MARGERY ALLINGHAM LA TALPA (The Case Of The Late Pig, 1938) Personaggi principali: ALBERT CAMPION investigatore privato ...
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MARGERY ALLINGHAM LA TALPA (The Case Of The Late Pig, 1938) Personaggi principali: ALBERT CAMPION investigatore privato LUGG domestico di Campion GILBERT WHIPPET e OSWALD HARRIS ex compagni di collegio di Campion ROBERT WELLINGTON SKINN legale di Harris HAYHOE zio di Harris PHILIP SMEDLEY BATHWICK parroco di Kepesake Dottor KINGSTON medico di Kepesake POPPY BELLEW ex attrice LEO PURSUIVANT capo della polizia di Kepesake JEAN PURSUIVANT figlia di Leo Ispettore PUSSEY della polizia di Kepesake EUPHEMIE ROWLANDSON una strana turista 1 Inviti irregolari a un funerale Sono sempre stato convinto che in un'autobiografia, l'eccessiva modestia danneggi la narrazione. L'avventura che sto per raccontare è accaduta a me, Albert Campion; e sono convinto di essermi comportato nella maniera più brillante, benché io abbia corso, insieme con il mio vecchio Lugg, il pericolo di venire ammazzato; e ciò mi fa fremere ogni volta che ci penso. Cominciò mentre stavo facendo colazione, a letto. Il domestico di lord Powne, dopo aver seguito un corso di dizione, aveva preso l'abitudine di leggere ogni mattina il "Times" a Sua Signoria, mentre questi consumava la sua malinconica colazione a base di caffè e latte. Lugg - il quale, malgrado le sue ottime doti, non è privo di elementi di imbecillità - ebbe occasione di conoscere il domestico di Sua Signoria in una taverna nei pressi delle scuderie di Mayfair, uno di quei locali dove si incontra un po' di tutto; e provò irresistibile il bisogno dell'imitazione. Veramente Lugg non ha mai preso lezioni di dizione; non ne ha più prese, per
lo meno dopo avere abbandonato le sue colline, all'epoca in cui ancora regnava Edoardo VII. Quando entrò al mio servizio era uno di quegli uomini ligi alla loro parola d'onore: un magnifico miscuglio di ingegnosità e di coraggio fuori luogo. E, da qualche tempo, mi legge il "Times" mentre faccio colazione; che io lo voglia o no. Poiché i suoi gusti non lo portano verso il giornalismo letterario, legge soltanto quella parte del giornale che lo interessa: la colonna dei necrologi. «"Peters"...» lesse, frapponendo la sua grossa figura in maniche di camicia tra me e la luce. «Conoscete nessuno che si chiami Peters?» Stavo leggendo una lettera che mi interessava particolarmente, perché scritta in un linguaggio fiorito ma priva di firma; quindi non gli badai. «Perché non rispondete?» chiese allora con voce querula e leggermente irritata, abbassando il giornale. «A che serve che io cerchi di dare un certo tono a questa casa se voi non mi assecondate in nessun modo? Tuke dice che Lord Powne sta molto attento alla sua lettura. Mastica ogni boccone quaranta volte prima di inghiottirlo e presta la più grande attenzione a tutto ciò che gli viene letto.» «Lo credo» risposi distratto. Ero stupito dalla lettera, che non assomigliava per nulla alle consuete sudicerie anonime. "'Peters' - R.I. Peters, di trentasette anni, si è spento martedì nove corrente a Tethering, dopo breve malattia. Il funerale avrà luogo alla chiesa di Tethering, alle quattordici e trenta di sabato. Si prega di non inviare fiori. La presente serve come invito, poiché non si mandano partecipazioni personali". Lugg legge in un modo orribile, pur cercando di ricavare degli effetti dalla sua lettura. Ma il nome mi colpì. «Peters?» ripetei sollevando gli occhi dalla lettera con curiosità. «R.I. Peters... Il "Babirussa"... È sul giornale?» «Oh, santo Dio!» E Lugg riabbassò il giornale, disgustato. «Ma che razza di filisteo siete? Vi ho detto "dopo breve malattia"... Lo conoscevate?» «Sì» risposi con circospezione. «Ma erano anni che non lo vedevo.» La pallida faccia di luna piena di Lugg assunse un'espressione ignobile. «Capisco, Bert» pronunciò dignitosamente; e si impettì gonfiando il doppio mento, poiché era ancora senza colletto. «Non apparteneva alla nostra classe sociale.» Mi rendevo conto che era meglio non irritarlo, però certe cose non potevo tollerarle. «Precisamente» replicai con pari dignità. «Ma non voglio essere chiama-
to Bert.» «Benissimo.» Fu magnanimo. «Poiché lo desiderate, amico mio, me ne asterrò. Signor Albert Campion per gli estranei; signor Albert per me. Dunque: che cosa mi sapete dire di questo Peters del quale si stava parlando?» «Siamo stati compagni di collegio a Botolph's Abbey. Dei gran bravi ragazzi, eravamo, di una bontà esemplare: una volta il Babirussa mi tolse dal petto cinque centimetri quadrati di pelle, con un temperino arrugginito, per marcarmi come suo schiavo. Piansi disperatamente; poi gli diedi un calcio nel ventre, e allora lui mi mise su un becco a gas (non acceso, s'intende) finché non rimasi quasi asfissiato.» Lugg si scandalizzò. «Nel nostro collegio non accadeva nulla di simile» borbottò dandosi l'aria del perfetto gentiluomo. «Be', lasciamo perdere. Ti dicevo che non avevo più visto Peters dal giorno in cui ero stato ricoverato in infermeria con sintomi di avvelenamento; ma gli avevo promesso che non sarei mancato al suo funerale.» Lugg si mostrò subito interessato. «Tirerò fuori il vostro abito nero» disse premuroso. «Mi piacciono i funerali... quando si tratta di persone che si conoscono.» Non lo ascoltavo più. Avevo ripreso in mano la lettera. "Perché è dovuto morire? Era ancora giovane. Migliaia di persone erano più di lui pronte per il gran viaggio. 'Peters, Peters' dice l'angelo. 'Peters, vieni' dice l'angelo. Perché? Perché ha dovuto seguirlo? Così forte, così impreparato, perché è dovuto morire? Le radici sono rosse entro la terra; e il secolo avanza, inesorabile. Perché la talpa dovrebbe camminare all'indietro? Non sono ancora le undici. " Il testo era dattiloscritto su un foglio di comune carta da macchina, come sono tutte le cose di questo genere; ma non c'erano errori d'ortografia, e la punteggiatura - cosa abbastanza insolita - era meticolosa. Mostrai il foglio a Lugg. «È ricopiato da un libro di preghiere» osservò lui. «Ricordo di aver imparato di questa roba quando ero a bordo, da ragazzo.» «Non fare l'idiota» ribattei dolcemente; ma lo vidi arrossire e i suoi piccoli occhi neri scintillarono. «Datemi del bugiardo» esclamò sdegnato. «Avanti, datemi del bugiardo e la vedremo!» Conosco questi suoi atteggiamenti e so che è impossibile smuoverlo dal-
le sue teorie. «Sarà» annuii. «E che vorrebbe dire?» «Nulla» rispose con la stessa convinzione. Cambiai tattica. «Che macchina è?» Rispose con prontezza. «Una "Royal" portatile, nuova o quasi, senza nulla di speciale. Perfino la lettera E è quasi intatta, come quell'acciuga che avete lasciato. La carta è la solita che si vende dovunque a risme. Fatemi vedere la busta. "Londra, W.C.I."» riprese dopo una pausa. «È il bollo della vecchia centrale. Chiaro, no? L'indirizzo deve essere stato preso dalla guida telefonica.» Avevo ancora la lettera in mano. Cominciava a sembrarmi interessante, considerandola in rapporto con l'annuncio mortuario del "Times". Lugg aspirò l'aria rumorosamente. «I tipi come voi,'che fanno parlare di sé, sono soggetti a ricevere lettere anonime» riprese poi accentuando il tono di disapprovazione delle sue parole. «Finché vi siete limitato a fare il dilettante, la vostra attività è rimasta nel dominio delle cose private; ma ora che andate ficcando il naso dappertutto, annusando ogni macchia di sangue, accade che si parli di voi... Se continuate così, avremo quanto prima delle donne in attesa sulle scale per farvi firmare una federa di guanciale che poi ricameranno per eternare l'autografo. Perché non prendete invece un appartamentino in un quartiere tranquillo e non passate le vostre giornate a giocare a poker, aspettando la morte dei parenti che vi debbono lasciare un'eredità? Così farebbe un gentiluomo!» «Se tu fossi una donna e sapessi cucinare, ti sposerei» replicai con volgarità. «Non fai che brontolare come una portinaia.» Questa mia risposta lo ridusse al silenzio. Si alzò e uscì dalla stanza, profondamente disgustato. Finii di mangiare e poi rilessi la lettera. Mi parve incomprensibile e sconnessa come mi era sembrata a prima vista. Poi tornai a leggere l'annuncio funebre del "Times". R.I. Peters... Era proprio il "Babirussa". L'età corrispondeva. Me lo rividi davanti nell'atto di convincerci a chiamarlo "furfantello". Parlo al plurale, perché ricordo il nostro gruppo com'era composto allora Gustav Randall, io, Lofty e altri due o tre. Io ero un ragazzino, coi capelli chiarissimi, lisci e morbidi e gli occhi a fior di testa; Gustav era un ragazzotto robusto e tarchiato per la sua età (dieci anni e tre mesi) e Lofty - che ora occupava un seggio alla Camera dei Pari con una convinzione più appassionata del ne-
cessario - era una specie di incrocio fra un piccolo tapiro e un porcellino comune. A quell'epoca, il Babirussa Peters rappresentava nella nostra vita il male e la cattiveria. Lo mettevamo nello stesso rango con l'Ingiustizia, col Demonio e con la Prosa Latina. Quando lui alimentò il fuoco, nello studio dei "piccoli", con la mia collezione di erborista, mi augurai seriamente di vederlo morto; e quella mattina, ricordando l'incidente mentre mangiavo, non mi stupì il ritrovare ancora in me lo stesso sentimento. Secondo l'annuncio del "Times", il mio desiderio si era avverato; e questa scoperta mi rallegrò. A dodici anni era obeso, rosso, disgustoso, con gli occhi cisposi; senza dubbio a trentasette anni non doveva essere mutato. In quel momento udii un respiro pesante nella stanza accanto e Lugg si affacciò alla porta. «Amico mio» disse in tono di cordialità diffidente che mostrava che tutto era perdonato «ho dato un'occhiata alla carta. Sapete dov'è Tethering? Tre chilometri a ovest di Kepesake. Si va?» Probabilmente fu questo che mi decise. Ad Highwaters, nella parrocchia di Kepesake, abita il colonnello Leo Pursuivant, un simpatico vecchio, capo della polizia della contea. Sua figlia, Jean, nonostante tutto mi piace ancora. «Va bene» dissi. «E al ritorno ci fermeremo a Highwaters.» Lugg fu d'accordo. L'ultima volta che ci eravamo stati, disse, c'era dell'ottimo pesce salato. Partimmo. Lugg portava il suo miglior cappello di feltro, a falde larghissime, che gli dava l'aspetto di un soldataccio travestito da borghese; anch'io ero molto elegante. Non si può dire che Tethering fosse "in festa". Figuratevi tre chilometri quadrati di canneti che circondano una collina coltivata su cui sorgono cinque casette, una casa più grande e una vecchia chiesa, ammassate le une alle altre per fronteggiare il letto abbastanza incerto di un fiume: ecco Tethering. Il cimitero è vasto e malinconico; e in quella mattina d'inverno ci apparve come un ammasso fangoso di mentastri in dissoluzione. Non si poteva fare a meno di compiangere il Babirussa. Ricordo che aveva sempre delle idee grandiose; ma nelle sue esequie non era proprio nulla di pomposo. Arrivammo in ritardo - Tethering è a centoventi chilometri dalla città - e mi sentii un po' imbarazzato quando, dopo avere aperto il cancello arrugginito del cimitero, attraversai inciampando a ogni passo, seguito da Lugg,
le erbacce che coprivano il suolo, per raggiungere il gruppetto che era accanto alla tomba. Il parroco era vecchio e immaginai che fosse venuto sulla bicicletta che avevo visto accanto al cancello, perché la sua tonaca mostrava macchie di fango. Il sagrestano aveva calzoni di fustagno alla cacciatora e i becchini li avevano di tela. Osservai gli altri membri del gruppo soltanto in un secondo tempo. Un funerale è sempre un fatto che impressiona, anche quando si svolge fra gli angeli di marmo e le colonne spezzate che sono un prodotto della civiltà. Qui, lontani dal mondo, nel silenzio permeato di pioggia di un pendio che si sarebbe detto dimenticato da Dio e dagli uomini, era addirittura lugubre e triste. In quel momento, sotto l'acquerugiola, dimenticai la lettera che avevo ricevuto quella mattina. Peters era stato, pensai, un tipo volgare e poco piacevole, e veniva sepolto in maniera volgare e poco piacevole. Non c'era, in questo, nulla di strano. Però, quando il parroco ebbe borbottato le ultime parole del servizio divino, accadde una cosa strana. Ne rimasi così stupito che feci un passo indietro, facendo quasi cadere Lugg che era alle mie spalle. Anche a dodici anni e mezzo il Babirussa aveva delle abitudini personali spiacevolissime; una di queste era un suo modo particolare di raschiarsi la gola: una specie di gorgoglio rauco della laringe, seguito da un ululato sommesso e da uno sbuffo. Non riesco a descriverlo più chiaramente; ma era una successione di suoni specialissima, che non ho mai udito da nessun altro. L'avevo completamente dimenticata; ma proprio mentre stavamo per abbandonare la fossa aperta in cui era stata calata la bara, la udii distintamente, dopo oltre vent'anni. Quel suono rievocò davanti a me il Babirussa con un'evidenza raccapricciante, e guardai il resto della comitiva mentre sentivo drizzarmisi i capelli. Oltre ai becchini, al sagrestano, al parroco, a Lugg e a me, c'erano altre quattro persone; e tutte mi apparvero assolutamente innocenti. Alla mia sinistra, stava un individuo d'aspetto robusto e piacevole; accanto a lui una ragazza vestita di nero, ma non in lutto; appariva di cattivo umore piuttosto che lacrimoso, e sembrava sola. I suoi occhi incontrarono i miei; mi sorrise. Dopo di lei, un vecchio in un convenzionale atteggiamento di dolore tanto più sgradevole in quanto era meno convincente. Non so perché quel tipo mi fu subito antipatico. Aveva baffetti grigi arricciati che la pioggia rendeva lucidi.
La mia attenzione fu quasi subito distolta da lui quando nel quarto irresponsabile dello strano gorgoglio riconobbi Gilbert Whippet. Eravamo stati vicini per dieci minuti, ma non mi ero accorto di lui, cosa tutt'altro che insolita. Whippet era stato il mio compagno di collegio a Botolph's Abbey, e mi aveva poi seguito quando avevo cambiato scuola. Erano dodici o quattordici anni che non lo vedevo; ma - a parte l'essere cresciuto di statura - non era cambiato. È quasi tanto difficile descrivere Whippet come descrivere l'acqua o un suono nella notte. Non so dire a che cosa somigli; presumibilmente ha un volto, altrimenti mi sarei certamente accorto di questa mancanza. Indossava un soprabito grigio-bruno che si confondeva col colore del mentastro marcito, e mi guardò con quella mancanza di espressione che pure significa un riconoscimento. «Whippet!» esclamai. «Che diamine fai qui?» Non mi rispose; macchinalmente alzai la mano per dargli un pizzico. Non rispondeva mai finché uno non lo pizzicava; e la forza dell'abitudine si impose senza indugio. Fortunatamente mi trattenni a tempo, considerando che gli anni trascorsi gli avevano probabilmente dato i diritti di qualsiasi altro cittadino. Non potei però fare a meno di sentirmi irritato verso di lui e di parlargli con asprezza. «Perché sei venuto al funerale del "Babirussa"?» Mi diede un'occhiata e vidi così i suoi occhi di un grigio chiarissimo. «Perché... ehm... perché credo di essere stato invitato» rispose poi con la voce scontrosa e diffidente che ricordavo così bene e che dava sempre la sensazione che lui non fosse ben sicuro di ciò che stava dicendo. «Ho... ho ricevuto stamattina... e non sai...» Frugò in tasca e ne trasse un foglio di carta. Capii che cosa fosse prima di leggerlo. Avevo in tasca la copia conforme. «Strano» proseguì Whippet «per la faccenda della talpa. Un invito irregolare. E... sono venuto.» Strascicava la voce, come mi ero aspettato e si allontanò, non sgarbatamente ma con aria incurante, come se non vi fosse alcuna ragione di rimanere. Per distrazione, credo, lasciò il foglio nelle mie mani. Uscii dal cimitero dietro al breve e disordinato corteo. Quando fummo nel viale esterno, l'individuo d'aspetto piacevole che avevo notato prima mi guardò interrogativamente. Mi avvicinai a lui, rimuginando il modo di attaccare discorso, poiché non era facile chiedergli ciò che volevo sapere;
ma lui mi venne in aiuto. «Un caso doloroso» mi disse. «Era ancora giovane. Lo conoscevate bene?» «Non saprei» risposi stupidamente mentre lui mi fissava, ammiccando. Era un pezzo d'uomo sulla quarantina, con un viso quadrato e massiccio. «Voglio dire» proseguii «che sono stato a scuola con un certo R.I. Peters; e quando ho visto l'annuncio sul "Times", poiché dovevo venire da queste parti, ho pensato di dare un'occhiata.» Continuò a sorridermi con bontà, come se mi credesse svanito di mente; io continuai, un po' confuso: «Ma ora ho l'impressione di non averci azzeccato; credo, cioè, che si tratti di un altro Peters.» «Era un uomo grosso» disse lui pensieroso «occhi sprofondati nel grasso eccessivo, sopracciglia chiare, trentasette anni; era stato a scuola prima a Sheepsgate e poi a Totham.» Fui colpito. «Allora è proprio quello che conoscevo io.» L'uomo scosse la testa con tristezza. «Un caso doloroso» riprese. «Venne da me dopo un'operazione di appendicite. Non avrebbe dovuto farsela fare; il cuore non era in grado di resistere. Si prese una polmonite durante il viaggio...» scosse le spalle «... è stato impossibile salvarlo, povero diavolo. Non ha nessun parente qui.» Rimasi in silenzio. C'era poco da dire. «Ecco la mia abitazione» disse improvvisamente indicando l'unica casa grande. «Accolgo pochi convalescenti. Finora non mi era mai capitato un caso di morte. Sono il medico del paese.» Simpatizzai con lui. Mi venne voglia di chiedergli se Peters gli avesse creato qualche grana; lui non aveva fatto alcun accenno ma compresi che doveva pensare qualche cosa del genere. Ma mi astenni, poiché non mi sembrava fosse il caso di porre certe domande. Restammo per qualche momento a discorrere di argomenti banali, come si fa in queste occasioni; poi tornai in città, senza fermarmi a far visita ad Highwaters, con gran dispiacere di Lugg. Non che io non desiderassi vedere Leo o Jean; ma ero inesplicabilmente turbato dal funerale del "Babirussa" e dalla scoperta che si trattava proprio di lui. Era stata una piccola cerimonia malinconica, che aveva lasciato nelle mie orecchie una specie di eco "udita per metà". Le due lettere erano identiche. Le confrontai appena tornai a casa. Anche Whippet doveva aver letto il "Times" come lo avevo letto io. Ma era strano
che lui avesse visto il rapporto fra le due cose. E poi c'era stata quella tosse straordinaria e l'antipatico vecchio coi baffi grigi, per non parlare della ragazza sfacciata. Il peggio di tutto questo era che l'incidente mi aveva fatto tornare in mente il Babirussa. Andai a cercare alcune vecchie foto di gruppo di scolari in cui c'eravamo entrambi, per rivederlo. Aveva un viso inconfondibile. Si vedeva fin da allora che cosa sarebbe diventato. Cercai di non pensarci più. Dopo tutto, non avevo nessuna ragione di essere turbato. Il Babirussa era morto. Non lo avrei visto mai più. Tutto questo accadeva in gennaio. In giugno avevo dimenticato il mio ex compagno di scuola. Ero appena tornato da un colloquio a Scotland Yard con Stanislas Oates, col quale ci eravamo reciprocamente congratulati per i risultati dell'inchiesta sulla sparatoria di Kingford, quando Jean mi telefonò. Non l'avevo mai vista né udita in preda a isterismi; quindi fui molto stupito nel sentirla pigolare al telefono come una nidiata di passeri. «È orribile... Leo dice che dovete venire subito... No, mio caro; non posso dirvelo per telefono, ma Leo teme che si tratti di... State a sentire, Albert: A come Ascot, doppia S come Southampton, A come Ascot, doppia S come...» «Va bene» risposi «vengo.» Quando arrivai in macchina, insieme con Lugg, trovai Leo sui gradini di Highwaters. Dietro di lui si drizzavano le grandi colonne bianche della casa, costruita da un architetto che aveva visto il British Museum e non lo aveva mai dimenticato. Leo aveva un magnifico aspetto nel suo vecchio abito da caccia, col cappello di feltro verde a forma di vaso da fiori: un interessante esemplare per l'album di un collezionista. Discese rigidamente i gradini e mi afferrò la mano. «Ragazzo mio» disse «non una parola... non una sola parola.» Si arrampicò accanto a me e agitò una mano in direzione del villaggio. «Al posto di polizia... come prima cosa.» Conosco Leo da diversi anni e so che la saldezza di propositi che è la principale caratteristica della sua simpatica persona non è suscettibile di essere sviata da nessuno. Quando Leo aveva in mente una cosa, non poteva che seguire la propria idea. Certo aveva fatto il suo piano strategico appena aveva saputo che io stavo per arrivare; e poiché io facevo parte di questo piano, non avevo che da accontentarlo. Non aprì bocca se non per mormorare indicazioni sulla via da seguire,
finché giungemmo davanti all'ufficio di polizia. Allontanò gli agenti che erano di guardia, eccitatissimi; quindi, dopo breve pausa, mi afferrò saldamente per un risvolto della giacca. «Caro figliolo» cominciò «desidero la vostra opinione perché ho fiducia in voi. Non vi ho detto nulla, per non suggestionarvi; non vi ho rivelato nessuna circostanza. Non vi ho influenzato in alcun modo, non è vero?» «Per niente» affermai sinceramente. Mi sembrò soddisfatto, perché emise un lieve grugnito. «Bene» disse poi. «Ora entrate.» Mi introdusse in una stanza nuda, che aveva soltanto nel centro una tavola su cavalletti, e tolse il panno che ricopriva il volto di ciò che vi era disteso. «Ditemi, Campion» chiese trionfante «che cosa pensate di questo?» Non dissi nulla. Sulla tavola c'era il corpo di Peters il Babirussa, inconfondibile come lo stesso Leo; e anche senza toccare la sua mano corta e tozza, mi resi conto che non poteva essere morto da più di dodici ore. 2 Un assassinio decoroso Naturalmente rimasi fortemente impressionato, e credo di essere restato un bel pezzo a contemplare il cadavere come se fosse uno spettacolo piacevole. Finalmente Leo emise un piccolo grugnito e si raschiò la gola. «È morto; su questo non c'è dubbio» disse, forse per richiamare la mia attenzione. «Povero diavolo! Benché fosse un mascalzone. Forse non bisognerebbe dirlo, trattandosi di un morto; ma la verità è questa.» Leo parla proprio in questo modo. Spesso ho pensato che la sua conversazione, considerata parola per parola, merita forse di essere presa in esame. Ma in quel momento badavo più al contenuto che alla forma; quindi mi limitai a chiedere: «Lo conoscevate?» Leo arrossì e i suoi baffi bianchi si drizzarono come quelli di un gatto. «Lo avevo conosciuto» mormorò, come se facesse una confessione vergognosa. «Ho avuto un colloquio burrascoso con lui ieri sera; ve lo dico senza esitazione. Date le circostanze, è spiacevole. Ma la verità è questa. Inutile negarlo.» Visto che in quella faccenda c'era già un considerevole mistero, non cre-
detti opportuno sovraccaricare il cervello di Leo con qualche osservazione. «Come si faceva chiamare?» mi limitai a chiedere. Gli occhi di Leo erano azzurri chiarissimi e, come accade spesso nei soldati, avevano un'espressione d'innocenza quasi sbalorditiva. «Un nome falso, eh? Cristo, doveva essere così! Non ci avevo mai pensato. Un tipo di cui non fidarsi!» «Non so nulla» replicai in fretta. «Chi era, insomma?» «Harris» fu la risposta inattesa, pronunciata con accento di disprezzo. «Oswald Harris. Più denaro di quello che avrebbe meritato e i modi di un sottufficiale nemico. Non si può parlare con troppa severità. Un tipo terribile.» Guardai nuovamente il morto. Senza alcun dubbio era il Babirussa; lo avrei riconosciuto dovunque, e mi stupì il fatto che dal ragazzo si fosse proprio sviluppato quell'uomo. Questi era dunque il Babirussa, che era morto per la seconda volta cinque mesi dopo il suo funerale. Leo cominciava a spazientirsi. «Avete visto la ferita?»mi chiese. Richiamava la mia attenzione su qualche cosa di evidente. La sommità della testa color carota era sfondata in maniera impressionante, e il fatto che la pelle era quasi intatta rendeva quella vista ancora più angosciosa. Era un colpo così spaventoso, da far ritenere impossibile che un braccio umano avesse potuto vibrarlo. Si sarebbe piuttosto detto che la vittima fosse stata colpita, attraverso un cappello di feltro, dallo zoccolo possente di un cavallo da tiro. Manifestai a Leo questa mia impressione. Ne fu soddisfatto. «Siete andato molto vicino alla verità, ragazzo mio» esclamò con un entusiasmo che mi fece piacere. «Straordinario. Non dico che sarei arrivato a questa deduzione da solo; ma vi affermo che se sostituite al cavallo da tiro un'urna sarete completamente nel vero. Ricordatemi di dirlo a Jean.» «Un'urna?» «Sì; un'urna di pietra con una pianta di geranio» mi spiegò. «Di quelle che si usano a scopo ornamentale. Dovete averne viste anche voi, Campion. A volte vi mettono anche a seccare la marmellata di ciliegie. Bella pazzia, tenerle sul parapetto. L'ho detto più di una volta.» A poco a poco mi rendevo conto dell'accaduto. Evidentemente, la seconda morte del, Babirussa era dovuta al colpo prodotto da un vaso di pietra caduto da un parapetto. E questa volta, mi sembrava definitiva. Guardai Leo. Entrambi eravamo, a quanto mi parve, corretti e riservati.
«Pensate che possa trattarsi di un cattivo scherzo?» chiesi. Sprofondò il capo fra le spalle e prese un aspetto scoraggiato. «Temo che sia proprio così, figliolo» pronunciò finalmente. «Non c'è altra spiegazione. Le urne sono parecchie, allineate sul parapetto. Sono salito io stesso a verificare. Tutte ferme come la roccia di Gibilterra. Sono sul posto da anni. L'urna di Harris non può avere scavalcato il bordo da sola, capite bene. Dev'essere stata spinta da... ehm... qualcuno. Una gran brutta situazione, da tutti i punti di vista. Bisogna affrontarla.» Ricopersi il corpo del Babirussa. Provavo un senso di compassione; ma pensai che lui aveva conservato le sue antiche tendenze a procurare fastidi. Leo sospirò. «Immaginavo che sareste stato d'accordo con me.» Esitai. Leo non è un genio; ma non potevo pensare che mi avesse fatto venire da Londra soltanto per confermare il suo sospetto che la morte del Babirussa fosse dovuta a una botta ricevuta sul capo. Pensai che dovesse esserci qualche altra cosa; e la mia supposizione era giusta. Le parole di Leo mi fecero comprendere che lo scopo era un altro. Picchiò con l'indice ossuto sulla mia spalla. «Vorrei parlare con voi, figliolo» dichiarò. «Due o tre cosette da discutere a quattr'occhi. Dovremmo andare alla "Taverna dei Cavalieri" a dare un'occhiata.» Cominciai a vedere un po' di luce. «Pet... Harris è stato ucciso alla "Taverna dei Cavalieri"?» Leo annuì. «Povera Poppy! Una brava donnina, sapete, Campion! Mai nessun sospetto di... cose di questo genere, finora.» «Lo spero bene!» replicai scandalizzato; e Leo mi guardò aggrottando la fronte. «A volte queste locande di campagna...» cominciò cupo. «Ma non arrivano all'assassinio!» ribattei con fermezza; e lui ripiombò nel suo scoraggiamento. «Forse avete ragione» ammise. «Andiamo laggiù. Prenderemo un aperitivo prima di pranzo.» Tornando all'automobile, riflettei sulla faccenda. Per comprendere la "Taverna dei Cavalieri" bisogna conoscere Kepesake; e Kepesake è una contea paradisiaca. È un grosso villaggio, abbastanza lontano da una città e da una strada principale per rimanere tranquillo. Ha una chiesa di stile normanno, un campo circondato da olmi per giocare a cricket, tre magnifiche locande e una popolazione di genuini campagnoli dotati di idee indipendenti. Giace in una graziosa vallata nei pressi di un estuario ed è protetto
da un anello di piccole tenute, tutte appartenenti - a quanto dice Leo - a brave persone. La più grande di queste tenute è quella di cui fa parte la "Taverna dei Cavalieri". Tempo fa quella zona apparteneva a un signorotto, che era padrone di tutto il villaggio, ereditato da un'antenata la quale lo avrebbe avuto - a giudicare dal nome - da un amico tornato dalle Crociate. Col passar degli anni, gli eredi del nobiluomo vendettero i loro possedimenti, suddividendoli in piccole proprietà. La casa, con duecentotrenta ettari di prati e di pascoli, rimase come un peso morto per uno dei proprietari, finché Poppy Bellew, quando si ritirò dalle scene, la comprò e trasformò quella parte della casa che non era ancora andata in rovina nel più grazioso albergo di campagna. Dotata di un'energia inesauribile, lei non lasciò inutilizzato il prato, ma vi impiantò un campo di golf con diciotto buche, e riservò il rimanente per eventuali iniziative future. Infatti qualche persona intelligente pensò che si potesse ricavarne un'ottima pista per le corse; e quando il Babirussa trovò la morte in quel luogo, c'erano già state quattro corse ogni primavera, per cinque anni consecutivi. Tutto era molto idilliaco, intimo e confortevole. Se arrivava qualcuno che poteva portare disordine in quell'atmosfera piacevole, Poppy trovava modo di liberarsene. Apriva la sua casa a tutti, tutti pagavano volentieri le proprie spese, e le cose procedevano con generale soddisfazione. La storia che Leo mi stava raccontando era interessante. Capivo che il Babirussa avesse potuto essere ucciso alla "Taverna" ma non mi rendevo conto che avesse potuto trattenersi in quel luogo così a lungo da rendere possibile la cosa. Frattanto Leo aveva raggiunto l'automobile e guardava Lugg con diffidenza. Le idee di Leo sulla disciplina sono militaresche; e quelle di Lugg non lo sono affatto. Previdi dello scompiglio. «Lugg» dissi con forzata cordialità «debbo accompagnare sir Leo ai "Cavalieri". Tu potresti intanto tornare a Highwaters. Puoi prendere un autobus o un altro mezzo.» Scorsi un lampo di ribellione negli occhi di Lugg. «Un autobus?» ripeté, aggiungendo "signore", come se il pensiero gli fosse venuto in ritardo vedendosi guardato da Leo. «Sì» risposi scherzando. «Uno di quei grossi cosi verdi. Devi averli visti, da queste parti!» Discese pesantemente e con aria dignitosa dall'auto, e tenne aperto lo
sportello per Leo, con contegno rigido; ma mi guardò da sotto le grasse e bianche palpebre con un'espressione che definirò contemplativa. «È un tipo straordinario, il vostro domestico» disse Leo dopo che ci fummo messi in marcia. «Bisogna tenerlo d'occhio, figliolo. Forse vi ha salvato la vita durante la guerra?» «No!» risposi stupito. «Perché?» Si soffiò il naso. «Non so. Ho avuto quest'idea. Ora parliamo della nostra faccenda, Campion. È una cosa molto seria e vi dico perché.» Fece una pausa; poi riprese con una serietà che mi sbalordì: «C'è almeno mezza dozzina di brave persone, fra le quali anch'io, che sarebbero state ben felici di togliersi dai piedi quell'individuo. Uno di noi deve aver perso la testa. Vi sto parlando con tutta franchezza.» Spinsi l'auto verso il ciglio della strada. Eravamo sul lungo viale da cui si accede alla taverna dei "Tre galletti". «Vi ascolto volentieri.» Riprese a parlare, con la sua voce tranquilla e piacevole, leggermente turbata. Il racconto, date le circostanze, era abbastanza chiaro. Due proprietà limitrofe erano state poste in vendita l'anno prima ed erano state acquistate anonimamente, attraverso uno studio legale di Londra. Nessuno ci aveva badato, allora; ma il fulmine era scoppiato circa una settimana prima della nostra attuale conversazione. Leo era andato ai "Cavalieri" per fare una partita di bridge e bere qualche cosa, e aveva trovato il locale in tumulto e il Babirussa installato nella locanda, che stava vantando la propria influenza ed esponendo grandiosi progetti per l'avvenire di Kepesake, nei quali era compreso un nuovo acquedotto, una pista per le corse dei cani e un cinema con particolari attrazioni per sviare gli automobilisti dalla non lontana città industriale. Presa in disparte Poppy, avvilita, aveva confessato. Gli agi e l'ospitalità della campagna erano risultati troppo dispendiosi per lei; e lei, non volendo aumentare i prezzi ai suoi clienti, che erano anche i suoi migliori amici, aveva accettato le generose condizioni di ipoteca che le erano state offerte da un simpatico signore londinese; infine aveva scoperto che questo piacevole individuo era soltanto un prestanome dell'odioso Babirussa, il quale aveva messo il suo veto nel momento in cui le poche cambiali rimaste insoddisfatte avrebbero potuto essere riscattate. Leo aveva coraggiosamente tentato il salvataggio. Aveva chiamato a raccolta pochi uomini della sua tempra, tenuto una riunione, formato un sindacato e infine aveva affrontato il Babirussa munito di denaro e di paro-
le gentili. Ma era stato sconfitto. Babirussa era rimasto incrollabile. Non gli mancavano i quattrini; lui desiderava Kepesake... di cui avrebbe fatto un dorato ricettacolo di vizi. L'avvocato di Leo, venuto da Norwich, aveva confermato i peggiori timori del suo cliente. Poppy aveva avuto troppa fiducia nel simpatico gentiluomo. Il Babirussa aveva un'opzione per riscattare la proprietà. Comprendendo che, con l'acquisto della "Taverna dei Cavalieri" e delle due proprietà adiacenti, il Babirussa avrebbe potuto rovinare la regione e amareggiare il loro cuore, Leo e i suoi amici avevano tentato un'altra tattica. Secondo l'affermazione di Leo, bisognava lottare per salvare le proprie case. C'è un amore primitivo ispirato dagli alberi e dai campi che può accendere nel cuore più tranquillo una passione ardente. Due o tre fra i più antichi ospiti dei "Cavalieri" furono pregati dal Babirussa di andarsene. Leo e la maggior parte degli altri rimasero saldi al loro posto; si parlò molto, ma senza chiasso, formulando una quantità di propositi. «E stamattina, vedete» concluse Leo tranquillamente «una delle urne collocate sul parapetto è precipitata su quell'individuo mentre sonnecchiava su una sedia a sdraio sotto la finestra del vestibolo. Un brutto affare, Campion.» Continuai a guidare in silenzio. Pensavo a Kepesake e ai suoi alberi ombrosi, ai suoi dolci prati e alle sue chiare acque, e mi dissi che senza dubbio la cosa sarebbe stata orribilmente vergognosa. Il luogo apparteneva a quei vecchi e ai loro figli. Era il loro santuario, il loro piccolo e pacifico rifugio. Se il Babirussa desiderava guadagnare altro denaro, perché diamine andare a rovinare proprio Kepesake per riuscire nel suo intento? Vi sono in Inghilterra migliaia di altri villaggi. Comunque, quelli del luogo avevano salvato la loro terra dalle grinfie del Babirussa; per lo meno, uno di loro lo aveva fatto. La cosa appariva dolorosamente evidente. Nessuno di noi parlò finché l'automobile non infilò il rosso arco normanno che forma l'ingresso principale della "Taverna dei Cavalieri". In quel momento udii Leo ridere beffardo. «Un altro individuo odioso!» proruppe. Vidi una piccola figura che avanzava a passetti brevi lungo il viale, verso di noi, ma sterzai in modo che la macchina sfiorò l'erba. Avevo riconosciuto immediatamente l'ometto, un individuo che mi era particolarmente
antipatico. Era un vecchio affettato e presuntuoso; e l'ultima volta che lo avevo visto era stato al primo funerale del Babirussa: allora piangeva ostentatamente in un fazzoletto con un bordo nero di cinque centimetri. Ora lo vedevo uscire dalla locanda con l'aria di uno che conosce i luoghi e che si sente come in casa sua. 3 "Ecco dov'è morto" Mi guardò con curiosità e credo che mi riconobbe, perché mi resi conto che due occhi piccoli e brillanti mi fissavano da sotto due sopracciglia folte. Poi salutò cerimoniosamente Leo; vidi ondeggiare l'ampio panama con uno di quei gesti che tentano di riprodurre la grazia degli antichi tempi ma che riescono solo infantili. Leo inghiottì mentre si toglieva con indifferenza il copricapo di feltro verde. «Lo sciocco è conosciuto da più gente di quanta lui ne conosca» mi confidò imbarazzato; quindi riprese a discorrere affrettatamente, tanto che ebbi l'impressione non desiderasse parlare di quell'uomo; e questo mi stupì. «Vi prego di essere prudente con Poppy. Graziosa donnina. Ha avuto molto da fare in questi ultimi due giorni. Mi dispiacerebbe che la trattaste male. Guanti di velluto, Campion. Vi raccomando, guanti di velluto.» Mi sentii naturalmente un po' offeso. Nessuno mi ha mai considerato brutale; al contrario, passo per avere un carattere dolce e affabile. «Sono dieci anni che non maltratto una donna» dissi. Leo mi lanciò un'occhiata. Le facezie non sono il suo forte. «Spero che non lo abbiate mai fatto» rispose con severità. «Vostra madre, Dio abbia in gloria quella brava signora, non può aver generato un figlio capace di questo. Sono preoccupato per Poppy, Campion. Povera cara donnina!» Sentii che inarcavo le sopracciglia. Pensai che chi era capace di considerare Poppy una povera donnina, doveva anche ritenere possibile che qualcuno la maltrattasse. Poppy mi piace. Certamente è simpatica. Ma piccola, non direi. Leo confondeva evidentemente l'ideale col convenzionale; forse glielo avrei detto, offendendolo mortalmente, se non fossimo arrivati proprio in quel momento in vista della casa, uscendo dal viale alberato. Nessuna casa di campagna inglese è degna di tal nome, se non ha la potenza di mozzarvi il fiato quando la vedete alle sei e mezzo di una sera di
giugno. La "Taverna dei Cavalieri" è lunga e bassa, costruita in mattoni rossi, con belle finestre; la facciata di stile georgiano non stona affatto con le rovine normanne che sorgono dietro la casa e si disperdono nel folto bosco di castagni. Come in molte case dell'Inghilterra dell'est la porta principale è di fianco, così che il prato arriva a lambire la facciata. Quando fermai la macchina, fui contento di vedere che la porta era aperta come il solito, benché il luogo sembrasse deserto, eccezion fatta per una guardia in abito da ciclista, che stava sulla soglia con aria imbarazzata, evidentemente incaricata della vigilanza. Non mi resi conto del suo disagio finché non vidi scintillare ai suoi piedi, fra l'erba, un boccale di stagno. Poppy conosce gli uomini! Toccai Leo su una spalla e gli dissi ciò che intendevo fare. Annuì. «Come volete, figliolo. Esaminate pure tutto a vostro agio. Ecco dov'era seduto l'individuo.» Mi condusse verso la facciata, dove le sedie a sdraio avevano un curioso aspetto giapponese, coi loro colori smaglianti, allineate sotto le finestre. «L'urna» disse. Mi curvai e scostai due sacchi che erano stati stesi sul reperto. Quando vidi l'oggetto, compresi come mai la testa del Babirussa era stata così schiacciata. Era un grosso vaso di pietra, alto circa settanta centimetri e largo sessanta, decorato di amorini e grappoli. Col suo contenuto di terriccio, doveva pesare dai due ai tre quintali, e mentre trovavo naturale che avesse ucciso il Babirussa, fui sbalordito che non lo avesse ridotto come una polpetta. Lo dissi a Leo, il quale mi spiegò: «Infatti, figliolo, doveva accadere così. Ma soltanto il bordo dell'urna ha colpito la testa che sporgeva alquanto dalla spalliera della sedia a sdraio. Aveva anche il cappello. Ecco la sedia... Non c'è molto da vedere.» Sollevò un altro sacco e vedemmo un malinconico mucchietto di schegge di legno e di brandelli di tela. Leo si strinse nelle spalle, scoraggiato. Mi allontanai un po' e guardai in alto. Il parapetto era formato da una lunga lista di pietra intonacata, come se ne trovano generalmente sulle facciate delle case di stile georgiano e che danno l'idea della decorazione di una torta di frutta. Le piccole finestre del secondo piano vengono a trovarsi dentro, al disotto della piccola tettoia. Sul parapetto c'erano altre sette urne collocate a distanze uguali, e un vuoto che mostrava dove si era trovata quella che era caduta. Sembrava che fossero sempre state in quel luogo e non si sarebbe detto che potessero
rappresentare un pericolo. Ci dirigemmo verso la casa. «C'è una cosa che non capisco» dissi pensoso. «Mi pare che il nostro assassino si sia esposto a un grosso rischio. La faccenda è terribilmente pericolosa.» Leo mi fissò, come se io avessi farneticato; cercai allora di spiegarmi più chiaramente. «Voglio dir questo: senza dubbio Harris non era seduto solo, qui fuori. Qualcuno sarebbe potuto venire a chiacchierare con lui. Chi ha spinto il vaso non poteva avere l'assoluta certezza di colpire l'uomo designato, a meno che non si fosse prima arrampicato sul parapetto per affacciarsi; il che sarebbe stato una follia.» Leo arrossì. «Harris era solo» fu la sua risposta. «Era già seduto qui, stamattina, quando siamo arrivati; e nessuno, capite bene, aveva voglia di avvicinarsi a lui. Lo abbiamo lasciato dov'era. Lui non ci ha neanche guardati e nessuno gli ha rivolto la parola; siamo entrati in casa tutti quanti. Stavo giocando a carte nel vestibolo, che ha le finestre appunto da questa parte, quando quell'infernale vaso è caduto, uccidendolo. Vi sembrerà una cosa infantile» aggiunse un po' vergognoso «ma è così. Era un individuo inflessibile.» Emisi un sibilo. Le nubi si andavano addensando. «Che intendete dire con "tutti quanti"?» chiesi. Si rattristò. «Eravamo circa una dozzina. Tutti assolutamente al disopra di ogni sospetto. Entriamo, adesso.» Avevamo appena messo piede sul pavimento di pietra dell'ingresso quando vidi apparire Poppy, grassoccia, graziosa e cordiale come sempre. «Come sono lieta di vedervi, mio caro!» esclamò prendendomi le mani. «Siete proprio stato un tesoro, Leo, a farlo venire. Che cosa terribile, non è vero? Entrate, venite a bere qualche cosa.» Continuando a chiacchierare vivacemente, ci accompagnò lungo il corridoio lastricato fino al vestibolo dalle pareti bianche, con le sue profonde e comode poltrone coperte di cretonne a fiori. Non è facile descrivere Poppy. Credo abbia oltrepassato la cinquantina; ha gli occhi azzurri, la bocca grande e una corona di folti riccioli grigi. Questa è la parte più facile della descrizione. Il resto è più difficile. Da lei emana cordialità, generosità e una certa ingenua cocciutaggine. I suoi abiti sono esagerati: larghe gonne a fiori e camicette arricchite da tanti fronzoli
che basterebbero a ornare una fregata. Però, sono adatti alla sua personalità, se non alla sua figura. Basta vederla per trovarla simpatica: questo è tutto quanto si può dire di lei. «Un uomo orribile, quell'Harris» continuò mentre mi porgeva un bicchiere di whisky. «Leo vi ha detto tutto quanto concerne quell'uomo e me? Come ha cercato di impadronirsi della proprietà... Ve lo ha detto? Allora, va bene. E vedete che cosa è successo. È stata una cosa orrenda... benché io creda che chi lo ha fatto abbia creduto di far bene.» «Non è un tesoro?» mormorò Leo. «Non dico sciocchezze, sapete, Albert?» E mi guardò supplichevole. «Ieri sera li ho avvertiti che era una cosa pericolosa. Ho detto chiaramente che si sarebbero avute delle noie; e non mi sono ingannata.» Intercettai un'occhiata spaventata di Leo e sedetti, interessato. Poppy si rivolse a lui. «Non glielo avevate detto?» chiese. «Ma bisogna dirglielo! Non è giusto tacere!» Leo evitò il mio sguardo. «Stavo per parlargliene adesso» ammise poi. «Campion è qui soltanto da mezz'ora.» «Cercate di difenderli» ribatté Poppy implacabile «e avete torto. Quando sapremo la verità» aggiunse ingenuamente «allora potremo decidere quello che bisogna tacere.» Leo sembrò scandalizzato. Avrebbe voluto parlare, ma Poppy lo prevenne. «È andata così» disse lei confidenzialmente, lisciandomi il braccio con cordialità ma quasi senza accorgersene. «Due o tre dei più ardenti fra i miei vecchi amici ieri sera hanno elaborato un piano. Hanno combinato di ubriacare Harris e poi parlargli schiettamente, da uomo a uomo, sicuri che in un impeto di buon cameratismo lui avrebbe firmato un documento che loro avevano preparato, col quale rinunciava all'opzione.» Fece una pausa e mi lanciò un'occhiata che voleva essere dubbiosa. Poiché il mio volto rimase impassibile, mi venne più vicino. «Non la pensavo come loro» disse con serietà. «Mi sembrava una cosa stupida e, in certo modo, disonesta. Mi hanno risposto che neanche Harris era stato onesto con noi (ciò che era vero) e ieri sera stessa hanno attuato il loro piano. Tutto sarebbe andato bene, sennonché invece di essere cordiale, Harris è diventato truce e rabbioso, come succede ad alcuni per effetto del vino; e poiché loro cercavano di fargli oltrepassare quello stadio, lui finì per ubriacarsi del tutto e gli altri sono stati costretti a metterlo a letto. Sta-
mattina Harris aveva ancora una sbornia di quelle famose, e si è messo a dormire all'aria aperta, sperando che gli passasse. Non si è mosso tutta la mattina; e improvvisamente quell'orribile vaso gli è cascato addosso.» «Un gran brutto affare» borbottò Leo «molto, molto brutto.» Poppy mi disse i nomi dei cospiratori. Erano tutte persone molto rispettabili che avrebbero dovuto sapere assai meglio come regolarsi, e stavo per dirlo quando Poppy mi interruppe. «L'ispettore di Leo, un uomo simpatico che, a quanto dice, spera di avere una promozione, ha interrogato i domestici con molto garbo, ma non ha scoperto nulla! Ho paura che ci sarà uno scandalo. Vedete, dev'essere uno dei miei clienti; e sono tutti così brava gente!» Non feci in tempo a replicare, perché in quel momento una servetta col viso che sembrava una pizza e che certo non dimostrava un'intelligenza sufficiente a lasciar cadere un'urna o qualsiasi altra cosa su un ospite non desiderato, entrò chiedendo se c'era un certo signor Campion, perché era desiderato al telefono. Immaginai che fosse Jean e attraversai il vestibolo pregustando una certa gioia. Ma appena presi in mano il ricevitore, dal centralino mi fu detto: "Chiamata da Londra". Avevo lasciato la città due ore prima con l'intenzione di recarmi a Highwaters e quindi nessuno al mondo, a eccezione di Leo e di Lugg, sapeva che invece ero alla "Taverna dei Cavalieri". Pensai che si trattasse di un errore e ripetei stupito: «Da Londra?» «Sì, signore, da Londra» tornò a dire con cortese pazienza la signorina. «Restate all'apparecchio, vi do la linea...» Attesi un certo tempo. «Pronto» dissi finalmente. «Pronto... È Campion che parla.» Nessuna risposta; solo un debole sospiro. Poi qualcuno riattaccò il ricevitore dall'altra parte. Nient'altro. Un piccolo incidente strano, piuttosto inquietante. Prima di raggiungere gli altri, salii ai piani superiori per dare un'occhiata al parapetto. Non c'era nessuno e quasi tutte le porte erano aperte. Non ebbi difficoltà a trovare il luogo dov'era stata un tempo l'urna del "Babirussa". Era proprio di fronte alla finestra di una piccola dispensa, e credo che dovesse togliere quasi tutta la luce. Osservando il posto, mi convinsi che qualsiasi idea io potessi avere avuto per dare la responsabilità a un piccione o a un gatto, non reggeva. La sommità del parapetto era coperta di licheni, a eccezione dello spazio quadrato su cui posava il piedistallo del-
l'urna. Questo era nudo e pulito, a prescindere da qualche cadavere di scarabeo, di quelli che di solito si trovano sotto le pietre; nel centro c'era un piccolo incavo, largo sette o otto centimetri e profondo cinque, destinato ad accogliere una specie di cavicchio di pietra che evidentemente era nel fondo dell'urna, per assicurarne la stabilità. Impossibile, perciò, credere a una caduta accidentale. Qualcuno che doveva essere forte e deciso aveva senza dubbio sollevato il pesante oggetto prima di spingerlo fuori del parapetto. Lo spazio vuoto non presentava nulla di insolito; soltanto il lichene sul bordo del parapetto era un po' umido. Non pensai neppure lontanamente all'importanza di questo particolare. Ridiscesi nel vestibolo. Per mia natura sono piuttosto calmo e probabilmente non feci alcun rumore nell'entrare, poiché né Poppy né Leo si accorsero di me; quindi io udii le parole dell'ispettore, pronunciate a voce alta e con agitazione. «Credetemi, cara signora, non intendo immischiarmi nelle vostre faccende private; nulla è più lontano dalla mia mente! Ma la mia domanda è ovvia. Perbacco, Poppy, quell'individuo non era che un vicino, eppure andava avanti e indietro qui dentro come se fosse stato il padrone. Comunque, se non volete dirmi chi era, non me lo dite.» Poppy lo guardò con gli occhi lucidi di lacrime e le guance arrossate. «È venuto dal villaggio per... per vendere dei biglietti per... per una conferenza» disse Poppy tutto d'un fiato; e guardandola mi chiesi se era stata veramente una buona attrice, dal momento che non sapeva mentire meglio di così. Poi compresi di chi stavano parlando. 4 Fra gli angeli Tossii discretamente e Leo si voltò, guardandomi con aria desolata e un po' colpevole. «Oh!» fece distratto, ma tentando di fare apparire normale la conversazione. «Campion, spero che non abbiate avuto cattive notizie.» «Né buone né cattive: nessuna notizia» risposi con sincerità. «Ah bene. "Molto" bene, figliolo» disse improvvisamente balzando in piedi e battendomi una mano sulla spalla con un fervore che non era affatto
necessario. «Nessuna nuova, buona nuova. Si dice sempre così, non è vero? Bene, Poppy, ora dobbiamo andare. Ho gente a pranzo, capite bene. Arrivederci. Venite, Campion. Sono contento che abbiate avuto buone notizie.» Il brav'uomo stava proprio parlando a vanvera e me ne dispiacque per lui. Poppy era ancora turbata. Aveva il viso rosso e gli occhi lacrimosi. Uscii con Leo. Ripassammo per il prato dove avevo fatto le mie prime osservazioni e tornai a esaminare il vaso. Il cavicchio che sporgeva per circa sette centimetri dalla superficie piatta del fondo, era intatto. Leo mi sembrò molto pensieroso quando glielo indicai; ma credo che avesse la mente altrove perché mi toccò spiegargli due volte la faccenda prima che ne comprendesse il significato. Quando fummo nuovamente in macchina, sotto gli alberi, mi guardò. «Un affaraccio» sentenziò. Tornammo sulla strada principale senza parlare. Fui contento di questo silenzio perché sentivo il bisogno di riflettere. Purtroppo non sono uno di quei cani che scovano la selvaggina al fiuto; la mia mente non lavora come una macchina calcolatrice che prende i fattori a uno a uno mentre compie il suo lavoro. Io assomiglio piuttosto a quei tipi che vanno in giro col sacco e il bastone per frugare dappertutto. Raccolgo tutte le cianfrusaglie che trovo e quando torno a casa per far colazione vuoto il mio bottino e lo riordino. Finora avevo raccolto poca cosa. Mi ero convinto che il "Babirussa" era stato assassinato; chiunque fosse il suo assassino, lo aveva ucciso intenzionalmente, ma senza molta premeditazione. Questo mi parve ovvio; poiché non era ragionevole supporre che qualcuno avesse insistito per farlo sedere proprio in quel luogo o avesse potuto esser sicuro che lui vi rimanesse tanto tempo da poter ricevere sulla testa il vaso, nel momento in cui questo fosse stato gettato. Considerando la cosa, pensai che qualche tipo impulsivo doveva avere avuto l'idea di agire d'istinto; aveva visto il Babirussa, porcino e indesiderabile, seduto al disotto dell'urna e, incapace di dominare un istinto certamente riprovevole, era corso al piano di sopra e aveva agito seguendo il feroce impulso del primo momento. A questo punto mi apparve evidente che l'identificazione dell'assassino doveva avvenire attraverso un processo di eliminazione, dopo avere esaminato i diversi alibi; e questo, pensai, era affare che riguardava l'ispettore. Dopo tutto, lui era una speranza della nostra polizia, quasi maturo per la
promozione. Previdi che i veri fastidi si sarebbero avuti quando si fosse cercato di aver delle prove. Poiché non si poteva sperare che sulla pietra rozza fossero rimaste impronte digitali e poiché, se vi fosse stato un testimone oculare, si sarebbe ormai fatto vivo, mi dissi che solo ricostruendo esattamente il delitto, il nodo sarebbe venuto alla luce. Forse sarà bene che io dica fin da ora che in quel momento avevo assolutamente torto. Non solo riguardo al nodo, ma per tutto il resto. Ma allora non ne avevo la più pallida idea. Mi appoggiai alla spalliera della macchina con Leo accanto a me, e guidai l'automobile attraverso la luce gialla del tramonto imminente, pensando al Babirussa e ai suoi due funerali: quello passato e quello presente. In quel momento - e mi ingannavo - ero incline a ritenere che l'assassino del Babirussa fosse estraneo allo schema generale. L'intelligente giovane londinese cercava di penetrare un mistero criminale, con la vittima già sotto chiave nella stanza mortuaria; e questo malgrado la chiamata telefonica e l'antipatico visitatore di Poppy. Oggi comprendo che la balsamica aria della campagna doveva avermi dato alla testa. Ero assai spiacente per Leo e Poppy e anche per quei vecchi signori che con zelo eccessivo erano venuti così disastrosamente in soccorso della "Taverna dei Cavalieri". Simpatizzavo con loro, malgrado lo scandalo e lo scompiglio. Ma in quel momento non pensai che il delitto in se stesso fosse, in realtà, la parte più eccitante di tutta la situazione. Certamente, se avessi conosciuto le altre sciocchezzuole che gli dei tenevano in serbo per noi, se mi fossi reso conto che l'orrenda Vecchia munita di falce vagava ancora nel giardino, riposando sugli allori, riprendendo fiato per la prossima falciatura, sarei stato più guardingo; ma ero veramente convinto che il fuoco d'artificio fosse terminato e credevo di essere giunto alla fine della partita e non, come risultò poi, al principio. Percorrendo le strette viuzze del villaggio, proprio mentre passavamo davanti al "Cigno", chiesi a Leo con l'aria più indifferente che mi fu possibile assumere: «Conoscete Tethering? C'è una casa di cura, non è vero?» «Eh?» Sobbalzò come tratto dalle sue spiacevoli meditazioni. «Tethering? Casa di cura? Ah, sì; eccellente. Diretta dal giovine Brian Kingston. Un brav'uomo. Di piccole proporzioni, però... molto piccole... La casa di cura, s'intende; non Kingston. Lui vi piacerebbe. Un pezzo d'uomo. Simpatico. Viene a pranzo stasera. Anche il vicario viene» soggiunse, ripensan-
doci. «Noi cinque. Senza cerimonie, sapete.» Naturalmente mi incuriosii. «È molto che dirige quell'ospedale, Kingston? Leo mi guardò ammiccando. Sembrava desiderare che io tacessi.» «Oh, parecchi anni. Suo padre era medico del luogo, già parecchio tempo fa. Gli lasciò una casa grande; e il figlio, siccome è un tipo intraprendente, ha pensato di farne una speculazione. Buon dottore... ottimo. Ha curato la mia bronchite.» «Allora lo conoscete bene?» chiesi ancora, rammaricandomi di disturbare i suoi pensieri, ma desideroso di continuare la mia indagine. Leo sospirò. «Abbastanza bene. Come si conoscono tutti qui, capite. Buffo; stavo giocando una partita con lui e altri due amici, stamattina, quando quel maledetto vaso è caduto su quell'insopportabile individuo e ha creato tutto questo impiccio. È passato proprio davanti alla finestra presso cui stavamo seduti. Una cosa terribile.» «A che cosa stavate giocando? A bridge?» Leo parve scandalizzato. «Prima di colazione? No, mio caro figliolo. Poker. Non giocherei mai a bridge prima di colazione. Poker. Kingston aveva doppia coppia alla regina, e stava per prendersi il piatto, quando abbiamo visto un'ombra passare dinanzi alla finestra e poi abbiamo udito una specie di tonfo che non era un tonfo dei soliti. Molto spiacevole. Ha qualcosa di antipatico. Mi ha subito dato l'idea di un tipo pericoloso; uno di quelli contro i quali i cani si scagliano istintivamente.» «Chi?» chiesi, sentendo che perdevo il filo del discorso. Leo grugnì. «Quell'individuo che abbiamo incontrato mentre andavamo da Poppy. Non posso levarmelo dalla testa.» «Credo di averlo già visto altrove» dissi. «Sì?» fece Leo; e mi guardò sospettoso. «Dove? Dove lo avete visto?» «Hm... a un funerale...» risposi. Non volevo dire di più. Leo si soffiò il naso. «Il luogo più adatto per incontrarlo» disse poi irragionevolmente; e voltammo nel viale di accesso a Highwaters. Jean scese in fretta la scalinata per venirci incontro. «Hai fatto tardi, caro!» mormorò a Leo; e mi porse la mano. «Buongiorno, Albert» e il suo saluto mi sembrò un po' freddo. Non saprei descrivere Jean come la vidi allora. Era ed è sempre molto bella. E mi piace ancora oggi. «Buongiorno» risposi goffamente; e aggiunsi scioccamente, perché sentivo che dovevo dire qualche altra cosa: «Dateci da bere: ambrosia e dolce
nettare...» Distolse gli occhi da me e si volse a Leo. «Devi andarti a vestire, caro. Il vicario è già qui ed è agitatissimo, poveretto. Dice che tutto il villaggio è in subbuglio; e miss Dusay ha fatto sapere che "Il Marchese" è pieno di giornalisti. Desidera essere informata se tutto va bene. Avete scoperto qualche cosa?» «No, cara, niente.» Aveva risposto distrattamente; dopo di che, senza che Jean, ne sono certo, se lo aspettasse, la baciò. Sembrò lui stesso stupito di quella manifestazione affettuosa, perché tossì quasi per mascherarla o per lo meno scusarla; quindi si affrettò a entrare, lasciandola sulla scalinata insieme a me. Bruna di capelli,, Jean era veramente graziosa e attraente. «È preoccupato, non è vero?» mi chiese con voce sommessa; poi continuò come se si ricordasse improvvisamente chi io ero: «Dovete andare subito a vestirvi. Avete soltanto dieci minuti. Lasciate qui la macchina; manderò qualcuno per farla portare in garage.» Conosco Jean da ventitré anni. Quando la vidi la prima volta era priva di capelli, e col viso paonazzo. La sua vista mi diede quasi un senso di disgusto; fui mandato in giardino a prendere aria e ritrovare un contegno educato. Perciò il suo tono cerimonioso mi stupì e mi irritò nello stesso tempo. «Benissimo» dissi però, desideroso di essere gentile a ogni costo. «Farò a meno di lavarmi.» Mi guardò disapprovando. Ha dei begli occhi, come quelli di Leo; soltanto sono più grandi. «Se fossi in voi, mi laverei» disse poi dolcemente. «Su di voi lo sporco si vede come su una pelliccia bianca.» Le presi la mano. «Amici, non è vero?» chiesi. Rise, ma con poca naturalezza. «Senza dubbio, mio caro. A proposito, una persona vostra amica è venuta a cercarvi verso le sei e mezzo, ma non si è fermata ad attendervi. Ho detto che vi aspettavo a pranzo.» «Lugg» dissi con apprensione, mentre una gran luce si faceva in me. «E che ha fatto?» «Non era "Lugg".» Parlava con disprezzo. «Lugg mi è "simpatico". Era la vostra amica.» La situazione si andava facendo scabrosa. «È falso» dissi. «Non c'è nessun'altra donna... Ha detto il suo nome?» «Sì.» Il tono di Jean era aspro e mi parve anche indispettito. «La signo-
rina Phemie Rowlandson.» «Mai sentita nominare» replicai con sincerità. «Carina?» «No» esplose Jean; e rientrò di corsa. Entrai solo nel vestibolo dove il vecchio Pepper gironzolava occupandosi delle piccole incombenze che sono attribuzione dei maggiordomi. Sembrò contento di vedermi, e io fui lieto di ciò. Mi rivolse un saluto gentile, benché cerimonioso. «C'è una lettera per voi, signore» mi disse, con lo stesso tono col quale un altro avrebbe detto: "Sono felice di offrirvi questa medaglia". «È arrivata stamane e stavo per respingerla al vostro indirizzo, quando il signor Leo mi ha informato che voi sareste venuto questa sera.» Entrò nel bugigattolo in fondo al vestibolo che è la sua abituale residenza e ne tornò con una busta. «Vi è stata assegnata la solita camera, signore, nell'ala est» riprese poi. «Vi mando immediatamente George con il bagaglio. Mancano sette minuti al suono del gong.» Diedi un'occhiata alla busta mentre lui si allontanava, e dovetti certo emettere qualche suono inarticolato, perché lui si voltò a guardarmi con gentile interessamento. «Avete detto qualche cosa, signore?» «No, Pepper» risposi confermando cosi i suoi timori; e lacerando la busta, lessi la seconda lettera anonima, mentre salivo nella mia stanza. Era dattiloscritta con cura, come la prima, e la punteggiatura era a posto; veramente piacevole a leggersi! "Oh" fa il gufo. "O-oh" singhiozza la rana. "O-oh" geme il verme. "Dov'è Peters che ci fu promesso?" L'angelo piange dietro le sbarre d'oro, e si copre il volto con le ali. "Peters" piange l'angelo. Perché debbono accadere queste cose? Chi era lui, per disturbare i cieli? Considera, oh, considera l'umile talpa. Le sue zampette sono infiammate e il suo muso sanguina. 5 Brava gente «È questo "motivo" zoologico che mi sconcerta» confidai a Lugg mentre mi vestivo. «Ci capisci qualche cosa, tu?»
Lugg gettò la lettera sul tavolino e mi sorrise con inattesa timidezza; sul suo volto apparve un'espressione sentimentale. «Povera piccola talpa» mormorò. Lo fissai sbalordito e lui ebbe il buon gusto di vergognarsi. Però, riprese quasi subito la sua abituale impertinenza. «A proposito» cominciò cupo «quella passeggiata! Sono contento che siate voi a tornare sull'argomento... Vi aspettavo per parlarvene. Per chi mi avete preso? Per un miserabile centopiedi? Proporre a me l'omnibus verde!» «Stai proprio invecchiando» lo derisi. «E voglio vedere se le tue facoltà mentali sono diminuite come il tuo fisico è deteriorato. Ho quattro minuti di tempo, per trovarmi in sala da pranzo. Questa lettera non ti suggerisce nessuna idea? È stata mandata qui; è giunta stamane.» La stoccata lo colpì e il suo largo viso bianco espresse un vivo rimprovero, mentre lui rileggeva il biglietto muovendo le labbra senza parlare. «Un gufo, una rana, un verme e un angelo sono sconvolti perché non trovano questo Peters» disse finalmente. «Questo è chiaro, no?» «In maniera lampante» convenni. «E fa pensare che lo scrivente sapesse che Peters non era morto; questo è interessante, poiché invece è morto. L'individuo che mi hanno fatto vedere nella camera mortuaria è - o piuttosto era - Peters in persona. È morto stamattina.» Lugg mi fissò. «State scherzando?» Lo considerai con fastidio mentre lottavo col mio colletto, e lui continuò senza avere ottenuto alcuna risposta, forzando evidentemente il suo cervello a lavorare. «Stamattina? Davvero? È morto? In che modo?» «Un vaso di fiori sulla testa; gettato con intenzione.» «Davvero?» Lugg tornò al biglietto. «Oh, allora è chiarissimo! Il tipo che ha scritto questo sapeva che voi avete la mania di andare annusando dovunque ci sia una goccia di sangue, rubando il mestiere agli scagnozzi; perciò vi dà cortesemente l'indicazione di recarvi qui al più presto, in modo che non vi sfugga nulla di quanto può essere interessante.» «Sei impertinente, imbecille e volgare» replicai dignitosamente. «Volgare?» ribatté improvvisamente turbato. «Questo poi no, amico mio. Posso dire qualunque cosa, ma non sono mai volgare.» Rifletté un momento. «Scagnozzi» disse poi, trionfante. «Avete ragione: scagnozzi è un'espressione volgare. Agenti di polizia.»
«Non capisci niente» ripresi tranquillamente. «Mi pare che tu non dia importanza al fatto che Peters è morto stamattina e la lettera è stata impostata a Londra prima delle sette di ieri sera.» Lo avevo colto sul fatto; ma con mio stupore continuò come se nulla fosse. «Per l'appunto» riprese. «Vedete che cosa significa? Il tipo che vi ha scritto ieri sera "sapeva" che Peters sarebbe morto oggi.» Esitai. Per la prima volta sentii un brivido percorrermi la schiena. Intanto lui continuava, lamentoso: «Malgrado tutto ciò che ho fatto per voi, ecco che andate nuovamente a mettere le mani nel primo mucchio di fango che vi capita. E non avete neanche bisogno di andarne in cerca, amico! Queste cose vi vengono incontro, come se aveste la calamita!» Lo fissai. «Lugg» dissi «queste parole hanno sapore di profezia. Dopo tutto, la pasta delle torte ha il suo bravo ripieno.» Il suono del gong gli impedì di rispondermi; ma udii il suo commento mentre mi affrettavo verso la porta. «Evidentemente, questo è botulismo.» Arrivai in sala da pranzo con mezzo secondo di ritardo e Pepper mi guardò affettuosamente; molto più di quanto non facesse, con mio dispiacere, Jean. Leo stava discorrendo con un individuo magro, di cui vedevo le spalle strette in una giacca nera di taglio clericale; trovai il mio posto accanto al simpatico dottore col quale avevo chiacchierato al funerale del Babirussa, a Tethering. Mi riconobbe e mi sorrise coi suoi profondi occhi grigi dallo sguardo un po' addormentato. «Sempre quando c'è un morto, eh?» mormorò. Ci presentammo; e le sue maniere mi piacquero. Era un pezzo d'uomo, maggiore di me di qualche anno, dotato di una certa timidezza che non era affatto spiacevole. Discorremmo del più e del meno e Jean si unì a noi. Fu soltanto dopo qualche minuto che ebbi la sensazione che qualcuno mi guardasse con ostilità. È una sensazione strana ma inconfondibile, che si prova talvolta in autobus o a qualche pranzo; e guardai attraverso la tavola il giovane pastore che non avevo mai visto prima d'allora e che mi stava fissando con cordiale antipatia. Era un tipo di asceta alto e ossuto; guance rosse, polsi nodosi, e gli occhi neri, rotondi e privi di gaiezza di coloro che sono facili all'indignazione.
Fui così sbalordito che gli sorrisi stupidamente. Leo ci presentò. Appresi che era il reverendo Philip Smedley Bathwick, da poco tempo nominato alla parrocchia di Kepesake. Non riuscii a comprendere il suo odio non celato e ne fui alquanto offeso, finché non mi accorsi di un suo sguardo a Jean. Cominciai allora a osservarlo. Non c'era dubbio: le faceva tanto d'occhi e lo avrei sinceramente compianto se non vi fosse stato, in questo, un sentimento personale che non è il caso di approfondire. L'infelice era doppiamente sfortunato, perché Leo lo monopolizzava. Appena fummo solidamente impegnati col pesce, il buon vecchio disse: «Dove avete detto che abita quel tale di cui parlavamo prima di pranzo?» «Dalla signora Thatcher. La conoscete? Ha una villetta dietro l'albergo del "Cigno".» Aveva una voce abbastanza bella, Bathwick; ma conteneva un tremito che io attribuii allo sforzo di nascondere la sua ansietà di ascoltare la conversazione che si svolgeva all'estremità della tavola alla quale sedevamo noi. Leo non gli diede requie. «Oh sì, conosco la vecchia signora Thatcher. Appartiene alla famiglia Jepson, quelli di Blucher's Hill. Una brava donna. Come fa a tenersi in casa un tipo simile? Non riesco a capirlo, Bathwick.» «Che volete, fa l'affittacamere.» Gli occhi di Bathwick cercarono nuovamente Jean e poi si volsero altrove, come se ciò che aveva visto lo turbasse. «Quel signor Hayhoe è qui solo da una settimana.» «Hayhoe?» esclamò Leo. «Strano nome. Probabilmente falso.» Come sempre quando è irritato, la sua voce era una specie di ruggito che fece rimanere attonito il giovane vicario. «Hayhoe è un nome comunissimo, signore» si arrischiò a dire Bathwick. «Hayhoe?» ripeté Leo fissandolo come se si ritenesse gravemente offeso. «Non credo. Quando sarete vecchio come me, Bathwick, smetterete di dire sciocchezze. I tempi richiedono serietà, caro amico, serietà.» Bathwick arrossì fino alle orecchie, colpito da quell'ingiustizia; ma si dominò e aggrottò la fronte senza parlare. Era un incidente ridicolo, ma credo che costituisca la ragione per cui Leo ritiene ancora oggi che Bathwick sia un tipo poco serio, il che è deplorevole, poiché è l'individuo più serio che possa esistere. In quel momento, però, mi interessava più assumere informazioni che studiare quell'uomo; perciò mi rivolsi a Kingston.
«Vi ricordate quel bizzarro individuo col cappello a cilindro che piangeva in un immenso fazzoletto da lutto a quel funerale, l'inverno scorso?» gli chiesi. «Ebbene, quello era Hayhoe.» Kingston strizzò un occhio. «Al funerale di Peters? No, non ricordo. Mi ricordo invece una ragazza, un tipo curioso...» S'interruppe e vidi una specie di eccitazione balenargli negli occhi. «... Sicuro!» esclamò. Tutti lo guardammo e lui si confuse e cercò di cambiare argomento. Però, appena gli altri ebbero ripreso a discorrere, si rivolse nuovamente a me. «Ho pensato una cosa» mi disse; e la sua voce era eccitata come quella di un ragazzo. «Può esservi utile. Se non vi dispiace, ne parleremo dopo pranzo. Voi conoscevate bene quel Peters, non è vero?» «Non intimamente» risposi, guardingo. «Non era una brava persona.» Quindi soggiunse, abbassando la voce: «Credo di essere sulle tracce di qualche cosa... Non posso dirvelo qui.» I nostri occhi si incontrarono e io sentii aumentare la mia simpatia per lui. L'entusiasmo per la caccia mi piace! Non avemmo occasione di parlare subito dopo pranzo, perché l'ispettore a cui era affidato il caso venne a cercare Leo mentre stavamo ancora bevendo il Porto; e si scusò di essere importuno. Kingston e io rimanemmo con Bathwick, il quale cominciò a discorrere con vivacità. Scoprimmo che era un ardente innovatore. Parlò con passione delle condizioni insalubri delle capanne coperte di paglia e della necessità di dare una certa cultura agli abitanti del villaggio, rivelando così una mancanza di conoscenza sia delle capanne col tetto di paglia, sia degli abitanti in questione i quali, come è noto a tutti i contadini, non esistono. Kingston e io cercammo di convincerlo che la particolarità di un villaggio consiste nell'essere una comunità abbastanza disseminata perché ognuno possa fare quello che gli pare senza infastidire i vicini, quando Pepper venne a pregarmi di raggiungere sir Leo nella stanza delle armi. Mi recai nella bella stanza al primo piano dove Leo ha il suo studio e procede alla pulizia dei suoi fucili e lo trovai seduto alla sua scrivania. Di fronte a lui c'era un uomo molto simpatico, che sorseggiava beatamente un bicchiere di whisky. Leo lo presentò. «L'ispettore Pussey, Campion. Uomo abilissimo. Ha lavorato tutto il giorno come un negro.» Pussey mi piacque a prima vista, come sarebbe piaciuto a chiunque.
Magro e dinoccolato, aveva una faccia buffa, nello stesso tempo affettuosa e disarmante ed era evidente che lui provava per Leo un'ammirazione cordiale. Quando entrai, erano tutti e due piuttosto turbati. Compresi che la faccenda toccava da vicino entrambi. Il delitto si era annidato, per così dire, nell'ombra della casa. Ma seppi dopo un istante che c'era anche qualche cosa di più. «Una cosa straordinaria, Campion» cominciò Leo appena Pepper ebbe chiuso l'uscio dietro di me. «Non so che fare. Pussey mi assicura della realtà dei fatti; e Pussey è un uomo onesto. C'è da fidarsi di lui.» Diedi un'occhiata all'ispettore. Sembrava fieramente imbarazzato, come un cane che ha inaspettatamente ricuperato un gioco. Attesi, e Leo accennò a Pussey di continuare. Dopo avermi sorriso in modo quasi affettuoso, l'ispettore parlò; il suo accento era dolce e strascicato. «È una cosa stupefacente, signore. Sembra che ci siamo sbagliati; ma non saprei dirvi in che cosa né come. Abbiamo passato l'intera giornata, io e un agente, a interrogare persone, e stasera si può dire che gli interrogatori siano esauriti.» «E nessuno, eccetto sir Leo, ha un alibi indiscutibile?» chiesi con simpatia. «So che...» «Niente affatto.» Pussey non si era seccato della mia interruzione; anzi, direi quasi che gli aveva fatto piacere. Aveva una naturale tendenza al drammatico. «Niente affatto. Tutti hanno il loro alibi; un alibi perfetto. La servitù stava mangiando nel momento di... quell'incidente; ed erano presenti tutti, perfino il garzone del giardiniere. Tutti gli altri abitanti della casa erano nel vestibolo o nel bar adiacente; e ciascuno ha la testimonianza di altri due o tre gentiluomini. Non c'erano estranei; credo che comprendiate ciò che voglio dire. Tutti i signori che sono venuti stamattina da miss Bellew avevano un motivo per giustificare la loro visita. Tutti si conoscono fra loro. Nessuno sarebbe potuto uscire per compiere il gesto criminoso, a meno che...» Si interruppe e divenne paonazzo. «A meno che... cosa?» chiese Leo ansioso. «Continuate, amico, senza reticenze. Qui siamo strettamente fra noi. A meno che cosa?» Pussey inghiottì. «A meno che "tutti gli altri fossero al corrente, signore"» terminò, e chinò la testa.
6 Il Babirussa defunto Per un attimo ci fu una pausa imbarazzata. Pussey era rimasto sbalordito dalla sua stessa audacia; io conservavo il mio solito atteggiamento un po' diffidente e Leo sembrava facesse fatica a comprendere. «Ah!» esclamò finalmente. «Cospirazione, eh?» Pussey sudava. «Potrebbe trattarsi di qualcosa di simile» mormorò poi, con aria infelice. «Non saprei...» obiettò Leo ragionevolmente. «Non saprei. È un'idea, Pussey. Un'idea. Eppure, capite bene, in questo caso non sarebbe stato possibile. Avrebbero dovuto essere complici tutti, capite bene; e con gli altri "c'ero anch'io".» Fu un momento sublime. Leo parlava semplicemente e con quella magnifica ingenuità tanto disastrosa quanto innocente. Pussey e io sospirammo sollevati. Il buon vecchio aveva spazzato via gli esili sostegni dei fatti, in maniera quasi miracolosa; e ne eravamo felici. Leo continuò quindi a considerare il caso. «No» affermò. «No. Impossibile. Assolutamente impossibile. Bisogna pensare qualche altra cosa, Pussey. Rivedere insieme tutti gli alibi. Forse in qualcuno c'è una falla: non si sa mai.» Si rimisero al lavoro; e io, non volendo invadere il terreno dell'ispettore, uscii per recarmi in cerca di Kingston. Lo trovai in salotto, con Jean e Bathwick, il quale, vedendomi entrare, si irrigidì. Questo mi diede noia. Non credo di essere ipersensibile, ma la sua violenta antipatia mi imbarazzava. Gli offrii una sigaretta per accattivarmelo, ma rifiutò. Kingston era quanto me desideroso di chiacchierare; e propose di andare a fumare un sigaro sulla terrazza. In qualsiasi altro salotto - eccettuato forse quello della prozia Caroline, a Cambridge - una simile proposta sarebbe sembrata strana: non si fuma ormai dappertutto? Ma a Highwaters una cosa simile è ancora accettabile, poiché la defunta lady Pursuivant teneva molto alla doratura dei suoi mobili e alle sue porcellane. Vidi Bathwick scoccargli un'occhiata di gratitudine, che accrebbe la mia irritazione per la sua ingiustizia; uscimmo dal balcone su una terrazza di marmo bella come quelle che si trovano oggi a Hollywood. Kingston prese il mio braccio e cominciò: «Sentite... Quel Peters...»
Mi parve di tornare indietro di parecchi anni, sul piccolo terreno erboso che si trovava dietro alla cappella della scuola, quando il vecchio Guffy mi afferrava per il braccio e pronunciava le stesse parole, con lo stesso tono misto di eccitazione e di violenza. «Quel Peters...» «Ebbene?» feci incoraggiandolo. Kingston esitò. «È una specie di confessione» proruppe poi in modo così inatteso che alzai gli occhi a guardarlo. Lui arrossì e rise. «Oh, non crediate che io l'abbia derubato!» esclamò. «Ma mi aveva incaricato di redigere il suo testamento. È di questo che volevo parlarvi. Quell'uomo era venuto alla mia casa di cura per rimettersi dopo un'appendicite. Aveva preso i dovuti accordi per lettera, ma durante il viaggio, si era buscato un raffreddore che era degenerato in polmonite, ed era morto malgrado ogni cura. Era venuto da me perché si spendeva poco. Mi aveva detto che la mia casa gli era stata raccomandata da qualcuno del distretto, e aveva nominato un tale che conoscevo superficialmente. Bene: quando si era aggravato, in un periodo di lucidità mi aveva mandato a chiamare e mi aveva detto che voleva fare testamento. Lo scrissi e lui lo firmò.» Fece una pausa e si agitò, inquieto. «Vi dico questo perché so chi siete» riprese poi. «Jean mi ha parlato di voi e so che sir Leo vi ha chiamato per questa faccenda di Harris. Ebbene, Campion, il fatto sta che io ho alterato un po' il testamento.» «Di proposito?» chiesi scioccamente. Kingston annuì. «Non nella sostanza» riprese «ma nella forma. Non potei fare a meno. Lui mi aveva dettato una frase che suonava press'a poco così: "A quell'insopportabile individuo, furfante a piede libero che è mio fratello, nato Henry Richard Peters - comunque si faccia chiamare adesso - lascio tutto ciò che posseggo al momento in cui passerò all'altra vita, ivi compreso tutto ciò che può aumentare il mio patrimonio dopo la mia morte. Faccio questo non perché io lo ami, o abbia compassione di lui o simpatizzi comunque con gli affari abominevoli nei quali lui può trovarsi impegnato, ma semplicemente perché è figlio di mia madre e non mi risulta che ce ne siano altri".» Kingston esitò di nuovo e mi guardò seriamente, nel chiaro di luna. «Mi sembrava una cosa mal fatta. Una cosa simile può provocare Dio sa che scompiglio. Quindi attenuai alquanto le espressioni. Spiegai sempli-
cemente che il signor Peters desiderava che tutto andasse a suo fratello; lui firmò e morì.» Fumò qualche istante in silenzio, e io attesi che continuasse. «Harris, appena lo vidi, mi ricordò qualcuno; e stasera a pranzo, quando mi avete fatto tornare in mente quel funerale, ho capito. Peters e Harris si somigliavano molto. Peters era solo più alto e più grosso; ma più ci penso e più trovo forte la somiglianza. Capite dove voglio arrivare, Campion? Questo Harris potrebbe benissimo essere il fratello di quello che fece il testamento.» Rise come se avesse voluto scusarsi. «Ora che l'ho detto, non mi sembra più tanto interessante.» Non gli risposi subito. Ero ben certo che il Peters che avevo visto nella stanza mortuaria era il "mio" Peters; e che se c'era un fratello, questi doveva essere stato il cliente di Kingston. Ciò confermò il mio primitivo sospetto che il Babirussa stava tramando qualche cosa di losco quando il vaso di fiori aveva troncato la sua attività. «Mandai il testamento ai suoi legali» riprese Kingston «i quali mi diedero le istruzioni necessarie per i funerali e pagarono la mia parcella. Ho il loro nome a casa; ve lo manderò domattina, va bene?» Lo assicurai che andava benissimo, e lui continuò non senza una certa vanità: «Ero ai "Cavalieri" stamattina quando è accaduta la disgrazia. Giocavamo a poker. Avevo doppia coppia alla regina e stavo per prendermi il piatto quando ho sentito il tonfo. Siamo corsi tutti fuori; ma non c'era più nulla da fare... Avete visto il corpo?» «Sì» risposi «ma non l'ho ancora esaminato. Ed era la prima volta, voi, che vedevate Harris?» «Oh no! Era qui da una settimana, e io mi recavo ai "Cavalieri" ogni giorno per visitare una cameriera: Florence Gage, ammalata di itterizia. Non parlavo molto con Harris perché... sapete bene, nessuno di noi gli parlava volentieri. Era un tipo insolente. L'incidente con Bathwick mostra molto chiaramente che razza di individuo fosse.» «Con Bathwick?» «Come, non avete saputo?» Kingston si avvicinò, riscaldandosi. Come a quasi tutti i medici di campagna, un po' di pettegolezzo non gli dispiaceva. «Ha un lato abbastanza umoristico... Come avrete notato, Bathwick ha un carattere piuttosto serio.» Accennai di sì; lui ridacchiò e proseguì:
«Harris aveva parlato di una sala da ballo e di una piscina che voleva costruire su quel terreno presso il torrente, dall'altra parte del campo di cricket. Bathwick ebbe sentore della cosa e ne fu inorridito. Era una cosa che non si accordava coi suoi progetti per lo sviluppo di Kepesake, progetti che tendono piuttosto alle istituzioni benefiche: cucine comunali, asili infantili e cose del genere. Si precipitò da Harris e credo che fra loro vi sia stata una scena violenta: Harris aveva un certo senso dell'umorismo e si dev'essere divertito a stuzzicare il buon Bathwick, il quale ne è totalmente privo. Erano nel vestibolo dei "Cavalieri"; erano presenti Bill Dichesney e altre due o tre persone, sicché Harris, avendo un pubblico, si lasciò andare. Bill mi disse che Bathwick venne via con gli occhi fuori dalla testa. Harris gli aveva promesso delle Urì, dei salottini decorati con quadri piccanti e Dio sa che altro, finché quel poveraccio vide il contadino dei suoi sogni uscire dalla chiesa per piombare nella fauci dell'inferno stabilito dall'altra parte della strada. Bill cercò di calmare il vicario, ma questi era fuori di sé e scombussolato fino al midollo delle ossa. Vedete dunque che razza di tipo era Harris? Faceva volentieri lo spaccone. Non aveva alcun bisogno di stuzzicare il povero Bathwick, che sarebbe un ottimo figliolo se non avesse il torto di essere così solenne. Ma questo, in fondo, non ha importanza. La domanda è: chi ha ucciso Harris? Domattina, per prima cosa, vi porterò il nome dei legali e quante altre carte posso trovare. Va bene?» «Ve ne sarò grato» risposi cercando di non apparire troppo ansioso. «E vi ringrazio di avermi raccontato questo.» «Non c'è di che. Vorrei potervi essere veramente utile. È così raro che qui accada qualche cosa...» Rise imbarazzato. «È da ingenui dire queste cose, non è vero?» mormorò. «Ma non avete idea, Campion, di come sia noiosa la campagna per un uomo anche mediocremente intelligente.» Tornammo in salotto. Jean e Bathwick stavano ascoltando la radio, ma la ragazza si alzò a spegnerla quando noi entrammo, mentre Bathwick sospirava. Leo ci raggiunse poco dopo, ma era molto preoccupato e chiese il permesso di ritirarsi. Naturalmente la riunione si sciolse di buon'ora. Kingston tornò a casa, conducendo con sé l'ecclesiastico riluttante, che sembrava fosse sulle spine; Jean e io tornammo sulla terrazza. Faceva caldo; il chiaro di luna e i profumi che salivano dal giardino e il canto degli usignoli davano all'atmosfera qualche cosa di esotico. «Albert...» cominciò Jean. «Sì?» «Avete degli strani amici, non è vero?»
«Oh, a scuola si conosce un po' di tutto» risposi tenendomi sulla difensiva, poiché stavo ancora pensando a Peters. «È come se ci si trovasse in un cesto di uova. Non si può sapere quale è guasto... e quale dei compagni può diventare, col crescere, un individuo nocivo.» Trasse un lungo respiro e i suoi occhi brillarono nella debole luce. «Non sapevo che aveste frequentato una scuola comunale» disse poi con una certa violenza. «Immagino che ne abbiate un ricordo assai vivo!» «Da un certo punto di vista sì» annuii dolcemente. «Ricordo la signorina Marshall. Un cervello di prim'ordine, credo. Così brava sul campo di "hockey". E così diabolicamente imperiosa... Un vero turbine.» «Tacete» interruppe Jean senza ragione. -Che ne dite di Bathwick? «Una brava persona» risposi con accento dubbioso. «Dove abita?» «Al vicariato, proprio dietro ai "Cavalieri". Perché?» «Ha un bel giardino?» «Abbastanza. Perché?» «E il suo giardino confina con quello dei "Cavalieri"?» «La sua linea di demarcazione si trova al boschetto di castagni che è dietro la casa di Poppy. Perché?» «Mi piace conoscere la cornice in cui si muovono le persone. E mi pare che lui abbia una certa simpatia per voi, no?» Non mi rispose; ed ebbi l'impressione che la mia domanda le sembrasse di cattivo gusto. Con mia sorpresa la sentii rabbrividire accanto a me. «Albert» mormorò poi con voce sommessa «sapete chi ha commesso quel bestiale assassinio?» «No, non ancora.» «Credete che lo scoprirete?» Parlava quasi sussurrando. «Sì, lo scoprirò.» Posò la sua mano sulla mia. «Leo vuol molto bene a Poppy» mormorò. Strinsi quella mano. «Leo non ha idea di chi ha ucciso Harris più di quanto possa averla un neonato» affermai. Rabbrividì ancora. - Tanto peggio, non è vero? Il colpo sarà più tremendo per lui, quando... quando dovrà saperlo. «Poppy?» chiesi attonito. Mi afferrò il braccio. «Tutti la giustificherebbero, no?» mormorò incerta. «Dopo tutto, aveva molto da perdere. Tornate in città, Albert. Rinunciate a scoprire!» «Dimenticate tutto, per ora» replicai.
Camminammo per un po' in silenzio. Jean indossava un abito azzurro; le dissi che mi piaceva. Aveva i capelli raccolti in un nodo basso sulla nuca, e le dissi che anche quello mi piaceva. Dopo poco mi fece un complimento. Mi disse che io ero una persona veramente sincera, e che si pentiva di aver dubitato della mia parola nel pomeriggio, su un certo argomento. Le perdonai facilmente, per non dire con entusiasmo. Tornammo verso la porta-finestra; e avevo ormai preso la decisione di non proseguire nelle mie indagini, quando avvenne qualche cosa di imprevisto e spiacevole. Pepper ci venne incontro sbuffando leggermente. Chiedendoci mille scuse, disse che una certa signorina Euphemie Rowlandson era venuta a cercare del signor Campion; l'aveva fatta accomodare nel salottino. 7 L'amica Mentre seguivo Pepper in casa, tentai di interrogarlo. «Com'è, Pepper?» Si volse e mi lanciò un'occhiata che mi dimostrò chiaramente che lui era un vecchio esperto e che la sua vista non era affatto offuscata. «La signorina mi ha informato che è sua grande amica, signore; perciò si è presa la libertà di presentarsi a un'ora così insolita.» Parlava con lieve irritazione, facendo comprendere che la cosa lo urtava non meno di quanto urtasse me. Aprì la porta del salottino. «O-oh!» esclamò qualcuno che era all'interno della stanza. Pepper si ritrasse e la signorina Rowlandson si alzò per venirmi incontro. «Oh!» fece guardandomi. Le sue ciglia palpitarono. «Spero che non siate troppo in collera...» Debbo averla fissata con occhio distratto. Era piccola, bionda e infantile, con due grandi occhi spalancati e una bocca che sembrava la reclame di un dentifricio. Era vestita completamente di nero, a eccezione di una gran penna bianca piantata sul cappello: complessivamente produceva un effetto che oscillava fra Amleto e Aladino. «Oh, ma non vi ricordate di me!» riprese. «Oh, come ho fatto male a venire! Ero certa che vi sareste ricordato... Sono una stupida, non è vero?» Voleva significare che io ero una specie di bruto, ma che lei non me lo
rimproverava; e che la vita era fatta così. «Forse vi siete rivolta a me per errore?» suggerii. «No, no...» Le sue ciglia palpitarono nuovamente. «Mi ricordo di voi... al funerale.» Abbassò la voce timidamente, dopo queste ultime parole. Improvvisamente mi ricordai di lei. Era la ragazza che avevo visto al funerale di Peters. Non so perché, l'avevo dimenticata mentre avevo ricordato il vecchio; soltanto mi venne in mente che avevo avuto l'impressione che lei non fosse la persona che bisognava guardare. «Ah sì» dissi lentamente «ora ricordo.» Batté le mani una contro l'altra e squittì, felice: «Ne ero certa. Non mi chiedete perché: ma non ne dubitavo. Sono fatta così: a volte prevedo le cose.» A questo punto, la conversazione minacciò di ingarbugliarsi. Io non mi sentivo completamente a mio agio e lei mi guardava con un'espressione stranamente maliziosa. «Ero sicura che mi avreste aiutato» pronunciò finalmente. Più che mai ebbi la convinzione che non ero l'uomo che lei cercava, e mi stavo chiedendo come fare per convincerla di questo, quando lei fece una dichiarazione stupefacente. «Quell'uomo mi ha disprezzata» disse «e non ricordo di essere mai stata ingannata così. Una ragazza è pur soggetta a commettere degli errori, non è vero, signor Campion? E vedo di aver commesso un errore dicendo di essere una vostra amica mentre vi avevo visto una sola volta; o meglio, mentre ci eravamo appena scambiati uno sguardo. Ora lo capisco. Non farei questo una seconda volta.» «Signorina Rowlandson» chiesi «che cosa siete venuta a fare? Ho... ho il diritto... hm... di saperlo» soggiunsi severamente, cercando di darmi un contegno dignitoso. Mi fissò. «Oh, come siete severo! Gli uomini sono sempre severi. E anche crudeli. Ma non tutti sono come lui. Lui si che era crudele! Eppure» continuò facendo un tentativo poco convincente per frenarsi «non dovrei parlare in questo modo di lui, ora che è morto... se "è" morto. Ma è proprio morto?» «Chi?» Sogghignò. «Siete prudente, eh? Tutti gli investigatori sono prudenti. Mi piace che un uomo sia così. Roly Peters lo era. Lo chiamavo Roly-Poly. Una cosa che. lo faceva arrabbiare. Non potete immaginare come si adirava, povero Roly-Poly! Faccio male a ridere ora che è morto... se "è" morto.
Lo sapete?» «Cara ragazza» replicai «se non m'inganno, siamo stati al suo funerale.» Dovevo aver parlato con asprezza, perché le sue maniere mutarono. Con una falsa dignità si mise a sedere, aggiustando con molta cura le pieghe della corta gonna nera sulle sue gambe sottili. «Sono venuta qui per consultarvi, signor Campion» disse poi. «Metterò le carte in tavola. Desidero sapere se siete rimasto soddisfatto di quel funerale.» «La cosa non mi riguardava molto, in verità» risposi, colto di sorpresa. «Ah no? E allora, perché ci siete venuto? Questo vi punge, non è vero? Io sono una ragazza schietta, signor Campion, e pretendo una schietta risposta. In quel funerale c'era qualche cosa di bizzarro e voi lo sapete.» «Sentite» ripresi pazientemente «io sono disposto ad aiutarvi. Ma voi dovreste dirmi perché credete che io possa farlo.» Mi fissò. «Siete stato a una buona scuola, vero? E credo che questo sia molto utile a un uomo. Da qui si capisce che è gentiluomo; lo dico sempre. Mi fiderò di voi. Cosa che non mi accade sovente. E se voi non mi aiuterete... vuol dire che ancora una volta sarò stata sciocca: ecco tutto. Ero fidanzata a Roly Peters, signor Campion; ed ecco che lui va a morire in un'oscura clinica lasciando tutto il suo denaro al fratello. Se a voi questo non sembra sospetto, a me lo sembra.» Esitai. «Vi sembra strano... perché ha lasciato tutto a suo fratello?» Euphemie Rowlandson non mi lasciò continuare. «Lo strano, secondo me, è la sua morte. Lo avevo minacciato a mezzo di un avvocato; ero in possesso delle sue lettere e potevo farlo condannare per rottura di fidanzamento.» Rimasi in silenzio; lei arrossì violentemente. «Pensate di me ciò che volete, signor Campion, ma io sono una creatura sensibile; inoltre, mi sono affaticata molto per trovare un marito. E credo che lui si sia comportato indegnamente. Se si nasconde in qualche luogo, lo troverò, dovesse questa essere l'ultima mia azione!» Continuava a fissarmi come un passero bellicoso. «Sono venuta da voi» continuò «perché ho sentito dire che siete un investigatore e perché la vostra faccia mi è piaciuta.» «Magnifica!» esclamai. «Ma perché siete venuta qui? Perché proprio a Kepesake?» Trasse un profondo respiro.
«Vi dirò la verità, signor Campion.» Ancora una volta le sue ciglia palpitarono, ed io ebbi la sensazione che si stava per entrare nel vivo della faccenda. «Ho un amico in questo villaggio» cominciò la donna «il quale ha visto le fotografie di Roly Peters che avevo con me. È un vecchio che mi conosce da anni.» Fece una pausa e mi guardò, come per rendersi conto se ero con lei o contro di lei; apparentemente fu rassicurata perché proseguì tutto d'un fiato: «Pochi giorni fa, questo mio amico mi scrisse: "C'è un tale, in questo villaggio, che somiglia molto a quel vostro amico. Se fossi in voi, verrei a dargli un'occhiatina. Potrebbe valerne la pena". Sono venuta appena ho potuto, e arrivando qui ho trovato che l'uomo che volevo vedere era morto proprio stamattina. Ho anche saputo che voi eravate in paese e perciò sono venuta a cercarvi.» Cominciavo a comprendere. «E volete identificarlo?» Annuì con forza. «E perché siete venuta proprio da me? Perché non vi rivolgete alle autorità competenti?» La sua risposta fu di quelle che disarmano. «Dio mio, perché mi pareva di conoscervi.» Riflettei un momento. Il vantaggio di una testimonianza, in questo caso, era inestimabile. «A che ora potreste venire con me alla polizia?» le chiesi. «Vorrei andarci subito.» Era un'ora tarda, per la campagna, e glielo dissi; ma fu inflessibile. «Mi sono messa in mente quest'idea e non potrei dormire se continuassi a rimuginarla tutta la notte. Accompagnatemi adesso, con la vostra macchina. Andiamo via; sapete benissimo che potete farlo. Sono un bel fastidio, no? Ma sono fatta così. Quando mi metto in mente una cosa, non ho pace finché non l'ho condotta a termine. Vi assicuro che domattina mi sentirei male.» Non c'era da discutere. Sapevo per esperienza che è sempre preferibile afferrare un testimone appena si presenta. Quindi suonai il campanello, e alla cameriera che accorse dissi di far venire Lugg, con la macchina davanti alla porta. Poi, lasciando la signorina Rowlandson nel salottino, andai in cerca di Jean. Non fu un colloquio piacevole. Jean è una cara ragazza, ma è capace, a
volte, di essere completamente ottusa. Pochi minuti dopo che l'avevo rintracciata, mi accomiatò con una certa dignità e io tornai nel salottino. Lugg sembrò alquanto sorpreso quando mi vide con la signorina Rowlandson. La feci accomodare sui sedili posteriori e io mi sedetti accanto al posto di guida. Lugg mise in moto, e mentre percorrevamo il viale, si chinò verso di me. «Avete mai visto un gatto uscire da un canile?» mormorò; quindi, poiché lo guardavo stupito, soggiunse: «È una cosa che dà i brividi. Nient'altro.» Proseguimmo in silenzio. Cominciavo a capire che la mia amica, la signorina Rowlandson, sarebbe stata per me una responsabilità. Era una notte strana, con una luna enorme che navigava in un cielo infinito. Piccoli banchi di nuvole di forme bizzarre la oscuravano ogni tanto; ma generalmente rimaneva bianca e lucente come il pomo della spalliera di un letto d'ottone. Kepesake, che di giorno è un paesello pittoresco, appariva misterioso in quella luce falsa. Gli alti alberi erano cupi e di un nero profondo, e nascondevano le piccole case, mentre il campanile quadrato della chiesa si drizzava tozzo e minaccioso contro il cielo trasparente. Era un luogo misterioso quello che noi stavamo attraversando velocemente, andando verso ciò che ora mi appariva un'impresa piuttosto raccapricciante. Fermammo dinanzi al piccolo edificio dov'era il posto di polizia; una sola finestra era illuminata, al primo piano. Mi voltai verso il sedile posteriore. «Non credete che sarebbe meglio aspettare domattina?» arrischiai. Mi rispose fra i denti stretti: «No, grazie, signor Campion. Voglio esserne fuori. Ho bisogno di sapere.» Li lasciai in macchina e andai a picchiare alla porta per fare alzare qualcuno. Venne Pussey in persona, quasi subito; fu gentilissimo, specialmente considerando che stava per andare a letto. Parlammo sottovoce, per una specie di riguardo all'oscurità. «Benissimo, signore» disse come risposta alle mie scuse. «Abbiamo bisogno di aiuto, in questa faccenda; questa è la verità. Se la signora può dirci qualche cosa sul defunto, sarà sempre più di quanto abbiamo saputo dal suo albergatore di Londra. Se non vi dispiace, entriamo dalla porta laterale.» Chiamai gli altri due e tutti insieme formammo una piccola processione tutt'altro che allegra, lungo il vialetto che conduceva alla parte posteriore della casa. Pussey aprì il cancello e percorremmo il breve cortile quadrato
dietro la tettoia coperta di tegole che sembrava una scuola di villaggio. Presi il braccio di Euphemie. La giovane tremava e batteva i denti; ma non si può dire che mancasse di coraggio. Pussey si mostrò pieno di tatto. «C'è l'interruttore vicino alla porta» disse. «Ma non c'è nulla che possa spaventarvi, signorina. Un momento: vado avanti io.» Aprì la porta; noi tre rimanemmo uno accanto all'altro sul gradino di pietra, davanti alla stanza mortuaria. Pussey girò l'interruttore. «Ecco» disse; e un attimo dopo inghiottì la saliva emettendo un suono in cui l'incredulità era mista con lo sgomento. La stanza era come l'avevo vista nel pomeriggio, a eccezione di una novità impressionante. Sulla tavola che si trovava nel centro non c'era più nulla. Il lenzuolo giaceva sul pavimento, come se qualcuno, alzandosi dalla tavola, lo avesse gettato a terra incurante. Peter il Babirussa era scomparso. 8 Le ruote girano Vi fu una lunga pausa di disagio. Un attimo prima, avevo visto con gli occhi della mente la figura del Babirussa disegnarsi sotto al lenzuolo. Ora l'immagine veniva scacciata cosi violentemente che sentii uno sconvolgimento nel cervello. La stanza era fredda e tranquilla. Lugg avanzò di un passo. «Ora spariscono anche i cadaveri?» esclamò con tono così impertinente che compresi che era sbalordito. «Be', ispettore, spero che il vostro elmetto sia sotto chiave!» Pussey fissava la tavola in silenzio, e la sua simpatica faccia di contadino era pallidissima. «È una cosa veramente straordinaria» cominciò; e girò lo sguardo attorno, nella stanzetta nuda e male illuminata, come sperando di trovare sulle sue bianche pareti la soluzione del mistero. Fu un momento di terrore, nella notte così silenziosa, in quella stanza così vuota, col lenzuolo di cotone spiegazzato sul pavimento. Pussey avrebbe detto ancora qualche cosa; ma in quel momento Euphemie Rowlandson, abbandonata dalla forza nervosa che l'aveva sostenuta fino allora, cominciò a urlare, scostandosi da me, con la testa gettata indie-
tro e la bocca contorta dal terrore. Una crisi di nervi. L'afferrai per le spalle e la scrollai così forte da farle battere i denti. Questo ebbe per effetto di farla tacere. Il suo urlo fu troncato, i suoi occhi mi fissarono con espressione di collera. «Tacete!» gridai. «Volete svegliare tutto il paese?» Alzò le mani per respingermi. «Ho paura» piagnucolò. «Non so quello che faccio. Che cosa è successo? Mi avevate detto che era qui. Stavo per vederlo... e non c'è più.» Cominciò a piangere rumorosamente. Pussey lanciò un'occhiata a lei e poi a me. «Forse sarebbe meglio che la signorina tornasse a casa sua» suggerì giudiziosamente. La ragazza si aggrappò a me. «Non mi lasciate! Non voglio tornare alla "Penna d'oro" per le strade buie... Non voglio, vi dico che non voglio! se c'è lui in giro, vivo...» «Va bene» la tranquillizzai. «Vi accompagnerà Lugg. Non c'è da aver paura. C'è stato un errore. Il corpo è stato rimosso. Forse l'appaltatore delle pompe funebri...» Pussey alzò la testa a queste parole. «No» mi interruppe recisamente. «Un'ora fa c'era ancora: l'ho visto io.» Euphemie ricominciò a piangere. «Non voglio andare con quello là! Non andrò con altri se non con voi. Ho paura. Voi mi avete messa in questo pasticcio e voi dovete togliermene. Accompagnatemi a casa! Accompagnatemi a casa!» Gridava sempre più forte; Pussey mi guardò supplichevole. «Forse sarà meglio che la conduciate all'albergo» suggerì senza molta fiducia. «Almeno si semplificherebbero le cose qui, per modo di dire. Intanto io telefonerò a sir Leo.» Rivolsi a Lugg uno sguardo implorante; ma lui evitò i miei occhi, e la donna appoggiò la testa sulla mia spalla. La situazione aveva tutta l'irrealtà e l'acuto disagio di un incubo. Fuori della baracca, il cortile, nella luce falsa, aveva qualche cosa di spettrale. Faceva caldo; non spirava un alito di brezza. Euphemie tremava così forte che ebbi paura che svenisse. «Torno subito» dissi a Pussey; e mi affrettai a condurre la giovane per il vialetto verso la macchina. La locanda della "Penna d'oro" è all'altra estremità del paese, su una collinetta; è nota perché ha la miglior birra - se pur non è il migliore alloggio -
del vicinato. Euphemie prese posto sul sedile davanti e quando io le sedetti accanto, mi si strinse addosso sempre piangendo. «Ho avuto una scossa» piagnucolò. «Mi ero preparata a vederlo morto, e la mia preparazione non è servita a nulla. E poi ho capito che Roly se n'è andato da solo. Voi non lo conoscete come lo conosco io, signor Campion. Quando ho saputo che era stato ucciso, ho stentato a crederlo. Era furbo e crudele. Certo si è nascosto nei dintorni.» «Oggi era certamente morto» replicai brutalmente. «Morto senza alcun dubbio. E poiché al giorno d'oggi non avvengono miracoli, probabilmente è ancora morto. Non c'è ragione di spaventarsi. Mi dispiace che abbiate avuto una scossa; probabilmente ci sarà una spiegazione molto semplice per la scomparsa del cadavere.» Fui indispettito nell'udire me stesso parlare cosi lamentosamente. Ma nell'incidente c'era qualcosa di preoccupante. La scomparsa del defunto Babirussa era illogica e deprimente. Quando, usciti dal villaggio, infilammo il sentiero coperto di erica che, silenzioso e deserto nella luce lunare, conduceva alla collinetta, la donna rabbrividì. «Non sono una visionaria, signor Campion» mormorò «ma si legge di tante strane cose che avvengono... Se si alzasse improvvisamente da dietro quei mucchi di pietre ai lati della strada e venisse verso di noi...» «Tacete» intimai più bruscamente di quanto avessi voluto. «Finirete col farvi venire una crisi isterica per lo spavento. Vi assicuro che tutto questo avrà una spiegazione semplicissima. Quando saremo alla "Penna d'oro", fatevi dare una bevanda calda e andate subito a letto. Vedrete che domattina il mistero sarà stato spiegato.» Si scostò. «Siete crudele» mormorò tornando al suo vecchio modo di fare. «Vi ho già detto che siete severo. Gli uomini severi mi piacciono.» I suoi fulminei mutamenti di umore mi sconcertavano; e fui molto contento quando fermai la macchina davanti alla locanda. La vecchia facciata di travi e cemento era completamente buia, cosa più che naturale, poiché era quasi mezzanotte. «Qual è la porta?» chiesi. «Quella su cui è scritto: "Sala di riunione". Ma immagino che sarà chiusa.» La lasciai nell'automobile mentre andavo a bussare alla porta indicata. Per qualche minuto nessuno rispose, e cominciavo a impazientirmi per il
ritardo, quando dall'interno, provenne un rumore furtivo. Bussai ancora e questa volta la porta si aprì. «Siete terribilmente in ritardo» disse una voce che mai al mondo mi sarei aspettato di udire; la faccia pallida di Gilbert Whippet apparve nel chiaro di luna. Lo guardai sbalordito, e lui ebbe la bontà di sembrare vagamente turbato nel vedermi. «Oh... hm... Campion! Buona sera! È molto tardi, no?» Stava indietreggiando nell'oscurità; ma io mi spinsi avanti e lo afferrai per una manica. «Fermo, Whippet! Dove vai?» Non fece resistenza, ma non accennò a venire avanti, dove c'era luce. Ed ebbi l'impressione che, se lo avessi lasciato, sarebbe svanito nell'oscurità. «Stavo andando a letto» mormorò. «Ho sentito bussare e ho aperto.» «Rimani qui e rispondimi» ordinai. «Che cosa fai in questa locanda?» Mio malgrado, udii nella mia voce il vecchio accento di superiorità dell'epoca del collegio. Whippet è talmente ambiguo che costringe i suoi interlocutori a un'insolita durezza. Non mi rispose, e io ripetei la domanda. «Qui?» fece, e guardò la locanda. «Oh sì, sto qui. Solo per un paio di giorni.» Era esasperante e nell'ira che sentivo accendersi in me avevo completamente dimenticato la ragazza. Udii i suoi passi dietro a me. «Signor Whippet» cominciò affannata «il corpo è scomparso! Che dobbiamo fare?» Whippet voltò verso di lei i suoi occhi chiari, nei quali mi parve di scorgere un avvertimento. «Ah, signorina Rowlandson» disse poi «siete stata fuori? Tornate un po' tardi, non vi pare?» Fui lieto di vedere che lei, almeno, non faceva la commedia. «Vi dico che il corpo è scomparso» ripeté. «Il corpo di Roly Peters non c'è più.» Parve che l'informazione sprofondasse in un pozzo. Ma per un attimo, lui sembrò comprendere. «Perduto?» fece. «Oh!... Seccatura. Quando non si sanno tenere le cose...» La sua voce si era abbassata a un mormorio; improvvisamente mi strinse la mano. «Lieto di averti visto, Campion. Verrò qualche volta a trovarti. Hm...
Buona notte.» Indietreggiò verso l'interno ed Euphemie sgusciò dentro. Con grande presenza di spirito posai un piede sulla soglia ostacolando la chiusura della porta. «Ascoltami, Whippet» dissi. «Se puoi fare qualche cosa per aiutarci in questa brutta faccenda, o se sai qualche cosa, è meglio che parli. Che cosa sai sul conto di Peters?» Mi guardò. «Oh... niente. Mi trovo qui... e naturalmente ho sentito le chiacchiere.» Afferrai nuovamente la sua manica mentre lui stava per scomparire. «Avevi ricevuto una di quelle lettere» ripresi. «Ne hai avute altre?» «A proposito della talpa? Sì. L'ho proprio ricevuta, Campion. Non so dove l'ho messa. L'ho mostrata alla signorina Rowlandson. Ma è una gran seccatura per voi aver perduto il cadavere. Avete guardato nel fiume?» Era una domanda così inattesa che mi irritò irragionevolmente. «Perché diavolo nel fiume?» chiesi. «Sai forse qualche cosa?» Nella mia eccitazione probabilmente lo strinsi più di quanto avevo intenzione di fare, perché si scrollò, liberandosi. «Io guarderei nel fiume» ripeté. «Mi sembra ovvio, no?» Fece ancora un passo indietro e chiuse la porta, rimanendo nell'interno con Euphemie Rowlandson. Avevo ancora il piede sulla soglia, però, e lui riaprì. Mi parve imbarazzato. «Non voglio essere scortese, Campion; ma è terribilmente tardi. Verrò da voi domattina, se posso; ma mi pare che non possiate fare nulla finché non avrete trovato il corpo; non vi pare?» Esitai. Quello che diceva Whippet era abbastanza giusto. Avevo una gran voglia di andarmene, per mettermi alla ricerca; ma c'erano senza dubbio delle spiegazioni che lui poteva darmi. Per esempio, che cosa faceva in quella locanda con Euphemie Rowlandson? Quell'attimo di esitazione mi tradì. Whippet fece un passo avanti e poiché io, quasi involontariamente, ne feci uno indietro, la porta mi fu chiusa in faccia dolcemente, quasi con cortesia. Lo consacrai alle divinità infernali; ma pensai che di lui mi sarei occupato più tardi. Tornai frettolosamente in macchina e ripresi la via del ritorno. Mentre mi dirigevo nuovamente al posto di polizia, cercai di riallacciare la ricomparsa di Whippet con la misteriosa faccenda. Percorsi il mezzo chilometro in poco più d'un minuto e fermai davanti alla villetta di Pussey nell'istante in cui un'altra automobile giungeva dalla
direzione opposta. Era l'auto di Leo. Guidava il figlio di Pepper e la voce di Leo mi chiamò dall'interno. «Siete voi, Campion? Che strana storia! Pussey mi ha informato per telefono.» Mi avvicinai alla sua auto e aprii la portiera. «Venite su?» chiesi. «Senza dubbio, figliolo. Sarei arrivato anche prima ma mi sono fermato a prendere Bathwick. Pare che nel tornare a casa, dopo essere stato da noi, abbia avuto un piccolo incidente.» Mentre parlava tese la mano e accese la luce che era nell'interno della vettura: vidi la faccia pallida e imbarazzata del reverendo Philip Smedley Bathwick che mi sorrideva con una imprevista cordialità. Era inzuppato come una spugna; la giacca grondava acqua e il colletto era afflosciato come un lucignolo. «Dice che è andato a finire nel fiume» disse Leo. 9 "Buon giorno a voi, signore" «Nel fiume?» feci eco, mentre la sciocca osservazione di Whippet mi tornava in mente. «Davvero?» Bathwick ridacchiò. Era una risatina nervosa, ma Leo brontolò. «È andata così» disse il vicario. «Tornavo a casa per una scorciatoia attraverso i prati, quando ho inciampato in un argine e sono caduto nel fosso. Se non avessi avuto la mia pila, non me la sarei cavata. Sono tornato sulla strada provinciale e sir Leo, molto gentilmente, mi ha dato un passaggio.» Era una storia fantastica, perché il chiaro di luna era così luminoso che quasi si distinguevano i colori; credo che anche Leo se ne fosse accorto, benché il suo cervello sia capace di seguire una sola idea. In quel momento lui non desiderava altro che tornare alla faccenda della scomparsa. «Non importa, non importa» interruppe. «Tanto, fra poco sarete a casa. Pepper vi accompagnerà. Fatevi un bel vino caldo. Avvolgetevi bene in una coperta e vedrete che non vi succederà niente.» «Hm... grazie tante» rispose Bathwick. «Credo anch'io che sia la soluzione migliore. Debbo esprimervi...» Non udimmo altro, perché il giovane Pepper, che senza dubbio condivideva il desiderio del suo padrone di trovarsi al più presto possibile nel luo-
go dove, si era svolto un fatto così emozionante, premette l'acceleratore; e Bathwick fu sottratto al nostro sguardo. Mi dispiacque. La sua strana cordialità verso di me non era la sola circostanza bizzarra della sua breve comparsa. «Dove lo avete trovato?» chiesi a Leo. «Sulla strada inferiore. Gli siamo quasi arrivati addosso. Ma non ha niente... soltanto un bagno freddo.» Mentre parlava, Leo lottava con la serratura della porta dell'ufficio e sembrava non interessarsi d'altro. «Lo so» ribattei. «Ma ha lasciato Highwaters verso le nove e tre quarti. Mi pareva che Kingston avesse intenzione di accompagnarlo a casa...» «Infatti» e Leo sospirò di sollievo quando finalmente aprì. «Kingston lo ha lasciato all'angolo di White Barn, poiché Bathwick gli aveva detto che sarebbe arrivato a casa attraversando le paludi. Non possono essere più di cinquecento metri. Ma quello stupido ha inciampato in un argine; quindi ha perso la calma ed è tornato sulla strada principale. Una cosa semplicissima, Campion. Nessun mistero. Andiamo, andiamo, figliolo! Non perdiamo tempo.» «Ma ora è mezzanotte» obiettai. «Non possono esserci volute due ore per arrampicarsi sull'argine!» «Può anche darsi di sì» ribatté Leo irritato. «È un individuo senza spina dorsale. A ogni modo, non possiamo preoccuparci di luì, adesso. Vi sono cose più serie a cui pensare. Non mi piace questa faccenda del cadavere. Mai successo niente di simile nel mio distretto. È una cosa indecorosa. Ve lo dico io, Campion. Ah, ecco Pussey. Niente di nuovo, amico mio?» Pussey e Lugg avanzavano insieme. Distinguevo chiaramente i loro lineamenti e ancora una volta mi stupii che Bathwick non avesse visto un argine: con quella luce neanche una tana di coniglio sarebbe sfuggita a una vista normale. Vidi subito che Pussey aveva superato il suo primo terrore superstizioso. In quel momento era più seccato che sbalordito. «Un gran brutto scherzo, signore» disse. Ci condusse verso l'obitorio e, mentre Lugg rimaneva silenzioso lui ci diede un resoconto conciso delle sue prime investigazioni. «Tutte le finestre sono sprangate dall'interno, come vedete; e la porta era chiusa a chiave. Alle undici meno un quarto ho fatto un giro per controllare se tutto era in regola; e il corpo c'era ancora. Sono poi tornato sul davanti della casa e mi sono trattenuto un po'; dopo di che sono salito in camera da letto. Stavo per spogliarmi quando è arrivato il signor Campion con una
signorina e il signor Lugg; siamo venuti qui e abbiamo fatto questa scoperta.» Fece una pausa e trasse un profondo respiro. «Non avete dato la chiave a nessuno?» borbottò Leo. «No, signore.» Sentii che l'irritazione di Leo, naturale reazione contro quel che sembrava un miracolo, cominciava a fargli ribollire il sangue senza però manifestarsi. «Pussey, vi ho sempre ritenuto un ottimo agente» cominciò con una calma pericolosa «ma ora voi pretendete farmi credere a un racconto di fate. Se il corpo non è uscito da una finestra, deve essere uscito dalla porta; e se l'unica chiave era in vostro possesso...» Pussey tossì. «Mille scuse, signore; ma il signor Lugg e io abbiamo fatto una curiosa scoperta. Questa casa è stata costruita da Royle, il capomastro che abita nella strada grande, e il signor Lugg e io abbiamo osservato che parecchi altri fabbricati di questo cortile, costruiti nella stessa epoca, hanno tutti la stessa serratura.» La collera di Leo si calmò e lui sembrò interessato. «Manca qualche altra chiave?» «No, signore; ma siccome il signor Royle ha fatto molte riparazioni qui, recentemente, non è improbabile...» Si interruppe. Leo bestemmiò e questo sembrò dargli un certo sollievo. «Ah be', allora non c'è niente da fare» bofonchiò. «Non so perché vi siate preso il disturbo di chiudere, Pussey. Maledettamente inutile. Tipico di questo paese» soggiunse poi sottovoce rivolgendosi a me. Ma Pussey aveva ancora qualche cosa da dire. Con malcelato orgoglio, ci condusse, calpestando l'erba secca, allo steccato che delimitava la proprietà dell'ufficio di polizia. Tre assi erano state abbattute, evidentemente per poter passare nel sentiero che correva dall'altra parte. «Questo è recente» disse «è stato fatto stasera.» Un'accurata ricerca sul sentiero non rivelò nulla. Il terreno era duro; la superficie era formata da fango riarso disseminato di qualche ciuffo d'erba. Fu Pussey che espresse ciò che tutti stavamo pensando. «Chiunque lo abbia portato via, deve averlo fatto tra le dieci e tre quarti e le undici e venticinque. Probabilmente è stato portato via con un'auto o con un carretto. Era molto pesante. Se mi permettete di esprimere la mia
idea, signore, dirò che secondo me è meglio aspettare fino a domattina, e allora interrogare tutti i vicini. Al buio non si può far nulla.» Fummo d'accordo. Il giovane Pepper riaccompagnò Leo, e io rimandai Lugg con la mia macchina. Pussey andò a letto e io mi avviai lungo il sentiero erboso che passava dietro la baracca. La luna volgeva al tramonto e a oriente si scorgeva già qualche lieve bagliore; l'aria era più fresca, ciò che mi diede il desiderio di tornarmene a casa a piedi. Il sentiero correva per un tratto fra due alte siepi. Pussey mi aveva spiegato chiaramente la via da percorrere per raggiungere la strada principale, per cui cominciai a camminare indugiando, e sempre pensando allo strano incidente. Evidentemente Leo e Pussey erano irritati. L'assassino li aveva impressionati, ma l'impertinente scomparsa del cadavere li offendeva profondamente. Ripensandoci, mi parve che questo episodio fosse quello che dava, forse più di qualsiasi altro elemento, una certa luce agli avvenimenti; benché non ne avessi le prove, mi sembrò che liberasse completamente da ogni sospetto gli amici di Leo che si erano raggruppati intorno a Poppy in questa circostanza. Poiché, se ammettevo che chiunque di loro avrebbe potuto facilmente inscenare l'incidente un po' buffo che aveva ucciso il Babirussa, non vedo nessuno di loro nell'atto di portar via, più tardi, il cadavere, in quel modo così sconveniente. Mentre consideravo le altre figure del quadro, e fra queste Bathwick mi appariva in primo piano, uscii dal sentiero per attraversare un campo in leggera salita che formava una collinetta stagliata contro il cielo grigio. Sapevo che dopo quel campo dovevo attraversarne un altro, se volevo risparmiare due o tre chilometri di strada. La cima della collina era quasi buia. Camminavo lentamente, immerso nei miei pensieri, quando dal ciglio del pendio mi giunse un suono così umano e allo stesso tempo così terrificante che mi sentii drizzare i capelli. Era la tosse del Babirussa. La notte era calmissima, e io sentii distintamente il gorgoglio della laringe, l'ululato e perfino lo sbuffo finale. Rimasi immobile per un istante, in preda a tutti i ridicoli timori dell'infanzia. Quindi ripresi a salire il breve pendio a passo veloce. Il cuore mi batteva forte e sentivo quasi nelle orecchie il fischio del vento. A un tratto, proprio mentre stavo per raggiungere la sommità, vidi qualche cosa disegnarsi contro il cielo grigio. L'apparizione fu così inattesa che
mi fermai un momento a fissarla sbalordito. Era un treppiedi, con qualche cosa che a tutta prima mi sembrò un fucile ma che subito dopo si rivelò un telescopio di vecchio modello. Mi avvicinai cautamente ed ero quasi vicino, quando una figura si materializzò accanto al treppiedi e rimase immobile ad attendermi. Era contro luce e non distinguevo che i contorni di un uomo piuttosto piccolo. Mi fermai e, in mancanza di meglio, dissi la cosa più stupida che si sarebbe potuta dire in quel momento. Dissi: "Buongiorno". «Buon giorno a voi, signore» rispose una delle voci più spiacevoli che io abbia mai udito. L'uomo venne verso di me e lo riconobbi con un certo sollievo, a causa della sua andatura a passettini. «Forse ho il piacere di conoscervi, signore» cominciò. «Non siete il signor Campion?» «Per l'appunto. E voi siete il signor Hayhoe.» Rise con un po' di affettazione. «Tanto meglio» mormorò «tanto meglio. Desideravo avere oggi un colloquio con voi. E non sapevo come fare per non essere indiscreto. Questo è un piacere veramente inatteso. Non immaginavo che un uomo della vostra età andasse in giro all'alba. Molti giovani moderni preferiscono passare a letto la maggior parte della loro giornata.» «Siete mattiniero anche voi» replicai dando un'occhiata al telescopio. «Aspettate il levar del sole?» «Sì.» E rise di nuovo. «Questo e altre cose.» Era una ben strana conversazione, alle due del mattino, sulla sommità di una collina; pensai in quel momento che forse mi trovavo davanti a uno dei tanti ornitologi che girano per le campagne con lo scopo di identificare gli uccelli. Ma lui mi fece mutare idea quasi subito. «Se non m'inganno, state facendo delle indagini sulla morte di quel povero Harris» riprese. «Ebbene, signor Campion, posso esservi molto utile. Desidero farvi una proposta. In cambio di una somma ragionevole, di cui fisseremo tra noi l'ammontare, sono disposto a darvi un'informazione interessantissima; un'informazione che da solo otterreste dopo molto tempo, e che può condurvi a una soddisfacente conclusione della vostra inchiesta. La vostra reputazione professionale ne uscirà migliorata, e naturalmente non reclamerò per me un grammo di gloria. Per esempio, se stabilissimo...» Lo interruppi con una risata. Sono offerte che mi sono state fatte molto
spesso. Mi tornò in mente la tosse. «Suppongo che Harris fosse vostro parente» osservai. Si irrigidì e si strinse nelle spalle. «Un nipote» rispose «e non dei più rispettosi. Era un giovane molto ricco e io... insomma, io non sono di quegli uomini che normalmente passano le loro vacanze in una misera capanna da contadino o le loro serate a girandolare malvestiti per le campagne.» Era un vecchio odioso; ma fui lieto che mi avesse chiarito il mistero della tosse. In quel momento mi venne in mente una cosa. Dopo tutto, per quanto ne sapevo, io ero la sola persona che potesse identificare Roly Peters con Osvald Harris, eccettuata forse la Rowlandson, la quale, però, aveva solo dei sospetti. «Sentite un po'» mormorai «anche Roland Peters era vostro nipote?» Con mio vivo dispiacere lui eluse la mia domanda. «Ho parecchi nipoti, signor Campion» rispose con falsa dignità «o per meglio dire, li avevo. Non mi piace insistere, ma tengo a dirvi che considero questo come un colloquio d'affari. Quindi vi prego: mettiamoci prima d'accordo sulle condizioni. Vogliamo fare cinquecento sterline per una spiegazione completa e privata di tutta la storia? Oppure, si può dividerla in diversi capitoli, come si è svolta in realtà.» Mentre continuava a parlare, io riflettevo; e a questo punto ebbi un'ispirazione. «Che cos'è, signor Hayhoe, la storia della talpa?» Gli sfuggi un piccolo suono acuto che però trattenne immediatamente. «Oh!» nella sua voce c'era rispetto e prudenza «anche voi siete al corrente della talpa?» 10 Il dramma del parroco Non risposi. Nella mia assoluta ignoranza, avrei potuto dire ben poco. Perciò rimasi silenzioso, sperando di tirarlo in inganno. Ma lui non era un tipo indeciso. «Non ci avrei pensato» disse inaspettatamente «ma certo da quella parte può esserci qualche cosa. È una collaborazione che ha il suo valore. Mi sembra che siate più furbo di quanto si potrebbe credere, sia detto senza
offesa.» Sospirò e sedette sull'erba. «Si» continuò stringendosi le ginocchia con le mani «ripensandoci, dovremmo arrivare lontano, voi e io, se perveniamo a un accordo. Dunque, per le condizioni... Non mi piace insistere su un argomento del genere, ma in questo momento le mie finanze sono alquanto in disordine. Fino a che cifra sareste disposto a venirmi incontro?» «Neanche con una sterlina» risposi deciso, ma con cortesia. «Se sapete qualche cosa intorno alla morte di vostro nipote, è vostro dovere andare a raccontarlo alla polizia.» Fece spallucce. «Be'» disse con rammarico. «Vi ho offerto la possibilità. Non potete negarlo.» Mi voltai per andarmene, sicuro che mi avrebbe richiamato. «Caro giovanotto» protestò quando ebbi fatto qualche passo per scendere il pendio dal lato opposto «non siate precipitoso. Parliamo ragionevolmente. Ho una certa informazione che per voi ha un valore. Perché dovremmo litigare?» «Se sapete qualche cosa di importante» ribattei voltando appena la testa «non dovreste parlarne.» «Ma non mi capite!» Sembrò molto sollevato. «La mia situazione è assolutamente sicura. Non ho nulla da perdere e tutto da guadagnare. La mia posizione è semplice. Sono casualmente in possesso di un valore che intendo realizzare. Vi sono due probabili acquirenti: uno siete voi, l'altro è una certa persona che non ho bisogno di nominare. Naturalmente, propenderò per il migliore offerente.» Cominciavo a trovarlo noioso. «Signor Hayhoe» dissi «sono stanco e desidero andare a letto. Mi state facendo perdere tempo. E state anche facendo l'imbecille. Mi dispiace essere tanto esplicito, ma le cose stanno proprio così.» Si alzò. «Sentite, Campion» e il suo tono era completamente mutato; tutto quanto vi era di artificioso era scomparso, dando luogo a un accento invitante. «Se volessi, potrei dirvi qualche cosa di interessante. La polizia può minacciarmi; può darmi la caccia, ma non può arrestarmi perché contro di me non c'è nulla. Non parlerò con quella gente; né loro potranno costringermi. Posso mettere voi sulla buona strada per considerazioni speciali. Quanto credete che questo possa valere per voi?» «In queste condizioni, molto poco. Al massimo mezza corona.»
Rise. «Credo di poter trovare di più» soggiunse dolcemente. «Molto di più. Però, non sono ricco. Detto fra noi, in questo momento mi trovo molto a corto. Se ci vedessimo domattina, verso le sette? Avrei così più di ventiquattr'ore a mia disposizione. Se faccio fiasco dall'altra parte, ebbene, ridurrò il mio prezzo. Che ne dite?» Era veramente un individuo disgustoso; ma lo trovai meno irritante di prima. «Possiamo avere una conversazione riguardante la talpa» concedetti sgarbatamente. Mi lanciò un'occhiata penetrante. «Bene» disse poi. «Riguardante la talpa... e altre cose. Allora ci vedremo qui domattina alle sette...» Mentre mi allontanavo mi venne un'idea. «A proposito dell'altro acquirente: se fossi in voi, non mi avvicinerei a sir Leo.» Questa volta la sua risata fu spontanea. «Non siete tanto furbo quanto credevo» esclamò poi. E io mi allontanai con un nuovo argomento di riflessione. Francamente, fino a quel momento non lo avevo ritenuto un possibile ricattatore. Credetti allora di far bene a lasciarlo cuocere nel suo brodo per ventiquattr'ore; ma, come ho detto, allora non sapevo con che individuo avessi a che fare. Comunque, sono abbastanza contento di me quando ripenso a quella piccola conversazione sul pendio. Quando giunsi a Highwaters, era giorno chiaro. L'aria era purissima, il cielo di un azzurro trasparente, e gli uccelletti, indisturbati, cinguettavano allegramente. Immaginai che il balcone della sala da pranzo fosse rimasto aperto, e mentre attraversavo la terrazza per avvicinarmi, accadde una cosa piuttosto spiacevole. Jean, che non avrebbe avuto alcun motivo di essere sveglia a quell'ora, usci sul balcone della sua camera e mi vide. Alzai gli occhi e mi accorsi che esaminava con un misto di sorpresa e di disprezzo la mia sagoma in giacca da sera che cercava di sgusciar dentro inosservata. «Buon giorno» dissi innocentemente. Un rossore ardente le invase le guance. «Spero che abbiate riaccompagnato a casa la signorina Rowlandson sana e salva» rispose irritata; e rientrò nella stanza senza lasciarmi il tempo di darle una spiegazione. Feci un bagno tepido e dormii un paio d'ore; poi rimasi ad attendere Leo,
il quale apparve verso le otto. Uscimmo per fare una passeggiata in giardino prima di colazione, e gli esposi il mio desiderio. «Far sorvegliare quell'uomo?» disse subito. «Buona idea. Telefonerò a Pussey. Un nome straordinario, Hayhoe. Dev'essere falso. Qualche motivo di sospetto, in linea generale?» Gli riferii la conversazione sulla collina, e in un primo tempo lui espresse il pensiero di fare arrestare immediatamente l'individuo. «Non mi pare il caso» obiettai. «Non credo che possa essere coinvolto personalmente, a meno che non giochi una partita estremamente pericolosa. Lasciandolo libero, ci condurrà forse a qualche scoperta interessante.» «Come volete. Per mio conto, preferisco il metodo diretto.» E i fatti dimostrarono che aveva perfettamente ragione; ma in quel momento nessuno di noi lo sapeva. Jean non scese a colazione; ma non ebbi il tempo di pensare a lei perché Kingston arrivò prima che avessimo terminato. Balbettava per l'agitazione e non dimostrava davvero i suoi quarant'anni quando lo vedemmo percorrere a lunghi passi il viale, coi capelli scomposti e un'insolita luce negli occhi generalmente sonnacchiosi. «L'ho trovato» annunciò prima ancora di avere oltrepassato la soglia. «Sono rimasto a frugare fra le mie carte metà della notte, ma finalmente l'ho trovato. I legali che si occupavano degli affari di Peters erano Skinn, Sutain & Skinn, e stanno in Lincoln's Inn Fields. Siete contento?» Presi nota dei nomi e dell'indirizzo, e lui mi guardò con aria di attesa. «Se volete, posso prendermi mezza giornata di libertà e andarli a trovare in vece vostra» disse. «O andate voi?» Mi dispiacque smorzare il suo entusiasmo, poiché pensai che la sua vita doveva essere incredibilmente monotona, dato che lui aveva tanta smania di fare l'investigatore. «Meglio di no» risposi. «Credo che sarà bene aspettare. Sapete... il cadavere è scomparso.» «Davvero? Oh, guarda!» Sembrò soddisfattissimo e continuò a discorrere con volubilità mentre io gli spiegavo la cosa. «Emozionante, no? Credo anch'io che sarà bene non occuparsi dei legali, per un paio di giorni. Posso far nulla per voi? Devo andare ai "Cavalieri" per vedere la mia ammalata; poi devo visitare ancora un paio di persone, ma dopo di questo posso essere completamente a vostra disposizione.» «Bisogna che vada da Poppy» risposi. «Posso venire con voi.» Leo ci aveva lasciati ed era andato nel suo studio a telefonare; stava par-
lando con Pussey quando io entrai. Ascoltò con inattesa intelligenza quello che gli narrai piuttosto frettolosamente. «Un momento» disse quando ebbi finito. «Voi credete che vi sia qualche rapporto fra quel Peters che avete conosciuto e Harris; e desiderate che io interessi qualcuno a Londra perché parli con questi avvocati, a scopo di identificare il corpo. È così?» «Perfettamente. Forse non emergerà nulla di importante; ma loro possono fare delle indagini sul conto dei due uomini: Peters e Harris. Soprattutto, desidererei sapere dove Harris ha preso il denaro di cui disponeva: se era assicurato o cose del genere. So che si brancola nel buio, ma c'è una probabilità che loro possano esserci utili. La faccenda va trattata con delicatezza; voglio dire che non credo si possa sbrigarla per telefono.» Leo annuì. «Benissimo, figliolo. Qualunque cosa possa 'aiutarci alla soluzione di questo terribile mistero, capite bene... Pussey metterà un agente alle calcagna di quel Hayhoe.» Si interruppe bruscamente, fissandomi, poi riprese: «Speriamo che tutto questo non ci conduca a rintracciare qualcuno...» Si interruppe di nuovo, smarrito. «Ora vado ai "Cavalieri"» mormorai. Tossì. «Vi seguirò subito. Non la spaventate, figliolo; non la spaventate. Non posso credere che quella povera donnina c'entri per qualche cosa.» Kingston mi aspettava in macchina. Era esuberante. Sembrava che la piega che stavano prendendo le cose lo eccitasse. «Immagino che questo rientri in quello che è il vostro lavoro quotidiano, non è vero?» mi chiese con invidia mentre salivo accanto a lui. «Ma qui non succede mai nulla; quindi è più che normale che io sia così vivamente interessato. È strano come la mente umana reagisce alle tragedie altrui... Non conoscevo Harris, ma senza dubbio per quel poco che l'ho visto non lo trovavo simpatico. Direi che al mondo si sta meglio senza di lui. L'ho visto poco prima che morisse, forse un'ora o due, e ricordo di aver pensato in quel momento che lui rappresentava una perdita di spazio.» Ero immerso nelle mie riflessioni, ma non volli sembrargli scortese. «Quando è stato questo?» chiesi distratto. Fu felice di rispondermi. «Sulle scale della "Taverna dei Cavalieri". Stavo salendo a visitare la mia ammalata d'itterizia, e lui scendeva barcollando. Non ho mai visto un uomo in quello stato l'indomani di una sbornia. Mi sfiorò, passando; aveva
gli occhi vitrei e la lingua che gli pendeva fuori della bocca. Non disse neanche "buongiorno"... già, voi conoscete il tipo.» «Quella vostra malata» dissi «dev'essere rimasta al piano di sopra mentre avveniva la disgrazia...» Si volse stupito. «Florence? Sì, era di sopra. Ma non è una buona traccia, questa. La sua stanza è nella parte posteriore della casa, in una piccola soffitta. Del resto, potete venire a vederla. Ora sta un po' meglio, povera creatura; ma fino a due giorni fa non si reggeva neanche in piedi. Però, potrebbe aver sentito qualche cosa. Le domanderò.» Gli dissi di non prendersi quel fastidio, e lui continuò a chiacchierare, felice, facendo ogni specie di ipotesi inutili. Nei momenti in cui lo ascoltavo, gli davo tutta la mia simpatia, pensando che una vita che ha bisogno di un delitto per diventare interessante dev'essere veramente insipida e noiosa. Quando arrivammo ai "Cavalieri", lui si recò direttamente dalla sua ammalata, mentre io andavo a cercare Poppy nel vestibolo. Era presto, non c'era nessuno. Poppy sembrò contenta di vedermi e insistette per offrirmi subito qualche cosa da bere. La seguii nel bar e mentre mi versava whisky e soda, mi affrettai a interrogarla prima che Kingston potesse essere di ritorno. «Avete detto che ricordate molto chiaramente la mattinata di ieri?» cominciai. «Avete avuto qualche cliente che è andato via da qui poco prima che si verificasse l'incidente? Qualcuno che non era in casa in quel momento, ma che può essere stato qui mezz'ora prima?» Si interruppe nell'atto di prendere dal frigorifero dei cubetti di ghiaccio. «Nessuno» rispose riflettendo «a meno che non vogliate calcolare il parroco.» Mi tolsi gli occhiali. «Bathwick?» «Sì. Ha l'abitudine di venire qui verso mezzogiorno. Gli piace l'aperitivo all'americana, come quello che sto preparando per voi. Non ne prende mai più di uno. Viene verso le dodici, beve, e se ne va senza perder tempo. Lo accompagnai io stessa alla porta, ieri mattina. Passa sempre dall'orto che confina col prato del vicariato. Perché?» Rimasi a fissare il mio bicchiere, facendo girare il ghiaccio nell'ambra fluida; e in quel momento ebbi davanti agli occhi tutta la storia. Ma disgraziatamente non ne vidi che la metà. 11
"Perché affogarlo?" Stavo ancora rimuginando quando Poppy mi posò una mano sul braccio. Mi voltai e vidi il suo viso grassoccio, rosso e angosciato. «Albert» mormorò confidenzialmente. «Non posso parlare adesso perché Kingston sta scendendo le scale; ma c'è qualche cosa che vi debbo dire. Sssst! Eccolo!» Tornò al bar e cominciò a rovistare fra i bicchieri. Kingston entrò, allegro e con una certa aria di superiorità. «È quasi guarita» disse sorridendo a Poppy «ormai è questione di un paio di giorni. Non datele da mangiare roba condita. Volete salire a vederla, Campion?» Poppy inarcò le sopracciglia e Kingston le spiegò. L'idea la fece ridere. «È una bambina che non ha né la forza né l'intelligenza di fare una cosa simile. E se anche l'avesse, non lo farebbe. È una buona creatura, la nostra Florence. Florence! Non ho mai sentito una simile scempiaggine.» Kingston però insistette; e la sua smania di entrare nel quadro sarebbe stata esasperante, se vi fosse stato da fare qualche cosa di urgente. Ma dato come stavano le cose, salii con lui e per un labirinto di corridoi e di scalette giungemmo a un piccolo solaio sotto il tetto all'estremità dell'ala opposta a quella dov'era la dispensa. Quando vidi Florence, capii che Poppy aveva ragione. Quel visino giallo era triste e indifferente. Kingston le rivolse delle domande: "Avete udito niente? Siete uscita dalla stanza? È accaduto nulla d'insolito ieri?". E lei rispose a tutte: "No, signore", con la pazienza di chi è veramente ammalato. La lasciammo e ci recammo a dare un'altra occhiata alla dispensa. Era nello stesso stato in cui l'avevo lasciata. Kingston si dava una grande aria d'importanza. Evidentemente si compiaceva del suo nuovissimo ruolo. «Qui c'è una graffiatura» disse indicandomi quella che avevo già osservato. «Non vi dice nulla, Campion? Sembra fatta di fresco, no? Non sarebbe il caso di cercare delle impronte digitali?» Guardai malinconicamente la parete ruvida; quindi lo ricondussi giù da basso. Finalmente riuscimmo a liberarci di lui. Mi aveva offerto di accompagnarmi al posto di polizia, ma rifiutai, spiegandogli che Leo doveva venirmi a prendere. Diedi un'occhiata a Poppy mentre parlavo e la vidi arrossire.
Rimanemmo insieme accanto alla finestra a guardare l'automobile di Kingston che scompariva in fondo al viale. Poppy sospirò. «Sono "seccati"» disse. «Sono tutti molto seccati, poverini. È un bravo figliolo, lui, e non vorrebbe davvero atteggiarsi a divoratore di cadaveri; ma questo gli fornisce un argomento di conversazione, quando si reca a visitare gli ammalati. Dev'essere terribile andare a trovare tutti i giorni le stesse persone quando non si ha nulla di nuovo da raccontare loro; non vi pare?» «Credo anch'io» risposi dubbioso. «Ma voi, che cosa avevate da dirmi?» Non mi rispose subito, ma un rossore intenso le coprì il volto. «Ho avuto una piccola disputa con Leo, ieri» cominciò finalmente. «Nulla di importante, senza dubbio, benché uno debba sempre difendere i propri clienti e... amici. So di avergli dato un dispiacere. Gli ho detto una sciocca menzogna e poi non ho voluto dare spiegazioni. Capite, non è vero?» Fece una pausa, guardandomi. «Capisco benissimo» risposi con un sorriso. «Quello che è stupido è che si tratta proprio di una cosa insignificante» rispose giocherellando coi suoi anelli. «La gente di qui è terribilmente "snob", Albert.» Non capivo bene e glielo dissi. «Ebbene, si tratta di Hayhoe» esplose allora. «Un individuo odioso, Albert, ma anche lui è un uomo e ha diritto di vivere come tutti gli altri, non è vero?» «Un momento. Parliamoci chiaro. È un vostro amico questo Hayhoe?» «Oh no, non "amico".» Fece un gesto con la mano come per spazzar via la parola. «Ma è venuto qui la settimana scorsa per aiutarmi.» Ebbi un'idea. «Si è fatto prestare del denaro?» «Oh no!» rispose scandalizzata. «Povero diavolo, certamente vive tra gli stenti. Mi ha raccontato la sua storia e può darsi che io gli abbia prestato una sterlina o due. Ma questo non vuol dire che "si è fatto prestare" del denaro. Vedete, tesoro, è andata così. È arrivato un paio di giorni dopo che quel maledetto Harris era venuto a stabilirsi qui. Stavo appena cominciando a capire che razza d'individuo fosse Harris, quando è arrivato quel povero vecchio, il quale ha chiesto di parlarmi a quattr'occhi e mi ha detto ogni cosa. Harris era suo nipote, capite; c'era stata fra loro non so che storia di partita a poker e, non ricordo bene i particolari, pare che quel piccolo
farabutto di Harris abbia portato via al vecchio fino all'ultimo centesimo. Voleva vederlo per ottenere che gli restituisse qualcosa e desiderava che io lo aiutassi. L'ho accompagnato nella stanza di Harris...» «Che avete fatto?» esclamai inorridito. «Si, gli ho indicato la stanza e lui è salito. Questo è avvenuto qualche giorno fa. C'è stato un terribile litigio e il povero Hayhoe è ridisceso di corsa. Era evidentemente tormentato da un pensiero, ma non è più apparso qui, fino a ieri sera, quando casualmente Leo lo ha visto. Non volevo spiegargli tutta questa storia, perché... perché è inutile mettere negli impicci un uomo che nella mattinata di ieri non si è avvicinato alla casa... così ho tagliato corto con Leo, e lui si è adirato. Spiegate voi la cosa per me, Albert. Un altro whisky?» Rifiutai di bere e promisi di fare del mio meglio per chiarire la questione. «Come fate a sapere che Hayhoe non è venuto ieri mattina?» chiese poi. Mi guardò come se avessi detto una bestialità. «Credo di sapere chi va e viene in casa mia, no? So bene che qui credono che io sia una vecchia sciocca; ma non sono completamente rimbecillita. Del resto, tutti sono stati interrogati. E nessuno ha detto di averlo visto.» «E che cosa è venuto a fare ieri sera?» «Ieri sera? Oh Dio...» esitò nuovamente «è difficile da spiegare. È venuto a dirmi che comprendeva come dovevo sentirmi a disagio, essendo circondata da gente "snob" e campagnola in una circostanza come questa, e mi ha offerto il suo aiuto, da uomo di mondo.» Rimase pensierosa per un istante. «Veramente, ritengo che in fondo sia venuto per bere un whisky» aggiunse poi con quel senso di praticità che la rende sempre così conciliante. «Gli avete prestato altro denaro?» mormorai con diffidenza. «Solo mezza corona. Non lo dite a Leo. È convinto che io sia una stupida!» Tornai a pensare a Bathwick; allora Poppy mi accompagnò nell'orto e mi mostrò il viottolo che conduceva al giardino del vicariato. Era un vialetto tranquillo, quasi interamente nascosto dal fogliame di alberi fruttiferi. Mentre tornavamo verso la casa, mi rivolsi a lei. «Sentite, mia cara. So che la polizia ha tormentato i vostri amici per la disgrazia di ieri mattina, e non ho nessuna intenzione di infastidirli a mia volta; ma credete che con un interrogatorio discreto, fatto in forma di con-
versazione, si possa venire a sapere se qualcuno è andato al piano di sopra poco prima dell'incidente? Per esempio, Bathwick sarebbe potuto tornare indietro senza dare nell'occhio.» «Un parroco!» esclamò Poppy. «Dio mio... non crederete...? Oh, Albert! Non potete supporre...» «No di certo» replicai in fretta. «Pensavo soltanto se poteva essere andato di sopra. Sarebbe interessante saperlo; ecco tutto.» «Lo saprò» ribatté Poppy decisa. La ringraziai e aggiunsi un leggero avvertimento a proposito della legge sulla calunnia. «Non me lo dite!» Poi riprese, brillantemente: «Ma non è quella che sta arrivando, la macchina?» Ci affrettammo a scendere per andare incontro a Leo. Poppy si rassettò i riccioli grigi. Ma era Lugg con la mia auto che si fermò all'ingresso principale. Mi ammiccò misteriosamente; e quando mi avvicinai vidi che la sua faccia da luna piena tradiva un'insolita eccitazione. «Salite» ordinò. «Il principale vuole che veniate subito al posto di polizia. Ha qualche cosa per voi.» «Hanno trovato il corpo?» Sembrò deluso. «La vostra seconda vista vi aiuta a meraviglia. Buongiorno, signora.» Guardava Poppy da sopra le mie spalle, non per deferenza, credo, ma in memoria delle molte birre bevute. «Sono dolente» le spiegai «ma debbo andare. Leo mi aspetta. Vi sono novità. Ve lo manderò qui appena l'eccitazione del primo momento sarà calmata.» Mi accarezzò il braccio. «Va bene» disse con serietà. «Fate così. È un gran brav'uomo, Albert. Uno dei migliori. Ditegli che sono stata sciocca e che me ne dispiace, ma... che non me ne parli quando ci rivediamo.» Salii accanto a Lugg. «Dov'era?» chiesi mentre riprendevamo la corsa. «Nel fiume. Come niente fosse. Un tale che era andato in barca a pescare ha fatto la scoperta. Se avessimo avuto qui la vostra conchiglia magica, forse ce lo avrebbe rivelato subito.» Non lo ascoltavo. Stavo pensando a Whippet. Whippet e le lettere anonime, Whippet ed Euphemie, e ora Whippet e la sua straordinaria congettura... ammesso che si trattasse di una congettura. Non riuscivo a comprendere che figura lui rappresentasse nel quadro. La sua presenza sconvolgeva tutti i miei calcoli. Decisi di avere una conversazione con lui.
Lugg era di pessimo umore. «Siamo venuti in un bel posto, non c'è che dire... Prima rompono la testa a un individuo e poi lo buttano nel fiume... C'è della gente che proprio non è mai contenta!» Questo era il punto che mi dava maggiormente da pensare. Perché nel fiume, con la sicurezza che presto o tardi il cadavere sarebbe stato ritrovato? Nella camera mortuaria trovammo Leo e Pussey insieme ai due pescatori che avevano rinvenuto il cadavere. Chiamai Leo in disparte, ma lui non volle darmi retta. L'eccitazione lo faceva balbettare. «È un obbrobrio» farfugliava. «Una cosa oltraggiosa. Proprio nel mio villaggio, Campion! Un bruttissimo tiro. E senza nessun bisogno di fare una cosa simile!» «Credete?» osservai, poi gli esposi una mia idea. Rimase a fissarmi; nei suoi occhi turchini si leggeva l'incredulità. Per essere un poliziotto, Leo ha una sorprendente fiducia nell'onestà innata del suo prossimo. «Abbiamo bisogno di un vecchio» proseguii. «Dev'essere una persona non solo abile, questo si capisce, ma anche capace di tacere. C'è qualcuno qui nei paraggi?» Rifletté. «C'è il vecchio professor Farringdon, a Rushberry» affermò finalmente. «Ha fatto qualche cosa del genere per noi qualche tempo fa. Ma mi pare che la causa della morte sia ovvia; lo vedete anche voi. Come si giustificherebbe un'autopsia?» «In caso di morte violenta, un'autopsia è sempre giustificata» osservai. Fece un cenno di assenso. Poi riprese: «Ma ieri, quando avete visto il corpo, avete notato nulla che possa avervi messo in testa quest'idea?» «No» risposi con sincerità. «Ma ora le circostanze sono mutate. L'acqua ha una proprietà particolare, non è vero?» Mi guardò di sbieco. «Che volete dire?» «Che l'acqua ha la proprietà di lavare.» E lo lasciai per andare in cerca di Whippet. 12 L'elemento disturbatore
Stavo per salire in automobile quando ricordai una cosa che nell'eccitazione del primo momento mi era sfuggita. Tornai indietro in fretta e cercai Pussey. «State tranquillo» mi rispose. «Gli ho messo alle calcagna un agente.» Esitai ancora. «Hayhoe è un tipo infido» arrischiai «ed è necessario non spaventarlo.» Pussey non si impermalì, ma probabilmente pensò che mi davo molto da fare senza che ne valesse la pena. «Il giovane Birking ha assunto la sorveglianza, e Hayhoe non se ne accorgerà. È come se lo seguisse un furetto. Potete stare tranquillo, vi dico.» Questo mi rassicurò e stavo per andarmene di nuovo, quando Leo mi afferrò per attaccare bottone. Era ancora in dubbio sulla necessità di un'autopsia; e finalmente mi toccò rientrare in casa per dare ancora un'occhiata al corpo del Babirussa. Trovammo uno o due segni interessanti; e infine lo persuasi. Si era fatto relativamente tardi, e quando giunsi alla "Penna d'oro" mancava poco alle due pomeridiane. L'albergatrice, un tipico prodotto dell'Inghilterra orientale, esile, pallida e di poche parole, non mi fu di grande aiuto. Mi ci volle un certo tempo per farle capire che desideravo vedere Whippet. «Ah» disse finalmente «quel giovane biondo che parla piano; sembra quasi uno stupido... Be', non c'è.» «Ma ieri sera ha dormito qui» insistetti. «Sì, sì, vero; ma ora non c'è.» «Tornerà?» «Non saprei.» Pensai che Whippet le avesse detto di non parlare; cosa che non rientrava nelle sue abitudini e che accrebbe il mio desiderio di vederlo. Neanche della signorina Rowlandson c'era alcuna traccia. Evidentemente era uscita anche lei. Ma se erano usciti insieme o separatamente, l'albergatrice non volle dirmelo. Dovetti tornare a Highwaters insoddisfatto. Ero in ritardo per la colazione e Pepper mi servì, solo, nella sala da pranzo: ogni linea della sua simpatica figura esprimeva il dispiacere e la disapprovazione. Per un motivo o per l'altro, ero precipitato molto in basso nella sua stima. Mi rivolse la parola quando ebbi finito di mangiare. «La signorina Jean è nel roseto» disse, esprimendo così chiaramente che,
delitto o non delitto, un invitato deve un certo rispetto alla propria ospite. Accolsi il rimprovero sottinteso senza protestare ed uscii per andare a fare le mie scuse. Era una di quelle vivide giornate estive che sono calde senza essere fastidiose. Il giardino era fiammeggiante di fiori, l'aria serena e tranquilla. Percorrendo il sentiero erboso fra le siepi di lavanda, udii delle voci; il suono familiare di una di queste attrasse la mia attenzione. Due sedie a sdraio erano collocate, una accanto all'altra, sotto il pergolato, con le spalliere verso di me e udii la risata di Jean. Quando fui accanto a loro, il suo compagno si alzò; nel vedere la sua testa e le spalle apparire da dietro alla spalliera, provai uno strano senso di sollievo misto a irritazione. Era Whippet in persona. Vestito di flanella bianca, sembrava fresco e riposato. Le sue prime parole non furono molto affettuose. «Campion! Finalmente ti trovo! Hm... bene. Ti ho cercato dappertutto, mio caro.» Agitò languidamente una mano in ogni direzione. «Ho avuto da fare» risposi senza grazia. «Ciao, Jean.» Lei mi sorrise. «Questo giovane è un vostro simpatico amico» e accentuò più del necessario la penultima parola. «Sedete, vi prego.» «Ma sì, sedete» le fece eco Whippet. «Dev'esserci una sedia laggiù» e mi indicò la pila di sedie a sdraio all'altra estremità del prato. Andai a prenderne una, e sedetti di fronte a loro. Whippet mi osservò con interesse mentre mettevo a posto la sedia. «Cose complicate» notò. Attesi che dicesse qualche altra cosa; ma mi parve che fosse molto contento di starsene sdraiato a godere il sole, con Jean, graziosissima nel suo abito bianco, seduta accanto. «È stato trovato, sai... nel fiume» attaccai spavaldamente. Fece un cenno di assenso. «L'ho sentito raccontare in paese. Figuratevi: sono tutti tremendamente impressionati dalla tragedia. Avete notato l'inquietudine di tutti quanti?» Era irritante, e provai di nuovo quel desiderio di pizzicarlo che avevo sentito così vivamente la prima volta che ci eravamo rivisti da adulti. «Devi spiegarmi parecchie cose» dissi, sperando che Jean ci lasciasse soli. «Lo so, lo so» replicò lui. «Perciò ti ho cercato. Per esempio, la signorina Rowlandson. È terribilmente sconvolta. Ora è andata al vicariato. Io
non sapevo che cosa consigliarle.» «Al vicariato?» feci eco. «E perché mai?» Notai che Jean ascoltava con interesse. «Dio mio» rispose Whippet con aria distratta «serve sempre., Nei paesi, quando si è in dubbio per qualsiasi cosa, si ricorre sempre al parroco... Magari per farsi consigliare delle opere buone... Oh, a proposito, mi viene in mente... Che cosa ne dici di questa? È arrivata stamattina. Appena l'ho vista, mi sono detto: "Bisogna farla vedere a Campion. Certo lo interesserà". Ne hai avuta una anche tu?» Mentre parlava aveva preso dal portafoglio un foglietto scritto a macchina e me lo aveva porto. «Lo stesso timbro postale degli altri» continuò. «Strano, no? Non immaginavo che qualcuno sapesse che ero alla "Penna d'oro", eccetto te... E penso che non avresti neppure avuto il tempo, anche se volevi...» La sua voce si affievolì gradatamente e io lessi la terza lettera anonima. Era molto breve, scritta con la stessa macchina e con la stessa meticolosa accuratezza. "Benché lo scorticatore sia vicino, egli è tranquillo nella terra. Attende pazientemente. Pace e speranza sono nel suo cuore ardente. Egli giunge le mani sul suo ventre. È fede, la sua, che può smuovere la montagna o il suo monticello. " Questo era tutto. «Ci capisci nulla?» chiesi finalmente. «No. Nulla.» Rilessi. «Chi è questo "egli"?» domandai poi. Whippet mi fissò. «Non saprei. Forse parla della talpa. Vedi, dice "il suo monticello".» Jean rise. «Chi sa di che diamine state parlando!» esclamò. Whippet si alzò. «Devo andare, ora che ho trovato Campion e ho chiarito tutto questo. Vi ringrazio di avermi permesso di stare qui ad annoiarvi, signorina Pursuivant. Siete stata molto gentile.» Aspettai che salutasse e poi insistetti per accompagnarlo fino al cancello. «Senti, Whippet» cominciai appena fummo fuori dalla portata dell' udito di Jean «bisogna che mi spieghi. Che diamine c'entri tu in tutta questa faccenda? Che cosa fai qui?» Mi sembrò molto imbarazzato. «È per quella Euphemie, Campion» mormorò poi. «Ha una forte personalità, sai? L'ho conosciuta al funerale
del Babirussa, e, in certo senso, mi ha conquistato. E quando ieri ha espresso il desiderio di essere accompagnata qui, io sono venuto.» Sarebbe stata una storia inverosimile per chiunque altro; ma trattandosi di Whippet, mi sembrò accettabile. «E le lettere? Che ne pensi?» ripresi. Scrollò le spalle. «Generalmente le lettere anonime si stracciano, non è vero? Si stracciano o si conservano come ricordo, magari mettendole in cornice. Tutto si può fare, fuorché prenderle sul serio. Eppure, vedi, quando continuano, si arriva al punto di chiedersi: "Chi diamine sarà che scrive queste cose?". È una cosa inquietante; ma la talpa mi piace. Rimango alla "Penna d'oro", Campion. Ti do la mia parola che non mi muoverò. Vieni da me quando hai un momento di tempo e cercheremo di esaminare meglio questa storia. Arrivederci.» Lo lasciai andare. Parlando con lui, mi sembrava impossibile che potesse avere l'energia di ficcarsi in un pasticcio così inquietante come il nostro caso. Mentre tornavo verso il roseto, pensai per la prima volta seriamente alla talpa. Gran parte di ciò che Whippet aveva detto sulle lettere anonime era vero. Hayhoe era un uomo colto; e anche Bathwick; ma, volendo pensare a loro, perché avrebbe, uno o l'altro, mandato le lettere sia a me sia a Whippet? Mi sembrava inesplicabile. Jean mi venne incontro. Era scontenta. «Non voglio immischiarmi nei fatti degli altri» disse usando il tono e la frase che significano tutto l'opposto. «Ma non dovreste permetterle di infastidire il povero Bathwick.» «A chi?» chiesi, momentaneamente sconcertato. Jean si impennò. «Come siete irritante! Sapete benissimo di chi voglio parlare... di quella stupida, miserabile ragazzina, quella Euphemie Rowlandson... È già un'imprudenza averla lasciata venire nel nostro paese! Ma permetterle anche di mettere le unghie sulla gente incapace di difendersi... Non mi piace dovervi parlare così, Albert, ma dovete rendervi conto che il vostro modo d'agire è davvero poco simpatico.» Non avevo voglia di lasciarmi trascinare in una difesa di Euphemie; ma ero stanco, e vedere Bathwick considerato come un povero agnellino innocente mi irritò. «Cara ragazza» cominciai «avrete saputo che la notte scorsa Bathwick ha fatto un bagno freddo. Ha raccontato a Leo una storia assurda, dicendo
di avere inciampato in un argine nel tornare a casa. Gli ci son volute, però, circa due ore per uscire dal fossato e tornare sulla strada principale... e temo che dovrà dare delle spiegazioni molto esplicite, ora che il corpo è stato trovato... dove sapete.» Non la guardavo. Fu un suo piccolo grido che mi costrinse a voltarmi. Era color porpora e aveva spalancato gli occhi per lo spavento. «Oh!» esclamò. «Oh! È terribile!» E prima che io avessi avuto il tempo di dire una parola, si era voltata con furia e si era precipitata in casa. La seguii, ma si era chiusa nella sua camera e io rimasi a scervellarmi. Mi recai in biblioteca; una vasta stanza con mobili antichi, usata raramente dai Pursuivant. Era fresca e nell'aria si sentiva l'odore della carta. Sedetti in una poltrona di cuoio per riflettere; e dopo la notte insonne che avevo trascorsa, mi lasciai vincere dal bisogno di dormire. Quando mi svegliai, davanti a me c'era Jean, pallida e decisa. «Credevo che foste andato via» disse ansimando. «È tardi, sapete? Debbo dirvi una cosa, Albert. Non posso lasciare che Bathwick abbia delle noie per quello che non ha fatto; e intanto sono sicura che preferirebbe morire piuttosto che dirvelo. Ma se ridete, non vi rivolgerò mai più la parola in vita mia!» Mi alzai, scrollando da me il residuo di sonnolenza che ancora mi appesantiva le palpebre. Jean era molto graziosa nel suo abito bianco, con l'espressione di sfida del suo sguardo. «Non ho mai avuto così poca voglia di ridere» affermai con sincerità. «Che cos'è questa storia di Bathwick?» Trasse un profondo respiro. «Bathwick non è caduto in un fosso» disse poi. «È caduto nel nostro stagno.» «Davvero? Come lo sapete?» «L'ho spinto io.» E la sua voce era sommessa. Alle mie insistenze continuò: «Ieri sera, dopo che voi siete uscito per accompagnare la signorina Rowlandson, io non sono andata subito a letto. Mi sono affacciata al balcone della mia stanza: la notte era chiara e ho visto qualcuno che gironzolava nel roseto. Ho creduto che fosse il babbo che passeggiava rimuginando sul caso, e sono scesa per andare a discorrere con lui. Invece era Bathwick. Abbiamo passeggiato per il giardino; e quando ci siamo trovati vicino allo stagno, lui...»
«Vi ha offerto la sua mano e il suo cuore in un modo un po' troppo deciso?» suggerii. Annuì riconoscente. «L'ho respinto; ma disgraziatamente lui ha perso l'equilibrio ed è caduto nello stagno. Appena ho visto che ne era uscito sano e salvo, sono rientrata in casa. Mi è sembrata la cosa migliore... Non dovrò raccontare questo a nessun altro, spero?» «No» mormorai «non credo.» Mi sorrise. «Siete proprio un amico, Albert.» In quel momento fui chiamato al telefono. Era Poppy. Non è mai riuscita ad abituarsi a telefonare; quindi, per poter ricevere il suo messaggio, fui costretto a tenere il ricevitore a una discreta distanza dall'orecchio. «Mi sono informata; non credo che il vicario sia tornato indietro. Per lo meno, nessuno lo ha visto. Ma sapete, invece, chi è stato scorto a gironzolare nei paraggi della dispensa? Non lo avrei mai supposto. Dio mio, sembrava così per bene. Chi? Ah, non ve l'ho detto? Lo zio... sicuro, il signor Hayhoe. Gironzolava di qua e di là come se fosse in casa sua. La cameriera che lo ha visto ha creduto, naturalmente, che lui avesse avuto il permesso da me. Non ci si può mai formare un'opinione sulle persone, non è vero?» 13 Spaventapasseri in giugno Jean era accanto a me quando riattaccai il ricevitore. «Che è successo?» chiese ansiosamente. «Era la voce di Poppy, non è vero? Oh, Albert, ho paura! È accaduto qualche cosa di terribile.» «Dio mio, no!» replicai con una sicurezza che ero ben lungi dal provare. «Non c'è niente da aver paura. Almeno, non credo.» Rimase a fissarmi. «Siete persuaso che sul conto di Bathwick non c'è nulla?» «Senza dubbio» affermai in tono allegro. «Però è meglio che io vada. Bisogna occuparsi di una cosa importante che è bene sia fatta al più presto.» Lugg venne con la macchina davanti alla porta e ci recammo insieme alla polizia. Leo era ancora in colloquio con Pussey e fui dolente di vederlo così sconvolto e abbattuto. Questa storia lo stava proprio riducendo un cencio. Aveva il viso profondamente solcato e i suoi occhi brillanti erano più cupi del solito. Gli esposi la mia idea.
«Arrestare Hayhoe?» fece. «Davvero? Non credo sia possibile. Possiamo chiamarlo, interrogarlo... forse si sarebbe dovuto fare fin dal principio... ma non possiamo trattenerlo. Non c'è nulla di concreto contro di lui.» Mi dispiaceva insistere; ma ero troppo ansioso. «È necessario» ripetei. «Mettetelo dentro per qualche altro motivo.» Leo mi fissò inorridito. «Arrestarlo sotto falsa imputazione? Mostruoso!» Non c'era il tempo di spiegare; d'altronde non avevo alcuna prova. «Almeno, cercate di trattenerlo qui per ventiquattro ore» supplicai. Leo aggrottò la fronte. «Che state pensando, figliolo? Mi spaventate! Prevedete qualcosa...?» «Non lo so.» E cercai di non apparire turbato come mi sentivo in realtà. «Comunque, andiamo a cercarlo.» Lasciando Leo a riflettere sulla questione dell'arresto, Pussey e io ci recammo con l'auto a casa della signora Thatcher. Trovammo il giovane Birkin appoggiato a una palizzata di fronte alla porta. «È stato tutto il giorno in casa» ci disse. «Guardate, la sua camera è quella dove c'è la luce. Potete vedere anche lui, da qui.» Indicò un'ombra che si disegnava sulle tendine e io mi sentii cadere le braccia. Compresi che Birkin era destinato a occuparsi dei permessi di caccia e delle denunzie di proprietà di cani. L'ombra che si profilava era una giacca sostenuta da un guanciale sulla spalliera di una sedia. Pussey rimase attonito a fissarla quando entrammo nella stanzetta, e il suo linguaggio fu moderato e quasi dignitoso. Ma credo che il disgraziato Birkin abbia finito col divertirsi, in fondo all'animo, dello scherzo che gli dovette sembrare spassosissimo e che certo avrà poi fatto le spese delle sue conversazioni coi giovani del villaggio. La signora Thatcher, una povera donna che era sempre stata troppo occupata per avere il tempo di sviluppare la propria intelligenza, era stata ingannata. Aveva detto a Birkin che il suo cliente era in camera ed era onestamente convinta che vi fosse. Probabilmente l'amico era sceso senza scarpe. Non seppe dirci altro. Mi sentii drizzare i capelli. «Dobbiamo trovarlo» gridai. «Non capite che è di un'importanza suprema?» Pussey si scosse vivamente dal suo sbalordimento. «Non può essere andato lontano» disse. «Qui c'è sempre poca gente in giro; dunque qualcuno deve averlo visto.»
Secondo quello che disse Birkin, le tendine erano state tirate sull'imbrunire; e da allora lui era rimasto tranquillamente a sorvegliare la luce. Questo significava che Hayhoe poteva essere uscito da circa un'ora; e mi sentii un po' sollevato. Debbo render giustizia a Pussey, dicendo che lui mobilitò le poche forze di cui poteva disporre, con rapidità e buon senso. Mentre tutti si mettevano in moto, Leo e io cenammo alla svelta al "Cigno". Non c'erano molte strade per uscire da Kepesake, e, poiché Hayhoe non possedeva un'automobile, sembrava certo che al massimo in un paio d'ore si sarebbe saputo dov'era andato a finire. Confesso che mi sentivo i nervi tesi. Mi pareva di non essere di alcuna utilità; la mia presenza nelle ricerche non sarebbe servita praticamente a nulla. Ero un forestiero, non atto a ispirare fiducia ai diffidenti contadini dell'Inghilterra orientale. Ci recammo alla "Penna d'oro" per intervistare Whippet e lo trovammo che pranzava in compagnia di Bathwick e di Euphemie Rowlandson. Leo rimase sbalordito e anch'io fui non poco stupito: in verità, era un terzetto bizzarro. Interrogati con garbo, risposero in modo da far risultare evidente che non sapevano nulla di Hayhoe; ma avevano talmente l'aria di cospiratori che sarei rimasto volentieri a discorrere con loro, se non mi fossi sentito così invaso dallo sgomento. Verso le undici, Leo, Pussey e io avemmo un colloquio, seduti nel piccolo ufficio mefitico della polizia; Pussey ci espose il risultato delle ricerche. «Non è partito con l'autobus e non ha noleggiato un'automobile; se è andato a piedi per una delle strade principali, bisogna pensare che si muova velocemente.» Fece una pausa e ci guardò. «Nessuna automobile sconosciuta è stata vista attraversare il paese. È una bella serata e tutti sono seduti sui gradini delle porte. È incomprensibile; a meno che non abbia preso per i campi.» Pensai alla profonda oscurità che ci circondava, ai prati, ai fossati neri ed ebbi paura. Leo invece sembrò piuttosto sollevato. «Ho tutta l'impressione che il colpevole sia proprio lui» osservò. «Strano, però! Quell'uomo mi è stato antipatico dal primo momento. Deve aver girato nella casa per tutta la mattinata di ieri. Sorprendente.» Rimasi in silenzio, non sapendo se incoraggiarlo o se accrescere i suoi timori. Pussey parve accettare l'idea del suo superiore.
«Be', certamente lo ritroveremo. Ora sappiamo chi cerchiamo e non ce lo lasceremo sfuggire. Tutto il paese è all'erta, e stanotte nessuno di noi andrà a letto. Voi andate pure a riposare, signore. Lasciate fare a noi.» Infatti, sembrava che non vi fosse altro da fare; ma ero restio ad allontanarmi. «Avete esplorato la sommità di quella collinetta?» chiesi. «Palmo a palmo, signore. C'è il suo telescopio e null'altro. D'altronde, non ci sarebbe potuto andare senza essere visto. Doveva attraversare il paese e tutti lo avrebbero visto. No, no, impossibile che sia su quel cocuzzolo... a meno che non sia una talpa.» Sobbalzai e probabilmente il mio volto rivelò il mio turbamento, perché lui si affrettò a spiegarsi, supponendo che, come cittadino, io ignorassi i costumi delle talpe. «Le talpe camminano sotto terra» disse, e io mi sentii ancora più turbato. Prima che ci lasciassimo, Pussey tornò su un argomento che mi era completamente uscito di mente. «Quella signorina...» cominciò. «Se potesse identificare...» «Domattina» risposi in fretta. «Vi saranno molte cose da fare domattina.» «D'accordo» ammise. «Un'infinità, se lo prendiamo.» «E più ancora se non lo prendete» ribattei; e me ne tornai a casa con Leo. Mi stavo mettendo a letto per la prima volta da quarantott'ore, quando Pepper apparve con un telefono che inserì nella presa accanto al mio letto. «È il dottor Kingston.» E soggiunse, con tono mezzo di commiserazione e mezzo di rimprovero: «A quest'ora...» Kingston non solo era sveglio, ma era anche aggressivamente vivace e agitato. «Spero di non disturbarvi» cominciò. «Ho già chiamato diverse volte. Sono stato in paese, da un ammalato, subito dopo pranzo, e ho trovato tutti sottosopra. Ho saputo che l'individuo vi è sfuggito. Non posso esservi utile in nessun modo?» «Purtroppo no» risposi cercando di rimanere gentile. «Capisco.» Sembrò sinceramente deluso. «Debbo scusarmi di essere così importuno, ma voi capite bene... Sono portato per temperamento a interessarmi di queste cose. Mi farete sapere se ci sono novità o se posso fare qualche cosa per voi?» «Senza dubbio.»
Ma non riattaccò il ricevitore e proseguì: «Mi sembrate stanco. Non vi affaticate troppo. Ah, volevo dirvi, alla "Penna d'oro" sono alloggiati certi tipi curiosi... Forestieri. Il paese non ha ancora giudicato se si tratta di semplice immoralità o se c'è sotto qualche cosa di più. L'uomo si chiama Wiprett, o un nome simile. Volete che mi informi meglio?» Maledissi la sua vita monotona che lo rendeva così pettegolo. «Sono miei agenti» risposi. «Come? Non sapevo assolutamente che voi...» «Spie. Ne ho messe dovunque. Buona notte.» Mi svegliai alle sei. Lugg protestò, burlandosi di me. «Siete coscienzioso davvero!» mi derise. «Hayhoe se la squaglia davanti a chi vuole accusarlo di assassinio, ma non mancherà certo al piccolo appuntamento che ha con voi... Dio mio, no! Sarà puntualissimo!» «Andrò lo stesso» risposi. «Non si sa mai.» Lugg era davanti a me, in una buffa veste da camera, irritato e sconsolato. «Se volete verrò con voi» si offerse con magnanimità. «Nulla mi piace di più di una passeggiata per la campagna prima che la rugiada si sia evaporata ai raggi del sole... Mi rinfresco i piedi.» Lo rimandai a letto, mi vestii e uscii. Era una di quelle mattinate chiare e limpide che promettono una giornata calda. Il cielo era opalino e l'erba morbida sotto i piedi. Percorsi il viale e attraversai le strade del villaggio; qui incontrai l'ingenuo Birkin. Mi diede la notizia, o meglio la graziosa informazione che non c'era nulla di nuovo. «Ma certo lo ripescheremo, ora che è giorno. Lo riporteremo indietro a calci!» Rabbrividii benché l'aria fosse tiepida. «Speriamo bene» mormorai e proseguii. Il vialetto in discesa era deserto e la mattinata era veramente deliziosa per fare una passeggiata, ma le gambe mi pesavano e mi avviai per il prato con un triste presentimento. Mi ci volle più tempo di quanto avevo immaginato per raggiungere la sommità; quando fui sul posto, provai un momentaneo sollievo. Il cocuzzolo era nudo e solitario; non disturbai altri se non una coppia di allodole che riposava sull'erba. Il vecchio telescopio era ancora montato sul suo treppiedi. Le lenti erano umide di rugiada: le asciugai col mio fazzoletto. La vista della campagna circostante era magnifica di lassù. Vedevo la
"Taverna dei Cavalieri" di un vivo color rosa sul terreno grigio; il fiumicello scintillante al chiaro sole mattutino e tutt'attorno i campi, grandi come fazzoletti, il grano verde e alto, i pascoli un po' disseccati dalla calura. Era un bel paesaggio. Qua e là piccole fattorie punteggiavano la pianura solcata dai sinuosi e bianchi nastri delle strade. Rimasi a lungo a contemplare lo scenario così tranquillo e pieno di pace. Nulla fuori posto, nulla di notevole o di pauroso. A un tratto vidi. A poco più di mezzo chilometro di distanza, in mezzo a un campo vivo di frumento verde, si rizzava uno spaventapasseri con le braccia pendenti; una creatura grottesca, innaturale, messa lì a terrorizzare le poco furbe cornacchie. Ma con questa differenza: che lungi dal fuggire spaventate, le cornacchie vi svolazzavano intorno. Guardai attraverso il telescopio e dopo un attimo mi raddrizzai, turbato e stordito, poiché i miei peggiori timori si erano realizzati. Hayhoe era stato trovato. 14 L'uomo che loro conoscevano Aveva una ferita al collo: un taglio profondo, al disopra della clavicola, che aveva reciso la carotide; una ferita orrenda a vedersi. Pussey, Leo e io circondammo l'orribile cosa issata su un palo rotto; il grano sussurrava intorno a noi, appena mosso da un alito di brezza. Dopo i consueti preliminari, la polizia portò il corpo di Hayhoe, su una piccola barella, nella stanza mortuaria dietro l'ufficio; un'altra tavola fu collocata su cavalletti. Leo era pallido e sbigottito; Pussey, che era stato fisicamente sconvolto alla vista del cadavere, non era più che la larva della sua primitiva immagine di cherubino. Quando fummo soli nell'obitorio, fra le due tavole su cui giacevano, coperte da lenzuoli, le orribili "cose" che erano venute a scompigliare violentemente la pace di Kepesake, Leo si voltò verso di me. «È questo che temevate?» E nella sua voce c'era una sfumatura accusatrice. Lo guardai smarrito. «Mi era balenata l'idea» dichiarai «che potesse accadere qualche cosa di simile. Lui aveva confessato di avere delle infor-
mazioni precise e...» Leo si passò una mano sui radi capelli grigi. «Ma chi? Chi ha potuto far questo, Campion?» esplose. «È terribile ciò che sta accadendo, figliolo! Vedete: sono i "forestieri" che vengono uccisi. Il campo di ricerca si restringe intorno ai nostri... Dio mio! Che fare, adesso?» «Non c'è molto da fare» risposi. «Il campo di frumento confina con la strada, quindi l'assassino non deve aver fatto molto cammino per trasportarlo; benché vi sia anche la possibilità che Hayhoe sia stato ucciso sul posto. C'era molto sangue intorno.» Leo evitò il mio sguardo. «Lo so» mormorò. «Ma che cosa sarebbe andato a fare in mezzo a un campo con l'assassino?» «Un semplice colloquio privato, probabilmente. Ma vorrei avere il parere di un medico su questa ferita.» «Lo avrete, figliolo, lo avrete. E il migliore che si possa avere. Il professor Farringdon verrà stamattina per vedere il... l'altro cadavere. Una cosa terribile, Campion... Non ho potuto fare eseguire l'autopsia, ieri, perché Farringdon è stato irraggiungibile tutto il giorno; e non vorrei ricorrere al Ministero, se posso farne a meno. Sull'anima mia, non so che fare.» Ogni mio possibile suggerimento fu tagliato corto dal ritorno di Pussey che rimorchiava Kingston. Il dottore era eccitatissimo e si vergognava di farlo vedere. La mia stima di lui come medico diminuì parecchio quando vidi il modo superficiale col quale esaminava Hayhoe. Desiderava esserci utile, ma non voleva compromettersi dando un giudizio preciso. «Non so con che cosa sia stata prodotta la ferita» disse finalmente. «Qualche cosa di sottile e aguzzo. Forse un pugnale... una di quelle vecchie armi da museo.» Diedi un'occhiata a Leo e dall'espressione del suo volto compresi che stava pensando al trofeo d'armi indigene che adornava una parete della stanza da biliardo della "Taverna dei Cavalieri". Malgrado ciò, non riuscii a immaginare Poppy armata di daga, in mezzo a un campo di grano, nel bel mezzo della notte; l'idea mi sembrò innaturale e assurda. Pussey non sembrò soddisfatto delle ipotesi di Kingston; e adoperò un tatto considerevole per liberarsi di lui. «Credo sia meglio sentire il professore» mi mormorò. «È un vecchio straordinariamente abile, il professore. Credo che sarà qui fra una mezz'oretta. Non so quel che penserà di noi... trovando due morti invece di uno» soggiunse ingenuamente.
Leo si voltò altrove, con le mani sprofondate nelle tasche e il mento sul petto. Lo seguimmo nell'interno dell'ufficio e Pussey prese tutte le necessarie disposizioni per mettere assieme le dichiarazioni, per fare l'esame del luogo dov'era avvenuto il rinvenimento, e per le ricerche sulla vita passata di Hayhoe. Il disbrigo di quelle pratiche normali ebbe per effetto di risollevare alquanto Leo. «Credo che non avremmo dovuto rimuoverlo prima dell'arrivo di Farringdon» disse a un certo punto. «Ma mi è sembrato poco decente lasciare quel disgraziato così esposto al sole in un luogo come quello. In questi delitti, Campion, è una brutale evidenza. Sull'anima mia, non riesco a concepire la mentalità di chi ha predisposto... per lo meno, non fra i miei amici.» «Oh, oh, è opera dei forestieri questa!» esclamò Pussey con l'intenzione di confortarlo. «Probabilmente, ci sarà "qualcuno" che ha gli abiti insanguinati. Lo troveremo. Non vi preoccupate, signore.» Leo fece spallucce; poi si avvicinò alla finestra. «Oh!» esclamò all'improvviso. «E quello chi è?» Guardando al disopra delle sue spalle, vidi una piccola Daimler guidata da un autista fermarsi accanto al cancello. Un attimo dopo ne scendeva un uomo piccolo e magro, col viso grigiastro, il quale avanzò esitando verso la porta. E dopo qualche istante facemmo la conoscenza del signor Robert Wellington Skinn, il socio più giovane dell'antico e rispettabile studio legale il cui nome mi era stato fornito da Kingston. Era un personaggio rigido e dignitoso, che non tardò a simpatizzare con Leo; la qual cosa fu una fortuna, altrimenti il colloquio che seguì sarebbe stato assai più lungo e privo di chiarezza. Invece il signor Skinn giunse al nocciolo della questione in un tempo che per lui - ne sono certo - doveva segnare una specie di primato. «Visto lo stato delle cose, ho creduto meglio venire di persona» mormorò. «Vi assicuro che una faccenda di questo genere a proposito di un nostro cliente è assolutamente insolita. Ho ricevuto ieri la vostra lettera richiedente informazioni; ieri sera ho letto i giornali e ho immediatamente stabilito il rapporto fra i due nomi: Harris e Peters. Date le circostanze, ho creduto meglio venire personalmente.» Pussey e io scambiammo un'occhiata. Stavamo per apprendere qualche cosa di interessante. «Allora i due uomini si conoscevano?» chiesi. Mi guardò con aria sospettosa, come chiedendosi se poteva fidarsi di
me. «Erano fratelli» riprese poi. «Il signor Harris aveva cambiato nome per... hm... senza dubbio per ragioni personali; e nei nostri libri appare in una data relativamente recente. Il nostro cliente principale era il fratello maggiore, Roland Isidore Peters, che è morto in questo distretto nel gennaio scorso.» Furono scambiate poche altre parole; dopo di che il legale si recò con Leo a vedere il corpo; quando tornò era livido. E anche agitato. «Non vorrei compromettermi» mormorò. «Ho visto il signor Peters una volta, dodici anni fa, e ho visto il signor Harris a Londra, nella primavera scorsa. Sono state le sole due volte che ho avuto occasione di vederli. Il... il morto che ho visto poco fa rassomiglia a entrambi. Potrei avere un bicchiere d'acqua?» Pussey insistette perché lui fosse più esplicito, e avrebbe per questo voluto ricondurlo nell'obitorio, ma l'avvocato si rifiutò. «Non ne vedo la necessità» obiettò. «Credo che possiate contentarvi se vi dico che, secondo me, l'uomo è il signor Harris. Dopo tutto, non c'è ragione di supporre che non lo sia. Si faceva chiamare proprio Harris qui, non è vero?» Lasciammo che si rimettesse; quando lo vidi più sereno, gli chiesi cautamente informazioni sul patrimonio del defunto. «Non saprei, senza consultare i miei libri» protestò. «So che il signor Harris ha ereditato da suo fratello una somma considerevole. Posso farvene conoscere l'ammontare stasera. C'era un patrimonio personale e, per quanto ricordo, un'assicurazione. Al momento, tutto mi sembrò perfettamente regolare.» Pussey diede un sospiro di sollievo. «A ogni modo, abbiamo stabilito la sua identità: questo è già qualche cosa. Non essendovi più alcun dubbio, si può procedere all'autopsia.» Leo e io riaccompagnammo l'avvocato alla sua automobile. Il disgraziato era molto sconvolto; ma era una persona gentilissima e prima di lasciarci promise di farci conoscere tutti i particolari circa i due patrimoni. «Dimenticavo una cosa» accennai mentre lui risaliva in macchina. «Presso chi era assicurato Peters? Lo sapete?» Scrollò la testa. «Così su due piedi, non potrei affermarlo con sicurezza. Mi pare che fosse col Trust Anglo-Lussemburghese. Vedrò in studio.» Appena fu ripartito, feci a Leo una proposta che lui approvò, dopo di che mandai Lugg e un agente, con la mia macchina, a prendere la signorina
Euphemie, Rowlandson. Tornarono dopo qualche tempo, non solo con la ragazza, ma anche con il signor Bathwick; la qual cosa mi parve sorprendente. Poiché indugiavano dinanzi al cancello, uscii per andare loro incontro. Bathwick non mostrava più verso di me l'inattesa cordialità della sera prima; al contrario, mi accorsi che tutto il suo vecchio antagonismo era rinato. «Io non faccio che eseguire ordini, signore» stava protestando l'agente. «Del resto, la signorina lo ha proposto lei stessa l'altro ieri sera.» Bathwick non gli badò e si voltò verso di me. «È un'indegnità!» gridò. «Sottoporre una signorina a uno spettacolo disgustoso, unicamente per soddisfare quattro poliziotti incapaci... Protesto contro questo arbitrio con tutte le mie forze!» Euphemie gli rivolse un sorriso smorto. «È molto gentile da parte vostra» affermò «ma mi sono messa in mente di farlo. Ve lo assicuro. Aspettatemi qui» soggiunse. Ma Bathwick non sembrò affatto disposto a lasciarsi calmare. Continuò a protestare con tale veemenza che sentii rinascere il mio interessamento per lui, non riuscivo a comprendere quale scopo potesse avere nel fare tanto baccano. Finalmente lo lasciammo nell'auto; e ancora una volta condussi la ragazza all'obitorio. Non avevo alcuna simpatia per Euphemie; ma in quell'occasione ammirai il suo coraggio. Non era insensibile e certo il colpo dovette essere considerevole per lei; ma non perse la testa e parlò con dignità. «Sì» disse con voce rauca mentre io ricoprivo la misera spoglia. «Sì, è proprio Roly. Non ero innamorata di lui, ma mi dispiace che sia morto. Io...» Qui la voce le venne meno e lei cominciò a piangere. Però dopo un momento si dominò e quando la ricondussi davanti a Pussey lei fece la sua dichiarazione. «L'ho conosciuto circa un anno fa. Aveva un appartamento a Knightsbridge e mi portava fuori sovente. Ci fidanzammo o quasi e allora... Signor Campion, voi sapete il resto. Ve l'ho già raccontato.» Scrivemmo quanto avevamo saputo; poi la riaccompagnai all'automobile. Bathwick era disceso e l'aspettava davanti al cancello. Evidentemente, dai nostri volti lui capì che Euphemie aveva identificato Harris, perché non mi rivolse la parola; la afferrò per il braccio e la accompagnò rapidamente verso la strada che conduceva alla "Penna d'oro". Lugg lo seguì con lo sguardo. «Buffo tipo» disse. «Be', a che punto sie-
te?» «A un vicolo senza uscita» risposi schiettamente; e tornai da Pussey. Lavorammo mentre aspettavamo il professor Farringdon. Pussey espose le sue deduzioni in una forma facile a comprendersi, benché non troppo grammaticale. «C'è la faccenda della personificazione» cominciò ragionevolmente. «Mi pare la vecchia storia del buon fratello e del fratello cattivo. Li chiameremo Peters e Harris per semplificare. Peters aveva il denaro; Harris si spacciava per lui, quando gli faceva comodo. Cosa che è stata fatta tante altre volte. Per esempio, ha condotto la sua relazione con questa stupidella sotto il nome di Peters, sicché se lei si fosse informata sul suo conto, avrebbe saputo che era ricco. Quanto all'avvocato, poveretto, si è trovato proprio imbarazzato. Senza dubbio, i due fratelli si assomigliavano; aggiungete a questo che il morto, ora, non assomiglia più molto a nessuno... Che ve ne pare?» Esitai. Non si può mai identificare con sicurezza un uomo dopo venticinque anni; e Kingston mi aveva detto che il suo ammalato assomigliava moltissimo a Harris. Nel complesso, ero disposto ad accettare le teorie dell'ispettore, dissentendo su un punto solo. Secondo me, quando lui parlava di Peters e Harris come del fratello "buono" e di quello "cattivo", avrebbe dovuto invertire i nomi. Glielo dissi. Inarcò le sopracciglia. «È probabile» disse «ma questo non ci aiuta a risolvere nulla. Chi ha commesso i due delitti? Ecco quello che vorrei sapere.» Rimanemmo a fissarci a vicenda senza parlare; l'arrivo del professore ci sorprese così. Era un robusto piccolo scozzese affaccendato, con un ciuffo di capelli grigi e gli occhi azzurri più penetranti che io abbia mai visto. «Buongiorno, ispettore» cominciò. «Ho saputo che avete una discreta quantità di cadaveri.» La sua allegria era sconcertante. Lo scortammo all'obitorio in silenzio. Ma quando lui esaminò l'uomo che si era chiamato Harris, il suo umore mutò; si voltò verso di me con un'espressione molto seria. «Ho saputo da sir Leo qual è la vostra supposizione, e vi faccio tanto di cappello. È una cosa infernale... infernale.» «Allora credete che...?» Mi interruppe con un gesto. «Non oserei esprimere un'opinione prima di aver fatto un'autopsia molto accurata. Ma non sarei affatto sorpreso se voi aveste ragione.»
Mi allontanai verso l'altro lato della stanza mentre lui continuava a darsi da fare. Finalmente si raddrizzò. «Fatemi mandare il corpo» disse «e vi farò sapere con certezza fra un paio di giorni... Ma credo di poter affermare, con tutte le riserve, badate bene!, che l'uomo è morto poco tempo prima di ricevere quel colpo sulla testa.» Gli rivolsi una domanda alla quale rispose con un cenno affermativo. «Sicuro. Veleno. Idrato di cloralio, suppongo. Questo» e indicò il terribile schiacciamento del cranio «doveva servire a dare la polvere negli occhi. Avete di fronte un uomo molto abile, signor Campion. Ora diamo un'occhiata a quell'altro poveraccio.» 15 Lugg si licenzia Per due giorni non accadde nulla di nuovo. Fummo lasciati in pace; Leo a cercare di rimettersi dal colpo, e Pussey e io a cercare di riordinare i brandelli di informazioni che riuscivamo a raccogliere. In paese tutti erano con gli occhi attenti e non parlavano. La gente andava a letto presto la sera, dopo avere ben chiuso porte e finestre, e quelli dei paesi vicini che venivano a curiosare all'angolo del campo dov'era stato trovato Hayhoe, venivano mandati via frettolosamente dai contadini irritati e offesi. Jean aveva un'espressione tesa, Poppy rimaneva a letto e perfino Whippet era più premuroso di quanto avrei creduto possibile. Veniva a trovarmi alle ore più inverosimili e rimaneva seduto a fissarmi silenzioso, finché io lo mandavo a chiacchierare con Jean, che era tanto buona da sopportarlo. Kingston, naturalmente, era spesso con noi; e debbo riconoscere che lo trovai perfino utile. Era un pettegolone inveterato e le leggi sulla calunnia e sulla diffamazione non lo spaventavano. La prima informazione concreta ci venne dal signor Skinn, l'avvocato. Il Peters che era morto nella casa di cura di Tethering non era povero; e aveva anche avuto la previdenza di assicurarsi per ventimila sterline con il Trust Anglo-Lussemburghese di Previdenza e Assicurazione. Lui aveva avuto intenzione, secondo il signor Skinn, di richiedere poi un prestito su questa polizza, al fine di portare a termine alcuni affari che aveva avviato. Avvenne invece che questo andò a completo vantaggio di suo fratello Har-
ris. Sul conto di quest'ultimo sapemmo ben poco. Risultò che aveva preso in affitto un appartamento a Knightsbridge, sotto il nome di Peters, ma non era mai stato ricco. Le nostre difficoltà erano aumentate dalla confusione dell'identità dei due uomini: quale dei due era stato Peters e quale Harris? Finalmente mi recai da Leo. Lo trovai nel suo studio; fissava malinconicamente la sua magnifica collezione di trofei di caccia e sulla scrivania c'era una quantità di carte in disordine. «Abbiamo dieci giorni di tempo, amico» mi disse dopo qualche momento di silenzio. «Le due inchieste sono state rimandate per darci la possibilità di fare le nostre indagini, capite bene; ma questo significa che "dobbiamo" giungere a un risultato. Si stanno già facendo moltissime chiacchiere. Non vi nasconderò, figliolo, che il fulcro delle chiacchiere è questo: mi sarei dovuto rivolgere a Scotland Yard fin dal primo momento. Da principio la cosa sembrava semplice; ma ora, sull'anima mia, non so davvero dove si vada a finire. Ogni mattina mi sveglio chiedendomi che cosa porterà di nuovo la giornata. In paese abbiamo un assassino che gira liberamente. Dio sa chi sarà la sua prossima vittima.» Si interruppe; e poiché io non parlavo, mi guardò profondamente. «Vi conosco da ragazzo» proseguì «e so che rimuginate qualche cosa. Se avete dei sospetti e aspettate di raggiungere una prova, non esitate a parlarmene. Posso sopportare qualsiasi cosa tranne quest'incertezza. Vedete nessuna soluzione?» Conoscevo bene Leo e sapevo che era l'uomo più degno di fiducia che si potesse trovare; ma esitai a compromettermi. Era una cosa troppo pericolosa. «Sentite, Leo: io so com'è stato commesso il primo delitto e credo di sapere chi è l'assassino; ma al punto in cui sono le cose, ogni prova è impossibile; e senza prove non possiamo far nulla. Lasciatemi ancora un paio di giorni.» A tutta prima parve un po' indispettito, e io temetti che volesse esercitare la sua autorità per costringermi a parlare; ma si calmò quasi subito, e così mi fu possibile rivolgergli la mia richiesta. «Potete ottenere dal Ministero l'autorizzazione per l'esumazione di R. I. Peters, che fu sepolto nel cimitero di Tethering nel gennaio scorso?» Assunse un aspetto molto grave. «Posso tentare» disse poi. «Ma, amico mio, un'identificazione dopo tanto tempo...» Fece una smorfia e abbozzò con le mani un gesto che esprimeva l'inutilità di quanto volevo fare.
«Non so» insistetti. «Vi sono delle circostanze che possono mutare lo stato delle cose...» Mi guardò aggrottando la fronte. «Antimonio nel corpo?» suggerì. «Non è indispensabile. A volte dipende dalla qualità della terra.» Dopo avere scambiato ancora qualche parola, lo lasciai per recarmi da Kingston. Gli telefonai a casa; e avendo saputo che c'era, mi avviai insieme con Lugg. Ci ricevette con evidente piacere nella sua scomoda sala di consultazione. «Dio mio! Dovete avere avuto una giornata scialba, se avete il tempo di venirmi a trovare!» esclamò con accento di rimprovero. «Posso offrirvi qualche cosa da bere?» «No, grazie. Adesso no. Non è una visita mondana, la mia. Ho bisogno di un po' di aiuto da voi.» Il suo viso rotondo si imporporò di piacere. «Davvero? Questo è molto lusinghiero. Cominciavo a credere di non potervi essere proprio utile. Il fatto è che ho condotto una piccola inchiesta per mio conto. Alla "Penna d'oro" è alloggiato un individuo molto misterioso. Sapete nulla sul suo conto?» «Non molto» risposi sinceramente. «È un uomo che ho conosciuto parecchi anni fa... Siamo stati compagni di scuola... Ma da allora non ho avuto spesso l'occasione di vederlo.» «Ah!...» Abbassò il capo misteriosamente. «La signora Thatcher mi ha detto che in principio di settimana quello si è recato più di una volta a vedere Hayhoe. Lo sapevate?» Non lo sapevo e lo ringraziai. «Me ne occuperò» continuai. «Intanto, vorreste farmi il favore di accompagnarmi a visitare il vostro cimitero?» Acconsentì volentieri, lieto di farmi un favore, e uscimmo da quel baraccone che era la sua casa e che sembrava abbandonato e privo di personale di servizio. Evidentemente lui era conscio di queste deficienze e me le spiegò vergognandosi parecchio. «Mi arrangio con un uomo del paese, quando non ho ammalati. Un brav'uomo, uno di quelli che fanno di tutto, il figlio del capomastro locale; lavora con suo padre quando non fa il sagrestano o la mia massaia. Naturalmente, quando ho un ammalato, provvedo per un'infermiera e una donna di servizio.» Camminavamo qualche passo avanti a Lugg e il dottore si voltò a guardarmi con una smorfia.
«Non ci sono ammalati, capite» proseguì «altrimenti non credo che troverei il tempo di annoiarmi!» Raggiungemmo la mia auto, che era quasi nuova; lui la guardò malinconicamente, destando in me un senso di compassione. Nella sua invidia inespressa c'era qualche cosa di quasi infantile. Kingston aveva una véra predilezione per bighellonare; perdemmo così qualche minuto a esaminare la macchina. Ammirò il motore, la carrozzeria e la lucentezza delle cromature, conquistandosi così il cuore di Lugg. Ci trovammo veramente bene insieme, e così, sentendomi per una volta tanto in vena di confidenze, mi arrischiai a fargli l'onore che avevo riservato a Whippet; cioè gli parlai della terra del cimitero. Mi rispose in modo interessante e non inutile. «Sì, è dura e secca, e forse contiene qualche sostanza atta a conservare i cadaveri. Infatti, una mattina, il vecchio Witton, il becchino, mi fece vedere una cosa veramente straordinaria. Aveva aperto una tomba già scavata da tre anni, per mettervi dentro un parente della morta; involontariamente aveva scardinato la bara e aveva visto il corpo in quasi perfetto stato di conservazione. Come avete fatto a supporlo?» «È stato il mentastro a suggerirmi l'idea. Si trova spesso nei terreni di questo genere.» Continuammo per qualche tempo a parlare del suolo, quando improvvisamente lui comprese il perché delle mie domande. «Un'esumazione? Davvero? Oh, guarda! Sarà una cosa piuttosto...» Sono sicuro che stava per dire "divertente"; ma si interruppe e dopo una pausa soggiunse: «... eccitante. Non sono mai stato presente a un'esumazione. Qui non accade mai nulla di così impressionante.» «Non posso assicurarcelo» protestai. «Non c'è nulla di stabilito ancora; e, per l'amor di Dio, non ne fate parola con nessuno. L'unica cosa veramente pericolosa, al punto in cui stanno le cose, è il pettegolezzo.» «Si tratta dell'identificazione, immagino» riprese eccitatissimo. «Siete stato fortunato, Campion! È un miracolo che quell'uomo abbia scelto proprio questo luogo per morire! In novantanove cimiteri su cento...» «Va bene; ma tacete, per carità. Non una parola.» «State tranquillo» promise. «Potete fidarvi di me, caro amico. Del resto, non vedo proprio con chi potrei parlarne!» Avendo saputo ciò che volevo, mi accomiatai e lui rimase a guardarci finché fummo scomparsi in fondo al pendio. Lugg sospirò.
«Che vita solitaria» osservò. «Quando si vede un tipo così, si prova il desiderio di condurlo in un locale pubblico dove possa vedere un po' di gente...» «Davvero?» feci. Aggrottò le sopracciglia. «Vi state dando tante di quelle arie col vostro "lasciatemi-stare-perchésono-intelligente" che mi urtate i nervi. Al vostro posto, invece di perder tempo a insudiciarmi coi cadaveri, inviterei un tipo come questo per una settimana in città e lo condurrei in giro a divertirsi.» «Non ne dubito, mio caro!» Preferì atteggiarsi a offeso e tornammo a casa senza parlare. L'indomani, il terzo giorno da quando era stato ritrovato Hayhoe, mi destai con una sensazione mista di apprensione e allegria. Avevo il presentimento che si stava per arrivare a una soluzione; ma forse, se avessi saputo in qual modo, non so se avrei avuto il coraggio di procedere. Cominciai col rapporto del professor Farringdon. Lui me lo fece verbalmente, quando mi trovò al posto di polizia, insieme a Pussey. «Sicuro: era proprio idrato di cloralio, come vi avevo detto. È stato molto difficile definire quanto ne aveva preso quell'uomo prima di morire. Così non si può sapere se quando il vaso gli è caduto sul capo lui era già morto o era soltanto sotto l'influenza della droga.» Pussey e io conoscevamo entrambi le proprietà dell'idrato di cloralio, ma lasciammo che lui ci spiegasse nuovamente tutto. «Capite, la droga gli ha procurato un sonno irresistibile; perciò è stata così infernalmente utile. Se voi vedete un uomo sotto l'azione di una piccola quantità di questo veleno, credete soltanto che dorma di un profondo sonno naturale.» Pussey mi guardò. «Infatti, rimase tutto il tempo sulla sedia a sdraio, come se aspettasse che l'urna gli cadesse addosso, incapace di muoversi. Ah, che cosa terribile, signor Campion!» Il professore si mise poi a esporre il risultato dell'esame praticato su Hayhoe. «Una ferita interessante, inferta da una persona particolarmente fortunata o insolitamente abile. Ha colpito proprio al disopra della clavicola, penetrando dritto fino alla gola. L'uomo dev'essere morto subito. Continuò descrivendo l'arma che era stata usata e la disegnò perfino; o almeno, disegnò la lama. Pussey non ci si raccapezzò molto, ma io trovai che questo confermava la mia ipotesi.» Li lasciai insieme e andai in cerca di Whippet. Non trovai alla "Penna
d'oro" né lui né Euphemie; ma dopo un istante lo vidi giungere solo, a bordo della sua utilitaria. «Sono stato a vedere case» mi disse. «C'è, là sulla strada, una villetta che mi interessa. È vuota. A me piacciono le case vuote. E a voi? Quando mi trovo in un paese, vado a visitare le case disabitate.» Lo lasciai divagare; poi, quando pensai che fosse stanco dell'argomento, gli rivolsi bruscamente la mia domanda. Se speravo di sorprenderlo, rimasi deluso. «Hayhoe?» ripeté. «Ma sì, sicuro, Campion. Ho avuto parecchie conversazioni con lui. Non era un tipo simpatico. Cercò anche di spillarmi dei quattrini.» «Non ne dubito. Ma di che cosa avete parlato con lui?» Whippet alzò la testa e io vidi i suoi occhi azzurri vagare senza espressione. «Di storia naturale, mi pare. Flora, e soprattutto fauna.» In quell'istante un altro pezzo del mosaico andò a mettersi a posto. «Alcuni nascono ciechi» dissi amaramente «altri lo diventano. Altri ancora sono dei ciechi volontari. La talpa appartiene alla prima categoria, non è vero?» Non mi rispose; rimase immobile a guardare fuori della finestra. Tornai a Highwaters; e qui trovai ciò che non avevo previsto, e che non mi perdonerò mai. Lugg era andato via. La sua valigia, contenente i suoi pochi effetti da viaggio, era scomparsa; e sulla mia toletta, trattenuta da un portacenere, c'era una banconota da una sterlina, nuova fiammante. 16 I capelli rossi Da principio non volli crederlo. Era un'eventualità a cui non avevo mai neppure lontanamente pensato; e per un momento rimasi del tutto disorientato. Mi sorpresi a dire parole senza senso. Pepper fece del suo meglio per aiutarmi. «È arrivata una telefonata che riguardava voi, signore. Non ci ho badato, ma ho capito che era una telefonata da Londra. Il signor Lugg ha risposto; dopo un po' è venuto giù portando una valigetta. È andato verso il villaggio
attraversando i campi.» Questo è tutto quello che riuscii a sapere. All'ufficio telefonico non seppero dirmi nulla. C'erano state molte telefonate intercomunali. La telefonista era stata in movimento tutto il giorno. No, non aveva ascoltato. No di certo! Non ascoltava mai. Ero fuori di me. La questione del tempo era terribilmente importante, e ogni tanto una variazione dell'immagine spaventosa che mi era apparsa attraverso il telescopio veniva ad atterrire il mio spirito. Le ricerche cominciarono senza indugio. Leo fu molto affettuoso e Jean fece del suo meglio per consolarmi. Dovetti spiegare a tutti loro che il biglietto di banca non significava nulla. Molti domestici se ne vanno su due piedi, lasciando lo stipendio di una settimana invece di licenziarsi; ma Lugg non era di quelli. Del resto, nessuno lo aveva visto in paese né alla fermata dell'autobus. Era scomparso misteriosamente come Hayhoe; si era avviato per i campi ed era svanito nello stesso modo. Telefonai a Kingston. Lui ascoltò la storia che gli raccontavo con voce convulsa, con molto interessamento. «Sentite, Campion!» e la sua voce risuonò giovanile nel microfono. «Ho un'idea. Non so se vi ricordate, ma ieri ve ne ho già accennato. In quel momento non vi avete dato molta importanza, ve l'ho detto in faccia, ma credo che sia il caso di approfondirla. Vengo subito da voi.» Venne. Giunse in meno di venti minuti, era rosso in viso e i suoi occhi ardevano d'entusiasmo e di felicità. Se non si fosse trattato di Lugg, avrei perfino potuto perdonargli la sua gioia. Tenemmo un breve conciliabolo sul prato dinanzi alla casa. «Si tratta di quel Whippet» disse Kingston. «L'ho sorvegliato. Conosco i vostri sentimenti verso di lui... compagno di scuola eccetera... Ma in realtà non lo conoscete e dato tutto ciò che è successo... Non vi pare? Bisogna pure che vi sia qualcuno che agisce!» «Sì, sì» dissi con impazienza. «Andate avanti.» Rimase un po' stupito nel trovarmi così consenziente; ma proseguì abbastanza sbrigativo. «C'è una casa, una villa disabitata all'estremità di una strada non finita. Fa parte di un progetto di costruzioni che si dovevano compiere quando il consiglio della parrocchia seppe delle trattative di Harris. Whippet è stato laggiù un paio di volte. Non voglio affermare nulla di concreto; ma non vi pare che quel disgraziato Hayhoe dev'essere stato ucciso in un altro posto e
non in un campo aperto? Il luogo è solitario. Proprio adatto per sbrigare qualche faccenduola privata. Direi di andare a vedere.» In quello che diceva c'era molta verosimiglianza, e non volli perder tempo a discutere. Mossi verso la sua macchina. Lui ebbe l'aria un po' vergognosa. «Credo che sarà meglio prendere la vostra» mormorò. «La mia non è molto recente; e proprio mentre venivo qui ha fatto uno dei suoi soliti scherzi. L'olio viene fuori e si spande sull'accensione. Volete aspettare che io dia una pulita alle candele?» Non avevo nessuna voglia di aspettare e tirai fuori la mia. Kingston si accomodò accanto a me con un leggero sospiro di soddisfazione. «Scendete la collina e voltate a sinistra.» Attraversammo il villaggio e prendemmo la strada solitaria che, oltrepassando Tethering, conduce al Rushberry. Voltammo di nuovo. A poco più di mezzo chilometro, presso una macchia di olmi, c'era annidata una piccola osteria, "La volpe rossa"; mentre ci avvicinavamo, Kingston mi toccò il braccio. «Vi affaticate troppo» disse. «Non avete dormito e ora questo nuovo colpo deve avervi abbattuto. Fermiamoci a bere qualche cosa.» Maledissi la perdita di tempo; ma lui insistette, e scendemmo. Era un locale assai poco invitante; una vecchia stanza incredibilmente sudicia. Il bar era ornato da un'infinità di cartelloni pubblicitari di prodotti a poco prezzo, e l'unico cliente che si trovava presente era un vecchio sdentato con una buffa barbetta da capra. Kingston insistette perché bevessimo della birra, dicendo che non c'è nulla di meglio per ristorare una persona stanca; e mentre l'ostessa mezzo rimbambita usciva per andare a riempire i nostri boccali, Kingston interrogò il vecchio per vedere se sapeva qualche cosa di Lugg. Se la cavò molto bene, usando il dialetto del luogo. Però il vecchio non seppe dirci nulla. Era di vista corta e duro d'orecchio, disse; e non si occupava mai dei forestieri. Dopo che i due sudici boccali furono posati davanti a noi, Kingston mi mostrò la villetta che dovevamo andare a esaminare. Si scorgeva benissimo dalla stretta finestra del bar. Vidi il suo tetto di un rosso scandalosamente nuovo che appariva tra il denso fogliame a circa mezzo chilometro di distanza. «Bene, andiamo» risposi, senza sperare di trovare là il mio disgraziato domestico, e preoccupato perché il tempo passava.
Kingston fu d'accordo. «Va bene. Non indugiamo di più.» Sollevò il suo boccale e io lo imitai. Nel voltarmi, inciampai e senza volerlo urtai col gomito il boccale di stagno del vecchio. Il suo contenuto si sparse sul pavimento e così perdemmo qualche altro minuto per scusarci e fargli portare un altro boccale di birra. Quando tornammo accanto all'automobile, rimasi per un istante con gli occhi fissi sullo sterzo. «Sentite, Kingston: credete che sia proprio necessario andare a quella villa?» «Credo di sì, amico mio, ne sono sicuro» insistette. «Mi sembra molto strano che un forestiero gironzoli attorno a una casa vuota.» Salii in macchina e presi il volante. Dopo circa duecento metri la macchina sbandò violentemente e io sobbalzai. «Volete guidare voi, Kingston?» dissi, con la lingua un po' inspessita. Kingston mi guardò; il suo volto rotondo e inattesamente giovane espresse un'attenzione sorpresa. «Che avete, amico mio? Siete stanco?» «Sì. Quella birra doveva essere molto forte. Prendete il volante e cerchiamo di far presto.» Scese e io passai faticosamente al posto che lui aveva lasciato. Dopo un istante la macchina riprese la corsa regolare. Io tenevo il corpo abbandonato, col capo sul petto, gli occhi semichiusi. «Non capisco» dissi con la lingua impastoiata. «Devo trovare il mio bravo Lugg. Sono stanco... terribilmente stanco.» Mi accorsi che rallentava e attraverso le palpebre semichiuse scorsi una villa abbandonata, col suo intonaco bianco rigato e sciupato dalle piogge. Di fianco alla casa c'era una rimessa a cui conduceva un breve vialetto in pessime condizioni. Mi resi conto che Kingston apriva i battenti della rimessa; frattanto mi appoggiavo al sedile dell'automobile con gli occhi chiusi completamente; la mia respirazione si compiva ora a lunghi e regolari intervalli. Kingston si mise nuovamente al volante e condusse la macchina nella piccola rimessa. Lo udii fermarsi e poi ridere. Quella risata non somigliava in alcun modo a quella voce che avevo udito altre volte da lui. «Eccovi qui finalmente, mio intelligente signor Campion» disse. «Dormite della grossa.» Doveva essersi messo i guanti o aveva in mano un cencio, perché sentii che strofinava la ruota del volante; quindi mi sollevò e premette a più riprese le mie mani sulla superficie liscia. Frattanto continuava a parlare.
«Ossido di carbonio: una morte piacevole. Perciò i suicidi la scelgono tanto spesso. Semplicissimo, no? Vi lascio in macchina, col motore acceso, poi me ne vado chiudendo le porte, ed ecco che il nevrotico signor Campion ha compiuto ancora una volta l'inesplicabile. Suicidio di un distinto criminalista londinese.» Impiegò ancora qualche minuto a completare la sua messinscena; quando tutto fu in ordine si chinò sopra di me. «Ero troppo scaltro per te, mio caro» e nella sua voce c'era una nota offensiva. «Molto, troppo scaltro!» «Fino a un certo punto» replicai all'improvviso, balzandogli addosso. Non era stato inavvertitamente che avevo versato la birra del vecchio contadino all'osteria de "La volpe rossa". Indicare a un uomo qualche cosa di interessante fuori della finestra mentre mettete nel suo boccale un pizzico di idrato di cloralio è un trucco troppo ingenuo per intrappolare un vecchio volpone. Lo afferrai alla nuca e per un istante ci dibattemmo. Non mi ero reso conto, però, della forza fisica dell'individuo. A vederlo, sembrava un tipo piuttosto flaccido; ma invece era dotato di forti muscoli, a cui si aggiungeva il peso del grasso. Inoltre, poiché lo avevo smascherato, lottava disperatamente. Ormai non avevo più dubbi sull'identità della mano che aveva inferto una ferita così abile nel collo di Hayhoe. Riuscii, giocando di gomiti e di ginocchia, a uscire dall'automobile; ma lui era fra me e la porta del garage. Vidi le sue larghe spalle disegnarsi contro luce; poi lui balzò su di me e cademmo insieme a terra. Per un attimo vidi brillare i suoi occhi; e se mai ho visto uno "sguardo sanguinario" è stata quella volta. Riuscii ancora a sfuggirgli e avevo quasi raggiunto la porta quando mi sentii afferrare alla gola come da una morsa; poi fui completamente sollevato e il mio capo cozzò violentemente contro il suolo. Ebbi l'impressione di trovarmi in un ascensore che scendeva rapidissimo. E poi, l'oscurità. Rinvenni faticosamente, a piccole scosse. Sentivo che le mie braccia venivano mosse su e giù, con un moto ritmico che non riuscivo a controllare; poi sentii che ansavo, cercando di respirare. «Su, su... Benissimo così... Non ti eccitare. Stai fermo.» La voce mi giungeva come in sogno; attraverso una specie di nebbia, vidi un ragazzino ridicolmente piccolo, col viso sporco d'inchiostro, che mi guardava. Scomparve, ma lo rividi subito ripulito dall'inchiostro. Era Whippet che, inginocchiato, mi praticava la respirazione artificiale.
Tutto mi tornò in mente in un baleno. «Lugg!» gridai. «Dio mio, bisogna trovare Lugg!» «Lo so.» La voce di Whippet sembrava quasi intelligente. «L'individuo è veramente pericoloso. Ho dovuto lasciarlo andare: non potevo occuparmi di te e di lui contemporaneamente.» Mi rizzai a sedere. Mi girava la testa, ma avevo un solo pensiero, chiarissimo. «Andiamo» dissi. «Dobbiamo ritrovarlo prima che sia troppo tardi.» Whippet annuì, e io mi sentii pieno di gratitudine per la comprensione che gli lessi in faccia. «Un momento fa è passato un tale in bicicletta. L'ho rimandato subito in paese, dicendogli in breve di che si trattava. Fra poco la casa di cura sarà presa d'assalto. Mi è sembrata la cosa migliore. Ho lasciato la mia macchina nel prato, dietro la casa. Andiamo subito anche noi a Tethering, no?» Non ricordo il percorso fino a Tethering. Sentivo la testa come se stesse per scoppiare; la bocca era arida, e non riuscivo a liberarmi di un incubo nel quale vedevo Lugg issato, a guisa di spaventapasseri, su un palo alto come la colonna di Nelson. Ciò che ricordo è il nostro arrivo. Fermammo davanti all'entrata principale del baraccone che costituiva la dimora di Kingston, e poiché i battenti non cedevano, li urtammo con tutta la forza delle nostre spalle. Ricordo lo straordinario senso di sollievo quando, sotto i nostri sforzi riuniti, la porta si spalancò. Sentimmo al primo piano un tramestio che ci indusse a salire le scale di corsa e, poiché cinque porte sul corridoio erano aperte, ci interessammo solo di quella che era chiusa. Non era chiusa a chiave, ma dall'altra parte c'era qualcuno che spingeva con forza: lo sentivamo ansimare e ringhiare mentre noi cercavamo di entrare. Finalmente, quasi all'improvviso, la porta cedette. Ero così fuori di me che sarei precipitato dentro e avrei ricevuto ciò che mi era destinato; ma Whippet, che conservava il suo sangue freddo, mi trattenne. Aspettammo. Attraverso la porta vidi un letto; distesa su questo, una grossa figura che mi era familiare. Il viso era scoperto e mi parve che avesse il suo colorito naturale. Ma mentre lo guardavo, scorsi qualche cosa che mi fece affluire il sangue al cervello, ghiacciandomi il corpo: vedevo la realizzazione di una cosa alla quale non avrei mai pensato. La corona di capelli grigiastri che circonda il cranio calvo di Lugg era rossa come se fosse stata tinta. Compresi la verità: il corpo di un uomo
grasso somiglia al corpo di un altro, quando i lineamenti sono stati alterati; all'opera del tempo si può supplire con l'opera di altri agenti. Kingston stava tranquillamente preparando un corpo per la sua "divertente" esumazione. Mi lasciai cadere carponi e strisciai, evitando così il colpo che, dal suo riparo dietro il battente, lui era pronto ad assestarmi, e lo afferrai per le caviglie. Gli premevo il petto con le ginocchia e con le mani gli stringevo la gola quando udii fermarsi un'altra automobile e la voce di Leo per le scale. 17 Finale tardivo Ci vollero tre agenti per trascinare Kingston nell'automobile. E quando lui apparve davanti ai magistrati, in tribunale accadde una scena senza precedenti. Alle assise, il suo difensore sostenne la tesi dell'infermità di mente; difesa che non ebbe successo, secondo me, con giustizia; ma questo avvenne più tardi. In quel momento la mia sola preoccupazione era Lugg. Whippet e io ci occupammo di lui finché Pussey condusse un dottore trovato in un paese vicino; questi lo salvò dopo una strenua lotta contro il veleno, che era, anche questa volta, idrato di cloralio. Kingston non era tanto pazzo da non sapere ciò che faceva. Nessuna ferita si doveva trovare nel cadavere che sarebbe stato esumato. Lugg ci raccontò la sua storia appena fu in grado di parlare. Una cosa semplicissima. Kingston non aveva fatto altro che telefonare a Highwaters; avendo saputo da Pepper che io ero in paese, aveva chiesto di Lugg, al quale aveva fatto una comunicazione da parte mia. Secondo questa, io avevo bisogno di mandarlo in città a fare qualche cosa per me; ma volevo prima vederlo nel cimitero di Tethering, dove, secondo Kingston, avevo scoperto qualche cosa. Lugg doveva preparare la sua valigetta e, attraverso il campo, raggiungere la strada dove avrebbe trovato Kingston con l'automobile. La sterlina era stata lasciata per Pepper, nel caso che io non fossi potuto tornare a dargli la mancia che gli competeva. Questo era tutto. Lugg prese la storia per buona e Kingston lo accolse a bordo della sua auto, la ragione per cui non erano stati visti da nessuno era che l'auto del dottore era troppo conosciuta perché qualcuno vi facesse attenzione. Arrivato a Tethering, Lugg fu lasciato in sala da pranzo, con un bicchie-
re di birra; Kingston gli disse di aspettarmi. Lui bevve la birra al cloralio; fortunatamente non ricordava altro. Kingston dovette portarlo per le scale da solo, e doveva avere appena compiuto il processo di tintura dei capelli quando io gli telefonai. Una trappola ben congegnata; e i commenti di Lugg furono tali da non potersi riferire. «Colpa vostra» mi disse però con rimprovero. «Come potevo supporre che non ci si potesse fidare di lui, quando gli avevate raccontato tutta la storia dell'esumazione? Cosa credevate, che vi avrebbe aiutato? A me, naturalmente, non avete neanche pensato. Non è vero, forse?» Gli chiesi perdono: «E ringrazia Dio che sei vivo per poterla raccontare» mi arrischiai a soggiungere. Mi guardò torvo. «Lo ringrazio. Ma intanto ora debbo farmi rapare. Che cosa direbbero i miei amici di Londra vedendomi così? Vacanze in campagna... Sicuro, belle vacanze!» A questo punto mi dissi che era meglio lasciarlo dormire; anche perché vi erano ancora molte cose da sbrigare. Durante le ventiquattr'ore che seguirono, lavorammo senza riposo per ricostruire tutto l'accaduto; e finalmente l'accusa contro Kingston risultò chiara e lampante, con tutti i moventi dei suoi delitti. La sera del giorno in cui aveva avuto luogo l'esumazione, Leo e io ci recammo alla "Taverna dei Cavalieri" insieme con Jean. Leo bolliva ancora di collera per effetto della cerimonia cupamente grottesca che aveva saldato l'ultima maglia della nostra catena di prove. «Mattoni!» proruppe. «Mattoni avvolti in una coperta e messi nella bara... Sull'anima mia, Campion, quell'individuo, oltre a essere un assassino, è anche un empio briccone. Anche adesso, non riesco a capire come ha potuto compiere da solo queste imprese.» «Non era solo» contraddissi garbatamente. «Era aiutato da Peters... senza parlare di quell'altro che lavorava per lui: il figlio del capomastro. Nei piccoli paesi il capomastro è di solito anche l'impresario delle pompe funebri, vero?» «Royle!» Leo era eccitatissimo. «Il figlio di Royle... questo spiega la chiave dell'obitorio. Credete che il ragazzo fosse al corrente?» «Ne dubito» mormorai. «Suppongo piuttosto che Kingston lo abbia fatto agire infinocchiandolo. Il giovanotto dice che il suo padrone gli aveva dato la misura del corpo mentre lui faceva non so che riparazione alla casa. Chi invece dev'essere stata complice è l'infermiera. Ma quella non la ritrove-
remo mai. Fra lei e Kingston, hanno preparato il certificato di morte.» «State facendo una gran confusione» interruppe Jean, che era sul sedile posteriore dell'automobile. «Quanti fratelli erano?» «Nessun fratello, come aveva sospettato quell'intelligente giovane di Londra, quando si vide dinanzi il cadavere. C'era solo l'unico, inimitabile Babirussa.» Sono sicuro che Jean mi perdonerà se dico qui che non è una ragazza intelligente. In questa occasione si mostrò addirittura ottusa. «Ma perché tutto questo pasticcio? Perché fingere di essere morto in gennaio?» «A causa dell'assicurazione, cara. Ventimila sterline... Lui e Kingston erano d'accordo per mettere a posto i loro dissesti col denaro del Trust Anglo-Lussemburghese. Kingston aveva conosciuto il Babirussa a Londra; e lì avevano organizzato tutto l'imbroglio. Il Babirussa inventò un fratello cattivo, e mise le fondamenta del pasticcio, ingannando per primi i suoi avvocati: un vecchio studio abbastanza rispettabile da impressionare la compagnia di assicurazioni e abbastanza in cattive condizioni per non indagare troppo sulla morte del Babirussa.» «Ben congegnato» affermò Jean giudiziosamente; poi, con quel senso pratico delle donne, riprese: «E perché la faccenda non è andata liscia?» «Per la fondamentale disonestà del Babirussa. Lui non volle dare a Kingston la sua parte. Sapeva di averlo in suo potere e, d'altronde, l'idea di sviluppare questo luogo lo aveva sedotto. Scommetterei che prendeva in giro il dottore con continue promesse, ridendo poi di lui. Non considerò con che specie di individuo aveva a che fare. Kingston è terribilmente vanitoso e ha un certo coraggio temerario unito a una mancanza del senso delle proporzioni. Solo un uomo che ha una simile mentalità può avere accettato di partecipare a una truffa così originale. Il fatto di essere stato gabbato dal Babirussa lo ha ferito nel suo orgoglio in modo intollerabile; inoltre, deve aver pensato che non si poteva fidare del suo ex socio.» «Come?» grugnì Leo. «Perché aveva cominciato a bere; lo sapete anche voi. Pensate dunque alla posizione di Kingston. Vedersi privato della sua parte di utile e sapersi alla mercé di un uomo che si era messo a bere troppo e che, da un momento all'altro, poteva, sotto i fumi dell'alcool, commettere un'imprudenza... È vero che il Babirussa non poteva tradire Kingston senza rivelare la propria colpa; ma un uomo ubriaco può essere imprudente. Poi c'era Hayhoe. Il cattivo zio trova il' cattivo nipote nell'abbondanza e ha voglia di mangiar
bene anche lui. Installa perfino un telescopio su una collinetta sperando di sorvegliare così gli sviluppi di Highwaters. Questo è un altro pericolo per Kingston. Probabilmente il dottore ne ha avuto la sensazione, come in un lampo, e ha agito impulsivamente, spinto dalla furia, incalzato dal terrore.» Leo emise un suono espressivo. «Individuo terribile. Suppongo che Hayhoe lo avrà ricattato, dopo avere indovinato la verità.» «Senza dubbio lo zio Hayhoe cercava di vendere la propria discrezione» risposi. «Ma non credo che avesse indovinato che il Babirussa era stato ucciso da Kingston. Tutto quello che sapeva era che nel primo funerale c'era qualche cosa di molto torbido. Prese appuntamento con Kingston per parlare della faccenda; e scelsero la villa disabitata per discutere le condizioni. Lì Kingston lo uccise e poi lo trasportò nel campo di grano dove noi lo trovammo. Lasciò il coltello nella ferita finché giunse sul posto; evitò così che uscisse una gran quantità di sangue.» Jean rabbrividì. «Ci ha ingannati alla perfezione» sospirò. «Non avrei mai immaginato...» Leo tossì rumorosamente. «Ingannati in modo formidabile» fece eco. «Sembrava proprio una persona perbene.» «Era straordinario» convenni. «Il mio arrivo, quella sera a pranzo, deve averlo impressionato, perché mi aveva visto al funerale; ma tirò fuori immediatamente la storia del fratello e la fece apparire convincente. Il solo errore che commise fu di gettare il corpo nel fiume quando io dissi che volevo esaminarlo. Vedete: anche allora agì impulsivamente; vide una via dritta e la seguì senza riflettere.» Jean si appoggiò alla spalliera. «Non sareste dovuto cadere nell'ultima trappola che aveva preparato per voi» disse. «Cara figliola» ribattei ansioso di difendermi «dovevamo procurarci una prova di assassinio o di tentato assassinio, visto che nei due casi precedenti lui era riuscito a non lasciare nessuna prova. Comunque, non credo che sarei stato così temerario se non si fosse trattato di Lugg.» «Non ve la sareste cavata, se non ci fosse stato Gilbert.» La guardai profondamente e vidi che arrossiva. «Avevo scambiato qualche parola per telefono con Whippet, dopo aver combinato che Kingston sarebbe venuto a prendermi a Highwaters» ammisi. «Lui aveva individuato la villa disabitata e me ne aveva parlato; avevamo quindi stabilito che, se Kingston avesse voluto tentare qualche cosa contro di me, mi avrebbe condotto sul posto. Non sarei stato così coraggioso senza di lui. Le menti superiori amano la vita.»
Jean sorrise. È molto carina quando arrossisce. «Allora sapete di Gilbert...?» mi chiese. «E voi, lo sapete?» chiesi a mia volta. «Un pochino» mormorò. «Perbacco!» esclamai. Leo stava per chiedere spiegazioni, ma in quel momento fermammo davanti ai "Cavalieri". Trovammo Poppy, Pussey e Whippet che ci attendevano nel vestibolo; quando fummo tutti seduti attorno alla tavola, davanti a grandi bicchieri in cui nuotavano i cubetti di ghiaccio, Poppy si rivolse a me, improvvisamente. «Sono sicura che avete commesso un errore, Albert» cominciò. «Non voglio essere scortese e so che siete molto abile. Ma come potrebbe il dottor Kingston avere ucciso Harris, o Peters, come volete chiamarlo, se era in questa camera a giocare con Leo, quando il vaso cadde dal parapetto? Voi stesso avete riconosciuto che non può essere caduto per caso.» Era venuto il momento per svelare le mie batterie; ciò che feci come un abile prestigiatore, cercando di fare del mio meglio per essere all'altezza delle tradizioni. «Vi ricordate, Poppy» dissi «che Kingston venne a visitare la vostra cameriera la mattina del delitto? Lo accompagnaste voi stessa al letto della ragazza, suppongo. Nella caraffa di acqua accanto al letto c'era ghiaccio?» Rifletté, poi rispose: «No. Kingston ridiscese con me e gli offrii un whisky col ghiaccio. Prima lo avevo accompagnato a lavarsi le mani in stanza da bagno; quindi venni qui e lui mi seguì; dopo aver bevuto il suo whisky, salì per portare a Florence non so che medicinale che aveva dimenticato di lasciarle.» «Ah!» esclamai. «E rimase su un po' di tempo?» Mi guardò con interessamento. «Ma sì, ora che ci penso. Si trattenne parecchio.» Avevo messo a posto il coniglio, per continuare nella maniera dei prestigiatori, e ora dovevo tirarlo fuori con garbo. «Kingston ci disse di avere incontrato Harris, alias Babirussa, per le scale» cominciai «e che il Babirussa aveva la sbornia. La prima cosa non era vera, la seconda sì. Il Babirussa era in camera da letto quando Kingston entrò a fargli una visitina, dopo essersi liberato di voi. Il Babirussa era vestito, ma sentiva il bisogno di qualche cosa che gli ridesse un po' di tono; e si fidò, di Kingston, non immaginando neppure lontanamente di avere ormai spinto quell'uomo all'estremo. Dopo tutto, nessuno si aspetta di venire
ucciso. Nella sua borsa dei medicamenti Kingston aveva del cloralio, che è un ottimo narcotico quando è usato con moderazione. Vide l'opportunità di raggiungere il suo scopo. Somministrò una dose potente e mandò il Babirussa a sedere sul prato. Lo seguì e attraverso le finestre del vestibolo lo vide sistemarsi sulla sedia a sdraio. Credo che la sua primitiva intenzione fosse di lasciarlo morire così; il coroner avrebbe poi sospettato un caso di intossicazione cronica, per abuso di stupefacenti. Ma era pericoloso; e fu la posizione della sedia sotto la finestra che gli suggerì un'altra idea. Dovete notare che le finestre di ogni piano di questa casa sono direttamente sotto quelle del piano superiore; e chi conosce il luogo non può ingannarsi sulla posizione delle urne di pietra. Queste erano state collocate in origine per attenua- re la luce nelle soffitte. Fu dunque mentre Kingston beveva il suo whisky e soda che l'idea gli balenò. Nel suo bicchiere c'erano due o tre solidi cubetti di ghiaccio; lui ne mise in tasca due. Poi vi disse che aveva dimenticato di lasciare i medicinali a Florence e risalì all'ultimo piano, che a quell'ora della mattina era deserto. Di là scoprì che - come aveva supposto - il Babirussa era seduto proprio sotto l'urna che corrispondeva alla dispensa. Sapeva che era già incosciente e che lo sarebbe rimasto. Il resto fu facile. Trasse l'urna fuori dell'incavo e la mise in bilico sul suo cavicchio sull'orlo del parapetto. La sostenne in quella posizione con due cubetti di ghiaccio e ridiscese tranquillamente. Il parapetto è proprio a livello del balcone, sicché non vi era neanche la probabilità che qualcuno, entrando nella dispensa, si accorgesse che l'urna era stata spostata. Quindi non gli rimase da fare altro che attendere.» Poppy, pallidissima, mi fissava con gli occhi sbarrati. «Che il ghiaccio si sciogliesse e il vaso cadesse?... Dio... che orrore!» Pussey crollò la testa. «Furbo e abile. Molto. E posso chiedervi, signore, come avete fatto a ricostruire tutto questo?» «Il muschio del parapetto era umido quando io arrivai. La deduzione non mi balenò a tutta prima; ma l'altro giorno, quando Poppy mi offerse un whisky e vidi il ghiaccio nel bicchiere, compresi a un tratto il significato di quell'umidità.» «Magnifico!» esclamò Whippet senza malizia. «Io avevo sospettato lo stesso individuo; ma il suo alibi mi aveva messo fuori strada.» Leo lo fissò, come se solo ora si accorgesse della sua esistenza. «Signor... hm... Whippet... Sono molto lieto che siate qui anche voi. Ma che cosa c'entrate in questa storia straordinaria? Che cosa fate qui?» Vi fu una pausa; tutti mi guardarono come se io fossi responsabile della
sua presenza. A mia volta guardai Whippet. «Le sue zampette sono infiammate e il suo musetto sanguina» dissi. «Il signor Gilbert Whippet junior è figlio del signor Gilbert Whippet, del Trust Anglo-Lussemburghese di Previdenza e Assicurazione, a volte denominato semplicemente T.A.L.P.A. Me ne resi conto quel giorno alla "Penna d'oro"; e mi sarei schiaffeggiato per non averci pensato prima. Sei sempre stato un animale molto pigro, Whippet.» Sorrise debolmente. «Hm... preferisco lo scrivere all'agire...» disse esitando. «Ti chiedo scusa, Campion, di averti trascinato in questa faccenda; ma da principio non avevamo che dei vaghi sospetti. E non potevo venire da te direttamente perché... hm... perché non vi era nulla di concreto. Così... ho preferito scrivere.» La sua voce si perse in un mormorio. «Lugg e io abbiamo apprezzato il tuo stile» replicai. Fece un cenno di assenso, gravemente. «Mi è sembrato il miglior mezzo per destare il tuo interesse» riprese poi con calma. «E quando mi pareva che questo stesse per diminuire, ho scritto di nuovo.» «Immagino che siano stati gli agenti della Compagnia a rintracciare Euphemie. E tu l'hai mandata da me?» «Hm... sì» annuì Whippet, sfrontatamente. Poppy diede un'occhiata attorno alla stanza. «» Dov'è adesso? «domandò.» Whippet assunse un'espressione soddisfatta. Il più bel sorriso che avessi mai visto sul suo volto. «Con... hm... con Bathwick» mormorò. «Sono andati in città, al cinema. Molto adatti l'uno all'altro. Lieto fine... hm... come sempre.» Lo guardai stupito. Veramente meritava tutto il mio rispetto. L'indomani, quando io e Lugg tornammo a Londra, Poppy, che era venuta a colazione a Highwaters, si fermò con Leo sul prato, agitando le mani in segno di saluto. Il cielo era azzurro con qualche nuvoletta, gli uccelli cantavano, l'aria era satura del profumo del fieno. Jean venne di corsa a salutarci, con Whippet alle calcagna, proprio mentre eravamo sul punto di partire. Aveva gli occhi che le ridevano: era adorabile. «Fateci le vostre congratulazioni, Albert» disse. «Ci siamo fidanzati. Sono felice, sapete?» Diedi loro la mia benedizione con buona grazia. Whippet ammiccò. «Ti devo moltissimo, Campion» disse salutandomi.
Percorremmo un tratto di strada in silenzio. Ero pensieroso; e Lugg, pelato come un uovo, sembrava piuttosto depresso. Quando giungemmo sulla strada nazionale, mi toccò il gomito. «Che bell'impresa!» esclamò. «Quale?» chiesi, non volendo tributare onori a chi non li meritava. Mi sbirciò con la coda dell'occhio. «Quella di quel Whippet... È venuto con Euphemie Rowlandson e se ne andrà con Jean Pursuivant... Mi pare che abbia mostrato una certa abilità!» «Lugg» dissi malinconicamente «hai forse voglia di andartene a casa a piedi?» FINE