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RUTH RENDELL LA STRADA DELLE FARFALLE (Road Rage, 1997) Al dirigente e ai funzionari del corpo di polizia del Suffolk. 1 Per Wexford era l'ultima passeggiata in Framhurst Great Wood. Non poteva essere diversamente. Aveva attraversato quel bosco per molti anni, praticamente per tutta la vita. Camminare non costituiva un problema: Wexford era forte come sempre e tale sarebbe rimasto ancora a lungo. Non lui, ma il bosco sarebbe cambiato, anzi sarebbe scomparso. Difficilmente sarebbero sopravvissuti Savesbury Hill, Stringfield Marsh e River Brede, nelle cui acque s'immetteva il Kingsbrook a Watersmeet. Anche questo piccolo corso d'acqua sarebbe stato irriconoscibile. Per il momento non sarebbe accaduto nulla. Gli alberi sarebbero rimasti al loro posto per altri sei mesi, e indisturbata la vista sulla collina, come pure le lontre nel Brede e la rara farfalla carta geografica nel cuore di Framhurst Deeps. Ciononostante lui non avrebbe avuto il coraggio di tornare. E così se ne andrà l'Inghilterra. Ombre, prati, sentieri, Municipi, cori di legno intagliato. Ci saranno libri, tracce resteranno ancora Nelle pinacoteche; ma altro non rimarrà Per noi che cemento e gomme d'automobili. Camminava tra castagni, grandi faggi dalla corteccia grigia, querce con i rami tinti di verde dai licheni. Gli alberi erano radi e le fronde si protendevano sopra l'erba che i conigli provvedevano a tenere rasata. Le farfare, le più precoci a spuntare, erano in piena fioritura. Da giovane Wexford aveva visto nel bosco anche le azzurre fritillarie, che crescevano soltanto in un raggio di quindici chilometri da Kingsmarkham. Ma era stato molti anni prima. Quando andrò in pensione, aveva detto alla moglie, voglio vivere a Londra per non vedere lo scempio della campagna distrutta.
Un atteggiamento da perdente, l'aveva definito lei. Avrebbe dovuto invece lottare per impedire che accadesse. La moglie faceva parte del Kabal, ossia Kingsmarkham Against the Bypass And Landfill, un comitato costituitosi di recente per la salvaguardia dell'ambiente. Avevano già organizzato un primo incontro e in quell'occasione avevano cantato tutti insieme We Shall Overcome. Il vicecapo di polizia della contea, informato della cosa, aveva raccomandato a Wexford di starne fuori perché probabilmente si sarebbero verificati disordini e forse anche episodi di violenza, ed era bene che l'ispettore capo non fosse coinvolto. Si era alzato un po' di vento. Fuori dal bosco, Wexford rimase a contemplare la fila semicircolare di alberi che crescevano intorno a Savesbury Hill. Da quel punto non si vedevano tetti, né torri, né silos, né piloni, ma solo uccelli che volavano in formazione verso Cheriton Forest. La nuova strada sarebbe passata tra i ruderi dell'antica cittadina romana, habitat dell'Araschnia levana comunemente detta carta geografica, una farfalla introvabile nel resto delle Isole britanniche; quindi avrebbe attraversato il Brede e il Kingsbrook. A meno che non si compisse un miracolo, sia che decidessero di scavare un tunnel o di costruire una sopraelevata, le farfalle e le lontre non avrebbero gradito il nuovo ambiente di cemento. Kingsmarkham non era l'unico paese d'Inghilterra dove la circonvallazione era stata soffocata dalle case, tanto da trasformarsi in una strada qualunque. Quando ciò accadeva, si rendeva necessaria la costruzione di una seconda strada e, se anche questa diventava insufficiente, bisognava provvedere ad aprirne una terza. A quel punto Wexford sarebbe stato già morto. Rimuginando questo triste pensiero tornò alla sua auto, che aveva lasciato nel paesetto di Savesbury. Ogni volta che usciva per fare una passeggiata, aveva l'abitudine di spostarsi in auto fino a un certo punto. Era disposto a rinunciare alla sua vettura per amore dell'Inghilterra? Che razza di domanda! Sulla strada del ritorno, mentre attraversava Framhurst e Pomfret Monachorum, essendo di pessimo umore non poté fare a meno di notare le varie brutture su cui si posava il suo sguardo, come i silos simili a grosse salsicce di ferro conficcate nella terra, le baracche che ospitavano i polli d'allevamento, i pali e i fili elettrici che spuntavano ovunque come schiere di alieni appena atterrati, le casette con i muri di confine di mattoni rossi, le recinzioni di ferro battuto e le siepi di Leylandii. Secondo Nietzsche (o forse qualcun altro) la mancanza di gusto è peggio del cattivo gusto. Wex-
ford non era d'accordo. Se quel giorno fosse stato di buonumore, avrebbe notato gli alberi piantati di recente con grande oculatezza, i tetti delle case rimessi in ordine dai proprietari, le mucche al pascolo e le anatre che scivolavano a coppie sull'acqua, alla ricerca di un angolo dove fare il nido. Purtroppo per lui quella non era una giornata felice, almeno finché non rincasò. Ogni volta che aveva buone notizie, la moglie, in qualunque punto della casa si trovasse, aveva l'abitudine di andargli incontro per parlare. Wexford si chinò a raccogliere il foglio caduto dalla cassetta delle lettere e, nell'alzare la testa, se la trovò di fronte. Vide che sorrideva. «C'è una novità. Prova a indovinare.» «Non ne ho idea. Dimmelo tu, non tenermi sulle spine.» «Stai per diventare nonno un'altra volta.» Wexford appese il cappotto. La figlia Sylvia aveva già due bambini ed era in crisi col marito. «Cos'è, un altro espediente per tentare di salvare il matrimonio?» domandò, per quanto gli rincrescesse frenare l'entusiasmo di Dora. «Non è Sylvia, Reg. È Sheila.» Si avvicinò alla moglie, le posò le mani sulle spalle. «Lo sapevo che non avresti indovinato.» «Già, hai ragione. Dammi un bacio.» La strinse tra le braccia. «Ora posso dire che questo è un giorno felice.» La moglie non capì cosa gli frullasse per la testa. «Naturalmente sarei più contenta se Sheila avesse marito. E adesso per consolarmi non venirmi a dire che un bambino su tre nasce da coppie non sposate.» «Non era mia intenzione» rispose. «Pensi che dovrei telefonarle?» «Mi ha detto che sarebbe rimasta in casa tutto il giorno. Il bambino nascerà in settembre. Certo che ne ha fatto passare di tempo, prima di decidersi a parlarcene. Dammi quel foglio, Reg. Il figlio di Mary Pearson ha trovato un lavoro per il periodo estivo. Fa volantinaggio per una nuova agenzia di taxi che si chiama Contemporary Cars. Figurati che gli tocca passare in rassegna tutte le case di Kingsmarkham.» «Contemporary Cars, hai detto? Un nome quasi impronunciabile. Era proprio necessaria una nuova agenzia di taxi?» «Potrebbe essermi utile, visto che requisisci sempre l'auto. Su, telefona a Sheila. Speriamo che sia una femminuccia.» «Per me non fa differenza» replicò Wexford, mentre già componeva il numero telefonico.
2 Secondo il progetto, la tangenziale di Kingsmarkham doveva iniziare dalla strada a nord di Stowerton (un'arteria considerata quasi un'autostrada); quindi sarebbe passata a est di Sewingbury e Myfleet, avrebbe attraversato Framhurst Heath, imboccato la valle ai piedi di Savesbury Hill e, tagliato in due il paesetto omonimo, avrebbe proseguito attraverso Stringfield Marsh, collegandosi infine con la strada principale a nord di Pomfret. Nei limiti del possibile avrebbero rispettato la zona residenziale, evitando perciò di toccare Cheriton Forest e i ruderi dell'antica città romana. I primi commenti sul progetto pubblicati da un giornale furono probabilmente quelli di Norman Simpson-Smith del British Council, sezione archeologia, il quale dichiarava: "La Società Autostrade assicura che la tangenziale non toccherà l'antica città romana, limitandosi ad attraversare la zona circostante. Come dire che la costruzione di una nuova strada d'accesso a Londra non recherebbe danni all'abbazia di Westminster". Fino a quel momento le proteste erano venute soltanto dai rappresentanti dei vari organismi incaricati dell'inchiesta dal ministero dei Trasporti e da quello dell'Ambiente. I più accaniti oppositori erano ovviamente i Friends of the Earth, la Sussex Wildlife Trust e la Royal Society for the Protection of Birds. Alle loro voci si erano unite quelle meno scontate della sezione archeologia del British Council, di Greenpeace, del World Wide Fund for Nature, del Kabal, e di una nuova associazione denominata Species. Dopo la presa di posizione di Simpson-Smith erano piovute proteste da ogni parte. Le associazioni di ambientalisti, che contano circa due milioni di persone, mandarono sul posto alcuni rappresentanti. A Marigold Lambourne, della Royal Society of Entomologists, premeva salvaguardare due specie in particolare, ossia l'Araschnia levana e la Cosmosoma myrodora, comunemente chiamata tigre scarlatta. «Questa particolare varietà» dichiarò «è presente in una zona circoscritta del nordest della Francia e, nelle Isole britanniche, soltanto a Framhurst Heath. Si ritiene ne esistano circa duecento esemplari. Costruire la tangenziale equivale a condannarla all'estinzione. Non stiamo parlando di una piccola mosca, né di un batterio invisibile a occhio nudo, bensì di una stupenda farfalla con un'apertura alare di oltre cinque centimetri.» «Il progetto di questa tangenziale è nato negli anni Settanta ed è stato approvato negli Ottanta» disse Peter Tregear, del Sussex Wildlife Trust.
«Da allora è in atto una grande rivoluzione del pensiero, e le concezioni di qualche anno fa non sono più accettabili ora, sul finire del secolo.» Quando giunse la squadra che doveva abbattere gli alberi, sulla collina si materializzò una donna-sandwich con la scritta "No allo stupro di Savesbury". Era una giornata calda e assolata del mese di giugno. Dopo essersi liberata dei cartelli, la contestatrice apparve completamente nuda. Gli operai, che non avrebbero esitato a manifestare la loro ammirazione con fischi e schiamazzi, se si fosse trattato di una spogliarellista giovane, le voltarono le spalle e rimisero in funzione le motoseghe. Il caposquadra si servì del telefono portatile per avvertire la polizia e la donna, che si chiamava Debbie Harper, ebbe la sorpresa di vedere la sua foto, il corpo prosperoso pudicamente avvolto nella giacca di un poliziotto, pubblicata su tutti i quotidiani nazionali e sulla prima pagina del Sun. Fu allora che confluirono nella zona gli "amici degli alberi". Forse era stata l'immagine di Debbie Harper a sensibilizzarli su quanto stava accadendo. Quasi nessuno di loro apparteneva ad associazioni ufficiali. Per la maggior parte erano cultori della New Age e, benché fossero arrivati a bordo di auto e camper, nessun veicolo era parcheggiato sul posto e nemmeno nei dintorni. L'iniziativa di Debbie Harper aveva interrotto il lavoro degli operai, che avevano abbattuto soltanto quattro betulle bianche. Gli amici degli alberi intervennero immediatamente, conficcando chiodi nei tronchi per impedire il lavoro delle motoseghe. Poi iniziarono a costruirsi delle capanne in cima alle querce e alle betulle, vere e proprie case aeree fatte di assi e teloni impermeabili, cui si accedeva per mezzo di scale da issare sull'albero dopo la salita. Il primo di questi accampamenti era sorto in giugno a Savesbury Deeps. Debbie Harper, che viveva con il suo compagno e il loro figlioletto di tre anni in Wincanton Road, a Stowerton, rilasciava interviste a tutti i giornalisti che gliele chiedevano. Era socia del Kabal e della Species, di Greenpeace e di Friends of the Earth; ma non era tanto questo che interessava i cronisti, quanto il fatto che era una Pagana con la P maiuscola, che celebrava antichi riti celtici e adorava divinità dai nomi strani come Ceridwen e Nudd, e aveva posato per il giornale Today coperta soltanto da tre foglie, non di fico ma di rabarbaro, decisamente più indicate per un'estate inglese. «Siamo preoccupati per via dei chiodi conficcati nei tronchi» annunciò Dora, di ritorno da una riunione del Kabal. «Pare che le lame delle motoseghe, spezzandosi, potrebbero mutilare gli operai. Pensa se capitasse una
cosa del genere... Sarebbe orribile.» «E questo non è che l'inizio» replicò il marito. «Che intendi dire, Reg?» «Ti ricordi cos'è successo a Newbury? Hanno dovuto assumere seicento guardie per proteggere i dipendenti della società che eseguiva i lavori, e poi qualcuno ha manomesso i freni di uno dei pullman su cui viaggiavano.» «Conosci qualcuno che non sia contrario alla costruzione della tangenziale?» «Non mi pare» rispose Wexford. «Tu la vuoi?» «No, lo sai bene, ma non intendo neppure rinunciare a spostarmi con l'auto e non mi entusiasma l'idea di restare bloccato nel traffico, con la pressione che mi sale alle stelle. Come tutti, vorrei la botte piena e la moglie ubriaca.» Sospirò. «Credo che Mike sia favorevole alla tangenziale.» «Oh, Mike!» esclamò la moglie, ma il tono era affettuoso. Wexford non tenne fede alla decisione di non tornare a Framhurst Great Wood. La prima volta ci andò per osservare i lavori degli esperti di animali selvatici, intenti a predisporre nel cuore del bosco nuove tane per i tassi, con tanto di rampe d'accesso e porticine basculanti come quelle usate per i gatti. Intanto avevano già iniziato a costruire il secondo accampamento di case sugli alberi, cosa che probabilmente bastava da sola a spingere i tassi verso le nuove tane. La seconda volta Wexford tornò dopo che gli addetti al disboscamento si furono rifiutati di mettere in pericolo la propria vita, azionando le motoseghe su tronchi protetti da chiodi d'acciaio o filo spinato. La Società Autostrade aveva inoltrato le pratiche per costringere gli amici degli alberi a sloggiare; ma nel frattempo stava sorgendo un altro centro a Elder Ditches e un altro ancora ai limiti del bosco. Mentre arrancava su per Savesbury Hill, Wexford ripeteva a se stesso che quella sarebbe stata davvero l'ultima volta. Dall'alto si distinguevano chiaramente tutt'e quattro gli accampamenti. Il primo era quasi ai piedi della collina, il secondo a meno di un chilometro da Framhurst Copses, il terzo ai margini della palude che doveva essere sacrificata e l'ultimo, il più distante, a nord di Stowerton. La campagna era la stessa di sempre, con l'unica differenza che un campo nei pressi di Pomfret Monachorum era ingombro di macchinari per la rimozione della terra, come scavatrici e bulldozer. Quelle macchine erano quasi sempre verniciate di giallo, osservò Wexford; della stessa tonalità spenta della crema pasticciera vecchia di
qualche giorno. Forse dipendeva dal fatto che il giallo spicca tra il verde più del rosso o del blu. Scese giù dalla collina dal versante opposto; ma poi se ne pentì, quando si trovò invischiato fino alle cosce tra le ortiche. Le foglie non arrivavano a pungergli le gambe attraverso i pantaloni, ma lo costringevano a tenere alte le braccia e le mani. Se la tangenziale doveva proprio passare da quelle parti, tanto valeva che fosse in quel punto, pensò; ma proprio mentre faceva questa riflessione vide la farfalla. Capì subito che si trattava dell'Araschnia levana. Tra le tante cose che erano state scritte in quegli ultimi tempi su Savesbury e Framhurst, ricordava di aver letto che quel lepidottero si ciba delle ortiche di Savesbury Deeps. Avanzò con circospezione finché non fu a un metro di distanza. La farfalla era arancione con macchie color cioccolato e qualche puntino bianco, mentre la parte inferiore delle ali era orlata d'azzurro. Era da sola. Ne esistevano in tutto duecento esemplari, forse anche meno. Quando lui era piccolo c'era chi, dopo aver catturato le farfalle con il retino, le infilava in una bottiglia per farle morire, poi le trafiggeva con uno spillo e le fissava su un cartoncino. A ripensarci era una pratica disgustosa. Fino a pochi anni prima chiunque si opponesse alla costruzione di nuove tangenziali era ritenuto un balordo, una specie di hippy fuori moda, un emarginato, e le sue attività considerate pericolose al pari di quelle degli anarchici, dei comunisti e dei sovversivi. Le cose erano cambiate. Gli oppositori ufficiali del regime erano impegnati e determinati quanto il tizio di cui proprio in quel momento vide spuntare la testa dalla biforcazione di un albero. Qualcuno gli aveva riferito che Sir Fleance e Lady McTear avevano preso parte a una marcia di protesta organizzata da Wael e Anouk Khoori, direttori di una catena di supermercati. Come la maggior parte degli europei, aveva qualche riserva a proposito dell'Unione europea; ma in quella particolare occasione non gli sarebbe affatto dispiaciuto che Strasburgo intervenisse per opporre il veto al progetto. Verso la fine del mese la British Society of Lepidopterists creò un nuovo habitat per l'Araschnia, un campo di ortiche a ovest di Pomfret Monachorum. Un giornalista del Kingsmarkham Courier scrisse, in un articolo satirico ma non divertente, che quella era la prima volta nella storia dell'orticoltura che si piantavano ortiche invece di strapparle. Le piantine, ovviamente, crebbero rigogliose.
Gli uomini incaricati dei tassi erano già entrati in azione per sovvertire a loro volta l'ordine naturale delle cose. Invece di preservare gli habitat, stavolta dovevano distruggerli. Per allontanare i tassi dalle tane minacciate dalla costruzione della tangenziale, dovevano aprirsi un varco nell'intrico dei rami, quell'anno particolarmente vigorosi in seguito a una drastica potatura, e appesantiti da viluppi di rampicanti carichi di frutti ancora verdi. Mentre sollevavano una grande massa di rami e di vegetazione, le mani protette da robusti guanti da lavoro, intravidero qualcosa che li inorridì. Uno di loro gridò, un altro si allontanò di qualche passo per vomitare. Ciò che avevano visto era il corpo di una giovane donna in avanzato stato di decomposizione. La polizia di Kingsmarkham non aveva dubbi sull'identità della ragazza; ma preferirono tenere la bocca cucita. Furono i giornali e la televisione a darle un nome, sia pure con qualche riserva: Ulrike Ranke, un'autostoppista tedesca di cui si erano perdute le tracce. Diciannovenne, unica figlia di un avvocato e di un'insegnante di Wiesbaden, studiava legge all'università di Bonn ed era arrivata in Inghilterra nel mese di aprile per trascorrervi le vacanze pasquali, ospite di una ragazza che aveva lavorato au pair in casa dei genitori. L'amica abitava ad Aylesbury e Ulrike aveva deciso di raggiungerla viaggiando nel modo più economico. Il motivo non era chiaro: infatti i genitori le avevano fornito il denaro sufficiente per il volo andata e ritorno da Heathrow e per il biglietto del treno. Ciononostante Ulrike aveva attraversato la Francia in autostop, per poi imbarcarsi sul traghetto per Dover. Fin qui non c'era ombra di dubbio. «Personalmente non ci trovo niente di strano» aveva dichiarato Wexford in quel frangente. «Anzi, mi sarei meravigliato se la ragazza avesse fatto come le avevano detto i genitori. Quello sì che sarebbe stato inspiegabile.» «Cinico, come sempre» aveva commentato l'ispettore Burden. «È un'etichetta che non mi piace. Casomai sono realista. Cinico è chi conosce il prezzo di ogni cosa, ma non il valore. Io non sono così. La verità è che non sopporto l'ipocrisia. Anche tu hai dei figli e quindi sai bene come si comportano a quell'età. La mia Sheila ragionava allo stesso modo. Perché spendere tanti soldi quando si può raggiungere lo stesso obiettivo gratis? È un atteggiamento comune tra i giovani. Hanno bisogno di soldi per ascoltare e fare musica, per comperarsi i jeans neri e magari anche la droga.»
In un primo momento parve che avesse ragione perché in una tasca dei jeans neri con l'etichetta Calvin Klein di Ulrike Ranke furono trovate venticinque pasticche di anfetamina e un pacchetto contenente quasi cinquanta grammi di hashish. Non c'erano documenti che ne provassero l'identità, né denaro. Fu il padre a identificare il cadavere. Lo sconosciuto che due mesi prima l'aveva violentata e strangolata evidentemente non aveva capito cosa fosse quella roba, oppure non era interessato. Il denaro invece, una cifra che presumibilmente si aggirava sulle cinquecento sterline, era sparito. In Framhurst Copses non erano state effettuate ricerche, né nella campagna intorno a Kingsmarkham, non essendoci motivo di ritenere che Ulrike Ranke si trovasse in quella zona, a molti chilometri dalla strada che avrebbe dovuto percorrere per recarsi da Dover a Londra. L'assassino aveva abbandonato il cadavere in fondo a un declivio, nascosto sotto un intrico di rovi. Secondo il patologo e gli esperti di medicina legale, il corpo non era stato rimosso; quindi la ragazza era stata uccisa sul posto. Non essendo state effettuate ricerche, ovviamente non era stata avviata un'indagine; ma appena conosciuta l'identità della vittima, un certo William Dickson, proprietario del Brigadier, una locanda da lui definita albergo, chiamò la polizia per fornire informazioni. Vedendo le foto di Ulrike Ranke pubblicate dal Kingsmarkham Courier, aveva riconosciuto la ragazza che era entrata nel suo locale all'inizio di aprile. Il Brigadier si trovava sulla vecchia circonvallazione di Kingsmarkham. Era una di quelle locande sorte sul finire degli anni Trenta, in stile pseudoTudor, rivestita in legno, che sembrava imponente ma in realtà non lo era. Il parcheggio sul retro era oscurato da un grande prefabbricato che Dickson chiamava con orgoglio la sala da ballo. Soltanto questo cortile era asfaltato, mentre tutt'intorno all'edificio non c'era che ghiaia, scomodissima per camminarci, come disse Vine a Burden. Sembrava di essere sul greto di un fiume. «È stato il 3 aprile, un mercoledì, poco prima dell'ora di chiusura» esordì Dickson quando ebbe di fronte i due poliziotti. «Perché non l'ha detto prima?» domandò Burden. Lui e il suo collega, il sergente Vine, si erano seduti a un tavolo e non avevano accettato nulla da bere. Poi Vine aveva chiesto acqua minerale, pagandola regolarmente. «Come sarebbe a dire, prima?» «Quando si è saputo della sua scomparsa. C'era la foto su tutti i giornali. L'hanno fatta vedere anche alla televisione.»
«Guardo solamente una Tv locale» rispose Dickson «e m'interessa soltanto lo sport. Quando si lavora in un posto come questo non si ha mai un minuto di pace, sapete? Di tempo libero praticamente non ne ho.» «L'ha riconosciuta subito, appena ha visto la sua foto sul Courier?» «Era proprio una bella ragazza» mormorò Dickson, voltandosi come per sincerarsi che nessun altro potesse sentirlo. «Un vero bocconcino.» «Davvero? Allora, ci racconti quello che sa.» La ragazza era entrata nel bar intorno alle 22.20. Era bionda e vestita di nero come la maggior parte delle sue coetanee. Indossava una giacca, forse una giacca a vento, un eschimo o qualcosa del genere. Marrone, probabilmente. Portava una borsa rigonfia. Non uno zainetto, ma una borsa a tracolla. A distanza di tre mesi non era facile ricordare tutti i particolari. «Ah, però ho la sua foto.» «Come ha detto?» domandò Vine. «Era in corso una festicciola per sole donne» spiegò Dickson. «Organizzata per una tizia che doveva sposarsi il giorno successivo al municipio di Kingsmarkham. Aveva pregato mia moglie di scattare una foto a lei e alle sue amiche sedute a tavola e mia moglie l'ha scattata proprio mentre entrava la ragazza tedesca. Perciò la si può vedere sullo sfondo.» «E lei ha conservato una copia di quella foto?» «Ce l'ha mandata la giovane sposa. Pensava che ci avrebbe fatto piacere averla, dal momento che la festa era stata fatta qui da noi. Posso mostrarvela, se volete.» «Oh, sì, certo» rispose Burden. Ulrike Ranke, in posizione arretrata rispetto al gruppo, pur trovandosi in una zona d'ombra era ugualmente riconoscibile. La giacca poteva essere marrone, grigia, o forse blu, ma i jeans erano sicuramente neri. Sulla camicetta o sul maglione scuro spiccava un filo di perle. Dalla spalla destra le pendeva una borsa di cuoio e cotone gonfia e sicuramente pesante. L'espressione era ansiosa. «Appena ho visto la foto sul Courier ho chiesto a mia moglie di cercare l'istantanea e, quando l'ho avuta sotto gli occhi, ho capito che non mi sbagliavo.» «Perché è entrata nel locale? Ha chiesto da bere?» «Le ho detto subito che non poteva ordinare nulla» rispose Dickson. «Avevo già servito l'ultimo giro della serata. Lei però non voleva da bere, ma soltanto sapere se poteva fare una telefonata. Il suo modo di parlare faceva ridere, non solo per l'accento straniero, ma anche perché aveva diffi-
coltà a pronunciare certe parole. D'altronde qua dentro se ne sentono di tutti i colori.» Burden non aveva mai capito per quale ragione i suoi connazionali, che generalmente non conoscono nessuna lingua oltre la propria, spesso prendano in giro gli stranieri che non parlano l'inglese alla perfezione. Domandò a Dickson se la ragazza avesse fatto la sua telefonata. «Ci stavo appunto arrivando. Mi ha chiesto di poter usare il telefono per chiamare un taxi e se conoscessi il numero. È una richiesta piuttosto frequente qui da noi, come potete immaginare. Le ho risposto che avrebbe trovato il numero vicino all'apparecchio, stampato su un cartoncino. Ho aggiunto che avrebbe dovuto usare il telefono a pagamento, non quello dell'ufficio.» «E l'ha fatto?» «Naturalmente. Quand'è tornata, i clienti se n'erano già andati via tutti. Mia moglie e io stavamo mettendo in ordine. Ci ha raccontato che un camionista le aveva dato un passaggio a Dover. L'accordo era che l'avrebbe portata fin dove arrivava lui, dopodiché l'avrebbe mollata. Infatti si era fermato a dormire da queste parti, in una piazzuola lungo la strada. In seguito ho detto a mia moglie che poteva considerarsi fortunata che il camionista l'avesse mollata davvero, giovane e attraente com'era.» «Non si può dire che sia stata fortunata» lo contraddisse Burden. Dickson ebbe un sussulto. «No, certo. Non era questo che intendevo.» «Quindi ha chiamato un taxi. Saprebbe dirmi di quale agenzia?» «La Contemporary Cars. È il numero scritto sul cartoncino. Ce n'erano altri annotati su un foglio di carta, ma io le avevo indicato quello.» «E il taxi è arrivato?» Per la prima volta la sicurezza ostentata da Dickson parve vacillare. «Veramente non saprei» rispose. «Le avevano assicurato che sarebbe arrivato Stan entro un quarto d'ora. Prima di andare a letto, una mezz'ora dopo, ho guardato fuori dalla finestra e la ragazza non c'era più. Perciò ho pensato che il taxi fosse passato a prenderla.» «Dunque non l'ha fatta restare qui ad aspettare?» domandò Burden. «L'ha mandata fuori?» «Senta, questo è un albergo, non un pensionato per...» «È un locale pubblico» puntualizzò Vine. «Sa, mia moglie era esausta ed era già andata a dormire mentre io ancora mettevo in ordine. Era stata una giornata particolarmente dura. Del resto fuori non faceva freddo e non pioveva.»
«Aveva solo diciannove anni» osservò Burden. «Una ragazza giovane, e per di più straniera. E lei l'ha mandata fuori ad aspettare, al buio, alle undici di sera.» Dickson si risentì. «Se dovesse capitare di nuovo, ci penserò due volte prima di telefonarvi per dirvi quello che so.» Quello stesso giorno, dopo un interrogatorio durato alcune ore, Stanley Trotter, tassista e proprietario con Peter Samuel della Contemporary Cars, fu tratto in arresto per l'omicidio di Ulrike Ranke. 3 Sheila Wexford voleva partorire in casa. In quegli anni andava di moda e Sheila, osservò il padre in tono affettuoso, ma non senza una punta d'amarezza, era sempre stata attenta a seguire le tendenze del momento. Se fosse toccato a lui decidere, l'avrebbe mandata nel miglior ospedale del mondo, ovunque si trovasse, con almeno quattro settimane di anticipo rispetto al parto. All'inizio del travaglio, avrebbe voluto che fosse presente l'ostetrico più illustre del paese, magari affiancato da un paio di assistenti e da una squadra di levatrici esperte. Dopo la prima contrazione avrebbe richiesto un'epidurale e, se il travaglio avesse superato la mezz'ora, avrebbe preteso il cesareo, ovviamente il più piccolo possibile. Questo almeno sosteneva Dora, interpretando il pensiero del marito. «Sciocchezze» commentò Wexford. «Solo che non mi va l'idea che partorisca in casa.» «Farà come le pare, come sempre.» «Sheila non è egoista» protestò il padre. «Non ho detto questo, solo che fa sempre di testa sua. Wexford rifletté sulla contraddizione in termini.» Starai con lei durante il parto, vero? «Veramente non ci avevo pensato. Non sono un'ostetrica. Comunque ci andrò di sicuro dopo che sarà nato il bambino.» «Strano, però...» mormorò Wexford. «Abbiamo fatto progressi incredibili nella conoscenza del sesso e nella parità tra uomini e donne, sbarazzandoci di tanti vecchi tabù. Ora gli uomini assistono alla nascita dei figli. Le donne allattano in pubblico e parlano senza riserve di problemi ginecologici di cui un tempo si vergognavano da morire. Eppure non c'è chi, a dir poco, non esiterebbe all'idea che un padre fosse lì al parto della figlia. Vedi, ho messo in imbarazzo anche te. Sei arrossita.»
«Be', è naturale, Reg. Non vorrai essere lì, quando Sheila...» «Certo che no. Probabilmente finirei per svenire. Sto solo dicendo che in fondo è strano, che tu possa essere presente e io no.» Sheila abitava in una vecchia casa di Londra, un piccolo appartamento di Welbeck Street, con l'uomo che stava per darle un figlio, un attore che si chiamava Paul Curzon. Era lì che il bambino avrebbe visto la luce. Wexford, che non conosceva bene la città, andò a controllare sul Geographer's Atlas e scoprì che Harley Street era a due passi dalla loro abitazione. Harley Street, che, come tutti sanno, è piena di medici e presumibilmente anche di ospedali. L'ufficio della Contemporary Cars si trovava in un angolo semideserto di Station Road, in un prefabbricato dall'aspetto assai precario. Una volta là c'era stato il Railway Arms, un pub che con il passare degli anni aveva perso man mano i clienti, sia perché trovavano eccessivo il prezzo della birra, sia perché ritenevano troppo drastiche le misure contro l'alcolismo. Dopo la chiusura del locale, l'edificio andò in rovina. In abbandono, invaso da ortiche e fusaggini e sommerso di sporcizia, quel posto era un vero pugno in un occhio. Per gli abitanti il prefabbricato dell'agenzia non aveva affatto migliorato la situazione; ma Sir Fleance McTear, presidente del Kabal e della locale Historical Society, aveva osservato che, rispetto alla prospettiva della tangenziale, quella bruttura era il minore dei mali. Peter Samuel, sedicente direttore generale della Contemporary Cars, sosteneva che presto gli uffici si sarebbero trasferiti nella sede definitiva, ma non c'erano segnali di cambiamento. Il terreno occupato in passato dal Railway Arms offriva un ampio parcheggio per i taxi e abbondante spazio per far manovra ai mezzi che entravano e uscivano dalla stazione. Fu in quegli uffici fatiscenti, arredati con tavoli pieghevoli e divani-letto, retaggio dell'utilizzo precedente, che Burden interrogò Stanley Trotter. In un primo momento dichiarò di non sapere chi fosse Ulrike Ranke. Dopo che Vine gli ebbe rinfrescato la memoria, dicendogli che William Dickson l'aveva tirato in ballo e facendogli notare che la ragazza parlava con un accento tedesco, finalmente si ricordò di aver risposto alla telefonata, ma disse di non essere passato a prendere Ulrike al Brigadier. Sarebbe andato di persona, aggiunse, ma aveva un impegno precedente, doveva andare alla stazione a prelevare un tale che arrivava con l'ultimo treno da Londra. Perciò aveva incaricato Robert Barrett, uno degli autisti. Interrogato, costui disse di non ricordare i suoi spostamenti nella notte
del 3 aprile. Sapeva soltanto di non aver avuto un momento di pace. Non solo quella sera in particolare, ma per tutta la settimana era stato molto indaffarato, forse perché la Pasqua era vicina. Comunque di una cosa era certo: neppure una volta in cinque mesi, cioè da quando lavorava per la Contemporary Cars, era passato a prendere un cliente al Brigadier. Burden invitò Stanley Trotter a seguirlo alla stazione di polizia di Kingsmarkham, anche perché era saltato fuori qualche precedente penale di una certa gravità. Il reato con cui aveva esordito, circa sette anni prima, era furto con scasso in un negozio di Eastbourne; il secondo, ben più grave, era uno scippo ai danni di una giovane donna a cui aveva strappato la borsa, dopo averla presa a pugni e calci. Il fatto era avvenuto in Queen Street, a mezzanotte, dove la donna stava camminando da sola. Per entrambi i reati Trotter era andato in galera, e per il secondo la pena sarebbe stata più pesante, se la giovane donna non se la fosse cavata con un livido sulla guancia. Per Burden era più che sufficiente. Riuscì a indurre Trotter a confessare di essere andato al Brigadier la notte del 3 aprile alle 22.45. All'inizio aveva taciuto per paura, disse l'interrogato. Era arrivato al pub poco prima delle undici, ma non aveva trovato nessun cliente ad aspettarlo. Nel frattempo la ragazza doveva essere andata via. A quel punto Trotter chiese di essere assistito da un legale e Burden non poté rifiutarglielo. Si presentò subito un giovane e solerte avvocato dello studio Morgan de Clerck di York Street e, quando Trotter dichiarò di non rammentare se avesse o no suonato il campanello del Brigadier, l'avvocato disse a Burden che il suo cliente non se ne ricordava e perciò era inutile insistere. «Dickson ha dichiarato che la ragazza aspettava in strada» osservò Vine quando uscirono dalla stanza degli interrogatori. «Quindi Trotter non aveva nessuna necessità di suonare il campanello.» «Non vedendo la cliente, ne avrebbe dedotto che era rimasta nel pub e di conseguenza avrebbe dovuto suonare. Ti pare possibile che, arrivato sul posto alle undici, non vedendo nessuno abbia voltato la macchina e sia tornato in Station Road?» «È quello che vorrebbe farci credere» rispose Vine. Quando riprese l'interrogatorio, l'avvocato si impegnò al massimo, sollevando obiezioni su ogni quisquilia e rifornendo incessantemente il suo assistito di sigarette, benché lui stesso non fosse un fumatore. Trotter, sulla quarantina, magro, le spalle cascanti e l'aria malaticcia, alla fine del pome-
riggio ne aveva fumate una ventina e l'aria era diventata irrespirabile. L'avvocato, che continuava a chiedere per quanto tempo intendessero trattenere il suo cliente, alla fine domandò se volessero incriminarlo. Di pessimo umore, quasi incapace di respirare con tutto quel fumo, Burden rispose di sì, mentre in realtà intendeva solo trattenere Trotter alla stazione di polizia. Informato della cosa, Wexford ebbe subito dei dubbi sull'intera faccenda. Comunque Burden, ottenuto il mandato, fece perquisire la casa in Peacock Street, a Stowerton, un appartamento di due stanze sopra un negozio di alimentari di proprietà di due fratelli emigrati dal Bangladesh. Gli agenti Archbold e Pemberton trovarono una collana di perle finte e una borsa di tela marrone ricoperta di plastica verde. Secondo Wexford non assomigliava minimamente alla borsa a tracolla vista nella foto che gli aveva mostrato Dickson, né corrispondeva alla descrizione fornita alla polizia dal padre della vittima, Dieter Ranke. La borsa rinvenuta, oltre a essere di tipo economico, era marrone e verde invece che marrone e nera. I Ranke erano persone agiate; marito e moglie svolgevano attività ben remunerate e non facevano mancare nulla alla loro unica figlia. La collana che le avevano regalato per i suoi diciott'anni era di perle coltivate ed era costata l'equivalente di milletrecento sterline. «Quel poveretto dovrà dare un'occhiata alla borsa» disse Wexford, alludendo a Ranke e pensando a se stesso e alle sue due figlie. «Si è trattenuto in Inghilterra per l'inchiesta.» «Sarà sempre meno doloroso di quando ha dovuto identificare il corpo» osservò Burden. «Be', questo è certo, Mike.» Wexford preferì non insistere sull'argomento, anche per evitare di dire cose di cui avrebbe potuto pentirsi in seguito. «Ho sentito dire che il ministero dei Trasporti si è rivolto alla Corte Suprema per ottenere l'autorizzazione a cacciare via la gente dagli alberi.» Per Burden era una buona notizia. L'idea che si costruisse una nuova strada gli era piaciuta fin dall'inizio, ritenendo che avrebbe risolto il problema degli ingorghi del traffico sia in centro sia sulla vecchia circonvallazione. «Un tempo non si facevano tante storie» commentò. «Se il governo decideva che occorreva fare una strada, la gente non si opponeva. Partivano dal presupposto che, votando chi li rappresentava in parlamento, avevano compiuto il loro dovere di democratici e perciò dovevano accettare le decisioni del governo. Neppure si sognavano di asserragliarsi sugli alberi, né di mostrarsi nudi in pubblico in segno di protesta, né tantomeno di sabotare le macchine, con il rischio di ferire gravemente quei poveracci che
devono lavorare. Si rendevano conto che le strade venivano costruite per il loro bene.» «"Non ha mai accettato che il progresso cambiasse il mondo" scriveranno sulla tua tomba» scherzò Wexford, guardandolo di traverso. «Domani si terrà una grande manifestazione a cui interverrà il Kabal, il Sussex Wildlife Trust, Friends of the Earth e il Sacred Globe. In testa al corteo ci saranno Sir Fleance McTear, Peter Tregear e Anouk Khoori.» «Significa soltanto una bega in più per noi. Fatica sprecata, visto che costruiranno ugualmente la tangenziale.» «Chi può dirlo?» mormorò Wexford. Preferì non interrogare Trotter personalmente. Burden, messo in croce da Damian Harmon-Shaw dello studio Morgan de Clerck, chiese e ottenne una proroga di ventiquattr'ore al tempo consentito per trattenere Trotter alla stazione di polizia. Sapeva che allo scadere del termine avrebbe dovuto incriminarlo oppure lasciarlo libero, giacché era del tutto improbabile che il tribunale ritenesse le prove a suo carico sufficienti a emettere un mandato di cattura. Furono esaminate le tre Vauxhall e le due Volkswagen Golf usate dalla Contemporary Cars. Peter Samuel non fece obiezioni. Le auto erano state pulite dentro e fuori almeno una decina di volte da quel 3 aprile e nel frattempo avevano trasportato centinaia di clienti. Anche ammesso che fosse rimasta qualche traccia del breve passaggio di Ulrike Ranke, come per esempio un capello, un'impronta digitale o un filo di tessuto dei suoi indumenti, a quel punto non si sarebbe trovato più nulla. «Non hai neanche uno straccio di prova, Mike» disse Wexford dopo aver ascoltato la registrazione. «Ti basi soltanto sulle condanne precedenti e sul fatto che Trotter si è recato al Brigadier da dove peraltro, non avendo trovato nessuno, se ne sarebbe andato via subito.» «Conosce bene Framhurst Great Wood. Ha ammesso che frequentava l'area attrezzata per i picnic quando i suoi figli erano piccoli.» Il fatto che Trotter, dopo avere abbandonato moglie e figli e avere ottenuto il divorzio, si fosse risposato per separarsi subito dopo anche dalla seconda moglie era un altro motivo per cui Burden era prevenuto nei suoi confronti. «Conosce bene la strada che porta nel bosco e la zona intorno all'area dei picnic. Non dobbiamo dimenticare che il corpo è stato trovato a meno di duecento metri da lì.» «La metà degli abitanti di Kingsmarkham conosce quella zona come le sue tasche. Io ci portavo le mie figlie, tu i tuoi. A ben considerare è stato
onesto da parte sua ammetterlo. Avrebbe potuto farne a meno.» «So solo che è colpevole. È stato lui a ucciderla» insistette Burden. «L'ha ammazzata per rubarle la collana di perle, facilissima da rivendere, e le cinquecento sterline che aveva con sé.» «Ti risulta che fosse a corto di quattrini?» «La gente di quella risma non ne ha mai abbastanza.» Dieter Ranke giunse a Kingsmarkham due ore prima che scadesse il termine per rilasciare Trotter. Nel frattempo Burden e il sergente Karen Malahyde l'avevano interrogato di nuovo senza risultati apprezzabili. Al padre di Ulrike bastò un'occhiata per escludere che la borsa marrone e verde fosse appartenuta alla figlia. La collana di perle da pochi soldi trovata nell'appartamento di Trotter provocò uno scatto d'ira. Dopo aver inveito contro Barry Vine, il poveretto gli chiese scusa e scoppiò in lacrime. «A questo punto non vi resta che rilasciare il mio cliente» concluse Damian Harmon-Shaw in tono pacato, con un sorriso condiscendente. Burden non aveva scelta. «L'ha passata liscia» disse a Wexford. «Eppure so che è stato lui a ucciderla. Non mi va giù.» «Devi rassegnarti. Se vuoi, ti dirò io come sono andate le cose. Quando quella bestia di Dickson l'ha buttata fuori dal locale, Ulrike non era affatto contenta di trovarsi sola in strada di notte, in un posto così isolato. Se le luci del pub erano spente, doveva essere buio pesto. Mentre aspettava il taxi, è arrivata un'altra auto e qualcuno si è offerto di darle un passaggio. Potrebbe essere stata una macchina oppure un camion. Chi può dirlo?» «E lei ha accettato di correre quel rischio?» «Ciascuno di noi si comporta in modo differente, a seconda della persona che ha di fronte, perché siamo convinti di saper giudicare il prossimo in base al suo aspetto. Un volto, una voce...» È buio, fa freddo, e la ragazza non sa nemmeno dove passerà la notte, né ha idea di quando arriverà ad Aylesbury. Un uomo le passa davanti in macchina. Nell'auto c'è luce e un calduccio confortevole. Lo sconosciuto è una persona rassicurante, non più giovane, un tipo paterno che non le rivolge domande personali, che non le chiede per quale motivo una bella ragazza come lei si trovi in strada di notte, limitandosi a dirle che è diretto a Londra e che è disposto a darle un passaggio. Magari aggiunge che sta andando a prendere la moglie a Stowerton per accompagnarla a Londra. Quello che dice non lo sappiamo, possiamo solo immaginarlo. Ulrike ha freddo, è stanca ed è convinta di saper riconoscere una persona per bene, quando ne vede una...
«Bella ricostruzione!» esclamò Burden. «Un'unica obiezione: è stato Trotter ad assassinarla.» Il giorno successivo Stanley Trotter tornò al lavoro e, insieme con Peter Samuel, Robert Barrett, Tanya Paine e Leslie Cousins, fu indaffaratissimo a trasportare dalla stazione al punto di ritrovo le orde di manifestanti che arrivavano da Londra. Qualcuno andava a piedi, dal momento che il percorso era lungo solo un chilometro e mezzo. I giovani e i poveri erano costretti a farlo. Alcuni degli attivisti erano praticamente senza un soldo. Altri privilegiati, per la maggior parte soci del Wildlife, oppure Friends of the Earth, o ambientalisti che non facevano capo a nessuna organizzazione, avevano formato una lunga coda davanti alla stazione e attendevano che arrivassero i taxi delle varie agenzie, come la Station Taxis, All the Sixes (così chiamata perché il numero telefonico era composto da una fila di 6), Kingsmarkham Taxis, Harrison Brothers e Contemporary Cars. Il punto d'incontro era il rondò sulla strada che portava da Stowerton a Kingsmarkham, dov'erano riunite oltre cinquecento persone, tra cui i membri di un gruppo che si chiamava Heartwood, ciascuno dei quali portava i rami di alberi abbattuti il giorno precedente; tanto che, a detta di Wexford, sembrava di vedere la foresta di Birnam fino alla collina di Dunsinane muovere contro Macbeth. Attraversarono la città, diretti verso Pomfret e più precisamente il punto da cui sarebbe dovuta partire la tangenziale. Anouk Khoori, consigliere comunale nonché direttrice generale, insieme con il marito, della catena di supermercati Crescent, si era vestita di verde da capo a piedi, con tanto di ombretto e smalto per le unghie in tinta. Durante la marcia le foglie che cadevano dai rami branditi dai soci dell'Heartwood lasciarono una scia verde in mezzo alla strada. Era presente anche Debbie Harper in versione sandwich; stavolta non era nuda, ma indossava un paio di jeans e una maglietta verde. Dora Wexford, non essendo stata scoraggiata dal marito, il quale peraltro si era rammaricato di non poter andare con lei, marciava tra i ranghi ordinati del Kabal, i cui membri avevano rigorosamente evitato d'indossare indumenti di colore verde e qualsiasi altro orpello che potesse in qualche modo ricollegarli alla New Age. Wexford, che osservava la marcia dalla finestra del suo ufficio (e salutò la moglie, che però non si accorse di lui), notò un gruppo nuovo. Dallo
striscione risultava che erano membri della Species. Divertito, si chiese quale potesse essere per esteso il nome dell'associazione. Chissà, forse Save and Protect Environmental Culture in Ecological eccetera. Formidabile, che fossero riusciti a ottenere una tale sigla. In testa marciava un personaggio imponente, alto all'incirca quanto Wexford, almeno uno e novanta. Non aveva cartelli né bandiere e il suo abbigliamento differiva dalla sorta di divisa che indossavano gli altri, vestiti in jeans o con abiti che rammentavano i pellegrini medievali. Quest'uomo aveva la testa rasata e portava un mantello color sabbia che gli svolazzava intorno a ogni passo. Incredibile, era a piedi nudi. E anche a gambe nude, per quanto riuscì a vedere. Se non avesse concentrato l'attenzione su questo personaggio che, visto di profilo, spiccava per la fronte spaziosa, il naso romano e il mento pronunciato, Wexford avrebbe potuto vedere uno dei manifestanti scagliare un sasso contro una finestra degli uffici della Concreation in Pomfret Road. Questa vetusta dimora georgiana ristrutturata, che ospitava la società incaricata della costruzione della tangenziale, era separata dalla strada da un prato e da un parcheggio. Nessuno aveva visto chi era stato a lanciare il sasso, ma vi furono diverse congetture e i più erano propensi a credere che il responsabile fosse un rappresentante della Species o dell'Heartwood. In seguito Wexford lo domandò a Dora, che però si era accorta dell'accaduto soltanto dopo aver udito il rumore dei vetri infranti. La manifestazione proseguì senza altri incidenti. Tre giorni dopo venne l'ordine di sloggiare la gente dai quattro accampamenti che si erano costituiti nei punti cruciali; ma prima che il vicesceriffo del Mid-Sussex potesse dare inizio alle operazioni di sgombero, erano sorti altri due centri, uno a Pomfret Tye e l'altro a Stoke Stringfield, entrambi "sotto gli auspici" della Species, come enfaticamente scrissero i giornali. L'area dove era stato rinvenuto il corpo di Ulrike Ranke, recintata dalla polizia, tornò a essere praticabile e gli ambientalisti che si prodigavano per salvare i tassi si rimisero al lavoro. La Society of Lepidopterists annunciò che nel nuovo campo di ortiche erano state viste uova di Araschnia levana, anche se le larve non erano ancora nate. Era agosto e avevano ricominciato ad abbattere gli alberi, quando una notte una squadra di uomini mascherati fece irruzione negli uffici della Concreation a Kingsmarkham. 4
Spaccati i vetri delle finestre della Concreation, si erano introdotti negli uffici e avevano messo fuori uso computer, fax, telefoni e fotocopiatrici, rovistando nei cassetti degli schedari e distruggendo i documenti. La polizia, giunta tempestivamente sul posto, procedette all'arresto dei responsabili; ma intanto un'altra squadra aveva occupato la sede del consiglio comunale di Kingsmarkham e un terzo gruppo si accingeva a prendere d'assalto i negozi di High Street. Alcuni degli arrestati erano ambientalisti che si dichiaravano amici degli alberi; ma quelli con il viso mascherato erano forestieri. Arrivati in città nel corso della giornata, si erano accampati in un altro punto strategico, costituendo così il settimo agglomerato, benché fossero già state presentate le richieste di sgombero. Il giorno successivo a quello della devastazione di Kingsmarkham, un certo Mark Arcturus, portavoce della sezione di Friends of the Earth interessata alla campagna contro la tangenziale, rivolse un appello affinché la protesta si mantenesse nella legalità. «Tutto ciò che riusciremo a ottenere» disse «sarà vanificato se si dovesse associare la protesta alla violenza e ai vandalismi. Finiremmo così per perdere l'appoggio della gente, che finora ci è stato di grande aiuto. Fino a ieri la protesta si è mantenuta pacifica e civile. Facciamo in modo che resti tale.» Sir Fleance McTear dichiarò che il Kabal si era sempre attenuto a questa regola. «Siamo contrari alla violenza anche in una causa nobile come questa.» Il Kingsmarkham Courier fu l'unico giornale a riportare le dichiarazioni di un certo Conrad Tarling, il quale sosteneva che le situazioni disperate richiedono misure estreme, non essendovi altra scelta quando il governo mostra d'ignorare la voce del popolo. Tarling, che si autodefiniva Re del bosco, era il capo della Species nella lotta contro la tangenziale. Wexford lo riconobbe dalla foto che accompagnava l'articolo: era il tizio con il mantello che aveva visto partecipare alla marcia. Una squadra di operai arrivò sotto scorta per togliere il filo spinato dai tronchi delle piante. Gli amici degli alberi, asserragliati nelle loro case aeree, assistevano ai lavori dall'alto senza intervenire, finché le guardie, che all'inizio si davano il turno per essere presenti ventiquattr'ore su ventiquattro, alla fine si tolsero di torno. Patrick Young di English Nature annunciò sul New Scientist la scoperta sulle sponde del Brede di una varietà rara, la Psychoglypha citreola, la cui
larva è un vermiciattolo multicolore, che nello stadio finale si trasforma in una farfalla gialla lunga circa due centimetri e mezzo. Di conseguenza il governo si riservò di decidere se dichiarare aree di interesse scientifico alcuni siti lungo il fiume. «Secondo le direttive europee a tutela degli habitat e delle specie faunistiche» affermava Young «la condizione di riserva naturale assicura all'ambiente il massimo grado di protezione. La presenza della Psychoglypha potrebbe essere determinante per la salvezza di questa zona geografica impareggiabile per bellezza e per ospitare specie rare. E dimostra l'inadeguatezza da parte del ministero dei Trasporti nel salvaguardare l'ambiente che comprende il corso del Brede e Stringfield Marsh.» In un afoso pomeriggio, verso la fine del mese, prese fuoco una delle case sugli alberi nell'accampamento di Elder Ditches. I due occupanti, un uomo e una donna, erano personaggi di rilievo in seno alla Species. Nell'incendio andarono distrutti sia la casa sia l'albero; ma dopo le iniziali perplessità fu stabilito che si era trattato di un incidente, poiché il fuoco era stato provocato dalla caduta di un fornelletto a spirito. «Questa marmaglia» disse Burden a Wexford «più che salvare l'ambiente, contribuisce a distruggerlo.» «Per un albero che si è incendiato? Non essere ridicolo.» «Certe verità all'inizio possono sembrare esagerazioni» replicò Burden. «Vedremo come andrà a finire.» Fece una pausa. «Come sta Sheila?» «Bene. Il bambino nascerà fra tre settimane. Mi sentirei molto più tranquillo se avesse deciso di partorire in ospedale. Uno dei suoi amici si è unito alla protesta degli ambientalisti» continuò Wexford solo per il gusto di stuzzicare l'ispettore. «Si chiama Jeffrey Godwin, fa l'attore ed è proprietario del Weir Theatre.» «Cioè il teatro che hanno ricavato ristrutturando il vecchio mulino di Stringfield? Non dev'essere un genio.» «Stanno per mettere in scena un'opera teatrale al Weir per esprimere il loro dissenso. Inizierà la settimana prossima. Il titolo è Extinction.» «Sai che risate!» esclamò Burden. «Di una cosa puoi essere sicuro: non comprerò il biglietto.» L'ultimo lunedì del mese la Concreation portò via i macchinari dal campo di Pomfret Monachorum e la prima scavatrice affondò la sua grande pala nel verde della collina. Per sei mesi Wexford non aveva fatto che preoccuparsi, fino al punto di
svegliarsi nel cuore della notte, terrorizzato al pensiero del raggelante vuoto, del baratro che gli si sarebbe aperto dinanzi se Sheila fosse morta durante il parto. I casi di morte di parto appartenevano ormai al passato, l'unico di cui avesse avuto notizia era quello di una zia quando lui aveva solo quattro anni; eppure quell'idea lo tormentava. Pensava spesso anche alla creatura che stava per nascere. Non tanto al bambino in sé, quanto al dolore che avrebbe provato la figlia se il neonato non fosse stato perfetto, e alle ripercussioni che quel dolore avrebbe avuto sulla sua vita. Sapeva che le sue paure erano nulla rispetto all'angoscia che avrebbe patito il giorno previsto per il parto e quelli immediatamente successivi giacché, com'è risaputo, il primo figlio non è mai puntuale. Per non parlare di quando sarebbe iniziato il travaglio. Fino al 4 settembre però poteva stare relativamente tranquillo. Non faceva che ripetere a se stesso che era sciocco tormentarsi in quel modo prima del tempo, che significava soffrire due volte: prima e durante. «La maggior parte delle cose di cui ci si preoccupa» disse a Dora la sera del 1° settembre «non accadono mai.» «Lo so» rispose la moglie. «Te l'ho insegnato io.» Mentre parlava, squillò il telefono. Wexford andò a rispondere. «Ciao, papà» lo salutò Sheila. «È nata la bambina.» Per fortuna c'era una sedia vicino. Vi si afflosciò. «Papà, mi senti? Ho avuto la bambina. È favolosa, con i capelli neri e gli occhi blu. Si chiama Amulet. Sai, non è stato per niente terribile come pensavo.» «Oh, Sheila...» Si rivolse a Dora. «Sheila ha avuto la bambina.» «Be', non ti congratuli con me?» «Congratulazioni, cara.» «Pesa tre chili e quattrocento grammi. Non so quanto sia in libbre, bisognerà fare i calcoli. Avrei dovuto chiamarvi all'inizio del travaglio, ma ho pensato che vi sareste preoccupati inutilmente, e poi è successo tutto così in fretta...» «Ti passo la mamma. Raccontale tutto.» Dora rimase un quarto d'ora al telefono. Dopo aver riagganciato, comunicò al marito che tra due giorni sarebbe andata a Londra. «Mi aveva chiesto di partire domani.» «Perché hai rimandato di un giorno?» «Ho troppe cose da sistemare qui. Non posso piantare tutto in asso di colpo. Senza contare che preferisco darle un paio di giorni per abituarsi al-
la bambina. In ogni caso non hanno bisogno del mio aiuto, hanno preso un'infermiera privata. Ci vado solo per farle compagnia.» «Amulet» mormorò Wexford. «Spero di farci presto l'orecchio.» «Non preoccuparti» lo rassicurò Dora. «La chiameranno Amy, vedrai.» Durante la notte quelli della Species e gli amici degli alberi avevano preso d'assalto le macchine, rimuovendo alcuni pezzi, tagliando i cavi, sabotando i motori e versando limatura di ferro nei serbatoi. Alcune persone erano state tratte in arresto e sul posto era stata piazzata una guardia. James Freeborn, vicecapo di polizia del Mid-Sussex, chiese al governo uno stanziamento da due a cinque milioni di sterline per garantire l'ordine. Wexford voleva incontrarsi con lui per discutere degli atti di vandalismo nei negozi e dei furti commessi a Sewingbury e a Myfleet. La Società Autostrade provvide all'assunzione di quattrocento guardie che furono alloggiate nelle baracche della vecchia base militare di Sewingbury. La gente della zona iniziò subito a lamentarsi, li accusava delle risse nei pub, oltre che dell'inquinamento acustico e atmosferico e degli ingorghi nel traffico, provocati dal viavai dei numerosi pullman adibiti al loro trasporto. «Ridicolo, non trovi?» disse Wexford a Dora. «Chi custodirà i custodi? Purtroppo quest'impegno m'impedisce di accompagnarti alla stazione.» «Prenderò un taxi. Se non fossi così carica, se non avessi con me la caterva di regali che hai voluto comperare a tutti i costi, potrei andare a piedi.» «Telefonami, questa sera. Voglio sapere tutto della bambina, e ascoltare la sua voce.» «A quell'età si fanno sentire soltanto per piangere» osservò Dora «e spero che succeda il meno possibile.» Wexford uscì di casa alle nove del mattino per recarsi all'appuntamento. Avrebbe voluto dire alla moglie di non rivolgersi alla Contemporary Cars. Non sarebbe stato poi così grave, ma non gli andava a genio l'idea che fosse Stanley Trotter ad accompagnare la moglie alla stazione. In effetti al volante del taxi avrebbe potuto esserci qualcun altro, magari Peter Samuel o Leslie Cousins; ma anche se ci fosse stato Trotter, era poco probabile che nominasse Wexford o parlasse del suo arresto e delle accuse infondate di Burden. Tutto dipendeva da come l'aveva presa, se era preoccupato per la svolta che avrebbe potuto prendere la cosa, oppure sollevato per essere stato rilasciato dalla polizia. Comunque Wexford si era dimenticato di farne cenno alla moglie e, tutto considerato, forse era meglio così: se le cose si
fossero messe male, Dora avrebbe potuto dire di essere all'oscuro dell'accaduto. L'incontro si concluse senza arrivare a una decisione sulla politica da seguire. In compenso la presenza di Wexford fece venire delle strane idee a Freeborn, che gli propose per il pomeriggio, se non aveva altri impegni, una visita alle zone d'interesse naturalistico. La passeggiata era inevitabile perché un comitato, composto da rappresentanti di English Nature, Friends of the Earth, Wildlife Trust, Kabal e British Society of Entomologists, doveva pronunciarsi sulla difesa ambientale del Brede e di Stringfield Marsh. Wexford avrebbe preferito evitare quella seccatura. Non capiva per quale motivo fosse necessario l'intervento di Freeborn, e men che meno il suo. Ancora una volta si vedeva costretto a infrangere il proposito di non tornare più in Framhurst Great Wood. Ovviamente non poteva esimersi. A parte il fatto che non era giusto nascondere la testa sotto la sabbia: doveva affrontare la situazione, come gli altri. Forse avrebbe potuto approfittarne per dire agli entomologi che anche lui aveva visto la famosa farfalla. Stava riflettendo su questo e sul fatto che gli animali, gli insetti e persino le piante soffrono nel cambiare ambiente, anche se si tratta soltanto di poche centinaia di metri, quando alla stazione di polizia di Kingsmarkham giunse la telefonata della Contemporary Cars. Non era Trotter, ma Peter Samuel. Era passato da poco mezzogiorno. Tornato nel suo ufficio in Station Road, Samuel aveva trovato la sua impiegata imbavagliata e legata a una sedia, i locali sottosopra e spariti i soldi del fondo cassa. Barry Vine si recò sul posto, accompagnato dall'agente Lynn Fancourt. La porta del prefabbricato era spalancata e Samuel li aspettava sulla scala. Dentro ci si stava a malapena in quattro. Seduta sul divano-letto Tanya Paine, la ventenne impiegata tuttofare, si massaggiava i polsi. La corda con cui le avevano immobilizzato le gambe e le braccia era stata legata molto stretta. Per imbavagliarla avevano usato un paio di collant e con lo stesso sistema le avevano bendato gli occhi. Non era ferita, ma spaventata e scossa. Pallidissima nonostante il trucco pesante, aveva uno chignon semidisfatto e i capelli arruffati. «Avevo portato un cliente a Gatwick» raccontò Samuel «e mentre tornavo indietro, mi chiedevo come mai non fosse arrivata nessuna chiamata da Tanya. È piuttosto insolito che passi un'ora senza che qualcuno ci chiami, perciò pensavo che fosse staccato il telefono. Per questo sono tornato, cosa che non faccio mai prima di pranzo. Come stavo dicendo, siccome in un'o-
ra e mezzo non era arrivata...» «Bene, signore, la ringrazio» tagliò corto Vine. «E ora sentiamo cosa può dirci la sua impiegata. Era un uomo solo, vero signorina Paine? È riuscita a vederlo in faccia?» «Erano in due» rispose Tanya. «Avevano in testa dei cappucci neri con i fori per gli occhi e per la bocca, proprio come quelli che hanno fatto irruzione negli uffici della società che deve costruire la tangenziale. Li ho visti in una foto sul giornale. Uno dei due era armato.» «Ne è sicura?» «Certo. Ho avuto paura. Anzi, ero terrorizzata. Dopo aver aperto la porta ed essere saliti su per le scale, hanno richiuso l'uscio e quello con la pistola me l'ha puntata contro, intimandomi di entrare qua dentro. Naturalmente ho obbedito. Non avevo scelta. Mi hanno fatto sedere su quella sedia e uno dei due mi ha legato, sempre tenendomi sotto tiro.» «Che ore saranno state?» «Dieci e un quarto, dieci e venti.» «Le hanno messo il bavaglio e bendato gli occhi?» domandò Lynn Fancourt. «Non so perché, visto che erano incappucciati e non potevo vederli in faccia. Dopo che mi hanno bendato gli occhi, ho sentito che si muovevano. Poi hanno chiuso quella porta e non ho udito più nulla. Soltanto il telefono. Ha squillato un po' di volte. Sono rimasti qui parecchio. Non saprei dire quanto tempo. Finalmente ho sentito sbattere la porta e ho capito che se n'erano andati.» Il locale in cui si trovavano era in origine la camera da letto. Ai mobili preesistenti, il divano, un armadietto pensile e due tavoli pieghevoli, erano state aggiunte una poltroncina e due sedie. A una di queste era stata legata Tanya. Oltre la porta c'era la cucina, completa di forno a microonde, frigorifero e mobiletti vari. Dalla cucina si accedeva al soggiorno, ora trasformato in ufficio. Con le porte chiuse, era escluso che la ragazza avesse potuto sentire i rumori. Vine e Lynn Fancourt diedero un'occhiata in giro. Il nome Contemporary non poteva essere meno adatto. A parte i due telefoni, non c'era traccia di tecnologia moderna. Non avevano computer e neppure la cassaforte. «Non ne ho bisogno» spiegò Samuel. «Porto gli incassi in banca due volte al giorno, all'ora di pranzo e alle tre del pomeriggio.» «Quanto c'era nel fondo cassa?» domandò Vine, avvolgendo in un fazzoletto pulito, prima di afferrarla, la scatola di latta che un tempo aveva
contenuto biscotti, onde evitare di cancellare le eventuali impronte rimaste dopo che Samuel e Tanya l'avevano maneggiata. «Ci saranno state cinque sterline al massimo» rispose Samuel. «Ho ancora in tasca gli ultimi incassi, e la stessa cosa vale per Stanley e Leslie. Generalmente me li consegnano all'ora di pranzo e io li verso in banca.» Vine scosse la testa. Capitava di rado di avere a che fare con gente così sprovveduta. Tanya Paine ricomparve con i capelli in ordine e il rossetto fresco sulle labbra. «Ho preferito aspettare a darmi una sistemata per farvi vedere come mi avevano conciato» disse. «C'erano esattamente tre sterline e quarantadue in cassa, Pete. Ne sono sicura perché avevo intenzione di prendermi un cappuccino e una barretta di cioccolato e non avevo spiccioli. Erano esattamente tre sterline e quarantadue.» Restava da appurare se gli intrusi, oltre a quei pochi soldi, avessero portato via qualche altra cosa. Dal mobiletto su cui c'erano i telefoni era stato estratto un cassetto. Per terra c'erano il blocco delle ricevute e il registro delle tasse aperto e capovolto. La polizia finisce per accorgersene, se qualcuno mette tutto sossopra senza uno scopo preciso, tanto per confondere le idee. Non si poteva dire che i due incappucciati si fossero dati molto da fare per depistare gli agenti. Di sicuro cercavano qualcos'altro, disse Vine a Lynn mentre tornavano alla stazione di polizia. Non certo le tre sterline, né la documentazione delle tasse versate. «Che cos'avranno fatto nell'altro locale, dove pare si siano trattenuti a lungo dopo aver legato la ragazza?» «Non ne ho idea» rispose Vine. «Può darsi che siano rimasti meno di quanto crede. Terrorizzata com'era, e a giusta ragione, è comprensibile che le sia sembrata un'eternità, mentre forse si sono trattenuti soltanto un paio di minuti.» «Dunque l'hanno legata alla sedia, hanno chiuso le due porte, rubato gli spiccioli e buttato qualche scartoffia a terra per farci credere che cercassero qualcosa. Che bisogno c'era della pistola?» «Forse era finta. Nessuno è rimasto ferito, hanno rubato una miseria e non hanno fatto danni... Sai una cosa? Non riusciremo mai ad acciuffare quei due.» «Non potresti essere un po' più ottimista?» protestò Lynn che, a ventiquattro anni, aveva appena terminato l'addestramento ed era piena di zelo. «Aspetta e vedrai se non ho ragione» replicò il sergente Vine. «Con questo non intendo dire che non faremo del nostro meglio: torneremo sul po-
sto e controlleremo le impronte digitali per assicurarci che non appartengano a qualche pregiudicato di nostra conoscenza. Seguiremo la solita routine, anche se in questi ultimi tempi di incidenti del genere ne sono capitati diversi. L'unica differenza è che questi erano incappucciati e avevano una pistola.» Quando Burden fu informato dell'accaduto, la prima cosa che gli venne in mente fu che Stanley Trotter era per l'appunto uno degli autisti della Contemporary Cars e che uno dei due incappucciati potesse essere proprio lui. «Tanya Paine l'avrebbe riconosciuto» gli fece notare Vine. «In ogni caso che senso aveva prendersi quella briga, visto che è di casa là dentro e quindi aveva la possibilità di cercare con comodo quello che gli interessava senza bisogno di legare la ragazza?» «Dov'è adesso?» «In ufficio, immagino, dove si trovano sempre a mezzogiorno per consegnare gli incassi. A quest'ora saranno tutti lì, tranne Barrett, che è in ferie.» Burden decise di recarsi personalmente in Station Road e si fece accompagnare da Lynn Fancourt. Tanya Paine era tornata al lavoro, in forma smagliante come se nulla fosse accaduto. Li fece accomodare in cucina, dove trovarono Trotter seduto davanti al televisore in bianco e nero, con un hamburger in mano e un piatto di patatine sulle ginocchia. «Vorrei che mi dicesse dov'era tra le dieci e mezzogiorno» disse Burden. Trotter diede un morso all'hamburger. «Ho fatto servizio alla stazione» rispose con la bocca piena. «Poi, dopo l'arrivo del treno delle 10.19, da qui è partito l'ordine di andare a prendere un cliente a Pomfret. Al numero 15 di Masters Street, per la precisione. Arrivato di nuovo alla stazione, ho fatto salire altri clienti e li ho portati a Stowerton. A quel punto erano le undici e mezzo e perciò ho fatto una pausa per andare a bere una tazza di tè. Sono tornato nel taxi verso mezzogiorno meno dieci e mi sono fermato ad aspettare nei pressi della stazione. Da quel momento in poi non ho ricevuto altre chiamate. Mi è parso strano. Non succede mai.» «Poi che ha fatto?» «Sono tornato in ufficio, come vede.» «Mi dica il nome del cliente che ha prelevato a Pomfret.» «Non lo so. Perché dovrei? Tanya mi ha dato l'indirizzo e io sono andato.» Convinto che la ragazza annotasse i nomi dei clienti, Burden rivolse a lei
la domanda, ma anche stavolta gli andò buca. «Dovrei scriverli» disse Tanya in tono grave, come se si trattasse di una cosa complicata. «Pete sta prendendo in considerazione l'idea di acquistare un computer, magari di seconda mano.» «Perciò non ha idea di quante telefonate ha ricevuto, né saprebbe dirmi chi ha chiamato?» «Non ho detto questo. So esattamente quante telefonate sono arrivate. Prendo sempre appunti.» Gli mostrò un foglio di carta con sopra qualche scarabocchio a matita. «Che cosa può dirmi dell'ultimo cliente prelevato alla stazione?» domandò Burden. «L'ho portato in Oval Road, a Stowerton. Al numero 5, o forse al 7. Si ricorda sicuramente di me, così come il cliente di Pomfret.» Fissò Burden senza battere ciglio. Non aveva l'aria colpevole. Al contrario, dava l'impressione di non avere nulla da nascondere. Il sergente non aveva la minima idea di come l'incidente di quel mattino potesse essere messo in relazione con la morte di Ulrike Ranke; ma proprio in questo consisteva il lavoro della polizia, nel trovare collegamenti dove sembrava che non ve ne fossero. Tornò nell'ufficio occupato da Tanya e la trovò con uno specchietto in mano, intenta a mettersi il mascara. «Uno dei due uomini di stamattina potrebbe essere un autista che lavora qui?» «Come ha detto?» domandò Tanya, passandosi la lingua sulle labbra. Gli uomini che hanno fatto irruzione in questo ufficio è possibile che siano persone di sua conoscenza, uno dei due o anche entrambi? «ripeté, riformulando la domanda.» Ha avuto l'impressione di averli già visti? La ragazza scosse la testa, meravigliata. «Hanno parlato?» «Uno dei due mi ha detto che, se stavo tranquilla, non mi avrebbero fatto del male. Tutto qui.» «Perciò non ha sentito la voce dell'altro?» Tanya scosse di nuovo la testa, sempre più perplessa. «Dato che non ha potuto vederlo perché era incappucciato e non ha sentito la sua voce, non può escludere che fosse una persona di sua conoscenza, non le pare? Quindi è possibile che fosse qualcuno con cui ha una certa familiarità.» «Non capisco dove vuole arrivare» replicò Tanya. «Adesso ho le idee confuse. Mi hanno legata e imbavagliata. È stata un'esperienza orribile e
credo di avere il diritto di essere ascoltata da un analista. Io sono la vittima.» «Si può fare, signorina Paine» replicò Lynn in tono conciliante. Burden e Lynn Fancourt andarono a Stowerton, dove appurarono che nel corso della mattinata nessuno era stato portato dalla stazione al numero 5 di Oval Road. Al 7 non trovarono nessuno in casa. Dunque le possibilità erano due: chi vi abitava era uscito di nuovo, oppure Trotter aveva mentito. Naturalmente Burden era più propenso a credere a questa seconda ipotesi. La donna che abitava al numero 9 li informò che il suo vicino di casa si chiamava Wingate, ma non aveva idea se quel mattino fosse arrivato in taxi dalla stazione di Kingsmarkham e ignorava dove si trovasse in quel momento. Il cliente di Pomfret, ammesso che esistesse, poteva essere ancora a Londra o a Eastbourne o dovunque l'avesse portato il treno; ma erano trascorse più di tre ore e perciò non era da escludere che nel frattempo fosse tornato a casa. Lynn suonò il campanello al numero 15 di Masters Road, una villetta costruita a cavallo tra le due guerre in una posizione da cui si scorgeva un tratto della circonvallazione. La donna che venne ad aprire evidentemente stava verniciando, dato che aveva le mani, i jeans e la camicia sporchi di pittura e qualche schizzo anche sui capelli. Era accaldata e di malumore. No, non era sposata. Se Burden si riferiva al suo compagno, era un certo John Clifton. Sì, quel mattino aveva preso il treno delle 10.50 per Londra. Un taxi l'aveva portato alla stazione di Kingsmarkham, ma lei non l'aveva sentito telefonare, non aveva visto l'auto e non aveva idea di chi la guidasse e per quale agenzia lavorasse. John l'aveva chiamata per salutarla prima di andarsene e... «Gli è successo qualcosa?» domandò, allarmata. «No, niente, signorina...» «Kennedy, Martha Kennedy. Siete sicuri che non gli sia capitato nulla di male?» «È il tassista che ci interessa» le spiegò Lynn. «In questo caso vi prego di scusarmi, ma voglio finire di verniciare queste maledette porte prima che torni John.» Burden le disse che sarebbero ripassati più tardi e la donna praticamente gli sbatté la porta in faccia. Mentre tornavano a Kingsmarkham superarono l'auto di Wexford, che era diretto a Pomfret Tye, dove doveva incontrarsi con il vicecapo della polizia e gli ambientalisti.
La foschia di quel mattino si era dissipata e il tempo era splendido, una giornata ideale per gli amanti della natura; ma forse era peggio così perché l'aria tiepida, il sole splendente, il cielo azzurro e il verde intenso della vegetazione acuivano la nostalgia di chi era consapevole che presto l'intervento dell'uomo avrebbe guastato in modo irreparabile quei luoghi stupendi. In realtà, si disse Wexford, sarebbe stato preferibile che la giornata fosse grigia e fredda e il cielo plumbeo avvolgesse come un manto cupo le colline, le valli, le paludi e l'acqua impetuosa del Brede. Quel giorno, oltre all'Araschnia, avrebbero visto volare le farfalle tartaruga, le arginnidi e le api sulla veronica e sull'erica. Sui fichi di Framhurst Great Wood si sarebbero posati i regoli dalla caratteristica testa gialla. Una volta ne aveva visto una coppia, durante un picnic con Dora e le bambine. Lui e Sheila avevano cercato inutilmente il nido, simile a un piccolo cesto sospeso a un ramo. A proposito di Dora, gli era venuta la tentazione di telefonarle all'ora di pranzo, benché le avesse raccomandato di chiamarlo quella sera; ma poi aveva cambiato idea e aveva deciso di aspettare. A quell'ora Dora doveva aver già visto la piccola Amulet, la loro nipotina. Mentre guidava, da solo in macchina, Wexford non poté trattenersi dal ridere per lo strano nome che le avevano dato i genitori. Per fortuna Freeborn non c'era ancora. Se fosse arrivato prima di lui avrebbe avuto sicuramente qualcosa da ridire, anche se fossero stati entrambi in anticipo. Comunque rimase contrariato vedendo che l'autorità locale era rappresentata da Anouk Khoori, presidentessa del Comitato Autostrade del consiglio comunale, con cui di recente si era scontrato diverse volte. Vestita con colori sgargianti in maglietta gialla, pantaloni e stivali verdi e una bandana gialla e nera sui capelli biondi, civettava apertamente con Mark Arcturus di English Nature, cui elargiva grandi sorrisi. Tornò seria di colpo appena si accorse della presenza di Wexford, al quale lanciò un'occhiata gelida. «Buongiorno, signora Khoori» la salutò con il tono piatto tipico di molti poliziotti. «Bella giornata.» Gli entomologi si presentarono e Wexford ne approfittò per parlare dell'Araschnia. Stava dicendo di avere avuto la fortuna di vedere alcune farfalle abbastanza rare, ma fu interrotto dall'arrivo di Freeborn. Con lui c'era Peter Tregear. Il vicecapo della polizia si prese la briga di contare i presenti, come avrebbe fatto un maestro di scuola. «Se ci siamo tutti, possiamo cominciare» disse.
«Non si va a piedi, vero?» domandò Anouk Khoori. Wexford non resistette alla tentazione di risponderle come meritava. «La tangenziale non è ancora stata costruita» replicò. «Speriamo che non la costruiscano mai» commentò Arcturus, come se ignorasse che a tre chilometri di distanza, sul versante opposto di Savesbury Hill, le scavatrici erano già al lavoro. «Meglio essere ottimisti e non dimenticare che la speranza è una delle virtù cardinali.» Non dovettero camminare a lungo. A Pomfret Tye imboccarono un sentiero tra i campi e a Watersmeet, dove il Kingsbrook s'immetteva nel Brede, Arcturus ebbe la soddisfazione d'indicare, attraverso l'acqua chiara e trasparente, attaccato a un sasso, il cilindro colorato come un mosaico della pupa della farfalla gialla. La signora Khoori rimase delusa: si aspettava qualcosa di più grande. Sette, ottocento metri più avanti, lungo il fiume, Wexford vide il vecchio mulino trasformato in teatro da Jeffrey Godwin. Dora desiderava vedere la commedia, Extinction, e sicuramente sarebbe venuta anche Sheila... Wexford si distolse a fatica da queste riflessioni. Al suo fianco c'era Janet Braiswick dell'English Entomologists. Le parlò dei regoli e della tigre scarlatta che aveva visto da ragazzo. A sua volta lei gli raccontò che una mattina nel Norfolk, quand'era piccola, aveva avuto la fortuna di ammirare un macaone che sfarfallava su una siepe. Arrivati al campo di ortiche di Framhurst Deep, proseguirono evitando di far rumore. Persino Anouk Khoori camminava in rispettoso silenzio. Il sole era forte, condizione ideale per vedere le farfalle ma, nonostante la lunga attesa, non avvistarono l'Araschnia. Nessuna farfalla si levò dall'erba né dalle margherite, che crescevano così fitte da dare l'impressione che il prato fosse coperto di neve. Bisognava passare in rassegna le vecchie tane dei tassi, dato che la tangenziale sarebbe passata in quel punto esatto, attraverso il campo di ortiche frequentato dall'Araschnia ai limiti del bosco, per poi avanzare verso Stringfield Marsh. Wexford riusciva a scorgere in lontananza le capanne costruite sugli alberi. L'autorizzazione per far sgomberare la gente non era ancora arrivata. Nel frattempo si erano dati da fare: nel raggio di circa ottocento metri non c'era tronco a cui non avessero messo dei ripari. Forse per evitare di sentire le vibranti proteste di Anouk Khoori, nota per essere contraria a ogni forma di contestazione che non fosse soltanto verbale o scritta, Sir Fleance McTear propose di tornare indietro e di fare una piccola deviazione per andare a vedere la zona destinata alle nuove tane dei tassi.
Erano troppo lontani per vedere le scavatrici in funzione, o anche solo sentirne il frastuono. Né potevano scorgere le guardie, gli operai e la gente che assisteva ai lavori. In fondo la loro non era stata altro che una passeggiata per ammirare la natura, pensò Wexford, riandando con la mente ai lontani giorni di scuola, quando gli insegnanti portavano i ragazzi di Kingsmarkham in quegli stessi campi a vedere le libellule e gli insetti acquatici. Domandò a Janet Braiswick quando fosse stata l'ultima volta in cui le era capitato di vedere dei girini in uno stagno inglese. Gli rispose che non ne vedeva da una trentina d'anni, cioè da quando era bambina. Alle cinque erano già di ritorno a Pomfret. Sir Fleance propose di andare almeno a bere una tazza di tè in un bar, visto che nessuno di loro voleva mangiare; ma la proposta non fu accettata. Erano tutti depressi per ciò che avevano visto, persino Freeborn. Lui e Anouk Khoori, pur vivendo in campagna, non potevano certo affermare di conoscerla e la passeggiata di quel giorno era valsa ad aprire loro gli occhi sulla precarietà della situazione. E così se ne andrà l'Inghilterra, Ombre, prati, sentieri... Avrebbero preferito non vedere, fingere che il problema non esistesse, proprio come quando Wexford aveva deciso di non tornare più in quei luoghi. Bastava voltare la testa, passare da un'altra parte, finché un certo giorno i sentieri solitari, le radure in cui era tanto piacevole sostare sarebbero svaniti nel nulla. Bene, ora poteva anche tornarsene a casa. Si ricordò a un tratto che non c'era nessuno. Avrebbe potuto approfittarne per leggere, magari i saggi di George Steiner di cui tutti parlavano bene. E poi c'era la televisione a tenergli compagnia, insieme a un buon bicchiere di birra. Dora l'avrebbe chiamato verso le sette, sicura di non trovarlo in casa prima di quell'ora. Tanto più che, chiunque cucinasse per Sheila, avrebbe portato in tavola la cena verso le sette e mezzo. In casa faceva caldo e l'aria era soffocante. Quel giorno sembrava di essere in luglio più che all'inizio di settembre. Aperta la portafinestra, Wexford portò fuori una sedia e la mise vicino al tavolo, poi tornò dentro per andare a prendere la birra dal frigo e il libro che aveva deciso di leggere, No Passion Spent. Doveva proprio iniziare dal principio o poteva anche saltare qualcosa? Decise in questo senso.
Una folata di vento fece sbattere la portafinestra, che si chiuse. In quel modo non poteva sentire il telefono, ma in ogni caso Dora non avrebbe chiamato prima delle sette meno dieci. Mancava un quarto alle sette quando prese in considerazione l'idea di mangiare qualcosa. Ma cosa? Quando Jenny Burden doveva assentarsi da casa, aveva l'abitudine di lasciare nel congelatore per il marito delle pietanze cucinate in precedenza, una per ciascun giorno. Wexford non pretendeva un simile sacrificio da parte di sua moglie, ma non gli piaceva cucinare, anzi non ne era capace. Si sarebbe arrangiato con pane, formaggio, sottaceti, una banana e un gelato, il tutto preceduto da una minestra in scatola, magari una crema di pomodoro. Secondo Burden, gli uomini ne andavano pazzi. Alle sette e dieci Dora non aveva ancora telefonato e Wexford si chiese quale potesse essere il motivo. Non era preoccupato, soltanto sorpreso. La moglie era una persona precisa e puntuale. Forse avevano ospiti in casa e perciò non poteva assentarsi per chiamarlo. Decise di mangiare dopo aver parlato con lei e perciò spense il fornello. Alle diciannove e quindici squillò il telefono. «Dora?» domandò. «No, sono Sheila. Dove sei stato? Ti ho telefonato un'infinità di volte. In ufficio non c'eri e a casa non rispondeva nessuno.» «Mi dispiace. Non aspettavo la telefonata prima delle sette. Come ti senti? Come sta la bambina?» «Sto bene, papà, e anche la piccola, ma la mamma dov'è?» «Come sarebbe a dire?» «La mamma. Ci aspettavamo che arrivasse verso l'una del pomeriggio al massimo. Si può sapere che fine ha fatto?» 5 Wexford aveva già fatto tutti i passi inevitabili in questi casi: aveva telefonato agli ospedali, contattato le stazioni di polizia per sapere se c'erano stati incidenti, (soltanto un tamponamento sulla vecchia circonvallazione), interrogato i vicini di casa. Mary Pearson non vedeva Dora dal pomeriggio del giorno precedente, ma quel mattino verso le undici meno un quarto aveva notato un'auto ferma davanti alla casa. «Doveva prendere il treno delle 11.03» disse Wexford. «Era parecchio in anticipo.»
«È una sua abitudine. Era un taxi nero?» «No, un'auto rossa. Non so dirti di che tipo, Reg. Non me ne intendo. Comunque non l'ho vista salire.» «Hai visto chi c'era al volante?» Mary non aveva notato. A quel punto cominciò a capire che doveva essere successo qualcosa. «Vuoi dire che non sai dove sia andata, Reg?» Se le avesse risposto di sì, entro un'ora nella zona tutti sarebbero venuti a saperlo. «Deve avermelo detto» rispose «ma probabilmente mi è sfuggito.» Non preoccuparti «aggiunse, come se la vicina potesse preoccuparsi e lui no.» La Kingsmarkham Cabs aveva auto nere, quindi Dora non poteva avere interpellato quell'agenzia. Quanto alla Contemporary Cars, era impossibile che si fosse rivolta a loro, dato che erano rimasti fermi dalle dieci e un quarto fino a dopo mezzogiorno. E pensare che avrebbe voluto raccomandarle di non chiamarli e se n'era dimenticato. Comunque ormai non aveva importanza. Chiamò la All the Sixes, la Station Taxis e tutte le piccole agenzie locali che riuscì a trovare nell'elenco telefonico; nessuno di loro era passato a prendere Dora quel mattino. Wexford cominciava ad avvertire quella sensazione d'irrealtà che tutti provano quando capita qualcosa d'inaspettato che fa temere il peggio. Dov'era finita? Ora si pentiva di non essere stato più discreto con Sheila. Avrebbe dovuto inventare qualche scusa quando gli aveva chiesto dov'era sua madre, perché ora era costretto a richiamarla e ad ammettere che non sapeva dove fosse. Avendo idee piuttosto antiquate sulla condizione delle puerpere, pensava che un trauma potesse essere pericoloso perché, oltre alla possibilità che andasse via il latte, c'era anche il rischio che la guarigione ne fosse ritardata. Comunque era troppo tardi per rimediare. «Come sarebbe a dire che non sai cosa sia successo, papà?» piagnucolò Sheila al telefono. «Potrebbe esserle capitato un terribile incidente.» «Non credo proprio. Sarebbe all'ospedale, invece non c'è.» Sentì che Paul le diceva qualcosa per tranquillizzarla; poi la bambina iniziò a piangere. Non può essere, pensava Wexford. Non è possibile che stia accadendo davvero. Stavano facendo lo stesso sogno, lo stesso incubo, e fra poco si sarebbero svegliati. Doveva farsi forza. Era lui il padre, il capofamiglia. «Sto facendo tutto quello che posso, Sheila» disse. «Tua madre non è feri-
ta, non è morta, altrimenti lo saprei. Ti richiamo appena avrò notizie.» Tornato in cucina, versò la crema di pomodoro nel lavello. Erano quasi le otto e mezzo e stava facendosi buio. Dietro i tetti s'intravedeva uno spicchio di luna arancione. Si chiese cos'avrebbe pensato se la persona scomparsa fosse stata la moglie di qualcun altro. Semplice: avrebbe dedotto che l'aveva lasciato per fuggire con l'amante. Erano molte le donne che lo facevano, donne di ogni età, dopo pochi o molti anni di matrimonio. Come poliziotto, avrebbe chiesto al marito se quell'eventualità fosse possibile. Prima si sarebbe scusato per la domanda e avrebbe aggiunto che doveva considerare ogni ipotesi. Poi l'avrebbe interrogato sulle amicizie della moglie, soprattutto quelle maschili. Naturalmente il poveretto si sarebbe indignato e avrebbe escluso che la moglie potesse tradirlo; ma poi gli sarebbe venuta in mente una frase particolare, una telefonata strana, un tono gelido o troppo gentile. Ma stavolta si trattava di Dora, sua moglie. Non era neppure pensabile. Si rese conto a un tratto di comportarsi allo stesso modo di tanti mariti che aveva avuto modo di conoscere. Anche lui pensava, esattamente come loro: mia moglie non si sognerebbe mai... Poi di colpo si sentì stupido. Avrebbe dovuto vergognarsi. A casa non erano mai arrivate telefonate strane e Dora non si era mai comportata in modo sospetto. L'ipotesi era da escludere non perché si trattava di sua moglie, ma perché lei non era il tipo capace di fare una cosa del genere. Si versò un dito di whisky, poi ci ripensò e tornò a versarlo nella bottiglia. Forse avrebbe dovuto guidare. Andò al telefono, alzò il ricevitore e compose il numero di Burden. Sette minuti dopo Mike era già da lui. Wexford gliene fu grato. Ebbe la strana impressione che, se fossero stati italiani, spagnoli o di qualche altra nazionalità, in quel momento si sarebbero abbracciati. Naturalmente non lo fecero, ma per un attimo entrambi dovevano averne avuto la tentazione. Preparò il tè. Meglio evitare l'alcol per quella sera. Dopo aver raccontato a Burden com'erano andate esattamente le cose, lo mise al corrente dei controlli effettuati attraverso gli ospedali, le agenzie di taxi e le stazioni di polizia per accertarsi che la moglie non fosse rimasta coinvolta in un incidente. «Inutile andare alla stazione» osservò Mike. «Non c'è mai anima viva. Sono lontani i giorni in cui controllavano i biglietti prima di far passare i viaggiatori. Può darsi che tua moglie abbia preso i biglietti dal distributore
automatico.» «È sua abitudine. Adesso poi c'è una nuova macchina che prende anche le carte di credito.» «Cosa dice Sylvia?» Wexford non aveva neppure pensato alla figlia maggiore. Nelle ultime due o tre ore si era praticamente dimenticato della sua esistenza. A un tratto si sentì in colpa. Si sforzava sempre di prestare a Sylvia le stesse attenzioni che dedicava a Sheila, di sentire allo stesso modo la sua mancanza, di amarla con la stessa intensità. A volte capitava che, per eccesso di zelo, esagerasse con le attenzioni nei suoi confronti; ma ora, nel momento di crisi, delle sue buone intenzioni non restava traccia e infatti si era comportato come se avesse una figlia sola. «Le telefono subito» disse. Dopo qualche squillo rispose con la solita formula la segreteria telefonica. La voce era di Neil. Esasperato, Wexford non perse tempo a dire il suo nome né a specificare la data e l'ora della chiamata. Tutte sciocchezze! «Telefonami, Sylvia» disse soltanto. «È urgente.» Dora doveva essere da loro. Presto avrebbe avuto una spiegazione. Forse era successo qualcosa, un incidente, oppure uno dei bambini si era ammalato. Quando aveva telefonato ai vari ospedali non aveva chiesto informazioni sui ragazzi. Dora era stata informata dell'accaduto prima dell'arrivo del taxi ed era andata a casa loro. Anzi, erano passati a prenderla. Sylvia aveva un'auto rossa, una Golf... «Sarebbe andata via così, senza neanche avvertirti?» domandò Burden. «Senza lasciarti un messaggio?» «Forse sì» rispose Wexford, guardandolo con intenzione «se si trattava di una cosa grave.» «Per risparmiarti il dispiacere, intendi? Cosa pensi, Reg? Che qualcuno possa essere rimasto gravemente ferito, che sia morto? Uno dei ragazzi di Sylvia?» «Non lo so...» Squillò il telefono. Wexford si affrettò a rispondere. «Cosa c'è di tanto urgente, papà?» Il tono di Sylvia era tranquillo. Sembrava persino più contenta del solito. «Prima dimmi se state tutti bene.» «Sì, benissimo.» Wexford si sentì sollevato e preoccupato nello stesso tempo. «Hai visto tua madre?»
«No, oggi no. Perché?» A quel punto non poté fare a meno di dirglielo. «Dev'esserci una spiegazione.» Aveva sentito pronunciare la frase un'infinità di volte. Lui stesso l'aveva detto e ripetuto. Le promise di richiamare appena avesse avuto notizie. «Grazie di non avermi chiesto se è possibile che mi abbia lasciato» disse a Burden. «Non mi è neppure passato per la testa.» «Chissà, stavo pensando che alla fine potrebbe aver deciso di andare a piedi alla stazione.» «In questo caso come spiegheresti la presenza dell'auto rossa?» «Mary ne ha vista una di quel colore, ma non ha saputo dirmi se fosse un taxi. Non ha visto Dora salire. Poteva essere un'auto qualsiasi parcheggiata fuori.» «Allora come pensi che siano andate le cose? Forse che si è avviata a piedi verso la stazione ed è successo qualcosa durante il tragitto? Che magari sia svenuta o...» «O qualcuno l'abbia aggredita per derubarla, Mike, e l'abbia lasciata per terra. In questi ultimi tempi succedono cose strane: pensa agli uomini mascherati che ne stanno combinando di tutti i colori, all'irruzione negli uffici della Concreation e a quello che è capitato stamattina alla Contemporary Cars.» «Vuoi che usciamo e ripercorriamo la strada che ha fatto per arrivare alla stazione?» «Ottima idea» rispose Wexford. Nel frattempo avrebbero telefonato le figlie, ma non poteva farci nulla. Burden si mise al volante. L'unica strada che Dora poteva aver percorso era fiancheggiata da case. Non c'erano lotti vuoti né vicoli, se non un unico tratto che poteva essere una scorciatoia. Quel mattino c'era stata foschia, ma alle dieci e mezzo splendeva il sole e di sicuro nei giardini c'era gente che lavorava. Prima di raggiungere Queen Street Burden fermò l'auto. Proseguirono a piedi per esplorare la stradina laterale che passava dietro i negozi e i giardini delle case. C'erano alberi su entrambi i lati. Appoggiati a un cancello, un ragazzo e una ragazza si baciavano. Non c'era in giro nessun altro, niente da vedere. Attraversata High Street, Burden sbucò in Station Road, la strada che portava alla stazione. «Non è possibile che sia successo qualcosa lungo il tragitto» disse, gi-
rando intorno alla stazione per tornare indietro. «Dovrei sentirmi sollevato.» «Supponiamo che sia venuta a piedi, com'è probabile, dato che nessun taxi è passato a prenderla. Ritieni possibile che lungo il percorso abbia incontrato qualcuno da cui ha ricevuto una notizia così grave o così importante da dissuaderla dall'andare a Londra?» «È appunto quello che avevo pensato all'inizio, riferendomi a Sylvia.» «Be', allora è probabile?» Wexford ci pensò sopra, guardando le case via via che vi passavano davanti. Lui e Dora conoscevano molte delle persone che ci abitavano, ma con nessuno di loro c'era un rapporto d'amicizia. La chiesa dell'United Reform, la scuola elementare Warren, una fila di negozi e un'area residenziale. A un tratto un conoscente esce di corsa da una casa, chiama Dora, la fa entrare, le spiega il suo problema e le chiede aiuto... Pur ammettendo una simile ipotesi, è impensabile che non le abbia permesso di usare il telefono. Proprio mentre è in partenza per andare a conoscere la nipotina appena nata... E la tiene con sé per undici ore di fila? «No, Mike, non è possibile» rispose. Ripensò a tutte le storie che aveva letto sulle persone scomparse e ai casi di cui si era occupato personalmente. Gli venne in mente quello di una donna che, entrata in un supermercato con il suo compagno, l'aveva lasciato al banco del pesce per andare a quello del formaggio e da quel momento non era stata più vista. Poi il classico caso dell'uomo uscito a comperare le sigarette e non più tornato. E la ragazza entrata una sera in un albergo di Brighton e sparita dalla stanza il mattino seguente. Ripensò a tutte le persone che all'ora stabilita non si erano presentate all'appuntamento ed erano scomparse senza lasciare tracce né indizi. Erano trascorse undici ore. Un giorno intero, un giorno perduto. Quando tornò a casa stava squillando il telefono. Era Sheila. No, non aveva notizie. Come aveva fatto con Mary Pearson la invitò (che assurdità) a non preoccuparsi. «Non dirmi che dev'esserci una spiegazione logica, papà» protestò Sheila. «È quel che ha detto tua sorella, e forse ha ragione.» Burden si offrì di trascorrere la notte con lui. «No, vai a casa. Non dormirei comunque. Non andrò nemmeno a letto. Grazie di essere venuto.» Non gli rivelò quello che pensava. Dopo averlo accompagnato fuori,
tornò in casa e accese le luci. Dev'essere morta, disse prima a se stesso, poi a voce alta. Corresse subito la frase nella sua mente: dev'essere morta, oppure gravemente ferita. Nessuno l'aveva trovata, ma da qualche parte doveva pur essere. Non c'era altra spiegazione, dal momento che non aveva telefonato né a lui né alle figlie, e neppure trovato il modo di lasciargli un messaggio. Poi pensò che forse gli aveva scritto un biglietto e che il foglio di carta fosse caduto dietro qualche mobile. Allora iniziò a girare per tutta la casa, controllando sul pavimento; ma non trovò nulla. Normale, visto che Dora non gli aveva mai scritto un biglietto in tutta la sua vita. Prese di nuovo il whisky e stavolta se ne versò un goccio. Anche se avesse avuto la necessità di muoversi, qualcun altro avrebbe potuto guidare al suo posto. Ma probabilmente per quella notte non sarebbe dovuto andare da nessuna parte, gli diceva il suo intuito. Tutti sapevano. A causa delle telefonate che aveva fatto la sera precedente e anche perché Burden era arrivato per primo. Alla stazione di polizia non si aspettavano di vederlo. Ci andò soltanto perché non sapeva che altro fare. Aveva dormito in poltrona per un'oretta. Poi si era alzato, si era fatto la doccia e aveva preparato una tazza di caffè usando il liofilizzato. Dal momento che agli ospedali si può telefonare a qualsiasi ora, ne chiamò qualcuno, gli stessi interpellati la sera precedente. No, non era stata ricoverata nessuna Dora Wexford. Si mise in contatto con le figlie e seppe che si erano parlate ed erano rimaste al telefono metà della notte. Appena trovato qualcuno a cui affidare i figli, dato che la scuola era chiusa per le vacanze, Sylvia sarebbe partita per Londra per stare accanto alla sorella. Gli chiese se gli avrebbe fatto piacere che Neil andasse a stare da lui. Wexford preferiva di no, ma lo disse con diplomazia. «No, grazie, cara. Sei molto gentile a preoccuparti per me.» Era in ufficio da un'ora, senza fare niente, seduto alla scrivania, quando Barry Vine entrò per informarlo che avevano ricevuto la telefonata di qualcuno che denunciava la scomparsa di una persona, un ragazzo. Vine, che normalmente avrebbe esitato a definire scomparso un ragazzo di quattordici anni, alto più di un metro e ottanta, sparito dalla casa della nonna da ventiquattr'ore, date le circostanze riteneva che l'episodio non dovesse essere sottovalutato. «Quali circostanze?» s'informò Wexford.
«Il ragazzo doveva partire per Londra. Avrebbe preso un taxi per andare alla stazione.» «Mio Dio!» disse Wexford con un filo di voce. «Faccio venire qui la nonna, signore?» «Andremo noi da lei.» Rhombus Road si trovava a due strade di distanza da Oval Street, dove Lynn Fancourt si era recata il giorno precedente per accertarsi che Trotter avesse realmente accompagnato un cliente dalla stazione di Kingsmarkham. Nel frattempo Wingate aveva confermato la versione di Trotter: era stato prelevato intorno alle undici, dopo essere sceso dal treno delle 10.50, ed era arrivato in Oval Street verso le 11.20. Wexford e Vine passarono davanti a casa sua, svoltarono a sinistra, poi di nuovo a sinistra e si fermarono davanti al numero 72 di Rhombus Road. La strada era fiancheggiata da villette sorte sul finire del secolo scorso, come la maggior parte delle case di Stowerton, per ospitare gli operai che lavoravano nelle cave di gesso con le loro famiglie. Ora ogni casetta era occupata dai rispettivi proprietari; in genere coppie appena sposate, dato che i prezzi erano modesti, o famiglie che acquistavano la casa per la prima volta. Le porte erano quasi tutte verniciate a colori vivaci, i davanzali fioriti e i giardini rivestiti di cemento per far posto all'auto di famiglia. Non ce n'era nessuna ferma davanti al numero 72. La casa, benché non si potesse definire in cattivo stato, aveva conservato la porta a vetri originale, le finestre a saliscendi, le aiuole in quella stagione traboccanti di astri e crisantemi e il vialetto coperto di ghiaia. Venne ad aprire una donna decisamente troppo giovane per essere la nonna di un ragazzo di quattordici anni. Aveva i capelli ricci e scuri tirati indietro per lasciare scoperti la fronte lentigginosa e il viso che probabilmente ignorava cosa fosse il trucco. Indossava una larga tuta in tessuto jeans sopra una camicia a scacchi. Dagli occhi sbarrati si capiva che era terrorizzata. «Accomodatevi, prego. Sono Audrey Barker, la madre di Ryan.» Entrarono nel soggiorno. Piccolo e ordinato, profumava di lavanda. La donna che si alzò dalla poltrona era sulla settantina, robusta, con i capelli bianchi. Portava una gonna a quadrettini verdi e viola e due golf gemelli lilla. «La signora Peabody?» domandò Wexford. La donna annuì. «Mia figlia è arrivata stamattina, appena ha saputo in che pasticcio eravamo. Non sta bene, è uscita da poco dall'ospedale. È per
questo che Ryan era a casa mia, ma appena non... Voglio dire, appena abbiamo...» «Si sieda, signora Peabody, e ci racconti tutto dall'inizio.» Fu Audrey Barker a rispondere per lei. «In sostanza mia madre credeva che Ryan sarebbe tornato a casa ieri, mentre io invece l'aspettavo oggi. Avremmo dovuto sentirci al telefono per assicurarcene, ma purtroppo non l'abbiamo fatto. In realtà mio figlio contava di partire oggi.» «Dove abita, signora Barker?» «A sud di Londra, a Croydon. Si prende il treno da Kingsmarkham e si cambia a Crawley o a Reigate. Non occorre arrivare fino a Victoria Station. È un viaggio che Ryan ha fatto diverse volte. Ormai ha quasi quindici anni ed è molto alto per la sua età, più della maggior parte degli adulti.» Forse aveva voluto giustificarsi ai loro occhi, anche se non c'era ombra di critica nell'espressione dei due poliziotti. «Può darsi che sia andato a piedi alla stazione.» «Sono quasi cinque chilometri, Audrey» intervenne la madre. «E aveva la sua borsa da portare.» Vine riportò il discorso sul mattino precedente. «Dunque Ryan doveva tornare a casa, signora Peabody, e lei pensava che avrebbe preso un taxi per andare alla stazione. È così?» La donna annuì e strinse i pugni, tenendo le mani in grembo. Era un modo per controllare le emozioni, per tenere a freno la paura. «Il treno con le fermate intermedie è quello delle 11.19» precisò. «Se avesse preso l'autobus, sarebbe arrivato alla stazione con un'ora di anticipo mentre, se fosse salito su quello successivo, sarebbe stato in ritardo. Perciò gli avevo consigliato di prendere un taxi e gli avevo detto che avrei pagato io. Era la seconda volta che saliva su un'auto pubblica. La prima volta era stato con sua madre.» Per un attimo le s'incrinò la voce. Si schiarì la gola. «Non sapeva come regolarsi e perciò ho telefonato io, un po' prima delle dieci e mezzo, chiedendo che passassero a prenderlo alle undici meno un quarto. Per dargli il tempo di comperare il biglietto con calma. Non mi piace fare le cose di premura. Oh, quanto mi dispiace di non essere andata con lui. Magari l'avessi fatto, Audry... Sono rimasta a casa per tirchieria, per non pagare il taxi anche al ritorno.» «Non è tirchieria, mamma. È solo una questione di buonsenso.» «A quale agenzia si è rivolta, signora Peabody?» La donna rifletté, coprendosi per un attimo la bocca con la mano. «Avevo chiesto a Ryan di pensarci lui, ma non ha voluto perché non sapeva co-
sa dire e così non ho insistito. L'ho pregato di cercare il numero nell'elenco, nelle Pagine Gialle, e poi avrei telefonato. Lui mi ha dettato il numero e io ho chiamato l'agenzia.» «L'aveva scritto su un foglietto, oppure gliel'ha letto dall'elenco telefonico?» «Me l'ha dettato direttamente dall'elenco. Mi ero messa il telefono in grembo. Ryan mi ha detto il numero e io l'ho composto.» «Riesce a ricordarselo?» domandò Wexford, pur sapendo quanto fosse improbabile. La donna scosse la testa. «Non era per caso una serie di 6?» «No, altrimenti me ne ricorderei.» «Per caso ha visto il taxi? E l'autista?» «Certo. Siamo rimasti fuori in anticamera ad aspettare che arrivasse.» Gli sembrava di vederli mentre erano in attesa, la nonna e il ragazzo, entrambi non avvezzi a prendere taxi. "Non dobbiamo far aspettare il tassista. Hai i soldi a portata di mano, Ryan? Anche i cinquanta penny per la mancia? Eccolo che arriva. Digli semplicemente che devi andare alla stazione, nient'altro. E ora dai un bacio alla nonna, da bravo." «È arrivato puntuale» continuò la signora Peabody «e mentre Ryan prendeva la sua borsa, anzi lo zaino, gli ho detto di salutarmi la mamma e gli ho chiesto di darmi un bacio. Ha dovuto chinarsi per darmelo. Mi ha abbracciata ed è uscito.» Iniziò a piangere. La figlia le passò un braccio intorno alle spalle. «Non è colpa tua, mamma. Nessuno lo pensa. Quello che è successo è strano, incomprensibile.» «Una spiegazione dev'esserci per forza, signora Barker» disse Vine. «Ha detto che non si aspettava di vedere Ryan prima di oggi, vero?» «Domani riapre la scuola. Credevo che mio figlio sarebbe arrivato con un giorno di anticipo, ma sia lui che mia madre erano convinti che mancassero ancora due giorni. Avremmo dovuto parlarne al telefono, non so proprio perché non l'abbiamo fatto. Naturalmente ho chiamato il giorno in cui sono stata dimessa dall'ospedale. Era sabato. Ryan mi ha detto che sarebbe tornato mercoledì, o almeno così mi era parso di capire; ma ora mi rendo conto di avere frainteso. Probabilmente mi stava dicendo che mercoledì sarebbe rimasto in casa tutto il giorno.» «Perciò non si è preoccupata, non vedendolo arrivare?» domandò Wexford. «Ho iniziato a preoccuparmi stamattina e ho telefonato a mia madre per sapere a che ora partiva il treno. Potete immaginare che colpo è stato per
me quando ho saputo che era già partito.» «È stato un colpo terribile per tutt'e due» disse la signora Peabody. «Ho preso il primo treno e mi sono precipitata qui. Non so perché. Volevo essere vicino a mia madre. Dove sarà adesso? Cosa gli sarà capitato? Non si può dire che sia grande, anche se è così alto, ma non è stupido e sa quello che fa. Non si sognerebbe mai di andare con uno sconosciuto che cercasse di attirarlo con un pretesto. Accidenti, ha quattordici anni ormai.» Dora è una donna adulta, pensò Wexford, anzi una donna di mezza età che sa perfettamente quello che fa e non accetterebbe di seguire uno sconosciuto. «Avete una foto di Ryan?» domandò. Sul limitare di Framhurst Great Wood gli uomini lavoravano tutto il giorno, sotto lo sguardo vigile di un responsabile, per togliere i chiodi dagli alberi. Uno degli operai si ferì gravemente la mano sinistra, tanto che fu necessario portarlo d'urgenza al Royal Infirmary di Stowerton, dove all'inizio si temette che potesse perdere due dita. Gli amici degli alberi, appollaiati nei loro rifugi aerei, se ne rimasero buoni e tranquilli, ma quelli che si erano accampati a Savesbury Deeps bombardarono gli operai con lanci di bastoni, bottiglie e lattine vuote. Dall'alto di un vetusto sicomoro un tale rovesciò un secchio pieno d'orina in testa al responsabile dei lavori. A metà giornata il cielo si era rannuvolato e verso le tre del pomeriggio cominciò a piovere. All'inizio una pioggerella leggera che, aumentando via via d'intensità, diventò un acquazzone. Gli Elfi, come qualcuno aveva soprannominato gli amici degli alberi, si ripararono nelle loro capanne protette da teli impermeabili, mentre alcuni scesero nel tunnel che avevano scavato per collegare Framhurst Bottom con Savesbury Dell. I lampi illuminavano a tratti i rifugi costruiti tra i rami più alti e raffiche di vento scuotevano gli alberi come se i tronchi fossero stati sottili fili d'erba. A ogni fulmine che arrivava, il vento e la pioggia che imperversavano sui boschi, sulle colline e sulle valli avvolgevano il panorama in un manto color argento. A ogni tuono si udiva un fragore simile a quello degli alberi abbattuti, come se oggetti pesanti rotolassero giù da grandi altezze. Gli operai e il loro capo se ne andarono a casa. Giù a Kingsmarkham Wexford fece altrettanto. Soltanto una scappata, nella debole speranza di trovare un messaggio importante alla segreteria telefonica. Trovò ad aspettarlo entrambe le figlie. Sylvia stringeva a sé la sua nipotina di tre giorni. Sheila corse ad abbrac-
ciarlo. «Oh, papà, caro, abbiamo pensato che era giusto stare qui con te. L'idea è venuta a tutt'e due contemporaneamente, vero Sylvia? Non abbiamo avuto un attimo di esitazione. Siamo venute subito. Ci ha accompagnato Paul. Non ho nemmeno portato con me l'infermiera. Del resto non aveva senso, dal momento che qui non c'è posto per lei. Naturalmente non sono pratica di bambini, ma Sylvia sì e quindi non ci sono problemi. Povero papà, chissà come sei in pena per la mamma! Devi essere distrutto.» Wexford si chinò a guardare la bambina. Aveva un visetto tondo come un petalo di rosa, i lineamenti piccoli e i capelli scuri come quelli di Sylvia e come un tempo erano stati quelli di Dora. «Che splendidi occhi azzurri!» esclamò. «A quell'età li hanno tutti di quel colore» disse Sylvia. Wexford baciò la figlia. «Grazie di essere venuta, cara.» Grazie anche a te, Sheila. «In realtà avrebbe preferito che non fossero arrivate. Erano una complicazione in più e, da ingrato qual era, avrebbe fatto volentieri a meno della loro presenza. Eppure chissà quanti genitori l'avrebbero invidiato per la devozione dimostrata dalle due figlie.» Devo tornare in ufficio per un paio d'ore «annunciò.» Ho fatto un salto a casa solo per sentire se c'erano messaggi. «Non c'è niente» rispose Sheila. «Ho già controllato. È stata la prima cosa che ho fatto.» Quando si hanno dei figli non esiste più vita privata. Danno per scontato che ciò che appartiene ai genitori sia di loro proprietà, tanto le cose materiali quanto i segreti del cuore. Ormai avrebbe dovuto esserci abituato. Comunque erano state davvero carine con lui, su questo non c'erano dubbi. «La tua presenza non sarà indispensabile anche in un momento come questo?» Era tipico della figlia maggiore rivolgergli una simile domanda. Wexford non rispose, limitandosi a guardarla con affetto. Com'erano diverse l'una dall'altra le sue due figlie! Di solito non ci faceva caso ma ora, inesplicabilmente, riconobbe Dora in Sylvia: gli stessi lineamenti, gli stessi occhi a mandorla, la stessa corporatura, con la differenza che la ragazza era più alta e aveva un fisico più atletico. La somiglianza era tale da fargli venire il magone. Lo mascherò con un colpo di tosse. Sheila lo prese sottobraccio, guardandolo negli occhi. «Cosa possiamo fare per te, papà? Hai mangiato?» Le rispose di sì anche se non era vero. Con i pantaloni bianchi e la cami-
cetta di mussola, la collana al collo, i capelli sciolti e un trucco leggero e naturale, appariva esattamente ciò che era in realtà, una giovane attrice di successo. Sylvia invece, in jeans e maglietta, intenta a guardare teneramente la creatura che stringeva tra le braccia, dava l'impressione di essere lei la madre. «Ci vediamo più tardi» disse Wexford. Uscì sotto una pioggia torrenziale e corse a rifugiarsi in macchina. Avevano avviato le ricerche per trovare sua moglie e Ryan Barker e per il momento le indagini erano concentrate nei dintorni della stazione di Kingsmarkham. Le agenzie di taxi erano state passate al vaglio a una a una. Nessuno degli autisti aveva visto Ryan né Dora e il personale della stazione, interrogato, non aveva saputo fornire informazioni. Alle cinque della sera Vine e Karen Malahyde, insieme con Pemberton, Lynn Fancourt e Archbold avevano un'unica certezza: il mattino precedente né Dora Wexford né Ryan Barker avevano raggiunto la stazione di Kingsmarkham. In qualche punto intermedio tra il luogo da cui erano partiti e la stazione qualcuno li aveva intercettati. Fu Burden a ricevere la telefonata di Roxane Masood, poco dopo le cinque. «Telefono per denunciare la scomparsa di mia figlia.» L'ispettore si sentì improvvisamente raggelare e si trattenne a stento dal chiedere se per caso il mattino precedente la ragazza avesse chiamato un taxi per farsi portare alla stazione. In ogni caso fu esattamente ciò che disse la persona che stava all'altro capo del telefono. «Dove state esattamente, a Pomfret? Arriviamo subito.» Stavolta la meta era una casetta fatiscente in fondo a High Street, dove finivano i negozi. L'acqua che scorreva a fiumi dal tetto a due falde, oltre a formare grandi pozzanghere nel vialetto d'accesso, aveva praticamente allagato il minuscolo giardino. Wexford e Burden dovettero fermarsi qualche istante sullo zerbino per scrollarsi di dosso l'acqua che colava dagli impermeabili. La donna era sulla quarantina, snella, con lo sguardo penetrante, grandi occhi scuri e i capelli castani raccolti in un'ispida coda di cavallo. Indossava un indumento che in qualsiasi altra epoca storica sarebbe stato scambiato per una vestaglia: bianco, diafano, lungo fino ai piedi, completo di pizzi e volant. Soltanto il giro di perline colorate intorno alla scollatura ne tradiva le origini esotiche. «La signora Masood?»
«Entrate. È mia figlia che si chiama così, Roxane Masood, dal cognome del padre. Il mio nome è Clare Cox.» L'interno dava l'impressione di essere stato imbiancato e arredato all'inizio degli anni Settanta e che da allora fosse rimasto tutto com'era. Sparsi in giro c'erano oggetti tipici dell'artigianato indiano e africano; ai muri erano appese strisce di cotone stampato e campane d'ottone montate su cinghie di cuoio. L'aria odorava di legno di sandalo. L'unica foto visibile aveva una cornice di legno scuro intarsiato di madreperla. La foto, la più grande che Wexford avesse mai visto, ritraeva una ragazza così bella da sembrare irreale. A guardarla venivano in mente certe fiabe in cui il principe o il cattivo vedono una fanciulla e se ne innamorano all'istante. Come canta Tamino nel Flauto magico: "Questo ritratto è meravigliosamente bello, come nessun occhio ha ancora visto!" Il viso era di un ovale perfetto, la fronte alta, il naso piccolo e diritto, gli occhi grandi e scuri con le sopracciglia arcuate; i capelli simili a un lungo velo nero, divisi da una scriminatura, erano lucidi, sottili e morbidi come seta. Wexford fece queste riflessioni in un secondo tempo. In quel momento voltò le spalle al ritratto e, dopo essersi assicurato che la ragazza fosse Roxane, chiese a Clare Cox di raccontargli cos'era accaduto il giorno prima. «Doveva andare a Londra perché aveva un appuntamento in un'agenzia di fotomodelle. Si è diplomata in un liceo artistico, ma non è questa la strada che desidera intraprendere. Vuole assolutamente diventare una modella e le ha tentate tutte per riuscirci, ricorrendo a tutte le agenzie possibili. Di solito non la prendono neppure in considerazione. Dicono che è troppo bella e non abbastanza magra, ma non è vero, credetemi.» «Tornando a ieri mattina, signora Cox...» l'interruppe Vine. «Già, ieri mattina doveva andare a Londra per presentarsi in un'agenzia e ne avrebbe approfittato per vedere il padre, che ha un negozio a Ealing, guadagna un mucchio di soldi e la porta nei posti migliori, ve lo posso assicurare.» Incrociò lo sguardo di Vine e smise di colpo di tergiversare. «Non è arrivata a destinazione. Chiunque altro avrebbe telefonato per sapere cosa fosse successo, ma lui no, naturalmente. Ha pensato che avesse cambiato idea. Figurarsi!» «Ma allora come fa a sapere...» «Mi ha chiamato un'ora fa per dirmi che un suo amico forse ha trovato il modo di farla lavorare per un'agenzia. Spero che sia un lavoro pulito, gli ho risposto. Oggigiorno è facile finire nel giro della pornografia. Gli ho chiesto per quale motivo non ne parlasse direttamente con la figlia e lui mi
ha chiesto di passargliela al telefono. Così è saltato fuori che non era da lui. Non l'ha neanche vista.» «Ha provato a telefonare all'agenzia?» Clare Cox si strinse nelle spalle. «Non so nemmeno dove sia quel maledetto posto.» «Dunque ieri mattina ha preso un taxi per andare alla stazione di Kingsmarkham» disse Wexford. «A chi si è rivolta?» Era sicuro che la madre non fosse in grado di rispondere. «L'ha sentita telefonare?» «No, ma so chi ha interpellato. Si sposta sempre in taxi grazie al denaro che le elargisce il padre e si serve sempre della stessa agenzia. Ha telefonato poco prima delle undici. Conosce bene la ragazza che lavora nell'ufficio. Si chiama Tanya Paine. Sono state compagne di scuola.» «Non è possibile che ieri si sia rivolta alla Contemporary Cars, signora Cox» osservò Burden. Non sapeva che scusa inventare per non dirle cos'era successo esattamente. «Avevano i telefoni staccati. Non funzionavano. Deve aver chiamato un'altra agenzia.» «Si sbaglia» lo contraddisse la donna. «Ero di sopra, nel mio studio e stavo dipingendo. È il mio lavoro: sono una pittrice. Roxane è salita per dirmi che il taxi sarebbe arrivato entro un quarto d'ora e che avrebbe preso il treno delle 11.36. Non so cosa mi abbia spinto a farlo, ma stranamente le ho domandato notizie di Tanya, e lei mi ha risposto che non aveva parlato con la sua amica, ma con un tale che non conosceva.» «Dunque sua figlia ha telefonato alla Contemporary Cars verso le dieci e mezzo e qualcuno le ha risposto?» «Certo. Il taxi è arrivato alle undici meno dieci. È salita in macchina e quella è stata l'ultima volta che ho visto mia figlia.» 6 Alle dieci della sera Wexford tornò finalmente a casa dalle figlie e dalla nipotina. In fondo non gli dispiaceva di essere stato impegnato perché se non altro il lavoro l'aveva distolto dai suoi pensieri. Trovò irritante l'insistenza con cui Sylvia gli domandava se fosse stanco, ma non lo diede a vedere. Quando poi la figlia si lamentò del fatto che sul lavoro dovesse fare sempre tutto da solo, non potendo fidarsi dei suoi collaboratori, ne fu talmente contrariato che andò in sala da pranzo a prendere la bottiglia di whisky. Amulet, al piano di sopra, strillava a pieni polmoni. "Per colpa della progenie finirò per diventare un alcolizzato" disse a se
stesso. Se ci fosse stata Dora sarebbe stato magnifico, avrebbe potuto parlarne con lei. Erano passati anni dall'ultima volta in cui aveva dichiarato che sarebbe stato magnifico se ci fosse stata sua moglie. Quando succede una disgrazia, pensò, o comunque si teme che possa esserne capitata una, a un tratto si vedono le cose nella giusta prospettiva e quello che sembrava un diritto acquisito assume un valore diverso. Quante volte aveva sentito pronunciare la frase: "Non sarò mai più scortese con lei, non la tratterò con indifferenza, non darò per scontato quello che dice, se solo...". Nel pomeriggio lui e Burden, dopo essere usciti dalla casa di Clare Cox, avevano fatto un salto alla Contemporary Cars. Avevano dato ancora un'occhiata in giro, poi avevano convocato alla stazione di polizia Peter Samuel, Stanley Trotter, Leslie Cousins e Tanya Paine. Burden guardava Trotter con lo stesso sguardo che un cacciatore di nazisti avrebbe rivolto a Mengele se l'avesse incrociato alla periferia di Asunción: con soddisfazione per averlo scovato, desiderio di vendetta e qualcosa di molto simile al trionfo. Chi era stato a portare Roxane Masood alla stazione? E chi aveva accompagnato Ryan Barker? «Ve l'ho già detto più di una volta» rispose Peter Samuel. «Non abbiamo ricevuto chiamate dalle dieci e mezzo fino a mezzogiorno. Sarebbe stato impossibile, con Tanya legata alla sedia in quel modo.» Tanya Paine stava diventando aggressiva. «Non era una messinscena, sapete? Non mi sono legata da sola. Sono una vittima e voi mi trattate come se fossi una criminale.» «Mi occorre il nome o almeno l'indirizzo del cliente che avete portato a Gatwick» disse Burden a Samuel. «Non capisco come mai non vi sia sembrato strano il fatto di non avere ricevuto neppure una telefonata in un'ora e mezzo. A nessuno è venuto in mente di venire a vedere cos'era successo?» «Eravamo impegnati» rispose Trotter. «Sapete bene dov'ero io: da Pomfret sono andato alla stazione, poi a Stowerton e tutto il resto. Per me era un sollievo che non ci fossero chiamate, statene pur certi.» «Comunque non era poi così strano come potrebbe sembrare» disse Leslie Cousins. «A volte capitano dei momenti di fiacca.» Burden colse l'occasione per fare la sua richiesta: «Mi faccia avere gli indirizzi dei clienti che sono saliti sul suo taxi, per favore.» Poi, rivolto a tutti i presenti: «Pensateci bene: avete qualche idea, qualche sospetto su
chi è stato a introdursi negli uffici e a legare Tanya? Qualcuno che sapeva di poter agire indisturbato, a conoscenza del fatto che nessuno di voi torna prima di mezzogiorno?» Peter Samuel chiese se a qualcuno desse fastidio il fumo. Era un tipo ben piazzato, con il doppio mento e le guance arrossate dalla coupcrose. Probabilmente aveva una quarantina d'anni, ma ne dimostrava di più. Trasse di tasca il pacchetto delle sigarette prima ancora che qualcuno avesse il tempo di rispondere. «No, se fumare l'aiuta a concentrarsi» replicò seccamente Burden. Trotter invece non chiese il permesso a nessuno. Quando i due ebbero acceso le rispettive sigarette, Tanya finse di tossire. Cousins, il più giovane di tutti, avendo all'incirca l'età della ragazza, alzò gli occhi al cielo con aria d'insofferenza, poi rispose che chiunque poteva essere al corrente del fatto che nessuno di loro tornava in ufficio prima di mezzogiorno. «Un cliente abituale potrebbe averlo notato, o forse qualcuno di noi potrebbe averlo detto. Non c'è niente di male in questo. Potrebbe aver detto: "Non abbiamo taxi liberi, non prima di mezzogiorno".» Samuel disse che gli era capitato di dire al cliente di non essere collegato per radio all'ufficio, ma di usare il telefono dell'auto. Quando il cliente gliel'aveva chiesto. E che in qualche occasione il cliente gli aveva domandato se poteva chiamarlo dal treno perché passasse a prenderlo alla stazione al suo ritorno in paese. «A quel punto suggerisco di mettersi in contatto con Tanya, qui in ufficio, perché provveda a mandare chi di noi è libero.» «Perciò chiunque poteva sapere che avete un centralino.» «Non è che lo dicessi a tutti» puntualizzò Samuel. «Soltanto ai clienti che me lo domandavano.» Per il momento non c'era altro da aggiungere. Vine, insieme con Lynn Fancourt e Pemberton, iniziò a girare di casa in casa nei pressi della stazione. Non che di edifici ce ne fossero molti. La Contemporary Cars copriva cinquemila metri quadri di terreno abbandonato e intorno era praticamente deserto. Da un lato c'era un muro di mattoni oltre il quale si trovava la stazione degli autobus; dall'altro una palazzina che ospitava a pianterreno un calzolaio e al piano di sopra un'aromaterapista, un parrucchiere per signora e una copisteria. L'area era delimitata tutt'intorno da una catena di ferro che fungeva da recinzione, lungo la quale crescevano, soffocati da ortiche alte quasi quanto un uomo, pioppi e sambuchi stentati. Di fronte, dietro una fila di casette, c'era un pub che si chiamava Engine Driver, un grande negozio di ferramenta e il parcheggio della stazione.
Due ore dopo gli investigatori ne sapevano poco più di quando avevano cominciato. A meno che non ci sia un valido motivo, le casalinghe, le persone che vanno a fare la spesa, gli automobilisti che per prendere il treno lasciano l'auto al parcheggio e i clienti dei pub non hanno motivo di notare due uomini che, usciti da un'auto, salgono i gradini di una casa. Era probabile che si fossero mascherati solo dopo essere entrati nell'ufficio della Contemporary Cars, anche in considerazione del fatto che Tanya Payne non avrebbe potuto vederli finché non avessero aperto la seconda porta. Wexford si soffermò a riflettere sul fatto che generalmente le donne sono più appariscenti degli uomini. Se i due incappucciati fossero stati di sesso femminile, probabilmente qualcuno li avrebbe notati. Chissà se in futuro anche questo sarebbe cambiato, a mano a mano che tra uomini e donne si accorciavano le distanze? Se tutti si fossero vestiti allo stesso modo, in giacca e pantaloni, con i capelli corti e senza trucco, le donne sarebbero passate inosservate? Andò a letto, per poi alzarsi di nuovo quando non sentì più rumori in casa. Dormire era impossibile. La porta della camera di Sheila era socchiusa. Rimase qualche istante a guardarla dormire con la bambina al fianco. In un altro momento una simile vista gli avrebbe dato una gioia incomparabile. Per la prima volta nella vita capiva cosa significasse dover soffocare l'istinto di gridare il proprio dolore, la propria disperazione. Il pensiero di come avrebbero reagito le figlie se avesse fatto una cosa del genere lo fece quasi sorridere. Scese al piano di sotto e si sedette in una poltrona al buio. Leggere era impossibile quanto dormire. Si mise a pensare alla Contemporary Cars. Ora sapeva esattamente cos'era accaduto. I due uomini incappucciati, insieme con alcuni complici, avevano deciso di prendere delle persone in ostaggio. Per questo avevano immobilizzato Tanya Paine, in modo da avere i telefoni a loro completa disposizione per circa un'ora e mezzo, il tempo occorrente per portare a termine l'operazione. La scelta degli ostaggi era ininfluente. L'importante era prendere tre persone che si rivolgessero alla Contemporary Cars per avere un taxi tra le dieci e le undici e mezzo. Tre era un numero sufficiente. Ryan Barker, o più esattamente la nonna, aveva telefonato da Stowerton verso 10.25 per prendere il treno delle 11.19; Dora da Kingsmarkham alle dieci e mezzo per salire su quello delle 11.03; Roxane Masood alle dieci e cinquantacinque per partire alle 11.36. Perché avevano lasciato passare venticinque minuti prima di rispondere a un'altra chiamata? Forse perché non ne erano arrivate in quel lasso di tempo? Oppure perché i clienti erano
più d'uno e i rapitori non se la sentivano di avere a che fare con più di una persona per volta? Non era da escludere che disponessero soltanto di due autisti, magari gli stessi incappucciati che si davano il cambio per rispondere al telefono. Catturati gli ostaggi, poi cosa succedeva? Ryan Barker probabilmente non conosceva la strada per la stazione e i suoi rapitori avrebbero potuto portarlo ovunque, in un raggio di sette, otto chilometri, prima che si accorgesse che c'era qualcosa di strano. Roxane Masood invece se ne sarebbe resa conto nel giro di cinque minuti, e Dora anche prima. Wexford era certo che la moglie non avrebbe accettato la situazione, limitandosi a piangere e a supplicare i rapitori. Avrebbe tentato di fare qualcosa. Non si sarebbe buttata giù dall'auto in corsa, questo no, ma qualcosa avrebbe fatto. Strinse i pugni e chiuse gli occhi. Dora avrebbe protestato con foga, minacciando di saltare giù dall'auto. In previsione di un'eventualità del genere i rapitori dovevano aver preso precauzioni in anticipo, forse piazzando un complice in qualche punto strategico dove si potessero fermare, per esempio al primo semaforo, a un cartello di stop, a un incrocio. Aperta la portiera, il complice s'infila in macchina, magari brandendo un'altra pistola finta. Già, era proprio così che dovevano essere andate le cose. Ma per quale motivo avevano scelto quella linea di condotta? Per capirlo bastava riflettere sui rischi che avrebbero corso se avessero deciso di agire in modo diverso, cioè se avessero rapito tre persone per la strada, in pieno giorno. Dovevano farlo per forza durante la giornata perché di notte non c'era in giro nessuno. La gente restava in casa a guardare la televisione e, se proprio doveva uscire, prendeva l'auto. Anche quando voleva bere, lo faceva senza muoversi da casa, ed era appunto per questo che i pub chiudevano uno dopo l'altro. Come il Railway Arms, per esempio. La birra costava cara e inoltre non si poteva andare al pub al volante della propria auto, con il rischio di essere beccati dalla polizia con un tasso d'alcol superiore a quello consentito. I rapitori, agendo come avevano agito, non avevano destato sospetti, né dovuto affrontare persone che opponevano resistenza, se non eventualmente dopo che le vittime si erano accorte che qualcosa stava andando storto. A quel punto entrava in scena il complice e tutto si appianava. Un altro motivo per cui avevano lasciato passare venticinque minuti prima di entrare di nuovo in azione poteva essere che volevano prendere in ostaggio solo donne perché fisicamente meno forti degli uomini. Anche nel caso di Ryan Barker, era stata una voce femminile quella che avevano
sentito al telefono. Ammesso che la nonna avesse precisato che era il nipote ad avere bisogno del taxi, non si sarebbero lasciati di certo intimidire da un ragazzo di quattordici anni. Dunque ora avevano in ostaggio una giovane donna, un adolescente e una signora di mezza età. Sua moglie, purtroppo. Ostaggi, certo. Non poteva essere diversamente. Restava un ultimo interrogativo. Nessuna delle tre persone rapite aveva soldi. Lui e Dora erano niente più che benestanti e il padre di Roxane Masood, sì, doveva essere ricco, ma non gli risultava fosse miliardario. Quanto alla famiglia di Ryan Barker, la situazione economica non doveva essere rosea. Perciò quale riscatto avrebbero potuto pretendere i rapitori? Durante la notte si preparò una tazza di tè e, dopo che l'ebbe bevuto, riuscì a dormire un'oretta. Al risveglio bevve un caffè, poi rimase a guardare dalla finestra il sole spuntare pallido all'orizzonte, simile a un disco giallo debolmente luminoso. Al piano di sopra Amulet lanciò uno strillo, ma si calmò subito perché la madre iniziò ad allattarla. Una massa di nuvole scure si spostò nel cielo e finalmente arrivò la prima luce del giorno. Appena l'alba rischiarò la zona dove doveva essere costruita la tangenziale, il vicesceriffo del Mid-Sussex, Timothy Jordan, si recò con i suoi uomini all'accampamento di Savesbury Deeps, il più esteso di tutti. Gli occupanti avevano ricevuto già da qualche tempo l'ordine di sgomberare. Alcuni si trovavano all'interno delle capanne, settantatré in tutto, appollaiate tra i rami degli alberi, altri riposavano sulle amache tese tra le querce e i frassini che crescevano numerosi nella zona. Prima del sorgere del sole i poliziotti in giacca gialla, obbedendo agli ordini del vicesceriffo, si erano disposti in cerchio intorno all'accampamento. Jordan svegliò i dimostranti annunciando attraverso il megafono di aver ricevuto ordine dal tribunale di evacuare la zona e che perciò dovevano andarsene. L'uso del megafono era indispensabile perché di primo mattino il cinguettio degli uccelli nel bosco formava un coro assordante. Intanto a Sewingbury i pullman passavano a prendere le guardie accampate nelle vecchie baracche dell'esercito per portarle nella zona a nord di Stowerton dove, mezz'ora più tardi, sarebbero iniziati i lavori di scavo. A Framhurst Great Wood, all'interno del tunnel segreto della cui esistenza ufficialmente erano informati soltanto i membri della Species, sei persone che vi dormivano regolarmente si svegliarono dopo una notte di sonno. L'altra estremità del tunnel sfociava ai piedi di Savesbury Hill.
L'ultimo a sbucare fuori fu un professionista della protesta, un certo Gary; insieme con lui la donna che era la sua compagna da quando avevano quindici anni e perciò era come sua moglie. Nessuno conosceva il vero nome della donna, ma tutti la chiamavano Quilla. Gary, che non si era mai rasato in tutta la vita, aveva una barba bionda che gli arrivava quasi alla cintola. Gli indumenti che portava sarebbero stati più indicati, e avrebbero dato meno nell'occhio, se fosse vissuto seicento anni prima. Indossava un paio di brache che gli arrivavano al ginocchio e una casacca di tela marrone, e Quilla una lunga tunica di cotone. Tornarono indietro a prendere delle coperte perché l'aria del mattino era fredda e si trovarono di fronte un pastore tedesco. Alcuni uomini dello sceriffo, accompagnati da agenti di polizia, si erano introdotti nel tunnel passando da Savesbury. Dopo che Gary e Quilla furono usciti, Timothy Jordan spedì dentro il tunnel un esperto soprannominato Talpa Umana, con il compito di controllare che all'interno non ci fosse rimasto nessuno e di piazzare un uomo a ciascuna estremità. Un altro esperto, noto con il soprannome di Ragno Umano, si arrampicò sull'albero più alto per raggiungere la capanna che stava in cima. Mentre saliva, fu investito da una pioggia di pezzi di legno, bottiglie e lattine vuote, che gli fece perdere un po' di tempo. Intanto a terra gli uomini di Jordan avevano iniziato a tirare fuori a forza la gente dalle tende, per poi svuotarle di tutto ciò che contenevano e demolirle. Nel frattempo gli ambientalisti meno esagitati e meglio organizzati chissà come erano venuti a conoscenza di ciò che stava accadendo e si erano raccolti intorno alla linea di sicurezza. Tra loro c'erano membri del Kabal, della Species e di Heartwood. Quando videro uno dei grossi cani sbucare dall'imboccatura del tunnel, espressero ad alta voce la loro protesta. Intanto sull'albero il Ragno Umano si era scontrato con una donna sulla porta della sua capanna aerea e, mentre i due erano impegnati in un corpo a corpo a quindici metri da terra, dalla folla si alzava, come in una sorta di cantilena, un coro di "Vergogna, vergogna, vergogna!". Con calma e in silenzio, Gary e Quilla radunarono le loro cose, che la polizia aveva buttato fuori dal tunnel. Guardandoli si sarebbe detto che fossero in procinto di partire per un pellegrinaggio a Canterbury. Nessuno dei due si sarebbe mai sognato di possedere, e neppure di toccare, un oggetto di plastica; perciò infilavano la loro roba, indumenti, coperte, pentole e tegami, in vecchi sacchi di iuta. Quilla intonò il madrigale April is in my mistress' face e gli altri dimostranti spodestati le fecero eco, se non con le parole, almeno canticchiando il motivo.
In cima all'albero, la donna con cui si era scontrato il Ragno Umano era svenuta o, più probabilmente, aveva finto di svenire, e ora se ne stava abbandonata tra due uomini costretti a sorreggerla. Finalmente iniziarono a calarla giù per la scala a pioli, un'ardua impresa perché la donna era un peso morto. «Vergogna, vergogna, vergogna!» ripeteva la folla. Gary e Quilla cantavano. Aprile sta della mia donna in viso, E luglio nei suoi occhi e nel sorriso. Nel suo petto c'è settembre, Ma nel cuore il gelido dicembre. Intanto il sole si era alzato nel cielo, globo infuocato tra le parentesi scure delle nuvole. Il canto degli uccelli era più sommesso. Una folata di vento scosse le cime degli alberi. Come ebbe toccato terra, la tizia che aveva finto di svenire si divincolò dalle braccia degli uomini che l'avevano calata giù dall'albero. Era vestita di stracci, in parte svolazzanti e in parte stretti come le bende di una mummia. Mentre alzava le braccia di fronte alla folla, in un gesto di trionfo o forse d'incoraggiamento, gli stracci che la coprivano le fluttuarono intorno. Corse incontro a Quilla e l'abbracciò piangendo. «Ci trasferiamo al campo di Elder Ditches» disse Gary. «Ne ho abbastanza di tunnel. Potrai insegnarci a costruire una casa su un albero, Freya. La faremo grande abbastanza per starci in tre.» «Io sono un albero» declamò Freya, alzando di nuovo le braccia. «Siamo tutti alberi, qui» sentenziò Gary. Mentre le figlie di Wexford gli preparavano il genere di colazione che non amava fare, circondandolo di premure e supplicandolo di riposarsi, Burden iniziava la giornata lavorativa con mezz'ora di anticipo rispetto al solito. Non faceva che pensare a Stanley Trotter. Niente al mondo poteva convincerlo che quel tipo non fosse dentro fino al collo in quella storia. Era lui l'assassino di Ulrike Ranke, nonché il responsabile dei recenti rapimenti. Forse faceva parte di un giro di pervertiti. La ragazza tedesca era stata violentata e poi strangolata. Burden era convinto che tutto quanto stava accadendo fosse in qualche modo collegato al sesso. Era seduto alla scrivania da una decina di minuti, quando dal centralino
gli passarono una telefonata. «Il direttore del Kingsmarkham Courier chiede di parlare con qualcuno delle alte sfere. Il capo non è ancora arrivato.» «Allora tocca a me, suppongo» disse Burden. «Infatti ha chiesto proprio di lei, in mancanza dell'ispettore capo.» Il direttore del giornale era, da qualche anno a quella parte, un certo Brian St George. Burden aveva avuto occasione di vederlo un paio di volte; quanto bastava, evidentemente, perché St George si sentisse autorizzato a chiamarlo con il suo nome di battesimo. «Ho ricevuto una strana lettera, Michael. È arrivata per posta proprio in questo momento ed è stata la prima che ha aperto la mia segretaria personale.» Se St George disponeva di una segretaria personale, pensò Burden, lui era Sherlock Holmes. «Come sarebbe a dire, una strana lettera?» «Forse è uno scherzo, ma io credo di no.» Sforzandosi di non assumere un tono sarcastico, Burden lo pregò di riferirgli il contenuto della lettera. «Forse preferisce raggiungermi al giornale, Michael?» «Prima mi dica di cosa si tratta.» A un tratto Burden ebbe una sensazione curiosa, quella che Wexford definiva fingerspitzen eccetera eccetera. «Cerchi di toccarla il meno possibile. Me la legga senza tenerla in mano, se ci riesce.» «D'accordo, Michael. Farò il possibile. Strano, vero, ricevere una lettera di questi tempi. Voglio dire, oggigiorno basta una telefonata, un fax o un e-mail. Ormai si è persa l'abitudine di scrivere. Non mi stupirei se l'avesse portata qualcuno a cavallo.» «Potrebbe leggermela?» «Bene. Stia a sentire. "Egregio signore, noi siamo il Sacro Globo e salveremo la terra dalla distruzione con ogni mezzo a nostra disposizione. Teniamo in ostaggio cinque persone: Ryan Barker, Roxane Masood, Kitty Struther, Owen Struther e Dora Wexford...". Qui dev'esserci un errore: Dora Wexford non è forse la moglie del suo capo? Da quando è scomparsa?» «Continui.» «D'accordo. "... Owen Struther e Dora Wexford. Si trovano in un posto sicuro, dove non potete trovarli. Ci metteremo in contatto oggi stesso per comunicare il prezzo del riscatto. La invito a informare della cosa tutti i giornali nazionali e la polizia di Kingsmarkham. È importante che la notizia abbia la maggior diffusione possibile. Siamo il Sacro Globo, e salveremo il mondo."»
«La raggiungiamo subito» stava dicendo Burden mentre Wexford entrava nell'ufficio. «Penseremo noi a sistemare la faccenda. Nel frattempo non ne faccia parola con nessuno. Con nessuno, intesi?» 7 Il foglio di carta era bianco, formato A4, peso 80 grammi, a quanto Wexford poteva giudicare. Del tipo che si acquista a risme in qualsiasi negozio di forniture per ufficio. In passato le lettere erano scritte a mano e in tempi meno remoti con la macchina per scrivere, sistema che tradiva l'autore della missiva quasi quanto la calligrafia. Al giorno d'oggi, con l'avvento del computer, scoprire l'identità del mittente è praticamente impossibile. Un esperto potrebbe essere in grado di stabilire quale tipo di software sia stato usato e quale programma di word processing, ma oltre non può arrivare. Finito è il tempo degli errori di ortografia, di battitura e di distrazione. Non era da escludere che ci fossero impronte digitali, ma Wexford ne dubitava. Lo scrivente aveva piegato il foglio in due e poi ancora in due nello stesso senso. Accanto c'era la busta in cui era arrivata la lettera. Le stampanti laser non sono predisposte per stampare le buste, ma mediante un apposito programma è possibile ottenere le etichette ed era appunto quel sistema che era stato adottato. Più anonima di così la lettera non poteva essere. Erano seduti davanti alla scrivania di St George, al centro della quale c'era il foglio. Il direttore era molto compiaciuto e non tentava neppure di nasconderlo. Sorrideva, felice che gli fosse capitata la fortuna di ricevere per primo una tale notizia. Era un uomo dai capelli grigi, con il colorito terreo, il volto che sembrava tagliato con l'accetta e una pancia enorme, appesa come un sacco al suo corpo ossuto. L'abito gessato grigio chiaro aveva urgente bisogno di essere portato in tintoria. Una donna può indossare un maglione a girocollo senza apparire trasandata, ma se un uomo mostra la maglia sotto la camicia dà l'impressione di non essere completamente vestito. Nel caso di St George, la situazione era peggiorata dal fatto che l'indumento intimo era di un bianco ben diverso rispetto a quando era nuovo. Il direttore indicò la lettera, da cui sembrava attratto come da una calamita, tanto da stentare a lasciarla dov'era. «Posso fare una fotocopia, vero?» s'informò. «Può chiamare la sua segretaria personale e fargliela copiare a mano» ri-
spose Burden. «L'importante è che nessuno la tocchi.» «Non sono abituate a scrivere a mano.» «Allora lo faccia lei» intervenne Wexford. A quanto ricordava, era la prima volta che vedeva il direttore del Kingsmarkham Courier, e per la verità non ne era affatto entusiasta. «A quali giornali pensa di passare la notizia?» domandò. «Ai maggiori quotidiani nazionali» rispose St George, che cominciava già a temere il peggio. «Non ci sono problemi, ma aspetti di ricevere la nostra autorizzazione. Nel frattempo eviti di fare trapelare la notizia. Questo ovviamente vale anche per il suo giornale.» «Aspetti un momento. La pubblicità è la cosa migliore in questi casi. Se la notizia si diffonde, avrete maggiori probabilità di trovare quelle persone.» «Niente da fare finché non le daremo il via. Spero di essere stato chiaro. Questa è una faccenda seria, probabilmente la più seria che le sia mai capitata per le mani. Il sergente Vine resterà qui con lei per accertarsi che siano seguite le mie istruzioni.» «C'è di mezzo sua moglie, vero?» Wexford non rispose. Aveva letto i nomi elencati nella lettera, Ryan Barker, Roxane Masood, Kitty Struther, Owen Struther e, arrivato a quello della moglie, quelle quattro sillabe l'avevano colpito come una frustata in faccia; piccole lettere nere balzate all'improvviso fuori dalla carta. Istintivamente aveva chiuso gli occhi. Forse aveva avuto un sussulto. Di colpo aveva sentito il sangue defluire dal viso, attratto come una marea verso il centro del corpo, e a quel punto aveva dovuto sedersi. Gli era anche andata via la voce, ma ora era tornata, forte e profonda come sempre. «Chi ha visto questa lettera oltre a lei, signor St George?» domandò. «Mi chiami pure Brian, come fanno tutti. L'ha vista solo Veronica, la mia segretaria.» «Non la mostri a nessuno. Il sergente Vine provvederà a parlare con la sua segretaria. In questa fase è essenziale il massimo riserbo. Potrà passare la notizia ai giornali più tardi, nel corso della conferenza stampa.» «Va bene, se è questo che desidera. Mi dispiace terribilmente, ma m'inchino al suo volere.» «Chiederemo alla British Telecom di tenere sotto controllo i suoi telefoni» continuò Burden, prendendo la lettera con le mani protette da un paio
di guanti e infilandola in un sacchetto di plastica. «Quante linee avete?» «Soltanto due» rispose St George con il tono dispiaciuto di chi avrebbe voluto poter rispondere "venticinque". «Questa gente del Sacro Globo ha espresso l'intenzione di mettersi di nuovo in contatto nel corso della giornata, quindi è necessario registrare tutte le telefonate in arrivo» riprese Wexford. «Più tardi manderò qualcuno a sostituire il sergente Vine.» «Accidenti, vedo che sta prendendo la cosa molto sul serio» commentò St George con un sorrisetto. Wexford si alzò. «Lei saprà, immagino, che è un reato interferire con il corso della giustizia.» «Non mi guardi in quel modo. Sono sempre stato un tipo rispettoso della legge. Suppongo però che mi sia concesso di esprimere la mia opinione, e a mio modo di vedere state commettendo un grosso errore.» «Se permette, spetta a me giudicare.» A Wexford vennero in mente diverse risposte più secche di quella che aveva dato, ma preferì non infierire. Mentre scendevano le scale incrociarono una donna che saliva. Aveva i capelli ricci e neri che le arrivavano alla vita e una gonna rossa lunga in tutto una ventina di centimetri. La segretaria personale, presumibilmente. «Non c'è bisogno che resti anch'io» disse Wexford. «Vado subito dal capo della polizia. Nel frattempo bisogna provvedere a mettere sotto controllo i telefoni.» «Certo. Me ne occupo subito. Chi saranno mai quei due, Kitty e Owen Struther, Reg? Perché nessuno ne ha denunciato la scomparsa?» Donaldson aprì la portiera. Appena salito in macchina, Wexford compose uno dei numeri della Centrale del Mid-Sussex, a Myringham, e chiese che gli passassero il capo della polizia. Gli capitava di rado di vederlo perché di solito aveva a che fare con Freeborn, il suo vice. Montague Ryder era ai suoi occhi una figura distante e quasi inavvicinabile, che a un tratto gli parve più disponibile quando, in risposta alla sua richiesta di parlargli con urgenza, venne all'apparecchio e accettò di riceverlo anche subito. «Ci vado immediatamente. Secondo me non è strano che nessuno abbia denunciato la scomparsa degli Struther, Mike. Probabilmente si tratta di una coppia che vive sola. Forse erano in partenza per una vacanza. Mi chiedevo per quale motivo i rapitori avessero lasciato passare venticinque minuti tra la telefonata di Dora e quella di Roxane. Questo spiega tutto. In quel lasso di tempo è arrivata la telefonata degli Struther, presumibilmente
intorno alle undici meno un quarto. Forse intendevano prendere il treno delle 11.19, o quello successivo delle 12.03.» «Oppure erano diretti a Gatwick. Se erano in partenza per una vacanza, può darsi che dovessero prendere l'aereo.» «È possibile. In ogni caso, nessuno si sarebbe insospettito vedendo la casa vuota. Anche ammesso che abbiano lasciato un parente, forse non si aspettava di ricevere una loro telefonata così presto. Oserei dire che sarebbe strano il contrario, cioè se qualcuno ne avesse denunciato la scomparsa. Il lato curioso è piuttosto che, a differenza degli altri casi, stavolta i passeggeri erano due, uno dei quali avrebbe potuto essere un uomo giovane e forte.» «Alludi al fatto che è meno complicato rapire qualcuno che non sia più...» Burden s'interruppe, non volendo mancare di tatto. «Sì, insomma, che non sia più tanto giovane.» «Esatto.» «Può darsi che Owen Struther sia un uomo di una certa età. Per quello che ne sappiamo, potrebbe essere sulla settantina. Farò controllare. Probabilmente basterà cercare il cognome nell'elenco telefonico. Struther è tutt'altro che comune da queste parti. Intendi avvertire i parenti degli altri ostaggi?» «Non ancora.» «Che cosa vorranno, Reg? Cosa chiederanno in cambio?» «Credo di saperlo.» Wexford girò la testa dall'altra parte e Burden non aggiunse altro. Quando furono davanti alla stazione di polizia scese dall'auto e, benché ci fossero altri che avrebbero potuto occuparsene, cercò personalmente nell'elenco telefonico il nome che gli interessava. Trovò due Struth, quindici Strutt e un solo Struther: O.L. Struther, Savesbury House, Markinch Lane, Framhurst. Formò il numero. Dopo quattro squilli, rispose una di quelle dannate macchine. Burden detestava le segreterie telefoniche. Se non altro questo messaggio registrato non era spiritoso come alcuni che gli era capitato di sentire, come per esempio. "Richiamate pure se avete dei quattrini da darmi", oppure "Se vuoi portarmi fuori a cena, sappi che sono disponibile". La voce era maschile, sicuramente non giovane. Parlava un inglese corretto, addirittura pedante. Per una questione di gentilezza citava prima il nome della moglie. «In questo momento Kitty e Owen Struther sono impossibilitati a ri-
spondere al telefono. Se desiderate lasciare un messaggio, siete pregati di parlare dopo il segnale acustico, precisando il vostro nome, il giorno e l'ora della chiamata. Grazie.» Burden ritenne opportuno fare un tentativo. Nel messaggio lasciò detto, per chiunque potesse ascoltarlo, di mettersi in contatto con urgenza con la polizia di Kingsmarkham. Sistemata questa faccenda, si mise in contatto con la British Telecom. La locale Squadra Anticrimine, costituita da un ispettore capo, un ispettore, sei sergenti e sei agenti, tutti opportunamente addestrati, alloggiava in un modesto edificio di Myringham, che un tempo ospitava una sala delle aste. Era di mattoni scuri, con le finestre in uno stile che ricalcava il gotico e l'ingresso dalla parte laterale. Attraverso le finestre si vedevano schermi di computer e gente intenta a lavorare. Wexford ci era passato davanti mentre si recava alla Centrale, un edificio molto più maestoso eretto negli anni Ottanta, quando l'architettura stava iniziando un lento miglioramento rispetto al deprecabile decennio precedente. Il palazzo, che sorgeva in Sewingbury Road, aveva un tetto particolare, una specie di mansarda con balconi, una larga torre quadrata al centro, due ali laterali convesse e un portico sorretto da pilastri. Sul prato antistante troneggiava la statua di Sir Robert Peel che, oltre a essere il fondatore del corpo di polizia, a quanto si diceva aveva risieduto a Myfleet per dieci mesi, dall'autunno del 1833 fino alla primavera dell'anno successivo. Il capo della polizia aveva gli uffici all'interno della torre. La stanza che precedeva la sua era invasa dagli onnipresenti operatori di computer. Uno di loro, una donna, interruppe il lavoro per accompagnarlo dall'alto funzionario. Mentre l'impiegata bussava alla porta, Wexford aveva il cuore in gola. Non per la soggezione che provava nei confronti di Montague Ryder, ma perché aveva la sensazione che tutto ciò che accadeva in quel momento fosse carico di presagi, e ogni minuto che passava accresceva il suo terrore. La stanza era enorme, grande come l'atrio di un buon albergo di campagna; arredata con poltrone, divani e tavolini bassi. Al centro di un mobile antico c'era un vaso pieno di dalie e astri. Dalle finestre, create più per dare la possibilità di ammirare il panorama che per fare entrare l'aria e la luce, si dominavano colline e valli verdeggianti. Montague Ryder si alzò dalla sua poltrona dietro la scrivania e andò incontro a Wexford, tendendogli la mano. «Ho parlato al telefono con Mike
Burden» esordì. «Mi pare sia stato molto esauriente. Comprendo la sua esitazione, ma ritengo che i parenti debbano essere avvertiti immediatamente. Non abbiamo scelta.» Nonostante la modesta corporatura e la statura non eccezionale (era più basso di Wexford), il capo della polizia dava l'impressione di essere dotato di grande forza fisica. Una massa di capelli grigi gli copriva la testa come un berretto. Gli occhi erano dello stesso colore. «Mi dispiace molto per sua moglie» mormorò. Wexford annuì. «Si accomodi, prego.» Presero posto entrambi su un divano di pelle verde, uno a ciascuna estremità, praticamente l'uno di fronte all'altro. Sulla scrivania c'era la foto incorniciata di una bella donna bionda con un bambino di dieci e un altro di otto anni. Wexford distolse lo sguardo. «Questa gente, questo Sacro Globo, tornerà a mettersi in contatto in giornata. Non sappiamo come né dove.» «Burden me l'ha detto. Ha fatto molto bene a imporre il silenzio stampa. Più tardi provvederò io stesso a fissare un incontro con i giornalisti. La sua presenza non sarà necessaria.» Wexford ebbe una breve esitazione. «Penso che non avrà bisogno di me per tutta la durata dell'operazione, non è vero, signore? Dopo che le avrò riferito tutto quello che so, intendo. Immagino ritenga opportuno affidare il caso a qualcun altro.» Ryder si alzò. Chiaramente era il tipo di persona incapace di stare seduta a lungo, che avverte la necessità di muoversi, di camminare, di scaricare le energie e poi ogni sera si sente esausta. «Gradisce un caffè? Lo faccio portare subito.» «Per me no, grazie.» «Allora rinuncio anch'io. Ne bevo già troppi.» Si appoggiò al bracciolo di una sedia. «Lei riteneva, immagino, che le togliessi il caso perché è coinvolta sua moglie» continuò. «Lo farei se le circostanze fossero diverse; ma purtroppo non mi è possibile, Reg.» Era la prima volta che si rivolgeva a lui chiamandolo con il nome di battesimo. «Naturalmente interverrà la Squadra Anticrimine, ciononostante non ho abbastanza elementi con sufficiente esperienza alle spalle su cui contare per poter fare a meno della sua collaborazione. È necessario che sia lei a portare avanti le indagini. Il caso è suo.»
La prima telefonata da parte di un giornale arrivò alle dieci e mezzo. Non hanno perso tempo, pensò Burden. Rispose al giornalista, come pure agli altri due che chiamarono subito dopo, di rivolgersi alla Centrale di Myringham. Per quanto lo riguardava, prima si sbrigavano con quella benedetta conferenza stampa e meglio era. Si chiedeva chi avrebbero contattato quelli del Sacro Globo. Era sicuro che si sarebbero fatti vivi per telefono, dato che la posta era già arrivata e che un messaggio via fax o per e-mail sarebbe stato rischioso, poiché riporta l'indicazione del mittente. Avrebbero telefonato alla stazione di polizia? O al giornale locale? Era improbabile. Forse si sarebbero rivolti a un quotidiano importante, o al sindaco, oppure alla Centrale. No, l'ultima ipotesi era da scartare. La loro scelta sarebbe stata meno prevedibile. Comunque l'essenziale era che il messaggio fosse trasmesso a chi di dovere. Forse avrebbero contattato una delle figlie di Wexford. Doveva provvedere a mettere sotto controllo il suo telefono. Sistemata la questione, avrebbe fatto chiamare Karen Malahyde e insieme sarebbero andati a Savesbury House, dove abitavano gli Struther. Nessuno aveva risposto al messaggio che aveva lasciato nella segreteria. Probabilmente non c'era nessuno in casa. Non riusciva a ricordare di quale edificio potesse trattarsi. Da quelle parti ce n'erano a bizzeffe, di vecchie ville padronali. Se esistevano dei vicini, forse qualcuno di loro aveva notato qualcosa di strano e avrebbe potuto fornire informazioni utili. Bastava guardare Karen per capire che era una donna-poliziotto entusiasta del suo lavoro. Un anno prima era stata promossa sergente. Sul suo viso non c'era nulla da ridire, ma aveva i capelli troppo corti e l'aria troppo severa per essere definita una bella ragazza. Questo per quanto riguardava il volto, perché dalla testa in giù era un altro discorso. Il fisico era quello di una top model e le gambe erano assolutamente perfette, belle da morire, come aveva detto una volta John, il figlio di Burden. Quanto a lui, non era altrettanto sensibile al fascino della collega, ma gli faceva piacere pensare di esserle simpatico. Karen sapeva guidare l'auto in modo ineccepibile. Fu lei a mettersi al volante. In Savesbury Lane dovettero fermarsi per un blocco stradale, dato che la polizia era ancora impegnata ad abbattere le capanne costruite sugli alberi e a far sgomberare gli occupanti. Quando il poliziotto in giacca gialla li riconobbe, sarebbe stato disposto, facendo un'eccezione, a lasciarli passare; ma Karen sportivamente eseguì un'inversione di marcia e cambiò strada.
Di tutti i piccoli centri sorti intorno a Kingsmarkham, Framhurst era quello che avrebbe risentito maggiormente degli effetti della conurbazione. "Conurbazione" era il termine usato dalla Società Autostrade, e sentendo pronunciare quella parola a Wexford era venuto spontaneo un sorriso, dato che Framhurst si riduceva tutto sommato a una strada, o meglio a un incrocio di strade con tre negozi e una chiesa. La scuola, costruita nel 1834, era diventata una casa privata che i suoi occupanti avevano battezzato scherzosamente l'Escuela. Uno dei negozi, una macelleria che veniva tramandata di padre in figlio, aveva clienti in tutto il circondario. Il secondo era un emporio che vendeva anche giornali e noleggiava videocassette. Il terzo era un bar, con i tavoli all'aperto protetti da un tendone a righe. L'unico semaforo del paese si trovava nel punto dove la strada per Kingsmarkham incrociava quella che portava a Pomfret e a Myfleet. Nessuno era in grado di prevedere in quale misura la tangenziale sarebbe stata visibile dalle case che sorgevano lungo la strada del paese, ma la cosa certa era che avrebbe nascosto la vista della collina a cui conduceva. Sulla vecchia circonvallazione il panorama era stupendo: si vedevano i boschi, la vallata e il Brede che scorreva in mezzo. Burden si guardava intorno. Naturalmente da quella distanza era impossibile vedere i dimostranti, ma non era difficile immaginarli avanzare con i loro fagotti verso nuove mete. Un giorno purtroppo non lontano, una strada a doppia carreggiata con tre corsie per parte avrebbe cambiato per sempre il panorama, come una benda bianca che ricopre una lunga ferita impossibile da rimarginare. Ebbero qualche difficoltà a trovare la villa, seminascosta tra alberi e cespugli tanto da non essere visibile dalla strada. La casa più vicina si trovava alla periferia di Framhurst. Erano già passati oltre, poi si erano accorti di aver sbagliato ed erano tornati indietro. Su un pilastro c'era un cartello quasi completamente coperto da rami di clematide. Karen dovette scendere dall'auto e spostarli per leggere. La scritta, semicancellata dal tempo, diceva: Markinch Hall, e sopra, in stampatello, Savesbury House. «Grandioso!» esclamò Burden. «Chissà come avranno fatto quelli del Sacro Globo a trovare la casa?» «Probabilmente il signor Struther avrà dato indicazioni precise per telefono.» Il cancello era aperto e perciò entrarono. Il viale d'accesso, ricoperto di ghiaia, era fiancheggiato da cipressi, frassini e sicomori. A mano a mano
che gli alberi si diradavano, si poteva ammirare il giardino in piena fioritura. La villa doveva essere costituita da due corpi ben distinti, uno vecchio e pittoresco, con le finestre a grate, l'altro più recente, in stile georgiano, con il portico. Il complesso era così grande da poter ospitare, all'occasione, diverse famiglie. Ci sono giardini e giardini, sosteneva sua moglie. Per la maggior parte sono ingombri di piante acquistate nel vivaio più vicino. Altri, molto meno frequenti, vantano specie che raramente capita di vedere e che di solito hanno nomi latini. Il giardino di Savesbury House apparteneva a questa seconda categoria. Burden non avrebbe saputo riconoscere nessuna delle piante che vedeva, ma l'effetto era molto gradevole. Il sole finalmente ricomparso dopo una giornata di pioggia acuiva il profumo dei fiori che ricoprivano la facciata della casa. La porta d'ingresso in stile gotico nell'ala vecchia della villa, annerita e consunta, dava l'impressione di non essere stata più aperta dai tempi della regina Vittoria. Mentre Burden si avvicinava, con gli occhi al campanello che pendeva da una catena, un tale svoltò l'angolo della casa. Guardò prima Burden, poi Karen e di nuovo Burden. «Cosa volete?» domandò, asciutto. «Chi siete?» Parlava con l'inflessione che gli inglesi generalmente deridono e che impedisce agli americani di capire il senso del discorso, un inglese con le vocali strascicate che non s'impara certo a scuola, ma richiede l'intervento precoce dei genitori e molti anni di pratica. Data l'accoglienza, Burden non aveva motivo di essere gentile. «Polizia» disse semplicemente, mostrando la tessera di riconoscimento. Il giovane, che doveva essere sui venticinque anni, osservò prima la foto e poi l'originale, come se sospettasse di essere imbrogliato. Si rivolse a Karen. «Ne possiede una anche lei» domandò «oppure è qui solo per tenergli compagnia?» Karen iniziò a dare segni di nervosismo. Forse il giovane non se ne rese conto, ma Burden la conosceva bene e sapeva come interpretare la sua espressione. «Sergente Malahyde della Squadra Investigativa» disse, fissando il suo interlocutore come se volesse sbranarlo. Il giovane fece un passo indietro. Alto e atletico, indossava calzoni da cavallerizzo e una giacca sulla maglietta bianca. Il suo viso avrebbe potuto essere preso a modello da un pittore o da un fotografo che volessero rappresentare l'archetipo dell'inglese dell'alta società: naso diritto, zigomi alti, fronte spaziosa, mento forte e il tipo di bocca che in passato si usava defi-
nire ben delineata. I capelli ovviamente erano biondi come spighe di grano e gli occhi azzurri e freddi come l'acciaio. «Bene» disse. «Si può sapere che cos'ho fatto? Quale crimine ho commesso? Ho forse guidato senza accendere i fari, oppure ho molestato una fanciulla?» «Possiamo entrare?» domandò Burden. «Oh, non credo proprio.» «Io invece credo di sì, signor Struther. È questo il suo cognome, vero? È lei il figlio di Owen e Kitty Struther?» Colto in contropiede, il giovane rimase qualche istante senza fiatare, poi si avvicinò all'uscio e spinse il battente. La porta si aprì con un cigolio. «È successo qualcosa ai miei genitori?» domandò, parlando al di sopra della spalla. Burden e Karen entrarono sulla sua scia. L'atrio, rivestito di legno fino a una certa altezza, aveva il soffitto basso e il pavimento a lastre di pietra su cui spiccavano i mobili intagliati in legno nero di stile elisabettiano. Dovettero chinare tutt'e tre la testa per entrare nel soggiorno. Arredato con una profusione di cinz a disegni floreali, tappeti indiani e tavoli di fattura artigianale, brillava per pulizia ed era piacevolmente profumato. «Abita qui, signor Struther?» Benché non fosse stato invitato ad accomodarsi, Burden si era seduto. «Le sembro il tipo di persona che accetterebbe di vivere con la mamma?» «Posso sapere dove abita?» «A Londra, naturalmente. Fitzhardinge Mews, West One.» Era prevedibile che vivesse in quella zona della città, pensò Burden. «Dunque suppongo che lei si trovi qui per badare alla casa mentre i suoi genitori sono in vacanza?» La domanda lo spiazzò. Guardò le gambe di Karen, rimase un attimo pensieroso. «Qualcosa del genere» rispose. «Non è spiacevole questo posto, non pare neppure di rinunciare alle vacanze. Mia madre ha paura dei ladri, mentre mio padre ha una sorta di fissazione per gli scarichi che, secondo lui, non funzionano a dovere. Ecco perché sono qui. Ma ora le dispiace venire al punto?» «Era già qui ieri mattina, quando un tassista della Contemporary Cars è venuto a prendere i suoi genitori per portarli alla stazione di Kingsmarkham?» domandò Karen. «All'aeroporto di Gatwick, per essere esatti. Sì. Perché questa domanda?»
«Dove dovevano andare?» «O meglio, vuole sapere dove si trovano ora?» la corresse. «A Firenze.» «Se prova a telefonare in albergo, signor Struther, scoprirà che non ci sono. Non sono mai arrivati.» Burden stava per aggiungere che erano stati rapiti, ma all'ultimo momento cambiò idea. L'ostilità del giovane era quasi tangibile. «Se telefona, scoprirà che i suoi genitori sono scomparsi.» «Non voglio nemmeno starla a sentire. Non ci credo.» «È la verità, signor Struther. Posso sapere il suo nome di battesimo?» «A patto che non lo usi. Sono piuttosto tradizionalista in questo genere di cose. Comunque mi chiamo Andrew. Andrew Owen Kinglake Struther.» «Quindi lei sa in quale albergo alloggiano i suoi genitori, non è vero, signor Struther?» «Certo, e aggiungerò che trovo irritante la sua domanda. Ora che mi ha dato la bella notizia, gradirei che si togliesse di torno.» Burden decise di rinunciare. Non faceva parte dei suoi doveri convincere quel giovanotto che i genitori erano stati rapiti. Aveva fatto del suo meglio. Sicuramente nel corso della giornata Andrew Struther si sarebbe messo in contatto con la stazione di polizia di Kingsmarkham, dopo aver ricevuto conferma da Gatwick e da Firenze che ciò che gli aveva detto era la verità; ma invece di dimostrarsi dispiaciuto, avrebbe chiesto con l'arroganza che lo contraddistingueva per quale motivo non era stato informato subito dell'accaduto. Mentre tornavano nell'atrio sentirono dei passi affrettati al piano di sopra, e un attimo dopo una ragazza scese di corsa le scale, seguita da un pastore tedesco. Di carnagione chiara, con le labbra rosse e una cascata di capelli color mogano sciolti sulle spalle, dimostrava all'incirca l'età di Andrew Struther. Sopra i jeans indossava un indumento che doveva essere la parte superiore di un pigiama. Il cane era giovane, nero focato, con il pelo più lucido e più folto dei pastori tedeschi della polizia. Arrivata in fondo alle scale, la ragazza si fermò, reggendosi al corrimano. «Poliziotti» disse Andrew Struther. «Stai scherzando?» «No, ma non chiedermi il motivo della visita. Sai bene quanto sia facile per me annoiarmi.» Il cane, accovacciato ai piedi della scala, guardava i due estranei. Burden e Karen fecero appena in tempo a uscire e subito sentirono la porta sbattere alle loro spalle. Saliti in macchina, Burden non fece commenti mentre la
collega si metteva al volante. Il sole era sparito di nuovo e una pioggerella leggera batteva contro il parabrezza, così sottile che non valeva la pena di mettere in funzione i tergicristalli. Ricominciò a chiedersi chi avrebbero contattato quelli del Sacro Globo. Forse un medico, un ospedale, un negozio. Una volta arrivata la telefonata, la storia sarebbe diventata di dominio pubblico. Non c'era modo di evitarlo. Sicuramente avrebbero telefonato a qualcuno a cui non aveva pensato. La British Telecom si era dimostrata molto disponibile, ma non potevano certo mettere sotto i controllo tutti i telefoni esistenti e nessuno, tranne loro, era autorizzato a farlo. Karen trovò uno spazio per parcheggiare quasi davanti alla casa di Clare Cox, proprio al termine della doppia riga gialla, e s'infilò dietro una Jaguar nera immatricolata l'anno precedente. Il proprietario dell'auto, di cui Burden aveva già intuito l'identità prima ancora di vederlo, andò ad aprire la porta. Piccolo di statura, azzimato, indossava un ridicolo abito in tessuto jeans. Aveva la pelle molto chiara, i capelli e i baffi neri come l'inchiostro, e Burden pensò che per il suo aspetto fisico sarebbe stato il tipo adatto a impersonare Hercule Poirot. «Sono Hassy Masood, il padre di Roxane» si presentò. «Entrate, prego. La madre non si sente molto bene.» Benché fosse asiatico, perlomeno d'origine, Masood parlava l'inglese con l'ineccepibile accento del West End. Le varie cianfrusaglie di cui Clare Cox aveva riempito la casa, come gli oggetti dell'artigianato indiano, o i tappeti e gli arazzi asiatici, si accordavano forse con il suo aspetto, ma non con la voce, né con il modo di fare e probabilmente nemmeno con i suoi gusti. Infatti quando furono in soggiorno scosse la testa con aria critica e, alzando gli occhi al cielo, esclamò: «Tutto questo ciarpame! Roba da non credere...» «Vorremmo parlare con la signora Cox, se possibile» disse Karen. «Vado a chiamarla. Non avete notizie di mia figlia, suppongo? Sono arrivato ieri sera e ho trovato la madre praticamente a pezzi.» Abbozzò un sorriso che gli increspò la pelle intorno agli occhi. «Veramente anch'io mi sento distrutto. Le famiglie dovrebbero stare unite in momenti come questo, non vi pare?» Burden non replicò. «Non mi riferivo a questa casa, naturalmente» aggiunse. «Quando si è abituati a stare in un grande appartamento con locali spaziosi, non ci si sente a proprio agio negli ambienti piccoli. Qui mi sento quasi soffocare. Ho preso alloggio al Kingsmarkham Posthouse. Mia moglie con i nostri
due figli e la mia figliastra mi raggiungeranno questo pomeriggio.» «Per favore, signor Masood, vorremmo parlare con la signora Cox.» «Certo. Accomodatevi, prego. Mettetevi pure a vostro agio.» Burden e Karen si sorpresero ad ammirare entrambi il ritratto di Roxane. La giovane donna era nata da genitori non particolarmente attraenti, i cui geni si erano fusi in modo tale da produrre una bellezza rara, che non assomigliava a nessuno dei due. Dal padre aveva ereditato gli occhi neri, lo sguardo intenso e la pelle chiara e levigata. «Quella foto» disse Clare Cox che, entrando in quel momento, li sorprese in contemplazione «non è del tutto riuscita. Ho tentato di farle un ritratto, ma non le rendeva giustizia.» «Nessuno potrebbe riuscirci» aggiunse Masood. «Neanche...» Frugò nella memoria alla ricerca del nome adatto. «Neanche Picasso» concluse, sbagliando in pieno. Clare Cox era in uno stato pietoso. A forza di piangere le si era gonfiato il viso e la voce era diventata rauca. Anche in quel momento aveva le guance rigate di lacrime. Si lasciò cadere su una poltrona e rimase immobile, con la disperazione negli occhi. Burden, che dopo l'esperienza con Andrew Struther iniziava a nutrire dei dubbi sull'opportunità d'informare i parenti degli ultimi sviluppi della situazione, ora riteneva che fosse doveroso. La speranza, anche se fragile, era sicuramente preferibile a quello stato di prostrazione. Karen riferì i fatti, aggiungendo che, almeno per il momento, Roxane era salva. Non era morta né ferita, né vittima di un maniaco sessuale. Masood e la madre della ragazza rimasero ad ascoltarla in silenzio, con gli occhi sbarrati per lo stupore. «Dunque è stata rapita?» domandò Masood. «Così pare» rispose Burden. «Insieme con altre quattro persone. Appena sapremo qualcosa di più vi metteremo al corrente. Ve lo prometto.» «Per il momento non sappiamo altro» riprese Karen. «Vogliamo far mettere sotto controllo il vostro telefono.» «Intende dire che dovrà venire un tecnico per...» «No. La Telecom può sistemare la faccenda senza bisogno di mandare qui qualcuno.» «Pensate che i rapitori potrebbero telefonarci?» «Non sappiamo dove e quando arriverà la telefonata, ma siamo certi che si metteranno in contatto telefonico.» Burden spiegò quanto fosse importante mantenere il segreto. «Non do-
vete dirlo a nessuno. Neppure a sua moglie e ai suoi figli, signor Masood. Per loro Roxane è semplicemente scomparsa.» Fece la stessa raccomandazione a Audrey Barker e a sua madre e avvertì le due donne che il telefono sarebbe stato messo sotto controllo. La reazione della signora Barker era stata molto diversa da quella di Clare Cox. Non aveva versato neppure una lacrima, ma era più pallida che mai, aveva gli occhi sbarrati e sembrava ancora più magra di quando Burden l'aveva vista per la prima volta. Si ricordò che era stata ricoverata all'ospedale e che ne era uscita da poco. A giudicare dall'aspetto, si sarebbe detto che fosse necessario un nuovo ricovero. La signora Peabody sembrava confusa. Non era una situazione facile da accettare. Aveva preso le mani della figlia e le teneva strette tra le sue. «Ormai è diventato grande» continuava a ripetere. «È grande per la sua età. Non sarebbe mai salito nell'auto di uno sconosciuto.» «Ma lui non credeva che fosse uno sconosciuto, mamma.» «Non sarebbe mai salito, credimi. Non dimenticare che ormai è grande.» «Potrei conoscere l'altra madre?» domandò Audrey Barker. «Avete detto che hanno rapito anche una ragazza. Potremmo metterci insieme e farci coraggio a vicenda. E magari conoscere anche le altre donne, se gli ostaggi hanno famiglia.» «Non credo che sia consigliabile, almeno per il momento, signora Barker.» «Non voglio fare niente a sproposito, ma credo che... Be', potrebbe essere d'aiuto parlarne, dividere la propria esperienza con qualcuno.» Fortunatamente per ora non si può ancora definire un'esperienza, pensò Burden, guardandosi bene dal dirlo. Tornò a ripetere che per il momento l'idea andava accantonata. «Non vogliono che tu t'intrometta, Audrey» osservò la signora Peabody. «Ma cosa vogliono esattamente gli uomini che hanno preso mio figlio?» «Speriamo di scoprirlo entro questa sera» rispose Karen. «E se non ottengono quello che vogliono, che cosa gli faranno?» Alla stazione di polizia aspettavano la telefonata del Sacro Globo e altrettanto facevano negli uffici del Kingsmarkham Courier, dove gli agenti Lambert e Pemberton avevano dato il cambio a Barry Vine. Era un gruppo di persone decisamente eterogeneo quello costituito dagli ostaggi tenuti prigionieri chissà dove. Wexford preferiva seguire questa linea di pensiero piuttosto che tormentarsi con domande inquietanti, per e-
sempio come doveva sentirsi Dora in una situazione del genere. Una fanciulla di ventidue anni, bella come una principessa delle Mille e una notte, che sognava di diventare una fotomodella; un ragazzo quattordicenne, troppo alto per la sua età, che andava ancora a scuola; una coppia attempata che apparteneva a una classe sociale forse anacronistica, ma ancora potente; e infine sua moglie. Probabilmente si sarebbe trovata più a suo agio con i due ragazzi che con la coppia anziana, i cui orizzonti forse erano limitati da interessi scarsamente condivisibili, come feste e altre mondanità, e i cui atteggiamenti paternalistici potevano risultare irritanti. Si ricordò a un tratto che gli Struther avevano programmato un viaggio a Firenze. Dovevano avere dei lati positivi, se preferivano quel genere di vacanza piuttosto che poltrire in qualche brughiera della Scozia. Dora se la sarebbe cavata egregiamente. Erano le stesse parole che aveva usato per rassicurare le figlie, che gli avevano creduto, come sempre quando parlava ex cathedra. I dubbi se li era tenuti per sé. A differenza delle ragazze, conosceva la cattiveria del mondo; ma conosceva anche Dora e sapeva che avrebbe usato il cervello. Era una persona pratica, dotata di senso dell'umorismo, e sicuramente si sarebbe messa d'impegno per tirare su di morale i due ragazzi. Ammesso che fossero insieme, tutt'e cinque. Wexford si augurava che i loro carcerieri non li avessero divisi. Chissà se avevano scoperto la sua identità? Dora non era il tipo di donna incline a dire "Lei non sa chi sono io", oppure "Lei non sa chi è mio marito". Avrebbero riconosciuto il cognome? Forse no, se non fosse stata lei a segnalarlo. Soltanto chi aveva avuto a che fare direttamente con lui sapeva come si chiamava. In ogni caso, se avevano capito chi era Dora, con ogni probabilità la telefonata sarebbe arrivata a casa. I rapitori avrebbero pensato che non si sarebbe mosso di lì nella speranza che si mettessero in contatto. All'una lui e Burden si fecero portare dei sandwich. Wexford tentò di mangiare, ma senza riuscirvi. Avere la propria moglie in mano ai rapitori stava rivelandosi la più efficace delle diete; ma se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito essere obeso. Dopo che gli ebbero tolto dalla scrivania i sandwich avanzati, lasciò l'ufficio per scendere a vedere a che punto fossero con i preparativi, dato che stavano approntando una zona operativa. Circa cinque anni prima una dipendenza della stazione di polizia era stata adibita a palestra. In quel periodo era esplosa la mania di tenersi in forma e si riteneva che fosse importante, almeno per i giovani, esercitarsi il
più possibile con cyclette, treadmill, skier e stepper. Wexford aveva letto da qualche parte una statistica da cui risultava che la maggior parte di quelli che fanno ginnastica smettono dopo sei settimane al massimo, e l'esperimento di qualche anno prima lo confermava. Negli ultimi tempi l'ex palestra era stata utilizzata solo dagli appassionati del gioco del volano, e Burden aveva ripetuto in diverse occasioni che quella storia doveva finire. Erano già stati sistemati sul posto gli immancabili computer, i modem e i telefoni. Wexford si aggirava tra le scrivanie praticamente senza vedere nulla, conscio del fatto che gli occhi di tutti erano puntati su di lui. Lo guardavano in un modo strano, diverso dal solito. Era diventato una vittima. Ora che il figlio andava a scuola, Jenny Burden aveva ripreso a insegnare storia alle medie. Peccato che in Inghilterra non fosse come in Europa, dove le scuole aprono alle otto e chiudono alle due del pomeriggio. Forse in un prossimo futuro, grazie all'Unione europea, le cose sarebbero cambiate. Suo marito non era favorevole all'entrata della Gran Bretagna nell'Unione, ma Jenny era di diverso avviso. Comunque, al momento, era costretta a trovare qualcuno che si occupasse di Mark dalle tre e mezzo, ora in cui usciva da scuola, fino alle quattro, quando lei terminava le lezioni. Il venerdì era diverso. Non solo quel particolare venerdì che era il primo giorno del quadrimestre, in cui l'ultima lezione terminava alle dodici e mezzo e lei era finalmente libera. Era bello essere a casa quando, alle quattro meno venti, la collega del pomeriggio le portava Mark. Appena tornava, il figlio correva a buttarsi tra le sue braccia. Nell'attesa, dopo aver consumato un pasto che, contrariamente agli altri giorni della settimana, non comprendeva patatine fritte né pizza, si rilassava in poltrona leggendo Gladstone di Roy Jenkins. Lo squillo del telefono la contrariò. Nessuno avrebbe dovuto chiamarla in quelle due ore e mezzo in cui aveva voglia soltanto di starsene tranquilla. Comunque andò all'apparecchio. Non era mai stata capace di ignorare il suono perentorio di quel mezzo di comunicazione. «Pronto?» Le rispose una voce maschile. Assolutamente normale, come Jenny riferì in seguito. Piatta, priva di qualsiasi inflessione dialettale. Impossibile capire se chi parlava fosse giovane o di mezza età. Sicuramente non vecchio. Il tono era pacato, probabilmente studiato per essere il più naturale possibile.
«È il Sacro Globo. Mi ascolti attentamente. Abbiamo con noi cinque ostaggi: Ryan Barker, Roxane Masood, Kitty Struther, Owen Struther e Dora Wexford. Tra qualche istante le dirò cosa vogliamo in cambio. Ovviamente, se non otterremo ciò che chiediamo, moriranno uno alla volta, non fatevi illusioni.» «In cambio della loro liberazione vogliamo che si rinunci a costruire la tangenziale. I lavori dovranno essere interrotti definitivamente. È il prezzo che dovete pagare per riavere i cinque ostaggi.» «Ci metteremo di nuovo in contatto. Riceverete un altro messaggio entro questa sera. Siamo il Sacro Globo e salveremo il mondo.» 8 «Avevi indovinato?» domandò Burden. «Temo di sì.» Wexford stava leggendo la trascrizione che Jenny aveva fatto, con la maggiore accuratezza possibile, del messaggio ricevuto dal Sacro Globo. Non c'era nulla che lo colpisse in modo particolare; eppure la frase in cui i rapitori minacciavano di uccidere gli ostaggi spiccava tra le altre come se quella riga fosse stata sottolineata con un evidenziatore. Tutti i componenti della nuova squadra che gli era stata assegnata erano riuniti nella stanza e tra poco avrebbe dovuto parlare con loro. Oltre a Burden, della stazione di polizia di Kingsmarkham c'erano i sergenti Barry Vine e Karen Malahyde, e i quattro agenti Lynn Fancourt, James Pemberton, Kenneth Archbold e Stephen Lambert. La sezione locale della Squadra Anticrimine aveva fornito cinque dei quattordici uomini di cui disponeva, e cioè l'ispettore Nicola Weaver, il sergente Damon Slesar che lavorava in coppia con l'agente Edward Hennessy, e il sergente Martin Cook con l'agente Burton Lowry. Wexford non aveva mai avuto occasione di conoscere Nicola Weaver, che gli era stata presentata soltanto dieci minuti prima. Una donna doveva essere davvero in gamba per raggiungere il grado d'ispettore alla sua età. Di corporatura robusta, non molto alta, dimostrava una trentina d'anni. Aveva lineamenti marcati, capelli neri corti con la frangia tagliata diritta, e portava la fede al dito. Gli occhi erano azzurro turchese. Sorrideva di rado ma, quando lo faceva, mostrava una dentatura perfetta. «Mi fa molto piacere essere qui» gli aveva detto con un tono che sembrava sincero, stringendogli energicamente la mano.
Alto, occhi e capelli scuri, Slesar poteva essere definito un bell'uomo benché fosse piuttosto ossuto, il genere di persona che non ingrassa di un grammo qualsiasi cosa mangi. I capelli cortissimi erano di un nero opaco, la pelle olivastra. Wexford aveva l'impressione di averlo già visto da qualche parte e forse di avere anche parlato con lui, ma non ricordava dove né quando. L'agente Hennessy era il suo opposto: massiccio, di statura media, con il viso largo, i capelli rossicci e gli occhi nocciola. L'altro sergente era ancora più tarchiato e robusto, e colpiva per lo sguardo vivace. L'agente Lowry era nero, snello ed elegante come i poliziotti di certe serie televisive. Karen Malahyde aveva salutato il sergente Slesar come se fosse stato un vecchio amico, forse anche qualcosa di più. Perlomeno non si era limitata al solito cenno della testa che generalmente riservava ai colleghi di sesso maschile. Wexford pensò che forse l'aveva visto proprio in sua compagnia, ma ne dubitava. Correva voce che Karen non avesse mai avuto un fidanzato. Disse subito che, come alcuni di loro già sapevano, tra gli ostaggi c'era anche sua moglie. Nicola Weaver, che evidentemente lo ignorava, mormorò qualcosa al suo vicino, Barry Vine, e inarcò la sopracciglia dopo che ebbe ottenuto risposta. Disse dei due messaggi inviati dai rapitori, il primo al Courier e il secondo alla moglie di Burden. Il testo del secondo messaggio apparve su un grande schermo. «Credo e spero che il responsabile di questo gesto non intenda attuare davvero i suoi propositi. Si poteva pensare che il messaggio sarebbe arrivato a casa mia, considerato che mia moglie avrebbe potuto rivelare la sua identità ai rapitori. L'eventualità che contattassero la moglie dell'ispettore Burden era assolutamente imprevedibile e quindi siamo stati colti alla sprovvista.» «Volendo fare il furbo, forse ha commesso una piccola imprudenza. Come faceva a sapere dell'esistenza di Mike Burden? Se ne potrebbe dedurre che in passato abbia avuto qualcosa a che fare con lui, e quindi problemi "sociali".» Un gorgoglio di risa lo interruppe. «Non sarà difficile da controllare. È chiaro che ha trovato il numero telefonico nell'elenco, ma occorre stabilire cosa l'abbia indotto a cercare proprio il suo nome.» «Gli ostaggi sono stati presi a caso. Lo sappiamo per certo. Quindi non ci sarà di grande utilità indagare nel loro passato. Dovremo piuttosto concentrarci sulla controparte, cioè sul Sacro Globo. Sarà il nostro punto di
partenza e dovremo procedere senza indugio. Per prima cosa occorrerà mettersi in contatto con tutte le associazioni di ambientalisti che si oppongono alla costruzione della tangenziale.» «La maggior parte (fino a un paio di giorni fa avrei detto tutte) agiscono nella legalità e protestano in modo civile contro quella che considerano una violenza alla natura. Ma, come sempre accade in questi casi, ci sono altri che si divertono a combinare disastri, come quelli che un mese fa hanno compiuto atti di vandalismo a Kingsmarkham. Molti di loro, esattamente come i rapitori, erano mascherati e quindi non identificabili.» «Troveremo sicuramente qualcuno all'interno di queste associazioni, per esempio la Species e il Kabal, disposto a darci una mano. Lo stesso vale per il Sussex Wildlife e il Friends of the Earth. Nel corso di precedenti proteste potrebbero essere entrati in contatto con elementi estranei alla loro organizzazione e perciò potrebbero fornirci informazioni preziose. Qualsiasi indizio dovessero darci, sarà opportuno mettersi subito all'opera. Inoltre è essenziale interrogare gli amici degli alberi e tutti coloro che stanno negli accampamenti. Potrebbero rivelarsi le nostre principali fonti d'informazione.» «Come ho già detto, il passato degli ostaggi non dovrebbe essere importante, ma vorrei richiamare la vostra attenzione sul collegamento esistente tra Tanya Paine, l'impiegata della Contemporary Cars, e Roxane Masood, una delle persone sequestrate. Risulta che le due giovani donne si conoscevano bene, che erano amiche. È stato appunto questo il motivo che ha spinto Roxane Masood a rivolgersi proprio a quella agenzia. Forse il particolare è ininfluente, poco più di una coincidenza, ma costituisce comunque un piccolo indizio da non trascurare.» «Il vicecapo della polizia si trova in questo momento nella sede della Società Autostrade. Ignoro cosa possa scaturire da quest'incontro, ma di una cosa sono assolutamente certo, e cioè che il governo non dirà: "Okay, chiudiamo con la tangenziale. Liberate gli ostaggi e noi costruiremo da un'altra parte". Niente da fare. Ciò non esclude che si possa arrivare a un compromesso. Non ci resta che aspettare l'esito dell'incontro.» «Ma non c'è tempo da perdere, cominciamo subito a muoverci nelle direzioni che ho appena indicato. Prima di tutto dobbiamo scoprire chi è questa gente del Sacro Globo e individuarne i membri e i capi. Intanto aspettiamo il prossimo messaggio, che dovrebbe arrivare entro stasera.» «Avete qualche domanda?» Nicola Weaver si alzò. «Questo caso va classificato come atto di terrori-
smo?» «Direi di no» rispose Wexford. «Almeno per il momento. A quanto ne sappiamo, il Sacro Globo non intende rovesciare il governo con la forza.» «Mi risulta che una persona o un gruppo di persone abbia messo delle bombe in alcuni lotti di terreno edificabile per scoraggiare la costruzione di nuovi palazzi.» A parlare era ancora Nicola Weaver. «Non ritiene che questo possa essere il vero obiettivo dei rapitori?» «Forse è un'ipotesi che conviene prendere in considerazione» intervenne l'agente Hennessy. «C'è un altro episodio che vale la pena di ricordare. Mi riferisco ai blocchi di cemento che qualcuno si prendeva la briga di piazzare sulle strade a scorrimento veloce per danneggiare le auto e impedire allo stesso tempo la strage dei ricci.» «Se dovessimo individuare qualcuno che ha combinato cose di questo genere, sarebbe sicuramente una pista da seguire» replicò Wexford. Karen Malahyde sussurrò qualcosa a Damon Slesar, che aggrottò le sopracciglia e prese la parola. «Mi è stato detto che la moglie dell'ispettore Burden è un'insegnante di scuola media. È possibile che uno dei membri del Sacro Globo l'abbia conosciuta nell'ambiente scolastico, magari avendo un figlio che frequentava la sua classe?» «Potrebbe essere una spiegazione» ammise Wexford. «L'ipotesi è interessante. In questo modo gli sarebbe stato facile scoprire che è la moglie di un ispettore di polizia.» A un tratto, mentre pronunciava la frase, ebbe una breve visione della moglie, così realistica da sembrare vera. Batté le palpebre. «È un'altra pista da seguire immediatamente» riprese. «Ne parli con l'ispettore Burden. Si faccia dire dove ha insegnato la moglie fino a cinque anni fa e in quale scuola lavora attualmente. Bene. Credo che non ci sia altro da aggiungere. Dobbiamo rassegnarci tutti: stasera si lavora fino a tardi.» Erano le quattro del pomeriggio. Prima della fine della giornata sarebbe arrivato il terzo messaggio. In quella stagione, all'inizio di settembre, faceva buio verso le otto. Se l'espressione "entro sera" era da prendere alla lettera, tra quattro ore al massimo il Sacro Globo si sarebbe fatto sentire di nuovo. Chissà chi avrebbero contattato questa volta. Dopo la telefonata Jenny, con notevole presenza di spirito, aveva composto immediatamente il 1471, sapendo che in questo modo avrebbe potuto farsi dire il numero dell'ultima persona che aveva chiamato. Purtroppo l'espediente si era rivelato inutile perché lo sconosciuto aveva fatto precedere al suo numero telefonico la cifra che rendeva impossibile l'operazio-
ne. Quasi certamente chiamava da una cabina. Wexford si chiese se fosse vicino o lontano e se i prigionieri fossero tutti insieme o separati. Poi si pose un altro interrogativo che sarebbe stato meglio evitare. Se le cose non fossero andate secondo i piani dei rapitori, chi, tra gli ostaggi, sarebbe stato ucciso per primo? L'unica telefonata che ricevettero nelle ore successive fu quella di Andrew Struther da Savesbury House, Framhurst. Burden rimase sorpreso dal suo tono pacato e soprattutto dalle parole di scusa. «Mi dispiace, temo di essere stato molto scortese. Il fatto è che quella strana storia a proposito della scomparsa dei miei genitori aveva dell'incredibile. Poi però ho telefonato all'Excelsior di Firenze, dove mi è stato confermato che non sono arrivati. Non posso dire di essere terribilmente preoccupato ma...» «Forse sarebbe meglio che lo fosse, signor Struther.» «Scusi, ma non capisco... Non si tratta forse di un semplice equivoco?» «Direi proprio di no. La cosa migliore sarebbe che lei venisse qui, così potremo metterla al corrente della situazione. Ho tentato di farlo stamattina, ma lei...» Burden s'interruppe, sforzandosi di essere diplomatico. «Diciamo che non era in vena di starmi ad ascoltare.» Struther l'assicurò che si sarebbe fatto vivo. Siccome non sapeva dove fosse esattamente la stazione di polizia di Kingsmarkham, Burden gli passò un agente che gli spiegasse la strada. Gli agenti Hennessy e Fancourt erano andati a interrogare gli amici degli alberi accampati a Elder Ditches e a Savesbury, dove Burden li avrebbe raggiunti più tardi. L'ispettore Weaver doveva incontrarsi con i pezzi grossi del Kabal, mentre Karen Malahyde e Archbold raccoglievano informazioni sulla Species. Wexford ricevette una telefonata da Sheila: Sylvia doveva tornare a casa, Neil aveva chiamato e le aveva dato la bella notizia che Robin, il figlio minore, era a letto con la varicella. Sarebbe stata via un giorno e poi sarebbe tornata, ma prima dovevano garantirle che non c'era rischio di contagio per la piccola Amulet. Wexford non protestò, anche se avrebbe preferito che le due figlie se ne andassero a casa loro e lo lasciassero in pace. «Sì, cara, va bene, fate come volete» si limitò a rispondere. Aggiunse che ignorava a che ora sarebbe rincasato. Stavolta era sicuro che il messaggio non sarebbe arrivato a casa sua. Ormai quelli del Sacro Globo dovevano sapere che era troppo impegnato per restare tra le pareti domestiche. Era riuscito a estorcere a Peter Tregear del Sussex Wildlife la promessa
di raggiungerlo in ufficio verso le cinque e mezzo, ma prima di quell'ora comparve Andrew Struther, accompagnato da una ragazza che presentò come Bibi, la sua fidanzata. Benché a quell'ora il sole non fosse sfolgorante, portavano tutt'e due gli occhiali scuri; lei con le lenti a specchio. Il top a righe bianche e rosse che indossava era così corto da lasciarle scoperta la vita a ogni minimo movimento. Conscia di essere una bella ragazza, le piaceva mettersi in mostra, assumendo pose provocanti. Wexford li rifilò entrambi a Burden. Poi si sarebbe scusato con lui. Forse. Siccome l'ispettore gli aveva detto che era il caso di preoccuparsi, Struther aveva pensato bene di portare con sé una foto dei genitori. L'istantanea li ritraeva su un campo da sci, entrambi sorridenti, mentre strizzavano gli occhi per proteggerli dai riflessi del sole. Sulla base di quella foto, non sarebbe stato facile riconoscere gli originali; comunque era improbabile che Burden ne avrebbe avuto l'occasione, almeno per il momento. Il marito, leggermente più alto, indossava una tuta blu, mentre lei era in rosso. Sotto i berretti s'intravedevano i capelli biondi tendenti al grigio. Entrambi erano alti e snelli e avevano gli occhi azzurri. Owen Struther dimostrava cinquantacinque anni, la moglie qualcuno di meno. «Devo pregarla di mantenere il riserbo su quanto sto per dirle» attaccò Burden. «È di vitale importanza. Se per colpa di qualcuno trapelasse la notizia e i giornali la divulgassero, il responsabile potrebbe essere incriminato per avere ostacolato le indagini.» «Di cosa si tratta?» Burden lo mise al corrente degli avvenimenti senza parlare degli altri ostaggi, soprattutto perché non se la sentiva di tirare in ballo la moglie di Wexford. «Incredibile!» esclamò Struther. La ragazza lanciò un grido, si raddrizzò sulla sedia e si tolse gli occhiali da sole, smettendo di colpo di fare la diva. Aveva gli occhi nocciola con pagliuzze dorate e lo sguardo vuoto e distaccato di chi è incapace di provare grandi emozioni. «Perché hanno scelto loro?» domandò il giovane. «Li hanno presi a caso. Purtroppo ci sono state delle minacce. Uccideranno gli ostaggi se non saranno rispettate le loro condizioni.» «Quali sarebbero?» Burden non aveva motivo di essere reticente. Anzi, era necessario informare i parenti, un compito a cui peraltro avrebbe rinunciato volentieri. «Che siano sospesi i lavori per la costruzione della tangenziale» rispose.
«Quale tangenziale?» domandò Struther. Il giovane viveva a Londra. Forse non leggeva i giornali e non guardava la televisione. Era possibile. «Se non sbaglio la nuova strada dovrebbe essere visibile anche dalle finestre della casa dei suoi genitori.» «Ah, ora capisco. Dev'essere quella per cui c'è un mucchio di gente che protesta.» «Esatto.» Burden l'osservò nel tentativo di capire come avesse preso la notizia. «La ringrazio, signor Struther» disse. «La terremo informata. Si ricordi della raccomandazione che le ho fatto di tenere per sé la notizia. È della massima importanza.» «Stia tranquillo, non apriremo bocca» lo rassicurò il giovane, che ora appariva sinceramente preoccupato. «Accidenti, comincio a capire solo ora come stanno veramente le cose. Un bel pasticcio.» Peter Tregear lo incrociò mentre usciva. Il segretario del Mid-Sussex Wildlife Trust doveva essere tenuto all'oscuro della questione degli ostaggi. Si sarebbero limitati a parlargli dell'esistenza di un gruppo sovversivo che si faceva chiamare Sacro Globo. Li conosceva? Li aveva mai sentiti nominare? «Non mi pare» rispose Tregear. «Ormai ce n'è un'infinità, di questi gruppi e sottogruppi. Comunque le cose non sono mai così semplici come sembrano. Basta pensare alla Rivoluzione francese.» Wexford lo guardava senza capire dove volesse arrivare. «O alla guerra civile in Spagna» continuò Tregear. «In ambedue i casi, e anche nella Rivoluzione russa, la situazione era molto complessa. Intendo dire che non c'erano soltanto due fazioni contrapposte, ma decine di gruppuscoli diversi. È tipico della natura umana complicare le cose. Basta un'inezia, una piccola divergenza a provocare una scissione. Chi non è del tutto d'accordo con gli altri si stacca dal gruppo e ne fonda uno nuovo. Meglio gli animali. Non c'è paragone.» «Dunque ritiene che i membri del Sacro Globo all'inizio facessero capo a qualche altra associazione e in seguito si siano staccati, sentendo forse l'esigenza di parlare di meno e agire di più?» «Può darsi» rispose Tregear. «Ma è altrettanto possibile che la scissione non ci sia stata e che abbiano formato un gruppo all'interno dell'associazione a cui appartengono.» «Prima che nascesse Mark» disse Jenny «ho insegnato per un certo numero di anni alle superiori di Sewingbury e successivamente alle scuole
medie di Kingsmarkham. Quando mio figlio aveva tre anni, ho lavorato anche in una scuola privata, la St Olwen's. Insegnavo la mattina, quando il bambino era all'asilo.» Wexford l'aveva trovata nell'ufficio del marito, dov'era rimasta dal momento in cui aveva ricevuto il messaggio dei rapitori. Per una volta il figlio era stato affidato ai parenti. «Ho già raccontato a una mezza dozzina di persone tutto quello che riesco a ricordare della telefonata» gli aveva detto Jenny quando Wexford era entrato nell'ufficio. «Se continua così, presto dovrò dire anche quello che non ricordo.» «Meglio di no. Ti sei già scervellata abbastanza. Adesso vogliamo scoprire il motivo per cui si sono rivolti a te.» Era rimasto ad ascoltarla con la massima attenzione mentre lei gli elencava le sue precedenti esperienze lavorative. «I tuoi alunni... Oh, scusa, so che adesso si chiamano studenti... Pensi che sapessero chi era Mike, che genere di lavoro faceva?» «Credo di sì. Qualcuno lo sapeva di sicuro. Ora i ragazzi sono molto diversi da come eravamo noi alla loro età, Reg.» Per Wexford equivaleva a un complimento, dato che Jenny aveva una ventina d'anni meno di lui. Gli sorrise. «Non ci saremmo mai sognati di rivolgere domande personali agli insegnanti. Ai nostri tempi mancava poco che ci fosse la pena di morte. Adesso le cose sono cambiate. Innanzitutto al giorno d'oggi i giovani s'interessano davvero alle persone che hanno accanto. Pensa che alla scuola media i ragazzi mi chiamavano per nome.» «E ti chiedevano anche di Mike, del suo lavoro?» «Molto spesso. Succedeva cinque anni fa, dieci anni fa, e succede ancora. Con la differenza che oggi lo sanno tutti che Mike è un poliziotto.» «E qualche anno fa? Sette anni fa, per la precisione. Mi riferisco ai ragazzi che all'epoca avevano diciassette, diciott'anni. Hai in mente qualcuno in particolare che te l'abbia domandato esplicitamente?» «Credo che lo sapessero tutti quanti, Reg. Erano molto interessati al mio matrimonio. Forse ricorderai che abbiamo fatto le cose in grande, come voleva mia madre. Ne hanno parlato persino sul giornale locale, e naturalmente c'era scritto che Mike lavorava nella polizia.» S'interruppe e rimase un attimo a guardarlo, pensierosa. «A proposito, sai dirmi dov'è adesso?» «È uscito. Perché me lo domandi?» «Speravo che mi accompagnasse a casa, ma ho l'impressione che abbia ancora diverse ore di lavoro davanti a sé. Posso andare, Reg? Devo passare
a prendere Mark.» La giornata lavorativa volgeva al termine, ma quello non era un giorno come gli altri e Burden sapeva che sarebbe stato lungo e impegnativo. Occhi misteriosi che nei boschi spiavano da alberi e cespugli erano un motivo ricorrente nella letteratura per ragazzi. Anche a lui capitava spesso di leggere simili descrizioni a suo figlio; ma gli occhi di cui si parlava nei libri erano quelli degli animali, mentre questi erano umani. Lo spiavano dall'alto degli alberi e restando nascosti tra gli arbusti. A un tratto vide spostarsi una tenda davanti all'apertura di una capanna e un tale guardò giù senza aprire bocca, lo sguardo inespressivo. Avevano lasciato l'auto in una rientranza della strada e, percorso il primo tratto erboso, avevano imboccato il sentiero che passava tra sterpaglie alte fino alle cosce. Lynn Fancourt se l'era cavata meglio di lui e anche di Ted Hennessy, che avanzava con circospezione, come se stessero attraversando una foresta tropicale. Gli uccelli volavano schiamazzando sui rami più alti degli alberi, dove si posavano per passarvi la notte. A Burden era parso di sentire, un po' più avanti, il suono di una chitarra; ma subito le note e la voce si erano spente e si era udito soltanto il cinguettio degli uccelli. Poi, dove le betulle terminavano per lasciare posto ad alberi più alti, Burden aveva visto gli occhi che li spiavano. Li avevano sentiti arrivare ed era per questo che la chitarra taceva. Burden aveva sempre creduto che soltanto gli occhi degli animali brillassero nel buio, e invece quelli umani luccicavano allo stesso modo. Si era appena accorto che il loro arrivo aveva interrotto il lavoro di tre persone impegnate nella costruzione di una nuova casa aerea, quando un uomo fermo sulla pedana di un'altra capanna gli rivolse la parola. «Posso esserle d'aiuto?» Lo disse con lo stesso tono che avrebbe usato il commesso di un negozio, con la stessa cortesia; ma dal suo aspetto si capiva che era un capo. Alto e autoritario, avvolto in un mantello. Sembrava un generale che esaminasse dall'alto il campo di battaglia prima del combattimento. «Siamo della Squadra Anticrimine di Kingsmarkham» disse Archbold. «Vorremmo parlarle.» «Di cosa ci accusate ora?» «Desideriamo solo rivolgerle alcune domande» rispose Burden. «Nient'altro. Soltanto parlare.» Fece un gesto vago con la mano. «Non c'entra con quest'accampamento. Basteranno pochi minuti.»
«Aspettate un momento.» L'uomo sparì nella sua capanna. Se non ne fosse riemerso, pensò Burden, non avrebbero potuto fare nulla per costringerlo a uscire. Rispetto a prima, ora c'erano meno occhi che li spiavano. Alzò la testa per osservare la casa in costruzione. Una struttura di legno poggiava sulla solida base costituita da due rami robusti e dal tronco stesso di una grande betulla cui molto tempo addietro era stata mozzata la cima. Una donna con addosso un abito stravagante, lungo fino alle caviglie, scese dall'albero e si mise a frugare fra gli attrezzi contenuti in una borsa di tela appoggiata a terra. Passò il martello al tizio con la lunga barba bionda che nel frattempo si era calato giù per andarle incontro. In quello stesso momento il loro capo (Burden non aveva il minimo dubbio in proposito) spuntò da dietro la tenda, stavolta senza mantello, e scese dalla scala a pioli, trasformato di colpo in una persona normale in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. Non del tutto normale, forse. Prima di tutto perché era straordinariamente alto, con lunghissime gambe, dita lunghe e mani affusolate. Aveva la testa rasata e il volto ricordava le foto di certi capi indiani dai profili duri, che sembravano tagliati con l'accetta. «Conrad Tarling» si presentò con un cenno della testa, l'equivalente di una stretta di mano. «Mi chiamano Re del bosco.» Burden rimase senza parole. «Vi dispiace mostrarmi le vostre tessere di riconoscimento?» Data un'occhiata ai documenti, fece di nuovo un cenno d'assenso. «Ne abbiamo passate di tutti i colori, abbiamo avuto molti problemi» riprese con il tono desolato di chi ha trascorso almeno sei mesi in un campo profughi. «Di cosa volevate parlarmi?» Mentre Lynn Fancourt gli illustrava la situazione, qualcuno batteva colpi di martello. L'uomo intento a costruire la nuova capanna stava inchiodando delle assi alle travi del soffitto. Lynn alzò la voce per farsi sentire. Burden si avvicinò alla donna con l'abito lungo. «Vi dispiacerebbe sospendere il lavoro per qualche minuto?» «Perché?» domandò il tizio con la barba. Burden non ne aveva mai vista una così lunga, se non nelle illustrazioni dei libri per ragazzi: il mago, il boscaiolo e altri personaggi del genere. Chissà perché, continuavano a venirgli in mente le storie scritte per i più piccoli. «Polizia» disse. «Abbiamo qualche domanda da fare. Interrompete i lavori per una decina di minuti, se non vi spiace.» Per tutta risposta, il martello volò giù dalla pianta. Non nella direzione di
Burden, né vicino a lui. La donna con l'abito lungo lo raccolse scrollando la testa. Lynn stava chiedendo a Tarling se avesse mai sentito nominare il Sacro Globo o conoscesse qualcuno all'accampamento che ne avesse sentito parlare, quando a un tratto si materializzò una giovane donna in uno strano abbigliamento, composto in parte da bende simili a quelle delle mummie e in parte da lembi di tessuto svolazzante. Era comparsa dal nulla, forse scendendo dalla cima di un albero o uscendo da dietro un cespuglio. Si piazzò davanti a loro gridando come una forsennata e agitando le braccia. «Ci cacciate via dalla nostra terra, ci trascinate fuori dalle nostre case, e ora venite qui a chiederci di tradirci a vicenda. Non vi basta distruggere questo paese, questo mondo, dovete anche rovinare le persone. Non solo fisicamente, come quando stamattina mi avete trascinata priva di sensi giù per la scala, con il rischio di farmi cadere e rompermi chissà cosa. No, pretendete anche di rovinarci nello spirito, di costringerci a tradire gli amici, che sarebbe la peggiore delle colpe.» Seguì una pausa. «I suoi amici?» domandò Burden, rompendo il silenzio. «È sconvolta» la giustificò Tarling. «Non c'è da meravigliarsi. Immagino che lei non c'entri con quello che le hanno fatto. Probabilmente saranno stati gli uomini dello sceriffo. D'altronde con le forze dell'ordine è naturale fare di tutta l'erba un fascio. Viene spontaneo.» «La stessa cosa vale anche per noi nei vostri confronti» ribatté Burden. Tarling s'imbarcò in una sorta di conferenza sulla tutela dell'ambiente, l'equilibrio ecologico e le conseguenze dell'inquinamento atmosferico, causato da quelle che lui definiva "le emissioni". Burden annuì un paio di volte, poi girò sui tacchi e se ne andò a casa, da dove telefonò alla zona operativa per lasciare detto dove potevano rintracciarlo quella sera. Si erano messi d'accordo affinché ciascuno di loro fosse reperibile in qualsiasi momento. «Non sembrano particolarmente disposti a collaborare» disse a Jenny mentre cenavano, seduti a tavola con il figlio. «Temo di essere partito con il piede sbagliato. Quella tizia, Quilla... A proposito, che razza di nome è? Il diminutivo di cosa? Comunque mi ha fornito un nominativo. L'altra, Freya, quando si è calmata mi ha dato un indirizzo; ma ho l'impressione che siano inventati sia l'uno che l'altro.» «Immagino che uscirai ancora?» domandò Jenny in tono pacato, senza mostrarsi contrariata.
«Naturalmente. Cosa pensavi, che avremmo trascorso una tranquilla serata, magari guardando un film poliziesco alla televisione?» «Sai una cosa, Mike? Mi è venuta in mente una cosa, anzi, una persona che ho conosciuto quando insegnavo alle medie, prima che nascesse Mark.» Burden smise di mangiare. «È un ricordo che in un certo senso preferirei non avere perché... Be', non è terribile che, nella nostra società, chiunque abbia degli ideali sia bollato come sovversivo e terrorista? Per contro chi non ha mai fatto nulla nella vita per mantenere la pace, preservare l'ambiente e combattere ogni forma di crudeltà gode del rispetto di tutti.» «Nessuno li ha accusati di essere terroristi» protestò Burden. «Sai bene cosa intendo, o almeno spero che tu mi capisca. Dopo tanti anni che siamo insieme, qualcosa hai imparato anche da me, dal mio modo di vivere certe esperienze.» «Sì, tesoro. Scusami. Sono un po' stanco.» «Lo so. Vedi, Mike, a scuola c'era un ragazzo... Parlo di sei anni fa. Aveva diciassette anni, perciò ora ne ha ventitré. Era un accanito sostenitore dei diritti degli animali, in un periodo in cui gli animalisti si limitavano a protestare contro il commercio delle pellicce e a preoccuparsi per le specie in via d'estinzione. Era un idealista e credo che non avrebbe mai fatto del male a nessuno anche se, pensandoci bene, non mi pare che gli stessero altrettanto a cuore i diritti dei suoi simili. Lasciata la scuola, questo ragazzo si è trasferito nel nord del paese. A distanza di qualche anno, dopo che Mark era già nato, mi è capitato d'incontrare un'ex collega e così ho saputo che il ragazzo aveva subito un processo per avere rubato diversi animali, forse uccelli, in un negozio e averli rimessi in libertà. La cosa strana è che si è autodenunciato per avere commesso in precedenza altri dieci reati dello stesso genere. Perciò stavo pensando...» «Perché non me ne hai mai parlato?» «Non credo che ti avrebbe interessato.» «La verità è un'altra» la contraddisse Burden. «Non volevi sentirti dire che doveva pagare per il suo errore e che certa gente rappresenta una minaccia per la società. Ammetto che probabilmente sarebbe stato questo il mio commento. Come si chiamava il ragazzo?» «Royall, Brendan Royall.» Il piccolo Mark stava iniziando a cavarsela bene con la lettura. Dopo quattro anni che, sera dopo sera, il padre o la madre gli leggevano dei libri,
ora voleva essere lui a leggere a voce alta per i genitori. Erano piuttosto rari i ragazzini che si comportavano così e, per quanto risultava a Burden, anche i genitori come loro due. Diede un bacio alla moglie e le posò per un attimo la mano sulla spalla. «"Non mi va di mangiare polpette di topo"» lesse Mark. «Mamma, non mi stai ascoltando» protestò. Polpette di topo, pensò Burden. Come facevano certi scrittori a farsi venire idee così strampalate? A un animalista convinto come Brendan Royall avrebbe dato fastidio. Una frase del genere l'avrebbe mandato in crisi. Salutati moglie e figlio, uscì per recarsi da Clare Cox. La Jaguar era ancora parcheggiata davanti alla casa. Hassy Masood era tornato con la sua nuova famiglia. Venne ad aprirgli una ragazza in sari. Il piccolo soggiorno era gremito di gente. Masood, che si era tolto l'abito in tessuto jeans per indossarne uno grigio scuro, si occupò delle presentazioni. «Mia moglie, la signora Naseem Masood. I miei figli, John e Henry Masood. La mia figliastra, Ayesha Kareem, figlia della signora Masood e del suo primo marito, il signor Hussein Kareem, purtroppo ora defunto. Naturalmente lei conosce già la signora Clare Cox, madre di Roxane.» Burden disse buonasera a tutti. L'atteggiamento di Hassy Masood era così deprimente da farlo sentire stanco prima ancora di cominciare. A differenza della figlia, Naseem Masood vestiva all'occidentale. Indossava un abito rosso corto e aderente impreziosito da costosi gioielli tempestati di rubini e portava un paio di scarpe bianche con i tacchi alti. I capelli neri ondulati erano lunghi quasi quanto la barba di Gary, l'uomo albero. La figlia, alta e snella, aveva la pelle bruna, gli occhi non molto scuri, il naso lungo e le labbra carnose. Faceva pensare alle fanciulle delle poesie di Omar Khayyám. A Burden venne in mente quella che parlava delle gioie semplici della vita: il pane, il vino e la sua donna a tenergli compagnia. I due figli più piccoli di Masood, pallidi, tirati a lucido, con i capelli neri, lo fissavano con uno sguardo che Burden non avrebbe voluto vedere negli occhi di Mark. Seduta sul divano, Clare Cox teneva i piedi alzati e gli occhi chiusi. Gli aveva fatto un debole cenno con la mano, forse in segno di saluto, o più probabilmente un gesto di disperazione. Indossava lo stesso abito lungo della volta precedente, con la differenza che ora era macchiato sul davanti. A Burden venne spontaneo pensare a Quilla. «Mi dispiace disturbarla, signora Cox» iniziò «ma si renderà conto sicuramente che, date le circostanze...»
Masood l'interruppe. «Possiamo offrirle qualcosa, ispettore Burden? Una bibita, un sandwich? Immagino che oggi non abbia avuto molto tempo per rifocillarsi. Naturalmente io non bevo alcolici ma, avendo ritenuto opportuno rifornire la signora Cox di vino e brandy, se lo desidera posso...» «No, grazie» rispose Burden. «Dunque, signora Cox, basteranno pochi minuti...» La donna aprì gli occhi. «Vuole parlarmi in privato?» «Non sarà necessario.» Soltanto dopo averle risposto si rese conto che avrebbe potuto risparmiarla dai parenti, almeno per un po'; ma ormai era troppo tardi per rimediare. Al momento l'unico pensiero che si era affacciato nella sua mente era che, se Hassy Masood gli aveva dato retta, la moglie non sapeva nulla del Sacro Globo. Comunque non era quello l'argomento che doveva trattare. Clare Cox sospirò. Ayesha, la ragazza, accese il televisore, abbassò il volume al minimo e si sedette davanti allo schermo. La signora Masood passò le braccia intorno alle spalle dei figli minori. Il marito, che nel frattempo era uscito dal soggiorno, ricomparve con un vassoio carico di bicchieri di succo d'arancia. Burden lo ringraziò, ma rifiutò di nuovo. Si rivolse alla signora Cox. «Che cosa può dirmi a proposito dell'amicizia di sua figlia con Tanya Paine?» «Niente. Soltanto che la conosceva.» Voltò la testa dall'altra parte e affondò il viso nel cuscino. «Erano a scuola assieme?» domandò Burden. Per un attimo pensò che non gli avrebbe risposto. Clare Cox si girò verso di lui. «Hanno fatto le medie a Kingsmarkham, ma non erano amiche. Solamente compagne di scuola. Roxane è molto più intelligente di lei. In arte e in inglese era tra le prime della classe.» «Non credo che questo interessi all'ispettore» interloquì Naseem Masood. «Roxane si era trovata un lavoro» riprese Clare Cox. Parlava in fretta, presumibilmente per toglierselo di torno quanto prima. «All'inizio sembrava che fosse soltanto per il periodo estivo. Lavorava in una copisteria di York Street e così ha incontrato Tanya, che era impiegata in una ditta poco distante. Avevano preso l'abitudine di andare a bere il caffè insieme. Poi Tanya è stata assunta dalla Contemporary Cars e Roxane si è licenziata perché voleva fare la fotomodella. Comunque ogni volta che aveva biso-
gno di un taxi si rivolgeva a lei.» Mentre parlava, tutti, tranne la ragazza che guardava la televisione, si voltarono a guardare il ritratto appeso al muro. La signora Masood fu la prima a distogliere lo sguardo. Evidentemente il dialogo l'annoiava e perciò aveva deciso di andarsene. Si alzò, lisciandosi la gonna. «Sarà meglio tornare in albergo, Hassy» disse. «I ragazzi vorranno mangiare e Ayesha dev'essere stanca.» Guardò Burden. «Il Posthouse è un ottimo albergo, per essere in un paese come questo.» L'ispettore chiese a Clare Cox se avesse l'indirizzo di Tanya Paine e venne a sapere che abitava con altre tre ragazze in un appartamento di Glebe Road; poi rimase in silenzio ad aspettare che la famiglia Masood se ne andasse, tra le proteste di Ayesha, che avrebbe voluto trattenersi ancora un po' a guardare la televisione. «Non c'è nessuno che possa restare a tenerle compagnia per questa notte?» domandò. «Oh, ci mancherebbe altro. Non vedevo l'ora di restare sola.» Si strofinò gli occhi con la mano, ma stavolta erano asciutti. «Ispettore Burden... È questo il suo nome, vero?» «Esatto.» «C'è una cosa che voglio dirle sul conto di Roxane. Oh, purtroppo non le sarà d'aiuto, ma per me è un chiodo fisso.» «Di cosa si tratta?» «Crede che la tengano chiusa da qualche parte, per esempio in una stanza piccola o in uno sgabuzzino? Soffre di claustrofobia, capisce? È una cosa seria, non come quelle persone che non sopportano di restare chiuse in ascensore. Per Roxane sarebbe un tormento.» «Capisco.» «Questa casa non è grande, ma per lei non ci sono problemi. Le basta tenere aperta la porta della sua stanza. Una volta l'ho chiusa per sbaglio e lei è andata in crisi.» Burden non sapeva che rispondere. Tentò di rassicurala come meglio poteva ma poi, quando salì in macchina e si diresse verso Kingsmarkham, continuò a pensarci. Era poco probabile che il Sacro Globo tenesse gli ostaggi in un grande appartamento, magari con portefinestre che si aprivano sul giardino. Di solito i prigionieri erano confinati in baracche, ripostigli, e a volte nei bagagliai delle auto. Si chiese se anche Dora Wexford soffrisse di claustrofobia. Qualcuno poteva avere altri problemi, un'allergia o la necessità di seguire una dieta particolare. Comunque saperlo non sarebbe
servito a nulla. Trovò Tanya Paine da sola. Le ragazze che dividevano l'appartamento con lei erano uscite. Le sue serate solitarie evidentemente erano dedicate ai trattamenti di bellezza. Aveva un asciugamano avvolto intorno alla testa e le unghie con lo smalto ancora fresco. Nella stanza c'era un forte odore di ceretta. In un primo momento credette che la sua fosse una visita di cortesia, come se Burden non fosse un poliziotto, ma l'analista che veniva a vedere come stava. Era decisamente una ragazza egocentrica, a cui non interessava altro che il proprio benessere. In un certo senso per Burden era un vantaggio, dato che non avrebbe dovuto parlare degli ostaggi. Chiunque altro al suo posto gli avrebbe chiesto notizie. Tanya rispose alle domande confermando ciò che Burden aveva già saputo da Clare Cox, ma senza aggiungere nulla di suo. Roxane Masood era soltanto una conoscente, qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere davanti a una tazza di caffè. Appena le fu possibile, Tanya riportò il discorso su ciò che le stava a cuore. L'analista era venuto una sola volta e l'esperienza era stata deludente. «Non mi ha nemmeno chiesto che genere d'infanzia ho avuto» si lagnò. «E pensare che avrei avuto parecchie cose da raccontargli sul conto di mio padre e di mia madre.» Lo squillo del telefono risparmiò a Burden la seccatura di replicare. Ripensandoci a posteriori, non avrebbe saputo dire come aveva fatto a capire subito, quasi nel momento in cui la ragazza alzava il ricevitore, che quella era la telefonata che aspettavano. A un tratto, come in un lampo, gli era venuta l'ispirazione. Forse era stato il tono con cui Tanya aveva pronunciato la parola "Come?" o l'espressione del suo viso, gli occhi spalancati e la bocca aperta. Si era alzato di scatto, l'aveva raggiunta d'un balzo e le aveva strappato il telefono di mano. Tanya era stata ben felice di passargli la cornetta, neanche fosse stata un serpente o una patata bollente. Il discorso era già iniziato. Burden si concentrò come forse non aveva mai fatto in vita sua. «... Globo. Sapete già che abbiamo gli ostaggi e conoscete anche il prezzo del riscatto.» Jenny aveva ragione: era una voce piatta, senza inflessioni particolari. «Entro domattina esigiamo la dichiarazione ufficiale che verranno sospesi i lavori per la costruzione della tangenziale di Kingsmarkham. Nulla di draconiano: non vogliamo essere drastici né fiscali. Basterà una morato-
ria. Interrompete i lavori in modo da darci la possibilità di trattare.» «Una cosa però è fondamentale: che ne parlino i mass media domattina entro le nove. In caso contrario il primo ostaggio morirà e il suo corpo vi verrà consegnato prima di notte.» «Riferite questo messaggio alla polizia e ai media.» Burden non aprì bocca. Sapeva che sarebbe stato inutile e comunque quel tizio doveva continuare a credere di essere al telefono con Tanya Paine. «Ripeto: passate questo messaggio alla polizia e ai media. Non siamo noi a volere il silenzio stampa. Noi vogliamo pubblicità.» «Siamo il Sacro Globo e salveremo il mondo. Grazie. Lo sconosciuto riagganciò e il telefono rimase muto.» Burden si voltò verso Tanya Paine e vide che la ragazza lo guardava a bocca aperta, con i pugni serrati. 9 La seconda riunione si tenne quella sera alle nove nell'ex palestra. Benché fossero presenti sia il capo della polizia sia il vice, la presiedeva Wexford. La sua squadra aveva raccolto un certo numero d'informazioni interessanti; ma quella più utile l'aveva fornita Burden, che aveva suggerito d'indagare su Brendan Royall. Era una pista che valeva la pena di seguire. Inoltre il caso aveva voluto che Burden si trovasse nell'appartamento di Tanya Paine quando il Sacro Globo l'aveva contattata. «Perché hanno scelto lei?» domandò Nicola Weaver. «Me lo sono chiesto anch'io» rispose Burden. «Un'altra cosa che vale la pena di sottolineare è il linguaggio usato da quel tizio. Parole come "draconiano", "drastico" e "moratoria". Quanto al primo aggettivo, io stesso non sono sicuro di cosa significhi esattamente. E Tanya Paine non è una ragazza particolarmente brillante.» Il messaggio, trascritto nel modo più accurato possibile da Burden, era stato digitato al computer e ora era visibile a tutti, proiettato su un grande schermo. «Non credo che il particolare sia poi così rilevante» osservò Damon Slesar. «Quello che conta è il senso, il significato della frase, il fatto che se non ci sarà una dichiarazione ufficiale entro le nove del mattino, uno degli ostaggi sarà...» Stava per dire "accoppato", quando si ricordò che c'era di mezzo anche la moglie di Wexford e si corresse: «... sarà in pericolo di vi-
ta. Non occorre essere un genio per capire il nocciolo della questione.» «Comunque è stato un bel colpo di fortuna che lei si trovasse lì proprio in quel momento, Mike» commentò il capo della polizia. «Oppure lo sapevano?» «Non credo proprio, signore. Non ne avevo parlato con nessuno.» «E a proposito della voce, Mike?» l'interrogò Wexford. «Probabilmente è la stessa che ha sentito mia moglie. Lei però sostiene che non ha inflessioni dialettali e ritiene che la voce non sia mascherata, mentre io sono di diverso avviso. Mi pare di aver colto, nonostante l'uso dei termini ricercati, un leggero accento cockney. Sapete, un po' come quando alla televisione certi attori imitano il linguaggio delle persone umili. Sono bravissimi, hanno imparato a forza di ascoltare nastri registrati, ma nello stesso tempo si capisce che non è autentico, che non è il loro vero modo di parlare. Insomma, è come se quel tizio, dopo avere imparato il cockney allo stesso modo degli attori, fingesse di trattenersi per non lasciarlo trapelare. Troppo perfetto per essere autentico, intendo dire.» Lynn Fancourt e Archbold parlarono delle persone che avevano conosciuto all'accampamento di Elder Ditches. Freya, la donna che era stata calata giù dall'albero con la forza, consigliava d'indagare su una certa Francis Collins, soprannominata Frenchie, arrestata a Brixton perché coinvolta in una rissa. Tuttavia ne parlava con tanta acredine da far sospettare che fosse mossa da un desiderio di vendetta. In ogni modo era un'altra pista da seguire. Karen Malahyde, all'accampamento di Framhurst Copses, aveva raccolto due indizi che l'avevano indotta a recarsi in una certa casa di Flagford, dove in periodi differenti si erano dati convegno attivisti di aree diverse. Slesar e Hennessy stavano indagando su Brendan Royall e Barry Vine era risoluto a interrogare di nuovo Stanley Trotter. Il capo della polizia li mise al corrente di ciò che era riuscito a ottenere quel giorno. Contro la volontà di tutti (ma non avevano scelta) il Sacro Globo l'avrebbe spuntata: i lavori sarebbero stati interrotti e i media ne avrebbero dato l'annuncio ufficiale. «Hanno accettato a malincuore, inutile dirlo» continuò Montague Ryder «ma la parola "moratoria" ha un significato preciso ed è la più indicata nel nostro caso. Prima o poi la tangenziale sarà costruita.» L'atmosfera era molto diversa da come sarebbe stata se tra gli ostaggi non avesse figurato il nome di Dora Wexford. Se gli altri lo intuivano vagamente, il marito lo sapeva con certezza. In circostanze diverse, pur trat-
tandosi di una faccenda seria, ci sarebbe stata una maggiore disinvoltura: qualche battuta di spirito, qualche parolaccia. Invece erano tutti guardinghi, quasi in imbarazzo, e ciascuno di loro era preoccupato. Si separarono senza un sorriso, con aria grave. Il capo della polizia e il suo vice se ne andarono insieme. Mentre usciva con Karen, Damon Slesar si fermò a salutare Wexford. «Allora buona notte, signore» disse in tono formale. Ognuno si avviò verso la propria auto senza guardarsi intorno e senza parlare. Com'era prevedibile, Burden si offrì di accompagnare Wexford e di trascorrere la notte a casa sua; ma anche stavolta l'ispettore capo rifiutò, pur apprezzando di cuore il suo gesto. Nicola Weaver lo raggiunse mentre entrava nel parcheggio. Wexford notò che aveva l'aria stanca. Qualcuno gli aveva detto che Nicola aveva due figli al di sotto dei sette anni e un marito poco disposto a darle una mano. I suoi occhi avevano un colore strano, un verde cupo simile alla malachite dell'anello che portava al dito. «C'è una cosa che volevo dirle, anche se forse la sa già» esordì la donna. «Nel nostro paese la maggior parte delle vittime di sequestri vengono liberate senza che gli sia torto un capello. Con i ragazzi la situazione è un po' diversa, ma per gli adulti la percentuale è quasi del cento per cento.» «In effetti lo sapevo, Nicola, ma la ringrazio ugualmente di avermelo ricordato» rispose Wexford, guardandosi bene dall'aggiungere che era la quinta persona che glielo faceva notare. «Mi chiami pure Nicky. In ogni modo non hanno nessuna convenienza a uccidere qualcuno. La loro non è che una vuota minaccia.» «Credo proprio che lei abbia ragione» commentò Wexford, augurandole la buona notte. Ciascuno dei due si mise al volante della propria auto. Era una notte buia, senza luna. Le poche stelle visibili, infinitamente distanti, sembravano capocchie di spilli infilzati sul velluto nero. Mentre Wexford guidava, gli vennero in mente i versi di una poesia. Li ripeté a voce alta. Setebo, Setebo e Setebo, Che crede di dimorare nel freddo della luna, Che crede di averla creata, e con essa il sole, Ma non le stelle, Altrimenti generate.
Nel vialetto di casa era parcheggiata un'auto bianca. Wexford capì subito che era quella di Paul Curzon, il padre di Amulet. Salito al piano di sopra, vide che la porta della stanza di Sheila era chiusa. I due giovani erano lì dentro con la loro bambina. Gli faceva piacere pensarlo, gli dava un senso di pace. Ammesso che ci riuscisse, era meglio non dormire subito perché comunque si sarebbe svegliato un'ora dopo senza più un briciolo di sonno, e da quel momento non avrebbe fatto altro che tormentarsi. Nonostante i suoi propositi, si addormentò e sognò Dora, Dora e se stesso ringiovaniti. Chissà perché nei sogni le persone appaiono spesso giovani, soprattutto quelle che ci vivono accanto. Nessun libro, nessun analista era riuscito a spiegargli il fenomeno. I sogni non sono l'espressione dei nostri desideri, altrimenti ne faremmo solo di piacevoli. Gli capitava sempre di sognare le figlie da piccole e la moglie da giovane. Anche lui, benché non si vedesse in sogno, si sentiva giovane. Stavolta stava avvicinandosi alla torre di un castello che sorgeva al centro di una vasta pianura. Dora, affacciata a una delle finestre più alte, gli tendeva le braccia. Aveva i capelli lunghi come nei primi anni di matrimonio. Pendevano giù dalla torre, simili a quelli di Raperonzolo nella fiaba dei fratelli Grimm, con la differenza che i suoi erano neri come ali di corvo. Dopo essersi avvicinato alla torre, aveva afferrato i capelli della moglie con entrambe le mani, non per arrampicarsi perché, anche nel sogno, sapeva che era un'impresa impossibile e che comunque lui era troppo pesante. Dora lo guardava sorridendo, quando a un tratto accadde una cosa terribile. Forse per il peso dei capelli o perché lui aveva tirato troppo forte, Dora lanciò un grido e precipitò giù dalla finestra. Si svegliò di soprassalto, gridando a sua volta, e per un attimo le loro voci parvero sovrapposte. Nessuno venne a vedere cosa gli fosse capitato. La sua stanza era abbastanza lontana da quella di Sheila perché la figlia potesse sentirlo e il grido gli era uscito soffocato. Rimase qualche minuto sdraiato al buio, poi si alzò e si mise a camminare per la stanza. Qualcuno, forse Mark Twain, sosteneva che di notte siamo tutti pazzi. D'altronde, nella sua situazione, non aveva forse motivo di esserlo? Il mattino successivo sarebbe stato divulgato l'annuncio preteso dai rapitori. Probabilmente per radio e per televisione, e più tardi anche dai giornali. Ma se ciò non fosse accaduto? Se, nonostante le assicurazioni date a Montague Ryder, qualcuno nelle alte sfere si fosse tirato indietro? Se il
ministero degli Interni o quello dell'Ambiente avesse deciso di non darla vinta ai sequestratori? Nicky Weaver gli aveva detto una cosa vera, cioè che difficilmente avrebbero fatto del male agli ostaggi. Però l'affermazione si basava sulle statistiche effettuate sui sequestri di persona a scopo di estorsione, mentre quelli del Sacro Globo dovevano essere dei fanatici. Non chiedevano soldi. Se avessero deciso di sopprimere un ostaggio, chi avrebbero ucciso per primo? Basta, doveva farla finita con questi ragionamenti. Non avrebbero eliminato nessuno. Nel peggiore dei casi, se la scelta si fosse basata sul più giovane o sul più vecchio, non sarebbe stata Dora la prima vittima. Wexford diede un'occhiata all'orologio e si pentì subito di averlo fatto. Non erano ancora le due. Se proprio doveva lambiccarsi il cervello, tanto valeva riflettere su qualcosa di più costruttivo, per esempio sulle persone sospette. Solo che non c'erano indiziati. Forse avrebbe dovuto concentrarsi sul luogo dov'erano tenuti prigionieri gli ostaggi, un aspetto che non avevano ancora preso in considerazione e che invece andava esaminato al più presto. Non sapeva da che parte cominciare. Di solito si inizia dalle persone. Prima si trova l'indiziato e a quel punto si è sulla buona strada per individuare il luogo in cui agisce. Certo che sarebbe stato un disastro, se i mass media non avessero trasmesso quell'annuncio... Accese la luce e tentò di leggere. Il libro, che aveva avuto in prestito da Jenny Burden, parlava della guerra di secessione e vi erano descritte con dovizia di particolari le atrocità commesse durante il conflitto. Pur sforzandosi di scacciare quel chiodo fisso dalla mente, non poteva fare a meno di pensare che Dora doveva essere spaventata. Era una donna forte, ma in una situazione del genere chiunque avrebbe avuto paura. Per un attimo smise di pensare a lei per riflettere su Roxane Masood. Sua madre aveva detto che soffriva di claustrofobia. Dora non ne avrebbe risentito, se l'avessero relegata in uno spazio angusto, ma per la ragazza sarebbe stato un dramma. Verso le quattro del mattino si addormentò di nuovo e stavolta riuscì a dormire quasi due ore. Ripensando alla sera precedente, a un tratto rammentò in quale occasione aveva conosciuto Damon Slesar. Era stata la frase "Allora buona notte, signore" a riportare a galla l'episodio. Soprattutto quell'"allora" pronunciato quasi in tono di scusa. Era stato durante una conferenza cui aveva assistito più per curiosità che per altro. Il tema era la differenza tra i metodi della polizia inglese e quelli
del resto d'Europa. C'erano relatori francesi, tedeschi e svedesi. Niente di strano nel fatto che Slesar fosse presente, se non che gli altri gli erano quasi tutti superiori per grado. In un certo senso era ammirevole che un poliziotto giovane come lui s'interessasse all'argomento. Il sabato sera, mentre cenava in un pub con un commissaire conosciuto tempo addietro nel corso di un'indagine che l'aveva portato nel sud della Francia, Wexford aveva visto Slesar che, seduto a un tavolo vicino, beveva whisky in compagnia di due giornalisti. Lui e il commissario Laroche non si erano lasciati indurre in tentazione e per tutta la serata si erano accontentati dell'acqua minerale. Usciti dal pub, stavano per salire in macchina quando Wexford aveva visto Slesar aprire la portiera della propria auto. Sapendo che aveva bevuto, non gli era passata neppure per l'anticamera del cervello l'idea che potesse mettersi al volante e perciò gli era venuto spontaneo intervenire. «Forse sarebbe meglio evitare» aveva osservato. Slesar l'aveva guardato con gli occhi appannati dall'alcol e una strana smorfia sulla bocca. «Nessun problema» aveva replicato. Nel frattempo intorno a loro si erano raccolte altre cinque o sei persone. «Venga con me» aveva continuato Wexford, tenendo la voce bassa e parlando in tono gioviale. «L'accompagno io. Domattina può mandare qualcuno a riprendere l'auto.» Slesar si era guardato intorno e, vistosi osservato, si era fatto paonazzo. «Ha ragione, signore» aveva replicato. «È meglio che guidi Jim.» Mentre batteva un colpetto sulla spalla dell'amico aveva barcollato leggermente e si era appoggiato all'auto per riprendere l'equilibrio. «Allora buona notte, signore» aveva aggiunto congedandosi. Un tipo dotato di buonsenso, capace di accettare un lieve rimprovero senza perdere il buonumore. Wexford fu contento di essersi ricordato dell'incidente e di avere Slesar nella sua squadra. Dopo essersi alzato dal letto, scese al piano di sotto in vestaglia, una vestaglia rosso scuro di un tessuto lucido quasi come il velluto. Gliel'aveva regalata Sheila per il suo compleanno. In cucina trovò Paul intento a preparare il tè, con la bambina in braccio. Wexford si chiedeva se in quegli anni fosse un vantaggio per un attore essere così attraente. Forse Paul Curzon era nato con mezzo secolo di ritardo. Amulet aveva preso i capelli scuri da lui, o forse da Dora. Allungò le braccia verso la bambina, in modo che Paul avesse le mani libere per prendere il bollitore.
«Come vanno le cose?» Che cosa sapeva esattamente? Soltanto che Dora era scomparsa? «Tutto normale» rispose. Il primo telegiornale locale, quello della Newsroom South-East, andava in onda verso le sette. Forse prima di quell'ora trasmettevano un notiziario alla radio. Wexford non aveva nessuna voglia di ascoltarlo in presenza di qualcuno. Voleva essere solo. «Non le dispiace che abbia dormito qui, vero? Mi mancavano... O meglio, mi mancava Sheila e, quanto alla bambina, voglio imparare a conoscerla bene in modo da poter sentire presto anche la sua mancanza.» Wexford sorrise. «Mi fa piacere che tu sia rimasto.» A un tratto gli venne un'idea. «Sai, Paul, preferirei che la riportassi a casa, che le portassi a casa tutt'e due.» «Ma lei ha bisogno che resti qui. Sheila dice che non sa come se la caverebbe da solo.» Wexford scosse la testa. I malintesi lo deprimevano, soprattutto tra due persone che si conoscevano bene. Non gli restava che mostrarsi deciso. «Per essere sincero, il fatto che siano qui mi dà un ulteriore motivo di preoccupazione. Non guardarmi in quel modo. Sheila è molto importante per me. Le voglio un bene dell'anima. Ma finché resta qui con la bambina, non faccio che chiedermi cosa sta facendo e se va tutto bene, e in un momento come questo preferirei evitare. Posso cavarmela da solo, Paul, te l'assicuro. Comunque non ci vediamo quasi mai, dato che sto fuori tutto il giorno. Riportala a casa, per favore.» Paul gli passò una tazza di tè. «Zucchero?» «No, grazie. Senti, vai di sopra a portare il tè a Sheila, e intanto dille che tornate a casa.» «D'accordo. A me fa molto piacere, se lei è sicuro...» «Sono sicuro, non preoccuparti.» Aveva dimenticato quanto fosse piacevole tenere un neonato in braccio. A un tratto gli passò per la testa un'idea stupida, e cioè che se avesse potuto camminare intorno alla casa con quel fagottino tenero e caldo stretto tra le braccia, le cose sarebbero andate meglio, si sarebbe preoccupato di meno, sarebbe stato meno incline al pessimismo. Era normale per una bambina di quell'età avere le ciglia così folte e lunghe? La sua pelle sembrava di panna montata. La portò in soggiorno, si avvicinò alla finestra e rimase a guardare il sole che lentamente inondava di luce la stanza. Gli parve che stesse ad ascoltar-
lo mentre le diceva che stava aspettando il telegiornale e che quel mattino il tempo non passava mai. Paul scese di nuovo dabbasso e prese la bambina. «È ora di colazione» annunciò. Poi, rivolto a Wexford: «Si è svegliata una volta sola in tutta la notte.» «Cosa dice Sheila?» «Che torna a casa con me, ma non mi ha promesso di restare.» Radio Quattro fu una delusione. Wexford lasciò l'apparecchio acceso soltanto perché era preferibile sentire la musica, le voci e le previsioni meteorologiche piuttosto che il silenzio assoluto. Nella speranza che il tempo passasse più in fretta, decise di lavarsi, radersi e vestirsi ma, pur facendo le cose con calma, alle sette meno un quarto era già pronto. Oltre alla radio, accese anche il televisore. A quell'ora parlavano soltanto di affari, di investimenti in borsa e di sport. Sentì il fruscio dei giornali nella cassetta della posta e corse a prenderli. Non c'era niente in prima pagina, su nessuno dei due quotidiani, e neppure nelle pagine interne. A quel punto gli venne in mente che la grande maggioranza della popolazione britannica ignorava persino l'esistenza di quelle testate. Non erano certo a tiratura nazionale. Certo, se il caso si fosse risaputo, allora avrebbe destato grande interesse in tutta l'Inghilterra. Ecco, finalmente la Newsroom South-East stava per trasmettere il telegiornale. La solita ragazza bruna parlò prima di tutto della prevista visita della principessa Diana in un ospedale di Myringham, poi... "Ieri sera la Società Autostrade ha annunciato che stanno per essere sospesi i lavori di costruzione della tangenziale di Kingsmarkham. La decisione è dettata dalla necessità di salvaguardare le aree d'interesse naturalistico lungo il fiume Brede e nella zona di Stringfield Marsh, in ottemperanza alle direttive europee per la tutela degli habitat e delle specie faunistiche. La sospensione dei lavori, benché temporanea, potrebbe prolungarsi per alcune settimane. "Abbiamo qui con noi Mark Arcturus di English Nature. Ritiene che questa possa essere considerata una buona notizia dagli ambientalisti che si oppongono alla costruzione della tangenziale, oppure..." Wexford spense il televisore. Non era soltanto sollevato, era addirittura felice. Si coprì la bocca con la mano, come spesso fanno i bambini quando dicono qualcosa che non va e anche quando si limitano a pensarla. L'avevano avuta vinta i dimostranti e lui faceva i salti dalla gioia. Roba da non credere!
L'entusiasmo svanì di colpo quando gli venne in mente che Dora era ancora nelle mani di quella gente. Non soltanto lei, ma anche gli altri ostaggi. Purtroppo a distanza di ventiquattr'ore ne sapeva quanto prima sui componenti del Sacro Globo e sul loro quartier generale. La notizia si sparse in fretta. Quando Burden, accompagnato da Lynn Fancourt, iniziò a interrogare la gente all'accampamento di Pomfret Tye, gli amici degli alberi stavano già festeggiando. Qualcuno (in giro si faceva il nome di Sir Fleance McTear) aveva fornito loro delle bottiglie di spumante da poco prezzo. Dopo avere acceso il fuoco, si erano seduti tutti intorno a bere e a cantare in coro We Shall Overcome. «Accendere il fuoco nel bosco è proibito dalla legge» disse Burden a Lynn. «Questi cosiddetti amanti della natura, ecologisti o ambientalisti che dir si voglia, sono sempre i peggiori.» Aveva riconosciuto tra gli altri la coppia a cui durante l'estate si era incendiata la capanna. Stava per iniziare a interrogarli, ma gli amici degli alberi lo precedettero, esprimendo la loro soddisfazione per la sospensione dei lavori. A loro giudizio, in realtà avevano rinunciato a costruire la tangenziale e parlavano di "sospensione" soltanto per salvare la faccia. Né lui né Lynn riuscirono a scoprire qualcosa sul Sacro Globo e perciò decisero di andare a Framhurst Great Wood dove, con grande stupore di Burden, trovarono Andrew Struther e Bibi, la sua fidanzata, seduti su un ceppo e intenti a conversare con una mezza dozzina di persone. Il giovane, colto in fallo, scattò in piedi. «Immagino che cosa state pensando» disse. «Mi dispiace, ma le cose non stanno come credete. Posso assicurarvi che non ho aperto bocca.» «Può venire qui un momento, signor Struther?» Bibi decise di approfittare della sua momentanea assenza per conoscere meglio gli amici degli alberi. Si alzò a sua volta e seguì un giovanotto in pantaloncini corti che si avvicinava alla scala appoggiata al tronco di un castagno. Il giovane le fece segno di precederlo e la ragazza iniziò a salire. «Posso sapere come mai è qui, signor Struther?» attaccò Burden. «Ha forse degli amici tra queste persone? Da come parlava ieri, sembrava che non sapesse nulla riguardo alla costruzione della tangenziale.» «Quello era ieri» replicò il giovane, arrossendo. «Si possono imparare molte cose in un giorno, ispettore. Basta un po' di buona volontà. Mi è sembrato opportuno informarmi meglio, dopo quello che è successo ai miei genitori.»
«Spero che non ne abbia fatto parola con questa gente.» «Può stare tranquillo. Mi era stato raccomandato di tacere ed è esattamente ciò che ho fatto.» «Allora mi spieghi il motivo per cui è venuto. Non credo proprio che nutra un particolare interesse per l'ambiente.» «Ho pensato che, se avessi parlato con loro, forse sarei riuscito a scoprire chi può essere stato... Insomma, chi è quella specie di terrorista con cui abbiamo a che fare.» Esattamente ciò che lui e il resto della squadra volevano scoprire, pensò Burden. Suonava stonato in bocca a Struther. «Forse è meglio che lasci fare a noi» disse. «È il nostro lavoro. Vada a casa, mi dia retta. Qualcuno passerà da lei più tardi.» «Davvero? Di che si tratta?» «Preferirei parlarne più tardi, come ho già detto.» La ragazza era scomparsa dentro una capanna. Struther si guardò intorno e, non vedendola, si mise a gridare: «Bibi, Bibi, dove ti sei cacciata? Dobbiamo tornare a casa, tesoro.» Gli amici degli alberi rimasero a guardarlo, impassibili. Karen Malahyde era riuscita a rintracciare Frenchie Collins a casa di sua madre, a Guildford. Nicky Weaver, Damon Slesar e Edward Hennessy stavano indagando su una debole pista che era stata indicata loro dai dirigenti della Species, mentre Archbold e Pemberton erano impegnati, con l'ausilio di telefoni e computer, a controllare le attività degli ambientalisti sul territorio nazionale. Wexford aveva un appuntamento alle due e mezzo del pomeriggio. Aveva già parlato al telefono con il capo della polizia, il suo vice e Brian St George. Il direttore del Kingsmarkham Courier sembrava seccato e Wexford sapeva perché. Se l'avessero autorizzato a pubblicare la storia subito dopo l'arrivo della lettera del Sacro Globo, il mattino precedente, l'articolo sarebbe apparso quella settimana stessa sul suo giornale. Ora, essendo venerdì, era troppo tardi. A quel punto, se avesse potuto fare a modo suo, avrebbe preferito non avere più a che fare né con il Sacro Globo, né con gli ostaggi, né con la polizia almeno fino al mercoledì successivo. «Sono ancora convinto che stiate commettendo uno sbaglio» aveva dichiarato. «Quando capita una cosa del genere, i cittadini hanno il diritto di sapere.» «Per quale motivo?» aveva replicato Wexford, seccato. «Quale diritto? Chi lo dice?»
«È la prima regola del giornalismo» aveva risposto St George in tono saccente. «Il cittadino ha il diritto di essere informato. Mettere a tacere la stampa non è mai stato utile a nessuno. Non che siano fatti miei, non me ne importa un accidente, ma mi sembra giusto sottolineare che, a mio modo di vedere, state commettendo un grave errore.» «Cerchiamo di non far trapelare la notizia, Reg» aveva detto invece il capo della polizia. «Almeno finché sarà possibile. Francamente mi stupisce che finora ci siamo riusciti. Facciamo del nostro meglio per continuare così.» «Oggi è già venerdì, signore» gli aveva fatto notare Wexford. «Credo che la stampa non abbia interesse a pubblicare una notizia che si riferisce alla settimana ormai trascorsa.» «Davvero? Non ci avevo pensato.» «L'ideale per loro sarebbe avere via libera domenica sera, in modo da poter uscire con la notizia il lunedì mattina» aveva proseguito, trattenendo a stento un sospiro. «Se lei è d'accordo, signore, vorrei mettere al corrente i parenti degli ostaggi delle condizioni dettate dai rapitori e anche delle minacce. Ritengo che sia nostro dovere. Me ne occupo io.» Audrey Barker e la signora Peabody per prime. Al termine della riunione si sarebbe recato personalmente a Stowerton, poi da Clare Cox a Pomfret e infine sarebbe passato da Andrew Struther. Il capo della polizia sembrava favorevole. Si poteva tenere all'oscuro la stampa, ma non le famiglie. Non sarebbe stato giusto. La sua famiglia era colpita quanto i Masood, i Barker e gli Struther e perciò quel mattino, quando aveva salutato Sheila, le aveva promesso di telefonarle in ogni caso, vi fossero o no notizie. L'avrebbe chiamata un paio di volte al giorno. Prima di uscire aveva telefonato a Sylvia per comunicarle che la sorella era tornata a casa, che lui stava bene e che non c'erano novità. Erano confluiti tutti nell'ex palestra con dieci minuti di anticipo, tranne Karen Malahyde, ancora impegnata con Frenchie Collins, e Barry Vine, che cominciava a pensarla allo stesso modo di Burden su Stanley Trotter. Quando Wexford entrò, tutti tacquero di colpo. Non soltanto per una forma di rispetto e di cortesia, come del resto intuì subito. Evidentemente stavano parlando di lui e di Dora. Per la prima volta, da quando era stato incaricato di occuparsi del caso, gli rincresceva che le cose non fossero andate come aveva previsto, cioè che il capo della polizia non l'avesse affidato a qualcun altro.
Nicky Weaver, apparentemente meno stanca e nervosa della sera prima, ma molto più energica e vivace, aveva raccolto una serie di indizi, grazie alla Species e al Kabal, di cui desiderava discutere. Un membro della Species, ora riabilitato, molti anni addietro era finito in galera per aver tentato di sabotare una centrale nucleare. Questo personaggio le aveva fornito una lista di nomi di elementi che, a suo dire, erano anarchici. «Perché gliel'ha data?» domandò Wexford. «Non lo so. Forse perché adesso è un sostenitore della non violenza. Qualcuno l'ha portato a visitare la centrale nucleare di Sizewell, e ne è rimasto così favorevolmente impressionato da mutare registro.» «A quanto mi risulta, possiamo interrompere le indagini negli accampamenti» disse Wexford. «Con l'aiuto del computer si potranno verificare tutti i nomi che ci sono stati forniti e, se occorre, effettuare controlli incrociati. Grazie alla sospensione dei lavori abbiamo più tempo a disposizione e questo è importante. Abbiamo messo sotto controllo tutti i telefoni di Kingsmarkham, Pomfret e Stowerton che la British Telecom poteva garantirci. Devo riconoscere che hanno fatto le cose per bene e da quel lato possiamo stare tranquilli. Giurerei che i nostri amici del Sacro Globo sono persone vanitose e arroganti, come tutti quelli della loro risma, e sicuramente vorranno congratularsi con noi per avere avuto il buonsenso di aderire alle loro richieste. Ci telefoneranno o comunque si metteranno in contatto in un modo o nell'altro. Non gli sarà sfuggito di certo il fatto che i lavori sono stati sospesi solo temporaneamente e non in modo definitivo.» «Potrei sbagliare, ma credo che vorranno avere la garanzia che non saranno ripresi, cosa che ovviamente non siamo in grado di dare. Né ora né mai.» Nicky Weaver alzò la mano. «Nicky?» «Stavo proprio pensando all'impossibilità da parte di qualsiasi autorità di fornire questa garanzia. Supponiamo che si dichiari il blocco definitivo dei lavori, che gli ostaggi vengano rilasciati, ma ci si rimangi la parola. Anche ammessa la buona fede degli organismi competenti, qualsiasi cambiamento nel governo, o anche semplicemente al ministero dei Trasporti, potrebbe capovolgere la situazione. Come faranno quelli del Sacro Globo a tutelarsi da questa eventualità?» «Probabilmente si accontentano di spuntarla adesso» rispose Wexford. «Una garanzia e una sospensione diciamo di cinque anni sarebbero già un buon successo, e se in seguito dovesse riproporsi il discorso della tangen-
ziale, potrebbero ricominciare tutto daccapo. Non c'è niente di sicuro a questo mondo, non le pare?» Percepì in lei un tremito, ma forse era solo la sua immaginazione. 10 Da Stowerton Dale a Pomfret Monachorum nessuno parlava della tangenziale. Faceva freddo per l'inizio di settembre, con un vento siberiano e frequenti temporali. Gli uccelli che all'alba facevano sentire i loro cinguettii, i loro trilli, i loro fischi, i loro garriti ora tacevano fino al momento di ricoverarsi nel nido. Negli accampamenti era svanita l'euforia: la stagione non invitava alla spensieratezza. Gli amici degli alberi meditavano, discutevano, facevano progetti e soprattutto s'interrogavano sul prossimo futuro. Le scavatrici e gli altri macchinari erano stati rimessi nel prato dov'erano stati piazzati inizialmente. Quel giorno i pullman che portavano le guardie nel cantiere non erano passati e gli uomini assiepati nelle baracche si chiedevano se li avrebbero rimandati a casa. I ragazzi di Stowerton, non più tenuti a bada dalle guardie, si arrampicavano sui mucchi di terra e giocavano alla guerra. Il Kabal indisse subito un'assemblea, nel corso della quale fu raggiunto un accordo. Lady McTear e la signora Khoori avrebbero presentato una petizione al ministero dei Trasporti (firmata da tutti i membri e da chiunque fosse interessato) affinché, vista l'esigenza di conformarsi alle direttive dell'Unione europea sull'ambiente e tenuto conto del notevole interesse naturalistico della zona, il progetto della tangenziale venisse abbandonato per sempre. Quando la signora Peabody era giovane, si usava riordinare la stanza e cambiare la biancheria al bambino prima di chiamare il medico. Se si aspettava la visita di qualche persona importante, si puliva tutta la casa. Per andare a fare la spesa in paese ci si vestiva di tutto punto. Queste abitudini sono dure a morire e il fatto che le avessero rapito il nipote non impediva alla signora Peabody di esserne condizionata. Era il tipo di donna capace di mettere le lenzuola pulite sul suo stesso letto di morte. A Wexford fece una gran tenerezza, con la sua gonna a pieghe, i maglioni gemelli rosa, il giro di perle intorno al collo e le scarpe lucide. Si era messa persino il rossetto. Aveva sprimacciato per bene i cuscini del soggiorno e disposto le riviste a scaletta. Aveva trovato la forza di fare tutte queste cose, ma non era riuscita a sorridergli mentre lo accoglieva in casa.
La figlia Audrey, che apparteneva a una generazione in cui si guardavano le cose in un'ottica diversa, dava l'impressione di non essersi più lavata né pettinata da quando aveva ricevuto la drammatica notizia. Probabilmente non aveva fatto che passeggiare avanti e indietro per la stanza. Lui ne sapeva qualcosa. Non riusciva a stare ferma, benché avesse l'aspetto sofferente di chi ha bisogno di riposo dopo una lunga malattia. «Devo restare qui, non posso fare altrimenti» disse. «Dovrei tornare a casa, ho lasciato tutto sossopra, ma lì mi sentirei ancora peggio.» Si alzò di scatto e andò alla finestra, tormentandosi le mani. «Al telefono ha detto di avere notizie da darci.» «Non è successo niente di male, spero?» intervenne la signora Peabody senza perdere l'autocontrollo. Wexford si chiese come trascorresse la notte, dopo aver chiuso la porta della sua stanza. «Ci aveva anticipato che non erano cattive notizie.» Le informò degli ultimi sviluppi della situazione. Audrey Barker fece un cenno con la testa senza aprire bocca, come se avesse già previsto una simile possibilità e quindi non si stupisse. La signora Peabody invece rimase annichilita, neanche le avessero detto che gli ostaggi sarebbero stati liberati solo a patto che tutti gli abitanti di Kingsmarkham imparassero lo swaili o a pilotare gli elicotteri. «Cosa c'entra il nostro Ryan con la tangenziale? È una cosa che riguarda il governo.» «Sono d'accordo con lei, signora Peabody» convenne Wexford. «Ma queste sono le condizioni.» «Hanno interrotto i lavori» disse Audrey Barker, avvicinandosi e ricominciando a tormentarsi le mani. «L'ho sentito alla televisione. È questo il motivo?» «Sì, i lavori sono stati sospesi.» La signora Peabody era sgomenta. Stava rimuginando i fatti nel tentativo di dar loro una forma che le fosse comprensibile. «E tutto questo per il nostro Ryan?» mormorò. «Be', e anche per gli altri. Per Ryan e per gli altri.» Scosse la testa per riaversi dallo stupore. Una cosa del genere significava la notorietà, significava uscire dall'anonimato, vedere il proprio nome sui giornali e sentirlo alla televisione. «Il nostro Ryan... Chi l'avrebbe mai detto!» esclamò. La figlia la guardò storto. «Visto che i lavori sono stati sospesi, perché non lo rimandano a casa?» domandò a Wexford. Già, perché? Erano le quattro del pomeriggio, dunque erano passate già
nove ore da quando era stato dato l'annuncio alla televisione. Il Sacro Globo non si era ancora fatto sentire. Il messaggio ricevuto per caso da Burden era stato l'ultimo e da quel momento erano trascorse venti ore. «Non ne ho idea» disse. «Non posso rispondere alla sua domanda perché non lo so.» «State facendo qualcosa per trovarli?» domandò, evidentemente dimenticando che tra gli ostaggi c'era anche sua moglie. «Perché, invece di starsene qui, non va fuori a cercarli? Deve pur esserci il modo.» Si tormentava le mani più che mai. Sembrava quasi che volesse staccarsele dai polsi. «Andrei io stessa a cercarli, se solo sapessi da che parte cominciare. Voi lo sapete, è il vostro lavoro. Che cosa aspettate? Potrebbero uccidere Ryan, potrebbero torturarlo... Oh, mio Dio... Cristo, perché non vi date da fare?» Sbarrando gli occhi, la signora Peabody posò una mano grinzosa sul braccio della figlia. «Non devi dire queste cose, Audrey. Essere villani non serve a niente.» «Stia tranquilla, signora Barker, non lo tortureranno» la rassicurò Wexford. Almeno di questo poteva essere sicuro, soprattutto se non si soffermava troppo a pensarci. «Non credo che uccideranno qualcuno degli ostaggi. Se lo facessero, perderebbero la possibilità di patteggiare.» Ogni parola che pronunciava era come una pugnalata. «Lo capisce, vero?» La donna voltò la testa dall'altra parte, poi tornò a guardarlo. «Ma allora perché non si sono ancora fatti sentire, dopo che sono stati interrotti i lavori?» La domanda era sempre la stessa. Gliel'aveva rivolta anche Clare Cox mezz'ora prima, quando era passato da lei a Pomfret. Incredibile a dirsi, l'aveva trovata sola in casa. I Masood sarebbero stati via tutto il giorno, avendo deciso di fare il giro dei castelli di Leeds. Si era messa a dipingere, forse nella speranza di distrarsi. O almeno così pareva, a giudicare dalle macchie sul grembiule che copriva l'abito lungo. «Perché non sono stati di parola?» gli aveva domandato. Non in quel momento, ma ora, Wexford ripassò mentalmente il messaggio ricevuto da Burden: "Interrompete i lavori in modo da darci la possibilità di trattare. Una cosa però è fondamentale: che ne parlino i mass media domattina entro le nove. In caso contrario il primo ostaggio morirà e il suo corpo vi verrà consegnato prima di notte". La possibilità di trattare... Però di trattative non ce n'erano state, né erano giunte richieste in tal senso. Il messaggio non diceva nulla riguardo alla restituzione degli ostaggi, ma soltanto che sarebbero stati uccisi se non fos-
sero stati sospesi i lavori. Non precisava cosa si dovesse fare per ottenerne la liberazione. «Le faremo sapere qualcosa appena ci saranno novità» disse a Audrey Barker. Non aveva ancora terminato la frase, quando squillò il telefono. La donna alzò il ricevitore e parve riacquistare un po' di serenità nel momento in cui udì la voce dall'altra parte. Parlava a monosillabi, ma il tono era gentile, quasi affettuoso. Wexford se ne andò. Più tardi, seduto al volante della sua auto, mentre imboccava la strada per Framhurst, gli venne spontaneo pensare che sapeva ben poco di lei e di suo figlio, molto meno che di tutti gli altri ostaggi. C'era qualcosa in quella donna e anche nella signora Peabody che scoraggiava le domande personali, tanto più nello stato d'animo in cui si trovavano. Per esempio, chi era e dove si trovava il padre di Ryan? Era rimasto soltanto lui nella loro abitazione di Croydon? Probabilmente la signora Peabody era vedova, ma Wexford non lo sapeva per certo. Audrey Barker era stata ricoverata in ospedale, ma ignorava che genere di problema avesse avuto, se si fosse trattato di una cosa grave e se ora fosse completamente guarita. Chi era la persona con cui stava parlando al telefono? Forse erano tutti particolari privi d'importanza, questioni personali in cui non aveva il diritto di ficcare il naso. Non era stato lui stesso a dire agli uomini della sua squadra che il passato degli ostaggi era ininfluente ai fini delle indagini? Pioveva più forte quando raggiunse quella parte della campagna ora inevitabilmente collegata con la questione della tangenziale. Se ci si guardava attorno, non sembrava che ci fossero problemi legati all'inquinamento e alla distruzione dell'ambiente. La strada si snodava tra una fitta vegetazione, il vento scuoteva i rami delle betulle, i boschi dormivano un sonno tranquillo sotto la pioggia e alcune foglie ancora verdi cadevano svolazzando dalle piante. A Framhurst vide una dozzina di amici degli alberi seduti sotto il tendone del bar. Guardandoli gli vennero in mente gli uomini di Robin Hood, benché non indossassero i calzoni color arancio lunghi fino al ginocchio e le casacche verdi come nei cartoni animati, bensì una versione medievale dei moderni jeans e corte mantelle marrone. Sporchi, con le barbe lunghe, erano comunque una piccola rappresentanza di coloro cui premeva di preservare l'Inghilterra da danni irreversibili all'ecosistema. Ma perché avevano sempre quell'aspetto stravagante e trasandato? Possibile che non fossero
mai vestiti come persone normali, per esempio in abito grigio? Rallentò davanti al bar, poi riprese velocità e proseguì verso Markinch Lane. Savesbury House era una dimora davvero imponente. Burden ne aveva criticato l'architettura ibrida, ma agli occhi di Wexford la fusione dei due stili era piacevole, oltre che tipicamente inglese. Il viale d'accesso era fiancheggiato da alberi altissimi; quando si diradavano, si vedevano i prati e le aiuole piene di fiori di specie rare. In fondo al parco, se ci si apriva un varco tra i rami delle siepi, sicuramente si godeva di uno stupendo panorama su Savesbury, Stringfield e il fiume che attraversava la valle. Mentre scendeva dall'auto Wexford vide spuntare un cane dall'angolo della casa. L'animale, un pastore tedesco nero, si avvicinò senza abbaiare, con aria minacciosa, arricciando le labbra e mostrando i denti. Il padre di Wexford era il genere di persona di cui si usa dire "va d'accordo con gli animali". Lui non aveva lo stesso dono, ma qualcosa ne aveva ereditato, forse standogli vicino, o per una questione di geni, oppure più semplicemente perché non aveva paura. Così allungò la mano verso il pastore tedesco e gli disse ciao. Non amava i cani, non gli erano mai piaciuti i vari bastardini che Sheila aveva portato a casa, pretendendo dai genitori che se ne occupassero durante la sua assenza. Stranamente però lui piaceva ai cani. Gli si strusciavano contro, proprio come stava facendo il pastore tedesco in quel momento. Mentre Wexford si chinava, l'annusò e gli ficcò il naso nella tasca della giacca. Gli aprì la porta Bibi, la fidanzata di Struther. Dall'angolo della bocca le pendeva una sigaretta. Wexford aveva già avuto occasione di vederla una volta, da lontano, quando era andata da Burden alla stazione di polizia insieme con Andrew. Il viso, che Burden e Karen Malahyde definivano bello, gli faceva venire in mente personaggi come la matrigna di Biancaneve o Crudelia De Mon. I capelli, di un rosso allucinante, più sul cremisi che sul mogano, non sembravano tinti. La ragazza afferrò il cane per il collare. «Vieni, Manfred» disse. «Vieni dalla mamma, tesoro.» Sembrava quasi che Wexford gli avesse fatto del male. Burden aveva detto che la casa era ben arredata e molto pulita. Dopo due giorni di permanenza di Andrew Struther e Bibi, la situazione era decisamente cambiata. Sul pavimento, quasi al centro dell'atrio, c'era un piatto pieno di carne per cani e a poca distanza una ciotola d'acqua. Evidentemente a Manfred piaceva sgranocchiare ossi, tra un pasto e l'altro, e Wexford per poco non inciampò in un mezzo femore dimenticato sulla soglia
del salotto. Dentro c'erano tazze e bicchieri sparsi ovunque, e sul bracciolo di una poltrona un piatto con gli avanzi di un sandwich. I posacenere erano colmi di mozziconi, l'aria era irrespirabile e si sentiva una strana puzza, un misto di fumo di sigarette e di midollo di ossa. Entrando in salotto, anche Andrew Struther rischiò d'inciampare nel femore. Invece di salutare Wexford, per prima cosa si rivolse alla ragazza. «Non potresti mettere quel dannato Manfred nel recinto?» l'apostrofò in malo modo. «Mi avevi detto che l'avresti fatto. Me l'avevi promesso, quando mi sono lasciato convincere a tenerlo qui per un paio di giorni. Te ne ricordi?» Mentre il giovane si girava verso di lui, Wexford notò che era teso e preoccupato; ma era comunque un bel ragazzo, con un viso che sembrava scolpito nel marmo. L'abbronzatura faceva sembrare ancora più chiari i suoi capelli biondi. Sia lui che la ragazza erano vestiti di verde e marrone, come gli amici degli alberi, con la differenza che i loro erano capi firmati. I genitori di Andrew erano sicuramente i più ricchi tra gli ostaggi. In confronto a loro Dora era povera e gli altri indigenti. «Ispettore capo Wexford, se ben ricordo?» «Esatto. Immagino che lei conosca già le condizioni poste da quella gente.» Pensò al messaggio nella prospettiva che aveva colto dalla signora Peabody. «Il sedicente Sacro Globo in cambio della sospensione dei lavori non si è impegnato a liberare gli ostaggi, ma semplicemente a trattare. Finora però non si sono ancora fatti avanti con le loro richieste.» «Perché ne parla così? Perché sedicente?» domandò la ragazza in tono petulante. «Chi agisce come loro» rispose Wexford, asciutto «non merita rispetto, non le pare?» Bibi non replicò, ma Andrew non gliela fece passare liscia. «Mi auguro che tu non prenda le difese di quei pezzi di merda che hanno rapito mia madre e mio padre.» Arrossì di collera nonostante l'abbronzatura. A Wexford era capitato di rado di vedere una persona tranquilla perdere le staffe così di colpo. Struther avanzò verso la ragazza e per un attimo Wexford credette di dover intervenire, ma Bibi non si lasciò intimidire e non indietreggiò. Si mise le mani sui fianchi e guardò il fidanzato con aria di sfida. «Oh, a che serve!» esclamò Andrew, arrendendosi. «Ma domattina per prima cosa voglio che quel cane sia fuori di qui. Hai capito bene? E la casa dev'essere ripulita. Tra poco tornerà mia madre, te ne rendi conto? Vero
che tornerà presto, ispettore capo?» «Lo spero di cuore» rispose Wexford. «Che lavoro fa suo padre, signor Struther?» domandò, contravvenendo ancora una volta al principio secondo il quale non avrebbero dovuto immischiarsi nelle faccende private dei parenti degli ostaggi. «Gioca in borsa» rispose Andrew, laconico. «Come il sottoscritto.» Manfred, nell'atrio, stava rosicchiando la gamba di una sedia. Non era dato di sapere se l'avesse scambiata per un osso o se gli piacesse lo stile Chippendale, e comunque Wexford non aveva tempo di appurarlo. Ripercorse il viale guidando molto lentamente. Aveva smesso di piovere e un pallido sole sfocato spuntò in un triangolo azzurro tra i rami degli alberi. Il termometro sul cruscotto indicava la temperatura in gradi centigradi e Farenheit: rispettivamente 13 e 56. Piuttosto bassa, per la stagione. Cinque minuti dopo era a Framhurst, nel centro del paese. Gli amici degli alberi se n'erano andati quasi tutti, tranne due. Il proprietario del bar aveva arrotolato il tendone, forse quando aveva cessato di piovere e, dimostrando una notevole dose di ottimismo, aveva aggiunto dei tavoli e delle sedie. A uno di questi tavoli erano seduti, con una sola tazza di tè in mezzo, l'uomo con la barba più lunga che Wexford avesse mai visto e una giovane donna con indosso un abito del genere prediletto da Clare Cox, lungo, di cotone e con una fusciacca a pois legata intorno alla vita. Aveva avuto modo di osservarli bene perché il bar era all'angolo della via, all'incrocio dove la strada per Sewingbury intersecava quella che portava a Myfleet. Lì c'era l'unico semaforo del paese, che divenne rosso proprio mentre stava arrivando. Aveva già riconosciuto l'uomo (grazie alla descrizione di Burden) e sapeva che si chiamava Gary e quindi la sua compagna doveva essere Quilla. A un tratto la donna schizzò in piedi, si precipitò in mezzo alla strada e si piazzò davanti alla sua auto. Wexford abbassò il finestrino. «Cosa desidera?» Quilla, presa in contropiede nel vedere che non si era arrabbiato, esitò. Wexford aspettava. Non c'erano macchine dietro alla sua e neppure davanti. La donna si avvicinò al finestrino. «Lei è un poliziotto, vero?» Annuì. «Non uno di quelli che è venuto a parlare con noi all'accampamento?» «Sono l'ispettore capo Wexford» si presentò. La donna parve intimidita, forse per il suo grado.
«Posso parlarle un momento?» Wexford annuì di nuovo. «Mi lasci parcheggiare da qualche parte.» Trovò uno spazio libero dietro l'angolo, sulla strada per Myfleet. Sceso dall'auto, la raggiunse al bar e la trovò seduta al tavolo del tizio barbuto. «Lei si chiama Quilla» disse «e lei Gary. Posso offrirvi una tazza di tè?» Rimasero di stucco scoprendo che conosceva i loro nomi. Il motivo era semplice, spiegò Wexford, rivelandone la ragione. Gary sorrise, ma sembrava diffidente. Siccome non arrivava nessuno, Wexford entrò nel bar e finalmente una ragazza sui quindici anni uscì a prendere le ordinazioni. «Avevo proprio voglia di mandare giù una bevanda calda» disse Quilla. «Anche se nel nostro lavoro siamo abituati a stare all'aperto, a volte anche noi soffriamo il freddo.» «Desidera qualcosa da mangiare?» «No, grazie. Prima, quando c'erano anche gli altri, ci siamo fatti portare delle patatine fritte. È stato allora che l'abbiamo vista passare in macchina e il Re ci ha detto che è della polizia.» «Il Re?» «Conrad Tarling. Lui conosce tutti. Be', almeno di vista. Gli altri sono tornati all'accampamento, ma io ho voluto fermarmi per vedere se lei ripassava di qua e Gary è rimasto a farmi compagnia.» «Voleva dirmi qualcosa?» Arrivò il tè: tre tazze con i relativi piattini, la teiera, le bustine di dolcificante e quel liquido nei contenitori di plastica che sembra latte ma non è prodotto dalle mucche. Wexford disse che era un vero peccato servire quella robaccia in campagna. «Prendere o lasciare» replicò la ragazza. «Non hanno altro.» «Ci battiamo anche per questo genere di cose» intervenne Gary. «Siamo contrari a tutto ciò che è artificiale, sintetico, inquinante, adulterato. Abbiamo dedicato tutta la nostra vita a questa lotta.» Invece di dire che era estremamente difficile nella vita moderna distinguere il naturale dall'innaturale, ammesso che ancora esistesse, Wexford chiese da quanto tempo fossero diventati contestatori professionisti. «Da quando avevo sedici anni e Quilla quindici» rispose Gary. «Cioè da dodici anni. Sono un muratore, ma non sono mai riuscito ad avere un lavoro. Remunerato, intendo. L'attività che svolgiamo è abbastanza faticosa.» «Con quali mezzi vi mantenete?» «Non certo con il sussidio per i disoccupati. Non sarebbe giusto farsi mantenere dal governo e dai contribuenti, quando siamo contrari a tutte le
loro idee e le loro iniziative.» «Credo che abbia ragione» approvò Wexford «anche se è un punto di vista che non mi era mai capitato di sentire.» «Ci basta poco per vivere. Abbiamo bisogno di rado di mezzi di trasporto e ci costruiamo la casa con le nostre mani. Quando capita, facciamo qualche lavoretto nelle fattorie. Io come muratore, oppure taglio l'erba. Quilla fa bambole di paglia per venderle e anche articoli di bigiotteria.» «Una vita dura.» «L'unica possibile per noi» mormorò Quilla. «Ho saputo... Be', veramente non so proprio come dirlo.» «Che cos'ha saputo? Che stiamo cercando delle persone?» «Me l'ha detto Freya, la donna che ieri è stata quasi buttata giù dall'albero dagli uomini dello sceriffo. Dice che state cercando un terrorista.» Wexford finì di bere il suo tè. Il retrogusto del latte di soia ne guastava il sapore. «Più o meno è così che stanno le cose» confermò. «Che ha fatto di male?» «Questo non glielo posso dire.» «Va bene, ma se sta cercando una persona a cui non importa un accidente della vita umana, ma farebbe qualsiasi cosa, anche l'azione più abominevole, pur di salvare un topo o uno scarafaggio, allora posso dirle io chi è. Si chiama Brendan Royall. Questo è il suo nome.» 11 Era l'unico nome che fosse venuto fuori due volte, da fonti diverse. Brendan Royall, l'ex alunno di Jenny Burden, era il fanatico animalista al quale "non stavano a cuore i diritti dei suoi simili". Per ben undici volte aveva rubato animali per poi rimetterli in libertà. Per Quilla (il cui cognome era Rice, come Wexford scoprì in seguito) Brendan Royall era il nemico, l'attivista che non solo metteva in cattiva luce gli altri contestatori, ma faceva esattamente l'opposto di quello per cui lei si batteva. Era stata la sua indignazione proprio per il caso ricordato da Jenny a far scattare la molla che aveva indotto la giovane ad avvicinare Wexford. «Sono morte tutte, quelle povere bestiole che aveva "liberato". Gli uccelli non sapevano volare e per giunta lui ignorava di cosa si cibassero. Anche gli altri animali hanno fatto una brutta fine: li aveva caricati nella sua auto e stava viaggiando sull'autostrada, quando all'improvviso si è a-
perta la portiera e sono caduti fuori. È stata una vera carneficina, una cosa vergognosa. Non credo che ne abbia sofferto molto. Per lui era semplicemente una questione di principio.» «Mi stupisce che non sia qui» intervenne Gary. «Fin dal primo giorno del nostro arrivo mi aspettavo che ci raggiungesse da un momento all'altro. Accamparsi è la sua specialità.» Quilla confermò con un cenno del capo. «A lui non importa molto della distruzione della campagna. Gli interessano di più gli insetti, come la carta geografica e la farfalla gialla. Sarebbe capace di uccidere un centinaio di persone pur di salvare un moscerino. Una volta gli ho sentito dire che gli uomini non sono necessari, che sono dei parassiti.» Wexford si offrì di dare loro un passaggio fino all'accampamento. Prima rifiutarono, dicendo che potevano andare tranquillamente a piedi; ma poi riprese a piovere e Wexford osservò che era un peccato non approfittare della sua auto, dato che comunque sarebbe passato da quelle parti. Quilla disse di ignorare dove si fosse cacciato Brendan Royall. Strano che non avesse organizzato una manifestazione sulle sponde del Brede. Tempo addietro Gary aveva saputo che si trovava a Nottingham, ma poi Quilla l'aveva visto in occasione della costruzione di un tunnel per il transito degli spartineve sulla A134, nel Suffolk. Non era facile rintracciarlo perché anche lui, come loro, non aveva fissa dimora. «I suoi genitori abitano in zona» l'informò Quilla. «Credo che andasse a scuola da queste parti.» «È vero» confermò Gary. «Non so se vivesse qui, ma una volta mi ha detto che suo nonno aveva una grande casa dalle parti di Forby e che sarebbe toccata a lui in eredità, se il padre non avesse fatto il furbo.» «È il suo modo di parlare.» «Avrebbe voluto trasformarla in un rifugio per animali importati illegalmente. Intorno alla casa c'era un grande terreno. Suo padre invece ha preferito venderla. Gli ha dato un po' di soldi, ma Brendan sosteneva che non erano abbastanza. Pretendeva la casa o tutto il ricavato della vendita per portare avanti la sua causa.» Erano quasi le sei quando Wexford tornò alla stazione di polizia. Il Sacro Globo non si era ancora fatto sentire. Se si fossero fatti vivi qualcuno l'avrebbe chiamato al telefonino, ma lui aveva comunque sperato che ci fossero novità. «Questo Brendan Royall è l'indiziato numero uno» disse a Burden. «Proprio il tipo che cerchiamo, con l'ossessione della Natura con la N ma-
iuscola e un totale disinteresse per gli esseri umani.» A questo punto gli venne spontanea una smorfia di dolore e l'amico finse di non notarlo. «Gary Wilson trova strano che non sia qui, per protestare insieme agli altri, ma io credo di conoscerne la ragione. O almeno spero.» «Intendi dire che potrebbe far parte del Sacro Globo? Che non sta in nessuno degli accampamenti perché si trova altrove con gli ostaggi?» «Perché no? Voglio che tutti quanti interrompano quello che stanno facendo e si mettano sulle tracce di Brendan Royall. Qualcuno, magari tu, potrebbe parlare con Jenny e vedere se riesce a ricordare dove vivevano, o vivono, i suoi genitori. In fondo sono passati solo sei anni da quando ha terminato gli studi. Ora ne ha ventitré. Bisognerebbe anche scoprire dov'era esattamente la casa dei nonni. Qualcuno a Forby dovrebbe ricordarsi di loro. Non sarà difficile. Riunisci gli uomini della squadra, Mike, e spiegagli cosa devono fare.» La terza riunione della giornata venne fissata per le sei e mezzo. Tutti erano rientrati alla stazione di polizia dopo una giornata piuttosto deludente. Karen Malahyde era stata a Guildford, dove si era trovata di fronte una donna vecchia e stanca, che l'aveva indirizzata altrove, dopo aver puntualizzato che non voleva avere più nulla a che fare con la figlia. Finalmente era riuscita a rintracciare Frenchie Collins a Brixton, ma l'aveva trovata a letto ammalata, in una stanza sporca da far paura. Era stata in Africa, dove si era beccata un'infezione da cui era ancora ben lungi dal guarire. Karen se ne rendeva conto, né mise in dubbio che fosse dimagrita di venticinque chili, come sosteneva. Barry Vine aveva avuto un abboccamento con alcuni esponenti del Kabal, mentre il sergente Cook e l'agente che faceva coppia con lui erano stati ricevuti dal collettivo dell'Heartwood, alla cui guida c'era una giovane sfrontata che aveva chiesto chiaro e tondo a Burton Lowry se avesse impegni per la sera. Il giovane agente le aveva risposto di essere impegnato a dare la caccia ai rapitori e lei si era rassegnata dicendo che certo ci sarebbe stata un'altra occasione e aveva sottolineato la frase con un'occhiata significativa. Questi particolari non giunsero alle orecchie di Wexford quando riunì la squadra per parlare di Brendan Royall, dei suoi genitori, della casa del nonno e degli undici furti che aveva commesso. «Potete mettervi d'accordo tra voi su come agire. Parlerò di nuovo con la signora Burden, ma nel frattempo regolatevi come ritenete opportuno. Inutile dire che non abbiamo ricevuto altre comunicazioni da parte del Sacro Globo.»
«Un'ultima cosa: iniziate stasera stessa, ma non fermatevi a lavorare fino a tardi. Basterà preparare il terreno per domani. Siamo tutti tremendamente sotto pressione e abbiamo bisogno di dormire. Domattina ci ritroveremo qui, freschi e riposati. Perciò stasera cerchiamo di andare a letto presto. È tutto.» Per un attimo incrociò gli occhi verdi di Nicky Weaver e gli parve, forse sbagliando, di leggervi comprensione e solidarietà. Si sentiva attratto da lei, benché non fosse il tipo di donna giovane, dolce e innocente che gli era sempre piaciuto. Provò un senso di colpa. Com'era possibile che gli frullassero per la mente idee simili in un momento del genere, quando tutto ciò che desiderava al mondo era riavere Dora con sé? Eppure non poteva fare a meno di immaginare quanto sarebbe stato piacevole se Nicky avesse potuto accompagnarlo a casa, fermarsi a bere qualcosa con lui, ascoltarlo, prenderlo per mano... E poi? Aveva sentito dire che era innamoratissima del marito, un uomo che, quando i bambini erano piccoli, l'aveva tormentata perché rinunciasse al suo lavoro e da allora l'aveva punita smettendo lui stesso di lavorare. La sera era costretta a ricorrere a una baby-sitter perché il marito, che non aveva nulla in contrario a trascorrere le serate in casa, si rifiutava di badare ai figli quando lei era in servizio. Eppure, nonostante tutto, Nicky non sopportava che qualcuno lo criticasse. «Ehi, sveglia!» l'apostrofò Burden. «Avevamo fatto un programma, ricordi? Stasera vieni a cena da me, così puoi approfittarne per parlare con Jenny e vedere se ha qualcosa di nuovo da dirci.» «Sì, me lo ricordo.» «Che Brendan Royall c'entri o no, sono sempre più convinto che Trotter sia implicato anche in questa storia. Gli ho parlato ancora stamattina. Vine è andato da lui, in quella specie di porcile dove vive. So che è stato lui ad assassinare quella ragazza, Ulrike Ranke, e probabilmente si è offerto di fare il lavoro sporco in quest'altra vicenda. Sai come vanno queste cose: dopo il primo omicidio è più facile commettere il secondo, soprattutto con la prospettiva di intascare un bel gruzzolo.» «Non è stato Trotter a uccidere la ragazza, Mike.» «Vorrei esserne sicuro quanto te.» «Non è vero. Ciò che vorresti in realtà è che io prendessi sul serio i tuoi farneticamenti su Trotter e la ragazza uccisa, ma sai bene di non poterci contare. Quanto alla tua teoria riguardo al suo presunto coinvolgimento in questa faccenda, è ancora più campata in aria della prima, dato che per for-
tuna non è ancora morto nessuno.» Guardò Burden e vide che l'osservava quasi con tenerezza. «E non guardarmi in quel modo! Ripeto: non è ancora stato ucciso nessuno ma, anche se dovesse accadere, non sarà lui il responsabile. Trotter è soltanto, come gli altri suoi colleghi della Contemporary Cars, un cretino che non ha idea di come si debba mandare avanti un'azienda. Quindi dimenticati di lui, per favore. Smettila di perdere tempo con questa tua fissazione. Abbiamo ben altro da fare.» Jenny gli buttò le braccia al collo e lo baciò. Perché le donne fossero gentili con lui c'era voluto che gli rapissero la moglie, pensò con un'ombra di amarezza. Seduto nel soggiorno dei Burden, rimase ad ascoltare Mark che gli leggeva qualcosa. Non gli era mai capitato con un ragazzino di cinque anni. Se non altro era un'esperienza nuova. La storia, intitolata Il vento fra i salici, non era completamente di suo gusto, ma nella vita ci si deve accontentare. «Spero che non si offenda» disse il bambino quando ebbe terminato la lettura «ma il signor Tasso le assomiglia molto.» Wexford non si offese. Mike gli portò un whisky liscio, che accettò a patto di essere riaccompagnato a casa. Mangiarono paté di salmone, pollo in umido e crostata di mele e more. Era certo una cenetta speciale in omaggio all'ospite, non poteva credere che Mike mangiasse ogni sera in quel modo. Jenny gli riferì tutto ciò che riusciva a ricordare sul conto di Brendan Royall, compresi i suoi principi e le sue teorie. La cosa più importante fu che le era tornata in mente la questione della casa dei nonni, la convinzione del giovane di essere stato imbrogliato dal padre e l'intenzione da lui espressa di trovare il modo di vendicarsi. Naturalmente lei, nella sua veste d'insegnante, aveva cercato di versare acqua sul fuoco. «I Royall abitavano dalle parti di Stowerton, a nord del paese. Me lo ricordo bene. Era una sorta di piccola fattoria dove tenevano diverse specie di animali selvatici.» «Da lì immagino che si dovrebbe vedere bene la zona dove sarebbe passata la tangenziale.» «Credo che si siano trasferiti dopo che è stata venduta la casa dei nonni. Brendan ripeteva spesso che intendeva pareggiare i conti con suo padre e che quando fosse entrato in possesso della metà dei quattrini avrebbe lasciato la scuola.» «Dimostrava un particolare interesse per gli animali anche nell'ambito scolastico?»
«No, che io sappia, Reg. D'altro canto a biologia non si praticava la vivisezione.» «Certo, hai ragione. Ti ho fatto questa domanda perché mi hai detto che i genitori avevano una specie di riserva di animali selvatici.» «Per essere sincera non ricordo con esattezza. Forse era più che altro una sorta di piccolo zoo, con i conigli, un pony e un paio di caprette.» Wexford sorrise. «Alla fine è riuscito ad avere la sua parte dei soldi?» «Non lo so. Comunque a diciassette anni ha lasciato la scuola.» Wexford chiamò al telefono Nicky Weaver per riferirle questi particolari, ma scoprì che sapeva già quasi tutto. Il nonno di Brendan aveva vissuto piuttosto alla grande nei pressi di Forby, in una casa che si chiamava Marrowgrave Hall. Il piccolo zoo che aveva messo in piedi faceva parte di un progetto più ampio per la realizzazione di un parco naturale. «Non resti alzata fino a tardi, Nicky» l'ammonì Wexford. «Si ricordi quello che ho detto a proposito di dormire.» «Sì, lo so. Me ne torno subito a casa, anche perché i miei figli sono da soli, o lo saranno fra una decina di minuti.» «È un consiglio che vale anche per te, Reg» disse Burden, che aveva captato le sue ultime parole. «Sono quasi le dieci. Ti accompagno a casa con la tua auto, e Jenny ci seguirà con la nostra per riportarmi a casa.» «Ho bevuto tanto?» «Non per rinfacciartelo, ma ti sei scolato due whisky doppi e tre bicchieri di vino.» «Bene, sarà meglio che mi accompagni, Mike. Ti ringrazio.» Avrebbe dovuto sentirsi almeno stordito e invece era perfettamente sobrio. Entrato in casa, chiuse la porta e rimase al buio. Quel silenzio assoluto gli dava una sensazione di vuoto. Sylvia e Sheila se n'erano andate. Era rimasto completamente solo. Si trasferì nel soggiorno e si sedette in poltrona senza accendere la luce. I membri del Sacro Globo sarebbero rimasti in galera diversi anni per sequestro di persona, estorsione e quant'altro. Se avessero eliminato gli ostaggi, la pena non sarebbe aumentata di molto. In compenso avrebbero avuto la certezza che nessuno sarebbe stato in grado di riconoscerli e quindi di denunciarli. Pensò a Roxane Masood, che soffriva di claustrofobia, alle domande che gli aveva rivolto Audrey Barker e al viaggio a Firenze programmato dagli Struther; ma non riuscì a pensare a Dora. Se l'avesse fatto in quel momento, sapeva che non avrebbe potuto trattenere le lacrime.
Si chiese per quale motivo tutti dormissero di notte, o perlomeno quasi tutti. Quando è ora, pensò, a letto anche senza essere stanchi. Si potrebbe dormire su una sedia, oppure coricarsi a un'ora diversa. Invece si segue la solita routine perché è essenziale nella vita avere uno schema cui aggrapparsi. È la ripetitività delle azioni che ci aiuta a non perdere la ragione, la routine che ci costringe a compiere determinate azioni in determinati momenti, distraendoci dai nostri pensieri. Se così non fosse, probabilmente impazziremmo. Salì al piano di sopra. Dopo essersi infilato il pigiama e la vestaglia rossa, si sdraiò sul letto sopra le coperte. Il romanzo sulla guerra di secessione era sul comodino. Gli venne voglia di prenderlo e di buttarlo fuori dalla finestra senza neanche aprirla. Se non altro il rumore dei vetri infranti gli avrebbe dato una certa soddisfazione, sia pure di breve durata. Ma il libro non era suo, era di Jenny. Jenny... Ciò che gli aveva raccontato sul conto di Brendan Royall corrispondeva perfettamente a quello che gli aveva detto Gary Wilson. Questo non voleva dire che Royall c'entrasse qualcosa con il Sacro Globo. Anzi, poteva darsi che Gary e Quilla facessero parte dell'organizzazione e avessero accusato Royall per depistare le indagini. Esisteva un'altra possibilità, cioè che il gruppo fosse costituito da elementi isolati non legati ad altre associazioni. Forse all'inizio, per puro caso, alcune persone avevano scoperto di condividere lo stesso interesse per la natura e si erano messe insieme. No, a pensarci bene non era possibile. Le persone normali non si comportavano in quel modo. Per mettere in atto una forma di protesta così violenta era necessario un capo, forse più d'uno, che studiasse il piano d'azione. Non era da escludere che il Sacro Globo fosse composto da un gruppo misto, costituito in parte da persone innocue e in parte da professionisti del crimine. Questo lo riportava al punto di partenza: qualcuno tra gli amici degli alberi, oppure al Kabal, alla Species o in altre associazioni che si battevano per impedire la costruzione della tangenziale di Kingsmarkham, doveva sapere qualcosa a proposito del Sacro Globo, o quanto meno avere dei sospetti. Perché non si erano ancora fatti vivi? Perché quel silenzio che ormai durava da oltre ventiquattr'ore? Avevano spedito una lettera, telefonato due volte. A parte i normali mezzi di comunicazione, di cui ovviamente non potevano servirsi per non rischiare di essere identificati, quale altra possibilità avevano di mettersi in contatto con loro?
Avrebbero potuto farlo di persona. Avevano accennato alla possibilità di trattare e forse ora intendevano mandare qualcuno che li rappresentasse. Il prossimo messaggio sarebbe stato verbale e diretto. Già, te lo vedi uno che si presenta cop la scritta Sacro Globo sulla maglietta, magari con la bandiera bianca? Chiunque avessero mandato sarebbe stato arrestato all'istante. Doveva smetterla di pensare, doveva dormire. Finché questi pensieri gli si agitavano nella mente, addormentarsi era fuori discussione. Meglio provare con qualche sistema collaudato, del tipo contare le pecore. Dopo essersi sfilato la vestaglia, tornò a distendersi e cominciò a elencare mentalmente le case citate da Jane Austen nei suoi romanzi: Pemberley, Norland, Netherfield Hall, Donwell Abbey, Mansfield Park... Mentre si sforzava di ricordare il nome della dimora di Lady Catherine de Burgh, finalmente si addormentò, sopraffatto dall'alcol e dalla stanchezza, eppure conscio del fatto che il sonno non sarebbe durato a lungo. La luna, che la sera precedente era coperta dalle nuvole, riuscì a incunearsi in un angolo di cielo terso. Era la luna piena, che brillava di una luce iridescente con riflessi verdi. Wexford credette che a svegliarlo fosse stata quella luce che gli aveva inondato il viso e parte del collo. Si alzò e chiuse le tende. Se si fosse ricordato di farlo prima di andare a letto, forse non si sarebbe svegliato. Aveva dormito soltanto un'ora ed era abbastanza probabile che non riuscisse più a chiudere occhio. Si guardò intorno nella luce perlacea. Ovunque c'erano cose di Dora: spazzole e una boccetta di profumo sul tavolo da toletta, un foulard appoggiato allo schienale di una sedia, una scatola di fazzoletti di carta sul comodino, oltre al suo secondo orologio, quello che non aveva al polso. Nel chiudere l'armadio aveva involontariamente pizzicato il lembo di una gonna. Aperta l'anta, mentre spostava la gruccia percepì il profumo di Dora. Richiuse l'armadio. Era tornato a letto quando udì un rumore, si ricordò di averlo già sentito e capì che era stato quello a svegliarlo. Tese l'orecchio e individuò dei passi sulla ghiaia; allora si alzò e corse a prendere i pantaloni e le calze che si era tolto prima di coricarsi. Sulla sedia c'era un maglione a girocollo. Dopo esserselo infilato, si avvicinò alla porta in punta di piedi e l'aprì senza far rumore. Udì un suono, uno scatto come se cercassero di far girare una chiave nella serratura. Qualcuno stava tentando di entrare dalla porta sul retro. Era chiusa dall'interno con il catenaccio. Cosa credevano, che un poli-
ziotto potesse andarsene a letto la sera senza neanche preoccuparsi di chiudere la porta a dovere? Erano sicuramente quelli del Sacro Globo. Non aveva dubbi. Come aveva previsto, avevano inviato un loro rappresentante. Proprio da lui, a casa sua, di notte. Diede un'occhiata alla sveglia digitale sul comodino e vide che erano le 12.52. La luce della luna non riusciva a filtrare attraverso le pesanti tende della finestra sulle scale e il pianerottolo era buio. Mentre aspettava, pian piano i suoi occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità. Ora riusciva a distinguere il contorno delle finestre, la ringhiera e la porta del soggiorno, che era stata lasciata aperta. Di nuovo sentì dei passi, stavolta a lato della casa. Avendo trovato chiusa la porta di servizio, ora il misterioso visitatore avrebbe provato a introdursi dall'ingresso principale. I passi erano abbastanza rumorosi, come se non avesse il minimo timore di essere udito. Chiunque fosse, decisamente non aveva paura di lui. Come contava di costringerlo a farlo entrare in casa? Avrebbe semplicemente suonato il campanello? Ma allora che senso aveva tentare di passare dalla porta di servizio? A un tratto Wexford capì: lo sconosciuto aveva preso le chiavi di Dora. Dunque aveva le chiavi di tutt'e due le porte e per qualche oscura ragione aveva tentato di entrare dalla cucina, ma gli era andata buca per via del catenaccio. E ora stava per entrare dall'ingresso principale. Preferiva evitare che lo sconosciuto lo vedesse subito. Andò nella camera matrimoniale e guardò giù dalla finestra, ma il portico gli impediva la visuale. Mentre tornava sui suoi passi, sentì la chiave girare nella serratura. La porta si aprì, qualcuno entrò in casa e la porta si richiuse. L'ultima cosa che si aspettava di vedere era la luce accesa. Non riconobbe subito il rumore dell'interruttore, ma a un tratto il pianerottolo s'illuminò. Uscito dalla camera da letto, si affacciò sulle scale, pronto ad affrontare l'intruso. In anticamera c'era Dora con la testa rivolta verso l'alto. 12 Wexford la teneva stretta tra le braccia, restio a lasciarla andare nel timore che sparisse di nuovo. Impossibile che fosse un sogno perché Dora dimostrava i suoi anni, e anche lui. Accennò un sorriso quando le disse che di solito la sognava com'era da giovane; poi di colpo si mise a piangere. La
strinse forte, accostando il viso al suo. «Che cosa posso fare per te? Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che ti porti di sopra? Una volta ce la facevo. Vuoi che proviamo?» «Come Rhett Butler» mormorò Dora tra le lacrime. «Oh, Reg, non essere sciocco.» «Sì, hai ragione, mi sento stupido. Mio Dio, come sono felice!» «A dire la verità non mi sento molto in forma.» «Ci vuole qualcosa da bere, qualcosa di forte. Ti hanno dato da mangiare in modo decente? Per questa sera non voglio farti domande, non voglio sapere cos'è successo. Domani alla Centrale di polizia del Mid-Sussex li avrai tutti addosso e perciò stasera preferisco lasciarti in pace.» Dora fece un passo indietro per osservarlo meglio. «Perché non eri ancora a letto, Reg? Cos'è successo?» «Credevo che fossi un inviato del Sacro Globo e non volevo farmi trovare vestito da cardinale.» «È così che si fanno chiamare? Be', in un certo senso sono davvero un loro inviato, anche se non ufficialmente. Non so per quale motivo mi abbiano rilasciato. Non me l'hanno detto. Mi hanno messo ancora quel maledetto cappuccio in testa, mi hanno fatto salire in macchina e mi hanno portata qui.» «Non è necessario parlarne adesso. Dio, nessuno al mondo è mai stato più felice di me. Hai voglia di qualcosa? Dimmi.» «Be', prima di tutto desidero farmi un bel bagno. Per lavarsi non c'erano molte comodità. Mentre sarò nella vasca, mi piacerebbe che mi portassi un gin tonic, e poi vorrei andare a letto.» Quando la raggiunse nella stanza da bagno, vide che aveva ammucchiato tutti gli indumenti sul pavimento. Era la prima volta che Dora faceva una cosa simile. Prima sorridendo, poi ridendo di felicità, Wexford li raccolse e li infilò in un sacchetto di plastica sterile. Alle sei e mezzo del mattino era un po' presto per telefonare al capo della polizia, ma Wexford lo chiamò ugualmente. A sentirlo parlare si sarebbe detto che Montague Ryder fosse in piedi da ore e avesse già fatto due volte il giro del palazzo di corsa. «Saprà certamente, non occorre che glielo dica, che dovremo parlare a lungo con sua moglie. Deve riferirci tutto ciò che riesce a ricordare e le sue dichiarazioni verranno registrate. Forse sarà necessario farle ripetere il racconto due volte, ovviamente con qualche intervallo, per essere certi che non trascuri il
minimo particolare.» «Lo so, signore, e lo sa anche lei.» «Bene. L'elemento tempo è fondamentale e perciò prima si comincia e meglio è. Ma non la svegli, Reg. La lasci dormire fino alle nove, se ce la fa.» Dora era profondamente addormentata quando Wexford era sgattaiolato fuori dal letto per andare a telefonare. Quanto a lui, non aveva dormito molto. Durante la notte si era svegliato diverse volte per accertarsi che la moglie fosse davvero tornata e dormisse al suo fianco. In cucina preparò il tè, una spremuta d'arancia e anche il caffè. Il tempo scorreva veloce. Ripensò al mattino precedente, quando camminava con la piccola Amulet in braccio, in attesa che iniziasse il telegiornale, e l'ora non arrivava mai. Il tempo viaggia in modo diverso a seconda delle persone. Con qualcuno cammina, con altri corre, con altri ancora sta quasi fermo. Sylvia fu, delle due, la prima figlia con cui si mise in contatto semplicemente perché in realtà avrebbe voluto iniziare da Sheila. «Avresti dovuto chiamarmi ieri sera» si lagnò. «No. Era l'una di notte. Adesso sta ancora dormendo. Puoi venire stasera, quando vuoi.» Il tono con cui Sheila rispose al telefono era demoralizzato. Le diede subito la bella notizia. «Oh, papà, è meraviglioso. Come sono felice! Posso venire subito a trovarvi con Amulet?» Quando salì in camera, alle sette e mezzo, trovò Dora già sveglia, seduta nel letto. «Ho dormito molto dove stavo e perciò non ero stanca» disse, abbracciandolo. «Non avevo niente da fare, a parte dormire e adoperarmi per tenere su di morale gli altri.» «Sapevi dov'eri?» «Non ne ho la minima idea. L'immaginavo che sarebbe stata la prima domanda a cui avrei dovuto rispondere, e lo sapevano anche loro. Sono stati molto attenti fin dall'inizio a non farcelo capire.» Le portò la colazione. Dora scelse il caffè. Mentre si lavava sotto la doccia, Wexford si mise a cantare a squarciagola e la moglie lo prese in giro. Era bello sentirla ridere. «Dimmi una cosa, Reg» mormorò quando ricomparve nella stanza, avvolto nella vestaglia rossa. «A chi hanno affidato le indagini? Non a te, suppongo, dato che tra gli ostaggi c'ero anch'io.» «E invece le hanno affidate a me.»
Le spiegò il motivo. «Oh, poveraccio!» mormorò Dora in tono affettuoso. «Ieri sera hai detto che ti aspettavi di trovarti di fronte un loro inviato e io ti ho risposto che in un certo senso potevi considerarmi tale. Vedi, il fatto è che ho un messaggio per voi. È stata la prima volta che uno di loro ha aperto bocca. Dopo avermi messo un paio di manette, mi hanno portato fuori e infilato un cappuccio in testa.» Ebbe un brivido. «A quel punto uno di loro ha parlato. Per me è stato uno shock. Fino a quel momento era come se fossero stati sordomuti. "Il nuovo messaggio", così l'ha definito. Ha senso per te?» Wexford annuì. «Be', ha detto che prendono atto della sospensione dei lavori, ma vogliono la cessazione definitiva. Ha aggiunto che le trattative inizieranno domenica.» «In che modo?» «Non lo so.» «Non hanno detto altro?» «No.» C'erano Wexford, Burden e Karen Malahyde. Non nella stanza degli interrogatori. Tutti, tranne Dora, erano contrari a usarla. La moglie invece aveva detto che non le sarebbe dispiaciuto vederne una dal vero, dato che fino a quel momento ne aveva viste solo alla televisione. Fecero portare l'attrezzatura per registrare le sue dichiarazioni nell'ex palestra, oltre a quattro poltrone per evitare che sembrasse un interrogatorio. Arrivò anche il capo della polizia. Mentre stringeva la mano a Dora, si complimentò con lei per il suo coraggio. «Da dove volete che cominci?» chiese appena fu seduta in poltrona, con accanto la terza tazzina di caffè della giornata. «Dall'inizio, immagino?» «Meglio di no» rispose il marito. «Come hai detto tu stessa, la cosa più importante ora è scoprire dove stanno. Raccontaci tutto quello che sai sul posto dove vi tenevano prigionieri.» «Ti ho già detto che non so dov'eravamo.» «Dobbiamo tentare di scoprirlo basandoci su ciò che dirai.» «Questo significa che devo cominciare per forza dal principio, da quando sono stata portata lì. Non so dirvi da che parte sia andato né quanto abbiamo impiegato ad arrivare. Non è facile capire, quando si è incappucciati. Credo di poter dire che il tragitto è durato un'ora, non di più. Per un certo tratto abbiamo percorso una strada grande, forse un'autostrada.»
«È possibile che fosse Londra?» domandò Karen. «Londra o dintorni?» «Forse nella periferia a sud della città, per esempio a Sydenham, Orpington o qualcosa del genere. Veramente non ne ho idea, ma non credo che in un'ora saremmo potuti arrivare a nord di Londra. Potrebbe essere ovunque, nel Kent, nell'Hampshire o lungo la costa.» Wexford notò che Dora era pallida. Pur avendo dormito sodo, era rimasta a letto soltanto sei ore e adesso aveva l'aria stanca. Avrebbe voluto portarla direttamente dal dottor Akande per farla visitare; ma lei si era opposta, gli aveva quasi riso in faccia. Non bisognava perdere tempo, diceva. Aveva ragione, ma mentre si vestiva, Wexford l'aveva vista barcollare e aggrapparsi a una sedia. Capitava di rado che Burden disapprovasse qualcosa, ma questa volta aveva dichiarato di non essere d'accordo. Dora avrebbe dovuto essere sottoposta a un'accurata visita medica e assumere un tranquillante, se non un sedativo. Sapeva per esperienza che lo shock ha effetti ritardati ed era convinto che a quel punto Dora sarebbe crollata. Per l'occasione aveva indossato una gonna grigia e un pullover a scacchi grigi e gialli, due capi di vestiario non nuovi, che evidentemente la mettevano a suo agio. Prima di partire per andare a casa di Sheila aveva indossato un abito nuovo di lino marrone. Avendolo portato per quattro giorni di fila, il lino si era sgualcito e perciò ora diceva di non voler più vedere quel vestito. Non aveva potuto cambiarsi, pur avendo altri abiti nella valigia, perché le era stata sequestrata fin dall'inizio ed era tuttora nelle mani dei rapitori. Le avevano permesso di portarsi via soltanto la borsa, non la valigia né i regali che aveva comperato per Sheila. Si era interrotta per bere il caffè. Quando riprese a parlare, parve accorgersi per la prima volta che la sua voce veniva registrata e il discorso divenne più stentato. «I cappucci che ci coprivano la testa (alcune volte li mettevano a tutti) erano sacchetti con i fori per gli occhi e per la bocca. Precedentemente il tessuto doveva essere stato spruzzato o immerso nella vernice nera. Il mio cappuccio era di una stoffa piuttosto rigida e pesante. Me l'hanno tolto solo quando sono stata dentro.» «Cerca di parlare normalmente» disse Wexford. «Dimentica che stiamo registrando.» «Scusa. Ci proverò.» «No, va tutto bene, sta' tranquilla.» «Bene, adesso vorrete sapere cosa c'era all'interno, ma purtroppo non ve
lo so dire.» Gettò un'occhiata al registratore, si schiarì la voce. «Comunque eravamo al pianterreno, o meglio a un livello poco inferiore. Si scendevano due gradini. Come un seminterrato, ma non una cantina. Non so se riesco a rendere l'idea.» «Perfettamente» la rassicurò Burden. «Desidero chiarire subito che mi sono sforzata fin dal primo momento di capire, di notare forme e dimensioni per farmi un'idea di dove mi trovassi. Pensavo che potesse tornarmi utile e non mi sbagliavo.» «Ottima pensata, signora Wexford» disse Karen. «Lei è una donna eccezionale.» Dora sorrise. «Aspetti di sentire il resto. I risultati sono stati ben diversi rispetto alle intenzioni. Quando sono arrivata io, il ragazzo era già lì. Si chiama Ryan Barker, ma immagino che lo sappiate già. Era nella stanza, seduto su uno dei letti, lo sguardo fisso nel vuoto. Il locale era abbastanza grande, circa un terzo di questa palestra, rettangolare, con un'unica finestra sulla parete corta, in alto ma non troppo, dato che il soffitto era piuttosto basso. Poco più di due metri, a occhio e croce. Reg non ci avrebbe battuto la testa, ma quasi. Direi che la stanza misurava sei metri per nove.» «Oltre alla porta da cui ero entrata ce n'era un'altra che portava in un piccolo bagno dove c'erano il gabinetto e un lavandino. I letti erano quattro, richiudibili. Più tardi ne hanno portato un quinto, forse perché all'inizio avevano previsto un ostaggio di meno.» «Da cosa l'ha dedotto?» domandò Karen. «Volete i fatti e non le mie opinioni personali, vero?» mormorò Dora. «Comunque credo che potrebbero fornirvi qualche elemento utile. La mia impressione è che non avessero intenzione di prendere in ostaggio entrambi gli Struther, ma solo uno dei due. In effetti ho saputo da Owen che era stata la moglie a telefonare per il taxi e quindi i rapitori devono aver creduto che fosse da sola. Sta di fatto che hanno aggiunto il quinto letto. Non c'erano altri mobili, tranne due sedie da cucina.» «Com'era la stanza?» domandò Wexford. «Vuoi sapere se fosse conciata o in buono stato, se era una cucina o un soggiorno? Dunque, un soggiorno non era di sicuro. I muri erano ruvidi, con l'intonaco scrostato, e l'impianto elettrico sistemato alla meglio, con i cavi a vista. Sotto la finestra c'era un grande acquaio, vecchio e senza rubinetti. Sulla parete lunga c'erano delle mensole di legno grezzo, ma sopra non c'era niente. Sembrava quasi un garage, solo che la porta non era grande abbastanza per entrare con l'auto. Poteva anche essere un'officina,
un laboratorio. Ho riflettuto molto su questo particolare e sono giunta alla conclusione che in origine quella avrebbe potuto essere una piccola fabbrica.» «Ha mai guardato fuori dalla finestra?» s'informò Karen. «Appena ne ho avuto la possibilità. Si vedevano delle pareti di legno, come se dall'altra parte ci fosse stata una specie di baracca, forse una conigliera. Aprendo la finestra, se non fosse stata chiusa con un lucchetto, si sarebbe vista una struttura di legno e filo di ferro. Il primo giorno mi sono arrampicata sull'acquaio per guardare meglio e sono riuscita a intravedere il verde dell'erba. L'erba, un muretto di mattoni e un blocco di cemento che sembrava un gradino rotto. Nient'altro. Probabilmente è una casa di campagna o comunque in periferia. In città non è di certo.» «Saprebbe dirci da che parte guardava la finestra? L'esposizione della stanza?» «C'era il sole al pomeriggio, quindi doveva essere a ovest. Come stavo dicendo poco fa, c'era uno stanzino con il gabinetto. La cosa strana è che dava l'impressione di non essere mai stato usato prima. I muri erano bianchi e i sanitari nuovi. Solo che al gabinetto mancava l'asse e il coperchio. Non c'era la finestra. Sembrava quasi che in origine fosse una dispensa e poi l'avessero trasformata in quattro e quattr'otto, facendo i lavori con la massima economia. Come se l'avessero fatto apposta per noi, per dare una sistemazione agli ostaggi.» «Siamo rimasti in quella stanza per tre notti e quattro giorni. O perlomeno, io e Ryan. Gli altri erano già stati portati altrove. Volete che cominci dal primo giorno?» «Prima facciamo una pausa» disse Wexford. «Sei sicuro di volerti fermare qui?» «Certo. Voglio riferire al resto della squadra quello che ci hai raccontato finora. Può darsi che a qualcuno venga qualche idea. Riprenderemo tra un'ora.» Verso le undici si presentarono alla stazione di polizia tre ragazzini di Stowerton con una borsa piena di ossa. Le avevano trovate, spiegarono al sergente di turno, a Stowerton Dale, su uno dei cumuli di terra ammassati dalle scavatrici. Uno di loro avanzò l'ipotesi che si trattasse di reperti degli antichi romani, mentre gli altri due erano del parere che fossero di origine più recente, e precisamente i resti di un massacro compiuto da un serial killer.
«A me sembra piuttosto opera di Manfred» commentò Wexford, informato della cosa, illustrando la passione che il pastore tedesco di Bibi nutriva per gli ossi. «Comunque dovranno essere analizzati» osservò Burden in tono depresso. «Immagino di sì, anche se si vede benissimo che sono gli avanzi di un banchetto.» «Chissà cosa intendono di preciso, quando dicono che le trattative inizieranno domenica?» «È una domanda a cui vorrei proprio saper dare risposta.» Karen Malahyde e Dora stavano bevendo il caffè insieme. Karen era del parere che la signora Wexford ne avesse già bevuti anche troppi e gliel'aveva fatto notare con gentilezza; ma Dora le aveva assicurato che non le facevano male. Poi, dopo averla pregata di chiamarla per nome, le aveva chiesto se poteva avere del succo d'arancia. Karen le aveva risposto di sì, a patto che si accontentasse di quello acquistato al supermercato. Rimasta sola, Dora si era appisolata in poltrona e si era svegliata quand'era ricomparsa Karen. Le domandò quale potesse essere il motivo per cui i rapitori non le avevano restituito la valigia né i regali. Cosa se ne facevano di un kimono, dei libri e d'indumenti per neonato? «Forse è meglio parlarne quando torneranno il signor Wexford e il signor Burden, signora... Anzi, Dora.» «Credo che lei abbia ragione.» Wexford e Burden entrarono insieme. Quest'ultimo mise subito in funzione il registratore. «Stavamo parlando della mia valigia» disse Dora. «Non che sia terribilmente importante, se si considera che io sono stata liberata, mentre finora gli altri ostaggi sono ancora nelle loro mani. Però non riesco a capire per quale motivo non me l'abbiano restituita. È una normalissima valigia di fibra marrone, con sopra le mie iniziali. Oltre alla mia roba, c'erano i regali che avevo comperato per Sheila e per la bimba.» «Può darsi che nella fretta di sbarazzarsi di te se ne siano dimenticati» ipotizzò Burden. «Possiamo ricominciare dall'inizio adesso?» domandò Wexford. «Precisamente da martedì mattina.» «D'accordo» rispose Dora, alzando i piedi e ripiegando le gambe sotto di sé. «Dovevo chiamare un taxi e mi sono rivolta alla All Sixes per il semplice fatto che il numero di telefono è facile da ricordare. Erano quasi le
dieci e mezzo. Volevo prendere il treno delle 11.03 e quindi non avevo fretta. Composto il numero dell'agenzia, ho sentito uno di quegli irritanti messaggi registrati in cui ti pregano di restare in linea per non perdere il diritto di precedenza e poi ti fanno ascoltare una musichetta. Allora sono andata a cercare il depliant che ci avevano lasciato e ho chiamato la Contemporary Cars.» «Com'era la voce della persona che ha risposto al telefono?» domandò Karen. «Era una voce maschile. Normale, senza accenti né inflessioni. Giovane, direi. Erano le dieci e mezzo precise. Ne sono sicura perché ho controllato sul display del videoregistratore. Il taxi è arrivato quasi subito. Sei o sette minuti dopo, se non sbaglio.» «Che tipo era il tassista?» «Non me lo ricordo bene. Ho riflettuto molto, ma posso dirvi soltanto che non era alto, un metro e sessantacinque al massimo, era tarchiato e aveva la barba. Camminava un po' rigido, come se avesse una gamba fasciata. Ah, e inoltre puzzava. Aveva un odore strano.» «Di che genere? Di sporcizia? Di sudore?» «No, non quello. Sembrava solvente per le unghie. Acetone.» Dora si guardò intorno con aria compiaciuta. «Sì, proprio così» confermò. «Non era un odore del tutto spiacevole, ma strano.» «Quando ho sentito suonare il campanello, prima di aprire la porta d'ingresso sono andata in soggiorno a prendere la valigia e i pacchi, cioè le borse di plastica. Pensavo di farmi aiutare a caricare la roba in macchina, ma il tassista era di spalle, fermo davanti al cancello. Avrei dovuto chiamarlo perché prendesse la valigia, invece non l'ho fatto. L'ho salutato e lui ha risposto con un cenno della testa. Dopo aver posato a terra la valigia e i pacchi, ho chiuso la porta a chiave.» «Nel frattempo lui era salito in macchina. Non mi è sembrato strano, ho soltanto pensato che fosse villano. Non mi aveva nemmeno aperto la portiera. Gli ho lanciato un'occhiata mentre m'infilavo dentro e l'ho intravisto di profilo. Il viso era quasi completamente nascosto dalla barba, nera e riccia come i capelli. Nell'abitacolo l'odore era molto forte. Indossava un pullover o una maglietta d'un azzurro spento.» «Che tipo di auto era?» domandò Burden. «Piccola, rossa. Una Golf, credo. In ogni modo uguale a quella di mia figlia Sylvia. Se fossi della polizia, o avessi avuto motivo di sospettare di lui, avrei preso il numero di targa, ma non l'ho fatto.»
Burden rise. «Ti sei messa la cintura di sicurezza?» «Che domanda! Certo, è naturale. Non dimenticare che sono la moglie di un poliziotto.» Scosse la testa. «Avevo messo la valigia sul sedile e le borse accanto ai piedi. Il percorso era il solito, la normale strada che porta alla stazione; ma arrivato in Queen Street ha fatto una piccola deviazione, forse perché c'era un po' di traffico. Non ci ho badato: capita abbastanza spesso che i tassisti facciano dei giri diversi per evitare gli ingorghi.» «Ci siamo fermati a un semaforo all'incrocio tra York Street e Old London Road. Quel semaforo è dotato di un pulsante che consente ai pedoni di far scattare il rosso. Adesso naturalmente so che non siamo passati di lì per caso. Infatti, vedendoci arrivare, un tale ha premuto il pulsante per far fermare il taxi, poi ha aperto la portiera ed è saltato in macchina.» «È successo tutto così in fretta che non ho avuto il tempo di protestare né di togliermi la cintura di sicurezza, anche perché sono sempre un po' impacciata quando viaggio nelle auto che non conosco. Il tizio era giovane, alto e aveva una calza da donna in testa.» «Intende dire che era fermo in strada, conciato in quel modo?» «Non c'era in giro nessuno» rispose Dora «comunque credo che la calza se la sia infilata dopo, mentre apriva la portiera con l'altra mano. Ecco perché la sua faccia sembrava di gomma. Per via della calza di nylon.» «Si è messo subito un cappuccio in testa e ne ha infilato uno anche a me. Per qualche istante non ho visto più niente. Mentre mi dibattevo e tentavo di gridare, ho sentito che qualcuno mi metteva le manette ai polsi. Non è stato piacevole, ve l'assicuro. Ero terrorizzata.» «Vuoi fermarti ancora un momento, Dora?» le domandò Wexford. «No, sto bene. Voglio solo farvi capire che avevo molta paura. Non mi ero mai spaventata tanto in tutta la vita. Non sapevo cosa fare, come ribellarmi. La situazione è un po' migliorata quando ho potuto vederci di nuovo. Il tizio aveva sistemato meglio il cappuccio, me l'aveva raddrizzato.» «Guardando fuori dal finestrino, ho visto che stavamo percorrendo la vecchia circonvallazione. Il tizio mi ha fatto segno di abbassarmi in modo che non potessi più guardare fuori, né essere vista. Ho obbedito e mi sono seduta sotto.» «Come dicevo, il viaggio è durato circa un'ora, forse un po' di più. Non ho più tentato di ribellarmi perché ormai avevo capito che sarebbe stato inutile. Morivo dalla paura. Temevo soprattutto di perdere il controllo delle mie azioni ed era una cosa che volevo assolutamente evitare. Mi sforzavo di stare calma e di respirare profondamente; ma non era facile, seduta lì
in basso e con il cappuccio in testa.» «A un certo momento ho sentito l'auto svoltare, forse per imboccare un cancello o una strada laterale, oppure per girare intorno a una fabbrica o a un magazzino. Da lì abbiamo proseguito più lentamente, curvando spesso a destra o a sinistra. Poco prima che ci fermassimo, mi hanno girato di nuovo il cappuccio in modo che i fori per gli occhi fossero dietro la testa e quindi non potessi vedere. Avevo le mani in grembo, immobilizzate dalle manette.» «Mi hanno afferrato per le braccia, uno per parte. Ho capito che a destra c'era il tassista perché intuivo che non era molto più alto di me, ma soprattutto per l'odore. L'altro mi teneva il braccio stretto come in una morsa. Avevo l'impressione che le sue dita fossero lunghe e sottili, anche se forti. Lui non puzzava. Fiutavo l'aria, cercando di capire se ci trovassimo in campagna o in città, ma non avrei saputo dirlo. Quanto alla temperatura, era come a casa.» «Ho sentito una porta che si apriva. A giudicare dal rumore, doveva essere piuttosto pesante. Mi hanno fatta entrare. Non mi hanno spinta, ma accompagnata giù per gli scalini e poi fino al letto, dove mi hanno praticamente costretta a sedermi. Prima mi hanno tolto il cappuccio e poi le manette, ma loro due sono rimasti incappucciati. Uno aveva la pelle scura e le dita grosse, mentre l'altro le aveva lunghe e affusolate. È stato allora che ho visto Ryan. I rapitori se n'erano andati e avevano chiuso la porta a chiave.» «Facciamo una pausa per mangiare» disse Wexford. «Dopodiché voglio che ti riposi un po'.» La cosa migliore sarebbe stata portare Dora al ristorante ma, per quanto si sforzasse di trovare il modo, e pur essendo disposto a invitare anche Burden e Karen Malahyde, si rendeva conto che la cosa non era fattibile. Non quel giorno, non in quelle circostanze. Occorreva rimandare a un'altra volta, rinunciare a una buona bottiglia di vino, al cocktail di scampi, alla sogliola meunière e alla crème caramel. Ci sarebbero andati la settimana seguente. Mandò a prendere dei sandwich assortiti con salmone affumicato, formaggio, lingua salmistrata e prosciutto. Dora aveva l'aria di stare già un po' meglio. Evidentemente parlare le giovava. In fondo è il principio della psicoterapia: parlare con persone che non solo ti ascoltano, ma dimostrano anche un grande interesse per ciò che dici. Meglio lasciare che Dora buttasse fuori tutto quello che aveva dentro,
piuttosto che costringerla a letto dopo averla imbottita di sedativi. Le lasciò prendere un altro caffè senza protestare. Nonostante tutto il male che se ne dice e la raccomandazione di non abusare della caffeina, non si è mai sentito di qualcuno che abbia avuto dei problemi di salute per aver esagerato con il caffè. Dora lo prese con panna e zucchero, come non avrebbe fatto se fossero stati a casa. Burden accese il registratore. Fu lui a rivolgerle la prima domanda. «Dunque sei rimasta sola nella stanza con Ryan Barker, vero?» «Sì, per un po'. Era molto spaventato. Poveretto, ha solo quattordici anni. Ho parlato con lui, gli ho detto che non doveva avere paura perché, se avessero avuto intenzione di farci del male, l'avrebbero fatto fin dal primo momento. Avevo capito che ci avevano preso come ostaggi, ma non avevo idea di cosa volessero in cambio della nostra liberazione. Ryan mi ha risposto che sapeva di dover essere coraggioso (forse riferendosi al fatto che è un maschio) e mi ha detto che suo padre era un soldato ed è morto in guerra, nelle Falkland. Non doveva essere coraggioso a tutti i costi, ho replicato. Poteva gridare finché voleva e forse sarebbe servito a far tornare quei due, in modo che potessimo domandare perché ci tenevano prigionieri. Ero mezza morta di paura anch'io, naturalmente, ma stare con lui mi faceva bene perché ero costretta a darmi un contegno.» «Comunque non siamo rimasti soli a lungo. Dopo di noi è arrivata Roxane. Sapete già che Roxane Masood era uno degli ostaggi, suppongo.» «E gli altri due sono Kitty e Owen Struther» disse Karen. «Esatto. Roxane era molto meno rassegnata di me, ve l'assicuro. Si divincolava come una pazza, mentre la portavano dentro, e appena le hanno tolto il cappuccio e le manette si è avventata contro di loro.» «Chi c'era con lei?» «Il tassista e un altro uomo. Era alto, ma non quanto il tizio che era salito in macchina con me. Doveva avere trent'anni al massimo. È stato lui a togliere le manette a Roxane, mentre l'autista le ha sfilato il cappuccio.» «La ragazza si è scagliata contro di loro come se volesse cavargli gli occhi, benché fossero incappucciati. Il tizio alto le ha dato un colpo in testa, facendola cadere sul letto. Roxane ha perduto i sensi. Mi sono avvicinata e l'ho tenuta stretta tra le braccia. Quando ha ripreso i sensi ha cominciato a piangere, ma soltanto perché quell'uomo le aveva fatto male. Non come Kitty Struther.» «Owen e Kitty Struther sono arrivati una mezz'ora dopo. Lui è un tipo tutto d'un pezzo. Sembra Alec Guinness nel film Il ponte sul fiume Kwai.
Sapete, rigido, impettito e molto inglese, il classico tipo che si rifiuta categoricamente di avere a che fare con chi lo tiene prigioniero. Kitty è stata accompagnata dentro dal tizio che era salito in macchina al semaforo. Quando le ha tolto il cappuccio, gli ha sputato in faccia. Per fortuna quello non ha reagito. Si è limitato a pulirsi e non ha fatto altro.» «Una volta ho letto in un libro che è inimmaginabile il linguaggio usato da alcune donne raffinate in situazioni disperate come la nostra. Non avrei mai pensato che una signora così distinta conoscesse termini così volgari, e nemmeno che potesse sputare in faccia a qualcuno. Probabilmente era una questione di nervi. Sta di fatto che gridava, imprecava, batteva i pugni sul materasso. Dopo un po' Owen ha cercato di calmarla e lei gli si è rivoltata contro. Probabilmente non sapeva quello che faceva. Ha continuato a gridare per un bel po', mentre noi la guardavamo allibiti. Poi a un tratto, rannicchiata sul letto, ha iniziato a piangere. Era un pianto strano, sommesso. Alla fine si è addormentata.» Dora tacque, sospirò, si strinse nelle spalle. «Adesso vorrete una descrizione dei rapitori.» «Per favore, Dora, puoi dare un'occhiata a questa?» domandò Burden, mostrandole una fotografia. «È possibile che sia quello che guidava l'auto? Prova a immaginarlo senza la barba. Allora, che ne pensi?» Dora scosse la testa. «No. Sono sicura che non è lui. Questo è più magro e anche più vecchio.» Mentre Karen accompagnava Dora a prendere una tazza di tè, Wexford chiese all'amico chi fosse il tizio della foto. «Stanley Trotter» rispose Burden, mettendosela in tasca. «Si dà il caso che puzzi anche lui.» Fece una pausa. «Oggi ci sono state delle novità. Non ti ho detto niente perché avevi già abbastanza seccature per conto tuo. Abbiamo ricevuto notizie dalla polizia di Bonn.» Wexford rifletté un istante. «Non era a Bonn l'università che frequentava Ulrike Ranke?» «Esatto. Ti ricordi la collana di perle? Il giro di perle coltivate del valore di milletrecento sterline che le avevano regalato i genitori per il suo diciottesimo compleanno?» «Certo che mi ricordo.» «Be', si è scoperto che le aveva vendute. Evidentemente preferiva avere i soldi piuttosto che la collana. La polizia di Bonn è riuscita a individuare il gioielliere che gliel'ha comprata per millesettecento marchi tedeschi.» «Non è stato molto generoso» commentò Wexford, dopo aver fatto il
calcolo mentalmente. «Infatti. Chissà se aveva acquistato una collana da pochi soldi per mostrarla ai genitori al posto di quella vera in caso di necessità? Una l'ha comprata di sicuro, visto che quella sera l'aveva al collo, come si può vedere dalla foto scattata al Brigadier. E se fosse stata...» «Non è Trotter, Mike» tagliò corto Wexford. «Non è lui l'assassino e non è neppure il finto tassista di Dora.» 13 Il cartello al limite del prato diceva: "Euro-Fun, l'unico parco del Sussex con attrazioni internazionali". La scritta era blu su fondo bianco. Sotto, qualcuno aveva disegnato in modo abbastanza approssimativo un daino o un camoscio, un mulino a vento e una torre pendente che somigliava a quella di Pisa. Damon Slesar oltrepassò il cancello sgangherato e imboccò una strada in terra battuta che d'inverno doveva essere un pantano. Il parco era suddiviso in vari padiglioni tra cui zigzagava la strada. L'unico lato positivo era costituito dall'abbondanza degli alberi, che oltretutto avevano il pregio di nascondere alcuni obbrobri del parco. Ogni settore recava il nome della nazione riprodotta in quella zona su un cartello di legno appeso all'entrata. L'intero complesso era diventato squallido con il passare degli anni e di visitatori ce n'erano sempre meno. Cinque persone, tre adulti e due bambini, gironzolavano nell'area dedicata alla Danimarca, adocchiando con una certa perplessità una casetta delle bambole con il tetto verde e una statua di plastica raffigurante la Sirenetta seduta sul bordo di una vasca foderata di plastica blu. Difficile capire cosa venisse a fare la gente in un posto come quello. Forse ci andavano soltanto per fare una passeggiata e curiosare intorno, come la coppia che vagabondava tra i tulipani di cera all'ombra di un orribile mulino a vento di plastica bianca e rossa. Poco distante c'erano due ragazzini intorno ai dodici anni. Seduti sui gradini di uno chalet, guardavano con scarso entusiasmo un orologio a cucù il cui meccanismo si era rotto, lasciando l'uccellino muto e immobile fuori dal nido. «Hai mai portato qui i tuoi figli?» chiese Damon Slesar. «Stai scherzando?» replicò Nicky Weaver. «Oh, guarda il Partenone! Roba da non credere.» Sembrava di fibrocemento, o di gesso. Davanti all'Acropoli un manichino con una gonna bianca a pieghe e una giacca nera pizzicava uno stru-
mento a corde. Nel settore adiacente era rappresentata la Spagna, con un toro e un torero in cartapesta. Appena oltre c'erano la biglietteria e il parcheggio, e vicino a questo un bungalow che aveva urgente bisogno di una rinfrescata. L'uomo che ne emerse, di mezza età, indossava un pullover di lana grossa e calzoni di velluto grigio a coste. Aveva pochi capelli, ma in compenso i baffi folti e le basette lunghe. «Due biglietti, signori?» domandò. «Il parcheggio è più avanti.» «Polizia» disse Nicky, mostrandogli la tessera di riconoscimento invece dell'agognato denaro. «Cerchiamo il signore o la signora Royall.» Dalla sua reazione apparve evidente che doveva avere una certa familiarità con la polizia. Si batté una mano sul petto. «James Royall, per servirla. Che cosa posso fare per lei, signora?» Non l'aveva chiamata così né per una forma di cortesia né in segno di rispetto, ma semplicemente per fare lo spiritoso, sapendo che i poliziotti chiamano in quel modo le colleghe per prenderle in giro. «Siamo venuti per parlarle di suo figlio, Brendan.» «Mi dispiace, ma come vede non posso muovermi da qui.» Damon Slesar fece l'atto di guardarsi attorno. «Non mi pare che ci sia molta gente» osservò. «Non si può certo dire che facciano la coda per entrare.» «Vogliamo parlarle adesso, signor Royall» insistette Nicky. «Che si faccia sostituire da qualcuno o lasci il posto vuoto, per me non fa nessuna differenza.» All'interno del bungalow s'intravedeva uno stanzino che fungeva da ufficio. Nicky aprì la porta e fece segno a James Royall di seguirla. C'erano due sedie da cucina, un tavolo adibito a scrivania e parecchie mensole su cui erano allineati vari souvenir come statuette, animaletti, casette e altri piccoli oggetti, tutti rotti e in attesa di essere riparati. Royall si avvicinò al telefono e alzò la cornetta. «Mag, potresti venire un momento? Ho un piccolo problema.» Si rivolse a Damon. «Allora, di cosa volevate parlarmi?» «Abbiamo urgente bisogno di rintracciare suo figlio, signor Royall. Sa dirci dove possiamo trovarlo?» «Forse è meglio passare alla prossima domanda. Temo che abbiate sbagliato parrocchia. Io, mia moglie e mio figlio siamo una famiglia che si potrebbe definire disgregata. In altre parole, abbiamo tagliato i ponti.» «Per quale motivo?»
Invece di rispondere Royall spostò lo sguardo su Nicky, che per il suo aspetto, il suo atteggiamento e forse anche il suo grado e la sua professione trovava molto più divertente di Slesar. «Veramente non credo che siano fatti vostri» replicò, abbozzando un sorriso «ma siccome ho un buon carattere, ve lo dirò ugualmente. Tanto per cominciare, per qualche oscuro motivo mio figlio Brendan era convinto che, quando fossi entrato in possesso dell'eredità di mio padre, mi sarei fatto in disparte e avrei lasciato tutto quanto a lui. Baracca e burattini. Dopo aver venduto la casa gli ho dato ventimila sterline, ma credete che gli siano bastate? Continuava a batter cassa e non faceva che criticare il nostro parco, soprattutto il toro e il torero.» «Dimentichi la questione delle talpe, caro» disse la donna apparsa in quel momento sulla porta. «Già, Mag, hai ragione. C'è stata anche quella storia. Volendo evitare che il parco diventasse un grosso pezzo di groviera, tanto più che avevamo già il nostro angolo di Svizzera, abbiamo interpellato una ditta di derattizzazione perché ci liberasse da quell'inconveniente, ma senza chiedere il permesso a Sua Altezza Reale e quella è stata, come si suol dire, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.» La signora Royall, convocata d'urgenza perché prendesse in mano le redini della ditta e forse restia ad abbandonare il posto di comando, era rimasta ferma sulla soglia e di tanto in tanto si voltava a guardare se per caso arrivasse un'auto o una comitiva. «Sono la madre di Brendan» mormorò con aria mesta. «Per caso sa dirci dove possiamo trovare suo figlio, signora Royall?» le chiese Nicky. «Vorrei tanto poterle rispondere. Non immagina quanto sia doloroso per me avere perso i contatti con il mio unico figlio, e questo per colpa del suo grande amore per gli animali. Li amiamo anche noi, gli ho detto, ma a questo mondo bisogna essere pratici.» «Non è stato per gli animali, ma per i quattrini» sbuffò Royall. «Comunque sappiamo perfettamente dov'è: occupato a curare a vista i suoi futuri introiti, per poi poterli sperperare come ha fatto con i soldi di suo nonno.» «Potrebbe dirci dove esattamente?» «Marrowgrave Hall, signora. Sette anni fa ho venduto la casa a mia cugina, la signora Panick, e ho elargito metà del ricavato a quella sanguisuga maledetta...» «Oh, Jim!» gemette la signora Royall.
Mentre se ne andavano incrociarono un'auto con targa austriaca. Nicky si chiese che effetto avrebbe fatto a quei turisti vedere la propria nazione rappresentata da un cavallo di plastica con i finimenti dorati, un busto di Mozart e un carillon che, se s'inseriva una monetina da dieci penny, suonava valzer viennesi. «Non erano le stesse persone che avevano accompagnato dentro Roxane, Kitty e Owen» disse Dora. «O almeno, non sono del tutto sicura per quanto riguarda quello alto, ma l'autista stavolta non c'era. Quest'altro era più magro e anche più giovane.» «Quello alto è l'unico che sia riuscita a vedere in faccia, sia pure attraverso la calza che gli copriva il volto. Era una calza pesante e quindi poco trasparente. L'unica cosa su cui sono certa di non sbagliare è che era di razza bianca. Quanto ai suoi lineamenti, non saprei dire se fossero marcati oppure no. Come ho già detto, sembrava che avesse il viso di gomma. Se vedessi una sua foto, non credo che riuscirei a riconoscerlo. Non so neppure di che colore avesse gli occhi. Soltanto di uno di loro sono riuscita a distinguerne il colore.» «Tornando all'autista, temo di avere ben poco da aggiungere alla descrizione che ve ne ho già fatto. Gli occhi non li ho mai visti. Nessuno di loro apriva bocca, nessuno ci ha mai rivolto la parola. Il terzo uomo, quello che ha portato Roxane (ce n'era anche un quarto, che è comparso il giorno dopo), il terzo aveva un tatuaggio sul braccio.» «Un tatuaggio?» Wexford e Burden formularono contemporaneamente lo stesso pensiero. Era il tipico indizio dei vecchi romanzi polizieschi, quello ineliminabile che finisce per tradire l'assassino. Possibile che capitasse anche a loro un simile colpo di fortuna? «Un tatuaggio sul braccio?» ripeté Wexford. «Sei sicura?» «Certo. L'ho visto soltanto il giorno seguente, cioè mercoledì. Era una farfalla rossa e nera. Preferirei parlarvene dopo, se non vi spiace.» «D'accordo, come vuoi tu.» «Ho accennato all'esistenza di un quarto uomo» riprese Dora. «È comparso il giorno successivo con la prima colazione. Era alto anche lui, almeno quanto l'altro, ma oltre a questo non saprei cosa dire. Portava i guanti e perciò ignoro persino come fossero le mani. Era una figura mascherata dalla statura imponente, magro e diritto, e camminava con un passo svelto e deciso che mi avrebbe intimorita, se a quel punto non avessi già smesso
di avere paura. Il fatto è che ero arrabbiata e la collera rende temerari. Per farla breve, non sono riuscita a vedere in faccia nessuno di loro, e credo che questo valga anche per gli altri ostaggi.» «Il quarto uomo, quello con i guanti, l'ha visto per la prima volta il mercoledì?» «Esatto. Ma adesso non dovrei parlare di lui. Avrei fatto meglio a non accennare al tatuaggio. Vedo che ha trovato un modo carino per manovrarmi e portarmi dove vuole lei, non è così?» «Non mi permetterei mai» rispose Karen Malahyde con una risata. Ebbe un attimo di esitazione. «Perché l'hanno liberata?» «Non lo so.» «Ha detto che uno di loro le ha parlato.» «È stato ieri sera verso le dieci. Ero rimasta sola con Ryan. Gli altri erano già stati portati via. Sono arrivati in due, quello alto con i guanti e quello con il tatuaggio. Ero seduta sul letto, come sempre. Mi hanno fatto segno di alzarmi e di tendere le braccia. Ho obbedito e loro mi hanno ammanettata.» Wexford emise una sorta di gemito, che tentò di mascherare con un colpo di tosse. Strinse i pugni, tornò ad aprire le mani. Dora lo guardò con espressione assorta. «Mi hanno portata fuori. Non ho protestato né opposto resistenza. Avevo avuto modo di constatare come trattavano quelli che tentavano di ribellarsi. Non ho neppure salutato Ryan. Ero convinta che sarei tornata. Mi hanno infilato il cappuccio in testa, ed è stato allora che quello tatuato mi ha rivolto la parola. Era passato solo un minuto da quando mi avevano portata fuori, ma vi assicuro che è stato un tormento. Ero convinta che mi avrebbero ucciso. Ma andiamo avanti. È stato uno shock sentire la sua voce.» «Come parlava?» «In cockney, ma si capiva che non gli veniva spontaneo. Era come se avesse voluto impararlo per forza.» Burden incrociò lo sguardo di Wexford e accennò di sì con la testa. Il tizio che aveva telefonato a Tanya Paine parlava con un leggero accento cockney, ma dava l'impressione di averlo imparato con l'ausilio di un registratore. «Che cosa ti ha detto di preciso?» domandò a Dora. «Mi sforzerò di ripetere le parole esatte. Dunque: "Riferisca che prendiamo atto della sospensione dei lavori, ma che non è sufficiente: vogliamo la cessazione definitiva. Le trattative inizieranno domenica prossima". Mi ha chiesto di ripetere le sue parole e l'ho fatto. Avevo perso la voce per
la paura, ma mi è tornata di colpo quando ho realizzato che, se dovevo trasmettervi un messaggio, significava che intendevano liberarmi.» «Dopodiché ti hanno fatto salire in auto. Sai dirmi che macchina era?» «Ovviamente in quel momento non l'ho vista. Mi avevano girato il cappuccio in modo che non potessi vedere. Quindi, esattamente come all'arrivo, non ho avuto la possibilità di guardarmi attorno. Dopo avermi fatto sedere dietro, mi hanno messo la cintura di sicurezza. Il tragitto è durato circa un'ora e mezzo. Se non avessi avuto le manette ai polsi, avrei tentato di girare il cappuccio in modo da poter guardare fuori. Quando l'auto si è fermata, quello che guidava ha aperto la portiera, ha girato intorno all'auto e mi ha tolto il cappuccio. Era buio, ma sono riuscita ugualmente a capire che era lo stesso tizio del viaggio d'andata, quello più basso, con la barba. Quello che puzzava. L'ho riconosciuto anche dall'odore. Portava occhiali da sole scuri.» «Dopo avermi tolto le manette, ha sganciato la cintura di sicurezza, mi ha aiutata a scendere dall'auto e mi ha restituito la borsa, che non vedevo più da mercoledì. Non ha aperto bocca. Non ho mai sentito la sua voce. L'auto era ferma vicino al campo di cricket, vale a dire a cinquecento metri da casa. Doveva aver scelto quel punto perché da una parte c'è solamente il prato e dall'altra la chiesa metodista e il cimitero. In questo modo era sicuro che nessuno ci avrebbe visto.» «Era passata da poco mezzanotte e i lampioni erano spenti. È risalito in macchina e mi ha lasciata lì. Ho cercato di leggere il numero di targa, ma era troppo buio. Non sono riuscita a distinguere nemmeno il colore dell'auto. So soltanto che era chiara, forse azzurra o grigia. Ha percorso una cinquantina di metri prima di accendere i fari. L'unica cosa che ho visto è che la targa iniziava per L e c'erano un 5 e un 7.» «Mi sono incamminata verso casa. Avevo le chiavi nella borsa. Ho tentato di passare dalla porta sul retro, ma era chiusa con il catenaccio e così ho fatto il giro della casa.» S'interruppe. «Veramente lei mi aveva chiesto perché mi hanno liberata e io non ho ancora risposto alla domanda. Forse perché potessi trasmettervi il messaggio? Dubito che sia stato soltanto per questo. Francamente non so cosa dirle.» «Bene» mormorò Wexford «per oggi abbiamo terminato. Puoi continuare a parlarne con me in casa, se lo desideri, ma adesso basta con l'interrogatorio ufficiale. Ci hai già fornito abbastanza elementi su cui lavorare.» Era un brutto edificio, brutto come possono esserlo soltanto certi palazzi
sorti nell'ultimo periodo vittoriano. Strano, disse Hennessy a Nicky Weaver, che fosse stato costruito a scopo abitativo e non come sede di qualche ente. Il rivestimento era costituito principalmente da mattoni di un disgustoso color cachi, con qualche riga ornamentale di piastrelle rosse. Il tetto era quasi piatto. All'ultimo piano c'erano otto finestre a ghigliottina, tutte chiuse. Al piano di sotto ce n'erano altre otto, leggermente più incassate. Al pianterreno le sei finestre, tre su ciascun lato del portone, terminavano a punta a imitazione dello stile gotico. Il portone d'ingresso era basso, senza portico, neppure ricavato da un piccolo vano. In ogni caso Marrowgrave Hall era imponente, come ebbe modo di constatare Damon Slesar quando fece il giro del palazzo e vide che il lato posteriore era praticamente identico alla facciata. L'unico edificio annesso era un garage, uno di quelli prefabbricati che restano staccati dal resto della casa. Hennessy aveva dato una sbirciata dalla finestra sul retro, ma non aveva visto altro che una pila di sacchi vuoti. Nicky suonò il campanello. Venne ad aprire una donna mastodontica, così grassa che c'era da chiedersi dove trovasse la forza per muoversi e camminare, dovendo spostare una tale massa di lardo. Al di sotto dei cinquant'anni, o almeno così sembrava, aveva la faccia tonda, le labbra sottili e i capelli rossicci. Era avvolta in una sorta di tenda a disegni floreali che le arrivava ai polpacci. «La signora Panick?» s'informò Nicky. «Siete della polizia, vero? Vi stavamo aspettando. Ci hanno telefonato per avvertirci del vostro arrivo.» «Possiamo entrare?» Si sentiva odore di cibo, anzi un profumo invitante, soprattutto a stomaco vuoto. Un misto di vaniglia, zucchero caramellato e frutta. Mentre a passo di lumaca seguivano Patsy Panick lungo un austero corridoio, arrivavano a tratti effluvi diversi, prima di formaggio, poi di pancetta fritta. Sulla soglia della cucina furono investiti da un tripudio di aromi che faceva venire l'acquolina in bocca. Patsy si appoggiò allo schienale della sedia per riprendere fiato. Un uomo anziano, seduto a tavola, stava consumando quello che presumibilmente era il suo pranzo, benché fossero soltanto le undici e mezzo del mattino. Era obeso quasi quanto la moglie. Gli uomini ingrassano in modo diverso rispetto alle donne e mentre i chili in eccesso di Patsy erano distribuiti abbastanza equamente per tutto il corpo, quelli di Robert Panick si erano accumulati, simili a una grossa montagna, nella zona della pancia e
dello stomaco. Più tardi, mentre attraversavano Forby in macchina, Slesar disse di aver letto da qualche parte che per sedersi Tommaso d'Aquino aveva dovuto far tagliare via un pezzo del suo tavolo. Immaginarsi come doveva essere grande la pancia del celebre Doctor angelicus. Anche per Robert Panick non sarebbe stato male un espediente del genere: siccome il suo tavolo era integro, era costretto a stare seduto a oltre mezzo metro di distanza e a sporgersi ogni volta che doveva prendere qualcosa. Il piatto, ormai quasi vuoto, doveva aver contenuto un misto di carne di manzo, fegato e pancetta con contorno di patate, piselli e pane fritto. Sui fornelli accesi c'erano due tegami con il resto delle pietanze e sul tavolo il piatto della moglie, anch'esso semivuoto. La donna impugnò distrattamente la forchetta, infilzò un pezzo di carne e se la mise in bocca. «Non offri qualcosa da mangiare anche a loro, Patsy?» mormorò il marito, che fino a quel momento pareva non essersi accorto dei nuovi arrivati. «Ci sono dei biscotti e del cioccolato in frigorifero.» «No, grazie» rispose Slesar per tutti. «Molto gentile da parte sua. Grazie lo stesso. Vorremmo farvi qualche domanda riguardo alla casa. Se non sbaglio l'avete acquistata circa sette anni fa da un certo James Royall. È vero?» «Proprio così. Sei anni fa, per la precisione. Jimmy è mio cugino. Suo padre, che abitava qui, era mio zio. Questa casa ci è sempre piaciuta, vero, Bob? Ha il fascino delle cose antiche. Perciò, quando ci è capitata l'occasione di comperarla... Be', a Bob erano andati bene gli affari e così, quando ha cessato l'attività, abbiamo pensato che non sarebbe stato male investire una parte del capitale per acquistare la casa dei nostri sogni.» Il marito annuì, mangiò l'ultimo pezzetto di pane fritto e passò il piatto a Patsy perché glielo riempisse di nuovo. La moglie gli servì quasi tutto il contenuto dei due tegami, poi si calò sulla sedia, che gemette sotto il suo peso. «Non vi dispiace se continuo a mangiare, vero? Peccato che non vogliate farci compagnia. Gradite una fetta di pan di Spagna? L'ho preparato stamattina. Va bene, come preferite. Sapete, noi non abbiamo grandi esigenze. Ci basta poco per vivere. Non abbiamo neanche l'automobile. È per questo che ci siamo azzardati a comperare la casa, e devo dire che ce la caviamo abbastanza bene, vero, Bob? Certo, mio cugino Jimmy ci ha fatto un prezzo speciale, dato che siamo parenti.» «Immagino che conosciate bene anche Brendan, suo figlio» disse Nicky. «Se lo conosciamo? È quasi come un figlio per noi. Anzi, meglio. Pensi
che non vuole più saperne di Jimmy e di Moira. Dice che suo padre è crudele con gli animali e che inoltre gli ha praticamente rubato l'eredità del nonno. In effetti zio John ripeteva sempre che la casa sarebbe rimasta a Brendan dopo la sua morte. È vero che Jimmy gli ha dato un po' dei soldi ricavati dalla vendita, ma ne ha tenuto per sé la maggior parte per finanziare la sua nuova attività. Comunque ho detto a Brendan di non preoccuparsi, perché un giorno sarà tutto suo.» «Cosa intende dire esattamente?» «Che lo nomineremo erede della casa nel nostro testamento.» «Dunque continuate a vederlo.» «Naturalmente. Viene sempre a trovarci quando capita da queste parti. Come dico sempre a mio marito, Brendan ha scelto noi come genitori, da quando non va più d'accordo con i suoi. Sa perfettamente che da noi può trovare qualcosa di buono da mangiare in qualsiasi momento.» S'interruppe. «Hai fatto fuori tutta la carne, Bob» protestò. «Adesso devo trovarmi qualcos'altro da mangiare.» «C'è il budino, se non sbaglio» disse Panick, speranzoso. «Sì, certo. Quando mai ho servito un pasto senza il budino? Neanche una volta, da quando siamo sposati. Solo che ho ancora un buco vuoto nello stomaco. Mangerò un pezzo di formaggio prima di passare al dolce.» «Sa dirmi dove possiamo trovare Brendan, signora Panick?» «Be', sicuramente non dai suoi genitori. Può giurarci. Forse a Nottingham. So che era lì un paio di settimane fa. No, vi sto dicendo una bugia: è stato circa un mese fa. Ci era andato per qualche motivo che riguardava le farfalle, o forse le rane. Adora gli animali, Brendan. È il suo lavoro, sapete? Come se fosse una specie di Enpa. Al ritorno è venuto a trovarci. Quella sera avevamo fagiano per cena. Non fresco, naturalmente. Surgelato. Non è la stagione adatta: bisogna aspettare ancora un mesetto. Avevo preparato due salse diverse, un po' di patate al forno e un dolce al cioccolato con la panna montata.» «Erano circa le cinque di sera quando l'ho visto arrivare. Ha fermato il camper proprio sotto la finestra della cucina, per sentire il profumo di quello che avevo preparato da mangiare, mi ha detto.» «Vive in un camper?» domandò Hennessy. «Veramente è un motorhome Winnebago. Vede, Brendan è sempre in giro, non si sa mai dove trovarlo.» «Dunque non ha un recapito fisso?» «No, a parte questo indirizzo.»
«Se dovesse farsi vivo, le saremmo grati se ce lo facesse sapere.» «Senz'altro, non si preoccupi.» «Dove hai nascosto il budino, Patsy?» domandò Bob. Mentre attraversavano Forby (considerato un tempo il quinto paese nella graduatoria dei più pittoreschi d'Inghilterra) Nicky Weaver domandò: «Non sono sembrati anche a voi un po' troppo gentili?» «Che intendi dire?» domandò Hennessy. «Pensi che recitassero una parte?» «Può darsi che sbagli. Certo che, con tutto quello che ingurgitano quei due, Brendan Royall non dovrà aspettare a lungo per entrare in possesso dell'eredità.» «E pensare che vive in un motorhome!» esclamò Damon. «La solita fortuna!» «Cosa vuoi dire? Che lo invidi perché possiede un Winnebago, oppure che sei scocciato perché non sappiamo dove andare a cercarlo?» «Tutt'e due le cose» rispose Damon. Gli uomini erano quattro: uno tatuato, uno che puzzava di acetone, uno con i guanti. Del quarto non si sapeva nulla. Gli indizi erano una Golf rossa, una stanza al pianterreno, un piccolo bagno, dei cappucci tinti di nero, delle manette e un'auto chiara, la cui targa iniziava per L e conteneva un 57. Uno di loro parlava con inflessioni dialettali. Fu questo il quadro presentato da Wexford a quei componenti della squadra che, non essendo impegnati né a Nottingham né a Guildford, si presentarono alla riunione fissata per le quattro del pomeriggio nell'ex palestra. Gli riferirono di quel paranoico che aveva litigato con i genitori e viveva in un Winnebago. Nicky Weaver aveva già iniziato a darsi da fare per rintracciarlo. «Sono curioso di sapere se Brendan Royall ha un tatuaggio» mormorò Wexford. «Forse basterebbe domandarlo ai suoi genitori.» «Oppure alla signora Panick» suggerì Nicky Weaver. Lynn Fancourt disse timidamente che le seccava fare la figura dell'ignorante, ma ignorava cosa fosse un Winnebago. Burden le spiegò che era una casa viaggiante di lusso, quasi un salotto montato su ruote. Con un simile mezzo di trasporto, Royall poteva girare il paese in lungo e in largo e fermarsi a dormire senza problemi nelle piazzuole lungo la strada. A quel punto Wexford fece ascoltare alla squadra i nastri registrati. Il capo della polizia arrivò inaspettatamente cinque minuti dopo che avevano iniziato e si sedette con loro ad ascoltare il resto. Al termine accompagnò
Wexford nel suo ufficio. «Sua moglie dovrebbe avere ancora molte cose da dirci, Reg.» «Me ne rendo conto, signore, ma ho un po' paura...» «Sì, capisco e sono perfettamente d'accordo. Crede che potrebbe tornarle utile parlare con uno psicanalista?» «Le dirò francamente che è come se lo fossi. Lei racconta e io ascolto. Parleremo ancora stasera.» Il capo della polizia diede un'occhiata all'orologio. «Si ricorda di avermi detto che i giornalisti non sarebbero affatto contenti se il silenzio stampa terminasse di venerdì o di sabato? E che preferirebbero si concludesse la domenica sera?» Wexford annuì. «Allora lo interromperemo domani.» «Va bene, come desidera.» «D'accordo. Li faccia venire tutti qua. So bene che pioveranno le telefonate e qualcuno ci dirà di avere visto gli Struther a Majorca o a Singapore, mentre qualcun altro sosterrà che la stanza al pianterreno dov'erano tenuti prigionieri gli ostaggi è quella del suo vicino di casa; ma d'altro canto potremmo ricevere anche informazioni utili. In questa fase ne abbiamo proprio bisogno, Reg.» «Ha ragione, signore.» «A volte penso che dovremmo adeguarci ai sistemi in vigore in altri paesi d'Europa. In Francia, per esempio, dove le indagini sono tenute segrete, la polizia si muove nell'ombra e i cittadini non sanno assolutamente nulla di quello che avviene. Durante le indagini sarebbe preferibile tenere a distanza la stampa, il pubblico e le famiglie delle vittime. Quando i cittadini sono al corrente di tutto, aumenta la pressione a cui siamo sottoposti.» Era uno degli argomenti trattati nel corso della conferenza sui metodi della polizia nel resto d'Europa. «Pretendono di avere subito dei risultati» convenne Wexford. «Già. Peccato che la fretta sia una cattiva consigliera.» Ora Wexford era libero di andarsene a casa. Stava percorrendo High Street, quando vide una fila di amici degli alberi, carichi di pacchi, alla ricerca di punti strategici dove piazzarsi per fare l'autostop. Se ne stavano andando, almeno in parte. In attesa che si risolvesse la questione della tutela dell'ambiente a Kingsmarkham, andavano a portare altrove la loro protesta. La vista della Golf rossa ferma davanti a casa lo fece trasalire. Natural-
mente era quella di Sylvia. Era così coinvolto in quella storia da non riconoscere neppure l'auto di sua figlia. Entrato in casa, trovò sia Sylvia che Sheila. Dora aveva Amulet in braccio. Era la prima volta che vedeva la bambina. Di primo acchito Wexford non ci aveva pensato. «Stanotte Sylvia e io ci fermiamo qui a dormire, papà» l'informò Sheila. «Preferisco dirtelo subito, così non farai tante storie.» «Non posso che essere felice all'idea di averti qui in casa» mentì. Guardò Sylvia e sorrise. «Questo vale anche per te, naturalmente.» «Rilassati, papà» disse Sylvia, alzandosi. «Ce ne andiamo. Siamo venute solo a trovare la mamma. Non trovi che siamo state brave a tenere la bocca chiusa fino ad ora? Voglio dire, Sheila conosce un mucchio di giornalisti e avrebbe potuto lasciar trapelare qualcosa, e invece siamo state mute come pesci.» «Siete state bravissime» convenne Wexford. «Comunque da lunedì prossimo sarete libere di parlarne con chi vi pare.» Guardò Sheila fingendo di assumere un'aria severa. «È la prima volta che mi capita di vedere una giovane mamma scorrazzare in mezzo alla campagna con una bimba di una settimana. E adesso datemi un bacio, tutt'e due, e filate a casa vostra.» Dopo che le figlie se ne furono andate, strinse la moglie tra le braccia e sentì che le batteva forte il cuore. Dora gli mise una mano sulla spalla e Wexford si accorse che tremava. «Ti va di bere qualcosa? Oppure vuoi mangiare? Ti porto fuori a cena, se hai voglia di uscire. È un po' tardi, ma se andiamo al La Méditerranée non ci sono problemi.» Dora scosse la testa. «Ho cominciato a tremare quando sono arrivata a casa. Mi ha accompagnato Karen. È entrata anche lei per prepararmi una tazza di tè, e quando se n'è andata è iniziato il tremito. Poi sono arrivate le ragazze. Pensa che Sheila è venuta da Londra con un taxi. Non voglio più tremare, Reg. È così seccante.» «Pensi che ti farebbe bene ricominciare a parlare? Della tua brutta avventura, intendo.» «Forse sì.» «Devo registrare quello che dici.» «Fai pure, non è un problema.» Ridacchiò. «Mi sa che comincio a essere un po' viziata. Non riuscirò più ad avere una normale conversazione, a meno che non abbia un registratore accanto.» 14
«Se nessuno di loro parlava» domandò Wexford «come hanno fatto a scoprire chi siete?» Dora aveva le occhiaie e piccole rughe intorno alla bocca che non ricordava di aver visto prima. In compenso non tremava più. Teneva le mani abbandonate in grembo. Anche la voce era ferma. «Dopo l'arrivo degli Struther, il tizio con il tatuaggio è tornato nella stanza e ha dato un foglio di carta a ciascuno di noi. Erano fogli a righe strappati da un notes. Non ha aperto bocca. Kitty Struther, sdraiata sul letto, piangeva e continuava a ripetere che voleva partire per la sua vacanza. Era curioso sentirla lamentarsi in quel modo. Ci trovavamo in quella situazione disperata, e lei piagnucolava perché doveva rinunciare al viaggio. Il tizio tatuato ha lasciato il foglio accanto a lei, ma gliel'ha compilato il marito.» «C'era scritto soltanto la parola "nomi", sufficiente per capire cosa volessero da noi. In principio Owen Struther diceva che erano dei terroristi, dei criminali e che non intendeva prendere ordini da loro. Però quando Roxane gli ha detto che l'avevano picchiata e gli ha mostrato il livido che aveva sulla fronte, si è deciso a compilare i fogli. Sosteneva di averlo fatto per il bene di sua moglie. Ciascuno di noi ha scritto il proprio nome e dopo un po' l'uomo tatuato è tornato a ritirare i fogli.» «Quindi non gli hai detto chi sei?» Lo guardò attonita. «Ho scritto Dora Wexford, naturalmente. Ah, capisco dove vuoi arrivare. Non gli ho detto che sono tua moglie. Supponevo che lo sapessero, ma forse sbagliavo.» Sentendo pronunciare il suo nome, quante persone avrebbero capito che era lui? Non molte. Certo, in passato gli era capitato qualche volta di apparire in televisione per parlare di casi precedenti, per lanciare appelli a eventuali testimoni e per chiedere alla gente di collaborare; ma è piuttosto improbabile che gli spettatori memorizzino il nome di un funzionario di polizia. «Non dimenticare che non ci rivolgevano mai la parola, Reg, e che a nostra volta evitavamo di parlare con loro. La prima volta che ci hanno portato da mangiare, Kitty ha ringraziato e Roxane è scoppiata a ridere. Il tizio tatuato l'ha afferrata per le spalle e ha continuato a scuoterla finché ha smesso. Nessuno di noi si azzardava a parlare. Probabilmente ignoravano che sei tu a occuparti delle indagini.» In ogni caso l'avevano scoperto di sicuro prima di venerdì pomeriggio,
pensò Wexford, ed era quello il motivo per cui avevano deciso di liberare Dora. Era un po' troppo azzardato avere sua moglie tra gli ostaggi, una complicazione di cui avrebbero fatto volentieri a meno. Inoltre rilasciandola erano sicuri che gli avrebbe riferito il messaggio. Ma come avevano fatto a scoprire chi era? «Hai detto che l'uomo tatuato ha picchiato Roxane quando si è avventata contro di lui e il suo amico Faccia-di-gomma. Per quale motivo non si sono comportati allo stesso modo con Kitty Struther?» Dora rifletté un istante. «Kitty non l'ha aggredito. Si è limitata a piangere e a gridare.» «Però gli ha sputato in faccia. Al suo posto chiunque si sarebbe arrabbiato. E quando la ragazza è scoppiata a ridere perché Kitty l'aveva ringraziato per il cibo, l'ha presa per le spalle e l'ha scossa.» «Be', non so cosa dirti, Reg. È evidente che non la potevano soffrire, forse perché Roxane aveva dato dei problemi fin dall'inizio. Owen Struther diceva che non si sarebbe mostrato troppo condiscendente e che non bisognava "arretrare di fronte al nemico". È troppo giovane per avere combattuto nella seconda guerra mondiale, eppure parlava come se fossimo stati prigionieri di guerra. Però all'atto pratico l'unica a ribellarsi era Roxane. La seconda volta sono venuti l'autista e Faccia-di-gomma a portarci da mangiare. "Cos'è questa porcheria?" ha protestato la ragazza, dando un'occhiata al piatto e scaraventandolo sul pavimento. C'erano fagioli in umido e pane. I fagioli erano freddi ma mangiabili, soprattutto perché eravamo affamati, eppure Roxane non ha esitato a gettarli via. Faccia-di-gomma ha alzato la mano per colpirla e lei si preparava a reagire. È stato un momento terribile. Per fortuna quella volta è intervenuto Owen, riuscendo a evitare il peggio. Non ha fatto granché: si è limitato a dire che non dovevano perdere la calma e ha posato una mano sulla spalla di Roxane. Non so se fosse per i suoi modi autoritari o per altri motivi, comunque tendevano a dargli retta. Dopo quell'incidente Kitty ha ricominciato a piangere. Owen si è seduto vicino a lei e le ha accarezzato la testa, tenendola per mano. Il tizio tatuato è tornato e ha pulito il pavimento.» «Quella sera avete dormito tutti nella stanza al pianterreno?» «Verso le dieci sono arrivati Faccia-di-gomma e il Tatuato. Hanno spento la luce e tolto la lampadina e hanno fatto la stessa cosa nello stanzino da bagno. Arrivavano sempre in coppia. Dopotutto eravamo in cinque, anche se Kitty e io non rappresentavamo un pericolo. La stanza era completamente buia, ma dopo un po' abbiamo iniziato a vedere un filo di luce filtra-
re dalla finestra che dava sulla baracca.» «Luce artificiale, intendi?» «Sì. Poteva essere un lampione o una lampadina sotto il portico. Non era la luce della luna, quella l'abbiamo vista giovedì. Ogni letto aveva una coperta, ma non c'erano cuscini. Non faceva freddo. Nessuno di noi si è mai spogliato, ovviamente. Io mi toglievo la gonna e la giacca. C'è un particolare che ti farà ridere...» «Davvero? Ne dubito.» «Invece sì, Reg. Avevo messo uno spazzolino da denti nella borsa. Il giorno dopo me l'hanno portata via, ma quella sera l'avevo ancora. Il giorno prima avevo comperato tre tubetti di dentifricio. Era una di quelle offerte speciali in cui, acquistando tre confezioni, danno in omaggio uno spazzolino da denti con un piccolo tubetto di dentifricio, il tutto in una busta di plastica da viaggio. Non so perché, l'avevo messo nella borsa. Pensa, l'abbiamo usato tutti. Se qualcuno mi avesse detto che avrei condiviso lo spazzolino da denti con quattro estranei, non ci avrei mai creduto.» «Eravamo sdraiati sul letto, al buio, quando Owen Struther ha iniziato a dire che il primo dovere di ogni prigioniero è cercare una via di fuga. Lo stanzino da bagno non aveva porte comunicanti con l'esterno né finestre; quindi non restava che la porta principale e la finestra a sbarre che si affacciava sulla baracca. Secondo lui, questa era la nostra unica possibilità. Il mattino seguente l'avrebbe esaminata.» «Ryan Barker non aveva quasi aperto bocca finché c'era la luce accesa, ma l'oscurità deve avergli dato coraggio. Ha detto di essere d'accordo sull'opportunità di tentare la fuga e che era disposto a collaborare. Owen si è complimentato con lui e il ragazzo ha replicato che suo padre era un soldato. Sembrava quasi che non parlasse con lui, ma con se stesso. Ha detto che il padre aveva combattuto in guerra (in quel momento non ha precisato quale) e che era morto per la patria. Mi ha dato una strana sensazione sentirgli dire al buio: "Mio padre è morto per la patria".» «Kitty aveva ripreso a piangere. Voleva che il marito la tenesse tra le braccia. Per noi sarebbe stato piuttosto imbarazzante, ma in ogni caso non era proprio possibile perché i letti erano molto piccoli, larghi sessanta centimetri al massimo. Piagnucolava che il marito avrebbe dovuto confortarla, che doveva occuparsi di lei, che si sentiva sola e aveva paura.» «Credevo che non sarei riuscita a chiudere occhio e invece ho dormito. Prima di addormentarmi avevo meditato a lungo, cercavo di capire come avessero fatto i rapitori a intercettare i clienti della Contemporary Cars. In
quattro non doveva essere stato difficile. Oltretutto ho scoperto in seguito che gli uomini erano di più. Ma di questo parleremo dopo. A forza di pensare, alla fine mi sono addormentata e più tardi mi sono svegliata sentendo traballare il letto accanto al mio. Strano, parlando ho smesso di tremare. Ti assicuro che è un bel sollievo.» «Finché sono rimasta lì non mi è mai capitato. Roxane invece tremava come una foglia, per questo il suo letto faceva rumore. Ho allungato la mano verso di lei. Me l'ha stretta e mi ha detto che le dispiaceva, ma non riusciva a dominarsi. La sua non era paura, come quella di Kitty. La verità era che soffriva di claustrofobia.» «Ah, già» mormorò Wexford. «Lo sapevi?» «Me l'ha detto sua madre. Pare che sia una forma molto forte.» «È vero. Mi ha spiegato che con la luce andava abbastanza bene, ma al buio era un disastro. Non avrebbe avuto problemi con la porta aperta, ma logicamente era sempre chiusa.» «È una ragazza piena di buonsenso, Reg, te l'assicuro, ma ha troppo coraggio e questo è pericoloso. Abbiamo avvicinato leggermente i letti. Il fatto che la tenessi per mano la faceva stare un po' meglio. Dopo un po' ci siamo addormentate tutt'e due.» «Il mattino seguente sono venuti Faccia-di-gomma e Mano-guantata a portarci la colazione. Era la prima volta che lo vedevamo. Era armato.» «Che tipo di arma?» domandò Wexford. «Una pistola o una rivoltella. Non lo so con precisione. Comunque in seguito Owen, che di armi se ne intendeva, ha detto che era finta. Quindi è probabile che lo fosse anche la pistola che Faccia-di-gomma aveva in macchina.» «Gli è servita più tardi. Oh, non guardarmi in quel modo, nessuno è rimasto ferito.» Dora gli prese una mano e la strinse fra le sue. «Non hanno rimesso le lampadine al loro posto, né quel mattino né mai. La stanza non era molto luminosa, anche se fuori c'era il sole. Di luce ne entrava poca, sia per le sbarre sia per la baracca. Mano-guantata ha tolto il lucchetto dalla finestra e l'ha aperta. Non era una mossa azzardata come poteva sembrare, perché le sbarre erano così fitte che a malapena sarebbe passato un braccio. Comunque se non altro è servito a fare entrare un po' d'aria fresca.» «La prima colazione consisteva in pane bianco (sai, del tipo che si compera già affettato), un'arancia, una tortina ciascuno, delle piccole confezio-
ni di marmellata come quelle che usano negli alberghi, una tazza di caffè istantaneo a testa e tre bottiglie di latte di soia. La prima colazione era abbondante perché non mangiavamo altro fino all'ora di cena. Owen diceva che avremmo potuto tentare di affilare il cucchiaio e poi usarlo a mo' di cacciavite per far leva sui cardini della porta. Ma quando Faccia-di-gomma è tornato a recuperare i vassoi, prima di portarli via si è accertato che non mancasse nulla. Vuoi che ti racconti come abbiamo trascorso il resto della giornata?» «No, cara, adesso te ne vai a letto. Tra poco ti porterò qualcosa di caldo da bere. Riprenderemo a parlare domani.» Rimasto solo, Wexford si sforzò di capire quale potesse essere il particolare che gli aveva fatto suonare più di un campanellino nella testa. Gli venne in mente di colpo: il latte di soia, quello che ogni mattina servivano agli ostaggi. Il giorno prima lui stesso ne aveva aggiunto al suo tè, mentre era al bar con Gary e Quilla, e gli aveva lasciato un saporaccio in bocca. Gli sembrava che fossero passati cent'anni da quel momento, con tutte le cose che erano capitate dopo. Quei due sapevano che era un poliziotto, ma ignoravano il suo nome. Era stato lui a informarli che si chiamava Wexford e, notando che Quilla aveva avuto un sussulto, aveva attribuito quella reazione al fatto che fosse intimidita dal suo grado di ispettore capo; ma forse non era questa la spiegazione. Verso le cinque e mezzo di venerdì pomeriggio, seduto al bar di Framhurst, aveva rivelato a Quilla e a Gary il suo nome e il suo grado. Quattro ore più tardi erano iniziati i preparativi per liberare sua moglie. Wexford si muoveva su un territorio che non era il suo, dove tutto era nuovo e sconosciuto. In alcuni momenti aveva l'impressione di riuscire a trovare la strada in quella foresta tenebrosa piena di piante esotiche, di ostacoli invisibili e di animali pericolosi. La cattura degli ostaggi, il prezzo del riscatto che non era una richiesta di denaro, costituivano per lui un problema che non si era mai sognato di dover affrontare e, se gli avessero proposto di occuparsene, avrebbe suggerito di rivolgersi a qualcun altro, magari nelle alte sfere. Quella domenica mattina aveva la sensazione di essere arrivato in una zona particolarmente impenetrabile della foresta, dove però doveva passare per forza. Non sapeva nemmeno quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Ora i computer contenevano una mole incredibile d'informazioni: det-
tagli su ogni pista seguita fino a quel momento, particolari del passato di ogni persona il cui nome era emerso nel corso delle indagini, controlli incrociati sulle loro attività, risultati di ricerche condotte per individuare possibili nascondigli e trascrizioni d'interrogatori. C'era anche il testo della lettera ricevuta dal Kingsmarkham Courier e il contenuto dei messaggi successivi. In tutto quel materiale Wexford non riusciva a trovare niente di concreto, nulla da cui potesse desumere che si avvicinava il momento in cui avrebbe potuto impartire l'ordine di concentrarsi su un determinato luogo e su una persona (o più persone) ben precise. Aveva spedito il sergente Cook e l'agente Lowry a cercare Gary e Quilla per portarli alla stazione di polizia di Kingsmarkham. C'era da sperare che si trovassero ancora all'accampamento di Elder Ditches e non fossero già partiti il giorno precedente insieme con tanti altri. Dora dormiva ancora mentre lui si preparava per uscire. Stava cercando di decidere sul da farsi, quando aveva telefonato Sheila, che aveva trascorso la notte dalla sorella. Gli aveva assicurato che sarebbe andata a casa e sarebbe rimasta a tener compagnia alla mamma fino al suo ritorno. Se non altro quel problema era risolto. Benché fosse come cieco nel mezzo della foresta tenebrosa, era riuscito comunque a prendere una decisione. Si era reso necessario riunire le famiglie degli ostaggi nell'ex palestra insieme con gli uomini della squadra non impegnati altrove e informare i primi sulla situazione attuale, precisando che la storia sarebbe uscita sui quotidiani il lunedì mattina. Nonostante il giudizio favorevole espresso dal capo della polizia sui metodi usati in altri paesi, ormai avevano coinvolto le famiglie e non potevano tirarsi indietro. Ora, mentre li aveva tutti seduti di fronte, si chiedeva se avesse preso la decisione giusta. D'altronde chi poteva dirlo, visto che non c'erano precedenti? Si ricordò che Audrey Barker gli aveva chiesto di poter contattare l'altra madre per formare una sorta di comitato. Non gliel'aveva concesso innanzitutto per ridurre al minimo il rischio di una fuga di notizie. Ora, se lo desideravano, avrebbero potuto farlo. Parlarne insieme poteva essere motivo di conforto. Eppure, adesso che avevano l'opportunità di conoscersi, ciascuno di loro stava seduto isolato, in silenzio, lanciando occasionalmente uno sguardo furtivo agli altri. La signora Peabody non era venuta e perciò Audrey Barker era l'unica tra i familiari degli ostaggi a non avere nessuno accanto. Mesta, pallida, con la testa bassa e le mani abbandonate in grembo, metteva tristezza sol-
tanto a guardarla. La notizia che il figlio era vivo non era bastata a dissipare la sua disperazione. L'aspetto di Clare Cox contrastava nettamente con il suo. Sembrava traboccante di vitalità, di energia e di ottimismo e soprattutto diversa. Una gonna, una giacca e un paio di scarpe nere con il tacco alto avevano operato il miracolo. Aveva i capelli legati sulla nuca con un nastro di seta nera. Al suo fianco era seduto Masood, elegante in un abito scuro e stavolta senza la sua nuova famiglia. Wexford notò che i due si tenevano per mano. Andrew Struther si era fatto accompagnare da Bibi, con cui di tanto in tanto scambiava qualche parola sottovoce. Era teso e aveva l'aria stanca. La ragazza indossava un paio di calzoncini bianchi e un top rosso che le lasciava scoperta la vita, mentre il fidanzato era vestito in modo formale, con camicia bianca e cravatta, giacca di lino e pantaloni scuri. Anche loro due si tenevano per mano, ma in modo più sfacciato e sensuale rispetto ai genitori di Roxane. Bibi era serena. D'altro canto perché avrebbe dovuto preoccuparsi, visto che non erano i suoi genitori a essere stati rapiti? Wexford salì sulla pedana improvvisata e iniziò a parlare. Per prima cosa disse che da quella sera avrebbe avuto termine il silenzio stampa imposto ai giornali il mercoledì precedente. I giornalisti sarebbero stati liberi di pubblicare tutte le notizie di cui erano già a conoscenza, oltre a quelle più recenti che il Cid di Kingsmarkham avrebbe comunicato loro quel giorno stesso. Probabilmente già sapevano che il Sacro Globo aveva rilasciato sua moglie. Era da lei che avevano avuto notizie degli ostaggi. Il venerdì, quando era stata liberata, erano tutti vivi e in buone condizioni di salute. Recava un messaggio da parte dei rapitori, e cioè che quel giorno, domenica, sarebbero iniziate le trattative. Ancora non si sapeva cos'avessero in mente; comunque era presumibile che i negoziati non sarebbero stati condotti dalla polizia e quindi ancor meno riguardavano i familiari degli ostaggi. Tutti l'ascoltarono con la massima attenzione. Wexford chiese se qualcuno avesse domande da porgli. Sapeva di non essere stato sincero al cento per cento con loro, ma forse non lo era stato nemmeno con se stesso. Gli ostaggi erano davvero tutti vivi e in buona salute? Ora si rendeva conto del motivo per cui non era andato a fondo alla questione. C'erano cose, sul conto di Roxane Masood in particolare, ma anche sugli Struther, che aveva preferito ignorare prima dell'incontro con i parenti. La liberazione di Dora aveva dato loro qualche speranza e forse non era il caso di soffocarle sul nascere.
Audrey Barker alzò la mano. «Signora Barker?» Aveva gli occhi sbarrati come se avesse appena visto un fantasma. «Potrebbe dirmi qualcosa di più sul conto di Ryan?» domandò con la voce di chi trattiene a stento le lacrime. «Come se la cava? Com'è il suo morale?» «Venerdì sera stava bene ed era tranquillo» rispose Wexford, guardandosi bene dall'aggiungere che da quel giorno in poi sarebbe rimasto solo. «Gli ostaggi hanno cibo a sufficienza. Da quel punto di vista non hanno problemi. Hanno la possibilità di lavarsi, un letto e delle coperte.» Non chiedetemi se stanno tutti insieme, pregò mentalmente. Non chiedetemi dov'è la ragazza. Nessuno glielo domandò. Clare Cox dava per scontato che Roxane fosse nella stanza con gli altri quando Dora era stata liberata. Masood stava annotando qualcosa su un piccolo taccuino di pelle. Alzò la testa. «Potrebbe dirci chi si occupa di loro?» «Pare che siano cinque uomini, oppure quattro uomini e una donna.» «Per quanto riguarda il luogo dove sono tenuti prigionieri, avete già qualche indizio?» «Sì, diversi. In realtà stiamo seguendo varie piste. Per il momento ignoriamo dove si trovano, ma sicuramente in un raggio di cento chilometri al massimo. Potrebbe esserci una svolta domani, quando i mass media inizieranno a occuparsi del caso.» A questo punto sorgeva spontanea una domanda. Fu Andrew Struther a porgliela. «Bene, d'accordo, ma vorrei sapere perché non vi siete impegnati a fondo per cercarli. Quanti giorni sono passati? Cinque? Sei? Che avete fatto esattamente?» «Signor Struther» rispose Wexford in tono misurato «ogni singolo uomo di cui disponiamo, nessuno escluso, sta impegnandosi al massimo per trovare i suoi genitori e gli altri ostaggi. Collaborano con noi cinque agenti speciali della locale Squadra Anticrimine.» «L'impossibile lo facciamo già» disse Masood, come se la battuta fosse nuova o spiritosa. «Per i miracoli ci stiamo organizzando.» «Mi auguro vivamente che non occorra un miracolo» replicò Wexford. «Se non avete altre domande, direi che per oggi possiamo salutarci. Se lo desiderate, potete fermarvi a parlare tra voi. Qualcuno ha manifestato il desiderio di costituire una sorta di comitato di solidarietà tra i familiari degli ostaggi. Credo che potrebbe essere una buona idea.»
Sperava di essersela cavata, ma purtroppo non avevano ancora finito con lui. L'altra domanda che aveva previsto e che non era ancora saltata fuori venne formulata inaspettatamente da Bibi. «È un po' strano, cioè, è curioso che abbiano liberato proprio sua moglie, vero? Voglio dire, come spiega questo fatto?» La collera che doveva sforzarsi di dominare gli esplose dentro, quel tipo di collera per cui l'ipertensione dà una sensazione fisica precisa, con il sangue che ribolle nelle vene. Respirò profondamente, imponendosi di stare calmo. «Non me lo spiego affatto» rispose. «Spero solo che si scopra presto la verità, sia riguardo a mia moglie sia per tutto il resto.» Tacque un istante. «Nei prossimi giorni dovrete rassegnarvi a essere presi di mira dalla stampa. Siete liberi di dire tutto ciò che vorrete nel corso di eventuali interviste: la polizia non vi pone restrizioni di sorta.» Alzò la testa. «Tenete alto il morale. Siate ottimisti.» Lo guardarono come se li avesse insultati. «Grazie per la vostra attenzione.» Scese dalla pedana con una voglia incontenibile di svignarsela alla chetichella, cosa che naturalmente non poteva permettersi. I parenti degli ostaggi indugiavano. Sembrava quasi che si aspettassero un rinfresco. A quel punto accadde una cosa strana: le due madri andarono istintivamente l'una verso l'altra, come attratte da una calamita. Fino a quel momento non avevano avuto nessun contatto. Ora, come se improvvisamente le sue parole avessero resa consapevole ognuna delle due dell'angoscia dell'altra, si mossero incontro a vicenda, guardandosi negli occhi. Quasi seguissero un copione prestabilito, ciascuna delle due madri tese le braccia verso l'altra. Gli uomini non avrebbero mai fatto un simile gesto, pensò Wexford. Sono più goffi e s'imbarazzano facilmente. Lui stesso, semplice spettatore di quell'abbraccio, non si sentiva del tutto a suo agio. Masood girò la testa dall'altra parte e Struther mormorò qualcosa a Bibi, che ridacchiò. Wexford diede un colpetto di tosse. Si sarebbero tenuti in contatto, disse, e concluse ricordando a tutti che l'indomani mattina la stampa avrebbe pubblicato la notizia. Dora, che Karen era andata a prelevare a casa, ora sedeva nell'ufficio del marito, un ambiente un po' meno freddo dell'ex palestra. Una notte di riposo aveva migliorato il suo aspetto. Appariva meno stanca e meno tesa. Le era tornata un po' della sua innata vivacità e si era vestita con maggiore cura del giorno precedente. Sopra la gonna indossava una camicetta che non le aveva mai visto, blu e beige, un abbinamento che le donava.
Era presente anche Burden e il registratore era già in funzione. Mentre all'inizio Dora si era mostrata un po' impacciata, ora si era sciolta e parlava con disinvoltura, come se non ci fosse registratore. «L'ispettore capo Wexford è entrato nella stanza alle 10.43» dichiarò Burden. Dora sorrise, divertita. «Dov'ero arrivata? Avevo già iniziato a parlare del primo mattino?» «Di mercoledì mattina, 4 settembre» rispose il poliziotto. «Bene. Se non avete niente in contrario, per comodità li chiamerò l'Autista, Mano-guantata, Faccia-di-gomma e il Tatuato.» Le risposero con un sorriso incoraggiante. «Il quinto, lo chiamerò... Dunque, come si dice? Non travestito. Ah, sì, ermafrodito.» «Cosa?» mormorò Burden. «Stai scherzando?» «Non saprei dire se fosse un uomo o una donna. Tieni presente che non potevamo vederli, né sentire le loro voci. Sono stati furbi a non parlare mai, vero?» «I criminali incalliti difficilmente lo fanno» replicò Burden. «Noi ne sappiamo qualcosa. Continua, Dora.» «Tutti gli altri avevano scarpe da ginnastica nere, invece l'Ermafrodito portava quelle scarpe pesanti, con la suola spessa... Le chiamano Doc Marten's, se non sbaglio. Forse per sembrare più alta, se era una donna. Aveva un modo di camminare più femminile rispetto agli altri, un passo più leggero... Non so se rendo l'idea.» «Quel mattino, appena siamo rimasti soli, Owen Struther si è messo subito all'opera con Ryan. Si era fissato di tentare la fuga e credo che abbia scelto di farsi aiutare dal ragazzo perché, pur essendo giovanissimo, comunque è un uomo. Figuratevi che non ha ancora quindici anni ed è già alto un metro e ottanta. Quella storia non mi convinceva proprio a causa della sua giovane età.» «Owen continuava a ripetergli che doveva comportarsi da uomo. Era loro dovere proteggere noi donne, il loro ruolo nella vita, e l'importante per Ryan era non mostrare mai di avere paura. Mentre gli diceva queste sciocchezze sono andata in bagno a lavarmi. Sono rimasta dentro parecchio, anche perché era un modo di passare il tempo.» «Dopo di me si è lavata Roxane e abbiamo usato entrambe il mio spazzolino da denti. Quando siamo uscite ho avvertito Kitty che avevamo finito, ma lei non mi ha quasi dato retta. Poco prima l'avevo vista camminare per la stanza come un leone in gabbia e battere i pugni contro il muro, per
poi accasciarsi, sfinita, sul letto. A colazione aveva bevuto soltanto il caffè e sembrava in preda alla disperazione.» «Era strano vedere il marito così attivo, energico e determinato, simile a certi ufficiali coraggiosi che si vedono nei film di guerra, e lei così fragile, sempre sul punto di avere una crisi di nervi. Certo, all'inizio aveva reagito sputando e dicendo parolacce, ma poi si era calmata e non aveva più avuto reazioni vistose. Mi sembrava impossibile che due persone così diverse tra loro avessero potuto non soltanto sposarsi, ma anche restare insieme per tanti anni.» «Qual era il piano di fuga di Struther?» domandò Wexford. «Ci stavo appunto arrivando. Ho trascorso la mattinata conversando con Roxane. Mi ha parlato dei suoi genitori e in particolare del padre, un ricco imprenditore nato a Karachi, che era arrivato in Inghilterra da ragazzo e si era fatto da solo. Roxane era fiera di lui, mentre per la madre provava più compassione che altro. Diceva che era stata lei a rifiutarsi di sposare il signor Masood, benché lui volesse farlo. Lei stessa, quando aveva dieci anni, l'aveva sentita più di una volta rifiutare la proposta di matrimonio. Clare (Roxane la chiama per nome) ha sempre anteposto la carriera a tutto il resto e sostiene che il matrimonio non è più di moda. In realtà non si può dire che di carriera ne abbia fatta molta. Comunque alla fine il signor Masood ha sposato un'altra donna e ha avuto dei figli. Roxane ne ha sofferto. È gelosa della sua attuale moglie, non la sopporta e la critica in continuazione perché è grassoccia mentre lei, naturalmente, è secca come un'acciuga.» «Mi ha detto che vorrebbe fare la fotomodella e che il padre sta cercando di darle una mano. Poi mi ha parlato della claustrofobia, spiegandomi che le è venuta per colpa della nonna, la mamma di Clare, che da piccola la metteva in castigo in uno sgabuzzino. Se è così, è terribile, ma chissà se la causa è davvero quella, spesso queste turbe psicologiche hanno motivazioni più complesse.» «Comunque, ora basta parlare di lei. Soffriva di claustrofobia, ma in quella stanza relativamente spaziosa non aveva grandi problemi. Mi chiedevo però come se la sarebbe cavata se fosse riuscita a realizzare il suo sogno di diventare una fotomodella e magari le fosse capitato di dormire in qualche stanzetta d'albergo. Certo, se diventasse famosa come Naomi Campbell, potrebbe permettersi una suite e il problema sarebbe risolto.» «All'ora di pranzo non ci hanno portato niente da mangiare. Per diverse ore di fila non abbiamo visto nessuno. Owen Struther ne ha approfittato
per esaminare minuziosamente la stanza, portandosi Ryan appresso e prestando particolare attenzione alla porta e alla finestra. Benché questa fosse aperta, non si riusciva a vedere molto, tranne il verde della vegetazione e quel blocco grigio che sembrava un gradino di cemento. Riuscire a passare dalla finestra era fuori discussione. Il braccio di Owen non passava tra le sbarre, ma quello di Ryan sì. Non che gli servisse a qualcosa: allungando il braccio riusciva a toccare il legno della parete della baracca, ma la cosa finiva lì. Ha saputo dirci soltanto che fuori pioveva, ma lo sapevamo già.» «Sentivate il rumore della pioggia?» domandò Slesar. «Battere sul tetto, intende? No, assolutamente. Avevo l'impressione che ci fossero uno o forse anche due piani sopra la stanza. Era una casa vera e propria, non un capannone o un garage.» «Adesso voglio tornare a parlare di Owen Struther. Si era convinto che si potesse tentare la fuga soltanto quando venivano a portarci da mangiare e quindi la porta era aperta. Voglio dire chiusa, ma non a chiave. Se ne sarebbero occupati lui e Ryan, e Roxane avrebbe collaborato. Evidentemente non riteneva che io fossi abbastanza forte per dare una mano e, quanto alla moglie, era praticamente fuori uso.» «Roxane avrebbe dovuto distrarre uno di loro. Non so come, forse saltandogli addosso. Se l'avesse fatto, sapevamo tutti che non l'avrebbe passata liscia, ma credo che a Owen non importasse granché, tanto era ossessionato dall'idea della fuga. Per agire avrebbe scelto un momento in cui fosse stato presente l'Ermafrodito, perché in questo modo almeno uno dei due non avrebbe presentato grossi problemi. Detto per inciso, sarebbe stato un piano attuabile se ci fosse stato un certo d'andirivieni, invece, come ho già detto, passavano ore prima che comparisse qualcuno. Comunque io non ero d'accordo. Mentre Roxane concentrava l'attenzione su di sé, presumibilmente facendosi picchiare, Owen si sarebbe occupato del secondo uomo e Ryan ne avrebbe approfittato per scappare.» «A quel punto mi sono sentita in dovere d'intervenire per fargli notare che Ryan ha solo quattordici anni. Innanzitutto non sa guidare. Come se la sarebbe cavata una volta fuori, in un posto che probabilmente era in mezzo alla campagna, isolato dal resto del mondo? Così il piano è stato modificato: Owen si sarebbe dato alla fuga mentre Ryan e io tenevamo a bada il nostro uomo.» «Alla fine il piano non ha funzionato. È stato un vero disastro. Ma questo ve lo racconto dopo, se non vi dispiace.»
Nelle Isole britanniche crescono circa venticinque varietà di more selvatiche. La maggior parte della gente crede che ne esista una sola; ma basta osservare le foglie, per non parlare delle dimensioni, della forma e del colore dei frutti, per rendersi conto che non è così. Questo raccontò a Martin Cook, che peraltro non gliel'aveva domandato, la giovane donna in tuta scolorita che, con un cesto al braccio, raccoglieva more mangiandone più di quante ne mettesse da parte. «Interessante» mormorò Cook. «Cosa ne fa di queste?» «Le faccio cuocere con bacche di sambuco e mele selvatiche per preparare la composta.» Lanciò un'occhiata di ammirazione a Burton Lowry. Cook ci aveva fatto l'abitudine. Il suo amico piaceva a tutte le donne, bianche o nere che fossero. «Ma immagino che non siate venuti per imparare le ricette degli Elfi, non è così?» «Stiamo cercando Gary Wilson e Quilla Rice.» «Allora non li troverete, dato che sono già partiti. Volevate dargli una bella strapazzata, vero? Temo che dobbiate accontentarvi di me.» Cook finse di non sentire. Non aveva intenzione di sopportare a lungo quelle frecciatine, ma per una volta poteva lasciar correre. «E tu come ti chiameresti?» domandò. «Potrei chiamarmi in molti modi» rispose la ragazza con un'alzata di spalle. «A mia madre piaceva il nome Tracy, a mio padre Rosamund, ma poi hanno optato per Christine. Christine Colville. E tu come ti chiami?» Non ottenendo risposta, si rivolse a Lowry. «Vuoi una mora?» «No, grazie.» Cook si voltò verso il bosco. In lontananza si scorgevano, abbarbicate sugli alberi, le prime capanne di Elder Ditches. S'intravedeva anche qualcuno seduto in una radura con uno strumento musicale in mano, ma c'era silenzio. «C'è qualcuno qui...» Non sapeva come dirlo. «C'è un responsabile?» «Vuoi che ti porti dal nostro capo?» «Sì, se esiste.» «Naturalmente. È il Re del bosco. Non l'avete mai sentito nominare?» Cook se ne rammentò solo in quel momento. L'aveva letto sul Kingsmarkham Courier. «Si chiama forse Conrad Tarling?» La ragazza annuì e fece segno di seguirla. Mentre camminava, si fermava di tanto in tanto a raccogliere bacche di sambuco dai cespugli che si estendevano per circa mezzo ettaro prima che iniziassero gli alberi. Cook e Lowry si accodarono.
«Tornerò più tardi a prendere le mele» disse la ragazza. «Non avete mai sentito parlare del Re del bosco, suppongo.» «Non si chiama Tarling?» «Non parlo di lui. Mi riferisco al Rex Nemorensis che in tempi antichi viveva in Italia, vicino al lago di Nemi. Si aggirava tra gli alberi armato di spada e sempre all'erta, in attesa dell'uomo che sarebbe venuto a ucciderlo per diventare a sua volta il Re del bosco.» «Davvero?» mormorò Cook. «Era un sacerdote e un assassino» gli spiegò Lowry. «Sapeva che prima o poi qualcuno l'avrebbe tolto di mezzo per prendere il suo posto perché quella era la regola che vigeva nel sacro bosco.» Christine Colville sorrise, ma Cook disse: «Che vigeva dove?» A lui l'aggettivo "sacro" faceva venire in mente il Sacro Globo. La ragazza notò il suo imbarazzo e scoppiò a ridere. Cook non aveva la più pallida idea di cosa stessero dicendo lei e Lowry, ma era sicuro che la ragazza lo stava prendendo in giro. Quando raggiunsero gli alberi, Christine posò il cesto ed emise un fischio simile a quello di un uccello. Tra i rami degli alberi spuntarono dei volti. «Un tale vuole parlare con il Re» disse la ragazza. Fu allora che comparve Conrad Tarling, magicamente evocato dalla parola "Re" come da un "Apriti Sesamo". Emerso dalla porta di una capanna, strisciò fino alla pedana. Era a torso nudo e aveva la testa rapata. «Polizia» disse il sergente. «Voglio parlare con lei.» Tarling sparì dietro la tela cerata che fungeva da porta. Cook stava chiedendosi cosa fare se non fosse riemerso, quando lo vide riapparire, stavolta avviluppato in un mantello color sabbia. Per un attimo pensò che si sarebbe calato a terra balzando da un ramo all'altro. Invece fece schioccare le dita e a quel segnale Christine e un ragazzo in calzoni corti e giacca a vento presero una scala e l'appoggiarono al tronco dell'albero. Quando furono a faccia a faccia, Cook vide che lo superava in altezza di una quindicina di centimetri. Aveva la testa piuttosto piccola e il collo lungo. Il volto sembrava tagliato con l'accetta. Cook l'interrogò su Gary Wilson e Quilla Rice, ma il Re del bosco pretese di vedere il tesserino di riconoscimento prima di rispondere. Dopo che gliel'ebbe mostrato, volle sapere per quale motivo la polizia li cercasse. «Abbiamo alcune domande da rivolgergli.» Tarling rise forte. Ora aveva un pubblico, una mezza dozzina di Elfi fermi ad ascoltare dalle pedane delle loro capanne, mentre poco distante
Christine e il suo compagno in giacca a vento si erano seduti sull'erba a gambe incrociate. Tarling aveva una voce forte e profonda, che probabilmente si sentiva fino a Pomfret. «Dite sempre così. Tipico del totalitarismo. Qualche domanda. Un piccolo interrogatorio. Una minuscola inquisizione. Dopodiché mandate la gente a trastullarsi in galera. Non è forse vero?» «Dove tenete i vostri autoveicoli?» domandò Cook. Altra risata, stavolta indirizzata al pubblico. «Autoveicolo... Che brutta parola! Anche questa è tipica della polizia. Chi di noi possiede un "autoveicolo" lo tiene in un campo gentilmente messo a disposizione dal signor Canning, il proprietario di una fattoria che, a differenza dei suoi colleghi, oltre a essere una degna persona è anche contrario alla realizzazione di questa maledetta tangenziale.» «Capisco. E dove possiamo trovare questa degna persona?» «Tra Framhurst e Myfleet, a Goland Farm. Ma Quilla e Gary non avevano motivo di andarci perché non possiedono un "autoveicolo". Avranno fatto l'autostop, come sempre.» Prese il suo cesto e aggiunse in tono meno aggressivo: «Saranno di ritorno tra una settimana circa. Per sua informazione, dato che probabilmente desidera saperlo, le dirò che sono andati nel Galles per partecipare a una manifestazione della Species, ma torneranno presto. Nessuno di noi crede che questa storia della salvaguardia dell'ambiente andrà in porto. Non a breve termine, comunque.» «E lei?» «Come dice?» «Lei possiede un'auto?» domandò Cook. La risposta di Tarling lo lasciò a bocca aperta. Lowry non ebbe difficoltà a riconoscere le parole di Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie e, se fosse stato presente, anche Wexford avrebbe capito subito. Per Cook invece era arabo. Girò sui tacchi, accompagnato dalle risate di scherno degli amici degli alberi. Risposi a tre domande. Mi par che basta e avanza! E trovo disdicevole questa tua arroganza! Credi che mi divertano le sciocche tue questioni? Via, smetti, o per le scale ti mando ruzzoloni. «Comincio ad averne piene le tasche di te e delle arie che ti dai per aver studiato all'università» disse Cook a Lowry mentre s'incamminavano verso
l'auto. «Si può sapere che cosa ho fatto di male?» protestò l'altro indignato. Barry Vine era in macchina con Pemberton. Erano andati all'accampamento di Savesbury Deeps ma come Cook non avevano combinato niente di buono. La metà degli amici degli alberi erano partiti per altri lidi per combattere altrove le loro battaglie contro abusi e ingiustizie. «Sono parole tue?» domandò Cook in tono di sfida. «No, così hanno detto loro» rispose Vine, stringendosi nelle spalle. «Adesso vado a Framhurst a bere una tazza di tè al bar.» Cook lo guardò con aria interrogativa. «Voglio scoprire dove comperano quella schifezza che chiamano latte di soia» gli spiegò il collega. «Lo si trova normalmente nei supermercati, oppure lo vendono soltanto ai bar e ai ristoranti? Poi, dopo aver bevuto il tè, Jim e io andremo a scambiare quattro chiacchiere con il signor Canning, il proprietario della fattoria.» Nel frattempo Nicky Weaver aveva scoperto alcune cose riguardo al Winnebago di Brendan Royall. Conosceva il numero di targa, sapeva che era bianco, che era stata immatricolato tre anni prima e che a volte, anche se raramente, non ospitava soltanto il proprietario. La scoperta più interessante era che era stato visto quel mattino sulla M25, in direzione M2, da un'auto della polizia che stava effettuando normali controlli sul traffico stradale. La notizia l'aveva un po' tranquillizzata, dopo che il sergente Cook le aveva telefonato da Elder Ditches per comunicarle che probabilmente Royall si sarebbe recato a una manifestazione organizzata dalla Species nel Galles. Si era subito informata e aveva saputo che avrebbe avuto luogo a Neath, nei pressi di Glencastle Forest, e che sarebbe iniziata il martedì successivo. Se la fortuna li assisteva, sarebbero riusciti a trovare gli ostaggi prima di quel giorno. Se Royall era diretto nel Galles, allora doveva aver sbagliato strada. Era improbabile che andasse dai genitori, ma non si poteva escluderlo a priori. Una cosa era quasi certa, e cioè che avrebbe fatto una scappata dagli zii. Nicky si aggirava tra le scrivanie dell'ex palestra, guardando gli schermi dei computer per vedere se ci fossero novità. Ormai erano tutti al corrente della manifestazione organizzata dalla Species. Era un avvenimento importante nel calendario dei dimostranti e, con tanti attivisti riuniti nello stesso luogo, la polizia non avrebbe potuto esimersi dall'essere presente. Mentre guardava fuori da una finestra che dava sul parcheggio, vide ar-
rivare un'auto che non riconobbe, una piccola Mercedes bianca, forse di qualcuno che veniva a prendere Dora Wexford. Se fosse stata a Myringham, alla Squadra Anticrimine, avrebbe riconosciuto ogni auto che entrava o usciva dal parcheggio e si sarebbe subito informata se ne avesse vista una che non le era familiare; ma lì era diverso. Comunque, per stare sul sicuro, annotò il numero di targa un attimo prima che la Mercedes svoltasse l'angolo e sparisse dalla visuale. «Riassumiamo» disse Burden. «Tra tutti, quello che vedevate meno spesso era Mano-guantata, ossia il tizio con i guanti. L'hai visto il mercoledì mattina a colazione e poi poco prima di essere rilasciata. Ho capito bene?» «Non è del tutto esatto. L'ho visto mercoledì e poi venerdì, ma non di sera. Era mezzogiorno.» «Va bene. E ora parliamo del cibo. Che cosa vi davano da mangiare? No, non ridere. Potrebbe essere importante.» «Vuoi sapere che cosa ci hanno portato il mercoledì sera?» «Sì, per cominciare.» «Francamente non credo che vi sarà di grande aiuto. Comunque hanno portato tre pizze grandi, discrete ma fredde, altro pane bianco, cinque fette di formaggio stagionato e cinque mele. Le mele erano piuttosto ammaccate. Ah, poi c'era il caffè istantaneo e dell'altro latte di soia. Se avevamo ancora sete, bastava andare in bagno a prendere un po' d'acqua. Non avendo né tazze né bicchieri, dovevamo bere mettendo la mano sotto il rubinetto.» «Quella sera erano di turno l'Ermafrodito e il Tatuato. Quest'ultimo e Faccia-di-gomma erano i più forti di tutti e forse anche i più crudeli, o almeno questa era la mia impressione. Appena ho visto entrare l'Ermafrodito, ho capito subito che Owen avrebbe tentato di approfittarne.» «Roxane invece ha agito d'istinto, senza premeditazione. È saltata in piedi e ha detto al Tatuato che voleva parlargli. "Voglio parlare con te" ha detto testualmente "e voglio che tu parli con noi." Quello la guardava senza aprire bocca. O almeno credo che la guardasse. Non era facile capire, con quel cappuccio in testa.» «"Ci avete lasciato tutto il giorno senza cibo" ha aggiunto Roxane. "È vergognoso quello che ci state facendo. Che cos'abbiamo fatto di male? Siamo persone innocenti. Non abbiamo fatto del male a nessuno. Non ci date quasi niente da bere e ci avete tenuti per dieci ore di fila senza cibo. Che cosa state cercando di fare? Cosa volete da noi?" Il tizio se ne stava lì
impalato, senza fiatare.» «L'Ermafrodito aveva in mano il vassoio, un vassoio pesante con sopra tutta la nostra roba. Ho guardato Owen e ho capito che stava preparandosi a entrare in azione, e che anche Ryan, poveretto, era pronto a giocare alla guerra. La porta era chiusa, ma non a chiave. Roxane (è davvero una ragazza coraggiosa) fissava il Tatuato, o meglio la sua maschera, con aria di sfida. "Rispondimi" gli ha detto. "Su, parla, bastardo!"» «Per tutta risposta le ha mollato una sberla, ed è stato in quel momento, dato che portava una camicia con le maniche larghe, che ho visto il tatuaggio, una farfalla sull'avambraccio sinistro. Mentre Roxane si afflosciava sul letto, Ryan si è scagliato contro l'Ermafrodito, che ha mollato il vassoio, rovesciandone il contenuto ovunque. Mentre il ragazzo lo teneva, o la teneva per le spalle, il Tatuato ha fatto un balzo avanti e ha estratto la pistola. Owen era arrivato alla porta, ma non ce l'ha fatta a uscire.» «È successo tutto così in fretta che non è facile raccontarlo. Dalla pistola è partito un colpo. Non saprei dire se fosse una pistola vera, comunque lo sparo è stato forte e il proiettile si è conficcato nel telaio della finestra. È possibile che una pistola finta, sparando, faccia tanto rumore?» «Sì» rispose Burden. «Tutte le pistole lo fanno, sia quelle finte che quelle vere.» «Non credo che abbia sparato per colpire qualcuno. Kitty, distesa sul letto, batteva i pugni sul materasso e strillava con tutto il fiato che aveva in gola. Forse è stato per questo, o forse per il colpo di pistola, che Owen ha avuto un attimo di esitazione e a quel punto ha perso la partita. L'Ermafrodito ha mollato un calcio nello stomaco a Ryan, che è caduto all'indietro. Roxane intanto gemeva, tenendosi la faccia tra le mani. Io non ho fatto niente. Sono rimasta a guardare, impietrita da quel colpo di pistola.» «Il Tatuato aveva con sé le manette e se ne è servito per immobilizzare Owen. Con tutto quello che era successo, né lui né l'Ermafrodito avevano aperto bocca. Owen imprecava, strepitava, li malediceva e minacciava la galera dura. Ryan, tenendosi lo stomaco, si contorceva sul pavimento. Roxane gemeva e Kitty urlava. E quei due sempre zitti, non una parola. Posso assicurarvi che quel silenzio era più sinistro, più spaventoso di qualsiasi cosa avessero potuto dire.» «Non sembravano neanche esseri umani. Parevano macchine, o personaggi di un film di fantascienza. Ma andiamo avanti, a voi non interessano queste considerazioni. Evidentemente avevano sempre delle manette a portata di mano. Le hanno messe a Ryan e anche a Kitty, che singhiozzava
mentre le legavano le mani. Il Tatuato ha spinto Roxane nello stanzino da bagno e ha chiuso la porta a chiave.» «Mi sono spaventata, sapendo che effetto le faceva stare in un ambiente così piccolo; ma ho pensato che, se l'avessi detto, forse avrei peggiorato la situazione invece di migliorarla. Così ho taciuto. Il Tatuato è rimasto con noi mentre l'Ermafrodito andava a prendere due cappucci per gli Struther. Dopo averli incappucciati, li hanno portati via e quella è stata l'ultima volta che li ho visti. Erano circa le sette e mezzo di mercoledì sera.» Burden l'interruppe di nuovo. «Non li hai più visti?» mormorò, quasi incredulo. Dora scosse la testa, poi le venne in mente che non si potevano registrare i gesti e rispose: «No. Ma non credo che gli abbiano fatto del male» continuò. «Probabilmente li hanno portati da qualche altra parte, dove il Tatuato riteneva che fossero più al sicuro. Mentre li portavano via, Kitty non faceva altro che singhiozzare.» «Ryan si era già ripreso abbastanza bene, anche se era molto scosso. Il giorno dopo aveva un livido tremendo sullo stomaco. Quando siamo rimasti soli, si è alzato da terra e ha detto che non avrebbero dovuto fare quella sciocchezza. Ero molto preoccupata per Roxane. Nello stanzino c'era silenzio assoluto e perciò temevo che fosse svenuta. Ho pensato che forse potevamo tentare di buttare giù la porta. Voi ci avete mai provato?» Ovviamente ci avevano provato tutti ed erano riusciti, ma in effetti era tutt'altro che facile. «E tu hai tentato?» le domandò Wexford. «Sì, perché il silenzio non è durato a lungo. Roxane pestava i pugni e gridava, ma in modo diverso da Kitty. C'era disperazione nella sua voce. Allora ho provato a buttare giù la porta a calci e a spallate, e forse sarei riuscita se dopo qualche minuto non fossero arrivati il Tatuato e Faccia-digomma, che mi hanno tolto di mezzo. Faccia-di-gomma mi ha sollevato di peso e mi ha buttato sul letto. Non guardarmi in quel modo, Reg. Non mi hanno fatto male.» «Hanno liberato Roxane, ma non subito. È stata una scena tremenda, credetemi. Quei due si sono guardati in faccia (be', per quanto era possibile con i cappucci in testa) e in quel momento ho avuto la netta sensazione che sapessero, uno dei due se non entrambi, che Roxane soffriva di claustrofobia e che ci prendessero gusto a sentirla gridare e supplicare.» «Finalmente hanno aperto la porta. Roxane è uscita barcollando e si è buttata sul letto tra i singhiozzi. Mi faceva molta pena. L'ho abbracciata e
ho cercato di consolarla.» «Faccia-di-gomma e il Tatuato hanno trovato la mia borsa e quella di Kitty. Non quella di Roxane che, come tutte le ragazze della sua età, non la usa mai. Hanno preso le due borse e se ne sono andati. Non so perché l'abbiano fatto, tanto più che Ryan aveva ancora le manette ai polsi. Gliel'hanno tolte solo il mattino successivo. Aveva i polsi segnati e gli facevano male.» «Rimasti soli noi tre, abbiamo cercato di fare buon viso a cattivo gioco. Ho raccolto da terra quello che era ancora passabile, come le pizze, ho lavato le mele, poi ci siamo seduti a mangiare e, mentre si chiacchierava, abbiamo trovato un modo abbastanza piacevole per passare il tempo. Ciascuno di noi avrebbe raccontato una storia vera su un membro della sua famiglia. Non avevano più portato le lampadine e quindi c'era buio pesto.» «Dopo che io ho raccontato la prima storia, Roxane ci ha parlato di una sua zia che da piccola aveva conosciuto Gershwin a New York. Quando è stata la volta di Ryan, ci ha detto che suo padre aveva vinto un campionato regionale di atletica. Ma non credo che v'interessino questi particolari. Comunque dopo cena siamo andati a letto. Compresa Roxane, benché avesse la faccia gonfia e la tempia ancora sanguinante. Il giorno dopo l'avrebbero portata via, ma questo non lo sapevo ancora.» «Ero l'unica a cui non avessero fatto del male e perciò mi sentivo un po' in colpa. Forse vi sembrerà ridicolo, ma è così che stavano le cose.» L'agente Edward Hennessy uscì nel parcheggio poco prima delle quattro. Il caso voleva che avesse lasciato l'auto vicino a quella dell'ispettore capo Wexford. Tra le due auto, sull'asfalto, c'era una valigia di fibra marrone con le iniziali su un lato: D.M.W. Accanto c'erano due grandi borse di plastica, una gialla e una verde. Hennessy non toccò nulla. Tornato dentro, bussò alla porta di Wexford e glielo riferì. Nell'ufficio c'era anche Dora, che si riposava tra una registrazione e l'altra. Scattò in piedi. «Dev'essere la mia valigia!» esclamò. «E a quanto pare ci sono anche i pacchi.» Aveva ragione. Le borse contenevano i regali acquistati per Sheila: indumenti per neonati, uno scialle, un kimono, due libri, una boccetta di profumo e un flacone di lozione per il corpo. Anche la valigia era la sua. Rimase a guardare mentre l'aprivano. Sopra gli abiti accuratamente piegati c'era un foglio di carta, su cui il Sacro Globo aveva redatto il messaggio successivo:
"Smettetela di temporeggiare. I mass media devono essere informati quanto prima: è la premessa indispensabile per dare inizio alle trattative. Siamo del Sacro Globo e salveremo il mondo." 15 Il contenuto della valigia era, a quanto Dora poteva ricordare, esattamente come l'aveva disposto. «È quasi come essere all'aeroporto» scherzò «quando chiedono: "La valigia l'ha fatta lei? L'ha mai lasciata incustodita?". La risposta è "sì" alla prima domanda e "Dio solo lo sa" alla seconda.» «Credo di aver visto l'auto che l'ha portata» disse Nicky Weaver a Wexford. «Una Mercedes bianca. Non so per quale ragione, forse grazie al mio angelo custode, ho preso il numero di targa. È L570 LOO.» «Allora è la stessa auto che hanno usato per accompagnare a casa mia moglie. C'era una L e un 57.» «Che manica di sfrontati!» esclamò Burden quasi con ammirazione. «Non sono le solite canaglie.» «Speriamo che a forza di fare i furbi finiscano per tradirsi.» «Questa storia non mi piace affatto» disse Wexford e, siccome tutti lo guardavano senza capire dove volesse arrivare, aggiunse: «Non mi piacciono i loro scherzetti e non mi va che la nostra decisione d'interrompere il silenzio stampa coincida con la loro richiesta di divulgare la notizia. Ormai non possiamo farci nulla, ma sembra quasi che ci inchiniamo a ogni loro desiderio.» Dora stava prendendo una tazza di tè con Karen Malahyde. All'inizio era rimasta sconcertata dalla ricomparsa della valigia e dei pacchi, come se confermassero che il Sacro Globo avesse poteri soprannaturali. Wexford ripensò a quello che aveva detto a proposito dei suoi carcerieri, cioè che non sembravano esseri umani, ma personaggi di un film di fantascienza. Si sedette di fronte a lei e accese il registratore. «Possiamo passare a giovedì mattina, Dora?» «In realtà non avevo ancora finito di parlare di mercoledì sera. Mentre dormivamo, o più esattamente mentre credevano che dormissimo, sono entrati in due. Roxane e Ryan si erano addormentati davvero, mentre io fingevo soltanto.» «Ho visto e sentito la porta che si apriva e loro due sgattaiolare dentro. Dovevano essere Mano-guantata e il Tatuato, ma non ne sono certa. Erano
incappucciati come sempre. Ho chiuso gli occhi proprio in quel momento e perciò non saprei dire perché fossero entrati né cos'abbiano fatto. Li ho sentiti girare per la stanza per qualche minuto. Prima di andarsene si sono avvicinati ai letti, presumo per sincerarsi che dormissimo. Me ne sono accorta pur continuando a tenere gli occhi chiusi.» «Il giovedì mattina Roxane aveva un livido sulla guancia e l'occhio sinistro quasi chiuso. Bella com'è, faceva ancora più impressione.» «Sono venuti Faccia-di-gomma e l'Autista a portarci la prima colazione. C'era di nuovo pane bianco, fette biscottate, carne in scatola di qualità scadente e tre pacchetti di patatine fritte. Doveva bastarci per tutta la giornata perché anche quella volta non abbiamo visto più nessuno fino a sera. Da bere avevamo solo l'acqua del rubinetto.» «Però sono tornati a riprendersi il vassoio. Quella volta Roxane non ha alzato la voce, ma insisteva per sapere cosa volessero da noi e quando si sarebbero decisi a lasciarci andare. Non sapevamo nulla né del Sacro Globo né della questione della tangenziale. Roxane voleva sapere. Ma loro sembrava che neppure la sentissero.» «Verso la metà del pomeriggio Roxane ha iniziato a battere i pugni sulla porta. Dopo il calcio che si era beccato allo stomaco la sera precedente, Ryan era rimasto buono e tranquillo; ma a un certo momento ha iniziato a dare manforte a Roxane. Per almeno mezz'ora hanno continuato a battere pugni e a dare calci alla porta.» «Alla fine sono comparsi Faccia-di-gomma e il Tatuato. Ero terrorizzata all'idea che picchiassero di nuovo Roxane e forse anche Ryan. Ma non è accaduto nulla del genere. Il Tatuato ha afferrato la ragazza e, dopo averla immobilizzata, le ha ammanettato i polsi dietro la schiena. Roxane strillava, ma lui sembrava non farci caso. Intanto Faccia-di-gomma cercava di tenere Ryan alla larga e siccome opponeva resistenza l'ha rinchiuso nello stanzino da bagno.» «Avevano portato un cappuccio per Roxane. Gliel'hanno infilato in testa e l'hanno portata via. Non ho idea di cosa le sia capitato. "Arrivederci, Dora" mi ha detto prima di andarsene, con la voce smorzata dal tessuto. Non l'ho più vista.» Tacque di colpo e scosse la testa. «Non l'ho più vista» tornò a ripetere. «Forse l'hanno messa con gli Struther, ovunque li abbiano portati. Non lo so. Posso dire soltanto che una decina di minuti più tardi ho sentito per la prima volta dei passi al piano di sopra. Forse non c'entravano con Roxane. Forse era una coincidenza.» «Erano i passi di una persona sola o di più persone?»
«Non saprei. Più di una, forse. Il Tatuato e l'Autista sono venuti un'ora dopo e hanno fatto uscire Ryan dal bagno. Eravamo rimasti soli. Così abbiamo iniziato a chiacchierare e lui mi ha raccontato delle cose che credo non aveva mai confidato a nessuno.» «Suo padre è stato ucciso in guerra, nelle Falkland. I genitori erano sposati soltanto da tre mesi e la madre era incinta quando le hanno comunicato che il marito era morto. Sette mesi dopo è nato Ryan. Di recente la madre è stata ricoverata in ospedale per una biopsia all'utero. È già la seconda volta che le fanno quest'esame. Stava per risposarsi e desiderava avere altri figli, ha solo trentasei anni, ma probabilmente non le sarà possibile. Scusate, mi rendo conto che questi particolari non vi interessano. Ne ho parlato soltanto perché mi sembra un fardello enorme per un ragazzo di quattordici anni.» «Abbiamo trascorso la serata parlando di questi problemi. Il venerdì mattina sono arrivati più tardi del solito a portarci la colazione, forse perché dovevano occuparsi anche di Owen, Kitty e Roxane. Stavolta c'erano il Tatuato e Faccia-di-gomma. Ci hanno portato dei panini raffermi, delle piccole confezioni di marmellata e una mela per ciascuno.» «Ryan e io avevamo deciso di domandare cosa fosse accaduto a Roxane, anche se eravamo quasi sicuri che non ci avrebbero risposto. Infatti è andata proprio così. È stato il giorno più lungo della mia vita. Non avevamo niente da fare. Ryan si era chiuso in un mutismo assoluto, forse ritenendo di aver parlato già troppo la sera precedente. Può darsi che si fosse pentito di avermi fatto quelle confidenze. Sta di fatto che non rispondeva nemmeno quando gli rivolgevo la parola. Se ne stava sdraiato sul letto a fissare il soffitto. Per la prima volta ho iniziato a pensare che non ci avrebbero più liberato. Saremmo andati avanti così per qualche settimana e alla fine ci avrebbero ucciso.» «Verso l'ora di pranzo è arrivato Mano-guantata, che non era più venuto da mercoledì mattina. Avevo pensato che fosse Faccia-di-gomma, ma era più magro. Con lui c'era il Tatuato. È stato allora che sono riuscita a vedere i suoi occhi. Del tizio con i guanti, intendo. I fori per gli occhi del suo cappuccio erano più grandi. Certo è che sono riuscita a vederli perfettamente. Si è avvicinato e mi ha guardato con una certa insistenza, come se volesse controllare qualcosa. Aveva gli occhi castano scuro. Non è un grande indizio, purtroppo. Di gente con gli occhi castani ce n'è un'infinità.» «Mi avrebbero liberata quella sera. Ve l'ho già raccontato. Prima ci hanno dato qualcosa da mangiare: spaghetti in scatola con salsa di pomodoro,
naturalmente freddi, pane e marmellata. Ce l'hanno portati l'Ermafrodito e il Tatuato. Stavo preparandomi a trascorrere un'altra notte lì, quando sono venuti a prendermi e così Ryan è rimasto da solo. Come vi ho detto, non so che fine abbiano fatto gli altri.» Wexford si alzò nello stesso momento in cui Barry Vine faceva capolino nell'ufficio per dirgli che aveva bisogno di parlare con lui. «È per la questione del cibo» l'informò quando furono nel corridoio. «Cattive notizie. Si ricorda del latte di soia che servono nel bar di Framhurst?» «Certo che mi ricordo.» «Non so perché mi ero ficcato in testa che se quel bar fosse stato l'unico posto dove si poteva acquistare il latte di soia, perlomeno in questa parte del paese...» Lasciò la frase in sospeso. «Mi è andata male perché ho scoperto che lo vendono praticamente ovunque. Al Crescent di Kingsmarkham e nei supermercati della stessa catena. In tutta l'Inghilterra.» «Ecco un altro indizio andato in fumo» mormorò Wexford scrollando il capo. Seduto nel soggiorno di casa del capo della polizia, alla periferia di Myfleet, Wexford mangiava pistacchi e beveva birra. Si era fatto accompagnare da Donaldson che ora, mentre l'aspettava in macchina, stava rifocillandosi con un sandwich al prosciutto e una bibita. In quei giorni nessuno aveva più il tempo di consumare un pasto completo. Sulla versione da dare alla stampa l'indomani mattina, riguardo al rilascio degli ostaggi, Wexford e Montague Ryder si erano già messi d'accordo e ora il capo della polizia voleva parlargli di Dora. Aveva ascoltato tutti i nastri registrati, l'ultimo addirittura due volte. «È stata proprio brava, Reg. Veramente in gamba. Ha molto spirito d'osservazione, ciononostante...» Quel "ciononostante" gli piaceva poco, pensò Wexford. «Sì, lo so» rispose «dice un mucchio di cose, ma in sostanza ci resta ben poco su cui lavorare. Sono stati furbi, signore. Davvero scaltri. Non potevano non esserlo, sapendo che liberare l'ostaggio significava correre dei rischi.» «Strano che abbiano scelto proprio lei, vero? L'avranno fatto perché hanno scoperto che è sua moglie?» Wexford annuì, pur non essendo del tutto convinto. Afferrata la bottiglia del whisky, Ryder lo guardò con aria interrogativa. La tentazione era forte, ma rifiutò. Avrebbe potuto continuare a bere per il resto della serata, ma
era più prudente rinunciare. Per quella sera e il giorno successivo sarebbe stato preferibile avere la mente lucida. «Immagina quello che sto pensando, Reg?» «Suppongo di sì, signore.» «L'ipnosi. Crede che sua moglie accetterebbe?» Era un sistema che cominciava a prendere piede per far riaffiorare le esperienze e le impressioni rimaste latenti nell'inconscio, dove probabilmente sarebbero restate all'infinito, se non si fosse intervenuti dall'esterno per riportarle in superficie a prescindere dalla volontà e dalle intenzioni dell'interessato. Wexford non aveva molta esperienza in materia; ma sapeva, o perlomeno aveva sentito dire, che il metodo funzionava. D'altra parte non sopportava l'idea di sottoporre Dora a quella prova. Perché mai avrebbe dovuto subire anche quella sorta di violenza psicologica? «Non so se acconsentirà» rispose. In effetti non aveva idea di come avrebbe reagito la moglie. Avrebbe mostrato orrore o interesse, si sarebbe tirata indietro o avrebbe accettato volentieri? «Ritengo doveroso dirle» non era facile fare un discorso del genere al proprio superiore, ma se avesse taciuto, quella notte non avrebbe chiuso occhio «che non sono disposto a forzarle la mano.» Montague Ryder rise. Non sembrava affatto contrariato. «Potrei chiederglielo io. Che ne dice?» domandò. «Se glielo propongo stasera e sua moglie accetta, domani potremmo trovare lo psicologo e iniziare con l'ipnosi. Ha nulla in contrario?» «No, assolutamente» rispose Wexford. 16 La televisione eclissò il clamore della stampa, calamitando l'interesse del pubblico. La notizia del sequestro, trasmessa alle 8.45 dal notiziario della Itn e alle 9.15 dalla Bbc1, su ambedue le reti era stata preceduta dalla frase: "È appena giunto in redazione un comunicato...". La sera precedente Wexford aveva detto a Dora che l'appuntamento con lo specialista in ipnoterapia era stato fissato per lunedì. Ora si rendeva conto che non era stata una buona idea permettere che fossero resi noti i nomi degli ostaggi, soprattutto quello della moglie; ma per quanto intuisse che avrebbero avuto qualche seccatura, non si aspettava di sentire suonare il campanello di casa alle sette del mattino e di trovare sulla porta tre giornalisti e quattro cameramen.
I due quotidiani che gli consegnavano ogni mattina erano già arrivati. In entrambi la notizia del sequestro era stata pubblicata in prima pagina. Chissà come uno dei due giornali era riuscito a procurarsi una foto di Roxane Masood. E c'erano anche una panoramica della zona in cui doveva sorgere la tangenziale, un facsmile del primo messaggio del Sacro Globo e un'orribile foto d'archivio che lo ritraeva, sorridente, con un boccale di birra in mano. Stava dando una scorsa all'articolo, quando squillò il campanello, facendolo trasalire. Per fortuna era già vestito. Sarebbe stato tragico se gli avessero scattato una foto mentre indossava la vestaglia rossa e questa poi fosse finita negli archivi di qualche giornale. Prima ancora di aprire sapeva già chi si sarebbe trovato di fronte. Per qualche oscura ragione, da quando era tornata Dora aveva preso l'abitudine di chiudere con la catena. Sua nonna, che era nata e cresciuta a Pomfret, aveva un metodo speciale per scoraggiare eventuali visitatori non graditi. Apriva la porta di pochi centimetri e, senza nemmeno mettere fuori la testa, diceva con un tono che non ammetteva repliche: "Non oggi, grazie". Wexford se ne ricordava ancora, benché la nonna fosse morta quand'era piccolo. In quel momento l'avrebbe imitata volentieri. Decise comunque di essere laconico. «La conferenza stampa si terrà alle dieci alla stazione di polizia» annunciò. I flash e le macchine fotografiche entrarono immediatamente in azione. «Vorrei parlare prima con Dora» disse un giornalista particolarmente sfacciato. E io vorrei torcerti il collo, pensò Wexford. «Buongiorno» bofonchiò, chiudendogli la porta in faccia. Stava squillando il telefono. Stavolta valeva la pena di adottare il sistema della nonna. Alzò il ricevitore: «Non oggi, grazie.» Dopodiché staccò la spina. Un fotografo aveva fatto il giro della casa e cercava di sbirciare dentro dalla finestra della cucina. Per la prima volta Wexford ringraziò mentalmente Dora che, l'estate precedente, aveva fatto mettere le tende alla veneziana. Le chiuse, preparò il tè, riempì due tazze e le portò di sopra. Trovò la moglie seduta nel letto, con la radio accesa. La notizia del Sequestro di Kingsmarkham (era il titolo che avevano dato all'articolo e che sarebbe rimasto fino alla fine) aveva soppiantato tutte le altre: la Palestina, la Bosnia, gli intrighi politici e i pettegolezzi sulla principessa del Galles. «Abbiamo una scala nel garage?» domandò a Dora. «Credo di sì. Perché lo vuoi sapere?» «Per avvisarti che da un momento all'altro vedrai spuntare una faccia
dietro il vetro della finestra. È arrivata la stampa.» «Oh, Reg!» La sera precedente era venuto a farle visita il capo della polizia. Dora era stanca. Si era infilata la vestaglia e si era sdraiata sul divano e benché lui le avesse annunciato che stava per arrivare Ryder, non si era preoccupata di vestirsi. A Wexford aveva fatto piacere. Apprezzava molto lo spirito indipendente di Dora ed era convinto che non avrebbe esitato a respingere la proposta di Ryder. Gli avrebbe detto di no, in modo gentile ma risoluto. Non avrebbe accettato di farsi ipnotizzare da uno strizzacervelli. Invece Dora aveva accettato. «Sarà bene che mi alzi» mormorò. «Stamattina mi devono ipnotizzare.» Dal modo in cui lo diceva, sembrava quasi che non vedesse l'ora. A quanto ricordava, Wexford non aveva mai visto tanti rappresentanti della stampa riuniti a Kingsmarkham. Non ne aveva attirati altrettanti né un serial killer, né l'omicidio di Davina Flory con tutta la sua famiglia. I giornalisti avevano parcheggiato le auto ovunque e la polizia si dava da fare con le contravvenzioni. Tra non molto sarebbe iniziato il putiferio. Avrebbero invaso la villetta di Pomfret e la casetta della signora Peabody a Stowerton e si sarebbero accaniti su Andrew Struther a Savesbury House. Già immaginava la scena. Ciascuno di loro avrebbe dovuto difendersi come meglio poteva. D'altra parte il polverone sollevato dalla stampa avrebbe potuto rivelarsi utile per risolvere il caso. Alle nove del mattino le linee telefoniche della stazione di polizia di Kingsmarkham erano già intasate, tante erano le persone che chiamavano per fornire informazioni. Wexford gettò un'occhiata al di sopra della spalla di una centralinista seduta davanti a un computer, sul cui schermo apparivano tutte le notizie a mano a mano che arrivavano. Seppe così che Roxane Masood non era mai stata rapita, dato che qualcuno l'aveva vista a Ilfracombe, mentre Ryan Barker era morto e il suo corpo sarebbe stato restituito ai familiari in cambio di ventimila sterline. Gli Struther erano stati visti a Firenze, ad Atene, a Manchester, affacciati alla finestra di una fabbrica di Leeds, nonché a bordo di un'imbarcazione ormeggiata nella baia di Poole. Dora Wexford non era un vero ostaggio, ma una sorta di specchietto per le allodole che avrebbe consentito alla polizia di smascherare i colpevoli. Roxane Masood stava per sposarsi alle Barbados con un giovane, la cui madre era disposta a raccontare tutta la storia ai giornali per una cifra da concordare. Wexford sospirò. Tutte quelle informazioni andavano verificate a una a
una, e tutte sarebbero risultate false o semplicemente sbagliate; ma tra tante, forse c'era anche quella giusta. Aveva fatto uscire di casa Dora, camuffandola con un cappello e una giacca larga. Karen Malahyde era passata a prenderli in macchina. Con tutto quello che le era capitato, la moglie si era rifiutata di coprirsi il volto e Wexford non poteva biasimarla. I giornalisti avevano seguito l'auto per un tratto, scattando qualche foto. Di ritorno dall'ex palestra, dove l'aveva lasciata ad ascoltare le registrazioni precedenti per controllare che non vi fossero errori, Wexford aveva trovato Brian St George ad aspettarlo. Il direttore del Kingsmarkham Courier aveva l'aria decisamente infelice. Indossava lo stesso abito grigio della volta precedente e forse anche la stessa maglia sudicia. Si avvicinò. «Non le sono simpatico, vero?» domandò, alitandogli in faccia. «Cosa glielo fa pensare, signor St George?» replicò Wexford, facendo un passo indietro. «Il fatto che abbia sciolto il silenzio stampa nel giorno meno indicato, ossia di domenica. In questo modo, quando esce il giornale, la notizia è vecchia di cinque giorni e a quel punto il caso potrebbe essere già risolto.» «Magari fosse vero» ribatté Wexford. «L'ha fatto apposta, lo so. Ormai avrebbe potuto aspettare fino a mercoledì o giovedì di questa settimana, e invece ha scelto proprio la domenica.» Wexford finse di riflettere. «Il sabato sarebbe stato peggio.» St George arrossì di collera. «Mi scusi» riprese l'ispettore capo, imperturbabile «ma il lavoro mi aspetta. Riceverà sicuramente molte telefonate, anche se il suo giornale non ha la tiratura dei quotidiani nazionali. Le sarei grato se passasse direttamente alla polizia tutte le informazioni che dovessero arrivare.» Craig Tarling, il fratello maggiore di Conrad Tarling, stava scontando dieci anni di carcere per un reato commesso in veste di sostenitore dei diritti degli animali. «Non è un nome molto comune» osservò Nicky Weaver. «L'ho letto per caso sul computer e perciò ho ritenuto opportuno controllare.» Damon Slesar inarcò le sopracciglia. Erano sulla strada per Marrowgrave Hall e lui era alla guida dell'auto. «Nessuno può essere ritenuto responsabile di quello che fanno i suoi parenti» sentenziò. «Mio padre per esempio coltiva ortaggi e frutta in un orto sulla vecchia circonvallazione, mentre mia madre ricava filo da tessere dal pelo degli animali domestici. La
gente gliene manda delle borse piene.» «Non c'è niente di male» commentò Nicky in tono risentito. «Sono attività più che rispettabili.» Sua madre lavorava da un ortolano e per il resto del tempo si occupava dei nipoti, perciò l'osservazione di Damon l'aveva irritata. «Non dovresti parlare così dei tuoi genitori.» «D'accordo. Scusami se mi sono permesso di criticarli. Per quale motivo hanno messo dentro il fratello di Conrad Tarling?» «Aveva un piano per fare esplodere una cinquantina di bombe incendiarie in posti diversi, tra cui una macelleria, una scuola per periti agrari e un'agenzia che vende i biglietti d'ingresso dei circhi. Se la sarebbe presa di sicuro anche con gli allevamenti di struzzi, se cinque anni fa ce ne fossero stati.» «Cos'è andato storto? Dal suo punto di vista, intendo. Non per la legge.» «Il commesso di un negozio si è insospettito vedendolo acquistare sessanta timer e ha avvertito la polizia.» All'orizzonte, contro lo sfondo giallo oro del cielo, si stagliavano i ruderi di Saltram House dove, diversi anni prima, in una delle cisterne della fontana, Burden aveva trovato il corpo di un bambino scomparso. Nicky domandò a Damon se avesse sentito parlare di quella storia, accaduta all'incirca nel periodo in cui era morta la prima moglie di Burden. Damon scosse la testa. Imboccarono il viale d'accesso e, come la volta precedente, ebbero l'impressione che la casa fosse isolata dal resto del mondo. Nicky scese dall'auto e si soffermò a guardare la facciata e le finestre. «Cosa c'è?» le domandò Damon. «Niente. È solo che questa casa non mi sembra adatta a due persone come i Panick. Mi sarebbe sembrata più indicata una villetta al mare, magari in un posto come Rustington.» Vestiti con gli abiti della domenica, Bob in abito scuro e Patsy a disegni floreali, i coniugi Panick erano seduti a tavola. Chissà, forse si alzavano soltanto per sparecchiare e iniziare i preparativi per il pasto successivo. Mentre apriva la porta, Patsy si puliva la bocca con un tovagliolo. Anche stavolta li precedette nel corridoio e li fece accomodare in cucina. L'odore era quello tipico della prima colazione, quella che nel continente viene comunemente definita "colazione all'inglese". A tavola, di fronte a Bob Panick, sedeva Freya, l'esperta nella costruzione di capanne sugli alberi, che di recente si era trasferita all'accampamento di Elder Ditches. Faceva uno strano contrasto con i padroni di casa, sia perché era così
magra mentre loro erano obesi, sia per l'abbigliamento anticonformista che strideva con il loro stile tradizionale. Freya era avvolta dalla testa ai piedi in un indumento lacero e sbiadito che doveva essere un vecchio sari, ma la ricchezza del tessuto e l'abbondanza delle pieghe non mascheravano la sua magrezza. In compenso mangiava con la stessa voracità dei Panick. Il suo piatto era pieno di pancetta, uova strapazzate, pane fritto, salsicce, funghi, pomodori e patate fritte, né più né meno di quelli di Patsy e Bob. L'arrivo dei due poliziotti non parve turbarla. Guardò Damon con una certa insistenza ma, come Nicky osservò più tardi, probabilmente solo perché lo trovava attraente. Patsy disse di essere certa che non si sarebbero offesi se avesse continuato a mangiare e aggiunse che stranamente la polizia arrivava sempre mentre erano seduti a tavola. «Forse avranno appetito» osservò Bob, parlando con la bocca piena. «Offrigli qualcosa, tanto per alleviare i morsi della fame. C'è un ottimo prosciutto e se non hanno niente in contrario possono tagliarselo da soli, così stavolta potrai finire di mangiare in pace. Il pane non manca ed eventualmente ci sono anche i sottaceti.» «No, grazie» disse Nicky. Damon ebbe la pessima idea di aggiungere che era molto gentile da parte loro. Poi, forse per rimediare, chiese a Freya se fosse amica dei Panick. Fu Patsy a rispondere per lei. «Adesso lo è diventata» replicò, servendosi altra pancetta. «Mi auguro che chiunque sia nostro ospite e sieda alla nostra tavola diventi nostro amico. Sei d'accordo, Bob?» «Hai proprio ragione» convenne il marito. «Per caso ci sono altre salsicce pronte?» «Certamente. Offrine una anche a Freya.» Si rivolse a Nicky: «In realtà è amica di Brendan. Un'amica un po' speciale, non è vero, Freya?» Ammiccò. «Brendan l'ha portata qui ieri sera. Si è fermato a mangiare un boccone e poi ha dovuto scappare via di corsa.» Nicky si ricordò della promessa di Patsy di avvertirla se avesse visto il nipote. Non c'era da stupirsi che non l'avesse mantenuta. «Dove andava?» domandò. Freya reagì come se, dopo essersi imposta la calma fino a quel momento, ora avesse perso la pazienza. Gettò sul piatto forchetta e coltello, facendo schizzare qualcosa sul tovagliolo che Bob si era infilato nel colletto della camicia. «Perché non lo lasciate in pace?» sbottò. «Che ha fatto di male? Niente. Sapete cosa penserebbe un alieno, se dovesse atterrare sulla terra? Che siete pazzi da legare. Non soltanto state mettendolo nel culo al nostro
pianeta, ma vorreste anche punire chi tenta di impedirvelo.» Bob Panick scosse il capo con aria mesta, poi si consolò prendendo un'altra fetta di pane. «Ecco cosa intendono alla televisione» disse Patsy senza rivolgersi a nessuno di loro in particolare «quando dicono che in un determinato programma usano un linguaggio un po' troppo esplicito. Di solito ne approfitto per venire qui in cucina a prendere una tazza di tè e dei biscotti.» S'interruppe. «Brendan» riprese, guardando Nicky «si sta occupando del problema della tangenziale.» «Perché gliel'hai detto?» protestò Freya. «Mi piacerebbe proprio sapere chi te lo fa fare. Non sei obbligata a rispondere alle loro domande, sai? Non hai fatto niente di male, e neppure Brendan. Con loro neanche parla. Non apre proprio bocca.» «Dove posso trovarlo esattamente?» insistette Nicky, ignorando Freya. «Mi ha detto che sarebbe andato a sentire... Cosa doveva fare, Bob?» Il marito rifletté, sfregandosi la fronte. «Ha detto qualcosa a proposito dell'Europa, del Mercato comune e della tutela dell'ambiente. È andato via col Winnebago.» Già, era prevedibile che Brendan Royall s'interessasse alla questione. Forse era andato a scattare qualche foto e magari aveva lasciato il Winnebago a Goland Farm. In quella zona i pascoli non erano pianeggianti e le pecore brucavano l'erba sui declivi delle colline. La vegetazione era folta e gli alberi formavano chiazze di un verde più scuro rispetto al resto della campagna. Faceva uno strano effetto vedere a un tratto un campo ingombro di auto, roulotte e furgoni, alcuni in ottime condizioni, altri vecchi e sgangherati. La fattoria non era pittoresca come avevano immaginato. Sembrava una chiesetta sconsacrata. Nel sud dell'Inghilterra questo genere di trasformazione non era infrequente perché il numero dei fedeli era in costante diminuzione. Come case erano spaziose e confortevoli, anche se avevano le tipiche finestre delle chiese e nell'aria si respirava quello che Wexford definiva "odore di santità". Questa particolare fattoria, denominata Goland Farm, era di mattoni rossi con il tetto spiovente. Al corpo principale erano stati aggiunti dei fabbricati esterni. Intorno c'era una serie di silos. Damon Slesar si fermò vicino al cancello e da quel punto proseguirono a piedi, passando tra le auto degli amici degli alberi. Poco più avanti trova-
rono Barry Vine in contemplazione di un Winnebago vuoto. Una certa Gwenlian Dean, ispettore capo della polizia di Neath, aveva inviato un fax per comunicare che stava affluendo un gran numero di persone per assistere alla conferenza della Species, ma fino a quel momento non c'erano stati disordini. La manifestazione si sarebbe svolta all'aperto. Molti delegati erano arrivati con i camper o con tende da campeggio, ma i pezzi grossi alloggiavano nell'albergo dove il mattino seguente si sarebbe tenuta la conferenza annuale. Gary e Quilla non erano ancora arrivati, oppure non erano stati localizzati. Gwenlian Dean si sarebbe messa di nuovo in contatto appena ci fossero state novità. Wexford si recò nell'ex palestra per dare manforte al capo della polizia, impegnato nella conferenza stampa. Mentre entrava i fotografi si misero all'opera, ma stavolta non ne fu contrariato. Qualsiasi foto era sicuramente meglio di quella che lo raffigurava con il boccale di birra in mano. Montague Ryder illustrò con parole semplici e calibrate ciò che era accaduto, precisando in quale direzione si stava muovendo la polizia. «Avrete sicuramente qualche sospetto sull'identità dei responsabili» osservò una giovane donna bionda dallo sguardo penetrante. «Suppongo che abbiate degli indizi, dopo tutto questo tempo.» «È naturale» rispose Wexford, sforzandosi di mantenere la calma come Ryder. «Ma mi sembra altrettanto ovvio che non possiamo parlarne.» «Gli ostaggi sono tenuti prigionieri nella zona di Londra, oppure da qualche parte nel sud del paese?» «Spiacente, ma non posso rispondere.» Com'era prevedibile, anche questa volta arrivò la fatidica domanda. Gliela rivolse un giornalista grasso, vestito di grigio, con i capelli brizzolati lunghi fino alle spalle. «Come si spiega il fatto che abbiano rilasciato proprio sua moglie?» Stavolta fu Ryder a rispondere. «Non lo sappiamo.» «Be', un motivo ci deve pur essere. Forse l'hanno liberata dopo avere scoperto la sua identità, ritenendo che fosse troppo rischioso trattenerla. Non è malata, vero? Voglio dire, non è diabetica né soffre di una particolare malattia per cui ha bisogno di cure costanti?» «Oh, no» rispose Wexford. «Niente del genere, ve lo posso assicurare.» Burden aveva convocato Christine Colville nel suo ufficio. Era convinto che, appena avesse visto la stanza degli interrogatori, la giovane donna a-
vrebbe subito chiesto di essere assistita da un avvocato e infatti fu così che andarono le cose. «Lei è un'antropologa, vero, signorina Colville?» Christine lo guardò storto. «Sono un'attrice» rispose. «Ciò non significa che debba essere necessariamente ignorante in tutti gli altri campi.» «Sta valutando alcune proposte di lavoro, suppongo?» «Supposizione errata. Non sto valutando nulla. A parte il fatto che partecipo alla protesta con i miei amici, sto recitando nella commedia di Jeffrey Godwin in scena al Weir Theatre.» Burden si ricordò che Wexford gliene aveva parlato. La commedia era imperniata sulla questione della tangenziale, la tutela dell'ambiente e gli attivisti. Com'era il titolo? Preferiva evitare di chiederglielo. Ah, sì, Extinction. «Le è stato assegnato un ruolo importante?» «Quello della protagonista femminile.» L'unica relazione sentimentale della sua vita (nel periodo intermedio tra la morte della prima moglie e il suo secondo matrimonio) l'aveva avuta con un'attrice, una bellissima donna dalla carnagione chiara, i capelli rossi e gli occhi verdi. Completamente diversa da Christine, che era bassa, tracagnotta, con la faccia tonda e i capelli ispidi quasi rapati a zero. «Stava parlando del Re del bosco» le rammentò. «Prima che lei m'interrompesse» disse Christine di rimando. «La famiglia di Conrad vive nel Wiltshire. Quando va a trovare i genitori, spesso ci va a piedi. E sono più di centoventi chilometri. Fino a cent'anni fa era così che si spostava la gente. Oggigiorno nessuno più si sogna di farlo, tranne Conrad.» «Però possiede un'auto» osservò Burden, scettico. «La usa di rado. In compenso la presta spesso agli altri. Conrad è una specie di santo, sa?» Lo definivano re, divinità pagana, capo, e ora anche santo. «Bene. Continui.» «Suo fratello Colum è immobilizzato su una sedia a rotelle. Non potrà mai più camminare. Il suo amore per gli animali gli è costato caro. Aveva dedicato alla causa tutte le sue energie. L'altro fratello, Craig, è finito in carcere per aver preso parte alla lotta.» «Certo» confermò Burden, ironico. «In fondo stava solo per far saltare in aria un centinaio d'innocenti.» «La gente non è mai innocente» protestò Christine con foga. Che fosse
una fanatica, si capiva dalle parole e dal tono con cui le pronunciava. «Soltanto gli animali lo sono. Il peccato è appannaggio esclusivo degli uomini.» Batté un pugno sulla scrivania. «Conrad non ha mai avuto un lavoro» continuò, come se fosse stato un titolo di merito. «Un lavoro retribuito, intendo» puntualizzò, aggiustando il tiro. «Però riesce a sopravvivere ugualmente.» «Come Gary Wilson e Quilla Rice?» «No, non in quel modo. Tutt'altro genere. Quelli sono pesci piccoli. Conrad non si abbasserebbe mai a fare quel genere di lavoretti. Viene da una famiglia povera, ma aristocratica. Provvedono i suoi seguaci ad aiutarlo.» «Chi, gli amici degli alberi? Non credo che abbiano grandi possibilità.» «Questo è vero» ammise Christine. «Ma se tutti contribuiscono, non ci sono problemi.» «Già, immagino» convenne Burden, evitando di aggiungere che, a suo modo di vedere, Tarling si era trovato un'ottima fonte di reddito. «Ha contatti da queste parti?» domandò. Christine fraintese o finse di non capire. «Nei boschi tutti conoscono il Re.» «Forse verrò a vedere la commedia» disse Burden, accompagnandola alla porta. Appena fuori, fu subito presa d'assalto da un gruppo di giornalisti e fotografi. Burden andò nell'ex palestra. La conferenza stampa era terminata e Wexford aveva mandato a prendere qualcosa da mangiare al nuovo takeaway thailandese. Burden prese la lattina della bibita acquistata insieme alle cibarie, bevve un sorso e fece una smorfia. «Che roba è?» «Sembrerebbe una limonata alcolica.» «Dio santo!» esclamò Burden, dando un'occhiata all'etichetta. «Di chi è stata l'idea? Se non sbaglio c'è una legge che vieta di introdurre alcol qua dentro.» «Comunque è disgustosa. Una bevanda alcolica dovrebbe sapere d'alcol, non di limonata con uno strano retrogusto che fa pizzicare la lingua. Speriamo che non inventino anche il latte alcolico.» Wexford guardò fuori dalla finestra per accertarsi che non ci fosse in agguato qualche fotografo, pronto a scattargli una foto mentre teneva in mano una lattina di quella bibita ignobile. Nel parcheggio non c'era nessuno. «Sono già le due passate, Mike» disse, consultando l'orologio. «È dalle cinque di ieri pomeriggio che il Sacro Globo non si fa sentire. Non capi-
sco. Non ha senso. Devono avere l'impressione, per quanto mi secchi ammetterlo, che cediamo immediatamente a ogni loro richiesta. Prima abbiamo interrotto i lavori della tangenziale, poi abbiamo informato la stampa, proprio come pretendevano loro. Avremmo preso ugualmente questa decisione, ma questo non possono immaginarlo. Quindi, visto che tutto sta andando secondo i loro piani, perché non ne approfittano per darci il colpo di grazia?» «Non lo so. Non me lo spiego nemmeno io.» «È davvero strano.» Fece una pausa. «Vado un attimo a sentire come se l'è cavata Dora sotto ipnosi.» 17 Appena posò lo sguardo su Brendan Royall, Burden lo riconobbe immediatamente. In realtà non ricordava di averlo mai incontrato, ma quando lo intravide alla stazione di polizia, mentre lo facevano entrare nella stanza degli interrogatori n. 1, gli venne in mente di averlo visto sei o sette anni prima. Era successo un pomeriggio in cui era passato a prendere Jenny alle scuole superiori di Kingsmarkham. Royall era in cima alle scale, vicino all'entrata, circondato da un gruppo di coetanei. All'epoca aveva solo sedici anni. Allampanato, piuttosto alto per la sua età, aveva sopracciglia cespugliose e capelli chiari alla Harpo Marx. Il particolare che Burden non aveva dimenticato erano gli occhi, così scuri da dare l'impressione che i capelli fossero tinti. Occhi da fanatico. La voce era stridula, il tono arrogante e la pronuncia particolare, con le vocali strette e le finali delle parole biascicate. A distanza di anni non era cambiato molto. I capelli erano più scuri e più lunghi di come li ricordava; ma gli occhi erano gli stessi, il medesimo sguardo da fanatico e le sopracciglia folte come pelliccia. Non ricordava come vestisse all'epoca, ma quel lunedì pomeriggio indossava una tuta mimetica. In un bosco sarebbe passato inosservato, e probabilmente questa era appunto l'intenzione. Quanto alla voce, Burden non avrebbe saputo dire se fosse uguale oppure no, dato che Royall non aprì bocca. Aveva portato con sé il suo legale. A meno che l'avvocato, che tra l'altro non era della zona, dopo essere stato chiamato dr. Royall con il telefonino del Winnebago, non si fosse trovato a passare casualmente davanti alla stazione di polizia. La sua presenza non pareva indispensabile e comunque non avrebbe potuto dare al suo cliente un consiglio migliore di quello di
tacere, che era esattamente ciò che stava facendo per conto suo. Royall che, vestito in quel modo, sembrava pronto per un'azione militare nella giungla, sedeva serio e silenzioso a un lato del tavolo, con il suo avvocato al fianco. Mentre avviava il registratore, dichiarando che erano presenti l'interrogato e il suo legale, oltre all'ispettore Burden e all'agente Fancourt, Burden sapeva già che sarebbe stata una farsa. L'avvocato rideva sotto i baffi. Nel locale attiguo, la stanza degli interrogatori n. 2, Nicky Weaver e Ted Hennessy stavano interrogando Conrad Tarling, soprannominato Re del bosco. Il suo legale aveva impiegato più tempo ad arrivare. Tarling stava aspettando da circa un'ora, quando entrò l'avvocato India Walton. Il Re aveva il suo solito abbigliamento e il mantello con i lembi girati sulle spalle lasciava vedere le braccia nude e senza peli coperte di serie di bracciali d'argento e rame con incisi dei simboli celtici. All'inizio anche lui non parlava. Immobile come una statua, fissava la finestra come se, invece del muro del tribunale, si potesse ammirare un panorama stupendo. Wexford era tentato di dare una sbirciata dentro, ma un articolo del Police and Criminal Evidence Act vietava d'interrompere gli interrogatori se non in circostanze eccezionali e la curiosità di un funzionario di polizia non rientrava nella categoria. Si accontentò di dare un'occhiata dalla finestrella interna e la scena che vide gli ricordò un aneddoto che aveva raccontato in classe il professore di latino. Secondo quella storia i senatori dell'antica Roma, mentre si trovavano in senato, avevano saputo che stavano arrivando i Goti ed erano rimasti impassibili, seduti sui loro scanni. Scambiandoli per statue, i Goti li avevano punzecchiati fino a quando uno di loro aveva reagito, così erano stati trucidati tutti. Stanco e frustrato, Wexford avrebbe voluto poter punzecchiare Tarling per costringerlo a uscire dal suo mutismo; ma non poteva far altro che stare ad aspettare. L'agente Lowry gli aveva appena riferito che la Mercedes bianca di cui Nicky Weaver aveva annotato il numero di targa era stata trovata nella zona industriale di Stowerton. Naturalmente si trattava di un'auto rubata. Era davanti a una fabbrica abbandonata, con il parabrezza sfondato e le gomme bucate. Lowry si avvicinò. «Posso parlarle un momento, signore?» Il giovane agente assomigliava a Marion Brando con la pelle nera, più precisamente come l'attore appariva nel film Un tram che si chiama desiderio. «Sì. Cosa c'è?»
«Sua moglie ha parlato di un tizio che aveva sempre i guanti. Mi è venuto in mente che forse li portava perché aveva le mani come le mie.» Le alzò per mostrargliele. «Perché aveva la pelle nera, intendo.» «Ottima deduzione» si congratulò Wexford, avviandosi verso l'ex palestra, dove Dora stava ascoltando la registrazione di ciò che aveva detto sotto ipnosi. Tarling divenne loquace quanto Royall era taciturno. Nonostante i consigli di India Walton, che insisteva perché non rispondesse alle domande, soprattutto quelle che lei riteneva tendenziose, Tarling parlava. Non che rispondesse alle domande. Anzi, sembrava che non le sentisse nemmeno. Parlava di getto, come se stesse facendo un comizio, come se non ci fosse una persona che lo stava interrogando, ma si stesse rivolgendo a un ipotetico pubblico. Parlò del fratello maggiore Craig, dei suoi ideali, del suo amore per gli animali e della sua convinzione che fossero tutti, dal più piccolo al più grande, importanti quanto gli esseri umani. Se si poteva usare la vivisezione con gli animali, alla stessa stregua si potevano far saltare in aria gli uomini con le bombe. L'unica differenza era che gli animali morivano di morte lenta. Parlò di quanto fosse stata ingiusta la sorte con Craig, lo lodò per il suo coraggio e per la sua condotta ineccepibile in carcere. Terminata la biografia di Craig, iniziò a parlare del fratello minore, finito sotto le ruote di un camion che trasportava pecore a Brightlingsea. In seguito a quel terribile incidente era rimasto invalido. Aspettò gentilmente che Nicky gli rivolgesse la domanda successiva, poi riprese a parlare a ruota libera di sé, del suo passato, dell'amore che nutriva per la campagna inglese e di quella che definiva la "bonifica della natura". «È interessante notare» continuò «che tutt'e tre noi figli, nati da genitori borghesi e conservatori, dopo aver compiuto gli studi nelle migliori scuole e aver frequentato l'università, abbiamo dedicato la nostra vita a un ideale comune: mio fratello Craig per difendere gli animali domestici, Colum per gli animali da fattoria e il sottoscritto per gli animali in generale. Forse si chiederà com'è potuto accadere...» «Preferisco chiedere a lei se il nome Sacro Globo è una sua invenzione, signor Tarling» l'interruppe Nicky. «Mi sembra rispecchiare perfettamente tutto ciò che ci ha raccontato finora, tanto più che si fa chiamare Re del Sacro Bosco.» «... e quale sia stata la molla che è scattata in ciascuno di noi, inducen-
doci a rinunciare a quella che generalmente viene definita una vita normale, per dedicarci alla protezione delle creature più deboli e indifese, senza le quali peraltro la vita quale noi la conosciamo sul nostro pianeta è destinata alla distruzione.» Il volto di Dora era diverso. Sarebbe tornato sicuramente alla normalità, ma per il momento sembrava rimescolato. Guardandolo sembrava che non fosse del tutto a fuoco, un po' indistinto, come se Dora ne avesse perso il controllo e i lineamenti fossero scomposti. Poteva sembrare una dormiente con gli occhi aperti o una immobile sonnambula. Karen doveva essersi assentata un momento, forse per andare a prendere il tè. Dora non si era ancora accorta di lui. La sua voce si attenuò gradualmente, poi tacque. Wexford la vide allungare una mano per spegnere il registratore, ma non lo sapeva fare e perciò decise di lasciar perdere. Solo in quel momento voltò la testa e lo vide. «Dora» mormorò Wexford. Tornò di colpo a essere se stessa. Lo guardò con un sorriso raggiante. «È stupefacente, Reg. Prima di ascoltare la registrazione non solo non immaginavo di sapere le cose che ho detto, ma non ricordavo neppure di averle raccontate. E la voce è la stessa di sempre.» «Mi fa piacere che non ti sia impressionata.» «Per niente. Il dottor Rowland è stato gentilissimo. Mi ha detto di mettermi comoda e di rilassarmi, poi ha pronunciato le solite frasi che dicono tutti gli ipnotizzatori, ma in modo molto rassicurante e senza istrionismi. Avevo pensato che sarebbe stato come quando si va dal dentista, che inietta un liquido che non addormenta, ma ti manda in dormiveglia, e dopo che il dente è stato estratto, sembra che sia passato solo un minuto. Ma non è andata così. È stato come quando si sogna e si è convinti che sia tutto vero. Soltanto mentre ascoltavo la registrazione mi sono resa conto di avere parlato di quella cosa azzurra...» «Quale cosa?» «Naturalmente adesso me la ricordo bene, ma non credo che mi sarebbe venuta in mente se non fossi stata ipnotizzata. Te ne posso parlare, se vuoi, oppure puoi ascoltare la registrazione. Cosa preferisci?» «L'una e l'altra cosa, ma non subito. Devo andare in televisione.» La troupe televisiva stava già arrivando. In un angolo della stanza era stato disposto un tavolo per loro. Il capo della polizia sedeva al centro, con
Wexford a sinistra e Audrey Barker a destra. Accanto a lei c'era Andrew Struther, mentre Clare Cox e Hassy Masood erano seduti a sinistra di Wexford. Avevano raccomandato ai parenti degli ostaggi di non rivolgere appelli ai rapitori. Possibilmente non dovevano aprire bocca. Alla fine fu Andrew Struther a parlare per tutti. Considerato che probabilmente era il più istruito, meglio così. In risposta all'inevitabile domanda rispose: «Lasciamo alla polizia il compito di occuparsi del caso, certi che sia la soluzione migliore, date le circostanze. Non è né il momento né il luogo per esprimere l'ansia e il dolore che noi tutti proviamo. Non ci resta che aspettare e affidarci agli esperti.» Audrey Barker si mise a piangere, cosa che faceva spettacolo, ma guastava l'immagine di calma e determinazione che Wexford avrebbe voluto creare. Qualcuno domandò se fosse vero che all'inizio tra gli ostaggi c'era anche la moglie dell'ispettore capo e, in caso affermativo, perché era stata rilasciata. Per fortuna gli operatori interruppero le riprese prima della risposta. I telefoni, che nelle ultime ore si erano acquietati, ripresero a squillare ininterrottamente appena fu trasmessa l'intervista. Un tizio di Liverpool aveva visto Roxane Masood entrare in un cinema in compagnia di un uomo di colore, forse un indiano. Un certo signor Struther e consorte erano appena usciti da un ristorante della catena Little Chef che si trovava sulla A12, dalle parti di Chelmsford. Qualcuno telefonò per domandare se la polizia fosse a conoscenza del fatto che nei pressi di Glencastle Forest era prevista una manifestazione sicuramente organizzata dal Sacro Globo. Dal Galles intanto Gwenlian Dean aveva inviato un altro fax per informarli che Gary Wilson e Quilla Rice erano arrivati nel luogo della manifestazione della Species e che la polizia locale sapeva dove si erano accampati. Nel messaggio chiedeva a Wexford se desiderava che fossero interrogati. Rispose dicendo che gli interessava più che altro sapere dove si trovavano e capire quali relazioni avessero con Conrad Tarling. Trovò ad aspettarlo sulla scrivania il rapporto sulla Mercedes bianca targata L570 LOO. Il proprietario, un certo William Pugh di Swansea, tre settimane prima aveva denunciato il furto dell'auto, che gli era stata rubata a Ventnor, nell'isola di Wight, dove trascorreva le vacanze con la moglie. I ragazzi della scientifica ne stavano esaminando l'abitacolo. «Ora vado ad ascoltare il nastro registrato mentre mia moglie era sotto ipnosi» disse Wexford a Vine. «Dopodiché tornerò a casa e la sentirò di
nuovo dal vivo.» «Non credo proprio, signore» replicò il sergente, pallido e teso. «Non dopo che le avrò dato la brutta notizia.» «Quale notizia?» «Hanno rinvenuto un cadavere. L'hanno trovato nel terreno abbandonato vicino alla Contemporary Cars, in un sacco a pelo appoggiato al recinto.» 18 Il terreno incolto un tempo occupato dal Railway Arms era delimitato da una catena di ferro, a ridosso della quale si era sviluppato il genere di vegetazione che si trova solitamente in posti simili, come sambuchi, rovi e polloni di sicomori abbattuti. Abbondavano le ortiche, in quella stagione così alte da arrivare alla vita. A destra c'era la stazione degli autobus, il cui muro era coperto di graffiti; di fronte una palazzina con alcune insegne sbiadite. La più vecchia era quella del calzolaio, che si era insediato prima dell'aromaterapista, del parrucchiere e della copisteria. I graffiti non erano altro che la monotona ripetizione di un solo nome, Gazza, tracciato con una vernice rossa che, sgocciolando, aveva lasciato lunghe sbavature. Intorno al prefabbricato della Contemporary Cars c'era un prato incolto cosparso di rifiuti. I clienti del piccolo supermercato gettavano dall'altra parte i pacchetti di sigarette vuoti e i sacchetti delle patatine fritte. Il sacco a pelo in tessuto mimetico era nell'angolo estremo, seminascosto tra rovi e ortiche. La cerniera laterale era stata aperta per un tratto lungo circa mezzo metro e dall'apertura si vedeva soltanto una massa di capelli neri. «Non sono stato io ad aprirlo» si giustificò Peter Samuel, mettendo le mani avanti. «Non mi sarei mai sognato di farlo. Avevo capito subito di cosa si trattava. I capelli si vedevano bene senza bisogno di toccare niente.» «L'ho aperto io» disse Burden. «Devono averle piegato le gambe per farla stare tutta dentro il sacco. Quando l'ha trovata?» «Circa mezz'ora fa, poco dopo le sei. Avevo appena finito di vedere la vostra intervista alla televisione. Ero uscito per salire in macchina e, mentre mi guardavo attorno, ho visto il sacco a pelo. Non so perché ho guardato da questa parte. È stato per caso. In un primo momento ho pensato che qualcuno l'avesse buttato via. Non avete idea delle porcherie che scaricano qui. Poi ho visto i capelli, ma in principio credevo che fosse un animale e...»
«Bene, signor Samuel. La ringrazio. Mi aspetti dentro, se non le spiace. Parleremo dopo.» Giunto sul posto, Wexford si era sentito oppresso da una paura che, come purtroppo già sapeva, non era immotivata. Gli bastò dare un'occhiata a Burden per rendersi conto che non si era sbagliato. Vine non disse nulla e anche Karen rimase in silenzio. Si voltarono a guardare Peter Samuel che attraversava il prato, poi si girarono di nuovo verso l'ispettore capo. Wexford si avvicinò al sacco a pelo, diede un'occhiata e chiuse gli occhi. Il viso, di cui si vedeva soltanto il profilo sinistro, era coperto di lividi che, sopraggiunta la morte, erano diventati verdastri. I lineamenti però erano inconfondibili. Wexford ripensò alla foto che ritraeva quel volto così bello e così sereno. «È Roxane Masood» disse. Il dottor Mavrikiev, il patologo, non impiegò più di un quarto d'ora ad arrivare. Il fotografo li raggiunse subito dopo con Archbold, l'agente assegnato alla scena del delitto. Mavrikiev aprì la chiusura lampo fin dove era possibile e s'inginocchiò accanto al corpo. Si vide così che Burden aveva ragione: l'assassino le aveva piegato le gambe ad angolo retto. Un paio di pantaloni neri a vita bassa, una maglietta rossa e una giacca di velluto in tinta costituivano l'abbigliamento. Quando il patologo girò con delicatezza il corpo, una mano dalla pelle chiara come l'avorio scivolò giù dalla coscia. Con il passare del tempo Wexford aveva imparato, se non ad avere simpatia, almeno a provare rispetto per Mavrikiev. Giovane, probabilmente di origine ucraina o di un paese baltico, con i capelli biondi e gli occhi chiarissimi, era un tipo assolutamente imprevedibile, scostante o socievole a seconda dell'umore. A differenza di molti colleghi che l'avevano preceduto, in modo particolare Sir Hilary Tremlett, non si permetteva di fare battute di spirito sul cadavere, né congetture su come doveva essere l'aspetto della vittima quand'era in vita. Impossibile intuire cosa gli passasse per la testa, inutile tentare di decifrare la sua espressione impenetrabile. «È morta da almeno due giorni» disse. «Forse anche di più. Naturalmente potrò essere più preciso in seguito, ma appare evidente che la fase del rigor mortis è già stata superata, come dimostra il fatto che la mano non è rigida. Se può esserle utile una valutazione approssimativa (spostò lo sguardo su Wexford) penso di poter affermare che il decesso è avvenuto sabato pomeriggio.» «Non so dirvi quando sia stata portata qui, ma il corpo dev'essere stato messo nel sacco a pelo poco dopo la morte della ragazza, perché con il so-
praggiungere del rigor mortis sarebbe stato impossibile piegarle le gambe in questo modo senza spezzarle le ginocchia. In effetti ha le gambe fratturate, ma non dipende da questo. Dunque l'assassino l'ha infilata dentro il sacco al più tardi sabato a mezzanotte.» «E la causa del decesso?» domandò Wexford. «Lei non si accontenta mai, vero? Vuole tutto e subito. Non sono un indovino, gliel'ho già detto una volta. La ragazza ha subito l'aggressione di una o più persone. Basta guardare i lividi che ha sul viso. Quanto alla causa della morte, possiamo escludere sia che le abbiano sparato, sia che l'abbiano accoltellata o strangolata, come potete vedere voi stessi.» Se ci fosse stato Sir Hilary al suo posto, avrebbe sicuramente scherzato sulla possibilità che la ragazza fosse stata avvelenata. Mavrikiev si alzò senza fiatare, senza neppure abbozzare un sorriso. «Ora fate pure gli accertamenti necessari e portate via il corpo. Eseguirò l'esame necroscopico domattina alle nove in punto.» I fotografi fecero il loro lavoro. Archbold effettuò le misurazioni necessarie, pungendosi ovunque con le ortiche. Wexford, finalmente libero di fare la sua parte, infilò una mano nel sacco a pelo e tastò la fodera. «Cosa stai cercando?» domandò Burden. «Un foglio, un messaggio» rispose l'ispettore capo, alzandosi. «Non c'è niente. Non capisco, Mike. Perché hanno assassinato la ragazza? Che senso ha?» «Non lo so.» Quando Wexford entrò nell'ufficio della Contemporary Cars, Peter Samuel stava ripetendo daccapo la storia del ritrovamento del cadavere. «Come può essere certo che stamattina non fosse già lì?» gli domandò. «No, non è possibile. Stamattina non c'era.» «Come fa a esserne così sicuro? È andato a vedere da vicino, lei o qualcun altro? Immagino che avrete avuto una mattinata movimentata e quindi non credo che abbiate trovato il tempo di andare in giro.» «Be', sì, questo è vero. Almeno per quanto mi riguarda.» «Perciò non possiamo escludere che l'abbiano portato ieri sera.» «No, assolutamente. Be', a pensarci bene, forse sì. Però non credo proprio.» Wexford sentiva la collera aumentare di minuto in minuto. Non ce l'aveva con Samuel. Lui non c'entrava. Provava un sordo rancore nei confronti del Sacro Globo. Perché arrivare al punto di uccidere, proprio mentre sembrava che tutto procedesse esattamente come volevano? A quel punto sa-
rebbe bastato dare inizio alle trattative. Ormai era fuori discussione. Niente più negoziati. L'epilogo di quella storia era un omicidio. Purtroppo a volte capitava che i sequestri di persona finissero così. Tutto filava liscio, sia per gli ostaggi che per i rapitori, finché a un certo momento un ostaggio veniva assassinato e il cadavere spedito a quelli che stavano adoperandosi per liberarlo. La sfortunata madre non avrebbe più potuto riabbracciare sua figlia. Non restava che portarle la tragica notizia e Wexford non intendeva tirarsi indietro. Sarebbe andato a parlarle personalmente. La polizia non aveva ricevuto messaggi dal Sacro Globo, ma un'infinità di telefonate fasulle. Sugli schermi dei computer figuravano nomi, indirizzi, descrizione e reati commessi da persone anche lontanamente interessate alla salvaguardia dell'ambiente e alla difesa dei diritti degli animali. Non mancavano riferimenti incrociati, possibili collegamenti, rapporti basati su precedenti interrogatori. Dimenticata di colpo la simpatia che provava per alcune di quelle persone e per i loro ideali, Wexford sentiva soltanto la collera che lo rodeva dentro. Si sforzò di calmarsi. Doveva fare una telefonata. Compose il numero del Posthouse Hotel e chiese di parlare con il signor Hassan Masood. «Il signor Masood è in sala da pranzo. Desidera che lo mandi a chiamare?» Come spesso succede quando si telefona a qualcuno il cui stato d'animo sembra lontano anni luce dal nostro, la rabbia sbollì di colpo. Wexford non se la sentì di costringere Masood a lasciare la tavola, forse anche moglie e figli. «No, grazie.» Sarebbe andato di persona. Telefonò a casa e gli rispose Sylvia. «Si può sapere che fine hai fatto, papà? La mamma ti sta aspettando da un secolo.» Le rispose di avere avuto un contrattempo. Sapeva perfettamente che le rimostranze erano farina del suo sacco e che Dora non aveva fiatato. Posò piano la cornetta mentre la figlia stava ancora brontolando. Già, bisognava anche provvedere ad avvertire i media, ma si poteva anche aspettare fino al giorno dopo. Salì in macchina, andò al Posthouse e la prima persona che vide fu Clare Cox. Non si era aspettato di trovarla lì. Non gli era neppure passato per la mente. Lei e Masood, fermi davanti al banco della reception, gli voltavano le spalle. Seppe in seguito che stavano chiamando un taxi
perché la riportasse a casa. «Non ho potuto fare a meno di portarla qui» gli spiegò Masood. «Fotografi e giornalisti le avevano invaso la casa. Uno di loro ha avuto la sfacciataggine di seguirla fin qui. Pensi che ho dovuto chiuderla in camera mia e pregare la direzione di tenerli alla larga. Per fortuna questo è un ottimo albergo, davvero eccellente.» Guardò il portiere e sorrise. «Credo che adesso possa tornare a casa senza inconvenienti. Lei che ne pensa?» Evidentemente Masood non aveva pensato che Wexford potesse trovarsi lì per qualche motivo che lo riguardava. Clare Cox invece era impallidita e gli era andata incontro con le braccia tese. «È successo qualcosa? Come mai qui?» Quando poteva evitarlo preferiva non parlare subito con la madre. «Signor Masood, vorrei che venisse a Kingsmarkham con me, se non le dispiace. Ci sono novità.» «Novità di che genere?» si affrettò a domandare Clare, tirandolo per la manica. «Che cos'è successo?» «Signora Cox, probabilmente il suo taxi è già arrivato ed è fuori che l'aspetta. Se torna a casa, le prometto che il signor Masood e io la raggiungeremo subito, in caso di necessità.» Dalle sue parole si poteva dedurre che avesse qualche speranza da offrirle, ma il tono era grave. «Per ora non posso dirle altro, signora, ma spero vivamente che faccia come le ho detto.» Il taxi non era della Contemporary Cars, ma della All the Sixes. Per fortuna, pensò confusamente Wexford. Appena l'auto si fu allontanata, Masood volle sapere quali novità ci fossero. Saliti in macchina a loro volta, iniziarono a parlare e Wexford fece del suo meglio per temporeggiare, ma poi dovette arrendersi. Gli fornì una versione ridotta del dramma, evitando di nominare il terreno ingombro di rifiuti, il sacco a pelo e le gambe fratturate. Avrebbe visto la figlia con i suoi stessi occhi. Purtroppo non si poteva evitare. Fin dal primo momento non c'erano stati dubbi di sorta. Masood guardò il bel volto esanime, emise uno strano suono dalla gola, annuì e si voltò per andarsene. Wexford provò a invertire i ruoli, immaginando lo strazio che avrebbe provato se fosse toccato a lui vedere una delle sue figlie priva di vita, con il volto deturpato dalle percosse. Sconvolto dal dolore, si sarebbe scagliato contro il poliziotto, avrebbe urlato, forse l'avrebbe afferrato per le spalle e l'avrebbe scosso, gridandogli in faccia: «Perché, perché hai lasciato che
accadesse?» Masood era rimasto calmo, con il capo chino. Vine, che stava con loro, gli offrì del tè. «Non vuole sedersi?» «No. No, grazie.» Alzò la testa, inclinandola in un modo strano, come se gli facesse male il collo. «Non capisco» mormorò. «Nemmeno io» confessò Wexford. Si ricordò che, parlando con Burden, aveva avanzato l'ipotesi che il Sacro Globo cominciasse a sentire la terra scottare sotto i piedi e non sapesse decidere la mossa successiva. Eccola. «Ho rispedito moglie e figli a Londra» disse Masood in tono pacato, quasi come se stesse facendo conversazione. «Adesso sono contento di averlo fatto.» Si schiarì la gola. «Il mio posto adesso è accanto alla madre di Roxane. Mi accompagna?» «Certo. Se lo desidera.» «Se qualcuno mi avesse predetto che mia figlia sarebbe morta giovane» disse Masood mentre andavano a Pomfret «tutto avrei creduto di poter provare, tranne quello che sento adesso. Che tragico spreco di bellezza, di talento! Che orribile tragedia!» Ripensando a ciò che gli aveva raccontato Dora sul conto di Roxane, Wexford ebbe la tentazione di pronunciare le parole di conforto che di solito si riservano ai genitori dei soldati morti in guerra. Avrebbe voluto dirgli che la figlia aveva dato prova di grande coraggio, ma non riuscì a trovare le parole. Da quando era tornata a casa, Clare Cox si era attaccata alla bottiglia e non accennava a staccarsene. Puzzava di whisky. Se bere doveva servirle da anestetico per meglio sopportare la tragedia che forse aveva intuito incombente, si dimostrò comunque inefficace. Standole vicino e tenendola per mano, Masood le riferì l'accaduto. L'urlo non si fece attendere, fu una reazione chimica, come quella di un bambino affamato che strepita per scacciare i morsi della fame. «Se ne torni a casa, Reg» disse al telefono il capo della polizia. Lui si era già coricato. Era stata una giornata dura. «Vada a casa, mi dia retta. Ormai non può fare più niente. Sono già le undici e dieci.» «La stampa è già informata, signore.» «Davvero? Come l'avranno scoperto?» «Mi piacerebbe proprio saperlo.» Dora si era già addormentata. Meglio così, almeno poteva evitare di par-
lare. L'idea di dirle che Roxane era morta lo terrorizzava quasi quanto l'aveva tormentato il pensiero di doverne informare la madre. Aveva ancora nelle orecchie l'eco delle grida di Clare Cox. Eppure Hassy Masood aveva informato la stampa. Wexford ne era convinto, pur avendo sostenuto il contrario nel corso del suo colloquio con il capo della polizia. Dopo averlo detto alla madre della ragazza (e sicuramente aveva fatto del suo meglio per consolarla) aveva messo al corrente anche la stampa. D'altronde aveva altri figli, una seconda famiglia, una nuova vita, e per lui Roxane non era stata altro che la destinataria della sua generosità, da portare di tanto in tanto in qualche ristorante di lusso. La morte della ragazza rappresentava solamente un inutile spreco di bellezza e quindi, dal suo punto di vista, di denaro. Grazie a Dora che dormiva al suo fianco, Wexford si addormentò senza problemi. Al mattino, quando suonò la sveglia, fu la moglie ad aprire gli occhi per prima. «Scendo dabbasso» annunciò, vedendola già in piedi e in vestaglia. Voleva essere lui a ritirare i giornali. La notizia ovviamente era in prima pagina. Trovata morta fotomodella caduta nelle mani dei rapitori; Roxane, la prima a morire; Roxane assassinata; lo strazio di un padre... Dunque aveva ragione. Tornò di sopra e informò Dora. All'inizio la moglie non voleva credergli. Non riusciva ad accettare l'idea che Roxane fosse stata assassinata. Non avevano motivo di ucciderla. «Che cosa le hanno fatto?» domandò con le lacrime agli occhi. «Non lo so ancora. Devo scappare. Mi dispiace, ma non posso proprio fermarmi. Devo essere presente all'autopsia.» «Era troppo coraggiosa» commentò Dora. «Probabilmente sì.» «E pensare che mi aveva salutato. "Arrivederci, Dora" mi ha detto.» Affondò la testa nel cuscino, singhiozzando. Wexford le diede un bacio. Gli rincresceva lasciarla sola in un momento come quello, ma non poteva evitarlo. Martedì. Era passata una settimana da quando avevano rapito gli ostaggi. Fu la stampa a rammentarglielo, prendendolo d'assalto mentre andava all'obitorio. «Via due, tre restano nelle mani dei rapitori» disse uno dei giornalisti. «Come ha fatto a ottenere che rilasciassero sua moglie, ispettore capo?» domandò una giovane telecronista. Mavrikiev era già arrivato. «Buongiorno, buongiorno a tutti. Come va
oggi? Il sergente Vine è qui, non so bene dove. Vogliamo incominciare?» Tutti si erano infilati i camici verdi e si erano messi le mascherine. Per Barry Vine era la prima volta e, benché non fosse particolarmente impressionabile alla vista dei cadaveri, non era detto che superasse indenne questa prova. Il rumore della sega riusciva insopportabile a molti, come pure l'odore, molto più della vista degli organi rimossi. Ora che il corpo era ben visibile a tutti, Wexford notò due particolari che gli erano sfuggiti la sera precedente. Il lato destro della testa era schiacciato e i capelli incrostati di sangue. I lividi però gli sembravano meno evidenti. Mavrikiev lavorava in fretta e sempre in silenzio. Mentre altri patologi, estraendo un organo, spesso si soffermavano a commentare eventuali anomalie strutturali o patologiche, lui procedeva senza interruzioni fino alla fine. Ammesso che Barry Vine avesse cambiato colore, Wexford non se ne accorse. La mascherina e la cuffia verde gli coprivano buona parte del viso. Ma dopo qualche minuto si portò una mano alla bocca e chiese il permesso di uscire. Contrariamente alle sue abitudini, il patologo abbozzò un sorriso. «Ecco un caso in cui gli occhi si sono dimostrati più forti dello stomaco» mormorò. Ripreso il lavoro, con l'ausilio delle pinze estrasse qualcosa dalla ferita alla testa. Nei diversi contenitori di plastica aveva riposto lo stomaco, i polmoni, una parte del cervello e ciò che aveva tolto dalla ferita. Quando ebbe terminato, si sfilò i guanti e si avvicinò a Wexford. «Confermo quello che ho già detto a proposito del giorno del decesso: sabato pomeriggio.» «Adesso posso rivolgerle l'altra domanda?» «Si riferisce alla causa? È morta in conseguenza del trauma alla testa. Non occorre essere laureati in medicina per capirlo. Ha il cranio fracassato e gravi lesioni al cervello. Inutile soffermarsi sui dettagli tecnici. Troverà tutto nel mio rapporto.» «Intende dire che qualcuno l'ha colpita con violenza alla testa? Con cosa? È già in grado di stabilirlo?» Mavrikiev scrollò il capo e gli porse uno dei contenitori. Dentro c'erano una decina di pietruzze, alcune sporche di sangue. «Se qualcuno l'ha colpita, pare strano che l'abbia fatto scagliandole addosso manciate di ghiaia. No, penso piuttosto che sia caduta da una certa altezza, atterrando su un viale ghiaioso.» Barry Vine tornò nella stanza, ma evitò di guardare il corpo, ora coperto
da un telo di plastica. Wexford finse d'ignorarlo. «Caduta, o spinta?» domandò. «Santo cielo, ecco che ci risiamo! Non sono un mago. Quante volte glielo devo dire? Non posso rispondere alla sua domanda. Se pensa che sia possibile trovare l'impronta di una mano in mezzo alla schiena, l'avverto che si sbaglia di grosso. Il corpo presenta dei graffi sul lato destro. Credo che sia caduta da una certa altezza, forse da una decina di metri, e sia atterrata sul fianco destro.» «Per ora è tutto, signori. Vi ringrazio dell'attenzione (lanciò un'occhiata sdegnosa a Vine) e me ne vado a casa a mangiare.» Vine lo salutò con un cenno del capo. «Va un po' meglio?» gli domandò Wexford. «Mi è venuto in mente che Brendan Royall, quando l'abbiamo visto, indossava una tuta mimetica. Potrebbe essere una semplice coincidenza?» 19 Martedì mattina Stanley Trotter era ancora letto, nel suo appartamentino di due stanze in Peacock Street, a Stowerton, quando Burden andò da lui. Uno dei fratelli Sayem, proprietario della drogheria al piano di sotto, dopo averlo fatto entrare, l'accompagnò su per le scale e bussò alla porta di Trotter. Forse ce l'aveva con l'inquilino per motivi suoi personali, perché quando Stanley apparve sulla porta, in pigiama e vestaglia sudicia, Ghulam Sayem sorrise compiaciuto. Aveva avuto la stessa reazione quando poco prima Burden gli aveva detto di essere un poliziotto. Era una bella giornata, calda e senza un alito di vento, eppure Trotter teneva le finestre chiuse. La stanza aveva un cattivo odore, esattamente come Burden si era aspettato. Analizzò la puzza, un misto di sudore, di orina e di cibo orientale, il genere di odore che si avverte quando ci sono in giro degli asciugamani sporchi. Essendo un tipo preciso e ordinato, abbastanza ricercato nel vestire, Burden avrebbe preferito evitare di sedersi sulla sedia unta, con i segni delle bruciature di sigaretta sui braccioli, ma non aveva scelta. Pulì il sedile alla meglio con un fazzoletto di carta. Trotter l'osservava. «Mi piacerebbe proprio sapere cosa è venuto a fare» disse. «Ha letto il giornale stamattina? Ha visto la televisione? Ha ascoltato la radio?» «No, perché avrei dovuto? Stavo ancora dormendo.»
«Allora non le interessa sapere cos'è successo? Non è curioso di sapere perché sono qui?» Trotter non replicò. Frugò nella tasca di un indumento che stava sul letto, trovò le sigarette, ne accese una e fu colto da un violento accesso di tosse. «Dovrebbe mettersi in lista per un trapianto di polmoni, Trotter» disse Burden. «Ho sentito dire che la lista d'attesa è lunga qualche metro.» Tossì a sua volta. Evidentemente era contagiosa. «Per quanto tempo intendeva lasciare lì il cadavere?» domandò. «Quale cadavere?» «Per quanto tempo pensava di lasciare lì il sacco a pelo? Voleva essere lei a trovarlo? Era questo che aveva in mente?» «Mi rifiuto di parlare se non in presenza del mio avvocato» replicò Trotter. Posò la sigaretta su un piattino senza neppure prendersi la briga di spegnerla, poi s'infilò a letto e si coprì la testa con le lenzuola. Il sacco a pelo era stato portato al laboratorio della Scientifica di Myringham per essere esaminato. Era prodotto da una società che si chiamava Outdoors, stando all'etichetta, con un tessuto composto da poliestere, cotone e lycra. La fodera era di nylon e l'imbottitura di fibra di poliestere. Nell'abitacolo dell'auto erano stati rinvenuti peli di gatto, oltre a sassolini e sabbia tipici della costa meridionale del paese e più precisamente, secondo gli esperti, dell'isola di Wight. Non c'erano impronte né all'interno né all'esterno. L'auto era stata rubata a Ventnor, nell'isola di Wight, ma Wexford era sicuro che gli ostaggi non fossero lì. Se avessero attraversato un braccio di mare, Dora se ne sarebbe accorta. Inoltre i rapitori non avrebbero certo preso il traghetto, e quello era l'unico modo di raggiungere l'isola. William Pugh, il proprietario, risiedeva a Gwent Road a Swansea. Wexford lo chiamò al telefono e gli chiese se avesse un gatto, anzi due, dato che i peli appartenevano a un siamese e a un gatto nero. Pugh rispose di no. Possedeva invece un labrador, che era rimasto in una pensione per cani durante la loro assenza. Chissà, forse pensava che Wexford stesse conducendo un'indagine per compilare una statistica sugli animali domestici. «Suppongo che lei andasse in spiaggia, signor Pugh?» «Assolutamente no. Vede, io ho settantasei anni e mia moglie ne ha settantaquattro.» «Quindi escluderebbe di avere sporcato l'auto con la sabbia rimasta at-
taccata alle scarpe?» «La macchina è stata rubata tre ore dopo il nostro arrivo nell'isola.» Gwenlian Dean aveva inviato un altro fax da Neath. Gary e Quilla erano stati interrogati da uno dei suoi agenti. All'inizio avevano negato di avere incontrato Wexford a Framhurst, ma poi si erano ricordati dell'episodio e ne avevano parlato con apparente franchezza. L'ispettore capo Dean riteneva che il suo agente non avesse motivo di dubitare della loro buona fede. A suo modo di vedere, i due non avevano prestato attenzione quando Wexford si era presentato e perciò avevano dimenticato il suo nome. Per il momento non intendevano tornare a Kingsmarkham, avevano deciso di proseguire per il nord dello Yorkshire, dove si preparava una manifestazione di protesta contro il progetto di un grande complesso residenziale. L'unica cosa che aveva stupito Gwenlian Dean era che, contrariamente a quanto le era stato comunicato, Gary e Quilla possedevano un'auto, una Ford Escort di quattro anni in ottimo stato. Nel fax chiedeva se Wexford desiderasse sapere altro sul conto di quei due. L'inchiesta sulla morte di Roxane Masood era stata fissata per il giorno successivo e ancora non erano arrivati messaggi da parte del Sacro Globo. Era come se fossero tutti morti oppure scomparsi, e avessero portato gli ostaggi con sé. Wexford si sorprendeva spesso a consultare l'orologio e a contare le ore trascorse dall'ultimo messaggio: quaranta, quarantuno... Telefonò a Gwenlian Dean e, dopo averla ringraziata della collaborazione, le disse che avrebbe parlato con Gary e Quilla al loro ritorno. In cuor suo sperava, per quella data, di non averne più bisogno. Aveva incaricato Karen Malahyde di tenere d'occhio Brendan Royall, mentre Damon Slesar doveva fare altrettanto con il Re del bosco. Tanya Paine disse a Vine di non avere avuto occasione di guardare nel punto dov'era stato trovato il sacco a pelo. Non aveva motivo di farlo. Si trovavano dentro l'ufficio e i telefoni squillavano in continuazione. Tra una chiamata e l'altra la ragazza allungò il collo, si chinò in avanti, spostò la sedia, tutto questo per dimostrargli che, qualunque posizione assumesse, non avrebbe potuto vedere il punto in cui si trovava il sacco a pelo. Ora la zona era delimitata dal nastro bianco e azzurro della polizia. In tutta la sua vita Vine non aveva mai visto unghie del genere. Come riuscisse a dipingerle in quel modo era un mistero. Ciascuna aveva un disegno cashmere a motivi blu, verdi e viola. Se le dipingeva da sola con un pennello molto sottile, oppure erano in commercio dei minuscoli adesivi
da fissare con lo smalto trasparente? Non gli era facile distogliere lo sguardo da quelle unghie, mentre Tanya proseguiva la sua dimostrazione pratica. «Non mi riferivo a quando era nell'ufficio, signorina Paine» disse «ma a quando è entrata o uscita.» Poi, ricordandosi della sua abitudine: «Oppure a quando è andata a prendersi la tavoletta di cioccolato e il cappuccino.» «Sì, certo, uscendo avrei potuto vederlo, ma non l'ho visto.» Lo guardò storto. «E poi non mangio più quella roba. Sto cercando di dimagrire. Adesso mi accontento di una mela e di una Diet Coke.» La morte violenta di Roxane non sembrava averla sconvolta. Aveva appreso la notizia dalla televisione e si era comperata un giornale mentre andava in ufficio, il genere di quotidiano (era in bella vista sulla scrivania) con tanti titoli cubitali e il minimo possibile di testo. Sulla prima pagina spiccava una foto di Roxane in bikini, con la didascalia «La bellissima fotomodella trovata morta». «Lei e Roxane eravate amiche, vero? Andavate a scuola assieme?» «Non era l'unica ragazza della scuola.» «Certo» mormorò Vine «ma questa è la ragazza che è stata rapita e ora è morta. Strano, non le pare? Cercherò di spiegarmi meglio. All'inizio il Sacro Globo, ossia il gruppo che l'ha rapita, si rivolge all'agenzia di taxi dove lei lavora e poi, quando muore uno degli ostaggi, porta il cadavere dove lei lavora. Il corpo della sua amica. Una bella coincidenza, non trova?» Squillò il telefono. Tanya rispose e annotò su un notes ora e indirizzo. Un sistema superato e poco efficiente, pensò Vine, notando che il disegno della penna era uguale a quello delle unghie. «Una bella coincidenza, vero?» tornò a ripetere. «Non capisco dove voglia arrivare. Non fa che ripetere che era mia amica, mentre in realtà la conoscevo appena.» «Roxane telefonava sempre qui, ogni volta che doveva prendere un taxi. Sceglieva quest'agenzia per fare due chiacchiere con lei.» «Senta, se ci tiene a saperlo, glielo spiego io perché telefonava qui. Era solo per potermi raccontare che suo padre era ricco, che lei avrebbe fatto la fotomodella (che illusa, pensavo io), e che poteva permettersi il lusso di prendere un taxi, mentre le persone comuni devono accontentarsi dell'autobus. Sai che fortuna! I miei genitori almeno sono sposati e vivono ancora insieme.» Dunque quello era un merito agli occhi dei giovani? Wexford l'avrebbe trovato interessante. Nessuno si sposava più, ma il fatto che i genitori fos-
sero sposati conferiva una maggiore dignità. «Non le era simpatica?» Tanya rifletté un istante. Forse rendendosi conto di quanto fosse inopportuno confessare a un poliziotto di avere avuto in antipatia la vittima di un omicidio, tentò di rimediare. «Non ho detto questo» protestò. «Mi sta facendo dire cose che non penso.» «Per quale motivo hanno lasciato qui il cadavere?» «E io come faccio a saperlo?» A quel punto decise di mettere le cose in chiaro. «Non sono un'assassina» disse. «Ha il fidanzato, signorina Paine?» La domanda la sbigottì. «Perché vuole saperlo?» «Se preferisce non rispondere...» Lo guardò annotare qualcosa sul suo taccuino. «No, in questo periodo non ce l'ho, se vuole proprio saperlo.» Era un'ammissione che avrebbe preferito non fare. «Per il momento no, non sono fidanzata» ribadì, chiaramente a disagio. Il telefono squillò. Né Leslie Cousins né Robert Barrett erano stati in grado di dire a Lynn Fancourt quando fosse stato portato nel prato incolto il sacco a pelo con il corpo di Roxane; ma mentre Barrett si limitava a ripetere di non avere visto strane auto in giro, Cousins escluse nel modo più assoluto che il cadavere fosse già lì sabato a mezzanotte, quand'era tornato dopo avere accompagnato un cliente dalla stazione di Kingsmarkham a Forby. «Come fa a esserne così sicuro?» «Sono andato fin lì, fino al recinto.» «Perché? Aveva notato qualcosa?» Lynn lo vide arrossire e capì che non voleva parlare. Ripensò a suo padre, a suo fratello e alla mania che hanno gli uomini, anche quando hanno il bagno a disposizione... «Ci è andato per soddisfare le sue necessità corporali, vero, signor Cousins?» «Be', veramente sì.» «Era meglio una volta, quando i poliziotti erano tutti uomini, non trova? Doveva essere meno imbarazzante. Dunque, quando è uscito verso mezzanotte per andare a orinare in un angolo del recinto, non c'era niente in mezzo alle ortiche. Esatto?» «Esatto» confermò Cousins con un sospiro di sollievo. La stazione degli autobus avrebbe potuto trovarsi a un chilometro di di-
stanza invece che a due passi da lì, per quanto poco era visibile dagli uffici della Contemporary Cars. Il muro di mattoni impediva la visuale. Il calzolaio, dalla parte opposta, sabato aveva chiuso bottega alle cinque del pomeriggio, mentre il parrucchiere se n'era andato alla cinque e mezzo e la copisteria aveva chiuso circa alla stessa ora. Soltanto l'aromaterapista abitava lì. Dalle finestre anteriori del suo appartamento al primo piano si vedeva l'Engine Driver, mentre quelle posteriori si affacciavano sul terreno abbandonato. La donna fece accomodare Lynn in un soggiorno profumatissimo, che evidentemente fungeva anche da sala d'aspetto per i clienti. Le pareti erano praticamente coperte di foto incorniciate e di disegni stilizzati che riproducevano fiori ed erbe. La foto più grande era un ritratto della stessa aromaterapista, colta dall'obiettivo della macchina fotografica mentre annusava, apparentemente in estasi, la boccetta che aveva in mano. Disse a Lynn di chiamarsi Lucinda Lee. Sembrava improbabile, ma forse era vero, considerando che andavano di moda i nomi più assurdi. «La maggior parte delle volte non riesco a dormire» si lamentò «con il pub da una parte e il continuo passaggio delle auto dall'altra. Pare che il padrone di casa voglia aumentarmi l'affitto. Se dovesse farlo, non ci penserei due volte a trasferirmi altrove.» Lynn le domandò se avesse notato qualcosa di strano nel'arco di tempo che andava dalla mezzanotte di sabato fino alla domenica sera. Contrariamente alle sue aspettative, la risposta fu affermativa. «Di solito non lavorano fino a tardi come quella sera. O quella mattina, dovrei dire piuttosto. Mi ero addormentata da poco ed era l'una passata, quando ho sentito un'auto che faceva un baccano terribile.» «Che genere di rumore?» «Le auto non mi piacciono. Per forza, sono le maggiori fonti d'inquinamento. Io non la possiedo, non la vorrei avere e non me intendo. Non ho nemmeno la patente. Ma quella faceva un rumore particolare, come quando si ferma e non si riesce a farla ripartire.» «Intende dire che si era ingolfato il motore?» «Non lo so. Se lo dice lei... In ogni modo mi sono alzata per andare a guardare fuori dalla finestra. Stavo quasi per gridare qualcosa. Insomma, pazienza se fosse stata mezzanotte... Usano quel terreno come se fosse un gabinetto. È una cosa disgustosa. A proposito, non c'è una legge che lo proibisca?» «Stava dicendomi che è andata a guardare fuori dalla finestra» disse
Lynn senza spazientirsi. «Sì, però non ho protestato. C'era un tale vicino all'auto, non so cosa stesse facendo, chino in avanti. Capirà, è sempre una cosa imbarazzante. Peggio dei cani. Se non altro per gli animali è una cosa naturale.» Ancora una volta Lynn dovette distoglierla dai suoi argomenti preferiti, ossia l'inquinamento, la seccatura di avere sotto casa la Contemporary Cars e il disgusto che provava per chi faceva i suoi bisogni in strada. «Saprebbe descrivermi quel tizio e la sua auto?» domandò Lynn. Seppe così che l'auto era piccola e rossa. In un primo momento Lucinda Lee aveva creduto che si trattasse di Leslie Cousins, ma era troppo alto e magro per essere lui. Indossava i jeans e un giubbotto. Un po' più tardi, domenica verso la metà della mattinata, aveva guardato ancora fuori dalla finestra e aveva notato il sacco a pelo in tessuto mimetico; ma era così abituata a vedere la gente scaricare l'immondizia che non ci aveva fatto caso. Brendan Royall aveva trascorso la notte a Marrowgrave Hall. Lasciata l'auto al cancello, Karen aveva proseguito a piedi, rammaricandosi del fatto che la vegetazione bassa le offrisse scarsa copertura. In compenso non mancavano le ortiche. Una volta Wexford le aveva detto che in fondo potevano considerarsi fortunati, in quanto la campagna inglese non presentava grandi pericoli, a parte le vipere e le ortiche. Ormai le vipere erano praticamente scomparse e le ortiche non le davano molto fastidio. Di conigli selvatici ce n'erano in abbondanza, probabilmente centinaia. Avevano raso al suolo l'erba, eppure riuscivano ancora a trovare qualcosa da mangiare. Era appostata vicino alla casa da circa un quarto d'ora, quando Royall uscì con una macchina fotografica e iniziò a scattare foto ai conigli. Siccome erano piuttosto lontani, Karen sospettava che non si sarebbe visto altro che qualche puntino scuro in lontananza. Royall s'incamminò, emettendo uno strano fischio, forse per attirare le bestiole; ma se questo era lo scopo, ottenne solo l'effetto di farle correre al riparo tra i cespugli. Freya uscì di casa avvolta in una specie di tunica che la faceva somigliare a una statua romana. Scambiò due parole con Brendan e gli porse qualcosa. Dopo essersi messo a tracolla la macchina fotografica, Royall salì a bordo del Winnebago e Karen si precipitò verso la sua auto. Arrivò giusto in tempo per spostarla e nasconderla sotto i rami spioventi di un albero. Royall svoltò a sinistra in direzione di Forby. Dato che il Winnebago era ingombrante e le strade tutt'altro che larghe, era costretto a moderare la ve-
locità e Karen non aveva difficoltà a seguirlo. Si tenne prudentemente a distanza. Venendo da quella parte non era possibile imboccare la circonvallazione e perciò Royall dovette attraversare per forza Kingsmarkham, causando un ingorgo nel traffico in York Street, dove c'erano auto ferme in doppia fila. Probabilmente stava andando nella zona della tangenziale. Karen si chiedeva come se la stesse cavando Damon Slesar a cui, per puro caso, era stato assegnato un incarico simile al suo, cioè seguire Conrad Tarling. Se tutto fosse andato liscio e se non fossero stati costretti a lavorare fino a tardi, si sarebbero visti a Kingsmarkham alle otto per andare a cena. Non era la prima volta che uscivano insieme, ma nelle precedenti occasioni si erano incontrati per caso, mentre ora avevano fissato un appuntamento. Brendan Royall doveva essere diretto a Myfleet, visto che erano già arrivati a Framhurst. Se la sua destinazione fosse stata uno degli accampamenti, avrebbe svoltato molto prima dell'incrocio. Karen vide da lontano che il semaforo stava per diventare rosso e rallentò fin quasi a fermarsi. Royall intanto aveva imboccato la strada per Myfleet. Quando Karen raggiunse l'incrocio, il semaforo era di nuovo rosso. Cominciava a pensare di non essere tagliata per gli inseguimenti. Sicuramente Damon se la cavava meglio. Al bar di Framhurst erano seduti molti amici degli alberi. Guardando i tavoli dall'auto, Karen riuscì a distinguere i piccoli bricchi che contenevano latte di soia. Finalmente scattò il verde. Premette l'acceleratore per riprendere l'inseguimento del Winnebago, che nel frattempo doveva essere sparito dietro una curva. Purtroppo la fortuna non era dalla sua parte, perché proprio dove la strada si stringeva incrociò un'altra auto e dovette tornare indietro di una cinquantina di metri per lasciarla passare. Mentre aspettava di ripartire, vide da lontano l'inconfondibile sagoma ampia e bianca del Winnebago, che scendeva giù per le colline e scompariva nella valle. Karen non poteva far altro che proseguire nella stessa direzione, percorrendo le curve e i tornanti che si snodavano lungo la collina. Giù in fondo, nella valle, scorse un prato pieno di auto. Goland Farm, naturalmente, il parcheggio degli amici degli alberi. Il Winnebago, fermo in mezzo agli altri veicoli, sembrava un cigno circondato da anatroccoli. Rimase seduta in macchina ad aspettare, tenendolo d'occhio. Royall doveva averla preceduta di cinque minuti al massimo. C'erano delle persone raccolte intorno alla fattoria. Karen guardò attra-
verso il binocolo e vide una donna e due uomini, nessuno dei quali era Brendan Royall. Forse era seduto nella cabina oppure dietro, nella zona pranzo. Del resto il Winnebago era fatto per viverci, oltre che per viaggiare. Karen si avvicinò con l'auto per guardare dentro, puntò il binocolo e non vide nessuno. A meno che Royall si fosse nascosto sotto il letto, non era lì. A un tratto Karen ebbe un lampo: a Marrowgrave Hall Freya gli aveva dato le chiavi di un'auto. Era arrivato col Winnebago e se n'era andato con l'auto dell'amica. Il messaggio sarebbe potuto arrivare tramite lettera, come il primo. A Wexford venivano in mente centinaia di indirizzi, pezzi grossi, società, aziende, enti ai quali poteva essere inviata. Sperava solo che, chiunque la ricevesse, si mettesse subito in contatto. Erano da escludere il fax e l'e-mail. Sarebbe stata una lettera, una telefonata, oppure nulla. Niente fino al prossimo cadavere... D'altronde, benché avessero parlato di trattative, in realtà non ne avevano bisogno. Le loro richieste erano già note, o meglio la loro richiesta. La realizzazione della tangenziale non doveva essere soltanto sospesa o rimandata, ma annullata definitivamente. In fondo erano condizioni ridicole. Anche ammesso che l'attuale governo le accettasse, chi poteva garantire che quello successivo sarebbe stato ai patti? Senza contare che il terreno avrebbe potuto essere acquistato da qualche ente, magari dal National Trust. Wexford si sentiva abbastanza ignorante in materia. Il Sacro Globo invece doveva essere bene informato. Forse si sarebbero rivolti proprio al National Trust per avere garanzie. Chiese l'autorizzazione al capo della polizia di potersi mettere in contatto con il Sacro Globo attraverso la televisione, per rivolgere un appello affinché rilasciassero i tre ostaggi e presentassero la loro richiesta. L'autorizzazione gli fu negata. «Forse questi uomini non rientrano nella categoria dei terroristi, Reg, ma in effetti lo sono. Non possiamo spiattellare ai quattro venti che siamo disposti a trattare con gente di quella risma. Dobbiamo aspettare che siano loro a contattarci.» «Purtroppo non lo fanno» osservò Wexford. «Quante ore sono passate, Reg?» «Quarantotto, signore.»
«E in tutto questo tempo hanno fatto non del loro meglio, ma del loro peggio.» «Purtroppo è vero, signore.» Damon Slesar gli si affiancò mentre andava nell'ex palestra. Voltandosi a guardarlo, Wexford notò che aveva l'aria stanca. Come a tutte le persone scure di carnagione e di capelli, gli venivano le occhiaie. Si chiese quali segni lasciasse su di lui la stanchezza. Forse sembrava più vecchio. «Tarling non si è quasi mosso da Elder Ditches» gli riferì Slesar. «È andato a vedere se c'erano novità sulla tutela dell'ambiente, ha incontrato Royall e sono tornati insieme all'accampamento. Nient'altro.» «Forse sarebbe opportuno che lo dicesse a Karen» replicò Wexford in tono contrariato. «Immagino che le interesserà sapere che fine ha fatto Royall, dal momento che l'ha perso di vista.» Bastava guardare le persone negli occhi per capire molte cose sul loro conto, pensò. Se qualcuno avesse criticato Lynn Fancourt o Barry Vine, Slesar non avrebbe battuto ciglio, ma con Karen era diverso. Quando c'era di mezzo lei, diventava suscettibile come se la cosa lo riguardasse personalmente. «D'accordo, glielo dirò, signore.» Wexford capì dal tono di voce che il sergente avrebbe sicuramente parlato con Karen, ma ammesso che Brendan Royall entrasse nel discorso, sarebbe stato solo accidentalmente. «Perfetto. Al termine della riunione potete andarvene tutti a casa.» Raccolti dinanzi a lui, lo misero al corrente di quanto era accaduto nelle ultime ore, dei loro successi (pochi, per la verità), e delle loro idee (ancora meno). Intercettò l'occhiata che si scambiarono Karen e Damon e disse a se stesso che non era il momento d'interessarsi dei fatti privati degli altri. In ogni modo gli faceva piacere che Karen, così critica e perfezionista, avesse finalmente trovato l'uomo adatto. La giornata poteva considerarsi conclusa. Da quel momento se la sarebbe presa comoda. Avrebbe trascorso un'oretta ascoltando con calma la registrazione di ciò che Dora aveva detto mentre era in stato d'ipnosi. Finalmente. 20 Wexford credeva di sentire una voce da sonnambula, stentata, simile a quella di una medium in trance, ed era sicuro che gli avrebbe dato fastidio. Invece il tono di Dora era normale, deciso e vivace. Sembrava perfetta-
mente a suo agio, in alcuni momenti addirittura eccitata per essere riuscita a tirare fuori dall'inconscio qualche particolare che credeva di avere dimenticato. «Era il ragazzo» stava dicendo in quel momento. «Ryan. Provava un'ammirazione sconfinata per il padre, ne parlava in continuazione. E pensare che era morto molti mesi prima che nascesse lui. Nella guerra alle Falkland. Gliel'avevo già detto?» Silenzio. Il dottor Rowland non rispondeva. «È strano, vero, provare una tale ammirazione per qualcuno che non si è mai conosciuto...» Stavolta Rowland aveva ritenuto opportuno intervenire. «È normale per un ragazzo idealizzare il genitore morto o assente. È quello che non dice mai di no, non punisce, non è mai stanco né di cattivo umore, non grida, non si arrabbia.» «È vero» convenne Dora, soffermandosi qualche istante a riflettere. «Il padre gli ha lasciato un album pieno di disegni sulla natura. Be', non l'ha proprio lasciato a lui. Ryan l'ha avuto dalla madre quando ha compiuto dodici anni. Rappresentano stagni, rane, tritoni, larve di friganea, e tutti gli animali che il padre aveva visto da piccolo e che ora sono quasi scomparsi. Per il ragazzo quell'album è quasi una reliquia da custodire gelosamente.» «Mi descriva la stanza» disse Rowland. «Era grande sei metri per nove. Le pareti erano bianche. C'erano cinque letti. Tre da un lato, il mio, quello di Ryan e quello di Roxane, e due dalla parte opposta, dove dormivano gli Struther. È stato Owen a spostarli, forse per avere un po' più di libertà. Non li hanno portati via, dopo che se ne sono andati.» «Il pavimento era di cemento, freddo sotto i piedi. La porta era molto pesante, forse di quercia. Quando l'aprivano riuscivo a intravedere del verde, del grigio e dei mattoni rossi. Il verde era quello dell'erba, mentre il grigio era il cemento.» «Che cosa vedeva dalla finestra?» «Anche lì verde e grigio, forse un gradino di cemento. Ah, c'era anche l'azzurro. Un pezzo d'azzurro.» «Azzurro come il cielo?» Seguì qualche istante di silenzio. «No, non era il cielo» rispose Dora. «Era qualcos'altro, proprio di fronte. A volte lo vedevo in alto, in altri momenti in basso. Con questo non intendo dire che si muoveva mentre lo guardavo. Un giorno, forse il mercoledì, l'ho visto a due metri e mezzo
d'altezza, mentre il giovedì era una chiazza più piccola a circa un metro.» Vi fu un altro silenzio, che stavolta si protrasse a lungo, e perciò Wexford capì che la registrazione era terminata. La delusione prese il posto dell'euforia iniziale. Tutto lì? Dora si era lasciata ipnotizzare, forse ritenendo che fosse suo dovere collaborare, per poi ottenere quel magro risultato? Gli venne la tentazione di prendere a calci il registratore, ma si limitò a spegnerlo e tornò a casa. Dora, com'era prevedibile, dormiva. In segreteria telefonica c'era un messaggio di Sheila. Diceva che sarebbe tornata a Kingsmarkham se avessero avuto bisogno di lei, altrimenti le avrebbe fatto piacere che la mamma andasse a casa sua per qualche giorno. «Come se non fosse successo niente l'ultima volta che ci ha provato» commentò Wexford ad alta voce. Andò a letto e fece un sogno. Era la prima volta che gli capitava da quando era tornata Dora. Si trovava in un luogo strano, con grandi palazzi, magazzini, fabbriche, mulini e vecchie stazioni ferroviarie. Riconosceva alcuni di quei palazzi, come il Molino Stucky di Venezia e il Musée d'Orsay di Parigi. Si aggirava sgomento tra quei tesori dell'architettura, quasi stordito da tanta maestosità, esterrefatto davanti al Pandemonio di John Martin e alle Carceri d'invenzione di Piranesi. Era come se, per una sorta di miracolo, fosse entrato in un libro di vecchie illustrazioni, e nello stesso tempo si trovasse anche in un luogo assai meno poetico, cioè la zona industriale di Stowerton. Sapeva che era un sogno. Nemmeno per un attimo si era illuso che fosse realtà. Percorsa una strada fiancheggiata dalle cupe sataniche fabbriche di Blake e girato l'angolo, si trovò di fronte all'Abbazia di Westminster. Soltanto allora si rese conto di essere alla ricerca degli ostaggi. Si svegliò senza averli trovati ed era già mattina, quella dell'inchiesta. In una pagina interna del giornale trovò l'articolo di un noto opinionista, il quale sosteneva che ulteriori concessioni al Sacro Globo sarebbero equivalse alla legalizzazione del terrorismo. «Non ho dormito molto» si lamentò Dora mentre preparava il caffè. «Continuavo a pensare a quello che è successo. Alla povera Roxane, quando l'hanno rinchiusa nello stanzino. Non dimenticherò mai le sue grida di terrore. Pensavo anche agli Struther. Erano così patetici! Kitty è crollata subito, non aveva la minima capacità di reagire. Be', non che io abbia avuto grandi iniziative, ma se non altro non ho pianto tutto il tempo.» «Anzi, non hai pianto affatto.»
«In certi momenti ci è mancato poco, Reg.» «Ho ascoltato la registrazione. Sei più unica che rara.» «Che intendi dire?» «Credo che tu sia l'unica persona al mondo a non avere l'inconscio. Ci avevi già detto tutto, tranne il particolare di quella cosa azzurra.» Dora lo guardava di sottecchi, con il sorriso sulle labbra. «Che tipo d'azzurro era?» «Azzurro cielo» rispose. «Come il cielo a mezzogiorno quando il tempo è bello.» «Allora doveva essere davvero il cielo.» «No» replicò, decisa. Prese due fette di toast dal tostapane, infilzandole con i rebbi della forchetta, le mise su un piatto, poi aprì l'armadietto per prendere la marmellata. «No, non era il cielo. Vuoi del caffè? Oh, siediti, Reg. Puoi anche prenderti mezz'ora di tempo per fare colazione.» «Dieci minuti al massimo.» «Era dello stesso colore, ma non era il cielo» ribadì. «Com'è stato il tempo in quei giorni? Era sereno?» «Mi pare di no.» «Sembrava quasi che ci fosse qualcosa appeso dietro la finestra, oppure che avessero dato una mano di vernice azzurra. Però quella cosa non era fissa. Mercoledì la vedevo in alto e giovedì in basso. Il venerdì, all'ora di pranzo, Mano-guantata ha messo delle assi alla finestra, forse proprio per impedirci di vedere l'azzurro.» «Sei riuscita a capire perché ti hanno liberata?» «Se avessero intuito che avevo visto qualcosa non mi avrebbero mollata, vero? Mi avrebbero trattenuta, forse anche uccisa. Oh, non fare quella faccia! Poco fa ti stavo parlando degli Struther. Owen è troppo giovane per avere combattuto in qualche guerra, eppure si comportava come un veterano. Lo trovavo così ridicolo quando diceva che bisogna mostrarsi coraggiosi davanti al nemico e che il dovere dei prigionieri è tentare la fuga.» «Forse era davvero un vecchio soldato. Non tutti i militari vanno in guerra.» «Non ha fatto il militare. Gliel'ho chiesto e mi ha risposto di no. A malincuore, per la verità. Ryan nutriva una grande ammirazione per lui. Penso che l'avrebbe seguito ovunque. Probabilmente è sempre alla ricerca di una figura paterna. Ma forse è soltanto una mia fissazione.» «Il guaio della psicologia» sentenziò Wexford «è che non tiene conto della natura umana.»
La deposizione di Mavrikiev nell'aula del tribunale fu molto tecnica, infarcita di termini medici spesso incomprensibili al profano. Quando gli fu chiesto se a suo parere Roxane Masood avesse ricevuto una semplice spinta, oppure fosse stata buttata giù con violenza, disse di non essere in grado di rispondere alla domanda. L'inchiesta fu aggiornata, esattamente come Wexford aveva previsto. Il silenzio del Sacro Globo pesava su Kingsmarkham come una coltre di nebbia, o almeno questa era la sua impressione. Anzi, non solo su Kingsmarkham, ma sul paese intero. Qualcuno gli aveva riferito che persino i giornali americani avevano pubblicato la notizia. C'era un trafiletto sul New York Times. Per Wexford era come se gli ostaggi fossero stati trasportati negli Stati Uniti, tanto gli sembravano lontani e irraggiungibili. Benché fosse una bella giornata di sole, sentiva soltanto nebbia intorno a sé. «Sono passate sessantott'ore» disse a Burden. «Non è poco.» Mike aveva i giornali del mattino. La polizia brancola nel buio. Dove sono Ryan, Owen e Kitty? Il dramma di un padre che non potrà più riabbracciare la figlia. Questi erano alcuni dei titoli. «So perfettamente come sono andate le cose» disse Wexford. «Non credo di sbagliare. Giovedì, quando hanno portato via Roxane dalla stanza comune, non l'hanno messa con Kitty e Owen Struther. Forse non erano insieme neanche marito e moglie. L'hanno rinchiusa da qualche altra parte, probabilmente all'ultimo piano. Il problema è che non abbiamo idea di come sia concepita la casa. Potrebbe essere composta da più edifici affiancati, come per esempio una fabbrica, oppure potrebbe trattarsi di un grande palazzo con seminterrato, o anche di una fattoria dove ci siano dei gatti. Comunque dovrebbe essere sulla costa, vicino alla spiaggia. Dunque Roxane è stata portata all'ultimo piano, almeno il terzo o il quarto, e chiusa in una stanza. Credo anche di poter affermare che la stanza era piccola.» «Come fai a saperlo?» «Perché soffriva di claustrofobia e loro ne erano al corrente. Non dimenticare che Dora ha visto due dei carcerieri scambiarsi un'occhiata, mentre Roxane strillava e batteva i pugni contro la porta del bagno. Avevano scoperto il suo punto debole e ne hanno approfittato per punirla e forse anche per tentare di sottometterla.» «Fino all'altro giorno pensavo che, chiunque siano, quelli del Sacro Globo non sono né stupidi né crudeli; ma ho dovuto cambiare idea. Non è raro che gli uomini diventino spietati appena si presenta l'occasione. Non sei
d'accordo, Mike?» Burden si strinse nelle spalle. «Credo di sì. Non mi stupirei affatto.» «Basta avere il potere e un capro espiatorio su cui infierire. Mi chiedo se gli psichiatri abbiano scoperto per quale motivo debolezza e vulnerabilità ispirano compassione ad alcuni individui e crudeltà ad altri. Non me lo spiego proprio, e neanche tu, suppongo.» Wexford scosse la testa. «Come stavo dicendo, hanno rinchiuso Roxane in una stanzetta ai piani alti. Dev'essere stato giovedì. Ha resistito due giorni, chissà a prezzo di quali sofferenze.» Tacque un istante. «Tu hai qualche fobia?» domandò inaspettatamente. «Io?» mormorò Burden. «Non sopporto i serpenti. Sono sempre sulle spine quando visito un rettilario.» «Non è la stessa cosa» osservò Wexford. «Se fosse davvero una fobia, staresti alla larga dai rettilari. Io sì che ne ho una.» Burden s'incuriosì. «Davvero? Quale?» «Non te lo direi per nulla al mondo. Oh, non soltanto a te: non lo direi ad anima viva. L'unica persona che lo sa è mia moglie. Quando si ha una fobia, si evita di parlarne. Fobia significa paura. Prova a immaginare che effetto ti farebbe se qualcuno ti mandasse in un pacco l'oggetto di cui hai terrore. È per questo motivo che Roxane non avrebbe dovuto rivelare ai suoi rapitori di soffrire di claustrofobia. Non che abbia avuto scelta, poveretta. In ogni modo ne hanno approfittato per rinchiuderla in una stanza piccola.» «Sabato pomeriggio, quando ormai era quasi impazzita dalla paura, ha tentato di scappare. Forse c'era una grondaia, una sporgenza, un tetto su cui sperava di riuscire ad atterrare. Purtroppo non ce l'ha fatta ed è precipitata di sotto. Pensa, Mike, un salto di una decina di metri per andare incontro alla morte.» «Cadendo si è spezzata un braccio, le costole, le gambe e ha battuto la testa. Forse non sarebbe caduta se fosse stata, come posso dire, sana di mente. Chi soffre di fobie non lo è più, soprattutto dopo essere stato esposto all'oggetto fobico per due giorni e una notte.» Burden rifletteva. «Quelli del Sacro Globo non si aspettavano che finisse così. Saranno rimasti sgomenti.» «Direi proprio di sì, soprattutto se sono dei dilettanti. Probabilmente credevano di riuscire a ottenere il loro scopo e poi rilasciare gli ostaggi senza far loro del male. Purtroppo non è andata così e perciò si sono ritrovati per le mani il cadavere di una ragazza che non avevano avuto inten-
zione di uccidere.» «L'hanno uccisa nel momento stesso in cui l'hanno chiusa nella stanzetta» commentò Burden. «Potremmo dirlo tu e io, Mike, ma in tribunale un'accusa del genere non starebbe in piedi.» «Per quale motivo si sono presi la briga di restituire il corpo?» Wexford ci pensò. «Forse perché non volevano tenerselo. Per loro era una seccatura in più. Cos'avrebbero potuto farne? Per sbarazzarsi di un cadavere, l'unica soluzione possibile è seppellirlo. Oppure, se sei sulla costa, puoi gettarlo in acqua dopo averlo appesantito con una zavorra. Ma non abbiamo motivo di ritenere che si trovino in qualche località lungo la costa. Dovrebbero disporre di una barca e di un posto isolato e si potrebbero spostare soltanto di notte.» «Comunque tecnicamente non sono stati loro a ucciderla, Mike. L'hanno messa in condizione di togliersi la vita, ma la morte è stata accidentale. Se avessero sepolto il cadavere per nasconderlo e più tardi fosse saltato fuori, com'è probabile, niente avrebbe potuto sottrarli all'accusa di omicidio. In questo modo invece il patologo è in grado di dichiarare che potrebbe trattarsi di morte accidentale. E così si sono sbarazzati del corpo. L'hanno portato via sabato notte, o meglio la domenica mattina prima dell'alba, dopo averlo infilato in un sacco a pelo.» «Devono averlo scaricato davanti all'ufficio della Contemporary Cars perché ce l'hanno con loro. Così prendevano due piccioni con una fava. Probabilmente non hanno perdonato a Samuel, Trotter e gli altri di averci chiamato subito. Comincio a pensare che sia gente vendicativa.» Furono interrotti dall'arrivo di Pemberton, che pensava di aver scoperto la provenienza del sacco a pelo. «A Londra?» domandò Wexford. «Dove esattamente?» «La Outdoors non rifornisce molti negozi. Solo quelli che trattano articoli sportivi, esclusi i grandi magazzini. La maggior parte della loro produzione viene venduta nel nord dell'Inghilterra. In questa zona servono soltanto un negozio a Londra, nel NW1, e un altro a Brixton.» Brixton... Il nome non gli era nuovo, gli ricordava qualcosa. Bisognava controllare sul computer per saperne di più. «Continua pure» disse. «Il negozio di Londra si trova in Marylebone High Street. È stato lì che ho avuto un colpo di fortuna perché mi hanno spiegato che avevano acquistato dalla fabbrica sei sacchi a pelo in tessuto mimetico e altri sei rossi e verdi, ma mentre quelli colorati erano stati venduti tutti, quelli in tessuto
mimetico non li voleva nessuno.» «Un colpo di fortuna alla rovescia, direi» commentò Burden. «Allora sono andato a Brixton. Il negozio si chiama Palm Springs ed è in High Street. Mi hanno detto che ne avevano acquistati quattro e due erano ancora in negozio. Dei due venduti, uno l'ha comperato il direttore stesso l'anno scorso in agosto, prima di partire per il campeggio. Se ne ricordava bene, com'è logico, e si ricordava anche di aver venduto l'altro il medesimo giorno.» «Ma non sapeva a chi, ovviamente?» «Be', sarebbe pretendere troppo; però ricordava di averlo venduto a una donna, che gli aveva raccontato di essere in partenza per lo Zaire. Anzi, in un primo momento mi ha detto Zimbabwe e poi si è corretto.» «Bene» mormorò Wexford «ottimo lavoro. Adesso puoi andare a sederti davanti al computer di Mary e passare in rassegna qualche centinaio di migliaia di kilobyte per trovare il collegamento.» «Perché, esiste?» «Ne sono assolutamente certo.» Erano passate settanta ore dall'ultimo messaggio del Sacro Globo. Dopo avere scambiato la propria auto con quella di Damon Slesar, Karen si era appostata al cancello di Marrowgrave Hall in attesa degli eventi. Le era sembrata una buona idea quella di prendere la macchina grigia e dare a Damon quella blu, benché fosse improbabile che il giorno precedente Brendan Royall si fosse accorto di essere seguito. Quel mattino aveva iniziato da Goland Farm, nascondendosi tra gli automezzi degli amici degli alberi, nel prato dov'era parcheggiato anche il Winnebago. Purtroppo non aveva modo di sapere se Brendan Royall fosse dentro. Stavolta le tendine erano chiuse e l'unica cosa di cui Karen poteva essere certa, guardando con il binocolo, era che in cabina non c'era nessuno. In giro non si vedeva anima viva. Le finestre della fattoria erano chiuse, come se quel giorno gli occupanti fossero altrove. Si sentiva stanca. La sera prima era andata a cena con Damon in un ristorante più lussuoso di quello che si era aspettata, il La Méditerranée, aperto di recente dalla Olive and Dove's. Mentre mangiavano avevano scoperto di avere diversi interessi in comune e molti argomenti di conversazione, come la situazione nel mondo, la fine del millennio, il degrado ambientale, l'uguaglianza dei sessi, il delitto e la pena. Tutti i discorsi che avevano fatto prima di allora erano stati, in confronto, conversazione spic-
ciola. Alla chiusura del ristorante erano andati a bere qualcosa in un locale di High Street che restava aperto fino alle ore piccole. Avevano bevuto solo Coca-Cola, ma era tardi e Karen avrebbe dovuto essere a letto da un pezzo. Damon voleva salire a casa sua. A malincuore gli aveva detto di no. Si erano salutati con un bacio appassionato e la promessa di passare presto un'altra serata come quella. Perciò ora Karen sentiva la stanchezza e, con il sole che scaldava l'abitacolo dell'auto, aveva paura di addormentarsi. Per scongiurare questo pericolo aveva deciso di scendere dall'auto e di muoversi un po'. Non s'illudeva di sembrare un'amica degli alberi, vestita in jeans, T-shirt nera e giacca di cotone, ma se non altro con quell'abbigliamento e senza trucco sarebbe passata inosservata. Da qualche parte si sentiva abbaiare un cane, forse anche più d'uno. Si accorse che l'abbaio proveniva dal Winnebago. Niente di strano, dato che Royall amava gli animali. Il fatto che i cani fossero lì significava che sarebbe tornato presto. Intorno alla fattoria c'erano molti alberi e siepi dietro cui ripararsi. Voltandosi a guardare le finestre della chiesa sconsacrata, le venne in mente che forse sotto c'era una cripta. Dall'esterno non si vedeva nulla che ne tradisse la presenza. Era appena tornata in macchina e aveva abbassato il finestrino per far entrare un po' d'aria fresca, quando vide arrivare, sfrecciando attraverso il prato a tempo da Gran Premio, una 2CV gialla. Ed ecco uscire dall'auto Royall e Freya. Lei aprì lo sportello posteriore e saltarono giù quattro beagle. Dovettero sudare quattro camicie per riprenderli e caricarli nel Winnebago. Freya era avvolta nelle sue solite bende da mummia. A un certo punto inciampò nell'orlo della gonna e cadde a gambe levate. Brendan cercò di ripulirla alla meglio dal fango; poi la donna tornò nella sua auto e lui salì nella cabina del Winnebago. Karen aveva previsto che sarebbero tornati a Marrowgrave Hall e non si era sbagliata. Appena si fermarono davanti alla casa, ne emerse Patsy Panick, che si mise a battere le mani dalla gioia quando liberarono i cani. Mentre i beagle si scatenavano, correndo in circolo sul prato, Karen ne contò undici. Dopo averli lasciati scorrazzare per qualche minuto, Brendan e Freya li ripresero e li portarono in casa, e Patsy provvide a chiudere la porta, probabilmente avendo fretta di sfamare cani e padroni. Rimasta sola, Karen si trovò di nuovo a dover affrontare il problema del sonno. La temperatura era salita ancora e così a un certo punto si appisolò, fortunatamente per pochi secondi. Fu l'abbaiare dei cani a svegliarla.
Brendan e Freya erano usciti di casa. Fecero salire i beagle a bordo del Winnebago e mentre Royall caricava una valigia, una borsa da viaggio e uno zaino, Karen chiamò la stazione di polizia di Kingsmarkham. «Se ne stanno andando» annunciò. «Li seguo per vedere da che parte vanno, ma credo che siano in partenza per un viaggio.» «L'ispettore capo vuole parlarti. Te lo passo.» «Quando avrai finito con loro» disse Wexford «torna subito qui. Ti ricordi di quella tizia a Londra che si è ammalata al ritorno da un viaggio in Africa?» «Sì, certo, signore.» «È di lei che dovrai occuparti, appena avrai terminato con Royall e la sua amica.» Ora il Winnebago era carico, pronto per partire. Karen cominciava a pensare che Freya non sarebbe andata con Royall. Quando la vide salire al volante della sua auto, credette che se ne stesse andando via per conto suo; ma Freya si limitò a infilare la vettura nel garage vuoto. Patsy e Bob uscirono di casa a loro volta. Il marito aveva in mano qualcosa, forse un pezzo di focaccia oppure di pizza. Arrivato il momento dei saluti, Brendan si limitò a guardare Freya negli occhi, tenendole le mani, ma abbracciò Patsy e forse le diede anche un bacio. Karen era troppo lontana per vederlo. Salutato Bob con una pacca sulla schiena, Brendan salì a bordo del Winnebago e Karen si affrettò a nascondere l'auto sotto un albero. Stavolta Royall non andava così forte come con la 2CV. I cani facevano un baccano incredibile. Karen seguì il Winnebago attraverso Forby e lungo la strada per Stowerton. Aveva indovinato: in effetti Brendan non era diretto a Kingsmarkham, ma verso la M23, e da lì presumibilmente sarebbe passato sulla M25. Karen lo seguì fino all'imbocco dell'autostrada, poi tornò indietro. Raggiunta la stazione di polizia, per prima cosa volle sapere se quelli del Sacro Globo si fossero fatti vivi. Damon, che aveva trascorso la giornata pedinando Conrad Tarling (il quale si spostava sempre a piedi) le disse che non c'erano novità. Erano trascorse settantadue ore, ossia tre giorni, dall'ultimo messaggio, quello trovato nella valigia di Dora Wexford. Damon aveva lasciato Conrad Tarling in cima a un castagno, dove aveva la sua capanna e dove evidentemente si preparava a trascorrere la notte. «Spero di poterti vedere questa sera.» Karen, che aveva iniziato ad armeggiare con il computer, gli rispose che forse, organizzandosi in un certo modo, la cosa era fattibile.
«Che intendi dire?» chiese Damon. «Potremmo andare a Londra insieme. Devo interrogare una certa Frenchie Collins che, a quanto pare, dovrebbe aver acquistato un sacco a pelo in tessuto mimetico. Guidi tu?» «Certo» rispose Damon. «Volentieri.» «Gli ossi trovati da quei ragazzi sul mucchio di terra nei pressi di Stowerton Dale» attaccò Wexford, dando una scorsa al rapporto della Scientifica, poi sedendosi e leggendo direttamente dal foglio «altro non erano che tibie di manzo e garretti di porco, esattamente come pensavamo. Ora passiamo agli indumenti di Dora: gonna di lino marrone, camicetta di voile bianco a pois beige (che roba è questo voile, Mike?) scarpe marrone con i tacchi alti, calze di una tinta definita "visone", reggiseno e mutandine bianche in sete e lycra, sottoveste bianca con pizzo marrone. Fin qui ci siamo.» «La piccola macchia trovata sulla camicetta è stata prodotta da un misto di caffè istantaneo e una bevanda a base di soia. Sarà latte di soia. Devo dire che Dora è riuscita a mantenersi piuttosto pulita. Se fossi stato io al suo posto, mi avrebbero trovato addosso di tutto, dagli spaghetti alla marmellata. Ora abbiamo qualcosa di più incoraggiante. Sulla gonna hanno trovato un mucchio di roba: oltre a quelli di mia moglie, alcuni capelli lunghi e scuri, che sicuramente appartenevano a Roxane; inoltre un cocktail di particelle d'intonaco, briciole di pane, ragnatele, polvere di calcare, sabbia e peli di gatto, uno nero e l'altro siamese.» «Ci sono sette milioni di gatti in Gran Bretagna» osservò Burden con aria delusa. «Davvero? Però non saranno di certo sette milioni i casi in cui convivono un siamese e un gatto nero» replicò Wexford, tornando a leggere il rapporto. «Schegge di ferro» continuò «il che suggerirebbe una specie di fabbrica o un laboratorio. Ma sentite qui. Hanno trovato anche tracce di quella sorta di polverina che ricopre le ali delle farfalle e delle falene.» «Cosa?» «Pare (la spiegazione è scritta qui) che le ali delle farfalle e delle falene non abbiano colori solidi. Sono diverse dalle piume degli uccelli o dal pelo degli altri animali, il colore e il disegno provengono da una polverina. Senza la quale, l'insetto non può più volare. Può darsi che Dora si sia avvicinata a una ragnatela in cui era rimasta impigliata una farfalla oppure una...»
«Che cosa c'è? Perché ti sei interrotto?» Wexford aveva taciuto di colpo. Rilesse alcune righe sul foglio e alzò la testa. «La polverina era rosa e marrone, Mike.» «E con questo? Ce n'è un'infinità, di farfalle rosa e marrone.» «Dici? A me viene in mente una varietà sola. Generalmente se ne vedono di rosse e nere, bianche, gialle e arancione, ma rosa? L'unica farfalla, a quanto ricordo, che abbia il corpo marrone chiaro e le ali rosa, è una varietà rara che si chiama Deilephila elpenor ed è diffusa in Europa e in Giappone. Nel nostro paese vive solo in alcune zone dell'Hampshire e nell'est del Wiltshire.» «Come diavolo fai a saperlo?» «Ho cercato di documentarmi un po' negli ultimi tempi. Dev'essere per questa maledetta storia della tangenziale. Mentre cercavo l'Araschnia nell'enciclopedia, mi è caduto l'occhio su altre varietà di farfalle.» Burden lo guardò e sorrise. Il suo amico non finiva mai di stupirlo. «Non so per quale motivo mi abbia colpito questa in modo particolare. Naturalmente controlleremo, magari su Internet. In ogni modo ricordo di aver letto che è diffusa nel Wiltshire. Ne sono sicuro. Chi conosciamo in quella contea?» A Burden bastarono pochi secondi per ricordarsene. «La famiglia di Conrad Tarling» rispose. «Hai ragione. Abbiamo l'indirizzo?» «Nel computer.» Venti minuti dopo avevano tutti i dati sotto gli occhi, non soltanto riguardo alle farfalle, ma anche sulla famiglia di Conrad Tarling. L'indirizzo dei genitori era Queringham House, Queringham, Wiltshire. Wexford, che aveva già dato un'occhiata alla carta stradale e calcolato le distanze, era eccitato al pensiero che forse stavolta avevano fatto centro. «Queringham si trova al confine con l'Hampshire, Mike. A metà strada tra Winchester e Salisbury.» «Però non è sul mare e poi mi sembra un po' troppo lontano. Avevamo calcolato che gli ostaggi potevano trovarsi in un raggio di cento chilometri al massimo, ricordi?» «Quindi è la distanza giusta, chilometro più, chilometro meno. La tua amica attrice dev'essersi sbagliata, quando ha detto che Tarling percorre più di centoventi chilometri a piedi per andare dai genitori. A giudicare dal nome, dev'essere una grande casa di campagna, probabilmente con vari corpi annessi all'edificio centrale. E proprio in quella zona, guarda caso,
vive la Deilephila.» «In quella casa sono nati e cresciuti tre fratelli ambientalisti» mormorò Burden «uno dei quali ha rischiato di morire durante una manifestazione.» «Sai che facciamo? Una bella telefonata ai colleghi del Wiltshire. Dopodiché, con il loro consenso, ce ne andiamo a Queringham. Subito. Mai rimandare a domani quello che si può fare oggi.» 21 Gli chiesero se avesse bisogno di aiuto. La polizia del Wiltshire disponeva di mezzi speciali armati per il pattugliamento delle strade, esattamente come quella del Mid-Sussex. Se gli serviva appoggio, erano a sua completa disposizione. Il paese intero era in stato d'allarme per i sequestratori di Kingsmarkham. Wexford ringraziò e disse di non averne bisogno. Voleva semplicemente dare un'occhiata in giro. Non aveva nemmeno intenzione di perquisire la casa, a meno che la famiglia non l'autorizzasse. Per il momento non riteneva opportuno procurarsi il mandato. Sarebbero andati in quattro, lui, Burden, Vine e Lynn Fancourt. Provava un certo sollievo al pensiero di cambiare ambiente, lasciandosi alle spalle la stazione di polizia, almeno per un po'. In ogni caso se il Sacro Globo avesse inviato un messaggio, l'avrebbero informato immediatamente. Era sempre meglio che starsene lì ad aspettare. Erano passate settantadue ore dall'ultimo messaggio. Il viaggio andò bene. Non c'era molto traffico. Arrivarono nel Wiltshire alle sei e mezzo e qualche minuto dopo attraversarono il fiume Avon. Queringham si trovava tra Mownton e Blick, in una bucolica zona rurale caratterizzata da verdi pascoli e dolci pendii. Il paesaggio, davvero incantevole, era sotto la tutela del National Trust. I proprietari terrieri del passato, come Wexford poté constatare, sapevano difendersi dagli sguardi indiscreti della gente comune. Costruite le case, che risalivano a circa duecento anni prima, piantavano gli alberi tutt'intorno per evitare che si potessero vedere dalla strada. Cosicché ora, avvicinandosi, sembrava di avere di fronte una foresta. Anche dopo aver imboccato il viale d'accesso si aveva la sensazione che fosse impenetrabile e che la strada finisse contro una barriera di rami e foglie. A un tratto, dove terminavano gli alberi, si vide un grande prato in fondo al quale sorgeva la casa. Ma qui non crescevano piante rare. Il prato era
spoglio. Sembrava una radura dove avessero lasciato soltanto qualche cespuglio striminzito e due grandi vasi di pietra in cui crescevano cipressi rinsecchiti. Wexford aveva visto giusto: all'edificio principale erano annesse altre costruzioni, una delle quali, forse la scuderia, aveva una torretta centrale con l'orologio. A sinistra, dietro la casa, c'erano una casupola e un grande silo. La cosa che colpì maggiormente Wexford fu che il loro arrivo, ossia la visita inaspettata di quattro poliziotti, due dei quali di grado elevato, non impressionò minimamente né Charles né Pamela Tarling. Come i Royall, dovevano esserci abituati. Per quanto fossero riservati e rispettosi della legge, i loro figli attiravano spesso l'attenzione delle forze dell'ordine. Chissà quante volte altri poliziotti, provenienti da varie parti dell'Inghilterra, avevano percorso il viale, suonato il campanello e rivolto le stesse domande. Veramente stavolta sarebbero state differenti. Furono fatti accomodare in uno spazioso soggiorno che di sicuro aveva conosciuto giorni migliori. La moquette blu e gialla era consunta e sbiadita, l'imbottitura delle poltrone logora, e le tende, metri e metri di tessuto drappeggiato, erano diventate quasi trasparenti con il passare degli anni. Al centro di un tavolo di mogano c'era un vaso sbeccato pieno di fiori appassiti, con il polline sparso tutt'intorno. La casa ben si addiceva ai proprietari. Bastava guardarli per capire che anche loro avevano avuto tempi migliori. Fisicamente si assomigliavano: alti e magri, con le spalle curve e la testa piccola in proporzione al corpo, avevano il volto grinzoso e i capelli grigi in disordine. «Siamo venuti per suo figlio, il signor Conrad Tarling» esordì Wexford. Il vecchio annuì con aria grave, probabilmente aspettandosi le solite domande, che vennero puntualmente: dov'era il figlio, quando l'aveva visto l'ultima volta e se veniva spesso a trovarli. A quel punto Burden tirò in ballo Craig, l'altro figlio, il dinamitardo. Pamela Tarling arrossì e si coprì le guance con le mani. «Sono i nostri figli» mormorò. «Ci siamo sempre sforzati di essere comprensivi con loro. In fondo sono ragazzi coraggiosi, che lottano per una giusta causa. È solo che...» «Lascia perdere, Pam» l'interruppe Charles. «Anche se in effetti condivido pienamente l'opinione di mia moglie» puntualizzò. «Posso chiedervi cos'avete intenzione di fare?» «Soltanto dare un'occhiata in giro, signor Tarling, se non ha niente in
contrario. Può rifiutare, se crede. Dipende da lei. In particolare vorremmo vedere le costruzioni annesse alla casa.» «Oh, non ho l'abitudine di rifiutare. Non dico mai di no alla polizia. Sarebbe perfettamente inutile, dato che poi tornate con il mandato.» Se stava recitando una parte, doveva essere un bravo attore. Wexford uscì con gli altri, lasciando i padroni di casa seduti ai loro posti. A quale uso era destinato il silo? Forse in passato quella era stata una fattoria. Al tetto della scuderia mancavano metà delle tegole e le porte dei box erano scardinate. L'orologio della torre funzionava, ma evidentemente nessuno si prendeva la briga di spostare le lancette quando iniziava l'ora legale. Wexford e Burden sbirciarono dentro; poi Vine aprì la porta della casupola che forse un tempo era adibita a granaio e nello stesso momento una grossa falena si staccò dal muro e volò fuori. Wexford la guardò bene. Non era una Deilephila, ma una comune Sfinge testa di morto. Era evidente che da almeno una cinquantina d'anni nessuno utilizzava più quella vecchia baracca. Aveva il pavimento di pietra, qualche mensola fissata al muro, una finestra in alto e un acquaio. Però mancava lo stanzino da bagno e inoltre era a un solo piano. Wexford si avvicinò alla finestra per guardare fuori, ma invece del verde e del grigio, ed eventualmente un pezzo d'azzurro, vide il rosso di un muretto di mattoni. «È una di quelle stanze dove una volta si produceva il formaggio» disse. «È in un posto del genere che tengono gli ostaggi.» «Ma non è questo» replicò Burden. «No, non è questo» convenne. Sentì un cigolio di ruote, si voltò e vide un tale arrivare quasi di corsa su una sedia a rotelle. Era così somigliante a Conrad Tarling da dare l'impressione che fossero una persona sola. Forse erano gemelli. Bastava immaginare Conrad tirato giù dal piedistallo, senza mantello, ridotto come l'uomo seduto su quella sedia, privo di forze, e il Re del bosco sarebbe stato identico al tizio che avevano di fronte. Anche lui aveva la testa rasata. Forse in origine era alto come il fratello, ma il suo corpo si era curvato, accorciato, e le ginocchia ripiegate sotto il plaid che gli copriva le gambe. Aveva le mani grandi e le dita tozze. Il volto, dall'espressione sofferente, era quasi uguale a quello di Conrad, ma più cupo, come se fosse stato scolpito nel bronzo. Faceva pensare all'ultimo dei Moicani. «Cosa state cercando?» li interrogò. La voce era bella, armoniosa, ma il tono sprezzante.
«Un semplice controllo di routine, signor Tarling» rispose Burden, suscitando la sua ilarità. La risata di Colum era amara, non convincente, forzata. Fingere di ridere è molto più facile che fingere di piangere. «Ormai ci abbiamo fatto l'abitudine» commentò. «Fate pure con comodo: non vi fermerò. Del resto non potrei neppure, ridotto in questo modo. Non posso fare più nulla ormai, con la spina dorsale spappolata.» Se la gente come lui aveva qualche vantaggio rispetto alle persone sane, era quello di riuscire a mettere in imbarazzo il prossimo, ammesso che gli interessasse farlo. Colum Tarling evidentemente ci prendeva gusto. «Ami le cose belle e ti impegni per preservarle» continuò «per salvaguardare la civiltà, gli esseri viventi e la specie umana, e per questo ti castigano, scaraventandoti sotto le ruote di un camion e spezzandoti la spina dorsale. Qual è la sua opinione in proposito?» Wexford ne aveva una e avrebbe potuto discuterne per almeno mezz'ora senza interrompersi. «Poco fa ci ha detto gentilmente che potevamo proseguire l'ispezione, signor Tarling» replicò. «Quindi, se vuole scusarci, vorremmo procedere.» Colum non si era aspettato tanta cortesia. «Cristo, un gentiluomo!» esclamò. «Un gentiluomo autentico. Non è che ha sbagliato lavoro?» Mentre parlavano era uscito il padre, che si era fermato dietro la sedia a rotelle. A Wexford non era sfuggita la smorfia di dolore di Charles quando Colum aveva detto di avere la spina dorsale spappolata. Posata una mano sulla spalla del figlio, gli sussurrò qualcosa; poi disse ad alta voce: «Vieni dentro, Colum. Vieni in casa.» «Stanno facendo il loro dovere? È questo che mi hai bisbigliato? Non ho capito bene.» Comunque fece girare la sedia a rotelle e tornò in casa, ma molto più lentamente di quando era uscito. Di sicuro il padre doveva sopportare quella litania diverse volte al giorno, e subire un'altra forma di tortura quando il Re del bosco decideva di venire a casa, percorrendo quei centoventi chilometri a piedi e dormendo sotto i cespugli. Per non parlare di quando doveva andare a trovare l'altro figlio in carcere. La madre probabilmente era costretta a sentire in continuazione il racconto particolareggiato dell'orribile tragedia che gli era capitata, con i risvolti psicologici, i dettagli clinici e la descrizione delle sofferenze patite. In famiglia dovevano essere quelli gli argomenti di conversazione e, come se non bastasse, dovevano vederse-
la anche con lo spauracchio della povertà. Non c'era da stare allegri, ma nonostante questo... Charles Tarling non era ancora rientrato in casa. «È distrutto psicologicamente» disse a Wexford a bassa voce. «Non pensi che...» «Non penso nulla di particolare, signor Tarling.» «Voglio dire, spappolata non è la parola giusta, riferita alla sua spina dorsale. Non è così. Nell'incidente si è spezzata, ma oggigiorno la chirurgia fa miracoli. Naturalmente dopo la disgrazia ha perso molti chili, ma la cosa più problematica è il suo povero cervello...» Wexford assentì. «Vorrei dare un'occhiata alle baracche» disse «e poi alla casa, se non le dispiace.» «Oh, certo» rispose Charles in tono remissivo. Evidentemente Colum pensava, oppure fingeva di credere, che la polizia stesse cercando esplosivi. Fermo con la sua sedia ai piedi della scala, tenne una conferenza al pubblico, composto dai genitori e dai quattro poliziotti, sulla vivisezione, sullo sport della caccia e sulle specie in via di estinzione, sottolineando per qualche oscuro motivo la scomparsa del dodo. Dal momento che né Charles né Pamela avevano obiezioni, salirono a dare un'occhiata ai due piani superiori. Anche lì, stranamente, la casa rispecchiava l'idea che Wexford si era fatto dell'ambiente in cui erano tenuti prigionieri gli ostaggi. Sembrava quasi che Queringham Hall fosse in una determinata dimensione e la casa degli ostaggi si trovasse in un mondo parallelo, dove ogni cosa era simile ma con qualche piccola differenza. Tanto per cominciare, nel seminterrato c'era una stanza come quelle utilizzate un tempo per la produzione dei formaggi, mentre all'ultimo piano trovarono un locale angusto, con il soffitto basso, che faceva pensare alla prigione di Roxane; ma la finestrella era troppo piccola perché qualcuno potesse sgattaiolare fuori e sotto, a meno di due metri, sporgeva il tetto di un gabinetto che avrebbe attutito la caduta. La spiegazione stava nel fatto che in Inghilterra le case di campagna si assomigliano un po' tutte, pensò Wexford. Comunque la visita non era stata inutile perché gli aveva dato modo di capire che dovevano cercare una casa di campagna e non una fabbrica, né un laboratorio, né un granaio. Se la volta precedente si era mostrata critica nei confronti della stanza o della persona che l'occupava, Karen non se n'era resa conto. Si sforzava sempre di non lasciare trapelare le sue impressioni, sia in ambienti poveri o sudici, sia nelle case di lusso. Eppure in qualche modo, senza accorger-
sene, doveva essersi tradita, forse con il tono della voce o con lo sguardo, poiché Frenchie Collins si rifiutava di parlare con lei. «Non intendo aprire bocca con una stronza come lei» disse, spostando lo sguardo su Damon. «Guarda che faccia da pesce lesso! Si vede che ha la puzza sotto il naso.» «Mi dispiace, signorina Collins» replicò Karen, risentita «ma posso assicurarle che si sbaglia sul mio conto.» La puzza c'era davvero, anche se non poteva ammetterlo. Era un odore che le ricordava il laboratorio di chimica ai tempi della scuola: il fetore di cavolo andato a male che emanava carburo di calcio. «Volevamo soltanto rivolgerle qualche domanda.» «Esattamente come l'altra volta» sbottò Frenchie Collins «quando mi ha trattata come se fossi una porcheria portata in casa dal cane, o peggio qualcosa lasciato dal cane sul pavimento.» Osservandola si capiva che era abbastanza giovane, benché avesse le caratteristiche di chi è già avanti con gli anni: i capelli aridi e grigiastri, la pelle rugosa, due denti di meno e le mani grinzose e tremanti. Il corpo scheletrico era avvolto in un accappatoio che un tempo era stato bianco, e ai piedi aveva calze di lana grigia. «Signorina Collins...» «Ti ho già detto che non intendo parlare con te. Però posso farlo con lui. Mi sembra un giovanotto per bene.» Karen e Damon si scambiarono un'occhiata. «Va bene» si arrese Karen. «Se è questo che vuole, non aprirò bocca.» «Non ti voglio qui. Hai capito? Parlerò con lui da sola, anche se non ho niente da dirgli. Non so niente di quei tizi del Sacro Globo. Tu intanto» si rivolse a Karen «puoi aspettare in macchina. Ce l'avete un'auto, no?» Karen, a malincuore, scese ad aspettare in macchina. Aveva la sensazione che Frenchie Collins sapesse qualcosa che lei avrebbe potuto carpirle, mentre Damon non ci sarebbe riuscito. Pensare una cosa simile era assurdo, considerando che la donna si rifiutava persino di parlare con lei. Essendo giovane e ambiziosa e nutrendo la speranza di far carriera nella polizia, approfittò dell'attesa per fare un po' d'autocritica, analizzando il suo modo di comportarsi nei confronti di coloro che Wexford definiva "i nostri clienti". Quando una persona è metodica, ordinata e attenta all'igiene, è difficile che non pretenda le stesse cose dagli altri, ma si ripromise di fare del suo meglio. L'importante era riconoscere i propri difetti e da lì si poteva partire per migliorare se stessi.
Si chiese se per caso non fosse un po' presuntuosa e dovette riconoscere che era proprio così. Fu a questo punto delle sue meditazioni che tornò Damon. Era stato tempo sprecato. Frenchie Collins aveva ammesso di avere acquistato il sacco a pelo, ma sosteneva di averlo portato nello Zaire e di averlo lasciato lì insieme ad altri oggetti di sua proprietà. Al ritorno dal viaggio stava così male che si era limitata a prendere l'essenziale. «O almeno così dice» commentò Karen. «"L'Africa mi sta uccidendo" ha detto testualmente. Bisogna ammettere che è piuttosto malconcia. Che si sia beccata l'Aids?» «No, non credo. Non si sarebbe sentita male così presto. Comunque dubito che abbia lasciato il suo sacco a pelo nello Zaire. Una come lei, che non ha mai il becco di un quattrino, non getta via una cosa del genere. Piuttosto, dopo essersi infilata dentro, si sarebbe fatta portare di peso a bordo dell'aereo.» «Però non possiamo escludere che il sacco a pelo dei rapitori sia stato acquistato nel nord dell'Inghilterra, in uno dei tanti negozi riforniti dalla Outdoors.» Karen si era ripromessa di essere gentile, paziente e meno presuntuosa. Voleva essere carina soprattutto con lui. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva provato interesse per un uomo. Perciò preferì non contraddirlo. «Abbiamo a disposizione tutto il resto della serata» disse con un sorriso. «Potremmo restare qui a Londra, ma forse si sta meglio dalle nostre parti. Tu che ne dici?» Erano le nove passate quando Wexford fu di ritorno. Il Sacro Globo non aveva inviato messaggi. Lo sapeva già perché, in caso contrario, si sarebbero affrettati a informarlo. Eppure si sentiva deluso. Anzi peggio, provava una sensazione che credeva di avere dimenticato, un senso di paura, un'angoscia che non gli dava tregua. Era in ufficio da una decina di minuti. Non avrebbe saputo dire cosa l'avesse spinto ad andarci. Quella sera non c'era assolutamente niente da fare. Meglio tornare a casa e parlare con Dora dei suoi dubbi, delle sue ansie. No, quei maledetti non l'avrebbero spuntata, non avrebbero ucciso gli ostaggi perché la polizia sarebbe riuscita a fermarli. Avrebbero scovato il tizio con il braccio sinistro tatuato e quello che puzzava di acetone. Qual era la malattia che dava quell'odore caratteristico a chi ne era affetto? Forse una disfunzione dei reni, o del pancreas? Oppure capitava quando il corpo
produceva chetoni in eccesso? Sì, li avrebbero beccati. Uno di loro aveva sempre i guanti, forse per nascondere un eczema, una cicatrice, o più semplicemente la pelle nera. La donna portava scarpe pesanti per sembrare un uomo. Poi c'era la casa, una vecchia casa di campagna dove convivevano un siamese e un gatto nero e dalla cui finestra al seminterrato si vedeva qualcosa d'azzurro che sembrava il cielo, ma non lo era. Scese con l'ascensore e stava per uscire, quando si trovò a faccia a faccia con Audrey Barker, che stava entrando. Il sergente di turno la chiamò. «Desidera?» La donna, Wexford lo notò subito, era felice come non l'aveva mai vista. Sembrava pazza di felicità, con i capelli ritti non per la paura, ma per la gioia. Rideva senza riuscire a fermarsi. «Mi ha telefonato» esplose. «Mio figlio mi ha telefonato.» «Un momento, signora Barker» mormorò Wexford, sperando che si calmasse. «Che cosa mi stava dicendo, esattamente?» «Non volevo chiamarla perché non si può mai sapere chi risponde, ma mio figlio, Ryan, mi ha telefonato mezz'ora fa. Immaginavo di trovarla ancora qui, date le circostanze... Comunque non riuscivo a star ferma, avevo bisogno di muovermi, di correre. Perciò sono venuta a parlarle di persona.» Wexford fece un cenno affermativo con la testa. «Sì, dica pure, mi dica tutto.» Il tono era rassicurante. «Venga con me nel mio ufficio.» «Quando ho sentito la sua voce, quasi non volevo crederci, pensavo fosse un sogno. Invece no, era proprio lui, mio figlio, e stava bene.» «Andiamo di sopra, signora Barker. L'ascensore sta già arrivando.» Entrarono nella cabina. La signora Barker l'afferrò per un braccio, lo scosse. «Mio figlio sta bene, anzi benissimo. Pensi, ha fatto amicizia con i suoi carcerieri, tanto che adesso è schierato dalla loro parte. Così sono sicura che non gli faranno del male.» 22 Audrey Barker, seduta dall'altra parte della scrivania con una tazza di tè in mano, non solo non era più euforica, ma era molto tesa e le tremavano le mani. Wexford la lasciò bere con calma. Ormai era troppo tardi per tentare di scoprire da dove fosse partita la telefonata.
«Avrei dovuto chiamarla subito, vero?» «Non so se avrebbe fatto differenza, signora Barker. Ora le spiace ripetermi quello che le ha detto Ryan?» «Per poco non svenivo, quando ho sentito la sua voce. Stentavo a crederci. Ero come impietrita. Sto sognando, ho pensato, oppure sto diventando matta. "Mamma, sono io" mi ha detto. Naturalmente ho riconosciuto subito la voce, ma ho chiesto ugualmente chi fosse. "Mamma, sono io. Calmati, sono Ryan" mi ha ripetuto. "Ascolta, abbiamo un messaggio per te." Gli ho domandato perché parlasse al plurale e lui mi ha risposto che telefonava per conto del Sacro Globo. "Adesso sono uno di loro" mi ha detto.» «Ne è sicura?» «Sì, certo. "Adesso sono uno di loro." Non capivo cosa intendesse e allora gliel'ho domandato. "Esattamente quello che ho detto" mi ha risposto. Gli hanno chiesto di unirsi a loro e lui ha accettato con entusiasmo. Ne è orgoglioso. D'altronde non è che un ragazzo. Alla sua età può capitare di fare scelte sbagliate. Fino a qualche minuto fa ero felice, ma ora non più. È stato stupido da parte mia, vero? Ero al settimo cielo perché finalmente sapevo che era vivo e che stava bene. Ma adesso, se penso che si è messo con quella gente...» «Che altro le ha detto?» «A pensarci bene, non era farina del suo sacco. "Ci battiamo per una giusta causa. Prima non ne ero consapevole, ma adesso ho aperto gli occhi. Vogliamo soltanto ciò che è bene per questo nostro mondo. Ho detto 'vogliamo', mamma. Non dimenticarlo.» «Gli ha chiesto dove fosse?» Audrey Barker si portò una mano alla fronte. «Oh, mio Dio, non ci ho pensato. Comunque non mi avrebbe risposto, non crede? Poi ha aggiunto: "Devono assolutamente far passare la tangenziale da qualche altra parte". Insomma, una cosa del genere. E alla fine ha detto: "Mi farò vivo domani". Non riuscivo a capire, o meglio, tuttora non capisco se intendesse dire che domani torna casa.» «Sono più propenso a credere che domani riceveremo un altro messaggio, signora Barker. Ora dovrebbe essere così gentile da ripetere tutto daccapo, in modo che possa registrare le sue parole.» In un primo momento Wexford si era meravigliato che Ryan Barker si fosse alleato con il Sacro Globo. Ma poi aveva considerato che non era in-
frequente che un ostaggio si schierasse dalla parte dei rapitori e ne sposasse la causa. Questa in particolare doveva far presa sui giovani, i più accaniti sostenitori della necessità di salvaguardare l'ambiente e il loro stesso futuro e anche i più ostili al progresso, contrastando il quale forse speravano di ripristinare una sorta di paradiso terrestre. «Ryan tende a idealizzare suo padre, vero?» domandò a Audrey Barker al termine della registrazione. «Forse ritiene che, se fosse ancora vivo, approverebbe gli ideali del Sacro Globo. Mi risulta che fosse appassionato di storia naturale.» La donna lo guardò come se a un tratto parlasse un'altra lingua. Wexford riformulò la frase, ampliando il discorso. «So che suo marito è rimasto ucciso nelle Falkland e sono al corrente dell'importanza che ha per suo figlio l'album dei disegni. A mio modo di vedere il ragazzo, come tanti altri che hanno avuto la sfortuna di perdere uno dei genitori, ha preso il padre come modello ed è convinto che, se fosse ancora vivo, approverebbe l'iniziativa del Sacro Globo. Questo spiega il motivo per cui si è schierato dalla loro parte.» Audrey Barker si strinse nelle spalle. «Io e il padre di Ryan non eravamo sposati» disse in tono amaro. «È vero, ho detto al ragazzo che suo padre è morto alle Falkland, ma solo perché in quegli anni c'era la guerra.» Wexford la guardò senza capire. «Dennis Barker è morto accoltellato durante una rissa a Deptford. Non si è mai trovato il colpevole. Forse, considerato il tipo di persona che era, la polizia avrà pensato che non valesse la pena di cercare l'assassino. Dovevo pur dire qualcosa a Ryan, perciò ho inventato quella storia e mia madre non l'ha smentita.» «E la faccenda dell'album da disegno?» domandò Wexford. «Quello apparteneva a mio padre, John Peabody. Ryan l'ha sempre saputo ma, come molti suoi coetanei, a volte inventa qualche frottola per illudersi che la realtà sia migliore di quella che è.» Talvolta lo fanno anche gli adulti, pensò Wexford. «A questo punto» disse «non dobbiamo esaminare tanto il fatto in sé, quanto il modo in cui Ryan l'ha elaborato. È probabile che si sia messo nei panni del padre, arrivando al punto di fingere di essere lui.» «Suo padre, figuriamoci! Un farabutto, un delinquente! Be', date le circostanze sembra quasi normale che il figlio di un individuo del genere possa allearsi con i terroristi.» «Ora chiamo qualcuno che l'accompagni a casa, signora Barker. Dovrò
far mettere sotto controllo il telefono di sua madre. D'ora in poi tutte le vostre conversazioni saranno registrate. Un'altra cosa: domani, se lei mi autorizza, manderò un agente a casa sua perché sia presente quando suo figlio si metterà di nuovo in contatto.» Ammesso che telefonasse, e che non mandassero invece una lettera o un altro cadavere. Wexford non vedeva l'ora di parlarne con Dora. Si stupì che la moglie non si stupisse. «C'era quasi da aspettarselo. Quando parlavo con lui, avevo l'impressione che volesse crearsi l'immagine di un padre-eroe, ma credevo che l'avesse identificato in Owen Struther. Quando è stato ammanettato e portato via con la moglie, è probabile che Ryan si sia sentito tradito ed è logico che si sia rivolto altrove per trovare una ragione di vita. Non bisogna dimenticare che è ancora un ragazzo...» «È la stessa cosa che ha detto sua madre.» «Povera donna!» Wexford le parlò del padre vero e di quello inventato. Era convinto che Dora ci rimanesse male. A nessuno piace essere ingannati. La moglie invece si limitò a scuotere il capo e ad alzare le braccia in un gesto d'impotenza. «Che ne sarà di lui?» «Quando lo prenderemo, intendi? Non gli accadrà nulla, credo. In fondo, come tutti seguitano a dire, non è che un ragazzo.» «Mi piacerebbe sapere che cos'è successo.» «Cioè?» «Come ti ho detto, non ci rivolgevano mai la parola. Come mai hanno cambiato atteggiamento, dopo che io sono tornata a casa e Ryan è rimasto solo? Sono stati loro a fare il primo passo, oppure è stato lui? Secondo me la seconda ipotesi è la più verosimile. Il ragazzo doveva essere triste e depresso e voleva disperatamente parlare con qualcuno. Avrà iniziato chiedendo per quale motivo avessero organizzato il rapimento e cosa volessero ottenere, e quelli avranno preso la palla al balzo. Non era forse meglio reclutarlo, piuttosto che avere a che fare con un ostaggio ribelle? Potrebbe essere il sogno di tutti i rapitori che agiscano in nome di un ideale.» «Fino a un certo punto» ribatté Wexford. «Se tutti gli ostaggi si convertissero alla loro causa, i sequestratori perderebbero il loro potere di scambio.» «Gli Struther non si sognerebbero mai di passare dall'altra parte. Adesso nelle mani di quella gente sono rimasti soltanto loro due, Owen e Kitty.» «Per il Sacro Globo avere due ostaggi al posto di cinque è praticamente
la stessa cosa» osservò Wexford. Il mattino seguente si alzarono presto. Dora volle parlargli delle due persone che, a suo dire, fino a quel momento aveva un po' trascurato. Non era chiaro se avesse trascorso ore insonni e ne avesse approfittato per riflettere, oppure se quei pensieri si fossero fissati, cristallizzati nella sua mente durante il sonno. Gli portò il tè e si sedette sul letto. Non erano ancora le sette. «Kitty deve avere poco più di cinquant'anni, ma secondo me appartiene a quella categoria, destinata a estinguersi, di donne abituate a essere protette dagli uomini, a non fare niente da sole, a non avere iniziative e a non prendere decisioni. Oh, so bene di essere una casalinga anch'io, ma non in modo così passivo come lei, che si limita a cucinare qualcosa, a fare un po' di giardinaggio e a impartire ordini alla cameriera. Di solito questo tipo di donna ha un unico figlio, spesso un maschio che viene spedito al più presto in collegio.» «Ecco, Kitty è più o meno così. Parlava poco, però queste cose le ho intuite. Se le capitava qualcosa di diverso, di inquietante, andava a pezzi, si scioglieva come gelatina. Le poche volte che apriva bocca era per dire al marito: "Owen, devi fare qualcosa", "Owen, fa' qualcosa". Lui rispondeva comportandosi come un prigioniero di guerra col chiodo fisso di scappare. Il loro matrimonio è questo: lei che dipende in tutto e per tutto dal marito, e lui costretto a fingere di essere geniale e coraggioso per far colpo su di lei e lasciarla vivere nell'illusione.» «È la classica "piccola donna", quella tanto elogiata dai fondatori dell'impero.» «Il grande uomo e la piccola donna... A pensarci viene la pelle d'oca. Ti ricordi di quando Sheila era sposata con Andrew e sua madre la chiamava sempre la "mogliettina"?» «Sarà meglio che mi alzi» disse Wexford «altrimenti non farò colpo su nessuno.» «Non li uccideranno, vero Reg?» Era l'unica domanda che aveva previsto di sentirsi rivolgere. «Spero di no» rispose. «Se posso evitarlo.» Il telefono di Andrew Struther era sotto controllo e così pure quello di Clare Cox, benché Wexford tendesse a escludere che Ryan Barker la chiamasse, dato che ormai sua figlia era morta e quindi lei non aveva più niente a che vedere con il Sacro Globo. Era più probabile che la telefonata
successiva arrivasse di nuovo a Audrey Barker. Se non altro i messaggi stavano arrivando. Qualsiasi cosa era preferibile al silenzio. Burden era andato a Rhombus Road con Karen Malahyde. Seduti nel soggiorno della signora Peabody, avrebbero aspettato la telefonata. Ammesso che arrivasse. I computer nell'ex palestra continuavano a immagazzinare dati, centinaia di migliaia di byte, compresi i recenti commenti di Dora Wexford sul conto degli Struther, il nastro registrato di Audrey Barker e quel poco che Damon Slesar era riuscito a farsi dire da Frenchie Collins. Seduto al computer di Mary Jefferies, Wexford era intento a leggere il documento che sperava lo portasse a scovare il nascondiglio del Sacro Globo. Una stanza al seminterrato, rettangolare, sei metri per nove, con una porta massiccia e un'altra interna meno pesante. La finestra che si affacciava su una struttura di legno. Qualcosa di verde e un gradino di cemento. Il pavimento di pietra, le pareti intonacate. Una stanza dove un tempo si faceva il formaggio. Questo l'aveva capito, ma a cosa gli serviva saperlo? Del latte di soia, che all'inizio pareva una pista promettente, si era scoperto che lo si poteva acquistare praticamente ovunque. La maledetta farfalla, la Deilephila elpenor, per cui aveva sguinzagliato gli uomini per tutto il sud dell'Inghilterra, si era rivelata un'altra delusione. Restava da stabilire cosa potesse essere quel pezzo d'azzurro che Dora aveva visto dalla finestra. Forse bucato steso ad asciugare? Ormai non c'era più nessuno che stendeva i panni. Un'auto, forse? Non era da escludere, anche perché era possibile spostarla di volta in volta. Sì, ma non certo a otto piedi dal suolo. Oppure poteva trattarsi di una tenda. Nessuna di queste ipotesi era convincente. A metterlo in crisi era il fatto che questo misterioso oggetto azzurro non era sempre nello stesso punto, ma cambiava posizione. Era arrivata da poco la notizia del furto di venti beagle in un laboratorio di ricerca di Tunbridge Wells. I cani erano stati rubati e il laboratorio incendiato. Era accaduto nel Kent, quindi fuori dalla loro giurisdizione. Qualcuno aveva già collegato l'incidente con quanto stava accadendo nel Mid-Sussex. Karen Malahyde poteva fornire le prove della colpevolezza di Brendan Royall, che però probabilmente non aveva nulla a che vedere con il Sacro Globo. Quanto a Damon Slesar, non si poteva dire che avesse avuto maggior fortuna con Conrad Tarling. A parte qualche passeggiata nei dintorni, il Re del bosco passava quasi tutto il tempo chiuso nella sua capanna in cima al castagno.
Mentre andava a Savesbury, Wexford passò vicino all'accampamento e vide che era tutto tranquillo. I lavori non erano stati ripresi e gli alberi non erano stati sacrificati. Il paesaggio era quello di sempre, con i prati, i sentieri e le colline inviolate. Le pecore erano state riportate al pascolo. Savesbury Hill era rimasta intatta, simile a un torrione incoronato dagli alberi, e l'Araschnia era salva, almeno per ora. Quel giorno il tempo era incerto. I boschi dovevano essere pieni di amici degli alberi, tutti quelli che erano rimasti per vedere come sarebbe andata a finire; ma non c'era nessuno in giro. Qualcuno aveva detto a Wexford che a Stowerton, sul cumulo di terra dove i ragazzi avevano trovato gli ossi analizzati dalla Scientifica, stava già iniziando a crescere l'erba. Davanti al bar di Framhurst erano sedute tre persone, ma non erano né Gary né Quilla, e neppure Freya o Conrad Tarling. Forse erano tutti impegnati con gli Struther, ma Wexford pensava di no. Quella gente non aveva nulla a che vedere con il Sacro Globo. Aveva sbagliato tutto. Doveva esaminare i fatti da un'angolazione diversa. Ma quale, se non sapeva neppure da che parte cominciare. Andò Bibi ad aprirgli la porta. Gli disse che era stata avvertita del suo arrivo e che avrebbe potuto trovare Andrew dietro la casa. Wexford passò sotto un arco di mattoni e si trovò in una sorta di cortile che sembrava una scacchiera, con lastre di pietra chiara alternate a riquadri in cui cresceva l'erba. Nei vasi disseminati intorno prosperavano coloratissime petunie e margherite giamaicane, a dimostrazione del fatto che Kitty aveva il pollice verde. Manfred, il cane, stava facendo pipì su una pianta rampicante che correva lungo un muro laterale. Finalmente Wexford vide Andrew Struther sbucare dietro l'angolo di una delle costruzioni aggiunte all'edificio principale e insieme si diressero verso la casa. L'interno sembrava molto più in ordine rispetto alla volta precedente, più simile a come avrebbe voluto trovarlo Kitty Struther se i rapitori l'avessero liberata. Seduto nell'ampio soggiorno rallegrato da cinz e tappeti dai colori smorzati e impreziosito da soprammobili d'argento e vasi cinesi, Wexford osservò ancora una volta la foto dei padroni di casa, la stessa di cui Andrew gli aveva fornito una copia. Guardandoli non si sarebbe detto che Kitty fosse una donna fragile e il marito un debole che si atteggiasse ad eroe. Nell'istantanea la moglie dava l'impressione di essere un po' più avventurosa di lui. Ancora in gamba, con un fisico atletico, Owen Struther doveva essere un provetto sciatore. A Wexford ricordava vagamente Sir Edmund Hillary, di cui aveva avuto occasione di vedere una foto che lo ri-
traeva da giovane. Entrambi sembravano capaci di scalare la montagna più alta del mondo. «Ci sono novità?» domandò Andrew. «Niente di buono, purtroppo. Sono venuto a dirle che ora i suoi genitori sono gli ultimi due ostaggi rimasti nelle mani dei rapitori.» «E il ragazzo?» Wexford lo mise al corrente dell'accaduto. Andrew strinse i pugni, poi abbassò la testa, si portò le mani alla fronte e respirò profondamente, come se si sforzasse di non perdere l'autocontrollo. Era molto diverso dal giovanotto arrogante che una settimana prima aveva messo alla porta Burden e Karen. La tensione nervosa l'aveva costretto ad abbassare le arie. «Può darsi che telefoni proprio a lei. Abbiamo messo sotto controllo il suo apparecchio, ma le sarei grato se volesse collaborare.» «Se per collaborare intende che posso dirne quattro a quel piccolo bastardo, stia tranquillo che lo farò volentieri.» «Per la verità intendevo esattamente il contrario, signor Struther. Vorrei che cercasse di trattenerlo al telefono il più a lungo possibile. Non lo contraddica. Può parlare dei suoi genitori, se crede. Non desterà sospetti, chiedendo notizie sul loro stato di salute. Più starà al telefono e maggiori saranno le probabilità di scoprire dove si sono cacciati.» «Crede che telefonerà qui?» «Veramente no, ma non posso rischiare di farmi prendere in contropiede.» Se le fosse stata annunciata la visita della regina, la signora Peabody non avrebbe potuto pulire e decorare meglio la casa. L'avevano avvertita dell'arrivo dei due poliziotti la sera precedente alle otto e tanto le era bastato. Le pulizie di primavera dovevano essere state eseguite cominciando da quell'ora fino alle nove del mattino dopo, quand'erano arrivati Burden e Karen. La signora Peabody doveva essersi alzata alle cinque. Uno dei coprischienali delle poltrone era ancora umido, ma inamidato e stirato con cura. Karen lo toccò con la punta delle dita e sorrise, poi disse a se stessa che, se non stava attenta, invecchiando sarebbe diventata come lei. Fra trentacinque anni sarebbe stata identica alla signora Peabody: avrebbe sprimacciato i cuscini prima dell'arrivo di un ospite e avrebbe fatto togliere le scarpe a chi andava a casa sua, com'era capitato a Damon Slesar. «Un soldino per i tuoi pensieri, sergente Malahyde» disse Burden, vedendola arrossire.
«Stavo pensando che potrei diventare una maniaca dell'ordine come la signora P, se non sto attenta.» «Anch'io» le confessò Burden. «O almeno, l'equivalente maschile.» Audrey Barker avrebbe dovuto rispondere al telefono personalmente. Se e quando avesse squillato. Palesemente nervosa, con la fronte increspata e l'espressione ansiosa, andava e veniva in continuazione per aiutare la madre a dare gli ultimi tocchi alla casa. Rimasta sola per qualche istante in cucina con Karen, le disse di essere stata operata di calcolosi. Quindi Ryan aveva raccontato una frottola, inventandosi addirittura una biopsia inesistente. Aveva molta immaginazione, per essere un ragazzo di quattordici anni. La prima volta il telefono squillò alle dieci e venti. La signora Peabody era appena arrivata portando tazze di caffè con latte schiumoso, la sua particolare versione di cappuccino. Aveva coperto il vassoio con un centrino di pizzo e sul piatto dei biscotti ne aveva messo uno di carta. Lo zucchero era in zollette e su ogni piattino c'era un cucchiaio. Audrey Barker aveva il tipico sguardo di chi disapprova tanta precisione, soprattutto dopo aver dovuto sopportare per anni i rimproveri di una madre troppo meticolosa. Lo squillo del telefono la fece trasalire. Burden le fece un cenno e lei alzò il ricevitore. Fu subito chiaro che non era Ryan. Burden (e anche Wexford) si chiedevano che tipo fosse l'uomo con cui, a detta di Ryan, era fidanzata. Che fosse anche quello frutto della sua fervida fantasia? Evidentemente no, a giudicare dalla spiegazione che diede Dora dopo aver riagganciato. «È il mio amico» disse. «Mi telefona tutti i giorni, anzi, due o tre volte al giorno.» Il tempo passava. Secondo Burden, troppo lentamente. La signora Peabody ritirò le tazze del caffè e raccolse due briciole invisibili cadute sul tappeto. Tanto per ammazzare il tempo, Burden domandò a Audrey Barker notizie sul figlio, sui suoi gusti, sui suoi interessi e sul suo profitto a scuola. A mano a mano che parlava, la donna era sempre meno tesa. Ryan andava molto bene in biologia e geografia, cosa di cui nessuno si stupì. Possedeva diversi libri di storia naturale. A Natale la madre gli aveva regalato una guida agli uccelli d'Inghilterra e aveva già acquistato una serie di video sulle meraviglie della natura per regalarglieli in occasione dell'imminente compleanno. Il telefono squillò di nuovo a mezzogiorno, e siccome erano le dodici esatte ed era molto probabile che il Sacro Globo si facesse sentire a quell'ora, quando Audrey alzò il ricevitore Karen scattò in piedi e si avvi-
cinò quanto bastava per sentire la voce dell'interlocutore. Non era la telefonata che aspettavano: stavolta era Hassy Masood. «Anche lui telefona ogni giorno» spiegò Audrey al termine della breve chiacchierata. «Per farmi coraggio. Mi chiama al posto della madre di Roxane che, poveretta, non se la sente di parlare. È molto gentile da parte sua, ma francamente ne farei volentieri a meno.» La chiamata successiva era di qualcuno che aveva sbagliato numero. Guardando Audrey, Karen si rese conto che soltanto ora, per la prima volta, capiva davvero che vuol dire "essere sotto pressione". Ovviamente il laboratorio della Scientifica non poteva fornire a Wexford nessuna informazione sulla provenienza del sacco a pelo. Nicky Weaver si era ficcata in testa di andare fino in fondo, ora che sembrava disattesa l'ipotesi che fosse quello acquistato dal negoziante di Brixton e venduto a Frenchie Collins. Aveva anche escluso che venisse dal nord di Londra e perciò lei e Hennessy avevano esteso il campo delle ricerche fino alle Highland, mentre Damon Slesar era occupato a tenere d'occhio Conrad Tarling. Se dal rapporto della Scientifica non risultava nulla che potesse aiutarli a scoprire da dove veniva il sacco a pelo, in compenso c'erano molti elementi che indicavano con certezza cosa ne avevano fatto quelli del Sacro Globo. Il sacco era di un tessuto lavabile ed era stato pulito almeno una volta da quando era stato venduto. Dopo che Frenchie Collins l'aveva riportato dall'Africa, aveva dedotto Wexford. Solo che in realtà non era lo stesso sacco a pelo. La Collins aveva detto a Slesar di averlo lasciato nello Zaire e d'altronde non aveva motivo di raccontargli una frottola. Ben poche delle sostanze trovate sugli indumenti di Dora corrispondevano a quelle rilevate all'interno o all'esterno del sacco, tranne i peli di gatto. Di quelli ce n'erano in abbondanza. Le due piccole macchie sul tessuto erano una di caffè nero e l'altra di vino. All'interno del sacco erano state rinvenute tre pietruzze di forma irregolare, del genere di cui è costituita la ghiaia. Il particolare più interessante era però una foglia secca trovata in fondo al sacco. Secondo gli esperti della Scientifica, doveva essere rimasta appiccicata alla suola di una scarpa di Roxane. Non apparteneva a una specie selvatica, ma a una pianta rampicante coltivata che si chiamava Ipomoea rubrocoerulea. Wexford rilesse attentamente questa parte del rapporto. Una volta aveva
tentato di coltivare l'ipomea nel suo giardino, ma quell'estate il tempo era stato inclemente e i primi fiori stentati si erano aperti all'inizio di ottobre, subito stroncati dal gelo. A quanto gli risultava, alcune parti della pianta (non sapeva se i semi, le radici o le foglie), avevano proprietà allucinogene. Sheila gli aveva detto di conoscere gente che ne masticava le foglie, ma quando Wexford era andato a controllare sull'enciclopedia, aveva scoperto soltanto che se ne estraeva una sostanza purgativa, la gialappa. Sugli indumenti di Roxane erano state trovate varie macchie. Oltre a quelle del suo stesso sangue e di una lozione per il corpo, evidentemente usata prima del rapimento, c'erano tracce di latte di soia e di una salsa al pomodoro. Guardando distrattamente fuori dalla finestra, Wexford voltò le pagine per tornare di nuovo alla prima. Ryan Barker chiamò la madre proprio quando Burden cominciava a perdere le speranze e temeva di dover affrontare un'altra di quelle snervanti attese che magari si sarebbe protratta per giorni e giorni. La signora Peabody aveva preparato per loro tartine al prosciutto e insalata, di quelle che si ottengono eliminando la crosta al pancarrè e ricavandone dei triangolini di pane. Poi si era seduta a guardarli mangiare. Un'ora dopo aveva preparato il tè. L'aveva servito con una torta, del genere che Patsy Panick avrebbe sicuramente apprezzato, al cioccolato, con glassa al cioccolato e guarnita di fiocchi al cioccolato. Burden la guardò e provò un senso di nausea. Karen invece ne prese una piccola fetta. Avendo notato sulla mensola del camino qualcosa che l'aveva turbata al punto da spedirla di corsa a prendere lo straccio della polvere, la signora Peabody si mise febbrilmente al lavoro, spolverando e lucidando tutto ciò che le capitava a tiro. Osservandola, a Karen vennero in mente certi gatti, quando all'improvviso sentono un odore strano su una zampa e cominciano a leccarsi con cura maniacale. Il telefono emise un clic premonitore che le volte precedenti nessuno di loro aveva notato. Lo squillo era forte, quasi assordante. Alzata la cornetta, per prima cosa Audrey diede il proprio numero di telefono, secondo le istruzioni ricevute. Di nuovo il fidanzato. Burden si pentì di non aver detto a Audrey Barker di pregarlo di non richiamare. Glielo suggerì nel corso della telefonata. La donna fece un cenno affermativo con la testa, ma non disse nulla al fidanzato. Aveva appena riagganciato, quando il telefono squillò di nuovo. Karen le si affiancò mentre alzava la cornetta. Audrey Barker ripeté il
suo numero di telefono con un tono che sembrava una cantilena. Era la voce di un ragazzo, tremula e stridula per la tensione nervosa. «Mamma? Sono io.» 23 «Hai riferito il messaggio, mamma?» «Certo, Ryan. Ho fatto come mi avevi chiesto.» Audrey Barker non avrebbe potuto fare l'attrice. Parlava con voce stentata, come se stesse leggendo la parte su un copione. «Devono far passare la tangenziale da qualche altra parte, hai capito?» «Ho capito, Ryan, e ho riferito il messaggio. Come volevi tu, Ryan.» Il tono l'insospettì. «C'è qualcuno con te?» «No, certo che no» rispose Audrey quasi gridando. «La notizia dev'essere data ufficialmente dal governo, altrimenti la signora Struther morirà. Hai capito bene? Domani, entro sera, o la signora Struther morirà.» «Oh, Ryan...» «Credo che ci sia qualcuno lì con te. Riattacco. Non richiamerò. Ricordati che la nostra è una causa giusta. È l'unico modo, mamma, è l'unico modo che abbiamo per salvare il pianeta. In confronto alla salvezza del mondo intero, la vita di una sola donna non è importante. Ora devo andare. Arrivederci.» Karen aveva ascoltato con le sue orecchie. Wexford avrebbe potuto ascoltare la registrazione. Nel frattempo riuscirono a individuare il luogo da cui era partita la telefonata. Dal Brigadier, il pub sulla vecchia circonvallazione di Kingsmarkham. Come le previsioni del tempo avevano anticipato, iniziò a piovere. L'acquazzone, atteso già da qualche giorno, scese di colpo dalla massa di nuvole nere, prima deciso, poi a dirotto, un torrente che li obbligò a ridurre la velocità. In condizioni normali sarebbero potuti arrivare in un quarto d'ora. Purtroppo la pioggia era tale che non si limitava a rallentare il traffico, ma obbligava gli automobilisti a fermarsi a lato della strada. Anche Pemberton, al volante dell'auto che portava Burden e Karen, fu costretto a fermarsi in una piazzuola. Sembrava di essere sotto le cascate del Niagara, disse. Barry Vine e Lynn Fancourt, che li seguivano a bordo di un'altra auto, si accodarono. Quando finalmente la pioggia si fu un po'
placata, riducendosi a un normale temporale, erano già trascorsi venti minuti. Raggiunsero il Brigadier mezz'ora dopo essere saliti in macchina e s'infilarono nel parcheggio, sollevando la ghiaia e facendo baccano come le auto dei telefilm polizieschi americani. Mancavano venticinque minuti alle sei. William Dickson aveva aperto il locale trentacinque minuti prima. Stava servendo una birra e un gin a una coppia seduta a un tavolo, quando fece irruzione la polizia. Erano in cinque. Vine aprì la seconda porta con una spinta e andò a controllare nella sala interna, seguito da Pemberton. «Chi altro c'è in casa?» domandò Burden. «Mia moglie» rispose Dickson. «Oltre a me. Che cosa c'è? Che sta succedendo?» Vine tornò nella prima sala. «Di là non c'è nessuno» annunciò a voce alta. «Ve l'avevo detto. Ci sono solo questi signori, oltre a me e a mia moglie che è di sopra. Che cos'è questa storia?» «Andiamo a dare un'occhiata» disse Burden. «Accomodatevi pure. Certo che avreste potuto chiedere il permesso. Un po' di gentilezza non ha mai fatto male a nessuno. Siete fortunati che non vi chiedo il mandato di perquisizione.» I due clienti, la donna seduta al tavolo e l'uomo in piedi davanti al banco per pagare il conto, osservavano la scena con evidente curiosità. Senza distogliere lo sguardo da Burden, il giovane porse una banconota da cinque sterline a Dickson. Vine andò nel corridoio dove c'era il telefono a pagamento, quello usato da Ulrike Ranke nel mese di aprile, quando aveva fatto l'ultima telefonata della sua vita. Diede un'occhiata nelle altre stanze, un ufficio dove vide un altro apparecchio telefonico e un salottino intimo. Karen lo seguì nell'ispezione, mentre Pemberton e Lynn Fancourt salivano al piano di sopra. Pioveva ancora forte. La pioggia avvolgeva il parcheggio in una coltre grigia, quasi oscurando la vista del prefabbricato che Dickson chiamava eufemisticamente sala da ballo. Burden si avvicinò al giovane e alla sua compagna, disse di essere un funzionario di polizia, mostrò il tesserino di riconoscimento e domandò loro da quanto tempo si trovassero nel pub. «Ehi, un momento» protestò Dickson. Burden si voltò a guardarlo. «Sono saliti a chiamare sua moglie perché le dia il cambio. Lei intanto mi aspetti in quel suo salottino comodo. Devo parlarle.»
«A proposito di che? Si può sapere?» «Mi dispiace parlarle in questo modo davanti ai suoi clienti, signor Dickson, ma insisto perché faccia subito quello che le ho detto, se non vuole che l'arresti con l'accusa di aver intralciato il corso della giustizia.» Dickson obbedì. Si sfogò dando un calcio alla porta come un bambino viziato, ma andò nel salottino. Pemberton ricomparve con la moglie, una bionda sulla quarantina con il seno prosperoso. Dopo averla salutata con un cenno del capo, Burden chiese alla coppia il permesso di sedersi al loro tavolo. Il giovane acconsentì e disse di chiamarsi Roger Gardiner. La sua amica era Sandra Cole. «Vorrei rivolgervi alcune domande» disse Vine, riproponendo quella di Burden. «Siamo arrivati all'ora di apertura» rispose il giovane. «Anzi, un po' prima. Siccome era presto, siamo rimasti ad aspettare in macchina.» «In questo caso dovreste aver visto alcune persone. Un ragazzo di quindici anni, per la precisione, insieme con altra gente.» «Doveva avere più di quindici anni» intervenne Sandra. «Era più alto di Roger.» «Quando li abbiamo visti eravamo già dentro da un paio di minuti» precisò il suo compagno. «Un uomo e una donna giovane sono entrati di corsa con il ragazzo, si sono avvicinati al banco e la donna ha chiesto al proprietario, o direttore che sia, se poteva fare una telefonata. Ha aggiunto che doveva chiamare un'autoambulanza perché il ragazzo aveva avuto uno shock ana...» «Anafilattico?» suggerì Vine. «Sì, esatto. Ha detto che era una cosa urgente e il proprietario le ha spiegato dov'era il telefono...» «Quello del mio ufficio» disse Dickson a Burden «non quello a pagamento. Mi aveva detto che era una cosa urgente e che il ragazzo rischiava di morire se non lo portavano subito all'ospedale. Perciò ho pensato che usando il mio apparecchio avrebbero guadagnato tempo.» «Finalmente comincia ad avere un briciolo di coscienza, dopo la storia di Ulrike Ranke?» «Non capisco dove vuole arrivare. Comunque sono andati nel mio ufficio e da quel momento non li ho più visti.» «Su, Dickson, sia serio. Vorrebbe farmi credere che le ha permesso di usare il suo telefono privato perché temeva che il ragazzo potesse morire, ma come le hanno girato le spalle si è completamente dimenticato di lo-
ro?» «Veramente sono andato di là a vedere, ma se n'erano già andati. Ho domandato a mia moglie se per caso avesse sentito l'ambulanza, dato che io non l'avevo sentita arrivare, e lei non capiva cosa stessi dicendo.» «Mi mostri l'apparecchio telefonico.» Era sulla scrivania tra pile di scartoffie e giornali. «Qualcuno l'ha toccato dopo che quei tre se ne sono andati?» Dickson scosse la testa. Gli era venuto un tic all'angolo della bocca. «Non lo tocchi e chiuda il locale. Forse potrà riaprire domani.» «Si può sapere che succede? Non posso chiudere così.» «Non mi pare che abbia scelta» osservò Burden. Aveva sentito arrivare un'auto. Se si fosse posato un passero su quella ghiaia, nemmeno lui sarebbe passato inosservato. Burden pensò fosse un cliente del Brigadier e invece era Wexford che si era fatto accompagnare da Donaldson. Si era seduto a un tavolo con Linda Dickson, che ora aveva tra le braccia un piccolo Yorkshire terrier. Gardiner stava facendo del suo meglio per descrivere a Karen Malahyde l'uomo e la giovane donna che erano entrati con Ryan Barker. «Io non li ho visti» dichiarò Linda Dickson, guardandosi intorno alla ricerca del marito e non trovandolo perché era andato a chiudere il locale. «Mi era sembrato di sentire arrivare un'auto, ma evidentemente dovevano essere questi due signori.» «Come sarebbe a dire dovevano essere?» «Si sente anche il minimo rumore, su quella maledetta ghiaia. Se il pub fosse mio, farei mettere il cemento, ma i proprietari non vogliono spendere.» «Si può anche evitare di passare sulla ghiaia. Basta infilarsi nel parcheggio dietro la casa, non è vero?» «Già, ed è appunto quello che devono aver fatto.» «Non sono molto bravo a descrivere le persone» avvertì il marito. «Forse dipende dal fatto che vedo troppa gente. Il ragazzo era alto, all'incirca come me...» «Sappiamo perfettamente com'è il ragazzo, signor Dickson» l'interruppe Wexford, osservando il tatuaggio che aveva sul braccio sinistro. Non si capiva bene se fosse una farfalla, un uccello, oppure un disegno astratto. «Il ragazzo è Ryan Barker, uno degli ostaggi. Visto che continua a insistere per sapere di cosa si tratta, be', ora sa che c'è di mezzo il Sacro Globo. Pensa che il nome possa rinfrescarle la memoria e aiutarla a fornirci la de-
scrizione di quelle due persone?» Dickson rimase a bocca aperta. «Sta scherzando?» «Assolutamente no. Se fossi in vena di scherzi, saprei trovarne di più divertenti.» «Il Sacro Globo... Per la miseria! Allude a quei pazzi che hanno rapito quella gente e ucciso una ragazza?» «Cerchi di descrivermi quei pazzi, se non le dispiace.» La descrizione, quando finalmente arrivò, coincideva con quella di Roger Gardiner e Sandra Cole. Nessuno dei tre era dotato di grande spirito d'osservazione, né mostrava di nutrire particolare interesse nei confronti dei suoi simili. Neanche la frottola dello shock anafilattico raccontata dalla donna aveva risvegliato la loro curiosità. L'unica cosa che li aveva colpiti era il nome impronunciabile. In tre riuscirono a mettere insieme una descrizione appena decente. La donna era piccola di statura, ma dava l'impressione di essere forte ed energica. Non era truccata e aveva i capelli raccolti sotto un berretto da giocatore di baseball. Giovane, dimostrava dai venti ai trent'anni. L'uomo che stava con lei era alto e magro, aveva lo stesso berretto da baseball in testa e portava occhiali scuri. Il loro abbigliamento era così comune che nessuno dei tre riusciva a ricordarlo con precisione. Probabilmente indossavano jeans e giubbotti forse neri o forse beige. Nessuno aveva notato particolari insoliti. L'uomo aveva detto qualcosa. La voce della donna era... Be', una voce qualsiasi. «Parlava come quelli dell'East End» aggiunse Roger Gardiner. Wexford pensava di aver capito cosa intendesse dire, e cioè che la donna aveva l'accento tipico della classe proletaria londinese. Proletariato, ecco una parola che bisognava bandire dal vocabolario, così come il termine cockney. Ma era il suo modo naturale di parlare, oppure una sorta di imitazione, come quelle che si sentono al cinema e alla televisione? Gardiner non fu in grado di rispondere alla domanda. «Vorrei dare un'occhiata fuori» disse Wexford a Dickson. «Come desidera, signore. Vede, io sono una persona ragionevole e disposta a collaborare, ma si dà il caso che qua dentro (non faccio nomi) ci siano anche persone che non sanno cosa siano le buone maniere.» Il parcheggio era allagato. C'erano pozzanghere che sembravano laghetti. Dalle grondaie scendeva l'acqua a fiumi. Non pioveva più, ma il cielo grigio non prometteva nulla di buono. Il vento faceva frusciare i rami dei castagni che crescevano nel prato al di là del recinto.
Wexford non nutriva grandi speranze. Anzi, al momento non ne aveva affatto, ma volle dare ugualmente un'occhiata all'interno del prefabbricato. Forse con qualche luce al neon, le porte spalancate, la musica e qualcuno che vendesse i biglietti... No, sarebbe sempre rimasta una baracca inutilizzabile, una specie di tetra caverna da demolire. Caverna era la definizione esatta. L'interno era uno stanzone di diciotto metri per dodici, con il soffitto alto almeno nove. Su due lati si aprivano grandi finestre con il telaio di metallo e in un angolo c'era una specie di palcoscenico. Dietro c'era una porta. Dopo che Vine l'ebbe aperta, entrarono nella stanza accanto, dove c'erano i gabinetti. Quello per gli uomini aveva un pavone che faceva la ruota dipinto sulla porta e l'altro una pavonessa grigiastra. Il più bieco maschilismo che le fosse capitato di vedere negli ultimi anni, commentò Karen, stizzita. Al termine di un breve corridoio c'era un'altra stanza vuota e polverosa. Dickson disse che non veniva utilizzata da anni e nessuno lo mise in dubbio. Wexford non riusciva a spiegarsi per quale motivo avessero portato Ryan al Brigadier. Che senso aveva? Forse, pensò mentre tornavano nel pub, i rapitori non osavano più chiamare dal telefono pubblico o dalla cabina da cui avevano già fatto tre telefonate. Anche ammesso che disponessero di un apparecchio telefonico nella casa dove tenevano gli ostaggi, per ovvie ragioni non potevano servirsene. Forse sapevano che a quell'ora nel pub c'era poca gente e magari non ignoravano che Dickson e consorte erano persone non molto perspicaci. «Dal momento che ha dovuto chiudere il pub, credo che ora abbia del tempo libero, signor Dickson, e perciò potremmo approfittarne per fare due chiacchiere. Più che altro m'interessa sapere se ha molti clienti fissi, oppure se per la maggior parte è gente di passaggio.» «Lo portate alla stazione di polizia?» domandò la moglie, che aveva ancora il cane in braccio. «Ci sarebbero problemi, signora Dickson?» le domandò Wexford, voltandosi a guardarla. «No, stia tranquilla. Possiamo parlare con calma nel suo ufficio.» Hennessy si era infilato un paio di guanti e stava staccando il telefono. Lo infilò in un sacchetto di plastica. «Non può portarsi via il mio telefono!» protestò Dickson. «Veramente è di proprietà della Telecom. Non si preoccupi: provvederemo noi a sistemare le cose e comunque potrà riaverlo presto.» Wexford si sedette senza aspettare che Dickson l'invitasse ad accomodarsi. Del resto
dubitava che l'avrebbe fatto. «Dunque, a quanto mi pare di capire, era la prima volta che vedeva quelle persone, vero?» «Sì, non li avevo mai visti. Nessuno di loro.» «Il Brigadier è frequentato soprattutto da gente del posto, oppure da clienti occasionali, magari diretti verso la costa?» Quando Dickson intuì che Wexford non gli avrebbe fatto domande personali, smise di essere diffidente e cominciò a prenderci gusto. Era una reazione abbastanza frequente, come l'ispettore capo aveva avuto modo di constatare altre volte. Dando informazioni alla polizia ci si sente importanti e spesso la gente meno sa e più si diverte. «Be', qui vengono un po' tutti, sia i clienti regolari che gli altri. Soprattutto i giovani. Di gente anziana ne vediamo poca perché per arrivarci bisogna avere l'auto e molti non ce l'hanno. A parte il signor Canning, di Framhurst. Lui viene abbastanza spesso.» «William allude a Ron Canning, il proprietario di Goland Farm» spiegò Linda Dickson, posando il cagnetto a terra. «Sa, quello che ha autorizzato gli amici degli alberi a parcheggiare le loro auto nel prato della sua fattoria. Ammesso che si possa parlare di auto...» Il cane annusò le scarpe di Wexford e diede una leccatina al cuoio. L'ispettore cambiò posizione. Si trovava a disagio in quell'ambiente angusto. «Che cosa rappresenta il tatuaggio che ha sul braccio, signor Dickson. È un insetto, un uccello o cos'altro?» «Dovrebbe essere una rondine.» Con sua grande sorpresa, Wexford lo vide arrossire. «Dovrei farlo togliere: a mia moglie non è mai piaciuto. Devo decidermi, prima o poi.» Prese il cane e se lo strinse al petto. «Vengono anche quei tizi del Weir Theatre, da Pomfret. Si fanno chiamare esattamente "Amici del Weir Theatre". Quello che interpreta il ruolo principale è un certo Jeffrey Godwin.» «Ha recitato anche una parte in Bramwell» aggiunse Linda. «No, sto sbagliando. In Casualty, volevo dire.» «Non mi dà fastidio» continuò Dickson, accarezzando il cane. «Che vengano nel mio locale, intendo. La gente famosa attira i clienti. Molti vengono qui apposta per vederlo e allora lo indico e dico: "Quello è Jeffrey Godwin, l'attore". È il minimo che possa fare per una persona come lui, così alla mano.» A sentirlo si sarebbe detto che fosse il proprietario di un ristorante di Manhattan e che Paul Newman fosse un suo cliente abituale. Si mise il cagnolino in grembo e la bestiola si addormentò subito.
«Lo guardi» disse Linda Dickson in tono affettuoso. «Come si vede che vuole bene al suo papà. Posso offrirle qualcosa da bere, signor Wexford? Non capisco come abbia fatto a dimenticare le buone maniere. Dev'essere colpa di tutto questo trambusto.» Wexford rifiutò. «Vuoi che ti porti qualcosa, William?» Mentre Dickson pensava alla risposta da dare alla moglie, Wexford gli chiese se negli ultimi tempi fosse capitato che qualche forestiero diventasse cliente abituale. I dimostranti, per esempio, frequentavano il suo pub? Dickson non aveva mai nascosto la sua avversione verso qualsiasi genere di protesta. Prima ancora che aprisse bocca Wexford capì, dall'espressione e dalla curva sprezzante del labbro inferiore, quale sarebbe stato esattamente il suo atteggiamento nei confronti di chi voleva salvare le balene, vietare la caccia alla volpe, mettere al bando i concimi chimici, incrementare la produzione di alimenti naturali, razionare l'acqua, diffondere l'uso della benzina senza piombo e riciclare qualsiasi tipo di materiale. «Come può immaginare» rispose Dickson «non ho tempo da perdere con certa gente. Non mi fraintenda, non ce l'ho con loro perché non bevono. Anzi, di acqua minerale e roba del genere ne ingurgitano un bel po', e anche lì avrei il mio bravo guadagno. Ma non è questo il punto. La verità è che non mi piace il loro modo d'interferire nella vita degli altri, compresa la mia. Bisogna prendere le cose come stanno, accettare quello verrà.» Prese fiato e allungò la mano verso il boccale che gli aveva portato la moglie. «Grazie, tesoro. Sei molto gentile. Vediamo un po'... Chi altro c'è? Già, quella signora che viene regolarmente e si fa accompagnare da Stan. Non ricordo il nome. Tu lo sai, Linda?» «No, William. È una signora anziana. Abita a Kingsmarkham e viene di martedì e di giovedì per incontrarsi con un tale. Lo dico sempre a mio marito, come sono carini! È commovente. E pensare che avranno già una settantina d'anni. Però non ricordo né il nome di lui né quello di lei. Stan dovrebbe saperlo.» Wexford si chiese come facessero i Dickson a parlare con tanto entusiasmo di una coppia di vecchietti che s'incontravano due volte la settimana nel loro pub (tanto per cominciare, non avrebbero potuto trovare un posto migliore?). Gli venne il dubbio che potesse esserci un collegamento con il Sacro Globo. «Stan?» domandò. «Stan Trotter» rispose Linda. «Stanley è il nome esatto. L'accompagna sempre in taxi perché la signora non sa guidare. Credo che non abbia ne-
anche la patente. Ho detto sempre, ma non è esatto. C'è stato un periodo in cui non l'abbiamo più vista. Forse è durato un mese, vero William?» «La prima volta che Stan ha ricominciato a portarla qui» continuò «era un martedì, me lo ricordo perfettamente. Non lo vedevo da un mucchio di tempo, dal mese di aprile, esattamente dalla sera in cui è stata uccisa la ragazza tedesca.» Wexford la guardò e la vide impallidire di colpo. 24 In sei mesi Stanley Trotter aveva subito due arresti, ma stavolta doveva comparire in tribunale per rispondere dell'accusa di omicidio. «Devo farti le mie scuse, Mike» disse Wexford. «Avevi visto giusto fin dall'inizio. Non ricordo cosa ti abbia detto, ma non credo di essere stato tenero con te.» «La verità è che non lo sapevo per certo. Mi basavo sull'intuito, ma la sensazione che fosse lui il colpevole era molto forte. Ignoravo che la seconda moglie di Trotter fosse la sorella di Linda Dickson. Avrei fatto meglio a controllare l'albero genealogico.» «Sono stati sposati soltanto cinque minuti» osservò Wexford. «La cosa strana è che Linda si sentisse in dovere di proteggerlo. Me l'ha detto chiaro e tondo: "Be', è sempre mio cognato, no?". A quanto pare è convinta che un parente acquisito resti tale per sempre, a prescindere dai divorzi e dai matrimoni successivi. Se così fosse, al giorno d'oggi certe persone avrebbero un numero impressionante di parenti.» «Però Dickson non ha parlato, vero?» «Non sapeva che la moglie aveva visto Trotter, oppure fingeva d'ignorarlo. Quando è stata interrogata, Linda ha dichiarato che era andata a letto e si era addormentata, mentre in realtà stava guardando fuori dalla finestra. Sono due persone che tendono a disinteressarsi degli altri. Possibile che fosse preoccupata per Ulrike?» Burden scosse la testa, poco convinto. «Lei è una donna e Ulrike era così giovane... Nei casi come questo è abbastanza normale che resti qualche interrogativo in sospeso. Ci sono particolari di cui non potremo mai venire a conoscenza.» «Stai dicendo che forse era davvero preoccupata per Ulrike?» «Non lo so. E tu che ne pensi?» «Forse sì. Comunque per il momento accontentiamoci di sapere che Linda è rimasta a guardare fuori dalla finestra e ha visto arrivare Trotter
verso le undici. Il cognato non ha suonato il campanello né bussato alla porta. Non ne aveva bisogno. Ulrike l'aspettava fuori. È probabile che, per non fare rumore, abbia evitato di passare sulla ghiaia e infatti Dickson, che stava riordinando il locale, non si è accorto del suo arrivo.» «E quando è salito in casa, Linda non gli avrebbe rivelato di aver visto Trotter? Non gliel'ha detto in quel momento né dopo, quando la ragazza è scomparsa, e neppure in seguito, quando è stato ritrovato il cadavere?» «Prova a considerare le cose da un'angolazione diversa, Mike. Linda si è sentita sollevata vedendo apparire Trotter. Il suo arrivo le ha tolto un peso dallo stomaco. Perciò si è infilata sotto le coperte e si è addormentata subito. Non dimenticare che era stata una giornata dura. Il mattino seguente non aveva motivo di essere in ansia per le sorti della ragazza. Trotter era passato a prenderla e l'aveva portata dove doveva andare. Ma in seguito, quando si è scoperto che Ulrike era scomparsa e i giornali hanno iniziato a occuparsi del caso, che cosa le sarà passato per la testa?» «Non abbiamo appurato per quale motivo Dickson sia stato così villano da buttare la ragazza in strada. Non ce l'ha mai spiegato. Si è limitato a dire che il pub era chiuso e che quella sera non faceva freddo. Ma supponiamo che sia stata Linda a mandarla fuori, che sia stata lei ad accompagnarla alla porta...» «La mia impressione è che Linda sia una donna terribilmente gelosa. È possibile che in passato il marito gliene abbia dato motivo. Se così fosse, non avrebbe certo lasciato Dickson da solo con la ragazza di notte, e d'altra parte lei era troppo stanca per restare, non vedeva l'ora di andarsene a letto.» «Veramente, Reg, Ulrike era una bella ragazza di diciannove anni, mentre Dickson... Be', non è certo un tipo per cui le donne possano perdere la testa.» «Dal tuo punto di vista, dal mio, e forse anche di Ulrike, ma può darsi che la moglie la pensi diversamente» rispose Wexford con un sorriso. «Una volta qualcuno ha domandato a James Thurber perché le donne delle sue vignette fossero così poco attraenti e lui ha risposto: "Agli uomini delle mie vignette piacciono". Dickson è attraente per Linda e quindi la moglie è convinta che lo sia anche per le altre donne. Per questo motivo ha fatto uscire in strada la ragazza ed è rimasta a guardarla dalla finestra finché ha visto arrivare il taxi. Perché, se non fosse arrivato, c'era il rischio che Ulrike tornasse dentro, che il marito la facesse entrare.» Burden annuì. «E in seguito?»
«Dopo che è stato rinvenuto il cadavere, intendi? A quel punto sapeva per certo che il marito era innocente e nello stesso tempo si sentiva in dovere di coprire l'ex cognato. Se vogliamo concederle un'attenuante, dobbiamo considerare che forse non riusciva ad accettare il fatto che un membro della sua famiglia, anche se in realtà non ne faceva più parte, potesse essere un assassino. Non è un atteggiamento infrequente: Stanley è passato a prendere Ulrike, era lui che guidava il taxi, ma a ucciderla è stato qualcun altro.» «Non capirò mai gli esseri umani.» «Nemmeno io» ammise Wexford. «Trotter ha portato Ulrike in un boschetto di Framhurst Copses, dove l'ha violentata e uccisa. Forse la ragazza gli aveva offerto una grossa cifra per farsi portare in taxi fino ad Aylesbury e perciò lui aveva scoperto che disponeva di molto denaro. Così ha preso i quattrini e anche il giro di perle; ma forse Ulrike stessa gliel'ha offerta in cambio della vita. In questo caso sarà rimasto deluso quando gli hanno dato pochi spiccioli per una collana che, secondo lui, valeva almeno un migliaio di sterline.» Scosse la testa. «Quanto a quelli del Sacro Globo, ci hanno attirato lì per una burla, per poter ridere alle nostre spalle.» I media non erano al corrente dell'ultimo messaggio di Ryan Barker e della relativa richiesta del Sacro Globo. Il caso non era passato nel dimenticatoio, ma aveva lasciato una scia di negatività. I giornali parlavano dell'inettitudine dimostrata dalla polizia, degli insuccessi subiti, della vita degli ostaggi sempre più a rischio, ma non riportavano notizie recenti sull'evolversi della situazione. Né sapevano che Ryan Barker si era schierato dall'altra parte. Era come se l'operato del Sacro Globo con i suoi tre ostaggi (o forse due) fosse assimilabile ai sequestri di persona associati al terrorismo nel Medio Oriente. Il rapimento sollevava un'ondata di sdegno a livello internazionale, i terroristi avanzavano le loro richieste, le trattative fallivano, giungevano altre richieste accompagnate da ulteriori minacce e poi gradualmente il caso veniva dimenticato, soppiantato da altre vicende più recenti. Intanto gli ostaggi languivano nelle mani dei terroristi, sempre più ignorati con il passare delle settimane, dei mesi, degli anni. A Kingsmarkham la vicenda che aveva soppiantato la storia del sequestro era la comparizione di Stanley Trotter in tribunale. La sua sarebbe stata un'apparizione fugace, seguita dalla richiesta di ricorrere a un tribunale superiore. Ciononostante i rappresentanti della stampa arrivarono sul posto
di buonora, stesse facce, stesse macchine fotografiche, stesse macchine da presa, come il mattino in cui avevano appreso dell'esistenza del Sacro Globo. Era stata una storia molto seguita quella della scomparsa di Ulrike Ranke e del successivo ritrovamento del cadavere. La vittima era una donna bella, giovane, bionda, che si aggirava sola, di notte, in un paese straniero e aveva con sé droga, denaro e gioielli. Era inevitabile che il caso facesse scalpore. I giornali avrebbero tentato di mettere in relazione la sua morte con il Sacro Globo, oppure con quella di Roxane Masood. Per loro sfortuna la possibilità che Trotter fosse collegato con il Sacro Globo era una questione da passare sub judice e da non rivelare alla stampa, almeno fino al verdetto di colpevolezza, che sarebbe stato pronunciato dopo qualche mese. E per ulteriore disdetta la cella della stazione di polizia di Kingsmarkham dove Trotter aveva passato la notte si trovava a meno di una cinquantina di metri dall'entrata del tribunale. Gli coprirono la testa con una giacca mentre lo portavano dall'altra parte del cortile, ma i cameramen della televisione entrarono in azione ugualmente per preparare il servizio che sarebbe andato in onda nel corso dei telegiornali della sera e alla Newsroom South-East. Una piccola folla, tra cui nessuno che avesse conosciuto personalmente Ulrike Ranke o Trotter, o che avesse motivi personali per interessarsi al delitto, si era riunita in tempo per imprecare e insultare l'assassino durante il breve tragitto. Sarebbero comparsi anche loro in televisione, ed era appunto quello che volevano ottenere. Nicky Weaver non si raccapezzava, non capiva come stessero le cose. Comunque per il resto della vita non voleva più sentire le due parole abbinate: "sacco" e "pelo". L'unica sua certezza sull'argomento era che ogni singolo sacco in tessuto mimetico prodotto dalla Outdoors e venduto nelle Isole britanniche era stato rintracciato, non uno escluso. Trentasei in tutto, avendo avuto minor successo della versione rossa e verde. «Meno male che non dovevamo cercare quelli colorati» aveva detto a Wexford. «Sarebbero stati novantasei. Quanto a quelli dell'altro tipo, Ted e io li abbiamo visti tutti. Ce li siamo sciroppati dal primo all'ultimo. Per la maggior parte sono rimasti invenduti perché, come le ho già accennato, non incontrano il gusto dei clienti. Non li vogliono perché danno l'impressione di materiale di scarto dall'esercito. Due li abbiamo visti in casa di
privati, uno a Leicester e l'altro in un paesetto dello Shropshire.» «Quindi qual è la sua conclusione?» «Secondo me il sacco a pelo usato per trasportare il corpo di Roxane è lo stesso che Frenchie Collins ha acquistato a Brixton e che sostiene di aver lasciato nello Zaire.» «Perché mai dovrebbe mentire, Nicky?» «Forse perché l'aveva prestato o venduto a un amico che fa parte del Sacro Globo e lo sa. Lei stessa potrebbe essere una simpatizzante e magari anche qualcosa di più.» Burden si sarebbe presentato in tribunale, ma Wexford no. Accompagnò di nuovo Dora nell'ex palestra e la moglie lo prese in giro dicendo che ormai la portava solo alla stazione di polizia. Da quando era stata rilasciata non era andata da nessuna parte, tranne lì e una volta da Sylvia. «Chiedo il permesso di uscire domani sera» concluse. «Dove vorresti andare?» le chiese. Una simile domanda non era da lui. Non lo era mai stata e non lo sarebbe stata in futuro. «Oh, Reg, sta' tranquillo, nessuno mi rapirà per la seconda volta. Sii ragionevole. Voglio andare al Weir Theatre a vedere la commedia di Jeffrey Godwin. Ci vado con Jenny.» «Le hai proposto di accompagnarti sapendo che non ti avrei lasciata andare da sola?» Wexford si rendeva conto di non poterla barricare in casa come fosse una donna indiana o una delle mogli di Barbablù; ma Dora era diventata preziosa per lui come non lo era più stata dopo il primo anno di matrimonio. Ora sapeva di averla sottovalutata e sperava di avere ancora molti anni davanti a sé per dimostrarle quanto l'apprezzasse. «Non ti proibirò mai di fare quello che desideri» mormorò. Nicky Weaver li raggiunse nell'ex palestra e mise in funzione il registratore. «Quello che c'interessa sono le distanze, Dora» le spiegò. «Bisognerebbe riuscire a stabilire per quanto tempo sei rimasta in macchina. Stando alle tue precedenti dichiarazioni, il viaggio è durato circa un'ora. Mi riferisco all'andata, naturalmente.» «Esatto.» «Al ritorno invece ti hanno fatto uscire dalla stanza verso le dieci di sera e sei arrivata a Kingsmarkham, a circa cinquecento metri da casa nostra, verso le dodici e mezzo della notte. Forse anche un po' più tardi, dal momento che sei entrata in casa poco prima dell'una.»
«Sì, al ritorno credo di essere rimasta in macchina circa tre ore. Ne deduco che abbia fatto un lungo giro per arrivare a destinazione. In effetti ho una mia teoria.» Spostò lo sguardo su Nicky Weaver, poi tornò a guardare il marito. «Scusate, immagino che non dovrei averne, ma posso parlarvene lo stesso?» «Certo» rispose Nicky. «Bene» disse Dora, prendendo fiato. «Dunque, all'inizio la cosa non aveva molta importanza per loro. La distanza, intendo. Non sapevano neppure se sarei tornata a casa. Forse pensavano di uccidermi. Non lo escluderei. Ma quando mi hanno riportata indietro sapevano che per prima cosa avrei parlato con Reg e poi con tutti gli altri. Era inevitabile, e il ricordo sarebbe stato ancora ben vivo nella mia mente. Stando così le cose, non potevano far altro che tentare di confondermi le idee, inducendomi a credere che il tragitto fosse più lungo di quanto era in realtà.» «Mi sembra un'ipotesi accettabile» convenne Wexford. «Ma siamo proprio sicuri che non ti abbiano imbrogliata anche all'andata? Hai detto che potrebbero averti portata ovunque in un raggio di cento chilometri, ma la distanza poteva anche essere inferiore?» «Presumo di sì.» «È possibile che fossero cinquanta chilometri, trenta, venti?» Dora si coprì la bocca con una mano. Sembrava quasi che l'idea la spaventasse. «Vuoi dire che potrebbero avermi portata avanti e indietro ripetendo sempre lo stesso tragitto? Per esempio dalla vecchia circonvallazione fino al rondò, per poi tornare indietro verso Myringham e da lì di nuovo sulla circonvallazione?» Wexford le sorrise. «Sì, è possibile.» «Non ci avevo pensato. Forse hai ragione, sai? Non me ne sarei accorta comunque, non avendo la possibilità di guardarmi attorno. In effetti ricordo di aver sentito l'auto svoltare diverse volte e a un certo momento ho avuto anche l'impressione di girare in tondo. Sai, la prima volta non te l'ho detto perché non mi sembrava importante. Sì, sono sicura che era una rotonda.» Meno di un'ora dopo Burden tornò dal tribunale con un sorriso compiaciuto. Si erano sbrigati in fretta. Stanley Trotter era stato rinviato a giudizio e riportato in gabbia. L'ispettore trovò Wexford nell'ex palestra, intento a parlare con Nicky Weaver. «Allora come la mettiamo? La facciamo venire qui? Brixton è fuori dalla
nostra giurisdizione, ma non credo che i colleghi della Polizia Metropolitana avranno qualcosa da obiettare. Sarei curioso di sapere se ha mai vissuto da queste parti, se conosce la zona.» «Di chi state parlando?» s'informò Burden. «Di quella tizia che si chiama Frenchie Collins. Mi chiedo se conosca qualcuno tra gli amici degli alberi, il Re del bosco per esempio.» «Perché vuoi saperlo?» «Perché siamo partiti dal presupposto che gli ostaggi si trovassero in un raggio di cento chilometri, ma ora comincio a pensare che abbiamo esagerato. La casa che cerchiamo non è a Londra, né nel Kent e nemmeno lungo la costa meridionale. Sono qui, molto vicino a noi, in un raggio che probabilmente non supera la decina di chilometri.» «Non sono che congetture.» «Ne sei proprio sicuro, Mike? Il latte di soia non costituisce una prova, ma è un buon indizio. Non è detto che sia stato acquistato al bar di Framhrust, ma non è neppure da escludere. Ryan Barker ha fatto la sua seconda telefonata dal Brigadier e, anche se questo non è determinante, ci fornisce un'altra indicazione che forse vale la pena di non trascurare.» Wexford si sedette. «A chi potrebbe dare tanto fastidio la tangenziale?» riprese dopo una breve esitazione. «Agli ambientalisti certo, ai dimostranti che fanno della protesta una ragione di vita, e ai verdi che tentano di ostacolare chiunque minacci di distruggere l'Inghilterra. Ma oltre a questi c'è sicuramente qualcuno, forse anche più d'uno, che si sentirebbe danneggiato personalmente dalla realizzazione della nuova strada.» «Danneggiato dal punto di vista economico?» domandò Nicky Weaver. «Certo, ma non solo. Penso più semplicemente alla gente comune che teme la distruzione della campagna. Proviamo a pensare a chi, affacciandosi alla finestra di casa, si trovasse davanti agli occhi quella bruttura; oppure, passeggiando in giardino, si trovasse investito dal frastuono delle auto. Non sarebbe forse colpito più di tanti manifestanti che protestano senza fare distinzioni tra una centrale nucleare nel Cumbria e una sopraelevata nel Dorset? Sono persone comuni, non organizzate per una protesta in grande stile, ma disperate, risolute a evitare quello che considerano uno scempio. A mali estremi, estremi rimedi, come si suol dire. Alcuni di loro, forse tutti, vivono in case di proprietà, il cui panorama e la cui tranquillità sono seriamente minacciati dal progetto della nuova strada. Forse una di loro conosce per caso un esperto in questo genere di cose e così cominciano a organizzarsi, a studiare un piano d'azione.»
«Come si sono conosciuti?» «Magari tramite il Kabal, o quel nuovo teatro, il Weir Theatre, dove tra parentesi vogliono andare domani sera le nostre mogli. Oppure s'incontrano a una manifestazione. Potrebbe essere successo in luglio, in occasione della marcia di protesta.» «Uno del gruppo possiede una casa grande che potrebbe essere adatta allo scopo, probabilmente una bella casa di campagna. Questo è il punto: quando ci sarà la strada, non sarà più così bella. In uno degli edifici annessi c'è una stanza, non una vera e propria cantina ma appena sotto il livello del terreno, dove un tempo usavano fare il formaggio e lasciarlo a stagionare. Basta aggiungere uno stanzino da bagno e chiudere le finestre con le sbarre. Il gruppo è composto da cinque o sei persone, quanto basta per darsi il cambio nel badare agli ostaggi. A parte questo, non c'è altro da fare. Non occorrono grandi preparativi.» Trovare i muratori è tutt'altro che facile. Con le ditte grandi è diverso, sia perché si fanno pubblicità sia perché i numeri telefonici figurano nell'elenco. Quanto agli altri, quell'esercito di persone che lavorano in nero, che oggi ci sono e domani non ci sono più, vengono reclutati con il passaparola perché sono in gamba o particolarmente onesti. È questo l'artigiano che ha costruito il bagno che sarebbe servito agli ostaggi. Di sicuro i rapitori non si erano rivolti alle grandi imprese di High Street. Un bel giorno qualcuno aveva telefonato a uno di questi muratori per chiedere un preventivo, o magari per commissionare direttamente il lavoro. L'importante era fare in fretta. Il costo passava in secondo piano. Tutto sommato, pensò Wexford, era abbastanza strano che avessero avvertito la necessità di avere un bagno. La cosa suggeriva molte supposizioni. «Dopotutto sono dei terroristi, Mike» disse a Burden. «Tanto vale chiamarli con il loro nome. Il mio dizionario definisce il terrorismo come un metodo di lotta organizzata basato sulla violenza e sull'intimidazione a fini politici. Soffermiamoci ora su alcuni esempi che abbiamo conosciuto. In quasi tutti i paesi del mondo i terroristi non si preoccupano affatto dell'igiene e delle esigenze fisiologiche degli ostaggi. Un secchio in un angolo basta e avanza. I rapitori invece si sono presi la briga di far costruire un bagno con tanto di lavandino, gabinetto e acqua corrente. Già da questo si può dedurre che appartengono al ceto medio. Sei d'accordo?» Burden non era particolarmente interessato al discorso. Non amava a-
scoltare le disquisizioni di Wexford su temi sociali e psicologici. A suo modo di vedere non servivano a nulla, se non a distrarre da problemi più concreti e immediati. Aveva già sguinzagliato Hennessy, Fancourt e Lowry perché setacciassero la zona di Kingsmarkham, Stowerton e Pomfret alla ricerca di muratori. Per quelli che figuravano nell'elenco telefonico non c'erano difficoltà, ma gli altri erano difficili da localizzare. «Sai che ti dico?» mormorò. «Secondo me si sono arrangiati da soli. Uno di loro potrebbe avere imparato a fare qualche lavoretto d'idraulica e avere acquistato l'occorrente al Fai-da-te sulla circonvallazione.» Wexford s'illuminò in volto. «Sarà bene mandare qualcuno a chiedere se hanno un cliente fisso che abbia acquistato un gabinetto, un lavandino, i tubi e tutto l'occorrente all'incirca, diciamo, in giugno.» «Reg» mormorò Burden, frenando il suo entusiasmo. Wexford lo guardò senza parlare. «Quello stanzino potrebbe essere stato costruito dieci anni fa, potrebbe addirittura essere nato insieme con la casa.» «Dora ha detto che era nuovo.» «Non lo metto in dubbio, ma volevo semplicemente farti notare che non è detto che sia stato costruito in questi ultimi mesi, così come non sta scritto da nessuna parte che il latte di soia è stato acquistato a Framhurst e che quella maledetta farfalla si trovi soltanto nel Wiltshire. Sherlock Holmes lavorava in questo modo, con grandi balzi di fantasia, ma noi non possiamo permettercelo.» «Dev'essere una casa nei dintorni» insistette Wexford, imperterrito. «Una casa dalle cui finestre si vedrebbe la tangenziale, o la cui stessa esistenza è minacciata dal progetto della nuova strada.» «Ti accompagno fino al teatro» disse alla moglie. «Mi rendo conto di essere ridicolo, ma non voglio che tu vada da sola. Non ancora, perlomeno. Jenny può fare come vuole, ma io ti accompagno.» «Non hai tempo, Reg» replicò Dora, nella speranza di dissuaderlo senza dirlo apertamente. «Sì, non ti preoccupare.» Verso la metà del sabato pomeriggio, quando la maggior parte dei muratori di Kingsmarkham e di Stowerton erano stati eliminati dalla lista iniziale dei nomi, Nicky Weaver trovò una pista abbastanza promettente. La A. and J. Murray Sisters di Pomfret, un'impresa al femminile, avendo due donne come titolari, era stata interpellata per realizzare un piccolo bagno
in una fattoria di Pomfret Monachorum. I lavori erano stati eseguiti nel mese di giugno. Ann Murray, specializzata in lavori di elettricità nonché, delle due, la sorella maggiore, disse a Nicky che erano state ben felici di accettare il lavoro. Benché la crisi dell'edilizia fosse acqua passata, restava il problema di convincere la gente che le donne possono essere ottimi muratori esattamente come gli uomini, che la loro impresa era ben qualificata e i prezzi bassi. Gli Holgate, che abitavano a Paddocks, in una fattoria ristrutturata sulla Cambery Ashes Road nei pressi di Tancred, probabilmente le avevano interpellate perché anche Gillian Holgate svolgeva un'attività generalmente riservata agli uomini. Infatti faceva il meccanico. Il lavoro consisteva nel ricavare un piccolo bagno da uno sgabuzzino, un tempo adibito a dispensa, che si trovava in un villino adiacente alla costruzione principale. Il villino, composto da un locale al piano di sopra e da un altro locale con cucina al piano terra, serviva alla figlia degli Holgate, che voleva andarci ad abitare. Le sorelle Murray avevano iniziato i lavori il 10 giugno e li avevano completati il 15. L'impianto idraulico era stato eseguito da Maureen Sheridan, mentre della parte elettrica e della tinteggiatura delle pareti si era occupata la stessa Ann Murray. Il periodo era quello giusto, come pure la località. O almeno così sembrava. Wexford volle andare a vedere di persona. Portò con sé Nicky e Damon Slesar. Quando furono davanti al cancello di Paddocks, scese e si soffermò qualche istante ad ammirare il panorama. Era difficile stabilire se da quel punto si sarebbe vista la tangenziale. I boschi di Tancred che si estendevano fino al fiume avrebbero certamente attutito i rumori del traffico. Forse la strada sarebbe stata visibile per un breve tratto come una strisciolina bianca tra il verde scuro degli alberi e quello più chiaro della collina. Aperto il cancello, Slesar imboccò il viale asfaltato che portava alla fattoria. La facciata era rivestita di legno rosso, il tetto basso con le tegole dello stesso colore. Vicino al muro c'erano due gatti. Uno dormiva e l'altro, con gli occhi verdi spalancati, sdraiato sul dorso, si crogiolava al sole. Uno era un siamese, l'altro un soriano. Poco più avanti, il villino descritto da Ann Murray non era ancora stato terminato. Una donna con una tuta macchiata di vernice, in piedi su una scaletta, stava tinteggiando il muro con un rullo. Wexford e Nicky scesero dall'auto e la donna, alta e snella, sulla quarantina, si avvicinò con una certa diffidenza. «La signora Holgate?»
Annuì. «Siamo funzionari di polizia» la informò Slesar. La notizia la mise in agitazione. «Che cosa c'è? È successo qualcosa?» «No, niente, signora Holgate. Niente di cui debba preoccuparsi.» In effetti, nonostante la presenza dei gatti, sembrava proprio non ne avesse alcun motivo. Già dall'esterno appariva evidente che il villino era troppo piccolo per avere un seminterrato e che la stanza non poteva misurare sei metri per quattro. Comunque tanto valeva dare un'occhiata. Chiesero il permesso alla proprietaria. Riprendendosi dallo shock iniziale, Gillian Holgate domandò se poteva sapere di cosa si trattava. Nicky le rispose che, stando alle informazioni ricevute, nel villino c'era un piccolo vano che tre mesi prima era stato trasformato in stanza da bagno. «Abbiamo chiesto l'autorizzazione per farlo» replicò la signora Holgate. «Posso assicurarle che abbiamo le carte in regola.» Wexford trovava comica l'idea di essere stato scambiato per un funzionario della commissione edilizia. Comunque la proprietaria non chiese altre delucidazioni e li fece entrare nel villino. Visibilmente ci viveva qualcuno, anche se in quel momento il villino era vuoto. La stanza al pianterreno, arredata e abitata da un piacevole disordine, misurava al massimo tre metri per quattro. Wexford era stato un po' scettico fin dal primo momento, appena aveva saputo che nel bagno c'era la doccia, poiché Dora gli aveva detto che lo stanzino conteneva soltanto un lavabo e il gabinetto. Certo, non era da escludere che la doccia fosse stata eliminata o murata prima dell'arrivo degli ostaggi, ma sembrava poco probabile. Ora sapevano per certo che anche questa pista era un vicolo cieco. Il bagno costruito dalle sorelle Murray era grande, con le pareti piastrellate e il vano doccia spazioso. La finestra aveva il vetro smerigliato e le tendine. Nella stanza principale c'era una grande finestra da cui si potevano ammirare i boschi di Tancred. «State cercando gli ostaggi» mormorò la signora Holgate, soprappensiero. «Quelli del sequestro di Kingsmarkham.» Non confermarono né negarono. Wexford si limitò a fare un cenno con la testa che poteva essere interpretato in vari modi. Tornato all'aperto, fu quasi investito da una giovane donna uscita di corsa dall'edificio principale. «È lei l'ispettore capo Wexford?» gli domandò.
«Sì.» «C'è una telefonata per lei.» «Per me? Ne è sicura?» Strano, aveva con sé il cellulare. Chi poteva sapere che si trovava lì? Nessuno. Seguì la ragazza dentro la casa. Il telefono era su un tavolino dell'anticamera, con la cornetta staccata. L'afferrò. «Wexford» disse. «Qui è il Sacro Globo.» «E precisamente Ryan Barker» disse Wexford. «La nostra richiesta non ha avuto nessun riscontro. Non avete fatto ciò che vi avevamo ordinato. Se nel corso del notiziario di questa sera non annunceranno che si procederà alla revisione del progetto per la realizzazione della tangenziale di Kingsmarkham, la signora Struther morirà.» Qualcuno gli aveva scritto ciò che doveva dire. Si capiva che stava leggendo. La voce era stridula, innaturale. Wexford maledisse mentalmente quei farabutti che non avevano esitato a strumentalizzarlo. «Cosa intendi esattamente per "notiziario di questa sera"?» domandò. «Aspetti un momento, prego.» Lo sentì confabulare con qualcuno. «Intendo stasera entro le diciannove. In caso contrario, la signora Struther morirà e stanotte porteremo il suo corpo a Kingsmarkham.» «Ryan, aspetta. Resta dove sei. Ti trovi al Brigadier, sulla vecchia circonvallazione?» Nessuna risposta. Lo sentì soltanto trattenere il respiro per un attimo. «Ciò che chiedi è impossibile» continuò Wexford. «Lo sapete benissimo.» «Deve fare in modo che diventi possibile» replicò Ryan in tono gelido. «Informi la stampa e il governo. Faccia presente che una donna è condannata a morire. Siamo pronti a eliminarla.» «Siamo del Sacro Globo e salveremo il mondo» concluse, ripetendo pappagallescamente le parole che gli avevano suggerito. 25 Dopo aver telefonato al capo della polizia per riferirgli l'ultimo messaggio del Sacro Globo, Wexford lasciò la casa degli Holgate e si fermò lungo la strada per guardare la valle attraverso il binocolo.
Da qualche parte, in una casa, in una grande casa tra quelle colline e quei boschi... Ce n'erano centinaia, e se non avessero individuato quella giusta nelle quattro ore successive, una donna sarebbe morta. La seconda. Solo che stavolta sarebbe stato omicidio premeditato. Sarebbe accaduto di sicuro perché il governo mai e poi mai, in nessuna circostanza, né in quella né in altre simili e nonostante qualsiasi tipo di minaccia, avrebbe annunciato che intendeva sospendere la realizzazione della tangenziale. Perciò sarebbe accaduto, a meno che entro quattro ore non avesse scoperto in quale casa, fra le tante, erano tenuti prigionieri gli ostaggi. «Non una parola ai media» gli raccomandò Montague Ryder quando Wexford entrò in ufficio alla Centrale. «Dobbiamo tenerli all'oscuro di tutto finché sarà possibile.» "Finché sarà possibile" aveva un suono sinistro. In pratica significava "finché non sarà rinvenuto il corpo di Kitty Struther". «So che non sono lontani da qui, signore» disse. Guardò la carta appesa al muro. Era l'ingrandimento di un foglio topografico militare relativo alla parte centrale della zona del Mid-Sussex. Ryder confermò con un cenno del capo e Wexford tracciò con il dito indice un ellisse che comprendeva Kingsmarkham, Stowerton, Pomfret, Sewingbury e i villaggi di Framhurst, Savesbury, Stringfield, Cambery Ashes e Pomfret Monachorum. Tutti i paesi a sud della città erano da escludere perché nessuno di essi sarebbe stato danneggiato dalla tangenziale. Non c'erano case da cui potesse essere visibile. «È questa la discriminante?» «È un criterio possibile, ma forse il più importante» rispose Wexford. Chissà se quella poveretta sapeva che volevano ucciderla. Non lo domandò a Ryder perché non avrebbe potuto fare altro che congetture, proprio come lui. Kitty Struther era la più paurosa degli ostaggi, la più vulnerabile, la meno equilibrata, quella con meno risorse interiori. L'avevano lasciata con il marito, oppure avevano separato anche loro due? Per la prima volta da quando aveva iniziato a occuparsi del caso, non aveva niente da fare. Per dieci giorni avevano lavorato sodo, quasi al limite delle loro possibilità, e l'unico risultato ottenuto era di avere ridotto l'area delle ricerche a circa centotrenta chilometri quadrati. Come cercare il classico ago nel pagliaio, e l'unica alternativa era aspettare di trovare un altro sacco a pelo con dentro un altro cadavere. «Terremo sotto sorveglianza la Contemporary Cars» disse a Burden. «Dubito che torneranno per la seconda volta nello stesso posto, ma non
possiamo correre rischi.» «Altre ipotesi sono la stazione di polizia, la casa della signora Cox, quella della signora Peabody, gli uffici della Concreation, il Brigadier.» «Oltre a casa mia e casa tua.» Ed era appunto lì che si trovavano, in casa di Burden, seduti nel suo soggiorno. O meglio, Burden era seduto, mentre Wexford camminava nervosamente per la stanza. «Gli uffici del Kingsmarkham Courier» aggiunse. «L'inizio della tangenziale a Stowerton e l'estremità opposta a Pomfret.» «Mi hai detto, però, che il ragazzo ha parlato di Kingsmarkham.» «Infatti. Non possiamo tenere sotto osservazione tutti questi posti. Non abbiamo uomini a sufficienza.» «Nessuno ha pensato di usare un elicottero? Per scoprire dove sono, intendo. All'interno dei centotrenta chilometri quadrati.» «Cosa speri di riuscire a vedere dall'alto di un elicottero, Mike? Una casa con degli edifici aggiunti al corpo principale? Ce ne sono alcune centinaia. Puoi star certo che gli ostaggi non sono di sicuro sul tetto, magari a sventolare una bandiera per attirare la nostra attenzione.» Burden si strinse nelle spalle. «Quelli del Sacro Globo guarderanno il telegiornale della Bbc, che il sabato dovrebbe andare in onda verso le cinque, cinque e un quarto. Se non sbaglio quello dalla Itn inizia mezz'ora dopo. Se non sarà annunciata la sospensione dei lavori, cosa che naturalmente non può verificarsi, uccideranno Kitty Struther. È questo che faranno?» «Non so se è il caso di usare il futuro, Mike» rispose Wexford in tono amaro. «Mancano venti minuti alle diciotto. Potrebbero ucciderla in questo momento, e noi non possiamo muovere un dito per impedirlo.» A monte di Watersmeet, dove il torrente che scorre sotto High Street a Kingsmarkham s'immette nel fiume più grande, il Brede attraversa prati sconfinati e si snoda tra boschetti di ontani e gruppi di salici. C'è un punto dove le pietre del fiume sono larghe e regolari abbastanza da formare una sorta di sbarramento, oltre il quale l'acqua impetuosa zampilla scrosciando prima di gettarsi nel laghetto sottostante. Quel punto si chiama Stringfield Weir, su cui domina Stringfield Mill, il mulino costruito molti anni addietro, quando il terreno circostante era arabile e il mulino serviva per macinare il grano. La ruota del mulino era sparita da un pezzo. Le pale non c'erano mai state. La casa, rivestita di legno bianco e mattoni rossi, bella e imponente, una
decina d'anni prima era stata trasformata in teatro, dove si avvicendavano compagnie di repertorio. Il viottolo che la collegava a Pomfret Monachorum era ragionevolmente largo e praticabile. Una volta a destinazione, chi si recava a teatro aveva a disposizione tutte le comodità che sembrano indispensabili ai fini della cultura: un parcheggio nascosto nel folto degli alberi, un ristorante con vista sul fiume, lo splendido panorama di Stringfield Bridge, con i boschi, i prati e le colline sullo sfondo, e naturalmente la sala del teatro, grande abbastanza da contenere quattrocento persone. Uno degli inconvenienti era costituito dal gran numero d'insetti che, attratti dalla luce, infastidivano gli attori in scena: falene, crisope, tipule. Si diceva che una volta un pipistrello si fosse impigliato nei capelli dell'attrice che interpretava il ruolo di Giulietta. Wexford, che non ci era mai andato, presumeva ci fossero le zanzare e aveva consigliato a Dora e a Jenny di evitare di uscire sulla terrazza e di restare nella sala a bere il consueto bicchiere di vino in attesa che iniziasse lo spettacolo. «Vengo io a prendervi» disse. «Pensate che sarà finito alle undici meno un quarto?» «Possiamo chiamare un taxi, Reg» replicò Jenny. «Avrei dovuto venire con la mia auto. Non so perché non l'ho presa. Non abbiamo nessuna intenzione di sbronzarci.» «Be', se vi va di bere qualcosa, ora potete farlo. Visto che vengo a prendervi, non avete di che preoccuparvi.» Extinction, con Christine Colville e Richard Paton, durava tre ore, esclusi gli intervalli. Wexford lo lesse sulla locandina. La commedia, scritta dallo stesso Jeffrey Godwin, assomigliava a una versione moderna della Dodicesima notte, con qualche scopiazzatura dalla Danza di morte di Strindberg. Una compagnia teatrale dal repertorio ambizioso, dunque. «Come sta Sheila?» chiese qualcuno alle sue spalle. Wexford si voltò e si trovò davanti un tizio dall'aria intellettuale con i capelli castani ricci e la barba. «Lei dev'essere Jeffrey Godwin» disse. «Wexford. Ma naturalmente lo sapeva già. Sheila sta bene. Ha avuto una bambina.» «L'ho letto sul giornale» replicò Godwin. «Mi fa piacere. Spero di vedere madre e figlia in un prossimo futuro. Si ferma a vedere la commedia?» Wexford rispose che non poteva trattenersi, oberato di lavoro com'era. Aveva solo accompagnato la moglie e un'amica. Salutato Godwin, uscì e si avviò verso il parcheggio, costeggiando il giardino ancora illuminato dal sole che profumava di rose.
Tornato a Kingsmarkham, andò alla stazione di polizia. Nell'ex palestra trovò Damon Slesar con Karen Malahyde e tre impiegate sedute davanti ai rispettivi computer. Disse ai due sergenti che ormai l'ora X era passata, erano già le sette e mezzo. Tra un paio d'ore il Sacro Globo avrebbe restituito il corpo di Kitty Struther. «Potrebbe essere solo una minaccia» osservò Damon. Karen lo guardò, scuotendo la testa. «Non credo. Perché dovrebbero iniziare a essere civili e misericordiosi proprio adesso? Al contrario, la disperazione li avrà resi ancora più crudeli.» Curiosa la scelta dell'aggettivo "misericordioso", pensò Wexford. Le domandò quali incarichi avessero quella sera lei e Slesar. «Io devo andare alla Contemporary Cars, signore, e Damon a casa della signora Peabody.» Era un peccato che non potessero stare insieme, disse a se stesso. Chiaramente ne sarebbero stati ben felici. Purtroppo non aveva uomini a sufficienza. Aveva bisogno di tutti, compreso se stesso, per tenere sotto sorveglianza tutti i punti critici. Soltanto così aveva qualche speranza di riuscire a mettere le mani sul Sacro Globo. Ma quant'era alto il prezzo da pagare per poterli acciuffare! La vita di Kitty Struther. Già immaginava i titoli sui giornali del lunedì mattina, come pure la notizia che avrebbe dato l'indomani la televisione. Si sforzò di scacciare questo pensiero dalla mente. Tormentarsi era inutile e improduttivo. Mentre i due sergenti uscivano, vide Slesar prendere la mano di Karen. Seduto davanti alla finestra, Wexford guardava la stazione di polizia con i due parcheggi, uno davanti e l'altro dietro, i cui accessi erano entrambi visibili dalla sua postazione. Se fossero riusciti a beccare il tizio, o la tizia del Sacro Globo, e avessero dovuto seguirlo per arrivare al resto del gruppo, come avrebbero dovuto organizzarsi? Pensò alla pistola che Faccia-di-gomma aveva con sé quando aveva rapito Dora. Era ancora armato quando aveva portato da mangiare agli ostaggi e in quell'occasione aveva sparato, forse soltanto a scopo intimidatorio. Ma non poteva esserne certo. Dato che soltanto lui aveva mostrato una pistola, forse ne possedevano una sola. Forse Faccia-di-gomma era l'unico che sapesse usarla. Ma poteva anche darsi che l'arma fosse finta, un semplice giocattolo. Se avessero ucciso Kitty Struther, pensò tetro, l'avrebbero scoperto una volta per tutte. A quel punto, quando fosse venuto qualcuno a restituire il corpo della poveretta, anche a lui sarebbe servita una pistola?
Automezzi attrezzati per rispondere al fuoco pattugliavano le strade sedici ore al giorno. Nel Mid-Sussex ne avevano due. Tranne che in circostanze particolari, l'autorizzazione per l'impiego di uomini armati doveva essere concessa da un funzionario che avesse come minimo il grado di sovrintendente. Quella poteva sicuramente essere considerata una circostanza particolare, ma in nessuna operazione gli uomini armati potevano agire in concomitanza con quelli disarmati. Se l'azione era molto pericolosa, tutti dovevano essere armati e organizzati in squadre composte da un minimo di quattro uomini, o più probabilmente otto. Wexford e la sua squadra si sarebbero trovati a cento metri di distanza e avrebbero guardato attraverso il binocolo. Il prezzo da pagare per tutto questo era la vita di Kitty Struther. Alle venti e trenta lasciò il suo posto d'osservazione per farsi sostituire da Lynn Fancourt e ne approfittò per recarsi a Pomfret, da Clare Cox. Ted Hennessy era fuori, nella sua auto ferma di fronte alla casa. Wexford l'ignorò, si diresse alla porta e bussò. Venne ad aprirgli dopo che ebbe bussato una seconda volta e suonato il campanello. Hassy Masood era tornato a Londra con la sua nuova famiglia. In fondo cosa gliene importava di ciò che stava accadendo, ora che la figlia era morta? Clare era sola. La disgrazia l'aveva invecchiata di vent'anni e ora sembrava una pazza, con il volto incavato e grigiastro e i capelli spettinati del colore e della consistenza della paglia. Gli occhi infossati lo fissavano come se non lo vedessero. Non poteva dirle di essere venuto a parlarle degli altri due ostaggi e di avere ragione di ritenere che il cadavere di una donna sarebbe stato portato lì nelle prossime ore. «Sono venuto a vedere come sta» mentì. Clare si scansò per lasciarlo entrare. «Come può vedere» rispose. «Non molto bene.» Ci sono situazioni in cui non si trova nulla da dire. Wexford si sedette e Clare fece altrettanto. «Non faccio niente tutto il giorno» disse. «Sono da sola e non faccio niente. I vicini vanno a farmi la spesa.» «Non dipinge più?» s'informò, pensando a ciò che aveva sentito dire, che il lavoro aiuta a superare i dispiaceri. «Non posso» rispose con un mezzo sorriso. «Non potrò dipingere mai più.» Le guance si rigarono di lacrime. «Quando penso, non riesco a pensare ad altro che a lei, chiusa in quella stanzetta, così disperata da arrivare
al punto di gettarsi dalla finestra e uccidersi.» Alzò una mano e si sfregò gli occhi. «L'altra donna rimasta prigioniera dei rapitori... La uccideranno, vero?» Wexford ebbe un brivido. Sembrava che quella donna gli leggesse nel pensiero. «Crede che accetterebbero di prendere me al suo posto? Se glielo facessi sapere... Se i giornali pubblicassero la notizia che propongo uno scambio, crede che mi prenderebbero? Per me sarebbe un sollievo se mi uccidessero.» Non era la prima volta che Wexford aveva di fronte una persona distrutta. Aveva visto la disperazione nelle sue varie manifestazioni, e questa era un'altra forma. Suggerire a quella donna di rivolgersi a uno psicanalista, di farsi aiutare dagli specialisti, sarebbe stato un insulto. Non poté far altro che starla a guardare e dirle: «Mi dispiace, mi dispiace terribilmente. Mi rendo conto di quanto sia dolorosa la sua perdita.» Mentre usciva sentì suonare il cellulare. Seduto in macchina, rimase ad ascoltare Burden che gli parlava dell'auto entrata nel parcheggio della Concreation con due uomini a bordo. Scesi dall'auto, avevano aperto il portabagagli ed estratto un sacco di plastica nera, chiuso alle due estremità e grande all'incirca come un corpo umano. «Ho pensato che fosse quello, Reg. L'unica cosa strana era che il sacco dava l'impressione di non essere pesante, visto che uno dei due riusciva a sollevarlo da solo. Però lo teneva come si potrebbe tenere un cadavere, o anche una persona viva.» «Cosa conteneva?» «Stavano sgomberando un solaio» rispose Burden. «Dentro il sacco c'erano le solite cose: vecchi giornali e indumenti smessi, molti dei quali riciclabili.» «Allora perché non li hanno portati direttamente alla discarica?» «Avevano una spiegazione anche per questo. Si sono presi una bella strizza, credimi. All'inizio avevano pensato di gettare la roba nei cassonetti della spazzatura (a proposito, quei due sono cognati) ma siccome hanno dei vicini fissati con la raccolta differenziata, temevano di essere visti mentre si sbarazzavano dei vestiti e della cartaccia. La discarica con i bidoni per i rifiuti riciclabili si trova a cinque chilometri da dove abitano, mentre il cortile della Concreation, dove proprio ieri avevano visto portare dei cassonetti vuoti, è a due minuti da casa loro.» Wexford rimase ancora un po', ma siccome lì vicino c'era l'auto di Hennessy, decise di andarsene per non dare nell'occhio. Tornato a Kingsmarkham, mentre percorreva High Street e passava davanti ai negozi, gli fece
uno strano effetto vedere tutte quelle luci e neanche un cane in giro, nessuno che buttasse un occhio sulle vetrine. Di auto ferme ce n'erano parecchie. I proprietari erano all'Olive and Dove, al Green Dragon o allo York Wine Bar, oppure allo Scarlet Angel, l'unico night-club di Kingsmarkham che apriva alle dieci di sera. Il cielo era scuro e trapunto di stelle. La luna non c'era, oppure non si era ancora levata. Si sforzò di ricordare se l'aveva vista la sera precedente, e se era piena oppure uno spicchio di luna. Il cellulare squillò di nuovo mentre parcheggiava in Queen Street. Stavolta era Barry Vine, dalla stazione. Uno dei taxi della Contemporary Cars aveva appena lasciato un cliente davanti alla stazione. L'uomo aveva una valigia e un pacco lungo, così pesante che il tassista non riusciva a prenderlo dal portabagagli. Si erano messi alla ricerca di un facchino, inutilmente perché alla stazione di Kingsmarkham se n'era persa la traccia da una ventina d'anni. «Dopodiché è scomparso» disse Vine. «O almeno così sembrava. C'era il sacco abbandonato per terra, il taxi se n'era andato e il tizio era sparito dentro la stazione. Stavo guardando nel sacco quando è tornato.» «Cosa conteneva?» domandò per la seconda volta in quella sera. «Bastoni da golf.» «Immagino che non li abbia lasciati lì.» «Qualcuno è riuscito a trovargli un carrello al deposito bagagli.» Wexford consultò l'orologio. Le nove. Sarebbe andato a Stowerton, in Rhombus Road, per poi passare da Savesbury House mentre andava al Weir Theatre. Forse non sarebbe entrato in nessuna delle due case, limitandosi a dare un'occhiata in giro e a controllare Dio solo sapeva cosa. In ogni modo il Sacro Globo aveva detto Kingsmarkham, non Stowerton o Framhurst. Nicky Weaver doveva avere avuto la stessa idea. La vide in macchina, ferma davanti a una casa poco distante da quella della signora Peabody. Stavolta Wexford interruppe la sorveglianza. Si avvicinò all'auto, batté un dito sul finestrino e s'infilò dentro. La giovane donna girò la testa verso di lui e nell'attimo in cui si accendeva la luce nell'abitacolo, Wexford fece in tempo a vedere il viso grazioso, gli occhi vivaci dallo sguardo intelligente e i capelli neri pettinati alla paggio, come si usava dire una volta. Notò anche l'aria stanca e il pallore tipico delle donne che fanno un lavoro di una certa responsabilità, ma sono anche mogli e madri. «È successo qualcosa?» domandò.
«È arrivato un tizio, verso le sette. Credo che sia il compagno di Audrey Barker. L'ha abbracciata prima di entrare in casa ed è ancora dentro. La signora Peabody è uscita, probabilmente solo per lasciarli soli. Dev'essere andata al negozio all'angolo a bere un bicchiere di latte.» «È quella specie di piccolo supermercato che sta sotto l'appartamento di Trotter?» «Com'è piccolo il mondo, vero?» «Non lo porteranno qui il corpo di Kitty Struther. Faranno qualcosa di più imprevedibile.» Mentre proseguiva verso Framhurst, passò davanti al posto dove sarebbe dovuta terminare la tangenziale. Se si fosse rinunciato a costruirla e fossero rimasti i mucchi di terra ammassati dalla scavatrice, i ragazzi delle generazioni future li avrebbero scambiati per le tombe di qualche eroe sassone. In realtà la strada, nonostante le proteste degli ambientalisti e tutto il resto, prima o poi sarebbe stata realizzata. Era solo questione di tempo. Framhurst era deserta come Kingsmarkham. C'erano soltanto tre ragazzi con il motorino, fermi a fumare vicino alla tettoia della fermata degli autobus. La luce al neon nella vetrina del macellaio illuminava soltanto vassoi vuoti e rametti di prezzemolo di plastica. Il bar era chiuso e il tendone arrotolato. Al buio non si vedeva la valle e neppure il fiume, di cui s'intuiva la presenza solo perché vi si riflettevano le stelle. In lontananza si scorgevano le luci del Weir Theatre, simile a una torcia nella notte buia. L'agente Pemberton era fermo con la sua auto vicino al cancello di Savesbury House. «Non ci sono altre entrate, signore. Ho controllato. Ma il parco è grande e non c'è recinzione, solo cespugli e siepi, e chiunque potrebbe introdursi nella proprietà passando per i campi.» «Resta pure dove sei, ma non credo proprio che verranno qui. È troppo lontano da Kingsmarkham.» Le dieci e un quarto. La commedia non era ancora finita, ma sarebbe andato ugualmente a Stringfield Mill, prendendosela con calma. Come doveva essere piacevole e rilassante non essere dotato di una fervida immaginazione! Se avesse potuto scegliere, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Purtroppo la fantasia non è una cosa a cui si possa rinunciare, così come non si può rinunciare all'amore o alla paura. Era appunto questo pensiero ad angosciarlo, l'idea del terrore di cui doveva essere preda quella poveretta. Per tutta la vita aveva avuto qualcuno cui appoggiarsi, qualcuno disposto ad amarla, confortarla, onorarla e pro-
teggerla. Era quella la formula pronunciata dal prete durante i matrimoni? Kitty Struther aveva avuto tutto questo, prima dai genitori, poi dal marito e infine anche dal figlio. Non aveva mai vissuto sola, né avuto bisogno di guadagnarsi il pane, non aveva mai provato non soltanto la miseria, ma neppure a vivere in ristrettezze. Probabilmente non aveva mai neanche viaggiato da sola. Per dieci giorni aveva vissuto situazioni completamente diverse da quelle cui era abituata. Aveva dormito in un letto scomodo, come forse non ne aveva mai neppure visti, aveva sofferto il freddo e la fame, era stata privata di tutte le comodità, non aveva potuto farsi il bagno né cambiarsi d'abito. E ora l'avevano allontanata dal marito e volevano ucciderla. La fantasia era una maledizione per i poliziotti. Arrivato davanti al teatro, infilò l'auto nel parcheggio, scese e s'incamminò verso il fiume. Mancavano ancora dieci minuti prima che calasse il sipario. Siccome nella vita bisogna sempre trovare qualche motivo di consolazione, Wexford si rallegrò al pensiero di non essere stato costretto a stare seduto tre ore per assistere alla commedia. Un cancelletto nel muro dava accesso al giardino. Decise di passare da lì. Oltre a essere una scorciatoia, sarebbe stato più piacevole che camminare in strada. Aperto il chiavistello, spinse il cancelletto. Le luci erano tutte puntate sul teatro e il giardino era avvolto nell'oscurità; ma mentre si voltava a guardare verso sud, vide spuntare finalmente la luna, un perfetto semicerchio arancione. Luna calante. A un tratto gli venne in mente che c'era la luna piena la sera in cui Dora era tornata a casa, otto giorni prima. Di notte la maggior parte dei fiori si chiudono, ma ciò non impediva a Wexford di sentirne il profumo. Quello più intenso lo emanavano le rose. Si chiese se fosse un giardino privato. Di Godwin, forse? Chi andava a teatro presumibilmente non passava di lì. Superata una curva del sentiero, vide appunto Godwin seduto in cima alla scala. Alle sue spalle c'era un muro coperto di rose bianche e rosse e da altri rampicanti i cui fiori si erano chiusi per la notte. Davanti alla scala c'era una portafinestra. «Mi scusi» mormorò Wexford. «Ho usato il suo giardino come scorciatoia. Non avevo pensato che ci fossero delle parti chiuse al pubblico.» Godwin sorrise debolmente e fece un gesto di disappunto. «Questo posto non sarà più così bello, quando ci sarà la tangenziale.» «Passerà da queste parti?» «Il punto più vicino a una distanza di cento metri dall'estremità del giardino. Io sono nato qui... Be' non proprio qui, a Framhurst, e ci sono rimasto
fino all'età di diciott'anni. Ne sono passati dodici da quando sono tornato. Ci sono stati più cambiamenti in questi dodici anni che in quelli precedenti. Non saprei dirle quanti. Troppi, comunque.» «Tutti in peggio?» «Sì, secondo me. Molte cose sono andate perdute, altre sono state aggiunte. Le pompe della benzina, tanto per cominciare. Le strisce bianche e gialle sulle strade, i cartelli con un numero incredibile di informazioni inutili, come per esempio che Framhurst è stata gemellata con una cittadina in Germania e un'altra in Francia, che Sewingbury è la capitale dei fiori del Sussex, che a Savesbury Deeps è accessibile un'area per i picnic. Per non parlare delle case nuove che hanno costruito, del fatto che il Dragon di Kingsmarkham adesso si chiama Tipples, mentre il Grove è stato trasformato in un night-club e si chiama Scarlet Angel...» Wexford confermò con un cenno del capo. Stava per dire qualcosa di cui non era del tutto convinto, qualcosa a proposito del progresso e dell'impossibilità di fermarlo, ma non replicò e rimase a guardare una pianta rampicante che saliva tra le rose fino a circa tre metri da terra. Era una pianta dall'aspetto delicato, con le foglie a punta e i virgulti attorcigliati. Di giorno i fiori dovevano essere grandi e belli, ma a quell'ora erano chiusi, alcuni ripiegati come ombrelli, altri rinsecchiti. «Che cos'è?» domandò. «Quella pianta, intendo.» «Senta» disse Godwin, alzandosi e cambiando di colpo il tono di voce «se sta cercando piante da cui si possa ricavare droga, tanto vale che le risparmi la fatica. Ce ne sono centinaia. I normali papaveri, per esempio. Comunque questa non è canapa indiana, sa? È l'ipomoea rubrocoerulea, una varietà piuttosto difficile da coltivare e anche da riprodurre perché con i semi che si raccolgono si riempie a malapena un portauovo...» «Signor Godwin, la prego. Non sono della Squadra Narcotici. Sto cercando due ostaggi che si trovano da dieci giorni nelle mani dei rapitori, e questa pianta...» S'interruppe, ritenendo opportuno semplificare. «Questa pianta, o perlomeno una come questa, potrebbe trovarsi nel luogo in cui sono tenuti prigionieri.» «Be', qui non sono di certo.» Wexford si guardò intorno. Diede un'occhiata circolare al giardino, alla luna, al muro coperto di fiori. Non c'erano costruzioni aggiunte al corpo principale della casa, e neppure baracche o garage. La luce della luna, stranamente bianca in confronto al color arancione della superficie, ora illuminava in pieno il giardino, rivelandone ogni angolo, ogni particolare. «Lo so
perfettamente» replicò. «Non stia sulle difensive, signor Godwin. Non la sto accusando di nulla. Casomai gradirei la sua collaborazione.» Godwin si placò subito. Il motivo della sua diffidenza era chiaro: evidentemente aveva sperimentato di persona le sostanze stupefacenti ricavate dalle piante del giardino. Forse coltivava davvero la canapa indiana, fumava le capsule della catalpa e masticava funghi magici. L'elenco, come lui stesso aveva ammesso, era interminabile. Comunque non era quello il momento di andare a fondo alla questione. «Mi parli di questo rampicante, se non le dispiace. I fiori sono azzurri?» «Guardi.» Godwin ne staccò uno dal gambo e aprì con un dito la corolla accartocciata, rivelando un azzurro intenso, del colore del cielo. «Bello, vero? Quello selvatico ha i fiori bianchi, mentre un'altra varietà della stessa famiglia è il convolvolo rosa.» «Spunta regolarmente ogni anno?» Wexford si sforzò di ricordare il termine esatto. «È una pianta perenne?» «Io la riproduco con i semi» rispose Godwin, tornando ad assumere un tono gioviale. «Venga in teatro. Le offro qualcosa da bere, mentre aspetta le signore. Sa una cosa? Sarei capace di rapire anch'io un po' di gente, se fossi sicuro che servisse a fermare quella maledetta tangenziale.» Wexford lo seguì su per le scale. Girando intorno alla casa, si lasciarono alle spalle la pallida luce della luna per entrare nella zona illuminata del teatro. Aveva ancora in mano il fiore e la foglia che Godwin gli aveva dato. Si ricordò di averli visti di recente. Ma dove? «Per caso si spostano?» domandò. Il bar era vuoto. Godwin aveva ordinato una birra, mentre Wexford si era accontentato di un'acqua brillante. «Temo di non avere capito la sua domanda.» «È possibile che i fiori sboccino un giorno in un punto e il giorno dopo in un altro?» «Direi proprio di sì, dato che durano un giorno solo. Spesso succede che fioriscano tutti da una parte, creando una macchia di colore, e il giorno dopo si schiudano da un'altra parte, magari più in alto o più in basso. Nelle giornate grigie non sbocciano affatto.» Nelle giornate grigie come quelle appena trascorse... Dove diavolo aveva visto quella pianta di recente? 26
Il cellulare taceva e non c'erano messaggi nella segreteria del telefono di casa. Dopo aver accompagnato a casa Dora e Jenny, e dopo che la moglie si era coricata, addormentandosi all'istante, Wexford contattò a uno a uno gli uomini impegnati nella sorveglianza. La città era tranquilla, forse più delle altre notti; sembrava quasi ci fosse meno traffico del solito. Si erano verificati solo due incidenti: un tentativo di furto in un negozio di Queen Street e un'auto che aveva superato il limite di velocità. Era mezzanotte meno dieci. Quasi cinque ore erano trascorse dal termine ultimo indicato dal Sacro Globo. Wexford si accorse di contare i minuti. Il tempo, era solo una questione di tempo. L'avevano già uccisa? L'avrebbero fatto davvero? Forse in quel preciso istante il corpo era a poche centinaia di metri dalla sua abitazione. Riandò con la mente a un'altra mezzanotte, quella del ritorno di Dora. A svegliarlo era stata la luce della luna sul viso, o forse il calpestio della moglie sulla ghiaia. Pietruzze di ghiaia erano nel sacco a pelo che avvolgeva il cadavere di Roxane Masood. Un particolare da non trascurare. Sugli abiti di Dora c'era la polverina delle ali di una farfalla che si trovava solo nel Wiltshire. C'erano poi quei peli di gatto e quella puzza di acetone, nonché il tatuaggio a forma di farfalla. Aprì la portafinestra e uscì in giardino. A un tratto gli era venuto un orribile sospetto. Quando Dora era tornata a casa, aveva dato per scontato che ad accompagnarla era stato un membro del Sacro Globo. In seguito aveva pensato che probabilmente si sarebbero messi in contatto con lui. E se l'avessero portato proprio lì, il corpo di Kitty Struther? Magari approfittando della loro assenza? Ora la falce della luna, alta nel cielo, navigava argentea in un velo di nuvole che ne offuscava la luce. Wexford si procurò una torcia elettrica e si mise a cercare per tutto il giardino. Con il cuore che batteva all'impazzata aprì la porta del garage e ne illuminò l'interno. Niente, grazie a Dio. Gli restava da controllare la baracca in cui tenevano gli attrezzi da giardino. Si fermò quindici secondi a pensare a cosa vi avrebbe trovato. Trattenendo il respiro, aprì la porta e vide le cose di sempre: la tosaerba, gli utensili, vecchie borse di plastica e altre cianfrusaglie. Non tornava nulla. Qualcosa premeva per condurlo su altre linee di pensiero. Seduto nella sua poltrona al buio, gli si affollavano in mente immagini confuse. Si sforzò di riflettere. La cosa azzurra... Ecco, ora sapeva cos'era e dove si trovava. Gli era balzato all'occhio di colpo, come una rivelazione, su uno sfondo verde e gri-
gio; ma diceva a se stesso che non era possibile, che era impensabile. Andò a prendere l'elenco telefonico di Londra, dalla S alla Z. Composto il numero, non ebbe risposta. Allora chiamò Burden. Mezzanotte era passata da un pezzo, ma Burden non dormiva ancora. Non si era nemmeno coricato. «L'hanno trovata?» domandò, sentendo la voce di Wexford. «No» rispose, sicuro di non sbagliare «e non la troveranno.» «Che intendi dire?» «Te la senti di fare un salto a Londra?» chiese invece di rispondere. «Preferisci adesso o domattina alle sei?» Ci fu una pausa. «Ho davvero la possibilità di scegliere?» «Certo.» «Sono così teso che non riesco a dormire. Preferisco andare adesso.» In passato guidare doveva essere così: strade vuote e profumo di camomilla nell'aria, non puzza di benzina e di gasolio. Per i primi dieci minuti persino l'autostrada era deserta, fino a quando furono sorpassati da una Jaguar che viaggiava superando di trenta chilometri il limite di velocità. Le luci abbaglianti dei fari oscuravano quella più incerta della luna. Alla periferia di Londra videro un gufo appollaiato sui cavi del telefono e a Norbury una volpe attraversò la strada proprio davanti a loro. «Oggi è domenica» disse Wexford «ma devo parlare con Vine e dirgli di contattare qualcuno domattina presto per farsi dare un mandato.» «Devo svoltare verso Balham o vuoi che prosegua per Battersea Bridge?» domandò Burden, seduto al volante. «Come vuoi: l'importante è attraversare il fiume più o meno al centro.» Nessuno dei due conosceva bene Londra, ma alle due del mattino era più facile, anche se il traffico cominciava a essere intenso. Il tragitto dal fiume fino a Kensington e Notting Hill parve interminabile. Burden, che aveva sperato di attraversare il parco, trovò chiuso e dovette imboccare per forza Kensington Church Street. Più avanti li aspettava il caos di Bayswater Road e Edgware Road. «Si vede benissimo che non hai fatto esperienza» osservò Wexford. «Come sarebbe a dire?» «Mi riferisco a quella con cui si preparano i tassisti. Girano per la città in bicicletta, con la piantina in mano, per imparare quali sono le strade a senso unico.» «Io sono un poliziotto» replicò Burden, asciutto. «Non sei affatto genti-
le.» Cinque minuti dopo dovette chiedere a Wexford se si poteva parcheggiare dove c'era la linea gialla. «Sì, dopo le sei e mezzo» rispose l'amico con una sicurezza che non era del tutto autentica. Si trovavano ora in Fitzhardinge Street, una trasversale di Manchester Square. Non c'era in giro nessuno e tutto taceva, come ogni notte nella zona centrale di Londra. In Baker Street, a poca distanza da loro, scorreva un traffico tranquillo, di cui si percepiva appena il rumore. Scesi dall'auto, attraversarono la strada e si avviarono verso l'entrata delle scuderie reali. Vi si accedeva passando sotto un arco della terrazza che si trovava al lato sud di Fitzhardinge Street. La strada era illuminata a giorno, ma nel cortile delle scuderie, dalla parte opposta dell'arco di arenaria marrone, un unico lampione diffondeva una luce giallastra sull'acciottolato. Degli edifici intorno al cortile, alcuni erano costituiti da un unico piano sopra il garage, mentre altri erano case vittoriane con il tetto completamente piatto o a una falda sola. Erano sorti per ospitare i cocchieri delle famiglie agiate di Manchester Square e Seymour Street. Povere case abitate da povera gente, spesso ingentilite dai giardini sulle terrazze, dalle cassette di fiori sui davanzali, da porticati e da porte d'ingresso diverse da quelle originali, acquistate con grande sacrificio per i prezzi proibitivi. «Se vivessi qui» osservò Wexford «a Londra, intendo, non dovresti preoccuparti delle paludi, delle crisalidi e degli habitat delle farfalle. Qui non ce ne sono di sicuro.» «Se è per questo non sono preoccupato» rispose Burden «e comunque mi piace vivere in campagna.» «Sì, lo so. Sei stato bravo a ricordarti l'indirizzo» aggiunse per non sembrare pedante e paternalista. «Non ero sicuro che ci saresti riuscito.» «Il nome di mia madre da nubile era Fitzharding, senza la e finale, naturalmente.» Entrarono nel cortile passando sotto l'arco. Davanti alla casa che cercavano, la numero 4, c'erano due grandi vasi in cui cresceva l'alloro. A lato c'era la porta, con due finestre a saliscendi a destra e altre due al piano di sopra. Le luci erano spente. In tutto il cortile c'era solo una finestra illuminata, in una casa in fondo, sul lato di Seymour Street. Wexford suonò il campanello al numero 4. Benché la casa non fosse suddivisa in appartamenti, c'era un citofono protetto da una griglia. Non si aspettava che qualcuno rispondesse e così fu. Non ottenne risposta nean-
che dopo aver suonato una seconda volta. Bussò alla porta e sbatté ripetutamente il coperchio della cassetta delle lettere per fare rumore. Silenzio, buio, finestre chiuse. Ma Wexford sapeva che la casa non era vuota. Riusciva a percepire la presenza degli occupanti, neppure lui sapeva come; forse per quella forma di istinto che gli animali possiedono ancora, ma gli uomini hanno perduto. Era una sensazione strana, una sorta di tensione che la casa emanava attraverso i muri, ma così forte da fargli venire il batticuore, come se invece di esseri umani là dentro ci fosse stato un mostro in agguato. Anche Burden avvertì quella sensazione. «Sono dentro» mormorò. «La casa non è vuota.» «Forse di sopra, al buio, a sbirciare attraverso le tende.» Wexford suonò di nuovo il campanello, accostando l'orecchio al citofono. Stavolta accadde qualcosa d'inaspettato: qualcuno all'interno alzò il ricevitore, producendo un suono simile a un sospiro o al rumore che fa l'aria quando si apre una porta. Poi più nulla, neanche una parola. Dentro c'era qualcuno con il citofono all'orecchio, qualcuno che però non apriva bocca. «Ispettore capo Wexford del dipartimento di Kingsmarkham e ispettore Burden» disse, pentendosi subito di non avere aggiunto "della Squadra Anticrimine". «Aprite la porta e fateci entrare, prego.» Il ricevitore venne riagganciato prima che terminasse la frase. «Ti ricordi cos'ha detto Dora?» domandò a Burden. «Quando ci ha raccontato del suo tentativo di buttare giù la porta dello stanzino da bagno, ci ha chiesto se avessimo mai provato e noi tutti le abbiamo risposto di sì.» Con un sogghigno Burden suonò di nuovo il campanello e anche stavolta qualcuno alzò il citofono. «Aprite!» intimò. «Altrimenti sfondiamo la porta.» Aveva già fatto un passo indietro per prepararsi a sferrare un calcio, quando la porta si spalancò e davanti a loro apparve un uomo in veste da camera di seta blu e pigiama beige. Alto e magro, aveva i capelli sale e pepe e dall'apertura della vestaglia s'intravedeva il pelo biondastro sul petto. Se non l'avessero riconosciuto per averlo visto in fotografia, tale era la sua somiglianza con il figlio, sia per i lineamenti sia per il colore dei capelli, che non avrebbero potuto sbagliare ugualmente. Rimase impalato sulla porta senza fiatare. Alle sue spalle una donna scendeva lentamente le scale. Prima apparvero i piedi con un paio di pantofole rosse, poi le gambe, l'orlo della vestaglia in tessuto trapuntato in tinta e infine il resto della persona, con il volto pallido e l'espressione di chi
sa cosa l'aspetta. «Owen Kinglake Struther?» domandò Wexford. L'uomo annuì. «Ha il diritto di non parlare, ma l'avverto che se nel corso dell'interrogatorio si rifiuterà di rispondere a domande che in seguito le verranno poste in tribunale, la sua difesa potrebbe risultarne compromessa. Tutto ciò che dirà potrà essere usato contro di lei...» 27 La mattinata era iniziata con una fredda foschia autunnale forata a tratti da qualche raggio di sole; ora però la nebbia si era alzata e il sole splendeva luminoso. Wexford alzò gli occhi al cielo e benedisse il sole perché c'era quando ne aveva bisogno. Era essenziale per mostrare a lui e a tutti gli altri ciò che gli interessava. Vine si era procurato il mandato di perquisizione. Sarebbero andati con due auto e in caso di necessità Wexford avrebbe chiesto rinforzi. Magari anche se non ce ne fosse stato bisogno. Avrebbe dovuto sentire la stanchezza. Lui e Burden avevano finito per dormire soltanto un paio d'ore. Invece si sentiva in forma, con l'adrenalina alle stelle, pronto a entrare in azione. La sera prima era andato tutto liscio come l'olio. Gli Struther si erano arresi nel modo tipico della media borghesia, praticamente senza battere ciglio. Lo strano era che entrambi sembravano convinti di non avere fatto nulla di male. «È stato mio marito ad avere l'idea» aveva dichiarato Kitty con orgoglio. «Un vero colpo di genio. Quanto agli altri, be', avevamo bisogno di qualcuno che ci desse una mano. Non potevamo fare tutto da soli.» «Kitty!» l'aveva ripresa Owen Struther. «Ormai è finita, no? Qualsiasi cosa diciamo non fa differenza.» Aveva guardato Wexford. «La signora era sua moglie, vero? Poi c'era il ragazzo e la... be', la giovane donna asiatica. Si è gettata dalla finestra, nessuno l'ha spinta. Mi piacerebbe sapere cos'ha detto sua moglie di noi. Abbiamo recitato bene, sa? Come attori professionisti. Owen era il colonnello Blimp e io la povera moglie fragile e indifesa.» «Kitty!» Improvvisamente si era messa a ridere, ma a un tratto dalla gola le era uscito un singhiozzo e a quel punto aveva cominciato a piangere. Dora a-
veva detto che le capitava spesso. Sarebbe stato interessante sapere se recitava o faceva sul serio. «Non ci avete ancora chiesto perché abbiamo organizzato quella messinscena» aveva osservato Owen. «A mio parere avevamo ottime ragioni per farlo. Si può dire che abbia desiderato quella casa per tutta la vita e dopo che finalmente, una decina di anni fa, ero riuscito ad acquistarla, volevano portarmela via, rovinarla costruendo quella maledetta tangenziale più adatta a una città come Los Angeles che a Birmingham.» Aveva posato una mano sulla spalla della moglie. «Kitty!» «Non riesco a controllarmi. È terribile che sia finita così.» «Dovresti essere un po' più discreta.» «Ormai che importanza ha? Se costruiscono quella dannata strada, il resto non m'interessa. Possono anche impiccarmi, se vogliono.» «Vestitevi» aveva detto Wexford. «Dobbiamo andare.» Erano arrivati a Kingsmarkham alle quattro e venti. Dopo una dormita di un paio d'ore, si era svegliato e aveva controllato il mandato con Barry Vine. Ora, a bordo della prima auto, indicava a Pemberton la strada da percorrere. L'agente non aveva fatto domande. Conosceva bene la zona e in ogni caso aveva la carta stradale. Ammesso che avesse qualche difficoltà, non lo diede a vedere. L'ispettore capo aveva detto che entro un'ora sarebbe stato tutto finito. Meglio così. Quel pomeriggio Pemberton doveva trovarsi con suo cognato per giocare a golf. Sul sedile posteriore erano seduti l'ispettore capo Wexford, l'ispettore Burden e il sergente Malahyde. Poco prima aveva sentito Wexford dire a Burden: «Non credo che quelli del Sacro Globo siano armati.» «Dora ha parlato di una pistola» aveva replicato l'ispettore. «Lo so, ma sono convinto che fosse finta e ti spiego perché. Se Dora avesse detto che avevano un fucile a canne mozze o una doppietta non lo metterei in dubbio perché da queste parti ci sono decine di persone con la licenza di caccia.» Avevano percorso la strada che passava da Pomfret perché secondo Pemberton era più scorrevole. Non sarebbe stato più così dopo che fosse stata realizzata la tangenziale, a meno che non costruissero dei sottopassaggi o delle sopraelevate. Burden sosteneva che sua moglie aveva sentito ventilare la possibilità di realizzare un tunnel sotto il Brede a Watersmeet per salvare la crisalide della farfalla gialla.
Quel mattino Framhurst era ancora più tranquilla della notte precedente, ma quando arrivarono all'incrocio le campane della chiesa iniziarono a suonare per chiamare i fedeli alla funzione religiosa. Wexford si voltò a guardare l'auto che li seguiva. Hennessy era al volante e Vine sul sedile accanto. Ebbe un tuffo al cuore quando vide chi c'era seduto dietro, vicino a Nicky Weaver. Pensò che probabilmente si sbagliava. Non poteva essere che così. Era la sua mente a giocargli dei brutti tiri, la sua mente sospettosa che gli faceva vedere il marcio ovunque. Ma se non era stato Brendan Royall a dare al Sacro Globo l'indirizzo e il numero di telefono di Burden, allora chi era stato? No, stava prendendo un granchio. Ma siccome non avrebbe rivelato a nessuno quel dubbio, non l'avrebbe confessato ad anima viva, nessuno avrebbe saputo che sospettava il tradimento. Frenchie Collins si era rifiutata di parlare con Karen Malahyde, ma aveva accettato di farlo con il suo compagno. In seguito, quando si era recato a casa degli Holgate per controllare se recentemente avessero fatto costruire una stanza da bagno, aveva messo al corrente solo quei pochi che gli stavano intorno. Eppure era lì che Ryan Barker gli aveva telefonato. Quanto agli spostamenti di Tarling... «Penso che non ci saranno problemi» disse ad alta voce. Stavano salendo su per Markinch Hill. Il sole illuminava tutta la vallata, il verde chiaro dell'erba, quello più cupo dei boschi, il fiume luccicante, le case bianche e rosse, i sassi sul versante della collina. Nel cielo limpido c'era solo una nuvola, una striscia appena accennata. «La casa è da queste parti, vero, signore?» domandò Pemberton. «Adesso dobbiamo girare a sinistra» rispose Wexford. Pemberton scese per aprire il cancello. «Lascialo aperto. Fermiamoci qui e proseguiamo a piedi, così faremo meno rumore.» La seconda auto era dietro di loro. Wexford si avvicinò per ripetere le stesse istruzioni a Vine. «Voi due restate in macchina» disse, rivolgendosi a Nicky e a Damon Slesar. «Aspettate finché non sarete chiamati. Stanno per arrivare i rinforzi.» Si avviarono in sei verso la casa, evitando di camminare sulla ghiaia del vialetto e passando invece tra gli alberi, oltre i quali si apriva il panorama della valle, simile a un grande arazzo disteso. Il sole disegnava chiazze chiare sulla terra scurita dalle foglie cadute nell'autunno. Su una sorta di isola nel mare degli alberi sorgeva la casa con i suoi due corpi distinti,
quello vecchio di stile giacobiano da un lato, quello georgiano dall'altro, con la parte inferiore nascosta da una costruzione di pietra con il tetto d'ardesia, a due piani. «Quelli del Sacro Globo probabilmente dormono ancora» disse Wexford. «Perché non dovrebbero? Non hanno di che preoccuparsi, o almeno credono.» Alle sue spalle c'erano Burden e Karen. Davanti a loro, un muro con un cancelletto. L'aprirono e passarono oltre. Si trovavano ora in un cortile con la pavimentazione a scacchiera composta da lastre di pietra alternate a quadrati d'erba. Tutt'intorno, grandi vasi traboccanti di petunie bianche e rosa e margherite gialle. Di fronte c'era un passaggio ad arco che dall'ala vecchia della casa arrivava fino al muro. Wexford era passato di lì la volta in cui aveva visto un uomo e un cane su uno sfondo verde e grigio... Indicò la costruzione senza parlare. La finestra guardava verso la parte georgiana della casa. C'era un muro coperto dai rami di una pianta rampicante per un tratto largo circa un metro per due metri e mezzo. Come aveva previsto, i fiori si erano dischiusi sotto il sole e all'estremo lato sinistro in alto, come pure sulla destra a metà altezza, si erano aperte almeno venti corolle azzurre. Socchiudendo gli occhi vedeva un pezzo d'azzurro da una parte e un altro dalla parte opposta. Azzurro come il cielo in un giorno d'estate. «Chissà se la porta è chiusa a chiave» disse. La porta era massiccia, forse di quercia, con i chiavistelli sopra e sotto. Abbassò la maniglia e si aprì. Gli faceva una strana impressione vedere l'ambiente con i suoi occhi. La stanza al seminterrato descritta da Dora, la prigione. Misurava circa sei metri per nove. Sotto la finestra c'era l'acquaio, c'erano le mensole sui muri e la porta dello stanzino da bagno. Sui letti, cinque, c'erano le coperte accuratamente ripiegate. Per entrare occorreva scendere due gradini. Il pavimento era di pietra e l'ambiente fresco, il posto ideale per conservare i formaggi da riporre sulle mensole. Intorno era pieno di ragnatele. Wexford si avvicinò alla finestra e vide l'azzurro dei fiori senza difficoltà, anche perché la struttura esterna in legno era stata tolta. Nella finestra c'era il foro del proiettile. Tornato fuori in giardino, quasi si aspettava di vedere il gatto nero e il siamese crogiolarsi al sole; ma ormai era certo che non li avrebbe visti, e neppure la sabbia dell'isola di Wight. Aveva calcolato di trovare quattro persone in quella casa, sei se la fortu-
na l'assisteva. Chi sarebbe andato ad aprire la porta? Andrew Struther, proprio come le volte precedenti. Evidentemente si erano messi d'accordo in questo senso per non correre rischi inutili. Stavolta non avrebbe funzionato. Andrew si era alzato da poco. Bastava guardarlo per rendersene conto. Indossava calzoncini color cachi, una sudicia maglietta bianca, niente calze e scarpe da ginnastica. «Credeva che la domenica fosse festa anche per la polizia, signor Struther?» domandò Wexford. «Sarebbe così gentile da spiegarmi cosa succede?» «Entriamo in casa e avrà tutte le spiegazioni che desidera.» Nell'atrio trovarono Bibi in jeans e anfibi ai piedi, il genere di scarpe descritte da Dora. Teneva Manfred per il collare. «Rinchiuda il cane da qualche parte» ordinò Wexford. «Dove le pare. Subito.» «Cosa?» «Se tocca uno di noi, per lui è finita. Quindi, per il suo bene, segua il mio consiglio.» «Ermafrodito» disse Karen a denti stretti. «Esatto. Dove sono gli altri, Andrew?» Burden si ricordò che il giovane non amava essere chiamato con il nome di battesimo. Struther fece una smorfia, ma non protestò. «Posso sapere di che si tratta?» domandò in tono petulante. «Abbiamo tratto in arresto i suoi genitori, stamattina all'alba» rispose Burden. «Dov'è Ryan Barker?» «State commettendo un errore.» La ragazza ricomparve senza il cane. Si avvicinò a Struther, lo guardò. «Andy?» «Non ora.» Spostò lo sguardo su Wexford. «È stato rapito, ricorda?» «Perquisite la casa.» «Non potete farlo.» «Mostragli il mandato, Mike.» Si rivolse a Vine: «Se scendi quei gradini e poi giri a sinistra, dovresti trovarti nella parte alta della casa. Al piano superiore c'è la stanza dove tenevano prigioniera Roxane Masood. Dalla finestra si vede il muro e la pianta rampicante con i fiori azzurri.» Guardò Andrew Struther. «Dov'è Tarling?» Andrew non rispose. Afferrata Bibi, le tappò la bocca con la mano. La ragazza gemette e tentò di divincolarsi. «La lasci andare!» tuonò Wexford. Poi, rivolgendosi a Burden: «Sono
stati allertati?» «Sì. Ho chiesto rinforzi.» La porta si spalancò e riapparve Vine accompagnato da un ragazzo allampanato in jeans e maglietta, che li guardò con aria trasognata. Vedendo Andrew e Bibi, ebbe un sussulto. «Siediti!» ordinò Wexford. «Da quella parte.» Si rivolse a Andrew e Bibi, che si massaggiava il braccio indolenzito dalla stretta dell'amico. «Sedetevi anche voi e aspettate. Dov'è Tarling?» tornò a ripetere. «Chiuso a chiave nella stanza accanto a quella occupata dal ragazzo» rispose Vine. Andrew rise forte. «È armato, sapete?» «No, non lo so» rispose Wexford. «Stento a credere a qualsiasi cosa esca dalla sua bocca.» «Pemberton è andato a chiamare Nicky e Slesar» l'informò Burden, abbassando la voce. «Possiamo salire a prenderlo noi tre, poi aspettiamo i rinforzi.» Andrew strinse i pugni e fece l'atto di alzarsi, ma cambiò idea. «Che cos'ha detto?» domandò. Nessuno rispose. Bibi gli si avvicinò e lo prese per un braccio. «Voglio il mio cane. Digli di liberarlo.» Il giovane la ignorò. «Ho sentito che ha nominato Slesar» mormorò. «Che altro ha detto?» Wexford udì le sirene della polizia e capì che stavano salendo su per la collina. Lasciata la stanza, attraversò l'atrio e uscì dalla porta d'ingresso. Vide Pemberton e Slesar sbucare dal vialetto, il secondo leggermente più avanti rispetto al primo. Non scorse Tarling se non quando fu troppo tardi, ma sentì il grido alle sue spalle, proveniente dall'alto, da una finestra. Era un grido di rabbia e di disperazione. «Traditore!» Wexford sentì il proiettile sfiorargli la testa e istintivamente si abbassò. Capì dal rumore che il colpo non era partito da una pistola, ma da un fucile. Per un attimo Damon Slesar rimase eretto e allargò lentamente le braccia. Nonostante la distanza, si vedeva il foro della pallottola sulla camicia bianca, vicino al cuore. Un attimo prima che il proiettile lo colpisse aveva gridato qualcosa, forse "no" nella vana speranza di essere risparmiato. Poi le sue ginocchia avevano ceduto ed era caduto in avanti, con un fiotto di sangue che gli sgorgava dalla bocca. Sul vialetto apparvero due auto e un furgone. La prima, con le sirene an-
cora accese, dovette scartare lateralmente per non investire l'uomo steso a terra e gli altri due chini su di lui. Mentre le portiere si aprivano e i poliziotti scendevano, Wexford si voltò a guardare la casa, nello stesso attimo in cui ne emergeva Karen Malahyde. Solo un sussulto ne tradì l'emozione. Karen si fermò a guardare il corpo di Slesar ma, a differenza degli altri, non si chinò su di lui. 28 «Kitty Struther l'ha definito un colpo di genio del marito» disse Wexford «ma pare che il piano sia stato partorito dalla mente di Tarling. Lui e Andrew Struther hanno frequentato la stessa scuola e, benché a prima vista possa sembrare che abbiano ben poco in comune, in realtà entrambi condividono l'odio di Owen Struther nei confronti dell'autorità costituita o, per meglio dire, dell'autorità quando interferisce nella loro vita peggiorandone la qualità.» Wexford stava riferendo i fatti a Montague Ryder. Si trovavano nell'ufficio del capo della polizia, a Myringham, ed era presente anche Burden. Era lunedì. Quel mattino cinque persone erano dovute comparire davanti alla Corte di Kingsmarkham per rispondere dell'accusa di sequestro di persona e una di loro dell'omicidio del sergente Damon John Slesar del dipartimento di investigazione criminale. Tutt'e cinque, benché Wexford fosse di diverso avviso, erano accusati della morte di Roxane Masood. «Tarling naturalmente» riprese l'ispettore capo «era già impegnato nella protesta per difendere l'ambiente e i diritti degli animali. Lui e Andrew Struther si sono incontrati per caso a Kingsmarkham in primavera, quando si era appena cominciato a parlare della tangenziale e cominciavano ad affluire i primi attivisti. Non so ancora come sia avvenuto e in fondo non ha molta importanza. Resta il fatto che si sono incontrati (forse Andrew era venuto a trovare i genitori) e ovviamente il discorso è caduto sul problema della nuova strada.» «Gli occupanti di Savesbury House sarebbero stati meno danneggiati dalla costruzione della tangenziale di quanti abitano appena fuori Stowerton o nei pressi di Pomfret, ciononostante la consideravano una minaccia devastante, per usare un aggettivo di cui oggigiorno si tende ad abusare, ma in questo caso quanto mai appropriato. La valle che si può ammirare dal giardino e su cui si affacciano le finestre della casa stava per essere devastata dall'intervento dell'uomo. Per non parlare dell'inquinamento acusti-
co. Non avrebbero più avuto pace. Quel silenzio che amavano tanto e che consentiva loro di udire il canto degli uccelli sarebbe andato perduto per sempre, sostituito dal rumore ininterrotto delle auto sulla tangenziale.» «Per quale motivo Andrew Struther ci teneva al punto di imbarcarsi in una simile impresa?» domandò Burden. «A parte il fatto che non abita neppure a Savesbury House, è giovane e di solito a quell'età se ne infischiano del canto degli uccelli, della pace e del silenzio. Eppure non ha esitato a mettere in gioco la sua libertà...» «Per i quattrini, Mike» l'interruppe Wexford. «È solo una questione di quattrini e di eredità. Un giorno Savesbury House sarà sua. Forse non vorrà venire ad abitarci e preferirà restare nel suo appartamento di Londra, ma in questo caso è probabile che decida di venderla. Secondo gli agenti immobiliari di Kingsmarkham, la tangenziale ridurrebbe il valore di tutte le proprietà dei dintorni, in alcuni casi addirittura del cinquanta per cento. Il valore di Savesbury House passerebbe così da settecentocinquantamila sterline, ossia tre quarti di milione, a meno di quattrocentomila. Senza contare che potrebbe diventare invendibile.» Montague Ryder guardò Burden. «Una cifra da capogiro, vero, Mike? Eppure esiste anche quella categoria di persone.» «Pare proprio di sì, signore.» «Avevano bisogno di qualcuno che li finanziasse, per costruire lo stanzino da bagno, tanto per fare un esempio. A Owen e Kitty Struther non mancavano i quattrini e inoltre erano d'accordo con Andrew e Tarling per l'esecuzione del piano. L'idea di servirsi della Contemporary Cars è stata di Owen, che in passato aveva avuto modo in diverse occasioni di rivolgersi a quell'agenzia per farsi portare alla stazione di Kingsmarkham e perciò sapeva che di contemporaneo aveva ben poco, soprattutto in quanto a organizzazione. Per attuare il loro piano avevano bisogno di un posto dove sistemare gli ostaggi e di un certo numero di persone che li tenesse a bada.» «Le tre disponibili erano ovviamente Tarling, Andrew e la sua fidanzata Bettina Martin, nota con il soprannome di Bibi. Ma non bastavano perché, pur considerando che Owen e Kitty non necessitavano realmente di sorveglianza, per rapire gli ostaggi occorreva qualcuno che gli desse manforte. Perciò Tarling ha coinvolto un'altra persona, quella che finora abbiamo chiamato l'Autista, così come Tarling era Faccia-di-gomma, Andrew Struther il Tatuato e Bibi Martin l'Ermafrodito. E poi ce n'era ancora un altro.» Wexford smise di parlare, si avvicinò alla finestra e guardò fuori, ma per qualche istante vide un altro giardino, un ambiente diverso da quello che
aveva effettivamente davanti agli occhi. Come se l'immagine fosse rimasta impressa in modo indelebile sulle sue pupille, rivide la scena, risentì lo sparo, vide il volto pallido e la macchia di sangue espandersi sulla camicia dove fino a un istante prima aveva battuto un cuore che nessuno avrebbe sentito mai più. Si voltò. «Ho iniziato a sospettare di lui solo la sera prima di fare irruzione a Savesbury House, e comunque avevo ancora qualche dubbio. Francamente pensavo fosse frutto della mia immaginazione, che mi porta a essere diffidente con tutti. Avrei dovuto impedire che venisse con noi, ma per la verità mi sono accorto della sua presenza solo quando mi sono voltato a guardare l'auto che ci seguiva. Così, proprio perché non credo in nulla e a nessuno, non ho creduto che Tarling fosse armato, o quanto meno che avrebbe sparato, date le circostanze.» «Non deve ritenersi responsabile dell'accaduto, Reg» osservò Montague Ryder. Wexford scosse la testa, in collera con se stesso. Guardò Burden e, conoscendolo così bene, gli lesse nel pensiero. Di sicuro gli passava per la mente qualche idea malsana, del genere: "Meglio così. Che futuro poteva avere un tipo come Damon Slesar?". «Lui non è stato compagno di scuola degli altri due, vero?» domandò il capo della polizia. «No, a quanto ci risulta. Deve aver frequentato le superiori a Myringham. Comunque faceva parte del Kabal, un'organizzazione rispettabilissima, e della Species, che forse non è altrettanto innocua. Come poliziotto non avrebbe neanche dovuto appartenere a una simile associazione; d'altronde si potrebbe stendere un nutrito elenco di cose che non avrebbe dovuto fare e invece ha fatto, negli ultimi sei mesi della sua vita.» «Non dimentichiamo che tutti loro erano convinti che il piano avrebbe funzionato. Pensavano che la cattura degli ostaggi avrebbe impedito la realizzazione della tangenziale perché credevano che il governo avrebbe ceduto. Qui non siamo nel Medio Oriente, né in un paese come la Thailandia. Siamo in Inghilterra e loro erano inglesi che tenevano prigionieri dei connazionali. Un atto inconcepibile, che avrebbe sicuramente dato i risultati sperati. Ne erano convinti. Slesar ne era convinto.» «Aveva qualche motivo particolare per essere contrario alla tangenziale?» «Credo che lo si possa affermare tranquillamente» rispose Wexford, so-
prappensiero. «Come Andrew Struther, era preoccupato per i genitori, anche se nel suo caso si trattava del loro benessere e non di un problema di eredità. Non possiedono altro che un piccolo appezzamento di terreno sulla circonvallazione, a poca distanza dal Brigadier.» «Quel posto dove vendono ortaggi e fragole scelte direttamente dal cliente?» s'informò Burden. «Non ne avevo idea.» «Quasi tutti quelli che hanno un'attività lungo la vecchia circonvallazione sarebbero danneggiati dalla costruzione della nuova strada» disse Wexford. «Nessuno più avrebbe motivo di andarci, o almeno questa è la convinzione della maggior parte della gente. Nessuno si fermerebbe più a comperare le fragole. Slesar era contrario alla tangenziale perché avrebbe mandato in rovina i suoi genitori. Il padre coltiva frutta, la madre confeziona indumenti lavorati a maglia con il pelo degli animali domestici.» «Come ha fatto a infiltrarsi?» «Tramite la Species, credo. Probabilmente durante una delle loro manifestazioni. Prima di quella che hanno organizzato nel Galles ne avevano fatta un'altra nel Kent, in primavera. È possibile che lì abbia conosciuto Tarling e il resto è venuto dopo. Devono avergli fatto molta pressione, soprattutto gli Struther, perché avevano bisogno di uno come lui, che fosse dall'altra parte della barricata.» «Perché ha detto "soprattutto gli Struther", Reg?» «Struther è una persona molto ricca, un milionario.» Si strinse nelle spalle. «Fortunatamente per noi che viviamo in questo angolo di mondo (grazie al cielo c'è ancora qualcosa di cui rallegrarsi) nemmeno un miliardario può impedire che si costruisca una nuova strada. È inconcepibile. Ma i Damon Slesar di questo mondo sono corruttibili. A mio parere Struther deve aver tentato diverse volte di convincerlo, alzando ogni volta il prezzo finché Slesar ha ceduto. Avrà messo da parte il denaro occorrente per sistemare i genitori da qualche altra parte, in modo che potessero cavarsela comunque andassero le cose.» «Essendo la loro talpa all'interno della forza di polizia» continuò Wexford «conosceva indirizzo e numero telefonico di Burden e così Tarling ha potuto trasmettere a casa sua il secondo messaggio. Di solito erano lui e Andrew Struther a telefonare. Allo stesso modo sapeva di potermi trovare a casa degli Holgate sabato pomeriggio ed è così che mi hanno contattato per farmi avere un altro messaggio. Quanto al sacco a pelo acquistato da Frenchie Collins a Brixton, era lo stesso usato per Roxane Masood, come la donna ha confessato a Damon Slesar quando è rimasta sola con lui.»
«Dunque Frenchie sapeva?» domandò Burden. «Non lo so. Forse no. Può darsi che abbia semplicemente preso in antipatia Karen Malahyde. In ogni modo, qualsiasi cosa abbia detto a Slesar, non poteva certo arrivare alle mie orecchie.» «Povera Karen!» esclamò Burden. «Sì, ma non credo che fosse innamorata cotta. Comunque adesso che sa che tipo di persona era Damon Slesar, riuscirà a venirne fuori meglio. Mentre Karen teneva d'occhio Brendan Royall, lui avrebbe dovuto fare altrettanto con Conrad Tarling. Inutile dire che non se lo sognava nemmeno. Tarling andava e veniva come gli pareva dall'accampamento a Savesbury House e di sicuro è andato anche nel Wiltshire. Ecco perché aveva la polverina delle ali di farfalla sugli indumenti e senza volerlo l'ha portata nella stanza in cui erano tenuti prigionieri gli ostaggi.» Wexford tacque un istante. Probabilmente tutt'e tre stavano pensando alla stessa cosa, al dramma di un poliziotto ucciso in quel modo, dopo essersi lasciato corrompere e aver tradito i compagni. Si chiese cosa gli fosse passato per la mente nell'istante in cui aveva guardato Tarling, con quella faccia da fanatico, affacciato alla finestra con l'arma in pugno, pronto a far fuoco. Wexford l'aveva visto impallidire di colpo e allargare le braccia, come per un estremo tentativo di allontanare la morte. «Stava dicendomi qualcosa a proposito del luogo in cui erano tenuti prigionieri gli ostaggi» disse il capo della polizia, lieto di cambiare argomento. Wexford annuì. «Molte di quelle vecchie costruzioni, nate come fattorie o come case di campagna, disponevano di una stanza dove si producevano e conservavano i formaggi. Ora vengono usate per riporvi tutto ciò che non serve più. È per l'appunto un locale del genere quello utilizzato dai rapitori. Mia moglie era convinta che si trovasse in un seminterrato perché era piuttosto buio con la finestra in alto. Probabilmente avevano cambiato la porta, applicato il catenaccio e tutto il resto. Naturalmente si sono guardati bene dal rivolgersi a una grossa impresa per trasformare la dispensa in uno stanzino da bagno. Però Tarling conosceva qualcuno che, oltre a essere in grado di eseguire il lavoro, sicuramente non avrebbe fiatato, qualcuno che non aveva fissa dimora e quindi sarebbe scomparso dalla circolazione nel giro di qualche settimana.» «Dunque hanno portato lì gli ostaggi, e sappiamo già come ci sono riusciti. Logicamente, per quanto riguarda gli Struther, a loro è bastato trasferirsi da un'ala all'altra della casa e infilarsi il cappuccio in testa un attimo
prima di entrare. Immagino che si siano divertiti a interpretare i ruoli del valoroso ufficiale e della donnetta isterica. Li avrà aiutati a passare il tempo fino al momento in cui Owen ha finto di tentare la fuga per dare ai rapitori il pretesto di allontanarli dagli altri. In un primo momento sono rimasti a Savesbury House e in seguito si sono trasferiti a Londra per nascondersi nell'appartamento di Andrew. A proposito, mi chiedo cos'avrà pensato Tarling quando Kitty è arrivata al punto di sputargli in faccia. D'altronde non si può prendere a sberle il proprio principale.» «Sarà stato uno shock per loro accorgersi di avere rapito mia moglie, e dev'essere successo molto prima di quanto pensassi. Naturalmente sapevano benissimo chi sono e come mi chiamo. Slesar l'ha scoperto il giorno del suo arrivo e avrà avvertito immediatamente quelli del Sacro Globo.» «Ha fatto un ottimo lavoro, Reg» si congratulò il capo della polizia. «Avrei potuto far meglio. Avrei potuto salvare la vita di un uomo e non l'ho fatto.» Dora disse che avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto intuire che gli Struther erano degli impostori. Dopotutto non avevano di certo frequentato una scuola di recitazione. «Di questi tempi sono tutti bravi a recitare» replicò Wexford. «Imparano guardando la televisione. Pensa alla gente intervistata in occasione di qualche disastro. Neanche l'ombra di timidezza, tutti si comportano come se avessero imparato il copione a memoria prima di essere ripresi dalle telecamere.» «Perché mi hanno liberata, Reg?» «All'inizio pensavo che avevano scoperto chi sei dopo che avevo parlato con Gary e Quilla. Ma non è così. Lo sapevano fin dal principio per il semplice fatto che lo sapeva Slesar. A proposito, portava i guanti non per coprirsi le mani, ma per farvi credere che avesse qualcosa da nascondere. Quanto ai fiori azzurri della ipomea...» «Non capisco perché non abbiano strappato la pianta» l'interruppe Dora. «Probabilmente perché Kitty Struther non gliel'ha permesso. È un rampicante che si riproduce soltanto seminandolo, ricordi? Di sicuro ci teneva molto. Vi proibisco nel modo più assoluto di strappare la mia ipomea, avrà detto. Non si discutono gli ordini del capo. Vedi, la verità è che ti hanno liberata perché ti avevano riempita di falsi indizi.» «Come sarebbe a dire?» «Sei mia moglie e perciò sapevano che, una volta tornata a casa, per
prima cosa ti avremmo interrogata a fondo e avremmo fatto analizzare i tuoi indumenti dalla Scientifica. Se al tuo posto avessero rilasciato Roxane oppure Ryan, che ne sarebbe stato dei loro indumenti prima che noi della polizia potessimo metterci le mani? Forse sarebbero finiti in lavatrice, o perlomeno sarebbero stati spazzolati amorevolmente dalle madri.» Wexford tacque un momento, pensando a Clare Cox, che non avrebbe mai più potuto occuparsi degli abiti della figlia. Sospirò. «Erano certi che con te non avrebbero corso questo rischio. Sapevano esattamente come sarebbero andate le cose, cioè che avrei infilato subito gli indumenti in una busta sterilizzata. Avevano messo degli indizi sulla tua gonna: schegge di ferro e peli di gatto, che Slesar si è procurato facilmente grazie alla madre. Per la stessa ragione hanno fatto in modo che vedessi il tatuaggio sul braccio di uno dei tuoi carcerieri e sentissi l'odore tipico dei malati di reni addosso a un altro. Due trucchi semplicissimi: per il tatuaggio è sufficiente procurarsi una decalcomania e, quanto all'odore di acetone basta tenere in tasca un batuffolo di cotone imbevuto di solvente per lo smalto delle unghie.» «Praticamente il cervello della banda era Slesar e, se non sono paranoico, forse è stato il suo modo di vendicarsi. Ce l'aveva con me perché pensava che avessi voluto umiliarlo in pubblico.» «Cosa pensava?» «A quanto pare è così che aveva interpretato l'incidente.» Dora scosse la testa, pensierosa. «Mi hai spiegato tutto, Reg, ma ancora non ho idea di chi fosse l'Autista.» «Io lo so, e domani procederemo al suo arresto. Dopodiché a quei poveracci dei Tarling resterà il triste primato di avere ben tre figli condannati all'ergastolo. L'Autista era Colum, il fratello di Conrad.» «Ma non è su una sedia a rotelle?» «Chiunque può procurarsene una e sedercisi sopra. Come mi ha confessato il padre, il suo guaio è soprattutto di natura psicologica. Hai detto che camminava rigido, come se avesse avuto una gamba fasciata. Al momento nessuno di noi ci ha fatto caso.» «E così è finita?» «Già. Tutto questo per nulla. Una giovane donna che aveva tutta la vita davanti a sé e un poliziotto colpevole di aver fatto le scelte sbagliate sono morti, un adolescente incapace di distinguere la realtà dalla fantasia darà un grosso problema da risolvere agli strizzacervelli e alle assistenti sociali, sei persone finiranno in galera e la tangenziale sarà realizzata ugualmen-
te.» «No, se riusciamo a impedirlo» replicò Dora, ostinata. «Stasera c'è una riunione al Kabal per organizzare la manifestazione di sabato prossimo. Se questa vicenda ci ha insegnato qualcosa, è che vale la pena di lottare per salvare la valle del Brede e Savesbury Hill. Ventimila persone si riverseranno a Kingsmarkham questo fine settimana.» Wexford fece un cenno di approvazione. Probabilmente il suo non era il primo caso in cui un funzionario di polizia condivideva in pieno gli obiettivi dei sequestratori, benché di sicuro non approvasse i loro metodi. Guardò la moglie e sorrise. «Un'altra cosa, Reg. La prossima settimana vorrei andare da Sheila e passare qualche giorno con lei e la bambina.» Sorrise a sua volta. «A patto che venga tu ad accompagnarmi alla stazione.» I miei ringraziamenti particolari all'ispettore capo Vince Coomber del corpo di polizia del Suffolk che mi ha fornito le opportune informazioni e corretto gli errori. FINE