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VAN SILLER LA PROVA DECISIVA (It Had To Be You, 1969) Personaggi principali: JOHN TOWNSEND un uomo molto ricco GAIL TOWNSEND moglie di John TIMMY figlio dei Townsend NORA HENDERSON governatore dei Townsend ANNE LANSING sorella di John BILL LANSING marito di Anne NANCY WARING una ex-modella SAMUEL GARRISON ispettore della Squadra Omicidi PAUL GILMORE amante di Gail PAUL GILMORE senior padre di Paul EVE WENDELL un'amica di Gail 1 John Townsend depose il bicchiere del martini e fissò suo figlio, di otto anni, seduto all'altro lato del tavolo. Si trovavano nella sala da pranzo principale all'Hotel Commodore. Adesso vi regnava un'atmosfera tranquilla, i clienti erano pochi e la frenesia dei giorni lavorativi era soltanto un ricordo. Era sabato, una deprimente e fredda giornata di novembre, con pioggia mista a neve che cadeva a raffiche. Le persone che affollavano il centro per fare acquisti erano sparite nei sobborghi, o nelle loro comode abitazioni, abbandonando New York ai suoi venti taglienti e alla pioggia mista a nevischio. John non aveva ancora affrontato il maltempo. Abitava al Club Yale, dal quale gli era possibile andare alla stazione Grand Central attraversando il sottopassaggio della ferrovia sotterranea, senza porre quindi piede all'aperto. Aveva prelevato Timmy al cancello della sotterranea, nel punto ove arrivava il treno di mezzogiorno da Mount Kisco. La signora Henderson aveva consegnato il bambino al padre, come faceva sempre a sabati alterni, e ora, entrato al Commodore dalla stazione, John si sentiva asciutto e caldo come se si fosse nel mese di giugno. Timmy, invece, aveva dovuto esporsi agli elementi, lasciando la sua casa
nei sobborghi, ed era arrivato simile a un pacco pronto per essere spedito nell'Alaska. Ora soprascarpe, cappotto, sciarpa e berretto erano stati depositati al guardaroba e Timmy sedeva di fronte al padre, con le luci del ristorante che gli illuminavano i capelli castano scuro. Fissava il padre, con occhi spalancati e seri, al di sopra dell'orlo del bicchiere pieno di ginger ale. «Che cosa hai detto, Timmy?» chiese John. Il bambino abbassò il bicchiere e si inumidì le labbra. «Ho domandato perché la mamma vuole ucciderti» disse. Arrivò il cameriere, con un vassoio colmo, e John si costrinse a sorridere. Attese impaziente, mentre il cameriere serviva l'aragosta alla Newburg e la crocchiante insalata. Agli inizi di quella nuova era, quasi due anni prima, Timmy, in occasione di quelle colazioni, ordinava hamburger, polpette, o uova strapazzate, ma poi John gli aveva suggerito pietanze più complicate, nel disperato tentativo di rendere quegli incontri avvenimenti allegri, anziché un noioso dovere per il bambino. A volte, andavano all'Oyster Bar della stazione, oppure facevano colazione al Central Park, per recarsi quindi al giardino zoologico, e, di tanto in tanto, frequentavano il Plaza o il St. Regis. John si faceva in quattro per cercare di divertire e d'interessare il figliolo, nei brevi periodi che trascorrevano insieme quelle poche ore a sabati alterni. Ormai era diventata una routine. La signora Henderson, ex-bambinaia di Timmy e ora governante a giornata di Gail a Mount Kisco, accompagnava il bambino sul treno nella tarda mattinata, poi andava a trovare amici o a fare spese, tornando a prendere Timmy poco prima delle sei, per il viaggio di ritorno fino a Westchester. Quel giorno, John aveva deciso di andare al concorso ippico di Madison Square Garden, ove erano in programma anche saggi infantili. Timmy si era dimostrato entusiasta, quando glielo aveva detto al telefono, durante la settimana, ma all'arrivo era apparso pallido e stanco, e non aveva dimostrato particolare interesse per il luogo ove avrebbero trascorso il pomeriggio. Annoiato per la mancanza di avventori, e sperando in una grossa mancia, il cameriere s'indaffarava cerimoniosamente nel servire il bambino col lindo vestito blu, così chiaramente figlio dell'uomo seduto all'altro lato del tavolo. Anche lui era bruno e i limpidi occhi grigi dei due si somigliavano in modo sorprendente, come l'ampia fronte e le labbra piene. Il cameriere scoperchiava le pietanze con gesti teatrali, pronunciando frasette scherzose, ma né l'uomo né il bambino sorridevano. Finì per rinunciare e si allon-
tanò disgustato, pensando che i bambini americani erano mocciosi viziati. «Perché pensi che tua madre voglia uccidermi?» domandò John, avendo cura di parlare in tono indifferente. «L'ho sentita mentre lo diceva alla signora Wendell, ieri pomeriggio.» «Bevendo cocktail, suppongo?» Timmy annuì e John vide la scena, come se fosse stato presente. Il grande soggiorno con le stampe di caccia e i colori smorzati, il fuoco che scoppiettava nel camino e le due donne, sofisticate, sedute sul divano, coi bicchieri davanti, che chiacchieravano liberamente. Parlavano con noncuranza dell'amante di questo o di quella, di chi si era ubriacato alla festa più recente, tagliavano i panni addosso alle amiche e discutevano spensieratamente di denaro, di sesso e di particolari intimi delle vite dei vicini. Vedeva Gail, la moglie, snella, bionda, allegra in apparenza, con quegli occhi azzurro chiaro che socchiudeva quando sorrideva o scherzava, ma che potevano tramutarsi in pezzetti di ghiaccio. Un bellissimo viso, con tratti classici, quasi perfetti. Com'era deliziato, lui, per la sua bellezza, orgoglioso di risvegliare la passione in quel corpo acerbo, quasi di ragazzo, dieci anni prima, quando lei aveva vent'anni e lui, a ventidue, aveva appena concluso gli studi all'università di Yale. Come sempre, Gail era indubbiamente vestita con eleganza. Probabilmente indossava un vestito di lana dalla semplicità ingannevole, aveva al collo un filo di perle, coi capelli biondo oro pallido piuttosto lunghi, dalle punte arricciate, come li pettinava fino dai tempi del suo ingresso in società. Quanto a Eve Wendell, la ricca divorziata sulla quarantina che abitava nella stessa strada, lei indossava certamente abiti da campagna in tweed, coi lisci capelli neri, con qualche filo grigio alle tempie, tagliati corti. La sua risata sonora punteggiava indubbiamente la conversazione. I giornali e le riviste definivano Eve Wendell una donna di mondo e le feste che dava a Westchester, o a Palm Beach, erano avvenimenti sontuosi e molto reclamizzati, per i quali tutti ambivano gli inviti. Quante volte, rincasando dall'ufficio in città, aveva trovato Gail ed Eve Wendell intente a sbronzarsi, ingurgitando cocktail a un'ora prematura. Quante volte aveva cercato di proteggere Timmy da conversazioni troppo sboccate, da pettegolezzi e da tutto il resto. Quando aveva protestato per quelle sedute, ritenendo che Eve avesse un cattivo influsso sulla moglie, si era però cacciato nei guai. «Smetti di essere pomposo» aveva ribattuto Gail irritata. «Eve è divertente, mi è simpatica e, inoltre, se le impedissi di fare un salto qui quando
ne ha voglia, per quanto tempo credi che continuerebbe a invitarci alle sue feste?» «Mi preoccupo di Timmy.» «Timmy? Non dire sciocchezze. L'adora.» «Ascolta, cara. Eve sarà ricca e molto nota nel mondo elegante, e riconosco che è divertente, però è una pettegola maligna e, a volte, sa anche essere molto volgare, quindi non mi va che Timmy la veda troppo.» Gli occhi di Gail si erano tramutati in pezzetti di ghiaccio. «Dio, che bigotto ipocrita sei diventato» aveva detto. «A sentirti, si direbbe che tu non abbia mai bevuto in vita tua, né raccontato una barzelletta sporca. Fai pure quello che ti pare, ma io non intendo diventare una mummia e vegetare semplicemente perché ho avuto un bambino. In passato eri divertente, ma adesso ti sei fossilizzato e se credi che il fatto di avere un figlio ti dia il diritto di dettar legge, sei pazzo. Intendo vedere Eve, o chiunque altro, quando mi pare e piace.» John era rimasto stupito, per il suo livore, ma ripensandoci, in seguito, capì che in fondo non era sorprendente. I genitori di Gail erano stati parenti poveri, se pur civili, e il padre non aveva mai fatto quattrini, o se non altro, non quanto se ne era aspettati la famiglia della moglie. Erano vissuti in quartieri comodi, ma poco eleganti di New York e, a suo tempo, Gail avrebbe probabilmente frequentato una scuola commerciale, per diventare quindi segretaria o trovarsi un lavoro di qualche genere. Invece era andata diversamente, perché una delle sue zie facoltose aveva provveduto a mandarla in buoni collegi e a farla quindi debuttare in società con un gruppo di altre ragazze, a un ballo ritenuto molto buono. Poi la zia era morta, lasciando a Gail una somma modesta che lei spese avventatamente, nel tentativo di stare al passo con le altre ragazze. Quando John la conobbe viveva ai margini della società elegante, sempre ospite di qualcuno, frequentando tutte le feste, fra gli inevitabili periodi di permanenza con i noiosi genitori. Era ormai in giro da due anni e il suo lascito era agli sgoccioli, tanto che pensava di trovarsi un lavoro, idea che la faceva inorridire perché avrebbe significato la fine della vita brillante e l'inizio di una monotona routine. Ma non era stato necessario che lei trovasse un lavoro. Si conobbero in casa di comuni amici a Long Island, e si sposarono dopo un breve ed eccitante periodo di corteggiamento, durante il quale, John si sentiva sicurissimo di essere stato il primo a risvegliare la passione di lei. In principio, Gail si era dimostrata controllata e quasi asessuale, poi aveva risposto al
suo ardore e alla fine, John aveva scatenato in lei una passione che era durata per molti anni, dopo il matrimonio. Un'altra zia, desiderosa di rispettare le forme, aveva a malincuore dato un ricevimento per il matrimonio, all'Hotel St. Regis, ed era stato il padre, Charles Kingston, a condurre Gail all'altare. Charles era un uomo alto, magro, dall'aspetto aristocratico, dal quale la figlia aveva ereditato la fredda bellezza. A cinquant'anni aveva ancora bei tratti, capelli chiari striati di grigio e baffi dello stesso colore, molto curati. Era uno di quegli uomini che a distanza sembrano distinti, deboli e privi di carattere se visti da vicino. La madre, una donna sbiadita, dall'aria preoccupata, che John aveva visto soltanto alcune volte, si era scusata e non era apparsa. «Nervi» aveva spiegato Charles, procedendo poi a ubriacarsi al ricevimento. Alcuni mesi più tardi era partito con la moglie per l'Arizona e nessuno dei due aveva più voluto tornare a New York. Più ci pensava e più John si rendeva conto che, a causa del suo ambiente familiare, Gail non avrebbe mai potuto rinunciare all'amicizia di una donna come Eve Wendell. Sposando lui, aveva sposato la ricchezza, forse non proprio un grosso e noto patrimonio, ma se non altro una posizione a New York, solida e di antica data, con denaro investito per lo più in beni immobili. Ciò le permetteva di stare al passo con i suoi vecchi amici, procurandosene di nuovi sul tipo di Eve Wendell. Era il genere di vita per il quale era stata educata nei collegi snob, nelle feste per debuttanti e nei lunghi week-end in case di campagna. Capace di riconoscere la sconfitta quando l'aveva sotto gli occhi, John aveva rinunciato a combattere accettando la situazione. Allora, gli era alleata la signora Henderson, che viveva in casa e cercava di tenere Timmy il più possibile occupato e all'aria aperta. Ora, invece, la governante prestava servizio a ore. Arrivava il mattino presto e andava via dopo avere servito il pranzo a Timmy. Offrendole un forte aumento di stipendio, John aveva cercato d'indurla a tornare a vivere in casa, ma Nora Henderson si era dimostrata irremovibile. Non sopportava la prolungata ora del cocktail e i pasti sciupati, quando Gail riceveva gli amici. «Eppure abbiamo sempre preso il cocktail, prima di pranzo» le aveva fatto osservare John. «Lo fanno tutti.» La signora Henderson aveva ribattuto che le cose erano cambiate. Quando c'era lui, in casa, il pranzo veniva servito a un'ora precisa e, anche se erano le otto, lei lo sapeva prima. Ma ora era subentrata la confusione e lei disapprovava Gail e i suoi amici. Era disposta a tenere pulita la casa e a
provvedere a Timmy, ma nulla di più. Non era affar suo ciò che succedeva dall'inizio della serata fino al mattino successivo, e non voleva saperne nulla. Allora, Timmy aveva sei anni, ma adesso ne aveva otto e, dato che non si poteva più nutrirlo e metterlo a letto presto, era impossibile stabilire quanto udisse e quanto capisse. A John non garbava ficcare il naso, o valersi del figlio, quale agente segreto, nel campo nemico, ma a volte, sembrava che anche una domanda innocente mettesse Timmy in guardia, imbarazzandoli entrambi. In effetti, il bambino adorava la madre e qualsiasi pur vago accenno a una critica, lo metteva sulla difensiva, in un modo stranamente adulto. Si sarebbe detto che, pur amando la madre con tutto il cuore; cominciasse a scorgerne le pecche e non volesse che altri, nemmeno il padre, le notasse. Per questo, John rimase stupito e molto turbato, di fronte alla domanda del bambino. Qualunque cosa Timmy avesse udito, per caso, l'aveva presa sul serio. In generale evitava, se possibile, di nominare la madre, quindi John pensò che suo figlio, combattuto da una contrastante lealtà, avesse finalmente deciso di prendere il toro per le corna. Riportando lo sguardo sulla figuretta solenne, seduta di fronte a lui, vide che Timmy fissava il piatto, senza avere toccato l'aragosta. «Che cosa ha detto, esattamente?» domandò. «Chi? La signora Wendell?» «No, tua madre.» Timmy afferrò la forchetta con una mano, tirandosi un ciuffo di capelli con l'altra. «Ha detto che prima o poi crede proprio che ti ucciderà.» «Ha detto veramente così?» «Sì.» Il viso pallido di Timmy si soffuse d'un tratto di rossore. Sforzandosi di nuovo per sorridere, John osservò: «Sono cose che la gente dice, Timmy. Non ti è mai capitato di sentir dire "l'avrei strozzata" oppure "sarei stato capace di ucciderlo"? Non significa niente, sono parole al vento, nient'altro.» Fissandolo, con espressione ansiosa nei limpidi occhi, Timmy ribatté: «Lei non parlava a vanvera, papà. Era furiosa.» «A che proposito?» «Non lo so, credo per via di zio Gilly.» Il viso cordiale di John si rabbuiò istantaneamente. «Paul Gilmore non è tuo zio» dichiarò. «È soltanto un mio ex-compagno di collegio e di università, questo prima che venisse espulso. Era un amico,
non un parente.» «Però mi dicevi sempre di chiamarlo...» «Lascia perdere. Era da voi, ieri pomeriggio?» Timmy fece un cenno negativo. Meno male, pensò John. Dalle ultime notizie che aveva avuto, Gilly era ad Acapulco probabilmente occupato a fare lo scroccone, approfittando degli amici incauti. «È venuto da noi la sera prima» annunciò Timmy inaspettatamente. «Mi ha portato un cappello di paglia e dei sandali.» «Bene» fece John, lottando per dominarsi, per comportarsi come se la presenza di Gilly in casa non avesse importanza. Non voleva che Timmy indovinasse la verità, anche se si chiedeva spesso chi fosse dei due a ingannare l'altro. Timmy aveva soltanto otto anni, era infantile, ma a volte era precoce, come tanti figli unici che vivono per lo più in un mondo di adulti. «Il cappello è troppo grande e i sandali sono troppo piccoli» fece Timmy con aria noncurante. «Doveva essere ubriaco, quando li ha comprati.» «Be', finiamo la colazione. Che dolce vuoi? Ti vanno le ciliegie Jubilée?» «D'accordo» disse Timmy apatico. John scrutò sospirando il viso turbato del figlio. Era spaventoso che un bambino tanto piccolo dovesse reggere il peso delle colpe degli adulti. «Ascolta» disse. «Tu non sei responsabile di niente, per quanto è accaduto fra tua madre e me. Vedi, non ci piaceva più vivere insieme e così io sono venuto ad abitare a New York. Non ci vediamo perché è meglio così.» Timmy lo fissò con espressione solenne, atrocemente simile a quella di un bambino educato che ascolti una favola. «Capisci, vero?» «Credo di sì.» «E allora non prendere sul serio tutto ciò che senti. Tua madre non parlava assolutamente sul serio, dicendo che vuole uccidermi, per cui smetti di preoccuparti.» «Era proprio arrabbiata, papà. Sai come diventa, quando s'infuria davvero. I suoi occhi...» «Senti, Timmy, non voglio più sentirne parlare.» Finirono la colazione, poi il portiere, all'ingresso dell'albergo nella Quarantaduesima Strada, trovò un tassì, quasi un miracolo a New York quando
imperversa il maltempo, e arrivarono a Madison Square Garden in tempo per il saggio infantile di salto a ostacoli. Il resto del pomeriggio trascorse abbastanza bene. Timmy era affascinato dai bambini che indossavano degli abiti da cavallerizzo, con i cravattoni e i berretti di velluto nero, che volavano sopra gli ostacoli in sella ai cavalli e ai pony dal manto lucente. Esclamava deluso quando un cavallo rifiutava l'ostacolo o prendeva la mano, e applaudiva freneticamente se un ragazzino superava felicemente la prova, senza falli. Nessuno dei due nominò più Gail, finché non furono seduti in un altro tassì, diretti di nuovo alla stazione Grand Central. Cadeva ancora il nevischio e la fredda sera invernale era già scesa. Il pavimento del tassì era umido e le luci dei negozi erano offuscate dalla nebbia che appannava le vetrine. I tergicristallo si spostavano frenetici, nel tentativo di avere la meglio sul nevischio che fioccava, e il conducente imprecava contro il tempo. Timmy parlò per un poco sulla mostra dei cavalli per carrozze, poi, mentre si avvicinavano alla stazione, tacque come se si fosse reso conto che, finito il piacevole pomeriggio, si trovava di nuovo di fronte ai suoi problemi. «Non hai parlato con nessuno di questa cosa, vero?» gli chiese John pensando d'un tratto ai compagni di Timmy della scuola privata che frequentava. Quasi tutti i genitori erano dei vicini, oppure gente con cui lui aveva giocato a golf, o che aveva trovato alle varie feste, prima di trasferirsi a New York. «A proposito di quello che ha detto la mamma?» domandò Timmy, spostando gli occhi dal finestrino appannato. «Sì.» «No, no di certo. Perché dovrei parlare di una cosa simile?» La voce del bambino si ruppe, quasi in un singhiozzo, e John capì sgomento che tutto ciò che aveva detto era stato inutile. La madre aveva fatto un discorso sciocco e dal suo tono, Timmy l'aveva interpretato come una minaccia, perché Gail era arrabbiata. Per forza era turbato, povero bambino. Per alcune ore era riuscito a dimenticare, ma adesso il suo cervellino ostinato, leale e ansioso ci pensava di nuovo. Impaurito, provava ovviamente vergogna, un senso di colpevolezza e fors'anche di slealtà, per il fatto di averne parlato col padre. «Dimentichiamocene, vuoi?» propose John. Timmy annuì con aria grave, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé. La signora Henderson aspettava paziente al cancello della sotterranea.
Era una donna di media statura, dalla vita larga, col viso bruttino cosparso di efelidi e slavati occhi azzurri. I suoi capelli, un tempo rossi, adesso erano di un color carota sbiadito, mescolati a fili argentei, e di solito lei li portava pettinati in una crocchia, ma ora alcune ciocche pendevano umide sotto il cappello di feltro grigio. Il suo impermeabile nero luccicava per il nevischio sciolto e il suo ombrello arrotolato aveva formato una pozzanghera per terra. Timmy la vide per primo e le corse incontro. Lei riuscì in qualche modo a tenere stretti l'ombrello e i vari pacchi, per tendergli le braccia. C'era uno spazio vuoto fra i suoi due denti superiori, ma il suo sorriso, mentre accoglieva il bambino, era affettuoso e materno. La governante aveva superato di qualche anno la cinquantina e non aveva avuto figli, ma a giudicare dall'espressione tenera del suo viso avrebbe potuto essere la nonna di Timmy. «Ti sei divertito, caro?» domandò, sorridendogli con calore prima di alzare lo sguardo verso John. «Che giornataccia!» riprese quindi. «Tutti gli autobus erano in ritardo e non sono riuscita a trovare un tassì, davanti ai grandi magazzini Macy. Timmy non si sarà bagnato, vero?» «No, siamo stati fortunati.» La governante lanciò a John un'occhiata significativa, poi riportò lo sguardo su Timmy. «Vuoi essere un bravo bambino e correre a comprarmi il giornale della sera?» disse, spostando i pacchi per arrivare alla borsetta. «Certo, Nora.» John fece una smorfia dispiaciuta e tese alcune monete al figlio. Nora Henderson era vedova, avendo perso il marito agli inizi della guerra, quando era ancora una novella sposa. Non aveva avuto il tempo per avere una casa e una famiglia propria e da quel giorno aveva sempre lavorato nelle case altrui. La sorella di John, Anne, l'aveva trovata tramite un'agenzia mentre Gail era ancora all'ospedale dopo la nascita di Timmy e la loro cameriera se n'era andata. Ammirato di fronte alla sua lealtà e alla sua fidatezza, John l'aveva sempre chiamata signora Henderson e Timmy aveva fatto altrettanto, da quando aveva imparato a parlare e fino alla separazione dei genitori. Adesso la chiamava Nora. «La mamma dice che è assurdo, chiamare signora una domestica» aveva spiegato con cura. John si era infuriato e la disputa era durata per mesi, però alla conclusione aveva rinunciato, rendendosi conto che lui e Gail si servivano del bambino quale corriere nella battaglia. Non poteva chiarire la questione con lei,
dato che non l'aveva più vista, né le aveva più rivolto la parola, da quella terribile notte, quasi due anni prima. Quando telefonava per parlare con Timmy, lo faceva il mattino presto, prima che Gail fosse alzata, e rispondevano sempre o il bambino o la signora Henderson. Era raro che Gail si alzasse prima delle dieci o delle undici, altro cambiamento dalle vecchie abitudini. La governante seguì con gli occhi Timmy che si avviava verso l'edicola, oppresso dal peso della sua tenuta artica. «Vi è sembrato di buon umore, oggi?» domandò. «Oh sì, ottimo. Perché?» «Stavo per telefonarvi, stamattina. Pensavo che non stesse bene, o che covasse qualcosa, ma lui ha insistito per venire. Spero che non succeda niente, ma è pallido. Credete che qualcosa l'abbia turbato?» John la guardò, a disagio. Aveva forse udito anche lei la frase di Gail, e capito che l'aveva sentita Timmy, oppure si preoccupava unicamente per la salute del bambino? «Probabilmente è soltanto stanco» fu pronto a rispondere. «Potrebbe essere una buona idea, mandarlo a letto presto.» Timmy tornò, evitandogli un'ulteriore conversazione, poi arrivò l'ora della partenza del treno. John li guardò allontanarsi e quando furono avviati al cancello, Timmy si voltò per agitare una mano in segno di saluto, sorridendo, come faceva sempre, ma questa volta il sorriso era triste sul visetto esangue. John rimase solo nella stazione affollata, non udendo e non vedendo l'attività che ferveva attorno a lui. Non udiva l'altoparlante annunciare arrivi e partenze, il fracasso dei cancelli che si chiudevano, gli invisibili treni che arrivavano e partivano e non vedeva neppure i facchini procedere a fatica coi loro carichi, né i passeggeri che si affrettavano verso i treni. Dopo essersi dominato per molte ore, adesso ribolliva. Occorreva provvedere in qualche modo alla situazione a Mount Kisco. E in modo drastico. 2 John aveva pensato di tornare al Club Yale per bere un paio di bicchierini, pranzare presto e andare forse a un cinema, oppure leggere un bel libro, la sua solita procedura dopo i pomeriggi trascorsi con Timmy. Pur aspettando con piacere quegli incontri, e godendone, erano fonte di una certa tensione e facevano riaffiorare ricordi che avrebbe preferito dimenticare.
Ogni volta che vedeva Timmy voltarsi per agitare una mano al cancello, prima di sparire, gli saliva un groppo alla gola e nelle ore successive provava un senso di vuoto e di depressione. E così di solito trascorreva quelle serate in solitudine, ritenendo che non sarebbe stato un compagno piacevole per nessuno. Questa volta cambiò invece programma e, dopo essersi accostato frettolosamente al telefono, formò il numero della sorella. Rispose la cameriera. «Salve, Stella, chiamate la signora Lansing, per piacere. Parla il signor Townsend.» Poco dopo, Anne venne al telefono. «Salve, caro» disse. «Come stai?» «Hai da fare?» «Dobbiamo andare a pranzo dai Patterson, ma soltanto alle otto. Sono appena tornata dal negozio. Che tempaccio, vero? Perché non fai un salto qui, a bere qualcosa in fretta?» «D'accordo, vengo subito.» «John...» «Sì?» «C'è qualcosa che non va? Mi sembri turbato.» «A Mount Kisco non va bene nulla, è tutto un gran pasticcio.» «Non è una novità.» «È peggio del solito. Te ne parlerò a voce.» John depose il ricevitore sulla forcella, per andare quindi, con passo rapido, all'ingresso della Vanderbilt Avenue, ove riuscì a balzare su un tassì, nell'attimo in cui alcune persone ne scendevano. Diede poi al conducente l'indirizzo nei pressi della Settantesima Strada Est e si sistemò sul sedile, preparandosi a fare un altro percorso in quella deprimente serata. «Adesso quella maledetta roba si gela sul pavimento» fece il conducente. «Pochi minuti fa un'automobile ha slittato, nella Quinta Avenue, e l'ho schivata per un pelo. Mi sono preso uno spavento maledetto.» Era un tipo ciarliero e continuò infatti per un po' a chiacchierare rapidamente, ma John pensava ad altro e non lo sentiva. Pensava a Paul Potter Gilmore junior, figlio di un industriale del Midwest, e lo rivedeva com'era, anni prima, a Hotchkiss. Gilly era arrivato fresco fresco dalla villa estiva di famiglia, sull'isola Mackinac nel Michigan, abbronzato e pieno di salute, piuttosto tarchiato anche allora, leggermente timido e insicuro, sulle prime, in quell'ambiente nuovo per lui. Il tipico ragazzo americano, di quelli ritratti sui manifesti, con innocenti occhi castani, ombreggiati da ciglia scu-
re, capelli di un castano dorato, striati dal sole, e un'aria sincera, attraente. Con gli insegnanti era popolare, perché era intelligente e sveglio, con i compagni perché era bravo negli sport, mai noioso e d'indole bonaria. Era impossibile litigare con lui. Usava il suo charme, anziché i pugni, e anche allora era capace di districarsi con lo scilinguagnolo da qualsiasi ginepraio. Inoltre, aveva più denaro da spendere di tutti gli altri, ma i compagni non se ne risentivano perché era generoso. Fin dai primi giorni dimostrò una capacità speciale nell'andare d'accordo con tutti e nel farsi degli amici. Rendeva qualsiasi cosa eccitante e piacevole. Negli ultimi due anni di permanenza in collegio, John aveva diviso la camera con Gilly e così pure nei primi tre all'università di Yale e non gli era mai passato per la mente che nel carattere dell'amico ci fosse qualcosa di ambiguo. Ogni volta che Gilly si cacciava in qualche guaio, John credeva ciecamente alla sua versione dei fatti. Sulle prime si trattava d'infrazioni piccole, ma tenendo conto di quanto Gilly amasse le feste, la gente e le esperienze nuove, era inevitabile che finisse in qualche guaio serio. E ciò accadde verso la fine del loro secondo anno di università, ma nessuno, John compreso, lo giudicò colpevole, quando un falegname locale informò il rettore che Gilly aveva costretto sua figlia quattordicenne a cedergli. Ora la ragazza era nei pasticci. Sulle prime Gilly negò perfino di conoscerla, poi ricordò di avere dato un passaggio a una ragazzina durante un temporale. Si era storta una caviglia e zoppicava lungo Chapel Street, quando lui l'aveva notata. «Accidenti» disse, seduto sul bordo del letto con sguardo in cui brillava l'innocenza. «Perché andrei a scegliere una ragazzina di quattordici anni, quando potrei portarmi a letto una dozzina di ragazze della mia età, ogni volta che ne ho voglia?» Il falegname aveva sollevato un tale putiferio che si era dovuto avvertire Gilmore padre. Gilly disse di non sapere neppure il nome della ragazza, o di averlo dimenticato, se mai lei glielo avesse detto. Lui, però, le aveva probabilmente detto il proprio, per cui il giochetto era chiaro, no? Il falegname e la figlia dovevano appioppare la colpa a qualcuno e così avevano scelto un tipo danaroso. Gilmore padre arrivò da Chicago, giudicò vangelo le parole del figlio e minacciò di querelare per diffamazione il falegname. La storia fini così. Gilly non se l'era presa. Disse che sarebbe stato ben contento di pagare le spese di un aborto, per quella povera bambina, ma come avrebbe potuto farlo, senza apparire colpevole? L'anno seguente, i guai piovvero davvero sulla sua bella testa. Incappò
in una retata della polizia, in un appartamento di New Haven, durante una festa alla marijuana. Gli sbirri asserirono che alcuni degli ospiti erano nudi e la definirono un'orgia. Gilly giurò che era semplicemente passato di lì con un altro studente, credendo che si trattasse di un cocktail-party, e che era vestito di tutto punto. «Bud e io stavamo per andarcene, quando abbiamo visto che cosa succedeva» disse, con il suo modo di fare convincente «ma gli sbirri sono entrati urlando, come una muta di cani, prima che potessimo uscire.» John gli credette, ma non le autorità. Gilly e l'altro studente furono espulsi, nonostante gli sforzi di Gilmore padre che, apparso di nuovo, fece di tutto per evitarlo. John non seppe mai come fosse finito Bud, ma il padre di Gilly riuscì a fare entrare subito il figlio in un'altra università. Convinto che l'amico fosse stato trattato ingiustamente, John si tenne in contatto con lui e rimasero molto amici. In seguito, Gilly andò a fare il servizio militare, quindi entrò nella potente azienda paterna, ove fece rapidamente carriera. Per alcuni anni, in veste di giovane dirigente, percorse il paese in aereo, sempre in movimento. Durante quel periodo d'intensa attività telefonò più volte a John e s'incontrarono spesso, per fare colazione o per bere qualcosa insieme, ma Gilly non ebbe mai il tempo per andare a Mount Kisco. Quando si sposò, il padre di John era morto da poco, quindi lui non poté assistere alle nozze. Tutto pareva procedere favorevolmente per Gilly, poi accadde qualcosa. La moglie chiese il divorzio e lui lasciò la ditta, o fu licenziato. Fu allora che il padre lo diseredò. Era successo circa tre anni prima e Gilly era andato all'estero, per una vacanza. John si era imbattuto in lui all'aeroporto Kennedy, mentre sostava fra due voli, e avevano pranzato insieme prima del volo per Parigi. Allegro e simpatico come sempre, Gilly non gli aveva però spiegato quanto era accaduto. Si sarebbe detto che fosse impervio a tutto. «Ti occorre denaro?» gli chiese John. «Non hai che a dirlo. Dalla morte di mio padre mi occupo degli affari di famiglia e posso facilmente...» «No grazie, ho ricavato qualche migliaio di dollari dai resti e ho intenzione di scialacquarne ogni centesimo, poi tornerò e deciderò sul da farsi. A proposito, di che affari si occupava tuo padre? Non credo di averlo mai saputo.» «Si occupava degli investimenti familiari, di beni immobili e cose del genere. Amministrava parecchi edifici di nostra proprietà. Siamo rimasti soltanto mia sorella e io e adesso mi occupo di tutto. C'è più lavoro di
quanto avessi creduto.» «Come sta Anne? Non la vedo da anni.» «Ha perso il suo bambino, qualche anno fa, e per un po' è stata dura, poi ha cominciato ad annoiarsi e ha aperto una boutique. Disegna lei stessa alcuni dei modelli e non sono male.» «Come se la cava?» «Ci rimette moltissimo, però si diverte e il lavoro la tiene occupata.» «E Bill? Si chiama così suo marito, vero? Ricordo di essere andato a New Haven e di avere pranzato con loro, subito dopo che si erano sposati. Pranzammo da Luckow, ricordi?» John annuì. «Bill continua a fare il copywriter in un'agenzia di pubblicità. Niente di trascendentale, ma a lui piace.» «Beviamo qualcos'altro?» propose Gilly. «Abbiamo tempo. Tua moglie come sta? Va tutto bene?» «Benissimo. Adesso mio figlio ha cinque anni. Devi venire a Mount Kisco, quando sarai tornato, sono certo che Gail ti conoscerebbe volentieri. Mi ha sentito parlare di te per tanti anni.» «Sarei felice di conoscerla.» Poi l'aveva conosciuta. Era tornato dall'Europa molti mesi dopo, al verde, però, in apparenza indomito. Continuava a dire che si sarebbe cercato un lavoro, ma non lo cercava. Andò a Mount Kisco per un week-end in giugno e prima che il week-end fosse finito, Eve Wendell gli aveva offerto la casetta per gli ospiti, sulla sua proprietà, per l'estate. Lui ci abitava ancora l'inverno successivo, quando successe il guaio. «Siamo arrivati, signore. Ve l'ho già detto due volte.» «Oh, grazie» disse John, accorgendosi all'improvviso che erano parcheggiati davanti al grande moderno edificio con le file di balconi e gli ettari di vetrate, in cui Anne e Bill Lansing avevano un appartamento di otto stanze. Pagò il conducente del tassì, il quale disse: «Non prendetevela.» Nella sua linda uniforme nera, Stella lo fece entrare nell'ingresso e gli prese cappotto e cappello. Dopo, John entrò nel vasto soggiorno, che si apriva su uno dei balconi. Era una stanza grande e ariosa, dalle pareti e dalle tende bianche per dare risalto alla collezione dei pastelli di Anne. Il punto di richiamo della stanza era rappresentato da un ampio camino, sovrastato da una specchiera larga circa tre metri, disegnata in modo che la mensola fosse una lunga fioriera incassata, che racchiudeva vasi d'edera, le cui fo-
glie ricadevano oltre il bordo e si riflettevano nello specchio. Quando Anne riceveva, sostituiva all'edera rose, o gerani, o complicate composizioni floreali, a seconda del tipo della festa. Quella sera c'era l'edera e un'allegra fiammata ardeva nel camino. Quando John entrò nella stanza, la sorella si alzò da uno dei divani che fiancheggiavano il camino e gli andò incontro sorridendo. Era una brunetta, maggiore di John di cinque anni, con occhi grigi come quelli di lui e di Timmy, però più piccoli e con sottili rughe agli angoli, come pure attorno alla bocca. Non era bella e neppure carina, però una piacevole animazione le soffondeva il viso, pronto a rispecchiare i suoi stati d'animo. Dall'altro capo di una stanza, John era sempre in grado di capire ciò che le diceva qualcuno, soltanto osservando il suo viso. A una buona notizia s'illuminava, nell'udire una cosa buffa si animava, oppure si faceva teso, ansioso e comprensivo se un amico aveva dei dispiaceri. Era molto ben fatta, anche se di statura piccola, e aveva la carnagione chiara e delicata. Prima di perdere il suo bambino non ci teneva particolarmente al vestiario, ma alla ricerca di una distrazione aveva pensato alla moda, per la quale le era poi nato un vivo interesse, tanto che aveva finito per aprire una boutique. Adesso vestiva con gusto e, anche dopo una dura giornata di lavoro, riusciva ad apparire elegante. «Caro, sembri proprio a terra» disse, sollevando il viso per baciare John su una guancia. «Non sei in forma neanche tu» ribatté lui, sorridendo. «Giornataccia?» «Terribile. La settimana prossima abbiamo il matrimonio della ragazza Wentworth e il debutto di Carol Islen. Il negozio era una gabbia di matti.» Guardando al di sopra della sua testa, John vide il cognato, che si alzava per salutarlo, e fu meravigliato nello scorgere una ragazza, seduta sull'altro divano. Con un bicchiere da cocktail in una mano, guardava Bill Lansing e diceva qualcosa ridendo. «Chi è?» chiese John. «Non sapevo che ci fosse gente.» Anne rise. «Non scappare, caro, è soltanto Nancy Waring, la mia nuova assistente. Mi ha portato alcuni schizzi e campioni che mi servono per domani. Avevo dimenticato di prenderli.» Lo guidò verso gli altri e lo presentò alla ragazza. Lei alzò gli occhi, sorridendo. Carina, pensò John, però niente di speciale. Corti, lucenti capelli neri, occhi troppo truccati. Bella figura, soprattutto le gambe. Indossava una guaina bianca e corta, di lana, con un'infinità di catene dorate. Probabilmente elegantissima, si disse John, ma la sottana si era sollevata in mo-
do preoccupante, quando si era seduta. Accorgendosi di star fissando, in tutta la loro lunghezza quelle seducenti gambe, John arrossì e si voltò verso il cognato che era lì accanto, grosso e cordiale, con una caraffa in una mano e un bicchiere da cocktail nell'altra. «Un martini? Si direbbe che tu ne abbia bisogno» fece Bill. «Infatti, grazie.» John avrebbe potuto sedere sul divano, accanto alla ragazza, invece scelse una delle poltrone davanti al camino. «Che succede, a Mount Kisco?» domandò Anne, prendendo il proprio bicchiere dal tavolino tondo, al centro del gruppetto. John spostò gli occhi da lei a Nancy Waring, aggrottando la fronte. «Oh, santo cielo, Nancy non ha mai sentito nominare Gail e probabilmente non sa neppure dove sia Mount Kisco» esclamò Anne. «Viene dalla California ed è arrivata soltanto un paio di mesi fa.» Nancy depose il bicchiere. «Stavo proprio per andare via» disse in fretta, arrossendo leggermente. «Neanche per sogno. Sei stata tanto carina da venire qui con questo tempaccio, e non hai bevuto un cocktail intero.» «Mi pare di capire che oggi fosse una delle giornate dedicate a Timmy» fece Bill. «Nel qual caso preparerò un'altra caraffa di martini.» Si alzò, per accostarsi al bar, e John lo seguì con lo sguardo, pensando, come gli era successo tante altre volte, che Bill non somigliava affatto a un tipo artistico. Indossava abiti costosi di buon taglio, però li portava con noncuranza; i capelli bruni erano striati di grigio e sembravano sempre un poco scompigliati, per colpa di un'ondulazione ribelle. Non era certamente un bell'uomo, però emanava un senso di cordialità e l'espressione nei suoi occhi scuri era dolce e bonaria. Un uomo che metteva a proprio agio. Perfetto per una donna nervosa come Anne, pensò John. «Non stare li seduto e zitto» fece lei con impazienza. «Perché le cose vanno peggio del solito?» John ingollò il martini, mentre il cognato si avvicinava con la caraffa piena. «È tornato quel mascalzone?» chiese Bill, chinandosi per riempire di nuovo il bicchiere di John. Lui annui. «Credevo che fosse in Messico» fece Anne. «A quanto pare, è tornato un paio di giorni fa.» «Deve essere impazzito, per tornare in questa epoca dell'anno» disse
Bill. Cercava di allentare la tensione, avendo capito che John era realmente preoccupato per qualcosa, mentre Anne, che prendeva tutto sul serio, si adeguava come sempre, turbata perché lo era il fratello, senza neppure sapere quale fosse il nuovo guaio. Senza fare caso al marito, Anne teneva gli occhi fissi su John. «Dovevi sapere che Gilly sarebbe tornato, caro» disse. «Tornerà sempre, finché quella maledetta Wendell gli darà alloggio gratuito e Gail...» S'interruppe, mordendosi le labbra. «Certo, sapevo che sarebbe tornato. Non si tratta di questo» disse John. «E allora?» John aveva di nuovo vuotato il bicchiere per metà. In generale reggeva bene l'alcol, ma i cocktail preparati da Bill venivano serviti in bicchieri enormi e, dopo la tensione del pomeriggio, cominciava a sentirsi un poco sbronzo. «Si tratta dell'effetto che questo odioso pasticcio ha su Timmy» sbottò a dire. «Quando l'hai visto, nel pomeriggio, c'era qualcosa che non andava?» domandò Anne, in tono ansioso. John fece un cenno affermativo. «Ieri ha per caso sentito Gail dire a Eve Wendell che, prima o poi, mi ucciderà e il povero bambino ci ha creduto. Era molto sconvolto.» «Santo cielo!» Anne sembrava sbalordita. «Che cosa orribile da dire.» «Ho cercato di spiegargli che Gail scherzava» disse John «ma lui insisteva nel dire che era molto arrabbiata, quando l'ha detto ed è convinto che parlasse sul serio.» «Sapeva perché era arrabbiata?» domandò Anne. «Credeva c'entrasse Gilly.» Bill sorrise ironico. «In questo caso, sono d'accordo con Timmy» fece. «Probabilmente, lei parlava sul serio.» «Non sei affatto spiritoso» esclamò Anne in tono acido. Poi, rivolta al fratello, riprese: «Ne è al corrente, la signora Henderson?» «Non lo so, ma non credo. Ho ammonito Timmy di non parlarne con nessuno.» «Potrai forse riuscire a mettere la museruola a lui, ma che cosa diavolo credi di poter fare con Eve Wendell?» chiese Bill. «È proprio il genere di cosa in cui le piace affondare i denti. Mi pare di sentirla gonfiare la faccenda, se comincia ad annoiarsi.» Anne aggrottò le sopracciglia. «Probabilmente non significa niente» os-
servò «ma il modo di esprimersi di Gail è strano, ammesso che Timmy abbia sentito bene.» «Ha sentito bene senz'altro» disse John. «Ormai ha un'età in cui rischia di capire bene troppe cose.» «Che cosa intendi fare?» «Non lo so.» «Vuoi che inviti Gail a colazione, o che faccia un salto a Mount Kisco, per parlarle?» Bill interruppe ridendo. «E che cosa le diresti, cara? "Sono venuta per chiederti se hai veramente intenzione di assassinare mio fratello"?» Non capendo che il marito voleva a tutti i costi impedirle di preoccuparsi, Anne lo affrontò irosa. «Non è uno scherzo» dichiarò. «Quella sgualdrina è capace di tutto.» In passato, Anne e Gail erano state amiche, ma adesso Anne disprezzava la cognata. Non avevano rotto i ponti, ma si trattava di rapporti freddi da ambo le parti, e tutte e due li mantenevano per motivi personali. Anne voleva garantirsi che si avessero le dovute cure per il nipote e Gail cercava di servirsi della cognata quale intermediaria. «Preferirei che Gail non sapesse che Timmy me ne ha parlato» disse John. «Perché?» volle sapere Anne. «Per amore del cielo, non puoi permettere che quella donna continui a dire cose simili. Qualcuno deve tapparle la bocca.» «Lascia perdere» disse John seccamente. Adesso era irritato di averne parlato ad Anne e, addirittura, di essere andato dalla sorella. Avrebbe dovuto fare come sempre, e trascorrere la serata in solitudine. Avvertendo il suo cambiamento di umore, Bill si alzò senza indugio con la caraffa in mano. «Lascia che ti versi un altro martini, vecchio» propose. John accettò, sapendo che avrebbe dovuto rifiutare, e mentre Bill gli riempiva il bicchiere, notò che Anne lo fissava attentamente, con espressione preoccupata. Accidenti, non avrebbe dovuto turbarla con quella storia. Era sempre stata emotiva, molto nervosa, e dopo la morte del suo bambino aveva avuto un forte esaurimento. La situazione fra lui e Gail l'aveva scossa, dopo la loro separazione, e adesso lui aveva peggiorato le cose. «Non preoccuparti» le disse. «Probabilmente Gail faceva semplicemente una scena drammatica e Timmy ha pensato che parlasse sul serio.» Dopo averlo fissato per un po', Anne spense la sigaretta nel portacenere,
dicendo: «Porta il tuo bicchiere nello studio, voglio parlarti a quattr'occhi. Nancy e Bill ci scuseranno.» Lo condusse nello studio, in cui si entrava dal soggiorno. I passi corti e nervosi dell'elegante figuretta con il bell'abito grigio, da sera, benché tenesse il capo eretto, tradivano l'ansia. «Caccia in testa a quello sciocco un poco di buon senso» gridò Bill. Aveva parlato in tono gioviale e noncurante, come se fosse tutto uno scherzo, ma appena la porta dello studio si fu richiusa, depose il bicchiere imprecando. Nancy Waring, che era rimasta seduta esterrefatta sul divano di fronte a lui, si rianimò all'improvviso. Allungò una mano per prendere una sigaretta, l'accese con l'accendino da tavolo, poi guardò Bill attraverso il fumo, con un sorriso cinico sulle labbra. «Non sono affari miei» disse «ma non è un po' ridicola, questa storia? Non riesco a immaginare che qualcuno, nemmeno un bambino di otto anni, prenda sul serio una battuta di questo genere.» Prima, Bill aveva mantenuto un atteggiamento indifferente, ma ora aveva improvvisamente l'aria incollerita. «John è uno sciocco maledetto» sbottò a dire. «Avrebbe dovuto divorziare da quella donna appena l'ha beccata in camera con Paul Gilmore.» Nancy spalancò gli occhi dalle ciglia troppo truccate e la mano con cui si stava portando la sigaretta alla bocca restò a mezz'aria. «Vuoi dire che ha trovato la moglie con un altro e non ha divorziato?» Poiché Bill annuiva, esclamò: «Perché mai, santo cielo?» «Perché è un idiota ostinato e idealista» ribatté Bill, lanciando un'occhiata alla porta chiusa dello studio. «Adesso Anne è là dentro che ci riprova. Abbiamo passato quasi due anni, cercando di farlo divorziare, e anche Gail, del resto. Ogni volta che Anne la vede, o che lei viene qui, ci supplica di cercare di convincerlo, ma lui non molla.» «Perché non lo chiede lei, il divorzio?» domandò Nancy, piegando su una spalla la testa bruna. «Denaro.» Bill si appoggiò allo schienale del divano, col bonario volto soffuso di preoccupazione. «Lui non le concederà il divorzio finché Timmy non sarà abbastanza grande per andare in collegio, quindi, fino ad allora, Gail resterà legata a lui. È questo che rende la situazione tanto pericolosa. Odia John, e probabilmente, nulla le farebbe più comodo che saperlo morto. Lui è pazzo a lasciare che le cose vadano avanti così.» «Forse ne è ancora innamorato.»
Bill scosse la testa. «È per via di Timmy» spiegò. «Furono felicemente sposati, o almeno John lo credeva, fino a quasi due anni fa. Paul Gilmore, il suo migliore amico, viveva a Mount Kisco da ormai vari mesi, ma John non sognava neppure che stesse succedendo qualcosa, fino a quella vigilia di capodanno. Quella sera, Anne e io davamo una grande festa e Gail doveva venire dalla campagna, per trovarsi qui con John a pranzo, prima della festa. Avrebbero poi trascorso la notte da noi, tornando in campagna il mattino dopo.» Bill s'interruppe, per bere un sorso, quindi riprese: «Era una sera orribile quanto questa, ma in più nevicava. Verso capodanno si direbbe che a New York e dintorni ci sia sempre un tempo infernale. Comunque, John arrivò dall'ufficio, bevemmo qualcosa, aspettando Gail, e Anne s'innervosiva all'idea di tenere il pranzo in sospeso, dato che dopo aspettavamo altri ospiti. Attendevamo ancora, quando Gail telefonò per dire a John che aveva tentato di farcela, ma che non si sentiva affatto bene e che lo stato delle strade la preoccupava. Insistette perché lui restasse in città e si divertisse. John finì per cedere, ma più tardi, pensando che Gail era là, sola, a capodanno, prese in prestito l'automobile di Anne e se ne andò, portandosi via una bottiglia di champagne. Riuscì a rincasare prima di mezzanotte e, vedendo la luce accesa nella stanza da letto, entrò all'improvviso, soddisfattissimo di avercela fatta in mezzo alla tormenta, e stringendo in mano la bottiglia. Trovò Gail e il suo migliore amico, a letto.» Serrando le labbra, Bill concluse: «Avrebbe dovuto buttarla fuori allora, sui due piedi.» «Che cosa fece?» domandò Nancy. «Buttò fuori Gilly, poi disse a Gail che poteva restare nella casa e che lui avrebbe provveduto al suo mantenimento, senza però concederle il divorzio finché Timmy non fosse stato abbastanza grande per andare in collegio. Le disse anche che non voleva mai più vederla e così fece.» Perplessa, Nancy domandò: «Perché mai non si prese Timmy e non divorziò? Credevo che l'adulterio fosse un motivo valido ovunque, soprattutto a New York.» «Non concede a Gail il divorzio per timore che riesca a farsi affidare Timmy, dato che in tal caso non avrebbe più voce in capitolo, mentre ora ce l'ha; a sua volta, non vuole chiedere il divorzio perché trascinerebbe Gail nel fango, e non vuole farlo dal momento che lei è la madre di Timmy.» «E la sua vita? Non si sta forse dando la zappa sui piedi, per fare dispetto a lei?»
«Non si tratta di un dispetto. Ritiene di agire in modo giusto per il bene di suo figlio. Gail è un'assoluta sgualdrina, però è bella e Timmy la trova meravigliosa, per cui John cerca di conservargli l'illusione, se non altro finché sarà possibile.» «Non capisco come lei possa vivere così» osservò Nancy. «Io impazzirei.» Bill scrollò le spalle. «Che altro può fare? Se cercasse di opporsi perderebbe tutto, figlio, casa e la rendita che le passa John. E in tal caso, Gilly sparirebbe in fretta. E allora, tirano avanti con la loro relazione, che a quanto pare è accettata in ciò che oggi viene definita società.» «Quel Gilly sembra un tipo impossibile.» Con un sorriso triste, Bill osservò: «Se tu facessi la sua conoscenza domani, impazziresti per lui. Quella prima estate che trascorse nella casetta degli ospiti di Eve Wendell, Anne e io lo vedevamo spesso. È questo il guaio, è un tipo veramente affascinante. Sua madre, o qualche altro parente, devono mandargli quanto basta per il vestiario e per andare in giro, ma non dispone di una rendita vera e propria, anche se se la cava benissimo. È una compagnia piacevole e suscita immediate simpatie; piace a tutti, è invitato ovunque. John gli era molto affezionato, prima di quella tremenda sera. Tutti noi gli eravamo affezionati.» Osservando Bill, con aria pensosa, Nancy fece: «Sei veramente preoccupato, vero?» «Da molto tempo» rispose lui, fissando le guizzanti fiamme nel camino, come se vi vedesse riflesso il passato. «Ho discusso con John fino ad avere la voce roca, ma lui non vuole ascoltare.» «Allora credi che Gail potrebbe avere parlato veramente sul serio, quando ha detto che vuole uccidere il marito?» «Dio solo lo sa, ma date le circostanze è possibile.» Nancy stese le lunghe gambe e si fissò le punte delle scarpe. «Scusa se te lo dico» fece «ma mi sembrate tutti matti.» Bill spostò gli occhi dal fuoco a lei e vide con stupore che Nancy sorrideva. Svanita la sua consueta giovialità, le disse in tono sostenuto: «Non avrei dovuto importi i nostri problemi familiari, ma non pensavo che avresti trovato la situazione comica.» Il sorriso di Nancy sparì immediatamente. «Oh, non è vero» esclamò «ma trovo che prendete tutta la faccenda troppo sul serio. Gail non può avere parlato sul serio, perché se così fosse ti sembra che andrebbe in giro a raccontarlo, santo cielo?»
Con la fronte aggrottata, Bill tolse la cenere di sigaretta che gli era caduta sulla giacca. «I suicidi» osservò «parlano della loro intenzione di uccidersi e la gente non li prende sul serio, finché non è troppo tardi. Può succedere qualsiasi cosa, quando una persona supera il limite della sopportazione. Gail sta bene, materialmente non le manca niente, però sotto un certo aspetto vive in uno stato di schiavitù. Non sono certamente benevolo nei suoi confronti, ma tutta la situazione è sbagliata e prima o poi dovrà esplodere. Non mi sorprenderebbe affatto, se avesse realmente parlato sul serio.» «Vuoi scherzare, Bill!» «Magari. Un altro martini?» Nancy scosse la testa e si alzò. «No, grazie» disse. «Devo andare.» Bill cercò di trattenerla. Si faceva tardi e doveva cambiarsi, per andare a pranzo dai Patterson, per cui l'accompagnò nell'ingresso, l'aiutò a infilarsi gli stivali e il cappottino di pelle nera. Dopo, ristette a guardare la sua immagine, riflessa nello specchio, mentre lei si metteva in testa il berrettino nero. Sapeva che in passato aveva fatto la modella e si chiedeva perché Anne non avesse pensato di utilizzarla per alcune delle foto pubblicitarie, sexy e sofisticate, che pubblicava ogni settimana sul "New Yorker". Doveva essere fotogenica, con quegli scuri occhi lucenti, quel nasino corto e quegli zigomi sporgenti, senza contare che quando se ne dava la pena portava gli abiti con eleganza. Non se ne dava però sempre la pena, più interessata a schizzare nuove idee e ad aiutare Anne a dirigere la boutique, che a mettere in mostra i risultati delle loro fatiche. C'erano altre, per quel lavoro. «Non dirai a Anne che sono preoccupato, vero?» le raccomandò, aprendo la porta. Nancy lo guardò sorridendo. «No davvero, però continuo a pensare che vi angosciate inutilmente.» «Spero in Dio che tu abbia ragione» fece Bill. 3 Dieci minuti dopo, Nancy era ancora davanti all'edificio, sotto la protezione dell'ombrello del portiere, il quale stava cercando di fermare un tassi dopo l'altro, ma gli sfrecciavano davanti con arroganza, con passeggeri comodi al calduccio. Il nevischio, spinto dal vento, scendeva ancora a raffiche e la temperatura era gelida.
«Sarà meglio che torniate dentro, signorina; andrò fino a Park Avenue per vedere se riesco a fermare un tassì» disse il portiere, sorridendo con le labbra intirizzite per il freddo. Quando John uscì dall'ascensore vide una ragazza bruna dalle lunghe gambe strette in alti stivali neri, con un cappottino di pelle nera, ritta davanti alla porta a vetri. Gli voltava le spalle e lui la notò a malapena, mentre attraversava l'atrio a lunghi passi. Quando le passò accanto, quasi sfiorandola, e fece il gesto di aprire la porta, lei si girò e gli sorrise. Ormai John era di umore nero. Fra lui e Anne si era svolta una scena violenta e si sarebbe morso le mani, per averla agitata, facendosi inoltre trascinare in un'altra futile discussione. «Non abbiate fretta» disse la ragazza. «Il portiere è andato fino a Park Avenue per vedere se trova un tassì.» John si fermò di botto. «Ah, siete la signorina...» Aveva dimenticato il nome. «Waring» disse lei. «Nancy Waring.» Bill Lansing si era messo lo smoking e ora, ritto davanti allo specchio nella stanza da bagno, cercava di appiattire l'ondulazione dei suoi capelli con un pettine umido, quando udì la moglie entrare nell'attigua stanza da letto. «John è andato via?» gridò. «Circa venti minuti fa.» Bill inumidì di nuovo, invano, i capelli ribelli e si sistemò la cravatta. «Sarà meglio andare» disse «altrimenti arriveremo in ritardo.» Nella stanza da letto regnava il silenzio. Perplesso, Bill si scostò dallo specchio per entrare nella camera, ma Anne non era seduta alla toilette, intenta a rivedere il trucco, come faceva sempre prima di uscire. Anzi, entrando nella camera Bill non la vide affatto, poi si accorse che era nella stanza degli armadi. «Telefonerò giù a Fritz, per chiedergli di chiamare un tassì» le disse. Anne uscì dalla stanzetta e Bill notò, stupito, che si era tolta l'abito grigio da sera e si stava infilando la vestaglia. «Che succede?» domandò. «Credevo che tu fossi pronta per uscire. Non hai tempo, per cambiarti di nuovo.» «Non esco.» Anne si accostò ai letti gemelli, prese una sigaretta da una scatola posata su uno dei comodini, quindi chinò la testa per accenderla. «Telefona ai Patterson» riprese «e di' a Bea che mi sono slogata una cavi-
glia, che mi è scoppiato un raffreddore, insomma quello che vuoi.» «Ma non è possibile, te ne rendi conto? Dovremmo essere là alle otto e adesso manca un quarto d'ora. Non possiamo...» Bill s'interruppe. Anne si era girata e lui la vide in viso per la prima volta, da quando aveva lasciato il soggiorno con John. Pallidissima, aveva l'espressione tesa, il trucco le era colato dagli occhi e le tremavano le labbra. «Tesoro, che cosa c'è?» esclamò Bill, accorrendo verso di lei. «Hai litigato di nuovo con John?» Anne annuì, lasciandosi cadere sul bordo del letto più vicino. «Telefona a Bea, per piacere» disse. «Non ce la faccio, veramente.» «Certo, cara.» Bill andò nello studio e telefonò quindi a Bea Patterson, per dirle che qualcosa aveva talmente turbato Anne, per cui non potevano andare a pranzo. Bea, una vecchia amica che sapeva dell'esaurimento di Anne, dopo la morte del bambino, fu comprensiva e non fece domande imbarazzanti. Quando Bill tornò nella stanza da letto, Anne sedeva esattamente dove l'aveva lasciata. Fumava nervosamente, con gli occhi fissi sul tappeto, e i bruni capelli le celavano parte del volto. «Che cosa è successo?» le domandò, sedendole accanto. «C'è stata una lite tremenda, la peggiore che abbiamo mai avuto John e io. Ho tentato e ritentato di fargli capire che deve divorziare da Gail, oppure permetterle di chiedere il divorzio, ma non ho ottenuto niente. Si è soltanto infuriato.» «Non abbiamo mai ottenuto niente» fece Bill, guardandola con aria curiosa. «Che novità è questa? Non capisco perché te la prendi in questo modo.» «È per via di quella terribile cosa che Gail ha detto a Eve Wendell.» Anne si girò verso Bill, con gli occhi pieni di lacrime. «Ho paura» aggiunse. Lui la circondò con un braccio, cercando di apparire noncurante. «Non fare la sciocca, cara» disse. «Sono quasi due anni che si va avanti così, perché d'un tratto dovrebbe cambiare qualcosa?» «Perché Timmy ha detto a John che Gail era arrabbiata. Lo era evidentemente abbastanza per spaventare quel povero bambino, quindi la sua frase non era di quelle che si dicono così, per dire.» «Non sappiamo neanche perché era arrabbiata, tesoro! Soltanto una vaga idea che potesse trattarsi di Gilly.» «Quando ho parlato con John non lo sapevo, ma adesso lo so» disse Anne, spegnendo con gesto brusco la sigaretta nel portacenere.
«Che diavolo vuoi dire?» Bill aggrottò la fronte. «Dopo che John è andato via, ho fatto alcune telefonate.» «Dio santo, combinerai un pasticcio!» Bill si alzò, passandosi le dita fra i capelli, e continuava a guardare la moglie con aria aggrondata. «Come diavolo ti è saltato in mente di telefonare in giro? Ti giudicheranno pazza.» Un'espressione scaltra si soffuse sul volto teso di Anne. «Non ho detto il mio nome» spiegò «ma soltanto che ero una cronista del "News" e ho chiesto se c'era un fondo di vero, nella voce secondo la quale Paul Gilmore si è imbarcato in un nuovo amore.» «Non hai telefonato a Eve Wendell, vero?» fece Bill, con un gemito. «Sì, ma ho contraffatto la voce. Ho parlato con Polly Gordon e con Harriet Page a Mount Kisco, oltre a un paio di persone qui in città, e ho scoperto che Gilly s'interessa realmente a un'altra.» «Santo cielo, non crederai che in tutto questo tempo sia stato sempre fedele a Gail!» fece Bill spazientito. «Sai benissimo che è sempre in giro, ospite di tanta gente, e probabilmente è stato in compagnia di dozzine di donne, da quando è cominciata la storia con Gail.» «D'accordo, ma erano cose passeggere.» Anne guardò Bill, tuttora pallida e tesa. «Capisci, dopo che John è andato via ho cominciato a chiedermi perché Gail era arrabbiata. Secondo Timmy, c'entrava Gilly e l'unica cosa che mi è venuta in mente è che lui si sia realmente innamorato di un'altra.» «È vero?» «Sì.» «Qualcuno che conosciamo?» «No, ma Gail la conosce. Si chiama Babs Carlton Carlyle e fece il suo debutto in società nell'anno in cui lo fece Gail.» «E con questo? Ormai Gail dovrebbe essere abituata alle sue avventure.» Con dita tremanti Anne accese un'altra sigaretta. «Questa non è una semplice avventura. Gilly la conobbe l'estate scorsa e non so a quanto ammontasse la sua ricchezza, allora, ma adesso è ricca sfondata. Divorziò dal primo marito alcuni anni fa, ottenendo fortissimi alimenti, poi sposò Randolph Carlyle.» «I Carlyle delle banche?» «Sì. Ha avuto un figlio con ogni marito.» «Si direbbe che succeda sempre, quando ci sono molti quattrini in ballo» osservò Bill, scrollando le spalle. «Be', se è sposata, probabilmente si tratta soltanto di un'altra avventuretta.» «Non vuoi capire, ti dico che è una cosa seria. Anche questa Babs era ad
Acapulco ed è tornata da poco. C'era insieme a Gilly.» Bill sorrise, benché non ne provasse il desiderio. Era esasperato e ansioso, per la ripercussione che avevano su Anne i maledetti problemi di John. Sorrise però ugualmente. Con una smorfia disse: «È un gran bel posto per fare l'amore. Ricordi la sera...» «Era là per ottenere il divorzio da Carlyle» interruppe Anne. Il sorriso di Bill svanì, cancellato dall'espressione del volto della moglie. Un paio d'ore prima era tornata dal negozio stanca, però allegra e felice. Adesso era invecchiata di dieci anni e il suo viso era una maschera, pallida e tesa, con rughe che Bill non le aveva più visto dopo la morte del loro figlioletto. Sedeva rannicchiata nella vestaglia, simile a un'inferma e, mentre la fissava, Bill era combattuto da un complesso di sentimenti. Provava amore, comprensione, perfino pietà per lei, ma anche esasperazione. A volte, il fatto che fosse tanto vulnerabile, lo irritava. Aveva cercato per anni d'indurla ad affrontare le cose con calma, ma non ci era riuscito. Continuava a fallire nel suo intento e poteva soltanto cercare di attutire i colpi, di proteggerla quanto poteva, di combattere le sue ansie con un atteggiamento noncurante, quale che fosse in realtà il suo stato d'animo. Muto, imprecava fra sé contro il cognato, quindi si chinò per costringere Anne ad alzarsi e la strinse a sé. «Cara, smetti di torturarti per amore del cielo!» disse al di sopra della testa di sua moglie. «Si tratta probabilmente di pettegolezzi mondani, e, anche in caso contrario, se Gail è veramente infuriata, dovrebbe esserlo con Gilly non con John.» Anne si scostò, per guardarlo in viso. «Non capisci?» chiese con voce più stridula. «Significa che l'altra è libera e può fare ciò che vuole, al contrario di Gail; lei non sarà libera per anni, a meno che non riesca a disfarsi di John. Dovrebbe restare passiva, lasciando che Babs Carlyle le porti via Gilly? Sai benissimo che non lo farà mai, campasse mille anni.» Si fissarono in silenzio, per molti secondi, poi Bill la lasciò andare. «Credi che dovremmo dirlo a John?» domandò Anne. Lui scosse la testa. «Potrebbero comunque essere soltanto pettegolezzi» osservò. «Quella gente non ha altro da fare.» «E allora?» «Sbronziamoci e dimentichiamo tutta la faccenda» fece Bill sorridendo. «Vieni, vado a preparare un'altra caraffa di martini.»
Quando il portiere tornò trionfante con un tassì, Nancy chiese a John da che parte andasse. «Al Club Yale» rispose. «E voi?» «A casa, ho un appartamento nella Quarantaseiesima Strada Est, fra la Seconda e la Terza Avenue.» Finirono per salire insieme nel tassì e John, ancora di cattivo umore, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, mentre il nevischio inzaccherava il parabrezza dell'automobile, che procedeva lungo Park Avenue. Era stanco del nevischio, furioso con se stesso per avere turbato Anne e, a questo punto, l'effetto del martini era dileguato. Era consapevole della ragazza che gli sedeva a fianco, del suo profumo penetrante, delle sue lunghe gambe, che teneva accavallate mettendone in mostra buona parte, di quel corpo vicino al suo. Eppure continuò a guardare dritto davanti a sé, deciso a non farsi coinvolgere. Aveva imparato a diffidare delle donne e, per lui, Nancy Waring era soltanto un'altra ragazza carina e sofisticata, simile a mille altre a New York. «Avete un accendino?» gli chiese lei d'un tratto. John si girò e vide che Nancy stringeva una sigaretta fra le dita inguantate. Tirò fuori l'accendino e, mentre le accendeva la sigaretta, notò di nuovo gli occhi molto truccati. Pensò che qualcuno avrebbe dovuto dirle di truccarsi con mano più leggera, ma poi si disse che, in fondo, l'effetto non era deprecabile. In certo qual modo, le donava. «Grazie» disse lei, lanciando una boccata di fumo e sorridendo. Percorsero alcuni altri isolati in silenzio, quindi Nancy parlò di nuovo. «Se non avete niente di meglio da fare» disse «perché non mi portate a pranzo?» John era talmente meravigliato, che si girò per fissarla, con espressione vuota. «Oh, era soltanto un'idea» riprese Nancy. «È una notte talmente orrenda e ho pensato che potrebbe essere divertente.» Allora, John ricordò di avere sentito Anne dire che la ragazza era arrivata a New York da due soli mesi e pensò che forse si sentiva sola, in quella città a lei sconosciuta. In fin dei conti era l'assistente di Anne, non una donna qualsiasi che gli si era appiccicata a un cocktail-party. «D'accordo» disse. «Dove volete andare?» «C'è un simpatico localetto francese nella Terza Avenue, poco lontano dal mio appartamento. Si chiama "La Cabane".»
La "capanna", tradusse John fra sé, era un locale squallido probabilmente ove si servivano cibi italiani camuffati da francesi, ma pochi minuti dopo cambiò idea. Quando usciva a pranzo con gli amici, frequentava generalmente locali come "Voisin", il "21", "Le Pavilion" o altri ristoranti costosi e impersonali, invece "La Cabane" era un accogliente ristorantino di proprietà di un vecchio francese, originario della Provenza, di nome André. Dato il cattivo tempo, gli avventori erano pochi e il proprietario s'indaffarò, aiutando John a ordinare, come se stesse scegliendo dei diamanti. Finirono per chiedere due Châteaubriand e una bottiglia di Château Pouilly 1959. «Un cocktail, prima?» propose André. «Sì, martini per piacere» disse John, girandosi quindi verso Nancy. Lei si era tolta il berrettino umido, scompigliandosi poi i capelli, e i suoi occhi brillavano alla luce delle candele. John notò che erano nocciola scuro. Le labbra dal trucco leggero erano ben delineate, gli zigomi sporgenti. John si chiese come mai l'avesse giudicata soltanto carina, mentre era quasi bella, eccettuato per l'espressione un poco dura, quando taceva. Forse era stanca, come Anne, dopo la lunga giornata trascorsa nella boutique. Da quando l'aveva inaugurata, Anne aveva spesso i tratti duri, se era molto stanca, però dopo essersi riposata riacquistava un'espressione dolce. Era probabilmente faticoso, per le due donne, dover lavorare anche tutti i sabati. Quando arrivarono i cocktail, Nancy prese in mano il bicchiere, bevve un sorso e sorrise a John, seduto all'altro lato del tavolo. «È la prima volta che costringo un uomo a invitarmi a pranzo» disse. Di migliore umore, John ricambiò il sorriso. «Però, non ho opposto molta resistenza» fece. «L'ho fatto perché volevo parlarvi» disse Nancy, improvvisamente seria. «A che proposito?» John la guardò incuriosito. «Bill ha accennato ai vostri problemi, mentre eravate nello studio con Anne.» «Non avrebbe dovuto farlo.» John fissò il cocktail con aria aggrondata, ma poi si rese conto che si comportava in modo irrazionale. Dal momento che lavorava tutto il giorno con Anne, era inevitabile che, prima o poi, Nancy venisse a conoscenza dei suoi guai, ora che si erano conosciuti. «Non è un gran segreto, suppongo» disse. «Ma perché volete parlarmene?» «Volevo dirvi ciò che ho detto a Bill. Non ho mai sentito in vita mia che tre adulti si agitino, per una sciocca frase udita per caso da un bambino.
Non ha senso.» «È logico che per voi non ne abbia.» «Vi dispiace, se aggiungo qualcosa?» «Non sono mai stato capace di fare tacere una donna. Dite pure.» Nancy sorseggiò di nuovo il cocktail, come per farsi coraggio, prima di dire, in tono asciutto: «Trovo che siete veramente stupido a non divorziare da vostra moglie.» John s'irrigidì, mentre i suoi limpidi occhi grigi si facevano gelidi. «Non vedo...» cominciò. «Oh, lo so che non sono affari miei» interruppe Nancy. «Però mi sembrate una brava persona e ho l'impressione che vi stiate rovinando l'esistenza, restando sposato con una donna che non vedete mai.» John continuò a fissarla con occhi gelidi, quanto il mare d'inverno. Nancy riprese impulsivamente: «Volevo dire... insomma, Dio mio, a quanto pare avete intenzione di vivere come un frate per anni e anni, mentre dovreste cancellare gli errori passati e ricominciare. Dovreste risposarvi, avere altri figli e vivere come qualsiasi uomo normale. Siete troppo maledettamente attraente per restare rintanato e solo in qualche club.» Parlando, Nancy aveva allungato la mano sinistra per prendere il bicchiere e John vide che portava la fede. «Siete dunque la signora Waring» disse. «E il signor Waring dov'è?» Nancy arrossì, distogliendo lo sguardo. «Non lo so. Divorziammo molti anni fa.» Caustico, John disse: «Allora non direi che siate un'autorità su quanto riguarda il matrimonio.» Nancy riportò lo sguardo su di lui e la sua espressione era dolce. «Non capite» disse. «Vivo sola da cinque anni e quindi so come si sta. A me non importa, perché sono molto presa dalla mia carriera e credo che, nella maggioranza, le donne non abbiano sufficiente energia per fare a un tempo le mogli e le donne d'affari di successo.» «Avete provato?» «No, quando sposai Phil rinunciai a un meraviglioso lavoro ai grandi magazzini Magnin. Quando tutto finì, ricominciai. Mi piace lavorare e vivere la mia vita, ma gli uomini come voi sono diversi. Potete unire senza fatica le due cose.» «Dopo Gail, nessuna donna mi ha interessato seriamente» disse John in tono grave. «Cambierebbe, in caso contrario?»
«No.» «Siete maledettamente ostinato, vero?» «Possibile. Volete un altro cocktail, prima di pranzare?» Nancy fu rapida, nel mutare stato d'animo. «Certo, se lo prendete anche voi.» Dopo un silenzio continuò: «Mi scuso di essermi impicciata dei fatti vostri. D'ora in poi baderò ai miei.» «È una promessa?» «Una promessa» ripeté Nancy, sorridendo di nuovo. «Non ne discuteremo mai più, se non sarete voi a volerlo.» «Prima di abbandonare l'argomento, vi voglio dire che avete l'aria troppo giovane per essere divorziata da cinque anni.» «Grazie, ma la settimana prossima compirò ventisette anni. Sposai Phil quando ne avevo diciannove. Mi pareva che le cose andassero bene, poi un giorno lui rincasò e mi disse che si era innamorato di un'altra. E così finì.» Nancy si guardò la fede che aveva al dito e il suo viso riprese l'espressione piuttosto dura. «Forse è per questo che mi piace di essere indipendente» disse. «Per lo meno è qualcosa su cui si può contare.» «Amen» fece John. Quando, un paio d'ore dopo, si lasciarono davanti alla porta della casa di Nancy, le chiese in che giorno cadeva il suo compleanno. Lei gli disse che era il mercoledì successivo e si accordarono per pranzare insieme. John tornò poi al Club Yale, sentendosi quasi umano. 4 Quando il matrimonio di John era andato all'aria, lui era rimasto profondamente mortificato e, per un certo periodo, aveva perso il suo equilibrio. Per varie settimane si era dato alla bella vita, accettando qualsiasi invito, purché non implicasse andare nelle vicinanze di Mount Kisco; però, i suoi dispiaceri lo seguirono anche a New York. La maggior parte dei suoi vecchi amici conoscevano Gail e John scoprì ben presto che insistevano nel parteggiare per l'uno o per l'altra, distribuendo liberamente consigli non richiesti e ficcando il naso negli affari suoi. Per finirla, decise di non rivedere i suoi vecchi amici. Rimase in contatto solo con alcuni. Fece qualche nuova conoscenza, però teneva tutti a distanza e si legò maggiormente con Anne e con Bill. Di tanto in tanto, aveva finito per andare con qualche donna, ma per lui non aveva significato niente, e, quando conobbe Nancy, stava cominciando a rinchiudersi in un guscio.
Prese a vederla spesso. Gli era simpatica e stava con lei volentieri, ma ciò che lo attraeva maggiormente era il fatto che, fino dall'inizio, Nancy avesse dichiarato che, delusa dal proprio matrimonio, non ci teneva affatto a impegolarsi seriamente di nuovo. Dopo essere sbottata a dargli consigli emotivi, quella prima sera, non l'aveva più fatto. Pareva assorta nel suo lavoro, decisa a diventare una brava modellista, senza provare il minimo interesse per un secondo matrimonio, situazione che andava a pennello a John. Poi era amica intima di sua sorella. Sperando che quell'amicizia sfociasse in un sentimento più forte nelle settimane successive, Anne li invitò continuamente per bere un cocktail, oppure a pranzo, e con l'avvicinarsi delle feste natalizie, quando il lavoro alla boutique si era fatto caotico, si sarebbe detto che tutti avessero dimenticato la sinistra frase di Gail e le conseguenti scene emotive. Quando John fece di nuovo colazione col figlio, nessuno dei due accennò all'episodio che aveva sciupato il loro precedente incontro. Fecero colazione al Plaza, poi andarono a vedere un film di Walt Disney, e tutto parve filare liscio. L'incontro seguente fu disdetto, perché Timmy doveva partecipare a una recita natalizia alla scuola. Per un po', allo scopo di tenersi aggiornata su Gilly e su Babs Carlyle, Anne interrogò le amiche e seguì le cronache mondane sulla stampa, ma avendo rilevato che non fornivano notizie, decise che, dopo tutto, si era trattato di un pettegolezzo, come aveva pensato il marito, e tutto parve andare per il meglio fino a un venerdì sera, una settimana prima di Natale, quando la città era illuminata a giorno e vi aleggiava lo spirito festivo. Anne rincasò dal negozio verso le sei e trovò Bill occupato a leggere il giornale nel soggiorno. Lui alzò gli occhi sorridendo, nel vederla entrare. «Salve, cara» disse. «Un'altra giornataccia?» «Spaventosa» rispose Anne, buttando il cappotto su una sedia e posandovi sopra la borsetta. «Saremo tutte morte, prima di Natale.» Si addentrò nella stanza, sfregandosi la nuca, e riprese: «Credo che mi metterò a mollo nella vasca da bagno. Perché fai così?» «Che cosa?» «Cercavi di nascondere parte del giornale, sotto il cuscino del divano.» «È la pagina sportiva. Pensavo di leggerla più tardi.» Sospettosa, Anne fece: «Cerchi di nascondermi qualcosa. Che cosa?» «Oh, un pettegolezzo su Gilly e su quella Carlyle.» «Che cosa dice?» A malincuore, Bill ricuperò il giornale. «Niente d'interessante, in fondo»
disse. «Leggimelo. I miei occhiali sono nella borsetta.» Intrappolato, Bill riaprì il giornale. «Dice che Babs Carlyle, ex-moglie di Randolph, e Paul Gilmore, esponente del bel mondo, figlio dell'industriale, fanno coppia fissa e gli amici predicono che presto la loro situazione diventerà permanente.» Abbassò il giornale e quando alzò lo sguardo vide che Anne lo fissava, con l'espressione tesa e ansiosa che lui ormai temeva. «Quei deficienti interpretano sempre tutto a rovescio» disse, cercando una magra scusa. «È vero» dichiarò Anne. «Sono sicura che è vero. Dio mio, adesso che cosa succederà?» «Probabilmente niente.» Pallida come un cencio, Anne si voltò con sguardo iroso. «Santo cielo, non ricordi che cosa ha detto Gail a Eve Wendell?» esclamò. «Probabilmente sospettava già Gilly e per questo era furiosa, come immaginavo. Adesso lo sa e io devo avvertire John.» «Non lo farei, se fossi in te.» «Perché?» Bill le prese una mano e l'attirò sul divano, accanto a sé. «Da quando John è venuto qui, quella sera» disse «ho riflettuto seriamente, venendo alla conclusione che siamo stati pazzi a prendere tanto sul serio una frase udita per caso da un bambino. Nancy ci ha giudicati matti e forse aveva ragione. Avevamo bevuto molto gin e la notizia era un poco sconvolgente, ma credo proprio che non dovremmo ricominciare ad agitarci. In fin dei conti, John è abbastanza grande per badar a se stesso. Deve conoscere la situazione quanto te.» «È qui che sbagli.» Il viso pallido di Anne aveva un'espressione decisa e ostinata. «Lui pensa soltanto a Timmy, non si rende conto che potrebbe esistere un pericolo.» Con un sorriso forzato, Bill fece: «Credi veramente che Gail abbia intenzione d'introdursi di soppiatto al Club Yale per mettere dell'arsenico nella sua minestra, oppure di spingerlo sotto un treno nella ferrovia sotterranea?» «Non so che cosa farà, ma telefonerò a John per avvertirlo.» Anne si alzò di scatto, per andare con passo rapido nello studio, ove i Lansing facevano le telefonate riservate, dato che gli altri apparecchi erano collegati alle derivazioni in uso alla cuoca e alla cameriera. Bill la seguì
con gli occhi, sapendo che non poteva né dire né fare nulla per impedirglielo. Aggrottò quindi la fronte e si accostò al bar, per versarsi una buona dose di whisky. John aveva avuto la notizia da almeno una dozzina di persone e ne aveva fin sopra i capelli, quando gli telefonò la sorella. Ascoltò rassegnato, mentre lei esprimeva tutti i suoi timori e le sue ansie, poi perse la pazienza. «Senti, Anne, stai permettendo alla tua fantasia di sbrigliarsi» finì per dire. «Gail non è la prima donna che viene piantata dall'amante. Se è vero, dovrà rassegnarsi.» «Non si rassegnerà, è questo il punto. Farà qualsiasi cosa per trattenerlo, qualsiasi cosa.» La voce di Anne era stridula per l'ansia. «Devi stare attento. Dio volesse che tu non avessi mai conosciuto quella maledetta donna. È deleteria.» «È la madre di Timmy» disse John freddamente. «Potresti cercare di ricordarlo.» «Sciocco» disse Anne. Subito dopo si udì uno scatto e il ricevitore che John teneva in mano si fece muto. Benché l'indomani fosse un sabato, fece una lunga colazione, preceduta da tre gin, con un tale che era interessato all'acquisto di uno degli edifici che lui e Anne avevano ereditato. Era ormai tardo pomeriggio, quando uscì dall'Hotel Pierre e si avviò lungo la Quinta Avenue. Poiché era una giornata fredda, ma soleggiata, decise di andare a piedi in ufficio, che si trovava appunto nella Quinta Avenue, poco oltre la Biblioteca. Una passeggiata lunga, ma i gin e l'abbondante colazione lo avevano intontito e quell'aria fredda era corroborante. Ovunque si vedevano Babbi Natale adorni di campanelli tintinnanti; nelle vetrine addobbate dei negozi scintillavano gioielli e doni degni delle antiche corti imperiali. Passando davanti ai grandi magazzini Saks, John fu tentato di andare al reparto giocattoli, ma poi proseguì e fu allora, che, per uno di quegli strani casi, tanto noti agli abitanti di New York, s'imbatté in Paul Potter Gilmore. Ritto sull'angolo della Quarantottesima Strada, Gilly cercava di fermare un tassì. I freddi raggi del sole striavano di luci dorate i suoi capelli castano chiaro, ricordando a John il giorno in cui Gilly era arrivato in collegio, dopo l'estate trascorsa nel Michigan, bello, vivace, pieno di salute. Adesso aveva l'aspetto meno sano, dopo tante notti passate in bagordi, però nessuno avrebbe potuto scambiarlo per un uomo schiavo del lavoro. Il freddo gli aveva arrossato le guance ed era in qualche modo riuscito a conservare l'abbronzatura messicana. Indossava un maglione bianco, a collo alto, sotto
una giacca di tweed marrone e teneva sul braccio un impermeabile. John non si accorse di essersi fermato, finché la gente cominciò a urtarlo, sospingendolo verso l'angolo della strada. Stava per girarsi e andare contro corrente, allo scopo di tuffarsi in un negozio, quando Gilly rinunciò alla ricerca di un tassì e si voltò, scorgendo John. Si fissarono per un attimo, poi sul viso di Gilly apparve l'antico, cordiale sorriso e i suoi occhi s'illuminarono. «Johnny!» gridò. John avrebbe voluto non salutarlo e proseguire, ma non ne fu capace. Non aveva più visto Gilly, dopo quella terribile notte, nella stanza da letto di Gail, ma nell'atteggiamento dell'altro, nulla dava a vedere che l'episodio fosse mai accaduto. Andò incontro a John, emanando tutto il suo vecchio charme. John si senti afferrare una mano, guardò quegli occhi innocenti e amichevoli, ombreggiati dalle ciglia scure, vide il largo, aperto sorriso e non riusciva a credere di essere intento a fissare l'uomo che gli aveva rovinato la vita. Il modo di fare di Gilly, la sua espressione, tutto in lui era esattamente come quando si erano incontrati all'aeroporto, il giorno in cui John l'aveva visto partire per Parigi. «Perbacco, che bella cosa incontrarti così» stava dicendo Gilly. «Mi chiedevo come te la passavi. Andiamo da qualche parte a bere e ad aggiornarci.» «Scusami, ma devo tornare in ufficio.» «Il sabato?» Gilly rise. «Non me la dai a intendere.» «Facciamo dello straordinario, per mettere in ordine i registri prima di capodanno. Tasse.» «D'accordo, allora ti accompagno. Andavo comunque alla stazione Grand Central. Come stanno Anne e Bill?» Per vari isolati, Gilly chiacchierò senza sosta, poi prese John per un braccio, dicendo: «Su vieni, andiamo a bere. C'è un bar proprio lì, oltre l'angolo.» Tuttora stordito dall'incontro, ma anche curioso, John si lasciò guidare in un piccolo bar di tipo inglese. Troppo tardi per la colazione, troppo presto per il cocktail, il locale era deserto. Dopo avere lasciato i cappotti al guardaroba, si accostarono al bancone e, poiché Gilly lo precedeva, John notò che in tutti quegli anni la sua figura non era cambiata. Aveva ancora i fianchi stretti e le larghe spalle che facevano immancabilmente estasiare le donne.
«Whisky e soda?» disse Gilly, quando furono davanti al bancone. «Lo bevevamo sempre, quando cominciavamo presto, ricordi?» Avevano già i bicchieri davanti, prima che John riuscisse a parlare di cose personali, ma quando lo fece non tergiversò. «Che cos'è questa storia, a proposito di te e di Babs Carlyle?» domandò. Gilly ebbe l'aria stupita, ma compiaciuta. «Ah, conosci Babs?» esclamò. John annuì. «La vidi alcune volte, anni fa, con Gail; debuttarono nello stesso anno. È vero che stai per sposarla?» Gilly ridacchiò. «Anche tu leggi le cronache mondane, dunque? Si direbbe che le abbiano lette tutte le persone che conosco.» «È vero?» «Macché! Eravamo per caso entrambi dai Durham, ad Acapulco, e siamo tornati sullo stesso aereo. La chiacchiera è cominciata così.» Gli occhi di Gilly erano limpidi e innocenti. «L'ho portata fuori alcune volte, quando ero a New York, ma non c'è altro» aggiunse. «Credevo che odiassi New York. Prima non ci venivi mai, se potevi farne a meno.» Dopo avere acceso una sigaretta, Gilly bevve un sorso e John attese, sicuro che cercasse di guadagnare tempo. «Sto cercando un lavoro» finì per dire. «Eve Wendell è un tesoro, ed è stata straordinaria, ma non posso continuare a essere suo ospite per tutto il resto della mia vita e vorrei veramente mettermi a lavorare.» «Hai intenzione di trasferirti a New York?» «Se troverò un lavoro dovrò farlo, suppongo. Impazzirei, se dovessi fare il pendolare. Perché quella faccia seria?» John aveva la faccia seria perché immaginava Gilly dire a Gail tutto ciò che stava dicendo ora e si chiedeva se lei gli avesse creduto. In passato, lui gli avrebbe creduto. «Non mi rendevo conto di avere la faccia seria» disse. «A proposito, hai visto Timmy di recente?» «No, la settimana scorsa non ho potuto vederlo» rispose John. «Perché?» Gilly aggrottò la fronte, cosa che gli accadeva raramente. «Non so se dovrei dirlo, ma l'ho visto ieri sera e non mi è sembrato che avesse buona cera. Anzi, a me è parso indisposto, ma Gail dice che non ha appetito e che ha avuto un leggero raffreddore.» A John sembrava ridicolo di essere lì, seduto in un bar, intento a discutere di suo figlio con l'uomo che lo aveva defraudato della sua posizione in famiglia; d'altro canto, uno dei meriti che riconosceva a Gilly era quello di
essere sempre parso sinceramente affezionato al bambino, che ricambiava quei sentimenti. «Perché non l'ha messo a letto, la signora Henderson?» domandò. «Non c'era. Quando sono andato là, Timmy era ancora alzato, però molto silenzioso. Dopo Gail l'ha mandato a letto e suppongo che sia andata a vederlo, quando sono rincasato, comunque ero un po' preoccupato.» John scese dallo sgabello, dicendo: «Sarà meglio che telefoni.» Si avviò quindi verso una cabina telefonica, in fondo al locale. Temeva che rispondesse Gail, invece venne al telefono la signora Henderson la cui voce era agitata. «Oh, sono così contenta che abbiate telefonato» esclamò. «Vi ho cercato fino dal primo pomeriggio. Timmy è malato. Quando sono arrivata, stamattina, mi è sembrato febbricitante e l'ho fatto restare a letto. L'ho riferito alla signora, appena si è alzata, ma lei ha detto che era soltanto un raffreddore.» «È lì, adesso?» «No, è andata a New York per colazione e per fare alcune spese natalizie.» «Quando sarà di ritorno?» «Domani, a qualche ora. Ha detto che stasera andava a teatro e che avrebbe pernottato da amici.» «Avete avvertito il dottor Knight?» «Gli ho telefonato circa un'ora fa, quando mi è sembrato che Timmy stesse peggio, ma è occupato con un parto difficile e può darsi che non possa venire fino a stasera.» «Be', non preoccupatevi, signora Henderson. Partirò appena mi sarà possibile e arriverò prima di pranzo. Ditelo a Timmy.» Quando John tornò al bar, Gilly aveva ordinato un altro whisky e chiacchierava cordialmente col barista. «Tutto a posto?» chiese. «No. Timmy sta peggio e la signora Henderson mi è parsa preoccupata.» Cercando di dominare l'amarezza che gli affiorava nella voce, John continuò: «Gail è in città, per fare spese. Va a teatro e pernotta da amici, per cui stasera non tornerà a casa.» «Vuoi che vada a dare un'occhiata? Torno là col treno delle sedici e cinquantatré.» «No, grazie. Ho alcune cose da fare, ma andrò là più tardi.» I due si guardarono in silenzio. Era impossibile leggere i pensieri di
Gilly, ma John ripensava ai begli anni, quando loro due erano tanto amici, e si rammaricava per quanto era successo in seguito. «Be', addio e grazie per il whisky» disse sentendo un inatteso groppo alla gola. «Ciao, Johnny.» Il sorriso allegro di Gilly gli illuminò il viso. «È stato bello rivederti. Abbi cura di te.» 5 La signorina Pritchard, la posata, anziana segretaria che John aveva ereditato dal padre, era circondata da registri e da fogli coperti di colonne di numeri, che stava preparando per il contabile. Ansiosa, dopo le concitate telefonate della signora Henderson, fu sollevata quando John le disse che sarebbe partito, appena possibile, per la campagna. «È inverosimile che una madre lasci il suo bambino in un momento come questo» disse. «Probabilmente non si è resa conto che potrebbe trattarsi di una cosa seria» replicò John, come sempre sulla difensiva, quando parlava della madre di Timmy con estranei. Concluse rapidamente il lavoro, andò in fretta al Club Yale e ordinò che gli venisse portata l'automobile. Riempì quindi una piccola valigia, per ogni evenienza, indossò abiti adatti alla campagna e stava per uscire, quando ricordò che sarebbe dovuto andare a prendere Nancy, per pranzare dai Lansing. Telefonò alla boutique e cercò di spiegare la situazione, ma Anne era ancora arrabbiata, dopo la discussione della sera precedente e, come al solito, non poté fare a meno di lanciare una frecciata all'indirizzo di Gail. «Tipico di quella disgraziata, lasciare quel povero bambino con una persona di servizio, invece di occuparsene lei. Sa soltanto pensare a se stessa» disse. «Dillo a Nancy, per piacere» disse John interrompendo poi la comunicazione prima che scoppiasse un'altra lite. L'oscurità era scesa ormai da un paio d'ore, quando John riuscì finalmente a partire, e la temperatura si era fatta più rigida. L'autostrada di West Side, che correva lungo il fiume Hudson, era intasata con il traffico serotino del sabato, ma più John procedeva e più il traffico diradava. Si trovò ben presto sull'autostrada di Saw Mill River, ove la fredda luna sovrastava alta il paesaggio campestre. Era la prima volta, in due anni, che rifaceva
l'antico percorso verso casa e provava a un tempo tristezza e orgasmo, superando le note pietre miliari, come il simpatico ristorante Leighton, nel parco, ove lui e Gail avevano sostato tanto spesso, per bere qualcosa, o per pranzare. In effetti, la casa si trovava sei o sette chilometri a nord-est di Mount Kisco, quindi John non ebbe bisogno di attraversare il villaggio. Restò sull'autostrada, uscendone quattro o cinque chilometri più avanti, per immettersi in viottoli stretti e tortuosi, fiancheggiati da alberi. L'abitazione, un grande edificio bianco, in stile coloniale, si ergeva in cima a una leggera salita, in fondo a un viale abbastanza lungo. Quando John lo imboccò, provò un amaro senso di vuoto e di nostalgia. Più oltre, illuminati dalla luce cruda dei fari, si stagliavano gli alberi e i sempreverde che aveva piantato lui stesso, il prato di cui aveva avuto tanta cura, gli arbusti e i cespugli, scelti con amore e la casa stessa, che lui e Gail avevano studiato con entusiasmo, quando era soltanto un pezzo di carta, sulla scrivania di un architetto. Ricordò all'improvviso Gail, in abito azzurro, intenta a scegliere l'arredamento ai grandi magazzini Lord e Taylor, ma poi si costrinse a scacciare il pensiero e continuò a percorrere il viale. Attraverso i sempreverde scorgeva già il chiarore delle luci accoglienti, prima di girarvi attorno per portarsi nell'area di parcheggio a sinistra, davanti all'ala che ospitava il garage. Mentre saliva di corsa i tre larghi gradini, la signora Henderson aprì la porta. Indossava l'uniforme blu da mattina e John imprecò fra sé, notando il pallore sul suo viso coperto di efelidi, l'ansia negli occhi sbiaditi. Maledizione, pensò, non si doveva lasciare una dipendente, fosse pure Nora Henderson, con la responsabilità di un bambino malato. «È venuto il medico?» domandò. Si tolse il cappotto, e lo diede alla governante. «Sì, è andato via pochi minuti fa. Timmy ha l'influenza. Ho chiesto se dovevamo portarlo all'ospedale, ma il dottor Knight pensa che starà meglio qui in casa. Ha lasciato alcune compresse e gliene ho già date. Sto preparando delle cotolette di agnello. Volete bere qualcosa, prima di pranzare, signore?» «No grazie, andrò subito su da Timmy.» «Allora io torno a sorvegliare le cotolette» disse la signora Henderson. «È un vero piacere, rivedervi qui» aggiunse. «È piacevole esserci.» John si chiese se era sincero, guardandosi attorno, nel grande ingresso col lampadario di cristallo e la scala circolare che portava al piano superio-
re. Osservò la governante, mentre lei appendeva il cappotto nell'armadio a muro, prima di affrettarsi verso la cucina, sul retro della casa, poi John si avviò lentamente in direzione della scala, passando davanti al soggiorno illuminato, a sinistra, e alla sala da pranzo, a destra. Era tutto così familiare, e al tempo stesso tanto estraneo, che per un attimo i ricordi quasi lo soffocarono. La camera di Timmy dava sulla facciata, di fronte alla camera in cui lui aveva trovato Gail con Gilly, in quell'orribile sera di capodanno. Mentre camminava verso la camera del figlio, notò che la signora Henderson, probabilmente a disagio nella solitudine della grande casa, aveva acceso tutte le luci, anche al piano superiore. Sostò davanti alla porta della camera che era stata sua e di Gail per guardare il grande letto con il baldacchino, la coperta di raso azzurro, il soffice tappeto, la toilette a gale. Era tutto azzurro, eccettuato il mobilio in lucente legno d'acero dai riflessi dorati, studiato per intonarsi alla carnagione di Gail. Il suo profumo lieve e gaio aleggiava nell'aria, sommergendolo in altri sgraditi ricordi. «Papà!» John si girò di scatto e vide Timmy, ritto sulla soglia della sua camera. Aveva i capelli scuri scomposti, gli occhi troppo lucidi e le guance arrossate dalla febbre. Indossava un pigiama a righe ed era senza vestaglia né pantofole. John lo sollevò rapidamente, per riportarlo in camera, e lo rincalzò nel letto, inorridito nell'avvertire quanto caldo e fragile fosse quel corpicino che reggeva fra le braccia. «Non scendere più dal letto, ragazzo mio, finché non darà il permesso il dottore» disse. «Come ti senti?» «Bene.» Sdraiato nel letto, Timmy lo guardava con un commovente sorriso di benvenuto. Afferrò poi una mano di John, dicendo: «Sono tanto contento che tu sia venuto, papà. Nora dice che pranzerai con me.» John si guardò attorno, nell'allegra stanza, con gli animali di pezza e i giocattoli disposti su candidi ripiani, le pareti azzurro chiaro e i mobili bianchi, decorati con decalcomanie di coniglietti azzurri. Non era cambiato nulla, da quando Timmy camminava a malapena. Gail considerava il figlio ancora un bambino piccolo, oppure se ne disinteressava? L'unica cosa che era stata aggiunta nella stanza era un tavolino da gioco, sul quale la governante aveva messo una tovaglia bianca. «Vuoi giocare, mentre la signora Henderson prepara il pranzo?» propose John. «Potremmo...» S'interruppe, rendendosi conto che Timmy lo fissava con occhioni ansio-
si. Il sorrisetto si era dileguato e l'espressione del bambino si era fatta tesa. «È bene che tu sia qui, papà?» domandò, ravviandosi un ciuffo di capelli che continuava a scendergli sulla fronte. «Certo, perché no? Tua madre è dovuta andare a New York e non possiamo lasciarti solo con la signora Henderson, mentre sei ammalato.» «La mamma, però...» Timmy tacque all'improvviso. John cercò di scoprire che cosa lo preoccupasse, anche se temeva di saperlo. Dopo alcuni vani tentativi, decise di essere esplicito. «Non sarai ancora preoccupato, per la sciocca frase che tua madre ha detto alla signora Wendell, vero?» Timmy scosse la testa, ma il suo sguardo evitava quello del padre e le lacrime presero a scorrergli lungo le guance arrossate. In quel momento entrò la signora Henderson, che pose fine a quel colloquio breve e disagevole. Reggeva un grande vassoio e s'indaffarò poi per servire Timmy a letto e John al tavolino da gioco. «Adesso mangia tutta la cotoletta d'agnello e bevi il latte, caro» disse, scostando il ciuffo dalla fronte di Timmy. Rivolta a John, aggiunse: «Se avete bisogno, chiamatemi, signore.» «Vuoi che ti tagli la cotoletta?» propose John, quando rimasero soli. «No, grazie, posso farlo da solo.» John cercò di distrarre il bambino, parlando del periodo che aveva trascorso in passato in un ranch per turisti, nel Montana, durante una vacanza estiva. «C'era anche zio Gilly?» domandò Timmy. «No» rispose John, con aria seria, notando che Timmy non aveva toccato la cotoletta e si gingillava con la patata al forno. «Devi mangiare, Timmy» disse «altrimenti la signora Henderson sarà mortificata.» «Non ho fame.» «Bevi almeno il latte.» Timmy bevve qualche sorso e fu preso da conati di vomito. John si precipitò nella stanza da bagno attigua, afferrò un asciugamano, poi accudì al bambino, fissando il suo viso, ora mortalmente pallido, e le labbra tremanti. «Quando torna la mamma?» chiese Timmy, mettendosi a singhiozzare. «Vado a vedere, ma intanto tu fai il bravo.» John scese frettolosamente in cucina, ove la signora Henderson stava pranzando. «Credo che stia peggio» disse. «Ha vomitato e vuole sua madre. Sapete
dove alloggia, a New York?» Balzata in piedi, la governante per un pelo non rovesciò il caffè. «Non lo so» rispose «non me l'ha detto, ma forse lo sa la signora Wendell. Vado subito su da Timmy.» John si accostò al tavolo nell'ingresso e, dopo avere cercato nell'elenco personale di Gail, formò il numero di Eve Wendell. Rispose un maggiordomo, ma poco dopo venne al telefono Eve. «Dio mio!» gridò con la sua voce roca. «Sono anni che non so più nulla di te. Dove diavolo sei?» «A casa. Ho...» «Tu a Mount Kisco? Questa poi!» «Ci sono venuto perché Timmy è malato e Gail è a New York. Ha detto alla signora Henderson che pernottava da amici; tu sai per caso da chi andava?» «Vediamo. Non ricordo, per quanto riguarda il pomeriggio, ma mi sembra che abbia detto che andava a pranzo e poi a teatro con Dottie e Tom Crenshaw, per trascorrere quindi la notte in casa loro. A proposito, hai per caso letto la notiziola su Gilly e Babs Carlyle, sui giornali di ieri?» «No, ma tutti me ne hanno parlato.» «Scommetto che Gail è verde. Quando le ho telefonato, ieri sera tardi, ha finto di non credere una parola, ma mi chiedo se sia vero. È molto malato, Timmy?» «Si. Non capisco perché Gail sia andata a New York, sapendo che non stava bene.» «Una spacconata, caro, semplice spacconata. Non vuole che nessuno pensi che quella faccenda di Gilly l'ha abbattuta. Ha deciso di partire soltanto dopo avergli parlato, ieri sera. Muoio dalla voglia di sapere di che cosa hanno discusso, ma lei non ha voluto dirmelo. Gilly è qui, ho visto le luci accese nelle casetta degli ospiti, quando sono tornata poco fa, ma tutto sommato non posso telefonargli per chiederglielo. Potrebbe giudicarmi una ficcanaso.» «Per carità!» Si udì la sonora risata di Eve, poi lei si fece seria e domandò: «Vuoi che telefoni a Gail e le riferisca di Timmy? I Crenshaw sono miei amici e potrei telefonare io, in vece tua. Sono le sette e venti. Probabilmente pranzeranno presto, per andare a teatro, per cui sarei sicura di trovarla. Abitano in East End Avenue e Gail potrebbe impiegare molto tempo, per attraversare la città, comunque al più tardi dovrebbe arrivare qui verso le nove e mez-
zo.» «Mi faresti un piacere.» Seguì un silenzio, quindi Eve cominciò: «John...» «Sì?» «Ti è balenata l'idea che Gail potrebbe non volere tornare, sapendo che sei qui?» «Dille che andrò via alle nove e mezzo. A quell'ora Timmy dovrebbe essersi addormentato e ci sarà la signora Henderson, se Gail dovesse tardare. Chiariscilo, per piacere. Non desidero vederla, quanto lei non desidera vedere me.» «Va bene, tesoro, telefonerò subito e ti richiamerò.» «D'accordo.» John accese una sigaretta e andò nel soggiorno. Anche quello non era cambiato. Le stampe con scene di caccia, le coperture in stoffa fiorata e il mobilio finto antico acquistato da Lord e Taylor erano stati studiati per creare l'atmosfera di una vecchia casa inglese di campagna. Mancava soltanto un cane addormentato, davanti al camino, e si era proprio trattato di uno dei motivi di discussione. John amava i cani e trovava che Timmy doveva averne uno, ma quando Gail era bambina un cane che adorava era stato investito da un'automobile, davanti ai suoi occhi in Riverside Drive. Era stato un tale choc, che lei non ne aveva più voluti altri. I gatti non le piacevano e così suo figlio era cresciuto con animali di pezza. Squillò il telefono e John corse a sollevare il ricevitore. «L'ho trovata» annunciò Eve. «Partirà, appena le sarà possibile.» John la ringraziò e dopo avere deposto il ricevitore sulla forcella stava per salire le scale, quando il telefono squillò di nuovo. Era Anne, che telefonava per avere notizie di Timmy. Appena John gliele ebbe date, domandò. «Rimani lì?» «No, sta per tornare Gail.» «Dio mio» esclamò Anne. «Non avrai intenzione di vedere quella donna, vero?» «No, certo. Sa che resterò soltanto fino alle nove e mezzo e combinerà le cose in modo da arrivare dopo.» «Non mi va che tu sia lì, affatto.» «È con te Nancy?» «No, sono ancora al negozio e lei è rincasata circa un'ora fa. Abbiamo mandato all'aria il pranzo, dopo avere saputo che tu non potevi venire. Io
resterò qui ancora per un poco, per riguadagnare tempo; abbiamo avuto tanto da fare, con tutte le feste natalizie. Nancy è andata via con un forte mal di testa, fra un momento devo telefonarle per chiederle che cosa ha fatto della pubblicità per il "New Yorker". Bill vuole vederla, perché l'ultima non gli era piaciuta. Devo dirle qualcosa da parte tua?» «Soltanto che le telefonerò domattina.» Quando John tornò in camera di Timmy, il bambino indossava un pigiama pulito, ma non aveva migliore aspetto. La signora Henderson aveva acceso il piccolo televisore che John aveva regalato al bambino per il Natale precedente e Timmy. appoggiato al cuscino, guardava un film western, mentre la governante radunava i piatti del pranzo. «Torna la signora?» gli chiese, approfittando del rumore della televisione. «Sì. Resterò qui fino alle nove e mezzo e lei arriverà un po' dopo. Voi potete rimanere, fino al suo arrivo?» «Senz'altro.» Con un sorriso leggermente acido, la signora Henderson aggiunse: «Con lei non si sa mai, potrebbe cambiare idea.» Finì di riempire il vassoio, poi uscì dalla stanza e John si sistemò su una sedia accanto al letto. Il film lo annoiava a morte, però resistette fino alla conclusione. Dopo si alzò, per spegnere il televisore. «Quando torna la mamma?» domandò Timmy. «Fra poco, stai tranquillo.» Con gli occhi appannati dall'ansia, Timmy prese a tirarsi il ciuffo. John capì che non era preoccupato per il timore che lui andasse via, bensì che rimanesse, e non pareva che ci fosse nulla al mondo che lui potesse fare, o dire, per scacciare la paura ficcata inconsapevolmente da Gail nella mente del bambino. Sorridendo, con finta allegria, disse: «Non preoccuparti, devo tornare in città stasera. Andrò via prima che lei arrivi, ma resterà qui la signora Henderson.» Timmy ebbe l'aria molto sollevata e in breve si addormentò. Pochi minuti dopo entrò in punta di piedi la governante per dire a. John che aveva preparato il caffè. Lui fece un cenno di assenso e, dopo un'ultima tenera occhiata al figlio, la seguì giù in cucina. Erano le nove e dieci, quando sedette al tavolo con la signora Henderson. «Se volete il mio parere» fece lei, versando il caffè in due ciotole bianche, ornate di galli «quel povero piccolo ha ben altro che l'influenza.» «Che volete dire?» domandò John.
«C'è qualcosa che lo turba. Ricordate quel sabato, il mese scorso, in cui è caduto il nevischio per tutta la giornata, e lui era tanto pallido e svogliato? Il giorno prima stava benissimo, ma nel pomeriggio è successo qualcosa. Parlo del pomeriggio precedente il giorno in cui è stato con voi.» «Che cosa è successo?» La signora Henderson si guardò attorno, con aria da cospiratrice. La gaia luce nella cucina illuminava i suoi capelli color carota, striati di fili grigi, e il suo sguardo era freddo e sprezzante. Un'espressione che John conosceva bene, perché precedeva sempre qualsiasi accenno a Gail. «Quel pomeriggio, la signora Wendell venne per il cocktail e le cose andarono come tutte le altre volte. Bevvero molto e parlarono sempre più forte. Non so se dovrei dirvelo, però parlavano di voi.» La governante tacque, per bere un sorso di caffè. «Avanti» ordinò John, cupo. «Parlavano del signor Gilmore e di un'altra donna, e la signora Wendell disse che siete un mostro, a non concedere il divorzio alla signora. Allora vostra moglie replicò che, se non potrà ottenerlo, un giorno o l'altro potrebbe uccidervi.» Dio mio, pensò John, ci risiamo. Scrollò le spalle e si sforzò di sorridere. «Non ditemi che non avete mai sentito gente dire cose simili» fece. «Non ho mai sentito nessuno dirlo come ha fatto lei. Era questa la cosa terribile e sono sicura che Timmy ha sentito. Io ero in sala da pranzo, lui nell'ingresso, quindi deve per forza avere sentito, come me.» La signora Henderson depose la ciotola, facendola tintinnare. «È questo che preoccupa quel povero bambino» riprese. «Ne sono certa. Io faccio di tutto perché non sappia niente, ma non ci riesco e non so quanto senta e veda, quando non ci sono. Molto, immagino.» «Non mi preoccuperei, se fossi in voi» disse John in tono noncurante. «Se io fossi in voi, invece, mi preoccuperei. L'altro giorno, Timmy mi ha chiesto perché sua madre vi odia tanto e non sapevo che cosa rispondere.» La governante si protese e le efelidi spiccavano sul suo viso pallido. «Signor Townsend» continuò «dovete allontanare Timmy da qui. È un'atmosfera terribile, per un bambino, soprattutto un bambino sensibile come Timmy.» «Un momento...» cominciò John. «Oh, temevo che non avreste capito. Per questo ho tenuto la bocca chiusa. So che non dovrei parlarvi così di vostra moglie, eppure qualcuno deve farlo. Non è una buona madre, pensa soltanto alle feste, agli uomini, ai pet-
tegolezzi e...» La signora Henderson tacque bruscamente e John si alzò. Ristette a fissarla con sguardo gelido e sapeva ciò che avrebbe dovuto fare. Avrebbe dovuto licenziarla, ma non poteva farlo. Non avrebbe mai trovato un'altra governante che volesse tanto bene a suo figlio, né così fidata. «Siete molto severa, nei confronti della signora» disse, dominandosi. «In effetti vuole molto bene a Timmy, ma non lo dimostra come fanno le altre donne, e voi sapete quanto bene Timmy voglia a lei.» Mentre la signora Henderson sollevava la testa, le spuntarono negli occhi lacrime di rabbia e di frustrazione. «Stamattina sapeva che Timmy non stava bene» dichiarò. «Io gliel'ho detto e con quale risultato? È andata a New York a divertirsi. Ecco che madre è.» John riuscì di nuovo a sorridere. «Sapeva che voi sareste stata qui» osservò «e sa di potersi fidare.» Guardò l'orologio e aggiunse: «Credo che andrò su a dare un'altra occhiata a Timmy, poi mi avvierò. Non è necessario che veniate alla porta.» Salì nella camera di Timmy e rimase a guardare per alcuni minuti il bambino addormentato, rammaricandosi di doverlo lasciare. Uscì, quindi scese nell'ingresso e si guardò di nuovo attorno, chiedendosi se avrebbe mai rivisto quel luogo. Prese poi il cappotto dall'armadio a muro e andò nel piccolo loggiato. Le luci accoglienti erano ancora accese. 6 John sostò per accendere una sigaretta, poi scese i gradini e attraversò il parcheggio, per raggiungere la Buick grigia. Distava uno o due metri dall'automobile, immerso nei propri pensieri, senza far caso alla bella serata illuminata dalla luna, quando udì un rumore nel bosco. Uh cane randagio, si disse, oppure un coniglio o uno scoiattolo. La proprietà comprendeva alcuni ettari di terreno che lui aveva comprato per difendersi dal pericolo di nuove costruzioni, ed era diventata un piccolo rifugio per. uccelli, animaletti e perfino cervi, per cui John non aveva mai pensato che lo scricchiolio dei rami che si rompevano o il fruscio delle foglie, potessero essere provocati da un essere umano. Fu quindi colto di sorpresa, quando un frastuono assordante echeggiò dal bosco, oltre il parcheggio, e qualcosa gli passò accanto sibilando. Si chinò istintivamente, lasciandosi poi cadere sulla ghiaia. Per la prima volta, in vita sua, era veramente impaurito. Qualcuno gli sparava contro,
dal bosco, cercando di ucciderlo. Giacque appiattito sul terreno, furioso e impotente, mentre altri tre proiettili passavano sibilando sopra il suo corpo disteso, poi subentrò il silenzio, seguito dal fruscio provocato da qualcuno che si muoveva in mezzo alle foglie morte e ai rami caduti. Il rumore si fece più avvertibile. Il suo aggressore si spostava, per mirare meglio, oppure controllava se lui fosse vivo o morto? Continuò a giacere immobile, senza osare di muoversi, tendendo disperatamente le orecchie e cercando di vedere, in mezzo alle ombre, ma non vide nulla e all'improvviso anche il rumore cessò. Ma John rimaneva inchiodato al terreno con il terribile pensiero che il nemico fosse a pochi metri da lui, celato in mezzo al verde, in attesa di vedere se si sarebbe rialzato. Non seppe mai per quanto tempo giacesse li, ma gli parve un'eternità. Quando osò finalmente muoversi, non si alzò, ma si trascinò carponi fino all'automobile, esattamente come un marine in combattimento. Soltanto quando l'automobile fu tra lui e il bosco, oltre il parcheggio, si arrischiò ad alzarsi e ormai la notte senza vento, illuminata dalla luna, era silenziosa. Era già in piedi, scosso e tremante, quando la porta della casa si spalancò e la signora Henderson uscì di corsa. «Dio mio, state bene?» gridò dal loggiato. «Ho sentito degli spari. Oh, santo cielo!» John si girò per correre verso di lei, salì d'un balzo i gradini e la spinse nell'ingresso davanti a sé, sbatacchiandosi poi la porta alle spalle. «Zitta, Nora» disse. «Se non l'hanno già fatto gli spari, sveglierete Timmy.» Non l'aveva mai chiamata Nora, prima di allora, ma nessuno dei due se ne accorse. «Qualcuno vi ha sparato, qualcuno ha cercato di uccidervi. Vi ho visto sdraiato laggiù, quando ho guardato fuori della finestra, e credevo che foste morto.» La voce della governante si era fatta di nuovo stridula, e, quando John le pose una mano sul braccio, avvertì che era scossa da un tremito violento. «Andate su a vedere se Timmy si è svegliato» le disse. «In caso affermativo, ditegli che erano cacciatori di frodo, oppure che un'automobile sulla strada ha avuto un ritorno di fiamma. Io, intanto, darò un'occhiata in giro.» La signora Henderson lo fissò con occhi sbarrati. «Non avvertirete la polizia?» domandò. «No, non adesso.» L'espressione fredda e sprezzante calò come una maschera sul viso della
donna. «Allora sapete chi era» disse in tono amaro. «L'avete vista?» «Non so di che cosa parliate. Non ho visto nessuno e non ho la più pallida idea di chi possa essere, a volermi uccidere» ribatté John. «E allora, perché non chiamate la polizia?» I loro sguardi s'incrociarono, quello di lei freddo e accusatore, quello di John cauto ed evasivo. «Ragionate, Nora» le disse bruscamente. «Non posso permettere che quelli della polizia vengano a ficcare il naso qui e a porre domande, mentre Timmy è malato. È già preoccupato e non posso assolutamente rischiare che sappia quanto è accaduto. Ha già troppe cose, per cui agitarsi. E adesso per amor del cielo, salite e andate a vedere se sta bene.» La governante spostò lo sguardo sulle finestre alle spalle di John. «C'è una macchina che percorre il viale» disse. «Mi fate il piacere di andare su a vedere come sta Timmy?» insistette John. «Va bene, ma credo che facciate un terribile sbaglio.» La signora Henderson si girò, avviandosi poi verso la scala, e tutto nel suo corpo piccolo e grassoccio esprimeva la disapprovazione. «Nora! Signora Henderson!» gridò John. Lei si fermò, voltando la testa. «Sì, signore?» «Non dite niente a nessuno, per piacere. Non voglio che si sappia l'accaduto. A nessuno, chiaro?» Si udì scricchiolare la ghiaia nel viale, poi lo sportello di un'automobile venne sbatacchiato. «Chiarissimo» rispose la governante cominciando a salire la scala. All'improvviso, la porta dell'ingresso si spalancò. John si girò di scatto e, quando si trovò di fronte la moglie, il cuore prese a martellargli in petto. Aveva previsto che sarebbe stata vestita da sera, invece indossava uno dei suoi immancabili abiti azzurri. Questo era di tweed, con cappotto intonato, dai risvolti di visone. Guanti, borsetta e scarpe basse erano blu scuro e i suoi capelli chiari le arrivavano alle spalle, leggermente arricciati alle punte, esattamente come li portava la prima volta in cui lui l'aveva vista. Scorgendolo, lei si fermò di botto. «Che cosa diavolo fai qui?» esclamò. «Eve aveva detto che saresti andato via alle nove e mezzo.» La sua voce, generalmente bassa, era stridula per l'ira. Gli occhi azzurri lampeggiavano per la rabbia, però era sempre bella. La carnagione delicata era un po' meno fresca, l'aspetto sofisticato più pronunciato di prima, al-
trimenti era identica a come la ricordava John. Stessa figura snella, stessi tratti classici, stesso lieve profumo. «Non avrei voluto essere qui, ma qualcosa mi ha trattenuto» le disse con calma. Gail entrò nell'ingresso, togliendosi i guanti. «Be', adesso sono qui io per cui puoi andartene» disse. «Suppongo che Timmy non sia moribondo, quindi non voglio trattenerti.» «Prima di andare via, voglio parlarti.» «Risparmiatelo. So che cosa vuoi dire, ma Timmy stava bene quando sono partita. Aveva il raffreddore e la febbre, ma i bambini hanno facilmente la febbre alta.» «Non è di questo che ti voglio parlare.» Gail fissò John per un attimo, come se fosse perplessa per il suo tono aspro, poi annui. «Va bene, ma prima devo incipriarmi il naso. Prendi il ghiaccio e preparami un whisky, vuoi? Sono morta.» Quando lo raggiunse nel soggiorno, pochi minuti dopo, John stava preparando il whisky e soda, ritto davanti al bar portatile. Giacché c'era, si versò una bella dose di cognac. Gail si lasciò cadere sul divano più vicino al camino, stese le snelle gambe e si ravviò i capelli. «Sentiamo» disse. «Che cosa c'è?» Dopo averle teso il bicchiere, John rimase ritto davanti a lei. «Porti sempre la tua rivoltella, in macchina?» domandò. Sconcertata, Gail fece: «Ti riguarda, forse?» «Lo fai?» «No, da secoli.» «Adesso dov'è?» «Non lo so. Credevo che l'avessi presa tu, insieme con la tua roba. Se ricordi era tua e fosti tu a insistere perché la tenessi in macchina dopo che quella donna fu aggredita, tornando a casa dal cinema.» Gail sorseggiò il whisky e le sue labbra erano increspate da un sorrisetto. «Perché?» chiese. «Vuoi ammazzare qualcuno?» «A che ora sei partita da New York?» «Poco dopo la telefonata di Eve. Che cosa...» «Andavi a teatro vestita così?» «Credi che sarei venuta qui in macchina con indosso un vestito di chiffon e scarpe d'oro, santo cielo? Se hai qualcosa da dire, dilla» continuò Gail, il cui sguardo si era fatto attento. «Non mi vanno tutte queste maledette domande.»
«E va bene, te lo dirò. Alcune settimane fa, Timmy ti ha sentito dire a Eve Wendell che, un giorno o l'altro, mi avresti forse ucciso. L'ha sentito anche la signora Henderson e hanno detto entrambi che eri molto arrabbiata, tanto che sembravi parlare sul serio.» Gail non mutò espressione. Sedeva lì, stringendo in mano il bicchiere, e fissava John con aria gelida. «E allora?» fece. «Allora, quando stavo per andare via da qui qualcuno mi ha sparato quattro colpi, mentre attraversavo il parcheggio.» John tacque, aspettando la reazione. Sulle prime non ci fu. Gail depose il bicchiere, prese una sigaretta da una vaschetta d'argento, l'accese e si appoggiò allo schienale. «Capisco» disse quindi lentamente, inclinando la testa all'indietro per guardare il marito. «Stai dicendo che ho tentato di ucciderti, esatto?» «Sapevi che sarei andato via alle nove e mezzo e potevi facilmente avere parcheggiato sulla strada, venendo poi qui di soppiatto, e tornando quindi indietro, per riapparire dopo. Sono stato messo in guardia, ma anche sapendo che mi odi, non ho mai pensato che avresti veramente cercato di ammazzarmi.» John era snervato, nel vederla seduta lì tranquilla, intenta a guardarlo come se si trovasse a una festa, intrappolata da un seccatore. «Be'?» finì per chiederle. «Non hai niente da dire?» «Sì.» «Che cosa?» «Chiunque sia stato, doveva essere un mediocre tiratore.» «Santo cielo, è una cosa seria! Qualcuno ha tentato di assassinarmi là fuori e dovevi essere tu. Nessun altro ha un motivo, per volersi liberare di me. Detesto pensarlo, ma non posso fare altro.» Gail schiacciò nel portacenere la sigaretta appena accesa, prima di alzarsi per portarsi di fronte a John. Da due anni lui non l'aveva più neanche vista e quando gli si accostò avvertì il familiare, lieve profumo. Guardandola negli occhi, si sentì pervadere dall'antico senso di eccitamento. «Perché non avverti la polizia?» chiese lei con voce bassa. John indietreggiò, sollevando il bicchiere del cognac, che così li divideva. «Lo sai perché non posso farlo» disse. «Perché?» «Lo sai benissimo, perché sei la madre di Timmy. Quel povero bambino
ha già anche troppo da sopportare. Se avvertissi la polizia, la stampa sarebbe a nozze e come credi che si sentirebbe Timmy, se sapesse che sua madre ha cercato di uccidere suo padre?» John le lanciò un'occhiataccia, quindi riprese: «Questa volta te la sei cavata, ma ti avverto: non ci riprovare. Adesso so come stanno le cose e non la farai franca.» Gail lo guardò a lungo, prima di buttare indietro la testa, con occhi che fiammeggiavano come un fulmine in un cielo estivo. «Esci» disse. «Togliti dai piedi e spero in Dio che qualcuno ti uccida davvero.» John impallidì. Ingollò quindi il cognac in un unico sorso e depose il bicchiere sul tavolino. «Avvertimi, se ci saranno dei mutamenti nelle condizioni di Timmy» disse. «E di' alla signora Henderson che le telefonerò, in ogni caso.» Gail non rispose. John s'incamminò verso l'automobile, sentendosi svuotato. Quando fu seduto al volante, non ebbe la forza di avviare il motore e rimase lì seduto. L'automobile sportiva di Gail era ancora parcheggiata davanti alla casa, ma non aveva senso esaminarla. John sapeva di non avere mai portato la rivoltella a New York, ma, ovunque fosse, non era certamente nell'automobile di Gail. Lei poteva averla buttata in qualche cespuglio, con l'intenzione di riprenderla in seguito, oppure poteva averla portata in casa, nella borsetta, e lui, sciocco, le aveva dato il tempo per nasconderla da qualche parte, mentre le preparava il whisky che gli aveva chiesto. Sconcertato per il suo atteggiamento, non aveva saputo rivolgerle le domande nel modo giusto. Lei aveva sempre saputo di essere al sicuro e lo sarebbe stata anche se l'avesse vista con l'arma in pugno. John guardò i cespugli, il verde e gli alberi che circondavano la casa. La rivoltella che le aveva comprato era una Colt Woodsman automatica calibro 22. Se fosse stato uno sbirro, in quel momento sarebbe andato in giro con una lampadina tascabile, in cerca dei bossoli Long Rifle calibro 22, oppure avrebbe frugato qua e là in caccia dei proiettili, finiti chissà dove. D'altro canto, non aveva una lampadina, e poi, a che cosa sarebbe servito? Se anche avesse trovato le prove, non le avrebbe mai fornite alla polizia e Gail lo sapeva. Avrebbe però dovuto cercare di strapparle una confessione. Avrebbe così avuto un'arma da usare in futuro contro la sua compiaciuta arroganza, un appiglio contro di lei, di cui adesso era privo. Era così maledettamente si-
cura di sé, pensò con amarezza. Troppo sicura, a pensarci bene. C'era qualcosa che non quadrava, qualcosa che non gli riusciva di definire. Qualcosa che aveva detto? Qualcosa nel suo atteggiamento? Si comportava come se la questione non la riguardasse affatto. Come poteva essere tanto sicura che lui non avrebbe deciso di avvertire la polizia, a prescindere da Timmy? Non poteva esserne sicura, quindi doveva trattarsi di qualche altra cosa, ma quale? John sedeva lì, nella fredda notte, cercando di ricordare le frasi che si erano scambiati. Le accoglienti luci si spensero, comprese quelle al pianterreno, e lui era ancora lì. Qualcosa che Gail aveva detto, o il modo in cui l'aveva detto. Accese una sigaretta, fissandone la punta incandescente con aria aggrondata, poi, rendendosi conto che cominciava a intirizzirsi, avviò il motore. Era già in fondo al viale, in procinto di voltare a sinistra, in direzione dell'autostrada e di New York, quando gli venne in mente quel qualcosa... Vide d'un tratto Gail seduta sul divano, mentre lo fissava con espressione di profonda noia. Riudì la sua voce, pronunciare una frase che era sembrata trita e offensiva: "Chiunque sia stato, doveva essere un mediocre tiratore". John fermò l'automobile di botto, sentendosi all'improvviso ridicolo. Doveva essere fuori di senno, per non capire il significato di quelle parole. Spenti motore e fari, rimase lì seduto al chiaro di luna, cercando d'incastrare i pezzi l'uno nell'altro. Gail aveva voluto dire che, se fosse stata lei a sparare per quattro volte, non avrebbe mancato il bersaglio. Dio mio, come poteva essere stato tanto sciocco? Quando aveva comprato la rivoltella e le cartucce, sistemando poi un tirassegno nel campo dietro la casa, era rimasto stupito per la rapidità con cui Gail aveva imparato e lei gli aveva detto che aveva sovente tirato al piattello nella proprietà della zia, negli Adirondacks, e in quella di amici. Arrivò da sud un'automobile, i cui fari dalla luce accecante illuminarono una stretta strada pavimentata con pietrisco e i vecchi alberi privi di foglie, che la fiancheggiavano. Proseguì, diretta verso la proprietà di Eve Wendell, che distava qualche chilometro verso nord. Con la mente confusa, John guardò sparire la luce dei fanalini di coda. Prima era tanto sicuro che fosse stata Gail a tentare di ucciderlo, ma adesso non ne era più tanto certo. Ma se non era stata lei, chi allora? Gail era l'unica persona al mondo che poteva avere un motivo per desiderare la sua morte. L'unico vero motivo per ucciderlo. Voleva disfarsi di lui, lo vo-
leva morto e sepolto, per potere essere libera per sempre, libera di tenersi l'amante, libera di sposarlo. La voce che si era sparsa doveva averla spronata. Probabilmente credeva al pettegolezzo, altrimenti non sarebbe ricorsa a un gesto tanto drastico. Ma questo era proprio vero? Gilly aveva realmente intenzione di sposare Babs Carlyle? Quel pomeriggio Gilly l'aveva negato e John non gli aveva creduto, ma se invece aveva detto il vero e aveva informato Gail, la sera prima, quando era stato da lei, allora dove finiva il movente perfetto? John avviò di nuovo il motore, ma anziché voltare a sud, in direzione di Mount Kisco, girò verso nord, in direzione della casa di Eve Wendell. Volente o nolente, doveva parlare di nuovo con Gilly e scoprire esattamente che cosa fosse successo, durante il suo incontro con Gail, la sera precedente. Avrebbe dovuto stare attento a non lasciarsi influenzare dallo charme di Gilly e dalla loro vecchia amicizia, cercando di strappargli in qualche modo la verità. La casa di Eve Wendell era una grande villa col tetto di ardesia e l'edera che si arrampicava lungo i vetusti muri in mattone. In passato era appartenuta a un miliardario di New York, presidente del locale circolo della caccia alla volpe. Eve aveva cambiato ogni cosa. Aveva fatto costruire una immensa piscina, e dove c'erano i canili erano sorte delle cabine. Poiché il granaio le precludeva la vista delle ondulate colline, lo aveva fatto abbattere. Un secondo edificio a sé stante, che un tempo ospitava il bracconiere, era situato in fondo a una strada che si diramava dal viale, lungo circa duecento metri. Eve l'aveva rimodernato e ne aveva ricavato un'elegante casetta per gli ospiti, che ora era una piccola copia della villa. Quando s'immise oltre i cancelli aperti, in ferro battuto, John scorse le luci della villa, in fondo al lungo e dritto viale. Generalmente la casa era illuminata come un albergo in attesa di clienti, ma quella sera c'erano soltanto poche e tenui luci. Avvicinandosi alla curva a sinistra, John non vedeva la casetta degli ospiti e cominciò a temere che Gilly fosse uscito. Quando superò la curva vide invece le luci, che brillavano in mezzo agli alberi. Proseguì a lenta andatura, cercando di preparare le domande che avrebbe rivolto a Gilly, in modo da non svelargli l'accaduto, né il motivo del suo interesse. Quando arrivò alla casetta non aveva ancora steso un piano, però parcheggiò ugualmente accanto alla affusolata convertibile nera di Gilly. Si disse che dopo due anni e mezzo la bella casetta doveva ormai sembrare un focolare per lui. Suonò il campanello, che echeggiò con lievi rintocchi. Si domandò
perché Eve fosse stata tanto generosa, e così a lungo, e come Gilly potesse accettare quella generosità. Ci volle del tempo prima che Gilly venisse ad aprire la porta e quando apparve sembrò sconcertato, però un largo sorriso gli illuminò il volto. Indossava lo stesso vestito di tweed marrone, e lo stesso maglione a collo alto, che aveva addosso quel pomeriggio a New York. Stringeva un bicchiere di whisky in una mano, una pipa nell'altra. «Che sorpresa, Johnny!» esclamò. «Entra, stavo guardando un vecchio film: "La prima moglie". L'hai mai visto? Stupendo!» Guidò John oltre l'ingresso dai pannelli bianchi e nel soggiorno dall'elegante arredamento. Il televisore era acceso e nel camino, in stile Adam, ardeva il fuoco. Spense quindi il televisore, dicendo: «Credevo che fosse Eve; ha telefonato poco fa, dicendo che forse avrebbe fatto un salto qui, più tardi, per bere qualcosa. Si annoia a morte, povera cara. Doveva andare a Placid per il weekend, ma l'amica che l'aveva invitata si è rotta l'osso del collo perdendo uno sci. Vuoi bere qualcosa?» «No, grazie, ho bevuto un cognac poco fa.» «Come sta Timmy? Starà peggio, se hai dovuto fare tornare Gail.» Gilly buttò un altro ceppo sul fuoco, poi sedette sul divano accanto al camino. John scelse una poltrona poco lontana, in modo da potere vedere Gilly bene in faccia. Voleva essere in grado di cogliere qualsiasi sfumatura sul suo viso, qualsiasi lieve mutamento che potesse tradire se diceva o no la verità. «Non credo che sia nulla di grave» disse. «Si sentiva malissimo, povero bambino, e voleva sua madre, per cui Eve ha telefonato a Gail, in vece mia.» «Lo so, me l'ha detto.» Rimasero li in silenzio, per qualche minuto. Gilly aspirava il fumo dalla pipa, osservando John con espressione leggermente ironica. L'altro se ne rendeva conto, molto a disagio, ma non sapeva da che parte cominciare. «Qualcosa che non va?» finì per chiedere Gilly. «Mi sembri un poco nervoso. Ho dell'ottimo cognac, se vuoi cambiare idea.» John scosse la testa, poi prese il toro per le corna. «Sono venuto per chiederti una cosa» disse. «Sputa» fece Gilly sorridendo. «Quando hai visto Gail, ieri sera, avete parlato di Babs Carlyle?» Gilly ebbe l'aria perplessa e mortificata. «Te l'ho detto oggi!» esclamò. «È soltanto una sciocca diceria. Non mi hai creduto?»
«Hai detto a Gail ciò che hai detto a me?» «Certamente. Aveva letto le cronache mondane, o qualcuno gliele aveva riferite, comunque era al corrente e la cosa l'aveva naturalmente turbata. Sono dunque andato da lei, ieri sera, per dirle che erano tutte sciocchezze.» Con un sorrisetto amaro, Gilly continuò: «Era del resto soltanto il bis di una discussione che abbiamo avuto appena sono tornato da Acapulco. Anche allora le ho detto che non c'era niente di vero. Randy Carlyle è un ubriacone e Babs non ce la faceva più, ecco tutto. Io mi trovavo li per caso, con una spalla su cui lei poteva piangere.» Ben risposto, pensò John, scrutando il bel viso di Gilly, incapace come al solito di leggere i pensieri celati dietro quegli innocenti occhi castano chiaro, dalle folte ciglia. «Pensi che Gail ti abbia creduto?» domandò. Gilly inarcò le sopracciglia. «Perché diavolo non dovrebbe credermi?» esclamò. «Se volessi corteggiare Babs o qualsiasi altra donna, lo farei e lei lo sa, quindi perché dovrei mentire?» Guardandolo con freddezza, John disse: «Questo la pone in una situazione piuttosto ambigua, non ti pare?» «Senti chi parla!» esclamò Gilly, riaccendendo la pipa. «Hai fatto tutto quello che potevi, per garantirti che io non potessi riparare al male fatto.» Come sempre, non parlava spinto dalla collera. Stava lì, col bicchiere in mano, aspirando il fumo dalla pipa, cordiale come al solito, ma nonostante la sua tranquillità, John si chiese d'un tratto se amasse veramente Gail, se volesse davvero sposarla e se lui rappresentasse più di un rapporto comodo e prolungato nel tempo. Continuava a scrutare Gilly, cercando disperatamente di capire che cosa pensava, ma lui adesso fissava il fuoco, come se la questione fosse chiusa. Aveva risposto a domande molto personali senza risentirsi, almeno in apparenza, e la faccenda era conclusa. Possibile che per lui la cosa avesse così poca importanza da non essere neppure curioso di conoscere il motivo per cui John era andato lì a rivolgergli quelle domande, oppure si atteneva alla sua vecchia politica di serbare i suoi segreti, dietro la bonaria, fanciullesca facciata? All'improvviso, Gilly si voltò, cogliendo John di sorpresa. Rise, esclamando: «Eccoti di nuovo con la faccia seria! Sapevo che avresti dovuto bere un cognac.» Prima che John potesse decidere sul da farsi, arrivò dall'ingresso una gelida folata d'aria e una voce gaia gridò: «Sono qui, tesoro! Era una così
bella serata che sono venuta a piedi. Ma guarda, John Townsend! Non mi aspettavo davvero di trovarti qui.» Eve Wendell entrò a lunghi passi nella stanza, vestita di tweed come Gilly, con gli occhi scuri che brillavano, le guance arrossate dal freddo. Quando John l'aveva vista per l'ultima volta aveva i capelli corti, color pepe e sale, adesso erano nero corvino, quasi colore dell'ebano, come quelli di Nancy Waring, pettinati in soffici ondulazioni. Sembrava più femminile, meno aggressiva di come la ricordava John. La figura, invece, non era cambiata, non proprio formosa, però bene imbottita. Entrambi gli uomini si erano alzati. Lei si accostò a Gilly per dargli un lieve bacio su una guancia, con aria leggermente possessiva, quindi si girò verso John e gli tese la mano, piccola e ben curata, sulla quale brillava un immenso diamante, trofeo del suo ultimo matrimonio. «È stato un piacere parlarti al telefono» gli disse «però è assai meglio rivederti di persona. Sei un poco dimagrito, vero?» Strinse la mano di John con calore, fissandolo con aria apertamente curiosa, simile a quella di un terrier in attesa che gli si lanci una palla. Moriva chiaramente dalla voglia di sapere perché si trovava lì, con l'uomo che gli aveva sedotto la moglie e rovinato l'esistenza. Sarebbe stato un delizioso argomento di conversazione, per il suo prossimo invito a pranzo. John si limitò a sorridere, dicendo: «Mi fa piacere vederti.» Eve gli lasciò andare la mano, poi sedette su una bella poltrona antica, che le apparteneva senza dubbio, e accettò la crème de menthe che Gilly si era affrettato a versare, Quando si era seduta la sottana le si era sollevata e John notò, e non era la prima volta, che aveva gambe snelle e provocanti, un fenomeno che aveva già rilevato in altre donne grassocce, di mezza età. «Ho visto un'automobile, là fuori, ma non sognavo che fosse tua» disse Eve, ridendo allegramente. «Non avrei mai pensato di rivedervi insieme, in tutta la mia vita» continuò. «Gilly caro, dammi una sigaretta: ho dimenticato le mie.» Gilly si affrettò a ubbidire. Andò a prendere una scatola di sigarette, quindi si chinò su di lei per accendergliene una, con un accendino d'oro. «Dai qualcosa da bere a John, siede lì asciutto asciutto» ordinò Eve, lasciandosi sfuggire il fumo dalle narici. «Stavo per andare via» disse John. «Oh, vi ho forse interrotti?» esclamò Eve. «Mi dispiace, non sapevo che eri qui, non mi aspettavo...»
«Mi sono fermato un momento, passando da qui, mentre tornavo a New York» spiegò John. Gilly lo accompagnò fino alla porta e di nuovo il caldo, amichevole sorriso gli illuminò il volto. «Mi fa sempre piacere vederti» disse. Tacque, lanciandogli un'occhiata strana, un poco malinconica, e aggiunse: «Mi sei mancato, Johnny. Ti sembrerà pazzesco, ma è vero. È un gran peccato che le cose siano andate così.» D'un tratto, la voce sonora e roca di Eve giunse dal soggiorno. «Gilly, è caduto un ceppo che ha sparso scintille ovunque. Spicciati, prima che il tappeto si bruci.» Con un sospiro, Gilly tornò nel soggiorno e John si avviò verso l'automobile. 7 John arrivò a New York prima di mezzanotte. Lasciò l'automobile nel garage della Quarantaquattresima Strada West, di fronte all'Hotel Algonquin, e proseguì a piedi per andare al Club Yale. Il traffico non era stato intenso, per cui aveva impiegato poco tempo. Stanco morto, aveva intenzione di bere qualcosa e poi di coricarsi, ma entrando trovò un messaggio. Nancy Waring voleva che le telefonasse, a qualunque ora fosse tornato. Aspettava indubbiamente la telefonata con impazienza, perché rispose subito. «Ero preoccupata per te, tesoro» disse. «Come sta Jimmy?» «Bene, credo. Mi avvertiranno, se ci saranno dei mutamenti.» «Che cosa c'è? Hai una voce strana. Guai?» «Sono stanco, ecco tutto.» «Hai pranzato?» «Per modo di dire; a metà cena, Timmy è stato male di stomaco.» «C'è qualcosa che ti turba. Perché non vieni qui? Ti preparerò delle uova strapazzate o qualche altra cosa.» «È molto tardi.» «Al diavolo. Vieni, tanto non posso dormire lo stesso.» Nancy abitava in un appartamentino di due stanze in affitto, in un vecchio edificio con un ascensore antiquato. Tanto l'appartamento quanto lo stabile erano squallidi, ma dati gli alti affitti di New York lei non poteva
permettersi di meglio e aveva cercato di sopperire con lampade e coperture nuove e qualche mobile. Il soggiorno dava su un altro tetro edificio in mattoni, sul lato opposto della Quarantaseiesima Strada e Nancy teneva sèmpre la tenda chiusa. Ormai sistemata nel lavoro da Anne, aveva intenzione di cercare un alloggio più decente, comprandosi il mobilio. Appena John suonò il campanello, spalancò la porta e gli sorrise. Era molto carina, con quella vestaglia gialla che metteva in risalto i capelli nero corvino. «Come va il mal di testa?» le chiese John. Lei rise. «Era una scusa» disse. «Su, dammi il cappotto. Quando hai disdetto il pranzo, Anne ha deciso di restare in negozio, ma io ne avevo abbastanza. Questa settimana abbiamo lavorato fino a tardi tutte le sere, per cui ho approfittato dell'occasione per venire a casa a lavarmi i capelli e a mettere un poco in ordine i miei vestiti.» Indicando la tavola, posta in mezzo alle due alte finestre, aggiunse: «Ho preparato whisky e ghiaccio, se vuoi bere. Io me ne sono già versato uno. Ti vanno salsicce, uova strapazzate, e pane abbrustolito?» «Benissimo.» Nancy andò nel cucinino, una stanzetta lunga le cui doppie porte davano nel soggiorno. Intanto, John si versò il whisky e soda, prendendo quindi posto sul divano dalle molle rotte, ricoperto con una stoffa dai gai colori. Nancy sbatteva le uova e poco dopo John avvertì un piacevole aroma di salsicce che friggevano. «Cuocerò le uova dopo» disse Nancy, andando a sedersi accanto a lui, sul divano. Prese il bicchiere, che aveva posato sul tavolino dal legno sciupato, e lo fissò mentre chiedeva: «Hai visto Gail, vero?» «Sì.» «Per questo avevi la voce strana, al telefono. È stato duro, rivederla dopo tanto tempo?» All'improvviso Nancy si rizzò, lanciando a John un sorrisetto triste, in tralice. «Non rispondere» disse. «Ho promesso che non avrei più abbordato l'argomento, a meno che non fossi tu a volerlo, per cui lascia perdere.» «Come hai fatto a sapere che avevo visto Gail?» «Quando Anne mi ha telefonato, mi ha detto che avevi chiesto a tua moglie di tornare a casa e lei aveva paura che tu la vedessi. Era agitatissima.» Nancy si appoggiò contro la spalla di John e lui le passò le dita sui capelli notando che erano ancora umidi e fragranti, dopo il recente shampoo. «Anne» riprese Nancy «è ossessionata dall'idea che Gail possa farti del male.
Deve essere contagioso, perché cominciavo a preoccuparmi anch'io.» John s'irrigidì e la mano con cui stringeva il bicchiere prese a tremare. Cercò di dominarsi, ma Nancy se n'era accorta. Si ritrasse, guardandolo allarmata. «È successo qualcosa, vero?» domandò. John la strinse maggiormente a sé, riuscendo a sorridere debolmente. «C'è stato un imprevisto ed ero ancora lì, quando lei è tornata, ecco tutto» disse. «Mi ha buttato fuori.» Nancy si alzò per andare a sorvegliare il cibo sul fuoco, ma quando tornò con le pietanze nessuno dei due si sentì di mangiare. Nancy si gingillò per un poco con una fetta di pane tostato, poi si girò verso John con espressione pensosa e disse: «Senti, caro, so che qualcosa è andato storto laggiù. Hai un aspetto spaventoso e non sei capace di mentire, però se non vuoi parlarmene capirò. In fondo non sono affari miei. Sulle prime pensavo che foste tutti matti, però comincio a credere che Anne abbia ragione. Secondo me, dovresti stare lontano da Mount Kisco.» Seduto accanto a lei, John si sentiva in colpa. La estrometteva dalla sua vita, mentre ne faceva già parte, ma non si poteva confidare né con lei né con nessuno, finché non avesse scoperto come erano veramente andate le cose. Durante il lungo tragitto per tornare a New York, aveva concluso che l'unica sua possibilità consisteva nell'andare a Mount Kisco il mattino presto, per perlustrare il bosco e l'area di parcheggio. Se era stata Gail a sparare, doveva avere usato la Colt Woodsman 22 che le aveva dato lui. Non poteva essersi procurata un'altra arma, in così poco tempo, e non poteva certo sapere che lui l'avrebbe fatta tornare a Mount Kisco. Aveva dunque intenzione di frugare in tutta la zona, in cerca dei proiettili o dei bossoli. I suoi piani futuri dipendevano da ciò che avrebbe trovato. Prese una mano a Nancy, e disse: «Devo tornarci domattina, ma non preoccuparti.» «Perché, santo cielo?» domandò lei, con voce un poco tesa. «L'ho promesso a Timmy» mentì John. Si alzò quindi in fretta, guardando l'orologio. «Vai già via?» chiese Nancy. «Sì, devo alzarmi presto.» Lei lo accompagnò fino alla porta e gli si strinse contro quando lui la baciò per darle la buona notte, però non discusse, come avrebbe fatto Anne. Restò sulla soglia e lo guardò allontanarsi, con grandi occhi tristi.
L'indomani mattina prima dell'alba un inserviente assonnato lo accompagnò nell'atrio del Club Yale. Il portiere di notte si sforzò per sfoggiare uno strano sorriso, mentre John gli passava davanti, per uscire poi nella Vanderbilt Avenue, ove il vento gelido si abbatté su di lui come una mazzata. Nella tetra oscurità di quella domenica mattina d'inverno, le strade erano deserte e il vento gli frustava il cappotto, mentre camminava verso il garage nella Quarantaquattresima Strada West. Andando in direzione dell'autostrada di West Side, per voltare poi a nord, non c'era traffico. John si sentiva intontito, per la mancanza di sonno, e data l'ora mattutina non aveva potuto farsi portare un caffè. Pensò di fermarsi al ristorante Leighton per fare colazione, ma quando vi arrivò alla grigia luce dell'alba, era chiuso. Ricordò allora che proprio a nord di Mount Kisco, l'autunno prima che lui si trasferisse a New York avevano inaugurato un motel con ristorante. Non ne rammentava il nome, però ricordava di esserci passato davanti la sera prima e distava poco dall'uscita dell'autostrada. Mentre procedeva, il cielo si rischiarò ed era ormai giorno, quando arrivò all'uscita che portava al motel. In effetti si trattava di un gruppo di edifici in stile Tudor, che si ergevano tutt'attorno a un grande cortile. In estate era probabilmente zeppo, ma in quella stagione dell'anno c'erano poche automobili parcheggiate a spina di pesce davanti alle varie costruzioni. Il ristorante., con proprio parcheggio davanti, era a destra. John fu contento di vedere che brillavano alcune luci, dietro i vetri delle piccole finestre. Parcheggiò col muso dell'automobile contro il muro, seguendo le indicazioni dei segni tracciati sul terreno. Scese e mentre si voltava per chiudere lo sportello, diede un'occhiata oltre il cortile, verso uno dei grandi, bassi edifici. Si fermò di botto, stringendo ancora la maniglia. Una delle automobili parcheggiate davanti a una porta di quercia in stile antico era identica a quella di Anne. Una Cadillac nocciola, con capote marrone scuro, e targa di New York. John si accostò e guardò all'interno. Sul sedile anteriore c'era un pacchetto di sigarette Pall Mall Gold, la marca che fumava Anne. Eppure non poteva essere la sua automobile, dato che lei era a New York. John guardò di nuovo la targa, ma non scoprì nulla, eccettuato che le lettere corrispondevano alla città di New York. Non sapeva il numero della targa di Anne. Avendo scorto un piccolo cartello, con la scritta "Ufficio", al centro dell'edificio sul retro, si avviò con passo rapido. Fu accolto da un giovane efficiente, al quale chiese:
«Alloggia qui una certa signora Lansing?» «Un momento, ora guardo. Ho preso servizio adesso.» Il giovane allungò una mano per prendere alcune schede e le sfogliò. Alzò quindi lo sguardo e disse: «Sì, signore. È al numero cinque, alla vostra destra uscendo da qui, di fronte al ristorante.» «Quando è arrivata?» Dopo avere di nuovo consultato la scheda, l'impiegato rispose: «Ieri sera alle nove e venti.» «Grazie.» John attraversò di nuovo il cortile, con la fronte aggrottata. Che cosa diavolo faceva lì Anne? Si sentiva sempre più irritato. Santo cielo, non poteva lasciare a lui i suoi problemi coniugali? Doveva proprio sempre agitarsi e interferire nella sua vita privata? Era ormai decisamente in collera, quando bussò alla porta del numero cinque. Passò un poco di tempo, prima che Anne aprisse ed era chiaro che era stata svegliata. «John!» esclamò stupita. «Che cosa diavolo fai qui?» domandò lui, sospingendola per passare oltre ed entrare nella grande stanza a due letti, con due immense lampade. Uno dei letti era intatto, l'altro in disordine. Le tende erano chiuse e la luce nella camera fioca. John tirò il cordone per aprire le tende, lasciando entrare la luce fredda e grigia, quindi si voltò verso Anne, che lo fissava, ritta poco oltre la soglia. Indossava un pigiama rosa di taglio classico, con vestaglia intonata, un insieme elegante e allegro che non donava al suo viso pallido e tirato. «Allora?» le chiese. Anne si accostò al letto disfatto e sedette sul bordo, con aria abbattuta, ravviandosi gli scuri capelli dal viso. «Sono venuta qui ieri sera» disse in tono di difesa. «Perché, santo Dio?» «Quando ti ho telefonato dal negozio, e tu mi hai detto che Gail stava per tornare, mi è quasi venuto un accidente.» Anne si morse il labbro inferiore e aggiunse: «Mi dispiace, ma non posso togliermi dalla testa le parole di quella donna. Non ho potuto fare a meno di venire qui, per tentare di parlarle.» «L'hai fatto?» «No.» «Dov'è Bill?» «A casa, addormentato, suppongo. Quando abbiamo disdetto il pranzo,
ho deciso di lavorare fino a tardi e ho lasciato liberi i domestici. Bill detesta essere servito, se è solo, infatti ha detto che usciva a pranzo e che poi sarebbe andato al cinema. Lo fa spesso, quando io lavoro fino a tardi.» «Sa che sei qui?» Anne fece un cenno affermativo. «Quando sono rincasata non c'era nessuno, allora gli ho lasciato un biglietto per dirgli che venivo qui. Dopo ho preparato una valigetta, mi son fatta portare l'automobile e sono partita.» Anne si frugò in tasca, per prendere le sigarette e ne accese una, socchiudendo gli occhi per difendersi dal fumo. «Quando sono arrivata qui, dato che non avevo ancora mangiato, sono andata al ristorante e ho pranzato. Volevo essere certa che tu fossi partito e che Gail fosse arrivata, quindi non avevo alcuna fretta.» John andò a sedere sull'altro letto, di fronte a lei, e si raddolcì, notando l'ansia nei suoi occhi e il suo volto tirato. Se avesse almeno potuto smettere di agitarsi per lui, di cercare di proteggerlo, ma non c'era niente da fare. Anne non riusciva a non comportarsi da sorella maggiore. «Che cosa speravi di ottenere, parlando con Gail?» le chiese. Lei lo guardò con espressione un poco stralunata. «Volevo prima di tutto garantirmi che tu stessi bene, poi l'avrei ammonita che se ti fosse capitato qualcosa non l'avrebbe fatta franca, in quanto Bill ed io eravamo al corrente della sua minaccia.» «Dio santo!» «Be'» fece Anne, un poco imbarazzata «in effetti volevo anche chiederle se potevo portare via Timmy e condurlo a casa nostra, dove sarebbe stato curato bene. Con la signora Henderson, s'intende, e Stella l'avrebbe aiutata.» «La signora Henderson se la cava benissimo» disse John. Col volto arrossato dall'emozione, Anne ribatté: «Non è questo il punto. Si tratta di Gail, che non è una donna a cui si possa affidare un bambino. Se Peter fosse al mondo, pensi che mi precipiterei a fare spese e a pranzare fuori, mentre lui è malato? Non le basta avere un amante sempre fra i piedi, non è neppure presente per occuparsi di suo figlio quando lui ne ha bisogno. È uguale alle donne del secolo scorso, dà carta bianca alle bambinaie, e se la spassa. Ammesso che non l'abbia già fatto, rovinerà il bambino, ma il colmo è che ieri l'abbia lasciato. Bisognerebbe portarglielo via, lo sai quanto me, ma sei troppo ostinato per cedere.» Quando tacque, Anne aveva quasi il respiro mozzo. Paziente, John attese che riprendesse il dominio di sé. Da due anni udiva quella tiritera, con
qualche variazione, e non s'incolleriva più. Aveva imparato ad adeguarsi agli sfoghi di Anne. «Però non l'hai vista, vero?» le domandò. «No. Ho aspettato fino dopo le dieci, per garantirmi che tu e la signora Henderson foste andati via, poi sono andata li. La macchina di Gail era parcheggiata davanti alla casa, ed ero certa che lei ci fosse, ma la villa era immersa nell'oscurità. Ho suonato il campanello, ho bussato, l'ho chiamata e deve avermi sentito, ma non ha risposto. Allora sono tornata qui e ho tentato per una dozzina di volte di telefonarle, senza ottenere risposta. Ormai cominciavo a preoccuparmi, per te non per lei, per cui ho finito per telefonarti al Club. Mi hanno detto che eri tornato e quindi eri uscito di nuovo.» Un subitaneo sorriso illuminò il volto ansioso di Anne, che riprese: «Dio mio, come sono stata contenta di sentirmelo dire. Allora ho telefonato a Bill, per dirgli che stavi bene e che io rimanevo qui, per vedere Gail al mattino. Non sono però riuscita a rintracciare neppure lui. Si sarà fermato in qualche posto per bere.» Anne tacque, per lanciare a John un'occhiata curiosa, prima di chiedere: «Come hai saputo che ero qui?» «Non lo sapevo. Mi sono fermato per fare colazione e ho visto la tua macchina.» «Già, la colazione» fece Anne. «Devi essere affamato. Facciamoci portare salsicce e focacce. Ricordi le focacce che faceva la vecchia Viola, quando eravamo bambini? Una volta ne mangiasti sedici.» John guardò l'orologio. Erano le otto e venti, Gail avrebbe dormito ancora per molto tempo. Poteva darsi che la signora Henderson per una volta non andasse in chiesa, e arrivasse quindi presto, ma in tal caso sarebbe stata occupata a preparare la colazione per Timmy, e ad accudire a lui, e non avrebbe dunque guardato fuori dalle finestre. C'era tutto il tempo. «D'accordo» disse. Anne telefonò l'ordinazione, quindi andò nella stanza da bagno per rassettarsi. Quando riapparve aveva l'aspetto più normale. Era in ordine e il trucco copriva le rughe e il pallore. Si era chiaramente aspettata che John s'infuriasse, trovandola lì, e ora provava un grande sollievo che non ci fosse stata un'altra lite. S'indaffarò a vuotare i portacenere e a mettere la coperta sul letto disfatto e intanto chiese: «Sei tornato per vedere Timmy?» John annuì, senza dire niente. «Ci sarà anche Gail» obiettò Anne. «Non si alza così presto» fece John. Anne si rabbuiò, serrando le labbra. Fissò il fratello per alcuni secondi,
come se stesse lottando con se stessa, poi evidentemente non riuscì a vincersi. «Trovo che sei pazzo» disse «ad andare dov'è quella donna. Ho paura di ciò che potrebbe fare. Se Gilly fa sul serio con Babs Carlyle, Gail non permetterà che tu la ostacoli.» «Santo cielo, dobbiamo proprio ricominciare?» esclamò John. «No, caro. So che parlarne ti irrita, ma continuo a pensare che non ti rendi conto di quanto potrebbe essere seria la situazione. Si direbbe che tu non riesca a cacciarti in testa che Gail non se ne starà lì, con le mani in mano, mentre un'altra le porta via Gilly.» John sorrise amaro. Arrivò la colazione, che li distolse dalla spiacevole conversazione, e poco dopo, John lanciò per caso un'occhiata fuori della finestra, nell'attimo in cui una jeep verde si fermava accanto alla convertibile di Anne. Era l'automobile, piuttosto sgangherata, che i Lansing usavano per andare a pesca e a caccia. «C'è Bill annunciò.» Sta scendendo dalla macchina. Anne si girò verso la finestra, aggrottando le sopracciglia con aria perplessa. «Perché mai...» cominciò, tacendo quindi per andare ad aprire la porta. Grosso e tarchiato, Bill Lansing era sulla soglia. Indossava il cappotto di pelo di cammello al quale non rinunciava da anni. Aveva i capelli scomposti, come sempre, e gli occhi pesti, simile a un amichevole orsacchiotto che non avesse chiuso occhio per tutta la notte. «Oh, Bill!» fece Anne, rizzandosi in punta di piedi per dargli un lieve bacio. «Che cosa fai qui?» «Ho trovato il tuo biglietto due ore fa e sono venuto, nel caso che ci fosse qualche guaio.» Bill sorrise al di sopra della testa di Anne e aggiunse: «Vedo che sei intero, John. Come sta Timmy?» «Bene, credo, stamattina non l'ho visto.» Bill si tolse il cappotto, che posò su una sedia, prima di addentrarsi nella stanza. «Hai fatto colazione, caro?» domandò Anne. «No, ma non ne ho voglia, grazie.» «Ti ordinerò comunque un caffè» disse Anne, accostandosi al telefono. «Postumi di sbronza?» fece John. «Coi fiocchi. Credi che sia possibile ottenere un whisky con limone da queste parti?» chiese Bill.
«Troppo presto, è domenica.» Bill si lasciò cadere pesantemente su una poltrona ricoperta di plastica e si sfregò la fronte. «John» disse sottovoce «spero che tu sappia che se avessi avuto la più pallida idea che Anne veniva qui, avrei cercato d'impedirglielo, ma non riesco assolutamente a farle capire che non serve a niente.» «Non preoccuparti.» «Invece mi preoccupo» fece Bill, con un sorriso abbattuto. «Non per te, vecchia carogna» aggiunse. «Sul tuo conto mi sono rassegnato; ti sei cacciato in questo maledetto pasticcio e dovrai districarti, ma non mi va che Anne si ammali a furia di agitarsi. Vorrei tanto che tu non le avessi mai riferito la frase di Gail.» «Anch'io» disse John. Dopo avere telefonato, Anne tornò e sorrideva a Bill con aria materna e divertita. «In che pasticcio ti sei cacciato, ieri sera?» chiese. «Non sei andato al cinema?» «Sì, ma il film faceva schifo per cui a metà sono uscito. Sono andato al Copacabana per vedere lo spettacolo e per bere qualcosa.» Bill riuscì a tirare fuori un pallido sorriso, passandosi le grosse dita sull'ondulazione. «Alla tavola vicina c'era un gruppo di persone del Nebraska» riprese «e, non so come, sono finito con loro e ci siamo sbronzati.» «A che ora sei rincasato?» domandò Anne. «Non lo so, credo verso le quattro o le cinque. Non volevo disturbarti, per cui sono andato a dormire nella stanza gialla degli ospiti. All'alba è squillato il telefono; era un imbecille che voleva sapere se ero un bar. Sono andato in camera per dirti che ero rincasato e ho trovato il tuo biglietto. Hai visto Gail?» «No, ci vado stamattina, più tardi.» Bill scrollò le spalle, chiaramente consapevole che sarebbe stato inutile discutere. «Chissà se potrei corrompere il cameriere e farmi portare una birra» fece. John si alzò sorridendo. «Quando pensi di tornare a New York?» chiese ad Anne. «Appena avrò visto Gail.» Pensando alla scena della sera prima, e all'arroganza con cui Gail lo aveva cacciato di casa, John fece: «E se lei rifiutasse di vederti?» Con sguardo che si era fatto duro, Anne ribatté: «Mi vedrà, a costo di
sfondare la porta.» I due uomini si scambiarono un'occhiata e Bill ebbe un gemito. «Sarà meglio che ordini una bottiglia di whisky, invece della birra» disse. 8 John parcheggiò l'automobile in un sentiero, all'estremità nord della proprietà, quindi s'inoltrò nel bosco. Il sole era spuntato, mentre lui era al motel, ma tirava ancora vento e faceva molto freddo. Mentre si avvicinava alla casa non c'era nessuno segno di vita, benché la vecchia berlina della signora Henderson fosse parcheggiata vicino all'ingresso della cucina, sull'altro lato del piccolo casotto in cui lui, in. passato, riponeva i suoi attrezzi e i mobili del giardino. Il giardinaggio era stato il suo hobby, mentre ora stipendiava un giardiniere. Come aveva previsto, le tende della camera di Gail erano chiuse, la sua automobile tuttora parcheggiata davanti alla casa. Sentendosi un intruso in casa sua, John diede inizio alle ricerche, cominciando nel bosco vicino al parcheggio, per tornare poi sui suoi passi. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata alla casa, per garantirsi che nessuno l'osservasse. Con quelle foglie secche e il verde, la caccia pareva inutile, ma lui perseverò, stropicciando coi piedi il fogliame finché arrivò a una piccola radura, quasi in linea retta col luogo ove gli sembrava di trovarsi, quando gli avevano sparato. Il terreno era gelato e non c'erano tracce d'impronte. Nulla intorno indicava che qualcuno fosse stato li e John stava per rinunciare, quando scorse un luccichio metallico, in mezzo a un mucchio di foglie. Col cuore che gli batteva forte, si chinò per raccattare il pezzetto di metallo. Era un bossolo calibro 38. E lui provò un immenso sollievo. Ammesso che trovasse qualcosa, si era sentito quasi sicuro che si trattasse di uno dei Long Rifle 22 che aveva comprato per Gail, tanto tempo prima. All'improvviso, però, il suo sollievo si tramutò in collera. Se non era stata Gail, allora era stato Gilly. Inevitabile. Era molto probabile che Gail avesse perso, o dato via, la Colt Woodsman, sostituendola con la Colt 38. Gilly, invece, sapeva che lui andava a Mount Kisco e avrebbe avuto tutto il tempo per procurarsi un'arma, ammesso che non ne possedesse già una. Scuro in viso, John continuò le ricerche, camminando lungo il tratto fra la piccola radura e il punto in cui si trovava la sera prima. Il compito cominciava a sembrare impossibile, quando trovò un proiettile "morto", conficcato nel tronco di un acero, a pochi metri dalla casa. Cer-
cando di nuovo nella radura, trovò poi un altro bossolo 38, ai piedi di un cespuglio avvizzito. Intascò i bossoli e il proiettile, che aveva scalzato col temperino, quindi attraversò il bosco per tornare all'automobile. Aveva la mente in tumulto. Ormai sicuro che era stato Gilly, e non Gail, a sparargli, che diavolo poteva fare? Scaltro com'era, Gilly avrebbe naturalmente negato, e lui non poteva rivolgersi alla polizia, per esigere che si svolgesse un'indagine, senza trascinare nella faccenda Gail e, di conseguenza, anche Timmy. Era già in macchina, diretto verso la strada, lungo il sentiero, quando ricordò la strana frase di Gilly, nel momento in cui si erano lasciati la sera prima. Si sarebbe quasi detto che si scusasse per una colpa involontaria, per qualcosa che doveva fare, volente o nolente. Significava forse che si sentiva costretto ad assassinarlo per "riparare al mal fatto", come aveva detto lui, e che non essendoci riuscito avrebbe ritentato? Quando John arrivò alla lussuosa casetta, era ormai in preda al furore. Frenò, per fermarsi accanto alla lucente convertibile di Gilly, e scese rapido, tremante per la collera. Benché ci fossero il campanello e un grazioso battente di ottone, abbatté il pugno sulla porta. Anche se non poteva rivolgersi alla polizia, senza provocare un ulteriore scandalo, poteva suonarle a Gilly e scacciarlo per sempre da Mount Kisco, allontanandolo da Gail. Naturalmente, quella carogna dormiva ancora. John si disse che i dilettanti non si alzano mai di buon'ora, dato che passano la notte a bere i liquori altrui e a sedurre le mogli degli altri. Picchiò sulla porta con maggior forza, poi provò a girare la maniglia, che cedette. Allora entrò a lunghi passi, gridando il nome di Gilly. La sua voce rintronò nella casa silenziosa e c'era qualcosa di minaccioso in quella calma. Si avviò verso la scala, sul fondo dell'ingresso, e mentre passava davanti al soggiorno, a destra, buttò un'occhiata all'interno. Si fermò di botto, impietrito, incredulo, con gli occhi fuori dalle orbite. Gilly c'era e c'era sempre stato. Giaceva supino, in posa scomposta, con l'accappatoio di spugna bianca aperto, che lasciava intravvedere il pigiama bianco con la larga chiazza rossa sul petto. «Gilly!» urlò, correndo verso il corpo immobile, ma sapeva che era morto. Gli avevano sparato a distanza ravvicinata. John rimase a fissare il suo vecchio amico e lui ricambiava lo sguardo, con quegli innocenti occhi color topazio, il bel volto ormai una gelida maschera, dalle labbra socchiuse. John si chinò per sfiorargli una mano. Era fredda e irrigidita. Si disse che doveva essere morto da un po' e, appena lo stato di choc si dileguò, fu col-
to da malessere. Poi si dominò e si guardò attorno. Tutto era in ordine perfetto. La fiammata che la sera prima ardeva nel camino adesso era spenta, il parafuoco al suo posto. Gilly doveva avere vuotato i portacenere e lavato i bicchieri, riponendo anche la bottiglia del whisky, prima di salire a coricarsi. Eccettuato per il suo corpo, sdraiato in posa scomposta sul pavimento, la stanza sembrava una pubblicità di una rivista di arredamento. Su un tavolino antico, fra le due finestre che davano sulla facciata, era posato un telefono. Doveva avvertire la polizia, ma prima esaminò la stanza con più attenzione, non trovando nulla. Questa volta non c'era un proiettile, nessun bossolo. Chiunque fosse stato ad assassinare Gilly, doveva distare pochi passi da lui e il colpo doveva averlo ucciso istantaneamente. Non c'erano segni di colluttazione. Secondo John, Gilly doveva essere stato ucciso da qualcuno che conosceva, forse intimamente. Improbabile che si fosse alzato in piena notte, invitando poi un estraneo a entrare nel soggiorno. Forse aveva un appuntamento e aspettava il visitatore al pianterreno. Una donna, probabilmente, dato che l'attendeva in pigiama. John guardò di nuovo il telefono, sapendo che avrebbe dovuto avvertire la polizia, però prima salì la scala di corsa, per guardare nella stanza da letto. La lampada sul comodino era ancora accesa, le coperte tirate giù, come se Gilly fosse stato svegliato. Tornato nel soggiorno, aveva già allungato una mano verso il telefono, quando l'apparecchio squillò all'improvviso. John diede un balzo, ma poi si dominò e prese in mano il ricevitore. «Pronto» disse. Una voce femminile e petulante esclamò. «Perché non mi hai richiamato, ieri sera, tesoro? Ho aspettato e aspettato, poi ho finito per addormentarmi.» Seguì un silenzio, quindi la voce riprese: «Mi mancavi terribilmente. Non sopporto di dormire senza di te. Che c'è caro? Perché taci?» «Avete sbagliato numero» disse John con voce strozzata. Inorridito, ripose il ricevitore sulla forcella. Benché non udisse quella voce da molti anni, ricordava la pronunzia un poco blesa e il tono affettato di Babs Carlyle. Prima che lei potesse ritelefonare, riprese in mano il ricevitore e chiese al centralino di passargli la polizia. L'impresa di spiegare l'accaduto a un poliziotto parve richiedere un'eternità e appena John ebbe deposto il ricevitore il telefono squillò di nuovo. Lui lo lasciò suonare mentre camminava
in su e in giù, con la mente in tumulto. La suoneria cessò di squillare, ma soltanto per un attimo, poi echeggiò di nuovo. Alle strette, John finì per rispondere. «Pronto, Gilly?» disse la voce di prima. «No, è John Townsend.» «Ah, vi ricordo; eravate sposato con Gail Kingston, vero? Parla Babs Carlyle. C'è Gilly?» «C'è stato un incidente, Babs» disse John, con la maggior dolcezza possibile. «È morto, qualcuno lo ha ucciso.» Seguì un silenzio, come se Babs fosse stordita, poi lei gridò: «Morto? Gilly è morto? Dio mio, è impossibile. Dovevamo sposarci la settimana prossima. Non può essere morto, dovevamo tornare ad Acapulco.» «Purtroppo è vero» disse John. «L'ho trovato io, pochi minuti fa.» Dall'altro lato del filo risuonarono disperati singhiozzi, quindi subentrò il silenzio. Babs aveva interrotto la comunicazione, probabilmente in preda a una crisi isterica. Poveraccia. Mentre cercava l'elenco telefonico di Gilly, per trovare il numero del motel ove alloggiava Anne, John provava il desiderio di fare come Babs. Rispose Bill. Gli disse che Anne stava facendo il bagno. «Cerca di calmarsi, prima di andare da Gail» spiegò. «Dille di non andarci. Gilly è morto, è stato assassinato. Io sono qui da lui, in attesa della polizia.» «Accidenti! Come...» «Un colpo d'arma da fuoco.» «Vuoi che venga lì?» «No, voglio che tu riporti Anne a New York appena puoi.» «Bene. Andrò con la Cadillac e manderò a prendere la jeep in seguito. C'è altro che posso fare?» «Dillo a Anne con ogni cautela e tienila lontana da mia moglie, niente altro. Io andrò a informare Gail appena la polizia me lo permetterà. A più tardi.» Dopo avere deposto il ricevitore sulla forcella, John accese una sigaretta, quindi formò il numero di casa. Rispose la signora Henderson che si affrettò a dire: «Stamattina Timmy sta molto meglio.» «Magnifico. È alzata la signora?» La voce della governante cambiò immediatamente. «No, signore. Sono soltanto le dieci, non si alza mai tanto presto, neanche quando il bambi-
no...» John l'interruppe. «Sono a Mount Kisco» disse «e verrò lì appena potrò, ma intanto voi non rispondete al telefono. Se la signora si alza, prima che io sia arrivato, ditele che anche lei non deve andare al telefono. E non aprite la porta a nessuno, chiaro?» «Sì, signore, ma...» «Ve lo spiegherò quando verrò lì.» John aveva a malapena deposto il ricevitore di nuovo, quando udì arrivare un'automobile. La polizia, si disse, ma guardando fuori dalla finestra vide Eve Wendell che scendeva dalla sua grande familiare. L'osservò, mentre si fermava per dare un'occhiata alla sua automobile, con aria un poco perplessa, quindi la vide avviarsi verso la porta con la fronte ancora aggrottata. Era elegante, come sempre, perfino a quell'ora del mattino, con un abito nocciola e una pelliccia di zibellino. Procedeva con aria decisa, come un uomo diretto a una importante riunione. Spalancò la porta con una spinta, prima che John potesse arrivarci, e si ritrovarono nell'ingresso. «Qui di nuovo?» fece Eve, con espressione curiosa. «Sono venuto poco fa, per fare quattro chiacchiere con Gilly.» «Anch'io. La cameriera mi ha detto che la luce nella sua camera è rimasta accesa per tutta la notte. Ho provato a telefonargli, ma il telefono era sempre occupato. Temevo che ci fosse un guasto, oppure che il ricevitore fosse staccato. Sta bene, Gilly?» Eve si avviò verso il soggiorno, ma John l'afferrò per un braccio. «Non entrare lì» disse. «Perché?» «C'è Gilly. Morto, per un colpo d'arma da fuoco.» Eve guardò John con la bocca aperta, poi si sarebbe detto che il suo viso si afflosciasse. John temette che stesse per svenire, invece si scostò improvvisamente da lui, per entrare nel soggiorno, ove ristette a fissare il corpo di Gilly. John, che l'aveva seguita, le stava di fianco. «Si è suicidato?» domandò Eve. «No, non c'è arma.» La donna si avvicinò con passo barcollante alla poltrona su cui sedeva la sera prima e vi si lasciò cadere sopra, continuando a tenere gli occhi fissi su Gilly. «Non posso credere che sia morto» disse. «Chi mai poteva volerlo uccidere? Tutti lo adoravano.» Guardò John e aggiunse «Eccettuato te, s'inten-
de.» «Se avessi voluto ucciderlo, l'avrei fatto due anni fa!» Eve annui con aria vaga. «Già, suppongo di si, ma allora chi...» «A che ora sei andata via, ieri sera?» «Verso mezzanotte.» Eve serrò le labbra e domandò: «Perché lo chiedi? Non penserai che io...» Risuonò il sibilo di sirene, il cui tono si abbassava e si alzava, facendosi sempre più forte. «La polizia» disse Eve, appoggiandosi allo schienale della poltrona e chiudendo gli occhi. «Non stai bene?» domandò John. Lei aprì gli occhi. «Sto malissimo. Non posso credere che sia successo, mi sembra un orribile sogno. Era sempre così divertente, così allegro.» Le lacrime cominciarono a scorrerle lungo le guance. Prese il fazzoletto dalla borsetta e se lo passò sul volto. Il suono delle sirene si fece più forte. John guardò fuori della finestra, e vide due automobili che percorrevano il viale, una della polizia, l'altra una berlina anonima. Quando riportò lo sguardo su Eve, rimase stupito nel vedere che aveva tirato fuori il portacipria e si stava scrutando il viso. «Dio, faccio spavento» disse, cercando di cancellare le tracce di lacrime con il piumino. Incrociò quindi le belle gambe e si lisciò la sottana corta. «Suppongo che faranno a brandelli le nostre vite private, con tutte le loro maledette domande» osservò, rizzandosi maggiormente nella poltrona. Un'ora dopo, John sedeva nella sala da pranzo della casetta per gli ospiti, accanto a un portacenere pieno di mozziconi di sigaretta. Di fronte a lui c'era un uomo dai corti capelli biondi, spruzzati di grigio, e dai vivaci occhi azzurri. Magro, sulla quarantina, non somigliava affatto a uno sbirro, con quel completo di flanella grigia, ma era invece l'ispettore Sam Garrison della Squadra Omicidi. Al tavolo sedeva anche un poliziotto in uniforme che prendeva appunti, un omone dall'aspetto che incuteva quasi timore, con quella cartuccera e la fondina appoggiata sul massiccio fianco. Si chiamava Clark, ma l'ispettore lo chiamava Bob. Il giovane volto era severo, come se lui prendesse molto sul serio le sue responsabilità, lo sguardo impersonale, piuttosto duro. John era rimasto lì seduto solo, mentre automobili andavano e venivano e uomini dai volti impassibili lavoravano nel soggiorno, uomini calmi ed efficienti, per i quali Gilly era soltanto un altro cadavere. Era rimasto lì se-
duto con aria affranta osservando l'attività nella stanza attigua, attraverso la porta aperta. Eve Wendell era stata interrogata soltanto per pochi minuti, quindi le avevano permesso di tornare a casa. Ora Gilly era stato portato via, un fagotto bianco sotto un lenzuolo, e l'agitazione era cessata. Sul notes del sergente c'erano scritti nome, età e professione di John, il suo stato civile, il nome dei suoi parenti vivi e lui cominciava a sudare, rendendosi conto che stavano per arrivare le domande subdole alle quali avrebbe dovuto rispondere con cautela, pur cercando di apparire sincero e pronto a collaborare. Non poteva impedire ai poliziotti di scoprire lo scandalo in cui erano implicati Gail, Gilly e lui stesso. Tutta la cerchia mondana di Mount Kisco era al corrente dell'adulterio di Gail e della sua prolungata relazione con Gilly. Sapevano tutto perché Gail era stata tanto sciocca da confidarsi con Eve Wendell e, inoltre, né lei né Gilly avevano cercato di nascondere i loro rapporti. All'ispettore, John disse però soltanto che era separato dalla moglie da due anni. La sua unica speranza consisteva nel tergiversare e riuscire ad arrivare da Gail prima dei poliziotti. «Avete detto che conoscevate Gilmore da molto tempo?» chiese l'ispettore Garrison. «Sì, alloggiavamo insieme a Hotchkiss e poi anche a Yale. Eravamo amici da anni.» Quegli occhi azzurri erano penetranti. «La signora Wendell dice che ieri sera, quando è stata qui, c'eravate anche voi.» «Sì. Ero venuto per vedere mio figlio, che è malato, e mi sono fermato da Gilly più tardi. Sono andato via verso le dieci e mezzo.» «E poi?» «Sono tornato a New York. C'era poco traffico e ho impiegato circa un'ora.» «Ieri sera non siete più tornato qui?» «No, ho lasciato l'automobile al garage e sono andato al Club Yale a piedi.» L'ispettore Garrison volle sapere nome e indirizzo del garage, quindi domandò, con aria noncurante: «Dopo non siete più uscito?» «Sì. Ho trovato il messaggio di un'amica, che voleva che le telefonassi, cosa che ho fatto. Mi ha invitato a cena e sono andato al suo appartamento.» «Come si chiama l'amica?»
Maledizione, pensò John, adesso sarà coinvolta anche Nancy. «Nancy Waring» rispose. «Lavora nella boutique di mia sorella, nella Cinquantasettesima Strada Est; il negozio si chiama "Il gattino".» Dietro richiesta di Garrison, dovette fornire l'indirizzo di casa di Nancy e il suo numero telefonico, quindi l'ispettore volle sapere a che ora era arrivato da lei e a che ora era andato via. «Ci sono rimasto circa mezz'ora, credo» rispose John. «Doveva essere mezzanotte e mezzo, o poco più tardi, quando sono andato via, tornando al Club Yale a piedi. Dopo mi sono coricato. Sapete a che ora è morto Gilly?» aggiunse. «Il perito settore ha stabilito che erano circa le due. Potrebbe esserci una differenza in più o in meno, ma secondo lui l'ora è quella, grosso modo. Si effettuerà naturalmente l'autopsia. Possedete una rivoltella, signor Townsend?» Dal punto in cui sedeva, John vedeva gli uomini all'esterno occupati a cercare in giro per la proprietà, ovviamente in caccia dell'arma che aveva ucciso Gilly. Dio, se avesse almeno potuto sapere di che calibro era la rivoltella con cui era stato assassinato. Aveva ancora in tasca i bossoli e il proiettile calibro 38, che sembravano bruciare la stoffa. L'arma che aveva ucciso Gilly era la stessa con cui era stato sparato a lui? «Molti anni fa comprai una Colt Woodsman 22, quando qui attorno ci fu una serie di furti» disse con prudenza, destreggiandosi coi fatti. Per lo meno aveva denunciato la rivoltella a suo nome e aveva il porto d'armi, per cui per il momento Gail non sarebbe stata coinvolta. «Adesso dov'è?» «Probabilmente nel magazzino ove depositai i miei oggetti personali, al momento della separazione da mia moglie. Può darsi che abbia ancora il porto d'armi nel portafogli se volete vederlo...» John si tolse di tasca il portafogli e cominciò a frugare in mezzo alle carte di credito e agli altri documenti. Trovò finalmente il porto d'armi e lo tese all'ispettore, che lo esaminò in silenzio. «Se pensate che sia importante» disse «posso cercare la rivoltella ma richiederà alcuni giorni.» «Non credo che sarà necessario. Gilmore è stato ucciso con un'arma calibro 38.» L'ispettore aveva parlato in tono tanto noncurante che per un attimo le parole non penetrarono nel cervello confuso di John, ma quando lui capì ebbe i sudori freddi e accese una sigaretta per mascherare il proprio turba-
mento. «Come mai stamattina siete tornato a Mount Kisco?» chiese quindi l'ispettore. «Vi ho detto che mio figlio è malato» rispose John. «Ha un forte attacco d'influenza e ieri sera gli avevo promesso di tornare a trovarlo oggi.» «A che ora siete partito da New York?» «Non lo so con esattezza. Mi sono alzato alle sei e ho lasciato il Club appena sono stato vestito. Dopo sono andato a prendere l'automobile in garage, quindi penso di essere partito verso le sei e mezzo.» «E siete andato direttamente a casa, per vedere vostro figlio?» «Ci sono andato, ma dormivano ancora tutti. Temevo che mia moglie fosse rimasta alzata, durante la notte, per stare con nostro figlio e non volevo disturbarla, sicché sono venuto qui per ingannare il tempo con Gilly.» Garrison aggrottò la fronte, grattandosi una guancia con aria pensosa. «Avete denunciato la morte di Gilmore alle nove e cinquanta» osservò «dicendo che avevate trovato il cadavere in quel momento. Volete dire che avete impiegato tre ore e venti minuti per arrivare qui da New York, andare a casa vostra senza entrare e venire poi qui?» John imprecò fra sé e sentiva il sudore colargli lungo il corpo, sotto gli abiti. La sera prima, Nancy aveva avuto ragione, lui non sapeva mentire. «Avrei forse dovuto dire che mi sono fermato per fare colazione al motel dell'autostrada.» Sempre con la fronte aggrottata, l'ispettore Garrison fece in tono asciutto: «Chissà che colazione abbondante.» John spense la sigaretta nel portacenere. «Vi ho detto tutto ciò che so, sulla faccenda» dichiarò «e ci terrei a tornare a casa per vedere mio figlio. Vi dispiace se me ne vado?» «Dopo averlo visto, tornerete a New York?» «Sì.» «Sta bene, ma tenetevi a nostra disposizione e non lasciate la città senza avvertire il mio ufficio. Può darsi che voglia interrogarvi di nuovo.» John si alzò e stava per uscire, ma poi tornò indietro. «Si è provveduto ad avvertire i familiari di Gilmore?» domandò. L'ispettore fece un cenno affermativo, «Stiamo cercando di rintracciare il padre» disse. «Probabilmente la cosa interesserà di più la madre» fece John. «È all'ospedale, gravemente malata di cuore. E anche se avessimo potuto comunicare con lei, non potevamo assumerci la responsabilità di dirglie-
lo.» Rivolto al suo aiutante, Garrison aggiunse: «Adesso andremo dalla signora Wendell, Bob. Probabilmente ci saprà dire di più, sul conto di Gilmore.» 9 Lo choc che aveva provato alla scoperta dell'assassinio di Gilly e lo sforzo di mentire con l'ispettore avevano spossato John, che fu ancora più depresso quando scorse i poliziotti che perlustravano il terreno e il bosco, in cerca dell'arma. Si avviò a veloce andatura, coi finestrini abbassati per lasciare entrare l'aria fredda e frizzante. Intanto cercava di pensare a ciò che avrebbe detto a Gail, ma gli veniva soltanto in mente che Gilly era steso cadavere su una lastra di marmo, da qualche parte, con uomini in camice bianco chini su di lui, intenti a fare l'autopsia. Adesso gli sembrava strano di sapere poco o niente dei genitori di Gilly. Sapeva che erano ricchi, che possedevano una grande industria alla periferia di Chicago, e sapeva anche che un fratello di Gilly era morto molti anni prima, mentre una sorella era sposata con uno spagnolo titolato e viveva a Madrid. Lui aveva conosciuto soltanto il padre, che ricordava vagamente come un omone dai ruvidi capelli grigio ferro e dal modo di fare superficialmente cordiale, tipico del moderno dirigente. Gilmore padre aveva condotto John e Gilly a pranzo al Taft, comportandosi molto giovialmente, parlando con allegria dei tempi in cui era studente anche lui. Pensando al proprio padre, modesto e riservato, John aveva invidiato a Gilly quel genitore tanto alla mano, però in seguito si era reso conto che quella facciata gioviale era una maschera, che poteva essere strappata nell'attimo in cui Gilmore padre veniva contraddetto. Sotto si celava un uomo di ferro, un lottatore. Aveva vinto un round con le autorità dell'università di Yale, perdendo però l'ultimo, quando Gilly era stato espulso. Furioso, aveva ritirato l'aiuto finanziario, che in passato aveva elargito con tanta generosità, e si era valso di ogni mezzo, leale e sleale, per cambiare la decisione del rettore. Aveva minacciato il consiglio dei fiduciari, tentando d'intimorire il presidente, schierandosi dalla parte di Gilly e lottando come una tigre. Che cosa lo aveva poi fatto mutare? Perché aveva diseredato il suo unico figliolo, tramutandolo da un giovane dirigente in uno scroccone che sfruttava gli amici ricchi? E perché la moglie di Gilly aveva divorziato? C'era forse stato uno scandalo a Chicago, che il padre di Gilly era riuscito a soffocare, pri-
ma che la stampa ne venisse a conoscenza e desse il via ai pettegolezzi? Immettendosi nel proprio viale John si rammaricava di non averne parlato con Gilly, quella sera all'aeroporto Kennedy, quando lo aveva visto partire per Parigi. Non l'aveva fatto perché non era nella sua natura ficcare il naso negli affari degli amici, oltre al fatto che era convinto, come al solito, che Gilly fosse stato trattato ingiustamente, quale che fosse il motivo. Lo aveva perfino ammirato perché non metteva in piazza i suoi guai. Si avvicinò alla casa con cautela, scrutando l'area del parcheggio e i dintorni per vedere se c'erano segni della presenza della polizia. Non ne vide. L'automobile di Gail era ancora davanti alla casa, in attesa come un cavallo paziente, la vecchia berlina della signora Henderson tuttora nella zona dei servizi. John parcheggiò accanto alla macchina di Gail, poi bussò alla porta della cucina, dimenticando per il momento le domande che si era posto sul conto di Gilly. La governante sbirciò attraverso le tendine della cucina, quindi si affrettò ad aprire la porta. «Dio mio, pensavo che non sareste mai arrivato» disse, asciugandosi le mani su uno strofinaccio. Indossava l'uniforme blu da mattina, che era però stropicciata, e nel suo sguardo c'era un'espressione agitata, mentre guardava John. «Che cosa è successo?» chiese. «Perché non volevate...» «Si tratta del signor Gilmore» spiegò John. «È morto, qualcuno gli ha sparato ieri sera.» La governante lo fissò, con le efelidi che spiccavano sul viso pallido. «Dio mio!» disse. «È sveglia la signora?» «Sì, le ho appena portato il caffè.» La signora Henderson indicò il telefono, posato sul tavolo della cucina, e aggiunse: «Si è messo a suonare subito dopo che avevate telefonato voi, per cui ho tolto il ricevitore dalla forcella. Mi sono fermata per vedere se Timmy aveva bisogno di qualcosa, quando ho portato su il caffè, ma si era riaddormentato. Le compresse lasciate dal dottor Knight contengono un sedativo.» La governante continuò a parlare fitto, troppo in fretta, con le mani sciupate dal lavoro che attorcigliavano nervosamente lo strofinaccio, quindi fissò John con occhi penetranti, dicendo: «Adesso dovrete informare la polizia dell'accaduto di ieri sera, vero? Non potete permettere che la faccia franca...» «Silenzio, Nora.» Col volto soffuso da un'ondata di rossore, la signora Henderson disse:
«Chiedo scusa, ma se non ci andrete voi ci andrò io alla polizia. Qui stanno succedendo cose terribili, potreste essere morto voi, invece di essere qui a raccontarmi del signor Gilmore. Potreste ancora morire, se non farete qualcosa.» John guardò i suoi occhi spaventati e irosi e l'afferrò per le braccia, dimentico di qualsiasi formalità. «Nora, dobbiamo proteggere Timmy» esclamò. «Se andassimo alla polizia, la stampa saprebbe l'accaduto e rivangherebbe tutta la sporca faccenda. Adesso Timmy è malato, vi rendete conto dell'effetto che gli farebbe?» La governante taceva, ma John vide la lotta che si combatteva nel suo animo, fra la giustizia e il suo amore per il bambino che aveva allevato da quando aveva una settimana. «La polizia arriverà fra poco» riprese, approfittando del vantaggio. «Interrogheranno tutta la gente che conosceva Gilly. Voi non avete bisogno di mentire, basterà che non accenniate all'attentato alla mia vita. Servirebbe soltanto a coinvolgerci.» «D'accordo» finì per dire la signora Henderson, a malincuore. «Bene» disse John, lasciandola andare. «Adesso salgo dalla signora.» Quando arrivò al piano superiore, vide che la porta della stanza di Gail era chiusa, e così pure quella della camera di Timmy. Entrò dal bambino, ma vedendo che dormiva tranquillo, con gli scuri capelli scomposti, stringendo a sé, con aria possessiva, il suo barboncino di pezza, uscì in punta di piedi. Attraversò il corridoio e bussò alla porta di Gail, entrando nella stanza prima che lei rispondesse. Adesso le lunghe tende di raso erano aperte e i raggi del sole entravano nella stanza. Gail sedeva appoggiata ai cuscini, azzurro chiaro, nel grande letto a baldacchino, col vassoio della colazione sulle gambe. Una piccola radio, posata sul comodino, emetteva le note metalliche di una chitarra elettrica. Gail fissava il baldacchino. Il suo naso aristocratico era affilato, il colorito terreo. Avrebbe potuto essere morta. John si accostò in silenzio e sedette sul bordo del letto. «Lo sai già, vero?» disse. Lei spostò sul marito lo sguardo privo di espressione. «L'ho sentito dire adesso alla radio» disse. «Spegni quel maledetto affare, per piacere.» John si alzò per farlo, poi sedette di nuovo. «So che sei sconvolta» disse «ma ci sono alcune domande che devo farti.» «Mi è indifferente» fece lei con tono stanco.
«Sei uscita ieri sera, dopo che io sono andato via?» Gail scosse lentamente la testa, come una bambina stordita. «Anne è venuta qui, ieri sera» riprese John. «Ha picchiato alla porta, ti ha chiamato, e più tardi ha telefonato ripetutamente, ma tu non hai risposto. So che non ti è mai piaciuto avere il telefono in camera da letto, ma non capisco come mai non hai sentito Anne che bussava, né hai sentito suonare il telefono nel corridoio, li fuori.» «Dormivo.» «Perdiana, esageri nel fare l'indifferente!» esclamò John. «Ti dico che qualcuno ha cercato di uccidermi e dopo un'ora sei già addormentata. Pretendi che ci creda?» Lo sguardo di Gail si fece più limpido e, al tempo stesso, più duro. «Me ne infischio, che tu mi creda o no. Ero talmente infuriata, quando sei andato via, che ho preso tre compresse di Seconal e un abbondante whisky, poi sono andata a letto.» «Sei stata capace di chiudere la questione così?» «Senti, ne ho abbastanza. Non credo che qualcuno abbia cercato di ucciderti e trovo che è stato ignobile da parte tua fare questa commedia, perché Timmy e la governante hanno per caso sentito una sciocca frase che ho detto a Eve Wendell.» John la fissò sbigottito. «La signora Henderson ha udito gli spari» protestò. «Certo, ti occorreva un testimonio. Qualsiasi imbecille potrebbe sparare quattro colpi a casaccio, correndo quindi fino al viale per sdraiarsi per terra, in tempo perché la domestica si precipiti fuori per vedere che cosa è successo.» La voce di Gail era piena di disprezzo. Per un attimo, John ebbe l'impressione che fosse in buona fede, che nessuna donna normale avrebbe potuto recitare tanto bene, poi ricordò l'estate e l'autunno in cui Gilly era andato a Mount Kisco per la prima volta, l'epoca cui lui aveva sempre pensato come alla più felice del suo matrimonio. Era stato nominato membro di un comitato per il rinnovamento urbano, dato che la sua famiglia possedeva alcuni appartamenti in Amsterdam Avenue, in edifici che stavano rapidamente tramutandosi in caseggiati popolari. Era stato steso un piano per l'ammodernamento, teso a migliorare la zona, e lui ne era entusiasta. Vi lavorò infatti di lena, collaborando con architetti, uomini politici, esponenti del mondo civico e banchieri. Gli era capitato spesso di dovere pernottare a New York, facendo inoltre frequenti viaggi a Washington per tentare di ottenere l'appoggio del governo. Sem-
brava che a Gail non dispiacesse, che lui rincasasse tardi, e a volte non rincasasse affatto, o che restasse a Washington per giorni e giorni. Appariva felice e interessata ai tentativi del marito. Gli andava incontro alla stazione, a qualunque ora, era sorridente, e non se la prendeva se lui telefonava per dire che avrebbe fatto tardi, oppure che sarebbe tornato l'indomani o la settimana successiva. John ricordava un particolare pomeriggio, verso la fine dell'estate. Era tornato esausto, dopo una frustrante settimana trascorsa a Washington, e Gail era andata a prenderlo alla stazione, con la sua automobile sportiva dalla capote abbassata, coi biondi capelli che il vento le scompigliava attorno al viso abbronzato, e gli occhi che brillavano. Era arrivata in ritardo, piena di animazione, quasi eccitata, e si era fermata davanti a lui, accogliendolo con un luminoso sorriso sulle labbra che tendeva, pronte al bacio. «Poverino, hai l'aria sfinita» disse, battendogli un colpetto su una mano, mentre lui prendeva posto sul sedile al suo fianco. «Pazienza, ho una sorpresa» continuò. «Ti ho preparato bibite ghiacciate, una meravigliosa bistecca e due bottiglie di Romanée 1928, che mi ha regalato Eve. Nora è andata via, Timmy è dai bambini Bladen e Linda lo terrà là a dormire. Tesoro, per una volta saremo noi due soli, è meraviglioso, non trovi?» John cucinò la bistecca sulla griglia sistemata sulla terrazza dietro la casa, e dopo si sdraiarono comodamente coi bicchieri in mano, sulle poltrone di vimini, a guardare il sole che tramontava. Avevano pranzato al lume di candela, bevendo il vino di Eve, seduti al tavolino in ferro battuto, dal ripiano di vetro. Più tardi erano passati al whisky, sbronzandosi leggermente, mentre ascoltavano dei dischi. Ripensandoci, John fece una smorfia dolorosa. Dopo pochi mesi aveva scoperto che quella luminosità, quell'inconfondibile fulgore di donna innamorata non erano suscitati da lui. Si era crogiolato nell'amore che Gail portava per Gilly. La guardò, mentre lei lo fissava con espressione dura in cui si leggeva un'evidente ripugnanza. Durante tutta quell'estate e fino all'autunno avanzato, Gail aveva dunque inscenato una protratta recitazione, degna di un Oscar, che la stessa Sarah Bernhardt avrebbe trovato stremante, ma che per lei non sembrava rappresentare uno sforzo. Dopo, lui in che cosa avrebbe potuto credere? «Perché diavolo pensi che farei una cosa tanto assurda?» le domandò. «A che scopo?» «Per portarmi via Timmy, chiaro. Tu, Anne, Bill e Nora Henderson mi
giudicate una pessima madre perché non lo vizio, perché ritengo che i bambini devono prendere la vita come viene, bella o brutta che sia. Non fissarmi in quel modo, è vero.» «Dimentichi, mi sembra, che ti ho lasciato Timmy, mentre mi sarebbe stato facile portarlo via, due anni fa.» «Da allora le cose sono cambiate. Ti sei fatto influenzare dalla gente che ha antipatia per me.» «Che cosa pensi che ne farei, di Timmy? Dovrei portarlo a vivere al Club Yale?» «Lo condurresti da Anne. Da quando non c'è più Peter, muore dalla voglia di avere un bambino. Tu potresti vederlo di continuo, viziarlo e sottrarlo al mio pessimo influsso.» Cercando di dominare la collera, John si alzò per accostarsi alla finestra. Quando si voltò vide che il vassoio era scivolato e Gail asciugava con il tovagliolo il caffè che si era sparso sulla coperta. Prese il vassoio, per posarlo sul pavimento, quindi tornò a sedere sul bordo del letto. «Non sono venuto qui per litigare a proposito di Timmy» disse, sforzandosi di assumere un tono paziente «bensì per parlarti di Gilly.» Nell'udire quel nome, l'espressione di Gail mutò di colpo. La pallida, dura maschera si screpolò e il brillio collerico sparì dai suoi occhi. «Non posso ancora parlarne» disse, distogliendo lo sguardo. «È troppo orribile, perché possa pensarci.» «Non t'importa di sapere chi è stato ad assassinarlo?» Gail voltò la testa di scatto, con i biondi capelli che ondeggiavano. «Assassinarlo?» ripeté. «Santo cielo, non lo sapevi?» Gail scrollò la testa. «L'annunciatore della radio ha detto che è stata una disgrazia.» Fissando John con occhi sbarrati e inorriditi, aggiunse: «Devi avere capito male.» «L'ho trovato io. Ho dovuto avvertire la polizia e aspettare, lì accanto al cadavere. Non c'è nessun errore e proprio per questo devo parlarti. Fra poco arriveranno i poliziotti per interrogarti sul suo conto. È stato ucciso stanotte, verso le nove.» «Ma chi...» Con sguardo che si era fatto attento, Gail cominciò: «Non avrai...» «Non dire sciocchezze» interruppe John. «È di te che dobbiamo preoccuparci, non di me. Quando è stato ucciso io ero a New York, ma la polizia potrebbe trovare strano il tuo racconto secondo il quale eri qui sola, im-
mersa nel sonno, mentre il telefono squillava e Anne bussava alla porta.» «Eppure è vero.» Ora Gail parlava con voce più stridula. «Giuro che è vero, senza contare che tutti sapevano che Gilly e io ci amavamo. Non potrebbe venire in mente a nessuno, che sia stata io a ucciderlo.» Scrutandola, con espressione seria negli occhi grigi, John fece: «Credi sinceramente che ti avrebbe sposata, se io ti avessi concesso il divorzio?» «Certamente.» Gail ne pareva sicura, non aveva avuto il minimo dubbio, nessuna esitazione. «E Babs Carlyle?» «Oh, non è mai stata una cosa seria. È una sgualdrina calcolatrice e gli correva dietro. Probabilmente è stata lei a diramare quella notizia alla stampa.» All'improvviso, Gail prese una sigaretta e l'accese, prima che John avesse il tempo per farlo, richiudendo l'accendino con uno scatto secco. John stava lì muto, chiedendosi quali pensieri si nascondessero dietro quella pallida fronte. Inespressiva, come una persona in coma, Gail fumava, osservando le spirali di fumo innalzarsi e poi svanire. Sapeva che Gilly era morto, ma non era stata presa da una crisi isterica, come Babs Carlyle, né piangeva come aveva fatto Eve. Sembrava in stato di choc, oppure fingeva con arte. Pur non volendo sgomentarla oltre, John doveva farlo, infatti disse con calma: «Temo che ti avesse mentito. Era deciso a sposarsi, ma non con te.» Gail alzò la testa di scatto, con gli occhi fiammeggianti d'ira. «È una sporca bugia» gridò. «Parla piano, Timmy dorme.» «Non m'importa.» Gail ansimava. «Gilly mi amava, me l'ha detto l'ultima volta in cui ci siamo visti. Che cosa diavolo cerchi di fare? Di defraudarmi dell'unica cosa che mi resta?» Continuando a guardarla, John spiegò: «Può darsi che ti amasse, però stava per filare ad Acapulco per sposare Babs la settimana prossima. Me l'ha detto lei stamattina.» Gail si appoggiò al cuscino, coprendosi gli occhi con un braccio. «Non è vero» disse, ma John intuì che gli credeva. Si chiese se ne fosse stata al corrente anche prima. «Vattene, per piacere» disse Gail. «Mi sento male.» «Fra poco arriverà la polizia e dobbiamo parlare. Prima di tutto vorrei cacciarti in testa che ieri sera io non ho inscenato nessuna sparatoria. Mi credi?»
«E allora, chi è stato?» fece Gail, abbassando il braccio per guardarlo con occhi vacui. John trasse di tasca il proiettile "morto" e i bossoli, dicendo: «Questi sono stati sparati con una rivoltella calibro 38. Ho trovato i bossoli stamattina nel bosco, poco lontano dal parcheggio. Quanto al proiettile, l'ho scalzato da quell'acero laggiù» aggiunse, indicando i nudi rami davanti alla finestra. Dopo avere guardato i micidiali pezzetti di metallo che John aveva in mano, Gail alzò gli occhi e chiese: «Con che arma è stato ucciso Gilly?» «Con una 38. La stessa, certamente, con cui sono stati sparati questi.» Per la prima volta, Gail ebbe l'aria veramente impaurita. «Che cosa significa?» domandò. «Chi mai avrebbe potuto volere uccidere te e Gilly?» «Non lo so, ma intendo cercare di scoprirlo.» «Hai detto alla polizia che qualcuno ti ha sparato?» «No, lo sapete soltanto tu e la signora Henderson e lei non parlerà.» John si esprimeva con più sicurezza di quanta provasse, non essendo affatto sicuro della reazione della governante, di fronte alle pressioni della polizia. «Non hai intenzione di parlarne?» «Non ancora.» «Perché?» «In principio ero sicuro che fossi stata tu, mi dicevo che non poteva essere altrimenti. Nessun altro avrebbe avuto un motivo per desiderare la mia morte. Stamattina, però, quando ho scoperto che i proiettili erano stati sparati con una calibro 38, ho pensato che Gilly volesse realmente sposarti e cominciasse a essere sull'orlo dell'esasperazione. Mi è perfino balenata l'idea che tu fossi incinta e che lui non ne potesse più di aspettare. Per questo sono andato a trovarlo, stamattina. Allora non sapevo ancora che non aveva intenzione di sposarti, se tu fossi stata libera, quindi mi sembrava che fosse l'unica altra persona che potesse avere un motivo per cercare di uccidermi.» «L'unica altra persona!» fece eco Gail, con le labbra torte in una smorfia di disprezzo. «La prima sarei io, dunque. Magnifico. Io credevo che tu fossi impazzito e avessi inscenato l'attentato, invece eri sicuro che fossi stata io a servirmi di te come bersaglio.» «Hai telefonato a Gilly, dopo che io sono andato via ieri sera?» «Si. Volevo parlargli del tuo sporco tiro, ma il numero era occupato.
Dopo, hanno cominciato a fare effetto le compresse e ho rinunciato. Gli avrei telefonato stamattina.» Gail spense la sigaretta nel portacenere, quindi riprese: «Che cosa faceva Anne qui, a picchiare sulla porta e a telefonare come una matta?» John si accorse irritato che il rossore gli saliva al viso, al ricordo della conversazione con la sorella al motel. «Credo che volesse prendere Timmy, per portarlo a New York» disse con voluta noncuranza. «Era al corrente della frase che tu avevi detto a Eve Wendell e si preoccupava. Era anche turbata perché tu eri andata via, lasciando Timmy mentre era malato.» «Oh, santo cielo!» esclamò Gail. Evitando il suo sguardo, John riprese: «In fondo, non sarebbe una cattiva idea. Qui arriverà la polizia e probabilmente verranno anche i giornalisti, a fare domande imbarazzanti. Sarebbe forse preferibile allontanare Timmy, per un poco.» «Escluso» fece Gail seccamente. «Anne e io eravamo amiche, ma adesso non mi fido di lei. Se mettesse le mani su Timmy, non lo riavrei più. Il bambino resta con me.» Non serviva discutere. All'epoca della separazione, lui non aveva chiesto che Timmy gli venisse affidato e l'aveva lasciato alla madre. Poiché John si era alzato, Gail chiese: «Torni a New York?» «Si, voglio parlare con Anne appena possibile. Probabilmente la polizia scoprirà che ieri sera era qui e vorrà interrogarla.» «Come farà a scoprirlo?» «Ho cercato di evitare che fosse coinvolta, ma l'ispettore si è insospettito quando non ho potuto spiegare come avevo passato la mattina. Gli ho dunque dovuto dire che avevo fatto la prima colazione al motel dell'autostrada, quindi scoprirà facilmente che c'era anche Anne. Voglio vederla, prima che arrivi lui.» Con aria sorpresa, Gail fece: «Vuoi dire che ha passato la notte a Mount Kisco?» Vedendo che John annuiva, esclamò: «Perché mai?» «Voleva tornare qui per vederti, stamattina. Devo filare» continuò John «prima che arrivi la polizia. Non sarà una festicciola, sai. Senza dubbio tireranno fuori l'adulterio, la tua relazione con Gilly, tutto il vecchio scandalo e tu non ci farai una bella figura.» «A questo hai pensato tu da tempo, vero?» disse Gail con amarezza. «Se mi avessi concesso il divorzio allora, avrei sposato Gilly e la gente avrebbe dimenticato. Non ci sarebbe stato uno scandalo e adesso Gilly sarebbe vi-
vo. Ieri sera sarebbe stato con me.» Al riaprirsi della vecchia ferita, John fu sopraffatto dall'ira. Gli sembrava incredibile che Gail avesse la faccia tosta di cercare di addossare a lui la responsabilità, ma già, era bravissima nel rigirare sempre tutto a proprio vantaggio. La compassione che aveva provato per lei alcuni minuti prima, dileguò. Esclamò con voce tagliente: «Ho cercato di proteggerti, sciocca. Ho nascosto prove, ho mentito alla polizia, ho fatto del mio meglio per tenerti fuori da questa storia, qualunque cosa tu abbia fatto, ma sono stato un maledetto idiota. Non vali la corda per impiccarti.» Gail si rizzò su un gomito, ribattendo furiosa: «Non me la dai a bere, maledetto ipocrita. Cerchi di proteggere Timmy, non me. Se non fossi sua madre te ne infischieresti, se m'impiccassero.» «Forse dovrebbero farlo.» «E allora vai, vai a dire che ho cercato di ucciderti e ho poi fatto un salto da Gilly per assassinarlo. Non me ne frega più niente di niente.» D'un tratto, negli occhi di Gail brillarono le lacrime, che li facevano scintillare come zaffiri al sole. «Gail!» Lei distolse il viso, esclamando: «Vattene e lasciami stare. Ne ho abbastanza, di tutta questa maledetta storia.» John guardò il suo profilo, bellissimo nonostante il suo stato di disperazione, i serici, chiari capelli fra i quali in passato gli piaceva tanto passare le dita, il corpo snello nella velata camicia da notte di chiffon, seminascosto sotto la coperta. Gli sembrava impossibile che quella donna fosse mai stata sua e nemmeno che avessero riso e goduto insieme, o addirittura che fossero vissuti sotto lo stesso tetto. Era diventata un essere diverso, un essere che lui non conosceva più, o forse non l'aveva mai veramente conosciuto. Non fosse stato per Timmy, sembrava tutto un sogno lontano. «Ti telefonerò più tardi» disse in tono sostenuto. Credeva che Gail l'avrebbe lasciato andare senza aprire bocca, ma mentre si accostava alla porta lei lo chiamò. Si girò e vide che lo guardava con una strana espressione vulnerabile. «Si?» disse, tornando sui propri passi. «Ho paura.» Il velo che appannava gli occhi di Gail si sminuzzò in vere lacrime, che presero a sgorgare. «Lo so, ho paura anch'io» disse John dolcemente, prendendola fra le braccia.
Mentre la stringeva a sé, si senti sommergere da una calda ondata di tenerezza. Era la prima volta che Gail pareva avere realmente bisogno di lui, che chiedeva conforto e protezione. In passato era sempre sembrata tanto indipendente, così maledettamente sicura di sé, così calma e fredda sotto la sua bellissima corazza. Era la prima volta che la vedeva piangere. «Andrà tutto bene, cara.» Le parlava come se fosse una bambina impaurita. «Non agitarti, vedrai.» Le accarezzò i soffici capelli, finché smise di piangere, poi la lasciò andare e le sorrise, sforzandosi di apparire tranquillo. «Sarà meglio che tu ti vesta, cara» le disse. «Mi dispiace lasciarti sola, ma devo andare a New York per vedere Anne prima che spifferi tutto agli sbirri. Stai calma, non permettere che ti confondano e, per amor del cielo, non dire che qualcuno mi ha sparato. Se hai bisogno di me, cercami da Anne» aggiunse agitando due dita in segno di saluto, come aveva sempre fatto, uscendo per andare al lavoro. John sostò al ristorante Leighton per bere qualcosa e, mentre aspettava di essere servito, telefonò a Nancy Waring. Lei era già al corrente della morte di Gilly, era stata avvertita poco prima da Anne. «Era molto sconvolta» disse. «Sai come si agita per tutto. Era fuori di sé soprattutto perché quando ti ha telefonato a New York, ieri sera, le hanno detto che eri tornato e quindi uscito di nuovo e lei non sapeva dove eri andato. Era proprio felice, quando le ho detto che eri venuto a cena da me.» Lasciando correre su quanto era implicito nella frase, John disse: «Ti telefono proprio per questo. Non volevo trascinarti in questa storia, ma ho dovuto dire alla polizia che ero stato da te e probabilmente ti rivolgeranno delle domande.» All'improvviso cauta, Nancy domandò: «Che cosa vuoi che dica?» «La verità. L'ora in cui sono arrivato e l'ora in cui sono andato via.» Seguì un silenzio e John immaginava Nancy, avvolta nella vestaglia gialla, che aggrottava la fronte, o forse si accendeva una sigaretta. Lei finì per dire: «Non sono sicura dell'ora in cui sei andato via. E tu?» «Credo di essere arrivato verso mezzanotte e di essere rimasto lì circa mezz'ora, o poco più. Devo essere andato via a mezzanotte e mezzo, passata al massimo di qualche minuto.» «Credevo che fosse più tardi» fece Nancy. «Ho ascoltato il giornale radio dell'una, mentre lavavo i piatti.» La sua lealtà commosse John, che fu lì lì per sorridere, per la prima volta
in tante ore. «Sono sicuro di essere arrivato al Club Yale prima dell'una, ma in fondo non ha importanza» disse. «Gilly è stato ucciso verso le due e il portiere di notte, o, l'addetto all'ascensore, ricorderanno probabilmente l'ora in cui sono rientrato. E ricorderanno che non sono più uscito.» «Credi di poterci contare?» chiese Nancy in tono ansioso. «Perché no?» «Spero che tu abbia ragione, caro» fece Nancy dubbiosa. Si rallegrò quindi e aggiunse: «Anne mi ha invitata a colazione e mi sto vestendo. Ha detto che ci sarai anche tu, è vero?» «Sì, ci sto andando adesso.» «Bene, ci vedremo là.» John depose il ricevitore sulla forcella, quindi si accostò al bancone del bar per prendere il whisky di cui aveva bisogno. Intontito per lo choc della scoperta del corpo di Gilly e per lo sconcertante colloquio con Gail, per il momento vedeva con chiarezza una sola cosa: ora sapeva di avere avuta ragione, a proposito della strana frase di Gilly, quando si erano lasciati la sera prima. Si scusava realmente per qualcosa, ma non per quello che aveva creduto lui. Con quel suo strano concetto dell'amicizia, si scusava in anticipo con John per il fatto di piantare Gail, di abbandonarla, di buttarla da parte per una donna viziata, sciocca e petulante, con molti quattrini. La sera precedente, però, Gail ne era al corrente? John avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo. 10 Il traffico domenicale era intenso, mentre John si avvicinava a New York e non gli riuscì facile trovare un posto in cui parcheggiare, accanto all'abitazione dei Lansing. Erano infatti quasi le due, quando arrivò da loro. Dopo che Stella gli ebbe preso il cappotto, e lo ebbe fatto entrare, vide Nancy già rannicchiata al suo posto preferito, sul divano, di fronte ad Anne e a Bill. Indossava calzoni e giacca di velluto verde bottiglia, di ottimo taglio, che la facevano sembrare una figuretta in un quadro antico. Gli lanciò un bacio, sorridendo, ma i Lansing sembravano sommersi nella tetraggine. Anne era cadaverica, con quell'elegante abito nero che accentuava il suo pallore. Invece di accoglierlo affettuosamente, come al solito, lo fissò con aria accusatrice e gli disse subito, con voce irosa: «Poco fa mi ha telefonato Nora Henderson. Santo cielo, perché non ci
hai detto che Gail ha tentato di ucciderti?» «Accidenti!» esclamò John, lasciandosi cadere su una poltrona. «L'ha detto alla polizia?» «Sì. Dice che non ne aveva l'intenzione, ma si è impappinata, quando l'hanno interrogata, e ha spifferato tutto.» «Avresti dovuto dircelo» fece Bill, protendendosi. La sua espressione era collerica, come quella di Anne, però piena di rimprovero. «Se non ti fidavi di noi» riprese «avresti per lo meno potuto dire la verità alla polizia.» «Né io, né la signora Henderson abbiamo visto chi sia stato a sparare» protestò John. «Non ci sono prove che fosse Gail.» «Dio Santo, come puoi difendere quella donna dopo tutto quello che ti ha fatto?» esclamò Anne. Bill le prese una mano. «Calma, cara» disse. Guardò quindi John con aria grave e aggiunse: «Poco dopo la signora Henderson, ha telefonato un certo ispettore Garrison. Ha saputo da Gail che venivi qui e voleva che tu l'aspettassi. A quanto pare vuole interrogare anche noi. Gli hai detto che ieri sera Anne era a Mount Kisco?» «No, ma probabilmente lo scoprirà.» «Lo scoprirà e come» dichiarò Anne. «Gli dirò che ho picchiato alla porta di Gail, che le ho telefonato e che...» «Gail era in casa, quando hai cercato di vederla» interruppe John in tono di esagerata pazienza. «Aveva preso un sonnifero e dormiva.» «Era probabilmente con Gilly.» «No. Sono andato da lui, dopo avere lasciato Gail, poi è venuta Eve Wendell che è rimasta lì fino a mezzanotte. Gilly è stato ucciso verso le due.» Anne arrossì, fissandosi le unghie, quindi si alzò. «Dirò a Stella di servire la colazione» disse. Quando fu uscita, Nancy chiese a John: «Hai controllato al Club Yale per vedere se qualcuno ricorda di averti visto tornare, ieri sera?» «No, c'è un altro turno di giorno.» «Che cosa state dicendo?» volle sapere Bill. «John crede di essere andato via da casa mia verso mezzanotte e mezzo, o poco dopo, ma a me sembrava più tardi» spiegò Nancy. «Naturalmente non è importante, se qualcuno ha notato l'ora del suo ritorno, ma in caso contrario potrebbe esserlo.» «Molto importante» convenne Bill. «In effetti, io sto cercando di ricordare con chiarezza tutto quello che ho fatto ieri sera, prima che arrivino gli
sbirri, ma sono maledettamente confuso.» Lanciando una rapida e colpevole occhiata verso la sala da pranzo, aggiunse: «Al Copacabana c'era una coppia che si chiamava Larken, o Logan, e una ragazza che si chiamava Polly. Ad Anne non l'ho detto, ma sono finito con la ragazza. A un certo momento il tizio era talmente sbronzo che la moglie lo ha riportato all'albergo.» «E tu hai accompagnato la ragazza» concluse Nancy. «Sì. Abitava da qualche parte verso la West End Avenue, ma non c'è verso che ricordi dove» fece Bill, sfregandosi la fronte. Anne riapparve, per dire che la colazione sarebbe stata pronta entro pochi minuti. Sembrava più calma, ma John capiva dalla sua mascella serrata che era ancora in collera. Attese dunque la successiva sfuriata, che non tardò. Fissandolo con sguardo gelido, lei fece: «Suppongo che avrai taciuto alla polizia che Gail aveva formulato minacce contro la tua vita, vero?» «Infatti, e voglio che tu faccia altrettanto» ribatté John seccamente. «Qualunque cosa abbiano pensato, la signora Henderson e Timmy, poteva essere una frase qualsiasi.» «Una strana coincidenza, che qualcuno cerchi di ucciderti poche settimane dopo, non trovi?» «Oh piantala, Anne» fece Bill con aria stanca. «Come ho detto mille altre volte, il problema è di John, non tuo. Lascialo dunque a lui.» Anne si morse il labbro inferiore. «È un tale sciocco, nei confronti di Gail» disse. «È questo che mi preoccupava tanto. Sapevo che sarebbe successa una cosa terribile, se lui l'avesse rivista, ed è successa, ma lui non l'ha detto alla polizia.» «Bill ha ragione, Anne cara» disse Nancy con dolcezza. «Ricorda che John deve pensare a suo figlio, quindi è bene che si comporti come crede meglio.» Apparve Stella per annunciare la colazione e passarono tutti in sala da pranzo. John afferrò una mano a Nancy e gliela strinse, pur non pensando che la sua comprensione avrebbe influito molto sulla sorella. Conclusa la colazione, erano tornati in soggiorno e prendevano il caffè, quando Stella venne a dire che l'ispettore Garrison aspettava nell'ingresso. Una formalità abbastanza assurda, dal momento che potevano vederlo, col suo completo di flanella grigia e il cappello in mano, intento a lisciarsi i corti capelli biondi. Aveva evidentemente seminato da qualche parte il ser-
gente ed era solo. Entrò nella stanza, dietro la cameriera, e John si alzò per accoglierlo. Non sapendo che altro fare, lo presentò agli altri, come se si trattasse di un visitatore qualsiasi, e Bill stette al gioco, offrendo il caffè o un liquore al poliziotto. Lui rifiutò entrambi e rimase in piedi, quindi i suoi penetranti occhi azzurri si posarono su Nancy. «Ah, la signorina Waring» disse. «Dovete essere voi la persona con cui il signor Townsend ha cenato ieri sera tardi.» Arrossendo leggermente, Nancy annuì. «Sì, è venuto a cena da me, dopo essere tornato da Mount Kisco» disse. «Ne parleremo dopo.» L'ispettore si rivolse a Bill. «Vorrei fare qualche altra domanda al signor Townsend. C'è un luogo ove potrei parlargli a quattr'occhi?» «Certamente, lo studio» disse Bill, facendo il gesto di alzarsi. «Ci penso io» disse John, guidando poi l'ispettore fino alla stanza a pannelli, che Bill usava come sala dei trofei, studio e biblioteca. Due pareti erano coperte da scansie piene di libri, sul pavimento davanti al camino era stesa una pelle d'orso, sovrastata da una testa di antilope dai dolci occhi. Appena entrato, John accese le luci, dato che in quella stanza c'era sempre buio. Anziché sedere alla scrivania, l'ispettore preferì il divano in pelle e John scelse una sedia poco lontana. Osservando la testa di antilope, Garrison disse: «Doveva essere un grosso esemplare.» «La uccise mio cognato, nel Wyoming» spiegò John. «Caccia anche vostra sorella?» domandò Garrison affabilmente. «Non caccia grossa, soltanto quaglie, anatre e, a volte, fagiani. In fondo non le piace molto, ma accompagna il marito.» Dopo avere acceso una sigaretta con aria noncurante, l'ispettore si protese mutando completamente atteggiamento. Chiese in tono aspro: «Perché non mi avete detto che ieri sera qualcuno vi ha sparato?» John inghiottì a fatica. Se l'aspettava, s'intende, ma era ugualmente impreparato. «Volevo discuterne con mia moglie prima di dirvelo» rispose. «A causa della sua frase, detta alla signora Wendell e udita dalla governante e da vostro figlio?» Accidenti, pensò John facendo un cenno affermativo, Nora Henderson ha vuotato il sacco. «Ditemi esattamente che cosa è successo» ordinò l'ispettore. «Mia moglie e io non ci vedevamo dall'epoca della nostra separazione e non ci tenevamo a rivederci, per cui ci siamo accordati perché io me ne
andassi alle nove e mezzo, prima del suo arrivo.» «È stato allora che vi hanno sparato?» «Più o meno. Non saprei dirvi l'ora esatta.» L'ispettore tacque per un momento, quindi depose la sigaretta in un portacenere e tese una mano. «Vostra moglie mi ha detto che stamattina avete trovato dei bossoli e scalzato un proiettile dal tronco di un albero. Potrei vederli?» John si frugò in tasca per estrarne i bossoli e il proiettile, che consegnò a Garrison. Lui si alzò per esaminarli attentamente, alla luce di una lampada. «Vi rendete conto, vero, che probabilmente sono stati sparati con l'arma che ha ucciso Gilmore?» disse senza voltarsi. «Sì.» Garrison si mise con cura in tasca bossoli e proiettile, prima di sedere di nuovo, guardando John con aria sospettosa. «Stamattina, quando siete andato da Gilmore, dovevate averli in tasca» osservò. John annuì ancora una volta. «E allora, posso soltanto presumere una cosa: credevate che fosse stato Gilmore a sparare e siete andato da lui per mettere le carte in tavola. Esatto?» «L'ho pensato» ammise John cauto. «Suppongo che saprete che cosa accadde, due anni fa» aggiunse. «Infatti.» «Pensavo che volesse sposare mia moglie e avesse cercato di uccidermi, perché io lo ostacolavo. Adesso che è morto sembra assurdo, ma allora non sapevo che aveva intenzione di sposare un'altra.» John si era aspettato grosse grane, per il fatto di avere taciuto l'attentato, invece l'ispettore pensava ad altro. Evidentemente, Eve Wendell era stata un'ottima fonte d'informazioni e ora lui esplorava come un medico che compia un'autopsia. «Chi sapeva che avreste lasciato la casa alle nove e mezzo, ieri sera?» domandò, con sguardo penetrante negli occhi azzurri. John aggrottò la fronte, cercando di ricordare. «Eve Wendell, che ha telefonato a mia moglie in vece mia» disse. «Poi Gilly, suppongo, e Anne. A lei l'avevo detto perché non voleva che vedessi Gail e l'avrà riferito a Bill, immagino. Può darsi che l'abbia detto anche a Nancy Waring, ma non ne sono sicuro.» «E alla governante, la signora Henderson, suppongo» aggiunse Garrison.
«Alla signora Henderson?» ripeté John stupito. «Lei era in casa.» «Mi ha detto che le avete impedito di accompagnarvi alla porta e che siete salito da vostro figlio prima di andare via, quindi lei avrebbe avuto tempo sufficiente per uscire e aspettare che appariste.» «Forse, ma non posso...» L'ispettore si protese con espressione severa e impaziente. «Insomma» fece «non capite che chiunque abbia sparato era là fuori in agguato, esattamente nel momento in cui era previsto che sareste uscito?» John lo fissò. «Volete dire che...» «Voglio dire che doveva per forza essere una delle sei persone al corrente che ieri sera avreste lasciato la casa alle nove e mezzo. Inoltre, l'arma usata per sparare a voi è la stessa che ha ucciso Paul Gilmore. Controlleremo, s'intende, però ne sono quasi sicuro.» «Dio mio!» mormorò John. Sferrato il colpo, l'ispettore si appoggiò allo schienale, aspirando il fumo della sigaretta, con aria pensosa. «A prescindere dalla sua libertà, che vantaggio trarrebbe vostra moglie dalla vostra morte? Qual è la situazione finanziaria?» «Attualmente le passo un assegno mensile più che sufficiente per mandare avanti la casa e per mantenere lei e Timmy. Se morissi, verrebbe istituito un fondo in amministrazione fiduciaria che le procurerebbe un reddito adeguato fino alla maggiore età di Timmy. Allora il reddito verrebbe diviso fra loro due, finché Gail vivrà, passando poi a Timmy.» «E beni?» «Ci sono investimenti, molti beni immobili. Ora amministro tutto io, però la metà appartiene a Anne. Timmy erediterebbe la mia parte, però in amministrazione fiduciaria fino al venticinquesimo compleanno. I miei esecutori testamentari sono Bill Lansing e i miei banchieri, i quali dovrebbero nominare un amministratore che si occupasse della proprietà finché Timmy non fosse abbastanza grande per farlo. Il fatto che lui possa amministrare i beni di mia sorella, dipenderà dai Lansing.» «Allora vostra moglie trarrebbe realmente un vantaggio dalla vostra morte.» «Sì» disse John con strana riluttanza. «Suppongo di sì. Il reddito sarebbe più o meno uguale, però lei avrebbe l'assoluto controllo.» «Pensate che abbia tentato di uccidervi?» chiese Garrison in tono pratico. «Se la storia salterà fuori, saranno in molti a pensarlo. Ecco uno dei mo-
tivi per cui non volevo parlarvene. Devo pensare all'avvenire di mio figlio e volevo evitare...» «Non avete risposto alla domanda» interruppe l'ispettore. John esitò, cercando di nascondere i propri contrastanti sentimenti. Finì per dire lentamente: «Quando Gail ha lasciato Mount Kisco, ieri, non poteva sapere che io avrei insistito per farla tornare la sera. Sinceramente, non vedo come avrebbe potuto procurarsi una rivoltella calibro 38 a un pranzo, o lungo il percorso per rincasare.» «Poteva averla in macchina. Tanta gente lo fa, al giorno d'oggi.» «Non credo. Non vi ho detto la verità, circa la Colt Woodsman 22 cui ho accennato stamattina. Non la comperai per via di furti nella zona, ma perché una donna era stata aggredita a scopi sessuali, e quasi uccisa, mentre rincasava dal cinema. Così comprai la Colt e costrinsi Gail a tenerla in automobile. Lei non voleva, aveva paura che Timmy la trovasse. Le armi le piacciono, però soltanto per scopi sportivi.» «È una brava tiratrice?» «Lo era e, per quanto ne so, lo è ancora.» «Insomma, non pensate che abbia cercato di uccidervi?» John si risentì perché sembrava che l'ispettore gli facesse dire ciò che non aveva detto. Dopo avere visto Gail quella mattina, non riusciva a credere che lei avesse tentato di ucciderlo, d'altro canto non riusciva a crederlo neppure di nessuno degli altri. Un caso insolubile. «Non ho la più pallida idea di chi fosse nel bosco, ieri sera» disse con voce irritata. «Ne so quanto voi.» Tacquero entrambi per qualche istante, quindi John decise di correre l'alea. «Vi sarebbe possibile di fare in modo che la stampa non parli dell'attentato?» domandò. «In caso contrario, ho paura che i cronisti torchierebbero Gail, e mio figlio ne verrebbe a conoscenza e si agiterebbe.» Garrison lo fissò con occhi calmi. «In questo momento» disse «non ho nessuna intenzione di diramare le informazioni alla stampa. Anzi, sto raccomandando a tutte le persone coinvolte di non parlare.» «Eve Wendell lo sa?» L'ispettore fece un cenno affermativo. «L'ho interrogata di nuovo, s'intende, dopo avere parlato con la signora Henderson e con vostra moglie. Lei dice che, non essendo partita per il weekend, come avrebbe dovuto fare, alle nove e mezzo era sola in biblioteca a guardare un vecchio film alla TV.»
«"La prima moglie"?» Sconcertato, Garrison domandò: «Come lo sapete?» «Lo guardava Gilly, quando sono arrivato a casa sua.» John non domandò perché l'ispettore taceva la notizia alla stampa. Rimase lì ad aspettare, coi nervi tesi, però sollevato, sperando che la notizia non sarebbe mai stata resa pubblica. Per la prima volta, durante il colloquio, Garrison estrasse di tasca un taccuino, lo sfogliò, quindi si rivolse a John. «Che cosa sapete sul padre di Gilmore?» domandò. «Poco, so soltanto che è un miliardario. È proprietario della Gilmore International di Chicago, una grossa industria di qualche genere. È nominato spesso sui giornali, ma io non lo vedo da anni.» «Saprete, naturalmente, che circa tre anni fa diseredò il figlio!» Poiché John annuiva, l'ispettore chiese: «Ne conoscete il motivo?» «No, ma me lo sono spesso chiesto. Pensavo che il vecchio avrebbe spalleggiato Gilly in qualsiasi situazione. Quando lui si cacciò nei guai, a Yale, il padre si batté disperatamente per aiutarlo, cercò di andare contro il consiglio dei fiduciari e perfino di valersi del proprio influsso, contro il rettore. Si diede da fare in tutti i modi, ricorse a ogni trucco possibile per evitare che Gilly fosse espulso. Alla fine dovette arrendersi, ma non lo fece senza combattere fino in fondo.» «In che guai si era cacciato Gilmore a Yale?» John lo raccontò, quindi aggiunse: «Si laureò poi in un'altra università, fece il servizio militare, poi entrò nella Gilmore International e tutto andò bene per molti anni. Sembrava sposato felicemente, se la cavava bene nel lavoro e guadagnava molto, poi tutto crollò. Il padre lo diseredò, la moglie chiese il divorzio e andò tutto a catafascio. Non ho mai saputo il perché.» «Sarebbe interessante scoprirlo» osservò Garrison, spegnendo la sigaretta nel portacenere. John sorrise. «Non strapperete mai niente a quel vecchio volpone, se non sarà lui a volere parlare e ne dubito.» Garrison inarcò le sopracciglia. «Vedremo» disse, riponendo il taccuino. «Fatemi il piacere di fare venire qui la signora Lansing» aggiunse. John si alzò, ma prima di uscire guardò il poliziotto e disse: «Parlando con mia sorella vi prego di tenere conto del fatto che è molto mal disposta verso mia moglie. Ritiene che io sia stato trattato male e non riesce a perdonarglielo.» «Lo ricorderò» fece l'ispettore asciutto.
Anne entrò nella stanza a testa alta, però tremava. John la segui con gli occhi, prima di sedere accanto a Nancy. Bill si alzò, per accostarsi al bar, tornando quindi con una bottiglia di cognac e alcuni bicchieri. «Com'è andata?» domandò, versando il liquore che offrì poi agli altri. «Non proprio divertente, ma quel poliziotto deve scoprire chi è stato a uccidere Gilly. Non l'invidio.» Dopo essersi seduto sul divano, Bill si passò le dita fra i capelli, arruffandoli ancor di più. «Accidenti!» esclamò. «Darei non so che cosa, per potermi scagionare per ieri sera. Credi che l'ispettore Garrison abbia un'idea di chi sia il colpevole?» John fece un cenno negativo, sorridendo al cognato, così palesemente ansioso. «Non credo che tu abbia motivo per preoccuparti» gli disse. «Perché mai qualcuno dovrebbe pensare che volevi uccidere Gilly o me?» «E chi poteva desiderarlo? È questo che rende la faccenda tanto strana. Capirei che un qualche psicopatico avesse un rancore verso uno di voi, ma perché tutti e due?» Bill sorseggiò il cognac e riprese: «Mi fa pensare a un fatto accaduto al liceo, quando un ragazzo rubò un portafoglio. Tutti gli altri si sentirono colpevoli, finché non fu scoperto chi era stato.» «A me ricorda l'attesa da un dentista» fece Nancy. Risero tutti nervosamente, quindi Bill cambiò espressione. «Credi che Gail abbia cercato di ucciderti?» domandò al cognato. Aggrottando la fronte, John fece ruotare il cognac nel bicchiere. «Non lo so» rispose. «Sulle prime l'ho creduto, ma dopo averle parlato, stamattina, non so più che cosa pensare.» «Se aveva intenzione di ucciderti, dovrebbe essere pazza per andare in giro a raccontarlo» osservò Nancy. «È difficile stabilire che cosa può fare una persona esasperata» disse Bill. Fissando la porta dello studio, riprese: «Spero che Anne non faccia sciocchezze, là dentro. Si agita talmente.» L'ispettore non trattenne Anne a lungo, ma quando lei riapparve Bill era più turbato di lei. «Vuole te, ora» gli disse. Lui si alzò per entrare nello studio, con l'atteggiamento di chi va davanti a un plotone di esecuzione. Anne sedette e si versò un cognac. Sembrava di migliore umore, come se si fosse tolta un peso di dosso, provandoci gusto. John non stentava a
immaginare il peso scaricato sull'ispettore. «È stato meno male di quanto credessi» disse Anne, appoggiandosi allo schienale, e con l'abbondante bicchiere di cognac in mano. «Nessun problema?» domandò Nancy. Corrugando leggermente la fronte, Anne riprese: «L'ispettore sembrava preoccupato perché ho preso una camera al motel, prima di scoprire che non avrei visto Gail, ieri sera.» «Giusta domanda» fece John. «Perché?» «Perché ero stanca morta e sapevo che non avrei potuto vederla fino a tardi, e sapevo che non avrei avuto voglia di guidare di nuovo fino a New York.» Anne si girò all'improvviso verso Nancy e aggiunse: «Ti ho detto che John sarebbe andato via di là alle nove e mezzo?» Nancy ebbe l'aria perplessa. «Perché avresti dovuto dirmelo? Come facevi a saperlo tu stessa?» «Glielo avevo detto io» spiegò John. «Aveva paura che io vedessi Gail, per cui ho detto che sarei andato via alle nove e mezzo, prima che lei arrivasse.» Aveva parlato con noncuranza, ma si accorse che spostava lo sguardo dall'una all'altra donna, ricordando le parole dell'ispettore. Una delle sei persone che potevano sapere a che ora sarebbe andato via, lo aspettava, nascosta, con l'arma puntata, pronta a sparare. La stessa arma che aveva ucciso Gilly. Anne aveva posato il bicchiere e accendeva una sigaretta, socchiudendo gli occhi per evitare il fumo. John si disse che era assurdo pensare che la sua affezionata sorella fosse stata lì al buio, in mezzo ai cespugli, con un'arma puntata contro di lui. Spostò gli occhi su Nancy, che sorseggiava il cognac con aria pensosa, come se volesse concentrarsi. Era molto carina, quel giorno, quasi bella, e lui pensò alla dolcezza del suo corpo, quando la stringeva fra le braccia, e alla sua misurata passionalità. In amore si comportava con una certa noncuranza, come se fosse decisa a non lasciarsi più travolgere, però lui si sentiva sicuro che lo amava a modo suo, almeno un poco. «A che cosa pensi?» le domandò. Nancy lo guardò in tralice, sorridendo. «Cercavo di ricordare se Anne mi aveva detto quando saresti andato via, ma non ricordo. Rammento soltanto che mi ha detto che tu avevi chiesto a Gail di tornare e che lei era ansiosa.» «Non vedo che importanza abbia, in un verso o nell'altro» fece Anne «però l'ispettore me l'ha chiesto e anch'io non lo ricordavo. Mi ha anche
domandato se l'avevo detto a Bill. Certo che l'ho detto, ma non vedo che cosa c'entri.» Nancy si ripulì la giacca di velluto dalla cenere che vi era caduta sopra. «È probabilmente un pignolo» fece. Anne annui. «Se correrà ovunque a rivolgere domande sciocche, non...» «Non sono domande sciocche» interruppe John, seccato per il tono superficiale con cui chiacchieravano di un uomo che si sforzava per risolvere il mistero di un delitto quasi insolubile. «Ritiene che chiunque sia stato a cercare di uccidermi, doveva sapere a che ora sarei andato via. Secondo me, ha ragione.» Udì l'esclamazione soffocata di Nancy, mentre Anne, il cui volto era improvvisamente impallidito, diceva: «Gail lo sapeva.» Con lo sguardo che si era fatto duro, John ribatté: «E anche tanta altra gente. Eve Wendell, Nora Henderson, Bill e forse Nancy.» «Io?» esclamò Nancy. «Santo cielo, credi che cercherei di ucciderti?» «Non badargli» disse Anne con occhi irosi. «Accuserebbe te, o Bill, o me, piuttosto che ammettere che Gail...» «Piantala, perbacco!» John sbatté il bicchiere sul tavolino e si alzò, lanciando un'occhiataccia alla sorella. «Perché continui a ripetere che è stata Gail? Chi diavolo sei, per accusarla, non avendo un briciolo di prove? Ne ho fin sopra i capelli di te e delle tue maledette accuse.» Anche Anne si alzò di scatto, tremante per la rabbia. «Non ti permettere di parlarmi così» urlò. «Dirò tutto quello che mi pare.» John cercava disperatamente di dominarsi, ma non ci riusciva. Le disse a denti stretti: «Non so che cosa sia successo. Prima eri una persona giusta e buona, adesso sei piena di livore e di odio. Non sembri più mia sorella.» Prima di vedere il gesto, sentì il palmo della sua mano che gli si abbatteva su una guancia, poi Anne si girò bruscamente e uscì correndo dalla stanza, coi capelli che ondeggiavano, come facevano quando loro due erano bambini. John rimase immobile per un attimo, quindi guardò Nancy, seduta sul divano con la bocca socchiusa e gli occhi sbarrati. «Mi dispiace» le disse «ma non ne posso più.» «Capisco, siamo tutti molto tesi» disse Nancy. Quando lo vide avviarsi verso l'ingresso, gli corse dietro esclamando: «Caro, non puoi andare via così.» «Lo dici tu.»
Guardandolo, con espressione malinconica, Nancy chiese: «Non sei arrabbiato anche con me, vero?» Lui si chinò per baciarla sulla fronte. «No, certo, ti telefonerò più tardi. Pranziamo insieme. Puoi essere da André alle sei?» «Con piacere» fece Nancy sorridendo. 11 John andò alla Quarantaquattresima Strada, per lasciare l'automobile in garage, quindi si recò a piedi fino al Club Yale. Erano le quattro passate da poco e il turno di notte non era ancora cominciato. Avrebbe dunque dovuto aspettare di essere tornato, dopo pranzo, per interrogare gli inservienti in servizio la sera precedente. La sua stanza era simpatica, e ormai considerava il club la sua casa, ma ora gli parve vuota e impersonale. Nonostante le fotografie di Timmy, i libri e gli oggetti vari che aveva portato via da Mount Kisco, sembrava estranea. Si sentì d'un tratto come un commesso viaggiatore, arrivato in un albergo sconosciuto, lontano da casa. Era raro che bevesse solo, in camera, ma la giornata lo aveva spossato e depresso. Non si curò di procurarsi del ghiaccio e si versò un whisky, prima di sdraiarsi sul letto e di dire al centralino di metterlo in comunicazione con Mount Kisco. Rispose la signora Henderson, che si profuse in scuse per avere disubbidito ai suoi ordini, informando l'ispettore dell'attentato. «Non importa» disse John. «Ormai è troppo tardi per rimediare. Come sta Timmy?» «La febbre è scesa e mi sembra che si senta meglio; gli ho portato un'aranciata poco fa.» La governante continuò a dare particolari clinici e trascorsero vari minuti, prima che John potesse parlare. Quando ci riuscì, disse che voleva parlare con la moglie. Seguì un brusco silenzio disapprovatore, quindi la signora Henderson disse: «Sì, signore. Un momento.» Gail venne al telefono e parlò con voce cauta, finché non ebbe udito lo scatto. Voleva dire che la governante era tornata in cucina e aveva deposto il ricevitore dell'altro apparecchio. «Ti dispiace che abbia parlato all'ispettore dei bossoli?» chiese. «Dal momento che Nora gli aveva detto tutto, ho pensato che fosse meglio essere sincera. Inoltre quel poliziotto riesce a tirarti fuori tutto.» «Ti ha torchiata?»
«Non troppo, però nel complesso mi sembra ancora un terribile incubo.» Gail parlava in tono quasi normale, ma il timbro della sua voce non era piacevole e basso, come al solito, bensì un poco stridulo e teso, come se lei avesse ancora paura, ma volesse nasconderlo. «Non mi va, che tu sia lì sola» disse John. «Perché non chiedi alla signora Henderson di restare a dormire, almeno finché Timmy non starà meglio?» «A Timmy posso badare io» ribatté lei, sulla difensiva. «Non è questo, soltanto preferirei non saperti lì sola con Timmy, la notte.» Dall'altro capo del filo echeggiò una risatina amara. «Vorrei avere un centesimo, per ogni notte che ho trascorso qui sola con Timmy» fece Gail. «Non preoccuparti per me e, comunque, Eve Wendell verrà qui per pranzo. Vuoi venire anche tu?» L'invito era talmente inatteso che John rimase sconcertato per un attimo, dicendo poi che aveva già un altro impegno. «Con Anne e Bill?» domandò Gail. «No, con una certa Nancy Waring.» «Ah!» fece Gail. Dopo un silenzio, John spiegò: «È l'assistente di Anne al negozio.» Irritato per avere spiegato chi fosse Nancy, si affrettò a parlare d'altro. «A proposito» chiese «Gilly ti disse mai perché suo padre l'aveva diseredato?» «No, ma me lo sono spesso chiesta. Non parlava mai della sua famiglia, eccettuata la madre con la quale si teneva in contatto. Sono certa che gli mandava denaro di nascosto, però lui non me l'ha mai detto. Perché lo chiedi?» «Me l'ha domandato l'ispettore. Ti parlò mai della moglie e del motivo del divorzio?» «Mi disse soltanto che dopo che il padre lo aveva diseredato, la moglie non aveva più voluto avere rapporti fisici con lui. Quando Gilly andò finalmente a letto con un'altra, lei lo fece cogliere in flagrante, da investigatori privati, chiedendo poi il divorzio per adulterio. Si prese il prendibile, quindi sposò un altro uomo ricco.» «Poveraccio.» «Oh, non credo che gliene importasse molto. Anzi, raccontato da lui era piuttosto divertente.» Seguì un altro silenzio, sostenuto, prima che Gail dicesse: «Be', divertiti con quella tale.»
«Ti telefonerò...» cominciò John, ma poi si accorse che il telefono era muto. Accese una sigaretta e sorseggiò il whisky, fissando il soffitto e cercando d'indovinare chi poteva volerlo morto e perché. La signora Henderson? Che cosa avrebbe potuto guadagnare, se non la perdita del suo lavoro? Se gli fosse successo qualcosa, Gail l'avrebbe licenziata in tronco e lei doveva saperlo. Bill, col suo alibi che non poteva sostenere? Nonostante il suo modo di fare disinvolto, aveva molto acume in affari, però non aveva mai dato l'impressione di essere aggressivo in quel campo. Aveva accettato con riluttanza il compito di esecutore testamentario, affidatogli da John, preferendo la sua carriera pubblicitaria, che pareva piacergli. Non sembrava per nulla turbato dal fatto che la moglie fosse molto più ricca di lui, l'accettava, come accettava tutto. Conoscendolo, non si sarebbe mai potuto pensare che avesse sposato Anne per i suoi quattrini. L'amava moltissimo e tutto faceva pensare che scopo principale della sua vita fosse di mantenerla serena, soprattutto dopo la morte del loro figlio. Nancy? Impossibile. La persona che aveva ucciso Gilly doveva essere la stessa che aveva tentato di uccidere lui e Nancy non aveva mai conosciuto Gilly. A John non veniva in mente nessun motivo per cui lei volesse ucciderlo. Anzi, sembrava innamorata di lui e nei loro rapporti non c'era nulla di passionale. Erano entrambi soli e senza radici, quando si erano conosciuti, e benché la loro relazione fosse soddisfacente per tutti e due, John riteneva che né lui né lei avessero voglia di legarsi. Entrambi delusi dal matrimonio, erano restii a ricaderci, senza contare che sarebbero trascorsi anni prima che lui fosse libero perfino di pensare a un altro matrimonio. L'accordo era dunque piacevole così com'era e non immaginava che Nancy potesse desiderare di porvi fine. Anne? I recenti rapporti con la sorella lo avevano molto turbato, però era sicuro che i suoi scoppi d'ira e il suo odio per Gail fossero provocati dalla preoccupazione che provava per lui e per Timmy. Aveva sempre ecceduto nell'atteggiamento protettivo e la sua lealtà, nei confronti delle persone alle quali voleva bene, la faceva reagire ai loro problemi come uno strumento troppo sensibile. Ultimamente sembrava cambiata, ma neppure lasciando sbrigliare la fantasia John riusciva a pensare che potesse volere ucciderlo. Altrettanto incredibile pensare a Eve Wendell nascosta nel bosco, con una rivoltella in mano. Lui l'aveva sempre giudicata una ricca parassita, la cui vita era dedicata ai divertimenti, ai pettegolezzi, a frequentare gente superficiale e inutile come lei. L'influsso che aveva su Gail aveva sempre susci-
tato la sua disapprovazione ed era sicuro che la scarsa simpatia che provava per Eve fosse ricambiata. D'altro canto, per via di Gail, entrambi erano sempre riusciti a nasconderlo e ad andare abbastanza d'accordo. Gli sembrava assurdo che Eve potesse odiarlo abbastanza per volere assassinarlo e, oltre tutto, non la vedeva da due anni. Stava lì sdraiato, con la fronte aggrottata e gli occhi fissi sul soffitto, e più ci pensava più gli pareva che nessuno avesse un motivo per cercare di ucciderlo. Nessuno, eccettuata Gail. Lei avrebbe riacquistato la libertà, ottenendo la casa di Mount Kisco, un discreto reddito e il controllo assoluto su Timmy. Al solo pensiero ebbe un brivido e pensò a Gilly, steso cadavere, sparita per sempre la sua allegria e la sua cordialità. Si alzò, scuotendo la testa come se volesse schiarirsi le idee, ma nulla era chiaro. Se Gail aveva tentato di ucciderlo, per ottenere la libertà e sposare il suo amante, non si spiegava perché, poche ore dopo, lo aveva assassinato. Qualcosa non quadrava, in tutta quella maledetta storia, qualcosa di strano e di oscuro, qualche sottofondo che lui intuiva, ma non capiva. Come essere a una partita di caccia, circondato da una fitta nebbia, sapendo che uno del gruppo ha cercato di ucciderti, senza però sapere chi sia, né perché l'ha fatto. John vuotò il bicchiere, si svestì e, dopo essersi infilato la vestaglia, andò in bagno per fare una doccia. Appena accese la luce si vide nello specchio, al di sopra del lavandino, e rimase esterrefatto. Aveva la barba lunga e gli occhi, generalmente di un grigio limpido, erano iniettati di sangue. La sua espressione era quella di un uomo braccato e anche le labbra piene sembravano più sottili, il volto sparuto. Dio mio, pensò, devo farmi forza. Si fece forza. Alle sei in punto arrivò a "La Cabane", sbarbato, fresco per la recente doccia, in completo scuro e camicia pulita. Il vecchio francese, André, lo accolse calorosamente, accompagnandolo quindi al solito tavolo d'angolo, ove Nancy lo aspettava già. Era stata a casa per cambiarsi e indossava un abito rosso fiamma. John capì subito che era fermamente intenzionata a tirargli su il morale. Aveva un martini davanti a sé, ma lui decise di attenersi al whisky. Appena André fu andato via, dopo avere preso l'ordinazione, Nancy sorrise allegramente, dicendo: «Be', ho vinto il primo round contro la legge.» «Che cos'è successo?» «L'ispettore Garrison mi ha chiesto che rapporti ci sono fra te e me.»
Stupito e irritato, John inarcò le sopracciglia. «Tu che cosa hai risposto?» domandò. «Gli ho detto che siamo nel pieno di una folle relazione e che tu passi tutte le tue notti a fare l'amore con me.» «Avanti, parla sul serio.» Nancy tolse l'oliva dal bicchiere e se la ficcò in bocca. «Gli ho detto di badare ai fattacci suoi» rispose. «Brava, hai ragione, ma chissà perché voleva saperlo?» «Ti ho detto che è un pignolo, forse faceva soltanto il ficcanaso.» Con la fronte aggrottata, John chiese: «Ti ha domandato a che ora ho lasciato il tuo appartamento, ieri sera?» «Sì, e quando me lo ha chiesto sono stata sicura che non è riuscito a controllare con la gente al Club Yale, oppure che loro non ricordavano. Per questo gli ho detto che secondo me, era più tardi di quanto credessi tu. Ne sono quasi sicura, tesoro, perché ho veramente sentito il giornale radio all'una, mentre lavavo i piatti, e tu eri appena andato via.» «Per questo, avrà indagato sui nostri rapporti» osservò John, con aria pensosa. «Se al Club nessuno ricorda a che ora sono tornato, l'ispettore dovrà basarsi sulla tua deposizione ed è quindi logico che voglia sapere se tu mi ami abbastanza per mentire.» Nancy sorrise. «Per te direi qualsiasi panzana, in qualsiasi momento, tesorino» fece. André tornò col whisky e dopo che ebbero ordinato il pranzo, la falsa allegria di Nancy parve dileguare. Si gingillò con il cibo, bevendo molto vino, e fissava la candela sulla tavola, apparentemente ignara della piacevole accogliente atmosfera, dell'aroma delle buone pietanze, degli altri avventori che chiacchieravano e mangiavano allegramente. «Che cosa c'è, cara?» finì per chiedere John, dopo vari tentativi per tenere in piedi la conversazione. Nancy alzò gli occhi e i loro sguardi s'incrociarono: il suo cupo e ansioso, quello di lui perplesso. «Non ti è balenata l'idea che chiunque abbia tentato di ucciderti potrebbe riprovarci?» fece. Ora era John che cercava di rallegrarla. «Abbiamo già abbastanza di cui preoccuparci, senza pensare a questo» disse. Nancy lo guardò solenne, con gli occhi che brillavano alla luce delle candele. «Non voglio fare una scena drammatica, caro» disse «ma, se ti
succedesse qualcosa, morirei.» Erano talmente assorti l'uno nell'altra che non videro Bill entrare e dirigersi verso la loro tavola. «Vi dispiace se mi unisco a voi?» disse. Alzando gli occhi, John lo vide ritto accanto alla tavola, col suo vecchio cappotto di pelo di cammello, i capelli scompigliati dal vento e l'aria un poco imbarazzata. Ebbe anche l'impressione che fosse leggermente brillo. «No, certo» disse, facendo cenno a un cameriere di portare un'altra sedia. «Perché non pranzi con noi? Abbiamo appena cominciato.» Dopo essersi tolto il cappotto, che tese al cameriere, Bill si lasciò cadere pesantemente sulla sedia. «Ho appena bevuto un cognac, grazie, accetto ben volentieri di berne un altro, ma non ho fame.» «Anne dov'è?» domandò Nancy. «A casa, suppongo. Io sono in castigo. Temevo che scoprisse la faccenda di ieri sera, per cui ho creduto che fosse meglio che le parlassi io della ragazza che ho accompagnato a casa. Era furente, ha fatto una scenata e mi ha detto di togliermi dai piedi, cosa che ho fatto.» «Anch'io ho litigato con lei» disse John. «Lo so, mi ha detto che avevate avuto un'altra discussione, ma non mi ha spiegato il motivo. Sono andato al Drake per bere qualcosa, poi mi sono ricordato di avere sentito Nancy dire che aveva appuntamento con te qui. Ho quindi pensato di venire a domandarti che cosa è successo. .» John imburrò, con gesto calmo, un crostino. «È stato per via di Gail» disse. «Ho proprio paura che per lei stia diventando un'ossessione.» Quando il cameriere portò il cognac. Bill prese il bicchiere e lo guardò con la fronte aggrottata, scuotendo la testa con aria malinconica. «Lo so» fece «è agitata per te, per Timmy, per tutto. Sono preoccupato, in questi ultimi tempi perde le staffe per niente.» «Ha i nervi a pezzi» disse Nancy. «Ha lavorato troppo, per le feste natalizie, e ora questa storia.» «Per questo sono tanto ansioso» disse Bill. «Si è ridotta quasi com'era quando perdemmo Peter.» «Perché non la porti via per un poco?» domandò John. «Verso il Natale, quando tutto si accentra sui giocattoli e sui bambini, è sempre peggio.» Bill vuotò il bicchiere d'un fiato, prima di rispondere: «Non posso. Garrison ci ha detto di non lasciare la città.» Tacquero tutti e tre e Bill, ancora più brillo, rimase con loro, simile a un amichevole e malinconico San Bernardo, senza capire che avrebbero pre-
ferito restare soli. John avrebbe voluto distrarre se stesso e Nancy da tutto il pasticcio, se non altro per un po', ma Bill continuava a trascinare Gilly a tavola con loro. «Secondo te, perché diavolo il padre l'avrà diseredato?» chiese. «Io trovavo che era stato straordinario, a spalleggiarlo in quel modo all'epoca di tutti i guai a New Haven. Perché mai l'avrà nominato dirigente dell'azienda, per poi buttarlo fuori all'improvviso, dopo qualche anno? Credi che avesse tuffato le mani nella cassa?» John si stupì nell'accorgersi che aveva un atteggiamento stranamente difensivo, nei confronti del suo ex-compagno di stanza. «Non lo credo» disse. «Sarà stato disonesto, sotto altri aspetti, ma non mi risulta che lo sia mai stato in fatto di quattrini, che ne avesse o che fosse al verde.» Nancy prese una sigaretta dal pacchetto posato sul tavolo e l'accese alla fiamma della candela, aggrottando la fronte. «Non capisco» disse. «Tu, Bill, hai detto che se l'avessi conosciuto l'avrei trovato affascinante, mentre Anne dice che era un bugiardo inveterato, uno scroccone, amorale e fissato col sesso.» Poi, rivolta a John, riprese: «Tu, poi lo trovavi straordinario, era il tuo migliore amico. Come può un uomo essere tutte queste cose?» «Non lo so» disse John «eppure era così, oltre a essere un tipo simpaticissimo, sempre allegro, che dava animazione a tutto. Non prendeva niente sul serio, non si arrabbiava mai, andava d'accordo con tutti e si faceva amici ovunque.» «Eppure qualcuno l'odiava abbastanza per ucciderlo» osservò Nancy. John annuì, avvertendo di nuovo un groppo alla gola. «Sì, qualcuno l'ha ucciso» disse «e spero in Dio che scopriranno chi è stato.» «Forse non lo scopriranno mai» fece Bill, con aria abbattuta. «Ci sono migliaia di delitti rimasti insoluti.» John si girò per fissarlo. Una possibilità che non gli era mai neppure balenata. «Dovranno scoprirlo» affermò. «Non si può continuare così.» John tornò al Club Yale verso mezzanotte, più stanco e più depresso che mai. La serata era stata un fiasco, dal momento in cui Bill era apparso, e non c'era stato nulla da fare. Bill si era trascinato dietro Gilly e il delitto e anche dopo averlo salutato, davanti al ristorante, l'atmosfera lugubre non era cambiata, mentre John accompagnava Nancy a casa. Evidentemente, Nancy era rimasta più sgomenta di quanto lui avesse creduto, per l'attenta-
to alla sua vita. Di fronte ad Anne aveva avuto cura di non farlo notare, ma quando erano soli si dimostrava ansiosa e apprensiva, sparito il consueto atteggiamento noncurante. Per aggravare la situazione, lui aveva dimenticato che era domenica, sicché, tanto il portiere di notte, che l'addetto all'ascensore, che l'aveva accompagnato al piano la sera precedente, non erano in servizio, sostituiti da altro personale, come tutte le domeniche. Si coricò con le sinistre parole di Bill che gli riecheggiavano nel cervello. Era ossessionato dall'idea che non si scoprisse mai chi aveva ucciso Gilly e che a lui sarebbe toccato di passare il resto della vita in quella nebbia densa di sospetti, chiedendosi chi fosse stato a tentare di ucciderlo e se ci avrebbe riprovato. L'indomani mattina si fece portare la prima colazione in camera e chiese anche il "Times" e il "News". Si era svegliato dopo una notte di sonno agitato, timoroso di ciò che avrebbe letto sui giornali. Sulla stampa non era mai apparso nessun accenno alla tresca fra Gail e Gilly. Lo scandalo era serpeggiato come un germe invisibile, ma poteva darsi che un giornalista vivesse a Mount Kisco a quell'epoca, oppure che qualche pettegolo locale avesse provato l'impulso irresistibile di diramare la notizia alla stampa. Ringraziò il cielo che Timmy fosse malato, e che ci fossero le vacanze natalizie, così si sarebbe evitato che quel povero bambino dovesse essere tolto dalla scuola, o dovesse trovarsi di fronte ai compagni, se lo scandalo fosse stato riesumato. Quando arrivarono finalmente i giornali, con la colazione, lui afferrò per primo il "News", sapendo che si trattava di un giornale più scandalistico, quindi più propenso a parlare di pettegolezzi e di sesso, mentre il "Times" avrebbe dato maggior rilievo a notizie più serie. Pur sapendo che l'assassinio di Gilly avrebbe avuto risalto su quel tipo di giornale, rimase sgomento nel vedere gli occhi del suo vecchio amico che lo fissavano dalla prima pagina del "News" e di leggere la didascalia. "FIGLIO DI UN INDUSTRIALE ASSASSINATO. Gilmore rifiuta di dire perché diseredò il figlio playboy." All'interno, c'erano altre fotografie di Gilly, in shorts, abbronzato, sorridente e bello, ritto su un molo contro lo sfondo del mare, con accanto una bionda. Lei indossava un succinto bikini, che esponeva agli sguardi le sue rotondità, e rideva a piena bocca. Fra i due, c'era un grosso pesce vela. Si trattava di una fotografia recente di Gilly e di Babs Carlyle, ovviamente scattata ad Acapulco, poche settimane prima. C'era anche una fotografia della bella casetta per gli ospiti di Eve
Wendell, con la didascalia "La casa del delitto", e un'altra di Paul Gilmore padre, con l'aria severa e rude e i capelli bianchi. Poi un'istantanea di una donna che John non aveva mai visto, una donna dai lunghi, folti capelli scuri, occhiali da sole e sottana corta che metteva in mostra gambe un poco storte. Sulle prime, John pensò che fosse un'ennesima fotografia di Jacqueline Kennedy, invece vide poi che era la signora Tuckerman, ex moglie di Gilmore figlio, nata Thelma Richards, donna in vista nel bel mondo di Chicago. La signora Tuckerman non sapeva niente, non sapeva perché l'ex-suocero aveva diseredato il figlio, non aveva la più lontana idea del perché qualcuno lo avesse assassinato. John scorse i fogli del giornale in fretta. Gilmore padre aveva seccamente rifiutato di dire il motivo per cui aveva diseredato il figlio e non aveva commenti da fare sulla sua morte. La signora Gilmore era in gravi condizioni, dopo un attacco di cuore, da cui era stata colpita varie settimane prima, e le si era tenuta nascosta la notizia della morte del figlio. Un portavoce della famiglia aveva dichiarato che il corpo di Gilmore sarebbe stato portato a Chicago per la sepoltura e che il funerale si sarebbe svolto in forma privata. Secondo la stampa, Babs Carlyle era rimasta sconvolta alla notizia della morte del fidanzato e attualmente si trovava nel suo appartamento in Park Avenue, sotto l'effetto di forti sedativi. Seguiva un riassunto dei matrimoni e dei divorzi di Babs, dei suoi accordi finanziari, degli ex mariti e dei figli. Poi un'orrenda fotografia di Eve Wendell, in cui i suoi occhi sembravano pezzetti di antracite, mentre i lisci capelli nero corvino, attorno a quel volto anziano, la facevano sembrare la tenutaria di una casa d'appuntamenti. Nel testo veniva però definita come la nota personalità del bel mondo di Westchester e di Palm Beach, sulla cui proprietà a Mount Kisco era stato trovato morto Gilly. Il resoconto del delitto vero e proprio era succinto e preciso. John veniva descritto come John W. Townsend, un vecchio amico del defunto, che aveva scoperto il cadavere e avvertito la polizia. L'autopsia aveva rivelato che il proiettile che aveva ucciso Gilly era di calibro 38, l'ora del decesso era stata fissata verso le due della domenica mattina. Fino a quel momento, la polizia non aveva indizi sull'identità dell'assassino. Ricerche accurate per trovare l'arma erano in corso nella zona e si prevedeva che entro poco tempo l'ispettore Samuel Garrison, della Squadra Omicidi, avrebbe fatto una dichiarazione. Quando ebbe finito di sfogliare rapidamente le pagine, John si appoggiò allo schienale della poltrona, sentendosi quasi debole per il sollievo. Il
"News" si era lasciato ammaliare dal denaro, dal bel mondo, dal prestigio, dall'atmosfera di lusso, al punto che aveva accentrato tutto l'interesse su Babs Carlyle, Eve Wendell e Paul Gilmore padre, senza guardare sotto la superficie. Nessun accenno a Gail e l'ispettore era evidentemente riuscito a tener nascosta la notizia sull'attentato contro John. Lui si versò il caffè e attaccò il "Times", che conteneva più o meno le stesse informazioni trattate però con una certa dignità, dando maggior peso all'importanza di Gilmore padre e ai suoi successi nel campo del lavoro, che a Babs Carlyle o a Eve Wendell. Gilly era quello di cui si parlava meno. Il telefono squillò, mentre John finiva di fare colazione. Era un excompagno di studi suo e di Gilly, che voleva fargli le condoglianze e sapere i retroscena del caso. Pochi minuti dopo, telefonò il cronista di un rotocalco, il quale voleva conoscere i particolari della vita privata di Gilly, per i quali offriva un compenso. Prima che John finisse di vestirsi ci furono altre tre telefonate. All'ultima, lui interruppe la comunicazione e corse via, per andare in ufficio. 12 La signorina Pritchard era occupata a rivedere i registri. Faceva parte dell'ufficio da una ventina d'anni e conosceva bene John. Conosceva anche la situazione a Mount Kisco, oltre al motivo di tale situazione, e si capiva che non sapeva se essere contenta o meno per la morte di Gilly. Quando entrò John, si tolse gli occhiali, si ravviò i capelli striati di grigio, e gli rivolse un sorriso triste. «Deve essere stato uno choc per voi, scoprire il corpo del signor Gilmore» disse, senza compromettersi. «Infatti. È arrivato Price?» «Sì, è nel vostro vecchio ufficio. Gli ho portato i registri della proprietà della Diciannovesima Strada West; ci sono alcune cifre che non gli sono chiare.» «Vado da lui e non voglio telefonate, oggi, a meno che non si tratti della polizia o di qualcuno che voi conoscete.» Price era il contabile, ed esperto in tasse, che li aiutava a riordinare i registri prima di capodanno. John andò a vedere qual era il problema, quindi lavorarono insieme per quasi tutta la mattina. Poi John andò nel suo ufficio, una stanza grande e ariosa che aveva completamente rimodernato do-
po la morte del padre. Ove prima c'erano archivi, scrivanie, sedie dallo schienale rigido, luci troppo forti al soffitto, adesso c'erano lampade, mobilio comodo e alcuni quadri moderni. I mobili d'archivio erano stati spostati in una stanza che prima serviva da deposito, dietro l'ufficio delle stenografe. John trascorreva molte ore nel suo ufficio. Dietro la grande scrivania aveva fatto montare un bar in una nicchia nella parete, perché riceveva spesso agenti di beni immobiliari, inquilini, legali, gerenti di stabili e possibili clienti. Eccettuate la signorina Pritchard, le stenografe e, di tanto in tanto, una signora che veniva per parlare di affari, in quegli uffici non era più entrata una donna da quando lui e Gail si erano separati. Prima, se era a New York, lei andava a prenderlo ogni tanto per fare colazione, oppure all'ora della chiusura. Quanto a Anne, non si era mai interessata ai loro affari, per cui, John si meravigliò quando la signorina Pritchard annunciò che una signora voleva vederlo. «Si chiama Wendell e dice che è importante» aggiunse. «Fatela entrate, per piacere.» John si alzò, per accostarsi alla porta, chiedendosi perché mai Eve fosse andata lì. Entrò maestosa, indossava un elegante abito nero, la pelliccia di zibellino, un cappello nero inclinato su un occhio e orecchini di perle. «Mi dispiace di arrivare così, all'improvviso» disse, lasciandosi cadere sul divano «ma quell'idiota lì fuori non ha voluto passarti la comunicazione, quando ho telefonato, e devo parlarti. Usciamo a colazione, o hai un altro impegno?» «Abbiamo molto da fare, mi farò portare su un panino.» «Che noia! Oh, be'...» Lo sguardo vagante di Eve si posò sul bar, costringendo John a offrirle da bere. Accettò subito e, mentre lui prendeva il ghiaccio da un piccolo frigorifero, si tolse i guanti e accese una sigaretta. «Hai visto quella mia orrenda fotografia sul "News", stamattina? Dio santo, chissà dove se la sono procurata. Sembro la direttrice di un carcere femminile.» Astenendosi dal dire che cosa sembrava, secondo lui, John le porse il bicchiere. «Tu non bevi?» fece lei. John scosse la testa. «Troppo presto.» «L'ispettore Garrison mi ha detto che qualcuno ha cercato di ucciderti, sabato sera» disse Eve, guardandolo con aperta curiosità. «Hai idea di chi sia stato?»
«Nessuna. Non ho visto anima viva.» «Strano, no? Che tu non abbia visto nessuno, voglio dire.» «È per questo che volevi parlarmi?» «No certo, si tratta di Gail. Quando le hai parlato per l'ultima volta?» «Ieri nel pomeriggio, verso le quattro e mezzo, forse prima. Perché?» «Ti è sembrata normale?» John guardò Eve con aria preoccupata. «Un po' nervosa, ma normale» disse. «Credevo che tu pranzassi da lei, ieri sera.» «Infatti.» Gli occhi vivaci di Eve fissavano John. «Le ho telefonato nel pomeriggio, verso le tre, per invitarla a pranzo, ma ha detto che non poteva lasciare Timmy e mi ha chiesto di andare io da lei. Ho risposto che ci sarei andata verso le sei. Al telefono sembrava che stesse bene, date le circostanze, ma quando sono arrivata era distrutta.» «Cosa vuoi dire, con distrutta?» chiese John, sapendo che Eve aveva tendenza a esagerare. «Voglio dire che quando le avevo telefonato sembrava normale, ma quando sono arrivata, poco dopo le sei, era molto nervosa, pallida come un cencio e beveva come una spugna.» «È logico che fosse turbata» disse John. «A quanto pare credeva che Gilly fosse innamorato di lei e, invece, è poi saltato fuori che stava per sposare Babs. Deve essere stato un colpo tremendo.» Eve aspirò una boccata di fumo dalla sigaretta e la disperse con un gesto impaziente della mano. «Santo cielo» esclamò «non sai perché Gilly stava per sposare quella stupida?» «Sinceramente, no.» «Direi che qualunque sciocco lo capirebbe.» Eve si appoggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe, e la sua espressione cinica ricordava la fotografia pubblicata sul "News". «Sua madre» riprese «gli mandava abbastanza denaro perché potesse tirare avanti, da quando il padre lo aveva diseredato. Poco, s'intende, però quanto bastava per l'automobile, abiti, viaggi e cose del genere. Poi in novembre ebbe un attacco di cuore e, in un batter d'occhio, Gilly finì ad Acapulco, con Babs. Prova a capire.» «Credi che stesse per sposarsi perché temeva che la madre morisse, lasciandolo senza reddito?» «Proprio così.» John scrutò Eve, prima di domandare: «Te l'ha detto lui?» «No, certo» rispose lei, serrando le labbra. «Non l'ha detto a nessuno di noi. Ha mentito negando fino all'ultimo che la voce fosse vera.»
«Perché?» «Santo cielo, secondo te, perché aveva intenzione di scappare in Messico per sposarsi? Non ti sembra ovvio? Aveva paura che qualcuno cercasse di mettergli i bastoni fra le ruote.» «Allora, prima che fosse ucciso, tu non sapevi la verità?» «No, davvero e tu?» John scosse la testa. «Ha mentito anche a me, mi ha detto che era soltanto una chiacchiera. La notizia deve comunque avere sconvolto Gail, avrebbe fatto quell'effetto a qualsiasi donna.» «Senti, tesoro, sei proprio ottuso. Gail sapeva tutto sull'intenzione di quei due di sposarsi, prima che io andassi lì a pranzo. Glielo hai detto tu stesso, ieri mattina. Me ne ha parlato in seguito, quindi non si trattava di questo. Lo sapeva da ore.» Eve vuotò il bicchiere e alzò gli occhi verso John, con espressione insolitamente seria. «Sai che voglio molto bene a Gail» disse «e per nulla al mondo la criticherei, ma ieri sera c'era qualcosa che, decisamente, non andava. Hai detto niente al telefono che avrebbe potuto scombussolarla?» «Non credo. Anzi, mi aveva invitato a pranzo, ma avevo un altro impegno. Allora mi è sembrato che fosse normale.» «Be', deve essere successo qualcosa dopo la tua telefonata e prima che arrivassi io, subito dopo le sei. Quando gliel'ho chiesto, lei ha però insistito nel dire che non era successo niente.» Eve prese guanti e borsetta e aggiunse: «Ho pensato che avrei dovuto informarti. Forse puoi fare qualcosa, è veramente molto mal ridotta.» «Timmy sta bene?» domandò John. «La signora Henderson era lì, vero?» «No, quando sono arrivata io; era andata al villaggio con una ricetta del medico ed è tornata poco dopo il mio arrivo. Ha preparato il pranzo per Timmy, come al solito, poi se n'è andata. Il bambino stava bene, sono andata su a vederlo, mentre Gail cucinava il pranzo, una aragosta al forno, che si può preparare prima, altrimenti non credo che lei ce l'avrebbe fatta.» «Vuoi dire che era ubriaca?» «No, e anche questo è strano. Aveva bevuto abbastanza per sbronzarsi, ma non era sbronza. Sembrava che bevesse per tenersi su, oppure per non crollare. Ho visto altra gente bere così, dopo avere subito un tremendo choc.» John aggrottò la fronte. «Sapevo che non doveva restare lì sola» disse «ma non mi ha voluto ascoltare.»
«Le ho proposto di portare Timmy e Nora a casa mia, per qualche giorno, ma non ha dato retta neanche a me.» Eve si alzò e chiese: «Che cosa intendi fare?» «Andrò là, appena mi sarà possibile, per scoprire che cosa c'è che non va. È un peccato che non voglia venire da te.» Con sguardo iroso, Eve ribatté: «Sai perché non vuole, vero?» «Assolutamente no. Penso anzi che dovrebbe farle piacere.» «È colpa tua e di quella tua maledetta sorella.» «Che diavolo vuoi dire?» John era meravigliato. «Gail è convinta che tu e Anne la giudicate incapace di badare a suo figlio e cerca di dimostrare che sa farlo, senza dipendere da me o da nessuno, eccettuata Nora.» «È assurdo!» «Trovi?» fece Eve, fissando John dritto negli occhi. Appena Eve fu andata via, John si fece portare un panino, mise ordine alla meglio nel lavoro e stava per uscire quando squillò il telefono. Afferrò il ricevitore con impazienza, maledicendo la signorina Pritchard che gli aveva passato la comunicazione, benché le avesse detto che Gail non stava bene e che lui sarebbe partito al più presto per Mount Kisco. Dall'altro capo del filo echeggiò la voce di Anne, chiara e dolce, com'era prima delle loro recenti discussioni. «Sono desolata di disturbarti in ufficio, caro» disse «ma volevo scusarmi per il mio comportamento di ieri. Me ne vergogno moltissimo.» «Lascia perdere, anch'io non mi sono comportato troppo bene» rispose John, provando un caldo senso di comprensione per la sorella. Il suo bambino, Peter, avrebbe avuto soltanto pochi mesi più di Timmy, se fosse vissuto, e l'amore che Anne provava per suo figlio gli faceva capire che inferno doveva essere per lei, soprattutto durante le vacanze, come aveva detto Bill. «Sei ancora lì?» domandò lei. «Certo.» «Be', volevo dirti che Bill e io abbiamo parlato a lungo, quando lui è rincasato, e capisco di avere sbagliato tutto. Ho torturato lui e litigato con te, mentre avrei dovuto badare ai fatti miei.» Anne rise nervosamente e continuò: «Quando ho visto Nancy, stamattina, mi ha detto che faccio fare una vita d'inferno a Bill e che tu sei un uomo capace di badare ai fatti tuoi. Mi sono sentita una vera idiota.»
Il totale cambiamento in Anne sorprese John, finché non si rese conto che era tipico della sorella, lasciarsi andare a eccessi. Quando voleva una cosa, la voleva disperatamente, quando si arrabbiava diventava una furia, quando amava, amava con tutto il cuore, quando era felice la sua gioia era contagiosa. Non soltanto sentiva profondamente le emozioni altrui, ma riusciva anche a comunicare le proprie con una specie d'invisibile radar. Ora che Bill e Nancy erano riusciti a convincerla che aveva sbagliato, si spremeva per agire in modo giusto. Sentendo che era di buon umore, John si adeguò spontaneamente. «Non ti preoccupare» disse, guardando l'orologio. «Vuoi venire a pranzo, stasera? Vedrò se Nancy...» «Non posso» interruppe John. «Eve è stata qui un momento fa e mi ha detto che Gail non sta bene, per cui farò un salto a Mount Kisco. Anzi, sto proprio uscendo.» Attese che tutte le buone intenzioni di Anne gli esplodessero in faccia, ma non successe niente. Dopo un breve silenzio, lei domandò: «È veramente malata?» «Non lo so, per questo vado là.» Ora il silenzio fu più lungo, quindi la voce di Anne suonò di nuovo: «John...» «Sì.» «Se è davvero malata, non credi che sarebbe una buona idea che io andassi a prendere Timmy? Non vedo come lei possa averne cura, se...» «No, non è una buona idea. Se è malata, mi metterò d'accordo in qualche modo col dottor Knight. Non agitarti.» «Ci darai notizie, caro?» «Certamente.» John aveva parlato in tono noncurante, ma aveva la fronte aggrottata quando depose il ricevitore sulla forcella. Erano quasi le 15.30 quando finalmente prese l'automobile dal garage nella Quarantaquattresima Strada. Si era precipitato al Club Yale per riempire una valigetta, se, per caso, avesse dovuto pernottare a Mount Kisco, quindi si era affrettato verso il garage. Mentre si dirigeva a ovest, notando la folla di gente che faceva spese natalizie sostare sui marciapiedi, in attesa di attraversare, stringendo pacchi e urtandosi, mentre entrava nei negozi e ne usciva, si rese conto che mancavano soltanto tre giorni a Natale e lui non aveva comprato neppure un regalo per nessuno, eccettuato che per
Timmy... neanche per Nancy. Era un pomeriggio freddo e grigio, frustato da venti gelati, ma, in brusco contrasto, i negozi erano gai, pieni di luci e di colori, affollati di gente. Il traffico che attraversava la città era più lento del solito. John non aveva pensato che potesse essere più intasato del consueto, invece, in ogni strada, tutte le automobili si fermavano, circondate da nugoli di pedoni, simili a grosse formiche, poi riprendevano a muoversi, ma soltanto per fermarsi di nuovo. Il precoce imbrunire invernale era già diventato notte, quando riuscì a immettersi sull'autostrada di West Side, voltando poi a nord. Non aveva avvertito Gail, temendo che se avesse saputo del suo imminente arrivo si sarebbe rifiutata di vederlo. Girò attorno alla casa e parcheggiò di nuovo accanto all'automobile della signora Henderson, sul lato di servizio. Dopo andò in cucina e strada facendo notò che le luci nelle stanze di Gail e di Timmy erano tutte accese, mentre al pianterreno l'illuminazione era fioca. Quando entrò in cucina, la signora Henderson era ritta davanti al lavandino. Si girò di scatto, appena lui richiuse la porta, e aveva gli occhi spalancati per la sorpresa. «Oh, signor Townsend, mi avete fatto paura» esclamò. «Dovreste tenere la porta chiusa a chiave» disse John. «Dopo quello che è successo, trovo che dovreste tenere sempre chiuse finestre e porte al pianterreno.» La governante arrossì. «Io...» «Dov'è la signora?» «Su, in camera. Credo che sia andata a sdraiarsi, ha detto che aveva mal di testa.» Rendendosi conto che l'ansia lo aveva reso scortese e severo, mettendo a disagio la governante, John sorrise alla donna imbronciata. «Non voglio correre rischi, finché le cose non saranno chiarite» spiegò. La signora Henderson si asciugò le mani con un tovagliolino da tè. «Devo andare su, per dire a Timmy che siete venuto a trovarlo?» chiese. «Non ancora, prima voglio vedere mia moglie. La signora Wendell mi ha detto che non si sente bene. Vado subito da lei.» Entrando nel corridoio, e notando le luci fioche nel soggiorno e nella sala da pranzo, John pensò abbattuto ai tempi in cui quelle stanze erano tanto allegre e luminose. Musica, gaie fiammate nel camino, fiori, risate. Adesso la casa era silenziosa e triste come un obitorio. I corridoi al piano superiore erano ancor più tristi. Quello che portava alla camera più piccola per gli
ospiti e alla stanza della cameriera era immerso nell'oscurità e in quello principale c'erano soltanto poche luci alle pareti. Tutte le porte delle stanze da letto erano chiuse e non si udiva nessun rumore, neanche dalla camera di Timmy. John allungò il passo in direzione della porta di Gail, l'aprì senza bussare ed entrò. Lei era sdraiata sul letto, vestita con calzoni, camicia bianca e pullover e la lampada sul comodino era accesa, ma benché stringesse una rivista fra le mani, aveva gli occhi chiusi. John si avvicinò in punta di piedi e quando la guardò fu preso da abbattimento. Il viso dall'ossatura fragile sembrava una maschera mortuaria. Gli occhi parevano infossati, si scorgevano rughe attorno alla bocca e John ebbe l'impressione che la moglie non dormisse, ma giacesse esausta. «Gail» mormorò. Lei aprì lentamente gli occhi, fissandolo con espressione dapprima confusa. Tentò quindi di sorridere debolmente e di apparire normale. «Oh, John!» disse. «Che fai qui?» Lasciò cadere la rivista e allungò una mano per prendere una sigaretta. John notò che il portacenere sul comodino era pieno di mozziconi. «Eve mi ha detto che non ti sentivi bene, per cui sono venuto appena mi è stato possibile.» John sedette sul bordo del letto e le prese una mano. Era gelida. «Che cosa c'è?» le domandò, accendendole la sigaretta con la mano libera. Con l'espressione irritata di una persona malata, Gail esclamò: «Eve è pazza. Ieri sera mi sono sbronzata, ecco tutto. Non avrebbe dovuto dirtelo.» Ricominciava a formarsi la maschera d'indifferenza e John capì che doveva essere brutale, prima che s'indurisse permettendo a Gail di celarvisi dietro. «Se non mi dirai la verità, porterò Timmy a New York con me» dichiarò. «Non sei in condizioni di avere cura di lui e la signora Henderson non può reggere tutto il peso.» Non gli garbava di valersi del bambino come minaccia, ma servì allo scopo. «Qualcuno mi ha telefonato» disse Gail. «Chi?» «Non lo so.» Con le labbra che tremavano, Gail fissava John con sguardo inorridito, ma si sarebbe detto che vedesse una cosa ripugnante. «Non ho potuto capire se era un uomo o una donna» riprese. «Soltanto una voce,
che diceva cose atroci.» «Quali cose?» «Che sono una delinquente, un'assassina, che ho cercato di uccidere mio marito, che ho assassinato il mio amante e...» La voce di Gail si spense. Teso in ogni nervo, John dovette sforzarsi per apparire calmo e fiducioso. «Avanti, cara» disse «ma ricomincia da capo, ripeti le parole esatte.» Con gli occhi colmi di lacrime, Gail raccontò: «Ha detto: "parla Gail Townsend?". Quando ho risposto affermativamente, ha esclamato "delinquente, assassina, hai cercato di uccidere tuo marito e hai assassinato il tuo amante. Credi di farla franca, ma ti sbagli".» «Avanti» la spronò John. «Non posso.» Gail distolse gli occhi. «Devi!» «Mi ha rivolto epiteti orribili, dicendo che non sono degna di vivere, poi ha detto che mi scacceranno di qui, se non me ne andrò io. Ha detto che una donna come me non dovrebbe avere figli. Ha continuato a parlare, a parlare, ma non ricordo tutto. Era troppo orribile.» «Perché non hai interrotto la comunicazione?» «Ho finito per farlo, ma prima ero troppo inorridita per muovermi. Era una voce così abietta, diceva tanti orrori, conteneva tanto odio che sembrava una specie di incubo. Sulle prime, non mi sembrava neppure vero.» «Santo cielo, perché non hai avvertito la polizia, oppure potevi dirlo a Eve, appena è arrivata.» «Non potevo, non potevo. Mi vergognavo tanto, avevo così paura. Non volevo che si sapesse.» Gail guardò John con aria supplichevole e aggiunse: «Non capisci che se si verrà a sapere, la gente potrebbe crederci? E Timmy? Se venisse a saperlo?» «A che ora hai avuto la telefonata?» «Esattamente alle sei meno venti. Ero andata in cucina per prendere il ghiaccio, dato che Nora era andata al villaggio con la ricetta per Timmy e io volevo che i martini fossero ghiacciati, prima dell'arrivo di Eve.» Quasi ventiquattr'ore prima, si disse John. Più o meno quando lui usciva dal Club Yale per andare a pranzare a "La Cabane" con Nancy. Ventiquattr'ore di tortura, durante le quali, Gail aveva cercato di affrontare quella tremenda cosa da sola. Vedendo che John si alzava, lei domandò: «Che cosa vuoi fare?» «Quello che avresti dovuto fare tu subito. Vado a telefonare all'ispettore Garrison.»
«Oh no, per piacere! Non voglio che lo sappia nessuno.» L'espressione supplichevole c'era ancora, ma adesso negli occhi di Gail era apparso anche un filo di speranza, una specie di animazione isterica. «Non credi che possa essere stato qualche pazzoide locale?» chiese. «No» rispose John torvo. «Chiunque sia stato a telefonare, è la stessa persona che ha assassinato Gilly e sparato a me.» «Cosa?» esclamò Gail. «Oltre a te e a me soltanto cinque persone sanno che qualcuno mi ha sparato, ma Garrison ha tenuto duro ed è riuscito a nasconderlo alla stampa.» «Chi sono le cinque persone?» «Eve Wendell, Anne, Bill, Nancy Waring, e, naturalmente, la signora Henderson.» «Nancy Waring?» Gail aveva l'aria perplessa. «La ragazza con cui dovevi pranzare?» «Sì.» «Che cosa c'entra lei?» «Ieri sera era da Anne, quando ha telefonato la signora Henderson spifferando tutto.» «Non c'entra comunque» insistette Gail con la fronte aggrottata. «Insomma, voglio dire che non sono affari suoi. Oppure lo sono?» Seccato, John sentì che arrossiva. «È al corrente» disse. «L'ho vista spesso di recente e lavora tutti i giorni al negozio di Anne. Ci è cascata dentro contro la sua volontà.» «Sei...» Gail s'interruppe. «Vado a telefonare a Garrison» si affrettò a dire John, Telefonò dall'apparecchio dell'ingresso, al pianterreno, da dove né la signora Henderson né Timmy potevano udire, ma venne informato che l'ispettore era fuori città. Gli passarono il sergente Clark, che John ricordava; il poliziotto tarchiato e severo che era arrivato con Garrison e aveva preso appunti durante il primo interrogatorio, nella casetta per gli ospiti di Eve Wendell. «Posso fare nulla io, signor Townsend?» domandò il sergente e John notò subito che adesso il suo modo di fare era molto cambiato. Prima era freddo e pratico, ora la sua voce risuonava cordiale. «Quando tornerà l'ispettore?» chiese. «Non lo so esattamente. Si tratta di un'emergenza?» John stava per spiegare il motivo della telefonata, ma qualcosa lo trat-
tenne. Sapeva che i poliziotti dello Stato di New York erano in gamba, efficienti, ma li aveva spesso visti fuori servizio, seduti nelle osterie locali, intenti a mangiare, bere e chiacchierare. Gli inservienti e i proprietari dei locali avevano le orecchie ed erano certamente desiderosi di udire notizie sul delitto. «Mi chiedevo se avete potuto controllare l'ora in cui sono tornato al Club Yale, sabato sera» disse. «Io non ci sono ancora riuscito.» «Sì, e risponde a ciò che avete detto. Non avete nulla di cui preoccuparvi.» Il sergente Clark sospirò. «Magari potessi dire altrettanto di alcuni degli altri» aggiunse. «Potete informare l'ispettore che sono a Mount Kisco, dicendogli di telefonarmi?» «Può darsi che torni soltanto domani.» «Allora ritelefonerò al mattino.» «Bene, dovrebbe tornare verso le nove.» John depose il ricevitore sulla forcella, quindi attraversò la cucina per andare fuori, verso la sua automobile, consapevole che la signora Henderson l'osservava incurosita, mentre preparava il vassoio per il pranzo di Timmy. Quando tornò con la valigetta, la donna stava mettendo sul piatto un pezzo di pollo. «Passerò la notte qui» annunciò John. «È pronta una delle camere per gli ospiti?» La governante lo guardò come se fosse uscito di senno, quindi pose con cura dei piselli accanto al pollo. La forte luce sul soffitto dardeggiava sui suoi capelli sottili e John notò che aveva l'uniforme sporca, e un po' sgualcita. Sembrava stanca e, stranamente, meno grassoccia del solito. «Tutti i letti sono fatti, signore» disse, serrando le labbra con aria di disapprovazione. «Volete che resti, per prepararvi il pranzo?» «No, grazie. Piuttosto, prendete dal frigorifero una bistecca, me la cucinerò sul fuoco del camino e mi preparerò un'insalata. Non preoccupatevi per il vassoio di Timmy, glielo porterò io quando avrò messo via la valigia e acceso il fuoco.» Mentre la governante lo seguiva con gli occhi, allibita, John salì nella camera per ospiti più grande, sul retro della casa, accendendo tutte le luci a mano a mano che procedeva. Quando scese di nuovo fece altrettanto con quelle del soggiorno, quindi accese il fuoco nel camino, prima di tornare in cucina per prendere il vassoio di Timmy. Evidentemente, la signora Henderson aveva avuto il tempo di riflettere e di farsi coraggio, perché disse:
«Come potete restare qui con "lei", dopo tutto quello che è successo?» Il suo viso era arrossato per l'emozione e per la collera. «Non sapete ancora se non è stata lei a tentare...» «Appunto, non lo sappiamo» interruppe John «e finché non lo sapremo, faremo del nostro meglio. Mia moglie non si sente bene e non posso chiedere a voi di restare qui, lavorate già anche troppo.» John conservò di proposito un atteggiamento noncurante, mentre la governante versava il latte per Timmy, quindi portò il vassoio al piano superiore. 13 Quando vide il padre, Timmy restò a bocca aperta, poi sorrise e fece il gesto di scendere dal letto, rovesciando i pezzi di un rompicapo. Sorridendo a sua volta, John esclamò: «Guardati bene dallo scendere dal letto! Raccatterò io i pezzi.» «Non sapevo che eri qui» disse Timmy, ravviandosi il ciuffo bruno e infilandosi di nuovo sotto le coperte. Dopo avere posato il vassoio sul comò, John raccattò i pezzi del rompicapo. Timmy chiacchierò per alcuni minuti, poi tacque e quando il padre gli pose davanti il vassoio, alzò lo sguardo. Sparito il sorriso, i grandi occhioni grigi erano ansiosi come quel giorno al Commodore, quando era cominciata tutta la vicenda. «La mamma sa, che sei qui?» domandò. «Certo. Ha mal di testa, per cui le preparerò il pranzo e passerò la notte qui.» «Oh, papà!» Timmy sembrava terrorizzato. «Senti, sciocchino, non mi succederà niente, per cui smetti di agitarti e mangia, mentre io vado a parlare con tua madre. Dopo tornerò.» John lasciò il bambino intento a gingillarsi con la coscia di pollo e attraversò il corridoio, per andare nella stanza di Gail. Lei era seduta alla toilette e si scrutava, come se fosse sgomenta per l'immagine che vedeva riflessa nello specchio. Girandosi verso John, chiese: «Hai parlato con l'ispettore?» «No, è fuori città e tornerà soltanto domani.» «Perché sarà andato via, in un momento come questo?» «Potrebbe essere andato a Chicago, per cercare di strappare qualcosa al vecchio Gilmore. A quanto pare i poliziotti laggiù non hanno ottenuto
niente, ma io scommetto che farà fiasco anche Garrison.» Gail si era girata di nuovo e John, alle sue spalle, osservava il suo viso pallido riflesso nello specchio. Sembrava sollevata, che lui non avesse rintracciato l'ispettore. «Se non ti dispiace» le disse «pernotterò qui. Non voglio che tu e Timmy restiate soli, finché non avrò parlato con Garrison. Va bene?» Gail annuì, sfregandosi la fronte con le punte delle dita. «Mi sentirò più tranquilla, se resterai» disse. «Ieri sera ho dormito poco, avevo paura di addormentarmi dopo quella telefonata. Hai visto Timmy?» John sorrise. «L'ho lasciato adesso. Quando gli ho detto che avrei dormito qui è rimasto impietrito. Quel povero piccolo non riesce ancora a convincersi che tu non mi farai la pelle.» «Adesso non è più buffo» disse Gail con voce rotta. «È tragico.» John le posò una mano sulla spalla. «Cerchiamo di dimenticarcene per un po'» disse. «Ho acceso il fuoco nel soggiorno e cucinerò una bistecca. Vieni.» «Scendo fra un momento, prima voglio vedere Timmy. Cercherò di fargli capire che sono contenta che tu sia qui.» «Buona idea, intanto io tirerò fuori il ghiaccio.» Già avviato verso la porta, John ristette e si voltò. «Lui non sa ancora niente di Gilly, vero?» domandò. «No, ho staccato il televisore mentre dormiva, poi gli ho detto che è rotto.» John scese al pianterreno e quando apparve Gail aveva già preso il ghiaccio, preparato i martini e attizzato il fuoco, che ardeva scoppiettando. Notò con piacere che si era cambiata, indossava un vestito azzurro con golfino intonato. Non gli sembrava possibile, ma sorrideva quando entrò nella stanza. «Che c'è di così buffo?» le domandò, tendendole un martini. «Nora. È talmente furiosa che non mi ha neanche guardato, quando è entrata per prendere il vassoio di Timmy.» Gail sedette sul divano e guardò John, continuando a sorridere. «Quella povera donna» riprese «pensa che tu sei di nuovo nelle mie grinfie, è una furia.» «Lo so» disse John, ridendo. «Ha detto il fatto suo anche a me. Mi giudica pazzo.» Benché si sforzassero per non alludere alla telefonata entrambi ci pensavano. Riuscirono a pranzare senza accennarvi, ma dopo, bevendo caffè e cognac, tornarono sull'argomento. John non capiva come mai Gail non fos-
se in grado di stabilire se si era trattato di un uomo o di una donna. «Non lo capisco neanch'io, eppure non lo so» disse Gail. «La gente parla tenendo un fazzoletto sulla bocca, o cose del genere, quando vuole contraffare la voce, vero? L'ho visto fare al cinema.» «Anch'io e, naturalmente, un uomo può assumere un timbro di voce più stridulo, una donna più profondo, però...» John tacque, notando che Gail lo fissava con espressione strana. «Che c'è?» chiese. «Mi è venuto in mente che tu e Bill siete i soli uomini al corrente dell'attentato. Non riesco proprio a immaginare che Bill possa dire quelle cose orribili, per cui doveva trattarsi di una donna, a meno che qualcun altro non sia venuto a conoscenza dell'accaduto.» John scosse la testa. «No, sono sicuro che nessuno l'ha saputo, sarebbe troppo facile per Garrison scoprire una falla, se ci fosse stata. È terribile, ma non possiamo escludere né Bill né altri. Mi sembra che chiunque abbia ucciso Gilly a sangue freddo, tentato di ammazzare me e usato il telefono per terrorizzarti, debba essere totalmente matto. Ci troviamo di fronte a un pazzo, nascosto in un corpo dall'apparenza normale. Per questo dobbiamo essere prudenti e non fidarci di nessuno.» Proprio allora squillò il telefono e sobbalzarono entrambi. «Che cosa facciamo?» Gail era di nuovo pallida e tesa. «Rispondi all'apparecchio nell'ingresso, però dammi il tempo di andare in cucina ad ascoltare. Se è la stessa voce, cerca di farla parlare a lungo, forse potrò scoprire qualcosa. Quando sarò arrivato all'altro telefono, ti farò un segnale, così potremo prendere in mano il ricevitore nello stesso istante.» Gail annuì. Uscirono entrambi nell'ingresso e lei aspettò accanto al telefono posato su un tavolo, mentre John correva in cucina. «Pronto» le gridò lui, col cuore che batteva forte. Afferrò quindi il ricevitore e udì la moglie rispondere all'altro apparecchio, con voce tesa, innaturale. «Pronto, Gail? Che cosa fai alzata? Credevo che stessi poco bene.» Era la voce di Anne. Mentre riprendeva fiato, John udì l'esclamazione strozzata di Gail, che poi si riprese e disse in tono normale: «Oh, salve, Anne. Mi sentivo malissimo, però ora sto meglio.» Deposto il ricevitore sulla forcella, John tornò nell'ingresso in tempo per sentire Gail che diceva: «Sì, John è ancora qui. Vuoi parlargli? Sta bene, aspetta.» Quando le ebbe preso di mano il ricevitore, udì Anne dire in tono di
rimprovero: «Credevo che avresti telefonato. Abbiamo aspettato tutta la sera, per sapere come stava Gail.» «Scusa, me n'ero dimenticato.» «Quando torni a New York?» «Domattina, ma non sono sicuro dell'ora.» «Vuoi dire che passerai la notte lì?» Anne sembrava stupefatta. «Sì» rispose John asciutto. «Ho da fare qui, domattina, se non ti disturba.» Evidentemente, Anne afferrò il sarcasmo, perché si affrettò a cambiare discorso. «Come sta Timmy?» domandò. «Continua a migliorare.» «Gail, che cosa aveva?» «Niente di grave» rispose John esasperato. «Ti telefonerò appena sarò a New York.» «Va bene, buona notte.» Quando John tornò nel soggiorno, trovò Gail accasciata sul divano. La luce delle fiamme nel camino guizzava sui suoi capelli color oro filato e un sorrisetto amaro le torceva le labbra. «Tante paure, poi era soltanto Anne» disse. «Sono quasi svenuta.» «Un altro cognac?» «No, grazie, vado a letto, se vorrai scusarmi. Forse riuscirò a dormire, ora che sei qui.» Gail si alzò, rivolgendo a John un sorrisetto un poco triste. «Grazie per essere venuto» disse. Lui la seguì con gli occhi, prima di versarsi un altro cognac. Si sistemò quindi davanti al camino e rimase a fissare le fiamme, pensando con nostalgia al passato. Com'era tutto bello allora, o almeno lui l'aveva creduto... fino all'arrivo di Gilly. Continuava a rivedere scene del passato, a riprovare emozioni morte da tempo, ma poi, d'un tratto, vuotò il bicchiere e si alzò. Era pazzesco lasciare che la mente si soffermasse sul passato. Tutto era cambiato e nulla poteva più tornare com'era. Ci aveva pensato Gilly. Gilly e Gail. Nulla poteva cancellare la scena di quel capodanno, di quei due nel letto col baldacchino. Adesso Gilly era morto e Gail gli era lontana, come se vivesse su un altro pianeta. Non era possibile tornare indietro. C'era però Nancy, carina, affettuosa, poco esigente. John andò a coricarsi pensando a lei e cercando di scacciare il passato dal cervello. L'indomani mattina si alzò di buon'ora e, poiché Timmy era sveglio, preparò la colazione per sé e per lui, prima che arrivasse la signora Hen-
derson. Il bambino era ancora pallido e, sulle prime, anche a disagio, ma quando John ebbe portato il vassoio al piano superiore, mettendosi poi a chiacchierare come se si trattasse di una delle colazioni che facevano insieme a New York, si tranquillizzò e i suoi timori parvero sparire. Poco dopo, arrivò la governante, che diede inizio alla sua routine giornaliera. Alle nove in punto, John telefonò all'ufficio della Squadra Omicidi, ma venne informato che l'ispettore Garrison sarebbe tornato soltanto dopo colazione. Ancora una volta, il sergente Clark domandò se poteva essere utile, ancora una volta John rifiutò. Telefonò quindi al proprio ufficio, per dire alla signorina Pritchard che non sapeva quando sarebbe tornato. Dopo, ammazzò il tempo giocando a dama con Timmy, finché Gail non si alzò. L'aspettava nel soggiorno, quando lei scese al pianterreno. Gli chiese subito: «Hai potuto parlare con l'ispettore?» «No» rispose John, aggrottando la fronte. «Adesso dicono che tornerà soltanto dopo colazione. Comincio a chiedermi che cosa stia combinando.» «Forse è ancora a Chicago» osservò Gail. «Non sappiamo neanche se c'è andato. Tiravamo a indovinare.» John era irritato. Erano già le undici e il lavoro in ufficio si accumulava, mentre lui ciondolava lì, ad aspettare con le mani in mano. Più tardi Gail andò al mercato nel villaggio e arrivò il medico, che trovò le condizioni di Timmy decisamente migliorate. John era sempre più irrequieto. L'unica bella cosa della mattinata fu il silenzio del telefono, sicché non fu necessario mettere in atto il piano, con la signora Henderson che s'indaffarava lì attorno, tuttora con le labbra serrate per la disapprovazione. Mentre finivano di fare colazione, finalmente il telefono squillò e la governante rispose, prima che Gail o John potessero muoversi. Annunciò quindi che era l'ispettore Garrison e si ritirò in cucina. John andò a rispondere all'apparecchio nell'ingresso, aspettando di udire lo scatto che significava che la signora Henderson aveva deposto l'altro ricevitore. «È da ieri sera che vi cerco, ispettore» disse, in tono di accusa. «Lo so, il sergente Clark mi ha detto che avevate telefonato. Qualcosa che non va?» «Decisamente, per questo sono qui. Potete venire?» «Arrivo.» Venti minuti dopo, l'ispettore arrivò. Indossava lo stesso completo di flanella grigia, che avrebbe avuto bisogno di essere stirato, e sembrava stanco. John lo condusse nel soggiorno, ove aspettava Gail, e appena ebbe
richiuso la porta l'informò della telefonata. Traendo il taccuino di tasca, il poliziotto esclamò in tono collerico: «È successo domenica pomeriggio, alle cinque e quaranta, e voi avete aspettato fino a ieri nel tardo pomeriggio, per telefonare al mio ufficio?» John spiegò che aveva appreso l'accaduto soltanto al suo arrivo a Mount Kisco, il pomeriggio precedente, aggiungendo che aveva faticato per convincere Gail a parlarne con chicchessia. «La signora doveva avvertire immediatamente la polizia» ribatté Garrison, i cui occhi azzurri lampeggiavano «e voi avreste dovuto informare il sergente Clark, non potendo comunicare con me.» Bombardò Gail di domande sulla telefonata e lei rispose come meglio poté, a volte balbettando per l'imbarazzo. Sollevato, John notò che non sembrava nervosa e sconvolta quanto il giorno prima. Una buona notte di sonno aveva fatto miracoli. Eccettuato per l'espressione un poco tesa, era calma e ben curata, con uno dei suoi soliti abiti azzurro chiaro, e perfino Garrison pareva colpito dalla sua bellezza. John glielo leggeva negli occhi, mentre lui faceva un fuoco di fila di domande. «Siete certa che nella voce non ci fosse niente di familiare, niente che poteste riconoscere?» «No, niente» rispose Gail. Garrison finì di prendere appunti e ripose il taccuino con aria aggrondata, dicendo: «Sarà probabilmente impossibile rintracciare la telefonata. Se veniva da New York, non sarà stata fatta dall'apparecchio di chi telefonava e se era di provenienza locale non risulterà al centralino. Controllerò, comunque.» «Credete possibile che una delle persone al corrente dell'attentato abbia parlato?» domandò John. «No, ho avvertito tutti che qualsiasi accenno avrebbe ostacolato le nostre indagini.» L'ispettore tacque, per accendere una sigaretta, quindi riprese: «La telefonata è stata fatta entro un'ora o due dal momento in cui ho lasciato l'abitazione dei Lansing. Vi risulta che siano rimasti in casa, per il resto della giornata, signor Townsend?» «Non so che cosa abbia fatto Anne» rispose John «ma alle cinque e quaranta Bill doveva essere al bar Drake, o ci stava andando. Io avevo appuntamento con Nancy Waring, a un piccolo ristorante: "La Cabane"; è nella Terza Avenue, poco lontano da casa sua. Lei mi aspettava, quando sono arrivato, alle sei, e un'ora dopo è apparso Bill Lansing.» Rivolto a Gail, Garrison chiese: «Avete detto che la signora Wendell
doveva venire qui a pranzo, più o meno alla stessa ora, circa alle sei?» «Si. Quando ho avuto la telefonata, lei si stava certamente vestendo; verso le cinque fa sempre un bagno e si cambia.» «E la vostra governante era a Mount Kisco, per comprare una medicina» fece l'ispettore in tono acido. «Una qualunque delle due avrebbe potuto telefonare.» Dopo aver fissato per un attimo la punta della sigaretta, guardò John e disse: «Chiunque sia stato a telefonare, deve essere la stessa persona che ha sparato a voi e che ha ucciso Gilmore. L'ufficio balistico ha esaminato i proiettili, e quello che voi avete scalzato dall'albero, corrisponde a quello estratto dal corpo di Gilmore. Sono stati sparati con la stessa arma.» «Posso chiedervi una cosa, ispettore?» fece John. «Avete visto il padre di Gilly?» Con aria torva, Garrison rispose: «L'ho visto e avevate ragione, sul suo conto. È un uomo di sasso. Non ha voluto parlare e non siamo riusciti a cavargli una parola. Se si arriverà a un processo, potremo citarlo come testimonio, ma per il momento, non possiamo costringerlo a parlare. Non si prevede che la madre vivrà, per cui non ho potuto vederla, e l'ex moglie giura che non sa niente. La sorella che vive in Spagna è in cattivi rapporti coi familiari da anni, perché avevano disapprovato il suo matrimonio, quindi non ci è stata di aiuto.» Sedevano nel soggiorno, come vecchi amici. Fuori brillava il sole, però il freddo era intenso e tirava vento. John aveva acceso un'altra fiammata, che dava alla stanza una falsa aria accogliente. In effetti, lui si sentiva sempre più spazientito, dal modo in cui Garrison si occupava del caso. Giudicava assurdo che avesse sprecato tempo per andare a Chicago, nel tentativo d'interrogare Gilmore padre, dato che la polizia e la stampa locali non avevano ottenuto nulla e lui lo aveva avvertito che si trattava di una persona intransigente. Eppure, il poliziotto sedeva lì, nel suo abito sgualcito, fumando e fissando pensosamente il fuoco, come uno che si rilassi, al circolo, dopo una dura giornata di lavoro. Gail, rannicchiata al suo posto preferito sul divano, accanto al camino, aveva l'aria di soffrire per quell'atmosfera tesa. Cominciò a giocherellare con il filo di perle e a passarsi le dita fra i capelli. Finalmente, Garrison spense la sigaretta nel portacenere e si rivolse a Gail, osservando: «Secondo voi, la telefonata sarebbe stata fatta alle cinque e quaranta?» Con sguardo gelido, lei ribatté in tono teso: «Secondo me? Santo cielo,
non mi credete? Pensate che abbia inventato tutto?» «È un modo di esprimersi che usano abitualmente legali e poliziotti» fece Garrison, scrollando le spalle. «Erano esattamente le sei meno venti?» «Sì» rispose Gail seccamente. «Ero in cucina e guardavo l'orologio alla parete, quando è squillata la suoneria.» L'ispettore prese un appunto, prima di ficcarsi in tasca il taccuino. John diede un'occhiata a Gail, notando che era di nuovo pallida e chiaramente irritata per il modo di esprimersi del poliziotto. Seguì un altro lungo silenzio, poi John perse la pazienza. «Che cosa intendete fare, ispettore?» domandò. «Io devo tornare a New York e non posso lasciare mia moglie e mio figlio soli, dopo quello che è successo. Potete fare venire qui qualcuno della polizia, per controllare le telefonate, nel caso che quella persona si rifaccia viva?» «Ho riflettuto» dichiarò Garrison con calma «e ho concluso che stasera voi dovrete restare di nuovo qui.» «Non posso» esclamò John, lanciandogli un'occhiataccia. «Devo tornare al mio ufficio, sono già molto indietro nel lavoro.» Senza perdere la calma, Garrison disse: «Temo di dovere insistere.» «Perché, santo cielo? Siete a corto di personale?» «Non è questo» spiegò Garrison con un sorriso acidulo. «Se ci sarà un'altra telefonata, voi potreste riconoscere la voce. Vostra moglie è stata colta di sorpresa, ed era troppo impaurita per essere di aiuto. Se ci sarà un'altra telefonata può darsi che perda di nuovo la testa, pur essendo preparata, ma voi conoscete tutta la gente coinvolta nella vicenda e, stando attento, potreste forse riconoscere la voce, anche se è contraffatta.» Sbigottito, John si chiese se il poliziotto era in grado d'immaginare quale tormento fosse per lui trovarsi li, rivivere un'amara parodia della sua vita passata. E che cosa diavolo avrebbe pensato Nancy? Lui avrebbe potuto giustificare una sera, perché Gail era indisposta, ed era sola con un bambino costretto al letto, ma adesso Anne sapeva che la cognata stava bene e l'aveva certamente detto a Nancy. E allora, come spiegare due sere? Impossibile. Stava per chiedere a Garrison se poteva dire la verità a Nancy, quando l'ispettore parò il colpo, come se gli avesse letto il pensiero. «Non deve saperlo anima viva, in nessun caso» disse. Rivolto a Gail aggiunse: «Potete trovare una scusa, per mandare via la signora Henderson?» Gail annui. «Voleva un permesso per andare a fare le ultime spese natalizie» disse. «Bene» Garrison si alzò. «Voglio che seguiate la procedura di ieri sera,
cioè sollevate entrambi il ricevitore nello stesso istante.» «Sarà meglio che telefoni ad Anne, al negozio» disse John. «Le avevo detto che sarei tornato stamattina.» «E la tua amica Nancy?» fece Gail. «Suppongo che non sarà troppo soddisfatta.» «Probabilmente no, ma dovrò dirglielo, altrimenti lo saprà da Anne.» Gail aveva l'aria angosciata come John, mentre chiedeva all'ispettore: «Non ci sarebbe un'alternativa?» «No, e voglio che voi due non usciate, in nessun caso» rispose Garrison. «Io sarò nel mio ufficio, oppure sapranno dove rintracciarmi subito. Se succederà qualcosa, avvertitemi. Non c'è bisogno che veniate alla porta, troverò la strada.» Prese il cappotto, che aveva buttato su una sedia, e usci lasciando Gail e John senza parole. Finalmente Gail si rizzò, dicendo: «Sarà meglio che vada dalla signora Henderson. Penserà probabilmente che vogliamo passare il resto del pomeriggio a sbaciucchiarci e le verrà un accidente.» «E io devo telefonare a Nancy. Chissà che cosa penserà» fece John. Gail andò a conferire con la governante, mentre John andava a telefonare a Nancy. Ci vollero parecchi minuti, perché qualcuno la rintracciasse, e intanto lui sentiva il rumore operoso delle macchine per cucire e voci femminili. Poi arrivò Nancy, un poco trafelata. «Oh, sono contenta che tu abbia telefonato» disse. «Mi chiedevo dov'eri. Sei tornato?» «No, sono ancora a Mount Kisco.» John esitò, prima di continuare: «Senti, cara, adesso non ti posso spiegare nulla, ma c'è stato un contrattempo e devo restare qui per un'altra notte; tornerò domani. Vuoi pranzare con me, domani sera?» «Certo, con piacere.» Segui un breve silenzio, Nancy aggiunse: «Mi sei mancato, tesoro.» «E tu a me. Da André, alle sei?» «Magnifico.» «A domani, allora, ma vorrei che fosse stasera. Addio, cara; dillo a Anne, per piacere.» «Senz'altro. Addio, tesoro.» John tornò nel soggiorno, trastullandosi con l'idea di bere un cognac. Fino all'inatteso ultimatum di Garrison si era sentito benissimo, ma adesso
ciò che aveva mangiato a colazione gli si era bloccato nello stomaco e pensava con terrore alla serata. La vigilia non era andata male, perché Gail aveva bisogno di lui e aveva potuto esserle utile, ma era veramente il colmo dover ciondolare lì, prolungando il disagio. Decise di bere il cognac. Pochi minuti dopo tornò Gail, che si lasciò cadere sul divano, buttando indietro i capelli con un gesto della testa. «Be'» disse «Nora è andata via. Non le è venuto un colpo, ma c'è mancato poco. Sono sicura che mi giudica una ninfomane ubriacona.» Notando il cognac di John aggiunse: «Versane uno anche a me, vuoi?» John si accostò al bar per versarglielo e mentre glielo portava, lei chiese: «Hai telefonato alla tua amichetta?» «Sì.» «Come l'ha presa?» «Bene.» Gail sorseggiò il cognac e accese una sigaretta, prima di osservare: «Deve essere una donna notevole.» «Lo è.» Tacquero, seduti lì come due estranei in attesa di un treno, poi John vuotò il bicchiere e si alzò dicendo: «Credo che andrò su da Timmy.» «Gli farai piacere» disse Gail con aria sollevata. Quando John era già a metà scala, lo fermò per domandargli: «Che cosa vuoi per pranzo? Stamattina al mercato ho comprato della carne. Ti andrebbe del roast-beaf?» Accidenti a Garrison che li poneva in quella situazione imbarazzante, pensò John. Doveva essere un sadico. Prima di fuggire, rispose: «Certo, quello che vuoi.» «Ricorda di lasciare la porta aperta, nel caso che dovesse squillare il telefono» gli gridò Gail. Il telefono non squillò per quasi due ore e quando si udì la suoneria, John era ancora con Timmy, al quale leggeva ad alta voce il "Libro della Giungla" di Kipling. Benché fosse stato con le orecchie tese, proprio per udirlo, sobbalzò e si alzò di scatto. «Può rispondere la mamma» fece Timmy in tono supplichevole. «Non puoi fermarti proprio adesso, mentre...» «Aspetto una telefonata» disse John, posando il libro sul letto. «Scopri che cosa è successo, mentre io scendo.» Uscì con passo rapido dalla stanza e, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, scese le scale di corsa. Si erano accordati per non usare il telefono al piano superiore, per evitare che Timmy potesse sentire qualcosa.
Gail stava uscendo dal soggiorno, quando John arrivò nell'ingresso e il telefono squillava ancora. Lui aspettò, finché la moglie fu appostata accanto al tavolo, con la mano sul ricevitore, poi corse al telefono in cucina e le diede il segnale, come la sera prima. Sollevarono entrambi il ricevitore, nello stesso istante. John ebbe di nuovo il batticuore, udendo la voce di Gail, cauta e dal timbro stranamente stridulo, dire: «Pronto.» «Salve, parla Eve. Che succede? Hai una strana voce.» «Niente, sto benissimo. E tu?» «Sai che io sono indistruttibile, cara. Mi è venuta un'idea magnifica. Più tardi ti manderò Rosa con l'autista; lei può restare per fare la baby-sitter e l'autista ti porterà qui per pranzo. Non è una buona idea? Non so come mai non ci ho pensato prima. Ah, sì, lo so. Rosa aveva il pomeriggio libero, domenica. Che ne dici, cara?» La voce di Eve vibrava di energia. «Non posso» rispose Gail. «C'è John e ho appena messo l'arrosto nel forno.» «Be', tiralo fuori e porta qui anche John. Verranno gli Holden, da Bedford, e ce la spasseremo.» John avrebbe potuto deporre silenziosamente il ricevitore sulla forcella, invece continuò a stare in ascolto, chiedendosi come avrebbe fatto Gail per sganciarsi. Eve sembrava decisa a rallegrare l'atmosfera ed era un tipo molto insistente. «Non me la sento ancora di vedere gente» disse Gail. «Non ti dispiace, vero? Vedrei gli Holden molto volentieri, però non stasera.» «Se non puoi venire a pranzo, perché non vieni a bere qualcosa dopo, quando John sarà andato via? Ti manderò Rosa dopo pranzo; Liz e Bob muoiono dalla voglia di vederti.» «Non posso, cara, John passa la notte qui.» «Oh, oh!» fece Eve. «Oh, smettila, è costretto a rimanere. Non posso spiegarti ora, ma si tratta di affari.» «Certo, piccola, certo. Be', telefona quando puoi e divertiti.» Quando John la raggiunse, Gail era ancora ritta davanti al telefono e lui rimase sorpreso nel vedere che era arrossita violentemente. «Quella donna ha proprio una mente scurrile» esclamò. «Come tutti noi, non credi?» Passandosi le dita fra i capelli, con gesto nervoso, John aggiunse: «Pensi che sia troppo presto per bere qualcosa? Ho letto a voce alta a Timmy fino a diventare rauco.»
«È senz'altro troppo presto e io devo salire per cambiarmi e per portare il pranzo a Timmy. È ancora a dieta.» «E va bene, tornerò nella giungla, ma ti avverto che arrivati all'ora del cocktail potrei anche non essere in grado di spiccicare una parola.» «Magnifico, così potrò tenere banco io» fece Gail sorridendo. Entrambi si sforzavano del loro meglio, ma senza successo. John era a disagio e sapeva che la situazione era altrettanto dura per Gail, che desiderava la sua presenza, quanto lui desiderava essere li. Quella sciarada del passato aveva un sapore quasi disgustoso. Il resto del pomeriggio sembrò interminabile e quando Gail apparve con il vassoio per Timmy, John era esausto. Finalmente arrivò l'ora del cocktail e mai, in vita sua, lui ne aveva sentito tanto bisogno. Era ormai nello stato d'animo adatto per sbronzarsi. Non si sbronzò, ma i martini furono di notevole utilità e il vino li aiutò ad affrontare il pranzo. Dopo, John ricordò di avere lasciato l'automobile nel parcheggio, sul retro, e non sapeva quanto anti-gelo vi avesse messo. Quando usci per portare la macchina in garage, il freddo era ancora polare. Il vento si era quietato e la luna, ormai spuntata, brillava soffondendo di ombre il paesaggio argentato. Una serata magnifica, per fare un'energica passeggiata, invece erano relegati in casa e potevano soltanto sedere davanti al camino a fare una noiosa conversazione, con orecchie e nervi tesi per udire il primo squillo del telefono. Parlavano a sprazzi, ognuno alla ricerca di argomenti impersonali, poi Gail crollò, ponendo fine alla commedia. «Che progetti hai?» domandò. «Come sarebbe?» Fissandosi le unghie, lei rispose: «Pensavo che, dopo quello che è successo, avresti forse cambiato idea e mi avresti concesso il divorzio.» «Perdinci!» esclamò John, ribollendo subito d'ira. «Non ricominciamo. Per me non è cambiato niente e non cambierà niente, finché Timmy non sarà abbastanza grande per andare in collegio. Allora, sarà in grado di capire.» «E quella Nancy? Trovi che è leale, nei suoi confronti?» «Si.» John era stato brusco, furioso di essere costretto a parlare di Nancy con Gail. «Anche lei ha avuto un'infelice esperienza matrimoniale. Suo marito è per lo meno stato sincero, ma lei ne ha avuto abbastanza. S'interessa assai più alla carriera, che al matrimonio, e capisce perfettamente la mia situazione.»
All'improvviso, anche Gail fu presa dalla collera. «Magari avessi dei denari miei» esclamò, lanciando un'occhiataccia a John. «Divorzierei domani. Tutto questo non sarebbe successo, se tu non fossi così maledettamente ostinato.» Balzò in piedi e si avviò verso la porta. «Torna qui!» urlò John. «Non puoi rinchiuderti in camera, potrebbe suonare quel dannato telefono.» Riuscirono a fare passare il resto della serata / guardando un deprimente film alla televisione, talmente vecchio che quasi tutti gli attori erano morti da tempo, fatto ancor più deprimente. Appena fu finito, Gail si scusò e uscì dalla stanza. John armeggiò per un poco, rimettendo a posto i portacenere e assicurandosi che porte e finestre al pianterreno fossero sprangate, quindi trovò un recente numero della rivista "Time" e salì per coricarsi. Ormai era quasi mezzanotte e il telefono non aveva squillato, da quando aveva telefonato Eve. John se ne rammaricava. Sarebbe stato terribile per Gail dover ascoltare di nuovo, ma lui ci teneva a sentire la voce, quasi sicuro che avrebbe potuto riconoscerla. Si chiedeva perché non ci fosse stata un'altra telefonata, ritenendo che, chiunque volesse angosciare Gail, avrebbe dovuto continuare a farlo. Se qualcuno voleva terrorizzarla, e ridurla uno straccio, perché aveva desistito così in fretta? Giaceva nel letto, cercando di concentrarsi sulle notizie estere di "Time", ma non ci riusciva. Era dubbioso circa la competenza dell'ispettore Garrison e si chiedeva se avrebbe mai scoperto chi era l'assassino di Gilly. Pensava che se il poliziotto avesse prestato fede al racconto di Gail, avrebbe messo sotto controllo l'apparecchio, o per lo meno avrebbe provveduto per fare in modo che si rintracciasse la telefonata, se ce ne fosse stata una seconda. Continuava a leggere ostinatamente, sforzandosi di fare attenzione alle parole stampate, ma erano ormai le due passate quando spense finalmente la luce e si addormentò. 14 John fu svegliato all'improvviso da una deflagrazione, seguita a ruota da una seconda che sembrò ancora più rumorosa. Raggelato, fece il gesto di balzare dal letto, ma poi s'immobilizzò rendendosi conto che le deflagrazioni erano spari e che il bersaglio era lui. Giacque immobile, rigido per l'orrore, in attesa di un altro sparo. Il letto era posto a un'estremità della stanza, in diagonale rispetto alla porta, e quando guardò in quella direzione vide che l'uscio era aperto. Più oltre, nel corridoio, gli parve di scorgere
qualcosa che si muoveva, un'ombra. Osava a malapena respirare e intanto il suo sguardo spaziava nella stanza illuminata dalla luna, tornando poi sulla porta aperta. Adesso non c'era nessun movimento e, sulle prime, nessun rumore, soltanto il silenzio, assoluto e sinistro. Poi udì un rumore. Non capiva che cosa fosse a provocarlo, però era sufficiente per dirgli che c'era ancora qualcuno nel corridoio. Il primo impulso fu quello di accendere la luce e di agire senza indugio, ma capì subito che sarebbe equivalso a un suicidio. Riuscì a dominarsi, quindi si lasciò scivolare giù dal letto e attraversò la camera in punta di piedi, muovendosi cauto come un gatto che si avvicini furtivo a un topo. Si diceva irritato che probabilmente era già troppo tardi, ma proprio in quell'attimo udì un altro rumore e sbirciò oltre la porta, col cuore che gli batteva nel petto come un martello pneumatico. Dapprima non vide nulla, se non i raggi della luna che entravano a fiotti dalla finestra nel corridoio, poi scorse qualcosa sul pavimento, a pochi metri da lui, in un punto ove il corridoio principale si univa a quello più corto che portava all'altra camera per ospiti e alla stanza della cameriera, dividendole da quella di Timmy. Si addentrò centimetro per centimetro nel corridoio, tenendo gli occhi fissi sulla forma scura sul pavimento. Sembrava un sacco di biancheria, ma poi si mosse e John prese a sudare freddo, rendendosi conto che era un essere umano. Allungò una mano verso l'interruttore della luce, sulla parete accanto alla porta della sua camera, lo girò, quindi indietreggiò barcollando inorridito. Gail era acquattata sul pavimento e lo fissava, sbattendo le palpebre per la luce improvvisa: davanti a lei c'era una rivoltella. Spostò lo sguardo vacuo da John all'arma, come se non capisse come mai era lì, quindi si alzò lentamente e rimase ritta davanti al marito, coi capelli arruffati sciolti sulle spalle e il pallore cereo del viso accentuato dal pigiama nero. Spostando gli occhi da lei alla porta della camera di Timmy, John rilevò, con sollievo, che era ancora chiusa e ringraziò Dio che il rumore degli spari non avesse svegliato il bambino. Rivolto a Gail, le disse con occhi gelidi come l'acciaio: «Hai mancato di nuovo il bersaglio.» Al tempo stesso si accostò rapido all'arma. «C'è qualcuno in casa» disse Gail con voce strozzata. «Qualcuno che mi ha buttato per terra.» John allungò una mano per afferrare la rivoltella, dalla parte della canna. Poi disse, con voce afona: «È una Smith & Wesson calibro 38. Deve esse-
re quella che ha ucciso Gilly. Dove la tenevi nascosta?» «Santo cielo, non mi hai sentito?» urlò Gail, che sembrava terrorizzata. «Non stare lì, fai qualcosa.» «Oh, smettila!» Con gli occhi che si spostavano agitati da John all'arma, Gail dichiarò: «Non l'avevo mai vista prima d'ora.» «E allora, come diavolo è finita qui?» «Non lo so. Qualcosa mi ha svegliato. Ho pensato che fosse Timmy, che aveva un altro accesso di tosse, e stavo curva, tendendo le orecchie, quando ho udito gli spari.» Gail parlava concitata, con voce stridula, come se fosse sull'orlo di una crisi di nervi. «Dopo, che cosa è successo?» domandò John freddamente. «Qualcuno si è precipitato contro di me, urtandomi nello stomaco, tanto che sono caduta. Ero senza fiato e stavo cercando di alzarmi quando tu hai acceso la luce.» Gail fece per accostarsi a John, e la sua espressione era all'improvviso irosa e amara. «Sciocco» esclamò. «Lasci scappare l'assassino, per stare lì a discutere.» «E da che parte è andato, il fantasma?» «Non lo so.» «L'immaginavo.» John portò la rivoltella nella propria camera, continuando a tenerla per la canna, quindi aprì la valigetta per prendere un fazzoletto pulito, nel quale avvolse l'arma. La chiuse a chiave nella valigetta, s'infilò vestaglia e pantofole e si mise in tasca la chiave. Diede un'occhiata all'orologio: erano le 3.35. Gail lo aveva seguito e ora l'osservava, mentre lui si guardava attorno. Sulla parete accanto all'angolo, subito oltre il letto, c'era un foro provocato da un proiettile, un altro nella testata, poco al di sopra del cuscino su cui poco prima poggiava la testa di John. A giudicare dalla loro angolazione, entrambi i proiettili erano stati sparati da qualcuno in piedi sulla soglia. Sentendosi tirare per una manica, John si voltò e vide che Gail era lì accanto, con gli occhi sbarrati e impauriti. «C'è qualcuno, è vero!» disse. «Forse è ancora in casa.» La sua paura sembrava genuina, ma John esitò prima di fare una figura da sciocco, fidandosi di nuovo di lei. D'altro canto, se ci fosse stato veramente qualcuno e se fosse ancora in casa?
«Va bene» finì per dire. «Andrò giù a controllare le serrature. Tu resta qui, per il caso che Timmy si svegli.» «Ormai non si sveglierà, la sua medicina contiene un sedativo.» John la lasciò, per scendere frettolosamente le scale, quindi ispezionò ogni stanza al pianterreno. C'erano tre porte esterne, quella principale, quella sul retro, che portava in terrazza, e quella della cucina. Erano tutte chiuse e sprangate. Anche le finestre erano sprangate e nulla indicava che qualcuno fosse entrato con effrazione. Tutto era esattamente come John l'aveva lasciato, alcune ore prima. Quando ebbe concluso l'ispezione, Gail stava scendendo le scale. Si era infilata una vestaglia pesante, si era pettinata, ma sembrava ancora impaurita e infreddolita. «Hai trovato niente?» domandò. «Credevi veramente che avrei trovato qualcosa?» chiese John. «Sì» rispose lei a testa alta. «Qualcuno si è introdotto qui.» «Il fantasma» fece John. «Sarà come per la telefonata, cioè non sai se fosse un uomo o una donna.» «No, però portava i calzoni» ribatté Gail, che prese a guardarsi attorno, fissando quindi la porta principale. «Qualcuno potrebbe essersi arrampicato sul tetto del porticato, entrando poi dalla finestra del corridoio al piano superiore» osservò. «E va bene, andiamo su a vedere» disse John. Salirono, esaminarono la finestra, ma era sprangata come tutte le altre a quel piano, eccettuato quella nella camera di John, che aveva socchiuso lui, e quella nella stanza della cameriera, chiusa, ma non sprangata. John l'apri, per guardare in basso, ma vide soltanto il muro a picco. Richiusa la finestra, disse a Gail: «Be', sei convinta adesso, oppure pretendi di farmi credere che il fantasma è passato attraverso il muro?» «Parla piano, sveglierai Timmy» disse Gail. «Allora andiamo giù, per telefonare a Garrison. Forse lui riuscirà a spiegare l'accaduto.» Andarono nel soggiorno, ove il fuoco ardeva ancora accogliente, simile a uno scenario di teatro. «Prima di telefonare a Garrison» disse John «ti voglio chiedere una cosa. Perché?» Gail si lasciò cadere sul divano, guardandolo con occhi smarriti. «Ti giuro che non ho cercato di fare del male né a te né a nessun altro» disse. «Devi credermi.»
«E come posso crederti, Dio santo?» «Pensi che sia pazza al punto da cercare di ucciderti, mentre la polizia sa che siamo qui soli, col bambino?» «Se ci fossi riuscita, avresti poi potuto fingere che fosse entrato qualcuno con effrazione.» «Sciocco!» «Ne ho abbastanza» dichiarò John. «Telefonerò a Garrison e lo farò subito.» Si era già avviato verso l'ingresso, ma udendo che Gail lo chiamava, si girò, esclamando: «E adesso, che c'è?» Lei si alzò per avvicinarsi, ed era fragile, abbattuta, ansiosa. Quando gli fu vicina gli posò le mani sui risvolti della vestaglia, alzando gli occhi per guardarlo. «Se non mi credi» disse «pensa a Timmy. L'ispettore non può nascondere un fatto simile alla stampa. Se anche lui non mi crederà, dovrà arrestarmi.» John esitò e Gail se ne accorse subito. «Preparerò del caffè» disse «e ne riparleremo. Dopo, se vorrai avvertire ugualmente la polizia, non cercherò d'impedirtelo.» «Sta bene» accettò John, in tono stanco e abbattuto. Quando Gail fu uscita, si avvicinò al camino e mise un altro ceppo sul fuoco, restando poi a fissare le fiamme. Aveva l'impressione che tutto gli fosse crollato addosso. Nel primo scoppio d'ira aveva dimenticato il figliolo e il danno che ne sarebbe derivato da un altro scandalo. Eppure non poteva permettere che un assassino si nascondesse dietro un bambino, soltanto perché era figlio suo. «Al diavolo!» esclamò a voce alta, dando un pugno alla mensola del camino. Gail tornò qualche minuto dopo, reggendo un vassoio che posò su un basso tavolino. Tacquero entrambi, finché lei ebbe versato il caffè, quindi John prese la tazzina e andò a sedersi su una poltrona. Non riusciva a guardare la moglie, per cui fissava il fuoco. «Mi giudicherai forse pazza, però devo dirti una cosa» fece Gail. «Di' pure.» «Di chiunque si tratti, deve essere qualcuno che ha deciso di rovinarci. Non vuole soltanto uccidere te, tutto il piano è stato studiato in modo che se sarai assassinato, sarò accusata io.» Stupefatto, John chiese: «Che cosa te lo fa pensare?»
Gail mescolò pensosa il caffè. «So che non mi credi» disse «ma c'è veramente stato qualcuno qui in casa, stasera, qualcuno che mi ha gettato a terra e poi ha buttato l'arma accanto a me, per farti pensare proprio quello che pensi.» Tacque per un momento, quindi riprese: «Non capisci che stasera ti ho probabilmente salvato la vita perché ero sveglia e sono corsa fuori nel corridoio, in tempo per cogliere di sorpresa quel pazzo?» «Ammesso che ci fosse veramente qualcuno» obiettò John. «Per amor del cielo» esclamò Gail, sbattendo la tazzina sul tavolino. «Ragiona! Se credi che abbia tentato di ucciderti stasera, allora devi credere che abbia provato anche sabato sera e come diavolo pensi che mi sia procurata quell'arma? Quella sera non prevedevo di vederti e tu lo sai. L'unica rivoltella che io abbia mai posseduto è la Colt 22 che tu avevi insistito per darmi.» Lo stesso ragionamento che lui aveva fatto con l'ispettore Garrison, ricordò John, però prima di averla scampata bella quella sera. Non era ancora convinto, eppure il dubbio era sufficiente perché ascoltasse Gail. Forse era troppo desideroso di crederle perché era in ballo il futuro di Timmy, oltre a quello di lei. Continuarono a discutere e non si accorsero che era spuntata l'alba, non videro i deboli raggi del sole. Alla conclusione, John si meravigliò nel notare che era pieno giorno. «Fra poco arriverà la signora Henderson» disse. «Dobbiamo fare qualcosa, così non si conclude niente. Possiamo soltanto telefonare a Garrison, dirgli la verità e fidarci del suo giudizio.» «No!» gridò Gail. «È proprio ciò che vuole quella persona.» «Mi dispiace» insistette John «ma devo farlo. Se hai ragione, dicendo che qualcuno vuole rovinarci, tanto più dobbiamo informare la polizia. Siamo completamente indifesi. Di chiunque si tratti, ha commesso un assassinio facendola franca e mi rifiuto di continuare a stare qui, come un bersaglio immobile, in attesa che mi facciano saltare le cervella.» Esausta, Gail si appoggiò allo schienale. «In fondo hai ragione» disse. «Non ci avevo pensato. Dio,che incubo!» John si accostò al telefono, dilaniato da dubbi e da sospetti, però deciso ad arrivare alla verità a qualunque costo e a danno di chiunque. Entro pochi secondi fu in linea Garrison. «Un'altra telefonata?» domandò. «Qualcuno ha cercato di nuovo di uccidermi» disse John. «Cosa?» L'ispettore sembrava sbigottito. «Quando?» aggiunse. «Stanotte, verso le tre e mezzo.» «Accidenti!» urlò Garrison. «Maledetto idiota, perché avete aspettato
quasi cinque ore per telefonare?» «Ve lo spiegherò a voce.» John interruppe subito la comunicazione e sali in camera per vestirsi, sorpreso per la collera del poliziotto. Era la prima volta che lo sentiva imprecare, o perdere del tutto la tramontana, e mentre si radeva cominciò a chiedersi se l'ispettore lo avesse costretto a restare lì per far cadere in trappola Gail; in tal caso, però, perché era sembrato tanto stupito venendo a conoscenza dell'attentato? Non aveva senso, nulla aveva senso. Finì di radersi e si scrutò nello specchio, chiedendosi com'era possibile che lo si fosse giudicato un uomo piacente. Dimostrava quarant'anni abbondanti, anziché trenta, e un ciuffo di capelli continuava a spiovergli sulla fronte, proprio come a Timmy. Aveva bisogno di tagliarsi i capelli ed era pallido quanto Gail. Si sarebbe detto che fosse sbronzo da una settimana. Si scostò dallo specchio, domandandosi se quell'atroce vicenda sarebbe mai finita, quindi si vestì rapidamente, prese la valigetta che conteneva tuttora l'arma, poi uscì nel corridoio, ove vide, con stupore, il dottor Knight, il loro medico e vicino, che si avviava verso le scale reggendo Timmy fra le braccia. Fece per raggiungerlo, ma proprio allora Gail uscì dalla stanza di Timmy e lo fermò. «Ho telefonato a Don» disse «e gli ho chiesto di venire a prendere Timmy. Lo porta all'ospedale; ci starà finché non sarà tutto finito. Non gli ho raccontato niente, ho soltanto detto che abbiamo dei guai.» «E la signora Henderson?» «È arrivata, pochi minuti fa. Non ho spiegato niente neanche a lei, ho soltanto detto che il medico vuole così.» «Brava» disse John. «Anch'io mi preoccupavo per Timmy, ma non sapevo che cosa fare.» John notò allora che Gail si era vestita. Indossava pullover e sottana giallo chiaro, con scarpe intonate. Si era truccata con cura e i capelli pettinati all'indietro le scendevano soffici sulle spalle. Date le circostanze, la sua bellezza era sorprendente e il suo profumo, gaio e lieve, aumentava quell'aspetto primaverile. Si sarebbe detto che fosse decisa a vincere l'atmosfera tragica. Pochi minuti più tardi, arrivò Garrison, tuttora infuriato. Entrò a lunghi passi nell'ingresso, seguito dal sergente Clark che non sembrava più cordiale, come era stato al telefono, a giudicare dalla sua voce. Sembrava più grosso e più severo di quanto fosse apparso nella casetta di Eve Wendell. L'ispettore gli ordinò di restare nell'ingresso, quindi entrò frettolosamente
nel soggiorno, ove Gail aspettava. Buttò con gesto violento cappotto e cappello su una sedia, dando poi subito inizio a uno sproloquio, mentre gli altri due aspettavano pazienti che si calmasse. «Che cosa è successo, esattamente?» fini per chiedere, ritte davanti al camino, osservandoli con sguardo gelido. John glielo spiegò e, mentre parlava, lo sguardo penetrante del poliziotto si spostava di continuo da lui a Gail. A John parve che Garrison fosse teso e stanco, in brusco contrasto con la calma competenza dimostrata in casa di Anne, la domenica. Sembrava iroso e incerto, in lotta con se stesso per dominarsi. «Mi pare di capire che non abbiate creduto a vostra moglie, quando ha detto che qualcuno l'ha buttata a terra» osservò aggrondato, accendendo una sigaretta. «Secondo voi, che cosa faceva li?» «Ho creduto che fosse stata lei a sparare e che l'arma le fosse caduta di mano, mentre correva per tornare in camera sua, per paura che Timmy si svegliasse e la vedesse. Secondo me, credeva di avermi ucciso ed era carponi nel tentativo di trovare la rivoltella, per poterla nascondere di nuovo.» Parlando, John non guardava Gail. «Per questo il pazzo è riuscito a scappare» fece lei. «John non ha voluto ascoltarmi, è talmente ostinato.» «Dov'è l'arma?» interruppe Garrison. Quando John estrasse la rivoltella dalla valigetta, l'ispettore la prese, afferrandola per la canna come aveva fatto lui, e la portò al sergente Clark. All'esterno si udì il rombo di un altro motore e Gail si girò sul divano per guardare verso la finestra, sulla facciata della casa. John seguì il suo sguardo e vide un'automobile della polizia che si stava fermando bruscamente sulla ghiaia. Scesero due poliziotti, quindi apparve l'ispettore che conferì rapidamente con loro. Uno dei due poliziotti risalì in macchina, mentre l'altro si avviava verso la casa, reggendo una borsa. Poco dopo, arrivò una seconda automobile, dalla quale scesero altri poliziotti. «Dio, si direbbe che sia stato veramente assassinato» fece John. Rimasero lì seduti per un tempo che a loro sembrò un'eternità, in attesa che succedesse qualcosa, ma non accadde niente. Udivano voci nell'ingresso, i poliziotti andavano e venivano, ma nessuno entrò nel soggiorno. Gail finì per chiedere: «Credi che Garrison s'infurierebbe, se preparassi del caffè?» «Puoi provare» disse John. Lei incrociò l'ispettore mentre usciva, ma Garrison non cercò di fermar-
la. «Che cosa fa tutta quella gente?» domandò John. «Perquisisce la casa, perlustra i terreni ed esamina l'arma.» L'ispettore si passò una mano sui capelli dal colore smorto, aggrottando la fronte. «Scommetto» disse «che la rivoltella è la stessa che ha ucciso Paul Gilmore e sono altrettanto sicuro che non ci saranno impronte. Comunque, fra poco lo sapremo.» A John sembrava nervosissimo. L'ispettore si sedeva, poi si alzava e si metteva a camminare in su e in giù. «Credete che sia stata mia moglie a sparare, ieri sera?» gli chiese. «Ciò che credo io non ha importanza» ribatté Garrison con amarezza. «Non posso accusare nessuno, né fare dichiarazioni, finché non disporrò delle prove. Dobbiamo aspettare.» «Che cosa?» «Ho chiesto a tutte le persone coinvolte di venire qui, per ulteriori interrogatori.» John si appoggiò allo schienale e accese una sigaretta, sforzandosi per nascondere la delusione. Non si era aspettato miracoli, ma aveva sperato che l'ispettore avesse fatto qualche passo avanti. Pareva invece che fosse al punto di prima. Che cosa diavolo avrebbero fatto, se Garrison non sapeva che pesci prendere? E se il caso fosse rimasto insoluto? Lui, quanto avrebbe potuto ancora tirare avanti, sapendo che qualcuno, che si celava sotto spoglie amiche, cercava di ucciderlo? Garrison smise di camminare in su e in giù e lo guardò. «Non sarà piacevole per nessuno di voi» osservò. «Dovete essere preparati.» John capì d'un tratto che l'ispettore era stanco morto, oltre ad essere incerto e nervoso. Pensò quindi, sentendosi colpevole, che quel poveraccio non era probabilmente neanche andato a letto, in attesa di sapere se c'era stata un'altra disgustosa telefonata. «Volete un goccio di cognac?» gli chiese. «Gail sta preparando il caffè.» «Si, grazie, volentieri. È stata una brutta notte.» «E come...» John si accostò al bar portatile, mentre Garrison si lasciava cadere su una poltrona sfregandosi la fronte con le dita. Quando John gli tese il bicchiere, ingollò d'un fiato l'abbondante dose di cognac e restituì il bicchiere. «Un altro?» propose John. «No, grazie, l'ho bevuto a semplice scopo terapeutico.» Poco dopo apparve Gail, con un grande vassoio. Versò il caffè, come se
stesse servendo il tè a una manifestazione benefica, ma John capiva che sotto quell'aspetto calmo era tesa e si stupì per l'arte con cui recitava la commedia. Con quell'insieme gaio e primaverile, e il suo modo di fare riservato, sembrava estranea alla cupa atmosfera che li circondava e John pensava che se si era spremuta perché l'ispettore fosse colpito dalla sua bellezza, ci era riuscita. Per quanto teso e preoccupato fosse, Garrison continuava a riportare lo sguardo su di lei, mentre beveva il caffè. D'un tratto la porta si spalancò e fece capolino il sergente Clark. «Potrei parlarvi un momento, ispettore?» chiese. Garrison depose la tazzina, per affrettarsi poi fuori della stanza. In sua assenza, John disse a Gail che Eve Wendell, Nancy, Bill e Anne stavano per arrivare. «Così conoscerò la famosa Nancy» fece lei in tono asciutto. John arrossì, distogliendo lo sguardo. Nulla gli seccava più che mettere il passato al confronto del presente. Non gli era mai balenata l'idea che le due donne potessero incontrarsi e ora aspettava il momento con ansia. Garrison tornò in tempo per evitargli di fare commenti. «È la stessa arma che ha ucciso Gilmore e sparato a voi» annunciò. «Perdiana, avevo ragione anche per le impronte, neanche l'ombra.» L'ispettore sedette e accettò un'altra tazza di caffè, ma prima che potesse bere fu di nuovo chiamato fuori della stanza. «Quel poveraccio è distrutto» disse Gail. «Secondo te, credeva di avere risolto tutto e poi è successo qualche intoppo?» John annui. «Ho l'impressione» disse «che lui sappia chi è l'assassino di Gilly ed è fuori di sé perché teme di non poterlo dimostrare.» «O forse credeva di saperlo e ha scoperto che sbagliava» fece Gail distrattamente, comportandosi ancora come se tutta la vicenda non la riguardasse. John si chiedeva che cosa pensasse e sentisse veramente. Udirono di nuovo lo scricchiolio della ghiaia e guardando fuori videro Eve Wendell scendere dalla sua automobile da città. Al volante sedeva l'autista, che subito dopo si avviò verso il parcheggio. «Sembra una macabra festa» osservò Gail. «Eve ha l'aria furente.» Passò un poco di tempo, prima che Eve entrasse nel soggiorno. Aveva evidentemente affidato a qualcuno nell'ingresso la pelliccia, perché indossava un completo grigio e reggeva in mano una grande borsa. «Sapete di che si tratta?» domandò con fare iroso. «Dormivo come un ghiro, quando è apparso un maledetto poliziotto; ha detto al mio maggiordomo che dovevo venire qui alle dieci in punto. Alle dodici e mezzo devo
essere dal parrucchiere, a New York.» «Garrison ha convocato tutte le persone coinvolte nella vicenda» spiegò John. «Vuole interrogarci di nuovo.» Guardando l'orologio ingemmato, con la fronte aggrottata, Eve fece: «Be', sono già le dieci. Gli altri dove sono?» «Nancy non ha un'automobile, per cui suppongo che Anne e Bill siano andati a prenderla. Potranno tardare.» 15 Tardarono. Passò un'altra mezz'ora, prima che la convertibile nocciola di Anne imboccasse il viale. Aprì lo sportello un poliziotto e, dopo essere scese, Anne e Nancy aspettarono che Bill avesse portato l'automobile nella zona del parcheggio. Entrarono quindi tutti insieme e appena Anne, che precedeva gli altri, ebbe scorto John, gli corse incontro. «Caro, che succede?» domandò. «Stai bene? Che significa?» aggiunse senza fiato, dandogli un bacio su una guancia. Entrato alle loro spalle, Garrison spiegò: «Semplice routine, signora Lansing. Devo rivolgervi qualche altra domanda.» Anne vestiva di nuovo in nero, il colore che le donava meno, e appariva pallida e impaurita. Dopo avere salutato il fratello si guardò attorno, fece un cenno rigido e formale a Eve e a Gail, quindi sedette e accese una sigaretta con gesto impaziente. Nancy, che era entrata dietro ad Anne, rimase accanto alla porta, con aria timida e incerta. Come Gail, si era vestita con cura ed era proprio bella, con quell'abito rosso fiamma e gli accessori dorati. John le andò incontro e lei gli afferrò una mano, stringendogliela forte, mentre veniva presentata a Eve e a Gail. Eve si limitò a darle un'occhiata rapida, ma Gail fece sfoggio di eccessiva cortesia, in cui affiorava la malignità. «Mi fa tanto piacere conoscervi, signorina Waring» disse, col suo più bel sorriso mondano. «John mi ha tanto parlato di voi.» «Signora Waring» corresse Nancy. «Anch'io ho sentito parlare molto di voi» aggiunse. Poi entrò Bill Lansing, che sembrava stanco. L'espressione nei suoi occhi scuri era seccata, mentre si avvicinava all'ispettore per chiedere: «Che senso ha, trascinarci tutti qui?» «Vedrete» rispose Garrison. Rivolto al sergente, che stava accanto alla porta, aggiunse: «Di' alla signora Henderson di venire qui, Bob, per piace-
re.» Quando il sergente fu sparito, disse agli altri: «Ora, se volete sedere, procederemo.» Sedettero tutti, osservandolo sospettosi, e Gail prese posto sul suo divano preferito, con Eve accanto, mentre Bill e Anne sedevano sull'altro divano e Nancy su una poltrona ad angolo retto con quella di John, il più vicino possibile a lui. Pochi minuti dopo entrò la governante e Garrison le offrì una sedia, dopo di che andò davanti al camino, un punto dal quale poteva vedere tutti i presenti. Sempre più in ansia, John notò che era tornato il sergente, che aveva preso posto su una sedia dallo schienale rigido, accanto a un tavolo vicino alla porta. Stava estraendo il taccuino. Garrison spostò gli occhi dall'uno all'altro, come un maestro di scuola che controlli le presenze degli scolari. Tossicchiò quindi nervosamente e cominciò a parlare. Per prima cosa domandò se qualcuno dei presenti aveva parlato ad altri dell'attentato compiuto contro John il sabato sera. Negarono tutti con energia. «Perché è tanto importante?» domandò Eve. «Prima o poi, salterà fuori comunque.» «Perché la signora Townsend dice che domenica pomeriggio, verso le cinque e quaranta, ha ricevuto una telefonata ingiuriosa e chiunque sia stato a farla era al corrente dell'attentato contro suo marito.» Si girarono tutti per fissare Gail, che sedeva fresca come una giunchiglia, giocherellando col filo di perle. L'ispettore chiese quindi a ognuno dove si trovava alle 17.40 di domenica e le risposte coincisero con quanto John gli aveva detto. Anne disse che non era uscita di casa, dopo che Bill era andato via. «Santo cielo, ispettore» esclamò Bill «ci avete trascinati tutti qui, perché Gail dice di avere avuto la telefonata di un pazzoide?» «No, signor Lansing.» Lo sguardo di Garrison spaziò per la stanza, quindi si fece teso. «Vi ho fatti venire qui» riprese «perché stanotte alle tre e mezzo c'è stato un altro attentato alla vita del signor Townsend. Qualcuno gli ha sparato due colpi di rivoltella.» Con un urlo Anne fece il gesto di alzarsi, ma Bill l'afferrò e glielo impedì. Nancy guardò John, con le lacrime che le affioravano agli occhi. «Dio mio, amore» mormorò. La signora Henderson impallidì, al punto che le sue efelidi spiccavano come i puntolini su una mussola svizzera. Spostò gli occhi su Gail, con espressione gelida e accusatrice. Stava per dire qualcosa, ma poi tenne la
bocca chiusa. Per una volta, Eve era senza parole. Approfittando del fatto che il suo pubblico era stato colto di sorpresa, e si trovava in stato di choc, Garrison estrasse di tasca, con gesto drammatico, la Smith & Wesson calibro 38. «Qualcuno di voi ha già visto quest'arma?» chiese. La sollevò, perché tutti potessero vederla, e mentre i presenti la guardavano, lui spostava gli occhi dall'uno all'altro. Nessuno, eccettuati Gail e John, aveva mai visto l'arma prima di allora. «È la rivoltella con cui si è sparato a John Townsend e con cui si è ucciso Gilmore» dichiarò l'ispettore, posando l'arma sulla mensola del camino, alle proprie spalle. «Ora vorrei sapere dov'era ognuno di voi, stamattina alle tre e mezzo.» Rivolto a Bill domandò: «Voi, signor Lansing, dove eravate?» «Volete dire stanotte? A letto, s'intende. Come mia moglie.» «Condividete lo stesso letto?» chiese Garrison. Col volto stanco, soffuso di rossore, Bill s'indaffarò a ripulirsi la giacca dalla cenere che vi era caduta sopra, quindi rispose: «No, da alcune notti dormo in una delle stanze per gli ospiti. Mia moglie ultimamente non ha dormito bene e temevo di disturbarla.» «Siete uscito di casa, ieri sera?» «Per carità, no!» Spostando bruscamente l'attenzione su Anne, il poliziotto domandò: «E voi?» «No, no, certo» rispose lei, scuotendo la testa. Dopo aver dato un'occhiata al viso pallido e teso della moglie, Bill disse al poliziotto: «Prima di rispondere ad altre domande, ritengo che dobbiate dirci esattamente che cosa è accaduto ieri sera.» Garrison fornì un resoconto succinto e preciso e, quando ebbe finito, Bill guardò la governante, aggrottando la fronte. «La signora Henderson dovrebbe avere le chiavi di casa» osservò. «Le porte erano sprangate» disse John. «Ho controllato io stesso, stanotte.» Rivolto a Nancy, l'ispettore chiese: «Signora Waring, stanotte siete uscita di casa?» Lei scosse la testa. «No, dopo il lavoro sono rincasata e non sono più uscita, finché Anne e Bill sono venuti a prendermi stamattina.» «E voi, signora Wendell?» «Ero a casa, a letto, naturalmente, ma non trovo che siano fatti vostri.»
Eve sembrava proprio una vecchia bambina viziata. «Anzi, mi risento per le vostre domande e per essere stata costretta a venire qui. Non ne vedo il senso.» «Il senso» ribatté Garrison con calma «si trova nel fatto che la persona che ha sparato a Townsend sabato scorso, e più tardi nella stessa sera ha assassinato Paul Gilmore, è la stessa che era qui in casa stanotte e che ha sparato altri due colpi a Townsend. E quella persona in questo momento è qui nella stanza.» Seguì un silenzio di tomba, poi John pose la domanda che aveva voluto formulare per tutta la mattina. «Sapete di chi si tratta?» Con espressione cupa e sguardo che si era fatto duro, Garrison rispose: «Ne ho un'idea abbastanza precisa.» John ebbe però l'impressione che ci fosse ancora qualcosa che non andava. Le parole dell'ispettore avevano l'evidente mira di suonare minacciose per il colpevole e rassicuranti per gli innocenti, ma non ottennero lo scopo. Nel modo di fare del poliziotto affiorava ancora quell'esasperante incertezza. Bluffava, forse? Possibile che in un momento simile giocasse d'azzardo? John decise di accettare il bluff. «Se lo sapete veramente» disse «perché non l'arrestate e non la facciamo finita?» «Ho intenzione di farlo» disse Garrison, con voce stanca e paziente «ma, se non vi dispiace, lo farò a modo mio.» Tergiversa, si disse John. L'ispettore aspettava qualcosa, ma che cosa? Sperava forse di creare una tensione sufficiente perché la sua vittima crollasse? In tal caso, o era del tutto incompetente, o semplicemente scemo. Tergiversando, otteneva al massimo che tutti i presenti fossero sempre più in preda alla tensione. «Avete intenzione di farci restare qui per tutta la giornata, o ci direte chi è il colpevole?» insistette John, fissandolo con sguardo freddo. Dopo aver esitato, l'ispettore parve prendere una decisione. «Va bene» disse «se proprio insistete ve lo dirò. Voi.» John, che stava accendendo una sigaretta, per un attimo non si rese conto che il penetrante sguardo azzurro del poliziotto era fisso su di lui. «Io?» esclamò sbigottito. «Sì, voi. Se aveste concesso il divorzio a vostra moglie, quando lei ve lo chiedeva con insistenza, o se non aveste preso sul serio vostro figlio, quando ha ripetuto una frase che aveva udito dire dalla madre alla signora
Wendell, tutto questo non sarebbe successo.» John fissò l'ispettore col viso arrossato per la collera. «Dove diavolo volete arrivare?» esclamò. «Sulle prime non ho preso sul serio la battuta di Gail, ero soltanto preoccupato per l'effetto che aveva avuto su Timmy.» «L'avete però ripetuta in seguito, arrivando a casa di vostra sorella, quel giorno, e alla conclusione la sapevano tutti e gli altri hanno cominciato a prendere la cosa sul serio. Si sono piano piano messi in testa che la vostra vita fosse forse in pericolo, o hanno finto di crederlo, e intanto voi facevate proprio il gioco del vostro potenziale assassino. Preparavate la scena.» «La scena durante la quale sarei stato ucciso!» ribatté John. «Perdinci, pensate che sia stato io a combinare tutto?» Garrison annui, fissandolo con aria pensosa. «Non di proposito, s'intende» disse. «Dovete essere pazzo» dichiarò John, sempre più incollerito. «Credete veramente che abbia organizzato il mio assassinio?» «Nessuno ha cercato di uccidervi» interruppe Garrison con calma. «La persona che aveva ordito il piano tira molto bene e ha fatto in modo che non vi venisse torto neanche un capello.» «Ma perché?» «La vera vittima era vostra moglie, non voi.» John si girò verso Gail. Era ancora bella e calma, e dal suo viso, leggermente tirato, non trapelava nulla. Anche se era allarmata o sorpresa non lo dava a vedere, celata dietro la maschera. Si astraeva dal pasticcio, fungendo soltanto da spettatrice. Eve Wendell, invece, era protesa, con sguardo attento e curioso. «Non capisco bene, ispettore» fece. «La persona di cui parlate non ha esitato ad assassinare il povero Gilly. Se qualcuno voleva liberarsi di Gail, perché non è stata uccisa anche lei?» «Perché sarebbe stato troppo ovvio. E perché rischiare, dal momento che c'era il modo per sfruttare gli esagerati timori del bambino per rovinare Gail Townsend, facendo apparire che stesse cercando di assassinare il marito?» «Ma perché il povero Gilly?» insistette Eve Wendell. Guardando John, Garrison rispose: «Perché Townsend non ha reagito come previsto, quando c'è stato l'attentato, sabato sera. Non si è precipitato alla polizia per accusare la moglie di avere tentato di ucciderlo. Ha invece fatto promettere alla signora Henderson di non parlarne con nessuno, poi ha messo le carte in tavola con la signora. L'assassino non se l'era aspettato
e neppure che Townsend, ammesso che avesse creduto che la moglie volesse ucciderlo, non l'avrebbe accusata apertamente, a causa del suo violento desiderio di proteggere il figlio.» «Sapete realmente che cosa è accaduto, oppure tirate a indovinare?» chiese Bill, aggrottando la fronte. «Sono sicuro che quando questa persona ha scoperto che Townsend avrebbe a tutti i costi tenuto nascosto l'attentato, il piano ha subito mutamenti. Tutti voi eravate al corrente dell'intesa fra Gilmore e Babs Carlyle e sapevate che se la voce, secondo la quale lui stava per sposarsi, fosse risultata vera, la signora Townsend aveva il miglior movente del mondo per ucciderlo. Gelosia, la gelosia di una donna abbandonata, una donna che non sarebbe rimasta con le mani in mano, permettendo al suo amante di andarsene.» Esterrefatto, John esclamò: «Dio mio, volete dire che qualcuno ha ucciso Gilly a sangue freddo, per coinvolgere Gail, soltanto perché io ho taciuto l'attentato?» Garrison annui. «È proprio questo che voglio dire» dichiarò. «La persona in questione aveva ideato il piano con cura, ma si trattava di un piano flessibile. Io ricostruisco i fatti così: quando la battuta di vostra moglie è stata gonfiata oltre misura, l'assassino ha cominciato a stendere il piano. Alla prima occasione, si sarebbe verificato l'attentato contro di voi.» Garrison tacque per guardare i volti gravi dei presenti, quindi riprese: «Ognuno di voi sapeva a che ora John Townsend sarebbe andato via da questa casa, sabato sera, e uno di voi ne ha approfittato, così come uno di voi ha avuto l'idea di uccidere Gilmore e ha poi fatto alla signora Townsend la telefonata ingiuriosa, quando ha visto che non veniva accusata del delitto.» Sentendo accennare alla telefonata, Gail mutò subito espressione. Si guardò attorno con fare nervoso, tesa come una corda di violino. «Già da tempo sapevo che qualcuno voleva liberarsi di me, senza uccidermi materialmente» disse. «Ma perché quell'atroce telefonata? A che scopo?» «Per terrorizzarvi, per tormentarvi, per farvi apparire una donna nevrotica. Era molto probabile che nessuno avrebbe creduto che aveste avuto una telefonata e sarebbe dunque sembrato che l'aveste inventata, per dimostrare la vostra innocenza. Un altro tentativo per farvi apparire colpevole e squilibrata.» «Ma chi poteva sapere che sarei stata sola e che avrei risposto al telefo-
no?» Garrison lanciò un'occhiata alla signora Henderson, che sedeva silenziosa, fissandosi le mani, quindi spostò di nuovo gli occhi su Gail. «La domenica» disse «quasi tutte le persone di servizio hanno il pomeriggio libero ed era dunque difficile che voi usciste, lasciando solo il bambino malato. C'erano cento probabilità contro una che rispondeste voi al telefono e, in caso contrario, la persona in questione avrebbe semplicemente interrotto la comunicazione.» Gail si guardò attorno, ormai sbriciolata la maschera d'indifferenza, mentre scrutava un volto dopo l'altro. Scossa da un fremito incrociò le braccia sul petto, come se avesse freddo, e riportò gli occhi sul poliziotto. «So che molte persone qui presenti non possono soffrirmi» disse «ma non riesco a credere che una di loro abbia potuto dire quelle cose atroci. Nessuna persona sana di mente potrebbe essere tanto malvagia.» «Giusto» fece Garrison «non abbiamo a che fare con una persona normale.» John si accorse che, suo malgrado, si guardava attorno a sua volta e fu scosso da un fremito, rendendosi conto che dietro uno di quei volti, che conosceva tanto bene, si celava un assassino, qualcuno capace di uccidere a sangue freddo. Guardò per prima Nancy, seduta poco discosto da lui. La vedeva di profilo e notò che fissava Anne con espressione ansiosa. Evidentemente sentì lo sguardo di John perché si girò verso di lui, per lanciargli un sorrisetto affettuoso. John ricambiò fugacemente il sorriso, quindi guardò Anne, ma lei non se ne accorse. Stringeva con forza la mano del marito, fissando l'ispettore come se fosse ipnotizzata. La sua espressione, in generale tanto animata, adesso era spenta, come quella di una donna che segua il funerale di una persona che aveva conosciuto poco. Tarchiato e solido, al suo fianco, Bill l'osservava con aria preoccupata, come se temesse che si sentisse male. Simile a un dirigente d'azienda a una riunione noiosa, Eve Wendell scrutava l'orologio impaziente. La signora Henderson continuava a fissarsi le mani, col viso, pallido e coperto di efelidi, teso come quello degli altri. Nei suoi occhi sbiaditi c'era però un'espressione distaccata, come se lei fosse incapace di affrontare la realtà della scena. «E ieri sera?» domandò Gail all'improvviso. «Era un altro capitolo della stessa storia?» «Secondo me» disse Garrison, con voce improvvisamente aspra «era l'ultimo, disperato tentativo per coinvolgervi. La telefonata non aveva avu-
to l'effetto previsto. Anziché credere che mentivate, e diventare più sospettoso ancora nei vostri confronti, Townsend vi ha creduto e ha reso noto che aveva deciso di restare qui con voi. È stata la scintilla. Quella persona deve avere deciso allora di buttarsi in un rischio disperato. Tutto il resto era fallito, ma se ci fosse stato un altro attentato alla vita di vostro marito, mentre in casa c'eravate soltanto voi e il bambino, allora lui sarebbe stato convinto che volevate veramente ucciderlo e non avrebbe più potuto nasconderlo.» John fissava l'ispettore e nella sua mente confusa si stava facendo strada la verità. «Avete combinato tutto voi, ieri sera?» domandò. «Avete insistito perché restassi nell'evenienza di un'altra telefonata, sapendo però che non ci sarebbe stata e sperando che ci fosse invece un altro attentato?» Proprio in quell'attimo un poliziotto aprì la porta, per dire che Garrison era desiderato al telefono. Appena l'ispettore fu uscito, Anne si protese verso John, esclamando: «Chi c'è su da Timmy? È terribile che quel povero bambino sia qui. Ti avevo detto che avresti dovuto mandarlo da noi.» Prima che John potesse aprire bocca, la voce di Gail tagliò l'aria come una spada. «Ammesso che siano fatti tuoi» disse «Timmy non è qui. Ho chiesto al nostro medico di portarlo all'ospedale, stamattina presto.» Gli occhi di Gail erano gelidi, mentre guardava la cognata. «Timmy sta bene» si affrettò a dire John. «Abbiamo soltanto dovuto allontanarlo da qui, finché non sarà tutto finito.» Anne si morse le labbra, guardando Bill, ma lui manifestava un profondo interesse per il tappeto. Garrison riapparve entro pochi minuti, con aria piuttosto tesa, però diversa. Non sembrava più incerto e tornò davanti al camino con passo deciso e l'espressione di chi sa finalmente che cosa sta facendo. John si disse che la telefonata doveva essere stata importante e attese la risposta alla domanda che aveva fatto, ma Garrison pareva essersene dimenticato. «Non mi avete risposto, ispettore» insistette allora. «Era una scusa, vero, quella di farmi restare qui per controllare le telefonate di Gail?» «Be', si» fece Garrison a malincuore. «Ero sicuro che non ci sarebbe stata un'altra telefonata, dato che tutti sapevano che eravate qui con vostra moglie.» Il poliziotto ebbe la buona grazia di apparire imbarazzato. «Mi dispiace di avere dovuto correre questo rischio, ma ero sicuro che non vi sarebbe successo niente» aggiunse. «Se era una trappola, perché non è scattata?» John era in collera. «Ieri
sera quella persona si è introdotta qui, in qualche modo, e voi dove eravate?» L'imbarazzo di Garrison svanì immediatamente. «Ero fuori, nella strada, seduto in un'automobile della polizia, e mi tenevo in continuo contatto col mio ufficio, in attesa della telefonata che voi avreste dovuto fare ieri notte alle tre e mezzo, e non stamattina alle otto e mezzo» disse. «Se aveste avuto l'intelligenza di telefonare subito, avremmo acciuffato l'assassino ieri sera, senza dovere affrontare tutto questo. Così avevo logicamente motivo per credere che la mia trappola non fosse scattata, fino a stamattina, quando vi siete finalmente deciso a telefonare. Ormai eravamo in ritardo di ore.» «In poche parole, mi sono fatto quasi staccare la testa per niente» fece John. «È così? Era un bluff, il vostro, quando avete detto di sapere chi è il colpevole. Non avete nessun indizio.» «Non ricorro mai al bluff» dichiarò Garrison. «E allora, perché diavolo non fate qualcosa?» All'improvviso, l'ispettore parve rilassarsi e la sua tensione si tramutò in gelida calma, mentre si rivolgeva a Nancy. «Trovate che dovrei fare qualcosa, signora Waring?» le chiese. Lei alzò la testa di scatto. «Che cosa significa, ispettore?» fece. «Significa che vi accuso di essere entrata qui con effrazione, stanotte, e di avere inscenato un altro attentato alla vita di John Townsend.» «Dovete essere pazzo» disse Nancy. «Ieri sera ero a casa mia. Mi sono coricata a mezzanotte e non mi sono più alzata, fino a stamattina alle sette.» Garrison le si avvicinò e i suoi occhi la trafiggevano. «Mentite» disse. «Mentite a spada tratta. I miei uomini hanno perlustrato il terreno e perquisito gli edifici di servizio, qui attorno. Vi siete introdotta nel casotto degli attrezzi, sul retro, avete preso una scala e siete quindi entrata dalla finestra nella stanza della cameriera, che era chiusa, ma non sprangata. Messo in atto il piano, siete uscita nella stessa maniera, richiudendovi dietro la finestra, come un ladro qualsiasi.» Fissandolo, con occhi che fiammeggiavano, Nancy ribatté: «Non parlate sul serio, ispettore. Anche se l'avessi voluto, non sarei potuta venire qui. Credete che ci sia arrivata volando, a cavalcioni di una scopa?» «Ci siete venuta come ci eravate venuta sabato sera, ma allora avete fatto due viaggi, uno per sparare a John Townsend, l'altro per uccidere Gilmore.
Tutte e due le volte siete semplicemente andata al garage di New York dove tenete la vostra automobile, poi siete venuta qui.» «Sono desolata di contraddirvi, ma non possiedo un'automobile» disse Nancy. «A New York non l'ho mai avuta, non posso permettermela.» Benché Garrison scrollasse le spalle, nei suoi occhi brillava un'espressione di trionfo, mentre diceva: «Allora, forse, ha commesso un errore Harry Feldman, gestore di un garage nella Quarantottesima Strada West, quando in una vostra fotografia ha riconosciuto la donna che gli ha detto di chiamarsi Barbara Nelson, proprietaria di una berlina Ford 1963 che è stata assente dal garage da ieri sera alle sette e mezzo fino a stamattina presto. Anche sabato sera, l'automobile è uscita per due volte dal garage.» Nancy rimase immobile per un momento, poi si alzò per fronteggiare il poliziotto, dicendo: «Non sono costretta a stare ad ascoltare discorsi simili. Non ho mai sentito nominare Harry Feldman, né il suo garage.» «Vedremo» fece Garrison, senza perdere la sua gelida calma. «Poco fa mi ha telefonato uno dei miei uomini. Sta conducendo qui Feldman, arriveranno fra poco.» Nancy si tuffò verso di lui, cercando di dargli una spinta, poi si girò di scatto e fuggi in direzione della porta. All'improvviso le ostruì la strada la massiccia figura del sergente Clark. Gli finì tra le braccia e allora girò la testa per guardare John. «Povero sciocco» disse. «Con me saresti stato felice, ma eri troppo maledettamente idiota per capirlo.» «Portala via, Bob» disse Garrison. «Portala via prima che le spacchi la testa.» 16 Si sarebbe detto che fossero passate molte ore, ma dovevano invece essere pochi minuti, quando John sentì una mano che gli si posava su una spalla. Alzò gli occhi e vide Bill Lansing, ritto accanto a lui, che gli tendeva un bicchiere quasi pieno. «Mi dispiace» stava dicendo «ma forse questo ti servirà...» John prese il bicchiere di cognac e lo vuotò d'un fiato, prima di guardarsi attorno. Aveva la sensazione di avere ricevuto una mazzata sulla testa. Bill tornò vicino ad Anne e gli altri erano tuttora seduti, impietriti. L'ispettore si era lasciato cadere sulla poltrona, accanto al camino, e si asciugava il viso col fazzoletto.
La prima a riprendersi fu Eve Wendell, donna dai nervi d'acciaio. Guardò Garrison con espressione di macabra curiosità e gli chiese: «Avete sempre saputo che era stata quell'orribile donna?» Riponendo con cura il fazzoletto nel taschino, l'ispettore rispose: «L'ho sospettata dopo il primo interrogatorio, avvenuto nell'appartamento dei Lansing domenica pomeriggio, però non ne ero proprio sicuro.» «L'avete sospettata allora?» domandò John, emergendo dallo stato di choc. «Perché, santo cielo?» «Per il fattore tempo. Sotto certi aspetti il suo primo viaggio qui, sabato sera, per inscenare l'attentato, non era tanto importante dal punto di vista del tempo. Sapeva quando voi sareste andato via, perché era in continuo contatto con vostra sorella, e aveva tutto il tempo per ordire la macchinazione. Era proprio ciò che aspettava, cioè l'occasione per convincervi che vostra moglie cercava di uccidervi.» «Prendevate molte cose per scontate, non vi sembra ispettore?» «Forse, ma il risultato è stato buono. Non abbiamo ancora controllato il fattore automobile, ma Feldman dice che l'ha tenuta nel garage nei pressi della Decima Avenue per oltre un mese. Secondo me scopriremo che l'aveva acquistata pochi giorni dopo avervi conosciuto, venendo a sapere della minaccia di vostra moglie, presa tanto sul serio da vostra sorella. Ha probabilmente comprato la Smith & Wesson in qualche montepegni, più o meno nello stesso periodo. Comunque, era ovviamente pronta ad afferrare la prima occasione e così ha fatto.» «Non posso crederlo» disse John. «È vero. Quando ha saputo che voi sareste andato via alle nove e mezzo, e che vostra moglie sarebbe tornata, è venuta qui e ha avuto tutto il tempo per tornare a New York prima di voi, lasciandovi detto al Club Yale di telefonarle. Quando vi ha invitato a cena, e voi non avete accennato all'attentato, doveva essere furente. Ha dunque cambiato piano e appena voi siete uscito deve essersi precipitata al garage di Feldman, per prendere l'automobile e andare da Gilmore.» «Ma come poteva sapere dell'esistenza della mia casetta per gli ospiti e che ci abitava Gilly?» chiese Eve. «Dimenticate che stendeva il piano da settimane» osservò Garrison. «Era al corrente di tutto ciò che accadeva, perché vedeva Anne Lansing ogni giorno e parlava sempre con Townsend. È probabilmente venuta qui più volte, prendendo nota di tutto, e aveva la situazione chiara in mente. Conosceva la vostra casa, signora Wendell, e benché non vi avesse mai posto
piede, conosceva anche questa. Osservandola dall'esterno, aveva imparato l'ubicazione delle stanze ed era certamente al corrente che tutt'attorno ci sono edifici di servizio.» «Che cosa volevate dire, parlando del fattore tempo?» domandò John. Con un sorriso mezzo acido, l'ispettore rispose: «Quando l'ho interrogata, a proposito dell'ora in cui voi avevate lasciato il suo appartamento, continuava a insistere nel dire che secondo lei era molto più tardi di quanto pensavate voi. Dal suo modo di fare si sarebbe pensato che volesse fornirvi un alibi, nel caso che al Club Yale nessuno avesse ricordato a che ora avevate fatto ritorno, ma in effetti cercava di fare apparire che voi foste rimasto con lei fino quasi all'una e ciò le avrebbe reso impossibile cambiarsi, andare al garage ed essere da Gilmore entro le due. È stato questo uno dei particolari che mi hanno insospettito nei suoi riguardi, per prima cosa.» Anne scosse tristemente la testa, dicendo: «Non riesco a convincermi. Sembrava una ragazza meravigliosa.» Eve la guardò con aria sprezzante. «Be'» fece «io non l'avevo mai vista in vita mia, ma mi è sembrata piuttosto cafona. Quello che non capisco, però, è come mai Gilly abbia fatto entrare un'estranea in casa, in piena notte.» «Dovremo tirare a indovinare» osservò Garrison «ma suppongo che la Waring avrà semplicemente bussato alla porta, o suonato il campanello, finché lui si è alzato. Dopo, avrà raccontato di avere avuto un guasto all'automobile, chiedendo di usare il telefono, o qualcosa del genere.» «Dio mio!» esclamò Eve, lanciando un'occhiata disgustata a John. «Come diavolo hai potuto impegolarti con una donna simile?» «Taci» le disse Gail. Rivolta alla signora Henderson, aggiunse: «Nora, volete portare del ghiaccio? Credo che farebbe bene a tutti bere qualcosa.» La governante balzò come una molla dalla sedia. «Certo, signora» disse. Uscì poi frettolosa, ovviamente sollevata di tornare nel suo piccolo mondo. Anne tossicchiò, prima di osservare, in tono irritato, con aria di superiorità: «Ispettore, se eravate certo che si trattava di Nancy, perché non avete agito prima d'ora? Non voglio sembrare scortese, ma mio fratello avrebbe potuto restare ferito.» «Non avevo prove a suo carico» spiegò Garrison. «Poteva essere in errore, circa l'ora in cui Townsend era uscito dal suo appartamento, oppure era possibile che cercasse sinceramente di fornirgli un alibi. L'intoppo era rappresentato dal mezzo di trasporto. Abbiamo fatto svolgere indagini su automobili a noleggio, autobus, garage e perfino treni e motociclette, ma non
abbiamo scoperto niente. Cominciavo a credere di avere sbagliato.» «Allora, quando ieri sera avete predisposto la trappola in cui mio fratello ha quasi trovato la morte, non sapevate chi avreste trovato, vero?» fece Anne, in tono acido. Per la prima volta, da quando avevano portato via Nancy Waring, l'ispettore ebbe l'aria irritata. «No, non lo sapevo» disse. «Anzi, pensavo di beccare voi.» «Me?» esclamò Anne. «Che cosa volete dire? Pensavate che avrei potuto fare una cosa simile a Gail?» «Infatti» fece Garrison con un sorriso glaciale. «Ho raramente sentito una donna scagliarsi contro un'altra così apertamente, senza una vera giustificazione. A questo punto, vorrei fare notare che se non aveste permesso che l'antipatia che provavate per vostra cognata diventasse un'ossessione, forse Nancy Waring non avrebbe mai ideato il suo piano. Invece, a una mente contorta come la sua deve essere sembrato che voi l'aiutaste e l'istigaste.» «Dio mio!» Dopo avere fissato il poliziotto, Anne spostò lo sguardo su Gail e aveva gli occhi pieni di lacrime. «Tu non avrai creduto...» cominciò. Gail la guardò dritto in faccia. «In effetti l'ho creduto» disse. «Da quel capodanno, hai sempre odiato me e Gilly.» Anne guardava ora Gail, ora Bill e il suo viso era una tragica maschera, su cui scorrevano le lacrime. Bill la circondò con un braccio, dicendo: «Stai calma, cara, Gail non lo dice sul serio.» «Sì, invece» protestò lei. «Anne ha fatto il possibile per farmi apparire una sgualdrina. Non faceva che dire che sono una cattiva madre, cercando di mettermi tutti contro.» «Non capisci» esclamò Anne, fuori di sé. «Capisco che non c'è praticamente niente che non faresti, per portarmi via Timmy» ribatté Gail. «Come potevo sapere che non saresti arrivata a questo?» Ora Anne singhiozzava, coprendosi il viso con le mani. Gail la guardò freddamente per un momento, ma poi la sua espressione mutò. Si alzò, per avvicinarsi all'altro divano, e posò una mano sulla spalla della cognata. «Lasciamo perdere» disse con dolcezza. «So che cosa hai provato, quando hai perso il tuo bambino. Se fosse successo qualcosa a Timmy, non so come avrei reagito io stessa.» Anne abbassò le mani per guardarla. «Potrai mai perdonarmi, cara?» chiese. «Sinceramente, non mi rendevo conto di quanto cattiva fossi, o di
quanto devo esserlo sembrata a te.» «Certo» fece Gail sorridendo. «Grazie» disse Bill. Rivolto a Garrison aggiunse: «Posso condurre mia moglie a casa, adesso? Credo che sia un poco sconvolta.» «Senz'altro» disse l'ispettore, con aria imbarazzata. «Mi dispiace, se sono stato duro con lei, ma trovavo che bisognava dirlo.» «Forse avete ragione.» Bill aiutò Anne ad alzarsi e John uscì con loro, per accompagnarli fino all'automobile. Mentre stavano per partire, infilò la testa nel finestrino, dicendo: «Anne, perché non ti liberi di quella maledetta boutique e adotti un bambino che ha veramente bisogno di una famiglia?» «Puoi contarci» dichiarò Bill sorridendo «però prima faremo un lungo viaggio; potremmo anche andare ad Acapulco.» Quando John tornò nel soggiorno, Gail era davanti al bar. Tuttora seduto nella poltrona, Garrison appariva stanco e trasandato, però soddisfatto. Eve pareva avere completamente dimenticato l'appuntamento a New York. Seduta sul divano, era indaffarata a radunare materiale, con cui avrebbe intrattenuto gli amici per molti mesi. Appena John entrò, gli disse in tono animato: «L'ispettore ci stava raccontando che, in fondo, ieri sera non ti faceva correre un grande rischio. È soltanto successo che quella Waring è stata troppo furba.» Gail offrì da bere a tutti e John, prendendo il bicchiere, sorrise per ringraziarla, lasciandosi poi cadere pesantemente su una poltrona. «In che modo?» domandò al poliziotto. Garrison scrollò le spalle. «Quando ho preparato tutto, ieri, non ero proprio sicuro se si trattasse di vostra sorella o di Nancy Waring, per cui ho piazzato degli uomini presso entrambe le loro abitazioni. Nancy diceva la verità, asserendo di essere rincasata dal lavoro alle cinque e mezzo. Il poliziotto di guardia davanti allo stabile l'ha vista arrivare e quindi accendere le luci nell'appartamento. Entrando aveva in mano uno di quei grandi sacchetti che danno nei negozi.» L'ispettore tacque per bere un sorso, quindi riprese: «Il poliziotto prendeva nota di tutte le persone che entravano nell'edificio e che ne uscivano, tenendo anche d'occhio le luci nell'appartamento di Nancy. Non ha visto uscire nessuno che le somigliasse, neppure da lontano. A mezzanotte le luci nell'appartamento si sono spente, all'ora in cui lei dice di essersi coricata. Io mi tenevo in continuo contatto con i miei uomini di guardia nei pres-
si dei due edifici, e tutti mi hanno riferito che nessuna delle due donne era uscita. Per questo sono rimasto così maledettamente sorpreso, quando mi avete telefonato stamattina per dirmi che nella notte vi avevano sparato.» «Come aveva fatto?» «Quando, stamattina, abbiamo parlato col poliziotto di guardia, lui ci ha detto che, fra gli altri, era uscito dallo stabile un giovane hippie coi capelli piuttosto lunghi, collane e i soliti ornamenti. Il poliziotto è stato tratto in inganno dalla rapidità con cui si sono svolti i fatti. Sapevate che Nancy in passato aveva fatto la modella?» John annuì e Garrison continuò: «Be', si è cambiata, indossando il vestiario hippie in un baleno, quindi è uscita con aria noncurante. A mezzanotte si sono spente le luci nell'appartamento, come ho detto, e dopo dall'edificio sono uscite poche persone. Naturalmente abbiamo pensato che la donna, quale che fosse delle due, fosse troppo cauta per uscire e ci siamo rilassati, restando però di guardia per tutta la notte. Il poliziotto davanti all'abitazione di Nancy ha detto che il giovane hippie è rincasato all'alba, in apparenza un poco sbronzo, ma lui non gli ha fatto caso.» John sorrise allo stanco ispettore, dicendo: «Per questo stamattina eravate tanto nervoso. Ce ne chiedevamo il motivo.» «Nervoso non è la parola adatta. Credevo di avere fatto fiasco e sarebbe stato così, se quell'agente non avesse trovato il garage di Feldman al momento giusto. Sapevamo che Nancy si era travestita perché, dopo che i Lansing erano andati a prenderla, avevamo perquisito il suo appartamento. I nostri uomini avevano trovato il vestiario, calzoni attillati, collane e tutto il resto, ma non bastava. Naturalmente lei aveva comprato gli indumenti nel pomeriggio, portandoli poi a casa, ma non potevamo provare niente.» «E le luci?» domandò Eve. «Come aveva fatto?» «Facile. Uno di quegli orologi che servono per accendere radio e apparecchi elettrici, regolandoli all'ora voluta. Lei lo ha regolato sulla mezzanotte. Evidentemente non sospettava una trappola o, se l'ha sospettata, ha pensato di essere troppo astuta per noi e per un pelo non lo è stata davvero. Aveva preso ogni precauzione.» Rannicchiato nella poltrona, John si sentiva abbattuto e sciocco. «Mi ha proprio menato per il naso» osservò. «Ero veramente convinto che non volesse mai più risposarsi. Pensavo che anche per lei fosse una semplice relazione e non mi è mai balenata l'idea che mi volesse in modo permanente.» «Forse non lo voleva, infatti» fece Garrison, con un sorrisetto asciutto
«ma non è detto che non volesse il vostro denaro, la vostra posizione e tutto quello che ci andava insieme. Sapete nulla sui suoi retroscena?» «Poco. Avevo avuto l'impressione che i suoi genitori fossero morti quando lei era molto giovane e che avesse dunque dovuto provvedere a se stessa. Mi ha detto che aveva fatto la modella, studiando la sera per diventare figurinista. In seguito aveva disegnato modelli per Magnin, e per altri grandi magazzini di Los Angeles, rinunciandovi poi per sposare Waring. Mi ha detto che quando il suo matrimonio andò all'aria, non chiese gli alimenti e ricominciò a lavorare. Io trovavo che aveva molto coraggio e lo pensava anche Anne.» «Coraggio un corno!» sbuffò Garrison. «Lavorava molto, questo sì, ma non per coraggio. Per ambizione incalzante, per avidità e per l'ossessione di procurarsi denaro e posizione sociale. Si vede in ogni suo gesto. Tanto per cominciare, sapete come si chiama realmente?» «Ha detto che si chiama Nancy Bartlett.» «Nasce Irma Hinkle. Suo padre era un ubriacone e lei era la maggiore di otto figli. Per mantenerli, la madre andò a lavorare in una fabbrica, ma appena Irma fu abbastanza grande piantò in asso la famiglia al verde, cambiò nome e si trovò un lavoro. Non ebbe mai più niente a che fare con i suoi familiari.» «Era veramente sposata con Waring, oppure anche quello faceva parte della commedia?» chiese John, ormai sbigottito. «Lo sposò veramente e fu così che imparò a tirare. Lui era uno sportivo, la portava a caccia con sé e Nancy si dedicò al tiro al bersaglio con l'impegno che metteva in tutte le cose. Pensava probabilmente che le sarebbe servito per introdursi nell'elegante mondo sportivo. Tra parentesi non divorziarono per via di un'altra donna, come dice lei, ma perché quando l'aveva sposato, Waring era ricco e lei lo piantò quando perse i quattrini. Tornò a lavorare, certo, ma ci tornò per forza.» John si alzò per versarsi di nuovo da bere, ma questa volta il whisky era più forte di quello che gli aveva dato Gail. Non riusciva ancora a collegare Irma Hinkle, l'avida ed egoista assassina, con la Nancy Waring della quale era stato mezzo innamorato. La notizia non l'aveva completamente sconvolto soltanto perché la loro relazione era durata così poco. Adesso gli riusciva quasi impossibile credere che la conosceva soltanto da poche settimane. Tante cose, del resto, sembravano impossibili. Si lasciò ricadere sulla poltrona e guardò Garrison con curiosità. «Come fate, a sapere tutte queste cose?» gli domandò.
«Prima di tutto, ho fatto due chiacchiere molto interessanti con Philip Waring.» «Perbacco, non sarete stato a Los Angeles, da quando è cominciata questa storia?» L'ispettore annui. «Ero appunto là, quando voi non siete riuscito a rintracciarmi, lunedì sera. Nei giorni passati sono stato in molti luoghi.» Eve Wendell allungò una mano verso il bicchiere, guardando il poliziotto con espressione glaciale. «Volete dire» fece «che siete andato in California in aereo, a spese dei contribuenti, per indagare su quella donna, mentre avete appena finito di dire che non eravate affatto sicuro che fosse colpevole?» «Non proprio, ci sono andato anche per altre questioni.» Rivolto a John, Garrison chiese: «Vi dice niente il nome Mario Trazelli?» «Dovrebbe dirmi qualcosa?» domandò John scuotendo la testa. «Pensavo che fosse possibile. Era il padre della ragazza che Gilmore fu accusato di avere violentato, quattordici anni fa. Capite, quando me ne avete parlato in casa dei Lansing, domenica pomeriggio, non mi è venuto in mente che la vittima designata fosse vostra moglie e ho sospettato la Waring perché lei non era d'accordo con voi, sull'ora in cui avevate lasciato il suo appartamento, e per altri motivi. Tanto per cominciare, il nostro dipartimento ha subito più pressioni di quanto vi rendiate probabilmente conto per via dell'importanza dei Gilmore, e la stampa ci stava addosso. Continuavano a criticare la nostra incapacità di scoprire il motivo per cui Gilmore era stato diseredato. Quando si cacciò nei guai, a Yale, il padre arrivò al galoppo per aiutarlo, si valse del proprio influsso e mise tutto a tacere, tanto che la storia della ragazza violentata non è ancora stata rivangata. A me, però, sembrava che potesse esserci un nesso, per cui sono andato a New Haven, dopo avere finito d'interrogarvi. Ho scoperto che quando Gilmore padre ebbe finito di agitarsi e di minacciare querele, Mario Trazelli, che era un povero falegname, si arrese. Quel poveraccio rimase con l'onta per la figlia incinta e senza un soldo, per cui vendette tutto quello che aveva e se ne andò con la famiglia.» Garrison si appoggiò allo schienale, per accendere una sigaretta, quindi riprese: «Doveva avere deciso di tagliare i ponti e di ricominciare da capo. Non sono riuscito a sapere dove sono finiti, ma ho visto una fotografia della ragazza. Si chiamava Mary e mi era parso di notare una lieve somiglianza con Nancy Waring. Sbagliavo, naturalmente, però adesso avrebbe avuto più o meno la stessa età e se fosse risultato che Nancy era Mary Trazelli,
avrebbe avuto un movente coi fiocchi, per assassinare Gilmore.» Pensando al colorito di Nancy, al suo amore per gli abiti arancione, gialli e rossi, John capiva i sospetti del poliziotto. «Tornato a New York» riprese lui «sono andato a fare rapporto al mio capo e abbiamo deciso, di comune accordo, che io mi recassi in volo a Chicago, per cercare di vedere il padre di Gilmore. Così ho fatto, quella sera stessa, e sono riuscito a vederlo, però non ha voluto parlare. Ho comunque scoperto qualcosa. Appena ho accennato alla faccenda Trazelli, lui si è infuriato e mi ha buttato fuori.» Con un sorrisetto compiaciuto, l'ispettore continuò: «Sembrava che non si potesse fare altro, ma sono riuscito a scovare la sua segretaria e ho così scoperto che tre anni fa, Gilmore padre ricevette una lettera raccomandata, per via aerea, con la scritta "personale". La segretaria la diede al principale ed era ancora nell'ufficio quando lui l'apri. Notò che conteneva una fotografia e lo ricordava perché, nel vederla, Gilmore diventò paonazzo, tanto che lei temette che stesse per avere un infarto.» Garrison tacque, poi ricominciò a parlare come se l'argomento gli ripugnasse. «Pochi minuti dopo, Gilmore mandò un telegramma a Mario Trazelli. Diceva soltanto che avrebbe scritto subito, ma la segretaria archiviò la sua copia su cui c'era un indirizzo di Los Angeles. Ormai il nostro dipartimento era in stretto contatto con la polizia laggiù, per indagare su Nancy Waring, ma non aveva scoperto nulla sui tempi precedenti a quelli in cui lei era apparsa come una modella di nome Nancy Bartlett.» Il poliziotto tacque di nuovo, guardando Eve Wendell in tralice, quindi riprese: «Ormai valeva la pena sperperare il denaro dei contribuenti e proseguire per Los Angeles.» Eve rise bonaria. «Avete visto Mario Trazelli?» chiese. «No, morì poco dopo avere scritto quella lettera, ma ho trovato la vedova, scoprendo così che la ragazza era morta di parto tredici anni fa. Loro avevano tenuto il bambino, ma ce la facevano a stento. Trazelli non aveva mai guadagnato molto e per lui laggiù le cose andavano peggio. La tragedia della figlia gli aveva minato la salute e faticava per trovare lavoro, però, per quando disagiata fosse la situazione, non pensarono mai di mettersi in contatto con il padre del bambino. Il loro giudizio su di lui doveva essere irripetibile, ma poi Trazelli seppe di essere affetto da cancro e scrisse quella lettera a Gilmore padre, includendo una fotografia del bambino e spiegandogli la situazione. Il piccolo era il ritratto sputato del padre e il vecchio Gilmore, appena vide la fotografia, capì che il figlio gli aveva mentito e l'aveva preso in giro.»
«Come può avere fatto una cosa simile, Gilly?» Gail pareva scossa. «Perché era un figlio di p...» fece Eve spensieratamente. Rivolta all'ispettore, domandò: «Fece fronte, il vecchio?» Garrison annuì. «Mandò immediatamente del denaro, quindi istituì un fondo in amministrazione fiduciaria, facendo in modo che nessuno sapesse mai la provenienza del denaro, più che sufficiente per provvedere al bambino e alla nonna.» L'ispettore sorrise soddisfatto e concluse: «Dopo, Gilmore diseredò il figlio.» Vuotò il bicchiere, come se volesse festeggiare l'evento, quindi si alzò e si stiracchiò, dicendo: «Be', devo tornare in ufficio per preparare il rapporto.» «Un ultimo bicchierino?» propose John. «No, grazie.» Garrison attraversò la stanza. Aveva l'aria trasandata, camminava con passo stanco, però, quando fu sulla soglia, si voltò per dire sorridendo: «Per la prima volta in vita mia sono contento che un assassino abbia ucciso la vittima. Erano degni l'uno dell'altra.» Si alzò anche Eve Wendell, che guardò l'orologio. «Dio, i miei capelli!» esclamò. «Arriverò in ritardo e Kenneth mi strozzerà.» Sorrise, con gli occhi che brillavano, e aggiunse: «È stato affascinante, non trovate?» Dopo che Garrison fu uscito, la casa sembrava silenziosa come una tomba. John e Gail rimasero seduti, intontiti, per alcuni minuti, quindi entrò la signora Henderson, non con l'aria affaccendata come al solito, bensì un poco timida. Si lisciava il grembiule con gesto nervoso. Guardò Gail arrossendo e disse: «Sono venuta per chiedervi scusa, per tutte le cose che ho detto. Evidentemente non capivo...» La sua voce si spense, ma poi lei riprese coraggio e continuò: «Se volete che vada via capirò, ma vorrei restare.» Gail sorrise. «Sono due anni che muoio dalla voglia di licenziarvi» disse «ma suppongo che debba tenervi. Non troverei mai nessun altro che avrebbe così buona cura di Timmy.» «Oh, grazie, grazie infinite.» La governante stava per uscire, ma poi tornò sui suoi passi. «Posso andare a prenderlo, all'ospedale?» chiese. «È la vigilia di Natale, dobbiamo ancora fare i preparativi.» «Sì, certo» disse Gail. «È stato tutto così terribile che avevo dimenticato il Natale.» La signora Henderson uscì, di nuovo piena di energia, e John e Gail rimasero soli. Tacquero per un poco, quindi John si alzò per versare altro whisky e quando portò il bicchiere alla moglie sedette sul divano accanto a
lei. «Be', ci eravamo proprio scelti due bei campioni, vero?» fece con un sorrisetto amaro. Gail non si adeguò al suo tentativo di umorismo. Fissava il bicchiere con aria seria. «C'è una cosa che volevo dirti, ma non ne ho mai avuto la possibilità» osservò. «Parla, sono qui.» «Non ebbi mai niente a che fare con Gilly, prima di quel capodanno. Mi sentivo veramente male e dissi a Eve che non sarei andata a New York, alla festa di Anne. Gilly era da lei e seppe così che ero qui in casa, sola. Ero andata a letto, ma lui arrivò con una caraffa del punch speciale di Eve.» Gail buttò indietro i capelli biondi e si girò verso John con aria mezzo contrita, mezzo di sfida. «So che non è una buona scusa» disse «ma tu conosci il punch di Eve. Comunque, mi sbronzai e non ero realmente consapevole di quello che stava succedendo, finché non apparisti tu e cominciarono le girandole.» «Perché non me lo dicesti subito?» «E come potevo farlo? Montasti su tutte le furie, te ne andasti e non ti rividi più fino a sabato sera. Continuai con Gilly perché ero terribilmente sola e volevo illudermi che mi amasse e che io amassi lui. L'avrei sposato, se tu mi avessi concesso il divorzio.» «Be', per lo meno ti ho salvato da quello» disse John. «Dimentichiamo tutto il pasticcio, anch'io non sono stato proprio uno stinco di santo.» «Che cosa vuoi fare?» domandò Gail. «Raccattare i pezzi, se lo vuoi anche tu» disse John. «Lo desideri?» Gail gli si appoggiò contro il petto e quando alzò lo sguardo aveva l'espressione dolce e amorevole. «Si, se lo vuoi tu» disse. John si chinò per baciarla, poi sorrise. «Come ha detto l'ispettore» fece «siamo forse degni l'uno dell'altra.» FINE