto dove vivere. Dove morire. Ogni volta che uscivamo, dovevo fare uno sforzo per dominare la mia paura di mettermi in automobile. Ed ero stanca di quelle direttrici di case di cura con un sorriso a trentadue denti... ai miei tempi si chiamavano matron e chissà come le chiamano adesso... le loro liste d'attesa, il loro modo di fare condiscendente. Middleton Hall sarebbe stato il posto per me, nel bene o nel male, perché così voleva il destino o, molto più probabilmente, per un puro e semplice caso." Fermò il registratore. Sto facendo troppe digressioni, pensò. Guai a divagare. Rex si lagnava sempre del modo in cui lasciavo che un'associazione di idee guastasse il filo del mio pensiero e mi chiamava una maestra del non sequitur. Schiacciò il bottone rosso. "Vedere quel necrologio è stato uno shock" disse riprendendo a parlare. "Non so per quale motivo mi capitò di guardare la pagina dei necrologi, di solito non lo faccio, mi limito alla prima pagina e a un paio di articoli prima di andare direttamente all'ultima e alle parole crociate. Ma quel giorno degli inizi di agosto lo aprii per caso alla pagina dei necrologi e mi trovai davanti la sua faccia che mi guardava da una piccola fotografia, la sua faccia giovanile come era quando l'ho visto per la prima volta. Trasalii, e dovette sfuggirmi uno strano suono rumoroso, come il respiro che si tira dopo aver pianto. Il suo nome, in caratteri neri verticali attirò subito il mio sguardo; poi ebbi la sensazione che fluttuasse in aria di fronte ai miei occhi. Come necrologio, non era lungo. Lo so quasi a memoria. Oh, sì, è sempre possibile imparare qualcosa a memoria anche quando si hanno settant'anni, la memoria non viene mai a mancare in tutto e per tutto. Ma non lo ripeterò adesso. Che senso avrebbe? Se conserverò questa cassetta registrata e capiterà che qualcuno l'ascolti, se questa persona volesse saperne di più, i necrologi esistono, si possono rintracciare in qualche archivio o nella biblioteca di un quotidiano. Richard saprebbe come fare, ma voglio davvero che Richard o Marianne ascoltino qualcosa di tutto questo? Il trafiletto era impersonale e freddo. Lo descriveva come un pittore e il-
lustratore di libri per bambini, in particolare la serie ben nota e conosciuta che è intitolata Figaro e Velluto. Il ritratto che aveva eseguito per Edwina Mountbatten veniva citato come la sua opera più famosa. Il compilatore del trafiletto faceva seguire a questa affermazione un commento che sembrava quasi un ripensamento, nel quale sosteneva che il dipinto non aveva incontrato il favore della persona che glielo aveva commissionato e l'artista, di conseguenza, non aveva ricevuto ulteriori incarichi da parte di altre persone di quella stessa cerchia. No, non andrò più avanti. Sto già facendo quello che avevo detto di non voler fare. È l'ultima frase la responsabile di ciò che sto dicendo adesso, e quella devo ripeterla a memoria. 'Si è sposato con l'attrice cinematografica Gilda Brent nel 1949 e si sono separati, per quanto non abbiano mai divorziato, nel 1970. Lei gli sopravvive.' Ecco come so che nessuno sa. L'altro giorno ho provato a pronunciare questo nome parlando con Genevieve ma non le ha detto niente. Allora ho capito che avrei dovuto fare questa registrazione, o tutta una serie di registrazioni, e che sarebbe stato uno sforzo per me pronunciare la parola 'Gilda' ad alta voce. È uno sforzo anche adesso. Gilda, Gilda, Gilda. Naturalmente diventa più facile se si persiste... Con Genevieve mi sono sentita impaurita, imbarazzata, timida e angosciata contemporaneamente. Ma l'ho pronunciato. Ma quel nome non significava niente per lei, esattamente come non significherebbe niente il nome di lui. Adesso riascolterò la registrazione." "Funziona" disse. "Ce l'ho fatta. Come molte persone della mia età ho una profonda sfiducia in queste cosiddette comodità moderne. E non tanto perché sono moderne e noi siamo antiquati, quanto piuttosto perché abbiamo vissuto in questo mondo a lungo, una volta o l'altra ci è capitato di fare qualche esperimento con certe piccole, ultimissime, invenzioni e di solito le abbiamo trovate inadeguate. Sono felice che il mio registratore a cassetta funzioni correttamente, non fosse altro che per il fatto che è un regalo di Richard. Il subconscio si comporta in modi strani. Mentre riascoltavo la registrazione ho visto, diciamo meglio ho sentito, che non avevo mai detto il suo nome. Suppongo, so, che non troverei il coraggio di pronunciarlo ad alta voce in una stanza vuota, anche se non c'è nessuno ad ascoltarlo e non ci sarà mai se dovessi cancellare ciò che è stato registrato su questa cassetta,
come molto probabilmente farò. Nel mio cervello posso ripeterlo all'infinito, piano piano, a me stessa, ma sembra che le mie labbra non saranno mai capaci di formare realmente le consonanti o la mia lingua di produrre i suoni relativi. Riuscirò mai a raccontare tutto questo a Genevieve? Devo tentare? E se lo facessi, sarebbe solo perché lei è l'unica persona che possa accogliere la mia... cosa? La mia confessione. Non sto facendo questo per Genevieve ma lo sto facendo perché Genevieve è qui e per un faccino di bambina visto ventiquattro anni fa." Stella fermò il registratore e nel silenzio riversò una stanchezza che la spossava. Teneva stretto in mano quel foglio di carta appallottolato, ma quando si addormentò le sue dita allentarono la stretta e il foglio scivolò sul pavimento. 6 Mike non mi fece mai una vera e propria proposta di matrimonio. Chissà se gli uomini la fanno davvero nella vita reale, come sembra che succeda nei libri e nei film. C'è proprio qualcuno che dice: vuoi sposarmi? Una sera passeggiavamo su, in cima al colle, e lui, dopo avermi indicato i Chandler Gardens, disse: «Dovremo far mettere i nostri nomi se vogliamo avere una di quelle case quando ci sposiamo.» Non mi meravigliai. Anch'io lo davo per scontato. E non se ne parlò più per qualche mese ma, alla fine di quell'anno, tutti, quando alludevano a noi, si comportavano come se fossimo una coppia di fidanzati e la mamma stava pensando al nostro ricevimento di nozze. Avevamo l'abitudine di fare l'amore sul sedile posteriore dell'automobile di Mike, una vecchia Triumph Herald gialla, parcheggiata in un bosco di pini dietro il Legion. Tutte cose che vanno benissimo quando si hanno diciott'anni ma adesso non lo farei. Cominci a capire di non essere più una ragazzina quando puoi dire che sei troppo vecchia per certe cose. Mike non era stato il mio primo ragazzo, ma il terzo, e gli altri non mi erano neanche piaciuti molto; uscivo con loro semplicemente perché avevo paura che le mie amiche vedessero che non avevo nessuno. La ragione principale per la quale mi sposai fu quella di andarmene di casa. La mamma era sposata con il suo secondo marito, Dennis, a quell'epoca, ma aveva
anche una relazione con un tipo di nome Barry, che stava a Breckenhall, e l'atmosfera, in famiglia, era di quelle che fanno paura, con Barry che arrivava da noi di soppiatto quando Dennis era fuori a fare la notte e Dennis che beveva più di quel che avrebbe dovuto e i litigi continui. Mike è placido, calmo, equilibrato. Lui non bisticcia mai, dice semplicemente: «Vediamo di non metterci a litigare», esce dalla stanza e chiude la porta. Non è un chiacchierone ma neanche uno di quelli ai quali piace leggere. La maggior parte del tempo, quando è in casa, si dedica alle migliorie domestiche. Con questo, sto forse dicendo di annoiarmi? Non lo so. La gente nel nostro villaggio non si aspetta di parlare di tante cose con quello che ha sposato. Le donne si aspettano che il marito passi il tempo libero in giardino oppure con qualche hobby del genere "fai da te". La mamma non parlava mai con il mio papà e neanche lui con lei, e lei del resto non ha mai parlato molto neanche con gli altri dei suoi mariti, avevano da fare in abbondanza insieme senza parlare. Io non avevo mai pensato di annoiarmi fino a quando non incontrai Ned o, diciamo piuttosto, che facevo sempre il ragionamento che matrimonio vuol dire noia, non ci si può aspettare né eccitazione né altro. Proprio per il fatto che non parlavamo mai molto, Mike non si accorse del cambiamento che era avvenuto in me. Ecco come accadde che non fui praticamente quasi costretta a mentire. Se mi capitava di essere un po' più silenziosa del solito lui, probabilmente, pensava che stavo diventando vecchia. In campagna la gente comincia a invecchiare quando è giovane. Non sapevo molto a proposito della vita sessuale degli altri... ma c'è qualcuno che lo sa?... però ero al corrente di qualcosa riguardo a quella di Philippa e di Janis e tutte e due dicevano che l'eccitazione, ormai, come tutto quello che poteva essere un po' emozionante, era già finita da un pezzo. Dopo la nascita della seconda bambina, Philippa e Steve non lo avevano più fatto per mesi e adesso praticamente non lo fanno quasi mai. Lei si è messa addirittura a parlare più o meno come la mia nonna, come se non ci avesse mai provato nessun piacere, come se fosse qualcosa a cui bisogna rassegnarsi, tanto che sono stata costretta a ricordarmi con uno sforzo di quello che lei era una volta, pazzamente innamorata al punto che non sapeva trattenersi dal toccare Steve e accarezzarlo e baciarlo in continuazione. Mike era sempre via, era via talmente tanto, che l'unica opportunità ci restava al week-end, eppure a volte passavano settimane senza che lui mi toccasse e io capivo che, quando dicevo di no, non gli faceva più né caldo né freddo. Prima di conoscere Ned mi ero perfino abituata a domandarmi
come avremmo fatto, Mike e io, a metter su famiglia, se andavamo avanti a quel modo. Una volta ne parlai a Janis, per che cosa era fatto il matrimonio, che senso aveva se non si avevano bambini e di sesso quasi non si parlava più e le uniche cose che si dicevano erano più o meno che la cena era pronta oppure cosa c'era alla televisione. Ma Janis era Janis, e così mi rispose che osservazioni del genere erano da persone immature, e del resto c'era da aspettarsele da un tipo come me. Il matrimonio era come una società, come diventare partner di qualcuno, era un impegno, l'impegno di metter su casa insieme. Quando in principio pensavamo che avremmo potuto essere amici, presi l'abitudine di trovarmi con Ned al Legion, e naturalmente c'erano anche Mike e Jane. Sembrava sempre un caso mentre, a dir la verità, era il risultato di un piano studiato con estrema attenzione da parte mia. Fino a quando Jane cominciò ad annoiarsi, ecco la verità, e smise di venire. Le garbava poco che la mamma avesse installato il juke-box e una specie di gioco con le guerre stellari, non parliamo poi dei ferri di cavallo in ottone e degli gnomi di porcellana sugli scaffali nei séparé. «I pub inglesi di campagna erano magnifici, una volta, fino a quando non li hanno rovinati la musica registrata di sottofondo e certi oggetti kitsch» diceva. Quanto a Mike, si mise subito a fare quella faccia che conosco così bene. Aggrotta tutta la fronte, così diventa una ruga sola, e piega all'ingiù gli angoli della bocca quando sente un linguaggio del genere da parte di una donna. «Sento parlare già abbastanza a quel modo quando siamo in cantiere» mi disse dopo. «Una cosa è sentirlo dai muratori. Ma lei dovrebbe essere una donna istruita.» Così smise anche lui di venire al pub e per un po' Ned e io ci trovammo a bere un paio di bicchierini insieme, da soli, il sabato sera. Lui ci capitava verso le otto e io mi presentavo con la spesa che ero andata a fare per la mamma oppure venivo a prendere le uova. Poi un sabato lei mi disse, sporgendosi attraverso il banco del bar, a bassa voce: «Senti, puoi anche avere le scalmane per lui ma se fossi in te eviterei di farmelo leggere in faccia da tutti a questo modo!». Evidentemente avevo bisogno di mia madre per sapere di essere innamorata. A quel punto mi resi conto di un'altra cosa: volevo che lui si innamorasse di me, e ricambiasse il mio amore. Be', per quello possedevo il rimedio. Non so per quale motivo me ne vergogno, eppure non dovrei vergo-
gnarmi perché ha funzionato. Si trattava di un sortilegio che funziona da secoli. Tre o quattro anni prima la nonna mi aveva dato qualcosa per restituirmi l'amore di Mike. Sembra pazzesco, vero? Assurdo. Non sapevo che il suo amore fosse finito, e meno ancora di volerlo far rinascere. La nonna, invece, si era accorta di come lui si comportava, lo aveva notato nella gran sala di riunione del villaggio alla festa per il suo ottantesimo compleanno. Immagino che lui fosse rimasto da parte con i ragazzi e i giovanotti, come al solito, o se non altro che non si fosse occupato molto di me. Fu una pozione d'amore quella che mi diede, e l'aveva preparata con le sue mani, la chiamava filtro, oppure a volte elisir, un liquido marrone del colore del tè in una bottiglietta di quelle da liquore in miniatura, che una volta aveva contenuto del Cointreau. Mike non ne assaggiò mai nemmeno un goccio. Forse, a quel punto, ormai, mi lasciava indifferente il fatto che mi desiderasse o no, o forse non ero persuasa che funzionasse. Invece quando si è innamorati, si è pronti a provare qualsiasi cosa. Sapevo benissimo che nessuno beveva mai quelle bottigliette di liquore in casa nostra; così la nascosi in fondo alla credenza e il sabato successivo la tirai fuori e andai al Legion alle otto. Ancora oggi non so se la mamma mi vide versare il liquido che conteneva nella mezza pinta di Abbot che Ned aveva ordinato. Approfittai, per farlo, quando lui si alzò per scambiare qualche parola con la signora Thorn che lo stava assillando perché facesse una donazione per il fondo che stiamo raccogliendo per le campane. Avevo il cuore in gola quando tornò indietro. Si scolò la Abbot, e poi un'altra, e alla fine, invece di dire come aveva sempre fatto che era venuto il momento di andarsene, e di lasciarmi lì dov'ero, si limitò a guardarmi chiedendo: «Vieni?». Lo seguii fuori, la notte era nera come la pece. Lui mi prese per mano e mi condusse giù per lo stretto viottolo dove le siepi sono alte. L'elisir della nonna fa innamorare l'uomo che lo beve della prima donna che vede e io avevo avuto venti minuti di terrore al pensiero che la prima donna per lui potesse essere stata Myra Fletcher o addirittura la signora Thorn. Invece andò tutto a meraviglia. L'elisir aveva funzionato. Nel buio al quale a poco a poco i miei occhi si stavano abituando mi accorsi che il suo viso era trasfigurato. Mi abbracciò e mi baciò. Disse qualcosa ma non ricordo cosa fosse e non ricordo ciò che dissi io. Ci baciammo e ci abbandonammo all'amore, e fummo perduti. Non raccontai mai niente alla mamma. Lei si limitò a intuirlo. E diede
per scontato che fosse successo per un atto di magia, anche - la magia di sua madre. La nonna aveva fatto la stessa cosa per lei all'epoca in cui aveva conosciuto Dennis, anche se confesso di non essere rimasta per niente soddisfatta quando sono venuta a saperlo. Un atto di magia, sospettò che fosse, e qualcos'altro. «Siamo tutti belli in famiglia, su questo non ci piove.» E si mise a ridere. «Tu hai una figura ancora migliore di quella che avevo io, ragazza. È facile capire quello che vede in te.» Avrei voluto spiegarle che non era per il mio aspetto che Ned mi desiderava, che mi amava, e che quel filtro magico era servito soltanto a mettere in moto ogni cosa, ma avrebbe significato ammettere troppo. E io non avevo la minima intenzione di ammettere qualcosa. Ritornando sola soletta alla mia casa vuota pensai a quello che aveva detto, mi misi a sedere e ci pensai per un bel po'. Lei non aveva più detto niente, non aveva nemmeno più sfiorato l'argomento anche se, e lo capivo benissimo, doveva essere in cima ai suoi pensieri, però aveva sicuramente fatto questa riflessione: cos'altro, all'infuori del suo corpo e della sua faccia, potrebbe vedere un tipo come quello in una ragazza come Jenny? Lui è uno che ha studiato, ha fatto l'università a Cambridge, lavora alla televisione, e lei cos'è? Una ragazza di Tharby senza nessuna qualifica speciale, senza una specializzazione al mondo, che faceva la domestica fino a quando non ha ottenuto quell'impiego come inserviente a Middleton Hall. Si capisce che è soltanto pura e semplice attrazione fisica, gli piace da matti, e non c'è da meravigliarsi. La mamma la sa lunga sul sesso ma non è altrettanto abile a capire quello che passa nel cervello della gente. Lei misura l'amore soltanto in termini di letto; e anche il letto lo misura soltanto in termini di come e quanto uno può spassarsela. Ma quello che Ned e io abbiamo non è puro e semplice spasso, è un sentimento buono, a volte stupendo, e a volte mette quasi paura e allora ne sono terrorizzata. Perché, cosa farò quando sarà tutto passato e finito? Questo accadde in aprile e, fortunatamente per Ned e per me, fu un aprile caldo. Il giorno in cui feci quella piccola passeggiata con Stella e vedemmo il dalmata era il 6 settembre e si poteva già sentire l'autunno nell'aria. Ned sarebbe venuto giù il giovedì e io pregavo in cuor mio che fosse una bella serata, che il tempo non continuasse freddo e umido come era fin dal sabato. Ma quel martedì feci un salto da Philippa verso le sette con un paio di videocassette che le avevo appena registrato sapendo benissimo
che ormai dovevano già aver finito di cenare e che presto i bambini sarebbero stato mandati a letto. Philippa abita in una delle Weavers' Houses. Sono una fila di case, a metà rivestite in legno, senza giardino di fronte e i gradini davanti alla porta d'ingresso. Ci abitavano i tessitori di seta quando furono costruite, nel XVII secolo. Tutti le trovano letteralmente stupende e se a qualcuno capita di vedere una cartolina illustrata di Tharby, il soggetto, di solito, è quello. Io, invece, non so, le trovo un po' scure e tetre con quelle finestrine così piccole e l'intonaco che non si può ripitturare. Domandai a Ned per quale motivo si doveva partire dal presupposto che tutto quello che era vecchio di un paio di secoli andasse considerato bello, e lui rise e disse che non lo sapeva, non ci aveva mai pensato prima però la mia osservazione non era del tutto sballata. Il modo in cui gli piace quello che dico, il modo in cui è d'accordo con me e a volte sostiene che gli faccio vedere le cose con occhi nuovi, ecco... questo basterebbe a convincermi, se avessi bisogno di essere convinta, che non è soltanto per il mio aspetto fisico, per come sono fatta, insomma, che mi desidera. Le sue bambine, una di sette e una di cinque anni, erano già a letto e Steve era fuori ad aiutare suo padre a raccogliere patate. Consegnai a Philippa le cassette che avevo registrato, quelle di Fiori d'acciaio e Relazioni pericolose. Lei invece mi consegnò I giovani leoni e Rapina record a New York. Anche se è molto poco probabile che io mi decida a vederli, non sono cinedipendente come lei, e le registro quei film soltanto perché lei non può vederne uno e registrarne un altro contemporaneamente. La sua casa non è grande ma ha un mucchio di stanze, tutte molto piccole, così fummo costrette a sederci in quella dove c'era la televisione perché stava guardando un film nel quale John Wayne recitava la parte di un capitano della cavalleria americana. Non poteva registrarlo, perché stava già registrando Hide-hi sul Primo Programma della BBC. Così ci sedemmo lì a bere Diet Coke mentre i soldati combattevano contro gli indiani fino alle otto meno venti, e poi il film arrivò alla fine. «Mi registreresti Fronte del porto giovedì se io ti registro Viso pallido? Vorrei registrare I processi di Rosie O'Neill, qui da me, ma non posso registrarlo contemporaneamente al film con Marion Brando. E non posso rimanere alzata fin così tardi a guardarli tutti e due perché, con le bambine, devo schizzar fuori dal letto alle sei.» La vita di Philippa è complicata, come se fosse sempre costretta a fare giochi di prestigio per far andare d'accordo un matrimonio, un impiego e
un paio di relazioni amorose, ma le sue relazioni amorose sono tutte con le videocassette e il suo lavoro è quello di programmare il videoregistratore. Le risposi che le avrei registrato tutto quello che voleva e per poco non aggiunsi che giovedì sera sarei stata fuori. Mi fermai appena in tempo. «Hai mai sentito parlare di un'attrice che si chiama Gilda Brent?» provai a dire. Philippa mi guardò come se le avessi domandato se aveva mai sentito parlare di Marilyn Monroe. «Le commedie di Ealing» dissi. «Giusto?» «Naturale. Lo sanno tutti. E non soltanto le commedie di Ealing. Ha fatto anche un mucchio di film di guerra. La corazzata Valiant e I cieli sopra di noi.» «Prova a dirmene qualcuno che posso aver visto anch'io.» «Sono semplicemente inorridita se penso ai film che non hai visto, Jenny. Lasciami pensare. La storia di una moglie?» «Ne ho sentito parlare.» «Be', lo danno la settimana prossima, così te lo registro. Sarà un bel cambiamento farti la videocassetta di qualcosa che ti interessa sul serio!» «Che tipo era?» domandai. «Bionda, ma con un viso un po' come quello di Joan Crawford. Gambe favolose. Perché vuoi saperlo?» Già, perché? Stella mi aveva soltanto domandato se ne avevo sentito parlare. Probabilmente pensai che se avessi scoperto qualcosa Stella mi avrebbe raccontato dell'altro e, forse, in quello che mi raccontava avrei trovato qualche connessione con lei. «C'è una donna, alla casa di riposo, che la conosceva.» Ma era vero, poi? «La conosceva?» domandò Philippa, e si illuminò tutta in faccia. È sempre stato il suo sogno incontrare un vero attore o una vera attrice, e se sapesse come conosco bene Ned vorrebbe che gli chiedessi di presentargliene uno. Ma non lo sa e non glielo chiederà. «La conosceva bene?» «Non ne ho idea» risposi. «Quando lo scoprirò, te lo dirò.» «Mi viene in mente una cosa» fece lei. «Aspetta un momento» come se io fossi già lì pronta ad alzarmi in piedi di scatto e a correr via. Tornò con un libretto fra le mani. Era un album per le figurine delle sigarette. Non so se ne avete mai visti... be', può darsi che non abbiate mai sentito parlare delle figurine che ci sono nei pacchetti di sigarette. Una volta ce n'era una in ogni pacchetto e di solito raffigurava un calciatore o un
uccello o un pesce o un fiore selvatico, o un'altra cosa qualsiasi. Se ne raccoglievano trentasei, diciamo, la serie intera, e si incollavano sull'album. Io le avevo già viste anche prima perché mia nonna ne aveva un mucchio, erano quelle che raccoglieva il nonno, che adesso è morto. L'album che Philippa mi fece vedere era tutto sui divi del cinema. Quasi pieno, ne mancava soltanto una, c'era lo spazio vuoto per un'attrice di cui non avevo mai sentito parlare, una certa Corinne Luchaire. Non sembravano fotografie vere e proprie, ma piuttosto disegni che poi erano stati colorati un po'. Quella di Gilda Brent rappresentava una ragazza che assomigliava, come Philippa aveva detto, moltissimo a Joan Crawford senza essere altrettanto... non so se la parola giusta potrebbe essere sicura di sé, o forse, dinamica. Aveva i capelli pettinati con un rotolo sulla fronte e poi sciolti sulle spalle. Le labbra erano rosso-sangue e le sopracciglia depilate e ridotte a due linee sottili, sottili come capelli. Sotto il posto dove si incollava la figurina, sulla pagina dell'album, c'era stampato: "Gilda Brent, nata a Londra nel 1920. Vero nome Gwendoline Miranda Brant. Capelli biondi, occhi grigi. I suoi film includono: La corazzata Valiant e I cieli sopra di noi, La fidanzata, La signora in merletto, Storia di una moglie, Sette per un segreto e Lora Cartwright". «Le sue sono sempre state parti di attrice non protagonista» mi spiegò Philippa. «Mai la grande diva. No, sto dicendo una bugia, è stata la protagonista di La storia di una moglie ma non credo che quel film sia stato un grande successo di cassetta. Dopo la metà degli anni Cinquanta non ne ha più fatto neanche uno. Forse avrebbe fatto bene ad andare a Hollywood ma immagino che nessuno glielo abbia proposto.» Fu a quel punto che mi venne in mente che Gilda Brent avrebbe potuto essere Stella. L'età non era quella giusta, Stella non era nata che nel 1923, ma avrebbe potuto raccontare una bugia sulla sua data di nascita. Non avevo visto il suo certificato di battesimo e non credo che l'avesse visto neanche Lena. Il suo cognome da ragazza avrebbe potuto essere Brant e quanto al nome Stella, chiunque si può chiamare come preferisce, e non mi meraviglio che a qualcuno il nome Gilda non piacesse proprio per niente. Il vero nome della mamma è Doris ma lei lo odia e tutti l'hanno sempre chiamata Diane. La figlia di Stella, Marianne, fa l'attrice e capita abbastanza spesso che un'attrice abbia una figlia che fa anche lei l'attrice. Stavo pensando a Judy Garland e Liza Minnelli, a Maureen O'Sullivan e Mia Farrow. «Come è andata a finire?» dissi.
«Non so. È sparita, semplicemente. Ormai l'epoca d'oro dei film inglesi era finita. Credo che non ci fosse più lavoro per lei. Forse si è sposata con qualche riccone.» Per la prima volta a partire dalla prima volta, Ned e io ci trovammo quel giovedì, ma senza fare l'amore. Non solo c'era un gran freddo, ma pioveva a dirotto. Lo aspettai a Thelmarsh Cross sentendomi profondamente infelice e anche qualcosa di peggio, sentendomi addirittura in colpa perché stava piovendo... come se fossi stata io a far piovere... e domandandomi come avrebbe reagito a sentirsi dire che no, non ci pensavo neanche, non me la sentivo di farlo sul sedile di dietro di un'automobile. La cosa meravigliosa fu che l'aveva già capito, aveva capito che sarebbe stato impossibile, e non gliene importava. Anche lui era schizzinoso per cose di questo genere. Salii sulla sua automobile e presi posto sul sedile davanti, di fianco a lui, e ci baciammo, un bacio lungo e dolce che si interruppe soltanto perché io avevo sentito il rumore degli schizzi d'acqua che fa un'automobile quando arriva sulla strada di Curton. Mi staccai da Ned e guardai fuori dal finestrino e vidi che era sempre la stessa, che avevo già visto l'ultima volta, con la stessa donna al volante. Probabilmente fu uno scherzo della mia fantasia, ma ebbi l'impressione che rallentasse mentre ci oltrepassava. «Credevo che non saresti venuto» dissi «perché non c'è nessun posto in cui si possa stare soli.» «Siamo soli» fece lui. «Non soli come io vorrei.» «Jenny, non è soltanto desiderio di sesso quello che proviamo l'uno per l'altra. Ha proprio tutta questa importanza se ci capitano una sera o due in cui stiamo seduti a chiacchierare?» Rimanemmo lì per un po' e poi lui si mise al volante e guidò per quei dieci o dodici chilometri che ci separavano da Newall Pomeroy dove c'è un piccolo pub, non molto frequentato, che porta il nome di White Swan. Il gestore ci lasciò prender posto in una stanzetta sul retro che chiamano "riservata" ma non trovammo neanche il coraggio, a momenti, di prenderci le mani. C'era gente che continuava a entrare o, perlomeno, a metter dentro la testa dalla porta. Ned parlò ancora per un po' di come gli piaceva anche soltanto stare con me, lì seduto a chiacchierare, e cosa ne pensavo di accompagnarlo, il giorno dopo, nel posto dove stavano girando un telefilm? Sapeva che quella era la mia giornata di libertà. Stavano facendo il profilo
di un artista che vive a Wells-next-the-Sea. Non voglio negare che non mi abbia reso felice sentirmi fare quella proposta. Sarei stata là con lui, il produttore, e avrei conosciuto i cameramen e tutta la troupe, e il regista e forse anche l'artista. Avremmo mangiato insieme e ci saremmo spostati insieme in macchina nei diversi posti dove giravano gli esterni e tutti avrebbero capito chi ero e perché ero lì. Sarebbe stato il modo con cui Ned intendeva cominciare a rendere pubblico il legame che ci univa, il suo modo di presentarmi al mondo e dire: questa è la mia ragazza che un giorno sposerò. Un vero peccato non poter accettare. «Perché no, Jenny?» «Perché Jane verrà a saperlo.» «Un giorno o l'altro dovrà saperlo. La bigamia non rientra nei miei progetti.» «No, lei non dovrà affatto saperlo, Ned. E sai benissimo perché no. Hannah è il perché no.» Lui cominciò a discutere ma io gli risposi che non avevamo via d'uscita, la situazione era quella, e non cambiava, insomma. Perché Hannah non era soltanto una bambinetta di cinque anni che aveva bisogno di tutti e due i genitori. Era una bambinetta di cinque anni che soffriva di asma. E la curavano con i corticosteroidi, e adoperava un nebulizzatore. Ecco il motivo per cui Ned era tornato più di una volta ai Sorbi Selvatici dalla nostra sala comunale di riunione, al villaggio; perché qualche ora prima proprio quel giorno Hannah aveva avuto uno dei suoi attacchi d'asma. E quando li aveva, chissà per quale motivo era il suo papà che voleva vicino. Tanto che a Ned capitava abbastanza spesso di alzarsi anche quattro volte alla notte per andare a darle un'occhiata. Eppure lui riuscì ugualmente a dire: «Il matrimonio, oggigiorno, si celebra con una clausola contrattuale di esonero. Quando ci si impegna a celebrarlo si sa già che se capitasse il peggio si può sempre venirne fuori.» «Non quando il peggio è una bambina con l'asma.» Mi straziava il cuore dire cose del genere, fargli opposizione e resistergli quando lui mi guardava a quel modo e mi supplicava. Aveva un viso così bello, delicato, la bocca così morbida quando mi baciava e così salda quando parlava, gli occhi azzurri con uno sguardo così penetrante e diretto. La mano che stringeva la mia era abbronzata, e con le dita affusolate, e fresca. Si era già tolto da molto tempo la vera, quando ci siamo conosciuti. Era duro negargli qualcosa, era duro essere sempre quella che diceva no. E quando guardai fuori dalla finestra la pioggia che scrosciava e ne rigava i
vetri, quando guardai quel buio che cominciava già a calare, pensai che molto probabilmente non ci sarebbe stato nessun atto di amore fra noi per molti mesi, e questo mi terrorizzò. Mi sentivo come se lo volessi mettere alla prova. Avrebbe continuato ad amarmi anche quando mi fosse diventato impossibile fare l'amore con lui e avremmo dovuto rassegnarci soltanto a parlare quando eravamo insieme? Mi stava riaccompagnando indietro, a Thelmarsh Cross dove avevo lasciato la macchina, e aveva ripreso il discorso di quel film che stavano girando, e cercava ancora una volta di persuadermi ad accompagnarlo quando andammo quasi a sbattere contro un trattore parcheggiato sotto una siepe gocciolante. Be', non proprio a sbattere perché non lo toccammo neanche. Ned frenò appena in tempo e la macchina ebbe un sobbalzo e uno scossone, e io mi sentii scaraventare in avanti anche se avevo ben allacciata la cintura di sicurezza. Non so perché, mi fece tornare in mente Stella; a meno che non si possa spiegare col fatto che lei mi aveva raccomandato di stare attenta a come guidavo per i nostri viottoli, ma un pensiero tira l'altro e fu quello che mi portò a Gilda Brent. E Ned ne aveva sentito davvero parlare, anzi una volta aveva perfino cercato di mettersi in contatto con lei per offrirle una parte in un film che stava facendo. «Bisogna risalire come minimo a quindici anni fa» disse. «A quell'epoca io ero proprio agli inizi della carriera. Avevo ventitré anni ed ero incaricato della distribuzione delle parti agli attori. Mi capitò fra le mani una sua fotografia e la cercai presso il suo agente. La fotografia, già a quell'epoca, era vecchia, forse risaliva a vent'anni prima. Ma secondo me lei aveva quel tipo di faccia che poteva invecchiare bene. Buoni geni o buone ossa. Anche la tua è una di queste facce, Jenny.» «Qual era la parte per la quale l'avevi cercata?» «A quell'epoca lei aveva sessant'anni. Era per interpretare il ruolo di una madre che ai suoi tempi era stata un'attrice famosa. E la faccia di Gilda Brent era proprio quella che io avevo in mente.» Gli domandai se lei avesse recitato quella parte. «Non riuscimmo a trovarla. Il suo agente ci spiegò che, a rigor di termini, lui continuava ancora a rappresentarla ma ormai erano quasi dieci anni che aveva perso completamente ogni contatto con lei. Era scomparsa, fu così che mi disse, anche se sembrava un po' troppo drammatico. Credo che significasse semplicemente che in tutto quel tempo lui non aveva avuto nessuna offerta per lei. Ma anche prima di allora... per quanto non me lo abbia proprio detto chiaro e tondo... le possibilità di lavoro erano state
scarsissime. Non aveva mai recitato alla televisione.» Gli dissi chi doveva essere, secondo me, e dove si trovasse. Ned mi rispose che gli sarebbe piaciuto conoscerla. Non mi impegnai a promettergli niente, perché in quel momento stavo già lottando con quel miscuglio di sentimenti che provo sempre appena prima di separarmi da lui. Sono l'infelicità al pensiero di separarci, il sapore della solitudine che sta per arrivare, un grande senso di vuoto interiore e, sì, di desiderio insoddisfatto. Perfino quando avevamo fatto l'amore, il desiderio insoddisfatto rimaneva sempre. Soltanto stare con lui notte e giorno, vivere con lui e dormire vicino a lui, notte dopo notte, potrebbe metter fine a tutto questo. E non potrà mai succedere. Ricordando quale era stata la reazione di Stella quando le avevo obbedito con troppa prontezza, presi tempo prima di riferirle quello che sapevo sul conto di Gilda Brent. Arrivò il lunedì prima che mi decidessi a raccontarle quello che aveva detto Philippa e quello che ero venuta a sapere da Ned. Il fine settimana mi sembrò lungo e noioso. Mike era andato a Norwich il sabato pomeriggio a vedere i Canaries che giocavano in casa; la sera poi continuò con quello che aveva cominciato a fare al mattino, cioè risistemare la cucina e ridipingerla ma in modo da non crearmi neanche il più piccolo inconveniente durante la settimana che stava per cominciare. Ha vissuto con me tutti questi anni eppure, a dispetto di ogni prova del contrario, continua ad essere convinto che io passi in cucina la gran parte del mio tempo quando sono in casa. È quello che fanno le donne. Che Dio lo benedica! Se penso che la chiama la "mia" cucina, sta rimettendo a posto la "mia" cucina, ma capisco che quello è il suo modo di dimostrarmi che mi vuole bene, ed è l'unico regalo che sa come offrirmi! La sera della domenica andammo a cena dalla mamma, e c'era anche Len, e poi per un'oretta dalla nonna nella sua casa a un piano solo, con la veranda, e alla fine anche a prendere il tè da Janis. In altre parole, il solito modo di tirare avanti alla bell'e meglio per due giorni senza avere il lavoro che li riempie. Tornarsene a Londra fu un sollievo per Mike il lunedì mattina. Naturalmente non lo fece capire ma era talmente chiaro...! Mi diede un bacio e mi disse che gli sarei mancata ma quando il suo compagno Phil venne a prenderlo con dieci minuti di anticipo era già pronto e moriva dalla voglia di scappar via. Salito in macchina in fretta e furia, si mise subito ad ascoltare qualche storia che Phil aveva iniziato a raccontare e rideva sganasciandosi
in un modo tale da dimenticare di voltarsi indietro a guardarmi... Figurarsi, poi, a farmi un gesto di saluto con la mano. Il fatto è che Mike, come tanti altri, preferisce enormemente la compagnia degli uomini, è felicissimo con quelli del proprio sesso, e quando andiamo a una delle solite riunioni sociali nella sala comunale del nostro villaggio, va sempre a finire che lui si rifugia nel bar con tutti quelli che sono stati i suoi compagni di scuola. E fu anche quello che capitò a un certo momento perfino la sera in cui vidi per la prima volta Ned e facemmo conoscenza. Quando andai al lavoro, Stella era nella sua camera e stava terminando di far colazione. Ma ero appena entrata e stavo ammirando il nuovo registratore sul suo scrittoio quando il mio cicalino cominciò a suonare per avvertirmi che ero desiderata in camera di Arthur. Aveva ricominciato a soffrire di sciatica e quando finalmente finii di fargli un massaggio e gli presi un appuntamento con il fisioterapista, eravamo a metà mattina e ormai era arrivata l'ora del caffè e biscotti per tutti. Stella, per qualche motivo, fu l'ultima ad essere servita. La trovai sola soletta nella sala di soggiorno; stava leggendo il giornale di domenica e questo mi diede uno strano senso di tristezza anche se non era assolutamente il caso, in quanto quello di lunedì era arrivato come al solito e stava aspettando sul tavolo nel vestibolo. Adesso mi sembra strano di aver potuto essere tanto ingenua. Avevo una specie di sorriso stupido sulla faccia quando dissi: «Era lei, vero? Gilda Brent era lei.» Stella non si mise a ridere. Voltò verso di me un viso grave, turbato. «Come mai ti è venuta questa idea?» «Non so, ho semplicemente pensato... Ecco, l'età era quasi giusta e lei ha fatto talmente tanti misteri su questa storia! Così ho pensato semplicemente che Gilda Brent fosse lei.» «Mi duole deluderti, Jenny. Capisco che devi esserti data un po' da fare, devi aver tentato qualche ricerca, ma io non sono stata Gilda Brent e lei non è stata me.» Poi soggiunse, e mi sembrò un po' strano: «Vorrei che lo fosse stata.» Dire quelle parole le aveva fatto salire un po' di colore alle guance, oppure era stato qualcos'altro. Mise da parte il giornale. Afferrò la tazza del caffè e cominciò a sorseggiarlo quasi di malavoglia, come se non le importasse molto di berlo o no, come se fosse qualcosa da fare più che altro per passare il tempo. «Io non sono mai stata niente, mia cara. Soltanto una segretaria per un po' e poi una casalinga e una madre, come Gilda non si stancava mai di ri-
cordarmi.» Mi rivolse un sorriso luminoso e subito tornò seria. I suoi occhi si allungarono di nuovo verso il giornale anche se non lo prese più in mano. Pensai che volesse metter fine alla nostra chiacchierata come le capita qualche volta di fare, e allora sembra diventare indifferente, come se si rifiutasse di provare interesse per qualche cosa e si chiude in se stessa. Stavo per ritirarmi, avevo una quantità di cose da fare che mi avrebbero tenuto molto impegnata, quando lei disse, come se le avessi fatto una domanda: «Suo padre era un attore shakespeariano piuttosto noto, si chiamava Everard Brant. Naturalmente lei ha calcato le tavole del palcoscenico fin da bambina. Anzi, credo che abbia addirittura recitato nella Tempesta, faceva la parte di uno spiritello o qualcosa del genere, o forse invece è stato nel Sogno di una notte di mezza estate. Ecco come ha potuto entrare nel cinema e recitare nei film, perché suo padre era quello che era.» «Non ha mai avuto niente a che vedere con la sua casa?» domandai. Sembrò che lei non mi avesse sentito. «All'epoca in cui la conobbi io, ormai aveva chiuso con la sua carriera cinematografica. Aveva quarant'anni, capisci, ed essere una quarantenne allora non è come adesso. Quarant'anni voleva dire aver toccato la mezza età e a nessuno interessavano le attrici cinematografiche di mezza età salvo per recitare la parte della madre di qualche personaggio del film, e Gilda non era il tipo, no, proprio per niente. Oh, no, aveva chiuso con i film o i film avevano chiuso con lei. Ma non se ne dimenticò mai. Non permise mai a nessuno di dimenticare quello che era stata.» Non avrei mai pensato che Stella potesse essere così perfida e rimasi sbalordita per il modo, il tono, con il quale stava parlando. Mi fece sentire a disagio; così ripetei la domanda sulla casa, più che altro per cambiare discorso, non perché me ne importasse qualcosa. Stella mi rivolse una strana occhiata. «Proprio per niente» disse, e poi, tanto che mi diede la sensazione che ci avesse ripensato «non ha mai avuto niente a che fare con quella casa e nello stesso tempo ha avuto tutto a che farci. Ci è andata soltanto una volta ed è stato il giorno della sua morte.» Parlò con tale determinazione che feci quasi fatica a crederci quando, alzando gli occhi a guardarmi, con voce completamente mutata, un tono addolorato e nervoso, soggiunse: «La persona che ti ha parlato di Gilda, ti ha anche detto qualcosa su quello che le è successo?» «Sono state due persone» risposi «ma non sono del tutto sicura di capire
quello che lei vuole dire quando mi domanda se sapevano qualcosa di quello che le è successo.» «Mi spiego, hanno detto che lei era... hanno detto che era morta?» «Veramente non ne abbiamo parlato» risposi. «Non sapevo che a lei interessasse saperlo. Non me lo aveva detto.» Aveva un'espressione tale sulla faccia che cominciai a spaventarmi. Era come se fosse diventata improvvisamente molto più magra e scarna, e i suoi lineamenti si fossero affilati. Le guance erano in fiamme, ma di un colore completamente diverso, più opaco di quello del rouge. Allungò una mano per impossessarsi della mia. Ma non fu un gesto di affetto, lo fece soltanto come se ne sentisse il bisogno. «Ha importanza, Stella?» le domandai. «Vuole sapere se lei è morta?» «Oh, io lo so, io lo so. Certo che è morta. È morta da venticinque anni. Non è quello che voglio sapere. Voglio sapere se qualcun altro lo sa.» Fu colta da un accesso di tosse. Era una tosse orribile, secca, la sua, e non ci si poteva far niente. A un certo momento si riprese, diventò più calma, e poi si lasciò andare, esausta, contro lo schienale della poltrona. Ecco cos'era successo, e continuavo a stringerle forte la mano, quando sentii la porta che si spalancava alle mie spalle per far entrare qualcuno. Stella la vide al di sopra della mia spalla. Abbandonò la mia mano lasciandola ricadere e sussurrò: «Non dire niente di questo di fronte a lei.» Era Marianne, di ritorno da Corfu. È sempre cortese e gentile, mi chiama per nome e mi domanda come sto. Terminati i convenevoli, buttò le braccia al collo di Stella come fa di solito e si lanciò subito in un resoconto senza fiato della sua vacanza, com'era stata splendida e terribile, com'era orrenda... è una delle sue parole preferite... la casa dell'amica in cui alloggiavano e fantastico il tempo, e terrificante il viaggio, il modo di comportarsi dei ragazzi, la roba da mangiare. Lei è sempre così. E chiama tutti tesoro, perfino me. Non mi fermai con loro; mi trattenni solo il tempo necessario ad assimilare mentalmente tutto quello che riguardava il suo aspetto. Deve avere quarantuno o quarantadue anni ma non dà l'impressione di essere più vecchia di me, è proprio bellissima, snella, flessuosa, con le fattezze nette, regolari, e lunghi capelli castani. La sua pelle aveva una splendida abbronzatura, di un caldo colore dorato, e la sua faccia nemmeno una ruga. Pensai a ciò che Stella aveva detto quando, parlando di Gilda Brent, aveva definito "di mezza età" una donna di quarant'anni. Marianne mi aiutò a rendermi
conto di come sono cambiati i tempi. Poi riversò, letteralmente, sulla poltrona di sua madre tutti i doni portati da Corfu e quelli comprati al dutyfree. Stella non diede più la sensazione di essere stanca; tutto d'un tratto sembrò di vent'anni più giovane mentre apriva i pacchi dei suoi regali e rideva di gioia. 7 Quella delle persone sposate che dormono insieme in un letto matrimoniale è una strana faccenda. Dividere lo stesso letto per una coppia che è insieme da molto tempo, è strano. Eppure sono sicura che la maggior parte della gente lo trova naturale. Quando mi è capitato di pensarci per la prima volta... se fossi stata felice di farlo immagino che una riflessione del genere non mi sarebbe mai passata per la testa... tutto d'un tratto mi è sembrata una delle cose più curiose della nostra esistenza. Non è come se quelle stesse persone si sedessero vicine tenendosi per mano nei momenti liberi o fianco a fianco, intorno a un tavolo al ristorante. Anzi, per quanto non mi capiti spesso di andare al ristorante, quando ci vado qualcun altro si preoccupa sempre di mettere me e Mike seduti l'uno lontano dall'altra. Si pensa che non sia corretto. E, a casa propria, una coppia si guarda, seduta faccia a faccia ai due lati di un tavolo, non occupa due seggiole vicine. Invece, di notte, divide un letto. Gente che arrivasse da un'altra epoca o da un altro pianeta non ci crederebbe. Sembrerebbe quasi qualcosa di sopravvissuto ai tempi che furono, un residuo di Medioevo. Nei vecchi film di Hollywood le coppie hanno letti singoli. E questo mi porta a domandarmi se l'usanza si era praticamente estinta negli anni Trenta ed è stata ripresa per qualche motivo. Ma quale? Non per fare l'amore, in massima parte quelle coppie non lo fanno mai, e sicuramente neanche per tenersi caldo. Oggi, poi! Fra l'altro, nel nostro letto matrimoniale Mike e io non ci tocchiamo mai. Però continuiamo a dormire l'uno a fianco all'altra in quel letto di un metro e venti per un metro e ottanta e se gli domandassi perché e perché non cambiare qualcosa, credo che si convincerebbe che sono diventata matta. I letti matrimoniali dovrebbero essere per quelli che sono appena diventati amanti. Io sento il bisogno di dividerne uno con Ned, perché è solamente quando un amore è fresco e impetuoso che trovo giusto che ci sia un grande letto caldo nel quale stare insieme. Tutto quello che riesco ad avere adesso, invece, è un cantuccio in un pub, nella saletta riservata, e le sue
promesse di devozione, e i giuramenti che lui non cambierà mai. Ci baciamo, continuiamo a baciarci, e lui mi chiede di andare a Norwich a passare la mia giornata di libertà con lui e ogni volta io rispondo di no, è terreno minato. Ho detto no una volta di più durante il nostro ultimo incontro però gli ho promesso di guardare in televisione la sera dopo il film che aveva fatto. È un altro modo di stargli vicino, anche se non come vorrei. Le tue capacità di giudizio, quelle che Ned chiama la tua facoltà critica, non funzionano molto bene quando stai guardando qualcosa che è stato fatto dalla persona che ami. Non saprei dire se il film di Ned fosse buono o meno. Di norma mi annoierei a guardare un programma tutto articolato intorno ai ricordi di un vecchio sulle strade ferrate del Norfolk, ma naturalmente, siccome quella era una produzione di Ned, continuai a immaginarlo lì, a predisporre le cose in questo e quel modo, a scegliere questo set piuttosto di quello per le riprese, e determinati esterni. Il suo nome sui titoli di testa, "Direttore di produzione Edward Saraman", mi diede un tuffo al cuore come capita sempre quando leggo quelle parole da qualche parte. Subito dopo c'era un film, e il film era La fidanzata. Stavo per spegnere. Un film in bianco e nero è deludente quando si è abituati al colore è avevo già in mano il telecomando per schiacciare il bottone quando vidi apparire sullo schermo il nome di Gilda Brent, un bel po' sotto quello dei divi, cioè gli attori principali, John Mills, Googie Withers, Bernard Miles. Una coincidenza, pensai, ma non lo era affatto, in fondo. Immagino che tutti i suoi film di tanto in tanto vengano trasmessi alla televisione, solo che non me n'ero mai accorta, prima che Stella mi dicesse il suo nome. La storia era ambientata nella Seconda guerra mondiale e parlava di una donna che si presentava in una grandiosa residenza di campagna, uno di quei posti in cui vivono soltanto gli aristocratici, e raccontava alla coppia di proprietari di essere la fidanzata del loro figlio morto, che si erano fidanzati appena prima che lui rimanesse ucciso in un'incursione aerea con i bombardieri sulla Germania. Googie Withers era la fidanzata e John Miles il figlio che, poi, non risultava affatto morto. Gilda Brent recitava la parte di sua sorella, una ragazza sospettosa, convinta che la fidanzata fosse una truffatrice dal primo momento in cui la vide. Doveva avere circa venticinque anni quando aveva fatto quel film, ed era molto bella. Però mi venne subito in mente quello che avevo pensato vedendo il disegno sulla figurina delle sigarette. Non era una di quelle facce che si ricordano, era una faccia sulla quale ci si poteva confondere,
cambiava moltissimo quando parlava e si muoveva e a seconda del modo in cui era orientata la luce e lei veniva illuminata, di modo che a volte assomigliava veramente a Joan Crawford ma a volte anche a Veronica Lake oppure perfino a Valerie Hobson. Quanto alle sue capacità di attrice, non saprei. Ned dice che allora non era necessario essere bravi a recitare se si faceva un film. Quanto alla sua voce era una di quelle che avevano tutti a quell'epoca, voglio dire la gente dell'alta società, limpida e squillante, ma se adesso a qualcuno capitasse di sentire una donna che parla a quel modo, strabuzzerebbe gli occhi. Era qualcosa da raccontare a Stella il giorno dopo ma quando finalmente finii di occuparmi di Gracie e di sistemare Arthur nella sua poltrona ormai erano le nove passate e lei era già partita per l'ospedale per la radioterapia. Stella sta morendo, non c'è nessuna speranza di salvarle la vita, però i suoi problemi di respirazione possono essere alleviati e anche se lei ripete sempre che non ha più alcun senso e di lasciar perdere, continua a farsi accompagnare in macchina da Pauline a Bury una volta ogni quindici giorni. Diversamente da Lena, io non vado a cacciare il naso nelle camere degli ospiti della casa di riposo quando sono fuori. Una buona metà di loro, e sicuramente quelli che sono ancora nel pieno possesso delle loro facoltà mentali come Sidney e Lois, e sì, anche Stella, pretenderebbero dai figli di essere trasferiti immediatamente altrove se sapessero che Lena legge le loro lettere e sfoglia le loro agendine degli indirizzi. Ma quando tolsi dal tavolo il vassoio della prima colazione di Stella, il tovagliolo di lino sul quale apparivano lievissime tracce di rossetto scivolò sul pavimento. Mi chinai a raccoglierlo e intravidi qualcosa di bianco sotto il letto. Un pezzo di carta appallottolato. Magari era lì da giorni o forse solamente da ore. Mary è brava a pulire le superfici piane ma non vale granché quando si deve spazzare sotto i mobili. Non avrei dovuto leggere quello che c'era scritto su quel pezzo di carta, vero?, voglio dire che non avrei neanche dovuto guardare perché praticamente mi accorsi che era impossibile riuscire a decifrare anche una sola delle parole che c'erano scritte. Ecco il vero motivo per il quale lo guardai e riguardai, e lo scrutai attentamente, perché in principio non credevo nemmeno che fosse scritto in inglese o addirittura con le solite lettere che scriviamo tutti. Sembrava più un disegno che un vero e proprio brano di scrittura, la foto di un pezzo di merletto oppure gli scarabocchi di un bambino visti allo specchio. Le uniche parole che sono riuscita a distinguere, e anche quelle con difficoltà, sono state "Gilda" e qualcosa che avrebbe potuto essere "scomparsa", ma anche
tutt'altra cosa. Lo appallottolai di nuovo e lo buttai nel cestino. Sharon mi sorprese proprio mentre stavo uscendo dalla camera di Stella e mi consigliò di girare alla larga da Lena perché era in uno dei suoi momenti di cattivo umore. «Non erediterà i soldi di Edith come credeva lei» mi disse. «Ma neanche un centesimo! Edith ha lasciato tutto ad Action Aid e al Lord Whisky Sanctuary.» Ci pensò Lena ad andare a prendere Stella per riaccompagnarla a casa un po' prima dell'ora di pranzo. E, a me, rivolse una di quelle sue smorfie che non sono sorrisi. Quando lei era bambina, la gente non aveva tanto come adesso l'abitudine di portare i figli dal dentista, ecco perché non ha mai messo l'apparecchio e adesso ha i denti di sopra che sporgono in fuori. «Lady Newland non ha fatto che piagnucolare e lamentarsi tutto il tempo, nel ritorno, sul mio modo di guidare» disse. «A quanto pare, andavo troppo in fretta per sua signoria.» Dice queste cose con una voce da commediante e un sorriso tutto allegro, come se bastasse a non rendere offensive le sue battute. Stella era stanca, però le rimaneva ancora un po' di spirito. Così mentre si andava a sedere nella sala comune di soggiorno, alzò gli occhi verso Lena e disse: «Non sono la vedova né di un cavaliere né di un baronetto.» «Lei non è... cosa?» «Preferirei che mi chiamasse signora Newland, ma visto che le sembra troppo difficile o troppo formale, Stella andrà bene ugualmente.» Ci volle un bel coraggio per dire una cosa del genere e. infatti, lo sforzo la lasciò senza fiato. Lena rimase a fissarla a bocca aperta per la meraviglia. «Qui ci diamo tutti del tu e ci chiamiamo col nome di battesimo, spero. Signora, davvero! Quello sì che sarebbe troppo formale oggigiorno. Oh, senz'altro. Bisogna seguire la corrente, Stella. Se ne ricordi, bisogna seguire la corrente.» Stella non scoppiò in lacrime fino a quando Lena non se ne fu andata e anche allora non fu un pianto rumoroso, il suo. Solo una lacrima che dall'angolo degli occhi le scese giù per le guance. Presi posto vicino a lei facendo in modo che Maud non potesse vederla. Maud era vicino alla portafinestra, ma stava allungando il collo per non perdere la scena e, se possibile, per ascoltare anche ciò che veniva detto. Così mi misi a parlare sottovoce. Stella non è dura di orecchio, e Maud sì. «Non deve permetterle di fare la prepotente a questo modo con lei. È co-
sì acida perché non erediterà neanche un centesimo dei soldi di Edith.» Stella cercò di sorridere. «Se lo aspettava? Oh, poveri noi. Non è colpa sua, Jenny, il fatto è... ecco, sono stanca e a volte... a volte certe cose mi fanno dispiacere.» «Ma questo la farà tornare di buonumore» dissi. Lungo la strada, proprio quella mattina, attraversando il prato dal parcheggio alla porta di servizio, avevo trovato un quadrifoglio. Per la prima volta da vari giorni non pioveva. Io sono come la mia mamma, quando cammino per un campo o sull'erba di un prato, guardo sempre giù nella speranza di adocchiare un quadrifoglio. E non sono così rari come si potrebbe pensare. In luglio ne avevo trovato uno e lo regalai a Ned perché gli portasse fortuna per il film che stava facendo in Francia. E lui l'ha infilato all'occhiello e ce l'ha lasciato fino a quando è diventato talmente secco che non si capiva più cosa fosse. Ma stavolta avrei fatto quello che faccio spesso, cioè avrei schiacciato quella foglia una e trina fra due pezzi di carta. La mia prima intenzione era stata quella di tenerlo per me ma il bisogno di Stella era ben maggiore del mio. «Cos'è, Genevieve? Un trifoglio d'Irlanda?» «È un quadrifoglio. E portafortuna più bello di questo non è facile da trovare!» «È ancora meglio dei cani con il pelo maculato?» domandò lei. «Molto meglio.» Sono abituata a sentirmi prendere in giro perché credo che alcune cose ci proteggano dal male e altre ci portino fortuna, e quindi non me ne importa. Probabilmente non ci si bada più quando si è sicuri, e si ha una fede proprio incrollabile. «Lo si mette dentro un libro, lo si schiaccia ben bene e, così, può durare per anni.» Lei era elegante oggi, particolarmente elegante, come lo è sempre quando deve uscire per andare in qualche posto. La sua generazione si metteva in ghingheri per uscire a far spese nei negozi; figurarsi poi per un appuntamento in ospedale, in pieno centro. Aveva messo un vestito a fiori e la giacca, le perle al collo, belle calze chiare e scarpe eleganti, col tacco alto, color avorio. A Lena, con quella sua giacca di maglia verde sulla tuta rosa shocking... chissà perché le tute sono sempre rosa o violacee o verde smeraldo?... non doveva essere garbato molto. Non mi sembrò che Stella si interessasse molto al quadrifoglio ma era stanca e aveva dovuto affrontare molte cose quella mattina, così pensai io a trovare il libro che stava leggendo e a farci scivolare dentro il quadrifoglio come un segnalibro. Pensavo che volesse dormire ma quando le misi una
coperta sulle ginocchia ed ero già avviata alla porta, lei allungò una mano e disse: «No, Jenny, rimani un po' con me. Raccontami, hai visto il film ieri sera?» «La fidanzata?» dissi. «Volevo vedere com'era Gilda Brent. Niente di speciale, non trova anche lei?» «Non l'ho visto. Era così tardi.» Poi si corresse. «Non è quella la vera ragione. L'avevo visto anni fa, quando era appena uscito. E poi un'altra volta, al cinema con lei. Con Gilda, voglio dire. Le piaceva che io andassi al cinema con lei a vederla nei suoi film. Non credo che adesso avrei la forza di affrontarlo. Be', non mi ci proverei neanche!» La piccola risata nella quale proruppe era lieve, argentina. «Non sopporterei di vederla.» Sedetti sul bordo del letto. «Mi aveva detto che era morta. Di che cosa è morta?» Pensai che non avesse nessuna intenzione di rispondere, perché ci mise talmente tanto tempo! Prima chinò in avanti la testa e si portò una mano alla fronte. Ma poi si tirò giù quella mano con l'altra, quasi costringendola con la forza a posarsi in grembo, come se il solo fatto di averla sollevata e portata alla fronte fosse stato un segno di debolezza. Alzò il mento ed ebbi l'impressione che le sue labbra fossero scosse da un leggero tremito prima che si decidesse a parlare. «È morta in un incidente d'auto.» «Cosa? Poco tempo dopo aver smesso di fare film?» «Anni e anni dopo» disse Stella. «Nota che ho detto che è morta in un incidente d'auto, non vittima di un incidente d'auto. Non so con precisione come sia morta.» Ero sbalordita e devo averlo fatto capire. «Non avrei dovuto dirtelo, Genevieve. Non devi ripeterlo a nessuno. Non lo dirai a nessuno, vero?» «A chi vuole che lo dica?» le domandai. Il mio mondo non è esattamente pieno di gente che non sta più nella pelle all'idea di sapere come abbia incontrato la morte un'oscura attrice che recitava in certi vecchi film. «Non ho nessuno con cui parlarne.» «No. Immagino che sia questo il motivo per il quale ti ho raccontato tutto quello che ti ho raccontato. Ma quel... quel tuo amico, l'uomo della televisione?» È sgradevole il modo in cui non si riesce proprio a controllarsi e a non diventar rossi. Mi sentii la faccia in fiamme. «Non dirò niente a Ned.» «Bene. È molto carino da parte tua. So di potermi fidare di te, Jenny.
Vorrei raccontarti qualcosa della mia vita, te ne parlerò un giorno, ma devo sentirmi libera di scegliere cosa raccontare. Lo capisci?» È stato l'"un giorno" che mi ha colpito. Stella non avrebbe avuto "un giorno" e con una parte del suo cervello lo sapeva bene anche lei, né più né meno quanto me. Ma immagino che tutti noi si abbia l'abitudine di parlare di ciò che faremo "un giorno" e "l'anno prossimo" e "una volta o l'altra" e quando è stato messo un limite alla nostra esistenza ci dimentichiamo di non avere un futuro. Cambiò argomento, di colpo. «Non sei andata da un'agente immobiliare, vero?» Le risposi che non avrei fatto niente del genere a meno che non fosse lei a chiedermelo. «No. È logico che tu non ci sia andata. Solo che qui ti viene tolto dalle mani talmente tanto e sono talmente tante le persone che ti trattano come se tu vivessi una seconda infanzia! Voglio dire, non mi sarei affatto meravigliata di venire a sapere che la mia casa era già stata messa in vendita e frotte di persone avevano fatto un'offerta per comperarla.» La mia espressione dovette farle capire quanto fosse ingiusta con ragionamenti del genere. Allungò una mano per sfiorare la mia. «No, tu sei diversa dal resto, Genevieve. Tu non avresti fatto una cosa del genere.» «E Richard è diverso» feci io. Lei parve meravigliata. «Hai ragione. Anche lui è diverso.» «Stella, andrò da un agente immobiliare in qualsiasi momento, quando lei vorrà» le risposi «ma quanto a trovare frotte di persone disposte a offrirsi di acquistarla... è rimasta vuota per tutti questi anni, è molto sporca, ha un aspetto decrepito, diroccato. Sarà difficilissimo venderla così com'è adesso.» L'espressione stanca riaffiorò nei suoi occhi. «Vuoi dire che occorreranno riparazioni, e lavori di imbiancatura e via dicendo?» «Prima di tutto ha un gran bisogno di essere ripulita.» Non so per quale motivo lo dissi, non so per quale motivo glielo abbia offerto. Perché non si può dire che mi piaccia quel genere di lavoro o che mi riesca bene. La spiegazione più logica è che, probabilmente, la trovai una buona soluzione per occupare la mia giornata di libertà, sarebbe stato sempre meglio invece di starmene sola soletta a casa con una gran voglia di essere a Norwich con Ned, a rimproverarmi per tutti gli scrupoli che avevo. «Avrebbe piacere che andassi io a pulire la sua casa, Stella?» Il 13. Non si può proprio dire che fosse il meglio come giornata da sce-
gliere per dare inizio a qualcosa. Il 13 anche la mamma si è sposata con Ron, e guardate un po' come è andato a finire quel matrimonio. Ma non avevo molta scelta, la mia giornata di libertà cadeva proprio il 13 e a ogni modo non avrei saputo dire cosa poteva andare storto... è tragico quando si comincia a non dare più retta a certi segni e pronostici negativi, come può confermarvi una qualsiasi delle persone della mia famiglia. Partii presto per La Molucca, erano le otto appena passate, e insieme allo spray per lucidare e alla polvere per pulire il lavello e agli stracci, mi venne anche la buona idea di portare con me la Dustette. Funziona a batteria, cosa essenziale in un posto dove avevano tolto l'elettricità. Me la regalò Mike l'ultimo Natale e io gli dissi che era una meraviglia, anche se badai bene di non fargli notare che, a sporcare di fango i tappeti e a far cadere un mucchio di briciole sul pavimento mangiando, era soltanto lui. Da come andarono le cose, portare una Dustette e un paio di stracci per pulire la casa di Stella risultò pressappoco come cercare di scalare l'Everest con un paio di scarpe da ginnastica e portandosi dietro una lattina di Coca. La giornata non era bella, ma grigia e ventosa, anche se forse sarebbe stato peggio avere il sole che entrava a fiotti dalle finestre perché a questo modo mi sarei accorta che c'era ancora più polvere di quel che credevo. Non so che razza di roba sia la polvere. Cos'è questa strana sostanza fine, grigia, leggera? Qualcosa che non ha mai visto, nessuno di voi, in nessun altro posto. Cioè, mi spiego, non si tratta di briciole o peli o lanugine, non è quella specie di peluria che si toglie dagli abiti o qualche ciuffo di pelliccia strappato a un animale, non è cenere, non sono trucioli di legno né limatura di ferro. È polvere ed è fatta di niente e nasce dal niente ma ricopre ogni cosa, e ovunque. Immagino che se tutta la gente che vive nel mondo morisse per qualche epidemia e rimanessero soltanto le case, col tempo finirebbero nascoste sotto uno'strato di polvere. Cominciai dal salotto. Spalancai la finestra, e già non fu un'impresa facile in sé e per sé, e portai fuori i tappeti, sull'erba, dove mi misi a sbatterli ben bene. Fu come la tempesta di sabbia nel deserto in Lawrence d'Arabia. Spolverai piano, delicatamente, il dipinto a olio che rappresentava Stella da giovane, lo spolverai con uno straccio morbido, rimuovendo quel velo grigio che aveva appannato il rosa del suo vestito e lo scintillio delle sue perle. Poi mi misi a lucidare la mobilia con olio di gomito, lavorando di fino e sbattendo lo straccio fuori dalla finestra. Ma quando finalmente ebbi spolverato tutte le superfici, spazzolato le stoffe e le imbottiture dei mobili e raccolto tutta la sporcizia sul tappeto con l'intenzione di adoperare la Du-
stette per tirarla su, mi accorsi che aveva la batteria scarica. Qualcosa che non avevo osservato la prima volta fu una profonda tacca nella parete di fronte a quella del camino, come se qualcuno ci avesse dato un colpo talmente violento da strappare la tappezzeria. E quando tirai fuori la polvere per pulire l'argenteria e cominciai a lucidarla, mi accorsi che una delle coppe d'argento aveva un'ammaccatura. Si sarebbe detto che qualcuno l'avesse scaraventata contro il muro, rovinandoli tutti e due. Lucidai tutta l'argenteria fino a quando non riuscii più a sopportare l'odore della polvere e tantomeno il contatto di quella sostanza granulosa e rosata con le mie mani. La cucina e il bagno avrebbero dovuto essere più facili delle altre stanze perché non c'erano tappeti. Ma qui, invece, non c'era acqua calda e a me mancavano i mezzi per riscaldarla. Con tutto ciò, riuscii ugualmente a ripulire alla bell'e meglio l'acquaio e il lavabo e a cancellare quasi completamente l'anello che si era formato intorno alla vasca da bagno. Le finestre furono più facili perché il liquido per pulirle si vende in bottiglie, non è uno sgocciolio freddo che scende da un rubinetto. A mezzogiorno mi fermai un momento e mangiai i panini che avevo portato con me. Anche se l'altra volta non ci ero riuscita, adesso mi accorsi che potevo vedere chiaramente Middleton Hall là in lontananza, oltre i bruni campi arati e quelli bianchi degli allevamenti di oche. Bastò per farmi pensare a Stella e domandarmi che cosa le passasse per la testa, quale fosse il motivo di tutti quei misteri che faceva su Gilda Brent e cosa avesse voluto dire quando mi aveva confidato che "un giorno" mi avrebbe raccontato tutto. Gilda era stata una volta in questa casa, mi aveva confidato, ed era morta in un incidente d'auto. Era il motivo per cui a Stella non piaceva uscire in macchina e non sopportava la guida veloce, per via di come Gilda era morta? Tutte le donne nella nostra famiglia, di tanto in tanto, vedono i fantasmi. La mamma è quella che ne ha visti più di tutte. Vede regolarmente l'Uomo col Vestito Grigio che attraversa la camera da letto che sta sopra il salone del bar. Una volta il Thundering Legion era contemporaneamente palazzo di giustizia e carcere, e un assassino ci passò la sua ultima notte di libertà, camminando avanti e indietro per quella stanza prima di essere portato alle Assise e impiccato. Janis vide lo spaniel di una sua amica, e lo toccò una settimana dopo che era stato abbattuto e, quanto alla mia nonna, all'epoca in cui lavorava per il padre del signor Thorn, su al Castello, le capitò di vedere la Dama Bruna un paio di volte, e in ben tre occasioni di sentire la
voce che gridava «Elizabeth! Elizabeth!», e quanto poi all'odore di polvere da sparo, di averlo annusato un numero infinito di volte. Ecco il motivo per cui non mi sarei affatto meravigliata se, voltandomi dalla finestra avessi visto lì, in piedi, Gilda Brent, davanti a me. Sarebbe stata grigia come la polvere, grigia com'era nei film in bianco e nero, e chissà che non indossasse quell'abito da sera lungo nel quale mi era sembrata così bella nella Fidanzata, un abito scollatissimo, senza spalline, il corpetto drappeggiato, e la gonna ampia di chiffon con un po' di coda, i lunghi capelli biondi anch'essi grigi e il viso, che era simile a quello di tante, e differenti, dive del cinema, come scolpito nel marmo. Mi voltai ma non c'era nessuno. Fui anche costretta ad ammettere fra me e me che la casa non emanava quella sensazione, cioè la sensazione inequivocabile che danno le case abitate dai fantasmi, quando si sente tutto il tempo che qualcuno ti sta osservando e dove l'aria è colma di tenui bisbiglii e di suoni inspiegabili. L'unica sensazione che provassi per la casa di Stella era quella che sembrava in attesa di qualche cosa. Forse solamente di qualcuno che ci andasse a vivere. Passai nella camera da letto e cominciai anche lì a pulire, con scopa e paletta per la spazzatura e pennello, stavolta. Dopo aver spazzato quanta più polvere era possibile, e aver tolto il più grosso, staccai le tende dalle finestre. Con quelle, non c'era niente da fare salvo portarmele a casa e vedere se riuscivo a pulirle o se, lavandole, si sarebbero ridotte in brandelli. Fra la porta della camera da letto arredata e la porta di una di quelle vuote, c'era uno di quegli armadi a muro che sono anche attrezzati come essiccatoi ad aria calda per la biancheria. Le lenzuola che conteneva mi parvero umide però non c'era entrata la muffa. Mi resi conto che sarei stata costretta a tornare per finire tutto, era impossibile fare ogni cosa bene in una sola giornata, così tirai fuori un paio di lenzuola e quattro federe e le allargai sulle poltrone davanti alla finestra perché il sole le arieggiasse, togliendo l'odore di chiuso... sempreché venisse un po' di sole. Poi tolsi dal letto quelle che c'erano e le infilai in una federa per portarle a casa con me e lavarle. Mentre ridiscendevo in cucina, mi domandai cosa avrebbe detto Mike se l'avesse vista. Bastò questo pensiero a farmi ridere tra me e me perché Mike, nelle cose di questo genere, è il classico pignolo. Probabilmente lui avrebbe cominciato subito dalla cucina, staccando dal muro le piastrelle scheggiate e avvitando più salde le maniglie allentate. La prima volta che ero stata lì dentro, non avevo guardato nel frigorife-
ro. Lo sportello era chiuso. Se uno va via e lo spegne dovrebbe sempre ricordarsi di lasciare lo sportello aperto altrimenti l'umidità che c'è dentro si trasforma in muffa. E quando questo succede, anche se ti metti d'impegno a pulirlo e cambiargli l'aria, l'odore di muffa non va più via. Spalancai lo sportello e guardai dentro, preparandomi al peggio. La muffa vi si era insediata e anche una specie di fungo che sembrava di velluto grigio, ma chissà da quanto tempo. Adesso non rimaneva nient'altro che polvere, sempre altra polvere che copriva grumi informi di quella che, una volta, doveva essere stata roba da mangiare ma adesso non poteva più essere identificata se non, molto grossolanamente, come un ciuffo di qualche cosa, una fetta di qualcos'altro. All'infuori di un oggetto sul quale la polvere non si era posata: una bottiglia di champagne. Bollinger, marca sopraffina, con la carta dorata che ne copriva il turacciolo, avvolta in quella specie di rete dorata con la quale si decorano le bottiglie. Era sdraiata su uno dei ripiani fra i grigi fantasmi del cibo ammuffito come se fosse stata messa lì a ghiacciare e il festeggiamento, o quel che fosse, per cui era stata acquistata, non avesse mai avuto luogo. Aprendo il ripostiglio delle scope, notai qualcos'altro che mi era sfuggito quando ero stata lì la prima volta. Sulla parete di fondo c'era una fila di ganci e a ogni gancio era appesa una chiave, sei in totale. Alcune dovevano essere state quelle delle porte interne della casa. La più grossa entrava a perfezione nella serratura della porta di servizio e un'altra un po' più piccola in quella del garage. Aprii la porta e vi entrai per dare un'occhiata all'automobile rossa. Se ne stava appoggiata sui pneumatici sgonfi. Non era chiusa a chiave e mancava anche la chiavetta dell'accensione. Aprii la portiera dalla parte del guidatore e salii, sporgendomi attraverso il sedile per dare un'occhiata intorno a me. Le tasche laterali erano vuote, e vuoto anche il cassettino nel cruscotto. Sul sedile di dietro non c'era niente, e neanche sul pavimento. Quando Stella mi aveva detto che Gilda Brent era morta in un incidente d'auto mi era balenato che si trattasse di questa, avevo pensato che l'avesse rovinata nello scontro e poi qualcuno, magari qualcuno dei suoi cari o delle persone più amiche, non avesse più voluto vederla e fosse riuscito a persuadere Stella a trovarle posto nel suo garage. Eppure gli unici segni che ci vedevo sopra non erano quelli che ci restano di solito dopo un incidente, o uno scontro. Ma piuttosto sembravano bruciature. L'automobile era polverosa, e si trattava di uno strato di polvere che niente doveva aver mai più disturbato da quando l'avevano parcheggiata lì dentro; ma quando provai a
toglierlo, mi accorsi che la carrozzeria era bruciacchiata e strinata sul baule e un po' anche tutt'intorno, e sopra le ruote posteriori. La sua vernice rossa era annerita e, nei punti più malconci, appariva tutta a bolle; qua e là si era scrostata e si vedeva, sotto, il metallo grigiastro della carrozzeria. Aprii il baule. Dentro c'erano gli attrezzi, e la ruota di scorta. E anche qualcos'altro, un quadrato di chiffon verde smeraldo, un foulard, spiegazzato, buttato lì come se qualcuno ce lo avesse lasciato per caso, dimenticandosene. Lo tirai fuori. Poteva anche essere lì da venticinque anni ma era pulitissimo e profumava ancora di un lieve aroma muschiato, che però aveva qualcosa di vecchio, come di muffito. Il verde non è un colore di quelli che a Stella piaccia mettersi addosso, e fa benissimo, secondo me, perché non c'è niente che porti più sfortuna del verde; quindi quel foulard non poteva essere suo, a meno che i suoi gusti fossero cambiati. Lo tirai fuori e lo appoggiai alla spalliera di una seggiola, in cucina. La vista di quello straccetto lì penzolante mi riportò indietro nel tempo ai ricordi di sedici anni prima, a qualcosa a cui non avevo quasi pensato da allora in poi: Janis e io che facevamo pronostici per scoprire chi sarebbe stato il nostro vero amore nella cucina di casa la notte di San Giovanni. C'eravamo attenute punto per punto al rituale prescritto, avevamo apparecchiato la tavola con un pasto a base di pane e formaggio, poi ci eravamo tolte tutti i vestiti appendendoli sullo schienale di due seggiole. Io portavo una gonna verde che mi aveva regalato il mio papà, immagino in segno di sfida alla mamma, e fu quella che vi appesi col resto della mia roba. Lasciata socchiusa la porta sul retro, salimmo di sopra, mettendoci ad aspettare e tendendo l'orecchio nel caso arrivasse qualche uomo. Mi spaventai quando udii quel rumore di passi, mi spaventai molto più di Janis, per quanto lei fosse la più giovane, e in principio non ne volli sapere di scendere, non volli neanche guardare al di là della balaustra delle scale. Lei invece mi prese per le mani e mi trascinò giù con sé e in cucina trovammo Peter che stava mangiando la nostra cena e bevendo una Coca che aveva tirato fuori dal frigorifero. Janis giurò e spergiurò di non averlo invitato, lo conosceva appena anche se erano stati compagni di classe alle elementari... però sette anni più tardi se lo sposò. Dunque era lui il suo vero amore? Quanto a me, non venne nessuno. Non si presentò il mio ragazzo di quell'epoca, e tantomeno Mike, per non parlare di Ned, naturalmente, anzi nessun presagio mi annunciò la sua futura venuta. Ne diedi la colpa alla gonna verde e da quel giorno non mi sono mai più messa addosso niente di
verde. Il foulard, il suo colore e la sua forma quadrata, mi riportarono alla memoria tutti quei ricordi, ma lo lasciai sulla spalliera della seggiola non sapendo cos'altro farne. Poi mi venne in mente la fotografia che avevo promesso di venire a prendere. Stavolta non trovai difficile riconoscere Stella in quella donna; invece l'uomo non mi diede più l'impressione di essere qualcuno che conoscevo. Lo sfondo pietroso, simile a una scogliera o a una parete di roccia, adesso mi apparve chiaramente per ciò che era in realtà, il muro di selce della Molucca. Malgrado il passare degli anni la felicità che quella foto rifletteva era ancora raggiante, come la carica elettrica che pareva passasse fra quell'uomo e quella donna, l'ardore amoroso. Mi fece pensare a Ned. Stavo percorrendo il corridoio diretta alla porta d'ingresso, avevo già la mano sul pomo di ottone appannato dal tempo, quando mi venne un'idea. Per quale motivo Ned e io non avremmo dovuto usare questa casa nelle fredde e buie serate d'inverno? Non avevamo nessun altro posto dove andare e ci sarebbero voluti mesi e mesi prima che arrivasse la primavera. Io avevo una chiave. Nessuno lo avrebbe saputo. Perché non venire qui in casa di Stella? 8 Appena un anno fa non mi sarebbe mai passato per la testa di fare qualcosa di simile senza chiedere il permesso. Ho già detto che commettere una cosa sbagliata mi ha reso più consapevole, e più coscienziosa, per altri lati della mia vita; ma non è vero. Quando ci sono in ballo l'amore e la possibilità di stare soli con la persona che si ama, qualsiasi considerazione di carattere morale, qualsiasi idea della decenza, non esiste più. L'amore è tutto e giustifica ogni cosa. Ecco quello che mi ripeto e non presto orecchio alla voce interiore fredda, pacata, che dice tutt'altro. Non l'ascolta nemmeno l'amore, che, invece, mette avanti argomentazioni molto convincenti: Stella mi aveva affidato una chiave, era ben contenta che fossi io a fare le pulizie nella sua casa, se avesse preso la decisione di venderla avrebbe lasciato che me ne occupassi io, personalmente. In pratica, ne ero la custode. Trascorrervi un paio d'ore di tanto in tanto significava semplicemente fare un altro passo in più sempre su quella strada, e nient'altro. Stella non fece menzione della casa quando la vidi al mattino. Forse se n'era dimenticata oppure non sapeva pensare a nient'altro che al fatto di essere accompagnata non so dove da Richard. Già questo era strano in sé e
per sé. Con la sua paura delle automobili, Stella vi sale soltanto per i trasporti essenziali: la radioterapia, il dentista. Non mi disse dove aveva intenzione di andare ma per quell'occasione scelse il vestito blu a macchie color avorio, con il soprabito di lino color avorio; e poi si mise anche tutti i suoi anelli, quello di fidanzamento con gli zaffiri e quello che sembra una fede tutta circondata di brillanti e porta infilato nell'altra mano. Richard arrivò alle nove e mezzo. Indossava un completo, giacca e pantaloni, ma di stoffa leggera e di un taglio che gli dava un'aria molto casual. In mano teneva un pacchetto. Lo vidi dalla finestra della camera di Maud. Raggiunse l'ingresso principale dal parcheggio, come fa sempre, a passo lesto e scattante, e sempre con l'aria di chi si gode la vita e, al tempo stesso, è anche una persona molto riflessiva. Non è uno di quei tipi allegroni e festosi, cordiali e accomodanti, che hanno la zucca vuota. Molto di frequente il fatto di riflettere sembra che ci renda tristi, ed è raro trovare una persona intelligente e sensibile che sia anche spensierata e senza preoccupazioni. Tutto questo bastò a farmi venire in mente Ned, come mi capita vedendo e pensando tante cose, e a meditare su quella tristezza che lo coglie spesso, e sulle frustrazioni della sua vita. Il leggio che Stella aveva espressamente richiesto si trovava sul letto quando entrai nella sua camera dopo che lei e Richard se n'erano andati. Ecco quello che conteneva il pacchetto. Stella ci aveva lasciato, appoggiato sopra, il suo libro e, come segno, ci aveva messo il quadrifoglio che le avevo regalato. Era stato a me, invece, che aveva portato fortuna e, per di più, addirittura il 13 del mese. La mia mamma lo dice sempre: questi quadrifogli hanno certi poteri magici che sono straordinari. Finalmente era una splendida giornata, sembrava che la pioggia si fosse spostata tutta verso il Mare del Nord, e stavo tornando indietro dopo aver sistemato Sidney sulla sua poltrona a rotelle sotto il gelso, quando Richard uscì dalla porta di Middleton Hall e scese i gradini. Con Stella, non erano rimasti fuori molto. «Siamo andati soltanto fino a Diss» disse, per quanto io non glielo avessi chiesto. «E lei è stata bene in macchina?» «Sì, bene.» Sorrise. «Vado sempre molto piano quando è con me. Divento una minaccia per tutto il resto del traffico. Non fanno che strombazzare, gli altri, e la mamma dice, è incredibile come sono diventate rumorose le strade, ai miei tempi nessuno si azzardava mai ad adoperare il clacson.»
Questo mi fece ridere. L'aveva detto con la voce piena di gentilezza e di affetto, non come Lena che quando parla lo fa con un tono che manda i suoi vecchi su tutte le furie. Gli chiesi se Stella avesse preso fuori il suo solito caffè di metà mattina perché ormai era quasi mezzogiorno, ma lui mi rispose che non si erano fermati per il caffè, lui aveva potuto prendersi soltanto poche ore di libertà e adesso doveva tornare subito all'ambulatorio. «La mamma aveva certi affari da sbrigare. L'ho accompagnata fino alla porta e sono tornato a prenderla un'ora dopo.» Obiettai che aveva fatto un viaggio molto lungo per venire ad accompagnarla proprio lui, in persona, quando una qualsiasi di noi avrebbe potuto occuparsene. Io, per esempio. «Lo so» disse Richard. «Me ne ricorderò la prossima volta.» Sembrò esitante. «È molto strana, vero, questa sua fobia delle automobili. È cominciata quando ero bambino. Mi ricordo che quando dovevo avere sei o sette anni, mi piacevano pazzamente i tunnel, le gallerie. Il divertimento massimo era quando lei mi accompagnava con un mio amichetto a passare in automobile, avanti e indietro, sotto la galleria di Dartford. Chissà come si annoiava! Eppure non si è lamentata mai. Era molto sicura di sé, aveva una guida brillante, e una gran classe.» «La sua paura delle automobili è cominciata subito dopo?» domandai. «L'ho sempre collegata con la scomparsa di mio padre benché lui sia morto quando io avevo sei anni, e sono sicuro che quelle corse avanti e indietro sotto la galleria di Dartford appartengono a un'epoca posteriore. In ogni caso, papà non è morto per una disgrazia automobilistica, ma in treno. O, diciamo meglio, si è sentito male in treno. Ed è morto all'ospedale.» «E sua madre, ha smesso, semplicemente, di guidare?» «Sì, ma è stato un bel po' di tempo dopo. Non ricordo quando e non è quel genere di cose che posso chiedere, anche se confesso che non saprei spiegare perché lo dico. Una specie di mistero, insomma, vero? Adesso devo scappare. Ho un intervento in sala operatoria all'una.» Allora Stella doveva aver allevato i suoi figli da sola, un bambino di sei anni e una ragazza di... quanti? Quattordici? Quindici? Mi lasciò sorpresa. Avevo sempre creduto che fosse rimasta vedova appena cinque anni prima. Ma Richard ha la mia stessa età, e questo significa che suo padre deve essere morto da ventisei anni oppure, come dicono sempre nei giornali, da più di un quarto di secolo. Mi domandai per quale motivo Richard non avesse mai avuto il coraggio di farsi spiegare la ragione della fobia che aveva per le automobili, ma sembrava che non la sapesse nemmeno lui, e si
rendesse semplicemente conto che, forse, sarebbe stato come tentar di indagare in quella parte della sua vita che Stella considerava rigorosamente privata. Lei rimase in camera per il resto di quella giornata e nel pomeriggio fece una lunga dormita. Guardai dentro una volta e la vidi sdraiata sul letto, avvolta nella vestaglia di satin nero, con gli occhi chiusi, il respiro calmo e regolare. Alle quattro precise me ne andai, passai da casa a prendere le tende pulite e feci una puntatina al negozio di generi vari che c'è a Curton a comperare la loro intera provvista di candele. Se lo avessi fatto a Tharby, chissà quante chiacchiere! "La tua Jenny è stata qui, Diane, e mi ha letteralmente ripulito il negozio di tutte quelle belle candele decorate che teniamo per Natale. Si può sapere a che cosa le servono? Non è mai capitato a lei e Mike che gli tagliassero l'elettricità, vero?" Ma ho i miei dubbi che una donna di Tharby abbia mai messo piede nel negozio di Curton, per quanto si trovi a soli sei o sette chilometri di distanza. Non ci sono mai più andata neanch'io da quando ero bambina e il mio papà mi ci portava, perché bastava soltanto attraversare la strada per comperarmi i Malteser. Avevo pensato a ricaricare la batteria della Dustette durante la notte, e quindi mi dedicai ancora per un po' alle pulizie. Riuscii perfino a riscaldare un po' d'acqua sulla stufetta a kerosene anche se ci volle un sacco di tempo. Le tende si erano scolorite durante la lavatura e si vedeva la stoffa un po' sbrindellata intorno ai bordi però avevano un aspetto molto migliore di prima. Le appesi. Una giornata di sole era bastata ad asciugare le lenzuola che avevo allargato sulle poltrone. Preparai il letto e, quando il bricco cominciò a bollire, proprio per ultima cosa ci misi dentro la bottiglia dell'acqua calda. Era una bella serata anche se ormai eravamo in autunno. Ma l'autunno è la stagione più bella per la palude quando il biancospino diventa rosso cupo e le fronde del sambuco impallidiscono stemperandosi in tutte le tonalità del giallo. La vitalba era una massa di steli setosi, grigi, e le pianticelle delle mazze d'oro sotto di essa bianche come piume d'oca. Le ombre degli alberi dalle alte cime creavano un gioco di lunghe strisce sull'erba di fronte alla casa e il sole che tramontava era tutto un luccichio dietro la massa scura dei boschi. Ovunque c'era un gran silenzio, non soffiava un alito di vento, l'erba pareva avesse una nuova e verdeggiante freschezza, come le piante selvatiche dopo tutta quella pioggia, tanto da far pensare a una falsa primavera. Tagliai qualche ramoscello pieno di bacche dal sorbo selvatico che era cresciuto vicino alla porta e li misi in un vaso di porcellana azzur-
ra. Domani, pensai, lascerò il nostro giardino senza una sola dalia e un solo crisantemo prima che la brina li guasti e li porterò qui per riempire di fiori questo posto. Prima di andarmene girai sul retro a dare un'altra occhiata a quell'automobile attraverso il finestrino del garage. Non so perché ma adesso che la casa mi piaceva, adesso che avevo fatto tanto per rendere migliore il suo aspetto, non mi garbava che quell'automobile fosse lì. Era la classica magagna che guastava tutto il resto come aveva detto Ned una volta parlando di qualcosa di totalmente diverso. Era il baco, violaceo e sinuoso dentro una di quelle prugne Victoria che fuori sembrano perfette. Mi dissi che, in fondo, si trattava soltanto di una vecchia Ford Anglia, non faceva del male a nessuno, probabilmente non si poteva neanche più guidare. Non era più importante di quelle specie di gusci rugginosi di automobili che a volte capita di vedere quando ci si inoltra per un bel pezzo nella palude, abbandonate molto tempo fa e adesso semi-nascoste dall'intrico delle fronde del luppolo selvatico e dei rovi. Preparare, e fare, sorprese non è poi sempre una buona idea. Janis e Nick e io avevamo preparato una sorpresa per la mamma per il giorno in cui compiva cinquant'anni. Lei aveva capito che c'era qualcosa nell'aria, ma aveva lasciato che le bendassimo gli occhi e l'accompagnassimo fino all'automobile di Nick, non aveva detto una parola quando l'avevamo portata a girare e girare un po' di qua e di là in modo da confonderle le idee ma non diede affatto l'impressione di essere soddisfatta quando si ritrovò nella sala di riunione comunale del nostro villaggio dove un centinaio di amici e parenti l'aspettavano, cantando "Happy Birthday to You". Bisogna capirla, ecco. Lei aveva già fatto tutti i suoi calcoli e credeva che la sorpresa sarebbe stata uno spettacolo a Londra nel West End, Miss Saigon o Les Misérables e poi una notte per lei e Len allo Strand Palace Hotel. Tutto quel portarla a girare e rigirare con la macchina aveva peggiorato le cose perché lei si era messa in testa che l'accompagnassimo alla stazione ferroviaria di Diss. Dunque, sapevo benissimo che era un rischio organizzare una sorpresa per Ned, ma non riuscivo a vedere che cosa potesse andare storto; e in conclusione tutto filò liscio, anzi, meglio di così! Lui non fece che manifestare meraviglia, e complimentarsi. Il profumo dei fiori, che avevo portato, toglieva l'odore di muffa e la serata era troppo mite per pensare di accendere la stufetta. Avevo disposto le candele azzurre picchiettate di stelline
d'oro sulla toilette e altre, rosse, a torciglione come bastoncini di zucchero candito, sui comodini. Lui una volta aveva detto che gli piaceva lo Chardonnay australiano, così me ne procurai una bottiglia e la tenni in fresco nel lavello della cucina sotto il filo dell'acqua fredda. Intanto che lo aspettavo, lavai e lucidai i bicchieri di cristallo di Stella che avevo trovato nella credenza. Lui arrivò un po' in anticipo, e fu un bene perché voleva dire che non avrei dovuto aspettare e torturarmi. E quando entrò e mi prese fra le braccia, ebbi l'impressione che ogni sera sarebbe stata così se fossimo vissuti insieme. Gli feci fare il giro della casa, gli mostrai tutto. Salvo le due camere senza mobili e l'automobile. Era come se la casa mi appartenesse e gliela offrissi. «Spero che la tua amica ci metterà dei mesi a venderla» disse. «Soltanto mesi?» «Non mancheranno molti mesi al giorno nel quale tu e io andremo a vivere insieme, quando non saremo più costretti a servirci di case prese a prestito e...» allungò un dito verso la fiamma che irradiava la sua luce vicino al letto «... di candele di Natale in settembre.» Mi fece sorridere, questo, ma mi sentii anche un po' imbarazzata perché quando avevo comperato quelle candele rosse a torciglione non mi ero accorta che avevano sopra un motivo di foglie di vischio e di agrifoglio. A ogni modo, mi faceva sempre piacere quando lui diceva che un giorno saremmo stati insieme, avremmo avuto la nostra casa, anche se sapevo che non sarebbe mai successo. Di solito è quello che dicono le donne e poi si lamentano perché gli uomini non lo fanno. Gli uomini dicono, godiamoci quello che abbiamo oppure non sprechiamo il tempo a fare progetti... perlomeno, a dar retta alla mia mamma, di solito dicono così. Con noi, i ruoli sono rovesciati: è lui che parla di qualcosa di duraturo mentre io cerco di vivere nel presente. Si rifiutò di bere il vino, disse che non ne avevamo bisogno, forse ne avrebbe accettato un bicchiere dopo. È l'amore, dice, a eccitarlo. Non gli occorre nient'altro. Dimmi che mi ami è quello che ripete, e non mi riesce per niente difficile dirglielo. Gli feci capire quanto era il mio amore, quella sera, ancora più del solito. E lui mi tenne stretta contro il suo corpo, nel letto caldo e soffice di Stella, tutto allungato contro di me, e io contro di lui, stretti stretti, cercando di aderire il più possibile l'uno all'altra, pelle contro pelle, e lui allontanò per un attimo le labbra dalla mia bocca che stava baciando per dire:
«Quanto tempo, Jenny. Non lasciare più che passi tutto questo tempo.» È un uomo magro, asciutto, abbronzato, con l'ossatura lunga e i muscoli piatti. Mi piacciono i capelli scuri, morbidi come la seta che ha in testa, quasi neri, e l'attaccatura con quelle due punte sulla nuca. No, li amo. Amo il suo odore, che non viene fuori da una boccettina o da un barattolo e che non è sudore, ma l'odore della pelle e dei capelli e delle unghie. I suoi denti hanno sapore di acqua alla menta e la sua lingua è pulita e liscia come un pesciolino guizzante. Quando gli dico queste cose lui osserva che assomiglio a quello, non so chi, che ha scritto il Cantico dei Cantici nella Bibbia. «Come sei bella, amica mia, come sei bella; i tuoi occhi sono come colombe dietro il tuo velo.» «Io non ho mai detto niente di simile» obiettai. «E tu non hai mai detto che i miei capelli sono come un gregge di capre o il mio collo una torre di Davide, però hai assorbito l'idea generale.» «Ti piacerebbe che dicessi quelle cose?» domandai. «Non m'importa quello che dici, Jenny. Puoi anche scrivermi poesie se preferisci. Se ami tutto in una persona non te ne importa.» È stato il filtro d'amore della nonna a fare tutto questo? Mi avrebbe amato in ogni modo, anche se non gli avessi versato di nascosto quel liquido magico, quell'elisir potentissimo, nel bicchiere? Sono contenta di non aver rischiato, di non aver lasciato niente al caso, e ne approfitterò per renderlo più forte non appena possibile. Lui chiuse gli occhi. Gli tenni la testa sulla spalla e gli accarezzai dolcemente i capelli ma quando si addormentò - sapevo che il suo sonno non sarebbe durato molto - sgusciai fuori dal letto, andai a cercare i suoi vestiti e gli infilai nella scarpa sinistra quella foglia di felce che avevo messo da parte il giorno del funerale di Edith. Perché se una donna fa quello che ho fatto io, dice la mia nonna, può star sicura che l'uomo l'amerà nel modo più meraviglioso possibile. Il periodo di remissione di Stella, immagino che fosse dovuto alla radioterapia, si prolungò fino a ottobre inoltrato. Continuava a fumarsi di tanto in tanto una sigaretta di nascosto nel parco di Middleton Hall, seduta su una panchina di pietra, ben imbacuccata nel cappotto invernale, quello pesante, e continuava a sostenere di odiare le automobili anche se uscì ugualmente, ancora un paio di volte, per fare una passeggiata con quella di Richard. A sentire Pauline, si avventurava ancora in sala da pranzo per il pasto serale, ordinava il suo solito gin tonic, il bicchiere di vino e sedeva
sola al suo tavolo. Da Londra venne Marianne a trovarla. Arrivò con la macchina del suo amico e anche l'amico, un uomo altissimo, piuttosto florido, e i due teenager della fotografia di Stella, Jean-Paul e Kelda. Questi due non dissero neanche una parola alla nonna e, invece, un po' si misero seduti di qua e di là, imbronciati, un po' girellarono per la sua camera, come esplorandola, prendendo qualche libro a casaccio o guardando nel suo scrittoio. Erano passati da noi mentre andavano da un'amica di Marianne che li aveva invitati nella sua grande casa, di nome Grange Qualcosa, nei pressi di Sandringham. Per quanto faccia l'attrice, sembra che Marianne non lavori mai e, invece, possiede amici che vivono in castelli, manieri, residenze di campagna sparsi qua e là, i quali vogliono tutti che vada a trovarli e rimanga loro ospite. Stella non aveva più accennato all'eventualità di vendere La Molucca. Quando ci sentiamo in colpa perché non abbiamo confessato qualcosa a una persona, è buffo come cerchiamo sempre di farci perdonare raccontandole qualcos'altro, qualche altra cosa semi-segreta. Ned dice che è quello che gli psicologi chiamano transfert. Non avevo intenzione di raccontarle che Ned e io avevamo passato tre sere in casa sua e avevamo fatto l'amore nel suo letto, e non volevo dire neanche una parola del foulard trovato nel baule della macchina, perché allora sì che lei avrebbe pensato che mi ero comportata da ficcanaso. Così le raccontai dello champagne. Le fece un effetto assolutamente imprevisto. Si mise a parlare come chi è un po' balbuziente ma riesce a controllare questo difetto dopo aver pasticciato sulle prime parole. «Genevieve... Genevieve, lo avevamo davvero lasciato nel frigorifero? Non... non è possibile. Dopo tutto questo tempo? Oh, Genevieve.» Chissà chi sono questi "noi", pensai, ma naturalmente mi guardai bene dal chiederlo. «Immagino che adesso non si possa più bere.» «Non so, non so. Di solito il vino non migliora con il passare degli anni?» Sembrava pallidissima, e molto turbata, così le raccontai la storia di quando avevano fatto alcuni lavori di. ristrutturazione al Legion e la mamma trovò una bottiglia di Porto cacciata in fondo a un antico forno per il pane dietro il vano del camino. Qualcuno doveva averlo messo lì a intiepidire e poi se lo era dimenticato; così era diventato prima caldo e poi freddo e poi ancora caldo e freddo per quasi un secolo. L'odore era buono, e la mamma e i muratori pensarono che avrebbero potuto scolarselo all'ora
di pranzo ma quando lo stapparono risultò che aveva un sapore che sembrava un misto di aceto e vernice. Non avevo ancora finito di raccontarle questo aneddoto quando mi accorsi che Stella non mi stava ascoltando. I suoi occhi luccicavano. Avevano qualcosa di febbrile. «Genevieve,» disse «devo avere una sigaretta. Adesso mi fumo una sigaretta.» Sarebbe stato meno grave, dati i regolamenti imposti da Lena, se Stella si fosse spogliata completamente e, nuda come mamma l'aveva fatta, avesse imboccato il corridoio per entrare di corsa in camera di Arthur. Le risposi che era un grosso rischio, e che, se aveva avuto uno shock, sarei stata felicissima di andare a prenderle un goccetto di brandy. «Odio il brandy» mi rispose, e tirata fuori una sigaretta dalla' borsetta, se l'accese. Chiuse gli occhi e aspirò il fumo. A dir la verità, se l'era fumata tutta e ne aveva già spento il mozzicone prima che Lena sentisse quell'odore ed entrasse. Lena prese un fazzolettino di carta dalla scatola di Stella. Tirò su il mozzicone di sigaretta dal piattino, lo avvolse nel fazzolettino di carta, afferrò il piattino che era pieno di cenere e segnato da macchie umidicce, marroni. Naturalmente non poteva dire granché a Stella. Stella pagava le sue ventimila sterline l'anno. Tutto quello che poté fare fu fingere un accesso di tosse e spalancare la finestra di Stella. Si sarebbe sfogata con me, già sapevo che avrebbe scaricato addosso a me tutta la sua rabbia. Mi chiamò fuori e mi fece una ramanzina coi fiocchi. Dedicavo troppo tempo a Stella; se Stella voleva un'infermiera privata avrebbe fatto meglio a organizzarsi diversamente. E per la sigaretta, poi! Quasi quasi c'era da pensare che avesse sorpreso la povera Stella mentre si infilava su per il naso un pizzico di cocaina. «È così disgustoso in uno di questi vecchi decrepiti. Non sarebbe logico pensare che una persona che si è portata con le sue stesse mani ad avere un piede nella fossa per colpa di una cattiva abitudine, abbia almeno il buon senso di rinunciarvi adesso?» Era più o meno illogico come installare un allarme anti-incendio dopo che la tua casa era bruciata fino alle fondamenta, ma rinunciai a farglielo notare. Non dissi niente, soltanto che mi spiaceva. Sapevo che Lena non mi avrebbe licenziato. Erano mesi che stava facendo tutta una serie di annunci, cercando altro personale, ma aveva ricevuto una sola risposta, e per di più da una donna di settant'anni che, prima, lavorava a pulire e sbudellare il pesce sulla spiaggia di Lowestoft. Nessuno ha voglia di lavorare con i
vecchi, manca la pazienza, e la capacità di affrontare la sordità e la perdita della memoria, per non parlare poi dell'incontinenza e, come se tutto questo non bastasse, si guadagna proprio poco. Tuttavia, evitai per un minimo di discrezione di tornare subito da Stella. Anzi, aspettai che fosse quasi arrivata l'ora di andarmene a casa. Perché, da quel momento in poi, sarei stata considerata semplicemente come una delle tante visite che Stella riceveva, libera di rimanere con lei a chiacchierare fintanto che volevo. Di solito quando entro nella sua camera sta leggendo il giornale o fa le parole crociate o ascolta un concerto alla radio oppure ha in mano l'ultimo libro di cui si dedica alla lettura. Stavolta era semplicemente lì seduta a far niente. Aveva chiuso la finestra e stava fissando le cime degli alberi e il cielo bianco. Quando sentì la porta che si apriva, si voltò sorridendomi e allungando una mano verso di me. «Ti ho messo nei guai, Genevieve. Come mi dispiace. È stato molto brutto?» Parlava come se io fossi una scolaretta, o forse la sua bambina, che si era presa una sgridata dalla direttrice. Mi diede un po' fastidio perché a volte, ed è strano, mi sento più vecchia di Stella, più ricca di esperienza, di vita vissuta. Continuo a considerarla come una di quelle persone che sono sempre state protette, e difese, da tutto, una donna che non si è mai trovata nella necessità di guadagnarsi da vivere, e quello che lei disse subito dopo, e disse del tutto inaspettatamente, non fece che confermarmelo. «Voglio raccontarti una cosa. Si tratta della mia casa. L'ho comprata quando è morto mio padre. Mi aveva lasciato la sua casa, soltanto quello, era tutto ciò che aveva, e io la volli vendere per comperare La Molucca. Era qualcosa di mio, tutto mio, capisci? Non avevo niente di mio, tutto era di mio marito, perfino la casa in cui abitavamo a Bury era intestata soltanto a lui.» «Non sapevo che si potesse fare una cosa del genere» dissi. «Si poteva e si può. Molti uomini, proprietari della casa in cui vivevano con la moglie, l'avevano intestata a loro. A Rex non sarebbe mai passato per la testa di intestare la casa anche a me. Naturalmente ne l'ha lasciata, era mia quando lui è morto, ma io avevo La Molucca già cinque anni prima che lui morisse.» «Immagino che a lui non sarebbe affatto dispiaciuto che lei l'avesse, no?» osservai. «Voglio dire, i soldi erano suoi se suo padre glieli aveva lasciati.» «Non so se gli sarebbe dispiaciuto o no» disse Stella, e proruppe in una
risatina. Il suo riso era dolcissimo e caldo, anche se in quei giorni cominciava a diventare un po' roco. «Non lo sapeva.» Lui non lo sapeva, fu la mia riflessione, e i suoi figli non lo sanno... «Ma perché?» «Era qualcosa di privato, Genevieve.» Cercai di immaginare quale sarebbe stata la reazione di Mike se il mio papà fosse morto e mi avesse lasciato la sua casa. Be', il mio papà non è proprietario di nessuna casa e anche se ne avesse avuta una non l'avrebbe lasciata a me, ma niente ti impedisce di fantasticare su queste cose. «Non ha mai voluto sapere che cosa lei avesse fatto di quei soldi?» Stella non rispose. «Tu non sai come andavano le cose all'epoca della mia giovinezza, Jenny. I miei figli non sanno com'era. Non avevo un conto in banca. Naturalmente l'aveva mio marito, ma non era congiunto, cioè intestato a tutti e due. Lui ogni mese mi dava i soldi per mandare avanti la casa e anche una somma di denaro da adoperare solo per me, ma era molto piccola e, alla fine, per la massima parte veniva assorbita dalle spese di casa.» Eppure, per nove anni, fino a quando non era arrivato Richard, aveva soltanto Marianne, pensai. «Non ha mai lavorato?» «La gente lo dice sempre.» La sua voce adesso aveva una sfumatura di stanchezza. «Era quello che diceva Gilda. Nessuno si rende conto che è molto faticoso mandare avanti una casa e occuparsi di un bambino e ricevere gli amici del marito. Avevo pochissimo aiuto, soltanto una donna delle pulizie una volta alla settimana. E da me ci si aspettava che organizzassi una cena importante, facendo tutto da sola, almeno una volta ogni quindici giorni. Nessuno all'infuori di una moglie sarebbe disposto a fare questo genere di lavoro senza ricevere un compenso. A parte il fatto che mio marito non voleva neanche sentirmi parlare di cercare un impiego.» Mi parve una buona idea tentare di passare a un altro argomento ma non potei fare a meno di pensare a quello che dice sempre la mia nonna. Se il lavoro fosse stato una buona cosa, i ricchi se lo sarebbero tenuto per loro. «Così lei comprò La Molucca?» Per quattromila sterline, mi rispose. Oggi come oggi ne varrebbe come minimo sessantamila, eppure lei se l'è tenuta, e paga le tasse comunali per quella casa, proprio lei che poco fa accennava al fatto che una casalinga non prende lo stipendio. «Era la somma che suo padre le aveva lasciato?» «Lui mi lasciò la sua casa e, quando venne messa in vendita, spuntai,
come prezzo, quasi cinquemila sterline. Avevo bisogno di qualcosa in più per pagare la commissione all'agente immobiliare e le parcelle legali per il rogito. E poi avevo anche da comprare i mobili.» Abbandonò la testa indietro, contro il cuscino, stanca di tutto quel parlare e forse anche stanca della sua lunga giornata. «Ti racconterò qualcosa di me, quand'ero giovane» disse. «Domani te lo racconterò.» Quando entrai in casa il telefono stava suonando. Mi aspettavo che fosse Mike e invece era Ned. A volte è una tale felicità sentire la sua voce quando non me l'aspetto, ma anche un tale shock, che sono costretta a mettermi a sedere prima di cominciare a parlargli. E capita anche, magari, che non mi venga fuori la voce, o che sia rauca perché - chissà per quale motivo mi sento prendere da una tale paura! Voleva avvertirmi che il lunedì seguente sarebbe partito per la Danimarca. Stavano girando un film a Copenaghen, qualcosa su come farne una città moderna nella Comunità Europea senza che perdesse l'antico fascino e senza guastarne l'atmosfera e le linee del suo profilo contro il cielo con dei grattacieli. Sarebbe rimasto via per quattro giorni e voleva che andassi con lui. Gli avevo raccontato che mi spettava una vacanza e Lena mi aveva già detto che per lei era meglio se me la prendevo un po' presto. E Ned non trovava nessun motivo valido che mi impedisse di partire, Mike sarebbe stato a Londra come al solito, e da quello che credeva di aver capito sul conto di mia madre, lei sarebbe stata disposta a coprirmi le spalle in caso di necessità. E poi, forse, non mi era mai capitato di andare all'estero. Oh sì, c'ero stata, gli risposi, ero andata a Maiorca e a Tenerife. Ma non aggiunsi che a Maiorca ero andata in luna di miele e a Tenerife per il decimo anniversario di matrimonio, e che tutti e due questi viaggi erano stati combinati di nascosto da Mike perché aveva voluto farmi una sorpresa. «Andare a Maiorca e a Tenerife non è come andare veramente all'estero.» disse lui. «Sono camere da letto con spiaggia per i turisti. Copenaghen ti piacerà in un modo straordinario, staremo al d'Angleterre e ti porterò al Tivoli.» Naturalmente, di partire, neanche parlarne. Neanche sognarselo. E per tutti i soliti motivi, l'équipe dei tecnici, perché avrebbero spettegolato, Jane che lo sarebbe venuto a sapere, Hannah, raccontare qualche frottola a Mike perché non potevo dirgli dove sarei effettivamente andata, e anche un'altra ragione. Non ci avevo mai pensato prima e, a Ned, non ne avevo mai detto
niente ma sapevo che se avessi passato giornate intere con lui e avessi dormito vicino a lui tutta la notte, se avessi fatto qualcosa del genere per giorni e notti, di seguito, dopo sarebbe stato peggio, avrebbe reso più dolorose le nostre separazioni e, quando ci fossimo lasciati definitivamente, perché un giorno, chissà quando, doveva pur succedere, per me sarebbe stato come morire. «Non chiedermi mai più una cosa del genere» dissi. La mia voce dev'essergli sembrata sgraziata, burbera, indispettita. Ma non fui capace di aggiungere altro perché provavo una voglia pazza di mettermi a ridere tanto da rimanere senza fiato, e rispondergli ansante sì, oh sì, per favore. E quando lui riagganciò, era scocciato, deluso, e non la finiva più di dirmi che con me non si poteva ragionare. «Allora ci rivediamo l'altra settimana» disse. «Ti telefonerò.» Salii di sopra e mi buttai sul letto a piangere. Mike tornò a casa un'ora dopo. Sentii la macchina di Phil che arrivava e poi la porta di casa che si apriva ed ero già a spruzzarmi un po' d'acqua fredda in faccia; ma se era rimasta tutta gonfia Mike non se ne accorse. Mi aveva comperato un nuovo tipo di grattugia per il formaggio in un negozio speciale di Soho e un etto di parmigiano, un bel pezzo tutto intero, perché così il sapore della pasta avrebbe assomigliato ancora di più a quello che ha in un ristorante italiano. «A Londra, si chiude con quel lavoro per la fine del mese» disse. «Sarà un bel sollievo piantarla con tutto questo andare e venire, con questi viaggi. Credo che sarai contenta anche tu, vero, ragazza mia?» «Naturale che sarò contenta» risposi, e mi domandai come è possibile cambiare tanto, come si può diventare capaci di dire queste cose, non tanto di raccontare bugie riguardo a quello che è successo ma rinnegare i tuoi sentimenti più nascosti. È qualcosa che deve smangiarti come la ruggine che corrode il metallo. «Stavo pensando di mettermi a costruire una veranda, tutta a vetri» disse Mike. «Cosa te ne pare? In fondo alla sala da pranzo, magari lunga quattro metri e mezzo. Così avrò qualcosa da fare alla sera.» Mi misi seduta al tavolo con il dizionario. Un'enciclopedia e il Chambers Dictionary sono quel che mi tiene occupata alla sera; guardo le parole lunghe e cerco di imparare cose sconosciute. È il modo che ho scelto per stare al passo con Ned, che è più intelligente di me e sa molto più di me. PARTE SECONDA
9 Stella nacque a Londra, o diciamo meglio a una quindicina di chilometri da Londra, in una località di nome Wanstead. Suo padre lavorava nell'ufficio del Dazio e Imposte di Consumo e sua madre era la figlia di un vicario. Avevano una casa bifamiliare a poca distanza da una delle grandi arterie di traffico, chiamata Eastern Avenue. «Immagino che tu abbia frequentato una scuola mista, vero, Genevieve?» mi domandò. Non sapevo cosa volesse dire ma rimasi un po' sconcertata anche quando me lo spiegò. Per quello che ne sapevo io, tutte le scuole erano miste all'infuori di poche come Eton, per quanto credo che adesso la frequentino anche le ragazze. «Quando ero piccola, venivano considerate un'autentica rarità» disse Stella. «Io, invece, ho frequentato proprio una scuola mista, così avevo fatto l'abitudine a conoscere e stare in compagnia di un sacco di maschi. Non ero una di quelle che quando finiscono la scuola praticamente non ne conoscono più neanche uno.» Aveva quasi sedici anni all'inizio della Seconda guerra mondiale; suo padre e sua madre si spaventarono talmente delle bombe che la mandarono a casa di una zia a Bury. Veramente non era una zia ma la cugina della mamma e Stella le voleva molto bene e aveva già passato le vacanze nella sua casa di Churchgate Street. Prima di andar via da Londra aveva appena superato lo School Certificate, un esame che non facevano soltanto a quell'epoca, cioè prima del General Certificate of Secondary Education, il GCSE, ma anche prima dell'O Level, l'esame scolastico che, fino al 1988, si sosteneva a sedici anni. La trasferirono alla scuola di Bury e lei ci rimase per due anni e superò un altro esame chiamato Higher. «Non volevo lasciare Londra» mi disse. «Ecco, forse è più giusto dire che non volevo lasciare una mia...» ebbe un attimo di esitazione «... una mia amicizia, l'amicizia migliore che avessi. La nostra scuola era stata evacuata, avrei potuto seguire la nostra scuola, erano andati in una località sulla costa dell'Essex, non so bene dove, ma mia madre non volle sentire ragioni. Secondo lei non si sarebbero curati di me nel modo giusto. Veramente quello che lei voleva dire era che non avrei avuto nessuno che mi sorvegliasse nel modo migliore... che mi facesse da chaperon, suppongo.» Ero partita dal concetto che questa grande amicizia fosse con una sua
compagna di scuola, ma mi sbagliavo. «Alan, si chiamava Alan.» Stella parlava con uno strano impaccio, quasi come se fosse di nuovo vittima di quella curiosa specie di balbuzie che avevo già notato in lei. «Alan Tyzark.» Si passò la lingua sulle labbra come se lo sforzo di pronunciare quelle parole le avesse fatte diventare aride. «E non era neanche il ragazzo della porta accanto.» La risatina nella quale proruppe era forzata. «I suoi genitori vivevano a Snaresbrook, non molto lontano. E noi due, Alan e io, intendo, eravamo... inseparabili. Solo che fummo costretti a separarci.» Mi raccontò tutto questo mentre stavo lì con lei, a tenerle compagnia, la settimana in cui Ned era assente. Di tanto in tanto la interrompevo per fare qualche domanda, per esempio perché mi spiegasse che cos'era quello School Certificate, ma più che altro lasciavo che parlasse a ruota libera. Dopo averlo ripetuto qualche volta riuscì anche a pronunciare il nome di Alan con la stessa semplicità e disinvoltura con la quale pronunciava il mio. Pensarono che fosse la nostalgia a farla soffrire, invece a lei mancava Alan più della sua casa. Avrebbe voluto tornare a Londra se ci fosse stato anche lui, invece lui era a Maldon. Nessuno dei due era molto bravo a scrivere lettere. Le venne concesso di tornare a casa per Natale e fu così che riuscirono a rivedersi. Ma doveva essere l'ultima volta. «L'ultima volta per sempre?» dissi. «L'ultima volta per anni e anni. Vent'anni, Genevieve.» L'estate successiva cominciarono i bombardamenti. Era trascorso quasi un anno e lei si era abituata a Bury, era abbastanza contenta, si era fatta qualche nuova amicizia e il ricordo di Alan cominciava ad appannarsi. Quando poi venne il momento dell'esame successivo, non fu nemmeno possibile parlare di un eventuale ritorno a Londra. Si stava per arrivare al periodo più pericoloso e non c'era nessuno che volesse tornare in città a meno di non esserci veramente costretto. Fra l'altro, se lei continuava a provare ancora un po' di nostalgia di Alan, aveva superato quella della sua casa, di tanto in tanto le pareva quasi di voler più bene alla zia e al marito della zia che ai suoi stessi genitori i quali, del resto, non erano mai stati due tipi molto affettuosi. In principio le avevano scritto di frequente ma adesso le lettere arrivavano a intervalli sempre più lunghi tanto che, quando venne a sapere che la sua mamma era rimasta uccisa in un'incursione aerea, non ne provò un gran dolore. Il padre venne a trovarla e cominciò a parlare come se Bury fosse diventata la sua residenza fissa e, se avesse vo-
luto farci un pensierino, avrebbe potuto anche trovarsi lì un impiego. La zia lo persuase a pagare a Stella l'iscrizione a un corso di segretariato. C'era una scuola a poca distanza da St Mary's Square dove si potevano imparare la stenografia, la dattilografia, e tutto il necessario per i lavori d'ufficio, e Stella la frequentò per un anno. Alla fine ottenne un diploma e un impiego presso uno studio legale. Era lo studio Newland, Newland e Bosanquet, e il più giovane dei Newland sarebbe stato l'uomo che un giorno lei doveva sposare. Era il più giovane ma non poi così giovane. Il vecchio aveva superato la settantina; evidentemente si poteva continuare a fare la professione legale fintanto che si voleva, e suo figlio aveva quarant'anni quando Stella cominciò a lavorare da loro. Però non era alle sue dirette dipendenze ma a quelle del socio che si chiamava Bosanquet, Anthony Bosanquet. E usciva con un ragazzo. Si chiamava David e, cosa che poteva sembrare quasi incredibile, Stella fu costretta a interrompere per un momento la sua narrazione per lambiccarsi il cervello cercando di ricordarsi qual era il suo cognome. Non se lo ricordava, in quel momento aveva il classico vuoto mentale, e fu costretta a continuare la sua storia senza dirmelo. «Come lo aveva conosciuto?» domandai. «Non a scuola. La mia era una scuola solo per ragazze. Sua madre era la migliore amica della mia zietta Sylvia. Aveva un negozio di tessuti, era lei a mandarlo avanti mentre la sorella di David faceva da commessa e stava dietro il banco. Oh, ma come si chiamavano? Fra un minuto mi verrà in mente. Naturalmente, a quell'epoca, avevamo le tessere per i vestiti ma si potevano anche usare per l'acquisto dei tessuti. Le uniche cose a non essere razionate erano le coperte e cose del genere. Presi l'abitudine di farmi tutto da sola e mi confezionai una giacca azzurra, ricavandola da una copertina da neonato. La foderai con un vecchio lenzuolo della mia zietta. Andai a comprarmi le prime calze di nailon nel negozio della madre di David. Credo che sia stato allora che cominciai a sviluppare un certo gusto per i vestiti, Genevieve. Quando non c'è quasi niente da comprare e manca la possibilità della scelta che c'è oggi, si rinuncia oppure si impara a saper distinguere. Si impara il buon gusto. E a tenere da conto le proprie cose. «Lui non era Alan. Non facevo che paragonarlo ad Alan in continuazione nel mio cervello. Capisco che non si dovrebbero fare cose del genere, non è corretto, ma non sapevo rinunciarvi. A confronto di Alan, o di quello che ricordavo di Alan, David era noioso, scialbo. Ma David mi ammirava e questa è una cosa che fa sempre colpo, e molto, a una ragazza, non ti pa-
re? Gli piaceva farsi vedere in giro con me. È stato il primo a dirmi che ero carina. Ad Alan non sarebbe mai passato per il cervello. Vorrei avere una fotografia da mostrarti, Genevieve, ma le ha tutte Marianne ed è inutile chiederle di portarmele qui. Se ne dimenticherebbe, semplicemente. A ogni modo ecco cosa accadde poi: David fu chiamato alla leva, entrò nella RAF e io finii per vederlo soltanto quando tornava a casa in licenza.» Qualcuno potrebbe dire che la mia è stata una vita noiosa ma a confronto di quella che aveva avuto Stella, mi sembrava roba da andare in delirio. Sempre se ci riferiamo alla prima parte, voglio dire. Se non altro, io avevo avuto dei ragazzi prima di Mike, ero abituata a uscire e ad andare da qualche parte ogni sera, a casa la mia vita può darsi che sia stata un po' sgradevole e scomoda, a volte. Però noiosa, mai. E se una aveva un ragazzo, quando ero una teen-ager, e parlo di prima dell'AIDS, con lui naturalmente si andava fino in fondo. Per Stella era diverso. Lei e Alan non si erano mai neanche tenuti per mano. Con David era andata al cinema e a passeggiare e a girare intorno alla casa di lui per sei mesi prima di permettergli che la baciasse. Se ci fosse stato qualcosa di più tra loro David avrebbe perso il rispetto per lei, e dopo non l'avrebbe più voluta. Lei ne sembrava convintissima; in fondo gli uomini erano fatti così, e forse era anche vero, ma possibile che sia avvenuto un cambiamento così clamoroso in meno di cinquant'anni? Con David partito per la guerra, non ci fu più nessun avvenimento di spicco nella sua esistenza. Viveva in casa della zietta Sylvia, ascoltava la radio e leggeva i libri presi a prestito dalla biblioteca pubblica e si cuciva i vestiti e disfava i vecchi maglioni per usare la lana a sferruzzarne di nuovi. Zietta Sylvia si faceva la permanente in casa e portava i capelli pettinati in tutta una serie di ricciolini fitti fitti che le coprivano interamente la testa. Ogni mattina ci metteva un quarto d'ora a truccarsi, fondo tinta e rouge e rossetto per le labbra, la cipria in polvere che si comperava in una scatola e poi ancora un po' di rossetto per le labbra, e le sopracciglia, che erano state spuntate, disegnate con la matita. Era quello l'unico trucco per gli occhi che usassero. Né ombretto, né mascara, né eye-liner. È buffo perché invece è l'unico trucco che adopera mia sorella Janis, lei si fa sempre gli occhi e non le importa che aspetto può avere il resto della faccia. Stella disse che lei non avrebbe mai messo piede fuori di casa senza essersi truccata, neanche per andar giù fino alla bottega all'angolo. La ragazza che lavorava in farmacia era una sua amica e aveva preso l'abitudine di metterle da parte un rossetto o una boccettina di smalto per le unghie quando ricevevano il
quantitativo che avevano in assegnazione. E le teneva da parte questa roba sotto il banco aspettando la prima volta che si faceva vedere. In una occasione si era messa addirittura in coda per comprare qualcosa che si chiamava Crème Simon ma ne vendettero l'ultimo barattolo alla donna che era in fila davanti a lei. E tutto questo, Stella lo faceva per zietta Sylvia e zio Come-SiChiamava e la sorella di David e il signor Bosanquet. Si poteva essere belle come - Stella a questo punto dovette fermarsi a pensarci su un momento - belle come Margaret Lockwood, disse, ma che cosa serviva se non si incontrava mai nessun giovanotto? Erano tutti via, alla guerra. David tornò a casa in licenza e le chiese di fidanzarsi ma chissà per quale motivo lei non ne volle sapere. «Allora c'è da credere che David non le piacesse?» domandai. Lei mi sorprese scoppiando in una risatina irrefrenabile, di quelle che di solito fanno le ragazze molto giovani. «Non ci ho mai pensato, Genevieve. Non so se mi piacesse o no. Credo che sia stato il negozio di tessuti a farmene passare la voglia. Lui sarebbe finito in quel negozio a lavorare e io... be', dirai che sono una snob e forse lo ero. Conoscevo questi negozianti, ma non ero una di loro. Il padre della mia mamma era stato un vicario, metodista, sai, e papà impiegato statale, anche se non molto importante. Sposare David sarebbe stato come retrocedere, fare un passo indietro.» Questo mi portò a chiedermi che cosa doveva pensare di me. Il padre della mia mamma era un mandriano e mio papà, se così si può definire quello che fa, lavora come meccanico in un garage. Ma la verità è che Stella non dà l'impressione di pensare niente di tutto questo sul mio conto, non mi vede sotto questa luce. «Gli rispose di no?» «Gli risposi di no e quando lui tornò a casa un'altra volta si portò dietro questa WAAF che aveva conosciuto e alla licenza dopo ancora si sposarono. Oh, Jenny, mi è venuto in mente come si chiamava! Il suo nome era Conroy. Lui si chiamava David Conroy e sua sorella, Mavis. Naturalmente io avevo sempre chiamato signora Conroy la sua mamma e forse tu lo troverai molto buffo ma quando ci eravamo appena conosciuti David mi chiamava signorina Robertson. La stessa cosa succedeva anche in ufficio. Io ero la signorina Robertson e naturalmente i partner dello studio legale erano il signor Newland e il signor Bosanquet e perfino noi ragazze, le segretarie, ci chiamavamo l'una con l'altra signorina Questo e signorina Quello. Usava così, allora. Adesso puoi capire perché a me proprio non
piace questa abitudine di chiamare le persone con il nome di battesimo, questa abitudine che abbiamo qui. Voglio dire, capisco che i tempi sono cambiati ma per me è sempre uno shock quando il ragazzo che falcia l'erba nei prati mi chiama Stella.» Mi raccontò tutto questo in quattro puntate successive nel giro di un paio di giorni. Fra tutti gli ospiti di Middleton Hall lei era sempre stata quella che non parlava mai del passato ma, adesso che aveva cominciato, pareva che niente potesse più farla smettere. Era chiaro che le faceva piacere avere la possibilità di parlare ma si stancava, anche, e a volte cominciava a tossire. Io poi dovevo sempre state sul chi vive per Lena. Ogni volta che mi sorprendeva ne approfittava subito per mandarmi via, a far rientrare in casa Arthur spingendogli la poltrona a rotelle oppure a massaggiare la gamba di Lois o a cercare una videocassetta per Gracie. Doveva essere pura e semplice malizia, o magari gelosia, che la spingeva con tanta determinazione ad allontanarmi da Stella. Non saprei pensare a nessun altro motivo. Sarebbe stato logico credere che dovesse sentirsi soddisfatta se uno dei suoi ospiti aveva trovato un modo di essere felice ma a Lena non fa piacere che le persone siano felici, vuole che dipendano da lei. Ecco perché Maud è la sua favorita, adesso che Edith se ne è andata via per sempre. Maud non fa che ripeterle come è buona. La chiama "santa dei nostri tempi". Dio solo sa dove è andata a pescare quell'espressione, e poi continua a ripetere che se ce ne fosse qualcuna di più, come lei, il mondo sarebbe un posto migliore. Lena beve tutto, e diventa gongolante e mi aspetto che Maud finisca in cima all'elenco di quelli che si prevede faranno testamento in suo favore in un prossimo futuro. Era mercoledì pomeriggio, e ormai sarebbe stato il momento di tornare a casa, quando Stella mi dedicò la nuova puntata della sua storia. Ero un po' preoccupata e stavo pensando a una sorpresa per Ned che sarebbe rientrato dalla Danimarca l'indomani... sciocca che ero! E quindi anche se ero lì seduta e in apparenza la stavo ascoltando, in principio finii per perdere un mucchio di cose. Immagino che avesse parlato dei Conroy e dell'ufficio perché tutto d'un tratto mi raccontò un episodio che richiamò la mia attenzione. Ricominciai ad ascoltare. «Il signor Bosanquet morì. Si suicidò.» Non si sa mai che cosa dire quando qualcuno ci dà una notizia del genere. «Si impiccò. La sua governante lo trovò appeso a una trave del tetto nel garage. Il vecchio signor Newland disse che aveva una doppietta, chissà
perché non aveva usato quella, e Rex, che sarebbe stato il mio futuro marito, osservò invece che, con la penuria di roba che c'era, probabilmente non aveva trovato il modo di procurarsi le munizioni. Li sentii ridere a questa battuta.» Lei era calmissima ma io mi accorsi di essere scandalizzata. Mentre la sua generazione rimaneva scioccata dal sesso, sono cose come questa, il modo di mostrarsi indifferenti per certi avvenimenti e il fatto di dimostrare di non avere affatto la pelle sottile e mancare di certe delicatezze, insomma, che mi sconvolgono. Mi fece venir voglia di fare un po' quella faccia che si fa quando uno di noi deve togliere il coperchio al bidone dei rifiuti della nonna prima che vengano gli uomini della spazzatura. «Non lo avevano in simpatia?» dissi. «Oh, non era tanto quello. Ma piuttosto che avevano scoperto come lui fosse un... come posso definirlo? Rex lo chiamava frocio. Ecco la parola che adoperava lui. Molto meglio di "checca", come diceva il mio futuro suocero. Omosessuale, suppongo che diresti tu. Ricordati che in quegli anni non era ancora passata la legge chiamata Sexual Offences Act, quella che rendeva legale il sesso fra adulti consenzienti in privato. Oh, Genevieve, non prendere quell'aria così sbalordita! Ho lavorato nello studio di un legale per sei anni, capisci, e in tutto quel tempo si finisce per imparare un po' di legge, anzi si può forse dire, addirittura, che si sviluppa un interesse per la legge. Suppongo che se fossi nata venticinque anni più tardi avrei scelto anch'io la professione legale. «Ad ogni modo, il povero signor Bosanquet era stato colto sul fatto con un ragazzo, nella roulotte dove questo ragazzo viveva. La polizia gli telefonò per informarlo che stavano per andare da lui e il motivo per il quale ci andavano... lo conoscevano bene, naturalmente, perché si presentava spesso in tribunale e credo che siano anche stati gentili con lui... ma stavolta lui era ben deciso a non presentarsi in tribunale ed era già morto prima che quelli arrivassero. Immagino che tu non possa capire che scandalo terribile sia stato. Credo che oggi sarebbe paragonabile a sentir raccontare che qualcuno che tu conosci ha ammazzato un bambino. La gente era offesa e indignata. Mi indicavano quando mi vedevano in strada perché ero stata la sua segretaria. Immagino che sia stata una stupidaggine da parte mia ma c'è stato un momento in cui ho pensato che, in seguito a quello che era successo, avrei perso l'impiego. Credevo che mi avrebbero licenziato unicamente per il fatto che avevo avuto dei rapporti con il signor Bosanquet. «Non mi licenziarono. Mi nominarono segretaria di Rex. Fu un'autentica
promozione perché il vecchio signor Newland stava finalmente per ritirarsi dagli affari e Rex sarebbe diventato il socio anziano. Aveva un nipote che era entrato anche lui nello studio, qualcun altro vi venne associato come partner e diedero addirittura una nuova denominazione alla ditta: Newland, Clarke e Newland. Naturalmente il motivo principale era stato quello di liberarsi dell'odiato nome di Bosanquet.» «Unicamente perché era gay?» chiesi. «Che definizione ridicola» Stella disse con aria insonnolita. Si era appoggiata con la testa allo schienale della poltrona e aveva chiuso gli occhi. «I vittoriani erano abituati a chiamare donnine "allegre" le prostitute. Ai miei tempi quella parola significava spensierata e felice, gaia.» Cominciai ad aver paura di averla fatta stancare troppo. È in momenti come questi che posso vedere fino a che punto sia dimagrita, quando è rilassata e la sua faccia si affloscia. Mentre aveva le guance paffute solo pochi mesi fa, adesso sono coperte di rughe e gli occhi sono infossati nelle orbite dove la pelle sembra diventata di carta velina. La mano che è posata in grembo si direbbe un groviglio di corde, con le unghie ancora coraggiosamente laccate del colore dello strato di pittura che Len ha appena finito di stendere sulla porta d'ingresso del Legion. Un peccato che non sia Richard, ma Marianne, a conservare quelle fotografie. Tutti noi abbiamo una Marianne fra le nostre conoscenze. Persone animate delle migliori intenzioni, che promettono sempre di fare qualcosa, lo promettono con sincero entusiasmo, ma non lo fanno. Se ne dimenticano. E poi chiedono scusa, sono piene di rimorso, e promettono di nuovo, e tutto si ripete come prima. Marianne non porterà mai quelle fotografie e io non vedrò mai Stella, da giovane, con il vestito che indossava quando si fidanzò con Rex Newland, una toilette del New Look con la gonna lunga e il corpetto a peplo, drappeggiato, oppure uno di quegli abitini di cotone con la gonna ampia, il corpetto ripreso in vita, bello aderente, e la cintura stretta. Non vedrò mai Stella con le scarpe a tacco alto e i legacci che si incrociano su per le gambe come sandali alla romana e non la vedrò nemmeno in tailleur, quel "completo in due pezzi" che usava una volta e il cappellino di feltro e i gemelli di lana. Sarò costretta a immaginare tutto ciò. Quando salii in macchina per tornare a casa, decisi di prendere la strada che passa davanti ai Sorbi Selvatici. Da quando abbiamo cominciato a usare quella di Stella, ho superato la sensazione che provavo sempre per la casa da week-end di Ned, aveva smesso di essere la casa, ormai quasi non la associavo nemmeno più a lui. Tanto per cominciare, Ned, Jane e Hannah
non ci venivano più da settimane, non aveva fatto altro che piovere al week-end, e per questo a Ned piace ripetere che Dio era un Tory. Aveva perfino parlato di rinunciare a tenerla; del resto è solo in affitto e l'affitto scade in dicembre. Gli pareva che avesse un senso, così mi spiegò, quando venirci voleva dire vedermi ma adesso i nostri incontri non dipendono più da quello. Mi aspettavo di vedere i Sorbi Selvatici come sono di solito, con tutte le finestre chiuse, sbarrate, e l'erba nel giardino che ha bisogno di essere tagliata, invece c'era un'automobile sul vialetto, l'automobile di Jane, e gli stivaletti di gomma di Hannah sul gradino della porta, messi lì ad asciugare. Le vacanze di metà trimestre, pensai, ma forse Hannah andava ancora soltanto alla scuola materna. Avevo avuto una mezza intenzione di fare un salto al Legion quella sera, per salutare la mamma e bere qualcosa con qualcuno dei soliti clienti, ma cambiai idea. Potevo trovarci Jane, al pub, e non avevo nessuna voglia di parlare con Jane. L'indomani era la mia giornata di libertà e avevo calcolato di andare con la macchina fino a Stansted a prendere Ned. Intanto che era via mi aveva mandato due cartoline, una che rappresentava la Sirenetta e l'altra la statua di due persone che soffiano dentro lunghi strumenti musicali a tubo. La calligrafia con la quale le aveva scritte era artefatta, perché nelle sue intenzioni avrebbe dovuto passare per quella di una mia amica nel caso fosse capitato che le vedesse qualcun altro all'infuori di me. In una, diceva di essere stato in un bar chiamato il Cantico dei Cantici che era riscaldato unicamente da stufette a kerosene, e il rischio di un incendio era altissimo, e nell'altra che stava pensando di comprare delle candele rosse, natalizie, di quelle decorate con un motivo di foglie di vischio e agrifoglio. Le aveva firmate tutte e due "Edwina". Trovai che erano piuttosto stupide ma bastarono a farmi struggere di desiderio per lui. La cartolina delle candele di Natale diceva anche che sarebbe arrivato a Stansted con il volo delle cinque e, appena possibile, mi avrebbe telefonato. Andai a cercare la Sirenetta nella mia enciclopedia e così imparai qualcosa sul conto di Hans Andersen. Stansted non è lontano di qui. Raggiunsi Bury con la macchina e poi da Bury Long Melford, e da Long Melford Haverhill e scesi a imboccare la M11. Avevo preparato tutto a casa di Stella per il nostro incontro, con altri fiori ancora nei vasi e altro vino e avevo comprato le cose da mangiare che a lui piacciono e alle quali cominciavo ad abituarmi anch'io, focaccia italiana e pâté, e un formaggio francese che ha un nome assolutamente
strambo, pazzesco, perché si chiama Terroir, pesche e banane e yogurt greco. Arrivai all'aeroporto con una mezz'ora di anticipo, ecco quello che succede quando si è innamorati, si arriva sempre troppo presto agli appuntamenti, si fa sempre una scorta di mezze ore di emozione e di desiderio e di paura e di delusione da sopportare per conto proprio. Non sono abituata agli aeroporti e non sapevo proprio che cosa fare; così mi dovetti accontentare di guardare quella specie di schermo televisivo che ti dice l'ora di arrivo di ogni volo e ti avverte quando gli aerei sono atterrati, e poi mi diressi verso l'uscita dove c'era un mucchio di uomini, immagino che fossero gli autisti di automobili da noleggio, che erano lì in piedi, di qua e di là, e tenevano in mano dei cartelli con il nome delle persone e delle varie ditte e aspettai anch'io con loro dietro la barriera. Mi trovavo lì da una decina di minuti e quello schermo della TV stava dicendo che i bagagli del volo in arrivo da Copenaghen si potevano già ritirare, quando adocchiai Jane che attraversava il salone tenendo Hannah per mano. In un lampo, capii. Era rimasta a dormire quella notte a Tharby perché si trovava molto più vicino a Stansted di Norwich. Aveva combinato di venire a prendere Ned. Probabilmente lo faceva sempre quando lui andava all'estero. Non mi trattenni. Per mezzo secondo soppesai le varie possibilità, se era meglio vederlo e farmi vedere da lui mentre mi passava davanti oppure non vederlo del tutto. Credo che, a farmi decidere, sia stato quello che provavo per lui. Non volevo metterlo in imbarazzo, non volevo costringerlo a fare la scelta se fosse meglio accorgersi che io ero lì oppure fingere di ignorarmi. Così me ne tornai alla mia macchina senza aspettare che le prime persone cominciassero a uscire, dopo aver passato la dogana. Era colpa mia, sì o no? Ero stata io a comportarmi da sciocca. Lui non era da rimproverare, e neanche Jane. Se avessi detto di sì tutte le volte che mi aveva supplicato di lasciare Mike e se gli avessi permesso di lasciare Jane, adesso sarei stata io quella che lo aspettava, e con tutti i diritti, all'arrivo dell'aereo, avrei potuto essere io a tenere fra le mani uno di quei cartelli con scritto sopra: "Ned, Ti Amo". Be', non proprio. Ma sapete quello che voglio dire. Forse quella sera rimasero a Tharby, non so. Non andai a vedere. Invece andai da Philippa a guardare la videocassetta di Breve incontro, che aveva scelto lei. Naturalmente lo avevo già visto ma era passato molto tempo dall'ultima volta e, quando cominciò, pensai che avrei potuto identificarmi con i personaggi e vederla come la "mia storia", se questa idea non sembra
troppo stupida e sdolcinata. Ma era troppo vecchio, era stato fatto troppo tempo fa, perché mi andasse bene. Quelle persone mi sembrarono unicamente stupide, e con un mucchio di scrupoli morali senza senso. In fondo non riuscii a capire proprio bene per quale motivo lei si rifiutasse di dormire con lui nell'appartamento dell'amico di lui, né a convincermi che, a farla rinunciare, fosse stato che si era come smontata perché lo trovava sordido. Andrà benissimo per Stella, fu la mia riflessione, ma per me è troppo all'antica. Rex Newland chiese a Stella di sposarlo quando lei lavorava come sua segretaria da sei mesi. L'aveva invitata fuori a cena tre volte e poi aveva ottenuto che sua madre la invitasse a casa loro. Avevano una grande villa georgiana in cima ad Angel Hill. Stella disse che lei si era sempre fatta l'idea che Rex si mostrasse così gentile nei suoi confronti perché le era appena morto lo zio, cioè il marito della zietta Sylvia. E rimase letteralmente sbalordita quando lui la domandò in moglie. Non l'aveva mai baciata, non le aveva mai nemmeno detto niente di molto personale. Non sapeva che cosa dire e così gli domandò perché. E lui rispose che lei era molto bella e che sapeva come vestirsi e aveva il modo di fare di una gentildonna. E poi, mentre lei lo stava fissando con gli occhi sgranati, disse ancora, e adesso ripeto le stesse parole che Stella ha usato: "Voglio venire a letto con te, ne ho una tal voglia che mi sento morire, e so che non ci riuscirò se prima non ti sposo". I tempi sono cambiati. E anche la gente dev'essere cambiata. Se qualcuno mi avesse detto una cosa del genere, gli avrei allungato uno di quei ceffoni che fanno girare la faccia dall'altra parte. Stella disse che fu quello a farla decidere. C'è proprio da crederci? Fu quello a farla decidere. Disse che rivelava un'autentica emozione, rivelava come Rex fosse capace di provare sentimenti veri e sinceri. E, inoltre, quelle parole l'avevano eccitata, le avevano fatto correre un brivido giù per la schiena, l'avevano spinta a domandarsi che cosa sarebbe stato, che cosa avrebbe provato, ad andare a letto con un uomo così pieno di passione. E poi, anche se non sarebbe mai stata disposta a sposarsi per i soldi, le piaceva l'idea di sposare qualcuno che li aveva. Non sapeva che Rex Newland era gretto e meschino. Vedeva soltanto la grande casa nella quale lui viveva, e la Lagonda, la sua automobile, e in più sapeva che lo studio legale andava a gonfie vele. Sposare Rex non sarebbe stato fare un passo indietro ma, piuttosto, salire di qualche gradino nella scala sociale. Di negativo,
in tutto questo, c'era la sua età. Aveva ventidue anni più di lei. E poi, la questione del perché non si fosse mai sposato prima. A quell'epoca la gente non divorziava tanto, e Stella mi disse che in ogni caso non avrebbe accettato di sposare un divorziato. Era sempre stata sinceramente convinta che fosse vedovo, le pareva di ricordare già da prima di essere assunta nel suo studio legale, quando andava ancora a scuola, di averlo visto in giro per Bury sottobraccio a una donna, e quindi si meravigliò di venire a sapere che non si era mai sposato. «Non gli ha chiesto perché?» domandai. «Non potevo fare una cosa del genere... Allora, no. Non c'era ancora fra noi quel genere di rapporto.» «Non era gay, lui, vero?» È chiaro che questa parola non le piace. «Naturalmente, Genevieve. C'era un'altra ragione, ma non la scoprii che molto, molto tempo dopo.» Quello che Stella fece, fu incredibile. Gli chiese di lasciarle tutto il week-end per pensarci prima di dargli una risposta. Sembra una storia uscita dritta dritta da un romanzo vittoriano, vero? Siamo molto ma molto lontani da Janis che disse a Peter davanti alla mamma e a Nick e a me, sono rimasta incinta così sarà meglio che ci sposiamo di sabato, fra una ventina di giorni. Stella mi raccontò di non aver pensato a nient'altro per tutto quel fine-settimana. Non si consultò con nessuno. Il lunedì rispose a Rex Newland che lo avrebbe sposato e Rex le disse che con quella risposta aveva fatto di lui l'uomo più felice del mondo. Non rimasero fidanzati per anni come sembra che faccia adesso un sacco di gente, ma si sposarono un mese più tardi. Le nozze vennero celebrate nella cattedrale che a quell'epoca non era ancora la cattedrale ma semplicemente una chiesa e Stella si confezionò da sola l'abito da sposa. «E nessuno se ne sarebbe accorto» disse. «Lui che tipo era?» «Chi, Rex?» Sembrò meravigliata dalla domanda. «Marianne gli somiglia» rispose e poi cominciò a descrivere un uomo che, a Marianne, non somigliava proprio per niente. «Era alto e piuttosto florido, sai. Ma non corpulento, quello soltanto dopo. Era bello, molto bello, con una gran capigliatura nera che cominciava a diventare brizzolata e i lineamenti piuttosto forti, naso grosso, labbra carnose, occhi scuri, un viso molto sensuale.» Avrei voluto domandarle se era innamorata di lui... in realtà, se si era innamorata di lui dopo che erano sposati, ma mi garbava poco. Ad ogni modo sembrò che Stella mi leggesse nel pensiero, e rispose alla domanda che
non le avevo fatto. «Non sono mai stata innamorata di lui. A volte pensavo quasi di esserlo e poi lui faceva qualche cosa che me ne toglieva di colpo la voglia.» «Che genere di cose?» «Oh, qualcosa di brutale. Non intendo con questo che sia mai stato crudele o violento con me, quello no, mai, ma... oh, qualcosa nel modo in cui parlava alle persone della classe inferiore, come se non fossero esseri umani, mi capisci, e il modo in cui si comportava con gli animali. Andava a caccia, naturalmente, e a me non piaceva, ma la caccia è sempre stata una delle cose più importanti nella sua vita. Cioè, mi spiego meglio, era la gentilezza personificata con i suoi cani, avevamo due spaniel che erano stati addestrati come cani da riporto, ma lui era capacissimo di tirar su da terra una lepre ferita e buttarla a loro, e poi scoppiare a ridere. E quello lo odiavo.» Un tipo di cacciatore che non mi era nuovo. Vengono a bere qualcosa al Legion se la riunione è stata organizzata sul Green di Tharby. Ho visto entrare ragazzini, e anche ragazze di quindici anni, tutti sporchi del sangue della volpe, e se ne vantano!, e i cacciatori ridono per come sono stati bravi a stanare quella povera bestia. «Non aveva tempo per la sensibilità o l'immaginazione, se capisci quello che voglio dire, Genevieve. Credo che non abbia mai letto un libro. L'unica musica che gli piaceva era quella di Gilbert e Sullivan. Era molto spiritoso, garbato e pieno di fascino, naturalmente c'era quello. E aveva l'abitudine di parlarmi delle cause di cui si stava occupando, dei divorzi e così via, e delle cose che venivano a galla in tribunale. Cose come... be', tentata violenza carnale, e quella che allora chiamavano conoscenza carnale, era abituato a descrivermele in tutti i particolari, penso che lo eccitasse. Strano, in fondo, perché prima che ci sposassimo non avevo mai sentito una parola su quell'argomento ma non appena siamo stati marito e moglie lui ha cominciato a comportarsi con me come se io fossi... be', il nome che la zietta Sylvia dava a quel tipo di persona era "donnaccia".» C'è molto di cui lamentarsi su come va il mondo oggi e gli anziani non fanno che parlare dei bei tempi andati ma io ho i miei dubbi, credo che oggi le cose vadano meglio di quanto non andassero allora. Non credo che saprei accettare il modo in cui Stella era stata costretta a vivere. Preferirei andare nelle strade del quartiere a luci rosse di Norwich. «Però ero abbastanza felice» continuò lei. «Tutto sommato, non avevo niente di cui lamentarmi.»
Sorrise e fece una pausa. Ebbi l'impressione che ci fosse qualcosa che era incerta se raccontarmi o no e che probabilmente aveva a che vedere con la sua vita sessuale. Non aveva ancora sfiorato quell'argomento ma adesso mi rendevo conto che non aveva intenzione di farlo. E, in ogni caso, non ancora a questo punto. Un'altra sensazione che avevo era di non essere stata io la prima persona alla quale aveva raccontato questa storia, malgrado tutta la sua reticenza precedente e l'apparente riluttanza a parlare del passato. Si stancava, naturalmente, e a volte la sua voce diventava rauca, ma... come posso spiegare quello che intendo?... era come se si fosse preparata, avesse fatto le prove per questo spettacolo. Aveva imparato le battute e fatto le prove già una volta molto tempo prima e adesso sapeva a memoria la parte in modo praticamente perfetto. Entrò Pauline con il tè per Stella e inarcò le sopracciglia quando mi vide lì con lei, perché era già passata da molto tempo l'ora in cui di solito vado a casa. Stella mangiò una tartina e sgranocchiò un amaretto. Adesso mangiava un po' meglio anche se non faceva nessuna differenza, questo, perché continuava a pesare sempre allo stesso modo e, anzi, cominciava ad avere l'aria esangue e sembrava trasparente. Pensai che per quel giorno avesse finito di raccontare e, in fondo, quasi lo speravo perché non volevo che esagerasse. Invece, tutto d'un tratto, lei cominciò a parlarmi delle speranze di un figlio, sue e di Rex, e come lei avesse abortito una prima volta e, poi, un'altra ancora. Naturalmente, soggiunse, non era soltanto un figlio che Rex sperava di avere, era un figlio maschio. Erano già sposati da cinque anni quando nacque Marianne, il giorno dell'incoronazione della Regina, il 2 giugno 1953. Stella aveva trascorso gran parte della gravidanza a letto tanta era la sua paura di perdere il bambino e dopo la nascita di Marianne rimase malata molto a lungo. Non mi spiegò con esattezza quale fosse la sua malattia ma mi parve di capire che in gran parte si trattasse della classica depressione post-parto. Rex non aveva pazienza per le malattie. Ed era rimasto deluso che fosse nata una femmina. La combinazione di queste due cose, e una moglie costretta a rimanere in casa, lo mandarono di nuovo dove era stato tutti quegli anni nei quali lei si era chiesta perché non si fosse sposato: dalla donna in compagnia della quale lo aveva visto quando lei, Stella, andava ancora a scuola, la donna che descrisse, come se Rex fosse stato un sovrano o un dittatore, come la sua favorita. Aveva voluto alludere alla sua donna, alla sua amante. La nostra inse-
gnante di storia a Newall Upper ci aveva raccontato che il re Carlo II aveva avuto un gran numero di favorite, ed era stata l'ultima volta che avevo sentito usare questa definizione. Fu così che cominciai a vedere con gli occhi della mente Rex Newland come un personaggio importante, ricchissimo e imponente, in cappa e spada, e la sua favorita, in crinolina, che lo teneva sottobraccio. Ma naturalmente era impossibile che si trattasse di qualcosa del genere. E feci quella che mi parve una supposizione intelligente riguardo all'identità di codesta amante. 10 Ned e Jane e Hannah trascorsero quel week-end a Tharby. Lui riuscì a telefonarmi nell'intervallo di tempo fra il momento in cui tornai a casa dal lavoro e quello in cui Mike rientrò, e disse che doveva vedermi, era urgente. Subito spaventata, gli domandai se era successo qualcosa. «No, non è successo niente. Voglio soltanto vederti. Sono dieci giorni che non ti vedo, quindi è urgente. Non ti pare ragionevole?» L'unica soluzione possibile era trovarci noi quattro al Legion il sabato sera. Mike non ci sarebbe venuto se gli avessi detto che ci sarebbe stata Jane e neanche Jane, non credo proprio, se avesse saputo che correva il rischio di incontrare tutto il nostro clan al completo, la mamma e Len, Janis e Steve, Nick e Tanya e, naturalmente, Mike e me. Jane era vestita ancora come quando era andata a prendere Ned a Stansted, un tailleur pantaloni di linea aderente, molto semplice, di seta blu scuro, con la camicetta bianca. I capelli rossi erano raccolti in una elegante treccia alla francese. Per me è facile non pensare a Jane quando non la vedo ma adesso che la guardo non posso fare a meno di chiedermi se lui la tocca mai, se come Mike e me dividono anche loro uno di quei letti matrimoniali da persone coniugate, e ci dormono distaccati, proprio alle due estremità, oppure se, visto che lui è obbligato a starle insieme, si comporta e agisce come quel marito affettuoso e innamorato che lei ha sempre conosciuto. Di questo non parliamo mai e io preferirei non saperlo. La mamma dice che gli uomini raccontano sempre alle loro ragazze di aver smesso di dormire con la moglie e poi non sanno più che faccia fare, come se qualcuno li avesse sorpresi mentre cacciavano le dita nel barattolo della marmellata (parole sue), quando si viene a sapere che la moglie è rimasta incinta. A quanto mi era sembrato di capi-
re Rex Newland doveva proprio essere quel tipo di uomo e probabilmente raccontava a Stella un sacco di fandonie. Bastava guardare Jane per capire che non aveva nessuna voglia di stare con noi. C'era una delle professoresse della UEA con il marito, seduta a un tavolo d'angolo, e Jane continuava a voltarsi nella loro direzione con la speranza che si accorgessero che lei era lì. Ma Ned, dopo essere andato a prendere da bere per tutti perché aveva voluto offrire lui, venne a sedersi vicino a me, fra me e Steve, e mi cercò la mano e me la tenne sulle ginocchia, o forse sarebbe meglio dire la verità, cioè fra le cosce, fino a quando non riuscii più a resistere e gliela scostai. Nessuno vide niente, nessuno vide le nostre gambe letteralmente incollate l'una all'altra, salvo la mamma. Lei non si accorge mai di niente ma quando c'è di mezzo il sesso al suo occhio d'aquila non sfugge neanche il più piccolo particolare. Mi fece segno di andare da lei. Almeno in apparenza, per darmi uno scodellino pieno di patatine fritte per il nostro tavolo. «Hai pensato a farti mettere quella specie di bacchettine, vero?» disse. Mi accorsi di non riuscire assolutamente a capire a che cosa alludesse. «Sono l'ultimo tipo di contraccettivo, garantito al cento per cento. Te le cacciano in un braccio, come i bulbi che si piantano nella terra. Perché se te la fai con due uomini contemporaneamente, devi stare attenta. La ragazza Green, quella che è la nipote di Jill Baleham, lei prendeva la pillola e ci è rimasta lo stesso. Basta che ti venga anche una volta sola un po' di diarrea, e la pillola passa per il corpo, viene espulsa, e siamo sistemati.» «Guarda, mamma...» risposi. Non capita spesso che mi senta parlare così ma quando lo faccio lei capisce di aver esagerato. In quel momento avevo una voglia pazza di scaraventarle in faccia le patatine fritte. Invece le portai al nostro tavolo. Mike stava parlando dei lavori di Regent's Park e diceva che presto sarebbero finiti. Ned non mi guardava ma il solo fatto che non aprisse bocca fu sufficiente a farmi sentire i nervi a fior di pelle perché avevo capito quello che gli stava passando per il cervello. Il vino bianco secco che la mamma si è messa a servire in questi ultimi tempi è di quelli che ti spellano il palato, ci potresti pulire a fondo il lavello. Janis disse, così come se niente fosse e proprio di fronte a lui, che a lei non sarebbe dispiaciuto se Peter si fosse trovato un lavoro di quelli che ti tengono lontano da casa quattro sere su sette. Lei non si sarebbe sentita affatto sola, anzi sarebbe stata contenta. E Peter rispose che, quel giochetto, si poteva fare in due e Jane, che non nascondeva più la noia, gliela si leggeva in faccia!, si alzò per avvicinarsi al tavolo della professo-
ressa della UEA. Quelli le dissero qualcosa, e lei rispose, si alzarono tutti insieme e uscirono. Ned mormorò qualche parola di scusa per lei ma si accorse subito che gli altri erano rimasti offesi. E Mike naturalmente si vide così confermare le sue peggiori paure. Passarono cinque minuti pieni di imbarazzo e poi Ned disse che avrebbe fatto meglio ad andare a casa anche lui. Quelli di Norwich erano amici di Jane e lei, evidentemente, doveva averli invitati ai Sorbi Selvatici a bere qualcosa. Ci alzammo tutti. Lui riuscì a sussurrarmi accostando la bocca al mio orecchio «Per favore, lascia che ti veda lunedì sera, ti prego» e questo mi confermò che la piccola fronda di felce infilata nella sua scarpa aveva funzionato. Poi accadde una strana cosa. Mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, l'altra si spalancò, quella porta d'ingresso pitturata del colore delle unghie di Stella, e la donna che mi era passata davanti due volte, con la sua macchina, a Thelmarsh Cross, entrò. È un po' più vecchia di me, bionda, piacente, e adesso che mostrava un poco di più della sua figura e non soltanto la testa e le spalle, mi accorsi che era un po' più massiccia e pesante di quello che sarebbe stato giusto per la sua persona, ma in un modo gradevole. La riconobbi subito e capii che lei mi aveva riconosciuto, però non ci scambiammo un sorriso e perfino l'occhiata che ci lanciammo fu brevissima. Girammo tutte e due la testa dall'altra parte nel medesimo momento. «Era Gilda Brent» dissi. Stella corrugò la fronte. «Ma di che cosa stai parlando?» «L'amante.» Lei mi lasciò capire che era indispettita. Ce l'aveva con me. «Vorrei che non lo facessi, Genevieve. Vorrei che non continuassi a cercar di indovinare le cose. È la seconda volta che lo fai. No, assolutamente no, non era Gilda. Gilda ha recitato una parte completamente diversa nella mia vita, ma a quell'epoca non la conoscevo ancora. L'amante di Rex si chiamava Charmian Fry.» Era una donna nubile che non si era mai sposata e non aveva mai neanche lavorato per vivere. Proveniva da una di quelle famiglie della piccola nobiltà di contea, gente aristocratica. Suo padre era stato High Sheriff, cioè rappresentante del re in una contea, e uno dei suoi fratelli, Lord Lieutenant della contea. Si trattava di una famiglia ben fornita di quattrini, e lei aveva una sua rendita privata. Famiglie, queste, che sono sempre proprietarie di
parecchie case e lei viveva da sola in una di esse, una grande villa nei pressi di Stowupland. Non vi siete mai domandati come passino il tempo, dalla sera alla mattina, persone di quel genere? Stella mi disse che Charmian andava a caccia, sapeva sparare bene, si occupava del giardino e modellava con l'argilla dei vasi per piantarvi i gerani e simili. Partecipava a qualche ricevimento, andava a prendere l'aperitivo in casa di amici, e usciva a cena. Come vita, non sembra che offrisse molto, ma lei aveva Rex. E sicuramente Rex doveva occupare una certa parte del suo tempo. Si conoscevano da quando lui aveva ventun anni e lei diciotto. Molto tempo dopo, quando ormai non gliene importava più niente, Stella gli domandò per quale motivo non l'avesse mai sposata e lui le rispose che ci sono alcune donne fatte per sposarsi e altre no. E non sembrava che dipendesse dall'aspetto fisico o dalla classe sociale o da ciò che Stella chiamava reputazione, si trattava semplicemente di qualcosa che lui capiva alla prima occhiata. O perlomeno così le raccontò. Ed era vero, Stella soggiunse, perché lei non sarebbe assolutamente stata capace di immaginare Charmian come moglie di qualcuno, men che meno, poi, come madre. Come era venuta a scoprire l'esistenza di Charmian? Mi sono dimenticata di dirlo, vero? Fu il suocero a informarla. Ormai aveva passato l'ottantina e stava per morire e non mi meraviglierei se gli avesse anche dato un po' di volta il cervello. Doveva essere stato pazzo o cattivo per dire una cosa simile a una giovane donna che aveva appena avuto una bambina dopo una gravidanza che l'aveva messa a dura prova, e per di più era la sua stessa nuora, semplicemente perché lei era malata e sempre pallida e sempre debole. «Se non gli dai quello che un marito ha il diritto di aspettarsi» le disse «lo butterai di nuovo fra le braccia di Charmian Fry e un uccellino mi ha detto che ci è già tornato.» Poi venne fuori il resto. Il vecchio non si mostrò minimamente riluttante a parlare. Per Stella fu una rivelazione e uno shock terribile. Niente nella sua vita le aveva insegnato che uomini e donne potevano comportarsi in quel modo. Certo, lo aveva letto nei libri, ma non riusciva a pensare che l'infedeltà di un marito fosse qualcosa che poteva capitare proprio a lei o a un'altra delle donne che conosceva. Era impossibile che una donna la quale era stata invitata a cena in casa sua, la baciava sulle guance, le dava del tu e la chiamava per nome di battesimo, potesse fare in segreto, con suo marito, quelle cose che per Stella erano sacre al matrimonio e al dovere coniugale, anche se non particolarmente piacevoli. Era impossibile eppure, e si
vide obbligata ad affrontarla, autentica realtà dei fatti. Man mano che si abituava a quell'idea e l'accettava con amarezza, riuscì ugualmente a capire soltanto con grande difficoltà come un uomo, anzi qualsiasi uomo, potesse preferire una donna che sembrava una cornacchia, allampanata e striminzita, con una faccia scura come se fosse di cuoio e lunghi capelli neri che stavano cominciando a diventare grigi, a lei. A volte le capitava di vedere Charmian a Bury, la vedeva arrivare a bordo della vecchia giardinetta di sua proprietà a far spese, e dall'altro lato della strada, senza sorridere, sollevare un braccio in un gesto di saluto. Allora si voltava a fissare la propria immagine riflessa nella vetrina di un negozio, il bel viso e la bella figura, i vestiti scelti o confezionati con cura, e osservava Charmian da lontano, dietro di lei, che aveva sempre addosso dei tailleurs di tweed sudici, logori e sgualciti nonché un cappello di feltro da uomo piantato sulla testa. «Rex tornò da me» disse Stella. «Che poi abbia rinunciato realmente a lei per tornare da me è tutt'altra faccenda. Ebbi un altro aborto. Un maschietto, ero già abbastanza avanti perché si potesse capire, e naturalmente lui rimase deluso in un modo terribile.» Lei continuava a ricordare, così mi disse, non riusciva a farne a meno, le parole di lui quando l'aveva chiesta in moglie spiegandole che la desiderava alla follia, la desiderava tanto da morire. Andava al di là della sua comprensione il perché lo avesse detto. Che non avesse parlato sul serio, nemmeno in un'occasione del genere? Oppure aveva voluto lasciar capire che era così in quel momento, e soltanto in quel momento? C'era da pensare che lei lo aveva deluso? C'era qualcosa di carente nel suo aspetto fisico, nel suo modo di fare, nella sua voce, nel suo comportamento mondano e sociale? Fu in quel periodo che cominciò a passare un sacco di tempo davanti allo specchio nella sua camera da letto, a studiare la propria espressione, cercando i modi di migliorarla, parlando a se stessa mentre si fissava in quella superficie che la rifletteva, tendendo l'orecchio al suono della propria voce. «Pensai che fosse successo perché non gli avevo ancora dato un figlio maschio. Non mi è mai molto piaciuto avere bambini, Genevieve. Naturalmente il bambino, quando nasce, vale tutto questo, ma prova un po' a immaginare, invece, di ritrovarti a mani vuote, alla fine?» Stella mi stava guardando con aria penetrante. Poi chiuse gli occhi e lasciò che la testa le ricadesse di nuovo sul cuscino. Pensai che per quel giorno avesse finito e stavo per alzarmi e sgusciar via quando lei riaprì gli
occhi di scatto e mi fissò. Allungò una mano, cercando la mia, e io gliela presi, e gliela strinsi leggermente. «Mi sono ricordata di colpo lo scopo di tutto questo, Genevieve» disse. «L'ho fatto per spiegarti come sono arrivata a comprare la mia casa.» «È stato quello, il motivo?» dissi. «Certamente. Soltanto quello. Non avevo intenzione di entrare in tanti particolari. Ho la sensazione... ho paura... oh, mi spiego meglio, sono cose che ho detto a te e non vorrei che i miei figli venissero a sapere.» «Dunque loro non sanno niente del loro papà e di Charmian Fry?» «Credo che Marianne sia andata molto vicino alla verità. Preferirei, davvero, che non ne sapessero niente e, naturalmente, Marianne non può sapere. Lei può fare soltanto delle supposizioni.» Non potei fare a meno di pensare al mio papà, che ha vissuto prima con una donna e poi con un'altra dopo essersi diviso dalla mamma, che si è sposato di nuovo, ha divorziato, e adesso si è messo con una ragazza di due anni più giovane di me. Nessuno ha mai tentato di nascondere tutto questo a Janis e a me e a Nick, a nessuno sarebbe mai passato per il cervello. Anche questa deve essere una faccenda che cambia con le generazioni o magari, molto più semplicemente, e molto più spesso, si tratta di una questione che riguarda soltanto una certa classe sociale. «Vedi, Genevieve, Marianne ha sempre saputo fin troppo bene che la morte di suo padre è avvolta dal mistero. Be', non la morte vera e propria. È deceduto per collasso cardiaco, arresto cardiaco.» «Su un treno» dissi, e poi mi pentii di aver parlato perché lei si raddrizzò di scatto sulla poltrona, facendo palpitare in aria la mano libera. Con l'altra mollò bruscamente la presa sulla mia. «Come fai a saperlo?» Cercai di parlare assumendo un tono casuale, disinvolto. «È stato Richard a raccontarmelo. Non ricordo perché.» Lei si rilassò lievemente. Questi accessi di emozione la stancano, e il primo segno è sempre il pallore che a poco a poco le copre il viso. «Be', naturalmente lui sa questo. E non è del tutto vero che Rex sia morto su un treno. Si è sentito male in treno. Ed è morto all'ospedale, a Bury.» Era andato a trovare Charmian Fry. Questo accadde anni più tardi, verso la fine degli anni Sessanta, e lei si era trasferita da una delle case di famiglia a un'altra un po' più piccola, stavolta a Elmswell, che ha una stazione sulla linea secondaria che porta da Stowmarket a Bury. Forse aveva scelto di andare lì a vivere per quel motivo. Ormai, allora, Rex aveva rinunciato a
guidare, beveva troppo per mettersi al volante di una macchina e mangiava troppo perché gli facesse bene alla salute. Aveva sessantasette anni ed era troppo vecchio e troppo grasso per fare quello che aveva fatto con la vecchia Charmian. Lo trovarono semisvenuto, sofferente, accasciato nell'angolo di una carrozza di prima classe quando il treno entrò nella stazione di Bury. Aveva in tasca il talloncino valido per il ritorno di un biglietto di andata e ritorno da Bury a Elmswell e, all'ospedale, lo consegnarono a Stella con gli altri suoi effetti personali, dopo il decesso. Fu così che lei capì dov'era stato. Aveva provato un tal desiderio di Charmian da rimanerne ucciso. Marianne aveva quindici anni. Lei sapeva che Charmian abitava a Elmswell e che suo padre ritornava di lì in treno quando era morto. Stella era sicura che non avesse mai pensato a collegare questi due fatti. Non pose domande. Aveva voluto bene a suo padre e ne pianse la sua perdita ignorando la vita che lui aveva condotto. Quanto a Stella, il suo comportamento fu lo stesso che avrebbe avuto se Rex avesse mantenuto un intero harem a Elmswell e andasse a trovare le sue donne ogni sera, e a lei non ne importasse un bel niente. Mai e poi mai avrebbe desiderato la sua morte, però fu un sollievo quando lui morì. Tutto quanto era importante per lei, per ciò che riguardava Rex a quell'epoca, era conservare il segreto su quanto aveva fatto perché i figli non ne sapessero niente e continuassero a credere che un matrimonio felice si era concluso quella notte e la loro mamma adesso era una vedova triste e addolorata. Durante gli anni intercorsi fra l'aborto del maschietto e la morte di Rex, a lei era successa la cosa più importante della sua intera esistenza. E subito si affrettò a spiegarmi che non voleva alludere alla nascita di Richard, per quanto l'avesse riempita di gioia. Intendeva parlare di qualcosa di completamente diverso, mi disse, richiudendo gli occhi mentre l'ombra di un sorriso le aleggiava sulle labbra intanto che si abbandonava al sonno. Ero ancora lì seduta vicino a lei, le avevo preso di nuovo una mano e la tenevo stretta nella mia quando si sentì bussare piano piano alla porta e Richard entrò. Mi misi un dito sulle labbra e lui venne avanti in punta di piedi attraverso la stanza e si mise a sedere con cautela per non disturbare Stella. Rimanemmo lì seduti insieme per dieci minuti, forse un po' di più, senza parlare ma sorridendoci di tanto in tanto fino a quando io mi decisi ad alzarmi e gli sussurrai che per me era venuto il momento che me ne andassi.
Il gatto di Sandra, che abita nella casa accanto, stava torturando un verdone acchiappato intorno alla vaschetta che metto fuori con il mangime per gli uccelli. Riuscii a portarglielo via, era uno splendido uccello con qualche piumetta giallo vivo nelle ali di un bel marrone-kaki, ma mi morì fra le mani. Se un uccello ti muore così, le tue mani tremeranno per sempre. Seppellii quel povero uccellino nella nostra aiuola di rose e le mie mani continuarono a tremare talmente intanto che lo seppellivo che mi spaventai in un modo terribile. Pensai che, forse, mi era rimasta addosso quella specie di tremore che aveva anche mio nonno. Lui soffriva del morbo di Parkinson, e invece il mio tremito smise dopo pochi minuti. La mamma non conosce tutte le risposte con i suoi presagi e i suoi prodigi. Ad ogni modo, mentre mi preparavo per andare all'appuntamento con Ned mi ricordai che un uccello morto significa anche una morte in famiglia. Al momento in cui arrivai alla Molucca, era sbucato il sole. Sarebbe stata una splendida sera. I suoi raggi avevano quel colore dorato che si vede soltanto nei tramonti d'autunno, simili a lunghi strali di luce ambrata. Gli alberi nella palude stavano trasformandosi da verdi in gialli o bruni e il corniolo da roseo diventava scarlatto. Le bacche del sorbo selvatico, cadute dai rami o mangiucchiate dagli uccelli, erano sparpagliate sul gradino della porta. Cercai di stare attenta a dove mettevo i piedi in modo da non portarne dentro qualcuna col rischio di schiacciarla sui tappeti perché fanno certe macchie che sembrano di sangue. Il sabato successivo avremmo dovuto tirare indietro le lancette dell'orologio e questo significava che nella settimana che stava per venire, a quest'ora sarebbe già stato buio. Così diventavano necessarie le candele non tanto per creare un'atmosfera romantica quanto per farci un po' di luce mentre salivamo le scale e impedirci di inciampare o urtare nei mobili. L'autunno è mite, il più mite che si ricordi da anni, eppure ogni settimana fa un po' più freddo, le stufette a kerosene riescono meno, sempre meno, a riscaldare l'aria e asciugare l'umidità. Avevo sostituito le candele natalizie con altre gialle e portato qualche pianta di quelle che crescono in casa, con i loro vasi, per sostituire i mazzi di fiori. Intanto che aspettavo l'arrivo di Ned, andai a dare un'occhiata ai quadri che erano stati ammucchiati dentro la credenza insieme a quella foto che Stella mi aveva chiesto di portarle. Erano molto più carini di quelli, abbastanza insipidi, appesi alle pareti - quadri di bambini con animali o, diciamo meglio, disegni, riempiti di pittura. Ce n'era uno che rappresenta-
va una ragazza e un bambino con dei micini e un altro dello stesso bambino insieme a un gatto che aveva un mantello di pelo somigliante a un tappeto persiano. Quella sera non provavo una particolare tenerezza nei confronti dei gatti ma non potei fare a meno di notare che erano simpatici, divertenti. La cosa interessante fu un'altra, comunque. Ci trovavo un che di familiare. Avevo visto quei dipinti già prima in qualche altro posto, per quanto non riuscissi a ricordare dove. Ognuno era firmato nell'angolo con un nome che non riuscii a leggere, una A come iniziale poi un punto fermo e una T seguita da una specie di svolazzo. Non toccava certo a me risistemare qualcosa, o dare una nuova disposizione a quello che aveva già un suo posto preciso nella casa di Stella, però niente poté impedirmi di pensare che avrebbero fatto un effetto molto più carino, appesi ai muri, al posto di quella specie di paesaggi slavati, tutti azzurro-e-mauve, di brughiere e fiumi. Ne tenevo uno fra le mani e l'avevo alzato a cercar di coprire uno di quei riquadri più chiari sulla tappezzeria quando i fari di Ned inondarono la stanza. La loro luce si riversò sul ritratto di Stella, sul suo viso così bello e pieno di vitalità, così animato, sull'abito di un pallido colore rosato e sulla rosa che teneva in mano. Lui non fece che scusarsi e coprirmi di tenerezze, così spiacente, spiacente, spiacente per quello che era successo sabato sera. Hannah si era sentita male e la loro baby-sitter stava per telefonare al Legion proprio quando Jane era entrata in casa. Non avrebbe potuto scegliere momento migliore, lui, per tornarci. Hannah era senza fiato, piangeva e voleva il suo papà e Jane le aveva fatto prendere la sua solita medicina ma alla fine avevano preferito portarla al Pronto soccorso. Lui si spaventa sempre quando Hannah fa così, non riesce più a pensare a niente o a nessun altro. Come può raccontarmi queste cose di Hannah e continuare a credere che riuscirà a persuadermi a portarglielo via? Lui vuole tutti e due i suoi mondi. Io non sono istruita come lui, non sono nemmeno sofisticata come lo è lui, però non mi faccio illusioni. «Mi ami?» mi domandò quando mi ritrovai fra le sue braccia. «Di' che mi ami, Jenny, tesoro mio, di' che mi ami.» Io non riesco quasi a parlare quando lui mi dice queste cose, appena a bisbigliare, e la voce mi uscì rotta dall'emozione, affannosa: «Sì, lo sai.» «Ma io ho bisogno che tu lo dica, ne ho un bisogno terribile.» Altri uomini non sono come lui. Quella è una parola che li spaventa. Lui ne ha bisogno di continuo. Come c'è qualcuno che ha bisogno di sentir suonare una musica oppure di quel qualcosa di eccitante che dà la paura o
di una donna che si vesta come una puttana, lui ha bisogno di amare e di sapere che è amato. Erano le undici quando rientrai a casa ma il telefono stava suonando nella casa buia. Mi aspettavo che fosse Mike, che avrebbe detto di aver tentato di trovarmi tutta la sera, invece era Janis. Aveva la voce solenne, con una strana intonazione, e dovette schiarirsela ben bene prima di riuscire a dirmelo. Il nostro papà era morto. Sembrava così in buona salute, in ottima forma. Non riuscivo a crederci. Janis disse che era a casa, a Diss; e lavorava sodo a dare una ripassata a quella vecchia Alvis che aveva comprato. Un cliente doveva venire a darle un'occhiata, magari l'avrebbe anche comprata. Papà stava lucidando le parti cromate sul cofano quando si mise addirittura a urlare perché aveva sentito un dolore, ma così forte, tutto d'un tratto, al braccio e alla spalla. Suzanne venne fuori correndo ma era morto prima che lei lo raggiungesse. Era crollato di schianto, morto per un attacco di cuore. Era successo alle cinque, più o meno alla stessa ora in cui l'uccello mi era morto fra le mani. Mi sentii più sgomenta e turbata che impaurita, e questa sensazione, di come fosse strano e nello stesso tempo che si trattava sicuramente di un brutto segno perché... più chiaro di così non poteva essere..., mi impedì di provare dolore. Soltanto quando mi svegliai nel cuore della notte mi tornò subito in mente e scoppiai in lacrime perché avevo perso il mio papà, che era sempre stato tanto gentile e affettuoso e buono con noi fino a quando, tanto tempo prima, ci aveva lasciato. E intanto nel mio cervello si stava anche insinuando il dubbio che ci fosse qualcosa che non funzionava se non riuscivo a piangere per la sua morte come doveva essere logico, e disperarmi insieme alla mamma, in una casa che conoscevo e dove avevo vissuto con lui. Da vivo, era stato separato da me fin da quando avevo otto anni, e da morto era di Suzanne. Quella mattina Stella aveva ricevuto una visita, ma non si trattava né di Richard né di Marianne, a dar retta a Pauline, e quindi potei vederla solamente nel pomeriggio. È sempre così con Stella, quando si pensa che si interessi soltanto dei propri affari, che sia tutta assorta e chiusa in se stessa, come capita a molti altri dei nostri anziani, lei invece ti lascia sbalordita per la premura che rivela. Quando mi avvicinai a lei nella sala di soggiorno comune, dove aveva preso posto su una poltrona vicino alla portafinestra, si accorse subito che qualcosa non andava. Mi tese tutte e due le mani.
«Cosa c'è, Genevieve?» Glielo dissi. C'è un sacco di gente a cui non importa niente, vero? Fanno finta di mostrarsi comprensivi e pieni di simpatia ma in realtà non si lasciano coinvolgere, rimangono distaccati, provano imbarazzo più che dispiacere. Ecco perché rimasi tanto sorpresa per l'atteggiamento di Stella, il pallore improvviso, la preoccupazione che si sentiva nella sua voce. «Ma doveva essere un uomo molto giovane.» «Aveva cinquantacinque anni.» «Come mi dispiace» disse, e sembrava che l'avesse conosciuto. «Mi dispiace proprio moltissimo.» Rimanemmo lì sedute in silenzio per un po', guardando il giardino dove c'è ancora qualche fiore sui cespugli di Buddleia e vola qualche farfalla tartaruga e anche altre. «Ormai non vedrò più nessun macaone, Genevieve» Stella disse infine. «Ci saranno fiori al funerale del tuo papà?» Le dissi che avevo già telefonato al fiorista per ordinarne un mazzo ma non sapevo quando avrebbero fatto il funerale o chi ci pensasse. Janis aveva sette anni e Nick solamente tre quando lui e la mamma si erano separati. E poi per un mucchio di tempo nessuno di noi tre aveva avuto qualche contatto con lui salvo quelle due o tre volte l'anno che lo vedevamo o quando gli mandavamo un biglietto di auguri a Natale. E allora, non so come, mi venne da pensare ad Hannah. Se Ned l'avesse lasciata, anche per lei le cose sarebbero andate allo stesso modo. Com'era capitato a me, sarebbe stata una di quelle persone che hanno un solo genitore, e quando lui muore tocca a qualcun altro decidere se avrà, o no, dei fiori. Sembrava che Stella si fosse messa a riflettere. Poi si voltò verso di me. «Il funerale di mio padre avvenne in gennaio e faceva molto freddo. Richard aveva nove mesi e lo lasciai con la nipote di Rex... o meglio, con la moglie di suo nipote Jeremy. A proposito, era lei che stamattina è venuta a farmi visita, Priscilla. Pensavo che sarei stata costretta ad andare a Londra da sola, per il funerale, Rex non aveva voluto venire, diceva che non poteva prendersi una giornata di permesso "per un puro e semplice suocero che ho visto soltanto una volta", ma...» esitò e poi tirò fuori quel nome con estremo imbarazzo «... fu Alan a venire con me.» Intanto mi guardava di sottecchi. «Ci trovammo sotto la pensilina della stazione, a Bury, e viaggiò con me in treno.» «Quell'Alan che era stato il suo amico a scuola?» dissi. «Precisamente.»
«Lo aveva ritrovato?» Invece di rispondere, lei disse: «Non hai mai sentito parlare di lui? Alan Tyzark?» Scrollai la testa. «Perché, dovrei averne sentito parlare?» «No, dopo tutti questi anni, no. E forse neanche allora. Era un artista. Un pittore. Da bambina non hai mai avuto nessuno di quei libri intitolati Figaro e Velluto?» Non aveva neanche finito di parlare che me ne ricordai. Ecco dove avevo già visto quei quadretti, in un libro che qualcuno, credo la zia Rita, mi aveva regalato quando avevo compiuto sette anni. Una bambina e un bambino e i loro gatti. Bambini della borghesia, non come noi, bambini che vivevano in una grande palazzina bifamiliare con tutti e due i genitori, un papà che andava all'ufficio e una mamma che rimaneva a casa, due bambini che avevano un bel gatto color tartaruga dal mantello di velluto, dotato di poteri magici. Mi erano piaciuti quei poteri magici, perché almeno quelli li capivo, e per me volevano dire qualcosa di ben preciso. «Alan Tyzark illustrava quei libri» disse Stella. Era rientrato di punto in bianco nella sua storia, semplicemente come la persona che l'aveva accompagnata al funerale del padre. «Era un uomo molto buffo, molto strano» riprese lei. «Ti dava l'impressione di essere divertente senza cercare di esserlo. Oggi lo definirebbero un tipo pacifico, di quelli che non se la prendono mai per nessun motivo, e chiamerebbero nero il suo tipo di umorismo. Quel giorno in treno mi sentivo molto avvilita, depressa, e non tanto per via di mio padre, ormai ci eravamo perduti di vista, era diventato quasi come un conoscente qualsiasi, ma per... be', per altre ragioni, e Alan si mise d'impegno a intrattenermi, a divertirmi. E trasformò una giornata orribile in una specie di vacanza. «Aveva già fatto i suoi piani, sapeva già come l'avremmo passata. Una volta terminato il funerale, mi avrebbe portato fuori a pranzo, c'era qualcosa che voleva mostrarmi a Londra, una casa con una storia interessante, una statua nel parco, un monumento, e poi avremmo preso il tè al Ritz. Non avevo mai conosciuto nessuno come lui. Non avevo mai conosciuto nessuno che pensasse a queste cose. A quell'epoca dovevo aver ripreso a frequentarlo ormai da quattro anni perché... tutto ricominciò nel 1959.» Mi accorsi di non saper cosa dire. «Era bravo in disegno a scuola?» «Immagino di sì. Scelse arte come materia per il diploma, ma del resto l'avevamo scelta anche noialtri. Ricordo che disegnava sempre animali.» «E lo aveva appena ritrovato?»
«Era il marito di Gilda Brent, capisci. Aveva sposato Gilda.» Girò la testa dall'altra parte, posò gli occhi su un cespuglietto di fiori violacei, ormai un po' scuriti sulle punte e leggermente cascanti, dove un'unica Vanessa atalanta con un'ala un po' strapazzata si aggrappava a uno stelo. «Lui fece una cosa terribile.» Sembrava che parlasse tra sé. «Be', veramente l'abbiamo fatta insieme.» Sembrava che parlasse tra sé e sé. La guardai con tanto d'occhi. Cosa voleva dire? Che aveva dormito con lui? Quando si voltò di nuovo verso di me, aveva preso un'espressione benevola, piena di simpatia. «Genevieve, non dovremmo esser qui a parlare di me, dovremmo parlare di tuo padre. Raccontami qualcosa di lui.» La cosa importante che riguardava il mio papà era la sua passione per le automobili. Amava le automobili allo stesso modo in cui ci sono persone che amano gli animali, i cani o i cavalli. Se fosse stato possibile avere un allevamento di automobili, il mio papà lo avrebbe avuto. In fondo era triste che non avesse mai avuto i soldi che occorrevano per guidare quelle che gli piacevano. Il suo destino era di venderle a persone che non le avrebbero mai apprezzate allo stesso modo in cui le apprezzava lui, e lo sapeva benissimo! Perfino la Alvis che stava lucidando quando era morto presto sarebbe diventata proprietà di qualcun altro. Provai a raccontare a Stella qualcosa di tutto ciò ma lei era vecchia e malata e quello che Ned chiama la sua capacità di prestare attenzione non era più molto lunga. Non era colpa sua, ma cominciò a socchiudere gli occhi e a chinare la testa e si addormentò prima che io avessi finito. E non mi raccontò mai come era arrivata a comprare la sua casa. Il giorno dopo si sentì meglio di quanto non le succedesse da settimane. Disse che era quel bel sole splendente, quel poco di estate che spesso ci capitava di avere durante la terza settimana di ottobre, ma è più probabile che fosse stata la radioterapia. Avevo già spinto fuori, all'aperto, la poltrona a rotelle di Arthur quando Stella disse che le sarebbe piaciuto sedere per un po' sulla terrazza, fuori dalla finestra dalla quale era abituata a guardare le farfalle. Capita di rado che vada a sedersi all'aria aperta e soprattutto che lo faccia senza il suo libro o la sua musica. «Ti racconterò come ho conosciuto Alan e Gilda, vuoi?» Non si rende conto che non posso passare con lei tutto il tempo che vorrebbe. O, piuttosto, che io vorrei. Lei è come gran parte delle persone che non hanno mai lavorato per guadagnarsi da vivere, oppure non lo fanno più da molto tempo. Non capiscono che cosa voglia dire un impiego, che
non si possono prendere un po' di ore di libertà quando se ne ha voglia. «Stella, vorrei rimanere qui ma ho un mucchio di cose da fare.» In tutti gli anni nei quali si è giovani e di mezza età e vecchi-giovani si nasconde ciò che si prova. Si sorride e si finge che non abbia importanza se le persone sono in ritardo o non vogliono fermarsi o cambiano argomento o lasciano capire di essere annoiate. Ma i bambini non sono così. I bambini protestano per queste cose e mettono il broncio e vanno in collera. Forse si capisce quando una persona è veramente vecchia per il modo in cui le proteste dell'infanzia, e la stizza dell'infanzia, tornano a riaffiorare in loro. Stella rispose, ma aveva proprio la voce brusca: «Oh, va bene, Genevieve. Immagino di non essere più una compagnia molto simpatica.» «Non si tratta di quello, e lo sa benissimo. Io devo lavorare. Verrò a sedermi un po' qui con lei alle quattro, d'accordo?» E lei mi diede la risposta che mi aspettavo. «Se sarò sola. Può darsi di no, può darsi che venga qualcuno a trovarmi.» Ma naturalmente era sola, come le capitava quasi sempre. Aveva acceso la radio sul Terzo Programma, e aveva messo in funzione anche il registratore. Una voce di donna stava cantando, limpida e molto alta, immagino che fosse un'opera. Mi aspettavo che si portasse un dito alle labbra e invece fece qualcosa che non aveva mai fatto prima. Quando mi accostai alla sua poltrona e le tesi una mano lei la prese e, attirandomi verso di sé con forza sorprendente, mi diede un bacio su una guancia. Io rimasi in silenzio, non era il caso che me lo dicesse, e d'impulso le buttai le braccia al collo e la strinsi forte a me. La musica si interruppe e quasi nello stesso momento anche il nastro si fermò con un click. Mi raddrizzai sulla persona e la guardai. Aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Cosa c'è?» dissi. «Niente. È soltanto la musica. E mi spiace di essere stata così antipatica con te stamattina, Jenny.» Le dissi che faceva meglio a dimenticarsene. «Aveva intenzione di parlarmi di Alan Tyzark.» «Ti sei ricordata il suo nome!» Sedetti sul letto e le presi una mano. I suoi occhi parevano fissi su un punto molto lontano. Quando pronunciai quelle parole ebbi l'impressione che fosse arrossita e che le rimanessero ancora le guance un po' rosse. Fece parecchi sforzi prima di mettersi a parlare; sembrava che non sapesse da dove cominciare. Un po' come se
provasse una certa difficoltà a parlare di quell'uomo in un modo normale, come io avrei parlato di Ned. Alla fine, però, cominciò a raccontare con disinvoltura, anche se prima dovette schiarirsi la gola parecchie volte. «Passò un mucchio di tempo prima che capissi che era andato a chiedere un consiglio a Rex. Rex me lo disse, naturalmente; però lui parlava sempre di Gilda Brent e di suo marito. Credo di aver pensato che lui dovesse essere un certo signor Brent. E perfino quando Rex, facendo riferimento a lui, lo chiamò Alan, non pensai a collegare le due cose, mi limitai a considerarlo semplicemente come Alan Brent. Vedi, non sapevo che il mio Alan fosse diventato pittore.» Gilda Brent e Alan Tyzark erano andati a consultarsi con Rex Newland sul modo migliore di recuperare una certa somma di denaro che una compagnia cinematografica doveva a Gilda. La società non esisteva più sotto l'antica denominazione, era fallita, e Gilda Brent non era mai stata pagata per gli ultimi due film che aveva girato, La storia di una moglie e La fine di Edith Thompson. O perlomeno era quello che lei sosteneva. Ci volle un bel po' di tempo ma, alla fine, Rex riuscì a ricuperare una somma piuttosto sostanziosa, circa duemila sterline, che può non sembrare molto ma non bisogna dimenticare che si era nel 1959. E intanto, a quel punto, Rex si era visto parecchie volte con i Tyzark. Abitavano a Tivetshall St Michael, un villaggio nei pressi di Pulham Market, in una fattoria chiamata St Michael's Farm. Ma mi pare che, a quell'epoca, nessuno dei due fosse impegnato in un lavoro serio. Si mantenevano servendosi di quello che avevano ricavato dai lavori fatti in precedenza e di varie somme di denaro arrivate a tutti e due in seguito a qualche eredità. Il padre di Alan era morto e gli aveva lasciato poche centinaia di sterline. Gilda perdette tre zie in rapida successione e tutte le lasciarono un po' di soldi e alcuni oggetti di pregio, anche se Stella non svelò mai di che si trattava. Ma nessuno avrebbe mai sospettato che fossero molto poveri. Erano ben vestiti, una coppia attraente, che non mancava di classe. Rex chiese a Stella di invitarli a cena. Andava sempre a finire così, con lui. Qualsiasi persona nuova gli capitasse di conoscere, sia che gli sembrasse bella o simpatica o divertente oppure che giudicava del tipo giusto, come classe sociale, doveva essere invitata a cena. Mi chiedo come mi comporterei se Mike, tornando a casa, mi dicesse che avrebbe piacere se mi mettessi a cucinare un pasto per quattro individui che ha conosciuto in cantiere, e in aggiunta anche per le loro mogli. Sono riflessioni inutili, in ogni caso, perché non lo farebbe mai. Invece sembra che Rex lo desse per
scontato. Le presentò un elenco delle persone da invitare, Charmian Fry inclusa. Non so perché lei non gliel'abbia buttato in faccia, e non capisco assolutamente come possa avere accettato. Ma naturalmente, su quell'elenco, c'era il nome di Alan, bello chiaro, insieme al cognome, e fu così che lei venne a sapere di chi si trattava veramente. «A Rex non dissi una parola. Non lasciai sospettare a nessuno che Alan e io ci fossimo già conosciuti prima. In fondo, erano passati vent'anni. Ma, a dire la verità, non saprei spiegarmi bene perché l'ho fatto. E non dissi niente neanche quando lui arrivò. Gli strinsi la mano, e mi comportai come se non ci fossimo mai visti in vita nostra. Lui capì al volo perché soltanto quando ci ritrovammo a tavola, seduti l'uno di fianco all'altra... be', ecco, mi disse che mi aveva riconosciuto.» Charmian era presente anche lei a quella cena con una toilette da sera di pizzo grigio, lunga fino ai piedi con qualche buchino qua e là che non si capiva se era opera delle tarme oppure faceva parte del motivo del tessuto. Spiegò che quel vestito era stato della sua nonna, lo aveva trovato in un vecchio baule. Con una risatona sonora, con quel suo tono di voce alto e squillante, da aristocratica di provincia, soggiunse che era stato una autentica, preziosa, scoperta e che avrebbe dovuto durarle per il resto dei suoi giorni. Gilda Brent la fissò con aria sbalordita ma, quando Charmian le andò più vicino, si scostò rapidamente perché emanava un terribile odore di canfora. Quanto a Gilda in sé e per sé, era molto bella. «Aveva quel tipo di bellezza» disse Stella «che si riesce a ottenere soltanto quando qualcuno ti ha insegnato come vestirti e truccarti. Lo trovi soltanto nelle attrici e nelle mannequin... voglio dire, indossatrici. Il trucco di Gilda era straordinariamente professionale e inoltre aveva... non ridere, i capelli più puliti che mi fosse mai capitato di vedere. Non credo che le donne si lavassero i capelli con la stessa frequenza con cui lo fanno adesso, una volta alla settimana era più che abbastanza. I capelli di Gilda erano di un bel biondo dorato, lunghi fino alle spalle e avevano... quel genere di pulizia che li rende... si dice "splendenti", giusto, Genevieve?» «C'era la pubblicità di uno shampoo che diceva così» le ricordai. «Indossava un vestito verde di quello stile che si chiamava "a sacchetto", era l'ultima moda, e scendeva dritto dalle spalle fino alle ginocchia. Era alta e magra e aveva proprio le stesse gambe di Marlene Dietrich. Quanto al suo modo di fare... be', cosa posso dirti? Sembrava così sicura di sé! Ha cominciato a chiamarmi tesoro dopo avermi detto appena quattro parole. A
me, prima, non era mai capitato di fare la conoscenza di un'attrice. Naturalmente poi cominciai ad abituarmi a lei e finii per accettarla, ma quella prima volta credo che l'avrei guardata con tanto d'occhi allo stesso modo in cui lei guardava Charmian se... se non fosse stato per Alan. Suppongo che Alan facesse impallidire, e scomparire, chiunque altro.» A tavola l'avevano messo fra Stella e la sua nipote acquisita, quella che era stata a trovarla appena il giorno prima, Priscilla Newland, a quell'epoca una ragazza di ventisei anni. Lui aveva sempre la stessa faccia da studentello, come una volta, disse Stella, da ragazzo un po' sfrontato. I capelli erano castani e non così corti come li portavano la maggior parte degli uomini a quell'epoca, e i suoi occhi di un limpido nocciola. Lui le sorrise dicendo: «Facciamo i congiurati e non diciamo niente, vero?» «Ti spiace?» rispose lei. «No, al contrario. Continuiamo ad andare avanti così. Tu non adori i segreti?» Lei veramente non ci aveva mai pensato; non sapeva se li adorava o no. Poi Alan scrutò Charmian paludata in quel brutto vestito vecchio, con i suoi lunghi capelli grigi e disse: «Ho l'impressione che le streghe tengano i loro consessi da queste parti, vero?». Stella mi confessò che, prima di quel momento, non aveva mai provato nessuna voglia di ridere pensando a Charmian, anzi aveva sempre considerato come una tragedia la sua presenza nella loro vita ma, tutto d'un tratto, e proprio per via di quello che Alan aveva detto, si accorse che adesso riusciva a trovarla ridicola, una specie di macchietta, una racchiona, un tipo un po' comico che doveva avere su Rex uno strano ascendente, ottenuto forse per mezzo di qualche osceno rituale segreto. E così disse quello che, prima, non aveva mai detto a nessuno, anzi, quasi quasi non aveva nemmeno ammesso, a parole, con se stessa: «È l'amante di mio marito.» Una volta che queste parole le furono uscite dalle labbra, si spaventò, benché le avesse pronunciate con un filo di voce, e si portò una mano alla bocca. Fece quello che fa una scolaretta, si comportò proprio nel modo in cui Rex odiava di vederla comportarsi. Alan fece una smorfia, inarcò le sopracciglia e assunse una buffa aria di superiorità, quella di chi guarda il suo prossimo dall'alto in basso. Poi disse: «Non ci occuperemo di loro. Fingiamo che non esistano, sono partiti, diretti verso l'inferno, lei a cavalcioni del suo manico di scopa, e il tuo vecchio seduto dietro». E Stella si
scoprì a dire che non gliene sarebbe importato niente se avesse avuto qualcuno come lui con il quale parlarne. Poi si sentì sopraffatta dalla sua stessa audacia, arrossì, e si mise a ridere. Quella, per lei, fu una serata magnifica. Naturalmente non poté parlare con lui in continuazione ma il solo fatto che fosse lì presente le dava uno strano senso di benessere. Un po' come ricevere uno splendido regalo inaspettato, anzi meglio. E soggiunse che, per la prima volta nella sua vita, aveva provato l'impressione di trovarsi con la persona con la quale, più di qualsiasi altra al mondo, desiderava stare. A scuola tutto era andato in un modo completamente diverso, era stata una semplice amicizia, la loro, e adesso quell'esperienza le pareva vacua, superficiale. Gli anni avevano arricchito il loro legame, lo avevano reso più solido e intenso, per quanto li avessero trascorsi l'uno lontano dall'altra. Durante la serata le capitò parecchie volte di incrociare lo sguardo di Alan, e lui le sorrise, anzi una volta le strizzò l'occhio, e prima di andarsene, insieme a Gilda, venne a cercarla perché lei era rimasta un po' in disparte e le bisbigliò che era felice. Soltanto quello, che era felice. «Ma vedi, Jenny,» continuò Stella «se guardiamo qual è l'ordinamento della nostra società, lui non poteva essere il mio amico. Era quello che pensavo di desiderare ma una donna coniugata non può essere amica di un uomo sposato.» Come se io non lo sapessi. «Fu Gilda che diventò la mia amica. Spesso mi domando quante donne fanno amicizia con una donna perché, sotto sotto, è il marito di lei dal quale si sentono attratte. E poi quello era l'unico mezzo per poterlo vedere. Perfino a quei tempi si poteva vedere lui soltanto quando si vedeva lei oppure quando si era insieme, tutti e quattro. Sempre meglio di niente, in fondo.» «Gilda non le era simpatica?» Stella rimase lì un momento a riflettere. Dopo tutti quegli anni doveva ancora pensarci. «Non so. Suppongo di sì, in principio. La verità era che Gilda mi trovava simpatica. Il giorno dopo mi telefonò per ringraziarmi e chiedermi se poteva fare un salto da me a prendere ih prestito un certo libro al quale io avevo accennato, dicendo di averlo letto, e offrendomi di prestarglielo. Quello fu l'inizio della nostra amicizia.» «Vedeva spesso lui?» dissi. «Alan? Se andavo a St Michael's Farm a trovare Gilda, vedevo anche lui. E poi venivano sempre a cena e noi andavamo sempre da loro. Non
stavo mai sola con Alan. Tanto per cominciare, al pomeriggio, se anche andavo da loro, portavo sempre Marianne con me. Devo essere stata molto sciocca, Genevieve, perché non mi rendevo assolutamente conto di quello che mi stava succedendo. Vedi, non avevo mai provato amore per nessuno, prima. Salvo per la mia bambina, ma quello è diverso, così non credo di avere mai amato nessuno prima di allora. Nel migliore dei casi mi ero accontentata di trovare qualcuno con cui mi piaceva stare in compagnia.» «Quando finalmente diventammo amanti, per me fu come scoprire un mondo nuovo. Avrai sentito parlare della sensazione di essere rinati, per i cristiani, vero? Ecco anch'io ero come rinata, diventata una persona differente. Capivo cosa volesse dire essere felice, che si trattava di qualcosa di positivo, non semplicemente dell'assenza dell'infelicità. Ma tutto questo era ancora molto lontano nel futuro, nel 1960. Tutte cose che dovevano ancora avvenire. Fu molto prima di quando cominciai a... organizzare le cose per noi.» Adesso era stanca ma c'era una domanda che dovevo assolutamente farle. «Non ha mai pensato che avreste potuto sposarvi?» L'occhiata che mi rivolse mi fece chiaramente capire di averle domandato qualcosa che nessuna persona con un briciolo di buon senso avrebbe mai dubitato. «Naturale che l'ho fatto. Ci abbiamo pensato. Soprattutto dopo la morte di Rex. Ti dicevo di aver sempre provato interesse per la giurisprudenza. Verso la fine degli anni Sessanta cominciavano a parlare di nuove leggi sul divorzio. Sembrava che il divorzio sarebbe diventato possibile sia per mutuo consenso o perfino nel caso in cui uno solo dei due coniugi lo avesse desiderato.» I suoi occhi si erano chiusi. Continuò a parlare con la voce di chi comincia ad aver sonno. «La nostra intenzione era quella di stare insieme. Quando ero ragazza, la gente rimaneva inorridita se una coppia viveva insieme senza essere sposata, e se una donna lo faceva, doveva fingere di essere sposata e portare l'anello, ma tutte queste cose sono cambiate. È addirittura incredibile, Genevieve, come sono cambiate in fretta. Io avrei vissuto con lui senza preoccuparmi minimamente.» Non ero in grado di seguire la logica di questo discorso, se mai una logica avesse. «Se Gilda fosse morta, avreste potuto sposarvi, vero?» «Naturale che avremmo potuto» rispose lei e poi tacque, chiudendo gli occhi.
11 L'accostamento del bianco e del rosso in una composizione floreale era uno dei peggiori segni di malaugurio che ci fossero, Janis disse, e volle che la corona di garofani e petunie mandata dalla moglie del nostro cugino di Thetford non fosse posata sulla cassa di papà. Altrimenti ci sarebbe stata un'altra morte. E non rimase convinta, ma proprio per niente, che io avessi cercato di salvare il salvabile cogliendo dalla siepe un ciuffo di sclarea violacea per infilarla fra i garofani. La mamma non venne alla cremazione; meglio, così non vide niente. Non c'era neanche Kate, la seconda moglie di papà. Anzi, a dir la verità, la partecipazione dei dolenti al funerale fu molto modesta, nessun parente all'infuori di Janis e me, neanche un amico, e Suzanne, in lutto stretto, ferma in piedi sotto la pioggia a piangere. L'ex socio di papà di quando avevano insieme il garage, mandò un omaggio floreale, una corona di crisantemi gialli ed edera, che aveva la forma di una Morris dal muso tozzo; lui però non si fece vedere. Fu proprio per via dei fiori che mi rifiutai di tentare la Provvidenza e vederci, con Ned, la vigilia di Ognissanti, il giorno che aveva proposto lui. La sera successiva, quello della festa vera e propria, per lui non era possibile, così non restava altro che il 2 novembre, la commemorazione dei defunti. Almeno al mio modo di vedere, era una sera un po' strana. La Katie di Philippa è nata proprio il 2 novembre, ed è sempre stata una creatura diversa dagli altri, non'ha mai bisogno di dormire molto, non ha paura del buio, è un uccello notturno, insomma. Ci sono quelli che dicono che è la notte in cui i morti tornano indietro e si fanno vedere in giro, e la nonna giura e spergiura di aver visto la vecchia signora Thorn nel cimitero, la notte del 2 novembre, a grattar via il muschio dalle lettere incise sulla sua lastra tombale, così confesso che non mi sentivo troppo contenta all'idea di entrare sola soletta nella casa buia di Stella. Avevamo tirato indietro le lancette degli orologi e dunque, se al mattino c'era luce alle sei, alle sei di sera era già buio. Portai con me una torcia elettrica e fu quella che mi servì per entrare nel vestibolo dove avevo messo le prime candele. Ma anche il lume di candela non si può dire che sia un genere di luce molto rassicurante, perché oscilla e ondeggia e lascia grandi spazi di buio, e ti fa pensare se la gente, ai tempi andati, non aveva proprio mai paura, di notte. Non avevano altro che candele. È un pensiero orribile, il lucignolo che arde fino in fondo e consuma la cera, e non averne un'altra
e nessun interruttore per accendere la luce, niente che possa cambiare in qualche modo il buio più fitto e completo. Accesi una candela dopo l'altra e salii al piano di sopra, reggendone una per mano. La luce, che è azzurrina e dorata, guizzante e anche un po' fredda, mi precedeva, ma solo di poco. Pareti di oscurità si trasformarono in stanze con piccoli quadratini grigi dove c'erano le finestre. Il tempo era mite per essere in novembre, però faceva freddo ugualmente. Una volta tanto il mio desiderio struggente di rivedere Ned e la gioiosa eccitazione che provavo di solito aspettandolo sembrarono singolarmente appannati dalla tetraggine di quel luogo senza luce e senza riscaldamento. Mi accorgevo di quanto fosse isolata la casa, lì al centro della palude, e capivo come fosse facile farsi prendere da una di certe paure primordiali, e irragionevoli, quando non c'è l'elettricità. A quel punto, ormai, Stella mi aveva anche raccontato qualcosa di più ma non era ancora arrivata a spiegarmi come si fosse decisa a comprare La Molucca, per quanto avessi intuito che il suo scopo doveva essere stato di avere un posto dove trovarsi con Alan Tyzark. Quella notte, al buio, stavo pensando a quel che lei aveva detto, cioè che lui aveva fatto qualcosa di terribile. Il guaio era che non aveva aggiunto niente di più e io non riuscivo a capire se volevo che mi raccontasse qualcos'altro o no; però mi venne logico pensare che, forse, qualsiasi cosa avesse fatto, magari l'aveva fatta proprio qui, in questa casa. Cominciai accendendo il riscaldamento nella camera da letto e sistemando le candele sui tavoli e sul cassettone. Per passare il tempo spalancai porte e cassetti, ma gli armadietti erano tutti vuoti e mi domandai se fossero sempre stati così in quanto era una casa che si teneva per uno scopo totalmente diverso da quello di viverci. Una casa che non era una vera e propria abitazione ma un rifugio fuori dal mondo, un luogo nel quale stare di nascosto lontano dagli occhi della gente, un riparo dalla tempesta. Mormorai tra me, quasi assaporandola, una definizione che avevo trovato nel dizionario e la usai per La Molucca: una casa di appuntamenti. Una casa dove una volta si era data appuntamento una coppia di amanti e, adesso, un'altra. L'armadio di Stella era un mobile enorme, credo di mogano, su tozze gambe ricurve con piedi a zampa di leone. Le piccole chiavi dorate girarono con una certa fatica nelle serrature ma riuscii, comunque, ad aprirne le ante e dentro, invece del vuoto, di quella specie di antro buio e puzzolente di muffa che mi aspettavo, ci trovai appeso qualche abito estivo. Erano co-
sì simili a Stella, così essenzialmente Stella, che non avrebbero potuto appartenere a nessun'altra donna: un abitino di cotone azzurro e uno rosa, quelli che si chiamavano grembiulini e sembravano usciti dritti dritti fuori da un film degli inizi degli anni Sessanta, e un impermeabile azzurroargento di seta cangiante che sarebbe stato del tutto inutile sotto la pioggia scrosciante ma incantevole e delizioso all'interno di un'automobile durante una giornata piovosa. Spinto proprio in fondo alla sbarra, su una gruccia che tintinnò come una campanella quando la mossi, ce n'era appeso un altro. Andai a prendere la torcia elettrica e diressi il suo cono di luce in quel vano pieno di ombre, puntandolo sulla vita stretta, l'ampia gonna, la scollatura profonda. Color avorio, con un motivo azzurro e rosa, era uno di quegli abiti che non poteva assolutamente appartenere a nessun altro all'infuori di Stella, salvo per una cosa. Era sporco. Mi servì per rendermi conto che non l'avevo mai vista con niente addosso che non fosse addirittura immacolato, perfetto, non toccato dalla sciatteria e da quel vago effluvio di cattivo odore che è caratteristico della vecchiaia. Ero sicura che lei fosse sempre stata così, snob, esigente, quel tipo di donna i cui abiti erano sempre in tintoria o in bucato. Invece questo era coperto di sbavature nere. C'era una macchia d'erba, dietro, sulla gonna, e qualcosa che avrebbe potuto essere sangue, davanti. Lo esaminai con curiosità alla luce della torcia e scorsi la chiazza brunastra di un segno di bruciato sul bordo, come se la stoffa fosse strinata, e poi mi tirai indietro di qualche passo e lo osservai nel suo insieme. Per quanto sporco fosse, pieno di macchie e rovinato probabilmente da una stiratura poco accurata, rimaneva comunque, sempre, un abito da indossare a un matrimonio, da damigella della sposa o, forse, perfino da sposa. Ma di una sposa che aveva scavato una fossa o acceso un falò. I coni di luce dei fari della macchina di Ned inondarono la camera da letto e si spensero. Chiusi le ante del guardaroba e spensi la torcia. Andai a osservarlo scendere dalla macchina e fermarsi un momento con gli occhi alzati verso la finestra. Non poteva vedere niente all'infuori del tenue riflesso della candela, non poteva vedermi, e fu così che ebbi il piacere di osservarlo senza essere vista, di guardare il suo viso senza difese, pieno di desiderio e di speranza. Feci le scale di corsa per scendere al pianterreno, verso le candele accese nel vestibolo e aprii la porta mentre lui stava già allungando la mano verso il batacchio. Dove la stufetta non arrivava a irradiare il suo calore, l'aria nella camera da letto era umida, e le nostre mani fredde, malgrado la notte fosse mite.
Le lenzuola erano state arieggiate eppure davano la stessa impressione che ti danno sempre quelle fredde, che sembrano bagnate e come inamidate. Pelle d'oca contro pelle d'oca, e le punte delle dita gelide che spegnevano ogni ardore contro la pelle ansiosa. Col passare del tempo ci riscaldammo e le nostre bocche non furono mai fredde, ma dopo pensai, e credo che lo abbia pensato anche lui, se è così adesso come sarà nel cuore dell'inverno? Erano le dieci e mezzo quando tornai a casa; Mike stava ancora lavorando a sostituire la finestra della nostra sala da pranzo con una portafinestra, prima di dedicarsi alla costruzione della veranda vera e propria. Questa era la sua prima settimana a casa dopo i lunghi mesi di lavoro nel cantiere di Regent's Park. Gli avevo raccontato, anche se avevo molti brutti presentimenti, che mi avevano chiesto di fare qualche ora di straordinario a Middleton Hall e lui aveva accettato la mia spiegazione; sembrava quasi che non avesse neanche sentito quello che gli dicevo. Si fidava di me. D'altra parte, se la fiducia è qualcosa di positivo, un atto di volontà, sembrava quasi che Mike non sapesse che la si deve anche meritare, anzi, non doveva neanche averci pensato. Mi accolse con un: «Non mi hanno ancora detto niente del permesso di costruzione.» Mentre lui era via, non avevo quasi misurato fino a che punto mi sentissi con la testa confusa ogni volta che tornavo a casa dopo essere stata con Ned. Ma, allora, non aveva avuto importanza che fossi come frastornata, con il cervello annebbiato, assorta a ricordare. Ero capace di sedermi e chiudere gli occhi e abbandonarmi completamente al ricordo dei nostri piaceri sessuali e della felicità dell'amore. Con Mike presente ero costretta a parlare. Dovevo rispondere. Per fortuna a lui non interessava un bel niente quello che poteva essere successo a Middleton Hall, non se ne curava, e io mi sentii sollevata di non essere costretta a mentire. Però mi domandai, mentre lui continuava a fare le sue osservazioni sul tempo che ci sarebbe voluto perché la commissione edilizia prendesse una decisione, fino a quando avrei sopportato di continuare con quelle bugie. Sarebbe arrivato il giorno in cui la vergogna che provavo nei confronti di me stessa si sarebbe fatta sentire con tanta violenza da rendermi impossibile di inventare scuse e produrre alibi? Naturale che quel giorno sarebbe arrivato, e non era nemmeno troppo lontano, ma io non lo sapevo. Però, già fin da allora mi rendevo perfettamente conto di aver cominciato a fare riflessioni molto differenti su Mike, il nostro matrimonio e la no-
stra casa. Guardavo quest'uomo con la corporatura robusta, piuttosto alto, indubbiamente ancora bello, e pensavo di conoscerlo a fondo, pensavo che per me non avesse assolutamente più misteri, e invece non lo conoscevo affatto. Non avevo la minima idea di quello che ci fosse dentro la sua testa, sotto quei folti e scuri capelli ricci. Impossibile che non ci fosse nient'altro all'infuori delle migliorie per la casa e della licenza edilizia, vero? Una volta, anni fa, mentre rientrava dal lavoro, avevo osservato che aveva l'aria stanca. Allora si era voltato a guardarmi dicendo: «Costruire case è un lavoro duro, e consuma un uomo. Ti fa diventar vecchio prima del tempo.» E io, come mi ero lasciata travolgere da un impeto di amore e di compassione! Mi ero impadronita di quelle sue mani callose mentre un fiotto di pensieri uno più strano dell'altro mi passava per il cervello, che lo faceva perché era tutto quello che sapeva fare, che non gli era mai stata neanche offerta la possibilità di prendere un diploma e che tutto si riduceva soltanto a guadagnare, guadagnare, guadagnare. Andar fuori di casa per guadagnare a sedici anni, cominciando alle otto del mattino e continuando a lavorare anche fuori orario fino a quando faceva buio, se uno ce la faceva. Gli avevo buttato le braccia al collo con una gran paura che la dura fatica consumasse la sua giovinezza. Ma quella era stata l'unica cosa che ricordassi di avergli mai sentito dire, parlando con me, a proposito dei suoi sentimenti. Non c'era mai stata una parola sull'amore o sul bisogno o sulla tristezza o sul fatto di aver paura. A volte quando gli avevo parlato di avere dei bambini quasi non mi aveva guardato e aveva detto senza alzare gli occhi: «Sta a te decidere» e un'altra volta: «Ci siamo fatti una bella casa insieme e sai che cosa vorrebbe dire portarci dentro dei bambini». E adesso, alla sera e durante il fine-settimana che avrebbe potuto essere dedicato a occupazioni piacevoli, lui continuava a fare quel lavoro che, come aveva detto, lo avrebbe consumato, che lo avrebbe fatto diventare un vecchio. Mike andava al di là della mia comprensione. In parte fu Mike, e la necessità di dovergli mentire, e in parte il fatto di rendermi conto che, qualsiasi matrimonio fosse stato in passato ormai non lo era più, a farmi avere dei ripensamenti sul rifiuto che opponevo sempre a Ned. Voglio dire la mia abitudine di rispondere sempre no quando lui parlava di metterci a vivere insieme. In fondo, Nick era più piccolo di Hannah quando il mio papà se n'era andato. Nick non era venuto al suo funerale, aveva detto che quasi non lo conosceva, ma c'è da pensare che una
cosa del genere possa aver avuto un influsso negativo su di lui e gli abbia fatto del male? La verità è che nessuno può dire con sicurezza se vivere con un solo genitore danneggia o no un bambino. Un mucchio di persone antipatiche, fra le mie conoscenze, è cresciuto con genitori felicemente sposati, che vivevano insieme. Poi c'era la casa di Stella. Non soltanto era fredda e buia ma si poneva anche la questione che, presto o tardi, sarebbe arrivato il giorno in cui non l'avrei più avuta a mia completa disposizione. Io stessa mi rendevo conto che, se avevo il coraggio di trasgredire, almeno limitatamente, certe regole, adoperandola senza chiedere il permesso, mi sarebbe totalmente mancato quel coraggio quando, alla morte di Stella, fosse diventata di Richard o di Marianne. Non ci sarebbe più stato un posto dove andare, con Ned, e le mie paure di perderlo sarebbero tornate a galla. Si può misurare fino a che punto fosse arrivato in me il processo di degenerazione col fatto che, appena sei mesi dopo aver giurato che non lo avrei mai portato via a sua figlia, già cominciavo a pensare ai modi di aggirare questo ostacolo. Dopo aver detto che non avrei mai detto bugie, avevo cominciato a mentire. Mi servivo abusivamente della proprietà privata di un'altra persona. Cominciavo a mettere in pratica ciò che Ned mi aveva detto una volta e ragionavo che il mondo intero poteva andare al diavolo di fronte all'amore. O forse si trattava solo del senso della decenza. Ecco quello che avevo perduto. Era stato così anche per Stella? La guardai mentre dormiva e tentai di ritrovare in lei, quando non poteva accorgersi che la stavo osservando, la donna giovane e bella che si era innamorata di Alan Tyzark. I miei occhi cercavano di ricoprire di carne le sue ossa fragili, di stendere una pelle vellutata, simile alla buccia di una pesca, su quel volto avvizzito, di trasformare i lanosi capelli bianchi in una chioma castana soffice e lucente, ma potevo soltanto vedere una donna vecchia sempre più deperita, le palpebre chiuse simili a gusci di noce, le vene azzurrine che parevano quasi affiorare sulla pelle delicata come carta velina. E quando le presi la mano, accorgendomi che stava per svegliarsi, notai qualcosa che mi lasciò sconvolta. Non si metteva più lo smalto sulle unghie. Adesso erano giallastre, scabre, come natura le aveva fatte, per la prima volta da quando la conoscevo. Stella mi raccontò che a Gilda Brent piaceva la sua compagnia e la voleva come amica perché la considerava una sua inferiore. E per colmo di ironia, almeno a giudicare da come andarono poi le cose, non l'aveva mai,
neanche, considerata una minaccia. Eppure tutto quanto poteva assumere l'aspetto di una minaccia era proprio quello di cui lei aveva più paura, quello che l'aveva fatta diventare la persona nevrotica che adesso era. Il suo fallimento come attrice cinematografica -pareva che giudicasse la sua carriera non tanto come qualcosa che per qualche motivo non si era realizzato con successo, ma che piuttosto era stato rovinato da motivi esterni era dovuto, almeno per come la vedeva lei, alla gelosia, all'invidia e alla perfidia di altre donne. Le donne "ce l'avevano sempre avuta con lei". Gilda si considerava, o almeno diceva di considerarsi, di una bellezza eccezionale, superiore a quella di qualsiasi altra donna, più singolare, più affascinante, provvista di maggior classe e stile; e onde non passare, per colpa di questa sua opinione, per una persona vanitosa in modo addirittura insopportabile, ne parlava come di un peso che doveva tirarsi dietro per tutta la vita. In altre parole, la bellezza era uno svantaggio, un elemento negativo. Giudicava Stella carina, "un cosino", insomma. Anzi "piccola" diventò il nomignolo con il quale prese l'abitudine di chiamarla benché Stella non fosse particolarmente piccola di statura e, all'epoca della sua conoscenza con Gilda, avesse trentasei anni. Gilda aveva deciso che Stella era una ragazza di campagna senza molta istruzione né esperienza. Agli occhi di Gilda, non aveva mai lavorato per guadagnarsi da vivere e non aveva mai visto nessun altro posto all'infuori di Bury, non aveva mai letto un libro e non era mai stata a teatro. In realtà, il succo della faccenda, come disse Stella, era che Gilda si costruiva l'immagine di una persona come lei voleva che fosse, né più né meno come si era costruita, anche per se stessa, la propria. Da qualche parte, sotto sotto, la vera Gilda doveva essere esistita, ma cosa fosse, e dove fosse, Stella non era mai riuscita a scoprirlo. Non spiegò che cosa intendesse dire accennando "alla fine". Solo un paio di volte, prima della fine, le capitò di poter dare un rapido sguardo alla realtà. La Gilda che vedeva, o che le era stata presentata, sembrava che recitasse sempre una parte, assumesse un atteggiamento, parlasse con una voce falsa, esprimesse i sentimenti che le sembravano appropriati, non quelli che provava veramente. Era stata creata una facciata, disse, un po' come una maschera o una patina. E non avrebbe nemmeno saputo dire se Gilda fosse sempre stata così o se lo avesse imparato, in quanto attrice. Era come se, in realtà, non fosse mai scesa dal set. La sua vita era, in permanenza, la sceneggiatura di un film.
Passava ore e ore a parlare a Stella delle sue esperienze come attrice e dei film in cui aveva recitato, delle celebrità che aveva conosciuto, dei posti magnifici dove era andata a girare gli esterni, dei ristoranti e dei club famosi dov'era stata condotta da uomini celebri o bellissimi. Accennò anche, di sfuggita, ad amanti che avevano un nome famoso. Man mano che la loro amicizia si sviluppava, non si accontentò più soltanto di qualche accenno fugace ma cominciò a raccontare a Stella storie scurrili e volgari di avventure in stanze d'albergo, degli armadi nei quali aveva dovuto nascondersi per salvarsi da mogli gelose, dei favolosi regali in gioielli e pellicce che le erano stati fatti. Di Alan parlava in un modo in cui Stella, perfino allora, non si sarebbe mai sognata di parlare del proprio marito. «Capisci, piccola, tutti quelli che erano qualcuno, dissero che dovevo averlo sposato perché mi faceva ridere. Ma questa è stata soltanto una metà del vero motivo. Non so se avrò il coraggio di raccontarti quale sia stato questo motivo, sei una donnina tanto ingenua e innocente! Mi fai sempre pensare a una delle ragazze che frequentavano quei convitti femminili all'antica!» Stella era sempre disposta ad ascoltare qualsiasi discorso in cui si facesse riferimento ad Alan. Doveva essersi comportata più o meno allo stesso modo in cui mi comporto io quando mi capita di trovarmi nel negozio del nostro villaggio oppure al Legion e sento menzionare il nome di Ned. Ma lei non rispondeva. Era incredibile, mi disse, eppure parlava pochissimo quando era in compagnia di Gilda, a volte non più di una dozzina di parole in due o tre ore, e sembrava che Gilda non se ne accorgesse neanche! Era egocentrica in un modo mostruoso. «Promettimi che non ti scandalizzerai, vero, tesoro? Sono stati talmente tanti gli uomini adorabili, innamorati di me, e molto più vecchi di me... ecco, è inevitabile, non ti pare? Gli uomini giovani non avevano avuto il tempo di portare a termine grandi imprese o di far soldi. E io volevo un uomo giovane, volevo un uomo giovane e virile. Il caso vuole che per me il letto sia piuttosto importante e Alan... be', se ti dico che Alan è spettacoloso a letto, riuscirai mai a capire a che cosa alludo?» Lei non lo sapeva. Si trattava di una frase che aveva letto nei libri, e basta. Ma Gilda non voleva una risposta da Stella o niente di più di un "sì" e di un sorriso. Non voleva mai nient'altro. Ai suoi occhi Stella era una creatura timida e ritrosa la quale poteva considerarsi fortunata che un uomo, e perfino un uomo il quale, come sapevano tutti, dormiva con quella vecchia strega di Charmian Fry, l'avesse trovata abbastanza simpatica e piacente da
decidersi a sposarla. Ma oltre a questo, disse Stella, c'era anche un altro fatto: in quell'interminabile film che era la sua vita, aveva scelto per sé la parte della protagonista e per Stella semplicemente quello dell'amica della protagonista. E Stella, anche se spesso si domandava come fosse capace di farlo, sopportava Gilda per quell'unico vantaggio che il fatto di frequentarla le offriva. Lasciava che Gilda si facesse accompagnare da lei in un giro di acquisti a Londra, oppure dal parrucchiere a Ipswich, o al cinema, o a qualche occasionale spettacolo di beneficenza al quale continuava ancora ad essere invitata, unicamente in attesa del momento in cui poteva vedere Alan, prima o dopo tutte queste attività. A quell'epoca i Tyzark avevano un'unica automobile fra tutti e due e quindi, se Gilda voleva andare a trovare Stella e anche Alan ne aveva bisogno, era lui ad accompagnarla da Stella per poi passare a riprenderla. Ecco quello per cui Stella aveva, praticamente, cominciato a vivere, vedere Alan di tanto in tanto, in quei dieci minuti, una o due volte alla settimana. Si era persuasa che sarebbe stata capace di esistere accontentandosi soltanto di quei pochi attimi per il resto della sua vita. Si era abituata a far fronte con coraggio al crescente orrore della compagnia di Gilda, degli interminabili discorsi in cui Gilda parlava di celebrità e antagonismi, abiti e gioielli, adulteri e intrighi, se sopportare tutto questo le rendeva possibile vedere Alan. Si era adattata a sopportare il comportamento falso e artificioso di Gilda, come tutte quelle pose che sembrava nascondessero sempre più accuratamente una persona reale. Ma c'erano anche delle gratificazioni in più quando Alan le accompagnava a vedere un film, c'erano quegli inviti a cena dove si ritrovavano loro quattro a casa degli uni o degli altri, e c'era l'abitudine di riunirsi per un drink sul prato solatio di Bury oppure di combinare una partita di tennis sul campo ormai in uno stato di degrado pressoché completo a St Michael's Farm. In privato, dentro la sua testa, Stella si dedicava a lunghe conversazioni con lui, e li chiamava dialoghi immaginari; gli raccontava tutto sul proprio conto e sulla propria vita e lui replicava al suo solito modo, con un atteggiamento spensierato e ottimista anche di fronte alle cose più tristi, ma alla fine le confessava, e allora ridiventava serio, di amarla. Le cose andarono avanti a questo modo per quasi due anni. Sotto molti aspetti, naturalmente, Stella sapeva sul conto di Alan più di quanto non ne sapesse Gilda. Sapeva tutto ciò che riguardava la sua infanzia perché erano stati amici inseparabili dagli otto ai sedici anni. Lei aveva
conosciuto suo padre e sua madre e la casa di famiglia, sapeva cosa fosse quello che gli piaceva mangiare, quali i giochi che preferiva. Gilda riempì per lei i vuoti di quei vent'anni di separazione. Finite le superiori lui aveva frequentato la Slade School of Art. Poi era stato chiamato alle armi. La commissione di illustrare tutta la serie dei libri di Figaro e Velluto arrivò subito dopo la guerra quando lui aveva ventisei anni e stava tentando, senza il minimo successo, di diventare ritrattista. Con Gilda si conobbero quando ricevette l'incarico di dipingere il suo ritratto per il film che lei stava interpretando in quel periodo. Si trattava di Lora Cartwright e il quadro avrebbe dovuto essere appeso a una delle pareti del salotto nella casa-dafilm del suo marito-da-film. «La cosa assolutamente pazzesca fu che, alla fine,» disse Gilda «quel ritratto non servì neanche. Perché in quel salotto non girarono una sola scena.» Stella domandò per quale motivo. «C'è bisogno di domandarlo?» fece Gilda. «Alla diva non piaceva. Era sempre stata pazzamente gelosa di me fin dal principio e non riusciva a sopportare l'idea che fosse stato il mio ritratto ad essere dipinto, non il suo. Ma Alan e io ci eravamo conosciuti e innamorati. Fu amore a prima vista.» «E come andò a finire il ritratto?» «Cosa credi? Che avessero intenzione di buttarlo via? Niente affatto, quando lo avevano anche pagato. Per quello che ne so deve essere ancora appeso nei loro uffici di Wardour Street.» Dopo di allora, Alan aveva dipinto Gilda molte altre volte, la testa e le spalle, la figura intera con l'abito grigio che aveva messo per interpretare La fidanzata, perfino un nudo. Quel nudo era appeso nel soggiorno a St Michael's Farm. Ci sono nudi e nudi, disse Stella, e capisco che cosa intendesse dire, un po' come la differenza fra un'inquadratura per la pubblicità di una lozione per il corpo e una foto per Playboy. Nel quadro di Gilda nuda si vedevano i peli del pube. Non era completamente svestita ma portava scarpe col tacco alto e, al collo, un filo di perle che le scendeva fino in mezzo ai seni. Gilda non faceva che richiamare l'attenzione della gente su quel quadro. Stella rimaneva imbarazzata quando c'era anche Marianne con lei, e avrebbe voluto dire a sua figlia di non guardare ma, naturalmente, non poteva farlo. Gilda andava a mettersi davanti al quadro e prendeva una certa posa chiedendo ad Alan se ricordava tutte le sedute che erano state necessarie perché lui lo dipingesse, come per lasciar capire che ce n'erano volute molte, tale era stata la tentazione del suo corpo nudo per lui.
Erano sposati da nove anni e quegli anni avevano visto un declino graduale nel loro stile di vita. In principio erano andati ad abitare nel West End, in Half Moon Street, credo, e Gilda aveva girato i suoi ultimi due film. La storia di una moglie che descriveva l'infedeltà di un marito e La fine di Edith Thompson, un thriller in cui si raccontava la storia di un'assassina realmente esistita o di una guardia che credevano fosse un'assassina, la quale era stata impiccata per aver ucciso il marito. Gilda aveva recitato la parte della moglie nel primo e quello di una guardia carceraria nel secondo film. Il personaggio che le era stato chiesto di interpretare doveva essere quello di una donna bonaria e comprensiva, anche lei, come Edith, sposata e innamorata di un uomo più giovane. Ma questa parte aveva mandato Gilda su tutte le furie, come non le era mai capitato in tutto il resto della sua carriera. Ne parlava come se averla accettata fosse stato lo sbaglio più grosso della sua vita e sosteneva che ogni possibilità che aveva avuto di approfondire nel modo migliore la sua interpretazione era stata regolarmente sabotata dall'attrice che recitava la parte di Edith. L'incaricato della scelta degli attori aveva detto - e lo riferì a Stella come un esempio dell'incredibile mancanza di competenza delle persone che avevano a che fare con lei - di averla scelta perché la sua era una di quelle facce prive di particolari caratteristiche, una faccia anonima. Poi avevano insistito perché portasse gli occhiali e le scarpe col tacco basso. Dopo di quella non le vennero offerte altre parti, o perlomeno non gliene offrirono più in un film. Gilda osservò che non c'era da meravigliarsene visto come le avevano rovinato l'interpretazione l'attrice e il regista che - e lo dava come assodato - avevano una relazione. Non le era mai stato offerto molto lavoro alla radio e quando le venne proposta una parte in un serial, la rifiutò. Di questo, Gilda non parlò mai molto. Però aveva lasciato capire di essere stata costretta a rifiutarla perché, con Alan, erano in partenza per il nord dell'Inghilterra dove a lui erano stati commissionati degli affreschi in un'antica cappella. Fu Alan a raccontare a Stella la vera storia di quello che era successo. «Si trattava di recitare la parte di una donna che si supponeva fosse stata ferita gravemente in un incidente al punto che era rimasta con una gamba più corta dell'altra. Naturalmente, questo non lo si poteva vedere. Perché stiamo parlando di recitare alla radio. Invece per Gilda fu ancora peggio. Diceva che le avrebbe rovinato la reputazione perché il pubblico l'avrebbe immaginata come una specie di creatura deforme alla quale mancava una mezza gamba. Se vuoi che ti racconti come è andata a finire la faccenda, te
lo dico subito. Quel serial era intitolato Il diario della signora Dale. Ci avrebbe messo a posto, finanziariamente parlando, per il resto dei nostri giorni.» Da come andarono le cose, invece, non si misero affatto a posto. Alan aveva comprato St Michael's Farm e, chissà per quale motivo, intestato la proprietà alla moglie. Stella non lo riuscì mai a capire e non trovò mai il coraggio di domandarglielo ma intuì che Alan doveva aver preso quella decisione perché aveva paura di fare bancarotta. Una donna, allora come adesso, non può essere considerata responsabile dei debiti del marito, mentre lui sì, per quelli della moglie. «Ecco quello che ci procurò un sacco di guai» disse Stella. «Se la casa, tutta intera, fosse stata sua, o anche solo per metà, tutto sarebbe stato più facile. Vedi, lui non aveva niente all'infuori dei diritti d'autore per le illustrazioni di Figaro. E quei libri a un certo momento non furono più di moda. Lui aveva sempre detto che non avrebbero mai potuto reggere alla concorrenza di Orlando, il gatto soriano. Immagino che ci sia un limite al numero di libri per bambini che il mercato può assorbire. Continuò a dipingere, certo che continuò, e si ridusse a fare certi... be', ad accettare certi lavori un po' umili, unicamente per denaro.» Questo, comunque, accadde più tardi. Nel 1961, Alan non pareva avesse ancora delle preoccupazioni di carattere finanziario. Un giorno, dopo essere tornata alla fattoria con Gilda, Stella si trovò ad assistere a un tremendo litigio fra loro. Non sapeva assolutamente quali fossero le loro opinioni sui figli, se averne o non averne, perché Gilda non aveva mai toccato l'argomento. Ma pochi giorni prima Marianne era stata da loro e Gilda le aveva parlato, come faceva spesso, della possibilità di diventare attrice (ripeteva sempre che Marianne aveva grandi potenzialità per quella carriera e a Stella garbava poco perché la bambina aveva soltanto otto anni); comunque, quella sera, rivolgendosi improvvisamente ad Alan davanti a lei, dichiarò che voleva una bambina come la figlia di Stella. Alan ribatté: «E per quale motivo dovrebbe essere come la figlia di Stella? Non penserai, magari, di entrare nelle grazie del vecchio Rex, vero?». Gilda gli rispose di non essere così disgustoso. «È un figlio tuo che voglio.» «Questo è un nuovo punto di partenza. Hai sempre detto di essere terrorizzata all'idea di avere un figlio.» «Non ho mai detto niente di simile!» Nell'ambiente di Stella le coppie sposate non parlavano di questi argo-
menti in pubblico e neanche di fronte a una persona amica. Così disse che doveva andarsene, era l'ora di tornare a casa. Alan si offrì di accompagnarla in auto. Una cosa simile non era mai successa. Se lei era venuta senza la propria macchina, ci pensava sempre Gilda a riaccompagnarla, e il pensiero di trovarsi sola con Alan per una mezz'ora la colmò di gioia. Si alzò in piedi di scatto. «No, siediti, Stella» disse Gilda. «Voglio che ci sia un testimone. Hai o non hai detto che non potevamo permetterci dei figli e che i figli erano nemici... di qualcosa che non ricordo bene?» «Di ogni grande impresa» disse Alan. «Sì, e ostaggi del destino e altre fanfaluche del genere. Ma soltanto perché tu dichiaravi di avere pochissima resistenza al dolore e che mettere al mondo un bambino è qualcosa che fa male da matti. Su, vieni, Stella, andiamo. Questo non è un argomento adatto alle tue orecchie.» «Ho detto di no.» La voce di Gilda si stava alzando di ottava in ottava, disse Stella. «È un delitto negare un figlio a una donna. Ci sono religioni nelle quali un uomo si può veder chiedere il divorzio per questo.» «Quali? Quella dei seguaci di Zoroastro?» «Non buttare sempre tutto sullo scherzo.» Gilda cominciò a urlare. «Perché non proviamo a supporre che io la smetta di usare il diaframma, per esempio? E allora? Cosa succederebbe? Posso avere un bambino e tu non puoi fare niente per impedirlo.» Alan si strinse nelle spalle. «Credo di poter trovare il modo.» L'accenno al diaframma fece diventare Stella rossa come un papavero. Gilda si mise a recitare la parte della donna infuriata. Era La storia di una moglie, perfino nelle battute del dialogo. «Guardala come è diventata rossa. Riesci sempre a scandalizzare i miei amici, ecco perché io non ne ho mai! Non vorrà più tornare qui da noi. E io morirò senza amici e senza figli. È talmente ingiusto. Non ti è mai balenato fino a che punto hai avuto fortuna a sposare una donna come me? Cioè, mi spiego meglio, guardati un po', sei proprio un uomo qualsiasi con una faccia da bambino. La gente si volta per la strada a guardare me. Qualsiasi uomo mi desidererebbe. Stella, non ti pare vergognoso, e offensivo, che lui non voglia darmi un figlio?» Stella non rispose. Per tutta la durata di questa scena aveva continuato a pensare che Gilda recitasse. Era semplicemente un'altra parte che stava interpretando. Gilda non voleva un figlio, era l'ultima donna al mondo che potesse fare la madre, voleva recitare una scena, e nient'altro.
«Di' qualcosa» esclamò Gilda con voce squillante, da palcoscenico. Si avvicinò a Stella e rimase lì a guardarla con aria imperiosa. «Parla, piccola. Non hai un'opinione? Hai perso la voce?» Fu questo attacco non provocato che spinse Alan a dire quello che disse. «Cerca di rassegnarti, Gilda, perché non lo fai? Ti sei lasciata sfuggire il momento opportuno. A quarantun anni si è troppo vecchi per avere il primo figlio.» Doveva sapere benissimo quale sarebbe stato l'effetto delle sue parole su Gilda. Perché non aveva mai confessato la sua vera età. Aveva sempre lasciato credere di aver girato il primo film a sedici anni. Stella era convinta che fosse più giovane di lei, che non avesse più di trentacinque anni, anche se non ci aveva mai riflettuto seriamente e non gliene importava, ma questo bastò a toccare Gilda sul vivo, a far cadere la maschera. Fece crollare tutte quelle pose e venir fuori la persona autentica. Gilda cominciò a urlare contro Alan. Afferrò un portacenere e glielo buttò addosso. Lui si tirò da parte e il portacenere andò a colpire uno specchio, mandandolo in pezzi. «Non ci deve essere nient'altro di peggio, credo, che porti sfortuna» dissi. «In che senso, rompere uno specchio, vuoi dire? Forse. Ad ogni modo fu un vero disastro. Lei gli scaraventò addosso ancora qualcos'altro, l'agenda sulla quale scrivevano i numeri di telefono e un vaso. A quel punto lui stava ridendo. Ero persuasa che Alan potesse ridere di fronte a qualsiasi cosa, anche se mi sbagliavo. Si mise a imitarla, scaraventandole addosso un cuscino, che la colpì in piena faccia. Naturalmente era morbido e non le fece male ma lei si lasciò cadere per terra e rimare lì lunga distesa, supina, a scalciare e urlare. Non avevo mai visto niente di simile. Allora non potevo ancora sapere che Gilda riusciva a sostenere quella facciata assurda, e a fingere come fingeva, soltanto perché esplodeva in una scenataccia del genere di tanto in tanto. Era come un vulcano che è una montagna tranquilla ma di quando in quando deve fare la sua brava eruzione! E quelle di Gilda erano una specie di valvola di sicurezza, di cui si serviva quando qualche pressione o frustrazione o infelicità diventava insopportabile.» «Si può sapere che cosa aveva da essere tanto infelice?» domandai. «Oh, Genevieve, ecco una cosa che non devi mai domandare a nessuno. C'è un mucchio di gente pronta a risponderti che vivere a questo mondo vuol dire essere infelici.» Preferii tacere. Credevo di saperlo, capite, e le mie conclusioni non erano quelle di Stella.
«Ormai aveva tutto alle spalle» Stella riprese. «La sua carriera era finita e non era capace di fare nient'altro. Non aveva figli. Ogni giorno che passava la faceva diventare un po' meno bella, perché così doveva essere nella natura delle cose. Immagino che i soldi avrebbero potuto essere una specie di compensazione per una persona come Gilda, ma non ne aveva. Era annoiata, priva di interessi. Non faceva mai un po' di cucina, non si occupava dei lavori di casa, la fattoria era immonda. Non è strano come una donna possa emergere squisitamente vestita, perfetta e immacolata, da una specie di tana sudicia come quella? Lei ci riusciva. Non c'è da meravigliarsi che fosse infelice e... oh, lo era, lo era.» Alan andò a tirar su Gilda dal pavimento. Le fece bere un po' di brandy. Lei non disse più una sola parola ma nascose la faccia fra i cuscini del divano. Poi Alan riaccompagnò Stella a casa. Erano trentacinque chilometri più o meno. Nessuno dei due aprì bocca. Stella pensava che aveva desiderato in un modo addirittura struggente di stare sola con lui per mezz'ora, che si sarebbe accontentata anche solo di essergli vicino e, invece, adesso non aveva niente da dirgli. «Ma avevo fatto una riflessione atroce, Genevieve. Naturalmente era impossibile eppure ho pensato, perché non mi decido a tirar fuori tutto, e glielo dico? Perché non dico semplicemente: "Ti amo. Voglio soltanto che tu lo sappia. Senza far niente. Basta soltanto che tu sappia che ti amo".» «E glielo disse?» domandai. «No. Non ci riuscii. Però mentre facevo riflessioni più o meno simili fu lui a domandarmelo.» «Che cosa le domandò?» Lei abbassò gli occhi sulle mani che teneva posate in grembo. «Fra un minuto arriva Richard, sai.» Era il suo solito modo brusco di cambiare argomento. Poi alzò le mani e le tese verso di me. «Ha smesso di usare lo smalto per le unghie, Stella» osservai. «Vuole che glielo metta io?» «No, grazie. Non mi piace più sulle mie vecchie mani. Sai che cosa mi disse Rex una volta? Che l'usanza dello smalto rosso veniva dall'harem. Le donne si pitturavano di rosso le unghie per far capire al sultano, il loro signore e padrone, sai, che avevano le mestruazioni e non erano disponibili. Non so se fosse vero, ma è bastato a farmi smettere per un bel po' di tempo!» Tornò ad Alan come se non ci fosse stata nessuna interruzione nella storia. «Alan disse: "Sei innamorata di me, Stella?". Era uno strano modo di mettere in chiaro la situazione, non trovi? Arrossii, rimasi inorridita. Fe-
ci per chiedergli che cosa gli avesse fatto venire quell'idea ma poi mi resi conto che sarebbe stato inutile. Era troppo tardi per fingere. Così mi limitai a rispondere: "Sì, sono innamorata di te". «E lui: "Che sollievo. Era quello che pensavo"». Non si comportava mai come nessun'altra delle persone che lei conosceva, eppure continuava sempre ad essere il ragazzo della sua giovinezza. Più stava con lui più si accorgeva quanto poco il suo carattere fosse cambiato. Le disse: «Sono molto innamorato di te, e da tantissimo tempo. Credo di esserlo stato anche quando eravamo a scuola ma nessuno pensa che si possa amare sul serio a quattordici anni». «Giulietta, per esempio» rispose Stella. «Ecco la prova, allora» fece lui. «Credevo che mi sarebbe passata, invece no. Si direbbe che sia arrivato il momento più adatto per una dichiarazione.» Non aveva fermato la macchina, non l'aveva fatta accostare al bordo della strada, aveva continuato semplicemente a guidare e, com'era comprensibile, non le aveva lanciato nemmeno un'occhiata. «Abbiamo due alternative» continuò. «Possiamo non vederci mai più e cercare di sistemare le cose con Gilda e Rex con qualche spiegazione più o meno plausibile, e non dovrebbe essere neanche troppo difficile probabilmente. Non credo che abbiano molta simpatia l'uno per l'altro. Oppure possiamo diventare amanti. Personalmente preferirei, e di molto, la seconda soluzione. Tu, cosa ne pensi?» «Sì» disse Stella. «Sì alla seconda soluzione?» Stella rispose ancora di sì, e stavolta in tono molto più deciso. «Bene» disse lui. «Mi spiace di avere questo tono così distaccato, come se si parlasse di qualche questione di affari. Ma lo faccio solo perché abbiamo ancora dieci minuti soltanto. Non appena avrò più tempo riverserò su di te la piena del mio cuore.» Poi Stella rimase in silenzio per qualche istante. Fissava la porta e pareva che tendesse l'orecchio. Infine soggiunse: «Mi sentii molto felice quella sera. E fui felice per molto tempo. Mi fidavo di Alan, capisci, e avevo ragione a fidarmi di lui. Ci trovammo poco dopo quella volta e lui mi disse tutte quelle cose. Ma non avevamo nessun posto dove andare e dove stare soli. Di tanto in tanto lui riusciva a fare una scappata da me nel pomeriggio, ma molto di rado. Con tutto ciò, ero felice. Naturalmente mi sentivo colpevole e piena di vergogna nei confronti di Gilda e, proprio per il moti-
vo che adesso combinavo le cose in modo da vederla sempre meno, vedevo anche Alan sempre meno.» Qualcuno sfiorò la maniglia della porta e Stella alzò subito gli occhi. «È Richard?» Andai alla porta ma non c'era nessuno, soltanto Lena all'estremità opposta del corridoio. «Fra Rex e Charmian doveva esserci stato, evidentemente, qualche dissapore. Non so di che cosa si trattasse ma se dovessi confessarti quello che sospettavo, ti direi che lei doveva aver cominciato a fare qualche pressione su Rex perché mi lasciasse, adesso che Marianne era più grandicella, e lui si era rifiutato. In ogni caso, tornò da me. Era già accaduto anche prima, altre volte era tornato da me. Però non era mai durata molto, la faccenda.» «E lei ha accettato?» le domandai. Sospirò. «Ero sua moglie, Genevieve. Per te, è diverso. È diverso al giorno d'oggi. Rex mi manteneva, mi aveva dato una casa, non mi piace parlare di queste cose ma era lui che portava a casa i soldi, che guadagnava, tutto era suo. A lui non potevo rispondere di no, non sarebbe stato giusto. Era tornato da me e fu in quel periodo che mi regalò l'anello che porto adesso, la fede nuziale con i brillanti.» Alzò la mano destra. Provavo un po' di imbarazzo. A me dava quasi l'impressione di una specie di accordo di carattere finanziario: torna a dormire con me e qui ci sono gioielli che valgono duemila sterline. «L'anno seguente,» disse Stella «nacque Richard.» La porta si spalancò e Richard entrò. «Mi sento fischiare le orecchie» disse. Si avvicinò a Stella e le diede un bacio. «Hai detto che ero nato. Cos'altro stavi raccontando?» Sorrideva, non aveva sentito niente, ma Stella impallidì. «Oh, tesoro, niente, niente. Sai che avete proprio la stessa età, tu e Genevieve?» «Davvero? Proprio la stessa?» «Be', il tuo compleanno cade il 12 e quello di Genevieve il 24 di aprile.» «Lo sapevo che il più vecchio ero io.» Stella aveva una memoria stupefacente per i compleanni. Se dimentica tutto il resto, del tuo compleanno, però, si ricorda. Scommetto che conosce anche la data di quello di Maud e di Arthur e di Lena, oltre al mio. Mi alzai per andarmene ma Stella continuò a tenermi stretta per la mano ancora per un momento. «Rex aveva desiderato ardentemente un maschio» disse. «Era così orgoglioso di Richard.» «Mamma» disse Richard, ma molto più gentilmente di come lo dico io
alla mia. PARTE TERZA 12 Fu come se avessi provato una scossa elettrica quando sentii quel fischiettio, il motivo che non conoscevo, la limpidezza del tono, ma soprattutto anche perché era calata la notte. Non avevo visto la luce dei suoi fari, mi trovavo sulle scale. Aprii la porta d'ingresso ed ecco Ned, a un metro di distanza e poi, di colpo, fra le mie braccia. Si era messo a fischiare, mi spiegò, perché era felice. Gira per tre volte in senso orario intorno alla casa per scacciare il malaugurio, dissi, ma lui si limitò a una bella risata e non ne volle sapere. La paura per quello che aveva fatto o che avrebbe potuto tirarci addosso continuò a rimanere dentro di me. Mentre eravamo a letto, l'unico posto caldo della casa, mi dimenticai di quel suo fischiettare, mi dimenticai di tutto, ma mi tornò in mente dopo. A volte mi dico che tutte quelle precauzioni che prendono la mamma o la nonna sono stupidaggini e che non vanno bene per una persona come me, che vive mentre il secondo millennio sta per terminare. E poi vedo che una morte fa seguito a quello strano fischio che si sente nelle orecchie, e i pericoli nei quali incappa una persona se ha strappato un ramo di frassino oppure se ha aiutato un'altra persona a mettere qualcosa sotto sale. Io non ho il coraggio di rinunciare a queste cose in un mondo che è diventato un posto così difficile e crudele. Qualcosa può andare storto e allora so che ci ripenserei dicendomi che quella disgrazia avrebbe potuto essere evitata toccando ferro o tenendo un soldino, di quelli un po' storti o schiacciati, sotto il guanciale. Così rimasi sul chi vive e aspettai gli effetti negativi di quel fischiettare di Ned al buio. E non dovetti aspettare molto. La prima cosa fu Philippa che si beccò una bella influenza. Ce n'era in giro un mucchio, l'avevano avuta Shirley Foster e tutta la famiglia Baleham, e la Katie di Philippa che l'aveva portata a casa da scuola. Lei si ammalò il giovedì sera e il venerdì era la mia giornata di libertà. Le sue bambine erano in vacanza, come al solito a metà del quadrimestre; le andai a prendere e le feci venire a casa mia. Prima però le trasferii la televisione di sopra, in camera da letto, e quando tornai con Katie e Nicola alle cinque, Philippa seduta sul letto stava guardando La fine di Edith Thompson, in bianco e nero, un film del
1954 con Joyce Redman che interpretava la parte di Edith Thompson e Gilda Brent quella della guardiana della prigione. Preparai la cena alle bambine giù, in cucina, tirai fuori dal freezer uno stufato per Steve e salii di nuovo da Philippa. «Come ti sembra? Buono?» domandai. Philippa non voltò neanche la testa. «Fra un minuto la impiccano.» Sullo schermo Gilda Brent e Joyce Redman erano sedute nella cella di Edith Thompson e Gilda teneva una delle mani di Joyce Redman fra le sue. Con gli occhiali e i capelli tirati austeramente indietro sotto un berretto, incarnava in modo perfetto il suo personaggio, quello di una donna delle più ordinarie, scialba, spenta, senza molto carattere. Non avrebbe mai potuto essere brutta, non sarebbe mai riuscita ad essere nient'altro che bella e attraente, con quei lineamenti regolari in un viso così ben proporzionato, però riusciva senza difficoltà a rendersi anonima, una di quelle persone che è facile dimenticare. In fondo, era molto più bella di Joyce Redman eppure la faccia della Redman ti sarebbe sempre rimasta impressa nella memoria e la sua, invece, si sarebbe subito dimenticata, una volta spenta la TV. E fu quello che Philippa fece immediatamente dopo che Edith Thompson era stata portata via per salire sul patibolo e cominciarono a scorrere sul video i titoli di coda del film. Si infilò il telecomando sotto il guanciale. «Credo che mi abbia fatto sentire peggio. Non andresti a prendermi un'altra caraffa di acqua, Jenny? Raccomandano di bere molto. Dicono che Edith e il suo amico avevano combinato di ammazzare il marito di lei però Edith, in fin dei conti, non ha fatto un bel niente. È stato l'amico ad accoltellarlo. Edith ha scritto un sacco di lettere in cui parlava di mettere vetro tritato nelle pietanze del marito.» «Io ti vado a prendere l'acqua, adesso, e soltanto l'acqua» dissi. Quando tornai si era distesa sotto le coperte. «Per questo l'hanno impiccata. Adesso non lo farebbero, vero? La metterebbero in libertà vigilata oppure le offrirebbero una vacanza in un parco divertimenti. Riesci ad immaginare di combinare qualcosa del genere con un uomo per uccidere Mike?» «No» dissi. «No, non ci riesco.» «Secondo te c'è qualcuno che complotta con amanti o altri per uccidere il marito o la moglie?» Le risposi che non lo sapevo. Mi sentivo a disagio discutendo quell'argomento come se, bene o male, ne fossi un po' colpevole anch'io, come se servisse soltanto a farmi ricordare avvenimenti che desideravo dimentica-
re. Le dissi che sarei tornata la mattina dopo per farle la spesa, se voleva, ma lei mi rispose che ci sarebbe stato a casa Steve, visto che era sabato. Anche Mike sarebbe stato a casa. Lavorò a quella veranda tutta la sera del venerdì. La concessione edilizia era arrivata mettendolo in uno stato di grande eccitazione. Rimasi colpita dal fatto che non c'era molta differenza fra l'eccitazione che lui provava a sentirsi confermare di avere ottenuto il permesso di costruzione di una specie di locale tutto vetri, di tre metri e mezzo per tre metri e mezzo sul retro della sua casa, e quella che provavo io ogni volta che mi vedevo con Ned. Forse sarebbe stato più esatto dire che mi dava l'impressione di sentirsi più felice alla prospettiva di costruire quella veranda di quanto non lo fosse mai stato durante la nostra luna di miele. Fischiettava lavorando. Cantava. A un certo punto finì tutto il suo repertorio di canzoni e accese la radio sul Primo Programma. Dopo aver lavorato dalle sei di sera del venerdì fino alle sei di sera del sabato salvo un intervallo di sei ore per dormire e mezz'ora per mangiare, gli proposi di andar giù al Legion a bere qualcosa. Lui non aveva voglia, voleva continuare a lavorare fin verso le undici ma poi accettò anche se lo fece unicamente per impedirmi di andarci da sola. Mike ha soltanto trentatré anni ma è persuaso che le donne non dovrebbero frequentare i pub da sole, neanche se a mandarlo avanti è la loro mamma. Dice che non è da signora, la stessa espressione che usavano suo padre e suo nonno prima di lui. La prima persona che vidi quando entrammo fu Jane Saraman, o forse dovrei dire Beaumont. È comprensibile provare un tuffo al cuore quando si vede il proprio amante. Ma quando si vede sua moglie? Forse mi successe perché pensai subito che ci fosse anche lui. Invece, no. «Ned è a Cambridge, a girare un film» disse Jane, come se glielo avessi domandato. «Ho fatto un salto qui con Hannah e mia madre.» Non sarà da signora, ma quando mi trovo in un pub sono abituata a offrire anch'io un giro a tutti quelli che sono lì a bere, come chiunque altro. Perché no? Guadagno, giusto? Ho l'uso delle gambe e forza nelle braccia. Fra l'altro, Mike non aveva la minima intenzione di offrirmi qualcosa, glielo leggevo in faccia, perché aveva assunto quell'espressione imbronciata che conoscevo bene appena posati gli occhi su di lei. «Grazie» disse. «Prenderò una Perrier con ghiaccio e una fettina di limone.» Non riesco assolutamente a capire come faccia certa gente ad andare in
un pub a bere acqua. Dietro il banco c'era Len e raccontava a tutti che la mamma si era messa a letto con l'influenza, anzi lo raccontava come se fosse una battuta di spirito. Per me ordinai del vino bianco e una mezza pinta di birra scura per Mike e l'acqua minerale gasata per Jane. Mike guardò il suo bicchiere come se gli avessi messo davanti una bottiglia di champagne, battendo le palpebre e arretrando di qualche passo come se vacillasse. Poi, strizzando l'occhio a Ken Foster disse che sua moglie doveva essere in vena di prodigalità e che era meglio approfittarne perché tanta ricchezza non sarebbe durata a lungo. Io domandai a Jane come stava Hannah. Lei alzò le sopracciglia. «Non poi così male.» Mi venne in mente, ma troppo tardi, che se ero al corrente delle condizioni di Hannah, si doveva presumere che lo avessi saputo soltanto dopo aver ascoltato, senza parteciparvi, una conversazione di qualcun altro. Cercai di aggiustare le cose in qualche modo ma feci subito la riflessione che quella era la sorte di tutti i nostri inganni, che ci sono umiliazioni in cui finiamo per coinvolgere non solamente noi ma anche altre persone innocenti. «Speravo che cominciasse a star meglio» dissi anche se sapevo che non era così. Lei parlò con voce dura. «Tutta colpa dell'inquinamento.» Suppongo che sia stato il senso di colpa a farmi cogliere una nota di accusa, perfino un doppio senso, nelle sue parole. «Sta meglio all'aria di campagna.» Jane è una di quelle persone che riescono a sorridere con le labbra mentre i loro occhi rimangono duri e spenti, simili a pietre. «Mi piacerebbe trovare un posto in Francia, dove si può essere sicuri del tempo, magari giù, al sud. Ad ogni modo, col mese prossimo rinunceremo al villino. L'affitto sta per scadere e non lo rinnoviamo.» Ned non me lo aveva detto. Ricordai, all'improvviso e con una strana chiarezza, quel suo fischiettio nel buio e, dopo, anche il fatto che non ne aveva voluto sapere di rimediare in qualche modo al rischio del malaugurio. Erano questi, gli effetti? Mi sentii cogliere da un attacco di debolezza, avrei voluto mettermi a sedere ma non c'era posto. Era patetico, eppure sentivo un gran bisogno che lei mi confortasse, mi rassicurasse. Un'espressione di noia profonda era subentrata al gelido sorriso di poco prima. Poi ad un tratto capii tutto in un lampo. Lui stava mettendo ordine e sistemando le cose, perché aveva intuito che qualcosa stava cambiando in me, che a poco a poco cominciavo
ad adattarmi al suo punto di vista, che avremmo dovuto andarcene e stare insieme. «Mi pare di aver visto le persone con le quali avevo combinato di trovarmi» disse lei, indicandomi la coppia dei professori d'università che, a quanto Ned aveva detto, erano suoi amici. Posò il bicchiere sul tavolo di qualcun altro. «Grazie per avermi offerto da bere.» Quando si fu allontanata cominciai a domandarmi se lui me lo avrebbe detto. Forse, no. Forse stava aspettando di vedere cosa avevo intenzione di fare e intanto aveva cominciato a liberarsi di tutti gli impicci come il villino, decidendosi perfino a comperare qualcosa in qualche posto della Francia perché Jane ci andasse con Hannah. E Hannah cominciava a star meglio. Avrebbe avuto bisogno del padre, ma non più come era logico aspettarsi da una bambina malata. Girando appena la testa sulla spalla continuavo a occhieggiare Jane. Lei stava ridendo e chiacchierando con il professore della University of East Anglia come non l'avevo mai vista fare con nessuno, prima. La donna sedeva lì vicino, placida e silenziosa. Non stavo saltando a una conclusione un po' forzata, magari, se pensavo che Jane potesse avere una relazione con quest'uomo? In fondo, la donna che era con lui poteva anche non essere affatto sua moglie o la sua compagna. Ma semplicemente la sorella o addirittura un'amica. La mamma dice che è sempre quello che fa una donna, quando ha una relazione amorosa con un uomo sposato, cioè cerca di convincersi che sua moglie lo tradisce. La fa sentire meno colpevole, capite, se quello che vale per uno può valere anche per tutti gli altri. «Ti ho raccontato troppo, Genevieve?» disse Stella. Era la settimana seguente e ci trovavamo sedute insieme nella sala di soggiorno. Alzai gli occhi a guardarla e le domandai per quale motivo parlasse a quel modo. Poteva fidarsi di me. Non lo avrei detto a nessuno. Lei scrollò il capo ed ebbe un pallido sorriso. La giornata era fosca, le finestre sbatacchiavano sotto le folate del vento dell'ovest e noi lo guardavamo strappare le foglie ingiallite dagli alberi di castagno. Sui prati si poteva camminare affondando i piedi fino alla caviglia nelle foglie secche. Il giardiniere, del quale Stella si lagnava perché la chiamava semplicemente con il nome di battesimo, stava potando le piante fiorite delle bordure, che le prime brinate invernali avevano fatto diventare nere. «Ho passato qualche brutto momento pensando di averti raccontato troppo. Devi essere stata... be', non scandalizzata ma... sbalordita, Genevieve?»
«Sono sposata» dissi. «E al momento ho anche una relazione con un uomo sposato. Pensavo di essere stata io a raccontare troppe cose a lei!» Non la interessava. Forse se n'era dimenticata. «Se questo ti può essere di conforto, raccontarti tutto quello che ti ho raccontato è stato un grande sollievo per il mio spirito. Non c'è nessun altro a cui posso raccontarlo, capisci. E tu sei molto brava ad ascoltare, non lo sapevi?» Le dissi di aver visto La fine di Edith Thompson alla televisione, o almeno una parte se non proprio tutto, e lei mi lanciò un'occhiata intensa. Poi si allungò a prendermi una mano e la tenne stretta nella sua. «Credo che sia molto comune» disse «che una coppia si metta a fare dei piani per uccidere la moglie dell'uomo o il marito della donna. Si legge sempre di casi del genere sui giornali.» «Davvero?» dissi. Lei sospirò. «Forse non se ne parla più di quanto non si parli di altri... casi tremendi. Ci saltano subito all'occhio le cose che sono più vicine a quello che ci tormenta, non credi?» Assentii. Su questo, potevo trovarmi d'accordo. Le storie d'amore attiravano la mia attenzione adesso che avevo anch'io una relazione amorosa, esattamente come mi avevano interessato gli anelli di fidanzamento quando mi ero fidanzata e gli annunci pubblicitari delle agenzie immobiliari quando dovevamo trasferirci nella nostra casa. Ma questo, forse, voleva dire che Edith Thompson era qualcosa che tormentava la mente di Stella? Lei cambiò rapidamente argomento. «Mio padre morì quando Richard aveva nove mesi» disse «e quando avevi nove mesi anche tu, Genevieve.» Sorrise, orgogliosa della propria memoria. «Hai appena perduto tuo padre e sono sicura che si tratta di qualcosa che ti ha colpito nel profondo. Lo vedevi frequentemente anche se non viveva con te. Ma dal giorno in cui avevo lasciato la casa dei miei, io non avevo più rivisto mio padre... be', non più di un paio di volte. Lui non aveva mai visto il mio bambino. Quasi non conosceva Rex. Era venuto a casa nostra una volta sola, cinque anni prima. E non si era neanche fermato a dormire da noi. Eppure mi lasciò in eredità la sua casa. «Ero sposata con un avvocato e me ne intendevo un po' di testamenti, eppure sai che non mi era mai balenato in mente che mio padre avesse potuto fare una cosa del genere? Arrivò una lettera da un notaio di Londra. Fu un vero colpo di fortuna, per me, che arrivasse di sabato, e Rex fosse ancora a letto. Naturalmente io ero già alzata, sempre, parecchie ore prima che arrivasse la posta. Richard era un bambino così vivace che non mi la-
sciava mai dormire oltre le sei al mattino. Oh, Genevieve, ancora oggi non so che cosa mi sia capitato, eppure mi sono detta, per quale motivo dovrei parlarne con Rex? Lui non mi domanderà mai niente. Non gli passerà mai per il cervello di farmi domande, e io terrò tutto per me. E così ho fatto.» «Non glielo ha detto?» domandai. «Non ha detto a suo marito che il papà le aveva lasciato la casa?» «No, non gliel'ho detto. Mai.» «Ma perché?» dissi. «Che senso aveva?» Lei mi guardò in tralice. Per un attimo sembrò meno vecchia, meno malata. «Era un posto tutto mio, vero? Io non avevo mai avuto niente che fosse proprio mio. Era la mia indipendenza.» Mi limitai ad assentire anche se mi sembrava molto strano. «Oggi non lo potresti fare» riprese lei. «Non è più possibile visto il numero di persone che adopera il telefono. Voglio dire, quei legali e poi gli agenti immobiliari avrebbero trovato più logico telefonare e, se Rex fosse stato in casa, avrebbe risposto lui e tutto sarebbe venuto a galla. Ma una telefonata da Londra a Bury era intercomunale a quell'epoca, cioè qualcosa che si faceva soltanto nei casi di emergenza. Tutti scrivevano lettere.» «Così lei riuscì a tenerlo segreto?» «Fu un segreto per tutti all'infuori di Alan» disse lei. «Ad Alan, lo raccontai. Adorava i segreti.» La sua storia d'amore con Alan Tyzark si interruppe all'epoca della sua gravidanza e non venne ripresa per molto tempo dopo la nascita di Richard. Ma lui era sempre lì, una presenza nella sua vita, e capitava spesso che si incontrassero per un'ora o due. Lui le telefonava e la portava a fare una passeggiata con i bambini. Non osavano neanche baciarsi per paura degli occhi osservatori di Marianne. Poi, un giorno quando Richard aveva pressappoco un anno e Stella stava già portando avanti in segreto le trattative per vendere la casa che le era stata lasciata in eredità, Rex disse che era venuto il momento che lei avesse un aiuto fisso in casa. Doveva avere una au pair e lui gliel'aveva trovata. Era danese, adorava i bambini, voleva perfezionare il suo inglese. A quell'epoca le au pair stavano diventando di moda e nel mondo di Stella erano la risposta giusta quando diventava impossibile procurarsi dei domestici. Ma al primo momento l'idea di Maret la insospettì. Doveva essere un piano che Rex aveva studiato per mettersi in casa una ragazza giovane con cui andare a letto. Ecco quello che pensò. Ecco come lo giudicava, un uomo che moriva di voglia dietro alle donne e ne era
sempre a caccia. Perfino il fatto che Maret si rivelasse poi tutto il contrario dell'idea che Stella aveva di una diciannovenne danese, perché era bassa di statura e tozza e bruna e neanche un po' carina, per un certo tempo non riuscì a scuoterla da quella convinzione. «Ma era stato il senso di colpa che lui provava nei miei confronti a spingerlo ad assumere Maret, era la compensazione per la sua infedeltà. E poi mi resi conto di qualcosa che prima, Genevieve, non avevo mai capito. Rex non era un dongiovanni. Era un tipo totalmente monogamo, solo che voleva essere fedele a Charmian, non a sua moglie. Al mondo, per Rex, non c'era nessun altro che Charmian. Era tornato da lei e avevano ricominciato ancora prima che Maret arrivasse. E in un certo senso questo rese più duro il mio cuore. Capisci quel che voglio dire? Avrei potuto sopportare una serie di ragazze giovani che non significavano niente, ma non questa donna vecchia che significava tutto. Credo che sia stato allora che ho smesso di provare qualcosa, in ogni senso, per Rex.» «Perché è rimasta?» Lei ripeté ciò che aveva già detto prima. «Non era come oggi. Se avessi cercato di divorziare da Rex avrei dovuto fornire le prove dell'adulterio e non credo che avrei avuto il coraggio di farlo. Sarei stata costretta a servirmi di qualche investigatore privato, ma anche a quei tempi il fatto che un uomo di sessantadue anni andasse a trovare una donna di cinquantotto, una vecchia amica, non sarebbe stato sufficiente come prova. E poi c'era anche il mio adulterio. Quello non mi avrebbe aiutato, avrebbe peggiorato le cose. E avevo i bambini. Non era come oggi. Rex avrebbe potuto ribellarsi e farmela pagare, divorziare da me e ottenere la custodia dei miei figli. Una prospettiva del genere mi impauriva, Genevieve. Volevo semplicemente un po' di indipendenza e l'opportunità di stare con Alan. Avere Maret fu un grande aiuto, ma continuava ad esserci un altro problema, cioè ci mancava un posto dove stare soli, insieme.» La casa di suo padre venne venduta per la fine di quell'estate e la somma di denaro, che si trovò ad avere in mano, risultò essere di poco inferiore alle cinquemila sterline dopo aver pagato le spese legali e la percentuale all'agente immobiliare. Poi aprì un conto corrente in banca. Si ritrovò con il proprio libretto di assegni personale e questo la fece sentire ricca. Al primo momento scoprì di non aver la minima idea di che cosa fare con quei soldi; e poi, perché usarli per qualche cosa? Sarebbe venuto il momento in cui uno scopo poteva presentarsi da solo. Con Maret in casa e Richard troppo piccolo perfino per andare all'asilo,
Stella non poteva permettere ad Alan di venire da lei. Un paio di volte lui la portò in un albergo. Ma Stella lo trovava complicato e spiacevole, terribilmente imbarazzante. Dovevano fingere di essere sposati, fingere di rimanere per la notte eppure pagare la camera in anticipo. E poi, Alan non poteva permettersi l'albergo. Erano innamorati, erano amanti, una maggiore intimità di quella non avrebbe potuto esserci tra loro, ma Stella non si sarebbe mai azzardata a proporre di pagare lei il conto dell'albergo. Un giorno, tornando a Bury da un motel, lei osservò che c'era un cartello con sopra scritto "Vendesi" su un villino. Si trovava su una strada maestra, era brutto, esposto a tutti i venti che spazzavano il Breckland, eppure le fece venire un'idea. Disse ad Alan: «Comprerò una casa per noi due». «Così, come se niente fosse?» fece lui, e poi soggiunse: «Quando?». «Prima che arrivi l'inverno. Quando ne troveremo una che ci piaccia.» «La prima che capita» fece lui. La casa doveva trovarsi a metà strada fra Bury e Tivetshall St Michael, facilmente raggiungibile da tutte e due queste località, in un posto piuttosto solitario senza altre case vicine, vecchiotta ma non antica, non troppo grande e al prezzo giusto. Discussero interminabilmente quelle che dovevano essere le qualità essenziali: un garage dove nascondere un'automobile ai passanti, un po' di giardino, un tetto di tegole, non di paglia, niente vicini, una grande camera da letto con vista. Per una specie di piccolo miracolo, Gilda era partita per passare quindici giorni con un'amica nella Francia del Sud. Stella e Alan si misero in cerca di quello che volevano e prima che Gilda fosse rientrata avevano trovato la casa con i muri di selce e il tetto rosso, che si chiamava La Molucca. Riaccompagnai Stella in camera sua. Sarebbe stato più semplice se ce l'avessi portata in braccio. Ero sicura che ce l'avrei fatta, tanto era leggera. Andò a sedersi in poltrona con i piedi su uno sgabello. «Come sono stata felice in quel periodo, Genevieve.» La sua voce era dolce, un po' sonnolenta. «Per la prima volta nella mia vita tutto filava liscio. Ero innamorata di Alan da quattro anni eppure in quel momento mi sembrava di tornare a innamorarmi di lui di nuovo. Stavolta era un sentimento più profondo, più intenso. Avevo quarant'anni, e non è come oggi, quarant'anni voleva dire mezza età. Ma Alan mi faceva sentire giovane. Non avevo mai avuto, non avevo mai provato vero piacere... non so proprio come spiegarlo...»
«Dal sesso, vuole dire?» «Sì, dal sesso.» Stella chiuse gli occhi. Non voleva incrociare il mio sguardo. «Con Rex non avevo mai provato piacere e non riuscivo neanche a immaginare come potesse essere. Cioè, se non ti piace fare una cosa non puoi immaginare di fare quella stessa cosa e accorgerti che ti piace, vero?» «Un po' come stirare con l'ultima scoperta in fatto di ferri a vapore» dissi. Io odio stirare. Lei abbozzò un pallido sorriso. «E tu, allora, potresti dire, perché mai avevo voluto... fare l'amore con Alan se non mi piaceva fare l'amore? A questo, Genevieve, non so dare una risposta. Sono sicura di non essere la prima donna che non ha mai provato il minimo piacere pur pensando che, invece, avrebbe potuto provarlo se lo avesse fatto con una persona che amava sul serio. E la prima volta... la prima volta con Alan... be', fu completamente diverso.» Mi guardò. «Mi spiace, è un po' imbarazzante parlare di queste cose. Stavo semplicemente cercando di farti capire che lo amavo, lo amavo in tutti i modi possibili e immaginabili. E quando ci ritrovammo ad avere una casa dove andare, fu meraviglioso. Fu romantico. «Di solito ci andavo verso la fine del pomeriggio. Maret era a casa con i bambini. Quanto a Rex, a quell'epoca ormai conducevamo due vite totalmente separate. Lui non domandava mai dov'ero se non mi trovava in casa e io sapevo dove lui era, quindi non dovevo domandarlo. Probabilmente sapeva di Alan, o capiva che ci doveva essere qualcuno, ma non gliene importava più niente. «Ero orgogliosa della mia casa. Era mia, capisci. Hai visto i documenti, a mio nome. E quello significava moltissimo per me. Come mi sono divertita ad arredarla! Alan e io avevamo pochissimi soldi ma si potevano scoprire cose straordinarie, veri e propri affari, nei negozi di anticaglie e alle aste, a quell'epoca. Lui aveva gli originali dei disegni di quei suoi libri per bambini; così decidemmo di farli incorniciare e appenderli ai muri. Io ho sempre tenuto la casa piena di fiori. Pensavo anche alle pulizie, dovevo pensarci. È sempre stato l'unico posto dove io abbia provato un'autentica gioia a fare le pulizie. «Mentre aspettavo Alan, mi vestivo. Sceglievo un bell'abito e i gioielli e mi acconciavo i capelli con tutta la cura possibile. Ci mettevo un'ora a truccarmi e a farmi le unghie.» Distolse lo sguardo. «Tutte cose che si rovinavano subito quando lui arrivava e... ci baciavamo e ci abbracciavamo e facevamo l'amore.» Una risatina fievole e uno dei suoi soliti cambiamenti di argomento. «Allora non si beveva il vino come si fa oggi, la gente era
abituata a berlo soltanto ai pasti ma io tenevo gin e acqua tonica e angostura e vermouth e sherry in quella casa. Spesso cucinavo per noi. Di solito mi mettevo alla finestra della camera da letto a guardare la strada per vedere la macchina di Alan che arrivava e mi struggevo di desiderio e mi sentivo quasi male per la paura, se ritardava di cinque minuti. Oh, Genevieve, riesci a immaginarlo?» Fin troppo bene. All'infuori del fatto che allora faceva più caldo e che si beveva tutt'altro, non mi sembrava che ci fosse molto di diverso fra noi. «Era meraviglioso avere un posto dove andare e... un letto tutto nostro. Forse potresti dire che ci divertivamo a giocare alla casa. Giocavamo a fare la coppia, ad essere marito e moglie. Una sera, mentre stavamo prendendo un drink e io ero in abito da sera e non so per quale motivo lui si era messo un bel completo, giacca e pantaloni, ed eravamo lì seduti con la tavola apparecchiata e la cena che cuoceva in cucina, proprio come se fossimo lì ad aspettare alcuni amici che dovevano arrivare a mangiare con noi, lui disse: "Questa è la prova generale per quando ci sposeremo".» «Allora avevate intenzione di sposarvi?» le domandai. Lei non mi rispose e si limitò a cercare la mia mano. Da quella prima volta in cui mi aveva buttato le braccia al collo, ci davamo sempre un bacio quando io arrivavo al mattino e quando me ne andavo nel pomeriggio. Ogni volta, il corpo che stringevo fra le mie braccia mi sembrava più fragile, sempre più simile a quello di un uccellino, e avevo l'impressione che il suo cuore palpitasse più rapido. Di solito aspettavo che fosse Stella a fare la prima mossa ma adesso ero io a baciarla come se fosse la cosa più naturale del mondo e quando me la trovavo fra le braccia le davo una stretta più forte nella speranza che capisse che le volevo bene. In quel momento la baciai e mi accorsi che la sua guancia era ardente come se continuasse ancora ad arrossire per ciò che aveva detto. Quando Ned telefonò ero rientrata a casa da poco. Mi sembrò che parlasse con la massima indifferenza della decisione di lasciare il villino, non gli sembrava una questione interessante, non avevano mai avuto la minima intenzione di affittarlo per più di un anno. Mi importava? Risposi di no, non me ne importava un bel niente e, in un certo senso, per noi era meglio non incontrarci al pub o nel negozio. Mi lasciò capire di non aver pazienza per tutte queste storie. «Quando ti vedo?» «Domani se ti fa piacere.» «Naturale che mi fa piacere. È l'unica cosa che mi fa piacere in un mon-
do insopportabile.» Un amante non può dire niente di meglio. Quella sera, mentre Mike stava montando le vetrate, la cena su un vassoio appoggiato sulla cassa nella quale erano arrivate, mi sedetti con un bicchiere di vino rosso davanti all'enciclopedia per cercar di imparare qualcosa sull'arte moderna. Ma non andai molto avanti. Piuttosto, feci un bel discorso a me stessa. Fu un po' come se nella mia testa parlassero due persone, una che discuteva a favore e l'altra contro un certo argomento. Mi ero sposata così giovane che non avevo mai pensato al matrimonio, non avevo mai preso in considerazione il fatto che il matrimonio dovesse essere qualcosa di permanente, qualcosa di sacro, se volete, o se non fosse meglio sciogliere quel vincolo quando due persone non avevano più niente da dirsi. Una delle voci mi diceva che avrei dovuto fare il possibile per mandare avanti il mio matrimonio e l'altra, invece, che non aveva senso un tentativo del genere quando non avevamo niente in comune e non c'erano bambini. Poi quelle due me stessa, che erano dentro di me, cominciarono a parlare di Ned e Jane e Hannah. Una diceva che una donna con un briciolo di coscienza non sarebbe mai stata capace di perdonarsi di aver rovinato una famiglia e portato via un uomo alla sua bambina ma l'altra osservava che la gente lo faceva in continuazione, era la cosa più banale del mondo. Perfino qui nel nostro villaggio, in campagna, la gente continuava a farlo. Lo aveva fatto mio padre, e anche la mamma, un paio di volte. Erano cambiati i tempi dall'epoca in cui Rex Newland e Stella dovevano comportarsi come si erano comportati, continuando a tener vivo ad ogni costo quello che era il guscio vuoto di un matrimonio, scappando di nascosto per i loro appuntamenti segreti finché l'amore in sé e per sé, alla fine, si era consumato. Philippa mi aveva raccontato che di tutti i bambini della classe di Katie a scuola, meno di metà vivevano con una mamma e un papà che erano rimasti sposati. E poi pensai di avere un figlio da Ned. Era possibile che in questo stesso periodo, l'anno successivo, io avessi un bambino che era di Ned e mio. La prima voce diceva, Hannah ha appena cinque anni, è troppo giovane per capire, vorrà suo padre e Jane non sarà capace di spiegarglielo. Ma potrà venire a trovarci, ribatteva la voce contraria, potrà passare il finesettimana con noi, e magari chissà che non finisca anche per volermi bene. O magari mi odierà e riuscirà a farmi odiare da suo padre. Mi versai un secondo bicchiere di vino e feci qualche riflessione sull'idea di vivere con Ned, dormire tutta la notte con lui, svegliarmi vicino a lui.
Intanto, durante tutto questo tempo in cui stavo seduta lì, a pensare e discutere con me stessa, mi arrivava dalla stanza sul retro il rumore regolare dei colpi di un martello. Avevo chiuso la porta perché adesso la finestra era scomparsa e non c'era più niente fra la sala da pranzo e il giardino salvo una specie di scheletro di quella che sarebbe diventata una veranda. La serata era mite, umida, ma c'era qualcosa che suscitava angoscia in quell'oscurità tacita, piena di foschia, e in quel martellare ritmico e regolare. Una volta che avesse finito, se non vi fosse stato alcun altro lavoro né a Norwich né a Londra, avrebbe cominciato a fabbricare qualcos'altro. Magari avrebbe ristrutturato la cucina, l'aveva rifatta soltanto due volte da quando ci eravamo sposati, oppure trasformato le due camere del pianterreno in un unico grande locale, o magari costruito un garage in fondo al giardino. Ha cose in abbondanza da fare per i prossimi trent'anni, Mike. E quando avrà sessantacinque anni e sarà in pensione si rivolgerà a me (se sarò sempre qui) e mi dirà ci trasferiamo in un villino a Cromer, preferibilmente un villino diroccato, in modo che lui possa smontarlo e poi rimetterlo di nuovo insieme. Presi il mio bicchiere di vino ed entrai in quella che una volta era stata la sala da pranzo. Mi sembrò che l'uomo sulla scala con il martello in mano non avesse niente a che vedere con me, fosse un operaio che stava costruendo qualcosa, che faceva gli straordinari, prolungando il lavoro fino a sera inoltrata. Una nebbia bianca e spessa era calata e non si poteva vedere il fondo del giardino. In mezzo alla nebbia appariva, enorme e imponente, un mucchio di legname, cioè l'intelaiatura della portafinestra, quella che un tempo era stata la baracca degli attrezzi, e un pezzo di staccionata. Il mio orologio segnava le dieci e un quarto. «Hai intenzione di continuare ancora per molto?» dissi. Smise di dare colpi con il martello. Aveva una mezza dozzina di chiodi stretti fra i denti. «Dammi un'altra mezz'ora. Vai a letto, tu.» «Possiamo parlare, Mike?» I chiodi gli ricaddero nel palmo della mano. «Lo so che ti disturba quello che è successo a tuo papà. È solo naturale, ci penserà il tempo a farti guarire.» «Non sono disturbata come dovrei» risposi. «Non si tratta di quello. Possiamo parlare?» «Non è quello che stiamo facendo?» «Fare un discorso, voglio dire. Voglio fare un discorso serio.» I colpi di martello si interruppero e Mike si voltò verso di me con un'e-
spressione profondamente irritata, mentre diventava rosso in faccia. «Sai cosa ti dico, Jenny? Ho lavorato tutto il giorno e quando sono tornato a casa ho dovuto ricominciare con questa roba qui, senza neanche un attimo di respiro. Comincio ad essere stanco. Te ne rendi conto, sì o no?» In tutta la nostra vita coniugale non avevamo fatto mai un discorso serio, eppure prima non me ne ero accorta. Salii di sopra. La nostra camera dava sulla facciata principale della casa, ma il bagno sul retro, e mi stavo pulendo i denti quando il vetro smerigliato della finestra venne illuminato all'improvviso da un bagliore giallastro. Passai nella cameretta da letto, l'altra, che dava sul retro e guardai fuori dalla finestra. Mike aveva appiccato il fuoco a quel mucchio di legname. E poiché era umido, ci aveva versato sopra del kerosene che adesso lo faceva ardere allegramente, e le scintille si levavano nell'aria umida e nera come i fuochi artificiali la sera del cinque novembre, l'anniversario di quella volta che Guy Fawkes cercò con la "congiura delle polveri" di far saltare in aria il Parlamento. In un villaggio dove le case hanno tutte il tetto di paglia bisogna avere un po' di buon senso e pensarci un momento prima di accendere un falò, ma nel nostro caso c'era stata talmente tanta pioggia che non era il caso di preoccuparsi. Le fiamme si levavano alte, guizzanti; al centro del falò c'era già una massa di brace rossastra dove il legno ben stagionato bruciava lentamente. Spalancai la finestra per sentire il calore. Sulla mia faccia quella vampata sembrava calda come il sole dell'estate. Il rumoreggiare delle fiamme che crepitavano era talmente intenso, lo scoppiettio così impressionante che presto richiamarono fuori Sandra Peachey, la nostra vicina di casa, con il marito Joe, in vestaglia, e il loro brutto gattaccio fra le braccia. Quando cominciarono a urlare rivolti a Mike, chiusi la finestra e me ne andai a letto, nel nostro letto matrimoniale, sulla parte di sinistra, proprio sul bordo in modo da non toccarlo quando lui fosse venuto a raggiungermi. 13 Nessuno mi disturberà, pensò Stella. Credono che io sia troppo stanca per fare qualsiasi cosa. È vero, sono stanca per fare qualsiasi altra cosa, ma non questo. Non ho più la forza di trasportare quella sedia attraverso la camera e incastrarla sotto la maniglia della porta. Ma non entrerà nessuno. In fondo, in queste case di riposo per anziani sono ben contenti se tu fai un
pisolino, se stai quieta, se non dai fastidio... "Adesso dirò qualcosa di cui pensavo di parlare a Genevieve, ma non posso. Non mi sento di rischiare che lei glielo racconti. No, non che glielo racconti. Piuttosto che, senza accorgersene, glielo riveli. Se avessi avuto intenzione di raccontarglielo, lo avrei fatto anni fa. Forse gli consegnerò questa cassetta ma forse, no. In fondo, lui non potrà mai scoprirlo. Non esistono prove che possano fargli scoprire e sapere quello che... be', quella che è la verità sulla sua nascita. "Adesso comincerò." "A cinque anni," Stella riprese "a Richard si dovette fare un esame del sangue. Era un bambino molto piccolo e magro e si aveva il sospetto che potesse essere anemico. Invece il risultato fu che non era per niente anemico, e presto cominciò a crescere e a ingrassare, non c'era niente che non funzionasse in lui, ma quell'esame venne fatto ugualmente. Io non avevo mai saputo di chi fosse figlio. Supponevo, e a un certo momento avevo sperato, che fosse di Rex. In fondo, Rex era mio marito, mi manteneva, manteneva i bambini, li nutriva, li vestiva e li faceva studiare. Ecco come vedevo la situazione a quell'epoca. Era il modo in cui vedevano la situazione tutte le donne sposate che non si guadagnavano da vivere. Immagino che ce ne sia qualcuna che lo fa ancora. Come è strano tutto questo, Genevieve lo capisce, che è più facile per me parlare di sesso piuttosto che di soldi! Richard venne concepito durante uno di quei periodi in cui Rex era ritornato da me. Nel mese cruciale avevo avuto cinque o sei rapporti sessuali con Rex e uno soltanto con Alan. Sembra molto ripugnante, vergognoso, detto in questo modo. Adesso interrompo la registrazione e la riascolto. È stato ancora più ripugnante e disgustoso ascoltarlo, al confronto. Nessuno dovrebbe comportarsi a questo modo eppure ci sono alcune donne che lo fanno, donne alle quali non restano molte altre scelte. Mi dissi che il bambino doveva essere di Rex, finii per persuadermi che fosse così. L'altra possibilità mi spaventava ma continuavo a pensare a quelle cifre, le cinque o sei volte rispetto a quell'altra, una sola. Mi ossessionava. Invece di pensare con gioia al bambino che stava per arrivare, non facevo che arrovellarmi cercando di capire di chi fosse figlio. Ogni mattina, quando mi svegliavo, era il mio primo pensiero. Ma la cosa strana è che quando Richard nacque, smisi di preoccuparmi, anzi quasi cessai di pensarci. I bambini sono interessanti per l'aspetto che hanno e il modo in cui cambiano. Hugo, il figlio di Priscilla, assomigliava moltissimo a mio suocero
appena nato, a tre mesi era l'immagine fatta e finita di sua madre e a dodici anni assomigliava a una fotografia di Jeremy che gli era stata scattata quando era piccolo. Richard assomigliò a me per i primi cinque o sei anni della sua vita. Aveva i capelli più biondi e gli occhi più chiari dei miei però le fattezze erano le stesse. A quell'epoca non mi ero ancora accorta che noi due, Alan e io, ci assomigliavamo abbastanza, non proprio come dei gemelli ma come avrebbero potuto assomigliarsi un fratello e una sorella. Se mio figlio assomigliava a me doveva anche assomigliare ad Alan. Poi arrivò la faccenda dell'esame del sangue. Il gruppo sanguigno di Richard era il B, non raro ma neanche molto comune, perché lo ha soltanto il sei per cento della popolazione. C'era stato un momento in cui non soltanto Rex ma anch'io ci eravamo offerti come donatori di sangue e sapevo che il gruppo di tutti e due era l'A. Forse a quell'epoca mancava la minuziosa esattezza che può offrire un esame del DNA, ad ogni modo era un indizio abbastanza solido. Richard non poteva essere figlio di Rex. Vent'anni più tardi, almeno vent'anni più tardi, stavo leggendo un articolo su un giornale in cui si parlava dei motivi per i quali le donne abortiscono ed esprimeva una teoria o perlomeno qualcosa di simile a una teoria. Secondo quell'articolo non si poteva affermare che fosse soltanto un caso se, in una famiglia, i figli erano tutti dello stesso sesso. Perché non supporre, per esempio, che l'uomo portasse in sé qualche gene difettoso che colpiva soltanto i maschi ed era tanto pregiudizievole da uccidere il feto maschile quando era, diciamo, di tre mesi. A questo modo la madre avrebbe potuto concepire sia maschi che femmine ma soltanto le femmine sarebbero giunte al termine della gravidanza. Feci qualche riflessione su tutto questo. Quando avevo abortito, ogni volta le mie creature erano sufficientemente formate da far capire che erano di sesso maschile. Perché non supporre che ci fosse qualcosa di difettoso in Rex e non in me, nei geni di Rex. Lui che aveva tanto desiderato un figlio non avrebbe mai potuto averne, e non aveva importanza con chi si fosse sposato. Mio figlio, il bambino che avevo dato alla luce, non era figlio suo, ma di Alan. Avrei voluto leggere tutto questo quando Richard era piccolo. Mi avrebbe fatto sentire meno colpevole. Avevo provato un gran senso di colpa e di paura per più di un anno prima che Rex morisse - di colpa perché lui aveva nel suo nido un figlio spurio, di paura perché temevo che lo scoprisse, che lo vedesse. Infatti Richard stava cominciando ad assomigliare ad Alan. Stava cambiando e cominciava a diventare come Alan, o perlomeno così credevo io. Può darsi che sia stato il fatto di sapere chi era il suo vero pa-
dre a farmelo pensare, ma ero convinta di poter vedere un cambiamento fisico in lui, e mi andavo persuadendo che presto anche tutti gli altri lo avrebbero notato. Se a suo tempo fossi stata al corrente di questa teoria dei geni, forse non mi sarei tormentata tanto. In fondo, avevo dato a Rex il figlio che lui non sarebbe mai stato in grado di generare. Voleva bene a Richard e ne era orgoglioso. Non si poteva neanche escludere che fosse rimasto con me invece di andare definitivamente da Charmian proprio per Richard. A suo tempo, però, questo mi aveva messo addosso ancora più paura dell'effetto che avrebbe avuto su di lui, un giorno, l'eventualità di guardare ben bene suo figlio in faccia e ritrovarci Alan. Rex morì. Il giorno in cui trovai il corpo di Charmian nel granaio e Alan mi ricondusse alla nostra casa e mi tenne stretta fra le sue braccia, quel giorno glielo dissi. Dovevo rientrare, non potevo lasciare Richard con Priscilla per tutta la serata. Dovevo tornare a prenderlo e portarlo a casa. Quanto a quello che ci siamo detti, me lo ricordo ancora parola per parola. Mi alzai dal letto e mi misi a sedere voltandogli le spalle. Poi dissi: «È tuo, Richard è tuo figlio.» «Sì, lo so» fece lui. Non saprei come descrivere il suo tono casuale, quasi indifferente. Avrei potuto dirgli che erano le dieci e cinque oppure che era spuntato il sole. «Lo sai?» «Certo che lo so, e fin da quando aveva pochi mesi. Lo stesso naso all'insù o retroussé, come lo chiamano. Ha i tuoi occhi, di questo sono sempre stato felice.» «Perché non me lo hai detto?» «Perché non me lo hai detto, mia cara? Era il tuo segreto.» «Oh, Alan, sei contento?» Lui si alzò e girò intorno al letto. Mi mise un braccio intorno alle spalle e mi tenne stretta contro di sé. «È la cosa migliore della mia vita» disse «dopo di te.» «E con tutto questo eri contento di non parlarne mai, di lasciare che venisse accettato come il figlio di Rex? Non lo avresti mai chiesto?» «Ho aspettato che tu me lo dicessi per nove mesi.» Erano passati nove mesi dalla morte di Rex. «Adesso che ci penso, avremmo potuto averne un altro in tutto quel tempo.» Sei terribile, dissi. Sei tremendo. Era quello che dicevo sempre quando lui tirava fuori una di quelle sue battute di cattivo gusto. «E un giorno do-
vremo dirglielo?» A questa domanda rimase in silenzio. Ci stava pensando. Tenevo la testa appoggiata alla sua spalla e lui me la sosteneva leggermente, muovendo avanti e indietro il pollice contro la mia guancia. «Sì,» disse finalmente «ma non ancora. Non fino a quando vivremo tutti e tre insieme o fino a quando Gilda se ne accorgerà, una delle due, la prima che capita.» Desiderai ancora più di prima di stare con lui e credo che fece nascere anche in lui ancor più forte lo stesso desiderio, adesso che ci eravamo detti quello che sapevamo, e tenevamo segreto, l'uno e l'altra, che Richard era figlio nostro. Una relazione illecita sembrava oh... non so, inappropriata. Avevo bisogno che i nostri rapporti avessero una certa dignità, ma più ancora di quello, sincerità e chiarezza, e che ogni cosa venisse fatta secondo le convenienze, suppongo, un amore e un legame che tutto il mondo potesse vedere. Noi tre insieme, Richard e i suoi genitori." "Oggi mi sento un po' meglio. Una remissione. Parlare in questa macchina come prima cosa al mattino mi risulta facilissimo, quando sono più fresca. Questa è l'ultima cassetta che ho intenzione di registrare e distruggere. Considero non solo questa ma anche quelle che l'hanno preceduta come un'esercitazione, una prova generale della cosa vera. La prossima sarà la cosa vera. È vero che guidare l'automobile, per me, è una cosa piena di associazioni sgradevoli. La stessa cosa vale per il fuoco, per quanto solo nel senso della cremazione. Ho lasciato le istruzioni del caso, voglio essere seppellita. Ma è l'aratro che mi preoccupa più di tutto il resto, o diciamo meglio che mi preoccupa a un livello profondo, al limite dell'inconscio. Le mie labbra, mentre ne sto parlando, diventano rigide. Formare le parole e pronunciarle per me è come, per alcune persone, dire il nome della creatura nei confronti della quale hanno qualche fobia: serpente, ragno, sorcio. Una o due volte è stata la risposta o parte della risposta necessaria a completare le parole crociate e l'ho scritto mentre qualcosa si contraeva dentro di me e un brivido mi correva dalla testa ai piedi. Quando mi capita di avere un incubo, è sempre quello. E lo strano è che non vedo mai il macchinario moderno, il macchinario vero e proprio che ha dato inizio a tutto questo ma l'attrezzo manovrato a mano, o trainato da un cavallo. Non riesco a capire perché. Non so spiegarmelo. Posso soltanto ricordare di aver visto una volta un oggetto simile e che si trovava in un
museo di cose del tempo andato. Ne ho visto le fotografie, naturalmente. A volte Alan mi chiamava la sua stella. «La mia stella» - perché Stella è il mio nome. Ci fu una volta in cui fece anche una citazione e, pregandomi di guardare le stelle, mi disse che avrebbe voluto essere il cielo in modo da potermi guardare con molti occhi. Ieri sera prima di andare a letto ho contemplato le stelle, affacciandomi a questa finestra come mi capita spesso di fare. Ho visto quello che qualcuno chiama il Grande Carro, e altri l'Orsa Maggiore oppure anche l'Aratro. La sua forma, la configurazione delle stelle, ha la stessa sagoma di quell'oggetto che c'è nel museo. L'effetto che ha avuto su di me è stato quello di farmi sognare un uomo che arava, un vecchio in abito medioevale, che spingeva l'aratro attraverso un campo pietroso, solo che la terra che lui rovesciava ai lati del suo attrezzo era composta di cenere e le schegge di selce che affioravano alla superficie erano ossa. E quando mi si avvicinò, mi accorsi che il suo viso era quello di Alan, diventato vecchio. Ecco ciò che ho sognato moltissime volte prima di sedermi alla finestra a contemplare le stelle. Dozzine di volte negli anni che sono passati. Due volte da quando sono qui. L'uomo che lavora con l'aratro generalmente ha il volto di Alan, ma non sempre. L'ultima volta che l'ho sognato era un altro uomo, quello che ho visto avanzare spingendo a fatica davanti a sé l'aratro attraverso un campo d'ossa, e aveva un viso differente - un viso che mi era capitato di vedere una volta sola, prima, senza dimenticarlo mai più. E quella volta si era impresso su quella specie di schermo della memoria che appare nei nostri sogni. Credo che sia successo perché ero rimasta a parlare con Genevieve più a lungo del solito quel giorno. Prima mi decido a cancellare tutto questo dalla cassetta, meglio è." 14 Maud era per Lena quello che Stella è per me. Me ne sono accorta quando Maud è morta e ho visto che Lena aveva la faccia gonfia e tumefatta per il gran piangere che aveva fatto. L'aveva assistita per tutta la notte, diventando la figlia che Maud non aveva mai avuto, tenendola per mano, quasi a cercare di prolungare la vita che vi pulsava fino a quando la morte è diventata troppo potente e ha dovuto dividerle a viva forza. Perfino se si è la direttrice di uno di quelli che Ned chiama i "vivai di nonni", perfino se si ha fame di soldi, si può ugualmente essere capaci di
provare degli affetti. Pensai come può essere pieno di contraddizioni il carattere di una persona e per qualche motivo questo mi diede un senso di paura. «Puoi anche non crederci, se vuoi» disse Sharon «eppure lei ha una lista di attesa di centenari che si mettono in coda per venire a stare qui. Spero che ci vedremo arrivare un altro vecchio maschietto, le donne mi scocciano.» Il furgone dell'impresa funebre era fuori quando Marianne arrivò. Era venuta da sola, al volante di una Volto Estate. Mentre lei saliva i gradini della porta d'ingresso gli uomini dell'impresa funebre ne uscirono e cominciarono a scenderli portando il corpo di Maud su una barella coperto da un telo nero. Ero anch'io sui gradini e per un attimo pensai che cadesse per terra svenuta. Le corsi vicino e la presi per un braccio. «Non è...?» «È la vecchia signora Vernon» dissi. «È morta durante la notte. Si sente bene?» «Oh, Jenny, certo che sto bene. Come sei gentile.» Marianne potrà anche essere un po' distratta, un po' scervellata, però non si può fare a meno di trovarla simpatica. È carino quando le persone si ricordano come ti chiami. E fa piacere quando parlano con te come se tu fossi una vecchia amica, non si schierano né contro né a favore di niente e non si danno delle arie. «È un mese che non vedo la mamma» disse. Veramente erano quasi due, ma lasciai correre. «Come mi sono sentita in colpa! Stavo facendo questo spot per la TV a Ipswich e mi sono detta, Marianne, sei una carogna fatta e finita se non approfitti di questa occasione per andare a trovare la mamma, ci arrivi in un baleno se fai l'autostrada. Poi, quando sono arrivata qui, ho pensato che fosse troppo tardi. Naturalmente è stato il mio senso di colpa a farmi prendere lucciole per lanterne, carissima. Sono una tale stupida!» Guardandola, allora, cominciai a farmi una vaga idea di quello che Stella volesse dire quando sosteneva che c'era qualche somiglianza fra Marianne e Rex. Naturalmente io non ho mai neanche visto una fotografia di Rex Newland però i grandi occhi scuri di Marianne è quelle sopracciglia così folte e nere non le ha prese da Stella. Fanno un contrasto interessante con i capelli che, a dir la verità, non sono affatto tinti anche se quel loro color oro-rosso non è proprio del tutto naturale. Anche il naso è un po' arcuato, credo che si chiami aquilino, mentre quello di Stella, perfino adesso, è un
bel nasino dritto. Indossava un paio di jeans, una camicia bianca e portava grossi orecchini d'argento. Mi fece venire in mente quello che Stella diceva sempre sull'aspetto delle attrici, su come sono abituate a truccarsi, e come si curano i capelli, sempre così puliti. L'accompagnai fino alla camera di Stella, però lasciai che entrasse da sola. Mi venne il sospetto che il lungo pacco che stava tirando fuori dalla borsa contenesse una scatola da duecento sigarette. Marianne era quella che riforniva Stella di nascosto. E Stella aveva dichiarato che avrebbe preferito farsi torturare piuttosto che confessare il suo nome. Lena mi aveva pregato di mettere in ordine e dividere le poche, modeste, cose che Maud aveva lasciato per i parenti, casomai fossimo riusciti a rintracciarli. Lei non aveva il coraggio di farlo personalmente, mi disse, e una volta tanto mi accorsi di non poterla criticare né di trovarla odiosa per questo. Forse avevo scoperto che anche lei era un essere umano, come chiunque altro. Dopo aver sbrigato quella faccenda e accompagnato Lois a passeggiare da un'estremità della casa all'altra, perché doveva fare un po' di esercizio fisico ogni giorno, servii il tè ad Arthur e presi un vassoio da portare anche a Stella. Nella sua camera c'era odore di fumo per quanto avessero aperto una delle lunette a ventaglio. Probabilmente, abituata com'ero a vedere Stella quasi ogni giorno non mi ero accorta fino a che punto fossero peggiorate le sue condizioni. Invece era più facile che lo notasse chi veniva a farle visita di tanto in tanto. Marianne incrociò il mio sguardo dietro le spalle di Stella e mi fece una smorfia di angoscia addirittura eccessiva. Le chiesi se gradiva una tazza di tè ma lei scrollò la testa e formulando le parole solamente con il movimento delle labbra, senza che ne uscisse un suono, mi fece capire che l'avrebbe presa dopo, appena uscita di lì. Buttò le braccia al collo di Stella e cominciò a salutarla, dicendo che sarebbe tornata nel giro di una settimana; così le lasciai e tornai indietro camminando lentamente lungo il corridoio. Marianne mi raggiunse correndo. «Oh, Jenny, non è atroce! Il cambiamento nella mamma! È stato un tale shock che non so neanche come spiegartelo!» «Lo so» dissi. «Però non soffre. Ed è molto lucida. E non si confonde mai, quando parla, e non biascica le parole. Anzi parla chiaro, e bene, come al solito.» «Possiamo dirci due parole in privato?» Entrammo nella sala di soggiorno. Lì c'era Carolyn con il tè su un carrel-
lo ma nessuno a cui servirlo all'infuori di Gracie, la quale si era appisolata su una poltrona con uno dei gatti di Lena in grembo. Marianne andò a sedersi vicino alla portafinestra. Non credo che sapesse di aver scelto la poltrona preferita di Stella, quella che lei sceglieva sempre per guardare le farfalle. Andai a prendere una tazza di tè per lei e una per me. «Dicevi che è molto lucida,» cominciò Marianne «ma hai l'impressione che ci sia qualcosa che la tormenta? Qualche pensiero che l'affligge?» Tutte le cose che mi dice, pensai, e per qualche motivo non vuole che tu sappia. «Che genere di cose?» «Non so fino a che punto tu sappia qualcosa, carissima.» Marianne mi frugò con gli occhi in faccia. Quelle sue pupille scure, quando si fissano su di te danno l'impressione di leggerti in fondo al cuore. «Non ti ha mai parlato di mio padre?» «Sì, di tanto in tanto.» «Non ti racconta come è morto? Cioè, dov'era stato prima di morire?» Non so per quale motivo le risposi di no, per quale motivo scrollai la testa. «Non è mai riuscita a superare la morte di mio padre. Oh, sì, non guardarmi con quella faccia, carissima, ne sono sicura. Mai. Lascia che te ne parli io. Ormai non ha più importanza, sono tutte cose successe talmente tanto tempo fa, e poi non è necessario andarle a dire che te l'ho raccontato io. Lui aveva questa relazione, cominciata chissà quando, con un'altra donna, capisci. Io avevo soltanto quindici anni ma, bene o male, lo sapevo, l'avevo capito già da un po'. Terribilmente precoce la ragazzina, vero? Ero come Amanda in Vite private, il mio cuore sempre in crisi e pieno di certi sofismi...» Forse avete capito, almeno vagamente, cosa intendesse dire. Io, no. «Sono sicura che la mamma non abbia mai saputo niente di quella storia. È così fiduciosa, Jenny, così innocente. Lui era andato in treno a trovare questa donna... ormai aveva rinunciato a guidare la macchina... e tornando indietro ha avuto un attacco di cuore. Se non fosse stato solo nella carrozza... be', a che cosa serve parlare di quello che avrebbe potuto essere, ti pare? L'hanno trovato quando qualcuno ci è salito a Bury e l'hanno portato all'ospedale ma quando ci sono arrivati ormai era morto. «Alla mamma non avrebbero mai dovuto far sapere dov'era stato. Avrebbero dovuto avere il buon senso di mentirle. È stato quello stupido dottore, quello che le ha domandato se sapeva dov'era andato e le ha rac-
contato del biglietto che gli hanno trovato in tasca, a rovinare tutto.» «E lei, Marianne, davvero sapeva tutto questo a quindici anni?» domandai. «Non proprio. No, non lo sapevo. Diciamo che l'ho ricostruito a poco a poco in seguito. Cioè, quando ero più vecchia. Ma non sapevo di Charmian, la sua amica si chiamava così, come non sapevo che vivesse a Elmswell e che lui fosse stato da lei, e anche la mamma non lo sapeva. Perlomeno in principio.» «Come fa ad essere così sicura?» Marianne parlò in tono quasi trionfante. «Per via del risultato, carissima, dell'effetto su di lei. Ne rimase letteralmente devastata. Impossibile ridursi in quelle condizioni se avesse saputo tutto fin da prima.» «Mi ascolti, Marianne,» dissi «io non sono una psichiatra. Mi spiego, non sono neanche un'infermiera. Ma semplicemente un'inserviente. Non so per quale motivo queste cose facciano effetto, e in questo modo, sulle persone. In fondo, sono molto ignorante.» «Sei stata gentile con la mamma, carissima, io so soltanto questo. Sei stata quasi più una figlia tu di quel che sono stata io.» È tremendo, vero? Le parole che ti vengono in mente, e che quasi ti salgono alle labbra, sono quelle che si ascoltano sempre alla televisione o si leggono sui rotocalchi: "Faccio semplicemente il mio lavoro". Naturalmente non fui tanto stupida da dirle ad alta voce. Invece le domandai: «Vuole forse lasciarmi intendere che lei, quando suo padre è morto, è rimasta come... devastata?» «Non subito. Ecco la cosa strana. Ma forse non è così strana, Jenny. Non pensi che esista anche lo shock ritardato? Passarono mesi prima che cominciasse a darci l'impressione di esserne rimasta colpita. Anzi, forse passò addirittura più di un anno, o un anno e mezzo, non so.» Le domandai che cosa volesse dire. Che cosa l'aveva convinta che Stella fosse in condizioni così brutte? Lei non mi rispose direttamente. «Naturalmente è stata la mamma che ha trovato Charmian, ma su questa faccenda tu saprai tutto.» «Come ha detto, scusi?» «Non sai la storia? Comincio a pensare che ti sto quasi trattando come una di famiglia, Jenny! Do per scontato che tu sappia la storia della nostra famiglia bene quanto noi. Charmian si sparò. Con una doppietta. Non conosco i particolari, non li ho mai conosciuti. Accadde molto tempo dopo la morte di papà, mesi e mesi, ma lo si spiega soltanto così. Non riusciva a
sopportare la vita senza papà. E fu mamma a trovarla.» «Sua madre l'ha trovata? Vuole forse dire che l'ha trovata morta?» «Andò a casa sua. Era stata gelosa di lei per anni; in fondo, la detestava, ma credo che abbia cominciato a trovarla simpatica dopo la morte di papà. Suppongo che le dispiacesse per lei. Ad ogni modo, andò a casa di Charmian e la trovò cadavere in una delle rimesse. Credo che quello sia stato l'inizio. Ma io ero così giovane, Jenny, e avevo i miei amici, e desideravo disperatamente di fare l'attrice. Chissà quante cose ci sono state che io non ho visto. Ad ogni modo so che prima della mia partenza da casa per frequentare una scuola di arte drammatica quando avevo diciassette anni, lei era caduta in una terribile depressione... be', diciamo che si era come rinchiusa in se stessa. E non credo che ne sia mai più venuta fuori, almeno per anni e anni.» «Ma questo accadde due anni dopo la morte di suo padre» dissi. «Sì, precisamente, proprio prima che io frequentassi la scuola d'arte drammatica. La mamma era depressa prima che io me ne andassi. Forse non si trattava esattamente di depressione, forse era qualcosa di più... insomma si comportava come se fosse... non solo afflitta ma anche sbigottita, frastornata. Tutte le cose che faceva prima, ecco, smise di farle. Per esempio, guidare la macchina. E a quell'epoca avevamo un'altra au pair, Maret se n'era andata, adesso ne avevamo una norvegese che si chiamava Aagot... sono incredibili i nomi che hanno quelle ragazze... e la mamma finì praticamente per lasciare che fosse sempre lei a guidare la macchina. Era Aagot ad accompagnare Richard a scuola e a fare la spesa. La mamma non ci saliva neanche più, in macchina. Aveva quell'amica, l'attrice, Gilda Brent, e il marito di Gilda, come diavolo si chiamava...» «Alan Tyzark.» «Giusto, Alan Tyzark. La mamma era abituata a vederli molto di frequente. Mi ricordo che era lui a portarci fuori per lunghe gite in macchina, gli piacevano i bambini, non ne aveva di suoi, e lei si era abituata ad andare in giro moltissimo con Gilda ma, come le prese la depressione, smise di vederli mentre avrebbe proprio avuto bisogno di un po' di amici da frequentare. Le uniche persone con le quali rimase in contatto, all'infuori di noi naturalmente, furono i Browning, i nostri vicini di casa. Ricordo di averle domandato per quale motivo non vedesse mai Alan e Gilda, e se non aveva voglia di guidare lei perché non si faceva accompagnare da Aagot a trovarli, ma lei no, non ne volle più sapere. «Rimasi alla scuola d'arte drammatica per tre anni e quando tornavo a
casa per le vacanze, di solito, cercavo di interessarla... be', diciamo alle cose, e alle persone. Forse interferivo troppo nelle sue faccende, ma lo sai anche tu come si può diventare a quell'età, ti credi una brava personcina che è convinta di fare la cosa giusta. Arrivai addirittura al punto di chiamare al telefono i Tyzark, perché avevo intenzione di pregare Gilda di venire a trovare la mamma, ma fu Alan a rispondere e mi disse che Gilda era via. Era sempre stato straordinariamente gentile con me ma, quella volta, e fu l'ultima che ci parlammo, avrei potuto essere una perfetta sconosciuta. Naturalmente era evidente che avevano litigato. La mamma sembrava determinata a litigare con tutti. Non andava in nessun posto, e non volle nemmeno prendere un'altra au pair quando Aagot ci lasciò. «Adesso si dedicava totalmente a Richard. Papà aveva voluto che frequentasse una scuola lontano da casa, diciamo una specie di convitto, e la mamma non ne volle sapere. Non voglio proprio dire che lo circondasse di tutte quelle attenzioni che si hanno per un bambino piccolo, no, non arrivava fino a questo punto, però lo voleva sempre con sé. Si potrebbe dire che viveva per lui. Poi, molto lentamente, cominciò a migliorare. Stiamo parlando di qualcosa che è successo più di vent'anni fa, e a quell'epoca la gente non veniva sottoposta a nessuna cura quando soffriva di depressione. A quell'epoca si era ancora convinti che l'unica soluzione fosse quella di cavarsela-da-soli, cioè che ognuno doveva ritrovare la guarigione in se stesso. Mi ricordo addirittura la moglie di mio cugino, Priscilla, che diceva alla mamma: "Non c'è nessun altro che può aiutarti, all'infuori di te stessa, Stella". E il risultato fu che la mamma litigò con lei. Non si rivolsero più la parola per mesi. «La mamma cominciò a star meglio e, pensa, che non parlò mai di quel periodo, come non ricordo che abbia mai più menzionato papà. Non parlava mai, assolutamente mai, di lui. Ma adesso... ecco, oggi sì. Ha detto soltanto: "Stavo pensando a tuo padre" e poi ha soggiunto: "Sono contenta di averlo sposato perché altrimenti non avrei avuto te". Carina, vero? Eppure sono convinta che la sua morte continui ad ossessionarla. È una cosa veramente atroce, capisci, carissima, doversi rendere conto, quando tuo marito muore, che tutta intera la tua vita di moglie è stata una bugia.» Non potevo dirle che aveva preso una cantonata. Non toccava a me far crollare le sue illusioni. Tornò di nuovo a scambiare qualche parola con Stella prima di andarsene e mentre uscivamo dalla sala di soggiorno cercai di spiegarle con tutto il tatto possibile che era meglio non lasciar passare troppo tempo prima di tornare un'altra volta.
«Se potesse combinare le cose in modo da tornare fra una o due settimane?» «Oh, carissima, non vorrai dire che lei potrebbe...» «Non so. Nessuno lo sa. Ma più che altro per non correre rischi. È così felice di vederla. Perché non venire per il suo compleanno?» «Il 3 dicembre compirò settantun'anni, Genevieve» mi disse Stella mentre le servivo la prima colazione la mattina dopo. «Un anno di più in quell'arco di tempo che è concesso all'uomo. Una volta era considerata un'età rispettabile. Non dovrei lamentarmi.» «Lei non si lamenta» dissi. «Hai un minuto? So che non dovrei monopolizzarti ma se tu avessi soltanto cinque minuti?» Andai a sedermi in fondo al letto. «La povera Marianne si è messa in testa che sono stata profondamente infelice per la morte di Rex. Non ti ha detto niente?» «Sì, qualcosa.» «Mi piace la tua discrezione! Non ti preoccupare, non ti domanderò che cosa ha detto.» Stella era di buonumore. Sarà anche stata di una magrezza scheletrica e aveva l'affanno - che si sentiva più forte quando parlava - ma la luce che le splendeva negli occhi rivelava una certa allegria. «Come sono felice di vedere mia figlia, Genevieve. E devo confessare che mi diverte accorgermi che ha capito le cose nel modo più sbagliato possibile, povero tesoro. Pensa un po' che era convinta che io fossi dispiaciuta per la morte di Rex! L'incomprensione è una cosa terribile eppure immagino che sia inevitabile se si vuole conservare un minimo di riserbo per quel che riguarda la propria vita privata. La verità è che provavo un'indifferenza talmente completa nei confronti di Rex all'epoca in cui se ne è andato, che la sua morte, per me, non ha avuto maggior significato di quello che avrebbe potuto avere la morte di un vicino di casa. Anzi probabilmente mi sarei sentita più afflitta per la morte del nostro vicino perché ho sempre provato una grande simpatia per John Browning.» Sospirò. «Charmian... be', sì, quello è stato diverso.» Ma la sua allegria fu di breve durata. Di colpo il suo viso assunse un'espressione molto seria. Stava mangiucchiando una fettina quasi trasparente di pane nero imburrato, ma mise da parte quello che ne avanzava con una piccola smorfia di disgusto. Ormai non mangiava praticamente più nulla.
Credo che fossero le tazze di tè e di caffè allungato col latte a tenerla in vita. Prima mi guardò, poi girò gli occhi dall'altra parte. «Charmian» disse. «Quanta pietà mi faceva. Ma credo che lei non lo avrebbe sopportato se lo avesse capito. Pensa un po', Genevieve, che non sapeva di Rex, non sapeva che era morto. Lui le telefonava ogni giorno, era quello che faceva da anni e anni, perfino quando...» abbozzò un sorrisino pieno di cinismo, e le sopracciglia, inarcandosi, segnarono di altre rughe la sua fronte «... tutto lasciava pensare che avesse ricominciato a recitare la commedia, cioè che fosse tornato al letto coniugale. Ogni giorno, un anno dopo l'altro, praticamente ogni giorno che Dio manda in terra ma, come è logico, non il giorno successivo alla sua morte. Rex era morto e lei non lo sapeva. Deve aver aspettato che la chiamasse e, invece, la sua telefonata non arrivò. Aspettò tre giorni prima di telefonare in studio. Fu suo nipote Jeremy che glielo disse. Ma immagina un po', Genevieve, quell'attesa, e quella paura che continuava a crescere... e, poi, accorgersi di non avere il coraggio di telefonargli a casa. Oh, che incubo... meglio non pensarci.» Non appena ricevuta la notizia, pensando a quello che poteva significare per lei, Stella si era completamente dimenticata di Charmian. O, diciamo meglio, non le era mai nemmeno balenato per la mente di avvertire Charmian. Arrivò perfino al punto di chiedersi, in seguito, se lo avesse fatto di proposito magari senza rendersene conto, se avesse torturato deliberatamente Charmian tenendola all'oscuro di quello che era successo. Non vedo come si possa commettere una crudeltà inconsciamente, perché se è una cosa che si fa inconsciamente non può essere crudele. D'altra parte Stella è fatta così. Niente di tutto quello che era successo poteva venir attribuito a lei, non era colpa sua, eppure si sentiva ugualmente piena di rimorso. Disse di aver provato più dolore per Charmian di quanto non le fosse mai capitato di provare per nessun'altra persona in tutta la sua vita. Voleva farle capire che, da anni, non le importava più niente della loro relazione segreta. Infatti da anni non provava più amore per Rex. E questo bastò perché Charmian si sentisse ancora peggio e la rimproverasse di non voler bene a Rex che "aveva tanto bisogno di amore". Chissà per quale motivo si era convinta che Charmian volesse parlare con lei e, invece, Charmian si limitò a criticarla per non aver proposto a Rex il divorzio. Se non lo amava, per quale motivo voleva rimanere sposata con lui? Un malinteso, disse Stella, soltanto un malinteso. Ma poi era accaduto qualcosa che prima sarebbe stato inconcepibile.
Dalla morte dell'uomo che era stato il marito di una di loro e l'amante dell'altra, era nata una relazione. Col tempo, magari, sarebbero diventate amiche, ma a loro questo tempo non venne concesso. Cominciarono a vedersi, a frequentarsi, e dopo un po' smisero di parlare di Rex e si misero a chiacchierare, invece, delle cose di cui si occupano le signore che vivono in campagna, delle case che si costruivano nei villaggi e della nuova strada e come venissero sradicate le siepi e quanto costasse la caccia. Poiché Gilda era riuscita a inserirsi in gran parte delle attività di Stella, anche lei, a volte, andava a trovare Charmian. Telefonava al mattino presto per cercare di sapere cosa Stella avrebbe fatto durante la giornata e, se questa includeva una visita mattutina a Charmian, le annunciava che l'avrebbe accompagnata. Oppure invitava tutte e due da lei, con quel modo di fare autoritario e arrogante a cui Stella, perlomeno, trovava così difficile reagire. E tutte e tre chiacchieravano e prendevano il caffè e se ne stavano a conversare piacevolmente l'una in casa dell'altra. Doveva essere stata una situazione imbarazzante: tre donne che, tutto sommato, non provavano una vera simpatia reciproca, Charmian ancora innamorata del defunto marito di Stella, Stella innamorata del marito vivo e vegeto di Gilda e Gilda che proiettava sempre sulle altre l'immagine che aveva creato di se stessa, cioè quella di una donna superiore, più sofisticata, più intelligente, più bella ed elegante. E Stella, la "piccola", finiva per essere trattata con condiscendenza dalle altre due. Per Charmian era la donna che il suo amante aveva sposato ma non aveva mai amato e, soprattutto, era la donna che veniva dall'ambiente sbagliato e non avrebbe mai dovuto essere la moglie di Rex. Ai suoi occhi Rex aveva sposato una persona che apparteneva a una classe sociale inferiore. Gilda, naturalmente, trattava Stella come una "sempliciotta" ignorante e, per tutta la strada del ritorno a casa, si domandava incuriosita che cosa poteva aver trovato Rex in Charmian. E cercava di indovinarlo esprimendosi in termini sessuali, nudi e crudi. Charmian "aveva un aspetto talmente orribile" che doveva esserci stato qualche altro motivo, magari aveva avuto qualche strano "ascendente" su di lui, si era servita di qualche tecnica particolare per fare l'amore o, perché no?, di qualche... be', Stella la definì "particolarità fisiologica". Chissà Gilda come l'aveva chiamata. «Ma perché lei accettava e sopportava tutto questo?» le domandai. «Forse mi facevano compassione sia l'una che l'altra. Hai mai sentito parlare della madre dei Gracchi?» Be', naturalmente, no.
«Era una donna romana. Un'amica, dalla quale era andata in visita, le aveva mostrato tutta la sua collezione di gioielli, e ce n'era un numero infinito, perché li ammirasse, e se ne vantava. Lei mandò a chiamare i suoi due figli e, quando si presentarono, esclamò: "Ecco i miei gioielli". Io avevo i miei gioielli, Genevieve, avevo i miei figli, e avevo anche Alan.» Stella aveva finito per convincersi che Charmian cominciasse "a venirne fuori" nello stesso modo in cui pochi anni dopo la gente si sarebbe persuasa che anche lei avesse cominciato a buttarsi i propri guai dietro le spalle. Una mattina, dopo aver combinato, ma senza prendere un appuntamento vero e proprio, di passare a salutare Charmian mentre andava a Ipswich, Stella arrivò a Elmswell verso le undici. L'automobile di Charmian si trovava sul viale che non portava al garage, perché non l'aveva, ma al gruppo di costruzioni coloniche dietro alla casa. Sembrava che non ci fosse nessuno, anche se c'era la macchina. Stella suonò il campanello un paio di volte e, quando non vennero ad aprirle, pensò che Charmian fosse in giardino. Ormai l'estate stava per finire, la giornata era bella. Charmian coltivava le dalie, era orgogliosa delle sue dalie. Stella proseguì il cammino lungo la facciata laterale della casa. «C'era un grande filare di cipressi che fungeva da schermo protettivo» disse Stella. «Erano molto antichi, molto più vecchi della casa. Il legno di cipresso è quasi eterno, lo sapevi? Le porte di Costantinopoli erano fatte di legno di cipresso e sono durante quasi mille anni.» Un vasto cortile lastricato in pietra con una serie di costruzioni che, in passato, erano state le scuderie si apriva su un lato, il caseificio e la ghiacciaia sull'altro, ormai in disuso da tempo, una rimessa che altri avrebbero trasformato in garage, con un appartamentino al piano superiore, mentre la famiglia di Charmian non lo aveva mai fatto. Il giardino più oltre era cinto da muri. Alberi da frutto che erano stati coltivati come piante rampicanti si appoggiavano con i loro rami a questi muri rivestiti di lastre di selce e sotto, nelle bordure, c'erano dalie, giganti e non, quelle che si chiamano cactus e pom-pom, e le Bishop of Leandaff e le King Albert's Mourning. E c'erano anche pianticelle di Helenium giallo senape e crisantemi rosa. Stella imboccò il sentiero sempre in cerca di Charmian, chiamando Charmian... e si aspettava che la sua figura, un po' da strega, le apparisse in mezzo ai fiori fra i quali era chinata, rialzandosi e facendole un goffo segno di saluto col braccio. Tornando di nuovo indietro e passando fra quei giganteschi cipressi che sarebbero durati in eterno, diede un'occhiata nelle scuderie e nella latteria e infine arrivò alla rimessa. Si mise a cercare dap-
pertutto perché, a quel punto, cominciava ad essere preoccupata. Pensò che Charmian poteva essersi fatta male, o magari ferita in qualche modo mentre lavorava in giardino. Poteva essere svenuta. Erano fin troppo vere, l'una e l'altra cosa. Stella la rinvenne sul pavimento della rimessa. Per quanto avesse ormai quarantacinque anni non le era mai capitato di trovarsi davanti a un cadavere e, quindi, fu una vera sfortuna che il primo a capitarle sotto gli occhi fosse proprio quello di una persona che si era fatta praticamente saltar via metà della testa. Il sangue, Stella disse, oh, il sangue, non riuscirò mai a dimenticarmene, non riuscirò mai a scacciare dalla mia memoria il ricordo di quella visione. In seguito, all'inchiesta alla quale fu costretta a partecipare, venne spiegato da chi, per professione, deve occuparsi di queste cose e fornire i chiarimenti necessari, come Charmian lo avesse fatto. Aveva preso una doppietta, calibro dodici, e tenendosi ben eretta se n'era appoggiata la canna non in bocca, perché sarebbe stato impossibile, ma sotto il mento, reggendola con la mano sinistra e schiacciando il grilletto con il pollice della destra. Il risultato era stato talmente terribile che Stella si era messa ad urlare. Non c'era nessuno, nelle vicinanze, a sentirla ma lei aveva urlato e urlato, e continuato a urlare. A quell'epoca nessuno aveva il telefono in macchina, disse Stella. E in ogni caso, lei non sarebbe stata in grado né di afferrare il ricevitore, né tanto meno di guidare, tanto le sue mani, il suo corpo, dalla testa ai piedi, erano scossi da tremiti. Uscì correndo sulla strada principale, chiamando, piangendo, urlando che Charmian era morta, che Charmian si era uccisa. Ormai aveva perduto completamente il controllo di sé, quasi quasi non riusciva più a capire quello che stava facendo, era troppo tardi per prestare aiuto a Charmian, era Stella ad avere bisogno che qualcuno soccorresse lei, invece. La polizia, quando arrivò, le chiese se non c'era nessuno con cui potersi mettere in contatto perché venisse a tenerle compagnia. E lei disse, Alan Tyzark. Lo disse senza pensare. Fu una cosa automatica, lui era la prima persona presente nei suoi pensieri, lo era sempre stato. Sotto shock come si ritrovava, aveva dimenticato Gilda e il caso volle che lui fosse solo a casa, e Gilda fuori. Arrivò immediatamente. «Venne con la macchina di Gilda» disse Stella. «Io ero alla stazione di polizia, stavo bevendo una tazza di tè. Si erano mostrati molto gentili con me, pieni di premure. Guardavo fuori dalla finestra aspettandolo e quando vidi quell'automobile rossa che arrivava, quella Anglia rossa, pensai oh,
no, non è lui, è Gilda. Perché quella era la macchina di Gilda, l'Anglia, capisci, non la sua, l'aveva comperata di seconda mano pochi mesi prima.» «Una Ford Anglia rossa?» domandai. «Lui aveva una Rover, grigia. Tutte e due molto vecchie, non potevano permettersi niente di più nuovo. Così pensai che ci fosse Gilda a bordo della macchina rossa e invece no, era Alan, da solo. Mi mise un braccio intorno alle spalle, mi strinse a sé, non gliene importava niente se qualcuno ci vedeva, e disse: "Adesso ti porto a casa". Pensai che alludesse a quella di Bury e invece mi condusse alla nostra casa dove ci trovavamo sempre, mi condusse alla Molucca. E ci rimanemmo tutto il giorno. Ci sdraiammo sul letto... non per fare l'amore, non intendevo dire questo... e lui si limitò a tenermi stretta tra le braccia e rimanemmo così, distesi l'uno accanto all'altra fino alla sera. Aveva perfino pensato a incaricare Priscilla di occuparsi di Richard. Non so come lo abbia spiegato a Gilda, non so per quale motivo lui avesse la sua macchina e Gilda, invece, quella di Alan, non so che cosa le abbia detto. Passarono settimane prima che mi capitasse di parlare di nuovo con lei.» «Stella,» dissi «l'automobile rossa, quella che c'è nel garage della sua casa, è di Gilda?» Lei mi lanciò una di quelle sue occhiate in tralice, così particolari... Sembrava l'espressione di una bambina accusata di aver fatto qualcosa di brutto, ma non poi tanto brutto, che non è ancora disposta a confessarlo. Colpevole ma divertita, vagamente infastidita. «E se anche lo fosse?» «Credevo che lei mi avesse detto che Gilda è morta in un incidente d'auto.» «Stavo parlando di Charmian. Lei mi scrisse, sai. Mi mandò una lettera. O meglio diciamo che la mandò a casa mia, indirizzata a me anche se in fondo era per Rex. L'aveva scritta a Rex che era morto. La sua versione di uno di quei messaggi che lasciano i suicidi.» Charmian doveva essere uscita a imbucare la lettera quella mattina stessa o forse la sera prima. Sulla busta il timbro portava la data del giorno della sua morte e a Stella arrivò l'indomani. La sua calligrafia era sempre stata illeggibile tanto che lei si era abituata a scrivere a macchina ogni cosa, su una portatile antiquata che aveva sempre avuto in casa. Aveva scritto semplicemente: "Non posso vivere senza di te. Mi ci sono provata ma le giornate sono troppo lunghe". Era firmato proprio in fondo al foglio con quel suo scarabocchio che doveva significare "Charmian" ma avrebbe po-
tuto essere qualsiasi altra cosa. Stella sapeva che il suo dovere sarebbe stato quello di consegnare la lettera al coroner. Però, prima, volle mostrarla ad Alan. Lui la guardò e poi guardò lei e disse: «Sono i sentimenti che provo anch'io. Stanno suonando la nostra canzone.» «Tu però non ti ucciderai» fece lei. «Come puoi sapere quello che farei se tu morissi?» Stella disse di aver rabbrividito quando gli sentì pronunciare quelle parole. «Cosa devo fare della sua lettera?» «Niente» rispose lui. «Lascia che me ne occupi io.» Poi le domandò se aveva davvero voglia di vederlo stampato sui giornali, di veder stampata l'ammissione che Charmian era stata l'amante di Rex. No, lei non ne aveva voglia. E si convinse che fu questo il motivo per il quale Alan fece sparire la lettera di Charmian. Perlomeno lo credette al momento. «Non voglio andar contro la legge» gli disse. Lui rise. «Perché no?» le rispose. «Via, fai uno strappo! In ogni caso ormai è qualcosa che ti è sfuggito dalle mani. Ce l'ho io. La metterò negli archivi.» «Ma se non ne hai, di archivi» obiettò lei. «Adesso sì, che ce li ho.» Naturalmente tutto questo richiese molto più di cinque minuti per essere raccontato. La voce di Stella era rauca e la sua pelle aveva perduto ogni parvenza di colore. «Non deve affannarsi» dissi, le portai via il vassoio e le tirai su la coperta fino alle ginocchia. «Quello fu l'inizio» riprese lei. «Il biglietto che Charmian mi mandò, quello fu l'inizio.» «L'inizio di che cosa?» domandai, ma non ottenni risposta. Quando si vive una storia d'amore più o meno del mio genere, a differenza di Stella, non si hanno molte occasioni di parlare con la persona di cui si è innamorati. Tanto per cominciare, gli incontri non si prolungano mai molto, sono sempre momenti rubati qua e là, e secondariamente il tempo è occupato quasi tutto a fare l'amore. Dico a me stessa che avremo tempo a sufficienza per parlare quando starò con Ned per sempre. Ogni giorno mi avvicinavo di un passo in più alla decisione che sto per prendere
di rimanere con lui tutto il tempo, anche se fino a quel momento non gliene avevo ancora parlato, cioè alla fine di novembre, e non avevo detto niente a Mike, non avevo organizzato niente, era ancora tutto nella mia testa. Ma ormai cominciavamo a seguire una certa routine nei nostri incontri a casa di Stella e, in quegli incontri, c'era pochissimo spazio per i discorsi. A memoria d'uomo quello era stato il novembre più mite che si ricordasse; si sarebbe potuto dire che era un mese freddo solo se fosse stato, per esempio, settembre. Eppure era già abbastanza freddo. Io cercavo di riscaldare quelle stanze nel miglior modo possibile prima che lui arrivasse, portavo con me una bottiglia di vino e pensavo ad aprirla perché fosse della temperatura giusta, provvedevo ad accendere le candele, ad avere lenzuola di bucato nel letto ma anche un bel calduccio. E dopo che avevamo fatto l'amore sotto le coperte pesanti, com'era inevitabile - e a quel punto io cominciavo a desiderare in modo struggente la libertà della luce, dei nostri corpi nudi allo scoperto, e un po' di libertà di movimento per le nostre bocche e le nostre mani - dopo quello, restavamo lì distesi l'uno accanto all'altra, stretti stretti e parlavamo anche, un poco. Io non avevo mai molto da raccontargli, soltanto qualche piccolo episodio della mia giornata. A ben pensarci, la mia vita non è eccitante, o piuttosto, lui è l'eccitazione nella mia vita. Invece a lui succedono moltissime cose, non fa che incontrarsi in continuazione con persone intelligenti e famose, e ha sempre da raccontarmi ciò che ha fatto e che progetta di fare. Quando ci incontrammo, dopo che Stella mi aveva parlato della lettera nascosta, credo che lui sarebbe stato felicissimo di non dire neanche una parola. Quando finiamo, e raggiungiamo quel momento culminante, quel "qualcosa" di meraviglioso che proviamo contemporaneamente, quando la mia mente sembra che si apra, mi sfugge un grido nella sua bocca che copre la mia. E quando ci stacchiamo l'uno dall'altra lui mi tiene stretta contro di sé a lungo. Mi tiene stretta e mi accarezza i capelli, mi bacia le spalle, mi prende la testa perché io l'appoggi, a riposare, su di lui. Non si muove mai per scostarsi da me, né mi volta le spalle. Di tanto in tanto capita che ci bisbigliamo qualcosa per un po', e poi lui si alza e va a prendere il vino. È quello il momento in cui parliamo, perché ci capita spesso di fare ancora l'amore, e non siamo come altri amanti, non abbiamo tutta la notte a nostra disposizione. Ma quella volta fui io che andai a prendere il vino e a versarne un po' per lui e un po' per me nei bicchieri di cristallo di Stella che, un tempo, aveva-
no usato lei e Alan Tyzark. E quando girai intorno al letto con il bicchiere in mano mi accorsi che si era addormentato. Mi piace infinitamente guardarlo dormire, perché allora il suo viso diventa incantevole, bellissimo. Sembra molto giovane e dolce, gentile. Io invece divento di malumore quando lui dorme perché è il momento in cui si allontana da me. Così bevvi il vino che avevo nel mio bicchiere e rimasi a guardarlo e quando si mosse un poco pronunciai il suo nome e gli accarezzai il viso e lo baciai. Lui si svegliò subito, si mise a sedere sul letto e mi sorrise. Volevo che mi parlasse del suo lavoro, di quello che stava facendo, e lui cominciò a raccontarmelo, a descrivermi le ricerche per un programma che stava preparando su un certo gruppo di antiche famiglie del Norfolk. Fu per un puro caso, immagino, che gli domandai come fosse possibile sapere le date di nascita e di morte, come si poteva farlo e se era facile. Prima non ci avevo mai pensato, che doveva esserci qualche ufficio centrale in cui si teneva la registrazione delle date di nascita e di matrimonio e di morte di ogni persona; avevo sempre creduto che tutto questo si trovasse nei registri parrocchiali. Ma Ned disse di no, li conservavano in qualche posto a Londra ed era là che lui sarebbe andato a controllare le date relative ad alcune persone di quelle famiglie. Fu allora che pensai di domandargli di fare qualcosa per me. Prima di quel giorno, a dir la verità, non gli avevo mai chiesto niente, non gli avevo mai detto, potresti procurarmi questo, oppure potresti farmi quello? Eppure è quello che succede alle persone quando stanno insieme, vero? Si potrebbe definirlo come una specie di dipendenza l'uno dall'altro oppure si potrebbe chiamarlo aiuto, conforto, assistenza. Mi sembrava che avrebbe potuto essere il simbolo della nostra intimità, della nostra unione totale e assoluta, potergli dire, saresti disposto a fare questo per me? «Quando andrai a fare quello che mi stai dicendo, potresti cercare anche qualcosa per me, la data della morte di una persona?» «Lo farò senz'altro» rispose lui «se mi sarà possibile.» Sembrava talmente felice che gli venisse offerta un'occasione simile che mi meravigliai di non averglielo mai chiesto prima. «Il nome è Gilda Brent» dissi. «L'attrice? Non verrai a raccontarmi che una delle tue vecchie signore la conosceva?» Ned ha un'ottima memoria. «Farò del mio meglio. Quando è morta?» «Circa venticinque anni fa. È un'indicazione sufficiente? D'altra parte è tutto quello che so.»
«Era proprio Brent il suo vero nome?» Mi venne in mente la collezione di figurine delle sigarette. Gli dissi che veramente il suo vero nome era Brant e che da coniugata si chiamava Tyzark, e doveva essere sulla cinquantina all'epoca della sua morte, se questo poteva essergli di qualche utilità. Adesso che avevamo cominciato, avrei voluto parlare ancora un po', riferirgli qualcosa di quello che Stella mi aveva raccontato, descrivergli Charmian e il suo amore per Rex Newland. Gli amanti hanno sempre voglia di parlare di amore, vero? E raccontargli tutto dell'infelicità di Charmian, delle sue sofferenze senza speranza, perché avevano fatto vibrare una corda nel mio cuore anche se io non avevo mai sperimentato niente di simile e speravo che non dovesse mai succedermi. Ma non era quello che Ned voleva. «Non parliamo più di questa gente vecchia e di morte e di storie antiche, tristi e così lontane da noi» mi disse, e mi prese di nuovo fra le braccia. Soggiunse: «Dimmi che mi ami, Jenny, dimmi che mi ami.» 15 Il sabato, che era il compleanno di Stella, stavo uscendo dal Legion dove avevo appena portato la spesa alla mamma quando vidi il furgone di un'impresa di traslochi fuori dai Sorbi Selvatici. Non era molto grande, più o meno delle dimensioni di una Land Rover, e avevano noleggiato soltanto quello, per sbaraccare tutto loro, direttamente, senza l'aiuto di nessuno. Del resto la casa era ammobiliata e non credo che ci avessero portato molta della loro roba. Però fu un vero e proprio shock, per me, vedere Ned. Mi capita sempre quando non mi aspetto di incontrarlo, e non è uno shock piacevole quando lui fa qualche cosa che è connesso così chiaramente con Jane e Hannah. E quel che stava facendo in quel momento - portava fuori un cartone pieno di libri per caricarlo sul furgone - mi sembrò un atto che mi escludeva totalmente dalla sua esistenza. I libri non erano miei, neanche in parte, non sapevo neanche come fossero intitolati, e per un po', senza che lui se ne accorgesse, rimasi a osservarlo. Jane venne fuori a dirgli qualcosa e lui rispose e io mi sentii cogliere all'improvviso da una voglia talmente struggente di parlargli e di costringerlo a guardarmi che quasi quasi mi lasciai sfuggire un grido. Mi dominai, però provai a salutarli alzando la voce, da lontano, e tutti e due si voltarono verso di me. Lui disse: «Salve, Jenny, come stai?» Come se io fossi la mamma o la
vicina di casa. Ma cosa poteva fare di diverso? Però rimasi costernata. Intanto mi sembrava di vedere la sua faccia sul guanciale, gli occhi chiusi e quel mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra nel sonno. Pensai che non sarei stata assolutamente capace di parlare, lo credevo impossibile, invece riuscii a dire qualcosa. Anzi penso che la mia voce avesse il solito tono normale. Domandai quando avevano intenzione di andare via e Jane rispose che quello era il loro ultimo giorno di permanenza. «Abbiamo trovato un posto a Southwold. Ad Hannah piace talmente il mare!» Per me non aveva importanza. Non faceva nessuna differenza, in quella casa ero stata soltanto un paio di volte, e qualsiasi cosa fosse successa, non ci sarei mai più ritornata. E quanto a loro, non avrebbero mai abitato a Southwold tutti e tre insieme, no, insieme mai. Forse ci sarebbero andate Jane e Hannah, ma Ned sarebbe stato con me. Jane, mormorando qualcosa sul fatto che dovevano sbrigarsi a finire, rientrò in casa e Ned si voltò a guardarmi con un'espressione così intensa e ardente di amore negli occhi che perfino io, smaniosa com'ero, mi sentii soddisfatta. Gli bisbigliai «Telefonami» e lui fece segno di sì con la testa. Il sabato è sempre il mio giorno di libertà; però, stavolta, avevo intenzione di andare a trovare Stella. Invece di imboccare la High Street presi la strada più lunga, e feci una deviazione perché non volevo più passare davanti a quella casa che a poco a poco si svuotava. Non volevo rivedere Ned. Se questo può sembrare pazzesco, ha la sua spiegazione. Quando erano insieme, lui e Jane, avevo sempre il terrore di vedere fra loro qualche segno di amore o che si scambiassero qualche gesto cameratesco o anche soltanto di puro e semplice affetto, i loro sguardi che si cercavano, un sorriso intimo, segreto, con un significato tutto speciale... Non mi era mai capitato, e non poteva capitarmi, conoscevo troppo bene Ned perché fosse possibile, ma la paura rimaneva. Avevo paura di uno spettacolo impossibile che mi avrebbe rovinato la giornata, la settimana, l'esistenza. L'amore è una cosa che mette spavento. Mi rendo conto di essere così spaventata del tempo, spaventata di perderlo, spaventata di essere scoperta, ma più ancora di tutto questo, vivo nel terrore di non essere alla sua altezza, di non sapergli dare ciò che desidera, che lui possa cambiare perché è rimasto deluso. E Stella mi aveva detto di aver provato quella paura ogni giorno, prima dei loro incontri, dopo i loro incontri, di aver provato paura di Gilda e gelosia. Come me, anche lei temeva di scorgere un segno di amore fra Alan e Gilda. Un pomeriggio d'estate era andata da loro e senten-
doli parlare, aveva spalancato la porta ed era entrata senza bussare. Gilda tentava di tirar fuori le note di una musica al pianoforte e lui le stava seduto vicino, sullo sgabello, e le cantava le parole; cercavano insieme di ricordare chissà quale vecchia canzone. Una cosa da niente, ma ne rimase annientata. Ma come si poteva non darle peso, quando lei era libera e sola ma Alan stava ancora con Gilda? E poi aveva anche paura di quel quadro, quel nudo. A volte aveva quasi l'impressione che il mezzo sorriso sul volto del ritratto fosse diretto a lei, beffardo e derisorio, che la Gilda dipinta le stesse dicendo: "Guardami, guarda la mia bellezza. Te la senti di gareggiare con la mia bellezza?". E quando si trovavano in quella stanza Gilda andava sempre a mettersi in posa di fronte al quadro. Aveva sistemato un divano in modo che si avesse l'impressione che il dipinto ne emergeva, ne veniva fuori. E riusciva sempre a mettersi a sedere su quel divano e a costringere Stella a prendere posto nella poltrona di fronte. Ogni volta che alzava gli occhi, Stella era costretta a guardare quella Gilda nuda sui tacchi alti, una mano che si gingillava con il filo di perle che le scendeva fra i seni. Si sarebbe potuto pensare che Alan chiedesse a Gilda il divorzio. Non avevano figli. Non era una questione di soldi, Gilda era in condizioni molto più floride di lui. Si sarebbe trovata un altro uomo, parlava sempre a Stella di tutti gli uomini che erano innamorati di lei. E per quel che riguardava la sua situazione finanziaria, anche Stella poteva essere considerata una persona benestante. La casa di Bury era sua, come le azioni di Rex nella società e la sua assicurazione sulla vita oltre a tutti gli investimenti che aveva fatto. Per lei non aveva la minima importanza che Alan non avesse un centesimo all'infuori dei diritti d'autore di Figaro e Velluto nonché il modesto reddito che gli veniva dai quadri che vendeva nei pub. «Non te l'avevo detto, Genevieve?» le domandò. «Era tutto quello che poteva fare. Cominciò a dipingere paesaggi e convinse i padroni dei pub a metterli in mostra per venderli. Be', non solo paesaggi.» Sembrava quasi che si vergognasse. «Quadri di cani e gatti e volti di fanciulle e donne in crinolina. E anche disegni dei villaggi del Norfolk per i biglietti natalizi. «Io gli dicevo che i soldi non avevano importanza, ne avevo a sufficienza per tutti e due, ma lui detestava l'idea di doversi far mantenere da me. E ripeteva che Gilda non avrebbe mai acconsentito a divorziare almeno fintanto che la legge era quella che era. Sarebbe stata costretta a fare il mio nome, e lui, di questo, non voleva saperne.» Avevano sentito dire, o perlomeno era stata Stella che lo aveva sentito
da Jeremy Newland, che ci sarebbero stati cambiamenti radicali nella legge sul divorzio, in futuro, e già si cominciava a parlarne. Il disfacimento irreversibile del rapporto matrimoniale sarebbe stato motivo sufficiente per il divorzio dopo una separazione di due anni, se entrambi i coniugi vi acconsentivano, o dopo cinque anni se uno solo dei due avesse dato il proprio consenso. E quella legge passò, un giorno. Era stata la legge che aveva consentito il divorzio di papà e mamma, e con loro non si era posto nessun problema sulla questione del comune consenso, e la mamma lo aveva ottenuto allo stesso modo anche dal marito numero due. Venne chiamato Matrimonial Causes Act 1973 anche se a parer mio Divorce Causes Act sarebbe stato più appropriato. Ma nel 1969, per Alan Tyzark tutto questo era ancora molto lontano. Stella disse che non le importava niente di sposarsi, voleva semplicemente che Alan venisse a vivere con lei. Ma Alan non voleva saperne. Sosteneva che Stella non poteva capire come Gilda si sarebbe comportata. Gilda avrebbe reso la loro esistenza un inferno. St Michael's Farm era sua, completamente sua, e se lui fosse andato a vivere con Stella, Gilda avrebbe dato inizio alle pratiche per il divorzio, avrebbe citato come responsabile Stella e avrebbe portato via a lui tutto quanto possedeva. E già Gilda, così disse, aveva qualche sospetto sul suo conto. Un paio di volte, quando lui era andato in un albergo di Ipswich con dei quadri, lo aveva seguito. Una sera alle nove era uscito in Crown Street e aveva visto l'automobile di Gilda parcheggiata lungo il marciapiede di fronte. Gilda si era creata il ruolo di investigatrice privata. Nel parcheggio c'erano l'automobile di Richard e anche quella di Marianne. Questo bastò a farmi pensare che avrei anche potuto evitare di farmi vedere, che era inutile quando aveva i suoi figli a tenerle compagnia, ma le avevo portato un regalo col relativo bigliettino e non ero obbligata a fermarmi molto. Nell'ingresso c'era Sharon che stava trafficando con qualche cosa dietro il banco della reception. Al sabato, veniva sempre. Mi fece segno di avvicinarmi e mi sussurrò con un tono di voce addirittura drammatico: «Maud ha lasciato a Lena cinquantamila sterline, lo sapevi?» Mi accorsi di non saper cosa dire. «E tre volte tanto ai gatti e agli asinelli; però cinquantamila sterline sono un bel gruzzolo, se proprio vuoi sapere come la penso. La prossima, in lista, sarà Stella, e vedrai se non ho ragione. Adesso c'è anche lei in camera, con i familiari, e sta facendo la leccapiedi in un modo tale che vien voglia
di vomitare.» Ma Lena venne fuori dalla camera di Stella proprio mentre io svoltavo nel corridoio. Era rossa in faccia, sembrava vagamente sconcertata; suppongo che avesse ricevuto la notizia soltanto quella mattina e invece di farmi un mucchio di critiche perché mi comportavo troppo amichevolmente con uno dei suoi ospiti, perché mi facevo vedere di sabato e via dicendo, mi rivolse uno di quei suoi sorrisi a trentadue denti e arrivò addirittura al punto di aprire la porta della camera di Stella per farmi entrare. Io avrei preferito bussare, prima, ma ebbi l'impressione che nessuno ci badasse se arrivavo senza tante cerimonie. Stella aveva sei biglietti di augurio per il compleanno sullo scrittoio e due sul comodino. Sul letto, allargata sulla carta velina e su una carta rosa lucida di quelle da regalo, c'era una splendida vestaglia imbottita, a patchwork con un motivo a riquadri di vari tessuti, a quadrettini e a boccioli di rosa. Richard invece le aveva portato una intera serie di libri, la Danza alla musica del tempo di Anthony Powell. Io guardai Stella e poi quella dozzina di libri e pensai, saranno gli ultimi che leggerai e, chissà come, intuii dall'espressione di Richard, dal suo sorriso e dagli occhi rattristati, che anche lui pensava la stessa cosa. Le consegnai il mio bigliettino con gli auguri e le due cassette che ero stata a comperare a Diss. Non me ne intendo affatto di musica però mi ero ricordata che Richard diceva sempre che le piaceva la musica da camera, così mi ero consultata con Ned e lui mi aveva consigliato di comperare una Serenata per Strumenti ad Arco di Dvorak e un pezzo di Boccherini. Stella accettò il mio regalo, mi prese la faccia fra le mani con una stretta che mi meravigliò tanto era forte, e mi baciò. Il suo viso coperto di rughe era morbido come la seta e coperto di cipria come una torta dalla glassa. Il mio biglietto di auguri venne messo sullo scrittoio con gli altri, le cassette vicino al registratore.; «Vogliono portarmi fuori a pranzo, Genevieve» disse Stella. «Ho provato a spiegare che non mangio quasi niente però Marianne dice che si potrebbe provare la nouvelle cuisine.» Marianne mi guardò sollevando le sopracciglia. «È abbastanza in forze per venire, vero, Genevieve?» «Se ne ha piacere» dissi io. «Sai che le automobili non mi piacciono, Marianne.» «Ma visto che non devi guidare tu!» fece Richard. «Marianne è capace di guidare a quaranta chilometri l'ora e io mi siederà dietro con te e ti metterò un sacchetto nero sulla testa.»
Discussero ancora un po' ma avevo già capito, e forse lo avevano capito anche loro, che Stella aveva proprio voglia di andare. L'automobile, certo, era quello che la bloccava; d'altra parte non si rivelò un grande ostacolo quando Marianne le assicurò che il ristorante si trovava soltanto a cinque chilometri di distanza ed era nuovo, appena aperto in primavera. Stella indossò il cappotto di lana color avorio, e tolse un capello dal colletto con un'espressione di disgusto. Con un guanto infilato e l'altro no, fece scivolare la mano nuda sotto il braccio che Richard le offriva, non tanto in un gesto possessivo quanto, piuttosto, di timido affetto. Li seguii fuori e, salita anch'io in macchina, mi accodai a loro almeno per un chilometro e mezzo, poi svoltai imboccando la strada di Tharby. Mi si ruppe la stringa di una scarpa proprio mentre stavo scendendo dalla macchina. Al lavoro portiamo scarpe di gomma, di quelle da ginnastica, bianche, e le stringhe non durano mai quanto le scarpe. Già dalla settimana prima avevo notato che quella di sinistra era logora ma non avevo fatto niente per sostituirla anche perché il posto più vicino dove comperarle è Diss. È già abbastanza brutto quando si rompe una stringa, è qualcosa che ha a che vedere con San Marco al quale si ruppero i lacci delle scarpe mentre era in viaggio verso Alessandria, anche se non so proprio per quale motivo un fatto del genere dovrebbe portare sfortuna. In ogni caso mi lasciò addosso uno strano presentimento di disgrazia. Mike stava mettendo i vetri alla veranda. Aveva acceso la radio sul Primo Programma a tutto volume. Quando mi vide disse: «Scusami, adesso l'abbasso. Non mi fermo neanche per mangiare. Voglio sistemare tutte queste vetrate prima che cominci il brutto tempo.» A dir la verità, non si può dire che ci sia un determinato momento, almeno qui, dalle nostre parti, in cui il brutto tempo comincia sul serio. Può capitare di avere una giornata splendida o bruttissima in dicembre come in giugno. Ma non pioveva da una settimana e immagino che sia stato per questo che lo disse; non solo, ma l'aria era anche stata insolitamente mite. Costruiva quella veranda per me, o almeno così sostiene; e lo ripete a tutti. «Vieni a vedere la veranda che sto costruendo per Jenny.» Questo significa che io sono la sua ragione per costruirla, il suo pretesto. Funziona con gli altri e funziona con me. «No, per quello mi manca il tempo» dice. «Ho da finire la veranda di Jenny.» Oppure a me: «Lo sto facendo per te, no? E allora vedi di avere un po' di pazienza, ci siamo capiti?» Non ho mai chiesto una veranda. Anzi, non la voglio neanche. Servirà
soltanto a darmi altro lavoro, e ne ho già abbastanza. Non sono capace di coltivare quelle che chiamano piante d'appartamento, il nostro giardino è strapieno dei cadaveri, che ci ho seppellito, delle violette africane che mi sono morte qui, in casa. In quella veranda non metterò mai piede, non la pulirò mai, non laverò quelle vetrate. E allora che cosa sto aspettando? Quale parola deve essere pronunciata, quale scintilla scoccata? È come se aspettassi che la veranda venga finita per sostituire me nella vita di Mike. La veranda ci resterà ma io me ne sarò andata. Stella si sentiva molto stanca dopo la gita in automobile e il pranzo. La riaccompagnarono indietro alle tre e mezzo ma si era già addormentata nella sua poltrona prima ancora che Marianne e Richard se ne andassero. Carolyn mi raccontò che era ancora addormentata quando andò a servirle la cena e che, naturalmente, le disse di non aver nessuna voglia di mangiare. La domenica le sarebbe piaciuto rimanere a letto tutto il giorno ma Lena cerca sempre di non incoraggiare idee del genere. «Questa è una casa di riposo, non un ospizio» osservò. «Se sono costretti a letto e hanno bisogno di un'assistenza infermieristica, sono venuti nel posto sbagliato.» Ereditare un bel patrimonio è servito a renderla un poco più mite di carattere soltanto per un paio di giorni. Trovai Stella in piedi ma ancora in camicia da notte. Sopra, ci aveva messo la vestaglia nuova. I cereali e il pane e burro sul suo vassoio non erano stati toccati. Stava bevendo tè cinese. «Marianne la chiama veste da casa» disse. «Credo che vestaglia sia diventata una parola antiquata. È molto bella, vero? Mi piacerebbe che l'avessi tu quando me ne sarò andata.» Gli abiti delle persone morte non durano mai molto. Provano nostalgia, si struggono, per chi le ha possedute... potrebbe darsi che Marianne la volesse indietro, pensai, dev'essere costata almeno un centinaio di sterline. «La accetterò con piacere» dissi «se è quello che desidera.» «Non andrò più nella sala di soggiorno con gli altri.» «Quest'oggi, vuol dire?» chiesi. «No, non ci andrò mai più, rimarrò qui. Questo è il posto migliore per me.» E soggiunse in tono misterioso: «Ho un mucchio di roba da fare.» Le domandai se voleva che l'aiutassi a vestirsi. Oppure aveva piacere che le facessi un bagno? A Gracie lo faccio sempre anche se non so davvero cosa direbbe Lena se lo sapesse. Stella scosse il capo, poi si mise a ride-
re. Mi fece bene sentirla ridere. «Non sono ancora arrivata a quel punto, sono semplicemente stanca. Dormirò e, poi, mi sentirò meglio.» Stava davvero meglio. Lo spirito umano è straordinario. È incredibile come riescono a riprendere coraggio certe persone, se hanno voglia di lottare. Mi resi conto che Stella aveva cominciato a lottare. Qualcuno aveva mosso la sua poltrona così adesso si trovava in un posto diverso vicino alla finestra. Di lì Stella poteva contemplare quello che voleva del mondo esterno, prati verdi, alberi ormai spogli, un basso orizzonte azzurro. Si voltò quando entrai alle quattro, mi chiamò con un cenno e per quanto mi avesse già salutato quella mattina, mi prese il viso fra le mani come è sempre abituata a fare e mi baciò prima sulla guancia sinistra e poi sulla destra. Quel profumo, che adopera sempre, White Linen, mi raggiunse a ondate dal suo caldo corpo scheletrico. Sembrava quasi che avesse la febbre, l'energia irradiava da lei come una carica elettrica. Ricordo di aver pensato, tre mesi prima, che era un tipo molto riservato, che si teneva chiusa dentro tutta la sua vita passata. Adesso parla in continuazione. È come se avesse tirato via quei due o tre macigni che bloccavano il torrente, e adesso l'acqua scorreva impetuosa attraverso quel varco. Quando si tirò indietro staccando dal mio viso quelle mani cariche di elettricità, si mise quasi subito a parlare. E continuò come se ci fossero cose che doveva assolutamente dire prima che finisse il tempo e tutta la sabbia scendesse nella parte sottostante della clessidra senza che, in alto, ne rimanesse un solo granello. Afferrai la sua mano sinistra e la tenni stretta nella mia. La sua voce, la padronanza che ha delle parole, si direbbe quasi che diventino più forti man mano che le sue forze fisiche diminuiscono. «Ricordo di aver detto, se ben ricordi, Genevieve, che quello fu il principio, vero? Che la lettera di Charmian fu il principio. E poi ci fu il principio successivo, o diciamo meglio il passo successivo, cioè quando andammo al cinema tutti insieme a vedere La fine di Edith Thompson, Gilda e Alan e io.» Non appena uno dei suoi film veniva proiettato nel cinema locale, Gilda sentiva l'assoluta necessità di vederlo. Lo aveva già visto molte volte prima, Alan addirittura tre, e perfino Stella, una volta. Ma furono ugualmente costretti a tornare a rivederlo. Lo davano a Ipswich. Per tutto il tragitto, a bordo della macchina di Alan, dovettero sorbirsi le chiacchiere di Gilda che parlava a tutto spiano di quando avevano girato quel film, di come era stata trattata dal regista, delle continue critiche che aveva fatto alla sua in-
terpretazione, della insistenza con cui aveva voluto che tutto il suo guardaroba fosse composto di abiti il più modesti e squallidi possibile, della malignità dell'attrice principale nei suoi confronti. «Sai com'è la storia, vero? Lei mise del vetro ridotto in polvere nel cibo del marito, o perlomeno disse di averlo fatto. Lo scrisse nelle lettere a Bywaters e quelle lettere furono usate contro di lei al processo. Era stato Bywaters ad accoltellare Thompson in strada, nei pressi della casa dove lui abitava con Edith, ma anche Edith venne impiccata per l'omicidio.» «Io ho visto soltanto la fine del film» obiettai. «Lascia perdere il film. Non è granché. Te ne accenno soltanto perché fu il giorno successivo che Alan cominciò con quello che lui... che noi... ci mettemmo a chiamare il Giochetto di Uccidere Gilda.» Alle cinque e un quarto di giovedì, 16 agosto 1969, Alan disse la prima battuta scherzosa su come Uccidere Gilda. Stella mi spiegò che la data le era rimasta impressa nella memoria ancor più del giorno del suo matrimonio o di quello in cui erano nati i suoi figli o aveva visto Alan per la prima volta. C'era una sola data che lei ricordava con precisione ancora maggiore, ma doveva ancora venire. «Non capisco» dissi. «Infatti, non puoi capire. Adesso non lo capisco più neanch'io, non capisco perché sembrasse così buffo a suo tempo; eppure lo è stato. Lui lo disse con quel suo solito tono così noncurante, come se fosse una di quelle frasi buttate là con apparente indifferenza, che erano una sua caratteristica. "Dai, uccidiamo Gilda."» «Era uno scherzo, vero?» dissi. Non capivo proprio. «Non parlava sul serio. Si direbbe un gioco.» «Naturale che era un gioco.» Adesso lei si era improvvisamente animata. Sembrava quasi indispettita. «Facevamo dei giochi, lui e io. Ti ho già raccontato che giocavamo alla casa, giocavamo a essere marito e moglie. Una volta ci siamo perfino vestiti in modo da assomigliare al papà e alla mamma nei racconti di Figaro e Velluto. E un'altra volta ci siamo travestiti in modo da assomigliare al signore e alla signora Darlint di Peter Pan.» A questo punto confesso che non riuscivo più a seguirla. Cercai di non guardarla stralunando gli occhi. «Il signore e la signora Darlint» riprese lei, e proruppe in quella sua risata di gola. «Quello di Uccidere Gilda fu semplicemente un altro dei giochetti che facevamo.» «Lo faceva anche lei?»
«Io lo facevo perché lo faceva lui» riprese Stella. E adesso, dal suo tono di voce, sembrava diventata improvvisamente molto stanca. «Me ne vergogno, oggi come oggi. Fu una cosa sciocca e infantile.» «Infantile?» «E va bene, peggio che infantile. Forse i bambini non farebbero quel gioco. Tu sai che cosa significa folie à deux?» Scrollai la testa. Il francese, come materia di insegnamento, aveva sempre avuto scarsissimo successo alla Scuola Superiore di Newall. Per quel che mi riguardava, riuscivo a malapena a capire che quello che lei stava dicendo era francese. «Significa follia per due, doppia follia. È quando due persone fra le quali c'è una grande intimità si incoraggiano reciprocamente a fare qualcosa di orribile, e ciascuno dei due incita l'altro a farlo. Una coppia che commette un omicidio, per esempio.» «Bonnie e Clyde» dissi. «Gli Assassini della Brughiera.» Lei proruppe in una risatina secca che si trasformò in un accesso di tosse. Quando l'accesso di tosse finì, cambiò argomento tutto d'un tratto. Come riesce tanto bene a fare. Come se chiudesse un cassetto nel suo cervello e ne aprisse un altro. Generalmente lo accompagna con un sorriso smagliante. «Lui voleva dipingere il mio ritratto» disse. «Voleva? Ma l'ha dipinto! È appeso alla Molucca.» «Lo dichiarò di fronte a Gilda. Eravamo stati tutti al cinema a vedere Sette per un segreto e... figurati un po'!... il personaggio che Gilda interpretava, in quel film, chiamava un'altra donna "piccola". Perfino quello, era andata a prendere dalla sceneggiatura di un film! Alan sedeva in mezzo a noi e io mi voltai a guardarlo e lui si voltò a guardare me e scoppiammo in una bella risata, insieme. Non avremmo dovuto farlo, vero? Era poco gentile e Gilda non lo gradì. «Quando tornammo a casa, si fermarono da me e Alan disse, di punto in bianco, che gli sarebbe piaciuto farmi il ritratto. Lei si girò a guardarmi con aria cattiva. C'era Marianne, che assisteva alla scena e non perdeva una sola battuta, naturalmente. Gilda disse delle cose terribili. Forse me le meritavo... cosa ne pensi, Genevieve?» «Forse tutte le donne nella nostra situazione se lo meritano» risposi. Lei non si aspettava una risposta del genere. Credeva che sarei andata in cerca di qualche scusa per lei, come per me? Arricciò le labbra e rimase in silenzio per qualche istante. Poi disse:
«Gilda si rivolse ad Alan esclamando: "Ma non è un po' troppo vecchia?" come se io non fossi neanche lì, con loro. E poi: "Una volta mi dicevi che volevi soltanto dipingere donne belle". Si stava vendicando perché mi ero messa a ridere al cinema e si vendicava anche di Alan, perché aveva riso con me. Lui non era niente di speciale, come pittore, continuò; se la cavava discretamente con i cuccioli e i micini e le donne con un bel viso, ma non aveva talento per cogliere e riprodurre sulla tela una donna comune di mezza età. Marianne, che Dio la benedica, interloquì esclamando con la sua vocina: "Io trovo che la mia mamma è bellissima" e Alan disse che avrebbe potuto dipingere lei perché se ciò che Gilda diceva era vero, riprodurre i suoi lineamenti sulla tela non avrebbe richiesto il minimo talento. A Marianne questa risposta piacque moltissimo ma a Gilda, no. Disse che chiunque fosse la persona che Alan aveva in mente di dipingere, guai a lui se si fosse messo in testa di fare quel ritratto là, da loro, e che si ricordasse, almeno, che era la casa di lei, quella. «Poi se ne tornarono alla fattoria, insieme, perché così si doveva fare, e si era sempre fatto. Naturale! E si capisce: lei era sua moglie. Quando lui finalmente si decise a farmi il ritratto, era il giugno dell'anno successivo, alla Molucca, e le rose erano tutte in fiore. Ecco perché nel quadro io tengo in mano una rosa dal pallido colore rosato. Oggi i pittori non si aspettano che una modella posi per loro più di una o due volte. Usano le fotografie. Ma Alan voleva una somiglianza perfetta. Fra l'altro, non lavorava mai a quel quadro salvo quando ero lì anch'io." Stella sollevò una mano e la guardò con aria pensosa come se stringesse un fiore fra le dita.» «Fu mentre posavo per lui che venne scattata la foto che tu hai trovato. Una coppia si presentò alla nostra porta a chiedere la strada. Si erano smarriti. Una cosa del genere non era mai successa prima di quel giorno, credo che non avessimo mai avuto neanche una visita. Alan spiegò come dovevano fare per raggiungere Breckenhall e poi li pregò di scattarci una fotografia. Immagino che ci abbiano giudicati matti da legare. L'uomo non faceva che fissarmi con tanto d'occhi perché avevo addosso quel vestito di seta rosa e le perle al collo, però accettò di scattare quella foto, noi due nel giardino davanti alla casa, mentre ci guardiamo negli occhi.» Sospirò. Certe volte quando chiude gli occhi per un attimo significa che vuole cambiare argomento. «Quanti anni avevi quando tua madre e tuo padre si separarono, Genevieve?» Questo mi colse di sorpresa. «Ne avevo otto.» «E fu lui a lasciarla?»
«No, fu lei che lo buttò fuori di casa» risposi. «Lui aveva un'altra, una donna che si chiamava Kath. Aveva promesso che l'avrebbe lasciata ma una notte, quando tornò di nuovo tardi a casa perché era stato a trovarla, la mamma disse che era la goccia che faceva traboccare il vaso, di andarsene e di non farsi più vedere.» «Gli diede le chiavi di strada» disse Stella, e quando la guardai con aria perplessa, senza capire, soggiunse: «Era così che si diceva tanto tempo fa. Si diceva: fagli vedere dov'è la porta, oppure via, marciare, fuori di qui! Era la fine di agosto? L'inizio di settembre?» «Sì, credo. Più o meno» feci io. La ricercatrice alla quale Ned aveva dato quell'incarico, non ha trovato nessuna registrazione della morte di Gilda Brent. Sono proprio una stupida; avevo pensato che sarebbe andato personalmente a frugare in quegli archivi, e invece è logico il contrario, è logico che a queste cose pensano altri, non lui. «Non mi avevi detto in che mese» mi spiegò Ned. «Così lei ha guardato tutto il 1970. Ma non c'era. Allora ho pensato che fosse meglio farti un bel lavoretto approfondito e l'ho pregata di dare un'occhiata anche a tutti i necrologi del Times.» «Pensavi che potesse esserci?» domandai. «Certamente, perché no? Alla sua epoca era un'attrice famosa. E anche tenendo conto soltanto di un film importante come La fidanzata era logico pensare che le avessero dedicato almeno un trafiletto. Invece, niente. Quindi niente.» «In che senso?» «Cioè che non è morta nel 1970. E, in fondo, ricordo di aver parlato con il suo agente nel 1979. E non credo che lei fosse affatto morta. Ho l'impressione che lo avrei saputo. Avrei letto qualcosa in proposito e non credo che si tratti di una notizia che posso aver dimenticato. Forse varrebbe la pena di fare una ricerca un po' più approfondita. Si potrebbe mettere insieme uno di quei documentari sui misteri rimasti insoluti. Sai anche tu di cosa sto parlando... come è finita Gilda Brent? La signora scompare, o qualcosa del genere.» In camera da letto l'aria era una specie di fredda foschia. Le nostre bocche erano calde, le nostre mani no. Non era più l'amore dell'estate, non erano più il languore e il lungo, lento, ritmo di chi ha tutto-il-tempo-delmondo, quel tenerci stretti ma non troppo perché ci coprivamo facilmente
di sudore. In pochi minuti era tutto finito, doveva essere finito, in modo da poterci abbracciare per sentire caldo, e osservare il nostro alito che si trasformava in lente e bianche sfilacciature, che sembravano di nebbia, e rimanevano sospese sopra le nostre spalle. Dicembre, era soltanto dicembre. Pensai, devo prendere una decisione prima di Natale e prima che Stella muoia. Prima che il tempo diventi freddo in un modo insopportabile. Prima di perdere questa casa. Nessuno poteva inventare qualche soluzione al mio posto. Chiederlo a lui era inutile, mi avrebbe semplicemente risposto di non pensare, che pensare era fatale, ma semplicemente di lasciare tutto e di andare da lui. 16 Stella cancellò totalmente quello che aveva registrato sulle cassette. Si convinse che era inutile per i suoi scopi, un puro e semplice atto di indulgenza verso se stessa, una scusa per raccontare cose che non aveva mai pensato di poter esprimere ad alta voce. Tanto era stato represso. E tanto, con il passare degli anni, soffocato e tenuto chiuso nel cuore. Raccontarlo, finalmente, era terapeutico. L'effetto, più o meno quello di quando parlava con Genevieve, ma con maggiore libertà e di conseguenza maggiore sollievo. Perlomeno mi è stato di aiuto, disse al registratore, mi ha svuotato il cervello di tutte quelle cose ma le cassette adesso sono pulite e le mie parole perdute. Ma sono davvero completamente perdute? Se si mette qualcosa per iscritto e si distrugge quello che si è voluto scrivere, lo si fa a pezzi oppure lo si butta nel fuoco, e se non se ne possiede una copia, le parole che si sono scritte risultano perdute per sempre. Ma non accade la stessa cosa con le parole che hai pronunciate, o almeno così ho letto. I suoni non vanno mai perduti, non sono assorbiti dalle orecchie che li odono ma volano nello spazio, forse oltre l'atmosfera che circonda la terra, là fuori, in mezzo alle sfere celesti. Una volta che una parola viene pronunciata diventa indistruttibile e sempiterna. Le mie parole sono là fuori, volano su e sempre più su, magari vengono perfino ascoltate da creature misteriose su altri pianeti. Ma tutto ciò è fantasia, qualcosa per cui adesso non ho tempo. Registrerò altre tre cassette. Mi chiuderò qui dentro facendo credere di essere più debole di quanto non sia effettivamente in modo da avere l'opportunità di parlare in pace. Il primo nastro, sarà quello che riascolterò per controllare
soprattutto il timbro della mia voce perché registrando il resto avrò bisogno di tutte le forze che mi rimangono. Voglio dare l'impressione di essere sana, una buona testimone, non una vecchia che a poco a poco sta sprofondando nell'alienazione mentale, che sta diventando decrepita. Voglio che la mia ascoltatrice si convinca della veridicità di quanto racconto, e non ha importanza cosa potrà decidere, in seguito, di farne. È Lady Macbeth che invoca le potenze o gli spiriti - e Genevieve questo dovrebbe saperlo! - e supplica "i ministri di assassinio" di privarla della sua femminilità dicendo: "Venite alle mie mammelle di donna e prendetevi il mio latte in cambio del vostro fiele". A scuola ci faceva ridacchiare come scioccherelle; molto probabilmente ecco perché me ne ricordo. Ma è ciò che voglio adesso, trovandomi così vicina alla morte, liberarmi di quella femminilità mansueta e gentile che mi hanno sempre attribuito in tutta la mia esistenza. Alan diceva che ero la creatura più femminile che avesse mai conosciuto. Eppure non è stata una cosa femminile quella che ho fatto o aiutato a fare, non è certo stata una cosa dolce, amabile, da donna. Se non posso essere mascolina, devo però essere Lady Macbeth. "Qui comincia il primo nastro. È stato tutto uno scherzo, vero? mi ha domandato Genevieve. Voleva esserne convinta e io mi guardo bene dal deluderla fintanto che sono ancora in vita. Quello che succederà più tardi è tutt'altra cosa. Devo correre questo rischio. Lei voleva convincersi che quello sciocco scherzo, Uccidere Gilda, fosse un gioco, e anch'io lo volevo credere. Volevo crederlo moltissimo, e così ho fatto. Ogni volta che provavamo a scherzare parlando di veleni e di spalmare di grasso i gradini delle scale e di darle una spintarella per farla precipitare dall'alto di una scogliera, mi affrettavo a creare le mie riserve mentali. Un po' come se pensassi - e non ha importanza quello che ci dicevamo l'un l'altra, lui e io -, fintanto che lo dico a me stessa, sono tutte stupidaggini, tutte sciocchezze, non parlo sul serio, è un gioco. Eppure, malgrado la nostra relazione illecita, sembrava che avessimo conservato una specie di innocenza che questa folie à deux stava guastando. Me ne rendevo perfettamente conto ma senza essere capace di dirglielo. Un giorno Gilda e io andammo insieme al mare, soltanto a Dunwich dove non si può davvero dire che la scogliera sia alta, ma in ogni caso è alta abbastanza. Facemmo anche una piccola passeggiata sulla scogliera, in una giornata splendida, e a me balenò che avrei potuto darle una spinta e farla precipitare nel vuoto. È difficile convincersi che l'ho pensato sul serio, che sarei stata capace di tornare a casa a dirgli che avevo ucciso sua
moglie, che lui sarebbe stato così felice e contento con me, che questo lo avrebbe portato ad amarmi di più. Non la sfiorai neanche con un dito, naturalmente, però gli raccontai quello che avevo pensato. Volevo divertirlo, accontentarlo. Lui disse: «Perché non l'hai fatto?» Aveva appena finito di parlarmi di un certo veleno di cui aveva letto qualcosa sul giornale, che avrebbe potuto essere perfetto. «Potrei chiederti la stessa cosa» obiettai. «Perché non l'hai fatto tu?» «La pallida ombra del pensiero» mi rispose. «Capisci, vero? Quel qualcosa che fa da ostacolo alla tua determinazione.» Se parli a sufficienza di una cosa, se ti ci abitui, può diventare reale. E per lui era reale. Faceva sul serio, lui. Non era uno scherzo, per lui. O, forse, ormai non lo era più. Quando lo scherzo vero e proprio, in sé e per sé era virtualmente cessato, la possibilità reale aveva cominciato a farsi strada nel suo cervello. Lo capivo, era ciò che mi spaventava, ma fu ugualmente uno shock quando mi mostrò la lettera di Charmian. Mi ero dimenticata della sua esistenza. Uno psicologo direbbe che ne avevo rimosso il ricordo, lo avevo bloccato. Rivedere quella lettera mi spaventò perché mi resi conto che l'aveva effettivamente conservata come aveva detto di voler fare. Negli archivi, secondo la sua spiegazione. Mi ero dimenticata ciò che diceva e fui costretta a rileggere quelle parole. La prima volta non avevano avuto un grande significato per me ma adesso, rileggendole, mi sembrarono disperatamente patetiche e tristi. Naturalmente la mia memoria non mi ha più concesso di dimenticarle di nuovo. 'Non posso vivere senza di te. Mi ci sono provata ma le giornate sono troppo lunghe.' «Cosa ne diresti di simulare il suicidio di Gilda» mi domandò Alan «e fingere che sia stata lei a lasciarmi questo messaggio?» Era assurdo, naturalmente, non avrebbe mai funzionato. Il messaggio era stato scritto a macchina. Suppongo che Charmian lo avesse fatto perché la sua calligrafia era illeggibile. Come, sicuramente, la firma, una specie di scarabocchio che avrebbe potuto essere, e in modo ugualmente convincente, un Gilda come un Charmian. Salvo che Gilda non scriveva così, la sua calligrafia era leggibilissima, e non possedeva nemmeno una macchina per scrivere. Alan non l'aveva lasciata, lei non viveva senza Alan. Oh, c'era anche un mucchio di altre obiezioni ma non occorre che continui a insistere su questo concetto. Perché non era quello, per me, il nocciolo della questione, niente di tutto ciò che mi stava dicendo, lo era. D'importante capivo
una cosa soltanto, che aveva raggiunto uno stadio, in quel suo gioco dispettoso, in cui faceva sul serio. Lo scherzo era finito, questa era la realtà. Eppure la tentazione per me era di continuare con lo scherzo, col dispettuccio, di cavarmela con spirito, buttandola sul ridere. La possibilità che un uomo pensasse di uccidere sua moglie per amor mio, per stare con me, era troppo. Era qualcosa di troppo lontano dal mondo, da qualsiasi mondo, io avessi conosciuto. Film e libri facevano parte di quel mondo ma non la vita che conducevo nel posto dove vivevo, una vedova di mezza età che abitava alla periferia di una cittadina di campagna. Non volevo parlarne. Non volevo continuare così. Non so cosa volevo... be', che Gilda morisse, suppongo, ma che la sua fosse una morte naturale, rapida, senza sofferenze. Esiste sul serio una morte del genere? Non volevo parlare ma dovevo farlo; costrinsi Alan a parlarne e poi gli dissi che l'argomento non doveva essere mai più affrontato, e basta anche con gli scherzi. È qualcos'altro, qualcosa di più: basta anche con intenzioni più serie. Pensai di averlo convinto. Pensai di sapere come avevo fatto a convincerlo. Era stato quando gli avevo detto che tutti quei discorsi in cui parlava di uccidere Gilda lo stavano trasformando, lo corrompevano, lo facevano diventare un uomo diverso da quello che io amavo. Era estate, l'epoca del ritratto. L'epoca in cui arrivò quella gente a chiederci la strada, quella gente che pregammo di scattarci la fotografia. Dopo che se ne furono andati io tornai alla mia poltrona e presi di nuovo la posizione di prima con la rosa in mano. Alan scoppiò a ridere. «Lui era un tipo abbastanza sinistro, non lo hai pensato anche tu? Un fotografo venuto fuori dritto dritto dall'inferno. Hai notato com'erano appuntiti i suoi canini? Ha tutte le intenzioni di condurla con la macchina qui dietro, di addentrarsi nella palude, e strangolarla.» «Smettila» dissi. «Oh, andiamo, tesoro. Sto parlando di una donna sconosciuta, non di Gilda. Fortunatamente, per amor di giustizia e del trionfo della legge, ha lasciato le sue impronte digitali sulla tua macchina fotografica.» Lasciai cadere la rosa. Mi alzai e gli andai vicino. «Ti piacerebbe» dissi «se non fosse Gilda che questo gioco sta uccidendo ma il mio amore per te? Perché andrà a finire così.» Non era vero, in quel momento pensavo che niente avrebbe potuto far succedere una cosa simile, però lo dissi ugualmente. E lo ripetei. «Ti cambierà. Ti cambierà in qualcun altro, quel tipo di persona capace di uccidere sua moglie, capace veramente di farlo. Se dovesse succedere, non ti amerò più.»
Non dimenticherò mai l'espressione che gli apparve sulla faccia. Forse, a questo punto della mia vita è meglio dire che non l'ho mai più dimenticata. Diventò pallido. E prese l'aria di un bambino che ha perduto qualcosa a cui tiene moltissimo ma è incapace di accettare le spiegazioni che gli vengono date per quella perdita. Anche Richard aveva preso quell'espressione il giorno in cui il suo micino finì sotto un'automobile in strada, appena fuori da casa nostra. È un'espressione di un tale sbalordimento, e di un dolore talmente disperato da spezzare il cuore." "Dopo aver riascoltato questa registrazione, ho provato ad ascoltare la cassetta di Boccherini, il regalo che mi ha fatto Genevieve... incantevole e così garbata, proprio quello di cui avevo bisogno. La musica prorompeva dalla cassetta, un contrasto splendido con quello che vi era stato registrato prima. La mia voce mi è sembrata forte in un modo sorprendente. I momenti in cui diventa roca sono inevitabili. Questo, come ho detto in principio, è il nastro di prova. Distruggerò ciò che ho detto fra un minuto ma prima, perché più parlo di queste cose più facile mi diventa, dal punto di vista psicologico intendo, non fisico, ho ancora qualcosa da raccontare a proposito di quell'estate. Qualcosa sul modo in cui in quei giorni i contadini estirpavano le siepi, sradicavano antiche siepi e le davano alle fiamme. Poiché io non sono una gran camminatrice e non ci tengo in modo particolare a stare seduta all'aria aperta, per esempio a fare un picnic, sono molte le persone che hanno pensato che non provo il minimo interesse per la natura. Invece, la storia naturale è sempre stata uno dei miei interessi. Era uno dei molti che dividevo con Alan perché avevamo una quantità di cose in comune: gli stessi libri, gli stessi quadri, la stessa musica, gli stessi atteggiamenti verso la vita. Ci piacevano in un modo incredibile i fiori selvatici della palude e della costa del Suffolk. Speravamo tutti e due, un giorno, di vedere un macaone. Odiavamo l'autunno e l'inverno e adoravamo l'estate. Nessuno di noi faceva mai un passo se poteva servirsi dell'automobile. Ci piacevano persino gli stessi cibi e ci conoscevamo da molto poco tempo quando scoprimmo di avere tutti e due una bibita preferita, che a quell'epoca era già andata fuori moda. Il gin rosa, cioè il gin con l'aggiunta di qualche goccia di angostura. C'è qualcuno che lo beve adesso? Si potrebbe entrare in un albergo, per esempio, e ordinare un gin rosa? E quelli saprebbero che cosa intendiamo? I giochi che facevamo, che piacevano a tutti e due, erano giochi innocen-
ti. Perfino il signore e la signora Darlint avevano qualcosa di semplice e tenero. L'idea di travestirci, in fondo, voleva essere una specie di prova generale, la preparazione per un ideale; non un'astuzia per titillare voglie stanche. Non eravamo mai stanchi, il nostro sentimento era fresco e quando facevamo l'amore era sempre come la prima volta, con tutta l'eccitazione e la passione di una giovane coppia. Ma ho divagato allontanandomi dall'argomento di cui stavo parlando e adesso non ricordo più cosa fosse. Forse non lo avevo neanche, un argomento preciso, forse parlavo soltanto per far pratica. Ad ogni modo adesso sono stanca, e di pratica ne ho fatta a sufficienza. Le registrazioni su nastro sono meglio della vita vera. Le parole sono scarne, ridotte all'osso, come nuove; e il dopo è esattamente come prima che si dicessero quelle cose. Non si è più costretti a vivere per ventiquattro anni con certe azioni e parole, perché si sono cancellate. Sono volate lontano verso i pianeti su onde invisibili." 17 Qualcuno mandò a Gilda un biglietto con la scritta "Adesso hai cinquant'anni", un biglietto d'augurio non firmato. Sopra c'era il disegno di una donna sorridente, già piuttosto anzianotta, con i capelli d'argento, ondulati, che stringeva fra le mani un mazzo di fiori. Stella, naturalmente, ne aveva mandato uno anche lei, ma di quelli che non fanno alcun riferimento agli anni che compie la festeggiata, e rimase sorpresa, quasi sconvolta, quando Gilda le mostrò quello senza la firma. Si era aspettata che cercasse di nascondere quella specie di pietra miliare della sua età o che raccontasse qualche frottola e avesse tutte le intenzioni di continuare a dire che aveva quarantacinque anni per tutto il decennio successivo. Invece Gilda cominciò a sbandierare quel biglietto né più né meno come aveva sbandierato le due lettere anonime che le erano arrivate. Le parole, a stampa, erano state ritagliate da un libro, non da un giornale, e incollate su un foglio di carta da lettera da poco prezzo. Una delle due lettere diceva: "Tuo marito ha un'altra donna", e l'altra "Alan è innamorato di una donna che tu conosci molto bene". Stella si domandò per quale motivo le venissero mostrate, e perché a lei e a Priscilla e Jeremy e perfino a Marianne fossero messi sotto gli occhi quel biglietto d'auguri per il compleanno e le rozze missive anonime, perché venissero ostentati con tanta insistenza.
Stella cominciò a tener d'occhio, insospettita, tutte le persone delle quali aveva sempre creduto di potersi fidare, i vicini di casa, e Aagot, la nuova au pair. Poi, quando l'interesse per quelle lettere sembrò che fosse scomparso, Gilda confessò ad Alan di essere stata lei stessa a mandarsele. Aveva comperato il biglietto d'auguri, quello più brutto e di cattivo gusto che era riuscita a trovare, e composto quelle letterine, ritagliando le parole da uno copia del famoso Figaro e Velluto, illustrato da Alan. Il libro venne tirato giù dallo scaffale, e lei gli mostrò le pagine mutilate. Poiché si trattava di una storia per bambini, la varietà di parole che Gilda aveva avuto a sua disposizione non era stata molto grande. Alan raccontò a Stella che si era vantata della propria ingegnosità, che era stata molto orgogliosa di aver trovato "marito" e "donna", parole che capitano raramente nei libri per bambini. Ma allora perché aveva scelto proprio quel libro in particolare? Perché "Alan" appariva su una delle prime pagine, quella in cui era citato l'illustratore. E forse anche perché lui, quel libro, lo teneva da conto, e vederselo rovinare lo avrebbe addolorato. Naturalmente Alan le domandò per quale motivo lo avesse fatto. Perché mandare delle lettere a se stessa? Che senso aveva? «È stato un modo come un altro di raccontarmi la verità» gli rispose Gilda. «Adesso mi è tornato in mente» disse Alan a Stella. «È successo in uno dei suoi film. Uno di quei classici thriller d'ambiente casalingo. La donna che lei interpretava stava ricevendo una serie di lettere anonime, solo che quelle le venivano mandate da un nemico.» Rise. «Ho sempre detto che Gilda è la peggiore nemica di se stessa.» Ma Stella non riuscì a ridere. Qualsiasi allusione allo squilibrio mentale la colpiva profondamente, le suscitava orrore come capita alla maggior parte delle persone. Alan, al solito, ci scherzò su. «Quel libro era una prima edizione» disse. «Così le ho raccomandato di adoperare Country Life la prossima volta.» Nel cervello di Stella, invece, era rimasta impressa la risposta ermetica che Gilda si era data. Era un modo come un altro di raccontarsi la verità. Ma poi aveva cominciato a capire. Gilda viveva in un mondo in cui continuava a recitare un ruolo, a interpretare una parte, un mondo fatto di tale finzione e rappresentazione che per lei non era abbastanza sapere la verità e conoscere la realtà; doveva vedersela, scritta, davanti agli occhi. Ma anche il fatto stesso di metterla per iscritto, di trovarsela davanti nero su bianco, doveva essere una finzione, doveva venire fuori da qualche film di
second'ordine. Forse perché quella era l'unica verità che conoscesse? Gilda si vestiva ancora elegantemente con quei vecchi abiti da diva fascinosa, le toilette della stella del cinema che recitava le parti drammatiche. I capelli biondi adesso erano tinti, ma sempre lunghi e folti. La sua figura era rimasta snella ma, a questo punto, non appariva più flessuosa quanto, piuttosto, legnosa. Quando aveva detto a Stella che Alan le era diventato indifferente, che ormai non facevano più l'amore, era andata a mettersi in posa sotto il suo ritratto, la testa buttata indietro e i lunghi capelli fluenti sulle spalle, i seni puntati verso l'alto e le braccia penzoloni. «Lui non mi lascerà mai» dichiarò. «Non può. Questa casa è mia come gran parte del nostro reddito. Lui, in fondo, non ha un soldo.» Lo disse in tono drammatico e poi, spiccando un balzo in avanti, allargò le braccia, spalancando le mani. Si protese verso Stella in uno di quei suoi gesti, che le erano caratteristici, di quando voleva fare una confidenza, la testa inclinata su una spalla, il collo teso. I suoi grandi occhi azzurri frugarono in faccia a Stella come due succhielli. «Qualsiasi stupida che volesse mettersi con lui dovrebbe essere ricca. Ma nessuna, se fosse ricca, si degnerebbe anche solo di guardarlo, non ti pare?» Stella avrebbe voluto difenderlo, dire che qualsiasi donna poteva desiderarlo, ma non ne ebbe il coraggio. Quando veniva richiesta la sua opinione oppure si sentiva fare una domanda ben precisa aveva sempre la sensazione che Gilda sapesse già tutto e che quello fosse soltanto un modo come un altro di metterla alla prova, interrogarla, prepararle qualche trappola. La "donna che tu conosci" della lettera era lei stessa, e Gilda non aspettava altro che di sentirglielo ammettere. A volte, con molla franchezza e in modo particolareggiato, si metteva a descrivere a Stella i metodi di cui intendeva servirsi per "riprendersi Alan". Cosa ne pensava Stella? Poi si buttava sul divano sconquassato di fronte a lei e cominciava a domandare a una terza persona invisibile e inesistente che senso avesse chiedere un consiglio a una persona tanto ingenua, e innocente, e dalla vita così protetta. Eppure Stella aspettava sempre l'attacco diretto e cercava di prepararsi. "Sei tu, vero?" La sorpresa più grossa fu quando Gilda rivelò che, fra tutte le donne possibili, non era Stella quella che sospettava, ma Priscilla. «Quando veniva da me oppure andava alla Molucca perché ci eravamo dati un appuntamento, lei pensava che andasse a far visita a Priscilla. Lei e Jeremy abitavano nei pressi di Ixworth. Impossibile che fossi io perché, a
suo giudizio, ero troppo vecchia. Priscilla non aveva ancora toccato la quarantina.» Ecco il metodo con cui Gilda giudicava le persone. Gli uomini volevano le donne perché erano giovani o belle o l'una cosa e l'altra insieme. Le donne cercavano mariti che fossero ricchi e amanti che fossero "buoni a letto". Lei non era più giovane, anche se ammetteva di non sentirsi meno bella di una volta, ma a Stella aveva confidato di essere sicura che Alan sarebbe rimasto con lei perché "teneva i cordoni della borsa". «Un giorno, quella primavera, Gilda si invitò a pranzo. Sapeva che venivano anche Priscilla e Jeremy con i bambini, e John e Madge Browning. Io ero felice perché sarebbe venuto anche Alan. Non riesco a ricordare di quale occasione si trattasse, forse semplicemente la vigilia di Pasqua perché era il compleanno di Richard, anche se sono convinta che, in quel caso, avrei organizzato una festa per bambini. Pensò Aagot a cucinare il pranzo, era un'ottima cuoca, e dopo aver pranzato, molto dopo quando stavamo prendendo il tè, Gilda fece una scena terribile.» Per tutta la durata del pranzo, e anche dopo, non aveva fatto che fissare Priscilla. Nella sua ingenuità, Stella aveva messo Priscilla vicino ad Alan, a tavola, con Gilda proprio di fronte e Gilda aveva continuato a fissare con gli occhi Priscilla, senza toccare niente di quello che aveva nel piatto. Soffriva di qualcosa che si potrebbe chiamare anoressia, sempreché si possa essere anoressici a cinquant'anni. A quell'epoca nessuno la chiamava così, si diceva semplicemente che uno aveva perduto l'appetito perché era preoccupato oppure malato. Stella era convinta che Gilda si affamasse per rimanere magra e infatti era diventata sempre più esile, emaciata, al punto che si potevano vedere le costole sotto la stoffa dei vestiti. Aveva sempre portato vestiti molto aderenti e, quella Pasqua, ne aveva scelto uno di seta verde vivo, cortissimo, con una cintura nera alta che lo stringeva in vita. La sua faccia, molto bella ma tesa e affaticata, era truccata abbondantemente e i lunghi capelli d'oro le sfioravano le spalle. Non pronunciò quasi parola. La cosa più terribile fu, così disse Stella, che nessuno dava l'impressione di accorgersene. Lei sola lo aveva notato, forse perché era sempre così attenta a tutto quello che Gilda diceva, e faceva, in quel periodo; gli altri, invece, erano contentissimi di chiacchierare fra loro e non si può neanche escludere che provassero un certo piacere di fronte al silenzio di Gilda. In fondo, Gilda era diventata una formidabile scocciatrice; non faceva che parlare del mondo del cinema degli anni Quaranta e Cinquanta, e di che cosa aveva detto questo attore a quest'altro, e di
quali erano le persone famose che aveva conosciuto - gran parte delle quali ormai erano quasi dimenticate. Raccontava i suoi trionfi e, quel che è peggio, il modo in cui era stata incompresa, trascurata e vittimizzata. Probabilmente la sua conversazione era sempre stata la stessa, ma la gente l'aveva sopportata, magari era perfino stata felice di ascoltare tutte quelle storie, quando Gilda era giovane. Erano più o meno le quattro del pomeriggio quando Gilda ruppe il silenzio e smise di fissare a quel modo Priscilla. Marianne e la figlia di Priscilla, Sarah, avevano preparato il tè e lo servirono con una simnel cake, la torta con l'uvetta, i canditi, e la superficie coperta da una crosta di pasta di mandorle. Gilda scrollò il capo di fronte a quella torta come se contenesse effettivamente quel veleno che Alan, con le sue battute scherzose, diceva di essere pronto a somministrarle. Aspettò il momento in cui Priscilla se ne era appena messa in bocca un quadratino e poi disse: «Raccontami dove vi siete trovati, tu e mio marito.» La cosa straordinaria fu, disse Stella, che lei aveva riconosciuto immediatamente quella battuta. Con Gilda pochi giorni prima erano state a Sudbury a vedere I cieli sopra di noi. Gilda interpretava la parte della moglie di un pilota bombardiere della Air Force che nutriva il sospetto che la sua giovane cognata, ed era un sospetto giustificato, fosse innamorata di suo marito, e quando la affrontò per chiederle spiegazioni in proposito furono appunto queste le parole di cui si servì. Ecco il motivo per cui, per un momento, Stella pensò che si trattasse di un gioco. Pensò che Gilda citasse quella battuta per cominciare a parlare del film. Ma Priscilla, del film non sapeva niente. Non andava mai al cinema. «Cosa?» disse. Gilda ripeté la frase che aveva appena detto, esattamente come nel film. Patricia Roc, che interpretava la parte della cognata, non regge all'interrogatorio, crolla e confessa ogni cosa, promette che non rivedrà mai più il pilota e alla fine tutti vivono felici e contenti in quanto la moglie, cioè il personaggio interpretato da Gilda, resta uccisa durante un'incursione aerea. Ma Priscilla non pensava minimamente di reagire com'era successo nel film. E quindi rispose a Gilda con la massima calma che non capiva, semplicemente. Gilda replicò con altre battute prese da varie scene del film, e con un bel discorsino pieno di accuse. Poi tornò alla realtà, alle persone reali o a quella che lei pensava fosse la realtà. Sapeva che Alan e Priscilla erano amanti, che la cosa durava da anni, e adesso voleva che la relazione cessasse. Però Jeremy doveva essere informato della verità e i figli di Pri-
scilla essere messi al corrente di chi fosse la loro madre. Non solo, ma era anche venuto il momento che Stella aprisse gli occhi, guardasse la realtà in faccia e si rendesse conto di che razza di gente aveva invitato in casa propria. Priscilla e Jeremy potevano fare quello che volevano; ma lei, da parte sua, avrebbe perdonato Alan e se lo sarebbe ripreso se la relazione illecita veniva troncata all'istante. Priscilla si comportò con grande dignità. Chiese scusa a Stella, disse che era molto spiacente che fosse successa una cosa del genere perché aveva rovinato la festa, e le avrebbe telefonato il giorno dopo. E poi, a Jeremy: «Adesso noi andiamo» e ai bambini: «Andate a prendere i vostri cappotti. E non discutete, per favore. Si torna a casa». Alan, nel frattempo, era rimasto muto. E Stella non aveva detto niente. Quando ne parlarono dopo tra loro, si trovarono d'accordo sul fatto che non c'era niente da dire. Alan, naturalmente, avrebbe potuto negarlo. Non esisteva la minima verità in un'accusa del genere ma non si poteva negare che lui fosse stato costantemente e consistentemente infedele a Gilda. Solo che Gilda aveva scelto la donna sbagliata. E proprio per quella stessa ragione, perché era lei la donna giusta, anche Stella si era scoperta totalmente incapace di pronunciare una sola parola in difesa di chiunque. Quando Jeremy e Priscilla se ne furono andati, Gilda cominciò a sbraitare e ad andare in escandescenze. Si ripeté più o meno una scena simile a quella che era successa a St Michael's Farm a proposito di quel bambino che lei non poteva avere. Afferrò e fracassò due dei soprammobili di Stella, e si buttò per terra. Di solito, in queste circostanze, la soluzione migliore è quella di prendere a schiaffi la persona che è stata colta da crisi di nervi, ma nessuno schiaffeggiò Gilda. Marianne rimase a fissarla, scandalizzata e stupefatta, poi salì di sopra. L'unico a dar l'impressione di non esserne minimamente colpito fu Richard, che continuò a leggere il libro che Madge Browning gli aveva portato, seduto sul pavimento in fondo alla stanza. Ma tutto questo ebbe luogo in un'epoca successiva, dopo mesi durante i quali Gilda aveva sollevato in continuazione il dubbio, parlando con Stella, che Alan potesse esserle infedele. Stella cercò - lo cercava da anni - di vederla meno di prima. Tanto per cominciare si sentiva colpevole di dover recitare il ruolo dell'amica di Gilda mentre aveva una relazione con suo marito. E secondariamente, aveva cominciato a provare un'antipatia profonda per lei. «Potresti lasciarla» disse ad Alan. «Potremmo vendere questa casa e an-
dare a vivere con Richard in casa mia. E mantenerci con i miei soldi. Sarebbero i nostri soldi, tuoi e miei.» Oh, come detestava parlare di soldi; eppure, con Alan, lo faceva. Doveva farlo. Gli sbandierava davanti Richard, come un'attrattiva particolare, perché sapeva fino a che punto Alan gli volesse bene. Gli piacevano i bambini. E del resto non era forse illustratore di libri per bambini, lui? «Avresti dovuto lasciare che la uccidessi» le rispose. «Fu detto così... be', in un tono così laconico, Genevieve» disse Stella. «Proprio come chiunque potrebbe dire... avresti dovuto lasciarmi... oh, non saprei... chiudere la porta, fare una telefonata. Non sono stata capace di arrabbiarmi. Non ho potuto fare a meno di ridere.» «Non ha mai pensato, molto semplicemente, di smettere di frequentare Gilda? Di dare un taglio netto ai suoi rapporti con lei?» «Eccome se mi ci sono provata! Anche se avessi smesso di essere sua amica, avrei continuato a vedere Alan. Ormai la nostra relazione non dipendeva più da qualche incontro casuale. Quelli erano diventati qualcosa di piacevole e gratificante in più, oltre al resto. Ma, Genevieve, ciascuno di noi è quello che è, non ti pare?, e non possiamo cambiarci radicalmente per quanto se ne abbia voglia. Non era da me, non faceva parte del mio carattere, dire a una persona che mi era stata amica che non avevo più intenzione di vederla, di andarsene, o tagliare i ponti con lei. Non sono capace di essere maleducata e scortese... anche se qualche volta vorrei poterlo essere! E poi ero... be', diciamo che ero la parte colpevole, no? Mostrarmi scortese con lei, rompere i rapporti con lei, sarebbe sembrato come aggiungere l'insulto all'offesa. Lo puoi capire questo?» Vivevano a trentacinque chilometri di distanza ma Gilda trovava in continuazione pretesti per "fare un salto a trovarla". Sembrava che si presentasse più frequentemente nel momento in cui Richard tornava a casa da scuola. Stella arrivò al punto di chiedersi se lo facesse apposta. E a volte ne era terrorizzata. Cominciò a suggestionarsi, a convincersi che Gilda fissasse Richard in modo particolare. Ormai da molto tempo Gilda aveva rinunciato a dire di volere un figlio. Adesso diceva che i bambini non le piacevano. Era sempre stata molto facile ai cambiamenti d'umore, così adesso - che fosse un capriccio o una posa - ripeteva di detestare i bambini, che i bambini erano un fastidio. "Una palla al piede" li chiamava. Spesso ripeteva di provare una grande simpatia per Erode che aveva ucciso tutti quei bambini a Betlemme. E poi sorrideva come se un sorriso e un colpetto affettuoso a Richard sulla spalla potessero riaggiustare le cose e far dimenti-
care quello che aveva detto. Uno dei suoi passatempi favoriti era diventato quello di andare a prendere il tè in qualche albergo di campagna oppure di trovare qualche cinema in cui ci fosse in programma uno dei suoi film. Allora entrava nel cinema con aria visibilmente impacciata, sorridendo e salutando con un cenno del capo la donna che vendeva i biglietti e la ragazza che fungeva da maschera. Si comportava un po' come una celebrità in un aeroporto, pienamente convinta che tutti dovessero riconoscerla, e questo faceva provare un enorme imbarazzo a Stella la quale, invece, era sicura che nessuno si ricordasse di lei. Così Richard doveva rimanere a casa per forza. «Puoi lasciarlo con la au pair» diceva Gilda, come se il bambino non fosse lì ad ascoltare. Fingeva sempre di non essere capace di pronunciare il nome di Aagot. «Tu hai bisogno di tirare il fiato, non puoi stare in continuazione con quel bambino.» Poi si metteva a fissare Richard nello stesso modo in cui un bambino fissa un altro bambino prima di fare una smorfia orribile, arricciando il naso e tirando fuori la lingua. Però Gilda non faceva mai queste smorfie ma dava sempre l'impressione di essere lì lì per farle. Stella buttava sempre le braccia al collo a Richard e se lo abbracciava stretto stretto quando Gilda diceva tutte quelle cose scortesi. Lo conduceva fuori dalla stanza, lo accompagnava da Aagot e poi, rientrando, pregava Gilda di non parlare a quel modo. Doveva raccogliere tutto il suo coraggio per rivolgerle la parola con quel tono, doveva reprimere tutti i suoi sentimenti di colpa. Perché, in fondo, che diritto aveva, lei, di rimproverare qualcosa a Gilda? Le aveva portato via il marito; e c'era di peggio, con lui si era divertita a fare il giochetto di ucciderla, aveva parlato di lei nel peggior modo possibile dietro le sue spalle, incoraggiando la slealtà di suo marito. Richard era un tal cocco di mamma, diceva sempre Gilda. Aveva bisogno di un padre, di qualcuno che lo accompagnasse alle partite di cricket e gli facesse vedere come si tirano calci a un pallone. Erano sempre questi cliché sul modo di comportarsi di un padre con il suo bambino, su cui Gilda faceva leva; le madri erano fatte per abbracciare e baciare, i padri per gli sport all'aperto. Quella volta, poi, sorrise a Stella in un modo tutto suo, particolare. Un po' come se avesse imparato alla scuola di recitazione che era la cosa giusta da fare quando si voleva sembrare compassionevoli e un po' tristi, o malinconiche, inclinando la testa su una spalla, sollevando leggermente le spalle, inarcando le sopracciglia e sorridendo. Lo aveva fatto parecchie volte in Lora Cartwright. Peccato, disse, che Stella non avesse
nessuna probabilità di risposarsi. Peccato per lei e per Richard. Ma aveva esagerato, perfino Stella non riuscì a sopportarlo, e le domandò cosa intendesse dire. «Oh, lo sai benissimo, piccola» fu la risposta di Gilda. «Richard ha senz'altro bisogno di un padre, ma un uomo sarebbe disposto ad accollarsi il peso di una ragazza nel fiore degli anni e un bambino piccolo soltanto se fosse follemente innamorato. E non sembra molto probabile, vero?» «Alla mia età, vuoi dire?» «Anche, insieme al resto. So che a te non interessa l'aspetto che hai, altrimenti non lo direi, però bisogna ammettere che, quanto a bellezza, non mi pare che tu sia una di quelle donne che ci tengono molto a tenersi su, giusto?» Senza spiattellarle in faccia chiaro e tondo che non erano più amiche e che non voleva più rivederla, Stella non poteva fare niente. Io glielo avrei detto, di sicuro; e la mia mamma, poi, gliene avrebbe dette sicuramente molte, ma molte, di più, di cose; invece Stella non poteva. Così scelse la soluzione che scelgono le persone vili, fingendo di non stare bene o di aver preso un altro impegno. Tutte cose inventate. Una volta arrivò perfino al punto di fare finta di essere fuori quando Gilda andò a trovarla, vergognandosi di se stessa perché aveva costretto anche Richard a fingere di non esserci, e a nascondersi con lei di sopra, in una delle camere da letto. Disse che si era rannicchiata sul pavimento e coperta le orecchie con le mani in modo da non sentire Aagot che raccontava un sacco di frottole a Gilda, sulla porta. «Continuavate ancora a fare quel giochetto?» domandai. «Quale giochetto?» «Uccidere Gilda» dissi. «Continuavate ancora a parlarne, a fingere?» «Oh, quello» fece lei. Rimango un po' perplessa, a volte, se penso che poliziotti e avvocati sono convinti che ci voglia una macchina per scoprire se una persona dice la verità. Ma basta la faccia stessa, basta il tono di voce: ecco le macchine della verità. «No, tutto finito. Era stato soltanto uno scherzo, Genevieve, e neanche troppo divertente, in fondo.» Non mi aveva mai parlato tanto a lungo. Avrebbe voluto continuare ma non glielo consentii. Andai a prenderle la coperta e gliela stesi addosso. Aveva le mani talmente fredde che gliele sfregai fra le mie prima di coprirle, anche quelle. Philippa e Steve erano usciti a cena per il loro anniversario di matrimo-
nio e lei aveva dovuto scegliere se registrare Verso l'alto mare oppure Cartoline dalla costa. Così ho registrato quello che non poteva registrare lei, ed ecco perché sono passata da casa sua a portarle la cassetta del terzo episodio di Verso l'alto mare intorno alle otto. Steve aveva fatto un salto al pub. Lei aveva acceso la TV, stava sempre con la TV accesa, e guardava Peter O'Toole in La controfigura intanto che scriveva i biglietti d'auguri per Natale. Io non ci avevo neanche pensato, come non avevo fatto ancora nessuna spesa per Natale. Mike aveva un lavoro nello Yorkshire la settimana successiva, doveva rimanere via da casa per quattro notti così aveva detto che preferiva fare a meno dei festeggiamenti natalizi e anche delle solite riunioni familiari e che nei giorni di vacanza avrebbe lavorato alla veranda. «Dovresti ringraziare Dio» disse Philippa. «Almeno ha qualcosa che lo tiene impegnato.» «Così non combina guai, è questo che vuoi dire?» «Sei stata tu a dirlo, non io. Ma non credo che sia il tipo che si caccia nei guai, vero?» «Non lo so» le risposi. «E non mi interessa. Ho intenzione di lasciarlo.» Lei a questo punto spense addirittura la televisione. E io le raccontai tutto di Ned. Le raccontai come mi avesse chiesto di andar via con lui fin dal principio e che io avevo continuato a dire di no. Lei mi ascoltò, e faceva segno di sì con la testa, ma mi bastava guardarla in faccia, e negli occhi, per leggerci quello che stava pensando: "Figurati un po', se un uomo come quello vuole una come te". Be', lei poteva capire che mi desiderasse ma non che questo desiderio fosse per sempre. Lo sapevo, me l'ero domandata anch'io, ma avevo finito per accettarlo come una delle meraviglie della vita, anche perché, per farla materializzare, avevano contribuito il filtro d'amore e quelle foglioline di felce che gli avevo infilato nella scarpa. «Quando hai intenzione di dirlo a Mike?» «La settimana prossima» risposi. «Quando torna dallo Yorkshire. E anche tu vedi di fare come se non ne sapessi niente fino a quel giorno.» «Puoi scommetterci» disse. «A proposito, domani alle due danno uno dei film della tua Gilda Brent, sarai al lavoro, così vuoi che te lo registri? I cieli sopra di noi, 1945, bianco e nero, e di una noia mortale, te lo giuro.» Quando rientrai, Mike stava montando le vetrate. Si interruppe per cinque minuti e mi fece una lezioncina sugli elementi termostatici. Sono comandi applicati alle finestre, riempiti di olio, che le fanno aprire automaticamente quando il sole splende e riscalda l'olio in modo che si espanda. La
settimana successiva sarebbero arrivate le piastrelle per il pavimento, roba speciale in ceramica, che viene dall'Italia, in écru e avorio e nero. Lui non sarà qui e quindi vorrebbe che io facessi il possibile per trovarmi in casa quando le consegneranno. Gli ho risposto va bene perché è più facile e più semplice invece di mettersi a discutere e anche perché non volevo che dicesse ancora una volta che siccome fa tutto questo per me io almeno potrei, perlomeno, essere qui ad aprire la porta all'uomo delle piastrelle. Le coccinelle portano fortuna e quest'inverno ce ne sono un'infinità che cercano riparo dentro le case. Ma come faranno a trovare un posto dove rimanere a dormire fino alla primavera? Non lo so, ma sto attenta a non schiacciarle. La mamma mi ha raccontato che lei ha avuto Nick proprio perché aveva schiacciato una coccinella. Naturalmente adesso dichiara che non saprebbe come fare senza di lui, e che è stata contentissima che fosse un maschietto dopo noi bambine, però al momento... che brutto colpo! Senza volerlo aveva messo un piede sulla coccinella e invece di seppellirla, di pestare ben bene i piedi sulla sua tomba tre volte e di recitare Coccinella, coccinella, vola lontano, lontano, l'aveva semplicemente tirata su con l'aspirapolvere e proprio quella notte ci era rimasta, e poi era nato Nick. Al mattino avevo trovato dodici coccinelle nella mia stanza da bagno e altre cinque in quella di Stella. Il guaio è che non si sa cosa sia meglio fare, d'inverno. Ad ogni modo, visto che il terreno non era ancora gelato, le ho raccolte con tutta la delicatezza possibile e le ho messe fuori dalla finestra di Stella in un punto bell'asciutto sotto un cespuglio. C'è una poesia che mi ripeteva la nonna e non ho mai dimenticato, al contrario di quelle che mi facevano imparare a scuola. Questa coccinella che tiro su dall'erba, Ha il dorso che più rosso di così non si può. Vola, coccinella, a nord, sud, o est o ovest, Vola dove c'è l'uomo che amo con tutto il cuore. Ecco, lascia la mia mano, è verso ovest che vola, Per far tornare il mio vero amore dalla città crudele. Bastò a far ridere Stella. Ma era una risata di piacere, non perché avessi detto qualche cosa di buffo. «Come sei intelligente, Genevieve! Chi te l'ha insegnata?» La mia nonna, le risposi. Ma sapevo soltanto quella strofa. Stavo pensando all'uomo che amo, e lui era il vero amore che avrei fatto tornare in-
dietro dalla città crudele, anche se non so bene che cosa voglia dire. Forse una delle coccinelle che avevo salvato sarebbe volata fin su a Norwich, a trovarlo. Stella era ancora a letto e avrebbe voluto restarci, ma Lena mi aveva detto che bisognava farla alzare. Poteva fare un riposino di tanto in tanto ma stare sempre a letto non le faceva bene e, in ogni caso, Marianne aveva telefonato per avvertire che sarebbe venuta a trovarla nel pomeriggio. «Non vedo per quale motivo non potrebbe rimanersene lì, bella tranquilla, fino a prima di pranzo» dissi. «Cominciano i dolori» disse lei. «Pensa che, fino a questo momento, non ne ho mai avuti.» Cosa potevo rispondere? Sedetti sul letto e le presi una mano. La sua stretta era ancora forte però si era tagliata e limata quelle unghie una volta così lunghe e affilate. Mi guardò in faccia come aveva cominciato a fare da qualche tempo, frugandomi negli occhi con gli occhi, molto intensamente, come se volesse mettermi alla prova, addirittura come se si domandasse se fosse davvero il caso di fidarsi di me. «Genevieve, hai sempre la chiave della mia casa?» È buffo, eppure ci si accorge subito quando si comincia ad arrossire. Quando ero piccola e in casa avevamo il fuoco di carbone, avevo l'abitudine di accostare la faccia alle fiamme e di sentirne il calore sulla pelle. Arrossire è più o meno la stessa sensazione, come una fiamma che ti riscalda la pelle. Lei mi stava guardando, osservava la mia faccia che diventava rossa, immagino. Ho fatto segno di sì con la testa. Pensavo che la volesse indietro. «Molto bene» disse. «Continua a tenerla. Basta che io sappia dov'è.» Allora mi resi conto che dovevo dirglielo. Era qualcosa che tenevo dentro di me, quel senso di colpa, che continuava a dilatarsi e premeva per venire fuori. Per un attimo ho avuto la sensazione di essere tornata bambina, a scuola di nuovo, pronta a confessare. Mi spiace, signorina, sono stata io, l'ho fatto io. Tirai un lungo respiro. «Stella, sono andata più di una volta in casa sua. Alla Molucca. Voglio dire che ci siamo andati io e Ned. Ci siamo trovati lì. Lo so che avrei dovuto chiederle il permesso, e glielo dico molto francamente, adesso non capisco proprio perché non l'ho fatto. O meglio sì, lo so. Pensavo che avrebbe detto no.» «Sei andata più di una volta in casa mia?» «Dovevamo pur avere un posto dove trovarci. Mi spiace, Stella, avrei
dovuto chiederle il permesso.» Lei sorrise. E la sua mano diede una stretta alla mia. «Sono contenta.» «È contenta?» «Mi piace l'idea che due amanti felici siano stati là. Eravamo molto felici quando ci andavamo, Alan e io. C'è stata solo una volta in cui ci siamo andati e non ci siamo sentiti... oh, tremendamente felici.» Ebbi un brivido. È la mia solita reazione a un brutto presentimento. «Ma una volta non siete stati felici?» «Una volta, no. L'ultima. Dovete aver avuto un gran freddo laggiù.» Così le raccontai delle stufette a kerosene. Poi le dissi come avevo pulito ogni stanza e messo i fiori dappertutto. «Mi sarebbe piaciuto installare in quella casa il riscaldamento centrale. Ma avrebbe voluto dire operai, muratori, e molte altre persone avrebbero finito per sapere che la casa era mia. Era ancora un posto segreto, capisci. Però penso che ci saremmo decisi a farlo quell'autunno.» Chinò la testa. Era qualcosa che faceva sempre più spesso, adesso. «L'autunno successivo all'estate di cui ti stavo parlando. Solo che il tempo si è fermato e non ci siamo mai arrivati.» «Eppure dev'esserci arrivata, perché adesso lei è qui.» Stella proruppe in una di quelle sue risate fievoli, lugubri. «Già, ma appena appena. E devo tirare avanti, ancora per un po'.» Lasciò ricadere la testa indietro sul guanciale. E parlò a mezza voce. «Tu credi che si possa combattere la morte?» «Per un po' di tempo, sono convinta di sì» risposi. «Non per sempre.» «No, per sempre certamente no. Ma tu con le tue strane convinzioni, chissà perché mi ero messa in mente che avessi qualche idea sul modo di tenere a bada la morte.» Mi sorrise. «Non importa. Ricordi il giorno in cui abbiamo visto quel cane dalmata e tu hai detto di esprimere un desiderio?» Certo che me ne ricordavo. «Il mio sta avverandosi adesso» le risposi. «E il suo?» «Genevieve, hai detto che dovevamo pur essere arrivati a quell'autunno... ecco, effettivamente è vero, ma non ci siamo arrivati insieme. Dopo Priscilla, c'è stata tutta una serie di donne sulle quali Gilda concentrava i suoi sospetti, tutte le loro amiche e conoscenti... e non che ne avessero molte. Mi parlava incessantemente delle prove che aveva contro Alan, di tutte quelle cose assurde come macchie di rossetto sui suoi fazzoletti e capelli biondi sulle sue giacche. Tutte cose inventate o, se non altro, che si metteva in testa.»
«E perché non lei?» dissi. «Ero troppo vecchia, esattamente com'ero troppo vecchia per farmi dipingere il ritratto. E lo disse, anche, chiaro e tondo. Oh, molto tempo dopo, quando ci affrontò. "Perché lei?" disse. "Perché non qualche ragazza giovane?" Agli uomini piacevano le ragazze giovani, capisci, agli uomini piacevano soltanto le belle ragazze. Ecco il mondo nel quale lei viveva, te ne rendi conto, il mondo dei...» «... film di serie B?» dissi. Lei sorrise. «Se vuoi. E continuò così per tutta l'estate, Gilda che parlava delle donne di Alan. Lo aveva trasformato in una specie di mostro, più o meno come avevo fatto anch'io a suo tempo con Rex. Eppure non sono mai riuscita a capire fino a che punto lei credesse realmente a se stessa, se non si trattava piuttosto di un altro episodio di quella sceneggiatura drammatica che aveva inventato per se stessa. Invece di una vita, Genevieve. Invece di una vita. A volte pensavo che avesse diviso la sua esistenza in tante fasi differenti, una giovinezza che era eccitante e fascinosa, il matrimonio con un uomo follemente innamorato di lei, e adesso la mezza età durante la quale lui era uscito dal retto sentiero e lei lottava per farlo tornare a sé. Un po' come se dicesse: questo è il destino della donna e io devo interpretarlo. «La parte della moglie maltrattata e tradita... l'aveva recitato in talmente tanti film che le parole adesso le venivano naturali. Non credo che sapesse neanche da dove le venivano quando diceva di avergli dedicato gli anni migliori della sua vita e che lui, invece, l'aveva buttata via come una scarpa vecchia. Lo ripeteva unicamente perché è quello che le mogli tradite e maltrattate dicono nei film di quart'ordine, e quindi era quello che anche lei doveva dire. «Quando lo seguiva con la sua macchina, faceva semplicemente quello che aveva fatto la donna della Storia di una moglie. Gliene parlava perfino, se ne vantava con lui, gli annunciava di averlo seguito fino a Norwich e di essere andata in un caffè ad aspettarlo. Si era seduta a un tavolo sola soletta, gli raccontò, e tutti si erano messi a fissarla. A un certo momento qualcuno si era avvicinato a chiederle un autografo. Lei era stralunata per la disperazione, non sapeva quasi quello che stava facendo, e disse al cacciatore di autografi che aveva intenzione di ammazzarsi. Alan le domandò se si rendeva conto di avergli appena descritto la scena culminante della Storia di una moglie ma fu sufficiente perché lei cominciasse a urlare e a rovesciare i mobili. Era qualcosa che non riusciva ad accettare; molto più semplicemente, si rifiutava di ammettere che si smascherasse a quel modo la
sua sceneggiata, che la si mostrasse per ciò che era. Povera creatura, povera Gilda.» Credo di essermi messa a guardare Stella completamente sbalordita o perlomeno di aver mostrato in qualche modo il mio stupore. Alla fine dissi: «Non riesco proprio a capire il motivo per cui Alan non si decideva a lasciarla. Cosa lo tratteneva? Perché non se ne andava, semplicemente, piantandola in asso?» «Ma lui l'ha lasciata» disse Stella. «Alla fine, lo ha fatto.» «L'ha lasciata per lei?» «Oh, sì.» «E perché non me lo ha detto prima?» «Non so. Volevo dirlo. Alan l'ha lasciata per me. Ma quella è stata la fine della storia, Genevieve. Voglio dire, è la fine se vuoi.» «Un lieto fine» dissi, anche se avevo l'impressione che si trattasse esattamente del contrario. «Perché non lieto? Sai quale è stato il desiderio che ho espresso quando abbiamo visto quel cane dalmata? Ho desiderato un lieto fine.» Lo si capisce sempre quando lei non ha intenzione di dire altro. Elimina alcune cose, dà un taglio alla conversazione, esige che si smetta. Si allungò verso il registratore e vi infilò una cassetta. Sorrise, afferrandomi per un braccio per impedire che mi alzassi. Chissà, forse succederà anche a me di amare la musica classica come l'ama lei. Mi istruisco con il mio dizionario e cerco in continuazione di imparare cose nuove per amore di Ned. Sto anche cercando di imparare a leggere buoni libri, di apprezzare l'arte, e allora perché non farlo anche per le sinfonie e le opere? Una melodia delicata, argentina e trillante, riempì l'aria, ma non mi era familiare. Roba difficile quando si è abituate alla musica country e western. Rimasi ad ascoltare per un po', facendo uno sforzo per capire. Poi mi sciolsi con delicatezza dalla stretta della mano di Stella, le diedi un bacio e andai a vedere cosa faceva Gracie. Quando mi capitò di nuovo di passare per il corridoio di Stella ormai erano trascorse molte ore ed era quasi diventato buio. Da sotto la sua porta non filtrava nessuna luce. Forse dormiva. Poi udii la sua voce, bassa, da abile parlatrice, come se facesse conversazione con qualcuno. Invece, il suo, era un vero e proprio monologo che continuava regolare e costante. A differenza di tanti che sono qui, non ho l'abitudine di ascoltare di nascosto, con l'orecchio appoggiato al buco della serratura, e quindi mi sono fermata soltanto un momento. Qualcosa mi ha messo in guardia, consigliandomi di
non aprire la porta o, tantomeno, bussare. Ma quando domandai a Stanley che era nel vestibolo pronto a portar fuori i cani, se Stella avesse visite, lui fece segno di no con la testa. Era venuta a trovarla una certa signora Browning, ma a mezzogiorno se n'era andata. Stella, sola, stava parlando con se stessa. Philippa mi aveva infilato nella cassetta delle lettere il video di I cieli sopra di noi. La stanza da bagno era piena di coccinelle. Mi domandai che cosa volesse dire e telefonai alla mamma per chiederglielo ma venne Len a rispondermi e mi informò che era andata a trovare la nonna; così raccolte tutte le coccinelle in una sciarpa di seta, le trasferii in un'aiuola e le coprii con foglie appassite di quercia, gialle e secche. Infine andai a prepararmi una tazza di tè e cominciai a guardare I cieli sopra di noi, un'altra di quelle storie drammatiche in cui si parla della Royal Air Force, della Battaglia d'Inghilterra e delle donne che aspettano a casa piloti di Spitfire che vengono dati per dispersi. Gilda Brent, che era una di queste mogli in attesa, assomigliava a Joan Crawford più di tutte le altre volte in cui l'avevo vista recitare e anche i suoi vestiti erano stile Hollywood puro, tailleur, gonna e giacca, dal taglio perfetto e volpi buttate sulle spalle con quel musetto aguzzo e la coda, cappellini con la veletta e scarpe con i tacchi così alti che sembravano trampoli, per certe donne che, a quanto si sapeva, dovevano vestirsi unicamente servendosi dei tagliandi delle tessere perché era tutto razionato. Era incredibile, aveva qualcosa di fantomatico sentirla pronunciare le stesse parole che, a detta di Stella, aveva pronunciato nella vita reale: «Gli ho dedicato gli anni migliori della mia vita» e «Perché lei? Perché non qualche ragazza giovane?». A una decina di minuti dalla fine lei domandava alla moglie del capitano, che era interpretata da Glynis Johns: «Credi davvero di riuscire a portarmelo via?». Invece era andata proprio così. Alla fine glielo aveva portato via. E Gilda era scappata scomparendo per sempre dalla loro esistenza. Tutte quelle idee su come ucciderla erario finite in niente, e in ogni caso non avevano mai fatto parte della realtà. O perlomeno, non proprio. Non le avevano mai prese sul serio. Stella e Alan avevano vissuto insieme nella casa chiamata La Molucca e Richard aveva vissuto con loro e imparato a considerare Alan come il suo
vero padre. Avevano sempre a disposizione una camera per Marianne quando tornava a casa per le vacanze, Gilda aveva lasciato ad Alan la sua automobile quando se n'era andata e lui e Stella l'avevano conservata. Avevano bisogno di una sola macchina, così, venduta la loro, si erano tenuti quella di Gilda. Erano felici. Immagino che sappiate anche voi cos'è la teoria dell'universo parallelo? A me, l'ha spiegata Ned, una volta. Riguarda quello che avrebbe potuto essere o che avrebbe potuto succedere se si fosse imboccata una strada diversa da quella che, invece, si è presa. L'alternativa è di procedere contemporaneamente ma in uno spazio differente da quello nel quale la tua vera vita si sta svolgendo. Per esempio, per me c'è un universo nel quale io vivo con Mike tutta la nostra lunga vita e un altro, quello autentico, per me e Ned. Ecco come deve essere stato anche per Stella e Alan, e il loro universo autentico non era stato quello che io immaginavo ma un altro, parallelo, brutto e fatto di caos e distruzione che si era concluso con un "vissero per sempre infelici e malcontenti". 18 "Tutto quello che so sul modo in cui si rilasciano dichiarazioni alla polizia si riduce a quanto ho letto nei romanzi polizieschi. Ma ho i miei dubbi che saprei rilasciarne una senza che ci sia qualcuno presente a porre domande e a incitarmi a rispondere. Così adesso parlerò fino a quando avrò detto tutto o sarò troppo stanca per andare avanti. Una delle due, la prima che capita, come ripeteva sempre Alan. Tutto questo ha uno scopo. Cioè quello di descrivere cosa è successo a Gilda Brent che era anche Gwendoline Brant e successivamente Gwendoline Tyzark. Morirò presto ma non voglio morire e lasciarla viva, perlomeno ufficialmente viva, il che - per quello che riguarda gli altri - è praticamente la stessa cosa. Perché nessuno è veramente morto fino a quando non si è preso atto ufficialmente del decesso, non è stato registrato e verbalizzato come si usava dire a suo tempo... e adesso computerizzato, suppongo. Così Gilda non è morta e non morirà mai, vivrà in eterno, a meno che io o Alan non parliamo, e Alan è morto. Ho ripetuto queste ultime poche frasi come per farne la prova generale. Be', a dire la verità, le ho messe per iscritto e poi lette ad alta voce. Ma è qualcosa che non farò mai più, e mi limiterò invece a raccontare così come mi vengono le parole."
"Durante l'estate che seguì la morte del padre, tutti e due i miei figli trascorsero una vacanza di quindici giorni con i miei vicini di casa, Madge e John Browning e i loro due figli, in un villino che avevano affittato nella Cornovaglia meridionale. Era la prima volta che Richard andava in qualche posto senza di me ma si divertiva con questi amici, che erano anche vicini di casa e frequentavano la sua stessa scuola. Avrebbe voluto ripetere quell'esperienza ancora quando i Browning affittarono il villino nel 1970 e fu molto contento di essere stato invitato. Anch'io ero molto contenta... no, non è esatto quello che dico. Non ero contenta di stare separata da lui, non avrei fatto niente per incoraggiarlo ad andarci se lui non avesse voluto, non ci avrei neanche pensato due volte. Ma lui voleva andare, smaniava addirittura per andare da loro, e questo significava che mi sarei ritrovata ad avere due settimane con Alan, qualcosa di meraviglioso, qualcosa che non aveva precedenti perché anche Gilda sarebbe rimasta assente più o meno per lo stesso periodo. Andava da un'amica nella Francia del Sud come quasi tutti gli anni, anche se in genere non ci andava nel bel mezzo dell'estate. Marianne, a diciassette anni, non aveva più voglia di passare le vacanze con me, era più che naturale, e per quanto fosse stata invitata non si sentiva per niente attratta da una vacanza in Cornovaglia con due persone di mezza età e tre ragazzini come unica compagnia. Era agosto. Marianne partì il giorno 20 con tre amiche per la Costa Brava e Maiorca. Nelle loro intenzioni doveva essere un viaggio di una ventina di giorni e, anche se mi preoccupava un po', pensavo di potermi fidare di Marianne perché la consideravo una ragazza abbastanza sensata; sotto certi aspetti era molto matura per la sua età. E naturalmente tutto andò liscio e non le capitò niente di male, si divertì follemente; fu sua madre a cacciarsi nei guai. Il 25 agosto arrivarono i Browning a prendere Richard per condurlo con loro in Cornovaglia. Vedi come ricordo queste date; è come se le avessi messe per iscritto e imparate a memoria. Invece per iscritto non le ho messe mai. Gilda partì o perlomeno dichiarò che sarebbe partita... forse non avrei dovuto dirlo, ma d'altra parte, perché no? Non sono qui per creare un'atmosfera di suspense, sto semplicemente raccontando una storia che è già abbastanza truce e sinistra anche senza suspense. Gilda partì il 28 agosto, e lasciò St Michael's Farm con la sua automobile, una Ford Anglia rossa, modello inizio anni Sessanta, credo, con il cofano che assomigliava a una larga bocca piena di denti, con gli angoli ripiegati all'ingiù, in una specie di
ghigno da piranha. A me dava sempre quell'impressione. Forse me la dava perché quella era la sua automobile, non lo so. Il giorno dopo Alan e io andammo alla Molucca. Ci andammo per rimanerci insieme per il resto della nostra vita anche se, in quel momento, non lo sapevo. Avevamo programmato tutto da settimane. Era il nostro principale argomento di conversazione, quello che ci serviva per smettere di parlare di uccidere Gilda. Era il nostro nuovo gioco, quello che avremmo fatto, che avremmo mangiato, in quali giorni saremmo andati al mare e in quali saremmo rimasti alzati tutta la notte per stare poi a letto tutto il giorno dopo. Il gioco di Uccidere Gilda era finito, avevamo smesso di pensare a tutti quei complicati metodi morbosi con cui intendevamo, insieme, liberarci di lei. Invece avevamo ricominciato a giocare alla casa. Suppongo che potresti dire che giocavamo a fare gli sposini in luna di miele. Molte coppie di amanti, in circostanze del genere, sarebbero andate in un albergo in qualche località di vacanza oppure a Parigi. Io non avrei potuto permettermelo, perché avevo l'istruzione dei miei figli a cui pensare, non avrei potuto permettermelo per tutti e due e lui non poteva pagare la sua parte. Ormai era arrivato al punto in cui aveva soltanto il reddito che ricavava dalla vendita di quei quadretti di paesaggi nei pub, a una decina di sterline l'uno, oltre ai disegni di gatti per i biglietti di compleanno. Ma a parte quello avevamo tutti e due una gran voglia di andare alla Molucca. Era il posto dove ci eravamo sempre incontrati, l'unico posto in tutti i sei anni precedenti, quello in cui recitavamo la scena della coppia sposata. Tutte le cose che avevamo raccolto insieme, noi due, si trovavano lì, i libri, i dischi, i quadri. Ci tenevamo dei vestiti. Vasellame, posate, biancheria erano nostri, comprati insieme, comprati appositamente per noi e per quella casa. Ci avevamo preparato, in cucina, i nostri piatti preferiti e anche gli utensili, che avevamo usato, erano tutti lì. Sulla credenza c'era il necessario per la nostra bibita preferita, il gin e l'angostura, e nella rastrelliera per le bottiglie di vino il borgogna bianco che era il nostro preferito. Vedi, quando eravamo insieme non ci accontentavamo mai di quello che non era di prima qualità. Mangiavamo e bevevamo tutto ciò che ci piaceva di più, facevamo soltanto le cose che preferivamo, eravamo due edonisti completi. L'unica cosa che non avevamo mai fatto era stata di passare una notte insieme. Ridicolo, vero? Ormai eravamo amanti da dieci anni e non avevamo mai dormito l'una a fianco dell'altro per un'intera notte nello stesso letto. Io morivo dalla voglia di farlo e anche lui. L'anno prima, quando i miei figli
erano via tutti e due, ci eravamo trovati spesso alla Molucca, ma Gilda era a casa, a vigilare, a controllare i nostri movimenti, già sospettosa. Rimanere lontani da casa per tutta una notte, era una questione neanche da discutere. Quando sei innamorata vuoi vedere la persona amata in ogni circostanza, in tutte le situazioni possibili, mentre compie ogni azione che un essere umano può compiere, quando è conscia della tua presenza e anche quando non lo è. Avevo visto Alan addormentato, però mai di notte, mai nell'oscurità della notte, non avevo mai visto un sogno che lo facesse sorridere o un'ansietà che facesse palpitare le sue palpebre. Non lo avevo mai visto svegliarsi al mattino. Non sapevo se si svegliava con difficoltà o facilmente, se rimaneva lì sdraiato affiorando lentamente alla superficie della realtà oppure se balzava di scatto fuori dal letto, se subito, fin dal principio, al mattino presto, era vivace e arzillo come a mezzogiorno. Avevamo intenzione di passare tutte quelle notti insieme, dieci notti se avevamo un po' di fortuna. Parte del gioco consisteva anche nel parlare di quelle notti, come avremmo cominciato la sera presto con il tipo di cena giusto e il tipo giusto di bevande. Pianificammo quello che io avrei indossato e perfino le cose di cui avremmo parlato. Sapevamo che Gilda non sarebbe tornata fino alla seconda metà di settembre, e nemmeno Marianne, e Richard non era atteso a casa fino all'8 settembre, due giorni prima che ricominciassero le scuole. Come ricordo quelle date! In fondo, credo proprio che avrei potuto rilasciare una dichiarazione alla polizia senza difficoltà. Perfino Aagot era partita. Non per tornare a casa in Norvegia ma per raggiungere il suo ragazzo che studiava all'università di Durham e durante le vacanze si era trovato un lavoro a Newcastle. Le avevo perfino prestato la mia automobile perché ci andasse. Il mio non era stato vero e proprio altruismo. Non avrebbe potuto partire senza trovare un mezzo di trasporto, e la benzina, gratis. Per come sono andate le cose, Alan e io non abbiamo avuto quelle dieci notti da passare insieme, anzi nemmeno una. Infatti non ne abbiamo mai avuta una. Ma proprio mai. Non siamo mai arrivati al punto di dormire fianco a fianco nello stesso letto per un'intera notte. Questo non significa che non abbiamo passato una notte insieme, anzi in realtà è proprio successo, due lunghe notti insieme, le più lunghe della mia esistenza. Be', è proprio quello di cui ho intenzione di parlare. Una delle due, quella che capita prima, come diceva Alan. Adesso è la voce che mi manca. Puoi sentire come sono diventata rauca. Andrò un po'
più avanti domani." "Alan venne giù da Tivetshall St Michael, a prendermi con la sua macchina, la vecchia Rover grigia che aveva da sempre, da quando lo conoscevo. Erano le undici del mattino, il 29 agosto, e faceva molto caldo. La nostra idea era di andare direttamente alla Molucca e pranzare lì, poi di fare una gita in macchina magari fino alla costa. E volevamo cenare fuori, in qualche albergo carino, una cenetta romantica in un posto incantevole, perché in fondo quella doveva essere la nostra prima notte insieme. Credo che Alan avesse fatto un mucchio di lavoro che non gli interessava per niente, per essere in grado di offrirmi quella cena. Giudicherai assurdo il modo in cui mi ero vestita. Ma a quell'epoca il nostro abbigliamento era molto più formale e io... be' credo di essere stata molto più formale di tanti altri. Suppongo di continuare a vestirmi ancora adesso più o meno allo stesso modo in cui mi vestivo negli anni Cinquanta. Del resto quello era lo stile che mi andava a meraviglia, abiti con il corpetto aderente, la vita stretta, la cintura alta e la gonna ampia, calze, scarpe col tacco alto. Non possedevo neanche un paio di pantaloni. Non portavo mai maglioni o giacche di lana. Quando Alan venne a prendermi avevo addosso un abitino di cotone color avorio con un motivo di fiori azzurri e rosa, scarpe di camoscio beige col tacco alto, l'orologino di brillanti, gli orecchini di perle. Il vestito era molto scollato, e lasciava le spalle nude; al collo portavo un doppio filo di perle. Avevo i capelli girati in sotto, pettinati alla paggio, ma piuttosto corti, tutti buttati indietro, e spruzzati di lacca. Oggi una donna non si metterebbe in ghingheri a questo modo neanche per uscire a cena, vero? Quando Marianne esce a cena, è sempre in jeans e camicione di qualche tessuto indiano. Non so per quale motivo mi sia messa a parlare di quello che avevo addosso quel giorno, può sembrare non pertinente, e infatti non lo era, in fondo. Se fosse stato possibile rendere ancora peggiore la situazione, il modo in cui ero vestita vi contribuì senz'altro. Non avevo abiti più adatti alla Molucca... sì, credo di non aver avuto proprio niente di più adatto, solamente altri abitini e altre scarpe eleganti col tacco alto e una specie di impermeabile studiato più per far scena che per riparare dalla pioggia, un ampio soprabito in shantung argento e azzurro, forse lo hai perfino trovato nel guardaroba. Ti meravigli che io ricordi tutti questi particolari, che ricordi ogni cosa? Faceva un gran caldo. Anche a tenere aperti tutti i finestrini della mac-
china, non c'era vento, neanche un alito. I contadini approfittavano di quell'aria così ferma per dare fuoco alle stoppie. È sempre rischioso, a meno di non stare molto attenti, appiccare il fuoco alle siepi di confine e il rischio aumenta quando il tempo è ventoso. Una giornata come quella era un autentico colpo di fortuna per loro. L'orizzonte era nascosto da una cortina di fumo, spesso, grigio pallido, che oscurava totalmente l'azzurro del cielo e in tutto quel grigiore si levavano spire di un fumo più scuro come quello che eruttano i comignoli nelle serate invernali. L'idea doveva essere quella di distruggere anche le erbacce insieme alle stoppie: sempre meglio che sotterrarle passandoci sopra con l'aratro. L'aratura si faceva sempre dopo che le stoppie erano state bruciate. Immagino che dovessero pur esserci campi dove il contadino o uno dei suoi uomini rimaneva indietro a controllare come si spostava il fuoco che avevano acceso, però io non vidi mai nessuno. Soltanto le fiamme che guizzavano fra le stoppie attraverso i viottoli, l'intero campo che ardeva e il fumo che ne saliva in nuvoloni neri, senza che nessuno lo controllasse o lo sorvegliasse, tanto che riempiva l'aria con quelle fosche folate che soffocavano, chiudevano la gola. Dentro, brandelli di steli abbrustoliti danzavano come sciami di mosche. Chiudemmo tutti i finestrini. Io avevo già le mani sporche di nero, bruscolini di polvere untuosa che avevano l'odore dei fiammiferi spenti. Ad un certo momento ci fermammo a prendere qualcosa da mangiare e Alan comprò anche una bottiglia di champagne. Credo di non aver visto anima viva all'infuori del negoziante lungo il viaggio che ci portò oltre il Waveney fino a Curton. Per un po' seguimmo un'altra macchina e un paio passarono in direzione opposta. La campagna da queste parti, venticinque anni fa, era molto solitaria. Non contaminata, la definivano. Il Suffolk era la seconda fra tutte le contee inglesi che erano rimaste ancora ben conservate, e credo che questo si possa anche dire di tutta quella zona che si estende fino ai confini del Norfolk. Ma tu questo lo saprai benissimo, ne avrai sentito parlare da tua madre e da tua nonna. In certi posti ti capitava di viaggiare per trentacinque, quaranta chilometri, attraverso un paesaggio composto soltanto di campi deserti e di boschi, e di vedere forse tre fattorie e una mezza dozzina di casette in lontananza. E nient'altro. Il Breckland era una zona ancora strana, selvatica, e le paludi erano isolate, deserte e silenziose. Quei nuvoloni di fumo erano ormai rimasti dietro le nostre spalle quando arrivammo alla Molucca. Il cielo era azzurro sulla palude dietro alla ca-
sa e potevamo respirare, senza inalare i rimasugli carbonizzati dell'orzo. Il silenzio era profondo. Gli uccelli cinguettano soltanto all'alba o prima di andare a dormire, non a mezzogiorno. Potevamo rimanere in quella casa per ore e ore di seguito senza che una sola macchina passasse sulla strada al di là di quel lungo spiazzo erboso. Una volta entrati, ti saresti aspettata che andassimo dritti dritti a letto? Ormai avevamo superato quello stadio, anche se avremmo potuto farlo come l'agosto dell'anno prima, perché avevamo solo il tempo del giorno. Ma pensavamo di avere dieci notti. No, a quel punto ormai eravamo convinti di avere una vita intera perché non appena entrammo in casa Alan mi disse: «Questa non è una vacanza, tesoro. Questo è per sempre. Non ho intenzione di ritornare indietro. L'ho lasciata». Mi prese fra le braccia e mi baciò. Io lo baciai e lo abbracciai e ci mettemmo a ballare." "Gli anni fra allora e adesso cominciarono il 1° settembre. C'è stato il 29 agosto e poi il giorno dopo e la notte che seguì quel giorno e l'indomani, e poi ventiquattro anni. Suppongo di non avere inquadrato così il tempo, allora, ma è questo il modo in cui lo vedo adesso. Alla fine di quegli anni. Oggi si direbbe che soffrivo di depressione, un termine che ho imparato da Richard. Verrei sottoposta a cure, con somministrazione di farmaci, a terapia psichiatrica. A quell'epoca non avevo niente. Mi lasciavo andare alla deriva, vegetando, e passavo da una grigia giornata all'altra in cui ogni luce era svanita. Non sto domandando pietà. E in ogni caso a chi la domanderei? Nessuno ascolterà tutto questo. E io non merito pietà, benché Alan, sì. Io avevo i miei figli. Lui non aveva nessuno. La sua situazione era terribile ma io non potevo far niente per alleviarla. Il pensiero di lui, del suo nome, i ricordi di lui, mi paralizzavano. Anche se lo avessi desiderato, e naturalmente lo desideravo, non ero in grado di compiere materialmente il gesto di sollevare il ricevitore dal telefono o di comporre all'apparecchio il suo numero. Gli scrissi. Le lettere non vennero mai spedite. Come faccio a sapere che queste stesse cose erano vere anche per lui? Che anche lui voleva telefonare e ha cercato di scrivermi? Lo so, e basta. Poiché questo non era uno dei film di Gilda, non avevamo dato un taglio netto, e drammatico, ai nostri rapporti. Gilda diceva che io della vita non so niente e invece mi accorgo che non è così. Ci trovammo il giorno prima
che Richard tornasse a casa, non alla Molucca ma in un albergo, un posto dove a volte eravamo andati a mangiare. Ci sedemmo al bar, senza bere la nostra bevanda preferita, lui un whisky io un miscuglio di non so quali vermouth. Era come se ciascuno di noi due si fosse deciso a fare cose diverse, rispetto al passato. Gli avvenimenti erano lì, presenti, fra noi, ma non se ne poteva parlare, era qualcosa su cui ci eravamo tacitamente accordati. Com'era strano che non ci dovesse essere nient'altro da dire. Noi che avevamo sempre avuto tanto di cui parlare, tanto in comune, noi che parlavamo in continuazione, tutto il tempo in cui stavamo insieme, non avevamo niente da dire. Ci sono coppie che sanno stare insieme in "amichevole silenzio", noi - no. Il silenzio calato su di noi non era piacevole. Era un niente, un vuoto; e fintanto che durava ci riempiva di una specie di panico. E proprio per il fatto che avevamo sempre disprezzato le chiacchiere vane e inutili o, perlomeno, le avevamo sempre tenute per gli altri ben sapendo che non si adattavano a noi, adesso le rifiutavamo. E non che volessimo parlare di lei o di quello che era successo, ma quello che era successo aveva respinto e accantonato qualsiasi altra cosa. Ci sono persone che si vantano di vivere nel presente, ma quando ci si prova a farlo si scopre che non è possibile. Era quello che stavamo provando, cancellare il passato perché era troppo atroce, incapaci di immaginare un futuro, di vivere lì, nel presente. Invece scoprimmo che non esisteva alcun presente, solo un vuoto che, a precipitarvi dentro, avrebbe portato alla pazzia. Non volevo che lui mi toccasse, che mi sfiorasse nemmeno la mano, e se lui provava qualcosa di diverso, non ne diede segno. Bevemmo le nostre bevande e dicemmo che avremmo fatto meglio a tornare. A che cosa? A due case vuote. Prima di lasciarci lui domandò in un tono che si sforzava di rendere noncurante e casuale: «Farò un salto sabato, posso? Vorrei vedere mio figlio.» Da come parlò a Richard quando venne a casa nostra capii che quello era il suo addio. Per me le sue parole, per quanto nei confronti del bambino fossero soltanto affettuose e piene di interesse, erano cariche della tristezza di un'ultima volta, di un congedo. E quando Richard se ne fu uscito in giardino per conto proprio, a me disse: «Non funzionerà, vero?» «No» dissi. «È stato magnifico conoscerti» disse. «È stata la cosa migliore che io abbia mai avuto. Immagino che tu non abbia voglia di baciarmi e lo strano
è che neppure io ho molta voglia di baciare te. È così che vanno le cose, suppongo. Non mi tratterrò ancora per molto da queste parti. Vuoi dire addio a Richard per me, eh?» Non appena Richard fu tornato a scuola, salii in macchina e andai alla Molucca. Ero nervosissima all'idea di guidare, terrorizzata. La casa era nel caos. Ripulii, vuotai il portacenere e lavai i bicchieri. C'erano un po' di fiori in un vaso ma erano ancora freschi e non trovai il coraggio di buttarli via. Chissà per quale ragione... pensavo che ci sarei ritornata?... staccai i disegni di Alan dalle pareti e li riposi nella credenza. Tolsi dalla cornice e unii ai disegni anche quella nostra foto, quella che ci aveva scattato lo sconosciuto, entrato a chiederci la strada. Staccai il frigorifero e aprii lo sportello ma senza guardare dentro. C'erano del prosciutto e un pezzo di formaggio oltre allo champagne. Mi sembrava molto improbabile che dovesse capitarmi di nuovo, in futuro, di bere champagne. Salii a cercare il vestito che avevo indossato quel giorno e la notte successiva; volevo portarlo in tintoria ma l'odore sulfureo della fuliggine che lo impregnava quando spalancai l'anta dell'armadio mi fece venire la nausea. Spinsi la gruccia sull'asta fino in fondo, e richiusi. Prima di andarmene entrai in garage a dare un'occhiata all'automobile di Gilda. Nessuno sarebbe venuto a cercarla. Lo sapevo con la stessa sicurezza con cui sapevo che quella casa era mia e io mi chiamavo Stella Newland. Nessuno ne avrebbe mai avuto bisogno o sarebbe venuto a cercarla. Naturalmente se l'avessi spostata di lì o avessi in qualche modo cercato di liberarmene, sarebbe stata tutt'altra faccenda. Se per esempio avessi cercato di vendere la villa. Ma non ne avevo nessuna intenzione. Tornai a casa. Quella sera cominciai a star male, e fu l'inizio di una malattia che, all'apparenza, sembrava un'influenza prolungata. Una volta guarita, dissi ad Aagot che non sarei salita mai più al volante di un'automobile. Gli altri avrebbero dovuto facilitarmi le cose. Invece le peggiorarono. Mi sembrava che tutti i miei conoscenti mi domandassero se continuavo ancora a vedere Alan e Gilda. Dov'erano? Perché non si facevano mai vedere? Perché non andavo mai a trovarli? Con quel 'tutti' suppongo di voler alludere a Marianne... be', soprattutto a Marianne. Dal giorno di Pasqua, e dopo quella scenata, Priscilla aveva cominciato a comportarsi come se Gilda non esistesse, come se non fosse mai esistita. L'atteggiamento di Jeremy, invece, era stato leggermente diverso. Si era congratulato con me per 'essermi liberata' di Alan e Gilda, quella coppia 'di gaudenti di mezza tacca'. Un giorno Madge Browning mi raccontò di avere incontrato Alan a
Diss. Alla fermata dell'autobus. Lei non gli aveva domandato per quale motivo non avesse la macchina e non aveva chiesto notizie di Gilda ma lui gliele aveva date ugualmente. Gilda lo aveva lasciato per andare a vivere in Francia. Rimasi terribilmente sconvolta quando mi raccontò tutto questo. Non per il fatto che Gilda fosse andata a vivere in Francia, quello no, era chiaro che lui aveva dovuto dirlo, ma piuttosto che lo avesse visto e gli avesse parlato e... oh, non so. E fu a quel punto che Marianne si mise di mezzo. Gli telefonò per domandargli come mai mi aveva mollato, che razza di amico era? Io ero stata male e avevo bisogno di lui. Che si facesse vivo, che venisse a trovarmi, per favore, il più presto possibile. Che ironia, vero? Credo, e lo credo sul serio, che la sua speranza fosse quella di farci sposare, e si dava da fare per combinare il nostro matrimonio. Mi è capitato solo molto di rado di andare in collera con i miei figli. E lei è rimasta letteralmente sconvolta di fronte alla mia scenata di rabbia. Poverina, lo aveva fatto animata dalle migliori intenzioni, aveva soltanto diciotto anni. Naturalmente lui non si è fatto vedere, sapeva benissimo che non era il caso di venire a trovarmi, non aveva nessuna voglia di venire come io non avevo nessuna voglia di vederlo. Non l'ho più rivisto. Non l'ho più visto dal settembre di ventiquattro anni fa. Sarebbe carino se potessi dire che ho pensato a lui ogni giorno e non ho mai smesso di amarlo ma non posso, perché ogni volta che pensavo a lui e cercavo di ritrovare, e richiamare alla mia memoria, l'amore per lui, riuscivo soltanto a ricordare quei campi che ardevano e un foulard verde e il sangue sull'erba. E queste cose cancellano i buoni ricordi nello stesso modo in cui il fumo annebbia il sole." "I prossimi due nastri che registrerò saranno... come dice Marianne?... quelli che contano. Sì, i prossimi due saranno quelli che contano. Ci metterò l'etichetta e pregherò Richard di pensarci lui perché vengano consegnati a Genevieve dopo che io sarò morta. Forse andranno perduti e lei non li ascolterà mai o forse li adopererà per registrare qualcosa senza sapere cosa contengono. Così sia. Non provo nessun desiderio di scrivere su di loro qualche messaggio indecifrabile. Li ascolterà o no. Il mio unico desiderio è che per motivi presto molto chiari, fra tutti gli esseri umani che ci sono sulla terra sia proprio lei quella a cui tutto ciò debba venire raccontato. È un modo drammatico e fatalistico di vedere le cose. Lo so. È il mio modo di dare un certo significato alla vita, una trama degli avvenimenti decisa dal destino, tutto qui.
E, poi, cosa farà lei? Mi sono interrotta, mi sono fermata. Un rumore di passi ha avuto un attimo di esitazione fuori dalla porta e poi è ripreso, ha proseguito. Mi stavo chiedendo cosa farà lei. Quello che vuole. Qualcosa o niente. Quello che vuole." 19 Adesso ero entrata in quell'atmosfera che si potrebbe chiamare delle ultime volte. È un'atmosfera strana, e il fatto di esserci dentro ti porta istintivamente a dare peso a tutto quello che fai. Mike era partito per Leeds e io gli avevo dato l'ultimo bacio che non mi capiterà più di dargli. Per l'ultima volta gli dissi che lo avrei rivisto il venerdì successivo, andai in fondo al nostro giardino per l'ultima volta, buttai fuori gli ultimi fiori morti dal vaso che c'è appeso al muro. Quanto a Stella, aveva consumato la sua cena in sala da pranzo per l'ultima volta, forse fatto le sue ultime parole crociate, e fumato l'ultima sigaretta. Ma non provavo nessuna nostalgia per la casa che presto avrei dovuto lasciare, ho perduto qualsiasi interesse a questo riguardo, non avrei mai voluto viverci. È stata semplicemente una casa che, con Mike, avevamo comperato con un mutuo, non perché ci piacesse ma perché era tutto quello che potevamo permetterci, non un posto di nostra scelta ma l'unico che avessimo trovato. Gran parte della gente che conosco vive a questo modo, non come avrebbe voluto vivere ma nel modo migliore e meno rischioso che conosce. Mi sono sempre domandata se questo modo di vivere di ripiego, questo modo di vivere economico e obbligatorio, adesso sarebbe cambiato. E cambiato in meglio. La mia casa, mia e di Mike, presto avrebbe cominciato a darmi l'impressione di assomigliare a una piccola e accogliente prigione, con due carcerati e due carcerieri, così avevo deciso di andarmene prima che succedesse. Me ne andavo intanto che potevo e quando ne avevo un motivo. Era al mio posto di lavoro che mi piaceva stare, non in quella casa, così dissi a Lena che avrei rinunciato alla mia giornata di libertà, facendo uno scambio con Carolyn. Di nuovo, accostandomi alla porta di Stella, udii il mormorio della sua voce che giungeva dall'interno. Non c'era nessuno con lei, parlava tra sé e sé. Aveva qualcosa di strano, di fantastico, come una delle donne della mia famiglia quando pronunciano una formula magica. Solo che nel caso di
Stella, non c'erano pause per accendere una candela o per buttare zolfo nel cerchio. Il rumore dell'unghia con la quale grattai il pannello di legno prima di bussare dovette bastare a metterla sul chi vive. Il suo silenzio fu improvviso come un'esplosione. Mi parve quasi di sentirla sussultare. Probabilmente si aspettava di vedere Lena o Pauline... quand'era stata l'ultima volta che io avevo bussato?... perché la trovai seduta in poltrona mentre si stringeva intorno la nuova vestaglia con quel disegno a patchwork, e l'espressione chiaramente colpevole. L'antico, adorabile sorriso le distese la faccia rinsecchita e rugosa. Mi tese le braccia. La baciai e lei riuscì a stringermi debolmente a sé. Anche quella era un'ultima volta. Odiava lagnarsi, disse, ma adesso i dolori erano forti. Lena aveva acconsentito a chiamare il dottore. Ecco chi aveva pensato che fosse quando ho bussato. Voleva che rimanessi a parlare? Fece segno di no con la testa, gli occhi semichiusi. La lasciai. Non so per quale motivo mi decisi ad andare contro le regole che mi ero imposta e, quando mi capitò di passare davanti alla sua porta un'ora più tardi con il vassoio per Gracie, accostai l'orecchio a uno dei pannelli superiori della porta. Stella non dormiva, stava parlando di nuovo, e anche se non riuscii a distinguere le parole mi sembrarono ben diverse da quelle con cui si descrivono i propri sintomi a un dottore. La mattina successiva, quando entrai nella sua camera, lei era a letto e qualcosa nel suo colorito e nel modo in cui stava distesa mi fece capire che, quel giorno, non si sarebbe alzata. La sua faccia stava cominciando a cambiare. I morenti assumono un'espressione particolare qualche giorno prima di andarsene. Gli occhi cominciano ad essere fissi, la carne ad afflosciarsi. Le feci una spugnatura sulla faccia e sulle mani e la pettinai. Voleva che rimanessi lì seduta a tenerle compagnia e, una volta tanto, Lena non fece obiezioni. La sua mano destra uscì lentamente da sotto il lenzuolo e si aggrappò alla mia. Ma la sua stretta non era più forte come una volta. Le dita erano deboli e non del tutto salde. Dopo un po', comunque, riuscì a mettersi seduta, appoggiandosi ai guanciali, e a parlare. Mi domandò della sua casa, se mi era piaciuta, se io con quella che chiamava la mia superstizione, avevo sentito cose sgradevoli laggiù, forze, elementi. Io potei risponderle che non avevo sentito nient'altro che sensazioni buone, una specie di felicità, un senso di conforto e di pace. «Non un posto perfido e traditore, Genevieve?» Bastò questo a farmi tornare in mente la poesiola della coccinella e l'invocazione al vero amore. Una volta che Stella se ne fosse andata per sem-
pre, ci sarebbe mai stato qualcun altro a chiamarmi Genevieve? Continuai a tenerle stretta la mano ma lei non disse più niente. Quella fu l'ultima volta che Stella fece con me un discorso coerente perché i dolori cominciarono a peggiorare e nel pomeriggio il dottore le diede la morfina. La sua voce era mutata, fievole e roca, ma lei mi disse, fiduciosa che l'avrei capita: «Lui la lasciò per venire da me. I miei figli, questo, non lo sanno.» «Non sarò io a dirglielo» risposi. «Vorrei aver potuto superare...» provò di nuovo. «Vorrei aver potuto... riconciliare... sì, riconciliarmi...» Aveva le palpebre bagnate di lacrime o forse erano semplicemente gli occhi che lacrimavano. La mattina dopo inutile pensare anche solo di farle prendere la colazione. Sharon disse di sentirsi molto soddisfatta perché era riuscita a farle prendere un sorso di tè. «Comincia a mollare» mi disse. «Non manca molto ormai.» Richard era nel soggiorno con un altro dottore. Mi accorsi di provare qualcosa che non avevo mai provato prima, una specie di rispettoso timore per Stella, l'idea che forse non avrei dovuto entrare nella sua stanza nel modo in cui mi ero abituata a fare da sempre. Stupidamente pensai che avrei dovuto chiedere permesso. L'avvicinarsi della morte cambia il nostro atteggiamento verso ogni sorta di cose. Origliai fuori dalla porta, misurai quel silenzio, bussai e non avendo ricevuto risposta, neanche un bisbiglio, entrai. Lei era seduta, a letto, gli occhi spalancati, fissi sulla porta. «Marianne,» disse «viene tuo padre?» Questo mi scioccò anche se non avrebbe dovuto. Credevo di essere abituata alle menti smarrite e a quel tipo di confusione che ti fa scambiare nomi e persone, a Middleton Hall, per non parlare poi di memorie che diventavano imprecise e incerte. Ma Stella era diversa. Stella era sempre stata così lucida, così precisa nel modo di parlare! Sotto la pelle simile a una pergamena si vedevano le ossa del cranio. Mi accostai al letto e le diedi un bacio. Lei disse: «Grazie, cara, mi ha fatto piacere quel bacio.» E poi: «Domani è la tua giornata di libertà, vero? Spero che ti divertirai in modo straordinario.» È inutile discutere con loro quando sono in queste condizioni, e non serve sentirsi imbarazzati. Meglio stare al gioco. E risposi che sì, certo, mi sarei divertita in modo straordinario, e se non altro quello era vero. Ogni momento che ho passato con Ned è stato di felicità pura. «Tuo padre e io siamo andati a Iona per la luna di miele.»
Non lo aveva mai detto parlandomi delle sue nozze con Rex e forse non era vero. La morfina fa affiorare fantasie di ogni genere e falsi ricordi che erano rimasti sepolti nella mente. Mi domandai come avrebbe chiamato la vera Marianne, l'attrice, la donna con i lunghi capelli fulvi. La porta si aprì per fare entrare Richard. Non appena lo vidi pensai, lo prenderà per Alan, penserà che è ritornato Alan. Invece lei, proprio per niente. Gli rivolse quel suo splendido sorriso; di quello era ancora capace. Mi alzai per andarmene e lei disse: «Non riuscirai a spostare la tua macchina, Gilda. Dovranno pensarci quelli del garage.» Richard mi guardò. «Pazienza» dissi. «Non mi ci proverò neanche.» Incontrai Marianne in corridoio. Lei mi prese per un braccio dicendo: «Sono arrivata troppo tardi, vero?» La mia mamma è chiaroveggente, quindi è molto brava a prevedere il futuro, e del resto non è il caso di meravigliarsene se si tiene a mente che è stata la settima figlia della mia nonna e anche la nonna era la settima figlia o perlomeno la settima a crescere e diventare adulta. Adesso nessuno mette più al mondo sette figli e magari è per questa ragione che Janis e io non abbiamo il dono della mamma, così mi sembrò molto strano che proprio in quel momento, quando Marianne me lo domandò, sapessi con precisione quando Stella sarebbe morta. «Venerdì» dissi. «Non succederà fino a venerdì.» «Come fai a saperlo, Jenny?» «Lo so, e basta» risposi. Marianne era vestita di verde, un cappotto verde scuro su pantaloni e golf neri. Mi è venuto un brivido, vedendola. Naturalmente non credo a quello che dicevano una volta, che il verde porta sfortuna perché è il colore dell'abito delle fate, e a loro non fa piacere che i comuni mortali si facciano vedere vestiti di quel colore. D'altra parte mi è anche successo di aver avuto talmente tante dimostrazioni di guai e sfortuna, quando qualcuno si vestiva di verde, che non ho più dubbi. Chi si compera un vestito verde, dice la mia nonna, non ha dovuto comperarne, dopo, anche uno nero? Quando la mamma ha sposato Dennis non ha voluto neanche una verdura verde, di contorno, al pranzo di nozze, e neanche una foglia di lattuga sul tavolo. L'amore suo perde, chi veste di verde, dice il proverbio. Marianne mi fece tornare dentro con lei. Infilò il braccio sotto il mio. Rimanemmo lì a osservare le mani di Stella che arricciavano il lenzuolo. È qualcosa che ho già visto di frequente, anche troppo, ma nessuno ha saputo
mai darmene una spiegazione. Per quale motivo le mani dei morenti strisciano irrequiete come gamberi di sbieco lungo il bordo di una coperta e l'orlo di un lenzuolo? I suoi occhi erano chiusi ma le mani lavoravano, come un pianista che suonava su un pianoforte di tessuto. Marianne mi domandò perché, e dovetti risponderle a bassa voce che non lo sapevo, soltanto i morti lo sanno. Lei e Richard rimasero tutto il giorno con Stella ed erano ancora lì quando li lasciai per tornare a casa. Stavo entrando quando il telefono cominciò a suonare. Mi domando se arriverà mai il momento in cui il suono della voce di Ned non mi farà sentire un fremito di eccitazione, una specie di scossa da capo a piedi, e i capelli che si rizzano sulla nuca. Voglio che giunga quel momento, voglio che succeda, che sia qualcosa di normale e ordinario, la capacità di accettarlo, voglio darlo per scontato perché questo significherà che ho avuto una vita intera per abituarmi a lui. Domandò: «Domani sera, Jenny?» «Ho qualcosa da dirti» dissi io. «Possiamo parlarne domani.» «Hai trovato qualche altro posto un po' più caldo per noi.» «Potresti metterla così, se vuoi» dissi. «Dopo giovedì non andremo più da Stella, di sicuro.» «Sei molto misteriosa.» «No» dissi. «No, niente affatto. Non c'è nessun mistero. Adesso tutto può uscire allo scoperto. Ascolta, Ned, ho intenzione di fare quello che mi hai chiesto, voglio lasciare Mike e venire a stare con te. Così rimarremo insieme. Mi spiace di non averlo voluto fare prima, è stato sciocco da parte mia, non dovevo farti aspettare tanto, me lo hai domandato così spesso! Sono proprio stata una stupida.» Fu un suono stupendo, il suo sospiro di sollievo. «Glielo hai già detto?» «Non ancora. Volevo che tu fossi il primo.» Lui cominciò a dire qualcosa, con voce tenerissima e dolce, ma suonavano alla porta. Attraverso il vetro smerigliato intravvidi la sagoma di Janis, la sua pettinatura con i capelli raccolti in cima alla testa, e gli enormi orecchini. «Ti amo» dissi «ma adesso devo andare. Ci vediamo domani.» Janis era rimasta senza tè in bustine, si era ridotta all'ultima, e il negozio chiudeva alle quattro e mezzo. Gliene diedi almeno venti tirandole fuori dal mio pacchetto di PG Tips e lei si mise a raccontarmi una lunga storia a proposito della sua amica Verna che si stava pettinando davanti alla finestra aperta, poi aveva attorcigliato intorno a un dito i capelli che le erano
caduti, raccogliendoli dal pettine, e li aveva messi fuori, e una gazza era volata via tenendoli nel becco. «Cosa, in dicembre?» dissi. «Peggio ancora» fece lei. «È stato così mite, il tempo. Voglio dire che non te lo aspetti. Cioè che non ti aspetti che loro facciano il nido. Così le è venuto subito questo terribile mal di testa. Cosa ne pensi? La mamma dice che morirà entro l'anno, ma di non dirglielo perché, tanto, non ci può far niente.» Voleva vedere la veranda e allora la accompagnai in sala da pranzo e le mostrai il lavoro di Mike. «Sei fortunata» disse. «Steve non è capace di aprire una lattina senza prendere il tetano.» Mentre aspettavo l'uomo delle piastrelle girai per la casa, domandandomi cosa portare via con me e cosa lasciare. Nessuno dei nostri regali di nozze; non li volevo, Mike poteva tenerseli tutti. Avrei preso i miei libri e il mio Chambers Dictionary, ma non l'impianto stereo o il registratore e la televisione era troppo grossa da trasportare. Tredici anni. La mamma direbbe che è proprio a motivo dei tredici anni, perché abbiamo appena oltrepassato l'anniversario che porta la peggior sfortuna, quello per il quale è stato trovato perfino un nome speciale. Il primo è quello delle Nozze di Cotone, il secondo delle Nozze di Carta, cinque anni sono le Nozze di Legno, dodici quelle di Seta e Lino, tutti sanno che a venticinque si festeggiano le Nozze d'Argento e a cinquanta quelle d'Oro... be', quelle dei tredici anni sono le Nozze di Zolfo. Magari perché è esplosivo o perché è duro e scuro come una pietra arsa e calcinata nel fuoco. Non lo avevo mai domandato alla mamma e stavo pensando di telefonarle per farmelo spiegare quando si presentò l'uomo con le piastrelle. E quando se ne andò, anche se ero venuta via poco più di un'ora prima, invece di chiamare la mamma chiamai Middleton Hall. Venne a rispondere Pauline. No, Stella stava sempre lo stesso, molto fiacca, debolissima, dormiva quasi sempre, ma era la morfina del dottore a farla dormire. Marianne se n'era andata ma Richard era ancora lì. Avevano fissato una camera tutti e due all'albergo di Thelmarsh. Mike telefonò quando avevo appena riagganciato. Voleva sapere se erano arrivate le piastrelle. Mi rallegrai perché non disse quello che avrebbe detto una volta, che gli ero mancata e che sarebbe stato felice di tornare a casa più presto che poteva, perché se l'avesse fatto mi sarei sentita in colpa. Fino a quel momento avevo soltanto pensato di dirglielo il venerdì sera
e avevo anche provato a immaginare che reazione avrebbe avuto. Suppongo che mi avrebbe domandato se era quello il modo di esprimergli la mia gratitudine perché si era messo a costruire la "mia" veranda. Quando mi salutò senza neanche dirmi che ci saremmo rivisti il venerdì, cominciai a lambiccarmi il cervello pensando a tutte le donne del villaggio che gli sarebbero corse dietro una volta che io me ne fossi andata, e a cercare di indovinare a quale di loro Mike avrebbe ceduto. In ogni caso non sarebbe passato molto tempo dalla mia partenza, di questo ero convintissima. La prima cosa che venni a sapere, quando arrivai il giovedì mattina, fu che Lena si era presa l'influenza da Stanley. Aveva avuto il buon senso di mettersi a letto e di non spargere germi in giro. Stella era sola. Quando la baciai mi accorsi che voltava la guancia verso di me ma quello fu l'unico segno di essere cosciente che diede, e per un bel po'. Per la prima volta da quando mi era capitato di trovarmi con lei nella sua camera, forse perché era anche la prima volta in cui c'era un gran silenzio e lei riposava, pensai ai segreti imprigionati nella sua testa, che vi si muovevano, che vi bisbigliavano senza essere uditi da nessuno. Ero lì più o meno da una mezz'ora e stavo pensando che non avrei potuto trattenermi ancora per molto perché c'erano Gracie e Arthur ai quali dovevo pensare, quando lei aprì gli occhi e disse: «Tesoro?» «Sì, Stella?» «Che cosa le hai fatto?» Lo disse non a voce alta o tantomeno in tono agitato, ma con una voce talmente chiara che ne rimasi sorpresa. Dunque era con Alan Tyzark che stava pensando di parlare? E sentiva davvero il bisogno che lui le confermasse che no, non aveva fatto una certa cosa, per sentirsi in pace? «Niente» dissi. «Non ho fatto niente.» Lei girò la faccia dall'altra parte. E le sfuggì qualcosa che non era esattamente il rumore lieve di chi russa ma come una specie, piuttosto, di pesante respiro strozzato. Era crollata, e adesso dormiva profondamente. Ma non si poteva escludere che si risvegliasse altrettanto in fretta. Rimasi lì seduta a osservarla con la speranza che si svegliasse ma senza avere il coraggio di costringerla a farlo volontariamente, perché sarebbe stato crudele, e contenta, invece, di non avere ereditato i poteri della mamma di tirarle fuori di bocca le parole. Richard arrivò nella tarda mattinata e poi, all'incirca dopo un'ora, anche Marianne con i suoi figli. Il maggiore doveva aveva diciassette anni perché erano lì appena da cinque minuti, con la nonna, quando preferì ripartire, a
bordo della Volvo, tirandosi dietro anche la sorella. Io entrai nella sua camera una volta sola, Stella era cosciente. O se non altro, i suoi occhi stanchi erano aperti e c'erano tracce di lacrime sulle sue guance. Marianne le asciugò il viso molto delicatamente con un fazzolettino di carta. Pensavo che non l'avrei mai più riveduta, Stella, anche se in questo mi sbagliavo, e nel salutarla, ma con le solite parole di sempre, quelle di ogni giorno prima di lasciarla per tornarmene a casa, cercai di assumere un tono più solenne, finale. «Addio, Stella.» La baciai e la sua guancia ebbe un tremito. Marianne appoggiò per un attimo la mano sul mio braccio, la manica verde sulla mia blu. Ormai a quel punto nella camera cominciava a diventar buio e prima che Richard si alzasse per accendere la lampada che c'era sul comodino ebbi l'impressione di vedere una figura femminile in piedi, silenziosa, che attendeva, fra la finestra e il muro. La mia nonna avrebbe detto che era la Morte, venuta all'appuntamento con Stella ma quando la luce si accese mi accorsi che era soltanto il modo in cui la tenda era stata scostata distrattamente rimanendo impigliata nell'angolo della cornice di un quadro. Forse non avrei dovuto andarmene. Una persona alla quale volevo bene e con la quale avevo sentito nascere una grande amicizia stava per lasciare questa vita, era sul letto di morte, e io scappavo a divertirmi. È uno strano modo di spiegarlo? In fondo, no, niente affatto, quando si capisce che stare con Ned era la gioia più autentica e grande che io avessi mai provato in vita mia. Potevo dire che Stella aveva la compagnia del figlio e della figlia, e che in ogni caso - a poco a poco stava perdendo conoscenza. La sua camera non era più posto per me, fintanto che c'erano loro. Comunque avrei potuto ugualmente rimanere a Middleton Hall, seder mi nella sala comune, aspettare in caso ci fosse stato bisogno di me. E adesso che ci riflettevo meglio, avrei potuto far cambio con qualcuno che aveva il turno della notte. Non ci avrei pensato due volte, se tutto questo fosse successo un anno prima, quando non conoscevo ancora Ned, e non lo amavo. Perché il responsabile era l'amore, quell'amore che travolge tutto, anche quel che c'è di meglio nel tuo carattere, e getta ai quattro venti tutti i bei sentimenti di amicizia, e senso del dovere e di quell'altro tipo di amore fatto di gentilezza-e-affetto. È così esigente, così impetuoso, una forza che assomiglia a una bufera che ti soffia via, oppure a un'onda del mare che ti scaraventa sulla spiaggia, e tu non puoi resistere, e non vuoi neanche. Io
non sarei stata capace di resistere alla sua forza di attrazione neppure per Stella e mi domandai se ci sarei riuscita anche se si fosse trattato della mia nonna o perfino della mia mamma o, se ne avessi avuto uno, di mio figlio. Il che non significa che non mi sentissi in colpa all'idea di andarmene. Mi vergognavo un po' e, anzi, immaginai addirittura che Lena mi guardasse in un modo strano e Carolyn mi lanciasse un'occhiata in tralice. Ad ogni modo uscii e mi chiusi dietro la porta e scesi i gradini sui quali già stava calando il freddo della notte. Abbandonare Stella mi faceva rimordere la coscienza ma rinunciare alla possibilità di vedere Ned era qualcosa di impensabile, perché la soluzione opposta era senza futuro. La brina aveva trasformato il mio parabrezza in una finestra da stanza da bagno giocandovi sopra con un motivo simile a quello dei rami di felce. Mi fecero pensare alle foglioline di felce infilate nella scarpa di Ned che avrebbero dovuto fargli sentire un'improvvisa attrazione per me. Il nostro incontro sarebbe stato l'ultimo, l'ultima volta che ci incontravamo in una fredda casa presa a prestito e facevamo l'amore nel letto di qualcun altro. L'arrivo di Ned era previsto per le sette. E per quell'ora io avevo acceso venti candele e le due stufette a kerosene e la casa aveva preso quell'odore familiare, anche se non proprio gradevole, di cera e paraffina. Ci sono persone che collegano determinati profumi con le loro storie d'amore, o l'odore del fumo di legna o il bouquet di un vino. Forse è perché non sono una del genere, forse perché sono una persona comune e faccio parte della classe lavoratrice, ma il mio amore tornerà sempre nei miei ricordi quando sentirò odore di kerosene che brucia, il combustibile più scadente, quello che ha il prezzo più basso di tutti. Non stavo pensando a niente di tutto questo mentre aspettavo che Ned arrivasse. Non avevo paura di niente. Lo definiscono "basso concetto di sé" quello che avevo e, seppure in modo differente, aveva avuto anche Stella ma nel mio caso Ned aveva fatto meraviglie per questo. Amandomi era riuscito a ottenere che anch'io amassi me stessa. Era riuscito a farmi pensare a me stessa in un certo modo, a capire che ero graziosa e avevo un aspetto piacevole, e più cervello di quel che la gente non mi attribuiva... era riuscito a convincermi che sono una persona degna, e meritevole, come chiunque altro. Cominciai ad aspettarlo sedendomi vicinissima a una delle stufette, e tenendo le mani allargate sopra la griglia che hanno in cima, con le mani e la faccia soltanto che si riscaldavano, e un brivido di gelo che a poco a poco si impadroniva del resto di me. Ma anche quello non aveva, poi, una gran-
de importanza, perché era l'ultima volta, perché il gelo di questa casa e i miei sforzi per riscaldarla presto dovevano diventare cose alle quali avremmo ripensato per farci su una bella risata. Le tende non vengono mai chiuse, fino a quando lui non arriva. E allora le tiro ben bene per lasciar fuori il resto del mondo. Sono bene imbacuccata, blue jeans, pesante maglione blu, e scialle blu sul maglione, tutto blu per lottare contro il verde di Marianne, suppongo, per quanto non so davvero che cosa volessi salvare dal male. Era troppo tardi per salvare Stella. Proteggere lui, immagino, dai rischi della strada, del ghiaccio e di quella nebbia gelida, e degli autocarri da venti tonnellate che arrivassero dalla direzione opposta. Dai suoi stessi errori, come quello di fischiettare al buio. Quanto a me, una volta tanto ero persuasa di non aver bisogno di nessuna protezione, ero in salvo, come se fossi finalmente tornata a casa. Un paio di volte mi alzai per andare a guardare dalla finestra se arrivava. Fuori, faceva buio ma era un buio limpido e terso, e quando un'automobile passava i suoi fari illuminavano la brina sulla siepe e quella che, come una riga sottile, sembrava vernice bianca, si era posata sui rami dell'albero. Credo di averne viste passare almeno una decina. Anzi lo so con sicurezza perché le ho contate. Aspettavo quei fari che lampeggiavano e si giravano verso di me accecandomi quando lui lasciava la strada e imboccava il viale che conduce alla casa. Non accadde. Lui non si fece vedere. Era già capitato altre volte che ritardasse, il percorso per lui era molto più lungo e non sempre riusciva a venir via in tempo. Non era facile. Credo che il suo massimo ritardo sia stato venticinque minuti. No, o voglio fingere di non averli contati? Furono ventisette i minuti, non venticinque. Al ventottesimo minuto cominciai a lasciarmi prendere dalla paura. Il tempo passa così lentamente quando si aspetta. Corre quando sei con l'uomo che ami, corre talmente che sembra quasi di non parlare nemmeno della stessa cosa, come se ci fossero due tipi di tempo, uno per la gioia e uno per la paura. Intanto che aspettavo dietro quella finestra il tempo mi sembrò che passasse lento come non mai. Ogni secondo era come quella goccia d'acqua che continui a fissare quando scende da un rubinetto. E fuori non c'era niente. Nessun movimento di nessun genere, soltanto la strada vuota e i campi spaziosi, sterminati, che si dissolvevano nell'oscurità. Nel silenzio mi sembrava addirittura di vedere la brina che calava posandosi sull'erba e sulla siepe, prima come qualcosa di umido, poi come
una specie di luccichio. Una civetta levò il suo grido nel silenzio e a quel suono mi sentii cogliere dai brividi, che mi percorsero da capo a piedi perché il suo grido è un triste presagio, e indica l'arrivo di qualche terribile calamità. Mi pareva di sentire la nonna che pronunciava quelle parole intanto che aspettavo, esattamente come le aveva dette a Janis e a me, bambine, quando di notte sentivamo lo stridio della civetta. Erano talmente tante le cose che avrebbero potuto succedergli, sono talmente tante, perché ancora non so niente. Uno scontro, un incidente sul lavoro, un gesto, un'azione da parte di Jane, qualcosa che aveva detto o fatto, o che aveva detto o fatto lui, e io non sapevo, che nessuno mi è mai venuto a raccontare. Ma la mia paura più grande era per la sua salvezza, la sua vita. Vedete, niente avrebbe potuto impedirgli di venire da me, niente glielo aveva mai impedito; e dunque, cosa se non un evento terribile poteva avergli impedito di venire a raggiungermi proprio in una sera speciale come quella in cui avevamo il nostro futuro di cui parlare? Quando si è in una situazione del genere si pensa alle cose terribili che sono successe ad altre persone che si conoscono o delle quali si è avuta notizia. Pensai a Charmian Fry che salutava Rex Newland e poi rimaneva ad aspettare e aspettare che lui le telefonasse. Lui non le telefonò mai più e non tornò mai più a trovarla perché era morto in treno. Perché non supporre che Ned fosse morto al volante della sua macchina? Provai a ripensare alla giornata appena trascorsa cercando di rivivere ciò che avevo fatto e che avrebbe potuto cambiare il destino. Gracie aveva rovesciato il sale e io non ne avevo preso un pizzico per buttarmelo al di sopra della spalla sinistra. Avevo lasciato cadere un guanto e lo avevo raccolto io stessa. Rimasi alla Molucca fino alle nove. Era assurdo rimanere tanto. Perché furono interminabili quelle ore, le due ore più lunghe della mia vita. Passeggiai avanti e indietro per tutte le stanze, salii e ridiscesi le scale non so quante volte, uscii fuori al freddo e mi spinsi fino alla strada, guardando di qua e di là nel buio, come se potessi farlo arrivare con la sola forza di volontà, scrutando il buio con gli occhi. Mi torsi le mani, una cosa che non avevo mai fatto né tantomeno visto fare, ma è quello che si fa quando si è talmente preoccupati da aver perduto la testa, è quello che si fa quando, colti dalla disperazione, si dice, Dio, Dio, Dio aiutami! Quando ebbi soffiato su tutte le candele per spegnerle e schiacciato ben bene i lucignoli e l'odore si fece più forte che mai, come capita sempre, rimasi immobile al buio con le dita sporche di cera. Provavo una gran voglia di mettermi a urlare, a piangere e a gridare ma mi vergognavo di farlo an-
che se ero sola e la casa si trovava in una località deserta. Fu la civetta a gridare e a lamentarsi per me, levando il suo richiamo da un albero della palude. Quando spalancai la porta, l'aria fredda entrò a folate, e fu come se si beffasse di me. Mi fece lacrimare gli occhi, o forse stavo piangendo. A tentoni, vacillando, uscii e raggiunsi la mia macchina. Era letteralmente coperta da una crosta di brina e cercai di ripulire il parabrezza con un giornale appallottolato fino a quando le mie mani diventarono fredde, intirizzite e insensibili. No, a ben pensarci, non avrei dovuto mettermi al volante, e guidare, non nelle condizioni in cui mi trovavo. Ma il mio unico desiderio in quel momento era di andare in qualche posto, qualsiasi posto, il più in fretta possibile. Fu una vera fortuna per me... si fa per dire, naturalmente!... che non piovesse da tanto tempo e quindi non ci fosse ghiaccio sulle strade ma soltanto il luccichio biancastro dello spesso strato di brina che le copriva. Mentre infilavo la chiave nella serratura della porta il telefono cominciò a squillare. Bastò perché la mano mi tremasse. E cominciai a muoverla goffamente, annaspando, mentre armeggiavo con la chiave e nello stesso tempo ero terrorizzata che smettesse di squillare prima di fare in tempo a tirar su il ricevitore. Sapevo che era Ned. Invece, no. La voce era quella di Richard. «Se sapessi come mi dispiace, Genevieve, capisco che chiamandoti a quest'ora è come se approfittassi del tuo tempo libero. Ma mia madre ha chiesto di te. Ha chiacchierato un po' con noi; è lucidissima mentalmente, però molto debole.» Ricordai qualcosa che dimentico spesso, che lui è medico. «Può darsi che si debba somministrarle altra morfina molto presto. È come se avesse raccolto tutte le forze che le restano per chiedere di te.» «Vengo subito» dissi. Strano come quella telefonata mi abbia riportato di colpo con i piedi per terra, mi abbia riportato alla realtà, e mi abbia fatto capire che è una pazzia camminare avanti e indietro per le stanze di una casa buia e gelida alla sera tardi aspettando una persona che evidentemente non verrà perché non può venire. È pazzesco sovraeccitati al punto che non si riescono più a trattenere le lacrime, e ci si mette a singhiozzare disperatamente. Così feci quello che avrei dovuto fare molte ore prima, composi all'apparecchio il suo numero di casa, a Norwich. Chiamarlo a casa, adesso, è l'ultimo dei miei problemi. In fondo lui non è già più mio che suo? Mi rispose la sua voce sulla segreteria telefonica. È la prima volta che mi capita di sentirla pronunciare il messaggio registrato, e non mi piace. Ho riagganciato prima del fischio del cicalino, e mi sono messa di nuovo
al volante per andare a Middleton Hall. L'uomo florido e corpulento che è l'amico di Marianne sedeva nella sala di soggiorno e stava fumando un sigaro. Se Lena lo avesse saputo, lo avrebbe ammazzato. Ho letto a sufficienza riviste di psicologia per domandarmi se Marianne va sempre a scegliere il tipo d'uomo che assomiglia a quello di suo padre. Nella camera di Stella il caldo era insopportabile, né avrebbe potuto essere maggiore il contrasto con la temperatura della casa dov'ero appena stata. Sembrava che qualcuno avesse lasciato cadere e mandato in pezzi una boccettina di White Linen e così il profumo si era vaporizzato nell'aria. Richard e Marianne sedevano ciascuno a un lato del letto. Stella aveva perduto conoscenza. Il suo respiro era roco, la bocca aperta, aveva raggiunto quello stadio in cui si comincia a contare ogni respiro, perché potrebbe essere l'ultimo. Marianne allungò una mano, afferrò la mia e le diede una stretta. Poi si alzò e mi condusse nell'angolo più lontano della stanza. «Oh, carissima, non credo che parlerà più. Mi ha pregato di dirti questo. L'ho scritto, anche, perché non so cosa vuol dire.» Non lo sapevo neanch'io. Marianne aveva scritto su un foglio strappato da un blocco: "Non c'è niente in casa o in giardino". «Avevate già provato a chiamarmi anche prima?» domandai. «Richard ha provato alle sette e poi ancora alle otto. Ma, carissima, avevi tutti i diritti di uscire, nessuno si aspettava che tu rimanessi in casa per questo. Per favore, non sentirti come se fossi stata obbligata...» «No, lo so.» "Non c'è niente in casa o in giardino". Perché dirlo a me? Perché non a uno dei suoi figli? «Non dovrei rimanere» dissi. «Vorrete stare soli con lei.» Ero grondante di sudore. Marianne si era impadronita di nuovo della mia mano. Benché sia considerata più o meno come una mezza strega, la mia nonna legge molto spesso la Bibbia. I giorni della nostra età sono quelli di tre volte venti più dieci anni, sostiene, e poi fa anche un'aggiunta di suo, cioè puoi considerarti fortunata se ottieni anche qualcosa in più, una specie di piccola gratifica. I giorni dell'età di Stella assommavano a un totale di settantun'anni. Oggi come oggi non sembrano molti. E lo dissi ad alta voce ma, mentre parlavo, dal letto arrivò un suono che è inequivocabile, se vi è mai capitato di essere accanto al letto di un morente. Il rantolo con cui il
corpo esala il suo ultimo respiro. È orribile, quel suono. E non importa quante volte uno possa averlo sentito, fa sempre rabbrividire. L'ultimo respiro uscì come un rantolo dalla bocca avvizzita e flaccida della povera Stella. E poi lei rimase immobile. Richard sospirò. Guardò sua madre, fece un cenno affermativo a me con la testa e io lo ricambiai. Marianne piegò la testa sulle braccia e cominciò a piangere. Mi accostai a Stella e la toccai, le presi fra le dita il polso che non batteva più, osservai quella pelle di cera e sottovoce le sussurrai il mio addio. Mai come in quei momento avrei voluto baciarla, ma prima toccava alla famiglia. Uscii dalla camera a chiamare qualcuno. Al banco dell'ingresso era seduto Stanley. Glielo dissi e mi allontanai, senza dar retta alle sue domande. Ero stata colta di nuovo dal mio terrore privato, che adesso mi riempiva il cervello di immagini spaventose e mi faceva sentire di gelo anche se lì l'aria era soffocante e caldissima. Incontrai Pauline che aveva appena terminato il suo turno, le dissi che Stella era morta e poi mi infilai nell'ufficio di Lena dove cercai di chiamare di nuovo Ned al telefono. PARTE QUARTA 20 Stare qui mi sembra ancora strano eppure questo posto ha per me qualcosa di più domestico e familiare di qualsiasi altra casa in cui abbia mai vissuto. E un'altra cosa, qui non potrei essere più sola di così. Ma è logico, è l'unico modo in cui riesco a sopportare quello che è successo e quello che mi è stato fatto. È soltanto quando sei sola che puoi piangere liberamente di notte senza che nessuno te ne domandi il motivo. Per andare a Middleton Hall con la macchina ci vuole un quarto d'ora invece dei soliti cinque minuti, ed è più lontano dai negozi. A volte mi domando cosa avrei fatto se non l'avessi avuta, come me la sarei cavata. Sarei finita in affitto, suppongo, mi sarei trovata un alloggio a Diss, una pensioncina, camera e prima colazione, e quanto alla cena, avrei dovuto pensarci io. Perché, quando tutto fu concluso e mi resi conto che non mi rimaneva neanche un briciolo di speranza, non avrei potuto comunque rimanere con Mike. Non avrei potuto metterci una pezza, come suol dirsi, e tirare avanti alla belle meglio. Invece Philippa era di tutt'altra opinione. «Meno male che non hai aperto bocca con Mike» disse. «Così adesso
puoi andare avanti come se non fosse successo niente.» Lo diceva con le migliori intenzioni del mondo. Ma perfino mentre parlava stavo pensando come avrebbe potuto essere, vivere con un uomo per il quale non provavo più niente e nascondergli tutto quello che continuavo a provare per l'uomo che avevo amato. Per prima cosa andai dalla mamma. È sempre quello che si fa, vero, quando il proprio matrimonio va in pezzi? Si torna a casa dalla mamma. Lei non mi voleva, me lo disse chiaro e tondo, però soggiunse anche qualcos'altro, che dovevo andare da lei, questo lo capiva, perché per una figlia, la sua casa è sempre la sua casa, anche quando ha quasi toccato, come età, la terza parte di un secolo. Allora non sapevo dove sarei andata. Non riuscivo a riflettere, non sapevo fare progetti o altro all'infuori di continuare meccanicamente con il mio lavoro. Come se fossi stata colpita da una bomba che, esplodendo, mi aveva mandato in mille pezzi. Il mio giovane corpo si sentiva vecchio, indebolito e malfermo, e il mio cervello divagava, come se fluttuasse nell'aria, pieno soltanto di lui, nient'altro che di lui. Il giorno successivo a quello della morte di Stella era un venerdì. Così avevo sbagliato anche in quello, con tutto quel mio atteggiamento da donna-che-sa, con tutta la mia chiaroveggenza. Forse avevo fatto quella previsione perché tutti sanno benissimo che i venerdì sono sfortunati, la maggior parte delle disgrazie e degli incidenti avvengono di venerdì, e non è certo la giornata più adatta per dare inizio a qualsiasi nuova impresa. Il vecchio signor Thorn, per il quale lavorava il mio nonno defunto, non avrebbe mai iniziato la mietitura di venerdì e i suoi uomini erano perfettamente d'accordo. Del resto, era quello che pensavo anch'io per quanto adesso sia cambiata, però quel venerdì quando mi svegliai lo feci con una sensazione tremenda di terrore e brutti presagi. Prima di uscire per andare al lavoro telefonai a casa di Ned ma c'era sempre la segreteria telefonica in funzione. Non lo avevo mai chiamato in ufficio e il solo pensiero di farlo mi terrorizzava. Probabilmente ho letto troppi libri e troppi articoli sui rotocalchi a proposito delle sciagurate conseguenze di una telefonata in ufficio al proprio amante sposato. Non solo, ma c'è anche il modo in cui quella gente parla, che mi innervosisce. Ma sono paure che diventano sempre meno importanti dopo un po', e tutte queste cose vengono superate dall'ansia logorante e dalla necessità di sapere. Credo che quella mattina sarei entrata a viva forza in una clinica priva-
ta, superando anche le guardie della sicurezza che ci sono alla porta e mi sarei fatta largo fra i suoi familiari pur di arrivare fino al suo letto. Perché, ormai, ero giunta più o meno a una conclusione del genere. Pensavo che fosse stato ricoverato, ferito, in qualche ospedale. Appena arrivata, dal telefono che c'è nell'ufficio di Lena, chiamai gli studi della televisione. Era troppo presto e anche lì c'era in funzione la segreteria telefonica, ma lasciare un messaggio non aveva senso. Cosa potevo dire e chi si sarebbe preso la briga di ritelefonarmi? Mentre attraversavo l'atrio in direzione delle scale gli uomini dell'impresa di pompe funebri arrivarono dal corridoio seguiti da quel grassone di Stanley che procedeva a passo spedito. Avevano un corpo coperto da un telo nero su una barella, il corpo di Stella. Mi fermai e rimasi a guardarli mentre la portavano via. Se fosse stata ancora viva pensai che avrei potuto chiedere a lei cosa fare, le avrei domandato aiuto. Finalmente, dopo aver fatto alzare Gracie, accompagnato Lois con la poltrona a rotelle giù, nella sala comune, e letto le pagine finanziarie del giornale ad Arthur, erano le dieci passate. I cani zampettavano qua e là con mosse felpate ma di Lena, nessun segno. In ufficio c'era Sharon ma se ne andò, buona buona, quando le dissi che volevo fare una telefonata personale. Avevo perduto il numero e lo stavo cercando sull'elenco quando vidi Richard che passava davanti alla finestra diretto verso la camera di sua madre. Composi il numero degli studi televisivi e domandai di parlare con Ned. Dall'altra parte vollero sapere chi ero e come mi chiamavo. Non ci avevo pensato altrimenti avrei inventato qualche nome importante. Charmian Fry avrei potuto dire, sarebbe stato molto adatto, perché adesso mi trovavo nei suoi panni, senza sapere niente e piena di paura all'idea di sapere, ma con un bisogno di sapere che diventava assillante, più importante di qualsiasi altra cosa. Aspettai per quello che mi sembrò un secolo ascoltando la musica che suonavano dall'altra parte; era quella di Greensleeves, che cantavamo a scuola. "Ahimè, amore mio, mi fai un torto / A respingermi così sdegnosa / Perché io ti amo, e... oh, da quanto tempo / Deliziandomi della tua compagnia." Strano che mi tornassero in mente le parole dopo quindici anni. Poi venne all'apparecchio un'altra voce la quale mi disse che Ned Saraman quel giorno era assente. Era così fredda e asciutta, la voce femminile, che mi paralizzò, mi impedì di farmi valere. Poteva riferire un messaggio, disse ancora la voce, volevo lasciare il mio nome? Lasciai il mio nome ma
non chiesi altro. Non potevo. Almeno sapevo che non era ricoverato chissà dove, ferito... ma come facevo ad esserne così sicura? Riprovai a chiamare casa sua e di nuovo mi rispose la segreteria telefonica. Allora mi dissi che dovevo essere forte, anche se mi riusciva difficile, dovevo pensare al modo di scoprire dov'era. Devi stare calma, continuavo a ripetermi, siediti e mettiti a respirare lentamente, a fondo. E pensa. Pensaci seriamente. Trova un posto dove poter stare seduta, tranquilla, in silenzio, per cinque minuti. Imboccai il corridoio per raggiungere la camera di Stella. Dentro c'era Richard. In piedi vicino alla finestra con una copia del Times fra le mani. Mi scusai, dissi che me ne sarei andata subito. «No, non andartene. Rimani, per favore. Sono venuto a prendere le cose di mia madre.» Dal letto avevano tolto tutto, lenzuola e coperte. Sul materasso c'era, aperta, una grossa valigia. «Guarda, questo è di sabato scorso» disse Richard. «Non ha finito le parole crociate.» «È stato un segno» risposi. «Le finiva sempre. Avresti piacere che pensassi io a metter via i suoi vestiti?» «Sarebbe un grande aiuto..» Il vestito blu con quei pois tondi e grossi come monete, il vestito a fiori con la giacca, il cappotto di lana color avorio... li piegai nel modo in cui la nonna mi aveva insegnato di piegare le cose. Distendendole con il davanti in giù, e poi ripiegando prima la parte sinistra e infine la destra, e le maniche piatte e parallele. Respirai a fondo, poi dissi: «Posso chiederti una cosa?» Mi bastò pronunciare quelle parole per capire che lui aveva pensato che stavo per domandargli qualcosa di Stella da tenere per me, e da portare addosso. Figurarsi! Gli abiti delle persone morte non durano molto, si consumano e si guastano come si consuma e si guasta la loro proprietaria... «Sì, naturalmente. Qualsiasi cosa. Dopo tutto quello che hai fatto per mia madre.» «Non è niente del genere. Se tu volessi cercar di sapere dove si trova una persona, voglio dire come mettersi in contatto con lei...» gli spiegai. Con tutta la discrezione possibile. Parlai, o perlomeno penso di aver parlato, come se Ned fosse qualcuno che conoscevo superficialmente, qualcuno che, una volta, aveva affittato un villino nel nostro villaggio. Era importante che gli parlassi. Girai la frase in modo da lasciar capire che lo cercavo per questioni di affari.
«Ci penso io» mi disse. Non mi domandò neanche se glielo permettevo o se sarebbe stata la cosa giusta da fare. Accettò subito, e alzò il ricevitore dal telefono che si trovava sul comodino di Stella. Mi accorsi di non avere nessuna voglia di rimanere lì. La mia massima aspirazione, al momento, era di andare a nascondermi perché così non avrei sentito niente e poi ritornare e sentirmi dire che tutto andava per il meglio, e all'altro capo del filo c'era Ned. Ned che voleva parlarmi. Ma era impossibile correre a nascondersi, dovevo rimanere lì. Però potevo toccar legno. Rimasi lì mentre lui componeva il numero all'apparecchio, aggrappata con tutte e due le mani al bordo dello scrittoio in noce di Stella, sentendo il contatto delle dita con la superficie venata del legno che porta bene, che è il grande guaritore. Richard ha una voce che assomiglia a quella di Ned. La voce di chi ha studiato in collegio e poi a Oxford o Cambridge, e dite quello che volete, ma riesce sempre a fare una certa impressione sulla gente, perché si rivolge a chiunque con un tono autorevole, controllato, sicuro di sé. Ascoltarlo pronunciare il nome di Ned è stato stranissimo, per me, un po' come trovarmi a vivere in un sogno nel quale le persone fanno cose che, nella vita reale, non farebbero mai e parlano confidenzialmente con chi non hanno mai conosciuto. Lui chiese di essere messo in comunicazione con Ned e sentii che anche stavolta c'era una musica dall'altra parte, non più Greensleeves ma The Lincolnshire Poacher. Non devono essere dei grandi intenditori, quelli che le scelgono, perché sono tutti pezzi che conosco perfino io. Cominciai a trattenere il respiro aspettando che la voce di Ned si sostituisse alla musica. Ma non riuscii a sentire più niente. Soltanto Richard. «Qui parla Richard Newland. Sì, il dottor Newland.» Silenzio. Mormorii. «Da casa, non riesco ad avere risposta.» Mormorii. «Be', veda di cercarmi qualcuno che lo sappia, vuole essere così gentile?» Che strano come, a quel punto, io mi sia accorta di avere il cervello vuoto. Mi sembrava di essere sospesa nel nulla, aggrappata soltanto a quello scrittoio di legno come se potesse sorreggermi nello spazio. Non vedevo nient'altro al di fuori dei muri bianchi, la valigia aperta, il dorso di Richard, esile e magro come quello di un ragazzo, le scapole sporgenti sotto la giacca. Nella valigia il vestito blu era sopra tutto il resto e quei pois tondi come monete hanno cominciato a ballare, ondeggiando e sussultando, davanti ai miei occhi.
Richard disse: «Sì,» e «capisco,» e «quando sarà di ritorno?» I pois diedero l'impressione di raggrumarsi davanti ai miei occhi e poi di allontanarsi vorticosamente. Mi staccai dallo scrittoio per appoggiarmi al letto con gli occhi bassi, fissando i ghirigori rossi che facevano motivo sul tessuto rosa del materasso. Anche questi ghirigori cominciarono a spostarsi e ad aggrovigliarsi e fu come se fossero loro a tumultuare, rimbombando, nella mia testa. Richard riagganciò e si voltò. Con uno sforzo mi impose di raddrizzarmi. «Non ti senti bene?» domandò. «No, affatto.» «È via, partito per le vacanze» disse. «A sciare non so bene dove, Innsbruck. No, Interlaken. Torna il 3 gennaio. Era così importante rintracciarlo?» Non potevo parlare. E riuscii soltanto a scrollare la testa, ma fu un movimento quasi impercettibile. Mi sforzai di girare intorno al letto... camminavo rigida, come un robot... per andare a togliere dalla gruccia un altro vestito. Mi pareva che il cuore non mi battesse nemmeno più, esattamente come non riuscivo neanche a respirare. «In questo paese tutto si ferma per tanto di quel tempo, a Natale» disse Richard. «Quindici giorni, come minimo, mentre altrove si accontentano di un paio. Qui la gente dà per scontato che l'intero sistema chiuda baracca e burattini per Natale e che nessuno possa aver bisogno di loro o cerchi di contattarli.» «Grazie» dissi. «Grazie di aver telefonato.» Incartai le scarpe di Stella nelle pagine del Times e le misi in cima al resto. Quanto all'astuccio dei gioielli, lo infilai in un angolo. Richard disse: «Voleva che avessi tu la vestaglia che Marianne le ha regalato per il suo compleanno. Per favore, prendila.» «L'aveva messa soltanto una volta» dissi. Lui mi fraintese. «È come nuova.» Dovevo avere un'espressione stralunata. O gli occhi che scintillavano in un modo strano. Ad ogni modo, lui indietreggiò di un passo. «Sei proprio sicura di sentirti bene, Jenny?» «Sì, certo» dissi, e chiusi la valigia. Lui andò a prendere il registratore e quella mezza dozzina di cassette nella scatolina di plastica dove Stella le conservava, e mi mise tutto fra le braccia. «Voleva che tu avessi questi. È stato un suo desiderio. Non devi dire di no. Hai fatto talmente tanto per lei, sei stata molto, molto di più di
una semplice inserviente, eri la sua amica. Ti voleva bene.» «Lo so» dissi, e me ne andai stringendomi al petto il registratore e la vestaglia a patchwork, perché capivo di non poter più dire neanche una parola. Sentirmi dare la notizia a quel modo è stato uno shock. Mi ha lasciato stralunata. Ma non si resta mai in quelle condizioni, bisogna ricominciare a pensare, e molto presto anch'io cominciai a pensare a quali potevano essere stati i motivi. E finalmente, nel pomeriggio, arrivai a capire quello che doveva essere successo. Lui aveva parlato a Jane delle sue intenzioni, cioè che la lasciava per me, e Jane gli aveva fatto una terribile scenata. Aveva insistito perché partisse con lei e con Hannah; probabilmente quella vacanza con lei e la bambina era stata combinata da mesi, e gli aveva fatto minacce talmente orribili che lui non aveva avuto altra scelta. Per esempio, che se non fosse partito con loro, lei avrebbe fatto in modo di impedirgli per sempre di rivedere Hannah. Era un'ipotesi che faceva acqua ma io, in quel momento, non me ne accorgevo neanche. Non volevo accorgermene. Non volevo chiedermi cosa in tutte quelle spiegazioni gli aveva impedito di telefonarmi. La mia ipotesi dipendeva interamente dal fatto che Jane era un mostro, una persona più o meno come Gilda Brent, anche se non avevo nessun motivo per credere a una cosa del genere. Mike rientrò alla sera e cominciò subito a lavorare alla veranda. Io provai a chiamare di nuovo il numero di casa di Ned ma credo che sarei rimasta sbalordita se a rispondermi fosse stato qualcosa di diverso da una voce registrata. Quindi non mi meravigliai affatto. Bere non è mai stata una soluzione per me o perlomeno avevo sempre creduto che non lo fosse, però non mi ero mai trovata in questo stato, prima. Le cose non erano mai state così tragiche, non avevo mai avuto così bisogno di una soluzione. Fosse stata un'altra occasione avrei domandato a Mike di smetterla di lavorare e di accompagnarmi al Legion ma un'idea del genere avrebbe potuto andar bene soltanto molto, ma molto, tempo prima. Così ci andai per conto mio. Il freddo era atroce e cadeva qualche fiocco di neve. Probabilmente era caduta tutto il giorno perché sulla strada sentivo che si era accumulata in modo irregolare sotto i miei piedi, solo che non me ne ero neanche accorta. Se è gelata e soffia il vento, quando la neve ti tocca la pelle sembra che ti punga come un ago. Il Legion ha sempre avuto un aspetto allegro nelle serate d'inverno, con le luci arancione dietro i vetri a losanga delle finestre e
il grosso lampione appeso fuori che illumina proprio l'insegna dondolante con la figura del soldato romano. La mamma era dietro il banco del bar e c'era anche Janis con lei, a darle una mano. La mamma stava spiegando a un tizio che non avevo mai visto prima come liberarsi dei sorci. «Non ha un pezzo di carta? Bene, adesso scriva così: Giuro e spergiuro che tutti voi ratti lascerete questo posto in un batter d'occhio...» Lui cominciò a scrivere sulla parte interna del libretto degli assegni. «... passate oltre il fiume e raggiungere il mulino dove mangerete a crepapelle. Adesso andatevene e lasciate stare la mia casa. Ha capito bene? Così adesso lo copia e lo attacca al muro e non vedrà mai più neanche un topolino piccolo così.» Queste formule magiche per scacciare topi e sorci, non erano affatto nuove per me. Era il consiglio che la mamma dava sempre, e valeva anche per i ratti. Invece non funziona, e non so per quale motivo non me ne fossi mai accorta prima. O meglio, me n'ero accorta ma senza registrarlo mentalmente. Penso che sia stato quando ho cominciato a rinunciare a formule magiche, incantesimi e presagi, quella sera, quando ho messo la parola fine a ogni superstizione. Forse è stato il vero principio della fine, che io mi decidessi a definire con la parola superstizione tutto questo, cioè come la definiscono anche altri. L'uomo che voleva liberarsi dei sorci sembrava soddisfatto. Si allontanò presumibilmente per diffondere la notizia di questo metodo stupefacente da usare contro ogni genere di animaletti nocivi. Mi accostai al banco del bar e chiesi alla mamma un gin tonic. «Come va che ti fai vedere da queste parti?» disse lei. Ci sono molte madri alle quali non si potrebbe rispondere come ho risposto io, ma la mia non rientra tra queste. La guardai dritto negli occhi. «La disperazione» risposi. «Ah, dunque siamo a questo punto? E dov'è quel tuo maritino che ti adora?» «Occupato a costruire un favoloso ampliamento della loro casa» interloquì Janis. «Fossi io altrettanto fortunata!» La mamma non avrebbe mai osato dire una sola parola sul conto di Ned di fronte a lei, però capii che aveva indovinato. Lo aveva "captato al volo" come direbbe lei. Len arrivò in quel momento e la mamma ne approfittò per prendersela con lui. «Ti avevo detto di non mettere quella roba rossa sul bar... come diavolo le chiami? Poinsettie... ti avevo detto di non mette-
re fiori rossi in giro. Soltanto perché è Natale, e allora? Da che mondo è mondo tutti sanno, all'infuori di te, che i fiori rossi portano male.» Chissà, forse era stato proprio questo a farmi chiedere soltanto fiori rosa e bianchi quando, al mattino, avevo telefonato al fiorista. Volevo ordinare un mazzo di fiori per il funerale di Stella ma non sapevo che cosa mettere sul biglietto così alla fine decisi di far scrivere soltanto "Con tutto l'affetto di Genevieve". Mike stava piastrellando il pavimento con Radio Norfolk che suonava a tutto spiano le canzoni più famose di Patsy Cline, I Fall to Pieces e After Midnight, una più appropriata dell'altra. Continuavo a pensare, Ned mi scriverà, mi scriverà da questa Interlaken, ovunque si trovi, oppure mi telefonerà non appena riuscirà ad avere un momento libero per parlare al telefono da solo. E poi pensai, supponiamo che non lo faccia, supponiamo di dover aspettare fino al 3 gennaio, no non posso aspettare tanto, diventerò pazza. Alle sei ero di nuovo al Legion. Avevano appeso le decorazioni natalizie con una settimana di anticipo. Ghirlande di carta e certe catene dorate che sono sicura di aver visto portare alla mamma come collane per il resto dell'anno. Niente fiori rossi, naturalmente, ma una quantità di agrifoglio, del tipo che non ha le spine. Com'era logico: se l'agrifoglio che si porta in casa a Natale ha le foglie lisce, la donna della casa sarà la padrona per quell'anno. La mamma non c'era, soltanto Len. Gli domandai dov'era e lui mi rispose che sarebbe arrivata più tardi. Fu un conforto in quanto avevo deciso di chiederle consiglio. Se fossi riuscita a prenderla da parte, a quattr'occhi, le avrei chiesto cosa fare. Mi portai a un tavolo il mio gin tonic. Presto o tardi sarebbe sicuramente arrivato qualcuno che conoscevo. Nel bar c'erano soltanto quattro persone oltre a Len e a me. Non sapevo se avevo voglia di parlare o no. Volevo soltanto che il gin facesse effetto per riuscire a dimenticare quello che stavo passando. Volevo l'oblio, e poi un ritorno a casa, a passi più o meno malfermi, e un sonno profondo. Fu a quel punto che lei entrò. La donna bionda di cui avevo notato la macchina, che era passata nella direzione opposta due volte sulla strada di Curton quando mi dovevo trovare con Ned, che era qui, al Legion, anche quella sera in cui ci eravamo stati tutti insieme, ed erano venuti anche Ned e Jane. Entrò sola, si fermò un momento a guardarsi intorno. Si chiamava Linda, ma al momento ancora non lo sapevo, Linda Owen. Non mi ero ancora liberata completamente di tutto quello che avrei potuto definire il mio attaccamento alla superstizione anche se avevo già cominciato a chiamarlo
così, e quindi notai con un vago sgomento che sotto il giaccone di pelo finto portava un completo pantaloni di un bel verde brillante. Quello stesso verde vivo e il rosso ruggine erano i colori del foulard che portava in testa. Qualche fiocco di neve ci luccicava sopra. Da quando ero entrata al Legion, aveva cominciato a nevicare. Lei mi guardò e disse «Salve» anche se, veramente, nessuno ci aveva mai presentate prima. Len le servì un bicchiere medio di vino bianco e lei lo portò a un tavolo all'angolo opposto rispetto a quello in cui mi trovavo io. Non so per quale motivo non riuscivo a staccare gli occhi da lei e, insieme al bisogno di fissarla, ebbi anche un terribile presentimento di malaugurio. Mi sembrava che il verde del suo vestito avesse su di me qualche influsso malefico; naturalmente non era così, non poteva esserlo, eppure era questa la sensazione che provavo. Era un verde brillante come quello dei semafori o quello fluorescente delle giacche degli stradini. Len accese la televisione dietro il banco del bar e per poco non mi misi a gridare. Lo schermo si era riempito improvvisamente di figure a colori vivaci che sciavano, rosse e azzurre e arancio contro lo sfondo della neve di un candore abbagliante. Linda Owen tirò su dal tavolo il suo bicchiere e mi si avvicinò. La osservai mentre veniva avanti. I nostri sguardi si incrociarono. Si era tolta il foulard ma senza pettinarsi i capelli arruffati, con una ciocca che le ciondolava su un sopracciglio. Posò la mano sullo schienale della seggiola di fronte a me e disse: «Non mi conosci anche se ci siamo viste qualche altra volta.» «Sì» feci io. «Il mio nome è Linda Owen.» «Jenny» dissi. «Jenny Warner.» «Forse penserai che sto parlando a sproposito ma c'è qualcosa che voglio dirti. Posso sedermi?» Feci segno di sì con la testa. «Ti vedi ancora con Ned Saraman?» Mezzo secondo prima che lo dicesse già mio aspettavo di sentirglielo dire. Non saprei spiegarlo a meno che non sia la chiaroveggenza della mamma che a poco a poco si manifestava anche in me. Uno strano modo di descriverlo, vero? "Vederlo", vedere qualcuno. In fondo è ancora più strano di "uscire con". Significa dormire, fare l'amore, amare, essere innamorata, adorare qualcuno, ma non significa "vedersi", proprio per niente. Anzi è l'ultima cosa che significa, se "vedersi" è leggere nel cuore di qual-
cuno e conoscere i suoi pensieri. Un'altra cosa buffa fu che tutto d'un tratto mi accorsi di non sapere rispondere a quella domanda. Ma assentii e risposi di sì e perché me lo domandava. Non ero arrabbiata con lei, non ero offesa, non provavo niente di tutto questo. «Ti ho visto quando vi incontravate» mi disse. «Ti ho visto due volte. E poi ti ho visto anche qui, con lui. Ascolta, non devi prenderlo nel modo sbagliato, ma l'ho subito capito dalla tua faccia cosa provavi per lui. Avrei dovuto dirti qualcosa allora, ma non ne ho avuto il coraggio. E trovo il coraggio soltanto adesso perché... be', sei qui tutta sola e io sono arrivata con mezz'ora d'anticipo per il mio appuntamento.» «Dire qualcosa a proposito di che?» domandai. Mi sentivo le labbra come di legno. «Sai il posto dove vi incontravate, a Thelmarsh Cross? Anch'io di solito mi trovavo lì con lui.» «Cosa vuoi dire?» domandai. «Prima di me c'è stata una donna che si chiamava Rosie Ferrell» riprese lei «ma non potevano darsi appuntamento a Thelmarsh perché lei abitava più su, a Sheringham, e quella ancora prima non so dove abitasse né dove si trovassero.» «Non è vero» dissi. Non era mai stato infedele, non aveva mai tradito Jane prima di me, quante volte me lo aveva ripetuto! «E se è vero...» oh, ero patetica! «... se è vero, adesso ci sono io, e d'ora in avanti ci sarò sempre io. Lui mi ama.» Non era esattamente compassione quella che esprimeva l'occhiata che mi rivolse. Simpatia, comprensione forse. In ogni caso, era un'occhiata gentile, per niente sprezzante. «Farai meglio a scolarti un altro bicchierino» disse. «Su, ci penso io a ordinare qualcosa per tutte e due.» La mamma era appena arrivata. Tutta in ghingheri, vestita che faceva faville come sempre al sabato sera, specialmente il sabato prima di Natale, minigonna nera che la fasciava, aderentissima, maglietta di un bell'azzurro acceso, senza maniche, con The Thundering Legion stampato in oro e, sotto, uno di quei reggiseni Wonderbra che è l'ultima cosa al mondo di cui avrebbe bisogno. Mi lanciò un'occhiata inarcando le sopracciglia. Non so cosa le passasse per la testa ma servì Linda e disse: «Questa è offerta dalla casa, carina.» «Oh, davvero? Mille grazie.» «Lei è mia madre» spiegai. «Ascolta, non hai capito niente per quel che
riguarda Ned. Non ne dovrei parlare, non ancora, ma abbiamo intenzione di andare a vivere insieme. Lui sta per lasciare la moglie. Non appena torneranno da quel posto dove sono andati. Fino a quel momento la notizia deve rimanere segreta, ma dal momento che l'hai chiesto...» «Jenny,» mi interruppe «lui non ha nessuna intenzione di lasciare Jane, non la lascerà mai. Come non lascerà mai sua figlia. Oh, quell'asma non è poi così grave come lui vuol far credere, ma non la lascerà. Non vuole lasciarla. Jane gli va a pennello.» Cominciavo a stancarmi di dire che si sbagliava. Ripresi: «Ti ho detto che si tratta di una faccenda privata, e non dovrei parlarne.» Ma, questo, prima l'avevo già detto. Così adesso dissi qualcosa di nuovo. «Capisco che vuoi essere gentile.» Lei continuò a tacere. «Ned ha detto che avrebbe lasciato Jane per me in qualsiasi momento, non appena io gli avessi detto di sì. Non riesco a capire come faccio a raccontare una cosa del genere. Ma è la verità. Non volevo farlo, mi sono rifiutata di farlo per molto tempo, pensavo che fosse un errore, ma alla fine... ecco, mi sono arresa.» Intanto mi stava balenando un pensiero che mi piaceva, il primo da un bel po'. Lei era gelosa. Ned l'aveva lasciata per me. Ma era qualcosa che non potevo davvero dire. «Forse per te sarà un po' duro accettarlo» ripresi «ma lui mi ama sul serio. Con me è l'amore vero. È diverso.» Lei non scoppiò a ridere. E credo che questo vada a suo merito per l'eternità. È una donna gentile sì, lo è proprio, questa Linda Owen. E che vogliate crederlo o no, siamo diventate amiche e ci vediamo molto spesso. Del resto, abbiamo un sacco di cose in comune. Lei non si è messa a ridere, anzi, al contrario; piuttosto, ha preso un'aria che sembrava triste. «Ascoltami, Jenny. È quello che fa tutto il tempo, è il suo metodo. Jane lo sa e lo sopporta anche perché sa che lui rimarrà sempre con lei. Prendono un villino in qualche posto per un anno, di solito l'affitto è per un anno. Due anni fa ne avevano preso uno a Breckenhall. Io lì sono all'Ufficio postale, è quello che faccio; il banco dell'Ufficio postale nel negozio del villaggio. Prima di quello, ne avevano affittato un altro a Weybourne, più su lungo la costa. Non dico che a lei piaccia il modo in cui lui si comporta ma, se non altro, almeno sa sempre, più o meno, dove si trova.» «Non vedo cosa c'entra con me, questo» dissi. «Mi ha domandato di andar via con lui, Jenny. Lo domanda sempre a quelle che non vogliono farlo. Sa già che non lo faranno prima di domandarlo, sono quelle che hanno senso del dovere, quelle che non se la sentono di mandare a rotoli il loro matrimonio o di creare sconquasso nella vita
dei loro figli. Io ho una bambina e la mia mamma se ne occupa durante il giorno. Lui sapeva che io non avrei strappato mia figlia di lì, non l'avrei mai portata via alla mia mamma e dalla scuola materna dove va. Con me si sentiva al sicuro fino a quando io non ho cambiato idea.» «Mi vuoi spiegare cosa intendi» domandai «quando dici che hai cambiato idea?» «Presto mia figlia avrebbe compiuto i cinque anni. Così gli dissi che forse avrei potuto toglierla di lì e portarla via con me dal momento che stava per cambiare scuola. Sarei partita con lui. Lui ha detto che avremmo preso un appartamento a Dereham... bada bene, questo l'aveva detto già parecchio tempo prima. Più che altro per curiosità, quando è stata l'ultima volta che ti ha pregato di abbandonare tutto e partire con lui?» Non riuscii a ricordarmene. Era stato molto tempo prima e fu quello che di colpo mi fece agghiacciare. Bevvi un po' del mio gin ma aveva sapore di disinfettante. Quando Ned me l'aveva domandato per l'ultima volta? Mesi prima, più o meno all'epoca in cui avevamo cominciato a trovarci a casa di Stella. Non ci avevo badato, ero talmente innamorata che non ci avevo badato. Invece di darle una risposta, dissi: «Lo ha chiesto anche a te?» «Mi spiace, Jenny. Adesso ormai a me è passata. Ma ci vorrà un bel po' perché tu riesca ad accettarlo, si vede.» Uno strano furore cominciava a montare dentro di me, nella mia testa, qualcosa di violento e di primitivo. Un po' come quando si dice di non credere a qualcosa a cui, invece, si sa benissimo di credere totalmente. Eppure no, non poteva succedere, era un oltraggio. In seguito, molto tempo dopo, provai a guardare "oltraggio" sul dizionario. Diceva: "Un'ingiuria grossolana o volgare; un atto perverso di malizia". Diceva anche un mucchio di altre cose ma queste possono bastare. Un'ingiuria grossolana e volgare si trovava nella mia testa, spingeva per uscire e urlava con tutte le sue forze. «Ma lui me lo ha chiesto» dissi. Con il tono di una bambina. «Me lo ha chiesto lui. Supponiamo che io avessi risposto di sì?» «È quello che hai fatto» osservò lei. «È quello che hai fatto alla fine.» E guarda un po' cos'è successo. Lei, questo, non lo disse. Lo dissi io, a me stessa, nella mia testa, mentre la fissavo con gli occhi sbarrati cercando di odiarla senza riuscirci. Fu a quel punto che pensai a qualcosa che non avevo ancora affrontato a suo tempo, quella conversazione al telefono della settimana prima quando gli avevo detto che avrei fatto come lui voleva, che saremmo andati a vivere
insieme. Lui non aveva risposto. In effetti non aveva risposto. Aveva sospirato e io lo avevo preso per un sospiro di sollievo. Avevo detto troviamoci a parlarne a casa di Stella. E lui non era venuto. Non aveva telefonato, non era venuto a casa di Stella, aveva attaccato la segreteria telefonica ed era partito per andare a sciare con sua moglie e sua figlia. Perché era quello che faceva sempre, o se non quello qualcosa di simile, quando "loro" acconsentivano a piantar lì tutto per andare a vivere con lui. Lei parlò con gentilezza. «Per rendergli giustizia, se così si può dire, è un po' come certe donne che lo fanno soltanto se pensano di essere amate. E se credono di essere innamorate. Lui non ce la fa a farlo a meno di non poter dire, ti amo, ti amo. È una malattia. Lui è malato, poverino. È un pervertito con un feticcio e il suo feticcio è l'amore. Ma non serve, questo, perché tu riesca a passarci sopra, a infischiartene, vero? «Sceglie il tipo che, secondo lui, non è capace di fare scenate. E se dovesse farne, Jane sa come affrontarle. Ha un mucchio di pratica, lei. Io sono andata a Norwich e le ho raccontato di lui e di me, e... per quello che mi è servito! Lo sapeva già. Se ci pensi bene, un uomo è molto avvantaggiato se sua moglie lo sa e lo ama abbastanza da accettare tutto questo. Cosa ha da perdere?» Allora io saltai su. «Non ci credo» dissi. «Non è vero.» «È vero.» Ma continuava a non essere credibile. Continuava a non essere una cosa vera e reale, come la veranda, o Stella che moriva o Richard che mi regalava il registratore. Era come uno di quei sogni quando non ci si accorge che è un sogno e, al risveglio, ci vuole sempre un po' prima di renderci conto che non è niente di vero. Che non è successo. Dire "lui mi amava" era stupido e umiliante. Eppure continuavo a dirlo, più di una volta. L'orgoglio è l'ultima cosa ad andarsene, però a un certo punto se ne va anche lui. «Continuava a pregarmi di dirgli che lo amavo» spiegai, e mi resi conto che stavo descrivendo il tipo di uomo che aveva appena descritto lei. «Ha trovato un posto dove incontrarvi?» mi domandò. «Voglio dire, un albergo o qualcosa del genere? Oppure si faceva tutto sotto una siepe? Scusami, ma è stato lo stesso anche per me.» «Ho preso a prestito la casa di qualcuno» risposi. «L'hai presa a prestito tu, certo. Naturalmente. Tutto questo mi suona familiare. Ti ha mai portato fuori a mangiare, in qualche posto? Ti ha mai
comprato un regalo? Scommetto che ti ha offerto di portarti all'estero con lui. È facile, va tutto sul conto-spese, e in ogni caso a lui davano sempre una camera doppia. Ma ti ha mai portato, magari, qualcosa che aveva comprato al duty-free?» Mi alzai in piedi. Avrei voluto rovesciare il tavolo come fanno nei film. La mamma deve avermi letto nel pensiero. Perché ha alzato la ribalta in fondo al banco del bar, è venuta fuori e ha fatto un passo. Io ho sentito la testa che mi cadeva in avanti e un urto di vomito che mi chiudeva la gola. «Vado a prenderti qualcosa da bere» disse Linda. «L'ultimo, in fondo, non l'ho offerto io.» «No» risposi. «Non serve.» «Oh, sì invece. Serve eccome.» Mi si piegavano le ginocchia; ricaddi seduta. «Non voglio niente da bere.» «Non credevo che l'avresti presa così male» disse lei. Poi si voltò a salutare con un gran gesto l'uomo che era appena entrato. Era un uomo come tanti altri, piuttosto giovane, biondo e robusto, quello con il quale aveva un appuntamento, quello che ovunque si trovi fila dritto dritto al banco del bar. «Non voglio lasciarti» disse. «Credi che fra un po' ti sentirai meglio? Posso dirgli che per stasera non ne facciamo niente. Non è che ci tenga poi tanto a lui. Potrei accompagnarti a casa.» «Va bene così» dissi. «Preferirei rimanere sola. Devo rimanere sola per assorbire tutto questo.» «Mi spiace, Jenny» disse lei. «Mi spiace molto, molto.» 21 Se avessi dovuto scegliermi una parte da recitare, come faceva Gilda, sarebbe stata quella della povera contadinella abbandonata dal seduttore. Ma parti del genere non tengono mai conto della vera disperazione, della vera vita dell'umanità. Ero inebetita, attonita. Ammutolita. La sofferenza mi rendeva impacciata e goffa; lasciai cadere una tazza che andò in mille pezzi, inciampai nell'angolo di un tappeto. Quando mi rialzai uno stinco spellato mi fece scoppiare in lacrime e rompere il silenzio. Mike non se ne accorse minimamente. Continuava a lavorare a quelle piastrelle. Preparai il pranzo perché alla domenica cucinavo sempre un arrosto e lo mangiammo, seduti uno di fronte all'altra a tavola. O piuttosto
lui lo mangiò. Io mi gingillai con quello che avevo davanti spostandolo da una parte all'altra del piatto senza che lui ci badasse. Non leggeva neanche il giornale né le istruzioni sulla scatola delle piastrelle, era silenzioso e pensava soltanto alla veranda, aveva soltanto quello in testa. Per lui era la realizzazione di un sogno, il suo palazzo di cristallo, e se fosse stato capace di parlarmene in quei termini, come di una visione o di una creazione, forse neanche a quel punto sarebbe stato troppo tardi. Invece parlò prima di rimettersi al lavoro. Avevo la faccia rigata di lacrime e allora mi domandò se mi ero presa un raffreddore. Quando arrivarono le tre e mezzo, andai a casa di Philippa. La gente descrive la campagna come se fosse sempre splendida. Quelli che non ci vivono, voglio dire. C'è qualcosa di desolante in un villaggio della East Anglia una domenica pomeriggio d'inverno, qualcosa di tetro e deprimente. La campagna circostante grigia, ammantata di nebbia. La strada del villaggio lunga e dritta, le case basse e gli alberi bassi, mentre il cielo è un immenso coperchio, opaco e tutto pieno di increspature, come il peltro. Verso le quattro le luci cominciano ad accendersi, ma adesso manca ancora una mezz'ora e intanto le case basse sono buie, tutte chiuse e sbarrate, le finestre cupe e cieche salvo per l'occhio di uno schermo della TV che manda il suo riverbero da dietro ai vetri, in un angolo. In giro non c'è nessuno mentre le automobili sono tutte lì. Parcheggiate sui due lati della strada, tutte in fila una dietro l'altra, qualcuna nuova e lucente ma per la maggior parte, no. È impossibile vivere a Tharby senza l'automobile, ma questo non significa che ci si possa permettere qualcosa di meglio di un vecchio macinino sconquassato. Quando qualcuno parla di un mondo fatto di automobili si pensa a qualcosa di simile a Los Angeles, a un intreccio di autostrade e di raccordi stradali aggrovigliati come spaghetti e di limousine lucenti che passano come se scivolassero su ponti sospesi. Ma è questo il vero mondo delle automobili, la campagna inglese, dove senza averne una non ci si può muovere, dove l'autobus passa una volta alla settimana e i treni sono scomparsi. Il mio papà sapeva quello che faceva quando ha cominciato a fare collezione di automobili e ha perduto la testa per il motore a combustione interna. Non molto tempo fa ho letto una lettera che qualcuno ha scritto a un giornale in cui si diceva che tutti dovremmo rinunciare alle automobili. Per salvare il mondo, l'ambiente, lo strato di ozono. Ma questa persona viveva nel cuore di una città e poteva andare a piedi in ufficio o prendere un autobus... Così era facile parlare! A Tharby senza l'automobile si è in prigione,
è la prima cosa alla quale si pensa quando si compiono i diciassette anni, imparare a guidare e come procurarsene una. Alla finestra del salotto di Philippa c'era un albero di Natale ma con le luci spente. Lei si accostò a guardar fuori quando suonai il campanello e credo che le sia bastata un'occhiata alla mia faccia per capire tutto. La televisione era accesa, stava guardando la cassetta di Accadde una notte, ma ha spento subito senza neanche domandarmelo. Non ci baciamo mai e non l'abbiamo fatto neanche quella volta ma lei mi ha teso le braccia e io mi ci sono buttata e ci siamo strette forte. Siamo rimaste così, abbracciate, molto a lungo, vicinissime e senza aprir bocca, e lei non mi ha allungato qualche colpetto affettuoso alle spalle come fanno quasi tutte le persone quando abbracciano qualcuno. Katie e Nicola sono entrate e hanno cominciato a guardarmi con gli occhi sgranati. Ho raccontato a Philippa tutto su Ned e come lo amavo, le ho detto quello che lui aveva fatto anche se continuavo a non credere che fosse vera neanche la metà. O forse ero io che non riuscivo ad accettarla. Vedermela sbattere in faccia a quel modo mi faceva soffrire talmente che non mi ci provavo neanche, ad accettarla, perché sapevo che sarei scoppiata a piangere forte. Le raccontai tutto, ma solo a grandi linee, come meglio potevo. Davanti alle mie lacrime anche Nicola cominciò a piangere e chissà per quale motivo questo bastò a farmi tornare in mente Janis, e me, quando eravamo piccole. Philippa mise un braccio intorno alle sue spalle e uno intorno alle mie. E fu in quel momento che disse che, tutto sommato, meglio così... visto che non avevo detto niente a Mike adesso potevo continuare come se niente fosse. Non riusciva a capire. E come poteva? Non ci si deve aspettare che le persone capiscano, adesso me ne rendo conto. Se ti ascoltano e sono gentili è il meglio che puoi ottenere da loro. Tutto qui, e nient'altro. «Vado a casa e lo faccio adesso» dissi. «Ma dove andrai?» fece lei. «E perché proprio adesso?» «Perché voglio esser libera di piangere, di notte» dissi «e non posso farlo con lui vicino.» Appena pronunciate queste parole, le trovai buffe e scoppiai a ridere. Philippa sembrava annichilita. Non sapeva come spiegarsi il mio modo di comportarmi, e chi potrebbe darle torto? Non sapevo spiegarmelo nemmeno io. Intanto fuori il buio era calato completamente e le luci, accese. Il Legion faceva un gran bell'effetto, con il vecchio abete che c'è davanti tutto illuminato con quelle luci fiabesche e un'enorme corona di agrifoglio
appesa alla porta d'ingresso. Fortunatamente la fobia della mamma per il rosso non si estende anche alle luci e infatti aveva messo una bella scritta "Un Felice Natale a Tutti i Nostri Clienti" in neon rosso vivo sull'armatura di travi di legno sulla parte inferiore della facciata. Tornai a casa a piedi e dissi a Mike che lo lasciavo. Lui si rifiutò di accettarlo. Tanto per cominciare non voleva smettere di lavorare. Cercai di fargli piantare lì tutto dicendo che volevo parlargli, avevo qualcosa di molto importante da dirgli. Tutto inutile. Mi rispose che aveva stabilito di finire la veranda per Natale e quella era la sua ultima occasione di riuscirci fino al venerdì successivo. Continuò a stendere la malta con la cazzuola fra quelle piastrelle e, intanto che la stendeva, non faceva che ripetere che doveva esserci qualcosa che non funzionava in me, sempre lì a cercare di farlo parlare, e smettere di lavorare, e occuparsi di qualcos'altro, di qualsiasi cosa salvo quello di cui si stava occupando in quel momento. Perché gli avevo detto che volevo la veranda se poi non volevo che lui ci lavorasse? A quel punto, capii di averne abbastanza. Non ne potevo più. Gli dissi che non glielo avevo mai domandato, si era inventato tutto lui. Non mi rispose. Dichiarò che il matrimonio era un dare e un avere, me n'ero dimenticata? Oppure forse avevo qualcosa che si chiamava TPM, la tensione premestruale? In cantiere, i suoi compagni dicevano che alle loro ragazze capitava, e che era una solenne scocciatura. Naturalmente quello mi fece anche ridere. Non c'era da meravigliarsi se lui aveva cominciato a pensare che stavo diventando matta. Non mi pareva giusto girare sui tacchi e piantarlo in asso senza una spiegazione, così andai di sopra e cacciai tutti i miei vestiti, tutto quello che avevo, in tre valige. Le portai da basso e le caricai in macchina. Lui stava sempre lavorando. Fischiettava allegramente. Dissi: «Adesso ti lascio, Mike. Me ne vado in questo preciso momento. Ho cercato di dirtelo ma tu non vuoi darmi retta.» «Non fare la sciocca» disse lui. «Me ne vado al Legion» risposi. «Per il momento. Da te non voglio niente. Puoi tenerti la casa. Non voglio neanche soldi.» Lui doveva essere convinto che scherzavo anche se il tono della mia voce doveva essere truce. «Prendi la lavatrice» disse «ma lasciami la macchina.» «Quella è mia» ribattei. Verissimo. In un mondo di automobili ne avevo quasi più bisogno di una
casa. La mamma stava per aprire, disponeva le piccole scodelle piene di noccioline sul banco del bar e i dolcini col ripieno di frutta secca e uvetta, perché si era quasi a Natale. Non fu per niente contenta di vedermi, non mi diede neanche la sensazione di accogliere con piacere la mia idea di fermarmi da lei, ma che mi dicesse di no, che me lo rifiutasse, neanche a pensarci. Non avevo mai abitato lì, ero già sposata quando lei aveva aperto il Legion, così andai a mettere le mie valige in una delle camere da letto vuote, quella sul retro con le finestre che davano sui campi. Sedendomi sul letto pensai, quante cose avrò da raccontare a Stella. Potevo parlare a Stella di Ned e chissà perché ero convinta che lei avrebbe capito, mentre Philippa no. Non aveva capito un bel niente. Poi mi tornò in mente che Stella era morta. Cominciai a piangere senza riuscire a fermarmi, anche se non piangevo per me ma per Stella che non avrei mai più riveduto, con la quale non avrei mai più chiacchierato. Il suo funerale era stato fissato per il mercoledì. Ci andammo tutti, Lena e Stanley, Sharon e Pauline e io. La fiorista non aveva capito la mia ordinazione per ben due ragioni. Aveva fatto la corona con fiori rossi e rosa e aveva messo sul cartoncino le parole "In affettuoso ricordo". Mi scocciò che avesse cambiato le parole mentre non mi preoccupai per niente che ci fossero dei garofani rossi fra i crisantemi rosa. Che cosa poteva succedermi di peggio di quello che mi era già successo? Fu anche la prima sepoltura alla quale mi capitava di partecipare. La gente sceglie quasi sempre di essere cremata, vero? Stella aveva chiesto in modo specifico di essere seppellita in terra e i suoi figli, a differenza di tanti altri, avevano rispettato i desideri materni. Cantammo "Quando il giorno della fatica è compiuto, Quando la corsa della vita è finita" e poi uscimmo tutti in truppa sotto la pioggia avviandoci verso il cimitero. Marianne si staccò dal suo amico, mi venne vicino e mi prese sottobraccio, cosa che mi diede un grande piacere anche se non saprei spiegarmene il motivo, perché sospettavo che lo facesse più per confortare se stessa che per consolare me. La tomba era una fossa profonda intorno alla quale era stata disposta una striscia di roba verde sintetica. E sopra ci picchiettava la pioggia. In lontananza potevo sentire il tuono dei temporali di inverno che rumoreggiava. Il vicario disse le solite cose a proposito delle ceneri alle ceneri e della polvere alla polvere e una donna che credo fosse Priscilla Newland buttò una manciata di terra sulla bara. Marianne non la imitò. E neanche Richard. Poi ci invitarono ad andare con loro all'albergo a bere tutti insieme un bicchie-
re di sherry ma Lena rispose con un sorriso luminoso, no, grazie mille, il dovere ci chiama, e questo gli servì di risposta anche per tutte noialtre. A Middleton Hall era rimasta Carolyn a guardia della fortezza, come disse Lena, ed era stata lei a ricevere il nostro nuovo ospite. Fu quasi peggio del funerale; è più o meno brutto come lo è stato assistere alla morte di Stella, trovare un nuovo venuto nella sua camera. Un uomo, e questo indubbiamente doveva far piacere a Sharon. Aveva ottantun'anni, era un ex generale di brigata, ex Gran Maestro della Caccia, e grande appassionato di libri sulla Seconda guerra mondiale. Credo che si fosse portato dietro tutta la sua biblioteca. Ma da che razza di famiglia doveva provenire se aveva deciso di trasferirsi in una residenza per anziani appena prima di Natale? Di una cosa, comunque, potevo essere sicura, non credo che gli facesse piacere quando Lena lo chiamava Tommy. Me ne andai più tardi del solito e non rientrai al Legion fino alle sei. Nel bar c'era Mike con una Abbot davanti. Appena mi vide, mi aggredì con le sue domande. Quando tornavo a casa? OK, gli avevo dato una dimostrazione di quello che sapevo fare ma adesso il gioco era finito e bisognava tornare a casa. Lui si era messo d'impegno a terminare il lavoro della veranda per Natale ma come poteva farcela se io lo costringevo a venire giù, al Legion, ogni sera, a discutere? Se mai, in passato, mi fosse mai capitato di riflettere sugli aspetti della mia nuova situazione nel caso avessi deciso di lasciare mio marito, l'ultima cosa a passarmi per la testa sarebbe stata che lui non fosse capace di prendere sul serio la mia partenza. Ancora adesso, in questo preciso momento, non riesco a capire se fu un'astuzia da parte sua a indurlo a scegliere quella linea di condotta oppure se non mi aveva mai veramente capito; o se non fosse capace di accettarlo perché l'idea che io potessi addirittura considerare l'eventualità di piantarlo in asso, per lui aveva dell'incredibile. In ogni caso il suo è un atteggiamento difficile da affrontare. Non sapevo come cavarmela. Salii in camera ma lui mi venne dietro e rimase fuori a tempestare la porta di pugni e a ripetermi di piantarla con tutte quelle idiozie, di infilarmi il cappotto e consegnargli le chiavi della macchina, così mi avrebbe riaccompagnato a casa. Era successa la stessa cosa già la sera prima, e quella prima ancora, solo che il lunedì Mike aveva tentato una variante affermando che era stufo marcio di aspettare che la cena fosse pronta e, il martedì, aveva provato a domandarmi se non volevo vedere che effetto faceva il pavimento adesso che aveva messo giù le piastrelle. In un pub non c'è nessun posto dove nascondersi. La sera prima avevo
cercato di andare a casa di Janis ma lui mi aveva seguito e aveva cominciato a tempestare di pugni la sua porta. Così fui costretta a uscire e a infilarmi in auto. Era l'unica cosa che potevo fare per evitare che mi venisse dietro. Girai una mezz'ora, non sapendo dove andare, rimanendo ferma in una piazzola per un po' fino a quando un uomo che passava in quel momento con un furgone si mise a dare qualche colpetto di clacson e a far lampeggiare i fari. In queste campagne si può guidare per sessanta, settanta, chilometri e consumare una gran quantità di benzina per poi accorgersi che è passata alla meno peggio soltanto un'ora. C'era un solo posto dove andare, e fu lì che andai. Imboccai la strada sterrata bagnata e fangosa, parcheggiai l'automobile e rimasi seduta al volante al buio per dieci minuti prima di entrare. Stella era morta e io non avevo più nessun motivo di andare a casa sua. Una volta che fui dentro mi resi conto che la mia sensazione era soprattutto di stupore - stupore perché le luci non erano tutte accese e Richard e Marianne non si trovavano lì, in quelle stanze, a scoprire la casa per la prima volta, a domandarsi, meravigliati, per quale motivo la loro mamma avesse conservato il segreto tanto a lungo. Ma non il giorno del suo funerale. No, quello potevo capirlo. Ci sarebbero venuti l'indomani. Accesi le candele e ne portai una con me di sopra per illuminarmi la strada mentre andavo a prendere la stufetta a kerosene. Questa sarebbe stata la mia ultima visita alla Molucca. Giù nel soggiorno non provavo più la stessa sensazione di quando aspettavo che Ned arrivasse. Una sola volta lo avevo aspettato qui, ero sempre stata di sopra, nella camera da letto, a guardare dalla finestra, ed era capitato solo di rado che mettessimo piede insieme in questa stanza. Il freddo era sempre lo stesso, però, quel freddo che era stata la cosa più memorabile negli ultimi giorni della nostra storia d'amore e poteva quasi esserne preso a simbolo. Sedetti sul pavimento appoggiata alla stufetta, con le mani accostate al suo cilindro verniciato di nero. Perché non riesco ad essere in collera con lui, pensai, perché non riesco a odiarlo? Perché è questo soltanto che posso domandarmi, e continuare a domandarmi, perché, perché, perché? La casa cominciò a riempirsi dell'odore del kerosene. Quello rosa non dovrebbe mandar odore ma la verità è che odora soltanto un po' meno di quello azzurro. Un'altra cosa per ricordarmi del mio amore. Un giorno, pensai, quando avrò una casa tutta mia, avrò anche un riscaldamento, di qualsiasi genere purché non a kerosene, non vorrò neanche averne un ser-
batoio in giardino. "Non c'è niente né in casa né in giardino" aveva detto Stella, li aveva costretti a scrivere, a prender nota di queste parole per me. Seduta sul pavimento, mentre mi riscaldavo le mani, cercai di pensare a quello che poteva voler dire, ma senza ottenere una risposta. La verità era che non riuscivo a pensare a niente e a nessuno all'infuori di Ned, anche se immaginarlo in un posto di vacanze a sciare, a ridere con Jane e Hannah, i fiocchi di neve gelati che gli luccicavano fra i capelli, era il dolore più amaro. Pensavo a lui senza volerlo, perché non ero capace di farne a meno. Quando furono quasi le dieci, schiacciai lo stoppino della stufetta per spegnerlo e soffiai sulle candele. Dovevo mettermi in macchina e tornare indietro allo stesso modo di una volta, com'ero sempre tornata indietro quando ero felice, quando avevamo fatto l'amore e la mia bocca mi pareva più morbida, resa più tenera dai baci di Ned, e la pelle calda. Passai davanti alla casa che aveva affittato, le finestre cupe di ombra. Dentro al Legion c'era un gran baccano e talmente tanto fumo che l'aria era diventata irrespirabile. La mamma mi riferì che Mike mi aveva dato per dispersa alle nove e un quarto e se n'era tornato ai Chandler Gardens. «Dennis era lo stesso» riprese, alludendo al suo secondo marito. «Si presentava qua una sera dopo l'altra, non sapeva rassegnarsi alla piega che le cose avevano preso, me lo trovavo nel bar, regolare come un orologio, e mi ero già sposata con Ron quando si è deciso finalmente a smetterla.» «Non era per te che veniva, Diane» disse Len «ma per la birra.» Ma, invece, da come andarono le cose io non vidi più Mike fino alla vigilia di Natale. Entrò alle dieci e mezzo, nel preciso momento in cui la mamma aveva aperto il pub, disse che andava dai suoi genitori per Natale a meno che io non avessi cambiato idea e cominciassi finalmente a riacquistare il mio buon senso, e che era arrivata questa lettera per me. Me la porse allungando il braccio, come se puzzasse. Non è possibile che si possa essere tanto sciocchi ma al primo momento pensai che fosse di Ned. Non ricevo molte lettere. Chi volete che ci sia, a scrivermi? Tutti i miei amici, i miei parenti, vivono qua intorno. L'unica posta che arriva è robaccia, pubblicità, cose inutili, e le fatture, lettere mai e di rado anche qualche cartolina. Così pensai che doveva essere di Ned. Avvampai ed ebbi un tuffo al cuore e mi dissi, ecco, a me non farebbe mai e poi mai quello che ha fatto a Linda Owen, mi ama, come ho potuto dubitarne, può spiegarmi tutto, oh, perdonami, Ned... Come si possono pensare tutte queste cose nell'attimo che ci vuole per
prendere in mano una lettera togliendola dalla mano che te la porge? Eppure sì, ci si riesce. Come è possibile anche sognare che tutto torni come prima, e vada bene, le cose si riaggiustino, l'amore diventi più forte, gli errori vengano chiariti, le incomprensioni spiegate, tutto in un attimo, nel lampo di un secondo. Il timbro postale era di Diss, l'indirizzo scritto a macchina, e così anche il mio nome, signora G. Warner. Ebbi l'impressione che il sole tramontasse. Sì, perché accadde proprio questo, la luce si spense. Il tempo triste, sbiadito e grigio, stava calando di nuovo. «Ti auguro un buon Natale» dissi a Mike. «Di' ai tuoi che ci siamo separati.» «Dirò che sto pensando di mandarti da uno psichiatra» disse lui. Salii nella mia camera. Portai la lettera alla finestra per aprirla in modo da cogliere ancora una po' di quella luce tetra. Mi era stata spedita da uno studio notarile di Diss e cominciava con un "Gentile signora Warner". Al primo momento non riuscii a capirci niente, mi sembrava che non avesse senso. Cosa ci faceva in questa lettera la frase, formata da quelle parole antiquate che mi era capitato di leggere per la prima volta ad alta voce a Stella, ancora in agosto? "La proprietà fondiaria conosciuta con il nome di La Molucca e situata a Thelmarsh nella Contea di Norfolk." Avevo ripetuto questa frase mentre ci trovavamo di sopra, a Middleton Hall, e guardavamo i campi, verdeggianti di grano non ancora maturo e biancheggianti di oche e biondi come capelli tagliati corti. La lessi di nuovo e subito tutto fu chiaro. Stella mi aveva lasciato la sua casa. 22 Ci sarebbe stato da aspettarsi che facesse dispiacere a Marianne e a Richard, e invece fu a Lena che dispiacque. Come l'avesse saputo, non capisco. Non sono stata io a dirglielo. Stavo per dire che in un posto come questo non si possono conservare i segreti ma poi mi sono ricordata come Stella fosse riuscita a conservare i suoi. Accadde il 2 gennaio, un lunedì, il giorno in cui tutti si prendono una vacanza al di fuori degli inservienti nelle case di riposo per anziani. Nel preciso istante in cui entrai, Lena mandò Carolyn a chiamarmi. Dovevo raggiungerla nel suo ufficio. Aveva addosso una tuta nuova di zecca, un regalo natalizio da parte di
Stanley suppongo, di felpa rosso cupo sul quale aveva buttato una giacca di maglia gialla. Ai suoi fianchi erano accucciati due cani, ciascuno addestrato ad essere aggressivo e crudele, almeno per quanto possa esserlo un labrador. Il suo genere di cani avrebbe dovuto essere il dobermann oppure il rottweiler. Disgraziatamente per Lena quello di nome Ben cominciò immediatamente a battere la coda sul pavimento dal preciso istante in cui entrai. «Congratulazioni» cominciò. «Anche se non ci è voluto un grande sforzo, vero? Un po' come togliere una stecca di cioccolato a un ritardato mentale, ecco come deve essere stato. Un bacetto qui, una piccola stretta di mano là, e... guarda guarda, eccoti diventata una possidente.» Io continuai a tacere. Preferivo non menzionare Edith e Maud, la santa dei giorni nostri e le letture della Bibbia. Un lavoro non si trova facilmente e io avevo assoluto bisogno del mio. «Sono il figlio e la figlia che mi fanno compassione» disse Lena. «Le uova d'oro che c'erano nel nido e sulle quali sicuramente contavano, portate via da un... da un...» Cuculo, avrei voluto dire, ma di nuovo preferii tacere. «Un predatore» disse Lena. Non credo che sappia cosa vuol dire. «Quell'affascinante dottor Newland. Mi aspetto che lui e sua sorella si decidano a impugnare il testamento.» Prende queste espressioni dai programmi televisivi in cui ci sono i poliziotti americani. «È il minimo che farebbe chiunque al loro posto. E io sarò ben felice di fornire la mia testimonianza che alla vecchia signora Newland era andato il cervello in acqua già parecchi mesi fa.» «Lei deve fare quello che ritiene più opportuno» dissi. Una delle prime cose che io, invece, avevo fatto dopo aver ricevuto quella lettera era stato di mettermi in contatto con Richard per informarlo che non potevo accettare l'eredità, non potevo accettare quella casa. Telefonai a Marianne e dissi anche a lei la stessa cosa. Loro insistettero. Mi confermarono che nessuno ci sarebbe mai andato a vivere se non ci andavo io. Non la volevano. Che significato poteva avere per loro quando non avevano mai neanche saputo che la loro mamma ne era la proprietaria? «Immagino che non vedrò neanche mai quel posto» disse Richard «a meno che tu non mi inviti a prendere una tazza di tè.» Era stato in quello studio notarile che lui e Stella erano andati il giorno che lei si era vestita in pompa magna e aveva fatto uno sforzo enorme per salire sull'automobile del figlio. Gli aveva detto che aveva intenzione di
provvedere a me nel suo testamento ma senza spiegargli cosa avesse intenzione di lasciarmi. La casa li aveva colti di sorpresa, e probabilmente la sorpresa era stata molto maggiore di quanto non mi volessero lasciar capire. Le persone innocenti che hanno vissuto una vita impeccabile non possiedono case segrete. Devono essersi fatti qualche domanda in proposito, devono aver avuto paura di scoprire la verità. Immobile di fronte a Lena, aspettavo che mi licenziasse. Uno dei cani si alzò, mi venne vicino e cominciò a leccarmi una mano. «Sam,» disse lei «smettila!» Posò gli occhi su di me, poi li alzò verso il soffitto. «Be', non rimanere lì impalata» continuò. «Tommy sta aspettando la sua colazione. Chiamalo signore, perché non lo fai?, e chissà che non ti metta anche lui nel suo testamento e non ti lasci tutti i suoi ricordi di guerra.» Tutto qui. Non una parola in più. Il mercoledì era la mia giornata di libertà e mi trasferii alla Molucca. Marianne e Richard sapevano che non avevo nessun posto dove andare, capite, e se la famiglia approvava i legali non avevano obiezioni. La mamma mi promise di non dire a Mike dove fossi. Naturalmente le possibilità di tenere tutti all'oscuro del mio nuovo indirizzo erano praticamente inesistenti, soprattutto quando Len lo sa e lo sa anche Janis e nessuno dei due è famoso per la sua discrezione. Philippa credo che preferirebbe lasciarsi torturare, come Dustin Hoffman nel Maratoneta, prima di dire una sola parola. La cosa più strana fu riavere l'elettricità. Accesi lo scaldabagno e dai rubinetti venne fuori acqua calda, vera acqua calda. Ordinai del carbone e accesi il fuoco nei camini. Ma non riuscii a dormire in quella camera da letto anche se mi ci provai ugualmente. Continuavo a sognare Ned disteso vicino a me, che mi stringeva fra le braccia e diceva finalmente c'è un bel calduccio, perché c'era tutto questo caldo? Così mi svegliai in un letto vuoto e la mattina dopo lo trascinai insieme al resto del mobilio in una delle camere che danno sul retro. Il giorno magico, quel 3 gennaio, in cui avrebbe dovuto tornare da Interlaken era arrivato, e passato da un pezzo. Non mi illudevo che avesse tentato di telefonarmi a casa e poi rinunciato, non trovandomi. Se tu vuoi veramente una persona, la trovi. Le telefoni nel posto dove lavora, vai nella casa dove avevate l'abitudine di incontrarvi, chiedi informazioni nel pub di sua madre. Non ti accontenti di rinunciare, semplicemente. Non resti indifferente. A meno che non sia proprio quello che vuoi, liberarti di lei, con la stessa facilità e nel modo semplice e diretto con il quale Ned si è liberato
di me. Secondo il testamento di Stella avevo ereditato non soltanto la casa ma anche tutto quello che conteneva. Tutto quanto c'era dentro diventò mio. Ma questo includeva la Ford Anglia rossa nel garage? L'idea di consultare i suoi legali mi metteva in agitazione, avevo sentito che le loro parcelle potevano essere astronomiche, però Richard poteva darmi un consiglio gratuitamente. Così gli raccontai che, secondo sua madre, quell'automobile una volta era appartenuta a Gilda Brent. Lui riuscì a rintracciarla attraverso gli Uffici della Motorizzazione dove si pagava il bollo e scoprì che era registrata sotto il nome di Gwendoline Tyzark - lei ne era la proprietaria. «Me la ricordo appena» mi raccontò. «A Marianne era simpatica, a me no. Mi faceva paura. Chissà per quale motivo la confondevo con Crudelia De Monn della Carica dei 101. Ero arrivato addirittura a pensare che volesse servirsi di me per trasformarmi in un bel pellicciotto.» «E allora di chi è quell'automobile, adesso?» domandai. «Sua, immagino.» «Tua madre diceva che lei era morta. Forse sarà meglio che rimanga dov'è, almeno per il momento.» Lui mi suggerì di pubblicare un annuncio sui giornali per rintracciarla e io provai a telefonare a un quotidiano chiedendo che cosa mi sarebbe venuto a costare. Quaranta o cinquanta sterline, dissero. Io non avevo una somma del genere, contavo anche ogni centesimo in quel momento, e ad ogni modo molto probabilmente nessuno avrebbe mai risposto al mio annuncio. Però pensavo moltissimo a Gilda. Era diventato una specie di giochetto anche per me, non più Uccidere Gilda ma Tenere Gilda Viva, e del resto lo scopo era quello di distrarmi e di non pensare ad altro. Veramente quello non era possibile. Quando si ha amato qualcuno e lo si è perduto nel modo in cui io ho amato e perduto Ned, non sono soltanto l'amore e il dolore a riempirti il cervello ma il risentimento e un'amarezza atroce. Una specie di indignazione, anzi forse la parola più adatta è oltraggio, al pensiero che chiunque possa averti ingannato e deluso in quel modo, possa averti raccontato tante e tali bugie, possa averti avvilito e disprezzato fino a quel punto. Perché se una volta ho detto che Ned, con il suo amore, era riuscito a darmi una buona immagine di me stessa, cosa pensate che possa essermi successo quando ho capito che non mi aveva mai amato? Mi aveva semplicemente usato per soddisfare una specie di malattia di cui soffre, la malattia che lo porta a desiderare che le donne si
innamorino di lui, qualsiasi donna, basta che siano carine da guardare e giovani, basta che continuino a ripetergli che lo amano e lo ascoltino quando lui dice la stessa cosa anche a loro. Tutto quello che la mamma e Philippa non mi dissero mai chiaramente ma solo in modo velato, sotto sotto, cioè che lui mi desiderava per la mia bellezza e per il mio corpo, erano vere. E se non accennarono mai, neanche alla lontana, e non dissero mai una sola parola sul fatto che lui è un feticista dell'amore, è stato solo perché non sapevano che qualcuno potesse esserlo. Così se non volevo diventare matta o avere un esaurimento nervoso era necessario che trovassi qualcos'altro su cui riflettere. Un po' come se avessi inserito una specie di interruttore nel mio cervello che premevo quando i miei pensieri andavano a Ned. Premendo l'interruttore, scompariva Ned e appariva Gilda. O perlomeno l'idea doveva essere quella. Non funzionava sempre, spesso non funzionava, oppure funzionava per un po' e poi Ned, e quello che lui aveva fatto, aggiravano l'interruttore, si ripresentavano e scacciavano dalla mia testa qualsiasi altro pensiero. Ma quando ero nel "modo" Gilda, come potrebbe dire chi si intende di tecnologia, pensavo al fatto che avesse lasciato Alan per un altro uomo che era quello che qualcuno credeva - e più ci pensavo più mi sembrava strano. Perché Stella non aveva mai accennato a nessun altro uomo nella vita di Gilda all'infuori di una serie di ammiratori generici. Possibile che tutto d'un tratto si fosse presentato un uomo che l'aveva portata via con sé? D'accordo, sono successe anche cose più strane di questa ma le ho sempre trovate difficili da credere. E se lei se n'era andata in Francia con un amante, mi pareva che fosse proprio quello che Stella e Alan avevano desiderato. Ma, allora, non avrebbe dovuto esserci nessun problema per il divorzio né tantomeno qualche ostacolo da parte di Gilda se decidevano di vivere insieme. Anzi, alla fin fine, avrebbero anche potuto sposarsi. Invece non solo non era successo niente di tutto questo, ma Stella e Alan avevano cessato di vedersi. Marianne aveva detto che la depressione di sua madre, la sua riluttanza a guidare l'automobile, il fatto che avesse ceduto totalmente il governo della casa ad Aagot, erano cose che andavano avanti così già da un bel po' nell'autunno del 1970. Quindi sarebbe logico pensare che lei aveva dato un taglio netto al suo rapporto con Alan durante l'estate, forse perfino in agosto che era stato il mese in cui, come lei mi aveva detto originariamente, Gilda era morta. Mi pareva lampante che la sua infelicità non avesse niente a che vedere con Rex ma dovesse essere collegata alla rottura con Alan.
Ma dov'era Gilda? Morta, aveva detto Stella. Della sua morte non c'era traccia. Può qualcuno morire senza che la sua morte venga in qualche modo registrata? E arrivai alla conclusione che c'era soltanto un modo in cui questo poteva succedere. Mi venne in mente durante la notte. Ero a letto nella più vasta delle camere che davano sul retro, alla Molucca, e stavo dormendo ma tutto d'un tratto mi svegliai senza nessun motivo e il mio primo pensiero cosciente fu per Ned, come capita sempre, anche se in cuor mio prego che non continui sempre ad essere così. Premetti subito l'interruttore per entrare nel modo Gilda e mi balenarono di colpo le ultime parole di stella: "Non c'è niente in casa o in giardino". Non avevano avuto alcun senso, quelle parole, ma adesso non era più così. Il loro significato mi balzò davanti agli occhi, vivido, limpido come cristallo. Ormai era arrivata la primavera e faceva giorno presto. Mi alzai e andai a guardar fuori dalla finestra, verso la palude. Gli alberi e i cespugli non erano ancora verdeggianti ma di un color bruno dorato, coperti di nuovi germogli, gli steli dei cornioli erano scarlatti, giallo chiaro i rami dei salici. Quella luminosità che precede il sorgere del sole e che ha qualcosa di soprannaturale irradiava su tutta la palude; era la luce azzurrina e perlacea dell'aurora. I primi uccelli avevano cominciato a cinguettare, e i suoni che emettevano assomigliavano più a un chiacchiericcio che non a un canto vero e proprio. Riportai il mio sguardo più indietro, più indietro e più vicino fino a quando mi ritrovai ad avere gli occhi fissi sul giardino, quel giardino che ormai non era più talmente nascosto dalle erbe selvatiche da essere diventato tutt'uno con la palude che, nel corso degli anni, vi si era insinuata occupandolo e dominandolo. Già dal primo fine-settimana in cui ero andata a vivere lì, in quella casa, mi ero messa a lavorare in giardino, a ripulire, a scavare, a piantare. Anche quello era stato un modo di allontanare la mia mente dal pensiero di Ned. Ora di marzo, era tornato di nuovo ad essere un giardino, con un prato vero e proprio, aiuole fiorite e un sentiero. Compresi ciò che significavano le parole di Stella. Che Gilda era morta ma il suo corpo non era sepolto qui nel giardino e nemmeno nascosto da qualche parte in casa, sotto un pavimento, in fondo a un armadio a muro. Se quello era il significato del messaggio, poteva voler dire una cosa sola. Per quale motivo Stella aveva pensato che io sospettassi qualcosa di tanto mostruoso? Perché, avendola sentita parlare del giochetto di Uccidere Gilda, avrei potuto credere che fosse, in realtà, qualcosa di più, qualcosa di ben diverso? Al momento della morte, naturalmente, si era ricordata di avermi lasciato La Molucca in eredità e
aveva considerato essenziale rassicurarmi, confermandomi che avrei potuto viverci senza paura. E non si poteva escludere che io arrivassi a pensare a qualcosa del genere se non mi fosse stato detto il contrario, che immaginassi delle ossa sotto quella terra che rimuovevo e nella quale trafficavo con le mie mani, o qualche misero avanzo di un corpo umano, avvolto in pochi stracci, cacciato in una buca, in cantina. Conoscendomi, dunque, Stella poteva aspettarsi che tutto questo facesse un effetto ancora più orribile su di me, che io considerassi stregata la sua casa e vi sentissi la spettrale presenza di Gilda. Non poteva prevedere il futuro, comprendere in quale modo le mie superstizioni mi avrebbero abbandonato e, con loro, tutte quelle antiche credenze nel soprannaturale fra le quali ero cresciuta, fantasmi e incantesimi, sinistri presagi e magie. Perché erano tutti spariti, oppure li avevo perduti come chi è devoto a una religione, e perde la fede. Invece di proteggermi, secondo le loro promesse, mi avevano deluso; e adesso mi mancava la consolazione cristiana che mi avrebbe consentito di affermare che il mio Dio sapeva qual era la soluzione migliore per me, e aveva agito secondo le sue vie misteriose, perché questo mio dio si riduceva a cosette di poco conto, come i vestiti blu, le coccinelle e i quadrifogli. Ma poi, sempre quel giorno o forse quella settimana, passai e ripassai, come suol dirsi, al setaccio tutta La Molucca, dentro e fuori, in cerca di segni e di indizi, di una prova del destino di Gilda. Qualche indumento rimaneva nell'armadio. Era l'unico arredo che non avessi spostato togliendolo dalla camera da letto che Ned e io avevamo usato. Prima di tutto era troppo pesante e, secondariamente, non sapevo cosa fare dei vestiti di Stella, le due vestaglie, gli abitini estivi, lo stupendo vestito da sposa con le tracce di fuliggine e le macchie e l'orlo bruciacchiato, e quell'impermeabile azzurroargento ultrafemminile. Frugai nelle tasche ma Stella non era una di quelle donne che mettono le cose nelle tasche. Come non era tipo da mettere per iscritto qualcosa. Se si scambiavano lettere d'amore, quei due, le bruciavano dopo averle lette. Esaminai anche tutti i libri ma trovai soltanto un pezzo di carta infilato fra le pagine. Era stato messo fra il risguardo e la copertina della Grande Avventura di Figaro, si trattava di una lista di cose da comprare e la calligrafia avrebbe potuto essere quella di Stella o anche di Alan. Non avevo modo di saperlo. Buste, fiammiferi, gin, uno di loro aveva scritto, pomodori, lattuga, braciole di agnello, Weetabix. Tutto questo non mi interessava ma il libro per bambini, sì. Mi ero dimenticata quanto fossero deliziosi i
disegni di Alan Tyzark. Non me ne intendo minimamente di arte e non saprei descrivere niente da un punto di vista tecnico ma a me sembrarono le fotografie più graziose che si potessero immaginare e in aggiunta avevano anche qualcosa, un garbo o uno spirito che la macchina fotografica non può dare, un colore e una struttura molto più belli della realtà. E mi dissi che un uomo capace di fare quei disegni, così teneri e così deliziosi, e la mia Stella che era la gentilezza personificata non avrebbero mai potuto commettere la cosa terribile che a volte sospettavo, non potevano essere capaci di commettere niente di terribile, nel modo più completo e assoluto. Cominciai a pensare che tenevo vivo il ricordo di Gilda unicamente per distrarmi ed era venuto il momento di seppellirla come forse, nella realtà, non era mai stata veramente seppellita. Poi, un po' di tempo dopo il mio trentatreesimo compleanno in aprile, e il trentatreesimo compleanno di Richard dieci giorni prima - mi invitò a cena per festeggiarci tutti e due - stavo guardando i programmi della TV sul giornale quando vidi i nomi di Ned e Gilda fianco a fianco. Mi spaventò, quell'accostamento. Mi pareva, malgrado avessi rinunciato totalmente a tutto quanto riguardava l'occultismo, che in esso ci fosse qualcosa di diabolico. Né tantomeno capivo cosa potesse essere quel programma, pubblicizzato come l'indagine su una diva del cinema svanita nel nulla. Come poteva saperlo lui? Se, e così sembrava davvero che fosse, si trattava di un'idea nata nel cervello di Ned, da dove era scaturita e cosa gliel'aveva fatta trovare interessante? Poi mi venne in mente. Ero stata io. L'idea gli era venuta da me. Una volta, proprio in questa casa, in una gelida notte piena di brividi, di amore, di mani gelate e di pelle d'oca, mi aveva parlato della ricerca fatta per me e usato la frase che è il titolo di un film, e forse anche di un libro per quello che ne so, la frase che dava anche nome alla sua produzione, La signora scompare. Decisi di guardarla. Come ho già detto, avevo lasciato il nostro televisore a Mike. Quando volevo vedere qualcosa andavo da Philippa oppure da Janis. Quella sera interpretai il fatto di non avere la televisione come una scusa per non guardare il programma di Ned ma non riuscii a resistere, non riuscii a pensare a nient'altro per tutto il giorno, e continuai a pensarci anche mentre facevo il bagno ad Arthur e tagliavo le unghie a Tommy e leggevo a Gracie. E non per Gilda, o soltanto un pochino per lei. Il motivo della mia preoccupazione era abbastanza patetico. Pensavo che fosse un'opportunità per vedere Ned. Riflettevo che, magari, aveva fatto perso-
nalmente una delle interviste o sarebbe stato lì a presentare il programma oppure a farne il commento. Perfino se fosse stata sua, la voce fuori campo, sarebbe pur stato qualcosa. Mi sarebbe bastato per riascoltarla. Stupido, vero? Stupido e patetico volerlo vedere e ascoltare dopo tutto quello che mi aveva fatto. Continuavo a ripetermelo; così riuscii a resistere per tutto il giorno, no, non avrei guardato quel programma, lo avrei bandito dalla mia mente, avrei premuto l'interruttore Gilda. Il guaio fu invece che, quando provai a farlo, anche quello mi riportò al programma perché, in fondo, riguardava tanto lei quanto Ned. Così alla fine mi arresi, telefonai a Philippa e dissi se potevo andare a guardarlo con lei. La preferii a Janis non solo perché lei è la mia amica ma perché se fossi andata da Janis la cosa sarebbe arrivata alle orecchie della mamma, e questo non lo volevo proprio. La collera della mamma contro Ned era stata terrificante, come una leonessa con qualcuno che si è divertito per puro capriccio a fare del male a uno dei suoi cuccioli; era stata dura anche con me, mi aveva letteralmente fatto a brani per essermi comportata tanto da sciocca dopo che lei mi aveva messo in guardia non una, ma molte volte. Avrebbe voluto gettare un maleficio su di lui e sulla sua famiglia, qualcosa che si faceva con una stella a cinque punte disegnata all'interno di un cerchio tracciato col gesso. Non era stata la mia rabbia a trattenerla ma il mio scroscio di risa, quello scroscio di risa che tutto d'un tratto si era trasformato in un fiume di lacrime. Avrei preferito guardare quel programma da sola e non in compagnia di Philippa, anzi in compagnia di nessuno, ma non si può chiedere alla persona in casa della quale ti trovi, se per favore non le dispiace di lasciarti sola, così te ne stai bella tranquilla per conto tuo. In conclusione Ned non si vide neanche, il suo nome apparve soltanto nei titoli di coda del film, e fu solo un nome che una volta creava un'atmosfera di magia e adesso faceva provare soltanto tristezza e infelicità e una specie di penoso imbarazzo. Ma al principio io non potevo sapere se l'avrei visto o no, e soffrii, agitata e nervosa, chiedendomi che cosa Philippa potesse pensare di me, con la speranza che sarei riuscita a impedirmi di sussultare o di mettermi a gridare o scoppiare in lacrime se tutto d'un tratto la sua faccia avesse riempito lo schermo. Fu soltanto dopo, molto dopo che il programma si concluse, quando ero già tornata alla Molucca, che fui in grado di riflettere su ciò che avevo visto e trarne le mie conclusioni. Ned, o l'équipe di Ned, erano partiti dal presupposto che i divi del cinema, cioè questa specie di icone - credo che
lui le avesse chiamate così, icone - cioè figure-simbolo, potessero dissolversi e sparire senza che il pubblico se ne accorgesse, e venir dimenticate molto più facilmente di altri personaggi famosi. A meno che una stella cinematografica non fosse una Garbo o una Hepburn, o che i suoi film fossero diventati roba per amatori, sarebbe scomparsa senza lasciare tracce. E questo era accaduto a Gilda Brent, nata Gwendoline Brant. Il nome Brant aveva un suono straniero, forse tedesco, che non doveva essere sembrato una buona idea a quell'epoca, così lei diventò Brent. E si era scelta il nome Gilda non in ricordo del film di Rita Hayworth come molti pensavano, anche perché il film era stato girato solo nel 1946, ma perché si chiamava così un personaggio dell'opera. Qualcosa di tutto questo, lo sapevo anch'io. La prima sorpresa fu quando il commentatore disse che il marito di Gilda, Alan Tyzark, era morto. Due estati prima nella sua casa di Tivetshall St Michael, nel Norfolk. Rabbrividii pensando che, dopo tutto, aveva continuato a vivere laggiù per tanti anni, eppure lui e Stella non si erano mai incontrati. E lei, lo aveva saputo che era morto? Mi domandai se avesse cominciato a raccontarmi la sua storia perché sapeva che lui era morto, qualcuno gliel'aveva detto oppure aveva letto il suo necrologio. Un'altra scoperta, un'altra sorpresa se volete, fu che St Michael's Farm era rimasta vuota, non poteva essere ereditata da nessuno, sempre partendo dal presupposto che ci fosse qualcuno che potesse ereditarla, non poteva essere né venduta né tantomeno affittata, in quanto sembrava che Gilda Brent fosse ancora viva. In ogni caso non esisteva nessuna registrazione del suo decesso né qui, nel nostro paese, né in Francia, dove si raccontava che fosse andata. Il suo agente aveva cercato senza fortuna di riprendere i contatti con lei nel 1972 e nel 1976. Un cugino dall'India e un'amica dalla Francia le avevano scritto di tanto in tanto, nel corso degli anni, ma non avevano mai ricevuto risposta alle loro lettere. St Michael's Farm si trovava in una zona isolata; i vicini più prossimi abitavano in una casetta sulla strada, settecento metri più sotto. Qualcuno era andato a intervistare quella gente, una coppia che la occupava da trent'anni. Erano abituati a vedere Gilda Brent al volante della sua Ford rossa, su e giù per i viottoli; la donna le aveva parlato una sola volta quando si era recata a St Michael's Farm a fare una colletta per la Croce Rossa ma ormai non la vedevano più da un bel po', forse da vent'anni, forse anche più. La gente del villaggio raccontava che se n'era andata con un altro uomo, e l'impiegata dell'Ufficio postale sosteneva di averlo saputo direttamente dalla fonte, cioè dal marito stesso di
Gilda. In ogni caso, quale che fosse la verità, Gilda era scomparsa, come risucchiata dalla campagna desolata in cui aveva vissuto. Erano stati molto zelanti e accurati nelle loro ricerche al punto che avevano perfino trovato il ritratto dipinto da Alan per La storia di una moglie, l'occasione in cui aveva conosciuto Gilda. Il ritratto era ancora appeso al muro di una stanza di Soho benché gli uffici ormai fossero di proprietà di una società che produceva spot per la televisione. Lo mostrarono sullo schermo, Gilda in abito da sera verde. Sembrava giovanissima. Nessuno disse cos'era successo al nudo, che non venne menzionato. «Non mi è sembrato granché» disse Philippa quando il programma si concluse. «Credo che sarei riuscita persino io a fare qualcosa di meglio se avessi avuto l'istruzione di quel bastardo.» È curioso come la gente sia sempre convinta che per te sia un conforto sentir insultare la persona che ami, e coprirla di improperi, semplicemente perché ti ha fatto del male. Comunque, è sempre una manifestazione di lealtà. Lo fanno perché sono pieni di buone intenzioni nei tuoi confronti. Apprezzo i miei amici molto di più adesso che non ho un amante. Certo che è stata una sciocchezza quella che ho fatto, ma nel mio giorno di libertà, sono salita in automobile e sono andata a Tivetshall St Michael, più che altro per dare un'occhiata alla casa vuota. Durante il viaggio, continuavo a pensare che, forse, chissà quante altre persone avevano avuto la mia stessa idea dopo aver visto La signora scompare e che avrei trovato una dozzina di automobili parcheggiate sul viottolo e una vera e propria folla armata di macchine fotografiche che si arrampicava di qua e di là per dare un'occhiata nell'interno attraverso le finestre. Invece non c'era nessuno. Guardando la carta geografica, ci si accorge che in questa parte del Norfolk ci sono grandi spazi vuoti. Qui la campagna è tetra, deserta, e ai lati della strada nel tratto fra la casetta e la fattoria, la boscaglia è folta. Un lungo viale arriva fino alla casa, dritto, sabbioso, fra due filari di tigli. Imboccai l'ingresso - il cancello era spalancato - meditando sulle scuse che avrei potuto trovare se qualcuno mi avesse fermato, ma nessuno mi fermò. La casa era né più né meno come l'avevo vista nel film di Ned, solo più squallida, più diroccata e con l'aria ancor più derelitta. Ricordai ciò che lui mi aveva detto una volta, che qualsiasi cosa ha sempre un aspetto più bello in fotografia, qualsiasi cosa appare migliore alla televisione di quanto non sia nella realtà, salvo - forse - le persone. Nessuno aveva tolto le erbacce dal giardino, e da anni. L'erba del prato era stata falciata ma da qualcuno che l'aveva fatto trascuratamente, senza
un vero interesse, bastava osservarlo e lo si capiva subito - qualcuno che, seduto sulla falciatrice meccanica - ci aveva girato e rigirato in tondo fumando una sigaretta e ascoltando un walkman. Chissà da quanto tempo nessuno aveva più dato una mano di pittura alla casa. Il tetto aveva bisogno di tegole nuove. Un tubo di scarico penzolava, tranciato a metà, da una delle facciate laterali. Guardai attraverso una finestra ma ciò che vidi nell'interno mi rattristò a tal punto che voltai le spalle e mi allontanai. Era così squallido tutto, lì dentro, un po' come l'interno di uno di quei negozi di rigattiere che abbondano nelle piccole città qui dei dintorni, mobili di un brutto marrone sbiadito, quasi tutti rotti o scrostati, tappeti sgualciti, quadri e specchi ammucchiati contro le pareti, orribili gingilli, i colori resi opachi dalla polvere che vi si è accumulata sopra. L'effetto era deprimente malgrado la giornata bellissima, il sole splendeva, il cielo era di un tenero colore azzurrino e le siepi di biancospino verdeggiavano di foglioline nuove. Qualsiasi cosa il tempo e l'abbandono avessero fatto a St Michael's Farm non erano stati capaci di distruggere i narcisi che facevano ondeggiare le loro corolle fra l'erba alta o di impedire ai ciliegi di prorompere in una fioritura di bianchi boccioli. Dai boschi mi giungeva il tamburellare meccanico di un picchio, quello che fa quando cerca di infilare il becco nella corteccia di un pino, traforandolo come con un succhiello alla ricerca di insetti. E allora mi affiorò di nuovo nella mente la fantasiosa ipotesi che fosse proprio questa campagna che aveva risucchiato Gilda nascondendola per sempre. Fu poco dopo il film e la mia visita a St Michael's Farm che Mike mi scrisse chiedendo il divorzio. Ne provai sollievo, non avevo mai pensato che lo avrebbe fatto, aveva detto talmente tante volte e in tono talmente deciso di non pensarci neanche che la mia paura era stata quella di vedermi costretta ad aspettare cinque anni prima di ritornare ad essere libera. Ma adesso lo chiede adducendo come motivo il disfacimento irreversibile del rapporto matrimoniale non appena saranno passati i due anni da quando ci siamo lasciati. Ha conosciuto una donna, e sa che lei potrà renderlo felice come io non ne sono mai stata capace. La mamma mi ha raccontato tutto, a questo proposito, anche se io non riuscivo quasi a crederci perché non era una nuova e neanche un tipo eccitante ma semplicemente la nipote di Jill Baleham, Angie Green, quella che è rimasta incinta anche se prendeva la pillola. Era andata a stare con lui, così mi raccontò Janis, anche con il bambino, e adesso mangiano su un tavolo dell'Ikea nella veranda. Bene, mi
auguro che saranno felici, in fondo non mi sento di augurargli del male. Il dolore atroce che ho provato quando ho perduto Ned, e per il modo in cui l'ho perduto, adesso a poco a poco sta cominciando a passare. Ci sono sempre la tristezza e il senso di solitudine ma quel coltello con la punta così affilata che quando feriva mi faceva sussultare di dolore, adesso non ferisce più a fondo e scalfisce soltanto la superficie. Continuo a pensare a lui tutto il tempo ma non piango più la notte come avevo detto a Philippa, cioè quando capivo di dover star sola per poterlo fare. Mi ha anche aiutato qualcosa di quello che Linda Owen mi aveva raccontato. Se adesso capisco questa necessità, che c'è in lui, di essere amato e di fingere, almeno, di provare un po' di amore, la mia umiliazione è meno cocente. Ned può avere tradito e ingannato me ma ha ingannato anche se stesso. Non è mai stato uno di quegli uomini che raccontano fandonie per far cadere in trappola una donna. Forse non ha mai neanche raccontato la più piccola bugia, perché quando diceva tutte quelle cose era convinto che fossero vere. Cerco di pensare a lui come a una persona che soffra di qualche male, di una malattia invisibile che io sono stata capace di guarire almeno per un po'. E anche se lui vive nel mio cervello, se vi è impressa la sua faccia, se vi sono registrate le sue parole, so che non sarà sempre così. Posso immaginare che arriverà un tempo in cui prima i minuti e poi le ore passeranno senza che io pensi a lui, senza che tornino a riaffiorarmi nel cervello le parole che mi diceva, come quando parlava di volermi avere tutta per sé per la vita intera, e sosteneva di amarmi indipendentemente da tutto quello che dicevo o facevo. Forse arriverà perfino un tempo in cui sarò in grado di dire: è da ieri che non penso più a lui. Nel frattempo devo crearmi una vita. Middleton Hall è un vicolo cieco, non c'è futuro in un lavoro come quello dell'inserviente in una casa di riposo, e lo stipendio è ancora peggiore di quello di un bracciante agricolo. Non aveva praticamente nessuna importanza quando pensavo che avrei abbandonato il lavoro per avere dei figli, ma siccome questo adesso non succederà, o perlomeno non riesco a vedere o a immaginare che possa succedere per un certo tempo, ho preso la decisione di iscrivermi a un corso di infermiera in modo da prendere il diploma, una cosa seria, insomma, perché non mi piacciono le mezze misure. Anzi, ho già fatto la domanda e sono stata accettata. Comincerò in settembre. Stella ha fatto una cosa magnifica lasciandomi questa casa. Trovare un'abitazione, cioè quello che preoccupa così tanta gente, è un problema che io non ho. Ed è stato tramite suo che ho conosciuto Richard, che si è
dimostrato e continua ad essere un amico sincero per me. Philippa viene a trovarmi anche se trova molto duro dover rinunciare alla televisione e quindi sono quasi sempre io che vado da lei. La mamma è stata buona con me, e anche la nonna e Janis, e mi hanno trattato come una povera creatura ferita che deve essere assistita e curata con la gentilezza e la magia bianca, fino a quando non avrà ricuperato la salute. Di tanto in tanto anche Linda Owen passa a salutarmi e mi porta con sé al pub, lo Swan di Breckenhall, non il Legion, così anche noi andiamo fuori a bere come due ragazzi. Parliamo di automobili come fanno gli uomini e di quello che ci siamo comprate e delle spese che si hanno quando si è proprietari di case, ma non parliamo mai di Ned. Quell'argomento è tabù. Il mio anno con lui mi ha insegnato una cosa preziosa, però, cioè che non serve cercare di cambiarsi, e di trasformarsi, per amore di un'altra persona. Se lo fai, deve essere soltanto per te stessa. Mi vergogno di me stessa quando ricordo come studiavo l'enciclopedia e cercavo le parole nel Chambers Dictionary, per non parlare poi di quando volevo imparare tutte quelle cose sulla musica classica, e solo per far colpo su Ned, e forse è proprio per questo che non ho mai sentito neanche una di quelle cassette che Stella ha registrato e poi mi ha lasciato in eredità insieme al registratore. Ha insistito molto perché lo accettassi, come se non avesse già fatto abbastanza per provvedere a me. Se lo avessi saputo in anticipo le avrei spiegato che non ne avevo bisogno, anch'io ho un walkman, anzi ce l'ho da anni per quanto non l'abbia mai usato molto. Ma quando si è soli come sono sola io, cioè molto, si sente il bisogno di ascoltare le voci o la musica, si sente il bisogno di qualcosa che spezzi il silenzio, altrimenti ci si comincia a domandare se le orecchie ci funzionano ancora. In queste serate estive cammino molto per la palude, imboccando il sentiero che parte dal cancello del mio giardino e si snoda fra i salici, gli ontani e le olmarie, passa attraverso radure dove crescono giunchi e dove c'è l'acqua, e poi continua inoltrandosi per il bosco silenzioso. Non vedo mai un'anima, lì non ci va nessuno, è tutto così quieto, così immobile che si può sentire uno dei tanti insetti acquatici sfiorare in volo la superficie di uno stagno. E fu lì, una sera della settimana scorsa, che vidi un macaone. Un altro oggetto che fa parte della mia eredità è stato il libro delle farfalle che apparteneva a Stella. L'ho sfogliato e ho trovato che in Inghilterra esiste soltanto una di quelle specie che hanno le code sospese dalle ali in-
feriori. Erano ali stupende, di grande apertura e con un motivo a colori, giallo e nero e rosso. Atterrò su un fiore della fumaria e lì rimase, crogiolandosi al sole del tramonto, le ali spiegate, e poi un po' palpitanti prima di allargarsi di nuovo. Sono una sciocca, lo so, ma ho pensato a Stella che aveva tanto desiderato vedere un macaone e adesso non potrà mai più vederlo e allora ho cominciato a piangere. Così, è stato a quel punto che il silenzio della palude ha cominciato a darmi un senso di inquietudine e, mentre tornavo a casa, mi sono venute in mente le persone che avevo visto passeggiare per Bury o Diss con gli auricolari e un walkman in tasca, e ho deciso di provarlo. Il giorno dopo, cioè l'altro ieri, mi comprai un pacchetto di pile tornando a casa dal lavoro, ne misi due nel walkman e per la prima volta da quando lei è morta, provai a esaminare attentamente i nastri di Stella. Chissà per quale motivo ero convinta che avesse registrato un mucchio di cose, invece no. Otto su dieci, di quei nastri, erano vuoti. Gli altri due non portano sull'etichetta il titolo di un pezzo musicale, ma non mi servirebbe molto anche se lo portassero in quanto gli unici che conosco sono "Nessun dorma" e la Water Music. Stella aveva semplicemente scritto a stampatello "Nastro 1" e "Nastro 2" sull'etichetta, senza dare altre indicazioni sul loro contenuto. Tanto vale cominciare dal principio, pensai, infilando nel walkman il "Nastro 1" anche se a quel punto cominciavo già a pentirmi di non aver attinto ulteriormente alle mie risorse per comperare il Luxury Liner di Emmylou Harris che avevo visto nel negozio delle pile. Se non altro la musica di Stella avrebbe spezzato il silenzio mentre girovagavo attraverso la palude. Era una serata molto calda, e non soffiava un alito di vento, e tutt'intorno a me l'atmosfera era quella sfibrata della tarda estate, ciuffi di semi invece di petali di fiori, foglie stanche che penzolavano da rami immobili, ortiche languenti e alte più di un metro e mezzo ma ancora in grado di pungere. Credo di aver provato un certo nervosismo al pensiero di far partire la musica, come se avessi paura dell'assalto improvviso di qualcosa che non capivo né apprezzavo, e mi avrebbe assordato le orecchie. Misi il pollice sul pulsante ma non lo schiacciai fino a quando non mi trovai proprio nella parte più interna, più fitta, della palude. Lì, in una radura, dove la siccità aveva prosciugato tutte le pozze d'acqua ma l'erba era ancora verde, corta corta perché la brucavano i conigli selvatici, sedetti sul tronco di un albero crollato sul terreno e imputridito, e schiacciai il pulsante del walkman.
Si sentì un ronzio e un suono simile alle onde del mare e poi la voce di Stella, dolce e molto limpida. Provai un tale shock che mi sentii agghiacciare dalla testa ai piedi. E mi venne la pelle d'oca. La voce di Stella disse: "Questo è il primo nastro. Segue il secondo. Tutti e due hanno un'etichetta". Fermai il registratore. Lo spensi. Dopo aver respirato a fondo non una sola, ma due volte, contai fino a dieci, mi dissi di mostrare un briciolo di buon senso e lo riaccesi di nuovo. 23 "Questo è il primo nastro. Segue il secondo. Tutti e due hanno un'etichetta. Cara Genevieve, ho la tentazione di cominciare tutto questo come farei con una lettera, ma sto parlando, non scrivendo. Ho fatto molta pratica nel parlare in questo strumento. Ti sorprende? Credo di averti dato un sacco di sorprese in un senso o nell'altro. C'è stata una volta in cui devi aver pensato che non mi è mai successo niente, te l'ho potuto leggere in faccia, ma adesso ho la sensazione che forse penserai che, invece, mi è successo troppo. L'ultima volta che ci siamo parlate, proprio l'ultima, mi hai detto che il tuo desiderio stava per diventare realtà. Naturalmente alludevi al fatto che saresti andata a vivere con l'uomo che ami. Volevi dire che lui aveva intenzione di lasciare la sua casa per stare con te. Sono contenta per te e mi auguro che tu adesso sia molto felice. Ti avevo già raccontato che, alla fine, Alan aveva lasciato Gilda per stare con me. Ma ciò che non ti ho detto - fra tante altre cose - è stato che non me lo ha confessato fino a quando ci siamo ritrovati, insieme, alla Molucca. Ci eravamo andati per una vacanza di dieci giorni fintanto che i miei figli erano via e Gilda si trovava, o almeno così si presumeva, in Francia. Mentre era al volante e stavamo andando verso casa, lui prese questa decisione. Ne avevamo parlato e riparlato, in varie occasioni, per mesi... be', per anni. La sua fu una decisione assolutamente spontanea, mi disse. Un attimo prima, dentro il suo cervello, si diceva che stava per andare in vacanza con me, un attimo dopo si sentiva legato e impegnato con me per la vita, e senza che niente ci potesse mai più separare. Me lo disse mentre richiudevamo la porta alle nostre spalle. «Stavolta è per sempre. Non tornerò mai più indietro. L'ho lasciata.»
Io avevo intenzione di preparare il pranzo, qualcosa di leggero, panini imbottiti probabilmente, ma tutto d'un tratto nessuno dei due si sentì più di mangiare. Lui mise lo champagne nel frigorifero. Quello champagne che tu hai trovato, perché non venne mai stappato. Avremmo dovuto berlo caldo, appena tirato fuori dall'automobile. Continuavamo a buttarci l'uno nelle braccia dell'altro senza aver bevuto niente. Poi lui preparò due gin rosa per celebrare l'evento intanto che lo champagne diventava ghiacciato. Ballammo... fu come quando si balla in certe grandi sale, Genevieve, ne sai qualcosa?... Ballammo con i bicchieri stretti in mano. Un valzer senza la musica. Lui disse: «Appena prima di entrare in quel negozio, ho pensato, si può sapere a che accidenti di gioco sto giocando? Qui non sto per cominciare una vacanza, è per la vita quello che faccio. Non ho più intenzione di tornare indietro. Mai. Così ho comprato lo champagne. Brutto da parte mia, vero? Non discuterne con te, non domandare, semplicemente decidere. Ti spiace?». «Mi conoscevi» risposi. «Mi conosci. Perché dovrebbe dispiacermi? È quello che ho sempre desiderato.» Così continuammo a volteggiare a ritmo di valzer. Poi cominciammo un tango e lo danzammo impetuosamente, andando da un'estremità all'altra della stanza, e Alan cantò When They Begin the Beguine. Mi aveva offerto qualcos'altro da bere, un bicchiere di vino stavolta, quando sentii l'automobile. Era un vero e proprio evento, che un'automobile passasse di lì. Figurarsi un'automobile che imboccava il viale di accesso alla casa. Praticamente inconcepibile. A quel punto ci eravamo seduti sul divano, abbracciati. Mi alzai per vedere. E vidi il muso da piranha prima ancora di vedere Gilda. Sembrava che volesse assalirmi, quel corpo rosso, quella bocca ringhiante con i denti messi a nudo sul muso scarlatto. Ma non si lanciò ad aggredirmi. Si fermò proprio accanto, e parallela, alla Rover grigia di Alan. Siamo una coppia, sembrava volesse dirmi, ci apparteniamo, saremo sempre l'uno al fianco dell'altra. Dalle mie labbra proruppe un impercettibile suono e tesi una mano, tastando alla cieca dietro di me, per toccarlo. Il primo pensiero che viene è quello di nascondersi. Naturalmente non esiste nessuna possibilità di farlo. Se ci avessimo pensato, se avessimo previsto una cosa del genere, non avremmo certo lasciato lì la macchina, né aperto le finestre, né ci saremmo seduti insieme in questa stanza perché chiunque, passando, potesse vederci. Non avevamo forse scelto una casa
provvista del garage per nasconderci un'automobile in caso di necessità? Ma volevamo nasconderci. Gli dissi perfino: «Nasconditi!». Alan non si lasciò prendere dal panico. Avrei dovuto immaginarlo. Disse: «Forse vuoi dire nascondi te o nascondi l'automobile, la prima che capita» e si mise a ridere. Sì, proprio così. Scoppiò in una risata. In seguito disse che non c'era nient'altro da fare. Gilda scese e richiuse la portiera sbattendola con tutta la forza che aveva in corpo. È strano quello che si osserva. Per la prima volta notai la sua magrezza addirittura anormale, non era che pelle e ossa, e un ciuffo di capelli. Si era messa un paio di pantaloni verdi e una blusa nera senza maniche, con un foulard di chiffon verde annodato al collo, occhiali neri che nascondevano qualsiasi espressione, sandali verdi con tacchi alti e squadrati. Rimase lì immobile per un istante, osservando la casa. Non credo che potesse vederci. Alan disse: «Tanto vale aprire la porta. Se non lo facciamo, entrerà a viva forza». Andammo insieme alla porta ma lui ci arrivò per il primo. E l'aprì. Lei entrò. Non disse una parola. Ci passò davanti e salì di sopra. Potevamo sentirla nella camera da letto del piano superiore, mentre controllava le nostre valige, in cerca del necessario che avevamo portato per la notte, suppongo. Alan si impadronì di una delle mie mani, la strinse forte e la lasciò ricadere. Restammo muti. Gilda scese da basso ed entrò nel soggiorno. La seguimmo. Si guardò intorno più di una volta, come se fosse venuta a comperare la villa. A me disse: «Suppongo che questa casa sia tua?» Feci segno di sì con la testa. «Non potrebbe essere sua, vero? Non ha mai avuto un soldo che sia un soldo!» Io ritrovai la voce. «Questa è la mia casa. L'ho comprata sei anni fa.» «Vuoi dire che l'ha comprata quel povero diavolo del tuo defunto marito. Come ci sei riuscita, risparmiando sui soldi che ti dava per le spese domestiche?» Una battuta, questa, che usciva dritta dritta da Lora Cartwright. Sentirla ripetere adesso, identica, parola per parola, mi fece rabbrividire. Alan disse: «Perché non sei in Francia?». «Bella domanda» fece lei. «Non ho mai avuto l'intenzione di andare in Francia.» Mi squadrò. «L'ho seguito qui la settimana scorsa. Non sapevo
che si trattasse di te. Voglio dire, perché proprio tu, Dio santo? Ho pensato che lui avesse trovato, finalmente, qualcuno di presentabile. Il coup de grâce era stato pianificato per oggi.» Si mise a sedere, guardò i nostri bicchieri. «Datemi qualcosa da bere, per favore.» Alan andò in sala da pranzo e tornò portando il gin e lo sherry e il Borgogna bianco, e una bottiglia di acqua tonica e altri bicchieri su un vassoio. Lei non disse più niente fino a quando non ebbe bevuto qualcosa, e fu un bicchiere bello pieno, e di roba forte, anche. Alan mi servì un gin liscio, e ne versò uno anche per sé. Gilda mi disse: «Credevo che tu fossi mia amica». Anche questo veniva da La storia di una moglie; comunque era la verità. Che cosa potevo dire io? Che mi spiaceva, no; perché non mi spiaceva. Ma quella sua affermazione, osservazione, rimprovero, o come si vuole chiamarlo, mi colpì fino in fondo al cuore anche se era stata scritta da uno sceneggiatore chissà quanto tempo prima. Alzai le spalle, scrollai la testa. Lei si rivolse ad Alan. «Perché lei? Perché non una ragazza giovane? Lei è vecchia quasi quanto me e Dio solo sa se non sembra ancora più vecchia di me!» Tutto questo non esigeva una risposta. Era stato detto per dare dolore. Probabilmente si trattava di un'altra battuta di chissà quale film, uno che io non avevo visto, però. E allora lei cominciò a parlare. Posso ricordare molto di ciò che disse anche se non tutto ma non lo ripeterò qui. A cosa servirebbe? Allungò il bicchiere perché venisse riempito di altro gin e Alan la servì e poi ne versò dell'altro anche per noi due. Stavamo bevendo tutti mentre parlavamo, bevendo come perlomeno io non avevo mai bevuto in vita mia. Ma, vedi, la cosa assurda era che non aveva molto da dire e pochissimo di cui minacciarci. Ci si provò. Disse ad Alan che non gli avrebbe mai concesso il divorzio, che ci avrebbe facilitato troppo le cose. Avrebbe riferito a Marianne e Richard quello che io ero e che cosa avevamo fatto, lo avrebbe raccontato ai nostri amici e ai nostri vicini, a Priscilla e Jeremy e ad altri parenti. Ma non si accontentò solo di quello, anzi continuò affermando che mi avrebbe intentato causa con l'accusa di adescamento. Mi sono sempre domandata come potesse addirittura sapere che una cosa del genere era possibile o che, almeno, una volta era stata possibile. «Vorrei che ti togliessi quegli occhiali» disse Alan. E lei si tolse gli occhiali da sole. Aveva gli occhi rossi, e non alludo soltanto alle palpebre ma agli occhi, che apparivano iniettati di sangue, col bianco arrossato intorno a quelle iridi viola. Sembrava una di quelle foto-
grafie nelle quali il flash ha fatto diventare rossi e sbarrati gli occhi della persona che viene fotografata. Alan dispose l'uno accanto all'altro tre bicchieri da vino sul vassoio e li riempì di Borgogna bianco. Non avrei più potuto bere altro gin, ma quel vino, sì. Eppure il peggio era passato. Al primo momento era stato uno shock, ci aveva lasciati annientati, allibiti. Adesso che lei era lì e parlava, facendo minacce che a me sembravano abbastanza inutili e insensate, in fondo non era meglio che avesse scoperto tutto? Non lo espressi a parole, non lo formulai nemmeno come un pensiero logico nel mio cervello, ma era l'impressione generale. E a poco a poco cominciavo anche a crederci. Sentivo un po' di speranza. Sì, proprio. Naturalmente in parte era dovuta al bere, era pura e semplice euforia, ma quando Gilda cominciò a insultarmi chiamandomi stupida, ingenua e ignorante, una losca intrigante come una scolaretta che fa la spia, quando chiese ad Alan che cosa diavolo ci trovava in me, rimasi indifferente, perché capivo che tutto questo lo avrebbe spinto a disprezzarla e ad amarmi più di prima. Avevo una fede assoluta nella sua lealtà e nel suo amore. E non sbagliavo. Non era mal riposta. Alan disse: «Era una scolaretta». E poi: «È stata a scuola con me». Lei si portò una mano alla faccia. «Non capisco» disse e arrossì violentemente. Allora tutto venne a galla. Lei non lo aveva mai saputo e questo la fece infuriare ancora più del resto. Le cose ovvie non sono i tradimenti peggiori. Forse lei misurava così la situazione, il fatto che Alan mi conoscesse prima di conoscere lei, il fatto che io sapessi su di lui cose che lei non poteva aver mai saputo. Man mano che la sua collera cresceva cominciò a sbraitare, e infine ad urlare e mentre urlava ad afferrare e scaraventare di qua e di là tutto quello che le capitava sotto mano. Mandò in pezzi due bicchieri lanciandoli contro il muro. Fece volare via la bottiglia di vino vuota che finì fuori dalla finestra aperta andando a schiantarsi contro il cofano della macchina di Alan. Alan la teneva d'occhio, badando a restare fuori dalla linea del fuoco ma non alzava un dito per fermarla. Conosceva questi suoi accessi di collera furiosa, sapeva che si esaurivano molto in fretta, trasformandosi in un fiume di lacrime. Quel pomeriggio una quantità dei nostri gingilli più piccoli andò in frantumi. Probabilmente c'è ancora il muro scrostato nel punto dove Gilda ci mandò a sbattere una coppa d'argento. Fu l'ultima cosa che lanciò prima di cominciare a piangere e singhiozzare. Non so che cosa provasse Alan. Io mi sentivo terribilmente colpevole. Per la prima volta in vita mia provai il
desiderio di buttare le braccia al collo di Gilda e consolarla. Sarebbe stato, o sembrato, il culmine dell'ipocrisia e del cinismo. Ma tutto questo non cambiò niente nei miei sentimenti verso di lui. Lo volevo per me, per sempre, come mio marito. Perché fosse un padre per Richard, in tutto e per tutto. Adesso devo fermarmi a riposare prima di andare avanti. Può darsi che non riesca a fare più niente fino a domani." "Rimanemmo tutti seduti dov'eravamo. La bottiglia di gin era vuota. Dopo un paio di minuti Alan si alzò e andò in sala da pranzo. Tornò col whisky. Di gin, non ne avevamo più. Non gli avevo mai detto cosa fare o non fare, non gli avevo mai detto, non fare quello, non bere più neanche un goccio, e non lo dissi neanche quella volta. Mi fidavo di lui. Ero convinta che sapesse qual era la scelta migliore sul da farsi in ogni situazione. Se aveva bisogno di un altro goccetto, vuol dire che ne aveva bisogno, nessuno poteva saperlo meglio di lui. Posai la mano sul mio bicchiere. Lui riempì a metà il proprio. Tutti e tre non avevamo fatto che fumare ininterrottamente. I due portacenere erano ricolmi di mozziconi. Gilda smise di piangere. Era sempre stato così, come se avesse versato tutte le sue lacrime. Alan non aveva mai detto che gli spiaceva o che avrebbe cercato di fare del suo meglio per facilitarle le cose e io intuii che non le offriva più niente da bere perché avrebbe dovuto mettersi al volante e tornare a casa. Ho detto che mi sentivo piena di speranza e in quel momento mi accorsi che mi pareva quasi di essere felice, perché ero contenta del modo in cui le cose erano andate. Non voglio dire Signore Iddio perdonami per aver provato quello che ho provato in quel momento perché sono stata punita, sono stata punita per qualche cosa, per tutto. Sono stata punita per ventiquattro anni. Fu un enorme sollievo quello che provai quando Gilda si alzò e disse che se ne andava. Poi, rivolgendosi ad Alan: «Voglio che tu venga con me, per piacere.» Fu come se avesse dimenticato tutte quelle minacce, la separazione, l'adescamento. Lo accettava di nuovo, se lo portava di nuovo indietro, per dimenticare, per ricominciare da capo insieme. «Quanto a te, non ti rivolgerò mai più la parola» mi disse. «Come è logico, no?» Annuii, accettandolo. «Non vengo con te, Gilda» disse Alan. «Ti lascio. Adesso sto con Stella,
Un giorno sposerò Stella.» Lei ignorò questa battuta. «Hai bevuto talmente tanto che adesso non capisci più niente, giusto?» disse. «E lo hai fatto proprio perché, così, non riusciresti a guidare.» Forse era vero. Riuscì a persuaderla ad andarsene. Dopo una scenataccia come quella che aveva appena fatto, di solito Gilda diventava incredibilmente mansueta, e lui riusciva a farle fare quello che voleva. Avevamo ottanta sigarette al primo momento, appena arrivati, lui e io, e adesso ne rimanevano otto o nove nel secondo pacchetto. Alan gliene accese una, le mise in mano le altre. Capivo che aveva bevuto troppo ma soltanto perché aveva la voce impastata e biascicava le parole. Poi disse: «Adesso non vengo, Gilda, ma verrò. Verrò da te più avanti ma Stella dovrà venire con me. Non mi separerò mai più da Stella. Lo capisci, questo?» Lei non rispose. Sembra assurdo, adesso, eppure andammo fuori tutti e due con lei. Eravamo come una coppia sposata, nella nostra casa, che accompagnava un'ospite alla porta quando andava via. Sulla soglia dove dici che adesso sta crescendo un sorbo selvatico, sulla soglia che era letteralmente ricoperta di pezzi di vetro e di porcellana, lei si voltò verso di me, si riempì la bocca di saliva e sputò. Il suo sputo mi colpì su una guancia e poi mi colò giù per la faccia. Chi sono io per reclamare e protestare? Chi sono io per poter dire che non me lo meritavo? Al momento mi lasciò inorridita. Proruppi in un grido. Mi tirai indietro scostandomi violentemente da lei, ansante. Una sciocca, non lo ero forse? Avevo sempre avuto una vita troppo protetta. In fondo cosa mai mi era successo all'infuori di scoprire il cadavere di Charmian Fry? Gilda aveva pienamente ragione quando mi chiamava innocente, quando mi chiamava "piccola". Alan si tolse il fazzoletto di tasca e mi asciugò la faccia. E fece una cosa strana, fece quello che anche la mia mamma faceva sempre quando ero piccola, leccò il fazzoletto e mi ripulì la guancia. Lo interpretai come un simbolo. Quante sono le persone disposte a fare una cosa del genere per te? Gilda si avviò verso la sua automobile. Io rimasi dov'ero, con la sensazione di aver ricevuto uno spruzzo di veleno in faccia. Il gesto gentile di Alan non era servito come antidoto. Lui fece qualche passo verso la macchina di Gilda. Lei si mise al volante, infilò la chiavetta dell'accensione. E poi, oh, allora accadde, l'inizio del terrore, la cosa che aprì la strada a tutti gli avvenimenti successivi. O forse sarebbe più giusto dire che non accad-
de, perché la macchina di Gilda non ne volle sapere di partire. Lei girò la chiave e schiacciò a fondo l'acceleratore, e ripeté queste operazioni più di una volta, troppe volte, e la macchina non ne volle sapere di partire. Non so perché. Il caldo? Gli anni che aveva? La batteria era scarica anche se io in quel momento non lo sapevo. Quell'automobile l'aveva portata fino alla Molucca e poi, mentre lei era dentro, la batteria si era esaurita. Ci si provò anche Alan, a farla partire, ma senza successo, come non aveva avuto successo lei. Io, ferma sul gradino della soglia, stavo a guardare. Erano le quattro e mezzo del pomeriggio. Per tutto quel tempo eravamo rimasti in casa ad ascoltare Gilda, senza difenderci, e a bere. Le ore erano passate e in quel frattempo il cielo azzurro era diventato coperto, grigio di fumo. Oltre i campi sull'altro lato della strada potevo vedere una nera colonna di fumo che si alzava. Faceva più caldo che mai. Alan scese. «Questa qui non parte» disse. «Ti accompagno io a casa, e telefoneremo a qualcuno che venga a riparare la tua macchina.» Si voltò a guardarmi. «Viene anche Stella.» «No» fece lei. «Viene anche Stella. O, se preferisci, puoi tornare a casa a piedi. Sono soltanto dodici chilometri.» «Falla salire dietro» disse Gilda. «Io sono tua moglie. Io mi siedo davanti.» Io dissi che naturalmente mi sarei seduta dietro. Per me non faceva nessuna differenza. Non è vero, faceva differenza, l'aveva sempre fatta quando noi tre andavamo in qualche posto insieme, Gilda di fianco ad Alan, io dietro. Però mi dissi che quella sarebbe stata l'ultima volta. In futuro io mi sarei sempre seduta di fianco a lui. Avevo la gola secca, la bocca arida. Andai in cucina a bere un po' d'acqua. La vanità rimane, continua a vivere quasi fino alla fine, e mi guardai nello specchio, contemplai la mia faccia, mi riaggiustai i capelli, mi diedi un poco più di rosso sulle labbra. La parola che lei aveva usato per me, "presentabile", mi bruciava ancora. Faremmo un gran bel servizio alle nostre figlie se le allevassimo insegnando loro a non preoccuparsi dell'aspetto che hanno, se mandassimo in pezzi tutti gli specchi, eppure io ho allevato mia figlia insegnandole ad essere vanitosa come lo sono io. Chiudemmo a chiave la porta di casa. Io andai a sedermi dietro, e Gilda davanti, di fianco al posto di guida, com'era sempre stato. A quell'epoca non usavano le cinture di sicurezza, o diciamo meglio che esistevano già, qualche macchina le aveva, ma non erano obbligatorie. Dovevano passare
ancora più di dieci anni prima che, per legge, si fosse costretti a portarle. Anche il fatto di guidare in stato di ubriachezza non veniva considerato qualcosa di grave come adesso. Ricordo che Jeremy era partito per la Svezia per motivi di lavoro e al suo ritorno non aveva fatto che raccontarci storie di persone che avevano addirittura paura di bere un solo bicchiere di vino prima di mettersi al volante, e di non so chi, che lui aveva conosciuto, il cui cognato era finito in carcere, o in un campo di lavoro, per aver guidato superando i limiti di velocità. Per quello che ci riguardava, noi eravamo convinti di poter bere tutto quello che volevamo senza correre rischi, purché naturalmente non ci capitasse un incidente. John Browning si vantava sempre di aver coperto tutto il percorso fino a Peterborough con un occhio chiuso perché aveva bevuto talmente tanto che ci vedeva doppio. Non ero affatto preoccupata pensando che Alan si mettesse al volante dopo essersi scolato mezza bottiglia di gin, e un po' di whisky e anche del vino. Non ci pensavo assolutamente. Forse avrei dovuto dire che in quel momento c'erano cose più importanti alle quali pensare. Quasi subito, non avevamo neanche percorso settecento metri, ci trovammo in quella specie di atmosfera che dev'essere stata abituale nelle città industriali, nelle giornate di gran caldo, nel secolo scorso. Qui invece eravamo in campagna, nel 1970. Ma quell'atmosfera era provocata dalle stoppie che bruciavano anche se per un po' non vedemmo neanche un filo di fumo. Però non potevamo vedere neanche il cielo, tanto era densa, calda e pesante la nebbia che gravava su ogni cosa, tacita e tetra, e copriva boschi e campi. L'aria aveva l'odore di una stanza piena di fumo. Non c'era traffico. No, non è del tutto vero. Naturalmente ce n'era un po', ma non dovevamo aver superato più di un'automobile prima dell'incidente. Alan guidava molto veloce. Cioè, probabilmente guidava a non più di settanta chilometri all'ora ma questo significa andare veloci su strade strette che sono dritte per trecentocinquanta metri e poi inspiegabilmente fanno una curva a destra ad angolo retto. Voleva portare Gilda a casa in fretta, voleva liberarsi di Gilda. Quando passammo per Curton dovette rallentare un po'. Con quel caldo e sotto quel fumo che soffocava, i suoi abitanti sembravano tutti addormentati. Non badai al garage in fondo alla strada del villaggio, il Curton Cars Ltd, l'ultimo caseggiato. Non mi accorsi di niente salvo di Alan e Gilda seduti fianco a fianco e della campagna che sfrecciava ai nostri lati, piatta, silenziosa, velata di foschia. Non appena Curton venne lasciata alle spalle Alan aumentò di nuovo la
velocità. Nessuno parlava... l'ho già detto? Ce ne stavamo ciascuno seduto al proprio posto in silenzio. Nessuno aveva più aperto bocca da quando Gilda aveva detto che lei era la moglie di Alan e io dovevo sedermi dietro e io avevo risposto di sì, che lo avrei fatto. Ricordo i suoi lunghi capelli biondastri, nei quali si intravedeva qualche filo d'argento, che penzolavano oltre lo schienale del sedile, e il foulard che portava al collo e spiccava con il suo vivido verde smeraldo fra quelle ciocche. Ricordo di aver osservato le mani di Alan sul volante. Volevo che mi toccasse, morivo dalla voglia di sentire una sua carezza su di me. Erano passate ore e ore, da prima che Gilda arrivasse, da quando avevo sentito la sua mano su di me, la sua bocca sulla mia pelle. Non stavamo mai insieme senza toccarci e quella privazione mi faceva sentire respinta, scacciata, e bramosa. Lui viaggiava a velocità sostenuta affrontando quelle curve e andava ancora più forte quando la strada diventava dritta. La macchina sobbalzò su un ponte a schiena d'asino che univa le due sponde di un torrente e Gilda proruppe in un gridolino stridulo. Doveva viaggiare a più di settanta, ottanta chilometri l'ora quando il fumo arrivò, passando a folate attraverso la strada davanti a noi. Arrivò improvvisa, una densa nuvola nera, quasi orizzontale, che sbucava da sopra la siepe, inghiottendo completamente la nostra vettura. Lo hai mai provato, questo? Sai a che cosa assomiglia? Dall'interno di una macchina si conta, interamente, su ciò che si vede, sul mondo visibile che abbiamo intorno, e quando questo viene cancellato da un parabrezza che va in frantumi oppure da un pezzo di cartone che il vento manda a sbattere contro il vetro, ci si ritrova ciechi come se le nostre cornee non esistessero più. Quella nuvola ci accecò. Accecò Alan. Annebbiò totalmente il parabrezza, come se fosse stato coperto da uno strato di pittura grigia. Mi accorsi che trasaliva, che il sedile di fronte a me sobbalzava, sentii il riflesso del suo piede che premeva con forza il freno, la macchina che sbandava e si impennava. Ma non ricordo l'incidente in sé e per sé, soltanto il tonfo, quell'immane esplosione che in realtà non era affatto un'esplosione ma il rumore di un impatto violento. Il suono più forte che avessi mai udito. Le portiere si spalancarono. Me lo ricordo io oppure è stato lui a raccontarmelo? Non so. Ad ogni modo, chissà come, forse seguendo l'istinto che ci spinge a proteggere i nostri cari e noi stessi, ma anche per il gran desiderio che avevo di toccarlo, un attimo prima dell'impatto avevo allungato le braccia verso di lui, e mi ero aggrappata a lui, da dietro, trattenendolo con-
tro di me. Fra noi c'era il sedile, un ostacolo che ci divideva, ma io riuscii ugualmente a bloccarlo con tutte le mie forze e lui mi disse che lo avevo salvato dal parabrezza o dal rischio che il volante gli sfondasse il petto, disse che ero stata la sua cintura di sicurezza. Non so. Come faccio a saperlo? Forse, in realtà, tutto quello che feci fu evitare che fosse scaraventato fuori dall'abitacolo quando le portiere si spalancarono. Non c'era stato nessuno a buttarsi su Gilda per trattenerla. Quella fu la prima cosa che vidi quando aprii gli occhi, che Gilda non era più lì, che Gilda era andata via, il sedile davanti, il posto del passeggero, era vuoto. Ma al primo momento non feci niente, non glielo domandai. Continuai a rimanere aggrappata a lui. Gli accostai la faccia al collo come un animale che ti annusa strofinandoti il naso addosso. Nella mia mente si stava formando, in modo confuso, l'idea di rimanere così per sempre, di rimanere lì, stretti stretti, con gli occhi chiusi, perfino di dormire. Potevo sentire il pulsare sordo del sangue nel suo collo, udivo il suo respiro affrettato. Lui pronunciò il mio nome con una voce che era una vibrazione senza tono. «Stella.» Spostai il viso. Avevo la bocca bagnata dal suo sudore. Quando tirai indietro le mani mi accorsi che erano coperte di sangue e questo bastò a farmi prorompere in un gemito sommesso. È quello che si fa quando si rimane coinvolti in un incidente automobilistico, si comincia a tremare e ci si lascia sfuggire suoni terrorizzati. Non si riesce più a controllare le labbra che balbettano tremolanti. Si trema dalla testa ai piedi. Le mie mani erano coperte di innumerevoli minutissimi graffi e le dita avevano lo stesso colore delle mie unghie. Mi rimbombava ancora nella testa il suono fragoroso dello scontro, si ripeteva e riecheggiava come il rombo di enormi pezzi di artiglieria che continuassero a sparare. Lui scese dalla macchina, barcollò, si sforzò di mettersi ben dritto e poi girando dietro venne ad aiutarmi a scendere. Infine mi prese tra le braccia. Ormai, a quel punto, io stavo piangendo e mi lasciavo sfuggire un grido dopo l'altro. Ma dovevo smettere, mi imposi di smettere. Alan mi ripulì le mani con il fazzoletto che aveva adoperato per ripulirmi la faccia dalla saliva di Gilda. Anche le sue mani sanguinavano e il sangue gli scendeva da una ferita sulla fronte. Dissi: «Dov'è Gilda?». Mi battevano i denti. «Non so» rispose lui.
Il fumo era scomparso. L'aria era rimasta greve di una foschia torrida e fuligginosa. Davanti a noi giganteggiava in mezzo ad essa un'enorme macchina agricola, una mietitrebbia immagino, oppure un pressaforaggio. Era stata parcheggiata metà sulla strada e metà sull'argine erboso e Alan era andato a urtarla nella parte posteriore. Adesso l'automobile era incastrata nella lastra gialla di ferro che ne costituiva il retro, come se vi fosse stata addirittura saldata, le ruote anteriori sollevate dalla superficie della strada, il cofano accartocciato come una lattina schiacciata. Da quando quell'unica e sola automobile era passata, non ce n'erano più state altre. Ma fu in quel momento che ne arrivò una. Ma se la persona al volante si accorse di noi, non si fermò per quanto Alan agitasse le braccia per richiamare la sua attenzione. Poi si voltò verso di me con i pugni chiusi, contratti, e bestemmiò. Non credo di averlo mai sentito bestemmiare prima. Quando arrivò il furgone del garage di Curton sembrò quasi una coincidenza, un incredibile colpo di fortuna, mentre in realtà non lo era affatto. Il garagista se ne stava tornando a casa, passava sempre di lì, alle cinque. Ma non erano ancora le cinque quando Alan si ritrovò lì, immobile, a bestemmiare, scuotendo i pugni. Io dissi: «Dobbiamo cercare Gilda. Dobbiamo trovare Gilda.» Il ciglio erboso della strada era largo forse sei, sette metri, e vi crescevano gli alberi; al di là, c'era un fosso e una siepe. La trovammo distesa ai piedi di un albero fra l'erba alta. Dico "noi" ma in realtà fu Alan a trovarla. Strinsi i denti prendendomi convulsamente una mano con l'altra. Lui si inginocchiò al suo fianco guardandola bene in faccia. Gilda aprì gli occhi e mormorò qualcosa. Non riuscivo a vedere neanche un segno su di lei. Per un miracolo l'avevamo scampata bella tutti e tre, senza un graffio. O perlomeno così pensai. Fu assurdo, suppongo, quello che dissi: «Gilda, ti senti bene?». I suoi occhi erano fissi sulla faccia di Alan. Disse qualcosa ma non riuscii a capire le sue parole. «Si riprenderà» disse lui. «Presto starà bene. Lasciamola riposare lì per un momento e si sentirà bene subito.» Era grottesco, solo che, al momento, non mi sembrò affatto che lo fosse. Alan la conosceva, se ne intendeva di queste cose, era lui il miglior giudice. Era stata scaraventata a soli pochi metri di distanza, fuori dall'abitacolo di un'automobile. Aveva ancora il foulard verde intorno al collo. Poi vidi il sangue sui suoi capelli, che filtrava gocciolando dalla nuca, rosso ruggine,
e bagnava i fili d'erba. «Alan,» dissi «credo che abbia battuto la testa contro quell'albero.» Lui non guardò Gilda, guardò l'albero. Era un albero come tanti altri, non riesco a ricordare di che genere, se mai lo avevo notato. La corteccia era marrone scuro, ruvida. Non riuscii a scorgervi alcun segno particolare ma era tutto pieno di segni, era quella la sua composizione, sembrava coperto di cicatrici come se un centinaio di persone vi fossero state scagliate contro. Intanto continuavo a tremare, anche se a poco a poco il mio tremito si faceva meno violento. Stavo tornando alla realtà, alle cose pratiche. Le mie mani avevano smesso di sanguinare. Mi sedetti sull'erba. Avevo le calze e le scarpe col tacco alto e una smagliatura in una calza. È strano come si notano queste cose. Stavo pensando a Charmian e a come mi ero comportata in quell'occasione, in un modo assurdo e ridicolo, come una bambina sciocca, perché mi ero precipitata giù per la strada urlando. Dissi a Alan: «Uno di noi dovrà tornare a Curton e telefonare per un'ambulanza.» E fu in quel momento che arrivò il furgoncino. Era rosso e sulla fiancata portava, a caratteri bianchi, la scritta "Curton Cars Ltd". Neanche a pensarci, stavolta, che la persona al volante non si fermasse. Aveva il finestrino spalancato e ci fece un cenno di saluto con la mano, e poi un segno di incoraggiamento, a pollici in su. Si arrestò sul ciglio della strada dal lato opposto della mietitrebbia, scese e si avvicinò a noi. Era in tuta, un bell'uomo alto, molto più giovane di noi, forse sulla trentina. Esaminò quel rottame che era diventata la macchina di Alan, il cofano sconquassato, letteralmente incastrato sotto l'enorme baluardo d'acciaio di quella mietitrebbia, le portiere anteriori spalancate, e poi spostò il suo sguardo su Alan. E fece la domanda che cambiò tutto. In seguito, ripensando a lui, lo considerai una specie di messaggero del destino, uno dei personaggi, che non sono completamente umani, di una tragedia greca, una persona giunta a proporci una scelta e a offrirci una risposta. Invece era un uomo qualsiasi, sorridente e comprensivo nello stesso tempo. Mi sentii sollevata a vederlo. Lui fece la domanda. «Soltanto voi due, vero?» disse. Una domanda semplice, casuale. Io fui lì lì per negarlo. Fui lì lì per gridare no, no, siamo tre, c'è qualcun altro, c'è qualcuno che è stato ferito. Invece, niente. Lui non stava parlando con me, ma con Alan, con l'uomo. Io ero la donna, e quindi si dava per scontato che fossi la passeggera, non
quella che guidava, una che, almeno così era logico pensare, non sapeva niente. A parte il fatto che ero abituata a lasciare che, in ogni cosa, la decisione toccasse agli uomini. Cosa sapevo io? Ero capace di guidare ma sapevo appena appena come funzionasse un motore a combustione interna. Lui ripeté ciò che aveva appena detto, più gentilmente stavolta. Doveva aver pensato che fossimo sotto shock. «Soltanto voi due, vero?» Alan chiuse gli occhi, li aprì, disse molto in fretta: «Sì. Soltanto noi due». Non so per quale motivo rimasi in silenzio. Mi tenevo una mano sulla bocca. Le mie dita erano tutte un graffio e sentivo sapore di sangue. Il garagista, ormai, si era avvicinato all'automobile fracassata e le stava girando intorno, la esaminava. «Lo chiedo perché chiunque fosse la persona che viaggiava qui...» e mi guardò «... deve essere stata scaraventata fuori, e chissà che colpo ha preso con la testa in avanti.» Alan disse: «Mia moglie». Per un attimo pensai che fosse lì lì per parlargli di Gilda, per mostrargli Gilda, invece era a me che alludeva. Io ero sua moglie. «È stata fortunata.» Poi osservò che Alan sanguinava. «Si è tagliato intanto che si radeva, vero?» E gli strizzò l'occhio. Alan sorrise. Mi lasciò sbalordita che potesse sorridere. Disse: «Ho un mucchio di peli sulle mani». Risero insieme. Risero con l'aria di chi la sa lunga, come fanno gli uomini, come fanno sempre i ragazzi quando sono insieme, la cospirazione degli uomini, come la chiama Marianne. «Allora non c'è nessun bisogno di chiamare la pula? È inutile visto che non ci sono feriti.» «No» disse Alan. «Meglio farne a meno se non è proprio necessario.» Alan disse no, di nuovo. Lo disse con aria meditabonda. Fu come se imparasse lentamente, ascoltasse un consiglio, afferrasse a poco a poco un'idea. Era come una persona che conosce fino a un certo punto una lingua straniera ma ha bisogno di ascoltare con estrema attenzione quando qualcuno gli parla per capire bene cosa vuole dire. Stava pensando, seguiva con gli occhi i movimenti del garagista. Poi, dal momento che si era un po' spostato, tornò ad occupare la posizione di prima di modo che il suo corpo nascondesse quello di Gilda. Nessuno che si trovasse sulla strada poteva
aver visto Gilda dove giaceva, sprofondata fra l'erba alta, ma lui voleva esserne doppiamente sicuro e si serviva del proprio corpo come di un paravento che la nascondesse. Fu a quel punto che registrai un fatto nuovo; cioè come taceva Gilda. Perché non gridava, non gemeva, o sussurrava qualcosa? Un alito di vento, il primo di quella giornata, fece frusciare le foglie dell'albero sopra di lei. Girai gli occhi dall'altra parte. Il garagista disse che sarebbe tornato a Curton a prendere la sua "roba", un camioncino e l'attrezzatura per rimorchiare l'automobile. Ci avrebbe messo dieci minuti, forse anche meno. Alan rimase immobile dove si trovava fino a quando il furgone si fu allontanato. Sulla sua faccia era apparsa un'espressione che non ci avevo mai visto prima, come se si fosse messo a fare qualche calcolo, valutasse le possibilità che gli si offrivano, forse... Non so. Disse: «Adesso sposto Gilda all'ombra. Non dovrebbe stare al sole.» Ero una donna adulta, ero una donna di mezza età, avevo quarantasette anni. Perché non insistetti per chiamare un'ambulanza? Perché non gli feci notare come fosse addirittura imperativo avvertire la polizia? Non capisco. Non l'ho capito neanche allora. Forse si può dare la colpa allo shock, a quello che era successo prima dell'incidente, all'incidente stesso, alla quantità di alcolici che avevo bevuto. Mi pareva di non avere né forza né volontà. Mi accorgevo che altro fumo stava levandosi in nuvole gonfie intorno a noi, di tossire e di essermi contemplata le mani che erano sporche di sangue, annerite per la fuliggine delle stoppie d'orzo bruciate, mi accorsi che passava un'altra vettura ma senza fermarsi, e che Alan si chinava su Gilda e la prendeva fra le braccia. La trasportò all'ombra. Ma era proprio vero che ci fosse tutto quel sole? E c'era davvero molta differenza fra la fuligginosa penombra sotto quell'albero e l'ombra della siepe? Adesso, dove lui l'aveva deposta, sarebbe stato assolutamente impossibile vederla a meno che qualcuno non avesse voluto cercarla appositamente. Mi domandò se non sarei stata meglio in macchina. Seduta. In ogni caso sarebbe stato più comodo. Scrollai la testa facendo segno di no. E gli dissi: «Hai detto che c'eravamo soltanto noi due?» Fu una risposta strana quella che mi diede. «Per quello che mi riguarda qui ci siamo soltanto noi due.» Poi soggiunse: «Sai, non ci avrei mai pensato se non fosse stato lui a suggerirlo». «Che cosa vuoi dire?» gli domandai.
«Stavo per mettermi a piagnucolare che Gilda era rimasta ferita e bisognava chiamare un'ambulanza e avvertire la polizia e Dio sa cos'altro ancora! Ed ecco che è arrivato lui e mi ha messo in testa l'idea splendida che qui c'eravamo soltanto noi due.» Mi offrì una sigaretta e ne accese una anche per sé. Io ero seduta sull'erba e mi tenevo le ginocchia strette contro il petto con le braccia. Me ne stavo lì seduta con quel mio vestito così civettuolo e i tacchi alti, e a un certo momento appoggiai la testa alle ginocchia e chiusi gli occhi. Avevo una sete furiosa, il risultato di tutto quel bere, suppongo. Alan si era allontanato da me. Sollevai la testa una volta e mi guardai intorno per cercarlo ma non lo vidi da nessuna parte. Potevo vedere soltanto la strada e l'erba alta e quell'albero con la corteccia ferita. Chiusi gli occhi di nuovo e sotto le palpebre la luce mi sembrò rossastra. Intanto l'uomo del garage non arrivava ancora. Acqua era tutto quello che volevo, un lungo lungo sorso d'acqua, e poi il sonno. Qualcosa mi pulsava con un ritmo regolare nel cervello. Passarono secoli. Immagino che non fossero più di dieci minuti. Spalancai gli occhi e mi alzai in piedi. Girai gli occhi verso l'albero e vidi gli occhiali da sole di Gilda impigliati in un ramo. Ormai c'era sangue anche sul mio vestito ma non si notava, a meno che non lo si sapesse, per via del motivo floreale del tessuto. Mi allungai a staccare dal ramo quegli occhiali. Alan era inginocchiato vicino a Gilda. Ma Gilda, non la potevo vedere, l'erba era troppo alta, sembrava quasi fieno, erba folta alla quale erano mischiate pianticelle svettanti, cardo e assenzio e lisimachia e tanaceto. Lui si alzò, mi venne vicino e disse: «Non urlare. Copriti la bocca. È morta.»" 24 "Mi sono interrotta per un po'. Ho dovuto farlo. È arrivato qualcuno con il caffè mentre stavo parlando. Il guaio è che non ho più la forza di infilare una seggiola sotto la maniglia della porta. Era soltanto Sharon e, ad ogni modo, lei è convinta che io sia una vecchia pazza. Cosa potrebbe esserci di più naturale, dunque, del fatto che ormai me ne sto qui a parlottare da sola, dicendo tra me e me cose senza senso? Se ne è andata e posso riprendere. Eravamo lì, sul ciglio della strada in attesa che l'uomo del garage tornasse. Alan si inginocchiò sull'erba vicino a me. Mi prese le mani.
«È morta» ripeté. E tutto d'un tratto, bruscamente: «Vuoi vedere?». Feci segno di no con la testa. Non riuscivo a parlare. Lui era molto pallido. Aveva gli occhi talmente scintillanti che li credetti lucidi di lacrime. L'enormità di quello che aveva detto era troppo per me. Non riuscivo a far altro che fissarlo stralunata. Lui disse: «Posso sentire il battito del tuo cuore». «Oh, non può essere morta» dissi. «Non può.» «Tesoro, non devi perdere la calma.» Quanto a lui, era calmissimo. «Ascolta. Ecco che arriva il nostro garagiste» disse. «Figurati se i francesi non hanno trovato una parola anche per quello.» Di nuovo mi afferrò le mani insanguinate e annerite stringendole fra le sue, insanguinate e annerite. «Non parlare, tesoro. Fa come se fossi ammutolita per lo shock, vuoi? Lascia che ci pensi io. È la cosa migliore.» L'uomo del garage era allegro e rassicurante. Continuò a ripetere che l'avevamo scampata bella, eravamo stati fortunati. Non credo che potesse capire perché mi comportavo a quel modo, come se avessi avuto ben più di un semplice shock nell'incidente, ben più di pochi graffi sulle mani. Mi guardava nel modo in cui gli uomini guardano le donne che 'si agitano per una sciocchezza', con indulgenza, comprensivo ma anche un poco sprezzante. Ad Alan che, ne sono sicura, non doveva assolutamente averci pensato, disse che lui sapeva di chi fosse quella mietitrebbia, poteva fornirgliene il nome. Poi agganciò... ma è inutile che io cerchi di descrivere quello che fece, non so i nomi di queste cose, gli attrezzi, le tecniche. Il risultato fu che riuscì a distaccare l'automobile dalla mietitrebbia e ad attaccarla al suo camioncino per rimorchiarla via. Intanto che faceva tutto questo, non mi rivolse mai, nemmeno una volta, la parola. Con questo non voglio dire che fosse villano o scortese. Ma semplicemente che io ero una donna, e quindi non potevo sapere niente di queste cose, cose da uomini. Salimmo sul camioncino con lui. Davanti, nel bel mezzo del parabrezza, teneva un ferro di cavallo appeso con due pezzi di spago ai lati. Si accorse che l'osservavo e strizzò l'occhio. «È appeso a quel modo per impedire alla fortuna di squagliarsela.» Rivolgendosi ad Alan non lo chiamava in un modo particolare però quando parlava con me mi diceva "signora" e una volta si riferì a me come a "sua moglie". Lasciai correre. Non dissi, non sono sua moglie, e Alan non disse, lei non è mia moglie. «Su col morale, signora» mi disse. «Non è la fine del mondo. Mi faccia
vedere che sorride.» Avevo cominciato a rabbrividire. Lasciammo quel rottame che era l'automobile di Alan nel cortile del garage, a Curton, e passammo nel suo ufficio. L'uomo mi domandò se gradivo una tazza di tè. Devo chiamarlo 'l'uomo' perché non ho mai sentito il suo nome. Non credo che neanche Alan lo sapesse. Che differenza poteva fare? C'era una fotografia sullo scrittoio. Mi sedetti e la guardai mentre lui ci preparava il tè. Raffigurava due bambinette e un bambino piccolo piccolo e quando lui tornò indietro gli domandai se erano i suoi figli. Mi sembrò che gli facesse piacere quella domanda, e mi disse come si chiamavano. Io osservai che la ragazza maggiore doveva avere più o meno la stessa età del mio bambino. Erano soltanto chiacchiere banali, fatte più che altro per evitare che si parlasse dell'incidente. Alan gli domandò se non avesse, per caso, dei cavi, quelli che servono per il collegamento volante fra due batterie. A quell'epoca non sapevo cosa fossero, non capivo a che cosa volesse alludere, ma l'uomo rispose che sì, certo che li aveva, e dopo aver bevuto il tè ci accompagnò lui con la sua macchina a casa, alla Molucca. Si offrì di mettersi in contatto personalmente con il contadino che era il padrone della mietitrebbia, se volevamo, ma Alan rifiutò, e disse che ci avrebbe pensato lui. L'auto di Gilda era fuori dalla nostra casa. Naturale che fosse lì, ma io me n'ero dimenticata, mi ero dimenticata che non voleva partire. L'uomo del garage aprì il cofano, tirò fuori dei cavi che servono a collegare una batteria volante con un'altra e li attaccò a quella dell'Anglia. Io entrai in casa e cercai di ripulire un po', di mettere ordine fra quel caos di bottiglie e bicchieri e mozziconi di sigaretta. Era qualcosa di manuale da fare, un'attività meccanica per la quale non occorreva che mi concentrassi. Quando tornai fuori il motore dell'auto di Gilda era acceso e Alan, al posto di guida, stava armeggiando con il piede sull'acceleratore. L'uomo disse: «Ho anch'io lo stesso modello. Dovrebbe essere tutto a posto.» Poi alzò le mani e aggiunse: «Tocchiamo ferro». Me lo vedo ancora adesso davanti, in quella calda serata polverosa, con le mani alzate, a fare un segno di scongiuro. Era stato il messo fatale, il messo del destino, ma la stessa cosa valeva anche per lui. Salì sul suo furgone e se ne andò, a casa dai suoi bambini, almeno fu così che pensai fino a quando Alan non mi chiarì la situazione. Presi posto anch'io sull'automobile di Gilda, di fianco ad Alan. Mi ci ero seduta centinaia di volte in passato, per andare a prendere il tè con lei, o al
cinema, ma non ci era mai capitato che al volante ci fosse lui. Alan cominciò a parlare come se niente fosse successo. L'uomo del garage gli aveva raccontato che, grazie a noi, anche quella sera sarebbe rientrato di nuovo tardi a casa. Si era messo a ridere e gli aveva strizzato l'occhio, ma non scherzava. La moglie gli aveva detto che quella sarebbe stata la sua ultima occasione. Se tornava di nuovo tardi, 'ci sarebbe stata la resa dei conti'; cioè aveva tutte le intenzioni di buttarlo fuori. Così dal momento che ormai sarebbe arrivato in ritardo in ogni caso, stava meditando di andare all'appuntamento con una donna di nome Kath e di tornarsene a casa ancora più tardi del solito, ma tardi sul serio. Tanto, peggio di così... La punizione sarebbe stata la stessa, gli aveva detto. «Perché mi stai raccontando tutte queste cose?» gli domandai. «Pensavo che potessero divertirti.» Gli domandai se avesse intenzione di telefonare alla polizia oppure se preferiva che lo facessi io. La mia voce si levò fredda e dura. Lui mi guardò negli occhi e scrollò lentamente la testa, come se con quel movimento cercasse di farmi capire molte cose. Si infilò due sigarette in bocca e se le accese, me ne diede una. «Nessuno telefonerà alla polizia» disse. «Dobbiamo telefonare» feci io. «Non possiamo. Pensaci, tesoro. All'uomo del garage abbiamo detto che nessuno era rimasto ferito. Gli abbiamo lasciato credere che tu eri mia moglie e in macchina c'eravamo soltanto noi due.» Io dissi, scioccamente, cercando di scaricare la colpa su qualcun altro: «Lo ha asserito lui». «E con questo? Nessuno ci costringeva a rispondergli così, esattamente come nessuno costringeva lui a fermarsi per noi. Sai che ho veramente pensato di dire: 'Lei non è mia moglie', ma non ho potuto. Mi ha fatto venire in mente quella storiella in cui si parla di un uomo che non riesce a fare l'amore se non continua a ripetersi: 'Lei non è mia moglie, lei non è mia moglie'. Ho pensato che se lo avessi detto mi sarei messo a ridere.» Una delle cose che avevo sempre amato in lui era stata la sua spensieratezza. In quel momento la detestai. «Non gli abbiamo detto che Gilda era ferita» riprese Alan. «Non gli abbiamo neanche detto che era lì.» «Ma Gilda non è soltanto ferita» feci io. «È morta.» «Una ragione di più. Che cosa diresti alla polizia? Che abbiamo avuto un incidente e Gilda è stata scaraventata fuori ma noi non ne abbiamo neanche accennato a quel tizio del garage che è venuto a prenderci per rimor-
chiare la macchina sfasciata. Non ne abbiamo accennato perché lei, ormai, era morta e in ogni caso, questa signora non è mia moglie e io ero ubriaco. È così che avremmo dovuto dire? E se no, cosa dovevamo dire?» Gli risposi che avremmo dovuto far venire immediatamente la polizia, avremmo dovuto chiamare la polizia e un'ambulanza prima di far rimuovere la macchina. Ma perché non lo avevamo fatto? Perché l'uomo del garage era saltato fuori con questa idea, mi rispose lui. Una fortuna inaspettata. Un amico nel momento del bisogno. Un Buon Samaritano, non uno di quelli che erano passati di lì senza fermarsi. «Sarà meglio che continui a tenere acceso il motore» fece lui. Non riuscivo a capire cosa volesse dire. «Casomai la batteria si spegnesse di nuovo. Quando sei pronta, andiamo.» «Andiamo dove?» «A prendere Gilda.» Per poco non mi sfuggì un grido. E forse mi sarei messa a urlare, invece mi coprii la bocca con entrambe le mani. «Ecco perché ho dovuto chiedere a quel tizio di riparare la macchina» fece lui. Tornammo in quel posto. Stavo cominciando a conoscere molto bene quel tratto di strada. La mietitrebbia era ancora allo stesso posto di prima. L'unico segno che la macchina di Alan ci aveva lasciato erano pochi centimetri di vernice gialla scrostati sul dietro. Tutto il resto era identico a prima, il ciglio erboso, il fieno, le erbacce alte più di un metro, la siepe più oltre, gli alberi. Come facevo ad aspettarmi che qualcosa fosse cambiato? Soltanto nel cielo e nell'aria era cambiato qualcosa, il fumo praticamente scomparso, e la luce del sole nel tramonto che filtrava nella foschia." "Questa è la prima parte del secondo nastro. Alan si accostò al ciglio della strada salendoci quasi sopra per una parte. Il terreno era sodo, asciutto e compatto. Girò l'automobile in modo che, col retro, fosse rivolta verso la siepe. Passò un camion, poi una motocicletta. Arrivò un'altra vettura dalla direzione opposta. Il caso aveva voluto che tornassimo lì proprio durante quella che, a Curton, si può chiamare l'ora di punta. Alan aprì il baule e ne tirò fuori due sedie a sdraio che doveva essere andato a prendere in garage. Le aprì sul ciglio della strada, fra le sedie sistemò il tavolino da picnic, sopra ci mise una bottiglia e un pacchetto di sigarette. È strano come, quando ti succede qualcosa del genere, ci riesca con e-
strema facilità ad entrare nello... be', scenario è una parola di Marianne... nello scenario di un romanzo poliziesco. Ci si rende conto di cose che fino a quel momento hanno sempre, e soltanto, fatto parte di un libro. Gli dissi: «Se fai una cosa del genere chiunque ci vedrà, si ricorderà che eravamo qui. Ricorderanno di aver visto della gente che faceva un picnic.» «Non ci sarà nessuno che chiederà niente» rispose lui. «È adesso non per il futuro che non voglio attirare la loro attenzione.» Allungò una mano indicando una delle sedie sdraio: «Non vuoi sederti?». Feci quello che mi domandava. «Vuoi una sigaretta?» disse. Ce ne fumammo una a testa. Sedemmo fianco a fianco ad ammirare il paesaggio, campi gialli dove il grano era stato tagliato e campi neri dove le stoppie erano state bruciate. Passò un'auto della polizia, e l'autista alzò amichevolmente una mano in segno di saluto. Mi hanno sempre meravigliato quelle persone che vanno fuori, in campagna, e poi si siedono sul ciglio della strada. Adesso eravamo noi quelle persone. Gli amanti non si comportano a questo modo ma le coppie sposate sì. Chi avrebbe immaginato che eravamo due amanti colpevoli? Stavamo fumando e bevevamo vino a un tavolo da picnic in una serata calda, e nel fossato alle nostre spalle c'era il cadavere della moglie di lui. Quando il traffico cessò e anche l'ultima automobile se ne fu andata a casa, nell'abitacolo della nostra sistemammo una delle sedie a sdraio e ci infilammo anche il tavolo ripiegato. L'altra sedia a sdraio ci servì da barella. Alan la prese per la testa, io per i piedi. C'erano semi d'erba fra i suoi capelli. La deponemmo sulla sedia a sdraio, poi, inclinandola delicatamente, la scaricammo nel baule. Era molto leggera, non credo che pesasse più di quarantacinque chili. Solo una volta lanciai uno sguardo al suo viso morto. Non aveva più il foulard verde intorno al collo ma posato sul petto. Perfino in quel momento non ebbi il minimo dubbio che, quando era salita in macchina, avesse quel foulard verde di chiffon annodato al collo. Posammo la sedia a sdraio sopra il suo corpo, e il baule venne richiuso. Ho descritto tutto questo in modo molto realistico, quasi con distacco, ma quello che provavo era ben diverso. Mentre aiutavo Alan a rimuovere il corpo di Gilda avevo l'impressione di vivere come in un sogno, fuori dalla realtà. Mi sarei svegliata e mi sarei ritrovata sul divano con la testa sulla sua spalla, finito il nostro ballo, la testa un po' annebbiata da quel vino. Eppure sono convinta che sia quello che provano tutti quando vengono chiamati a fare un'azione che è totalmente aliena, ed estranea, alla loro vita
normale, come se vivessero in una specie di incubo. Non una sola automobile era passata intanto che facevamo questo. Tutto era immobile e silenzioso. Ripartimmo diretti alla Molucca. Alan aprì le porte del garage e mise dentro l'automobile di Gilda, e il corpo di Gilda dentro la macchina di Gilda. Quando rientrammo in casa notai che era proprio l'ora per la quale avevamo prenotato un tavolo per la nostra cena romantica. Lui disse: «Adesso vado a farmi un bagno e poi mi mangio un pelo del cane, come dire che mi bevo un goccetto per farmi passare i postumi della sbornia. E tu?» «Non so» risposi. «Non so che cosa ho intenzione di fare.» E lui, con il tono di chi continua una piacevole conversazione, come se niente fosse successo: «Una volta erano convinti che mangiare un pelo del cane che ti aveva morso sarebbe servito a guarirti. Ecco perché l'ho detto. Lo sapevi, questo, stella mia?». L'ultima persona al mondo alla quale chiunque si sarebbe aspettato che pensassi in quel momento era Richard. Invece pensai proprio a lui, laggiù così lontano in Cornovaglia, che si divertiva, molto probabilmente tutto il giorno sulla spiaggia, che adesso stava cenando e presto sarebbe andato a letto. Pensai che cosa terribile fosse per lui avere una madre capace di fare quello che io stavo facendo. Quando Alan tornò di nuovo da basso, fatto il bagno, lavati i capelli, con abiti puliti addosso, ero ancora dove lui mi aveva lasciato e stavo fumando la terza sigaretta. Non mi aveva mai visto conciata come dovevo essere in quel momento, sporca, i capelli arruffati e impregnati di fuliggine, le mani sanguinanti, le gambe nude coperte di graffi, il vestito sudicio, macchiato di fuliggine di stoppie bruciate e terriccio e sangue. Uno spettacolo che lo fece scoppiare in una risata. «Oh Dio, tesoro, dovresti vederti! La piccola fiammiferaia. La moglie di Guy Fawkes, quello della Congiura delle polveri». Sembrava completamente ripreso. Era allegro, l'Alan di una volta. Gli dissi: «Mentre ero là seduta, prima che tornasse l'uomo del garage, e tu inginocchiato vicino a lei, che cosa le hai fatto? Le hai fatto qualcosa, Alan?» Lui aveva ricominciato a ridere. «Cosa vuoi dire?» «È stata scaraventata solo un paio di metri fuori da un'automobile. Forse ha battuto la testa contro quell'albero ma forse no. È possibile che qualcuno muoia per quello?»
«Lei, sì.» «Alan» dissi. «L'hai forse...?» Ma non ebbi il coraggio di chiederglielo." "Le parole che non avevo usato sono quelle che si leggono nei libri o si sentono pronunciare da qualcuno alla televisione. Non hanno niente a che vedere con la vita reale. Si accetta di sentirle pronunciare, ci si aspetta perfino di sentire pronunciare durante una commedia o un film, ma non nella vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. Nella vita di tutti i giorni sono grottesche. Ci sarebbe da ridere a sentirle, con quel po' di disprezzo con il quale si ride di un cliché. Non le avevo dette ma lui capì quello che avevo cercato di dire. Capitava spesso che intuisse quello che stavo pensando, le parole precise dei miei pensieri. Ma stava sorridendo, era tutto allegro, e mi rispose allegramente. «Naturalmente, no. Naturalmente non l'ho fatto.» «Sei rimasto solo con lei» feci io. «Oh, molto tempo.» «Mi è capitato spesso di rimanere solo con lei molto tempo» disse. «Troppo tempo. Ecco il guaio.» Poi alzò la cornetta e compose al telefono il numero che l'uomo del garage gli aveva dato. Lo sentii cominciare una conversazione con il padrone della mietitrebbia. Si mostrò molto cortese, ansioso di scusarsi, azzardò perfino una piccola battuta di spirito a proposito dell'incontro di una forza irresistibile e di un oggetto inamovibile. Salii a fare il bagno. Qualsiasi cosa succeda, pensai, domani vado a comprarmi un paio di sandali senza tacco. Appesi nel guardaroba il mio bellissimo vestito sporco e macchiato e ne misi un altro. Mi pettinai i capelli e stavo pensando di rifarmi il trucco, quando mi venne da domandarmi, sei impazzita? Eppure sì, mi truccai, come mi sarei truccata se avessi dovuto andare al. patibolo. Quando l'uomo che manovrava la ghigliottina avesse sollevato per i capelli la mia testa ci sarebbe stato un po' di rouge sulle mie guance e il rossetto sulle mie labbra. Così ridiscesi, vestita nel modo in cui le altre donne si vestono per un ricevimento o un matrimonio. Alan era lì seduto e stava sorseggiando un succo di pomodoro o, molto più probabilmente, un Bloody Mary. «La vitamina C non fa mai male» disse. E poi: «Un tipo simpatico, quel contadino. Ci ha invitato da lui a bere qualcosa. Ho detto che lo avrei chiesto a te e poi lo richiamavo.» «Hai detto cosa?» «Era una battuta. Ha detto di non pensare più alla sua mietitrebbia per-
ché non c'era niente che una mano di pittura, cito le sue stesse parole, non potesse sistemare.» «Che ora è?» domandai. «Le otto e due minuti. È saltata la nostra cena. Il problema sarebbe stato quello di arrivarci. Naturalmente abbiamo un'automobile ma, nello stesso tempo, non si può esattamente dire che l'abbiamo. Ricordati quelli con la nonna che è morta in Spagna.» «Ma di chi stai parlando?» domandai. Dovevo essere l'unica persona in Inghilterra che non avesse mai sentito raccontare la storiella della coppia che stava accompagnando la nonna oltre la frontiera francese, in Spagna. La vecchia muore e loro mettono il suo cadavere nel baule dell'automobile per riportarla in Francia. La lasciano dieci minuti nella piazza di una città per andare a bere qualcosa e quando tornano indietro il cadavere è scomparso e non viene mai più ritrovato. Ma tu l'hai sentita, e probabilmente più di una volta, insieme a tutte quelle altre storie apocrife del gatto che si è mangiato il chihuahua oppure del dente umano nell'hamburger. A me non sembrò affatto buffa. Dissi ad Alan: «Come puoi?». Lui alzò le spalle. «Sono isterico. Non badarmi» rispose. «C'è qualcosa da mangiare?» «Soltanto quello che pensavamo di avere per pranzo» dissi. Ricordo ogni parola di quel dialogo, per quanto insignificante fosse. Intanto, continuavo ad avere una gran voglia di fargli di nuovo quella domanda ma avevo paura. Dopo un po' lui uscì dalla stanza e anche se non me lo aveva detto mi resi conto di dove fosse andato. Lo osservai mentre tirava fuori, in retromarcia, la vettura di Gilda dal garage. Poi tornò per dirmi che andavamo fuori a mangiare, all'albergo di Thelmarsh, il White Hart. Lì fanno da cucina e servono i pasti fino a tardi. Lanciai un'occhiata all'automobile, al baule dell'automobile e lui mi disse di non preoccuparmi, ci aveva già pensato, anche se, tutto sommato, quello che era successo alla nonna della storiella per noi avrebbe potuto essere una fortuna inaspettata. Mentre eravamo fuori cercai di rivolgergli la parola come se non fosse successo niente. Parlai di Richard. Parlai della mia casa di Bury e di dove saremmo andati ad abitare, se lì oppure alla Molucca. Dopo un po' la mia voce si fece più incerta e si spense, e del resto lui non aveva detto molto. Non riuscivo a mangiare, ma lui sì. Spazzò via, masticando tranquillamente e senza mai fermarsi neanche per un minuto, un pasto di tre portate e bevve moltissimo. Era una serata calda, afosa. Il cielo era tornato limpido e
attraverso la finestra del White Hart si poteva vedere un numero incredibile di stelle. Dissi... ed era qualcosa di completamente insolito da parte mia: «Vorrei che si potesse tornare indietro a piedi». Lui continuava a scherzare. Batté col dito sul suo bicchiere. «Può darsi che ci siamo costretti.» Quando ebbe pagato il conto, mi domandò: «Perché hai detto così poco fa?». «Detto cosa?» «Hai detto 'indietro' e non 'a casa'?» «Non so» risposi, anche se lo sapevo. Guidai io, andando lentamente. Infilai la vettura nel garage. Lei era avvolta in una di quelle coperte da viaggio di stoffa scozzese e distesa per terra, lungo la parete di sinistra. Fu in quel momento che pensai, quando tutto questo sarà finito non guiderò mai più. Quando entrammo in casa era quasi mezzanotte. Andammo di sopra a sdraiarci sul nostro letto. Gli dissi: «Le hai fatto qualcosa?» Biascicava parlando. «Vuoi dire se l'ho ammazzata?» «Sì, è questo che voglio dire.» «Naturalmente, no.» «Alan, per favore dimmi la verità.» «Non l'ho ammazzata.» Mi spogliai, infilai una camicia da notte e una vestaglia, mi lavai la faccia, mi pettinai. Senza guardarlo, dissi: «Se non le hai fatto niente...» non riuscivo a pronunciare la parola 'ammazzare' «... perché non abbiamo chiamato la polizia? Perché non possiamo farla portar via?». Lui si era addormentato. Mi sdraiai sul letto vicino a lui per un po'. Mi pareva che fossimo due profughi, due stranieri in fuga da chissà quale tragedia, e poiché nessuno dei due aveva un altro postò dove dormire, eravamo obbligati a dividere lo stesso letto. Pensai a quello che era successo e capii le risposte alle mie domande. Se avessimo avuto l'intenzione di dirlo a qualcuno avremmo dovuto farlo subito, fin dal principio, e ci saremmo stati costretti se l'uomo del garage non ci avesse offerto una via di scampo, non ci avesse consigliato sul modo in cui procedere. Lui non ne aveva nessuna colpa, non eravamo obbligati a seguire il suo consiglio, però ci era stato offerto e noi l'avevamo accolto. Da allora in poi avevamo permesso che mi chiamasse 'moglie' di Alan e lo avevamo permesso anche al contadino, almeno per quello che ne sapevo io. Ci eravamo seduti sul ciglio erboso della strada, sulle sedie a sdraio, a fare un picnic perché tutto il traffico dell'ora di punta di Curton ci vedesse. Avevamo
spostato il corpo di Gilda. Eravamo usciti a cena a Thelmarsh con la sua auto. Il suo corpo adesso si trovava a circa sette metri da noi, sull'impiantito del garage. Era troppo tardi per dirlo a qualcuno, troppo tardi per qualsiasi cosa. Mi alzai e scesi di nuovo al pianterreno dove mi sdraiai sul divano e finalmente riuscii ad addormentarmi. Dormii fino a quando gli uccelli cominciarono a cinguettare e la casa si riempì del suono del loro canto nella palude. Strano, ci ritrovammo ma senza dire niente. Giravamo per la casa mettendo un po' d'ordine, facendo il caffè, preparando da mangiare, ma passò molto tempo prima che uno di noi aprisse bocca. Alla fine fu lui: «Vuoi proprio sapere perché?». «No» dissi. «Lo so il perché.» Lui fece un pallido sorriso. «Buon per te.» Soffriva terribilmente dei postumi di quella sbornia mostruosa. «Credo di aver ancora bisogno di un po' di sonno.» Era tornato il caldo e c'era altro fumo nell'aria anche se non tanto come il giorno prima. Mi sdraiai sul prato dietro la casa, senza dormire, a fissare il cielo, a chiedermi come la gente normale, la gente qualsiasi, passasse il tempo, cosa facesse tutto il giorno, cosa c'era da fare? A un certo momento, verso la metà della giornata, Alan uscì a cercarmi. «Sai quello che abbiamo da fare, vero?» disse. «Credo di sì.» «Vieni in casa.» Ci sedemmo l'uno di fronte all'altra nel soggiorno. «Credo di sapere come farlo» disse lui. «Abbiamo gasolio in abbondanza?» Lo guardai con tanto d'occhi. Sembrava stesse parlando qualche oscura lingua straniera. «Kerosene, voglio dire. Ne abbiamo in abbondanza?» «Più di venti litri. In garage.» Lui disse che sarebbe uscito a procurarsene altro. Poi mi spiegò quello che aveva intenzione di fare, quello che noi dovevamo fare. Non dissi niente, rimasi semplicemente lì seduta a scrollare la testa, ma per l'orrore e lo stupore, non per dire di no. «Anche benzina» disse lui «oppure quella è troppo pericolosa?» Non avevamo telefono in casa. Non ci era sembrato che ce ne fosse bisogno. Mentre Alan era via imboccai la strada, con i miei tacchi alti, andai fino alla cabina telefonica più vicina, era quasi un chilometro e mezzo, e adoperai tutti gli spiccioli che avevo per telefonare a Madge Browning e
sapere come stava Richard. Chissà perché avevo uno strano presentimento: cioè intanto che io ero in quella casa, a fare e a meditare cose tanto terribili, magari gli era successa una cosa ancora più terribile, magari era annegato oppure si era ferito gravemente cadendo. Lui invece stava bene ed era contento e, dal momento che si trovava in casa per l'ora del pranzo, venne al telefono e mi parlò, raccontandomi della fattoria e degli animali e della spiaggia. Il giorno precedente mi ero ripromessa di comprarmi un paio di sandali, ma non ne feci niente. Non mi sembrava più che avesse importanza se uno dei miei tacchi alti si rompeva o se mi riempivo i piedi di vesciche. Alan era ritornato prima che io rientrassi. Il suo viso si illuminò quando mi vide e mi prese fra le braccia, come si era sentito pieno di angoscia, poteva essermi successa qualsiasi cosa, il mondo gli era crollato intorno senza di me. Dov'ero stata? Glielo dissi. Lasciai che mi tenesse fra le braccia. Poi sedemmo al tavolo della sala da pranzo a mangiare un po' della roba che lui aveva comprato. Bevemmo una bottiglia di vino rosso e ci mettemmo a dormire, ma non insieme. Era strano come non se ne fosse neanche discusso, anzi come lo avessimo dato per scontato, che io sarei andata a dormire sul letto del piano di sopra e lui sul divano. Dormii pesantemente. Quando mi svegliai il sole stava tramontando. Entrai in una delle camere vuote sul retro e lo guardai tramontare al di là della palude, era di un rosso-arancio acceso in un cielo nebuloso. Alan non era al pianterreno. Andai nel garage. Aveva spalancato il baule e adesso il corpo di Gilda c'era di nuovo dentro. Il foulard verde non si vedeva da nessuna parte. Ricordavo che l'aveva al collo quando era arrivata... ieri, ma davvero soltanto ieri?... Ma quando avevamo sollevato il suo corpo per portarlo qui il foulard, non più annodato, era posato sul suo petto. Lo scandalizzai, non se lo aspettava da me, che mi curvassi su quel corpo, che lo toccassi, ne esaminassi il collo. Era fresca e rigida. Non c'erano segni sul collo, la linea scura dello strangolamento di cui si legge nei romanzi polizieschi non c'era. Lui capì che cosa stavo cercando. Glielo lessi negli occhi, ma non disse niente. Mise il kerosene nel baule e due latte di benzina che aveva comprato, oltre a un mucchio di quei giornali che si erano accumulati nel corso degli anni. «Vai a metterti il vestito sporco» disse. «Cosa?» «Presto lo sporcherai ancora di più.»
Richiuse il coperchio del baule, salì al volante e, innestando la retromarcia, uscì dal garage." Il nastro finiva qui e l'ho voltato. "Ricordo soltanto una cosa che lui disse prima di salire al posto di guida, e fu: «Mentre ero fuori, ho fatto una piccola perlustrazione. Credo di conoscere un posto». Era lontanissimo, a chilometri e chilometri da qualsiasi posto conosciuto. Alla fine del mondo. Forse, oggigiorno, in quella zona hanno costruito qualche casa e forse altre siepi sono state abbattute. A quell'epoca era solitario, remoto, distante, disabitato. I campi si estendevano a perdita d'occhio, con qualche striscia qua e là di terreno verdeggiante e boscoso a separarli o la linea chiara di un viottolo tutto curve. Qualcuno di quei campi era nero dove avevano bruciato le stoppie e qualcuno era già stato arato dopo il fuoco, e appariva bruno, tutto righe e scanalature, punteggiato qua e là di ciottoli bianchi e grigi. Ma adesso era il crepuscolo e non si vedevano le luci né di case né di lampioni. Non c'era la luna o forse non si era ancora alzata nel cielo. La campagna cominciava a perdere il suo colore, non era più verde e marrone, ma tutta una sfumatura di grigio e di nero nei campi bruciati. Ma perché mi prendo il fastidio di descriverla? Che importanza può avere adesso? Alan sapeva dove andare, con la luce o col buio, che fosse notte o giorno. Aveva trovato quel posto qualche ora prima. Imboccò una strada sterrata lungo la quale crescevano i tigli e, facendo la retromarcia, infilò l'automobile nel campo che aveva scelto. I tigli salivano a due a due su per la bassa collina e la strada sterrata in mezzo a loro aveva una doppia carreggiata di terra indurita e secca. Non c'era un cancello, semplicemente un ampio varco, e qualche asse buttata sul fosso. Il campo era stato bruciato di recente, con molta probabilità soltanto il giorno prima. E il contadino, forse perché gli era sembrato che fosse il momento giusto, intanto che bruciava quelle stoppie aveva anche sradicato parte di una siepe per ingrandire il suo campo. Era stata una siepe antica, di quercia e di biancospino, di acero e di rosa, di sambuco e di corniolo. Un ammasso confuso e disordinato di ciocchi semibruciati ancora fumanti si allungava di fianco alle stoppie annerite - fronde di cespugli e radici contorte. Il fumo usciva dai nodi dei tronchi e dalle protuberanze nocchiose in esili filamenti. Il fuoco, disse Alan, divampava ancora quando, qualche ora prima, lui era stato lì.
Una volta tu mi hai raccontato che i contadini dovrebbero lasciare una distanza di due metri fra la siepe e la parte del campo in cui vengono bruciate le stoppie, ma lui non aveva fatto niente del genere. La sua intenzione era stata quella di dare alle fiamme anche la siepe. Un albero si ergeva con i rami simili a braccia bruciate, con le foglie ancora appese, rinsecchite, contorte e arricciate e nere. Una foglia cadde mentre ero lì, scese lenta a spirale, rigida come un pezzo di carta arrotolata. Cominciammo con il giornale. Io accesi il fuoco fra la cenere come ero abituata a fare a casa di zietta Sylvia, prima il giornale appallottolato, poi la legna dolce, e infine uno o due ciocchi. Lì di ciocchi ne avevamo dappertutto, e c'era anche la legna dolce, sull'erba, in quella specie di fossa sventrata dove per cinque secoli c'era stata, invece, la siepe. Un po' di quel legno era bruciato ma in massima parte appariva ancora fresco, scheggiato e ferito da una scure. Alan versò il kerosene e poi deponemmo il corpo di Gilda sulla pira. Non molto distante, giù nel Suffolk del sud, c'è un posto dove hanno arso vivo un uomo nel XVI secolo. Adesso gli hanno fatto un monumento. Era uno di quei martiri condannati a morte da Mary Tudor perché si era rifiutato di diventare cattolico. Mi domando quanto tempo ci è voluto per bruciarlo. Naturalmente quella gente non era affatto costretta a distruggere il corpo. Ma cosa ne era successo? Nessuno lo dice mai. Nessuno te lo spiega. Forse, come noi, continuarono ad alimentare le fiamme perché ardessero per molte ore. Per noi ci vollero ore e ore, ci volle tutta la notte. Bruciare un corpo non è facile. Distruggere un corpo bruciandolo è un compito lungo e laborioso e terribile. Cercai di non guardare fino a quando non assomigliò più a niente di umano. E questo si verificò molto presto. Non riuscii a impedirmi di aspirarne l'odore. Mi ci provai. Mi chiusi il naso, mi voltai dall'altra parte e vomitai nel fosso. Quando tornai indietro, guardai. Mi dissi che era semplicemente un altro ciocco buttato lì, un ciocco qualsiasi, che era stato un ramo di quercia, soltanto particolarmente voluminoso e ingombrante. L'odore cambiò e diventò sulfureo, l'odore aspro, che chiude la gola, dello zolfo, e il tanfo della pietra che brucia. Alan aveva portato una bottiglia di gin. Lo bevemmo a canna. Ero stata male di stomaco ma probabilmente fu tutto merito del gin se non provai mai, neanche per un attimo, un po' di paura, come non mi aspettai mai di vedere un'automobile che appariva improvvisamente dietro di noi sulla strada sterrata o il lampeggiatore azzurrino di un furgone della polizia o
una truppa di uomini infuriati che accorreva allargandosi a ventaglio attraverso il prato. Ogni tanto bevevamo un goccio di gin. Come fuoco vivo ci scendeva in gola, confortandoci, e ci dava la forza di lavorare, di continuare ad alimentare il fuoco perché non si spegnesse. Una volta, una volta soltanto, ci voltammo a guardarci e ci stringemmo l'uno all'altra in uno strano abbraccio assurdo e insensato. Lasciammo che le fiamme morissero, con un lungo ramo rastrellammo i tizzoni e la cenere e, quando si furono raffreddati, vi ammucchiammo sopra legna fresca, circondando quel tronco che ormai non era più un tronco di altri pezzi di legna. Alan preparò una bomba Molotov. Riempì di benzina la bottiglia del gin e la tappò infilandoci nel collo il suo fazzoletto. Poi mi disse di tirarmi indietro. «Ho sempre avuto una gran voglia di fare una bottiglia Molotov» disse. Accese il tampone e lanciò la bottiglia. Fu allora che si bruciò la parte posteriore della macchina. La benzina non prende fuoco come il kerosene. Esplode. Avrei dovuto saperlo. Chiunque conosca il principio della combustione interna lo sa, ma erano molte le cose che ignoravo prima di quella notte. La pira di Gilda divampò e le fiamme si levarono alte, rombanti, allungandosi verso il cielo e illuminando a giorno ogni cosa intorno a noi. Nessuno dei due rimase ferito anche se Alan si ritrovò con le sopracciglia e i capelli strinati sulla fronte. Capivamo, capivamo tutti e due che non bisognava mai dire, ecco, basta, può essere sufficiente, non va bene ma può bastare. Inutile discutere. Sapevamo quello che l'altro stava pensando perché ognuno dei due aveva fatto la stessa riflessione: bisognava che tutto fosse distrutto totalmente, ridotto nel modo più completo e assoluto a una massa inidentificabile. Bisognava raggiungere il punto in cui poterci ritenere soddisfatti, quando quel che eravamo venuti lì a dare alle fiamme si fosse trasformato in legno bruciato e pietre annerite. Si levò il giorno, prima. Fu quell'alba grigia che precede il sorgere del sole. Il luogo dove avevamo lavorato tutta la notte adesso sembrava più o meno come quando ci eravamo appena arrivati, tronchi carbonizzati e quel che restava di una siepe sradicata, che ardevano senza fiamma su una dozzina di metri quadrati di cenere. Eravamo esausti, eravamo ubriachi e sporchi e nauseati e quasi impazziti. Alan ci riportò indietro con l'automobile che viaggiava a zigzag per tutta la strada. La cosa orribile, una delle cose orribili, era che non parlavamo ma non tacevamo nemmeno. Lui gemeva, si lasciava sfuggire quei suoni che prorompono dalle labbra di chi è colpito
da un dolore intollerabile, e io piangevo senza lacrime, con singhiozzi secchi. Ma che cosa importa com'eravamo noi? Continuare non sarebbe che indulgenza verso me stessa. A casa mia, andammo a dormire, stavolta lui di sopra, io sul divano. Gli cedetti il letto, aveva lavorato tanto duramente. Aveva i capelli strinati e le mani coperte di vesciche. Lo guardai crollare sul letto a faccia in giù ma non credo che sarei riuscita a costringermi, materialmente, a sdraiarmi vicino a lui. Qualche ora più tardi, quello stesso giorno, dopo essere passati una volta ancora per il solito rituale del bagno e del cambio-degli-abiti, uscimmo in giardino a sederci sull'erba. Era caldissima e molto secca. In lontananza potevo sentire il rumore di un attrezzo meccanico, un contadino approfittava del bel tempo per la mietitura o l'aratura. Mi doleva la testa e suppongo che anche ad Alan dolesse. Era nervoso, lui, in un modo che non avevo mai visto. Sarebbe stato necessario tornare, continuava a ripetere, dovevamo tornare là a controllare. Non riusciva a ricordarsi come avevamo lasciato ogni cosa. Lo avevamo proprio distrutto totalmente? «Voglio che tu mi dica» dissi «cosa hai fatto fra il momento in cui l'uomo del garage se ne è andato e quello in cui è tornato indietro.» «Vuoi dire dopo che ci ha detto cosa fare, vero?» Ebbi un gesto di impazienza. E con Alan, era qualcosa che non avevo mai fatto. Non avevo mai alzato le braccia verso di lui scuotendo avanti e indietro le mani. «Dopo che lui ha detto che c'eravamo soltanto noi due.» Mi guardò come se fossi un'estranea. «Vuoi dire, se l'ho ammazzata?» «Sì, è questo che voglio dire.» «Ti ho già detto non so quante volte che non l'ho ammazzata. Non ho fatto niente. Quello che importa adesso è come abbiamo lasciato le cose la notte scorsa. Cioè stamattina. Sì, stamattina, giusto. Non riesco a ricordarmene, ho bevuto talmente tanto.» «Io riesco a ricordarmene» dissi. «Tutto è andato distrutto. Sapevamo di non poter smettere fino a quando tutto non fosse andato distrutto.» «Voglio ugualmente che torniamo là.» Gli andai vicino. Carponi, strisciando sulle mani e sulle ginocchia mi accoccolai di fronte a lui sull'erba secca e dissi: «Dimmi la verità. L'hai ammazzata?» «Per amor di Dio» fece Alan. «Stava per morire. Quel colpo alla testa, quello è stato fatale. Ho slacciato il foulard che portava. Gliel'ho tenuto
contro la faccia, contro il naso e la bocca, solo per un momento, un secondo, non so perché. Mi dicevo, non puoi fare questo, cosa accidenti stai facendo, e ho tirato via il foulard, saranno stati quindici secondi al massimo, un niente praticamente, ho tirato via il foulard e lei era morta.»" 25 Fuori, in giardino, sedetti su una sedia a sdraio, sul prato, e mi domandai se fosse quella di cui si erano serviti come di una barella per trasportare il corpo di Gilda a casa. Lui non l'aveva ammazzata, vero? Sarebbe morta comunque. Adesso ho qui con me quel foulard verde, me lo sono messo sulla faccia, me lo sono premuto sulla faccia con le mani, e non mi ha impedito di respirare. È sottile e trasparente, chiunque potrebbe annodarselo intorno alla faccia per proteggersi contro lo smog e continuare a respirare normalmente. D'altra parte io non sto male. E sono molto più giovane di quanto non fosse Gilda e non sono stata ferita in un incidente d'auto. Non c'è dubbio, anche, che le sue mani fossero più forti delle mie, ma continuo a pensare che non si possa soffocare nessuno con quel foulard. E allora perché lui glielo ha posato sulla faccia e ce lo ha tenuto? Perché lo ha fatto? Perché la sua intenzione era di ucciderla, deve essere stata quella. Aveva paura che lei guarisse, si riprendesse, così le ha messo il foulard sulla faccia per ucciderla e poi ci ha ripensato, quasi immediatamente... quindici secondi è come immediatamente, giusto?... E ha tirato via il foulard. E lei era morta. Così lui l'ha uccisa oppure lei è semplicemente morta? E se lui aveva intenzione di ucciderla...? Oh, è troppo profondo per me, è un dilemma che non riesco a sciogliere, non lo so. Ho ascoltato anche la seconda parte. Ma c'è registrata soltanto metà della seconda parte e poi finisce. "Ricordo tutto molto chiaramente. Ricordo ogni parola e ogni gesto. Tutto è netto, preciso, distinto, come se fosse tagliato con un coltello affilatissimo. Quando mi disse cosa aveva fatto, gli domandai di ripeterlo, e lui lo ripeté, un po' imbronciato, come un bambino. E io ascoltai, la genitrice severa, soppesando i pro e i contro della punizione. Ma prima che facesse in tempo lui a dirlo, lo dissi io. «Va bene. Lo volevo anch'io. Non sei stato soltanto tu.»
«Sarebbe morta in ogni caso, Stella. Credo di non avere neanche affrettato la sua morte.» «Dal momento in cui quell'uomo ci ha domandato se c'eravamo soltanto noi due, abbiamo desiderato che morisse. Volevamo che morisse.» «E Dio solo sa se non avevamo scherzato anche troppo con quel giochetto» fece lui. «Ad ogni modo non è stato proprio per niente come il nostro gioco di Uccidere Gilda, vero?» Mentre tornavamo in auto nel posto del rogo, capii che tutto era finito fra noi. Lo capiva anche lui, solo che non voleva convincersene. Continuava a ripetermi che dovevamo stare insieme, dovevamo darci conforto e sostegno l'un l'altra. Casomai venissero fatte delle domande. Casomai l'opera di distruzione non fosse stata completa. Se avessero trovato frammenti, ossa, denti. Lei era stata sua moglie e Alan stava parlando delle sue ossa e dei suoi denti. Casomai arrivasse la polizia, diceva. Dovevamo presentare un fronte unito. Non c'era nessuno che bruciasse stoppie. Ormai tutto si era già concluso e l'aria era limpida. Il cielo appariva bianco, un tetto di nuvole molto alte, niente sole, niente vento. Era il 1° settembre, la fine dell'estate, la fine di ogni cosa. E io lo interpretai come un avvicinarsi alla fine nel modo più assoluto e definito, alla conclusione, all'apocalisse. Più ci avvicinavamo a quel posto più il mio senso di orrore aumentava. Era come se qualcosa ci aspettasse laggiù. E non parlo della polizia o magari di qualche gruppo di persone in cerca di lei, non alludo né a funzionari autorevoli né al braccio della legge. Parlo del castigo, della punizione. Non avevo mai creduto al soprannaturale ma avevo paura che ci fossero là ad aspettarci esseri ultraterreni, angeli della vendetta, principati e potenze; avevo paura di una giustizia che avesse assunto forme inimmaginabili. Gli dissi perfino: «Andiamo via». «Non possiamo» fece lui. «Siamo venuti a vedere. Siamo venuti a sapere. Io voglio dormire alla notte.» C'era un tale silenzio! Per tutto il tragitto non avevamo incrociato neanche un'automobile, non avevamo né seguito e nemmeno eravamo stati seguiti, da qualche automobile. Quando un fagiano attraversò correndo la strada di fronte a noi con uno strido e un rumoroso fruscio di ali mi lasciai sfuggire un grido e strinsi selvaggiamente le mani a pugno. Mentre ci avvicinavamo a quel posto cominciammo a sentire il trattore, quel rombo regolare, meccanico, che fa tanto parte della campagna in autunno esattamente come, una volta, il nitrito dei cavalli insieme al tonfo
sordo dei loro zoccoli. Quel rumore funzionò da deterrente e Alan rallentò. Per l'ultimo tratto della strada stretta procedemmo a passo d'uomo. Niente angeli vendicatori, naturalmente. Nessuno ci aspettava per convocarci in giudizio davanti a qualche tribunale. Alan parcheggiò l'automobile salendo in parte sul ciglio erboso della strada. Allungò una mano per afferrare una delle mie, ma io le tenevo intrecciate, strette contro il petto. Guardammo nel campo; lui taceva ma io mi lasciai sfuggire un lieve suono lamentoso. Mugolavo come un cucciolo. Alan guardava davanti a sé con gli occhi sbarrati. Il campo che era stato nero adesso appariva bruno, ed ogni traccia del rogo era scomparsa perché tutti i cinquanta acri di cui era composto adesso stavano per venire arati. Non aveva perso tempo, quel contadino. Le sue stoppie erano state date alle fiamme, la siepe sradicata e bruciata, e adesso l'aratro procedeva e girava e maciullava e seppelliva gli steli del grano dati alle fiamme e la cenere e i tizzoni. Aveva quasi finito. Il trattore stava imboccando la curva per l'ultima volta in cima al campo dove la siepe era scomparsa. Scese lentamente per il declivio lungo il filare di tigli, procedendo massiccio, ondeggiando lentamente, come un pesante animale o un carro armato. Sembrava che venisse dritto dritto verso di noi, inesorabilmente, il nostro castigo. Ma lo potevo vedere all'interno della cabina, stava fumando una sigaretta, era un individuo di mezza età, un tipo comunissimo, con la faccia rossa e i capelli biondi che cominciavano a diradarsi lasciandolo stempiato. Il suo fumo usciva lento dalla cabina, una pallida ombra filante di ciò che era stato. Alan ripartì andando un poco più avanti per evitare di essere visto. Parcheggiammo un centinaio di metri più oltre. Nello specchietto retrovisore osservammo il trattore e l'aratro che uscivano dal campo svoltando laboriosamente sulla strada. Continuammo a guardarlo. Se ne tornava a casa. Dalla moglie che lo aspettava con uno di quei pranzi pantagruelici che usano nelle fattorie, magari dai suoi figli, dalla sua famiglia e dai suoi amici, andava verso la pace e tante buone cose. Ci passò di fianco e alzò una mano per salutarci. Alan girò per imboccare il viale dei tigli come avevamo fatto la sera prima. A retromarcia s'inoltrò nel campo passando sulle assi che fungevano da ponticello sul fosso. Scendemmo. Non c'era più niente di nero, nemmeno una traccia, né radici né rami carbonizzati. Qui la terra era di un bel colore caldo, castano scuro, morbida e soffice come briciole di pane, ed erano anche pochi i ciottoli che potevano tintinnare quando fossero stati
urtati dalle lame dell'aratro. Il campo appariva in linee parallele, regolari, fatte da un esperto. I solchi assomigliavano a un lavoro a maglia, alle rigature di un tessuto. Avrebbe anche potuto non esserci mai stato nessun rogo, lì, perché ogni traccia del fuoco era scomparsa, assorbita da quel terriccio soffice bruno, friabile, trascinata sotto e nascosta per sempre. Alan disse come se volesse sforzarsi di sostenere la conversazione: «Una volta data alle fiamme, e distrutta, Cartagine, ci sono passati sopra con l'aratro perché nessuno potesse più ritrovarne le rovine.» Lo guardai con tanto d'occhi, gli domandai che cosa volesse dire. «Gilda è la nostra Cartagine.»" "Abbiamo messo l'automobile in garage. Il foulard verde di Gilda era nel baule ma ce lo lasciai, non sapevo cos'altro farne. Di roghi, e falò, di cose bruciate ne avevo abbastanza. Alan cercò di prendermi fra le braccia e, quando non ci riuscì, tentò di impadronirsi delle mie mani. Tutto inutile. Non che non lo amassi, ma non ero più adatta per lui e lui non era più adatto per me. Tutto qui. Mi sembra di ricordare che mangiammo qualcosa, in piedi, in cucina. Bevemmo un po' di gin, non gin rosa, ma gin liscio, nei bicchieri da acqua. Non gli parlai dei miei sentimenti, non gli spiegai niente. Lui disse: «Adesso non potrò mai più essere vedovo. Perché Gilda non è morta, vero?» Gli domandai che cosa intendesse dire. «Come faccio a raccontare a qualcuno che è morta? Come potrei, anche se lo desiderassi, provare che è morta?» «Ma perché farlo?» «La casa in cui abito è sua. Tutto il denaro è suo. La mia automobile è un rottame ma non posso usare la sua. La sua è in Francia con lei.» Mi guardò. «Non posso più risposarmi.» Naturalmente capii, a quel punto. E mi fece rabbrividire. «Se ne è andata» disse lui «ma non se ne sarà mai veramente andata. È più morta di quanto io avessi mai desiderato, ma è anche più viva.» Allora calò un silenzio, un lungo silenzio pesante. «Sarà meglio tornarcene a casa» io dissi infine. «Quale casa?» Avrebbe dovuto essere La Molucca, ma non lo era, non lo era più. C'era stata Gilda, Gilda vi era stata deposta, cadavere. Per me quel posto odorava di cenere. Gli parlai cortesemente, come se fosse stato John Browning o
uno degli amici di Marianne. «Vuoi essere tanto gentile, per favore, da accompagnarmi a Bury prima di tornartene alla fattoria?» Lui fece segno di no con la testa. Il suo bicchiere era vuoto e lo riempì di nuovo. «Te l'ho detto, non posso usare la sua automobile. Non posso correre il rischio che qualcuno mi veda a bordo. Tutti credono che sia in Francia. Non posso assolutamente rischiare che venga vista da qualcuno.» Si scolò l'intero bicchiere di gin e per un attimo chiuse gli occhi. «C'è un autobus da Thelmarsh. Ma chissà qual è l'orario. Andrò alla fermata ad aspettarlo.» Così fece. Entrò in una cabina telefonica lungo la strada e chiamò un tassì per me, al posteggio di Thelmarsh. Non me lo aveva detto, lo chiamò - e basta. Era molto bravo ad anticipare e prevenire qualsiasi mio desiderio, era un uomo pieno di premure. Il tassì arrivò e io chiusi a chiave la casa e chiesi all'autista che mi riaccompagnasse a Bury. Non era ancora buio, saranno state più o meno le otto. Piansi lungo tutto il tragitto pensando a come era gentile con me, a procurarmi un mezzo di trasporto come se fosse la cosa più normale del mondo. Non c'è molto altro da dire. Sono stanca e il petto mi duole. Non devi pensare che non ci siamo mai più rivisti, che ci siamo separati lì, in quel momento, per sempre. Mi pare che ci siamo rivisti ancora un paio di volte, in un'occasione da me, a casa, e un'altra in un ristorante. Abbiamo cenato, pensavamo di poter riuscire a combinare qualcosa, magari una riconciliazione. Ma non ne siamo stati capaci. Fra noi si intromettevano il fuoco e quell'aratura del campo; e poi anche i quindici secondi durante i quali lui aveva tenuto il foulard appoggiato contro la faccia di Gilda. Lo sognai moltissimo e quel sogno continuò a ripetersi per anni; non era tanto il sogno del foulard o del rogo ma dell'aratura, ogni cosa risucchiata e rimescolata, prima di farla sprofondare nel terreno dalle lame dell'aratro che giravano vorticose. Oh, bene. È accaduto molto tempo fa. A volte mi sono chiesta come possa esistere questa specie di folie à deux, come possano esserci coppie che complottano per uccidere un'altra persona, una moglie o un marito. Sembra che in seguito riescano ad affrontarsi, a trovarsi faccia a faccia, a vivere insieme, che continuino ad amarsi. Come ci riescono? Come sanno dimenticare e adattarsi? Come fanno a stare distesi l'uno al fianco dell'altra di notte, a consumare i pasti seduti di fronte e ridere e chiacchierare e frequentare altra gente?
Io ho abbandonato lui, ma anche lui ha abbandonato me. Guardandomi mentre lasciavamo il ristorante, mi disse: «Perché lo abbiamo fatto? Non riesco a ricordarlo, e tu?» E quando non risposi, lui soggiunse: «Tutta colpa del garagiste». Lo rividi una volta ancora, e dopo quella, mai più." Richard arriverà da un momento all'altro. Andremo per un drink al White Hart di Thelmarsh e io ho intenzione di parlargli della scuola per infermiere. Credo che sarà contento. I nastri, nelle loro comunissime custodie nere, sono qui sul tavolo di fronte a me e la donna del ritratto sembra che li guardi, con gli occhi abbassati. Che cosa ne farò? Non dirò niente a Richard, non dirò niente a Marianne. Dio me ne guardi. Non li consegnerò a Richard. Mi sono stati lasciati con uno scopo. O se non altro per un motivo. Perché è stato mio padre che ha fatto succedere quello che è successo, giusto? L'uomo che disse: «Soltanto voi due, vero?» era il mio papà. È stato il mio papà che li ha consigliati, ha messo quell'idea nella loro testa, li ha convinti a rimandare il momento di avvertire la polizia mostrando una fotografia dei suoi bambini, di quella sua figlioletta con un nome un po' fuori del comune. E se è stato lui a far succedere certe cose a loro, anche loro hanno fatto succedere certe cose a lui. È stato un gioco reciproco del destino (non mi sono immersa pazientemente nella lettura del Chambers Dictionary per niente, io). Se lui non fosse arrivato proprio in quel momento le cose sarebbero andate in un modo molto diverso. Lui sarebbe tornato a casa presto come aveva promesso e la mamma non lo avrebbe sbattuto fuori e lui non avrebbe mai sposato Kath ma sarebbe rimasto con noi e io gli sarei stata vicino nel momento in cui è morto. Forse. E forse, no. Perché io non credo nel destino. Non credo nella sorte o in certi schemi stabiliti per la nostra vita, ma nel caso, e sono persuasa che quello che ti succede è quello che fai tu stessa. Tirerò fuori i nastri dalle cassette, li srotolerò e li brucerò. Bene o male, mi sembra un mio diritto. Questa sera avevo intenzione di consegnare a Richard i vestiti che Stella ha lasciato in questa casa, ma ho cambiato idea. Non li vorrà, lui, e non li voglio neanch'io. Sta cominciando a cadere qualche goccia di pioggia e quando usciremo voglio mettere l'impermeabile argenteo di Stella. È molto carino. È anche tornato di moda. Gli abiti delle persone morte durano né più né meno come durano tutti gli altri. Come mai non me ne sono accorta tanto tempo fa?
FINE