PATRICIA HIGHSMITH LA SPIAGGIA DEL DUBBIO (The Tremor Of Forgery, 1969) A Rosalind Constable, come piccolo ricordo di un...
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PATRICIA HIGHSMITH LA SPIAGGIA DEL DUBBIO (The Tremor Of Forgery, 1969) A Rosalind Constable, come piccolo ricordo di un'amicizia molto lunga 1 «Sicuro che non ci siano lettere per me?» chiese. «Howard Ingham. I-ng-h-a-m.» Lo compitò, alquanto incerto, in francese, pur avendo parlato invece in inglese. L'arabo, tracagnotto e in uniforme rosso vivo, ripassò le lettere tolte dalla casella I-J. «Non, m'sieur.» «Merci,» fece lui, con un sorriso di circostanza. Era la seconda volta che chiedeva, ma intanto l'impiegato era cambiato. Aveva già chiesto dieci minuti prima, appena arrivato all'Hotel Tunisia Palace. Aspettava una lettera da John Castlewood, infatti. E una anche da Ina. Aveva ormai lasciato New York da cinque giorni, perché era passato prima da Parigi, per incontrare il suo agente di lì e, anche, per rivedere un po' la città. Si accese una sigaretta e si guardò in giro nell'atrio. Tappeti orientali e aria condizionata; quanto agli ospiti, dall'aspetto la maggioranza sembravano francesi e americani. C'erano però anche parecchi arabi dalla faccia bruna, vestiti all'occidentale. Gliel'aveva raccomandato John quell'albergo. Sarà il migliore della città, pensò. Superò le porte di cristallo e uscì sulla strada. Erano gli inizi di giugno e, alle sei circa del pomeriggio, l'aria era tiepida e il sole, sbieco, ancora brillante. John gli aveva raccomandato anche il Café de Paris per l'aperitivo della colazione e del pranzo, e eccolo lì, infatti, dall'altra parte della strada, sull'angolo del Boulevard Bourguiba. Si diresse da quella parte, dunque, e strada facendo comprò l'Herald Tribune di Parigi. La strada era abbastanza larga e aveva al centro uno spartitraffico alberato e pavimentato sul quale la gente passeggiava, e lì c'erano i chioschi dei giornali e dei tabacchi e i lustrascarpe. Tutto sommato, ai suoi occhi quella era un qualcosa di mezzo tra una strada di Città di Messico e una di Parigi; del resto, i francesi avevano avuto una mano nella costruzione sia di Città di Messico sia di Tunisi. Quel che riusciva a cogliere qua e là dalle conversazioni a alta voce gli
risultava affatto incomprensibile; in una delle valigie lasciate in albergo aveva un libro intitolato L'arabo facile, ma naturalmente l'arabo andava imparato letteralmente a memoria perché non somigliava a niente di quel che lui conosceva. Attraversò la strada puntando verso il Café de Paris, i cui tavolini all'aperto erano tutti occupati. La gente lo guardava, forse perché era una faccia nuova. C'erano parecchi americani e inglesi con l'aria di essere lì da un bel po' e, soprattutto, la faccia annoiata. Dovette starsene al bar, in piedi. Ordinò un Pernod e prese a scorrere il giornale. C'era chiasso. Alla fine avvistò un tavolo libero e l'occupò. La gente passeggiava sul marciapiede fissando le facce altrettanto inespressive di quelli seduti ai tavolini Lui prese a osservare soprattutto i più giovani, perché era lì per scrivere la sceneggiatura di un film su due giovani innamorati, o meglio tre, in quanto c'era anche un secondo giovanotto che però non riusciva a conquistare la ragazza. Ma di ragazzi e ragazze insieme non ne passavano, si vedevano solo giovanotti isolati o a coppie: si tenevano per mano e chiacchieravano fittamente. John gli aveva parlato dell'intimità che esiste tra i ragazzi in Tunisia, dove i rapporti omosessuali non sono uno spandalo, ma questo non aveva niente a che vedere con la sceneggiatura. I giovani di sesso opposto erano quasi sempre accompagnati o quanto meno tenuti d'occhio. C'era parecchio da imparare, dunque, e per quasi tutta la settimana, cioè fino all'arrivo di John, il suo lavoro sarebbe consistito nel tenere gli occhi bene aperti e nell'assorbire, per così dire, l'atmosfera del posto. John conosceva un paio di famiglie di Tunisi e questo gli avrebbe dunque offerto la possibilità di vedere l'interno di una casa borghese tunisina. Anche se la storia prevedeva pochissimo dialogo, quel poco bisognava pur sempre scriverlo, dopotutto. Benché avesse già lavorato per la televisione, in realtà lui si considerava un romanziere; quel lavoro perciò, lo teneva un po' sulle spine. Ma John si mostrava fiducioso e, oltre tutto, non erano stati presi accordi ufficiali: in altre parole, lui Ingham non aveva firmato niente. Castlewood gli aveva anticipato mille dollari e, scrupolosamente, lui stava ora adoperando quel danaro esclusivamente per ciò che riguardava il lavoro. Tra l'altro, buona parte se ne sarebbe andata per la macchina che avrebbe dovuto noleggiare per un mese. Anzi, decise, l'indomani mattina doveva già procurarsela, in modo da cominciare a dare un'occhiata in giro. «Merci, non,» disse a un ambulante che gli stava offrendo un lungo ramo carico di fiorellini. L'odore dolcissimo indugiò nell'aria. L'ambulante
ne aveva un gran fascio e avanzava tra i tavoli gridando: «Jaasmin!» Portava un fez rosso e una galabia color lavanda che gli pendeva addosso e era così sottile che di sotto s'intravedevano un paio di mutande bianche. A un tavolo, un uomo grasso faceva roteare tra le dita il suo rametto tenendo i fiorellini sotto il naso. Sembrava in estasi e quasi storceva gli occhi a chissà quale visione. Stava aspettando oppure soltanto sognando una ragazza? Occorsero dieci minuti per capire che non stava aspettando nessuno. Aveva finito quella che sembrava una gassosa incolore e indossava un completo grigio, leggero. Immaginò che fosse un borghese se non qualcosa di più: magari guadagnava un trenta dinari la settimana, più o meno sessantatré dollari. Ci aveva rimuginato per un mese su queste cose. A poco a poco, Bourguiba cercava di liberare i suoi compatrioti dai lacci avvolgenti della loro religione, aveva abolito ufficialmente la poligamia e non ammetteva il velo per le donne. Tutto sommato, tra i paesi africani la Tunisia era il più progredito. Ora stavano cercando di convincere tutti gli uomini d'affari francesi a sgombrare, e tuttavia ancora dipendevano per buona parte dall'aiuto economico francese. Lui, Ingham, aveva trentaquattro anni, superava il metro e ottanta di altezza, aveva capelli bruni e occhi azzurri e era lento nei movimenti. Benché non si fosse mai azzardato a far ginnastica aveva un buon fisico, con spalle larghe, gambe lunghe e mani forti. Era nato in Florida ma si considerava newyorkese perché aveva vissuto a New York sin dall'età di otto anni. Dopo il college (l'Università di Pennsylvania), aveva lavorato per un giornale di Filadelfia dedicandosi intanto con non molta fortuna alla narrativa. Poi era venuto fuori il suo primo romanzo, La forza del pensiero negativo, una parodia un tantino presuntuosa e insieme ingenua del pensiero positivo, nel quale una coppia di eroi del pensiero negativo incontreranno alla fine gloria, ricchezza e fama. Incoraggiato dal successo, aveva lasciato il giornalismo e affrontato un paio d'anni di incertezze. Il suo secondo romanzo, Il porco malato, non aveva incontrato il successo del primo. In seguito aveva sposato Charlotte Fleet, una ricca ragazza della quale era stato molto innamorato e del cui danaro non aveva affatto approfittato, anzi in realtà la ricchezza di lei s'era tramutata in un impedimento per lui. Il matrimonio s'era concluso nel giro di due anni e lui aveva tirato avanti vendendo ogni tanto un soggetto alla televisione o un racconto e vivendo in un modesto appartamento a Manhattan. Quell'anno, in febbraio, finalmente un po' di respiro: il suo romanzo Il gioco del Se era stato comprato dal cinema per cinquantamila dollari. Lui personalmente sospettava che fosse stato
acquistato più per la sciocca storia d'amore presentata nel romanzo che per il suo contenuto, o messaggio, intellettuale (la necessità e la validità del pensiero volitivo); in ogni modo era stato comprato, e per la prima volta lui aveva saggiato il gusto della sicurezza economica. Gli era stato offerto di scrivere la sceneggiatura del film ma aveva rifiutato, perché era convinto che le sceneggiature, anche quelle televisive, non fossero il suo forte e perché gli era difficile immaginare una trasposizione cinematografica del Gioco del Se. L'idea, di John Castlewood, che era alla base di Trio era più semplice e più trasponibile. Il giovanotto che non riusciva a conquistare la ragazza ne sposava un'altra, però si vendicava in maniera orribile del rivale a lui preferito, prima seducendogli la moglie, poi rovinandolo negli affari e in fine facendolo ammazzare. Cose del genere, secondo lui, erano poco plausibili in America, ma si svolgevano in Tunisia e John Castlewood oltre a essere entusiasta conosceva bene la Tunisia. Conosceva anche lui Ingham e così lo aveva sollecitato a scrivere la sceneggiatura. Avevano già il produttore, un certo Miles Gallust, e lui, Ingham, aveva pensato che se non fosse approdato a niente, se non fosse stato capace di scrivere la sceneggiatura, lo avrebbe detto a John, gli avrebbe restituito i mille dollari e John avrebbe trovato qualcun altro. John Castlewood aveva già fatto due buoni film di basso costo di cui il primo, Il torto, aveva anche avuto un certo successo. Era ambientato in Messico. Il secondo invece nel Texas, tra i petrolieri, e il titolo lui non lo ricordava più. John aveva ventisei anni, era pieno di energia e possedeva il tipo di fiducia che possiede chi ancora conosce poco la vita, almeno così pensava lui, lui che era convinto che il futuro di John fosse, con tutta probabilità, migliore del proprio. Infatti era ormai giunto all'età in cui si conoscono le proprie capacità e i propri limiti. John Castlewood, invece, i propri ancora non li conosceva e forse non era il tipo da pensarci e, soprattutto, riconoscerli eventualmente. Il che in fondo era un bene. Pagò il conto e ritornò all'albergo per prendere una giacca. Gli era venuto appetito. Lanciò un'altra occhiata alle due lettere, I-J, della casella vuota davanti alla quale era appesa la chiave della sua stanza. «Vingt-six, s'il vous plaît,» disse, e prese la chiave. Seguendo di nuovo il suggerimento di John, andò poi al Restaurant du Paradis, nella rue du Paradis, che si trovava tra il suo albergo e il Café de Paris. Dopo passeggiò per la città e bevve un paio di café exprés, in piedi al banco, in caffè nei quali non c'erano turisti. I clienti erano tutti uomini
del posto. Solo uomini. Il barista comprese il suo francese ma lui notò che nessuno parlava francese. Aveva pensato di scrivere a Ina una volta ritornato in albergo, ma si sentiva troppo stanco e forse gli mancava anche l'ispirazione. Se ne andò subito a letto e lesse qualche pagina del romanzo di William Golding che s'era portato dietro dall'America. Prima di addormentarsi pensò alla ragazza che aveva civettato - vagamente e da lontano - con lui nel Café de Paris. Era bionda, polposetta ma molto attraente. Gli era sembrata tedesca (il tipo che era con lei avrebbe potuto essere qualunque cosa) e quando era andata via, aveva provato un certo compiacimento nel sentirla parlare francese col suo accompagnatore. Vanità, pensò. Invece di pensare a Ina. Lei stava certamente pensando a lui. In ogni modo, la Tunisia s'annunciava come il posto ideale per non pensare più a Lotte. Grazie a Dio aveva quasi smesso di pensare alla moglie. Era ormai passato un anno e mezzo dal divorzio, ma a volte a lui sembravano sei mesi appena, se non addirittura due. 2 La mattina dopo, constatato ancora una volta che non c'erano lettere per lui, pensò che John e Ina potessero avergli scritto all'Hotel du Golfe di Hammamet, suggeritogli da John, dove ancora non aveva prenotato e dove immaginò che avrebbe dovuto farlo per il 5 o 6 giugno. John gli aveva detto: «Fermati a Tunisi alcuni giorni. I personaggi del film vivono a Tunisi... Ma non credo che ti piacerà lavorare lì. Troppo caldo e non si possono fare bagni, a meno di non andare a Sidi Bou Said. Lavoreremo a Hammamet, invece. Una spiaggia magnifica per un bagno pomeridiano, e niente traffico...» Dopo aver girato a piedi e in macchina per Tunisi un intero giorno, affrontando la lunga chiusura di tutto tranne i ristoranti da mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, fino alle quattro, ormai era pronto per andare a Hammamet l'indomani. Temendo però che appena messo piede a Hammamet si sarebbe pentito di non aver visitato meglio Tunisi, decise di fermarsi ancora altri due giorni. In uno di questi due giorni, andò in macchina a Sidi Bou Said, a sedici chilometri da Tunisi, dove fece il bagno e, non essendoci ristoranti, pranzò in un albergo abbastanza elegante. Era una cittadina di case bianco calce con porte e persiane azzurre. Al Golfe, quando aveva telefonato il giorno prima, non aveva trovato posto ma il direttore gli aveva fatto il nome di un altro albergo di Ham-
mamet. Vi andò, dunque, ma lo trovò troppo hollywoodiano così finì col sistemarsi in un albergo chiamato La Reine de Hammamet. Ogni albergo aveva la sua spiaggia sul golfo di Hammamet e distava dal mare una cinquantina di metri. Il Reine vantava un grosso edificio centrale, giardini di limette, limoni e bougainvillea e un quindici o venti bungalows di varia grandezza, ognuno appartato tra le foglie degli agrumi. Ogni bungalow aveva una cucina ma lui non aveva certo intenzione di mettersi a cucinare, così prese una stanza con vista sul mare nell'edificio centrale. Poi scese subito a fare un bagno. Non c'era molta gente sulla spiaggia a quell'ora, benché il sole fosse ancora alto. Vide un paio di sdraio vuote e ne occupò una perché, pur non sapendo se erano o no in fitto, aveva immaginato che comunque appartenessero all'albergo. Mise gli occhiali da sole (altra idea di John Castlewood, che glieli aveva appunto regalati) e dalla tasca dell'accappatoio tirò fuori un libro tascabile. Quindici minuti dopo s'era addormentato, o almeno appisolato. Diomio, pensò, diomio, è un posto tranquillo, bello e fa caldo... «Salve! Buonasera... Lei è americano?» La voce squillante lo fece sobbalzate, come un colpo di pistola, sulla sdraio. «Sì.» «Mi scusi se interrompo la sua lettura. Anch'io sono americano. Del Connecticut.» Era un uomo sulla cinquantina, con i capelli grigi e radi, il ventre leggermente prominente e un'invidiabile abbronzatura. Non era alto. «Io di New York. Spero di non aver occupato la sua sdraio.» «A-ah! No. Ma tra una mezz'oretta i ragazzi verranno a ritirarle. Devono metterle via, altrimenti domani mattina non ci sarebbero più.» Solo, pensò lui. O era in compagnia di una moglie? Ma anche allora puoi esser solo. A un paio di metri appena da lui, l'uomo stava guardando il mare, verso il largo. «Mi chiamo Adams. Francis J. Adams.» Lo disse come se ne andasse fiero. «Howard Ingham.» «Che gliene pare della Tunisia?» Aveva un sorriso non antipatico, che gli gonfiava le guance abbronzate. «Molto bella. Hammamet, almeno.» «Trovo anch'io. Meglio però avere una macchina per andare in giro. Sousse e Gerba, posti così. Ha la macchina?» «Sì.»
«Bene...» Stava indietreggiando, si accomiatava. «Venga a trovarmi qualche volta. Il mio bungalow è laggiù, su quel declivio. Numero dieci. Chiunque dei ragazzi può indicarglielo. Basta che chieda di Adams. Venga a bere qualcosa una sera. E porti sua moglie, se ce l'ha.» «La ringrazio. No, sono solo.» Adams annuì, poi salutò con la mano. «A presto.» Rimase altri cinque minuti poi s'alzò. Fece la doccia in camera poi scese al bar. Era molto spazioso e il pavimento era coperto di tappeti persiani. C'era una coppia di anziani che parlavano francese. Tre, a un altro tavolo, erano inglesi. C'erano solo sette o otto persone nel bar e alcuni guardavano la televisione in un angolo. Un tale s'allontanò dal televisore e s'avvicinò al tavolo degli inglesi annunciando, in tono per nulla eccitato: «Gli israeliani hanno bombardato una dozzina di aeroporti.» «Dove?» «In Egitto. O forse in Giordania. Gli arabi le prenderanno.» «La notizia l'han data in francese?» chiese uno degli inglesi. Lui stava lì al bar. C'era la guerra, dunque. La Tunisia distava un bel po' dai campi di battaglia, c'era quindi da sperare che la guerra non mandasse a monte i loro piani di lavoro. E tuttavia i tunisini erano arabi e se questi perdevano, come era ovvio che avrebbero perso, ci sarebbe stato del risentimento contro gli occidentali. Bisognava che l'indomani si procurasse un giornale di Parigi. Per un paio di giorni evitò la spiaggia e fece delle gite nell'interno. Gli israeliani stavano travolgendo gli arabi e il lunedì, giorno in cui la guerra era scoppiata, venticinque basi aeree erano andate distrutte. Un giornale di Parigi riferiva che in una strada di Tunisi alcune macchine con targa occidentale erano state rovesciate e che i vetri delle finestre dell'USIS sul Boulevard Bourguiba erano andati in frantumi. Non andò a Tunisi, andò a Naboul, a nord-ovest di Hammamet, nell'entroterra di Bir Bou Rekba e, ancora, in certi villaggi poveri e polverosi i cui nomi non era facile ricordare. In uno di questi capitò la mattina del giorno di mercato e s'aggirò così tra cammelli, vasellame, cianfrusaglie, vestiti e stuoie di paglia, il tutto steso a terra su stracci. La gente lo urtava e la cosa lo infastidiva. Agli arabi invece, aveva letto da qualche parte, il contatto umano non dispiace, ne sentono anzi il bisogno; e questo nel souk era più che evidente. Lì al mercato la gioielleria era scadente ma gli ispirò l'idea di andare in un buon negozio dove comprò una spilla d'argento per Ina, un triangolo che s'agganciava a
un cerchio. Ce n'erano di tutte le misure. Poiché il pacchetto sarebbe stato abbastanza piccolo, le comprò anche un abito rosso ricamato: era da uomo ma così stravagante che in America sarebbe andato benissimo per una donna. Lo spedì il pomeriggio di quello stesso giorno dopo aver dovuto ammazzare il tempo fino alle quattro, l'ora in cui l'ufficio postale di Hammamet aprì. Stando a un cartello esposto fuori, il pomeriggio apriva per un'ora soltanto. Il quarto giorno dal suo arrivo al Reine scrisse a John Castlewood. John abitava sulla Cinquantatreesima Ovest, a Manhattan. 8 giugno 19.. Caro John, Hammamet è bella come avevi detto tu. Una spiaggia magnifica. Pensi sempre di arrivare il 13? Io qui non aspetto altro che di mettermi al lavoro. Non pèrdo occasione per parlare con sconosciuti ma quelli che preferisco non sempre parlano francese. Ieri sera sono stato a Les Arcades. (Un caffè a circa un miglio dal Reine.) Per piacere, di' a Ina di scrivermi almeno un rigo. Io a lei ho scritto. Senza notizie da casa mi sento solo qui. Può darsi che, come dicevi tu, la posta sia straordinariamente lenta... E via di questo passo, e quando ebbe finito di scrivere si sentì ancora più solo di prima. Ogni giorno andava a chiedere al Golfe, talora anche due volte nello stesso giorno: niente lettere e niente telegrammi. Per imbucare la lettera a John andò in macchina all'ufficio postale, perché non era sicuro che sarebbe partita quel giorno se l'avesse consegnata in albergo. Per l'arrivo della posta i vari impiegati gli avevano dato tre diversi orari, ne aveva dunque dedotto che sarebbero stati altrettanto vaghi riguardo alla partenza. Verso le sei andò giù alla spiaggia. Ci si arrivava attraverso un fitto, quasi una giungla, di palme che tuttavia spuntavano fuori dall'inevitabile sabbia. C'era un sentiero battuto e lui lo seguì. Dalla sabbia spuntavano fuori anche alcuni paletti metallici, forse i resti di un abbandonato campo da gioco per bambini, che in cima erano incrostati di piccole chiocciole bianche attaccate tenacemente come cirripedi. Il metallo era così caldo che a malapena poté toccarlo. Tirò oltre, assorto a pensare al suo romanzo. S'era portato dietro penna e taccuino. Quanto a Trio, fino all'arrivo di John in realtà non avrebbe potuto far molto. Entrò in acqua, nuotò al largo poi cominciò a sentirsi stanco e tornò in-
dietro. Si toccava per un bel tratto e sotto i piedi la sabbia era morbida; verso riva il fondo diventava roccioso per poi tornare sabbioso, finché ti ritrovavi sulla riva. Si asciugò il viso con l'accappatoio a spugna, perché aveva dimenticato di portarsi un asciugamano, quindi sedé e prese il taccuino. Il romanzo parlava della doppia vita di un tale ignaro dell'amoralità della propria maniera di vivere e per ciò stesso mentalmente sconvolto o quanto meno squilibrato. A lui non andava di ammetterlo e tuttavia non poteva farne a meno: nel suo libro non aveva nessuna intenzione di giustificare l'eroe, Dennison. Si trattava di un giovanotto (vent'anni, agli inizi del libro) che si sposava e conduceva una felice vita familiare e a trent'anni diventava direttore di una banca. Quando poteva sottraeva fondi alla banca, per lo più falsificando documenti, e era altrettanto prodigo nel dare e prestare quanto era avido nel rubare. Parte del denaro lo investiva per provvedere al futuro della famiglia ma i due terzi lo dava (di solito sotto falsi nomi) a gente che ne aveva bisogno o che cercava di iniziare una propria attività. Come gli capitava spesso, dopo una ventina di minuti, e dopo aver scritto appena una dozzina di righe di appunti, queste meditazioni lo fecero appisolare e s'era dunque mezzo addormentato quando, come nella ripetizione di un sogno, la voce dell'americano lo svegliò: «Salve! Non l'ho vista per un paio di giorni.» Si drizzò di colpo. «Buongiorno.» Sapeva come sarebbe andata a finire, sapeva già che quella sera sarebbe andato a' bere qualcosa nel bungalow di Adams. «Quanto tempo ancora si ferma qui?» «Non lo so con esattezza.» S'era alzato e stava infilandosi l'accappatoio. «Forse altre tre settimane. Aspetto l'arrivo di un amico.» «Oh! Un altro americano?» «Sì.» Guardò la fiocina che Adams aveva in mano, una specie di lancia lunga un metro e mezzo e priva di ogni apparente congegno di lancio. «Sto andando al mio bungalow. Che ne direbbe di venire a bere qualcosa di fresco?» Automaticamente, lui pensò a una Coca-Cola. «D'accordo. Grazie. Cosa ci fa con quella fiocina?» «Miro ai pesci, ma non ne prendo nessuno.» Adams ridacchiò. «In effetti, a volte tiro su dei molluschi che non riuscirei a prendere con le sole mani, sa, alla profondità d'un paio di metri.» Man mano che s'inoltravano la sabbia s'arroventava, ma riuscivano a
sopportarla: lui aveva le ciabatte da spiaggia, Adams era scalzo. «Eccoci qui,» disse a un certo punto l'americano, svoltando in un viottolo pavimentato ma ricoperto dalla sabbia. Conduceva al suo bungalow bianco e azzurro col tetto a cupola, nello stile arabo, per dar freschezza al locale. Alle loro spalle lui scorse un edificio che non aveva mai notato prima; era una specie di palazzina dei servizi e parecchi ragazzi, addetti alle pulizie e camerieri dell'albergo, stavano appoggiati al muro e chiacchieravano. «Non è granché, ma per il momento è la mia casa,» disse Adams, aprendo la porta con una chiave che chissà come aveva tirato fuori dalla cintura del costume da bagno. L'interno del bungalow era fresco, le persiane erano chiuse e, dopo tutto il sole di fuori, sembrava buio. Evidentemente Adams aveva un condizionatore d'aria. Accese la luce. «Segga. S'accomodi. Cosa prende? Scotch? Birra? Coca?» «Una Coca, grazie.» Avevano battuto ben bene i piedi sulle nude piastrelle fuori della porta. A passo svelto, levando un crepitio dalle piastrelle, Adams attraversò la stanza fino a un passetto che dava in una cucina. Lui intanto si guardava intorno. Aveva proprio l'aria di una casa. C'erano conchiglie, libri, carte, uno scrittoio che aveva l'aria di essere adoperato parecchio, con bottigliette d'inchiostro, penne, una scatoletta di francobolli, un temperamatite, un dizionario aperto. Un Reader's Digest. Anche una Bibbia. Era uno scrittore Adams? Il dizionario era inglese-russo, accuratamente avvolto in carta marrone. Una spia, allora? Sorrise all'idea. Sopra lo scrittoio era appesa la foto incorniciata d'una casa rurale americana, probabilmente del New England, una bianca fattoria cinta, a parecchia distanza, da una siepe punteggiata d'alberi. C'erano olmi nella fotografia, un cane da pastore, ma nessun cristiano. Si girò quando Adams entrò recando un piccolo vassoio. Per sé, l'americano aveva portato scotch e soda. «È astemio?» chiese, col sorrisetto che gli gonfiava le guance. «No. Ho solo voglia di una Coca. Da quanto tempo lei è qui?» «Un anno.» Adams molleggiava sulla punta dei piedi. Aveva piedi arcuati e alti di collo ma piccoli, alquanto ripugnanti. Gli bastò guardarli una volta, poi non li guardò più. «Sua moglie non è qui?» Su un cassettone alle spalle di Adams aveva visto la fotografia di una donna: quarantenne, con un sorriso e un vestito
indefinibili. «Mia moglie è morta cinque anni fa. Cancro.» «Oh... Cosa fa per passare il tempo, qui?» «Non avverto la solitudine. Mi tengo occupato.» Di nuovo quel sorriso da scoiattolo. «Ogni tanto all'albergo capita qualche persona interessante, facciamo conoscenza, poi va via. Mi considero una specie di ambasciatore americano. Propagando la buona volontà - spero - e il sistema di vita americano. Il nostro sistema di vita.» Che caspita vorrà dire, si chiese lui, pensando automaticamente alla guerra nel Vietnam. «In che modo?» «Ho i miei sistemi... Ma mi parli di lei, Mister Ingham. Perché non siede? È qui in vacanza?» Sedé su una grossa poltrona di pelle a spalliera alta che scricchiolò. Adams prese posto sul divano. «Sono scrittore e sto aspettando un amico americano che deve girare un film qui. Come regista e operatore. Il produttore è a New York. Una cosa alla buona.» «Interessante. Un film su che soggetto?» «La storia di due giovani tunisini. John Castlewood - l'operatore - conosce molto bene la Tunisia. Ha vissuto alcuni mesi in una famiglia di Tunisi.» «Così lei è uno sceneggiatore?» Adams stava infilandosi una camiciola a maniche corte dai colori vivaci. «No, scrittore. Romanzi. Ma il mio amico John ha voluto che facessi questo film con lui.» Detestava l'argomento. «Che libri ha scritto. S'alzò. Sapeva che erano in arrivo altre domande, perciò disse: «Quattro. Uno è Il gioco del Se. Probabilmente non ne ha neppure sentito parlare.» Adams non ne aveva sentito parlare, infatti, e lui proseguì: «Un altro s'intitola Il porco malato. Non un gran successo.» «Il porco alato?» chiese Adams, come previsto. «Malato,» ripeté. «Volevo che suonasse come alato, capisce?» Avvertì un certo calore al viso: vergogna, forse, o noia. «Ne ricava da vivere?» «Sì. Ogni tanto lavoro per la televisione, lì a New York.» A un tratto pensò a Ina e quel pensiero gli comunicò un fremito in tutto il corpo che, stranamente, rese Ina più reale di quanto era stata sin da quando aveva messo piede in Europa e, poi, in Africa. La vide lì nel suo ufficio di New
York. Doveva essere più o meno mezzogiorno in quel momento. Stava prendendo una matita; no, un foglio di carta per macchina. Se aveva un appuntamento per la colazione sarebbe arrivata in ritardo. «Lei forse è famoso e io ne sono completamente all'oscuro,» disse Adams, sorridendo. «Non leggo molti romanzi. Ogni tanto, quelli condensati. Roba come il Reader's Digest, sa. Se ha con sé qualcuno dei suoi libri mi piacerebbe leggerlo.» Gli sorrise. «Mi dispiace. Non li porto dietro in viaggio.» «Quando deve arrivare il suo amico?» Adams s'alzò. «Gliene do un'altra? Oppure preferisce uno scotch, adesso?» Accettò lo scotch. «Deve arrivare martedì.» Afferrò di scorcio un riflesso della propria faccia nello specchio appeso alla parete. Era arrossata dal sole e cominciava a abbronzarsi. Le labbra avevano una piega severa, sembrava quasi imbronciato. All'improvviso, una voce che urlava qualcosa in arabo proprio davanti alle finestre con le persiane chiuse, lo fece quasi sobbalzare; tuttavia continuò a guardarsi nello specchio. Così mi vede Adams, pensò, così mi vedono gli arabi: una faccia americana qualunque, con occhi azzurri che fissano troppo ogni cosa e una bocca che non è un capolavoro di simpatia. Tre pieghe che gli ondeggiano attraverso la fronte e un inizio di rughe intorno agli occhi. Una faccia, tutto sommato non molto simpatica. F tuttavia era impossibile cambiare espressione senza da re nel falso. Lotte aveva fatto i suoi danni. Il massimo che poteva fare, pensò all'improvviso, la cosa giusta da fare era di mantenersi neutrale, né distaccato né compagnone. Calmo, insomma. Si girò quando Adams arrivò con il suo scotch. «Cosa ne pensa della guerra?» chiese l'americano, col suo solito sorriso. «Gli istraeliani ormai l'hanno vinta.» «Riesce a sentire notizie? Alla radio?» Era interessato. Devo comprarmi una radiolina, pensò. «Riesco a prendere Parigi, Londra, Marsiglia, la Voce dell'America, praticamente tutto,» Adams indicò una porta, che probabilmente dava nella camera da letto. «Notizie ancora frammentarie, ma praticamente gli arabi sono finiti.» «Poiché l'America appoggia Israele, immagino che ci saranno delle dimostrazioni antiamericane, no?» «Qualcuna certamente,» rispose Adams, con la stessa spensieratezza che avrebbe avuto parlando dei fiori che spuntavano nel suo giardino. «Peccato che gli arabi non riescano a vedere a un palmo dal naso.»
Lui gli sorrise. «Pensavo che simpatizzasse per loro.» «Perché dovrei?» «Visto che vive qui, pensavo che li apprezzasse.» D'altro lato, leggeva il Reader's Digest, che è puntualmente anticomunista. D'altro lato: l'altro lato di che? «Gli arabi mi piacciono. Tutte le razze mi piacciono. Sono però dell'opinione che gli arabi dovrebbero sfruttare di più la loro terra. Quel che è fatto - la creazione di Israele - è fatto, bene o male che sia. Sissignore, gli arabi dovrebbero sfruttare di più il deserto, per esempio, e smetterla di lagnarsi. Troppi arabi poltriscono senza far niente.» Era vero, pensò lui, ma poiché quell'Adams leggeva il Reader's Digest tutto quello che diceva era sospetto e andava preso con le molle. «Lei ha una macchina? Pensa che gli arabi gliela rovesceranno?» Adams ridacchiò, tranquillo. «No, qui no. La mia macchina è la Cadillac nera, decappottabile, che sta sotto gli alberi. La Tunisia, naturalmente, è dalla parte degli arabi ma Bourguiba non è disposto a tollerare disordini. Non può permetterselo.» Poi parlò della sua fattoria nel Connecticut e dei suoi affari a Hartford. Aveva un'impresa d'imbottigliamento di bevande. Era chiaro che gli faceva piacere parlare del passato. Il suo era stato un matrimonio felice. Aveva una figlia che viveva a Tulsa. Il marito era un ingegnere in gamba. Intanto lui pensava: Ho paura di innamorarmi di Ina. Ho paura d'innamorarmi di chiunque da quando è finita con Lotte. Era così chiaro. Si chiese come mai non se ne fosse reso conto prima, mesi prima. Come mai se ne accorgeva adesso, mentre parlava con quell'ometto sciapo del Connecticut? O dell'Indiana? Di dove aveva detto d'essere? S'accomiatò, con la vaga promessa di farsi trovare il giorno dopo verso le otto, cioè prima di cena, al bar: Adams aveva detto infatti che per non cucinare a volte cenava lì al Reine. Poi mentre si dirigeva verso l'edificio principale dell'albergo il ricordo di Ina ritornò. Dopotutto, pensò, quel che provava per lei era positivo più che negativo. Non impazziva per lei, ma le voleva bene e gli era necessaria. Prima di firmare il contratto per il film da Il gioco del Se, per esempio, glielo aveva portato a leggere, perché per lui la sua approvazione era importante quanto quella del proprio agente. (In effetti Ina sapeva tutto sui contratti cinematografici, ma lui aveva voluto la sua approvazione anche per ragioni emotive.) Era intelligente, graziosa e tìsicamente attraente. Era fidata e equilibrata, aveva un lavoro e non era né pesante né noiosa come invece a volte, doveva ammetterlo, era Lotte fuori
dal letto. Aveva anche un certo talento come commediografa, anzi, in quel campo s'era mostrata anche più brava di lui, al punto che c'era da chiedersi perché mai John non avesse proposto a lei di scrivere la sceneggiatura anziché a lui. Forse gliel'aveva chiesto e lei non aveva potuto lasciare New York. John e Ina si conoscevano da prima che lui conoscesse loro due. Ina, pensò, poteva benissimo non avergli detto che John le aveva offerto, se glielo aveva offerto, di collaborare a Trio. All'improvviso si sentì risollevato. Se quando arrivava all'albergo non c'era nessuna lettera di John, se non ce n'era nessuna neppure l'indomani e se John non arrivava il giorno 13, sentiva di poter accettare la cosa con calma. Forse, dopotutto, stava acquistando ritmi africani: Non essere ansioso. Lascia che il tempo faccia il suo corso. Cominciava a pensare che Francis J. Adams poteva aver funzionato chissà come da stimolo. Il Reader's Digest e i suoi compendi! Il sistema di vita americano! Quell'Adams era così sfacciatamente soddisfatto di se stesso e di tutto da rappresentare un miracolo, di quei tempi. Mentre era da lui, uno dei ragazzi arabi aveva portato degli asciugamani puliti e Adams gli aveva rivolto la parola in arabo. Aveva avuto l'impressione che fosse simpatico al ragazzo. Provò a immaginare cosa significava vivere in quell'albergo per un anno. Cos'era, una specie di agente americano? No, era troppo ingenuo. O questo faceva parte del suo mascheramento? Di questi tempi non si sa mai, no? Chi lo capiva quell'Adams. 3 Il 13 giugno arrivò e passò. Da John nessuna notizia e, ciò che era ancora più strano, nessuna notizia neppure da Ina. Il 14, ispirato da un'ottima colazione lì in albergo, telegrafò a Ina: CHE SUCCEDE? SCRIVIMI HOTEL REINE HAMMAMET. TI AMO. HOWARD Glielo mandò alla CBS. Così lo avrebbe ricevuto subito, la mattina dopo, giovedì. Era in Tunisia da due settimane ormai e non aveva ricevuto neppure un rigo, né da John né da Ina. Persino Jimmy Goetz, che non era tipo da scriver lettere, gli aveva mandato una cartolina d'auguri. Jimmy era a Hollywood per scrivere la sceneggiatura di un film tratto da un certo romanzo. La sua cartolina era arrivata all'Hotel du Golfe.
Il tempo cominciò a passare lentamente. Si trascinò dunque per due giorni, poi o si adattò mentalmente oppure, forse, si mise al passo: sta di fatto che finì col non farvi più caso. Faceva progressi nella preparazione del romanzo e ormai aveva chiaramente in testa i primi tre capitoli. Adesso era a mezza pensione in albergo e consumava o la colazione o il pranzo fuori, di solito al ristorante Chez Melik nell'abitato di Hammamet, a un chilometro dall'albergo. Ci arrivava a piedi lungo la spiaggia (e la sera la cosa era più piacevole perché non faceva caldo) oppure in macchina. Quello di Melik era un ristorante all'aperto, economico e alla buona, un paio di gradini più su della strada. Era ombreggiato da un pergolato e in un angolo dava su un recinto con una tettoia di paglia nel quale a volte c'erano, in attesa di essere macellate, pecore e capre. Altre volte invece di animali vivi c'era un mucchio di pelli di pecora sanguinanti alle quali s'aggrappavano i gatti e intorno alle quali ronzavano mosche. Non era sempre un piacere guardare da quella parte. La cosa positiva del ristorante di Melik era la clientela mista: cammellieri in turbante, studenti tunisini e francesi con chitarre e strumenti tipo flauto, turisti francesi, qualcuno inglese e uomini del villaggio che se ne stavano lì a bere vino rosé e a spizzicare frutta fino a mezzanotte. Una volta Adams ci andò con lui. Naturalmente c'era già stato prima e ne era meno entusiasta di lui: lo avrebbe preferito un po' più pulito. All'albergo, intanto, lui aveva conosciuto quattro o cinque tipi, nessuno dei quali lo aveva impressionato granché. Una coppia di americani lo avevano invitato a un bridge ma lui aveva declinato dicendo di non saper giocare, il che era più o meno vero. Un altro, un certo Richard Messerman, anche lui americano, era scapolo e a caccia ma, a sentir lui, aveva fortuna solo all'Hotel Fourati, a più di un chilometro di distanza, dove spesso passava le serate. C'era poi un omosessuale tedesco, di Amburgo, che, gli confessò, con i ragazzi arabi aveva fortuna solo a Hammamet, e non poca. Si chiamava Heinz vattelapesca, parlava bene inglese e francese e portava di solito pantaloni bianchi con cinture colorate. Tutto sommato, dunque, e per quanto strano, trovava che quella di Adams era la compagnia migliore. Forse perché non gli faceva domande e perché aveva gli stessi modi affabili con tutti: Melik, il farmacista, l'impiegato dell'ufficio postale, i ragazzi arabi dell'albergo. Sembrava contento di tutto e di tutti. Probabilmente, prima o poi in lui sarebbero saltati fuori il bigotto o il reazionario, ma dopo quasi due settimane il fatto ancora non era successo.
Il caldo intanto aumentava. Si ritrovò così a mangiar meno e a perder peso. Aveva mandato un secondo telegramma a Ina, questa volta all'indirizzo di casa, Brooklyn Heights, e ancora non aveva ricevuto risposta. Tre giorni dopo l'invio del secondo telegramma, un pomeriggio, quando a New York era mattina é lei sarebbe stata in ufficio, cercò di telefonarle. Il tentativo lo tenne inchiodato nell'atrio a aria condizionata dell'albergo per più di due ore: non riuscirono a mettersi in comunicazione neppure con Tunisi. Le linee con Tunisi erano tutte occupate. Si convinse così che telefonare era un'impresa disperata, a meno di non andare a Tunisi, cosa possibilissima del resto, visto che era soltanto a sessantuno chilometri di distanza. E tuttavia non ci andò né tentò più di telefonare. Scrisse invece una lunga lettera, nella quale diceva: . L'Africa aiuta stranamente a pensare. È come trovarsi nudo, in pieno sole accecante, contro una parete bianca. In un certo senso, niente rimane nascosto in questa vivida luce... Del suo principale timore, invece, di innamorarsi cioè, e di conseguenza del proprio ancor più essenziale sentimento nei riguardi di lei, preferì non parlare. Forse prima o poi gliene avrebbe fatto cenno o forse la cosa migliore era proprio non parlarne affatto, perché Ina avrebbe potuto fraintendere e concludere che lui non era abbastanza convinto nei suoi confronti. Di' a John che se non s'affretta a venire mi metterò a scrivere il mio romanzo. Cosa lo trattiene? È vero, qui è bello, si è liberi (se si tiene a queste cose), ma sta diventando una specie di vacanza e a me non piacciono le vacanze... Gli arabi sono molto ospitali e alla buona. Oziano molto, seduti ai tavoli sotto gli alberi, a bere caffè e vino. Vicino a una vecchia fortezza che si spinge sul mare c'è un quartiere che somiglia alla Casbah. Ci sono case tutte bianche, piene di mamme allegre e grassocce, quasi tutte di nuovo incinte. Mai una porta chiusa, così puoi vedere stanze con tappeti a terra, bambini a quattro zampe, bracieri accesi e nonne che vi sventolano davanti il lembo dei loro scialli... La macchina è una Peugeot familiare, e finora si comporta bene... Mi piacerebbe da morire che tu fossi qui. Perché John non l'ha offerto a tutt'e due questo lavoro?... Mi manderesti un'istantanea? Sai che non ho neppure una fotografia tua?
Probabilmente, per scherzo, gli avrebbe mandato una fotografia orribile, pensò. Dove ammettere di essere terribilmente solo. Calcolò che quella lettera le sarebbe arrivata dopo quattro o cinque giorni, vale a dire il 20 o il 21 giugno. Gli israeliani avevano vinto, e come, la guerra; blitz krieg, la chiamavano i giornali. Come aveva previsto Adams, a Hammamet conseguenze serie non ce ne furono, solo a Tunisi s'ebbero abbastanza vetri rotti e scontri in strada da far preferire di starsene alla larga. Se nei caffè di Hammamet gli arabi parlassero o no della guerra, lui Ingham non avrebbe saputo dirlo perché non capiva una parola. I loro discorsi avevano un certo livello di vivacità e strepitio che sembrava immutabile. Aveva già fatto richiesta di un bungalow e il 19 giugno se ne rese uno disponibile. Il frigorifero e il fornello in cucina erano nuovissimi perché, gli aveva detto Adams, quella fila di bungalows era stata costruita soltanto in primavera. Proprio su uno dei viali dell'albergo, a un centinaio di metri dal suo bungalow, c'era un piccolo emporio molto ben fornito che vendeva tra l'altro alcolici e birra fredda, scatolame d'ogni tipo e marca e persino utensileria da cucina e. dentifrici. Se si fosse stabilito lì con John, pensava lui, non avrebbero avuto bisogno di allontanarsi dal bungalow se non per una nuotata o una puntata all'emporio per le provviste. Il bungalow, il numero tre, era formato da una sola grande stanza oltre alla cucina e al bagno, ma aveva due letti singoli. Probabilmente John non avrebbe voluto dividerla per la notte, e neppure a lui l'idea piaceva eccessivamente, ma John poteva benissimo andare a dormire in una stanza nell'edificio principale. Il tavolo, nel bungalow, era grande, di legno, ottimo per lavorare. Il pomeriggio che vi si trasferì, comprò salame, formaggio, burro, uova, frutta, crackers Ritz e scotch, dopodiché, verso le cinque, andò da Adams a invitarlo a battezzare con lui il bungalow. L'americano non c'era e lui immaginò che fosse alla spiaggia. Infatti lo trovò lì, disteso su una stuoia di paglia, a pancia in sotto, intento a scrivere. Adams s'accorse di lui solo quando gli fu quasi addosso e completò la frase o quel che era con un gran svolazzo compiaciuto, dopodiché rimase con la penna a mezz'aria. «Salve Howard! Hai avuto il bungalow?» «Sì, poco fa.» Come previsto, Adams fu contento dell'invito. Promise di presentarsi al numero tre verso le sei. Quando lui tornò al bungalow riprese a disfare le valigie. Era contento di
avere una specie di «casa» invece d'una stanza d'albergo. Pensò alla sua scrivania nell'appartamento sulla Quarta Ovest, dalle parti di Washington Square. Lo aveva da appena tre mesi quell'appartamento; c'era l'aria condizionata e era il più costoso di tutti gli appartamenti da lui mai avuti. Lo aveva preso solo dopo aver concluso la vendita al cinema del Gioco del Se. Ina aveva la chiave. Sperava che ogni tanto v'andasse a dare un'occhiata, però s'era già portata le piante a casa sua lì a Brooklyn e così, oltre a inoltrargli la posta apparentemente importante, in fondo non aveva altro da fare. Ina aveva il dono di capire ciò che era importante e ciò che non lo era. Lui naturalmente aveva avvertito l'agente e l'editore che andava in Tunisia e a quel punto certo già sapevano anche che era al Reine. «Bene!» Adams stava sulla porta con una bottiglia di vino in mano. «Sembra proprio carino. Ecco qua. Ti ho portato questo. Per il battesimo. Oppure per il tuo primo pasto.» «Oh, grazie, Francis! Sei molto gentile. Cosa bevi?» Bevvero il solito scotch, Adams con la soda. «Notizie del tuo amico?» «No, purtroppo.» «Non puoi telegrafare a qualcuno che lo conosce?» «L'ho fatto.» Alludeva a Ina. Mokta, il cameriere del bar dei bungalows, un ragazzo, bussò alla porta apèrta con un gran sorriso stampato in faccia. «Buonasera, messieurs,» disse in francese. «Hanno bisogno di qualcosa?» «Niente, credo. Grazie,» rispose lui. «A che ora desidera la prima colazione, signore?» «Oh, servite la prima colazione?» «Non è obbligatorio prenderla,» rispose Mokta con un vago gesto. «Però qui ai bungalows molti la prendono.» «Benissimo. Alle nove, allora. No, alle otto e mezzo.» Probabilmente non sarebbero stati puntuali. «Un bravo ragazzo quel Mokta,» osservò Adams quando l'arabo fu andato via. «È qui sgobbano sul serio. Hai visto la cucina laggiù?» Indicò verso l'edificio basso e quadrato che era il bar-caffè all'aperto dei bungalows. «È la stanza in cui dormono?» Lui sorrise. «Sì.» Vi aveva dato un'occhiata proprio quel giorno. I ragazzi dormivano in una stanza zeppa di letti, una dozzina. In cucina, il lavello era pieno di piatti e acqua sporca. «Sai, gli scoli sono sempre intasati. Io la mia colazione me la preparo da
me. È un tantino più igienico, penso. Mokta è simpatico. Solo che quella directrice antipatica lo sfianca. È una tedesca e probabilmente l'hanno assunta solo perché parla arabo e francese. Se mancano gli asciugamani, tocca a Mokta andare a prenderli all'edificio principale. Come va il tuo libro?» «Ne ho scritto venti pagine. Non è il mio solito ritmo, ma non posso lamentarmi.» L'interesse di Adams gli fece piacere. Aveva scoperto che non era né scrittore né giornalista, ma ancora non sapeva cosa facesse esattamente, a parte studiare alla meglio il russo. Magari non faceva niente. Cosa del tutto possibile del resto. «Dev'essere duro scrivere sapendo di dover smettere da un giorno all'altro,» osservò l'americano. «Non è un problema per me.» Riempì di nuovo il bicchiere di Adams e gli offrì crackers e formaggio. Il bungalow cominciava a diventare più accogliente. Attraverso le persiane azzurre socchiuse, gli ultimi raggi del sole brillavano sulle pareti bianche. Pensò che a lui e a John la sceneggiatura non avrebbe preso più di dieci giorni Johr conosceva un tale a Tunisi che lo avrebbe aiutato a formare un piccolo cast. Tra l'altro, non voleva attori professionisti. Quando, più tardi, andarono con la Peugeot a mangiare da Melik erano entrambi di buonumore. Il ristorante era pieno a metà, non c'era ancora chiasso. Qualcuno stava pizzicando una chitarra, a un tavolo in fondo, e qualcun altro soffiava maldestramente in un flauto. Adams parlò della sua figlia di Tulsa, Caroline. Il marito, l'ingegnere, stava per essere mandato nel Vietnam perché faceva parte di una specie di riserva civile dell'esercito. Entro cinque mesi Caroline avrebbe avuto un figlio e lui Adams era contento e ottimista al riguardo, benché lei avesse abortito del primo figlio. Adams, s'era ormai capito, era a favore della guerra nel Vietnam. E la cosa a lui seccava. Gli seccava parlarne con gente come Adams, quindi quella sera fu contento che non venisse fatto alcun accenno alla guerra. Dio e Democrazia, ecco in cosa credeva Adams. Quindi niente, almeno finora, bigotteria e reazione, ma una specie di Billy Graham, un Dio milleusi, con una passata di morale antiquata. Ciò di cui i vietnamiti avevano bisogno, diceva Adams in parole terribilmente povere, era il tipo di democrazia americana. Oltre al loro tipo di democrazia, pensava lui invece, gli americani stavano iniziando i vietnamiti al sistema capitalistico, rappresentato da una industria bordellesca, e al sistema classista americano, in base al quale ai neri facevano pagare più care le marchette.
Lui stava a sentire e annuiva e crepava di noia, vagamente irritato. «Non ti sei mai sposato?» chiese Adams. «Sì. Una volta. Divorziato. Niente figli.» Stavano fumando, dopo il couscous. Niente carne decente quella sera, ma il couscous e la salsa forte e speziata erano stati deliziosi. Il couscous, aveva spiegato Adams, era il nome che in Africa davano alla farina di miglio, una farina granulosa, cotta a vapore sopra un brodo. Lo si poteva fare anche con farina di grano. Era d'un colore dorato, d'un sapore delicato e sopra vi venivano spalmati cucchiaiate di salsa rossa piccante o semipiccante, rape e pezzi di agnello stufato. Era una specialità di Melik. «Anche tua moglie scriveva?» «No, non faceva niente,» rispose lui, accennando un sorriso. «Perdeva solo tempo. È stato molto tempo fa.» Era pronto a dire, se glielo avesse chiesto, che non era passato più di un anno e mezzo. «Pensi di risposarti?» «Non lo so. Perché? Secondo te quella è la vita ideale?» «Mah. Secondo me dipende. Per ogni uomo è diverso.» Adams stava fumando un pìccolo sigaro. Quando aspirava e le guance gli si appiattivano, la faccia sembrava più lunga, più normale, e quando si toglieva il sigaro di bocca quelle tornavano a gonfiarglisi leggermente, come una caricatura. Tra le due guance, la bocca sottile e rosea si tendeva in un sorriso ottimista. «Io sono stato certamente felice. Mia moglie sapeva mandare avanti una casa. Faceva marmellate, curava il giardino, una buona padrona di casa, insomma. Ricordava sempre il compleanno di tutti, e via dicendo. Non si seccava mai quando facevo tardi lì in fabbrica... Avevo pensato di risposarmi. C'era persino una donna che mi sarebbe piaciuto sposare, molto simile a mia moglie, ma quando non si è più giovani non è più la stessa cosa.» Lui non sapeva cosa dire. Pensò a Ina e gli sarebbe piaciuto averla lì in quel momento, seduta insieme con loro due; gli sarebbe piaciuto fare una passeggiata con lei sulla spiaggia quella sera, dopo aver dato la buonanotte a Adams. Gli sarebbe piaciuto rientrare al bungalow e andare a letto con lei. «Non hai nessuna ragazza adesso?» Si riscosse. «Sì, più o meno.» Adams sorrise. «Dunque, sei innamorato?». Di Ina non gli andava di parlare con nessuno, ma con uno come quell'Adams era poi tanto grave parlarne? «Sì, credo di sì. La conosco ormai da
un anno. Lavora alla CBS-TV a New York. Ha scritto soggetti per la televisione e anche dei racconti. Parecchi pubblicati» aggiunse. Il suonatore di flauto stava acquistando confidenza. Si levò una tremolante canzone araba, subito rinforzata da una lagnosa voce maschile. «Quanti anni ha?» «Ventotto.» «Abbastanza da sapere quello che vuole.» «Em-m. Le è già fallito un matrimonio, quando aveva ventuno o ventidue anni. Quindi sono sicuro che non ha fretta di rifare lo stesso errore. E neppure io.» «Ma conti di sposarti?» La musica diventava sempre più forte. «Vagamente... Non vedo che importanza possa avere, a meno che uno non desideri avere dei figli.» «Ti raggiungerà qui in Tunisia?» «No. A me piacerebbe. Conosce molto bene John Castlewood. In effetti, è stata lei a presentarmelo. Ma è bloccata dal lavoro a New York.» «E neppure lei ti ha scritto? Di John?» «No.» Si sentì alquanto ben disposto verso Adams. «Strano, no? Fino a che gradò di lentezza può arrivare la posta qui.» Era arrivato il dessert di yoghurt. C'era anche un vassoio di frutta. «Parlami ancora della tua ragazza. Come si chiama?» «Ina Pallant... Abita con i suoi, in una grande casa a Brooklyn Heights. Ha un fratello handicappato al quale è molto attaccata. Joey. Con una sclerosi multipla che praticamente lo inchioda alla sedia a rotelle, ma Ina lo aiuta parecchio. Dipinge quadri surrealisti, e lo scorso anno Ina gli organizzò una mostra. Naturalmente non sarebbe stato facile organizzargliela se non fosse stato bravo. Ha anche venduto: sette o otto su una trentina di tele.» Non che ci tenesse molto a dirlo, ma immaginava che a Adams le cifre facessero impressione. «Uno dei quadri, per esempio, rappresentava un uomo stravaccato su una roccia in una foresta con in mano una sigaretta. Sul davanti della scena una bambina correva terrorizzata con un albero che le spuntava fuori dalla testa.» Adams si sporse in avanti, interessato. «E che cosa significherebbe?» «Il terrore della crescita. L'uomo rappresenta la vita e il male. È verde da capo a piedi. Sta seduto Sulla roccia e guarda, o non guarda affatto, con l'aria di avere il controllo completo della situazione.» Il figlio di Melik, un tredicenne grassottello, s'avvicinò al tavolo, vi si
appoggiò con le mani grassocce e scambiò qualche parola in arabo con Adams, che era tutto sorrisi. Poi il ragazzotto fece il conto e lui Ingham insisté per pagare: anche quello faceva parte del battesimo del bungalow. Quando poi furono sulla strada polverosa notò un vecchio arabo, già visto altre volte, che s'aggirava intorno alla sua macchina. Barbetta grigia, turbante bianco e classici calzoni rossi fermati chissà come sotto il ginocchio, camminava con un bastone. Lui Ingham era sicurissimo che quando lui non era in vista il vecchio provava gli sportelli della sua macchina sempre sperando, nella sua tenace pazienza, che sarebbero pur venuti l'ora e il giorno in cui si sarebbe dimenticato di chiuderne almeno uno. Quella volta, mentre l'arabo si trascinava via dalla grossa Peugeot, lui gli lanciò a malapena un'occhiata. Quell'arabo gli stava diventando familiare, come la fortezza rossiccia o il Café de la Plage non lontano dal ristorante di Melik. Insieme con Adams, s'avviò per un po' su per la strada principale ma quando questa divenne buia tornarono indietro. L'angolo più interessante del paese, l'unica sua parte ancora viva a quell'ora di sera, era lo spiazzo sabbioso davanti al Plage, ai cui tavolini sedevano pochi uomini con davanti un caffè o un bicchiere di vino. La luce gialla della grande vetrina del Plage lambiva le gambe dei primi tavolini e i piedi e i sandali degli avventori. Mentre guardava verso l'ingresso del caffè un uomo ne venne spinto fuori bruscamente e per poco non cadde. Lui e Adams si fermarono a guardare. L'uomo sembrava ubriaco. Ritornò di nuovo nel caffè e ne fu buttato di nuovo fuori. Un altro arabo uscì dal caffè, gli si avvicinò, gli mise un braccio intorno alle spalle e prese a parlargli. L'ubriaco aveva un'aria ostinata ma si lasciò condurre via in direzione delle case bianche alle spalle della fortezza. Affascinato dal furore da cui quell'uomo malfermo sulle gambe sembrava animato, lui Ingham rimase a guardarlo. Quando fu fuori dal raggio delle luci del caffè, l'uomo si fermò e girò a metà, guardando con aria di sfida verso il caffè. Sulla soglia di questo, ora, un uomo alto e quello che aveva circondato con un braccio la spalla dell'ubriaco, stavano parlando tenendo d'occhio la figura immobile e ostinata a duecento metri da loro. Colpito dalla scena, lui si chiese se quella gente era armata di coltello. Forse si trattava di un vecchio rancore. «È probabile che abbiano litigato per una donna,» osservò Adams. «Sì.» «Molto gelosi infarto di donne, sai.»
«Immagino.» Passeggiarono un po' sulla spiaggia, anche se la sabbia sottile nelle scarpe gli dava fastidio. Alla luce della luna, gruppi di ragazzini - la seconda o terza ondata di rastrellatori, dopo i genitori o i fratelli più grandi raccoglievano cose dalla spiaggia e le riponevano in sacchi che portavano appesi al collo. Lui non aveva mai visto una spiaggia più pulita di quella. Non trascuravano niente quegli spazzini, neppure una scheggia di legno, perché questo serviva per il fuoco, e tanto meno le conchiglie, perché le vendevano, tutte quelle possibili e immaginabili, ai turisti. Presero un ultimo caffè al Plage. Sulla loro destra, oltre un'arcata dalla quale venivano fuori odori, su una parete blu a meno di un metro di distanza c'era una enorme scritta W.C. e una freccia dipinta di nero. Il soffitto era a costoloni, se così è possibile definirlo, i cui profili sporgevano da sostegni sporgenti e ornati di grossi pomelli gialli che ricordavano lampade da palcoscenico. A un tratto lui s'accorse che non aveva più niente da dire a Adams. Questi, altrettanto silenzioso, doveva essersi accorto a sua volta della stessa cosa nei suoi riguardi. Bevendo gli ultimi sorsi del caffè nero e dolce, lui dunque sorrideva al vuoto. Il fatto che due tipi come lui e quell'Adams si trascinassero in giro insieme solo perché erano entrambi americani era semplicemente ridicolo. E tuttavia, una ventina di minuti più tardi, nel recinto dell'albergo, la loro buonanotte fu abbastanza calorosa. Adams gli augurò una felice permanenza, come se si fosse trasferito lì per sempre, oppure, concluse lui, come se si fosse appena aggregato a una spedizione destinata a mesi e mesi di isolamento e solitudine. Mentre lui invece non aveva doveri da compiere se non quelli che si assegnava lui stesso, libero com'era di spaziare dove voleva con la sua Peugeot, per centinaia di chilometri. Quella sera prima di andare a letto consultò i suoi due taccuini di indirizzi, quelli che riguardavano la sua vita privata e quelli che riguardavano il lavoro: ne trovò due ai quali poteva scrivere in riferimento a John. (Non aveva, o l'aveva lasciato a New York, l'indirizzo di Miles Gallust, e si rimproverò per questa trascuratezza.) Erano gli indirizzi di William McIlhenny, un editore dell'ufficio di New York della Paramount, e di Peter Langland, un fotografo professionista che, a quanto ricordava, conosceva molto bene John. In un primo, momento pensò di telegrafare, poi decise che un telegramma sarebbe risultato troppo enfatico, quindi scrisse un breve e confidenziale biglietto a Peter Langland (si erano conosciuti a un party in compagnia di John e lui ora lo ricordava con più precisione: un ti-
po biondo e bene in carne, con gli occhiali) per chiedergli di sollecitare John a mandargli un telegramma, nel caso non gli avesse ancora scritto. I quattro, se non cinque, giorni che la lettera avrebbe impiegato per arrivare a New York gli sembravano a questo punto un secolo, ma cercò di imporsi una certa pazienza. Si trovava in Africa, dopotutto, non a Parigi o Londra. La lettera doveva arrivare prima a Tunisi e poi sarebbe stata imbarcata su un aereo. La imbucò la mattina dopo. 4 Passarono due o tre giorni. Lavorò. La mattina, Mokta gli portava la prima colazione verso le nove e quindici, nove e trenta. Aveva sempre una domanda da fare: «Funziona il frigorifero?» Oppure: «Hassim le ha portato abbastanza asciugamani?» E queste cose le chiedeva sempre con un sorriso disarmante. Era più biondo che bruno e aveva occhi grigio azzurro con lunghe ciglia. Lui immaginava che riscuotesse successo sia con le donne che con gli uomini e, benché avesse solo diciassette anni, doveva aver già avuto esperienza con entrambi. In ogni modo, con quel bell'aspetto e quei modi, non avrebbe certamente passato il resto della vita a portare vassoi della colazione o pile di asciugamani da un capo all'altro della spiaggia. «Vorrei una sola cosa, amico mio,» gli disse lui una mattina. «Se in quel manicomio vedi una lettera per me, che me la portassi subito.» Il ragazzo rise. «Bien sûr, m'sieur! Je regard tout le temps... tout le temps pour vous!» Lui lo salutò con un vago cenno della mano e si versò del caffè, che era abbastanza forte ma non abbastanza caldo. Altre volte invece era tutto il contrario. S'infilò la giacca del pigiama. Dormiva infatti solo con i pantaloni. Anche la notte faceva caldo. Pensò alla scrivania nell'ufficio della direzione dei bungalows. Poteva sperare che quel giorno, per le dieci e trenta-undici, gli arrivasse una lettera? Alla direzione dell'albergo gli avevano detto che la posta arrivava due volte al giorno alla direzione dei bungalows e che veniva consegnata immediatamente, ma era chiaro che nella realtà le cose andavano diversamente perché lui aveva visto gente andare nell'ufficio della direzione dei bungalows a sfogliare la posta, la quale a volte veniva distribuita e a volte no. Come poteva aspettarsi che quei ragazzi arabi o quella directrice tedesca, indaffarata e bisbetica, prendessero veramente
a cuore il problema della posta? Non c'era mai nessuno dietro quella scrivania. Pile di asciugamani si accumulavano in un angolo dell'ufficio benché poi una volta, dopo aver adoperato il proprio asciugamano per più di una settimana, quando ne aveva chiesto uno pulito il ragazzo gli avesse risposto di non averlo cambiato perché gli sembrava pulito. Lungo le pareti c'erano misteriosi classificatori di metallo grigio. L'assurdità delle cose raggruppate lì dentro dava un'aria di quasi kafkiana inutilità a quell'ufficio, almeno ai suoi occhi. Aveva la sensazione che da quella stanza non potesse né sarebbe mai venuta fuori per lui una lettera di qualche importanza, e tuttavia impazziva quando a volte trovava la porta chiusa, senza apparente motivo, a chiave con nessuno che avesse quest'ultima o, avendola, fosse lì pronto a aprire. Questo lo spediva dritto di corsa attraverso la spiaggia fino all'edificio principale nella vaga speranza che la posta fosse arrivata e non l'avessero ancora portata ai bungalows. Stava lavorando quando, poco prima delle undici, Mokta arrivò con una lettera. Lui quasi gliela strappò di mano, dopodiché automaticamente si frugò in tasca in cerca di spiccioli. «Evviva!» esclamò. La busta era di quelle commerciali, lunghe, e veniva da New York. «Succés!» disse Mokta. «Merci, m'sieur.» S'inchinò e uscì. La lettera, strana combinazione, era di Peter Langland: s'era incrociata con la sua. 19 giugno 19.. Gentile Ingham... o Howard, a quest'ora saprà certamente del triste fatto dello scorso weekend, poiché Ina disse che le avrebbe scritto. Avevo parlato con John appena due giorni prima. Stava attraversando una crisi, come lei probabilmente sa. O forse non sa. Però nessuno di noi s'aspettava una cosa del genere. Date le circostanze, temeva che non ce l'avrebbe fatta a portare a termine Trio, e questo, credo, lo faceva sentire doppiamente colpevole, visto che lei si trovava già in Tunisia. Poi c'erano i suoi problemi personali, come avrà saputo da Ina. So però che avrebbe voluto che le scrivessi un rigo per dirle che era spiacente: è quanto faccio ora. Proprio non ce la faceva a reggere il peso di tutto quanto gli gravava addosso. Volevo molto bene a John e lo stimavo moltissimo, come, penso, tutti quelli che lo conoscevano. Eravamo tutti convinti che avesse un grande avvenire davanti a sé. Immagino che lei ora tornerà a casa. Forse sarà già partito, in tal caso confido che le inoltrino
questa lettera. Suo Peter Langland John Castlewood s'era ucciso. S'avvicinò alla finestra con la lettera in mano. Le persiane azzurre erano chiuse contro l'incalzante sole del mattino, così rimase lì a fissarle come se vi vedesse attraverso. Quella dunque era la fine della spedizione in Tunisia. Come s'era ucciso? Una pistola? Molto più probabilmente sonnifero. Maledizione, pensò. E il motivo? Be', non conosceva John tanto bene da immaginarlo. Si ricordò della faccia di John: sempre animata, sempre sorridente, pallida al confronto con i capelli neri, dritti e lisci. Un tantinello inconsistente, forse, quella faccia. O era il senno di poi? In ogni modo, la barba, quella sì, era inconsistente contro la pelle chiara e morbida. Non gli era sembrato affatto depresso l'ultima volta che l'aveva visto, lì a New York, a quella cena insieme con Ina in un ristorante oltre Washington Square. Era stato alla vigilia della sua partenza. «Sai dove rivolgerti a Tunisi per noleggiare una macchina?» gli aveva chiesto, al solito occupandosi di cose pratiche, e poi gli aveva anche chiesto se avesse messo in valigia la pianta di Tunisi e la Guide Bleu della Tunisia che gli aveva prestate, o date. «Cristiddio!» esclamò. Prese a passeggiare su e giù per la stanza, era sconvolto. D'un tratto si ricordò di un episodio che gli aveva raccontato Adams. Quando aveva dieci anni l'americano stava pescando in un fiumiciattolo (nel Connecticut? nell'Indiana?) quando nel tirare su la lenza vi aveva trovato attaccato all'estremità un cranio umano, tanto vecchio però «da non avere più importanza», s'era espresso proprio così, al punto che non aveva detto niente ai genitori, i quali in ogni caso non gli avrebbero certamente creduto. Per paura, aveva seppellito il cranio. Desiderò all'improvviso il conforto della compagnia di Adams. Pensò di andare a dargli la notizia, poi decise di no. «Santiddio!» esclamò, e andò in cucina a versarsi uno scotch. A quell'ora non aveva un buon sapore, ma era comunque una specie di rito in onore di Castlewood. A questo punto, era il caso di cominciare a pensare al ritorno. Avrebbe dovuto avvertire l'albergo, informarsi sui voli da Tunisi a New York. Certamente la lettera di Ina sarebbe arrivata quel giorno stesso. Guardò il calendario. Il weekend al quale si riferiva Peter era quello del 10 e 11 giugno. Che caspita stava succedendo nel grande e dinamico mondo occi-
dentale? Sembrava diventato più lento della Tunisia. Uscì e s'avviò per il viale, a quell'ora deserto, che con una curva portava al caffè-ufficio postale-emporio dei bungalows. Sotto le scarpe di tela la sabbia era sottile come cipria. Camminava con le mani nelle tasche dei calzoni corti quando si vide venire incontro una donna enorme che parlava francese col figlio mingherlino, un giunco accanto a lei, e allora tornò sui propri passi, senza una meta. Stava cercando di capire cosa doveva fare. Forse telegrafare di nuovo a Ina. Poteva fermarsi an'cora un paio di giorni, in modo da ricevere la sua lettera. Se l'aveva scritta. Di colpo, tutto era diventato vago e incerto. Tornò al bungalow - di cui non aveva chiuso a chiave la porta, nonostante il consiglio di Adams che gli aveva detto di chiuderla sempre a chiave, anche se si allontanava per un minuto solo - prese il portafoglio e, chiuso a chiave questa volta, si avviò verso l'edificio dell'albergo. Avrebbe mandato un telegramma a Ina e dato un'occhiata ai giornali sui tavolini nell'atrio. A volte erano vecchi di vari giorni. Forse nell'Herald Tribune di Parigi ci sarebbe stato qualcosa su John. Doveva cercare il giornale di lunedì 12 giugno. O magari di martedì 13. Una serie di gradini larghi e bassi davano dalla spiaggia all'ingresso posteriore dell'albergo. Ai loro piedi c'era una doccia all'aperto per i bagnanti e una coppia di robusti tedeschi, un uomo e una donna, stava ridendo e urlando sotto l'acqua, mentre rispettivamente si toglievano la sabbia dalle spalle. Nell'avvicinarsi, però, scoprì che parlavano invece americano autentico. Dalla portineria mandò il telegramma a Ina: SAPUTO DI JOHN DA LANGLAND. SCRIVI O TELEGRAFA IMMEDIATAMENTE. SCONCERTATO. BACI. HOWARD Glielo mandò all'indirizzo di casa, a Brooklyn, perché lì lo avrebbe ricevuto senz'altro, qualunque cosa stava succedendo; inoltre, se per caso il fratello Joey non fosse stato bene, per curarlo non sarebbe andata in ufficio. Sui tavolini e sugli scaffali in fondo all'atrio non riuscì poi a trovare un solo giornale del weekend del 10-11 giugno né alcun giornale inglese o francese del 12 o 13 giugno. «Per cortesia,» disse in un preciso francese al portiere arabo, porgendogli un biglietto da cinquecento millimes, «se nella giornata di oggi dovesse arrivare una lettera per me, vuole inoltrarla immediatamente al mio bunga-
low? Numero 3. È molto importante.» Aveva scritto il proprio nome a stampatello su un pezzo di carta. Pensò di andare a bere qualcosa al bar, ma scartò l'idea. Non sapeva cosa fare. Stranamente, sentiva di poter lavorare al romanzo quel pomeriggio. Eppure la logica voleva che organizzasse la partenza e avvertisse subito l'albergo. Non lo fece. Tornò al bungalow, indossò il costume da bagno e andò sulla spiaggia. Da lontano vide Adams con la sua fiocina, ma riuscì a non farsi vedere. L'americano gli aveva detto che andava sempre a fare un bagno prima di colazione. Quel pomeriggio fu in grado di scrivere un solo paragrafo L'attesa della lettera di Ina lo teneva sulle spine, ma era sicuro che sarebbe arrivata con la posta di quel pomeriggio, che era lì tra le quattro e mezzo e le sei e mezzo. Invece non arrivò affatto, ebbe solo una lettera dal fisco americano in una busta finestrata, inoltratagli da Ina: volevano altri trecentoventotto dollari. A quanto pareva il suo fiscalista s'era sbagliato. Riempì l'assegno e lo mise in una busta aerea. Per scrupolo, poi, andò a guardare prima nell'ufficio della direzione dei bungalows (otto lettere giacenti ma nessuna per lui), quindi si diresse verso l'edificio principale dell'albergo. Niente neppure lì. Tornò indietro scalzo, con i sandali in mano e l'acqua che gli lambiva le caviglie. Il sole stava tramontando alle sue spalle, ma lui non staccava gli occhi da terra, dalla sabbia bagnata. «Howard! Che fine hai fatto?» Adams era a pochi metri da lui, col naso abbronzato e lucido. Sembrava un coniglio. «Vieni a bere qualcosa chez moi?» «Grazie,» fece lui. Esitò, quindi chiese: «Quando?» «Adesso. Stavo appunto rientrando.» «È stata una bella giornata per te?» chiese, con uno sforzo. S'erano avviati l'uno al fianco dell'altro. «Abbastanza, grazie. E per te?» «Pessima, grazie.» «Oh. Cos'è successo?» Indicò in direzione del bungalow di Adams; un gesto vago che, in effetti, aveva preso proprio dall'americano. Subito dopo imboccarono il viottolo di cemento cosparso di sabbia e passarono davanti alla direzione dei bungalows, Adams a piedi nudi, puliti, e lui con i sandali senza tacco che alla fine s'era dovuto infilare perché la
sabbia scottava. I sandali o le pianelle lo facevano sentire sciatto, e tuttavia erano senz'altro il tipo dì calzatura più fresco. Ospitale, Adams si mise subito al lavoro: preparò due scotch con ghiaccio. Una gradevole sensazione quella dell'aria condizionata. Lui uscì fuori a scrollarsi con cura la sabbia dai sandali, dopodiché rientrò. «Bevi,» invitò Adams, porgendogli il suo bicchiere. «Che novità ci sono?» Lui prese il bicchiere. «L'amico che doveva raggiungermi qui s'è ucciso a New York una decina di giorni fa.» «Come?... Santo cielo! Quando l'hai saputo?» «Questa mattina. Ho ricevuto una lettera da un suo amico.» «John, lui? Ma perché l'ha fatto? Una storia d'amore? Una questione di soldi?» Gli era grato per ognuna di quelle prevedibili domande. «Non credo che si tratti di una storia d'amore, ma in effetti non lo so. Può anche darsi che non ci sia nessun motivo preciso... ma soltanto dell'ansia. Cose del genere.» «Era un tipo nervoso? Un nevrotico?» «Più o meno. Ma non da arrivare a tanto.» «Come s'è ucciso?» «Non lo so. Sonnifero, immagino.» «Aveva ventisei anni, mi hai detto.» Interesse e premura, questo esprimeva la faccia di Adams. «Problemi di soldi?» Lui si strinse nelle spalle. «Non sguazzava, ma aveva abbastanza per questo film. Avevamo un produttore, Miles Gallust. Ci aveva anticipato qualche migliaio di dollari... Ma a che serve chiedersi? Probabilmente l'ha fatto per un mucchio di ragioni che io ignoro.» «Siediti.» Adams sedé sul divano, col bicchiere in mano, lui prese posto sulla cigolante poltrona di cuoio. Le persiane chiuse creavano una piacevole penombra nella stanza. Sul soffitto, sopra la testa di Adams, c'erano alcune strisce sottili di sole. «Bene,» disse Adams, «immagino che ora, senza John, penserai di andar via, di tornare negli Stati Uniti, vero?» Avvertì una certa tristezza nel tono di Adams. «Sì, certo. Tra pochi giorni.» «Notizie della tua ragazza?» Quel tua ragazza non gli piacque. «Non ancora Le ho mandato un tele-
gramma oggi.» Adams annuì, pensoso. «Quando è successo?» «Nel weekend del dieci e undici giugno. Mi dispiace di non aver letto i giornali proprio allora. Magari sull'Herald Tribune di Parigi ne avranno parlato.» «È un brutto colpo, me ne rendo conto,» dichiarò Adams, partecipe. «Lo conoscevi bene questo John?» Frasi di circostanza. Adams versò un secondo scotch per entrambi, e poco dopo lui se ne tornò al suo bungalow a infilarsi un paio di pantaloni per la cena. Aveva scioccamente sperato, nell'entrare nel bungalow, di trovare un telegramma di Ina sul tavolo da lavoro. Come al solito, invece, su quel tavolo non c'era nessun messaggio. Da Melik c'era molta animazione quella sera. A due tavoli c'erano strumenti a corda e da qualche altra parte una chitarra. A un altro tavolo ancora c'era un tale con un cane lupo tedesco, educato, che spingeva indietro le orecchie innervosito dal chiasso ma non abbaiava. C'era troppo chiasso per poter parlare tranquillamente e questo, dopotutto, non era un male, pensò lui. Il tipo col cane era alto e magro e sembrava americano. Vestiva in jeans e camicia di tela azzurra. Adams se ne stava lì col suo sorriso tutto grinze, scuotendo il capo ogni tanto, tollerante. Lui Ingham si sentiva come isolato, magari anche svuotato, in mezzo a tutto quel chiasso. L'americano col cane se ne andò. Per la seconda volta, Adams gridò: «Ho detto che dovresti vedere qualcos'altro ancora di questo paese prima di partire.» Lui annuì con enfasi. La luna era quasi piena. Passeggiarono per un po' sulla spiaggia e lui guardò la fortezza illuminata, con le mura color beige leggermente inclinate, guardò le bianche cupole delle case arabe ammassate dietro di essa, avvertì la dolce brezza nelle orecchie e si sentì lontanissimo da New York, da John e dai suoi misteriosi motivi, lontanissimo persino da Ina, con la quale ce l'aveva per non avergli scritto. Detestava però quel suo risentimento e la piccineria che glielo dettava. Probabilmente aveva i suoi buoni motivi per non scrivere. Certo. Ma quali erano? Non si sentiva vicino neppure a Adams, pensò a un tratto, con un lieve fremito di paura. O di solitudine. Dove se ne sarebbe andato? Domani darò un'occhiata alla carta della Tunisia, pensò. O riprendo a lavorare al libro finché non arriva una lettera o un telegramma di Ina. Era la cosa più saggia da fare. Il bungalow, prima
colazione compresa, gli costava sei dollari al giorno, quindi non aveva preoccupazioni per i soldi. Ma naturalmente adesso buona parte di quelle spese in Tunisia erano a carico suo ormai. In ogni modo, doveva aspettare ancora un due o tre giorni notizie da Ina, nel caso gli avesse scritto e non telegrafato. Si salutarono sul viale dei bungalows. «Hai tutta la mia comprensione,» disse Adams a bassa voce, perché nei bungalows vicini la gente dormiva. «Cerca di riposarti. È stato un colpo per te, Howard.» 5 Aveva intenzione di dormire fino a tardi e invece si svegliò presto. Andò a fare un bagno, ritornò e si preparò del caffè istantaneo. Erano appena le sette e mezzo. Lavorò finché, alle nove, Mokta gli portò la prima colazione. «Ah, lavora presto stamattina,» osservò il ragazzo. «Stia attento, le verranno i giramenti di testa.» Col dito all'altezza dell'orecchio imitò un movimento rotatorio. Lui gli sorrise. Aveva notato che la preoccupazione costante degli arabi era quella di sforzarsi troppo il cervello. Un giovanotto col quale aveva parlato a Naboul gli aveva detto d'essere uno studente universitario ma di essersi sforzato troppo il cervello per cui, dietro ordine del dottore, s'era preso una vacanza di varie settimane. «Non dimenticarti di vedere se arriva una lettera per me, Mokta, per piacere. Io farò un salto verso le undici, ma può darsi che la lettera arrivi prima.» «Ma oggi è domenica.» «Davvero?» Di colpo si sentì depresso. «A proposito, non mi dispiacerebbe un asciugamano pulito. Hassim ieri s'è preso il mio e s'è dimenticato di portarmene uno pulito.» «Ah, quell'Hassim! Mi dispiace, signore. Spero di trovarne qualcuno. Ieri li abbiamo consumati tutti.» Lui annuì. Almeno c'era chi li riceveva gli asciugamani puliti. «E sa,» disse Mokta, appoggiandosi con grazia allo stipite della porta, «tutti i ragazzi frequentano un corso alberghiero di cinque mesi per imparare il mestiere. Non si direbbe, vero?» «No.» S'imburrò una fetta di toast. Dormì da mezzogiorno all'una. Aveva scritto nove pagine e era soddi-
sfatto del proprio lavoro. Prese la macchina e arrivò fino a Bir Bou Rekba, un paesino a circa sette chilometri, dove fece colazione in un modesto ristorantuccio con un paio di tavoli sul marciapiede. I gatti randagi lì erano più magri, con le costole di fuori, e, tutti, le code spezzate e piegate a angoli pietosi. Evidentemente spezzare le code dei gatti e dei gattini doveva essere una specie di sport in Tunisia. Quasi tutti i gatti di Hammamet avevano la coda spezzata. Non sentì parlare francese. Non sentì niente che gli riuscisse comprensibile. Era proprio il posto adatto quello, pensò, visto che il personaggio principale del suo romanzo passava la metà del suo tempo in un mondo sconosciuto ai suoi familiari e ai suoi soci in affari; un mondo noto solo a lui, in realtà, perché non poteva partecipare a nessuno la verità: e cioè che parecchie volte al mese si appropriava di danaro e falsificava assegni con tre firme false. Se ne stette seduto lì al sole a sognare, sorseggiando rosé gelato e desiderando - ma non disperatamente in quel momento - che il tempo passasse più rapido, così da ricevere presto notizie da Ina. Che scusa avrebbe trovato? Poteva anche darsi che una sua lettera fosse andata perduta. Se non addirittura due. Aveva telefonato all'Hotel du Golfe due giorni prima, ma quello successivo non l'aveva fatto. Era stanco di sentirsi dire che non c'era niente per lui. Del resto, a quanto pareva il Golfe inoltrava puntualmente tutto al Reine. Il sole gli dava il formicolio al viso come se, ne aveva proprio l'impressione, glielo stesse lentamente abbrustolendo. Non aveva idea di un sole così grande e incombente. La gente del nord non sa cos'è il sole, pensò. Quello era il vero sole, l'antico fuoco che sembra ridurre la vita di ognuno a un attimo e i problemi di ognuno a una minuscola assurdità. I drammi che s'inventa la gente! pensò. Nel suo distacco provò disgusto per l'intera razza umana. Un gatto scheletrico e arruffato stava guardandolo implorante, ma avevano già portato via il piatto di pesce-e-uova-fritte. Lanciò sul cemento polveroso una mollica di pane. Era tutto quello che aveva, ma il gatto la mangiò, masticando con pazienza, la testa girata di lato. Quel pomeriggio lavorò ancora e scrisse cinque pagine. Lunedì e martedì arrivarono e passarono senza che ricevesse neppure una lettera di Ina. Lavorò. Evitò Adams. Si sentiva scorbutico e capiva che non sarebbe stato di buona compagnia; in quello stato d'animo avrebbe finito col dire qualcosa di sgradevole. Il mercoledì, quando gli sarebbe andato di cenare con Adams, si ricordò che questi gli aveva detto che il mercoledì sera lo passava sempre da solo. Doveva averne fatto una regola. Man-
giò in albergo. L'americano in crociera si trovava ancora lì e quella sera pranzava con un tale. Lui lo salutò con un cenno del capo, poi si ricordò di non aver risposto alla lettera di Peter. Quella sera stessa scrisse: 28 giugno 19.. Caro Peter, la ringrazio molto per la sua lettera. Non avevo saputo niente, come avrà appreso dalla mia prima lettera, e per la verità Ina ancora non mi ha scritto. Mi è dispiaciuto moltissimo per John, perché come tutti anch'io pensavo che se la passasse bene. Non lo conoscevo a fondo, come saprà: da un anno ormai, ma non a fondo. Non sospettavo neppure che attraversasse una crisi. Probabilmente partirò da qui la prossima settimana e tornerò negli Stati Uniti. Senza dubbio, questo rimarrà il viaggio più strano di tutta la mia vita. Non una parola neppure da Miles Gallust, che doveva essere il nostro produttore. Mi scuso per questa lettera inadeguata. Francamente, sono ancora stordito dalla notizia. Suo Howard Ingham Peter Langland abitava in Jane Street. Chiuse la busta. Non aveva più francobolli. Avrebbe portato la lettera a Hammamet l'indomani mattina. Nel bungalow a pochi metri dietro il suo, riparato da alcuni alberi di limone, dei francesi stavano dandosi la buonanotte. Attraverso la finestra aperta li udiva distintamente. «Sai, fra tre giorni saremo a Parigi. Telefonaci.» «Ma naturalmente! Jacques! Vieni, su. Dorme in piedi.» «Buonanotte. E sogni d'oro.» «Sogni d'oro.» Al di là della finestra c'era quello che sembrava un buio fitto. Niente luna. Il giorno dopo passò come il precedente; riuscì a scrivere otto pagine. Alle cinque del pomeriggio andò a bussare da Adams per invitarlo a bere qualcosa, ma l'americano era fuori Non si curò di andare a cercarlo sulla spiaggia. La mattina del 30 giugno, un venerdì, arrivò una lettera di Ina, in una busta della CBS. La portò Mokta. L'aprì strappando la busta, troppo ansio-
so per perder tempo a dare una mancia a Mokta. Era datata 25 giugno e diceva: Caro Howard, mi dispiace di non averti scritta prima. Peter Langland mi ha detto di averlo fatto lui, nel caso non avessi saputo di John, ma era sul Times (di Londra) e sulla Tribune (di Parigi), così abbiamo pensato che l'avessi letto lì in Tunisia. Sono ancora così sconvolta che, credimi, non me la sento di scrivere. Ma tra qualche giorno lo farò, forse domani. È una promessa. Ti prego di perdonarmi. Spero che tu stia bene. T'abbraccio Ina Era scritta a macchina. La lesse una seconda volta. Non era affatto una lettera, e questo lo irritò. Cosa s'aspettava che lui facesse, aspettasse un'altra settimana finché lei se la sentiva di scrivere? Perché era tanto sconvolta? Abbiamo pensato... Era tanto amica di Peter Langland? Tutt'e due, lei e Peter avevano tenuto la mano di John lì all'ospedale prima che morisse? Probabile, ammesso che lui avesse preso sonniferi. Se ne andò a passeggiare sulla spiaggia, quella stessa che aveva attraversato tante volte per andare alla ricerca di una lettera di Ina. Irritante quella lettera. Ina era il tipo di buttar giù dieci righe per una prima informazione sui fatti e magari di aggiungere: «I particolari in seguito»; questa volta invece non informava di un bel niente. Non s'aspettava una simile crudeltà da parte sua. Con un po' di fantasia avrebbe anche potuto rendersi conto della situazione in cui si trovava lui, in attesa, a migliaia di chilometri di distanza. E prima del fattaccio di John, come mai non aveva avuto il tempo di scrivergli? E quella era la ragazza che lui pensava di sposare? Sorrise, e fu un sollievo. Tuttavia si sentiva sballottato e confuso, come sospeso nel vuoto. Sì, era inteso che si sarebbero sposati. Le aveva chiesto la mano in maniera molto semplice, l'unica che lei avrebbe tollerato. E lei non aveva esclamato: «Oh sì, caro!» ma era stato chiaro che accettava. Avrebbero dovuto aspettare ancora parecchi mesi per sposarsi. Dipendeva dal loro rispettivo lavoro e da quando avrebbero trovato un appartamento, anche perché a volte Ina doveva andare in California per sei e più settimane, ma il punto era... Cotto dal sole a picco, scoraggiato dal semplice sforzo di immaginare, in quella torrida terra araba, le convenzioni non scritte dei newyorkesi, perse
il filo dei pensieri. Si ricordò di una storia che gli aveva raccontato Adams: una ragazza inglese aveva sorriso a un arabo, o forse l'aveva solo guardato troppo a lungo e questi l'aveva seguita su una spiaggia buia e violentata. Questa era stata la versione della ragazza. Per un arabo lo sguardo di una ragazza era come una specie di invito. Il governo tunisino, per tenersi buono l'Occidente, s'era dato molto da fare, aveva processato il giovanotto e gli aveva inflitto una lunga condanna, che però gli era stata ben presto commutata. La storia era assurda e lo fece ridere, ciò che provocò un'occhiata stupita da parte di due giovanotti - francesi all'aspetto - che proprio in quel momento gli stavano passando vicino con l'equipaggiamento da subacquei. Nel pomeriggio lavorò, ma scrisse solo tre pagine. Era agitato. La sera cenò con il tipo in jeans. Lo aveva incontrato al Café de la Plage, dove alle otto era andato a bere qualcosa e dove quello gli aveva rivolto la parola per primo. Aveva sempre con sé il cane lupo tedesco. Era danese e parlava un ottimo inglese, con leggero accento inglese. Si chiamava Anders Jensen e aveva un appartamento in affitto in un vicolo di fronte al ristorante di Melik. Stava bevendo boukhah e lui aveva voluto provarlo. Somigliava un po' alla grappa e alla tequila. Quanto a parlare di sé, lui Ingham era un po' restio. D'altro canto, il danese non lo pressò. A una sua domanda, tuttavia, rispose che era scrittore e che stava prendendosi un mese di vacanza. Lui Jensen era pittore. Dimostrava un trenta-trentadue anni. «Ho avuto una crisi, lì a Copenhagen,» spiegò, con un sorriso stanco e tirato. Era magro e abbronzato, con capelli biondi e lisci e una strana luce mutevole negli occhi azzurri, come se facesse poca attenzione a tutto quanto lo circondava. «Il mio dottore - uno psichiatra - mi disse di andarmene da qualche parte al sole. Sto qui da otto mesi.» «È comoda la tua casa?» Il danese gli aveva detto che era semplice, e già che aveva l'aria del tipo abbastanza frugale, quindi lui aveva immaginato che si trattasse di una casa del tutto primitiva. «Voglio dire, è adatta per dipingere?» «La luce è splendida. Ma quasi non c'è mobilio. Del resto, qui non c'è mai. Sai, ti fittano una casa e tu dici: Dov'è il letto? Dov'è una sedia? Dov'è un tavolo, santiddio? E loro dicono che arrivano l'indomani. O la settimana seguente. La verità è che loro non adoperano mobilio. Dormono su materassi e ripiegano i vestiti a terra. O ve li buttano. Io però ho almeno un letto. E mi son fatto un tavolo con delle cassette e un paio di assi raccolte per
strada... Hanno azzoppato il mio cane. Si sta appena riprendendo, ha zoppicato fino a poco tempo fa.» «Davvero? Perché?» chiese lui, turbato. «Be', gli tirarono una grossa pietra. Gliela tirarono da una finestra, credo. Aspettarono la loro occasione, quando Hasso se ne stava steso all'ombra di una casa dall'altra parte della strada. Amano far male agli animali, sai. E forse un cane di razza come Hasso per loro è una tentazione anche maggiore che un bastardo.» Carezzò la bestia, che stava accucciata accanto alla sua sedia. «Hasso ne è rimasto traumatizzato. Odia gli arabi. Gli arabi perfidi.» Di nuovo quel sorriso distaccato ma insieme divertito. «Fortuna che obbedisce, altrimenti lacererebbe una dozzina di pantaloni al giorno.» Lui rise. «Ce n'è uno, in pantaloni rossi e turbante, che pesterei volentieri. S'aggira sempre intorno alla mia macchina ogni volta che la parcheggio da queste parti.» Jensen sollevò un dito. «Lo conosco. Abdullah. Un vero disgraziato. Sai che l'ho visto rubare da una macchina a appena due strade da qui, in pieno pomeriggio?» Rise divertito, ma fu una risata quasi silenziosa. Aveva bei denti bianchi. «E nessuno fa niente.» «Stava rubando una valigia?» «Dei vestiti, mi parve. Li rivende al mercato. Credo che non mi fermerò ancora per molto qui, a causa di Hasso. Se lo colpiscono di nuovo questa volta ci resta. D'altronde, a agosto qui è un forno.» Attaccarono una seconda bottiglia di vino. Da Melik c'era quasi calma. Solo altri due tavoli erano occupati: arabi, tutti uomini. «A te piace fare le vacanze da solo?» chiese il danese. «Sì. Credo di sì.» «Quindi ora non stai scrivendo niente?» «Be', sì, ho cominciato un nuovo libro. Certo ho lavorato duro nel passato, ma adesso non me ne sto con le mani in mano.» A mezzanotte, s'avviò con Jensen a casa di questi, Voleva vederla. Una piccola costruzione bianca con la porta di strada chiusa da un lucchetto. Il danese accese una lampadina fioca e s'avviarono su per una scala bianca ma sporca, spoglia, senza ringhiera. Da qualche parte giungeva odore di cesso. Jensen occupava il primo piano, che consisteva d'una stanza di discreta grandezza, e quello superiore, formato da due stanze più piccole. Contro le pareti e sul tavolo di assi e cassette che Jensen aveva descritto c'erano mucchi confusi di tele. In una delle stanze di sopra c'erano un piccolo fornello a gas a due fiamme e una sola sedia, sulla quale nessuno dei
due sedé. S'accomodarono a terra. Jensen versò del vino rosso. Aveva anche acceso due candele infilate in bottiglie di vino. Stava dicendo che doveva andare a Tunisi a comprare materiale per dipingere e che ci andava in autobus. Lui intanto guardava i quadri tutt'intorno. Predominava l'arancione vivo. Erano astratti, immaginò, benché alcune linee dritte e alcuni quadrati potevano benissimo rappresentarvi delle case. In uno, appiccicato sulla tela e ripassato di vernice, c'era uno straccio tutto spiegazzato, forse uno straccio dipinto. Non c'era abbastanza luce per poter giudicare, e infatti non giudicò. «C'è una doccia?» chiese. «Oh, adopero un secchio. Sulla terrazza. O nel cortile. Lì c'è uno scolo.» Dalla strada di sotto giunse il suono di due voci, due uomini che litigavano. Jensen sollevò il capo e rimase in ascolto. I due tirarono oltre. Il loro tono era un po' più che arrabbiato. «Capisci l'arabo?» chiese lui. «Un po'. Ma non mi sforzo molto. Ho una certa facilità con le lingue. Me la cavo. Balbetto, dicono loro.» Il danese aveva tirato fuori del formaggio bianco, secco, e del pane. Lui però non aveva voglia di niente. Alla luce delle candele, circondato da un alone d'ombra, quel piatto di formaggio era abbastanza invitante. Il cane, steso a terra davanti alla porta, diede un profondo sospiro e s'addormentò. Mezz'ora dopo, Jensen gli mise una mano sulla spalla e gli chiese se voleva passare la notte lì. E lui di colpo capì che era un invertito o che almeno gli stava facendo una proposta da invertito. «No, ho la macchina,» rispose. «Grazie, in ogni modo.» Jensen tentò di baciarlo, mancò e gli sfiorò la guancia con un bacio. Mancò perché lui s'era spostato. Il danese era in ginocchio. Lui ebbe un brivido. Era in maniche di camicia. «Non vai mai a letto con gli uomini? È bello. Niente complicazioni,» disse Jensen, girando sui tacchi e tornando a sedere sul pavimento, a poco più di un metro da lui. «Le ragazze qui sono orrende, sia le turiste sia come chiamarle? - le indigene. Poi c'è il pericolo della sifilide. Sai, ce l'hanno tutte. Pare che loro siano immuni, però te la passano.» Nel tono pacato del danese s'avvertiva una profonda amarezza. Lui Ingham, intanto, si stava dando dell'idiota per non aver capito che il giovanotto era omosessuale. Dopotutto, da newyorkese abbastanza sofisticato avrebbe anche potuto mostrare un po' più di acume. Gli venne voglia di sorridere, ma temé che l'altro credesse che ridesse di lui e non di se stesso,
così mantenne un'espressione neutrale. «Ho sentito dire che qui i ragazzi non mancano,» osservò. «Oh, sì. Ladruncoli bastardi,» rispose Jensen, con quel suo sorriso intento ma distaccato. Ora stava disteso a terra, poggiato su un gomito. «Gradevoli, se te ne liberi subito.» Adesso lui rise. «Hai detto che non sei sposato, vero?» «No. Posso vedere qualcuno dei tuoi quadri?» Jensen accese un altro paio di luci. Le luci erano tutte lampadine nude. C'erano alcuni quadri con delle enormi facce storte in primo piano. In molte di quelle tele il rosso arancione dava un senso di estremo calore. A lui parvero tutte un po' sciatte e prive di rigore. Ma era chiaro che il danese lavorava molto e seguiva un tema: la malinconia, a quanto pareva, da lui rappresentata sotto forma di facce devastate sullo sfondo dì case arabe ammassate e confuse o di alberi caduti, oppure di tempeste di vento, di sabbia o di pioggia. Dopo cinque minuti, non aveva capito se Jensen era un bravo o cattivo pittore. I suoi dipinti erano come minimo interessanti. «Hai mai esposto in Danimarca?» «No, solo a Parigi.» All'improvviso, non gli crede. Forse sbagliava. Ma era poi tanto importante? Guardò l'ora alla luce di una delle lampadine: mezzanotte e trentacinque. Riuscì a esprimere alcuni complimenti che risultarono graditi. Jensen era mutevole quanto irrequieto e lui ebbe la sensazione che fosse affamato come un lupo, forse tisicamente affamato ma di sicuro emotivamente bramoso. Ebbe anche la sensazione d'essere, per il danese, niente altro che un'ombra, una forma nella stanza, solida al tatto, ma niente più. Jensen ignorava tutto di lui né in realtà aveva chiesto niente, e tuttavia in quel momento si sarebbero potuti trovare benissimo a letto nella stanza di sopra. «Sarà meglio che vada,» disse. «Già. Peccato, però. Proprio ora che stava diventando bello. E fresco.» Gli chiese dov'era il gabinetto. Jensen lo accompagnò e gli accese la luce. Consisteva in un buco su un piatto di porcellana. Di fianco, un rubinetto nella parete gocciolava lentamente in un secchio. Immaginò che di tanto in tanto Jensen vuotasse il secchio nel buco. . «Buonanotte, e grazie per l'ospitalità.» Gli porse la mano. Jensen gliela strinse forte. «È stato un piacere. Ritorna ancora. Ci vediamo da Melik. O al Plage.»
«Oppure vieni tu da me. Ho un bungalow e un frigorifero. Posso persino cucinare.» Sorrise. Forse stava esagerando, e questo solo perché l'altro non pensasse che non gli era amico. «Come faccio a tornare sulla strada principale?» «Quando esci dalla porta vai a sinistra. Prendi ancora la prima a sinistra poi la prima a destra e sbucherai sulla strada.» Se ne andò. Appena ebbe svoltato il primo angolo la luce del lampione della casa di Jensen non servì più a nulla. La strada era larga meno di due metri, non adatta alle macchine. Le pareti bianche su entrambi i lati, punteggiate da finestre nere e incassate, erano stranamente silenziose: stranamente, perché di solito dalle case arabe provenivano rumori di ogni specie. Non si era mai trovato a un'ora come quella in un quartiere arabo. Inciampò in qualcosa e cadde, ma allungò le mani in avanti in tempo per evitare di sbattere col muso a terra. Sembrava una coperta arrotolata. La toccò col piede e s'accorse che offriva resistenza. Era un uomo addormentato. Aveva toccato un paio di gambe, infatti. «Il posto adatto per dormire,» mormorò. Dalla sagoma addormentata non giunse nessun suono. Per curiosità, allora, accese un fiammifero. L'uomo stava disteso con un braccio ripiegato sotto di sé. Portava un fazzoletto nero intorno al collo, calzoni neri e camicia bianca sporca. Poi lui s'accorse che il fazzoletto npn era nero ma rosso e che si trattava di sangue. Il fiammifero gli bruciò le dita. Ne accese un altro, chinandosi di più. A terra, tutt'intorno alla testa dell'uomo c'era molto sangue. Aveva un largo taglio che luccicava sotto la mascella. «Ehi!» esclamò. Toccò la spalla dell'uomo, poi gliela strinse convulsamente e con altrettanta rapidità ritirò la mano. Il corpo era freddo. Si guardò intorno e non vide altro che buio e, in questo, le vaghe forme delle case. Il fiammifero s'era spento. Pensò di tornare indietro a chiamare Jensen. Al tempo stesso prese a allontanarsi dal cadavere, a allontanarsi da Jensen, in direzione della strada principale. Non erano affari suoi. Alla fine del vicolo comparve la pallida luce dei lampioni della strada. La sua macchina era a un centinaio di metri sulla sinistra, laggiù, davanti a Melik. Quando fu a una trentina di metri dalla macchina vide il vecchio arabo gobbo, con i pantaloni gonfi: stava vicino al finestrino posteriore. Gli corse allora incontro. «Va' via,» gridò.
L'arabo, piegato in avanti, s'allontanò con sorprendente agilità e scomparve in una strada buia sulla destra. «Disgraziato fetente!» mormorò lui. Non si vedeva anima viva in giro, a parte due uomini fermi sotto un albero nella luce proveniente dalla vetrata del Plage. Aprì lo sportello della macchina e quando la luce interna s'accese guardò sul sedile posteriore. Non aveva lasciato sul sedile l'asciugamano da spiaggia (suo, non dell'albergo) e la giacca di tela? Ma certo. Uno dei finestrini posteriori era aperto d'un tre dita. L'arabo era riuscito a tirar fuori asciugamano e giacca. Lo maledisse con maggior trasporto. Sbatté lo sportello e si diresse verso la strada buia nella quale era scomparso l'arabo. «Disgraziato, che ti venga un accidente!» gridò. Era talmente infuriato che il viso gli bruciava. «Chiavico figlio di puttana!» Che l'arabo non capisse non aveva nessuna importanza. 6 La mattina dopo, quando si svegliò alle nove, col sole già caldo che entrava dalle persiane, non ricordava niente di quello che era successo dopo aver maledetto l'arabo gobbo col sozzo turbante giallastro. Poi si ricordò del cadavere. Proprio così, cielo santissimo, un cadavere. Certamente doveva trattarsi di un brutto taglio, magari del tipo che per poco non gli aveva troncato il collo, così che se lui avesse sollevato l'uomo la testa si sarebbe staccata. No, a Ina non avrebbe raccontato quella parte della serata. Non avrebbe parlato a nessuno di quel cadavere, pensò. Avrebbero potuto obiettargli: «Perché non l'hai denunciato?» Capì che si vergognava di se stesso. Indipendentemente dai fastidi che ne sarebbero seguiti, avrebbe dovuto denunciare la cosa. Era ancora in tempo. L'ora in cui aveva scoperto il corpo poteva essere importante. Stava di fatto, però, che non aveva intenzione di denunciar un bel niente. Saltò giù dal letto e fece una doccia. Quando uscì dal bagno vide che Mokta aveva poggiato il vassoio della prima colazione sul davanzale accanto al letto. Un servizio davvero ottimo. Mangiò in mutande e camicia, seduto in punta alla sedia, pensando alla lettera che avrebbe scritto a Ina, e prima ancora di finire il caffè mise da parte il vassoio e cominciò a batterla a macchina. Sabato 1 luglio 19..
mattina Mia cara, strana giornata quella di ieri. In verità, tutti questi giorni sono stati strani. Ero furioso per non aver ricevuto maggiori notizie da te, ma questo lo rimando a quando riceverò la tua lettera. Ti dispiace dirmi perché mai s'è ucciso, primo, e secondo perché mai ne sei stata così sconvolta? Sembra incredibile, ma ho già scritto 47 pagine del mio nuovo libro e credo che stia procedendo bene. Ma mi sento terribilmente solo. È una sensazione affatto nuova per me, tanto da parermi quasi interessante. Credevo di essere stato solo molte volte nel passato e lo sono stato, ma mai fino a tal punto. Mi sono fatto più o meno un programma di lavoro e, senza, ormai, credo che impazzirei. Questo però solo nell'ultima settimana, da quando ho saputo di John. Prima, i giorni erano piuttosto vuoti grazie alla completa mancanza di notizie da parte di John (e se per questo anche da parte tua) ; ma dopo la sua morte la tristezza li ha riempiti. Naturalmente partirò presto, dopo aver girato un po' per il paese, visto che mi trovo qui. Ieri sera ho pranzato con un pittore danese che alla fine s'è rivelato un finocchio e ci ha provato. Anche lui è solo, poverino, ma sono sicuro che tra i ragazzi di qui riesce a trovare un bel po' di compagnia per il letto. L'omosessualità non è condannata dalla loro religione, l'alcool sì, invece, tanto che in certi posti non se ne trova. Anche rubare, a quanto pare, è ammesso. Un vecchiaccio immondo s'è fregato la giacca di tela e un asciugamano dal sedile posteriore della mia macchina mentre ero dal danese a vedere i suoi quadri. Detesto quell'arabo, anche se so che non dovrei. Perché detestare qualcuno? In effetti, non detestiamo, appuntiamo solo una quantità di sentimenti sgradevoli su qualcuno, e eccoti a odiare qualcosa o qualcuno. Cara Ina, su di te io ho appuntato un tipo esattamente contrario di sentimenti; tu sei tutto quanto di tangibile io amo e apprezzo, perché dunque mi fai soffrire con questo tuo orribile e lungo silenzio? Forse per te i giorni voleranno, qui invece si trascinano. Già so che spedirò espresso questa mia oggi stesso anche se ancora non avrò ricevuto niente da te... Poiché con la posta del mattino non ricevé niente, alle quattro del pomeriggio spedì la lettera, espresso, dall'ufficio postale. Non ricevé niente da Ina neppure con la posta del pomeriggio. Cenò con Adams in un villaggio di pescatori chiamato La Goulette, vicino Tunisi. Quel villaggio somigliava stranamente a Coney Island; non che ci fossero parchi di divertimento e chioschi di hot-dog, ma quell'im-
pressione dipendeva forse dalla sua forma allungata, dalla bassezza delle case, dall'atmosfera marina. Aveva anche un'aria accogliente, semplice e intatta. Il suo primo pensiero fu di chiedere degli alberghi del posto, ma il barista del bar nel quale entrarono gli disse che non ce n'erano. Lo stesso gli dissero il cameriere e il proprietario del ristorante nel quale mangiarono. Il cameriere conosceva un posto dove fittavano camere, ma la cosa aveva un'aria troppo approssimativa per prendersi la briga di indagare, almeno a quell'ora. Quella sera Adams fu abbastanza noioso. Ancora una volta si dilungò a parlare delle virtù della democrazia per tutti, della morale cristiana per tutti. («Tutti?» lo interruppe lui a un certo punto, così forte che dal tavolo accanto si voltarono a guardarlo.) Giudicava felici e beati i pagani, senza Cristo ma anche senza sifilide. E tuttavia, che fine avevano fatto in realtà? La cristianità e le sperimentazioni atomiche s'erano ormai sparse dappertutto. Giuro che se arriva a parlare anche del Vietnam, mi scoppierà una vena, si disse lui. Poi, rendendosi conto dell'assurdità della propria reazione a quell'ometto assurdo, si controllò, si ricordò di aver gradito più volte la compagnia di Adams e si disse che si sarebbe sentito a disagio se se lo fosse inimicato, visto che s'incontravano più di una volta al giorno nel recinto dell'albergo o sulla spiaggia. Quella sua rabbia era solo frustrazione, si rese conto alla fine, frustrazione per ogni aspetto della vita che aveva condotto fino allora, eccezion fatta, forse, per il romanzo al quale stava lavorando. «Glielo leggi in faccia, a quelli che hanno voltato le spalle a Dio,» insisté Adams, monotono. Dov'era Dio, se gli si potevano voltare le spalle? I guanciotti di Adams si gonfiarono ancor più. Sorrideva e masticava, soddisfatto, al tempo stesso. «Drogati, alcolizzati, omosessuali, criminali - persino gli uomini qualunque, se hanno dimenticato la Retta Via - sono tutti disgraziati. Però gli si può sempre mostrare la Retta Via...» Santiddio, pensò lui, ma questo è pazzo! E perché poi tirare in ballo anche gli omosessuali? Oh vengo solo al giardino, io soltanto quando la rugiada ancora indugia sulle rose, E la voce odo, che mi fa barcollare, del mio Salvatore, Sua soltanto.
Mi fa barcollare? Non puoi andarci da sobrio in quel giardino? Il ricordo di quella battuta dei tempi di scuola gli procurò un'irresistibile risata, che tuttavia riuscì a soffocare, nonostante avesse già le lacrime agli occhi. Per fortuna Adams non se la prese per quel sorriso, altrimenti lui non avrebbe saputo come giustificarlo. Dal canto suo, anche l'americano stava sorridendo, compiaciuto. «Direi che hai ragione,» si costrinse a dire, sperando di chiuderla lì. Puoi essere ben disposto finché vuoi, stava pensando intanto, ma non fino al punto di diventare amico di tipi come Adams. Sono pericolosi. Pochi minuti dopo, mentre l'americano si avviava lentamente a concludere, sempre indugiando però sul soggetto del Nostro Sistema di Vita, gli chiese: «E le cose che la gente normale fa a letto? Gli eterosessuali? Le disapprovi?» «Quali cose?» Adams era attento e intento, e lui pensò che con tutta probabilità non ne sapesse proprio niente. «Be', varie cose. Le stesse che fanno gli omosessuali, in fondo. Le stesse identiche.» «Ah. Ma si tratta pur sempre di uomo e donna. Marito e moglie.» Il tono di Adams s'era fatto allegro, tollerante. Sì, nel caso siano sposati, pensò lui. «Hai ragione,» disse poi. Se Mister Nostro Sistema di Vita predicava la tolleranza, lui non era certo disposto a farsi sopraffare; e tuttavia sentiva che le idee cominciavano a venirgli meno, come sempre gli succedeva con Adams, quando i propri inattaccabili argomenti sembravano trasformarsi in acqua. È quello che ti succede nei lavaggi del cervello, pensò. Strano. «Hai mai scritto qualcosa su questo argomento?» chiese. Il sorriso di Adams tradì una certa timidezza. Era chiaro che aveva scritto o pensato di farlo, oppure stava scrivendo qualcosa proprio in quel periodo. «Sei un uomo di lettere, quindi credo che mi posso fidare di te. In un certo senso, sì, scrivo. Quando andiamo in albergo vieni da me e ti mostrerò.» Volle pagare lui quel pasto economico perché aveva l'impressione di essere stato alquanto sgarbato con Adams e perché questi lo aveva portato lì con la sua Cadillac. Anzi, fu proprio contento che guidasse l'americano quando, mezz'ora dopo la una, cominciò a avvertire delle fitte alla parte bassa dell'addome, poi in tutto l'addome, fino al petto. Giunti a Hammamet
e ai bungalows, si scusò, disse che andava a prendere un altro pacchetto di sigarette e andò al gabinetto. Diarrea, e brutta pure. Buttò giù un paio di pasticche di Enterovioformio dopodiché raggiunse Adams. L'americano lo fece entrare in camera da letto. Non ci aveva mai messo piede prima. C'era un letto matrimoniale con un bellissimo copriletto bianco, rosso e blu che certamente era suo e non dell'albergo. C'erano poi alcuni scaffali di libri, altre fotografie alle pareti e, a portata di mano dal letto, una comoda nicchia illuminata con alcuni libri, un quaderno d'appunti, una penna, un portacenere, dei fiammiferi. Con una chiave Adams aprì un armadio alto e tirò fuori una bella valigia di cuoio nero che aprì con un'altra chiave più piccola del suo portachiavi. Aprì la valigia sul letto. Conteneva quel che sembrava una radio, una macchina per scrivere e due grossi fasci di fogli manoscritti, il tutto perfettamente ordinato nella valigia. «Ecco quello che scrivo,» disse poi, indicando un mucchio di fogli dattiloscritti su un lato della valigia. «In effetti, lo trasmetto, come vedi. Ogni mercoledì sera.» Soffocò una risatina. «Davvero?» Dunque questo faceva l'americano il mercoledì. «Molto interessante. Trasmetti in inglese?» «In americano. Va oltre la Cortina di Ferro. Per la verità, unicamente dietro la Cortina.» «Quindi lavori per il governo? La Voce dell'America?» Adams s'affrettò a scuotere il capo. «Se giuri di non dire niente a nessuno...» «Lo giuro.» Adams parve rilassarsi e disse, parlando lentamente: «Lavoro per un piccolo gruppo di anticomunisti al di là della Cortina di Ferro. A onor del vero, non è affatto piccolo come gruppo. Anzi. Non mi pagano molto perché hanno pochi mezzi. I soldi mi arrivano via Svizzera e, mi par di capire, la cosa è abbastanza complicata per loro. Conosco uno solo del gruppo. Trasmetto - come chiamarla? - filosofia filo-americana, filo-occidentale. Per tener su il morale.» Ridacchiò. «Davvero interessante. E da quanto tempo lo fai?» «Da quasi un anno, ormai.» «Come sono entrati in contatto con te?» «Conobbi un tale su una nave. Circa un anno fa. Andavamo sulla stessa nave da Venezia alla Jugoslavia. Era un forte giocatore. Carte.» Adams sorrise al ricordo. «Non disonesto, solo brillante. Al bridge. E anche al po-
ker. È un giornalista e vive a Mosca. Ma naturalmente non gli è concesso di scrivere quel che pensa. Quando scrive per i giornali di Mosca s'attiene strettamente alla linea del partito, ma è un personaggio importante nell'organizzazione clandestina. Ricevé questa attrezzatura a Dubrovnik e me la consegnò.» Con un fiero e ampio gesto della mano, Adams indicò il registratore e il trasmettitore. Lui guardò la valigia con ammirato, dopotutto, rispetto. Si chiese poi quanto gli davano veramente a quell'Adams. E perché poi, visto che Radio Europa Libera e la Voce dell'America trasmettevano gratuitamente e con grande enfasi le stesse cose. «Hai una lunghezza d'onda particolare, o qualcosa del genere, che i russi non possono disturbare?» «Sì, così m'è stato detto. Posso però cambiare lunghezza d'onda, secondo gli ordini che ricevo. Gli ordini mi arrivano qui, in codice, dalla Svizzera. A volte dall'Italia. Vuoi sentire una registrazione?» «Volentieri.» Adams tolse il registratore dalla valigia. Da una scatola di metallo nella valigia prese poi una bobina. «Da marco a aprile. Proviamo questa.» L'inserì nell'apparecchio e preme un pulsante. «Metto a basso volume.» Lui sedé sull'altro bordo del letto. Il registratore sibilò, gracchiò, poi s'udì la voce di Adams. «Signori e signore, russi e non russi, fratelli e amici della democrazia e dell'America, ovunque voi siate, buonasera. Sono Robin Goodfellow (Brav'uomo), cittadino americano, così come tanti di voi che ascoltate siete cittadini del vostro...» Al nome Robin Goodfellow Adams gli aveva ammiccato. Fece scorrere un po' il nastro in avanti. «... quanto molti di voi avranno pensato delle notizie giunte oggi dal Vietnam. Cinque aerei statunitensi abbattuti dai vietcong, dicono gli americani. Diciassette aerei statunitensi abbattuti, dicono i vietcong. Gli stessi vietcong dicono di aver perso un solo aereo. Gli americani dicono che invece ne hanno persi nove. Qualcuno mente. Chi? Chi, secondo voi? Quale paese ammette i propri fallimenti insieme con i propri successi, per esempio, per quanto riguarda i lanci missilistici? Per quanto riguarda la sua stessa povertà, per eliminare la quale gli americani combattono con lo stesso impegno con cui combattono le menzogne, la tirannia, la povertà, l'analfabetismo e il comunismo nel Vietnam? La risposta è: l'America. Tutti voi...» Adams schiacciò un pulsante che fece avanzare a scatti il nastro. «Una
parte un po' noiosa.» Il nastro stridé, singhiozzò, infine Adams riprese a parlare. Lui intanto, seduto sull'altro bordo del letto, era consapevole del sorriso teso e soddisfatto dell'americano, anche se non la guardava ma teneva invece gli occhi fissi sul registratore. L'addome gli si contraeva, preparandosi a un'altra ondata di fitte. «... conforto per tutti noi. Il nuovo soldato americano è un crociato, che porta non solo pace - alla fine - in tutti i paesi in cui interviene bensì anche un sistema di vita più felice, più salutare, più vantaggioso. Sfortunatamente però, quel suo intervento» - teatralmente, la voce di Adams s'era abbassata quasi a un bisbiglio fino a interrompersi - «quel suo intervento spesso significa la sua stessa morte, un telegramma di brutte notizie alla sua famiglia in patria, una tragedia per la giovane moglie o fidanzata, lutto per i figli...» «Neppure questo è molto eccitante,» osservò Adams. Lui però appariva molto eccitato. Altri stridii e singhiozzi dell'apparecchio, un paio di altri brani che non piacquero a Adams, infine: «... la voce di Dio prevarrà alla fine. Coloro che antepongono l'uomo a tutto il resto trionferanno. Coloro che pongono lo Stato davanti a tutto, a onta dei valori umani periranno. L'America si batte per conservare i valori umani. L'America si batte per preservare non soltanto se stessa ma anche tutti coloro che vogliono seguire la sua strada nel nostro felice sistema di vita. Buonanotte, amici.» Click. Adams spense l'apparecchio. Il Nostro Felice Sistema di Vita. Nofesivi. Troppo lungo. Lui Ingham esitò, infine disse: «Straordinario.» «Ti piace? Bene.» Adams raccolse rapidamente la sua attrezzatura e la mise di nuovo nell'armadio, che chiuse a chiave. Se era tutto vero, pensava lui intanto, se Adams era davvero pagato dai russi, lo era semplicemente perché la cosa era tanto assurda da costituire, nella sua assurdità, un'ottima propaganda antiamericana. «Mi chiedo a quanta gente arriva? Quanti l'ascoltano.» «Fino a sei milioni,» rispose Adams. «Così dicono i miei amici. Li chiamo miei amici anche se non ne conosco neppure i nomi, tranne quello del signore di cui ti ho parlato. C'è una taglia sul loro capo. E, naturalmente, guadagnano sempre più adepti.» Lui annuì. «Qual è il loro vero piano? Sì, insomma, il loro scopo? Cambiare la politica del governo e tutto il resto?» «Non si tratta di un vero e proprio piano quanto di una guerra di attrito,»
rispose Adams col suo largo e fiducioso sorriso, e dalla luce che gli brillava negli occhi si capiva che quelle trasmissioni settimanali che propagavano il Sistema di Vita Americano oltre Cortina erano la sua passione, la sua raison d'être. «È possibile che finché campo non ne vedrò i risultati, ma se la gente ascolta, come ascolta, l'effetto non mancherà.» Per un attimo lui provò un senso di vuoto. «Quanto durano le tue conversazioni?» «Quindici minuti. Non ne devi fare parola a nessuno qui. Neppure a un altro americano. In verità, tu sei il primo americano a cui ne abbia parlato. Non l'ho detto neppure a mia figlia, per paura che si risappia. Capisci?» «Certo.» Era tardi, mezzanotte passata e lui voleva andarsene. Provava un senso di disagio, una specie di claustrofobia. «Non mi pagano molto ma, a dirti la verità, lo farei anche per niente. Passiamo nell'altra stanza.» Rifiutò l'offerta di Adams di un caffè o di un ultimo bicchierino e riuscì a andarsene, senza offenderlo, dopo cinque minuti. Mentre camminava nel buio però, diretto al suo bungalow, avvertì un certo tremito. Andò a letto ma dopo un po' lo stomaco cominciò a gorgogliargli e dovette alzarsi e andare nel bagno. Questa volta vomitò anche. Meglio così, pensò, nel caso il guaio sia dovuto al poisson complet - pesce e uova fritti - del ristorante di La Goulette. Prese altro Enterovioformio. Ormai erano le tre del mattino. Tra un attacco e l'altro cercò di dormire. Sudava. Un asciugamano bagnato sulla fronte gli dava troppo freddo, una sensazione che non provava da molto tempo ormai. Vomitò di nuovo. Si chiese se era il caso di chiamare un medico - non gli sembrava ragionevole affrontare tutto quel disagio per altre sei ore - ma nel bungalow non c'era telefono e, anche se ora possedeva una torcia elettrica, non se la sentiva di trascinarsi sulla sabbia fino all'edificio principale, dove poi a quell'ora avrebbe anche potuto non trovare nessuno che gli aprisse. Doveva chiamare Mokta? Svegliarlo lì alla direzione dei bungalows? Non se la sentì. Tirò avanti sudando fino alle prime luci. Aveva vomitato e s'era lavato i denti altre tre o quattro volte. Alla direzione dei bungalows s'alzavano alle sei e mezzo, sette. Pensò prima di provare a far venire un medico, poi di chiedere di qualche medicina più efficace dell'Enterovioformio. S'infilò l'accappatoio sopra il pigiama e, in sandali, si diresse verso la direzione dei bungalows. Aveva freddo e era stremato. Prima di giungere all'edificio vide Adams che usciva quasi saltellando su quei suoi piedini arcuati, con gesti scattanti chiudeva a
chiave la porta e si voltava, anche di scatto. «Salve! Che è successo?» gli gridò, agitando la mano in segno di saluto. Quasi con un filo di voce, lui gli spiegò la situazione. «Oh, miodio! Dovevi chiamarmi. Vomitato, eh? Innanzi tutto, devi prendere del Pepto-Bismol. Vieni dentro, Howard.» Lo seguì nel bungalow. Aveva voglia di sedersi o di crollare a terra, ma si costrinse a stare in piedi. Prese il Pepto-Bismol dritto davanti al lavabo del bagno. «È ridicolo sentirsi tanto distrutto.» Riuscì a mandare una risata. «Credi che sia stato il pesce di ieri sera? Dopo tutto, chissà fino a che punto è pulito quel posto.» Quelle parole gli rievocarono la zuppa di pesce con la quale avevano iniziato il pasto, ma si sforzò di dimenticare di averla mai vista. «Un po' di tè, magari?» chiese Adams. «Niente, grazie.» C'era minaccia di un'altra puntata al gabinetto, ma c'èra anche consolazione nel pensiero che ormai non gli restava più molto in corpo. La testa cominciava a girargli. «Senti, Francis, mi secca dar fastidio. Io... io non so se devo o no chiamare un medico. In ogni caso, credo che sia meglio che torni al mio bungalow.» Adams lo accompagnò non tenendolo proprio per il braccio ma standogli premuroso al fianco. La porta non era chiusa a chiave. Lui si scusò e corse subito nel bagno. Quando ne venne fuori Adams se n'era andato. Sedé allora sul letto, abbassandosi lentamente, ancora con l'accappatoio addosso. Le fitte erano diventate ormai uno spasimo continuo, abbastanza acuto, se ne rendeva conto, da impedirgli di dormire. Adams ritornò, scalzo, lesto e leggero come una ragazza. «Ti ho portato del tè. Una tazza calda, una sola, con un po' di zucchero, ti farà bene. Una sfera a colino.» Andò nella cucina del bungalow, da dove giunsero rumori di acqua che scorreva, di una pentola, di un fiammifero sfregato. «Ho visto Mokta, gli ho detto di non portarti la colazione. Il caffè non fa bene.» «Grazie.» Il tè invece gli fece bene. Ma non riuscì a bere tutta la tazza. Adams lo salutò allegramente e disse che avrebbe fatto un salto dopo il bagno, ma che non lo avrebbe svegliato se stava dormendo. «Non avvilirti. Sei tra amici.» Invece lui s'avvilì. Dovette prendere una pentola in cucina e tenerla accanto al letto perché quasi ogni dieci minuti rimetteva un po' di liquido, per il quale non valeva la pena andare fino al bagno. Quanto all'amor proprio,
se Adams fosse arrivato e avesse visto la pentola, non gliene sarebbe importato niente. Quando poi Adams tornò lui se ne rese a malapena conto. Erano quasi le dieci. L'americano disse qualcosa a proposito del non essere venuto prima: era convinto che potesse essersi addormentato. . Anche Mokta bussò e entrò, ma a lui non venne in mente niente da chiedergli. Fu tra le dieci e mezzogiorno, quando era solo, che attraversò una specie di crisi. Il dolore all'addome continuava. A New York, avrebbe certamente chiamato un medico e chiesto della morfina, o avrebbe mandato un amico in farmacia a prendergli qualche calmante. Lì, invece, s'atteneva al consiglio di Adams (il quale, però, si rendeva conto di come veramente si sentiva lui?) di lasciar perdere il medico perché presto si sarebbe sentito meglio. Però non lo conosceva bene quell'Adams e non si fidava neppure troppo di lui. Durante quelle due ore si rese conto di essere molto solo, senza amici, senza Ina (emotivamente anche, intendeva, perché se lei fosse stata davvero con lui a quell'ora gli avrebbe già scritto parecchie volte, lo avrebbe rassicurato sul proprio amore), e si rese anche conto che la sua presenza in Tunisia non aveva più nessuno scopo - il libro poteva scriverlo anche altrove - e che il paese non era affatto di suo gusto e che lui non aveva niente a che vederci. Tutti pensieri che lo assalirono proprio quando fisicamente era ridotto allo stremo, privo di forze e completamente vuoto. Era stato attaccato, per quanto ridicola fosse la cosa, nelle viscere, dove faceva male e il danno era grave, dove poteva uccidere. Ora era esausto e incapace di dormire. Non aveva ritenuto il tè. A mezzogiorno Adams non era ritornato, come aveva invece promesso. Doveva essersene dimenticato. E un'ora in più o una in meno, che importanza aveva per l'americano? E dopotutto, cosa avrebbe potuto fare? Alla fine s'addormentò. Si svegliò al leggero stridio della maniglia della sua porta che veniva girata e si tirò su debolmente, allarmato. Adams stava entrando in punta di piedi, sorridendo. Recava qualcosa con sé. «Salve! Va meglio? Ho portato qualcosa di buono. Ho fatto una capatina poco dopo mezzogiorno ma stavi dormendo, e ho pensato che avessi bisogno di riposo.» Si diresse in cucina, senza far rumore, scalzo. Intanto lui s'accorse d'essere tutto sudato. Sotto la giacca del pigiama il torace era bagnato di sudore e il lenzuolo era umido. Ricadde con un brivido sul cuscino. Poco dopo Adams venne fuori dalla cucina con in mano una ciotola fu-
mante. «Prendi questo. Solo pochi cucchiai. È una cosa semplice, non ti farà male.» Era un consommé di manzo, bollente. Lo saggiò. Era buonissimo. Era come vita, come carne senza grasso. Gli sembrò di' risucchiare la propria vita e la propria forza, misteriosamente sottrattegli per tante ore. «Buono?» Adams aveva l'aria soddisfatta. «Molto buono.» Lo bevve quasi tutto e ricadde sul letto. Provava gratitudine per quell'Adams, che dentro di sé aveva invece disprezzato. Chi altro s'era curato di lui? Si disse anche che, una volta rimessosi in piedi, quella sua abietta gratitudine non sarebbe durata; e tuttavia sapeva benissimo che non avrebbe mai dimenticato quel particolare gesto gentile, quelle parole d'incoraggiamento. «Ce n'è dell'altro.» Sorridendo Adams indicò verso la cucina. «Riscaldalo quando ti svegli di nuovo. Visto che hai passato una notte in bianco, immagino che dovresti dormire per tutto il resto del pomeriggio. Ce l'hai a portata di mano l'Enterovioformio?» L'aveva a portata di mano. Adams gli portò un bicchiere d'acqua, quindi se ne andò. Lui s'addormentò. La sera Adams arrivò con uova e pane e preparò una cena a base di uova strapazzate, toast e tè. A questo punto, lui si sentiva ormai molto meglio. Prima delle nove l'americano se ne andò, per farlo dormire. «Grazie davvero, Francis.» Adesso riusciva a sorridere. «Mi hai davvero salvata la vita.» «Sciocchezze. Un po' di carità cristiana, no? È un piacere. Buonanotte, Howard, ragazzo mio. Ci vediamo domani.» 7 Un paio di giorni più tardi, il 4 luglio, un martedì, al banco della portineria del Reine gli consegnarono una lunga busta aerea. Era di Ina, e era chiaro che conteneva almeno due foglietti aerei. Fece per avviarsi verso il bungalow, per isolarsi, ma scoprì di non poter aspettare, così ritornò sui propri passi in cerca di un divano vuoto. Poi cambiò di nuovo idea e si diresse al bar. Non c'era nessuno, neppure un cameriere. Sedé accanto alla finestra, alla luce, ma non al sole. 28 giugno 19.. Caro Howard,
finalmente un attimo per scriverti. In effetti, oggi sono a casa, non sono andata in ufficio, anche se al solito il da fare neppure qui mi manca. Gli avvenimenti dell'ultimo mese sono abbastanza confusi e non so da dove cominciare. Mi limiterò a tuffarmici dentro. John - innanzi tutto - si è ucciso nel tuo appartamento. Gli avevo dato le chiavi una sola volta ma unicamente perché ritirasse la posta dalla cassetta (la cui chiave era nel tuo portachiavi) e deve avere approfittato per farsene fare una copia. Comunque sia, si prese una dose massiccia, e poiché per quattro giorni a nessuno venne in mente di andare a guardare nel tuo appartamento - e del resto anche quando io ci andai non avevo la minima idea di trovarcelo - tutti pensammo che fosse fuori città, che fosse andato magari a Long Island. Naturalmente era in un brutto stato. Non gli era passato l'entusiasmo per il lavoro in Tunisia... però, gli era venuto per me: mi aveva annunciato di essere innamorato. Ne ero rimasta completamente sorpresa. Non mi aveva mai neppure sfiorato il sospetto. Mi ero solo mostrata comprensiva. Lui invece faceva e diceva sul serio. Si sentiva in colpa a causa tua. Forse mi sarò mostrata troppo comprensiva; comunque gli dissi che amavo te. Tutto questo è successo negli ultimi giorni di maggio, poco dopo la tua partenza. Deve aver preso le pillole la notte del 10 giugno, un sabato. Aveva detto a tutti che andava via per il weekend. Si direbbe che abbia voluto fare un dispetto a noi due: uccidersi in casa tua, sul (non nel) tuo letto. Per parte mia, non gli avevo certo dato corda, anche se devo ammettere d'essere stata comprensiva e d'essermi lasciata coinvolgere. Non gli avevo promesso niente... Arrivò un cameriere a chiedere cosa desiderava, gli borbottò un «Rien, merci» e s'alzò. Uscì fuori sulla veranda e lesse così il resto della lettera in piedi, al sole. ... spero però che tu capisca il motivo del mio sconvolgimento. Non credo che abbia parlato a altri dei suoi sentimenti verso di me, almeno a nessuno che io conosca. Sono sicura che uno psichiatra troverebbe anche altri motivi al suo suicidio (benché, sinceramente, non saprei dire quali) e direbbe che il suo improvviso sentimento nei miei confronti (già di per sé insolito) abbia fatto traboccare il vaso. Diceva di provare sensi di colpa e che non avrebbe potuto lavorare con te a causa dei suoi sentimenti verso di me. Lo pregai di scriverti e di parlartene. Pensavo che non toccasse a me farlo...
Nel resto della lettera parlava del fratello Joey, d'una serie televisiva che stava producendo e che secondo lei sarebbe stata un successo per la CBS, di aver impacchettato la roba di John, a casa sua, con l'aiuto di una coppia di suoi amici da lei mai visti prima. Lo ringraziava per l'abito tunisino e spiegava che a New York non se ne trovavano certamente. Perché proprio lei aveva dovuto impacchettare la roba di John? si chiese. John doveva certamente aver avuto una quantità di amici più intimi di lei. Non gli avevo dato corda, anche se devo ammettere d'essere stata comprensiva e d'essermi lasciata coinvolgere. Che cosa significava esattamente? Ritornò al bungalow a passo fermo, guardando a terra, alla sabbia. «Sa-alve! Buongiorno!» Era Adams, che lo salutava a gesti, con le pinne ai piedi e quella sua sciocca e nettunesca fiocina. «Buongiorno.» Si sforzò di sorridere. «Hai avuto notizie?» Adams stava guardando la lettera che lui aveva in mano. «Poca roba, purtroppo.» Agitò la lettera in aria e tirò oltre, senza fermarsi e neppure rallentare. Si sentì mancare il respiro finché non ebbe chiuso la porta di quella che era diventata la sua casetta. Quel sole accecante, tutta quella luce! Erano le undici. Aveva chiuso le persiane e per un attimo la stanza gli risultò abbastanza buia. Tuttavia lasciò le persiane chiuse. Uccidersi nel suo appartamento. La cosa più vigliacca e cretina che poteva fare, pensò. La più volgarmente teatrale! In più, sapendo, senza alcun dubbio, che a ritrovarlo sarebbe stata Ina Pallant, perché lei sola aveva le chiavi. S'accorse che stava passeggiando continuamente intorno al tavolo di lavoro e così andò a buttarsi sul letto. Non era stato ancora rifatto. Il ragazzo delle pulizie era in ritardo quella mattina. Tenne la lettera in alto sulla testa e riprese a leggerla di nuovo, ma non ce la fece a finirla. Se ne cavava l'impressione che Ina avesse incoraggiato John in qualche modo. Se non l'aveva incoraggiato, perché negarlo o addirittura accennarvi? Comprensiva. La maggior parte delle ragazze non avrebbero detto, più o meno: niente da fare, amico, scordatelo? Dopotutto, lei non era un tipo debole e sdolcinato. Per caso, non le piaceva davvero? John divenne insomma ai suoi occhi, in quegli ultimi quindici minuti, un tipo odiosamente debole. Cercò, senza riuscirci, di capire che cosa in lui potesse aver attratto Ina. L'ingenuità?
L'entusiasmo alquanto giovanile? Il senso di sicurezza? Non ne aveva mostrato molto, però, visto che s'era suicidato. Bene, e ora? Non era più il caso di aspettare un'altra lettera. O di restare in Tunisia. Strano, pensò, che Ina non gli avesse detto nella sua lettera di amarlo. Non aveva detto niente di rassicurante in quel senso. Gli dissi che amavo te. Grande sforzo. Provò un'ondata di rancore contro di lei, un sentimento nuovissimo e antipatico. Le avrebbe risposto, ma non subito. Nel pomeriggio, magari, se non addirittura l'indomani. Gli sarebbe piaciuto parlarne con qualcuno, ma con chi? Cosa avrebbe detto Adams, per esempio? Nel pomeriggio, pur dopo una nuotata e dopo aver schiacciato un sonnellino, scopri che non ce la faceva a lavorare. Le ultimissime pagine scritte erano corse via abbastanza lisce; sapeva di aver voglia di andare avanti (il suo eroe, Dennison, s'era appena appropriato di centomila dollari e stava per manomettere i libri contabili della società), ma le parole non gli venivano. Aveva la mente confusa, almeno quella parte di essa che riguardava lo scrivere. Portandosi dietro un asciugamano e il costume da bagno, per ogni evenienza, prese la macchina e se ne andò a Sousse. Vi arrivò alle cinque. In confronto a Hammamet gli parve una città. Al lungo molo, il cui accesso era interdetto, era attraccata una nave da guerra americana, e per la città s'aggiravano numerosi ufficiali e marinai con le divise bianche, i volti abbronzati, le espressioni cocciutamente imperturbabili, almeno così parve a lui. Evitò di guardarli, pur essendone attratto. Un ragazzo arabo lo abbordò offrendogli una stecca di Carnei a un prezzo conveniente, ma lui scosse il capo. Guardò le vetrine. Blue jeans scadenti e una quantità di calzoni bianchi. All'improvviso gli venne da ridere. Un paio di blue jeans portavano cucita l'etichetta rettangolare della Levi-Strauss abbastanza ben contraffatta, bianca e lucida, ma la scritta diceva: «Questo è un autentico paio di Louise.» La parte inferiore di quella falsa etichetta sfociava vergognosamente in puntini sospensivi. I contraffattori s'erano arresi. Per un po' rimuginò sul romanzo. Era una situazione che conosceva e capiva. Conosceva benissimo Dennison d'aspetto, sapeva quanto misurava di vita e perché era robusto. Il suo era un vecchio tema, già presentato in Raskolnikov e nel superuomo di Nietzsche: in date circostanze, si ha il diritto di impossessarsi del potere? La cosa, da un punto di vista morale, era molto interessante. A lui però interessavano di più le condizioni mentali di
Dennison, la sua maniera di condurre una doppia vita. Gli interessava il fatto che quella doppia vita finiva con l'ingannare lo stesso Dennison; e era proprio questo che faceva di lui un lestofante quasi perfetto. Dennison, infatti, era moralmente inconsapevole di commettere un reato, anche se si rendeva conto che la società e la legge, per motivi che lui non cercava neppure di approfondire, non approvavano la sua condotta. Solo per queste ragioni aveva dunque preso delle precauzioni. Lui Ingham, l'autore, conosceva bene i rapporti di Dennison con quelli che lo circondavano, per esempio con la ragazza da lui piantata quando aveva ventisei anni e con la quale intendeva riprendere (ma non ci sarebbe riuscito). Il romanzo, dunque, era più reale e definito di Ina, di John e di tutto il resto. Ma questo c'era da aspettarselo, dopotutto. O no? La vista di un vecchio arabo in pantaloni rossi e gonfi e turbante, che s'appoggiava a un bastone, gli fece trattenere il fiato. Gli era sembrato Abdullah di Hammamet, ma naturalmente non era lui. Pura somiglianza, nient'altro. Incredibile quanto si somigliassero tra di loro. Certo, altrettanto dovevano pensare loro dei turisti. Attraverso un passaggio stretto e affollato, continuamente urtato ai fianchi e alle spalle, si trascinò in un souk. A un tratto avvertì delle dita nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni e si voltò in tempo per vedere un ragazzino che schizzava via sulla sinistra tra borse da spesa a rete e i gonfi e scuri burnus di numerose donne. Il portafogli però era in un'altra tasca, quella anteriore di sinistra. Su una specie di marciapiede sulla strada principale prese una limonata fredda. Poi sedé a un tavolino sotto un ombrellone che lo riparava dal sole, infine ritornò alla macchina e si diresse di nuovo verso Hammamet. La campagna riarsa e deserta fu un sollievo. La terra era di un marrone giallastro. I letti dei fiumi erano larghi, crepati e assolutamente asciutti. Più di una volta dovette fermarsi perché un gregge di pecore attraversava la strada. Erano tutte inzaccherate dietro e erano guidate da ragazzini o vecchie scalze, armate di bastoni. Quella sera i bungalows del Reine de Hammamet gli parvero un vero e proprio lusso. Nonostante la pulizia, le comodità e la piccola pila di fogli scritti nell'angolo del tavolo da lavoro, il suo improvvisamente non gli andava più. Sì, doveva andarsene. Quella stanza gli ricordava il lavoro che avrebbe dovuto fare proprio lì con John. Gli ricordava le lettere spensierate che aveva scritto a Ina. Fece una doccia. Pensò di andare da Melik per la cena. A mezzogiorno non aveva mangiato niente.
Quando aprì l'armadio per prendere il blazer blu non lo trovò. Lanciò un'occhiata in giro nella stanza per vedere se lo aveva lasciato su qualche sedia, poi mandò un sospiro: era stato derubato. Eppure quel giorno aveva chiuso la porta a chiave. Non aveva assicurato tutte le imposte dall'interno, però, come constatò immediatamente con una sola occhiata. Delle quattro, infatti, due non erano chiuse. Andò a controllare la pila di camicie nell'armadio, nello scaffale sopra i vestiti. Quella di lino blu, nuova, mancava. I gemelli? Aprì un cassetto. La scatoletta era sparita e nel mucchio di calzini puliti era rimasto un posto vuoto. Stranamente, non s'erano presi la macchina per scrivere. Cercò dappertutto, nella valigia sopra l'armadio, e dentro l'armadio, tra le scarpe in fondo. Sissignore, le nere, nuove, se l'erano prese. Cosa se ne faceva un arabo di un paio di scarpe inglesi? si chiese. E la scatoletta? C'erano ì gemelli buoni, d'oro, che gli aveva regalato Ina prima che lasciasse l'America, e quelli d'argento di suo nonno. Più la spilla da cravatta che gli aveva regalato Lotte, di platino. «Cristiddio,» mormorò. «Al massimo ne ricaveranno una trentina di dollari se ci sanno fare.» Per farci, ci sapevano fare. Si chiese se per caso non era stato quel vecchio disgraziato in pantaloni rossi. No certamente. Non avrebbe fatto a piedi un chilometro, da Hammamet all'albergo, solo per derubare lui. I travellers cheques? Li aveva messi nella tasca del coperchio della valigia. Tirò fuori la valigia e li trovò: erano ancora lì. Andò alla direzione dei bungalows a cercare Mokta. Il ragazzo stava scegliendo gli asciugamani e parlando in arabo alla directrice, cui stava chiaramente spiegando qualcosa. Quando lo vide gli sorrise. Lui gli fece cesano che l'avrebbe aspettato sulla veranda. Mokta lo raggiunse prima di quanto lui si aspettasse. Si deterse un ipotetico sudore dalla fronte per far capire da quale fatica era appena reduce e si voltò a lanciare un'occhiata alle spalle. «Voleva vedermi, signore?» «Sì. Oggi qualcuno è entrato nel mio bungalow. Mancano alcune cose. Sai chi può essere stato?» Lo disse a bassa voce, benché sulla veranda non ci fosse nessuno. Gli occhi grigi di Mokta erano spalancati per la sorpresa. «Ma no, signore. So che questo pomeriggio lei non c'è stato. La sua macchina mancava. L'ho notato. Sono stato qui tutto il pomeriggio. Non ho visto nessuno aggirarsi intorno al suo bungalow.» Lui gli disse cosa gli avevano rubato. «Se vieni a sapere qualcosa, se ti
capitano sotto gli occhi, mi informi, vero? Ti darò cinque dinari se riesci a recuperarmi qualcosa.» «Sì, signore... Non credo che sia stato uno dei ragazzi di qui. In tutta sincerità, signore. Sono ragazzi onesti.» «Non può essere stato uno dei giardinieri?» Gli offrì una sigaretta e Mokta l'accettò. Poi il ragazzo scrollò le spalle, ma non fu un gesto d'indifferenza. Era chiaramente teso, infatti, per quella situazione. «Non conosco tutti i giardinièri. Alcuni di loro sono nuovi... Mi lasci guardare in giro. Se lo dice alla directrice» - e con le mani accennò un rapido gesto negativo - «se la prenderà con tutti noi, tutti noi ragazzi.» «No, non lo dirò alla directrice e neppure alla direzione. Mi affido a te.» Gli batté sulla spalla. Poi andò a prendere la macchina e se ne andò da Melik. Era tardi e non era rimasto molto del menù, ma ormai aveva già perso il poco appetito che aveva e rimase lì giusto per il piacere della compagnia di quelli che lo circondavano di cui non riusciva neppure a capire ciò che dicevano. Quella sera non c'erano né inglesi né francesi. Le conversazioni in arabo - tutte voci maschili - risuonavano gutturali, minacciose, arrabbiate, ma lui sapeva che questo non significava niente. Quella era una serata come tutte le altre. Melik, basso, tozzo e sorridente, s'avvicinò e gli chiese dov'era quella sera il suo amico M. Adams. Parlava un ottimo francese, Melik. «Non l'ho visto, oggi. Sono andato a Sousse.» Non era una gran notizia, e tuttavia faceva piacere dirlo a qualcuno. Da come parlavano, del resto, sapeva che gli arabi dicevano cose anche meno importanti, solo in maniera più verbosa. «Come vanno gli affari?» «Be'... vanno. La gente ha paura del caldo. Ma naturalmente in agosto vengono ancora molti francesi, anche se è il periodo più caldo dell'anno.» Chiacchierarono per un po'. I due figli di Melik, quello magro che camminava come Groucho Marx e quello grasso che sembrava traballare, servivano ai due o tre tavoli occupati. A un certo punto lui afferrò un gradevole odore di pane al forno. Proprio lì accanto c'era una panetteria dove lavoravano durante la notte. Bevve due tazze di caffè molto dolce, perché non s'era preoccupato di chiederlo senza zucchero. Alla seconda tazza arrivò il danese col cane al guinzaglio; si fermò sulla soglia della veranda e si guardò intorno, come se fosse m cerca di qualcuno in particolare. Quando lo vide andò al suo tavolo, a passo lento, sorridendo. «Buonasera. Tutto solo, stasera?»
«Buonasera. Sì. Siedi.» C'erano tre sedie vuote intorno al tavolo. Il danese sedé di fronte a lui, poi mormorò qualcosa al cane», che s'accucciò. «Come va?» «Bene. Ottimamente per quanto riguarda il lavoro. Solo un po' di noia,» rispose Jensen. Proprio così, pensò lui dentro di sé. Il danese indossava una camicia pulita di tela azzurra al cui confronto la faccia magra sembrava scura, certamente più scura dei capelli. I denti gli brillavano quando parlava. Se ne stava seduto, con un gomito sulla spalliera della sedia, abbandonato: sembrava scoraggiato. «Prendiamo del vino,» disse lui. Poi gridò, al vuoto: «Asma!» A volte qualcuno sentiva. Jensen disse che aveva una bottiglia di vino con sé ma lui insisté per offrire. Il ragazzo portò un altro bicchiere. «Stai lavorando?» chiese Jensen. «Oggi non ho fatto niente. Ero di cattivo umore.» «Brutte notizie?» «Oh, no, è stato solo un brutto giorno.» «Il guaio di questo paese è che il tempo è sempre lo stesso. Prevedibile. Bisogna abituarvisi, accettarlo, altrimenti t'uccide.» Pronunciò «t'uccide» come un inglese. «Oggi ho dipinto un uccello immaginario che volava. Volava verso il basso. Domani dipingerò due uccelli in un solo quadro, uno che vola in alto e uno in basso. Sembreranno due tulipani contrapposti... Esistono alcune forme fondamentali, sai, l'uovo che è una variazione del cerchio, l'uccello che somiglia a un pesce, l'albero e i suoi rami che somigliano alle radici o ai bronchi. Tutte le altre forme più complesse, la chiave, l'automobile, la macchina per scrivere, l'apriscatole, sono tutte creazioni dell'uomo. Ma sono belle? No, sono brutte come l'anima dell'uomo. Ammetto che alcune chiavi sono belle. Per essere bella una cosa dev'essere funzionale, vale a dire ridotta all'essenziale. E a questo ci si arriva solo dopo secoli di esistenza.» Quel monologo del danese era riposante. «Di che colore sono i tuoi uccelli?» «Rosa, per il momento. E immagino che saranno rosa anche domani, perché ho preparato una quantità di colore rosa e tanto vale che lo usi.» Jensen sbadigliò discreto. Diede una pacca al cane, con fare distratto, perché aveva ringhiato a un arabo che passava accanto al tavolo, poi si girò a guardare l'arabo. «Vuoi venire da me a prendere un caffè?»
Si scusò, dicendo che era abbastanza stanco perché era andato fino a Sousse. Quello che in realtà lo tratteneva, si disse poi, era l'idea di passare per quel punto particolare del vicolo in cui aveva visto il cadavere. Avrebbe voluto chiedere a Jensen se quella notte, dopo il litigio che avevano sentito nella sua strada, era poi successo niente, ma si trattenne. Non voleva essere informato del cadavere e fingersi sorpreso. Jensen ordinò un caffè. Quando arrivò, lui si alzò e salutò. Ritornato al bungalow, pensò di aggiungere qualcosa alla lettera che stava scrivendo a Ina. Magari un solo paragrafo: qualche parola di comprensione, persino commiserazione, decisamente nobile. Aveva composto qualche frase mentalmente mentre stava lì da Melik. Ora rilesse il disinvolto paragrafo su Mister Nostro Sistema, Nosiste, e le sue trasmissioni. Non poteva lasciarlo, anche datando il resto della lettera a quel giorno, perché sarebbe stato molto diverso dalla prima parte. Appallottolò il foglio. Probabilmente Ina non era in condizioni di spirito da apprezzare quel tipo di racconti, e in più lui in effetti aveva promesso a Adams di non farne parola con nessuno. Del resto, poi, cosa c'era di male nelle sciocche illusioni di Mister Nostro Sistema, se lo aiutavano a tirare avanti, se lo rendevano felice? Il male che Nosiste faceva (e, nella sua assurdità, proprio ridicolizzando la guerra nel Vietnam dopotutto finiva col fare anche del bene) era infinitesimale in confronto al male fatto dai politici americani che, in realtà, mandavano dei ragazzi a uccidere. Chissà, forse per essere felice alla gente occorrono illusioni. Dennison era felice nella sua convinzione (non proprio un'illusione) di far del bene agli sventurati, d'incrementare gli affari dei suoi amici, di recare felicità e prosperità a parecchia gente. Nosiste parlava di identici obiettivi. Strano, a pensarci. E eccomi qui, pensò, con ambedue i piedi ben piantati a terra - presumibilmente - e cosa ne ricavo? Ne ricavo malinconia. John Castlewood era stato vittima della propria illusione, perché cos'altro era lo stato, la condizione dell'«innamorato»? Meraviglioso, se si è corrisposti, tragico in caso contrario. In ogni modo, John aveva avuto la sua illusione e poi sfortunatamente - tacchete - era morto. Nonostante la propria comprensione, Ina alla fine doveva avergli risposto con un secco no 8 La mattina dopo, con uno sforzo deciso, scrisse due pagine del libro. Fu
contento d'essersi rimesso in carreggiata. Poi smise per scrivere una lettera a Ina. 5 luglio 19.. Ina carissima, grazie per la tua lettera, che finalmente m'è arrivata ieri: un piccolo petardo nel dopotutto tranquillo Quattro Luglio di qui. Certo, a quanto pare rimangono ancora una quantità di cose da spiegare, benché forse io in fin dei conti dovrei arrendermi di fronte ai suicidi, come minimo di fronte a quello di John, che non conoscevo bene e che ora mi rendo conto che non conoscevo affatto. A parte te, per cos'altro era sconvolto? Ammetto che mi ha seccato che abbia scelto il mio appartamento per togliersi di mezzo. Posso dire, senza apparire troppo rude e insensibile, che spero che almeno non v'abbia pasticciato un po' troppo? Fino a poco fa casa mia mi piaceva. Non sarebbe male se spiegassi un po' di più i tuoi sentimenti. Sei stata comprensiva fino a che punto? Qualunque sia stato questo punto, non sembra che abbia giovato a John. Ti piaceva o lo amavi? Oppure lo ami ora? Naturalmente, a meno di non sbagliare di grosso, mi rendo conto che non devi avergli fatto mai nessuna promessa (come del resto hai detto) altrimenti non si sarebbe tolta la vita. Quello che però in effetti non riesco a capire, mia cara, è perché hai aspettato tanto per scrivermi. Se tu sapessi com'è stato qui per me, non un amico con cui chiacchierare, troppo caldo per lavorare con un certo agio se non la mattina presto e la sera, niente lettere per un intero mese dalla ragazza che amo... Non è stato un bel mese per me. Quel che non mi hai spiegato è il perché eri tanto sconvolta da non potermi scrivere per ventisette e passa giorni, e anche allora, per mandarmi solo un biglietto e infine, dopo alcuni giorni, finalmente una lettera. Io ti amo, e ho voglia e bisogno di te. Ora più che mai. Proverò a fermarmi qui per un'altra settimana ancora, credo. Devo pensare, raccogliere le idee, altrimenti mi sentirò perduto... come se già non lo fossi. Tuttavia il lavoro (il libro) mi sta andando ragionevolmente bene e mi piace girare in macchina è vedere un po' della Tunisia, anche se il caldo va aumentando finché, mi dicono, raggiungerà il massimo, cioè l'inferno, in agosto. Spedirò questa mia espresso. Rispondimi immediatamente, ti prego. Spero che ormai tu abbia riacquistato la calma, mia cara. Vorrei che fossi qui, in questa stanza abbastanza accogliente, con me. Potremmo parlare... e così via. Con tutto il mio amore, tesoro,
Howard Nei giorni successivi Mokta non diede nessuna notizia della giacca, delle scarpe e dei gioielli rubati, e alla fine lui s'arrese. Il paese era vasto e i suoi piccoli possessi erano stati risucchiati e perduti per sempre. Col passare dei giorni, però, la perdita della spilla per cravatta di Lotte, che non metteva quasi mai, e dei gemelli del nonno cominciò a scottargli. In confronto al valore che quegli oggetti avevano per lui la miseria che il ladro doveva averne ricavato era più che irritante a pensarci. Le sue reazioni erano ritardate, come intense erano le sue amarezze (e, a volte, anche le sue gioie), ma il fatto che lui per primo se ne rendesse conto gli era di ben poco aiuto. Ogni volta che vedeva il vecchio arabo che, senza alcun'ombra di dubbio, gli aveva rubato nella macchina e che poteva avergli rubato anche nel bungalow, provava il desiderio di prenderlo a calci in quel che il retro dei suoi sozzi pantaloni poteva mai nascondere. D'altro canto, ogni volta che lo vedeva a Hammamet l'arabo fuggiva via, schizzando lateralmente, come un vecchio granchio, nel vicolo o nella strada più vicini. Se l'avesse preso a calci avrebbe potuto anche giustificarsi, pensava, perché all'eventuale poliziotto (di tanto in tanto ce n'era qualcuno nella strada di Hammamet, in camicia e pantaloni bruni) avrebbe potuto dire di aver colto Abdullah in flagrante la notte tra il trenta giugno e il primo luglio. La data la ricordava perché era la notte in cui aveva visto il cadavere, e aveva pensato di riferirlo alla polizia. Invece non aveva detto niente, non solo perché non se la sentiva di essere coinvolto in alcunché con quella gente, ma anche perché prevedeva che a nessuno gliene sarebbe importato niente. Una sera cenò con Nosiste da Melik e accennò al furto subito alcune sere prima. «Uno dei ragazzi, ne sono sicuro. E scommetto che so anche quale,» esclamò Adams. «Quale?» «Quello basso, bruno.» Erano tutti bassi e bruni, tranne Mokta e Hassim. «Quello che si chiama Hammed. Che sta quasi sempre con la bocca aperta.» Nosiste lo imitò e sembrò immediatamente un coniglio, oppure che avesse il labbro leporino. «Naturalmente non ne sono sicuro, ma non mi piace la sua maniera di comportarsi. Mi ha portato gli asciugamani qualche paio di volte. Un giorno l'ho visto aggirarsi intorno al mio bungalow, non faceva niente, s'aggirava lì intorno e guardava le finestre. Hai chiuso le
persiane stasera?» «Sì.» Dal furto in poi, ogni volta che usciva le chiudeva dall'interno. «La prossima cosa che ti sparirà sarà l'accendino, poi la macchina per scrivere. È un miracolo che non te l'abbiano già presa. Evidentemente il ladro ha preso solo cose che poteva nascondere, le scarpe e la scatoletta dei gioielli avvolte nella giacca.» «Cosa pensi di questa gente, a proposito? Del loro sistema di vita?» «A-ah! Non saprei da dove cominciare!» Adams ridacchiò. «Hanno il loro Allah, e dev'essere molto tollerante in verità. Sono rassegnati al destino. Niente grossi sforzi, è il loro motto. Sai, a scuola imparano tutto a memoria:' niente sforzi per pensare. Come lo cambi un sistema di vita del genere? La disonestà è il cardine della loro vita. Se esiste un manipolo di onesti è presto ingannato dalla maggioranza, così che per sopravvivere devono ripiegare sulla disonestà anche loro. Puoi biasimarli?» «No,» convenne lui. In realtà, capiva quel che voleva dire Nosiste. «Il nostro paese è stato fortunato. Abbiamo cominciato bene, con uomini come Tom Paine e Jefferson. Che idee avevano! E ce le hanno trasmesse per scritto. Benjamin Franklin. Magari qualche volta noi ce ne siamo allontanati ma, santiddio, essi sono ancora lì, nella nostra Costituzione...» Avrebbe detto, a questo punto, che tutto era stato poi rovinato dai siciliani, i portoricani, gli ebrei polacchi? Non volle prendersi la briga di chiedere a Adams che cosa aveva rovinato l'idealismo americano, lo lasciò divagare. «... Sì! Questo potrebbe essere l'argomento della mia prossima trasmissione. La corruzione dell'idealismo americano. Sai, non vai mai tanto lontano, e non ti fai mai tanti amici, come quando dici la verità. C'è sempre qualche nuovo fallimento di cui parlare. E diciamocelo pure, ai nostri amici potenziali» - e a questo punto Adams era raggiante, sembrava di nuovo uno scoiattolo felice - «interessano più i nostri fallimenti che i nostri successi. I fallimenti rendono umana la gente. Ci invidiano perché ci reputano dei superuomini, degli invincibili edificatori d'imperi...» E continuò, implacabile. Il fatto strano, però, eira che quella sera a lui non risultava insopportabile. S'avvicinava a una certa verità. Ma dove soprattutto quell'Adams sbagliava, anzi crollava, era nell'affermazione che il comunismo o l'ateismo erano un male anche per gli altri, tutti gli altri. Bene, una mela marcia poteva anche infettare tutto il barile, per adoperare un vecchio adagio che avrebbe fatto certamente piacere a Nosiste, ma la sostanza delle cose ri-
maneva pur sempre il triste fatto che gli uomini non erano tutti uguali, come piaceva pensare a Adams, che la libera iniziativa se portava alcuni alle stelle spediva altri all'inferno, in quella povertà che l'amico tanto detestava. Ma era proprio impossibile creare un sistema socialista che contemplasse una certa concorrenza, prevedesse la ricompensa personale? Ma certo. Mentre l'altro ci dava sotto, lui sognava. «Il controllo delle nascite! Bene, è vitale, ormai. Altro argomento che non ho paura di affrontare nelle mie trasmissioni. Chi ne è più consapevole della Cina? E chi è più consapevole della Cina dell'Unione Sovietica? I procreatori sono la maledizione dell'umanità! E non escludo gli Stati Uniti. Poughkeepsie è un vivaio, la più alta quota di disoccupati degli Stati Uniti, stando alle ultime notizie che ho sentito, soprattutto a causa dei portoricani e dei neri. La più alta quota di famiglie, praticamente prive di padre...» Vivaio. Nosiste proseguiva e lui non riusciva a trovare una sola obiezione a quel che diceva. Naturalmente avrebbe anche potuto citare, avendo sottomano le statistiche, le famiglie anglosassoni colpevoli di avere dieci figli, un padre senza lavoro e magari persino nessun padre. Invece si limitava a ascoltare. Arrivò Jensen, senza cane. «Vi conoscete?» chiese lui. «Mister Jensen. Mister Adams.» «Vuole unirsi a noi?» chiese Adams, tutto cortesia. «Hai già mangiato?» «Non ne ho voglia,» rispose Jensen, sedendo. «Lavorato bene, oggi?» gli chiese lui, avvertendo che c'era qualcosa che non andava. «No, non più da mezzogiorno in poi.» Il danese poggiò il braccio sottile sul tavolo. «Credo che mi abbiano rubato il cane. Manca dalle undici di stamattina, quando l'ho fatto uscire per urinare.» «Oh, mi dispiace,» esclamò lui. «Hai guardato in giro?» «Per tutto il» - Jensen diede l'impressione di soffocare una imprecazione - «quartiere. Sono andato in giro dappertutto, chiamandolo.» «Santo cielo,» fece Adams. «Mi ricordo il suo cane. L'ho visto molte volte.» «Può essere ancora vivo,» rispose Jensen in tono quasi provocante. «Ma certo. Non intendevo dire che non lo è più,» disse Adams. «Di solito familiarizza con gli sconosciuti?» «Di solito li sbrana. Odia gli arabi fetenti e in genere li avverte lontani un miglio. Per questo temo che l'abbiano già ucciso. Ho girato per tutte le
strade chiamandolo, finché m'hanno gridato dietro di star zitto.» «Hai idea di chi possa essere stato?» chiese lui Ingham. Il danese tardò tanto a rispondere - sembrava confuso come in una nebbia - che lui incalzò: «Credi che possano averlo sequestrato per poi chiedere un riscatto?» «Lo spero. Ma finora nessuno s'è fatto vivo.» «Sarebbe capace di mangiare della carne avvelenata?» chiese Adams. «Non credo. Non è il tipo di cane che s'avventa su tutto, anche la carne putrida.» L'inglese di Jensen era come al solito preciso e molto colorito. Quanto a lui Ingham, gli dispiaceva per il danese ma era sicuro che il cane fosse già partito, morto. Lanciò un'occhiata a Adams. Nosiste, vide, l'aveva già messa sul lato pratico, cercando di dare suggerimenti al danese. «Domani mattina mi butteranno la sua testa davanti alla porta,» disse Jensen. «O magari la coda.» Rise storto, e gli si videro gli incisivi inferiori. «Vedremo. Mi dispiace d'essere così cupo stasera.» Bevvero il caffè ordinato. Adams disse che doveva rientrare. Lui Ingham chiese al danese se aveva voglia di andare da qualche parte per un altro caffè o un bicchiere di qualcosa. Adams dichiarò che non li avrebbe seguiti. «Che ne dici del Fourati?» chiese lui. «È allegro, almeno.» Non lo era in modo particolare, era solo un'idea, un'impressione. Montarono nella Peugeot e accompagnarono Adams ai bungalows, dopodiché andarono al Fourati. Jensen era in jeans, ma era sempre tutto lindo e sempre bello a vedersi. Il bar del Fourati era molto illuminato. Su una veranda al di là del bar stavano ballando alla musica di un accanito trio spietatamente amplificata da altoparlanti. Rimasero al bar lanciando occhiate alla dozzina circa di tavoli. Lui Ingham si sentiva vuoto, inutile, ma almeno non solo. Guardava e fissava le facce intorno semplicemente perché non le aveva mai viste prima, perché non erano arabe e perché, essendo francesi, americane o inglesi, e alcune tedesche, qualcosa finivano col dirgli. A un certo punto incontrò lo sguardo di una ragazza bruna in un abito bianco senza maniche. Qualche attimo, e abbassò lo sguardo nel bicchiere: rum e ghiaccio. «Un po' soffocante,» osservò, alzando la voce al di sopra della musica. «La gente, voglio dire.» «Molti tedeschi, al solito,» ribatté Jensen, e bevve un sorso della sua birra. «Una volta qui ho visto un ragazzo bellissimo. In marzo. Probabilmente stava celebrando il suo compleanno con un party. Dimostrava sedici anni. Francese. Mi guardava. Non gli rivolsi la parola e non l'ho più rivisto.»
Lui scosse il capo, annuendo. Lo sguardo gli corse di nuovo verso la donna in abito bianco. Aveva braccia lisce e abbronzate. Questa volta gli sorrise. Stava con un uomo biondo e piuttosto anziano, in giacca bianca, che poteva essere inglese, una quarantenne paffutella e un uomo più giovane, nero di capelli. Il marito? Decise di non guardar più da quella parte. Si sentiva molto attratto da quella donna vestita di bianco. Come si diventa stupidi col caldo! «Un'altra birra?» chiese a Jensen. «Caffè.» L'unico barista, un ragazzo, stentava a star dietro a tutte le ordinazioni, quindi il caffè tardò un po' a arrivare. Dall'altra parte del bar, dalla finestra aperta sulla loro sinistra, giungeva il fragore della musica di un'orchestra araba che intratteneva i clienti nel giardino fiocamente iluminato dell'albergo. Cristiddio, che casino, pensò lui. Sperava che almeno quei pochi minuti avessero tirato un po' su Jensen, distraendolo dal pensiero fisso del cane. Lui era sicuro che Hasso non l'avrebbero visto mai più. Già vedeva Jensen che se ne tornava, solo e amareggiato, a Copenhagen. Cosa poteva fare del resto? Lo invitò nel suo bungalow. Naturalmente il danese accettò. Ma per solitudine, si rese conto lui, quella sera il sesso non c'entrava. «Hai una famiglia numerosa in Danimarca?» gli chiese. Stavano percorrendo il viale sabbioso verso il bungalow, guidati dalla torcia di Jensen che la portava sempre nella tasca posteriore. «Solo padre, madre e una sorella. Il mio fratello maggiore si suicidò quando io avevo quindici anni. Sai, i cupi danesi! No, voi dite i tristi danesi.» «Gli scrivi spesso?» Aprì la porta. Entrò nel buio e rimase teso finché non accese la luce e vide che nella stanza non c'era nessuno. «Sì, abbastanza spesso.» Capì che quelle domande sulla sua famiglia non avevano sollevato minimamente il morale del danese. «Bella stanza,» disse Jensen. «Semplice. Mi piace.» Lui tirò fuori scotch, bicchieri e ghiaccio, poi sedettero tutt'e due sul letto accanto al quale c'era un tavolino dove potevano poggiare i bicchieri. Erano depressi entrambi e lui se ne rendeva conto, ma per motivi diversi. Non intendeva parlare di Ina a Jensen, e neppure del furto subito. D'altro canto, poteva darsi che la tristezza del danese non fosse dovuta esclusivamente al cane ma anch'essa a cause di cui non aveva intenzione di parlare
con lui. Cosa si fa in queste circostanze; si chiese, per rendere un tantino meno imbarazzante la situazione? Si resta seduti a un metro di distanza l'uno dall'altro, nella stessa stanza, in silenzio? Capaci di parlare la stessa lingua e tuttavia taciturni? Nel giro di quindici minuti si sentì a disagio e annoiato benché Jensen avesse cominciato a parlare di un viaggio da lui fatto alcuni mesi prima insieme con un amico americano in una città dell'interno, nel deserto. Avevano incontrato tempeste di sabbia che quasi gli strappavano i vestiti di dosso e a dormire all'aperto, la notte, avevano avuto molto freddo. Aveva con sé il cane. Lui Ingham intanto vagava col pensiero. All'improvviso si convinse che Ina era stata innamorata di Castlewood, era stata a letto con lui. Diomio, forse persino nel suo appartamento. No, sarebbe stato un po' troppo. John aveva una casa tutta sua e viveva solo. E lui che aveva ritenuto Ina così solida: solida fisicamente, in maniera piacevole e attraente, e solida psicologicamente, nel suo atteggiamento verso di lui e nel suo amore. Già, aveva persino avuto l'impressione che lei tenesse a lui più di quanto lui tenesse a lei. Che sciocco era stato! Doveva rileggere la lettera, quella dannata lettera ambigua, doveva rileggerla subito, appena Jensen andava via. Si rese conto di aver bevuto abbastanza e che il bicchiere era ancora mezzo pieno, ma avrebbe riflettuto lo stesso su quella lettera e chissà, forse un lampo d'intuizione lo avrebbe aiutato a comprenderla meglio, a capire cos'era successo veramente. Perché Ina era così riservata e tortuosa, se era stata a letto con John? Non era il tipo di ragazza da dir pane al... cosa? In ogni modo, una scopata per lei restava una scopata, al massimo la definiva andare a letto con qualcuno. Era stata abbastanza sincera con lui a proposito di un paio di relazioni avute dopo il matrimonio. Jensen se ne andò prima dell'una. Lui lo accompagnò in macchina fino alla sua strada, dalle parti di Melik, benché il danese gli avesse chiesto, e implorando persino, di lasciarlo andare a piedi. Quando ritornò alla macchina, sentì la voce di Jensen che allontanandosi nel vicolo chiamava: «Hasso! Hasso!» Un fischio. Un'imprecazione, in danese, a voce alta, uno stridente urlo, di sfida. Si ricordò allora del cadavere trovato in quella stessa strada. Una strada piccola, e tuttavia piena di dramma. Studiò ancora una volta la lettera di Ina. Non arrivò a nessuna conclusione. Se ne andò a letto vagamente arrabbiato e decisamente infelice. 9
Due o tre giorni dopo, di mattina, sulla spiaggia rivide la brunetta del Fourati. Stava su una sdraio con un'altra accanto, vuota. Un ragazzino stava cercando di venderle qualcosa tirata fuori da un cesto. «Mais non, merci. Pas d'argent aujourd'hui!» gli stava dicendo lei. Sorrideva ma era un po' seccata. Lui aveva appena fatto la sua nuotata di mezzogiorno e, fumando una sigaretta, stava camminando lungo la battigia con l'accappatoio in mano. Dall'accento della ragazza immaginò che fosse inglese o americana. «Qualcosa non va?» le chiese. «Non esattamente. Non riesco a liberarmi di lui.» Era americana. «Neppure io ho soldi con me, ma di solito una sigaretta serve altrettanto bene allo scopo.» Estrasse due sigarette dal pacchetto. Immaginò che il ragazzo vendesse conchiglie. L'arabo afferrò le sigarette e corse via, scalzo. «Anch'io avevo pensato alle sigarette, ma non fumo e non ne ho.» Aveva occhi scurissimi, il viso liscio e abbronzato e capelli anche lisci e tirati indietro sulla fronte. Guardandola, gli venne in mente una parola: mandorla. «Credevo che stesse al Fourati,» le disse. «Ci sto, infatti. Ma un amico mi ha invitato qui per la colazione.» Guardò in fondo alla spiaggia verso l'albergo in cerca dell'amico che certamente sarebbe tornato da un momento all'altro. Sulla sdraio vuota accanto a lei c'erano un asciugamano bianco e giallo e un paio di occhiali da sole. All'improvviso lui seppe, o credette di sapere, che quella sera l'avrebbe rivista, che avrebbero pranzato insieme e che sarebbero andati a letto insieme. «È da molto a Hammamet?» Le solite domande, il protocollo. Era a Hammamet da due settimane e avrebbe proseguito per Parigi. Era della Pennsylvania. Non portava fede al dito. Aveva forse venticinque anni. Le disse che lui era di New York. Alla fine - non un attimo prima, perché un uomo in costume da bagno e camicia sportiva, seguito da un cameriere con un vassoio, stava venendo dritto dall'albergo verso di loro - le chiese: «Beviamo insieme qualcosa prima che lei parta? È libera questa sera?» «Sì. Ottima idea.» «Vengo a prenderla al Fourati. Alle sette e mezzo?» «Benissimo. Oh, a proposito, mi chiamo Kathryn Darby. D-a-rb-y.» «Howard Ingham. Piacere. Ci vediamo alle sette e mezzo.» Salutò agitando la mano e s'allontanò in direzione del suo bungalow. L'uomo che stava arrivando col cameriere era ancora a un tre metri circa di distanza. Dopo la prima lunga occhiata da lontano lui non l'aveva più
guardato quindi non sapeva se si trattava di un trentenne o d'un sessantenne. Quel pomeriggio lavorò bene. La mattina aveva già scritto quattro pagine, ora ne scrisse cinque o sei. Poco dopo le cinque Nosiste andò a invitarlo a andare a bere qualcosa da lui. «Oggi non posso, grazie. Ho un appuntamento al Fourati con una donna. Che ne dici di domani a quest'ora?» «Una donna. Bene! Benissimo!» Adams si trasformò immediatamente in uno scoiattolo raggiante. «Divertiti, allora. Sì, domani andrà benissimo. Sei e mezzo?» Alle sette e mezzo, indossando la giacca bianca che s'era fatta portare a lavare e riprendere quello stesso pomeriggio da Mokta, chiamò Miss Darby dalla portineria del Fourati. Sederono a uno dei tavoli nel giardino e bevvero Tom Collins. Lei lavorava per lo zio in uno studio legale. Faceva la segretaria e imparava molte cose di legge; conoscenza, spiegò, di cui non si sarebbe mai avvalsa perché non aveva intenzione di laurearsi. C'erano in lei un certo calóre, una certa sollecitudine - o forse si trattava semplicemente di spontaneità - di cui lui era assolutamente assetato. Rivelava anche ingenuità e un certo garbo. Lui ebbe la certezza che non fosse il tipo da avere avventure con chiunque e neppure spesso, ma immaginò anche che qualcuna doveva pur averla e che se per caso lui le piaceva poteva anche ritenersi fortunato, perché era molto carina. Pranzarono al Fourati. Le disse: «È un piacere trovarsi con te. Mi sono sentito solo in quest'ultimo mese. Non cerco, non esattamente, di conoscere gente perché devo lavorare, ma questo non m'impedisce di sentirmi solò ogni tanto.» Lei gli chiese del suo lavoro e in breve lui le spiegò che il tale con cui doveva lavorare a un film non lo aveva raggiunto. Le disse anche che s'era suicidato, ma evitò di fare il nome di John. E aggiunse che aveva deciso di restare ancora qualche settimana per lavorare al suo romanzo. Kathryn (gli aveva già spiegato come si scriveva) mostrò senza mezzi termini la sua comprensione e la cosa lo colpì come non lo aveva colpito invece l'altrettanto sincera comprensione di Adams. «Dev'essere stato un brutto colpo, anche se non lo conoscevi bene!» Cambiò argomento chiedendole se aveva visitato altri posti della Tunisia. Li aveva visitati e le faceva piacere parlarne, come anche delle cose
che aveva comprato per spedire o portarsi dietro. Era sola adesso, ma era arrivata in Tunisia con degli amici inglesi, conosciuti in America, che il giorno prima erano ritornati a Londra. Per un attimo, lui vagheggiò l'idea di accompagnarla a Parigi e passare qualche paio di giorni lì con lei, poi si rese conto dell'assurdità dell'idea. Le chiese invece se le andava un ultimo bicchiere o un caffè nel suo bungalow. Lei accettò. Non accettò lo scotch e lui preparò due tazze di caffè forte. Le piacque anche la proposta di lui di una nuotata: poteva indossare una delle sue camicie. La spiaggia era deserta. C'era mezza luna. Ritornati nel bungalow, quando si fu seduta, avvolta in un grosso asciugamano bianco, lui disse: «Mi piacerebbe moltissimo se rimanessi da me. Ti va?» «Piacerebbe anche a me,» rispose lei. Era stato semplice, dopotutto. Le diede l'accappatoio di spugna e lei scomparve nel bagno. Poi s'infilò nel letto, nuda, e lui le scivolò accanto. Seguirono deliziosi baci al sapore di dentifricio. Lui era interessato soprattutto al seno. Le stava disteso sopra con dolcezza ma dopo cinque minuti si rese conto di non essere eccitato abbastanza da poter fare l'amore. Per un po' volle allontanare tale constatazione dalla propria mente e continuò a baciarle il collo, ma alla fine la realtà si rifece viva. E forse pensarci fu fatale. Lei lo toccò, anche, per un attimo e, forse, accidentalmente. Avrebbe potuto chiederle di fargli cose, ma non osava. Non con quella ragazza, nossignore. Però non stava succedendo niente. E, capì, niente sarebbe successo. Era imbarazzante e insieme buffo. Non gli era mai successo prima, mai quando aveva desiderato e deciso veramente di fare l'amore, come aveva deciso e desiderato in quel caso. Ina, per esempio, lo aveva persino definito stancante e lui ne era stato anche fiero. Non disse molto a Kathryn, le fece qualche complimento, sincero però. Si sentiva disorientato, troppo disorientato, per provare il senso di inadeguatezza che avrebbe dovuto provare. Cosa stava succedendo? Colpa del bungalow? Impossibile. «Sei dolce,» disse lei. Lui quasi scoppiava a ridere. «E tu sei bella.» La mano di lei dietro al collo era piacevole, rassicurante, ma solo vagamente eccitante, e si chièse fino a che punto lei era dispiaciuta, fino a che punto l'aveva delusa. All'improvviso lei starnutì. «Hai freddo!»
«È stato il bagno.» S'alzò, andò in cucina a versare uno scotch, tornò e s'infilò impacciato l'accappatoio senza metter via il bicchiere. «Lo vuoi liscio?» Lo bevve liscio. Venti minuti dopo l'accompagnava in macchina al Fourati. Le aveva chiesto se voleva fermarsi per la notte ma lei aveva risposto di no. I modi di lei non erano mutati... purtroppo, non come sarebbero mutati se avessero fatto l'amore. «Ceniamo insieme domani sera?» le chiese. «Se ne hai voglia, possiamo cucinare qualcosa da me. Tanto per cambiare.» «Domani sera ho un impegno. Per la colazione?» «Quando lavoro non vedo gente a colazione.» S'accordarono per la sera di due giorni dopo, di nuovo alle sette e mezzo. Ritornò al bungalow e s'infilò immediatamente i pantaloni del pigiama. Poi sedé sul bordo del letto. Si sentiva maledettamente depresso. Non riuscirò a vedere il fondo della mia depressione se non mi ci immergo completamente, pensò. Si rendeva conto di essere cambiato moltissimo in quell'ultimo mese. Ma in che modo? Nei prossimi giorni lo saprò, concluse. Non era il tipo di domanda a cui poteva dare una risposta solo riflettendoci sopra. Kathyrin Darby era più brillante di Lotte, pensò poi a un certo punto, senza alcun riferimento con niente. Il che non significava che occorreva questo grande intelletto per essere più brillante di Lotte. Lotte era stata uno sbaglio, un grosso, poderoso e durevole sbaglio. Lotte lo aveva lasciato per un altro uomo perché s'era annoiata di lui. L'altro era un tale che era stato a molti dei loro party a New York, un pubblicitario spiritoso, estroverso, il tipo, aveva immaginato lui, che piace sempre alle donne. Per questo non lo aveva preso sul serio. Poi, di colpo, Thomas Jeffrey aveva chiesto la mano, o quel che era, di Lotte e per giunta lei aveva voluto concedergliela. Mai nulla di così importante era successo con tanta rapidità nella vita di lui Ingham. Aveva avuto l'impressione che non gli avessero lasciato neppure il tempo di difendersi. «Tu mi presti attenzione solo a letto,» gli aveva detto Lotte più di una volta. Era vero. Lei non s'interessava a quello che scriveva lui né ai libri di nessun altro, se per questo, e aveva un modo tutto suo, a volte persino buffo, di demolire qualunque osservazione interessante di lui, o di chiunque altro, con qualche propria banalità, completamente fuori argomento e tuttavia innocente. Sì, lui aveva spesso sorriso, ma non sempre
per cortesia. Adorava Lotte e nessuna donna mai lo aveva dominato tanto tìsicamente, ma evidentemente questo non bastava a rendere felice una donna. No, non riusciva a farle nessuna colpa. Era di famiglia ricca e di cattiva educazione, viziata e effettivamente non s'interessava a niente, tranne che al tennis, che a poco a poco aveva poi abbandonato, forse per pigrizia. Se avesse avuto un'altra occasione con Lotte sarebbe riuscito a far di meglio? Ormai era sposata. E lui, desiderava un'altra occasione con lei? No di certo. Da dove gli veniva questa idea? Si coricò, sempre depresso, ma il profumo di Kathryn Darby che ancora indugiava sul cuscino non lo coinvolse né sconvolse. 10 «Probabilmente Hasso è da qualche parte a più di un metro sotto la sabbia. Magari anche solo mezzo metro.» Jensen aveva un'aria sbattuta e affranta, appoggiato al bar del Café de la Plage. Stava bevendo boukhah e dalla faccia sembrava ne avesse bevuti parecchi. Era mezzogiorno. Lui Ingham era andato a Hammamet in macchina a comprare un nastro per la macchina per scrivere che, dopo aver provato in tre empori che sembravano vender tutto, non aveva trovato. «Non credo. Potresti spargere la voce che sei disposto a ricompensare chi lo trova.» «È stata la prima cosa che ho fatto. L'ho detto a un paio di ragazzini. Ci hanno pensato loro a spargere la voce. Il punto è che il cane è morto e basta. Altrimenti sarebbe tornato.» A Jensen venne meno la voce. Si piegò ancor più sulle braccia nude e, con imbarazzo, lui si accorse che il danese era sul punto di piangere. Fu percorso da un fremito di simpatia e provò anche lui bruciore agli occhi. «Mi dispiace. Davvero. Disgraziati!» Jensen sbottò a ridere e vuotò il bicchiere. «Di solito ti buttano la testa in casa da una delle finestre. Finora questo me l'hanno risparmiato.» «Non hanno per caso un motivo per avercela con te? Penso ai tuoi vicini di casa.» Jensen scrollò le spalle. «Nessuno che io sappia. Non ho mai litigato con loro, non disturbo e pago l'affitto... anche in anticipo.» Lui esitò, alla fine chiese: «Stai pensando di andar via da Hammamet?» «Aspetto ancora altri pochi giorni, poi... Sì, certo, cristiddio, me ne va-
do. Ti dico una cosa, però. Odio l'idea di lasciare le ossa di Hasso sotto questa fetente di sabbia! E sono contento che gli ebrei gli facciano cagar sangue!» Lui si guardò intorno a disagio ma, come al solito, c'era chiasso nel locale e probabilmente di quelli che gli stavano vicini nessuno capiva l'inglese. Un paio di loro, barista compreso, guardarono Jensen perché era fuori di sé, ma le loro facce non esprimevano ostilità. «Anch'io.» «Non sta bene odiare come odio io,» proseguì il danese. Teneva un pugno chiuso e l'altra mano stretta intorno al bicchiere vuoto, tanto da far temere che stesse per scagliarlo lontano. «Non sta bene.» «Farai bene a mangiare qualcosa. Ti proporrei di mangiare insieme stasera ma ho un appuntamento. Che ne dici di domani sera?» Jensen acconsentì. Si sarebbero incontrati al Café de la Plage. Lui tornò al bungalow, avvilito, come se non avesse fatto abbastanza per aiutare Jensen. Poi capì che quella sera non aveva voglia di vedere Kathryn Darby e che con Jensen si sarebbe annoiato di meno, anzi sarebbe stato persino contento. Quel pomeriggio, insieme con una lettera di sua madre dalla Florida (i suoi genitori s'erano ritirati lì in pensione) gli arrivò anche un espresso di Ina. Diceva: 10 luglio 19.. Caro Howard, è vero, ti devo delle spiegazioni. Proverò a dartele. Innanzi tutto: perché ero sconvolta? Per un po' ho creduto di amare John e, per continuare fino in fondo con la verità, sono stata a letto con lui due volte. Mi chiederai: «Perché?» Per un motivo: non ho mai pensato che tu fossi pazzamente innamorato di me. Voglio dire completamente, profondamente. Sai, è possibile essere innamorati anche superficialmente. Non tutti gli amori sono la Grande Passione e non su tutti gli amori è possibile fondare un matrimonio. Sono stata attratta da John. Era decisamente pazzo di me, per quanto possa sembrare strano, visto che era scoppiato così all'improvviso, dopo che ci conoscevamo da più di un anno. Non gli feci nessuna promessa. Sapeva di te, come ormai ti risulta, e gli dissi che tu mi avevi chiesto di sposarlo e che io avevo più o meno accettato. E sapevo che, anche nella nostra maniera disinvolta, la cosa era ancora in piedi. Pensavo che lui e io... insomma, se ci fossi andata cauta con lui (era straordinariamente emotivo) avremmo scoperto se davvero tenevamo l'uno all'altra. Per me lui era un
mondo completamente nuovo, pieno di fantasie, che tuttavia riusciva a rendere e a porre in parole in modo molto chiaro. Ne era capace anche lui? si chiese. Oppure Ina lo giudicava scrittore peggiore di quanto era stato John come operatore? Poi cominciai a avvertire in lui una certa debolezza, un tremito. Non aveva niente a che vedere con i suoi sentimenti per me, che non ne sembravano affatto scossi; c'entrava piuttosto il suo carattere, di cui non apprezzavo certi lati e che, a dirla tutta, mi spaventava anzi. Una debolezza di cui non gli si poteva far colpa, e mai ho pensato di fargliene, ma avendo visto, avendo avvertito questa debolezza, avevo capito che lui e io non avevamo niente in comune. Cercai di troncare con tutto il garbo possibile, ma non è facile riuscirci: viene sempre il momento in cui bisogna tenere l'Odioso Discorso, senza il quale l'altro non accetta mai la verità. E quando dico troncare... l'intera «storia» era durata solo dieci giorni. Purtroppo questa mia decisione fu fatale per il povero John. Ebbe cinque giorni di crisi durante i quali cercai di aiutarlo il più possibile. Negli ultimi due disse che non voleva più vedermi. Immaginai che se ne stesse chiuso in casa. Era già morto quando lo trovai. Non tento neppure di descriverti l'orrore provato nel vederlo lì. Non conosco le parole giuste. Non esistono. Così, mio caro Howard, cosa pensi di tutto questo? Immagino che vorrai piantarmi. Non saprei criticarti... E se anche ci riuscissi? Avrei potuto tenermi tutto per me. All'infuori di me nessuno sa niente, a meno che John non abbia parlato con Peter, non gli abbia detto tutto, voglio dire. Tu mi piaci sempre, anzi ti amo. Non so cosa provi adesso. Quando ritorni, e immagino che avverrà presto, possiamo rivederci se vuoi. Dipende da te. Continuo a lavorare ma sono stanca morta. (Se chi ti dà lavoro ti succhia il sangue, mollagli anche tutto il resto, l'intero cadavere.) A casa mi porto la solita quantità di lavoro. Forse ci sarà un po' di respiro a agosto, e allora mi prenderò le mie due settimane di vacanza. Mi scriverai presto, anche se dev'essere una lettera spietata? Con amore, Ina La sua prima reazione fu di lieve disprezzo. Ina aveva fatto un grosso sbaglio. E lui che la riteneva tanto brillante. Praticamente, in quella lettera implorava più o meno il suo perdono, in realtà strisciava implorando che la
riprendesse con sé, o soltanto sperava. Una maledetta cretinata, tutto quanto. Era persino meno importante del cane di Jensen, pensò. Ina aveva ragione. Lui non era «pazzamente innamorato» di lei, però contava su di lei, dipendeva da lei in maniera definitiva e profonda. Se ne rendeva conto, ora che sapeva che lei lo aveva tradito. La parola «tradito» gli rimase impressa e la detestò subito. Non perché era tanto rigido da obiettare a qualunque avventura Ina potesse avere mentre lui era via, ma perché, a quanto pareva, in quell'avventura lì s'era lasciata coinvolgere troppo emotivamente. Insomma, cercava qualcosa di «vero e durevole», come praticamente fa ogni donna al mondo, e era andata a cercarlo in quella scametta di John Castlewood. Come avrebbe preferito che gli avesse scritto di essersi fatta un'innocente scopatina con John Castlewood, priva di ogni importanza per lei ma presa purtroppo terribilmente sul serio dall'altro! Invece in quella lettera faceva la figura d'una sciocca mezzacalza... Sentì il bisogno di berci sopra qualcosa, dello scotch. Nella bottiglia n'era rimasto solo un dito; se lo bevve con un'aggiuntina d'acqua, senza neppure il ghiaccio, quindi si cacciò il portafogli nella tasca dei calzoni corti e andò allo spaccio dei bungalows. Mancava un quarto alle sei. Aveva tempo per un paio di scotch prima di andare a prendere Kathryn. Era o no una barba quella Kathryn Darby? Mentre si dirigeva verso lo spaccio sul bordo della strada principale vide un paio di cammelli. In sella a uno dei due c'era un fantasma abbronzato in burnous; le due bestie erano legate insieme. Un carretto trainato da un asino e carico di fascine in cima alle quali c'era un arabo scalzo, si fermò sul bordo della strada e qualcuno ne discese. Con sua sorpresa, vide che era il vecchio Abdullah in pantaloni rossi. Cosa ci faceva lì? Lo vide guardare in su e poi in giù, quindi attraversare ingobbito la strada dalla parte dell'albergo e svoltare infine in direzione di Hammamet. Il carretto era venuto da quella direzione e ora tirò oltre. Abdullah scomparve dietro gli alberi e i cespugli dell'albergo. Lui entrò nello spaccio e comprò uova, scotch e birra. Il vecchio arabo, pensava intanto, stava certamente andando a trovare il padrone del negozio di souvenirs a pochi metri più avanti sulla strada. Da lì a Hammamet c'erano anche negozi di frutta e verdura gestiti da arabi. E tuttavia la presenza dell'arabo da quelle parti gli dava decisamente fastidio. Si rese conto che stava attraversando una delle peggiori e pertanto più antipatiche giornate
della sua vita. Portò Kathryn dritto al Café de la Plage di Hammamet per un aperitivo. Lei ci era già stata un paio di volte con i suoi amici inglesi. «Ci piaceva molto, ma è un po' rumoroso. Almeno secondo loro.» Evidentemente, lei era più all'altezza, e era chiaro che il chiasso e la trasandatezza le piacevano. Lui intanto cercava Jensen, sperando di vederlo, ma il danese non c'era. Dal Plage attraversarono la strada e andarono da Melik. Poco distanti i panettieri erano al lavoro. Uno di loro, giovane, arabo, in quel momento stava sulla porta in calzoni corti e berretto di carta e guardò Kathryn con interesse. Nell'aria si sentiva sempre l'odore rassicurante e piacevole del pane appena sfornato. Da Melik c'era baccano. A due, se non addirittura a tre tavoli, suonavano flauti e strumenti a corda. Il canarino, in una gabbia appesa a una trave del soffitto, accompagnava allegramente la musica. Lui si ricordò di una sera in cui Adams parlava ininterrottamente e il canarino dormiva con la testa sotto l'ala, e lui Ingham aveva desiderato di poter fare lo stesso. Sulla veranda di Melik c'era soltanto un'altra donna oltre a Kathryn. Come aveva previsto, la serata tendeva alquanto al noioso, nonostante non gli mancassero argomenti di conversazione. Kathryn gli parlò della Pennsylvania, che lei adorava, specie in autunno, la stagione delle zucche e delle foglie morte. Certamente, pensava intanto lui, la ragazza avrebbe sposato un solido conterraneo, avvocato magari; e si sarebbe stabilita in una casetta con giardino. Ma Kathryn non alluse né accennò alla presenza di alcun uomo. Aveva un certo che di indipendente che attraeva, quella ragazza. E non c'era nessun dubbio che fosse molto carina. Ma l'ultima cosa al mondo che avrebbe potuto fare quella sera, e l'ultima che desiderava fare, sarebbe stato di portarsela a letto. Un ultimo bicchierino al Fourati e la serata si chiuse. Cibo e alcool lo avevano piacevolmente ammansito. Rabbia e irritazione erano scomparse, almeno in superficie, e di questo doveva ringraziare Miss Kathryn Darby della Pennsylvania. Com'è che dicevano da quelle parti? «Latte e miele non fanno fiele.» Tornato al bungalow, rilesse ancora una volta la lettera di Ina sperando di leggerla con indifferenza, senza il minimo risentimento. Non ci riuscì del tutto. Lasciò cadere la lettera sul tavolo, risollevò il capo e disse: «Dio, fa' che il cane di Jensen ritorni. Ti prego!» Dopodiché se ne andò a letto. Non era ancora mezzanotte. Non capì che cosa lo avesse svegliato ma si tirò su di colpo su un gomito
e rimase in ascolto. La stanza era immersa nel buio. La maniglia della porta cigolò. Saltò giù dal letto e istintivamente si spostò dietro il tavolo da lavoro, che era al centro della stanza. Stava rivolto verso la porta. Sì, questa stava aprendosi. S'accovacciò. Cristiddio, s'era dimenticato di chiuderla a chiave! Si profilò una figura leggermente piegata in avanti: alle sue spalle una luce, il lampione del viale dei bungalows, la immergeva in una luminosità lattiginosa. La figura stava entrando nella stanza. Afferrò allora la macchina per scrivere e la lanciò con tutta la forza, facendo scattare in avanti il braccio destro, come un giocatore di pallacanestro che tira al canestro: solo che in quel caso il bersaglio era più basso. Fece centro su una testa coperta da un turbante. La macchina cadde a terra con raccapricciante fracasso, la figura lanciò un gridò, indietreggiò barcollando e cadde a terra. Immediatamente lui balzò verso la porta e, dopo aver spinto di lato con un piede la macchina per scrivere, la chiuse sbattendola. La chiave era sul davanzale della finestra sulla destra. La trovò, armeggiò con la punta delle dita in cerca della toppa e chiuse a chiave. Quindi rimase immobile, in ascolto. Temeva che potesse esserci qualcun altro. Poi, sempre al buio, andò in cucina, trovò la bottiglia dello scotch sul colatoio e l'afferrò, evitando per un pelo di rovesciarla, e bevve un sorso. Se mai ne aveva avuto bisogno, quello era il momento. Bevve un altro piccolo sorso, schiacciò con un colpo del palmo della mano il tappo stridente, rimise la bottiglia sul colatoio e si girò a guardare nel buio verso la porta, teso in ascolto. Sapeva che l'uomo che aveva colpito era Abdullah. Almeno, ne era sicuro al novanta per cento. Delle voci. Deboli, stavano avvicinandosi. Voci eccitate, soffocate, e lui sentì che parlavano arabo. Poi davanti nelle persiane chiuse passò un raggio di luce che le spazzò e svanì subito dopo. Si fece forza. Erano i compari dell'arabo, oppure i ragazzi dell'albergo che investigavano? Poi udì un fruscio di piedi nudi sulla veranda, un grugnito, il rumore strisciante di un qualcosa che veniva trascinato. Lo stramaledetto arabo, naturalmente. Stavano trascinandolo via. Chiunque fosse a farlo. Udì un bisbiglio: «Mokta.» Il fruscio di piedi s'affievolì, scomparve. Lui rimase nella cucina almeno altri due minuti. Non avrebbe saputo dire se quelli avevano parlato di Mokta o se s'erano rivolti a lui, presente in mezzo a loro. Fece per correr fuori a chiamarli. Ma era poi sicuro che fossero i ragazzi dell'albergo? Mandò un profondo, fremente sospiro. Poi udì di nuovo soffici passi sul-
la sabbia, un suono ovattato. Ci fu un altro struscio, lievissimo e diverso questa volta: qualcuno stava pulendo le piastrelle con uno straccio. Stavano togliendo via il sangue, era chiaro. Provò un leggero malessere. I passi leggeri s'allontanarono. Rimase ancora in attesa, poi si costrinse a contare fino a venti. Infine mise a terra la lampada del comodino, in modo che non trasparisse molto dalle persiane, e l'accese. Gli interessava la macchina per scrivere. La parte inferiore della carrozzeria era ammaccata. A quella vista storse il naso, più per l'aspetto sorprendente della macchina che per il colpo che doveva aver rappresentato in fronte al vecchio arabo. La barra spaziatrice s'era stortata e un'estremità sporgeva in fuori. Alcuni tasti erano sollevati e incastrati insieme. Li ripiegò, automaticamente, ma non tornarono al loro posto. L'ammaccatura nella carrozzeria era di alcuni centimetri. Roba per Tunisi, proprio così, quella riparazione. Spense la lampada e s'infilò sotto il lenzuolo, poi lo scostò perché faceva caldo. Giacque disteso per quasi un'ora, senza addormentarsi, ma non udì altri rumori. Accese di nuovo la luce e andò a mettere la macchina per scrivere nell'armadio, sul fondo, vicino alle scarpe. Non voleva che l'indomani mattina Mokta o qualcuno degli altri ragazzi la vedesse. 11 Gli interessava sapere quale sarebbe stato l'atteggiamento di Mokta quando avrebbe portato la prima colazione. Ma a portarla, alle nove e dieci, fu un altro ragazzo che lui aveva già visto un paio di volte ma di cui non ricordava il nome. «Merci.» «A votre service, m'sieur.» Calmo, imperscrutabile, il ragazzo si ritirò. Lui si vestì per andare a Tunisi. La macchina per scrivere entrava ancora nell'astuccio. Per un attimo ebbe l'idea di portare l'auto davanti al bungalow e di caricarvi lì la macchina, perché non voleva farsi vedere sul viale con quell'affare in mano da qualcuno dei ragazzi, ma trovò la cosa assurda. Chi sapeva con che cosa era stato colpito il vecchio? Alle nove e trentacinque chiuse a chiave il bungalow e se ne andò. Aveva lasciato la macchina in fondo al viale, quasi all'altezza del bungalow di Adams, perché la sera prima aveva pensato di bussare da lui se la luce fosse stata accesa; e invece l'aveva trovata spenta. La Peugeot era all'estrema sinistra, sotto un albero, e sulla destra ora c'erano altre due macchine, par-
cheggiate l'una accanto all'altra. Si chiese se per caso il vecchio arabo, non vedendo la Peugeot davanti al bungalow, non avesse pensato che era fuori. Ma come faceva a sapere qual era il suo bungalow? A meno che non glielo avesse detto uno dei ragazzi, ciò che secondo lui era improbabile. Forse l'arabo aveva provato le porte di tutti i bungalows dove non c'erano luci accese. Di Mokta neppure l'ombra. Ebbe quasi un sobbalzo alla vista di Adams che, fiocina e pinne in mano, veniva su dalla spiaggia diretto al suo bungalow. «Giorno!» «Giorno, Francis.» Aveva messo la macchina per scrivere giù sul retro dell'auto. Chiuse lo sportello. «Vai da qualche parte?» Adams si stava avvicinando. «Ho pensato di andare a Tunisi a comprare un paio di nastri e un po' di carta.» Sperò che a Adams non venisse voglia di accompagnarlo. «Hai sentito quell'urlo stanotte? Verso le due. Mi ha svegliato.» «Sì. Ho sentito qualcosa.» All'improvviso, e fu un lampo, si rese conto che poteva aver ucciso l'arabo e che forse era proprio questo a farlo stare a disagio. «Veniva dalla parte del tuo bungalow. Ho sentito un paio di ragazzi correre a vedere cos'era successo. Sono tornati dopo un'ora. Sento tutto quello che fanno, sono così vicino.» Indicò il suo bungalow, a una decina di metri. «C'è sotto un piccolo mistero. Uno dei ragazzi è tornato qui» - con un altro gesto indicò l'edificio - «e dopo un minuto ne è uscito di nuovo di corsa.» Era andato a prendere lo straccio, si chiese lui Ingham, o una pala? «Lo strano è che i ragazzi non vogliono dire cosa è successo. Magari c'è stato un litigio, sai, e qualcuno è rimasto ferito. Ma perché sono stati via un'ora, eh?» L'espressione di Adams era accesa dalla curiosità. «Non lo so,» rispose lui, aprendo lo sportello. «Chiederò a Mokta.» «Non ti dirà niente... Che ne dici di bere e mangiare qualcosa insieme stasera? Ti va?» Non gli andava, ma disse: «Sì, benissimo. Vieni da me a bere qualcosa?» «Vieni tu da me. Vorrei mostrarti una cosa.» Quella faccia da scoiattolo ammiccò. «Va bene. Alle sei e mezzo,» disse lui, e montò in macchina. Raggiunse la strada per Tunisi attraversando Hammamet. All'angolo del-
l'ufficio postale, dov'erano i tavolini all'aperto del Plage, si guardò intorno in cerca del vecchio arabo dai pantaloni rossi. Non lo vide. A Tunisi girò a piedi per quaranta minuti prima di trovare un negozio di riparazioni, o meglio il negozio di riparazioni che faceva per lui. In un paio gli dissero che potevano fare il lavoro ma non prima di due settimane minimo, e non avevano un'aria rassicurante né per quanto riguardava la riparazione né per quanto riguardava la sua durata. Alla fine, in una trafficata strada commerciale, trovò un negozio dall'aria rassicurante dove il commesso gli disse che l'avrebbero fatto in una settimana. Gli accordò fiducia, ma si rammaricò per la perdita di tempo. «Com'è successo?» chiese il commesso, in francese. «Una cameriera dell'albergo l'ha fatta cadere dal davanzale di una finestra.» Se l'era già preparata quella risposta. «Sfortuna! Spero che non sia caduta in testa a qualcuno.» «No. Su un parapetto.» Lasciò il negozio con una ricevuta. Senza la macchina per scrivere si sentiva spaesato e perduto. Sul Boulevard Bourguiba entrò in un café per bere una birra e dare un'occhiata al Time appena comprato. Gli israeliani non avevano nessuna intenzione di cedere i territori conquistati. Facile prevedere un crescente odio degli arabi verso gli ebrei, un aggravarsi del risentimento nutrito fino allora. Per un bel po' le acque non si sarebbero calmate. Per la colazione andò in un ristorante con i ventilatori al soffitto dall'altra parte del Boulevard Bourguiba, uno dei due ristoranti menzionati da John Castlewood. La scallopine milanese era ben cotta e dopo il cibo di Hammamet avrebbe dovuto più che apprezzarla, ma non aveva appetito. Continuava a chiedersi se l'arabo era morto, se i ragazzi avevano riportato la cosa alla direzione dell'albergo e questa alla polizia... Ma, in tal caso, perché né la polizia né quelli della direzione s'erano fatti vivi quella mattina presto? Si chiedeva anche se per caso i ragazzi non si fossero spaventati nel trovare l'arabo morto e non si fossero precipitati a seppellirlo nella sabbia da qualche parte. C'erano delle pinete qua e là sulla spiaggia, a una cinquantina di metri dal mare, e nessuno le attraversava mai, la gente ci girava intorno. Erano l'ideale per una sepoltura di quel genere. Per caso non era stato influenzato da Jensen e dalle sue paure a proposito del cane? Per un attimo pensò di confidare a Jensen l'avventura della notte prima. Almeno lui, era convinto, lo avrebbe capito. Ora si pentiva di non aver aperto la porta quando aveva sentito i ragazzi. Oppure quando aveva sentito
quello che puliva le piastrelle. Fu di ritorno al Reine alle tre meno un quarto. Il bungalow gli diede l'impressione di essere effettivamente fresco. Si spogliò e cacciò sotto la doccia. L'acqua fredda fu una piacevole sferzata, ma non la fece durare a lungo. Due minuti e ne ebbe abbastanza, chiuse il rubinetto e s'immerse di nuovo nel calore di fuori. Quella sera avrebbe chiesto a Adams come fare per procurarsi un condizionatore d'aria. S'infilò nudo tra le lenzuola e dormì un'ora. Si svegliò e immediatamente pensò al capitolo che stava scrivendo, alla scena rimasta incompiuta. Si mise a sedere in mezzo al letto e guardò verso la macchina per scrivere. Il tavolo era vuoto. Aveva dormito profondamente. Una settimana senza macchina per scrivere. Era come perdere una mano. Detestava scrivere a mano persino le lettere personali. Fece un'altra doccia perché era di nuovo sudato. Poi infilò calzoni corti, camicia pulita, sandali e andò in cerca di Mokta. Alla direzione, uno dei ragazzi intento a scopare via languidamente la sabbia davanti alla porta gli disse che Mokta era andato per un servizio all'edificio principale. Lui allora ordinò una birra, sedé sulla veranda all'ombra e si dispose a aspettare. Mokta arrivò dieci minuti dopo con un'enorme pila di asciugamani legati insieme in bilico sulla spalla. Lo vide da lontano e gli sorrise. Era in maniche di camicia e calzoni lunghi neri. Peccato, pensò lui, che col caldo non consentissero ai ragazzi di portare i calzoni corti. «Mokta. Bonjour. Posso parlarti un momento quando hai tempo?» «Bien sur, m'sieur.» Per un attimo, sul viso sorridente di Mokta lampeggiò un certo allarme, che non sfuggì a lui Ingham. Poi il ragazzo portò la pila di asciugamani nell'ufficio e ritornò quasi subito. «Vuoi una birra?» «Con piacere, grazie, m'sieur. Ma non posso sedermi.» Mokta corse a prendere la sua birra alla porta di servizio, dietro l'angolo dell'edificio. Ritornò in un attimo con la bottiglia. «Vorrei sapere cosa devo fare per noleggiare un condizionatore d'aria.» «Oh, è molto semplice, m'sieur. Lo dirò alla directrice, che lo dirà al direttore. Occorreranno al massimo un paio di giorni.» Il sorriso del ragazzo non era meno largo del solito. Con aria distratta, lui studiò gli occhi grigi di Mokta. Erano mutevoli quegli occhi, ma non si spostavano come quelli di un disonesto bensì soltanto, parve a lui, perché il ragazzo stava attento a tutto ciò che lo circondava, persino a ciò che non era fisicamente presente, come un superiore,
per esempio, che lo chiamasse da lontano. «Bene, magari puoi dirglielo. Ne vorrei uno.» Esitò. Non voleva chiedergli di punto in bianco che ne avevano fatto dell'arabo svenuto o morto. D'altro canto, come mai il ragazzo non vi accennava? Anche se non aveva partecipato alla spedizione doveva averne sentito parlare certamente. Gli offrì una sigaretta e Mokta accettò. Forse, si disse, non osava parlarne lì in pubblico. Gli occhi di Mokta schizzarono incontro ai suoi, poi si distolsero. Dal canto suo, lui faceva attenzione a non guardarlo fisso per non imbarazzarlo. Il ragazzo aspettava certamente che fosse lui a affrontare l'argomento. Ma lui non poteva. Perché quel benedetto non diceva qualcosa come: «Oh, m'sieur, sapesse che catastrophe stanotte! Un vecchio pezzente ha cercato di entrare nel suo bungalow»? Quasi glielo sentiva dire, a momenti, nonostante quello non aprisse bocca. Dopo un po' si sentì a disagio. «Fa caldo, oggi. Sono stato a Tunisi, stamattina.» «Ah, oui? Fa sempre più caldo a Tunisi. Mon dieu! Sono contento di lavorare qui.» Accettata un'altra sigaretta da fumar dopo, Mokta se ne andò portandosi via le due bottiglie di birra e lui se ne tornò al bungalow. Rilesse gli appunti per il capitolo in lavorazione e ne prese altri per il successivo. Avrebbe potuto rispondere all'ultima e più esplicita lettera di Ina, ma per il momento non voleva pensare a lei. La risposta esigeva una certa riflessione, a meno di non precipitarsi a scrivere qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire in seguito. Raccolse insieme le note con un fermaglio e le mise in un angolo della scrivania. Scrisse una breve lettera alla madre, spiegandole che la sua macchina per scrivere era in riparazione a Tunisi. Le disse che John Castlewood, che dopotutto lui non conosceva molto bene, s'era ucciso a New York. Le disse anche che stava lavorando a un nuovo romanzo e che, nonostante la delusione per il lavoro venutogli meno, avrebbe cercato di ricavare il più possibile dalla Tunisia. Era figliò unico e sua madre voleva sempre sapere cosa faceva, ma non era una ficcanaso e non si abbandonava a eccessive prepccupazioni. Anche il padre s'interessava di lui, ma era un peggior corrispondente della madre. Quasi non scriveva mai. Gli mancava ancora mezz'ora all'appuntamento con Nosiste. Aveva molta voglia di una passeggiata sulla spiaggia, oltre il bungalow di Adams verso Hammamet, così avrebbe dato un'occhiata alla sabbia in mezzo agli alberi laggiù. Voleva vedere se c'era qualche tratto di sabbia smossa che
somigliasse a una fossa, insomma voleva assicurarsi. Ma al tempo stesso si rendeva conto che bastava rastrellare gentilmente la sabbia con i piedi o con le mani per far confondere nel corso di una mattinata (o anche immediatamente) una fossa con la sabbia tutt'intorno. Su nessun terreno una traccia è tanto effimera come sulla sabbia, basta una brezza leggera per cancellare tutto, mentre il sole asciuga qualunque umidità uno scavo possa aver fatto affiorare. E, dopotutto, non gli andava certo di esser visto a curiosare sulla spiaggia. In fondo, cosa valeva quell'arabo? Quasi niente, probabilmente. Un pensiero ben poco cristiano questo suo, purtroppo. Chiuse a chiave la porta del bungalow e andò da Adams. Come al solito, l'accoglienza di questi fu calorosa. «Entra. Siediti!» Il fresco della stanza gli fece piacere. Come un bicchiere di acqua fredda quando si è assetati e accaldati. Te lo bevevi attraverso la pelle quel fresco. Chissà, si chiese, come doveva essere in agosto, e. si ricordò che doveva andarsene, partire presto. Adams gli porse uno scotch con ghiaccio e acqua. «Sono stato punto da una medusa nel pomeriggio,» gli annunciò poi. «Habuki, la chiamano qui. E luglio è la stagione. Sai, nell'acqua non le vedi se non all'ultimo momento. A-ah! Mi ha punto qui alla spalla. Uno dei ragazzi mi ha portato un unguento che hanno lì in ufficio, ma non è servito a niente. Me ne sono venuto qui e ho usato del bicarbonato. È sempre il rimedio migliore.» «C'è un'ora particolare in cui vengono fuori?» «No. È la stagione, tutto qui. A proposito» - Adams sedé sul divano, indossava i suoi freschi calzoni corti - «oggi ho scoperto qualcosa in merito al grido di stanotte. È stato proprio davanti alla tua porta. Al tuo bungalow.» «Oh?» «Me l'ha detto quel ragazzo alto, Hassim. Ha detto che Mokta era con loro quando sono andati a investigare. Hai capito chi dico?» «Sì. Quello che agli inizi faceva le pulizie nel mio bungalow.» Chissà perché, negli ultimi tempi avevano mandato un altro ragazzo. «Hassim ha detto che un vecchio arabo si aggirava qui intorno e ha urtato con la testa contro qualcosa che lo ha steso. L'hanno trascinato via dalla tua veranda.» Adams ridacchiò di nuovo, con la piacevole soddisfazione di chi vive in un posto dove di solito non succede mai niente; almeno così parve a lui Ingham. «Quel che mi incuriosisce, ora, è il fatto che Mokta sostiene che, pur avendo cercato tutt'intorno per circa un'ora, non hanno tro-
vato nessuno. Qualcuno mente. Può darsi che il vecchio arabo abbia urtato contro qualcosa, ma può anche darsi che i ragazzi lo abbiano menato, persino ucciso, e non lo ammettano.» «Cielo santissimo,» fece lui. Una spontanea reazione, perché li vedeva proprio quei ragazzi a farlo. «Vuoi dire, che è stato un incidente? Che l'hanno picchiato troppo?» «É possibile. Se infatti era un ladro e loro lo hanno sorpreso e buttato fuori, perché mai recalcitrerebbero tanto a parlarne? C'è sotto un mistero, come dicevo questa mattina. Tu non hai sentito niente?» «Ho sentito l'urlo. Non immaginavo che fosse così vicino.» Si rese conto che stava mentendo anche lui come i ragazzi; e se, proprio attraverso uno di loro, fosse saltata fuori la verità, e cioè che la botta era invece una brutta frattura, un osso frantumato, e che quando lo avevano trovato l'uomo era già morto? «Un'altra cosa. Quasi sempre gli alberghi non fanno trapelare niente riguardo ai furti. Nuoce agli affari. I ragazzi dunque metterebbero a tacere ogni cosa anche perché fa parte del loro dovere tenere gli occhi aperti e non lasciare entrare ladruncoli nel recinto dell'albergo. Naturalmente c'è un guardiano, come sai, ma quello lì di solito dorme e non fa mai giri di ispezione.» Lo sapeva, perché di solito, dalle dieci e mezzo in poi, il guardiano dormiva proprio sulla sua sedia a sdraio, appoggiata al muro. «Succedono spesso queste cose?» «Be', da un anno che sono qui solo un'altra volta. Nel novembre scorso acciuffarono due ragazzi arabi che s'aggiravano per il recinto. A quel tempo c'erano parecchi bungalows vuoti e il personale era ridotto. Andavano a mobilio, quei ragazzi, e avevano forzato un paio di serrature. Io non vidi niente ma sentii dire che erano stati menati dai ragazzi dell'albergo e buttati sulla strada. Sai, quando s'azzuffano gli arabi sono spietati tra loro.» Adams prese i due bicchieri, benché quello di lui Ingham non fosse ancora vuoto. «Hai saputo nient'altro dalla tua ragazza?» Chiese po' dalla cucina. «Ina si chiama, vero?» Lui s'alzò. «Mi ha scritto... È stata proprio lei a trovare il corpo di John Castlewood. Aveva preso dei sonniferi.» «Davvero? Sul serio? In casa di lui, vuoi dire?» «Sì.» Non aveva detto a Adams che invece era successo a casa sua. Tanto, niente cambiava. «Non viene qui?»
«Oh, no. È un viaggio lungo. Tornerò io, tra una settimana circa. Me ne torno a New York.» «Perché così presto?» «Non sopporto il caldo. Non avevi detto che dovevi farmi vedere qualcosa?» «Ah, sì. Non vedere, ascoltare. È breve!» Adams levò un dito in aria. «Ma interessante, credo. Vieni di là.» Un altro nastro della malora, pensò lui. Aveva sperato che Adams avesse trovato un'anfora antica in fondo al mare o avesse infilato un pesce raro. Troppa fortuna, sarebbe stata. Ancora una volta la valigia fu messa sul letto e il registratore tirato fuori con gesti delicati. «L'ultimissima,» annunciò Adams a bassa voce. «Dovrebbe essere trasmessa mercoledì prossimo.» Il nastro sibilò, poi cominciò: «Buonasera, amici, ovunque voi siate. Sono Robin Goodfellow, con un messaggio per voi dall'America, terra della...» Spiegando che quella era la solita introduzione, Adams fece scorrere veloce il nastro, che stridé e sibilò, poi rallentò. «... che possiamo chiamare democrazia. È vero che Israele ha ottenuto una schiacciante vittoria, e da un punto di vista militare va ammirata per aver vinto contro un numero superiore di nemici. Due milioni e settecentomila ebrei contro una popolazione araba di centodieci milioni. Ma, in effetti, chi ha sferrato il primo colpo? ... Amici, lascio che siano i vostri governi a dirvelo. Se sono governi onesti, vi diranno che sono stati per primi gli israeliani.» (Un lungo silenzio. Il nastro rimase come sospeso nell'attesa.) «Questo è un fatto storico. Non è rovinoso né fatale per il prestigio di Israele, non finirà» - sembrava che gli mancassero le parole, benché lui fosse sicuro che Adams aveva tutto scritto prima di cominciare l'incisione - «con l'oscurare la fama di Israele, almeno non agli occhi dei paesi filoisraeliani, ma... non contenta del trionfo e della dispersione di migliaia di arabi, della conquista di territorio arabo, Israele comincia a tradire l'arrogante nazionalismo che contraddistinse la Germania nazista e che ne fu la rovina. Secondo me, anche se ha subito la provocazione di incidenti di frontiera e minacce al suo territorio e alle sue donne ma si potrebbero anche citare incidenti che vanno a suo discredito - non sarebbe male che nell'ora della vittoria Israele si mostrasse magnanima e, soprattutto, per guardarsi da quello sciovinismo e quell'orgoglio arroganti che sono stati la rovina di paesi ben più grandi di lei...» «O avrei dovuto dire essa?» bisbigliò Adams.
Lui dovette soffocare un'istintiva risata. «Credo che vadano entrambi bene.» «... non bisognerebbe dimenticare che almeno metà della popolazione di Israele è di madre lingua araba. Questo non equivale a dire che sono sempre arabi autentici. Gli israeliani si vantano di aver trasmesso in arabo istruzioni sbagliate agli aerei e ai carri armati giordani, lasciando intendere una superiorità anche intellettuale. Si vantano d'essere diventati grossi agricoltori, ora che nessuna legge impedisce loro qualsiasi professione all'infuori di quella dell'usura. Negli Stati Uniti non c'è nessuna legge che impedisca loro di fare gli agricoltori, eppure pochi lo sono. Per lo più, gli ebrei d'Israele sono d'origine diversa da quelli d'America, che sono molto meno orientali, meno arabi. L'imperversante odio arabo-israeliano mostra tutti i sintomi di una lunga e spietata malattia, di una spietata lotta di arabi contro quasi-arabi, d'una ferocia scagliata contro un'altra ferocia. La follia deve cessare. La magnanimità deve prevalere...» (Adams fece di nuovo scorrere il nastro.) «... devono incontrarsi come fratelli e discutere...» «Bene,» fece Adams spegnendo l'apparecchio. «Il resto è ricapitolazione, riassunto. Che ne dici?» Alla fine lui rispose: «Visto che sono anti-israeliani, immagino che i russi approveranno.» «Il governo russo è anti-americano,» obiettò Adams, come se lo stesse informando di qualcosa da lui ignorato. «Sì, ma...» Le idee gli si confusero di nuovo. A parte la faccenda del Vietnam, erano poi tanto anti-americani i russi? «L'arroganza d'Israele può anche essere solo un fatto temporaneo, sai. In fondo, dopo quello che hanno fatto hanno pur diritto a esultare un po'.» L'altro gesticolava ormai come non lo aveva mai visto fare finora. «Temporaneo o no, finché dura è pericoloso. È pericoloso sempre. È un segno pericoloso.» Esitò, alla fine non poté fare a meno di replicare: «Non pensi che l'America sia a sua volta un tantino arrogante nell'immaginare che il suo sistema di vita sia l'unico valido al mondo, il migliore per tutti? Di più, uccide quotidianamente per imporlo, piaccia o non piaccia, alla gente. Questa è arroganza o no?» Mise via la sigaretta fumata a metà e dentro di sé giurò di non dire più una parola sull'argomento. Era ridicolo, esasperante e sciocco. «L'America cerca di spazzar via le dittature per dare alla gente la libertà di voto,» disse Adams. Non gli rispose. Continuò a schiacciare la sigaretta nel portacenere. A-
dams era agitato. Quella poteva essere la fine della loro amicizia, pensò lui, o la fine della eventuale simpatia che potesse esserci tra loro due. La cosa non gli importava. Non aveva nessuna voglia di dire alcunché in riparazione. La cosa fastidiosa era che in ciò che Adams diceva a proposito del nazionalismo israeliano c'era un certo grado di verità. Gli stessi paesi da cui Israele dipendeva le avevano proposto di cedere parte del territorio appena conquistato, e lei (o essa) aveva rifiutato. Erano ambedue irritanti, israeliani e arabi. L'unica cosa da fare, per chiunque non fosse né arabo né israeliano, era di tener chiusa la bocca. Qualunque cosa dicevi, a favore degli israeliani o degli arabi, correvi il rischio che ti saltassero addosso. Non ne valeva la pena. Non era un problema suo. Lui non poteva influire in alcun modo. «Non so cosa pensare di questi dannati arabi,» disse. «Perché cavolo non lavorano di più? Scusa il mio linguaggio... Ma se un paese vuol tirarsi su non dovrebbe avere tante centinaia di giovani seduti nei caffè a non fare un fetente di niente dalla mattina alla sera.» «Be', qui hai ragione,» osservò Adams, premuroso, sorridendo adesso. «Così tra i due paesi, sono portato a dire che gli occidentali ammirano di più gli ebrei perché non se ne stanno sempre con le mani in mano. Almeno, non in continuazione, a quel che sento dire.» «È il clima di qui, la religione,» declamò Adams, gli occhi rivolti al soffitto. «La religione, può darsi. Norman Douglas conclude il suo libro sulla Tunisia con una ammirabile dichiarazione. Dice che la gente è convinta che sia stato il deserto a fare degli arabi quelli che sono. Ora lui sostiene che gli arabi hanno creato il deserto. Hanno lasciato impoverire la terra. Quando qui in Tunisia c'erano i romani c'erano anche sorgenti, acquedotti, foreste e gli inizi di un'agricoltura.» Avrebbe potuto proseguire ancora. Era sorpreso lui per primo della propria foga. «Un'altra cosa,» aggiunse mentre Adams metteva via la sua attrezzatura. «Oh, a proposito, grazie per avermi fatto ascoltare il nastro. So che è possibile trovare interessanti gli arabi, studiarne la religione fatalistica, ammirarne le moschee e via dicendo, ma so anche che tutto questo sembra dettato dal capriccio, un capriccio da turisti, in confronto al fatto importante che sono essi stessi, con tutte queste insensatezze, a mantenersi arretrati. A che vale sbavare su un ferro di cavallo o quel che è finemente lavorato, o ammirare la loro rassegnazione al destino, se moltissimi di loro chiedono l'elemosina o rubano, e proprio a noi?»
«Sono perfettamente d'accordo,» disse Adams, chiudendo l'armadio. «E, come dici tu, se dipendono dal destino perché chiedere l'elemosina agli occidentali, che non credono nel destino ma solo nel lavoro e nella ricerca? Ah, ci sono religioni...» Disgustato, Adams non terminò la frase. «Lascia che ti riempia il bicchiere. Sì, e intanto arrivano i soldi dei francesi e degli americani.» «Metà, per piacere.» Seguì Adams nel piacevole soggiorno e nell'inossidabile cucina. «Quanto a religioni strambe, non trovi che anche l'Occidente abbia le sue colpe? Guarda quanti bambini vengono al mondo unicamente perché la chiesa cattolica non permette il controllo delle nascite. La chiesa cattolica dovrebbe rispondere lei in prima persona del benessere di questi bambini, e invece no, ci pensi lo stato dicono i preti.» A questo punto rise. «Il naso del papa! Vorrei che qualcuno ci mettesse sotto tutto quello che sta succedendo in Irlanda!» Adams gli porse il bicchiere, riempito scrupolosamente a metà. «Verissimo! C'è una cosa che non ho detto nel mio nastro perché non riguarda molto gli abitanti di oltrecortina. O forse sì. Poco tempo fa ho ricevuto una lettera da un ebreo d'America. Bene, costui improvvisamente è diventato ebreo tutto d'un pezzo. Prima era russo, o meglio un americano d'origine russa. È questo che intendo per sciovinismo. Andiamo a sederci là.» Passarono nel soggiorno, dove sedettero ai soliti posti. «Capisci cosa voglio dire?» chiese Adams. Lui capiva, e lo deprecava anche. Lo deprecava perché sapeva che era vero. Avrebbe potuto ribattere che in fatto di antisemitismo i russi se la cavano molto bene, ma quello dopotutto era l'atteggiamento del governo russo e non del popolo russo controllato dal partito, al quale in fondo s'interessava Nosiste. «E la giovane signora del Fourati?» Adams sorrise. Quella domanda risultò volutamente casuale e cortese, come, concluse lui, la domanda di una spia. Rispose con altrettanta prudenza. «L'ho vista ieri sera a pranzo. È della Pennsylvania. Partirà mercoledì.» Mangiarono uova strapazzate e salsiccia fritta con insalata verde, preparate da Adams nella sua cucina. Adams accese la radio e come musica di sottofondo ebbero un concerto trasmesso da Marsiglia, oltre al sottofondo, anch'esso musicale, di una conversazione a alta voce dei ragazzi nella direzione dei bungalows. Adams disse che era una cosa del tutto normale. Era una serata calma ma lui adesso stava in guardia con quell'Adams. Non gli piaceva sentirsi addosso quei suoi occhi penetranti. Non voleva inoltre che
sapesse che la sua macchina per scrivere era a riparare perché avrebbe dedotto che l'aveva lanciata contro l'arabo. Riteneva di non venire meno alla propria educazione non invitandolo al proprio bungalow per tutto il corso della settimana. Se poi fosse andato lo stesso, lui avrebbe potuto sempre dire che stava prendendosi qualche giorno di riposo. E Adams avrebbe dedotto che la macchina per scrivere era nell'armadio. 12 La mattina dopo, domenica, si svegliò presto alla prospettiva di un giorno senza macchina per scrivere, senza posta, senza neppure la consolazione di un buon giornale. I giornali della domenica (quelli inglesi, non gli americani) arrivavano il martedì o il mercoledì all'edificio principale dell'albergo, un paio di copie di ognuno, Sunday Telegraph, Observer e Sunday Times, che venivano precipitosamente sequestrati e portati in camera dagli ospiti dell'albergo. C'era naturalmente il suo romanzo, la confortante pila di quasi un centinaio di cartelle sulla scrivania, ma quel giorno non gli andava di pensarci, perché sapeva come se la sarebbe cavata una volta ricevuta indietro la macchina per scrivere. C'era inoltre da rispondere ancora alla lettera di Ina. Aveva deciso per una risposta calma e ponderata (in un tono fondamentalmente cortese, senza rimproveri), nella quale avrebbe detto d'essere d'accordo con lei, perché i loro reciproci sentimenti erano forse troppo vaghi o freddi per essere definiti amore (per quel che questo poteva significare), e il fatto che lei si fosse invaghita per un certo tempo di John ne era la prova. Intendeva dire che non nutriva risentimenti e che quando fosse ritornato negli Stati Uniti gli avrebbe fatto certamente piacere rivederla. Si rendeva tuttavia conto che quella lettera scritta solo mentalmente non era altro che una cauta mossa diplomatica per salvare la faccia. Era rimasto odiosamente colpito dall'avventurettà di Ina con John: solo era troppo orgoglioso per dirglielo. E era convinto che non aveva niente da perdere a scrivere una lettera di tono diplomatico e che, scrivendola, non avrebbe certo perso la faccia. Ma non gli andava di passare un'ora di quella mattinata relativamente fresca a scriverla a mano. Dopo la prima colazione - servita da Mokta prese la macchina e andò a Hammamet. Ancora una volta, dopo aver parcheggiato non lontano da Melik, si
guardò intorno in cerca del vecchio arabo, che la domenica mattina si mostrava sempre da quelle parti. Non quella mattina, però. Si fermò al Plage per un rosé freddo. Stava bene attento agli eventuali sguardi fissi su di lui, ma non gli parve di scorgerne alcuno. Aveva preso in considerazione la possibilità di una rappresaglia, nel caso qualche arabo avesse appreso che lui aveva colpito, o ucciso, il vecchio (e la notizia si sarebbe potuta diffondere tramite i ragazzi dell'albergo), ma sentiva e vedeva che nulla faceva pensare a un'eventuale animosità nei suoi confronti, La rappresaglia, tuttavia, poteva anche limitarsi a una gomma della macchina lacerata, a un parabrezza infranto. Non prevedeva infatti un attacco personale. Andò nel negozio di vini accanto e comprò una bottiglia di boukhah, quindi attraverso il vicolo si diresse verso la casa di Jensen. Gettò un'occhiata alla strada in cui aveva visto l'uomo con la gola tagliata. Era illuminata in pieno da una brillante striscia di sole, ma non vide tracce di sangue. Poi, proprio mentre stava per distogliere lo sguardo, notò una macchia scura sulla terra battuta, quasi coperta dalla polvere. Era quella. Ma, pensò, nessuno, a meno che non sapesse, poteva immaginare che quella fosse una macchia di sangue. O sbagliava? Tirò oltre, puntando verso la casa di Jensen. Il danese c'era ma quando lui bussò prese tempo per andare a aprire perché, spiegò, stava dormendo. S'era svegliato presto, aveva lavorato e quindi s'era rimesso a letto. La vista del boukhah gli fece piacere, ma aveva ancora attaccata addosso la mestizia per la perdita di Hasso. Sembrava dimagrito. A quel che pareva, non si faceva la barba da un paio di giorni. Si versarono il boukhah. Sedé sul letto disfatto di Jensen. Mancavano le lenzuola, c'era solo una coperta leggera avvolto nella quale, evidentemente, il danese dormiva. «Ancora nessuna notizia di Hasso?» «Nessuna.» Chino, Jensen stava lavandosi il viso in una bacinella di metallo poggiata a terra. Poi si pettinò. In giro, che lui vedesse, non c'erano segni di partenza, niente valigie. Non voleva fargli domande al riguardo. «Vorrei un bicchiere d'acqua, da bere con questo. È abbastanza forte.» Jensen sorrise, quel suo sorriso timido non sollecitato mai da niente in particolare. «E pensare che è distillato dal dolce fico,» disse, con una piega amara. Uscì dalla stanza e ricomparve con una brocca d'acqua. Il bicchiere non era pulito, l'acqua invece aveva un aspetto passabile. Del resto, lui non era nello stato d'animo di badare a queste cose.
«Ho la macchina per scrivere a riparare fino a sabato prossimo,» disse. «Mi chiedevo se ti farebbe piacere fare un viaggio con me, andare da qualche parte. Magari a Gabes. Sono trecentonovanta chilometri. Da Tunisi, s'intende. Con la mia macchina.» Il danese parve al tempo stesso impassibile e sorpreso. «Pensavo che potremmo star via due notti. Anche di più, se ci va.» «Sì... Mi sembra un'ottima idea.» «Potremmo anche provare a fare un viaggio in cammello, da qualche parte. Prendere una guida, magari, pagherei io, e dormire all'aperto nel deserto. Gabes è un'oasi, sai, anche se è sul mare. Ho pensato che un cambiamento di scena potrebbe tirarti su. Quanto a me, ne ho bisogno.» Nella mezz'ora successiva, dopo un altro paio di boukhah, a poco a poco Jensen parve riprendersi, come una candela strapazzata dal vento quand'è riparata da una mano. «Posso contribuire con delle coperte e un fornelletto. E anche termos, torcia elettrica... Cos'altro ci serve?» «Dovremmo attraversare Sfax, che sulla carta sembra abbastanza grande, e possiamo comprare lì quello che ci occorre. Mi piacerebbe andare anche a Tozour, ma mi sembra piuttosto lontana. La conosci?» (Il danese non conosceva Tozour.) «È un'antica e famosa oasi nell'interno, oltre Chott. Sulla mia carta risulta che c'è un aeroporto. «Ispirato dal boukhah, stava per proporre di andarci in aereo, ma si trattenne. Jensen gli mostrò il suo ultimo quadro, una tela alta un metro e venti inchiodata su pezzi di legno probabilmente raccattati in giro. Ne rimase colpito. Magari è eccezionalmente buono, pensò. Rappresentava un arabo sventrato, spaccato come un manzo nella bottega di un macellaio. L'arabo stava urlando; non era affatto morto e le viscere bianche e rosse pendevano verso il fondo del quadro. «Cristo,» mormorò, involontariamente. «Ti piace?» «Mi piace sì.» Decisero di partire la mattina dopo. Sarebbe passato a prenderlo tra le dieci meno un quarto e le dieci. Jensen s'era tirato su, almeno sembrava contento per l'occasione offertagli. «Hai del dentifricio?» gli chiese lui. Il danese ne aveva, e lui si lavò la bocca col resto dell'acqua nel bicchiere e, dietro insistente invito di Jensen, la sputò poi fuori della finestra, che dava su una piccola corte nella quale era il gabinetto. Il boukhah aveva un forte sapore che restava in bocca e lui era convinto che si sentisse a metri di distanza.
Andò al Fourati. Pensava che avrebbe dovuto invitare Kathryn Darby a cena quella sera, e se non era libera lui si sarebbe mostrato almeno educato. Partiva il mercoledì. Miss Darby non era in albergo, le lasciò allora un messaggio col quale la invitava a cena per quella sera: sarebbe passato a prenderla alle sette e mezzo. Nel caso non fosse stata libera, la pregava di lasciargli un messaggio al Reine entro le cinque. Quindi se ne tornò al bungalow, fece una nuotata, mangiò qualcosa che aveva nel frigorifero e dormì. Quando si svegliò, senza nessun postumo del boukhah, andò a prendere la valigia più piccola dall'armadio e, soddisfatto e con calma, cominciò a prepararla per la gita nel sud. Avrebbe fatto più caldo, questo era certo. Alle cinque meno un quarto Mokta bussò alla porta. Miss Darby non era libera quella sera. Lui gli diede una mancia. «Oh, merci, m'sieur!» il viso del ragazzo s'aprì in quel suo solito sorriso affascinante, che ai suoi occhi lo faceva somigliare più a un europeo che a un arabo. «Andrò via per tre giorni. Vorrei che tenessi d'occhio il bungalow. Chiuderò tutto a chiave. Anche gli armadi,» «Oui, m'sieur. Fa un viaggio interessante? Va a Djerba, forse?» «Forse. Ho pensato di andare in macchina a Gabes.» «Ah, Gabes,» fece il ragazzo, come se la conoscesse. «Non ci sono mai stato. Una grande oasi.» Mokta si dondolava sulle gambe, sorrideva e agitava le braccia: non trovava altro da fare. «A che ora parte? L'aiuto a fare le valigie.» «Grazie, non occorre. Una sola valigia... Hai saputo più niente dell'uomo che s'aggirava qui intorno venerdì notte?» Mokta cambiò espressione, con la bocca leggermente aperta. «Non c'è stato nessun uomo, m'sieur.» «Oh... M'sieur Adams mi ha detto che Hassim gli aveva detto che c'era stato. I ragazzi l'hanno portato via... da qualche parte. Dicono che stava vicino al mio bungalow.» Si vergognava della propria disonestà, ma nel negare l'intera faccenda Mokta non era certamente più onesto. Il ragazzo agitò le mani. «I ragazzi chiacchierano, m'sieur. Inventano cose.» Non gli parve il caso di fargli altre domande. «Capisco. Bene, speriamo che non vengano ladri mentre sono via.» «Ah, lo spero proprio, m'sieur. Merci, au revoir, m'sieur.» Tornò a sorridere, Mokta, poi s'inchinò e uscì.
Non avrebbe più rivisto Miss Darby, dunque, e la cosa non aveva importanza né per lei né per lui. Si ricordò di una frase di Norman Douglas che gli era piaciuta. Andò a prendere il libro, Fountains in the Sand, e la cercò. Era a proposito di un vecchio giardiniere italiano che Douglas aveva incontrato per caso in Tunisia. Il brano, che aveva segnato, diceva: ... Aveva viaggiato a lungo nel Vecchio e nel Nuovo Mondo; ancora una volta riconobbi in lui l'animo semplice del marinaio o del giramondo che, viaggiando, impara a parlare e pensare con decenza; che, nel corso del viaggio della Vita, invece di raccogliere nuovi impacci saggiamente si libera di quelli con i quali è partito. In quel momento gli sembrò quanto mai adatto. Certamente Miss Darby non rappresentava uno dei suoi impacci; ma Ina sì, forse. Un pensiero più o meno terribile quello, perché per almeno un anno lui l'aveva considerata... parte della sua vita. Aveva contato su di lei. E, conoscendosi, sapeva che la propria reazione alla lettera di lei non era ancora completa: lo sarebbe stata solo più in là. Il fatto curioso, confortante, era che l'Africa lo avrebbe aiutato a superarla meglio, se mai avesse avuto una brutta reazione. Strana sensazione, che non riusciva a spiegare, quella di fluttuare come una particella estranea (ciò che lui effettivamente era) nella vastità dell'Africa e al tempo stesso essere assolutamente sicuro che l'Africa stessa lo avrebbe messo in condizioni di affrontare meglio le cose. Decise di non pensare alla lettera a Ina, quella che avrebbe scritto tra qualche giorno. Che aspettasse pure cinque o sei giorni, diciamo dieci, compreso il tempo che avrebbe impiegato per arrivare. Lei lo aveva fatto aspettare un mese. Andò a salutare Nosiste. Stava lavando le pinne nel lavello della cucina. Le scosse ben bene, come una casalinga che scuote lo straccio di cucina, e le appoggiò capovolte sul colatoio. Facevano pensare a una foca, ma in un certo senso apparivano anche repellenti come i piedi di Adams. «Vado via per un paio di giorni.» «Dove vai?» Glielo disse, senza menzionare Jensen. «Lasci definitivamente il bungalow?» «No. Non sarei sicuro di riaverlo al ritorno.» «Hai ragione. Bevi qualcosa?»
«Una birra andrebbe bene, se ne hai.» «Ne ho sei, ghiacciate,» disse Adams, tutto soddisfatto, e andò a prendere un barattolo in frigorifero. Per sé preparò uno scotch. «Sai, oggi ho scoperto una cosa,» aggiunse poi, mentre passavano nel soggiorno. «Credo... anzi, sono abbastanza sicuro...» Guardò verso le finestre, come per accertarsi che qualcuno non origliasse; ma erano tutte chiuse, a causa del condizionatore d'aria; anche le persiane erano chiuse, tranne quella alle spalle di lui Ingham, dove non c'era sole. «Credo di sapere chi era l'intruso dell'altra notte. Abdullah. Il vecchio arabo col bastone. Quello che hai detto che ti rubò la giacca o quel che era.» «Oh. Te l'ha detto uno dei ragazzi?» «No. L'ho sentito dire in paese.» Adams aveva un'aria leggermente compiaciuta, come se lavorasse nel servizio segreto e avesse scoperto qualcosa. A lui il cuore aveva dato un balzo. Sperò di non essere impallidito, ma sentiva di esserlo. «Al Plage,» proseguì l'americano, «al bar, una coppia di arabi parlavano di Abdull. Ci sono una quantità di Abdullah, ma ho scorto il barista che gli faceva segno di abbassare la voce, a causa della mia presenza. Sanno che sto al Reine. Ho capito abbastanza di ciò che dicevano per sapere dunque che il vecchio era andato, o scomparso. Avrei voluto chiedergli di dirmi di più, perché qualcosa mi aveva ispirato quel collegamento, ma non l'ho fatto per non intromettermi. Però ricordo di aver visto Abdullah vicino al negozio dei souvenirs, non lontano dall'albergo, venerdì sera. È stata infatti là sera in cui sono andato in macchina a cena a Hammamet verso le otto. Non lo avevo mai visto prima da queste parti quel vecchio, così l'ho notato. E ho anche notato che ieri e oggi lì in paese non s'è visto. Sono stato a Hammamet tre volte di recente e, da dopo venerdì, non l'ho visto in giro. È strano.» Adams lo guardò, col capo un po' inclinato. Ci fu silenzio per alcuni secondi. «Be', nessuno ne denuncerebbe la scomparsa?» fece lui. «La polizia non farebbe qualcosa?» «Oh... potrebbero averla notata i suoi vicini. Immagino che abbia un posto dove dormire, magari con altre sei persone nella stessa stanza. Dubito che abbia una moglie, una famiglia. E un vicino si prenderebbe la briga di andare alla polizia?» Adams parve rifletterci sopra. «Ne dubito. Sono dei fatalisti. Mektoub! È volere di Allah che Abdullah scompaia. Voilà! Una bella differenza dall'America, no?»
13 Jensen fu puntuale la mattina dopo, piantato, con una valigia marrone ai suoi piedi, sull'angolo della strada con lo stretto vicolo. Indossava calzoni di cotone verde pallido accuratamente stirati. Lui fermò un po' oltre Melik, sull'altro lato della strada, e il danese lo raggiunse. Insieme sistemarono la valigia sul retro della macchina. C'era spazio a sufficienza nonostante lo zaino di Jensen, tutta l'attrezzatura del fornello e le pentole. «Sai, Anders, dovresti portare calzoni corti. Farà caldo in macchina. Così ti risparmi quei bei pantaloni.» Lo disse in tono quanto mai gentile, perché temeva sempre di urtare i sentimenti del danese. «Va bene,» fece questi, come un bambino educato e volenteroso. «Vado a cambiarmi nel cesso lì da Melik.» Aprì la valigia e ne tirò fuori dei calzoni corti ricavati da un vecchio paio di jeans. Poi s'avviò su per i gradini di Melik. Lui aspettò fuori in macchina. Accese una sigaretta. Un attimo dopo Jensen era di ritorno. Aveva le gambe abbronzate, con i peli dorati. Mise via con cura i pantaloni nella valigia. Presero la strada per il sud, lungo il mare. La mattina era ancora fresca. La limpidezza del cielo azzurro sembrava promettere una giornata piacevole. In un quarto d'ora raggiunsero Bou Ficha e, all'incirca nello stesso tempo, un villaggio ancora più grande chiamato Enfidaville. Jensen teneva lui la carta. La strada fu buona fino a Sousse, dove non si fermarono neppure per un caffè ma proseguirono verso sud per la più breve strada interna per Sfax, dove intendevano fare colazione tardi. Jensen annunciava i nomi: «Ora viene Msaken... Bourdjine... Amphithéatre. Be', no, questo non è un villaggio è realtà. Ne hanno uno. Probabilmente è romano.» «Trovo sorprendente che ci siano così pochi resti di romani, greci, turchi e così via. Cartagine è una delusione. Me l'aspettavo molto più grande.» «Certamente è stata saccheggiata migliaia di volte,» disse Jensen con rassegnazione. A Sfax, dove mangiarono in un ristorante decente, con i tavolini all'aperto, Jensen attrasse la viva attenzione di un ragazzino di un dodici anni. Almeno questa fu l'impressione di lui Ingham, che non aveva visto fare al danese un solo gesto invitante. Il ragazzo s'aggirava lì intorno, sorridendo sfacciatamente, roteando gli occhi, appoggiandosi a un palo di ferro a pochi metri di distanza. Alla fine rivolse la parola a Jensen, il quale mormorò qualcosa in arabo: sembrava seccato. Il ragazzo ridacchiò.
«Gli ho chiesto se avevo l'aria d'aver soldi,» spiegò il danese. «Pussa via!» Lui Ingham rise. Il ragazzo era molto bello, ma sporco. «Te non ti seccano?» chiese Jensen. A Tunisi era stato avvicinato una volta, tuttavia disse: «No, non ancora.» «Una noia. Un fastidio,» disse Jensen, come sé parlasse di un piccolo inconveniente di cui gli era difficile liberarsi. Lui intanto aveva previsto che durante il viaggio il danese potesse trovare qualche paio di ragazzi. Lo avrebbero tirato su, tutto sommato. «Quanti soldi chiedono, di solito?» «Oh!» Jensen rise. «Puoi averli per un pacchetto di sigarette. Mezzo pacchetto.» Arrivarono tranquillamente a Gabes per le sei del pomeriggio, compresa una fermata di mezz'ora in un posto chiamato Cekhira, per un bagno. Era l'ora più calda del pomeriggio, subito dopo le tre. Smontarono da quel mezzo forno che era diventata la macchina che, su terra sabbiosa, era avanzata lentamente in direzione della spiaggia, in un forno più grande. Riparandosi dietro la macchina, lui s'era infilato in tutta fretta il costume da bagno. Non c'era anima viva in giro. Chi avrebbe resistito a quel calore? Erano corsi verso il mare e s'erano tuffati. A lui l'acqua parve abbastanza fresca, per Jensen invece non lo era abbastanza. Nuotava molto bene, il danese, e riusciva a stare sott'acqua tanto a lungo da, a un certo punto, allarmarlo. S'era tuffato con le mutande. Quando tornarono alla macchina le maniglie degli sportelli erano tanto calde da non poterle toccare. Lui Ingham dovette sfilarsi il costume da bagno e usarlo come presina per aprire lo sportello. Una volta a bordò, Jensen, in mutande bagnate, sedé su un asciugamano. Gabes gli offrì la prima vista del deserto, che si stendeva verso l'interno a ovest della città, piatto e giallo arancione alla luce del sole al tramonto. La città era abbastanza grande, ma le costruzioni non erano assiepate come a Sousse o a Sfax. Erano intervallate da spazi attraverso cui s'intravedevano le palme lontane, con le fronde che s'agitavano alla brezza. Faceva meno caldo di quanto s'aspettavano. Trovarono un albergo di seconda categoria abbastanza rispettabile da essere elencato nella Guide Bleu. Jensen ci teneva a pagare la sua parte e lui non voleva fargli spendere molto. Certo ci sarebbe da ridere, pensò, se Jensen stesse bene a soldi, in realtà, e avesse soltanto deciso di darsi alla vita dura per un po'. Fino al punto, immaginava, da comprarsi innanzi tutto una valigia marrone da pochi soldi che, a fu-
ria di vita dura, non poteva non somigliare a quella che aveva appunto il danese. Comunque stessero le cose, a lui tuttavia non importava. Trovava Jensen un buon compagno di viaggio: non si lamentava, s'interessava a tutto e era pronto a accettare ogni sua proposta. Solo la sua stanza aveva gabinetto e doccia, così Jensen andò a farsi la doccia da lui, dopodiché uscirono e fecero un giro per la città. Anche lì c'erano venditori di gelsomino. Per lui quel profumo dolciastro era diventato l'odore della Tunisia, il suo profumo, comunque, così come certi profumi evocano certe donne. Quello di Lotte era Le Dandy. Non gli veniva in mente il nome di quello di Ina, non in quel momento, sebbene lui glielo avesse comprato e regalato un paio di volte lì a New York. E meno che mai ne ricordava l'odore. La memoria olfattiva sarà forse lunga e primitiva, precedente quella delle parole, ma a quanto sembra non è possibile richiamare alla memoria un odore con la stessa facilità con cui si richiama una parola o un verso di poesia. Entrarono in un bar e consumarono in piedi. Di nuovo boukhah. Poi lui prese uno scotch. La radiolina sullo scaffale dietro al banco, per quanto minuscola, tuonava e impediva di parlare. La canzone era un lungo lamento che sembrava destinato a non finire mai, con un ritornello cantato ogni tanto da una voce maschile o femminile, impossibile distinguere. Quando la voce s'interrompeva per un attimo gli invadenti e stridenti strumenti a fiato esplodevano, quasi sostenessero l'acuta voce del cantante con un «Sissignore! È esattamente quello che dicevo io!» E di che si lamentavano? Veniva voglia di ridere. «Santiddio,» fece, rivolto al danese, scuotendo il capo. Jensen sorrise appena, evidentemente lui riusciva a isolarsi dal rumore. A terra, ai loro piedi, c'era un miscuglio di mozziconi di sigarette, segatura e sputi. «Andiamo da qualche altra parte,» propose lui. Jensen fu d'accordo. Alla fine trovarono un ristorante. Lui non riuscì a mangiare la seppia, o quel che era, che aveva ordinato per un equivoco linguistico ma ebbe almeno la soddisfazione di passarla a un gatto gratissimo. La mattina dopo pagarono il conto dell'albergo e chiesero informazioni sui cammelli. «Ah, bien sûr, messieurs.» L'albergatore citò dei prezzi. Conosceva un cammelliere e sapeva dove potevano trovarlo. Partirono dunque, col loro bagaglio, alla ricerca dei cammellieri. La faccenda prese del tempo perché Jensen volle aspettare uno che, a detta degli
altri cammellieri, sarebbe arrivato verso le dieci-dieci e mezzo. Con i piedi nei sandali puntuti incrociati davanti a sé, i cammellieri se ne stavano addossati straccamente ai tondi corpi dei cammelli, accoccolati tutt'intorno sulla sabbia con le zampe anteriori ripiegate in dentro, come gatti. Avevano l'aria più intelligente dei loro padroni, decise lui. Su quelle facce, infatti, si leggeva una sgradevole intelligenza, un'aria saputa come non la si può acquistare frequentando nessuna scuola. Tutte quelle bestie guardavano loro due con divertita curiosità, come per dire: «Bene, bene, ecco altri due bischeri.» Intanto lui si vergognava vagamente di questi pensieri prosaici. Finalmente l'atteso cammelliere arrivò in groppa a un cammello e con altri tre alla briglia. La trattativa la condusse Jensen. Sei dinari a persona per notte. «Lo fanno sempre scendere dal cielo questo mangiare per i cammelli,» spiegò poi il danese. «Il prezzo però non è infame.» Da quando, da ragazzo, era stato allo zoo, lui Ingham non aveva mai più montato un cammello. Quella rollante cavalcata gli metteva abbastanza timore addosso e si tenne pronto a un'eventuale caduta - da due metri e passa di altezza - in modo da non farsi molto male, nel caso. La bestia lo sollevò in aria con uno scatto e la cavalcata ebbe inizio. Dopo un centinaio di metri non gli parve poi tanto male, anche se il dondolio dovuto all'andatura del cammello lo metteva a disagio. Avrebbe preferito andare al galoppo, chino in avanti, come Lawrence d'Arabia. «Ehi, Anders!» gridò. «Dove siamo diretti?» «Verso Chenini. Quel piccolo centro che vedemmo ieri sera.» Jensen era sul cammello che lo precedeva. «Non era a dieci chilometri?» «Credo di sì.» Jensen disse qualcosa al cammelliere che cavalcava in testa, poi si voltò di nuovo verso di lui. «Non possiamo avanzare nel deserto per tutto il giorno, sai. Dobbiamo procurarci un riparo da qualche parte dalle undici alle quattro.» Il deserto gli si apriva immenso davanti. «Dove?» chiese lui, per niente allarmato. «Oh, fidati di lui. Certamente sta puntando dritto a un riparo.» Era vero, ma solo a mezzogiorno meno venti raggiunsero un piccolo centro, o agglomerato di case, e lui fu contento di fermarsi. S'era coperto la testa con un fazzoletto. Jensen invece portava un vecchio berretto di tela. Il posto aveva un nome ma lui lo dimenticò appena l'ebbe appreso. C'era un emporio-ristorante che vendeva bottigliette di bevande in un distributore
della Pepsi-Cola, nel quale però non c'era ghiaccio ma solo acqua tiepida. Il proprietario del posto poté organizzare una colazione a base di piselli e pezzi di salsiccia immangiabile, che loro due consumarono a un tavolino rotondo, con le sedie di metallo inclinate che affondavano nella sabbia a ogni movimento. Lui non riusciva a capire perché, e in che modo, la gente vivesse in un posto come quello, anche se c'era una specie di strada che arrivava fin lì, una parvenza di pista nella sabbia percorribile, immaginava, da una jeep o una Land-Rover. Dopo colazione bevvero del boukhah. Jensen se n'era procurato una bottiglia da qualche parte. Poi il danese disse che l'unica cosa da fare era di dormire per qualche ora, «A meno che tu non voglia leggere. Io potrei fare qualche schizzo.» Tirò fuori un blocco da disegno dalla valigia. Quel giorno fecero altre due soste. Jensen discusse a lungo con il cammelliere su dove, riferì poi, passare la notte. Il cammelliere conosceva un palmeto, che non era tuttavia un'oasi. Vi arrivarono poco prima delle sette. Il sole era appena tramontato. L'orizzonte era arancione, il paesaggio deserto, e tuttavia sotto gli alberi c'erano un pezzo di cartone e dei vecchi barattoli, il che faceva pensare che quello fosse un posto preferito dai cammellieri per portarci i loro clienti. Lui Ingham non andava troppo per il sottile e lo trovò meraviglioso. Venere brillava nitida. Quella mattina, en route dall'albergo ai cammelli, Jensen aveva comprato delle scatolette di fagioli e sardine. A lui Ingham non importava mangiare caldo o freddo, ma il danese volle invece montare il fornelletto. Invitò il cammelliere a dividere il loro pasto ma l'uomo rifiutò educatamente e tirò fuori da qualche parte il proprio cibo. Declinò anche l'offerta, da parte di Jensen, del boukhah. Prima di mangiare, poi, all'ultima luce morente, si mise a leggere un libriccino. Sbirciando dalla sua parte, il danese disse: «Occorre immaginazione per goderti quel che bevi. Eccolo lì, invece, con quello che è certamente un Corano. Sai, o bevono come pazzi o sono ostinatamente... astinenti. Come si dice?» «Astemi. Non è molto espansivo, vero?» «Magari è convinto che non può fregarmi perché conosco un po' d'arabo. Ma ho l'impressione che sia triste per qualcosa successogli di recente.» «Davvero?» Lui immaginava che gli arabi fossero sempre gli stessi tutti i giorni, che gli eventi esterni non avessero nessun effetto su di loro. Dopo aver mangiato insieme, con i cucchiai, da una pentola in comune,
si distesero sulle loro coperte e fumarono, rivolti nella direzione nella quale era tramontato il sole. Una palma gli offriva un mezzo riparo. Conficcata nella sabbia, così da restare in piedi, la bottiglia di boukhah stava in mezzo a loro. Lui beveva soprattutto dalla borraccia d'acqua di Jensen, però. Le stelle spuntarono sempre più numerose finché ve ne fu una sparpagliata profusione. A parte, ogni tanto, il fruscio della brezza tra le foglie delle palme, non c'erano suoni. A un certo punto, proprio mentre stava per dire qualcosa, vide una stella cadente. Compì una lunga traiettoria nel cielo, verso il basso: una ventina scarsa di centimetri, pensò lui, se il cielo fosse stato una tela e fosse stato a una certa distanza. «Ti ricordi quella sera, di circa tre settimane fa, quando venni la prima volta a casa tua?» disse. «Quando andai via, mentre mi dirigevo verso la strada, nel vicolo inciampai in un morto. Nel secondo tratto, dopo l'angolo. Steso a terra.» «Davvero?» fece Jensen. Non sembrava molto sorpreso. Lui abbassò la voce. «Andai a inciamparci dritto contro. Accesi un fiammifero. Aveva la gola tagliata, e il corpo era addirittura freddo. Tu non ne hai saputo niente?» «No, in verità.» «Secondo te, che fine ha fatto il corpo? Qualcuno deve averlo rimosso.» Jensen bevve un sorso dalla bottiglia. «Be', prima qualcuno deve averlo nascosto. Poi un paio di arabi devono averlo caricato su un asino e portato via, per seppellirlo nella sabbia da qualche parte. Questo, s'intende, se c'era un motivo per nasconderlo e seppellirlo e, di solito, se un uomo è stato assassinato questo motivo c'è. Scusami un attimo.» Il danese s'alzò e scomparve nel palmeto. Lui chinò il capo, poggiandolo sul braccio. Il cammelliere s'era sistemato sotto alcuni mantelli accanto a una delle bestie e con molta probabilità stava già dormendo. Era fuori portata delle loro voci e certamente non capiva l'inglese, ma a lui quella vicinanza lo stesso non andava. S'alzò quando Jensen tornò. «Allontaniamoci,» disse. «Andiamo a fare un giro.» Il danese prese la torcia elettrica. Era molto buio quando si allontanarono dal fornello. Il fascio di luce della torcia balzava sulla superficie irregolare della sabbia davanti a loro e lui immaginò che quelle ondulazioni fossero montagne alte centinaia di metri; immaginò che Jensen e lui fossero due giganti che avanzavano sulla luna, o magari fossero quello che erano, nelle loro effettive dimensioni, ma camminavano su un nuovo pianeta abitato da gente piccolissima per la quale quelle ondulazioni erano invece
montagne. Camminavano lentamente e ogni tanto entrambi si voltavano indietro a guardare di quanto s'erano allontanati dal palmeto. Gli alberi erano invisibili, ma il fornello brillava come una scintilla. Lui esordì: «Alcune notti fa ci fu un tentativo di furto lì al bungalow.» «Oh?» fece Jensen e sembrò, come a volte sembrava, un inglese. Procedeva irregolarmente sulla soffice sabbia. «Com'è successo?» «Stavo dormendo e fui svegliato dalla porta che s'apriva. Avevo dimenticato di chiuderla a chiave. Qualcuno stava per entrare. Afferrai allora la macchina per scrivere e la lanciai con tutta la forza. Colpii quell'individuo in piena fronte.» Si fermò e altrettanto fece il danese. Si trovarono l'uno di fronte all'altro, ma non si vedevano, la torcia di Jensen era puntata a terra. «Il fatto è... insomma, posso averlo ucciso. Credo che si trattasse di quel certo Abdullah, hai capito, il vecchio col turbante e i calzoni rossi. Sai, quello che mi rubò alcune cose dalla macchina.» «Sì, ho capito,» disse Jensen. Ascoltava con attenzione, come se attendesse il resto. «Be'... Insomma, appena sentii che qualcuno stava entrando nel bungalow m'appostai dietro il tavolo. Poi afferrai la prima cosa che mi capitò sotto mano. La macchina per scrivere. Lanciò un grido e crollò a terra, e io chiusi la porta. Dopo qualche minuto sentii arrivare alcuni dei ragazzi dell'albergo. Lo trascinarono via.» Fece una pausa più lunga. Jensen non disse niente. «La, mattina dopo chiesi a uno di loro, un certo Mokta. Disse che non ne sapeva niente, e so che non è vero. Il fatto è che sono convinto che quell'arabo sia morto e che quelli l'abbiano trascinato da qualche parte e seppellito. Sta di fatto che da allora in poi non ho più visto quell'Abdullah.» Jensen scrollò le spalle. Pur senza vederla, lui avvertì quella scrollata di spalle. «Potrebbe essersi rifugiato da qualche parte a curarsi.» Il danese fece una risatina. «Quando è successo tutto questo?» «La notte tra il quattordici e il quindici luglio. Era venerdì. Cioè, undici giorni fa... Vorrei sapere con certezza, capisci? Fu una caspita di botta in piena fronte. La macchina per scrivere ne rimase ammaccata. Per questo l'ho portata a riparare.» «Oh, capisco.» Jensen rise. «Hai più visto Abdullah in questi ultimi tempi?» «Non ci ho fatto caso, per la verità. Sai, nel mio vicolo lui non osa entrare. Lo odiano da quelle parti.»
«Davvero?» Lo disse con un filo di voce. Si rendeva conto che quella notizia non lo tirava su. Si sentiva un po' debole. «Torniamo indietro. C'è un'altra cosa che mi fa pensare che si trattasse di Abdullah. Quella sera, verso le sei, lo avevo visto nelle vicinanze dell'albergo. E anche Adams lo aveva visto vicino al negozio di souvenirs, lì sulla strada. Quella stessa sera.» Sapeva che quei particolari annoiavano Jensen ma non riusciva a impedirsi di dilungarvisi. «Hai raccontato questa storia a Adams?» Lui intanto s'era accorto che il danese stava sorridendo. «No. Gli ho mentito.» «Mentito?» «Be'... Adams sa che si trattava di Abdullah. Lo sa da un paio di giorni, per via di qualcosa che ha sentito dire al Plage. Che cioè Abdullah sarebbe scomparso, introvabile o qualcosa del genere. E lui Adams aveva sentito qualcuno lanciare un grido quella notte. Non solo, ma uno dei ragazzi gli ha detto che l'arabo si trovava sulla mia veranda.» «Ma in cosa gli hai mentito?» «Gli ho detto di aver sentito un grido ma di non sapere di cosa s'era trattato. Non gli ho detto neppure di essermi alzato dal letto.» «Meglio così,» disse Jensen, e si fermò per accendersi una sigaretta. Secondo te, cosa succede se è morto? gli avrebbe voluto chiedere lui, e tuttavia aspettò che fosse l'altro a parlare. Ma il danese ci mise tanto da fargli concludere che non avrebbe aperto bocca o che stesse pensando a altro... forse perché si trattava di una storia talmente sciocca da non interessarlo minimamente. «Al tuo posto io dimenticherei tutto. Non sai neppure quello che è successo,» disse alla fine il danese. Un'esortazione vagamente confortevole. Si rese conto che aveva invece bisogno di molta rassicurazione. «Spero che tu l'abbia colpito,» continuò Jensen, abbassando la voce. «Quell'arabo, proprio lui, era un porco. Mi piace immaginare che tu l'abbia colpito, perché mi vendica in parte per il mio cane... solo in parte. D'altro canto, quell'Abdullah valeva meno del mio cane.» Di colpo, lui si sentì meglio. «Questo è certo.» Tornarono a distendersi, a faccia in giù, nascosta, in cerca di calore, nel braccio piegato e sudato. Jensen aveva spento il fuoco. 14
Era venerdì 28 luglio quando tornarono a Hammamet. Avevano visitato Medinine e l'isola di Djerba e s'erano arrangiati in un paesino senza albergo, dormendo in una stanza sopra il ristorante nel quale avevano mangiato. Entrambi, lui e Jensen, s'erano fatti la barba a giorni alterni. A Metouia, un antico villaggio nei pressi di Gabes, dove un pomeriggio s'erano fermati a prendere un caffè, Jensen aveva trovato un ragazzo di quattordici anni o giù di lì che gli piaceva e s'era allontanato con lui, dicendo di aspettarlo pochi minuti. Era ritornato infatti dopo una decina di minuti, sorridendo e recando sottobraccio un tappeto di lana a disegni bianchi e rossi. Aveva detto poi che il ragazzo lo aveva portato a casa sua, dove non era stato possibile isolarsi in nessuna stanza. Dal canto suo, lui aveva voluto dare per forza cinquecento millimes al ragazzo che, per disobbligarsi, aveva rubato quel tappeto alla madre. Lo aveva tessuto lei, gli aveva poi detto, e il mercante al quale di solito vendeva i suoi tappeti non glieli pagava certo cinquecento millimes l'uno. «È un bravo ragazzo. Sono sicuro che darà quei soldi alla madre,» aveva aggiunto Jensen, che in seguito aveva ripensato con piacere a quella storia. Cpsa aveva pensato la madre vedendolo arrivare in casa sua col figlio? O cose del genere succedevano un paio di volte al giorno? E che importava se succedevano? Quando ritornò al bungalow, l'azzurro nitido e la bianca pulizia gli parvero possedere una personalità propria, come se fossero lì di guardia a qualcosa di sgradevole. Assurdo, pensò. Il fatto era che per cinque giorni di fila aveva completamente ignorato le comodità, tutto qui. E tuttavia l'avversione per il bungalow rimase. C'erano quattro o cinque lettere, soltanto due delle quali lo interessavano: un contratto del suo agente per un'edizione norvegese del Gioco del Se e una lettera di Reggie Muldaven, un amico di New York. Reggie era un giornalista free-lance, sposato, con una bambina piccola, e stava scrivendo un romanzo. Gli chiedeva per quanto ancora sarebbe rimasto in Tunisia e che cosa stava facendo, ora che Castlewood s'era suicidato. Come sta Ina? Non la vedo da un mese o più, quando l'incontrai e salutai in un ristorante... Reggie conosceva molto bene Ina, però, abbastanza bene da telefonarle e chiederlo direttamente a lei. Certamente quella di non dirgli niente di lei era pura e semplice diplomazia. Sì, era sicuro che Reggie e quelli come lui dovevano certamente aver saputo della relazione tra Ina e John. La gente vuol sempre conoscere i motivi di un suicidio e continua a far domande finché non li scopre. Disfece la valigia, fece la doccia e la barba. Era lento nei movimenti e
pensava a altro. Sarebbe dovuto andare a prendere Jensen alle otto per mangiare insieme in albergo. E erano le sei e mezzo. Si ricordò della lettera di cui era in debito con Ina e quando si fu vestito sedé e cominciò a scriverla a mano. Non che ne avesse voglia, ma non voleva continuare a rimuginarla più a lungo. 28 luglio 19.. Cara Ina, sì, la tua lettera è stata proprio una sorpresa. Ignoravo che le cose fossero arrivate, diciamo, fino a questo punto. Niente risentimenti, però, da parte mia. La macchina per scrivere è a riparare quindi non scrivo con la mia solita facilità. Naturalmente non c'è motivo perché non dovremmo rivederci se entrambi lo desideriamo. E naturalmente capisco anche come, dal tuo punto di vista, io possa essere risultato tiepido. Forse lo risultavo davvero. Ma in realtà la mia era cautela. Ho un passato che tu conosci benissimo e che non era e non è stato facile superare... alludo insomma a quell'anno e mezzo vissuto prima di conoscere e cominciare a amare te. E questo quando è successo? Quasi un anno fa. Quell'intera parentesi di tempo, vale a dire un anno e otto mesi (a partire dal mio divorzio), mi sembra ora una specie di prolungato incubo senza sonno (in effetti, per circa un anno quasi non ho dormito, come ti ho detto, anche dopo averti conosciuto), ma non voglio neppure pensare a quel che sarebbe stato se non avessi conosciuto te. Tu almeno mi hai riportato in vita, mi hai risollevato il morale più di quanto io possa dire a parole. Mi hai fatto constatare che qualcuno poteva ancora volermi bene e che io potevo ancora voler bene a qualcuno. Di questo ti sarò grato per sempre. Forse mi hai salvato persino la vita, chissà, perché anche se sono stato sempre in grado di lavorare tuttavia mentalmente ero su una brutta china, perdevo peso e via dicendo. Quanto tempo sarebbe potuto durare tutto questo? Niente male, pensò, e soprattutto era la verità. Continuò: Sono appena tornato da un viaggio di cinque giorni in macchina nel sud. Gabes (oasi), cammelli, l'isola di Djerba. Una quantità di deserto. Ti fa cambiare idee. Credo che ti faccia vedere le cose con maggior chiarezza e non così da vicino. Con maggior semplicità, forse. Non prendiamo dunque tanto sul serio quello che è successo. Non sentirti colpevole per ciò che è
accaduto. Mi perdonerai se ti dico che una notte mi misi a ridere al pensiero che «John ha sacrificato il suo amore per Ina sull'altare del letto di Howard»? E la cosa mi fece sbellicare. Fu interrotto da un colpo alla porta. Era Nosiste. «Bene! Salve! Come va?» Lo accolse con lo stesso entusiasmo con il quale di solito lo stesso Nosiste salutava lui. «Salve a te! Quando sei tornato? Ho visto la tua macchina.» «Verso le cinque. Entra a bere qualcosa.» «No, stai lavorando.» «Sto solo scrivendo una lettera.» Lo convinse a entrare, poi improvvisamente si ricordò che la macchina per scrivere mancava. «Siedi. In un posto qualunque, dove vuoi tu.» Andò in cucina. Per fortuna i ragazzi non avevano spento il frigorifero, quindi il ghiaccio c'era. «Dove sei stato?» Glielo disse e gli raccontò anche della fredda notte nel deserto, quando s'era alzato verso le cinque e s'era messo a passeggiare su e giù per riscaldarsi. «A proposito, sono andato con Anders Jensen, il danese.» «Davvero? È un compagno gradevole?» Non capiva cosa intendesse Adams con quel «gradevole». Forse alludeva anche alle idee politiche di Jensen. «Un ottimo compagno,» rispose. «Ancora non ha trovato il suo cane. È sicuro che l'abbiano preso gli arabi e ne è molto accorato. Non so dargli torto.» Dovevano essere le sette e mezzo. Riempì di nuovo il bicchiere dell'americano e poi il pròprio. «Devo vedere Anders alle otto e mangeremo qui all'albergo. Vuoi unirti a noi, Francis?» Nosiste s'illuminò. «Be', sì, grazie.» Lui e Jensen trovarono Adams al bar dell'albergo poco dopo le otto. Rimasero in piedi al banco e bevvero uno scotch. Lui Ingham notò che il registratore cassa annunciava la cifra allarmante di 480,00. Un altro colpetto da parte del barista e la cifra saltò a 850,00. S'avvicinò di più al registratore e vide che era stato fabbricato a Chicago. Registrava i millimes, e il segno del dollaro era stato tolto. Jensen e Nosiste chiacchierarono amichevolmente. Da parte sua, lui aveva chiesto al danese se aveva trovato tutto a posto a casa sua: sì, aveva trovato tutto a posto, solo non aveva nessuna notizia del cane. Aggiunse che aveva chiesto ai vicini arabi, con i quali era in buoni rapporti.
Mangiò come un lupo affamato, il danese, pur conservando a tavola, in quell'ambiente, modi perfetti. Mangiarono kebab tunisien, cioè pezzi di rognone allo spiedo. Lui ordinò poi una seconda bottiglia di rosé. La francese bionda col figlio piccolo era ancora lì, notò, per il resto la maggior parte delle facce erano tutte nuove rispetto all'ultima volta che aveva mangiato in albergo. Durante una pausa della conversazione, rivolto a lui, Adams disse: «Ancora nessuna traccia di Abdullah.» «Tant mieux,» fece Jensen, deciso. «Oh, sai anche tu di Abdullah?» chiese l'americano. Stava seduto, intralciando i camerieri, a un'estremità del tavolo in mezzo a loro due, che sedevano di fronte l'uno all'altro. «Howard mi ha raccontato il fatto,» disse il danese. Lui cambiò posizione e col piede destro, deliberatamente, gli mollò un calcio sotto al tavolo, ma poiché proprio in quel momento Adams gli lanciò un'occhiata ebbe il dubbio di aver mollato il calcio proprio a Nosiste. «Già, allora sai che successe proprio davanti al bungalow di Howard. Credo che sia stato ucciso,» disse Adams, rivolto a Jensen. Il danese lanciò un'occhiata divertita a lui Ingham e disse: «E con questo? Un ladro in meno in questa città. Ne rimangono ancora molti.» «Be'...» Adams si sforzò di sorridere, divertito. «Era pur sempre un essere umano. Non puoi così...» «Questo è discutibile,» replicò Jensen. «Che cosa fa umano un essere? Il fatto che cammina su due gambe invece di quattro?» «Perché no? E non soltanto questo,» rispose Adams. «C'è pur sempre il cervello.» Imburrandosi un ennesimo pezzetto di pane, il danese dichiarò, con calma: «Io credo che Abdullah usava il proprio esclusivamente per trovare il modo con cui mettere le mani sulla proprietà altrui.» Adams riuscì a ridacchiare. «Questo non lo rende meno umano come essere.» «Meno? Perché no? È esattamente quello che è, meno umano,» replicò Jensen. «Se cominciamo a pensarla così, possiamo benissimo uccidere tutti quelli che ci danno fastidio. E questo non sta bene, come dicono gli inglesi.» «L'unico fatto positivo è che in un modo o nell'altro, la metà delle volte riescono a farsi uccidere. Sai che Abdullah non poteva neppure passare per il vicolo nel quale abito io? Gli arabi lo cacciavano via a colpi di pietra. E
la sua sarebbe una perdita? Quello straccione di...» il danese non riusciva a trovare la parola. «Merde,» disse alla fine. Lui guardava il danese cercando di fargli capire che non era il caso di spingersi fino a tanto, cosa che Jensen sapeva, naturalmente, ma il suo ribollio lo si avvertiva sin dall'altra parte del tavolo. «Tutti possono migliorare, purché gli sia offerto un nuovo sistema di vita,» sentenziò Nosiste. «Se mi consenti, non voglio arrivare a vederlo, e finché campo preferisco credere alla mia esperienza e ai miei occhi,» affermò Jensen. «Quando sono venuto qui, circa un anno fa, avevo un discreto guardaroba. Avevo delle valigie, dei polsini, un bel cavalietto. Avevo preso in affitto una casa a Sidi Bou Said, quel paesino pittoresco e immacolato di case bianche e azzurre» - agitò una mano in aria - «famoso per le gabbie d'uccelli di ferro finemente lavorato, i suoi caffè dove puoi ottenere un bicchiere di qualcosa di onesto per amore e non per soldi, una città dove non trovi una bottiglia di vino in nessun negozio. Bene, mi ripulirono da capo a piedi, si presero persino dei pezzi del mobilio del padrone di casa. Tutte le mie tele. Mi chiedo che cosa possono essersene fatti. Dopodiché decisi di vivere come un barbone, così forse non mi avrebbero più derubato.» «Che sfortuna!» fece Adams, comprensivo. «E il cane? Non faceva la guardia?» «A quel tempo Hasso era da un veterinario di Tunisi. Qualcuno gli aveva buttato addosso dell'acqua bollente. Soffriva e volevo essere sicuro che il pelo gli, ricrescesse. Oh, no, non credo che quei disgraziati sarebbero entrati in casa, se c'era Hasso. Sapevano che per alcuni giorni sarebbe stato via.» «Bontà divina,» fece lui Ingham. Quella storia lo aveva depresso. Né, immaginava, era il caso di chiedere al danese se aveva mai scoperto chi lo aveva derubato. Nessuno scopriva mai niente. «Non puoi impedire o mutare una marea invadente,» riprese Jensen, con un sospiro. «Alla fine devi arrenderti, rassegnarti. Eppure sono abbastanza umano - sissignore, umano - da gioire quando uno di loro ha quel che si merita. Alludo a Abdullah.» Nosiste appariva un tantino sviato. «Sì. Bene, può darsi che lo abbiano finito i ragazzi dell'albergo. Ma...» - Adams lanciò un'occhiata a lui Ingham - «... ma quella notte i ragazzi non corsero fuori finché non sentirono qualcuno gridare. Io sono convinto che sia stato ucciso da quel colpo, quale che sia stato.»
Un colpo adesso, non più un tonfo. Per chissà qua! folle astrazione, causata forse dalla tensione, lui Ingham strinse i denti. «Magari è stato pugnalato da uno della sua stessa razza,» disse Jensen, con un risolino. «Magari due arabi avevano puntato allo stesso bungalow.» Ora il danese stava seduto storto, con un braccio al di sopra della spalliera della sedia, e rideva, guardando Adams. Questi parve sorpreso. «Cosa ne sai? Sai qualcosa di preciso?» «Non credo che lo direi se lo sapessi. E sai perché? Perché proprio non ha importanza, e basta.» A quell'ultima parola, batté una sigaretta sul tavolo e poi l'accese. «Stiamo a speculare sulla morte di Abdullah come se fosse il presidente Kennedy. Non credo affatto che sia tanto importante.» Questo zittì Adams, ma quello che seguì a lui Ingham parve un silenzio carico di risentimento. Jensen s'astraeva, sognava e rimuginava, parlando, quando parlava, a monosillabi, e a lui dispiaceva che il danese avesse fatto sembrare i propri risentimenti personali dei risentimenti contro Adams. Sentiva che quest'ultimo doveva aver capito che lui aveva detto a Jensen qualcosa riguardo a quella notte che aveva taciuto a lui. E inoltre Nosiste sapeva che lui era in sostanza d'accordo con l'idea che il danese aveva della vita, la quale non combaciava esattamente con il Nostro Sistema di Vita. Andarono al Plage con la sua macchina. Lui s'aspettava che Adams preferisse salutarli quando lasciarono la sala da pranzo del Reine, invece no. Offrì Jensen questa volta. «Amaro, il giovanotto. E antipatico tutto quello che gli è successo,» osservò Adams allorché il danese andò al bar a ordinare. Stavano seduti a un tavolo. Difficile, ancora una volta, parlare in quel locale. Ravvivate dal vino e dalla birra, le varie conversazioni a alta voce ogni tanto esplodevano in sorprendenti esclamazioni e grida. «Sono sicuro che si riprenderà, una volta tornato in Danimarca.» Lui aveva immaginato che Jensen invitasse Adams a casa sua a vedere i suoi dipinti, invece no. Adams avrebbe accettato, ne era certo. Andarono via dopo un solo giro. «Ci vediamo,» disse lui a Jensen quando furono in strada. «A bientôt. Grazie molto per il pranzo. Buonanotte, Francis.» «Buonanotte, buonanotte,» rispose Adams. Per tutto il tragitto di ritorno al Reine rimasero in silenzio. Lui sapeva che l'americano stava pensando furiosamente. Posteggiò la macchina vicino al bungalow di Adams, che gli chiese se aveva voglia di entrare per un ultimo goccio.
«Grazie, ma stasera sono un po' stanco.» «Vorrei parlarti un attimo.» Lo seguì. La direzione dei bungalows era buia e immersa nel silenzio. La porta di servizio, dov'era la cucina, era aperta per far passare l'aria. A sinistra della cucina c'era la stanza dove dormivano dieci o dodici ragazzi. Lui rifiutò di bere e sedé in punta al divano, questa volta, con i gomiti sulle ginocchia. Adams s'accese una sigaretta e prese a passeggiare su e giù. «Ho l'impressione, se permetti, che riguardo a quella notte tu non dica la verità. Non sei tenuto a scusarmi l'intrusione, se non ti va.» Sorrise, senza gonfiare molto le guance questa volta: in realtà non si trattava di un vero e proprio sorriso. «Sono stato franco con te, sai, riguardo ai miei nastri registrati. Tu sei l'unica persona in tutta la Tunisia che sa. Perché sei uno scrittore, un intellettuale e una persona onesta.» E inclinò il capo per dare enfasi alle parole. Lui detestava essere chiamato intellettuale. Tacque, si rese conto, troppo a lungo. «Innanzi tutto,» riprese Adams, sempre in tono affabile, «è strano che tu non abbia aperto la porta quella notte, o almeno non sia rimasto in ascolto dopo aver sentito quell'urlo. E poiché questo veniva dalla tua veranda, cosa devo supporre?» Lui s'appoggiò alla spalliera adesso. C'era un comodo cuscino contro il quale allungarsi, ma lo stesso non stava a proprio agio; aveva la sensazione di essere impegnato in uno stupido duello. Quel che Adams stava dicendo era vero. Non poteva continuare a mentire senza mentire sfacciatamente. In quel momento gli sarebbe piaciuto appellarsi a una sorta di immunità diplomatica, poter rimandare la risposta all'indomani. Se avesse detto la verità, per esempio, Adams non sarebbe corso alla polizia? E allora cosa sarebbe successo? «Ti scuso, invece,» esordì, una dichiarazione della cui falsità si rese conto immediatamente. Avrebbe potuto continuare su quel tono: Se non ti dispiace mi riservo il diritto... Dopotutto, non sei un poliziotto... «Quella notte successe esattamente quello che ho detto. Se vuoi, puoi chiamarmi vigliacco per non aver aperto la porta.» Ora le guanciotte di Adams si gonfiarono nel sorriso: era tornato a essere il piccolo scoiattolo raggiante. «Sempre col tuo permesso, non ti credo. Punto e basta,» dichiarò poi, in tono ancor più gentile. «Puoi fidarti di me. Voglio sapere.» Si sentì avvampare in viso: una combinazione di rabbia e imbarazzo. «Capisco benissimo che non hai raccontato tutta la verità. Ora, se mi dici
tutto ti sentirai meglio. Lo so.» Per un attimo, lui ebbe l'impulso di balzare in piedi e mollargli un cazzotto. Cos'era, un padre confessore? O un vecchio ficcanaso? Sempre-nelgiusto, chiunque fosse. «Col tuo permesso anche,» disse, «non mi ritengo minimamente obbligato a dirti niente. Perché questo interrogatorio?» L'altro ridacchiò. «No, Howard, non hai nessun obbligo di rispondermi. Ma non puoi buttar via il tuo patrimonio culturale, la tua americanità, sol perché hai vissuto alcune settimane in Africa.» «Il mio patrimonio culturale? La mia americanità?» «E non puoi neppure riderci sopra. Tu non sei stato educato come questi arabi.» «Non ho mica detto di esserlo stato.» Adams andò in cucina. Lui s'alzò e lo seguì. «Davvero non ho voglia di bere, grazie. Semmai, userò il tuo bagno.» «Prego! Da questa parte, sulla destra,» rispose Adams, felice di potergli offrire qualcosa. Accese la luce. Prima di allora non era mai stato nel bagno di Adams. Si trovò di fronte uno specchio e anziché guardarvisi aprì l'armadietto delle medicine e, mentre usava la tazza, vi guardò dentro: dentifricio, crema da barba, aspirina, Enterovioformio, una quantità di boccettine con dentro pillole gialle. Tutto lindo e in ordine come nell'armadietto di una vecchia zitella. I tubetti avevano nomi di marche americane, come Colgate, Squibb's e via dicendo. Jensen non sopporterebbe tutta questa merdaglia, pensò; fece scaricare e uscì dal bagno con aria soddisfatta. Per merdaglia, intendeva il proprio patrimonio culturale. L'americanità, cosa significava esattamente? Adams stava seduto sulla sedia dietro la scrivania, ma allorché lui si fu seduto sul divano si voltò di lato per stargli di fronte. «Il motivo per cui sembro tanto sicuro di me,» esordì, affabile, col suo sorrisetto e quegli occhi azzurrastri terribilmente all'erta, ormai, «è che ho parlato con i signori che occupano il bungalow dietro il tuo. Sono francesi, una coppia anziana. Sentirono l'urlo quella notte e il tonfo metallico di un qualcosa caduto a terra, dopodiché sentirono sbattere una porta. La tua porta... Devi essere stato tu a chiuderla.» Lui scrollò le spalle. «E perché non qualcun altro in un altro bungalow?» «Sono sicurissimi circa la direzione dalla quale giunse il rumore.» Adams aveva assunto il tono risoluto e polemico che adoperava nei nastri. «Lo hai colpito con qualcosa che possa aver mandato un suono metalli-
co?» Adesso lui avvertiva solo un vago calore alle guance. S'immaginò impassibile quanto un cadavere. «Hai uno scopo preciso nel farmi queste domande? Quale?» «Mi piace conoscere la verità riguardo a un fatto. Io credo che Abdullah sia morto.» E non si tratta di Kennedy, pensò lui. Doveva insistere nella propria versione e continuare a essere importunato da quell'Adams (l'alternativa sennò, a quel che sembrava, era di lasciare Hammamet) oppure doveva dire la verità, affrontare la vergogna per aver mentito, sfidare Adams a fare qualcosa al riguardo e avere almeno la soddisfazione di aver detto la verità? Scelse quest'ultima soluzione. O doveva rimandare all'indomani? Aveva bevuto un po', era quella la decisione giusta? Disse: «Ti ho detto quello che è successo, Francis.» E sorrise, un accenno di sorriso, ma almeno un sorriso vero. Era divertito e non aveva ancora in antipatia Francis J. Adams. E il sorriso gli si allargò ancor più allorché il divertente pensiero di una eventualità gli attraversò la mente: non poteva darsi che un tipo ricchissimo - di fede comunista - pagasse Adams, gli passasse uno stipendio per quelle sue trasmissioni settimanali unicamente per scherzo, uno scherzo che la sua ricchezza poteva permettergli? Un tipo che non viveva in Russia? Perché una cosa era certa, quelle trasmissioni aiutavano i russi. La sincerità di Adams, poi, rendeva l'eventualità ancora più comica, ai suoi occhi. «Cosa c'è di tanto divertente?» chiese Nosiste. Ma non era irritato. «Tutto. L'Africa capovolge ogni cosa. Non puoi negarlo. O tu ne sei... immune?» S'alzò. Voleva andarsene adesso. «Non ne sono immune. È un contrasto con la propria... semplice morale, diciamo. La quale, però, non ne esce né mutata né distrutta. Oh, no! Se tu solo volessi rendertene conto, questa morale ci spinge ad aggrapparci ancora di più ai nostri solidi principi del giusto e dell'ingiusto. È la nostra ancora nella tempesta, è la nostra spina dorsale, il nostro fondamento. Non puoi liberartene neppure volendo!» Un'ancora per spina dorsale. Non era il culo, per caso? A questo punto, pur volendo mostrarsi gentile, proprio non seppe cosa replicare. «Probabilmente hai ragione... Ora devo andare, Francis. Perciò ti do la buonanotte.» «Buonanotte, Howard. E dormi bene.» Non c'era sarcasmo in quel «dormi bene».
Si strinsero la mano. 15 La mattina dopo era sabato, cioè il giorno in cui gli avrebbero consegnata la macchina per scrivere. Alle dieci meno un quarto era all'ufficio postale, dove imbucò la lettera per Ina, dopodiché s'avviò a casa di Jensen, evitando questa volta di guardare il punto dove aveva trovato l'arabo morto. Il danese era ancora a letto ma alla fine sporse il capo dalla finestra. «Apro subito.» «Vado a Tunisi a ritirare la macchina per scrivere. Ti occorre niente?» gli disse lui quando entrò nel piccolo cortile pavimentato di cemento. «No, grazie. Non mi viene in mente niente.» Si ricordò che a Sousse Jensen aveva comprato del materiale per dipingere. «Mi stavo chiedendo se è possibile trovare qui a Hammamet una casa come la tua in affitto. Tu sai di qualcuna?» Al danese occorse qualche paio di secondi per afferrare il concetto. «Vuoi dire un paio di stanze da qualche parte o una casa?» «Un paio di stanze. Una cosa araba. Più o meno come la tua.» «Posso chiedere. Certo, Howard. Chiederò questa mattina stessa.» Gli disse che sarebbe passato di nuovo da lui al ritorno da Tunisi: voleva riferirgli della sua conversazione della sera prima con Adams. La macchina per scrivere era pronta. Avevano lasciato la vecchia carrozzeria, con la vernice marrone consumata negli angoli e il metallo che spuntava da sotto. Fu così contento che non badò alla spesa, che pure gli sembrò un tantino eccessiva: sette dinari, poco più di quattordici dollari. Infilò un foglio di carta e provò la macchina lì nella bottega: era la sua vecchia macchina per scrivere, buona come sempre. Ringraziò, uscì dal negozio e raggiunse la Peugeot, recando felice il peso della sua macchina. Fu di ritorno a Hammamet prima delle dodici e mezzo. Aveva comprato riviste, Time, Playboy, ostriche affumicate e prosciutto in scatola e minestre della Cross & Blackwell. Jensen era giù nel vicolo che cercava di raddrizzare col piede un bidone della spazzatura inclinato, probabilmente il suo. «Vieni. Ho della birra in fresco.» La teneva in fresco in un secchio d'acqua. S'accomodarono in camera da letto. «C'è una casa a un duecentocinquanta metri da qui,» disse Jensen, indi-
cando nella direzione di Tunisi, «ma dentro non c'è niente e non credo che il proprietario ci metterà mai niente, checché dica lui. C'è un lavabo ma niente vaso. La bazzicano ancora degli operai. Quaranta dinari al mese. Sono sicuro che posso farlo scendere a trenta, ma sono convinto che sia da scartare. Ora invece al piano di sotto, qui, ci sono un paio di stanze libere. Trenta dinari al mese. Ci sono un piccolo fornello più o meno come il mio, un lavabo e una specie di letto. Vuoi vederle? Ho avuto la chiave dal vecchio Gamal.» Gamal era il suo padrone di casa. Scesero al piano di sotto. La porta era esattamente alla destra del gabinetto col buco nel pavimento. La stanza più grande dava sulla strada con una finestra a arco abbastanza alta. Sulla parete opposta alla finestra, una porta dava in una piccola stanza quadrata con due finestre, entrambe sul piccolo cortile che, notò lui, presentava il vantaggio di non aver altre finestre che vi s'affacciavano. In quella stanza c'era un lavabo di dimensioni discrete, un fornello a due fiamme su un tavolino di legno e un letto formato con quello che sembrava il battente di una porta poggiato su tre cassette di frutta con sopra un materassino sottile. Probabilmente bianco in origine, il colore di quelle stanze non era più tale ma grigio, con scure chiazze di sporco nei punti in cui la pittura era venuta via. Sul letto-porta era distesa una coperta color cachi, tutta stazzonata. A terra c'era un portacenere pieno di mozziconi di sigarette. «Ci dorme qualcuno ora?» chiese lui. «Sì. Uno dei nipoti, o roba del genere, di Gamal. Ma lo butterà fuori immediatamente, perché non paga un centesimo. Ti va bene o è troppo... misero?» chiese Jensen, e mandò un fischio scherzoso. «Mi sembra che vada bene. Sarà possibile comprare un tavolo e una sedia?» «Sono sicuro di poterteli procurare. Incaricherò i miei vicini.» E così l'affare fu fatto, e fu motivo di ottimismo per lui. La porta della camera da letto aveva un lucchetto che poteva essere agganciato a una catena sia dall'interno che dall'esterno; inoltre la chiave della porta d'ingresso era la stessa di quella di Jensen. Insieme poi, lui e il danese avrebbero diviso lo stesso orrendo gabinetto ma almeno, come fece notare Jensen, aveva una porta: l'aveva montata lui stesso, infatti. La vicinanza del danese gli infondeva un senso di sicurezza. Se fosse successo qualcosa, se qualcuno fosse entrato in casa, avrebbe avuto un amico almeno a portata di voce. Disse dunque che gli sarebbe piaciuto traslocare il lunedì e consegnò a Jensen quindici dinari da dare a Gamal come caparra. Dopodiché se ne
tornò al Reine. Sarebbe stata proprio una bella fortuna, pensò, incappare in Nosiste mentre trasportava la macchina per scrivere dalla Peugeot al bungalow. Decise di guardarsi bene intorno prima di smontare e, nel caso avesse intravisto Adams, di rimandare il trasferimento della macchina per scrivere; ma si vergognò della propria pusillanimità e, giunto al parcheggio dei bungalows, fermò la Peugeot e, senza guardarsi intorno, aprì l'altro sportello e tirò fuori la macchina per scrivere. Chiuse a chiave lo sportello e s'avviò al bungalow. Adams, evidentemente, non era in giro in quel momento. Fino al lunedì, pensò, c'era tutto il tempo per dare una disdetta più o meno decente all'albergo, trovare un tavolo e una sedia e, forse, scrivere un'altra decina di pagine del romanzo. La sera prima, cosa strana soprattutto dopo la sgradevole conversazione con Adams, aveva pensato a un titolo per il suo libro, Il brivido della contraffazione. Era molto migliore degli altri due o tre che aveva già pensato. Aveva letto da qualche parte, prima di lasciare l'America, che le mani dei falsari, all'inizio e alla fine delle loro firme false, tremano leggermente, tanto leggermente che a volte il tremito è visibile soltanto al microscopio. Il tremito, il brivido, esprimeva altresì il crollo definitivo di Dennison, l'eroe dalla doppia personalità, man mano che la sua fine si avvicinava. Si trattava di un crollo profondo e tuttavia imprevisto, come una montagna che crolla entro se stessa senza che dal di fuori per un bel po' - in effetti sino alla rovina completa - nulla sia visibile e constatabile, e questo perché Dennison non aveva rimorsi di coscienza riconoscibili come tali e quasi nessuna paura del pericolo. Andò a parlare alla direzione dell'albergo e chiese che gli preparassero il conto sino alla domenica compresa. Quindi ritornò al bungalow e rispose, in tono abbastanza spensierato, alla lettera di Reggie Muldaven. Scrisse che non sapeva quali fossero le intenzioni di Ina, che s'era mostrata stranamente restia a scrivergli. Scrisse anche che aveva cominciato un nuovo romanzo e naturalmente espresse il proprio rammarico per il suicidio di Castlewood. Poi si mise a lavorare e, tra le tre e le sei, ora in cui andò a fare un bagno, scrisse otto pagine. Per chissà quale motivo, si sentiva eccezionalmente soddisfatto. Innanzi tutto, non era certo spiacevole disporre di un po' di soldi, poter emettere ogni mese un assegno per pagare un appartamento abbastanza caro a New York, stare in un comodo albergo lì a Hammamet e non preoccuparsi della spesa. Il denaro non è tutto, avrebbe potuto dire Nosiste (o no?), anche se lui aveva conosciuto lo snervante tormento di esserne un po' a corto.
All'appuntamento delle otto, al Plage, vide Jensen e bevvero un. aperitivo prima di andare da Melik. Il danese gli annunciò che i vicini di casa gli avevano promesso di trovare un tavolo entro il giorno dopo. Per la sedia ci sarebbero state difficoltà, ma potevano sempre cercarla al souk oppure farsela vendere o prestare da Melik. Lui Jensen ne aveva una sola. «Non sederti vicino a nessun inglese,» disse lui mentre mettevano piede sulla veranda di Melik. «Devo parlarti.» Sederono allo stesso tavolo con due arabi in maniche di camicia che non smettevano un attimo di parlare. «Cosa credi? Ieri sera Adams è tornato alla carica. Ha detto che la gente del bungalow dietro il mio ha sentito il grido più un rumore metallico più lo sbattere di una porta. Te lo vedi Nostro Sistema che si prende la briga di interrogare i. vicini? Come l'ispettore Maigret.» Jensen sorrise. «Come l'hai chiamato?» «Nostro Sistema. Nosiste. Il Sistema di Vita Americano. Non fa altro che predicarlo, o non l'hai mai notato? Bontà, Divinità e Democrazia: salveranno il mondo.» Il couscous sembrava anche migliore del solito, con più carne. «Ieri sera ho negato di aver sentito altro all'infuori del grido,» proseguì lui. «Ho negato di aver aperto la porta.» Era chiarissimo che Jensen non attribuiva alla morte di Abdullah più valore che a quella di una pulce, e dunque lui scoprì che ora poteva parlarne con maggior disinvoltura, praticamente poteva persino mentire con più facilità. Continuando a sorridere, il danese scuoteva il capo, quasi si meravigliasse che qualcuno potesse sprecare tempo e chiacchiere su un argomento così poco importante. Lui cercò allora di divertirlo ancor più. «Adams è passato alle maniere dolci, come Porfyrovitch, o un investigatore inglese: 'Vedo che non mi dici tutta la verità, Howard. Ti sentirai meglio se invece confessi, sai.'» «Che dicono i tuoi vicini francesi?» «Se ne sono andati. Al loro posto adesso c'è una coppia tedesca, marito e moglie, immagino. E, sai, Anders, ieri sera sono stato sul punto di dire a Nosiste la verità. Tu dirai, e con questo? Cosa può fare? Gongolare perché ha risolto un mistero? Non credo che la cosa mi possa danneggiare.» «Non potrebbe fare niente, un bel niente. Stai per caso alludendo alla macchina della giustizia? In culo! L'ultima cosa che questo paese desidera fare è di mettere ladri e turisti faccia a faccia in un tribunale... Voi americani siete strani!»
Il giorno dopo trasportò una delle valigie nel suo nuovo alloggio e insieme con Jensen andò al souk a fare acquisti, un paio di asciugamani da bagno, una scopa, delle pentole, uno specchietto da appendere al muro, bicchieri, tazze e piattini. I vicini di casa avevano scovato un tavolo, non molto grande ma solido e della giusta altezza. La sedia presentò più difficoltà, ma alla fine Jensen riuscì a persuadere Melik a cedere una delle sue per un dinaro e cinquecento millimes. Il lunedì mattina traslocò. Aveva pulito e ripulito lo scaffale della cucina, così che ora era ragionevolmente lindo. In fondo, non era schizzinoso. Era come se, all'improvviso, avesse abbandonato le sue idee sulla pulizia, la pulizia esagerata, e anche sul conforto. Una cassetta da frutta faceva da comodino, la lampadina del soffitto gli serviva anche per leggere e quindi doveva spostarvi sotto la testa del letto, quando voleva appunto leggere a letto. La seconda coperta, quella da viaggio, arrotolata, gli serviva da cuscino. La roba sporca, gli disse Jensen, gliela poteva lavare la figlia minorenne della famiglia accanto. Il lunedì e il martedì scrisse un totale di diciassette pagine. Jensen gli prestò tre tele di sua scelta e lui non vi incluse quella dell'arabo sventrato perché ebbe l'impressione che il danese non volesse separarsene, mentre lui la trovava sgradevole. Scelse una rappresentazione, dipinta molto approssimativamente, della fortezza spagnola, con della sabbia pallida in primo piano e un cielo e un mare azzurri dietro, e il ritratto di un ragazzino in galabia seduto sulla bianca soglia di una porta: con grandi occhi tondi, aveva un'aria derelitta. Il terzo quadro era uno di quei caos arancione di Jensen di cui era impossibile dire cosa rappresentasse, ma a lui piaceva la composizione. Ogni giorno andava al Reine, alla portineria principale e alla direzione dei bungalows, a chiedere se c'era posta, pur avendo comunicato al suo agente e a Ina il nuovo indirizzo: 15 rue El Hout. Una volta vide Mokta e gli offrì una birra. Mokta fu divertito e stupito che lui si fosse trasferito proprio in quella strada. La conosceva. «Tutti arabi!» commentò. «È interessante.» Anche lui sorrise. «Molto semplice.» «Be', lo credo.» Il condizionatore d'aria che aveva richiesto non era mai arrivato, Mokta non ne fece parola e neppure lui. Il mercoledì invitò Adams a bere qualcosa da lui. Diede un paio di centinaia di millimes a uno dei ragazzi di Melik in cambio di una vaschetta
per il ghiaccio piena. Poi si fece trovare da Adams sull'angolo della strada e lo guidò su da lui. Quando imboccarono il vicolo, l'americano si guardò intorno con interesse. Gli arabi avevano ormai smesso di guardarlo fisso quando passava, questa volta però fissavano Adams. Lui intanto aveva trasformato il tavolo da lavoro in uno da cocktail. Macchina per scrivere e dattiloscritto, carta e dizionario, erano sistemati in bell'ordine in un angolo a terra. «Be'! È proprio disadorna,» esclamò Adams, ridendo. «Praticamente nuda.» «Sì. Non stare a fare complimenti per l'arredamento. Non me ne aspetto infatti.» Estrasse quel che era rimasto del ghiaccio dalla vaschetta, ne mise alcuni cubetti in un paio di bicchieri e gli altri li rimise nella vaschetta perché era più fredda. «Come pensi di cavartela senza frigorifero?» «Be', compro cose in scatola e le finisco. Le uova le compro un paio per volta.» Adams in quel momento stava contemplando il letto. «Alla salute,» fece lui, porgendogli il suo bicchiere. «Alla salute. Dov'è il tuo amico?» Gli aveva detto infatti che il suo appartamento era al piano di sotto a quello di Jensen. «Scenderà tra poco. Probabilmente sta lavorando. Siediti. Sul letto, se vuoi.» «C'è un bagno?» «C'è un affare fuori, nel cortile. Un gabinetto.» Sperò che Adams non volesse vederlo. All'improvviso si rese conto che qualche minuto prima non gliene sarebbe invece importato niente. Adams si mise a sedere. «Riesci a lavorare qui?» chiese, dubbioso. «Sì. Perché no? Tale e quale come al bungalow.» «Devi fare in modo da mangiare a sufficienza. Cibo pulito. Bene...» Adams sollevò di nuovo il bicchiere. «Spero che ti piaccia stare qui.» «Grazie, Francis.» Adams guardò il caos arancione dipinto da Jensen. Era l'unico dei tre quadri firmato. Sorrise e piegò con uno scatto il capo di lato. «Solo a guardarlo, quel quadro mi fa girare gli occhi. Che roba è?» «Non lo so. Devi chiedere a Anders.» Jensen arrivò. Lui gli offrì uno scotch. «Notizie del cane?» chiese Adams. «No.»
Una conversazione noiosa ma amichevole. Adams chiese per quanto tempo avesse fittato quelle stanze e quanto pagava. Non c'era più ghiaccio per un secondo giro. Jensen finì il suo scotch abbastanza rapidamente e, scusandosi, annunciò che tornava di sopra a lavorare. «Notizie della tua ragazza?» chiese Adams. «No. Avrà appena ricevuto una mia lettera. Forse proprio oggi.» Adams guardò l'orologio e lui d'un tratto si ricordò che quel giorno era mercoledì e che l'americano doveva rientrare per la trasmissione settimanale. Provò un vago sollievo: non aveva voglia di cenare con Adams. «Ieri sono stato a Tunisi,» disse Adams. «Sulla bottega di un sarto ho visto scritto una parolaccia... probabilmente doveva trattarsi di un ebreo.» «Oh?» Adams accennò una risatina. «Non sapevo cosa significava quella parola ma ho chiesto a un arabo. S'è messo a ridere. Si trattava di una parola irripetibile.» «Credo che gli ebrei se la stiano passando male ormai,» fece lui, distaccato. La foto dell'«Arabia ridesta» comparsa sull'Observer alcune domeniche prima doveva essere bastata a scatenare la fifa di tutti: un mare di bocche aperte e urlanti, di pugni alzati, pronti a colpire chicchessia. Adams s'alzò. «Devo rientrare. È mercoledì, sai.» Si diresse verso la porta. «Howard, ragazzo mio, non so fino a quanto resisterai.» Era abbastanza vicino alla porta aperta e lui si rese conto che poteva aver visto il gabinetto. Jensen c'era appena stato, e non chiudeva mai la porta quando usciva. «Non lo trovo mica tanto male... con questo tempo.» «Ma non puoi trovarti a tuo agio. Aspetta che ti venga voglia di una limonata ghiacciata o di una buona notte di sonno! Dai proprio l'impressione di volerti punire con questo... adattarti agli 'usi locali'. Vivi come un pezzente, e non lo sei affatto.» Di questo si trattava, dunque? «Ogni tanto mi piace cambiare.» «Tu hai qualcosa per la testa... qualcosa che ti perseguita.» Lui non rispose. Forse, vagamente, lo perseguitava il pensiero di Ina. Ma non di Abdullah, se era a lui che Adams alludeva. «Non è da uomo civile, da scrittore civile, far penitenza.» «Penitenza?» Rise. «Penitenza per cosa?» «Questo lo sai solo tu,» rispose Adams in tono più brusco, pur sorridendo al tempo stesso. «Sono sicuro che questa vita primitiva non è altro che una perdita di tempo.»
Guarda chi parla di perdita di tempo, pensò lui, con tutte quelle ore perse a pescare con la fiocina senza prendere un cavolo di niente. «Non la chiamerei perdita di tempo, visto che sto lavorando.» E immediatamente trovò deplorevole che si giustificasse con quell'Adams. Ma perché doveva giustificarsi? «Non è roba per te. Stai forzando un po' troppo la mano.» Lui si strinse nelle spalle. Non era tutto quanto quel paese roba non per lui, visto tra l'altro che era un paese straniero? E perché mai tutto quello che faceva doveva essere roba per lui? Disse, gentile: «Ti accompagno giù. È facile perdersi.» 16 La settimana dopo, le sue riflessioni sul romanzo presero una nuova e migliore svolta. Ormai era sicuro che, per quanto effettivamente scomode fossero quelle due stanze - il disagio più grosso era offerto dalla mancanza di un posto dove appendere i vestiti - quel turbinio di idee era dovuto proprio al cambiamento di scena. Dennison, che dal punto di vista mentale era un po' strambo, non avrebbe conosciuto nessun crollo allorché le sue malversazioni sarebbero state scoperte. E quelli che erano stati da lui beneficati, diventati ormai quasi tutti uomini di successo e di rispetto, sarebbero corsi in suo aiuto restituendo tutte le somme ricevute da lui. E poiché lo stesso Dennison aveva investito i soldi di cui s'era appropriato nel corso di vent'anni, il capitale da lui sottratto s'era in tal modo triplicato. Pertanto, i suoi infuriati superiori, lì alla banca, potevano aver perso sì in venti anni il guadagno su settecentocinquantamila dollari, però avrebbero ricevuto indietro i loro tre quarti di milione. Cosa avrebbe fatto la giustizia, in tal caso? Il titolo Il brivido della contraffazione non era dunque appropriato. Poteva andare, questo sì, ma poiché Dennison non aveva mai provato alcun brivido degno di questo nome, lui Ingham sentiva che dopotutto quel titolo non era esatto. La sua idea era di lasciare comunque il lettore nel dubbio morale riguardo alla colpevolezza di Dennison. In vista del bene enorme fatto da Dennison col mantenere unite le famiglie, con l'iniziare o aiutare a iniziare nuovi affari e commerci, col mandare giovani all'università, per non parlare dei suoi contributi alle beneficenze, chi mai avrebbe potuto definirlo un imbroglione? D'altro canto, gli dispiaceva rinunciare a quel titolo. Tra un paragrafo e l'altro, si metteva a passeggiare su e giù per la stanza,
in mutande, con sopra l'accappatoio a spugna blu, da lui prima immerso nell'acqua fredda e strizzato. Era la cosa più fresca che conoscesse. Inoltre, lì in quel quartiere, sembrava anche la cosa meno scema d'un paio di calzoni corti e d'una camiciola a mezze maniche. Gli arabi non portavano certo calzoni corti e, concludeva lui, se ne intendevano di caldo. Jensen lo aveva preso in giro: «Pensi che finirai col comprarti una galabia?» Di solito Jensen cenava con lui, o lui cenava con Jensen al piano di sopra. Dove, non aveva importanza, visto che dividevano piatti e cibo, e quanto al tavolo la situazione era identica a casa di entrambi. Entrambi dovevano togliere di mezzo il lavoro. A lui piaceva mangiare ogni sera in compagnia, era una prospettiva simpatica che si covava dentro durante il lavoro. Con Jensen, inoltre, non doveva fare nessuno sforzo, né per cucinare né per conversare. C'erano sere in cui Jensen quasi non diceva neppure una parola. Ma anche lui aveva i suoi strani momenti quando, assorbito in pieno dal romanzo, a volte s'alzava per mettersi a passeggiare per la stanza in quelle sue orrende ma fresche ciabatte senza tacco. Da qualche parte strideva una radiolina, una donna araba gridava contro un bambino, un venditore ambulante dava la voce e lui ogni tanto intravedeva il proprio viso severo nello specchio che aveva appeso alla parete accanto alla porta della cucina. Il viso, ormai diverso, gli s'era scurito e affinato. In quei momenti aveva la misura (come l'aveva avuta quando gli era venuta la colica lì al bungalow) della propria solitudine: senza amici né lavoro né legami con chicchessia, incapace di capire e di parlare la lingua del posto. Poi, dato che in quei momenti era o si sentiva abbastanza un Dennison, gli sembrava anche di intravedere il lampo inconsapevole di un interrogativo: «Chi sono io, dopotutto? Esistiamo o fino a qual punto esistiamo come individui senza amici, senza famiglia, senza qualcuno cui riferirsi, qualcuno per il quale la nostra esistenza abbia un minimo d'importanza?» Un fatto strano quanto un'esperienza religiosa. Strano quanto il divenir niente pur rendendosi conto che s'era comunque niente. Una verità fondamentale. Si ricordò di aver letto da qualche parte di un mediterraneo orientale che era stato portato via dal suo villaggio. Quell'uomo non era stato altro che ciò che la sua famiglia, i suoi amici e i suoi vicini avevano ritenuto che lui fosse, un riflesso della loro opinione di lui; cosicché senza di loro era crollato, finito. E, immaginava lui, quale che sia il vero o il falso esso è sempre e comunque quel che la gente che ti circonda dice che è. E questo era più vero di tutte le chiacchiere di Nosiste sul patrimonio culturale americano.
A quanto pareva, la base del pensiero di Nosiste era la convinzione che ciascuno campa secondo quei principi morali nei quali gli hanno insegnato a credere. Ma era vero? Fino a che punto quei principi resistono? Fino a che punto ci si può attenere se non sono anche i principi di coloro che ci stanno intorno? E poiché queste considerazioni non erano del tutto estranee al soggetto Dennison, allora ritornava alla macchina per scrivere e ricominciava a battere quasi immediatamente. Aveva scritto un po' più di duecento cartelle. La seconda settimana nella sua nuova casa fu favorevolissima al lavoro. Poi, un venerdì, gli arrivò un espresso di Ina. Non aveva pensato più a lei, nel senso di chiedersi se avrebbe o no ricevuto una sua lettera, da parecchi giorni ma (quasi automaticamente, per pura abitudine) calcolò subito che doveva avergli scritto almeno cinque giorni prima, cioè aveva immediatamente risposto alla lettera in cui lui le comunicava il suo indirizzo. Lesse: 8 agosto 19.. Carissimo Howard, il tuo cambiamento di indirizzo è stato una sorpresa. Dalla tua lettera si direbbe che resterai lì per un po' e, tutto sommato, la sorpresa è dovuta proprio a questo. In ogni modo, hai parlato di un mese. A proposito, sono contenta che il libro stia venendo bene. Sono inquieta e depressa e non c'è rimedio. O almeno io non posso rimediare. In ogni modo, ho pensato di venire a trovarti. Rimango lì due settimane e sono sicura che potrò arrivare anche a tre. Ho molta voglia di vederti e se litighiamo come cane e gatta, o se entrambi ammettiamo che è finita, posso sempre proseguire per Parigi. Ma ho una voglia pazza di vederti e tu non sembri disposto a muoverti da lì per il momento. Ho prenotato un posto sul volo 807 della Pan-Am che arriva a Tunisi domenica 13 agosto, alle dieci e mezzo, ora locale. Un volo notturno. Se vuoi che ti porti qualcosa telegrafa. Spero che non sia troppo una sorpresa. Proprio non me la sentivo di andare nel Maine o nel Messico convinta di godermela. Mi piacerebbe dire qualcosa di divertente ma, nel caso tu non l'abbia già sentita, eccoti una battuta newyorkese: «Ho un amico che è un arabo.» Spero di vederti all'aeroporto di Tunisi. Se per qualche motivo non riesci a venire, saprò arrivare a Hammamet da sola. T'abbraccio con tutto il cuore,
Ina Ci rimase di stucco. Proprio non riusciva a farsene capace. Ina lì? In quelle stanze? Be', no, santiddio, le sarebbe venuto un colpo. Naturalmente avrebbe dovuto trovarle una stanza d'albergo. Domenica. Cioè entro due giorni. Sarebbe corso su a informare Jensen, ma il danese non aveva mai sentito parlare di Ina. «Maledizione,» disse a bassa voce, e prese a girare intorno al tavolo con la lettera in mano. Pensò che sarebbe dovuto andare subito a cercare una stanza. Agosto era un mese di ressa. Chiuse a chiave la porta di casa nel timore che la fatma - la loro vaghissima ragazza delle pulizie, che si faceva viva più o meno un paio di volte la settimana all'ora che più le faceva comodo - arrivasse proprio allora. Si fece la doccia col secchio dell'acqua nelle vicinanze del gabinetto. Il secchio era sempre sotto il rubinetto, di cui coglieva lo sgocciolio continuo. Una volta aveva cercato di aprire bene quel rubinetto ma era stato assolutamente impossibile - a meno che non fosse già aperto al massimo - tanto che aveva dovuto rinunciarci. «Perché tanta fretta?» esclamò Jensen dalla finestra del piano di sopra. «Mi sto affrettando?» Rallentò i suoi movimenti, rimise il secchio sotto il rubinetto e, asciugandosi, con l'aria di non aver più fretta, rientrò. Trovò una stanza con bagno al Reine de Hammamet per domenica pomeriggio. L'ultima, disse l'impiegato, ma lui non gli credé. Una camera doppia, due dinari e ottocento, tasse e prima colazione comprese, per una persona sola. Ciò fatto, si sentì meglio. Tornò alla macchina senza prendersi neppure la briga di chiedere se ci fosse della posta per lui non inoltrata al nuovo indirizzo. Quel giorno anche lavorò, ma non con la solita concentrazione. La sera li aspettava Melik. Invitò Jensen. «Un altro contratto?» chiese il danese. «No, ma credo che mi rimangano ancora due sole settimane di lavoro, dopodiché avrò finito la mia prima stesura.» Tutto sommato, non fu poi tanto difficile dire che aveva un'amica di nome Ina Pallant, età ventotto circa, che stava per arrivare domenica. Jensen non era tipo da far domande come: «Ci vai a letto?» Il danese disse semplicemente: «Oh? Che tipo è?» «Lavora per la Columbia Broadcasting System. Televisione. Fa la sceneggiatrice ed è anche lei scrittrice. Molto dotata. Carina, bionda.»
«È già stata qui?» «Non credo.» Dopodiché parlarono d'altro. Ma lui sapeva che dopo l'arrivo di Ina sarebbe saltato tutto fuori. Erano troppo intimi - considerato anche dove vivevano - perché lui sperasse di tenergli nascosto l'essenziale. Disse: «Credo di averti già detto che il tale col quale avrei dovuto lavorare qui - un americano - s'è suicidato a New York.» «Sì, me l'hai detto.» «Anche Ina lo conosceva. Lui ne era innamorato. Lei ruppe il rapporto e lui s'ammazzò. Ma erano... Da quel che Ina mi ha detto, John s'era innamorato di lei da un paio di settimane. Lei almeno lo seppe un paio di settimane prima che lui s'ammazzasse.» «Strano,» fece Jensen. «È innamorata di te?» «Non lo so. Sinceramente non lo so.» «E tu? Sei innamorato di lei?» «Credevo di esserlo quando ho lasciato New York. Quando poi lei mi ha scritto di John mi ha detto anche di avergli voluto bene... per un certo tempo. Non lo so.» Deve sembrargli un bel pasticcio, pensò. «Ma non voglio annoiarti: chiudo qui. Avevo deciso di dirtelo.» Jensen scoprì i denti anteriori e, lentamente, estrasse una spina di pesce. «Non mi annoi. Verrà qui perché ti ama.» Lui sorrise. «Sì, forse. Chi sa? Le ho prenotato una stanza al Reine.» «Oh. Non starebbe con te?» D'un tratto, si mise a ridere. «Non credo.» 17 L'aeroporto di Tunisi presentava un quadro abbastanza confuso. Importantissimi cartelli indicatori gareggiavano con la pubblicità dell'aspirina, al banco delle informazioni non c'era nessuno e le innumerevoli radioline della gente che s'aggirava lì dentro se la battevano con la musica più forte della radio del ristorante sulla balconata, sconfiggendo definitivamente la voce dell'annunciatrice che, ogni tanto, dava forse informazioni su arrivi e partenze d'aerei. Non riuscì a capire neppure se l'annunciatrice parlava in francese, arabo o inglese. Le prime tre persone in uniforme (per così dire) alle quali si rivolse chiedendo del volo 807 da New York lo smistarono verso il quadro luminoso che annunciava i voli, ma questo, dieci minuti dopo la prevista ora d'arrivo dell'aereo, non annunciava un bel niente. Non
era da Ina sbagliarsi in quelle cose, pensò accendendosi la terza sigaretta, e proprio in quel momento il volo 807 fu luminosamente annunciato: da New York, arrivava alle undici e dieci. In lieve ritardo. In piedi al bar del ristorante sulla balconata, bevve un caffè macchiato al cognac. C'erano una trentina di tavoli con le tovaglie bianche e un buffet freddo vicino alle grandi vetrate delle finestre che davano sul campo di volo. Lo divertì la vista dei due capannelli di camerieri, quattro per ognuno, che chiacchieravano negli angoli della sala mentre ai tavoli abbandonati i clienti furibondi quasi si alzavano in piedi per protestare. Ina ne avrebbe avute di distrazioni, su questo non c'erano dubbi. La vide attraverso una mezza parete di vetro che non gli era stato consentito di oltrepassare. Alzò subito un braccio. Lei lo vide. Portava una giacca bianca abbondante e scarpe anche bianche, e in mano aveva un tascabile dalla copertina chiassosa e un sacchetto che certo conteneva due bottiglie o qualcosa del genere. Sulla sinistra c'erano i banchi del controllo dei passaporti. Non era neppure a tre metri da lui. Poi fu tra le sue braccia e lui la baciò su entrambe le guance e poi, leggermente, sulle labbra. Riconobbe il profumo che aveva dimenticato. , «Hai fatto un buon viaggio?» «Ottimo. Fa una strana impressione vedere il sole così alto.» «Non hai idea del sole finché non hai visto questo di qui.» «Sei abbronzato. E dimagrito.» «Dov'è il tuo bagaglio? Occupiamoci prima di queste cose.» Meno di dieci minuti dopo erano nella sua macchina, con le due valigie sistemate dietro. «Visto che, praticamente, siamo a Tunisi,» disse lui, «potremmo mangiare qui.» «Non è presto? Ci hanno dato da mangiare a bordo...» «Allora andiamo a bere qualcosa da qualche parte. Un posto con aria condizionata. Trovi che faccia molto caldo?» Andarono all'Hotel Tunisia Palace, tutto aria condizionata, e bevvero nella lussuosa e rossa sala del bar. Ina aveva un bell'aspetto, ma gli parve di scorgere nuove rughe intorno agli occhi. Probabilmente non aveva dormito in quegli ultimi giorni. Immaginava ciò che doveva aver provato: il lavoro d'ufficio da finire più il daffare lì nella grande casa a Brooklyn Heights, che non era poco. Osservò le piccole e forti mani che aprivano il pacchetto di Pall Mall e ne accendevano una con il fiammifero strappato da quella strana scatola newyorkese,
rosso cupo con stampato in nero il nome di un ristorante italiano. «Così, dunque, ti piace star qui?» chiese lei. «Non lo so. È interessante. Non ho mai visto un paese come questo. Non giudicare da questo bar, che potrebbe benissimo stare sulla Madison Avenue.» «Sono desiderosa di vederlo anch'io.» Ma i suoi occhi erano desiderosi soltanto di lui, curiosi soltanto di tutto ciò che riguardava lui, che invece teneva lo sguardo abbassato e mirava e rimirava la scatoletta di fiammiferi che stringeva tra le dita. Poi alzò lo sguardo e affrontò gli occhi di lei. Erano azzurri macchiati di grigio. Gli zigomi erano un tantino larghi, la mascella piccola e le labbra, ben formate, esprimevano decisione, spirito e intelligenza, tutt'insieme. «Ti ho preso una camera d'albergo a Hammamet,» le annunciò. «Sulla spiaggia. Dov'ero io prima, al Reine de Hammamet. È molto gradevole.» «Oh!» Ina sorrise. «Casa tua non è abbastanza grande? A proposito, vivi solo?» aggiunse, con una risata che era abbastanza tipica di lei. «Se vivo solo? E che altro? Casa mia è piccola e più o meno sullo spoglio, come ti ho detto. Del resto, la vedrai.» Parlarono di Joey. Stava più o meno lo stesso. C'era una ragazza, una certa Louise - lui Ingham non l'aveva mai vista - che andava a trovarlo un paio di volte la settimana. Lei e Joey erano innamorati, in una maniera insolita e spaurita, parve di capire a lui. Una cosa molto triste. Joey non l'avrebbe mai sposata, mentre lei era dispostissima. Ina gli aveva già parlato di questa Louise una volta: aveva ventiquattro anni e la storia andava ormai avanti da due. Questa volta, con suo sollievo, Ina ne parlò di sfuggita. Lui non se la sarebbe sentita di imbarcarsi in un discorso di elogi di Joey e Louise. La portò al ristorante sull'altro lato dell'Avenue Bourguiba, dove i ventilatori nel soffitto e il patio sullo sfondo davano un certo senso di freschezza. «Questo è uno dei due ristoranti che John raccomandava,» disse. «Le sue raccomandazioni erano buone, tutte.» «Devi essere rimasto di stucco alla notizia.» «Certo.» La guardò, seduta di fronte a lui, dall'altra parte del tavolo. S'era pettinata al Tunisia Palace e i segni del pettine affioravano nei capelli umidi, biondo scuro, all'altezza delle tempie. «Non quanto te, immagino... quando l'hai trovato. Cristiddio!» Parlando lentamente, come una confessione, lei disse: «Il momento peg-
giore di tutta la mia vita. Credetti che stesse dormendo. Non che mi aspettassi di vederlo lì, non me l'aspettavo affatto. Poi...» Di colpo, non riuscì più a parlare, ma non per le lacrime: la gola le s'era stretta. Guardò nel vuoto, oltre le spalle di lui. Non l'aveva mai vista così. In parte era forse dovuto anche alla fatica del viaggio, immaginò. «Non sforzarti di parlarne. Riesco a immaginare... Prova questo antipasto tunisino. Compare in ogni menù.» Alludeva all'antipasto di tonno, olive e pomodori. L'aveva persuasa a prendere scaloppine, visto che di couscous ne avrebbe avuto fin troppo a Hammamet. La colazione durò a lungo e alla fine presero due caffè e fumarono molte sigarette. Le parlò di Jensen e un po' anche di Adams. «Tutti qui quelli che hai conosciuto?» «Ho conosciuto anche altra gente, ma la maggior parte qui sono turisti, niente di interessante. Inoltre, lavoro.» «Hai ricevuto notizie da Miles Gallust, a proposito?» Gallust era il produttore, o meglio quello che sarebbe stato il produttore, di Trio. Tipico di Ina ricordarsene il nome, pensò. «Ho ricevuto una lettera agli inizi di luglio. Si diceva addolorato e così via. Sai, l'ho visto una sola volta. E anche brevemente.» «Così dunque questo viaggio ti starà costando un occhio. Il noleggio della macchina e tutto il resto.» Lui si strinse nelle spalle. «Però è istruttivo. John mi diede mille dollari, sai, e mi pagò il biglietto aereo.» «Lo so,» disse lei, come se lo sapesse benissimo. «Qui poi la vita non è eccessivamente cara. In ogni modo, non sono al verde.» Ina sorrise. «A proposito. Ti ricordi il tuo racconto Noi è tutto?» «Certo che lo ricordo.» «Sta per vincere un premio. Al primo posto per il Premio O. Henry nel concorso annuale dei racconti.» «Davvero? Non stai scherzando?» Dopo essere stato cestinato varie volte, il racconto era stato pubblicato da una rivistina qualunque. «Non sto scherzando. Ho un amico nella giuria o come diavolo si chiama, e sa che ti conosco, così me l'ha detto a condizione che non lo ridica a nessuno... All'infuori di te, s'intende.» «E cosa significa? Un premio in denaro o che?» «Denaro? Non lo so. Magari si tratta solo di. gloria. È un buon racconto
in fondo.» Sì, era un buon racconto, basato su quella che lui immaginava fosse la vita, o le crisi periodiche, di un suo amico di New York, uno schizofrenico. «Grazie,» disse, con calma, ma l'orgoglio e insieme l'imbarazzo provocati dalla gloria improvvisa lo avevano tutto acceso in viso. «Sei certo che il mio bagaglio sia al sicuro nella macchina?» Le sorrise. «Più o meno. La domanda però è ragionevole. Andiamo.» Quando lasciarono il ristorante e partirono in macchina, lui si fermò a comprare alcuni giornali del giorno prima e il numero di sabato-domenica dell'Herald Tribune di Parigi. Infine presero la strada di Hammamet. «Sei stanca?» «Non lo so. Certo dovrei esserlo. Che ora è? Per me sono le nove del mattino e, più o meno, sono stata sveglia tutta la notte.» «Oggi pomeriggio dormirai. Che te ne sembra del panorama?» Il golfo azzurro era sulla loro sinistra, in pieno sole. Si stendeva ampio e basso e sembrava abbracciare metà della terra. «Splendido! Ma, diomio, fa caldo.» S'era tolta la giacca bianca. La camicetta era a fiori e senza maniche. Alla fine lui disse: «Ecco Hammamet!» e si rese conto del proprio tono gioioso, come se stesse dicendo: «Eccoci a casa!» Lasciarono la strada principale - un terzetto di cammelli avanzava lungo il margine ma Ina parve non notarli neppure - e imboccarono quella asfaltata e polverosa che, con una curva, entrava in paese. «Sembra poca cosa. La città è soprattutto un insieme di casette arabe e alberghi di lusso, ma questi son tutti sulla spiaggia. Laggiù.» «Tu dove abiti?» «Sulla sinistra. Proprio qui.» Stavano passando davanti alla sua strada e lui vide Jensen tra il vicolo in cui abitavano e il Plage, diretto verso quest'ultimo evidentemente. Il danese, che gli voltava le spalle e teneva la testa bassa, non lo vide. «Sono sicuro che avrai voglia di andare prima al tuo albergo e poi di vedere casa mia.» «Oh, non so.» Ma avevano già imboccato la curva che portava verso gli alberghi sulla spiaggia. «Che bellissimo castello!» esclamò Ina. «È un vecchio forte. Costruito dagli spagnoli.» Quindi arrivarono al Reine, attraversarono il grande cancello, avanzarono frusciando sulla ghiaia tra le palme alte, le bougainvillea, i limoni e i
robusti e bassi pompelmi. Per essere spettacolare, il posto lo era e come! Lui avvertì come un'ondata di orgoglio, come se il posto gli appartenesse. «Sembra una vecchia piantagione,» disse Ina. Lui rise. «Massa è un francese. Aspetta di vedere la spiaggia.» Mentre apriva lo sportello per scendere s'imbatte in Mokta. «Hai due minuti di tempo, Mokta?» Per una volta tanto Motka era a mani vuote. «Mais oui, m'sieur.» Lui presentò il, ragazzo arabo a M.lle Pallant e le spiegò che lavorava ai bungalows. Mokta prese la chiave del numero diciotto e li aiutò col bagaglio. La stanza era molto bella, con una finestra sul mare e una porta che dava su una terrazza abbastanza grande con le pareti a calce e un parapetto bianco e curvo. «È davvero molto bello!» esclamò Ina. Il sole stava calando alla loro destra, nel mare, e sembrava inverosimilmente enorme. «Non vedo l'ora di fare una doccia,» disse lei. «Accomodati. Devo...» «Puoi aspettarmi?» Stava sbottonandosi la camicetta. «Certo.» Aveva comprato i giornali e voleva darvi un'occhiata. «Così stai imparando l'arabo?» Lui rise. «Alludi a quel che ho detto a Mokta? Grazie, a presto? Non sto imparando niente. La cosa irritante è che le parole sono scritte in modo diverso nei diversi libri di frasi. Asma a volte è esma e fatma...» Rise di nuovo. «Sulle prime pensavo che fosse il nome della nostra ragazza delle pulizie, una forma di Fatima. Poi invece scopro che significa ragazza o serva. Perciò grida fatma quando vuoi la cameriera.» «Me ne ricorderò.» Un gradevole profumo di sapone arrivò fino a lui. Niente vapore, però: certamente stava facendo una doccia fredda. Rimase a guardare fisso l'Herald Tribune. Ina entrò nella stanza avvolta in un grosso asciugamano bianco. «Sai cosa mi piacerebbe fare?» «Cosa?» «Andare a letto.» S'alzò. «Ottima idea. Sai che piacerebbe anche a me? «La circondò con un braccio e la baciò. Poi andò a chiudere a chiave la porta. Chiuse anche le. alte persiane che davano sulla terrazza.
Questa volta andò tutto bene. Fu come le prime volte, come tutte le volte che era stato con Ina. Gli cancellò lo stupido ricordo della ragazza della Pennsylvania e gli fece pensare che quel piccolo incidente era stato dovuto al fatto che lui amava soltanto Ina. Lei lo adorava. Il letto, poi, era gradevolmente ampio. Perché in quelle ultime settimane era stato tanto stupido? si chiese. Perché aveva pensato che non l'amava? Fumarono una sigaretta, poi s'abbracciarono di nuovo. E venti minuti dopo lui avrebbe potuto ricominciare di nuovo tutto daccapo. Ina scoppiò a ridere. Sfiatato e felice, lui sorrise. «Come vedi, mi sono risparmiato per il tuo arrivo.» «Comincio a crederti.» Lui allungò la mano verso il telefono. Ordinò champagne in ghiaccio, in francese. «Non ti vesti?» «In parte. Al diavolo tutti loro.» S'alzò e infilò i pantaloni. Poi anche la camicia, che non abbottonò immediatamente. Fu preso dall'insano desiderio di chiederle: «John era bravo a letto?» Si controllò. Ina era bella, con le mani dietro la testa, il viso assonnato, che gli sorrideva, con gli occhi socchiusi, soddisfatta. Allargò le gambe sotto il lenzuolo e poi le chiuse di nuovo. Lui intanto aspirava soddisfatto e contento la sua sigaretta. È questa la vita? si chiedeva. Era quella la cosa che più importava? Era ancora più importante che scrivere un libro? «Cosa stai pensando?» Sedé accanto a lei sul bordo del letto e l'abbracciò di sopra al lenzuolo. «Sto pensando... sei la donna più sexy del mondo.» Bussarono alla porta. S'alzò. Diede la mancia al cameriere, poi vi aggiunse un paio di dinari e una manciata di spiccioli che, disse il cameriere, erano più che sufficienti a pagare lo champagne. «A te,» disse, sollevando il bicchiere. «A te, caro... e al tuo libro. Ti piace?» «Credo di sì, altrimenti non lo scriverei. È un argomento che è già stato sfruttato, ma...» «Ma?» «Spero di dire qualcosa di nuovo, di diverso... Non mi interessa tanto la trama quanto i giudizi morali che la gente può dare sul personaggio princi-
pale, Dennison. Voglio dire la gente che compare nel libro, gli altri personaggi. Be', anche i lettori. E mi interessa l'opinione che Dennison ha di se stesso.» Si strinse nelle spalle. Non voleva parlarne in quel momento. «È strano, di tutti i libri che ho scritto questo è il meno originale, e tuttavia mi interessa quanto tutti gli altri.» Ina posò il bicchiere sul comodino, reggendo il lembo del lenzuolo sopra il seno con l'altra mano. «Dipende da quello che ci metti dentro, non dall'originalità del tema.» Era vero. Lui non replicò. «Un altro bicchiere e me ne vado e ti lascio dormire. Possiamo cenare anche alle nove o giù di lì. Pensi che vorrai cenare in albergo o in un posto squallido... be', arabo, in città?» «Nel posto arabo.» «E... vuoi conoscere Jensen o preferisci che stiamo soli?» Gli sorrise. Stava poggiata su un gomito. Aveva appena l'inizio di un doppio mento, ovvero una certa pienezza sotto la mascella, che lui trovava incantevole. «Non mi dispiacerebbe conoscere Jensen.» Lasciò il Reine in una nube di felicità, sull'ali del successo. E non s'era dimenticato del premio, della gloria o quel che era, che gli sarebbe venuto da quella faccenda del concorso O. Henry. 18 Jensen era fuori quando lui ritornò a casa alle cinque e mezzo. Non era né al Plage né stava passeggiando lungo la spiaggia, concluse. Mise un po' in ordine le due stanze, diede una scopata, poi andò fuori col doppio scopo di trovare Jensen e comprare dei fiori. Dei fiori in un vaso, anche se poi il vaso era un bicchiere, avrebbero fatto una bella figura sul tavolo, pensava, e si rimproverò per non aver pensato a far trovare a Ina dei fiori nella camera del Reine. Ma come poteva immaginare che il pomeriggio si sarebbe concluso così bene? Stava per entrare nel Plage quando vide Jensen che veniva su dalla spiaggia, a piedi nudi. Recava qualcosa che a lui sulle prime parve un bambino: una cosa scura e lunga che reggeva con entrambe le braccia. Biondo e magro, come un vichingo affamato reduce da un naufragio, il danese avanzava a gran passi. Finalmente lui vide che quello che aveva in braccio era un pezzo di legno. «Salve!» esclamò, avvicinandoglisi. Jensen sollevò il capo e lo riconobbe. Teneva la bocca aperta per lo sfor-
zo. «Che roba è?» «Un ceppo. Può servire per una statua. Non so.» Affannava e lo mise giù. Il pezzo di legno era bagnato fradicio. Lui ebbe l'impulso di aiutarlo, ma aveva la camicia buona e stava pensando ai fiori. «Non si trova molto spesso un bel pezzo di legno come questo. Sono dovuto entrare in acqua per prenderlo.» Le gambe dei suoi jeans erano bagnate. «Vado a prendere la mia amica alle otto. Spero che tu voglia venire a cena con noi. Puoi?» «Okay. Certo. Devo mettermi elegante?» «No. Pensavo di andare da Melik... Sai dove posso trovare dei fiori? Dei fiori qualunque.» «Puoi provare al souk. O magari al Plage, dal, ragazzo dei gelsomini.» Il danese sorrise. Lui sollevò il pugno come per colpirlo. «Sarò a casa tra pochi minuti,» disse, e s'allontanò sulla sinistra, sperando di trovare un venditore di fiori seduto a terra sul marciapiede tra lì e la piccola banca di Hammamet. Invece non ne trovò di fiori e dopo una decina di minuti s'arrese. Staccò, torcendoli, un paio di ramoscelli di pino da un albero nei pressi della spiaggia e, una volta a casa, li cacciò in un bicchiere d'acqua. Avevano un'aria inaspettatamente nordica. Ancora una volta mise macchina per scrivere e carta sul pavimento, poi si tolse la camicia e i pantaloni, si buttò sul letto e dormì. Si svegliò con una sensazione di euforia ancora maggiore di quando aveva lasciato il Reine, ma anche un po' stordito dal caldo. Col secchio, si fece una doccia nel cortile. Era ormai diventato abbastanza esperto nel risparmiare il giusto quantitativo d'acqua per sciacquarsi dopo essersi insaponato. Avrebbe anche potuto introdurre il concetto rivoluzionario di due secchi d'acqua, visto che quell'unico spesso traboccava. Aveva avuto ragione sin dal primo momento, quel rubinetto non si apriva più di così, ma poteva prendere l'acqua al rubinetto in cucina. Andò da Melik a prenotare un tavolo tra le nove meno un quarto e le nove. Poi in macchina andò a prendere Ina. La trovò già nell'atrio dell'albergo, stava seduta su un grande divano e fumava una sigaretta. Aveva un abito rosa senza maniche con un gran fiore verde dall'aspetto fresco stampato all'altezza d'uno dei seni.
«Non sono in ritardo, vero?» le chiese. «No. Stavo dando un'occhiata alla gente.» Ina s'alzò. «Hai dormito?» «Ho fatto una nuotata e ho anche dormito. La spiaggia è una meraviglia!» «M'ero dimenticato di dirti, se vuoi puoi chiedere la mezza pensione. Non so, magari ti va di pranzare o cenare qui.» «Per il momento non mi va d'inchiodarmi in un posto.» Al solito parcheggiò la macchina vicino Melik e disse a Ina di aspettare un attimo. Salì di corsa i gradini della veranda. Era già d'accordo che sarebbe andato a ritirare il ghiaccio. Poi ritornò con la vaschetta, chiuse a chiave la macchina e si diressero entrambi verso il primo vicolo stretto. Ina si guardava intorno affascinata. E gli arabi, quei pochi che erano nel vicolo o stavano appoggiati alle porte, guardavano lei con gli occhi spalancati e un vago sorriso. Arrivato alla sua porta lui si fermò. Una porta come tutte le altre, solo che quella era chiusa e la maggior parte delle altre erano aperte. «Devo dire che sembra un vero McCoy,» osservò Ina. Fu contento che la porta del gabinetto fosse chiusa. «È qui che lavoro. E dormo anche.» Si fece precedere da Ina nella stanza. «Davvero?» Dal tono la si sarebbe detta sorpresa. «Una specie di Robinson Crusoe, forse, ma in effetti non mi occorre di più di questo.» La sua preoccupazione, in quel momento, era di farla sedere nel posto più comodo: sul letto. Adesso possedeva un cuscino rosso scuro contro cui ci si poteva appoggiare, ma solo allungandosi tutto, perché il letto era abbastanza largo. Ina volle vedere la cucina. «Abbastanza pulita,» commentò poi, sempre sorridendo, e lui concluse che era valsa la pena darsi da fare a pulire. «E immagino che costi una miseria.» «Due dollari al giorno.» Era alle prese col ghiaccio. «E il gabinetto?» «Be', è fuori, nel cortile. Devo lavarmi qui.» Il ghiaccio cadde nel lavello e al tempo stesso lui si fece un leggero taglio al pollice con la griglia metallica della vaschetta. «Scotch e acqua? Non ho soda.» «L'acqua va benissimo. Di chi sono questi quadri?» «Sono di Anders. Ti piacciono?» «Mi piace l'astratto. Il ragazzino non mi piace molto.» «Non gli ho detto che ti piace la pittura.» Sorrideva, contento che lei e
Jensen avessero almeno un argomento di discussione. «Ecco qui, cara.» Lei prese il bicchiere e sedé sulla porta-letto. «Però!» fece, molleggiando un po', o meglio cercando di molleggiare. «Non proprio soffice.» «Gli arabi non stravedono per i letti. Dormono a terra, su stuoie.» Ina aveva degli orecchini verde pallido. S'era accorciati i capelli. Erano ondulati naturale e li portava senza riga. «Strana gente. Incute un po' timore. A proposito, la guerra ha avuto ripercussioni qui? Dopo e durante?» «Sì, parecchie. Qualche macchina capovolta nelle strade di Tunisi, le finestre della biblioteca dell'American Information Service infrante in pieno centro. Io non...» Jensen comparve sulla porta e bussò. Portava quei suoi calzoni verdi e una camicia bianca, pulita. «Anders Jensen, Miss Pallant. Ina.» «Piacere,» fece Ina, guardandolo, sorridendo, non porgendo la mano. Jensen accennò un inchino. «Piacere, Miss... Ina.» A volte riusciva a somigliare a un sedicenne goffo e bene educato. «Ti do un sorso,» disse lui, andando in cucina. A Jensen piaceva quell'espressione, «sorso», e il bere lo chiamava spesso un sorso. Dalla cucina, lui sentì Ina chiedere: «È qui da molto tempo?» Portò al danese il suo bicchiere, bello pieno. Parlarono dei quadri di Jensen, il quale fu soddisfatto che lei li avesse notati e che le piacesse quello astratto, arancione. Ina non nominò suo fratello. Il danese disse che adesso stava lavorando a una pittura di sabbia, ispirata al viaggio a Gabes che avevano fatto lui e Ingham. «Dormivamo sulla sabbia,» disse. «Non ci sono state tempeste, come nel mio quadro, ma si vede molto bene... con gli occhi a livello della sabbia.» La conversazione procede piacevolmente. Gli occhi lesti di Ina afferravano tutto, parve a lui Ingham, le scarpe di pelle bianca di Jensen con tomaia perforata, le sue mani piccoline (con della vernice gialla sotto l'unghia d'uno dei pollici), il suo viso profondamente turbato che poteva apparire tragico e poi spensierato e di nuovo tragico nel giro di pochi secondi. La fronte di Ina s'imperlò di sudore. Lui sperò che sulla veranda di Melik ci fosse almeno una brezza. Dal suo secondo bicchiere, senza ghiaccio, Ina tirò fuori una zanzara. «Qui gli insetti sono alcolizzati,» osservò Jensen e lei rise. Da Melik c'era il couscous, naturalmente. Ina trovò incantevole il posto. Il canarino quella sera era in vena. C'era anche un flauto, non troppo as-
sordante, e una brezza, lieve ma pur sempre brezza. «È permesso l'ingresso alle donne qui?» chiese Ina a bassa voce, e lui si mise a ridere. «Hanno leggi così strane in questo paese. Dove sono le donne?» «A casa a cucinare per sé,» intervenne Jensen. «E tutti questi uomini, be', probabilmente hanno passato il pomeriggio con l'amichetta e alla fine se ne tornano a casa... dove la moglie è anche incinta.» Ina ne fu divertita. «Vuoi dire forse che non costa avere delle amichette? Perché questi tipi non hanno certo l'aria benestante.» «Credo che le donne arabe non osino dire di no. Non so. Non chieda a me,» disse Jensen con un languido gesto della mano. Poi fissò nel vuoto. «Non porti i gemelli?» chiese Ina a lui Ingham. Portava infatti dei gemelli ordinari comprati a Tunisi. «Credevo di avertelo scritto. Quando ero al Reine ho subito un furto. Nel bungalow. Niente di straordinario, ma mi portarono via la scatoletta dei gioielli con tutto quello che avevo: i gemelli, la spilla da cravatta e un paio di anelli.» E all'improvviso si rese conto che era scomparsa anche la sua vecchia fede d'oro. «No, non me ne hai fatto parola.» «E anche un paio di scarpe. M'è dispiaciuto per quei gemelli. Mi ci ero affezionato.» «Dispiace anche a me.» «Tu faresti bene... Be', forse nell'albergo è più sicuro che nei bungalows, ma se hai dei preziosi faresti bene a metterli in una delle valigie e a chiuderla a chiave.» Il danese stava a sentire, impassibile. «Grazie per il consiglio,» disse Ina. «Di solito, la fortuna mi assiste abbastanza, ma non sono mai stata nella vecchia Arabia prima d'ora. Certo non sono famosi per...» Sorrise e guardò Jensen. «Qual è l'opposto di ladreria?» Poi si rivolse di nuovo a lui Ingham. «Hai accennato a una giacca di tela che hai perso. So che sei molto attaccato ai tuoi vecchi abiti, caro, ma quella... la ricordo.» «Sì. L'avevo in macchina, ma è tutto un altro caso.» Pensò al vecchio arabo con i pantaloni rossi e s'irrigidì sulla sedia. «Quello fu Abdullah,» intervenne Jensen. «Li conoscete addirittura per nome,» esclamò Ina e rise. «Che posto! Me lo dovrai indicare questo Abdullah, prima o poi. Ha un nome da Mille e una notte.»
«Noi speriamo che Abdullah non ci sia più,» disse Jensen. «Oh, ha avuto quel che meritava?» chiese Ina. «Lo speriamo e lo pensiamo.» «Qualcuno l'ha accoltellato?» Jensen non rispose subito e questo per lui Ingham fu un sollievo perché significava che il danese sapeva almeno che non doveva mettersi a parlare di quella storia del bungalow. Alla fine Jensen disse: «Sembra che finalmente qualcuno abbia difeso' la propria proprietà e colpito quel bastardo alla testa.» «Una storia affascinante,» fece Ina, come se avesse sentito il sunto di un lavoro televisivo. «E come lo avete saputo?» «Oh... via alcool.» Toccò a Jensen ridere, ora. «Sta dicendo che è stato ucciso?» Lui Ingham avvertì il vivo interesse di Ina per quella storia. Lei infatti stava per dire qualcos'altro quando Adams apparve in fondo alla veranda, dove si fermò per guardarsi in giro in cerca di un tavolo. Lui s'alzò immediatamente. «Scusate un attimo.» Invitò Adams a unirsi a loro e quando insieme con lui si avviò verso il tavolo vide che Ina e Jensen stavano parlando di nuovo. «Ina, permetti che ti presenti il mio amico Francis Adams. Ina Pallant.» «Piacere, Mister Adams.» Sorridente, lo sguardo rivolto in su verso Adams, al quale stava stringendo la mano, Ina era davvero molto carina. «Piacere, Miss Pallant. Quanto tempo si ferma qui?» «Non lo so con esattezza. Una settimana, forse.» Prudente da parte sua, pensò lui Ingham. Fece segno a uno dei figli di Melik di prendere l'ordinazione di Adams. L'americano ordinò in arabo. «Lei è qui da un bel po', mi ha detto Howard,» disse Ina. «Sì, più di un anno ormai. Mi piace il clima... finché si ha un condizionatore d'aria. Ah-ah!» Nosiste rise, felice. «Ma lei ora deve parlarmi degli Stati Uniti. Vi manco ormai da un anno e mezzo. Leggo soltanto la rivista Time e il Reader's Digest e un giornale di Parigi o Londra ogni tanto.» «Cosa vuol sapere? Di solito me ne sto rintanata nel mio ufficio o nella metropolitana per Brooklyn. Non credo di sapere più quello che succede.» «Be'... la questione razziale. E la guerra nel Vietnam. E... be'... lo spirito, l'atmosfera. Questa non la si ricava da un giornale.» «Ehm.» Ina sorrise a lui Ingham poi guardò di nuovo Adams. «Stiamo vivendo un'altra estate calda, per quanto riguarda le sommosse razziali.
Quanto alla guerra nel Vietnam... be', credo che quelli che vi si oppongono vanno organizzandosi sempre più e meglio. Ma sono sicura che è informato anche di questo.» «E lei cosa ne pensa, come cittadina comune?» «Come cittadina... comune, penso che sia uno spreco di tempo, soldi e vite umane. Uno spreco di soldi non per tutti, naturalmente, perché una guerra finisce sempre col riempire qualche tasca.» Per un po' Adams non disse niente. Gli portarono il piatto di agnello. Ingham gli riempì il bicchiere di vino. «Lei è per la guerra?» chiese Ina. «Oh, sì,» rispose Adams, sicuro di sé. «Sa, sono anticomunista.» Con soddisfazione sua, di Ingham, Ina non si curò di dire: «Anch'io»; si limitò invece a guardare Adams con lieve curiosità, come se avesse detto di essere membro dell'American Legion, come del resto secondo lui Ingham poteva benissimo essere. Jensen sbadigliò scopertamente, riparandosi appena la bocca con la mano piccolina, e continuò a fissare il buio oltre la veranda. «Bene, naturalmente vinceremo... anche se solo sulla carta. Come possiamo perdere? Ma, per passare a qualcosa di più piacevole, ora che è qui quali sono i suoi programmi?» «Non ne ho ancora,» rispose Ina. «Lei cosa suggerisce?» Nosiste era una miniera di idee: Sousse, Djerba, una cavalcata sulla spiaggia su un cammello, una visita alle rovine di Cartagine, una colazione a Sidi Bou Said, una visita a un certo souk, in una città che lui Ingham non aveva mai sentito neppure nominare, nel giorno del mercato. «Spero di poter andare in qualcuno di questi posti da sola,» disse Ina. «Penso che Howard voglia lavorare. Non deve intrattenere me.» «Oh?» Adams rivolse quel suo sorriso gonfio da scoiattolo a lui Ingham. «Dopo tutte le tue settimane di solitudine non hai tempo per accompagnare una graziosa ragazza in giro per il paese?» «Non ho parlato io di lavoro,» replicò lui. «Sarò ben contento di accompagnarla da qualche parte, se Howard è occupato,» disse Adams a Ina. «E io le posso mostrare il forte spagnolo,» disse Jensen. «Il guaio è che non ho macchina.» Lui Ingham era contento che tutti andassero abbastanza d'accordo. «Domani però tocca a me,» disse. «Magari andiamo fino a Sousse o un altro posto del genere.»
Andarono a prendere il caffè al Plage. A Ina il posto piacque moltissimo. Sembrava «vero», disse. Quando fu l'ora di separarsi, Adams insiste perché Ingham accompagnasse Ina al suo bungalow per un ultimo bicchiere. Jensen se ne andò a casa. Nosiste si avviò con la sua Cadillac. «Anders è un po' triste a causa del cane,» disse lui. Le spiegò cos'era successo. «Santo cielo, ma è orribile! Non immaginavo che fossero così meschini.» «Alcuni, non tutti.» Ina rimase affascinata dal bungalow di Adams, come del resto aveva previsto lui Ingham. L'americano le mostrò persino la camera da letto. L'armadio era chiuso, naturalmente, e lui Ingham sapeva che era chiuso a chiave, anche se questa non era nella serratura. «Una casetta lontano da casa,» disse Adams. «Be', non ho più casa negli Stati Uniti. Posseggo ancora la casa nel Connecticut.» Indicò la fotografia nel soggiorno. «Ma praticamente ho tutto in deposito, ormai, quindi è vuota. Credo che un giorno mi ci ritirerò in pensione.» Dopo uno scotch Ina disse che era stanca e che doveva ritirarsi. Adams si mostrò premurosissimo e volle calcolare immediatamente che ora esattamente doveva essere per lei: le sette e quindici di «ieri». Quasi le baciò la mano nel darle la buonanotte. «Howard lavora troppo. Lo faccia distrarre un po'. Buonanotte, a tutt'e due.» Quando furono in macchina, lui chiese: «Che pensi di lui?» «Oh, un classico!» Lei rise. «Ma sembra felice e contento. Immagino che lo siano sempre. Il migliore di tutti i mondi possibili e via dicendo.» «Già, proprio così. Ma credo che sia un po' solo. Sua moglie è morta un cinque anni fa. Credo che sarebbe felice come una pasqua se passassi un giorno con lui... o parte di un giorno, se andassi a colazione con lui da qualche parte.» Ne era davvero convinto, ma pensò immediatamente a Nosiste che raccontava a Ina l'incidente di Abdullah, gli avvenimenti di quella notte, e si sentì a disagio. Non voleva che Ina apprendesse i particolari, anche quei pochi che Adams credeva di conoscere. A cosa sarebbe servito? Era solo un fatto deprimente e brutto. Portò la macchina sulla zona di ghiaia davanti alle porte dei bungalows. «Cosa ti succede, caro?» «Niente. Perché?» Riusciva a leggergli i pensieri tanto bene anche al
buio? si chiese. «Magari sei stanco quanto me.» «Non esattamente.» La baciò in macchina, poi l'accompagnò nell'atrio dove ritirò la chiave della stanza. Promise di passare l'indomani, ma non prima delle dieci. Quando arrivò a casa Jensen era ancora in piedi. «Mi sembra una brava ragazza,» fu il suo commento su Ina. Da parte del danese, pensò lui, era probabilmente un grosso elogio, e come tale lui lo apprezzò. 19 Il giorno dopo andò con Ina a Sousse, guardarono la nave da guerra americana ormeggiata al molo e bevvero birra fredda (faceva molto caldo) nel caffè dove lui era già stato una volta da solo. Ina fu affascinata dal souk. Avrebbe voluto comprare delle stuoie di paglia ma concluse che non poteva portarle in aereo, al che lui si impegnò a spedirgliele e così ne comprarono quattro, di varie misure e colori. «Intanto puoi usarle in casa tua. Puoi appenderle a una parete o metterle a terra. Daranno un tocco di comfort,» disse Ina. Comprò un grosso vaso di terracotta verniciata e dei portacenere per lui e un fez bianco per sé. Il fez le stava benissimo. «Non lo metterò qui, lo porterò a New York. Te l'immagini? Un bel cappello per un dollaro e dieci centesimi.» Quel suo entusiasmo rivelò a lui un nuovo aspetto del paese. Adesso gli piacevano i larghi sorrisi dei bottegai arabi e gli occhi accesi dei ragazzini che chiedevano millimes. All'improvviso desiderò che fossero sposati. Non era impossibile, pensò. Non doveva fare altro che chiederlo, concluse. Ina non era cambiata. Era come se John Castlewood non fosse mai esistito. «Domani potremmo andare a Djerba,» disse a tavola. L'aveva portata nel ristorante migliore che fu possibile trovare, perché lei aveva detto che non voleva mangiare in albergo, anche se lì il cibo era ottimo. «Quel tuo amico Adams mi porta da qualche parte domani. Domani mattina.» «Oh. Ha preso appuntamento ieri sera?» «Mi ha telefonato questa mattina poco prima delle dieci.» «Oh.» Le sorrise. «Okay. Allora domani lavoro.» «Vorrei che tu avessi il telefono.»
«Posso sempre telefonarti io. Da Melik o dal Plage.» «Sì... ma mi piacerebbe parlarti la notte.» Gli aveva telefonato poche volte la notte dalla sua casa a Brooklyn. Non era sempre facile perché a Brooklyn il telefono era nel soggiorno. «Potrei essere lì di persona. Posso venire, stanotte?» «Tutta la notte? Non vorrai esser lì per la prima colazione, spero.» Lui non disse altro. Sapeva che sarebbe andato da lei quella notte. E che non si sarebbe fermato per la prima colazione. Il giorno trascorse come un piacevole sogno. Nessuna fretta per nessun motivo. Non dovevano vedere nessuno. Andarono al Fourati per la cena e dopo ballarono anche. Ina ballava bene, solo non le piaceva molto. Due arabi, in inappuntabile abito occidentale, la invitarono a ballare ma lei rifiutò entrambe le volte. Il loro tavolo sulla veranda all'aperto era quasi al buio. L'unica luce era quella della mezza luna in cielo. Lui si sentiva felice e sicuro. Quasi sentiva la domanda di Ina: «È tutto davvero come prima? Davvero non hai risentimenti?» e tuttavia riteneva che sarebbe stato sbagliato da parte sua parlarne. «A che pensi? Al tuo libro?» «No, stavo pensando che ti amo allo stesso modo a letto e fuori.» Lei rise appena, quasi un sospiro silenzioso, o un rantolo. «Andiamo a casa. Be'... in albergo.» Mentre lui cercava di attirare l'attenzione del cameriere, lei aggiunse: «Devo regalarti degli altri gemelli. Pensi che ne troverò di buoni qui? Vorrei comprarne alcuni anche a Joey.» Quando la lasciò quella notte, poco dopo l'una, gli sarebbe piaciuto dividere invece la stanza con lei. Naturalmente gli sarebbe occorsa un'altra stanza dove lavorare durante il giorno. Poi pensò alle due misere stanze che lo aspettavano in rue El Hout quella notte e l'indomani, e fu contento di averle. C'era tempo, pensò. Si rese conto di essere un po' stordito dalla stanchezza e dalla felicità. Il giorno dopo lavorò abbastanza bene e scrisse otto pagine. Ma nei brevi intervalli che si concedeva dal lavoro non continuò a pensare al libro bensì a cose come: «Ina si fermerà qui tutt'e due o tre le settimane che ha di vacanza oppure se ne andrà a Parigi dopo una settimana?» e «Devo far fagotto e tornare negli Stati Uniti insieme con lei? Perché no, altrimenti?» Oppure ancora: «Se devo tirar fuori l'argomento del matrimonio, quale sarebbe il momento opportuno?» e «Non dovremmo parlare più seriamente
(in effetti, non ne abbiamo parlato affatto) di John Castlewood? O è più saggio non menzionarlo mai?» Arrivò a una conclusione solo per l'ultima domanda: non toccava a lui tirar fuori l'argomento, ma a Ina. Se lei non ne parlava avrebbe taciuto anche lui. La chiamò in albergo dall'ufficio postale alle quattro e mezzo e non era rientrata. Lasciò detto che sarebbe andato a prenderla alle sette e mezzo. Per quell'ora, pensò, sarebbe certamente rientrata. «Vai fuori stasera?» gli chiese Jensen quando fu di ritorno. Il danese stava lavandosi nel cortile. «Sì. A meno che Nosiste non se la tenga per sé tutta la sera. Vuoi venire con noi, Anders? Pensavo di andare a Tunisi, tanto per cambiare.» Come al solito Jensen esitò. «No, grazie, io...» «Avanti, su, che cosa te l'impedisce? Andiamo a cercare un bel posto a Tunisi.» Jensen si lasciò convincere. Alle sette e un quarto andò a prendere Ina. Si portò dietro, per mostrargliela, una lettera divertente ricevuta proprio quella mattina: era di un ammiratore. Un tale nello stato del Washington gli scriveva a proposito del Gioco del Se, che diceva di aver preso in prestito dalla locale biblioteca circolante: lodava altamente il libro da un lato e dall'altro offriva suggerimenti su come si sarebbe potuto migliorare il finale, secondo un'idea che demoliva completamente il tema stesso del libro. Ina era rientrata. Gli disse di salire in camera. Era vestita e stava truccandosi davanti allo specchio. La baciò sulla guancia. «Ho invitato Jensen questa sera. Spero che non ti secchi.» «No... È un tipo terribilmente taciturno.» Lo disse quasi in tono critico. «Non sempre. Stasera cercherò di farlo parlare. A volte sa essere molto divertente. Una volta c'era stato un matrimonio reale da qualche parte, credo al suo paese, e lui, stufo del fatto che i giornali non parlassero d'altro, disse: 'Per la gente i rapporti sessuali altrui sono sempre interessanti, ma diventano assolutamente affascinanti se avvengono tra lenzuola con monogrammi reali.'» Scoppiò a ridere. Lei Ina sorrise appena, sempre sporgendosi verso lo specchio. «È la maniera secca in cui lo disse. Io non so rifarla.» «È un invertito, vero?» «Sì. Te l'ho detto... È tanto evidente? Non credevo.» «Oh, le donne lo capiscono sempre.»
Forse perché gli omosessuali non mostrano alcun interesse per loro, pensò lui. «Cosa hai fatto con Nosiste oggi?» «Con chi?» «Nosiste. Nostro Sistema Adams.» «Oh. Siamo andati a Cartagine. Abbiamo fatto un giro di Sidi... Come si chiama?» «Sidi Bou Said.» «Sì.» Si allontanò dallo specchio e si girò, sorridendo. «Certo conosce un sacco di cose. Sulla storia e tutto il resto. E il caffè di Sidi è incantevole. Quello con i gradini di accesso.» «Sì. Dove tutti stanno distesi su stuoie come greci. Spero che Nosiste non si accaparri tutto quello che c'è da mostrarti.» «Non essere sciocco. Non sono venuta per fare del turismo. Sono venuta per vederti.» Lo guardò, non gli si precipitò certo tra le braccia ma per lui fu più importante che se lo avesse baciato. Era la donna che lui avrebbe sposato, pensò, e con la quale avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni. Stava per rompere l'incanto - che sentiva intollerabilmente pieno di «destino» - tirando fuori la lettera dell'ammiratore, quando lei disse: «A proposito, quella storia di Abdullah è vera? Che è stato ucciso qui nel recinto dell'albergo?» «Non lo so. Per quel che mi consta, nessuno sa come sono andati i fatti.» «Ma tu lo hai sentito gridare, ha detto Francis. Ha detto che è successo sulla tua veranda.» Nosiste le aveva detto anche della porta sbattuta? Probabilmente. E doveva averle detto anche dei francesi che avevano sentito qualcuno cadere, e del rumore metallico. «Sì, l'ho sentito. Ma erano le due di notte. Era buio.» «Non hai guardato fuori?» «No.» Lei stava guardandolo con aria interrogativa. «È interessante, perché sembra che da quella notte l'arabo sia scomparso... Pensi che un altro arabo l'abbia ucciso?» «Chi sa? Abdullah non era simpatico agli altri arabi. In fatto di rancori e vendette sono convinto che ci sappiano fare.» Pensò di dirle dell'arabo con la gola tagliata ma decise di non farlo, era una storia sensazionale e nient'altro. «Una sera, nelle vicinanze del Café de la Plage vidi una cosa strana. Un arabo era un po' ubriaco. Lo spinsero fuori dalla porta e lui rimase lì a
lungo, sulla sabbia, senza muoversi. Guardava verso la porta con uno sguardo... come se fosse deciso a vendicarsi del tipo che l'aveva spinto, chiunque egli fosse. Non dimenticherò mai quello sguardo.» Dopo alcuni secondi il silenzio di Ina lo sconcertò. Pensò: mettiamo che scopra la verità, la sappia da Jensen, per esempio? Le sarebbe apparso bugiardo e anche vigliacco. Un attimo dopo provò l'impulso di dirle la verità. Era poi tanto brutta? «Hai l'aria preoccupata.» «No,» rispose. «Com'è andato il lavoro oggi?» «Bene, grazie... Mi piacciono le nuove stuoie.» «Non serve vivere come un asceta. Sai, caro, se quell'arabo è stato tagliato a pezzi o roba del genere, non temere che io svenga. Ho già saputo di atrocità, mutilazioni e via dicendo, quindi non devi temere. È questo che gli è successo?» «Io quella notte non l'ho visto affatto quell'arabo, Ina. E i ragazzi dell'albergo non aprono bocca su quello che gli hanno fatto. Magari Adams sa qualcosa che io ignoro.» La vaga idea che in tal modo le stesse risparmiando una storia sgradevole per un po' lo sostenne. «Andiamo. Ho detto a Anders che sarei passato a prenderlo.» Quando fu giunto alla strada sua e di Jensen, saltò giù dalla macchina e corse verso casa. Era in ritardo di una decina di minuti, ma sapeva che Jensen non dgveva averci fatto caso, anzi probabilmente non se n'era neppure accorto. Chiamò da giù, dal cortile, e il danese scese immediatamente. «Ina dice che tu non parli abbastanza, quindi stasera cerca di parlare un po' di più.» Andarono al Plage, dove tra l'altro era possibile ottenere dello scotch. Jensen ordinò il suo boukhah. Ina lo aveva provato e non le era piaciuto. Quanto a lui Ingham, ebbe l'impressione che quella sera lo fissassero più del solito. Perché si trovava in compagnia di una bella donna? Jensen sembrava non far caso agli sguardi. Solo il barista giovane e grassotto sorrideva. Ormai conosceva lui e il danese. «Le piace trovarsi qui, madame?... Si ferma per molto tempo?» chiese il barista a Ina, in francese. «Non fa troppo caldo?» Stavano in piedi al bar. Ina parve apprezzare l'affabilità del ragazzo. Durante il pranzo, da Melik, Jensen fece uno sforzo e chiese a Ina della sua vita a New York, e questo portò Ina a parlare della sua famiglia. Men-
zionò le due care zie, una vedova e un'altra zitella, che vivevano insieme e che andavano a pranzo la domenica e raccontò del fratello Joey. Non si dilungò sulla sua malattia ma parlò principalmente della sua pittura. «Cercherò di ricordarmi il suo nome,» fece il danese. Ina promise di mandargli un catalogo dell'ultima mostra di Joey e Jensen le scrisse il proprio indirizzo di Copenhagen, nel caso non fosse più a Hammamet quando lei l'avrebbe mandato. «È l'indirizzo dei miei genitori, perché per il momento non ho una casa mia,» spiegò. «Mi terrò in contatto con Howard, nel caso andassi via.» «Lo spero,» intervenne subito lui Ingham. «Ma partirò prima io, su questo non ci son dubbi.» Non gli andava l'idea di perdere la compagnia di Jensen. Guardò Ina, che stava guardandoli entrambi. Gli sembrava di strano umore quella sera. L'unico scotch non era bastato a distenderla. «Ha un lavoro da riprendere, lì a Copenhagen?» . chiese Ina. «A volte dipingo scenari per i teatri. Tiro avanti. Ma sono fortunato, la famiglia mi passa un piccolo mensile.» Si strinse nelle spalle, con aria indifferente. «Be', non me lo danno loro, è mio in ogni caso, per un'eredità. Nessun sacrificio da parte di nessuno.» Sorrise rivolto a lui Ingham. «Presto vedrò quanto sangue fresco è affluito nel nostro piccolo e trafficato porto.» Lui ricambiò il sorriso, e si rese conto che partita Ina, partito Jensen e finito il libro, a parte la correzione e la ribattitura, si sarebbe trovato penosamente solo. E tuttavia non voleva stabilire una data per la sua partenza. A meno che, naturalmente, non stabilisse qualcosa di preciso con Ina, non progettasse di trovarsi con lei a New York. Potevano sposarsi, potevano mettersi alla ricerca di un appartamento (il suo non era abbastanza grande per due). Non era detto, pensò, che lei dovesse vivere in eterno nella casa di Brooklyn Heights a prendersi cura di Joey. Una soluzione la si sarebbe trovata sempre. «Vuole visitare la fortezza domani mattina?» chiese Jensen a Ina. «Se le va una passeggiata sulla spiaggia non è lontano dall'albergo, specie se ogni tanto interrompiamo la passeggiata con una nuotata.» Stabilirono che sarebbe andato a prenderla l'indomani alle undici e, dopo il caffè, il danese se ne andò. A lui sembrava che Jensen si fosse comportato benissimo quella sera e aspettava che Ina s'esprimesse in maniera favorevole sul suo conto, invece niente. «Vuoi fare una passeggiata sulla spiaggia?» le propose. «Che tipo
di scarpe porti?» Guardò sotto il tavolo. «Andrò scalza. Sì, mi piacerebbe.» Pagò il conto. Jensen aveva lasciato ottocento millimes. La sabbia della spiaggia era piacevolmente calda. Lui portava le scarpe di Ina e le proprie in mano. Non c'era luna. Si tenevano per mano, non per il piacere di tenersi per mano, pensò lui, quanto per non perdersi nel buio. «Sei un po' triste stasera. Anders ti ha depressa?» «Be', non è un allegrone, ti pare? No, stavo pensando a Joey.» «Come sta... effettivamente?» Provò un senso di pena nel chiederlo e tuttavia ebbe l'impressione che la domanda suonasse indifferente. «A volte è in gran disagio, non riesce a dormire. Con questo non voglio dire che sta peggio.» Parlava svelto. Poi tacque per qualche secondo. «Penso che dovrebbe sposarsi. Ma non vuole.» «Capisco. Si preoccupa per Louise... È davvero una ragazza intelligente?» «Sì. E sa tutto della malattia.» I passi di lei ora sembravano sprofondare di più nella sabbia. Poi si fermò e piegò le dita di un piede. «La cosa strana... la cosa orribile è che lui è convinto di amarmi.» La stretta della sua sulla mano di lui era lieve, anzi non era affatto una stretta. Lui le strinse le dita. «Che vuoi dire?» Parlavano quasi a bisbigli adesso. «Esattamente quello che ho detto. Non so dal punto di vista sessuale, sarebbe ridicolo, ma sembra che escluda chiunque altro... dai suoi affetti, dalla sua vita o quel che è. E invece dovrebbe sposare Louise. Non è del tutto impossibile per lui avere figli, sai?» «Ne sono certo.» Ma non lo era affatto. Lei si guardò i piedi. «Non che mi dia proprio la pelle d'oca ma mi preoccupa, comunque.» «Oh, cara!» La circondò con un braccio. «Cosa... cosa ti dice lui?» «Dice... oh, che non potrà mai provare per un'altra donna quello che prova per me. Cose del genere. Non è sempre afflitto al riguardo. Al contrario. È allegro quando lo dice. Il fatto è che io so che è vero.» «Dovresti lasciare quella casa, Ina. Dopotutto, è una casa abbastanza grande per ospitare qualcuno che badi esclusivamente alle necessità di Joey...» «Oh, mia madre potrebbe prendersene cura lei,» lo interruppe Ina, «per tutto quello di cui ha bisógno... e in realtà si tratta solo di fargli il letto. In realtà, se l'è fatto parecchie volte da sé. Può persino entrare e uscire dalla
vasca da bagno.» Rise, tesa. Sì. Joey aveva il suo appartamentino al pianterreno, ricordò lui. «Lo stesso dovresti andartene via, Ina. Cara, non sapevo cosa ti tormentava stasera ma sapevo che c'era qualcosa.» Si girò verso di lui. «Ti dirò una cosa divertente, Howard. Sto andando in chiesa. Ho cominciato esattamente in questi ultimi due o tre mesi.», «Be'... non lo trovo divertente,» disse lui. Era affatto sorpreso. «Lo è, perché certamente non sono una credente. Però mi dà un certo conforto vedere tutte quelle... teste grigie, lo sono quasi tutte almeno, che ascoltano e cantano e a quanto pare ne traggono conforto. Capisci cosa voglio dire? E si tratta solo di un'oretta ogni domenica.» Per le lacrime, la sua voce era ormai incerta. «Oh, tesoro!» La strinse a sé per qualche minuto. Si sentì poi sorgere dentro un'indicibile emozione e serrò le palpebre. A voce bassa, disse: «Non ho mai sentito per nessuno tanta tenerezza quanta ne provo per te... in questo momento.» Contro la sua spalla lei singhiozzò, poi si ritrasse e si tirò via i capelli dalla fronte. «Torniamo indietro.» Ripresero a camminare verso l'abitato, in direzione della fortezza debolmente illuminata: monumento a chissà quale battaglia, in chissà quale epoca, chiaramente perduta; altrimenti gli spagnoli sarebbero ancora là. «Vorrei che tu mi parlassi di più, Ina. Di tutto. Sempre che tu ne abbia voglia. Adesso e sempre, in qualunque momento.» Ma lei rimase zitta. Deve lasciare quella casa, pensò lui. Una bella casa, senza niente di cupo, senza nessun riferimento al passato, e tuttavia agli occhi di lui una casa assolutamente nociva per lei. Ecco l'occasione per proporle qualcosa di veramente positivo, pensò. E tuttavia non era il momento di chiederle di sposarlo. All'improvviso, testardo, disse: «Mi piacerebbe che vivessimo insieme da qualche parte, lì a New York.» Con sua non piccola sorpresa e non poca delusione, lei non gli rispose affatto. Solo quando furono alla macchina, finalmente gli disse: «Non me la sento proprio stasera. Puoi riaccompagnarmi all'albergo, caro?» «Certo.» All'albergo, le diede la buonanotte con un bacio e disse che l'avrebbe rintracciata dopo la sua gita alla fortezza con Jensen. Quando poi arrivò a casa, dal danese era tutto spento e lui esitò, giù nel cortile, perché aveva
proprio voglia di svegliarlo per parlargli. Poi di colpo la luce di Jensen s'accese, proprio mentre lui guardava la sua finestra. «Sono io.» Jensen s'appoggiò al davanzale. «Non dormivo. Che ora è?» E sbadigliò. «Mezzanotte circa. Posso vederti un attimo? Vengo su.» Jensen si limitò a ritrarsi, sonnacchioso, dal davanzale. Lui corse su per la scala esterna. Il danese era in jeans a pantaloncini, che gli cascavano di dosso tant'era magro. «È successo qualcosa?» «No. Volevo solo dirti... o chiederti... insomma spero che tu domani non dirai niente di Abdullah a Ina. Sai, le ho raccontato la storia che ho raccontato a Adams, che cioè non ho mai aperto la porta del mio bungalow.» «Non l'hai aperta. Benissimo.» «Temo che ne rimarrebbe male,» aggiunse lui. «Proprio adesso che ha dei problemi suoi. Suo fratello... quello di cui ti parlava, l'handicappato, insomma: è motivo di depressione per lei.» Jensen accese una sigaretta. «D'accordo. Capisco.» «Non è che le hai già detto qualcosa, vero?» «Che vuoi dire?» Per Jensen era sempre tanto vago quanto era invece chiaro per lui. «Che gli ho lanciato contro quell'affare che l'ha ucciso... la macchina per scrivere.» «No, non l'ho mica detto. Niente affatto.» «E non dirglielo, per cortesia.» «Va bene, va bene. Non preoccuparti.» Nonostante la disinvoltura di Jensen, la sua apparente indifferenza, sapeva di poter contare su di lui, perché quando aveva detto: «È assolutamente privo d'importanza,» il danese ne era davvero convinto. «Il fatto è e l'ammetto - che mi vergogno di quello che ho fatto.» «Ti vergogni? Sciocchezze. Sciocchezze da cattolico. Meglio, da protestante.» Jensen si distese sul letto e fece volare le gambe abbronzate sopra la coperta. «Ma io non sono un vero protestante. Io non sono niente.» «Ti vergogni di te o di quello che gli altri possono pensare di te?» C'era come una nota di disprezzo in quel gli altri. «Di quello che gli altri possono pensare,» rispose lui. Gli altri erano solo Adams e Ina, dopotutto, pensò poi. S'aspettava che Jensen gli obiettasse proprio questo, ma il danese stette zitto.
«Puoi contare su di me. Non dirò niente. Ma non prenderla troppo sul serio.» Jensen rimise i piedi a terra sul pavimento per allungarsi a prendere un portacenere. Lasciò il danese con la sgradevole sensazione di essere calato nella sua stima a causa della vigliaccheria e della debolezza di cui aveva dato prova. Con Jensen era stato sincero, a cominciare dalla loro conversazione lì nel deserto. Strano però quel senso di colpa che avvertiva, quel tremito che provava quand'era con Jensen, pur sapendo di potersi fidare di lui anche quando aveva bevuto. Il danese non era un debole. All'improvviso pensò al ragazzo arabo dallo sguardo spaventato e tuttavia ammaliante e languido che a volte indugiava nel vicolo vicino casa e che sempre diceva qualcosa in arabo a Jensen. Due volte aveva visto il danese liquidarlo con un gesto seccato della mano. Se l'era portato a letto, gli aveva poi confessato. A lui quel ragazzo appariva ributtante, infido e sdolcinato, ma nonostante questo, Jensen non gli sembrava affatto un debole. 20 Non riusciva a dormire. Il caldo era soffocante e l'aria immobile. Dopo essersi fatto una doccia col secchio, nel giro di pochi minuti era di nuovo tutto sudato. Ma non vi faceva caso: ormai al disagio aveva fatto l'abitudine. Per di più, era distratto dai propri pensieri. Stava pensando a Ina, per la quale provava infinita tenerezza e amore. Gli dava una sensazione profonda, avvolgente, che abbracciava il mondo intero, cioè lui e tutti quelli che conosceva, tutti. E Ina ne era il centro e, in un certo senso, la fonte. Gli aveva confidato di essersi sentita trascurata quand'era bambina perché Joey, malato sin dalla nascita, aveva catturato tutto l'affetto e l'attenzione dei genitori. Aveva cercato di fare del proprio meglio a scuola (questo succedeva a Manhattan, dove la sua famiglia abitava a quel tempo) per richiamare un po' di quell'attenzione su di sé. Alla fine aveva frequentato l'Hunter College riportando ottimi voti e specializzandosi in composizione inglese. All'età di vent'anni s'era innamorata di un ragazzo ebreo che più o meno godeva dell'approvazione della famiglia di lei (era iscritto ai corsi di perfezionamento di fisica alla Columbia, ricordava), mentre quella di lui l'aveva messa invece a disagio perché disapprovava apertamente e sosteneva al tempo stesso che il ragazzo avesse il diritto di scegliere la propria vita. E così lei da quell'amore non ne aveva ricavato altro che alcuni mesi di mal di testa e, quando poi s'era laureata, dei voti leggermente inferiori a quelli
che avrebbe ottenuti, secondo quanto aveva sostenuto lei, se non ci fosse stata la rottura. Prima ancora, a quindici anni, s'era invece presa una cotta terribile per una ragazza un po' più grande di lei, una ragazza che in realtà era un'invertita, anche se a quell'epoca non esercitava ancora, per così dire. Sorrise al pensiero delle amare sofferenze dell'adolescenza, della solitudine e dell'incapacità a sfogarsi con qualcuno. Esperienze del genere le fanno tutti e generalmente a venticinque anni,.o a trenta, vengono dimenticate: come pietre in un torrente su cui pur bisogna avanzare, a costo di dolori e ferite, e la cui presenza è inconsciamente attesa. E così, come forse i dolori del parto, l'agonia finisce con lo scomparire anche dal ricordo. In seguito c'era stato il matrimonio, durato un anno e mezzo, con un brillante commediografo, Edgar Tal dei Tali (dopotutto lui era contento di essersene dimenticato definitivamente il cognome), il quale s'era rivelato un tiranno, un bevitore smodato e, in non poche occasioni, un violento, per poi finire ucciso in un incidente d'auto un paio d'anni dopo il loro divorzio. E ora Ina amava lui e amava inoltre il fratello Joey, e s'era rivolta alla chiesa per un sostegno morale e, forse, una guida anche. (Fino a che punto s'era rivolta alla chiesa? si chiedeva lui.) Ma che specie di guida può darti la chiesa all'infuori dell'eterno consiglio alla rassegnazione? Basta coi peccati, naturalmente, altro consiglio: ma se sei in una situazione regolare, con tanto di marito, famiglia e via dicendo - o se, per esempio, il problema è la povertà - ecco che il consiglio della chiesa è di rassegnarti. Questa era la sua impressione che, con un certo disagio, lo induceva a pensare alla religione araba. Con una brusca scartata il pensiero gli ritornò a Ina. Meno male che ambedue erano abbastanza adulti da riconoscere l'importanza dell'affetto, da aver perduto parte dell'egoismo e dell'egocentrismo della gioventù; almeno sperava. Erano due mondi, simili e tuttavia diversi, complessi e tuttavia in grado di spiegarsi a vicenda, e era convinto che dopotutto avessero qualcosa da darsi reciprocamente. Si ricordò dei pochi appunti che aveva scritto nel suo quaderno in vista del romanzo che stava ora scrivendo, appunti sul senso di identità che è insito in ogni individuo. (Poi era successo che nel libro non ne avesse usato nessuno, ma la cosa non era una novità.) Avrebbe letto molto volentieri alcuni di quegli appunti a Ina per vedere cosa ne avrebbe pensato e cosa ne avrebbe detto. Uno di questi appunti, ricordava, lo aveva copiato da un libro che aveva letto. Era a proposito di certi ragazzi emarginati di una scuola elementare americana. Quei ragazzi non provavano nessuna gioia nella vita in generale e nell'apprendere in particolare.
Tutti vivevano in case sovraffollate. Ma alla fine la scuola aveva offerto a ciascuno di loro un piccolo specchio nel quale mirarsi, e da allora in poi ognuno di loro s'era reso conto d'essere un individuo, diverso o diversa da tutti gli altri, con una propria faccia e una propria identità. Da allora il mondo di ognuno di loro era cambiato. All'improvviso gli fu più che chiara la pressione che la tragedia di Joey esercitava ormai su Ina, la tristezza in cui quella malattia doveva precipitarla ogni volta che, anche nei momenti migliori, guardava il fratello o pensava a lui. E ora saltava fuori quel problema misterioso e forse insolubile dell'attaccamento di Joey a lei. Quel peso, quel dolore, fu come un qualcosa che gli strisciasse all'improvviso alle spalle e lo assalisse, affondando in lui gli artigli. Saltò giù dal letto. Ebbe l'impulso di correre direttamente da Ina, senza perdere tempo, per confortarla, dirle che si sarebbero sposati - magari per chiederle la mano, ma questo era un particolare tecnico, per così dire - per passare con lei il resto della notte a parlare e a far progetti, finché non fosse spuntata l'alba tunisina. Guardò l'orologio che aveva al polso. Le tre e diciotto minuti. Gli sarebbe stato possibile addirittura entrare nell'albergo? Sì, certo, naturalmente, se avesse picchiato alla porta come un forsennato. E a lei, sarebbe seccato? Ne sarebbe stata imbarazzata? Ma quel che lui aveva da dirle era abbastanza importante da giustificare l'eventuale chiasso e scalpore in piena notte. Esitò. Non era da debole, addirittura fatale, abbandonarsi al dubbio se andare o no? Non sarebbe andato se avesse avuto venticinque, persino trenta anni? Decise che non poteva andare a quell'ora. Se Ina fosse stata sola e in casa sua avrebbe anche potuto farlo, ma si trovava in un albergo. Si tirò su al pensiero dell'indomani. L'avrebbe vista a colazione. Avrebbe detto a Jensen che desiderava vedere Ina da sola a colazione; al danese non sarebbe importato, e così avrebbe potuto parlarle di tutto, anche di matrimonio. Sarebbe tornato insieme con lei a New York o poco dopo la partenza di lei, avrebbero cercato un appartamento e, forse, in meno di un mese lei avrebbe lasciato la casa di Brooklyn e sarebbe andata a vivere con lui a Manhattan. Sì, un piano davvero eccitante. Se ne tornò a letto, ma passò almeno mezz'ora prima che riuscisse a addormentarsi. Si svegliò alle nove e mezzo e scoprì che Jensen era già andato via. Aveva pensato di offrirsi di accompagnarlo al Reine, anche se era dubbio che il danese avrebbe accettato. Ora gli toccava andare a cercarli, se voleva vederli prima di colazione. Lavorò tutta la mattina, soprattutto a limare e
ribattere a macchina le pagine più sporche del manoscritto, ma poco prima di mezzogiorno e mezzo scrisse due pagine nuove. Dopodiché infilò dei calzoni di tela bianca e una camicia e andò al Café de la Plage. Fu contento di vedere Ina e Jensen seduti a un tavolo con davanti due bicchieri di vino rosé. «Toc-toc,» fece, avvicinandosi. «Posso intromettermi? Disturbo? Avete passato una bella mattinata?» Avevano l'aria di aver parlato di argomenti seri per un bel po' prima del suo arrivo. Jensen accostò una sedia da un altro tavolo e Ina lo scrutò da capo a piedi - il viso, le mani, il corpo - in una maniera che a lui piacque, e intanto sorrideva, distratta. «È interessante il forte?» le chiese. «Dentro non ci sono mai stato.» «Sì. Non c'era nessuno. Abbiamo potuto girarlo da cima a fondo.» «Neppure un fantasma,» disse Jensen. Fu subito chiaro che il danese non se ne sarebbe andato. Andarono da Melik e presero tutt'e tre yoghurt, frutta, formaggio e vino, perché faceva troppo caldo per qualsiasi altra cosa. A Ina magari sarebbe andato di fare un pisolino, pensò lui; poteva accompagnarla all'albergo e avrebbero potuto parlare. Jensen afferrò il conto e affermò il proprio diritto a pagare, perché era stato lui a voler portare Ina a colazione. Poi si accomiatò. «Vado a lavorare un po'. Dopo un pisolino, s'intende. Fatma s'è vista?» «Questa mattina no,» rispose lui. «Maledetta. Se si presenta oggi pomeriggio credo che la manderò via. Ti dispiace?» «Neanche un po'.» Il danese se ne andò. «Com'è questa vostra fatma?» chiese Ina. «Oh... ha un sedici anni e sorride in continuazione. Non parla molto bene il francese. La sua attività preferita è di aprire il rubinetto sulla terrazza. Se ne sta lì impalata a guardare l'acqua che scorre. A volte le diamo dei soldi e la mandiamo a comprare del vino o del cibo. Non riporta mai il resto. Qualunque cifra le diamo è sempre l''esatto ammontare'.» Rise. Ina aveva l'aria di non ascoltare, o di non essere interessata. «Stanca, cara? Ti riporto all'albergo. Fa un caldo maledetto. Pensavo che una piccola siesta ti andasse. Magari insieme con me.» «Credi che dormiremmo?» Le sorrise. «Vorrei parlarti di certe cose.» Almeno si fosse portato dietro il libretto degli appunti, invece niente, l'aveva lasciato a casa e non intendeva certo andare a prenderlo. «Per la verità, stanotte quasi mi precipitavo
da te. Alle tre e mezzo. Sono saltato persino giù dal letto.» «Un brutto sogno? Perché non sei venuto?» «No, non era un brutto sogno, non m'ero neppure addormentato. Pensavo a te... Sai, cara, potresti venire da me. Potremmo fare lì un sonnellino.» «Grazie, ma preferisco tornare in albergo.» Era chiaro che ci si sentiva più a suo agio, e lui se ne rendeva conto. Ma aveva anche l'impressione che casa sua non le andasse proprio, la trovasse miserabile. E così, riguardo a quelle due stanze, nonostante lei non le avesse espressamente attaccate, si mise vagamente sulla difensiva. Dopotutto, erano diventate il suo rifugio e il suo studio, e come tali erano più o meno sacre per lui. «Va bene. Andiamo, allora.» L'accompagnò al Reine de Hammamet. L'impiegato al banco porse un telegramma a Ina. «Non perdono tempo,» osservò lui, chiedendosi di chi potesse essere quel telegramma. «Ho telegrafato in ufficio,» spiegò lei. «Devono essere loro.» Aspettò che lo leggesse e la vide accigliarsi e, poi, muovere le labbra come se pronunciasse un silenzioso «Maledizione». «Devo rispondere con un altro telegramma,» annunciò poi. «Non ci metterò molto.» Lui annuì e andò a cercare un giornale. «Di che si tratta?» le chiese quando lei ebbe finito. «È a proposito di un copyright. Gli avevo detto che un certo racconto era libero ma loro non si sentivano tranquilli e mi avevano incaricata di fare accertamenti. Volevano controllare. È tutto molto noioso.» Ina fece una doccia fredda e quando ebbe finito lui le chiese se poteva farla anche lui. L'acqua, fresca e non eccessivamente fredda, fu un sollievo. Fu bello anche adoperare il sapone profumato di Ina, che trovò lì nel portasapone. C'era persino un enorme asciugamano bianco, non adoperato, di cui si appropriò. «Delizioso,» disse quando ne venne fuori, scalzo. «Sai, Howard...» Ina stava distesa sul letto, poggiata su un gomito, e fumava. «Sarebbe bello se tu avessi un bungalow. Perché non ne prendi uno... o due?» aggiunse, sorridendo. Decisamente, lui non aveva nessuna voglia di prenderlo. «Be', potresti prenderlo tu, ammesso che ce ne siano di disponibili. Hai chiesto?» «Non ancora. Caro, diciamocelo francamente, casa tua è molto scomoda. Quel gabinetto. E non sei al verde! Non so perché l'abbia presa.»
«Per cambiare. M'ero stancato del bungalow.» «Stancato di cosa? C'è una bella cucina e un bel bagno, e tutto è semplice e pulito. Francis dice che si può avere anche un condizionatore d'aria.» «Volevo vedere come vivono gli arabi, fare la spesa al mercato e tutto il resto.» «Puoi vedere come vivono senza viverlo anche tu. Questa mattina, passeggiando con Anders ho visto una quantità di arabi.» «Non lo trovi un quartiere affascinante?» Le sorrise. «Il fatto è che lavoro molto bene dove mi trovo adesso. Insomma, sono convinto che sia il posto adatto per lavorare. In fondo, non ho intenzione di fermarmi più di un mese.» «Francis dice che è una specie di punizione che ti stai imponendo.» «Be', credo che abbia detto la stessa cosa anche a me. Un'osservazióne stranamente freudiana da parte di Nosiste. In ogni modo si sbaglia. A proposito, quando te l'ha detto?» «L'ho incontrato stamattina sulla spiaggia. O meglio, mi ha chiamato lui. Da lontano. Stava in acqua. Ero andata alla spiaggia presto per una nuotata. Così ci siamo seduti sulla sabbia e abbiamo chiacchierato.» Ina rise. «È così ridicolo con quelle pinne, la fiocina e quella specie di cuffia impermeabile con la visiera. Sai che va perfino sott'acqua con quell'affare in testa?» «Sì, lo so.» Rimase zitta per un po', poi aggiunse: «Sai, dice che tu non racconti tutta la verità a proposito di quella notte nella quale Abdullah fu ucciso. Sulla tua veranda, sostiene lui.» «Sì-sì,» fece lui, con un sospiro. «Innanzi tutto, nessuno sa se fu ucciso o no. Nessuno ha visto nessun cadavere. Al riguardo, quell'Adams si sta comportando come una vecchia zitella ficcanaso. Perché non si rivolge alla polizia, se è tanto preoccupato?» «Su, ora non riscaldarti.» «Scusami.» S'accese una sigaretta. «Per questo te ne sei andato?» «No di certo. Sono sempre in buoni rapporti con Nosiste. Me ne sono andato.... per un motivo di cui tutto sommato volevo parlare proprio con te. O di cui volevo informarti, almeno. Ha a che vedere col libro che sto scrivendo. In sostanza, si tratta di questo, e cioè se un individuo crea la propria personalità e le proprie qualità dall'interno di se stesso oppure se quella e queste sono il prodotto della società che lo circonda. Questo ha poco a che vedere col mio libro, ma mi sono accorto che da quando sono
qui in Tunisia rifletto molto su queste cose. Insomma, voglio dire che si tratta dell'opposto dell'autoritarismo. Parlo, credo, soprattutto di morale. Il mio personaggio, Dennison, se n'è fatta una tutta sua, capisci. Ma è chiaro che è pazzo.» Ina stava a sentire in silenzio, e lo guardava. «Ho vissuto momenti qui a Hammamet, momenti durati in realtà giorni e settimane, in cui non ricevevo lettere né da te né da nessun altro e in cui mi sentivo strano persino ai miei stessi occhi, come se non mi conoscessi. E forse in parte - da un punto di vista morale, s'intende - questo era dovuto al fatto che gli arabi che mi circondavano avevano qualità diverse, etiche diverse. E rappresentavano la maggioranza, capisci? Questo è il loro mondo non il mio. Non so se mi spiego.» «E cosa hai fatto al riguardo?» Rise. «Non è possibile fare qualcosa. È come una condizione. Una condizione molto conturbante. E tuttavia penso che abbia giovato moltissimo al mio libro. Proprio perché quasi non lo riguardava affatto.» «Io non credo che vivendo qui i miei valori morali cambierebbero... Ho proprio voglia d'un po' d'acqua semplice ghiacciata.» Lui andò immediatamente al telefono a ordinarla. Poi disse: «Non è necessario che cambino, ma potresti trovare difficoltà a praticarli là dove, per esempio, nessuno intorno a te li pratica.» «Fammi un esempio.» Chissà perché, pur avendo una certa quantità di esempi da farle, esitò. Piccoli e meschini inganni. Oppure grossi, come prendersi una moglie e tante amanti quante era possibile permettersene, per il semplice motivo che tutti gli altri si concedevano lo stesso piacere, e al diavolo i sentimenti della moglie al riguardo. «Be'... se sei stato derubato cinque o sei volte, puoi essere spinto a rubare a tua volta, non pensi? Chi non ruba o inganna un po' negli affari ne esce malconcio se tutti gli altri ingannano.» «Em-m,» fece lei, dubbiosa. Quando bussarono alla porta gli indicò il bagno con un cenno della mano. Lui v'entrò. Si guardò distrattamente nel lungo specchio accanto alla vasca e concluse che aveva davvero l'aria di un romano. Le sue mani erano fuori campo, perché reggevano l'asciugamano bianco da sotto. I piedi sembravano assurdi. Stava pensando che Nosiste era un intrigante cretino. Gli aveva quasi messo contro Ina, e per questo lo odiava. Se le avesse detto delle folli trasmissioni di Nosiste, Ina avrebbe capito che razza di pazzoscemo era.
«Via libera,» lo chiamò Ina. «Comportamento da occidentali,» disse lui, sprezzante, rientrando nella stanza. «Qualunque donna attraente come te dovrebbe avere cinque uomini a ronzarle intorno ogni pomeriggio.» Lei sorrise. «Ma perché Nosiste è convinto che tu non dica la verità a proposito di quella notte?» Si riempì un bicchiere d'acqua. Lui andò a prendere un altro bicchiere nel bagno. «Chiedilo a lui.» «In effetti, gliel'ho chiesto.» «Oh.» «Crede che tu abbia lanciato qualcosa contro l'arabo o l'abbia colpito in qualche modo. È vero?» «No,» rispose, deciso, solo dopo aver esitato qualche attimo, soprattutto per la sorpresa. «Lo so, parla di una porta sbattuta, di ragazzi che accorrono, di una quantità di particolari a proposito di quella notte, troppi, visto che il suo bungalow si trova a una considerevole distanza dal mio.» «Ma successe sulla tua veranda.» «Il grido che sentii era vicino.» Detestava sempre più quell'argomento e tuttavia sapeva che se l'avesse dato a vedere sarebbe risultato strano, se non sospetto. «Dice che i francesi che stavano dietro il tuo bungalow sentirono sbattere una porta e erano sicuri che fosse la tua.» «Con me quei francesi non ne hanno fatto parola. Nessuno ha detto niente a nessuno riguardo alla scomparsa di Abdullah e di tutto il resto. Nessuno ne parla, tranne Nosiste.» Lo sguardo di Ina, che gli si era attaccato addosso, lo infastidiva. Aveva l'impressione che Nosiste le avesse attaccata quella sua indecente curiosità, come una malattia, una febbre. «Quell'arabo potrebbe aver ricevuto il coup de grâce da qualche altro arabo,» disse, sedendo in una poltrona. «Nosiste pensa che i ragazzi l'abbiano trascinato via e sepolto da qualche parte. I ragazzi dell'albergo negano tutto. Nascondono...» «Oh, no. Nosiste mi ha detto che uno dei ragazzi ha ammesso che l'arabo è sbattuto con la testa contro qualcosa. Questo loro l'ammettono.» Sospirò. «È vero. Me n'ero dimenticato.» «Howard, mi stai raccontando la verità, tutta la verità?» «Sì.» «Ho la stranissima impressione che tu a Anders abbia detto qualcosa che non hai detto a me... e neppure a Nosiste.»
Rise. «Perché?» «Via, diciamocelo pure, sei molto intimo di Anders. Praticamente vivi con lui. Non sapevo che andassi tanto d'accordo con gli invertiti.» «Io non vado né d'accordo né in disaccordo con loro.» Quell'osservazione di Ina gli sembrava proprio stupida. «Né penso mai al fatto che sia invertito. E, a proposito, non ho visto un solo ragazzo in casa sua da quando ho traslocato lì.» Si pentì immediatamente di averlo detto. L'astinenza è una virtù? Lei rise. «Forse è innamorato di te.» «Via, Ina, piantala. Non è neppure divertente.» Ma per salvare qualcosa, il pomeriggio magari, si sforzò di sorridere. Uno sforzo mal riuscito. «Ti è molto vicino... attaccato. Dovresti saperlo.» «Tu stai lavorando di fantasia. Davvero, Ina.» Come potevano essere arrivati a quel punto in appena pochi minuti di conversazione? Si rese conto che per quel pomeriggio era impossibile chiederle di sposarlo. E tutto a causa di quella puzza di Nosiste. «Vorrei che Nosiste badasse ai fatti suoi. S'è messo a scoreggiare anche su Anders?» «No, niente affatto. Caro, non montarti ora. Ce l'ho anch'io gli occhi.» «E vedi sbagliato. Hai dello scotch?» Lei gliene aveva dato una bottiglia. «Sì, nell'armadio. Sul fondo, a destra.» Prese la bottiglia. Era aperta ma ne mancava solo per la lunghezza del collo. «Ne vuoi tu?» Versò nel bicchiere che Ina gli porgeva, poi nel proprio. «Anders e io andiamo d'accordo, ma non c'è niente di sessuale sotto.» «Allora vuol dire che forse non te ne rendi conto.» Sospettava per caso anche di lui? Possibile che, in un modo o nell'altro, le donne pensassero sempre e solo al sesso? «Allora è troppo maledettamente sottile per me,» disse. «E se è tanto sottile, che importanza ha?» «A quanto sembra non vuoi lasciarlo... non vuoi prendere un bungalow.» «Oh, cristiddio, Ina.» Ma le donne, si chiese, li prendono sempre tanto sul serio gli omosessuali? Aveva sempre pensato che considerassero gli invertiti delle nullità. Degli zeri assoluti. «T'ho spiegato che non voglio andarmene di là per via del lavoro.» «Io credo invece che i bungalows ti ricordino qualcosa di sgradevole. Non è vero?» Non aveva alzato la voce, lei. «Tesoro... mia cara... non ti ho mai vista così. Sei peggio di Nosiste! Mi conosci, ma a quanto pare non per questo mi capisci. Quando ho cercato di spiegarti che cosa ho provato in questo paese, in questo continente, sin da
quando v'ho messo piede, non hai fatto un solo commento. D'accordo, non è d'importanza mondiale.» Sentì aumentare il ritmo del cuore. Stava in piedi col bicchiere in mano. «Hai adottato il codice morale arabo, quale che sia?» «Perché fai questa domanda?» «Nosiste dice che tu gli hai detto che la vita di quell'arabo non ha nessuna importanza, perché non è altro che niente.» «Io ho detto a quel finfero che si trattava di uno sporco ladro, e che probabilmente avrebbe fatto piacere a molti liberarsene.» Chiedi a Anders, lui è abbastanza eloquente in materia, avrebbe voluto aggiungere. «Abdullah è lo stesso che ti rubò la giacca dalla macchina, hai detto.» «Esatto. L'ho visto coi miei occhi. Solo non ero abbastanza vicino per acciuffarlo.» «Non gli hai lanciato contro per caso un oggetto quella sera? Non so, una sedia... o la macchina per scrivere?» Lo disse sorridendo. Un sorriso divertito, rassicurante, anche se lui capiva che non doveva esserne affatto rassicurato. «No,» rispose con un sospiro, come alla fine di un'intollerabile tensione. Aveva voglia di andarsene, a questo punto. Incontrò lo sguardo di lei e avvertì |a distanza che li separava, un senso di distacco. Non gli piacque e distolse lo sguardo. «È stato Abdullah a rubarti i gemelli?» Scosse il capo. «Quella fu un'altra notte. Non ero nel bungalow. Non so chi abbia preso i gemelli.» Se ne andò nel bagno a vestirsi. Lei non lo trattenne. Quando si fu vestito sedé accanto a lei sul letto e la baciò sulle labbra. «Vuoi fare un bagno più tardi? Verso le sei?» «Non lo so. Non credo.» «Vengo a prenderti verso le otto? Potremmo andare a La Goulette, il villaggio di pescatori.» L'idea le piacque e, poiché il posto era abbastanza lontano, lui le disse che sarebbe passato a prenderla alle sette. 21 Voleva vedere Adams. Erano le cinque meno un quarto e probabilmente l'avrebbe trovato sulla spiaggia. Fece in macchina i due-trecento metri di viale sabbioso fino ai bungalows. Erano immersi nel sole e nel silenzio, come se tutti avessero prolungato la siesta. La Cadillac nera era parcheg-
giata al solito posto. Vi posteggiò accanto la sua macchina. Bussò alla porta. Nessuna risposta. Andò fino alla veranda della direzione dei bungalows e guardò giù sulla spiaggia. Solo tre o quattro figure erano visibili a quella distanza e nessuna somigliava a Adams. Tornò indietro al bungalow, passò sul retro, dove c'era ombra, e sedé sul gradino della porta della cucina. A un mezzo metro da lui c'era, vuoto, il bidone dell'immondizia, di metallo grigio. Dopo un po' cominciò a riflettere che era meglio che Nosiste non fosse stato in casa quando aveva bussato, perché solo ora si rendeva conto d'essere un po' fuori di sé dalla rabbia. Non era quello il modo. Il modo giusto era di far capire, con garbo, a quel Nosiste che non doveva ficcare il naso in giro e, soprattutto, non doveva cacciare idee in testa a Ina, idee che la sconvolgevano. Sapeva benissimo di mentire, ma gli sembrava anche che questo era affar suo e che nessuno aveva alcun diritto di intromettersi. La polizia, certo, lo aveva quel diritto, ma la polizia era una cosa e Adams un'altra. Stava seduto lì, appoggiato alla porta della cucina, forse da un quindici minuti quando lo scatto di una serratura gli disse che Adams era rientrato. S'alzò immediatamente e andò - a passo lento questa volta - alla porta sul davanti. Nosiste doveva aver notato certamente la sua macchina. La porta sul davanti era chiusa. Bussò. La porta s'aprì. «Toh, salve! Entra, prego. Ho visto la tua macchina là fuori. Mi fa piacere rivederti.» Aveva una borsa a rete per la spesa in mano: stava mettendo via le cose in cucina. Gli offrì da bere, un caffè freddo per esempio, e lui gli chiese se aveva una Coca. L'aveva. «Come se la cava Ina?» chiese, aprendo una birra in barattolo. «Bene, credo.» Non avrebbe voluto arrivare subito al nocciolo, ma dopotutto perché no? si chiese, e così disse: «Che cosa le hai detto a proposito di quella famosa notte di Abdullah?» «Be'... quello che so. Era curiosa, mi ha fatto una quantità di domande.» «Lo credo bene che l'abbia fatte se le hai detto che sei convinto che io non dica la verità. Credo che tu l'abbia sconvolta, Francis.» E così ti rimando la palla, pensò, tanto per cambiare. Adams stava riflettendo, ma non ci mise molto. «Le ho detto quello che penso, Howard. Ne ho il diritto, anche se posso sbagliare.» Lo disse in tono dogmatico, come se fosse un vangelo per lui, al quale si fosse tra l'altro sempre attenuto. «Va bene, non te lo nego questo diritto.» Si lasciò andare nella poltrona di pelle cigolante. «Peccato però che l'abbia sconvolta. Inutilmente.»
«Che intendi dire, sconvolta?» «Mi ha fatto una quantità di domande. Io non so chi era l'arabo di quella notte. Non ne ho mai visto la faccia e il fatto che fosse Abdullah mi sembra una semplice illazione, e nient'altro, basata sull'apparente scomparsa di Abdullah. E se vogliamo essere logici dovremmo lasciare aperta la possibilità che gli sia capitato di lasciare la città o di scomparire, e che qualcun altro si fosse fatto male o fosse stato colpito e strillasse. Insomma, che nessuno fosse stato ucciso quella notte. Capisci cosa voglio dire?» Nosiste parve pensieroso, ma ostinato. «Sì, tu però sai benissimo che non è andata così.» «E come faccio a saperlo? Tu ti basi su prove indirette, indizi sottilissimi.» «Howard, tu devi almeno avere aperto la porta quella notte. Devi aver guardato fuori attraverso una persiana. Il grido ti svegliò. Chiunque si sarebbe incuriosito abbastanza sentendo un grido alle due di notte. I due francesi hanno dichiarato di essere sicuri che la porta che sbatté era la tua.» Il loro bungalow era molto vicino al suo, rifletté lui, distava meno di dieci metri dalla sua porta, benché questa fosse dalla parte opposta alla loro. Se i due francesi erano rimasti svegli appena qualche minuto dovevano aver sentito arrivare i ragazzi dell'albergo. «Non mi stupisce che la tua ragazza sia incuriosita, una volta conosciuti questi fatti. Howard...» Nosiste parve in difficoltà, ma lui lo lasciò dibattersi. «È una brava ragazza, una ragazza fantastica. Non è una qualunque. Hai il dovere di essere sincero con lei.» Lui avvertì un senso di nausea, lo stesso che aveva provato da adolescente quando aveva sfogliato certi libri di religione che erano in casa, vecchi volumi polverosi che dovevano essere appartenuti ai nonni. «Pentiti dei tuoi peccati... Esponi la tua anima a Cristo...» Le domande, e le risposte, partivano ognuna dal presupposto che tutti fossero peccatori, a quanto pareva, sin dalla nascita. Ma lo erano davvero? La cosa peggiore a cui lui era riuscito a pensare era stata la masturbazione, ma poiché al tempo stesso aveva sfogliato anche alcuni libri di psicologia in cui si diceva che essa era normale e naturale, cosa rimaneva? Lui non considerava peccato o crimine ciò che aveva fatto quella notte, qualora, naturalmente, avesse ucciso quell'arabo, cosa non del tutto certa fino a quando il corpo non fosse stato effettivamente trovato. Disse: «T'ho detto tutto quello che so su quella notte. Non ammetto che Ina sia turbata da ciò che tu le dici, Francis. Era necessario rovinarle in tal
modo parte del piacere della vacanza?» «Via, lei ha capito quel che intendevo dire,» rispose Nosiste, tranquillo. Non s'era seduto. «È una ragazza con delle convinzioni morali, sai. Be', non mi piace usare la parola 'religiosa' ma ha certe sue idee su Dio, onestà e coscienza.» Strano vedere un predicatore in Nosiste proprio in quel momento, scalzo com'era, con le gambe nude, una specie di Giovanni Battista, che agitava un barattolo di birra color rame. «Capisco cosa intendi dire. Sì, Ina mi ha detto che ultimamente ha preso a frequentare la chiesa.» Non voleva ammettere che lei gli aveva detto poco in sostanza e gli seccava che - indubbiamente incoraggiata a parlare sull'argomento - avesse forse detto a Nosiste molto più di quanto aveva detto a lui. «Ha una brutta croce, come suol dirsi, in quel suo fratello handicappato. Gli è molto attaccata.» «Sa cosa significa avere la coscienza pulita.» Anch'io lo so, avrebbe voluto replicargli. Era irritato e annoiato. «Tu e Ina dovreste sposarvi. So che ti ama. Ma tu devi prima metterti in pace con te stesso, Howard. Poi con Ina. Tu credi di poter nascondere lo sporco sotto il tappeto, di nasconderlo alla vista... forse perché ti trovi in Tunisia. Ma non è da te, Howard.» Ora Nosiste stava parlando proprio come nei suoi nastri. «Senti,» fece lui, alzandosi. «Se non sbaglio tu mi stai accusando di aver colpito quell'arabo, quella notte. Addirittura di averlo ucciso. Allora, perché non lo dici chiaramente?» Nosiste assentì, con un sorriso del secondo tipo, gentile, assorto, all'erta. «D'accordo, lo dico. Credo che tu l'abbia colpito con qualcosa o gli abbia lanciato contro qualcosa. Potrebbe essere stata una sedia, ma i francesi hanno detto che produsse un suòno metallico, come una macchina per scrivere, per esempio. E credo che l'uomo sia morto, subito o in seguito. Soprattutto, credo che tu abbia vergogna di ammetterlo. Ma sai una cosa?» Lui gli lasciò fare quella pausa drammatica, lunga finché gli piacque. «Tu non avrai pace finché non avrai confessato. Neppure Ina avrà pace. Non mi meraviglia che sia preoccupata. Potrà essere una sofisticata newyorkese, come te del resto, ma non si sfugge alle leggi di Dio che regolano la nostra esistenza. E non è necessario essere bigotti per sapere queste cose.» Lui continuò a tacere. Era forse un po' stordito da quelle parole. «E un'altra cosa ancora,» fece Nosiste, spostandosi verso la porta chiusa e poi allontanandosene. «Il problema è tuo. Sta dentro di te. Non occorre
tirare in mezzo la polizia. È questo che rende il caso tanto diverso dalla maggior parte di... simili incidenti. Il problema è veramente tuo... e di Ina.» E non tuo, pensò lui. «Verissimo, il problema è mio, se c'è...» «Allora ammetti?» «... se c'è un problema. Perciò desidero, per me e per Ina, che tu non insista più in questo modo, Francis.» Lo disse con voluta gentilezza. «Vorrei mantenere la nostra amicizia. Se vai avanti così, non sarà possibile.» «Bene-bene!» Nosiste spalancò le braccia con aria innocente. «Non capisco perché dici questo, visto che sto cercando di fare il possibile per renderti più felice... più felice con la ragazza che ti ama, a onor del vero! Aah!» Represse la propria rabbia. Non era stupido infuriarsi ora per le parole di quell'imbecille quanto lo era stato per i. suoi nastri? Si disse di non metterla su un piano così personale. Eppure, eccolo lì in carne e ossa quel Nosiste, e le sue parole erano state dirette a lui personalmente. «Credo che sia meglio non parlarne più,» disse, sentendo di mostrare più controllo di chiunque altro al suo posto. «A-ah. Bene. Questo dipende da te e dalla tua coscienza.» Sembrava la voce della saggezza. Fu l'ultima goccia per lui. L'ironico, stupido senso di superiorità di quelle parole fu più di quanto riuscisse a sopportare. Mise giù di colpo il bicchiere con dentro ancora un dito di Coca. «Bene, me ne vado, Francis. Grazie per la Coca.» E la maniera in cui quel Nosiste lo salutò fu anche irritante. Tenendo aperta la porta, fece un leggero inchino e gli sorrise raggiante, come a un neo convcrtito da lui appena imbottito di propaganda che stava per andare a casa a assimilarla, giusto per essere ancora più cedevole la volta successiva. Prima di arrivare alla macchina, riuscì con uno sforzo a girarsi, sorridere e salutare con un cenno della mano Adams fermo sulla soglia. Ora però aveva voglia di parlare con Jensen. Tuttavia si disse che era sciocco correre dall'uno all'altro, cosicché una volta giunto a casa, pur sentendo che Jensen stava sopra, se ne rimase per conto suo. Si tolse i calzoni e si buttò sul letto, dove stette a guardare il soffitto. Adams non avrebbe mollato mai, pensò, ma dopotutto lui non sarebbe rimasto per sempre in Tunisia. In realtà, poteva andarsene anche l'indomani, con Ina, se solo voleva. Ma sarebbe sembrata una specie di «ritirata», e lui non voleva certo dargli neppure quella piccola soddisfazione a Nosiste. Si asciugò il sudore
dalla fronte. Poco prima dell'ora in cui avrebbe rivisto Ina si sarebbe fatta una doccia col secchio. Poteva anche andare alla spiaggia, a un paio di centinaia di metri di distanza, e fare una nuotata, ma non ne aveva voglia. A un tratto un pensiero lo fece saltar su. Che cosa aveva chiesto Ina a Jensen quella mattina a proposito di Abdullah? Aveva visto infatti il danese subito dopo aver parlato con Nosiste sulla spiaggia. «Ehi, Anders!» chiamò. «Sì?» «Verresti giù per un goccio?» «Due minuti.» Jensen stava certamente lavorando. Preparò i bicchieri e quando ritornò nella stanza grande il danese stava in piedi accanto al tavolo, con una faccia abbastanza allegra. «Hai avuto una bella giornata?» «Abbastanza. Ho intenzione di lavorare stasera.» Porse al danese il suo bicchiere. «Ho appena avuto una bella seduta con Nosiste. Mi sento come se fossi stato in chiesa.» «Come mai?» Si ricordò che non poteva dire a Jensen delle trasmissioni settimanali pro Dio e America di Nosiste. Peccato, perché avrebbe aggiunto comicità e anche una certa forza alla sua storia. «Sta cercando di esercitare una certa pressione morale su di me perché ammetta che ho colpito Abdullah alla testa. Ma quel che mi dà più fastidio è il fatto che sta insufflando Ina. Le sta dicendo che devo essere stato per forza io, perché la cosa successe sulla mia veranda e solo io» - vide Jensen scuotere la testa seccato - «potevo aver fatto qualcosa, e dice che è meglio che io lo confessi a Ina e mi metta in pace con la mia coscienza.» «Oh, merde e stronzate,» esclamò Jensen. «Ma non ha altro da pensare? Così ti ha fatto una predica.» Il danese s'appoggiò al tavolo, sollevò un piede nudo sulla punta delle dita e scoppiò a ridere. «L'ha fatta, invocando Dio, parlando di pace col Signore e via dicendo... A proposito, che ti ha chiesto stamattina Ina?» «Ah.» Jensen guardò nel vuoto, come se cercasse di ricordare. «A quanto pare aveva appena parlato con Nosiste.» «Lo so.» «Be', mi ha chiesto... sì... se pensavo che tu avessi colpito il vecchio con qualcosa.» Improvvisamente Jensen sembrò aver sonno. «Dovrei dormire prima di mettermi a lavorare. Questo goccio aiuterà.» Lui avrebbe voluto fargli altre domande ma se ne vergognò. Sentiva che
stava diventando meschino e limitato come Adams. «A proposito, Nosiste e Ina hanno entrambi pensato che io abbia lanciato contro Abdullah la mia macchina per scrivere.» Jensen sorrise. «Davvero? Ma dove l'hai visto Nosiste oggi?» «Sono andato da lui. Dopo che ho accompagnato Ina all'albergo. Volevo dirgli di piantarla di importunarla con tutte queste storie.» «Sai cosa dovresti fare, amico? Portarla via da qui. Personalmente, a Mister Adams io direi di andarlo a prendere, ma temo che tu sia troppo educato.» «Gli ho detto di piantarla. In realtà lui non fa altro che montarmela contro. Non dico che lo faccia apposta, ma... Continua a dire che la coscienza mi rimorde. Non è vero.» Jensen parve impassibile. «Vattene con Ina da qualche parte per un paio di settimane. Non sarà un problema. Oggi ho ricevuto un pacco da casa. Te lo mostro.» Andò di sopra. Un attimo dopo ritornò con una scatola di cartone. «Una quantità di biscotti e questo.» Tolse la stagnola da un pan di zenzero a forma d'uomo lungo una trentina di centimetri e munito di cappello, giacchetta e bottoni di glassa gialla. Lui Ingham stette a guardarlo affascinato. Era diverso dagli ometti di pan di zenzero americani. Gli faceva pensare ai freddi Natali scandinavi, all'odore degli abeti e al canto di bambini dai capelli d'oro. «Ma è un'opera d'arte! Perché te l'hanno mandato?» «La settimana scorsa è stato il mio compleanno.» «Perché non me l'hai detto?» Accettò uno degli elaborati biscotti. Jensen disse che li aveva fatti sua madre o sua sorella. «E queste,» aggiunse il danese. Armeggiò nella scatola, di lato, finché tirò fuori un paio di babbucce foderate di pelliccia. La parte esterna della pelliccia era decorata con ricami azzurri e rossi. «Non sono molto adatti alla Tunisia, ti pare?» Di colpo lui fu preso da un tale desiderio di visitare quella parte del mondo da cui veniva Jensen che per un po' non riuscì a aprir bocca. Prese le babbucce in mano e le annusò: un fresco odore d'animale, di pelle nuova, e il vaghissimo profumo dei biscotti insieme con i quali erano state impacchettate. La serata a La Goulette non fu né un successo né un disastro. Disse a Ina che era andato a trovare Nosiste perché voleva dirglielo lui prima che lei lo
apprendesse da Adams, ma anche allora - in quegli ultimi tempi Nosiste era diventato tanto svelto - non fu neppure sicuro che Ina già non lo sapesse. Non lo sapeva. «Immagino che gli avrai detto di... non parlarmi più di quella notte di Abdullah,» fece lei. «Be', sì... gliel'ho detto. Lui ne sa poco quanto chiunque altro. Be', non chiunque altro. I ragazzi dell'albergo sanno di più.» «Hai parlato con loro?» «Credevo di avertelo detto. Ho cercato di scoprire qualcosa da Mokta. Dice che non sa niente, del grido e di tutto il resto.» Gli venne fatto di pensare in quel momento che Jensen con il suo arabo passabile avrebbe potuto sapere qualcosa da Mokta o dagli altri. Ciò che a lui interessava sapere era se c'era stato o no un cadavere. Ina non parlava. «Ti piacerebbe andare da qualche parte? Djerba, per esempio. Voglio dire, fermarci in albergo lì? Tutt'e due?» «Ma non hai detto che stai lavorando?» «Il lavoro può aspettare. Hai solo pochi giorni di vacanza.» Questo, immaginò immediatamente, risvegliava l'interrogativo se lui sarebbe andato via con lei. Le cose non erano più al loro posto. Aveva pensato di chiederle di sposarlo e di sistemare definitivamente la questione della partenza. Il che significava, ovviamente, andare a Parigi insieme quando sarebbe partita lei. Doveva parlarle di matrimonio quella sera? O lei lo dava per scontato? Si guardò intorno: stavano seduti al tavolo di un ristorante all'aperto dopo aver mangiato un poisson-complet pessimo. I camerieri con i vassoi carichi urlavano ai mendicanti e ai bambini questuanti di togliersi dai piedi. La luce era fioca al punto che a malapena erano riusciti a leggere il menù. Non parlò di matrimonio quella sera. Ma ritornò con lei all'albergo. Bevvero un ultimo goccio nella sua camera e stettero insieme un paio d'ore. Fu bello quasi come la prima volta, dopo l'arrivo di lei, e lui si sentì un po' più sereno. Era un bene? Ma si sentì anche triste e depresso quando se ne andò. La baciò, lì distesa nel letto. «Domani alle nove e mezzo,» disse. «Andremo da qualche parte. In macchina.» 22
Alle otto della sera dopo era allo stesso punto della sera prima, per quanto riguardava Ina. Sfax le era piaciuta; aveva letto della sua moschea dell'undicesimo secolo e dei mosaici romani sulla Guide Bleu, e tuttavia lui aveva avvertito una certa riserva da parte sua, il che era bastato a privarlo di iniziativa e entusiasmo. Trovò un regalo per suo fratello Joey, un portamatite e pennelli di pelle azzurra. Avevano noleggiato una barca a remi abbastanza pesante e avevano fatto un giro, con lui ai remi. Avevano fatto il bagno e avevano preso il sole distesi. Avrebbe voluto chiederle quale chiesa aveva preso a frequentare a Brooklyn. Una chiesa certamente non cattolica, ne era più che sicuro; la famiglia di lei, infatti, era vagamente protestante. E tuttavia non era riuscito a chiederglielo. A Sfax aveva comprato del pesce affumicato, olive nere e un buon vino francese, e l'aveva invitata a cena da lui quella sera. Jensen prese l'aperitivo con loro ma non volle restare a cena. Di piatti ormai ce n'erano abbastanza, oltre a tre coltelli e tre forchette. Il sale era ancora del tipo grosso, comprato di fretta un giorno, e lo teneva in un piattino, umido. Sul tavolo c'erano due candele infilate nel collo di due bottiglie. Rise. «Il romantico lume di candela. E fa così caldo che dobbiamo tenerle in fondo al tavolo!» Ne spense una con le dita, bevve un sorso dell'ottimo vino rosso e disse: «Ina, andiamo insieme a Parigi?» «Quando?» Era un po' sorpresa. «Domani. O dopodomani, magari. Passiamo lì l'ultima parte della tua vacanza... Tesoro, io voglio sposarti, voglio stare con te. Non voglio starti lontano neppure una settimana.» Ina sorrise. Nessun dubbio che fosse contenta, felice. «Sai, potremmo sposarci a Parigi, sorprendendo tutti al nostro ritorno a New York.» «Ma non volevi finire il tuo libro qui?» «Il libro! L'ho quasi finito. Continuo a dirlo, lo so, ma procedo sempre lentamente quando giungo alla fine di un libro. È come se mi dispiacesse finirlo. Ma conosco la conclusione. Dennison va in prigione per un breve periodo, viene curato da uno psichiatra e quando alla fine verrà fuori ricomincerà tutto daccapo... La fine non è un problema.» S'alzò e la circondò con un braccio. «Vuoi sposarmi, cara? A Parigi?» «Mi concedi qualche minuto?» La lasciò andare. «Certo.» Era sorpreso e vagamente deluso. Sentiva di dover riempire in qualche modo quel silenzio. «Sai... Non ti ho mai parlato
di John di proposito. Anzi, spero di non aver parlato molto in genere. Immaginavo infatti che preferissi così.» «È vero, infatti. Ho detto che è stato uno sbaglio e uno sbaglio resta, in realtà.» Lui ebbe l'impressione che la mente avesse preso a vorticargli, sorvolando sui fatti senza sceglierne nessuno. Sentiva che qualsiasi cosa dicesse finisse con l'avere enorme importanza, e non voleva dire cose sbagliate. «Lo ami ancora... più o meno?» «No. Certo che no.» Si strinse nelle spalle, imbarazzato, ma forse lei non lo vide perché stava guardando dritto sul tavolo. «Allora, di che si tratta? O preferisci aspettare fino a domani, per parlare?» «No, non è necessario aspettare fino a domani.» Lui tornò a sedersi al suo posto. «Ho la sensazione che tu sia cambiato,» disse lei. «In che modo?» «Sei... sei come indurito. Sei...» Guardò verso il soffitto, in direzione delle stanze di Jensen. «Sembra che lui abbia molta influenza su di te, e non è altro che... be', un barbone o quasi.» Non parlava a bisbigli perché entrambi sapevano che Jensen era uscito. Lui capì che si tratteneva dal dire ciò che veramente desiderava dire. «No, non lo è. La sua origine è ben diversa.» «Ha forse importanza l'origine?» «Mia cara Ina, io non conosco da molto Anders e, probabilmente, entro pochi giorni non lo rivedrò più.» «Mi vuoi dire cosa accadde esattamente la notte in cui l'arabo... Insomma, cosa fece? Cercò di entrare nella tua stanza? Nel bungalow?» Distolse lo sguardo da lei. Si pulì la bocca col tovagliolo, che era poi uno strofinaccio di cucina. «Inseguirei a calci quel Francis Adams da qui al Connecticut,» disse. «Un troietto di ficcanaso, quest'è. Non sa fare altro che cianciare.» Ina non replicò, continuò a guardarlo. Una profonda rabbia fece tacere anche lui. Dopo tutte le brutte cose che avevano affrontato, la faccenda di John Castlewood, lo struggimento per Lotte che a momenti lo distruggeva anche dopo aver conosciuto Ina, dopo che tutto quello era stato superato ecco che ora gli capitava quella cosa cretina. Era stanco di affermazioni, di chiacchiere. Non disse niente. Ma si re-
se perfettamente conto che quello di Ina era stato un ultimatum. Era come se avesse detto: «A meno che tu non mi dica quello che è successo, o che lo hai ucciso, se lo hai ucciso, io non ti sposo.» Sorrise alla bizzarria della cosa. Che importanza aveva quell'arabo? Non salì su da lei quando l'accompagnò all'albergo quella sera. E, una volta tornato a casa, non riuscì a chiudere occhio. Ma non volle darvi importanza. In effetti, s'alzò e si riscaldò un caffè. Jensen era rientrato verso le dieci, li aveva salutati e aveva dato la buonanotte, dopodiché se n'era andato di sopra. La sua luce era spenta adesso. Era passata da poco l'una. Stava disteso sul letto. E se le avesse detto la verità? Non l'avrebbe necessariamente riferita a Nosiste. In effetti, gli sarebbe seccato se lei l'avesse fatto. Ma non aveva deciso, alcuni giorni prima, di non dirlo mai neppure a lei? A questo punto, però, se non glielo diceva - e era chiaro che lei ormai lo sospettava d'aver ucciso quell'uomo - l'avrebbe perduta, e questo lo terrorizzava. Se solo s'immaginava senza di lei aveva anche la sensazione di aver perso tutto, morale, ambizione, persino amor proprio. Si drizzò a sedere in mezzo al letto, seccato dal fatto che se avesse detto la verità a Ina si sarebbe trovato automaticamente nella posizione di chi in tutti quei giorni le aveva mentito pur guardandola dritto negli occhi. Evidentemente non aveva saputo mentire, altrimenti lei non avrebbe insistito a interrogarlo; era però riuscito a passare per vigliacco e disonesto. Insomma, un dilemma. Aveva voglia Jensen di dire «Che importanza ha quel bastardo?»: la cosa aveva finito con l'importare e come. Oppure dipendeva dal fatto che era tardi? Si sentiva stanco. Cerca di pensare alla cosa con obiettività, si disse. Si vide nel buio del bungalow quella notte, spaventato dalla porta che s'apriva (e in realtà era convinto che chiunque altro al suo posto si sarebbe spaventato), già seccato e allarmato com'era dal furto precedente proprio lì nel bungalow. Chiunque al Suo posto non avrebbe afferrato qualcosa e non l'avrebbe lanciato? Poi immaginò l'arabo vivo, in carne e ossa, un tipo molto noto, moralmente e legalmente parlando importante quanto... il presidente Kennedy. Era sicuro al novanta per cento di aver ucciso quell'arabo. Aveva cercato di rimuovere quella consapevolezza e, inoltre, di minimizzare la cosa dicendosi che l'arabo se l'era meritata, o che era una nullità, ma mettiamo invece che avesse ucciso un nero o un bianco nelle medesime circostanze negli Stati Uniti: un uomo con molti precedènti in fatto di furti, mettiamo. Qualcosa sarebbe successo. Un processo, magari, per quanto breve, per quanto
seguito dall'assoluzione dall'accusa di omicidio, ma non già niente come lì. Non avrebbe potuto aspettarsi, in America, di trovare gente consenziente e disposta a toglier di mezzo un cadavere e a non farne parola. Nonostante la vergogna della cosa in sé, pensò che avrebbe dovuto dire la verità a Ina. Avrebbe dovuto dirle della propria paura quella notte ma anche del proprio sentimento di odio. E non avrebbe dovuto cercare di scusarsi per averle mentito. Sulle prime, immaginò, lei sarebbe rimasta scossa ma alla fine avrebbe capito perché era successo e in sostanza lo avrebbe giustificato e scusato, non lo avrebbe biasimato affatto. Sì, in quel momento gli sembrò possibile che Ina non lo biasimasse, perché lei voleva solo la soddisfazione di conoscere la verità. Accese la luce e, subito dopo, una sigaretta. Accese poi la radiolina e ne esplorò il quadrante in cerca di musica o di una voce umana. Incappò in una voce profonda, americana, che stava dicendo: «... pace nei confronti di tutto.» Un tono suadente. «L'America è stata sempre un paese che ha teso in amicizia e buona volontà la mano a tutti i popoli, quale che fosse il colore della loro pelle e il loro credo, una mano in aiuto di chiunque ne avesse bisogno, per respingere l'oppressione, per aiutare a aiutarsi da soli e a vincere la guerra alla povertà...» E va bene, pensò disgustato, allora restituiamo la terra agli indiani. Che splendido inizio, dritto in casa. Ma non un pezzo di schifoso deserto che nessuno vuole bensì una terra decente che abbia del valore. Come il Texas, per esempio. (Ma no, perdio, il Texas l'America l'aveva tolto ai messicani.) Allora l'Ohio. Dopotutto, il nome stesso dello stato veniva dagli indiani, dal fiume che essi avevano chiamato in quel modo. «... ciò che ogni uomo che indossa la divisa dell'esercito, della marina e dell'aviazione degli Stati Uniti sa, e cioè che al privilegio di combattere per gli Stati Uniti d'America s'accompagna la responsabilità di difendere la santità della giustizia umana, su qualunque lido egli si trovi...» Spense l'apparecchio con tanta rabbia che gli restò la manopola in mano. La lanciò allora a terra, sul pavimento, sui cui mattoni quella rotolò e scomparve da qualche parte. Quel servo della Voce dell'America o forse della Radio delle Forze Armate Americane rimpinzato di bistecche e martini non era Nosiste, ma quelle parole avrebbe potuto pronunciarle benissimo lui. Una tiritera di stupidate fatta per riempire orecchi indifferenti, che magari faceva anche ridere qualche americano in Europa, insomma una solfa che la gente doveva sopportare sino al disco da ballo successivo. Eppure la cosa doveva pur avere qualche effetto altrimenti avrebbero smesso, perciò non doveva mancare chi abboccava. Un pensiero, questo,
abbastanza sgradevole per lui, alle due e venticinque di notte. Pensò a Nosiste, a meno di due chilometri di distanza, che pensava la stessa solfa e la trasmetteva, e veniva anche pagato. Questo lui certamente non l'avrebbe negato. Pagato dai russi. Ma forse quel finfero ne ricava solo un dieci dollari al mese. S'agitò sui letto e concluse che il mondo era pazzo e lui per primo non era normale. Il ricordo dei primi momenti passati quando aveva messo piede sul suolo tunisino gli ritornò di colpo. All'aeroporto. L'improvviso, scioccante calore dell'aria. Una mezza dozzina di unte scimmie arabe che guardavano intensamente i passeggeri, e lui, con facce che gli erano parse corrucciate e ostili. In seguito, s'era però reso conto che quella era l'espressione normale della maggior parte degli arabi. S'era sentito esposto allora, disgustosamente pallido, e per i primi spiacevoli secondi aveva pensato: «Deve odiarci questa gente dalla pelle più scura. Questo è il loro continente e cosa veniamo a fare noi qui? Ci conoscono, e non ci vedono nella luce migliore, perché il bianco è già stato in Africa prima.» Per qualche attimo aveva provato una effettiva paura fisica, quasi un terrore. La Tunisia, quel piccolissimo paese, sulla carta non molto più a sud di Marsiglia (e tuttavia quanto diversa), che Bourguiba aveva definito nient'altro che un francobollo sull'enorme pacco postale del continente africano. Si accorse di essere in una condizione stranamente delicata. All'improvviso ebbe un pensiero: parlare a Mokta prima che gli parlasse Ina. Non poteva chiedere a Jensen di farlo. Forse sarebbe stato inutile, e tuttavia questa volta Mokta avrebbe potuto dirgli la verità, il fatto cioè - se fatto era - che quella notte Abdullah era stato ucciso. Perché, pensò, avrebbe infatti dovuto dire a Ina di aver ucciso se ucciso non aveva? 23 Era sabato. Con Ina non aveva nessun appuntamento. Aveva intenzione di chiamarla in albergo prima di mezzogiorno, per vederla eventualmente o per lasciarle un messaggio con appuntamento per la cena. Aveva la sensazione che lei forse desiderasse passare almeno una giornata senza vederlo. D'altro canto, però, non era neppure sicuro, poteva trattarsi di una sensazione sbagliata. Ormai non era più sicuro di niente. In parte attribuiva tale insicurezza al fatto d'aver dormito male quella notte e, soprattutto, a un paio di sogni inquietanti. In uno di essi s'era trovato a aiutare a ripulire la facciata di un tempio greco dissepolto. Stava con un gruppo di persone che
dovevano togliere le incrostazioni di fango dalle colonne corinzie, e si trovava a testa in giù in cima a una colonna alla quale si teneva aggrappato unicamente per le ginocchia, le quali presto avrebbero ceduto facendolo precipitare da quella altezza giù sulle pietre sottostanti. Aveva continuato a lavorare, grattando con poca efficacia il fango umido con uno strumento a forma di conchiglia, e per fortuna il sogno era finito prima che cadesse, ma era stato molto reale e ne era rimasto impressionato. Mentre s'avviava, attraverso gli stretti vicoli, verso la macchina avvertì ancora la morsa della paura, come se la terra potesse improvvisamente aprirglisi sotto i piedi facendolo precipitare in una fatale profondità. Erano poco più delle dieci. Pensò che Mokta dovesse aver finito di servire le colazioni. Sperava di non vedere Ina. Era più probabile che vedesse invece Nosiste, il cui bungalow era lì vicino. Sulla veranda della direzione dei bungalows uno solo dei tavoli era occupato. Un uomo e una donna in calzoncini s'attardavano sui resti della prima colazione. Fece il giro e andò alla porta di servizio, che era sempre aperta. Uno dei ragazzi stava lavando i piatti nel lavello, un altro stava armeggiando con il grande bricco sul fornello. Si voltarono e alla vista di lui sulla soglia parvero fermarsi di colpo, come se s'aspettassero d'essere fotografati. «Sabahkum bil'kheir,» disse lui, e cioè Buongiorno, una delle poche frasi che aveva imparato. «C'è Mokta?» «A-ah.» I ragazzi si scambiarono un'occhiata. Poi uno di loro disse: «È andato a chiamare l'idraulico. C'è un cesso rotto. Una quantità d'acqua.» «In quale bungalow, lo sai?» «Laggiù.» Il ragazzo indicò verso l'albergo. Passò davanti alla Cadillac di Nosiste e alla propria Peugeot, cercando tra i tronchi degli agrumi la figura snella e lesta di Mokta. Poi in un bungalow sulla sua sinistra udì la voce. Mokta comparve sulla porta di dietro del bungalow: stava parlando in arabo a qualcuno nella cucina. Lui lo salutò con un gesto della mano. «Ah, M'sieur Ingham!» esclamò Mokta con un sorriso. «Comment allezvous?» Eccetera. Lui lo rassicurò che il proprio appartamento era ancora accogliente. «Hai un momento libero?» «Ma certamente, m'sieur.» Non sapeva dove andare. Non voleva certo portar via Mokta nella sua
macchina perché questo avrebbe attribuito troppa importanza alla loro conversazione. D'altro canto, dovunque fossero andati, o quasi, qualcuno avrebbe origliato. «Andiamo lì per un attimo.» Indicò uno spazio vuoto tra due bungalow. Più oltre, la sabbia scendeva in pendio verso la spiaggia. Lui indossava i calzoni di tela bianca (che già gli davano caldo) e le vecchie scarpe di tela bianca nelle quali la sabbia s'infiltrava fastidiosa. «Devo chiederti una cosa.» «Oui, m'sieur,» rispose il ragazzo, attentissimo, un'espressione impassibile e tuttavia pronto. «Riguarda quella notte... la notte in cui quell'arabo fu colpito alla testa. L'arabo che pare fosse Abdullah.» Il francese on croit non era infatti attribuibile a nessuno in particolare. «Era davvero Abdullah?» «M'sieur, io... io non ne so niente.» Mokta incrociò le mani sottili sul petto. «Via, Mokta. Tu sai che uno dei ragazzi - Hassim - ha detto a M'sieur Adams che c'è stato un uomo quella notte. I ragazzi lo hanno portato via. Quello che vorrei sapere da te è: quell'uomo è morto?» Gli occhi del ragazzo si spalancarono ancora di più, tanto da farlo sembrare leggermente spaventato. «M'sieur, ma se non so neppure chi era? Io non ho visto il corpo, m'sieur.» «Dunque c'era un corpo?» «Ah, non, m'sieur! Io non lo so se c'era un corpo. Nessuno me ne ha parlato. I ragazzi non mi hanno detto niente. Niente!» Non era vero, stramaledizione, e lui lo sapeva benissimo. Guardò impaziente verso la veranda della direzione dei bungalows con la sua lunga tenda doppia. «Non voglio mettere nessuno nei guai, Mokta.» E si rese immediatamente conto che se non fosse stato in Tunisia, se non fosse stato un turista, quella era la frase più sciocca da dire. «Conosci Abdullah?» «No, m'sieur... Conosco poca gente di qui. Io sono di Tunisi, sa.» Gliel'aveva già detto infatti. Ma lui sapeva che i ragazzi ne avevano parlato, chiunque fosse stato, Abdullah o forse qualcun altro, il cui nome alla fine certamente avevano scoperto. «Mokta, è importante per me. Solo per me. Per nessun altro. Ti darò dieci dinari se mi dici la verità. Se c'era un cadavere.» Pensò che dieci dinari fossero una somma convincente per Mokta. Corrispondeva grosso modo a mezzo stipendio. L'espressione del ragazzo non mutò, continuò a tenere gli occhi spalancati e lui sperò che dentro di sé fosse combattuto. Alla fine Mokta scosse il
capo. «M'sieur, potrei dire qualunque cosa per guadagnarmi quei soldi. Ma non lo so.» È un bravo ragazzo, concluse lui. Sapeva ma doveva aver dato la propria parola ai compagni, e stava mantenendola. «Va bene, Mokta. Non ne parliamo più.» Il sole s'era trasformato in un peso dorato sul suo cranio. Quando s'avviò verso la direzione dei bungalows, vide che uno dei ragazzi aveva smesso di sparecchiare uno dei tavoli della veranda per guardare verso loro due. Mokta penserà che per avergli offerto dieci dinari la cosa dev'essere molto importante per me, si disse. Immaginò che l'avrebbe raccontato ai suoi amici e magari avrebbe aumentato la somma a venti dinari. Contemporaneamente, si rese conto che questo lo esponeva a ricatti: per quale motivo infatti avrebbe dovuto offrire soldi? Non se ne preoccupò. Forse perché pensava di andarsene al più presto, o perché non credeva che qualcuno di quei ragazzi fosse tanto in gamba da effettuare un ricatto? Neppure questo gli parve tanto importante da meditarci sopra. «Lei lavora sempre molto, m'sieur?» chiese Mokta mentre raggiungevano il tratto piano di sabbia davanti alla veranda della direzione dei bungalows. Non gli rispose perché proprio in quel momento vide Ina venire dalla direzione del bungalow di Nosiste, in vestaglietta corta con cintura e sandali. Vide la sua macchina poi si guardò intorno e vide lui, che la salutò con la mano. «La sua amica americana,» disse Mokta. «Au revoir, m'sieur!» e schizzò via verso la porta della cucina. Andò incontro a Ina. «Una visita a Francis?» «Mi ha invitata alla prima colazione,» disse lei, sorridendo. «E tu, passeggiavi?» «No. Sono venuto a vedere se c'era posta non inoltrata. Poi sarei venuto da te... o t'avrei lasciato un biglietto.» Le era al fianco adesso, abbastanza vicino da notarle sulla guancia le lentiggini che le erano spuntate da quando era lì. Ma avvertì tra loro due la stessa distanza che aveva avvertito la sera prima. Lei lo guardava con un'espressione cortese e affabile, come se fosse uno sconosciuto. Si sentì infelice. «Quello è il tuo amico arabo... quel ragazzo, vero? Quello che mi ha portato il bagaglio il primo giorno?» «Sì, Mokta. È quello che conosco meglio di tutti. Mi piacerebbe parlarti. Possiamo andare nella tua stanza?»
«Che ti succede, caro? Hai gli occhi infossati.» Si diresse verso la macchina di lui. «Ho letto fino a tardi.» In macchina, non dissero niente. L'edificio principale non era lontano. «Come sta Francis?» le chiese, mentre parcheggiava. «Sempre simpaticone?» All'improvviso si chiese se Nosiste aveva mostrato a Ina la valigia con i nastri e se le aveva fatto giurare di non parlarne a nessuno, neppure a lui. Sarebbe stato proprio divertente. «Già, sono piena fino all'orlo dell'allegria di Nosiste,» rispose lei, sorridendo. «Vorrei conoscere il suo segreto.» La fantasia, pensò lui. Le illusioni. La seguì nell'interno dell'albergo. C'era una lettera per lei. «È di Joey.» Quando furono nella sua stanza, disse ancora: «Dammi il tempo di togliermi quest'affare di dosso,» e andò nel bagno, portandosi dietro una camicia e degli shorts. Lui rimase davanti alle persiane chiuse che davano sulla balconata chiedendosi da dove doveva cominciare. Ma pensare a un esordio, quando aveva qualcosa da dire, lo disorientava del tutto. Ina tornò nella stanza portando la camicia azzurra fuori dagli shorts. Prese una sigaretta. «Vuoi parlarmi?» «Sì, a proposito di quella notte. Non ti ho raccontato tutto. Infatti vidi qualcuno entrare e gli lanciai contro la macchina per scrivere, colpendolo alla testa. Era molto buio. Non sono sicuro che fosse Abdullah... ma credo che fosse proprio lui.» «Oh. E poi?» «Poi... chiusi la porta a chiave. Non l'avevo chiusa a chiave quella notte, me n'ero dimenticato. Aspettai per scoprire se c'era qualcun altro con lui ma udii soltanto... i ragazzi dell'albergo, i quali arrivarono e trascinarono via lo sconosciuto dalla veranda.» Andò nel bagno e bevve direttamente dal rubinetto dell'acqua fredda. All'improvviso aveva la bocca secca. «Vuoi dire che era morto?» «È proprio questo che non so. Ci credi o no, i ragazzi qui non vogliono dirmi niente. Ho appena interrogato Mokta, gli ho offerto dieci dinari perché mi dicesse se l'uomo era morto. Dice di non aver visto niente e che i ragazzi non gli hanno detto niente.» «È molto strano.» «No, non lo è. Mokta sa. Ha deciso di negare che ci sia stato qualcuno
qui quella notte. «Mandò un sospiro, confuso e stanco dell'argomento. «Vogliono mettere tutto a tacere, negare i furti. In Tunisia, voglio dire. Quanto a quel vecchio arabo, diciamo le cose come stanno: nessuno è disposto a far storie per la sua vita. Se è stato ucciso, beninteso. Credimi, non so, Ina. So che fu una brutta botta. Mi ammaccò la macchina per scrivere.» Lei non disse niente. Sembrava un po' più pallida in viso. «La polizia non comparve affatto. C'è una cosa che vorrei chiederti, Ina. «Si avvicinò a lei, rimasta in piedi. «Non far parola a Nosiste di questo, per piacere. Non sono affari suoi e servirebbe solo a farlo gongolare perché sospetta che qualcosa del genere sia accaduto. Non fa che dirmi che ce l'ho sulla coscienza, che dovrei dirlo alla polizia o qualcosa del genere, quando in effetti non ce l'ho affatto sulla coscienza.» «Ne sei sicuro? Si direbbe invece che l'hai preso abbastanza sul serio.» Si cacciò le mani nelle tasche dei calzoni di tela bianca. «Forse lo prenderei un po' sul serio... se l'avessi ucciso. Non è la stessa cosa che avercelo sulla coscienza. Quel tipo stava entrando nel mio bungalow, e forse non era la prima volta. Ho il diritto di lanciare qualcosa contro chiunque entri nella mia stanza di notte, in maniera furtiva, con intenzioni chiaramente ostili. Non si trattava di un altro cliente dell'albergo che aveva sbagliato bungalow.» «Sei riuscito a vedere che si trattava di un arabo?» «Credo che avesse un turbante in testa. Era una sagoma nera sulla soglia, mezzo piegata in avanti. Cristiddio, sono stanco stufo di questa faccenda.» «Credo che tu abbia bisogno di uno scotch.» Ina andò all'armadio. Gli riempì il bicchiere nel bagno, con uno spruzzo d'acqua. «Non leggi la lettera di Joey?» «Capisco dalla calligrafia che sta bene... A Anders gliel'hai detto?» «Sì. Solo perché lui conosce la Tunisia meglio di me. Gli ho chiesto cosa dovevo fare, come dovevo comportarmi. Mi ha detto di non far niente.» «E che la vita di quell'arabo non valeva niente... Strano paese.» «Non è strano. È che hanno la loro maniera di vedere le cose.» «Capisco un altro arabo che gli lancia contro qualcosa, ma da parte tua mi sembra un po' violento. Una macchina per scrivere!» Lo scotch gli diede sollievo. «Forse. Avevo paura. Sai, un paio di mesi fa stavo tornando da casa di Anders e, nel buio, inciampai in un uomo steso a terra nel vicolo. Accesi un fiammifero... e vidi che aveva la gola tagliata. Un arabo.»
«Che orrore!» Ina sedé sul bordo del letto. «Non volevo farne parola. È solo una storia raccapricciante e basta. Immagino che di queste cose qui ne succedano più che negli Stati Uniti. Anche se questo è discutibile.» Si mise a ridere. «E allora? Che facesti?» «Quella notte? Niente, purtroppo. La strada era buia, non c'era anima viva. Se avessi visto un poliziotto gliel'avrei detto, ma non ne vidi neppure uno. E... sì, quella fu anche la notte in cui vidi Abdullah aggirarsi intorno alla mia macchina, o meglio, la notte in cui sfilò la giacca di tela dal finestrino posteriore leggermente abbassato. In ogni modo, gridai e lui se la batté. Correva come un granchio.» «Ne parli come se fosse morto.» «È molto probabile. Ma se non ci riesco io a cavarglielo fuori da quel Mokta, offrendogli soldi e promettendogli di non dirlo alla polizia, pensi che la polizia riuscirà a cavarlo fuori da qualcuno?» «O da te?» «La polizia non mi ha chiesto niente.» Lei esitò. «Mio caro Howard, io credo che negli Stati Uniti saresti andato alla polizia giusto per proteggere la tua proprietà. E credo che non hai intenzione di farlo qui perché probabilmente hai ucciso quell'uomo. Indubbiamente qui è imbarazzante se...» «Meno imbarazzante, probabilmente.» «Non lo diresti alla polizia, negli Stati Uniti, se fossi convinto di aver ucciso un uomo?» «Sì, credo di sì. Ma... dovresti anche immaginarti gli amici del ladro - o magari gli amici miei - che trascinano via il corpo. Forse potrebbe succedere anche negli Stati Uniti, ma lì è un po' difficile liberarsi di un cadavere. Il punto è: perché dovrei andare a dire che ho ucciso qualcuno quando non è necessariamente vero? Il vero punto è...» «Ma hai appena detto che sei convinto che sia morto!» «Il vero punto è che il mio domicilio fu violato. Sì, certo, negli Stati Uniti serve denunciarlo. Ma qui, perché prendersi la briga? A che serve? Succede in continuazione.» Capì che questo argomento la irritava. «E qui i cadaveri basta seppellirli da qualche parte nella sabbia.» «Il vero punto è che come membro della società hai il dovere di denunciare la cosa. Sia qui che lì. Ti rimorderà se non lo fai.» «Non mi rimorde. Mi sembri Nosiste.» «Mi dispiace che non mi abbia detto tutto questo sin dall'inizio.»
Lui mandò un altro sospiro e mise giù il bicchiere vuoto. «Era una storia vaga quanto spiacevole.» «Anche quando i ragazzi trascinarono via qualcosa dalla tua veranda?» «Metti che Abdullah fosse soltanto stordito? Metti che se ne sia andato in un altro posto, considerato l'ostilità che lo circondava qui?» «Ho idea che, dopotutto, prenderò anch'io uno scotch,» disse Ina. Quando se lo fu versato, aggiunse: «E quelli dell'albergo? La direzione? Non sanno niente?» Lui sedé verso i piedi del letto. Lei s'era appoggiata contro il cuscino. «Lo dubito. I ragazzi non l'avranno denunciato perché spetta a loro tenere via i ladri dal recinto.» Si strinse nelle spalle. «Se la direzione sapesse non credo che lo riporterebbe alla polizia. Non vogliono che si diffonda la voce che ci sono i ladri nel Reine.» «Em-m,» fece lei, incerta. «Strano ragionamento. Tu però sei un americano. E queste cose vanno denunciate. Voglio dire i tentativi di furto. Magari, se l'hanno trovato morto, la polizia non ti farà niente. Stava entrando in casa tua, dopotutto. D'accordo. Ma devono avere un'anagrafe o qualcosa del genere, e probabilmente Abdullah risulta scomparso.» Lui sorrise, divertito. «Non riesco a vedere, qui, un'anagrafe organizzata e efficiente, proprio non ci riesco.» «Tu... non hai neppure preso in considerazione di denunciare il fatto,» proseguì lei. «L'ho preso in considerazione, invece, ma ci ho rinunciato.» Dopo aver parlato con Anders, aggiunse dentro di sé, ma non volle menzionare di nuovo Anders. Non era servito a niente dirglielo. Capiva benissimo che non sarebbe stata mai d'accordo con lui. Lui non era affatto pentito di non aver denunciato il fatto - soprattutto ora, a distanza di tempo, la cosa sembrava addirittura stupida - ma si chiese se quello non era per caso un altro ultimatum, un altro peso che doveva assumersi per farle piacere. «In vista delle atrocità che commettono in certe parti dell'Africa,» continuò, «arabi che massacrano neri a sud del Cairo, morti accolti con la stessa indifferenza che se si trattasse di mosche, non capisco perché mai ne stiamo facendo una storia tanto grossa. Io non ho ucciso quel tipo.» Le prese la mano. «Tesoro, non lasciamo che questo oscuri tutto il resto. Non preoccuparti, Ina, ti prego.» «Non sono io in verità a dovermi preoccupare... ma tu.» Lo disse scuotendo le spalle, guardando verso la finestra.
Quello scuoter di spalle lo ferì. «Ina, io voglio sposarti. Non mi va che ci siano... dei segreti tra noi. Tu volevi che ti dicessi la verità, bene, l'ho detta.» «Tu lo paragoni a degli africani o quel che sono che s'ammazzano tra loro. Ma tu non sei un africano. La trovo una sorprendente prova di insensibilità da parte tua. Vedendo - immagino - un uomo cadere, sapendo che l'hai colpito, proprio tu, non accendi la luce per vedere almeno cosa gli è successo?» «E essere colpito in testa a mia volta dai suoi compiici che potevano essere nascosti sulla veranda? Mettiti al mio posto. Avresti lanciato l'oggetto più pesante a portata di mano e avresti sbattuto la porta.» «Sì. Una donna forse sì.» «Allora non sono un eroe. Anzi, non sono neppure un uomo.» Si alzò. «Pensaci un po'. Fino a stasera. Immaginavo che oggi desiderassi star sola per un po'.» «Credo che farò così. Ho un paio di lettere da scrivere. Poi me ne starò al sole senza far niente.» Un minuto dopo se n'era andato: nel corridoio moquettato stava dirigendosi verso l'ampia scala. Si sentiva peggio che mai; peggio di quando le aveva mentito. Prima di arrivare al fondo della scala si fermò e guardò in alto, chiedendosi se non era il caso di ritornare su a parlarle. E tuttavia non riusciva a immaginare niente da dirle, niente che non le avesse già detto. Tornò a tutta velocità a casa, col pensiero fisso di parlare a Jensen. Il danese era in casa. Nell'aria calda s'avvertiva fortissimo l'odore della trementina. Jensen stava riscaldando del caffè già bollito. Lui gli raccontò del colloquio con Ina. «Chissà perché gliel'hai detto. Non potevi aspettarti che capisse. Non capisce questa parte del mondo. E poi, le donne sono in ogni caso diverse.» Attraverso un colino Jensen versò il caffè in due tazze. «A un uomo causare la morte di qualcuno può certamente non piacere, tuttavia può capitare. Durante la scalata di una montagna un errore fatto con la corda, un passo falso e via: il tuo compagno, magari un buon amico, è spacciato. Un incidente. Puoi senz'altro dire che anche il tuo è stato un incidente.» Lui si ricordò del braccio che reggeva la macchina per scrivere tratto indietro, del proprio sforzo per ottenere una mira perfetta. Ma sapeva anche cosa intendeva Jensen per «incidente». «Te l'ho detto perché gliel'ho detto. Ieri sera le avevo chiesto di sposarmi e lei praticamente mi ha detto che non voleva o non poteva fino a quando non le avessi detto la verità a pro-
posito di quella notte. Sapeva che non le avevo detto la verità, capisci?» «Em-m. Ora Adams ne sarà informato. Non mi meraviglierei se corresse a dirlo alla polizia. Con questo non è che devi preoccuparti.» «Ho pregato Ina di non dirglielo.» Ma ora non ricordava se lei gli aveva promesso di non farlo. «Sì...» S'allungò sul letto disfatto di Jensen e si tolse le scarpe di tela. «Cos'è, responsabilità sociale o semplice e schifosa ficcanasaggine?» «Schifosa intromissione nei fatti altrui,» ribadì Jensen, guardando con occhi quasi socchiusi la tela a cui stava lavorando. C'erano due enormi suole di sandali da cui spuntavano le punte di due alluci abbronzati. Tra i due sandali sporgeva, minuscola, una faccia araba. «Vado di sotto a dormire,» annunciò lui, «nonostante il tuo ottimo caffè. Stanotte ho avuto una nottataccia.» «Non lasciarti abbattere. Cristiddio, vedo che quella ragazza ti sta sconvolgendo.» Jensen all'improvviso s'era irrigidito, furente. Lui si mise a ridere. «La voglio, capisci? La amo.» «Figurati.» Giù di sotto, lui si lavò la faccia al lavello poi infilò i calzoni del pigiama. Mancavano dieci minuti a mezzogiorno. Ma non gli importava che ora fosse. Si distese sul letto e si tirò addosso il lenzuolo ma, come al solito, un minuto dopo lo scostò. L'ultima sigaretta. Per un po' si costrinse a pensare al romanzo. Dennison stava attraversando la sua quasi scontata crisi. Le sue appropriazioni indebite erano state scoperte. Era stupito, se non reso perplesso, dall'atteggiamento altrui. Ma peggio ancora per lui era il fatto che alcuni suoi amici fossero rimasti meravigliati per la sua «truffa» e lo avessero mollato, anche se poi in seguito gli avrebbero restituito i soldi ricevuti da lui. Due sere prima Ina aveva avuto un'idea: far restituire i soldi con gli interessi, eventualmente anche dopo un lungo periodo, in maniera che la banca di Dennison non potesse attribuirgli la perdita di quello che i soldi rubati avrebbero potuto rendere. Il totale arrivava a una cifra enorme. Spense la sigaretta. Si girò su un fianco e chiuse gli occhi. All'improvviso pensò a Lotte. Come al solito, provò un brivido spiacevole e insieme piacevole. Pensò a quando andava a letto con lei la sera, ogni sera, provandone sempre un delizioso piacere, che facessero o no l'amore. Fisicamente non s'era mai stancato di Lotte in quei due anni, e si ricordò adesso di aver sempre pensato che non c'erano motivi perché lui si stancasse di lei, nonostante ciò che dicevano alcuni a proposito della stanchezza che sempre subentra a un certo
punto. Non aveva mai litigato con Lotte. Strano. Forse perché non avevano mai parlato di cose complicate, come per esempio quelle che lui e Ina s'erano appena detti, e lui era stato sempre pronto a contentarla in tutto. Forse ora Lotte era più felice con quella specie di idiota estroverso che aveva sposato. Forse aveva persino deciso di fare un figlio. Sentì la porta di strada aprirsi, cigolare e stridere contro la soglia. Fatma, pensò, maledizione a lei. Poi bussarono alla sua porta. «Howard? C'è nessuno?» Era Nosiste. «Un momento.» S'infilò la giacca del pigiama. Detestava farsi vedere in pigiama. Stava per infilarsi le scarpe di tela ma ci rinunciò. Andò a aprire. «Ah! Dormiamo fino a tardi! Scusami se ti disturbo!» «No, m'ero rimesso a letto. Ho avuto una nottataccia.» Adams era in bermuda con camicia a strisce e uno di quei suoi berrettucci di tela. «Come mai?» «Il caldo, immagino. Si fa sempre più insopportabile.» «Sempre così agosto. Hai un minuto di tempo, Howard? È importante, credo,» disse, in tono vivace. «Certo. Siedi. Vuoi bere qualcosa? Una birra?» Nosiste accettò la birra. Lui andò a prendere due barattoli nel secchio d'acqua a terra. Ne sgorgò immediatamente fuori la spuma. Non erano molto fredde ma lui Ingham non si scusò. «Ho fatto colazione con la tua ragazza,» disse Nosiste, e quasi gongolava. «Sembrerà strano, ma l'ho incontrata sulla spiaggia stamattina e l'ho invitata a un paio di uova strapazzate.» «Bene.» Dunque Nosiste non aveva visto la sua macchina lì ai bungalows. Si mise a sedere sul letto. Adams s'era seduto invece sulla sedia accanto al tavolo. «Una ragazza molto intelligente. Una donna eccezionale. Va in chiesa, mi ha detto.» «Sì, te l'avevo detto. Da poco, credo.» «Protestante. Di St. Ann, mi ha detto. E mi ha anche detto di suo fratello.» Dove voleva arrivare? «È preoccupata per te. Ha detto che ha cercato di convincerti a lasciare questa casa e a prenderti un bungalow. Non fosse che per stare più a tuo agio.» «Non sto certo a disagio qui. Però capisco come a una donna non possa piacere.» «Mi dice che a Manhattan hai un bell'appartamento.»
Quell'osservazione gli diede fastidio, gli sembrò più o meno un'intromissione nella sua vita privata. E cosa avrebbe pensato quel Nosiste se avesse saputo che John Castlewood s'era ucciso proprio lì e, ancora e soprattutto, se avesse saputo il perché? «Ina se ne andrà tra una settimana, mi ha detto. Tu rimarrai, Howard?» «Non ne sono sicuro. Se il mio romanzo sarà finito - la prima stesura immagino che me ne tornerò a New York.» «Pensavo che forse te ne saresti tornato con lei.» Adams sorrise, affabile, e poggiò le mani sulle ginocchia nude. «In ogni modo, io non me la lascerei sfuggire se fossi in te.» Lui continuò a sorseggiare la birra. «E lei, ci tiene a non lasciarsi sfuggire me?» «Direi di sì.» Nosiste accennò una timida strizzatina d'occhio. «Sarebbe venuta in Tunisia se non ti fosse attaccata? Spero però che sarai sincero con lei. Sincero in tutto.» Di colpo lui pensò: a proposito di sincerità, Ina non gli aveva detto molto dei suoi sentimenti nei riguardi di John Castlewood. Avrebbe pur potuto fornirgli qualche particolare. «Forse la gente matura, quella della nostra età più o meno, ha sempre dei segreti. Io non so se gradirei che lei mi dicesse tutto del suo passato. Non capisco perché certe cose non possono restare sepolte in noi stessi.» «Forse. Ma bisogna pur sempre aprire il proprio cuore a chi si ama e ci ama. Aprirlo e metterlo a nudo.» Come sempre gli capitava quando stava a sentirlo, gli parve di vedere la cosa effettivamente, il cuore che si apriva, pieno di valvole inerti e grumi di sangue, come i cuori che vedeva nei negozi dei macellai. «Non credo d'essere d'accordo. Credo che ciò che si fa nel presente conta più di ciò che s'è fatto nel passato. Specialmente se l'altro nel passato non esisteva neppure.» «Oh, non è necessario andare a un passato tanto lontano. In sostanza, voglio dire, è solo questione di sincerità.» Dentro di sé, giù nel fondo, lui intanto ribolliva. Bevve il resto della birra e mise giù, quasi con forza, il barattolo sulla cassetta che gli serviva da comodino. Poi s'asciugò la bocca col dorso della mano. «Spero di essere abbastanza sincero da soddisfare Ina.» «Vedremo,» fece Nosiste, con quel suo sorrisetto gonfio e soddisfatto. «Se lei parte prima di te o se partite insieme, dobbiamo festeggiare in grande l'addio. Mi mancherete entrambi. Verresti a colazione da Melik,
Howard?» «Grazie, Francis. Credo che più di tutto io abbia bisogno di dormire.» Quando Nosiste se ne fu andato, bevve un gran bicchiere d'acqua e provò a rimettersi a letto. Si sentiva ribollire dentro, giù in fondo, dove nessuna pillola per dormire, anche se l'avesse avuta, sarebbe mai arrivata. La sensazione era di rabbia repressa, e la detestava. Sentì i passi leggeri di Jensen sui gradini di fuori e fu felice quando il danese bussò alla sua porta. «Era il nostro comune amico Nosiste?» «Esatto. Bevi un goccio, amico.» «Come hai fatto a capirlo?» Jensen andò in cucina. «Tu ne vuoi?» «Non mi dispiacerebbe.» Jensen si mise a sedere. Bevvero. «Nosiste mi sollecita a confessare e non sa che l'ho già fatto. T'immagini, confessare qualcosa che puoi non aver fatto?» «Nosiste dovrebbe tornarsene nel New England o da dove diavolo viene lui.» «E naturalmente mi sollecita a non lasciarmi sfuggire Ina.» Ricadde disteso nel letto. «Come se il suo consiglio potesse influenzarmi in una cosa del genere.» «È un tipetto curioso. 'Che ometto curioso sei,' disse Bosie al Marchese.» E Jensen si mise a ridere, con improvvisa allegria. Sorrise, anche lui allegro. «Andrò al Reine verso le sette a vedere cosa fa Ina.» «Io non ho mai visto nessuno così intrigante. Forse Ina non lo è, ma vedo che tu dipendi da come la pensa lei. Sai cosa farei all'uomo che mi ha rubato Hasso? Non so dirlo a parole quello che farei ma lo farei lentamente, e me ne fotterei di quello che gli altri penserebbero di ciò che ho fatto.» Jensen gli dava conforto. «Non si tratta soltanto di Ina e Nosiste. Credo di star attraversando la stessa crisi nel mio romanzo. Succede.» Aveva raccontato di Dennison al danese. «Oh, sì, succede. Ti dispiace se prendo un altro goccio? O un litro?» 24 Alle sette andò da Ina. Aveva dormito un paio d'ore, aveva fatto una nuotata e aveva scritto tre pagine, tutto ciò nel tentativo di far sembrare anche quello un giorno come tutti gli altri. Però si sentiva strano e quanto a ciò che avrebbe fatto di fronte agli eventuali atteggiamenti di Ina non era
giunto a nessuna conclusione. Quella novità della chiesa lo seccava in maniera indefinibile. Fino a che punto era ritornata alla chiesa? E non era tanto la situazione del momento quella a cui pensava quanto quelle future, in cui Ina avrebbe potuto assumere un atteggiamento al quale lui avrebbe potuto non adeguarsi, in cui sarebbe potuta partire per tangenti rispetto alle quali lui si sarebbe sentito come appartenente a un altro mondo, cosa plausibilissima, dopotutto. Chiamò la sua stanza e la sentì di buon umore; gli disse che sarebbe scesa entro dieci minuti. Sedé su un divano dell'atrio e prese a sfogliare un giornale. Quando venne giù, Ina indossava un vestito rosa pallido. In mano aveva un fazzoletto di chiffon bianco. «Stai benissimo.» «Il fazzoletto è per l'eventualità che facciamo una passeggiata. La brezza.» «Ti aspetti qualche brezza?» Il profumo di lei, come al solito, gli piaceva: molto più stuzzicante del gelsomino. «Vuoi andare in un posto ben preciso oppure ti affidi a me?» «Ha chiamato Francis per invitarci a bere qualcosa. Ti secca?» «No.» Montarono in macchina. «Che notizie di Joey?» «Niente di particolare. Dipinge. Louise va a trovarlo quasi ogni giorno.» «Abita vicino? Ho dimenticato.» La macchina frusciava sul viale sabbioso e quasi immerso nel silenzio verso la curva che portava al bungalow di Adams. La luce sulla veranda era accesa e Nosiste fu sulla porta prima che avessero il tempo di bussare. «Benvenuti! Proporrei di restare sulla veranda, ma in casa si sta più freschi. Già! Entrare per credere.» La veranda affacciava sul golfo e aveva una dondolo, un tavolo e delle sedie. C'erano delle tartine al formaggio è olive nere sul tavolo a mosaico del soggiorno. Lui sperò che Adams non s'accodasse a loro per la cena. Poi pensò che forse sarebbe stato meglio se invece si fosse accodato. Come mai Ina era così allegra? Non riusciva a spiegarselo. Aveva forse rinunciato definitivamente a lui? Aveva «capito» e aveva deciso di dirglielo? Qualunque cosa lei avesse detto quella sera, pensò, lui le avrebbe chiesto una sola cosa, a proposito di John Castlewood: gli aveva voluto bene, o lo aveva amato, soltanto per ricambiare il suo amore? Lei aveva scritto che la dichiarazione di John le era giunta come una sorpresa. Intanto lui più di una volta aveva
avuto l'impressione che le donne s'innamorino di chi s'innamora di loro, di uomini che altrimenti non degnerebbero d'uno sguardo. Adams stava intanto riversando su Ina tutta la sua erudizione in fatto di cultura araba, e non ne aveva poca. Per esempio, a quanto pareva i maomettani s'aspettano che il loro messia rinasca una seconda volta e tramite un uomo, da qui i pantaloni a sacco che portano nell'attesa. Poi parlò dei profughi arabi sulla sponda occidentale del Giordano. Incredibile la quantità di rottami prodotti da una guerra durata appena sei giorni. «Spero che tu abbia chiesto all'ufficio un prolungamento della vacanza, Ina,» disse Adams, riempiendole una seconda volta il bicchiere dallo shaker d'argento. Aveva offerto loro un daiquiri («Il cocktail preferito di Jack Kennedy») preparato prima del loro arrivo e tenuto in fresco nel frigorifero. «Sì, ho telegrafato oggi. Sono sicura che mi daranno un'altra settimana perché ho promesso di ritornare immediatamente se salta fuori qualcosa d'urgente.» Il sorriso di Nosiste abbracciò anche lui Ingham. Raggiava su entrambi loro due, sprizzando buona volontà. «Tu avevi accennato all'eventualità di andare a Parigi, vero, Howard?» Davvero? «Sì, nel caso avessi finito il romanzo.» «E io credo di aver detto che l'avevo pensato,» intervenne Ina. «Con Howard? Bene. Io già lo vedo sulle spine,» disse Adams. Lui intanto si chiedeva chi gli avesse messo in testa quell'idea a Nosiste. Il quale, mentre la conversazione si trascinava, sbirciava dall'uno all'altro come se cercasse di capire che cosa avevano «deciso», quanto fossero innamorati e felici o magari infelici. Mentre lui avvertiva sempre più in Ina un certo distacco. E lì, in quel soggiorno, dove già tante volte era stato a chiacchierare amichevolmente con Nosiste, cominciò a prepararsi a rinunciare - in senso emotivo - a Ina, perché sentiva che lei questo stava per suggerirgli di fare. Ne avrebbe sofferto molto? E chi ne sarebbe rimasto ferito, il suo io o il suo cuore? Ina lo guardò, sorridendo, leggermente divertita, e lui capì che era annoiata, come lui. «Credo di essere a due giorni dalla fine,» disse, in risposta a una domanda di Adams sul romanzo. «Allora dovresti concederti una vera vacanza, con un cambiamento di scena completo. Sì, Parigi. Perché no?» Nosiste s'alzava sulla punta dei piedi come se avesse davanti la visione di una classica luna di miele, felice e benedetta, a Parigi.
Dopo il secondo daiquiri se ne andarono. Nosiste non aveva mostrato nessuna intenzione di unirsi a loro. «È una specie di angelo, non trovi?» disse Ina. «Ti è molto legato... Sei terribilmente taciturno stasera.» «Mi dispiace. Credo che sia il caldo. Ho pensato che stasera potremmo provare l'Hôtel du Golfe.» Il ristorante dell'Hôtel du Golfe - lui era andato a chiedere tante volte di lettere mai arrivate, lettere di John e di Ina - era quasi completo e tuttavia riuscirono a ottenere un tavolo per due in una buona posizione. «Bene, Ina, hai più pensato a ciò di cui abbiamo parlato oggi?» «Certo che ci ho pensato. Sì. Capisco che le cose qui sono diverse e forse io ne ho fatto troppo un caso... In verità, non era mia intenzione dirti quello che dovevi fare.» E invece, in un certo senso, era proprio ciò che lui avrebbe desiderato. «Se non è di peso a te non lo è neppure a me,» aggiunse. Voleva dire che invece doveva esserlo? Accennò una risatina. «Allora non parliamone più.» «Vuoi andare a Parigi? La settimana prossima?» Capì cosa intendeva dire. Lo accettava di nuovo, lo riprendeva con sé. Andare a Parigi e magari tornare a Hammamet? Ma sapeva che lei non intendeva questo. «Vuoi dire, per poi proseguire per New York?» «Sì.» Era calma, molto sicura di sé. A un tratto sorrise anche. «Non ti vedo far salti dalla gioia.» «Stavo pensando di finire il libro prima di andare da qualsiasi parte.» «Ma non è già finito?» Lo era, e lo aveva anche detto, ma lui davvero voleva finire il libro lì, nella inverosimile stanza nella quale abitava ormai, con Jensen e i suoi quadri al piano di sopra. Non andare a Parigi non significava necessariamente perdere Ina. «Se potessi restare qui, se tu resistessi, al caldo voglio dire, finirei in meno di una settimana.» Lei rise di nuovo, ma il suo sguardo era dolce. «Non credo che finirai in una settimana. Però puoi non desiderare di andare a Parigi.» «E tu preferisci Parigi a qui. Capisco.» «Quanto tempo esattamente ti vuoi fermare qui, caro?» Il cameriere gli stava mostrando un vassoio con sopra due pesci bianchi, non cotti. Pur non intendendosene di pesci, lui approvò con un cenno del capo. Ina forse non aveva visto niente: stava guardando lui, infatti. «Mi piacerebbe restare finché ho finito, mi piacerebbe davvero.»
«D'accordo. Rimani, allora.» Un silenzio imbarazzato. «Quindi ci vediamo a New York,» disse lui. «Non sarà tra molto.» «No.» Capiva che avrebbe potuto dire, e capiva che lei s'aspettava che lui lo dicesse, qualcosa di più affettuoso. All'improvviso non seppe più che cosa effettivamente provava. E capiva che lo lasciava trapelare anche, con tutto il proprio essere. Avrebbe riparato dopo, si disse. Un brutto momento, ma durò poco. Quei suoi incerti sentimenti diedero luogo a un senso di colpa, a un vago imbarazzo. Pensò al giorno in cui, lì nel bungalow del Reine, aveva provato un desiderio improvviso di Henry James e concluso che non ce l'avrebbe fatta a superare il resto del giorno e della sera se non avesse letto qualche sua pagina, e così era montato in macchina e era andato fino a Tunisi, dove aveva comprato l'unico volume che era riuscito a trovare, un'edizione della Modern Library di The Turn of the Screw e di The Lesson of the Master. Avrebbe voluto parlarne a Ina, ma cosa c'entrava con quella sera, con quel momento? Dopo cena presero un brandy. La serata, apparentemente, andò meglio. Non ci furono altri momenti difficili. Ma dentro di sé lui continuò a sentirsi infelice. Ogni tanto gli passava per la mente qualcuno dei luoghi comuni di Nosiste e, contemporaneamente, il ricordo piacevole delle volte che era stato a letto con Ina. Si immaginò sposato a Ina, a vivere in un comodo appartamento di New York, in grado di permettersi una cameriera che rendesse a entrambi la vita più facile, a ricevere gente interessante (lui e Ina in genere tendevano a apprezzare la stessa gente) e a avere magari un figlio, se non due. Era sicuro che Ina avrebbe voluto un figlio. Immaginò il proprio lavoro che migliorava e s'avvantaggiava di quell'atmosfera. Perché non cogliere a volo l'occasione, dunque? Ma quella notte non era in grado di cogliere proprio niente. Però tornò con lei alla camera d'albergo. Glielo chiese lei e lui accettò. Erano le tre quando tornò a casa. Avrebbe voluto mettersi a pensare un po' e invece s'addormentò quasi immediatamente. Come al solito, a letto si erano stancati molto e piacevolmente, lui e Ina. Si svegliò che era ancora buio, quasi di colpo. Gli era sembrato di aver sentito qualcosa alla porta di strada ma quando tese l'orecchio non sentì niente. Accese un fiammifero e guardò l'ora: le quattro e diciassette. Rimase sdraiato, teso, all'erta. Fino a che punto amava Ina? E se lui si tirava indietro adesso il suo era un comportamento meschino? D'altro canto, e era
innegabile, c'era anche stato John Castlewood, entrato in scena dopo di lui quando, presumibilmente, Ina sapeva benissimo che si sarebbero sposati. Quella sera, lì nella stanza dell'albergo, le aveva chiesto di John. Le aveva chiesto fino a che punto lo aveva amato. Ma era riuscito a cavarle soltanto l'affermazione che lei aveva creduto o immaginato che potesse essere un'avventura e basta. John Castlewood invece l'aveva amata moltissimo, eccetera eccetera, e magari era vero. Quella risposta, però, ora gli sembrava un po' vaga, e comunque non aveva contenuto una sola definita frase rassicurante. Ma poiché la sua mente schivava quel problema si mise a pensare alla pazza situazione in cui si trovava e si chiese com'era arrivato a quel punto. L'incarico affidatogli da Castlewood, naturalmente. Poi pensò a Nosiste e a quelle sue incredibili trasmissioni, e al fatto che venisse anche pagato. Una volta, lì da lui, aveva visto nel cestino della carta straccia una busta con francobollo svizzero. Nosiste gli aveva detto che veniva pagato attraverso la Svizzera. Il nome e l'indirizzo di una banca, ovviamente, non gli avevano offerto nessuna indicazione su chi fosse l'effettivo pagatore. Possibile, si chiese, che il fatto di aver incontrato un russo disposto a pagarlo per quelle trasmissioni fosse tutta un'invenzione di Nosiste? Non fingeva magari con se stesso, al punto di credere lui per primo che una certa rendita che gli veniva, mettiamo, dalla Svizzera fosse invece il compenso per quelle sue trasmissioni? Cosa era possibile e cosa non lo era? I mesi da lui trascorsi in Tunisia avevano reso quella distinzione confusa. E la confusione, o l'inversione delle cose, coinvolgeva ora anche Ina. Decise che non era giusto che si sposassero, il che equivaleva a dire che lui non l'amava abbastanza e che magari neppure lei lo amava abbastanza, che lei non era «del tutto adatta», per quel che la cosa poteva significare, e che magari per lui non esisteva niente di adatto. Ma questa impressione non poteva essere dovuta a uno strano potere della Tunisia di distorcere tutto, come uno specchio ondulato o una lente che inverta l'immagine, oppure era un'impressione giusta? Accese una sigaretta. E Jensen? Jensen aveva un carattere, un passato, una storia, che lui non conosceva e che eventualmente sarebbe riuscito ad apprendere solo in parte. Lo conosceva insomma soltanto quel tanto da averlo in grande simpatia. (Si ricordò così di una sera in cui era andato al caffè chiamato Les Arcades e per poco non s'era portato a casa un giovane arabo. Il ragazzo stava seduto al suo stesso tavolo e lui gli aveva offerto un paio di birre. Era, ricordava, sessualmente eccitato quella sera e si sentiva solo e l'unica cosa
che lo aveva trattenuto era stata l'insicurezza, o l'ignoranza, su ciò che avrebbe dovuto fare una volta a letto con il ragazzo, e così non era voluto passare per sciocco. Non proprio, dunque, una ragione morale per quella sua castità.) Era circondato da un mare di arabi che rimanevano sempre un mistero per lui, con l'eventuale eccezione di Mokta e dell'allegro Melik, un tipo gioviale che forse non era anche un imbroglione. Si rese conto che doveva prendere una decisione riguardo a Ina e comunicargliela, preferibilmente prima che partisse per Parigi, cosa che lei intendeva fare entro cinque giorni o anche meno. Ma non sarebbe stato da stupido rompere con Ina? Se lo faceva, nel giro di poco tempo lei si sarebbe sposata qualcun altro. E lui se ne sarebbe pentito. O quella era una maniera disgraziata di ragionare? Aveva la sgradevole, orribile impressione che nei mesi passati lì il suo carattere e i suoi principi fossero crollati, o scomparsi. Chi era lui? Probabilmente uno dotato di una serie di atteggiamenti sui quali era basata la sua condotta. E quegli atteggiamenti formavano il suo carattere. Invece ora s'accorgeva di non riuscire, per quanti sforzi facesse, a immaginare un solo principio che improntasse o avesse improntato la sua vita. A questo punto, andare a letto con Ina non era una forma di inganno? Eppure lui non ne provava il minimo disagio. Non poteva, dunque, tutta la sua vita passata essere un solo e continuo esempio di falsità? O falsità era tutto quello che stava succedendogli adesso? All'improvviso cominciò a sudare ma gli mancò l'iniziativa di alzarsi e andare sulla terrazza a versarsi addosso un secchio d'acqua. Sentì una specie di fruscio, un uggiolio, giù davanti alla porta di strada. Jensen doveva aver messo fuori la spazzatura. Di solito attirava i gatti. Quella specie di fruscio continuò e alla fine la rabbia lo spinse a alzarsi. Accese la luce e prese la torcia elettrica. Scese i quattro gradini, teso, pronto a inveire contro il gatto che probabilmente stava cercando di tirar via una scatola di sardine incastrata sotto la porta. Il cane lo guardò e accennò un ringhio. «Hasso! Hasso, sei tu?» Era lui. Aveva un aspetto orribile ma era Hasso, e si ricordava di lui: quel tanto sufficiente, si rese conto, per non attaccarlo. «Anders!» chiamò, con voce fessa. «Anders! C'è Hasso!» Il cane s'arrampicò su per i gradini verso le stanze di Jensen. Zoppicava. «Cosa?» Jensen si sporse dalla finestra. Lui fu preso da una risata isterica. Sull'ultimo gradino, Jensen s'inginocchiò e abbracciò il cane mentre lui, senza alcuna ragione al mondo, accen-
deva tutte le luci, compresa quella sulla terrazza. Versò del latte in scatola in una ciotola e v'aggiunse dell'acqua nel caso il latte fosse troppo ricco, e la portò di sopra. Jensen stava inginocchiato a terra e esaminava il cane. «Vand!» «Cosa?» «Acqua!» Andò al rubinetto a prenderla. «Ho delle sardine. E anche dei wurstel.» «Guardalo! Ma sopravviverà. Non ci sono ossa rotte.» E questa fu l'ultima cosa di ciò che, per un bel po', Jensen disse di comprensibile per lui. Il resto fu in danese. Il cane bevve dell'acqua, mangiò voracemente alcune sardine poi di colpo abbandonò il piatto. Era troppo affamato per mangiar tutto in una volta. Intorno al collo aveva un vecchio collare marrone al quale era legata una catena e lui si chiese come avesse fatto la bestia a spezzare o strappare coi denti la catena, ma gli anelli finali erano così consumati e piatti da non offrire nessun indizio. Il cane doveva aver percorso chilometri. «Non ha nessuna ferita. Non è un miracolo?» «Sì,» disse il danese. «Eccetto questa cicatrice.» Sul davanti di una delle orecchie della bestia c'era una piccola chiazza senza peli. Secondo Jensen, dovevano averlo stordito prima di portarlo via o mettergli il collare. Il danese studiò i denti del cane e poi le zampe, che erano coperte di croste e insanguinate. Certe brutte chiazze del manto erano dovute solo a fango e grasso. Lui scese giù a prendere dello scotch in casa sua e portò su il resto del latte in scatola. Jensen aveva riscaldato dell'acqua e stava lavando le zampe di Hasso. Rimasero a parlare a lungo, finché arrivò l'alba. Il cane si distese su una coperta che il padrone gli aveva steso a terra e s'addormentò. «Era troppo stanco persino per sorridere, hai notato?» osservò lui. E così, tra varie osservazioni di questo genere, prive di senso, il tempo passò; ma in realtà entrambi erano davvero felici. Jensen faceva congetture su quello che poteva essere successo: qualcuno doveva aver portato il cane molto lontano, chilometri e chilometri, e doveva averlo tenuto incatenato. Il cibo dovevano averglielo lanciato da lontano perché il cane non doveva aver permesso a nessuno di avvicinarsi. Ma, innanzi tutto, come avevano fatto a prenderlo? Stordito con un colpo? Col cloroformio? Poco probabile. Lui Ingham trovava invece tutto assurdo, eccetto il ritorno di Hasso, che era la cosa meno probabile che lui s'aspettava. E sapeva intanto che l'in-
domani, o meglio quel giorno, avrebbe parlato a Ina, le avrebbe detto che non poteva sposarla. Era la cosa corretta e giusta da fare. Nel giro di tre giorni, poi, avrebbe finito il libro, su questo non c'erano dubbi. L'annunciò a Jensen, che avrebbe finito il romanzo, ma non fu sicuro che Jensen recepisse. Verso le sette, il whisky li aveva ormai messi in uno stato d'animo di rilassata felicità. Jensen era decisamente sbronzo. Entrambi se ne andarono a dormire nei rispettivi letti. 25 Alle undici e venti di quella stessa mattina avanzava sulla spiaggia, con le scarpe di tela in mano, in direzione del Reine de Hammamet. Il sole dardeggiava, facendo bianca la sabbia. Questa, sotto i piedi, era sopportabile solo se procedeva a passo svelto. Il cielo, senza una nuvola, era d'un azzurro lucente e intenso, come le persiane e le porte di Tunisia. Aveva comprato un pollo e un pezzo di zampa di manzo per Hasso quella mattina. Su Jensen, i postumi della bevuta, se mai ce n'erano stati, erano stati assorbiti dalla preoccupazione per il benessere del proprio cane. Hasso quella mattina doveva essersi sentito abbastanza bene, perché aveva sorriso, anche a lui Ingham. Stava pensando, come al solito senza alcun successo in quel tipo di preparazioni, a quello che avrebbe detto a Ina. L'ora per lui non aveva nessuna importanza. Sarebbero potute essere benissimo le quattro del mattino. Il destino! Era sicuro che quella sua decisione di rompere con Ina era un tantino più importante per lui che per lei. Già la vedeva incontrare, nel giro di poche settimane, un altro John Castlewood o qualche sostituto di lui Ingham. Né aveva dubbi: sarebbe stato più facile per lei trovare un uomo di suo gusto che per lui trovare una donna. Per questo era sicuro di non ferirla molto. Poteva anche darsi che non fosse in albergo. Era preparato a sentirsi dire che Miss Pallant era partita per una qualunque gita in autobus che l'avrebbe tenuta via l'intero giorno. Miss Pallant non era in albergo ma sulla spiaggia. Tornò allora sulla spiaggia e s'avviò in direzione di Hammamet, perché era sicuro di non averla superata all'andata. Riconobbe la sua sdraio con accanto il suo accappatoio e un dattiloscritto rilegato di blu. Socchiudendo gli occhi contro l'abbaglio, si girò verso il mare e ne scrutò la superficie.
Non era possibile, eppure era vero: la fiocina di Nosiste spuntava dall'acqua con la sua punta nera a freccia appena un centinaio di metri al largo, un po' spostata sulla sinistra. Accanto affiorava la cuffia bianca di Ina, che rideva e ansimava. Infine, dietro la fiocina spuntò anche il viso rubicondo di Adams. Naturalmente la fiocina era sgombra. Aveva mai preso niente quel Nosiste? Lo videro e agitarono le braccia. Accaldato e asciutto, la pelle della faccia e delle braccia che rosolava a poco a poco, rimase a aspettare che uscissero dall'acqua. Una calorosa accoglienza da parte di Nosiste. Perché non s'era portato il costume da bagno? «Perché non sei al lavoro?» Ina si asciugò il viso con un asciugamano. «Ieri sera Hasso è tornato a casa. Il cane di Anders,» annunciò lui. «Santo cielo. Il cane che aveva perduto?» Nosiste quasi non riusciva a crederci. «Già, Ina. Non te l'ho detto? Il cane di Anders era scomparso... Quanto tempo fa è stato?» «Sei settimane, più o meno,» disse lui. Anche Ina sembrava incredula e contenta per la buona nuova. Adams li invitò al suo bungalow a bere una birra e a prendere un po' di fresco, ma lui rispose: «Grazie, Francis. Vale per un'altra volta.» Nosiste capì. Capì, comunque, che voleva parlare con Ina. E così lui e Ina si avviarono verso l'albergo. Ina si fermò a fare una doccia al semplice rubinetto all'aperto sotto il quale lui aveva visto gli americani che aveva scambiato invece per tedeschi. In silenzio, ripresero la strada per l'albergo. Ancora una volta Ina si tolse il costume nel bagno e ne uscì con un accappatoio a spugna come quello di lui, ma bianco. «So cosa stai per dire, quindi puoi evitare di dirlo,» gli disse. Lui s'era seduto sull'unica grande poltrona. Lei si chinò su di lui, con una mano poggiata sul bracciolo della poltrona, e lo baciò prima sulla guancia poi, brevemente, sulle labbra. Non posso sposarmi, pensò lui. Cosa doveva dire? Grazie? «Vuoi uno scotch, caro?» «No, grazie... Ho avuto una strana nottata,» disse, balbettando sulle prime. «Ero sveglio e ho sentito il cane di Anders che grattava la porta. Solo che non sapevo che era il cane, così sono sceso... e quasi non ci credevo: vedere quella bestia dopo tante settimane. Magrissima, naturalmente. Ha un brutto aspetto, ma è vivo. È un miracolo, non trovi?»
«Sì. Sei settimane, hai detto?» Stava seduta sul letto, di frónte a lui, con una micidiale aria compunta. «Sei settimane, più o meno. Non le ho contate.» I loro sguardi si incontrarono per un attimo. Provò allora l'insano impulso di rovesciarla sul letto e fare l'amore, prenderla. Oppure, se avesse obbedito a quell'impulso, non ce l'avrebbe fatta? «Mi dispiace di averti fatta venire fin qui.» «Non sei stato tu.» Poteva prevedere le prossime battute. Orribile. Vennero, le battute, e alla fine lui si trovò a dire, come aveva pur sperato di non dire: «Perché dovrei cacciarti in una trappola? Immagino che non amo nessuno. Immagino che non ci riesco.» E lei sentì il dovere di replicare: «Be', hai il tuo lavoro. Gli scrittori considerano tanti lati delle cose che finiscono col non scegliere niente. Non te ne faccio una colpa. Capisco.» Quante volte se l'era sentito dire negli anni che avevano preceduto Lotte? Le ragazze sapevano ben poco. Una cosa però era vera, erano gelose del suo lavoro. «Non è questo,» disse, e si sentì stupido. «Che vuol dire, non è questo?» Eppure, pensò lui, avrebbe dovuto sgombrare la strada di ogni intoppo, lei con la sua intelligenza più vivida. Non seppe cosa dire. Invece, gliene faceva una colpa, e come; e sarebbe stato molto meglio se si fosse arrabbiata. «Non è sufficiente per giustificare un matrimonio,» disse. «Oh, questo è evidente.» La mano di lei si mosse in un gesto tronco, senza scopo né speranza. Lui distolse lo sguardo da quella mano. «Sono sicuro che non ti sarà difficile incontrare qualcun altro. Magari prima ancora di lasciare la Tunisia.» Lei scoppiò a ridere. «Nosiste?» Poi si alzò e andò a versare due scotch. «Come riuscirai a. finire il romanzo se non dormi?» «Lo finirò.» Sarebbe partita per Parigi entro due giorni, probabilmente l'indomani, e lui pensò che sarebbe andata via l'indomani. Aveva ricevuto un telegramma dall'ufficio, le dicevano che poteva prendersi un'altra settimana. E naturalmente lì faceva troppo caldo. Lo scotch quasi lo stordì ma non ci badò, ne fu contento anzi. «Ceniamo tutti insieme stasera? Tu, io e Anders? E magari Nosiste?» «Proprio non me la sento. Se non ti dispiace.» C'erano lacrime nei suoi occhi.
Capì di aver detto la cosa sbagliata, e che certo non avrebbe migliorato le cose proponendole di cenare loro due soli. Si alzò. L'unico piacere che poteva farle era di andarsene. «Cara, ti chiamo domani per sapere quando parti.» «Non ho detto che parto domani.» S'era alzata e stava, scalza, nell'accappatoio bianco. Gli venne voglia di abbracciarla ma ebbe paura d'essere respinto. «Ti chiamo in ogni caso.» Andò alla porta. «Ciao, Ina.» Richiuse la porta e non pensò a niente finché non fu di nuovo sulla spiaggia, dove si tolse le scarpe di tela. Adesso la sabbia rovente lo fece correre veloce verso l'acqua. V'immerse i piedi, bagnandosi l'estremità dei pantaloni di tela. Li arrotolò e s'avviò verso Hammamet, sguazzando nell'acqua fino alle caviglie. Era più che sicuro che Ina avrebbe visto Nosiste quella sera. Quel finfero avrebbe espresso rammarico e disapprovazione. Quando fu a casa si sentì più calmo. Preparò del caffè e lo bevve a piccoli sorsi mentre rassettava. Di sopra Jensen non faceva rumore. Magari stavano dormendo, lui è il cane. Poi, con una seconda tazza di caffè, si mise al lavoro. Ma prima che riuscisse a radunare qualche idea a proposito del capitolo in corso il pensiero gli volò a Lotte. Questa volta il fremito della perdita o magari del desiderio, se non addirittura dell'amore, fu più profondo. Provò l'impulso di scriverle immediatamente (l'unico indirizzo che conosceva era il loro, vecchio, ma la lettera sarebbe stata inoltrata), per chiederle cóme stava e se le sarebbe piaciuto rivederlo qualche volta a New York, per un aperitivo o una cena, se mai fosse venuta a New York. Era felice, infelice? Le andava di rivederlo? Non avevano molti amici in comune. Jn realtà, a New York non conosceva nessuno a cui chiedere notizie di lei. Stava in California da oltre un anno ormai. Si rese conto che la voleva di nuovo, ancora, così com'era. Lotte aveva quella incredibile qualità - non virtù, non capacità - di non poter mai sbagliare. Agli occhi di lui, s'intende. Di sbagli ne aveva fatti, certo, a volte si era comportata da egoista, e tuttavia lui non gliel'aveva mai rinfacciato, non se n'era mai risentito, non l'aveva mai giudicata una colpa. Era amore questo, si chiese ora, o semplicemente follia? Decise, pur essendo una decisione fastidiosa, di non scriverle. Altri cinque minuti di giri intorno alla stanza, un'altra sigaretta, dopodiché si mise a sedere e al lavoro. Dennison era uscito di prigione. Aveva scontato una pena di sette anni, condensati in cinque pagine di intensa prosa di cui c'era da andar fieri. Sua moglie, come sempre, anche questa volta
gli era rimasta fedele. Ormai Dennison aveva quarantacinque anni. La prigione non l'aveva cambiato. Il capo sempre eretto, niente affatto stravolto, solo un tantino confuso dai sistemi di un mondo che non era il suo. Avrebbe trovato lavoro in un'altra società, d'assicurazioni questa volta, e avrebbe ricominciato gli stessi traffici finanziari. Le miserie degli altri gli erano intollerabili, visto che bastava un po' di denaro per eliminarle. Sudando, senza camicia, con quei bianchi calzoni di tela appiccicati addosso, per le quattro e mezzo aveva scritto cinque pagine. S'alzò dalla scrivania e si lasciò cadere sul letto. Benché tenesse tutto aperto, l'aria nella stanza era immobile e satura di calore. Pochi attimi e s'addormentò. Si svegliò con quell'ormai familiare annebbiamento d'idee che prendeva sempre una quindicina di secondi a disperdersi. Dove si trovava? Cosa stava o non stava succedendo? Che ora era? Che giorno della settimana? Doveva fare qualcosa? Hasso era tornato. Con Ina aveva parlato. S'era tolto finalmente l'incubo del discorso da farle o se l'era tolto lei. Ancora un altro giorno di lavoro, forse uno e mezzo, e avrebbe finito Apprensione. Si spogliò, andò sul terrazzo e si versò addosso un secchio d'acqua. Poi infilò un paio di calzoni corti e mise quelli lunghi di tela bagnati di sudore in un secchio che riempì d'acqua al lavello. Quindi andò su a vedere Jensen. Lo trovò che stava lavorando, con i capelli biondi scuriti dal sudore. Era in mutande di cotone. Il cane dormiva a terra. «Posso invitarti a cena chez moi?» «Avec plaisir, m'sieur. J'accepte!» Jensen sembrava sfinito dalla stanchezza ma soddisfatto. Stava lavorando al quadro dell'arabo con i due grandi sandali in primo piano. Sul pavimento, accanto a Hasso, c'era un vasetto di vaselina. «Hai scritto alla tua famiglia del...» Indicò Hasso. «Ho telegrafato. Gli ho detto che sarò a casa tra una settimana.» «Davvero? Bene, mi giunge nuovo.» Quando il cane respirava si vedevano le costole alzarsi e abbassarsi sotto il manto nero e gonfio. «Non voglio che gli succeda più niente. I Choudis sono stati molto gentili stamattina. Credo che fossero contenti quanto me.» I Choudis erano gli arabi della porta accanto. Il viso del danese esprimeva una felicità semplice e angelica. «Ti verrà un collasso con questo caldo,» gli bisbigliò lui. «Non vuoi dormire un po'?» Tutt'intorno l'intera città sembrava addormentata. Dalle finestre non
giungeva un suono, solo il sole, denso di caldo e di luce. «Forse. Porto del vino e del ghiaccio?» «Non portare niente.» Se ne andò. Andò a fare la spesa, pensando che forse era troppo presto perché il macellaio fosse aperto, ma voleva comprare parecchia roba e probabilmente avrebbe dovuto fare due viaggi. La figlia di dieci anni dei Choudis stava seduta sulla soglia della porta aperta, intenta a disporre sul gradino dei sassi rotondi. Gli sorrise con occhi vispi e gli disse qualcosa che lui non capì. Le rispose in francese, anche lui sorridendo. Gli era parso che avesse detto «Hasso» ma pronunciata da lei anche quella parola risultava diversa. Il faccino della ragazza era cordiale e accaldato. Tirò oltre. All'improvviso, si sentiva disposto in maniera diversa verso la famiglia accanto, sentiva che erano amici sia suoi che di Jensen, non solo una famiglia che abitava lì accanto e basta. Si ricordò di aver vagamente sospettato che avessero avuto a che fare con la scomparsa di Hasso. La cena di quella sera non sarebbe potuta essere migliore, considerate le risorse del posto. Era andato sino alla piccola drogheria del Reine. C'erano salame, uova bollite e affettate, lingua d'agnello, prosciutto e roast beef freddi, insalata di patate, formaggio e fichi freschi. Jensen aveva portato una bottiglia di boukhah e naturalmente c'erano scotch e vino bianco freddo. Hasso partecipò anche lui, mangiando i pezzetti di carne che gli porgevano da tavola. «Di solito non gli do niente, ma stasera è un'occasione speciale,» spiegò Jensen. «Tollera tutto?» Sì, spiegò il danese, che aveva ancora quell'aria felice. Forse era troppo felice persino per dormire. «E Ina? Come sta?» «Bene. Credo che stia con Nosiste stasera.» «Hai detto che forse restava un'altra settimana.» «No, credo che se ne andrà a Parigi. Forse dopodomani.» «Anche tu?» «No.» Lo disse in maniera un po' imbarazzata. «Le ho detto che non penso che dovremmo sposarci. Sono sicuro che non è la fine della sua vita.» Jensen parve sorpreso, o forse non aveva niente da dire. «Voglio sperare che l'arabo morto non c'entri.» «No.» S'abbandonò a una risatina. Avrebbe voluto menzionare Lotte, dire che ne era ancora innamorato, ma tanto per cominciare non era sicuro
che fosse vero. Non era affatto sicuro che Lotte fosse il motivo per cui aveva deciso di non sposare Ina. La faccenda di Castlewood lo aveva scosso più di quanto si fosse reso conto quando l'aveva appresa. «C'è mai stato qualcuno nella tua vita,» chiese, «che ha rappresentato il grande amore? Tanto che tutti gli altri non potranno essere mai all'altezza.» «Oh, sì.» Jensen s'allungò nella sedia e guardò il soffitto. Un ragazzo, naturalmente. Ma sentiva che Jensen aveva capito perfettamente ciò che lui intendeva dire. «È strano... Cioè, hai la sensazione che quelli non possono mai sbagliare, qualunque cosa facciano. Che non puoi mai lamentarti di loro.» Jensen si mise a ridere. «Può darsi, se non ci vivi insieme. Io non ho mai vissuto col mio amore. Non sono mai andato a letto con lui. L'ho amato e basta, per due anni... be', per sempre. Ma per due anni non sono andato a letto con nessun altro.» Lui però intendeva dire: anche quando vivi con qualcuno. Come lui con Lotte. Ma lasciò andare. Capì che quando sarebbe partito, Jensen gli sarebbe mancato maledettamente. 26 Il giorno dopo accompagnò Ina all'aeroporto. Partiva col volo delle 14,30 per Parigi. Nosiste andò con loro nella Peugeot. Lui le aveva telefonato poco prima delle undici dal ristorante di Melik e lei gli aveva detto della propria decisione. «Stavo appunto per mandarti un fattorino o qualcosa del genere.» Sembrava abbastanza allegra. Non sapeva se crederle o no, sapeva però che lei aveva il suo indirizzo. «Ti accompagno con la macchina. Possiamo fare colazione all'aeroporto.» «Francis vuole accompagnarmi lui.» «Digli allora che andiamo con la mia macchina.» Era un po' seccato dell'onnipresenza di Nosiste. «Sarò lì tra mezz'ora.» Era andato a casa a cambiarsi e era ripartito quasi immediatamente. Ina non ne aveva voluto sapere di restare un altro giorno ancora. Lui Ingham sapeva di quel volo delle 14,30: era quotidiano. Ina era già nell'atrio, e stava pagando il conto. Poi, attraverso le vetrate, lui vide la Cadillac di Adams arrivare davanti all'albergo. L'americano aveva un mazzetto di fiori. «E così ti perdi una vacanza a Parigi in una deliziosa compagnia,» disse
Nosiste con quel suo sorriso da scoiattolo, ma lui sapeva che Ina gli aveva detto che non si sarebbero più sposati. Nonostante le proteste di Nosiste, insisté perché prendessero la sua macchina e così vi montarono. Seguirono le solite osservazioni di Nosiste sul paesaggio. Ina disse: «Appena arrivo vado a controllare a casa tua.» Stava seduta davanti con lui. «Non c'è fretta... Del resto, forse rientrerò anch'io tra dieci giorni.» Lei accennò una risata. «Quante volte l'hai detto?» Fecero colazione nell'indefinibile ristorante dell'aeroporto. Il servizio era all'altezza del locale, ma avevano tempo. Ancora una volta, il frastuono della radio rese incomprensibili gli annunci delle partenze e degli arrivi. Ina si sforzava (come del resto lui Inghàm) ma lo stesso il suo viso tradiva una certa tristezza e delusione, penose per lui. In effetti, le voleva davvero bene! Sperò che, una volta partita, non piangesse durante tutto il volo. «Conosci qualcuno a Parigi?» chiese Nosiste. «No. Ma si finisce sempre con l'incontrare qualcuno... Oh, non importa. Mi piace vagabondare per la città.» Due e dieci. Era ora di avviarsi all'imbarco. Lui pagò il conto. All'uscita, un bacio: anche Nosiste s'ebbe uno schiocco sulla guancia e lui un secondo bacio, rapido, senza trasporto. Dopodiché Ina si voltò e si allontanò. Lui e Adams ritornarono alla macchina in silenzio. Lui si sentiva triste, depresso, un tantino impaziente, come se avesse la coscienza di aver fatto uno sbaglio, pur sapendo di non averlo fatto. «Be', qualcosa non ha funzionato, immagino,» osservò Nosiste. Lui strinse dapprima i denti, poi subito dopo disse: «Abbiamo deciso di non sposarci, tutto qui. Non significa che abbiamo litigato.» «Oh, no.» Questo gli chiuse la bocca, a Adams, almeno per un po'. Alla fine lui disse: «So che le ha fatto piacere conoscerti. Sei stato molto gentile con lei.» Nosiste annuì, continuando a guardar dritto davanti a sé, oltre il parabrezza. «Sei uno strano tipo, Howard. Lasciare andar via una ragazza meravigliosa come quella.» «Forse.» «Non c'è qualcun'altra nella tua vita, vero? Non lo dico per ficcare il naso.» «No, non c'è.»
Alle quattro era già a casa. Aveva voglia di lavorare ma gli ci volle un'ora per sedersi al tavolo. Pensava a Ina. Quel giorno scrisse solo due pagine. Ancora un altro giorno e il libro sarebbe finito, ne era convinto. Come sempre verso la fine di un libro, si sentiva stanco e piuttosto depresso, e si chiedeva se quel suo stato d'animo non fosse simile alla depressione che segue il parto. Oppure era dovuta a qualche dubbio che il libro non fosse buono come lui credeva che fosse? Ma aveva avuto la stessa depressione anche dopo aver finito libri di cui era certo che fossero più che buoni, come Il gioco del Se per esempio. Il giorno dopo gli occorsero tre faticose ore per scrivere le quattro pagine con cui completò il libro. Subito dopo andò di sopra a dire a Jensen che aveva finito il libro. «Urrà. Ma perché quella faccia triste?» Jensen rise. Stava pulendo i pennelli con uno straccio sporco. «Ce l'ho sempre. Non badarci. Andiamo da Melik.» Si ripresero dopo alcuni aperitivi insieme con Jensen. Il danese era andato in un albergo quel pomeriggio e aveva prenotato il volo per Copenhagen del venerdì successivo, di lì a quattro giorni. A quella notizia lui si sentì assurdamente perduto. «Ma... non dovresti assicurarti che le tele siano bene asciutte?» «Sì. Non dipingerò più altro. Disegnerò un po'.» La faccia di Jensen, sorridente, contrastava con la sua. Versò altro scotch e acqua nel bicchiere del danese. «Vieni via con me, Howard,» disse a un tratto Jensen. «Perché no? Avverto la mia famiglia che arrivo con un amico. Gli ho già parlato di te. Ti fermi qualche settimana. Anche di più. Abbiamo una casa grande.» Si sporse verso di lui. «Perché no, Howard?» Era esattamente quello che lui avrebbe voluto fare, andarsene con Jensen, visitare il nord, tuffarsi in un mondo completamente diverso da quello arabo. «Dici sul serio?» Eppure non c'erano dubbi che Jensen avesse parlato sul serio. «Ti mostro Copenhagen. La mia famiglia abita a Hellerup, dalle parti di Ruvangs Alle. Hellerup è una specie di sobborgo, ma non esattamente. Conoscerai mia sorella Ingrid... magari anche mia zia Mathilde.» Jensen si mise a ridere. «Ma soprattutto ce ne andremo in giro per la città. Una quantità di ottimi snack bars, amici da vedere... e fa fresco, anche adesso.» Lui aveva voglia, una voglia disperata di andare, ma sentiva che significava rimandare quel che doveva fare, e cioè tornare a New York e rico-
minciare la propria vita. Copenhagen sarebbe equivalsa a un Natale celebrato per cinque giorni di fila. E lui questo proprio non lo voleva. «Cosa c'è?» chiese Jensen. «Mi piacerebbe moltissimo, ma non posso, non devo. Non adesso. Grazie, Anders.» «Sei malinconico stasera. Spiegami perché non puoi venire ma, bada, dev'essere un buon motivo.» «Credo d'essere un po' sfasato. Venire sarebbe segno di debolezza. È difficile spiegare. No, è meglio che ritorni sulla mia strada. Però posso venire a trovarti una volta o l'altra, se ci sarai.» Jensen era chiaramente deluso ma, parve a lui, doveva anche aver capito. «Certo. Ma deve essere presto. Probabilmente a gennaio partirò di nuovo.» «Cercherò di venire presto.» 27 Quattro giorni dopo accompagnò Jensen all'aeroporto. Andarono al bar del terminal e bevvero boukhah. Hasso, nella sua gabbia, era già sull'aereo. Lui Ingham fece un grosso sforzo per mostrarsi disinvolto, persino allegro. In realtà, ebbe l'impressione di riuscirci ben poco. Jensen era invece chiaramente così contento di tornare a casa da farlo sentire in colpa per la propria depressione. All'uscita s'abbracciarono come francesi e lui rimase a guardare la figura alta del danese che s'allontanava, con la grande cartella sotto il braccio, finché raggiunse la svolta in fondo al corridoio. Lì giunto, Jensen si voltò e salutò con la mano. Andò dritto alla biglietteria del terminal e comprò un biglietto per New York per il martedì, di lì a quattro giorni. Le stanze vuote di Jensen al piano di sopra gli ricordavano, perversamente, una tomba spogliata. Cercò di non pensarci, di fìngere che non esistessero e, soprattutto, di non farsi venire il desiderio di andar su a dare un'occhiata, sia pure per vedere se Jensen non avesse dimenticato qualcosa. Lo rincuorava unicamente il pensiero che il danese era dopotutto vivissimo e che, nel giro di qualche mese, se avesse voluto, lo avrebbe rivisto da qualche parte. L'altro pensiero rincuorante era naturalmente quello del libro appena finito. Nei giorni che ancora gli restavano da passare lì sarebbe stato piacevole fare un lavoro di rifinitura, lavoro che non richiedeva un grande sforzo emotivo. Era soddisfatto del libro, sperava solo che l'editore non lo tro-
vasse noioso dopo Il gioco del Se. Nei confronti del denaro, Dennison aveva un atteggiamento meno primitivo della maggior parte della gente, e lui sperava di essere riuscito a renderlo ben chiaro. Per lui i soldi erano diventati un fatto impersonale, fondamentalmente poco importante, come un ombrello che si può prendere in prestito per ripararsi dalla pioggia, un ombrello restituibile, come quelli offerti in rastrelliere nelle stazioni ferroviarie di certi paesi, di cui aveva spesso sentito parlare. Del resto, le banche facevano la stessa cosa, solo cavandone interessi e sperando che la festa non avesse mai fine. Cominciò, poco per volta, a prepararsi per la partenza, benché avesse assurdamente poco da preparare. Non aveva conti in giro. Scrisse al suo agente. Spedì le stuoie a Ina e andò a parlare all'ufficio postale, dove lasciò una data dopo la quale avrebbero dovuto inoltrargli la posta al suo indirizzo di New York e, soprattutto, una mancia. Chiamò Nosiste per informarlo della notizia e presero appuntamento per cenare insieme la vigilia della partenza. Accompagnarlo all'aeroporto era inutile e imbarazzante, gli disse, perché doveva restituire la macchina in noleggio a Tunisi. «Ma all'aeroporto poi come ci arrivi?» chiese Nosiste. «Ti seguo in macchina fino all'autonoleggio.» Non ci fu modo di dissuaderlo. Ora che non c'era necessità di una routine, perché non stava scrivendo più, finì col crearsene una. Una nuotata la mattina, un po' di lavoro, di nuovo una nuotata, una breve passeggiata prima di pranzo, di nuovo lavoro. Stava dando le ultime occhiate in giro alla città, al Café de Paris, sempre e solo uomini, persino il bimbetto di tre anni seduto al tavolo con i bevitori di vino. Strani pensieri gli attraversavano la mente, alcuni dei quali lo facevano ridere come, per esempio, quello su quanto facile sarebbe stato noleggiare un arabo per qualche giorno e spacciarlo per lo scomparso Abdullah, così da soddisfare Ina dimostrandole che non era morto. Ma in sostanza la cosa non avrebbe cambiato per niente i suoi rapporti con Ina, e di questo se ne rendeva conto. La mattina prima di partire ci fu posta per lui. Innanzi tutto una cartolina di Jensen. Diceva: Caro Howard, scriverò ancora in seguito, intanto abbiti questa. Ti farò morire dicendoti che qui dormo con la coperta. Ti prego, vieni a trovarmi presto. Scrivimi. Con affetto, Anders.
La cartolina rappresentava un edificio dal tetto verdognolo circondato da un fossato o canale. C'era poi una lettera, con una quantità di inoltri, e quando vide la scrittura al centro della busta trattenne il fiato. Era di Lotte. Il timbro postale originale era della California. L'aprì. 20 luglio 19.. Caro Howard, non sono sicura che riceverai questa mia perché conosco solo il nostro vecchio indirizzo. Come stai? Bene, spero, e felice e in forma per il lavoro. Forse a quest'ora ti sarai già risposato (ho sentito dire qualcosa del genere nel solito brusio di voci), ma se ancora non lo sei sono sicura, conoscendoti, che sarai certamente impegnato, come dicono. Arrivo a New York il prossimo mese e pensavo che potessimo incontrarci in nome dei vecchi tempi a bere qualcosa insieme. Quello passato è stato un brutto anno quindi non aspettarti di vedere in me il quadro della felicità. Mio marito rivolgeva il proprio fascino anche a un po' d'altra gente così alla fine abbiamo deciso di finirla lì. Niente figli, grazie al cielo, sebbene avessi tutte le intenzioni di farne. (Non ci crederai, ma sono cambiata.) Spero di fermarmi a New York per un po'. Anche il sole può venire a noia e trovo ormai la California così piena di bizzarrie che alla fine mi sento al confronto tetragona come gli Smith Brothers. Correva voce qui che tu fossi andato in Medio Oriente a scrivere una commedia o roba del genere. Vero? Scrivimi presso Ditson, 121 Bleecker Street, New York City. Non starò lì, ma loro m'inoltreranno la posta ovunque io vada. A New York verso il 12 agosto più o meno. Affettuosamente, Lotte Quando l'ebbe letta riprese fiato. Il destino! Come se Lotte gli avesse letto nel pensiero. Di più. Certo lei doveva averne viste più di lui per indursi a scrivere quella lettera. Dunque era libera adesso. Cominciò a sorridere, assorto. Il suo primo impulso fu di scriverle che sarebbe stato lietissimo di vederla, poi si rese conto che sarebbe stato a New York l'indomani sera. L'avrebbe chiamata da casa: o meglio, avrebbe chiamato i Ditson chiedendo dove si trovava. Non conosceva i Ditson. Da Melik, quella sera, Nosiste fece commenti sul suo buonumore. In re-
altà, lui si sentiva abbastanza contento e parlò parecchio. Si rese conto che Nosiste dovette attribuire quella sua contentezza a null'altro che alla partenza. Avrebbe anche potuto dirgli di Lotte, ma non volle. E nonostante il suo apparente buonumore provava una certa compassione per Adams, che gli metteva un po' di tristezza. Sotto quell'aspetto gioviale sembrava molto solo e la sua allegria doveva essere falsa come quelle frasi che incideva su nastro. Per quanto tempo può sostenerti una finzione del genere? Personalmente, ui aveva la terribile sensazione che un giorno Nosiste sarebbe scoppiato come un palloncino, sarebbe crollato e crepato, probabilmente d'infarto. Nei prossimi mesi quanta altra gente sarebbe saltata fuori a tenergli compagnia? Nosiste gli aveva detto che da quando era lì aveva incontrato tre o quattro persone che gli erano riuscite simpatiche, ma naturalmente dopo un po' tutte andavano via. Era chiaro che lui si considerava il solitario guardiano del Nostro Sistema Americano in un desolato avamposto, intento a tenere accesa la luce del faro. La mattina dopo, all'aeroporto, Nosiste gli strinse forte il braccio. «Scrivimi. Non devo certo darti il mio indirizzo. A-ah!» «Addio, Francis. Sai, credo che tu qui mi abbia salvato la vita.» Forse dovette risultare un po' troppo esagerato, ma lo pensava davvero. «Sciocchezze, sciocchezze.» Nosiste non stava pensando affatto a quello che lui gli aveva detto. Gli puntò contro un dito. «Le usanze d'Arabia sono strane come i suoi profumi. Sì. Ma tu sei figlio dell'Occidente. Cerca d'esserne cosciente! A-ah! Fa anche rima. Involontaria. Addio, Howard, che Dio ti benedica!» S'allontanò nel corridoio nel quale s'era allontanato Jensen. Ebbe la sensazione d'essere sollevato lentamente in aria, in alto e sempre più in alto. Persino la macchina per scrivere che aveva in mano non pesava niente in quel momento. Non c'è niente, pensò, niente al mondo di tanto bello quanto il ricadere tra le braccia di una donna che è... probabilmente inadatta a te. Dentro di sé rise. Chi l'aveva detto? Proust? Ma l'aveva davvero detto qualcuno? In fondo al corridoio si voltò. Nosiste era ancora laggiù e lo salutava freneticamente con la mano. Avendo le mani occupate non poté salutare, allora gridò: «Addio, Francis!» Ma il fruscio dei sandali, il fracasso delle radioline e il frastuono degli incomprensibili annunci dei voli, coprirono quelle parole. FINE